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CAPITOLO 1: Il diritto sindacale: oggetto e fonti

1. Diritto del lavoro e diritto sindacale


Il diritto del lavoro ha come oggetto il lavoro nel senso di lavoro subordinato (art. 2904 cc) prestato mediante
retribuzione, alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore. Trova il suo contrario nel lavoro autonomo
(art. 2222 cc) che è un’opera o un servizio compiuto con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di
subordinazione. Peraltro riguarda solo il lavoro subordinato soggetto al codice civile, alla legislazione del lavoro
e alla contrattazione collettiva.
Il diritto del lavoro è un settore relativamente giovane perché nato a seguito della rivoluzione industriale. Al suo
interno si distingue il diritto del rapporto individuale di lavoro, che regola diritti e obblighi reciproci del datore e
del lavoratore, ed il diritto sindacale, che disciplina l’organizzazione e l’attività sindacale. Settore distinto viene
anche considerato il diritto della previdenza (o della sicurezza) sociale, che disciplina l’erogazione di beni e
servizi in favore di coloro che ne hanno bisogno.
Secondo la corte costituzionale l’art. 39 comma1 sancisce la libertà di organizzazione sindacale sia per i datori
di lavoro che per i lavoratori, fermo restando differenze 1) storiche: i lavoratori hanno iniziato a coalizzarsi con
movimenti spontanei, mentre i datori di lavoro lo hanno fatto solo per risposta; 2) pratiche: i lavoratori vengono
considerati come soggetti collettivi solo se vengono considerati come gruppi, mentre i datori lo sono anche
individualmente; 3) costituzionali: caratterizzata da una politica legislativa promozionale riservata ai soli
sindacati dei lavoratori.

2. Le fonti del diritto sindacale


La mancata emanazione della legge sindacale veniva giustificata in base alla presunta primazia del 1° co. art.
39 Cost., la cui consacrazione della libertà di organizzazione sindacale sarebbe risultata del tutto incompatibile
con la disciplina etoronoma prefigurata dal comma 2 ss. La teoria dell’ordinamento sindacale elaborata all’inizio
degli anni ’60 configura un ordinamento intersindacale, basato sul reciproco riconoscimento delle organizzazioni
dei datori e dei lavoratori, con la sua fonte legislativa data dai contratti.
Le fonti del diritto del lavoro sono quelle del diritto in generale, cioè internazionali, comunitarie , costituzionali,
statali e regionali. È consuetudine considerare, comunque, come fonte del diritto del lavoro anche il contratto
collettivo.

2.1 Le fonti internazionali


Le fonti internazionali, come quelle comunitarie, trovano la loro legittimazione costituzionale nell’art. 11
Cost., che consente, in condizione di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; nonché nell'art. 117 , il quale prevede che “la
potestà legislativa si esercita nel rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario
e degli obblighi internazionali”.
Nel 1919 c’è stata la costituzione nel Trattato di Versailles dell’Organizzazione internazionale del lavoro - OIL,
dotata di una competenza: di indirizzo , regolamentazione, assistenza tecnica, con la finalità di contribuire al
miglioramento delle condizioni lavorative e sociali, nonché allo sviluppo di un ordine economico-sociale
mondiale. L’OIL ha una struttura tripartita, composta da rappresentanti degli Stati membri, e dotata di una

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Conferenza internazionale del lavoro, di un Consiglio di Amministrazione e di un Ufficio internazionale del lavoro
(Bit), che costituisce il segretario permanente.
La più nota attività dell’OIL consiste nell’adozione dei testi di convenzioni internazionali e di raccomandazioni in
materia di lavoro.
La competenza regolativa è riservata alla Conferenza internazionale, che la svolge tramite:
 la convenzione  trattato che quando deliberato, va sottoposto dai paesi membri all’organo competente per la
ratifica, che lo incorporerà nel diritto interno. Dovendo avere l’approvazione da parte di un’organizzazione
ampia e eterogenea la convenzione si limita di solito all’enunciazione di principi e fissazione di criteri che
vengono accettati per i loro caratteri generali e generici. Fra le convenzioni più importanti troviamo la n.
87/1948 sulla libertà di associazione e protezione del diritto all’azione sindacale e la n. 98/1949 sul diritto di
organizzazione e azione sindacale. Le convenzioni sono trattati destinati ad essere ratificati dagli stati membri,
così da diventare vincolanti nel diritto interno. Gli Stati hanno l’obbligo di sottoporre la convenzione agli organi
competenti per la ratifica e di applicare le disposizione della convenzione ratificata. L’interpretazione delle
convenzioni è affidata alla Corte Internazionale di giustizia che ha sede all’Aja.
 la raccomandazione  non è una normativa da sottoporre a ratifica ma solo una direttiva che ogni paese
membro deve tenere presente nell’elaborazione e gestione della propria politica del lavoro.
La prospettiva di autoregolamentazione volontaria dell’OIL è stata messa in crisi da un’internazionalizzazione finanziaria ed
economica. L’assenza di standard internazionali di diritti collettivi e individuali, che siano sufficienti ed effettivi, favorisce una
competizione al ribasso, c.d. dumping sociale. Si sono quindi pensate misure alternative come le c.d. clausole sociali,
destinate a condizionare l’apertura dei mercati interni ai soli beni prodotti col rispetto di determinati livelli di protezione in
primis delle libertà sindacali. Ma queste stentano a decollare.
Il Consiglio d’Europa è un’organizzazione internazionale nata nel 1949 con sede a Strasburgo, per
promuovere la democrazia, i diritti dell’uomo e l’identità culturale europea. Nel 1950 ha dato vita alla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), la quale ha
istituito nel ’59 la Corte Europea dei diritti dell’uomo, che giudica sui ricorsi relativi alle violazioni della
Convenzione una volta esauriti i rimedi interni. Nel ’61 poi il Consiglio d’Europa ha adottato la Carta sociale
europea che menziona diversi diritti in materia di lavoro.

2.2 Le fonti dell’Unione


Le fonti dell’Unione fanno capo al:
 TFUE (trattato di Lisbona 2007 che ha rivisto sia il Trattato istitutivo della CEE e successive modifiche)
 TUE (Trattato di Maastricht 1992 e successive variazioni, che riformava la CEE che diventa CE e istituiva l’UE)
La UE è un’organizzazione internazionale che dà vita a un unico ordinamento costituito dal diritto dell’UE e dal diritto dei
singoli paesi membri. La Corte cost italiana riferendosi all’art 11 Cost e all’art 117 ritiene restino due ordinamenti distinti,
comunitario e italiano se pur condividendo l’esistenza del primato (concezione dualistica)
Costituita insieme a EURATOM (comunità europea dell’energia atomica) dai Trattati di Roma (’57), come CEE
conoscerà una lunga evoluzione che colpirà la fisionomia istituzionale, cambiandola da organizzazione
intergovernativa in organizzazione internazionale. La sua finalità principale rimane il mercato interno europeo,
finalizzato a uno sviluppo sostenibile, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi ed
anche su un’economia sociale competitiva.
Le fonti comunitarie si dividono in primarie (comprendono TFUE e TUE, immediatamente e direttamente efficaci e
sovraordinati rispetto alle altre fonti UE) e derivate (atti normativi fondati su trattati ed emanati dalle istituzioni, in primis i
regolamenti e le direttive). Sono poi fonti del diritto la giurisprudenza della Corte di Giustizia e i principi generali di diritto, fra
cui specie quello di eguaglianza, sotto forma di divieto di discriminazione per nazionalità
Sono qualificati come istituzioni UE:
 il Parlamento, Consiglio europeo e Consiglio, Commissione, Corte di Giustizia, Corte dei Conti, BCE e i

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neointrodotti Presidente del Consiglio europeo e l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e per
la politica della sicurezza;
 La Corte di Giustizia, con sede a Lussemburgo, ha funzione di garantire applicazione uniforme del diritto
dell’UE (le spetta decidere su vari tipi di ricorsi fra cui quello per rinvio pregiudiziale da parte dei giudici
nazionali sulla validità e l’interpretazione delle norme UE e quello per inadempimento degli Stati al diritto
UE).
Le competenze dell’UE sono rette dal principio di attribuzione, perché sono quelle conferite dagli Stati membri,
non senza però una loro possibile dilatazione implicita in base alla clausola di flessibilità. Se concorrenti vanno
esercitate secondo i principi di sussidiarietà verticale e proporzionalità (solo se UE è più idonea a disciplinare
quella materia e solo nella misura necessaria).
A conferma del carattere nazionale del diritto sindacale, mentre sono ricomprese nelle competenze normative
dell’UE molte materie attinenti al rapporto individuale di lavoro, continuano a rimanervi escluse le più importanti
con riguardo al fenomeno collettivo, come l’associazione sindacale e lo sciopero o la serrata. Allo stesso modo
continuano in prevalenza ad essere assoggettate alla regola del voto all’unanimità in seno al Consiglio le
materie della sicurezza e protezione sociale dei lavoratori, della loro protezione in caso di risoluzione del
contratto di lavoro e delle condizioni di impiego dei cittadini dei paesi terzi. Fra le fonti primarie oltre ai Trattati
vi è la Carta di Nizza, che elenca una serie di diritti su dignità, libertà, uguaglianza, solidarietà, cittadinanza,
giustizia. Alla Carta, il Trattato di Lisbona ha riconosciuto stesso valore giuridico dei trattati, ma con significato
problematico: infatti occorre distinguere fra i principi da attuarsi con atti dell’UE e degli Stati membri e norme
immediatamente applicabili; poi prendere atto che l’UE non ha competenza in materia di associazione, sciopero
e serrata. La Corte di giustizia riconoscerà il diritto sindacale di cui all’art 28 Carta come un diritto
fondamentale, ma sempre in forza di un bilanciamento “sbilanciato” fra tale diritto e la libertà di stabilimento e
la libera prestazione di servizio, riconducibili nell’ambito della libertà d’impresa.
I regolamenti sono atti generali (obbligatori) di applicazione diretta nel diritto dei paesi membri; le direttive
invece impegnano gli Stati membri a recepirle, entro un termine, scaduto il quale possono essere citati per
inadempimento di obblighi comunitari. Di solito impongono solo un obbligo di risultato lasciando agli Stati
spazio di manovra sugli atti con cui realizzarlo. A volte però sono così precise da esser dette direttive
dettagliate.
La ricezione delle direttive potrebbero avvenire oltre che per legge anche per contrattazione collettiva dello stato membro se
questa e in grado di assicurare efficacia erga omnes. Cosa impossibile per l’Italia data la mancata attuazione dell’art 39.2
Cost.
La prassi è quindi quella di dare attuazione alle direttive con un “avviso comune” concordato fra le parti sociali,
poi assunto con atto legislativo.
Fondamentale è stato l’Accordo sulla politica sociale (Aps) che, anche se relegato ad allegato del Trattato di
Maastricht, ha ampliato la competenza in materia sociale e ha dato inizio a una particolare procedura definita
“dialogo sociale”. Oggi tale espressione indica le relazioni intercorrenti sia trilaterali fra istituzioni UE – parti
sociali, sia bilaterali fra le stesse.
La Commissione ha il compito di “promuovere la consultazione delle parti sociali e adotta ogni misura utile per
facilitare il dialogo”. Compito che diventa un obbligo se si voglia presentare proposte legislative in tema di
politiche sociali.
La consultazione può sfociare nella conclusione di un contratto collettivo europeo di due tipi:
1. Accordo Quadro  strumento di coinvolgimento sindacale nel processo legislativo europeo. Raggiunto
l’accordo su una materia di competenza UE, il Consiglio lo assume, con procedimento diverso a seconda
dell’oggetto, come atto normativo dell’UE (es per lavoro part-time)

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2. Accordo Libero  è avulso dal processo normativo UE, quindi può riguardare anche una materia estranea
alle competenze dell’UE, restando un mero accordo a carattere politico-orientativo, rimesso per l’attuazione alle
procedure e prassi degli Stati membri.
Il Trattato di Amsterdam, pone la premessa per un’espansione della politica legislativa regolativa e
precostituisce la base per quella politica cooperativa, realizzata fra istituzioni e stati membri. Decolla così la
strategia europea per l’occupazione, utilizzandolo come strumento il metodo aperto di coordinamento.
La contrattazione collettiva europea sconta già due difficoltà:
─ Di diritto  per inesistenza di un vero diritto sindacale europeo, mancando una qualsiasi armonizzazione delle stesse
nozioni di base
─ Di fatto  sono stati individuati i 3 attori principali con ruolo fondamentale nel dialogo sociale ma restano privi di poteri di
rappresentanza a pieno titolo Peraltro la causa dell’entrata in crisi della contrattazione collettiva è stata vista nella
diminuzione dell’iniziativa regolativa della Commissione.
Anche la scommessa fatta con la politica cooperativa si è rivelata perdente. Con la crisi mondiale è poi emersa
la conseguenza dell’espansione dell’UE, che ha creato un’ampia area ad elevata densità abitativa caratterizzata
da una situazione finanziaria ed economica differenziata.

2.3 La Costituzione
La nostra Costituzione è lunga (Preambolo su principi + Parte prima su diritti e doveri dei cittadini + Parte
seconda su ordinamento della Repubblica) dovuta alla necessità di garantire un’autentica base della democrazia
costituita dalla libertà civile e promuovere una maggiore giustizia sociale. Risponde a questa esigenza una serie
di Principi contenuti in articoli del Preambolo, che ben può farla definire una Costituzione sociale (art 1, che
dichiara essere la Repubblica fondata sul lavoro; art 3, che consacra l’eguaglianza formale e sostanziale,
fondamentale nella materia sindacale; art 4, che riconosce il diritto al lavoro).
La nostra Costituzione è anche rigida, sovra-ordinata alle leggi ordinarie, il che comporta l’esistenza di una
Corte Costituzionale che decide sulla legittimità delle leggi ordinarie e risolve i conflitti di attribuzione fra poteri
della Repubblica.
Bisogna arrivare al Titolo III Parte Prima, sui rapporti economici per ritrovare il diritto sindacale:
 Aperto con art 35  impegna la Repubblica alla tutela del lavoro
 Continua con gli artt. 36 – 37 -38  in materia di diritti dei singoli lavoratori
 Approda agli artt. 39 – 40.
Il modello che se ne deduce è di pluralismo istituzionalizzato dato che il 39 garantisce la libertà di
organizzazione sociale e il 40 riconosce il diritto di sciopero, che deve avvenire in un sistema di regole quali
previste dal 39.2 ss. e 40.
 Art 39.2  cerca di conciliare il riconoscimento del pluralismo sindacale col mantenimento del contratto di
categoria efficace erga omnes. Ogni organizzazione sindacale dei datori e dei lavoratori con uno statuto a
base democratica deve o può a seconda delle interpretazioni, chiedere la registrazione con acquisizione
della personalità giuridica. Registrata ha il titolo per partecipare in proporzione dei propri iscritti alla
rappresentanza unitaria di parte lavoratrice e datoriale per la stipulazione di contratti efficaci per tutti gli
appartenenti alle categorie cui si riferisce.
 Art 40  consacra come diritto quello sciopero che era represso come reato dal codice penale del 1930
affermando che si esercita nell’ambito di leggi che lo regolano, con sostanziale rinvio aperto al futuro
legislatore. Sistema che per il 39.2 non ha mai visto luce e che per il 40 l’ha vista solo parzialmente con
l’emanazione nel ’90 della legge sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali. Al posto
di questo modello quindi se ne affermerà un altro nella Cost materiale detto pluralismo conflittuale, cioè di
confronto libero delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori, lasciati alle categorie del diritto

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privato: l’associazione non riconosciuta, il contratto collettivo di diritto comune, lo sciopero come diritto
potestativo.
Il modello previsto dalla Carta costituzionale si collocava nell’ambito di un riconoscimento dell’iniziativa
economica privata, effettuato con l’art 41 e accompagnato da esplicito divieto a svolgersi in contrasto con
l’utilità sociale o così da recare danno a sicurezza, libertà e dignità umana, nonché dal rinvio alla legge per
delineare i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere
indirizzata e coordinata a fini sociali. Per l’indirizzo dominante è stato un sistema capitalista “temperato”:
nessuna funzionalizzazione dell’iniziativa privata, ma la sua sottoposizione alle limitazioni nonché alle eventuali
direttive dettate dalla legge. Un eco del pensiero socialista lo si trova anche negli artt. 43 e 46. Il primo
legittima la nazionalizzazione (a favore di enti pubblici) e la socializzazione (a favore di comunità di lavoratori)
di imprese che forniscono servizi pubblici essenziali, gestiscono fonti di energia, operano in situazioni di
monopolio rimasta sulla carta. Il secondo invece contempla il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione
delle aziende che sotto-intende una convergenza fra interessi dei datori e dei lavoratori, rimasta ostica
all’esperienza sindacale italiana.

2.4 La legge statale e regionale e gli usi


Fino all’attuazione dell’ordinamento regionale previsto dal Vecchio Titolo V Parte 2 Cost, avvenuto negli anni ’70
c’erano solo leggi nazionali, dopo se ne avranno anche di regionali, nelle materie riservate dall’originario art 117
alla competenza concorrente regionale. Con la riscrittura del Titolo V con L. cost 3/2001, però, la ripartizione
delle competenze Stato e Regioni è stata modificata: esclusiva dello Stato, concorrente Stato-regione, estesa
alla tutela e sicurezza del lavoro, e una residuale regionale. L’aspettativa della legge sindacale attuativa dell’art
39.2 Cost resterà alta fino all’emanazione della L. 741/59, che autorizzava il governo a recepire in decreti
delegati i contratti collettivi già stipulati, rendendoli efficaci erga omnes. La condanna della legge sindacale di
attuazione arriverà con la L. 300/70, lo Statuto dei lavoratori, che varerà una politica promozionale selettiva,
consistente nel garantire la cittadinanza nei luoghi del lavoro in primis alle organizzazioni sindacali
maggiormente rappresentative. Politica promozionale che si espanderà alla negoziazione, con la legislazione
sulla contrattazione delegata destinata a costituire una costante del diritto del lavoro. Contrattazione di cui
esemplificazione maggiore è la L. 146/90, come modificata dalla L. 83/2000, che inquadra in una cornice
legislativa la stipula dei contratti e degli accordi, destinati a individuare e disciplinare le prestazioni
indispensabili da assicurare nel corso di scioperi effettuati nei servizi pubblici essenziali. Negli anni ’90 prende
corpo la c.d. privatizzazione dell’impiego pubblico, col varo del D.Lgs. 29/93 che approderà nel testo unico sul
pubblico impiego, il D. Lgs. 165/2001 che verrà modificato. Emerge quindi un diritto sindacale dell’impiego
pubblico privatizzato iper-regolato, con più di un passaggio pubblicistico. Quindi, il processo appare double-face
dato che sembra prima di delegificazione, con abrogazione di tutta la disciplina pubblicistica, e poi come ri-
legificazione con la predisposizione di un’apposita disciplina di base privatistica. Gli usi aziendali, considerati
distinti dai c.d. usi normativi perché spontanei, sono inquadrati dall’indirizzo dominante fra le c.d. fonti sociali
collettive, fra cui rientrerebbero anche i contratti collettivi aziendali e i regolamenti di azienda.

2.5 La contrattazione collettiva


Resta la discussione se sia da considerare o meno fonte di diritto. La tesi favorevole è sostenuta dagli studiosi di
diritto pubblico, quella contraria da studiosi e giudici del lavoro. Una fonte del diritto è caratterizzata da una
procedura formale idonea a creare norme giuridiche, generali e astratte, con efficacia ultra partes, ma tale non
è la contrattazione collettiva del diritto comune, priva di ogni procedura formalizzata e di per sé capace di
produrre regole astratte e generali con efficacia solo inter partes.

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Non vanno ignorate però le forme atipiche di contrattazione collettiva che ricollegano un’efficacia generale a:
- Una procedura  vanno ricordati i contratti di comparto e di area dirigenziale e i contratti per la disciplina delle prestazioni
indispensabili, cui la Corte costituzionale ha riconosciuto efficacia generale, ma solo in via mediata.
- Alla sola selezione delle organizzazioni sindacali trattanti  per le maggiormente o comparativamente più rappresentative,
va richiamata la c.d. contrattazione delegata. Non è categoria unitaria ma formata da diverse fattispecie, quindi anche
l’efficacia generale va trattata distintamente. Deve però darsi atto che la Corte costituzionale nel ’96 ha aperto una finestra,
se pur solo con un obiter dictum, sull’esistenza di un modello costituito da “leggi che delegano alla contrattazione collettiva
funzioni di produzione normativa con efficacia generale”. L’uso di questo modello è giustificato in caso di materie del rapporto
di lavoro che esigono uniformità di disciplina in funzione di interessi generali connessi al mercato del lavoro.
Nel perdurante vuoto attuativo dell’art 39.2 si è consolidato un indirizzo di far ricorso al contratto collettivo c.d.
di diritto comune, che veniva ricondotto al regime “comune” di contratti e obbligazioni del Titolo IV. Regime che
non permetteva di soddisfare lo scopo storico del contratto collettivo di creare un trattamento comune esteso a
tutti i lavoratori capaci di farsi concorrenza al ribasso nello stesso ambito produttivo o territoriale, ma lasciava
spazio libero a un regolamento autonomo del sistema contrattuale con appositi accordi interconfederali e le c.d.
prime parti dei contratti collettivi di categoria, dette “obbligatorie” perché destinate a regolare le relazioni
collettive fra le stesse organizzazioni stipulanti, come tali distinte da quelle normative contenenti le condizioni e
i termini dei rapporti di lavoro.
Gli accordi interfederali conclusi fra le parti sociali, con guida quello tra Confindustria e Cgil. Cisl e Uil, hanno
avuto fortuna quando incorporati in Protocolli triangolari in una concertazione attuato come scambio politico fra
Governo – parti sociali. Esemplare è il Protocollo di luglio 1993. Alla crisi della concertazione ha corrisposto la
conclusione di accordi interconfederali con la partecipazione delle sole parti sociali, come testimoniano l’accordo
interconfederale di giugno 2011 e il T.U. sulla rappresentanza di gennaio 2014. La contrattazione collettiva è
subordinata alla legge, con la salvaguardia di quella competenza orizzontale che per la Corte è garantita da art
39.1: non godrebbe di una riserva assoluta e incondizionata neanche in materia retributiva, ma non potrebbe
essere espropriata in via definitiva della relativa competenza.
Di massima, dove la legge interviene in materia sindacale fissa solo disciplina minimale che può essere
migliorata dalla contrattazione collettiva, ma la legislazione è spesso servente rispetto all’autonomia collettiva,
con modalità diverse:
 La recezione in atti legislativi di precedenti accordi sindacali  c.d. legislazione contrattata. In questa, c’è una
sostanziale ricezione di precedenti accordi interconfederali, come la L. 604/66 sui licenziamenti individuali.
 La delega a successivi contratti collettivi di compiti suppletivi, integrativi e modificativi rispetto a quanto da lei
disposto  contrattazione delegata. In questa invece, c’è una trattativa preliminare, che col tempo si è ampliata
in una concertazione finalizzata alla stesura di un Protocollo, propedeutico a interventi del Governo e a
provvedimenti legislativi a tutto campo.
Se si considera la sua evoluzione la politica promozionale verso le organizzazioni sindacali dei lavoratori, essa
può essere distinta in una prima tappa, data dal Titolo III dello Statuto dei lavoratori, con cui si garantisce a
quelle maggiormente rappresentative la cittadinanza piena nei luoghi di lavoro; e una seconda tappa
rappresentata dalla contrattazione delegata, con cui si riconosce a quelle comparativamente più rappresentative
la legittimazione a varare una disciplina collettiva atta a modulare quella legislativa. Con ciò si è voluto
rispondere all’esigenza di flessibilità in entrata, cioè rispetto alla tipologia e disciplina delle assunzioni, con una
deregolazione graduata e controllata, come costituita dalla facoltà per le parti sociali di intervenire sulla
normativa di legge, nelle forme di integrazione e della deroga. Testimonianza ne è stata la contrattazione
collettiva autorizzata a introdurre ipotesi aggiuntive a quelle tassativamente indicate per la conclusione di un
contratto a termine dalla L.230/62. Contrattazione che però è maturata negli anni ’90 col c.d. Pacchetto Treu e
poi pienamente valorizzata dalla riforma Biagi del 2003 e ripresa dalla riforma Fornero del 2012 e quindi dalla
legislazione del 2014-2015.

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Si è parlato a riguardo di una disciplina del mercato del lavoro affidata alle parti sociali per la sua adattabilità, tempestività,
effettività, la c.d. regolamentazione consensuale del mercato del lavoro. Non è categoria unitaria ma con figure diverse, la cui

efficacia erga omnes va quindi affrontata distintamente.

La L. 146/90 sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, prevede una disciplina composita
con:
 la legge a individuare i servizi, fissare alcuni limiti, definire moduli tipici con cui assicurare le prestazioni
indispensabili
 e i contratti collettivi e accordi di comparto e di area dirigenziale a regolamentare tali prestazioni, efficaci
verso tutti i potenziali destinatari solo se validati da apposita Commissione di Garanzia.
Per la Corte costituzionale, la legge conferirebbe ai contratti collettivi del settore pubblico privatizzato efficacia
generalizzata, per via dell’art 40.4 del D. Lgs. 165/2001 che impone a tutte le pubbliche amministrazioni di
osservarli, quindi tale efficacia risulterebbe ex lege e non ex contractu e come tale non contrastante con art
39.2 Cost. Se però continua la massiccia legislazione a favore della contrattazione delegata, resta la difficoltà
politico – sindacale di intervenire direttamente sulla contrattazione collettiva.
L’art. 4 comma62 e 63 L. 92/2012, conferiva al Governo la delega per l’emanazione di decreti che autorizzano
la contrattazione collettiva a introdurre varie forme di partecipazione. Ciò secondo un crescendo che andava
oltre l’informazione e la consultazione dei lavoratori.
Di solito con la parola giurisprudenza si indica l’attività decisionale svolta dalla Corte cost, da magistratura
amministrativa, penale e civile tramite sentenze, ordinanze e decreti. Fondamentali nella formazione del diritto
sindacale difforme dal modello prefigurato dalla Carta sono stati l’attività della Corte cost, con riguardo all’art
39, di cui ha valorizzato la libertà di organizzazione sindacale del 1 comma, senza però ritenerla né esclusiva
della politica promozionale selettiva di cui al Titolo III, né di massima preclusiva della legislazione sul costo del
lavoro. Ha poi mantenuto fermo il 2comma ss. senza però considerarlo impeditivo dell’effetto generalizzato
riconosciuto ai regolamenti contrattuali sulle prestazioni indispensabili ex L. 146/90 (su esercizio del diritto di
sciopero nei servizi pubblici essenziali), nonché ai contratti collettivi del pubblico impiego privatizzato ex D. Lgs.
165/2001. Anche se lo ha fatto tramite un escamotage: nel primo caso considerando tale effetto riconducibile
alla stessa legge e nel secondo caso invece ai contratti estranei alla categoria del contratto collettivo prefigurato
dall’art 39. Importante è anche l’apporto della Corte sul riconoscimento del diritto di sciopero ex art 40 Cost,
dato con l’esercizio del suo sindacato sugli artt. 502 ss. e 330 del c.p. del 1930, cui viene ampliato lo scopo
legittimamente perseguibile, non più solo contrattuale ma anche politico – economico e ne è risultato ammesso
lo stesso sciopero nei servizi pubblici essenziali se pur con limiti dovuti per salvaguardare diritti
costituzionalmente tutelati.
Con l’azione della magistratura ordinaria civile, che dopo la riforma del 1973, conta su una sezione e un
processo dedicati alle controversie di lavoro. Le si deve la ricostruzione della figura di contratto collettivo c.d. di
diritto comune della relazione fra livelli contrattuali, della nozione di “confederazioni maggiormente
rappresentative” e dei diritti sindacali di cui Titolo III St. lav., nonché l’individuazione dei modi legittimi di
esercizio del diritto di sciopero secondo una graduale liberalizzazione che troverà strumento elettivo nella
giurisprudenza su comportamenti anti-sindacali.
Secondo la funzione data a un processo articolato su un triplice grado la giurisprudenza si è formata e
consolidata con una dialettica fra:
─ Primo grado (Tribunale)
─ Secondo grado di “merito” (Corte d’Appello)
─ Terzo grado di legittimità (Corte di Cassazione)
Ogni giudicato vale solo per il caso specifico considerato ma contribuisce a formare l’indirizzo consolidato e
quindi il diritto vivente, cioè quello effettivamente applicato e sanzionato. Diritto vivente che è quello fatto

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proprio dalla Cassazione, specie se a Sezioni Unite, che si è vista rafforzare la sua funzione nomofilattica, con la
previsione di un ricorso per violazione e falsa applicazione di norme e di diritto e anche di contratti e accordi
collettivi nazionali di lavoro; nonché con introduzione del ricorso per saltum, cioè evitando il 2 grado contro una
sentenza di 1 grado sull’accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità e interpretazione dei contratti
collettivi.
L’ultimo ventennio è caratterizzato da una lunga sequenza di riforme del mercato, alla ricerca di quella flessibilità ritenuta
necessaria per far fronte alla crisi occupazionale. È stata valorizzata almeno sulla carta l’azione di istituzioni triangolari in
senso lato amministrative ma soprattutto è stata rivista tipologia e disciplina dei contratti di lavoro.
Il ruolo riservato al giudice amministrativo (tribunali amministrativi e Consiglio di Stato) risulta ridimensionato
rispetto a quello del lavoro, toccando a quest’ultimo decidere sul comportamento antisindacale delle pubbliche
amministrazioni sia sulle controversie fra Aran e organizzazioni sindacali nella procedura sui contratti collettivi di
comparto e di area dirigenziale.

CAPITOLO 2: L’EVOLUZIONE STORICA


1. L’età liberale: dalla repressione penale alla tolleranza
È una storia recente quella della regolamentazione dell’organizzazione e dell’attività sindacale, perché tardiva è
stata la nostra unificazione (1861) sia la nostra rivoluzione industriale (tardo ‘800). A fronte della coalizione
spontanea e precaria della nuova classe proletaria, creata in vista dell’astensione dal lavoro, la risposta dello
Stato liberale monoclasse fu di massima repressione perché era considerata capace di turbare la libera
concorrenza sul mercato del lavoro, tramite l’equiparazione formale di datore e lavoratore (in più la borghesia
vedeva minacciata la propria supremazia sul mercato e nel luogo di lavoro). Il neonato Stato italiano si limita ad
estendere al paese riunificato il diritto del “conquistatore”, fra cui il codice penale albertino (detto sardo) che
prevedeva come reato ogni forma di coalizione tra datori di lavoro e operai. Ciò non avrebbe però impedito un
movimento rivendicativo spontaneo e rapsodico che dal bracciantato passò al proletariato, contro padronato e
braccio armato dello Stato. Il corso era infatti inarrestabile, soprattutto con la crescita del c.d. quarto stato,
stimolando l’impegno a darsi una rappresentanza stabile sindacale ed anche politica dato che la prima aveva
bisogno della seconda per realizzarsi e conservarsi. La formazione di una crescente massa di manodopera alla
base dell’economia ma in condizioni di lavoro e vita intollerabili iniziò a essere interpretata dalla borghesia come
“questione sociale”, per la quale la repressione penale era insufficiente se non controproducente. Da qui la
preistoria del diritto del lavoro come tutela delle condizioni di lavoro più intollerabili, conosciuta come
“legislazione sociale” con due tappe: 1. Tutela minimale delle condizioni di lavoro delle c.d. mezze forze di
lavoro (donne e bimbi) e le categorie operanti in particolari realtà pericolose e/o salubri (es miniere …) 2.
Destinata a far da apripista al diritto della previdenza, rappresentata dall’istituzione dell’assicurazione contro gli
infortuni sul lavoro. il Codice Zanardelli del 1889 mette fine alla repressione finale, eliminando il reato di
coalizione e conservando come punibili solo violenze e minacce lesive della libertà di lavoro commesse in
occasione di conflitto. Apre quindi la stagione della tolleranza. Tolleranza perché vi è un’immunità penale ma
non civile: sciopero e serrata continuano a essere inadempimenti al contratto di lavoro come abbandono
ingiustificato del posto per il lavoratore e come rifiuto immotivato del lavoro offertogli, da parte del datore.
Immunità che però è limitata al lavoro svolto sotto datore privato. È nella stagione a cavallo fra la costituzione
del Partito socialista italiano (PSI) del 1892 e la fondazione della Confederazione generale italiana del lavoro
(Cgil) del 1906, che si radica il sindacato e si afferma il contratto collettivo a partire dall’ambito aziendale o
locale. Sempre del 1906 è il contratto Itala (futura Fiat)-Fiom. In più, in difetto di ogni intervento legislativo
tocca alla dottrina e alla giurisprudenza dare alle due figure centrali del diritto sindacale versi privatistiche. Nella

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legislazione sociale comincia ad acquisire autonomia la disciplina del rapporto di lavoro, sostenuta dalla
giurisprudenza dei Collegi dei probiviri istituiti nel 1893 per dirimere le controversie individuali fra datori e
lavoratori; ma non senza la mediazione della dottrina, soprattutto con Barassi e il suo “contratto di lavoro nel
diritto positivo italiano” (1901). Fallito il tentativo di una legge sul contratto di lavoro prende avvio il progetto di
una legge limitata al solo contratto di impiego che sfocerà dopo varie modifiche nella L. 562/1926, ma siamo
alla fase successiva già.

