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Temi generali Padre Giovanni

Cucci
TEMA 12

SOCIETÀ, DIRITTI E DOVERI UMANI 115

Este es un tema abordado por la política, la sociología, la ética y el derecho, se trata de la


valoración de la persona humana y la sociedad a la que pertenece en relación con los
derechos fundamentales: la vida, la libertad, la reproducción y desde luego la valoración de
un gobierno o estado por la tutela de tales derechos fundamentales que se corresponden con
deberes de parte del ciudadano que cumple para favorecer la vida común en la sociedad y que
tienen como fundamento el respeto de la dignidad del hombres..

La caratteristica di socialità dell’essere umano veniva già riconosciuta da Aristotele che


definisce l’uomo come animale politico, anche se lui per politico intende propriamente il
sociale, non tanto colui che si occupa del governo o delle strutture preposte alla vita comune,
ma come essere strutturalmente in relazione. Conosce e raggiunge il bene a lui proprio solo
nell’incontro con l’altro. Per questo per Aristotele la base dell’etica, ma anche la base
primaria della politica è l’amicizia. Nell’amicizia la legge diventa superflua, la giustizia non
può più essere imposta da fuori. Ma questo può valere solo per un piccolo gruppo. Questa
dimensione relazionale dell’essere umano è stata riscoperta smentendo l’individualismo
dell’epoca moderna in sede di psicologia soprattutto riflettendo sulla corporeità, e si è visto
come l’essere umano già dai primissimi mesi ha bisogno di entrare in relazione con
quell’essere che anzitutto è la madre, una relazione che non è dovuta solo alla sopravvivenza
materiale. Per Freud la madre sostanzialmente è un erogatore di cibo, ma in realtà l’essere
umano non si limita a questo. Lo psicologo Rene Spitz, che ha scritto anche un libro
fondamentale, Il primo anno di vita del bambino, svolge le sue ricerche negli orfanatrofi subito
dopo la seconda guerra mondiale e notava le differenze sia tra i bambini cresciuti in famiglia
e in orfanatrofio e sia tra differenti orfanatrofi. I bambini lasciati a se stessi, nutriti con delle
macchine senza entrare in contatto con loro crescevano in modo molto differente da bambini
presi in braccio e accarezzati. I bambini lasciati a se stessi diventavano incapaci di generosità,
di costruire amicizie, di esprimere sentimenti, e diventavano anaffettivi perché il sentimento
è legato ad una mancanza, ma addirittura non
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sopravvivevano. La percentuale di mortalità superava il 70%, anche se ricevevano cibo,


calore, e medicinali. Nel 1947 Spitz mostra ad un equipe di medici e psicologi un breve
filmato in cui mostra i bambini prima di essere portati in orfanatrofio e tre settimane dopo.
Sullo schermo compare una scritto: “la cura: restituire il bambino a sua madre”. L’effetto di
quel filmato fu sconvolgente, e per la prima volta si cominciò a rimettere in discussione il
fatto che il bambino per crescere bene deve stare in un ambiente asettico senza contatto
fisico.

Le ricerche di Spitz vengono riprese da uno psichiatra inglese, John Bowlby che scrive una
celebre trilogia intitolata Attaccamento e perdita. È quello che da origine alla teoria
dell’attaccamento che indica che l’essere umano ha bisogno di toccare il corpo di una persona 116
a cui vuole bene. In questo toccare riconosce l’identità di se stesso, si riconosce molto bene.
La teoria dell’attaccamento viene mostrata anche nei primati. Questo dice come l’essere
umano è un essere strutturalmente in relazione: il bambino ha bisogno del tatto, dello sguardo
della madre come l’aria che respira. Man mano che la teoria dell’attaccamento si diffonde
negli orfanatrofi il tasso della mortalità si dimezza.

Al tema della relazione è legato il senso della fiducia e del valore di sé. La società nasce
quindi dall’insufficienza dell’istinto animale, della dimensione biologica dell’uomo a
sopravvivere, però l’essere dell’uomo non si riduce al suo essere sociale. Questa è per esempio
l’ipotesi dello storicismo. Le teorie legate al materialismo storico che esauriscono l’uomo
nella sua dimensione sociale, in forma non diversa dall’ipotesi di Freud dove i beni materiale
atti alla sopravvivenza sono la caratteristica fondamentale della vita umana e delle sue
dimensioni, compiono un errore simile a quello che abbiamo visto a proposito
dell’empirismo. L’empirismo, partendo dall’affermazione che tutta la conoscenza parte
dall’esperienza sensibile, ne trae la conseguenza che la nostra conoscenza è solo sensibile. A
livello politico, dal fatto che l’uomo ha necessariamente bisogno di una vita biologica
economica legata alla sopravvivenza si giunge a concludere che questa è l’unica dimensione
dell’uomo.

