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Antonio Montanari

Rimini 150. In poche parole


Parte prima

Raccolgo in questa prima parte articoli apparsi sul


sito Riministoria e nel settimanale di Rimini il Ponte .
Il lettore potrà trovare alcune ripetizioni, dovute alla
diversa sede di pubblicazione. Gli articoli de il Ponte
sono esattamente 8 dei 17 qui presentati: Palazzo
Lettimi, Piazza Malatesta, Piazza Ferrari, Piazza Tre
Martiri, Il 17 marzo 1861, la pagina speciale1861, a
Torino si parla di Rimini, Il "Proclama" di Manzoni,
Antefatti risorgimentali.

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1. Popolo
Rileggiamo le vicende di Rimini dopo l'Unità d'Italia, attraverso
qualche parola. Cominciamo da "popolo".
Piace ai politici, è tenuto d'occhio dai "pulizai". Novembre 1861 (il
regno d'Italia è nato il 17 marzo), viaggio inaugurale della ferrovia
Bologna-Ancona. Il re Vittorio Emanuele II sosta in stazione sul
mezzogiorno, per uno spuntino. Scrive Luigi Tonini: «Gran concorso di
gente, donne, popolo, ma pochissimi evviva».
Nel settembre 1888 un altro re, Umberto I, visita lido e Kursaal. Nel
luglio 1900 arriva l'anarchico Gaetano Bresci. Con la rivoltella
portata da Paterson (New Jersey). Come ricordava Guido Nozzoli, si
esercita nel cortile di palazzo Lettimi, sotto gli occhi di Domenico
Francolini, repubblicano poi socialista ed anarchico, che vi abita quale
marito di donna Costanza Lettimi.
Bresci è ospitato nel borgo San Giuliano dall'oste anarchico Caio
Zanni, arrestato dopo il regicidio (29 luglio) e trasferito al carcere di
San Nicola di Tremiti.
Da palazzo Lettimi (lo testimoniava una lapide dettata nel 1907 da
Domenico Francolini), s'erano mossi «nel 1845 gli audaci rivoltosi,
preludenti l'italico risorgimento», guidati da Pietro Renzi. Quando
«tutta Romagna ribolliva», e Rimini era «una delle città riscaldate» (L.
Tonini).
10 settembre 1912, è firmato il nuovo patto colonico riminese che
non soddisfa i socialisti e che (osserva «L'Ausa») è applicato da «troppo
pochi proprietari». Le agitazioni nelle campagne continuano e
sfociano nella «settimana rossa» (giugno 1914).
Il 25 luglio 1914 arrivano i deputati repubblicani. Sono contro
l'intervento a fianco dell'Austria. Il 26 Benito Mussolini grida
sull'«Avanti!» che dirige: «Abbasso la guerra!». Tocca al «proletariato
d'Italia» muoversi per non farsi condurre «al macello un'altra volta».
L'«altra volta» è la guerra di Libia. Anche per le imprese coloniali sono
morti molti nostri giovani: in Eritrea, in Somalia (Carlo Zavagli è il
più noto) ed in Libia.
Il 2 agosto Roma sceglie la neutralità. Mussolini dal suo nuovo
giornale «Il Popolo d'Italia» vuole l'intervento. Per realizzare la
rivoluzione sognata durante la «settimana rossa».
«L'Ausa» lo definisce «un ciarlatano ombroso e un arrivista qualunque»
da fischiare e spazzar via. Prima lo aveva elogiato come «battagliero
nemico delle ipocrisie e delle mezze coscienze, pieno di rude
franchezza romagnola».
Il pomeriggio del 23 maggio 1915 i carabinieri a cavallo annunciano a
tromba la guerra. Rimini avrà 644 caduti.
2. Folla
Alla folla oceanica del fascismo si arriva dopo la "grande guerra". I
marinai sono i primi a rimetterci. Tra i più anziani c'è chi distrugge
«quei trabaccoli la cui costruzione era costata lunga fatica e penosi
sacrifici» (G. Facchinetti).
Il biennio 1919-1920 passa fra bandiere rosse, camicie nere ed
occupazioni contadine delle terre.
Lo sciopero generale (1919) per il «poco pane» avviato dai ferrovieri,
costringe il Comune a dimezzare i prezzi di tutti i prodotti.
I proprietari fondiari non accettano di riformare il patto colonico. I
contadini iniziano (luglio 1920) lo «sciopero delle vacche», durato otto
giorni. Le portano dalle campagne ai padroni.
Durante lo sciopero generale del primo luglio 1920 un possidente di
San Lorenzo in Strada, Secondo Clementoni (44 anni), è ucciso. Tre
anni dopo stessa sorte per suo figlio Pietro (23), ex presidente della
locale cooperativa 'bianca' di consumo.
La Sinistra vince le elezioni comunali (17.10.1920). Arriva il «biennio
nero» 1921-22 con lo squadrismo giustificato da «L'Ausa» (organo dei
popolari di don Sturzo): «Le oppressioni selvagge e vigliacche dei
socialisti non si contano più. Con questi degenerati bisogna tornare al
medio evo ed instaurare la legge del taglione».
Il movimento fascista nasce ufficialmente in un albergo di piazza
Cavour (24.4.1921). Il giorno prima su «L'Ausa» un articolo firmato G.
(don Domenico Garattoni?) incensa il santo manganello: «La violenza
fascista ha portato realmente un grande bene alla Nazione,
purificando l'aria dai pestiferi bacilli rossi».
Il foglio socialista «Germinal» ha anticipato (24.12.1920) la
costituzione del fascio, descrivendo «un gran daffare tra i figli di papà
mangiasocialisti di Rimini e qualche pezzo grosso del fascismo
forestiero», non esclusi alcuni reazionari di San Marino.
A Serravalle prima delle elezioni politiche del 15 maggio 1921
avviene il ferimento mortale del dottor Carlo Bosi. Che era con il figlio
Vittorio, noto squadrista, vero obiettivo dell'agguato.
Dalle urne locali escono primi i socialisti con 2.528 voti in meno. I
comunisti al debutto ne prendono 2.198. I popolari 4.560 (+1.120 sul
1919).
Il 19 maggio 1921 è ucciso Luigi Platania (31 anni). Anarchico,
fondatore dei fasci, combattente in Libia ed interventista andato al
fronte, ha fatto pure la «settimana rossa». Quando fu sospettato del
furto di una cassaforte assieme a Carlo Ciavatti, al quale avrebbe
sottratto parte del bottino. Ricevendone una minaccia che a Ciavatti
costa 14 anni di galera.