2. L’era fascista: autoritarismo e corporativismo


L’era fascista va dalla marcia su Roma del ’22, quando il Re conferì a Mussolini l’incarico di formare un nuovo
Governo con un passaggio parlamentare formalmente corretto e poi finita con la sfiducia allo stesso Mussolini,
votata dal Gran Consiglio del fascismo nel ’43.
Dopo il delitto Matteotti (deputato socialista che denunciò i brogli del ’24 che portarono a una maggioranza del
Partito nazionale fascista) Mussolini uscì dalla difensiva e fece passare le leggi fascistissime da parte di una
Camera rimasta senza opposizione, prima impedita a rientrare dopo la secessione dell’Aventino, poi dichiarata
decaduta.
Anche se rimangono Re e Statuto albertino, lo Stato muta in senso autoritario e corporativo, con forte carattere nazionalista,
centralista e colonialista. La creazione della figura del Capo di Governo responsabile davanti al Re ma non al Parlamento; la
costituzionalizzazione del Gran Consiglio del fascismo; la regolazione pubblicistica dell’organizzazione dell’azione sindacale con
la reintroduzione del reato di sciopero. Nel ’25 viene firmato a Roma il Patto di Palazzo Vidoni fra Confindustria e
Confederazione delle Corporazioni fasciste che si riconoscevano in via esclusiva la rappresentanza degli industriali e dei
lavoratori
La L. 563/26 “Disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro” rappresenta la prima tappa del corporativismo
fascista che riecheggia quello medievale basato su una regolamentazione condivisa fra maestri e apprendisti:
─ Al posto del mestiere una branca produttiva
─ Al posto di una regolamentazione di maestri e apprendisti, una disciplina concordata dalle organizzazioni
sindacali contrapposte
─ Al posto di un interesse comune uno condiviso che si prolunga falla branca produttiva alla Nazione Il fascismo
vede nel corporativismo lo strumento per eliminare il conflitto di classe. Corporativismo costruito dall’alto,
assoggettato a un regime pubb, sottoposto a controllo fiscale. Inizialmente limitato al sistema sindacale poi
esteso a quello politico, con la sostituzione nel 1939 di una Camera dei deputati (comunque fascistizzata) con la
Camera dei fasci e delle Corporazioni.
Il trucco per negare la libertà di associazione sindacale senza dirlo per evitare l’esclusione dall’OIL è stato consegnare un
sistema che privilegiasse i sindacati fascisti. Per il riconoscimento si prevede un quantitativo minimo, riguarda all’ambito
potenzialmente copribile dall’associazione; ma poi è previsto che il riconoscimento che attribuisca personalità giuridica e
rappresentanza legale per tutti gli appartenenti alla categoria di riferimento, possa essere concesso a un’unica associazione di
datori o lavoratori, che sarà legittimata a stipulare un contratto collettivo con efficacia erga omnes; nonché a ricorrere alla
Magistratura del lavoro. Chi lo merita è evidente dato l’obbligo di inserire negli Statuti fra gli scopi l’educazione morale e
nazionale degli iscritti; fra i requisiti dei dirigenti la moralità e la sicura fede nazionale … nonché si introduce una rigorosa
vigilanza governativa. L’associazione non riconosciuta può sopravvivere come associazione di fatto senza però capacità
contrattuale, ma pur così la sua sopravvivenza sarà resa impossibile
Il sistema contrattuale corporativo ammette solo il contratto di categoria cui dà efficacia erga omnes se
stipulato da associazioni riconosciute. Contratto che di certo meritava attenzione particolare in una fase in cui
viene privilegiata l’esigenza di una disciplina minima per un’intera categoria, ma che tale attenzione fosse
esclusiva dipendeva dal voler tener fuori dalle imprese qualsiasi presenza sindacale: c’è perfetta corrispondenza
fra soppressione delle Commissioni interne ed eliminazione del contratto aziendale. Viene creata una
Magistratura del lavoro, con l’attribuire a sezioni speciali delle corti d’appello la competenza sulla soluzione delle

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controversie in materi, sia sui diritti, che rientrano in quella interpretazione dei testi negoziali per cui i giudici
hanno la necessaria professionalità; sia sugli interessi che ricadono in una determinazione degli oneri
contrattuali per cui i magistrati non hanno alcuna specifica formazione, tanto che devono decidere con equità.
Le decisioni della Magistratura del lavoro sono efficaci erga omnes. Ritorna il divieto sanzionatorio penalmente
di sciopero e serrata ma con due differenze:
─ Il contesto ideologico e istituzionale è diverso, perché qui il sistema include il fenomeno sindacale, se pur
sottoponendolo a un regime pubblicistico calato e controllato dall’alto: il conflitto sarebbe estraneo allo spirito
cooperativo del corporativismo, ma al tempo stesso sarebbe sostituibile col ricorso alla Magistratura del lavoro,
per superare eventuale stallo in sede di rinnovo del contratto collettivo
─ Il divieto è differenziato in base a un duplice criterio, lo stato, pubblico o di rilievo pubblico, dei soggetti che
scendono in sciopero o attuano la serrata; e gli scopi perseguiti.
La Carta del Lavoro del 1927 costituisce documento fondamentale del corporativismo fascista, che ne espone i principi
fondamentali. Verrà inserita nel ’41 tra i principi generali dell’ordinamento giuridico anche se solo per l’interpretazione delle
leggi vigenti; verrà poi premessa nel ’42 al codice civile
Il codice penale “Rocco” (’30) riprende i divieti penali di sciopero e serrata di cui alla L. 563/26 negli artt. 502
ss. e 330 ss. Il codice è sopravvissuto al fascismo portando alla problematica sulla vigenza di tali articoli dopo
l’entrata in vigore della Costituzione con l’art 40. Sarà la Corte cost con la sua giurisprudenza affrontare tale
questione. Il codice civile, sempre in vigore, nelle Disposizioni sulla legge in generale all’art 1 elencava fra le
fonti anche le norme corporative, fra le quali i contratti collettivi di lavoro e le sentenze della magistratura del
lavoro, abrogate alla caduta del fascismo. Apriva poi il Libro V “Del Lavoro”, con un Titolo I sulla disciplina delle
attività professionali, articolato su 3 Capi, di cui il III dedicato al regolamento del contratto collettivo di lavoro.
Da qui la questione sul se l’abrogazione delle normative corporative comportasse quella dell’intero Capo III o se
qualche articolo potesse essere salvato. Cosa che ha poi fatto la giurisprudenza con art 2077, applicabile allo
stesso contratto collettivo di diritto comune così da renderlo dotato di efficacia reale verso il contratto
individuale derogatorio in peius.

3. Dalla caduta del fascismo all’Assemblea Costituente: la Costituzione


La data della caduta del fascismo è il 25 – 07 -1943, quando il Gran Consiglio votò la sfiducia a Mussolini
(anche se poi ci fu lo strascico della Repubblica di Salò guidata da lui). Uno dei primi atti del Governo Badoglio
fu abrogare le fonti corporative, senza però sciogliere le organizzazioni sindacali fasciste, poste sotto gestione
commissariale. Queste saranno soppresse solo un anno dopo quando il conflitto era al termine. Nel 1946 si
svolse la consultazione elettorale per la scelta fra Monarchia e Repubblica, con la vittoria di quest’ultima, e per
l’elezione dell’Assemblea Costituente. Assemblea dominata da 3 grandi partiti: DC, Psiup e Pci, ponendo così le
promesse di quel compromesso costituzionale fra ispirazioni cristiane, socialiste e comuniste che caratterizza la
nostra Costituzione. Una volta eletta la Commissione per la Costituzione, detta dei 75, articolata in 3
sottocommissioni, di cui sono la 2 e la 3 a farsi carico della materia sindacale. La bozza viene votata nel 47 ed
entra in vigore nel 1948.

4. Costituzione formale e Costituzione materiale: privatizzazione e promozione senza


regolamentazione. Lo Statuto dei lavoratori
Nell’art 39. 1 Cost è consacrata la libertà di organizzazione sindacale, senza alcuna limitazione o condizione;
mentre nel 39.2 viene confezionata una regolamentazione in apparenza destinata a solo a permettere l’efficacia
erga omnes della contrattazione di categoria. Infatti la preoccupazione emersa per la legge sindacale di
attuazione del 2 comma sarà proprio relativa alla sua incidenza sul 1 comma: l’apparente obbligo di

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registrazione ridimensionato ad onere così da permettere la presenza di sindacati non registrati, nonché la
conclusione di contratti collettivi di diritto comune.
La difficoltà più grande però viene dal meccanismo con cui il costituente concilia:
- L’input pluralista (possibile esistenza di più sindacati registrati per la stessa categoria)
- L’output monista (esistenza di un unico contratto collettivo efficace per l’intera categoria)
Il testo dell’art 40 testimonia poi il faticoso compromesso raggiunto perché il riconoscimento del diritto di
sciopero sembra essere presupposto implicito, dato che il suo esercizio deve avvenire nell’ambito delle leggi che
lo regolano. Il silenzio del legislatore sull’esercizio del diritto di sciopero darà vita a una forte supplenza
giurisprudenziale della Corte cost per gli scopi perseguibili e della magistratura ordinaria per i modi praticabili.
L’unità sindacale realizzata nell’ambito della Cgil fra le correnti comuniste, socialiste e cristiane ebbe definitiva
botta con la grande vittoria DC nel ’48. La causa prossima è la contrarietà allo sciopero politico proclamato da
una Cgil egemonizzata dalla maggioranza comunista e socialista. Proprio tale rottura avrebbe contribuito a
bloccare l’emanazione della legge attuativa dell’art 39.2 in forza della conta richiesta per la formazione della
delegazione trattante in sede di stipula del contratto collettivo di categoria con efficacia erga omnes.
L’attuazione della legge sindacale venne quindi bloccata dall’opposizione di una Cisl che poteva contare su Cc,
partito egemone. Se tale legge fosse andata avanti vi sarebbe stata:
─ Condanna Cisl e Uil a restare in minoranza nelle delegazioni trattanti costituite in proporzione agli iscritti
─ Consacrazione esclusiva della contrattazione di categoria a scapito di quella aziendale, centrale nella sua
elaborazione e influenzata dall’esperienza statunitense.
A riempire il vuoto normativo ci pensano dottrina e giurisprudenza, prendendo atto del fenomeno sindacale in
corso. Scorporato l’art 39 dal testo, se ne fa fondamento costituzionale di un’autonomia collettiva che trova
congeniali le forme privatistiche:
 Il sindacato come associazione non riconosciuta, con il rinvio ad artt. 36 ss c.c.
 Il contratto collettivo come contratto di diritto comune, con rinvio al diritto dei contratti e delle obbligazioni di
cui al Libro IV c.c.
Anche se poi tali forme sarebbero risultate insufficienti.
Il modello del pluralismo istituzionale della costituzione formale cede quindi a un pluralismo conflittuale emerso
dalla costituzione materiale: garantito ma non regolato dallo Stato con a criterio ordinatore un confronto in cui il
dialogo può sfociare anche in conflitto. Del precedente regime corporativo il costituente fa proprio un sistema
contrattuale che conosce solo il contratto di categoria, come testimonia art 39.2, preoccupato solo dell’efficacia
erga omnes del contratto. Infatti negli anni ’50 vi è un sistema molto centralizzato, con faticoso passaggio del
primato dall’accordo interconfederale al contratto nazionale, senza riconoscimento per il contratto aziendale.
Sarà la Cisl a lanciare l’idea di proprie rappresentanze nei luoghi di lavoro, come premessa alla realizzazione di
un sistema contrattuale con doppio livello, nazionale e aziendale. Le associazioni sindacali delle società
partecipate dallo Stato faranno nascere la contrattazione articolata con il Protocollo Intersind-Asap del ’62.
Questo è una contrattazione con un I e un II livello raccordati da clausole:
 Di rinvio  in base a queste è la contrattazione di I livello a definire attori, contenuti, tempi della
contrattazione di II livello, cui rinvia con riguardo al premio di produttività e inquadramento e alla c.d. job
evaluation.
 Di tregua  in forza di queste invece i trattamenti concordati ai rispettivi livelli non possono essere rimessi in
discussione durante la vigenza dei contratti.
La fortuna però fu scarsa per l’entrata nella prima crisi post-bellica e altri fattori. Nel clima anti-autoritaria
dell’Occidente con principali protagonisti gli studenti delle Università, l’“autunno caldo” italiano rimane peculiare
per avere come protagonista l’operaio di massa delle fabbriche del nord e per dare al futuro un lascito che
durerà. A fronte di un movimento spontaneo con proprie originali forme di organizzazione, lo stesso movimento

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sindacale si trova impreparato ed è quindi un Governo di centro-sinistra a predisporre lo Statuto dei diritti dei
lavoratori. Con l’attentato a Piazza Fontana del ’69 vi sarà l’inizio del “decennio di sangue”, all’insegna del
terrorismo e il sindacalismo confederale avrà ruolo primario nel contrastarlo. Secondo una lettura ormai
classica, la L. 300/1970 ha due anime:
1. Costituzionalista  data dal Titolo I e II che vogliono garantire il rispetto dei diritti fondamentali anche
dentro i cancelli della fabbrica
2. Promozionale  costituita dal Titolo III che vuole assicurare l’ingresso dei sindacati nei luoghi di lavoro.
La discontinuità è data dalla promozione selettiva perché la costituzione di rappresentanze sindacali aziendali è
riservata alle organizzazioni aderenti alle Confederazioni maggiormente rappresentative, che avrebbero dovuto
coincidere con Cgil, Cisl e Uil. Il che avrebbe permesso loro di canalizzare e sintetizzare la protesta rendendola
negoziabile con la controparte datoriale e anche con il Governo. La Corte cost recepisce nel 1974 la finalità
sottesa alla promozione selettiva di privilegiare le confederazioni storiche, come le soli capaci di farsi portavoce
delle esigenze espresse nei luoghi di lavoro, e riconosce come diritto lo sciopero di imposizione politico –
economica perché “mezzo che, per forza da valutare nel quadro negli strumenti di pressione usati dai vari
gruppi sociali, è idoneo a favorire il perseguimento dei fini di cui al 2 comma art 3 Cost”.

5. Dalla supplenza sindacale alla concertazione dei primi anni ’80.


La stagione della c.d. conflittualità permanente (da ’69 – 73) è detta così perché conosce una mobilitazione
continua, secondo una sorta di circolarità contrattuale, azienda/categoria/azienda  si fonda nella grande
azienda, si generalizza la conquista estendendola alla categoria, si ricomincia nella grande azienda. Ne è attore
sociale l’operaio di massa (di recente immigrazione dal sud, con liv professionale medio-basso e lavoro ripetitivo
..) e ne è protagonista istituzionale il Consiglio di azienda, unitario ed elettivo come la Commissione interna che
sostituisce, ma con un’elezione effettuata non sull’intera azienda ma sui singoli reparti, che nominano i loro
delegati che si parleranno nel Consiglio; nonché con un potere contrattuale nell’ambito di un recuperato
controllo da parte del sindacato. Salta il raccordo fra i due livelli assicurato dalla clausole ↑ private ormai di ogni
rilievo anche politico, e il contratto collettivo diviene quasi un “armistizio”. La parola d’ordine è egualitarismo,
che porta da aumenti salariali effettuati non più in percentuale ma in cifra fissa così da produrre il c.d. effetto
appiattimento salariale, con un progressivo ridursi del rapporto esistente fra il livello retributivo più alto e quello
più basso. Il movimento confederale cerca di riequilibrare la perdita di presa alla base con l’apertura di una
nuova frontiera, cioè la pressione sul Governo su un’agenda che dal sociale (es sanità, pensioni …) si proietta
sull’economico (fisco …). Si considera quindi portatore di un interesse generale che può promuovere e far
prevalere, in supplenza dei meccanismi istituzionali rivelatosi non all’altezza dei tempi. Il 1977 è un anno
fondamentale, perché vede l’emergere contemporaneo di un duplice problema:
─ Quello dell’effetto inflazionistico ed appiattente degli automatismi, dagli scatti di anzianità all’istituto della
scala mobile destinato a segnare l’intero decennio ’80 fino alla sua formale fine nel ‘92
─ Quello dell’impatto double face di un’inoccupazione giovanile e una disoccupazione adulta, che cresce sempre
più.
La concertazione decolla formalmente con i Protocolli Spadolini dell’81 e Scotti dell’83, per poi bloccarsi con il
“mancato accordo di San Valentino” dell’84. Consiste in un concerto triangolare Governo – parti sociali
(organizzazioni datoriali e sindacali), dove il Governo non è mediatore e garante ma partecipe di uno scambio
politico; ed è concluso da un testo, di solito Protocollo, articolato su un preambolo sulle comuni finalità, un
impegno programmatico del Governo per un futuro incerto intervento legislativo, un accordo interconfederale
delle parti sul loro reciproco rapporto. Tale scambio è immateriale di reciproca legittimazione che a seconda
della congiuntura politico-economica, può avvantaggiare più lo Stato o le parti sociali; ma si realizza come

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scambio materiale fra le risorse dello Stato (normative di sostegno per i sindacati dei lavoratori …) e quelle delle
parti sociali (specie salariale …). Scambio che si intravede già nell’accordo interconfederale del ’77, ma che si
ritrova compiuto nel Protocollo Scotti dell’83  qui il Governo mette a disposizione risorse economico-normative
significative per i lavoratori e dei datori di lavoro, di contro a un impegno fra le parti sociali e decelerare la scala
mobile e a disciplinare la contrattazione collettiva, rafforzandone l’articolazione con l’introduzione delle c.d.
clausole di rinvio e di specializzazione e contenendone la dinamica. Il tentativo portato avanti dal Governo di un
nuovo protocollo nell’84 non ha il risultato voluto. C’è un lungo confronto triangolare, chiuso con un disaccordo
interno al movimento confederale tra Cisl-Uil e componente socialista Cgil e Cgil dall’altra  mancato accordo di
San Valentino. Di certo ha giocato la scarsezza delle risorse offerte dal Governo e le prevedibili reazioni della
base a un ulteriore decelerazione della scala mobile, ma più ancora la decisiva opposizione del Pci al primo
Governo Craxi. Dato il mancato accordo, il Governo interviene con il decreto che tagli in parte l’indennità di
contingenza, su cui Pci promuove un referendum abrogativo, fallito, nell’85. Nel decennio ’80 la politica
promozionale dello Statuto fa un salto di qualità, con l’investire la stessa contrattazione collettiva. Certo la
legge quadro sul pubblico impiego le dà rilevanza solo perché recepita in decreti presidenziali, ma apre
comunque la via alla contrattualizzazione genuina del decennio dopo. E la L. 56/87 sul mercato del lavoro è la
prima esemplificazione di tale contrattualizzazione delegata destinata a dilagare, col riconoscere alle
organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative la possibilità di contrattare deroghe all’elenco tassativo
di ipotesi di legittima apposizione del termine di cui alla L. 230/62.

6. Concertazione e stabilizzazione economica negli anni ’90


Nelle leggi sull’esercizio di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla c.d. privatizzazione del pubblico
impiego, la chiamata in causa della contrattazione collettiva di diritto comune è spinta alla misura estrema di
un’efficacia generalizzata. Nel c.d. pacchetto Treu è la contrattazione delegata ad essere valorizzata nella
disciplina del lavoro interinale e dell’orario di lavoro, alla luce però della nuova nozione di organizzazioni
comparativamente più rappresentative. La fine del secolo è segnata da una grande crisi finanziaria e monetaria,
aggravata perché tale da compromettere l’osservanza degli obiettivi e degli indicatori di convergenza economica
indicati a Maastricht nel ’91. Crisi che si congiunge con quella politico – istituzionale che sfocia prima in governi
tecnici e poi nel cambio di sistema elettorale in senso maggioritario. La scelta della concertazione sarà fatta per
convenienza dai governi tecnici per compensare la loro carenza di legittimazione popolare e per convinzione dai
governi di sinistra e sarà tradotta in una serie di Protocolli. Col protocollo Amato del ’92 i sindacati accettano
l’abolizione dell’istituto della scala mobile e una moratoria della contrattazione aziendale. Nel ’93 viene siglato il
protocollo Ciampi, la cui prima parte è detta Costituzione delle relazioni collettive. In vista di una politica dei
redditi anti-inflazionista da perseguire dal Governo e parti sociali con azione comune ispirata a un tasso di
inflazione programmato (TIP), viene istituzionalizzata la concertazione e riformata la contrattazione collettiva.
 Per la concertazione  viene contemplata una duplice sessione, la prima sul documento di programmazione
economico – finanziaria e la seconda sulla legge finanziaria.
 Per la contrattazione collettiva  l’accordo interconfederale incorporato nel protocollo conferma l’articolazione
su un doppio livello con coordinamento rimesso alle clausole di rinvio e di specializzazione
Il rinnovo del contratto nazionale cambia a seconda del trattamento che ne è oggetto, quadriennale per il
trattamento normativo, biennale per quello economico. Il che si spiega col fatto che l’adeguamento del salario
di categoria al tasso effettivo di inflazione non è più assicurato in tempo reale e automaticamente dall’istituto
della scala mobile, ma lo può essere solo in sede di rinnovo del trattamento economico. Se al rinnovo biennale
del contratto nazionale bisogna difendere il potere d’acquisto del salario di categoria, al contratto aziendale
spetta redistribuire a favore dei dipendenti l’incremento di produttività o di redditività dell’azienda, in
un’apposita voce incentivante. Con l’accordo sociale per lo sviluppo e l’occupazione del ’98, c.d. Patto di Natale,

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la concertazione viene ulteriormente istituzionalizzata, fino a farle assumere il ruolo di strumento di
coordinamento tra ordinamento nazionale e UE. Il Patto di Natale prevede una previa consultazione delle parti
sociali, quando il Governo decide di dar vita a un’iniziativa legislativa in materia rilevante per il lavoro. Essa
conosce una duplice variante:
1. Una debole  per le materie di politica sociale con un impiego di spesa a carico del bilancio di Stato, che non
va oltre il confronto Governo – parti sociali
2. Una forte  per le materie che incidono direttamente nei rapporti tra le imprese.
Una volta definito l’indirizzo che l’iniziativa legislativa deve rispettare, le parti possono chiedere di disciplinare
direttamente la materia in questione con un accordo che, se raggiunto nel tempo stabilito e nel rispetto
dell’input iniziale, impegna il Governo a promuoverlo e sostenerlo nelle sedi parlamentari. Impegno politico che
poi il Parlamento ha fatto proprio. Più innovativo è di certo il passo dell’accordo che definisce le intese fra parti
sociali, lo strumento prioritario perché Governo e Parlamento adempiano agli obblighi comunitari, soprattutto
per le direttive emanate a seguito del dialogo sociale. Riproponendo a livello decentrato il metodo della
concertazione, i contratti d’area della L. 662/96 vengono stipulati dalle amministrazioni centrali e locali con le
organizzazioni sindacali e sono diretti a creare occasioni per il reinserimento di disoccupati, cassaintegrati,
lavoratori in mobilità e impiego di giovani in nuove attività.
I contratti di ri-allineamento, o di gradualità, puntano invece a regolarizzare il lavoro sommerso col permettere
alle imprese che li recepiscono la corresponsione di salari al di sotto dei minimi tabellari fissati dai contratti
nazionali.

7. Crisi economica e alternanza politica nel primo decennio del secolo


Il Governo Amato chiude lasciandosi dietro un grande atto  L. cost 3/2001 che riforma il Titolo V Parte II della
Costituzione.
Il Secondo Governo Berlusconi delinea la sua politica di lavoro con il Libro Bianco del 2001, in cui viene:
─ Ridimensionata la concertazione a dialogo sociale, con recupero del termine europeo
─ Esclusa ogni legge sulla rappresentanza sindacale
─ Prefigurata una regionalizzazione del diritto di lavoro
─ Rivista l’inderogabilità della norma legale e della regola collettiva a favore della contrattazione collettiva
─ Valorizzata la formazione professionale La concertazione però riprenderà, anche se non verrà così nominata.
A conferma della difficoltà emersa già col mancato patto di San Valentino dell’84 di poter contare sulla
disponibilità della Cgil, allorché il partito di riferimento, che ora è Ds, sia all’opposizione, questa contesterà
duramente il Patto per l’Italia. L’obiettivo prioritario è costituito dall’incremento del tasso di occupazione,
secondo gli obiettivi europei. Il Patto interviene su 3 tematiche fondamentali:
1. Riduzione livelli di tassazione
2. Ridefinizione degli strumenti di investimento nel mezzogiorno
3. Riforma del mercato del lavoro e le sue tutele, secondo quanto auspicato dal Libro bianco  in particolare vi
è la proposta di deroga temporanea e sperimentale dell’art 18 St. lav. in tema di licenziamenti individuali, tema
su cui il Governo e Cgil raggiungono temi aspri sino a che quest’ultima rifiuta di sottoscrivere il Patto.

Le difficoltà del Governo nel tenere fede agli impegni assunti anche per il peggioramento della condizione
economica internazionale, sanciranno nei fatti l’abbandono del Patto siglato, col passaggio da una fase di
concertazione triangolare a una di trattativa bilaterale fra le parti sociali, fra cui la stessa Cgil. Col passare del
tempo si farà sempre più stridente il contrasto fra adozione di misure urgenti, per far fronte a un’emergenza
ormai cronica, e dall’altro grandi riforme come la Biagi, la Fornero sul mercato del lavoro e la Brunetta sul

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lavoro pubblico, che peraltro faticano a raggiungere un apprezzabile livello di effettività. Si ha poi l’impressione
che tali riforme contino su un effetto vetrina per i ministri e i rispettivi Governi, tanto che non riescono ad avere
il tempo necessario per consolidarsi in giurisprudenza e nella prassi. Invece, la proposta di una ricca tipologia
contrattuale per restituire flessibilità all’assunzione del Libro Bianco, troverà riscontro nella L.d. 30/2003 cui
seguirà il D. Lgs. 276/2003 c.d. legge Biagi che, se considerata in prospettiva sindacale, rileva per valorizzare al
massimo la contrattazione delegata nella gestione delle tipologie contrattuali introdotte. Non per nulla la
contrattazione torna in auge col 2 Governo Prodi del 2006 che avrà fine anticipata nel 20087. Il protocollo del
2007 detto del welfare e destinato ad avere parziale attuazione nella L. 247/2007 riguarda le problematiche
delle pensioni e degli ammortizzatori sociali che verranno riprese nella doppia riforma Fornero del Governo
Monti.
Ed è col Terzo Governo Berlusconi 2008 che viene varata la riforma Brunetta del lavoro pubblico caratterizzata
da una ri-legificazione della disciplina con conseguente riduzione dell’area della contrattazione collettiva. È però
ormai matura la crisi del Protocollo del ’93 per la sua stessa efficacia anti-inflattiva, prodotta da una crescita
delle retribuzioni commisurata a un tasso di inflazione programmata sistematicamente inferiore a quello
dell’inflazione elettiva, con conseguente perdita del loro potere d’acquisto. Del che tutte e 3 le Confederazioni
sono consapevoli tanto da sostituire l’inflazione programmata con quella prevista come effettiva, dividendosi
però su come calcolare tale inflazione.
Quello fra Cgil e Cisl diventa un contrasto sempre più difficile da sanare, tanto che verrà siglato dal Governo e
dalle parti sociali, l’accordo interconfederale quadro “separato” perché non sottoscritto dalla Cgil, che rivede il
sistema contrattuale rendendo triennale e unico il rinnovo del contratto collettivo nazionale, per il trattamento
sia economico che normativo. Nonché, prevedendo specifiche intese a modificare istituti regolati nel contratto
collettivo nazionale, per ragioni generali e generiche, quali date dal “governatore direttamente nel territorio o in
azienda situazioni di crisi o per favorire lo sviluppo economico”. Per la sua attuazione verrà poi concluso tra le
parti sociali l’accordo interconfederale del 2009, anche esso separato. Si giunge poi all’accordo interconfederale
unitario nel 2011, che non fa cenno a un nuovo indice previsionale e a un diverso modo e tempo di rinnovo del
contratto collettivo nazionale; ma si fa carico di rendere unitaria, con procedura democratica, l’approvazione
del:
 Contratto collettivo nazionale  si prende a prestito dal settore pubblico la regola per cui la partecipazione al
tavolo negoziale nazionale esige di superare una soglia minima di rappresentatività, calcolata su una media
associativa/elettiva; ma non la formula per cui l’efficacia del testo finale richiede una sottoscrizione di una
maggioranza di sindacati rappresentati, calcolata sulla percentuale di deleghe e voti da loro posseduta. Solo che
per sapere se tale soglia è stata superata c’è bisogno di una previa certificazione degli associati e votanti, cosa
difficile in una realtà frammentata come la privata; e per evitare una contrattazione separata va condizionata
l’efficacia a un’approvazione maggioritaria.
 Contratto collettivo aziendale  è suggerita una soluzione di sostanza. Si distingue a seconda che le
rappresentanze di base presenti siano quelle:
1. Associative protette da art 19 St. lav. (RSA)  occorre il consenso di tante di esse quante ne servono per
avere la maggioranza complessiva delle deleghe per i contributi sindacali possedute, salvo sia richiesto un
referendum confermativo da parte dei lavoratori
2. Elettive (RSU) previste dal Protocollo ’93  occorre il voto favorevole della maggioranza dei suoi
componenti. Sulla questione della deroga del contratto collettivo nazionale da parte dell’aziendale, la formula
compromissoria raggiunta riserva ai contratti collettivi nazionali la facoltà di autorizzare quelli aziendali “a
prevedere specifiche intese” modificative delle loro regolamentazioni.
Il Ministro del Lavoro Sacconi nel 2011 riuscì a varare col D.L. 138/2011 convertito in L. 148/11 un art 8 che
legittima e dota di efficacia generale le specifiche intese in deroga alla disciplina di categoria e a gran parte

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della normativa di legge, realizzate da contratti collettivi c.d. di prossimità, territoriali e aziendali, “stipulati da
organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative”, sempreché sottoscritte dalle loro
rappresentanze aziendali “sulla base di un criterio maggioritario”. La dottrina è stata critica, per la facoltà
riconosciuta alla contrattazione aziendale di derogare alla legge, su diversi istituti, tanto da rimettere in
discussione la regola del diritto del lavoro di un’inderogabilità in peius della legge da parte della stessa
contrattazione collettiva. Se è vero che la legge già ha autorizzato la contrattazione collettiva a derogarla, l’ha
fatto in modo specifico e limitato con ratio puntuale; mentre qui l’art 8 lo fa tanto in via generale e generica da
sollevare anche dubbi sulla sua costituzionalità. Quello che però acquista maggiore attualità risulta essere la
diversa distribuzione di competenze fra due livelli, col nazionale ridimensionato ad accordo quadro, cioè con
principi e criteri direttivi o arricchito di clausole di rinvio o rimpolpato di deroghe, sì da lasciare spazio ampio
all’aziendale. La valorizzazione del livello aziendale va oltre l’originaria ragione di permettere ai lavoratori di
partecipare alla crescita di produttività o redditività dell’azienda, proprie di una fase di espansione, perché
risulta necessaria dalle profonde ristrutturazioni e riorganizzazioni richieste da una fase di crisi.
Ne è testimonianza la vicenda FIAT, che va dall’accordo di Pomigliano del 2010 al contratto di I livello sempre
del 2010. Essa ha assunto importanza per la novità della soluzione offerta: la costruzione di un sistema
sindacale autonomo e autosufficiente, con a fonte costitutiva un contratto, definito di I livello, pur risultando di
gruppo, limitato alle società Fiat quindi distinto da quello di categoria. Ciò con la finalità di mettere al sicuro da
una nuova organizzazione del lavoro dalla contestazione interna di una Fiom agguerrita negandole il diritto di
mantenere proprie rappresentanze aziendali. Una volta esclusa a priori dalla firma del contratto di I livello, le è
tolta la possibilità di invocare a suo favore art 19 St. lav. essendo quello l’unico contratto applicato nelle unità
produttive Fiat.