La società può essere definita dunque in questo senso come una unione di più individui che
tendono ad un medesimo fine. È un unione stabile e morale perché è in vista del
raggiungimento di alcuni valori, ma che richiede anche un impegno da parte dei membri, la
dimensione del dovere. La società rimane sempre alla base della decisione dei singoli che la
compongono. Nell’età moderna si è teso a sostenere invece l’assolutismo, l’absolutus, ciò che
è sciolto da ogni limite. Ma in realtà è un individuo che comanda gli altri, e resta a vedere chi
abbia dato a questo individuo il potere di decidere della vita e della morte dei suoi sudditi. Il
tema dell’assolutismo rimanda sempre al tema della fondazione del potere, che è un grande
nodo irrisolto del pensiero politico moderno.

Il fine della società è il bene comune, il bene al quale tutti partecipano. Dal momento che c’è
un fine c’è anche una via per raggiungerlo. La legge è la via al fine, una proposta, una strada
per conseguire il fine. È quella che noi chiamiamo la legge civile, o il diritto, che però alla
sua base ha una legge naturale. Nel momento in cui si dimentica questa dimensione di legge
naturale il diritto tende ad imporsi come riflessione autonoma. È quello che accade a partire
dall’età moderna. Al posto della legge si parla soprattutto dei diritti. A partire dal 600 si parla
del giusnaturalismo, della tendenza a fondare i diritti sulla natura umana, intendendoli come
diritti naturali. Solo che la natura in quanto tale è qualcosa di strutturalmente ambiguo,
diventa qualcosa di buono nel
momento in cui noi introduciamo il tema del fine legato ad un intelligenza che sta alla radice
della sua bontà. Nel momento in cui si smarrisce questo, i diritti naturali vengono più
proclamati che fondati. È infatti ancora oggi non esiste una giustificazione filosofica
condivisa dell’idea dei diritti umani. Spesso questi diritti, come riconosce MacIntyre, sono
posti in negativo come una proclamazione di qualche cosa che viene rivendicato. Il testo più
importante della dichiarazione dei diritti è del 1948. Questa dichiarazione nasce in reazione
agli orrori della seconda guerra mondiale. Ricordiamo in modo particolare il diritto alla vita,
alla libertà, all’espressione, alla sicurezza della persona, libertà dalla schiavitù, alla
proclamazione della propria religione, all’uguaglianza tra uomo e donna, diritti economici e
sociali. Il problema però è che a questa proclamazione dei diritti manca la capacità poi di 117
attuarli. Allora l’oscillazione tra il massimo dell’umanesimo e il massimo del nichilismo si
vede anche a proposito della proclamazione dei diritti.

In questa sede si parla dei diritti soprattutto nel contesto emotivo di rivendicazione, di
sganciamento da un diritto naturale che è alla base dell’individualismo, e che alla fine rende
molto più difficile la vita in comune. É, secondo MacIntyre, una delle tre parole magiche
della modernità: il diritto (io ho il diritto ad avere qualcosa e nessuno me lo può impedire), la
protesta (nel momento in cui noi protestiamo su qualcosa troviamo un consenso su quello che
non va, ma il problema è come si può governare sulla protesta. Però è un parola che trova
sempre una sua diffusione), e l’autonomia (se si vuole convincere qualcuno a fare qualcosa
bisogna dargli l’illusione che è lui a deciderlo, sfruttando al massimo il linguaggio della
persuasione e convincerlo a fare quello che io propongo e illuderlo che è lui a scegliere ciò
che in realtà voglio solo io).

