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Diritto & Processo

Collana diretta da Luca D’Apollo

Mirco Minardi

Le insidie e i trabocchetti
della
fase di trattazione
del
processo civile di cognizione
Manuale di sopravvivenza per gli avvocati

1a edizione
Aggiornato al d.d.l. n. 1441-bis B come risultante dalle modifiche approvate dal
Senato nella seduta del 4 marzo 2009

LexForm Editore
A mia moglie Samantha

Un ringraziamento speciale va ai
Colleghi Pietro Chimisso, Lucia
Paolinelli e Raffaele Plenteda per la
revisione e i preziosi consigli.
3

SOMMARIO

Premessa p. 5

Parte I

IL REGIME DELLE PRECLUSIONI


1. La trattazione del processo p. 9
2. Le preclusioni in genere p. 12
3. Il regime di preclusione delle domande p. 14
3.1 Segue: precisare, modificare, mutare la domanda p. 16
4. Il regime di preclusione delle eccezioni p. 24
4.1 Segue: eccezioni in senso stretto e in senso lato p. 27
4.2 Segue: precisare, modificare, mutare l’eccezione p. 36
4.3 Segue: la forma dell’eccezione p. 37
4.4 Segue: il termine ultimo per la proposizione delle eccezioni in senso p. 39
proprio e in senso stretto
4.5 Segue: le condizioni per il rilievo delle eccezioni in senso lato. p. 42
4.6 Segue: eccezioni in senso lato e principio del contraddittorio p. 50
5. Il regime di preclusione delle conclusioni p. 55
5.1 Segue: la precisazione e la modificazione delle conclusioni p. 57
6. Il regime di preclusione delle allegazioni p. 60
7. Il regime di preclusione delle argomentazioni difensive p. 68
7.1. La mancata contestazione dei fatti allegati p. 69
7.2 Il regime di preclusione delle osservazioni critiche alla CTU p. 73
8. Il regime di preclusione delle istanze istruttorie p. 75
8.1 Segue: la rilevabilità d’ufficio delle preclusioni istruttorie p. 80
TABELLA RIASSUNTIVA p. 82

Parte II
LO SVOLGIMENTO DELLA PRIMA UDIENZA DI TRATTAZIONE
1. Le verifiche preliminari p. 83
2. Il tentativo di conciliazione p. 90
3. La richiesta di chiarimenti p. 93
4. Le preclusioni attoree e lo jus variandi e/o poenitendi p. 94
5. Il triplo termine p. 100
5.1. Segue: le domande nuove del convenuto p. 111

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5.2 Segue: la formulazione delle istanze istruttorie p. 113


6. La decisione del giudice sulle istanze istruttorie p. 116
7. Le prove ammesse d’ufficio dal giudice p. 120

Parte III

PRECLUSIONI E INTERVENTO DEL TERZO


1. Il regime di preclusioni in caso di intervento del terzo p. 122
1.1 Segue: l’estensione automatica della domanda nei confronti del terzo p. 133
2. Il regime di preclusioni per il terzo chiamato p. 136

BIBLIOGRAFIA p. 139

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PREMESSA

Ho deciso di scrivere questo “manualetto” anzitutto per me.


Come avvocato civilista sentivo la necessità di mettere ordine e
fare chiarezza su ciò che si può e si deve fare nel processo, per
non correre il rischio di una pronuncia di rigetto fondata su un
vizio di mera forma.
Dopo quindici anni di foro civile ho dovuto riconoscere
l’esattezza del vecchio adagio degli avvocati più attempati: “nella
nostra professione è bravo chi sbaglia meno”, mi dicevano
mentre muovevo timidamente i primi passi. A quel tempo mi
sembrava niente più che una boutade, ma oggi devo tristemente
ammettere che avevano ragione. E gli errori non sono sempre
frutto di ignoranza o disattenzione, bensì effetto di omissioni e
imprecisioni del legislatore, di mancanza di coordinamento tra
norme e, soprattutto, di interpretazioni giurisprudenziali talvolta
davvero imprevedibili, quando non extravaganti.
Non solo. Negli ultimi anni, il feticcio del processo celere a tutti
i costi ha prestato il fianco a interpretazioni rigidissime da
parte della giurisprudenza che è arrivata - tanto per dirne una - a
negare la rimessione in termini anche nei casi in cui la parte era
incolpevolmente incorsa in una decadenza. Ma tant’è.
L’oggetto di questo scritto è la fase di trattazione del processo
civile di cognizione di primo grado avanti il tribunale. Mi sono
focalizzato sul regime di preclusioni e sull’articolo 183 del
codice di procedura, snodo nevralgico e fondamentale del rito
ordinario.

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Il legislatore del 20051, com’è noto, è intervenuto sul codice di


rito al fine di rendere la fase preparatoria del processo più rapida
e funzionale2. Per raggiungere i suoi scopi ha utilizzato due
strumenti:
(a) l’arretramento e l’irrigidimento del sistema di
preclusioni;
(b) la concentrazione, almeno tendenziale, di tutte le
attività preparatorie in un’unica udienza, eliminando in
un solo colpo ben tre udienze e cioè “la 180”, “la prima del 184”
e “la seconda del 184”.
In effetti, il “vecchio sistema” – quello seguente alla riforma
degli anni ’90-’95 – presentava evidenti disfunzionalità; in
particolare, pressoché inutili erano le udienze “del 180” e “del
primo e del secondo 184”.
In questa sede non mi soffermerò sulla miopia di questo
legislatore che continua a intervenire sul processo in maniera
disorganica e spesso distratta3, sull’erroneo presupposto che la
speditezza del processo dipenda semplicemente dalle sue regole,
senza considerare, tra l’altro, che più le preclusioni e i termini
diventano stringenti più aumenta il rischio di una verità
processuale avulsa dalla verità sostanziale4. Ciò nonostante, da

1 Si v. D.L. n. 35-2005, conv. L. 80-2005; D.L. 273-2005, conv. L. 263-2005.


2 Osserva BALENA, in Le preclusioni istruttorie tra concentrazione del processo e ricerca

della verità, www.judicium.it che l’esaltazione del principio di concentrazione del


processo – ricondotta in qualche modo, più o meno implicitamente, all’autorità
dell’insegnamento chiovendiano – ha condizionato tutta la più recente evoluzione del
processo civile, vuoi sul piano positivo vuoi su quello meramente esegetico, innescando
una sorta di rincorsa tra il legislatore, da un lato, e la dottrina e la giurisprudenza,
dall’altro.
3 Afferma lucidamente GRAZIOSI A., in Appunti sulla nuova fase preparatoria del
processo, www.judicium.it, che il processo civile, per essere l'unico mezzo attraverso cui
ogni cittadino può ricevere la tutela del propri diritti, meriterebbe ben altre attenzioni nel
modo di procedere alla sua revisione ed al suo spesso doveroso svecchiamento.
4 Scrive, come sempre incisivamente, CEA, in La trattazione della causa nel rito
ordinario, www.judicium.it: Ora, se «giusto processo» è quello che attribuisce all’avente
diritto tutto quello, proprio e solo quello che è previsto dal diritto sostanziale; se «giusto
processo» è quello che riconosce i diritti esistenti senza creare diritti inesistenti; se «
giusto processo» è quello che, almeno tendenzialmente, mira a concludersi con una

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circa venti anni si continua a intervenire sul codice di rito, ormai


divenuto, per usare la celebre, efficace e tuttora attuale frase del
prof. Verde un cantiere in corso, nel quale chiunque riesca ad
avere un aggancio con il direttore dei lavori può metter mano. E
mentre sto scrivendo questa premessa è in discussione alla
Camera l’ennesima riforma: perseverare è davvero diabolico.
Farò invece un esame strettamente tecnico e pratico,
esame quanto mai opportuno visto che molte sono le insidie nella
fase di trattazione del processo ordinario di cognizione.
Sarà anche l’occasione per ripassare concetti fondamentali che
ogni processualcivilista dovrebbe saper maneggiare con sapienza:
parleremo così di preclusioni per le parti originarie e per i terzi
intervenuti; di eccezioni in senso lato e in senso stretto; in senso
proprio e in senso improprio; di allegazioni di fatti principali e di
fatti secondari; di limiti alla rilevabilità d’ufficio delle eccezioni; di
mutatio ed emendatio libelli e di tanto altro ancora.
Oggi, alla luce delle recenti riforme, l’avvocato civilista è
tenuto più che mai a conoscere in maniera non
superficiale le regole del processo e in particolare le
preclusioni ricollegate agli atti introduttivi e alla prima udienza.
A questi, non diversamente dall’avvocato penalista, è richiesta ora
una prontezza di riflessi un tempo non necessaria, perché a ogni
nuova richiesta, deduzione, eccezione era sufficiente replicare con
la “richiesta di un termine”, solitamente concessa dal giudice.
Insomma, sarà l’occasione per approfondire istituti di diritto
processuale al fine di meglio conoscere il processo ed evitare così

decisione fondata sull’accertamento veritiero dei fatti; orbene, se «giusto processo» è tutto
questo, è evidente che quell’orientamento del giudice di legittimità, che consente il rilievo
ufficioso del vizio conseguente alla violazione della disciplina delle preclusioni anche
quando ciò non comporta lesione della concentrazione processuale, non è solo affetto da
dogmatismo e da formalismo, ma è addirittura eversivo dei principi che sostanziano il
valore del <<giusto processo >> come riconosciuto e tutelato dall’art. 111 Cost.

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di “farsi male” sulle insidie e i trabocchetti presenti lungo il


tragitto.

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PARTE I
IL REGIME DELLE PRECLUSIONI

SOMMARIO.
1. La trattazione del processo.- 2. Le preclusioni in genere.- 3. Il regime di
preclusione delle domande.- 3.1 Segue: precisare, modificare, mutare la
domanda.- 4. Il regime di preclusione delle eccezioni.- 4.1 Segue: eccezioni
in senso stretto e in senso lato.- 4.2 Segue: precisare, modificare, mutare
l’eccezione.- 4.3 Segue: la forma dell’eccezione.- 4.4 Segue: il termine
ultimo per la proposizione delle eccezioni in senso proprio e in senso
stretto.- 4.5 Segue: le condizioni per il rilievo delle eccezioni in senso lato.-
4.6 Segue: eccezioni in senso lato e principio del contraddittorio.- 5. Il
regime di preclusione delle conclusioni.- 5.1 Segue: la precisazione e la
modificazione delle conclusioni.- 6. Il regime di preclusione delle
allegazioni.- 7. Il regime di preclusione delle argomentazioni difensive.-
7.1 Segue: la mancata contestazione dei fatti allegati.- 7.2. Il regime di
preclusione delle osservazioni critiche alla CTU.- 8. Il regime di
preclusione delle istanze istruttorie.- 8.1 Segue: la rilevabilità d’ufficio
delle preclusioni istruttorie.

1. LA TRATTAZIONE DEL PROCESSO

La trattazione è quella fase del processo civile dedicata alla


individuazione del thema decidendum e del thema probandum,
ovverosia dei fatti principali e dei mezzi di prova volti a
dimostrarli.
Nel “vecchio rito”, quello cioè successivo alle riforme del ’90-
‘95, la trattazione del merito del processo iniziava solitamente alla
seconda udienza, quella cioè “del 183”5. L’udienza “del 180” era
infatti dedicata alle verifiche preliminari in rito.
Rispetto alla riforma del ’50, il legislatore degli anni ’90 aveva
strutturato il processo secondo un rigido schema di
preclusioni, distinguendo nettamente la fase della
individuazione del thema decidendi rispetto a quella del thema

5 Nulla impediva, su accordo delle parti, di saltare una o più udienze tra quelle previste.

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probandi. Scopo dichiarato era stato quello di assicurare la


concentrazione e la speditezza del processo, evitando
possibili regressioni e continui ampliamenti.
Il fenomeno della regressione era in effetti una caratteristica
nefasta del processo post ’50; non era raro che all’udienza fissata
per la precisazione delle conclusioni una parte formulasse
richieste di prova, così riportando indietro la causa. Se oggi ci
troviamo di fronte a un processo estremamente rigido (e quello
entrato in vigore dal 1° marzo 2006 lo è ancor di più!) lo si deve
anche al comportamento sia della classe forense, che in molti casi
ha abusato di quella libertà, sia della magistratura, che non ha
saputo interpretare il potere di direzione attribuito dall’art. 175
c.p.c.6. Non sono rari processi del “vecchissimo rito” scanditi da
dieci-quindici udienze, molte delle quali di mero rinvio, ovvero di
semplice richiesta di termini per esame o per un, spesso fittizio,
“bonario tentativo di conciliazione”.
Detto questo, vediamo più da vicino che cosa sono queste
preclusioni e a che cosa si riferiscono.

Un po’ di storia7.
Il processo civile del 1865 era caratterizzato dall’assoluto
predominio delle parti, le quali erano libere di stabilire come e
quando arrivare alla decisione.
Successivamente, però, si affermò tra gli studiosi la concezione
pubblicistica del processo, tanto che i vari schemi di riforma del
codice iniziarono a prevedere, seppure in modi diversi, un sistema
di preclusioni.
Prima di arrivare all’approvazione del codice del ’40 furono redatti
diversi progetti, più o meno stringenti sotto il profilo delle
preclusioni. Il progetto Solmi del 1937 sollevò addirittura la
protesta non solo dei pratici ma anche di insigni studiosi, tra cui il

6 Ai sensi del quale “Il giudice istruttore esercita tutti i poteri intesi al più sollecito e

leale svolgimento del procedimento”.


7 Ho attinto a piene mani dal chiarissimo articolo di CEA, La trattazione della causa nel

rito ordinario, www.judicium.it, cui rimando per un approfondimento. Si veda anche


BALENA, Le preclusioni istruttorie tra concentrazione del processo e ricerca della verità,
www.judicium.it.

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Calamandrei che mosse aspre critiche al rigido sistema di


preclusioni che si voleva introdurre.
Si arrivò così all’approvazione del codice fascista, nella cui
relazione si scrisse: La concentrazione è un valore da perseguirsi
massimamente e le preclusioni sono lo strumento tecnico per il
raggiungimento dell’obbiettivo. La strada seguita fu quella dell’
italiana saggezza: respingendo da una parte quella troppo rigorosa
applicazione del principio di eventualità e di preclusione che fu
giustamente rimproverata al progetto precedente, ma notevolmente
rafforzando, a paragone del Codice precedente, le saracinesche
poste alle speculazioni dilatorie dei litiganti in mala fede.
Nel processo del ’40 la fissazione del thema decidendum e di quello
probandum con gli atti introduttivi del giudizio è solo tendenziale,
perché alla prima udienza di trattazione le parti possono precisare
e, quand’occorre, modificare le domande, le eccezioni e le
conclusioni. In ogni caso le parti possono proporre le domande e le
eccezioni consequenziali a quelle già formulate; e, quando il
giudice istruttore riconosce che sono rispondenti a fini di giustizia,
possono proporre altre eccezioni, chiedere nuovi mezzi di prova e
produrre nuovi documenti (art. 183, 1° e 2° co.). Ma non è tutto,
giacché, come disponeva l’art. 184, durante l’ulteriore corso del
giudizio, in presenza di gravi motivi, il giudice istruttore poteva
autorizzare le parti a produrre nuovi documenti, a chiedere nuovi
mezzi di prova e proporre nuove eccezioni che non fossero precluse.
Caduto il fascismo, la reazione investì anche il codice di procedura
civile. La riforma del ’50 eliminò il rigido sistema di preclusioni.
Tuttavia, non si spensero le voci che vedevano nella
“controriforma” - come da taluni venne chiamata la riforma del ’50
- la causa principale dei mali della giustizia civile. Il primo passo
vittorioso avvenne con l’approvazione della legge 533/73 che
introdusse il rito del lavoro, che è l’applicazione più estrema nel
nostro ordinamento del principio di preclusione ed è proprio il rito
del lavoro il modello cui avrebbe dovuto ispirarsi la riforma del
rito ordinario.
E così arriviamo agli anni ’90 e alla promulgazione della legge
353/90. Il modello di riferimento è il processo del lavoro così come
delineato dalla riforma del 1973, anche se con qualche
mitigazione. Ma la legge ebbe una gestazione travagliata,
incontrò forti opposizioni del ceto forense e finì per applicarsi solo
alle controversie instaurate dopo il 30 aprile 1995, con importanti
modifiche che la portarono ben lontana dal modello del rito del
lavoro. Il modello di trattazione che ne uscì era per certi aspetti
irrazionale, perché l’udienza di assunzione delle prove era
preceduta quasi sempre da almeno quattro udienze in cui
sostanzialmente non accadeva nulla di rilevante.
A questi inconvenienti si è tentato di rimediare con le riforme del
2005.

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2. LE PRECLUSIONI IN GENERE

Nel codice di procedura, l’unico articolo che contiene il


sostantivo “preclusioni” è il 269, ultimo comma, il quale recita:
Nell'ipotesi prevista dal terzo comma restano ferme per le parti le
preclusioni ricollegate alla prima udienza di trattazione, ma i
termini eventuali di cui al sesto comma dell'articolo 183 sono
fissati dal giudice istruttore nella udienza di comparizione del
terzo.
Si fa riferimento, poi, ad attività “precluse” nel primo comma
dell’art. 294, là dove si dice che il contumace che si costituisce in
giudizio non può compiere attività che gli sarebbero “precluse”,
salvo il caso in cui dimostri che la nullità della citazione o della
sua notificazione gli abbia impedito di avere conoscenza del
processo o che la costituzione è stata impedita da causa a lui non
imputabile.
Altri articoli che parlino espressamente di “preclusioni” non ve
ne sono, anche se, come vedremo, il codice ridonda di preclusioni.
Quando si parla di preclusioni ci si riferisce a quelle
situazioni soggettive in cui le parti sono decadute dalla
possibilità di compiere un’attività a causa della tardività
dell’iniziativa, della sua irritualità o della già avvenuta
consumazione del potere.

L’espressione “preclusione” trae origine dal mondo accademico e si


deve soprattutto agli studi del Chiovenda che la identificava con la
perdita, la consumazione di un diritto o di una facoltà processuale
conseguente a tre diversi ordini di cause: (a) mancato esercizio
entro un termine perentorio fissato dalla legge; (b) compimento di
attività incompatibile con l’esercizio del diritto o della facoltà che
in seguito diviene impossibile; (c) precedente valido compimento
dell’atto.
Secondo il Taruffo, invece, la preclusione andrebbe intesa soltanto
come mancato svolgimento tempestivo di un’attività, in assenza
della quale la parte non può conseguire il risultato sperato; in

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sostanza, per questo insigne Autore essa viene a coincidere con un


onere, la cui sanzione è la decadenza.

Le preclusioni possono riguardare:


 le domande e, relativamente a quest’ultime, la loro
precisazione, modificazione e mutatio;
 la chiamata in causa e l’intervento di terzi;
 le eccezioni, con l’importante distinzione tra quelle in senso
lato e quelle in senso stretto e, ancora, tra quelle in senso
proprio e quelle in senso improprio;
 le conclusioni e, anche relativamente ad esse, la
precisazione, la modificazione e la mutatio;
 le allegazioni di fatti e, tra questi, quelli principali e quelli
secondari;
 le argomentazioni difensive;
 le richieste istruttorie;
 il deposito di atti e documenti.
Non sempre il codice indica espressamente la barriera oltre la
quale non è più possibile compiere un determinato atto; in tali
casi è necessaria un’attività di interpretazione delle norme per
stabilire se quel determinato atto, difesa, eccezione, domanda
debba o meno essere compiuto a pena di decadenza entro un certo
termine.
Quando si parla di un processo fondato sulle preclusioni si
intende dire che le parti hanno l’obbligo di fissare il thema
decidendum e il thema probandum entro un termine più o meno
breve, ma comunque abbastanza prossimo, rispetto agli atti
introduttivi del giudizio.

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3. IL REGIME DI PRECLUSIONE DELLE DOMANDE

La domanda giudiziale è l’atto attraverso il quale la parte


invoca la tutela giurisdizionale, chiedendo al giudice l’emissione
di un determinato provvedimento.
Per l’attore la prima preclusione in ordine alle domande è
determinata dalla notifica della citazione (o dal deposito del
ricorso). Difatti, una volta instaurato il giudizio l’attore non
potrà più introdurre nuove domande verso il convenuto, se
non nei casi in cui ciò sia una “conseguenza” dell’attività difensiva
di quest’ultimo. In tal caso, e solo in tal caso, la prima e ultima
barriera preclusiva è rappresentata dall’udienza di
trattazione.
Secondo la Suprema Corte (n. 12545/2004), difatti, il quarto
comma (oggi quinto) dell’art. 183 c.p.c. è volto a tutelare l’attore a
fronte delle iniziative del convenuto, consentendogli di formulare
nella prima udienza di trattazione la nuova domanda o la nuova
eccezione che siano "conseguenza" della domanda riconvenzionale
o dell'eccezione proposta dal convenuto con la comparsa di
risposta. La norma – afferma espressamente la Corte - ove
contempla l'eccezione dell'avversario, va intesa riferita
all'eccezione in senso stretto, non alla semplice controdeduzione
rivolta a contestare le condizioni dell'azione, ed inoltre postula che,
rispetto a tale eccezione, la nuova domanda o la nuova eccezione
dell'attore si presentino consequenziali, vale a dire configurino
una contro-iniziativa necessaria per replicare all'eccezione
medesima.
Interessante anche il caso deciso dal Tribunale di Perugia
con sentenza del 30 luglio 2008. L’attore, committente, aveva
agito per ottenere la risoluzione del contratto di appalto. Il

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convenuto, in via riconvenzionale, aveva chiesto il pagamento del


saldo. All’udienza di trattazione l’attore aveva formulato una
domanda di risarcimento dei danni che il Tribunale ha però
dichiarato inammissibile non potendosi la stessa ricondursi
nell'alveo della <<reconventio reconventionis>>.
Ovviamente, nulla impedisce all’attore di proporre un
autonomo giudizio.
Alla luce di quanto testé detto, pertanto, affinché la nuova
domanda dell’attore possa essere ritenuta ammissibile,
occorre che sia conseguenza della eccezione in senso
proprio o della domanda riconvenzionale del convenuto.
Non sono pertanto ammessi ripensamenti, nemmeno quando la
domanda nuova sia conseguenza della domanda introduttiva (v.
esempio tratto dalla sentenza del Tribunale di Perugia).
Stesso stringente limite incontra il convenuto: la tempestiva
costituzione in giudizio rappresenta l’ultimo momento
utile per proporre domande riconvenzionali. Pertanto, il
convenuto potrà formularle solo con la comparsa di costituzione
depositata entro il termine di venti giorni prima dell’udienza di
trattazione indicata in atto di citazione o rinviata ex art. 168 bis,
V comma, c.p.c.8. La tardività delle domande potrà essere rilevata
anche d’ufficio dal giudice (Cass. civ. n. 8224/1999).

Giurisprudenza.
“L'art. 183, comma quarto, c.p.c. consente all'attore, nella prima
udienza di trattazione, di proporre le sole domande e le eccezioni,
anche nuove, che siano conseguenza della domanda
riconvenzionale o delle eccezioni proposte dal convenuto, ma non
attribuisce alle parti la facoltà di proporre domande nuove che
potessero essere proposte già con la citazione o la comparsa di
risposta (v. Cass. 30 luglio 2004 n. 14581, 18 marzo 2003 n. 3991)”,
Cass. civ. 17699/2005.

8 La giurisprudenza è ferma nel negare la tempestività della costituzione avvenuta

entro il termine di venti giorni prima dell'udienza rinviata ai sensi dell'art. 168 bis IV
comma.

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Tuttavia, a differenza dell’attore, il convenuto non può


proporre domande conseguenti alle domande ed eccezioni
nuove dell’attore (c.d. reconventio reconventionis e reconventio
exceptionis), in quanto – come meglio vedremo in seguito – nella II
memoria ex art. 183 c.p.c. egli potrà sollevare solo nuove eccezioni,
né tale potere è attribuito nella prima udienza di trattazione9.
Il divieto di proporre domande nuove conosce, tuttavia,
un’importante deroga, cioè l’ipotesi prevista dall’art. 1453 c.c.,
ritenuta dalla giurisprudenza prevalente sulle norme di rito.
Detta disposizione consente di mutare la domanda di
adempimento del contratto in domanda di risoluzione e la
Cassazione ha più volte ribadito che tale mutatio può essere
esercitata sia in appello, sia nell’eventuale giudizio di rinvio ex
art. 383 c.p.c.10.

3.1 Segue: precisare, modificare, mutare la domanda


Fino a qui abbiamo esaminato le preclusioni con riguardo alle
domande nuove. Analizziamo ora l’attività di precisazione e di
modificazione della domanda, posto che anche tali attività non
possono essere compiute ad libitum.
Le parti, infatti, hanno la possibilità di precisare e di
modificare le loro domande sino al I termine ex art. 183, VI
comma, c.p.c.. Pertanto, la c.d. prima memoria “del 183”
rappresenta la barriera preclusiva per dette attività.

9 In dottrina, tuttavia, si registrano posizioni più aperte; v. CAPPONI, L’art. 183 c.p.c.
dopo le “correzioni” della legge 28 dicembre 2005, n. 263, www.judicium.it; BRIGUGLIO, Il
nuovo rito ordinario di cognizione: meno udienze, più preclusioni; (dalla l. n. 80/2005
alla l. n. 263/2005), www.judicium.it;
10 La disposizione si applica anche nei giudizi in opposizione a decreto ingiuntivo;

pertanto, il creditore opposto può sostituire alla domanda di ingiunzione la domanda di


risoluzione del contratto; v. Cass. civ. n. 9941/2006.

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Ma questo lo vedremo meglio quando analizzeremo detto


articolo. Qui appare opportuno soffermarsi sui concetti di
precisazione e modificazione della domanda e di mutatio libelli,
senza alcuna pretesa di affrontare compiutamente l’esame di una
questione tra le più travagliate in dottrina e in giurisprudenza.
Precisare la domanda (o l’eccezione) significa
sostanzialmente allegare nuovi fatti secondari.
Riporto a tal proposito gli esempi del Luiso, tratti dal suo
celebre manuale11:

Esempio 1: richiesto il risarcimento dei danni derivati da un


incidente stradale, rientra nel concetto di precisazione ogni
ulteriore introduzione in giudizio delle modalità di svolgimento
dell'incidente stesso.
Esempio 2: chiesto l'annullamento del contratto per dolo,
costituisce precisazione ogni elemento relativo all'artificio raggiro
perpetrati.
Esempio 3: fatta valere in giudizio usucapione di un diritto, si ha
precisazione quando si allegano fatti storici relativi alle modalità
del possesso.

Parliamo, invece, di modificazione della domanda


allorquando la parte alleghi in giudizio nuovi fatti storici
principali, cioè nuovi e diversi elementi costitutivi della
fattispecie del diritto fatto valere.
Tuttavia, l’allegazione in giudizio di un nuovo fatto costitutivo
potrebbe in alcuni casi determinare una mutatio libelli, come tale
vietata. A tal fine, è importante richiamare la distinzione tra
diritti autoindividuati e diritti eteroindividuati. I diritti
autoindividuati si identificano in base al loro contenuto e per essi
è irrilevante il modo di acquisto (ad es. il diritto di proprietà e gli
altri diritti reali; i diritti della personalità); i diritti
eteroindividuati si identificano, invece, proprio in base ai fatti
costitutivi (ad es. i diritti credito).

11 LUISO, Diritto processuale civile, Giuffré, 2000.

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Nei diritti autoindividuati non è necessario stabilire in virtù di


quale fattispecie il diritto è sorto. Il proprietario che agisce in
rivendica è tenuto a dimostrare il proprio diritto di proprietà, ma
è indifferente che questo derivi da contratto, successione,
accessione, usucapione, ecc.. Ciò che conta è che egli sia
proprietario.

Per i diritti autoindividuati è pacifica la possibilità di


allegare in giudizio altre fattispecie acquisitive – quanto meno
fino alla I memoria “del 183”; al contrario, ciò non è possibile per i
diritti eteroindividuati. Difatti, per questi, l’allegazione di un
fatto nuovo introduce una nuova domanda.

Esempio.
Se formulo una domanda di restituzione di un bene allegando la
cessazione di un contratto di locazione, non potrò poi richiedere la
restituzione dello stesso bene allegando l’esistenza di un contratto
di comodato. Difatti, la consegna di una cosa a titolo di locazione
rappresenta un fatto del tutto diverso dalla consegna di una cosa a
titolo di comodato. Diversi sono gli effetti che derivano dai due
contratti e dunque diversa è la causa petendi.

Per introdurre il concetto di mutatio libelli riporto


testualmente una massima della Suprema Corte la quale ha
affermato: si ha domanda nuova quando si avanzi una pretesa
obiettivamente diversa da quella originaria, introducendo nel
processo un "petitum" diverso e più ampio oppure una "causa
petendi" fondata su situazioni giuridiche non prospettate prima e
in particolare su un fatto costitutivo radicalmente differente, di
modo che si ponga un nuovo tema d'indagine e si spostino i
termini della controversia, con l'effetto di disorientare la difesa
della controparte ed alterare il regolare svolgimento del processo;
si ha, invece, semplice “emendatio” quando si incida sulla "causa
petendi", sicché risulti modificata soltanto l'interpretazione o
qualificazione giuridica del fatto costitutivo del diritto, oppure sul
"petitum", nel senso di ampliarlo o limitarlo per renderlo più

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idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della pretesa fatta


valere (Cass. civ. n. 7524/2005).
Scomponendo la massima si ricava che per la Corte si ha
mutatio libelli allorquando si introduce nel processo: (a) una
pretesa obiettivamente diversa; (b) un petitum diverso e più
ampio; (c) situazioni giuridiche non prospettate prima; (d) un fatto
costitutivo radicalmente diverso.
Si ha invece semplice emendatio: (a) quando si incide sulla
causa petendi modificando l’interpretazione o la qualificazione
giuridica del fatto costitutivo; (b) quando si amplia o si limita il
petitum.
A questo punto, appare indispensabile richiamare le nozioni di
petitum e di causa petendi.
Il petitum è ciò che si chiede al giudice e suole distinguersi in
immediato e mediato. Il petitum immediato è il provvedimento
richiesto (la condanna, l’accertamento mero, il sequestro); il
petitum mediato è, invece, il concreto bene della vita (es. la
somma di danaro; il bene di cui si chiede la restituzione;
l’eliminazione dei vizi).
Ben più complessa è la nozione di causa petendi. Mi avvarrò
delle parole del Mandrioli12. Per questo insigne Autore la causa
petendi è la ragione del domandare, il titolo giuridico in forza del
quale si chiede il petitum, che è dato dal fatto costitutivo e che non
va confuso con la norma giuridica. Quest'ultima, infatti, è il
presupposto da cui discende la possibilità di conseguire un
petitum sulla base di un fatto costitutivo. Ciò è stato confermato
dalla S.C. la quale ha affermato che la precisazione della causa
petendi non richiede che da parte attrice siano correttamente
indicate le norme applicabili al caso ed i relativi istituti giuridici,

12 MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, Giappichelli, 1991.

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essendo invece sufficiente la chiara indicazione, in termini


sostanziali, dei fatti costitutivi del diritto autoindividuato
azionato, (v. Cass. civ. n. 12258/02).
Non sempre, tuttavia, il fatto costitutivo è sufficiente per
individuare la causa petendi. Talvolta, concorre alla sua
individuazione il fatto lesivo.

Esempio:
Tizio agisce in rivendica contro Caio perché questi gli ha sottratto
una mucca. Successivamente, Tizio, ottenuta nel frattempo la
restituzione della mucca, agisce nuovamente in rivendica contro
Caio, perché questi gli ha sottratto nuovamente lo stesso bovino.
Si tratta di azioni identiche se non fosse per la causa petendi
passiva, cioè il fatto lesivo.

In genere, nei diritti relativi, quelli cioè che spettano ad un


soggetto nei confronti di una o più persone determinate o
determinabili, ad ogni fatto costitutivo corrisponde una diversa
causa petendi.
Diverso, come abbiamo poc’anzi visto, è il caso dei diritti
assoluti, ad esempio il diritto di proprietà. Qui, qualunque sia il
fatto costitutivo (successione, compravendita, donazione) il diritto
di proprietà rimane sempre lo stesso.

