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.: Nimby v1.4.

doc

NIMBY,
nel cortile dei media
di Marco Binotto1

NIMBY, nel cortile dei media __________________________1


Popolazioni: paura o felicità? ______________________2
Comunicazione: spettatori o attori? ________________3
Politica: cattive scelte o cattiva comunicazione? ____5
Riferimenti bibliografici ____________________________7

Nimby. Not in my back yard. Questo acronimo ci è ormai diventato


familiare. È diventato celebre dopo la seconda crisi, la seconda “ri-
volta ambientale”, scatenatasi a distanza di pochi mesi. Il deposito
nucleare di Scanzano Jonico prima ancora del Tunnel per la Tav in
Val di Susa ha infatti reso necessario battezzare quanto avveniva sot-
to gli occhi dell’opinione pubblica, cosa accadeva alla capacità di de-
cisione della classe dirigente, cosa stava succedendo ai cittadini della
sterminata provincia italiana.
Occorreva un nome per definire queste mobilitazioni, o (forse) oc-
correva un termine agli esponenti di governo e ai giornali vicini alla
sua maggioranza per circoscriverne il senso, delimitarne le fattezze
in una connotazione che contemporaneamente ne limitasse il senso e
costruisse una controparte immaginaria da poter più facilmente af-
frontare, osteggiare, denigrare. Questa formula anglosassone si pre-
stava ad entrambe le necessità: non nel mio cortile, o meglio «ovunque
tranne che nel mio cortile». Con questa massima si etichettano questi
movimenti sociali e “ambientalisti” come movimenti conservatori,
egoisti, ottusi o comunque fuori dalla storia, insomma antimoderni.
Forse questa strategia retorica può essere utile per confrontarsi
politicamente e mediaticamente con queste realtà. Può renderle forse
aliene alla parte restante dell’opinione pubblica. Un’opinione pubbli-
ca che, però, può sentirsi in sintonia con ragioni, valori, immaginari e
suggestioni da cui scaturiscono le proteste, oppure ritrovarsi mobili-
tata, dopo pochi mesi e con mot d’ordre simili, quando un’analoga
“modernizzazione” giunge nel suo cortile. In questo caso la vittoria
simbolica costruita intorno allo stereotipo costruito dal ricorso al
modello Nimby si rileva una strategia di ben corto respiro come di-
mostra la successione a breve distanza delle crisi di Scanzano Jonico,
dell’”emergenza rifiuti” in Campania e delle proteste No Tav in Val
di Susa.
La questione dirimente – importante non solo per vincere la sin-
gola contesa politico-mediatica – risulta essere quindi una più ampia

1 Su richiesta dell’autore questo saggio è coperto da licenza Creative Commons (attribuzione-non


commerciale), ovvero con la seguente dizione: «È consentita la riproduzione, parziale o totale
dell’opera e la sua diffusione in via telematica purché non sia a scopo commerciale e a condi-
zione che sia riportata la fonte e l’autore».

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e articolata analisi di cosa avviene alla società o meglio alle società


italiane. Che si accetti quel sistema di spiegazione o se ne ipotizzi un
altro – più complesso e multidimensionale – saremmo comunque di
fronte ad un profondo e sostanziale mutamento dell’atteggiamento
di queste popolazioni, non solo verso la propria (qualità della) vita,
ma anche – e forse soprattutto – verso l’idea di bene pubblico, di pro-
gresso e di (modello di) sviluppo. Gridare «non nel mio cortile!»,
rivendicare la sovranità sul(le decisioni prese riguardo al) «proprio
territorio», sentirsi legittimati ad intervenire sulle decisioni politiche
anche attraverso metodi estremi o illegali, negare il modello di vita
proposto: possono comporre ipotesi alternative di spiegazione, sin-
gole variabili che influenzano i comportamenti collettivi oppure di-
verse graduazioni di un nuovo cittadino-consumatore che si sta af-
fermando. In ogni caso rappresentano tutte possibilità da vagliare,
da tenere in stretta considerazione. Tutte, infatti, condizionano le
scelte dell’opinione pubblica, tutte si inseriscono in tendenze cultura-
li e sociali di lungo periodo e per questo sono tutte ancora da valuta-
re, decifrare, studiare. Tutto tranne che infischiarsene.