Quindi la tipologia dei diritti ha soprattutto una risonanza emotiva: i diritti sono espressi in
negativo: non essere intralciati, impediti, o costretti. Ma soprattutto il tema dei diritti è
agganciato al concetto di umanità, di uomo in generale che non esiste, perché l’uomo è un
essere storico e sociale. È di fatto questo uomo in generale in realtà è l’uomo europeo così
com’è uscito dalla modernità. Un autore che ha mostrato questa ambiguità nel tema dei diritti
è Alain Suppiot, in un libro che intitola Homo iuridicus. Lui mostra come i diritti,
esattamente come aveva fatto notare Crocker, è un tentativo di ridare un senso ad una vita
comune che rischia di non averlo più nel momento in cui viene sganciata da ogni prospettiva
trascendente. Si riduce solo ad una mera costatazione di fatto. Allora scriva Suppiot: “i diritti
sono gli articoli di un credo derivante dai valori della cristianità occidentale. Ciò che
caratterizza la vita umana è che gli uomini devono attribuirle un senso, nonostante essa non
ne possieda più nessuno che possa essere dimostrato”. Il senso delle cose è legato ad un
intelligenza da cui deriva. Nel momento in cui si smarrisce questo, il senso della vita si riduce
ad un grande punto interrogativa. “L’alternativa è quella di sprofondare nel non-senso e nella
follia individuale e collettiva”. Un approfondimento in questo senso viene da padre De
Bertolis in articolo intitolato Il modello moderno del diritto privato (in La Civilità Cattolica).
Lui riconosce sostanzialmente tre cose fondamentali: la separazione della legge dal diritto. Diritto
viene da ius, riconoscere ciò che è giusto, invece la legge è un comando. Mentre il diritto è la
sede dell’intelletto, la legge è la sede della volontà. A partire dalla modernità, soprattutto con
la teoria dell’assolutismo ciò che è giusto è legato alla volontà del sovrano e questo non rende
più conto a nessuno del proprio potere ed è lui la fonte del diritto. Una concezione basata
sull’individuo e sulla volontà. L’altra grande conseguenza è il primato del
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volere sull’essere: voglio fare qualcosa e lo faccio. La legge diventa semplicemente la


ratificazione di quello che voglio fare, con l’illusione della legalità di un comportamento. Con
questo criterio ogni cosa può essere ratificata da una legge, ogni cosa può diventare una cosa
da farsi. Questo è il rischio delle dittature e dei totalitarismi. L’altro aspetto ancora è la
difficoltà di riconoscere la persona. Nel momento in cui è sganciata da una riflessione sul
diritto naturale la persona umana diventa l’arbitrio di alcune categorie relative: la razza, un
contesto culturale, uno sviluppo biologico. Il legislatore decide lui chi ha la dignità di essere
persona, e quindi chi può avere dei diritti, anche il diritto alla vita.

In questo modo il diritto tende a porsi come riflessione autonoma: è il positivismo giuridico 118
che cerca una fondazione assoluto per una disciplina che pretende la medesima certezza delle
scienze esatte. Basta rifarsi ad una legge e il problema si risolve. In questo modo emerge
anche un altro aspetto proprio della modernità: la politica ed il diritto diventano un oggetto
tecnico, nella tecnica così come viene intesa da Heidegger, come qualcosa che potrebbe
essere manipolabile a piacere, dimenticando che questa idea di diritto è il frutto della storia
europea e si cerca di esportarla nel resto del mondo. È una seconda forma, più subdola, di
colonialismo nel quale si cerca di imporre al resto del mondo un idea di uomo, che è l’uomo
europeo, un idea di diritto.

Quanto lo scivolamento del tema della dignità dell’uomo basato sulla legge naturale a dei
diritti proclamati autonomamente lo si vede particolarmente nella partica dell’aborto. Per due
volte si è cercato di introdurla come un diritto umano. Nel 1994 alla conferenza del Cairo
sulla pianificazione demografica, a sua volta con grandi connessione con l’eugenetica e la
selezione di più forti e dei più sani. La stessa risoluzione si è cercato di inserirla nel 2012 in
una risoluzione di cui gli organi di stampa non hanno quasi minimamente accennato. Il
termine aborto non compare quasi mai in questo testo, ma viene riferito nel contesto della
salute e sui diritti legati alla procreazione da parte delle donne. L’uso del termine diritto nel
momento in cui viene inserito in queste problematiche ha delle ricadute enormi: se l’aborto
diventa un diritto della madre come riconciliarlo al diritto della vita del feto? È tutto legato
alla volontà: si vuole fare una cosa, si decide di farla, e la si estende nel contesto più globale
possibile rovesciando i termini del problema. L’aborto nasce come un male da consentire solo
a date condizioni, è alla fine diventa un diritto, un bene da perseguire e da incentivare, un
segno di dignità e di un contesto culturalmente progredito. Una cosa viene presentata come
una cosa da farsi senza fare troppe domande, il tutto all’interno di una comunicazione di tipo
persuasivo.

L’uomo universale, base del diritto è quindi un’astrazione. “Ancor meno dell’idea di legge,
l’idea di diritto non può ambire all’universalità perché legata alla pratica” dice Suppiot, e la
pratica richiede di assumere la complessità della situazione. Richiede la prudenza, la
conoscenza giusta delle cose da farsi. Il diritto da prescrizione diventa un oggetto tecnico è
trae il proprio senso dallo spirito dell’uomo che la crea o la riforma. Così definito il diritto è il
frutto della storia europea.