Ciò, naturalmente, non significa che per i diritti autoindividuati la


parte possa ad libitum cambiare i fatti costitutivi.
Se, ad esempio, l’attore agisce in rivendica in forza di un titolo
negoziale, non potrà all’udienza di precisazione delle conclusioni
allegare, in caso di invalidità dell’atto, che il suo diritto di
proprietà si fonda sull’usucapione, in quanto il mutamento va fatto
comunque entro il termine per la fissazione del thema
decidendum. Si è però osservato che in caso di mancata
opposizione del convenuto non avrebbe senso precludere questa
possibilità, qualora detta circostanza risulti dalle prove
testimoniali acquisite e dunque non influisca sul principio di
concentrazione e corretto andamento del processo13.

13 Così CEA, La trattazione della causa con il rito ordinario, www.judicium.it.

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Fatta questa brevissima ricostruzione teorica, vediamo


qualche esempio tratto dalla giurisprudenza della S.C.,
sottolineando che nella pratica la distinzione tra modificazione e
mutatio della domanda talvolta è tutt’altro che semplice.
È stata ritenuta una emendatio libelli, ad esempio:
 il passaggio dalla richiesta di condanna in forma specifica a quella per
equivalente e viceversa (Cass. civ. n. 12964/2005);
 il mutamento della qualificazione giuridica della pretesa (Cass. civ. n.
5006/2004);
 la richiesta degli interessi legali su una obbligazione pecuniaria (Cass. civ.
n. 5570/2003);
 la richiesta di servitù con mezzi meccanici a fronte di una originaria
richiesta di servitù generica (Cass. civ. n. 8083/2002);
 la sostituzione della domanda di cui all’art. 2932 c.c. con la domanda volta
a far dichiarare l’avvenuto trasferimento della proprietà in forza della
stessa scrittura, presentata inizialmente come preliminare e poi come
contratto di compravendita (Cass. civ. n. 7383/2001);
 la generica richiesta di risarcimento per fatto illecito della P.A. e la
successiva specificazione del fatto fonte di responsabilità (Cass. civ. n.
17382/2002);
 la richiesta di annullamento del contratto, anziché di nullità, fondata sugli
stessi fatti (Cass. civ. n. 16708/2002);
 la richiesta di annullamento del licenziamento per giusta causa, rispetto
all’azione di nullità (Cass. civ. n.10316/2002).
Sono state invece ritenute domande nuove, come tali vietate:
 la domanda di risoluzione del contratto in forza di una clausola risolutiva
espressa, proposta dopo aver domandato la risoluzione per inadempimento
(Cass. civ. n. 167/2005);
 la domanda del maggior danno da svalutazione monetaria ai sensi dell’art.
1224 c.c., allegando per la prima volta la propria natura imprenditoriale
(Cass. civ. n. 25365/2006);
 la domanda di risoluzione del contratto avanzata dopo aver chiesto il solo
risarcimento del danno (Cass. civ. n. 17144/2006);
 la domanda di accertamento della comunione tacita familiare formulata
dopo aver chiesto la semplice divisione del bene comune (Cass. civ. n.
514/2006);

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 la domanda di condanna del convenuto in base all’art. 2050 c.c., che


disciplina la presunzione di responsabilità in materia di attività pericolose,
spiegata dopo aver chiesto la condanna per responsabilità da fatto illecito
ex art. 2043 c.c. (Cass. civ. n. 8095/2006);
 la domanda di condanna del dipendente ai sensi dell’art. 2049 c.c.
introdotta dopo aver proposto la domanda di condanna per cose in custodia
(Cass. civ. n. 4977/79);
 la richiesta di annullamento del contratto per dolo rassegnata dopo aver
inizialmente richiesto l’annullamento per violenza (Cass. civ. n. 6301/1984);
 la domanda di risarcimento del danno alla persona rispetto alla domanda di
risarcimento del danno a cose (Cass. civ. n. 9370/2000);
 la deduzione, nel procedimento di opposizione all’ordinanza ingiunzione, di
vizi dell’ordinanza che ne comportano l’annullamento, rispetto alla
originaria deduzione di legittimità del comportamento (Cass. civ. n.
5684/2000);
 la richiesta di nullità del licenziamento per inosservanza della procedura
prevista a fronte della domanda di illegittimità per difetto di giusta causa
(Cass. civ. n. 2363/2003).
Gli esempi rinvenibili nella giurisprudenza sono tantissimi (e
non sempre coerenti) tanto che potremmo continuare per ore ad
elencare tutti i casi in cui una domanda è stata ritenuta nuova o
semplicemente modificata rispetto a quella precedentemente
proposta.
Ciò che qui è importante ricordare è che a partire dal rito post
riforme anni ’90-’95 le domande nuove devono essere
dichiarate inammissibili anche in presenza del consenso,
espresso o tacito, dell’altra parte.
La ragione di ciò, si dice, riposa sul fatto che l'intera
trattazione è improntata al perseguimento delle esigenze di
concentrazione e speditezza che non tollerano - in quanto
espressione di un interesse pubblico - l'ampliamento successivo
del thema decidendi, anche se su di esso si venga a registrare il
consenso dell'altra parte (Cass. 11 maggio 2005, n. 9875).

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Si tratta, però, di un’affermazione che nella sua assolutezza


non considera le ipotesi in cui la mutatio non determini affatto un
rallentamento del processo o una violazione del contraddittorio,
ad esempio perché, da un lato, non è necessaria un’attività
istruttoria ulteriore e, dall’altro, perché la controparte ha preso
una specifica posizione sulla nuova domanda. Non si
comprende, in questi casi, per quale ragione si debba
sanzionare così severamente un’attività che non ha leso
nessun principio e nessuna parte.

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4. IL REGIME DI PRECLUSIONE DELLE ECCEZIONI

E veniamo ad un tema fondamentale, quello cioè del regime di


preclusione delle eccezioni.
Come si ricorderà, nel processo ante riforme del 2005-2006 il
convenuto aveva tempo sino alla memoria di cui all’art. 180 c.p.c.
per proporre le eccezioni processuali e di merito non rilevabili
d’ufficio; termine, questo, perentorio e solitamente fissato in venti
giorni prima della udienza di trattazione.
Pertanto, le attività difensive che il convenuto doveva svolgere
a pena di decadenza in comparsa di risposta, costituendosi
tempestivamente in giudizio almeno venti giorni prima
dell’udienza indicata in citazione o rinviata ai sensi dell’art. 168
bis V comma, erano sostanzialmente due:
(a) la proposizione di eventuali domande riconvenzionali (art.
167 c.p.c.);
(b) la dichiarazione di voler chiamare in causa un terzo, con
richiesta di differimento della prima udienza (artt. 167 e 269
c.p.c.).
Relativamente all’eccezione di incompetenza territoriale
derogabile del giudice adito (art. 38, II comma, c.p.c.) era sorto
un contrasto di giurisprudenza, in quanto alcune pronunce14
individuavano nella comparsa di costituzione tempestivamente
depositata il termine ultimo per la sua proposizione, altre15,
invece, ritenevano che la preclusione fosse da ancorare all’udienza
di prima comparizione (art. 180 c.p.c.). Il contrasto è stato risolto
dalle Sezioni Unite (sent. 12 maggio 2008 n. 11657) le quali

14In questo senso,tra le altre, Cass. civ. n. 2672/2004; Cass. civ. n. 6849/2003 e Cass. civ.
n. 1177/2002.
15 v. Cass. civ. n. 2852/2003.

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hanno stabilito il principio che l'eccezione di incompetenza per


territorio derogabile è formulata tempestivamente nella comparsa
di costituzione, anche se essa è depositata con la costituzione del
convenuto fino alla prima udienza. Successivamente alla entrata
in vigore del D. L. n. 35 del 2005, l'eccezione è tempestivamente
proposta soltanto se contenuta nella comparsa di risposta
depositata almeno venti giorni prima dell'udienza di
comparizione. Le Sezioni Unite hanno dunque aderito al
secondo orientamento richiamato.
A queste due preclusioni collegate al primo atto difensivo del
convenuto, la riforma del 2005 ha aggiunto, come poc’anzi visto,
quella relativa all’eccezione di competenza territoriale derogabile
e una quarta, molto importante, relativa alle cd. eccezioni in
senso stretto. Il nuovo art. 167, II comma, c.p.c. dispone, infatti,
che le eccezioni processuali e di merito che non siano
rilevabili d’ufficio possono essere sollevate, a pena di
decadenza, solo in comparsa di risposta16.
Pertanto, attualmente con la comparsa di costituzione e
risposta il convenuto ha l’onere di:
(a) proporre eventuali domande riconvenzionali;
(b) dichiarare di voler chiamare in causa un terzo, con
richiesta di differimento della prima udienza;
(c) formulare l’eccezione di incompetenza territoriale
derogabile;
(d) sollevare le eccezioni processuali e di merito non
rilevabili d’ufficio.
È bene ancora una volta ricordare che il convenuto decade
dalle suddette facoltà laddove non si costituisca entro il termine

16Per GRAZIOSI, in Appunti sulla nuova fase preparatoria del processo, www.judicium.it
è da accogliere con favore l'aver imposto al convenuto di formulare le proprie eccezioni
sin dalla comparsa di costituzione e risposta.

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di venti giorni dalla udienza indicata in citazione, ovvero


da quella rinviata ai sensi dell’art. 168 bis, V comma, c.p.c..
Deve invece considerarsi tardiva la costituzione - e
conseguentemente inammissibili le domande riconvenzionali, le
eccezioni in senso stretto e la richiesta di chiamata in causa del
terzo - nel caso in cui la comparsa sia depositata venti giorni
prima dell’udienza rinviata ai sensi del IV comma dell’art. 168 bis
c.p.c..

Per la Suprema Corte, la mancata equiparazione delle rispettive


ipotesi di cui al quarto e quinto comma dell'art. 168 bis c.p.c. non
può ascriversi a mera svista del legislatore (come sostenuto dalla
dottrina), perché emerge con sufficiente chiarezza la ratio della
diversa considerazione, ascrivibile al fatto che solo l'udienza
indicata in citazione e quella fissata con apposito decreto dal
giudice designato risultano espresse in atti scritti idonei a
determinare conoscenze certe, a differenza di quanto avviene per i
rinvii d'ufficio, non soggetti a comunicazioni di sorta e desumibili
solo dalla previsione generale del calendario giudiziale (Cass. civ.
n. 12490/2007).

Il disegno di legge 1441-B bis, in corso di approvazione,


prevede la modifica dell’art. 38 c.p.c. stabilendo che anche
l’incompetenza per materia, per valore e per territorio
inderogabile debbano essere eccepite a pena di decadenza nella
comparsa di costituzione e risposta tempestivamente depositata.
Quando l’art. 167 c.p.c. parla di eccezioni si riferisce
solo a quelle già sollevabili con la notificazione della
citazione, come ad esempio l’eccezione di incompetenza per
territorio derogabile, di prescrizione, di compensazione, di
decadenza. Sarebbe incostituzionale, infatti, impedire al
convenuto di proporre eccezioni su domande e fatti emersi in
epoca successiva alla sua costituzione. Si legga a tal proposito la
massima che segue.

Giurisprudenza.

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“Se, infatti, ai sensi della prima parte del comma 4 dell'art. 183
c.p.c., l'attore non incontra preclusioni e può proporre domande ed
eccezioni nuove in quanto esse siano conseguenza della domanda
riconvenzionale e delle eccezioni proposte dal convenuto,
introducenti una situazione ulteriore rispetto a quella individuata
con la citazione (Cass. 18 marzo 2003 n. 3991), analogamente deve
ritenersi, al fine di una interpretazione della norma in armonia
con i precetti costituzionali e con il rispetto del principio
fondamentale del contraddittorio, che nuove eccezioni possono
essere formulate dalle parti, anche una volta scaduto il termine di
cui all'art. 180, comma 2, c.p.c., ogniqualvolta le stesse siano
conseguenza di produzioni documentali della controparte tali da
introdurre una nuova situazione, rispetto a quella emergente
rispetto a quanto enunciato negli scritti difensivi originari”, così
Cass. civ. n. 6756/2004

4.1 Segue: eccezioni in senso stretto e in senso lato


Il legislatore della riforma non ha preso ovviamente posizione
in merito al delicato e mai chiuso problema di quali siano le
eccezioni non rilevabili d’ufficio. Permettetemi di
approfondire tale aspetto, facendo prima una brevissima
digressione sull’eccezione.
Sotto un primo generale aspetto, per eccezione si intende
qualunque difesa della quale la parte si serva per ottenere
il rigetto della domanda avversaria.
Non di rado, infatti, lo stesso legislatore usa il termine
eccezione per indicare la contestazione dei fatti costitutivi (v., ad
esempio, gli artt. 1271, 1272, 1273, 1462, 1945, 1993 cod. civ.).
Così intesa, rientra in tale categoria concettuale ogni istanza e
difesa con funzione di contrasto rispetto alla domanda avversaria.
In tale contesto si collocano le argomentazioni difensive,
l'allegazione o negazione di fatti, l’applicazione o meno di una
norma, ecc..
Si parla in questi casi di eccezioni in senso improprio
ovvero di mere difese che non richiedono alcun onere di
allegazione e prova.

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In buona sostanza, con la mera difesa la parte nega il fatto


costitutivo della pretesa avversaria, con l’effetto che graverà
sull’altra l’onere di provare i fatti costitutivi della domanda.

Giurisprudenza.
“La nullità della clausola anatocistica di capitalizzazione
trimestrale degli interessi sui saldi passivi, inserita nel contratto
di conto corrente bancario da cui deriva il credito azionato in
giudizio, è rilevabile d'ufficio dal giudice anche in grado di appello,
rimanendo irrilevante, a tal fine, l'assenza di una deduzione (o di
una tempestiva deduzione) del profilo di invalidità ad opera
dell'interessato, la quale rappresenta una mera difesa, inidonea a
condizionare, in senso positivo o negativo, l'esercizio del potere - di
rilievo officioso della nullità del contratto”, (Cass. civ. n.
11466/2008).

Un particolare tipo di eccezione è l'eccezione


riconvenzionale la quale esprime una richiesta che, pur
rimanendo nell'ambito della difesa, amplia il tema della
controversia ma all’unico fine della reiezione della domanda,
opponendo al diritto fatto valere dall'attore un diritto idoneo a
paralizzarlo.

Esempio.
Il convenuto in rivendicazione oppone di aver usucapito
l’immobile, senza tuttavia domandarne l’accertamento.

La nozione di eccezione di merito o sostanziale in senso


proprio si ricava, invece, dall'art. 2697 c.c. secondo cui chi
eccepisce l'inefficacia dei fatti costitutivi del diritto azionato,
ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto, deve
provare i fatti su cui l'eccezione si fonda. Pertanto, alla luce di tale
dato normativo, si definiscono eccezioni sostanziali in senso
proprio quelle che consistono nella richiesta di una decisione
negativa su una domanda altrui in forza di fatti impeditivi,
modificativi ed estintivi del diritto.

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I fatti impeditivi sono quei fatti, contestuali al sorgere del


diritto, che ne impediscono la venuta ad esistenza. Un esempio è
nell’art. 905 del c.c. in tema di “Distanza per l'apertura di vedute
dirette e balconi”. L’ultimo comma stabilisce che il divieto di aprire
vedute dirette verso il fondo del vicino cessa allorquando tra i due
fondi vicini vi è una via pubblica. L’esistenza di una via pubblica
rappresenta pertanto un fatto impeditivo. Per la verità, talvolta
un fatto può rappresentare sia un elemento costitutivo che un
fatto impeditivo. Si pensi alla colpa che è sicuramente uno degli
elementi occorrenti perché sorga il diritto al risarcimento del
danno, tanto nella responsabilità contrattuale quanto in quella
aquiliana: essa è un fatto costitutivo della domanda nella
responsabilità contrattuale, con conseguente onere probatorio a
carico dell’attore, mentre è un fatto impeditivo nella responsabilità
contrattuale, come tale a carico del convenuto.
I fatti estintivi sono quei fatti, successivi al sorgere
dell’obbligazione, che ne determinano l’estinzione (ad es.
pagamento, remissione del debito, cessione del credito).
I fatti modificativi sono quei fatti che modificano il diritto,
determinando conseguenze giuridiche diverse da quelle postulate
dall’attore. Ad esempio, in tema di contratti agrari, la parte
convenuta assume che il contratto associativo si è convertito in
affitto.

Venendo alla disciplina processuale, l'art. 112 del codice di


rito, intitolato Corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato,
recita: Il giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre
i limiti di essa e non può pronunciare d'ufficio su eccezioni, che
possono essere proposte soltanto dalle parti.
Come si vede, la disposizione citata afferma implicitamente
l'esistenza di due categorie di eccezioni in senso proprio, dando
per presupposto il loro significato e cioè:
 quelle sulle quali il giudice può pronunciarsi ex officio
(eccezioni in senso lato);
 quelle che possono essere proposte solo dalle parti (eccezioni
in senso stretto).
In relazione alle eccezioni di merito in senso proprio e
stretto va subito ricordato che il giudice non può pervenire al
rigetto della domanda sulla base di fatti impeditivi,

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modificativi o estintivi i quali, ancorché risultanti ex actis,


non vengano allegati dalla parte.

Esempio.
Pensiamo alla eccezione di prescrizione che è una tipica “eccezione
in senso proprio e in senso stretto”. Anche laddove dagli atti
emergesse il decorso del termine, il giudice non potrebbe
dichiarare l'estinzione del diritto in assenza di allegazione della
parte.
E ancora, si pensi alla compensazione. Se il convenuto produce un
pagherò cambiario scaduto emesso dall’attore, ma non allega
espressamente di essere a sua volta creditore in forza di quel
titolo, il giudice non può dichiarare la compensazione.

Per completezza, va qui ricordato che all’interno della


categoria delle eccezioni in senso proprio e in senso stretto, cioè
non rilevabili d’ufficio, vi è una sottocategoria in cui non basta la
semplice allegazione, ma occorre qualcosa in più e cioè una vera
e propria manifestazione di volontà volta a conseguire una
modificazione della realtà. In altre parole, per conseguire il
risultato difensivo occorre che l'interessato scelga se conservare la
situazione giuridica esistente, ovvero ottenere che, secondo la
norma di previsione, si produca quella nuova.
Rappresentano un esempio di questa tipologia di eccezioni le
azioni costitutive, come quelle di cui agli artt. 1442, ultimo comma
e 1449, secondo comma cod. civ., ove si prevede la facoltà del
convenuto di proporre, rispettivamente, un'eccezione di
annullamento e di rescissione del contratto. Ed è opinione
diffusa in dottrina che analoga situazione sia configurabile con
riguardo alle eccezioni di risoluzione del contratto per
eccessiva onerosità (art. 1467 c.c.); di revocatoria (art. 2901
c.c.); di riduzione di disposizioni testamentarie (art. 557
c.c.).
In altri termini, in questi casi il legislatore costruisce la
fattispecie in modo tale che la presenza di determinate circostanze

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non ha una autonoma efficacia produttiva della nuova situazione


sostanziale, ma la consegue solo se vi è una manifestazione di
volontà dell'interessato.

Esempio:
Tizio conviene Caio per ottenere l’esecuzione del contratto. Caio
eccepisce (e in seguito prova) che ha stipulato il contratto in stato
di bisogno; che Tizio, pienamente consapevole di ciò, se ne è
approfittato e che la lesione eccede la metà del valore della
prestazione. Tuttavia, Caio si limita a chiedere il rigetto della
domanda avversaria e non invece la rescissione del contratto per
lesione ex art. 1448 c.c.. In questo caso, il giudice non potrà
rescindere il contratto, essendo mancata una manifestazione di
volontà in tal senso.

Alla luce di quanto finora detto, sono pertanto eccezioni in


senso stretto:
a) quelle definite tali dalla legge;
b) quelle c.d. ad impugnandum jus con cui si fa valere contro la
domanda dell'altra parte un diritto che potrebbe azionarsi
separatamente in via autonoma, e il cui esercizio si configura
come necessario perché si verifichi un mutamento della
situazione giuridica (Cass. civ. n. 1320/2000).

Ma torniamo all’art. 112 c.p.c.. Detto articolo, secondo cui il


giudice non può pronunciare d'ufficio su eccezioni che possono
essere proposte soltanto dalle parti, suole essere considerato una
norma in bianco: sarà pertanto il giudice a dover stabilire
se l’eccezione è rilevabile d’ufficio oppure no.
Talvolta è lo stesso legislatore ad esonerare l'interprete da
questo non sempre facile compito, escludendo espressamente la
rilevabilità d'ufficio; così, fra i numerosi possibili esempi (alcuni
dei quali già evidenziati), prevedono una eccezione in senso
proprio:

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 l'art. 1242, I comma, cod. civ. quanto all'eccezione di


compensazione;
 l'art. 1442, IV comma, cod. civ. quanto all'eccezione di
annullabilità del contratto;
 l'art. 1460, I comma, cod. civ. quanto all'eccezione di
inadempimento;
 l'art. 2938 cod. civ. quanto all'eccezione di prescrizione;
 l’art. 2969 cod. civ. quanto all’eccezione di decadenza.
Al di fuori dei casi nei quali l'interprete deve semplicemente
uniformarsi alla chiara lettera della legge e di quelli in cui
l’eccezione corrisponde ad un diritto che potrebbe azionarsi
separatamente (v. supra), la nozione di eccezione in senso stretto
è rimasta a lungo controversa anche nella giurisprudenza della
Corte regolatrice la quale, tuttavia, con la sentenza pronunciata a
Sezioni Unite il 3 febbraio 1998 n. 1099 ha sancito che l'art.
112 c.p.c. è una norma di rinvio alle disposizioni che prevedono
caso per caso l'indispensabile iniziativa della parte, senza che sia
necessario o possibile per l'interprete la ricerca di un principio
unitario che informi quei casi. Ciò essenzialmente per due ragioni:
 la prima è che non è possibile individuare un minimo comune
denominatore alle diverse fattispecie di eccezioni in senso
stretto disseminate nel codice;
 la seconda è che l’art. 112 è formulato in modo da far apparire
normale la pronuncia sulle eccezioni ed eccezionale quella in
cui sia riservata alla iniziativa di parte17.
Pertanto, le eccezioni sono sempre rilevabili d’ufficio, a
meno che il rilievo di parte sia stabilito dalla legge o sia
ricavabile dal tenore letterale della norma o sulla base di
argomentazioni logico-sistematiche.

17 In tal senso v. anche LUISO, Diritto processuale civile, Giuffrè, 2000.

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Venendo agli esempi, sono state ritenute ipotesi di eccezioni


di merito in senso proprio e in senso stretto:
 la presupposizione contrattuale (Cass. civ. n. 3908/2000);
 l’inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator (Cass. civ. n.
2860/2008);
 l’eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. (Cass. civ. n. 11728/2002);
 la decadenza dalla garanzia per i vizi della cosa venduta ex art. 1490
c.c. (Cass. civ. n. 10228/2002);
 la negazione della titolarità del rapporto contrattuale (Cass. civ. n.
19170/2005);
 l’aggravamento del danno da parte del creditore ex art. 1227, II comma,
c.c. (Cass. civ. n. 8997/2003 che ribalta un orientamento consolidatosi in
senso contrario – e quindi in termini di eccezione in senso stretto – ed
espressosi, da ultimo, attraverso Cass. civ. n. 2868/2003).
Ipotesi di eccezioni di merito in senso proprio e in senso
lato sono:
 l’interruzione della prescrizione (Cass. civ. n. 15661/2005);
 il fatto estintivo sopravvenuto diverso dalla prescrizione: pagamento,
novazione, transazione, datio in solutum (per la novazione v. Cass. civ.
n. 3026/1999; contra, per la rimessione, v. Cass. civ. n., 1110/1999 che
giunge a tale conclusione affermando come l’effetto estintivo, essendo
riconducibile ad un atto di volontà del debitore, darebbe luogo ad una
sorta di diritto potestativo del debitore, così da far dipendere da
quest’ultimo l’operare dell’effetto estintivo medesimo);
 la risoluzione consensuale del contratto (Cass. civ. n. 12075/2007);
 la contestazione della durata del possesso ai fini dell’usucapione (Cass.
civ. n. 5487/2004);
 la rinuncia alla prescrizione (Cass. civ. n. 4804/2007);
 il fatto colposo del creditore ex art. 1227, I comma c.c. (Cass. civ. n.
15382/2006);
 la compensatio lucri cum damno (Cass. civ. n. 2112/2000);
 l’inoperatività della polizza assicurativa (Cass. civ. n. 1967/2000);
 l’eccezione di nullità del contratto ogni qual volta la domanda attorea
abbia ad oggetto un credito scaturente da quel contratto (Cass. civ. sez.
un. n. 21095/2004);

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 il mancato avveramento della condizione sospensiva (Cass. civ. n.


2214/2002);
 la mancata iscrizione nell’albo del professionista che richiede un
compenso (per l’ipotesi del mediatore v. Cass. civ. n. 3127/2008);
 il superamento del limite di massimale, nelle cause in cui è parte il
Fondo di garanzia vittime della strada (Cass. civ. n. 17977/2007);
 in tema di impugnazione dell'espulsione amministrativa dello
straniero, l'affermazione della mancata conoscenza della lingua italiana
nella quale è comunicato il provvedimento espulsivo privo di traduzione
(Cass. civ. n. 12812/2003).

Anche per le eccezioni di rito vale la distinzione tra eccezioni


in senso stretto ed eccezioni in senso lato.
Sono, ad esempio, eccezioni di rito in senso stretto quelle:
 di compromesso (Cass. civ. n. 10925/2001);
 di incapacità del teste (Cass. civ. n. 8358/2007);
 di tardività del disconoscimento della scrittura privata (Cass. civ. n.
6968/2006);
 di inosservanza delle limitazioni inerenti all'ammissibilità della prova
testimoniale ove il contratto abbisogni della forma scritta ad
probationem (Cass. civ. n. 3392/2004).
Sono esempi di eccezioni di rito in senso lato, come tali
rilevabili d'ufficio18:
 il difetto della giurisdizione nei confronti della pubblica
amministrazione o del giudice speciale (art. 37 c.p.c.);

18 La giurisprudenza della Suprema Corte ha ammesso la rilevabilità d'ufficio da parte


del giudice dell'appello, anche al di fuori di specifica deduzione della parte nei limiti e
secondo le regole proprie del mezzo di gravame: dei vizi del procedimento rientranti
nelle ipotesi tassativamente previste dall'art. 354 c.p.c., comma 1 (Cass., Sez. 2^, n.
8232 del 1997, cit.); dell'omessa regolare notificazione del ricorso introduttivo del
giudizio civile, in mancanza della costituzione del convenuto nel primo grado di giudizio
(Cass., Sez. 1^, 18 novembre 1995, n. 519); del vizio di mancata integrazione del
contraddittorio nei confronti di un litisconsorte necessario (Cass., Sez. 2^, 22 gennaio
1964, n. 153; Cass., Sez. 2^, 9 ottobre 1979, n. 5236); delle nullità derivanti dalla
violazione del principio del contraddittorio, in particolare sotto il profilo dell'invalida
costituzione del rapporto processuale (Cass., Sez. 3^, 5 febbraio 1987, n. 1125; Cass.,
Sez. lav., 9 luglio 1991, n. 7555; Cass., Sez. lav., 22 febbraio 1992, n. 2196; Cass., Sez.
1^, 21 maggio 1998, n. 5067; Cass., Sez. 2^, 16 novembre 2000, n. 14866); del difetto di
giurisdizione (Cass., Sez. Un., 14 aprile 2003, n. 5903); delle ipotesi di invalidità della
sentenza equiparate alla mancanza di sottoscrizione del giudice (Cass., Sez. 1^, 22
marzo 1993, n. 3371; Cass., Sez. 2^, 5 ottobre 2001, n. 12292); della mancanza delle
condizioni dell'azione, quali la legittimazione ad agire o l'interesse ad agire (Cass., Sez.
1^, 27 aprile 1988, n. 3170).

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 il difetto di competenza territoriale derogabile nel procedimento


monitorio (Corte Cost. n. 410/2005);
 la litispendenza (Cass. civ. n. 22900/2007);
 la connessione (Cass. civ. n. 3788/92);
 la pretermissione del litisconsorte necessario (Cass. civ. n. 23628/2006);
 la carenza di interesse ad agire (Cass. civ. n. 26632 del 13/12/2006);
 il difetto di legittimazione ad processum (Cass. civ. n. 20819 del
26/09/2006);
 il giudicato interno ed esterno (Cass. civ., sez. un. n. 13916/2006);
 la cessazione della materia del contendere (Cass. civ. n. 17861/2007);
 l’introduzione di domande nuove (Cass. civ. n. 7270/2008);
 il tardivo deposito di documenti (Cass. civ. n. 9491/2007);
 il mancato rispetto delle sequenze procedimentali in cui è scandita la
trattazione del processo (Cass. civ. n. 3607/2007);
 il tardivo deposito dell’atto di appello (Cass. civ. n. 4601/2000);
 la modifica tardiva di domande ed eccezioni (Cass. civ. n. 11318/2005);
 il tardivo deposito di memorie;
 la tardiva iscrizione della causa a ruolo;
 la mancata partecipazione del P.M. nei giudizi in cui l’intervento è
obbligatorio (art. 158 c.p.c.);
 il vizio di costituzione del giudice (art. 158 c.p.c.).

Se verrà approvato il disegno di legge n. 1441-bis B, che


prevede la modifica dell’art. 38 c.p.c., si verrà a creare un nuovo
tipo di eccezione, di forma ibrida. Difatti l’incompetenza per
materia, per valore e per territorio (derogabile e non derogabile)
dovranno essere eccepite a pena di decadenza nella comparsa di
costituzione e risposta tempestivamente depositata, ma potranno
anche essere rilevate d’ufficio entro la prima udienza di
trattazione.
Come si concilia il fatto che detta eccezione debba essere
eccepita a pena di decadenza con il primo atto introduttivo, ma,
allo stesso tempo, possa essere rilevata d’ufficio dal giudice? La
disposizione sembra assumere rilievo in fase di impugnazione.
Qualora, infatti, la parte abbia tardivamente sollevato l’eccezione

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di incompetenza alla prima udienza e il giudice l’abbia disattesa,


in sede d’appello non potrà dolersi del mancato accoglimento
dell’eccezione, in quanto proposta tardivamente.

4.2 Segue: precisare, modificare, mutare l’eccezione


Anche le eccezioni possono essere precisate, modificate19 e
dedotte ex novo, lo dice espressamente l’art. 183 c.p.c..
L’attività di precisazione non desta particolari difficoltà
ricognitive; si tratta anche qui di mera specificazione di elementi
secondari. Ad esempio, dopo aver eccepito la prescrizione
quinquennale del diritto, costituisce precisazione l’esatta
indicazione delle norme applicabili.
Rimanendo in tema di prescrizione, è stata invece ritenuta una
modifica l’ipotesi in cui l’INPS, dopo aver eccepito la prescrizione
quinquennale dei ratei di pensione arretrati ex art. 129 r.d.l. 4
ottobre 1935 n. 1827, aveva sollevato l’eccezione di prescrizione
decennale, in quanto nel frattempo era intervenuta la sentenza
della Consulta che aveva dichiarato l’incostituzionalità della
norma. In questo caso, secondo la S.C., il thema decidendum era
rimasto invariato, ossia la prescrizione di quello specifico diritto
(Cass. civ. n. 5470/1993).
E infine, è stata ritenuta una eccezione nuova l’invocata
prescrizione quinquennale ex art. 2947 c.c. a fronte della
formulata prescrizione decennale ex art. 2948 c.c. (Cass. civ. n.
1607/1989).
La situazione cambia laddove ci si trovi di fronte a diritti
autoindividuati; anche in questo caso valgono le considerazioni

19 Scrive GRAZIOSI, in Appunti sulla nuova fase preparatoria del processo,


www.judicium.it, che “il concetto di modifica delle eccezioni risulta assai più vago ed
inafferrabile, sino al punto da far sospettare che davvero esista, giacché la modifica di
un’eccezione, in concreto, coincide quasi sempre nell’allegazione di un fatto estintivo,
impeditivo, modificativo del diritto fatto valere dall’attore”.