Nella Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di


Roma “La Sapienza” stiamo cercando di interpretare, attraverso una
serie di analisi e singole attività di ricerca, proprio questo tipo di e-
venti politico-mediali. In questo articolo cerchiamo di sintetizzare le
principali direttrici di osservazione, le ipotesi essenziali e i primi ri-
sultati di queste indagini.

Popolazioni: paura o felicità?


Superate finalmente le retoriche millenariste che hanno caratteriz-
zato gli ultimi decenni è possibile forse porsi di fronte al cambiamen-
to sociale in modo più sereno, meno schierato in fazioni intellettuali.
La tradizione degli studi sociologici è stata per anni imbrigliata in
una contrapposizione legata al binomio vecchio-nuovo incardinata
intorno alla dicotomia modernismo-postmodernismo, intorno al su-
peramento della fase precedente e all’indecifrabilità del futuro e-
spresso proprio dal proliferare del prefisso post.
Ormai questa nebbia appare diradarsi ed emergono con minori
incertezze ed enfasi i caratteri della società e cittadinanza dei nostri
giorni. Forse non è neppure necessario riassumerle o elencarle. Di
certo però il risultato non è univoco ed emerge dal confrontarsi e
proliferare di tendenze e comportamenti non sempre omogenei. Anzi
forse proprio questa variabilità, insieme al suo carattere spesso inco-
erente e contraddittorio, ha fornito spunti al dibattito (anche) scienti-
fico. Allora, in questa visione, si intrecciano manifestazioni della «so-
cietà del rischio» insieme a stili di vita new age, sguardi cosmopoliti e
panorami globali insieme a dinamiche identitarie e comunitaristiche,
«ossessioni securitarie» insieme a qualità della vita e «ritorno al bor-
go» (De Rita), l’estrema innovazione tecnologica insieme alla diffi-
denza verso i rischi – etici e ambientali – delle scoperte scientifiche2.

2 È praticamente impossibile elencare tutti i filoni di studio o gli autori che si sono occupati di
queste dinamiche. Riguardo la cosiddetta «società del rischio» l’autore di riferimento è certa-
mente Ulrich Beck (2000), mentre un’utile ricognizione è presente nel testo di Deborah Lupton
(2003). Riguardo invece la presenza di una particolare attenzione alla qualità della vita e quin-

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L’analisi sociologica è sempre combattuta in queste dinamiche,


nella compresenza – e spesso incapacità – di dirimere la matassa di
queste spiegazioni, la dialettiche tra direzioni opposte e forse non in-
conciliabili di interpretazione dei comportamenti individuali e collet-
tivi. Ma è esattamente intorno a queste dimensioni di analisi che va
ricercata l’origine di queste mobilitazioni. Anzi, è proprio l’analisi di
questi movimenti a poter offrire nuovi spunti e nuove opportunità di
verifica e indagine di queste opposte ipotesi. In questi termini, il mo-
vimento di Scanzano è espressione dell’era dei consumi diffusi3, di
un edonismo che diventa chiusura nella strettoia dei propri privilegi
e delle proprie abitazioni, del rifugio alla paura offerto dal proprio
nucleo familiare. Sono consumatori egoisti? Oppure sono consuma-
tori attenti alla qualità e responsabilità della vita, del territorio e delle
imprese4?
Di nuovo, la formula Nimby fornisce solo una possibile spiegazio-
ne, il compito della ricerca (e della politica) è quello di trovare rispo-
ste, di fornire spiegazioni.
Se l’origine di questi movimenti fosse individuata all’interno di
una matrice più ampia di possibilità, se fosse originata da un diverso
orientamento valoriale, diversi stili di vita e sensibilità, allora i singo-
li eventi non farebbero altro che innescare una situazione già soggia-
cente. Provocherebbero una fissione. La reazione a catena è allora
scatenata da una controversa decisione politica oppure
dall’attenzione (forse eccessiva) dei media?

Comunicazione: spettatori o attori?


