Sei sulla pagina 1di 270

LA LETIERA AGLI EBREI

Nel Nuovo Testamento la lettera agli Ebrei


occupa un posto particolare per la lingua e la riflessione
sulla verità di Cristo.
L'ignoto dotto autore è uno dei grandi testimoni e predicatori
del cristianesimo delle origini. Egli ha reso credibile
il nuovo annuncio servendosi dei mezzi più affinati
della prospettiva giudeo-ellenistica:
la comunità dev'essere incoraggiata a dare prova
nel proprio mondo della formazione cristiana e di come
si possa giungere a essere cristiani.
A questo appello sempre valido il commento di August Strobel
dedica particolare attenzione.
Nel vortice del tempo il sacrificio di Cristo risuona
per la comunità come chiamata e promessa.

ISBN 88 394 0556 9


Nuovo Testamento
Seconda serie
a cura di Peter Stuhlmacher e Hans Weder

9/2
La lettera agli Ebrei

Paideia Editrice
La lettera agli Ebrei

August Strobel

Paideia Editrice
Titolo originale deli, opera:
f?.er Brief an die Hebriier
Ubersetz und erktirt von August Strobel
Traduzione italiana di Paola Florioli
Revisione di Franco Ronchi
© Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen I 99 I
© Paideia Editrice, Brescia 1997 ISBN 88.394.0556.9
Indice del volume

9 Elenco delle abbreviazioni


13 Introduzione
13 1. La forma letteraria
13 2. Il tema dell'omelia
14 3· La lingua
15 4· La forma dell'omelia
16 5. La struttura
17 6. I destinatari
18 7· La datazione
19 8. L'autore
20 9· Il luogo di composizione
21 10. Lo sfondo storico - religioso
e storico-tradizionale
14 I 1. Filone
15 I2. Testimonianza di un cristianesimo giudaico
Esordio e tema dell'omelia
27 «Il Signore disse» (Sal IIo,I)
Parte prima
31 «Siedi alla mia destra» (Sal. 110,1) (1,4-4,13)
Parte seconda
74 «Tu sei sacerdote» (Sal. IIo,4) (4,I4-6,2o)
Parte terza
I07 «In eterno secondo l'ordine di Melchisedec» (Sal. I I0,4)
(7, I - I O, I 8)
Parte quarta
I 74 «Il Signore manderà lo scettro potente
da Sion ... nel giorno dell'ira ... giudicherà» (Sal. I10,2.5 s.)
( I O, I9-12,29)
Parte quinta (appendice)
240 Indicazioni per la vita dei singoli cristiani e della comunità,
epilogo, notizie personali e saluti (13,1-25)
157 Bibliografia
8 Indice del volume
263 Glossario
26 5 Indice analitico
Excursus
82 Un inno in 5,7 ss.?
96 Il problema del secondo ravvedimento
1I2 Elementi gnostici in 7,3?
I 92 L'interpretazione del cap. 1 I
1 94 Il concetto di fede della lettera agli Ebrei
Elenco delle abbreviazioni

Scritti biblici
Ab. Abacuc. Abd. Abdia. Agg. Aggeo. Am. Amos. Apoc. Apocalisse.
Atti Atti degli Apostoli. Bar. Baruc. Cant. Cantico dei cantici. Col.
Lettera ai Colossesi. I, 1. Cor. Prima, seconda lettera ai Corinti. I, 1.
Cron. Primo, secondo libro delle Cronache. Dan. Daniele. Deut. Deu­
teronomio. Ebr. Lettera agli Ebrei. Ecci. Ecclesiaste. Ef. Lettera agli
Efesini. Es. Esodo. Esd. Esdra. Est. Ester. Ez. Ezechiele. Fil. Lette­
ra ai Filippesi. Film. Lettera a Filemone. Gal. Lettera ai Galati. Gd.
Lettera di Giuda. Gdt. Giuditta. Gen. Genesi. Ger. Geremia. Giac.
Lettera di Giacomo. Giob. Giobbe. Gion. Giona. Gios. Giosuè. Giud.
Giudici. Gl. Gioele. Gv. Vangelo di Giovanni. I, 1., 3 Gv. Prima, se­
conda, terza lettera di Giovanni. Is. Isaia. Lam. Lamentazioni. Le.
Vangelo di Luca. Lev. Levitico. I, 1. Macc. Primo, secondo libro dei
Maccabei. Mal. Malachia. Mc. Vangelo di Marco. Mich. Michea. Mt.
Vangelo di Matteo. Naum Naum. Neem. Neemia. Num. Numeri.
Os. Osea. 1, 1. Pt. Prima, seconda lettera di Pietro. Prov. Proverbi. I,
1. Re Primo, secondo libro dei Re. I, 1., J, 4 Regn. Primo, secondo, terzo,
quarto libro dei Regni (LXX). Rom. Lettera ai Romani. Rut Rut. Sal.
Salmi. I, 1. Sam. Primo, secondo libro di Samuele. Sap. Sapienza di Sa­
lomone. Sir. Siracide (Ecclesiastico). Sof. Sofonia. I, 1. Tess. Prima,
seconda lettera ai Tessalonicesi. 1, .1 Tim. Prima, seconda lettera a Timo­
teo. Tit. Tito. Toh. Tobia. Zacc. Zaccaria.

Scritti giudaici del 1/f/ sec. a. C.


Asc. Ies. Ascensione di Isaia (cf. Ebr. I I ,37). Hen. aeth. Libro etiopico di
Enoc. Iub. Libro dei Giubilei. LXX Septuaginta {traduzione greca del­
l'A.T.). Ps. Sal. Salmi di Salomone (farisaici, LXX). Test. XII Testamenti
dei dodici Patriarchi (n sec. a.C., con interpolazioni cristiane; ad es. Testa­
mento di Giuda, di Levi, di Ruben, di Simeone).

Scritti giudaici del /f/1 sec. d.C.


Bar. syr. Apocalisse siriaca di Baruc. 4 Esd. Apocalisse di Esdra. Ps. Filo­
ne Liber Antiquitatum Biblicarum (1 sec. d.C., probabilmente posteriore
lO Elenco delle abbreviazioni
al 7o ). Giuseppe Flavio Giuseppe (storico giudaico, ca. 40-Ioo d.C.): Ant.
Antiquitates Iudaicae; Beli. Bellum Iudaicum; Ap. Contra Apionem (scrit­
to apologetico); Vita Vita Iosephi. 4 Macc. Quarto libro dei Maccabei (I
sec. a.C./ I sec. d.C.). Test. Abr. Testamento di Abramo.

Scritti di Qumran

CD Documento di Damasco. 1QS Regola della Comunità. 1QSa Appen­


dice alla Regola della Comunità. IQpHab Commento ad Abacuc. I QpPs
Commento ai Salmi. zQz4 Frammenti dalla grotta 2. 4QFior Florilegium
(grotta 4). 1oQPsa Scritto dalla grotta ro. I 1QMelch Scritto su Melchise­
dec dalla grotta 1 1 •

Scritti giudaici della prima e della tarda età talmudica

Abot R.N. Abot de-Rabbi Natan, ampliamento dei Pirqe Abot (Talmud
babilonese, «Sentenze dei padri») d'età tardo- e post-talmudica. bJeb. Tal­
mud babilonese, trattato Jebamot ( «Levirato» ) . bJoma Talmud babilone­
se, trattato Joma («Il giorno delle espiazioni»). bSanh. Talmud babilo­
nese, trattato Sanhedrin ( «Sinedrio» ). bTa 'an. Talmud babilonese, tratta­
to Ta'anit («Giorni di digiuno e di lutto»). Midr. Pesiq. R. Midrash Pe­
siqta Rabbati («Grande Pesiqta», raccolta di midrashim omiletici). mJoma
Mishna, trattato J orna («Grande giorno dell'espiazione»). mPara (Mish­
na, trattato Para («La vacca rossa»). Syn. Zohar Sin ossi di Zohar; opera
esegetica altomedievale della Cabala. Tanh. Bemidbar, tarda interpreta­
zione rabbinica del libro dei Numeri (v/vi sec. d.C.). Targ. Onq. Targum
Onqelos del Pentateuco, presumibilmente tardo I sec. d.C. e prima metà
del n sec. d.C. Targ. Ps. Jon. Targum Pseudo-Jonatan del Pentateuco (tar­
da età talmudica). tB.B. Tosefta, trattato Baba batra («La prima porta»),
sui rapporti giuridici nella vita comunitaria.

Scritti cristiani della prima e della tarda epoca patristica (II/V sec. d.C.)

Acta Pauli Atti di Paolo (n metà del n sec. d.C.). Afraate , Sulla fede
Afraate, vescovo siriaco del IV sec. d.C., Omelia sulla fede. Barn. Lettera
di Barnaba (scritto giudeocristiano, metà del II sec. d.C.). Clem. , lac. Let­
tera pseudoclementina indirizzata a Giacomo il Minore, premessa alle Omi­
liae pseudoclementine (GCS 195 3). I Clem. Prima lettera di Clemente (96
d.C. ca., Roma). Const. Ap. Costituzioni apostoliche (raccolta giuridica
della chiesa primitiva, IV sec. d.C.). Epiph. , Pan. Epifanio di Salamina, scrit­
to sulle eresie (Iv sec. d.C.). Ev. Eb. Vangelo degli Ebioniti (opera giudeo­
cristiana dei primi anni del II sec. d.C.). Herm. Pastore di Erma (n sec.
d.C., Roma): Sim. Similitudini (apocalisse, prima metà del 11 sec.); Vis. Vi-
Elenco delle abbreviazioni II

sioni. Hipp. Ippolito di Roma (circa 160-235 d.C.): in Dan. commento al


libro di Daniele; Ref.omn.haer.Confutazione di tutte le eresie. Ign.Igna­
zio di Antiochia (vescovo, I Io d.C. ca.): Magn.Epistola ai Magnesi; Smyrn.
Epistola alla chiesa di Smirne. Iren., Haer. Ireneo (vescovo di Lione, t
102 d.C. ca.), Adversus haereses. lust. Giustino Martire (t 165 d.C. ca.):
Apol. Apologia; Dial. Dialogo con l'ebreo Trifone. Mel., Pass. Melitone
di Sardi, Omelia sulla pasqua (vescovo, omelia del 160 d.C. ca.). Grotta del
Tesoro opera siriaca della scuola di sant'Efrem (Iv sec. d.C. ca.). Tert.Ter­
tulliano (apologeta cartaginese, t 220 d.C. ca.): Pat. La pazienza; Praescr.
La prescrizione degli eretici; Scorp. Contro il morso dello scorpione ( ope­
ra an ti gnostica, 203 d.C. ca.). Ps.-Tertulliano appendice al De praescrip­
tione haereticorum (editio Gangneia}, III sec. d.C. ca.

Letteratura profana greca e romana


Cic., Verr. � Cicerone, Seconda orazione contro V erre (oratore e politico
della tarda repubblica di Roma, Io6-43 d.C.). Epict., Diss. Epitteto, Dis­
sertazioni (ca. 50- I 30 d.C., seguace della stoa più recente}. Luciano , Mort.
Per. Luciano di Samosata, La morte di Peregrino (raffinato scrittore greco
del II sec. d.C.).

Opere di Filone di Alessandria


(ca. 10 a.C.- so d.C., fondatore di una scuola esegetica veterotestamentaria giudeo-alessandrina)

Abr. De Abrahamo. Aet. De aeternitate mundi. Agric. De agricultura.


Cher. De cherubim. Conf. De confusione linguarum. Congr. De con­
gressu eruditionis gratia. Dee.De decalogo. Deter. Quod deterius poti o­
ri insidiari soleat. Deus Quod Deus sit immutabilis. Ebr. De ebrietate.
Flacc. In Flaccum. Fug. De fuga et inventione. Gig. De gigantibus. los.
De Iosepho. Leg.ali.Legum allegoriae. Legat.Legatio ad Gaium. Migr.
De migratione Abrahami. Mos. De vita Mosis. Mut. De mutatione no­
minum. Omn.prob.Quod omnis probus liber sit. Op. De opificio mun­
di. Plant.De plantatione. Poster.De posteritate Caini. Praem.De prae­
mis et poenis. Pro v. De Providentia. Quaest. Ex. Quaestiones in Exo­
dum. Quaest. Gen. Quaestiones in Genesim. Rer. Qui d rerum divina­
rum heres sit. Sacr. De sacrificiis Abelis et Caini. Sobr. De sobrietate.
Somn. De somniis. Spec.leg. De specialibus legibus. Virt. De virtutibus.

I testi giudaici rabbinici possono essere reperiti in Str.-Bill. =H. Strack - P.


Billerbeck, Kommentar aus Talmud und Midrasch III, 1926,671 ss. Le ope­
re di Filone di Alessandria sono disponibili in traduzione italiana nell' edi­
zione a cura di G. Reale e R. Radice (Milano 1994 ss.).
Introduzione

1. Se si confronta la lettera «agli Ebrei» con le lettere di Paolo conside­


rate autentiche, salta immediatamente all'occhio la sua struttura pecu­
liare. Per quanto attiene alla forma letteraria, manca il consueto pream­
bolo: il cosiddetto prescritto, completo di mittente, indicazione dei de­
stinatari, saluto e ringraziamento. Essa inizia immediatamente con una
serie di importanti asserzioni, alle quali fanno seguito ampie pericopi
che si susseguono l'una all'altra coerentemente, sviluppando in ogni a­
spetto il tema cristologico accennato nell'introduzione ( I , I -3 ). La lette­
ra esordisce come se si trattasse di uno scritto omiletico, ma si conclu­
de ( 1 3 ,22-2 5 ) come un'epistola (E. Gdisser). Dal punto di vista forma­
le ciò le conferisce un particolare carattere letterario. Il concetto cen­
trale riguarda l'esaltazione di Cristo «alla destra della maestà nei cieli»
e fin dall'inizio riprende in modo programmatico il Sal. I I O. In tutte
le affermazioni successive questo stesso salmo fornisce apertamente o
in maniera implicita il fondamento biblico dal quale si erge la testimo­
nianza teologica dello scritto, unica e in un certo senso anche origina­
le ( 1 , 1 3; J , I ; 5,6; 6,20; 7,J . 1 . 1 5 . 1 7.2 1 .24.28; 8, 1 .1 2.20; I O, I J ; I 2,2).

2. La lettera agli Ebrei si differenzia dalle epistole paoline sia per il


lineare sviluppo del pensiero omiletico principale, al quale si unisce un
interesse prettamente pratico, sia per il vivace avvicendarsi di proposi­
zioni di carattere esortativo e didattico. I testi esortativi hanno lo sco­
po di rafforzare la comunità interpellata nella fede nel Cristo innalza­
to, quelli didattici illustrano il motivo della maestà del Signore celeste:
il suo sacrificio c il suo ministero di sommo sacerdote. L'osservatore
moderno potrebbe essere incline a vedere in Ebr. l'opera speculativa
teologica di un importante personaggio della chiesa delle origini esper­
to nelle Scritture. Probabilmente in questo modo verrebbe gravemen­
te frainteso il reale intento della lettera, che per originalità linguistica e
argomentativa non ha pari nel N uovo Testamento. Nello scritto, che
in 1 3,22 si definisce appropriatamente «parola di esortazione», ogni
14 Introduzione
discorso mira alla perseveranza e alla speranza, alla fede e alla confes­
sione, non trascurando tuttavia di mettere sempre in luce anche il
fondamento posto da Dio per raccomandare la necessità di tale atteg­
giamento. «L'esortazione che mira a fornire certezze non ha mai suc­
cesso se non ha una motivazione di base» (Herbert Braun). Ed è vero.
L'autore sa che non si dà una salda decisione della volontà senza una
più profonda comprensione di ciò che Dio ha compiuto in Cristo.
Inoltre occorre sottolineare che a tale comprensione si deve giungere
attraverso passi logici ed ermeneutici che paiono piuttosto singolari al
cristiano di oggi. Ciononostante chi legge la Bibbia cercherà di com­
prendere quegli argomenti che mantengono certamente inalterato nel
tempo il loro valore, anzitutto perché per Ebr. fede e vita del cristiano
procedono necessariamente di pari passo, inoltre perché la testimo­
nianza del Cristo innalzato non ha base più solida dell'obbedienza del­
la sua fede, la miseria della sua sofferenza, l'enormità della sua morte e
quindi la grandezza del suo sacrificio. In un certo senso questo scritto
rappresenta un documento unico nel suo genere, perché se ogni con­
fessione di Cristo da parte del singolo e della comunità vuole essere
qualcosa più che vuota declamazione, allora necessita della riflessione
teologica della croce. Perciò non è certo un caso se qui la risurrezione
non ha peso argomentativo fondamentale (v. soltanto IJ,2o), mentre è
trattato a fondo il rapporto tra croce ed esaltazione di Cristo. Per il
lettore moderno potrebbe risultare particolarmente difficoltoso riusci­
re a seguire passo passo lo sviluppo di pensiero della lettera partendo
dalle sue stesse basi: l'ambiente, la religiosità, l'orizzonte di compren­
sione filosofico ermeneutico senz'altro singolare. Si tratta del mondo
della fede filosofica ellenistica, nel quale la concettualità platonica ren­
de concrete ed esprimibili le realtà immateriali ultraterrene. A essa si
affianca una religiosità di stampo prevalentemente rituale, che in ogni
rapporto dell'uomo con Dio ritiene indispensabile il sacrificio. Non
da ultimo, si tratta di un orizzonte di pensiero tipico degli scribi d'Israe­
le che - strettamente orientato al testo biblico - intende documentare
e dimostrare partendo dalla sacra Scrittura dell'Antico Testamento il
carattere nuovo e inaudito dell'evento di Cristo.

3· La lingua tradisce uno spirito coltissimo. Eccone le caratteristi­


che: vasto patrimonio lessicale, formazione delle parole piuttosto ri­
cercata e discorso sorprendentemente spigliato. Lo stile si distingue per
La forma omiletica I5
i periodi elegantemente costruiti e per l'evidente volontà di esporre per
argomentazioni. Interrogativi, giochi di parole, immagini, esempi, non­
ché l'impiego della Scrittura rendono la lettera un'opera d'arte retori­
ca che nel N.T. è senza pari; tuttavia non si è semplicemente di fronte
a un trattato teologico, né tantomeno a una cosiddetta lettera artificia­
le. Redatta evidentemente per essere letta davanti a una certa comuni­
tà, le si adatta il carattere di progetto omiletico pensato per fare il mag­
gior effetto linguistico possibile. Tutto lo splendore del linguaggio at­
ticista e dell'elevata capacità retorica non sono fini a se stessi né pura
ambizione letteraria, ma servono ad evidenziare che il discorso attuale
è funzione e proseguimento della grande parola che da tempo imme­
morabile viene pronunciata ( I, I) e che nel Figlio ha preso forma unica
( x I,J). Quanto allo stile, si può a ragione ricordare che nell'esposizio­
ne l'uso frequente del comunicativo «noi», il personalissimo «voi» e
l' «io» individuale non provengono affatto solo da uno stile retorico
dell'autore, ma rappresentano un autentico elemento omiletico: «Qui
è un predicatore che parla alla sua comunità» (H. Thyen).

4· La costruzione degli enunciati si attiene alla forma dell'omelia, co­


sì come era d'uso nella sinagoga della diaspora giudaica, ma sicuramen­
te anche nel culto cristiano primitivo delle comunità ellenistiche, am­
messo che riuscisse a mantenere un livello culturale tanto elevato. Dopo
un preludio solenne, che lancia il tema biblico ricorrente con riguardo
al Sal. I 1 o - l'esaltazione di Cristo, il Figlio ed erede promesso da
tempi immemorabili -, seguono varie pericopi che danno fondamento
al tema, approfondendolo e attualizzandolo. Noi ipotizziamo che al­
meno nelle espressioni più spiccatamente dottrinali emerga in maniera
molto coerente il contenuto essenziale di questo salmo, che fin dall'i­
nizio rivestì indubbiamente un'importanza grandissima nella comuni­
tà primitiva. Il Sal. I IO è un testo fondamentale in immediata prossi­
mità del cosiddetto hallel (= Sal. I I J-I I 8), che anche durante la litur­
gia (pasquale) della chiesa antica dovette avere grande rilievo. Già la co­
munità giudaica lo aveva cantato durante il tempo pasquale, ma so­
prattutto nella notte solenne, cosicché si poteva affermare che in tale
notte l' hallel spaccava i tetti della città santa. Ad ogni modo sono pos­
sibili alcune illazioni sull'immediato Sitz im Le ben liturgico. A una co­
munità variamente provata, forse anche disorientata e frustrata, biso­
gnava riuscire a infondere nuova certezza, risolutezza e speranza.
16 Introduzione
Sull'esempio dell'omelia sinagogale il tema viene ampiamente spie­
gato con il ricorso a testi biblici, personaggi tipologicamente significa­
tivi e idee allegoriche ausiliarie. Continui raffronti con le verità fonda­
mentali dell'antica alleanza assicurano il carattere peculiare dell'even­
to di Cristo, mentre un ruolo rilevante spetta al modo di procedere per
gradazione ascendente, «dal minore al maggiore». Un metodo dimo­
strativo non meno ricorrente è l'analogismo, grazie al quale nei con­
cetti che c'interessano è possibile procedere deduttivamente in modo
non strettamente logico dal significato di una cosa o di una persona al
significato superiore di analoga grandezza per la comprensione biblica.
In complesso è l'allegoria il metodo che deve portare alla conoscenza
di Dio e al discernimento delle più profonde verità divine (per Filone
essa deve invece condurre alla visione di Dio). Questo presupposto
spiega infine anche il procedimento della cosiddetta diairesis (divisione
dei concetti), a volte riconoscibile all'inizio, per cui concetti generici
forniscono il punto di partenza per una definizione particolare. Inoltre
vi possono essere derivazioni etimologiche al servizio dell'interpreta­
zione simbolica (cf. 7, 1 -3).
Stile declamatorio, procedimento metodico e tecnica interpretativa
pongono senz'altro Ebr. molto vicino agli scritti di Filone d' Alessan­
dria (v. intr. 1 0). La ricerca più recente riconosce anzi in modo sempre
maggiore il debito che la lettera ha nei suoi confronti, e il passo che
porta a questioni di principio relative all'interpretazione dell'epistola
è molto breve (v. H. Braun, Wie man uber Gott nicht denken soli, Tii­
bingen 1 97 1 ).