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sopra svolte. Si pensi all’eccezione riconvenzionale di usucapione


sollevata per paralizzare l’azione di rivendicazione, in seguito
sostituita dall’eccezione volta a dimostrare il diritto di proprietà
in forza di un titolo negoziale. La modifica del fatto costitutivo,
anche in questo caso, non comporta una mutatio dell’eccezione20.
Esistono però casi in cui è difficile stabilire se ci si trova di
fronte ad una emendatio o ad una mutatio. Si pensi al caso in cui
in limine litis il convenuto eccepisca che il consenso gli è stato
estorto con violenza fisica, mentre in seguito alleghi che la
coazione è stata solo di tipo psichico. Si tratta, in entrambi i casi,
di una eccezione di annullamento per violenza ex artt. 1427, 1434,
1435 c.c., ma i fatti sono diversi.

4.3 Segue: la forma dell’eccezione


In giurisprudenza è stato ripetutamente affermato che per la
proposizione di un'eccezione non si richiede l'impiego di
formule sacramentali, ma è sufficiente qualsiasi deduzione e
anche l'istanza di ammissione di un mezzo istruttorio che riveli
l'intento del deducente di contrastare la domanda avversaria.
Pertanto, l’eccezione può essere formulata in maniera tanto
esplicita quanto implicita.
La Suprema Corte, ad esempio, ha stabilito che incorre in error
in procedendo il giudice di merito che di fronte a una richiesta di
prova, da parte del convenuto, rivolta a dimostrare il possesso
ultraventennale del bene controverso e così astrattamente idonea
a paralizzare la pretesa di controparte, ometta di esaminare
l'eccezione riconvenzionale di usucapione implicita in tale
richiesta, anche se non espressamente formulata, e di valutare,

20 L’esempio è di PROTO PISANI, Dell’esercizio dell’azione, in Commentario del c.p.c.


diretto da Allorio, I, Torino, 1973, p. 1059 ss..

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conseguentemente, l'ammissibilità e la rilevanza del mezzo


invocato (Cass. civ. n. 8225/2004).
La giurisprudenza, inoltre, ritiene che l’eccezione possa
essere utilmente sollevata anche senza particolare
deduzione o allegazione.
Così, ad esempio, in tema di prescrizione è stato affermato
che essa può essere proposta senza il riferimento a precisi
dati normativi, con la conseguenza che l'esatto tipo di
prescrizione applicabile alla fattispecie può essere stabilito dal
giudice indipendentemente dalle deduzioni della parte che ha
sollevato l'eccezione (Cass. civ. n. 5220/1998; id. n. 11474/1993; id.
n. 4199/1987; id. n. 1165/1985). In ogni caso, laddove l'eccezione di
prescrizione venga sollevata genericamente, il giudice deve
limitarsi a prendere in considerazione soltanto la normale
prescrizione estintiva e non può, senza una esplicita precisazione
al riguardo della parte, prendere in esame la prescrizione
presuntiva eventualmente verificatasi, attesa l'incompatibilità
ontologica esistente fra i due tipi di prescrizione (Cass. civ. n.
5220/1988; id. n. 1248/1994).
Il principio, però, non può essere esteso a tutti i tipi di
eccezioni, essendo l’eccezione di prescrizione, per così dire,
autosufficiente o “autoargomentata”, in quanto per
sostenerla basta che si deduca la circostanza negativa (che in
quanto tale non abbisogna di ulteriori precisazioni, anche perché è
di per sé insuscettibile di prova) del mancato esercizio del diritto
entro il termine in cui poteva essere fatto valere, essendo invece
onerata la controparte di dimostrare il contrario, anche secondo il
principio di vicinanza della prova. Eccepire, per converso, sic et
simpliciter, la compensazione del credito nella propria
comparsa di costituzione e risposta senza descrivere il
controcredito (natura e importo) determina fatalmente la nullità

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dell’eccezione. Lo stesso dicasi nel caso in cui si chieda in via


riconvenzionale l’annullamento del contratto per dolo,
omettendosi in toto di allegare gli artifici e i raggiri usati dalla
controparte.
In alcuni casi, peraltro, è lo stesso legislatore a richiedere
alla parte di specificare l’eccezione. Si pensi all’eccezione di
incompetenza per territorio derogabile che, ai sensi dell’art. 38, II
comma, c.p.c., deve contenere, a pena di inefficacia, l’indicazione
del giudice ritenuto competente (“si ha per non proposta”, dice la
norma).

4.4 Segue: il termine ultimo per la proposizione delle


eccezioni in senso proprio e in senso stretto
Ma ritorniamo alle eccezioni in senso stretto. Per poter
accertare il termine ultimo per sollevare validamente una
eccezione in senso stretto occorre nuovamente fare la distinzione
tra:
 eccezioni conseguenti all’esercizio dello jus poenitendi;
 eccezioni conseguenti allo sviluppo della dialettica
processuale.
Con riferimento alle prime, il nuovo articolo 183 c.p.c., se letto
in collegamento con l’art. 167 c.p.c., non sembra ammettere
deroghe: non vi è spazio per nuove eccezioni frutto del
mero jus poenitendi. Difatti, alla prima udienza, all’attore, e
solo all’attore, è concessa la possibilità di proporre nuove
eccezioni in risposta alle domande ed eccezioni del convenuto.
Nella stessa udienza le parti possono solo modificare le

© M. Minardi - Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione - 2009
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eccezioni, ma non possono introdurne di nuove. Lo stesso accade


con la I memoria ex art. 183 VI comma21.
Diverso è il discorso per le eccezioni conseguenti allo
sviluppo della dialettica processuale. Difatti, come poc’anzi
abbiamo visto, alla prima udienza l’attore può proporre le
eccezioni (e le domande) che siano conseguenza della domanda
riconvenzionale o delle eccezioni in senso proprio del convenuto.
Non solo. La II memoria ex art. 183 c.p.c. può essere utilizzata per
proporre le eccezioni che sono conseguenza delle domande ed
eccezioni nuove o modificate dall’altra parte. Il che significa che la
barriera preclusiva delle eccezioni in senso stretto frutto della
dialettica processuale è rappresentata:
(a) dalla prima udienza, per quelle conseguenti alla
riconvenzionale e alle eccezioni del convenuto contenute
nella comparsa di costituzione e risposta, e
(b) dalla II memoria ex art. 183 VI comma c.p.c., per quelle
conseguenti alle domande e alle eccezioni nuove e
modificate dall’altra parte nel corso della prima udienza.
In realtà, però, nulla esclude, come ha precisato la S.C. con la
sentenza n. 17699/2005, che il tutto prosegua all’infinito. Difatti,
il potere di contro-eccezione non incontra limiti fin tanto
che il potere di eccezione viene esercitato
tempestivamente. Dunque, teoricamente, anche la III memoria
potrebbe contenere una contro-eccezione per replicare alla
eccezione nuova contenuta nella II memoria. E nulla impedisce
che nella fase successiva alla scadenza della III memoria la parte
possa contro eccepire sulla eccezione avversaria contenuta nella
III memoria. A differenza delle domande, infatti, il diritto di

21 Molti autori non sono d'accordo sul fatto che con la prima memoria non si possano

proporre nuove eccezioni. Tra tutti v. GRAZIOSI, Appunti sulla nuova fase preparatoria
del processo, www.judicium.it

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eccezione non può incontrare limiti di sorta laddove esercitato


tempestivamente; diversamente vi sarebbe la violazione del
principio costituzionale del diritto di difesa ex art. 24 Cost..

Per chiarire meglio la questione, facciamo degli esempi.


Se con domanda riconvenzionale il convenuto chiede il pagamento
di una somma, l’attore avrà l’onere di proporre l’eccezione di
prescrizione alla prima udienza e non potrà farlo con la II
memoria ex art. 183, in quanto questa è destinata alle “domande
ed eccezioni nuove” e la riconvenzionale, a quel punto della causa,
non è una domanda nuova.
Se l’attore in prima udienza propone una domanda di condanna
nuova, il convenuto potrà eccepire la prescrizione del diritto con la
II memoria ex art. 183 c.p.c.. A sua volta l’attore potrà eccepire e
provare l’avvenuta interruzione della prescrizione con la III
memoria ex art. 183.

Pertanto, ricapitolando, con riferimento alla tempestività


dell’eccezione in senso proprio e in senso stretto va
osservato che:
(a) il convenuto ha l’onere di sollevare le eccezioni processuali e di
merito con la comparsa di costituzione e risposta
tempestivamente depositata;
(b) talvolta la parte ha l’onere di formulare l’eccezione con il
primo atto difensivo; si pensi, ad esempio, all’eccezione
relativa all'incertezza sull'identità di colui che sottoscrive la
procura in nome di una persona giuridica, che non rientra fra
le nullità assolute ma fra quelle relative, le quali, ai sensi
dell'art. 157 c.p.c., sono opponibili soltanto dall'interessato,
vale a dire dal destinatario dell'atto con la prima istanza o
difesa successiva (Cass. civ. n. 5505/2006);
(c) altre volte il termine è fissato nell’udienza di trattazione
(v. ad esempio l’eccezione di incompetenza per materia, valore
e territorio inderogabile, che però possono essere rilevate
d’ufficio, entro lo stesso termine, anche dal giudice, almeno
sino a quando non verrà approvato il d.d.l. 1441-bis B; come

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pure le eccezioni dell’attore alla domanda riconvenzionale o


alle eccezioni del convenuto);
(d) le contro-eccezioni sull’eccezione o sulla domanda nuova
proposte dall’attore in udienza di trattazione vanno sollevate
con la seconda memoria ex art. 183 c.p.c.;
(e) le contro-eccezioni sulla contro-eccezione nuova sollevata con
la seconda memoria ex art. 183 vanno sollevate con la terza
memoria;
(f) l’eccezione di nullità della deposizione testimoniale per
incapacità del teste va sollevata nella stessa udienza o nella
prima udienza successiva.

4.5 Segue: le condizioni per il rilievo delle eccezioni in


senso lato
Interessante e tuttora tormentata questione è quella delle
condizioni minime per poter rilevare d’ufficio le eccezioni in
senso lato.
Secondo parte della giurisprudenza, il giudice potrebbe
rilevare l’eccezione ex officio solo se il fatto risulti
tempestivamente allegato e provato dalla parte. Altro
orientamento, invece, ritiene sia sufficiente che il fatto risulti
acquisito al processo, da parte di chicchessia.

Nel nostro ordinamento processuale vige il principio


dell'acquisizione delle prove in forza del quale il giudice è
libero di formare il suo convincimento sulla base di tutte le
risultanze istruttorie, quale che sia la parte ad iniziativa della
quale sia avvenuto il loro ingresso nel giudizio (v. ad es. Cass. civ.
n. 25028/2008).

“Allegare”, in questo senso, significa descrivere, nei propri atti


o nelle dichiarazioni a verbale, l’esistenza del fatto impeditivo,
modificativo, estintivo del diritto.

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“Acquisito” significa che il fatto risulta dai documenti


prodotti ovvero da altri elementi (ad es. dalle risposte rese in sede
di interrogatorio libero).

Esempio.
Tizio, committente, cita Caio, appaltatore, chiedendone la
condanna alla eliminazione dei vizi e difetti dell’immobile
ristrutturato. Caio eccepisce la prescrizione del diritto ex art. 1669
c.c.. La difesa di Tizio, forte delle lettere di interruzione della
prescrizione allegate al fascicolo di parte, si limita a contestare
l’eccezione avversaria in quanto infondata, senza aggiungere altro.
A rigore, l’eccezione di interruzione della prescrizione, che è una
eccezione in senso lato, non è stata allegata, seppure la prova
relativa è stata acquisita al processo. Ebbene, aderendo alla prima
opzione interpretativa il giudice dovrebbe accogliere la domanda
dell’appaltatore in quanto l’eccezione di interruzione della
prescrizione non è stata dedotta, seppure risultante dagli atti.
Aderendo al secondo orientamento, invece, il giudice potrebbe
rilevarla ugualmente.
È chiaro che la prima opzione privilegia l’aspetto privatistico del
processo, mentre la seconda l’aspetto pubblicistico. E in questo
ultimo senso si è orientata la Suprema Corte la quale nel comporre
il contrasto insorto in seno alle sezioni ha affermato che l’eccezione
di interruzione della prescrizione, se supportata da documenti
ritualmente acquisiti, può essere rilevata anche se la parte non ha
controdedotto sull’eccezione di prescrizione (Cass. civ. n.
15661/2005).

Il primo degli orientamenti sopra ricordati afferma che il


potere d'ufficio del giudice di rilevare ex officio l’eccezione in senso
lato attiene solo al riconoscimento degli effetti giuridici di fatti che
siano pur sempre allegati dalla parte. Il potere di allegazione, si
dice, rimane riservato esclusivamente alla parte anche rispetto ai
fatti costitutivi di eccezioni rilevabili d'ufficio, perché il giudice
può surrogare la parte nella postulazione degli effetti
giuridici dei fatti allegati, ma non può surrogarla
nell'onere di allegazione che, risolvendosi nella formulazione
delle ipotesi di ricostruzione dei fatti funzionali alle pretese da far
valere in giudizio, deve essere riservato in via esclusiva a chi di
quel diritto assume di essere titolare (Cass. civ. n. 6943/2004).

© M. Minardi - Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione - 2009
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Tuttavia, così ragionando è evidente che lo spazio per le


eccezioni in senso lato sarebbe decisamente ridimensionato in
quanto rileverebbero solo nelle ipotesi, scarse nella pratica, che la
parte alleghi e dimostri il fatto impeditivo, estintivo e modificativo
senza però postularne gli effetti.
Sennonché, con sentenza n. 14581/2007, la Suprema Corte,
affrontando ex professo la questione, ha ribadito la necessità di
una tempestiva allegazione tutte le volte in cui l’eccezione
in senso lato non incida su un interesse pubblico.
La Corte afferma anzitutto che nel “principio dispositivo” è
compreso il principio della “disponibilità dell'oggetto del processo”
che spetta alle parti. Una volta accettata tale impostazione,
secondo il S.C., appare impossibile sostenere che il giudice possa
basare la propria decisione su un fatto estintivo, modificativo od
impeditivo che nessuna delle parti (e in particolare quella
interessata) ha mai in alcun modo dedotto in causa (sia pure ad
altri fini). Se così facesse, continua la Corte, il giudice violerebbe il
predetto principio. Qualora, infatti, si ammettesse che i fatti posti
a fondamento di eccezioni rilevabili d'ufficio non debbano
necessariamente essere allegati dalla parte quando si tratta di
allegazioni "silenti" (cioè, di cui tutte le parti non hanno
consapevolezza, ad es. perché emergenti da documenti prodotti
per dimostrare fatti del tutto diversi), si finirebbe per ledere la
parte in danno della quale il giudice rileva d'ufficio l'eccezione. In
altre parole, questa vedrebbe (generalmente) leso il suo diritto ad
una difesa efficace e pronta (nel senso di tempestiva e cioè
realizzabile quando lo svolgersi del processo non l'ha ancora resa
giuridicamente od anche solo di fatto impossibile ovvero
comunque più difficile).
Non solo. Secondo la Corte può accadere di peggio; infatti se si
abbandona il principio della disponibilità dell'oggetto del processo

© M. Minardi - Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione - 2009
45

spettante alle parti, persino la parte che vede accolta in suo favore
l'eccezione (in senso lato) sulla base di fatti che ignorava o che
aveva consapevolmente deciso di non far rientrare nel processo,
può veder lesi i suoi diritti. Può infatti capitare che quegli eventi
posti dal giudice a base della sua decisione e quindi destinati a
rientrare nell'oggetto (in senso lato) del giudicato, se non altro a
causa degli effetti riflessi di quest'ultimo, pregiudichino
pesantemente (ad es. in altre cause) gli interessi della parte che
ha visto accolta in suo favore l'eccezione predetta (e che in ipotesi
proprio per scongiurare un siffatto evento aveva deciso di non
farne oggetto del processo).
Vedremo in futuro se questa importante pronuncia spingerà la
Corte a rivedere il proprio orientamento in tema di interruzione
della prescrizione, anche se, a ben vedere, il caso è diverso perché:
(a) insistendo per il rigetto dell’eccezione, anche senza
espressamente allegare l’interruzione, la parte dimostra
implicitamente di voler far propri gli effetti degli atti
interruttivi;
(b) non si vede in che modo l’accoglimento dell’eccezione di
interruzione possa pregiudicare la parte creditrice in un
eventuale e diverso giudizio.

Vi è poi il problema temporale e cioè: fino a quando


l’eccezione può essere rilevata d’ufficio dal giudice?
Al riguardo occorre operare una distinzione; esistono infatti:
(a) eccezioni rilevabili in qualsiasi stato e grado;
(b) eccezioni rilevabili sino alla prima udienza di trattazione
(art. 38 c.p.c.);
(c) eccezioni rilevabili solo se allegate e provate entro i termini
per la fissazione del thema decidendum e del thema
probandum (sono quelle relative ad un diritto di carattere

© M. Minardi - Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione - 2009
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sostanziale il cui esercizio in campo processuale non incide in


alcun modo su interessi pubblici);
(d) eccezioni che possono essere rilevate dal giudice di primo
grado prima della decisione.
Le eccezioni del primo tipo sono quelle che coinvolgono un
interesse pubblico di tipo processuale (ad esempio alcuni
presupposti processuali che attengono alle parti: la capacità;
l'interesse ad agire, v. Cass. civ. n. 26632 del 13/12/2006; il difetto
di legitimatio ad processum, v. Cass. civ. n. 20819 del 26/09/2006;
l’eccezione di giudicato interno ed esterno, v. Cass. civ., sez. un. n.
13916/200622; l’instaurazione e l’integrità del contraddittorio).
Rientrano tra le eccezioni del secondo tipo, ad esempio, le
eccezioni di incompetenza per materia, valore e territorio
inderogabile.
Quelle del terzo tipo hanno una rilevabilità condizionata al
rispetto del principio dispositivo e del contraddittorio (ad
esempio l’eccezione dell’assicuratore concernente l’entità del
massimale assicurato, v. Cass. civ. n. 14581/2007, oppure
l’eccezione di interruzione della prescrizione, v. Cass. civ. n.
13783/2007).

La dottrina sostiene che, in ogni caso, si può parlare di


tempestività solo in relazione alle parti, pertanto il giudice potrà
sempre rilevare d’ufficio una eccezione in senso lato, qualora
introdotta dopo la fissazione del thema decidendum dal CTU o a
seguito di deposizioni testimoniali. Ovviamente, alle parti dovrà
essere consentito il diritto di difesa, con concessione di termini per
allegazione e prova23.

22 V. tuttavia Cass. civ. n. 5681/2008, secondo cui allorquando con la sentenza di primo
grado venga respinta una eccezione (nella specie: di giudicato esterno) e avverso tale
capo non venga proposta impugnazione, ai sensi dell'art. 346 c.p.c. e in applicazione dei
principi sui limiti devolutivi dell'appello e sul giudicato interno, l'eccezione deve
ritenersi rinunciata e sul relativo capo si forma il giudicato parziale interno, con la
conseguenza che l'eccezione, quand'anche fosse da ritenere rilevabile d'ufficio, è
definitivamente preclusa.
23Sulla questione, si v. CEA, La trattazione della causa nel rito ordinario,
www.judicium.it.

© M. Minardi - Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione - 2009
47

Quelle del quarto tipo riguardano in genere le nullità sanabili.


Un esempio è l'eccezione relativa al vizio discendente dalla
mancata osservanza delle sequenze procedimentali in cui
è scandita la trattazione della causa in primo grado (Cass.
civ. n. 3607/2007). Il giudice d’appello non può, in mancanza di
impugnazione specifica sul punto, dichiarare la nullità del
procedimento e rimettere in termini le parti.
In ogni caso, l’eccezione in senso lato può essere rilevata ex
officio purché, come abbiamo visto, si basi su un fatto risultante
dagli atti di causa, essendo fermo il divieto di scienza privata del
giudice.

Scienza privata e fatto notorio.


L'utilizzazione delle nozioni di comune esperienza (fatto notorio)
comporta una deroga al principio dispositivo e al contraddittorio,
in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle
parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati né controllati.
Pertanto, secondo la S.C., esso va inteso in senso rigoroso, cioè
come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale
grado di certezza da apparire indubitabile e incontestabile.
Non si possono - quindi - reputare rientranti nella nozione di fatti
di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo
medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi
valutativi che implicano cognizioni particolari, o anche solo la
pratica di determinate situazioni, né quelle nozioni che rientrano
nella scienza privata del giudice, poiché questa, in quanto non
universale, non rientra nella categoria del notorio, neppure
quando derivi al giudice medesimo dalla pregressa trattazione di
analoghe controversie.
In applicazione del riferito principio la Suprema corte ha cassato
la sentenza del giudice di pace che, in tema di opposizione a
sanzione amministrativa in tema di circolazione stradale, aveva
ritenuto fatto notorio le caratteristiche e il posizionamento dei
cartelli stradali (Cass. civ. n. 29728/2008).

Ritengo importante, a questo punto, approfondire la questione


del difetto di giurisdizione alla luce della recente sentenza
delle S.U. n. 24883 del 2008. Si tratta di un arresto
fondamentale che, a mio avviso, guiderà le future

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interpretazioni in tema di limite temporale per la rilevabilità delle


eccezioni in senso lato.
Con una lunga e articolata motivazione, le S.U. hanno riletto
l’art. 37 c.p.c. alla luce del principio costituzionale del
giusto processo e della sua ragionevole durata. Detta
norma, come è noto, stabilisce che il difetto di giurisdizione del
giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o
dei giudici speciali può essere rilevato, anche d’ufficio, in
ogni stato e grado del processo. Sennonché, nel corso degli
anni il principio della libera rilevabilità in ogni stato e grado è
stato intaccato dalla giurisprudenza, che ha iniziato a porre dei
distinguo. Così, a partire da Cass. sez. un. n. 1506/1976 si è
consolidato il principio secondo cui, qualora il giudice decida
espressamente sia sulla giurisdizione sia sul merito e la parte
impugni solo sul merito, è precluso al giudice di appello e alla
Cassazione il rilievo d’ufficio della questione di giurisdizione,
essendosi sul punto formato giudicato interno.
Un secondo importante arresto è quello di Cass. civ. sez. un. n.
34/1999 che sancì la non rilevabilità d’ufficio della questione di
giurisdizione risolta implicitamente dal giudice e non
espressamente impugnata dal ricorrente con il ricorso in
Cassazione.
E veniamo alla sentenza sopra richiamata la quale ha fissato i
seguenti principi:
(a) fino a quando la causa non sia decisa nel merito in primo
grado, il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle
parti, anche dopo la scadenza dei termini previsti dall'art.
38 c.p.c.;
(b) entro lo stesso termine le parti possono chiedere il
regolamento preventivo di giurisdizione ai sensi dell'art. 41
c.p.c.;

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(c) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere


impugnata per difetto di giurisdizione;
(d) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di
giurisdizione soltanto se sul punto non si è formato il
giudicato implicito o esplicito;
(e) il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di
giurisdizione, fino a quando sul punto non si sia formato il
giudicato implicito o esplicito.
Ma al di là dei principi di diritto affermati, è importante
evidenziare il ragionamento che ha condotto la S.C. a tale
risultato. Affermano le Sezioni Unite che l'avvento del principio
della ragionevole durata del processo comporta l'obbligo di
verificare la razionalità delle norme che non prevedono termini per
la formulazione di eccezioni processuali per vizi che non si
risolvono in una totale carenza della tutela giurisdizionale, come
ad esempio i vizi attinenti al principio del contraddittorio. Questa
Corte ritiene che la costituzionalizzazione del principio della
ragionevole durata del processo imponga all'interprete una
nuova sensibilità ed un nuovo approccio interpretativo, per
cui ogni soluzione che si adotti nella risoluzione di questioni
attinenti a norme sullo svolgimento del processo deve essere
verificata non solo sul piano tradizionale della sua coerenza logico
concettuale, ma anche e soprattutto, per il suo impatto operativo
sulla realizzazione del detto obiettivo costituzionale. E ancora: vi è
ormai un dovere di responsabile collaborazione delle parti
per contenere i tempi processuali: il principio costituzionale di
ragionevole durata del processo si rivolge non soltanto al giudice
quale soggetto processuale, in funzione acceleratoria, ma anche e
soprattutto al legislatore ordinario ed al giudice quale interprete
della norma processuale, rappresentando un canone ermeneutico
imprescindibile per una lettura costituzionalmente orientata delle

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norme che regolano il processo, nonché a tutti i protagonisti del


giudizio, ivi comprese le parti, le quali, soprattutto nei processi
caratterizzati dalla difesa tecnica, debbono responsabilmente
collaborare a circoscrivere tempestivamente i fatti
effettivamente controversi.
Ciò significa che d’ora in avanti l’interpretazione delle norme
dovrà sempre tenere conto del principio costituzionale del giusto
processo e della sua ragionevole durata con la probabile
conseguenza che negli anni a venire il campo delle eccezioni
rilevabili ex officio in ogni stato e grado diminuirà sempre più e
soprattutto avrà sempre più importanza il comportamento
acquiescente delle parti.

4.6 Segue: eccezioni in senso lato e principio del


contraddittorio
Questione assai interessante è poi quella del
contraddittorio24. La domanda da porsi è la seguente: può il

24 Contra, GRASSO, in Interpretazione della preclusione e nuovo processo civile in primo

grado, in Riv. dir. proc. 1993, 652, secondo il quale (nel “vecchio rito”) il limite per il
rilievo d’ufficio dell’eccezione in senso lato era costituito dall’udienza ex art. 183 c.p.c.
valendo la prescrizione del 3° comma dell’art. 183, per la quale è in quella udienza che
egli (il giudice) indica (da intendersi nel senso che deve indicare) le questioni rilevabili
d’ufficio, espressione comprensiva dei fatti estintivi, impeditivi o modificativi rilevanti.
La razionale esegesi del sistema impone di assegnare al giudice ed alle parti un termine
unico che non può dilatarsi oltre la trattazione, senza alterare le linee del processo con
regressi che ne pregiudicherebbero l’ordinaria progressione. Si legge nella nota n. 21 di
SANTANGELI, Le udienze di trattazione della causa nel processo civile ordinario alla luce
delle recenti riforme, www.judicium.it: Nell’ambito del dibattito sviluppatosi a seguito
della “novella” del 1990, ritenevano che nel rito ordinario il rilievo del fatto estintivo,
impeditivo o modificativo (che non desse luogo ad eccezione in senso stretto) non fosse
soggetto a preclusione, e non andasse allegato a pena di decadenza né nell’atto ex art. 180
comma 2° c.p.c., né all’udienza di trattazione, potendo essere rilevato d’ufficio da parte
del giudice anche se non allegato nel corso del giudizio di primo grado, purché risultante
dagli atti del processo, tra gli altri, Oriani, Eccezione rilevabile d’ufficio ed onere di
tempestiva allegazione: un discorso ancora aperto, in Foro it. 2001, I, 127, Id, Eccezione,
voce del Digesto civ., Torino 1995, XII, appendice, 600, Proto Pisani, La nuova disciplina
del processo civile, Napoli 1991, 119 ss., Balena, La riforma del processo di cognizione,
Napoli 1994, 186 ss., Tarzia, Lineamenti del processo di cognizione, Milano 1996, 70. Nel
senso che non fosse ammissibile un’allegazione tardiva, oltre l’udienza di trattazione, ma
rimanesse sempre fermo il potere del giudice di rilevare d’ufficio il fatto estintivo,
impeditivo o modificativo risultante dagli atti, purchè non integrativo di eccezione in
senso stretto, invece, Chiarloni, in Le riforme del processo civile a cura di Chiarloni,
Bologna 1992, 175 ss., Luiso, in Consolo – Luiso – Sassani, Commentario alla riforma

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giudice in sentenza, senza che le parti abbiano


interloquito a tal proposito, rilevare d’ufficio un’eccezione
e decidere la causa sulla base della stessa?
La questione è stata affrontata ex professo dalla Corte di
Cassazione con sentenza n. 14637/2001 (e in seguito da altre
pronunce che si sono uniformate al principio ivi espresso; v. ad es.
Cass. civ. n. 16577/2005; contra, però, v. Cass. civ. n. 15705/2005),
in un caso in cui il Pretore aveva rilevato d’ufficio direttamente in
sentenza la carenza del potere sanzionatorio della P.A., così
annullando l’ordinanza ingiunzione emessa, nonostante dalle
parti non si fosse mai messo in discussione tale potere.
È interessante leggere le argomentazioni della Corte:
1) Con il primo motivo di ricorso la Provincia lamenta la violazione
dell'art. 183 cpc anche in riferimento all'art. 24 Cost.. Sostiene che
il giudice ha errato nel non consentire il contraddittorio sulla
questione della nullità o inesistenza dell'atto amministrativo in
questione. Essa infatti è stata portata a conoscenza delle parti solo
con la sentenza, dopo che il dibattito processuale si era svolto tutto
sul pacifico presupposto della esistenza del potere sanzionatorio in
questione, contestato per il suo concreto esercizio. 2) Osserva il
collegio che il numero 3 dell'art. 183 c.p.c., il quale recita "il
giudice richiede alle parti, sulla base dei fatti allegati, i
chiarimenti necessari ed indica le questioni rilevabili di ufficio
delle quali ritiene opportuna la trattazione", esprime pienamente,
come la dottrina ha rilevato già all'indomani della riforma
processuale del 1990, il principio del contraddittorio che governa il
processo. Contraddittorio che il giudice deve fare osservare
e deve osservare egli per primo, tant'è che deve significare alle
parti le questioni che ritiene rilevino, cosicché esse non possano
trovarsi di fronte ad una decisione a sorpresa, adottata sulla base

del processo civile, Milano 1996, 158 ss. Contra, per l’impossibilità di allegare nuovi fatti
estintivi, impeditivi o modificativi, pur rilevabili d’ufficio, oltre l’udienza di trattazione,
a meno che non ricorressero ipotesi di remissione in termini, Attardi, Le nuove
disposizioni sul processo civile, Padova 1991, 73 ss., Vaccarella – Capponi – Cecchella, Il
processo civile dopo le riforme, Torino 1992, 98 ss. Grasso, Interpretazione della
preclusione e nuovo processo civile in primo grado, in Riv. dir. proc. 1993, 652, riteneva
che il limite per il rilievo d’ufficio dell’eccezione in senso lato era costituito dall’udienza
ex art. 183 c.p.c. “valendo la prescrizione del 3° comma dell’art. 183, per la quale è in
quella udienza che egli (il giudice) indica (da intendersi nel senso che deve indicare) le
questioni rilevabili d’ufficio, espressione comprensiva dei fatti estintivi, impeditivi o
modificativi rilevanti. La razionale esegesi del sistema impone di assegnare al giudice ed
alle parti un termine unico che non può dilatarsi oltre la trattazione, senza alterare le
linee del processo con regressi che ne pregiudicherebbero l’ordinaria progressione.