Il problema è anche su chi può rendere operative le molteplici dichiarazioni dei diritti umani.
La maggioranza sono rimaste sulla carta. È questo lo scacco e il limite della riflessione
giuridica contemporanea: si affermano dei diritti ma non c’è nessun istanza che li può
renderli operativi e proteggerli. C’è una serie di categorie di persone, le più deboli, che
portano il carico di queste decisioni. In fondo non è una divisione differente da quella che
Aristotele poneva nella società
greca tra gli uomini liberi e gli schiavi: gli uomini sono i greci, coloro che coltivano la
filosofica e gli schiavi sono quelli che rendono possibile ai greci di fare filosofia. Boltanski,
riflettendo sulla pratica abortiva la chiamava la differenza tra gli esseri umani della carne e gli
esseri umani della parola. Sono gli esseri della parola che decidono di quelli della carne. Alla
fine si può abdicare alla politica del TNA, non c’è nessun alternativa perché chi ha fatto
questo non poteva fare altro.

Alla base dei diritti e dei doveri rimane necessaria una riflessione sul diritto naturale, su
qualcosa che non sono io a porre ma qualcosa che scopro in me, legata ad un’istanza che non
sono io a darmi, e che è l’istanza della coscienza che rimprovera quello che io ho. Mostra la
distanza tra l’azione e la valutazione che ne faccio, senza ridursi alla mia volontà e neanche al 119
successo dell’azione compiuta. Il diritto naturale viene sempre più negato a partire da
Hobbes, però questa obiezione è sempre la stesso che troviamo in Platone, da parte del sofista
Trasimaco. Trasimaco dice che “la giustizia non è altro che la giustizia del più forte e ogni
governo stabilisce le leggi in base al proprio utile. Questo è ciò che io chiamo il giusto, lo
stesso per tutte le citta: l’interesse del potere costituito. Il giusto s’identifica con l’interesse
del più forte”. Questa idea diventa celebre con Hobbes nel Leviatano nella quale elabora la
struttura dello stato moderno, la sua autonomia legata alla volontà positiva del sovrano.
L’obiezione al diritto naturale è che ogni fatto si è costretti in qualche modo di riaffermarlo
tramite una legge. Ma coloro che negano il diritto naturale, sono poi i primi, quando
subiscono delle ingiustizia da parte della volontà del sovrano, ad appellarsi a qualcosa di più
giusto e più originale alla volontà positiva del sovrano. Nel momento in cui la giustizia e il
diritto sono semplicemente ciò che viene ratificato non avrebbe senso la protesta o
l’affermazione di un diverso modo di procedere su alcune questioni fondamentali.

Per questo Tommaso nella Summa Theologiae riconosce che una norma ha vigore di legge
nel momento in cui rispetta il fine dell’uomo, una legge morale naturale. Altrimenti non è più
legge ma è un abuso. Non ogni legge quindi è valida anche se può essere giuridicamente
valida. Tommaso dice che le leggi possono essere ingiuste in due modi: primo perché sono in
contrasto con il bene umano (i valori naturali legati alla sopravvivenza, i valori della specie
legati all’unione tra uomo e donna, i valori culturali e i valori morali) oppure perché ingiusta
nello scopo (quando il sovrano promulga una legge per il proprio interesse e non più per il
bene comune). Tali norme sono piuttosto violenze che leggi e simili leggi non obbligano in
coscienza, e viene a cadere il dovere, a meno che non si tratta di evitare scandali o
turbamenti. Nel momento in cui la legge ha per oggetto qualcosa di scorretto ma il non
obbedirla porta ad un male maggiore sarebbe meglio seguirla. Ma le leggi possono esser
anche ingiuste perché contrarie al bene divino, come le leggi dei tiranni che portano
all’idolatria, e tali leggi non vanno in alcun modo osservati. È interessante che in casi di
grandi dilemmi portati dalla storia emerge proprio il riferimento a una legge suprema, non
scritta, quella legge che Ricoeur ritrova nei dilemmi etici della tragedia (es. Antigone rifiuta
l’ordine del sovrano in nome di una legge interiore e non scritta). E questo appello lo si
ritrova per es. nelle persone che nella seconda guerra mondiale si sono rifiutati di obbedire
agli ordini dello stato che portavano allo sterminio. Il tema di una legge che non si identifica
con la legge codificata ritorna in tutti i dilemmi morali.

