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Francesca Bernardini Napoletano

Lector in fabula.
Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino

Se si esclude Il sentiero dei nidi di ragno, romanzo d’esordio del 1947, la misura piú
congeniale per Calvino sembra essere quella breve del racconto, sperimentato ed esplorato
dall’autore in tutte le sue possibilità: dal racconto autonomo, secondo il modello tradizionale, al
racconto lungo (o romanzo breve), dal racconto-saggio al microtesto o al frammento inserito in un
macrotesto complesso, spesso a cornice. Del resto non si deve dimenticare che Calvino ha esordito
con racconti pubblicati su riviste; e che ha piú volte dichiarato di essere «sempre stato piú un autore
di racconti che un romanziere»1.
Il racconto lungo costituisce di per sé un trait d’union e una mediazione tra i due generi del
racconto e del romanzo, e non meraviglia quindi che sia una forma cara al Calvino degli anni
Cinquanta, che, pubblicato Il sentiero dei nidi di ragno, dopo vari progetti abbandonati e tentativi
falliti ha rinunciato all’illusione di poter scrivere altri romanzi, ma che «sente stretta» anche la
misura breve2:
Da un po’ di tempo pubblico molto poco sulle terze pagine, i racconti non mi soddisfano piú e mi sembra d’aver
detto tutto quello che coi racconti si può dire. Col romanzo invece non riesco ancora a dire tutto quello che
vorrei.3

Dalla rinuncia sia al romanzo sia alla forma breve nascono le tre «favole araldiche» poi
raccolte col titolo complessivo I nostri antenati (1960), La speculazione edilizia (1957), La nuvola
di smog (1958), infine La giornata d’uno scrutatore (1963)4, che già prepara per molti versi una
nuova forma, ideologicamente con la messa in crisi della dialettica e con la riflessione sul concetto
di “normalità”, strutturalmente con l’inaugurazione di un esibito doppio livello della narrazione, in
termini genettiani quello del racconto e quello del discorso, poi tipico delle Cosmicomiche (1965).
Il romanzo resta tuttavia un polo d’attrazione che condiziona, strutturalmente e formalmente,
l’opera narrativa di Calvino fino all’ultimo: la riproposta della misura breve si accompagna alla
scelta dell’organizzazione dei testi in cicli, in cui il singolo racconto, pur autonomo, “dialoga” e
interagisce con gli altri. Il primo esperimento in tal senso è costituito dalla Trilogia, all’interno
della quale i tre testi sono accomunati dalla dimensione allegorica e metaletteraria, dall’interrogarsi
sulle ragioni e sulla validità della scelta formale, che progredisce da Il visconte dimezzato (1952) a
Il barone rampante (1957) fino alla sua crisi e dissoluzione, proclamata da Il cavaliere inesistente
(1959). Ed è sintomatico che, molti anni dopo, la qualifica di «romanzo» venga, proprio in apertura,
attribuita a un testo come Se una notte d’inverno un viaggiatore, che è la negazione del romanzo, o
meglio, l’affermazione dell’impossibilità di concludere un romanzo5.