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di una terza via rispetto a quelle alternativamente da esse


sostenute.
Tale affermazione risulta coerente con il regime delle preclusioni e
dello ius poenitendi (n. 4 della norma citata) i quali consentono
alle parti di aggiustare il tiro, anche in considerazione delle
rispettive difese, cosicché è la dialettica del processo che segna il
limite alle possibili novità. E la dialettica è travolta se si
consente una decisione sulla base di questioni che ne sono
state estranee, ancorché un tale effetto risalga all'esercizio
dei poteri del giudice. 3) Il predetto principio, a parere del
collegio, prescinde, per la sua centralità nell'intero processo, dal
meccanismo particolare della prima udienza di trattazione.
Pertanto il giudice che ritenga dopo di tale udienza di far
rilevare un fatto o una questione non considerati dalle
parti, deve segnalarli alle medesime e consentire che
prendano posizione.
Conferma dell'ultima conclusione esposta si trae dalla norma
dell'art. 184 bis c.p.c., secondo la quale la parte che dimostra di
essere incorsa in decadenze per cause ad essa non imputabili può
chiedere al giudice istruttore di essere rimessa in termini. Essa
infatti esprime lo stesso principio del contraddittorio perché,
rimettendo in termini la parte che senza colpa non ha potuto
giovarsi delle facoltà che la legge prevede sia nella fase di
trattazione che in quella dedicata alle deduzioni istruttorie,
consente di strutturare un contraddittorio altrimenti carente.
Pertanto in base a tale norma se il giudice si avvede
tardivamente di una questione rilevabile di ufficio, e la
indica alle parti dopo dell'udienza di trattazione, deve
consentire ad esse di eccepire e di argomentare, con
analoga tardività. 3a) Nel caso di specie è avvenuto che dopo un
giudizio imperniato sulle modalità dell'accertamento dei fatti e
sulle garanzie procedimentali in favore dell'ingiunto, la decisione
ha quindi esplicitamente fatto perno sulla questione della
sussistenza del potere sanzionatorio in astratto, e perciò sulla
nullità o inesistenza dell'atto impugnato. Tale questione, non
deducibile dai vizi dell'atto fatti valere con la impugnazione della
ordinanza e costituenti causa petendi della domanda avanzata dal
giudice (vedi Cass. civ. n. 6434 del 1996), ha dato luogo ad una
decisione non preceduta dal precipuo giudizio che il principio del
contraddittorio intende conservare. 4) Il motivo è fondato e tale
fondamento assorbe la trattazione dei restanti motivi di ricorso.

© M. Minardi - Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione - 2009
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Un autorevole autore, il Luiso25, ha applaudito la pronuncia


per la sensibilità dimostrata dalla Corte verso il principio del
contraddittorio.
Se verrà approvato il d.d.l. 1441-bis B, il giudice, ai sensi del
novellato art. 101 c.p.c., avrà l’obbligo, sancito a pena di nullità, di
concedere alle parti un termine non inferiore a venti e non
superiore a quaranta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza,
per il deposito di memorie contenenti osservazioni sulla questione
rilevata ex officio.
Abbiamo detto che il giudice non incontra limiti nel sollevare
eccezioni d’ufficio, purché il fatto risulti almeno acquisito al
processo e sull’eccezione vi sia stato il contraddittorio delle parti.
Domanda: anche alle parti è data la possibilità di
evidenziare al giudice una questione rilevabile d’ufficio in
ogni momento e dunque sino al momento della comparsa
conclusionale?
Nella pronuncia della sez. I, del 28 ottobre 2005, n. 21080, la
Suprema Corte ha cassato la sentenza del giudice d’appello che
aveva dichiarato inammissibili, perché formulate solo con la
comparsa conclusionale di secondo grado, le deduzioni relative
alla nullità delle clausole relative alla determinazione del tasso
degli interessi e alla capitalizzazione trimestrale degli interessi a
debito. Ha osservato il Collegio che il vizio delle clausole sulla
determinazione del saggio degli interessi e sulla capitalizzazione
trimestrale era stato "eccepito" (n.d.r. le virgolette sono della S.C.)
al solo fine di ottenere il rigetto della pretesa avanzata dalla
banca con la richiesta di emissione del decreto ingiuntivo e che,
pertanto, i ricorrenti non avevano formulato alcuna domanda, ma
si erano limitati a dedurre una violazione la cui ricorrenza

25 LUISO, Questione rilevata di ufficio e contraddittorio: una sentenza "rivoluzionaria"? (nota a


Cass., sez. I, 21 novembre 2001 n. 14637, Amm. prov. Pesaro e Urbino c. Com. Urbino) , Giust. civ.
2002, I, 1612.

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avrebbe potuto (e dovuto) essere rilevata d'ufficio (art. 1421 c.c.).


Pertanto, tale deduzione non integrava gli estremi di una
eccezione "in senso stretto", ma costituiva una "mera difesa",
inidonea a condizionare i poteri decisori del giudice, che poteva
essere avanzata in fase d'appello (art. 345, II comma, c.p.c.) ed
essere formulata anche in comparsa conclusionale,
essendo fondata su elementi già acquisiti al giudizio.

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5. IL REGIME DI PRECLUSIONE DELLE CONCLUSIONI

Per “conclusioni” si intende la richiesta della parte rivolta al


giudice di emanare un determinato provvedimento. Le conclusioni
sono molto importanti perché attraverso esse si può verificare la
corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato ai sensi dell’art. 112
c.p.c..
Peraltro, l’indagine del giudice non può e non deve
limitarsi a quelle rassegnate, bensì deve avere ad oggetto
l’intera domanda così come risultante dall’intero complesso
dell’atto e dalle verbalizzazioni rese in corso di causa. Dunque,
anche un’istanza non esplicitamente e formalmente proposta può
ritenersi implicitamente introdotta e virtualmente contenuta
nella domanda espressamente proposta, ove risulti in rapporto di
connessione necessaria con il petitum e la causa petendi di questa,
con il solo limite di non estenderne l'ambito di riferimento26.
Di recente, la Suprema Corte (sent. 15707/2008) si è trovata a
dover decidere sull’eccezione di nullità di una comparsa di
costituzione e risposta proprio perché priva delle
conclusioni. Nella comparsa, infatti, il difensore aveva articolato
un’eccezione di prescrizione, ma aveva poi omesso di rassegnare le
conclusioni. Nonostante ciò, il giudice del merito accoglieva detta
eccezione e respingeva la domanda attorea. In Cassazione, l’attore
si doleva dell’accoglimento dell'eccezione visto che, a suo dire, la
comparsa doveva ritenersi nulla. La S.C. ha tuttavia rigettato il
motivo, rilevando che l’art. 167, I comma, c.p.c., pur stabilendo
che il convenuto nella comparsa di risposta debba formulare le
conclusioni, non prevede in proposito alcuna decadenza. Le
conclusioni, afferma la Corte, rappresentano un importante
26 In tal senso, v. ad es. Cass. civ. n. 8128/2004.

© M. Minardi - Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione - 2009
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elemento costitutivo della comparsa perché, in relazione alla


domanda dell’attore, consentono al convenuto di evidenziare le
proprie richieste e di ottemperare all’obbligo sancito a suo carico
dal I comma dell’art. 167 di prendere posizione sui fatti posti
dall’attore a fondamento della domanda. Di conseguenza ove il
convenuto non concluda, la comparsa potrebbe essere ritenuta
nulla o inammissibile in conseguenza del mancato
raggiungimento dello scopo cui l’atto è preordinato. Sennonché,
nella fattispecie, la Corte d’appello aveva ritenuto che l’eccezione
di prescrizione fosse stata adeguatamente formulata già nella
comparsa di risposta e tale conclusione ha trovato consenziente il
Collegio, posto che il tenore della comparsa di risposta, anche in
ragione della sua stringatezza, era sufficiente ad esprimere, da un
lato, la volontà della cooperativa convenuta di opporsi
all’accoglimento della domanda dell’attrice e, dall’altro, di eccepire
la prescrizione, eccezione formulata come prima difesa. Secondo la
Corte, pertanto, l’omissione formale delle conclusioni non si
era tradotta in un atto generico od impreciso, ma al
contrario in difese compiute, idonee al pieno svolgersi del
contraddittorio processuale.
La Cassazione conclude ricordando di aver costantemente
affermato che al fine dell’interpretazione del contenuto della
domanda o delle difese delle parti, e dunque anche delle relative
eccezioni, occorre far riferimento al tenore complessivo dell’atto, sì
che l’omissione delle conclusioni non può comportare la
conseguenza che l’eccezione di prescrizione,
adeguatamente sviluppata nella parte espositiva della
comparsa di risposta, debba ritenersi non proposta
ritualmente.

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5.1 Segue: la precisazione e la modificazione delle


conclusioni
Detto questo, continuiamo il nostro discorso rilevando che
anche le conclusioni possono essere precisate e modificate.
Abbiamo già ricordato che la precisazione rappresenta un quid
minus rispetto alla modificazione: precisare significa esplicitare,
chiarire.
Precisare le conclusioni significa, ad esempio, specificare la
data di messa in mora da cui decorrono gli interessi, a fronte della
indicazione generica contenuta in atto di citazione di “condanna al
pagamento degli interessi dalla messa in mora”.
Modificare le conclusioni significa, invece, cambiare il
petitum senza tuttavia introdurre una domanda nuova. Ad
esempio, chiedere la condanna al risarcimento per equivalente, in
sostituzione della condanna in forma specifica.
Con riferimento al regime di preclusioni, va ricordato che:
(a) la modifica delle conclusioni può avvenire al più tardi
con la prima memoria ex art. 183 c.p.c.;
(b) la precisazione delle conclusioni può avvenire sino
all’udienza di PC.
Questo, stando al tenore letterale del codice. In realtà, la
Suprema Corte ha ripetutamente consentito l’emendatio
delle conclusioni anche all’udienza di PC. Così, per fare
alcuni esempi, sono state ritenute ammissibili ancorché formulate
in quell’udienza:
 la domanda di riduzione del prezzo da parte dell'attore che
aveva inizialmente richiesto la risoluzione del contratto di
appalto per il dedotto inadempimento del convenuto, rilevando
che il titolo sul quale si basava la domanda di riduzione del
prezzo era pur sempre il non esatto adempimento e che,

© M. Minardi - Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione - 2009
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quanto al petitum, vi era stata soltanto una sua limitazione


rispetto alla originaria domanda (Cass. civ. n. 9239/2000);
 la domanda di risarcimento per l'ammontare di lire cinque
milioni di lamentati danni da occupazione dell'immobile, in
aggiunta a quelli conseguenti ad effettuati lavori di
modificazione e adattamento del medesimo, rispetto a quella,
risultante dall'atto introduttivo del giudizio, di condanna al
pagamento di lire tre milioni, corrispondente ad una mensilità
del pattuito canone di locazione e al risarcimento dei danni
causati all'immobile (Cass. civ. n. 7524/2005);
 la domanda di pagamento di una somma pari al costo
necessario per riparare il danno, in sostituzione della domanda
di reintegrazione in forma specifica proposta con l'atto di
citazione (Cass. civ. n. 8797/1993).
D’altra parte, se così non fosse, si arriverebbe all’assurdo che
in sede di PC non si potrebbe, ad esempio, ridurre il petitum,
operazione che la giurisprudenza di legittimità riconduce
pacificamente all’emendatio.
Di certo, una interpretazione più rigoristica potrebbe far leva
sul fatto che quelle pronunce sono state emesse sotto il previgente
art. 184 c.p.c. che stabiliva: Durante l’ulteriore corso del giudizio
davanti al giudice istruttore, e finché questi non abbia rimesso la
causa al collegio, le parti, salvo applicazione, se del caso, delle
disposizioni dell’art. 92 in ordine alle spese, possono modificare le
domande eccezioni e conclusioni precedentemente formulate,
produrre nuovi documenti, chiedere nuovi mezzi di prova e
proporre nuove eccezioni che non siano precluse da specifiche
disposizioni di legge. Sicché, all’udienza fissata per la PC le parti
ben potevano modificare le loro domande ed eccezioni prima di
precisare definitivamente le conclusioni.

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Sennonché, nemmeno la migliore dottrina (Mandrioli; Luiso)


dubita sul fatto che la modificazione in più o in meno della somma
richiesta possa essere esercitata in sede di PC anche a seguito
delle riforme del ’90-‘95.
Una cosa è certa: sulla questione c’è poca chiarezza e
interesse, stando alla lettura dei manuali e dei commentari più
diffusi. In altre parole, la dottrina (ma lo stesso vale per la
giurisprudenza) sembra dare per scontato che “precisare le
conclusioni” sia sinonimo di “modificare”.

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6. IL REGIME DI PRECLUSIONE DELLE ALLEGAZIONI

Attraverso le allegazioni le parti individuano i fatti rilevanti,


prospettandone un'ipotesi ricostruttiva funzionale alla pretesa
fatta valere in giudizio.
I fatti possono essere principali o secondari. Sono principali i
fatti dai quali dipende il diritto fatto valere, ovvero la sua
modifica, estinzione, impedimento. I fatti secondari sono quelli,
per così dire, di contorno che, al più, possono assurgere ad indizi.

Le allegazioni vanno distinte dalle richieste probatorie, con le


quali le parti chiedono o producono mezzi di prova al fine di
dimostrare la veridicità delle proprie affermazioni in ordine ai
fatti allegati. Come pure vanno distinte dalle domande e dalle
eccezioni, con le quali le parti invocano gli effetti giuridici che
assumono siano previsti dalla legge per i fatti allegati.

Nell’atto di citazione l’attore deve esporre i fatti della domanda


(art. 163 n. 4); la loro omissione ne determina la nullità (art. 164
n. 4). Lo stesso vale per il convenuto in ordine alla sua domanda
riconvenzionale.
In giurisprudenza sono stati ritenuti nulli:
(a) l’atto di citazione con cui si eserciti l’azione revocatoria
fallimentare senza fornire l’indicazione delle singole rimesse
da revocare (Trib. Ivrea, 19/01/2004);
(b) l’atto di citazione con cui si chieda la condanna al
risarcimento dei danni derivanti da un articolo diffamatorio,
senza indicare le notizie ritenute non vere e le espressioni
ritenute diffamatorie (Trib. Roma 29/05/1997);
(c) l’atto di citazione con cui si impugni il bilancio di una società,
senza allegare quale sia la delibera assembleare che l’ha
approvato e quali siano le ragioni che lo inficiano (Trib.
Ivrea, 1/12/2004).

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Nella fase successiva alla notifica della citazione e al deposito


della comparsa di risposta il potere di allegazione dei fatti
principali (sempre che non introducano una nuova causa
petendi) può derivare:
 dall’esercizio dello jus poenitendi, senza che sia
necessaria una autorizzazione del giudice; oppure
 dalla dialettica processuale, cioè in conseguenza delle
domande, eccezioni e difese avversarie.
Nel primo caso, il potere di allegazione trova un
termine nella I memoria ex art. 183 c.p.c., destinata alla
precisazione o modificazione delle domande, delle eccezioni e delle
conclusioni già proposte. Dopo questa memoria non sarà più
possibile allegare nuovi fatti principali.
Nel secondo caso, invece, la parte potrà sempre continuare
ad allegare fatti fin tanto che avrà il potere di replicare
alle domande e alle eccezioni nuove e modificate dall’altra
parte. Il potere di allegazione, dunque, potrà continuare anche
nella III memoria ex art. 183 c.p.c. se e nella misura in cui sia
conseguenza del corretto sviluppo della dialettica processuale.
Si tratta di un passaggio fondamentale che vale la pena di
evidenziare. In altre parole, sino a quando una parte può proporre
o modificare domande ed eccezioni, l’altra ha il potere di allegare
fatti in risposta, ciò perché in caso contrario vi sarebbe la
violazione del diritto costituzionale di difesa sancito dall’art. 24
della Costituzione.
Vediamo ora il potere di allegazione dei fatti secondari che,
come abbiamo detto, sono rappresentati dalle allegazioni che non
incidono sulla costituzione, estinzione, modificazione e
impedimento di un diritto. Essi, in genere, non rappresentano
elementi decisivi per la causa, tuttavia possono assurgere ad
indizi in grado di determinare il convincimento del

© M. Minardi - Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione - 2009
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giudice, soli (se sono gravi, precisi e concordanti) oppure


unitamente ad altri elementi di prova. Sotto questo ultimo
aspetto, si pensi al caso in cui vi siano testimonianze contrapposte
e il giudice propenda per una delle due versioni alla luce dei fatti
secondari emersi in giudizio.

Giurisprudenza
La presunzione legale iuris tantum (quale quella di cui all'art.
1298, II comma, c.c. ai sensi del quale, in tema di ripartizione
interna dell’obbligazione solidale, “Le parti di ciascuno si
presumono uguali, se non risulta diversamente”), dà luogo soltanto
all'inversione dell'onere probatorio e può essere superata
attraverso presunzioni semplici, purché gravi, precise e
concordanti.
Nella specie la S.C. ha confermato la decisione di merito che ha
ritenuto provata l'esclusiva appartenenza al marito delle somme
depositate su un conto corrente cointestato al medesimo e alla
moglie sulla base dei seguenti fatti secondari: precedente
intestazione al marito di un conto con depositi di importo
superiore, brevissima durata del matrimonio, impossibilità di
risparmi familiari apprezzabili (Cass. civ. n. 1087/2000).

Poiché è esclusa (sempre) la possibilità che il giudice possa


utilizzare la sua scienza privata, anche i fatti secondari
debbono essere allegati o quanto meno acquisiti al
processo. La questione però è: fino a quando è possibile allegare
fatti secondari?
Al riguardo le opzioni possibili per l’individuazione delle
barriere preclusive sono tre: prima memoria ex art. 183 c.p.c.;
seconda memoria ex art. 183 c.p.c.; terza memoria ex art. 183
c.p.c..
Secondo alcuni autori27 il fatto secondario è funzionale alla
prova, pertanto il limite sarà dato dalla II memoria, se si tratta di
un fatto secondario funzionale alla prova diretta e dalla III
memoria, se si tratta di un fatto secondario funzionale alla prova

27 PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile, Jovene.

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contraria. Altri28 hanno sottolineato che il fatto secondario può


anche emergere nel corso della stessa assunzione della prova e
utilizzato ai fini della decisione.
A mio parere, il fatto secondario, al pari del fatto principale,
deve essere allegato entro la prima memoria ex art. 183 c.p.c. in
quanto l’altra parte ha il diritto di contestare e di difendersi in
ordine sia ai fatti principali, sia a quelli secondari, tenuto
soprattutto conto che il giudice potrebbe fondare la propria
decisione anche (e solo) su questi. Non mi pare poi decisiva
l’affermazione che vorrebbe inesistente una barriera preclusiva
sulla base del rilievo che i fatti secondari potrebbero emergere
anche nel corso della deposizione testimoniale. Occorre infatti
distinguere quelli che sono gli oneri di allegazione delle parti, da
quelli che possono essere i possibili sviluppi dell’istruttoria a
seguito di testimonianze, ctu, ispezioni, ecc..
D’altra parte, la distinzione tra fatti principali e fatti secondari
sta perdendo importanza con riferimento alla tematica della
contestazione. Difatti, sino a poco tempo fa la giurisprudenza,
specie quella giuslavoristica, distingueva la mancata
contestazione dei fatti principali, che determinava l’ammissione
degli stessi, dalla mancata contestazione di quelli secondari, che
costituiva un semplice argomento di prova. Di recente, però, la
Suprema Corte ha affermato che l'onere di contestazione
tempestiva deriva da tutto il sistema processuale (come risulta
dal carattere dispositivo del processo, che comporta una struttura
dialettica a catena; dal sistema di preclusioni, che comporta per
entrambe le parti l'onere di collaborare, fin dalle prime battute
processuali, a circoscrivere la materia controversa; dai principi di
lealtà e probità posti a carico delle parti e, soprattutto, dal

28 MARELLI, La trattazione della causa nel regime delle preclusioni, Cedam.

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generale principio di economia che deve informare il processo,


avuto riguardo al novellato art. 111 Cost.). Conseguentemente,
ogni volta che sia posto a carico di una delle parti (attore o
convenuto) un onere di allegazione (e prova), l'altra ha l'onere
di contestare il fatto allegato nella prima difesa utile,
dovendo, in mancanza, ritenersi tale fatto pacifico e non più
gravata la controparte del relativo onere probatorio, senza che
rilevi la natura di tale fatto (Cass. civ. n. 5191/2008). La Corte,
dunque, sembra affermare, tra le righe, che non vi sia più alcuna
differenza, con riguardo agli effetti della mancata contestazione,
tra fatti principali e fatti secondari.
Sulla questione dell’allegazione dei fatti occorre segnalare una
pronuncia fuori dal coro della Suprema Corte (sent. n.
20581/2004) che pur non avendo affrontato direttamente la
questione del limite temporale della loro allegazione ha ritenuto
ammissibile la capitolazione della prova diretta effettuata
dalla parte costituitasi direttamente all’udienza “del I 184”,
in un giudizio post riforme del '90-'95. Si legge nella sentenza che
la finalità a cui è ispirata la sequenza temporale di cui agli artt.
180, 183 e 184 c.p.c. ed il conseguente sistema delle preclusioni è
costituita infatti dall'esigenza di assicurare il contraddittorio ed il
diritto di difesa. È pertanto nella disponibilità delle parti
l'eventuale ampliamento del thema decidendum, possibile fino al
momento della precisazione delle conclusioni, anche a seguito della
riforma introdotta dalla legge n. 353/90 (Cass. Sez. Un. 1731/96).
Di conseguenza, in caso di costituzione del convenuto oltre la
prima udienza di trattazione, i mezzi di prova articolati dal
medesimo devono ritenersi ammissibili se dedotti quando non è
ancora chiusa l'istruttoria senza incontrare alcuna opposizione
dalla parte dell'attore.

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Nella fattispecie decisa dalla Corte, il convenuto aveva eccepito


la nullità di un contratto di vendita di immobile perché
dissimulante un patto commissorio e aveva articolato specifiche
prove volte a dimostrare la sua difesa. Dalla sentenza dovrebbe
altresì ricavarsi il principio che l’allegazione di fatti nuovi non
costituisce eccezione rilevabile d’ufficio, bensì proponibile solo
dalla parte.
A questa pronuncia si oppongono, però, molte altre sentenze,
anche più recenti, le quali hanno invece statuito che nel sistema
successivo alla novella della L. n. 353 del 1990, il regime di
preclusioni introdotto nel rito civile ordinario riformato deve
ritenersi inteso non solo a tutela dell'interesse di parte, ma anche
dell'interesse pubblico al corretto e celere andamento del processo,
con la conseguenza che la tardività di domande, eccezioni,
allegazioni e richieste deve essere rilevata di ufficio dal giudice
indipendentemente dall'atteggiamento processuale della
controparte al riguardo (Cass. civ. n. 25242/2006; id.
4376/2000).
A me pare evidente che non si può chiedere la prova di ciò
che non è stato tempestivamente allegato, come invece
parrebbe ammettere la Corte con la pronuncia n. 20581/04
sopra ricordata.

La sentenza, però, merita adesione laddove fa riferimento al


potere dispositivo delle parti. In effetti, allorquando la
Cassazione afferma che la violazione delle preclusioni deve
essere sempre e comunque rilevata d’ufficio dal giudice, in
ossequio al principio di concentrazione, celerità e corretto
andamento del processo, omette di considerare che non
sempre la violazione delle preclusioni comporta la
violazione dei detti principi. Si pensi all’ipotesi in cui la
parte produca un documento all’udienza fissata per le prove
e l’altra parte non eccepisca la tardività, bensì
semplicemente l’irrilevanza. Quale vulnus è stato creato al
sistema? Afferma lucidamente Costanzo Cea che in questi

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casi “non c’è lesione del valore della concentrazione


processuale, sicché consentire il rilievo ufficioso del vizio
derivante dal mancato rispetto delle preclusioni significa
rinunciare a fare entrare nel processo ulteriori elementi
probatori che potrebbero contribuire alla formazione di una
decisione «giusta», in quanto fondata sull’accertamento
veritiero dei fatti29”.

Discorso a parte è quello dei fatti sopravvenuti allo scadere


dei termini. È pacifico che la preclusione delle allegazioni non
possa impedire l’allegazione e la richiesta di prova in
ordine ai fatti nuovi sopraggiunti nel corso del processo
quanto meno fino all’udienza di PC30. Le posizioni si dividono
allorquando si tratta di stabilire il mezzo per far entrare nel
processo detti fatti, ovverosia se occorra o meno un provvedimento
del giudice. È per l’ammissibilità automatica delle nuove
deduzioni (senza dunque la necessità di remissione in termini, sia
per lo jus che per il factum superveniens) Tarzia31, il quale ritiene
che l’eccezione all’operare del regime delle preclusioni sia
necessaria in considerazione della garanzia della difesa e che
quindi non sia opportuna la sottoposizione a provvedimento
discrezionale del giudice. Di diverso avviso Balena32, che fa
rientrare lo jus e il factum superveniens tra i motivi che
giustificavano il provvedimento di remissione in termini da parte
del giudice. La Corte ha affermato che, in ogni caso, l’allegazione
deve essere necessariamente fatta con il primo atto
difensivo utile (Cass. civ. n. 14131/2006).
Anche qui, per scrupolo difensivo, la soluzione migliore è
quella di allegare i fatti con la prima difesa utile, specificando che

29 CEA, La trattazione della causa nel rito ordinario, www.judicium.it.


30 Nella famosa sentenza n. 16571 del 2002, la Suprema Corte ha affermato in obiter

dictum che “la preclusione non si verifica in relazione ai fatti sopravvenuti”.


31 TARZIA, Lineamenti del processo di cognizione, Giuffrè, 2006.
32 BALENA, La riforma del processo civile di cognizione, E.S.I., 2004.

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qualora si ritenesse irrituale detta allegazione, si chiede la


rimessione in termini 184 bis c.p.c. (art. 153 II comma, in caso di
approvazione del d.d.l. 1441-bis B).

© M. Minardi - Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione - 2009
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7. IL REGIME DI PRECLUSIONE DELLE ARGOMENTAZIONI


DIFENSIVE

Diversa dalla allegazione di un fatto, principale o secondario


che sia, è l’argomentazione difensiva, che può essere giuridica o
fattuale.
L’argomentazione si definisce giuridica quando la difesa
si incentra sull’esame delle norme sostanziali e processuali a
sostegno delle proprie difese ed eccezioni (ad es. l’applicabilità o
meno di una norma; l’entrata in vigore di una legge; ecc.).
L’argomentazione si dice fattuale quando il ragionamento
investe gli aspetti sostanziali della controversia (es.
l’interpretazione del comportamento tenuto dalla parte).
Il problema delle preclusioni non si pone per le
argomentazioni giuridiche atteso il principio dello jura
novit curia. Dunque, potendo il giudice sempre dare una
qualificazione giuridica ai fatti allegati e provati, anche la parte
può fornire senza limiti di tempo la propria interpretazione
giuridica, quanto meno sino alla comparsa conclusionale,
purché ciò non si traduca in una nuova interpretazione della
causa petendi. Più discutibile è la possibilità di inserire nuove
argomentazioni giuridiche, non conseguenti quindi alle
argomentazioni avversarie, nella replica conclusionale, ciò per
l'evidente sottrazione al contraddittorio.
Facciamo un esempio. Se con l’atto introduttivo ho sostenuto
che la responsabilità del convenuto è di tipo extracontrattuale, ex
art. 2043 c.c., non potrò, nel prosieguo, argomentare che, in realtà,
la responsabilità del medesimo si fonda sull’art. 2050 c.c.
(Esercizio attività pericolose). Qui siamo fuori dalla modifica

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dell’argomentazione giuridica legittimamente consentita; siamo


sfociati nella mutatio libelli.
Il problema potrebbe invece porsi per le argomentazioni
fattuali nuove, purché basate su prove regolarmente acquisite,
essendo certamente inammissibili le argomentazioni basate su
fatti non acquisiti. Si pensi, ad esempio, alla parte che in un
giudizio di revocatoria fallimentare indichi quale possibile
elemento indiziario della conoscenza dello stato di insolvenza la
movimentazione del conto corrente nel periodo sospetto,
caratterizzata da versamenti intesi a diminuire l'esposizione
debitoria e lo faccia per la prima volta proprio nella comparsa
conclusionale, sulla base degli estratti conto regolarmente
prodotti.
In questi casi, secondo la Corte di Cassazione, la deduzione
fatta in comparsa conclusionale non può considerarsi tardiva, in
quanto la parte non allega un fatto nuovo, bensì una ragione
giustificativa della domanda fondata su materiale
regolarmente acquisito (Cass. civ. n. 19894/2005).
Pertanto le argomentazioni in fatto, al pari di quelle
giuridiche, possono essere svolte per la prima volta in comparsa
conclusionale purché si basino su materiale probatorio in atti.

7. 1 Segue: la mancata contestazione dei fatti allegati


Alcune parole debbono essere spese in merito alla
“contestazione”33, questione assai controversa in giurisprudenza34

33 Per un approfondimento, v. B. CIACCIA CAVALLARI, La contestazione nel processo civile,


II, Milano 1993, p. 34 ss., e A. CARATTA, Il principio della non contestazione nel processo
civile, Milano 1995, p. 164 ss.
34 Diverso il discorso per il rito del lavoro, ove a seguito della nota sentenza a Sezioni

Unite della S.C., resa in data 23 gennaio 2002, n. 761, si è affermato il principio che
entrambe le parti hanno un vero e proprio onere di contestazione, dalla cui inosservanza
discende l’esclusione dei fatti non contestati dal thema probandum; e nel contempo,
muovendo dal presupposto che la contestazione dei fatti costitutivi sia assimilabile
all’allegazione dei fatti medesimi, ne hanno dedotto ch’essa “simmetricamente soggiace

© M. Minardi - Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione - 2009
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e in dottrina, che oggi potrebbe acquistare una nuova prospettiva


qualora fosse approvato il d.d.l. 1441-bis B. L’art. 115 c.p.c.
novellando stabilisce infatti che il giudice deve porre a
fondamento della decisione “i fatti non specificatamente contestati
dalla parte costituita”.
Esaminiamo però quello che è lo stato dell’arte.
A fronte di sentenze che anche di recente hanno affermato che
non sussiste nel vigente ordinamento processuale un onere per la
parte di contestazione specifica di ogni fatto dedotto ex adverso,
tanto che la mera mancata contestazione in quanto tale non può
avere automaticamente l'effetto di prova (Cass. civ. n.
13958/2006), si registra un orientamento per così dire intermedio
e un orientamento estremo.
L’orientamento intermedio è quello espresso, ad esempio,
da Cass. civ. n. 2273/2005, in cui si dà la possibilità al giudice di
valutare tale comportamento, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., non
semplicemente di per sé (e quindi solo in quanto omessa
contestazione), ma come espressione significativa del
comportamento processuale della parte, da inquadrare nell'ambito
di quest'ultimo e valutata in relazione all'intero complesso di tesi
difensive esposte.
L’orientamento estremo che si va sempre più affermando è
efficacemente espresso dalla seguente sentenza del Tribunale di
Ivrea (5 novembre 2003), che vale la pena di leggere per esteso:
“È noto come di tale principio la tradizionale e maggioritaria
giurisprudenza ha sempre dato una lettura prudente, parlando di
non contestazione, con conseguente non necessità di dar prova di
fatti ritenuti pacifici, solo allorquando l'altra parte li ha
esplicitamente ammessi; ovvero ha impostato la propria difesa su

agli stessi limiti apprestati per tale potere”, che coinciderebbero, nel rito del lavoro, col
termine per la modificazione delle domande e delle eccezioni, a norma dell’art. 420 c.p.c..
In senso conforme, Cass. civ n. 15949/2004, in Foro it., Rep. 2004, voce Lavoro e
previdenza (controversie), n. 114; 5 agosto 2004, n. 15107, ibidem, voce cit., n. 88; 5
aprile 2004, n. 6663, ibidem, voce cit., n. 170.