3. Borghi
La popolazione del Comune di Rimini del 1862 è calcolata per 4 rioni
di città (Cittadella, Montecavallo, Pataro, Clodio), per 4 borghi
(Sant'Andrea, San Giovanni, San Giuliano, Marina) e per la
campagna. In tutto ci sono 33.272 persone. Metà nella campagna
(16.398) e metà (16.874) fra rioni (10.413) e borghi (6.416).
Le famiglie sono 6.349. La media di persone per nucleo è di 5,24. Le
case abitate sono 4.432. In ognuna la media degli occupanti è di 7,50
persone. Le case vuote sono 155.
Il primo censimento regio, tenutosi l'anno prima (1861), registrava
un dato ulteriore. La popolazione di fatto era sempre di 33.272
(17.427 maschi e 15.845 donne), mentre la popolazione di diritto
scendeva a 32.860 (-412).
Poco cambia nel 1871 (33.886 persone), con un aumento totale di
614 unità (+1,85%), delle quali 499 sono in campagna.
Meritano un confronto i dati delle singole zone, registrati nel 1862 e
nel 1871. I rioni scendono da 10.413 a 9.747 (-666 unità, -6.40%). I
borghi crescono di 781 unità (+12,09%), passando da 6.461 abitanti a
7.242. Infine la campagna: quei 499 abitanti aumentati sono un
+3,04%.
Uno sguardo generale sui dati riportati, indica fra 1862 e 1871 questi
punti:
1) la popolazione totale aumenta di 614 unità (+1,85%);
2) i 4 rioni di città con 666 abitanti in meno, perdono un 8,12% nel
1871 (quando scendono al 28,76%) rispetto ai dati globali del 1862
(quando sono il 31,3%);
3) la popolazione dei borghi aumenta di 781 unità, con un dato
relativo all'incidenza degli stessi borghi sull'intera popolazione pari al
+16.02;
4) per la campagna, le 499 persone in più fanno crescere il dato
relativo alla sua popolazione dal 49,28 al 49,86%, ovvero c'è un
aumento dell'1,18%.
Morale della favola: il centro della città (rioni) perde abitanti che
vanno soprattutto nei borghi.
Siamo qui al 1871. Per curiosità diamo un'occhiata ad inizio secolo.
Gli abitanti registrati a Rimini Comune sono 21.581 nel 1816.
Saranno 33.552 nel 1865, 34.799 nel 1870, e 33.886 nel 1871 come
si è già visto.
Possiamo infine confrontare il 1833 con il 1865. I rioni aumentano
complessivamente di 344 unità (da 9.586 abitanti a 9.930). I borghi
passano da 4.629 a 6.363 unità (+1.734).
L'aumento maggiore è quello nel borgo Sant'Andrea (+979) con un
+188% della popolazione (da 521 a 1.500 persone).
Il borgo Marina nonostante l'avvio del turismo, sale soltanto del
17,67%, passando da 1.590 a 1.871 unità.
Nel 1859 gli aventi diritto al voto per il Municipio sono 2.500. Per le
elezioni politiche del 1860 gli iscritti sono 575. Nel 1913 gli aventi
diritto al voto passano da 6.466 a quasi 22 mila con il suffragio
universale diretto.
4. Bagni
Nel 1861 un terzo dei cittadini vive delle industrie e delle attività
portuali, settori messi in ombra dallo sviluppo del turismo. Avviato
nel 1843 dallo Stabilimento balneare. Il primo luglio 1873 apre il
Kursaal, con annesse la Piattaforma e la Capanna svizzera.
Scampato pressoché indenne alle bombe dell’ultima guerra, è
distrutto dalla volontà di scrivere una nuova pagina politica durante
la ricostruzione. Era «la scomoda memoria storica di una attrezzatura
d’élite» (G. Gobbi Sica).
Lo demoliscono gruppi di disoccupati guidati da sindacalisti. Stessa
sorte per la parte sopravvissuta del teatro Vittorio Emanuele II. Il
sindaco del 1948 Cesare Bianchini (Pci) dice che Kursaal è «una
bruttura» da eliminare.
L’inondazione del Marecchia nel 1866 danneggia tutte le strutture
dello stabilimento. Il 21 settembre 1868 il Consiglio comunale vota a
favore della gestione pubblica dei bagni. Ne soffriranno soltanto le
casse pubbliche.
Nel 1876 nasce l’Idroterapico (demolito nel 1929). A Riccione nel
1878 sorge un ospizio marino, analogo a quello riminese del 1870 per
bambini scrofolosi, vicino all’Ausa.
Dal 1885 ai nobili ed ai ricchi borghesi il Comune inizia a cedere
gratuitamente od a basso prezzo, appezzamenti e tratti di spiaggia
acquistati dallo Stato (F. Silari).
Il Comune crea la nuova industria turistica. I privati si dedicano
all’edilizia, un considerevole incremento delle ville fra 1882 e 1902.
Esaurita la prima fila comincia l’edificazione interna.
Nasce un nuovo modello di liberalismo: municipalizzare le perdite dei
privati, e contemporaneamente promuoverne le rendite (G. Conti).
Il Comune non può intervenire per mancanza di mezzi sull’altra
faccia di Rimini, caratterizzata dalle condizioni arretrate di vita nella
città vecchia e nei borghi.
Quello di San Giuliano, racconta Achille Serpieri, è «minacciato da un
lato dalle fiumane, dall’altro dai flagelli dei mostri dove si annidano
signore la tisi, la scrofola e il tifo».
Su «Il Nettuno», periodico fondato da Domenico Francolini, il 15 agosto
1873 si parla delle «abitazioni dei Poveri», «semenzai di miasmi
pestilenziali, case che avvelenano per tutta la vita il sangue, massime
ai bambini con la scrofola e colla tisi»: «non luce, non aria, umidità
senza fine, e angustia tale che le celle dei condannati sono assai più
comode».
Gli «abitatori di queste bolge infernali, massime i ragazzi» appaiono
«squallidi, macilenti, cogli occhi infossati e col pallor della morte sul
viso».
5. Provincia
16 giugno 1938, Benito Mussolini ispeziona i lavori quasi ultimati per
l'isolamento dell'arco d'Augusto, mentre la folla urla «il suo
incontenibile entusiasmo [...] in un abbraccio quasi pauroso», scrive
«Ariminum».
S'alza una voce: «Vogliamo la provincia». Più che un desiderio, è un
ordine. Il duce, lo sguardo imperioso, forse nascondendo a malapena
quel disgusto che nutre naturalmente per la nostra città, è lapidario:
«Sulla carta». Come dire, scordatevela.
Arriva soltanto nel 1992 dopo 18 anni di Circondario, e diventa
operativa nel 1995. Ostacoli e rifiuti furono sempre opposti alle
richieste della nostra città.
Politica e deteriore folclore si mescolano in certi scritti fascisti (1921)
che definiscono Rimini «città dei rammolliti e dei vili, paese di
mercanti e di affittacamere», per aver disertato il funerale di Luigi
Platania, ucciso il 19 maggio di quell'anno.
Platania, 31 anni, è uno dei fondatori nel 1919 dei fasci di
combattimento dopo esser stato anarchico ed interventista. Ha fatto
la «settimana rossa», combattuto in Libia e nella grande guerra.
Mutilato e pluridecorato, figura tra i fascisti più accesi.
Su di lui correvano voci di misfatti compiuti a Cesena ed a Pesaro.
Durante la «settimana rossa» Platania fu sospettato del furto di una
cassaforte compiuto assieme a Carlo Ciavatti detto «il monco», al quale
avrebbe sottratto parte del bottino ricevendone la minaccia: «Faremo
i conti».
C'è un altro Platania sulla scena cittadina. 1922, sabato 28 ottobre,
giorno della marcia su Roma, e domenica 29 anche Rimini è occupata.
Durante la presa del carcere alla Rocca malatestiana un fascista di
Foligno, Mario Zaccheroni, è ucciso da fuoco amico per mano appunto
di Giuffrida Platania, fratello di Luigi ed allora direttore della «Penna
fascista», che tenta il suicidio «per scrupolo eccessivo» (scrive
«L'Ausa»).
Mussolini ricordava i giudizi di quegli scritti fascisti del 1921,
confortato pure dalle opinioni ufficiali locali come quella del federale
Ivo Oliveti che in un convegno indetto appunto sulla richiesta
riminese, lanciò una specie di anatema chiedendo ai presenti: «Vi
vergognate forse di appartenere alla provincia del Duce?».
Il quale aveva insignito Rimini d'una etichetta rimasta celebre:
«Scarto delle Marche e rifiuto della Romagna».