Giungiamo quindi ad uno degli attori primari delle contese me-
diatiche, i mass media non solo costituiscono il «territorio di gara»,
dando forma e visibilità agli attori illuminando e fornendo senso agli
eventi, ma costituiscono un vero e proprio «potere in campo» grazie
alla loro capacità di plasmare questi elementi in modo (tendenzial-
mente) autonomo rispetto ad esigenze, forme e interessi della politi-
ca5. I mass media in questo caso svolgono – possono svolgere – una
funzione duplice: sono in grado di suscitare le emozioni necessarie a
scatenare la mobilitazione oppure hanno la capacità di enfatizzarla
fornendole un’immagine “eccezionale”, illuminarla a dismisura.
L’immaginario collettivo è innervato di elementi strettamente cor-
relati a timori riguardanti il nostro ambiente, la nostra incolumità.
Gli stereotipi intorno ai quali si costruisce il linguaggio del giornali-
smo, le “grammatiche” dell’industria culturale, coincidono con gli
archetipi diffusi nel senso comune legati alle immagini della paura,

quindi ai rischi che la mettono in discussione un’utile indagine è quella ormai trentennale
compiuta da Ronald Inglehart (1998) sull’emergere in questo senso dei cosiddetti «valori post-
materialistici» e, in Italia, con diverse metodologie e modalità, compiuta ad esempio dagli isti-
tuti diretti da Giampaolo Fabris (2003) e Francesco Morace (2000).
3 È soprattutto Alberto Abruzzese a collegare con insistenza l’edonismo proprio della «cultura

dei consumi diffusi» ai moderni movimenti sociali e al necessario rinnovarsi del linguaggio
della politica.
4 Leonardo Becchetti (2006) collega il concetto di felicità – ispirazione per il titolo di questo pa-

ragrafo – alle tendenze contemporanee al consumo critico, al commercio equo e solidale, alla
responsabilità d’impresa.
5 Naturalmente su questo tema sono numerosi e innumerevoli i testi dedicati al ruolo dei me-

dia nella (comunicazione) politica. Per l’approccio di studi qui delineato si veda il lavoro di
Stefano Cristante (1999: 254-263) o l’ormai classica opera del 1922 di Walter Lippman (1999).

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del pericolo, della malattia. Del tutto naturalmente tali immagini di-
ventano allora la materia prima principale per rappresentare il mon-
do, renderlo spettacolo: allora i news media producono costantemente
ipersensibilità ai pericoli, enfatizzazione dei rischi, vicinanza alla
contaminazione6.
Due sono le lunghezze d’onda attraverso le quali questi timori si
dispiegano nel panorama mediale: il brusio e l’emergenza.
Il primo è il rumore di fondo costituito dai piccoli rischi quotidiani,
il timore puntiforme del fatto di cronaca, l’aggressione quotidiana al
corpo (sociale) della criminalità, l’assedio costante dell’immigrazione
(naturalmente clandestina), l’infiltrazione virale, e “finalmente”
l’attacco invisibile dell’inquinamento. L’ambiente come la casa, il
quartiere, la città e la nazione sono i territori immaginari sotto attac-
co nella rappresentazione quotidiana di un’informazione per questo
naturalmente ansiogena7. L’emergenza ne rappresenta invece l’apice,
lo scatenamento eccezionale, la manifestazione estrema e al tempo
stesso simbolica di quell’aggressione (altrimenti) inavvertita, quasi
subliminale. È il momento in cui quel pericolo si materializza in
maniera puntuale o eccessiva, ma anche il momento in cui si
condensa quel timore sotterraneo, la tensione accumulata che quindi
richiede un’azione, una difesa, una risposta8.
È evidente come questi due momenti rappresentano nello stesso
tempo due toni dell’informazione e due modalità espressive della
politica, due diverse risposte sociali. Nel primo caso siamo di fronte
alle rappresentazioni mediali della figura e dello sfondo, del diluirsi
quotidiano dei fatti e l’eccezionalità degli eventi mediali, i temi di
fondo e l’accadimento che costruisce tematizzazione. Nel secondo ri-
flettono il modo in cui i cambiamenti sociali si producono e vengono
prodotti. Lunghi periodi di stasi, periodi di ascolto delle notizie e
dello spirito dei propri temi, che improvvisamente diventano mo-
menti di espressione, di performance. Allora la paura accumulata, le
connessioni tra stereotipi, immagini e simboli costituiscono una mi-
scela che improvvisamente supera la massa critica facendole supera-
re di scatto le proporzioni fin lì possedute. Allora l’energia disponibi-
le si moltiplica. Emerge. Diventa mobilitazione.
In quella situazione infatti il cortocircuito media-avvenimenti è ormai
innestato, la dialettica fatto-rappresentazione è così stringente da
rendere praticamente indistinguibile causa ed effetto, la rappresenta-
zione mediale e quella politica diventano un tutt’uno rendendo ogni
intervento parte della costruzione di nuovi immaginari e parte della
scena, nuova materia prima. È quello il momento in cui la politica,
come l’analisi sociale, diventa inutile, viene spiazzata. Infatti lo sca-