Sembra che ultimamente si sia riusciti a chiarire abbastanza la com­


5.
plessa struttura a più strati della lettera (A. Vanhoye ). Stando alle nuo­
ve indicazioni, bisogna tener conto non solo del collegamento tra pa­
role cardinali, com'è ormai tradizione, ma anche del criterio della ri­
presa del tema (la cosiddetta indicatio ). Inoltre è evidente che le singo­
le pericopi sono strettamente legate le une alle altre (la cosiddetta con­
catenatio ). Si è poi scoperto che l'autore ha evidenziato i confini delle
trattazioni tematiche riprendendo determinati concetti all'inizio e alla
fine (la cosiddetta inclusio) . N on da ultimo vi sono certe espressioni
che sono tipiche delle singole unità (i cosiddetti termini caratteristici).
Tutto lo scritto denota così nella disposizione un grandissimo impe­
gno intellettuale come pure la chiara volontà di giungere a una simme-
l destinatari della lettera I7

tria omiletica. L'evidente splendida padronanza dello strumento della


retorica ellenistica sinagogale fa di Ebr. un documento del cristianesi­
mo primitivo unico nel suo genere, per cui si può parlare a buon dirit­
to di sermone messo per iscritto e inviato a una comunità. La struttu­
ra che qui proponiamo poggia sulla convinzione ulteriore che alla sua
base vi sia il Sal. 1 1 0, fondamentale per il genere messianico (cf. Mc.
14,62 parr.; Atti 2,3 3 ss.; 5,3 I; 7, 5 5 s.; Rom. 8,34; 1 Cor. I 5,25 ecc.). Nel
N.T. non vi è un altro passo veterotestamentario a cui si faccia così so­
vente riferimento (v. Str.-Bill. IV, I , 4 5 2-46 5 ). Gesù stesso davanti al tri­
bunale aveva delineato la propria futura posizione di potere ricorren­
do a tale salmo. Il lettore o ascoltatore viene immediatamente coinvol­
to in un processo di pensiero e di apprendimento pedagogico-omileti­
co, chiaramente caratterizzato da tappe elementari nell'interpretazio­
ne: I, 1-3, «Il Signore parla»; 1 ,4-4,13 , «Siedi alla mia destra>>; 4, 1 4-6,2o,
«Tu sei sacerdote»; 7, I -1o, 1 8, «In eterno secondo l'ordine di Melchi­
sedec»; 10, 1 9-1 2,29, «Il Signore stende lo scettro potente da Sion ... nel
giorno dell'ira giudicherà». Contenuto teologico determinante dell'e­
sposizione è una teologia del sacrificio come applicazione immediata e
pratica di un'escatologia della croce.

6. I problemi re_lativi alla composizione sono molteplici. Chi sono i


destinatari? Apparentemente la lettera è diretta a una comunità giudeo­
cristiana ellenistica che ben conosce il culto giudaico e dalla quale ci si
può quindi ben aspettare che si pieghi all'autorità dell'Antico Testa­
mento come testimonianza vincolante riguardante Cristo. Un'ulterio­
re dimostrazione può essere fornita dalla menzione dei «padri » ( 1 , 1 ) e
dal fatto che alla parola della Scrittura sia riconosciuto senz'altra spie­
gazione il carattere di promessa, mentre il tema della chiamata dei gen­
tili non viene neppure sfiorato. Il cristiano che crede può essere certo
della sua immediata appartenenza al nugolo dei testimoni. La figura di
Abramo, ovviamente, interessa solo per quanto attiene significato ed
esemplarità messianici (6,13 ss.; 7,4 ss.; 1 1 , 1 7 ss.), non per la sua im­
portanza ai fini della missione ai gentili. Questa circostanza è fin trop­
po evidente per non essere stata presa in considerazione al momento
di fissare il canone (alla fine del n secolo) con la scelta del titolo «agli
Ebrei». Da qui tuttavia emerge al tempo stesso anche l'imbarazzo del­
la chiesa posteriore, che indubbiamente non aveva più l'esatta cono­
scenza delle circostanze relative alla redazione. La nostra supposizio-
I8 Introduzione
ne è che difficilmente la lettera è stata scritta a cristiani della madre p a­
tria giudaica. Piuttosto bisogna pensare a una comunità della diaspora,
per cui sorge l'interrogativo su dove trovare un gruppo giudeocristia­
no tanto chiuso in se stesso come quello qui supposto. Non volendo
pensare a Roma (cf. I 3,24), che sia da ricercare magari nella parte o­
rientale dell'impero romano ? Vi sono vari particolari dello scritto che
giustificano tale supposizione, ma sicuramente non è possibile propor­
re una spiegazione univoca (v. anche E. Gdisser). Per quanto vi siano
avvertimenti a non abbandonare il cammino intrapreso e a non per­
dersi d'animo nella lotta della fede, la possibilità di un'apostasia a fa­
vore del paganesimo non viene trattata né presa esplicitamente in con­
siderazione in alcun punto. Considerato poi che non si fa alcun cenno
a un pericolo giudaizzante incombente, ma solamente al timore di la­
sciarsi sfuggire la salvezza e di perdere la speranza, la lettera può esse­
re solo espressione della preoccupazione di un predicatore giudeocri­
stiano riguardo a una comunità giudeocristiana ( 2, 1 . 3; 6,6; 4, 1 ; I 0,3 8;
1 0,3 5 ; 3 , 1 8). In 3 , 1 2 inoltre l'apostasia dal Dio vivente viene interpre­
tata come «indurimento» del cuore, per cui neanche tale passo costitui­
sce un'eccezione. Inoltre 6, 1 ss. risulta particolarmente istruttivo, poi­
ché il pericolo che minaccia il lettore non è visto propriamente come
apostasia, bensì come ricaduta nel tempo precedente della conoscenza
imperfetta, della triste penitenza e delle opere morte. Oltre a ciò è si­
gnificativo il timore espresso riguardo al rischio di crocifiggere nuo­
vamente il Figlio di Dio esponendolo all'infamia (6,6).

7. La datazione può essere forse stabilita con più precisione. Dalle


ultime osservazioni si può dedurre che la conversione al cristianesimo
è avvenuta da tempo. E ancora, che già una volta, durante una perse­
cuzione che aveva richiesto sacrifici materiali, vi era stata una prova
da superare ( I O,J 2 ss.). Tuttavia anche al momento attuale si è nel bel
mezzo di una controversia per la quale è richiesta la massima vigilanza
( 1 2, 1 ss .). Ricordare le prove precedenti può tornare utile. Allo stesso
modo anche ripensare all' «esito» dei maestri, che ne sta ad indicare
non tanto il martirio quanto la morte esemplare, deve fornire ai lettori
un utile criterio di comportamento retto ( 1 3,7).
Le indicazioni che compaiono qua e là danno la certezza che la lette­
ra non dev'essere situata in epoca troppo precoce. Tenuto conto del­
l'accenno a Timoteo in I J ,2J, è esclusa una datazione antecedente al
L!tautore 19
cosiddetto terzo viaggio missionario di Paolo intorno all'anno 5 315 5 d.
(�. D'altra parte, poiché il culto giudaico del tempio, visto come istitu­
zione centrale di quell'epoca, è continuamente oggetto dell'argomen­
tazione teologica, non è possibile spostare la datazione a dopo la di­
struzione del tempio, avvenuta nel 70 d.C. Solitamente si suppone che
Ebr. non possa aver avuto origine dopo la prima lettera di Clemente
(attorno al 95 d.C.), che cita già lo scritto (36,2- 5). Ma che non si fac­
cia parola della svolta catastrofica dell 'anno 70 d.C., né la si prenda in
considerazione in altro modo, consente a nostro parere di ipotizzare
solo una datazione precedente a tale anno. Poiché è evidente che è
ormai trascorso un certo periodo di tempo dalla fondazione della co­
munità (2,3; 5 , 1 2; 1 0,3 2; 1 2,4; 1 3 ,7), sarà opportuno datare la compo­
sizione attorno all'anno 6o d.C. Infine, 6, 1 0 sembra alludere alla gran­
de opera misericordiosa della colletta a favore di Gerusalemme, perse­
guita con impegno ed energia soprattutto a partire dal terzo viaggio
missionario (2 Cor. 8,4; 9, 1 . 1 2 ; Rom. 1 2, 1 3 ; 1 5 ,26- 3 1 ), iniziativa che
tuttavia risale già ad alcuni anni addietro. Tutte queste circostanze con­
corrono univocamente a sfavore di argomentazioni vaghe come quella
secondo la quale 2,3 fisserebbe il luogo cronologico dell'autore e dei
lettori nella seconda generazione cristiana, mentre il timore di nuove
sofferenze alluderebbe certo all'epoca di Domiziano.
Alcune indicazioni della lettera risultano ulteriormente chiarificatri­
ci, poiché sfruttano l'idea del periodo di attesa e penitenza del popolo
di Dio nel deserto, durato quarant'anni (4,3 .7; al riguardo cf. Es. 23,
30 ), per applicarla alla situazione attuale della comunità di Cristo non­
ché per risalire implicitamente alla data della morte di Gesù e della sua
esaltazione (cioè 30 d.C.). L'evidente schema di base di tale orienta­
mento storico-salvifico ed escatologico induce fortemente a situare in
linea di principio l'autore anteriormente al 70 d.C.

8. L'autore stesso si sente strettamente legato alla comunità; forse in


un primo tempo ha addirittura insegnato in essa, poiché solo così si
spiegherebbe il desiderio espresso alla fine di esserle presto «restitui­
to)) (rJ , 1 9). Non soltanto l'incontestabile menzione di Timoteo, di­
scepolo di Paolo, ma anche determinati contatti con temi teologici
dell'apostolo stesso (ad es. 6,8 ss. l 2 Cor. 6,2; 5, 1 2 l 2 Cor. J,I ss.; 6,13
ss. l Rom. 4,1 ss.; 1 0,3 7 ss. l Rom. 1 , 1 7 l Gal. J , I I ; r 1 , 1 ss. /Rom. 3 / Gal.
3 ) fanno pensare a una personalità che forse aveva contatti con questa
20 Introduzione
grande figura. Tuttavia l'autore dev'essere stato un pensatore indipen­
dente di grande statura teologica.
Assolutamente irreale è l'argomentazione relativa a un'affinità spiri­
tuale con Luca e Atti, che ogni tanto riaffiora. A titolo di esempio, i
contatti linguistici che si ritrovano sono dovuti esclusivamente a un'a­
naloga formazione filosofica ellenistica, che però nel caso di Ebr. va
piuttosto nella direzione di Alessandria (Filone).
L'indovinello vero e proprio a nostro parere riguarda l'identità del­
l'autore. Considerando il livello dell'importanza teologica della lette­
ra, inizialmente il quesito è del tutto irrilevante. Esso tuttavia s'impo­
ne in modo affatto naturale quando si va a guardare la grandezza e
l'eleganza dello scritto. Consideriamo l'abbondanza di nomi proposti
(Luca, Clemente Romano, Sila, Apollo, Barnaba, Aquila e Priscilla,
Timoteo, Giuda, ecc.): il puro e semplice esame dimostra che in fondo
solo il riferimento ad Apollo è degno di nota. Grazie agli Atti e ad al­
cune indicazioni sparse nel corpus paolino, siamo abbastanza infor­
mati per quanto concerne la personalità di questa fi gura e la sua opera
missionaria (v. I o). Alcune circostanze rafforzano forse tale supposi­
zione, formulata per la prima volta da Lutero ( 1 5 22 e I 5 37): ad esem­
pio che durante il cosiddetto terzo viaggio missionario Apollo prese
contatti con Paolo e Timoteo, a quanto pare lavorando addirittura in­
sieme a loro pur restando comunque autonomo ( r Cor. I 6, 1 2). Vedia­
mo inoltre che anche altrove ha rapporti con la cerchia dei discepoli di
Paolo (Tit. J, I 3), e che evidentemente gode di ottima fama come pre­
dicatore itinerante e missionario ( 1 Cor. 1 , 1 2; 3,4 s.6). È possibile che
il suo campo d'azione coincidesse in tutto e per tutto con quello della
missione paolina, ma non si sa praticamente nulla di come visse poi -
all'incirca negli anni sessanta - né del suo successivo operato a Roma.
Se si vuole tener buona l'ipotesi della coppia missionaria Timoteo­
Apollo, allora è ovvio che anche la proposta relativa ai destinatari
(comunità di Corinto o Efeso) risulterebbe particolarmente plausibile.
A Corinto vi erano seguaci di Apollo (Atti 1 8,27), e d'altra parte Efe­
so (Atti I 8,24 ss.) rivestiva per entrambi il ruolo di comunità madre.
Purtroppo però, vista la carenza di documentazione, non si può anda­
re al di là di supposizioni e probabilità.

9· Riguardo al luogo di composizione, una certa forza espressiva e­


merge soprattutto nella frase conclusiva: «Vi salutano quelli dell'Ita-
Lo sfondo storico-religioso e storico-tradizionale 2I
lia» . Da un punto di vista puramente formale sarebbe possibile appli­
care la frase sia a un gruppo che saluta dall'Italia, sia a un gruppo che
si trova lontano e manda i suoi saluti ai connazionali in Italia. Effetti­
vamente vi erano comunità del genere, come testimonia la chiesa do­
n1cstica raccolta attorno ad Aquila e Priscilla (Atti 1 8,2; 1 Cor. 1 6, 1 9).
Che la frase discussa segni la fine della lettera, e che inoltre sia formu­
lata in modo piuttosto generico e vago, interviene comunque a favore
dell'ipotesi che lo scritto provenga dall'Italia. I destinatari vanno per­
ciò ricercati nella parte orientale dell'impero, ma non certo ad Alessan­
dria, della cui prima comunità cristiana non si sa nulla. N on si tratta
neppure della chiesa gerosolimitana, dato che vi è l'accenno alla collet­
ta. Come suggeriscono le indicazioni restanti, è preferibile pensare a
una comunità nell'ambito dell'azione missionaria di Paolo durante il
suo terzo viaggio, composta in prevalenza da giudeocristiani. Poiché
anche Timoteo, definito «nostro fratello», immediatamente dopo la li­
berazione - dalla prigionia, a quanto pare - intende recarvisi senza in­
dugio insieme all'autore, certo perché vi si sente di casa, si può pro­
porre con una certa riserva Efeso o Corinto, o comunque una chiesa
di una certa importanza in territorio greco o dell'Asia Minore. Da qui
si giungerebbe anche a una spiegazione abbastanza plausibile del co­
me e del perché questo scritto poté essere inserito in una delle prime
raccolte delle epistole paoline, dal momento che tali raccolte, come sug­
gerisce il patrimonio epistolare esistente, devono essere accettate dalle
chiese suddette.

1 o. Il problema dello sfondo storico-religioso e storico-tradizionale


della lettera è ulteriormente gravato da una questione: lo scritto neo­
testamentario, che apparentemente ha basi in prevalenza veterotesta­
mentario-giudaiche, davvero è al tempo stesso anche uno scritto fon­
damentalmente ellenistico (così E. Gdisser) ? Prima di prendere posi­
zione a favore o contro tale ipotesi, occorre chiarire alcune circostan­
ze. Anzitutto è da riconoscere che il giudizio richiesto può essere e­
messo soltanto se, con il miglior senso critico, si distinque tra presup­
posti spirituali e discorso testuale, oltreché tra strutture dirette e indi­
rette di un enunciato. In secondo luogo i concetti «gnostico», «esse­
no», «ellenistico» o «apocalittico» devono risultare talmente univoci
da impedire qualsiasi analisi poco chiara in cui alla fin fine un'etichet­
ta possa venire scambiata con un'altra- come se un'affermazione apo-
11 Introduzione
calittica potesse essere considerata anche gnostica perché in fondo l'a­
pocalittica in quanto fenomeno del mondo giudaico ellenistico è già
anche «gnosi». Simili giochetti mentali non possono certo essere di al­
cun aiuto.
Le considerazioni che seguono partono dal presupposto che gnosi e
apocalittica sono fondamentalmente diverse nella sostanza. Ci rifiu­
tiamo perciò di trattare la teologia di Ebr. inserendola nella categoria
di una « gnosi apocalittica>> - categoria discutibile secondo la prospet­
tiva della storia delle religioni - (come fa invece H. Koster). Inoltre
non ce la sentiamo di vedere nella lettera una testimonianza della lotta
per lo «sviluppo dell'eredità paolina», il che costringerebbe a colloca­
re la lettera negli ultimi due decenni del 1 sec. In tale tendenza non vi è

nulla di cui tener conto. L'autore di Ebr. , a nostro parere, va inserito


piuttosto nell'ambito dell'opera missionaria paolina posteriore {attor­
no al 6o d.C.), dalla quale però va chiaramente distinto come persona­
lità teologica indipendente (v. paragrafo 8).
Emerge che la testimonianza di Ebr. nasce da un ambiente spiritua­
le affine in ogni sua parte essenziale al mondo ideativo teosofico di un
Filone di Alessandria. Tutt'al più nella sezione (neoplatonica) inizia­
le si possono individuare determinati collegamenti con quel movimen­
to tardo che definiamo gnosi e che, come è noto, soltanto nel II secolo
si presenta in una certa forma compiuta. Tuttavia sarebbe sicuramente
errato voler individuare in Ebr. elementi gnostici già inequivocabili
oppure una critica mirata contro di essi, per giudicare con il loro aiuto
il carattere singolare dello scritto. Le frasi sulla preesistenza del reden­
tore si adattano senza problemi a un linguaggio filosofico e a un mon­
do di pensiero strettamente affini a Filone (v. sopra, I e 3). L'idea tipi­
ca di una «discesa del redentore attraverso i mondi celesti» non è asso­
lutamente ripresa in 9, I I s.24 s., ove si parla dell'ingresso nel santua­
rio celeste. Parimenti, i presupposti del pensiero alessandrino filonia­
no emergono in 7, I-3 con tanta forza da confutare l'opinione che qui
vi sia un'allusione alla «incarnazione di un uomo primordiale» in sen­
so·specificamente gnostico. Anche il concetto gnostico dell'origine co­
mune (di esistenza) di redentore e redenti è totalmente estranea al no­
stro autore. Secondo 2, I I , i cristiani affermano di derivare da Dio non
a motivo della natura celeste, ma perché vivono con lui un rapporto di
dipendenza creaturale. Infine, sia per Ebr. sia per Filone, è tipica l'idea
del viaggio di ritorno alla patria celeste, tanto più che alla sua base vi è
Lo sfondo storico-religioso e storico-tradizionale 23
la tematica biblica dell'esodo, non la concezione specifica di un'ascesa
a livelli di esistenza sempre più elevati . Ebr. presenta un quadro del
mondo sostanzialmente più semplice.
Il vero mondo è quello celeste; esso è l'esistenza eterna. Il mondo
terreno con le sue effimere istituzioni non è altro che una «copia» del­
la più alta realtà di Dio. In Ebr. , questa distinzione caratteristica viene
operata principalmente in considerazione delle istituzioni cultuali del
giudaismo. Mentre il sacrificio di Cristo, unico cd eterno, è stato offer­
to nel santuario celeste, alla fine dei tempi, il culto sacrificate cultuale
del popolo giudaico è stato compiuto fino a questo momento intera­
mente nella provvisorietà effimera del vecchio tempo. Questo modo
di veder le cose ovviamente non è una dimostrazione né dell'impron­
ta gnostica della lettera agli Ebrei, né di una forma precoce di gnosi;
piuttosto è analogo alla visione alessandrina filoniana, corrisponden­
te in tutto alla concezione (neo )platonica e stoica secondo la quale la
realtà celeste supera radicalmente il mondo terreno corruttibile (cf. in
particolare Str.-Bill. III, 702 ss. su Ebr. 8,5). In tal modo alla testimo­
nianza dell'Antico Testamento su sommo sacerdozio, culto e sacrifi­
cio viene strappato un ultimo più profondo significato. La lettera agli
Ebrei si trova indiscutibilmente su questo piano di pensiero dell'in­
terpretazione alessandrina filoniana della Scrittura e del mondo, tut­
tavia l'autore compie un altro importante passo avanti mettendo in re­
lazione, con rigore tipologico, tutto l'evento cultuale sacerdotale con
l'adempimento in Cristo. Riflette dappertutto le premesse veterote­
stamentarie del culto giudaico, con le sue istituzioni e figure, la perso­
na e opera del messia Gesù (cioè nel senso di una tipologesi stretta­
mente riferita a Cristo). In questo modo si pone un limite ben preciso
alla sconcertante molteplicità d'interpretazioni allegoriche (al riguar­
do v. Sh. Nomoto) . A ciò, oltre alla concezione del mondo neoplato­
nica filoniana che fa una netta distinzione tra valori terreni e celesti, si
aggiunge la grandezza veramente preminente di un'attesa escatologica
che va dritta al suo scopo. Essa dà proseguimento alla speranza uni­
versale del giudaismo rabbinico e apocalittico, ancorché nella novella
forma dell'escatologia del cristianesimo primitivo in genere. L'esalta­
zione del Crocifisso qui diviene l'atto escatologico per eccellenza, per
mezzo del quale alla comunità si schiude l'accesso prossimo e definiti­
vo al santuario celeste (xo,19 ss.32 ss .). Tale atto di perfezionamento
diventerà presto realtà se la comunità s'impegnerà con tenacia resisten-
24 Introduzione
do fino alla morte nelle avversità di persecuzioni dall'esterno; nel frat­
tempo bisogna cominciare a guardarsi bene dal «rifiutare colui che
parla! » ( I 2,2 5 ). Il cap. I2 si inserisce perfettamente nel consenso gene­
rale riguardo a un'attesa escatologica universale della comunità cristia­
na delle origini (6, I s.). La speranza in un «regno incrollabile» prepa­
rato da Dio per la sua comunità è senza cedimenti (I 2,28).
La nostra interpretazione terrà nella debita considerazione l' estre­
ma vicinanza agli scritti di Filone (cf. sopra, p. 1 I, la raccolta delle sue
opere). Anche la dipendenza letteraria da essi non va affatto esclusa
(diversamente R. Williamson), tanto più che si riscontrano continui
contatti (cf. a 6,I6.19; 7, I - 3.25; 8,5; 9,1 5 . I 9; 1 1 ,2 ecc.). Tutt'al più pos­
sono essere riprese indirettamente certe tradizioni essene, ragion per
cui nel commento non verranno sempre approfondite. Sotto un certo
aspetto, l'escatologia universale di Ebr. va vista come criterio per una
adeguata collocazione storico-religiosa della lettera.
Per determinare la posizione dell'autore non si cercherà, pensando
al successivo pensiero protocattolico, di dare una risposta alla questio­
ne se e in che misura lo scritto introduca uno sviluppo che prende le
mosse dalla concreta attesa della seconda venuta. Piuttosto bisogna
stabilire che cosa la lettera stessa reputi necessario di fronte alla senti­
ta problematica del ritardo della parusia. Si evidenzia così che - pro­
prio come il più antico cristianesimo (Paolo e i sinottici) - essa non dà
un'interpretazione diversa, ma reagisce vivacemente proponendo una
attesa immediata e raccomandando alla comunità interpellata la neces­
sità della perseveranza. Alquanto discutibile, sebbene spesso sostenu­
ta dalla ricerca, è quella «certa trasformazione della tradizionale esca­
tologia (orizzontale) in verticale», che viene spesso effettuata, anche
se non senza tensioni, con l'aiuto di contenuti concettuali alessandrini
(così E. Grasser). Laddove la lettera approfondisce maggiormente la
speranza dei cristiani, pensa sempre in modo concreto-temporale, an­
che quando in altri temi (come quello del santuario celeste) a chiedere
la parola sono segnatamente i concetti filosofici di una spazialità tra­
scendente.