Dalla provincia al provincialismo.


Leggiamo alcune pagine di Guido Nozzoli sulla Rimini tra le due
guerre: «Con tutte le sue pretese di modernità e di cosmopolitismo era
- ce ne saremmo accorti più tardi - una cittadina provinciale di gusto
quasi ottocentesco, con tante ville circondate da cespugli di oleandri e
di ligustri, qualche solido albergo di stile floreale, la litoranea
sonnecchiante fino al tramonto in una sua aristocratica solitudine, e
una rete di viali e vialetti, per metà di terra battuta, fiancheggiati
dalle cancellate e dalle siepi di qualche orto».
Prosegue Nozzoli: «L'unica opera nuova che mutasse non
sgradevolmente la sua fisionomia fu il lungomare 'di Palloni'. Tra il
porto e l'Ausa, nel tratto di spiaggia più elegante, il lungomare
cancellò le dune - 'i muntirun' - e divenne subito il ritrovo pomeridiano
dei bagnanti, l'equivalente estivo del Corso d'Augusto per i riminesi
seduti a gruppo sulla lunga balaustrata all'ora del passeggio o
pigramente ronzanti in uno sfarfallio di biciclette. Il centro di quel
firmamento, il perno di quella giostra, era il Caffè con orchestra di
Zanarini, dove si videro i primi gagà spregiatissimi dal fascismo
(erano poi tutti figli di fascisti) prendere l'aperitivo seduti sul
marciapiede. Tenuta quasi di rigore: la maglia a girocollo blu da cui
spuntavano colletti immacolati [...]».
Morale della favola: «Sembrava tutto nuovo, ed erano le ultime frange
dell'800», conclude Nozzoli.

6. Amarcord
La Rimini degli Anni Trenta, grazie a Federico Fellini ed al suo
«Amarcord» (1972), diventa simbolo di «un mondo sbagliato,
meschino, gretto e violento».
Nel film c'è Lello, lo «zio Pataca». Diceva Fellini: «Pataca da noi
significa un uomo da poco, un farfallone, che vive ai margini sognando
cose difficili, assolutamente lontane dalle sue possibilità».
Lello tradisce il cognato antifascista presso cui vive da vitellone
parassita, facendogli infliggere la lezione dell'olio di ricino.
Per Oreste Del Buono, «Amarcord» fa «un discorso civile» in cui non c'è
quell'autobiografismo come luogo comune e scontato di cui parlano i
«critici superficiali» all'apparire del film.
Natalia Ginzburg osserva: «Mai mi era successo di vedere evocati gli
anni della mia giovinezza, e il fascismo di allora, con tanta verità e
tanto orrore».
Il fascismo, spiega la scrittrice (vedova di Leone Ginzburg, ucciso
dalle sevizie subìte come antifascista nel 1944 a Regina Coeli), era
«sordido, miserabile, atroce».
Allora i giovani ne conoscevano «bene soltanto gli aspetti grotteschi.
Quelli tragici» li avrebbero «capìti più tardi». In questo film,
concludeva Natalia Ginzburg, riconosciamo «il fascismo bevuto e
respirato senza che lo sapessimo». Nel borgo di «Amarcord» c'è
coralmente l'Italia.
Il cognato «pataca» più che un «uomo da poco, farfallone o sognatore»,
pare piuttosto l'uomo «da niente», senza moralità e dignità. In
apparenza è gelido e noncurante. In sostanza si dimostra una perfetta
carogna.
E se dal tono leggero della raffigurazione scendiamo nei labirinti della
Storia, se dal grottesco ci avviamo cautamente verso il tragico, allora
vengono alla mente pagine ancora peggiori di quegli anni. Quando una
soffiata era ricompensata con un cartoccio di sale, e ci scappava il
morto, frutto ed oggetto di delazione politica.
Lello è un traditore, un brutto ceffo, non una simpatica canaglia od un
compassionevole illuso. Per Alberto Moravia, la Romagna che
«Amarcord» racconta, è «senza deformazioni satiriche e fantastiche».
Lo «zio Pataca» con la sua azione di delatore, è protagonista non
isolato di un clima ben evidente nella sequenza del grammofono che
dall'alto del campanile diffonde le note dell'«Internazionale». E nella
scena degli oppositori portati alla casa del fascio, con la predica del
gerarca paralitico: «Quel che addolora, è che non vogliano capire».
Valerio Riva scrive che a quel punto allo spettatore, «Amarcord»
appariva non più e soltanto «una antologia di ricordi», ma «un grosso
film politico, il più esplicito, almeno in questo senso, che abbia fatto
Fellini».
Lo zio Lello rappresenta una delle tre categorie umane che ci
accompagnano nel cammino esistenziale. Le altre due sono quella
alquanto rara di chi disprezza la menzogna, e in nome della verità è
disposto a sopportare tutto. E quella (alquanto diffusa) di quanti per
convenienza si celano nel proprio «particulare» e fingono di non
vedere per non aver rogne. Anche loro tradiscono i reciproci doveri
su cui si basa l'umana convivenza.
«Amarcord» dimostra, secondo Miro Gori, «come una città di
provincia, con la sua vita futile e uggiosa, possa diventare, nelle mani
di un 'poeta', l'ombelico del mondo».
Fellini in «Amarcord» narra Rimini con quel misto di odio e di
nostalgia che sono il lievito d'ogni memoria: anche se il film «per
l'autore non doveva apparire come il rispecchiamento di situazioni e
personaggi reali» (Tullio Kezich).
Nel 1990 Cinzia Fiori sul «Corriere della Sera» chiama Rimini una
città a due facce, l'antico borgo e la marina tutta cemento selvaggio
che fa venire la nostalgia del passato: «Siamo all'amarcord di
Amarcord», conclude. Federico sempre lontano, tuttavia sempre
presente.
Con il suo mondo oscillante tra favola e verità, egli offre un'utile
chiave di lettura delle vicende più recenti di Rimini, ogni volta
diversa ma alla fine eternamente uguale a se stessa.
Sospesa tra mito e realtà come un canovaccio di Federico, Rimini è
sempre alla ricerca di un'identità definita ma non definitiva nel
divenire inquieto dell'attuale società globalizzata.
Per il ferragosto del 1936, quello delle picconate di Mussolini all'arco
d'Augusto, si organizza al Kursaal il festival della canzone italiana
diretto dal maestro Antonio Di Jorio (1890-1981). Un testo dice:
«Vorrei toccare le tue coscette fresche…». Non piace, è poco virile, per
niente militarista.
Valfredo Montanari raccontò a Gianni Bezzi («il Resto del Carlino»,
13.2.1962): «Il vero successo si ottenne l'anno successivo. Il 5 agosto
1937, cinquemila persone affollarono il parco del Kursaal» che non
era soltanto «il più raffinato edificio della città» ma anche uno dei
'personaggi' che «diedero la loro impronta, la loro voce, il loro spirito
alla storia di una marina che accolse gente di ogni Paese».
Come ogni bella idea riminese, non va avanti. Per il festival, nel
dopoguerra ad imitarci ci pensa Sanremo. Dove (1951) si sente un
“Grazie dei fior”. Rivolto a Rimini?
Le bombe lo hanno scoperchiato. La città lo ha conservato come un
rudere muto. Invece ha molto da raccontare. Come testimoniava la
lapide dettata nel 1907 da Domenico Francolini, nel 1845 da palazzo
Lettimi con il proprietario conte Andrea si muovono "gli audaci
rivoltosi, preludenti l'italico risorgimento", guidati da Pietro Renzi.
Protestano contro il potere "stolidamente dispotico". Tra 23 e 26
settembre formano un governo provvisorio, poi si sciolgono fuggendo
per mare o riparando in Toscana (dove sono arrestati), all'arrivo degli
svizzeri pontifici. Il loro moto è reso celebre da "Gli ultimi casi di
Romagna" di Massimo D'Azeglio.
Domenico Francolini (1850-1926) è un borghese prima repubblicano,
poi socialista ed infine anarchico. Abita lì con la moglie, donna
Costanza Lettimi (1856-1913). Amico di Giovanni Pascoli, nel 1878
sul "Nettuno" gli pubblica una lirica scandalosa, "La morte del ricco",
che finisce con la condanna: "che muoia disperato". Francolini lo ha
conosciuto tra novembre 1871 ed estate 1872, mentre Zvanì in
misere condizioni economiche e con la testa piena di pensieri ribelli
frequentava la seconda classe del liceo comunale a palazzo
Gambalunga. Da dove Francolini, che aveva cinque anni di più, era
appena uscito.
Gaetano Bresci (1869-1901), l'anarchico giunto dall'America, si
esercita nel cortile di palazzo Lettimi prima di recarsi a Monza per
regolare il 29 luglio 1900 i conti con Umberto I. Ospitato nel borgo
San Giuliano dall'oste Caio Zanni (1851-1913), Bresci usa la rivoltella
portata da Paterson (New Jersey) sotto gli occhi di Francolini. Zanni,
noto alle autorità come anarchico, è arrestato dopo il regicidio e
trasferito al carcere di San Nicola di Tremiti. Con Bresci era la sua
compagna Teresa Brugnoli, che a Paterson ha lasciato una figlia
diciassettenne.
Gennaio 1943, al secondo piano di palazzo Lettimi risiede Guido
Nozzoli, classe 1918. Lo arrestano a Bologna sotto le armi, per
"attività politica contraria al regime" mediante volantini intitolati
"Non credere, non obbedire, non combattere", e per il possesso di libri
esteri proibiti ma venduti sulle bancarelle. Con lui finisce dentro Gino
Pagliarani, l'autore dei volantini. Nel 1944 Nozzoli riesce a salvare
San Marino dal bombardamento a tappeto preparato dagli alleati.
Dopo la liberazione di Rimini, sale sulle macerie di casa. Anche la
statuina di sant'Antonio, un ex voto per il terremoto del '16, è stata
mutilata dalle bombe.
Era la piazza del Corso. Un po' prima, del Duomo vecchio o Santa
Colomba, grande chiesa romanica risorta a nuova vita nel 1329 e
consolidata nel 1675. Salvatasi dalla furia demolitrice di "Sigismondo
che aveva costrutto la rocca dov'erano le sue case" e che aveva
abbattuto l'antico Episcopio insieme a due cappelle, al vecchio
battistero ed al convento di santa Caterina (C. Ricci, 1924). "Né,
infine, l'abbatté Clemente VII" che era stato consigliato in tal senso nel
1526 da Antonio da Sangallo il giovane, per spostare la cattedrale
nella chiesa di san Francesco, il che avviene nel 1809.
Santa Colomba "fu demolita nel 1815, quando il castello non
minacciava più. Rimase solo in piedi il largo campanile, convertito in
casa privata. E ai demolitori il giuoco del piccone piacque tanto",
sottolineava Ricci, "che due lustri dopo si volsero ad esercitarlo ai
danni del castello...". Nel 1798 Santa Colomba subì l'affronto dei
francesi invasori impadronitisi di Rimini il 5 febbraio 1797. Essi la
ridussero a caserma, mentre cattedrale divenne San Giovanni
Evangelista.
Il 22 dicembre 1854 davanti alla Rocca malatestiana il boia mozza il
capo a Federico Poluzzi detto Bellagamba, fratello di Laura, madre
dell'oste anarchico Caio Zanni che ospiterà Gaetano Bresci di
passaggio da Rimini verso Monza. L'accusano di aver ucciso don
Giuseppe Morri mansionario della cattedrale. Ma "tra chi lo
conosceva, si sussurrava che altri fossero gli uccisori di don Morri e
che lui avesse rinunciato a difendersi presentando un alibi per non
compromettere la moglie di un fornaio con cui aveva trascorso in
intimità l'ora in cui era stato ucciso don Morri" (G. Nozzoli).
Il carnefice, venuto con la macchina per l'esecuzione da Ancona, era
"un umaz cun e capel dur, e tòt ner com un bagaron", ricordava
Augusta Gattei che allora aveva sette anni. Gli spettatori litigavano
per accaparrarsi un posto da cui godere meglio la scena, i soldati
faticavano ad arginarli e "i ragneva", dando spintoni a tutti.
Bellagamba gridò: "Morte ai tiranni e sempre viva la libertà".
L'Augusta raccontava: "L'era bèl. Drét com'un fus e spaveld". Il suo
ultimo desiderio, "un pizzunzein arost, un bicér d'mistrà e un
Virginia", sigaro di marca.
Oggi tra il rudere del teatro e lo sfondo solenne di Castel Sigismondo,
la piazza resta simbolo del "giuoco del piccone" che ha fatto tanti
danni negli ultimi 150 anni. Come nel 1948 con il Kursaal del 1873,
per volere del vicino Palazzo Comunale.

10. Piazza Ferrari


La piazza nasce nel 1888. Il "giuoco del piccone" sacrifica l'antico
isolato di edifici religiosi, tra cui la chiesa di san Tommaso attestata
dal 592. Prende poi il nome da Luigi Ferrari Banditi, ucciso nel 1895.
Primo sindaco della città dopo l'unificazione e deputato al parlamento
romano nel 1848, è rieletto nel 1882, 1886, 1890 e il 26 maggio
1895. Pochi giorni dopo, la sera del 3 giugno s'azzuffa in via Garibaldi
con sei estremisti che lo insultano. Ferrari è ferito alla trachea con un
colpo di pistola dal calzolaio Salvatore Gattei, 28 anni, un anarchico
ex repubblicano e con precedenti penali, poi condannato a 17 anni di
carcere.
Ferrari muore la mattina del 10 giugno. Si pensa ad un movente
politico. Come gli altri tre colleghi romagnoli eletti con lui, è passato
dalle posizioni democratiche della Sinistra moderata a quelle
legalitarie, sino a divenire sottosegretario agli Esteri nel primo
governo Giolitti (1892). Il foglio cattolico L'Ausa accusa la
Massoneria da cui Ferrari s'era staccato.
Il 2 agosto 1874 sul colle di Covignano, nella villa di Ercole Ruffi
erano stati arrestati 28 dirigenti repubblicani tra cui Domenico
Francolini, Achille Serpieri, Camillo Ugolini, Aurelio Saffi (successore
di Mazzini scomparso nel 1872), ed Alessandro Fortis che diverrà
giolittiano e sarà presidente del Consiglio tra 1905 e 1906. All'ordine
del giorno della riunione, la collaborazione con anarchici e garibaldini
in vista di un'insurrezione nazionale prevista per l'8 agosto. Gli
arrestati sono fatti salire sul treno per Ancona, diretti a Spoleto. Nelle
varie stazioni di transito, racconta Achille Serpieri, li accoglie il
popolo plaudente che offre liquori, vino, "salami ed altro ben di Dio". Il
25 ottobre tutti sono prosciolti dall'accusa di cospirazione.
Il 5 agosto a Bologna è arrestato Andrea Costa. Nella notte tra 7 ed 8
agosto quasi tutti i partecipanti al moto sono bloccati. Michail
Bakunin fugge da Bologna travestito da prete. Sempre d'agosto, due
anni dopo, Costa riunisce a Rimini un congresso clandestino per
fondare il partito socialista rivoluzionario di Romagna, con cui nelle
elezioni del 1882 entra alla Camera. Le quattro elezioni di Amilcare
Cipriani (1886-1887), candidato dell'estrema sinistra, sono state
annullate dal governo.
La statua (1939) di Francisco Busignani, morto nel 1936 in Africa,
rimanda ai sacrifici voluti dalla follia fascista. L'opera è di Elio Morri.
A posare fu Gaetano Frioli, poi preside del Valturio.