6 Sul tema degli immaginari legati al rischio e alla contaminazione appare centrale l’opera di
Mary Douglas (1993, 1996). Per una recente ricognizione delle immagini del pericolo e della
sua concretizzazione si veda il testo curato da Valeria Giordano e Stefano Mizzella (2006).
7 Sul ruolo dei media nel costruire una rappresentazione legata “intenzionalmente” alla paura

rimandiamo al lavoro di David Altheide (2002). Sulla relazione tra news media e percezione del
rischio segnaliamo anche il pluriennale lavoro del Media Group dell’Università di Glasgow nel
Regno Unito.
8 Le dialettica tra un “rumore di fondo” ansiogeno e l’eccezionalità di un fatto di cronaca e del

corrispondente “panico morale” appare particolarmente evidente nel trattamento mediale


dell’immigrazione. Su questo tema i riferimenti bibliografici sarebbero numerosissimi, per
una recente verifica empirica e per un’adeguata rassegna bibliografica si rimanda a Binotto,
Martino 2004.

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tenamento delle forze rimanda solo indirettamente a quel mutamen-


to sotterraneo, continuo, progressivo e subisce un aumento di poten-
za che lo rende quasi irriconoscibile. Quasi inarrestabile.
Emergono allora capacità, potenzialità del mutamento sociali pre-
cedentemente inavvertibili. Capacità latenti nel tessuto sociale che la
mobilitazione rende evidenti, mette a frutto. Anche per questo aspetto
dobbiamo ipotizzare una diversa configurazione sociale già presente
nella popolazione interessata e che il singolo evento agiterebbe. Sor-
prende infatti la capacità degli attori sociali di padroneggiare tecno-
logie digitali e wireless per costruire network just in time, blog e siti
web9. Stupisce come queste evenienze mettano in luce una fitta rete
di relazioni sociali già presenti che consentono di costruire mobilita-
zioni che mettono in collegamento forze sociali eterogenee, un ina-
spettato capitale sociale (Putnam 2004).
Il tutto legato alla capacità ormai consolidata di padroneggiare i
codici, i linguaggi e persino le tecniche proprie dei news media. Tutti i
movimenti qui citati come esempio (e caso di studio) sono difatti
sembrati capaci e consapevoli nell’utilizzo dei media. Hanno costrui-
to con fantasia e sagacia formule sintetiche e immagini simboliche,
ma anche concrete organizzazioni per costruire relazioni e strumenti
di comunicazione con la stampa. Quello che appare essere mancato
alla controparte.
Comunicazione e partecipazione di cui appaiono capaci popolazioni
e forze sociali, facoltà che invece istituzioni e forze politiche sembra-
no aver perduto.

Politica: cattive scelte o cattiva comunicazione?


Rimane quindi l’ultimo tassello in questo mosaico del tutto em-
brionale, resta da esaminare l’attore iniziale e finale delle contese
mediatiche: il «decisore politico». Due appaiono le caratteristiche più
ricorrenti in queste situazioni d’emergenza: a) l’incapacità di costruire
una decisione condivisa e partecipata dalle popolazioni locali interessa-
te alla questione; e b) l’incapacità di costruire concrete e sufficienti
pratiche di gestione e comunicazione di crisi.
La prima rimanda al complesso tema del mutamento delle proce-
dure di formazione delle decisioni, cambiamento sempre più neces-
sario in un ambiente non solo, e ormai, mediaticamente orientato, ma
in cui la disponibilità di strumenti di conoscenza e controllo delle de-
cisioni e di circolazione delle informazioni si è allargato a dismisura
estendendo la possibilità per minoranze attive, gruppi organizzati o
vere e proprie lobby di influenzare il dibattito pubblico, le assemblee
legislative e le scelte di istituzioni e enti pubblici10. Una capacità or-
mai propria dei moderni sistemi democratici che dovrebbe costituire
l’insieme di competenze – anche comunicative – indispensabili al
personale politico.

9 L’emergere sempre più imponente dei weblog comincia ad imporsi anche sulla letteratura
scientifica e giornalistica, sulla correlazione tra capitale sociale e movimenti sociali e, quindi,
sulla capacità delle nuove tecnologie di accentuare e favorire la cooperazione di masse, che
acquistano quindi un’impensabile capacità di mobilitazione e coordinamento, si veda il testo
di Howard Rheingold (2003).
10 Sulla crescente incapacità delle forze politiche e quindi delle istituzioni a gestire la complessi-

tà delle informazioni necessarie alle scelte e quindi al crescere di importanza del ruolo di lob-
bying delle forze imprenditoriali e della società civile si veda Fotia (2002).

