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sull’uomo, chiamerà la proprietà simbolica dell’animale uomo.
Il primo testo che vogliamo analizzare è tratto dall’opera Simbolo, mito e cultura che
raccoglie una serie di conferenze e lezioni che vanno dal 1935 in poi. Proprio del ’35 è il testo
in questione: si tratta della prolusione tenuta da Cassirer in occasione della sua assunzione
ufficiale dell’incarico di insegnamento a Göteborg, in Svezia, ed è stata conservata e
pubblicata sotto il titolo de Il concetto di filosofia come problema filosofico. Il tema del discorso è, a
detta dello stesso Cassirer, ambizioso.
La filosofia non può accettare di limitare la sua indagine alla forma ed alla
struttura delle singole regioni della cultura: del linguaggio, dell’arte, del
diritto, del mito o della religione. Più profondamente essa penetra in questa
struttura, più netto e pressante affiora il problema del tutto (Cassirer 1981,
p. 67)
Ora, Cassirer si domanda se questa pretesa di accedere al tutto, ad una visione integrata
e unitaria della conoscenza sia qualcosa che oramai ha perso la propria validità. In altre,
parole, si chiede se dobbiamo abbandonare l’ideale della filosofia come rapportata al mondo,
come sguardo sintetico sull’esperienza umana nella sua totalità. La risposta, ovviamente, è
negativa.
Ma allora, quali sono i pericoli che Cassirer intravede proprio sul cammino di una
filosofia così connotata – di una filosofia cioè che abbia preso sul serio il suo compito
trascendentale? Scrive Cassirer:
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troppo spesso abbiamo perso di vista l’autentico concetto della filosofia
nel suo nesso con il mondo.
Cassirer avverte, con acuta lucidità, che la filosofia del suo tempo ha abdicato alla
responsabilità di porsi nella funzione di sapere architettonico, di sapere fondamentale – nel
senso di sapere che deve farsi carico della fondazione, della giustificazione delle posizioni
ultime di qualunque sapere umano, sia esso teoretico o pratico. Contro questo atteggiamento
colpevolmente rinunciatario, occorre prendere una posizione.
Ma oggi non possiamo più tener chiusi gli occhi dinanzi al pericolo che ci
minaccia. Oggi l’urgenza dei tempi ci ammonisce più vigorosamente e
imperativamente che mai che sono di nuovo in giuoco per la filosofia le
sue scelte ultime e supreme. Esiste davvero ciò che chiamiamo verità
teoretica oggettiva? Esiste davvero ciò che le generazioni precedenti
hanno inteso come ideale della moralità, dell’umanità? Ed esistono
proposizioni etiche universalmente vincolanti, che trascendano
l’individuo, lo Stato, la nazione? (Cassirer 1981, p. 70).
Ecco che, di nuovo, torna il problema della possibilità di una conoscenza vera. Come
abbiamo visto nel caso della critica husserliana allo psicologismo, la questione che si avverte
in maniera pressante da parte di Cassirer è la possibilità stessa di una filosofia che abbia, come
obiettivo, il raggiungimento di una verità, sia essa conoscitiva, morale o giuridica. Non
dobbiamo dimenticare che Cassirer scrive all’indomani del suo esilio dalla Germania, e che il
clima vissuto da lui era un clima nel quale l’idea stessa di un’umanità razionale era venuta
meno in favore di una connotazione razziale dell’essere umano. È chiaro ed evidente il
pericolo che si corre nel rinunciare a tale ruolo del pensiero filosofico. Ed è per questo che
Cassirer non esita ad esortare il suo pubblico ad unirsi al compito intellettuale che si parava
di fronte ai suoi occhi e che doveva, per certi versi, sembrare arrogante agli orecchi di alcuni
presenti:
Non per la prima volta la pretesa della filosofia di prendersi cura degli
eventi reali viene contestata, e le sue rivendicazioni e i suoi ideali scherniti
come sogni vacui e utopie (Cassirer 1981, p. 70).
È interessante notare che, qualche riga più avanti, Cassirer prende a modello di questo
atteggiamento rinunciatario un testo che anche Husserl aveva ritenuto essere un attacco al
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ruolo fondativo della filosofia e del pensiero stesso, ossia Il tramonto dell’Occidente di Spengler.
Cassirer non esita a definire lo spirito di tale opera «pessimismo e fatalismo» e a proporre di
fatto l’assunzione del compito che la filosofia, in quanto opera di ricerca razionale, è chiamata
a fare:
Il secondo testo che affronteremo è tratto da Sulla logica delle scienze della cultura (cap.
II, Percezione di cose e percezione d’espressione).
In questo testo, Cassirer mostra la sua critica allo scetticismo insito all’interno della
frammentazione naturalistica dell’essere umano. Da questo punto di vista, Cassirer appare
critico proprio nei confronti di quell’impostazione che abbiamo visto dominare nel
positivismo e che ha portato all’esclusione della dimensione umanistica dallo studio
dell’essere umano.
In fondo, quello che Cassirer sta cercando di difendere è l’unitarietà dell’essere umano
e la necessità di analizzarlo come essere unitario a partire dalla molteplicità delle sue
manifestazioni. Proprio per questo, è necessario che il filosofo guardi alle diverse direzioni
nelle quali la capacità di dare forma all’esperienza – quella che vedremo essere la capacità
simbolica – si mette in atto e in questo modo rendersi conto che è il medesimo spirito che
opera nella costruzione delle forme organizzate dell’esperienza – quelle che vedremo essere
le forme simboliche.