11. Piazza Tre Martiri


Era stata il centro della città romana, fra arco e ponte uniti dal
decumano, ed il cardo Nord-Sud. Poi divenne Piazza Grande o
Maggiore e Sant'Antonio. Il primo novembre 1946, nella prima seduta
del Consiglio comunale eletto il 6 ottobre, la prima decisione riguarda
la piazza, dedicata al ricordo dei Tre Martiri. Mario Capelli (19 anni),
Luigi Nicolò (22) ed Adelio Pagliarani (19), appartenenti Gruppi di
azione partigiana, sono impiccati dai nazifascisti il 16 agosto 1944. Il
21 settembre Rimini è liberata. Pochi giorni dopo la statua di Giulio
Cesare appare decorata da un vaso da notte in testa, un arrugginito
ombrello senza telo sul braccio e un mazzo di fiori secchi in mano. Il
20 giugno 1945 essa scompare dalla piazza. Sepolta in un capannone
dell'Acquedotto. Il 6 ottobre 1953 torna alla luce alla caserma
dell'esercito alla Colonnella. Era un dono di Benito Mussolini (1933)
che non amava Rimini, considerandola "Scarto delle Marche e rifiuto
della Romagna".
Alle Idi di Marzo del 1939 il ritmo militare della sfilata davanti alla
statua, è inframmezzato da impercettibili passi di ballo sul motivo
della "Danza delle ore" di Ponchielli. Il pugile Benito Totti, campione
italiano dei medioleggeri, scende dal palco per dare una lezione
all'unico che riesce a raggiungere, l'ultimo del corteo, Ennio Macina,
figlio di un ex sindacalista che aveva conosciuto il "santo manganel".
Dopo l'esecuzione capitale dei tre martiri, la polizia di Rimini invia un
rapporto al federale fascista di Forlì: "La cattura, nella caserma di via
Ducale, di tre ribelli è stata opera personale della intelligente ricerca
del Segretario Politico della città di Rimini, coadiuvato da elementi
della Feld-Gendarmeria tedesca". Quel segretario è Paolo Tacchi. Al
processo di Forlì del 1946, dove è imputato anche per l'uccisione di
partigiani e di renitenti alla leva oltre alla "responsabilità presunta"
nell'impiccagione dei tre martiri, Tacchi è condannato a morte. Nel
1949 la Cassazione lo assolve per non aver commesso il fatto:
l'uccisione dei tre martiri avvenne "per circostanze improvvisamente
sorte e non prevedute, per iniziativa e ordine dell'autorità militare
germanica". Per Federigo Bigi, Tacchi era "molto più odioso" del
comandante delle SS.
Come ricordava Guido Nozzoli, a catturare i tre ragazzi era stata una
squadra delle Brigate nere guidata personalmente da Tacchi,
informato da un barbiere che aveva avuto occasione di entrare nella
Caserma Ducale.
Una cometa nell'estate del 1860, racconta Carlo Tonini, fa presagire
fatti funesti. Garibaldi il 5 maggio è partito da Quarto con i Mille. Il 17
marzo 1861 è proclamato il regno d'Italia. L'annuncio arriva verso la
sera del 18. Suonano il campanone e molte bande militari. Addobbi ai
balconi, bandiere, spari, luminarie, fuochi artificiali. L'11 e 12 marzo
1860 si è votato per l'annessione alla monarchia costituzionale di
Vittorio Emanuele II o per il regno separato. Da una settimana i
borghesi avevano messo al cappello un nastro tricolore. La vittoria
dell'annessione (con 4.800 sì) era prevista. Delle poche schede
stampate per il regno separato, soltanto due ne finiscono nelle urne.
Hanno votato anche tutti i braccianti che lavorano alle fortificazioni.
Gli hanno passato la giornata di 24 bajocchi.
Il 25 marzo 1860 alle prime elezioni politiche partecipano soltanto
258 dei 575 iscritti, appartenenti al vasto collegio che comprende
Rimini ed altri dieci Comuni, da Verucchio a Morciano e Cattolica. I
volontari dello stesso territorio alla guerra del 1859 sono circa il
doppio degli aventi diritto al voto. L'astensionismo si ripete nel
novembre 1870, due mesi dopo Porta Pia, alle elezioni per la Camera:
il repubblicano Aurelio Saffi è sconfitto dal liberale conte Domenico
Spina che al ballottaggio ottiene 211 voti contro 184. La seconda
votazione si è resa necessaria per il basso numero dei partecipanti
alla prima (341 su 911 iscritti).
Nel marzo 1860 Ruggero Baldini è divenuto assessore nella prima
Giunta comunale riminese dopo l'annessione al regno di Sardegna.
Alla politica era giunto attraverso la guerra: nel 1848 aveva guidato
478 volontari riminesi. Cinque di loro erano morti a Cornuda e
Vicenza. Tutti appartenevano alle classi più umili. Anche per la
Repubblica romana nel 1849 ci sono state cinque vittime. Tra gennaio
e marzo 1859 sono partiti per il Piemonte 2.448 volontari romagnoli.
Il 19 marzo 1864 per la festa di san Giuseppe, scrive Luigi Tonini, i
Democratici fanno la solita dimostrazione in onore di Giuseppe
Mazzini e di Giuseppe Garibaldi. La giornata si conclude con
l'uccisione di un noto liberale, il sarto Nicola Nagli. Ex carbonaro ed
agente segreto antipontificio, eletto in Consiglio comunale nel 1849 al
tempo della Repubblica romana, nel 1859 finito il governo papale il
21 giugno notte, diventa Commissario di Polizia, attento a mantenere
l'ordine pubblico. Forse gli costa la vita l'aver difeso un sacerdote
aggredito da alcuni militari.
L'uccisione di Nicola Nagli nel 1864 suscita vasta eco. Gli amici lo
ricordano come operaio instancabile, padre di famiglia accurato,
patriota animoso, indefesso, integro che per 40 anni ha sfidato ogni
tempesta della tirannia a riscatto della comune madre Italia. Il
sottoprefetto Viani scrive: "Il vile assassino sente in oggi che non sono
più i tempi che il Governo reggevasi coll'immoralità, e la Giustizia
poggiava sulla corruzione e la debolezza".
Alla Società di Mutuo Soccorso, di cui è stato promotore, il presidente
Alessandro Baldini ne ricorda le virtù di padre di famiglia,
instancabile ed umile artigiano, benefattore che non guardava alle
idee di chi bussava alla sua porta ed accoglieva pure chi gli aveva
recato offese gravissime. Nagli ha ereditato il sentimento politico del
padre Lorenzo, a cui le aspirazioni al nazionale risorgimento
costarono prigionie e sciagure. Aborriva tutti i segretumi e l'ipocrisia
di chi aveva mire ambiziose celate sotto lo scopo di patrio riscatto. Da
uomo del partito liberale (il Comitato riminese è del 1853) vide
dissensi e divisioni come sorgenti di lotta e di debolezza.
Prima di Nagli, fra 1847 e 1859 a Rimini altre undici persone sono
vittime di delitti politici: Massimiliano Pedrizzi mercante di cereali
(1847); il figlio del notaio Giacomo Borghesi, un cappellaio, l'avv.
Mario Fabbri, ed il falegname Tamagnini colpito per sbaglio al posto di
Michele Barbieri fervente sostenitore del papa (1848); il presunto
autore dell'uccisione del cappellaio, e don Giuseppe Morri molto caldo
contro i liberali (1849); il caldo papalino dottor Raffaele Dionigi
Borghesi (1850); il vicesegretario del Comune Antonio Clini che si
occupava molto di politica (1854); il francese Vittorio Tisserand
sposo della contessina e commerciante Mariuccia Ricciardelli (1856);
il cappellaio Terenzo (1859).
Tisserand, cancelliere del vice consolato di Francia a Rimini, ha
aderito alla Giovine Italia e predicato idee rivoluzionarie pure ai
lavoratori delle sue imprese: fornaci, distillerie e vigneti. Fu
vicepresidente del Circolo Popolare capeggiato da Enrico Serpieri, che
ha propagandato l'opposizione al governo pontificio. Nel 1849, sotto
la Repubblica romana, è stato eletto consigliere comunale con 288
voti su 372 elettori. Nicola Nagli ne ha avuti 239. In tutta la nostra
regione ai tripudi attorno agli alberi della libertà, ha scritto U.
Marcelli, allora si alternano attentati fratricidi fra rivoluzionari e
reazionari.