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La seconda rappresenta, in qualche modo, una novità che diventa


centrale proprio per il sistema della comunicazione politica e istitu-
zionale propria della «società del rischio». È proprio questa seconda
insufficienza comunicativa a caratterizzare praticamente tutte queste
crisi. Una carenza che si manifesta anche in questo caso in due dire-
zioni convergenti, la prima riguarda un’oggettiva carenza non solo
nella pianificazione e preparazione, ma nell’attenzione alle più ele-
mentari nozioni del crisis management11, la seconda evidenzia un ri-
tardo culturale nell’approccio alla comunicazione (anche se) di crisi.
Un ritardo che non sostituisce ma aggrava proprio la prima inca-
pacità, quella più “politica”. Infatti l’approccio e la risposta ricorrente
del personale politico di governo e maggioranza, come in parte di
quello d’opposizione, è di rimandare le difficoltà incontrate ad una
sostanziale «insufficienza nella comunicazione»12. Una spiegazione
che tradisce una precisa concezione delle pratiche e dei processi co-
municativi, una concezione tuttora ancorata ad una visione propagan-
distica e trasmissiva, di tali pratiche13. La comunicazione, in questi
termini, interviene sempre dopo la decisione, serve a far comprendere
o “digerire” meglio una decisione presa fuori dall’arena pubblica,
all’esterno della ambiente dei media e in generale della comunica-
zione.
Una decisione che quindi esclude non solo la partecipazione –
come si suol dire – bipartisan, ma la concreta e faticosa pratica di rela-
zione con i diversi stakeholder, la costruzione di processi di inclusio-
ne, l’attivazione di trame di relazione e informazione, una costante e
opera di ascolto e valutazione se non proprio dei trend socio-
culturali, almeno degli “umori popolari”. Pratiche non più rinviabili
o eludibili in un momento in cui alla diffidenza nei confronti della
classe politica – tradizionale nelle democrazie mature e sin quasi a-
neddotica per l’Italia – si affianca la crisi di fiducia nei confronti dei
«sistemi esperti» (Giddens), e quindi nei sistemi di controllo e
nell’expertise scientifico, tipica della contemporaneità.
Di conseguenza la conclusione ci rimanda alla prima e generale
lacuna da cui siamo partiti. Rimanda alla necessità per le classi diri-
genti di saper costruire processi di conoscenza e pratiche politico-
comunicative adatte a queste complesse questioni. Ovvero partire
dall’ascolto di queste realtà piuttosto che dalla sua negazione, dalla
comprensione più che dalla loro derisione.
Ormai siamo tutti nello stesso cortile.

11 A dispetto di un’ampia produzione editoriale dedicata a questi temi: si vedano – a solo titolo
di esempio – Bevitori (2004), Bucci (1998), Lagadec (2001).
12 È noto come persino il Presidente del Consiglio addebiti il suo svantaggio elettorale proprio

ad una deficienza del suo governo «a comunicare» i risultati conseguiti.


13 È Mario Morcellini a fare appello alla necessità per la Pubblica Amministrazione di adottare

una «cultura della comunicazione» nel solco tracciato dalla legge 150/2000 proprio nella dire-
zione di assecondare un «desiderio profondo di reinterpretazione delle istituzioni, nella dire-
zione di una maggiore identificazione con i soggetti che esse debbono ascoltare e interpreta-
re» (Morcellini 2004: 22).

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Marco Binotto insegna nel Laboratorio di Stili e Tecniche della Comunicazione Sociale
nella Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università “La Sapienza” di Roma e
coordina l’Osservatorio sulla Comunicazione Sociale Terza.com e l’Osservatorio Co-
municazione Politica (OCP). Ha pubblicato Pestilenze (Castelvecchi, 2000) e ha coor-
dinato le ricerche pubblicate in Elezioni 2001. Descrizione di una battaglia mediale
(Sossella, 2001), Violenza Mediata. Il ruolo dell’informazione al G8 di Genova (Editori
Riuniti, 2003) e FuoriLuogo. L’immigrazione e i media italiani (Pellegrini/Rai-ERI, 2004).
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