8. L’autoriforma del sistema sindacale e l’Accordo interconfederale 10 gennaio 2014 (c.d.


Testo Unico sulla rappresentanza sindacale)
Consapevoli che bisognava dare attuazione all’accordo del 2011e di regolare il dissenso intersindacale anche per
il contratto collettivo nazionale di lavoro, le Parti stipulano nel 2013 un nuovo Protocollo unitario. Questo
stabilisce la certificazione della rappresentatività di ogni organizzazione sindacale: le organizzazioni che risultino
in base alla media tra criterio associativo ed elettivo, una rappresentanza non inferiore al 5% sono ammesse
alla contrattazione collettiva nazionale. Queste poi dovranno decidere con proprio regolamento le modalità di
definizione della piattaforma e della delegazione trattante, affrontando il problema di eventuali conflitti e dei
rapporti coi sindacati minoritari. Il protocollo accoglie per la contrattazione collettiva nazionale il principio
maggioritario prevedendo che la parte datoriale debba favorire la piattaforma presentata da organizzazioni
sindacali con un livello di rappresentatività almeno del 50%+1; ed anche che i contratti collettivi nazionali
sottoscritti da organizzazioni sindacali con il 50%+1 di rappresentatività del settore siano efficaci ed esigibili per
tutti i lavoratori della categoria, previa consultazione certificata degli stessi lavoratori a maggioranza semplice.
L’Accordo interconfederale del 2011 e il Protocollo d’Intesa del 2013 sono confluiti nel nuovo Accordo
interconfederale del 2014 firmato da Confindustria, Cgil, Cisl e Uil (T.U. sulla rappresentanza sindacale). Questo
era articolato in 4 parti:
 1-3  per regolare la certificazione della rappresentatività ai fini della contrattazione collettiva di categoria, le
rappresentanze sindacali aziendali e quelle unitarie, la titolarità ed efficacia della contrattazione collettiva
nazionale di categoria e aziendale
 4  diretta a introdurre procedure di raffreddamento e sanzioni in caso di inadempimento
L’impianto complessivo lascia trasparire l’ambizione “di un’autosufficienza del T.U. rispetto alla legge sì da
prevedere un’esigibilità rimessa a una procedura sanzionatoria”.

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La sua messa a regime risulta quindi rimessa alla stessa determinazione delle parti stipulanti o aderenti, che
per ora faticano, sì da invogliare il legislatore a sollecitarle a costo di un suo intervento più o meno recettizio
rispetto allo stesso T.U.

9. Dalla L. n. 92/2012 al Jobs Act: L.d. n. 183/2014 e relativi decreti delegati


La L. 92/2012 c.d. riforma Fornero, è stata sollecitata e poi lodata da Ue e Bce, come ideale per curare un
mercato caratterizzato dal dualismo cronico fra insiders e outsiders, con la somministrazione di una dose di
maggior rigidità in entrata di contro a una maggiore flessibilità in uscita. È però durata poco dato il sopravvenire
del Jobs Act, solita accelerata legislativa che sembra accompagnare ogni variazione della compagine di Governo,
con un eccesso di riforme delle riforme. Il punto di maggior rilievo dal punto di vista sindacale sarebbe dovuto
essere art 4.62-63 L. 92/2012 col conferimento di una delega, rimasta inattuata, per emanazione di decreti
autorizzanti la contrattazione collettiva a introdurre una gamma di forme di partecipazione ampia, tanto da ri-
estendersi dalla consultazione alla codeterminazione. Le debolezze strutturali del T.U. sulla rappresentanza
sindacale si cumulano con la riduzione formale e sostanziale del movimento sindacale come protagonista
politico. Col varo del Jobs Act da parte del Governo Renzi sembra che lo spazio per un intervento del sindacato
che possa incidere sulle politiche dell’economia e dell’occupazione si sia chiuso. Il piano per il lavoro, con
proposte per la ripresa e lo sviluppo del sistema italiano, composto dal decreto 34/2014 e dalla legge delega
183/2014 è stato infatti approvato senza coinvolgimento delle organizzazioni sindacali che sono state escluse
dall’iter di elaborazione. Così come per la stesura dei decreti delegati in cui vi è stata emarginazione dello
stesso Parlamento.
Il che non toglie che propri il D.lgs. 81/2015, dedicato al testo organico semplificato sulle tipologie contrattuali e
al nuovo regime dello ius variandi contenga vari rinvii alla contrattazione collettiva, con una precisazione nell’art
51 per cui quando si parla nel decreto di contratti collettivi senza ulteriori precisazioni ci si riferisce ai contratti
collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più
rappresentative ed ai contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali o dalla
rappresentanza sindacale unitaria. Viene così riservato l’oligopolio della c.d. contrattazione delegata ai sensi del
decreto alle organizzazioni sindacali selezionate con la nozione della maggior rappresentatività comparativa,
senza risolvere il problema del se ne basti una o ce ne vogliano di più per rendere efficaci i contratti e nei
confronti di chi. E la legittimazione a sottoscrivere a livello aziendale contratti oggetto dei rinvii è riconosciuta a
dette organizzazioni sia per le loro istanze nazionali e territoriali che alle loro rappresentanze aziendali o alle
rappresentanze unitarie, con una tendenziale aziendalizzazione.

CAPITOLO 4: I SINDACATI E LE ORGANIZZAZIONI IMPRENDITORIALI COME ASSOCIAZIONI NON


RICONOSCIUTE
A. Modelli organizzativi ed evoluzione storica
1. Linee generali
Le caratteristiche organizzative dei sindacati dei lavoratori e degli imprenditori sono influenzate dalle vicende
storiche e dal contesto generale dei rapporti di lavoro di ogni sistema.
Dati tipici della situazione italiana:
 Lo sviluppo tardivo dell’organizzazione sindacale in corrispondenza di un ritardo del processo di
industrializzazione e la grande fragilità del nostro sistema economico e con la debolezza del mercato del lavoro.
Fattori che hanno influito molto sui caratteri organizzativi dei sindacati dei lavoratori: debolezza e informalità
dell’organizzazione, prevalenza delle strutture territoriali – orizzontali su quelle di categorie e mestiere, con

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tendenze alla centralizzazione e infine assenza del sindacato dai luoghi di lavoro.
 La forte politicizzazione, intesa come connotazione ideologica ed anche come connessione con i partiti politici.
Da qui la tradizionale divisione tra le grandi centrali sindacali. L’organizzazione sindacale degli imprenditori non
risente di simili divisioni anche se differenze politiche hanno a volte pesato. La pluralità organizzativa
riscontrabile fra gli imprenditori risponde a criteri diversi: settore economico (Confindustria, Confcommercio,
Confagricoltura), le dimensioni di imprese, il carattere privato o pubblico dell’imprenditoria.
Per il resto la struttura organizzativa di sindacati di lavoratori e imprenditori risponde a modelli largamente
comuni.

2. I modelli organizzativi
La struttura sindacale si basa su una duplice linea organizzativa, entrambe compresenti in ogni centrale
sindacale:
1. Verticale  ha come elemento di aggregazione l’appartenenza dei lavoratori e delle imprese da cui
dipendono, allo stesso settore o categoria produttiva (es sindacato o associazione dei bancari)
2. Orizzontale  comprendono invece tutti i lavoratori e le imprese dei vari settori merceologici presenti in un
certo ambito geografico Le due linee organizzative coesistono entro ogni sindacato, ma consistono ciascuna di
varie strutture o istanze, di diversa dimensione, dal luogo di lavoro, alla zona territoriale circoscritta fino
all’ambito nazionale. Nella nostra esperienza storica l’aggregazione secondo il mestiere dei lavoratori ha avuto
limitata diffusione.
Attualmente il carattere di sindacato di mestiere è proprio del sindacato dei:
─ Dirigenti  per quelli privati si segnala la Cida, confederazione composta da varie federazioni di settore che stipulano
distinti contratti collettivi; mentre per i pubblici la Confdir
─ Quadri  stenta cmq a farsi strada Organizzazioni per mestiere anche di operai sono presenti anche nel settore pubblico e
dei servizi (es scuola). Ad essi si affiancano organizzazioni come la Conbas che, inizialmente spontanee e provvisorie hanno
acquistato carattere e forma stabile.
Le strutture orizzontali culminanti al vertice nella confederazione, che è vertice anche delle strutture verticali,
hanno sempre avuto importanza nel sindacalismo italiano anche se con diverse accentuazioni tra le 3 maggiori
confederazioni: massima nella Cgil e minore in Cisl e Uil. L’importanza delle strutture orizzontali non è minore
nell’organizzazione di imprenditori ma sempre come effetto di adattamento e imitazione.

3. L’organizzazione sindacale: evoluzione storica


L’evoluzione sindacale ha fasi significative per l’intero assetto delle nostre relazioni industriali. Nell’immediato
dopoguerra e per oltre 10 anni la condizioni socio-politiche (clima guerra fredda tra partito al governo e
opposizioni, tensioni sociali, politiche pubbliche di controllo e repressione sindacale) ed economiche
(ricostruzione economica sostenuta dal potere pubblico, alti livelli disoccupazione) contribuiscono a mantenere il
sindacato in situazione di debolezza. Col boom economico la crescita aiuta a rafforzare la posizione dei
lavoratori sul mercato del lavoro, effetto rafforzato dal mutato quadro politico, dall’atteggiamento dei pubblici
poteri più favorevole all’organizzazione sindacale, nonché da fenomeni di modernizzazione sociale. Inizia il
processo di avvicinamento tra le 3 maggiori confederazioni; le posizioni di politica sindacale si evolvono;
aumenta l’attenzione ai temi di impresa e contrattazione aziendale. La forza del sindacalismo dei lavoratori nel
decennio successivo arriva al suo apice mentre la stabilità politica e la capacità di controllo sociale del potere
pubblico sono al minimo. Il decennio ’90 eredita dal passato i fattori di crisi di rappresentatività del sindacato.
Fattori evidenziati anche dall’andamento delle adesioni alle organizzazioni Cgil, Cisl e Uil che mostro il perdurare
del processo di sostituzione fra iscritti attivi e pensionati; la difficoltà di rappresentare figure con professionalità
specializzate o figure deboli; la contrazione dei tassi di sindacalizzazione. La situazione si complica per la

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concorrenzialità tra sigle sindacali sviluppatesi all’esterno delle grandi centrali confederali ma anche al loro
interno come effetto della crescente crisi dell’unità d’azione sindacale. Il mutato contesto economico e la
concorrenza globale hanno aiutato a indebolire il sindacato per quanto riguarda la consistenza numerica degli
associati e l’efficacia rappresentativa. Le 3 maggiori confederazioni hanno dimostrato buona tenuta per il
numero assoluto di affiliati e hanno registrato alto numero di pensionati, mentre hanno debole presenza nei
settori dei servizi, nelle piccole imprese e ancor meno nelle nuove professionalità e nei giovani. Tendenza
organizzativa rilevante consiste nel processo di accorpamento delle strutture categoriali. La crisi rappresentativa
e le tensioni fra sindacati hanno reso sempre più urgenti l’innovazione delle strategie politiche e organizzative
ma anche una riforma delle regole del gioco, prevedendo criteri di rappresentatività effettivi dell’organizzazione
sindacale. Condizione questa essenziale per poggiare il sistema contrattuale su basi solide e metterlo in grado di
reggere il peso della regolazione crescente del conflitto. Esigenza che ha avuto risposta in primis per il lavoro
pubblico e poi per il settore privato.
La fissazione per legge dei criteri minimi di rappresentatività è cmq solo un aspetto della complessa opera di
adeguamento organizzativo e culturale cui il sindacato si trova di fronte, se vuole contrastare la crisi di
rappresentanza.

4. L’attuale struttura organizzativa del sindacato


La struttura del sindacato appare complessa ed è basata su 4 livelli:
1. Alla base, le strutture presenti nei luoghi di lavoro  delegati nel settore privato, sezioni sindacali o simili nel
pubblico. Nell’agricoltura ed edilizia, dove manca uno stabile inserimento dei lavoratori in unità produttive, la
struttura base è la lega territoriale
2. Livello provinciale o comprensoriale  sono presenti le strutture verticali, i sindacati provinciali delle varie
categorie e le strutture orizzontali, variamente denominate Camera del Lavoro per Cgil, Camera sindacale per
Uil, Unioni sindacali per Cisl
3. Livello regionale, sia orizzontale, sia di categoria. È provvisto di poteri crescenti anche in corrispondenza del
decentramento amministrativo e regionale
4. Ambito nazionale  in cui operano le strutture di vertice dell’intera organizzazione, le federazioni nazionali di
categoria e la confederazione.
La distinzione tra strutture orizzontali e verticali corrisponde a una divisione di compiti nel sindacato:
 Strutture orizzontali  fissare gli indirizzi fondamentali di politica sindacale, economica, contrattuale per tutta
l’organizzazione, di cui rappresentano l’istanza di direzione politica e di rappresentanza verso poteri pubblici.
 Strutture verticali  sono competenti per la conduzione dell’attività contrattuale e delle iniziative di rilievo
settoriale.
Sul piano finanziario le diverse strutture sindacali sono dichiarate autonome da tutti gli statuti, che escludono
anche una responsabilità delle strutture superiori per le obbligazioni assunte dalle inferiori.
La tipologia di organi delle varie strutture riproduce quella delle associazioni
Il sistema di finanziamento dei sindacati è complesso. Le principali fonti interne sono:
 La quota tessera, divisa tra le varie strutture ma che è principale introito delle centrali confederali
 Contributi associativi, versati di solito mensilmente dei lavoratori
 Altra fonte interna è la quota di servizio, trattenuta dalla retribuzione ai lavoratori per l’azione svolta dal
sindacato, a volte regolarmente altre volte in modo saltuario sotto forma di quote contratto.
Uno dei caratteri tradizionali del sindacalismo italiano è la sia organizzazione su basi pluralistiche, cioè in
organizzazioni distinte a seconda di concezioni culturali, ideologiche e di ascendenze politiche. Importante è
anche la contrapposizione tra sindacalismo confederale e autonomo

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Nella Cgil sono presenti componenti o cmq ispirazioni legate ai partiti della sinistra italiana. La Cisl di ispirazione cattolica
comprende lavoratori anche di aree diverse e non allineati a posizioni politiche definite. L’Uil riunisce tradizionalmente
componenti socialiste, repubblicane e socialdemocratiche
I rapporti tra le maggiori confederazioni hanno avuto alterne vicende. Dopo la tensione polemica degli anni ’50
è iniziato un avvicinamento in primis nella pratica contrattuale. Le divisioni tradizionali sul ruolo del sindacato e
sui rapporti con i partiti politici si dimostrano ostacoli insuperabili per l’unità e le 3 confederazioni ripiegano sulla
conclusione di un Patto federativo (’72), come fase transitoria verso l’unità organica. Ma i contrasti degli anni
’80, culminanti nella rottura dell’84 fra Cgil, Cisl e Uil sull’accordo antinflazione, hanno portato allo scioglimento
della Federazione. Da allora i rapporti sono stati retti dalla pratica dell’unità di azione, soggetta anche essa ad
alterne vicende. Nonostante abbia sostenuto gli accordi di concertazione degli anni ’90 nel decennio successivo
si è trovata esposta a tensioni, manifestatesi soprattutto in sede contrattuale. Il sindacalismo autonomo
tradizionale ha avuto in Italia importanza limitata ma non marginale. Le difficoltà recenti delle maggiori
confederazioni e della contrattazione collettiva sono i motivi primi della ripresa di iniziativa del sindacato
autonomo. Durante gli anni ’80 in alternativa al sindacalismo confederale e autonomo ha preso consistenza
soprattutto nel settore terziario un soggetto sindacale multiforme, di tipo movimentista o professionale, riuniti
cmq in forma confederale. Sul finire degli anni ’90 la crescita del lavoro parasubordinato ha indotto le grandi
centrali sindacali ad attrezzarsi organizzativamente per un intervento nell’area di lavoro atipico. Sono nate così
3 nuove sigle:
Organismi federati delle organizzazioni sindacali
Nidil (Nuove identità di lavoro) per Cgil storiche che, per il carattere “despazializzato” dei
Alai (Associazione lavoratori atipici e interinali) per Cisl lavori che vogliono rappresentare sono destinate a
Cpo (Coordinamento per l’occupazione) per Uil tagliare trasversalmente i vari settori merceologici.
Nuove strutture che però sono lungi dall’essersi
consolidate e hanno debole.

5. L’organizzazione dei lavoratori nel luoghi di lavoro: sviluppo storico


I sindacati italiani sono a lungo rimasti privi di una presenza diretta nei luoghi di lavoro. L’espressione degli
interessi collettivi dei lavoratori in azienda è stata affidata a una rappresentanza, la commissione interna (CI),
strutturalmente diversa dal sindacato perché costituita non su base associativa ma elettiva da tutti i lavoratori
dell’azienda. Mentre poi il sindacato è forma associativa volontaria e quindi potenzialmente pluralistica, la
commissione interna è forma rappresentativa unitaria e necessaria. L’esigenza di avere diretta presenza
organizzata in azienda diventò più urgente con la necessità dell’articolazione e un maggiore dinamismo
contrattuale sui luoghi di lavoro. Essa fu sostenuta in primis dalla Cisl, in parallelo con la necessità della
contrattazione articolata e poi progressivamente anche dalla Cgil. Nacquero quindi le sezioni sindacali aziendali,
articolazioni sindacali in azienda. Queste però non riescono a diffondersi se non in poche aziende industriali,
anche perché non erano riconosciute come strutture con pieni poteri sindacali. I primi delegati di fabbrica
appaiono nel ’69 in alcune grandi fabbriche del Nord fuori dall’iniziativa sindacale.
I caratteri principali dei delegati sono di essere eletti in modo unitario da un gruppo ristretto di lavoratori collocato nella
stessa condizione produttiva.
Le confederazioni sindacali allora presero iniziativa di diffondere il movimento dei delegati e di sindacalizzarlo,
anche come strumento di recupero dello spontaneismo di base. Nel patto federativo del ’72 i Consigli di fabbrica
furono riconosciuti come “istanza sindacale di base con poteri di contrattazione sui posti di lavoro” e di norma
identificati con le RSA ex art 19 St. lav. divenendo quindi beneficiari di tutti i diritti e i poteri del titolo III dello
Statuto. Negli anni ’80 tale forma di organizzazione sindacale in azienda da i primi segnali di cedimento con la
crisi dell’unità sindacale dell’84-85 (e lo scioglimento del Patto federativo) e la caduta di rappresentatività del

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sindacato confederale. Quest’ultimo provò a reagire orientandosi verso una riforma del modello, che arriverà col
Protocollo del ’93 (RSU).

6. L’organizzazione dei lavoratori nel luoghi di lavoro: dall’Accordo Interconfederale del


1993 a quello del 2011
Il protocollo del’93 integrato dall’Accordo Interconfederale definisce in modo organico i compiti e le modalità
costitutive delle nuove strutture di base, le c.d. Rappresentanze sindacali unitarie (RSU).
Le RSU:
 Hanno competenze generali di tutela collettiva dei lavoratori in azienda, compresa la titolarità contrattuale, nei limiti delle
competenze attribuite dal contratto collettivo nazionale a quello decentrato
 Sono costituite unitariamente nell’unità produttiva , con elezioni aperte a tutti i lavoratori, condotte sulla base di liste
sindacali.
Il legislatore avrebbe dovuto sancire normativamente il riconoscimento delle RSU, rafforzandone la presenza.
Nel settore privato però, contrasti sindacali e politici hanno bloccato tale iniziativa, mentre nel settore pubblico il
D. Lgs. 396/1997 ha potuto intervenire con la seconda privatizzazione, riconfermando il modello delle RSU La
RSU è organo dell’insieme dei lavoratori e al tempo stesso funge da struttura comune di rappresentanza dei
sindacati in azienda. Resta confermata in Italia la tradizione del canale unico sindacale di rappresentanza, per
cui gli organismi rappresentativi sono controllati dal sindacato e hanno la totalità delle competenze di autotutela
collettiva in azienda. Il canale doppio di rappresentanza, presente nella maggior parte d’Europa, in cui si
distingue:
a) Rappresentanze sindacali in senso stretto, con compiti contrattuali
b) Organismi eletti da tutti i lavoratori, con compiti diversi
È stato sempre modello avverso ai nostri sindacati perché ritenuto limitativo dell’autorevolezza sindacale e della
sindacalizzazione potenziale. Ciò nonostante la funzioni di rappresentanza dei lavoratori in azienda si siano
estese oltre la contrattazione collettiva tradizionale a compiti di informazione, consultazione e partecipazione,
tanto da richiedere potenzialmente anche una differenziazione di strumenti rappresentativi. Esigenza a cui le
parti sociali hanno preferito rispondere con organismi rappresentativi specializzati costituiti con accordo sempre
all’interno del canale unico. La normativa del ’93 è rimasta in vigore fin oggi ed è stata richiamata dal T.U. sulla
rappresentanza del 2’14 che la riprende e adegua senza sostituirla.

7. L’organizzazione degli imprenditori


Questa è un fenomeno storicamente indotto o di risposta rispetto all’organizzazione dei lavoratori e ne
riproduce i tratti organizzativi generali: doppia linea organizzativa, prevalenza delle strutture orizzontali,
tradizionale accentramento. Esistono diverse organizzazioni confederali, in primis per i grandi settori economici:
1. Confindustria (organizza soprattutto imprenditori industriali)
2. Confcommercio (organizza gli imprenditori del commercio)
3. Confagricoltura (organizza quelli dell’agricoltura)
4. Abi (organizza le imprese di credito)
Nel settore agricolo operano anche diverse organizzazioni di lavoratori autonomi e piccoli imprenditori come la Coldiretti.
Confederazione separata è la Confapi che organizza le imprese indusrtiali medio – piccole. Organizzazioni imprenditoriali con
funzioni di rappresentanza sindacale ma anche di regolazione di interessi economici e degli associati, di servizio o assistenza
in problemi tecnici e commerciali … Le imprese a partecipazione statale anche erano organizzate in modo distinto dalle private
fino al ’57 quando si staccarono dalla Confidustrai, venendosi a creare Intersind (raggruppa le imprese del gruppo Iri) e Asap
(gruppo Eni) e che ebbero ruolo decisivo nell’avviare il sistema di contrattazione articolata e nell’introdurre prassi inovative
nelle relazioni industriali
Nel pubblico impiego la c.d. privatizzazione del rapporto di lavoro ha introdotto un nuovo attore: l’Agenzia per la

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rappresentanza negoziale, con personalità giuridica. Essa è legata al Governo, che nomina parte dei componenti
del Direttivo. L’Agenzia è stata creata per due scopi:
 Sostituire le varie delegazioni di parte pubblica, politicizzate e precarie con un’unica controparte, tecnica e stabile
 Contribuire a dare piena efficacia alla contrattazione collettiva ormai di diritto comune.

8. La Confindustria
È l’organizzazione imprenditoriale più consistente. Le imprese associate operano nell’industria e anche nel
settore terziario avanzato (trasporti, comunicazioni …), il che mostra la tendenza comune delle associazioni ad
assumere carattere più complesso per rafforzare la propria capacità rappresentativa. È però un’organizzazione
complessa. Le sue strutture portanti (orizzontali) sono le associazioni territoriali, quasi tutte corrispondente a
una provincia. A queste fanno capo tutte le imprese della provincia, che spesso non aderiscono alla loro
organizzazione (verticale) di categoria. Alla Confindustria aderiscono poi altre federazioni nazionali di categoria.
Le principali funzioni fanno capo alle associazioni territoriali, nonostante la riforma del ’70 abbia voluto
accrescere il ruolo delle organizzazioni di categoria per aumentare l’articolazione funzionale dell’intera
confederazione. Di grande importanza è l’attività di assistenza data alle aziende in materia di contrattazione,
applicazione dei contratti e delle leggi sul lavoro e di composizione delle controversie relative. Le federazioni di
categoria hanno svolto ruolo marginale nella politica sindacale degli imprenditori. È solo nel ’71 la costituzione
della Federmeccanica, maggiore associazione di categoria con esclusive funzioni di rappresentanza sindacale,
intesa a contrastare la crescente forza della Federazione lavoratori metalmeccanici. In effetti le maggiori
federazioni di categoria hanno svolto da allora ruolo significativo nella preparazione e conduzione delle tornate
contrattuali nazionali nonché nell’indirizzo della contrattazione decentrata. Resta poi consistente l’influenza delle
associazioni territoriali e dalla Confederazione.
Gli organi della Confindustria riproducono la tipologia usuale delle associazioni (assemblea, giunta, consiglio, direttivo e
presidente). Sono previsti poi 3 comitati particolari con funzioni soprattutto consultive: quello per le piccole imprese, per il
mezzogiorno e dei giovani industriali.
Il dover rispondere alle sfide del cambiamento economico-produttivo ha sollecitato anche le associazioni
imprenditoriali ad adeguare le proprie strategie e strutture organizzative. La tendenza maggiore va verso
l’aggregazione delle strutture categoriali. L’episodio più rilevante è l’aggregazione delle 5 maggiori
confederazioni rappresentative del commercio, dell’artigianato e delle piccole imprese nella nuova
organizzazione (R.ete. Imprese Italia). L’aggregazione è stata facilitata dal superamento delle divisioni fra le
due organizzazioni del commercio e dell’artigianato che riflettevano originarie ascendenze politiche. Tendenza
parallela verso l’aggregazione si è manifestata fra le maggiori organizzazioni rappresentative del mondo
cooperativo.

9. Organizzazioni sindacali a livello internazionale e comunitario


L’organizzazione sindacale internazionale più rappresentativa dei lavoratori la Confederazione Internazionale dei
Sindacati Liberi (Cisl – Icftu), la quale raggruppa milioni di aderenti con organizzazioni affiliate in circa un
centinaio di paesi di tutti i continenti e ha sede a Bruxelles. Nel 2006 si unisce con la Federazione mondiale del
lavoro. A livello verticale si sono sviluppate federazioni internazionali di categoria, con compiti di coordinamento
dell’azione sindacale. All’interno della CE nel ’73 è nata a Bruxelles la Confederazione Europea dei Sindacati
(Ces) Sul versante degli imprenditori non esistono centrali internazionali degli imprenditori paragonabili a quelle
dei lavoratori. Gli interessi degli imprenditori sono rappresentati da 2 organizzazioni:
─ La Ioe (Organizzazione Internazionale degli Imprenditori), competente per le questioni sociali
─ La Icc (camera di commercio internazionale) competente per le questioni economiche
Gli imprenditori sono anche rappresentati all’OIL. Legami internazionali sono realizzati, anche per le relazioni

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industriali, dalle imprese multinazionali. L’Unione delle Industrie della Comunità Europea (Unice) raggruppa le
organizzazioni padronali dei paesi membri per settori di attività e di recente ha cambiato nome in Business
Europe.
Le relazioni collettive a livello comunitario appaiono ancora poco sviluppate. Le stesse organizzazioni sindacali sono lente a
elaborare strategie di respiro sovranazionale. Per del tempo si è anche dubitato dell’esistenza di un diritto sindacale europeo,
mancando una cornice normativa a riguardo. Analoghe perplessità ci sono sulla struttura sindacato visto l’ancora modesto
sviluppo di funzioni negoziali in ambito comunitario e il mancato ricorso allo strumento del conflitto. Dal trattato di Maastricht
e poi con quello di Lisbona vi è stato un salto di qualità. Le parti sciali sono state chiamate ad avere ruolo attivo nel contesto
delle politiche sociali dell’UE con l’istituto della concertazione sociale. Questa attività negoziale a livello comunitario unita agli
accordi di implementazione della direttiva sui Comitati aziendali europei ha almeno aperto la via per la costruzione in
prospettiva di un sistema europeo di relazioni industriali. Si tratta di verificare se e come il sindacato europeo saprà
raccogliere la sfida lanciata dall’unione.

B. Il sindacato come associazione non riconosciuta


1. Fattispecie sindacale e associazione
La mancata attuazione dell’art 39.2 Cost ha avuto conseguenze sulla disciplina delle organizzazioni sindacali:
─ Accentuazione del loro carattere privatistico
─ Loro appartenenza al genere “associazioni non riconosciute”, salvo le strutture aziendali che sono organismi in
tutto o in parte elettivi
Il carattere privatistico dei sindacati non è mai stato univoco nelle sue implicazioni. Non sono infatti mancate
norme che hanno dato rilievo pubblico ad alcune attività sindacali. Il carattere associativo è proprio del
sindacato ma non è necessario della fattispecie sindacale  organizzazione sindacale non coincide con forma
associativa come risulta da art 39.1 Cost che si esprime in termini di libertà “organizzativa”. Elemento
qualificante la fattispecie sindacale è solo l’esercizio in forma organizzata di autotutela collettiva  è quindi
l’attività di autotutela organizzata non la forma organizzativa. Attività di autotutela collettiva, quindi sindacale in
senso lato, possono essere svolte anche da coalizioni o gruppi occasionali, privi dei caratteri di stabilità e
strumentazione propri dell’associazione o da organismi in tutto o in parte elettivi. Accezione ampia conforme al
carattere aperto e poco istituzionalizzato del nostro sistema di relazioni industriali. Implica che la disciplina
dell’ordinamento per tale fattispecie, quindi i poteri e i diritti sindacali, siano riferibili a ogni gruppo o organismo
latamente inteso.

2. La disciplina codicistica delle associazioni


In quanto associazioni non riconosciute, i sindacati e organizzazioni imprenditoriali sono assoggettati alla
disciplina degli artt 36, 37, 38 c.c. Disciplina scarna e in realtà residuale, quindi inadeguata a spiegare la
sostanza del fenomeno associativo sindacale. La residualità si vede già nel principio base dell’art 36.1 c.c. per
cui l’ordinamento interno e l’amministrazione delle associazioni non riconosciute sono regolate dagli accordi tra
gli associati, cioè da regole interne, statuti e regolamenti riconducibili al consenso dei soci.
Art 36.2 dispone che associazione può stare in giudizio nella persona che per accordi sociali è conferita la presidenza o la
direzione. Le altre norme riguardano aspetti patrimoniali. Art 37 stabilisce che i contributi e beni acquistati con essi
costituiscono il fondo comune dell’associazione, che è indivisibile perdurando l’associazione e che il socio recedente non ha
diritto di pretendere la sua quota in caso di recesso. Per art 38 per le obbligazioni contratte dall’associazione rispondono in
solido il fondo comune e i soggetti che hanno agito in nome e per conto dell’associazione stessa
Fra le questioni controverse vi è quella della qualificazione delle associazioni non riconosciute. Oggi, data una
rimeditazione teorica del concetto di personalità giuridica e soggettività giuridica si pensa che in assenza della
prima è possibile godere della seconda come capacità sia pur limitata e relativa di essere centro di imputazione
di rapporti giuridici.

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Quello che farebbe la differenza fra persone giuridiche associazioni e associazioni non riconosciute sarebbe l’autonomia
patrimoniale perfetta solo delle prime, cioè la totale irresponsabilità dei soci per i debiti sociali
La giurisprudenza del lavoro a lungo si è espressa contro la capacità delle associazioni sindacali di stare in
giudizio ed anche di intervenire nel processo. Smentita però da art 28 St. lav., che riconosce al sindacato la
legittimazione ad agire in giudizio per la difesa di interessi propri. Evoluzioni significative ci sono state anche
nella giurisprudenza che ha riconosciuto al sindacato la legittimazione a costituirsi parte civile in processi penali
per infortuni sul lavoro, finché non si è arrivati ad ammettere la legittimazione ad agire in capo alla RSA per
l’attuazione di diritti ad essa attribuiti dal contratto collettivo. A tale processo evolutivo appartengono anche gli
orientamenti, recepiti dal legislatore, sulla legittimazione ad agire in via ordinaria davanti al giudice del lavoro
dei sindacati del pubblico impiego per le controversie se procedure di contrattazione collettiva oltre che su
quelle riguardanti comportamenti antisindacali.

3. Rapporti interni e democrazia sindacale


L’assenza di una disciplina tipica dell’associazione sindacale e la consacrazione dell’autonomia organizzativa
contenuta nell’art 36 c.c. ha avuto rilievo particolare sui rapporti interni del sindacato. Con sindacati di
lavoratori divisi e in competizione tra loro, i problemi della tutela dei soci verso l’organizzazione e della libertà
sindacale negativa, nonché della stessa democraticità interna al sindacato assumono minor urgenza della difesa
esterna della libertà sindacale verso Stato e imprenditori. Il principio di democraticità interna del sindacato,
richiesto da art 39 come condizione per la registrazione, va ritenuto vigente anche per i sindacati di fatto, come
condizione di qualificazione. In assenza di tale requisito l’organizzazione non beneficerebbe della disciplina
(diritti e poteri) riservata al sindacato. Il contenuto del principio va riferito alle regole democratiche di solito
accettate dal sindacalismo, non solo italiano: es carattere elettivo delle cariche sociali e principio maggioranza.
Altro principio ritenuto fondamentale riguarda la necessità che le decisioni generali per la vita dell’associazione
siano di competenza di un organo assembleare, comprendente tutti i soci. La competenza dell’assemblea è
prevista dal c.c. per alcune decisioni delle associazioni riconosciute, ad es l’esclusione di un socio. Per
un’autorevole dottrina sarebbe da riferire anche alle associazioni non riconosciute.

4. La giustizia interna dei sindacati


L’amministrazione della giustizia interna è tema tormentato. Non solo in Italia vi è riconoscimento che le regole
previste dalle stesse organizzazioni sino inadeguate rispetto agli standard degli ordinamenti statali. La carenza
maggiore non sta tanto nella sommarietà delle garanzie procedurali, quanto nella loro debole effettività e nella
scarsa affidabilità degli organi giudicanti, la cui autonomia rispetto agli organi c.d. politici del sindacato non è
assicurata da norme statutarie sull’incompatibilità. Orientamento originario in tema di rapporti endo-associativi
è astensionistico. A volte è equivalente a un rifiuto di competenza a giudicare in proposito. Più spesso è limitato
a un giudizio di legittimità e non di merito sulla controversia. Si arriva però a volte a controllare la conformità
degli atti associativi alle regole statutarie sia per aspetto formale sia sostanziale, dichiarando la nullità di atti
contrari allo statuto. Incerta è anche l’operatività all’interno delle associazioni di alcuni diritti e garanzie
costituzionali. Spesso i giudici hanno considerato irrilevante l’osservanza di tali garanzie perché non previste
dalla disciplina interna. Posizione più favorevole si è a volte affacciata specie nel controllo giudiziale di
provvedimenti disciplinari.