14. 1861, a Torino si parla di Rimini


"La Polizia del Regno tratta coi ladri", accusa Angelo Brofferio
Il nome della città di Rimini risuona nel parlamento del Regno d'Italia
il 3 dicembre 1861. Il deputato Angiolo Brofferio tratta il tema
dell'ordine pubblico, già affrontato dall'aula il 2 aprile con parole
molto dure circa la mancanza di sicurezza pubblica nel novello Stato.
Il che significava, era stato detto, pienissima libertà accordata ai ladri
ed al ladrocinio.
Ma non è tutta colpa del regno d'Italia. Secondo fogli bolognesi del
tempo, l'ordine sociale delle nostre terre era già stato turbato dalle
scarcerazioni concesse dopo l'annessione del marzo 1860. Si
rimpiange il vecchio sistema, tuttavia accusato di usare il pugno di
ferro senza guardare troppo a tutte le virgole ed a tutti i punti negli
ordini di carcerazione.

Il moto di Rimini del 1845


In un volume del 1869, emblematicamente intitolato "Storia dei ladri
nel Regno d'Italia", un capitolo è riservato al capo della Polizia di
Torino, Filippo Curletti. Il quale "invece di arrestare i ladri e gli
assassini era di balla con loro, li aiutava di sottomano, li soccorreva di
lumi, di mezzi, di armi, li difendeva dall'essere scoperti ed arrestati, e
partiva con loro l'infame bottino". Curletti nel 1859 era stato condotto
con sé da Massimo D'Azeglio a Bologna per governare le Legazioni
sottratte al Papa.
D'Azeglio è l'autore di un celebre testo legato alle vicende
risorgimentali di Rimini, "Gli ultimi casi di Romagna" (1846), dove
scrive: "Io stimo intempestivo e dannoso il moto di Rimini" del
settembre 1845 che, guidato da Pietro Renzi, ha portato ad un
effimero governo provvisorio. I suoi capi fuggirono per mare o
ripararono in Toscana dove furono arrestati. Secondo D'Azeglio, pochi
uomini non avevano il diritto di giocare con un tiro di dadi "la
sostanza, la quiete, la libertà, la vita di un numero incalcolabile" di
concittadini.
Curletti da Bologna va poi a Firenze, Perugia e Napoli. Dovunque con
la fama di essere "capo di assassini". Alla fine del 1860, "i bolognesi
scrissero una petizione perchè il conte di Cavour, che dicea di averli
redenti dal Papa, li redimesse dai ladri".
Brofferio, che tradì i compagni
Nel libro del 1869 si cita anche Rimini, partendo dagli "Atti
parlamentari" (p. 1313) che riportano l'intervento di Brofferio del 3
dicembre 1861: "Quello che accade a Bologna, o signori, accade
parimenti a Ferrara, ed a Cesena, ed a Forlì, ed a Rimini, e dovunque".
Brofferio aveva aggiunto: "Il Governo non si accorge che la sua polizia
è composta d'uomini i quali non hanno rossore di trattare coi ladri,
cogli assassini, coi malfattori d'ogni specie. Sì, o signori, coi ladri e
cogli assassini, i quali, come si rivelò ne' criminali dibattimenti,
comprano l'impunità dividendo colla polizia l'infame bottino".
L'Italia non è ancora nata, e già si cerca di smontarla proprio nel
meccanismo più delicato sotto il profilo politico, quello dell'ordine
pubblico.
Brofferio (1802-1866) fu giornalista, poeta, avvocato penalista, e
leader della sinistra costituzionale di Torino. Che guida assieme a
Lorenzo Valerio (1810-1865), direttore di periodici popolari ispirati
al suo convincimento che "l'ignoranza è la massima e la peggiore delle
povertà". Valerio siede in parlamento dal 1848 sino alla morte,
battendosi per l'istruzione pubblica e l'obbligo scolastico.
Brofferio è un "gran parlatore, grafomane, gigione", simpatico a
Cavour (G. Dell'Arti). Quando conosce il carcere per motivi politici, si
dedica alla satira in versi per minare con il ridicolo il campo
dell'avversario (P. Bargellini). Nel 1831 ha partecipato alla congiura
dei "Cavalieri della Libertà". Arrestato, ha fatto i nomi dei compagni in
cambio dell'impunità. I "Cavalieri" sono una loggia massonica
operante dal 1830, con ramificazioni nella stessa Guardia reale. Nella
"Storia di Torino" (1959) di Francesco Cognasso (1886-1986), essi
sono definiti "ingenui retori, che parodiavano la rivoluzione del 1821".
(A proposito di Massoneria: a Forlì dal 1818 era attivo un Capitolo
Rosa-Croce che dipendeva dal Grande Oriente di Toscana, secondo il
gesuita Michele Volpe, autore di un'importante storia del suo Ordine a
Napoli, ivi 1914-15.)
Laurana Lajolo (2003) ricorda che Brofferio "condusse una battaglia
per l'abolizione della pena di morte e della tortura, per la quale
presentò un progetto di legge, che, a sorpresa, fu approvato, ma il
governo non diede corso al provvedimento. La sua passionalità di
tribuno lo portava, con coerenza politica, ad esaltare gli ideali ed era
appagato dal discorso ad effetto, sempre condotto a braccio con
un'assoluta naturalezza, che affascinava l'uditorio".