1
I. Calvino, Se una notte d’inverno un narratore, in «Alfabeta», I, dicembre 1979, 8, pp. 4-5, scritto in risposta e in
polemica con A. Guglielmi (Domande per Italo Calvino, ivi, ottobre 1979, 6), ora in Note e notizie sui testi, in Romanzi
e racconti, II, ed. diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, 1992, p.
1391.
2
Cfr. Id., Premessa a Pesci grossi, pesci piccoli, in «Inventario», autunno 1950, 3, pp. 62-63, ora in Note e notizie sui
testi, in Romanzi e racconti, I, ed. diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Prefazione
di Jean Starobinski, Milano, Mondadori, 991, pp. 1267-1270.
3
Id., lettera a Giansiro Ferrata, 6.12.1947, in Note e notizie sui testi, in Romanzi e racconti, III. Racconti sparsi e altri
scritti d’invenzione, ed. diretta da Claudio Milanini, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, con una bibliografia
degli scritti di Italo Calvino a cura di Luca Baranelli, Milano, Mondadori, 1994, p. 1340.
4
I nostri antenati (1960), La speculazione edilizia (1957), La nuvola di smog (1958), sono raccolti in Romanzi e
racconti I cit.; La giornata d’uno scrutatore (1963) ivi, II.
Calvino segue una strada opposta a quella gaddiana: se Gadda dilata il romanzo che non può
chiudersi e cresce su se stesso, diventando un doppio della realtà, Calvino esplora il labirinto pezzo
per pezzo, e non potendone dare al presente una mappa complessiva, fornisce i frammenti di quella
mappa, consegnandoli utopisticamente al futuro: il tema e l’immagine della mappa ricorrono
nell’ultimo Calvino, da Il conte di Montecristo a conclusione di Ti con zero (1967), a Le città
invisibili, fino a uno degli ultimi racconti, Un re in ascolto, raccolto nel postumo Sotto il sole
giaguaro (1986). Ma il progetto non è volto tanto a fornire una descrizione del mondo, perché si
ricadrebbe negli equivoci del naturalismo o del realismo mimetico, con conseguente «accettazione
della situazione data», ma piuttosto è funzionale alla «volontà di contrasto»6, a una tensione morale
di resistenza, a una visione non univoca, dogmatica del reale, ma relativistica, congetturale,
probabilista, a cui corrisponde in sede letteraria una narrativa organizzata sui principi matematici
del processo combinatorio e, di conseguenza, in strutture aperte.
Lo sperimentalismo di Calvino si qualifica, già negli anni Cinquanta, ma con maggiore
consapevolezza teorica nei Sessanta, come ricerca di una forma nuova, a partire dalla dissoluzione
dei generi letterari, secondo una tendenza, del resto, tipica del Novecento. Le novelle, o i racconti,
vengono organizzati in raccolte complessamente strutturate; i testi si concatenano negli anni in vere
costellazioni, con riprese e messe a punto successive. Il racconto tende al romanzo, il testo breve
acquista la complessità della narrazione di ampio respiro, in una tipologia che si restringe
sostanzialmente a due possibilità (pur con qualche interferenza), entrambe tradizionali, almeno
nell’origine: la raccolta (Marcovaldo; i racconti «cosmicomici»; Palomar; Sotto il sole giaguaro) e
la struttura a cornice (Il castello dei destini incrociati; Le città invisibili; Se una notte d’inverno un
viaggiatore). Se il singolo racconto prende l’avvio da un’immagine e la sviluppa, privilegiando il
livello letterale e il piacere della scrittura, è il discorso che informa la raccolta e che non si
interrompe con la fine materiale del libro, che è illusoria. La raccolta non si configura come «un
semplice insieme di testi», bensí come un «macrotesto», secondo la definizione di Maria Corti 7:
«ogni racconto è una microstruttura che si articola entro una macrostruttura, donde il carattere
funzionale e ‘informativo’ della raccolta». L’unità è assicurata dalla «combinatoria di elementi
tematici e/o formali che si attua nella organizzazione di tutti i testi» e dalla «progressione di
discorso». All’esperienza delle «cosmicomiche» Calvino dovette attribuire molta importanza, se il
genere fu ripreso sedici anni dopo, con la pubblicazione, nel 1984 presso Garzanti, di
Cosmicomiche vecchie e nuove, che, con l’aggiunta di due nuovi testi, già anticipati dal quotidiano
«la Repubblica», sperimentava una nuova struttura, articolata in quattro parti: le prime due, piú
tematiche e narrative, raccolgono le «storie sulla Luna e sulla Terra», la terza e la quarta sono
invece centrate sul discorso (i problemi della forma e del metodo). Nelle Lezioni americane,
Calvino cita proprio quell’esperienza come esempio di «tensione narrativa» e di «densità»
espressiva e come punto di partenza per le sperimentazioni successive; si legga in particolare una
pagina della lezione dedicata alla Rapidità:

Il mio lavoro di scrittore è stato teso fin dagli inizi a inseguire il fulmineo percorso dei circuiti mentali che
catturano e collegano punti lontani dello spazio e del tempo. Nella mia predilezione per l’avventura e la fiaba
cercavo sempre l’equivalente d’un’energia interiore, d’un movimento che dall’immagine scaturisce
naturalmente, pur sempre sapendo che non si può parlare d’un risultato letterario finché questa corrente
dell’immaginazione non è diventata parola. Come per il poeta in versi cosí per lo scrittore in prosa, la riuscita sta
nella felicità dell’espressione verbale, che in qualche caso potrà realizzarsi per folgorazione improvvisa, ma che
di regola vuol dire una paziente ricerca del mot juste, della frase in cui ogni parola è insostituibile,
dell’accostamento di suoni e di concetti piú efficace e denso di significato. Sono convinto che scrivere prosa non
dovrebbe essere diverso dallo scrivere poesia; in entrambi i casi è ricerca d’un’espressione necessaria, unica,
densa, concisa, memorabile.
5
Cfr. Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), in Romanzi e racconti II cit., p. 613: «Stai per
cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino».
6
Id., Il mare dell’oggettività (1960), in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società (1980), ora in Saggi 1945-
1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, I, p. 60.
7
M. Corti, Testi o macrotesto? I racconti di Marcovaldo di Italo Calvino, in «Strumenti critici», IX (1975), p. 182.