1 I. Ma chi era dunque Filone, dal quale andò a scuola il nostro au­
tore per trarre vantaggio, lui cristiano, dalla sua arte di interpretare la
Scrittura ? Filone nacque intorno al 20 a.C. ad Alessandria. Cresciuto
in una tradizione di formazione giudeo-ellenistica, si dedicò a deter-
Testimonianza di un cristianesimo giudeocristiano 25

minare il permanente contenuto di verità dell'Antico Testamento ser­


vendosi dell'interpretazione allegorica, metodo ermeneutico corrente.
Come autore Filone fu insolitamente produttivo e influente. Rivestì
inoltre cariche direttive nell'importante comunità giudaica di Ales­
sandria. Relazioni di parentela gli schiusero l'accesso alla corte impe­
riale di Roma, tanto che nel 40 d.C., in qualità di capo di una delega­
zione, poté difendere interessi giudaici basilari nella protesta contro
un culto imperiale problematico. Dagli scritti di Filone si può dedurre
molto bene come doveva svolgersi l'omelia sinagogale giudeo-elleni­
stica ad Alessandria. L'allegorica profondità di pensiero di una fervida
interpretazione degli scritti veterotestamentari, in particolare del Pen­
tateuco, fa pensare all'esistenza di una cerchia piuttosto ampia di di­
scepoli di Filone, con la quale va messo in relazione l'autore della let­
tera agli Ebrei. Quando questi conobbe la fede cristiana gli si schiuse­
ro nuovi orizzonti di comprensione e certezza. La storia dell'efficacia
di questa lettera - che, come riteniamo, un tempo era profondamente
inserita nell'ambito della predicazione cristiana più antica e della ri­
flessione teologica della prima chiesa - naturalmente si svolse sempre
nella tensione tra rifiuto e riconoscimento (al riguardo v. specialmente
E. Grasser).

12. Riassumendo, ricordiamo che Ebr. va intesa come testimonianza


di un cristianesimo primitivo giudeocristiano, che ha sì espresso in chiave
ellenistica l'evento di Cristo, ma intendendo lo in modo assolutamente
apocalittico. Sarà compito del commento trasformare ermeneutica­
mente tale importante conoscenza così che la struttura rivelatoria del­
l' evento renda possibile la comprensione odierna di quell'evento. In
altre parole, il mistero divino e salvifico della croce va espresso nel
linguaggio di oggi come «escatologia della croce)) eternamente valida.
Con questa espressione intendiamo il duraturo significato temporale
cd escatologico della croce, e questo in modo tale che su questa terra
la vita dell'uomo acquisti senso eterno e futuro durevole solo attra­
verso il sacrificio. Il criterio ultimo di misura per tutto questo è dato
dal sacrificio di Cristo.
In conclusione si può affermare con H. Hegermann (p. 2 5) che il
fondamento della fede e l'intento omiletico centrale dell 'anonimo au­
tore cristiano possono essere espressi con un'unica frase: non c'è altra
certezza al di fuori di quella proveniente dalla parola stessa. Il giura-
26 Introduzione

mento divino (Sal. 1 1 0,4) è l'estrema possibilità di cogliere Dio in


questa parola, e proprio in virtù di questa la promessa salvifìca deve
diventare per il credente certezza incrollabile. La fede nella misericor­
diosa rivelazione escatologica e definitiva di Dio nell'evento di Cristo
sostiene e sprona la vita dell'uomo. Tutta la profondità della riflessio­
ne sul sacrificio di Cristo sfocia così in ultimo nell'esortazione al di­
scepolo alla donazione e al sacrificio di sé.
Esordio e tema dell'omelia:
«Il Signore disse» (Sal. I 1 o, I)

L'esaltazione del Figlio è la conclusione escatologica


di un evento della parola del tempo primordiale (I, I -J )
1 Dopo aver parlato ai padri nel tempo passato più volte e in molte manie­
re per mezzo dei profeti, 2 Dio ha parlato a noi nel tempo ultimo, ai nostri
giorni, per mezzo del Figlio, che costituì erede dcii'universo e mediante il
quale creò anche i mondi. 3 Egli, che è lo splendore della sua gloria e im­
magine perfetta della sua sostanza e che con la potenza della sua parola so­
stiene l'universo, «ha preso posto alla destra» della maestà nei cieli, avendo
compiuto (per mezzo di sé) una purificazione dei peccati.
3 Sal. 110, I.

1 -3. L'esordio, di tono piuttosto solenne, affronta immediatamente


il tema del discorso omiletico: la costituzione del Figlio a dominatore
escatologico secondo il Sal. I I O. Il periodo, elaborato con la massima
cura in ogni singolo particolare, presenta con parole concise e pre­
gnanti l'importanza globale del Cristo esaltato.
La mancanza di un'introduzione vera e propria (il cosiddetto pre­
scritto) suscita tutta una serie di questioni. Forse che l'inizio origina­
rio è stato sostituito in epoca precedente al canone da questo esordio,
abilmente costruito sotto l'aspetto e linguistico e stilistico, allo scopo
di sottolineare la validità universale dello scritto ? Invece del solito for­
mulario epistolare greco ne è stato adottato un altro ? Che a un certo
momento l'usuale introduzione sia stata eliminata, per caso o inten­
zionalmente ? Che addirittura non si tratti neppure di una lettera, ben­
sì di un trattato redatto occasionalmente ? La nostra ipotesi è che ci
troviamo davanti a una predica (omelia) sul Sal. I IO riportata in forma
epistolare, di fatto destinata a una precisa comunità cristiana a cui fa
cenno il cap. 13. Come per tutte le lettere, l'indirizzo esterno è andato
perduto. L'indirizzo interno, probabilmente brevissimo, potrebbe es­
sere caduto in disuso con Vutilizzo frequente dello scritto. In modo
ancora più accentuato che in alcune epistole paoline, in E br. è eviden-
28 Ebr. I,I-J. L'esaltazione del Figlio come conclusione escatologica
te che forma e contenuto erano strettamente funzionali alla lettura da­
vanti a una determinata comunità.
L'esordio costituisce un capolavoro stilistico che la traduzione può
rendere in modo solo approssimativo (v. le cinque allitterazioni nel pri­
mo versetto). Il testo originario evidenzia inoltre uno stile con un cer­
to ritmo che nel quadro della celebrazione liturgica trasforma immedia­
tamente l'omelia in evento solenne. Questo esordio linguistico è infi­
ne una chiara prova che Ebr. , con le sue «figure di linguaggio» accom­
pagnate dalle «figure di pensiero», manifesta una certa tendenza lin­
guistica alla «prosa artistica attica», una prosa che appartiene al com­
pleto bagaglio stilistico di un cristiano erudito del mondo giudeo-elle­
nistico (cf. Filone, So mn. 1 ,22 I; Flacc. 46; Cber. I I 2 ).
1. Le riflessioni prendono le mosse dall'unico Dio della fede biblica,
autore di tutte le cose e mistero primo del mondo, certamente non pu­
ra e semplice causa o principio onnicomprensivo bensì persona onni­
potente orientata a una rivelazione verbale. Quando si sottolinea che
tale rivelazione è avvenuta «più volte» e «in molte)) maniere, ci si sof­
ferma sul suo carattere qualitativo e quantitativo, ossia sulla sua pie­
nezza infinita e le sue mille possibilità; infatti vario come la storia del­
l'umanità è anche l'agire di Dio nei confronti dell'uomo, creato me­
diante chiamata. Ma la parola di Dio non si trasfigura addentrandosi
in profondità mistiche né si espande panteisticamente nelle vastità del­
l'universo. Essa interroga sempre direttamente, ed è sempre la singola
persona a essere interpellata. Perciò vi è una storia della rivelazione e
un movimento della parola nel corso delle epoche sin «dai tempi anti­
chi))' cioè dalla preistoria. Così, per l'uomo che pensa in termini bibli­
ci, la storia della salvezza che può essere tratta dall'Antico Testamento
va vista necessariamente alla luce della riflessione e della memoria. È
la storia dei «padri» chiamati, che vengono visti tutti come oggetto
della chiamata di Dio (cap. I I). Probabilmente non si pensa a singoli
patriarchi come Abramo, !sacco o Giacobbe, bensì, in senso lato, ai cre­
denti del popolo di Dio veterotestamentario, in quanto si distinguono
dai «profeti)) ai quali spettava l'elaborazione della parola specifica. Lo
sguardo sembra appuntarsi in particolare su personaggi profetici co­
me Samuele, Elia, Isai a e Geremia, dunque su messaggeri della parola
di D io che, singolarmente e in solitudine, hanno sofferto per il loro
popolo e ad esso hanno parlato (v. anche I 1 ,32 ss.). L'autore vede la
storia della parola di Dio anche come storia dei suoi testimoni, traden-
Ebr. I,I-J. L'esaltazione del Figlio come conclusione escatologica 29

do così la propria appartenenza al popolo giudaico. Egli considera con­


cluso il tempo della testimonianza profetica della parola di Dio, così
come nella sinagoga si pensava che con Malachia il tempo della rivela­
zione dello Spirito di Dio fosse giunto a temporanea conclusione. Per
l'autore della lettera tale epoca in sostanza è remotissima. Si trattava
di un tempo in cui Dio aveva parlato solo in modo incompleto e mol­
to frammentario, forse addirittura in modo alquanto oscuro. Solo in
età più recente la storia della diretta rivelazione di un tempo è giunta
al suo fine e compimento, superando ogni evento passato: «Dio parlò
a noi nel tempo ultimo, ai nostri giorni» . Chi ascolta o legge la lettera
può considerarsi chiamato e interpellato .
.1. Ecco la novità: ora la parola è diffusa illimitatamente, ma soprat­
tutto l'evento di rivelazione si è concluso alla fine del tempo nell'uni­
co figlio (cf. Sal. I I o, I a). Alla storia della parola di Dio di prima se ne
è affiancata un'altra più completa che non può più essere superata. È
stata presa un'ultima decisione in favore dell'uomo. Il «Figlio» viene
presentato come ultimo depositario della rivelazione nella catena sto­
rico-salvifica dei testimoni profetici d'Israele. Idealmente le riflessioni
ci portano vicino all'immagine sin ottica di Mc. 1 2, I ss. («figlio», «ere­
de», citazione: Sal. I 1 8). Il concetto di «erede» è tratto per lo più da
Sal. 2, 8. Colui che Dio ha previsto dall'inizio dei tempi come erede,
quando per suo mezzo creava i «mondi» (= eoni), è anche scopo e fine
di tutte le cose e dunque contenuto vero e proprio del mistero di Dio
in questo mondo e al di là di esso (v. anche Col. 1 , 1 6). L'essenza della
fine non è altro che l'essenza dell'inizio e viceversa. Qui sembra rie­
cheggiare una tradizione confessi Ònale liturgica del primo cristiane­
simo, insieme a un tema tipico soprattutto dei discepoli di Paolo, ma
che nell'apostolo incontriamo solo occasionalmente ( 1 Cor. 8,6). Co­
lui che ha messo in moto i tempi eterni ne è al tempo stesso anche il
compimento. Dalla serie di affermazioni che seguono possiamo de­
durre con quanta insolita forza si potesse percepire il paradosso delle
idee abbozzate.
3· Il Figlio, che irradia la gloria di Dio e ne chiarisce la sostanza, che
addirittura sostiene l'universo con la forza della sua parola, ha reso
possibile la purificazione dei peccati mediante il sacrificio di sé. I sin­
goli particolari verranno esposti in un secondo tempo, ma la verità
decisiva risuona già. Si noterà che la figliolanza di Cristo è considerata
celeste per sostanza e origine. Si presenta come «splendore» della glo-
30 Ebr. 1,1-3. L'esaltazione del Figlio come conclusione escatologica
ria divina (v. le traduzioni di Sal. I I o,J b), non certamente solo come
suo «riflesso» più debole. Racchiude inoltre la riproduzione della sua
sostanza come se si trattasse di un'impronta stampata. L'evidente con­
cettualità, che presenta una certa vicinanza alla descrizione alessandri­
na filoniana del rapporto tra anima umana e logos divino (cf. ad es.
Filone, Plant. 1 8. 5o; anche Sap. 1 6,2 1), non intende affermare che nel
Figlio Dio sia palese solo approssimativamente, bensì che proprio in
lui è visibile pienamente e secondo la sua sostanza. In questo passo il
linguaggio della lettera si avvicina moltissimo alla speculazione con­
temporanea su ragione e sapienza (v. Filone, Somn. I ,23 3 ). Infine ci è
detto che il Figlio sostiene l' «universo» con la potenza della sua paro­
la. L'idea che Dio sostenga e custodisca il mondo in questo modo non
è estranea né alla letteratura rabbinica (Str.-Bill. 111, 673 ) né a Filone
(Rer. 3 6). Ciò che caratterizza la nostra testimonianza è l'esclusiva ap­
plicazione del concetto a Gesù, nel quale davvero la parola primordia­
le di Dio ha preso forma definitiva. L'idea del «sostenere» indica che
per Dio il mondo costituisce un peso ed è ricolmo di tensioni, per cui
il pericolo .e la dissoluzione incombono. Però il Figlio lo mantiene uni­
to per la sua salvezza grazie alla potente parola di Dio e ne assicura la
stabilità. La convinzione che qui affiora è estremamente salda: solo
per mezzo della parola di Dio e su Dio, così come può essere pronun­
ciata in modo adeguato unicamente con Cristo, questo mondo avrà un
futuro. Aggiungeremo anche che ciò è reso possibile solo col sacrifi­
cio che egli ha compiuto per ottenere una «purificazione dei peccati»:
il dono di se stesso. La storia di Dio con il mondo mira quindi alla
croce di Cristo, luogo della sua passione e morte. Dove apparente­
mente solo la follia e la morte hanno trionfato, in verità è stato depo­
sto un ultimo segreto. Esso verrà illustrato in tutti i suoi aspetti in ciò
che segue, sulla base della testimonianza biblica del Sal. 1 1 0. Dato che
il sacrificio del Figlio si è compiuto volontariamente e nell' obbedien­
za, egli - detto nello stile liturgico confessionale - ha preso posto «alla
destra della maestà nei cieli». L'accenno alla maestà celeste sostituisce
il nome di Dio (cf. 8, 1 ). Lo stereotipo di questa espressione lascia in­
tendere che ci troviamo di fronte a una formula, dal tono molto so­
lenne.
J>arte prima

«Siedi alla mia destra» (Sal. I I o, I )


( I ,4-4, 1 3 )

l..a maestà del Figlio innalzato è superiore alla gloria degli angeli
( l ,4- 1 4)
4 Diventò tanto più potente degli angeli, quanto è più alto di loro il nome
che ha ereditato. 5 Infatti a quale degli angeli ha mai detto: «Tu sei mio fi­
gl io, oggi ti ho generato>>, e ancora: «Gli sarò padre ed egli sarà per me fi­
glio» ? 6 Ma quando introduce (ha introdotto) di nuovo il primogenito nel
mondo, dice: «E tutti gli angeli di Dio devono adorarlo>> . 7 E un'altra vol­
ta riguardo agli angeli dice: «Rende i suoi angeli come venti, e i suoi servi­
tori come fiamme di fuoco»; 8 ma riguardo al Figlio: «Il tuo trono, o Dio,
sta in eterno>>, e ancora: «Uno scettro di rettitudine è lo scettro del suo re­
gno»; «Tu hai amato la giustizia e odiato l'iniquità». 9 «Perciò, o Dio, il tuo
Dio ti ha unto con olio di esultanza a preferenza dei tuoi compagni>>. Io Inol­
tre: «Tu, o Signore, al principio hai fondato saldamente la terra, e opera
delle tue mani sono i cieli; I I essi periranno, ma tu rimani; e tutti invec­
chieranno come un vestito, 1 2 e tu li arrotolerai come un mantello», come
una veste «saranno anzi cambiati. Ma tu sei lo stesso e i tuoi anni non a­
vranno fine». I J A quale degli angeli ha mai detto: «Siedi alla mia destra, fin­
ché non abbia reso i tuoi nemici uno sgabello ai tuoi piedi» ? 14 Non sono
essi tutti spiriti mi nistranti, inviati per prestare un servizio a coloro che
devono ereditare la salvezza ?
s Sal. 2,7; 2 Sam. 7, 14. 6 Deut. 32,43 · 7 Sal. 104,4· 8 s. Sal. � u ,7 s. 1 o- 1 1 Sal. 1 02,26 s. 13 Sal.
l 1 0, 1 .

4- 14. Conformemente alla struttura dell'omelia sinagogale, segue


immediatamente una pericope che illustra il tema dell'esaltazione del
Figlio alla destra del Padre partendo dalla Scrittura. Per l'argomenta­
zione si ricorre a una scelta di passi scritturistici, formanti una cosid­
detta «catena», che danno fondamento alle enunciazioni sostanziali
del tema. Il modo di procedere è studiato, come dimostra la scelta dei
testi che, per la riflessione cristologica della comunità primitiva, dove­
vano effettivamente avere un significato basilare. Il v. 1 3 riprende si­
gnificativamente la domanda introduttiva del v. 5 , cosicché alla fine
32 Ebr. 1,4- 1 4. La maestà del Figlio secondo Sal. 1 10

viene ripresentato intenzionalmente quel passo della Scrittura che ca­


ratterizza nel modo più completo l'esposizione omiletica. Il collage di
citazioni è introdotto da Sal. 2,7, un testo la cui particolare afferma­
zione poteva anch'essa suscitare grande interesse. Tanto più che co­
munque con il tema della «generazione» del Figlio all'interprete della
Scrittura veniva fornita una notevole omogeneità (cf. Sal. 1 I O, J C e Sal.
2,7c), che poteva indurre a fare considerazioni cristologiche. Il filo
conduttore delle citazioni bibliche è costituito dall'affermazione del v.
4, secondo il quale Cristo ha ereditato un «nome» che supera di gran
lunga quello degli angeli. Il concetto di «nome» indica complessi­
vamente la nuova dignità di Cristo perché, a differenza del pensiero
moderno, il nome racchiude al tempo stesso anche l'essenza della co­
sa nominata, in questo caso dignità e ministero. Certo, per prima co­
sa è inteso il nome di Figlio, ma non solo. La funzione è chiarita inol­
tre dai titoli «Signore», «primogenito» e «Dio». Il confronto con gli
angeli ha permesso l'elaborazione ideale della dignità di dominatore
del Figlio, unica nel suo genere, rispetto alla quale essi sono stati chia­
ramente posti in posizione subalterna come «spiriti ministranti)) . Se si
considera che questa prima serie di concetti ( 1 ,4- I 4) si aggancia diret­
tamente al v. J, e dunque che non si parla tanto di una maggior supe­
riorità di Gesù quanto della sua esaltazione e della sua intronizzazio­
ne alla destra di Dio, allora è probabile che il contenuto fosse anticipa­
to dal tema principale generale, e che quindi il Sal. I Io ne costituisca il
fondamento omiletico. È evidente che viene ulteriormente sviluppato
un ragionamento ben preciso. Nulla fa pensare a una specifica disputa
sugli angeli, suscitata dalla situazione generale o particolare della co­
munità. È più plausibile che l'interpretazione di Sal. r r o, J , se lo si ri­
ferisce all'intronizzazione del Signore escatologico, sia applicata alla
corte celeste che entrerà in azione nel giorno del giudizio. La comuni­
tà primitiva ha sempre compreso l'esaltazione di Cristo in maniera fun­
zionale come insediamento nell'ufficio di giudice alla fine dei tempi. E
questa concezione è presente anche in 1 ,6 ss. Che nella chiesa delle
origini l'interpretazione di Sal. 1 r o, J vertesse sul potere di Gesù, mag­
giore di quello degli angeli, emerge anche da Ef 3,20 ss. e da 1 Pt. 3 ,22.
Tale interpretazione sorgeva senz'altro laddove non solo venivano esi­
bite delle citazioni, ma se ne prendevano in considerazione anche il
contesto e il nesso logico spirituale. Ragion per cui vanno sottolineati
anche gli stretti contatti sostanziali con il cosiddetto inno cristologico
Ebr. 1 ,4- 1 4. La maestà del Figlio secondo Sal. 1 Io 33
di Fil. 2, 5 ss. L'affinità con Paolo è indiscutibilmente stretta. Se si pen­
sa che era in gioco l'importanza teologica della morte in croce di Ge­
sù, che urgeva sviluppare in modo attendibile, allora si spiega in modo
del tutto ovvio l'alto interesse omiletico per il Sal. I I o, interesse qui
evidente. D'altro canto questo salmo, probabilmente già nel giudai­
smo dell'epoca, aveva assunto una certa importanza kerygmatica nella
fondazione e, in particolare, nella formulazione dell'attesa messianica
(v. Str.-Bill. IV, I , 4 5 2 ss.), alla quale poteva ora agganciarsi la comunità
primitiva; né è escluso che lo stesso Gesù non vi sia ricorso per giusti­
ficare biblicamente la singolare comprensione di sé come Figlio del­
l'uomo (Mc. I 2, J 5 ss.; I4,62). Il fatto sorprendente che l'antica sinago­
ga dei primi tre secoli d.C. non abbia lasciato alcun documento relati­
vo all'interpretazione messianica del salmo, prima sicuramente diffu­

sissima, si spiega allora con una ferma opposizione a questa dimostra­


zione biblica, fondamentale per la fede cristiana delle origini. N ella lo­
gica del periodare il v. 4 fa ancora parte dell'esordio, ma da un pun­
to di vista sostanziale e concettuale punta già verso una direzione nuo­
va. Sulla base del Sal. I ro, l'intento dell'esposizione mira ora natural­
mente a descrivere il Cristo esaltato. La riflessione si sposta dalla men­
zionata maestà di Dio alle potenze celesti. In quanto esseri intermedi
tra la regione terrena e quella celeste, era loro attribuita grande impor­
tanza nella concezione dualistica del mondo propria del giudaismo
ellenistico e palestinese di allora. L'abbondanza d'idee era inoltre ter­
reno fertile per speculazioni selvagge. Nello stile preferito di Ebr. , il
periodo inizia subito con un confronto. Abbiamo accennato al singo­
lare modo dell'autore di pensare per confronti e proporzioni. Il «Fi­
glio» è superiore, o meglio più potente degli angeli, quanto maggiore
è la dignità (= «nome») attribuitagli. L'affermazione mira al momento
dell'intronizzazione. Previsto fin dal principio come erede e costituito
tale per testamento (v. 2) , con il proprio docile sacrificio, che ha reso
possibile una purificazione totale dei peccati, egli ha dunque ottenuto
definitivamente il possesso della sua «eredità» alla fine dei tempi, ere­
dità che sta ora difendendo dali' opposizione dei nemici grazie alla
propria posizione (v. I 3). Gli enunciati lasciano trasparire una notevo­
le posizione di tipo adozionista, nonostante si conosca e si ribadisca la
prcesistenza del Figlio. Proprio come in Fil. 2,9 o in Rom. I ,4, questa
riflessione non prevede un processo salvifico in cui quanto era stato
p revisto si è compiuto automaticamente, secondo una pianificazione
34 Ebr. I t4- 1 4. La maestà del Figlio secondo Sal. 1 10

eterna, ma si sforza di riflettere sul vero motivo dell'esaltazione che è,


prima di qualsiasi altra cosa, la verità storica del Crocifisso. La predi­
cazione apostolica non ha mai semplicemente affermato apodittica­
mente o declamato qualcosa, ma ha sempre interpretato e argomenta­
to. Lo stesso avviene in questo testo, in primo luogo con ampie cita­
zioni bibliche.
5· Come prima serie abbiamo Sal. 2,7 collegato a 2 Sam. 7 , 1 4. In
entrambi i casi il concetto di fi g lio è al centro di un discorso e di una
promessa straordinari di Dio. f. probabile che attraverso Sal. I x o,3 :
«generato prima dell'aurora», messo in relazione con Sal. 2 : «oggi ti
ho generato», per motivi di combinazione giustificati dalla tecnica in­
terpretativa, dalla citazione emerga la certezza del significato messia­
nico dell'affermazione, che prima di allora, ovviamente, era applicata,
secondo una visione comune a tutto l'Oriente, all'insediamento sul tro­
no del re israelita, il quale sapeva di essere «figlio)) del suo Dio. Già in
epoca precristiana il pensiero biblico metteva in relazione il salmo con
l'atteso re messia e salvatore (cf. Ps. Sal. 1 7,2 1 ss.). Di conseguenza an­
che il cristianesimo delle origini si richiamò decisamente a questo
fondamentale testo cristologico per vedervi preannunciato il battesi­
mo (A tti 4,2 5 ss.; Le. 3 ,22D) o la risurrezione (Atti I 3,3 3), non tanto la
nascita di Cristo (cf. anche Apoc. I 2, 5; Iust., Dial. 8 8,3 . 8; IOJ ,6; Ev.
Eh. ecc.), che in un primo tempo non destò alcun interesse teologico.
Accanto alla possibilità di un'allusione all'esaltazione pasquale si po­
trebbe prendere in considerazione l'ipotesi che Ebr. pensi a una « ge­
nerazione» pretemporale (cf. Sal. 1 x o,J), perché in ciò che segue si fa
cenno al «primogenito)). L' «oggi>> sarebbe allora riferito all'inserimento
del Preesistente nel mondo. In Ebr. tutta l'enfasi è posta sull'espressione
«tu sei mio figlio)) . Il seguito della frase non è affatto esibito per pura
forza dell'abitudine. Da esso infatti si poteva ricavare qualcosa di più
preciso riguardo al rapporto del Figlio con il Padre. Perciò la frase «og­
gi ti ho generato)) veniva indubbiamente riferita a un particolare atto
di elezione (v. anche a 5,6). L' «io)) sottolinea, nell'ascolto della chiesa
delle origini, la volontà assoluta di Dio di rivelarsi in questo Cristo. Se
l'autore presuppone una tradizione più antica, come accade per la
tradizione sinottica del battesimo di Gesù, allora l' «oggi)) mira pro­
babilmente, come in 3,7 e 4,7, al tempo della salvezza inaugurato con
Gesù. Questo offrirebbe al tempo stesso una spiegazione del perché
nel v. 6 all' «introduzione» più antica ne venga affiancata una «secon-
Ebr. 1 ,4 - 1 4. La maestà del Figlio secondo Sal. I Io 35
da» con il ritorno escatologico del Figlio. Segue la citazione ulteriore
di 2 Sam. 7, 14. La profezia di Natan poteva essere applicata senza
difficoltà al promesso re davidico degli ultimi tempi, come dimostra
anche la setta essena di Qumran (4QFlor). In questa seconda citazio­
ne complementare l'accento è posto sulla conclusione, «Egli mi sarà
figlio». In questo modo si ottiene esattamente la figura retorica giu­
daica del parallelismo antitetico. Essa sottolinea l'argomentazione se­
condo la quale a nessuno degli angeli è stato mai rivolto tale titolo e
tale promessa. Anche se l'Antico Testamento più volte presenta gli an­
geli come «figli di Dio» (Gen. 6,2.4; Sal. 5 8,1 LXX; 8 9,7; Giob. 1 ,6; 2,
1 ; 3 8,7), tuttavia il pensiero dei traduttori successivi, soprattutto dei
LXX, ai quali Ebr. si aggancia, non ha potuto ammettere tale fatto per
fedeltà a uno spiccato monoteismo. Si avevano allora tentativi d'inter­
pretazione diversa, oppure si sceglievano nuove formulazioni. Come
afferma giustamente la domanda introduttiva, a nessuno degli angeli è
stato mai concesso un rapporto con Dio così unico nel suo genere.
6. Nel seguito viene illustrata, a partire dalla Scrittura, non la rela­
zione tra Padre e Figlio, bensì quella tra il Figlio e gli angeli; il ragio­
namento si sviluppa partendo dal primo per passare poi ai secondi.
Deut. 3 2,43 (nella versione sintetica dei LXX) serve a dimostrare che il
Figlio, messo in risalto come «primogenito» probabilmente per la sua
elezione pretemporale, quando è «nuovamente introdotto» nel mon­
do viene adorato da tutti gli angeli. Della prima «entrata» nel mondo
tratta significativamente anche 1 o, 5 . Il testo presente si raffigura la
comparsa del Figlio nel momento dell'imminente seconda venuta che,
come era convinzione generale nei primi tempi del cristianesimo, av­
verrà nella gloria delle schiere angeliche celesti (cf. Mc. 1 3 ,26; Mt. 24,
30; Le. 2 1 ,27; 2 Tess. 1 ,7 ecc.; cf. anche Hen. aeth. 1,4). Ci si può chie­
dere in che misura essa sia considerata già avvenuta con l'esaltazione,
in quanto nella formulazione alcuni punti restano oscuri. Ad ogni modo
essa ha luogo nel mondo su cui il Cristo esaltato regnerà dopo aver
preso possesso della propria eredità (al riguardo v. Sal. 9 8,7.9) . È pos­
sibile che la definizione «primogenito» sia giustificata con Sal. 89, 2 8 ,
importante per l e frasi riferite a Davide. Deut. 3 2 descrive l'ultima ri­
velazione di Dio nel giudizio, e sotto questo aspetto anche da un pun­
to di vista materiale e concettuale si presenta in particolare come pro­
va scritturistica. N el complesso è chiaro che quanto esposto, in modo
più accentuato rispetto a quanto lasciano intendere le citazioni, presen-
36 Ebr. 1 ,4- 14. La maestà del Figlio secondo Sal. I Io

ta una gran quantità di riferimenti alla Scrittura che mettono alla pro­
va l'erudizione dell'autore.
7· Il v. 7 prosegue nella descrizione delle funzioni celesti subordina­
te degli angeli; si ha la citazione di Sal. 1 04,4, il grande inno della crea­
zione, che esordisce illustrando la maestà celeste di Dio. La congiun­
zione «e» posta all'inizio del versetto, insieme al «ma» che segue al v.
8, intende accentuare il contrasto tra la posizione del Figlio e quella
degli angeli, che sono semplicemente spiriti ministranti della creazio­
ne. L 'immagine che paragona gli angeli ai «venti» e alle «fiamme di
fuoco » non ha certo intenzione di equipararli alle forze della natura,
di cui parla il testo ebraico originale, ma indica che il loro compito
consiste in una solerte operosità, e che la loro sostanza dipende inte­
ramente dalla decisione di Dio.
8. Tutt'altro la posizione e la funzione del Figlio (v. 8: «ma»)! Il suo
trono, quindi il suo compito di dominatore, durerà in eterno, come
prova Sal. 4 5 ,7 s ., che è riportato tanto diffusamente soprattutto per­
ché l'invocazione «O Dio» si adattava in modo particolare a un'inter­
pretazione applicata alla posizione unica di Cristo. Il Sal. 4 5, compo­
sto come inno di nozze per un re israelita, in un secondo tempo era
stato probabilmente compreso in senso messianico, interpretazione a
cui poteva dar luogo il v. 8b. I versetti potevano essere compresi come
se si stesse parlando del trono di Davide, benedetto da Dio e che re­
sterà in eterno perché su di esso infine sederà il messia. A tale concet­
to ben si adattava anche il seguito, «il Signore, il tuo Dio, ti ha consa­
crato» . Come nel caso di Sal. 2,7 e 1 ro, r , anche Ebr. pensa a un dialo­
go tra il Padre e il Figlio, qui elevato da Dio al suo stesso livello. Per
l'autore della lettera, a questo punto la Scrittura mostra l'atto della
consegna del regno. Dio stesso assegna a Cristo la signoria eterna sul­
l'universo, e definisce il suo scettro uno scettro che incarna la giustizia
incorruttibile, una «verga di rettitudine» (cf. al riguardo «verga di po­
tere », Sal. I r o,2a). La sua grandezza di giudice presuppone una dimo­
strazione personale: egli ha amato la giustizia e odiato l'iniquità.
9· Il v. 9 spiega meglio questo concetto. Proprio per questo motivo
Dio lo ha consacrato con l' «olio dell'esultanza di salvezza». Cristo si
è distinto nell'operato terreno, perciò ha potuto essere innalzato e al
tempo stesso ricevere l'acclamazione giubilante dei «compagni» ce­
lesti, ossia degli angeli. Certamente essi sono spiriti ministranti, ma
oltre a ciò il loro compito è anche quello di glorificare Dio in eterno.
Ebr. 1 ,4- 14. La maestà del Figlio secondo Sal. 1 10 37
10. Come ulteriore testimonianza sul Figlio segue immediatamente
la citazione di Sal. 1 02,26 s., in assoluto la più estesa di tutta la raccol­
ta. Anch'essa viene intesa come se si trattasse di parola rivolta a Cri­
sto, in cui stavolta compare l'appellativo «o Signore»; nella compren­
sione di Ebr. essa conferma il ruolo creatore primordiale del Figlio
(cf. I,2), il quale ha fondato il mondo (cf. Gen. I,7) e del quale i cieli
sono l'opera.
1 1 s. Ma mentre tutto il creato passa, egli, l'Eterno, resta, non sfio­
rato dalla caducità e dalla fugacità del tempo. Colui che esiste dal prin­
cipio può essere compreso soltanto come colui che è in eterno. Ciò
che nel salmo originariamente valeva per la lode alla maestà sovrana del
Dio che ha fatto il mondo, ma lo può anche usare e gettare come un
vestito vecchio e logoro, è ora visto come parola divina rivolta al Fi­
glio. La lieve variante della versione dei LXX può essere fatta risalire
all'influsso di /s. 34,4. La menzione del «principio» (così i LXX) ri­
porta alla memoria Gen. 1 , 1 . L'impiego in Ebr. mostra quanto il pen­
siero cristiano delle origini potesse dedurre in modo diretto e imme­
diato il ruolo creatore universale del Cristo preesistente. E in questo
ovviamente l'impiego dei passi scritturistici non è avvenuto secondo
una selezione casuale, bensì interamente secondo principi ben precisi.
1 3 . La scelta delle citazioni scritturistiche, per quanto ogni volta ini­
zino significativamente con un predicato riferito a Cristo, passa coe­
rentemente per gli appellativi di Figlio, Dio e Signore, per giungere
sino a Sal. I I o, 1 così da citare per ultimo proprio questo passo bibli­
co, a dimostrazione di una posizione assolutamente unica della digni­
tà del Figlio. La spiegazione del salmo costituisce il compito omiletico
vero e proprio della lettera. Le idee ritornano in ogni forma al fonda­
mento omiletico. Di fatto è vero che Cristo, il Figlio ed erede, ha as­
sunto una posizione unica presso Dio. Al tempo stesso si prepara un
altro evento immane: la sottomissione finale dei nemici di Cristo, per
la quale Dio è all'opera in favore del Figlio ( I o, I 2 ss.), così come in
tale occasione addirittura lo «introduce>> (v. 6). Non si può evitare di
cogliere già in questa citazione un tono ammonitore. Più oltre se ne
parlerà più diffusamente.
14. Nel dipanarsi del ragionamento segue dapprima un temporaneo
riassunto: «Non sono dunque tutti gli angeli spiriti ministranti ?» (per
tale espressione cf. Filone, Virt. 7 4). A dire il vero si dovrebbe poi pro­
seguire così: e non è forse il Figlio più potente di tutti loro ? Ma poi-
38 Ebr. 2, 1 -4. Consegu enze pratiche
ché questo è già stato chiarito, viene inserita un'aggiunta il cui tema
consente di passare a un nuovo pensiero. Mediante la parola «eredita­
re», improvvisamente è la comunità a porsi in primo piano; infatti il
mondo celeste non esiste perché Dio si trasfiguri, ma per servire l'uo­
mo che ha bisogno della salvezza e che può esserne reso degno. Come
Cristo ha offerto un proprio sacrificio corporeo, così anche gli spiriti
celesti sono chiamati a un servizio e a un impegno di sacrificio. Come
il Padre è venuto in aiuto a Cristo nel suo compito ultimo, così anche
gli angeli sono destinati a un servizio di aiuto. Coloro che erediteran­
no la salvezza sono gli stessi che la «devono» ereditare.

La grandezza dell'evento impone dedizione estrema


alla parola udita (2, 1 -4)
1 Perc i ò è nec ess ari o prestare un'attenzione del tutto parti colare a ciò che
abbiamo udito per non sbaglia re la rotta. 2 Infatti, se (già) la parola pro­
nunciata per mezzo degli angeli aveva un valore tanto assoluto che ogni tra­
sgressione e disobbedienza ricevette la pu nizion e (= ricompensa) adeguata,
3 com e potremo scamparvi noi se trascuriamo una salvezza così grande ?
Essa ebbe inizio nella predicazione del Signore e venne confermata qui, in
mezzo a no i , da coloro che l'avevano udita, 4 ment re Dio al tempo stesso
testimoniava (d el la sua verità) con segni e p rodi gi e miracoli d'ogni genere,
e � oni dello Spirito santo, elargiti secondo la sua (lib era) volontà.
1 -4. Ebr. trae energicamente le conseguenze pratiche necessarie, poi­
ché ritiene fermamente che la fede cristiana determini in modo decisi­
vo la condotta da tenere volta per volta. L'intento che si celava dietro
le riflessioni di 1 , 5 - 1 4 trova ora per la prima volta espressione ed è, in
ultima analisi, identico allo scopo dell'omelia (cf. I 0, 1 9- 1 2, 29) .
Dal punto di vista formale, a un'unica frase di energica esortazione
(2, 1 ) si aggancia una motivazione relativamente ampia (2,2-4). Sotto
l'aspetto contenutistico e concettuale risuona nuovamente, con più ri­
gorosa concentrazione, quanto già affermato in precedenza. Se 1 , 1 4
trattava degli angeli che vengono inviati per coloro che devono eredita­
re la «salvezza», la pericope attuale chiarisce che o ccorre mettere ogni
impegno e cura per non rischiare di giocarsi sconsideratamente tale
«salvezza» (2,3 a). Idealmente si procede in modo da mettere a con­
fronto l'antica alleanza con la verità neotestamentaria (v. anche 1 2, 1 8
ss.). D al punto di vista tematico, la riflessione si inserisce nell'alveo
Ebr. 2., 1 -4. Conseguenze p ratiche 39
comune soprattutto perché vengono ancora menzionati gli angeli.
Inoltre, l'impiego del «noi» comunicativo mette l'accento su un modo
di procedere che deve essere necessariamente comune. L'oratore, per
pura sensibilità pastorale, si associa alla comunità perché evidente­
mente nella situazione contingente di prova gli preme non tanto im­
porsi con determinatezza, quanto dichiararsi solidale con la chiesa a
lui legata. È probabile che abbia in mente una comunità liturgica piut­
tosto grande, e a favore di tale ipotesi c'è l'esortazione ad applicarsi
con più impegno alle «cose udite» . Se abbiamo visto giusto, allora l'af­
fermazione non si riferisce a una conoscenza catechetica precedente,
ma alla sezione omiletica della lettera appena esposta, collegata alla re­
l ativa lettura della Seri ttura.
1. Se Dio invia addirittura le potenze celesti per aiutare gli uomini a
conseguire la salvezza eterna, questi, dal canto loro, non devono certo
persistere in un atteggiamento passivo. Se si è mosso il cielo, allora
devono esserne afferrati e determinati coloro che sono a conoscenza
della maestà di Dio grazie alla grandezza della sua azione salvifica. È
accaduto qualcosa di unico e irripctibile, fuori dell'ordinario, e quindi
i cristiani sono vivamente esortati ad applicarsi con maggior impegno
alla verità loro affidata. Si può «mancare» lo scopo passando oltre senza
accorgersene, come una nave che per sbadataggine dell'equipaggio ol­
trepassa il porto sicuro e riparato. Probabilmente, con il tipico concet­
to del «passar oltre» è rievocata un'immagine spesso impiegata nella
riflessione filosofica di un certo livello (cf. Filone a 6, I 9 ), anche suc­
cessivamente nella predicazione della chiesa, immagine che paragona
l'esistenza dell'uomo alla vita su un mare in tempesta, e la meta a un
porto di riparo, mentre più volte si parla del «porto di quiete» (ad es.
Clem., lac. 1 3 ss.; Const. Ap. 2 ,5 7,2 ss.; Giuseppe, 4 Macc. 7; 4 Esd. 1 2,
42). Anche Filone (Sacr. 89) può esprimersi in modo simile, pur para­
gonando il «porto di quiete» che deve essere raggiunto nell'infuriare
della tempesta alla «salda posizione» della conoscenza religiosa e della
virtù morale.
2. In Ebr. la meta si identifica con la salvezza eterna, vista come un
qualcosa del prossimo futuro. Chi la perde si espone a un giudizio la
cui inesorabilità è sottolineata con una conclusione a minori ad maius
(dal minore al maggiore). La rivelazione della «parola» annunciata sul
Sinai non è attribuita direttamente a Dio, bensì agli angeli (cf. già D eut .

3 3,2; Targ. Onq. Deut. 33,2; Giuseppe, Ant. 1 5 ,5,3 ; Atti 7,3 8 . 5 3 ; Gal.
40 Ebr. 2, 1 -4. Consegu enze p ratiche
), 1 9). Anche il pensiero rabbinico si è ampiamente occupato delle cir­
costanze della rivelazione sul Sinai ( Es. 1 9,90 ss.; 20, 1 8; cf. al riguardo
Filone, Dee. 32 ss.). A differenza di Paolo, Ebr. si esprime in termini
neutrali riguardo al valore della parola di rivelazione promulgata in tale
occasione, allo scopo di evidenziarne la validità assoluta. L'immagine
della «solidità» della parola di Dio emergerà poi più volte nel corso
della lettera (cf. 3,6. 1 4; 6, 1 9; 9, 1 7; 1 3 ,9), essendo un tema ricorrente del­
la tradizione biblicamente orientata (Rom. 4, 1 6; 2 Pt. 1 , 1 9; Filone, Mos.
2, 1 4). La solidità della parola di Dio e la santità assoluta della volontà
che in essa si esprime si condizionano fortemente a vicenda. Perciò in
seguito verrà sottolineato l'assoluto carattere punitivo della conclusio­
ne dell'alleanza: infatti ogni «trasgressione» e «disobbedienza» - com­
messe dal popolo dell'esodo - ha ricevuto la giusta punizione (cf. Es.
1 7,7; Num. 20,2- 5 ; inoltre Ebr. 3,7 ss.; 4, 1 1 ; 1 2, 2 5 ). «Trasgressione» e
«disobbedienza» contraddistinguono il comportamento dell'ebreo che
disprezza la legge.
3· Ma finirà molto peggio per ·c oloro che per indifferenza o sbada­
taggine trascurano l'offerta della salvezza eterna. Con la massima in­
sistenza qui, come in 1 Cor. 1 0,6 ss., si ricorda che la vicenda dell' eso­
do costituisce per «noi» cristiani un esempio ammonitore. L'autore di
E br. , insieme alla sua comunità, è cosciente di essere alla fine di un'e­
poca cruciale, nella quale l'alternativa tra giudizio o salvezza si pone
in modo inesorabile e definitivo. È inconcepibile che davanti a tale real­
tà gli uomini possano cadere nella noncuranza e indifferenza per l'an­
nuncio. La proclamazione della salvezza, in fondo, è partita non dagli
angeli ma dal Signore stesso, dunque dal Cristo terreno che ora è il
Figlio innalzato. Va aggiunto che la comunità interpellata può richia­
marsi direttamente a individui che hanno ascoltato di persona il Si­
gnore terreno. L'autore stesso deve a questi discepoli e testimoni la
promessa della propria «salvezza». Insieme alla comunità ripensa alla
credibilità assoluta di quanto è stato detto. Personalmente egli non
parrebbe essere stato discepolo del Gesù terreno. N o n può richiamar­
si a un'esperienza diretta del Cristo come Paolo, benché si possa sup­
porre che sia stato molto vicino ai portatori apostolici dell'annuncio, a
coloro che avevano potuto ascoltare il Gesù terreno.
4· Oltre all'affidabilità degli apostoli vi è stato qualcos'altro che
infine gli ha dato la certezza decisiva, come dimostra nella frase con­
elusiva, in forma di confessione, l'accento posto sull'esperienza che
Ebr. 2,5 - 1 8. La signoria universale di Gesù 41
f)io inoltre «testimoniava>> agendo i n molti modi. L a ricchezza di quan­
to ha sperimentato, nonché l'impressione che ne ha tratto, trovano
espressione in un elenco di fatti via via più meravigliosi, tanto che è
opportuno considerare anche la ripetizione della congiunzione «e».
Al di là di quanto espresso a parole, la dimostrazione si rifà alla parola
«attiva» in vari modi, che non solo si lascia dietro una grande impres­
sione ma - essendo coinvolto Dio - provoca sempre anche «effetti» sor­
prendenti. N el caso presente colpisce che oltre a «segni», «prodigi» e
« miracoli» vengano menzionate soprattutto anche esperienze carisma­
tiche e doni che indubbiamente rimandano all 'epoca del primo cri­
stianesimo. Gli ascoltatori sono a conoscenza di questo fatto notevo­
le, che a buon diritto corona l'argomentazione fornita. Quando si sot­
tolinea con energia che Dio distribuisce i doni dello Spirito secondo
<� la sua volontà», vien da pensare a frasi paoline analoghe (cf. 1 Cor.
1 2, 1 1 ; 2 Cor. I O,I J). Lo Spirito santo non si presenta dunque come un
privilegio cui hanno accesso pochi eletti, ma è dato da Dio alla comu­
nità a sua libera discrezione (cf. anche 1 Cor. 1 2 ) . L'evidente varietà di
segni e manifestazioni pneumatiche avvalora un operato credibile. Di­
versamente dal primo secolo ormai sul finire, la ricchezza di tali mani­
festazioni straordinarie non solleva ancora dubbi. Anzi, è proprio l'ab­
bondanza di ciò che si è sperimentato che viene considerata una prova
di verità del fatto stesso (cf. Rom. 1 , 19; 2 Cor. 6,7; 1 2, 1 2; Gal. 3 , 2 ecc.).
Da qui nasce l'energica esortazione a volgere ogni attenzione alla sal­
vezza resa possibile da Cristo.

La signori a universale di Gesù e il suo ministero sacerdotale


poggiano sulla sua umiliazione assoluta ( 2, 5 - 1 8 )

2, 5 segna una netta cesura. Al breve discorso esortativo fa seguito


una nuova spiegazione essenziale della posizione di signoria universa­
le di Gesù. Ovviamente la comprensione del contesto non è affatto fa­
cilitata se - come proposto di quando in quando - si collegano i vv. 5 -
H b all'avvertimento dei vv. 1 -4. I n tal caso l'argomentazione sostiene
che nel v. 3 l'autore parla ancora della «salvezza» e che per questo ora,
in modo manifestamente analogo, tratta del «mondo futuro». Chi vi
aspira non può ispirarsi agli angeli, i quali (secondo la generale con­
vinzione del primo giudaismo) dominano sì la terra con i suoi popoli
c nazioni, ma non il mondo futuro. Di fatto però, diversamente da
4 .2. Ebr. 2, 5-1 8. La signoria universale di Gesù
quanto presuppone tale comprensione, nella sua struttura logica il te­
sto analizzato guarda in avanti, ed è palese che con esso viene ripreso
nuovamente il tema principale, ossia la testimonianza della signoria
universale del Cristo innalzato. In questo senso anche la seconda par­
te della frase («del quale stiamo parlando») dovrebbe essere abbastan­
za convincente. Si aggiunga l'affermazione del v. 8 b, che prosegue nel
ragionamento vero e proprio e che per giunta alla fine riprende il testo
della citazione in modo tale da tralasciare significativamente Sal. 8,7a.
Solo nel seguito si affronta il problema, introdotto dalla citazione,
della temporanea umiliazione di Cristo (vv. IO ss.). Esso è dapprima
anticipato nel v. 8b, ove si dà spazio all'obiezione critica per cui noi
«ancora non» gli vediamo sottomessa ogni cosa. Questa circostanza
inquietante viene chiarita nel senso che Cristo dovette essere portato
all'umiliazione estrema per essere interamente legato agli uomini nella
morte e diventare così autore della loro salvezza (v. I o). Infine, noi
siamo chiamati «figli» da Dio, come anche Gesù è il «Figlio>> . Nella
condotta di quest'ultimo dunque è documentata la realizzazione di un
servizio «fraterno» (vv. I I ss.). In ultimo, si trattava di ridurre all'im­
potenza la morte per conseguire la liberazione degli uomini, resi
schiavi dal nemico (vv. 14 ss.). Nella stessa linea di 2, 5 il v. 1 6 ripren­
de ancora una volta di sfuggita quella che è stata fino ad ora l'immagi­
ne guida: Cristo dovette prendersi cura non di loro, degli angeli, bensì
della «stirpe di Abramo», cioè degli uomini, e questo «rendendosi si­
mile» a loro e mediante la sofferenza. Il pensiero dell'autore si è ora
definitivamente spostato su un tema diverso. Il concetto principale di­
venta allora quello del «sacerdozio di Gesù» (secondo Sal. 1 IO,J ).
L'argomentazione della pericope, svolta in modo estremamente coe­
rente, a nostro parere non tralascia alcuna questione. Relativamente
alla costruzione del testo omiletico si potrebbe osservare che a quanto
pare il Sal. I IO è spiegato per ordine e alquanto sistematicamente. Fuor­
viante si dimostra la spiegazione secondo la quale certe false conce­
zioni dei lettori sugli angeli vanno tolte di mezzo. È vero invece che è
il testo biblico di base a determinare il corso del ragionamento. Per
approfondire ulteriormente il tema dell' «esaltazione di Cristo» ci si
rifà a Sal. 8,6-7, la cui citazione si è offerta in particolare per associa­
zione - secondo le regole della riflessione rabbinica - sia materialmen­
te {incoronazione del Figlio dell'uomo) sia per via del testo (cf. «sotto
i suoi piedi» con 1 , 1 3). Oltre a ciò, la nuova catena di citazioni dei vv.
Ebr. 2., J - I 3 . Rappresentante del genere umano 43
r 2 ss. è altrettanto notevole per la tecnica di procedimento quanto lo è
nel v. 8 la conclusione al contrario («non... nulla») e il conciso riassun­
to della pericope.

Per breve tempo Gesù è stato umiliato per amore dei fratelli
(2, 5 - I J )
s Infatti non sottomise ad ange li i l mondo futuro del quale stiamo parlan­
do ( 1 ,6). 6 Anzi qualcuno da qualch e parte ha testimoniato e detto: « Ch e
cosa è l'uomo p erché ti ricordi di lui ? O il Figlio dell'uomo p erché tu te ne
curi ? 7 Tu lo umiliasti per un breve tempo di fronte agl i angeli; di gloria e
di onore lo hai coronato, 8 tutto hai posto sotto i suoi pi edi » . «Sottopo­
nendogli tutto» infatti, non gli lasciò nulla di non sottomesso. Ora però noi
ancora non vediamo che tutto gli « è sottomesso)) . 9 Ved i amo anzi colui «che
per breve tempo è stato umiliato di fronte agli angeli», cioè Gesù, «incoro­
nato di gloria e di onore» a causa della morte che ha sofferto, perché per la
grazia di Dio provasse la morte a favore di ciascuno. 10 I nfatti ben si addi­
ceva a colui per il quale e dal quale sono tutte le cose che rendesse perfetto
mediante la sofferenza colui che ha condotto alla gloria molti figli ed è au­
tore della loro salvezza. 1 1 Infatti colui che santifica e coloro che sono san­
tificati provengono tutti da una stessa origine, per questo non si vergogna
di chiamarli fratelli, 12. quando dice: «Annunzierò il tuo nome ai miei fra­
telli; in mezzo all'assemblea canterò le tue lodi». 1 3 E ancora: «Porrò in lui
la mia fiducia». E i noltre : «Eccomi, io e i fi gli che Dio mi ha dato».
6-8 Sal. 8,5 -7 (eccetto 8,7a). 8 s . Sal. 8,6 s . 1.1 s . Sal. 2.2.,23. 1 3 a /s. 8,17 e 2 Sam. 2.2,3 . 13h fs.
X , I 8.

A quale scopo il tono così grave ed energico dell'esortazione ? Gli



ascoltatori sono invitati a riflettere sull'unicità dell'evento. In qualun­
que momento la loro fede sia in crisi per una qualsiasi circostanza,
ogni volta essa deve rafforzarsi nel convincimento che Dio ha sotto­
rnesso il mondo futuro non ad angeli, ma al Figlio. N o n bisogna sof­
fermarsi a riflettere su questioni riguardanti il futuro o l'aldilà, sulle
quali si potrebbe speculare. Si tratta piuttosto di un fatto che coinvol­
ge l'uomo. Come lascia intuire l'uso senza articolo di «angeli», un pun­
to di vista si contrappone all'altro. L'autorità massima è conferita al
Figlio in quanto rappresentante del genere umano. Ogni cosa giunge
al suo compimento non in un numero infinito di potenze angeliche,
ma in quell'unico essere che si è già assiso accanto a Dio, per cui an­
che ciò che rientra nel futuro è già adesso oggetto di decisione e per-
44 Ebr. 1, S - I 3 . Rappresentante del genere umano
scvcranza. Invece di nominare subito Cristo, in un primo tempo Ebr.
si accontenta di una constatazione negativa secondo la quale il mondo
futuro non è sottomesso a degli angeli. Con ciò la questione Cristo
resta volutamente ancora aperta. Gli ascoltatori debbono aprirsi ad
altri importanti pensieri. Ciò a cui mira l'autore non è un discorso de­
clamatorio, ma un'omelia ricca di argomentazioni che sappia attirare
gli interpellati fuori dal loro distacco speculativo. In un certo senso vi
è la consapevolezza di aver instaurato un dialogo, per cui si afferma:
«di cui stavamo parlando». Per il predicatore e la comunità la questio­
ne cruciale riguarda la redenzione escatologica, di cui esiste una testi­
monianza superiore. L'aspettativa dell'autore sembra rifarsi al pensi e ­
ro giudaico per quanto riguarda la speranza in un mondo rinnovato,
trattando però tale attesa in termini ellenistici. Letteralmente il testo
parla della «ecumene futura», e lo sguardo chiaramente si volge a un
mondo trasfigurato, liberato dai nemici di Cristo (cf. Sal. I I o, I ) , che
ha il suo centro a Si o n (cf. Sal. I I 0, 2 ; cf. I 2, I 8 ss.). Il linguaggio evi­
denzia un contesto messianologico protogiudaico, significativo per il
pensiero dell'autore.
6. La signoria di Cristo viene illustrata nel seguito da una seconda
citazione tratta dal Sal. 8. Anche qui si afferma che «ogni cosa è sot­
tomessa ai suoi piedi» (cf. I , I J). Questo passo viene presentato solen­
nemente come «testimonianza». Quindi non si tratta di un comune
discorso in cui «qualcuno» parla di una cosa qualsiasi, ma piuttosto di
una manifestazione diretta dello Spirito di Dio. Ed è del tutto secon­
dario sapere a chi Dio ne ha fatto dono. L'introduzione della citazio­
ne, che a prima vista può sembrare strana, si ritrova spesso anche in
Filone come formula fissa (Ebr. 61; Agric. 5 1 ; Plant. 1 3 8; Conf 39;
Somn. 1 , 1 50 e molti altri). L'evidente indeterminatezza dell'espressio­
ne si spiega col fatto che pensando a un concetto superiore d'ispira­
zione («testimoniare»), ogni particolare secondario è stato intenzio­
nalmente messo da parte. Anche il luogo in cui si trova il passo biblico
può essere omesso, in quanto le circostanze che lo accompagnano
passano in secondo piano rispetto al discorso stesso. Questo infatti è
insolitamente sufficiente. Essendo attestazione dell' «uomo», anzi del
«figlio dell'uomo», per l'istruito autore della lettera, e forse anche per
la chiesa primitiva, esso non parla di un qualsiasi rappresentante del
genere umano, ma del concetto stesso di umanità: ecce homo! Vi è for­
se un uomo tanto misero e disprezzato da essere dimenticato da Dio ?
Ebr. 2, 5 - 1 3 . Rappresentante del genere umano 45
Esiste il «figlio dell'uomo» da cui Dio distoglie lo sguardo ? Assolu­
tamente no. Egli dovette soffrire più profondamente di qualsiasi altro
la solitudine e lo smarrimento dell'uomo.
7· Perciò Dio ha pensato a lui in modo unico. Benché per breve tem­
po reso inferiore agli angeli, lo ha poi coronato di splendore e dignità
celesti, e ora il suo potere è superiore a quello di qualsiasi altro ( I ,J ).
Ciò che ai nostri occhi appare come umiliazione estrema, in realtà si­
gnifica dominio unico nel suo genere alla fine del vecchio tempo e al­
l'inizio del mondo rinnovato. Chi è in grado di comprendere la logica
dell'agire divino ?
8. N on vi è assolutamente nulla che non sia sottomesso a questo
Figlio dell'uomo, perché l'Altissimo stesso garantisce la verità. Secon­
do la convinzione dell'autore, Sal. 8, 5 - 7 non parla in modo più o me­
no atemporale della posizione dell'uomo, all 'interno della creazione e
di fronte a Dio, con lo scetticismo e il dispregio proprio della sinago­
ga o l'ottimismo eccessivamente entusiasta dci LXX; a suo parere in­
vece esso presenta una testimonianza sull'agire storico di Dio in Cri­
sto, essenza stessa della vera umanità, ed è per questo che in lui pos­
siamo trovare sia gli abissi spaventosi sia gli obiettivi eterni dell'uma­
nità. Diversamente da come intendeva soprattutto l'interpretazione più
antica, la citazione biblica - come prova la constatazione del v. 8b - po­
trebbe essere intesa in senso generalmente cristologico, e a questo ha
dato verosimilmente adito in primo luogo il significativo titolo mes­
sianico di «Figlio dell'uomo» . Con questo titolo, conformemente alla
più antica forma della tradizione del Figlio dell'uomo (cf. Dan. 7, 1 3
ss.), si mette in risalto l'esaltazione di colui che prima è stato umiliato.
Una volta costituito al di sopra di «tutte le cose>>, nessuno più può
sottrarsi alla sua autorità di sovrano, che è innanzitutto servizio; in­
fatti colui che è stato innalzato esercita già la sua signoria, anche se
noi ancora attendiamo l'ultimo atto visibile. A tale grave problema,
che poteva mettere alla prova la fede, si riferiscono le successive con­
siderazioni che introducono con un «ora perÒ» la scottante questione
temporale per cui la verità di Cristo, così come emerge dal Sal. 8, è
«non ancora» manifesta. Se Cristo è la «fine» di questo mondo, essen­
done meta e conclusione, come può il mondo perdurare ? La cosiddet­
ta questione escatologica evidentemente non è roba da ultime pagine
di dogmatica, ma abbraccia la cristologia in modo sostanziale e irri­
nunciabile. Per quanto attiene alla comprensione messianica del Sal. 8,
46 · Ebr. l.,J- I J . Rapp resentante del genere umano

di prove non ve n'è alcuna per il giudaismo rabbinico, e solo poche ed


oscure per l'apocalittica del giudaismo tardo. Nel frattempo ha ac­
quisito un'importanza maggiore il fatto che nella letteratura cristiana
primitiva vi sia una coscienza simile in 1 Cor. I 5 ,2 5 ss., ove troviamo
ancora collegati insieme Sal. I IO, I e Sal. 8,7. L'originalità di questa
controversia riguardante una fondamentale frase cristologica sulla ba­
se di testi biblici ricchi di significato è dunque indubbia.
9· Lo si coglie anche e soprattutto constatando che l'espressione di
Sal. 8,6 («un poco al di sotto degli angeli » LXX) - la quale nella ver­
sione ebraica originaria indicava che l'uomo è stato fatto di poco infe­
riore a Dio - viene messa in relazione esclusivamente al messia - Fi­
glio dell'uomo, per essere inoltre interpretata con riguardo al proble­
ma cruciale del «non ancora» riferito all'evento sperato, il problema
cioè del ritardo della parusia. Quanti interrogativi vi fossero a questo
proposito è provato anche dalle dichiarazioni di 10,3 5 ss. Riteniamo
di estrema importanza dal punto di vista teologico che il significato
teologico comunemente attribuito alla passione e morte di Gesù serva,
a quanto pare, a riempire il vuoto lasciato dal dominio di Cristo non
ancora definitivamente visibile.
Se anche non vediamo Cristo regnare nell' onnipotenza di Dio, tut­
tavia i nostri occhi scorgono chiaramente l'uomo Gesù che è stato umi­
liato «per breve tempo» e che ha dovuto patire anche la morte. È si­
gnificativo che in questo contesto l'autore parli di «Gesù», utilizzan­
do dunque il nome del Cristo terreno con il quale ha messo in rela­
zione Sal. 8, 5 ss. Se ne deduce che anche il discorso sul «Figlio del­
l'uomo» mira più alla funzione che al titolo. Di conseguenza a Gesù
venne dato di essere uomo. L'aiuto non poteva venire semplicemente
dall'esterno: la situazione disperata dell'uomo doveva essere cambiata
radicalmente e dall'interno. Per far ciò Dio ha operato paradossalmen­
te con l'uomo Gesù, umiliato all'estremo. A causa della «morte che ha
sofferto» egli è stato incoronato di gloria e di onore, per cui nella mor­
te l'autore individua il fondamento dell 'esaltazione: ma questo fonda­
mento, nel quale il Figlio dell'uomo sperimenta tutta la concretezza
dell'evento, non è uno sfondamento abissale ? Egli deve averlo per­
cepito, come pure l'ha sentito il noto inno della lettera ai Filippesi (2,5
ss.). L'autore giudeocristiano si trova ancora impreparato davanti al
fatto assurdo della morte del messia. In Ebr. la motivazione parados­
sale della gloria di Cristo è immediatamente affiancata da una spiega-
Ebr. 2,5 - 1 3 . Rappresentante del genere umano 47
?.ione supplementare: «perché per la grazia di Dio provasse la morte a
favore di ciascuno». Questa proposizione finale sembra logicamente
fuori posto, mentre l'espressione «per la grazia di Dio» disturba al­
quanto il filo del discorso. Bisogna forse pensare a una glossa succes­
siva ? Oppure, come in antiche varianti, la locuzione «per la grazia di
l)io» va trasformata in «a parte Dio», perché i correttori la trovavano
illogica? Che l'espressione «incoronato di gloria e di onore» vada ri­
ferita non tanto al Cristo innalzato, ma a quello umiliato, la cui digni­
tà sacerdotale sarebbe qui in oggetto (secondo Es. 28,2, Mosè deve
preparare al fratello Aronne una veste sacra «a onore e gloria») (cf.
sotto, 5 ,4 ss.) ? La decisione è tutt'altro che semplice. Se abbiamo ra­
gione, allora il contesto della citazione che appare in 2,7 stabilisce che
nel discorso dell'incoronazione si pensa anche all'esaltazione. Ebr. po­
teva già pensare al ministero sacerdotale di Gesù, ma sicuramente
guardava anche alla gloria e all'onore del Cristo glorificato. La con­
clusione illogica della frase va ricondotta all'audacia dell'affermazio­
ne, percepita dall'autore stesso. Egli, vedendosi costretto a commenta­
re il poco comprensibile riferimento alla necessaria umiliazione di Ge­
sù, per prima cosa l'ha reso meno oscuro richiamandosi alla grazia di
Dio che gli sta dietro, e inoltre apprezzando la morte di Gesù nel suo
significato generale e particolare. Gesù dovette provare la morte a van­
taggio di tutti. Egli, il potente che domina su tutti, è dunque colui che
sperimentò l'impotenza a vantaggio di tutti. Gli ascoltatori della let­
tera vengono interpellati indirettamente in maniera molto personale.
L'aspetto esistentivo e quello esistenziale sono presentati allo stesso
modo. Ciò che è avvenuto con Cristo riguarda chiunque, qualunque
sia la sua posizione al riguardo. L'espressione biblica «provare la mor­
te>> sfiora inoltre una categoria essenziale dell'esperienza umana !ad­
dove si rammenta che morire è amaro, anche solo come processo na­
turale inevitabile. L'autore, che parla della «sofferenza della morte»,
ne conosce il molteplice carattere doloroso. È ripresa in modo palese
la problematica esistenziale più profonda per la quale anche, e soprat­
tu tto, il mondo antico aveva una spiccata sensibilità. Quando Cristo
sperimentò la morte «a favore di ciascuno», senza limitazioni, dev'es­
sere stata un'esperienza indubbiamente tremenda per lui. Ma non è di
questo che si tratta, bensì del significato della sua morte che - come in
Paolo - è compresa come passione e morte vicaria universale. Dietro a
ciò vi è, come si sottolinea espressamente per l'ascoltatore, la «grazia
48 Ebr. 2, 5 - 1 3 . Rappresentante del genere umano
di Dio» - un punto di vista egualmente paolino. La frase «mediante la
grazia di Dio» è formulata proprio in considerazione dell'uomo, che
altrimenti dovrebbe sprofondare nel nichilismo.
1 o. Un'altra frase fornisce un'ulteriore argomentazione per rendere
comprensibile la morte di Gesù, illustrando meglio lo sfondo dell'agi­
re di Dio in lui. Anche dal punto di vista di Dio la sofferenza era l'uni­
ca strada praticabile. L'espressione «ben si addiceva a colui per il qua­
le e dal quale sono tutte le cose» ha per soggetto Dio. Alle spalle vi è una
riflessione teologica, anche se il linguaggio può suonare filosofico (cf.
Filone, Leg. ali. 1 ,4 8 ; Aet. 4 1 ). Ma considerando la morte di Gesù, il
Figlio, si può affermare che sia «adeguata» a Dio? Il lettore può per­
cepire lo sconvolgimento dell'autore nell'arrischiare tale riflessione, se
pensa al tono estremamente audace della frase, evidentemente scelto
apposta. Stando a quanto si afferma qui, Dio, presentato esplicitamen­
te come perfezionatore e fondamento primordiale della creazione, per
agire conformemente alla propria divinità, dovette perfezionare, me­
diante la passione, l'autore della nostra salvezza. In questo modo è
avviata una riflessione che porta a un limite logico, per cui non può
essere liquidata come speculazione. Ogni considerazione infatti sfocia
nella conclusione che Dio può essere il «Rivelato» solo in quanto è «il
Nascosto», altrimenti non sarebbe più Dio. Anche il compimento,
dunque, non può avvenire semplicemente «nella potenza» o «nella glo­
ria», ma solo «nell'impotenza» o «nella sofferenza>> .
Il concetto di «perfezionamento», usato più volte, è d i contenuto
complesso e rappresenta anche una specie di motivo tematico (cf. 5 ,9;
7,2 8 ; 9,9; 1 0, 14; 1 1 ,40). Letteralmente ha il significato di «portare al
compimento», e comprende una componente cultuale-soteriologica
oltre a quella storico-apocalittica (v. soprattutto 7,28). L'aspetto etico
è rilevante solo nella misura in cui il compimento comprende anche la
santificazione. L'uomo e il mondo, come si fa capire, vengono portati
alla meta solo mediante il sacrificio. Il compimento si ha unicamente
per mezzo di Dio e di fronte a Dio, ma al tempo stesso deve essere
anche adeguato alla sua santità, la quale non ammette nulla che non
sia santo. Nel concetto di «perfezionamento» rientrano dunque anche
gli aspetti parziali della donazione totale e della santificazione radicale.
Con ciò viene sollevato un problema particolare: la frase «il quale ha
condotto molti figli alla gloria» si riferisce a Dio o a Cristo ? Per mo­
tivi di ordine linguistico noi preferiamo la seconda eventualità. Che il
Ebr. 2, s - 1 3 . Rappresentante del genere umano 49

discorso non si riferisca a Dio è dimostrato dal proseguimento del


pensiero, in cui si fa osservare con insistenza che tutti, ossia colui che
santifica e coloro che vengono santifi cati, hanno origine dall'unico Dio
in quanto tutti suoi «figli». Avendo dato ottima prova di sé nel servi­
zio agli uomini che devono essere condotti alla gloria, Gesù è stato re­
so perfetto (innalzato) come loro «capofila» e «autore della salvezza».
Dio dunque non ha scelto tale strada per capriccio, ma perché essa era
congeniale alla sua divinità rispetto agli uomini. L'autore di Ebr. sa
che Dio «rende perfetto» qualcuno solo per l'obbedienza e il servizio,
perché la sua parola si presenta come un'esigenza etica che coinvolge
tutta la vita e come chiamata morale rivolta alla persona. In base a tale
riflessione appare dubbioso l'intento di vedere nel v. 1 1 un teologu­
meno gnostico (la cosiddetta dottrina della syngeneia).
I I. I cristiani fanno risalire a Dio la loro origine non per via della na­
tura celeste (cf. Atti 1 7,2 8), ma perché con lui sono in un rapporto di
dipendenza di fede e di sottomissione creaturale. Essi possono essere
chiamati «santi» perché la loro appartenenza è provata. In quanto uo­
mini ebbero bisogno di essere santificati dal «santo», al quale egual­
mente non furono risparmiate le miserie della vita umana. Ebr. va ol­
tre la concezione ellenistica filantropica dell'unica umanità fraterna, co­
sa che del resto è dimostrata anche dalle successive testimonianze scrit­
turali. Cristo, che ha reso possibile la santificazione, non si vergogna
di chiamare «fratelli» gli uomini. Indirettamente l'idea guida rimane
comunque quella della figliolanza di tutti, per cui Cristo e gli uomini
sono in rapporto fraterno gli uni con l'altro. «Non si vergogna di lo­
ro» (al presente): è disposto in qualsiasi momento a intercedere in lo­
ro favore. A causa di questa responsabilità fraterna ha anzi percorso
consapevolmente il cammino dell'abisso, fino a rinnegare se stesso.
I l.. Ciò che la sua vita da sola potrebbe facilmente illustrare viene
spiegato - per fissarne il significato attuale - mediante citazioni dalla
Scrittura che chiariscono la volontà assolutamente personale di Cri­
sto. Poiché Gesù comprese se stesso a partire da Dio, si mise al servi­
zio degli uomini nel modo profano che è loro proprio. La prima cita­
zione, tratta dal Sal. 22, noto per l'inserimento nella vicenda della
passione (cf. Mc. 1 5 ,34), per Ebr. chiarisce che Gesù ha dato a Dio
l'assicurazione che ne avrebbe annunziato il nome (e quindi anche la
volontà) ai «fratelli». Ciò accadrà nell'esaltazione della nuova assem­
blea di Dio, che renderà grazie per la propria santificazione e salvezza.
JO Ebr. �,1 4- 1 8 . La liberazione mediante la morte di Cristo
Sotto l'aspetto tematico si riscontrano certi contatti con quelle tradi­
zioni pasquali nelle quali il Risorto impartisce esplicitamente istru­
zioni ai suoi «fratelli» (Mt. 28, 1 o; Gv. 20, 1 7), il che potrebbe rimanda­
re a un'analoga considerazione della Scrittura. In ogni caso la testi­
monianza rafforza l'idea che di fronte a Dio la responsabilità recipro­
ca comporta necessariamente la donazione di sé. Il servizio di Gesù
alla fratellanza rende perciò evidente fin dove arriva la responsabilità
per la vita e la salvezza tra noi uomini. La condivisione dell'esperienza
umana doveva necessariamente accogliere come metro di misura il suo
sacrificio.
1 3 . Le due citazioni successive - che in Is. 8, 1 7 ss. stanno una di se­
guito all'altra, mentre qui vengono citate separatamente, certo perché
la prima parte appare anche in 2 Sam. 22,3 - parlano espressamente di
Dio come fonte della fiducia di Gesù. La seconda citazione dichiara a­
pertamente che egli si sentiva responsabile nei confronti dei «figli» a ffi­
datigli. La controprova offerta dalla Scrittura contraddice l'ipotesi che
si tratti dell'elaborazione di una concezione gnostica. Evidentemente
l'idea della parentela tra redentore e santificati non è lanciata solamen­
te ai sensi di una divinità fisica, ma solo col significato di un rapporto
fraterno etico. Is. 8, r 8 delinea la convinzione del profeta riguardo a sé
e ai propri «figli » o «discepoli»: «Noi siamo segno e presagio in Israe­
le da parte del Signore». Il contesto di /s. 8, 1 6 è relativo alla rivelazio­
ne che verrà custodita e sigillata fino al momento in cui Dio disperde­
rà l'oscurità su Giacobbe. Partendo dalla convinzione della profezia
adempiuta in Cristo, Ebr. mette in relazione il discorso con i «figli di
Dio» di cui Dio ha reso responsabile Cristo. Stando al testo, quest'ul­
timo si addossò pienamente e senza obiezioni tale responsabilità.

Il destino mortale dell'uomo è superato con la morte di Cristo


(2, 1 4- 1 8 )
1 4 Poiché du nqu e i figli partecipano del sangue e della carne, anch'egli vi
partecipò allo stesso modo per annientare con la mo rte colui che ha potere
sulla morte, cioè il diavolo, 1 5 e per liberare così tutti quelli che per paura
della morte passavano tutta la vita in condizione di schiavitù. 16 Infatti
non è degli angeli che si prende cura, ma «della stirpe di Abramo si pren­
de cura» . 17 Perciò doveva rendersi in tutto simile «ai fratelli», per dimo­
strarsi misericordioso ed essere un sommo sacerdote fedele per le cose che
rigua rd ano il rapporto con Dio, allo scopo di espi are i peccati del popolo.
Ebr. 2 , 1 4- 1 8. La liberazione mediante la morte di Cristo 5I

r Infatti (solo) per essere stato lui stesso tentato di persona e avere preso
R
su di sé la sofferenza poté venire in aiuto a quelli che sono ancora nella
prova.
1 4 /s. 8 , 1 8 . 1 6 /s. 4 1 , 8 s. 1 7 Sal. 2.2.,2. 3 .

1 4- 1 8. L'argomentazione dei vv. 1 4- 1 8 spiega come vada compresa


la morte di Gesù avvenuta, in tutto e per tutto, nell'orrore e nella de­
bolezza del trapassare umano. Si ha così una spiegazione più precisa
della riflessione del v. 9 («a causa della morte che ha sofferto»). Se
prima al centro della riflessione vi era temporaneamente il rapporto
umano di fratellanza tra Gesù e gli uomini, ora vi è il loro destino co­
mune, l' «essere per la morte», nel qu àle la responsabilità fraterna di
Gesù è stata messa veramente alla prova.
1 4 . Con l'aiuto di un semplice processo deduttivo si constata che
Gesù deve aver condiviso «il sangue e la carne» «come i figli», e que­
sto «allo stesso modo», dal punto di vista sia qualitativo che quantita­
tivo. L'osservazione è estremamente significativa. Non si afferma che
abbia abbandonato una condizione celeste. Indubbiamente Ebr. vede
le cose in modo molto meno mitico, quantunque naturalmente fosse
possibile azzardare un'asserzione così ambiziosa. Ciò che si sottolinea
è che Gesù non ha temuto il destino mortale dell'esistenza umana;
non è rimasto estraneo a quanto paralizza, umilia e assurdamente an­
nienta. Se ovunque, nel pensiero del tempo, si parla di «carne e san­
gue», qui - non senza motivo - l'ordine è invertito, « sangue e carne».
Con ciò si fa presente che in questo mondo esistono non solo il venir
meno e la morte, ma anche lo spargimento di sangue e la guerra. È un
mondo di fratelli ostili, in cui vi è bisogno di salvezza e pace. Cristo
le ha portate. Egli non rifuggì dal divenire fratello dei discendenti di
Caino, i quali lo misero a morte macchiandosi di fratricidio (cf. 1 1 ,4).
Che nel v. 14 sia nuovamente inserito /s. 8,1 8 («i figli») rimanda
egualmente a categorie di pensiero bibliche, non gnostiche. Quindi il
portatore della salvezza non poteva vivere in alcuna esistenza diver­
sa da quella degli altri uomini. Era unito ad essi nella medesima crea­
turalità. Non condusse l'esistenza apparente di un essere celeste che,
secondo la concezione dell'antichità, non avrebbe mai potuto morire,
perché per il pensiero greco ellenistico (e anche gnostico) esistenza
divina e natura terrena non avrebbero mai potuto unirsi totalmente.
Ben diverso invece il modo di pensare biblico di Ebr., che sostiene
l'unione fraterna di Gesù sino alla caducità corporale per vedere spez-
S1 Ebr. 2,14- 1 8. La liberazione mediante la morte di Cristo

zato, in questa identità paradossale, il potere della morte. I vincoli mor­


tiferi che dominano e tengono soggetta l'esistenza umana non vengo­
no mutati da un miracolo celeste, ma «mediante la morte», con la qua­
le» è stato annientato «colui che della morte ha il potere». Evidente­
mente non è una battaglia simulata quella a cui si pensa né un'esisten­
za terreno-corporea apparente. Il linguaggio suggerisce piuttosto che
l'autore intendesse proprio formulare in modo paradossale il nucleo
del messaggio su cui poggia la fede cristiana. Non ci dice come imma­
gina la vittoria sul nemico. Considera il «diavolo» come colui che ha
«il potere della morte» . Dietro tale affermazione potrebbero esservi
concezioni tardogiudaiche nelle quali satana è visto come autore del
male e signore (o angelo) della morte. In modo analogo anche Paolo
parla del peccato come del pungiglione della morte ( 1 Cor. 1 5 , 5 6; Rom.
7, 1 3 ss.); ma per non esonerare gli uomini dalla responsabilità etica,
l'apostolo non tiene conto di satana come autore del potere del pecca­
to e della morte. Ben diversamente la lettera agli Ebrei, ove l'opposi­
tore satanico, personificazione metafisica di ogni male e di ogni ini­
micizia, viene intenzionalmente contrapposto alla persona del salvato­
re (cf. Sap. 2,24). Il sì al Dio personale della vita e della salvezza com­
porta ovviamente anche il no a colui che è il non-dio, il corruttore e
nemico della vita.
1 5 . Fatalmente il mondo è minacciato dall'esterno e dall'interno, co­
me dimostra la continuazione del ragionamento per cui Cristo, pro­
prio grazie alla sua morte, ha portato la liberazione a coloro che per
tutta la vita sono condannati alla schiavitù per il timore della morte.
Difficilmente l'analisi della vita umana e della realtà terrena avrebbe
.potuto essere presentata in modo più crudo, ma anche corrisponden-
te a verità, perché ciò che viene chiamato vita qui è realisticamente e
spietatamente descritto come schiavitù di esseri destinati alla morte.
Con l'immagine della schiavitù s'intende sia la precarietà dell'esisten­
za u mana sia la sua condizione di colpa. Non si può dire che in simile
dichiarazione si colga un animo scettico; dietro le parole vi è incon­
fondibile la protesta di fondo di uno spirito acutissimo che però, per
la fede che ha in Cristo, va avanti per la sua strada, nella certezza pie­
na di una possibile libertà. Evidentemente non ha la sensibilità dello
gnostico, altrettanto consapevole della prigionia dell'anima, ma che
nel proprio anelito alla redenzione non riconosce il disperato smarri­
mento. L'eventualità di una qualche redenzione di sé a basso prezzo
Ebr. 2, 14- 1 8. La liberazione mediante la morte di Cristo S3

non è neanche accennata. L'unica possibilità di salvezza è data dall'at­


t o liberatorio di Cristo, che ha agito confidando in Dio (2, 1 3). Dal
rnomento che Cristo ha portato la liberazione «mediante la (propria)
morte», ecco emergere la profonda intuizione che Dio ottiene le sue
vittorie attraverso l'impotenza, e che quindi la nostra impotenza ef­
fettivamente spiana la strada all'agire di Dio. Vi sono stati, nella chiesa
primitiva, interpreti dell'opera salvifica che hanno sviluppato l'idea
ausiliaria di un inganno del diavolo, o hanno insegnato che Gesù ha
dato la propria anima in riscatto a satana, il quale però non è stato in
grado di trattenerla. Questi non sono altro che tentativi inadeguati di
spiegare l'illogicità dell'agire divino. La paradossalità, qui soprattutto
ontica, oggi va dunque trasferita a tutela del carattere decisionale della
nostra esistenza sulla prassi - insensata dal punto di vista logico - di
un comportamento di amore e sacrificio, per cui a Cristo spetta il
ruolo d'iniziatore e perfezionatore della fede. Questo è l'intento che
anima la testimonianza cristiana di Ebr. , che non mira affatto a illu­
strare parzialmente fatti relativi all'aldilà, ma vede l'uomo nel suo ab­
handono. Perciò si afferma, coerentemente, che Cristo non si prende
l:ura degli «angeli» bensì della «stirpe di Abramo».
16. Si rigetta l'assurda eventualità che egli possa essersi facilitato il
l:ompito, o che possa essersi dedicato a qualcosa di estraneo e lontano
come la salvezza degli angeli. Per obbedienza nei confronti di Dio,
egli portò aiuto laddove ve ne era estremo bisogno, cioè agli uomini,
la cui vita è come una «malattia verso la morte». Il discorso sulla
«stirpe di Abramo» (secondo /s. 4 1 ,8 ss.) presuppone che tutti, giudei
c gentili, hanno bisogno di aiuto, ma davanti a lettori giudeocristiani
non vi era certo bisogno di mettere tanto in risalto i secondi. Nel
contesto considerato, l'accento è posto sul fatto che con la donazione
di Dio gli uomini hanno un aiuto nella realtà di questo mondo. Ac­
canto a sé ora hanno colui che ha superato la morte. Perché potesse
essere il salvatore non gli venne risparmiato nulla.
1 7· Una frase illuminante dichiara che questo poteva avvenire solo
nell'assoluta solidarietà «sotto ogni aspetto» con i fratelli uomini, ai
quali egli divenne «uguale» e non solo simile. Allo stesso modo viene
spiegata ancora una volta l'affermazione di 2, 10. Cristo ha potuto di­
ventare sostenitore degli uomini non come oggetto di un processo
celeste né perché era stato, per così dire, programmato in anticipo per
la sua missione di salvezza. Al contrario, divenne uguale ai fratelli
J4 Ebr. J,I-6. Cristo e la fedeltà della sua comunità
«perché si · dimostrasse misericordioso e fosse un sommo sacerdote fe­
dele ( = perseverante) per le cose che riguardano il rapporto con Dio» .
Queste parole corrispondono esattamente al pensiero biblico che ad
ogni automatismo della salvezza contrappone il correttivo della fede
richiesta da Dio. La solidarietà di Gesù con gli uomini trovò espres­
sione convincente nella dimostrazione della fede, dell'amore e della
speranza. Nel v. 1 7, per la prima volta e con estrema naturalezza, giac­
ché si cita la Scrittura (Sal. I Io), il discorso cade sul «sommo sacerdo­
te» che espia i peccati del popolo. Presumibilmente si sfiora un nuovo
punto di vista in funzione di riflessioni che verranno in seguito (cf.
4, 1 4 ss.). Qui ci basti sottolineare che, a prescindere dal destino mor­
tale della nostra esistenza, ora si parla nuovamente (v. in ultimo I ,J ) e
apertamente della corruzione del genere umano.
1 8. In questo modo è reso possibile il passaggio logico al v. I 8, ol­
tremodo ricco di contenuti e anch'esso aperto a sviluppi ulteriori. In­
fatti, nella misura in cui è caratterizzato dal peccato, questo mondo è
anche una realtà di tentazione. Per questo corrisponde al vero la frase
in cui si afferma che al Cristo sofferente tale tentazione non venne ri­
sparmiata affatto, perché solo in questo modo potevano essere real­
mente aiutati gli uomini in tentazione. Egli «può veramente» venire in
aiuto di chi è nella prova. Il confronto con il Cristo tentato è il primo
passo per sperimentare il Signore vivente; infatti la passione di Cristo,
in quanto assunta davanti a Dio, è sempre garanzia della presenza del
Crocifisso stesso.

Cristo, il Figlio fedele nella casa di Dio,


vuole anche la fedeltà della sua comunità (3, 1 -6)
1 Pe rciò , fratelli santi che siete partecipi della vocazione celeste, fissate lo
sguardo su Gesù, l'inviato e il sommo sacerdote della nostra professione di
fede, 2 il quale è «fedele» al suo creatore come anche «Mosè nella sua casa».
3 Egli infatti è stato giu dic ato degno di una gloria tanto maggiore rispetto a
Mosè come il costruttore di una casa riceve un onore più grande rispetto
alla casa stessa. 4 Ogni casa infatti viene costruita da qualcuno; ma colui che
costruisce tutto è Dio. s E Mosè è stato sì «fedele in tutta la sua casa» co­
me «u n servitore» a testimonianza di ciò che doveva essere detto. 6 Cristo,
pe rò, come un figlio «sulla propria casa», e noi rappresentiamo la sua casa
se conserviamo saldamente la franchezza e il vanto della speranza.
% e sa Num. 12,7.
Ebr. J,I-6. Cristo e la fedeltà della sua comunità SS
1-6. Per la prima volta gli ascoltatori vengono interpellati diretta­
mente (3 , 1 ). Dopo pensieri molto profondi (2, 5 - 1 8) si giunge ora a
una nuova esortazione (3 ,1 ss.) che, come già 2, 1 -4, è accompagnata da
una motivazione (3,3 -6). Vi si sottolinea che Cristo, il Figlio, ha rag­
giunto un onore maggiore rispetto a Mosè. L'esortazione ha lo scopo
di raccomandare l'applicazione pratica di quanto detto prima. La se­
zione con la motivazione racchiude concetti che ancora una volta ri­
mandano a quanto seguirà. La questione della «vocazione celeste» ri­
ceverà in un secondo tempo precisazioni sul contenuto (9, 1 5 ) . Il rife­
rimento tematico al «sommo sacerdote», a cui si era appena accennato
in 2, 1 7 ss., caratterizza l'affermazione del v. 1 che fa da cornice. Esso
dà peso all'esortazione successiva a non lasciarsi sfuggire l' «oggi» del­
la promessa divina (J ,7-4, 1 3). In 4, 1 4- 1 6 si ha nuovamente un'esposi­
zione analoga a 2, 1 7 ss. Anche l'invito a seguire il sommo sacerdote
della «professione» di fede viene ripetuto in 4, 14, e in questo modo 3 ,
7-4, 1 1 (o 4, I 3 ) risulta essere una sezione conclusa; ma s e ne parlerà
diffusamente più avanti. La pericope di cui stiamo trattando intende
comunque favorire il passaggio a questo più ampio ragionamento, che
non vorremmo definire, con altri interpreti, una «grande interpolazio­
ne» . Se abbiamo ragione, allora a suo modo si avrà un ulteriore cre­
scendo nell'omelia.
1. Ebr. presenta pochi appellativi. Tanto più colpisce allora l'espres­
sione solenne «fratelli santi». Non si tratta di una frase retorica così
come usa fare nell'imbarazzo l'oratore per colmare una pausa di si­
lenzio (cf. J , I 2; 1 0, 1 9 e I J,22). In questo contesto essa ha piuttosto un
peso sostanziale, tanto più che si è appena accennato al motivo ecce­
zionale della comunione dei cristiani, ossia l'essere fratelli del sommo
sacerdote Gesù, per mezzo del quale è stato ristabilito il rapporto tra
l'uomo e Dio ed è stata compiuta un'espiazione per i peccati. È a lui
che va dedicata ogni attenzione. È chiaro che l'esortazione intende
provocare una decisione. Non afferma nulla di ovvio, ma rimanda a
una particolare condotta in quanto gli ascoltatori sono partecipi di
una «vocazione celeste». Non si tratta tanto di una vocazione generica
a essere cristiani, ma del compito specifico di rafforzare la «chiamata»
e dar prova di sé in quanto · battezzati. L'appellativo rivela che ci si
immagina gli interpellati come partecipanti a un'azione liturgica so­
lenne, forse collegata a una liturgia battesimale (cf. 1 0,22), per cui era
opportuno ricordare anche l'istruzione ricevuta un tempo (6, I I ss.).
56 Ebr. J,I-6. Cristo e la fedeltà della sua comunità

Anche la definizione «partecipi di una vocazione celeste» va precisata.


Risulta logica e naturale l'associazione col tipico concetto della «pro­
fessione di fede», che qui verosimilmente significa, in senso lato, la
testimonianza con parole e opere. Apprendiamo che il cristiano non
può attualizzare da solo, per sua essenza, una natura celeste, ma che
viene sollecitato a farlo sulla base della parola di Dio che gli viene an­
nunciata. Da un certo punto di vista la meta è assai lontana, ma l'aiuto
che fornisce per orientarsi l' «inviato» e «sommo sacerdote della no­
stra professione di fede» può essere considerato assolutamente affida­
bile. Dietro di lui vi è Dio che lo manda ( r ,2 ), e nel servizio sacerdota­
le ha dato prova di sé in modo straordinario. Le frasi sono composte
tenendo presente il Sal. I I o, come rivela il tema del «sommo sacerdo­
te» (e come avviene già in 2, I 7). Sal. I 1 0,2 dichiara inoltre che Dio, il
Signore, «manderà» il dominatore, colui che siede alla sua destra. Ebr.
sa che l'autorità e il mandato di Dio hanno preso forma in «Gesù».
Analogamente a Fil. 2, 5 ss. è espresso chiaramente che si tratta di un
portavoce terreno e della sua condotta davanti a Dio. È lui il contenu­
to della «professione di fede». Con questo termine si vuole indicare
tanto l'atto che il contenuto della professione. Probabilmente si allude
in senso lato alla testimonianza battesimale della comunità, che esige
fedeltà (v. ancora 4, 1 4) e che, viceversa, assicura la fedeltà da parte di
Cristo, il quale è garante della promessa della speranza eterna (cf. I o,
22 ss.). Non bisogna pensare a una formula confessionale fissa, che
magari veniva pronunciata anche dal sommo sacerdote, ma piuttosto a
un atto liturgico formale (v. anche I J , I 5 ) che presumibilmente assu­
meva un carattere di giuramento e d'impegno solenne, per cui si po­
neva in particolare il problema della possibile apostasia. In 3 ,7-4, 1 3
l'autore affronta con estrema energia questo problema e i l pericolo
connesso. Prima di inoltrarsi nelle profonde verità della fede in Cri­
sto, con grande energia pastorale richiama l'attenzione della comunità
sulla gravità della decisione presa.
2. Dai suoi membri si attende fedeltà, ossia nient'altro che la rispo­
sta allo stesso comportamento di Gesù che, di fronte al suo creatore,
ha dimostrato la propria fedeltà. Sorprende che sia descritta non tanto
una certa condotta in una determinata occasione, quanto in generale il
rapporto attuale di fedeltà di Gesù verso Dio. Secondo 2, 1 7, Gesù è
divenuto sommo sacerdote «fedele » soffrendo con i fratelli. Qui è
scritto che la comunità può basarsi sempre su questo fatto. Il rapporto
Ebr. 3 , 1 -6. Cristo e la fedeltà della sua comunità 57
del Figlio con il Padre è quindi definito come rapporto tra creatura e
creatore, cosa che per l'autore non rappresenta una contraddizione ri­
spetto a tutte le altre affermazioni entusiastiche riguardo al Figlio co­
me mediatore della creazione. È evidente che l'idea di un rapporto me­
tafisica essenziale tra Gesù e il «creatore» gli è assolutamente estranea.
La posizione del Figlio rispetto al Padre è da lui definita in modo bi­
blico come rapporto di obbedienza e fedeltà, concetto che illustra ri­
mandando al servizio «fedele» di Mosè «nella sua casa» e riprendendo
quindi intenzionalmente una testimonianza data da Dio riguardo a
Mosè in Num. I 2,7 (v. LXX). Grazie a questa fedeltà Mosè assunse
una posizione tale davanti a Dio da collocarsi al di sopra degli angeli.
3· Incrementando le considerazioni precedenti si prende poi spunto
dal concetto di «casa» per affermare che, quanto a grado, Gesù è sta­
to giudicato degno di maggior gloria rispetto a Mosè. A questo, infat­
ti, era stato riservato il compito di guida nella «casa» d'Israele affida­
tagli, tuttavia non può comparire come costruttore di tale «casa». In
fondo, occupando il primo posto nella comunità, ruolo di grande re­
sponsabilità, era solamente una parte della casa, non certo il «costrut­
tore» stesso per potersi elevare «sopra» di essa. Di conseguenza - e
qui l'argomentazione, in forma di analogismo, segue le regole dell'in­
terpretazione rabbinica - il posto d'onore di Gesù è maggiore; difatti
in quanto «figlio» è sullo stesso piano di Dio, il costruttore della casa.
Formalmente il concetto della «casa» servita da Mosè è ripreso da
Num. 1 2,7, ma rispetto al contenuto è ovvio che si pensa in senso lato
alla «casa d 'Israele>> (cf. al riguardo Sal. I 1 4, 1 ; 1 I 8, I ss. ).
4· Il v. 4a è di tono piuttosto generico. Affermando che ogni casa è
costruita da qualcuno esprime un'idea secondaria. Ma quello che è un
dato di fatto generico, nell'analogia considerata consente di continua­
re il pensiero affermando che anche Dio, che tutto ha creato ed edifi­
cato, è costruttore di una «casa» che abbraccia il mondo intero. Questa
riflessione presuppone che Gesù, il Figlio del Padre, possa conside�
rarsi Signore di questa «casa di Dio». Stando a I,2, effettivamente lo è
in quanto «erede» di tutte le cose. L'idea guida sottolinea che egli, in
quanto figlio, per ruolo ed onore è sullo stesso piano del costruttore.
Il pensiero del rapporto di fedeltà non viene comunque dimenticato.
5· Dopo i concetti intermedi considerati, il procedimento dimostra­
tivo si avvia ora definitivamente verso la conclusione. Mosè (secondo
Num. I 2,7) si dimostrò fedele nella sua casa come «servitore» (cf. an-
S8 Ebr. J,7- I I . L' «oggi... della chiamata divina
che Es. 4, Io; I 4,3 I ; Num. I I , I 1 ecc.). Soprattutto avveniva che riferis­
se integralmente e senza falsificazioni ciò che «veniva detto», ossia le
parole di Dio. Per Num. I 2,8 (LXX) egli era insomma la «bocca» e il
«portavoce» di Dio, poiché riportava al popolo la testimonianza, non
in modo «poco chiaro» o «cifrato», bensì alla lettera. Dietro a questo
concetto vi è la convinzione sia della santità assoluta della torà sia del
suo carattere etico vincolante.
6. Mentre Mosè si dimostrò fedele «nella sua casa», affidatagli da
Dio, Cristo in quanto figlio sta «sopra la sua casa»; dal Padre è stato
costituito erede e possessore. La sua dignità dunque è unica e maggio­
re. Il titolo onorifico «Cristo>>, messo non per caso, rafforza l'intento,
poiché ricorda che come l'essere servitore era compito di Mosè, il
ruolo di Cristo spettava al Figlio. In I 0,2 I è detto in maniera ancora
più esplicita che noi abbiamo un sommo sacerdote «posto sopra la ca­
sa di Dio>>. Il «sì ... però» della frase precisa con insistenza lo scopo
cristologico della dimostrazione. Seguono ora, un po' di sorpresa, ma
adeguatamente inserite nel contesto della trattazione, le conseguenze
pratiche per i lettori compresi in quel «noi» di J , I («la nostra profes­
sione di fede»). A che scopo questa nuova riflessione ? La «casa di
Dio», sopra la quale il «Figlio» è stato posto come erede (cf. Sal. I I o),
siamo «noi», i cristiani. Il v. 6 parla più esattamente della «casa di Cri­
sto » . Non è facile divenirne partecipi. L'appartenervi dipende anzi da
determinati presupposti (cf. 2, I 7). L'Israele dell'antica alleanza era le­
gato da un vincolo di sangue, mentre la casa, ovvero la comunità, di
Cristo si presenta come «popolo» di coloro che hanno ricevuto la re­
missione dei peccati. Il punto di vista nazionale in questo modo viene
a mancare. Se la «casa d'Israele» aveva solo una durata limitata, la
«casa di Dio» ora definitivamente realizzata e che in Cristo ha la pie­
tra angolare (Sal. I 1 8 ,22) conduce al mondo celeste eterno. Per il cri­
stiano ogni cosa dipende dalla capacità di conservare «la franchezza e
il vanto della speranza». Con queste parole si ricorda che la fede è
questione di «professione» libera e vittoriosa (cf. J , I }.

Come Israele, anche il nuovo popolo di Dio corre il rischio


di trascurare la promessa del riposo sabbatico (3 ,7-4, I 3 )
_
Stando alla forma, questa sezione a s é stante s i presenta come «ome­
lia» nell'omelia, per cui la troviamo anche, non a caso, come esortazio-
Ebr. 3,7- 1 1 . L'c oggi» della chiamata divina S9

ne tipica in un sermone che vuoi essere «parola di esortazione». Ne ri­


sulta che nel complesso della composizione non le spetta un ruolo se­
condario, ma anzi un compito estremamente importante. L'autore non
divaga in excursus, ma conferisce alla sua esposizione proprio la forza
critica dirompente necessaria a fare della parola umana una parola di
Dio; soltanto questa infatti, non certo la riflessione umana, è in grado
d'imporre una decisione con la necessaria inflessibilità. Ebr. parte dal
presupposto che l'oratore può contare sulla piena autorevolezza solo
se riferisce una parola autorevole. Perciò la pericope conclusiva di 4,
1 2 ss., che può apparire singolare, è parte integrante di questa «esorta­
zione» estremamente dura. La lettera agli Ebrei dimostra nuovamente
la ragione del suo discorso, per cui ora al di là di 3,3-6 pensa in modo
ancor più radicale.
Attenzione particolare meritano le affermazioni di 3,7-4, 1 3 in quan­
to parte tipica dell'insieme omiletico. Alla loro base vi è una vasta se­
zione tratta dal Sal. 9 5 . L'autore è consapevole di trovarsi con la sua
comunità in un'epoca di transizione, come l'antico Israele nel deserto.
Si tratta di un «tempo breve» (cf. 1 0,37). È possibile che, per l'adem­
pimento delle aspettative, tacitamente si pensasse a un intervallo di
circa quarant'anni, come la durata dell 'esodo (cf. anche 10,3 7 s.). Co­
me già accennato, la lettera agli Ebrei potrebbe essere stata composta
tra il 6o e il 70 d.C. L'autore calcola segretamente gli anni a partire
dalla data della morte di Gesù (3 0 d.C.). Dall'invito all'esortazione
«quotidiana» traspare una certa urgenza dell'attesa.

L' «oggi>> della chiamata divina esige un'ultima decisione (3 ,7- 1 1 )

7 Pe rciò, come dice l o Spirito santo: «Oggi, s e udite l a sua voce, 8 non in­
durite i vos tri cuori come nel l 'esas peraz ion e il giorno della tentazione nel
deserto, 9 ove i vostri padri (mi) misero alla p rova Io e videro per quaran­
t'anni le mi e opere. Perciò mi disgustai di questa generazione e dissi: «So­
no sempre n e li ' errore con il cuo re » Ma essi non riconobbero le mi e
.

vi e, 1 1 per cui giurai nella mia ira: «Non en trino nel mio rip oso! ».

7-1 1 Sal. 9 5 ,7- 1 1 .

Se da Gesù la chiesa può imparare cos'è la fedeltà, dal popolo



dell'antica alleanza può apprendere com'è facile cadere nell'infedeltà.
Anche se la riflessione principale è del tutto ragionevole, tuttavia da
60 Ebr. J,7- 1 1 . L,«oggi» della chiamata divina
un punto di vista logico e linguistico il passaggio suscita alcuni inter­
rogativi. Si era appena affermato che l'appartenenza alla casa di Cristo
alla fin fine è decisa dall'atteggiamento dei cristiani che devono perse­
verare fiduciosi e sereni nella loro speranza. E subito dopo, in modo
piuttosto inaspettato, si ha l'inserimento della citazione di Sal. 9 5 ,7-
1 1, dal tono duro e ammonitore: «Perciò, come dice lo Spirito santo».
L'apparente pesantezza non va spiegata col fatto che celatamente si
pensava già al proseguimento del v. I 2: «Guardate perciò, fratelli, che
non ... » . La formula introduttiva «come dice lo Spirito santo», espressa
in modo un po' stereotipato, fa apparire più probabile che quel «per­
ciò», in base al proponimento precedente, vada inteso nel senso: «Per­
tanto va tenuto presente ciò che dice lo Spirito santo», per poi sposta­
re l'attenzione sul v. 8 e affermare: «Pertanto è necessario ... non in­
durite i vostri cuori ! » . È chiaro che la parola biblica, nel complesso del­
l' esposizione omiletica, non serve principalmente come citazione vera
e propria. L'autore anzi per dar più peso alla propria parola ammoni­

trice si serve del forte monito biblico, il cui significato salvifico attuale
è per lui fuor di dubbio. Innanzitutto la lunghezza della citazione, che
comprende tutta la parte conclusiva del salmo ed è riportata proba­
bilmente a memoria, ne ha fatto l'argomento formale più forte, da cui
nuovamente la necessità di spiegarla meglio nei particolari. Il modo di
procedere di Ebr. è sorprendente. Quasi irriguardosamente e d'im­
provviso pone i lettori di fronte a una parola dello Spirito che deve
colpirli e stimolarli profondamente. Avendo essi preso come comuni­
tà (battesimale) una decisione che si lascia alle spalle ogni volontà or­
dinaria, la lettera ricorda loro con insistenza e vigore che sulla strada
intrapresa non può esservi ritorno né ritiro. Le conseguenze sarebbe­
ro altrimenti spaventose (cf. I 2; 4, I ). Dietro a questo procedimento vi
è la ferma convinzione che la parola della Scrittura sia di grande attua­
lità. L' «oggi» è inteso come chiamata attuale dello Spirito di Dio, il qua­
le afferma che i cristiani interpellati - secondo J , I «partecipi di una
chiamata celeste>> - devono prestare ascolto alla voce di Dio. L' «oggi »
comprende il periodo di proclamazione del messaggio di Cristo ( ana­
logamente a 2 Cor. 6,2 ) , ma è evidente che punta anche alla particolare
situazione liturgica in cui la «chiamata>> di Dio possa essere colta in
una chiara accettazione.
8. Poiché la franchezza e la certezza in ciò che spera caratterizzano
il cristiano, non vi può essere indurimento del cuore. Con ciò s'inten-
Ebr. 3,7- I I . L' «oggi» della chiamata divina 61
de l'ostinazione per cui l'uomo s i chiude alla voce d i Dio, e non il
cuore inquieto e in ricerca. La Scrittura biasima l'atteggiamento di chi
si rivolta contro Dio con arroganza e spirito di ribellione. La comuni­
tà quindi viene messa in guardia da quella «esasperazione» che porta
al rifiuto di Dio, così come a Massa e Meriba Israele si era abbandona­
to al dubbio: «Il Signore è in mezzo a noi, sì o no ?» (cf. Es. I 7, I ss.).
Dio punisce una condotta tanto ostinata perché non piomba su Israele
all'improvviso come una contestazione, ma andava preparandosi da
tempo e deliberatamente.
9· Sebbene faccia parte della citazione, l'appellativo «i vostri padri»
allude a persone interpellate come giudeo(cristiane). In certi periodi
della storia non ci si dovrebbe mai impuntare sconsideratamente con­
tro Dio. Anche qui Ebr. intende rivolgersi direttamente alla comunità.
Non è forse vero che anch'essa esce da esperienze di fede inaudite (cf.
2, I -4) ?
I O. Per quarant'anni Israele nel deserto ha visto le «opere» di Dio.
Che cosa significa? Grazie a un «perciò» in più (che prosegue con «mi
disgustai ... » ) , la citazione presenta una divisione differente rispetto al­
la versione dei LXX, ove invece è scritto: «e videro le mie opere. Per
quarant'anni mi adirai contro quella generazione». Mentre qui si in­
tendono le opere della collera, l'autore di Ebr. pensa invece piuttosto
alle «prodigiose» dimostrazioni di potere come segni della guida mi­
sericordiosa di Dio. Di conseguenza la condotta dei padri dovrebbe
apparire tanto più sorprendente alla comunità interpellata, quanto più
comprensibile la reazione di Dio. Il fallimento di un tempo non deve
assolutamente ripetersi. Inoltre, su esempio del salmo, il luogo esatto
non viene specificato, primo perché in fondo è irrilevante, e poi per­
ché sarebbe d'impedimento alla testimonianza. Mentre il testo ebraico
fa riferimento a «Massa» e a «Meriba», circostanza senz'altro nota a
Ebr. , l'autore della lettera trascura completamente i particolari relativi
alla località, come del resto fa la versione greca. In questo modo tutta
l'attenzione si concentra sul comportamento d'Israele nel suo com­
plesso; ed è proprio la sua mancanza di fede che la comunità del nuo­
vo popolo di Dio non deve e non può far propria. Le tappe dell'esodo
acquistano necessariamente forza espressiva per illustrare quei tipi di
comportamento che meritano una punizione («sdegnarsi» con Dio,
«metterlo alla prova», «tentarlo» ). Col v. IO la citazione del Sal. 9 5
passa al discorso diretto, e a parlare è Dio stesso. Vi esprime il dis gu-
62 Ebr. 3 ,7- 1 1 . L' «oggi» della chiamata divina
sto per la generazione dell'esodo, di cui è stufo e che in fondo al cuore
è sempre stata incline all'errore, benché le fosse consentito vedere le
«opere» divine.
I I . Venendo a mancare la fede e l'obbedienza, nella sua collera Dio
ha giurato che non sarebbe mai entrata nel suo riposo, ossia nella «ter­
ra promessa» da lui prospettata. La riproduzione letterale della frase
del giuramento tratta dalla versione greca dei LXX, che non può esse­
re compresa senza la conoscenza del testo ebraico, comprova la for­
mazione biblica giudaica dell'autore (cf. Num. 1 4,30). Dal canto suo
neanche Ebr. ha compiuto variazioni di sorta, perché il carattere ispi­
rato della parola di Dio è per essa un massimo assioma. Il tremendo
giudizio di Dio emesso sulla generazione dell'esodo viene pienamente
accolto in funzione intimidatoria. Tuttavia non è certo inteso in senso
antigiudaico, segue anzi in tutto l'uso della sinagoga, la quale sapeva
anch'essa giudicare in modo altrettanto duro. La citata bizzarra divi­
sione del salmo effettuata al v. roa dà l'impressione che Dio sia inter­
venuto solo dopo quarant'anni, mentre la testimonianza dell'Antico
Testamento parla piuttosto esplicitamente e con estrema precisione
dell'inizio dell'esodo, a volte addirittura del secondo anno (Num.
I 4,2 1 -3 5; 3 2, 1 0- 1 3; Deut. 1,34-40), collegando così a una causa precisa
la lunga permanenza nel deserto. Effettivamente questa divergenza
dall'originale, lieve ma certo intenzionale, permette di fare un con­
fronto più pertinente rispetto alla situazione dei lettori. Ora si sa di
essere alla fine dell'esodo, e non all'inizio. Non va esclusa l'eventualità
che l'attesa del cristianesimo delle origini contemplasse, come quella
giudaica, in primo luogo un periodo messianico di quarant'anni, cosa
che già rabbi Elieser (attorno al 90 d.C.) riteneva tramandata: «l giorni
del messia sono quarant'anni, come è detto in Sal. 9 5 , 1 0» (bSanh.
99a). Tuttavia nella nostra lettera non viene riportato alcun calcolo,
mentre tutta l'urgenza di cui si è consapevoli viene trasformata in pres­
sante esortazione a tenersi pronti. Si può rammentare che in modo a­
nalogo anche Paolo, con fare ammonitore, aveva alluso all'esempio di
Israele ( 1 Cor. 1 0,7). La croce come fondamento della condotta cri­
stiana è il segno posto da Dio che rimanda ali' amore e alla speranza.
La fede cristiana ha bisogno della disponibilità incondizionata all'azio­
ne, né può mai fare a meno della perseveranza necessaria per affronta­
re un futuro ultimo.
Solo la reciproca esortazione quotidiana scongiura
il pericolo dell'apostasia (J ,I 2- I4)
1 2 Fratelli, state attenti che in nessuno di voi vi sia un cuore malvagio e in­
fedele che potrebbe rinnegare il Dio vivente! 1 3 Piuttosto esortatevi a vi­
cenda, ogni giorno, finché viene proclamato l' «oggi», affinché nessuno tra
di voi sia indurito dall'inganno del peccato. 14 Noi infatti siamo divenuti
compagni di Cristo, se manteniamo salda sino alla fine la fede iniziale.
13 Sal. 9 5 ,7 ss.