5. Controversie interne, ammissione al sindacato, rapporti tra associazioni di diverso


livello
I pochi casi giudiziari su controversie intra-sindacali sono nati quasi sempre da gravi tensioni interne e di solito

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sollevati da interi gruppi interni all’associazione. Fra i più famosi è quello conseguente alla scissione della Cgil
nel ’48 riguardante il diritto della corrente cristiana distaccatasi a ottenere parte del patrimonio sociale, non
riconosciuto dall’altra parte di Cgil che qualificava il distacco come somma di dimissioni individuali quindi non
legittimanti il recupero delle quote.
Questione chiusa in sede transattiva. L’incertezza delle soluzioni avanzate in proposito conferma l’inadeguatezza
della disciplina statale in materia. I rapporti tra organismi sindacali di diverso livello rilevano sia per la
qualificazione della struttura associativa sia per l’attività esterna del sindacato, per risolvere il problema dei
rapporti tra contratti collettivi di diversa ampiezza. Sotto il primo profilo si sono avanzate 2 tesi: una che
configura il sindacato come associazione complessa, associazione di associazioni; l’altra che ritiene preferibile
vederla come insieme di associazioni parallele a cui il singolo socio appartiene contemporaneamente.
Costruzioni che sono riferibili, come tutte le civilistiche sulle associazioni non riconosciute, specie ad aspetti
patrimoniali dei rapporti associativi.

CAPITOLO 5: LA LIBERTA’ SINDACALE


1. Norme nazionali ed internazionali
Nel nostro ordinamento il riconoscimento della libertà sindacale si incentra su art 39.1 Cost: “l’organizzazione
sindacale è libera”. Ma non vanno scordate le fonti internazionali che si aggiungono ad esso, a partire dalle
Convenzioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro:
─ N° 87 (del ’48)  sulla libertà sindacale e la protezione dei fenomeni sindacali in genere, affermate con
riguardo alla loro tutela verso lo Stato
─N° 98 (del ’49)  sviluppa il principio del diritto di organizzazione e negoziazione collettiva nei rapporti
interpretativi e quindi verso i datori di lavoro.
La libertà di associazione e di attività sindacale entrano anche nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali e nella Carta Sociale europea del ’61. In ambito europeo va ricordata poi la Carta dei
diritti sociali fondamentali di Strasburgo dell’89 e la Carta dei diritti fondamentali di Nizza del 2000 a cui il Trattato di Lisbona
ha riconosciuto stesso valore giuridico dei Trattati. Gli aspetti problematici delle fonti internazionali attengono alla loro natura
ed efficacia: essi si dirigono ai singoli Stati a cui è fatto obbligo di provvedere all’adeguamento.
Sul piano della legislazione attuativa del disposto costituzionale, altra rilevanza ed efficacia hanno le disposizioni
dello Statuto dei lavoratori (L. 300/1979):
 Il Titolo II costituisce concreta articolazione del principio costituzionale con riguardo all’ambito endo-aziendale.
Viene ribadito il diritto di associazione e di attività sindacale nei luoghi di lavoro, si vietano gli atti e i
trattamenti discriminatori in ragione di affiliazione o attività sindacale e si colpisce la costituzione di sindacati
c.d. di comodo
 Il Titolo III, garantisce alle espressioni sindacali interne all’azienda una serie di diritti ed è valore aggiunto
rispetto alla direttiva dell’art 39 Cost poiché detta specifica normativa “promozionale” dell’organizzazione e
dell’attività sindacale nelle singole unità produttive, predisponendo certi diritti non riconducibili alla mera libertà
sindacale e implicanti un facere o un pati al datore di lavoro.
Il legislatore del ’70 ha anche messo a disposizione delle organizzazioni sindacali uno strumento processuale
che consente di conseguire per via giudiziaria la repressione della condotta antisindacale del datore di lavoro,
rafforzando l’effettività delle norme del Titolo III e dei diritti e libertà sindacali impliciti nell’art 39.1 Cost. La
libertà garantita a livello costituzionale all’organizzazione sindacale va oltre quella generale del fenomeno
associativo. La prima infatti comporta uno specifico riconoscimento della liceità dell’attività sindacale. La
specificità del riconoscimento della libertà sindacale rispetto a quelle di associazione ha riscontro anche nella
dizione della norma che riguarda “l’organizzazione” non “l’associazione” sindacale, ampliando così il ventaglio

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delle situazioni oggetti di tutela al di là del fenomeno associativo. Vanno quindi ricomprese nella sfera di
operatività dell’art 39 cost anche forme organizzative che non abbiano carattere associativo, purché di natura
sindacale (es Commissioni Interne o Consigli di fabbrica).

2. I contenuti dell’art 39,1^comma,Cost:il profilo individuale e quello collettivo


L’art 39.1 garantisce la libertà sindacale tanto ai singoli quanto ai gruppi organizzati, entrambi titolari di un
complesso di situazioni giuridiche con cui trova espressione la libertà sindacale.
♦ Profilo individuale:
Si rileva in primis la libertà sindacale positiva  libertà per il singolo di costituire un sindacato, di aderirvi, di
fare opera di proselitismo, di raccogliere contributi sindacali, di riunirsi in assemblea. Contenuto positivo che
risulta specificato dalle fonti internazionali e nella legislazione nazionale dall’art 14 dello St. lav., che ne ha
garantito l’attuazione all’interno dei luoghi di lavoro. Garanzia che trova sostegno nell’art 15 St. lav. che decreta
la nullità degli atti/patti discriminatori rivolti a colpire un lavoratore per la sua adesione ad una associazione
sindacale, per lo svolgimento di attività sindacale o per la partecipazione a uno sciopero. L’art 15 è poi l’unico
riferimento nella legislazione italiana alla libertà sindacale negativa, cioè di non aderire o recedere dal
sindacato: il lavoratore infatti non può essere discriminato per l’assunzione, al licenziamento o a ogni altro
momento del rapporto di lavoro a causa della mancata affiliazione a un sindacato.
Il riconoscimento di libertà negativa non trova riscontro in fonti internazionali poiché bisogna tenere conto dell’esistenza in
diversi Paesi di diffuse pratiche e previsioni restrittive di tale libertà negativa. Per es le clausole di sicurezza sindacale che per
garantire e promuovere la forza associativa delle organizzazioni sindacali, pongono l’affiliazione al sindacato e il suo sostegno
finanziario come condizione per l’assunzione.
♦ Profilo Collettivo:
Analoghi momenti garantistici accompagnano le manifestazioni collettive della libertà sindacale. Tanto le norme
interne quanto quelle internazionali tutelano la libertà di organizzazione del sindacato (e della necessaria
attività di proselitismo), il che implica la libera scelta delle forme organizzative e delle regole che disciplinano
l’assetto interno, oltre alla libertà di definire obiettivi e strumenti dell’attività sindacale senza alcuna
interferenza esterna.
Garantita è la facoltà del sindacato di aderire ad organizzazioni complesse sia a livello nazionale che
internazionale. La libertà sindacale va intesa anche:
─ Come libertà di privilegiare all’interno dell’organizzazione sindacale, il ruolo e i poteri del vertice o della base
a seconda delle valutazioni di strategia e di opportunità
─ Come possibilità di valorizzare il ruolo di rappresentanza degli associati o dell’intera classe di lavoratori ovvero
di rappresentanza di interessi generali della società e quindi di scegliere le relative strategie rivendicative.
La libertà sindacale implica poi la possibilità di privilegiare il confronto con la controparte datoriale e agire
soprattutto sul mercato, di inspessire il confronto con le pubbliche istituzioni e di agire sul terreno politico,
nonché la libertà di valorizzare un modello conflittuale nei rapporti con i datori di lavoro e con le pubbliche
istituzioni o invece un modello cooperativo e partecipativo.
L’art 39.1 non può essere solo dichiarazione di mera libertà organizzativa. La sua ratio storico – politica e il
collegamento con art 40 ne impongono una lettura come affermazione della libertà di azione sindacale e di
azione contrattuale, esplicitamente affermata poi nelle fonti internazionali. Nel nostro ordinamento l’azione
contrattuale nel settore privato si è svolta per anni fuori da schemi e regole legali e ha operato in un contesto di
pluralismo libero. Diversamente quindi da ordinamenti di altri Paesi, nel nostro sistema non era configurabile un
generalizzato diritto del sindacato a trattare per la stipulazione di un contratto collettivo con correlativo obbligo
a carico della controparte di partecipare alla trattativa: tanto l’apertura delle trattative come gli esiti contrattuali
restavano affidati ai rapporti di forza, senza che vincoli normativi potessero condizionarli. Nel settore pubblico il

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discorso è diverso, tenuto conto dell’esistenza di una normativa che individua i soggetti legittimati alla
negoziazione. L’Accordo Interconfederale del 2014, recependo le indicazioni dei precedenti Accordi del 2011 e
2013, ha introdotto un vero e proprio diritto a sedere al tavolo delle trattative per la stipulazione dei Contratti
Collettivi nazionali (CCNL) alle Organizzazioni sindacali nazionali con un livello di rappresentatività, nell’ambito
di applicazione del CCNL non inferiore al 5% considerando la media tra il dato associativo (% iscritti) e il dato
elettorale (% voti ottenuti sui voti espressi). Ovviamente il diritto a partecipare alle trattative non implica il
diritto a sottoscrivere il contratto, che resta affidato alla libera dialettica contrattuale. Il diritto alla trattativa
riconosciuto dall’Accordo del 2014 ai soli sindacati firmatari e alle loro derivazioni categoriali non può esser
ritenuto espressione della libertà sindacale ex art 39 ma al massimo frontiera ulteriore. Ciò che invece rientra
nella garanzia costituzionale dell’attività contrattuale implicita nell’art 39 e viene riconosciuto a tutte le OO.SS.
riguarda solo la libera elaborazione delle proposte rivendicative, la loro proposizione, la formazione delle
delegazioni trattanti e la scelta dei comportamenti e delle strategie negoziali da parte sindacale. La libertà
sindacale, oltre che come libertà di organizzazione e azione specie contrattuale, va intesa anche come libertà di
lotta. Così che le azioni di autotutela che non rientrino nel paradigma tipico del diritto di sciopero e nella più
ampia protezione, trovano tutela (e limiti) nell’art 39.1 Cost.

3. Il carattere ‘sindacale’ dell’organizzazione protetta


Bisogna Capire quali organizzazioni e attività possano essere definite sindacali ex art 39.1 Cost e quindi
possano godere di tutte le garanzie connesse, comprese quelle processuali ex art 28 St. lav.
Non vi sono specifiche indicazioni sul piano normativo. Dalla norma costituzionale può solo desumersi un rinvio
alla realtà sociale, da cui si ricava una definizione della fattispecie sindacale in funzione della “autotutela di
interessi connessi a relazioni giuridiche in cui sia dedotta l’attività di lavoro”. Si ha così riguardo in primis al:
─ Profilo teleologico del fenomeno  l’attributo della sindacalità contraddistinguerebbe quelle attività e
aggregazioni sociali che siano rivolte alla tutela di un interesse collettivo di lavoro.
Delimitazione contenutistica di tal interesse collettivo rinvia a scelte storicamente mutevoli dell’azione sindacale
L’esigenza di caratterizzare con maggiore puntualità la sfera sindacale, induce almeno a integrare il criterio
teleologico con la considerazione degli strumenti tipici dell’azione sindacale.
─ Criterio degli strumenti impiegati  se dal punto di vista oggettivo il momento sindacale può confondersi
con quello politico – partitico per l’insistenza sugli stessi temi, sono gli strumenti impiegati per raggiungere gli
obiettivi a fare da discriminante. Il sindacato usa strumenti di autotutela diretta dei lavoratori: sciopero e
contrattazione collettiva, ma anche assemblee, raccolta firme, aggregazioni di consenso … Per i partiti invece si
tratta di azione sul piano elettorale e nei canali istituzionali della rappresentanza politica. Il criterio teleologico e
strumentale vanno però ancora integrati in considerazione di un anche minimo profilo soggettivo. Il concetto di
autotutela implica una gestione degli interessi collettivi posta in essere dagli stessi lavoratori o da loro
immediate espressioni rappresentative. Per quanto ampia sia per i lavoratori la possibilità di delegare la
rappresentanza dei propri interessi alle aggregazioni più diverse deve comunque trattarsi di soggetti forniti di
una investitura diretta e non mediata, operata dai lavoratori in quanto tali.

4. La titolarità della libertà sindacale


Dibattuta in dottrina è la questione della titolarità della libertà sindacale per gli imprenditori. È certo che
possano svolgere attività collettivo-sindacale, si discute piuttosto se tale attività debba ritenersi riconducibile
alla tutela ex 39.1 o se rimanga nell’ambito della libertà di associazione e iniziativa economica ex artt. 18 e 41
Cost. La concezione unilaterale della garanzia dell’art 39 prende spunto dalle diversità tra attività sindacale dei
lavoratori e dei datori evidenziate dalla prassi e dall’esperienza storica, soprattutto perché, mentre per i

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lavoratori l’attività sindacale è necessariamente un fenomeno collettivo, il datore invece è soggetto sindacale
anche come singolo (si pensi ai contratti collettivi aziendali in cui è parte il singolo datore, o alla proclamazione
della serrata). Inoltre il contratto collettivo è inderogabile in peius dai singoli lavoratori , a conferma di una
peculiare solidarietà di classe mentre è derogabile dai singoli datori in senso favorevole per i lavoratori, a
conferma della maggiore autonomia del singolo rispetto al collettivo. Più convincente è la tesi per cui i due
fenomeni associativi di lavoratori e datori hanno quasi sempre una comune considerazione di base. On c’è
quindi motivo per escludere il sindacalismo datoriale dalla previsione dell’art 39.1. Il fatto che poi svolgimenti
legislativi si preoccupino di garantire solo la libertà sindacale dei lavoratori si spiega perché l’intervento è a
favore della parte che fra le due è in maggiore difficoltà nell’effettivo esercizio della libertà sindacale. Per quanto
riguarda invece la titolarità della libertà sindacale dei lavoratori, la questione si è posta in riferimento a
specifiche situazioni caratterizzate dalla peculiarità del regime giuridico in cui viene effettuata la prestazione
lavorativa. Il processo di sindacalizzazione ha varcato i confini del lavoro subordinato per interessare ampi
settori del lavoro autonomo o parasubordinato e delle libere professioni. Quanto al primo fenomeno, va posto in
sintonia col processo espansivo del diritto del lavoro proteso ad estendere le proprie garanzie oltre la sfera del
lavoro subordinato, in direzione di ogni ipotesi di dipendenza sociale ed economica di chi svolga attività
lavorativa verso un soggetto a vantaggio del quale l’attività è svolta. Nello stesso senso va l’allargamento del
conflitto all’area del lavoro autonomo, dei professionisti e dei piccoli imprenditori. Diversa è invece l’ipotesi di
attività sostanzialmente sindacali di ordini professionali al cui interno è avanzata la prassi di tutela dei propri
iscritti a contenuto tipicamente sindacale. Fenomeno non senza controindicazione dovute alla natura giuridica
degli ordini e collegi professionali. Essendo infatti enti pubblici ad appartenenza obbligatoria, sottoposti a
vigilanza ministeriali, una loro sindacalizzazione porterebbe a una sorta di sindacato unico con rappresentanza
necessaria per tutta una categoria, essendovi obbligatoriamente iscritti tutti gli esercenti la professione e per di
più di diritto pubblico. Ciò ha contribuito a far sì che le istanze di tutela sindacale dei gruppi professionali,
confluite in un primo momento negli organismi professionali, abbiano poi indotto lo sviluppo collaterale di forme
associative di natura privatistica con struttura e finalità peculiarmente sindacali. Contrariamente a quanto
avvenuto per il diritto di sciopero, il riconoscimento della libertà sindacale ai pubblici dipendenti non è mai stato
in discussione, tanto più che alla portata percettiva della norma costituzionale ha fatto riscontro nella pratica
l’ingresso del sindacalismo nelle amministrazioni pubbliche. Significativa in tal senso è la partecipazione di
rappresentanti sindacali ad organi di gestione degli apparati pubblici, così come la progressiva
contrattualizzazione del trattamento economico – normativo dei dipendenti pubblici. Il D. Lgs. (confluito poi nel
D. Lgs. 165/2001), col privatizzare il rapporto di pubblico impiego, ha sancito la piena tutela della libertà e
dell’attività sindacale nel settore pubblico, secondo le forme previste dallo Statuto dei lavoratori.
L’esigenza di rappresentanza e tutela di interessi collettivi ha avuto primi riconoscimenti anche per i militari a cui la legge
vieta ogni forma di coalizione, perché incompatibili con la speciale condizione soggezione. Sulla scia di alcuni progetti di
riforma della rappresentanza militare, il Consiglio di Stato nel ’98 ha sollevato la questione di legittimità di tale situazione con
art 39.1, ma la Corte Cost ha rigettato la questione dichiarando legittima la persistenza del divieto. Diverso è per la Polizia di
Stato. Dopo la smilitarizzazione delle forze di pubblica sicurezza la L. 121/81 ha affermato il principio per cui “gli appartenenti
alla Polizia di Stato hanno diritto di associarsi in sindacati”. A tale riconoscimento si accompagnano delle restrizioni: possono
iscriversi solo ai sindacati di categoria i quali non possono rappresentare altri lavoratori; inoltre i sindacati di polizia non
possono aderire, affiliarsi o avere relazioni di carattere organizzativo con altre associazioni sindacali. Apposizione di limiti per
tenere i sindacati di polizia separati da organizzazioni esterne e dalle confederazioni di sindacati nel timore di
condizionamenti.
Anche se il perseguimento di tale finalità non sembra del tutto in grado di fugare i dubbi di costituzionalità sollevati da una
limitazione che viene comunque a precludere quella che è un’espressione (l’adesione a più ampi momenti di organizzazione
sindacale) del principio di libertà sindacale ex art 39.
Circoscritti sono poi i poteri di contrattazione dei sindacati di polizia: la legge dell’81, che vieta l’esercizio di sciopero,

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riconosce però una serie di garanzia e e diritti sindacali che ricalcano quelli previsti dallo St. lav.: diritto di assemblea,
aspettativa e assenze autorizzate per motivi sindacali

5. La multi direzionalità della tutela dell’art 39,1^comma


Il riconoscimento costituzionale della libertà sindacale esplica i suoi effetti
─ Sul piano del diritto pubblico  garantendo l’immunità dell’organizzazione sindacale verso lo Stato e i pubblici
poteri
─ Sul piano dei rapporti privati  soprattutto nei confronti del datore di lavoro

♦ Piano del diritto pubblico:


L’art 39.1 segna uno dei momenti di maggior distacco del costituente dal passato dato che l’affermazione
incondizionata della libertà sindacale esprime un atteggiamento difforme sia dalla neutralità dello stato liberale
che dall’assoggettamento dell’organizzazione sindacale ai fini statutali e dall’incorporazione nelle strutture
pubbliche realizzata nel sistema corporativo.
Ai pubblici poteri è preclusa ogni possibilità di controllo o ingerenza nella sfera organizzativa e nell’identità
politico-ideologica dei sindacati. È anche vietato ogni condizionamento autoritativo che serva a inquadrare il
sindacato e la sua azione secondo le linee della politica governativa. In quanto svincolato da ogni forma di
soggezione rispetto ai poteri pubblici ma allo stesso tempo agente sulla ribalta istituzionale, il sindacato può
divenire attore fondamentale della dinamica socio-politica dato che gli stessi equilibri della società possono
essere influenzati dalle scelte strategiche ed organizzative. In un quadro costituzionale in cui il modello di
società non è rigidamente precostituito e in cui vi sono così tanti istituti tipici del modello capitalistico come
strumenti propri di un disegno di socializzazione della vita economica, l’azione sindacale con i soli limiti della
dinamica dei rapporti di forza, sembra in grado di influenzare la dialettica tra i due modelli del passato.
L’indicata autonomia del momento sindacale non è contraddetta dai condizionamenti e interdipendenze tra parti
sociali e Stato dato che non si tratta di vincoli giuridici ma di reciproche influenze tra i 3 attori del sistema. Il
problema della garanzia verso interventi dei pubblici poteri vi è soprattutto per la libertà di contrattazione
collettiva, quindi alla possibilità che iniziative di carattere legislativo o amministrativo modifichino o pongano
limiti inderogabili agli accordi tra le parti collettive. Eventualità che si presenta soprattutto in casi di crisi
economica, esigenze di programmazione ecc. che inducano il Governo e il Parlamento a porre tetti massimi alla
contrattazione. La questione si è inizialmente posta in relazione alla L. 91/77 che ha inciso su alcune previsioni
collettive relative all’indennità di contingenza e si è riproposta con successivi interventi in materia, che sono
andati manifestando una tendenza di politica legislativa diretta a contenere le possibilità per la contrattazione
collettiva di apporre anche deroghe migliorative ad alcuni trattamenti fissati per legge.
La Corte Cost investita della questione sulla compatibilità col principio di libertà sindacale di interventi legislativi rivolti a
fissare anche un’inderogabilità in melius dei trattamenti legali, ha prima rigettato le eccezioni di incostituzionalità e poi le ha
accettate dichiarando da un lato che il legislatore ben può stabilire criteri direttivi o vincoli di compatibilità con obiettivi
generali di politica economica; ma che dall’altro entro le linee-guida tracciate dalla legge, le parti sociali devono essere
lasciate libere e che compressioni di tale libertà nella forma di massimi sono giustificabili solo in situazioni eccezionali a
salvaguardia di superiori interessi generali
♦ Piano dei rapporti privati:
La libertà sindacale viene garantita ai datori che in quanto detentori di potere economico e di alcune prerogative
in tema di organizzazione e controllo del lavoro, sono in grado di condizionare la presenza e le iniziative del
sindacato. Il riconoscimento di un’ampia libertà sindacale non può però prescindere dal rispetto di minimali
esigenze organizzative dell’impresa. L’imprenditore quindi deve sì garantire un’area di rispetto al sindacato, ma
non è vincolato a soggiacere all’azione sindacale; la posizione giuridica del sindacato è di libertà, non di pretesa,
né l’art 39.1 ha voluto negare il dialettico antagonismo tra le controparti. Infondo anche la libertà di organizzare

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l’impresa e ricercare il profitto sono riconosciute e tutelate dalla Cost. All’interno dell’impresa vengono ad
esempio garantite le libertà di proselitismo sindacale, di manifestazione di ideologie sindacali … ma nei limiti in
cui l’esercizio di tali diritti non incida in modo eccessivo e sul processo produttivo. Ciò che l’art 39.1 vuole è solo
che l’esercizio di libertà e attività sindacale non sia ostacolato o impedito dal datore di lavoro.

CAPITOLO 6: RAPPRESENTATIVITA’ E RAPPRESENTANZA SINDACALE NEI LUOGHI DI


LAVORO
1. La legislazione di sostegno del sindacato
Il diritto sindacale italiano si caratterizza per l’esiguità degli interventi legislativi e per la mancata attuazione
delle disposizioni costituzionali sulla registrazione dei sindacati e sul contratto collettivo con efficacia generale,
nonché sulla regolamentazione del diritto di sciopero, il che ha portato alla formazione extra-legislativa delle
regole del diritto sindacale affidate all’autonomia collettiva, agli orientamenti giurisprudenziali e alla prassi. Il
tratto dominante di tale ridotta presenza di norme legislative è stato a lungo quello promozionale, cioè di
sostegno e ausilio per i sindacati dei lavoratori. All’inizio il sostegno si identificava solo col riconoscimento legale
di un diritto a partecipare a organismi pubblici deputati a gestire i problemi del mondo del lavoro. Dal ’70, con
lo Statuto dei Lavoratori, l’operazione di sostegno invece si è spostata nei luoghi di lavoro. Alcune
organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative si sono viste riconoscere dall’art 19 St. lav. una
posizione preferenziale in materia di organizzazione e azione sindacale in azienda. Potendovi costituire apposite
rappresentanze sindacali aziendali (R.S.A.), legittimate a indire assemblee e referendum tra i lavoratori, a
usufruire di locali per riunioni … Poi, nella legislazione c.d. di emergenza e poi di crisi, il sindacato
maggiormente rappresentativo (s.m.r.) è stato chiamato a partecipare alla gestione della crisi economica con:
 La stabile integrazione in appositi organismi pubblici di gestione del mercato del lavoro
 L’attribuzione della legittimazione a stipulare determinati contratti collettivi con clausole anche derogatorie
rispetto agli standard legali di tutela dei lavoratori
 Il riconoscimento di diritti di informazione su varie problematiche aziendali
La politica legislativa di promozione e sostegno del sindacato si collega alla considerazione del ruolo delle forze
rappresentative dei lavoratori in una società pluralistica e all’esigenza delle moderne società industriali a
ottenere un minimo consenso da parte delle forze sociali. Di qui il riconoscimento e il sostegno di organizzazioni
che in quanto aggregazioni di ampie fasce di lavoratori possono costituire fattore di squilibrio o stabilizzazione
del sistema. Esempi significativi di tale latente scambio politico possono trovarsi nel sostegno dato dal Titolo III
dello St. lav. alle Confederazioni sindacali maggiormente rappresentative, che consentì ad esse il recupero e il
governo dei movimenti contestativi dell’autunno caldo del ’69, nonché nella pratica di accordi concertativi dei
Governi con le maggiori centrali sindacali che ha consentito la riduzione del costo del lavoro. Perché si realizzi
un tale scambio però, ovviamente, tra sostegno dato dallo Stato al sindacato e un atteggiamento responsabile
verso le istituzioni, i soggetti collettivi “protetti” devono essere realmente rappresentativi di ampi gruppi sociali
o di interessi rilevanti; siano cioè in grado di fornire in contropartita un effettivo controllo e una stabilizzazione
del conflitto sociale. La ratio stessa della politica promozionale contiene in sé la necessità di una delimitazione
selettiva dei soggetti collettivi protetti. Necessità per molto soddisfatta dal richiamo alla figura del sindacato
maggiormente rappresentativo, come esclusivo destinatario del sostegno legislativo. Se la rappresentatività del
sindacato riguarda la capacità di influenzare e governare vari strati di lavoratori, maggiormente rappresentativo
è quel sindacato che presenti in modo sicuro e spiccato tale capacità. La rappresentatività indica quindi
l’idoneità del sindacato a esprimere e tutelare l’interesse collettivo di un’ampia fascia di lavoratori.
La rappresentanza invece evoca il potere del sindacato di compiere attività giuridica (specie contrattuale) in

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nome e per conto dei soli iscritti. Il concetto di rappresentatività a fini selettivi di vantaggi o diritti è variabile:
a) C’è una definizione utile per il riconoscimento della rappresentanza in azienda e dell’attribuzione di diritti
sindacali del titolo III St. lav.
b) Una relativa all’accesso alla negoziazione per la contrattazione collettiva nazionale
c) Una più generica su tutti i restanti ambiti e finalità

2. Gli indici rivelatori della maggiore rappresentatività


Lì dove c’è un generico richiamo del legislatore al s.m.r. senza una previa definizione si è posto il problema dei
criteri idonei ad accertare tale caratteristica, accertamento rimesso per molto agli interpreti. Il mero criterio
numerico di elevato numero di iscritti, alla stregua della ratio delle politiche di promozione, è criterio
significativo ma non sufficiente.
La dottrina ha quindi individuato altri requisiti:
1. L’equilibrata presenza in un ampio arco di categorie professionali  non ritenendosi adeguatamente
rappresentativo un sindacato concentrato solo in alcuni settori o categorie merceologiche né un sindacato
rappresentativo di una sola categoria dei prestatori di lavoro
2. La diffusione su tutto il territorio nazionale  negandosi la m.r. a confederazioni caratterizzate dalla
concentrazione territoriale
3. L’esercizio continuato dell’azione di autotutela con riguardo a diversi livelli e interlocutori 
l’effettività dei compiti che qualificano l’azione sindacale verso le controparti datoriali e delle pubbliche
istituzioni e la capacità di controllo e mobilitazione della base
4. La reale capacità di influenza sull’assetto economico e sociale del Paese  quale solo interlocutore
stabile ed effettivo dei pubblici poteri
A livello di confederazioni la giurisprudenza ha ritenuto m.r. Cgil, Cisl e Uil, successivamente il requisito è stato attribuito
anche ad altre confederazioni (Cisal, Cida …)
Il criterio della m.r. ha portato a discussioni in dottrina giuslavoristica perché visto come veicolo di sostegno
arbitrario del legislatore e portatore di un’esclusione immotivata di altre forze sindacali. In tal senso si è
dubitato della sua legittimità costituzionale. La dottrina che però ha sostenuto la linea politica del diritto
concretizzata dallo Statuto dei Lavoratori ha dato interpretazione del requisito ex art 19 che ha fatto superare
tale perplessità. Specialmente si è detto che la m.r. costituiva criterio selettivo basato su indici oggettivi e
verificabili, cioè idoneo a descrivere la situazione di fatto dell’universo sindacale. In pratica, si consentiva così
anche a sindacati inizialmente privi dei requisiti richiesti di accedere ai benefici legali, previo raggiungimento
della stessa condizione oggettiva. Interpretazione avallata anche dalla Corte costituzionale superando i dubbi di
legittimità.

3. La rappresentatività ai fini dell'accesso alle trattative per il CCNL


Nel 2009, con l’accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali senza sottoscrizione della Cgil si è data
vita a una sequenza di accordi separati in materia sindacale che ha coinvolto i diversi livelli di contrattazione
(nazionale, aziendale) e ha avuto come protagonista il settore metalmeccanico, specialmente Fiat e Fiom.
A metà 2011 per far fronte ai rischi di destabilizzazione del sistema indotti dalla rottura dell’unità sindacale, le
Confederazioni hanno stipulato un nuovo accordo in materia di contrattazione collettiva e di rappresentatività
sindacale  l’Accordo Interconfederale del 2011, questa volta unitario perché sottoscritto anche da Cgil e
teso a superare la precedente situazione di incertezza. Tale Accordo è stato poi seguito dal Protocollo d’Intesa
del 2013, anch’esso unitario in materia di rappresentanza e rappresentatività, ed entrambi sono confluiti nel
T.U. sulla rappresentanza del 2014.
Tali Accordi, seguendo il modello previsto per i sindacati del pubblico impiego privatizzato, contengono una

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definizione di rappresentatività sindacale “per la contrattazione collettiva nazionale di categoria”. Si individuano
quindi come base i dati associativi riferiti alle deleghe relative ai contributi sindacali conferite dai lavoratori
(criterio associativo). Tali dati, certificati da apposita sezione INPS, vengono poi ponderati con i consensi
ottenuti nelle elezioni periodiche delle rappresentanze sindacali unitarie (criterio elettivo). Per avere il diritto a
partecipare al negoziato per la stipulazione del CCNL il risultato non deve essere inferiore al 5% del tot dei
lavoratori della categoria cui si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro. Simile definizione, su base
pattizia della rappresentatività sindacale, finalizzata alla contrattazione collettiva nazionale di categoria, coesiste
con il diverso criterio di rappresentatività ex art 19 St. lav., finalizzato all’accesso ai diritti sindacali di cui il
Titolo III st. lav. Il criterio quantitativo e percentuale degli Accordi opera solo nel settore industriale e in qualche
altro che li ha recepiti, negli altri settori vale invece il principio per cui l’accesso alle trattative è governato dai
rapporti di forza e dal principio di effettività.

4. Il sindacato maggiormente rappresentativo nella versione originaria dell’art 19 St.lav


L’art 19 St. lav. non è l’unica norma che esprime il favore dell’ordinamento verso il s.m.r. ma è la più
significativa. Nella sua formulazione consentiva la costituzione di rappresentanze sindacali aziendali (RSA)
titolari di una serie di incisivi diritti e poteri nei luoghi di lavoro, nell’ambito:
a) Delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale
b) Delle associazioni sindacali, non affiliate alle confederazioni ↑, firmatarie dei contratti collettivi nazionali o
provinciali di lavoro applicati nell’unità produttiva
L’operazione politica del legislatore del ’70 era di legittimare una rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro e
di darle una serie di diritti, ma al contempo di riconoscere tale legittimazione e diritti solo ai sindacati aderenti
alle maggiori Confederazioni o alle associazioni nazionali stipulanti contratti collettivi di livello non aziendale. Il
tutto con obiettivo di istituzionalizzazione o sindacalizzazione della contestazione operaia divampata in quegli
anni. Obiettivo perseguito se è vero che i movimenti spontaneistici di base rifluirono nel più ordinato attivismo
delle grandi Centrali sindacali. Per circa un ventennio la maggiore rappresentatività a livello confederale o la
sottoscrizione di contratti collettivi non aziendali applicati nell’azienda interessata hanno rappresentato criteri
identificativi del soggetto sostenuto e privilegiato nei luoghi di lavoro. Poi, dai primi anni ’90, i due criteri hanno
iniziato a mostrare la loro inadeguatezza a esprimere l’universo sempre più ampio e frammentato del lavoro
dipendente. Specialmente hanno rilevato una polarizzazione verticistica che rischiava di sottrarre il diritto a
costituire R.S.A. a sindacati pur forti e rappresentativi in azienda, ma non aderenti a grandi centrali sindacali; il
diritto che per converso veniva garantito a sigle sindacali con pochi aderenti nella singola azienda, ma affiliate a
confederazioni sindacali rappresentative.