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argomenti logicamente incompatibili con il disconoscimento;


ovvero si è limitata a contestare esplicitamente e specificamente
alcune circostanze, con ciò implicitamente riconoscendo le altre (da
ultimo ed ex pluribus, Cass. n. 14880 / 2002, Cass. n. 13814 / 2002,
Cass. n. 13904 / 2000, Cass. n. 10434 / 2000, Cass. n. 9424 / 2000,
Cass. n. 11513 / 1999, Cass. n. 4687 / 1999, Cass. n. 1213 / 1999).
Secondo un diverso orientamento, tendente a valorizzare
l'applicazione dell'istituto in parola, deve invece affermarsi
l'esistenza in via generale nel processo civile, sia nell'ambito del
rito ordinario che nell'ambito del rito del lavoro, del principio della
non contestazione, di talché vanno ritenuti provati tutti i fatti
storici non contestati da controparte. Il principio della non
contestazione, già enunciato ed applicato in diverse ipotesi
disciplinate dal codice di rito (cfr. artt. 14 comma 3, 35, 316 comma
3, 186 bis e 423, 512 comma 2, 597, 598, 541, 542, 785, 789, 548,
643 c. p. c.), è infatti fondato in via generale sugli artt. 167 comma
1 e 416 comma 3 c. p. c., che pongono al convenuto l'onere di
prendere posizione sui fatti ex adverso dedotti a fondamento della
domanda.
L'esistenza di tale generale principio si spiega, sotto un profilo
logico, argomentando che la non contestazione rappresenta una
linea difensiva incompatibile con la negazione del fatto, e sotto il
profilo giuridico con la necessità di aumentare la concentrazione e
l'efficienza processuale. Trattasi di un principio tendenzialmente
stabile, in quanto le contestazioni tardive sono possibili sino a
quando non si verificano le preclusioni processualcivilistiche in
ordine alla emendatio libelli, che nel rito ordinario coincidono con
le memorie ex art. 183 comma 5 c. p. c.. In tutta evidenza, poi, per
essere rilevante la non contestazione deve riguardare fatti storici,
non già la ricostruzione giuridica degli stessi o l'applicazione di
norme giuridiche, che spettano sempre al Giudice.
Tale ricostruzione, che questo Giudice condivide, fino a qualche
anno orsono è risultata certamente minoritaria (cfr. tuttavia Cass.
n. 5536 / 2001, Cass. n. 6230 / 1998, Cass. n. 7758 / 1997, Cass. n.
1576 / 1995, Cass. n. 4834 / 1988, Cass. n. 6620 / 1982), ma è stata
recentemente avallata dalle Sezioni Unite con la pronuncia n. 761
/ 2002 e seguita dalla maggioritaria successiva giurisprudenza di
legittimità (Cass. n. 1562 / 2003, Cass. n. 535 / 2003, Cass. n.
13972 / 2002, Cass. n. 8502 / 2002, Cass. n. 5526 / 2002, Cass. n.
1902 / 2002, tutte peraltro rese dalla sezione lavoro) e da parte
della giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Foggia 7 / 5 / 2002), pur
se non anche dalle recentissime Cass. n. 1672 / 2003 e Cass. n. 559
/ 2003, che peraltro in motivazione non danno conto della
precedente pronuncia a Sezioni Unite”.

L’argomento, come abbiamo visto poc’anzi, è stato ripreso di


recente dalla Suprema Corte la quale ha stabilito che l’onere di

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contestazione tempestiva deriva da tutto il sistema


processuale, come si evince:
(a) dal carattere dispositivo del processo, che comporta una
struttura dialettica a catena;
(b) dal sistema di preclusioni, che comporta per entrambe le
parti l'onere di collaborare, fin dalle prime battute
processuali, a circoscrivere la materia controversa;
(c) dai principi di lealtà e probità posti a carico delle parti
e, soprattutto,
(d) dal generale principio di economia che deve informare il
processo, così come previsto dall’art. 111 Cost..
Conseguentemente, ogni volta che sia posto a carico di una
delle parti (attore o convenuto) un onere di allegazione (e prova),
l’altra ha l’onere di contestare il fatto allegato nella prima
difesa utile, dovendo, in mancanza, ritenersi tale fatto
pacifico e la controparte non più gravata del relativo
onere probatorio (Cass. civ. n. 5191/2008).
Pertanto, secondo il più recente orientamento della Suprema
Corte la parte ha l’onere di contestare specificamente i fatti
principali affermati dall’altra parte con la prima difesa
utile, dovendosi altrimenti il fatto ritenere pacifico.
Il disegno di legge sopra menzionato intende mettere la parola
fine sulla questione stabilendo, come abbiamo visto, l’onere di
contestare “specificatamente” i fatti allegati dall’altra parte; in
difetto dovranno ritenersi provati senza necessità di istruzione.

Esempio.
In materia di fatti illeciti il convenuto non dovrà genericamente
contestare la narrazione fatta dall’attore, ma dovrà precisare come
– secondo lui - si è svolto il fatto.
E ancora, davanti all’attore che chiede il ristoro delle lesioni
personali, il convenuto dovrà dichiarare: se nega o ammette la loro
sussistenza; che derivino o meno dal sinistro; che abbiano prodotto
i postumi permanenti lamentati dall’attore; che abbiano rese

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necessarie le spese mediche indicate dall’attore; che abbisognino


degli ulteriori interventi chirurgici indicati dall’attore35.

7. 2 Segue: il regime di preclusione delle osservazioni


critiche alla CTU
Quella del limite temporale per la formulazione delle
osservazioni critiche alla CTU è questione controversa nella
giurisprudenza della Suprema Corte.
Mentre alcune sentenze affermano che dette
osservazioni debbano necessariamente essere formulate
prima della rimessione della causa in decisione, al fine di
evitare la loro sottrazione al dibattito processuale e al
contraddittorio (Cass. civ. n. 9517/2002; id. 11999/98), altre
pronunce affermano che la parte può svolgere nuove ragioni
di dissenso e di contestazione avverso le valutazioni e le
conclusioni del consulente tecnico di ufficio con la
comparsa conclusionale, trattandosi - in quest'ultimo caso - di
nuovi argomenti su fatti già acquisiti alla causa, che non
ampliano l'ambito oggettivo della controversia (Cass. civ. n.
2809/2000; Cass. civ. n. 1666/1977).
Nell’incertezza, è consigliabile formularle con il primo
atto difensivo successivo al deposito della CTU.

È importante ricordare che le critiche tecniche che il difensore


muove alla CTU possono essere tenute in considerazione dal
giudice solo ove il difensore alleghi e dimostri di possedere
anch’egli quelle specifiche competenze tecniche (Cass. civ.,
sez. lav. n. 8297/2005), ad esempio, in tema di perizia contabile,
allegando e provando di essere iscritto nell’albo dei revisori dei
conti.

Qualora i rilievi mossi dal CTP siano precisi e


circostanziati, il giudice è tenuto a prenderli in considerazione,

35L’esempio è ripreso da ROSSETTI, Sinistri stradali e rito del lavoro, Giuffrè, 2006, ma il
principio è ormai estensibile anche al rito ordinario.

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essendogli proibito di sposare acriticamente le conclusioni del


CTU, pena il vizio della sentenza. Ciò perché il potere del giudice
di apprezzare il fatto, non equivale ad affermare che egli possa
farlo immotivatamente e non lo esime, in presenza delle riferite
contestazioni, dalla spiegazione delle ragioni - tra le quali
evidentemente non si annovera il maggior credito che egli
eventualmente tenda a conferire al consulente d'ufficio quale
proprio ausiliare - per le quali sia addivenuto ad una conclusione
anziché ad un'altra, così Cass. civ. n. 4797/2007.

Nella specie, la S.C., enunciando il riportato principio, ha cassato


con rinvio l'impugnata sentenza con la quale, in un giudizio
risarcitorio per lesioni conseguenti ad assunta responsabilità
sanitaria, la Corte di appello aveva confermato la statuizione di
rigetto della domanda adottata in primo grado, rilevando, in modo
apodittico e senza un preciso riscontro dei plurimi rilievi formulati
dal consulente di parte, la piena attendibilità delle risultanze di
quest'ultima, in quanto ritenute fondate su elementi di
valutazione assolutamente condivisibili e conformi ai dati
riscontrati ed esaustivamente motivati con osservazioni pertinenti
e logiche, corrispondenti anche ai risultati peritali d'ufficio
scaturiti in primo grado, con conseguente insussistenza delle
decisive incongruenze denunciate dall'appellante.

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8. IL REGIME DI PRECLUSIONE DELLE ISTANZE


ISTRUTTORIE

E veniamo alle preclusioni istruttorie.


Prima della riforma ’90-‘95, le parti potevano formulare le
richieste istruttorie fino a che la causa non passava alla fase della
PC, tanto che gli avvocati erano soliti verbalizzare la richiesta di
fissazione della suddetta udienza specificando prudenzialmente
“in assenza di eventuali deduzioni istruttorie”.
Con l’entrata in vigore della legge 353/90 il termine ultimo per
la proposizione delle richieste istruttorie dirette è stato
individuato nella I memoria ex art. 184, mentre per la prova
contraria nella II memoria dello stesso articolo.
Ovviamente nulla impediva (e impedisce tuttora) di articolare i
mezzi istruttori nelle fasi precedenti e di “saltare” le memorie “del
184” (oggi “del 183”). In particolare, la S.C. ha escluso che possa
ritenersi irrituale la produzione di un documento all’udienza “del I
184” (Cass. civ. n. 28219/2008).
All’indomani della riforma, però, dalla lettura combinata
dell’art. 163, il cui III comma, n. 5) c.p.c. prevede l’indicazione
specifica nell’atto di citazione dei mezzi di prova dei quali l’attore
intende valersi e dei documenti che offre in produzione, e dell’art.
184, in cui si diceva che su istanza di parte poteva essere
assegnato un termine per produrre “nuovi” mezzi di prova,
qualche giudice di merito36 aveva tratto la conclusione che con le

36V. in particolare Trib. Roma, sez. 11, sent. 13/4/2004; id. sent. 19 giugno 1998; id.
sent. 14 luglio 1997. Si legge in particolare nella motivazione della prima sentenza: È
pur vero, sul punto, che la Corte di cassazione ha in un'occasione affermato che prove
nuove possono essere richieste entro i termini di decadenza previsti dalla legge
indipendentemente dalla circostanza che esse siano state tempestivamente richieste
dell'atto introduttivo del giudizio (così Cass. 25 novembre 2002, n. 16571). Ma siffatto
indirizzo - che, tra l'altro, si presenta nel corpo della sentenza quale mero obiter dictum,
come tale privo di rilievo a fine nomofilattico - non merita per nulla di essere condiviso.
Esso, infatti:

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memorie “del 184” si potessero chiedere solo le prove necessitate


dalla successiva dialettica processuale e non dunque le prove che
si sarebbero potute indicare negli atti introduttivi37. Tale
orientamento è stato però smentito dalla giurisprudenza della
S.C. (si veda ad es. Cass. civ. n. 16571/2002)38.

Giurisprudenza.
“Nel corso della prima udienza di trattazione le parti hanno
facoltà di indicare mezzi di prova del tutto "nuovi" - e ciò avverrà,
nel caso in cui provvedano ad ovviare a precedenti omissioni, come
è loro consentito, poiché nessuna sanzione è prevista per il caso di
mancata formulazione dei mezzi di prova nell'atto di citazione e
nella comparsa di risposta -, ovvero mezzi di prova "ulteriori e
diversi" rispetto a quelli già articolati; mezzi "nuovi" o "ulteriori e
diversi" la cui deduzione non è neppure condizionata dall'effettiva
emersione di novità nella udienza di trattazione”, Cass. civ. n.
16571/2002.

- priva di qualsiasi rilievo la previsione contenuta negli artt. 163 e 167 c.p.c. secondo cui
«l'atto di citazione deve contenere ... l'indicazione specifica dei mezzi di prova» ed il
convenuto «nella comparsa di risposta... deve ... indicare i mezzi di cui intende valersi»;
- non intende nel suo significato pregnante il rilievo, nel quadro di applicazione del
vigente codice di procedura civile, della scansione delle udienze (e delle attività
processuali che in esse vanno a confluire) secondo una prospettiva rigorosamente
funzionalizzata;
- non si avvede del poderoso rilievo del principio di ragionevole durata del processo, ex
art. 111 Cost., il quale impone una lettura costituzionalmente orientata delle norme del
rito civile, in vista della realizzazione di un processo ragionevolmente celere: il che
esclude possa privilegiarsi un'impostazione del processo di cui nessuno è spinto a fare
oggi quello che potrà fare domani;
- omette di considerare che il codice di procedura civile contiene numerose ipotesi in cui
un congegno di decadenza è insito nel sistema (si pensi al termine per la notificazione
del decreto ingiuntivo di cui all'art. 644 c.p.c., che non è «espressamente» previsto a pena
di decadenza, ma che pure è tale, dal momento che, dopo il suo decorso, il decreto
ingiuntivo diviene ormai irrimediabilmente inefficace).
In definitiva, questo Tribunale continua a ritenere che i «nuovi mezzi di prova» cui ha
tratto l'articolo 184 c.p.c. possono essere richiesti all'udienza di cui all'articolo 183, 5°
co., c.p.c., o nel termine assegnato dal giudice ai sensi dell'articolo 184, 1° co., c.p.c.,
quando siano state effettuate precisazioni e/o modificazioni delle domande ed eccezioni
ai sensi dell'articolo 183, 4° co., c.p.c., ovvero siano stati allegati fatti nuovi.
Deve tenersi ferma, dunque, l' inammissibilità della prova testimoniale richiesta
dall'opposto nella memoria predetta.
37In dottrina, v. GRASSO, Note sui poteri del giudice nel nuovo processo di cognizione di
primo grado, in Riv. Dir. Proc., 1992.
38 Peraltro, dall’esame dei lavori preparatori della riforma del ’90, in particolare il § 6.3

della relazione presentata dai senatori Acone e Lipari, per conto della Commissione
giustizia del Senato, all’Assemblea, si evinceva abbastanza chiaramente l’intenzione del
legislatore di posporre tali preclusioni rispetto alla fase introduttiva del processo,
differenziando per quest’aspetto il rito ordinario da quello del lavoro.

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Oggi, nell’art. 183 c.p.c. è sparito l’aggettivo “nuove”, dunque,


l’interpretazione data dalla Cassazione sotto il previgente art. 184
c.p.c. ne esce rafforzata.
Attualmente, il termine ultimo per articolare i mezzi
istruttori e per produrre documentazione a sostegno delle
proprie domande ed eccezioni è dato, pertanto, dalla II
memoria ex art. 183 c.p.c..
Naturalmente, fa eccezione il giuramento decisorio che ai sensi
dell’art. 233 c.p.c. può essere deferito in qualunque stato della
causa davanti al giudice istruttore, come pure la proposizione
della querela di falso ex art. 221 c.p.c. e il deposito di documenti
che legittimerebbero la revocazione ex art. 395 n. 3 c.p.c..
Va osservato che è ormai rimasta minoritaria39 l’opinione che
tende a distinguere tra prove costituende e prove precostituite e
che afferma che le seconde maturino in un momento successivo.
Giurisprudenza di legittimità e costituzionale
convengono sul fatto che tutte le prove dirette devono
essere articolate e prodotte entro lo stesso termine (v. Cass.
civ. n. 5539/2004 e Cass. civ. n. 15646/2003; Corte Cost. n.
401/2000).
Le ragioni sono più che convincenti:
 sia il previgente art. 184, sia l’attuale art. 183 non
prevedono una disciplina differente;
 non appare logico che la parte che disponga di prove
documentali possa incontrare preclusioni in un momento
successivo rispetto a quella che, invece, possa solo
formulare istanza di prove costituende;

39Tribunale Chieti, 01 febbraio 2000; Trib. Roma 14/7/1997, in Giust. Civ., 1998, I,
2957.

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 l’uniformità di disciplina è maggiormente compatibile con il


canone del giusto e della ragionevole durata del processo.
Pertanto, l’unica differenza è data dal fatto che mentre la
prova costituenda è soggetta ad una preventiva valutazione di
ammissibilità, la prova precostituita verrà semplicemente
valutata dal giudice al momento della decisione, senza possibilità
di espunzione, laddove ritualmente prodotta (anche se talvolta, in
udienza, alcuni giudici rifiutano il deposito tardivo di
documentazione).
In base al momento di formazione le prove possono essere
costituite o costituende; le prime esistono e si formano al di
fuori del processo (ad es. la prova documentale), le seconde si
formano all’interno del processo (ad es. la testimonianza).
Le prove costituite non sono soggette ad una preventiva
valutazione di ammissibilità e rilevanza, tutt’al più possono essere
giudicate irrilevanti e inammissibili in sede di decisione.
Diversamente, le prove costituende sono oggetto di una preventiva
valutazione.
La prova può essere poi:
(a) diretta;
(b) indiretta o rappresentativa;
(c) critica o indiziaria.
Non vi è uniformità di vedute circa la differenza tra prova diretta
e indiretta. Secondo alcuni autori la prova è diretta se è percepita
dal giudice (ad es. con l’ispezione), mentre è indiretta se tra il fatto
storico e la percezione del giudice c’è un fatto intermedio, ad es.
una testimonianza o un documento (Luiso). Altri sostengono che la
differenza riposa nell’oggetto che deve formare materia della
conoscenza. Così, se si deve accertare lo stato psichico di una
persona la prova diretta è l’esame della stessa, la prova indiretta è
la testimonianza sui suoi comportamenti (Rocco).
La prova critica o indiziaria è costituita da un meccanismo
complesso e cioè la prova di fatti secondari e il ragionamento
induttivo del giudice che da quei fatti giunge a ritenere provati i
fatti principali.
Anche la prova contraria può essere diretta o indiretta. È
diretta se mira a provare che quel fatto non è mai accaduto,
mentre è indiretta se mira a provare una circostanza
incompatibile con quella allegata dalla parte e dunque relativa a
fatti nuovi e diversi volti a dimostrare, in via congetturale, la
insussistenza o la diversa configurazione dei fatti allegati dal
deducente (l’attore intende provare che il giorno x Tizio lo ha
aggredito mentre si trovava in via Condotti a Roma; il convenuto

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deduce la prova volta a dimostrare che quel giorno si trovava in


Australia).
Naturalmente è prova contraria anche quella documentale
rispetto a quella testimoniale.

Va altresì segnalato che l’indicazione del nome dei


testimoni deve essere contestuale alla formulazione dei capitoli
di prova (Cass. civ. n. 27007/2005 e Cass. civ. n. 12959/2005).
Naturalmente, la prova dovrà avere ad oggetto i fatti,
principali e secondari, allegati entro la I memoria ex art. 183;
devono essere dichiarati inammissibili, infatti, i capitoli di
prova che, come molto spesso accade, contengono la
descrizione di circostanze mai allegate dal difensore40.
È altresì importante ricordare quanto disposto dall’art. 244
c.p.c. secondo cui la prova per testimoni deve essere dedotta
mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei
fatti, formulati in articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve
essere interrogata. Tale disposizione ha il duplice scopo di:
(a) consentire all'avversario di formulare i capitoli di prova
contraria indicando i propri testimoni, e
(b) di dare modo al giudice di valutare se la prova richiesta sia
concludente e pertinente.
La S.C. ha precisato che, specie in relazione a tale ultimo
scopo, la norma in questione deve considerarsi di carattere
cogente, sicché la sua inosservanza da parte di chi propone la
prova determina l'inammissibilità del mezzo istruttorio che,
ove erroneamente ammesso ed espletato, non potrà essere tenuto
in considerazione dal giudice (Cass. civ. n. 2201/2007). In
particolare, saranno da evitare formule di rinvio del tipo: Si
chiede prova per testi sui capitoli da 1 a 5 come formulati in
narrativa della citazione, da intendersi preceduti dalla locuzione

40 Sicuramente per ciò che concerne i fatti principali; controversa è la possibilità di


allegare i fatti secondari.

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«Vero che», qualora detti capitoli non contengano fatti puntuali e


circoscritti, bensì vere e proprie narrazioni di fatti.
La prova contraria, come abbiamo già visto, è oggi relegata
alla III memoria ex art. 183. Per prova contraria deve intendersi
sia la prova costituenda, sia quella costituita (Cass. civ. n.
2656/2006). Ricordiamo che la prova contraria può essere diretta,
se ci si limita ad indicare i propri testi sui capitoli avversari e
indiretta, se tende a dimostrare, con capitoli formulati ad hoc,
fatti incompatibili con quelli che vuole dimostrare l’altra parte.
Questione assai interessante è quella del momento della
formulazione della prova contraria. Secondo un orientamento
giurisprudenziale di merito, se la prova diretta viene articolata in
atto di citazione il termine ultimo per formulare la prova
contraria sarebbe dato dalla comparsa di costituzione e risposta.
Anche tale soluzione è stata però sconfessata dalla S.C. (sent. n.
2656/2004) che ha affermato che l'espressione «prova contraria»,
che appariva nell'ultima parte del primo comma dell'art. 184 c.p.c.
non faceva riferimento unicamente a prove «contrarie» a quanto
dedotto entro il primo dei previsti termini per la produzione di
documenti e la deduzione di nuove prove.

8.1 Segue: la rilevabilità d’ufficio delle preclusioni


istruttorie
Fatta questa disamina delle preclusioni istruttorie, resta da
chiedersi se la preclusione in esame sia rilevabile d’ufficio o solo
su istanza di parte. La giurisprudenza di merito, in conformità
alla tesi dottrinale maggioritaria, ha sempre ritenuto che le
preclusioni istruttorie fossero rilevabili d’ufficio, in ragione
sia della natura perentoria del termine per le loro deduzioni, sia
della natura pubblicistica dell’interesse tutelato (tra le tante,
Tribunale Roma, 2 febbraio 2005; Tribunale Torino, sez. II, 19

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febbraio 2003; Tribunale Trani, 24 luglio 2000; Tribunale Milano,


8 maggio 1997).
La tesi è stata avallata anche dalla Suprema Corte la
quale ha autorevolmente affermato che il regime di preclusioni
introdotto nel rito civile ordinario con le riforme del ’90-’95 debba
ritenersi inteso non solo nell’interesse di parte, ma anche
nell’interesse pubblico all’ordinato e celere andamento del
processo, con la conseguenza che la tardività delle domande,
eccezioni, allegazioni e richieste, deve essere rilevata
d’ufficio dal giudice indipendentemente dallo
atteggiamento processuale della controparte al riguardo e
dall’eventuale accettazione del contraddittorio (Cass. civ. n.
16921/200367; Cass. civ. n. 5539/2004; Cass. civ. n. 378/2002;
Cass. civ. n. 4376/2000).

Giurisprudenza.
Le preclusioni istruttorie riguardano le parti e non i terzi, sicché è
stato ritenuto liberamente apprezzabile dal giudice, in quanto
prova atipica, il fax esibito da un testimone durante
l’espletamento della prova testimoniale e non disponibile alle parti
(Tribunale Perugia, 12 dicembre 2008).

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TABELLA RIASSUNTIVA

ATTIVITA’ ATTORE CONVENUTO


Precisazione e modificazione dei  I mem. 183  I mem. 183
fatti
Allegazione di nuovi fatti  Udienza di trattazione se diretti a  II mem. 183 se diretti a
paralizzare in via di eccezione la contrastare le domande ed
domanda riconvenzionale o le eccezioni nuove sollevate in
eccezioni sollevate dal convenuto in udienza di trattazione
comparsa di costituzione e risposta;
 III mem. 183 se diretti a paralizzare
l’eccezioni nuove sollevate con la II
mem.
Precisazione delle domande  I mem. 183  I mem. 183
Modificazione delle domande  I mem. 183  I mem. 183
Nuove domande  Udienza di trattazione se l’esigenza  Comparsa di costituzione e
è sorta dalle difese ed eccezioni del risposta
convenuto
Precisazione delle eccezioni  I mem. 183  I mem. 183
Modificazione delle eccezioni  I mem. 183  I mem. 183
Nuove eccezioni  Udienza di trattazione se l’esigenza  II mem. 183, se l’esigenza è
è sorta dalle difese ed eccezioni del sorta a seguito delle eccezioni e
convenuto formulata in comparsa di domande nuove formulate in
costituzione e risposta. udienza di trattazione
 III mem. 183 se l’esigenza è sorta a  Udienza successiva alla III mem.
seguito delle eccezioni nuove 183, se l’esigenza è sorta a
formulate nella II mem. seguito delle eccezioni nuove
formulate nella III mem.
Precisazione conclusioni  Udienza PC  Udienza PC
Modificazione conclusioni  I mem. 183  I mem. 183
Argomentazioni difensive  Comparsa conclusionale  Comparsa conclusionale
Richieste istruttorie dirette  II mem. 183  II mem. 183
Richieste istruttorie repliche  III mem. 183  III mem. 183

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PARTE II
LO SVOLGIMENTO DELLA PRIMA
UDIENZA DI TRATTAZIONE

SOMMARIO.
1. Le verifiche preliminari.- 2. Il tentativo di conciliazione.- 3. La
richiesta di chiarimenti.- 4. Le preclusioni attoree e lo jus variandi e/o
poenitendi.- 5. Il triplo termine.- 5.1. Segue: le domande nuove del
convenuto.- 5.2. Segue: la formulazione delle istanze istruttorie.- 6. La
decisione del giudice sulle istanze istruttorie.- 7. Le prove ammesse
d’ufficio dal giudice.-

1. LE VERIFICHE PRELIMINARI

Fatta questa lunga, ma doverosa, analisi del sistema delle


preclusioni, iniziamo l’esame della nuova udienza di trattazione
che, sparita l’udienza “del 180”, rappresenta il punto nevralgico
della fase preparatoria del processo ordinario di cognizione.
Oggi, l’articolo 180 stabilisce semplicemente:
(a) che la trattazione della causa è orale;
(b) che di essa il giudice redige il processo verbale.
Il nuovo art. 183 c.p.c., ora composto di ben dieci commi, è
intitolato Prima comparizione delle parti e trattazione della causa.
Come abbiamo detto, lo scopo perseguito dal legislatore è stato
quello di concentrare in un’udienza tendenzialmente unica, cui
può far seguito solo l’eventuale scambio di tre memorie difensive,
tutte le attività preparatorie della successiva trattazione della
causa. Vediamo dunque in dettaglio come si articola lo
svolgimento di questa nuova udienza.
Anzitutto, il giudice è tenuto a procedere d’ufficio ai rituali
controlli sulla regolare instaurazione del giudizio. Questa

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attività, in precedenza collocata nell’udienza “del 180”, è stata


spostata nella nuova e unica udienza di trattazione, come ora
espressamente previsto dall’art. 183, I comma, c.p.c., ove è stato
trascritto quasi letteralmente il testo dell’abrogato art. 180, I
comma, c.p.c..

In effetti, riservare un’udienza ad hoc alle verifiche preliminari ha


scarsa utilità perché, statisticamente, i casi in cui occorre
procedere alle sanatorie sono assai ridotti e comunque non
giustificano un’udienza specificamente dedicata.

In questa fase il giudice deve verificare


 che il contraddittorio sia integro e che non siano stati
pretermessi litisconsorti necessari (art. 102);
 che la citazione non presenti vizi tali da inficiarne la validità
(art. 164, commi 3°, 4°, 5°, c.p.c.);
 che la domanda riconvenzionale non sia affetta da nullità (art.
167, commi 2°, c.p.c.);
 che non sussistano difetti di rappresentanza, assistenza o
autorizzazione delle parti costituite in giudizio (art. 182 c.p.c.);
 che, in caso di mancata costituzione del convenuto, la
citazione gli sia stata ritualmente notificata (art. 291, I
comma, c.p.c.).
Se tali verifiche danno esito positivo, l’udienza può proseguire
regolarmente. Diversamente, il giudice dovrà attivare i dispositivi
di sanatoria previsti dalle norme richiamate, rinviando la causa a
nuova udienza (art. 183, II comma, c.p.c.), salvi ovviamente i casi
in cui ciò non sia necessario per la mancata opposizione del
convenuto.

Esempio.
Al convenuto è stato dato un termine a comparire minore di 90
giorni, ma egli costituendosi non formula alcuna eccezione. In tal
caso il processo prosegue regolarmente.

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In realtà, l’elencazione dei controlli contenuta nel comma 1


dell’art. 183 c.p.c. non è affatto esaustiva, potendosi configurare
altri adempimenti preliminari che determinano il rinvio
dell’udienza di trattazione, come chiaramente messo in evidenza
da Campese41. Può infatti accadere che:
(a) “nessuna delle parti compare alla prima udienza
ovvero l’attore costituito non compare senza che il convenuto
chieda che si proceda in assenza di lui (art. 181, commi 1 e 2,
c.p.c.). In queste eventualità il giudice deve fissare una
successiva udienza, nella quale – persistendo la mancata
comparizione – potrà addivenirsi rispettivamente alla
cancellazione della causa dal ruolo ovvero alla cancellazione
della causa con immediata estinzione del processo;
(b) nessuna delle parti si costituisce nei termini stabiliti
dagli artt. 165 e 166: mancando l’iscrizione a ruolo, la
prima udienza non ha luogo e il processo è destinato ad
estinguersi, a meno che non venga riassunto nel termine
perentorio di un anno dalla scadenza del termine di
costituzione del convenuto (art. 307, commi 1 e 2, c.p.c., come
richiamato dall’art. 171, comma 1, c.p.c.);
(c) il giudice dichiara la propria incompetenza per materia,
per valore o per territorio, a norma dell’art. 38 c.p.c., con
conseguente necessità della translatio iudicii avanti al
giudice competente;
(d) la causa viene rimessa davanti ad altro ufficio giudiziario in
quanto ricorre un’ipotesi di connessione rilevante ai sensi
dell’art. 40 c.p.c.;

41 CAMPESE, Preparazione e direzione dell’udienza di trattazione, ammissione ed


assunzione dei mezzi di prova, www.csm.it.

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(e) viene disposta la riunione di più cause connesse


pendenti davanti allo stesso giudice o davanti a giudici
diversi dello stesso tribunale, a norma dell’art. 274 c.p.c.;
(f) è necessario riunire più cause di appello avverso
sentenze del giudice di pace, tra loro connesse, per le quali
risultino fissate udienze di prima comparizione in date
diverse.
(g) non sono state osservate le disposizioni di ordinamento
giudiziario relative alla ripartizione tra sede principale e
sezioni distaccate, o tra diverse sezioni distaccate, delle
cause nelle quali il tribunale giudica in composizione
monocratica. In tal caso, a norma dell’art. 83-ter disp. att.
c.p.c., l’inosservanza è rilevata non oltre l’udienza di prima
comparizione e il giudice, se ravvisa l’inosservanza o ritiene
comunque non manifestamente infondata la relativa
questione, dispone la trasmissione del fascicolo d’ufficio al
presidente del tribunale, che provvede con decreto non
impugnabile;
(h) se, come consentito dall’art. 70-ter disp. att. c.p.c., nell’atto di
citazione l’attore invita il convenuto o i convenuti a notificare
al difensore dell’attore la comparsa di risposta ai sensi
dell’art. 4 del d.lgs. 17.1.2003, n. 5 e tutti i convenuti
provvedono a tale notificazione, l’udienza ex art. 183 c.p.c.
neppure ha luogo e il processo prosegue nelle forme del c.d.
“rito societario”;
(i) il giudice rileva che una causa relativa ad uno dei rapporti
soggetti al “rito societario”, come previsti dal comma 1
dell’art. 1 del d.lgs. 17.1.2003, n. 5, è stata proposta in forme
diverse da quelle previste da detto decreto. In questa
eventualità, a norma del comma 5 del medesimo art. 1, il
giudice dispone con ordinanza il mutamento di rito e la

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cancellazione della causa dal ruolo. Se l’ordinanza è emessa


nell’udienza di prima comparizione, dalla sua comunicazione
decorrono i termini di cui all’art. 6 del decreto, restando
ferme le decadenze già maturate;
(j) il giudice rileva che una causa promossa nelle forme
ordinarie riguarda uno dei rapporti assoggettati dall’art. 409
c.p.c. al rito del lavoro. L’art. 426 c.p.c. prevede che in tal
caso siano fissati con ordinanza l’udienza di discussione della
causa ex art. 420 c.p.c. e il termine perentorio entro il quale
le parti devono provvedere all’eventuale integrazione degli
atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti
in cancelleria”.
Come si vede, pertanto, molti altri possono essere gli “intoppi”
della prima udienza.
Ci si chiede se il giudice abbia la possibilità di rinviare
l’udienza anche al di fuori delle ipotesi contemplate
dall’art. 183 c.p.c.. Negare tale potere, come è stato osservato,
significa avere un’idea malsana di concentrazione processuale e
poco in linea con i valori del giusto processo ex art. 111 della
Costituzione42.
Rispetto al vecchio art. 180 c.p.c., al nuovo primo comma
dell’art. 183 c.p.c. è stata aggiunta una nuova disposizione la
quale stabilisce che il giudice deve pronunciare i provvedimenti
di cui all’art. 167, III comma, c.p.c. che, a sua volta, così recita: Se
intende chiamare un terzo in causa [il convenuto] deve farne
dichiarazione nella stessa comparsa e provvedere ai sensi
dell'articolo 269.
Come si vede, il terzo comma dell’art. 167 c.p.c. non contempla
alcun provvedimento del giudice; semplicemente afferma che se il

42 In tal senso, CEA, La trattazione della causa nel rito ordinario, www.judicium.it.

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convenuto intende chiamare in causa un terzo deve dichiararlo in


comparsa di risposta e procedere ai sensi dell’art. 269, II comma,
c.p.c. (nel quale, qui sì, è prevista l’emissione del provvedimento di
differimento della prima udienza).
Come deve essere interpretato allora quel richiamo? Sono state
prospettate due opzioni43: o si tratta di uno dei tanti errori che un
legislatore distratto commette sempre più spesso, ovvero il
meccanismo di chiamata del terzo su istanza del convenuto oggi è
cambiato, in quanto il giudice vi provvederà non più con decreto,
ma direttamente all’udienza e dopo aver vagliato la fondatezza
della chiamata in causa, ciò al fine di evitare chiamate
defatigatorie o con fini processualmente illeciti. In sostanza, il
secondo comma dell’art. 269 c.c. dovrebbe intendersi abrogato.
Quale opzione scegliere? In questa situazione di incertezza, è
consigliabile formulare entrambe le richieste in via
gradata. In altre parole, il difensore chiederà in via principale il
differimento dell’udienza per poter citare il terzo, in via
subordinata anticiperà la richiesta di autorizzazione a citare il
terzo che poi ripeterà formalmente in udienza.
È altresì scomparsa la precisazione secondo cui il giudice
istruttore può autorizzare se richiesto dalla parte comunicazioni di
comparse a norma dell’ultimo comma dell’art. 170, nonché quella
secondo cui nel processo verbale si inseriscono le conclusioni delle
parti ed i provvedimenti che il giudice pronuncia in udienza,
entrambe non riprodotte né nel nuovo art. 180, né nel nuovo art.
183. Secondo Briguglio, tuttavia, non dovrebbe esservi dubbio che
l’art. 170 u.c., attribuisca sia pure ellitticamente al giudice, nel
corso della trattazione, un potere generale di autorizzazione allo
scambio di scritti ulteriori rispetto a quelli tipizzati da altre

43Sulla questione si veda diffusamente GRAZIOSI, La nuova udienza di trattazione: una


prima lettura, in www.csm.it.