Rimane sempre l’istanza della coscienza anche nella dimensione sociale proprio perché
l’essere umano non s’identifica totalmente con la sua dimensione sociale. Le caratteristiche
fondamentali dell’essere umano non giungono dalla stato, dalla società o dalla
maggioranza. Non è la
maggioranza a stabilire che la libertà ha un valore e non è nemmeno essa a dire il contrario.
Anche nel momento in cui tramite procedure democratiche si decide di abolire alcuni diritti
fondamentali questa legge è una legge ingiusta perché ratifica su un campo su cui non può
ratificare. Questo è la scacco della democrazia che Platone critica: la democrazia è
radicalmente ingiusta perché una maggioranza di tiranni può stabilire una tirannia. Ma nel
momento in cui uno stato riconosce il proprio limite che non può oltrepassare allora
garantisce la promozione del bene comune. Ci sono dei campi che devono rimanere per forza
separati. Altrimenti rischia di calpestare i diritti fondamentali dell’essere umano, soprattutto
dei più deboli.

Un esempio di unione tra diritto e dovere nella complessità delle situazioni umane è dato da 120
quella che viene chiamata “la regola d’oro”. Questi si ritrova nei vangeli, nell’Antico
Testamento, nelle grandi tradizioni religiose, espressa o in forma negativa (“non fare al tuo
prossimo ciò che tu non vorresti che ti viene fatto”, questa è anche la riproposizione della
legge naturale, riconoscendo che il male subito rimane male) o in una forma positiva (“come
volete che gli uomini facciano a voi, così voi fate loro). Il tema della regola d’oro è incarnato
in una situazione relazionale. In questo senso la regola d’oro, dice Ricoeur, è diversa dalla
massima di Kant nella Fondazione della metafisica dei costumi: “Agisci come se la massima
della tua azione dovesse essere levata a legge universale della natura”. Questo tipo di
considerazione anche se in apparenza simile alla regola d’oro è tutto incentrato su se stessi.

L’altro aspetto interessante è che la regola d’oro nasce dei contesti di tradizione storicamente
situati che però possono valere per altri contesti. Essa può essere applicata nelle società
complesse, i cui appartenenti non si riconoscono in una tradizione culturale o religiosa, ma il
cui contenuto viene comunque riconosciuto anche dagli appartenenti di altre religioni. La
regola d’oro, dice Ricoeur, fa un po’ da cerniera, da punto d’incontro tra due componenti
fondamentali della relazione umana e la società: l’amore e al legge. Se l’amore vale di più per
la relazione di amicizia, la giustizia vale di più per le relazioni con gli altri in quanto tali.
Ricoeur dice che la regola d’oro suppone una relazione di reciprocità non di semplice
rivendicazione, e può essere vissuto solo nella dialettica tra amore e giustizia, dove c’è una
dimensione affettiva nei confronti dell’altro. Esprime il meglio di sé nella sua versione
positiva: non semplicemente astieniti dal fare il male, ma fai quello che tu vorresti fosse fatto
a te.

Questa formulazione della regola d’oro ha alla base una visione precisa dell’essere: la visione
dell’essere legata al dono e alla sovrabbondanza. Possiamo comprendere questa visione della
sovrabbondanza, della ricchezza inesauribile dell’essere riflettendo anche sulla metafora e
sull’analogia. Essi ci presentavano una ricchezza di senso che l’ente considerato non riusciva
mai ad esprimere adeguatamente. Noi riconosciamo nelle cose una bontà ed una verità ma
queste cose non sono la bontà e la verità in quanto tale e rimandano ad un elemento di sovra
eminenza, ad una pienezza di bontà e di verità che nessuna esperienza, nessun libro letto,
nessun professore può esaurire. La riflessione sulla metafora è il fondamento della relazione
alla base della forma positiva della regola d’oro. Io sperimento la sovrabbondanza dell’essere,
la sperimento nella vita, nel linguaggio, in quella forma dell’analogia. Questa
sovrabbondanza invita a me, a mia volta, ad essere generoso. Per questo scrive Ricoeur in
Amore e giustizia: “Poiché ti è stato donato, dona a tua volta. Il dono può essere offerto nella
momento in cui lo si è sperimentato come un dono ricevuto”. Per Ricoeur l’essere stesso
mostra questa generosità del dono che supera tutte le mie possibilità. È in forza di questo
‘poiché’ il dono diventa fonte di obbligazione. L’amore può
essere obbligato (per. es. “amatevi come io vi ho amato), può essere comandato. Può essere
comandato però non in senso giuridico ma in quanto diventa fonte d’obbligazione nel
momento in cui riconosco il dono ricevuto che chiede di essere continuato perché non venga
meno. Per questo Ricoeur riprende l’espressione di Rosenzweig ne La stella della redenzione
che parla dell’amore come “fonte di comandamento”, obbligazione che nasce dalla relazione
in un dono offerto.