I delitti di Rimini
Sono toni "ad effetto" anche quelli usati quando cita Rimini. In sua
difesa, va detto che i giornali bolognesi del tempo denunciano le
stesse cose. Il "Corriere dell'Emilia", diretto da Gioacchino Napoleone
Pepoli (destinato a brillante carriera politica), annota nel giugno
1860: "E' vergogna che in una città civile come Bologna non si possa
essere sicuri della propria vita". Pepoli è figlio di Letizia Murat, quindi
nipote di Gioacchino, quello del proclama di Rimini del 1815.
A proposito dell'esser sicuri della propria vita, le paure della gente
sono legate anche agli episodi di violenza accaduti negli anni
precedenti. A Rimini fra 1847 e 1859 undici persone sono vittime di
delitti politici. Il più famoso riguarda nel 1856 un francese
"rivoluzionario", Vittorio Tisserand, cancelliere del vice consolato di
Francia a Rimini, imprenditore e marito della contessina Mariuccia
Ricciardelli, commerciante. Il 19 marzo 1864 sarà ucciso il sarto
Nicola Nagli, ex carbonaro, agente segreto antipontificio, poi
Commissario di Polizia dopo la fine del governo papale nel 1859. Sia
Tisserand sia Nagli sono stati eletti in Consiglio comunale nel 1849,
all'epoca della Repubblica romana, con 288 e 239 voti su 372 elettori.

Tonini accusa la libertà


Le notizie riminesi su questi atti di violenza politica sono molto
scarse. Le dobbiamo agli appunti di Luigi Tonini che non si dilunga sul
tema, assumendo un tono di censura verso i nuovi tempi, corrotti dal
diffondersi della "libertà". Tonini infatti "alla realtà del suo tempo
aderì molto scarsamente", come osservò lo studioso Mario Zuffa,
bibliotecario della Gambalunghiana.
Delitti simili avvengono pure nelle Marche. In un testo relativo a
Pesaro-Urbino (di Stefano Lancioni e Maria Chiara Marcucci, Fano
2004), si legge: "Il Risorgimento fu un'età di nobili passioni e generose
battaglie, ma anche di assassinii di nemici politici o personali,
organizzati ed effettuati da affiliati alle società segrete, che
mascheravano talvolta vere e proprie sette omicide. Già nel 1847 si
contano gravi fatti di sangue nella nostra provincia [...]. A Fano il 3
gennaio 1848 fu ferito a pugnalate da ignoto il conte Luigi Borgogelli,
conservatore; alla fine dello stesso mese fu assassinato da ignoti il
direttore postale della città metaurense, contrario alle riforme.
Assassinio eccellente il 4 febbraio 1848 a Pesaro: fu pugnalato a
morte Giuliano Fiocchi Nicolai, segretario generale della legazione di
Urbino e Pesaro, patrizio pesarese e in procinto di iniziare un impiego
di prestigio a Roma".
Fu scritto che l'assassino dagli amici al caffé "ebbe battimani e vino
[...]. Non si appurò da chi venne l'idea né chi commissionò il delitto,
ma nessuno dubitò che la morte del Nicolai venne ideata e decisa fra
la gioventù liberale ed esaltata" della città.
"Negli ultimi mesi del 1848 si fece gravissima la situazione dell'ordine
pubblico soprattutto a Senigallia", con la fazione repubblicana che fu
chiamata "lega degli ammazzarelli", per i numerosi omicidi di cui fu
responsabile in quegli anni. A Pesaro "un gruppo di popolani
'democratici' defezionò dalla società carbonica e, sotto la guida di
Giulio Grilli, cominciò a riunirsi" nell'osteria di Angelo Lombardi
assumendo il nome di "Lega Lombarda". Pure l'oste fu assassinato.
Saccheggio a Pesaro
Per spinta della "Lega lombarda" il 19 novembre 1848 la folla
"saccheggiò il palazzo apostolico senza che nessuno intervenisse; il 22
il popolo assalì una barca carica di generi alimentari, distribuiti al
popolo. [...] Il 19 gennaio 1849 si registrano anche gravi disordini a
Senigallia (fu assalito l'appartamento del Vescovo); in quella città il
problema principale era però costituito dal mantenimento dell'ordine
pubblico", messo in crisi dalla setta "degli ammazzarelli", che "sparse il
terrore, tra la fine del 1848 e i primi mesi (almeno fino ad aprile) del
1849, con un'impressionante serie di omicidi: la situazione di terrore,
completamente sfuggita di mano ai patrioti locali, si protrasse fino
all'arrivo degli Austriaci".
Torniamo a Rimini ed al 1860, quando Giuseppe La Farina, siciliano,
carbonaro e massone, ricorda la nostra città in un suo proclama
indirizzato nel maggio ai soldati italiani al servizio del Borbone e del
Papa: "La bandiera sacra de' tre colori è inalberata da Susa a
Rimini...". Altra memoria locale, tratta dal "Rapporto intorno
all'attacco ed alla presa del Forte di S. Leo" del 28 settembre 1860, è
questa: "Nel nostro ingresso nella città di Rimini ci si presentò un
commovente spettacolo della popolazione che si gettava ai nostri
piedi baciandoci la mano per averla salvata dal dispotismo della
guarnigione austriaca che occupava il loro paese, e nella sera
un'illuminazione generale festeggiava il fausto avvenimento".
Dagli "Atti parlamentari", 2 dicembre 1861: "Il sindaco di Rimini
trasmette un'istanza della ditta Legnani per diminuzione del prezzo
del sale occorrente alla fabbricazione della soda".

15. Il "Proclama" di Manzoni


Il 18.2.1861, nominato senatore l'anno prima (29.2), il "possidente" e
"nobile di servizio" Alessandro Manzoni partecipa a Torino alla prima
seduta del parlamento, "testimoniando così quella sua piena adesione
al Risorgimento, che in più occasioni aveva dimostrato con le sue odi
civili, con i suoi figli combattenti sulle barricate milanesi del 1848" (G.
Getto).
Prima della nomina a senatore, Manzoni ha rifiutato onori politici
prestigiosi: "quel Senato era il simbolo dell'unità della patria ch'egli
aveva sempre auspicata" (P. Bargellini). Nel 1862 Manzoni riceve la
visita di Garibaldi nella casa di via Morone, come si vede nell'opera
dipinta nel 1863 da Sebastiano De Albertis (1828-1897), conservata
al Museo del Risorgimento di Milano.
Le prime liriche civili di Manzoni nascono tra 1814 e 1815. Il fallito
tentativo di Gioacchino Murat di coalizzare le forze italiane contro
l'Austria nel 1815, gli suggerisce l'incompiuto "Proclama di Rimini",
pubblicato soltanto nel 1848. Vi si legge quel famoso verso 34, "Liberi
non sarem se non siam uni", che Manzoni stesso giudicò "brutto".
Ribadiva F. Martini sulla "Nuova Antologia" (1894): si tratta di uno
dei più brutti versi mai fatti da Omero in poi, con cui però s'afferma
una grande verità.
La spedizione di Murat ed il suo proclama da Rimini agli Italiani che
voleva renderli liberi ("... l'ora è venuta che debbono compiersi gli alti
destini d'Italia. La Provvidenza vi chiama infine ad essere una
nazione indipendente"), sono eventi che "aguzzavano il sentimento
nazionale: l'unità d'Italia non era più un tema rettorico, era uno scopo
serio, a cui si drizzavano le menti e le volontà" (F. De Sanctis).
"Appena Murat, entusiasta della marcia di Napoleone in Francia,
invase lo Stato pontificio e lanciò il proclama di Rimini, che invitava
gli italiani all'indipendenza, l'Austria di Metternich poté additarlo
come aggressore e dichiarargli guerra" (U. Castagnino Berlinghieri).
Illuso da speranze che i fatti dovevano poi crudamente smentire, il 15
marzo Murat aprì la guerra proclamando poi il 31 marzo
l'indipendenza dell'Italia. Fu breve la sua fortuna: "Gli Austriaci lo
vinsero in campo; i popoli lo disertarono nella sventura, e il 20
Maggio [...] il nome di Gioachino Murat cancellavasi a Casalanza dal
novero dei Re" (F. Mistrali, 1857). A "Casa Lanza", un'antica masseria
nei pressi di Capua, a Pastorano (Caserta), fu firmato il trattato tra
l'esercito austriaco e quello di Murat re di Napoli.