5. L’articolo 19 st.lav. dopo la manipolazione realizzata dal referendum del 1995


I contraddittori esiti applicativi dell’art 19, rilevando un deficit di democrazia, portano a una rivisitazione dei
criteri di costituzione delle rappresentanze sindacali in azienda: nel ’93 un Accordo interconfederale costituì l
RSU (rappresentanza sindacale unitaria) come forma rappresentativa alternativa alla RSA. Nel ’95 un
referendum parzialmente abrogativo dell’art 19 spostò il criterio identificativo della rappresentatività sindacale
sul piano della sottoscrizione di contratti o accordi collettivi di ogni livello, applicati nell’unità produttiva
interessata. In un sistema in cui la conclusione di contratti collettivi è influenzata solo da rapporti di forza tra le
controparti, un sindacato che abbia stipulato un contratto collettivo di ogni livello è considerato sufficientemente
forte e rappresentativo quindi degno di essere supportato e costituire RSA. In sostanza il sostegno normativo
tende a dirigersi no più in favore di strutture aziendali legate a sindacati esterni maggiormente rappresentativi
ma in favore di soggetti individuati in base a un’oggettiva diretta e riscontrabile circostanza: la sottoscrizione di

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contratti collettivi applicati nell’unità produttiva; criterio di effettività empiricamente verificabile ed immune da
apprezzamenti discrezionali. La possibilità quindi di costituire RSA e di fruire dei relativi diritti non è più
conseguenza della forza sindacale a livello confederale ma della presenza nello specifico settore o azienda in cui
sono destinate ad operare. Dal punto di vista tecnico il referendum del ’95 comportò l’abrogazione di alcuni
segmenti lessicali dell’art 19, la norma risultante autorizza la costituzione di RSA “nell’ambito delle associazioni
sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva” Nel 2013 la Corte
Cost ha ritenuto di dilatare il filtro selettivo per l’accesso alle RSA e ai diritti sindacali ritenendo non più
indispensabile la sottoscrizione di contratti collettivi, nazionali o aziendali ma sia sufficiente la sola
partecipazione alle trattative di un contratto collettivo applicato in azienda, così da non escludere dai benefici i
sindacati significativi. L’art 19 propone un modello di canale unico di rappresentanza nei luoghi di lavoro, quindi
di rappresentanza che rifletta le istanze dei lavoratori e quelle delle organizzazioni sindacali. La norma
attribuisce, infatti, il potere di iniziativa della costituzione della RSA ai lavoratori occupati nella singola unità
produttiva, con lo scopo di evitare che modalità di costituzione e designazioni dei rappresentanti sindacali siano
monopolizzate dalle organizzazioni sindacali. Però, la RSA deve presentare un qualche collegamento con
un’organizzazione sindacale rappresentativa in quanto partecipante alla trattativa di un contratto collettivo
applicato nell’unità produttiva.
L’esigenza di vincolare l’organismo aziendale ad entità sindacali esterne all’azienda e a struttura associativa si
ricollega ad almeno due considerazioni:
1. L’opportunità di evitare iniziative di gruppetti di lavoratori, di piccolo corporativismo. L’attività sindacale in
azienda si svolge in una sfera di pertinenza del datore di lavoro, chiamato a una serie di comportamenti di
collaborazione, di adempimento o di pati, per cui sembra logico che il titolare dell’impresa risulti onerato entro i
limiti di congruità e ragionevolezza e solo verso organismi aziendali selezionati col collegamento con realtà
sindacali esterne, qualificate e responsabili.
2. La necessità di promuovere interlocutori stabili con cui il datore di lavoro possa dialogare. Non potranno
quindi essere costituite RSA nell’ambito di coalizioni spontanee o occasionali di lavoratori quali ad es i comitati
creati ad hoc per certe vicende sindacali.
La svolta referendaria del ’95 ha portato a discussioni, specialmente si è sostenuto che così, attribuendo alla
sottoscrizione del contratto collettivo il valore di criterio selettivo per il godimento dei diritti sindacali, si finisce
per dare alla stessa controparte datoriale il potere di accreditare le organizzazioni sindacali rappresentative in
azienda, dandole la facoltà di escludere quelle non gradite col rifiuto dell’accordo con esse. Parte della dottrina
ha però risposto che proprio la stipula del contratto collettivo costituisce nell’ordinamento sindacale di fatto,
l’elemento sintomatico della forza e del seguito sindacale. Nel settore industriale tale timore è superato nel
2014 dato che un sindacato che presenti non meno del 5% di rappresentanza ha diritto a trattare per la
stipulazione del contratto collettivo nazionale che gli da diritto alla costituzione di RSA.
Il modello dell’art 19 ha tratti di originalità. Si presenta come una struttura voluta dai lavoratori dell’azienda e che questi
rappresenta sia pur genericamente agganciata a un sindacato esterno. Carattere aperto che ne ha consentito l’applicazione a
organismi storicamente già esistenti e sindacalmente attivi
Il passaggio almeno nel settore industriale, da un criterio selettivo fondato sull’effettività e forza di imporsi del
sindacato a un criterio obiettivo e percentuale (5%) supera la discussione sul se fosse sufficiente ai fini dell’art
19 anche la mera firma successiva di un contratto collettivo oggetto di trattativa da parte di altri sindacati o se
occorresse l’effettiva partecipazione al procedimento formativo del contratto. Oggi per la Corte Cost “non basta
la mera adesione formale a un contratto negoziato da altri sindacati ma occorre una partecipazione attiva al
processo di formazione del contratto”. Altro nodo interpretativo investe invece la nozione di contratto collettivo
rilevante ex art 19 St. lav. La norma post referendum si presenta priva del richiamo limitativo a livello nazionale
o provinciale del negoziato sindacato; per cui anche la partecipazione alla trattativa o la sottoscrizione di un

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contratto collettivo di livello aziendale è sufficiente a integrare il requisito dell’art 19.
Resta da capire se la fattispecie contratto collettivo debba ritenersi generica e onnicomprensiva. La dottrina
prevalente si è pronunciata negativamente, con avallo della Corte Cost, che oltre ad affermare che non è
sufficiente la stipulazione di un contratto qualsiasi, ha sottolineato che deve trattarsi di un contratto normativo,
che regoli in modo organico i rapporti di lavoro, almeno per un settore o un istituto importante della loro
disciplina, anche in via integrativa, a livello aziendale, di un contratto nazionale o provinciale già applicato
nell’unità produttiva”.
Questa lettura esclude che possa legittimare la costituzione di RSA la conclusione o la partecipazione alla trattativa di accordi
c.d. gestionali
È stato osservato che il requisito dell’applicabilità del contratto collettivo non deve per forza conseguire
dall’iscrizione del datore di lavoro all’associazione stipulante, bastando l’applicazione di fatto e spontanea del
contratto ai lavoratori occupati nell’unità produttiva di riferimento. In caso contrario si consentirebbe all’impresa
che solo abbia l’accortezza di non affiliarsi sindacalmente di sottrarsi alle norme del titolo III. Altre precisazioni
sono state fatte sulla locuzione “applicati”, da intendersi nel senso che la stipula di un contratto collettivo
legittima la costituzione di RSA solo nei limiti di durata del contratto collettivo stesso. Il referendum invece non
ha inciso sulla qualificazione giuridica delle RSA, che restano organismi do natura sindacale, per quanto figli di
una norma indeterminata e aperta da cui può desumersi la volontà legislativa di non predeterminare il tipo di
interazione tra RSA ed associazioni sindacali esterne, così da permettere che possano correlarsi nelle forme e
secondo i moduli più diversi, in ossequio al principio di libertà sindacale e nella logica del c.d. canale unico di
rappresentanza sindacale.

6. Profili di legittimità costituzionale dell’art 19 st.lav.


Già nella formulazione originaria l’art 19 St. Lav. ha suscitato dubbi di legittimità costituzionale, tutti superati
dalla Corte cost, ma che vengono riproposti con nuovo dettato dell’art 19 post referendum.
♦ Nella sentenza 54 del ’74 la Corte si era interrogata in primis sulla compatibilità del beneficio selettivo col
principio di libertà dell’organizzazione sindacale ex art 39.1 Cost in favore di qualsivoglia O.S. e aveva rilevato
che l’art 19 e il Titolo III St. lav. non interferiscono con la libertà sindacale ma aggiungono alle prerogative (di
libertà) della norma costituzionale altri privilegi e benefici. La delimitazione dei soggetti privilegiati in una sfera
ulteriore rispetto a quella garantita da art 39 porta al massimo un diverso problema di legittimità ex art 3.1
Cost per il trattamento discriminatorio di alcune realtà sindacali. Ma la Corte ha precisato che l’art 19, pur
avendo diversificato la posizione giuridica delle organizzazioni sindacali non ha leso il principio in parola
potendosi giustificare in base a un criterio razionale e consapevole, che è poi quello di far corrispondere a
un’effettiva capacità di rappresentare gli interessi sindacali l’attribuzione di diritti specifici.
Il dubbio di costituzionalità si propone anche sotto un altro profilo dato che la previsione ex art 19 in quanto riferentesi a un
criterio non proporzionalistico mal si concilierebbe col principio democratico di ripartizione del potere rappresentativo in
stretto rapporto al peso numerico. Ma si può a ciò obiettare che la previsione cost ex art 39 attiene alla stipulazione di
contratti collettivi erga omnes e non per forza moduli organizzativi di altri momenti dell’attività sindacale che possono
risultare improntati al principio del privilegio del s.m.r.
♦ Nella sentenza 334 dell’88, la Corte cost invece ha dovuto confrontarsi con un altro rilievo di costituzionalità
sollevato per il riferimento della rappresentatività al livello confederale, piuttosto che categoriale e quindi
riferibile solo all’originaria dizione dell’art 19. I giudici hanno qui confermato la legittimità della disposizione
statutaria ─ Da un lato interpretando il riferimento costituzionale a livello di categoria come dipendente e
funzionale al procedimento di stipulazione dei contratti collettivi con efficacia erga omnes ─ Dall’altro ribadendo
che non vi può essere lesione del principio di libertà sindacale, dove il legislatore nel disporre il conferimento di
diritti altri rispetto quelli assicurati alla generalità delle associazioni sindacali, favorisca un “processo di

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aggregazione e di coordinamento degli interessi dei vari gruppi professionali ..per ricomporre le spinte
particolaristiche in un quadro unitario”
♦ Chiamata poi a pronunciarsi sulla legittimità dell’art 19 post referendum in riferimento a artt. 2, 3 e 39.1 Cost,
la Corte cost ha sciolto ogni dubbio. In effetti l’assoggettamento della RSA all’accreditamento negoziale del
datore ha fatto dubitare della compatibilità della norma con il principio di libertà sindacale e uguaglianza, ben
potendo il datore condizionale col suo potere l’autonomia dei sindacati e anche discriminarne alcuni, pur
rappresentativi. La devoluzione allo strumento negoziale di funzioni selettive esclusive dell’accesso privilegiato
in azienda ha poi ingenerato seri timori di una lesione dei diritti inviolabili del singolo nelle formazioni sociali,
potendo il sindacato essere indotto a sottoscrivere accordi più per ritagliarsi una parte di potere in azienda che
per salvaguardare gli interessi dei propri rappresentati.
♦ Nelle sentenze del ’96 poi la Corte ha asserito che lo strumento negoziale, allargato alla contrattazione
aziendale può essere criterio esclusivo di rappresentatività data la sua idoneità a valorizzare l’effettività
dell’azione sindacale e a misurare la forza di un sindacato. In più, la rappresentatività è comunque una qualità
giuridica attribuita ex lege al sindacato e non uno status dipendente dall’accreditamento datoriale espresso in
forma pattizia.
Nasce quindi l’esigenza di un’interpretazione rigorosa del requisito ex art 19 St. Lav. per farlo coincidere con “la
capacità del sindacato di imporsi al datore di lavoro, direttamente o attraverso la sua associazione”. Non sarà
quindi sufficiente la mera adesione formale dell’associazione a un contratto collettivo qualsiasi ma bisognerà
accertare:
a) La partecipazione attiva del sindacato al processo di formazione del contratto, non bastando la mera
sottoscrizione di uno già trattato e siglato da altre OO.SS.
b) La stipulazione di un contratto normativo che regoli in modo organico i rapporti di lavoro almeno per un
settore o istituto importante.
Solo così un sindacato potrà essere titolato ad accogliere nel proprio ambito RSA costituite ex art 19 St. lav.
Negli anni 2000 le vicende della contrattazione collettiva c.d. separata hanno fatto emergere un profilo di contraddizione
insito nel testo dell’art 19 dopo la manipolazione referendaria. Protagonisti sono:
- Fiat  revocata la propria iscrizione a Confindustria, ha regolato ex novo i rapporti di lavoro tramite contratti aziendali
separati specifici di primo livello, cioè che assommano le funzioni del contratto collettivo nazionale
- Fiom  si è rifiutata di sottoscrivere quei contratti quindi è stata esclusa dal nuovo sistema contrattuale ma anche dall’area
dei diritti sindacali statutari per carenza del requisito dell’art 19

Per quanto riguarda la locuzione “associazioni sindacali firmatarie” la giurisprudenza si è divisa.


 La parola firmatario si riferisce esattamente a colui (non che può apporre ma) che appone la propria firma su un documento
così da aderirvi
 Per altri, si possono riconoscere i diritti dell’art 19 e del Tit. III anche al sindacato che pur avendo partecipato alla trattativa
non abbia apposto la firma non condividendo i contenuti dell’accordo. Il dato formale della materialità della sottoscrizione di
un contratto non appare indispensabile essendo più probante l’effettiva partecipazione alla formazione del contratto. Sul piano
interpretativo però non era sostenibile come tesi perché il giudice sì che non deve fermarsi alla lettera, ma non può neanche
prescinderne totalmente La riconosciuta impossibilità di un’interpretazione ermeneutica forzata dell’art 19 ha indotto la
giurisprudenza di merito a riproporre la questione di legittimità cost dell’art per violazione di artt. 2, 3 e 39.1. Quale unica
chiave di accesso all’area di sostegno legislativo il criterio della stipulazione del contratto collettivo applicato nell’unità
produttiva è apparso irragionevole e lesivo del principio di libertà sindacale
Nel 2013 per la prima volta la Corte cost ha dichiarato l’illegittimità dell’art 19 lett. b) nella parte in cui non
“prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni
sindacali che, pur non firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque
partecipato alla negoziazione sugli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda”. Il criterio
selettivo per l’accesso ai diritti sindacali non è quindi più la sottoscrizione del contratto collettivo applicato in

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azienda ma il requisito della partecipazione alla negoziazione, spostando così la questione dalla sottoscrizione
alla partecipazione. Nuovo requisito non privo di incertezze: per es, risulta rimessa alla giurisprudenza ordinaria
la valutazione su cosa sia partecipazione alla trattativa sfociata nel contratto collettivo applicato in azienda,
dovendosi comunque ritenere che la rappresentatività è la capacità del sindaco di imporsi al datore di lavoro
come controparte contrattuale. La Corte sembra quindi invitare il legislatore a intervenire sulla materia,
indicandogli anche eventuali soluzioni tra cui la valorizzazione dell’indice di rappresentatività costituito dal
numero di iscritti o l’introduzione di un obbligo a trattare con le OO.SS. che superino una certa soglia di
sbarramento. Il T.U. sulla rappresentanza del 2014 offre particolare lettura del criterio selettivo introdotto dalla
Corte: ai fini della fruizione dei diritti sindacali in azienda devono essere considerati partecipanti alla
negoziazione, i sindacati che hanno:
 Raggiunto almeno il 5% di rappresentanza
 Contribuito alla definizione della piattaforma
 Fatto parte della delegazione trattante l’ultimo rinnovo del contratto collettivo
Rimane auspicabile un intervento legislativo di chiarificazione e stabilizzazione del sistema in funzione sia della
fruizione dei diritti sindacali in azienda sia della capacità di stipulare contratti collettivi.

7. La rappresentanza sindacale unitaria(RSU)


La perdita di rappresentatività del sindacalismo confederale ha portato a una crisi della nozione di maggiore
rappresentatività presunta del vecchio art 19 St. lav. e con l’iniziativa referendaria ha preso corpo l’ipotesi di
una riforma degli organismi di rappresentanza sindacale aziendale. L’ipotesi della riforma legislativa ha però
registrato un impasse e al suo posto è a avanzata l’iniziativa sindacale che ha introdotto le RSU, previste come
nuovi organismi rappresentativi aziendali dal Protocollo del 1993 e disciplinate dall’Accordo Interconfederale. Le
parti firmatarie di tale A.I. hanno espressamente rinunciato a costituire una propria RSA ex art 19 e hanno
prefigurato una forma rappresentativa aziendale unitaria cui convenzionalmente hanno riconosciuto l’insieme
dei poteri e funzioni che ha l’RSA per legge. Oggi quindi in ogni unità produttiva possono coesistere una RSU
promossa e partecipata da tutte le OO.SS. che riconoscono il modello degli Accordi del ’93 e tante RSA in
rappresentanza delle associazioni sindacali che non hanno aderito e si sono affidate al modello legale della RSA,
sempre che ne abbiano i requisiti richiesti. Le RSU si configurano come strutture organizzate su base unitaria,
elette dalla collettività aziendale. La loro costituzione è infatti demandata ad elezioni cui partecipano tutti i
lavoratori, con ammissione alla competizione di liste elettorali presentate dalle:
a) Organizzazioni sindacali di categoria aderenti a confederazioni firmatarie del T.U. 2014 o dalle organizzazioni
sindacali di categoria firmatarie del contratto collettivo nazionale di lavoro applicato nell’unità produttiva.
b) Associazioni sindacali formalmente costituite con un proprio statuto ed atto costitutivo, a condizione che:
─ Accettino i contenuti del T.U. 2014, dell’A.I. del 2011 e del Protocollo del 2013
─ La lista sia corredata da un numero di firme di lavoratori dipendenti dall’unità produttiva pari al 5% degli
aventi diritto al voto nelle aziende con oltre 60 dipendenti. Nelle aziende con fra 16 e 59 dipendenti la lista
dovrà essere corredata da almeno 3 firme di lavoratori
Quanto alla composizione gli Accordi del ’93 prevedevano che le RSU fossero costituite
 Per 2/3 dei seggi  da membri eletti a suffragio universale e scrutinio segreto tra liste concorrenti
 Restante 1/3  assegnato alle liste presentate dalle associazioni sindacali stipulanti il contratto collettivo
nazionale di lavoro applicato nell’unità produttiva, in proporzione dei voti ottenuti.
Le ragioni della riserva del terzo di seggi stanno nel non veder compromesso il ruolo delle 3 principali Confederazioni sindacali
nei luoghi di lavoro come nella necessità di instaurare forme di raccordo soggettivo tra il livello contrattuale nazionale e
aziendale, funzionali alla tenta del sistema negoziale. Soluzione criticata perché alternava la rappresentanza all’interno della
RSU di ogni singola componente snidale in base ai voti ricevuti co una tecnica che contraddiceva l’intento di recepire i principi

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della democrazia rappresentativa. Il T.U. sulla rappresentanza sindacale 2014 prefigura una revisione del modello con
l’eliminazione della quota del terzo riservato e quindi un’investitura solo elettiva della RSU.
Il carattere unitario ed elettivo della RSU rafforza il legame della stessa con la base dei lavoratori. Infondo il
sistema misto di costituzione, elettivo e associativo insieme, salvaguarda comunque la dimensione del canale
unico di rappresentanza del nostro sistema, che vede confluire in un’unica struttura i rappresentanti dei
lavoratori e i rappresentanti dei sindacati, anche se con delle ambiguità: l’RSU è organo dell’insieme dei
lavoratori e al tempo stesso funge da struttura comune di rappresentanza dei sindacati in azienda. Il che
comporta per forza tensione fra due opposti fattori di legittimazione della rappresentanza sindacale,
rispettivamente elettiva e associativa. Quanto ai poteri riconosciuti alle RSU, si segnala quello della
legittimazione a negoziare per la stipula del contratto collettivo aziendale di lavoro. È la più importante
prerogativa riconosciutagli, considerato che neanche il legislatore statutario si è spinto a tanto con le RSA.
Competenza che risulta però concorrente con quella delle associazioni sindacali firmatarie del CCNL, a garanzia
del raccordo tra livelli negoziali ed in ossequio al modello di contrattazione ordinato, proprio del Protocollo ’93.
Le RSU subentrano quindi a tutte le funzioni e i poteri dati alle RSA per effetto delle disposizioni di legge,
incluse quelle in tema di informazione e consultazione. Anche sul versante dell’accesso privilegiato nei luoghi di
lavoro è previsto dall’art 4 dell’accordo, che i componenti delle RSU subentrino ai dirigenti delle RSA nella
titolarità di diritti, permessi, libertà sindacali e tutele già loro spettanti per effetto delle disposizioni St. lav.
E’ però sancito che una quota dei diritti sindacali venga preservata alle OO.SS. stipulanti il CCNL applicato nell’unità
produttiva per consentirne una specifica agibilità sindacale. Sono quindi fatti salvi il diritto di indire assemblee durante l’orario
di lavoro, il diritto a permessi non retribuiti, il diritto di affissione … Problema particolare si è posto col riferimento al rapporto
fra i rappresentanti eletti dai lavoratori e l’associazione sindacale cui aderiscono. Ci si è chiesti infatti se il venir meno del
rapporto associativo dell’eletto con l’organizzazione di appartenenza, con migrazione verso altro sindacato o con mero
allontamento da quello originale, facesse venir meno pure la carica di rappresentante sindacale. La Cassazione sembra aver
optato per la conservazione del ruolo di rappresentante. Diversamente il T.U. sulla rappresentanza sindacale, dispone invece
che il cambiamento di appartenenza sindacale porti alla decadenza dalla carica e la sostituzione col primo dei non eletti della
lista di originaria appartenenza del sostituito

8. Le rappresentanze dei lavoratori per la sicurezza


La questione del connubio tra sindacato-associazione e sindacato-movimento riaffiora in materia di salute e
sicurezza nei luoghi di lavoro, specie per la tutela collettiva dei lavoratori.
In un’ottica protettiva estesa al profilo collettivo dell’organizzazione e non solo individuale, l’art 19 St. lav. aveva attribuito a
tutti i dipendenti, in quanto parte della comunità di rischio, un generale diritto di promozione e controllo in tema salute e
sicurezza, da esercitarsi con loro rappresentanze, senza però specificare niente sulla natura giuridica
La svolta c’è stata con l’istituzione, obbligatoria e generalizzata, del rappresentante dei lavoratori per la
sicurezza ad opera del D. Lgs. 626/94, che ne ha disciplinato modalità di scelta e prerogative, nell’ambito di un
più ampio disegno innovatore di ispirazione comunitaria, inteso a promuovere la partecipazione equilibrata dei
lavoratori e dei loro rappresentanti alla materia della sicurezza. Col T.U. 2008, il rappresentante per la sicurezza
nelle aziende con più di 15 dipendenti viene eletto o designato nell’ambito delle rappresentanze sindacali
presenti in azienda. Nelle aziende o unità produttive con fino a 15 dipendenti è eletto dai lavoratori invece. Il
T.U. 2008 ha anche introdotto le figure di:
 Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale  per le unità produttive del territorio o del comparto in cui non si
è proceduto all’elezione/designazione del rappresentante per la sicurezza
 Rappresentante dei lavoratori di sito produttivo  per specifici contesti produttivi come i porti o gli impianti siderurgici

9. Il sindacato comparativamente più rappresentativo


La legislazione di rinvio a discipline collettive chiamate a integrare precetti legali riconosceva tale ruolo solo ai

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contatti collettivi stipulati dai sindacati maggiormente rappresentativi perché ritenuti più affidabili e frutto di
una mediazione con la controparte datoriale. Poi la nozione di s.m.r. è stata affiancata e superata da quella di
sindacato comparativamente più rappresentativo. La formula è emersa inizialmente con la L. 549/95 a fini
selettivi dei contratti collettivi applicabili in materia di minimale contributivo. A darne ragione è stata la
diffusione di una pluralità di discipline negoziali nella stessa categoria. Di qui la necessità di ancorare il rinvio
legislativo alla sola disciplina collettiva convenuta con i sindacati che, dopo un procedimento di comparazione,
risultino più rappresentativi, cioè più forti e affidabili di altri.
La formula nasce in risposta a contratti collettivi c.d. pirata, stipulati da sindacati sedicenti rappresentativi e finalizzati a
consentire ai datori indebiti vantaggi sul piano contributivo
La nozione è poi stata riresa da leggi successive, specie in quelle in materia di tipologie flessibili e riforma del
mercato di lavoro. Di fronte a tale inedita formula la dottrina ha tentato di fissarne ratio e caratteri essenziali. Si
è quindi osservato che se riferita a singole organizzazioni sindacali, la nozione opera concretamente come
criterio di selezione degli agenti negoziali, poiché contiene riferimento al principio maggioritario. Funzione
selettiva posta però in dubbio dalle disposizioni legislative che hanno abbandonato la preposizione “dai” s.c.r. a
favore della preposizione “da”. La formula si è così riavvicinata a quella dei s.m.r. dove l’avverbio maggiormente
è inteso in termini di comparazione assoluto e non relativo. Vero è che nella nuova versione la formula non
sembra più finalizzata alla scelta di un unico contratto collettivo, stipulato dall’agente negoziale più forte e
affidabile, ma prende il ruolo di criterio legittimante la stipulazione di eventuali accordi separati.
In dottrina continuano a esserci incertezze sulla ratio ispiratrice della nozione. Vi sono diverse tesi infatti: ─ Formula orientata
a prevenire e risolvere i conflitti intersindacali
─ Strumento pera evitare la stipulazione di una pluralità di contratti collettivi separati in una stessa categoria
─ La formulazione al plurale delle organizzazioni sarebbe segnale che la nozione ripropone quella pre-referendaria della
maggiore rappresentatività

10. La rappresentatività del settore pubblico


Il criterio è qui selezionare non solo i soggetti cui attribuire il godimento di specifici diritti sindacali o da
ammettere come rappresentanti del personale ai consigli di amministrazione o agli organi direttivi di enti e
amministrazioni pubbliche, ma anche e soprattutto cui attribuire la legittimazione a stipulare accordi collettivi.
Si spiega quindi la tendenza del settore a dotarsi di peculiari criteri di accertamento della rappresentatività
sindacale. Il D. Lgs. 396/97 riscrive art 47 del D. Lgs. 29/93 e aggiunge un 47-bis; entrambi sono poi
trasportati del D. Lgs. 165/2001 c.d. T.U. sul pubblico impiego. Il nuovo apparato di regole si presenta
innovativo ed ambizioso. Riqualifica ex lege i moduli della rappresentanza e rappresentatività sindacale in
un’ottica di valorizzazione del consenso dei lavoratori, con omaggio alla democrazia rappresentativa. È
significativo anche che il legislatore si lasci anche nominalmente alle spalle la nozione di m.r. per adottarne una
di rappresentatività sindacale la cui unità di misura è la media tra:
 Dato associativo  espresso nel comparto o area contrattuale dalla % delle deleghe per il versamento dei
contributi sindacali rispetto al totale delle deleghe rilasciate nell’ambito considerato
 Dato elettorale  espresso sempre nel comparto o area contrattuale dalla % di voti ottenuti nelle elezioni
delle rappresentanze unitarie del personale, rispetto al totale dei voti espressi nell’ambito considerato
Per essere considerate rappresentative le organizzazioni sindacali devono avere nell’area o nel comparto una
rappresentatività non inferiore al 5%, percentuale calcolata come media tra dato associativo e elettorale,
testimonianza della capacità di aggregare iscritti e dell’idoneità a raccogliere consensi oltre gli associati. La loro
combinazione dovrebbe quindi assicurare bilanciamento tra la vocazione associativa e quella universalistica del
sindacato. L’ancoraggio del criterio elettivo ai risultati delle elezioni delle rappresentanze unitarie del personale
consente di instaurare un legame indissolubile tra rappresentatività nel comparto/area negoziale di riferimento

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e rappresentanza nei luoghi di lavoro, con una legittimazione rappresentativa ascendente che parte dal basso e
va verso l’alto con riflessi positivi sul piano dell’effettività della nozione di rappresentatività.
Emblematico è anche che il legislatore ridisegni l’intero sistema a misura delle organizzazioni di comparto e non delle
confederazioni, tanto che a quest’ultime è richiesto per il riconoscimento del relativo status di rappresentatività l’affiliazione di
organizzazioni sindacali rappresentative in almeno 2 comparti/aree contrattuali. Sono così le confederazioni a derivare la
propria rappresentatività dalle associazioni di comparto e non viceversa
La rappresentatività appare quindi declinata secondo tre accezioni:
1. La rappresentatività sufficiente  corrisponde ad almeno il 5% della media ponderata tra iscritti e voti nel comparto/area
contrattuale. Il suo possesso è condizione sine qua non per l’accesso al sistema sindacale del lavoro pubblico. In questo poi
fermo il principio di libertà sindacale saranno solo i sindacati rappresentativi a godere dei diritti di accesso alle trattative
nazionali, costituzione RSA, attribuzione dei relativi diritti, legittimazione a stipulare accordi per la disciplina delle RSU
2. La rappresentatività comparata  utile alla ripartizione delle restanti prerogative sindacali che spettano a tutti i sindacati
rappresentativi in proporzione alla loro rappresentatività
3. La rappresentatività complessiva  corrisponde ad almeno il 51% della media ponderata tra iscritti e voti nel
comparto/area o al 60% del dato elettorale in quell’ambito.
Si è diffusa poi la condizione che tale modello potesse funzionare anche nel settore privato e si sono avviati
diversi progetti legislativi, arenatisi però nelle aule parlamentari a causa delle opposizioni alla possibile
istituzionalizzazione ad opera della legge della rappresentanza sindacale e della stessa contrattazione collettiva
nel lavoro privato. Solo all’esito della stagione dei c.d. accordi separati (2009-10) l’Accordo Interconfederale del
2011 ha segnato una prima tappa verso l’uniformazione delle regole di rappresentanza nei due settori
adottando anche per il privato il criterio di calcolo della rappresentatività del settore pubblico. Il quadro
complessivo però mostra che fra i due resta una grande differenziazione: i modelli di rappresentanza e i
processi di contrattazione collettiva del lavoro privato continuano a essere regolati su base autonoma e non
eteronoma e continuano a dipendere dai rapporti di forza mentre nel settore pubblico sono contenuti nella
cornice degli artt. 40-50 D. Lgs. 165/2001.

11. RSA E RSU nel lavoro pubblico


Nel lavoro pubblico il problema della rappresentanza e delle prerogative sindacali nei luoghi di lavoro ha avuto
evoluzione differente che nel settore privato. Nonostante il modello di rappresentanza possa sembrare a canale
doppio con strutture elettive interne letificate e sindacati rappresentativi esterni, raccordati alle stesse e muniti
di proprie rappresentanze associati, in realtà l’opzione resta il canale unico, essendo le RSU destinate ad
assorbire le RSA dei sindacati che vi aderiscono. In tal senso si orienta l’Accordo Quadro (AQ) del ’98,
riproponendo la c.d. clausola di salvaguardia dell’Accordo del ’93. La previsione è però solo parzialmente
temperata dalla disposizione per cui le organizzazioni rinunciatarie possono comunque conservare o costituire
terminali di tipi associativo, titolati a godere dei permessi retribuiti nonché di tutte le tutele e prerogative dei
dirigenti sindacali, secondo le disposizioni dell’AQ su distacchi, aspettative e permessi del ’98. È conforme
infondo alle caratteristiche di un sistema a canale unico la presenza di una rappresentanza elettiva che trae
legittimazione dal consenso elettorale ma conserva un nesso col sindacato rappresentativo, confermando la
propria natura sindacale e non istituzionale. L’art 42 D. Lgs. 165/2001, che disciplina la rappresentanza
sindacale nelle strutture pubbliche rappresenta una novità in quanto deputato a instaurare un inedito sistema di
verifica elettiva e democratica del consenso nei luoghi di lavoro. Il modello poggia sulla previsione di 2 diverse
ma alternative strutture di base: le rappresentanze sindacali aziendali e gli organismi di rappresentanza unitaria
del personale. A prima vista potrebbe ricordare il modello del settore privato ma vi sono grandi differenze dato
che nel pubblico entrambe le istanze sono legificate e articolate fra loro e dato che le due rappresentanze sono
strutturalmente diverse da quelle del settore privato. Le RSA possono essere costituite dai sindacati
rappresentativi ex art 43 D. Lgs 165/2001 ed evocano solo nominalmente le strutture dell’art 19 St. lav. La

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differenza maggiore sta nel fatto che le RSA del settore pubblico non nascono dall’iniziativa dei lavoratori ma
sono diretta espressione dei sindacati con la rappresentatività minima del 5%, peraltro a prescindere dal se
siano o meno firmatari di contratti collettivi applicati nell’ente/unità amministrativa. Sono veri e propri organi
periferici dell’associazione sindacale esterna e non strutture genericamente agganciate a detto indicato come le
RSA del settore privato. Quanto agli organismi di rappresentanza unitaria del personale l’art 42.3 consente di
istituirli ad iniziativa anche disgiunta dei sindacati rappresentativi nello stesso ambito costitutivo delle RSA con
elezioni aperte a tutti i lavoratori. La disciplina legale è abbastanza scarna in proposito data la grande funzione
integrativa data agli accordi stipulati tra ARAN e sindacati rappresentativi e quindi alla fonte negoziale. Questa,
intervenuta a regolare modalità di costituzione e funzionamento delle strutture in parola con AQ del ’98 ne ha
potuto riproporre la vecchia denominazione di RSU che il legislatore aveva invece tralasciato. Le RSU sono
elette a suffragio universale e voto segreto con apertura del meccanismo elettorale anche ad organizzazioni
sindacali non rappresentative. Anche a queste si attribuisce la facoltà di presentare liste purché costituite in
associazione con proprio statuto e formalmente aderenti agli accordi disciplinanti le elezioni e modalità di
funzionamento delle RSU. L’AQ ha poi aggiunto il requisito del rispetto delle norme sullo sciopero nei servizi
pubblici essenziali e il possesso di un modesto numero di firme di lavoratori per i sindacati rappresentativi. La
ripartizione di seggi deve avvenire secondo metodo proporzionale, escludendo così l’ipotesi di una
riproposizione per via contrattuale della c.d. riserva del terzo. È infine previsto l’obbligo di periodico rinnovo
delle rappresentanze in parola con esclusione della prorogabilità. Il che testimonia l’esigenza di conferire
massima effettività ai nuovi organismi per il nesso inscindibile che lega le elezioni delle RSU all’accertamento
della rappresentatività in sede di comparto.