2
È difficile mantenere questo tipo di tensione in opere molto lunghe: e d’altronde il mio temperamento mi porta a
realizzarmi meglio in testi brevi: la mia opera è fatta in gran parte di short stories. Per esempio il tipo
d’operazione che ho sperimentato in Le Cosmicomiche e Ti con zero, dando evidenza narrativa a idee astratte
dello spazio e del tempo, non potrebbe realizzarsi che nel breve arco della short story. Ma ho provato anche
componimenti piú brevi ancora, con uno sviluppo narrativo piú ridotto, tra l’apologo e il petit-poème-en-prose,
nelle Città invisibili e ora nelle descrizioni di Palomar. Certo la lunghezza o la brevità del testo sono criteri
esteriori, ma io parlo d’una particolare densità che, anche se può essere raggiunta pure in narrazioni di largo
respiro, ha comunque la sua misura nella singola pagina.8

Piú volte, in altri saggi9, Calvino aveva sottolineato l’importanza dell'immagine, anzi di
un’immagine, come punto di partenza per la macchina narrativa, preesistente alla scrittura e che
riusciva a mantenere una sua autonomia, a livello di letteralità 10, rispetto al discorso; nel passo
citato dalle Lezioni americane lo scrittore chiarisce come l’immagine non sia che la traduzione
plastica, il concretizzarsi di una tensione intellettuale che può diventare espressione artistica
soltanto attraverso la ricerca formale e l’esercizio stilistico. «La pagina ha il suo bene» 11, raggiunge
il suo equilibrio, la sua armonia, con quegli straordinari effetti di trasparenza e di immobile
perfezione (particolarmente nelle Città invisibili, ma già in molti racconti «cosmicomici»), proprio
grazie alla tensione, dinamica e dialettica, tra racconto e discorso, che informa il testo ab origine.
In tal modo acquista spessore narrativo anche la dimensione saggistica, metaletteraria e
autoriflessiva (i contenuti filosofici, la critica delle ideologie e dell’uso delle conquiste tecnico-
scientifiche, l’esibizione degli artifici e dei meccanismi di costruzione del testo) e teorica (la
funzione della letteratura, il rapporto autore-lettore e scrittura-società, il carattere “aperto” del testo,
il suo valore straniante).
In questo contesto si inscrive e assume significato anche la scelta di appiattire allo stesso
livello e far interagire i diversi sottogeneri romanzeschi, di tradizione aulica o popolare, in funzione
dell’abbassamento comico e parodistico, ma già anche con l’attenzione rivolta al catalogo dei
possibili che prelude a Se una notte d’inverno un viaggiatore: il racconto d’amore privilegia la
geometria dell’intreccio, «la costruzione del tipo “ad anello”, o, per meglio dire, “a nodo”» 12 degli
amori infelici a catena, con partenze e ritorni, inseguimenti e ritrovamenti, tipica del romanzo e del
poema cavalleresco, soprattutto ariostesco (che ricorre nel Cavaliere inesistente, nella Storia di
Orlando pazzo per amore nel Castello dei destini incrociati e in Se una notte d’inverno un
viaggiatore), ma sono presenti, ed esibite, anche reminiscenze dei miti 13 e dei poemi classici
(l’immagine omerica di Nausicaa che gioca a palla con le ancelle, Elena di Troia, il mito di Orfeo
ed Euridice: in particolare in Senza colori, I cristalli, Il cielo di pietra, La taverna dei destini
incrociati); il racconto d’avventura, che si basa sull’«accumulazione a gradini dei motivi»14 e
soddisfa la predilezione di Calvino per la narrazione rettilinea15, si salda con il romanzo di
formazione nel Sentiero dei nidi di ragno, si rovescia nel conte philosophique a partire dalla
Trilogia e in discorso sul metodo attraverso la riscrittura (Il conte di Montecristo), e infine,
confrontandosi con la cultura scientifica, si trasforma in fantascienza; il fumetto, già sperimentato
nel Cavaliere inesistente e in Marcovaldo, grazie alla preminenza dell'immagine, interviene a

8
Id., Rapidità, in Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio (1988), in Saggi cit., I, pp. 670-671.
9
Cfr. Id., Postfazione a I nostri antenati (1960), in Romanzi e racconti cit., I, p. 1210: «All’origine di ogni storia che ho
scritto c’è un’immagine che mi gira per la testa, nata chissà come e che mi porto dietro magari per anni. [...] È solo
scrivendo che ogni cosa finisce per andare al suo posto.»
10
Sull’importanza della letteralità nel racconto fantastico cfr. Id., Introduzione a Racconti fantastici dell’ottocento, I. Il
fantastico visionario, Milano, Mondadori, 1983, pp. 7 e 9.
11
Id., Il cavaliere inesistente (1959), in Romanzi e racconti cit., I, p. 1064.
12
Viktor Šklovskij, La struttura della novella e del romanzo, in I formalisti russi, a cura di Tzvetan Todorov,
Prefazione di Roman Jokobson, Torino, Einaudi, 1968, p. 208.
13
In Leggerezza (Lezioni americane… cit.), Calvino parla dei miti classici e scrive che «La lezione che possiamo trarre
da un mito sta nella letteralità del racconto, non in ciò che vi aggiungiamo noi dal di fuori.» (p. 632).
14
V. Šklovskij, op. cit., p. 208.
15
Cfr. I. Calvino, Rapidità cit., pp. 659-660.

3
risolvere passaggi-chiave dell’intreccio e salti logici (L’origine degli uccelli), fino a suggerire come
modello nel Diario di Silas Flannery (Capitolo VIII di Se una notte d’inverno un viaggiatore)
l’attacco di un testo ispirato dal “romanzesco” più convenzionale16 riportato nel poster di Snoopy.
Volgendo di nuovo l’attenzione al passo citato dalle Lezioni americane, notiamo che Calvino
definisce Le città invisibili «apologhi» e «petits-poèmes-en-prose» per il genere e la forma,
fornendoci un’indicazione preziosa. Indubbiamente la prosa di Calvino, dalle Cosmicomiche in poi,
mostra senza piú mediazioni di essersi nutrita anche della prosa d’arte e del linguaggio poetico
novecentesco17, del frammento di ascendenza simbolista, vociana ed ermetica, certo non alla ricerca
di “ornati” di facile effetto o di “ghirigori” regressivi ed estetizzanti, ma in funzione del discorso e
in dialettica con altri codici, con finalità espressive e conoscitive, come lo scrittore chiariva già
nella Sfida al labirinto:

[...] è cresciuta sempre di piú anche per me un’esigenza stilistica piú complessa, che si attui attraverso l’adozione
di tutti i linguaggi possibili, di tutti i possibili metodi d’interpretazione, che esprima la molteplicità conoscitiva
del mondo in cui viviamo.18

Il pastiche svolge, nei racconti «cosmicomici», una funzione «svalorizzante» e


«demistificante»19, e in questo Calvino converge con scelte operate in campo creativo e teorico (si
veda la polemica con Angelo Guglielmi sulle pagine del «Menabò») nell’area della
neoavanguardia; ma per Calvino l’«intreccio di modi espressivi e conoscitivi diversi» non assume
«forzosamente una apparenza torrentizia, ridondante, impura», né comporta «la scelta verso
soluzioni non selezionate e impure», bensí è sottoposto a un’organizzazione interna basata sulla
gerarchia e funzionale a un progetto. Il sublime del cosmo e della scienza viene abbassato e
demistificato dal comico e dal linguaggio «basso» e stereotipato, mentre la dimensione utopica e
metaletteraria è affidata al linguaggio «alto», al frammento lirico, dominante poi nelle Città
invisibili, testo sostanzialmente monolinguistico. Il tono basso, che inserisce nel dettato tutti i
luoghi comuni e le frasi fatte del linguaggio, sia letterario sia d’uso quotidiano, sclerotizzato e
incrostato dall’abitudine, e il tono alto, veicolano con strumenti diversi la stessa denuncia: quella
della «perdita di forma» nel linguaggio, nelle immagini e nella vita stessa, che, come
«un’epidemia», si è diffusa su tutto il pianeta; discorso che Calvino sviluppa da Un segno nello
spazio, nelle Cosmicomiche, a Le città invisibili fino a Se una notte d’inverno un viaggiatore e che
trova la sua espressione più angosciata in Esattezza:

Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che piú la caratterizza,
cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di
immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule piú generiche, anonime,
astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro
delle parole con nuove circostanze.
[...] Ma forse l’inconsistenza non è nelle immagini o nel linguaggio soltanto: è nel mondo. La peste colpisce
anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, rende tutte le storie informi, casuali, confuse, senza principio
né fine. Il mio disagio è per la perdita di forma che constato nella vita, e a cui cerco d’opporre l’unica difesa che
riesco a concepire: un’idea della letteratura. 20

Nelle Città invisibili il codice espressivo “alto” domina incontrastato. Lo sguardo del
viaggiatore Marco Polo, che analizza ogni elemento della realtà nelle sue componenti minimali, si
trasforma attraverso la scrittura nella visione della memoria, la topografia (orizzontale) in
16
Cfr. Id., Se una notte d’inverno un narratore cit., p. 1390.
17
Non a caso «Le città invisibili sono nate come poesie [...] poesie in prosa, poesie che quasi sempre si sviluppano
come brevi racconti, perché io scrivo racconti da tanti anni, che anche quando vorrei scrivere una poesia mi salta fuori
un racconto»: I. Calvino, Le strane città invisibili, in «Messaggero veneto», 24 novembre 1972.
18
Id., La sfida al labirinto (1962) in Una pietra sopra… cit., p. 114.
19
A. Guglielmi, Contro il labirinto Don Chisciotte combatte l’ultima battaglia (1963), in Avanguardia e
sperimentalismo, Milano, Feltrinelli, 1964, p. 69. Le citazioni successive sono a p. 68.
20
I. Calvino, Esattezza, in Lezioni americane… cit., pp. 678-679.

4
temporalità (verticale): il viaggio di superficie nello spazio è, contemporaneamente, viaggio nel
tempo; la descrizione del presente si rovescia nel confronto con il passato e inscrive un possibile
futuro, nel recupero di un modello archetipico (Venezia), su cui progettare l’utopia.
Le città invisibili assumono un posto centrale nell’elaborazione del modello calviniano di
raccolta a cornice e si collocano, non soltanto in termini cronologici, tra Il castello dei destini
incrociati e Se una notte d’inverno un viaggiatore. Calvino riprende quel genere di raccolta di
novelle canonizzato da Le Mille e una notte, dal Decameron, dai Canterbury Tales, in cui entro una
cornice, dotata di coerenza narrativa interna, si incastonano narrazioni del tutto autonome e
concluse, di struttura cioè chiusa, secondo la morfologia studiata e descritta da Petrovskij 21. Nel
Castello la cornice opera invece continue interferenze nello svolgimento delle narrazioni, non
soltanto per la situazione in cui sono coinvolti nello stesso modo tutti i narratori, protagonisti o
comunque spettatori diretti delle vicende che narrano, ma anche in quanto determina una fitta rete
di relazioni e corrispondenze interne tra i personaggi, introducendo nei loro racconti autobiografici
frequenti allusioni a storie narrate in precedenza o alla comune condizione. Per di piú, ogni storia
trova il suo posto all’interno di una struttura che tutti i narratori contribuiscono a costruire e che si
rivela come l’elemento centrale, da cui muove tutta la macchina narrativa. Questa volta il racconto
non prende l’avvio da un’immagine fantastica o visiva, ma da una scommessa teorica, da un
esperimento strutturale: il discorso precede il racconto, a partire dall’opposizione tra ordine e
disordine. L’ordine è il valore a cui si informano nel profondo o comunque tendono i testi di
Calvino a partire da Il castello dei destini incrociati (1969). Le città invisibili è strutturato in nove
sezioni, la prima e l’ultima comprendenti dieci città, le altre soltanto cinque; ogni sezione è
introdotta e conclusa da un “intermezzo”, consistente in un dialogo nella settima sezione, tra Marco
Polo e Kublai Kan22. La struttura sembra suggerire una bipartizione del testo secondo cui il
racconto risiede nelle descrizioni delle città (i viaggi di Marco) e il discorso nella cornice, che narra
di un percorso conoscitivo e acquista preminenza sui racconti che “contiene”. Ne è prova anche il
fatto che le descrizioni di città sono talvolta influenzate dal discorso che progredisce nella cornice,
come poi avverrà anche per i racconti in Se una notte d’inverno un viaggiatore.
Non è un caso che a Le città invisibili segua un periodo di silenzio creativo, durato sei anni:
periodo lungo, se consideriamo l’infittirsi dei titoli nei decenni precedenti. L’autore attraversa una
fase di impasse, conoscitiva e progettuale, che esprime nei termini del malumore ipocondriaco,
dell’accidia, del rimpianto per il «romanzo che non ha scritto»23, nella Taverna dei destini
incrociati e in alcune lettere all’amico Marcello Venturi, al quale scrive nel marzo 1972:

[...] Ho una casa che dovrebbe essere l’ideale per scrivere tranquillo, ma fatto sta che scrivo molto poco e me ne
importa sempre meno. Invece lavorare per la casa editrice - nel modo libero in cui mi è dato di farlo - mi diverte
sempre perché è un lavoro che si fa insieme con altra gente, mentre per scrivere bisogna stare soli. 24

E ancora, tre anni dopo:

[...] Ho cominciato proprio ora a leggere il tuo ultimo romanzo 25 e sono ammirato della tua fedeltà a
quell’epoca, come tematica ma soprattutto come intensità vitale.
Ho provato anch’io a rimettermi a scrivere di allora, ma sentire sbiadire lo memoria, - cioè non riuscire a
nutrire la memoria emotiva, sempre vivissima - di particolari visivi precisi, - insomma la paura di cadere nel
generico - mi ha fatto smettere. Ma può darsi che ci riprovi.26

21
Cfr. Michail A. Petrovskij, La morfologia della novella, in «Sigma», V (1968), pp. 34-69.
22
Sulla struttura delle Città invisibili e sul «capovolgimento del modello» costituito dall’Utopia di Tommaso Moro,
rinvio a Claudio Milanini, L’utopia discontinua, Milano, Garzanti, 1990, pp. 128-134 e 144.
23
Id., La taverna dei destini incrociati cit., p. 595.
24
Id., lettera a Marcello Venturi, Torino, 1.3.1972, in Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli, Introduzione di
Claudio Milanini, Milano, Mondadori, 2000, p. 1148.
25
M. Venturi, Terra di nessuno, Milano, Rizzoli, 1975.
26
Italo Calvino, lettera a M. Venturi, 12.3.1975, in Lettere cit., p. 1270.