16. Antefatti risorgimentali


Gioacchino Murat nel 1815 inizia la sua avventura politica. La
dichiarazione di guerra è del 15 marzo. Il 30 successivo egli pubblica
a Rimini il "Proclama" agli italiani. Con l'armistizio del 20 maggio
l'avventura s'interrompe. Murat si rifugia in Corsica e progetta
nell'ottobre la riconquista del Regno di Napoli. "Sbarcato presso Pizzo
di Calabria con pochi seguaci, fu quasi immediatamente catturato dai
borbonici e condannato a morte da una commissione militare. Cadde
coraggiosamente colpito da un plotone d'esecuzione il 13 ottobre
1815" (G. Candeloro). Era nato il 25 marzo 1767. Nel 1800 aveva
sposato Carolina Bonaparte, sorella minore di Napoleone, nata il 25
marzo 1782.
A Rimini la notizia dell'uccisione di Murat arriva il 24 ottobre. In suo
nome l'11 aprile, racconta C. Tonini, alcuni sediziosi avevano
percorso le strade della città gridando "Viva l'indipendenza, viva il re
Gioacchino, morte ai preti, morte ai papisti". Poi hanno tentato di
assalire le case di persone reputate avversari politici, e quelle di
quattro sacerdoti. Il notaio e cronista M. A. Zanotti commenta
l'esecuzione di Murat: così terminavano miseramente le glorie di
quest'uomo che sei mesi prima aveva superbamente cavalcato per la
città, alla testa di poderose armate.
Il 27 aprile a Rimini (scrive G. C. Mengozzi) si è verificato "un grave
tumulto popolare" di cui fa le spese (con l'arresto) la marchesa Orintia
Romagnoli in Sacrati, poetessa cesenate, che era stata grande
benefattrice di Aurelio Bertòla, poeta riminese. Gli aveva prestato i
soldi necessari all'acquisto di un podere nella Parrocchia di San
Lorenzo a Monte. Era il 1794. Due anni dopo Bertòla scappa da
Rimini, tentando inutilmente di passare a Firenze e poi a Vienna,
dove era stato nel 1778 all'epoca della Nunziatura del riminese
Giuseppe Garampi. Si ammala a Bologna. Di qui alla Sacrati chiede
che gli procuri "il sussidio" (la piccola pensione universitaria da
Pavia): "torno al nido; ma nell'incertezza m'espongo alla mendicità".
La miseria lo costringe ad accettare (agosto 1797) il compito di
redigere un "giornale patriottico" per i francesi.
Il tumulto del 27 aprile 1815 divide la città in due "fazioni inclini a
sostenere anche con la violenza i propri ideali": da un lato ci sono "i
fidelini o papalini, forti nella campagna, fra gli artigiani e
naturalmente fra le famiglie di più antica nobiltà" (Mengozzi). Molti
nobili sono con Murat: lo festeggiano al Casino Civico, attivo sin dal
1803.

17. Analfabeti
Nel 1865 ad Ancona appare "Il compito odierno", un testo del dottor
Enrico Bilancioni (1808-1888) che denuncia "la pesantezza delle
esazioni fiscali e l'altissimo numero di analfabeti esistenti in Italia" (A.
Piromalli), 17 milioni sui 22 (77,2%) di cittadini registrati al
censimento del 1861.
Gli abitanti dell'Emilia sono 2 milioni (9%), con una media di
analfabeti dell'81%, maggiore nelle nostre zone a Sud (A. Berselli).
Pure il padre di Enrico, Domenico Bilancioni, originario di San
Clemente, è medico. Lavora come primario all'ospedale di Rimini.
Nella carica gli subentra il figlio. Enrico è un fervente sostenitore
dell'indipendenza e della libertà della patria. L. Tonini lo descrive
"uomo schietto, e di molto ingegno". Alfredo Panzini lo ricorda
latinista, filosofo, e morto quasi povero, egli nato ricco.
Nel 1831 Enrico Bilancioni si è prodigato alla Celle nelle cure ai molti
feriti tra i duemila volontari scontratisi con l'esercito austriaco il 25
marzo. Lo scontro, per G. C. Mengozzi, salva l'onore della rivoluzione.
Nel 1848, poco dopo l'uccisione (20.9) di un figlio del notaio Giacomo
Borghesi, Enrico Bilancioni "fu aggredito da ignoto sicario in mezzo a
due suoi teneri figlioletti, mentre con essi conducevasi a casa" (C.
Tonini). Quasi difeso dai due fanciulli, Domenico ed Eleonora, egli
resta lievemente ferito.
Nello stesso 1848 è nominato nello stato maggiore della Guardia
Civica istituita l'anno prima (5.7) da Pio IX, e considerata dai patrioti
come una garanzia di libertà. In quel 1847, "anno rivoluzionario per
eccellenza", le riforme di Pio IX, come l'editto sulla libertà di stampa
(15.3), segnano "una vasta rigenerazione" politica (GCM).
Nel 1859 Enrico Bilancioni è nella Commissione municipale che
assume i poteri di Giunta e Consiglio comunale dopo la fine del potere
temporale (21.6), contro cui si è sempre battuto in nome della
"evangelica legge di libertà e fratellanza". Egli "con animo schietto
aveva sempre pubblicamente in libere parole rimproverato l'infausto
andazzo del governo romano" (CT). Poi è deputato all'Assemblea della
Romagna. Nel 1860 partecipa all'impresa giornalistica della "Favilla"
di cui escono soltanto 17 numeri tra 11 febbraio e 14 aprile: è il primo
periodico cittadino "in senso assoluto con notizie politiche,
economiche e statistiche" (GCM). Lo dirige il medico bolognese
Vincenzo Serra (1814-1898) che lavora a Rimini come secondo
chirurgo dal 1850, con la collaborazione di un altro medico,
Alessandro Niccolini (1825-1892), che il 16 aprile 1859 è stato
arrestato per motivi politici. Nel 1880-1881 collabora a "La Parola"
rivista rivolta al clero e diretta da don Giovanni Trebbi (P. G. Grassi).
Suo fratello Pietro (1808-1877), vissuto e morto a Ravenna, è
avvocato e studioso di letteratura umanistica, compilatore di una
"Raccolta di rimatori antichi", apprezzata da Carducci e conservata
all'Archiginnasio di Bologna.
Suo figlio Domenico (1841-1884), nato da Laura Marchi, medico e
fervente mazziniano è tra i ventotto dirigenti repubblicani arrestati il
2 agosto 1874 a Rimini, sul colle di Covignano, nella villa
dell'industriale Ercole Ruffi. Del gruppo faceva parte l'anarchico
Domenico Francolini (1850-1926), marito di Costanza Lettimi e
legato da fraterna amicizia a Giovanni Pascoli.

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