12. Il sindacato e le istituzioni


Il sindacato (m. o c. più) rappresentativo sembra presente e favorito in una serie di istituzioni o sedi pubbliche
dove non interviene in mera rappresentanza del personale occupato. Si distingue quindi:
1. La presenza di organi di carattere prevalentemente consultivo o di collaborazione rispetto all’esercizio dei tipici poteri dello
Stato (es CNEL, Commissioni presso la Regione o Provincia con competenze specifiche in materia di collocamento o mercato
del lavoro …)
2. La partecipazione di tipo cogestivo in organi collettivi di enti pubblici destinati a svolgere attività in favore dei lavoratori (es
enti previdenziali). In tali sedi i rappresentanti sindacali non svolgono funzione ausiliaria e di consultazione, ma quella di co-
amministratori
3. La partecipazione alle politiche di formazione professionale con la costituzione di organismi paritetici bilaterali
4. La partecipazione informale del sindacato all’indirizzo politico negli aspetti dell’attività legislativa e della politica economica
e programmatoria. Il confronto degli organi legislativi e dell’esecutivo con le organizzazioni sindacali più rappresentative è da
tempo passaggio obbligatorio per tutte le più importanti scelte di politica legislativa ed economica, anche se la concertazione
con le OO.SS. ha andamento discontinuo.

13. Il sindacato rappresentativo e la contrattazione


In generale il nostro ordinamento non riconosce al sindacato rappresentativo di per sé una posizione privilegiata
in sede di contrattazione collettiva nel settore privato, restando affidata alla dinamica dei rapporti di forza
l’individuazione dei soggetti contraenti, l’apertura della trattativa e i relativi esiti. Va però chiarito che:
a) Le maggiori confederazioni Cgil-Cisl-Uil sono investite di un monopolio di fatto delle trattative con le forze governative sui
grandi temi che investono l’economia del paese come gli Accordi interconfederali
b) L’AI, c.d. T.U., del 2014 attribuisce un diritto a trattare per la contrattazione collettiva nazionale alle Federazioni di
categoria delle OO.SS. firmatarie dell’AI 2014 che abbiano nell’ambito di applicazione del contratto collettivo nazionale di
lavoro, una rappresentatività non inferiore al 5% (media dato associativo – elettorale)
c) Alcune leggi conferiscono al solo sindacato rappresentativo il potere di derogare in via contrattuale ad alcune norme di

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legge, lasciando alla sua valutazione l’opportunità o meno di mantenere certi vincoli garantistici di tutela del singolo
dipendente. In queste e altre ipotesi traspare il disegno legislativo di fare del sindacato rappresentativo il controllore delle
dosi di flessibilità per la gestione della forza lavoro con l’intento di investire le principali Confederazioni di un compito di
moderazione e responsabilizzazione dell’intera strategia sindacale, in cambio del riconoscimento del ruolo di interlocutore
tendenzialmente esclusivo con i pubblici poteri e dell’attribuzione di poteri di controllo sulla politica occupazionale
d) Nel settore pubblico il legislatore all’atto della “privatizzazione – contrattualizzazione” del rapporto di lavoro, ha
riconfermato il sindacato rappresentativo nel ruolo di interlocutore contrattuale esclusivo della P.A.

CAPITOLO 7: I DIRITTI SINDACALI


1. Ratio storico-politica dei diritti sindacali nell’impresa
La libertà sindacale del 1^comma dell’art 39 Cost. rimarrebbe un principio astratto qualora non evolvesse in
‘diritto sindacale’ interno all’impresa.
Di qui la preoccupazione del Titolo II St. lav. di ribadire l’operatività del principio anche nei luoghi di lavoro,
attraverso una serie di norme:
 Art 14  diritti di associazione e di attività sindacale
 Art 15 e 16  divieto di discriminazioni
 Art 17  sindacati di comodo
Poco sarebbe stato però se la libertà sindacale si fosse esaurita nel riconoscimento del solo diritto dei lavoratori
a organizzarsi collettivamente nell’azienda e costituire propri organismi sindacali, senza consentire l’attivazione
di altre situazioni strumentali individuali e collettive, in grado di dinamizzare l’azione sindacale: assemblee,
diritto ad appositi locali … L’esercizio della libertà sindacale sarebbe stato lasciato ai rapporti di forza tra
lavoratori e imprenditore e sarebbe risultato molto poco incisivo. È per questo che il Titolo III St. lav. ha
ricondotto a specifiche situazioni di diritto che prescindono dalle dinamiche dei rapporti di forza, lo svolgimento
di alcune attività sindacali nell’impresa:
 Art 20  assemblea
 Art 21  referendum
 Art 25  affissione
 Art 26  raccolta di contributi sindacali e proselitismo
 Art 27  riunione in idonei locali aziendali
Va detto che i diritti sindacali del titolo III rappresentano un quid pluris rispetto alla libertà sindacale in azienda
del titolo II e dal loro riconoscimento discendono limiti ai poteri organizzatori e direttivi del datore di lavoro.
Questo è posto in una condizione di obbligo o di pati, cioè soggezione ai lavoratori che con le proprie
rappresentanze sindacali esercitano tali diritti. Le norme del titolo III St. lav. determinano a carico di uno dei
contendenti del conflitto industriale (datore) un vincolo legale a cooperare alla riuscita di alcune attività
dell’altro (sindacato) perché ritenute dall’ordinamento meritevoli di sostegno (es indizione e svolgimento di
un’assemblea sindacale ex art 20 St. lav. non può essere condizionata al consenso del datore, che dovrà sopportare la
sottrazione di energie lavorative al processo produttivo senza poter invocare esigenze di normalità dell’attività
imprenditoriale).

Non si può invocare quale limite generale all’esercizio dei diritti sindacali la necessità di salvaguardare il
normale svolgimento dell’attività produttiva, con dei limiti derivanti dai principi di buona fede e correttezza che
impongono di comportarsi in modo da non ledere le esigenze datoriale oltre i limiti della tutela del proprio
interesse; e derivanti dalla tutela di interessi di rango primario quali la sicurezza e l’incolumità delle persone.
Proprio per la loro natura, i diritti sindacali del titolo III sono accordati non a qualunque organizzazione dei
lavoratori in azienda ma solo alle RSA in quanto costituite nell’ambito di sindacati particolarmente qualificati,
cioè quelli rappresentativi dell’art 19 (dopo Protocollo e AI ’93 anche RSU). Ai componenti delle RSA o RSU il

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titolo III attribuisce poi appositi permessi per lo svolgimento dell’attività sindacale cui si aggiungono altri per i
dirigenti provinciali e nazionali dei sindacati rappresentativi ed anche un’aspettativa per i lavoratori chiamati a
ricoprire cariche sindacali. Completa il quadro una particolare tutela nel titolo III, contro il trasferimento ad altra
unità produttiva del membro RSA/RSU nonché una speciale guarentigia contro il licenziamento individuale
illegittimo del medesimo.
Ora vediamo prima i diritti riconosciuti da artt. 14,15,16 e 17 St. lav. come esplicazione dell’art 39.1 Cost e quindi garantiti a
ogni organizzazione sindacale. Poi i diritti riconosciuti dagli artt. 20 ss. in prospettiva aggiuntiva art 39 Cost che promuovono
e rendono concreta l’attività del sindacato nei luoghi di lavoro. Diritti in linea di massima garantiti in chiave selettiva alle sole
RSA o RSU se esistenti

2. Associazione e attività sindacale in azienda (art.14)


L'art. 14 della l.300/1970 sancisce il diritto per tutti i lavoratori di costituire associazioni sindacali,di
aderirvi e di svolgere attività sindacale nei luoghi di lavoro. Insieme alla disciplina relativa ad atti e
trattamenti economici collettivi discriminatori (artt 15-16) e a quella con divieto di costituzione di sindacati di
comodo (art 17) costituisce la concretizzazione a livello aziendale del principio di libertà di organizzazione
sindacale.
L’art 14 sancisce un plafond garantistico per ogni momento organizzativo collettivo, assicurando però tutela
meno intensa di quella per i diritti sindacali in senso stretto (art 20) dato che incontra il limite della
salvaguardia del normale svolgimento dell’attività aziendale.
L’art 14 si caratterizza in primis come espressione di una linea garantistica tendente ad affermare il diritto dei
lavoratori ad associarsi sindacalmente nei luoghi di lavoro. La sua portata però va oltre la tutela di posizioni
soggettive individuali anche se a risvolto collettivo, dato che garantisce anche il diritto di costituire e far operare
in azienda organizzazioni ed organismi sindacali fuori da quelli dell’art 19 St. lav. A questi organismi, privati
degli specifici diritti promozionali del titolo III va riconosciuta ex art 14 una serie di prerogative e libertà
implicite nella garanzia costituzionale di libertà sindacale. Tutela che si estende anche ai sindacati nuovi, magari
autonomi o comunque di tipo aziendale, con l’unico limite che non siano di comodo.
Infine l’art 14 tutela lo stesso pluralismo sindacale: assicura la protezione legislativa a forme di dissenso sia
stabilizzato in forme alternative all’associazione sindacale tradizionale sia esprimentesi in momenti di
organizzazione collettiva spontanea e di carattere transitorio o occasionale (es comitati di base o di sciopero).
Unico limite all’operatività di questi gruppi è quello ex art 18 Cost, regola generale per tutti i fenomeni
associativi (liceità dei fini, non segretezza).

3. Il principio di non discriminazione(artt.15 e 16).


Il riconoscimento della libertà, dell’attività sindacale e dello sciopero come diritti anche nei rapporti inter-privati
trova significativa applicazione nel divieto di atti e trattamenti discriminatori contenuto in tali articoli. L’art 15 è
la prima consacrazione del principio di non discriminazione nel rapporto di lavoro. Si riferisce alle discriminazioni
per motivi sindacali a cui però si sono pian piano assimilate le discriminazioni per motivi politici, religiosi e più
tardi anche per ragioni di sesso, età, razza, lingua e quelli per handicap, orientamento sessuale, convinzioni
personali.
Art 15 rimane con ruolo principale anche se la legislazione in materia si è arricchita e a fianco della norma statutaria sono nati
diversi nuclei formativi come la L. 903/77 sulla parità di trattamento uomo- donna o il Codice delle Pari opportunità del 2006.
Tra i problemi discussi vi è la tassatività o meno dei motivi di discriminazione vietata. La tendenza a un
allargamento di tali motivi verso altri motivi illeciti non espressamente richiamati (es rappresaglia per motivi
personali) ha richiesto una esplicita sanzione delle sue applicazioni e poi ha influenzato la stessa dottrina e
giurisprudenza.

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Il principio di non discriminazione, pur così allargato, resta diverso da quello di eguaglianza perché mira a reprimere ipotesi di
disparità legate a specifici motivi vietati e non viceversa a realizzare una parificazione generale di trattamenti tra soggetti di
un gruppo. La sua applicazione però potrebbe portare a una spinta all’obiettivazione della politica aziendale cioè all’uso di
standard almeno di ragionevolezza nelle scelte imprenditoriali permettendo al giudice un controllo diffuso sulle giustificazioni
addotte a loro fondamento.
La fattispecie oggetto di divieto di discriminazione nell’art 15 è aperta e solo teleologicamente determinata,
comprende infatti oltre ad alcuni atti tipici specificamente indicati quelli diretti a:
a) Subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o meno a un’associazione sindacale o
cessi di farne parte
b) Licenziare un lavoratore, discriminarlo nell’assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei
provvedimenti disciplinari o recargli altrimenti pregiudizio per la sua affiliazione o attività sindacale o della sua
partecipazione a uno sciopero
La formula di chiusura “qualsiasi atto o patto” è stata inserita per coprire ogni provvedimento non definibile a priori, lesivo
degli interessi del lavoratore. Essa può riferirsi a ogni specie di atto unilaterale o bilaterale, col solo limite che siano atti
suscettibili di assumere rilevanza giuridica. Ciò perché la sanzione della nullità si riferisce appunto all’efficacia giuridica del
provvedimento
L’art 16 vieta la concessione da parte del datore di trattamenti economici collettivi a carattere discriminatorio,
cioè di quelli più favorevoli corrisposti a gruppi di lavoratori per il loro comportamento sindacale. Sono quindi
vietati premi corrisposti ai lavoratori che non scioperino o la maggior retribuzione a coloro che non partecipino
ad un’assemblea. Nel divieto degli artt. 15 e 16 sono ricompresi anche gli atti c.d. omissivi del datore (es
rifiutarsi di assumere, promuovere o concedere trattamenti economici) I due articoli hanno avuto pochissime
applicazione giudiziarie poiché gli atti discriminatori del datore sono contrastati di solito con art 28, più efficace
sia per procedura sia per sanzione. Esperienza che conferma l’inadeguatezza della tradizionale sanzione
civilistica della nullità a colpire il fenomeno discriminatorio.
Specie il carattere individuale attribuito all’azione la rende insufficiente a contrastare situazioni tipicamente collettive come le
discriminazioni. Inoltre la sanzione di nullità si riduce in realtà a una protezione risarcitoria dato che l’opinione prevalente
ritiene che i comportamenti del datore necessari al ripristino dell’interesse del lavoratore non siano surrogabili. Infine non
sono chiare le conseguenze delle sanzioni per atti omissivi del datore e le attribuzioni di benefici in funzione discriminatoria

4. Sindacati di comodo (art 17)


Vieta a tutti i datori di lavoro, imprenditori e non (quindi anche enti pubblici) nonché alle loro associazioni
(sindacali o meno) di costituire o sostenere con mezzi finanziari o altrimenti, associazioni sindacali di lavoratori.
Così si è voluto colpire il fenomeno dei sindacati di comodo (o “gialli”)  organizzazioni promosse o sostenute
dai datori di lavoro per avere un interlocutore all’apparenza antagonistico ma in realtà addomesticato con
alterazione della dinamica sindacale. La condotta datoriale vietata si compone di una serie di comportamenti
difficilmente tipizzabili: atti di favoritismo, di collusione, di corruzione, assunzioni discriminatorie …
Si è posto il problema della sanzionabilità del comportamento antisindacale del datore concretatosi nella creazione o
promozione di un’organizzazione sindacale non genuina. Scontata la possibilità di ricorre all’art 28 è dubbio se il giudice possa
arrivare a una radicale eliminazione del gruppo nato in violazione dell’art17. Tesi contraria si fonda sul riconoscimento che il
gruppo sindacalmente non genuino gode comunque della tutela ex art 18 Cost in quanto manifestazione della libertà di
associazione. Senza dire che art 28 può sortire solo una pronuncia contro il datore per comportamenti di sostegno a questo
riferibili.

5. Il diritto d’assemblea (art 20)


Funzione dell’assemblea (come del referendum) è di permettere ai lavoratori, anche non appartenenti al
sindacato, di partecipare all’elaborazione e decisione delle politiche contrattuali e sindacali.

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Entrambi istituti tipici della democrazia diretta sono stati regolamentati dal legislatore così da attenuarne tale caratteristica. Il
loro esercizio è stato infatti affidato non all’iniziativa spontanea dei lavoratori interessati ma a quella delle rappresentanza in
azienda così realizzandosi le finalità di sostegno e istituzionalizzazione e minimale dell’attività sindacale proprie dello Statuto
Per art 20.1 “i lavoratori hanno diritto di riunirsi nell’unità produttiva”. La titolarità del diritto di riunione spetta
quindi ai singoli prestatori di lavoro (che può parteciparvi nei limiti di 10 ore annue) mentre il potere di
convocare l’assemblea è riservato a ogni RSA che può filtrare le domande valutando quali siano meritevoli.
Le assemblee possono essere indette dalle RSA unitariamente o separatamente, anche in forma orale, secondo
l’ordine di precedenza delle convocazioni comunicate al datore di lavoro. Hanno pieno diritto di convocare
l’assemblea anche le RSU, se subentrare alle RSA dei sindacati partecipanti all’elezione.
Si è discusso se tale diritto vada riconosciuto ex art 4 dell’A.I. ’93 a ogni componente sindacale della
rappresentanza unitaria, con visione che privilegia la natura associativa di essa, o alla RSU collegialmente intesa
sulla base di un consenso maggioritario o unanime. Dopo diverse pronunce le Sezioni Unite hanno affermato la
collegialità dell’esercizio del diritto di assemblea. Il problema è tornato dopo l’A.I. 2014 (c.d. T.U. sulla
rappresentanza), che afferma “le decisioni su materie di competenza delle RSU sono assunte dalle stesse a
maggioranza in base a quanto previsto nella parte terza del presente accordo”. La giurisprudenza di merito
maggioritaria ha visto nella previsione la conferma del carattere unitario e collegiale della RSU con conseguente
necessità di indizione di assemblea a maggioranza dei membri della RSU; mentre qualche pronuncia ha ritenuto
che l’espresso riferimento alla Parte terza dell’Accordo sulla contrattazione collettiva limiterebbe il modello
maggioritario alle sole tematiche negoziali, mentre l’assemblea potrebbe essere indetta in via autonoma da ogni
componente della RSU.
Resta fermo, ex art 4 A.I. ’93 e ora dell’art 4 T.U. 2014 sulla rappresentanza, il potere di indire assemblee da
parte delle oo.ss. di categoria firmatarie il CCNL applicato nell’unità produttiva singolarmente o
congiuntamente. Dottrina e giurisprudenza sono in linea di massima concordi nel ritenere che essendo
l’assemblea la riunione delle persone qualificate da omogeneità e convergenza dei rispetti interessi, mal si
concili con la sua natura la pretesa del datore di lavoro di parteciparvi. L’illegittimità di tale pretesa viene
sancita di solito con accertamento dell’anti-sindacalità della condotta datoriale ai sensi dell’art 28 St. lav.
Problema più delicato è se all’assemblea abbiano diritto di partecipare i dirigenti dell’impresa. La risposta è di
certo negativa se intendano prendervi parte come inviati dell’imprenditore. Altra questione riguarda l’operatività
del diritto di assemblea verso i lavoratori in CIG (cassa integrazione guadagni) o in sciopero e la risposta è
positiva in entrambi i casi. Per quanto riguarda poi l’esercizio della facoltà di ammissione all’assemblea dei
dirigenti esterni del sindacato che ha costituito la RSA, essa è subordinata all’onere di previa comunicazione al
datore di lavoro dei nominativi dei dirigenti sindacali. L’assemblea deve riguardare “materie di interesse
sindacale e del lavoro” (come per affissioni). [la prova del carattere sindacale di una tematica è data dalla sola
circostanza che il sindacato ne faccia oggetto di proprio interesse, quindi tematiche non solo strettamente
rivendicativoaziendale ma anche politico in senso ampio] L’assemblea può svolgersi durante l’orario di lavoro nei
limiti di 10 ore annue per ogni lavoratore (elevabili da contrattazione collettiva), da consumarsi a scelta del
singolo e regolarmente retribuite.
Per indirizzo giurisprudenziale non è tempo massimo utilizzabile ma solo il numero delle ore retribuite
Le assemblee nell’unità produttiva possono riguardare:
 la generalità dei lavoratori  possono sorgere inconvenienti per la salvaguardia dei beni e degli impianti aziendali, alla
sicurezza delle persone e alla funzionalità del servizio. Inconvenienti generalmente affrontati in sede di contrattazione
collettiva
 gruppi di lavoratori

6. Il referendum (art 21)


Il diritto al referendum è finalizzato a far emergere l’opinione dei lavoratori (iscritti e non) su certe tematiche è

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regolato da art 21, con notevoli limitazioni. La facoltà di convocazione è delle RSA, che possono però esercitarla
solo congiuntamente, o della RSU unitariamente intesa quando questa, eletta nei luoghi di lavoro, sia
subentrata automaticamente nella titolarità di poteri e nell’esercizio delle funzioni delle RSA (AI ’93). La
disciplina restrittiva del potere di indizione del referendum ha duplice obiettivo:
1. garantire una qualche stabilità alle strategie ed opzioni del sindacato, evitando una continua esposizione al
rischio di contestazione da parte dei lavoratori dissenzienti o sindacati minoritari
2. impedire nell’interesse della parte datoriale un’eccessiva proliferazione di consultazioni nei luoghi di lavoro
Va ricordato art 14 L. 146/90 che ha attribuito alla Commissione di garanzia l’iniziativa di indire una consultazione tra i
lavoratori sugli accordi in materia di prestazioni indispensabili da assicurare in occasione di scioperi nei servizi pubblici
essenziali
Per quanto riguarda l’oggetto il referendum deve riguardare materie inerenti all’attività sindacale. Per la
modalità di svolgimento è disposto che debba tenersi in ambito aziendale e fuori dall’orario di lavoro, salvo altre
modalità previste dai contratti collettivi. Problema delicato riguarda l’ambito di efficacia del referendum e le
conseguenze giuridiche dell’esito negativo del voto. Si è optato per un rilievo circoscritto al rapporto associativo
tra lavoratore e sindacato, quindi l’esito negativo non ha mai influito sull’efficacia dell’accordo collettivo
sottoposto a referendum, presentando solo valenza “politica”. L’AI 2011 però, nel definire le modalità di
attribuzione ai contratti collettivi aziendali di efficacia vincolante per “tutto il personale in forza” ha stabilito che
in caso di stipulazione da parte delle RSA (non dalle RSU) tali contratti debbano essere sottoposti al voto dei
lavoratori se ne facciano richiesta almeno un’organizzazione sindacale o il 30% dei lavoratori dell’impresa. Così
il referendum, per la cui validità è richiesta la partecipazione del 50%+1 degli aventi diritto al voto, diviene
elemento decisivo del procedimento negoziale. Poi l’art 8.3 D.L. 138/2011 (convertito in L. 148/2011) ha
riconosciuto l’efficacia erga omnes ai contratti collettivi aziendali vigenti e sottoscritti prima dell’AI 2011 se
approvati a maggioranza dei lavoratori. Anche il Protocollo d’Intesa 2013 (confluito nel T.U. sulla
rappresentanza 2014) ha stabilito he i CCNL, sottoscritti da OO.SS. con almeno il 50%+1 di rappresentatività
del settore, sono efficaci per tutti i lavoratori della categoria previa consultazione certificata a maggioranza
semplice.
Oggi si assiste a una rivalutazione dell’istituto come strumento idoneo a ridurre lo scollamento tra base e sindacato. Oltre
all’ipotesi in cui il referendum diviene parte del procedimento di stipulazione di contratti collettivi aziendali vincolanti verso la
generalità dei lavoratori, il ricorso a tale strumento può esserci anche in altre circostanze:
─ ex ante  per approvare piattaforme contrattuali o ipotesi di accordo
─ ex post  per approvare accordi collettivi già conclusi, specie aziendali e di tipo derogatorio per i giudici di legittimità detta
prassi, se regolata da contrattazione collettiva non sarebbe riconducibile al referendum disciplinato dallo Statuto con la
conseguenza di poter essere promossa anche da soggetti diversi da quelli ex art 21.
La tesi però non ha trovato conforto presso la giurisprudenza di merito.

7. Diritto di affissione (art 25)


Anche l’art 25 mira ad assicurare il collegamento tra il personale dell’unità produttiva ed il sindacato. Il
collegamento qui però non implica una partecipazione dei lavoratori, che rimangono passivi fruitori dell’attività
di comunicazione. Il diritto d’affissione compete alle RSA nonché, se costituite, alle RSU e alle oo.ss. aderenti
alle associazioni stipulanti il CCNL applicato nell’unità produttiva, secondo le disposizioni dell’AI ‘93 Il diritto si
esercita “all’interno dell’unità produttiva” dove il datore di lavoro ha l’obbligo di predisporre appositi spazi che lo
rendano esercitabile. L’attività d’affissione può avere ad oggetto pubblicazioni, testi e comunicati inerenti
“materie di interesse sindacale e del lavoro”. La previsione è interpretata in senso estensivo, considerata anche
la tendenza dei giudici a negare il potere del datore di esercitare un controllo sul contenuto degli scritti da
affiggere, sia pure al limitato fine di accertarne l’inerenza ad interessi sindacali o del lavoro.
La stessa defissione da parte datoriale di comunicati sindacali sarebbe perseguibile ex art 28 St. lav. L’inesistenza di ogni

45
forma di autotutela da parte del datore resta discussa, soprattutto se il documento ecceda i limiti stabiliti dalla legge o risulti
offensivo, diffamatorio o in generale integri gli estremi di un reato

8. Proselitismo e collette sindacali nei luoghi di lavoro (art 26)


In funzione di sostegno del sindacato l’art 26 riconosce ai singoli lavoratori il diritto di raccogliere contributi e
svolgere opera di proselitismo per le loro organizzazioni sindacali nei luoghi di lavoro, senza pregiudizio del
normale svolgimento dell’attività aziendale. L’attività di proselitismo non coincide esattamente con una forma
qualificata di propaganda in quanto comprende anche momenti ed aspetti operativi per concretamente
promuovere l’ingresso di nuovi elementi. Ad essa l’art 26 accomuna quella di raccolta dei contributi per le
organizzazioni sindacali. Si tratta di quote che ogni lavoratore iscritto deve versare al proprio sindacato, in
esecuzione delle previsioni statutarie e di delibere degli organi sociali, per garantire un gettito finanziario idoneo
alla costituzione del fondo comune. L’art 26 non è ispirato al criterio selettivo dell’art 19. Beneficiarie
dell’attività di raccolta sei contributi e dell’opera di proselitismo sono infatti tutte le associazioni sindacali dei
lavoratori. È un tipico diritto a titolarità individuale per la soddisfazione di interessi collettivi; ma a differenza dei
diritti di assemblea e referendum, la situazione attiva conferita al singolo lavoratore non è subordinata
all’esercizio di un potere da parte dell’organizzazione sindacale. Proselitismo e raccolta contributi a opera dei
prestatori di lavoro in favore delle proprie organizzazioni incontrano il limite “espresso” del rispetto del “normale
svolgimento dell’attività aziendale”.
La clausola del rispetto è finalizzata non tanto a garantire l’obbligazione di lavorare di coloro che si incaricano del collettagli e
del proselitismo quanto a far salva l’attività lavorativa del restante personale con cui costoro entrano in relazione nell’esercizio
della loro funzione
Originariamente l’art 26 conteneva due commi che riconoscevano un diritto delle associazioni sindacali di
percepire contributi sindacali tramite ritenuta sulla busta paga dei lavoratori che ne avessero fatto richiesta al
datore (con apposita delega) con obbligo per questo di procedervi., pena l’anti-sindacalità della condotta ex art
28. Si stabiliva quindi un meccanismo efficiente di raccolta di contributi a cui il datore era costretto a
collaborare. Con l’abrogazione di tali commi a seguito del referendum del ’95, tale diritto dei sindacati non
aveva più fondamento legislativo. Però, i più significativi contratti collettivi nazionali di categoria disciplinano la
materia in maniera analoga.
Problemi nascono per i sindacati minoritari, non firmatari di tali contratti e per le aziende a cui non si applichi nessuna
disciplina negoziale. La caducazione della fonte legale in tali casi escluderebbe l’anti-sindacalità della condotta del datore che
si rifiuti di corrispondere le suddette somme al sindacato. Per risolvere il problema e costringere il datore ad effettuare la
trattenuta e il versamento al sindacato, non è sembrato risolutivo il richiamo alla figura civilistica della delegazione di
pagamento perché esclude la configurabilità di un obbligo del datore (delegato dal lavoratore) verso il sindacato (delegatario)
in assenza di un esplicito consenso o accettazione della delega da parte del primo. Utile è stato invece il ricorso all’istituto
della cessione del credito poiché in tal caso basta che il lavoratore ceda al sindacato il credito retributivo che vanta verso il
datore, senza necessità di un suo consenso e accettazione per il perfezionamento della cessione

9. Locali per le RSA (Art 27)


Le rappresentanze sindacali hanno diritto ad utilizzare appositi locali per l’esercizio dell’attività sindacale, messi
a disposizione dell’azienda. La prerogativa è riconosciuta alle RSA o per AI ’93 alle RSU se costituite. La
disposizione però non ha generalizzato pienamente l’obbligo per i datori di lavoro di mettere a disposizione
locali all’interno delle unità aziendali.
L’art 27 infatti pone 2 ipotesi:
1. riguarda le unità produttive con almeno 200 dipendenti  è fatto obbligo al datore di mettere a disposizione
delle RSA permanentemente un idoneo locale comune all’interno dell’unità produttiva o nelle immediate
vicinanze di essa

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2. riguarda le unità produttive con meno di 200 dipendenti  viene meno il requisito della permanente
disponibilità e si subordina la concessione di un idoneo locale per le riunioni che di volta in volta le RSA o RSU
vorranno tenere, prevedendo una situazione di potere più precaria. La violazione della pretesa creditoria delle
rappresentanze costituisce comunque condotta antisindacale.

10. Permessi per i dirigenti sindacali aziendali (art 23 e 24)


Gli artt. 23 e 24 sono norme con soggetti i dirigenti sindacali interni. In base ad essi la carica di dirigente
sindacale aziendale dà diritto a permessi retribuiti e non, che facilitino l’esercizio dell’attività sindacale, al riapro
da ritorsioni del datore di lavoro.
♦ Permessi retribuiti (art 23)  Sono concessi ai dirigenti delle RSA o ai componenti delle RSU “per
l’espletamento del loro mandato”, con cui si intende il complesso delle attività e delle funzioni inerenti alla sfera
di competenza delle strutture sindacali aziendali, quali organismi interni all’unità produttiva. La situazione
prevista da art 23 porta a un esonero legale dell’obbligazione lavorativa, che rende possibile al dirigente
sindacale aziendale di assentarsi dal lavoro per svolgere le funzioni inerenti alla propria qualifica con
conservazione dell’obbligo retributivo a carico del datore.
♦ Permessi non retribuiti (art 24)  Sono invece concessi ai dirigenti di RSA o componenti RSU e alle
organizzazioni sindacali aderenti alle associazioni sindacali stipulanti il CCNL “per la partecipazione a trattative
sindacali o congressi e convegni di natura sindacale”. La diversa formula ha lo scopo di disegnare in via
esemplificativa le varie attività di natura sindacale extra-aziendali che portano a un’ipotesi di non esecuzione di
prestazione non imputabile al lavoratore. Tale prerogativa comporta quindi temporanea inesecuzione del dovere
di collaborazione con diritto alla conservazione del posto di lavoro ma senza il contrapposto obbligo datoriale di
versare la retribuzione.
È irrilevante la compatibilità dell’assenza del lavoratore che si avvale del permesso, con le esigenze aziendali,
spetta alle RSA o alle singole componenti delle RSU o all’associazione sindacale che inoltra il datore la richiesta
di permessi il ruolo di garanti della corretta destinazione sindacale dello stesso. È dubbio però se la valutazione
della coerenza permesso – finalità sindacali, attenga solo a un regime di auto-responsabilità sindacale o se vi
siano spazi per una sindacabilità da parte del datore di lavoro di comportamenti individuali arbitrari. La fruizione
del permesso non dipende da un atto di concessione o autorizzazione del datore di lavoro, la cui volontà è
ininfluente. Il dirigente che vuole godere di tale suo diritto ha solo l’onere di darne comunicazione, tramite la
RSA o la RSU o l’organizzazione sindacale titolare per iscritto al datore di regola 24h (permessi retribuiti) o 3
giorni (non retribuiti) prima, senza necessità di indicare nello specifico le ragioni della richiesta. Le norme
prevedono poi limiti sui soggetti beneficiari e il numero delle ore di permesso usufruibili, che variano a seconda
delle dimensioni dell’unità produttiva.