Il testo prende le mosse dalla «crisi interna in cui si sono trovate la filosofia e la scienza
negli ultimi cento anni» (Cassirer 1979, p. 31) che emerge dalla dicotomia tra scienze della
natura e scienze della cultura. In particolare, a queste ultime manca una fondazione sicura,
una metodologia valida e ripetibile, tali che permettano alle scienze dello spirito – quelle che
nel contesto italiano chiameremmo le scienze umane – di essere dette a pieno titolo
“scienze”. Va riconosciuto con Cassirer che le scienze umane progredirono in maniera
significativa lungo tutto il XIX secolo, portando però il pensiero filosofico alla biforcazione
tra naturalismo e storicismo: «Tra naturalismo e storicismo non solo non si è potuto trovare
alcuna mediazione o conciliazione, ma non è nemmeno apparsa possibile una qualche
comprensione reciproca» (Cassirer 1979, p. 32). Ciò ha comportato, secondo Cassirer, che
«la scelta tra scienza della natura e scienza della cultura sembra quindi rimessa al sentimento
e al gusto soggettivo» (Cassirer 1979, p. 33), tanto che tra vita e spirito sembra non esserci
possibilità di comunicazione (cfr. Geist und Leben in der Philosophie der Gegenwart). Solo la
filosofia critica, a detta di Cassirer, è rimasta fedele all’intento kantiano di giustificare la
validità, la possibilità e i limiti delle scienze. E tuttavia, anch’essa avrebbe smarrito quella
chiave di lettura necessaria per restituire una visione unitaria dell’essere umano che, pure, si
manifesta in una pluralità di accessi all’esperienza del medesimo mondo. Ciò è il risultato
della divisione sistematica tra scienze nomotetiche e scienze idiografiche, portata avanti da
neokantiani quali Windelband, Rickert e Paul. Secondo tale divisione, le scienze della natura
procedono costruendo delle leggi che hanno validità universale e per le quali il caso singolo
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altro non è che un caso concreto che si inscrive nella legge generale. Al contrario, le scienze
dello spirito procederebbero senza la costruzione di una scienza universale, bensì a partire
da casi singoli (idios), operando una comprensione di tale caso individuale e non la sua
inscrizione all’interno di una legge generale. L’esempio che viene fatto da Rickert è quello
della storia. Se infatti dovessimo cercare di capire un fatto storico, sarebbe impossibile
costruire una legge all’interno della quale collocare il singolo fatto come se fosse
determinabile a partire da una legge generale. In questo modo, però, non si sottrae la storia
alla definizione di scienza, bensì si amplia tale definizione fino ad includere anche modalità
razionali non riconducibili alle sole scienze naturali.
La critica che muove Cassirer è diretta proprio a questa divisione che, a suo avviso,
non risolve il problema, ma semplicemente lo sposta. Infatti, i diversi tipi concettuali, per
non essere una finzione, devono avere un “fundamentum in re”. In altre parole, essi vanno
ricondotti alla loro primaria fonte conoscitiva, in modo da dimostrarne la diversità a partire
dalla differenza tra intuizione e percezione:
Ogni modalità percettiva privilegia l’uno o l’altro dei due poli, e di conseguenza anche
l’atteggiamento epistemologico segue tale scelta. Per questo motivo, per riuscire a rendere
comprensibile il modo in cui lo stesso essere umano si rapporta alla realtà secondo la scienza,
secondo il mito, o ancora secondo l’arte, dobbiamo intendere la «peculiarità di ogni genere
di linguaggio», per determinare in quale misura contribuisca a creare il medesimo mondo nel
quale vivono gli esseri umani. Infatti, nell’oggetto culturale non è tanto importante il dato
naturale di partenza in sé e per sé, quanto piuttosto la funzione che esso assume, il significato
di cui viene rivestito, che permette di cogliere nell’elemento individuale il significato
universale di cui è portatore.
Anzi, proprio la limitazione al solo dato naturale come fondamento della possibilità
di comprensione conoscitiva è una riduzione indebita, che non è affatto giustificata dalla
modalità con la quale abbiamo le nostre esperienze:
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Passa spesso per un assunto quasi ovvio, non bisognoso di ulteriori
giustificazioni, che tutto ciò che è immediatamente accessibile alla
conoscenza sono determinati dati fisici […]. L’analisi fenomenologica,
però, non conferma affatto tale assunto. Né la considerazione di tipo
contenutistico, né quella di tipo genetico vi autorizzano a dare la
precedenza alla percezione sensibile sulla percezione di espressione
(Cassirer 1979, p. 41).
Tanto più, il livello linguistico rappresenta per Cassirer il modo in cui gli esseri umani
costruiscono il proprio mondo. Di più, poiché per gli uomini la partecipazione a un comune
mondo linguistico è un’attività costante, il parlare non solo permette la costruzione di un
mondo comune, ma permette anche al singolo di entrare in possesso del mondo del quale
stanno parlando, e ciò proprio grazie alla mediazione che questo commercio instaura. Il
mondo che ne esce è un mondo comune di significati, un mondo che è ordinato, messo in
forma grazie alla capacità linguistica dell’essere umano, che ha davanti a sé tale mondo di
cose perché ha, accanto a sé, un mondo di persone. In questo senso, il linguaggio è
«produttivo»: