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6074 – STORIA GIURIDICA DELLE ISTITU-

ZIONI ECONOMICHE

CLMG (6 cfu – II semestre II anno)

TESTI D'ESAME

- F. AMATORI A. COLLI, Impresa e industria in Italia: dall'Unità ad oggi,


Marsilio, Venezia 1.
- PADOA SCHIOPPA, Storia del diritto in Europa. Dal medioevo all’età con-
temporanea, Il Mulino, Bologna 2007

Anno accademico 2007/2008


Classe 19

Giulia Sassaroli
PRIMA PARTE ECONOMICA

- Nel '400 l'Italia (in particolare Venezia e Genova) fungeva da ponte fra l'area medio-
rientale (Libano, Turchia, Cipro, Creta) e l'Europa continentale. Era il centro dell'econo-
mia-mondo (non dell'economia mondiale, ma dell’economia europea, di quelle aree che
si caratterizzavano per una certa omogeneità culturale, sociale ed economica).
- Tra '500 e '600 questa centralità viene meno. L'Italia (anche la Spagna) entra nella c.d.
crisi del XVII secolo (caduta demografica, peste, guerra dei Trent’anni), eppure riesce a
mantenere vive e forti alcune attività (es. compravendita dei semilavorati di seta) e in
generale un certo spirito mercantile (es. Genova decade molto più lentamente del resto
del Paese). Il centro del commercio europeo si sposta verso i Paesi del Nord, in Olanda,
Inghilterra, Francia, ciononostante l’Italia riesce a mantenere la supremazia in alcuni set-
tori come quello commercio del tessile.
- Fra il 1760-1830 l’Inghilterra è la c.d. ”officina del mondo". La rivoluzione industriale
inizia in Inghilterra e per quasi un secolo è monopolio dell'Inghilterra, per poi gradata-
mente diffondersi nel resto del mondo. Nel 1800-60 zone forti dell’industrializzazione
continentale europea sono il Belgio, la Svizzera, alcune aree della Francia e della Germa-
nia.

UN PAESE DIVISO
Cap. 1 - Un Paese diviso

• LA SITUAZIONE ECONOMICA AL MOMENTO DELLA FORMAZIONE DELLO STATO (17 MARZO 1861)
 All’unificazione politica degli Stati della penisola italiana non si arrivò a seguito di pro-
cessi di integrazione economica, sociale, culturale, ma per effetto di fasi di equilibrio
fra le potenze internazionali e di compromessi interni delle élites risorgimentali.
 Al momento dell’unificazione, lo Stato italiano è privo di un sistema economico omo-
geneo ed integrato in un unico mercato nazionale. I problemi principali sono i seguenti:
1) Scarsa dotazione infrastrutturale, che quindi già di per sé ostacolava i contatti e gli
scambi tra le varie regioni italiane.
2) Assai differenti e poco o per nulla complementari specializzazioni produttive delle di-
verse aree regionali, sicché esistevano vari e forti mercati regionali, ma mancava un
mercato nazionale, c’erano mercati d’esportazione (sete delle regioni settentrionali, oli
pugliesi e calabresi in Inghilterra e Francia, zolfo siciliano, ferro dell’Elba), ma non c’era
coordinamento interno.
3) Dualismo economico tra le regioni settentrionali e quelle degli ex Stati pontificio e
borbonico:
- Al Nord (in particolare in Lombardia), a partire dal 1820 (fino agli ’50 quando entrò in
crisi), accanto ad una florida agricoltura di tipo intensivo, il settore della produzione e
della lavorazione della seta crebbe notevolmente, si diversificò (sete greggia/seta ri-
torta), consentì l’accumulazione di capitali, spinse all’adozione di innovazioni tecnologi-
che, trainò le esportazioni delle regioni settentrionali; in breve, il setificio fu vero e pro-
prio precursore dell’industria (vd. caso dei lecchesi Gavazzi pag. 18). Mentre il Sud con-
tinuava ad essere unicamente incentrato sul settore primario, sull’agricoltura, ancora ca-
ratterizzata da latifondo e mezzadria.
- Inoltre il Nord, proprio grazie al setificio battistrada dell’industria, si inserì nei circuiti
economici e culturali europei, conobbe la presenza di imprenditorialità straniera (in
particolare svizzeri e tedeschi nel cotonificio). Mentre il Sud rimase estraneo a tutto ciò.
- Gli squilibri e la scarsa integrazione risaltano in misura ancora maggiore, se si conside-
ra il contributo offerto dalle varie regioni alla creazione del reddito complessivo:
alla vigilia dell’unificazione, Piemonte, Lombardia, Liguria e Veneto producevano i
3/4 del reddito nazionale (pur rappresentando solo il 30% della popolazione totale); in
queste stesse regioni era concentrato quasi il 50% del patrimonio bovino; nel complesso
la produzione agricola pro capite del Nord era del 30% superiore a quella del Sud; nei
principali comparti del settore manifatturiero la situazione era simile, col 90% della pro-
duzione serica e coi 2/3 della produzione laniera concentrati al Nord.
- La regione italiana che si sviluppò di più fu quella pedemontana: tutta la fascia alpina e


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prealpina era costellata di piccoli opifici tessili, metallurgici e meccanici. Sviluppo che si
ebbe anche grazie all’apporto dei tecnici stranieri chiamati in Italia per insegnare agli in-
dustriali nuove tecniche per la lavorazione delle materie prime.
- Il divario e la sostanziale e reciproca estraneità era sì in termini di ricchezza pro-
dotta, ma a monte in termini di risorse materiali (materie prime, forza lavoro) e di risor-
se immateriali (capitali, imprenditorialità).
- Tuttavia la formazione di tale dualismo economico è precedente all’unificazione, la cre-
azione di uno Stato unitario rafforzò tendenze già in atto, aggravò un problema già esi-
stente.
4) Difficile integrazione delle realtà locali, problema del c.d. municipalismo: c’erano sei
banche di emissione, la realtà degli istituti universitari era assai frammentata, la strada
verso la formazione di un mercato interno si prospettò subito lunga e difficile.
 Al momento dell’unificazione l’Italia non era solo un Paese diviso, ma anche un Paese
periferico in un’Europa in rapido sviluppo: quanto al reddito complessivo, ai rendimenti
medi in agricoltura, all’estensione e alla dinamicità del mercato interno, al tasso di urba-
nizzazione, alla dotazione infrastrutturale, al settore manifatturiero, alla produzione side-
rurgica, l’Italia era assai lontana dai Paesi all’avanguardia nella rivoluzione industriale.

GLI ANNI DELLA DESTRA STORICA: I PROBLEMI ECONOMICI E SOCIALI


DELL’UNIFICAZIONE
Cap. 2- Un precoce capitalismo di Stato

• L’ANSALDO DI GENOVA
 Spinto dalla volontà di creare una forza armata in grado di completare e difendere
l’unità nazionale, di costruire infrastrutture e di ammodernare l’apparato amministrativo,
il nuovo Stato italiano fu da subito il maggiore operatore nel campo economico-
finanziario.
 Già prima dell’unificazione, lo Stato sabaudo era stato attivo nel campo dell’economia
sostenendo la creazione delle prime grandi industrie. In particolare ricordiamo l’Ansaldo
di Genova, che in origine nacque per la sola fabbricazione/riparazione di locomotive e al-
tro materiale ferroviario (allora il Piemonte aveva la più grande estensione ferroviaria e
Genova era il centro dell’economia italiana), ma che poi col tempo necessariamente si
allargò a tutti i campi della meccanica (caldaie, motori marini, cannoni e granate, piastre
per le corazzate).
A capo dell’impresa c’è Giovanni Ansaldo (noto professore dell’epoca, ma poco pratico
di gestione aziendale) insieme anche a Carlo Bombrini e ad altri due genovesi. Negli anni
successivi alla fondazione l’impresa vive in condizioni di grande debolezza, in particolare
soffre moltissimo la concorrenza straniera (soprattutto Inglesi e Francesi) con la quale
non è in grado di competere né quanto a prezzi né quanto a qualità. Ma la politica di so-
stegno e di protezione dello Stato sabaudo prima e dello Stato italiano poi (commesse
pubbliche e accordi coi maggiori istituti di emissione) le permise di non fallire, ma di cre-
scere e stabilizzarsi.
- In Inghilterra la ferrovia arriva dopo l'industrializzazione.
- In Francia e in Germania la ferrovia è il motore per lo sviluppo di altre attività.
- In Italia la ferrovia dà l'avvio all'industrializzazione. Inizialmente le ferrovie sembrava-
no essere molto redditizie ed erano in mano ai privati. Col tempo iniziarono a registrare
pesanti perdite e cominciò a maturare l’idea di nazionalizzarle (Silvio Spaventa fu uno
dei primi a teorizzare la nazionalizzazione delle ferrovie).
• IL MODELLO ECONOMICO CAVOURRIANO (Cavour 1810-1861)
 Ispirazione al modello ricardiano: in particolare alla teoria dei costi comparati (ogni
Paese deve concentrarsi nella produzione di ciò che riesce e sa fare meglio, così da e-
sportare tali prodotti e da importarne degli altri), sicché l’Italia si concentra
sull’agricoltura (in particolare export di vino, olio, agrumi, marmo, zolfo) e sul tessile (in
particolare export di seta).
 Unificazione del mercato interno attraverso il rafforzamento delle infrastrutture: 1862
unificazione monetaria; 1865 Codice di commercio e Unione Latina; 25% della spesa
pubblica in infrastrutture.
• LA POLITICA ECONOMICA DELLA DESTRA STORICA (dai governi Cavour nel 1848 al governo


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Miglietti nel 1876)
 Le tesi di Rosario Romeo (anni 1850-60): cercava di confutare la teoria marxista,
Gramsci sosteneva che per avere una vera svolta economica nel senso
dell’industrializzazione e della modernizzazione serviva una riforma agraria sull’esempio
di quella che si fece durante la rivoluzione francese (quando la notte del 4 agosto 1789 il
feudalesimo era stato abolito e i grandi latifondi erano stati divisi in tante piccole pro-
prietà). Romeo sosteneva che perché l’economia crescesse lo Stato doveva aumentare
l’imposizione fiscale ed investire tale gettito in infrastrutture. In effetti in quegli anni lo
Stato italiano accumulò notevoli risorse finanziarie, tuttavia gran parte di quel gettito fi-
scale fu speso per pagare gli interessi del debito pubblico, i costi dell’amministrazione e
quelli dell’organizzazione dell’esercito.
 Tassazione sostenuta: Quintino Sella (Ministro delle Finanze in più governi), la politica
di pareggio del bilancio quale strumento di sviluppo economico, l’assai impopolare tassa
sul macinato (1868), il pareggio del bilancio nel 1875, l’imposizione del corso forzoso dal
1866 al 1883 (politica monetaria che, al fine di preservare le riserve auree delle banche,
vieta di cambiare la carta-moneta con l’oro; poi nel 1883 l’Italia aderisce al gold-
standard, finisce il bimetallismo, la carta-moneta può essere scambiata solo con l'oro).
 Forte spesa pubblica nei servizi e nelle infrastrutture (strade, porti, ferrovie, telegrafo)
e alte spese militari.
 Il liberoscambismo come politica per attrarre capitali stranieri.
 Intreccio fra Stato e grande impresa, in particolare sostegno dello Stato ai finanzieri
nazionali:
- Carlo Bombrini (uomo d’affari genovese; il capitalismo genovese è uno dei punti forti
dello sviluppo economico nazionale) era amico personale di Cavour e fu direttore della
Banca Nazionale del Regno d’Italia.
- Domenico Balduino (banchiere genovese): nel 1860 Cavour lo pone ai vertici della
Cassa del commercio e dell’industria di Torino, in seguito si allea con i potenti banchieri
francesi Isaac ed Emile Péréire (che nel 1852 avevano fondato il Crédit mobilier, specia-
lizzato nel finanziamento delle grandi infrastrutture e delle grandi imprese industriali) e
nel 1863 trasforma la Cassa di Torino nel Credito mobiliare, ossia nella prima, vera
banca d’affari italiana, che appunto svolgeva la duplice attività di credito ordinario per i
risparmiatori e credito industriale per gli imprenditori (in Germania, c.d. banche miste).
- Pietro Bastogi (nato a Livorno da una famiglia di commercianti) concluse un grosso
affare internazionale che portò alla creazione della Società per le Strade Ferrate Me-
ridionali per la costruzione della linea ferroviaria Ancona-Brindisi e di quella Foggia-
Napoli (affare concluso non proprio in maniera ortodossa: Bastogi corruppe membri della
commissione parlamentare che avevano respinto l’originario accordo con i Rothshild, si
fece appaltare la costruzione delle linee e poi a sua volta le subappaltò ai Rothshild, gua-
dagnandoci moltissimo). L’alleanza con i Rothschild dimostra che l’apertura al libero
scambio in effetti attrasse molti investimenti stranieri, anche se poi inevitabilmente era-
no proprio tali stranieri a gestire le società italiane.

LA SINISTRA STORICA AL POTERE TRA CRISI AGRARIA E CRISI BANCARIA


UN FATTORE SOSTITUTIVO: IL RUOLO DELLO STATO
Cap. 3 – Stato e impresa degli anni ’80 alla vigilia della prima guerra mondiale

• LA CRISI AGRARIA
 Le ferrovie, la navigazione a vapore, soprattutto la combinazione trasporto via terra-
trasporto via mare, il telegrafo avevano portato ad una vera e propria “rivoluzione dei
trasporti”. Gli scambi erano diventati molto più semplici e veloci. Negli Usa iniziano ad
essere coltivati gli incontaminati terreni del West e ad esportare grandi quantità di mate-
rie prime. E proprio l’ingresso degli Usa nel mercato europeo unito alle politiche
commerciali libero-scambiste di allora causano una profonda crisi agraria in tutta
Europa (soprattutto nella produzione di grano e cereali), in particolare in Italia, tracolla-
no le esportazioni agricole su cui era incentrata la politica economica di allora.
 Nel 1876 la Sinistra storica va al governo e per affrontare il problema della crisi agra-
ria (grandi flussi migratori verso le Americhe tra il 1876-1914, 6 milioni di italiani emi-
grano all’estero, soprattutto nelle Americhe) mette in atto una politica economica prima


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volta ad attenuare il liberismo (tariffa doganale del 1878), poi sempre più marcata-
mente protezionista (tariffa dogale del 1887 soprattutto a protezione dell’industria
laniera e cotoniera e dei produttori di ghisa e di acciaio).
- Nel 1884 Stefano Jacini (grosso proprietario terriero cremonese) viene incaricato di
condurre un’inchiesta sulla crisi agraria. A conclusione di tale inchiesta, Jacini scrive un
saggio in cui mette a fuoco la situazione economica italiana e in cui inoltre critica la vec-
chia classe dirigente per non aver agito in modo da consentire agli agricoltori italiani di
competere con i produttori stranieri.
• LA SOCIETÀ DEGLI ALTIFORNI, ACCIAIERIE, FONDERIE DI TERNI
 La crisi dell’agricoltura e la voglia di affermarsi in campo internazionale spingono
l’Italia ad una svolta in senso industrialista. La Sinistra storica abbandona (anche se non
del tutto) le tesi ricardiane e inizia a concentrarsi sull’industria e su altri settori.
- In particolare nel 1884 nasce la Società degli Altiforni, Acciaierie, Fonderie di Terni per
la produzione dell’acciaio necessario alla corazzatura delle navi da guerra.
- Vincenzo Stefano Breda (industriale padovano titolare della Società veneta per im-
prese e costruzioni pubbliche, la quale appunto operava nel settore delle grandi opere
pubbliche e aveva costruito strade, tranvie, edifici, quartieri in tutta Italia; aveva buoni
rapporti con lo Stato) e Benedetto Brin (ingegnere navale piemontese; ministro della
Marina in diversi governi della Sinistra, sosteneva che il Paese dovesse dotarsi di una
flotta di navi corazzate di grosso tonnellaggio quale requisito essenziale per l’esercizio di
una politica di potenza) ne sono i protagonisti.
- Alla luce delle difficoltà derivanti dall’irregolarità degli ordinativi e dalla sproporzione fra
capacità produttiva e domanda, il progetto di Breda è quello di dotare il Paese del ciclo
completo dell’acciaio, dalla ghisa ai prodotti finiti. A questo scopo Breda riserva lo stabi-
limento di Terni (localizzazione infelice, che fu scelta perché difficilmente attaccabile in
caso di guerra, ma che portò ad un aumento spropositato dei costi di trasporto) alla pro-
duzione del materiale bellico e degli altri prodotti commerciali (in particolare le rotaie) e
intanto progetta la costruzione di altiforni Martin-Siemens a Civitavecchia e acquista mi-
niere di lignite in val Trompia (Lombardia).
- Date le dimensioni dell’affare, il sostegno dello Stato attraverso le commesse pubbliche
e quello delle banche (Banca Nazionale, Credito Mobiliare, Banche Generale) attraverso il
prestito di ingenti risorse finanziarie furono davvero indispensabili. Ciononostante, già
nel 1887 la società rischia il fallimento e alla fine si salva solo grazie a nuove commesse
da parte dello Stato e nuove immissioni di capitale da parte delle banche.
- Alla fine del secolo gli Odero e gli Orlando (proprietari di grandi cantieri rispettivamente
nell’area genovese e a Livorno) si impadroniscono della Terni, formano il trust siderurgi-
co e l’obiettivo è quello di costruire una nave da guerra pronta per il combattimento.
• LA FORMAZIONE DEL TRUST SIDERURGICO (1899-1905)
- La risoluzione in senso favorevole agli industriali italiani della questione del minerale
elbano (nel 1897 lo sfruttamento viene dato in concessione per 20 anni alle imprese ita-
liane, mentre fino ad allora lo avevano avuto prima i francesi, poi gli inglesi).
- La nascita delle Acciaierie e Ferrerie dell’Elba (1899) e l’ampliamento delle Ferrerie
di Piombino (nel 1909 è la prima in Italia a realizzare la produzione a ciclo integrale)
per favorire estrazione, lavorazione e commercializzazione del minerale elbano.
- La nascita dell’insediamento siderurgico di Bagnoli (grazie ai contributi e alle age-
volazioni della legge per lo sviluppo di Napoli del 1904) e la costituzione dell’Ilva nel
1905 (società genovese appositamente costituita per la gestione dell’impianto di Bagno-
li).
- Tutte operazioni che erano state compiute ricorrendo al capitale di prestito delle ban-
che (soprattutto Banca commerciale e Credito italiano) e che alla fine del secolo portano
alla formazione di una coalizione di imprese (in particolare 6: la Terni, l’Elba, la Siderur-
gica di Savona, la Ligure metallurgica, le Ferriere italiane e l’Ilva), o peggio di un agglo-
merato di stabilimenti niente affatto coordinati e di combinazioni finanziarie costruite su
partecipazioni incrociate e riporti, che impediva il pieno funzionamento delle unità pro-
duttive sulle quali più si era investito.
- Alla fine del 1910, la flessione dei prezzi, l’impossibilità di sospendere gli investimenti
per i grandi impianti, l’incapacità delle banche di contrarre ulteriori impegni rendono invi-
tabile un risanamento globale del settore: sul piano commerciale, viene costituita la So-


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cietà anonima Ferro e acciaio (cartello che regola le vendite e al quale aderiscono
quasi tutte le aziende); sul piano della gestione industriale, nasce un consorzio che
comprende la Piombino e tutte le imprese del trust esclusa la Terni (l’Ilva ha la gestione
economico-amministrativa del consorzio per 12 anni); sul piano finanziario si dà vita ad
un accordo al quale aderiscono i maggiori istituti di credito del Paese.
- In breve, delineatasi una situazione simile a quella del 1887, lo Stato (non la banca) fu
di nuovo il “fattore sostitutivo” di una debole imprenditoria, lo Stato si dimostrò di nuovo
l’unico in grado di consentire l’espansione e il consolidamento di un settore strategico e
assai oneroso quale la siderurgia
• LA FORMAZIONE DI UN COMPLESSO DI INDUSTRIE MECCANICHE COMPETITIVE
- Quanto alla questione ferroviaria, convenzioni ferroviarie per incentivare le costru-
zioni nazionali. Quanto alla questione della marina a vapore, legge Boselli (1883) per
intensificare la cantieristica (settore industriale relativo alla costruzione delle navi).
- La normativa del 1885 che riorganizzava la conduzione della rete ferroviaria e con cui il
legislatore chiedeva esplicitamente alle 3 imprese ferroviarie private del Paese (Società
altitalia, Società mediterraneo, la Società per le strade ferrate meridionali) di preferire i
fornitori nazionali e l’aumento della domanda pubblica creano le condizioni favorevoli per
il rilancio della meccanica pesante.
- Nel 1896 Ernesto Breda (cugino di Vincenzo Stefano e come lui padovano) rileva
l’Elvetica e nel 1899 la trasforma nella Società Italiana Ernesto Breda; inizialmente
l’impresa metalmeccanica si specializza nella costruzione di locomotive, per poi diversifi-
care l’attività verso la produzione di proiettili, veicoli ferroviari e tranviari, macchine agri-
cole (senza con ciò tornare alla meccanica generale dell’Elvetica). All’inizio del secolo o-
pera in tre stabilimenti (Milano, Niguarda, Sesto San Giovanni), la crescita è continua e
raggiunge l’apice nel quadriennio d’oro 1905-1908.
- Dal 1890 circa, l’Ansaldo (che abbiamo visto esser nato essenzialmente per produrre
locomotive) aveva indirizzato i propri investimenti verso la cantieristica (quindi la do-
manda pubblica rimase comunque al centro dell’azienda). Dopo la scomparsa di Bombri-
ni, alla guida dell’impresa ci furono prima i figli, poi Perrone-padre, poi i Perrone-figli, i
quali fecero dell’”italianità” il cavallo di battaglia dell’azienda.
• LA BILANCIA DEI PAGAMENTI
 E’ il conto in cui vengono registrate le transazioni economiche, in un certo intervallo,
tra imprese, istituzioni o cittadini di un Paese e analoghe controparti di un altro Paese. E’
divisa in:
- partite reali (bilancia commerciale): saldo tra esportazioni ed importazioni di beni;
- partite invisibili (flussi finanziari): pagamento dei trasporti marittimi, assicurazioni,
entrate del turismo, rimesse degli emigranti, interessi degli investimenti esteri.
 Tra il 1861 e il 1914 il saldo della bilancia commerciale dell’Italia è negativo, le impor-
tazioni superano le esportazioni. Nella prima fase dell’unità, le esportazioni erano sopra-
tutto basate sulla materie prime e le derrate alimentari; dopo la crisi agricola, le espor-
tazioni crollano (anche l’Italia era diventata importatrice di grano); nel corso del primo
trentennio, aumentano le esportazioni di manufatti e macchinari.
- Es. l'Inghilterra ha una bilancia commerciale (beni) quasi sempre negativa, importa
molto, ma al contempo una bilancia dei pagamenti (merci, servizi, redditi e saldo totale)
positiva.

IL CIRCUITO VIRTUOSO DELL’ECONOMIA ITALIANA:


LO SVILUPPO ECONOMICO DELL’ETÀ GIOLITTIANA
Cap. 4 - Un mixage di prima e seconda rivoluzione industriale
Cap. 5- Il ruolo della banca mista

• LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE (A PARTIRE DAGLI ANNI '30, 40 DEL'800)


- Tratto peculiare dell’industrializzazione della seconda metà dell’800 furono senz’altro le
innovazioni tecnologiche che, a differenza di quelle settecentesche che scaturivano da un
conoscenza pratica ed empirica, nascono e si sviluppano a partire dalle istituzioni (uni-
versità, centri di ricerca). La scienza è protagonista; in particolare chimica (chimica or-
ganica, tecniche di sbiancamento), elettrotecnica (in Germania vengono ideati i primi
impianti idroelettrici) e termodinamica (tutto il nuovo settore dei motori a scoppio).


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- I politecnici assumono davvero particolare importanza, in quanto offrono le risorse
tecnico-scentifiche necessarie per la realizzazione di complesse opere ingegneristiche.
Nascono e si sviluppano grazie all'apporto di capitale di sistemi locali e del Ministero a-
gricoltura, industria, commercio.
- Nel 1863 Giuseppe Colombo e Francesco Brioschi avevano fondato il Politecnico di Mi-
lano. E nel 1881 è lo stesso Giuseppe Colombo che fonda il Comitato promotore per
l’applicazione dell’elettricità sistema Edison, che poi tre anni dopo si trasformerà nella
Edison spa.
• CRESCITA ECONOMICA E AFFERMAZIONE DI NUOVE IMPRESE
 Con la seconda rivoluzione industriale nasce in Italia il settore dell’industria elettri-
ca:
- Nel 1883 nasce Edison: la società acquista i brevetti di Edison ed introduce in Italia il
sistema della lampadina; le prime centrali elettriche sono a carbone, fino a quando non
vengono adottate le centrali idroelettriche sviluppate in Germania; fornisce l’energia a
Milano e a gran parte della Lombardia e della Liguria; da subito conquista un chiaro pri-
mato e finirà col trasformarsi in una holding e con l’incorporare tutte le altre.
- SADE (Società Adriatica di Elettricità): rifornisce il Veneto e gran marte dell’Emilia; ini-
zialmente venne sostenuta dal Credito Italiano; SIP (Società Idroelettrica Piemontese);
Società elettrica Valdarno: copre la zona della Toscana; Società italiana per il carburo di
calcio (auto produttrice): dopo la prima guerra mondiale (nel 1919) diventa la Terni;
SME (Società Meridionale di Elettricità): copre tutto il Meridione.
- Dietro queste società operative ci sono sempre potenti finanziatori (le banche miste,
COMIT e CREDIT in testa) ed industriali (le grandi imprese elettromeccaniche straniere,
soprattutto tedesche e svizzere).
 Nel 1905 nascono le Acciaierie e Ferrerie Lombarde: la produzione della Falck è
indirizzata al mercato locale (non alla domanda dello Stato, ma alle esigenze delle infra-
strutture urbane, dell’edilizia abitativa e industriale, della meccanica), il che le permette
di fare a meno dei costosissimi impianti a ciclo integrale, di iniziare ad utilizzare i forni
elettrici, quindi di contenere notevolmente i costi. Nonostante le difficoltà della siderurgia
nazionale, la Flack ottiene ottimi risultati proprio grazie alla produzione c.d. da rottame,
alla siderurgia c.d. di seconda lavorazione e al relativo contenimento dei costi.
 Nel 1872 nasce la Pirelli: Giovan Battista Pirelli si era laureato al Politecnico e a-
veva vinto una borsa di studio all’estero; all’inizio la produzione della Pirelli è molto di-
versificata, poi il grande business arriva con la produzione di cavi di gomma (fili telegra-
fici, elettrici e telefonici), infine nel 1914 inizia a specializzarsi nella produzione di pneu-
matici.
 Lo sviluppo economico d’età giolittiana coinvolge anche i settori “tradizionali”:
l’avanzamento tecnologico porta ad aumenti della produttività soprattutto nel tessile (co-
tonifici, lanifici, il setificio italiano è il primo in Europa e il terzo al mondo in termini di
produzione ed esportazioni) e in parte anche nell’alimentare (nascono e crescono la Ci-
rio, la Galbani, la Buitoni, la Barilla).
 Nel 1888 Donegani trasforma la Montecatini in società anonima (sino a allora si oc-
cupava solo di estrazioni minerarie) e la converte al settore chimico (soprattutto fertiliz-
zanti e prodotti per l’agricoltura, poi dopo la prima guerra mondiale anche prodotti più
innovativi).
 A più di cinquant’anni dall’unificazione politica, l’Italia si era finalmente dotata di un
apparato industriale di una certa consistenza sia in termini quantitativi che qualitativi.
Molte imprese ormai disponevano di un assetto moderno, in linea con quanto accadeva
nei paesi più all’avanguardia. Tuttavia lo squilibrio fra Nord e Sud era sempre accentua-
to: l’area napoletana, che rappresentava la principale concentrazione produttiva del me-
ridione, era in realtà molto arretrata e non poteva fare a meno del sostegno dello Stato.
• CRISI E RIFORMA DEL SISTEMA BANCARIO (1888-95)
 Al momento dell’unità d’Italia (1861), c’erano 6 istituti di emissione:
- Banca nazionale del Regno d’Italia
- Banca Toscana dell’industria e del commercio
- Banca Toscana
- Banca Romana
- Banco di Napoli


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- Banco di Sicilia
 Dopo la crisi bancaria (1888-93: in seguito alla crisi agraria, all’emigrazione prima
dalla campagna alla città, poi dal Sud al Nord, a partire del 1870 in molti avevano chie-
sto dei prestiti alle banche e iniziato a speculare in campo edilizio; ma quando le banche
chiedono indietro i prestiti, molti non hanno liquidità per restituirli e di qui il fallimento di
alcuni istituti), rimangono solo 3 banche d’emissione:
- Banca d’Italia (1893)
- Banco di Napoli
- Banco di Sicilia
 Falliscono anche alcune banche di credito ordinario:
- Società di Credito Mobiliare
- Banca Generale
 L’allora Presidente del Consiglio Francesco Crispi si rivolge a Bismark e ai banchieri
tedeschi; nel 1894-95 nascono le “banche miste”:
- Banca Commerciale (COMIT), soprattutto grazie all’apporto di capitale tedesco
- Credito Italiano (CREDIT), anche questa soprattutto con capitale tedesco
- Società Bancaria Italia (SBI), anche con capitale francese
- Banco di Roma
 Queste banche adottano una politica di raccolta del risparmio e di impiego del denaro
differente rispetto al passato: il risparmio viene capillarmente raccolto su tutto il territo-
rio nazionale tramite un’ampia rete di agenzie e il denaro viene impiegato per le attività
più varie, di qui l’attributo di banca c.d. mista o universale: credito ordinario ai ri-
sparmiatori, credito industriale agli imprenditori, riporto su azioni, speculazioni di borsa e
attività finanziarie in genere.
 Le banche miste rappresentano una grande fonte per gli industriali e queste, in
maniera più o meno consensuale, si spartiscono i vari settori dell’industria: la COMIT si
concentra sul tessile-cotoniero, il siderurgico, l’elettrico e il chimico; il CREDIT sullo zuc-
cheriero, il chimico, l’automobilistico e la meccanica pesante. Il settore su cui operarono
maggiormente fu senz’altro quello siderurgico, quello che più necessitava di ingenti
somme di capitali (es. la Terni era finanziata sia dalla COMIT sia dalla CREDIT).
 Col passare del tempo e l’aumentare dei debiti delle industrie verso le banche, queste
si trasformano da finanziatori in azionisti, convertono il capitale di prestito in capitale
di rischio, acquisiscono partecipazioni rilevanti all’interno di molte industrie, in definitiva
la banca, a mezzo di suoi fiduciari (tecnici di grande competenza che entrano nel consi-
glio di amministrazione di tali aziende) si trasforma in un insider director, in grado di
esercitare una sicura influenza su strategie e strutture delle finanziate.
 Questa massiccia partecipazione nel settore imprenditoriale non fu immune da rischi:
la crisi finanziaria del 1907 ebbe forti ripercussioni anche sulle banche, in particolare la
crisi del trust siderurgico unita alla crisi del tessile portarono alcune banche sull’orlo del
fallimento; tra queste ricordiamo la Società Bancaria Italiana (SBI), che comunque restò
sempre sostenuta da un consorzio bancario guidato dalla Banca d’Italia (con a capo Bo-
naldo Stringher), consorzio che aveva appunto il compito di evitare che la SBI fallisse
trascinando così al fallimento le industrie di cui era partecipe.
 Dunque la crisi ci fu, ma non indebolì il rapporto col sistema industriale, anzi i porta-
fogli azionari degli istituti di credito si ampliarono.

DECOLLO INDUSTRIALE E CONFLITTI SOCIALI


Cap. 6 – Decollo industriale e conflitti sociali

• IL DECOLLO ECONOMICO DELL’ETÀ GIOLITTIANA (1903-1914)


 Lo sviluppo che si ebbe durante l’età giolittiana portò l’Italia ad assurgere al ruolo di
grande potenza economica internazionale. Gli anni dal 1896 al 1914 sono stati di re-
cente definiti “il vero miracolo economico italiano”. I principali fattori di questo sviluppo
furono:
1) Il mutamento della congiuntura internazionale: quasi tutte le crisi/crescite
dell’economia italiana dipesero non da fattori endogeni, ma esterni.
2) La diffusione delle nuove tecnologie della “seconda rivoluzione industriale”
- Elettricità: nel 1883 nasce la Edison.


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- Chimica: nel 1888 nasce la Montecatini.
- Motore a scoppio: nel 1899 nasce la Fiat e nel 1906 l’Alfa Romeo.
3) La nascita dei nuovi istituti finanziari delle banche miste (COMIT e CREDIT en-
trambe grazie all’apporto di capitale tedesco).
4) L’affermarsi di un “nuovo tipo di imprenditore”: rispetto ai pioneri del periodo
dell’unità (fase dello sviluppo del tessile e degli altri settori leggeri), gli imprenditori che
affrontano lo sviluppo economico degli anni ’80-’90 (Falck, Pirelli, Donegani) sono più
colti (hanno frequentato l’università, conoscono le lingue, sono quindi in grado di intrat-
tenere rapporti con l’estero), sono più attenti alle questioni tecniche e produttive
(l’obiettivo è produrre a poco e vendere a molto), sono più aperti al dialogo con la forza
lavoro (sull’esempio dell’Inghilterra, accettano lo scontro di classe, abbandonano la poli-
tica del paternalismo sociale dei vecchi imprenditori, che piuttosto che innalzare i salari o
comunque accettare lo scontro sociale, preferivano concedere utilità extra-salariali: ser-
vizi, case, asili, cure mediche, villaggi).
5) Le rimesse degli emigranti: oltre ad import/export di materie prime e capitali, glo-
balizzazione significa anche immigrazione/(e soprattutto per l’Italia) emigrazione (in par-
ticolare verso Stati Uniti e Argentina). E proprio le rimesse degli emigranti permettono di
avere una bilancia dei pagamenti attiva (la bilancia commerciale è invece negativa in
questo periodo) e diventano, attraverso l’intermediazione della banche, un importante
fonte di finanziamento per lo sviluppo futuro. L’emigrazione era iniziata con la crisi agra-
ria del 1876. Nei trent’anni che precedono la prima guerra mondiale quasi 4 milioni di i-
taliani (per lo più provenienti dal Meridione) lasciano il Paese (ai quali vanno aggiunti i
quasi 10 milioni di emigranti “temporanei”).
6) Un nuovo clima politico e sociale.
• BANCHE E INDUSTRIA NELL’ETÀ GIOLITTIANA
- Fra il 1895-1915 la Società bancaria italiana e il Banco di Roma hanno un ruolo margi-
nale, Comit e Credit la fanno da padrone e in fatto si sostituiscono alla Società di credito
mobiliare e alla Banca generale nel finanziamento di imprese del settore elettrico, side-
rurgico, meccanico e tessile.
- In questa fase la Borsa più importante è quella di Genova, dopo la crisi industriale del
1907 (determinata da elementi interni al mondo industriale, benché stimolata dalla crisi
di liquidità statunitense) Milano diventa la city finanziaria d’Italia.
• MUTAMENTO SOCIALE E POLITICO DELL’ETÀ GIOLITTIANA
 L’avvento di un periodo liberal-democratico
 Il compromesso sociale giolittiano
- Nel 1892, a Genova, Filippo Turati fonda il Partito socialista italiano (il primo a darsi
una organizzazione nazionale); e da questo momento in poi i partiti entrano sulla scena
politica e soprattutto in Parlamento.
- Nonostante Giolitti (a causa della profonda eterogeneità e frammentazione interna a
tale formazione politica) non riuscì mai ad accordarsi con i socialisti e a portarli con lui al
governo, in molti provvedimenti favorevoli alla classe proletaria (come la regolamenta-
zione del lavoro festivo, del lavoro notturno e del lavoro svolto in ambienti insalubri) si
possono ritrovare gli effetti del c.d. compromesso sociale giolittiano.
 Le riforme giolittiane (1903-1914)
- Municipalizzazioni.
- 1905: nazionalizzazione delle ferrovie (in base ad una vecchia legge la quale imponeva
la nazionalizzazione in caso di disservizio da parte dei privati), il che migliora decisamen-
te il servizio e porta grandi vantaggi all’industria meccanica.
- 1912: nascita dell’INA (Istituto Nazionale Assicurazioni) e cos’ lo Stato si riserva il mo-
nopolio delle assicurazioni sulla vita; grazie alla notevole liquidità disponibile l’INA inve-
ste in molti altri settori; viene gestita come un’impresa privata controllata dallo Stato, ha
un suo bilancio (che pure rientra in quello dello Stato) è un ente pubblico diremmo oggi
(mentre le ferrovie sono una nazionalizzazione vera e propria, entrano a tutto tondo nel
bilancio dello Stato).
- 1913: l’introduzione del “suffragio universale” maschile.
 La guerra di Libia (1911-12): Giolitti riprende la campagna coloniale, l’occasione è of-
ferta dalla crisi balcanica (c.d. questione d’oriente, in seguito al ritiro degli Ottomani) e i
forti interessi economici spingono affinché l’Italia persegua una politica internazionale più


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aggressiva.
 Il patto Gentiloni: alle elezioni del 1913, i liberali e i cattolici, temendo che con il suf-
fragio i socialisti avrebbero ottenuto la maggioranza dei seggi in parlamento, stipulano
segretamente un accordo elettorale antisocialista, per il quale gli elettori cattolici avreb-
bero votato quei candidati liberali che si fossero opposti in Parlamento a leggi sgradite ai
cattolici.
• DECOLLO INDUSTRIALE E CONFLITTI SOCIALI
 Italia paese reale/Italia paese legale: classi subalterne/classi dirigenti
- Sin dall’inizio le classi dirigenti non avevano coinvolto le classi subalterne nella costru-
zione sociale e politica del nuovo Stato unitario, in seguito l’industrializzazione aumentò
il divario sociale, mutò i rapporti tra classi e pertanto portò alle prime tensioni sociali.
- Alla fine dell’800 l’Italia è in piena fase di industrializzazione. Sul piano sociale si assi-
ste ad una rapida urbanizzazione (con i conseguenti problemi di mancanza e sovraffol-
lamento di alloggi, assenza di servizi pubblici ed infrastrutture) e ad un consistente au-
mento del numero di operai nei centri urbani (es. nel 1911, a Milano, gli operai rappre-
sentavano il 36,5% della popolazione lavoratrice attiva). Sul piano del lavoro, nasce la
figura dell’operaio di mestiere (impiegato stabilmente nella fabbrica) e al contempo, in
seguito ai nuovi sviluppi industriali e tecnologici, all’operaio specializzato (forza lavoro
qualificata) si sostituisce l’operaio massa (forza lavoro generica).
 Gli industriali della fase pioneristica eludono lo scontro di classe e per lo più adottano
la politica sociale del c.d. paternalismo. Tuttavia alle proteste operaie il mondo imprendi-
toriale risponde in maniera differente:
- Gli industriali milanesi mantengono un atteggiamento fortemente conservatore, non
sono aperti al dialogo con gli operai o con le organizzazioni che li rappresentano, sono
contrari all’intervento dello Stato (se non per il mantenimento dell’ordine pubblico in ca-
so di radicalizzazione del conflitto) e sono molto critici anche riguardo la politica giolittia-
na di apertura verso le classi lavoratrici. Milano, Corriere della Sera, Albertini, anti-
Giolitti.
- Gli industriali torinesi sono consapevoli del fatto che il conflitto di classe è una con-
seguenza naturale dello sviluppo industriale e pertanto sono più disposti al confronto, al-
la negoziazione, al compromesso. Torino, La Stampa, Frassati, pro-Giolitti.
- Nel 1906 (nello stesso anno in cui nasce la CGdL, Confederazione generale del lavoro,
per rispondere alle esigenze degli operai) viene costituita la Lega industriale di Tori-
no, organizzazione imprenditoriale il cui scopo primario è riunire gli imprenditori in un
fronte comune in funzione anti-sciopero (con provvedimenti che vanno divieto di assun-
zione degli scioperanti all’impiego della serrata); nel 1909 si trasforma in Confederazione
italiana dell’industria.
 Il movimento operaio italiano ha origini rurali e anarchiche, e proprio tale fattore de-
terminò la costante incapacità di adottare un politica unitaria:
- da un lato l’ala riformista (moderata, morbida) guidata da Turati, rappresentativa de-
gli operai di mestiere, della c.d. aristocrazia cittadina, e che mirava al miglioramento del-
le condizioni di vita dei lavoratori;
- dall’altra l’ala rivoluzionaria (anarcoide-massimalista, radicale, estremista) guidata
da Ferri e Labriola, rappresentativa degli operai comuni, del c.d operaio-massa, e che
mirava alla rivoluzione proletaria.
 L’urbanizzazione e la formazione del triangolo industriale (Torino-Genova-Milano)
- Fu l’emigrazione a dare il maggior contributo allo sviluppo e alla crescita di queste cit-
tà.
- Nei trent’anni che precedono la prima guerra mondiale gli emigranti italiani sono quasi
4 milioni (per lo più provenienti da Sud), gli emigranti temporanei superano i 10 milioni.
- Gli emigranti vengono soprattutto del Sud: Sicilia, Campagna, Calabria (meno la Pu-
glia, i cui immigranti sono spostano più all’interno) e del Nec (nord-est-centro): Veneto,
Emilia Romagna, Marche, Umbria, Toscana.
- Tra l’inizio del secolo e la prima guerra mondiale la popolazione di Milano e dei comuni
limitrofi passò da 480 mila a oltre 600 mila abitanti (nella notte fra il 31/12/1926 e il
01/01/1927 tutti i comuni intorno Milano vengono annessi alla cd. “Grande Milano”, di
qui l’anomalia statistica che risulta dal grafico).
- Nel 1911 un 1/3 della popolazione attiva milanese (no bambini, anziani, studenti,


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casalinghe) è rappresentato da operai, da lavoratori subalterni.
- Anche (se non soprattutto) grazie alle rimesse degli emigranti, dal 1890-92 alla crisi
del 1907, la bilancia dei pagamenti è attiva. Il saldo merci (industria) è sempre negativo,
l’importazione aumenta sempre.

TIPOLOGIE D’IMPRESA NEL DECOLLO INDUSTRIALE


Cap. 7 – Botteghe e distretti

• LA MANIFATTURA LEGGERA
- Nel periodo giolittiano la piccola e media impresa (l’industria leggera: tessile, abbiglia-
mento, pelletteria, calzature, meccanica artigianale, alimentare) crebbe notevolmente,
anche grazie ad un generale atteggiamento di favore (in quanto industrie naturali, che
potevano sfruttare le materie prime presenti in loco, e idonee a creare un rapporto più
umano e meno conflittuale fra imprenditore e lavoratori).
- Dal censimento del 1911 emerge che le imprese con meno di 10 addetti sono le più
numerose. Alla vigilia della prima guerra mondiale tali imprese contribuiscono per ben i
2/3 al valore della produzione industriale.
• CARATTERISTICHE DELLE PICCOLE IMPRESE
- Carattere famigliare e comunque scarso numero di addetti (dai 5 ai 10 addetti).
- Struttura labour intensive: si fondano sul contributo del lavoro e sul capitale famigliare
o su quello generato dalla stessa attività d’impresa (allora difficilmente avevano rapporti
con le banche, al massimo con le banche popolari o le casse rurali).
- Poche e semplici innovazioni tecniche consentono notevoli aumenti di produttività (es.
il motore elettrico facilita l’impiego di piccole ed economiche attrezzature, quali macchina
da cucire, trancia, sega circolare).
- Per lo più lavoro casalingo e a domicilio; comunque si tratta sempre di piccole imprese
c.d. di fase, ossia specializzate in uno o pochi segmenti del ciclo di lavorazione.
• IL DUALISMO PRODUTTIVO ITALIANO
- Milano: vestiario e abbigliamento
- Brianza mobili
- Napoli (accanto ai grandi cantieri sostenuti dalla Stato): guanti, alimentari e corallo
- Carpi-Modena: trecce di paglia
- Biella: tessitori casalinghi di lana
- Marche: calzature

LA PRIMA GUERRA MONDIALE: LA MOBILITAZIONE INDUSTRIALE E LE SUE CONSE-


GUENZE
Cap. 8 - Prima guerra mondiale e gruppi industriali

- Il motivo dello scoppio della guerra nell’agosto del 1914 è legato alla c.d. questione
balcanica: occupazione della Bosnia-Erzegovina da parte dell’Austria-Ungheria vs. nazio-
nalismo dei nuovi Paesi balcanici.
- Triplice intesa: dietro la Serbia, c’è la Russia; la Russia è alleata con la Francia (dalla
nascita della Germania, allo scopo comune di circoscriverla territorialmente), la Francia
con l’Inghilterra.
- Triplice alleanza: di fianco all’Austria, c’è subito la Germania, poi l’Italia.
Dunque, nonostante il motivo scatenante del conflitto risieda nella questione balcanica,
questo poi si riallaccia ad antagonismi già in atto, in particolare fra Inghilterra e Germa-
nia.
• LA I GUERRA MONDIALE: MOMENTO DI GRANDE FRATTURA, A LIVELLO ECONOMICO, SOCIALE, POLI-
TICO
1) Tramonto dell’economia capitalistica “classica”: supremazia inglese, regime interna-
zionale aureo (c.d. gold standard del 1810); che quindi dura dai decreti inglesi del 1840
sul laissez fair alla belle epoque, in Italia l’età giolittiana.
2) Progressi dell’industrializzazione di Paesi extraeuropei, soprattutto Stati Uniti (dopo la
guerra di secessione, sviluppo piuttosto intenso) e Giappone (primo paese industrializza-
to dell’area asiatica); l’Europa perde la supremazia nel commercio internazionale (dal
65% al 40-45%).


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3) Modificazioni della struttura economica dei Paesi belligeranti (ruolo dello Stato): au-
menta l’intervento e il peso dello Stato nell’economia, i cicli economici cambiano, non
sono più regolari, l’Inghilterra stessa fra le due guerra rinuncia al liberismo.
4) Sviluppo del movimento operaio internazionale, dalla crisi del 1914 alla vittoria della
Rivoluzione Russa (la prima internazionale è quella di Londra, degli anarchici; la seconda
internazionale è quella dei grandi partiti social-democratici di Germania, Francia, Inghil-
terra; nell’estate del 1914 l’internazionalismo proletario entra in crisi, perché quasi i par-
titi democratici europei finirono ciascuno con l’appoggiare i rispettivi Paesi).
• UNA GUERRA DI TIPO NUOVO
 L’uso di grandi masse e delle nuove tecnologie (prodotti chimici, es. gas iprite; aereo-
nautica; sommergibili) portano ad una guerra di posizione (filo spinato-mitragliatrice);
quindi emerge subito che la guerra poteva essere sostenuta e poteva essere sperata di
vincere, solo se si aveva alle spalle un forte apparato industriale.
• STATO E GRUPPI OLIGOPOLISTICI
- In seguito alla dichiarazione di guerra dell’Austria alla Serbia, scattano le alleanze, ma
non tutte: l’Italia resta fuori (governo Salandra), perché non interpellata né sulla que-
stione balcanica né sulla decisione di intervento.
- Neutralisti: cattolici, socialisti e gran parte dei Giolittiani (quindi la maggioranza del
Parlamento italiano).
- Interventisti: nazionalisti (nati nel 1904) e alcuni liberal-conservatori del governo Sa-
landra (es. il ministro degli esteri Sonnino, che vedeva nella guerra un’occasione per ot-
tenere vantaggi territoriali, quindi anche e soprattutto in termini di materie prime, il che
attrae l’industriale pesante, che appunto vede nella guerra la possibilità di fare grandi af-
fari).
- Intanto il Re, Salandra e Sonnino stavano contrattando con l’Inghilterra l’intervento in
guerra (patto di Londra). Pro: la monarchia, il Governo e alcuni industriali pesanti. Con-
tro: partiti socialisti (si astengono), cattolici (una parte vota a favore), giolittiani (votano
tutti come Giolitti, quindi votano a favore). Il 24 maggio del 1915 l’Italia entra in guerra.
Il Parlamento viene chiuso (riaperto dopo Caporetto), il Governo decide tutto, il Re no-
mina un luogotenente (il figlio) che emana decreti con effetto immediato di legge.
 A partire da fine’800-inizio ‘900 nei settori della grande impresa s’erano andati
formando degli oligopoli (le imprese del trust nella siderurgia; l’Ansaldo nella meccanica
pesante e nella cantieristica; la Breda e le Officine meccaniche nelle costruzioni ferrovia-
rie; la Fiat nella produzione di autoveicoli; i monopolisti regionali nell’idroelettricità; U-
nione Concimi, Colla e Concimi e Montecatini nel ramo chimico-minerario), che la guerra
non fece che rafforzare.
 Alla vigilia dell’intervento il generale Cadorna denuncia l’insufficienza delle dotazioni di
armamenti leggeri e pesanti (spesso d’importazione) e dunque l’inadeguatezza
dell’esercito a sostenere anche un guerra difensiva. Ecco che la necessità di ottenere ra-
pidamente l’autonomia e l’efficienza nelle produzioni belliche spinge lo Stato ad interve-
nire direttamente finanziando le imprese (le Banche perdono potere), programmando la
produzione e gestendo i rapporti con la forza lavoro: nel 1915 il Sottosegretariato (poi
Ministero) Armi e Munizioni crea il Comitato di Mobilitazione Industriale e lo affida al
generale Alfredo Dallolio; il Comitato ha il compito di individuare gli stabilimenti ausi-
liari allo sforzo bellico (industrie meccaniche, siderurgiche, chimiche, molte anche tessili
e alimentari) e di assegnargli in via privilegiata materie prime, commesse, crediti banca-
ri; Dallolio gestisce di fatto lui l’individuazione e la logistica delle fabbriche ausiliarie; le
articolazioni regionali del Comitato di Mobilitazione Industriale hanno al loro interno an-
che i sindacalisti (il diritto del lavoro si articola moltissimo rispetto al passato proprio
perché passa attraverso strutture pubbliche); le fabbriche dichiarate ausiliarie hanno al
loro interno un regime di tipo militare (chi sciopera viene fucilato, quindi da questo punto
di vista, terminano i diritti civili e politici della dialettica economica all’interno
dell’impresa, quindi s’aggravano le tensioni già in essere).
 L’attività del Comitato di Mobilitazione Industriale, la defiscalizzazione degli utili rein-
vestiti, la requisizione e l’immediata assegnazione delle imprese straniere agli industriali
italiani, tutte vicende che consentirono all’industria italiana di svilupparsi, di crescere e di
ottenere risultati estremamente positivi.


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- Alfa Romeo (BIS): nell’immediato la guerra e la conseguente chiusura dei mercati di
sbocco portano l’azienda sull’orlo della bancarotta; nel giro di pochi mesi però, grazie al-
le forti anticipazioni dello Stato e all’appoggio della Banca italiana di sconto, l’impresa di-
viene uno dei principali produttori nazionali di armamenti, munizioni e meccanica pesan-
te (quindi non automobili, o comunque marginalmente, di qui poi il problema della ricon-
versione).
- Ansaldo (BIS): è di proprietà dei fratelli Pio e Mario Perrone (commercianti genovesi,
che intrattenevano scambi soprattutto oltre oceano), si espande in maniera straripante,
fa proprio un modello di sviluppo aziendale di netto stampo nazionalistico (la guerra co-
me irripetibile occasione per l’industria italiana per emanciparsi dalla soggezione stranie-
ra e dall’arretratezza tecnologica), in particolare si estende alla cantieristica, crea una
propria società di trasporto marittimo e ne acquista una già esistente, entrambe equi-
paggiate con navi prodotte nei propri cantieri.
- Franchi e Gregorini (BIS)
- Ilva (COMIT): nel 1911, l’armatore ligure Attilio Odero controllava le imprese del trust
e la Terni, mentre il finanziere romano Max Bondi gestiva la Piombino; nell’ottobre del
1917 Bondi si era impossessato di tutte le aziende del trust, che nel 1918 vennero as-
sorbite dalla Piombino ridenominata Ilva Altiforni e acciaierie d’Italia; sin dai primi mesi
del 1918 l’Ilva andò progressivamente trasformandosi in un vasto gruppo verticalmente
integrato, dalla produzione di ghisa alla fabbricazione di navi, materiale ferroviario e au-
tomobili.
- Breda (COMIT): produce armamenti, mitragliatrici, cartucce, cannoni (famosa è la mi-
tragliatrice Breda) e si espande anche nella siderurgia e nella cantieristica.
- Officine Meccaniche (CREDIT): vengono dalla vecchia tradizione ferroviaria, dal busi-
ness ferroviario milanese degli anni ’80.
- Fiat (CREDIT): il conflitto fu l’occasione del grande balzo (da trentesima a terza impre-
sa industriale italiana, da 25 a 200 milioni di capitale sociale, da 4.000 a 40.000 dipen-
denti), acquisì anche altri comparti (in particolare navale e aeronautico), in modo da
aumentare l’integrazione verticale e da ridurre la dipendenza da forniture esterne, pur
tuttavia mantenendo gli autoveicoli al centro dell’attività senza eccessive dispersioni
(merito soprattutto di Agnelli).
 La guerra inietta robustezza, l’Italia diventa a tutti gli effetti un Paese industrializzato,
la guerra rappresenta un punto di non ritorno (almeno fino ad ora) anche in questo sen-
so.
• ITALIA: LE PRODUZIONI DI GUERRA
- Impulso all’industria tessile (in particolare alla produzione di lana)
- Nascita dell’aereonautica (i francesi erano i più all’avanguardia)
- Rinnovamento della chimica italiana: all’inizio soprattutto chimica organica, poi con la
ricetta per gli esplosivi si passa anche alla chimica inorganica, fino ai coloranti e alla in-
dustria farmaceutica.
- Espansione delle fibre artificiali
- Metallurgia: installazione del forno elettrico (grazie all’abbondanza di elettricità in que-
sta fase), di qui la c.d. siderurgia di seconda lavorazione, quella cioè che riutilizza i rot-
tami).

I PROBLEMI DEL DOPOGUERRA E LA CRISI DELLO STATO LIBERALE


Cap. 9 - Il turbolento dopoguerra
Cap. 10 - Si profila lo Stato imprenditore

• MONDO: LE CONSEGUENZE POLITICHE, ECONOMICHE, DEMOGRAFICHE DELLA I GUERRA MONDIALE


 Sfaldamento di tre imperi: Russo, Austro-Ungarico, Turco.
 Nascita dell’Europa delle nazioni: nazionalismo economico (dal Baltico alla Mesopota-
mia).
- Conflittualità tra l’Italia e il nuovo Stato Iugoslavo per la questione della Dalmazia (che,
secondo quanto stabilito col Patto di Londra, sarebbe andata all’Italia insieme all’Istria;
nota: dopo la sconfitta di Caporetto, Vittorio Emanuele Orlando era diventato Presidente
del Consiglio, ma Sonnino era rimasto Ministro degli esteri).
 Accordo di Pace di Versailles: il peso delle distruzioni addebitato a Germania e Austria


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e la questione delle “riparazioni”.
- Durante la guerra tutti i Paesi dell’Intesa avevano contratto enormi debiti con la finan-
za americana. E al termine del conflitto tutto questo debito (oltre al risarcimento dei
danni di guerra, soprattutto all’agricoltura, alle infrastrutture, ferrovie, ponti, etc.) fu ri-
versato sui Paesi sconfitti.
 Forte indebitamento di tutti i Paesi che avevano preso parte alla guerra.
 Il tentativo del gold exchange standard e il blocco dei capitali causato dalla questione
delle riparazioni.
- Durante la guerra il sistema del gold standard, che sino ad allora regolato i rapporti
commerciali internazionali (in Inghilterra dal 1810, in Europa dal 1850-70) viene abbo-
nato. Alla fine del conflitto s’introduce il sistema del gold exchange standard, ossia
all’oro si affiancano monete forti quali la sterlina e soprattutto il dollaro.
 La I guerra mondiale e la rivoluzione russa causano un calo demografico (considerato
anche il deficit di crescite) di 54 milioni di individui.
 La crisi del ’29 dimostra che i mercati delle merci e dei capitali erano integrati in un
sistema globale.
 Un mondo sempre più indipendente dall’Europa sia a livello politico che economico: si
rafforza la posizione degli Usa e del Giappone.
 La crisi economica del ’29 significa la fine della prima globalizzazione?
- Soprattutto alla luce della frenata dei commerci internazionali e dell’affermarsi dei na-
zionalismi, alcuni storici sostengono che con la I guerra mondiale finisce la c.d. prima
globalizzazione e che anzi quella fra le due guerre fu una fase di deglobalizzazione.
• ITALIA: LE CONSEGUENZE ECONOMICHE DELLA I GUERRA MONDIALE
 Ricostruzione delle infrastrutture e del capitale tecnico
 Gestione dei debiti di guerra nazionali e internazionali
 Rientro dall’inflazione e ricostituzione delle riserve d’oro
 Riduzione dell’eccesso di capacità produttiva
- Drastica riduzione della domanda: non c’è più lo Stato che fa mercato, nel senso che
assorbe tutte le produzioni di queste industrie. L’Ansaldo stesso (elogiato per aver dato il
maggiore contributo in termini di cannoni, artiglieria e mezzi in genere) entra in crisi. La
crisi esplode nel 1918-21 e raggiunge l’apice nel 1921.
 Attenuazione della dilagante disoccupazione
 Limitazione delle importazioni troppo costose
• ITALIA: LA CRISI DEL DOPOGUERRA (sin dal giorno dopo la vittoria di Vittorio Veneto il
4 novembre)
 I conti dello Stato si aggravano moltissimo:
- le spese da 2,5 mld nel 1913 a 31 mld nel 1918-19
- aumento del debito pubblico: dall’81% del pil nel 1914 al 125% nel 1920
- circolazione cartacea: da 4 a oltre 20 miliardi
 La crisi dei ceti medi: l’inflazione
- Crisi dei ceti medi: l’enorme svalutazione della lira (nel 1920 vale 1/5 rispetto al 1914)
di fatto dimezza il loro reddito, perché hanno o uno stipendio fisso o una rendita prove-
niente da terreni/immobili/titoli di Stato.
 Le rivendicazioni operaie: il Biennio Rosso
- Arrangiamento dei ceti bassi: già durante la guerra (si pensi ai sindacati all’interno del-
le articolazioni regionali del Comitati di Mobilitazione Industriale) operai e agricoltori a-
vevano contrattato l’aumento dei salari in rapporto all’aumento del costo della vita; poi
al termine del conflitto le rivendicazioni aumentano (anche alla luce della promessa di ri-
distribuzione delle terre che aveva indotto molti ad arruolarsi), e anche se non arrivano
all’altezza del costo della vita, comunque i loro salari crebbero.
- Arricchimento dei ceti alti: durante la guerra s’erano arricchiti commercianti (coi rinca-
ri) e industriali (con le sovvenzioni pubbliche); nasce il mito dei “pesci cani”.
 La crisi politica: l’avvento dei partiti, l’introduzione della proporzionale
- Il ritorno dal fronte è una fase piuttosto drammatica, caratterizzata da odi e tensioni,
dalle rivendicazioni salariali dei ceti operai, dalle contestazioni dei ceti medi (che fino ad
allora erano sempre stati a fianco del governo) e da quelle dei militari che rientrano dalla
guerra, soprattutto se si tiene presente che la maggioranza degli italiani non aveva volu-
to la guerra.


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- Nitti è al governo (con liberali, democratici e qualche vecchio socialista che aveva ab-
bandonato il psi) e 1) sblocca il prezzo del pane, sicché l’inflazione aumenta interiormen-
te; 2) riprende le fila dei rapporti internazionali; 3) introduce la proporzionale e alle ele-
zioni del 1919 trionfano i due partiti meglio organizzati: il partito cattolico (ppi) e il parti-
to socialista (psi).

PRIMA PARTE GIURIDICA

LA CODIFICAZIONE DEL DIRITTO COMMERCIALE

- Il diritto commerciale nasce come diritto della classe dei mercanti, quindi come dirit-
to particolare, di classe, pur essendo al contempo diritto a vocazione universale,
transnazionale. Materie tipicamente oggetto della sua disciplina sono imprenditore e
impresa, società, fallimento.
- E' un diritto che prevalentemente nasce e si sviluppa fuori dalla legislazione, quindi
dalla prassi, dall'uso, dalla concreta attività del commercio, quindi sono le consue-
tudini le classiche fonti del diritto commerciale.
- Nel 1673 il Re Luigi XIV emana l'Ordonnance de commerce, un testo legislativo com-
prensivo di norme sui mercanti, sugli agenti di banca, sui titoli di credito, sull'arresto per
debiti, sui procedimenti di cessione dei beni, sulle procedure di fallimento e bancarotta,
sulle società commerciali, sulla giurisdizione dei tribunali di commercio.
- L'Ordinanza commerciale del 1673 rappresenta il primo intervento del Sovrano in ma-
teria di diritto commerciale, il primo passo verso la "statalizzazione del diritto com-
merciale", fermo restando che le consuetudini (non la legislazione) sono e rimangono le
fonti tipiche del diritto commerciale, quindi fermo restando che le principali sedi ed occa-
sioni di nascita e sviluppo del diritto commerciale erano e rimasero le corti mercantili, le
piazze commerciali, le fiere, le contrattazioni.
- Si tratta di un'ordinanza ad applicazione soggettiva, ovvero le cui regole si applica-
vano solo se parte del rapporto giuridico fosse un mercante, un soggetto iscritto alla
corporazione mercantile.
- In Italia, le nozioni di imprenditore ed impresa (non più commerciante, ma appunto
imprenditore, impresa commerciale) compaiono per la prima volta solo nel progetto di
codice di commercio del 1940 (poi mai messo in vigore), quindi solo quando ormai il di-
ritto commerciale sta per perdere la sua autonomia di codice.

IL CODE DE COMMERCE DEL 1807

- Nel 1801 (al tempo del Consolato) viene nominata una Commissione incaricata di redi-
gere un progetto di codice di commercio, che riformi l'Ordinanza del 1673 e quella della
marina mercantile, e che tenga conto delle leggi posteriori, delle consuetudini e dei re-
centi sviluppi della prassi mercantile. La Commissione è formata da giuristi e commer-
cianti, appunto chiamati a dare il loro apporto di conoscenze pratiche, e Gorneau ne
viene messo a capo.
- Il codice di commercio, pur rappresentando la codificazione di un importantissimo set-
tore del diritto, non è affatto caricato delle valenze politiche ed economiche che invece
abbiamo visto caratterizzare la codificazione del diritto civile (strumento per la costruzio-
ne di uno Stato forte ed accentrato, di gestione dell'eredità rivoluzionaria, di pacificazio-
ne del Paese).
- Tuttavia Napoleone teneva molto al codice di commercio, perché riteneva che occor-
resse moralizzare gli scambi, e in particolare inasprire le conseguenze negative della
dichiarazione di fallimento (es. arresto immediato del fallito, prima ancora di sapere se il
fallimento sia di natura dolosa o colposa), arginare le frodi e tutelare il credito.
- Si susseguirono tre progetti: quello del 1801, quello del 1803 e quello che Cambacere-
es chiese di redigere alla Sezione dell'Interno, in modo da poterlo mettere a confronto
coi primi due progetti di Gorneau.
1) Il codice napoleonico del 1807 è il primo codice di commercio e per cinquant’anni (fi-


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no al codice tedesco del 1861) anche l’unico, di qui la grande influenza che esercitò su
tutta l’Europa continentale e non solo.
2) Contiene una prima (pur timida, pur lacunosa) disciplina della materia societaria.
3) Ai fini della determinazione del suo ambito di applicazione adotta il criterio oggettivo
degli atti di commercio: almeno formalmente il diritto commerciale non è più il diritto
della classe dei mercanti, ma un diritto che si applica agli atti di commercio, a prescinde-
re da chi li ponga in essere, e che quindi vale per tutti i cittadini. In realtà, il fatto che in
caso dubbio si applicava il diritto civile, il fatto che non c’era una norma sugli atti misti, il
fatto che la giurisprudenza era saldamente orientata ad affermare che in nessun caso il
non commerciante poteva agire/essere convenuto davanti ad tribunale di commercio, in-
somma tutti elementi che lasciano intendere come poi nella sostanza il codice di com-
mercio fu pensato e scritto per la sola classe dei commercianti.
 Rapporto fra codice civile e codice di commercio: nel corso della discussione in Consi-
glio di Stato (tra il 1805-06) si delinearono due schieramenti ideologicamente opposti:
- la Sezione Legislativa, formata dai c.d. civilisti, dai legisti, ovvero per lo più dai giuri-
sti che erano stati protagonisti della discussione del codice civil (Merlin, Cambacerees,
"la Francia non è l'Inghilterra, "non si può rendere la nazione mercante contro la sua vo-
lontà"), i quali consideravano il codice civile la legge fondamentale che riguarda tutti e
tutela i valori fondamentali, mentre il codice di commercio una legge speciale che riguar-
da i mercanti e tutela i loro specifici interessi di settore, dunque consideravano il codice
di commercio subordinato a quello civile (e quindi ponevano al primo posto la tutela della
proprietà; erano contrari all'ipotesi di ampliare la competenza delle giurisdizioni mercan-
tili);
- la Sezione dell'Interno, formata dai c.d. commercialisti, ovvero per lo più da espo-
nenti del mondo dell'economia e del commercio.
4) Alla fine le tesi dei civilisti prevalsero: il codice di commercio presuppone il codice ci-
vile, non ci fu un raddoppio di disciplina, il codice civile contiene la disciplina sostanziale,
il codice di commercio regola solo quegli istituti e quelle fattispecie che in ambito com-
merciale assumono dei caratteri particolari e diversi rispetto alla previsione civilistica (es.
vendita commerciale).
 Diviso in 4 libri: 1- Definizione di commercianti (coloro che di professione abituale
mettono in essere atti di commercio), norme sulla tenuta dei libri contabili, norme in ma-
teria di società commerciali (una quindicina di articoli), norme sui contratti di borsa, sugli
agenti di commercio, sugli agenti di cambio, qualcosa sulle cambiali (non ancora titoli a-
stratti). 2- Diritto della navigazione: contratto di assicurazione marittima (intorno al
1830-40 viene introdotta anche l'assicurazione "terrestre", ossia quella contro i danni,
sulla vita, etc.), commercio marittimo (per la prima volta commercio terrestre e maritti-
mo vengono disciplinati insieme). 3- Fallimento (poi riformato dalla legge fallimentare
del 1838). 4- "Della giurisdizione commerciale": organizzazione e competenza dei
tribunali di commercio, e soprattutto elenco degli atti di commercio (compravendita di
derrate e mercanzie, imprese di manifattura, commissione, trasporto, lettere di cambio,
assicurazioni e altri contratti riguardanti il commercio di mare).
5) La funzione primaria degli atti di commercio e del codice del 1807 nel suo complesso
è individuare chi è commerciante (colui che di professione abituale mette in essere atti di
commercio) e fissare la competenza dei tribunali di commercio (tutte le controversie re-
lative alle obbligazioni dei mercanti e agli atti di commercio messi in essere da qualsivo-
glia persona); il processo mercantile era notevolmente più snello e meno garantista; la
preoccupazione è quella di far sì che solo i commercianti agiscano/siano convenuti da-
vanti ai tribunali di commercio.
6) La questione degli atti misti (atti che sono commerciali per una sola delle parti) non
viene affatto affrontata nel codice, in quanto ritenuta residuale e di scarso rilievo pratico
(l'obiettivizzazione è solo uno scopo di facciata, in realtà il codice è scritto nella convin-
zione che sia indirizzato ai soli commercianti). In realtà la questione ebbe grande rile-
vanza pratica e la giurisprudenza francese (in particolare la giurisprudenza della Cassa-
zione) venne chiamata a colmare questa lacuna codicistica; e lo fece a favore della giuri-
sdizione civile (a testimonianza del peso politico della classe fondiaria fondiaria); la giuri-
sprudenza della Cassazione era infatti stabilmente orientata ad affermare che sia l'attore
commerciante che voleva citare in giudizio il convenuto non commerciante sia l'attore


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non commerciante che voleva citare in giudizio il convenuto commerciante dovevano far-
lo di fronte al tribunale civile (quindi nella seconda ipotesi il principio del foro del conve-
nuto viene derogato).
- Entra in vigore nel 1808, abroga le vecchie norme (in sostanza, l'Ordonnance de com-
merce e quella de la marine), ma è (in parte volutamente) molto lacunoso (sicché larga
parte del diritto commerciale rimane fuori dal codice, rimane disciplinato dalla prassi e
dagli usi mercantili) e sin da subito non al passo coi tempi (la realtà economica e com-
merciale si sviluppa molto più rapidamente; vd. soprattutto disciplina delle società ano-
nime).
- In una circolare del 1811 il Consiglio di stato raccomanda ai giudici commerciali "di
giudicare secondo il codice, ma in maniera elastica, e in caso di lacuna normativa, di ri-
correre agli usi commerciali".

IL CODICE DI COMMERCIO ITALIANO DEL 1865

- Nel 1862 (quando ancora non si sapeva se l'Italia avesse avuto un codice unitario o
meno) Mancini e Corsi presentano un progetto di legge in materia societaria, in cui
chiedono l'abolizione dell'autorizzazione governativa, in quanto inutile (le frodi avveniva-
no lo stesso) e dannosa (il commercio rifugge i controlli troppo stretti). E benché tale
progetto non ebbe alcun seguito, è importante perché é espressione della acuta lungimi-
ranza di Mancini e Corsi, i quali avevano capito che la materia societaria necessitava di
una disciplina puntuale e moderna.
- Nel 1865 Mancini ottiene di far estendere il Codice sardo-piemontese del '42 a tut-
ta l'Italia, codice che ricalca quello francese del 1807, soprattutto alla luce del fatto che
economia italiana del secondo '800 è molto simile a quella francese del primo '800.
- Pur non essendo considerato un buon codice, lo si preferì a lasciare la penisola senza
un codice unitario. Ma già nel 1869 Mancini fa partire i lavori preparatori per un nuovo
codice di commercio, cui si arriverà 13 anni dopo, nel 1882.
- Nel codice di commercio sardo-piemontese del 1842 era prevista l'autorizzazione go-
vernativa sia per le società anonime sia per le società in accomandita per azioni che e-
mettevano azioni al portatore. Nel codice di commercio dell'Italia unita del 1865 l'auto-
rizzazione governativa era richiesta anche per le accomandite per azioni che emettevano
azioni nominative. Fra il 1866-69 l'autorizzazione è concessa dall'Ufficio del sindacato,
poi il potere/dovere di controllo e di vigilanza (che non si esauriva al momento della con-
cessione dell'autorizzazione, ma che si protraeva per tutta la vita della società) passa al-
le Camere di Commercio (quindi organi formati dagli esponenti del ceto degli affari)

LE SOCIETA' COMMERCIALI

- Le società commerciali disciplinate nell'Ordinanza del 1673 sono la compagni-


a/società generale e la commenda/società in accomandita, tipi societari di origine
medievale, che rispondevano all'esigenza di accordare al dinamismo e all'elasticità dei
movimenti la possibilità per ciascun socio di stipulare accordi vincolanti per tutti. C'era
poi un terzo tipo di "società", detta società anonima (non quella codificata nel 1807,
società di capitali, responsabilità limitata, divisione del capitale in azioni) o incognita o
conto in partecipazione, per il suo carattere occulto, nascosto ai terzi e al pubblico,
ma che non era una vera e propria società, quanto piuttosto un contratto di associazione
in partecipazione, quindi una "società" che non aveva rilevanza esterna, ma che vincola-
va solo i due contraenti.
- Nel medioevo il divieto di usura imposto dalla Chiesa (non si poteva né prendere dena-
ro a mutuo né remunerare il capitale) rendeva piuttosto difficile la raccolta di finanzia-
menti. La commenda/società in accomandita è un nuovo tipo di contratto societario che
consente di reperire finanziamenti da investire in operazioni commerciali: l'accomandan-
te è il finanziatore della spedizione via mare ed è limitatamente responsabile (il nome dei
soci accomandanti non deve comparire nella ragione sociale), l'accomandatario è il mer-
cante ed è illimitatamente responsabile.
- L'uso del nome giuridico "società" serve solo a mascherare questo istituto e così ad ag-
girare il divieto di remunerazione del capitale (non è la societas romana, ma piuttosto


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una compagnia, una forma di comunione, "cum panis"). La commenda ebbe un enorme
successo durante tutta l'epoca moderna. Poi alla fine del '700 la prassi mercantile fran-
cese portò alla comparsa di società, sempre denominate in accomandita, ma che in real-
tà ne erano molto diverse: erano composte da soli soci accomandatari, avevano un
amministratore salariato, dividevano il capitale sociale in azioni.
- Alcuni vedono l'origine delle società di capitali nella società in accomandita composta di
soli soci accomandanti e che divideva gli utili in azioni, sviluppatasi dalla originaria com-
menda. Altri (es. Galgano) la vedono nelle Compagnie delle Indie del 1600, che nasce-
vano su concessione di un privilegio da parte del Sovrano, che dividevano il capitale in
azioni, i cui membri rispondevano solo del conferimento, e nelle simili Compagnie à la
charte del 1700 (es. per lo sfruttamento delle miniere).
 Nel progetto di codice del 1801 viene dedicato il primo, solo, importante (se non altro
emblematico) articolo a questo nuovo tipo societario, usatissimo e spesso abusato (vo-
lontà di arginare frodi e disastri finanziari, e in generale di tutelare il credito), e si decide
di chiamarlo società anonima, così da rendere inequivocabile che nessuno dei soci è il-
limitatamente responsabile: nella ragione sociale non deve comparire il nome dei soci, in
modo che i creditori e in generale quanti entrano in rapporto con la società giuridica non
siano tratti nell'inganno di poter fare affidamento sul patrimonio dei soci, i quali sono in-
fatti tutti responsabili limitatamente al solo conferimento.
"La società per azioni è anonima. Non è conosciuta che per una qualificazione relativa al
suo oggetto.
Il suo capitale è formato da un numero determinato di azioni.
E' retta da amministratori che sono azionisti o salariati.
Non può essere costituita senza autorizzazione del governo.
Gli azionisti non sono soggetti che alla perdita dell'ammontare delle loro azioni.”
 Nel codice del 1807 le società commerciali vengono codificate sulla base del profilo
della responsabilità dei soci (non della divisione del capitale in azione), ci si concentra
sul profilo della responsabilità dei soci e si trascura il pur critico profilo dell'azionariato
(le società anonime dividevano il capitale in azioni e a lungo nessuno se ne preoccupò).
 Fra il 1807 e il 1867 le società anonime si costituivano solo previa autorizzazione
governativa concessa dal Consiglio di stato: prima il prefetto esprimeva un giudizio (del
tutto discrezionale, non ancorato ad alcuna norma giuridica) sulla moralità di coloro che
intendevano intraprendere l'affare, poi la pratica passava in Consiglio di stato, il quale si
sostituì al legislatore e si inventò i criteri che una società doveva rispettare per costituirsi
(di qui le regole sul conferimento del capitale, sulla partizione del capitale in azioni, etc.).
La procedura per l'ottenimento dell'autorizzazione governativa non era affatto semplice e
il Consiglio di stato era estremamente rigoroso; così tutto lo sviluppo industriale francese
avvenne tramite le società in accomandita per azioni, che in concreto producevano
gli stessi effetti delle società anonime e che era molto più facile e veloce costituire (man-
cava infatti una disciplina). A tal proposito si parla di "febbre delle accomandite": ebbero
larghissima diffusione, ma portarono anche ad enormi disastri economici, proprio per il
fatto che non c'erano regole circa la divisione degli utili in azioni.
- Company act del 1856 stipulato con l’Inghilterra: libera creazione delle società di ca-
pitali a responsabilità limitata. Trattati stipulati tra i due Paesi nel 1860 e nel 1862: re-
gola per cui le società inglesi legalmente costituitesi in patria potevano esercitare libe-
ramente la loro attività in Francia. Tali importanti accordi commerciali sono una testimo-
nianza della crescente ingerenza della politica nell’attività economica dei privati.
- Legge sulle accomandite per azioni del 17 luglio 1856: pone fine alla grande liber-
tà di cui fino ad allora avevano goduto le accomandite per azioni e stabilisce per la loro
costituzione la sussistenza dei principi e dei criteri che in cinquant’anni il Consiglio di sta-
to aveva elaboratore con riferimento alle anonime.
- Legge del 1863: abolisce l’autorizzazione governativa per la costituzione delle anoni-
me il cui capitale è inferiore ai 20 milioni di franchi.
- Legge del 24 luglio 1867: abolisce definitivamente il sistema della autorizzazione
governativa per tutte le anonime ("le anonime sono restituite ai privati") e lo sostituisce
con il regime dell'omologazione dell'atto costitutivo affidato ai tribunali civili.


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IL DIRITTO COMMERCIALE NELLA SECONDA METÀ DELL'800

 Codice di commercio tedesco del 1861


- Nel 1800 l'area tedesca è fortemente disunita, ci sono tanti ordinamenti autonomi sia
dal punto di vista politico sia da quello giuridico: in Prussia l’ALR (compilazione che disci-
plinava oltre al diritto civile anche il diritto pubblico e quello penale, che stabiliva norme
diverse a seconda che si fosse nobili, borghesi o contadini, e che fungeva da diritto sus-
sidiario rispetto ai diritti territoriali), in Austria l’ABGB e il codice penale del 1803;
c’erano poi vescovati, libere città, principati, nella maggior parte dei quali vigeva il regi-
me del diritto romano comune; inoltre Napoleone era arrivato fino alla riva sinistra del
Reno e fin lì aveva messo in vigore il code civil, e anche quando viene sconfitto, alcune
Regioni scelgono di mantenere il code civil, ad esempio nel 1809 entra in vigore il Lan-
drecht del Baden, che non è altro che una versione tedesca del code civil.
- Al congresso di Vienna si discute la questione tedesca, ossia la questione di quest’area
così vasta, così ricca, così importante e così eterogenea e (sebbene proprio in questo pe-
riodo e proprio in quest’area si stesse rafforzando l’idea di nazione come fatto etico e
morale, come autocoscienza di un popolo, ossia sebbene in astratto si parlasse di Ger-
mania e di nazione tedesca, pur non essendoci una Germania e uno Stato unitario) si
decide di non unificare la Germania ma di creare la Confederazione germanica: 39
Stati dell’area tedesca confluiscono in questa forma di coordinamento di tipo medievale,
l’Austria ne è a capo, la Prussia ne è parte solo con alcuni dei suoi territori. I rappresen-
tanti degli Stati membri si riuniscono periodicamente nella “dieta”. Nel 1870 la Germania
si unifica intorno alla Prussia e soprattutto su volontà di Bismark. Nel 1828 la Prussia
promuove all’interno della confederazione un’unione doganale (Zollverein): 26 Stati
aderiscono, l’Austria rimane fuori, l’idea è quella di eliminare i dazi interni e di creare un
mercato unico. Per effetto anche dell’unione doganale gli scambi diventano più facili e
quindi intensi, la Germania entra nella rivoluzione industriale, la ferrovia conosce un
grande sviluppo.
- Nel 1848 viene approvata (su iniziativa della Prussia) Legge generale di cambio
(sotto la guida di Savigny che allora lavorava al Ministero della legislazione di Berlino),
che entra in vigore negli Stati membri dell’unione e che poi viene adottata con legge na-
zionale da tutti gli Stati dell’area tedesca (fra cui l’Austria, poi anche il Lombardo-Veneto
nel 1850). La caratteristica di questa normativa sulle cambiali è l’enunciazione
dell’astrattezza dell’obbligazione cambiaria, la quale appunto è indipendente dal fatto co-
stitutivo (il carattere dell’astrattezza era già stato enunciato dal giurista tedesco Einert in
una monografia sulla cambiale del 1839; mentre in Francia e in Italia la cambiale è e ri-
mane a lungo un titolo non astratto).
- Sulla scia del successo dell'unione doganale e con la volontà di perfezionare quel mer-
cato unico che si andava costruendo, sempre su iniziativa della Prussia, si decide di redi-
gere un testo uniforme in materia di diritto commerciale. Norimberga è la sede delle
conferenze e dei lavori preparatori, a cui partecipano i rappresentanti di tutti gli Stati te-
deschi, fra i quali i più influenti sono tuttavia quelli della Prussia, di alcuni territori dello
Impero asburgico e della città di Amburgo (benché piccola, vantava una notevole espe-
rienza in campo economico).
 Nel 1861 viene approvato un Codice di commercio pantedesco (ADHGB) ed an-
che questo entra in vigore negli Stati membri e poi viene adottato con legge nazionale
da altri singoli Stati (fra cui anche il Veneto, che fino al 1866 è austriaco). Goldschmidt
è uno dei protagonisti della dottrina giuridica tedesca di quegli anni.
1) E’ un codice sovranazionale: non è della Germania (che non c'è ancora, se non a li-
vello ideale, unificazione nel 1870), non nasce per un solo Paese, ma è adottato singo-
larmente da ciascuno Stato dell'area tedesca.
2) Il fatto che è destinato ad essere applicato in realtà molto eterogenee e che non può
far riferimento ad un codice civile (che ancora non c’è, il BGB entra in vigore nel 1900)
comporta che a) per poter "stare in piedi da solo", necessita di una parte generale: il
codice di commercio contiene una propria disciplina sostanziale in materia di obbligazioni
e di contratti che si sovrappone a quella che sarà poi contenuta nel codice civile (rad-
doppio della disciplina); b) per poter arrivare in tempi brevi al completamento, si trala-
sciano tutte questioni che avrebbero presupposto una codificazione uniforme del diritto


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civile (es. il fallimento non viene disciplinato, non perché non importante, ma perché la
stretta connessione del diritto fallimentare col diritto processuale avrebbe presupposto
una unificazione a livello di procedure e di istituzioni giudiziarie allora inesistente e im-
praticabile).
3) Come il codice di commercio francese è impostato sul criterio oggettivo degli atti di
commercio, ma con la radicale differenza che l'uno si sviluppa sotto il profilo della giuri-
sdizione: gli atti di commercio servono a stabilire la competenza dei tribunali di commer-
cio; mentre l'altro si sviluppa sul piano del diritto sostanziale: detta una organica disci-
plina di fondo del diritto commerciale.
4) In merito atti misti, si dice che in caso appunto di atti unilaterlmente commerciali la
giurisdizione commerciale prevale su quella civile.
5) In materia di società commerciali, detta una disciplina molto dettagliata, che tiene
conto dello sviluppo che queste hanno avuto nella pratica. Quanto all’autorizzazione go-
vernativa, se ne afferma la necessità, ma al contempo si consente a ciascuno Stato di
derogare sul punto con una sua legislazione interna (ad ulteriore testimonianza della vo-
lontà di arrivare ad una codificazione in materia, a cui non si sarebbe pervenuti, o alme-
no non così in fretta, se ci si fosse soffermati sul punto).

 Codice di commercio italiano del 1882


- Il Codice di commercio pantedesco è presto noto in tutta Europa, nel 1863 entra in vi-
gore in Veneto, e in particolare è ben noto a Mancini, il quale dopo l'estensione a tutta
l'Italia del Codice sardo-piemontese del 1842, inizia subito a lavorare ad un nuovo codice
di commercio. I lavori preparatori iniziano nel 1869 e si dividono in due momenti: primo
progetto del 1873, spartiacque della caduta della Destra storica nel 1876 (Mancini Mini-
stro della Giustizia nel 1876-78), secondo progetto del 1877.
- Da tali lavori preparatori emerge 1- la volontà di affermare il principio dell'astrattezza
delle cambiali (si diceva che al fine di agevolare gli scambi "bisognava trasformare la
cambiale nella carta-moneta dei mercanti"); 2- la necessità di occuparsi delle società e
di abolire l'autorizzazione governativa per le anonime; 3- il problema dell’abrogazione
dell'arresto per debiti (in Francia nel 1867, in Italia nel 1877).
1) Il codice del 1882 nello schema ricalca il modello napoleonico, nei contenuti riprende
le scelte tedesche. Il codice di commercio detta una sua propria disciplina sostanziale
delle società, della vendita commerciale e del mandato commerciale. Si assiste ad un
raddoppio della disciplina e gli atti di commercio fungono da criterio per la distinzione (e
la conseguente applicazione) fra normativa civile e commerciale, normative parallele e
diverse, perché ispirate a principi diversi e scritte con finalità diverse.
- Problema di capire se l'elenco degli atti di commercio è tassativo o meno e problema di
capire se si tratta, ad esempio, di una vendita commerciale o civile. Ascarelli diceva "per
capire se una vendita è commerciale o meno, bisogna guardare (l'interprete deve guar-
dare, tale valutazione è rimessa al giudice) ai motivi, al modo con il quale tale vendita è
compiuta, ed anche alla accessorietà giuridica e alla connessione economica con un altro
atto di commercio".
- Art. 1 (ispirato all'art. 1 del codice di commercio tedesco): "In materia di commercio si
osservano le leggi commerciali, ove non dispongono si osservano gli usi mercantili (gli
usi speciali o particolari prevalgono su quelli generali). In caso di ulteriore comune si ap-
plica il diritto civile". Rivalsa degli usi nei confronti della legislazione, gerarchia che susci-
ta vivaci dibattiti in dottrina.
2) Art. 54 sugli atti misti: "Se un atto è commerciale per una sola delle parti, tutti i con-
traenti sono soggetti alla disciplina commerciale" (i tribunali di commercio vengono abo-
liti nel 1888).
3) Progressiva commercializzazione del diritto privato su più livelli: a) in alcuni casi la
disciplina commerciale prevale su quella civile; b) alcune norme fino ad allora propria-
mente commerciali vengono elevate a norme civili, dunque estese a tutti, in quanto più
adatte alla realtà degli scambi.
- Es. in seguito alla nascita e allo sviluppo della ferrovia, la disciplina del contratto di tra-
sporto viene ridefinita: il trasporto non è più un contratto tra soli commercianti, ma inizia
ad includere anche comuni cittadini, di qui l’attenzione alla tutela degli utenti, dei con-
sumatori, in concreto dei clienti delle ferrovie (ad esempio si eliminano o quanto meno si


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limitano le clausole di esclusione della responsabilità del vettore).

LA SCUOLA DI VIVANTE E SRAFFA


(Cesare Vivante, Per un codice unico delle obbligazioni, 1888)

- Cesare Vivante nasce a Venezia nel 1855 e muore nel 1944. Nel 1888, in occasione
dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Bologna, legge una prolusione
(lezione inaugurale) al corso di diritto commerciale, intitolata “Per un codice unico delle
obbligazioni”. All’epoca Vivante è un giovane professore (33 anni) e c’è grande attesa ri-
guardo quello che dirà: sono questi gli anni della rivoluzione industriale, dello sviluppo
delle industrie, delle ferrovie, del problema del contratto di trasporto tra la grande socie-
tà privata monopolista e il singolo consumatore, e il punto è che ci si aspetta che il dirit-
to commerciale fornisca gli strumenti giuridici per supportare lo sviluppo economico.
 Critiche al Codice di commercio del 1882:
- Critica di tipo sostanziale: Vivante è contrario (in questa prima fase, perché poi cam-
bierà opinone) alla separazione del diritto commerciale da quello civile (sul modello fran-
cese) e sostiene la necessità di un codice unico, di un codice che detti una disciplina
chiara ed unitaria di contratti e obbligazioni, che offra le soluzioni giuridiche ai problemi
della realtà economica e sociale contemporanea, problemi che non sono solo quelli delle
grandi banche e società, ma anche quelli dei consumatori (in particolare urge la questio-
ne del contratto di trasporto tra la grande società privata monopolista e il singolo con-
sumatore) e quelli legati a tutto il settore del diritto del lavoro. L’autonomia del diritto
commerciale non ha più ragion d’essere, è ormai un retaggio medievale, è venuto meno
il contrasto fra un diritto commerciale nuovo, pratico, energico, cosmopolita e un diritto
comune scolastico, immobilizzato, primitivo; la società moderna è unita ed omogenea, la
vita economica è una e una sola.
- Critica di tipo tecnico: il codice si fonda sul criterio oggettivo degli atti di commercio,
ma il legislatore non ha spiegato in cosa davvero consista l’atto di commercio, la defini-
zione è generica e l’elenco non chiaro, sicché il limite che separa il diritto civile da quello
commerciale è in perpetuo movimento, è labile, è incerto, è lasciato in balia degli ap-
prezzamenti del giudice, “oscilla continuamente secondo le tendenze economiche del
magistrato, secondo l’ambiente in cui giudica e specialmente secondo le conclusioni pra-
tiche cui vuol arrivare”; il tutto ad evidente e grave pregiudizio del comune cittadino,
che magari oggi non è commerciante, domani sì, oggi non è esposto a fallimento, do-
mani sì; scrive anche che “chi vuole avere giustizia deve fare una causa preliminare per
sapere dove e come può esercitare il proprio diritto”.
- Critica che va al di là del diritto in senso stretto: è un codice di classe, scritto da
commercianti (industriali, banchieri, assicuratori) o comunque da loro rappresentanti
(Camere di Commercio), e che quindi salvaguarda gli interessi di una sola classe e non
tiene conto delle esigenze di tutela degli altri, in particolare delle parti contrattuali debo-
li, dei consumatori (negli scritti di Vivante e Sraffa il consumatore è appunto la parte de-
bole del contratto, il lavoratore, colui che non ha adeguata tutela giuridica); è un codice
che contiene clausole piene di prepotenza, soprattutto clausole che escludono o comun-
que limitano la responsabilità delle imprese in caso di inadempimento. In particolare Vi-
vante critica l’art. 54 sull’estensione della disciplina commerciale agli atti misti: in tal
modo si è tutti attratti nell’ambito di applicazione del diritto commerciale, ma in modo
squilibrato, perchè senza che questa disciplina sia stata concordata dalle parti.
 Vantaggi reciproci sul piano sostanziale derivanti dall’unificazione dei due codici: da
una parte il diritto civile ne uscirebbe ammodernato o quantomeno svecchiato, dall’altra
il diritto commerciale potrebbe giovarsi della più avanzata dottrina giuridica civilista, del-
la c.d. dogmatica, dell’impianto teorico, dei principi, degli istituti che da secoli si svilup-
pano intorno al diritto civile. Inoltre un codice unico delle obbligazioni porterebbe ad un
diritto non solo più aggiornato, ma anche più in linea, più conforme a quello degli altri
ordinamenti europei. Proprio in virtù della natura cosmopolita e transazionale del diritto
commerciale, a più riprese Vivante invita all’apertura e all’attenzione verso legislazione,
giurisprudenza e dottrina straniere.
- Fa l’esempio della legge svizzera sulle obbligazioni: nel 1874 la Svizzera si unisce nella
Confederazione elvetica e in campo giuridico guarda alla Germania; nel 1891 entra in


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vigore l’OR, il Codice delle obbligazioni svizzero, legge che disciplina insieme obbligazioni
civili e commerciali, adottato a livello confederale e redatto sul modello del codice di
commercio tedesco del 1861 e del progetto di Dresda del 1866 (tentativo mai realizzato
di Codice delle obbligazioni tedesco).
- Scrive della Germania e critica il fatto che nel 1900 si sia scelto di mettere in vigore
separatamente BGB (Codice civile tedesco) e HGB (Codice di commercio per la Germania
unificata, quindi non per tutti i Paesi dell’area tedesca, l’ampiezza del diritto commerciale
è ridotta rispetto a quella del diritto civile, i rapporti commerciali sono del tutto sacrificati
a vantaggio della codificazione civile, Vivante e Sraffa lo giudicano completamente as-
servito al BGB).
 A monte di tutto questo discorso c’è il desiderio di Vivante di rinnovare la scienza del
diritto commerciale, gli studi del diritto commerciale in Italia, c’è la volontà di indurre ad
abbandonare il metodo classico della scuola dell’esegesi e ad abbracciare il nuovo meto-
do sistematico tedesco, di indurre a superare l’idea che compito del giurista sia accom-
pagnare il codice, studiarlo, commentarlo, spiegarlo, renderlo operativo e ad accogliere
quella per cui il giurista crea il sistema giuridico, individua i concetti e i principi, sulla ba-
se dei quali poi il legislatore legifererà.
- Nella Prefazione alla prima edizione del suo Trattato di diritto commerciale scrive:
“[…] io comincio dove quei libri finiscono […] ho tentato di costruire il sistema del diritto
vigente, quale è per la forza delle leggi e delle consuetudini che ci governano […] studia-
re la pratica mercantile dominata dalle grandi leggi economiche […] studiare il codice
non da la soluzione per i problemi dell’oggi, bisogna guardare alla prassi (da qui si inizia
a parlare di diritto dell’economia) […] prestare ascolto alla voce del diritto che vie-
ne su dalle cose (è questo il cavallo di battaglia della scuola di Vivante)”.
- Vivante condivide pensieri e tesi del primo Savigny (non della pandettistica più formali-
sta), ritiene che categorie e principi vadano ricercati nella storia di ciascun popolo, che la
vera fonte del diritto è nello spirito del popolo, in quello volksgeist di cui parlava Sa-
vigny.
- E’ assai significativo il fatto stesso che intitoli la sua opera Trattato di diritto commer-
ciale, quindi non è un commentario al codice di commercio, ma Vivante fa una trattazio-
ne del codice e per prima cosa non ne segue l’ordine (fermo restando il principio di lega-
lità, l’autore si muove sempre all’interno del codice, non inventa nulla, ma si ritaglia uno
spazio più ampio di quello del codice).
- Riesce a creare quella schiera di giuristi nuovi, di nuova formazione, suoi seguaci (ri-
cordiamo Sraffa e Ascarelli). In seguito dal 1920-30 alla Scuola di Vivante si contrappone
la Scuola di Alfredo Rocco.
 Vivante e anche il primo Sraffa (quello della “Lotta commerciale”) abbracciano temi
cari al c.d. socialismo giuridico, corrente che nel complesso riunisce autori che si oc-
cupano dei risvolti sociali della industrializzazione e che sostengono la necessità di un in-
tervento del legislatore in materia sociale.
- In quegli anni in Italia non c’è ancora una legislazione sociale, del lavoro, in particolare
non esiste una disciplina giuridica del contratto di lavoro subordinato (Barassi è uno dei
fondatori del diritto del lavoro, scrive un trattato sul contratto di lavoro subordinato).
- Il Belgio (una delle prime aree ad essere industrializzata) e l’Olanda sono i primi Paesi
in cui si sviluppa una disciplina del lavoro.
- Inghilterra, 1871, sindacati operai.
- Francia, 1884, libertà di associazione sindacale.
- 1891, Rerum novarum di papa Leone XIII, in cui respinge gli ideali del socialismo e lo
sciopero come mezzo di lotta, ma invita lo Stato ad adottare una disciplina che tuteli il
lavoratore. In Italia ci si inizia a preoccupare dei problemi sociali sulla scia di quanto si
faceva nella Germania di Bismark. Dal momento che gli operai non hanno alcuna tutela
esterna, cercano innanzitutto di aiutarsi fra di loro, di qui le società mutualistiche. Nel
1883 viene istituita una cassa nazionale per assicurare gli operai contro gli infortuni
sul lavoro, il lavoratore non ha più l’onere di provare la colpa dell’industriale, quindi è più
facile ottenere il risarcimento, ma dalla cassa, non dall’industriale. Vengono istituiti i col-
legi di probi viri per dirimere le controversie sul lavoro.


 21
LA RIVISTA DI DIRITTO COMMERCIALE
(Angelo Sraffa, Programma della Rivista di diritto commerciale, 1903)

- Nasce a Pisa nel 1865 e muore a Genova nel 1937. Nasce da una famiglia di commer-
cianti, si laurea alla facoltà di giurisprudenza di Pisa, che allora era un centro cultu-
rale vivace e all’avanguardia (qui si pubblica l’Archivio giuridico di Filippo Serafini, rivista
su cui, fra l’altro, fu riportata la prolusione di Vivante). Si laurea nel 1888 con una tesi
sulla vendita di cosa altrui (pubblicata l’anno dopo sull’Archivio giuridico), istituto di-
sciplinato nel codice di commercio (vendita civile nel codice civile) e che al tempo era un
tema insolito, nuovo, non facile. Apre uno studio e inizia a collaborare con l’università
(per tutta la vita sarà sempre sia avvocato che professore).
- Nel 1883 ottiene la libera docenza in diritto commerciale. Nel 1894 e professore straor-
dinario di diritto commerciale a Macerata e nella prolusione di Macerata, intitolata “La
lotta commerciale”, riprende le idee espressa da Vivante nella prolusione di Bologna.
- Dal 1898 al 1913 è professore ordinario a Parma, insegna diritto commerciale e dirit-
to processuale civile (cattedra prima di Giuseppe Chiovenda, dopo di Alfredo Rocco) e
qui trasferisce anche il suo studio legale.
- Nel 1902 viene fondata la Bocconi e Sabbatini (che collabora con Bocconi nella fonda-
zione dell’università) chiama Sraffa, il quale fu rettore dal 1917 al 1926 e poi rimase
nel consiglio direttivo fino al 1934.
- Nel 1913 è professore di diritto commerciale a Torino (in cui insegnavano personaggi
illustri, quali Pacchioni e Diena, il diritto civile, Luigi Einaudi, l’economia politica; Eiunaudi
che proprio Sraffa chiama ad insegnare in Bocconi e con cui il figlio Piero si laurea a To-
rino) e trasferisce lo studio legale da Parma a Milano (in via Foscolo).
- Nel 1924, viene fondata l’universtità statale di Milano (e anche l’università cattolica;
dal tempo dei Visconti l’università lombarda era a Pavia). Sraffa era amico dell’allora sin-
daco Mangiagalli e fu il primo presidente dell’università statale.

- A Parma, nel 1903, insieme con Vivante, Sraffa fonda la Rivista di diritto com-
merciale (il catalogo delle riviste giuridiche pubblicate tra ‘800 e ‘900, ma soprattutto
nell’800, è vastissimo). La fondazione di questa rivista è in perfetta sintonia con l’dea di
Vivante di creare una scuola di diritto commerciale (attenta ai fatti, alla realtà, volta a
costruire un sistema del diritto vivente), quindi la rivista come uno dei mezzi attraverso i
quali raccogliere i contributi e promuovere la discussione. Ma è Sraffa la vera anima della
Rivista (Vivante è solo firmatario del programma), sua moglie ne cura la redazione, pri-
ma nella loro casa di Parma, poi di Milano.
- La rivista ha sin da subito una sezione di legislazione, dottrina e giurisprudenza stranie-
re (in particolare si caratterizza per l’apertura e l’attenzione al mondo anglosassone, ai
Paesi di common law).

I GIURISTI DI FRONTE ALL’INTERVENTO DELLO STATO NELL’ECONOMIA


(Angelo Sraffa, La riforma della legislazione commerciale e la funzione dei giuristi, 1913)

- Nell’articolo pubblicato sulla Rivista di diritto commerciale Sraffa denuncia la grave crisi
in cui si trova il diritto commerciale (sempre più frammentario e lacunoso) ed invoca
l’urgenza di riforme legislative.
- In particolare si sofferma su due aspetti: 1) l’inadeguatezza della legislazione vigente
rispetto alle nuove esigenze della realtà economica e sociale (in quegli anni l’Italia è pie-
no sviluppo industriale), il divario tra le norme scritte e i rapporti che esse dovrebbero
regolare; Sraffa parla di “crisi della funzione interpretativa”, di sopravvenuta incapacità
di adattare, di interpretare, di estendere per analogia il diritto positivo vigente alla realtà
pratica; tutti problemi dovuti in primo luogo alle difficoltà che da sempre la dogmatica
incontra nel campo del diritto commerciale, il quale è per sua natura frammentario e la-
cunoso e deve pertanto inevitabilmente e costantemente rifarsi al diritto civile, in secon-
do luogo al disseccamento degli usi quale fonte sussidiaria del diritto commerciale (fu so-
lo un’illusione credere di trovare negli usi un contenuto giuridico vero e proprio, un dirit-
to nuovo ed equo, che colmasse le lacune del codice); 2) le nuove tendenze statalizzatri-


 22
ci e burocratrizzatici in atto, ossia in concreto l’intervento dello Stato nell’economia, ma
in qualità di imprenditore, quindi in una posizione assolutamente ed ingiustamente privi-
legiata (fa l’esempio degli espropri senza indennità, dell’esclusione dell’obbligo per le
Ferrovie di risarcire i danni in caso di inadempimento), quindi falsando i rapporti di dirit-
to privato e quindi rischiando di seppellire il diritto commerciale, di sostituirlo col diritto
amministrativo, col diritto pubblico dell’economia.
- Pertanto conclude Sraffa, di fronte alle esigenze delle realtà, di fronte all’ingerenza del-
lo Stato legislatore-imprenditore (ancora marginalmente nel 1913, ma poi in maniera
sempre più consistente a partire dagli anni ’20 e ’30; Sraffa anticipa i tempi, si chiede
che cosa accadrà in futuro se queste tendenze non verranno arginate), la soluzione non
è più un codice unico per le obbligazioni, ma ciò che più urge è coltivare, rinnovare, ri-
formare il diritto commerciale, preservando la sua autonomia di codice. Compito del giu-
rista è interpretare la norma vigente e preparare la norma nuova: ebbene è giunto il
momento che la scienza giuridica si faccia protagonista, elabori norme nuove, riformi
norme vecchie, il tutto senza mai perder di vista la realtà del fenomeno sociale e pre-
stando attenzione a quello che si fa all’estero.
- Sraffa e Vivante misero in pratica quello che predicavano, entrambi fecero parte della
Commissione per la riforma del codice del 1882.


 23
SECONDA PARTE ECONOMICA

MITI E REALTÀ DELL’ECONOMIA FASCISTA


(cap. 12 – Miti e realtà dell’economia fascista)

- Gli anni della dittatura (il ventennio fascista va dall’ottobre/novembre 1922 al 25 luglio
1943; il regime fascista inizia il 3 gennaio 1925) coincidono con il tentativo di realizzare
un vasto programma di costruzione dell’identità nazionale sotto il profilo politico, sociale,
culturale e, ovviamente, anche economico. Il benessere e la potenza dello Stato sono il
fine principale di tale progetto.
- Fino al 1925 la politica economica ed industriale fascista non è ancora chiaramente de-
finita: ai provvedimenti d’ispirazione liberista adottati dall’allora Ministro delle Finanze,
l’economista Alberto De’ Stefani (sgravi fiscali per le imprese, eliminazione della nomina-
tività dei titoli, riduzione delle imposte, abolizione del monopolio statale delle assicura-
zioni sulla vita, privatizzazione di alcuni servizi come quello telefonico) si affiancavano, in
continuità con il passato, gli interventi dello Stato sul sistema industriale e finanziario
(salvataggio del Banco di Roma, costituzione dell’Icipu, del Crediop, poi dell’Imi e
dell’Iri).
- Dopo i perturbamenti postbellici e la crisi del 1921 nel triennio 1923-25 si assiste ad un
periodo di rapida ed intensa crescita accompagnato da un aumento dell’inflazione. Fra il
23-29 il tasso medio annuo di crescita supera il 5%. La politica di stampo produttivista,
di risanamento della finanza pubblica, di allentamento dei vincoli burocratici all’attività
d’impresa, di stimolo al commercio estero, unita alla favorevole congiuntura interna ed
internazionale portano all’aumento del reddito nazionale e alla parallela crescita di con-
sumi, risparmi, investimenti, produzione industriale ed esportazioni. Poi l’impatto della
crisi del 29 riduce i livelli di produzione almeno fino al 32, l’anno più critico. Poi la ripresa
nella seconda metà degli anni Trenta e la tendenziale continua crescita fino al 39-40. Nel
34, per la prima volta in Italia, la quota del prodotto nazionale attribuibile
all’industria supera quella dell’agricoltura.
- Tuttavia è opportuno precisare che all’interno di questo complessivo processo di cresci-
ta la composizione dell’apparato industriale italiano è mutata a favore dei settori tipici
della Seconda rivoluzione industriale: l’elettrico e il chimico avanzano, mentre il tessile e
siderurgico, con la sua propaggine meccanica, cantieristica, etc. perdono.
- Le istanze ideali espresse dal fascismo si esplicitano in provvedimenti tesi
all’accrescimento del prestigio nazionale. Ne è un esempio particolarmente significati-
vo la politica deflazionistica e di stabilizzazione della lira “a quota 90” avviata a
partire dal 26-27. L’obiettivo è rafforzare la moneta nazionale nei confronti delle princi-
pali valute estere, in particolare mantenere il valore della lira intorno alle 90 per sterlina.
La necessità è rafforzare la fiducia dei mercati finanziari nella stabilità politica ed econo-
mica del Paese. Gli strumenti sono l’attribuzione alla sola Banca d’Italia del controllo sul-
la circolazione monetaria (nel 26 unificazione degli istituti d’emissione, quindi da allora in
poi solo la Banca d’Italia può emettere moneta), il consolidamento del debito pubblico,
l’emissione di un prestito nazionale (detto del Littorio), la contrazione forzosa dei con-
sumi (i salari dei lavoratori dipendenti vengono ridotti d’autorità sino al 20%). Nel solo
1927 affluiscono in Italia prestiti ed investimenti provenienti dall’estero (soprattutto dagli
Stati Uniti) per un ammontare di oltre 3 miliardi. Tessile e alimentare crollano. Il settore
elettrico non ne risente. La chimica cresce.
- Al tema del prestigio nazionale si collega quello dell’autonomia, dell’indipendenza,
dell’autosufficienza dello Stato. Ne è espressione la battaglia del grano avviata a
partire dal 1925 e volta all’incremento della produzione cerealicola e alla riduzione delle
importazioni di cereali, così da riequilibrare la bilancia alimentare, e quindi quella com-
merciale (alla fine degli anni ’30 l’Italia non ha più bisogno di importare grano). E soprat-
tutto ne è espressione l’autarchia affermatasi definitivamente nel 1934. L’obiettivo è
stimolare la produzione e le esportazioni delle industrie nazionali. La necessità è reagire
alla crisi internazionale degli anni Trenta. Gli strumenti sono l’introduzione di licenze ob-
bligatorie per le importazioni, l’aumento delle tariffe doganali, la pianificazione, la rego-
lazione statale dell’economia, il raggiungimento della piena occupazione. Ma l’Italia di-


 24
spone di poche risorse, quindi la politica autarchica si realizza in alcune settori (in parti-
colare nella chimica), mentre è di fatto impossibile da realizzarsi in altri (es. siderurgia,
anche se sulla carta esiste un piano autarchico per la siderurgia).
• Le grandi imprese nel periodo fascista
 L’affaire Bastogi: caso di difficile rapporto tra banca e industria
- La Bastogi era la Società Strade Ferrate meridionali. In seguito alla nazionalizzazione
delle ferrovie nel 1905 si trasforma in una finanziaria, in una banca senza sportelli, che
non ha rapporti con il pubblico (diventa “il salotto buono della finanza italiana”, il croce-
via dei più importanti interessi industriali e finanziari dell’epoca) ed investe l’ingente ca-
pitale liquido ricevuto dallo Stato soprattutto nel settore meccanico e in quello elettrico.
- La Edison inizialmente era sostenuta dalla Banca Generale, poi dalla Bis (la c.d. banca
italianissima, nata nel 1914 e che cercava di contrapporsi al capitale tedesco di Comit e
Credit). L’industria elettrica nel medio-lungo periodo tende a diventare impresa di rendi-
te (non di profitto), quindi ad irrobustirsi e ad affrancarsi dalla dipendenza della banche
(nel 1938 la Edison si trasformerà da impresa industriale elettrica in holding, in una sor-
ta di società finanziaria, tale è la ricchezza di liquidità). Sicché la Edison è così forte che
decide di scalare la Bastogi, così facendo però scatena una piccola guerra finanziaria, al
punto che deve intervenire il governo.
- Il progetto della “nuova” Bastogi, messo a punto dalla Banca d’Italia e dal Governo,
prevede per la finanziaria un ruolo parallelo a quello degli altri istituti di credito pubblici
specializzati (Crediop e Icipu) sotto la guida di Alberto Beneduce, che è anche l’uomo di
mediazione tra la Edison (e il settore elettrico in genere) e il mondo bancario. Nel 26
viene siglato l’accordo definitivo e Beneduce viene nominato presidente della Bastogi.
- I gruppi che controllano il settore elettrico nazionale sono la Edison, la Sade (Società
Adriatica di Elettricità, che si fortifica), la Sip (Società Idroelettrica Piemontese, che ha
dei problemi).
 Lo sviluppo dell’elettromeccanica
- Nel periodo fra le due guerre la produzione di materiale elettrico registra un significati-
vo sviluppo. Si aprono nuove divisioni elettromeccaniche (è il caso dell’Ansaldo e della
Ernesto Breda) e nascono nuove imprese elettromeccaniche (è il caso della Ercole Ma-
relli e della Tibb). La presenza straniera diminuisce, ma rimane: i tedeschi della Siemens
(poi Olap), per la produzione di materiale telefonico, gli svizzeri della Tibb, per la produ-
zione di impianti idroelettrici, e gli americani della General Electric.
 Riccardo Gualino e la Snia Viscosa
- Fondata da Riccardo Gualino e da Giovanni Agnelli come Società di Navigazione Italo-
americana, nel 1919-20 acquista alcuni impianti di cellulosa, inizia la produzione di fibre
tessili artificiali su larga scala e nel 23 diventa la Snia Viscosa. Grazie soprattutto al suo
apporto l’industria italiana delle fibre artificiali è seconda al mondo per produzione, prima
per esportazioni. Supportato dalla Banca agricola italiana, Gualino vara ambiziosi proget-
ti industriali (anche in settori molto diversi quali il cemento e il cioccolato), commettendo
tuttavia profondi errori di valutazione sull’andamento della congiuntura internazionale e
dei consumi interni. Proprio le intemperanze finanziarie, le operazioni al limite, spesso
quasi esclusivamente speculative, progressivamente lo isolano all’interno degli ambienti
politici ed industriali di allora. Con la rivalutazione della lira avviata nel 26-27 le esporta-
zioni della Snia subiscono un colpo decisivo e viene alla luce il debole castello speculativo
id debiti e partecipazioni incrociate delle aziende di Gualino.
- Dalla fine degli ’20 all’inizio degli anni ’50 la Snia è guidata da Franco Marinotti e le fi-
bre artificiali tornano ad essere il core business (nel 38 l’azienda detiene ancora l’80%
della produzione nazionale di fibre artificiali).
 Guido Donegani e la Montecatini
- Fondata nel 1888 per lo sfruttamento dei giacimenti di rame in val di Cecina e presto
punto di riferimento dell’industria mineraria italiana, nel dopoguerra comincia ad espan-
dersi nel settore della chimica. Sotto la guida dell’ingegnere Guido Donegani e col sup-
porto finanziario della Comit, nel 20 realizza la fusione con i due maggiori produttori na-
zionali di concimi chimici (l’Unione Concimi di Milano e la Colla e concimi di Roma). La
produzione su vasta scala di concimi azotati diventa il core business dell’azienda (guarda
caso proprio negli anni in cui inizia la “battaglia del grano”).


 25
- La ricerca e lo sviluppo scientifico sono uno degli elementi più virtuosi del gruppo: a
Novara viene fondato un istituto di ricerca e proprio l’applicazione industriale del nuovo
processo per la produzione di concimi azotati messo a punto dall’ingegnere novarese
Giacomo Fauser colloca la Montecatini alla frontiera tecnologica nel settore dell’industria
chimica.
- I rapporti tra la Montecatini e lo Stato furono sempre molto stretti, tanto da far parlare
di “strategia dello scambio”: controllo del mercato interno e sostegno della domanda da
una parte (anche attraverso l’imposizione di appositi dazi), garanzia di eventuali salva-
taggi in segmenti deboli del settore dall’altra. Sicché la Montecatini diventa di fatto un
monopolio.
- Nella prima metà degli anni ’30 inizia si estende anche alla chimica inorganica, soprat-
tutto esplodenti, coloranti e farmaceutici.
 Arturo Bocciardo e la Terni: caso di riconversione di successo
- Nel primo dopoguerra il pacchetto di controllo della Comit si amplia, Odero e Orlando
passano in secondo piano, l’influenza della Banca commerciale diventa di primaria impor-
tanza. Per riconvertire la Terni in un’azienda di successo la Comit punta sul manager Ar-
turo Bocciardo (di famiglia genovese, esperienza nel comitato ligure di mobilitazione in-
dustriale, grandi capacità gestionali e di indirizzo), che mette in atto un ambizioso pro-
gramma di riconversione e di diversificazione produttiva: l’azienda riduce le partecipa-
zioni nelle cantieristica, sospende le produzioni di tipo siderurgico (che finita la guerra
non hanno più mercato) e punta sull’elettricità (settore ad alta redditività e con facili
previsioni di incremento della domanda), quindi acquista la Carburo di calcio (che aveva
scelto l’elettrochimica), introduce l’elettrosiderurgia e la indirizza soprattutto agli acciai
speciali (inossidabili, induriti dalle leghe, non per le corazzate, ma ad esempio per pro-
dotti speciali come i magneti). Negli anni fra le due guerre la Terni diventa un’azienda
polisettoriale (autoproduttore di energia per la chimica e la siderurgia e anche elettro-
commerciale), il che rappresenta una scorciatoira per la ricostruzione, ma il vantaggio è
di breve periodo.
- Negli anni del boom economico l’impetuosa crescita della domanda e la disponibilità di
nuove tecnologie per la produzione di massa enfatizzano la concentrazione da parte delle
imprese delle proprie risorse su un solo settore. Diviene quindi obsoleta la strategia di
espansione in diversi rami produttivi, anche non correlati, più alla ricerca di una posizio-
ne di forza nei confronti del potere politico che non per ragioni strettamente economiche.
Dopo l’esclusione dal settore dell’energia elettrica con la nascita dell’Enel nel 62 e da
quello della chimica con l’azione dell’Eni, non resta che tornare alla vecchia vocazione si-
derurgica. Tuttavia non si superò mai definitivamente la stratificazione e l’eterogeneità di
impianti e di esperienze tecniche, e il tutto fece scivolare la Terni su posizioni marginali
nell’ambito della grande industria italiana.

STATO TOTALITARIO E CONTROLLO DELL’ECONOMIA NEGLI ANNI TRENTA


(cap. 13 – l’Iri: un salvataggio che viene da lontano)

- La grande crisi del capitalismo mondiale ha inizio con il giovedì nero di Wall Street
nell’ottobre del 1929 e si trasmette in Europa (innanzitutto in Germania e Inghilterra)
per la via dei finanziamenti e dei capitali investiti nel corso degli anni ’20. Dal 26 la Borsa
è in continua crescita, non ha un andamento ciclico, non si alternano sviluppi e contra-
zioni. Il sistema bancario è la grande debolezza del sistema economico americano (la
Federal Reserve nasce solo nel 1912 in seguito alla crisi del 1907). Alcune banche falli-
scono, la disoccupazione aumenta (rasenta il 25%), nel 31 la sterlina si sgancia dall’oro,
nel 33 anche il dollaro, quindi tra il 1931-33 cessa il Gold Exchange Standard, il sistema
internazionale monetario ritorna ad una sorta di anarchia, non c’è più un cambio fisso
che regola il rapporto fra le varie monete. Italia, Francia e Belgio sono tra gli ultimi a
sganciarsi dall’oro, quindi ad essere interessati dal fenomeno dell’inflazione. In Italia nel
quinquennio 31-36, da quota 90 si passa a quota 60 (quindi la lira si rivaluta di un ulte-
riore 30%), poi nel 36 anche la lira abbandona il cambio fisso.
- La crisi rompe il fragile rapporto tra banca e industria. Quando la Bis cade, per sal-
varne il lato industriale e commerciale (Alfa Romeo, Ansaldo, Rinascente, Banco di Ro-


 26
ma), viene costituito il Consorzio sovvenzioni sui valori industriali (branca della Banca
d’Italia). Nel 26 diventa l’Istituto di liquidazione.
- Nel gennaio del 31 l’Istituto di liquidazioni riprende a compiere salvataggi (il più impor-
tante riguarda le attività afferenti alla Banca agricola italiana di Riccardo Gualino). Ma
soprattutto nel corso del 31 il governo pone le due maggiori banche miste del Paese in
una sorta di amministrazione controllata: la Comit nella Sofindit (Società Finanziaria In-
dustriale Italiana) e il Credito nella Sfi (Società finanziaria Italiana) e
nell’Elettrofinanziaria, la cui amministrazione è posta sotto le direttive del Ministro delle
Finanze e del Governatore della Banca d’Italia.
- La tensione tra la liquidità delle banche miste e i debiti delle grandi imprese è altissima.
Il problema è ridefinire il rapporto fonti di credito-sviluppo della grande industria,
da una parte occorre garantire l’opportuna conduzione di imprese centrali per la ricchez-
za della nazione (quali le elettriche, le chimiche, le meccaniche, le siderurgiche, sino ad
allora controllate dalle banche miste), dall’altra occorre liberare da ogni imbarazzo la
Banca d’Italia i cui legami con l’Istituto di liquidazioni rischiavano di comprometterne il
ruolo istituzionale.
- Su iniziativa di Beneduce (che oltre che creatore ne sarà presidente) vengono creati
due enti pubblici per il finanziamento a lungo termine di specifici settori industriali:
l’Icipu (Istituto di Credito per le Imprese di Pubblica Utilità) per il finanziamento delle
società elettriche, il Crediop (Consorzio per il Credito alle Opere Pubbliche) per il finan-
ziamento di opere pubbliche (strade, canali, porti, etc.).
- Nel 1931 il Consiglio dei Ministri crea l’Imi (Istituto Mobiliare Italiano), una finanziaria
che eroga crediti ma senza rapporti con il pubblico e al cui capitale iniziale partecipano i
c.d. investitori istituzionali, ossia Cassa Depositi e Prestiti (branca dell’amministrazione
pubblica che si occupava dei finanziamenti ai Comuni), INA, INPS, banche di diritto pub-
blico, numerose casse di risparmio. Tuttavia questo complesso di misure si rivela insuffi-
ciente.
- Nel 1932 la crisi industriale e del sistema bancario raggiunge l’apice. Nel 1933 nasce
l’Iri (Istituto di Ricostruzione Industriale), un soggetto di diritto pubblico completamente
nuovo che rileva l’Istituto di liquidazioni. E’ la riforma di maggior peso e paradossalmen-
te quella meno propagandata (data probabilmente una non eccessiva consapevolezza
della sua reale portata). E’ condotta a termine da Mussolini evitando completamente il
coinvolgimento della burocrazia statale fascista e affidandosi invece a tecnici di valore
come Alberto Beneduce (braccio destro di Nitti al momento della nascita dell’Ina, nel
26 presidente della Bastogi, Mussolini si rivolge direttamente e personalmente a lui) e
Donato Menichella (in seguito Governatore della Banca d’Italia).
- L’Iri basa la propria attività sull’emissione di obbligazioni garantite dallo Stato e si arti-
cola su una Sezione finanziamenti che affianchi l’opera dell’Imi e su una Sezione
smobilizzi che acquisti tutte le partecipazioni industriali degli istituti di credito e una
volta risanate le aziende le rivenda ai privati (e che arriverà a controllare il 30% del set-
tore industriale italiano). Quindi l’Iri non è un organo dello Stato, una nazionalizzazione,
ma è una holding, all’inizio sia finanziaria sia industriale, che al suo interno ha capitale
pubblico e privato, e che si muove autonomamente sul mercato.
- Intanto nel marzo del 1936 viene emanata una nuova legge bancaria che separa
drasticamente il credito ordinario da quello industriale e quindi pone fine all’esperienza
delle banche miste o universali (che diventano Bin, Banche di Interesse Nazionale). Si
stabilisce che chi fa credito industriale deve darsi una struttura tale da non entrare in
contatto con i risparmiatori, deve costituirsi in una finanziaria ad hoc, quindi si sposta il
canale di finanziamento dalle banche miste alle banche specializzate per il finanziamento
industriale; inoltre viene istituito l’Ispettorato del Credito e del Risparmio, ossia un ente
che controlla tutto il sistema bancario, dalle casse di risparmio alle ex-banche miste.
- A seguito della legge bancaria del 36 la Sezione finanziamenti viene soppressa e ritorna
all’Imi. Quindi dopo il 36 l’Iri è una holding solo industriale ed opera attraverso la crea-
zione di subholding. Il 24 giugno 1937 l’Iri è dichiarato ente permanente ed è questa la
data di nascita dello Stato Imprenditore. In particolare la struttura dello Stato Imprendi-
tore vede appunto il Ministero dell’Economia possedere totalmente una superholding (I-
ri), che a sua volta controlla almeno il 51% di subholding di settore (Stet-


 27
telecomunicazioni; Finmare-armatoriale; Finsider-siderurgico; Finmeccanica, che è anco-
ra attiva), alle quali fanno a loro volta riferimento le aziende partecipate.

GLI ANNI DELLA RICOSTRUZIONE (1945-50)


(cap. 14 – Fra guerra e ricostruzione)

 Le incerte valutazioni dei danni di guerra (Baffi, Caffè, Toniolo, Vitali)


- Nel maggio del 45 la guerra è finita. Il conflitto aveva danneggiato soprattutto le infra-
strutture (trasporti, strade, ferrovie, porti) e l’agricoltura (quindi scarsità alimentare,
quindi violenta inflazione), in particolare al Sud (le guerra fu combattuta soprattutto fra
Salerno e il Pò), mentre meno l’industria (anche se diseguale era la ripartizione geografi-
ca dei danneggiamenti: le regioni del triangolo industriale e del Triveneto erano state
colpite in modo marginale in confronto ai centri del’industria pesante meridionale).
- L’industria tessile, i grandi cotonifici, le aziende laniere, il setificio tornarono rapida-
mente alla normalità. Mentre in molti altri casi i problemi derivanti dall’ipertrofia bellica,
la riconversione e in generale il ritorno alla normalità furono particolarmente difficili. Ne-
gli anni ’30 l’Alfa Romeo si era concentrata pressoché esclusivamente sulle produzioni
aereonautiche. Le stesse Fiat, Om, Lancia, Bianchi, che pure non avevano del tutto ri-
nunciato alla propria vocazione originaria, si trovarono a far fronte alla drastica riduzione
della domanda, all’ormai arretratezza dei propri impianti, all’eccesso di mano d’opera.
Risultò evidente che problemi di tale portata non potevano essere risolti senza un inter-
vento più o meno diretto dello Stato.
 La Commissione economica della Costituente
- All’interno della Costituente era stata istituita una sezione economica (diretta da Dema-
ria) che si proponeva appunto di impostare i problemi economici del Paese e in cui subito
emerge l’attacco di larga parte della classe imprenditoriale all’Iri e la linea liberale di Ei-
naudi e Demaria. All’aprirsi dell’età repubblicana il sistema industriale italiano si presenta
spaccato a metà tra grandi oligopoli pubblici e privati (nei settori ad alta intensità di ca-
pitale con Snia, Fiat, Pirelli, Montecatini, Italcementi, Falk, Bpd, nell’intero settore elet-
trico con Edison, Sade, Sip, Sme, Terni) e piccole imprese di natura semiartigianale
(nell’alimentare, nell’abbigliamento e in altri comparti dell’industria leggera).
- Proprio la necessità dell’intervento dello Stato a sostegno di larga parte dell’industria
italiana e i provvedimenti presi a tal fine ripropongono con forza il dibattito su indu-
strie naturali e industrie di massa, su artigianato evoluto o produzione in serie, su
piccola o grande dimensione, e coinvolge tutti i settori dell’economia nazionale.
- Particolarmente noto è il caso delle costruzioni automobilistiche. Pasquale Gallo e il
modello svizzero (direttore generale dell’Alfa Romeo): sosteneva che l’Italia doveva e-
vitare le produzioni di massa e puntare su un artigianato specializzato, di lusso, su poche
produzioni di qualità, come la Svizzera, che era ai primi posti nel mondo in tutta una se-
rie di produzioni di nicchia e in particolare quella della meccanica fine. Vittorio Valletta
e il fordismo (entra in Fiat come direttore amministrativo, poi direttore generale, poi
amministratore delegato, poi presidente, la famiglia riprende la direzione della società
nel 66 con Giovanni, detto Gianni, l’Avvocato): l’idea era quella di “fare coma la Ford”,
ossia la fabbricazione in serie di utilitarie per il mercato nazionale ed estero, facendo le-
va sul basso costo del lavoro italiano.
- Il dibattito si estese poi all’intervento statale nei settori a più elevata intensità di capi-
tale. Oscar Sinigaglia e l’espansione del ciclo integrale (presidente della Finsider):
propugnava una concezione fordista in campo siderurgico imperniata sul ciclo integrale e
sui grandi volumi di produzione. Giovanni Falck e la siderurgia dimezzata (principale
esponente della siderurgia privata): sosteneva che non c’era né spazio né necessità di
una siderurgia a ciclo integrale, che per il fabbisogno nazionale bastava una siderurgia
“di ripiego”, basata sul rottame.
- L’industrialismo di Luigi Morandi (amministratore delegato della Montecatini): at-
tacca la visione artigianale e afferma che l’Italia deve puntare sulle grandi dimensioni, se
vuole diventare un paese industriale serio.
 Il piano Marshall
- Al termine del secondo conflitto mondiale gli Stati Uniti detenevano una posizione di
assoluta supremazia economica. Tuttavia si temeva che senza una vigorosa ripresa


 28
dell’economia europea si sarebbe ricaduti in una devastante crisi da sovrapproduzione.
Sicché l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti dell’Europa cambia e da antagonista
si fa cooperativo (anche verso gli sconfitti).
- Nel luglio del 1944 vengono conclusi gli accordi di Bretton Woods: il dollaro si
riaggancia all’oro e si ristabilisce la parità fissa tra monete; il sistema di Bretton Woods
dura fino alla prima crisi petrolifera del 1973 (trentennio c.d. della golden age).
- Nel dicembre del 1945 nascono la Banca Mondiale il Fondo Monetario Internazionale.
- Il 5 giugno del 1947 il Governo americano lancia lo European Recovery Program
(Erp), meglio noto come piano Marshall (dal nome del suo enunciatore, il segretario di
Stato George C. Marshall), che consisteva in forniture di macchinari e materie prime e in
concessione di prestiti a tassi ridotti per l’acquisto di impianti. I suoi più accesi sostenito-
ri ritenevano che oltre prestiti finanziari e materiali, occorresse altresì l’esportazione nel
Vecchio Continente del modello americano (integrazione dei mercati, produzione di mas-
sa, standardizzazione, organizzazione scientifica del lavoro, alti salari), di qui la non se-
condaria importanza del grand tour di imprenditori, managers, ma anche operai e tecnici
negli Stati Uniti.
- Nell’estate del 1947 nasce l’Ocse, ente che oggi studia le economie sviluppate occiden-
tali, ma che all’inizio nasce per smistare e capire gli influssi degli investimenti americani
in Europa.
- In Italia tornano in auge quei vecchi economisti liberali (Luigi Einaudi, Giovanni Dema-
ria) che avevano mantenuto un’impostazione anti-statalista. Fra 1948 e 1952 l’Italia ot-
tenne l’11% del totale erogato dall’Erp, di cui più del 20% andò alla Fiat.
 La stretta creditizia dell’autunno 1947
- Per far fronte al problema dell’inflazione nel settembre/ottobre del ’47 Einaudi
(Governatore della Banca d’Italia nel 45-48, poi Ministro del Bilancio nel 47, poi primo
Presidente della Repubblica l’11 maggio del 48) inaugura una politica monetaria re-
strittiva, il cui risultato è sì una svolta deflazionistica da una parte, ma anche gravi di-
sordini sociali dall’altra (impone il blocco all’erogazione di crediti da parte delle banche,
di qui i licenziamenti in blocco da parte delle imprese, l’abbassamento dei consumi inter-
ni, il freno alla dinamica salariale). Gli evidenti e drammatici costi sociali vengono in
qualche modo bilanciati da iniziative a sostegno della domanda come il “piano Fanfani”
per le case ai lavoratori e l’istituzione nel 1950 della Cassa per il Mezzogiorno (ammini-
strazione autonoma che aveva per obiettivo prima la creazione di infrastrutture e opere
pubbliche al Sud, poi anche l’incentivazione delle attività industriali).
- Nel 33 Beneduce presidente dell’Iri. Nel 39-45 seconda guerra mondiale. Nel dopoguer-
ra vengono ripudiati gli strumenti di politica industriale degli anni Trenta. Il 2 giugno
1946 referendum istituzionale e gli italiani scelgono la Repubblica (“la grande frode”). Il
18 aprile 1948 prime elezioni politiche (dopo quelle svolte due anni prima per
l’Assemblea costituente) e gli italiani scelgono un orientamento di tipo democratico-
liberale, la Dc ottiene il 48% dei consensi, sono questi gli anni del centrismo degasperia-
no. E’ in questa fase che si attiva il piano Marshall. Alcide De Gasperi (antifascista e anti-
comunista) intuisce che il rapporto con gli Stati Uniti è fondamentale.
- La classe dirigente di allora si era formata intorno all’esperienza del sistema pubblico
dell’economia degli anni Trenta e pertanto riprende il dirigismo (Menichella gover-
natore della Banca d’Italia nel 48 dopo Einaudi, il piano Sinigaglia, la nascita dell’Eni).
Negli anni del boom si ha un uso virtuoso del sistema pubblico dell’economia. Nel 53 na-
sce l’Eni (Ente Nazionale Idrocarburi), nel 62 l’Efim (Ente per il Finanziamento
dell’Industria Meccanica), la terza holding (oltre all’Iri e all’Eni), poi l’Egam, la quarta,
per sostenere il settore minerario (in particolare della Sardegna e della Maremma tosca-
na). Tuttavia questi nuovi enti appesantiscono il bilancio dello Stato e non danno i risul-
tati positivi che Iri ed Eni avevano invece fatto registrare grazie allo sviluppo industriale.
Per alleviare questa situazione nel 65-66 si crea il Ministero delle partecipazioni statali,
ossia si destina a questi enti apposite poste dell’attivo nel bilancio dello Stato, i c.d. fondi
di dotazione, il che segna la fine del sistema Beneduce e l’inizio del controllo diretto della
politica nell’economia.


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GLI ANNI DEL MIRACOLO ECONOMICO (1951-63)
(cap. 16 – Italy by design; cap. 17 – Quando grande era bello; cap. 18 – Dalla bottega
alla fabbrica)

- La gran voglia di riscatto, la grande capacità di sacrificio e di solidarietà,


l’imprenditorialità, gli obsoleti (ma per l’Europa nuovi) impianti americani che arrivano
con il piano Marshall, i prestiti esteri, i bassi salari (fino al primo contratto dei metalmec-
canici nel 63), quindi la diminuzione dei costi di produzione e al contempo l’aumento del
risparmio e quindi degli investimenti sono tutti fattori che contribuirono al boom econo-
mico degli anni ’50-inizio anni ’60.
- Il reddito nazionale aumenta (nel 61 tocca il record d’incremento annuo dell’8,6%), si
raggiunge la tendenziale piena occupazione (1,5-2-max 3%, quindi trattasi di disoccupa-
zione fisiologica), il contributo dell’industria alla formazione del prodotto lordo privato in-
crementa, i settori ad alta intensità di capitale e a più elevato contenuto tecnologico si
sviluppano, la popolazione urbana raddoppia.
- Fino ad oltre la metà degli anni ’50 è la domanda interna a trainare la crescita. Dopo il
1958 è la richiesta estera di merci ad assumere particolare rilievo (nel 57 era nato il
Mercato Comune Europeo). Le esportazioni (tasso annuo superiore al 16%) riguardano
soprattutto l’industria automobilistica, la metallurgia, le fibre tessili ed artificiali, i prodot-
ti derivanti dalla petrolchimica.
- Il trattato di pace del ’47 costringe l’Italia a non produrre più aerei, quindi il settore
dell’aereonautica (sviluppatosi tra le due guerre) deve trovare delle alternative (camion,
moto). Nel dopoguerra il boom del settore dei motoveicoli precede il boom dell’auto.
L’esigenza di libertà di movimento è forte, ma allo stesso tempo, almeno fino
all’apparizione della “600” nel 1955, l’auto è al di fuori delle capacità d’acquisto della
maggior parte degli italiani.

- Sinigaglia, Mattei e Valletta sono i tre imprenditori protagonisti ed emblema


dell’ineguagliata crescita degli anni ’50. Elemento comune è la fiducia nel riscatto civile e
nelle potenzialità di crescita dell’Italia. Significativo è che abbiano stretto fra loro impor-
tanti alleanze. Valletta afferma di fronte alla Commissione economica della Costituente
che in Italia c’era spazio per una produzione d’acciaio fino a 8 milioni di tonnellate (men-
tre sino ad allora non si era mai raggiunto neanche il traguardo delle 3) e in concreto la
Fiat si impegna ad acquistare ogni anno laminati da Cornigliano; la Snam di Mattei si ac-
corda con la Finsider per la costruzione di metanodotti; Mattei è socio di Valletta nella
Sisi che progetta gratuitamente per lo Stato il tratto Milano-Bologna dell’autostrada del
Sole.
 Oscar Sinigaglia e il caso Finsider
- Grazie all’appoggio di De Gasperi nel 1945 diventa presidente della Finsider (finanziaria
dell’Iri per l’acciaio). Il suo piano prevede a) la creazione di un nuovo stabilimento a ciclo
integrale a Cornigliano (presso Genova) così da rifornire direttamente i grandi mercati
del Nord; b) la specializzazione degli altri due grandi impianti di Piombino e Bagnoli; c) la
chiusura degli impianti minori e meno efficienti o comunque la loro riconversione in cen-
tri di rilaminazione e di attività di carpenteria. L’idea era realizzare una produzione di
massa ma al tempo stesso specializzata, così da collegarsi allo sviluppo del settore di
beni di consumo durevoli (automobili, elettrodomestici), dell’elettromeccanica,
dell’industria alimentare (prodotti in scatola). Il progetto include anche la creazione di un
quarto centro siderurgico a Taranto, che addirittura venne poi anche raddoppiato.
- Alla fine degli anni ’50 l’Italia è il sesto produttore siderurgico mondiale.
 Enrico Mattei e il caso Agip
- Dopo la Liberazione la tendenza è a liquidare i vecchi “carrozzoni” creati dal fascismo
(Iri, Agip, Icipu, Crediop, etc.). Nel 45 De Gasperi invia Enrico Mattei (capo dei partigiani
che facevano riferimento alla Dc durante la resistenza) all’Agip in veste di commissario
liquidatore. Ma di fronte ai progetti e all’efficienza dei tecnici che ci lavoravano e che ri-
tenevano di aver trovato importanti riserve di gas naturale e di petrolio a Cavriaga,
presso Lodi, nel cuore della Valle Padana, Mattei insiste perché l’Agip sia tenuta in vita. Il
suo progetto è affidare il monopolio della ricerca e della distribuzione di idrocarburi nella
Valle Padana a un’azienda pubblica, l’unica a suo giudizio in grado di operare


 30
nell’interesse generale in una nazione povera di risorse energetiche, così inoltre da ga-
rantire l’indipendenza energetica del Paese e da bilanciare lo strapotere della Montecati-
ni.
- Nel 1953 Mattei fonda l’Ente Nazionale Idrocarburi (Eni) e realizza la completa integra-
zione verticale del gruppo, sotto la superholding infatti operano l’Agip Mineraria che pro-
cura le materie prime, la Snam che le trasporta, l’Anic che le trasforma, l’Agip che le di-
stribuisce. Nel 1960 l’Eni porta benzina e gasolio al livello di prezzo più basso in Europa.
 Vittorio Valletta e il caso Fiat
- Fin dagli inizi del secolo idea-forza della Fiat è “fare come la Ford”. Nel 54-56
s’impostano le linee di montaggio delle piccole auto. Nel 1955 esce la “600”, la prima ve-
ra utilitaria italiana. Nel 1957 la “nuova 500. Nel 1960 la Fiat controlla più dei 3/4 del
mercato interno. Alla fine degli anni ’70 in Italia circola una vettura ogni 5,4 abitanti.
- Nei settori a produzione di massa l’espansione della domanda sconvolge anche le im-
prese di nicchia. Due imprese come la Lancia e l’Alfa Romeo che puntavano sulla diffe-
renziazione del prodotto entrano in una prospettiva fordiana di Seconda Rivoluzione In-
dustriale.
- Negli anni ’30 il grande business dell’Alfa Romeo è con le commesse pubbliche, con la
fornitura di motori all’aereonautica, si producono anche automobili, ma sempre sportive,
di nicchia, per pochi. Poi negli anni ’50, sotto la guida di Luraghi, il piano è quello di con-
tinuare con una produzione sempre di qualità, ma anche di allargare le vendite e di far
concorrenza alla Fiat sia sulla qualità che sulla quantità. E tale politica ha successo, nel
54 l’Alfa Romeo immette con successo un’utilitaria sportiva, la Giulietta. Tuttavia negli
anni della crisi petrolifera il progetto Alfa Sud fallisce, all’interno dell’azienda si innestano
una serie di crisi ed infine Luraghi si dimette (poi Cortesi e Massaccesi, direttori scelti
dal mondo politico).
- La Lancia disperde preziose risorse nell’avventura delle competizioni sportivi, quindi
abbandona seri progetti per la produzione di massa e nel 69 viene acquisita dalla Fiat.

- Il boom economico riguarda soprattutto le grande imprese. L’elemento fondamentale


solo gli investimenti, che sono addirittura maggiori del Pil, quindi si fanno più investi-
menti di quanto si distribuiscono redditi.
- I consumi alimentari sono quelli che crescono più lentamente. Legge di Engel: al cre-
scere del reddito diminuisce la quota dedicata al vitto (ai bisogni primari in genere) e
aumentano le altre poste (alloggio, vestiario, consumi culturali, etc.). Fra il 51-70 il con-
sumo dei trasporti (auto e moto) è quello che cresce più velocemente.
- La bilancia dei pagamenti torna ad essere positiva: non più un’economia finanziaria, i
redditi, le c.d. partite invisibili (rimesse degli emigranti) contano poco, il saldo è tenuto
positivo dall’economia reale, beni/servizi e consumi, in particolare esportazioni di beni
reali con alto valore aggiunto (lavatrici, automobili, beni strumentali in genere).

- I bassi salari, le epocali migrazioni, il massiccio inurbamento innescarono tensioni so-


ciali inevitabilmente destinate a scoppiare. Trasformazioni di questa portata risultarono
ingovernabili da parte del potere politico locale e nazionale, sicché la grande impresa do-
vette attrezzarsi per affrontare direttamente la pressione dei cambiamenti sociali. La Fiat
adottò la linea dura dell’autoritarismo vallettiano: lottò contro il sindacato in generale
e soprattutto contro il sindacato social-comunista della Fiom (Valletta organizza i c.d.
sindacati gialli, un sindacato autonomo appunto per depotenziare la Fiom). Alla Fiat
l’adesione agli scioperi nazionali fu scarsissima o addirittura inesistente. L’Olivetti adottò
la linea del capitalismo riformista e mostrò una visione diametralmente opposta del
rapporto fra impresa e ambiente: i benefici extrasalariali (case, scuole, servizi, etc.) sono
riconosciuti per contratto, il negoziato con le organizzazioni sindacali è permanente, la
partecipazione attiva dei lavoratori ai risultati dell’azienda è incentivata. Adriano Olivetti
voleva creare una comunità a misura d’uomo, armonizzando il luogo di lavoro con gli al-
tri luoghi della socialità, la fabbrica con il territorio.
- A inizio ‘900, dopo un viaggio negli Usa, Camillo Olivetti intuisce che con lo sviluppo
della burocrazia, degli uffici pubblici e delle grandi imprese le macchine per scrivere pos-
sono essere un buon affare, sicché ad Ivrea fonda una fabbrica appunto di macchine per
ufficio. Il figlio Adriano è ingegnere, negli anni ’20 va negli Stati Uniti e apprende il si-


 31
stema tailoristico, la catena di montaggio, la produzione su larga scala. - A inizio anni ‘60
l’Olivetti è un’impresa globale: è presente con le sue consociate in tutti i continenti, inci-
de per il 27% sul mercato mondiale delle macchine per scrivere, si avvia con serie pro-
spettive di successo nel campo dell’elettronica e della computeristica (nel 59 venne pre-
sentato l’Elea, il primo elaboratore elettronico italiano, che poneva l’Olivetti
all’avanguardia del settore, davanti anche a un gigante come l’Ibm; a inizio anni ’70 vie-
ne lanciato il Programma 101, il primo esemplare al mondo di personal computer).

LE CONTRADDIZIONI DELLO SVILUPPO ITALIANO


(cap. 19 – L’approdo mancato)

- La crisi del 63-64 fu endogena, dovuta a fattori interni dell’economia italiana (una
delle poche, altrimenti trattandosi di un’economia aperta, di trasformazione, le crisi sono
quasi sempre dovute a cambiamenti delle congiunture internazionali): fuga di capitali
verso la Svizzera, quindi drastico calo degli investimenti, al contempo prime tensioni sa-
lariali, rinascita dei sindacati, e inoltre tutti fattori che si riflettono anche sul valore della
moneta, la lira inizia ad oscillare. Nel 65 l’economia riprende, tuttavia i sindacati conti-
nuano con la battaglia sui salari e pensano alla formazione di un sindacato unico. Nel 73
la prima crisi petrolifera, comincia il lungo autunno, la c.d. austerità. Tutti gli anni
’70 sono attraversati da una fase di stagflazione (stagnazione + inflazione): da una
parte il Pil non cresce, la produzione interna è bassa, dall’altra l’inflazione (di solito lega-
ta a periodi di crescita) aumenta, la lira si svaluta, sull’effetto dell’incremento dei salari e
del costo delle materie prime (petrolio, poi rame, ferro, alcuni prodotti alimentari). Gli
anni ’70 sono anni di grande difficoltà, di crisi e al tempo stesso di ristrutturazione: si
comincia a pensare a sistemi produttivi nuovi, a fonti energetiche alternative, ad una
terza via tra pianificazione e libero mercato.
- E’ in questa fase che emerge la questione del c.d. “approdo mancato”: nel corso
degli anni ’70 falliscono ambiziosi piani di crescita e di sviluppo nel campo dell’energia,
dell’elettronica e della chimica avanzata, e proprio ed anche tale mancato salto in una
dimensione produttiva e tecnologica più avanzata contribuì a modellare la fisionomia
dell’industria nazionale attorno alle industrie oggi dominanti del made in Italy.
 Fallimento del progetto di Mattei in campo energetico
- Negli anni ’50 il fabbisogno energetico civile e soprattutto industriale raddoppia, e pe-
trolio, metano, gas liquido affiancano e progressivamente sostituiscono carbone ed i-
droelettricità. Mattei puntava a fare dell’Eni una sorta di “ente unico per l’energia” in
grado di attuare strategie diversificate di ricerca, approvvigionamento, raffinazione e di-
stribuzione di idrocarburi e gas naturale. Nel 1962 Enrico Mattei muore e tutti i suoi am-
bizioni progetti risentono di una brusca battuta d’arresto. Parte dei suoi piani riguardava
anche l’ingresso nel nucleare. Nel 46 nasce il Cise, il primo ente italiano attivo nella ri-
cerca nucleare. Nel 51 viene affiancato dal Cnrn, poi dal 59 Cnen (Comitato Nazionale
per l’Energia Nucleare), ente pubblico al capo del quale fu posto Felice Ippolito, docente
di geologia all’Università di Napoli e convinto sostenitore di una decisa politica pubblica
in campo atomico. Nonostante l’interesse della Banca mondiale, l’avvio del programma
Euratom a livello comunitario, l’inizio della costruzione di centrali nucleari, l’ulteriore op-
portunità offerta dalla costituzione dell’Enel nel 62, le due crisi petrolifere degli anni ’70,
il progetto naufragò. E in seguito l’opposizione dei gruppi petroliferi privati, l’uscita di
scena forzosa di Ippolito, l’incidente nella centrale russa di Chernobyl e infine un refe-
rendum dall’esito pressoché plebiscitario sancirono l’abbandono definitivo del nucleare.
 Fallimento dell’Olivetti nel campo elettronico e della computeristica
- Nel 1960 Adriano Olivetti muore prematuramente e l’impresa si avvia ad un lento e
lungo declino. Alla base del fallimento dell’Olivetti stanno alcuni dei limiti strutturali pro-
pri e tipici del capitalismo italiano, in particolare l’accentramento decisionale e il controllo
famigliare.
 Fallimento della fusione tra Montecatini ed Edison
- Sebbene si collocasse ai vertici del sistema industriale italiano, all’indomani della se-
conda guerra mondiale risultarono evidenti le debolezze della Montecatini al di fuori di un
contesto autarchico e fortemente regolamentato. La necessità di nuove infrastrutture è
sottovalutata. Il rapidissimo cambiamento tecnologico del settore non è tenuto in consi-


 32
derazione. La concorrenza dell’Eni e della Edison è forte. Come nel periodo fra le due
guerre il gruppo dirigente mira a imbrigliare la competizione mediante accordi di cartello
con le imprese rivali e a premere sul Governo perché amministri i prezzi in senso favore-
vole ai produttori.
- Sin dal dopoguerra la Edison, temendo la nazionalizzazione, aveva iniziato ad investire
nel settore chimico. Dal 1955 era entrata con decisione nella petrolchimica e dopo la na-
scita dell’Enel nel 62 aveva continuato ad investire nel settore chimico gli ingenti rimbor-
si della nazionalizzazione. In breve quindi la Edison era diventata un pericoloso concor-
rente per la Montecatini.
- Nel 1965 nasce la Montecatini-Edison (nel 70 Montedison, oggi di nuovo Edison, leader
nella chimica almeno a livello europeo). Nelle intenzioni del presidente di Mediobanca,
Adolfo Tino, la fusione sarebbe dovuta avvenire per incorporazione: la Edison-holding
avrebbe dovuto controllare la Montecatini-capogruppo cui avrebbero dovuto far riferi-
mento tutte le società operative, in modo da mantenere separati ambito finanziario ed
ambito industriale. Nelle realtà si verificò la creazione di un unico raggruppamento, in cui
due classi dirigenti, due classi impiegatizie, due classi di tecnici e di maestranze che per
anni erano state abituate a scontrasi si sovrapposero le une alle altre, in breve il conflitto
si trasferì dall’esterno all’interno e si riflesse in maniera pesantemente negativa sui risul-
tati economici del complesso.

LE CRISI PETROLIFERE
(cap. 21 – Grandi famiglie in affanno)

 L’affermazione di Mediobanca
 La Fiat del “dopo Valletta”
 La Pirelli

PICCOLA IMPRESA E DISTRETTI INDUSTRIALI


(cap. 23 – Piccolo è bello; cap. 24 – Dove la famiglia funziona)

SECONDA PARTE GIURIDICA

LA LEGGE DELEGA DEL 1923 PER LA RIFORMA DEI CODICI


CENNI ALL’ORDINAMENTO CORPORATIVO E ALLA LEGISLAZIONE DEGLI ANNI VENTI E
TRENTA IN MATERIA SOCIETARIA, ECONOMICA E BANCARIA

 Finita la guerra, segue l’esigenza di riformare l’ordinamento vigente, di decidere cosa


fare della legislazione speciale di guerra accumulatasi fino al 1918, segue la c.d. smobili-
tazione legislativa: nel 1919 viene abolita l’autorizzazione maritale, nel 1923 il Governo
emana una legge delega per la riforma dei codici vigenti, in particolare vengono i-
stituite commissioni per la riforma del codice civile Pisanelli del 1865 e del codice di
commercio del 1882. Inoltre sempre nel 1923 si arriva all’unificazione giurisdizionale nel
campo civile: vengono abolite le Cassazioni decentrate (tante quante erano le capitali del
Regno: Torino, Firenze, Roma, Napoli, Palermo) e viene istituita un’unica Cassazione
civile con sede a Roma (di cui furono presidenti prima Ludovico Mortara, poi Mariano
D’Amelio).
 Nel 1922 Progetto di codice di commercio di Cesare Vivante (Vivante e Sraffa met-
tono in pratica quanto teorizzato e diventano davvero legislatore): grande attenzione ad
assicurazioni e società, in particolare norme a tutela degli azionisti, che privilegiano
l’assemblea, dunque tese alla democratizzazione.
 Nel 1923 Controprogetto di codice di commercio della Confindustria: (sulla scia di
alcuni autori statunitensi che in quegli anni cominciano a sostenere la necessità di sepa-
rare proprietà e gestione) norme a tutela dei gruppi di controllo, che privilegiano
l’amministrazione, dunque volte ad assicurare una gestione efficiente (di qui es.
l’ammissione dei sindacati di voto; tuttavia progetto criticato dall’Associazione delle so-
cietà italiane per azioni, perché non abbastanza liberista).


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 Nel 1925 Progetto di codice di commercio di Mariano D’Amelio: in materia societa-
ria abbandona la visione ottocentesca di Vivante e, come nel progetto di Confindustria,
recepisce gli insegnamenti più recenti della dottrina statunitense.
 Tra il 1925-40 c’è tutta la legislazione fascista degli anni Venti e Trenta.
- Nel ventennio fra le due guerre i giuristi si occupano del diritto societario, delle assicu-
razioni, poi cominciano ad interessarsi alla nozione giuridica di impresa; non tanto i
privatisti, ancora ancorati alla tradizione romanista e all’individualismo borghese dei co-
dici civili dell’800, che quindi continuavano a riflettere su proprietà, contratti, obbligazio-
ni, etc., quanto piuttosto i commercialisti, più attenti ed aperti alle esigenze e alle di-
namiche della realtà fattuale. Da un lato influenza della dottrina dell’impresa tedesca
(Lorenzo Mossa), dall’altro quella del fascismo.
- I giuristi tedeschi esponenti del filone germanistico della scuola storica (Gierke, Gol-
dschmit, Einert, etc.) sono i primi a parlare e ad interessarsi del diritto dell’economia.
- Lorenzo Mossa (studioso di diritto commerciale, collaboratore della Rivista di diritto
commerciale di Sraffa, allievo di un allievo di Sraffa) porta il concetto di impresa nel
mondo del diritto italiano, è il primo che comincia a parlare di impresa in Italia, ovvia-
mente dal punto di vista giuridico, di dottrina, di definizione. E interessandosi di impresa
poi si occupa anche di lavoro (in particolare del contratto di lavoro cui aveva già accen-
nato Ludovico Barassi ad inizio secolo) e di mercato economico.
- Nel 1925 inizia il regime fascista e al centro della politica economica fascista ci sono le
corporazioni (dei datori di lavoro e dei lavoratori) e la volontà di promuovere la produ-
zione nazionale; corporativismo e produzione nazionale sono le parole chiave. Di
qui, la necessità di riflettere in campo economico-giuridico sul tema del lavoro e
dell’impresa, la questione del disciplinamento dei rapporti tra lavoro e capitale, a tutela
del supremo interesse dello Stato e della prosperità economica della nazione. Alfredo
Rocco (commercialista di spicco dell’epoca, professore di diritto processuale civile e
commerciale, insegnò anche in Bocconi) è chiamato a costruire il sistema corporativo fa-
scista. Di qui le c.d. leggi costituzionali sociali tra il 1926-28 con le quali si detta una
nuova disciplina giuridica dei rapporti di lavoro (sindacati, contratti collettivi, magistratu-
ra del lavoro, serrata, sciopero, etc.).
 Nel 1940 Progetto di codice di commercio di Alberto Asquini: seguace delle dottrine
di Alfredo Rocco, di qui un indirizzo tecnico-giuridico più rigoroso di quello vivantiano di
fine ‘800-inizio ‘900; progetto molto diverso sia dal codice del 1882 sia dai progetti del
‘22 e del ’25; mette al centro l’impresa (non gli atti di commercio), ha come destinatario
il soggetto impresa, all’art. 1 si definisce l’impresa commerciale e si dice che la legge
considera commerciale ogni attività organizzata ad impresa; nel giungo del ’40 Asquini lo
presenta al Duce, ma viene rifiutato.

IL PROGETTO ITALO-FRANCESE DI CODICE DELLE OBBLIGAZIONI DEL 1927


IL PROGETTO DI CODICE DI COMMERCIO DEL 1940 E L’IMPRESA COMMERCIALE
LA REDAZIONE DEFINITIVA DEL CODICE CIVILE DEL 1942

 Tra il 1923 e il 1939-40 la Commissione incaricata della revisione del codice Pisa-
nelli è presieduta da Vittorio Scialoja prima (grande professore di diritto romano) e
Mariano D’Amelio poi; giuristi di solida formazione romanistico-pandettistica, che vo-
gliono sì riformare il Codice del 1865, ma senza modificarne l’impianto di base, e che
quindi guardano al codice francese e al BGB (tuttavia si sceglie di non introdurre una
parte generale).
- Le soluzioni adottate nel Codice del ’42 sono in molti casi il risultato dell’opera di giuri-
sti di formazione universitaria (l’impianto dottrinale è ben visibile nella struttura
complessiva dei sei libri), in altri sono il frutto della recezione legislativa di determinate
elaborazioni della dottrina degli anni e dei decenni precedenti (Scajola e Asquini per
le società, Rotondi per il diritto industriale e per l’unificazione del diritto delle obbligazio-
ni), in altri casi recepiscono le tendenze della giurisprudenza della Cassazione. Note-
voli sono inoltre gli apporti della dottrina tedesca e soprattutto del BGB (clausole genera-
li della buona fede nei contratti e del principio di correttezza, azione generale di arric-
chimento).
 Fra il 1930-37 vengono pubblicati i progetti preliminari del Libro I su persone e fa-


 34
miglia, del Libro II sulle successioni e del Libro III su proprietà e diritti reali.
- Il Libro sulla famiglia è disciplinato in modo molto restrittivo, antiquato e in generale
legato al passato; nel 19 viene abolita la potestà maritale, ma il codice del 42 contiene
ancora numerose disposizioni da cui emerge la posizione di inferiorità della donna (si
parla di patria potestà e non di potestà genitoriale; l’adulterio è un reato ed è partico-
larmente grave soprattutto se perpetrato dalla donna); sicché è stato poi radicalmente
riformato nel 75, in coerenza con la diversa rilevanza economica e sociale riconosciuta
alla donna; inoltre disciplina il matrimonio concordatario (concordato del ’29, poi rinego-
ziato nell’84; il matrimonio concordatario è quello celebrato dal ministro del culto cattoli-
co ma che al contempo assume anche effetti civili; il diritto canonico studia il diritto della
Chiesa cattolico-romana; il diritto ecclesiastico studia i rapporti tra ordinamenti diversi, è
una branca del diritto internazionale, tra l’ordinamento civile e ordinamenti religiosi, sta-
to italiano e santa sede, e comunità ebraica, e comunità mussulmana), il regime patri-
moniale di separazione dei beni e quello del conferimento della dote.
- Il Libro sulle successioni migliora la posizione successoria del coniuge superstite e quel-
la dei figli naturali, introduce l’istituto dell’affiliazione, potenzia il ruolo del giudice nella
tutela dei minori.
- Il Libro sulla proprietà è di chiara impostazione romanistica e ascendenza francese, tut-
tavia sono presenti anche norme nuove (aumento dei limiti alla proprietà privata e dei
casi di esproprio per ragioni di pubblica utilità).
- La riforma del Libro IV sulle obbligazioni viene solo iniziata.
- Nel 1927, su iniziativa privata di giuristi italiani e francesi, s’era redatto un Progetto
di codice italo-francese delle obbligazioni, il quale in particolare prese atto
dell’avvenuta commercializzazione del diritto privato (vd. art. 36 e ss.; anche alla
luce della norma sugli atti misti, la materia delle obbligazioni si rinnova, la disciplina
commerciale delle obbligazioni diventa comune, è più adatta alle nuove esigenze della
società di primo ‘900). Lì per lì tale progetto non ebbe alcun seguito, venne poi ripropo-
sto dieci anni più tardi, ma fu rifiutato per motivi sia tecnico-giuridici che politici. Tutta-
via nel Libro IV è riflessa l’influenza di tale Progetto di codice italo-francese delle obbli-
gazioni e quindi della commercializzazione del diritto privato.
 Grande crisi economica, industriale e bancaria degli anni Trenta; di qui la creazione
dell’Iri nel 33 (struttura di diritto privato, società per azioni a composizione mista pubbli-
ca-privata) con cui lo Stato si impegna nel salvataggio di banche ed imprese in difficoltà,
e la legge bancaria del 36 con cui viene dato un nuovo assetto al credito e ai rapporti tra
banca e industria.
 Nel 1939 Dino Grandi (cognato di Mussolini) è Ministro della Giustizia e Filippo Vas-
salli (autore di un’opera intitolata Sulla smobilitazione legislativa dopo la prima guerra
mondiale) è protagonista di questa seconda ed ultima fase del progetto di riforma e sua
è l’iniziativa di fondere in unico Codice i due rami del diritto privato.
- Fino al ’40 la maggior parte della scienza giuridica italiana era orientata per la separa-
zione dei due codici (Sraffa era morto, Vivante era stato emarginato in quanto ebreo);
Mario Rotondi (grande civilista, che negli anni ’50 insegnò anche alla Statale di Milano
e diresse l’Istituto di diritto commerciale comparato in Bocconi) fu l’unico in questo peri-
odo che continuò a sostenere l’utilità di un codice unico.
- Nel 1940-41 Vassalli prende i primi tre libri ed il Libro IV in lavorazione, aggiunge al-
cuni contratti commerciali che c’erano nel progetto di Asquini, scrive il Libro V su impre-
sa e lavoro, in cui in sostanza confluisce il progetto di Asquini, ed il Libro VI sulla tutela
dei diritti (prescrizione, decadenza, prove, etc.; non libro residuale, ma di coordinamento
del codice civile con quello di procedura civile). Il risultato è la generale prevalenza delle
regole più efficaci e più funzionali ad un’economia di scambio, proprie del diritto com-
merciale, rispetto a quelle tradizionali del diritto civile.
- Nel Libro IV e V in sostanza confluiscono le norme prima contenute nel codice di com-
mercio. Nel libro IV anche forte influenza della dottrina tedesca (es. categoria
dell’annullabilità). Nel progetto di Asquini si parlava di impresa, si metteva in rilievo la
categoria oggettiva, mentre nella redazione finale si parla di imprenditore, quindi alla fi-
ne si sceglie il profilo soggettivo, sintomo della riflessione sulle nuove categorie giuridi-
che in esame, sull’esempio della dottrina tedesca (nel codice di commerci tedesco del
1900 è incentrato sulla categoria soggettiva dell’imprenditore commerciale). Il libro V è


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scritto da Asquini e Vassalli, Rocco scrive di impresa, da tecnico, da teorico, in particola-
re della grande impresa che favorisce la produzione nazionale, non della piccola impresa.
E una grande novità è rappresentata proprio dalla nuova concezione del codice civile
stesso, che infatti accoglie valori di rango costituzionale, codifica un nuovo mondo di re-
lazioni, non solo fra gli individui, fra soggetti privati, ma affronta anche il problema dei
rapporti fra imprenditori e quello dei rapporti fra il diritto privato e diritto pubblico.
 Nel 1942 il nuovo codice civile entra in vigore e, a testimonianza comunque
dell’ineludibile rapporto tra Codice e fascismo, la Carta del lavoro del ’27 ne è il prolo-
go (scritta da Italo Balbo, definita “il documento fondamentale della rivoluzione fascista”,
si tratta di una dichiarazione dei principi che reggono lo stato corporativo e i rapporti di
lavoro, in cui particolare accento è posto sui temi del lavoro e dell’impresa, quando fino
a quel momento s’era parlato solo di atti commerciali, di commercio, di commercianti,
non di impresa, di imprenditori).
- Oggi sono rimasti l’impianto e la scelta dell’unificazione in unico testo del diritto civile e
commerciale.

PROFILI ECONOMICI NELLA COSTITUZIONE DEL 1948

- Costantino Mortati (studioso di diritto costituzionale) elaborò una dottrina giuridica che
considerava lo Stato come una rete di poteri pubblici e privati, tenuta insieme dalla co-
stituzione, a sua volta identificabile non solo nella sua formulazione normativa espressa
(in Italia, lo Statuto albertino), ma anche nelle pressi che si erano andate affermando
nella concreta vita del diritto pubblico, in breve in quella che nel 40 denominò “la costi-
tuzione materiale”. Inizia così ad affermarsi anche l’idea che le norme di rango costitu-
zionale sono preminenti rispetto alle leggi ordinarie e all’amministrazione.
- Alle scelte di fondo della Costituzione cooperano personaggi eminenti della cultura giu-
ridica ed economica, tra i quali Luigi Einaudi e Pietro Calamandrei (professore di proce-
dura civile, autore della Storia della Cassazione), e le tre principali forze politiche del
tempo: la componente cattolica (tutela della famiglia considerata come società naturale,
mantenimento del regime concordatario), la componente liberale (principio della separa-
zione tra Stato e Chiesa, libertà dell’impresa e dell’economia, necessaria copertura della
spesa pubblica), la componente marxista (sottolineatura della funzione sociale della pro-
prietà, pieno riconoscimento del diritto al lavoro e del di ritto di sciopero, affermazione
delle funzioni di controllo dello Stato sull’economica, richiamo alla collaborazione dei la-
voratori alla gestione delle aziende).

CENNI AL NUOVO ORDINE ECONOMICO INTERNAZIONALE: DA GEAN MONNET AGLI AT-


TUALI SVILUPPI DEL MERCATO UNICO

Nel frattempo il panorama legislativo e normativo si è complicato. Costituzione. Corte


costituzionale che si fa garante di alcuni valori che stanno sopra le leggi dello Stato. Au-
mento della legislazione speciale, che indusse Natalino Irti a parlare di epoca della deco-
dificazione. Con la Costituzione si è potenziata l’autonomia locale di Regioni, Province e
Comuni. Perde rilievo la centralità del codice e la legislazione dello Stato in quanto tale,
anche nelle materie proprie del codice (non solo in quelle disciplinate fuori dal codice).
La legge sulle cambiali, quella sulla vendita internazionale di merci derivano da conven-
zioni internazionali. Diritto dell’Unione Europea. L’idea di una forma di coordinamento
degli Stati europei è molto antica: metà ‘700, Carlo Cattaneo, milanese, studioso di dirit-
to e di economia, aveva formulato l’idea di una federazione, degli Stati Uniti d’Europa;
nel 1919 (fra le due guerre mondiali) Società delle nazioni; Altiero Spinelli aveva elabo-
rato una visione di federalismo politico; Jean Monet (muore nel ’79) pensava ad una fe-
derazione europea; nel 1950 (dopo la seconda guerra mondiale), il ministro francese
Shumann propone di affidare le gestione del carbone ad un’autorità indipendente sia dal-
la Francia che dalla Germania, in modo da evitare conflitti di interesse; nel 1951 nasce la
Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaiaio (Germania, Francia, Italia, Belgio, Lus-
semburgo); poi l’Autorità Europea dell’Energia Automica; poi nel 1957 trattato
sull’Euratom e Trattato di Roma istitutivo della CEE, al fine di creare un mercato unico;
nel 1986 Atto unico europeo con l’obiettivo di portare a compimento l’unione economica


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con la realizzazione delle quattro libertà; nel 1992 Trattato di Maastricht che ha creato
l’unione europea; nel 1997 Trattato di Amsterdam, si potenzia sempre più il ruolo del
Parlamento Europeo (oggi a suffragio universale, in origine scelti dai membri dei parla-
menti nazionali); nel 2000 Trattato di Nizza.


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