11. Permessi e aspettativa per i dirigenti sindacali esterni(artt. 30 e 31)


Per l’art 30 St. lav. i componenti degli organi direttivi nazionali e provinciali dei sindacati di cui all’art 19, hanno
diritto a permessi retribuiti secondo le norme dei contratti di lavoro, per la partecipazione alle riunioni degli
organi suddetti. I lavoratori che ricoprono cariche sindacali provinciali e nazionali a norma dell’art 31.1-2
possono essere collocati a richiesta in aspettativa non retribuita per tutta la durata del loro mandato. Tali norme
si preoccupano quindi di assicurare lo svolgimento di compiti riguardanti la posizione di dirigente in seno a
strutture sindacali esterne.

12. Guarentigie per i dirigenti sindacali aziendali.


L’art 22 e l’art 18.11-12-13-14 prevedono una tutela speciale a favore dei dirigenti sindacali in materia di

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licenziamenti e trasferimenti.
♦ Licenziamento  Il lavoratore con qualifica di dirigente sindacale riceve una tutela privilegiata di carattere
processuale: egli può essere provvisoriamente reintegrato nel posto di lavoro con ordinanza in ogni stato e
grado del giudizio, se il giudice ritenga prima facie non abbastanza provate o irrilevanti le ragioni del datore. Se
poi questi non ottempera sarà condannato oltre che a versare al lavoratore la normale indennità risarcitoria dal
giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, anche per ogni giorno di ritardo al
pagamento a favore del fondo adeguamento pensioni di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al
lavoratore.
♦ Trasferimento Art 22.1  stabilisce che il trasferimento dall’unità produttiva dei dirigenti sindacali delle RSA,
dei candidati e dei membri di commissioni interne, può essere disposto solo previo nulla osta dele associazioni
sindacali di appartenenza.
Si pone così forte limite reale alla prerogativa manageriale di operare trasferimenti di lavoratori sindacalisti da un settore
dell’impresa a un altro. Non bastano le ragioni giustificative del trasferimento sull’attività produttiva ma si richiede comunque
il consenso del titolare dell’interesse collettivo potenzialmente leso
La mancanza del nulla osta, perché non richiesto o non concesso, rende inefficace, più probabilmente nullo, il
provvedimento di trasferimento. Tanto che il lavoratore può rifiutarsi di ottemperare all’ordine di spostamento,
mentre l’organizzazione sindacale può ricorrere allo strumento dell’art 28, data l’idoneità della condotta
datoriale ad alterare l’equilibrio tra potere manageriale e controparte sindacale.
In linea di massima si ritiene protetto da art 22 non solo il trasferimento definitivo ma anche uno provvisorio che comporti un
allontanamento di apprezzabile durata dal luogo di svolgimento dell’attività sindacale
In assenza di chiara specificazione legislativa si è posto il problema di identificazione e quantificazione dei
lavoratori che possono avvalersi di art 22 e 18.11. Opinione oggi prevalente è dell’applicabilità a ogni lavoratore
che svolga un’attività tale da potersi ritenere responsabile dell’organizzazione della struttura sindacale
aziendale. Domina quindi un criterio di effettività del ruolo ricoperto dal dipendente nella struttura sindacale.
Il problema sembra però ridimensionato grazie alla diffusione delle RSU per cui AI ’93 fissa precisi limiti nel
numero di componenti, disponendone il subentro ai dirigenti di RSA nella titolarità di diritti e delle tutele del
titolo III incluse quelle di artt. 18.11 e ss. e 22 L’AI prevede anche un obbligo di comunicazione dei nominativi
dei membri eletti alla direzione aziendale a opera delle relative organizzazioni sindacali di appartenenza.

13. Campo di applicazione del titolo III dello Statuto (art 35).
L’art 35 St. lav. dopo la modifica della L. 108/90 dispone del campo di applicazione del (solo) titolo III (e non
più dell’art 18 in tema di licenziamento). Le disposizioni quindi riguardanti l’attività sindacale in azienda, non
sono di generale applicabilità:
 art 35.1  le disposizioni del titolo III, rispetto alle imprese industriali e commerciali “si applicano a ciascuna
sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo con più di 15 dipendenti”. Dette disposizioni si applicano
anche alle imprese agricole con più di 5 dipendenti
 art 35.2  precisa che al fine del raggiungimento della consistenza occupazionale indicata basta che l’impresa
occupi più di 15 dipendenti nello stesso comune “anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente
considerata, non raggiunge tali limiti”
L’esclusione del campo di applicazione dei diritti sindacale del tit. III delle imprese di minori dimensioni ha creato discussioni,
ma la Corte cost ha superato i dubbi sulla costituzionalità del regime ex art 35. Lo spessore quantitativo dell’unità produttiva
trova giustificazione, oltre che in generiche preoccupazioni di sopportabilità degli oneri economici da parte di imprese minori,
nell’esigenza di un minimo di contrapposizione tra rappresentanza e rappresentatività e nell’opportunità che i diritti del tit. III
siano esercitati in relazione a un interesse collettiva abbastanza caratterizzato rispetto alla somma dei singoli interessi
individuati
Dopo le L. 108/90 e 223/91 si incrina la coincidenza, voluta dallo Statuto, tra ambito di applicabilità della tutela

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reale contro i licenziamenti e ambito di esercizio dei diritti sindacali: il primo viene esteso sia per il
licenziamento individuale sia per quello collettivo; il secondo resta invariato, salvo diverse previsioni estensive
di singoli contratti collettivi.

14. Diritti sindacali nel lavoro pubblico.


Nel settore del lavoro nella P.A. i componenti della RSU sono pienamente equiparati ai dirigenti di RSA. Quanto
a diritti e prerogative collettive, tutto è rinviato ad accordi sulla costituzione e funzionamento delle RSU,
chiamati anche a trasferire ai comportamenti eletti della rappresentanza unitaria le garanzie delle
rappresentanze aziendali delle organizzazioni stipulanti o aderenti ai succitati accordi. L’art 50 D. Lgs. 165/2001
mantiene disciplina speciale per distacchi, aspettative e permessi sindacali, affidando ad apposito accordo
nazionale quadro tra Aran e confederazioni sindacali rappresentative la determinazione dei limiti massimi ai fini
del contenimento della trasparenza e della razionalizzazione degli stessi. AQ “sulle modalità di utilizzo dei
distacchi, aspettative e permessi nonché delle altre prerogative sindacali” del ’98 (modificato nel ’99 e nel
2007) ha quindi disciplinato sia i soggetti titolari delle prerogative, che le prerogative stesse. L’AQ riconosce
distacchi, aspettative e permessi ai sindacati rappresentativi, e permessi alle RSA stesse dei sindacati firmatari
degli accordi o per la disciplina delle rappresentanze unitarie. La disciplina contrattuale individua un contingente
complessivo per tutti gli istituti: distacchi sindacali retribuiti; permessi sindacali retribuiti; aspettative non
retribuite; permessi sindacali non retribuiti.
 I distacchi sindacali retribuiti  consentono ai dipendenti pubblici, membri di organismi direttivi dei sindacati
rappresentativi, di svolgere a tempo pieno attività sindacale con sospensione del rapporto per il periodo di distacco.
 I permessi sindacali retribuiti  sono riconosciuti, in via giornaliera e oraria, oltre che ai soggetti ↑ alle strutture
sindacali titolate alla contrattazione integrativa nonché ai componenti delle RSU, ai dirigenti RSA. Altra contingente di
permessi retribuiti è previsto per i componenti di organismi a vari livelli
 Le aspettative sindacali non retribuite  fino ora vigenti solo nel settore privato, vengono estese dall’accordo anche al
lavoro pubblico. Ne possono godere i dipendenti con cariche in seno ad organismi direttivi dei sindacati rappresentativi
ex art 31 St. lav.
 I permessi sindacali non retribuiti  (applicabili fino ora solo al privato) ne godono i rappresentanti sindacali titolati
alla contrattazione integrativa, i componenti della RSU, i dirigenti di RSA, i terminali associativi dei sindacati
rappresentativi, per la partecipazione a trattative, congressi, e convegni di natura sindacale in misura non superiore a
8 giorni l’anno
L’art 46-bis D.L. 12/2008 conv. In L. 133/08 ha stabilito una progressiva revisione e razionalizzazione della
disciplina dei permessi sindacali: in attuazione di tale disposizione è stato emanato il D.M. 2009 che ha previsto
una riduzione del 15% sia dei distacchi che dei permessi sindacali. Poi l’art 7 del D.L. 90/2014 conv. In L.
114/04, sempre nel quadro di un graduale processo di efficientamento e rideterminazione della
regolamentazione dei permessi sindacali del pubblico impiego, ha disposto un’ulteriore riduzione al 50% dei
distacchi, aspettative e permessi stessi.

15. Diritti di informazione e controllo.


Al di fuori dello Statuto fra gli sviluppi più importanti in tema di diritti sindacali vi è quello sui diritti di
informazione e consultazione e controllo rispetto a scelte organizzative o a politiche economiche e industriali
dell’impresa. Questi possono avere origine diversa e si legano alla tematica generale della partecipazione del
sindacato alle scelte imprenditoriali. Prima del D. Lgs. 25/2007 i diritti di informazione e consultazione del
sindacato erano regolati in modo pressoché esclusivo dalla contrattazione collettiva. L’introduzione dei diritti di
informazione risale infatti ai rinnovi contrattuali del ’76. Da allora si è generalizzata in quasi tutti i settori, con
una tipologia dai tratti comuni, col nome di “prima parte politica”, degli stessi contratti con efficacia obbligatoria
cioè vincolante per le associazioni sindacali stipulanti. Il primo gradino della partecipazione è del diritto

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sindacale di informazione, consistente in “ogni trasmissione di dati da parte del datore di lavoro ai
rappresentanti dei lavoratori, finalizzata alla conoscenza e all’esame di questioni sull’attività di impresa”. In dei
casi questo diritto sfocia nell’obbligo dell’imprenditore di sottoporre la materia ad esame congiunto con la
controparte, specie per le conseguenze delle scelte aziendali sulle condizioni di lavoro e sull’occupazione.
Esame congiunto è formula ambigua che comporta più della mera informazione ma meno di un vero e proprio diritto a
trattare sulla materia. Alla fine della procedura quindi il sindacato si limita di solito a prendere atto delle decisioni
imprenditoriali senza sottoscriverle.
Il D. Lgs. 25/2007 ha definito anche la consultazione come “ogni sorta di confronto, scambio di opinioni e dialogo tra
rappresentanti dei lavoratori e del datore su questioni riguardanti l’attività di impresa”. Nell’ipotesi di partecipazione di origine
convenzionale i soggetti titolari dei relativi diritti sono individuati con le clausole negoziali. Di solito, l’informazione si articola a
diversi livelli e coinvolge diversi soggetti: i sindacati nazionali di categoria che hanno sottoscritto il contratto, le loro
articolazioni regionali o provinciali, le RSA o RSU. Oggetto delle informazioni sono di solito questioni sull’organizzazione
produttiva, il decentramento, le strategie aziendali: innovazioni e modifiche tecnologiche, mobilità interna, condizioni generali
di impiego …
Già negli anni ’80 vi è stata un’evoluzione delle forme di partecipazione dei lavoratori nell’impresa, con
l’istituzione ad opera dei contratti collettivi, di organismi collettivi ad hoc, composti da rappresentanti dei datori
di lavoro e delle oo.ss. lavoratori, con compiti partecipativi in certe materie: pari opportunità, formazione
professionale …
Aspetto evidente di tale evoluzione è il passaggio da semplici diritti di informazione a diritti comprensivi anche della
consultazione e sostenuti da adeguata strumentazione soprattutto nella forma di comitati misti fra le parti. I diritti di
informazione sono storicamente finalizzati alla contrattazione collettiva nel suo significato classico. Le forme di consultazione
mista comportano invece un processo di esame e valutazioni congiunte fra le parti, spostando l’accento su temi di comune
interesse.
L’esperienza pilota in proposito è il Protocollo IRI dell’84 che ha previsto forme di informazione preventiva e consultazione in
favore di comitati bilaterali, stabilmente istituiti a vari livelli. Modello seguito dal gruppo Electrolux-Zanussi con accordo del
’97 caratterizzato dalla molteplicità delle sedi partecipative e dai poteri pienamente co-decisionali dei vari organi bilaterali.
Prima ancora comunque il Protocollo del ’93 ha sottolineato l’importanza della partecipazione stabilendo che durante la
vigenza del contratto aziendale, le parti pongono in essere tutte le procedure di informazione, consultazione, verifica o
contrattazione previste dalle leggi, contratti e accordi collettivi nonché dalla prassi negoziale vigente
Il diffondersi di queste esperienze è espressione del favore per la partecipazione sindacale, frutto della crisi del
sistema produttivo c.d. fordista e delle sollecitazioni della globalizzazione dei mercati, nonché dalla rafforzata
competizione internazionale tra le imprese. La partecipazione sindacale però è rimasta a lungo circoscritta a un
numero di imprese limitato ed è ancora accompagnata da un alto tasso di instabilità. La normativa europea ha
dato grande impulso all’evoluzione ulteriore di modelli partecipativi nel nostro Paese. La Carta dei Diritti
fondamentali dell’UE, riconosciuta come vincolante dal Trattato di Lisbona, sancisce il diritto dei lavoratori
all’informazione e consultazione nell’ambito dell’impresa e colloca la partecipazione tra i mezzi che l’UE sostiene
per conseguire gli obiettivi della promozione dell’occupazione, del miglioramento delle condizioni di vita e
lavoro. La questione del coinvolgimento dei lavoratori nell’andamento delle imprese è stata poi affrontata da
diverse direttive comunitarie (es su istituzione comitati aziendali europei nelle imprese e nei gruppi di imprese
di dimensione comunitaria, cioè che impiegano almeno 1000 lavoratori negli Stati membri e almeno 150
lavoratori per Stato in almeno 2 Stati; quella che istituisce quadro generale sull’informazione e consultazione
dei lavoratori nelle imprese nazionali…). Il tutto con l’obiettivo più generale di favorire relazioni sindacali
aziendali ispirate al dialogo sociale così da salvaguardare la competitività delle imprese e garantire il
miglioramento delle condizioni di lavoro.
La disciplina CAE (comitati aziendali europei) è stata attuata da noi con D. Lgs. 74/2002, che ha affidato a un negoziato tra la
direzione centrale dell’impresa o del gruppo ed un’apposita delegazione sindacale c.d. di negoziazione (DSN) la costituzione
dei comitati aziendali su composizione, numero membri, durata del mandato e contenuto dell’informazione e consultazione.

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Per il decreto poi i membri del CAE sono individuati con sistema di designazione mista: 1/3 dalle oo.ss. firmatarie del CCNL e
2/3 dalle RSU, optando quindi per un modello di rappresentanza non elettiva. Il decreto si fa carico di definire specifiche
regole suppletive da applicarsi in caso di mancato accordo tra le parti sulle modalità di costituzione e di funzionamento del
CAE. Regole che mantengono fermo il sistema di designazione mista ma introducono specifiche prescrizioni accessorie tra cui
quella per cui il CAE si riunisce di solito 1 volta l’anno e ha diritto a ottenere informazioni sulla situazione economico-
finanziaria dell’impresa, sull’evoluzione dell’occupazione anche in relazione ai nuovi metodi di lavoro e ai processi produttivi
adottati. Il D. Lgs. 188/2005 invece ha attuato un’altra direttiva e ha disciplinato il coinvolgimento dei lavoratori nelle attività
della SE (Società Europea) ideata a livello comunitario per consentire a società di diversi Stati membri di fondersi, formare
una holding o una filiale comune senza over sottostare ai vincoli giuridici e pratici dei differenti ordinamenti giudici di
riferimento. La SE è una S.p.a., con un capitale minimo (120.000 euro) e uno statuto che prevede come propri organi
un’assemblea generale e un organo di direzione affiancato da uno di vigilanza o, alternativamente, un organo di
amministrazione. In generale il coinvolgimento dei lavoratori è componente necessaria delle SE: non è infatti possibile
costituirla se la relativa direttiva non è stata recepita dallo Stato membro; né l’assemblea generale potrà deliberare la sua
costituzione se non siano state adottate forme di coinvolgimento di lavoratori da intendersi come “qualsiasi meccanismo con
cui i rappresentanti di lavoratori possono esercitare un’influenza sulle decisioni che devono essere adottate nella società”,
comprese quindi informazione, consultazione e partecipazione.
 Informazione  qualificabile come una comunicazione all’organo di rappresentanza dei lavoratori su problemi della SE, di
una sua affiliata
 Consultazione  è definibile come apertura di un dialogo con quell’organo di rappresentanza affinché esprima un parere in
merito
 Partecipazione  è strumento di coinvolgimento più pregante, consentendo all’organo di rappresentanza dei lavoratori di
influenzare le decisioni della SE dall’interno, con elezione o designazione di alcuni dei membri dell’organo di vigilanza o di
amministrazione della SE stessa.
Emerge quindi l’esistenza di più modelli di coinvolgimento dei lavoratori e la scelta fra questi è affidata prima a un accordo tra
gli organi delle società partecipanti alla SE e a un’apposita delegazione sindacale rappresentativa dei lavoratori di quelle
società, c.d. DSN. In caso di mancato accordo la DSN potrà decidere di avvalersi delle disposizioni nazionali su informazione e
consultazione degli Stati membri in la SE annovera lavoratori. In caso contrario si applicheranno i principi standard della
direttiva comunitaria.
In attuazione di un’altra direttiva il D. LGS. 25/2007 ha introdotto un vero e proprio diritto generale di
informazione e consultazione per i lavoratori, rinviando alla contrattazione collettiva la definizione delle concrete
modalità di attuazione di esso. La normativa si applica a tutte le imprese pubbliche e private nazionali con
almeno 50 lavoratori. I soggetti titolari del diritto sono i lavoratori ma il diritto è concretamente esercitato dai
loro rappresentanti (RSA o RSU). L’ambito fi coinvolgimento non è più individuato con riferimento a materie
circoscritte a ipotesi di crisi ma coincide con eventi fisiologici dell’impresa, quali l’evoluzione prevedibile
dell’attività e della situazione economica. Nella nuova prospettiva la partecipazione sindacale perde il carattere
di mera contingenza per diventare un coinvolgimento stabile del sindacato in funzione del superamento della
logica conflittuale classica che per molto ha informato le nostre relazioni industriali. Le modalità di tempo e
contenuto dell’informazione, in applicazione del criterio del c.d. effetto utile, devono permettere ai
rappresentanti dei lavoratori di procedere ad adeguato esame e di preparare eventuale consultazione, la quale
deve avvenire tra livelli pertinenti di direzione e rappresentanza per consentire ai lavoratori e rappresentanti di
incontrare il datore e arrivare magari a un accordo sulle decisioni da adottare. Il diritto all’informazione è
limitato da uno specifico obbligo di riservatezza per i soggetti sindacali sulle informazioni che siano loro
espressamente fornite in via riservata e qualificate come tali dal datore, nel legittimo interesse dell’impresa. Il
datore può anche essere esonerato dall’obbligo di informazione se, per esigenze tecniche, organizzative e
produttive, le informazioni si rivelino di natura tale da creare notevoli difficoltà al funzionamento dell’impresa o
da arrecarle danno. Per le violazioni d’obbligo di informazione e consultazione è prevista una sanzione
amministrativa, a cui si aggiungono altri rimedi esperibili nei singoli ordinamenti sul piano civilistico-giudiziario,
come il procedimento per la repressione della condotta anti-sindacale, consistente in questo caso nel mancato

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rispetto del datore di prerogative e diritti sindacale previsti dalla legge.

CAPITOLO 9: LA CONTRATTAZIONE COLLETTIVA


1. La contrattazione collettiva in generale.
La contrattazione collettiva è principale istituto dei moderni sistemi di relazioni industriali e consiste nel
processo di regolamentazione congiunta (sindacatipadronato) dei rapporti di lavoro. La struttura (cioè la rete di
relazioni tra i diversi soggetti contraenti e anche all’interno dei soggetti stessi tra i loro diversi livelli
organizzativi) e i contenuti sono correlati e dipendono da altri aspetti del sistema di relazioni industriali, come la
struttura del sistema produttivo, l’organizzazione del mercato del lavoro, i caratteri dell’intervento statale. Nel
tempo è arrivata a ricomprendere tutto l’insieme dei rapporti, anche non strettamente negoziali, fra i diversi
agenti del sistema di relazioni industriali sulla regolamentazione dei rapporti di lavoro. Nozione estesa che rende
indeterminata la zona di confine tra essa ed altre forme d’azione o regolamentazione (es consultazione).
Modalità e procedure della contrattazione sono in Italia poco formalizzate, almeno nel settore privato, e
risultano dalla prassi. Gli attori sono, per parte dei lavoratori, le organizzazioni
maggiormente/comparativamente più rappresentative ai vari livelli. Le trattative si svolgono sulla base di
piattaforme rivendicative dei sindacati dopo ampie consultazioni di base e, proseguendo anche con scioperi,
vedono l’intervento di mediatori di organi pubblici. L’accordo raggiunto è condizionato alla ratifica dei lavoratori
nelle aziende, la quale a volte è di mera facciata ma altre volte è occasione di dibattito all’interno del
movimento sindacale. È diffusa la pratica del referendum per l’approvazione sia delle piattaforme sia degli
accordi (aziendali e nazionali).
Gli AI del 2011 e 2013, confluiti nel T.U. del 2014 sulla rappresentanza, confermano l’informalità del sistema
italiano di relazioni collettive, tentando anche di pre-configurare una griglia di regole finalizzata a una gestione
razionale e controllata dalle procedure di contrattazione, specie a livello aziendale. La contrattazione collettiva,
nel periodo del dopo guerra ha significativa evoluzione, in corrispondenza di quella del sistema di relazioni
industriali.

2. Evoluzione della struttura e dei contenuti della contrattazione:la ricostruzione e gli anni
’50.
La prima fase è caratterizzata da un sistema di relazioni industriali “centralizzato e a predominanza politica” cui
corrisponde un modello di contrattazione analogamente centralizzata, debole e statica. Il livello confederale di
contrattazione è dominante in quanto determina le misure retributive e i differenziali per categoria produttiva,
per qualifica professionale, per zone territoriali, età. L’esclusiva competenza salariale delle confederazioni
svuota il significato dei contratti nazionali di categoria e il potere contrattuale, pure formalmente riconosciuto,
delle federazioni. Dopo il ’54, in seguito all’AI sul conglobamento dei vari elementi retributivi, viene riconosciuto
alle federazioni di categoria il potere di negoziare autonomamente i livelli retributivi. Ma la competenza federale
resta esclusiva sui differenziali per età, sesso e territorio. Ciò porta a un’accelerazione della dinamica salariale
in alcune categorie ma, salvo i primi anni, gli incrementi salariali complessivi sono molto bassi. Se la
contrattazione nazionale è ammessa ma debole, quella aziendale non è formalmente riconosciuta e costituisce
fenomeno sommerso posto in essere dalle commissioni interne con contenuti prevalentemente economici.

3. Gli anni ’60: la prima modernizzazione del sistema contrattuale


La fine degli anni ’50 dà avvio a un processo sia pur parziale di modernizzazione delle relazioni industriali

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italiane. Con significativa parte nella modifica del sistema contrattuale. La dinamica generale della
contrattazione cresce, sospinta dalle condizioni economiche e del mercato del lavoro favorevoli al potere
sindacale e cresce soprattutto si livelli più deboli, quello di categoria e quello aziendale. Si realizza così un primo
decentramento della struttura contrattuale, che inizia a manifestare quel carattere di bipolarità tipico del nostro
sistema. Il decentramento è completo rispetto ai contratti nazionali di categoria, che diventano asse portante
della struttura, fonte della disciplina di base del rapporto di lavoro. La contrattazione aziendale ha consistente
sviluppo sul finire degli anni ’50, soprattutto per opera delle commissioni interne, ma con crescente intervento
del sindacato. Viene poi riconosciuta e istituzionalizzata nel c.d. sistema di contrattazione articolata. In base a
tale sistema, alla contrattazione aziendale è riservata la competenza a trattare le materie determinate dallo
stesso contratto nazionale: per lo più modalità di applicazione dei cottimi, forme incentivanti collettive. In
qualche settore l’articolazione è anche o prevalentemente territoriale. Il decentramento è parziale sia per le
materie, circoscritte, che sono delegate, sia per gli agenti contrattuali competenti a trattare che sono i sindacati
provinciali di categoria (e non le ancora inconsistenti strutture sindacali di azienda). Il contratto nazionale
conferma la propria posizione dominante in quanto gli spetta di predeterminare (con clausole di rinvio), oltre a
materie ed agenti della contrattazione, anche le procedure di svolgimento, i tempi e in dei casi i margini
contrattuali. Il decentramento non è quindi circoscritto ma controllato, con 2 livelli tra loro istituzionalmente
raccordati e con garanzia di tregua sindacale nelle pause temporali incorrenti tra un accorto e l’altro. Si tratta di
un’istituzionalizzazione senza precedenti, con forte autonomia dall’esterno ma con rigida gerarchizzazione
interna, ma che alla prova dei fatti si dimostrerà struttura troppo rigida. Limiti e ambiguità di tale rinnovamento
contrattuale riflettono le contraddizioni del periodo. Gli elementi economici e politici sono ancora fragili per
resistere al fenomeno recessivo che si manifesta a partire dal 1964.

4. Il ciclo 1968-1975: sviluppo e decentramento della contrattazione


Nelle vicende del 1968-69 gli elementi di rottura con il passato sono più accentuati e prevalgono su quelli di
continuità. Il rigido schema di clausole di rinvio e di tregua su cui si fonda la contrattazione articolata, esce
distrutto in tutto il settore industriale. La contrattazione raggiunge:
 il massimo decentramento  perché l’elemento trainante nel settore industriale è la contrattazione aziendale,
che rompe i limiti quantitativi e qualitativi definiti nel ‘62
 il minimo di istituzionalizzazione  perché cadute le norme di coordinamento giuridico tra i livelli contrattuali,
ognuno di questi è autonomo, non vincolato per oggetti, procedure né agenti di contrattazione. Le stesse nuove
strutture sindacali aziendali non sono disciplinate da norme contrattuali
 la bipolarità è completa  perché la crescita della contrattazione aziendale non eclissa, pur modificandolo, il
ruolo del contratto nazionale di categoria. Questo da elemento dominante e di controllo diventa strumento di
generalizzazione.
Un’eclisse totale per diversi anni, dopo l’accordo di abolizione delle zone salariali del ’68 vi è per il livello
interconfederale, in corrispondenza del generale ridimensionamento del ruolo delle confederazioni in materia
contrattuale.

5. La centralizzazione e gli accordi triangolari


La seconda metà anni ’70 è caratterizzata dal peso crescente della crisi economica sull’azione sindacale. La
sfavorevole situazione economica e del mercato del lavoro non comporta un crollo del potere sindacale, che si è
rafforzato nel periodo precedente anche per il sostegno pubblico alle posizioni di reddito degli occupati, ma
altera gli equilibri contrattuali. La dinamica retributiva si attenua. L’attività contrattuale assume caratteri
prevalentemente difensivi. Tipico l’AI sulla scala mobile del ’75, che stabilisce un’efficace sistema di protezione

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salariale dall’aumento del costo della vita, specie per i lavoratori dei livelli medio-bassi, con aumenti uguali per
tutti. Prevalgono tendenze all’assestamento di istituti già regolati, specie nell’area di diritti sindacali, mentre si
ricercano contenuti contrattuali nuovi, c.d. qualitativi, di controllo sulle scelte economiche e di impresa, diretti a
risolvere i problemi dell’occupazione e della produttività. La contrattazione tende a farsi più collaborativa e
meno rivendicativa (tipici sono i diritti di informazione e di controllo sulla disciplina della mobilità e dell’orario di
lavoro, che però avranno diversa efficacia). A fine anni ’70 si profilano altri contenuti contrattuali legati alla crisi
come una spinta alla riduzione dell’orario di lavoro su base settimanale o annua, col ritorno agli aumenti
differenziati per qualifica al fine di valorizzare la professionalità, con inedita attenzione ai problemi della
produttività e della mobilità. Diventa sempre più marcata la pressione da parte degli imprenditori e del governo
per il contenimento del costo del lavoro e in particolare per la riduzione della dinamica della scala mobile.
Una tendenza è dominante  la ri-centralizzazione della struttura contrattuale che trova principio di
codificazione nell’AI dell’83.
Altra tendenza a questa legata  è l’intervento diretto del potere pubblico nella contrattazione centralizzata,
che arriva ad assumere carattere triangolare e che si collega a tematiche di diretto rilievo politico economico.
Sono le tematiche proprie delle intese di concertazione sociale, dal controllo dell’inflazione alla politica fiscale e
parafiscale, al governo del mercato del lavoro. Resta invece scarso il grado di istituzionalizzazione della
struttura contrattuale.

6. Gli anni ‘80


Da inizio anni ’80 anche la struttura e i contenuti della contrattazione collettiva, come gli altri aspetti del
sistema di relazioni industriali, ha subito sollecitazioni al cambiamento. I motivi: rinnovata ripresa economica e
la rapida innovazione tecnologica, la quale altera le forme organizzative della produzione, favorendo soluzioni
flessibili e decentrate e la composizione della forza lavoro. La spinta maggiore è quella verso il decentramento
della contrattazione, in conformità con l’esigenza di adattarla alle mutevoli esigenze del sistema produttivo.
Decentramento contrattuale che è documentato da diversi fattori, come crescenti difficoltà, se non scomparsa
della contrattazione interconfederale; (ri)emersione di una contrattazione aziendale o infra-aziendale non
coordinata dal centro. Sono gli imprenditori che prendono l’iniziativa per il decentramento delle relazioni
contrattuali. In parte corrispondenti anche se meno nette, sono le variazioni nelle altre dimensioni della
struttura contrattuale. L’estensione, cioè il grado di copertura, registra flessioni, specie nelle aree tradizionali di
copertura sindacale. Una stasi c’è anche nell’incisività e nel grado di innovazione dei contenuti contrattuali: il
sindacato continua a perseguire obiettivi difensivi e gli imprenditori riaffermano l’esclusività delle proprie
prerogative nelle materie critiche dell’innovazione e dell’organizzazione dell’impresa. Le prospettive della
contrattazione manifestano le stesse ambivalenze quindi di altri aspetti del sistema di relazioni industriali. Vi
sono fattori che portano a un declino della contrattazione collettiva con riduzione del suo ambito ed efficacia,
con l’allargarsi degli spazi di amministrazione dei rapporti di lavoro per iniziativa unilaterale dell’imprenditore.
Tendenza segnalata da alcuni esperimenti di nuove relazioni industriali implicanti forme di partecipazione del
sindacato alle vicende dell’impresa più impegnative. I protocolli di intesa dell’Iri e dell’Eni sono significativi,
perché configurano procedure e istituti di partecipazione innovativi e originali anche nel contesto europeo.
esperimenti che hanno origine e sostegno solo contrattuali, mentre resta lontana l’ipotesi di soluzioni legislative
sul tema della partecipazione nonostante la trasposizione legislativa della direttiva UE sulla costituzione dei CAE,
destinati a promuovere la funzione partecipativa all’interno dei gruppi d’imprese di rilievo multinazionale e di
quella sull’istituzione di un quadro comune per la partecipazione dei lavoratori all’interno delle imprese
nazionali.