La vita in relazione quindi non può nascere in sede giuridica ma ha delle grosse ripercussioni
su di essa. Questo mette in discussione il neo-contrattualismo di John Rawls, che scrive un
teoria della giustizia che vede la giustizia nel senso di giustizia distributiva, come poter 121
garantire il minimo a tutti senza eliminare del tutto le disuguaglianze ricorrendo a questa
forma di contratto originario che chiama “velo d’ignoranza”. In realtà Ricoeur dice che
questa ipotesi anche se suggestiva rischia di rimanere qualcosa di mitologico. Anzitutto
perché nessuno di noi ha vissuto in questo velo di ignoranza ma ognuno nasce già con il più o
il meno, ma soprattutto perché il cosa distribuire è interessante che viene stabilito da Rawls
prima dell’ipotesi velo di ignoranza. La lista è già stata stabilita, e tutti decidono tra loro
quello che un altro ha già deciso prima per tutti. Questo è il problema del contrattualismo:
come in Hobbes o come i Rousseau deve nascere un istanza più grande che determina il tipo
di contratto.

L’ultima cosa che si può elencare è la tensione verso una società perfetta, una società dove
trova spiegazione il nostro ideale di vita e giustizia e che è caratterizzata dall’utopia. La
riflessione sull’utopia nasce soprattutto a partire dalla modernità ma la troviamo anche
nell’epoca antica. Anche Platone nella Repubblica delinea un ideale di società dove l’uomo
possa attuare le sue aspirazioni più grande, dove il re è filosofo conoscendo tutto quello che
deve sapere sull’uomo. Questo lo si ritroverà anche nei romanzi, vedendo che questi disegni
di società perfette sono molto repressive. Innanzitutto sono molto monotone, ripetitive e
rischiano sempre di scivolare nella dittatura, a cominciare da Platone che riconosce che gli
essere umani incapaci devono essere eliminati. Per questo Popper dedica un volume al
Platone totalitario vedendo in lui l’antesignano di Hitler. È interessante che quando si è
voluto realizzare la società perfetta (es. la rivoluzione francese introduce un cambiamento
simbolico fondamentale, la riforma del calendario: è il segno che la preistoria dell’uomo è
finita. La stessa cosa fa Pol Pot, inizia dall’anno zero celebrando l’inizio della società
comunista) si cade nella deriva del terrore e delle stragi.

Nelle narrazioni utopiche ritorna anche l’eugenetica, il tentativo di produrre degli essere
umani perfetti. È quello che per es. troviamo nel romanzo Il mondo nuovo di Huxley nel
quale ipotizza una società tecnicamente perfetta, ma anche una società nella quale viene
soppressa la libertà e la diversità delle persone. Le persone più intelligenti sono quelli che
governano e i pesi della società vengono portati dalle categorie più deboli. In questi romanzo
la limitazione della libertà e della diversità si produce nella proibizione dell’affettività, è
proibito innamorarsi nel Mondo nuovo di Huxley. Si possono avere dei rapporti sessuali ma
non si può innamorarsi. Le narrazioni utopiche mostrano questo volto inquietante nel
momento in cui si cerca di idealizzare una perfezione a portata di mano che finisce per
disumanizzare l’uomo, il sogno della società della tecnica che già Freud aveva posto come
base della vita civile. L’uomo rinuncia ad essere felice per poter essere sicuro e per avere un
ruolo sociale rinuncia a dare espressione alle sue impulsioni. Per questo ogni uomo che vive
in civiltà è al minimo nevrotico. La proposta di una società perfetta che
dovrebbe essere assicurata dallo sviluppo della scienza e della tecnica rischia di diventare
disumana