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disposizioni; né può esservi dubbio che il processo verbale conservi


contenuto e funzioni tradizionali44.
I fautori della tesi positiva muovono anche dalla
considerazione che l’art. 83 bis disp. att. c.p.c. non è stato
abrogato. Detta norma dispone infatti testualmente:

Art. 83 bis. Trattazione scritta della causa.


Il giudice istruttore, quando autorizza la trattazione scritta della
causa, a norma dell'articolo 180 primo comma del codice, può
stabilire quale delle parti deve comunicare per prima la propria
comparsa, e il termine entro il quale l'altra parte deve rispondere.

Altri, tuttavia, sostengono che la disposizione in questione è da


ritenersi abrogata per incompatibilità ex art. 15 preleggi.
In realtà, uno spazio di applicazione della norma residua; in
particolare tutte le volte in cui, ad esempio, il giudice rilevi una
questione d’ufficio in grado di definire il giudizio. In tali
casi, specie quando la questione è complessa, è certamente
auspicabile la concessione di memorie per dar modo alle parti di
prendere posizione45.

44 BRIGUGLIO, Il nuovo rito ordinario di cognizione: meno udienze, più preclusioni; (dalla
l. n. 80/2005 alla l. n. 263/2005), www.judicium.it.
45 In questi casi, afferma CEA, La trattazione della causa nel rito ordinario,
www.judicium.it, “benché la legge non preveda la rifissazione dell’udienza di
trattazione, mi sembra che la retta considerazione dei principi del giusto processo ex art.
111 Cost., da un lato, imponga la fissazione di una nuova udienza, dall’altro, consenta al
giudice di autorizzare le parti allo scambio di comparse”.

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2. IL TENTATIVO DI CONCILIAZIONE

A seguito delle riforme del 2005 il tentativo di conciliazione è


oggi solo eventuale e di esso, ritengo, ben pochi avranno
rimpianti. Il legislatore ha preso atto della sostanziale inutilità
del tentativo obbligatorio di conciliazione operato nelle condizioni
in cui si svolgono solitamente le udienze e cioè con ruoli
giornalieri che non di rado superano i cinquanta fascicoli. Difatti,
in tanto ha senso parlare di tentativo di conciliazione, in quanto il
giudice sia a conoscenza dei fatti, abbia cioè avuto il tempo di
studiarsi la causa.
Il tentativo di conciliazione è ora disciplinato dall’art. 185
c.p.c.. Rispetto al passato, oltre alla facoltatività dello stesso, si
segnala:
 la possibilità per i difensori di autenticare la sottoscrizione
della procura con cui la parte conferisce ad un terzo il potere
di rappresentarla all’udienza fissata per l’interrogatorio libero
e l’eventuale conciliazione;
 la sostituzione dell’esimente delle “gravi ragioni” con quella
del “giustificato motivo”, come causa di giustificazione del
rappresentante della parte che non sia a conoscenza dei fatti di
causa.
Peraltro, la facoltatività è riferita alle parti e non al giudice,
nel senso che se le parti fanno richiesta congiunta, il giudice è
comunque tenuto a fissare l’udienza per il suo espletamento, che
diventa dunque obbligatorio46. Si può allora parlare di due
tipologie di tentativo di conciliazione:

46 In caso di litisconsorzio necessario la richiesta deve provenire da tutte le parti.

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(a) obbligatorio, su richiesta congiunta delle parti in limine


litis47;
(b) facoltativo, disposto discrezionalmente dal giudice
(addirittura contemplato ridondantemente da tre norme: art.
117, art. 185, art. 183)48.
Alcuni autori hanno notato che il primo comma dell’art. 185
c.p.c. parla di “provocare” la conciliazione e non di “tentare”. Ciò
starebbe a significare che il giudice potrebbe forzare la volontà
delle parti al fine di ottenere il risultato conciliativo49.
Qual è la sanzione in caso di mancata comparizione? Anche qui
occorre distinguere le due ipotesi:
(a) tentativo di conciliazione su richiesta delle parti:
nessun argomento di prova potrà essere dedotto50;
(b) tentativo di conciliazione disposto dal giudice:
l’assenza potrà essere valutata come argomento di prova
anche se, peraltro, è sparito il riferimento espresso all’art.
116, II comma c.p.c., ma appare illogico attribuire al giudice
un potere, sottraendogli allo stesso tempo la possibilità di
valutare la mancata collaborazione delle parti alla
chiarificazione dei fatti di causa51.
Qualcuno52 ha paventato il rischio che i difensori possano
servirsi di questo strumento per allungare il processo, visto poi
che nessuna sanzione è comminata in caso di mancata

47 Successivamente, la richiesta assumerà valore di istanza sollecitatoria del potere del

giudice.
48 Ad usum surdorum, come precisato ironicamente da BRIGUGLIO, Il nuovo rito
ordinario di cognizione: meno udienze, più preclusioni; (dalla l. n. 80/2005 alla l. n.
263/2005), www.judicium.it.
49 In tal senso GRAZIOSI A., Appunti sulla nuova fase preparatoria del processo,
www.judicium.it secondo cui il giudice, in caso di tentativo di conciliazione richiesto
dalle parti, non dovrebbe mantenere una posizione di assoluta neutralità.
50 Così CEA, La trattazione della causa nel rito ordinario, www.judicium.it.
51 In tal senso CEA, op. ult. cit..
52 CEA, op. ult. cit..

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presentazione, ma la prassi sta dimostrando che è un rischio solo


teorico.
Naturalmente, terminato il tentativo di conciliazione l'udienza
procederà normalmente con l'intero programma delineato dall'art.
183, vale a dire la richiesta di chiarimenti e la indicazione delle
questioni rilevabili d'ufficio, l'integrazione di domande, eccezioni,
allegazioni e richieste istruttorie e la sollecitazione di termini a
tale scopo53.

53Così BRIGUGLIO, Il nuovo rito ordinario di cognizione: meno udienze, più preclusioni;
(dalla l. n. 80/2005 alla l. n. 263/2005), www.judicium.it.

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3. LA RICHIESTA DI CHIARIMENTI

Il nuovo IV comma dell’art. 183 c.p.c. riproduce fedelmente


quanto sino ad ora previsto dal previgente III comma della
disposizione in esame: il giudice richiede alle parti, sulla base dei
fatti allegati, i chiarimenti necessari e indica le questioni rilevabili
d’ufficio delle quali ritiene opportuna la trattazione.
La prima parte della norma fa riferimento alle “parti”, ma non
si dubita del fatto che per “parti” si intendano anche (anzi
soprattutto) i difensori, se non altro perché la norma era già
presente nella riforma del ’40 e lì non era affatto prevista la
comparizione obbligatoria dell'attore e del convenuto.
La seconda parte dovrebbe imporre al giudice, come già
abbiamo visto, di concedere sempre alle parti la possibilità di
allegare e dedurre sulle circostanze rilevate d’ufficio dal giudice. È
un passaggio troppo spesso ignorato nella prassi e invece assai
importante, perché è volto ad evitare decisioni a sorpresa,
decisioni, cioè, adottate su questioni sulle quali non è avvenuto il
contraddittorio e, dunque, inaspettate per le parti54.
D’altra parte, una conferma della necessità di instaurare il
contraddittorio si ricava anche dal nuovo art. 384, III comma,
c.p.c. il quale stabilisce che Se ritiene di porre a fondamento della
sua decisione una questione rilevata d'ufficio, la Corte riserva la
decisione, assegnando con ordinanza al pubblico ministero e alle
parti un termine non inferiore a venti e non superiore a sessanta
giorni dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di
osservazioni sulla medesima questione.

54 Che, come visto sopra, determinano la nullità della sentenza.

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4. LE PRECLUSIONI ATTOREE E LO JUS VARIANDI E/O


POENITENDI

Anche il nuovo comma V dell’art. 183 c.p.c. riproduce quanto


sino ad ora disposto dal previgente comma IV. Si tratta di una
norma spesso mal interpretata, essendo frequenti i casi in cui i
difensori posticipano alla I memoria, e dunque tardivamente, le
attività ivi elencate.
In prima udienza, infatti, l’attore ha l’onere di:
 proporre domande riconvenzionali;
 sollevare eccezioni di merito e di rito in senso stretto;
 chiamare terzi in causa55,
sempre che tali esigenze siano sorte a seguito delle domande e
delle eccezioni del convenuto.

Più precisamente, l’attore può proporre:


(a) la reconventio reconventionis, cioè la domanda
riconvenzionale conseguente alla domanda riconvenzionale del
convenuto;
(b) la exceptio reconventionis, cioè l’eccezione conseguente alla
domanda riconvenzionale del convenuto;
(c) la reconventio exceptionis, cioè la domanda riconvenzionale
conseguente alla eccezione del convenuto;
(d) l’exceptio exceptionis, cioè la contro-eccezione all’eccezione
del convenuto.

Come abbiamo visto, però56, non basta, tuttavia, che il


convenuto abbia sollevato mere difese, o abbia sollecitato
il potere-dovere del giudice di verificare la sussistenza
delle condizioni dell’azione57. La Cassazione ha infatti
affermato che la norma processuale da ultima invocata è rivolta a

55 Il giudice valuterà la richiesta dell'attore, verificando, tra l'altro, se l'omessa citazione

del terzo indicato dal convenuto sia o meno colpevole.


56 V. parte I, cap. III.
57 Contra, CEA, La trattazione della causa nel rito ordinario, www.judicium.it.

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tutelare la parte attrice, a fronte di iniziative difensive della parte


convenuta che mutino i termini oggettivi della controversia, o
comunque introducano nel processo ulteriori questioni, e, dunque,
ove contempla l'eccezione dell'avversario, va intesa riferita
all'eccezione in senso stretto, non alla semplice controdeduzione
rivolta a contestare le condizioni dell'azione (Cass. 12545/2004),
Cass. civ. n. 17551/2006.

Nella fattispecie decisa dalla Corte, il Comune opponente aveva


eccepito la nullità, per mancanza di forma scritta, di un contratto
che un professionista aveva azionato con procedura monitoria.
All’udienza di trattazione, il professionista opposto aveva chiesto,
in via subordinata, la condanna del Comune al pagamento di un
indennizzo per arricchimento senza giusta causa. Ma la Corte ha
ritenuto che l’eccezione di nullità non introduceva un nuovo tema
di indagine e non era una vera eccezione in senso proprio, in
quanto sollecitava semplicemente il giudice a verificare l'esistenza
del fatto costitutivo della domanda, difettando dunque i
presupposti per avanzare una nuova domanda.
In un altro caso, l’attore aveva proposto una domanda intesa ad
ottenere l'adempimento di un'obbligazione fondata su titolo
contrattuale avente ad oggetto l'assunzione dell'onere di pagare
l'intero costo di lavori da eseguirsi su una strada e il convenuto
aveva eccepito, con la comparsa di risposta, l'invalidità del
documento comprovante la pretesa attorea. La Suprema Corte ha
confermato l'inammissibilità della domanda dell'attore, formulata
nella prima udienza, volta a conseguire il rimborso pro quota della
spesa medesima ai sensi dell'art. 1069 c.c., il quale stabilisce che il
proprietario del fondo dominante che ha eseguito opere che
giovano al proprietario del fondo servente ha diritto al rimborso
delle spese in proporzione ai rispettivi vantaggi. La Corte ha
rilevato che si trattava di una domanda nuova per causa petendi,
natura e petitum e del tutto sganciata dalla riconvenzionale
avversaria (Cass. civ. n. 14581/2004).

Pertanto, affinché la domanda o l’eccezione nuova dell’attore


possa essere dichiarata ammissibile occorre alternativamente:
(a) che esse siano consequenziali alla tempestiva58 domanda
riconvenzionale del convenuto;

58In caso di domande ed eccezioni tardive, la domanda o l’eccezione nuova dell’attore


non potrà essere presa in considerazione.

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(b) che esse siano consequenziali alle tempestive eccezioni


in senso stretto sollevate dal convenuto.
Dal che discende, altresì, che l’attore non può proporre
domande nuove che siano consequenziali alle proprie
domande. Così, ad esempio, richiesta dal venditore la sola
risoluzione del contratto, è vietata la proposizione in prima
udienza della domanda consequenziale di restituzione del bene.
Rimane altresì immutata la facoltà di ognuna delle parti di
esercitare lo jus variandi e/o lo jus poenitendi, ovverosia di
precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già
formulate (art. 183, V comma, c.p.c.). Alla prima udienza, inoltre,
l’attore avrà l’onere di disconoscere la scrittura prodotta dal
convenuto al momento della costituzione, ai sensi dell’art. 215,
comma 1, punto 2), nonché a formulare le eccezioni sull’identità
della persona fisica che ha firmato la procura in nome e per conto
della persona giuridica (Cass. civ. n. 5505/2006).
Dicevamo che nella prassi l’udienza di trattazione viene spesso
sottovalutata, omettendosi il compimento di attività che invece
debbono necessariamente essere effettuate in quella sede.

Esempio 1
Il convenuto promittente-venditore chiede l’annullamento, per
impossibilità sopravvenuta, del contratto preliminare di vendita di
cui l’attore ha chiesto l’esecuzione specifica ex art. 2932 c.c..
L’attore ha l’onere di chiedere la restituzione della caparra
confirmatoria, nell’ipotesi di accoglimento della domanda
avversaria, all’udienza di trattazione.
Esempio 2.
Il convenuto eccepisce in comparsa che il credito vantato
dall’attore si è estinto per compensazione. Se l’attore intende a sua
volta eccepire la prescrizione del controcredito, avrà l’onere di
proporre l’eccezione in udienza e non potrà rimandare tale attività
alle memorie ex art. 183.

Il problema si complica quando il convenuto si costituisce


in udienza sollevando eccezioni rilevabili d’ufficio in

© M. Minardi - Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione - 2009
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grado di portare al rigetto della domanda59. In questi casi, è


consigliabile chiedere lo spostamento della prima udienza di
trattazione per avere il c.d. spatium deliberandi, ovverosia la
possibilità di esaminare con calma la comparsa di costituzione e
quindi proporre le eventuali domande od eccezioni relative,
facendo così salvi i diritti di prima udienza60. Su tanto hanno
convenuto, ad esempio, i magistrati del Tribunale di Genova, nel
protocollo stilato in data 17/1/2007. Al punto 8 si legge che un
differimento della prima udienza di trattazione sarà inoltre
normalmente prevedibile nel caso di costituzione dei convenuti e
chiamati alla prima udienza, con richiesta motivata e giustificata
di rinvio per esame da parte dell'attore, ciò per non penalizzare le
parti costituitesi tempestivamente e per consentire una dialettica
reale ed attrezzata.
Anche il Tribunale di Milano - che ha ribadito il divieto per
l’attore di proporre le domande e le eccezioni nuove con la I
memoria “del 183” - è favorevole ad un rinvio dell’udienza,
precisando che la previsione di una barriera preclusiva di tal fatta
- operante anche qualora il convenuto si costituisca in udienza
"sorprendendo" l'attore, non è in contrasto con il diritto di difesa
di quest’ultimo, poiché il g.i. potrà sempre consentirgli l'effettiva
possibilità di esaminare - senza incorrere in decadenze - quanto
allegato, prodotto, eccepito in udienza dal convenuto, se necessario
differendo la trattazione (Tribunale Milano, sez. V, 24 luglio 2008,
n. 9791).

59 Lo stesso dicasi in caso di intervento principale del terzo, che inevitabilmente amplia

la domanda.
60 Osserva SANTANGELI, in Le udienze di trattazione della causa nel processo civile
ordinario alla luce delle recenti riforme, in http://www.judicium.it, che la norma, pur non
prevedendolo, non vieta il rinvio “ed anzi, appare imposta proprio dai compiti assegnati
dall’ordinamento al giudice nello svolgimento del processo di primo grado, che, si è
evidenziato[37], sono proprio tesi a favorire il leale andamento del processo e la
contemperazione tra le esigenze di rapidità e le garanzie di pienezza del contraddittorio”.

© M. Minardi - Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione - 2009
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Peraltro, è opportuno ricordare la sentenza n. 447 del 12


novembre 2002 con la quale la Corte Costituzionale ha
dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale
del combinato disposto degli artt. 319, primo comma e 320 del
codice di procedura civile, nella parte in cui non prevedono che in
caso di domanda riconvenzionale avanzata dal convenuto alla
prima udienza, il giudice non possa fissare una nuova udienza per
consentire all’attore di difendersi. Ha osservato la Consulta che
anche nei confronti dell'attore convenuto in riconvenzionale
davanti al giudice di pace debba essere assicurato il leale
svolgimento del procedimento e che sarebbe in contrasto con il
principio del contraddittorio ritenere che quando l'attività svolta
dalle parti in prima udienza renda necessaria la fissazione di una
nuova udienza per lo svolgimento di attività assertiva, il giudice di
pace possa omettere tale fissazione, pur dovendo invece procedervi
quando la suindicata necessità riguardi un'ulteriore attività
probatoria logicamente conseguente a quella assertiva.
Appare più che evidente che il ragionamento utilizzato dalla
Consulta può e deve essere traslato pedissequamente al
giudizio innanzi al Tribunale, in cui in genere si dibattono
questioni ben più complesse e di maggior valore.
Alla luce delle sopra svolte considerazioni, pertanto, occorre
affermare con forza il diritto dell’attore di ottenere il
rinvio della prima udienza di trattazione allorquando il
convenuto si costituisca direttamente in udienza o
comunque a ridosso della stessa.

Altri hanno sostenuto che per contemperare il diritto alla


ragionevole durata del processo con il pari diritto costituzionale
alla difesa e al contraddittorio, si potrebbe concedere all’attore la
possibilità di formulare i nova con la prima memoria ex art. 183

© M. Minardi - Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione - 2009
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c.p.c., questo perché in tal modo verrebbe assicurato allo stesso


tempo il celere svolgimento del processo e il diritto di difesa61.

61 CEA, La trattazione della causa nel rito ordinario, www.judicium.it.

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5. IL TRIPLO TERMINE

Uno degli aspetti più importanti e più controversi della nuova


udienza di trattazione è il triplo termine di giorni 30+30+20 che le
parti possono richiedere per lo scambio delle memorie difensive.
Rispetto al passato, il codice prevede oggi un termine fisso
per il deposito di dette memorie e non “fino a 30 giorni”.
La richiesta del termine è una facoltà attribuita a ciascuna
delle parti e l’inciso «se richiesto, il giudice concede alle parti» non
sembra lasciar dubbi sul fatto che la suddetta concessione non
è subordinata ad alcuna autorizzazione o valutazione da
parte del giudice.
Tuttavia, ci si chiede se il giudice sia obbligato a concedere
detti termini anche laddove ritenga la causa matura per la
decisione.
Secondo una prima tesi, che poggia sul dato letterale dell’art.
183, VI comma, il giudice non ha margini di discrezionalità;
secondo altra opzione, poiché è ancora vigente l’art. 80 disp. att.
c.p.c., il quale dispone che la rimessione al collegio, a norma
dell'articolo 187 del codice, può essere disposta dal giudice
istruttore anche nell'udienza destinata esclusivamente alla prima
comparizione delle parti, il giudice può fissare direttamente
l’udienza di PC, nonostante la richiesta di trattazione scritta.
Secondo una terza tesi, il giudice potrebbe fissare l’udienza di
PC senza concedere i termini nel caso in cui l’eventuale emendatio
della domanda o delle eccezioni fosse irrilevante ai fini della

© M. Minardi - Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione - 2009
101

decisione della lite. Si pensi al caso in cui il giudice rilevi un


difetto di giurisdizione assoluta62.

Di recente, la Suprema Corte ha affermato che il vizio non formale


di attività verificatosi nel procedimento di primo grado – a seguito
delle modifiche introdotte con le riforme del '90-'95 - derivante
dalla mancata osservanza delle sequenze procedimentali destinate
alla definitiva determinazione del thema decidendum e del
conseguente thema probandum non rientra tra le nullità
insanabili suscettibili di verifica d'ufficio da parte del giudice
dell'appello, essendo necessaria la deduzione della parte (Cass.
civ. n. 3607/2007). Ma già in precedenza, la Corte aveva statuito
che la nullità che scaturisce dal vizio di omessa attivazione del
contraddittorio per la mancata dissociazione dell'udienza di prima
comparizione dalla prima udienza di trattazione, prescindendo dal
principio di tassatività di cui all'art. 156 c.p.c., comma 1, soggiace
alla regola della sanatoria per raggiungimento dello scopo e al
principio della conversione dei motivi di nullità in motivi di
impugnazione (Cass. civ. n. 6803/2000). E si era altresì precisato
che lo sdoppiamento delle udienze destinate, rispettivamente, alla
fase preparatoria ed alla fase di trattazione non è ... riconducibile a
ragioni di ordine pubblico del procedimento, essendo volto piuttosto
ad assicurare alle parti il diritto di difesa (Cass. civ. n.
20592/2004).
Non solo. Qualora il giudice abbia deciso senza concedere i
termini, la parte non può limitarsi, nell’atto di appello, ad eccepire
la loro mancata concessione, ma deve specificare in che modo
l’omissione l’abbia pregiudicata e dunque specificare quali fatti
intendeva precisare e naturalmente quali prove intendeva far
assumere. Ecco a tal proposito una recente massima della
Suprema Corte: Qualora venga dedotto il vizio della sentenza di
primo grado per avere il tribunale deciso la causa nel merito prima
ancora che le parti avessero definito il "thema decidendum" e il
"thema probandum", l'appellante che faccia valere tale nullità -
una volta escluso che la medesima comporti la rimessione della
causa al primo giudice - non può limitarsi a dedurre tale
violazione, ma deve specificare quale sarebbe stato il "thema
decidendum" sul quale il giudice di primo grado si sarebbe dovuto
pronunciare ove fosse stata consentita la richiesta appendice di cui
all'art. 183, comma 5, c.p.c., e quali prove sarebbero state dedotte,
poiché in questo caso il giudice d'appello è tenuto soltanto a
rimettere le parti in termini per l'esercizio delle attività istruttorie
non potute svolgere in primo grado, Cass. civ. n. 9169/2008.
I termini cambiano quando alla prima udienza il giudice abbia
deciso sulla competenza, declinandola, senza concedere i termini.

62 Sembra ritenere comunque dovuta la concessione dei termini anche in questo caso,

con eventuale fissazione dell’udienza per la precisazione delle conclusioni, GRAZIOSI, La


nuova prima udienza di trattazione, in www.csm.it.

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102

In questo caso, in sede di regolamento necessario di competenza


non potrà essere lamentato il vizio di per sé, nemmeno allegando i
fatti che si sarebbero portati all’attenzione del giudice qualora
avesse permesso la trattazione scritta. La Suprema Corte, infatti,
ha affermato che l'ordinamento processuale distingue il
trattamento delle questioni di competenza da quello delle questioni
di merito e quanto alle prime configura meccanismi volti a
privilegiarne la rapida definizione: l'irrilevanza della violazione di
norme sul procedimento incorse davanti al giudice di merito
appare elemento intrinseco alla costruzione del regolamento
necessario, quale rimedio ordinato a conseguire il definitivo avvio
del processo sul fondo sulla domanda (Cass. civ. n. 15019/2008).

Ritengo preferibile la tesi63 che vuole obbligatoria la


concessione del termine ogni qual volta le parti ne abbiano fatta
richiesta, mentre la causa potrà essere spedita in decisione:
(a) qualora le parti non abbiano fatto alcuna richiesta;
(b) qualora le parti abbiano esercitato le attività di
precisazione, modificazione e allegazione direttamente in
udienza.

N.B. Se il giudice vuole spedire la causa in decisione è bene


verbalizzare la richiesta di concessione dei termini, altrimenti il
giudice del gravame potrebbe rigettare la successiva doglianza.

Nel caso in cui le parti non richiedano la concessione dei


termini il giudice potrà:
 nel giudizio collegiale, far precisare le conclusioni e rimettere
le parti al collegio;
 tanto nel giudizio monocratico, quanto nel giudizio collegiale,
fissare l’udienza di PC;
 nel giudizio monocratico far precisare le conclusioni e
concedere i termini per lo scambio delle comparse
conclusionali e delle repliche, ai sensi dell’art. 281 quinquies
c.p.c.;

63 Così CEA, La trattazione della causa nel rito ordinario, www.judicium.it.

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103

 sempre nel giudizio monocratico far precisare le conclusioni e


disporre la discussione orale nella stessa o in altra udienza ai
sensi dell’art. 281 sexies c.p.c.;
 ammettere le prove già richieste e fissare l’udienza per la loro
assunzione;
 riservare ordinanza sulle prove richieste dalle parti;
 ammettere d’ufficio mezzi di prova;
 ammettere, su richiesta o d’ufficio, la CTU.
Nella gran parte dei casi, però, la fase preparatoria prosegue
in forma scritta, con la richiesta della concessione del triplo
termine. Ai sensi dell’art. 183, VI comma, c.p.c. le parti possono
chiedere al giudice:
1) un termine di ulteriori trenta giorni per il deposito di
memorie limitate alle sole precisazioni o modificazioni delle
domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte;
2) un termine di ulteriori trenta giorni per replicare alle
domande ed eccezioni nuove, o modificate dall’altra parte,
per proporre le eccezioni che sono conseguenza delle
domande e delle eccezioni medesime e per l’indicazione dei
mezzi di prova e produzioni documentali;
3) un termine di ulteriori venti giorni per le sole indicazioni
di prova contraria.
Non è escluso – anche se raro – che le parti chiedano solo i
primi due termini, oppure direttamente il secondo e il terzo
termine per le richieste istruttorie.
In caso di giudizio contumaciale conviene andare
all’udienza già preparati con le richieste istruttorie, altrimenti si
rischia che il convenuto si costituisca e partecipi alla trattazione
scritta.
Il codice non regola l’ipotesi, nella pratica assai
frequente, in cui sia solo una parte a chiedere la

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concessione del triplo termine, generalmente poiché l’altra


insiste per la fissazione dell’udienza di precisazione delle
conclusioni. Dobbiamo qui chiederci se il giudice sia tenuto a
concedere il termine anche alla parte non richiedente, fermo
l’obbligo di concederlo a quella istante. A mio parere, se si
considera che la richiesta del triplo termine rappresenta
l’esercizio di un diritto di difesa, come tale assolutamente
disponibile, in mancanza di istanza non v’è ragione alcuna
per concedere il termine anche all’altra parte, la quale
finirebbe per giovarsi di una rimessione in termini. Secondo
autorevole dottrina64, invece, in tale ipotesi il giudice deve
concedere alla parte richiedente i tre termini, mentre all’altra
parte solo due di cui uno “monco”: alla parte non richiedente
spetterebbe per intero solo la terza memoria (relativa alle prove e
produzioni documentali contrarie), mentre la seconda dovrebbe
essergli concessa solo per la metà del suo contenuto (cioè per le
repliche alle altrui emendationes e non quindi per le deduzioni a
prova diretta). Altri, ancora, ritengono preferibile concedere il
triplo termine a tutte le parti costituite, richiedenti o non65.
Il mio consiglio, ogni qual volta la controparte chiede il triplo
termine, è quello di associarsi alla richiesta in via subordinata
rispetto alla domanda di fissazione dell’udienza di PC, o alla
richiesta di provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo o di
emissione delle ordinanze ex artt. 186 bis e ter c.p.c., o ancora alle
eccezioni di competenza, giurisdizione, continenza, connessione e
compromesso in arbitri e, comunque in genere, a tutte le richieste
che prescindono dalla trattazione scritta.

64 CONSOLO, Il coordinamento tra il “nuovo” art. 183 ed altre disposizioni sul processo
civile. Il mancato ricompattamento dei riti, in Corr. Giuridico, 12, 2007.
65BATTISTUZZI, Preparazione e direzione della prima udienza di trattazione, www.csm.it,
2008.

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Prima di esaminare più in dettaglio il contenuto delle tre


memorie, diamo uno sguardo al recente passato. A seguito delle
riforme del ’90-’95 al termine dell’udienza di trattazione le parti
erano solite chiedere il cosiddetto “doppio termine di 30 più 30”.
Il giudice, concesso il termine, rinviava la causa ad una successiva
udienza per i provvedimenti di cui all’art. 184 c.p.c.. Qui le parti
erano solite chiedere un ulteriore doppio termine che il giudice
concedeva, rinviando la causa per il cosiddetto “secondo 184”. A
quella udienza il giudice o si riservava o decideva
immediatamente sulle richieste di prova.
La Cassazione aveva chiarito che all’udienza di trattazione le parti
avrebbero potuto chiedere direttamente i termini “del 184”, ma era
esclusa la possibilità di chiedere la fissazione di una udienza solo a
tal fine, laddove non fossero stati richiesti i doppi termini di cui
all’art. 183 c.p.c. (Cass. civ. n. 16571/2002). Per cui, in mancanza
di questa richiesta, le parti avevano la possibilità:
 di insistere sui mezzi di prova già articolati;
 di articolare i mezzi di prova direttamente in udienza;
 di chiedere un doppio termine per la loro articolazione.
Solitamente, tuttavia, accadeva che le parti richiedessero il doppio
termine ex art. 183 c.p.c. e poi il doppio termine ex art. 184 c.p.c..
Il che significava che prima dell’udienza per l’assunzione delle
prove c’erano già state almeno quattro udienze: “la 180”; “il 183”;
“il primo 184”; “il secondo 184” (usando il gergo degli avvocati).
Il tutto intervallato da un minimo di quattro ad un massimo di
sette memorie scritte, oltre la citazione e la comparsa e cioè:
 le due eventuali memorie autorizzate ex art. 180;
 la memoria per il convenuto ex art. 180;
 le due memorie ex art. 183;
 le due memorie ex art. 184.
In effetti, così strutturata, la trattazione risultava un po’ troppo
macchinosa, soprattutto per i processi più semplici66.
La riforma del 2005 ha eliminato tre udienze e ridotto lo
scambio di memorie da sei a tre per parte (nella precedente
versione della riforma, quella cioè che scaturiva dalla sola l. 80 del
2005, le memorie erano addirittura due).

Ma entriamo nel dettaglio di questo criticato comma.


Salta subito all’occhio una grossolanità linguistica67. Difatti,
nel punto 1 del sesto comma si parla di ulteriori trenta giorni,
quando in realtà è il primo termine. Lo rileggiamo:

66Nei processi più complessi, invece, anche il quadruplo termine si rivelava insufficiente
per una compiuta trattazione.
67 Tale è stata giustamente definita da GRAZIOSI A., Appunti sulla nuova fase
preparatoria del processo, www.judicium.it

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1) un termine di ulteriori trenta giorni per il deposito di


memorie limitate alle sole precisazioni o modificazioni delle
domande, delle eccezioni e delle conclusioni già proposte.
La prima memoria rappresenta l’appendice scritta all’udienza
di trattazione. Anche lì, infatti, in base alla seconda parte del
quinto comma dell’art. 183 c.p.c. le parti possono precisare e
modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già formulate
cioè esercitare lo jus poenitendi68. Pertanto, al pari del regime
previgente, tale attività di precisazione e modificazione può essere
rimandata, su richiesta di almeno una parte, alla I memoria ex
art. 183 c.p.c.

Ricordiamo ancora una volta che mentre la precisazione si


sostanzia nell’allegazione di fatti storici secondari, che si
inscrivono all’interno della cornice delineata da un fatto principale
già in precedenza allegato, la modificazione implica
l'acquisizione di un nuovo fatto storico principale, purché non
introduca un nuovo petitum o una nuova causa petendi (in tal caso,
infatti, saremmo in presenza di una domanda nuova, come tale
inammissibile).

È importante sottolineare che le attività in questione


costituiscono espressione di uno jus poenitendi riconosciuto a
ciascuna delle parti che può essere liberamente esercitato a
prescindere dalle esigenze legate allo sviluppo dialettico del
processo.
La I memoria, come abbiamo già detto, rappresenta l’ultima
occasione per poter esercitare lo jus poenitendi rispetto
alle proprie domande ed eccezioni in maniera
completamente sganciata dalla dialettica processuale.
Difatti, con la II memoria sarà possibile:

68 GRAZIOSI A., in Appunti sulla nuova fase preparatoria del processo www.judicium.it
sostiene che “le attività difensive enunciate dall'art. 183, comma 6, n. 1 siano meramente
ripetitive di quelle che le parti avevano già potuto svolgere oralmente nel corso
dell'udienza”. L'Autore, però, non tiene conto dell'idiosincrasia dei giudici verso le
verbalizzazioni richieste dai difensori.

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(a) replicare alle domande ed eccezioni nuove o modificate


dall’altra parte;
(b) proporre le eccezioni che sono conseguenza delle
medesime domande ed eccezioni;
(c) indicare i mezzi di prova e produrre la documentazione69.
Rileggiamo il punto n. 2 del VI comma dell’art. 183: 2) un
termine di ulteriori trenta giorni per replicare alle domande ed
eccezioni nuove, o modificate dall’altra parte, per proporre le
eccezioni che sono conseguenza delle domande e delle eccezioni
medesime e per l’indicazione dei mezzi di prova e produzioni
documentali.
Se presa letteralmente, la seconda memoria non potrebbe
essere utilizzata per replicare ai fatti modificati, visto che si parla
solo di replica alle domande e alle eccezioni. Sicché, laddove
manchino tali precisazioni e modifiche, la seconda memoria
potrebbe essere utilizzata solo per l’articolazione della prova
diretta. Nella prassi, tuttavia, nessuno ha mai dubitato che la
II memoria del “vecchio 183” c.p.c. potesse essere utilizzata
anche per replicare ai fatti, modificati o non, con la I
memoria.
Dall’esame del punto primo e del punto secondo emerge
secondo taluni autori70 una grande contraddizione, peraltro
presente anche nella vecchia formulazione. Difatti, nel punto
primo si parla di memorie limitate alle sole precisazioni o
modificazioni delle domande, delle eccezioni e delle conclusioni già
proposte. Tuttavia, con il secondo termine viene concesso alla
parte un termine “per replicare alle domande ed eccezioni
nuove....”. Abbiamo visto che nella prima memoria non si possono

69 Ovviamente, anche l’attore che a fronte della sua reconventio reconventionis si sia
visto proporre un’eccezione dal convenuto direttamente in udienza, avrà l’onere di
controeccepire con la II memoria.
70 GRAZIOSI, op. ult. cit.

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proporre domande nuove od eccezioni, dunque: che senso ha la


disposizione del punto 2, là dove dà la possibilità di
replicare alle domande ed eccezioni nuove o modificate
dall’altra parte?
Alcuni autori e la giurisprudenza71 si attengono al dato
letterale, ritenendo che con la II memoria si possa solo replicare
alla domanda nuova proposta in udienza e hanno giustificato tale
apparente contraddizione argomentando che la I memoria è
un’appendice scritta di quella facoltà di precisazione dei fatti e
delle domande già esercitate in udienza. Pertanto, solo dopo tale
precisazione le parti hanno l’onere di replicare alle domande ed
eccezioni nuove.
Secondo altri autori, per uscire dall’impasse bisogna forzare il
dato letterale e ammettere che nella prima memoria ex art. 183 è
lecito e ammissibile proporre domande ed eccezioni nuove72. Si è
così sostenuto, relativamente alle eccezioni, che modificare una
eccezione altro non è in concreto che introdurre una eccezione
nuova73. In altre parole, poiché l’eccezione consiste sempre
nell’allegazione di un fatto estintivo, impeditivo, modificativo del
diritto fatto valere dall’attore, la modifica del fatto che si pone a
fondamento di un’eccezione si traduce sempre nella proposizione
di una diversa e nuova eccezione, in aggiunta o in sostituzione a
quelle già sollevate. Da qui la conseguenza che quando l’art. 183,
VI comma, n. 1 c.p.c., nel fissare il contenuto della prima memoria

71 In tal senso, v. Tribunale Brindisi, sent. 12 aprile 2006; Tribunale di Torino, sent. 20

ottobre 2003.
72V. CAPPONI, L’art. 183 c.p.c. dopo le “correzioni” della legge 28 dicembre 2005, n. 263,
www.judicium.it; BRIGUGLIO, Il nuovo rito ordinario di cognizione: meno udienze, più
preclusioni; (dalla l. n. 80/2005 alla l. n. 263/2005), www.judicium.it; contra, R.
MACCARONE, Contraddittorio e modelli di trattazione fondati sul principio di
preclusione, www.judicium.it.
73 Anche GRAZIOSI A., in Appunti sulla nuova fase preparatoria del processo,
www.judicium.it dubita che esista la modifica dell'eccezione se non in caso di diritti
autodeterminati.

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difensiva, parla di modifica delle eccezioni, in realtà non può che


far riferimento alla proposizione di nuove eccezioni. Tuttavia
rimarrebbe il problema delle domande. Modificare un fatto, lo
abbiamo visto, non significa necessariamente modificare una
domanda.
Non nego che la soluzione da ultimo prospettata consentirebbe
di risolvere non pochi problemi; in sostanza, con la I memoria le
parti avrebbero l’onere di sollevare le contro-eccezioni alle
domande e alle eccezioni nuove formulate in udienza, mentre con
la II avrebbero l’onere di formulare i mezzi di prova diretta
nonché di spiegare le contro-eccezioni alle contro-eccezioni mosse
con la I memoria. Il sistema ha la sua intrinseca razionalità, ma,
va ribadito, si tratta di una soluzione dottrinale che allo stato, a
quanto mi consta, non è condivisa dalla giurisprudenza e che ha il
difetto di anticipare per interpretazione una decadenza (vengono
cioè anticipate alla prima memoria le contro-eccezioni in risposta
alle domande ed eccezioni nuove formulate in udienza).

Che le tre memorie talvolta possano risultare insufficienti è stato


messo efficacemente in risalto da Briguglio74 con questo esempio.
Alla domanda di adempimento del contratto A, il convenuto in
comparsa replica inter alia con eccezione di compensazione e
riconvenzionale condannatoria fondate su controcredito derivante
dal contratto B.
Con la prima memoria ex art. 183 l’attore propone eccezione di
inadempimento e/o recoventio reconventionis risolutoria relative al
contratto B: non ti ho pagato perché non mi hai mai consegnato il
cavallo da corsa oggetto di quel contratto. Nella seconda memoria
ex art. 183 il convenuto controreplica: l’ho consegnato eccome, al
sig. X che mi avevi espressamente indicato quale tuo incaricato
per la consegna con scrittura sottoscritta lo stesso giorno della
stipula contrattuale; e produce tale scrittura. È dunque solo nella
terza memoria che, del tutto legittimamente, l’attore obietta: sarà
anche vero, ma successivamente, nel tal luogo ed alla tal data,
abbiamo concordemente novato la modalità di consegna stabilendo
che il cavallo sarebbe stato recapitato presso il maneggio Z; ed al

74 BRIGUGLIO, Il nuovo rito ordinario di cognizione: meno udienze, più preclusioni; (dalla
l. n. 80/2005 alla l. n. 263/2005), www.judicium.it.

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riguardo l’attore, e sempre ineccepibilmente dal punto di vista del


rispetto del contraddittorio e nonostante l’apparente tenore del
nuovo art. 183, formula richiesta di prova testimoniale diretta.
Dove e come, allora, il convenuto potrà indicare - ciò che
altrettanto sicuramente deve essergli consentito in nome del
contraddittorio – i testi in prova contraria?

Come si vede, il modello prefigurato dal legislatore può


rivelarsi efficace per alcuni tipi di processo, quelli più semplici,
ma non certo per quelli più complessi, ove il sistema entra
fatalmente in crisi. Secondo alcuni, il giudice, nei casi più
complessi, avvalendosi dei poteri di cui all’art. 175 c.p.c., dovrebbe
assegnare nuove memorie, magari una quarta75, per consentire
alle parti di replicare.
Una questione interessante è poi quella relativa al
contumace che si costituisca in cancelleria dopo l'udienza di
trattazione, ma prima dello spirare dei termini, ad esempio entro
trenta giorni dall'udienza. Avrà la possibilità di depositare le
memorie? A mio avviso la risposta è negativa, perché al momento
della costituzione si è già consumato il potere di richiedere i
termini. L'attività consentita, infatti, deve essere valutata con
riferimento al momento in cui si verifica la preclusione ossia
riguardo all'udienza di trattazione (in senso contrario si veda però
Cass. civ. n. 20581/04, secondo cui in caso di costituzione del
convenuto oltre la prima udienza di trattazione, i mezzi di prova
articolati dal medesimo devono ritenersi ammissibili se dedotti
prima della chiusura dell'istruzione senza incontrare alcuna
opposizione da parte dell'attore)76.

75 GRAZIOSI A., in Appunti sulla nuova fase preparatoria del processo, www.judicium.it
afferma che il giudice dovrebbe concedere una quarta memoria limitata alla replica in
punto di ammissibilità e/o rilevanza delle avverse prove contrarie richieste nella terza
memoria.
76 Propende per la concessione del II e III termine, BATTISTUZZI, in Preparazione e
direzione della prima udienza di trattazione, www.csm.it, 2008.

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5.1. Segue: le domande nuove del convenuto


Introduco il tema dei nova del convenuto con un esempio.
Tizio cita Caio, chiedendo la sua condanna al pagamento di
una somma di denaro. Caio, costituito nei termini, chiede in via
riconvenzionale il pagamento di un controcredito nascente da un
contratto di compravendita. Alla prima udienza di trattazione,
Tizio-attore eccepisce che Caio-convenuto non ha eseguito
esattamente il contratto, avendo consegnato un bene
completamente diverso (c.d. vendita aliud pro alio); chiede
pertanto la risoluzione per inadempimento e il risarcimento del
danno. Potrà – e se la risposta è sì, in quale momento - Caio
chiedere in via subordinata, in caso di accoglimento della
domanda di risoluzione avanzata da Tizio-attore, la restituzione
del bene consegnato?
A rigore la risposta alla prima domanda è no. Difatti, né
all’udienza di trattazione, né nella seconda memoria è
prevista la possibilità per il convenuto di avanzare una
nuova domanda in risposta alla nuova domanda avanzata
dall’attore in sede di prima udienza.
Il primo termine, infatti, è destinato alla sola precisazione o
modificazione delle domande, eccezioni e conclusioni. Il secondo
termine può essere utilizzato per replicare alle domande ed
eccezioni nuove o per avanzare eccezioni nuove ad esse
conseguenti, ma non per proporre domande nuove.
Ritengo che si tratti di un risultato, a dir poco, aberrante;
Caio, infatti, dovrebbe iniziare un nuovo giudizio per ottenere un
titolo esecutivo che gli consenta di ottenere la restituzione del
bene. Ma bisogna prendere atto che la Cassazione è
orientata proprio verso la prima soluzione, definita
addirittura “di buon senso”. Nella sentenza n. 17699/2005,
emessa in un procedimento ante riforme del 2005, la Corte

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afferma che dal secondo periodo dell'ultimo comma dell'art. 183


(«per replicare alle domande ed alle eccezioni dell'attore di cui alla
prima parte del comma precedente e per proporre - le eccezioni che
sono conseguenza delle domande medesime») si desume
esplicitamente il limite delle facoltà consentite, che è quello della
replica, a fronte della quale ciascuna delle parti può a sua volta
controreplicare, alla condizione, tuttavia, che la controreplica
consista solo nella proposizione di eccezioni che siano conseguenza
della replica dell'altra parte e non anche nella proposizione di
domande: limitazione di buon senso la quale per un verso non
comprime in modo alcuno la difesa delle parti, assicurata in toto
dal potere di eccezione, per altro verso evita di dilatare oltre
misura il novero delle vere e proprie domande cumulate nello
stesso processo. La stessa dottrina ne trae il corollario che - in base
alla disposizione in esame - ciascuna delle parti, e dunque lo stesso
attore, ha facoltà di replica a livello di sole eccezioni: e così via
teoricamente fino all'infinito, pena la violazione del diritto di
difesa ex art. 24, 2° comma, Cost. di una delle parti.
La Corte, peraltro, aveva già avuto modo di negare la
possibilità per il convenuto di proporre una nuova domanda, in un
giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, affermando che il
creditore è pur sempre convenuto in senso formale e solo al
debitore opponente, in qualità di attore formale, è consentito
proporre nuove domande, mentre al creditore-opposto-convenuto
spetta solo il diritto di eccezione (Cass. civ. n. 9685/2004).
Successivamente, però, la Corte ha precisato che l’opposto può
proporre una domanda riconvenzionale qualora per effetto di una
riconvenzionale proposta dall'opponente, venga a trovarsi nella
posizione processuale di convenuto (Cass. civ. n. 13086/2007).

Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata con la


quale era stata rilevata l'inammissibilità della domanda - da

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qualificarsi come "nuova" in quanto fondata su una diversa causa


petendi - proposta dall'opposto che, dopo aver agito in sede
monitoria per il pagamento di canoni di locazione arretrati, aveva
chiesto, nella conseguente fase oppositiva, anche la condanna
dell'opponente al risarcimento dei danni conseguenti alle
modifiche non autorizzate apportate all'immobile locato dall'ente
conduttore, senza che potesse aver alcun rilievo, ai fini
dell'ammissibilità di detta domanda, la riserva, effettuata in sede
monitoria, di agire per le ulteriori somme dovute in separato
giudizio.

5.2. Segue: la formulazione delle istanze istruttorie


Veniamo alla formulazione delle istanze istruttorie. Nella
seconda memoria le parti hanno l’onere di proporre a pena di
decadenza le loro richieste istruttorie dirette e di esibire i
documenti, mentre la III memoria è dedicata alle sole prove
contrarie, intendo per tali anche quelle in risposta alle richieste
formulate con gli atti introduttivi77 o con la I memoria ex art. 183.
Nella II memoria, pertanto, l’allegazione di fatti estintivi,
impeditivi e modificativi, ancora possibile, deve essere fatta
unitamente alle richieste di prova, dando così per scontato ciò che
scontato non è e cioè che le parti abbiano terminato di allegare i
fatti e di proporre domande ed eccezioni nuove. Si ha cioè una
sovrapposizione – eventuale, ma pur sempre possibile - tra la fase
di fissazione del thema decidendum e quella del thema
probandum. Se si tiene in considerazione che il potere di eccezione
è teoricamente illimitato e che con la III memoria ben potrebbe la
parte sollevare una nuova eccezione, in risposta alla eccezione
contenuta nella II memoria formulata dall’avversario, se ne ricava
che in questi casi:
 o, contestualmente all’eccezione, la parte formula anche i
mezzi istruttori (in contrasto con la lettera della norma, visto che

77 In tal senso anche SANTANGELI, Le udienze di trattazione della causa nel processo
civile ordinario alla luce delle recenti riforme, www.judicium.it.

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il punto 3) del comma VI dell’art. 183 stabilisce che la III memoria è


dedicata alle sole prove contrarie);
 oppure, chiede di essere rimessa in termini ex art. 184 bis
c.p.c. (art. 153 II comma, in caso di approvazione del d.d.l.
1441-bis B).
Propendo per la prima soluzione; non v’è ragione alcuna,
infatti, di posticipare l’articolazione delle prove dirette a
dimostrare il fondamento della nuova eccezione tempestivamente
allegata. Come affermato da Balena78, l’esigenza di richieste
istruttorie (ovvero la produzione documentale) nuove potrà
derivare da nuove allegazioni legittimamente avanzate dall’altra
parte entro il secondo dei termini perentori; e in relazione a tali
ipotesi appare inevitabile ammettere a garanzia del
contraddittorio e del principio di parità delle armi, che
l’espressione «prova contraria» deve essere intesa in senso assai
ampio (seppur atecnico), comprendendo anche le prove del tutto
nuove, costituende o precostituite, che possano considerarsi latu
sensu giustificative delle nuove allegazioni formulate
dall’avversario nella precedente memoria.
Il problema, però, si complica allorquando la necessità sorga a
seguito del deposito della III memoria e il giudice si sia riservato
senza fissare udienza. Entro quale termine la parte avrà l’onere di
chiedere la rimessione in termini per proporre i mezzi di prova
contraria sull’eccezione formulata con la III memoria? Diverse le
opzioni possibili:
(a) entro il termine di venti giorni dalla scadenza della III
memoria (applicando per analogia quello di cui all’art. 183
VI comma n. 3);

78 BALENA in Balena-Bove, Le riforme più recenti del processo civile, Bari 2006

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(b) entro il termine di trenta giorni dalla scadenza della III


memoria (termine massimo previsto per la pronuncia
dell’ordinanza) 79;
(c) prima della pronuncia dell’ordinanza anche se successiva
allo scadere dei trenta giorni;
(d) dopo l’ordinanza, ma prima dell’udienza;
(e) entro la prima udienza successiva all’ordinanza.
A mio avviso, nel caso in cui la necessità sia sorta a seguito del
deposito della III memoria da parte dell’avversario, come teorico,
propenderei per la richiesta di rimessione in termini da formulare
all’udienza di assunzione delle prove, non essendovi altre difese
utili prima di quella udienza e non essendo possibile “creare” a
pena di decadenza termini che il codice non prevede affatto.
Come pratico, però, depositerei la richiesta di rimessione
nel più breve termine possibile.
Naturalmente, è sempre valido il principio stabilito dalla nota
sentenza delle Sezioni Unite (n. 8203/2005, tristemente nota per
aver ribadito il divieto di produzione in appello di nuovi
documenti) la quale ha precisato che la preclusione non si verifica
qualora si tratti:
(a) di documenti formati successivamente;
(b) di documenti la cui necessità di produzione è avvenuta per lo
sviluppo assunto dal processo.

79In tal senso anche BRIGUGLIO, Il nuovo rito ordinario di cognizione: meno udienze, più
preclusioni; (dalla l. n. 80/2005 alla l. n. 263/2005), www.judicium.it.

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6. LA DECISIONE DEL GIUDICE SULLE RICHIESTE


ISTRUTTORIE

Il settimo comma dell’art. 183 c.p.c. stabilisce che Salva


l'applicazione dell'articolo 187, il giudice provvede sulle richieste
istruttorie fissando l'udienza di cui all'articolo 184 per
l'assunzione dei mezzi di prova ritenuti ammissibili e rilevanti. Se
provvede mediante ordinanza emanata fuori udienza, questa deve
essere pronunciata entro trenta giorni.
La disposizione non chiarisce se il giudice, allorquando concede
i tre termini ex art. 183, VI comma, c.p.c.,:
(a) debba riservarsi ed emettere l’ordinanza istruttoria entro
trenta giorni dalla scadenza dell’ultimo termine80; oppure,
(b) possa fissare un’ulteriore udienza in cui sentire le parti ed
emettere contestualmente o con riserva, l’ordinanza di
ammissione delle prove, fissando a data successiva l’udienza
per l’assunzione delle medesime81.
In pratica, la norma non esplicita come debba avvenire il
passaggio dalla fase preparatoria a quella istruttoria in senso
stretto. Secondo Santangeli82 la norma, per come formulata, non
impone necessariamente l’una o l’altra soluzione.
Alcuni giudici si riservano già all’udienza di trattazione con
concessione del triplo termine, ma questo fa sì che le parti, di
fatto, rimangano private della possibilità di far valere l’eventuale
irrilevanza e/o inammissibilità delle prove contrarie formulate

80 Così GRAZIOSI A., Appunti sulla nuova fase preparatoria del processo, www.judicium.it
81 In tal senso: BALENA, La riforma (della riforma) del processo civile. Note a prima
lettura sulla l. 28 dicembre 2005 n. 263, III, Processo ordinario di cognizione, in Foro it.,
2006, V, 65; CAPPONI, L’art. 183 c.p.c. dopo le “correzioni” della legge 28 dicembre 2005,
n. 263, in www.judicium.it; Id., Passato e presente dell'art. 183 c.p.c. (in punta di penna
sulla legge 80/2005), ivi, par. 4.
82 SANTANGELI, Le udienze di trattazione della causa nel processo civile ordinario alla
luce delle recenti riforme, www.judicium.it.

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nella terza memoria; ciò comporta un’indubbia compressione del


loro diritto di difesa.

Prima della riforma del 2005, le parti potevano esercitare tale


facoltà all’udienza del “secondo 184”.

Le soluzioni possibili per ovviare a questo inconveniente sono


due: o il giudice concede una quarta memoria avvalendosi dei
poteri previsti dall’art. 175, II comma, c.p.c. per la sola eventuale
replica in punto di ammissibilità e/o rilevanza delle avverse prove
contrarie richieste nella terza memoria, oppure fissa una nuova
udienza (la “vecchia” del “II 184”) nel corso della quale le parti
potranno formulare le loro osservazioni ed eccezioni circa
l’ammissibilità della prova contraria articolata dalla
controparte83.
La seconda opzione potrebbe essere avvalorata tenendo in
considerazione che il d.l. 35/2005 prevedeva la riserva obbligatoria
già alla prima udienza. Tale modifica potrebbe pertanto suggerire
l’interpretazione secondo cui la riserva vada sciolta dopo una
udienza fissata ad hoc84.
Ma la soluzione migliore è forse quella “flessibile”85, che
lascia cioè al giudice decidere, in base alla natura della

83Così il Trib. di Torino, ord. 24 ottobre 2006: “ritenuto che, nel caso di concessione dei
predetti termini, sia possibile fissare un'udienza, all'esito della quale provvedere sulle
eventuali richieste istruttorie o invitare le parti a precisare le conclusioni (o, più
precisamente, per esigenze d'ufficio, fissare apposita udienza per la precisazione
conclusioni), tenuto conto:
- dell'opportunità di consentire alle parti di eccepire l'eventuale tardività o irritualità
delle memorie previste dalla norma e, in particolare, della terza memoria (destinata alle
sole indicazioni di prova contraria);
- della necessità di consentire alle parti di disconoscere un documento prodotto con la
terza memoria (per l'eventualità che, sia pure eccezionalmente, detto documento rivesta
natura di "prova contraria"); …fissa udienza successiva a mercoledì .. febbraio 20.. ore
10,00”.
84GRAZIOSI, in La nuova prima udienza di trattazione, in www.judicium.it, aggiunge che
non esistono nel c.p.c. casi di riserva obbligatoria; pertanto il legislatore avrebbe dovuto
esprimersi in modo espresso, tuttavia nulla esclude che il giudice possa riservarsi.
85 In tal senso, CONSOLO, La trattazione della causa: gli artt. 167, 180, 183 e 184 – e
altre disposizioni sul processo di cognizione – così come novellati dalle leggi n. 80 e n.

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118

controversia, se fissare o meno una nuova udienza per


l'ammissione delle prove. In altre parole, a seguito della
richiesta del triplo termine il giudice dovrebbe sempre
riservarsi e solo dopo aver letto le memorie decidere se:
(a) concedere un ulteriore termine per controdedurre sulle
eccezioni nuove e sulle prove richieste e prodotte con la III
memoria e quindi:
a.1) fissare l’udienza per la decisione sulle prove;
a.2) riservarsi nuovamente di decidere a seguito del deposito
della IV memoria;
(b) fissare l'udienza per l'ammissione delle prove con
possibilità:
b.1) di integrare le difese con un termine intermedio per il
deposito di una IV memoria;
b.2) concedere alle parti la possibilità di contro dedurre alla
udienza fissata;
(c) ammettere i mezzi di prova e fissare l'udienza per il loro
espletamento.
Leggendo gli atti, infatti, il giudice può rendersi conto se nella
II o nella III memoria sono state introdotte nuove eccezioni che
richiedono l'articolazione di una prova diretta o contraria86. In
effetti, decidere tra l'opzione secca di fissare sempre l'udienza di
ammissione delle prove, oppure mai, significa non cogliere le
peculiarità di ciascuna causa, con la conseguenza che per talune
vi sarà sovrabbondanza di attività, per altre carenza.

263 del 2005, in AA.VV., Il processo civile di riforma in riforma, Milano, 2006, 52, il
quale propende per la fissazione solo eventuale di un’altra udienza di trattazione, nei
casi più complessi e con apposita motivazione, «onde consentire alle parti di discutere
situazioni patologiche e/o per formulare o meglio illustrare istanze di rimessione in
termini ex art. 184 bis»;
86 Così BRIGUGLIO, Il nuovo rito ordinario di cognizione: meno udienze, più preclusioni;

(dalla l. n. 80/2005 alla l. n. 263/2005), www.judicium.it, il quale esclude che si


debbano aprioristicamente concedere quattro memorie, come da taluno suggerito.

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Devo però segnalare che nel progetto di legge 1441-bis B, più


volte ricordato, è previsto l’inserimento di una norma, l’art. 81-bis,
nel libro relativo alle disposizioni di attuazione del codice di rito,
intitolato “Calendario del processo”. Questo articolo stabilisce che
il giudice, quando provvede sulle richieste istruttorie, sentite le
parti, fissa il calendario del processo con l’indicazione delle
udienze successive e degli incombenti che verranno espletati.
Pertanto, alla luce di tale norma, sarà sempre necessario fissare
una nuova udienza dopo la concessione del triplo termine, al fine
di predisporre il suddetto calendario.

Il giudice, a fronte alle richieste istruttorie avanzate dalle parti,


dovrà effettuare una duplice indagine, dovrà cioè verificare che
esse siano ammissibili e rilevanti.
Il giudizio di ammissibilità consiste nel verificare, caso per
caso, se esistano ragioni per non ammettere il mezzo di prova,
tenuto conto dello schema legale di riferimento. Detta verifica
investe sia le condizioni processuali (ad. es. che la prova sia stata
dedotta entro il termine di legge), sia quelle sostanziali (ad es. che
la prova non violi i limiti stabili dagli artt. 2721-2726 c.c.).
Relativamente ai capitoli di prova contenenti valutazioni,
spesso severamente espunti dai giudici, la Cassazione ha
affermato che il principio secondo cui la prova testimoniale deve
avere ad oggetto non apprezzamenti o giudizi, ma fatti obiettivi,
deve essere inteso nel senso che il testimone non deve dare
un’interpretazione del tutto soggettiva o indiretta delle circostanze
di fatto ed esprimere apprezzamenti tecnici o giuridici su di esso,
ma ciò non comporta, peraltro, che egli non possa riferire anche il
convincimento sul fatto e le sue modalità derivatogli dalla sua
stessa percezione ed esprimere gli apprezzamenti che non sia
possibile scindere dalla deposizione dei fatti (Cass. civ. n. 5/2001).
Per quanto attiene al giudizio di rilevanza, si tratta di una
valutazione a priori volta a verificare che il capitolo sia
potenzialmente utile per l’accertamento dei fatti controversi, o, in
altre parole, se sia tecnicamente idoneo a dimostrare l’esistenza o
l’inesistenza dei fatti allegati in causa. Una prova è irrilevante se
tende a dimostrare: (a) fatti pacifici (b) o già dimostrati, (c) fatti
estranei al giudizio, (d) circostanze che non influiscono sulla
decisione. Il capitolo, invece, non potrà essere espunto solo perché
in contrasto con altre prove già acquisite.

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7. LE PROVE AMMESSE D’UFFICIO DAL GIUDICE

L’ottavo comma dell’art. 183 c.p.c. stabilisce: Nel caso in cui


vengano disposti d'ufficio mezzi di prova con l'ordinanza di cui al
settimo comma, ciascuna parte può dedurre, entro un termine
perentorio assegnato dal giudice con la medesima ordinanza, i
mezzi di prova che si rendono necessari in relazione ai primi
nonché depositare memoria di replica nell'ulteriore termine
perentorio parimenti assegnato dal giudice, che si riserva di
provvedere ai sensi del settimo comma.
Dall’articolo non si evince con chiarezza se l’ordinanza ex art.
183, VII comma, c.p.c. costituisca il termine ultimo entro cui il
giudice è tenuto ad esercitare i suoi poteri officiosi o se gli stessi
possano essere esercitati anche in una fase successiva del
processo.
Secondo Della Pietra87 “la norma acquista pregio alla luce
della lettura dell'art. 281-ter, c.p.c. offerta dalla Corte
costituzionale. Investita della questione di legittimità
costituzionale della disposizione in parola, la Corte ha
sostanzialmente detto che, perlomeno in materia di prova
testimoniale, il giudice incontra le medesime preclusioni delle
parti, e dunque può disporre prove d'ufficio non oltre il termine in
cui le parti possono articolarne di proprie. La pronunzia
alimentava un'aporia. Occorreva chiarire come fosse possibile che
il giudice esercitasse l’iniziativa officiosa quando ancora poteva
essere all'oscuro dei mezzi di cui si sarebbero servite le parti. Nel
disporre che il giudice ammetterà prove d'ufficio con l'ordinanza
con cui dà ingresso alle prove di parte, la nuova disposizione

87DELLA PIETRA, La novella della novella della novella, ovvero la novella al cubo del
processo di cognizione, www.judicium.it.

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fornisce buona risposta a questa esigenza: crea per l’ufficio una


preclusione abbastanza vicina a quella delle parti, così da
soddisfare il precetto della Corte, ma nel contempo
sufficientemente discosta da permettere al giudice di esercitare
l'integrazione officiosa quando già è a conoscenza delle prove di
parte”.
Sembra tuttavia preferibile l’ipotesi secondo cui per il
giudice non vi è un limite temporale per disporre una
prova ex officio, fermo il dovere di concedere i termini
alle parti88. D'altra parte è proprio dopo l'istruzione che il
giudice può ritenere necessario:
(a) disporre la testimonianza ex art. 281 ter c.p.c.;
(b) deferire il giuramento suppletorio ex art. 265 c.p.c.;
(c) disporre il confronto tra testimoni ex art. 254 c.p.c.;
(d) disporre che vengano sentiti i testimoni ex art. 257, I comma,
c.p.c. in caso di deposizione de relato.

88In tal senso SANTANGELI, Le udienze di trattazione della causa nel processo civile
ordinario alla luce delle recenti riforme, www.judicium.it.

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PARTE III
PRECLUSIONI ED INTERVENTO DEL TERZO

SOMMARIO.
1. Il regime di preclusioni in caso di intervento del terzo.- 1.1 Segue:
l’estensione automatica della domanda nei confronti del terzo.- 2. Il
regime di preclusioni per il terzo chiamato.-

1. IL REGIME DI PRECLUSIONI IN CASO DI INTERVENTO


DEL TERZO

Il regime di preclusioni in caso di intervento volontario del


terzo risente delle incertezze dovute ad una disciplina sin troppo
laconica.
Senza la pretesa di sciogliere tutti i nodi problematici – in
alcuni casi davvero molto complessi - in questo capitolo proverò a
dare una risposta alle seguenti domande:
1) Fino a quale fase processuale il terzo può intervenire?
2) Quali poteri ha il terzo che interviene in giudizio? In
particolare, è sempre libero di proporre domande e avanzare
richieste istruttorie nei confronti delle parti originarie?
3) Che poteri hanno le parti originarie verso il terzo? Possono
avanzare nei suoi confronti nuove domande? Se la risposta è
affermativa, a quali condizioni?
4) In quali casi si verifica nei confronti del terzo l’estensione
automatica della domanda attorea?
5) Come si differenza il regime di preclusioni in caso di chiamata
in causa del terzo?

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Com’è noto, l’intervento volontario può essere di tre tipi: (a)


principale ad excludendum, (b) adesivo autonomo (art. 105, I
comma, c.p.c.) e (c) adesivo dipendente (art. 105, II comma, c.p.c.).

Nell’intervento principale ad excludendum l’interveniente fa


valere un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto
nel processo nei confronti di tutte le parti. Nell’intervento
adesivo autonomo la domanda dell’interveniente riguarda solo
alcune delle parti e non tutte, come invece in quello principale.
Infine, nell’intervento adesivo dipendente l’interveniente non
fa valere una domanda propria, bensì si limita a sostenere quella
di una delle parti.

Il terzo interveniente può costituirsi in cancelleria oppure


direttamente in udienza. Nel primo caso il contraddittorio si
realizza in un secondo momento, quando il cancelliere comunica
alle parti l’avvenuto intervento (art. 267, II comma, c.p.c.). Nei
confronti del contumace, invece, il contraddittorio si instaura con
la notifica della comparsa di intervento ai sensi dell’art. 292 c.p.c..
Ai sensi dell’art. 268, I comma, c.p.c. l’intervento del terzo
può aver luogo sino a che non vengano precisate le
conclusioni, ma, aggiunge il secondo comma, il terzo non può
compiere atti che al momento dell’intervento non sono più
consentiti ad alcuna parte.
La norma, però, fa salva l’ipotesi in cui il terzo comparisca
volontariamente per l’integrazione necessaria del contraddittorio;
in questo caso, le preclusioni già maturate per le parti non lo
pregiudicano in alcun modo.

Giurisprudenza.
“L’interveniente necessario (nel caso di specie, coniuge
comproprietario pretermesso) non incontra preclusioni in ragione
dello stato del processo, cioè non deve accettare la causa nello
stato in cui si trova ma conserva le facoltà di proporre eccezioni e
domande riconvenzionali pur se si costituisce dopo che siano
maturate le relative preclusioni ex art. 268 c.p.c. (pertanto, il
coniuge pretermesso, nel caso di specie, pur essendosi costituito
addirittura durante la pendenza dei termini per l’articolazione

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delle prove, poteva validamente proporre eccezioni e domande


riconvenzionali)”, Tribunale Perugia, 01 settembre 2008.

A seguito della riforma del ’90-’95, un consistente


orientamento giurisprudenziale di merito ha affermato che la
disciplina delle preclusioni riguardanti il terzo si differenzia a
seconda che la domanda o l’eccezione del terzo siano o meno
conseguenti alla domanda o alle eccezioni del convenuto. Laddove
vi sia questa consequenzialità, si è detto, il terzo è legittimato a
proporre domande o eccezioni all’udienza di trattazione,
altrimenti avrà l’onere di farlo entro venti giorni prima
dell’udienza di trattazione, al pari del convenuto (Cfr. Trib.
Salerno, 15 giugno 2006; Trib. Torino, 7 giugno 2000, in Giur.
mer. 2001, 27; Trib. Milano, 29 ottobre 1998, in Giur. mer. 1999,
754; Trib. Roma, 17 febbraio 1998, in Giust. civ. 1999, I, 3471;
Trib. Monza, 12 settembre 1998, in Giur. mer. 1999, 755).
In altre parole, si è affermato che la previsione dell'art. 268
c.p.c. va coordinata alle scansioni processuali introdotte dalla
novella del 1990, con la conseguenza che dopo l'udienza di
trattazione sarebbe ammissibile soltanto l'intervento adesivo
dipendente.
In una posizione intermedia si colloca un filone (v. ad esempio
Tribunale di Ivrea, sent. del 7 luglio 2003), in base al quale nel
caso in cui l’interveniente autonomo intervenga dopo il termine
per la formulazione delle domande, ma prima dello scadere del
termine per l’articolazione dei mezzi istruttori, l’intervento si
trasforma in intervento adesivo, con la conseguenza che sarà
possibile sviluppare solo argomentazioni giuridiche in favore delle
parti costituite, ovvero capitolare prove per supportare
determinate allegazioni delle parti costituite.
Le pronunce di merito che, al contrario, ritengono ammissibili
le domande proposte dopo il termine di cui all’art. 166 c.p.c.,

© M. Minardi - Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione - 2009
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oppure dopo l’udienza di trattazione, si richiamano agli arresti


della Suprema Corte, secondo cui la formulazione della domanda
costituisce l'essenza stessa dell'intervento principale e
litisconsortile, sicché, la preclusione sancita dall'art. 268 c.p.c. non
si estende all'attività assertiva del volontario interveniente, nei cui
confronti non è operante il divieto di proporre domande nuove che
vincola le parti originarie (art. 167 e 183 c.p.c.), così tra le tante
Cass. civ. n. 4771/1999.
Con l’entrata in vigore del rito ’90-’95, la S.C. ha ribadito tale
indirizzo ammissivo, affermando che la preclusione sancita
dall'art. 268 c.p.c., nel nuovo testo introdotto dalla l. 26 novembre
1990 n. 353, non si estende all'attività assertiva del
volontario interveniente, configurandosi solo l'obbligo, per
l'interventore stesso ed avuto riguardo al momento della sua
costituzione, di accettare lo stato del processo in relazione alle
preclusioni istruttorie già verificatesi per le parti originarie (Cass.
civ. n. 3186/2006; id. n. 15787/2005).
Con la riforma del 2005 i termini della questione sono
rimasti immutati. Difatti, l’art. 269, ult. comma, c.p.c. è stato
modificato solo per ragioni di coordinamento con il nuovo testo
dell’art. 183 c.p.c.. Oggi esso afferma testualmente: Nell'ipotesi
prevista dal terzo comma restano ferme per le parti le preclusioni
ricollegate alla prima udienza di trattazione, ma i termini
eventuali di cui al sesto comma dell'articolo 183 sono fissati dal
giudice istruttore nella udienza di comparizione del terzo. Il che
sta a significare che l’attore può proporre le domande e le
eccezioni conseguenti alla domanda riconvenzionale del convenuto
solo nella prima udienza e non in quella successiva di
comparizione del terzo.
Pertanto, in base all’insegnamento della S.C. e al di fuori delle
ipotesi di intervento necessario, il terzo che interviene in

© M. Minardi - Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione - 2009
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giudizio deve accettare lo stato del processo e in


particolare le preclusioni già verificatesi per le parti.
La soluzione si fonda su buoni motivi:
(a) il terzo potrebbe anche decidere di iniziare un autonomo
giudizio; il processo da altri instaurato, infatti, non lo
pregiudica89;
(b) permettere al terzo di intervenire e di formulare mezzi
istruttori fino alla PC significa dargli la possibilità di stare
alla finestra, aspettando la discovery delle altre parti o,
peggio, l’esito delle prove, per valutare se intervenire o meno;
(c) la possibilità per il terzo di articolare mezzi istruttori anche
dopo la scadenza dei termini può comportare un
rallentamento e un disallineamento del giudizio, in contrasto
con i principi costituzionali della ragionevole durata e del
giusto processo.
Si potrebbe obiettare che in tutti i casi di “connessione debole”
(si veda a tal proposito l’esempio del sinistro dell’imbarcazione di
cui infra) il giudice potrebbe disporre la separazione dei giudizi ai
sensi dell’art. 103, II comma, c.p.c.90, ma si tratta pur sempre di
un provvedimento lasciato alla discrezione del giudice e che
comunque non elude il rischio della “scelta opportunistica” da
parte del terzo.
Certo è che nei casi in cui vi è una “connessione forte” o per
subordinazione (per pregiudizialità, incompatibilità o

89 Come osservato dalla Corte Costituzionale nell’ordinanza n. 215/2005 il terzo che

ritenga che da un giudizio “inter alios” possano derivare pregiudizi alla propria
posizione sostanziale ha, in alternativa all'intervento, la piena facoltà di proporre un
autonomo giudizio, oltre che di avvalersi (ove ne sussistano le condizioni) anche dei
rimedi di cui agli artt. 274, 344 e 404 cod. proc. civ. evocati dallo stesso rimettente.
90 Ai sensi del quale Il giudice può disporre, nel corso della istruzione o nella decisione,

la separazione delle cause, se vi è istanza di tutte le parti, ovvero quando la


continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe più gravoso il processo, e
può rimettere al giudice inferiore le cause di sua competenza.

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alternatività) l’esigenza di favorire il simultaneus processus


appare preminente rispetto a quella di non ritardare il processo.
Facciamo degli esempi.
Esempio 1): Tizio rivendica la qualità di erede testamentario
verso Sempronio, erede ex lege. Interviene Caio, facendo valere un
testamento di data posteriore a quello di Tizio.
Esempio 2): Tizio chiede a Caio il pagamento di un debito;
interviene Sempronio, chiedendo il pagamento in proprio favore,
in quanto cessionario del credito stesso.
In questi casi, in effetti, la duplicazione dei processi è
pressoché certa, come pure l’opportunità di un processo cumulato;
dunque, la regressione momentanea del giudizio (c.d. diseconomia
interna) rappresenta un male minore se paragonata ai tempi e ai
pericoli di un nuovo processo (esigenza di economia processuale
esterna e di non contrasto di giudicati).
Detto questo e facendo riferimento al diritto vivente della
Cassazione, occorre stabilire se la tardività vada stabilita rispetto
all’udienza di trattazione, in cui le parti costituite hanno chiesto il
triplo termine, ovvero agli eventuali termini per memorie.
In altre parole, il terzo che si costituisce prima della
scadenza della II memoria ex art. 183, VI comma, può
produrre documenti e articolare mezzi di prova91? A mio
avviso la risposta è affermativa, atteso che nel momento in cui
interviene alle parti originarie sono ancora “consentiti”, per usare
il termine impiegato dal codice, i poteri istruttori. D’altra parte,
l’attore e il convenuto potranno richiedere la prova contraria con
la III memoria.
Resta ora da affrontare la questione relativa ai poteri delle
parti originarie rispetto alle domande e alle eccezioni sollevate dal

91Rectius: “sono da ritenersi ammissibili le prove prodotte e richieste?” Ovvio, cioè, che
possa produrre e chiedere.

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terzo interveniente. Possono, anzitutto, l’attore e il


convenuto proporre nuove domande nei confronti del
terzo intervenuto, sempre che, ovviamente, siano conseguenti
alle domande e alle eccezioni sollevate da quest’ultimo? E se la
risposta è affermativa, qual è il termine ultimo?
Ancora una volta il problema concerne le sole domande, in
quanto, come abbiamo già detto, il potere di eccezione non può
trovare alcun limite se non quello della tempestività del suo
esercizio. Una tale copertura costituzionale non hanno invece le
domande, potendo le parti instaurare sempre un nuovo giudizio,
anche se ciò si pone in contrasto con il principio di economia
processuale. La ragionevole durata, infatti, dovrebbe essere
valutata tenendo in considerazione non il singolo processo, bensì
l’intera vicenda sottoposta all’esame del giudice, compresi i
possibili e probabili sviluppi.

Esempio 1. Tizio Caio e Sempronio sono a bordo


dell’imbarcazione condotta dal primo. Il motoscafo finisce contro
gli scogli e Caio e Sempronio riportano lesioni. Caio cita Tizio in
giudizio. Tizio si difende allegando che il sinistro è stato provocato
da un gesto inconsulto di Sempronio, che ha afferrato il timone
facendogli perdere il controllo della barca. Interviene nel giudizio
Sempronio per chiedere il risarcimento dei danni subiti.

In un caso del genere nulla vieta che Tizio spieghi la


riconvenzionale nei confronti di Sempronio per sentirlo
condannare al risarcimento dei danni subiti, perché il fatto
costitutivo della pretesa risulta già introdotto nel giudizio come
eccezione, dunque non vi è un allargamento del thema
decidendum.

Esempio 2.
Tizio conviene in giudizio Caio (e la compagnia assicurativa) per
sentirlo condannare al risarcimento dei danni subiti in un sinistro
stradale, allorquando si trovava trasportato proprio nel veicolo di
Caio. Quest’ultimo allega, però, che il sinistro era stato concausato

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dalle pericolose condizioni della strada, priva di segnaletica e di


guard rail; chiede perciò di essere manlevato dall'ente proprietario
della strada. Alla prima udienza, Tizio estende la domanda nei
confronti dell'Ente.

Il Tribunale di Roma (sent. 15 marzo 2007), chiamato a


decidere la suddetta fattispecie, ha dichiarato l'inammissibilità
della domanda con le seguenti argomentazioni:
È certamente vero che nel giudizio avente ad oggetto
l'accertamento di un danno aquiliano l'attore può estendere la
propria pretesa nei confronti del terzo chiamato in causa dal
convenuto, sul presupposto che del primo e non del secondo sia
la responsabilità per l'accaduto (ex multis, Cass., sez. III, 28-
01-2005, n. 1748, in Foro it., 2005, I, 2385).
Tuttavia perché tale principio possa operare è necessario che
(a) la responsabilità del terzo sia alternativa od almeno
cumulativa con quella del convenuto principale; (b) che
l'attore abbia almeno allegato il fatto costitutivo della pretesa
nei confronti del terzo chiamato in causa.
Nel caso di specie il requisito sub (b) è del tutto carente.
2.1. Come noto, i fatti posti a fondamento della pretesa attorea
vanno allegati nella citazione a pena di decadenza. Essi non
possono essere prospettati per la prima volta nelle memorie ex
art. 183 c.p.c., perché queste ultime possono essere utilizzate
solo per modificare le domande "già proposte", ma non per
addurre fatti nuovi (a meno che non siano resi necessari dalle
difese del convenuto).
Or bene, è noto che in materia di diritti eterodeterminati -
qual è il diritto al risarcimento del danno - si ha formulazione
di domanda nuova quando viene immutato il fatto costitutivo
della pretesa.
A sua volta, si ha mutamento del fatto costitutivo della
pretesa quando per effetto della modifica della domanda si

© M. Minardi - Le insidie e i trabocchetti della fase di trattazione del processo civile di cognizione - 2009
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amplia non solo l'oggetto del pronunziare, ma anche quello


del conoscere, vale a dire si introducono nel processo nuovi
temi di indagine (così, ex multis, Cass., sez. lav., 10-04-2000,
n. 4538, in Foro it. Rep. 2000, Lavoro e previdenza
(controversie), n. 140; Cass., sez. lav., 19-08-2004, n. 16262, in
Foro it. Rep. 2004, Lavoro e previdenza (controversie), n. 104;
Cass., sez. lav., 27-05-2004, n. 10204, in Impresa, 2004, 1481;
Cass., sez. lav., 08-01-2003, n. 88, in Foro it. Rep. 2003,
Lavoro e previdenza (controversie), n. 123; Cass., sez. lav., 15-
04-1999, n. 3774, in Foro it. Rep. 1999, Procedimento civili],
n. 214; Cass., sez. lav., 18-06-1998, n. 6106, in Foro it. Rep.
1998, Infortuni sul lavoro, n. 189).
Nel caso di specie, la richiesta di risarcimento del danno nei
confronti del Comune di …. si fonda su un fatto costitutivo del
tutto diverso rispetto a quello posto a fondamento della
domanda formulata nei confronti dei convenuti principali: la
prima presuppone infatti l'accertamento di una condotta (non
avere provveduto alla manutenzione della strada) del tutto
diversa da quella che costituisce il fondamento della seconda
(avere tenuto una condotta di guida imprudente).
Perciò, essendo diversi i fatti posti a fondamento delle due
domande risarcitorie, la seconda non può ritenersi
precisazione della prima, ma domanda nuova, come tale
inammissibile perché non formulata nell'atto di citazione.
Un altro esempio è quello tratto dalla sentenza emessa dal
Tribunale di Arezzo in data 04 aprile 2008. Gli eredi di Tizia
convengono in giudizio il conducente, il proprietario e
l’assicuratore di un taxi sanitario allegando che a seguito di un
sinistro stradale si era verificata la morte, non istantanea, di
Tizia, ivi trasportata. I convenuti, tra le altre difese, chiedono di
chiamare in causa l’Ausl, allegando che la morte era in realtà da

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addebitare all’imperizia dei medici che avevano operato Tizia


subito dopo il sinistro. All’udienza di trattazione gli attori
dichiaravano di voler estendere la domanda nei confronti
dell’Ausl. La domanda viene però dichiarata inammissibile per
questi motivi: Nel caso in esame, le convenute, nel chiamare in
causa la AUSL 8 non deducono che è quest'ultima la responsabile
del sinistro stradale su cui si fonda la domanda di risarcimento
dei danni degli attori ma, viceversa, fondano la propria domanda
di manelva sul presupposto che il fatto generativo del danno subito
dagli attori sia stato determinato da un fatto del tutto diverso ed
autonomo rispetto al sinistro stradale, ossia dal comportamento
colposo dei medici della AUSL 8. In altre parole, mentre gli attori
sostengono che la morte della L.C. sia stata determinata dal
sinistro stradale e, dunque, dalla condotta di guida colposa del
F.M.; viceversa, le convenute fondano la propria domanda di
manleva nei confronti della AUSL 8 sul presupposto che la morte
della L.C. non sia stata determinata affatto dalle lesioni subite a
causa del sinistro stradale ma dall'errore medico del personale
dell'AUSL 8 nel procedere alle cure dell'infortunata. È evidente,
pertanto, che poiché con la chiamata del terzo è stato dedotto un
titolo diverso e del tutto autonomo rispetto a quello caratterizzante
la domanda di parte attrice, non può operare l'asserita estensione
automatica della domanda introduttiva del giudizio anche nei
confronti della AUSL 8.
Il discrimen, pertanto, in base a questo orientamento
giurisprudenziale, è dato dalla preventiva o meno allegazione del
fatto: se il fatto è già stato allegato, la parte potrà formulare una
domanda nei confronti del terzo fondata sullo stesso fatto; se
invece non è stato mai allegato, la parte potrà solo difendersi.
Per quanto concerne il limite temporale, in linea di principio la
contro-domanda o la contro-eccezione nei confronti della domanda

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o della eccezione sollevate dal terzo andrebbero dedotte con il


primo atto difensivo. Qualora il terzo si costituisca all’udienza
di trattazione, non vi è però alcuna ragione di derogare al sistema
delineato dall’art. 183, V e VI comma, per cui le contro-domande e
le contro-eccezioni potranno essere proposte con la II
memoria. Se la costituzione del terzo avviene a ridosso della
scadenza della II memoria oppure dopo che questa è stata
depositata, la reconventio reconventionis e la exceptio exceptionis
andranno proposte con la III memoria.
In ogni caso, per scrupolo difensivo, è sempre bene chiedere
la rimessione in termini con il primo atto utile.
La questione, peraltro, è arrivata alla Consulta; peccato, però,
che questa si sia fermata ad una pronuncia di inammissibilità per
una serie di concorrenti ragioni legate al modo in cui il giudice
rimettente aveva formulato le questioni. Il Tribunale di Padova,
infatti, aveva sollevato questione di legittimità costituzionale
dell’art. 268, 1 comma, c.p.c., in riferimento agli articoli 3 e 111,
secondo comma, ultimo periodo, della Costituzione, nella parte in
cui consente l’intervento del terzo fino all’udienza di PC. Nel caso
in esame, il terzo era intervenuto prima della scadenza del II
termine e aveva formulato domande e richieste di prova contro
tutte le parti. Secondo il Tribunale, oltre al conseguente
aggravamento dei tempi processuali, in questi casi verrebbe
compromesso il diritto al contraddittorio delle parti originarie
(che, nella specie, avevano richiesto la rimessione in termini), per
tutelare il quale il giudice, ove richiesto, si trova costretto a far
regredire il processo ad una fase anteriore, fissando una nuova
udienza di trattazione e concedendo altri termini ai sensi dell’art.
183, sesto comma. Verrebbe così ad alterarsi quel sistema
scandito da rigide preclusioni e da un numero «chiuso» di udienze,

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voluto per attuare concretamente il principio della ragionevole


durata del processo.
Dicevo, però, che la Corte ha dichiarato inammissibili le
questioni per una serie di ragioni che in questa sede ometterò di
riportare in quanto inconferenti ai fini della trattazione. Rimando
quindi il cortese lettore alla lettura della sentenza del 1° agosto
2008, n. 331.

1.1 Segue: l’estensione automatica della domanda nei


confronti del terzo
Una questione assai rilevante è quella dell’estensione
automatica della domanda attorea nei confronti del terzo
interveniente o del terzo chiamato dal convenuto o dal giudice. In
altre parole: in quali casi la domanda dell’attore si estende
automaticamente nei confronti del terzo?
La Suprema Corte ha affrontato spesse volte la questione,
ribadendo che il principio dell'estensione automatica della
domanda dell'attore al chiamato in causa da parte del convenuto o
del giudice92 trova applicazione solo allorquando la
chiamata del terzo sia effettuata al fine di ottenere la
liberazione dello stesso convenuto dalla pretesa
dall'attore, ovvero al fine di individuare il titolare passivo
dell’obbligazione, in ragione del fatto che il terzo si individui
come unico obbligato nei confronti dell'attore.
In tal caso si realizza un ampliamento della controversia in
senso soggettivo (divenendo il chiamato parte del giudizio in
posizione alternativa con il convenuto) e oggettivo (inserendosi
l’obbligazione del terzo dedotta dal convenuto verso l'attore in
alternativa rispetto a quella individuata dall'attore), ferma

92Per una ipotesi in materia di chiamata in causa per ordine del giudice v. Cass. civ. n.
13907/2007.

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restando, tuttavia, in ragione di detta duplice alternatività,


l'unicità del complessivo rapporto controverso.

Esempio.
Il fallimento della soc. Alfa cita la Banca Omega per sentire
revocare le rimesse in conto corrente della soc. fallita. La Banca
Omega eccepisce il proprio difetto di legittimazione passiva
allegando che i rapporti erano intrattenuti in realtà con la soc.
Delta. Interviene la soc. Delta la quale conferma che il conto
corrente era acceso presso essa e non presso la Banca Omega
(fattispecie decisa da Cass. civ. n. 17954/2008).

Il suddetto principio, invece, non opera allorquando lo stesso


terzo venga evocato in giudizio come (a) obbligato solidale, (b) in
garanzia propria od impropria, ovvero (c) intervenga per far
valere un diritto proprio, essendo in questi casi necessaria la
formulazione di un'espressa e autonoma domanda da parte
dell'attore (Cass. civ. n. 23308/2007, per i primi tre casi; v. Cass.
civ. sez. un. n. 15756/2007 per una fattispecie in materia di
intervento). Il che significa che all’udienza di trattazione
l’attore avrà l’onere di estendere la domanda nei confronti
del terzo, rischiando altrimenti di vedersi rigettata la domanda
principale e magari di non poter successivamente agire nei
confronti del terzo perché il diritto è ormai prescritto.

Nel nostro sistema ci sono diverse ipotesi di garanzia. La dottrina


parla di garanzie formali e di garanzie semplici (che rientrano
tra le garanzie proprie) e di garanzie improprie. La garanzia
formale e la garanzia semplice si dicono “proprie” perché
discendono da una previsione normativa.
Le ipotesi di garanzia formale si riallacciano agli acquisti a
titolo derivativo, in cui il dante causa deve garantire l’avente
causa di essere l’effettivo titolare del diritto. Così, ad esempio,
l’art. 1266 del c.c. stabilisce che quando la cessione è a titolo
oneroso, il cedente è tenuto a garantire l’esistenza del credito al
momento della cessione.
Talvolta la legge non solo prevede un diritto del garantito di
chiamare in causa il garante, ma addirittura l’obbligo di questi di
assumere la lite al posto del garantito. Si pensi all’ipotesi del
conduttore chiamato in rivendicazione da un terzo (art. 1586 c.c.).
In tal caso, il locatore è tenuto ad assumere la lite al posto del

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conduttore con conseguente estromissione, salvo il caso in cui il


conduttore abbia interesse alla partecipazione del giudizio.
La garanzia semplice riguarda fondamentalmente le ipotesi di
regresso (v. ad es. in tema di obbligazioni solidali o di
fidejussione).
La garanzia è invece impropria quando non discende da una
previsione che disciplina il rapporto, bensì da un collegamento
contrattuale. Ad esempio, Tizio conviene in giudizio Caio, in
qualità di vettore, perché durante il trasporto le merci si sono
danneggiate. Caio chiede di chiamare in causa Sempronio, sub-
vettore, quale autore del danno.
La differenza tra garanzia propria e garanzia impropria ha
importanti riflessi sul piano della competenza in quanto la
giurisprudenza ritiene che le ipotesi di garanzia impropria non
comportano deroghe ai normali criteri di determinazione della
competenza (v. ad es. Cass. civ. n. 13178/2006).

Ovviamente, affinchè il giudice possa estendere


automaticamente la domanda dell’attore nei confronti del terzo
occorre che l’attore non manifesti una volontà contraria.
Pertanto, nel caso in cui nelle conclusioni l’attore insista per la
condanna “soltanto” del convenuto originario, il giudice non potrà
applicare il principio in esame e dovrà attenersi a quanto
espressamente chiesto dal cliente (Cass. civ. n. 998/2009).

Nel caso deciso dalla Corte con l’ultima sentenza citata, si trattava
di un tamponamento a catena. L’attore aveva evocato in giudizio il
tamponante diretto, il quale negava la propria responsabilità,
affermando di aver tamponato l’attore mentre era fermo a causa, a
sua volta, del tamponamento del terzo di cui chiedeva la chiamata.
L’istruttoria dimostrava che l’assunto del convenuto era esatto, ma
nelle conclusioni l’attore aveva così concluso: il giudice dovrà
condannare al pagamento del risarcimento dovuto soltanto ed
interamente dalla compagnia convenuta e procedere ad
un'eventuale graduazione delle colpe, rilevanti nei rapporti interni
tra i corresponsabili. Secondo la Corte il giudice di appello aveva
esattamente ritenuto che in questo modo l’attore aveva
espressamente chiesto la condanna del solo convenuto.

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2. IL REGIME DI PRECLUSIONI PER IL TERZO CHIAMATO

Passando all’analisi del regime di preclusioni per il terzo


chiamato, occorre riportare quanto stabilito dall’art. 271 c.p.c..
Detta norma, prevede: Al terzo si applicano, con riferimento
all'udienza per la quale è citato, le disposizioni degli articoli 166 e
167, primo comma. Se intende chiamare a sua volta in causa un
terzo, deve farne dichiarazione a pena di decadenza nella
comparsa di risposta ed essere poi autorizzato dal giudice ai sensi
del terzo comma dell'articolo.
A seguito della pronuncia di incostituzionalità del 23 luglio
1997 n. 260, il richiamo deve intendersi riferito anche al
secondo comma dell’art. 167 c.p.c.. Pertanto, anche il terzo
chiamato, al pari del convenuto, ha l’onere di proporre a pena di
decadenza in comparsa di costituzione e risposta, da depositare
entro venti giorni prima dell’udienza:
(a)le domande riconvenzionali;
(b)le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d’ufficio;
(c) la dichiarazione di voler chiamare un terzo con richiesta di
differimento dell’udienza, ovvero la richiesta di chiamata in
causa, qualora si acceda alla tesi sopra svolta.
Le cose cambiano laddove il terzo sia chiamato per ordine
del giudice in un momento successivo alla fissazione del thema
decidendum o del thema probandum. Difatti, detta chiamata, per
espresso tenore dell’art. 270 c.p.c. può essere ordinata “in ogni
momento”.

Art. 270. - Chiamata di un terzo per ordine del giudice.


[I]. La chiamata di un terzo nel processo a norma dell'articolo 107
può essere ordinata in ogni momento dal giudice istruttore per una
udienza che all'uopo egli fissa.

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[II]. Se nessuna delle parti provvede alla citazione del terzo, il


giudice istruttore dispone con ordinanza non impugnabile la
cancellazione della causa dal ruolo.

L'intervento jussu judicis, rispondendo all'esigenza di attuare


l'economia dei giudizi ed evitare il contrasto di giudicati, può
essere disposto non solo nei casi di litisconsorzio necessario,
ma anche, in base ad un orientamento a mio avviso discutibile,
nel caso in cui, di fronte a difese del convenuto dirette a far
accertare la propria estraneità al rapporto controverso, il giudice
ritenga di dover indurre o autorizzare chi agisce ad estendere la
propria domanda nei confronti del terzo indicato come
titolare del rapporto medesimo (Cass. 19 maggio 1999 n.
4857; 10 maggio 1995 n. 5082).
Secondo la S.C. è proprio in considerazione del preminente
interesse pubblico cui è ispirato, che l'intervento jussu judicis
non è soggetto a limiti di tempo, ma può aver luogo, come
testualmente dispone l'art. 270 c.p.c., "in ogni momento" del
giudizio di primo grado.
La Suprema Corte ritiene altresì che il potere di ordinare
l'intervento di un terzo permanga tuttora integro pur dopo
l'introduzione di un processo caratterizzato da preclusioni più o
meno rigide per le parti; con la conseguenza che il terzo
chiamato (cfr. l'art. 271 c.p.c.) sarà libero di compiere
anche attività che sarebbero già precluse alle parti
originarie.
Naturalmente, queste avranno la facoltà di esercitare a loro
volta i più ampi poteri di controdeduzione alle difese del terzo, con
una sostanziale rimessione in termini ai sensi dell'art. 184
bis c.p.c93. (Cass. civ. n. 707/2004).

93 Art.153 II comma, in caso di approvazione del d.d.l. 1441-bis B.

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Sempre secondo la S.C., questa deroga al regime delle


ordinarie preclusioni, nascente dal combinato effetto degli artt.
270 e 184 bis c.p.c., attese le finalità pubblicistiche che presiedono
alla chiamata del terzo jussu judicis, trova applicazione anche
nel procedimento davanti al giudice di pace, in quanto
l'economia dei giudizi e l'uniformità dei giudicati sono valori che
devono prevalere sulle pur apprezzabili esigenze di snellezza e
celerità che il legislatore della riforma ha voluto imprimere a quel
procedimento, ma che non possono entrare in conflitto con altre e
diverse esigenze che lo stesso legislatore, proprio col mantenere
inalterato l'istituto, ha dimostrato di considerare meritevoli di
maggior tutela (Cass. civ. n. 707/2004).

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NOTE SULL'AUTORE.

Mirco Minardi è avvocato civilista ed esercita la professione nel


foro di Ancona. È direttore responsabile del blog
http://www.lexform.it. dedicato alla formazione giuridica e
manageriale degli avvocati

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Edito dalla Lexform S.a.s. di Bacolini Samantha e C.
con sede in Senigallia (AN) Via Umberto Giordano 54
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Chiuso in redazione il 16 aprile 2009


Prima edizione: aprile 2009

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