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7. Gli anni ’90: riaccentramento e razionalizzazione del sistema contrattuale
Negli anni ’90 il sistema contrattuale è investito dall’urgenza del risanamento e della stabilizzazione economica.
Nel riconoscere l’importanza del dialogo sociale, l’Europa accentua il desiderio di regole e uscita da quella
situazione di informalità. Le esigenze di risanamento convivono poi con le richieste di competitività e flessibilità
emerse. Da qui le spinte al decentramento sovrastate dalla tendenza al ri-accentramento imposta
dall’emergenza della crisi e dalle esigenze di controllo complessivo del sistema. Lo Stato abbandona la posizione
di protagonista neutro e mediatore, interviene sul conflitto, anche se sempre attento a non espropriare il
sindacato delle funzioni protette da art 39.1 Cost. I primi anni ’90 possono infatti definirsi gli anni della ri-
regolazione del rapporto di lavoro e delle velleità regolative sul versante dei rapporti collettivi. Si ricreano così le
condizioni favorevoli alla ripresa e sviluppo di una contrattazione triangolare, di vertice. Questo perché le
trattative col Governo avvengono da parte di un sindacato sempre più istituzionalizzato che mostra volontà e
competenze meno ambigue di quelle precedenti. È quindi minore il ricorso alla contrattazione interconfederale
come strumento tecnico di fissazione di schemi e discipline, ma cresce il ricorso ad essa come strumento
politico di soluzione di problemi. Il contratto interconfederale coincide ora col protocollo, intesa, accordo dai
contenuti programmatici e sfumati che attendono di essere svolti dalla contrattazione dei livelli inferiori. Il
processo di ri-accentramento scota il fatto che nel momento attuale Stato e sindacato condividono interessi
comuni. Da qui la valorizzazione del ruolo del s.m.r. del D. Lgs. 165/2001 sulla privatizzazione del pubblico
impiego. Ne risulta un ri-accentramento diverso da quello promosso da art 19 St. lav., poiché è a scopo
difensivo, che cerca di contrastare le conseguenze della desindacalizzazione con la ridefinizione dei fronti
contrapposti e l’isolamento del sindacalismo autonomo e particolarista. Un ri-accentramento ancora in funzione
dell’unità sindacale come è quello sancito nel patto fra Governo e parti sociali del ’93 e confermato da altri
accordi sulla base della consapevolezza che solo un controllo centrale sulla contrattazione collettiva congiunto a
u analogo controllo sulla politica salariale possa rendere un sistema di relazioni industriali responsabile ed
efficiente. L’accordo trasforma la concertazione su salari da occasionale e saltuaria in strutturale, prevedendo
che le parti sociali si incontrino 2 volte l’anno per fissare gli obiettivi macroeconomici, tariffe e livello del debito
pubblico. A tal fine le parti sociali si impegno a perseguire comportamenti politico-culturali e salariali coerenti
con l’obiettivo di ottenere un tasso di inflazione allineato con la media dei Paesi membri e di riduzione del debito
e deficit dello Stato L’accordo però è principalmente il primo tentativo di razionalizzazione del sistema di
contrattazione collettiva. Sono ora previsti 2 livelli di contrattazione, quello nazionale di categoria e quello
aziendale, collegati così che ambiti, tempi, modalità di articolazione, materie e istituti del 2 siano predeterminati
dal 1. La durata dei contratti è predeterminata:
─ 4 anni per la parte normativa CCNL e per il contratto aziendale
─ 2 anni per la parte retributiva del CCNL
Materie e istituti regolamentati a livello aziendale devono essere diversi e non ripetitivi rispetto a quelli
retributivi propri del contratto collettivo nazionale di categoria. Si introducono precise scansioni temporali per
l’apertura delle trattative ai fini dei rinnovi dei contratti, rafforzate da una clausola di tregua che vincola le parti
a non assumere iniziative unilaterali e a non procedere ad azioni dirette per 4 mesi. Nell’ipotesi di violazione di
questa clausola la sanzione consiste nell’anticipazione o slittamento (a seconda che siano le OO.SS. di lavoratori
o datori a darvi causa) di 3 mesi del termine da cui decorre l’indennità di vacanza contrattuale, cioè l’elemento
retributivo che l’accordo stabilisce venga provvisoriamente e automaticamente corrisposto ai lavoratori se le
trattative si prolunghino oltre i 3 mesi dalla scadenza del contratto. Le parti si sono poi occupate:
 Della partecipazione sindacale all’impresa  ora sono le aziende e i sindacati a fissare le soglie di produttività
cui agganciare eventuali aumenti integrativi; che nel corso della vigenza del contratto aziendale si svolgeranno
procedure di informazione, consultazione, verifica o contrattazione previste dalle leggi, dai contratti nazionali,
dagli accordi collettivi e dalla prassi negoziale vigente, per la gestione degli effetti sociali connessi alle

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trasformazioni aziendali
 Della costituzione di nuove forme di rappresentanza aziendale  le RSU sono riconosciute come
rappresentanza sindacale aziendale unitaria nelle singole unità produttive e investite della legittimazione a
negoziare al 2 livello le materie oggetto di rinvio da parte del contratto nazionale di categoria.
L’Accordo del ’93 ha influito sulla stabilizzazione dell’assetto contrattuale e sul contenimento della dinamica
salariale tanto che la seconda parte degli anni ’90 è caratterizzata dalla stipulazione di accordi che confermano
le sue indicazioni. L’imprescindibilità della concertazione tra poteri pubblici e soggetti collettivi viene rimarcata
dal Patto per il lavoro del ’96 teso a elaborare una strategia integrata tra macroeconomia, mercato del lavoro e
politiche di promozione dell’occupazione. Il Patto sociale per lo sviluppo e l’occupazione del ’98, c.d. Patto di
Natale, interviene poi a stabilizzare il metodo concertativo che così assurge a raccordo procedurale privilegiato
tra ordinamento statuale e intersindacale, ordinamento interno e comunitario. Per le materie che comportino un
impegno di spesa a carico del bilancio dello Stato è previsto un confronto preventivo con le parti sociali, cui
spetta formulare valutazioni e proposte correttive ma la decisione e finale è del Governo (consultazione
obbligatoria non vincolante). Per le materie che incidono sui rapporti tra imprese e i loro dipendenti senza
impegno di spesa per il bilancio dello Stato, lo strumento è l’accordo trilaterale, base del successivo
provvedimento legislativo (legislazione negoziata).
Per evitare l’esautoramento del Parlamento, il Governo, cui spetta la gestione diretta della concertazione nelle
sue tipologie varie, si impegna a garantire “una costante informazione e adeguate forme di coinvolgimento delle
rappresentanze parlamentari della maggioranza e dell’opposizione, così da promuovere la convergenza tra i
risultati della concertazione e la produzione legislativa”.

8. Dalla concentrazione al dialogo sociale


Che il sistema contrattuale risulti più coeso non vuol dire si sia assestato. Ad inizio millennio il superamento
dell’emergenza economica e finanzairia a fornte di un’accentuata competitività internazionale riapre le spinte
all’innovazione e al decentramento anche nelle relazioni industriali, con reazioni diverse da parte degli
interlocutori sociali.
 I sindacati (con divisioni fra loro)  preoccupati di conservare l’assetto del ’93 e chiedono al legislatore di
mantenere la promessa di rafforzarlo alla base con una legislazione di sostegno alla contrattazione aziendale e
di estensione delle RSU
 Gli imprenditori  chiedono il superamento del sistema contrattuale a due livelli e la valorizzazione dei livelli
di relazioni decentrati pretendendo maggiore flessibilità dalla contrattazione aziendale, che per altro mettono in
competizione con le loro iniziative di coinvolgimento individuale dei lavoratori L’evoluzione del nostro sistema
contrattuale e di relazioni industriali si presenta difficilmente decifrabile in chiave univoca. Se è prevedibile un
alleggerimento della contrattazione interconfederale per il venir meno delle condizioni di emergenza, sono
incerti i rapporti tra i due livelli fin ora centrali nella struttura contrattuale. Una razionalizzazione parziale
richiederebbe il perfezionamento di tendenze già abbozzate: cioè il ridimensionamento del ruolo del contratto
nazionale a fungere da regolatore selettivo di alcuni trattamenti minimi salariali e normativi; una valorizzazione
della contrattazione aziendale sulle questioni di produttività e del governo della flessibilità; la sperimentazione
di forme contrattuali e concertative territoriali (c.d. patti territoriali e contratti d’area).
Sono ipotesi non verificate e su cui pesano diverse incognite su dinamiche dei mercati nazionali e internazionali,
sul loro influsso sui rapporti di potere fra le parti, sulla capacità del sindacato di contrastare il declino
interpretando i nuovi bisogni di differenziazione dei lavoratori. In tale contesto si collocano le proposte di
trasformazione della concertazione in dialogo sociale, sul presupposto che l’attenuazione del problema
dell’inflazione e del contenimento del costo del lavoro, la funzione della prima sia storicamente esaurita. Il Libro

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Bianco elaborato dal Governo nel 2001 per la riforma del diritto del lavoro, propone la sostituzione dei vecchi
rituali dei negoziati triangolari con la procedura più veloce del dialogo sociale. Per la definizione dello stesso
Libro la nuova metodologia consiste in un “confronto basato su accordi specifici, rigorosamente monitorati nella
loro fase implementativa”, che sconta a monte una “meglio precisata distribuzione delle reciproche
responsabilità tra Governo e Parti sociali”. Da un lato il rapporto dialettico tra Stato e sindacato diventa da
generale a specifico e settoriale, poiché gli obiettivi che reggono gli incontri sono ogni volta individuati dal
Governo, dall’altro lato il ruolo dei soggetti collettivi viene confinato a pareri e raccomandazioni senza vi sia
obbligo di proseguimento dei negoziati. Soprattutto, la nuova dimensione sembrerebbe riconoscere fisiologicità
oltre che a negoziati bilaterali, a veri accordi separati, consentendo il distacco dalle precedenti regole della
concertazione, tra cui quella dell’unanimità. Al dialogo sociale viene ricondotto il Patto per l’Italia del 2002 e
sottoscritto, come organizzazioni sindacali, dalle sole Cisl e Uil (dissenso Cgil). La tesi della diversità sostanziale
del Patto rispetto alle precedenti esperienze negoziali triangolari poggia sul riconoscimento della sua valenza
essenzialmente politica, non essendovi disposizioni né sul sistema contrattuale né sul contemperamento tra
azione sindacale e politiche economiche e finanziarie del Governo. Risulta poi anche assente quella
valorizzazione del ruolo dell’autonomia collettiva che nella cornice dello scambio politico aveva caratterizzato la
stagione della concertazione. Parte della dottrina ravvisa un indebolimento del ruolo dell’autonomia collettiva sul
piano dei rapporti tra legge e contratto. I segnali sono però contrastanti:
─ da un lato parrebbe sanzionare l’esistenza di un’inestricabile compenetrazione tra le 2 fonti;
─ dall’altro l’alleggerimento delle funzioni delegate al sindacato con contestuale rinvio vuoi agli enti bilaterali
vuoi all’autonomia individuale in concorrenza se non in sostituzione della disciplina collettiva, suscita i timori di
chi propende per una lettura a senso unico del complesso canovaccio (ridimensionamento degli spazi riservati
alle parti sociali a livello sia macro che micro).

9. La contrattazione collettiva separata e il nuovo decentramento


Verso la fine del primo decennio del 2000, con crisi economica globale in atto, il tentativo di ridefinizione del
ruolo del sindacato e delle regole del sistema porta a episodi conflittuali tra le 3 storiche Confederazioni
sindacali. Episodio importante fu la stipulazione nel 2009 dell’AQ sulla Riforma degli assetti contrattuali,
finalizzato a rilanciare la crescita economica, lo sviluppo occupazionale e l’aumento della produttività ed attuato
da 2 AI dello stesso anno per il settore privato e pubblico. L’accordo stipulato senza la sottoscrizione della Cgil,
riscrive la regole e le procedure della negoziazione collettiva in sostituzione del precedente Protocollo ’93, pur
dandosi carattere sperimentale. L’Accordo:
 prevede che l’adeguamento delle retribuzioni avvenga con un nuovo parametro basato sull’Indice dei prezzi al
consumo armonizzato in ambito europeo per l’Italia, depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici
importanti
 modifica la durata del contratto collettivo, fissandola a 3 anni per la parte sia normativa che economica
 articola la struttura contrattuale su 2 livelli (nazionale e aziendale) sottolineando l’essenzialità del contratto
collettivo nazionale nella definizione di modalità e ambiti di applicazione della contrattazione collettiva di 2
livello
 ribadisce che il contratto collettivo di secondo livello è stipulato per le materie delegate dal contratto nazionale
o dalla legge e deve riguardare materie e istituti che non siano già stati negoziati in altri livelli di contrattazione.
L’innovazione su cui c’è stato scontro con Cgil consiste nella previsione che la contrattazione territoriale può
anche derogare in via temporanea, a singoli istituti economici e normativi disciplinai dai contratti nazionali (c.d.
clausole d’uscita). Condizione d’efficacia della deroga è, oltre l’esplicita previsione del contratto collettivo
nazionale, il rispetto di una procedura (determinata dal contratto nazionale) tesa a garantire il raccordo tra
livelli e compattezza del sistema. Dal 2009 si registrano diversi accordi separati, a diversi livelli, aziendale e

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nazionale, sfociati nel contratto collettivo “Fabbrica Italia Pomigliano” (2010), peculiare figura di contratto
collettivo c.d. di primo livello. Operazione resa possibile dalla fuoriuscita di Fiat da Confindustria. Mentre la
giurisprudenza viene investita sul piano applicativo dal problema dell’efficacia soggettiva degli accordi separati,
del coordinamento tra i livelli contrattuali e del significato della lettera b) art 19 St. lav., il sistema contrattuale
avvia un cammino di auto-ricomposizione e arriva nel 2011 alla stipulazione dell’AI di riforma della
contrattazione collettiva, che è accordo unitario ed ha come obiettivo di superare la fase di incertezza del diritto
sindacale nel 2009-10, dettando nuove regole in materia di rappresentatività sindacale, efficacia del contratto
collettivo aziendale, raccordi tra i livelli e procedure di contrattazione collettiva. La struttura del sistema
contrattuale resta incardinata sui livelli nazionale e aziendale; il rapporto funzionale tra contratto collettivo
nazionale ed aziendale è ribadito così come la “dipendenza” sindacale del 2 dal 1. Anche però se viene definita
per la prima volta la nozione di rappresentatività sindacale a livello nazionale, con spendita sul pano della
legittimazione negoziale ma non su quello dell’efficacia, è il contratto aziendale ad assumere prioritaria
rilevanza nella nuova regolazione, grazie alle disposizioni che ne riconoscono, in presenza di una stipulazione e
maggioranza, l’efficacia verso tutto il personale in azienda e la capacità di introdurre, se pur in limiti e con le
procedure previste dal contratto nazionale di categoria, specifiche intese derogatorie alla disciplina dei livelli di
contrattazione superiori. Capacità riconosciuta anche transitoriamente ai contratti collettivi aziendali che
intervengano su materie come la prestazione lavorativa, orari e organizzazione del lavoro e che siano finalizzati
a gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico ed
occupazionale dell’impresa. Lo spostamento di attenzione dal contratto collettivo nazionale di categoria a quello
aziendale, già evidente nel passaggio da Accordo separato del 2009 a quello del 2011, risulta sottolineato da art
8 L. 148/2011 (c.d. manovra economica correttiva), che si pone in linea di continuità con le soluzioni raggiunte
in sede sindacale. Di fatto però la considerazione esclusiva del contratto collettivo aziendale, il riconoscimento
ad esso dell’efficacia generalizzata in base al principio di maggioranza e l’attribuzione della facoltà di deroga in
diverse materie, suscitano nel mondo del lavoro e della cultura sindacale perplessità di natura costituzionale e
timori di scardinamento del sistema tradizionale. La Corte Cost, già investita della questione dalla Regione
Toscana per violazione art 117.3 Cost, l’ha dichiarata non fondata perché vertendo su materie “demandate alla
competenza legislativa esclusiva dello Stato, un’eventuale violazione, per mancato rispetto dei requisiti
soggettivi e della procedura di cui al precetto cost, non si risolve in una violazione delle attribuzioni regionali
costituzionalmente garantite”.
Non a caso l’AI 2011 le parti sociali affiancano un’intesa congiunta auspicante la creazione di una rete di
protezione del sistema di carattere procedurale che vincoli tutti i soggetti stipulanti o aderenti all’accordo stesso
e quindi impedisca, anche se con la mera forza di obbligo contrattuale, l’uso degli inediti spazi di azione aperti
dall’art 8.

10. Il Testo Unico sulla rappresentanza sindacale


Con l’intento di dare attuazione all’accordo del 2011 Cgil, Cisl e Uil e Confindustria hanno stipulato nel 2013 un
Protocollo d’intesa finalizzato ad avviare la procedura di misurazione della rappresentatività delle OO.SS. a
riformare la disciplina in materia di RSU e a regolare su base essenzialmente contrattuale e la titolarità ed
efficacia della contrattazione nazionale. Per la prima volta le parti sociali risultano reciprocamente impegnate in
un progetto con regole precise oltre che su rappresentanza sindacale, procedimento negoziale e efficacia del
CCNL L’Accordo innanzitutto stabilisce che la certificazione della rappresentatività di ogni singola organizzazione
sindacale per essere ammessa alla contrattazione collettiva nazionale (5%) deve essere determinata con media
semplice tra % degli iscritti e %voti ottenuti nelle elezioni RSU.
Le OO.SS. che abbiano rappresentatività non inferiore a 5% sono ammesse ala contrattazione collettiva
nazionale, come nel settore pubblico privatizzato. La disposizione segna l’abbandono del tradizionale principio

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del mutuo riconoscimento degli interlocutori negoziali che informa il nostro sistema contrattuale.
Le OO.SS. ammesse dovranno poi decidere con proprio regolamento e per ogni singolo CCNL le modalità di
definizione della piattaforma e della delegazione trattante, tenendo conto di eventuali conflitti e rapporti con
sindacati minoritari.
Oltre al principio proporzionalistico espresso come rappresentatività l’Accordo accoglie anche quello
maggioritario prevedendo che la parte datoriale debba favorire in assenza di piattaforma unitaria, quella
presentata da OO. SS. on un livello di rappresentatività nel settore pari almeno al 50%+1. I contratti collettivi
nazionali sottoscritti da organizzazioni con almeno 50%+1 di rappresentanza del settore sono efficaci per tutti i
lavoratori della categoria. Procedura e principi riecheggiano il contenuto dell’art 39.4 Cost tanto che la dottrina
parla di attuazione negoziale della disposizione cost: quantomeno per i sindacati stipulanti l’accordo 2013
risolve il problema della contrattazione collettiva nazionale separata cos’ come l’accordo del 2011 è risolutivo
per le OO. SS. stipulanti o aderenti del problema della contrattazione collettiva aziendale separata. Perseguendo
l’obiettivo di dotare il sistema contrattuale di un regolamento auto-concluso e autosufficiente, Cgil Cisl Uil e
Confindustria hanno stipulato nel 2014 un AI c.d. T.U. sulla rappresentanza sindacale, che assembla regole già
introdotte dall’Accordo del ’93 in materia di costituzione funzioni di RSU, dell’AI 2011 in materia di
contrattazione collettiva aziendale e dell’AI 2013 in materia di contrattazione collettiva nazionale, prefigurando
anche una riforma degli organismi di rappresentanza sindacale aziendale.
Il T.U. si articola in 4 parti, dedicate:
1. alla misura e certificazione della rappresentatività ai fini della contrattazione collettiva nazionale
di categoria  Il T.U. prevede una procedura complessa che coinvolge oltre alle imprese e sindacati anche
INPS e CNEL. Il datore ha il compito di effettuare la rivelazione del numero delle deleghe dei dipendenti iscritti
alle organizzazioni sindacali di categoria con un modulo ad hoc compilato dai lavoratori. È tenuto anche ad
accettare anche le deleghe a favore di OO.SS. di categoria che, non hanno siglato l’accordo, ma vi aderiscano e
rispettino i contenuti. L’INPS rileva, a livello nazionale, il numero delle deleghe con un’apposita sezione nelle
dichiarazioni aziendali mensili. I dati raccolti vengono poi trasmessi al CNEL che li pondera con i consensi
ottenuti nelle elezioni periodiche delle Rsu da rinnovare ogni 3 anni. Comunica poi alle parti sociali il dato di
rappresentanza di ogni organizzazione sindacale di categoria sui singoli contratti collettivi nazionali di lavoro. Si
tratta di una complessa attività di raccolta e computo dati che incontra diversi ostacoli
2. alla regolamentazione delle rappresentanze in azienda  Nel confermare la disciplina dell’AI ’93
in tema RSU, tale parte esordisce stabilendo che “in ogni singola unità produttiva con più di 15 dipendenti dovrà
essere adottata una sola forma di rappresentanza sindacale aziendale”. Emerge una predilezione per modello
delle RSU anche se viene statuito che se non siano costituite RSU e si opti per il diverso modello delle RSA,
dovrà essere sostituita “se deciso dalle OO.SS. che rappresentino a livello nazionale la maggioranza del
50%+1” Il T.U. ripropone poi la clausola di salvaguardia a favore di RSU e prevede (come l’AI 2012)
l’eliminazione della c.d. clausola del terzo riservato, oltre a intervenire sul problema del c.d. cambio di casacca
sindacale stabilendo che “il cambio di appartenenza sindacale da parte di un componente della RSU ne
determina la decadenza dalla carica e la sostituzione col primo dei non eletti della lista di originaria
appartenenza del sostituito”. A riprova del carattere aperto del T.U. è previsto che la RSU può essere costituita
anche dalle OO.SS. firmatarie del contratto collettivo applicato nell’unità produttiva che abbiano effettuato
adesione formale al contenuto dell’AI 2011, del protocollo 2013 e del T.U. stesso
3. alla titolarità ed efficacia della contrattazione collettiva nazionale di categoria e aziendale 
Recupera la disciplina del Protocollo d’intesa del 2013 per la contrattazione collettiva nazionale (CCN) e quella
dell’AI del 2011 per la contrattazione collettiva aziendale (CA).
 CCN  vi sono ammesse le Federazioni delle OO.SS. firmatarie del TU che abbiano, nell’ambito di applicazione
del CCNL, rappresentatività non inferiore al 5% (media dato associativo – elettorale). Importanza ha la

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definizione della piattaforma contrattuale: le Federazioni di categoria predispongono regolamenti ad hoc e la
parte datoriale favorisca l’avvio della negoziazione sulla piattaforma presentata da OO.SS. con
complessivamente un livello di rappresentatività nel settore pari a 50%+1. Allo stesso modo saranno efficaci
verso “tutti i lavoratori ovunque impiegati nel territorio nazionale” i contratti collettivi sottoscritti formalmente
dalle OO.SS. con almeno il 50%+1 della rappresentanza. Per la dottrina, tale calcolo, si fa con riferimento alle
organizzazioni sindcali che abbiano attivamente partecipato alla trattativa. Il raggiungimento di tale
maggioranza non è però unica condizione per acquisizione dell’efficacia generalizzata del contratto collettivo,
essendo necessaria la previa consultazione certificata dei lavoratori, a maggioranza semplice.
 CA  si esercita per le materie delegate e con le modalità previste dal CCNL di categoria o dalla legge. Tali
accordi sono efficaci se approvati dalla maggioranza dei componenti delle rappresentanze sindacali unitarie se
esistenti e da quelle aziendali costituite nell’ambito delle associazioni sindacali che risultino destinatarie della
maggioranza delle deleghe. I contratti collettivi aziendali possono definire specifiche intese modificative delle
regolamentazioni contenute nei CCN di lavoro, con riferimento agli istituti che disciplinano la prestazione
lavorativa, orari e organizzazione del lavoro.
4. alle clausole e alle procedure di raffreddamento e alle clausole sulle conseguenze
dell’inadempimento  Regole per prevenire e sanzionare eventuali azioni negoziali senza il rispetto delle
regole concordate dalle parti sociali: nei CCN di categoria andranno previste procedure di raffreddamento per
garantire l’esigibilità degli impegni assunti e a prevenire il conflitto nonché le sanzioni per eventuali
comportamenti attivi o omissivi contrastanti con essi. Il TU prevede anche procedura arbitrale davanti ad
apposito collegio di conciliazione e arbitrato, costituito in ambito interconfederale per far fronte a
comportamenti inadempienti delle parti stipulanti, prefigurando anche una Commissione Interconfederale
permanente e paritetica competente a definire ogni controversia.

Il TU contiene anche una previsione di interpretazione della lett. b) art 19 nella formulazione successiva
all’intervento della sent. 231/2013 Corte cost. la fruizione in azienda dei diritti sindacali non è più condizionata
alla mera sottoscrizione dei contratti ivi applicati, ma al dato della partecipazione alla trattativa sfociata nella
stipulazione del contratto collettivo. L’AI del 2014 quindi considera partecipanti alla negoziazione, i sindacati a)
che hanno raggiunto il 5% di rappresentanza , b) che hanno contribuito alla definizione della piattaforma e c)
che hanno fatto parte della delegazione trattante l’ultimo rinnovo del contratto collettivo.
La riforma del TU è però inidonea a funzionare senza un’attività negoziale integrativa. L’accordo richiede in
primis una fase attuativa e poi una fase costituita dai necessari interventi a livello di organizzazioni sindacali di
categoria, cui è rimessa una delicata serie di opzioni. Soprattutto, le Federazioni devono inserire nei contratti
collettivi nazionali di categoria “clausole e/o procedure di raffreddamento per garantire a tutte le parti
l’esigibilità degli impegni assunti e le conseguenze di eventuali inadempimenti sulla base dei principi di questa
intesa”. Il TU infine, alla stregua dei comuni principi privatistici, non ha la capacità di fondare obblighi e diritti in
capo alle Federazioni di categoria. Per questo le parti si sono espressamente impegnate “a far rispettare i
principi concordati … così che le rispettive strutture ad esse aderenti e le rispettive articolazioni a livello
territoriale e aziendale si attengano a quanto concordato in tale accordo” L’impegno delle parti è quindi
circoscritto al c.d. dovere di influenza, in forma più attenuata ogni qual volta nel corso stesso del protocollo
viene rimessa alle Federazioni l’ultima parola. Neanche col varo del Jobs Act del Governo Renzi il dialogo tra
potere legislativo e soggetti sindacali si è svolto in termini apprezzabili. Se nel 2011 il legislatore si è
appoggiato ai sindacati per forzare l’assetto contrattuale raggiunto con l’Accordo, sul piano della disciplina del
rapporto si è invece mosso senza cercare il consenso sindacale. Il piano per il lavoro contenente proposte per la
ripresa e lo sviluppo del sistema italiano, composto dal D. L. 34/2014 (conv. L.78/14) e dalla L. 183/14 è stato
infatti approvato senza formale coinvolgimento delle organizzazioni sindacali. Infondo anche il complessivo testo

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del Jobs Act sia improntati a una sorta di patto di non belligeranza tra legislatore e sindacato, emerge dalla
disposizione sul salario minimo legale di cui si prospetta l’introduzione, ma solo nei settori non coperti da
contratti collettivi e previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale. La domanda allora è se insieme alla concertazione sia giunta a fine anche la politica legislativa
dell’astensione dello Statuto dei lavoratori. Nonostante nel TU 2014 le parti sociali condividano la tesi che è
opportuno definire pattiziamente le regole in materia di rappresentatività sindacale e di contrattazione
collettiva, vale sempre il pensiero di Mancini per cui “il contratto può molto ma non tutto”, sorge il dubbio che
sia tempo di affrontare la questione, quindi ripartire dall’art 39.2 Cost, vuoi nell’ottica di una sua attuazione,
vuoi in quella di una sua revisione per consentire una svolta del sistema.

CAPITOLO 10: IL CONTRATTO COLLETTIVO NEL LAVORO PRIVATO


1. La problematica giuridica del contratto collettivo di diritto comune
Nel settore privato, attori e procedure della contrattazione collettiva sono poco istituzionalizzati e la materia è
governata da prassi e rapporti di forza.
Analizzeremo quindi il contratto collettivo inteso come il contratto con cui i soggetti collettivi (organizzazioni di
lavoratori e datori o, per il CC aziendale, organizzazioni di lavoratori e singolo imprenditore) predeterminalo la
disciplina dei rapporti individuali di lavoro (c.d. parte normativa) e regolano anche taluni tratti dei loro rapporti
reciproci (c.d. parte obbligatoria). Definizione che necessita di precisazioni dato le diverse configurazioni che il
CC assume nel nostro ordinamento. Sono infatti rinvenibili almeno 4 tipi di CC: 1. Corporativo, 2. c.d. di diritto
comune, 3. prefigurato dal legislatore (art 39.2,3,4 Cost che non ha trovato attuazione) e 4. recepito in decreto
legislativo ai sensi della L. 741/1959 l’unico ancora oggi vitale e che quindi continua a essere “prodotto”, è
quello di diritto comune, i cui problemi giuridici si colgono però in contrappunto con la disciplina di quello
corporativo.
Il contratto corporativo era un contratto tipico, essendo oggetto di specifica disciplina legale (artt 2068 – 2081
c.c. disponevano in ordine a soggetti, contenuto, durata, destinatari ..) elevato a rango di fonte del diritto,
subordinata a leggi e regolamenti. La soppressione dell’ordinamento corporativo e delle organizzazioni sindacali
fasciste coinvolse anche i contratti corporativi e la loro disciplina. Art 43 D. Lgs. 369/44 lasciò solo in vita,
“salvo successive modifiche”, i contratti corporativi all’epoca vigenti.
Il legislatore post-corporativo non detta però una disciplina tipica del contratto collettivo, sostitutiva di quella
corporativa. Non lo fa prima del ’48 in attesa delle scelte costituzionali, ma neanche dopo dato che sarebbe
stata disciplina attuativa dell’art 39, attuazione che subito risulta impraticabile e comunque non desiderata. Gli
operatori giuridici devono quindi prendere atto che il contratto collettivo stipulato da libere associazioni sindacali
è contratto atipico. La giurisprudenza si assume il compito di ricostruire le linee fondamentali della sua
disciplina, in parte ricavandola da disciplina codicistica dei contratti in generale e in parte recuperando singoli
tratti della disciplina del contratto corporativo. Il contratto collettivo di diritto comune finisce quindi per apparire
istituto di origine giurisprudenziale.
Va detto che le operazioni giurisprudenziali sono state condotte su CC di categoria, essendo praticata poco la contrattazione a
livelli territoriali inferiori, quindi il discorso riguarderà contratti nazionali di categoria. Va precisato anche che le categorie cui
si riferiscono i singoli CCNL sono espressione di branche di attività economico-produttiva esercitata dai datori di lavoro: c.d.
categorie merceologiche (esistono contratti per metalmeccanici, chimici, edili …) Ciò però solo in forza di libere scelte da parte
di soggetti stipulanti, non essendovi vincoli legali sul campo di applicazione dei CC. I CCNL possono però essere espressione
anche di altri fattori. Sul versante dei lavoratori può rilevare il mestiere; su quello dei datori alcune caratteristiche datoriali es
imprese artigianali, piccole imprese …
Le problematiche del contratto collettivo di diritto comune riguardano i rapporti intercorrenti con i contratti

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individuali di lavoro. Se infatti si esclude che il CC abbia natura di fonte in senso pubblicistico e quindi che sia
caratterizzato da una strutturale sovra-ordinazione rispetto alle espressioni di autonomia contrattuale di datore
e lavoratore, va precisato l’ambito soggettivo di operatività (= efficacia soggettiva) e la capacità del contratto
collettivo di imporsi sulle difformi previsioni dei contratti individuali (=inderogabilità).

A) I RAPPORTI TRA CONTRATTI COLLETTIVI E CONTRATTI INDIVIDUALI DI LAVORO


2. L’ambito di efficacia del contratto collettivo nazionale:la regola generale.
Nel sistema corporativo i sindacati registrati erano espressione di categorie individuate nel numero e nell’estensione
dall’autorità amministrativa e avevano una rappresentanza di carattere istituzionale degli appartenenti alle categorie stesse:
“le associazioni legalmente riconosciute hanno personalità giuridica e rappresentano tutti i datori, lavoratori, artisti,
professionisti della categoria per cui sono istituite”. Quindi i sindacati registrati hanno per legge il potere di stipulare CC con
destinatari tutti gli appartenenti delle rispettive categorie
Con la caduta del sistema corporativo le associazioni sindacali divengono libere di individuare l’ambito delle
categorie di cui vogliono essere espressione e l’ambito di efficacia del contratto collettivo, ma perdono il potere
di rappresentanza istituzionale. Gli operatori giuridici si vedono costretti a spiegare alla stregua del diritto
comune come un contratto stipulato a livello collettivo tra associazioni sindacali possa produrre effetti nella
sfera giuridica di altri soggetti. Danno soluzione con la figura giuridica della rappresentanza, limitatamente però
all’ipotesi che i singoli appartengano alle associazioni sindacali stipulanti. Il sindacato ha come compito primo
negoziare le condizioni dei rapporti individuali di lavoro, per cui può ritenersi che i singoli, associandosi, gli
conferiscano esplicitamente o meno, il potere di stabilire tali condizioni in loro nome e per loro conto. La
conseguenza è che, come in ogni altro contratto tra privati che è efficace solo fra le parti stipulanti, il contratto
di diritto comune opera solo per i sindacati stipulanti e per i datori e lavoratori iscritti a tali sindacati. Altra
conseguenza è che il datore che receda dalla propria organizzazione si libera dall’obbligo di applicare i CC
stipulati successivamente al recesso, restando però vincolato fino alla scadenza all’applicazione del CC vigente
nel momento in cui il recesso si è verificato.

2.1. Operazioni giurisprudenziali di estensione dell’ambito di efficacia


Pur restando in linea di principio fedele alla ricostruzione del CC di diritto comune secondo il modulo della
rappresentanza la giurisprudenza si è sforzata di dilatarne l’ambito di applicazione. Malgrado i diversi tentativi
di dilatare l’efficacia dei CC resta valido in via venerale il principio dell’efficacia limitata agli iscritti del CCNL,
rispetto cui le ricostruzioni ↓ sono eccezioni:
a) Il CC è ritenuto applicabile, anche senza il requisito dell’iscrizione, se le parti individuali vi abbiano prestato
esplicita o implicita adesione:
1. recezione esplicita  il contratto individuale (o successivo patto integrativo) rinvia espressamente alla
disciplina collettiva come fonte di diritti e obblighi per le parti. Si è posto il problema se il rinvio al CC nel
contratto individuale sia riferito solo al CC vigente al momento o anche a successivi rinnovi contrattuali.
La giurisprudenza risolve valorizzando caso per caso la specifica volontà dei contraenti, desumibile anche
dalle espressioni utilizzate. Ritenere poi il vincolo limitato al contratto collettivo vigente comporta che il
contratto indiv