Benedetto XVI ha risposto al libro di Piergiorgio Odifreddi (il presidente dell’associazione


atei italiani, ma anche ex-seminarista) Caro Papa ti scrivo nel quale propone al Papa di buttar
via tutta la teologia e di ricostruire tutto il pensiero sulla matematica, quella che lui chiama la
religione della matematica. Benedetto XVI ha risposto a questo libro con alcune righe molto
rispettose, però lui scrive: “nella sua religione della matematica tre temi fondamentali
dell’esistenza umana non vengono considerati: la libertà, l’amore e il male. Mi meraviglio
che lei con un solo cenno liquidi la libertà che pure è stata il valore portante dell’epoca 122
moderna. L’amore nel suo libro non compare, e anche sul male non c’è nessuna
informazione. Qualunque cosa la neurobiologia dica o non dica sulla libertà, è sempre
presente come realtà determinante e dev’essere presa in considerazione. Ma la sua religione
matematica non conosce alcune informazione sul male. Una religione che tralascia queste
domande fondamentali resta vuota”. E non a caso sono tre temi legati alla cifra della
trascendenza umana: la libertà come qualcosa che non può essere nemmeno dimostrata,
perché nel momento in cui vien dimostrata viene ridotto ad una catena di effetti che la uccide,
così come il tema dei sentimenti che non esistono in natura, e il tema del male che mostra la
frattura tra l’essere di cui noi facciamo esperienza e l’essere nella sua pienezza, l’essere di cui
noi abbiamo esperienza segnato dal non-essere proprio come frattura nel cuore dell’essere
mostrando la non-coincidenza tra l’ente, l’essere dell’ente e l’essere in quanto tale. Questi tre
temi sono tre temi che sfidano la pretensione ad una società perfetta.

Ed è il grosso dilemma al livello politico di quello che Karl Mannheim ha chiamato nel titolo
del libro Ideologia e utopia. L’ideologia è la condizione dei gruppi dominanti per la gestione
della società che però lascia in secondo luogo altri aspetti fondamentali del vivere comune
che sono dati dall’utopia che emerge in sede di contestazione dell’ideologia. La storia,
soprattutto la riflessione politica, si gioca su queste due polarità tra ideologia e utopia, tra
forma di pensiero e di governo proprio di chi governa, e il contrasto con altri aspetti
rivendicati dai loro sottoposti. E spesso anche le stesse trattazioni utopiche sono lo specchio
della società esistente. Questo è un altro elemento che va preso in considerazione: utopia
nasce dal celebre romanzo di Tommaso Moro scritto nel 1515, ma è interessante che in quel
romanzo l’isola di Utopia presenta i rapporti economici e sociali della società inglese del 500.
È lo stesso elemento dei diritti dell’uomo: si parla sempre dell’uomo europeo, in questo caso
inglese, l’uomo universale non esiste. Queste trattazioni vengono trattati come ideali e
universali senza rendersi conto che rispecchiano una società particolare, la società del proprio
tempo. Ogni tradizione è attraversata dal rischio di diventare ideologia, di imporre una sua
visione all’altro soprattutto nel momento in cui crede di essere diventata la società perfetta
penalizzando la libertà dell’altro, la differenza e la varietà.

Questi elementi inquietanti dell’utopia sono state riprese oggi in sede bioetica. Pensiamo alla
teoria del gender, sempre più riproposta, che vorrebbe eliminare dal dizionario le stesse
caratteristiche di uomo e donna applicate all’essere umano da sostituire con il più neutro
gender. Alla base di questo si vuole garantire l’uguaglianza eliminando la diversità, perché la
diversità è vista come forma di contrapposizione, come forma di sperequazione, come forma
di differenza anzi tutto biologica. Alla base del genere c’è la possibilità che ciascuno si
costruisca il proprio genere. La differenze sessuale quindi è proiettata come molteplice legata
ai diversi orientamenti che ciascuno vorrebbe seguire.
Dietro a queste narrazioni la letteratura assume il compito di prefigurare un mondo possibile
è le possibili barriere da abbattere. E ciò che ha fatto l’autore di Peter Pan, un romanzo
diventato terribile realtà nelle nostre società occidentali. A diversi aspetti emerge anche
questa forma di contestazione. Questo tipo di società sognata rischia di portare in fondo a
delle derive distruttive. Questo elemento del gender, della bioetica e dell’eugenetica, di
riprodurre una serie di esseri umani tutti uguali che non hanno nessuna differenza tra di loro
era stato intravisto da Huxley nel Mondo nuovo: “uomini e donne ridotte a tipi, a infornate
uniformi. Tutto il personale di un piccolo stabilimento costituito dal prodotto di un unico
uomo, alla base di tutti. 96 gemelli identici che lavorano a 96 macchine identiche. Adesso si
sa veramente dove si va per la prima volta nella storia”. Queste sono le prime pagine del 123
romanzo di Huxley. Questo genere narrativo ci mette in guardia. Nel momento in cui
misconosciamo la differenza e cerchiamo di progettare una società affidandola alla tecnica ed
eliminando altri aspetti che sono richiamate da tradizioni storiche e filosofiche, questo rischia
di ritorcersi contro l’uomo. Uno stato totalitario è il frutto di una ragione totalitario. Non a
cosa Kant nel momento i cui esalta la filosofia trascendentale poi ordina alla polizia di
mettere in prigione chi non filosofa bene, chi non filosofia seconda la filosofia trascendentale.