5
La linea di ricerca, inaugurata da Le Cosmicomiche, sembra essere arrivata, con Le città
invisibili, alle estreme conseguenze. Se il mondo è un labirinto e la realtà è informe, anche la
cultura si presenta come labirinto di segni, confusi, sovrapposti, agglutinati tra loro. Il testo non può
che seguire, per concludersi, una possibilità, escludendo tutte le altre. Il progetto totale, invece,
insegue tutte le possibilità scartate, i sentieri che a ogni bivio la necessità della scelta ha escluso. È
il mondo dei possibili che affascina lo scrittore, in una prospettiva che rovescia quella leibniziana; è
la tentazione del catalogo, già presente nelle Città invisibili, nel quale ordinare tutte le
combinazioni possibili. Ma poiché la combinatoria di elementi dati e finiti tende necessariamente
all’infinito27, il testo non può chiudersi. Ed ecco Se una notte d’inverno un viaggiatore, che
potremmo definire «romanzo» di romanzi: nella cornice si incastonano dieci “racconti”, che si
presentano come incipit di altrettanti romanzi, che si interrompono e restano incompiuti,
conferendo così a tutto l’insieme la dimensione del non finito e del precario; per contrasto, la
cornice contiene un intreccio narrativo che si sviluppa linearmente – ad intervalli regolari, cioè
nella seconda parte di ogni capitolo, al suo interno si inserisce un racconto – ed assume una
notevole autonomia, pur interagendo con i racconti. Il testo nel suo insieme rappresenta una vera
allegoria dell’incompiutezza, che decisamente rovescia il rapporto tra cornice e racconti: il
racconto (ed è un racconto d’amore, secondo il prediletto intreccio ariostesco, pieno di
impedimenti, intoppi e inseguimenti, e ironicamente a lieto fine) risiede nella cornice. Già a livello
della struttura si instaura un codice binario, che rappresenta forse il principale elemento di unità in
un testo volutamente centrifugo, attraverso le cui diramazioni, sempre binarie, l’intreccio si
sviluppa: la bipolarità di struttura e codice sono stati sottolineati dallo stesso Calvino, nella risposta
ad Angelo Guglielmi su «Alfabeta», anche con l’introduzione di uno schema esemplificativo dello
sviluppo della struttura. In questo schema ogni racconto costituisce il polo della catena che si
esaurisce, mentre l’altro polo, che si biforca nuovamente, corrisponde alla cornice. Ogni racconto è
caratterizzato da una sua compiutezza, nonostante si presenti sempre come incipit di un romanzo
interrotto, ed è estrapolabile come testo che “funziona” anche al di fuori del rapporto dialettico con
la cornice; in questa è inoltre presente l’elemento dinamico, il progetto che dà origine a ogni
racconto, cioè l’«attesa» della Lettrice, che ipotizza volta per volta un romanzo di genere diverso:
cosí, per esempio, al suo desiderio di leggere «un romanzo in cui si senta la storia che arriva, come
un tuono ancora confuso, la storia quella storica insieme al destino delle persone, un romanzo che
dia il senso di stare vivendo uno sconvolgimento che ancora non ha un nome, non ha preso
forma...»28, segue Senza temere il vento e la vertigine, definito da Calvino «il romanzo politico-
esistenziale»29. Il tradizionale rapporto tra cornice e racconti si è dunque capovolto a favore della
prima, a cui è affidato il nucleo semantico e ideologico, l’unità tematica e strutturale del testo nel
suo insieme: è al suo interno infatti che si svolge la trama in un intreccio lineare, dall’iniziale
incontro del protagonista (il Lettore) con la protagonista (la Lettrice), fino allo scioglimento
dell’azione con il lieto fine del matrimonio e del parallelo conseguimento di una lettura che
finalmente pare realizzarsi per entrambi senza intoppi.
La cornice si sviluppa su due piani, quello del discours e quello del récit: sul primo piano
del discorso si situa una parte notevole del libro, di natura metaletteraria, saggistica e autoriflessiva,
che fonda come centrale il problema del rapporto autore-lettore, scrittura-lettura. Problema non
nuovo in Calvino, presente già nel Cavaliere inesistente e nelle Cosmicomiche, importante nelle
Città invisibili e affrontato teoricamente e criticamente in vari saggi: lo stesso Calvino dichiara
nella risposta a Guglielmi di aver voluto «nel Viaggiatore [...] rappresentare (e allegorizzare) il
coinvolgimento del lettore (del lettore comune) in un libro che non è mai quello che lui s’aspetta»,

27
Cfr. Id., Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa come processo combinatorio) (1967), in Una pietra sopra…
cit., pp. 205-225.
28
Id., Se una notte d’inverno un viaggiatore cit., pp. 680-681.
29
Id., Se una notte d’inverno un narratore cit., p. 1394, in cui Calvino fornisce una descrizione della struttura e
indicazioni preziose sui meccanismi compositivi del testo. La citazione successiva è a p. 1391.

6
contraddicendo cioè, direbbe Jauss, il suo «orizzonte d’attesa» 30; e in tal modo esplicitando –
continua Calvino – «il mio intento cosciente e costante in tutti i miei libri precedenti» 31, quello cioè
di «giocare al rialzo, puntare sul rincaro, rilanciare la posta» 32: «lo scrittore non può proporsi
soltanto la soddisfazione del lettore […]; ma deve presupporre un lettore che ancora non esiste, o
un cambiamento nel lettore qual è oggi», scriveva Calvino nel 1967 rispondendo a un’inchiesta di
«Rinascita», e ipotizzava un lettore in possesso di molte competenze in varie discipline e capace di
collocare il testo letterario su uno «scaffale ipotetico» accanto a libri di filosofia, di scienza, di
linguistica, di antropologia, ecc. Lo scrittore teorizzava in tal modo la figura del «Lettore Modello»,
nella definizione che ne avrebbe dato Umberto Eco nel suo Lector in fabula. La cooperazione
interpretativa nei testi narrativi, uscito nel febbraio 1979, pochi mesi prima del Viaggiatore. Scrive
Eco:

Per organizzare la propria strategia testuale un autore deve riferirsi a una serie di competenze […] che
conferiscano contenuto alle espressioni che usa. Egli deve assumere che l’insieme di competenze a cui si
riferisce sia lo stesso a cui si riferisce il proprio lettore. Pertanto prevederà un Lettore Modello capace di
cooperare all’attualizzazione testuale come egli, l’autore, pensava, e di muoversi interpretativamente cosí
come egli si è mosso generativamente. […]
Dunque prevedere il proprio Lettore Modello non significa solo “sperare” che esista, significa anche muovere
il testo in modo da costruirlo. Un testo non solo riposa su, ma contribuisce a produrre una competenza. 33

Nel capitolo XI del Viaggiatore si delinea una casistica di lettori (sette), ma


fondamentalmente sono due gli atteggiamenti nei confronti della lettura, e corrispondono ai due
protagonisti: il Lettore ha «una inarrestabile tendenza alla passività, alla regressione, alla
dipendenza infantile» e ama perciò i libri che «si chiudono» («a me nei libri piace leggere solo
quello che c’è scritto; [...] e soprattutto mi piacciono i libri da leggere dal principio alla fine») 34; è
questo lettore a cui all’inizio del testo si rivolge l’autore («Stai per cominciare a leggere il nuovo
romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino»), perché è del tutto prevedibile il
suo «orizzonte d’attesa», ovvero collocare il nuovo testo nell’opera precedente e già nota
dell’autore; contraddire tale attesa attiva una lettura non piú passiva:

Ti prepari a riconoscere l’inconfondibile accento dell’autore. No. Non lo riconosci affatto. Ma, a pensarci
bene, chi ha mai detto che questo autore ha un accento inconfondibile? Anzi, si sa che è un autore che cambia molto da
libro a libro. E proprio in questi cambiamenti si riconosce che è lui. Qui però sembra che non c’entri proprio niente con
tutto il resto che ha scritto, almeno a quanto tu ricordi. È una delusione? Vediamo. Magari in principio provi un po’ di
disorientamento […]. Ma poi prosegui e t’accorgi che il libro si fa leggere comunque, indipendentemente da quel che
t’aspettavi dall’autore, è il libro in sé che t’incuriosisce, anzi a pensarci bene preferisci che sia cosí, trovarti di fronte a
qualcosa che ancora non sai bene cos’è.

La tendenza passiva dunque non può che essere contraddetta, in quanto il romanzo
“rassicurante” nei confronti del mondo non è piú possibile in un’epoca come quella attuale in cui
«la dimensione del tempo è andata in frantumi, non possiamo vivere o pensare se non spezzoni di
tempo che s’allontanano ognuno lungo una sua traiettoria e subito spariscono». La Lettrice invece
mostra una disponibilità totale alla lettura («Per questa donna [...] leggere vuol dire spogliarsi
d’ogni intenzione e d’ogni partito preso, per essere pronta a cogliere una voce che si fa sentire
quando meno ci s’aspetta, una voce che viene non si sa da dove, da qualche parte al di là del libro,
al di là dell'autore, al di là delle convenzioni della scrittura: dal non detto, da quello che il mondo

30
Hans Robert Jauss, Perché la storia della letteratura?, trad. ital., a cura di Alberto Vàrvaro, Napoli, Guida, 1969, p.
52.
31
I. Calvino, Se una notte d’inverno un narratore cit., p. 1391.
32
Id., Per chi si scrive?( Lo scaffale ipotetico) (1967), in Una pietra sopra cit., p. 162.
33
Umberto Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Milano, Bompiani, 1979, pp. 55-
56.
34
Id., Se una notte d'inverno un viaggiatore cit., pp. 866-867. Le citazioni successive sono alle pp. 619, 618 e 849.

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non ha ancora detto di sé e non ha ancora le parole per dire» 35) e rappresenta il lettore ideale, il
quale collabora alla realizzazione dell’opera, che non può pertanto che essere aperta. La figura del
lettore si scinde in due personaggi per certi versi opposti, comunque diversi (di qui la scelta di
rappresentarli attraverso la polarità uomo-donna); il ruolo del destinatario si confonde con quello
degli attanti; anche la figura del narratore (o dei narratori) risente di tale ambiguità e tende a sua
volta a confondersi con i protagonisti e con l’autore.
Sul piano del racconto, coerentemente con la scelta del «lettore medio» come destinatario,
avviene il recupero del “romanzesco” piú convenzionale, nell’assunzione ironica della forma della
storia d’amore a lieto fine, e – scrive Calvino – con «l’utilizzazione [...] del vecchio tòpos
romanzesco d’una cospirazione universale dagli incontrollabili poteri, [...] retta da un proteiforme
deus ex machina»36. Alla fine del libro «il settimo lettore» chiarisce il significato di questa scelta,
richiamando il referente favolistico caro a Calvino:

[...] Anticamente un racconto aveva solo due modi per finire: passate tutte le prove, l’eroe e l’eroina si
sposavano oppure morivano. Il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della
vita, l’inevitabilità della morte.37

Ed infatti nel Viaggiatore il Lettore e la Lettrice alla fine si sposano; il signor Palomar, nel libro
omonimo, alla fine improvvisamente muore.
La scrittura ha la stessa durata della vita e ne segue forse gli stessi percorsi nella ricerca di
senso e di significato; non è certo un caso che nel titolo del libro compaia un altro tòpos letterario,
tra i più antichi e frequenti nella letteratura occidentale, quello del viaggio, metafora nello stesso
tempo esistenziale e conoscitiva. Tra la continuità del vissuto e la continuità del racconto non c’è
iato (si legga in tale prospettiva Guarda in basso dove l’ombra s’addensa); ogni storia narrata/ogni
vicenda vissuta non è che una sezione ritagliata nel continuum di tutte le storie/le vicende possibili,
che si siano o meno attualizzate nei libri o nella realtà, e di cui sono simbolicamente depositarie
mitiche e venerabili figure fuori del tempo: Omero oppure il vecchio indio detto il «Padre dei
Racconti». Il “raccontabile”, che in termini hjemsleviani potremmo definire la «materia del
contenuto», comprende tutti i libri scritti e tutto ciò che da essi è rimasto escluso: la scrittura si apre
sulla vertigine del vuoto, del «mondo non scritto» (lo spazio vuoto al centro del quadrato dei
tarocchi nel Castello; il «nulla», cioè il «quadrato nero o bianco», il «tassello di legno piallato» 38
della scacchiera nelle Città invisibili). Questa «materia» è costituita dalla realtà, dalla memoria e
dall’inconscio collettivo, di cui partecipano sia l’autore sia il lettore; in questa prospettiva non
meraviglia, né appare contraddittoria con il “romanzesco” più trito e codificato, la natura
estremamente colta e intellettuale del testo, zeppo di citazioni erudite, di rimandi, scoperti o
mimetizzati con cura, alle letture fatte, o ad invenzioni apocrife alla Borges. Accanto alla memoria,
agisce l’inconscio, che comunica non soltanto attraverso il sogno, ma anche attraverso il ritorno del
represso nella frequenza di contenuti sessuali e politico-ideologici: nel Viaggiatore è notevole la
presenza dell’elemento erotico, che giunge talvolta alla perversione, fino a evocare il tabú
dell’incesto (come in Intorno a una fossa vuota). Il represso si manifesta attraverso il modello della
negazione freudiana: l’incesto sembra essere evitato, i contenuti ideologico-politici passano
attraverso la parodia del genere fantapolitico.
Come alla lettura, anche alla scrittura si aprono due strade divergenti: di fronte alla totalità
del «raccontabile», l’autore può tentare di raggiungere l’inattingibile archetipo, oppure, ed è questa
la via seguita da Calvino, raccontare/catalogare tutte le storie possibili, partendo da un’ipotesi e da
un progetto: la dimensione problematica e sperimentale è ben indicata dal «se» del titolo. I due
35
Il passo costituisce un’autocitazione, in quanto ripropone, quasi con le stesse parole, concetti svolti in Cibernetica e
fantasmi... cit., pp. 174-175 e in «Anch’io cerco di dire la mia» (La taverna dei destini incrociati (1973), in Romanzi e
racconti cit., II, pp. 593-596).
36
Italo Calvino, Se una notte d’inverno un narratore cit., p. 1389.
37
Id., Se una notte d’inverno un viaggiatore cit., p. 869.
38
Id., Le città invisibili (1972), in Romanzi e racconti cit., II, p. 462.

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piani del romanzo e della realtà interferiscono fra loro nella figura del lettore, in quanto portatore di
un “ruolo sociale”; ma fra il mondo, incomprensibile e caotico, e la scrittura, che si organizza in
una struttura ordinata, non può instaurarsi alcun rapporto diretto di rappresentazione o
interpretazione, ma soltanto un rapporto mediato. La realtà del testo è fittizia e può collegarsi al
mondo, diventare verità soltanto con la mistificazione e la menzogna. Ma tra l’«inganno» del
«linguaggio» e la «menzogna» che «è nelle cose»39 la scrittura getta un ponte: è la formalizzazione
letteraria, con i suoi artifici e le sue finzioni, a rendersi garante di un ordine (sia pure instabile) e di
una certezza (sia pure provvisoria):

[…] Finché so che al mondo c’è qualcuno che fa dei giochi di prestigio solo per amore del gioco, finché so che
c’è una donna che ama la lettura per la lettura, posso convincermi che il mondo continua… 40.

[Pubblicato in «Cuadernos de Italianística cubana», XV, n. 21, mayo 2014, pp. 179-191]

39
Id., Le città invisibili
40
Id., Se una notte d’inverno un viaggiatore cit., p. 850.

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