Soprattutto si uccide la relazione, riducendo tutto alla vaghezza dell’uno. Qualcuno ha notato
che è strano ma non è un caso che in occidente sia la storia sacra come la storia profana
nascono tutt’e due da un fratricidio: caino e Abele, e Romolo e Remo. Questi tentativi di
appiattimento ricordano però un’altra cosa: in fondo la tensione verso la società perfetta è
feconda e stimolante nel momento in cui si presenta in negativo, come una tensione, anche
come una critica di una situazione costitutiva senza però tradursi troppo in un disegno preciso
e immediato, esattamente come si dice dell’assoluto a proposito del tema di Dio. Non a caso
la nomenclatura dell’isola perfetta di Tommaso Moro è in termini negativi: Utopia in greco
viene da u-topos, luogo che non c’è. Questa è un profonda intuizione. L’utopia ha la sua forza
più suggestiva nel momento in cui si presenta in negativo, come qualcosa che ancora non è
stato realizzata ma che è di stimolo. Per questo l’utopia può anche essere tradotta come buon
luogo, la ‘u’ greca è anche la ‘u’ benaugurante. Questi due significati della parola utopia
rimandano alla tensione della progettazione politica: l’uomo cerca una buona città, una
società perfetta nel momento in cui constata che questa società perfetta non sta da nessuna
parte. È sede di una tensione esattamente come la tensione tra l’ideale e la realtà. Nessuno
può mai esaurire ma è proprio questa tensione che da flusso alla vita, tra il desiderio e il
limite, il desiderio strutturalmente totale, e i limiti che sembrano smentire.

In fondo anche la cristianità ha vissuto un po’ questi blackout, di ritenere già realizzato sulla
terra il regno dei cieli. Per questo è la tensione tra qualche cosa che s’intravede, che Agostino
nel De civitate dei chiamava tra la figura e il figurato: “Ogni figura era stata prefigurata da
qualcos’altro e porta ad una figurazione successiva senza mai esaurirla”. Un’utopia buona,
che è diversa dall’utopia di Pol Pot, della rivoluzione francese o russa, nasce come critica del
presente storico ed essa è felice nel momento in cui riesce a capire nel presente storico un
elemento fondamentale che è stato disatteso. Facciamo due esempi: come mai il marxismo è
riuscito ad imporsi rispetto ad altre forme utopiche (es. Saint-Simon, Prudhomme)? Marx non
cerca di definire il futuro, non esiste una teoria marxista sullo spazio, ma Marx si concentra
ad analizzare la società del suo tempo ed individua il punto fondamentale: l’alienazione
economica che diventa un’alienazione di
rapporti. Nel momento in cui questa analisi è centrale s’impone sugli altri e diventa
critica della società in quanto tale. Però senza poi una spinta utopistica altrettanto
forte essa rischia di cedere alla drive negative come è poi accaduto nel comunismo.

L’altro esempio è l’America del Nord e perché ha avuto una storia così diversa
dall’America del Sud. All’origine della costituzione degli Stati Uniti c’è qualcosa di
più ampio di un avventura; c’è un sogno da realizzare. È quello che distingueva dai
conquistadores che cercavano in quelle terre solamente l’oro e un profitto meramente
economico. Il preambolo della costituzione americana elenca una serie di sogni che si
vorrebbe realizzare. È forte questo elemento ideale, l’impulso dall’insegnamento
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evangelico, dove viene purificato il contrattualismo da un suo difetto fondamentale:
tutti gli uomini sono liberi perché l’unica autorità suprema è Dio stesso. Sembrano
degli elementi molto astratti ma nel momento in cui vediamo alcune conseguenze
storiche troviamo che c’è in gioco la costruzione di una società profondamente
diversa.

Questa è la sfida dell’utopia nella filosofia politica: una critica nel presente di
qualcosa di disatteso e nello stesso tempo un apertura a qualche cosa che può essere
valutata passo dopo passo, dove sono in gioca la libertà, la differenza dell’essere
umano, e la sua capacità a convivere, ma soprattutto il riconoscere che la società che
sto costruendo non è mai la società definitiva.

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