1 2. Essendo la chiesa in cammino come l'Israele dell'esodo per una


meta eterna, in quanto comunità di «fratelli», così l'appellativo, essa
deve preoccuparsi che nessuno rinneghi la propria fede. Ognuno è re­
sponsabile dell'altro e ciascuno risponde di chi rimane indietro. Il mo­
nito è diretto a evitare l'apostasia dalla fede di Cristo, alla quale è lega­
to il «vanto della speranza» (3,6). L'affermazione non suffraga affatto
l'ipotesi secondo la quale qui potrebbero essere intesi destinatari etni­
cocristiani minacciati dal pericolo di ricadere nell'idolatria senza Dio.
In fondo già Num. 14 parlava di apostasia in relazione a Israele. Essa
costituisce il pericolo in assoluto più temibile nell 'epoca cristiana,
tempo dell' «oggi>> e perciò tempo in cui la voce di Dio risuona nuo­
vamente in modo particolare (cf. I 2,2 5 ) . Dio esige quella fede che si
volga a lui senza condizioni o riserve, con la piena fiducia nella sua
parola.
1 3 . Ciò che trasmette il nostro oratore, ossia una «parola di esorta­
zione», in fondo deve essere compito di tutti gli interpellati; infatti
<<nessuno di essi» nell'esasperazione deve prendere la strada dell' apo­
stasia. Nessuno deve pensare di essere lasciato da solo, idea che porta
all'ostinazione. Questo indurimento del cuore è la grande tentazione
del presente, tanto più che è da attribuirsi all' «inganno del peccato»:
questo definisce non solo il fallimento umano, ma anche una potenza
avversa a Dio. Di conseguenza non soltanto la volontà individuale
costituisce un potenziale pericolo, in quanto può essere debole, ma
ben più pericoloso è un qualcosa di estraneo e ignoto che ci domina.
1 4. La fede in Cristo è non solo compito etico, ma anche testimo­
nianza in una lotta in cui si decidono i rapporti di potere. A consola­
zione e rafforzamento si aggiunge che quanti sono «partecipi» di una
«vocazione » (3, 1 ) celeste sono anche «compagni di Cristo» e dunque
coeredi. Ora che essi, in quanto battezzati, portano il suo nome, egli
64 Ebr. J , I 5 - 1 9. La promessa era rivolta a Israele?
ne accompagna il cammino per sostenerli fino al raggiungimento del­
l'ultima meta. Ancora una volta l'autore introduce una condizione,
una sola, ma essenziale: «se manteniamo saldo sino alla fine il fonda­
mento della fede iniziale» (cf. cap. I I ). Con questo s'intende non la
«certezza di fede dell'inizio», ma il «fondamento della fede», la «base»
della certezza che negli ascoltatori ha avuto inizio ormai da tempo.

La promessa di un riposo estremo del popolo di Dio


era rivolta forse a Is raele? (J , I 5 - I 9)
15 Quando la parola dice: «Oggi che udite la sua parola non indurite i vo­
stri cuori nell'esasperazione», chi furono allora quelli che dopo «aver udi­
to», «si ribellarono (contro Dio)» ? 16 Non furono (forse) tutti quelli che
sotto la guida di Mosè avevano preso parte all'uscita dall'Egitto ? 1 7 Con­
tro chi «si adirò per quarant'anni» ? Non accadde contro coloro che aveva­
no peccato e «i cui cadaveri caddero nel deserto» ? 1 8 A chi era rivolto il giu­
ramento «non entreranno nel suo riposo», se non a quanti erano stati di­
subbidienti ? 19 E così noi vediamo che a causa della loro infedeltà non
poterono entrarvi.
I S Sal. 95,7 ss. (cf. inoltre Es. 17, 1 ss. e spec. Num. 14,2.0-45). 17 Sal. 9 5 , 10 e Num. 14,29·32..
1 8 Sal. 95 , 1 1 {cf. Num. 1 4,22 s.).

1 5· I vv. 1 5 - I 9 illustrano il concetto di «indurimento» in base a una


nuova citazione di Sal. 9 5,7 s. In stile retorico assai abile, con tre in­
terrogativi successivi, si dimostra che «ribellione», fallimento e disob­
bedienza come forme di ostinata mancanza di fede non hanno alcuna
speranza di «giungere» nel riposo promesso. Vista dal di fuori, l' ar­
gomentazione appare alquanto artificiosa e voluta (v. il superfluo «for­
se » del v. I 6). Di fatto però intende dare una tale spinta al ragiona­
mento, da conquistarsi il totale assenso degli ascoltatori per l'ammo­
nimento che seguirà in 4, I , e per rivolgere con maggior decisione la
volontà all'ambita meta che sarà positivamente sviluppata in 4, I- I I .
1 6. Il primo interrogativo riguarda il comportamento del popolo a
Massa e Meriba (Es. I 7, 1 ss.). Nessun ascoltatore può negare che il
popolo dell'esodo fosse «esasperato» con Dio.
1 7. Ne risulta necessariamente l'assenso per un giudizio che incom­
be anche in caso di fallimento proprio. Il secondo interrogativo allude
alla vicenda di Qadesh, quando Israele non volle combattere per pren­
dere possesso della terra e in seguito a ciò Dio «si adirò)) per quaran-
Ebr. 4, 1 -3 . La promessa della parola è per la comunità cristiana 6S
t'anni (stando a Num. 14,20-3 8). Alla fine, quando Israele osò fare co­
munque un tentativo, subì una tremenda sconfitta ad opera di amale­
citi e cananei (Num. 1 4,4 5).
1 8. La terza domanda riguarda il giuramento prestato da Dio nella
medesima occasione, episodio che qui ovviamente viene inserito alla
fine come risultato della condotta tenuta allora .(Num. 1 4,2 8 ss.). An­
che in questo caso gli ascoltatori non possono che confermare che la
trasgressione e la ribellione vengono punite immediatamente. Così fa­
cendo rendono noto al tempo stesso di sapere benissimo quale sorte
potrebbe attendere anche loro.
1 9. Il v. 19 tira le somme e al tempo stesso introduce la nuova rifles­
si one in cui si rafforza in positivo l'idea che si tratta di entrare nel «ri­
poso» di Dio. L'autore punta a far comprendere alla comunità l'im­
portanza dell'ora. Bisogna essere pienamente consapevoli delle conse­
guenze che la decisione comporta. Quella che suona come una mi­
naccia in realtà è un'arringa appassionata rivolta al cristiano maturo,
che deve andare oltre il semplice sì della decisione battesimale di un
tempo per vivere, ora dopo ora, una vita di responsabilità.

La promessa della p a rol a è per la comunità cristiana (4, 1 -3 )


1 Poiché la promessa di entrare nel s u o riposo è ancora lontana dal suo a­
dempimento, preoccupiamoci perché nessuno di voi possa apparire un ri­
tardatario. 1 Anche noi, come loro, abbiamo ricevuto la buona notizia; ma
per essi la parola di predicazione fu inutile perché non si era unita nella fe­
de agli ascoltatori . 3 Noi infatti «entriamo in (un) riposo quando pervenia­
mo alla fede, come egli ha detto: «Così ho gi urato nella mia ira: non entre­
ranno nel mio riposo», benché le opere fossero create fin dalla fondazione
del mondo.
J Sal. 95,1 I. 4 Es. 1,1.

1 -3. La sorte d'Israele durante l'esodo induce a riflettere. In fondo


non hanno fallito tutti ? Il giudizio divino non ha raggiunto tutti ? L'uo­
mo incline a ribellarsi a Dio ha poi possibilità di scampo ? La riflessio­
ne di 4, 1 ss. dimostra che l'autore, cristiano di origine giudaica, dev'es­
sersi posto queste domande. Tuttavia non cade nella rassegnazione né
nello scetticismo. Consapevole che di fronte a Dio alla fede appartiene
la promessa, trae conclusioni che mostrano responsabilità e fiducia.
Egli inoltre sa della comunione del nuovo popolo di Dio, la quale sog-
66 Ebr. 3 , 1 s - 19. La promessa era rivolta a Israele?
giace alla parola di Dio ed è orientata a un fine ultimo, per cui, come
Israele nel deserto, può basarsi su una solida promessa. Ebr. la defini­
sce «lieta novella» e dimostra che il suo contenuto è incomparabile.
1 . Ognuno deve preoccuparsi, anzi addirittura temere, che «nessu­
no di voi» (cf. già J , I 3) rimanga indietro, così da non riuscire alla fine
a entrare nel «riposo di Dio». Il sabato eterno libera dal faticoso pere­
grinare, dalla ricerca angosciosa e dalla lotta disperata. Tuttavia vi è
anche un troppo tardi. Chi si allontana dalla strada, chi procede in
modo incerto, non solo «resta indietro» temporaneamente, ma perde
di vista anche la meta. Quindi il timore che deve animare la comunità
sino all'assoluta responsabilità reciproca non è rassegnazione paraliz­
zante, bensì atteggiamento di saggia prudenza e attiva donazione.
�. Questa vigilanza spirituale è indispensabile soprattutto perché an­
che i cristiani posseggono «come quelli » una (<lieta novella» . «Noi»
l'abbiamo, dichiara l'autore. Si percepisce la gioia di poter esibire un
tale straordinario possesso. Il modo di esprimersi del v. I ricorda che
la promessa è il vero contenuto di ciò che nella «parola dell'annuncio»
attualmente viene proclamata come «lieta novella>>. L'uso linguistico
potrebbe orientarsi a /s. 5 2,7 (LXX). Evidentemente il vangelo come
«buona novella» non è semplicemente testimonianza di Cristo, ma
piuttosto annuncio incoraggiante delle cose ultime che il suo sacrificio
ci ha svelato: il pericolo vero e proprio, da cui si è messi in guardia,
non è una concezione cristologica errata, bensì il venir meno della
tensione escatologica della fede. L'orientamento sostanziale al futuro
può essere sottovalutato. In ciò l'autore vede anche il reale fallimento
d 'Israele nel deserto: invece di guardare avanti, restò sempre ancorato
al presente. In fondo il Dio che lo aveva fatto uscire dall'Egitto ha com­
piuto i prodigi maggiori nel futuro. Segue poi una chiarissima defini­
zione del concetto di fede che corrisponde appieno all'esame svolto
(cf. I I , I ). La vera fede ha uno spiccato carattere di certezza: l'attività
individuale non dev'essere sepolta, ma messa allo scoperto. Ciò può
accadere solo se alla domanda del significato di tutto ciò fa riscontro
una risposta. Per questo motivo al fallimento d'Israele Ebr. non con­
trappone se non la certezza della fede dalla quale Dio si attende tutto.
3· Rifacendosi al Sal. 9 5 constata che «noi», che siamo giunti alla fe­
de, entriamo «in riposo», e questo in considerazione del giuramento
che impedì a Israele di fare altrettanto. Dio avrebbe giurato «sebbene
le opere fossero create fin dalla fondazione del mondo». Poiché in un
Ebr. 4,4-9. La prova di un futuro «riposo di Dio» 67
primo momento la risposta, presentata in forma assai abbreviata, non
è del tutto comprensibile, segue una dimostrazione accurata (4,4- 1 0)
dalle linee di fondo chiarissime. Quando Dio portò a termine le opere
della creazione preparò un «riposo» eterno per sé e per l'uomo. Poi­
ché a causa del proprio fallimento Israele non poté entrarvi, l'offerta è
rimasta valida sino a questo momento. Perciò il nuovo popolo di Dio
può e deve sfruttarla. Con riguardo alla particolare aspettativa di Ebr.
occorre far notare l'affermazione al presente «noi che siamo pervenuti
alla fede entriamo nel riposo» . Ebr. è guidato dall'idea che con l'essere
cristiani sia stato stabilito il rapporto con una nuova realtà che schiu­
de al credente (e a lui solo) il mondo ( = riposo eterno) di Dio. In que­
sto si distingue dal pensiero ellenistico filoniano, che fondamental­
mente tra l'uomo e il mondo di Dio mantiene un contrasto superabile,
almeno in parte, solo mediante la conoscenza e la visione religiosa.
L'idea inoltre indubbiamente punta a stabilire che l'attesa deve tende­
re al futuro, ove Dio ha preparato l'ultimo compimento. L'autore è
guidato dalla salda convinzione che la fede cristiana apra a una re la­
zione con Dio, la cui dimensione non solo abbraccia una nuova com­
prensione del presente, ma schiude anche quel futuro in cui Dio avrà
un posto irrinunciabile.

Anche la testimonianza di Davide


è prova di un futuro �riposo di Dio» (4,4-9)

4 Infatti a proposito del settimo giorno da q ual che parte ha detto così: «E nel
settimo giorno Dio si riposò da tutte le sue opere». 5 E di nuovo al passo
citato è detto: «Non entreranno nel mio riposo». 6 Poiché du n que risulta
che alcuni debbono ancora «entrarvi», e d'altra parte q u elli che per primi
ricevettero la buona notizia non vi sono entrati a causa della loro infedel tà,
7 allora di nuovo egli fissa un giorno «oggi », per dire dopo tanto tempo per
mezzo di Davide con le parole già citate: «Oggi, se udite la sua voce, non
indurite i vostri cu o ri» 8 Se infatti già Giosuè li avesse introdotti al ripo­
.

so, non avrebbe in seguito parlato di un altro giorno. 9 Dunque ne deriva


che al popolo di Dio resta ancora un riposo sabbatico.
s-7 Sal. 9 S , I I e Sal. 9 5 ,7 ss.

4-9. La dimostrazione, completata con 4,4-9 e che deve dar forza al­
l'idea di un riposo ancora da godere, scompone accuratamente le con­
nessioni appena create.
68 Ebr. 4t4-9· La prova di u n futuro «riposo di Dio,.

4· Con il metodo dell'indeterminatezza tipico soprattutto di Filone


(v. «da qualche parte» anche in 2,6}, viene espressamente citato il
classico passo di Gen. 2,2 in cui Dio impone il riposo sabbatico nel
settimo giorno della creazione. In tutta la letteratura del primo giudai­
smo e del cristianesimo delle origini esso rappresenta la prova princi­
pale per il futuro grande «giorno di Dio», che abbraccia mille anni.
L'ottica di Ebr. , che va direttamente al nocciolo, rinuncia a fornire nu­
meri. In questo modo è messo in risalto l'essenziale: come fu il prin­
cipio, così sarà anche la fine della creazione. Perciò l'uomo della te­
stimonianza biblica sa di essere stato liberato per vivere in modo eti­
camente responsabile sotto la chiamata di Dio.
5. La validità permanente di Gen. 2,2 viene infine appoggiata dal ri­
ferimento a Sal. 9 5 , I I , testo principale del ragionamento, in cui il con­
cetto centrale del «riposo» ha anch'esso una sua precisa collocazione.
Per il pensiero biblico, da questa uguaglianza di parole deriva il diritto
a trarre determinate conclusioni. Cercheremo di capirle, anche se non
è più possibile adottarle.
6. Se anche il salmo sa che all'Israele del deserto non è stato conces­
so di entrare nel riposo, tuttavia l'affermazione mantiene la sua validi­
tà per altri che potrebbero entrarvi. Dio non ritira mili una parola da­
ta. Se coloro ai quali in un primo tempo, con tale offerta, era stata pro­
clamata una «buona novella» non vi sono entrati, allora era evidente
che la promessa fatta prima sarebbe tornata a essere nuovamente vali­
da a un tempo stabilito.
7· Ciò avvenne quando Davide diede nuovo risalto alla parola di Dio.
Secondo la convinzione di Ebr. Dio non può parlare a caso. Dietro le
sue parole vi è sempre un significato saldo e permanente.
8. Perciò si aggiunge che Giosuè non ha ancora introdotto Israele
nel «riposo». È vero, lo ha condotto nella terra promessa, ma questa
non ha mai costituito il vero contenuto della promessa divina. Esami­
nando il contenuto dell'ultima affermazione, la tecnica interpretativa
del nostro autore, basata sulla conoscenza della Scrittura, sfiora invece
un principio metodologico dell' allegoresi alessandrina neoplatonica.
L'interessante circostanza che in questo passo si utilizzi senza riserve
la versione grecizzata del nome Giosuè, ossia (come nei LXX) «Ge­
SÙ», è una conferma dei contatti esistenti con la sinagoga ellenistica,
che gettano una luce particolare sulla composizione di Ebr. La lettera
è scritta partendo fondamentalmente dalla convinzione che la parola
Ebr. 4, 1 o s. Il pericolo della disobbedienza 69
della Scrittura è aperta, sia temporalmente sia dal punto di vista cono­
scitivo; essa vuoi dire qualcosa di permanente, che è il contenuto reale
del compimento futuro.
9· Riguardo all'accurata dimostrazione successivamente inserita, si
può allora concludere che al «popolo di Dio», l'espressione compare
qui per la prima volta, effettivamente spetti ancora un «riposo sabba­
tico», il quale deve costituire l'oggetto della sua speranza (cf. 4, I ). Sul­
la base del cap. 4 è stata elaborata la tesi (E. Kasemann) secondo la
quale, grazie al concetto di «popolo di Dio itinerante», sarebbe possi­
bile riportare tutta la testimonianza di Ebr. a un unico denominatore
comune teologico, tanto più che avrebbe a fondamento anche un cer­
to concetto (gnostico) di redentore. Ma Ebr. s'immagina veramente un
«popolo di Dio» (v. anche I I ,2 5) in cammino ? Una più attenta consi­
derazione fa nascere delle riserve; infatti è evidente che l'autore di E br.
sente di essere, con la comunità interpellata, non all'inizio della pere­
grinazione, ma molto vicino alla sua conclusione. L'entrata nel riposo
sabbatico, da un certo punto di vista, è anzi già cosa del presente, del­
l' «oggi». Si fissa dunque categoricamente ciò che è ritenuto una verità
e di cui si può prendere possesso.

Tutti dovrebbero prendere sul serio il pe r icolo della disobbedienza


(4, I O s.)

Io Infatt i chi è «entrato nel suo riposo» giunge anche «al riposo dalle sue ope­
re» come Dio dalle proprie. I I Aspiriamo dunque ad «entrare in qu el ri­
poso», affinché nessuno cada nello stesso tipo di disobbedienza.
1 0 s. Sal. 95 , 1 1 ed Es. 2,2.

Per approfondire il risultato vengono inserite ancora una spie­


1 0.
gazione in stile personale-individuale e un energico monito in prima
plurale «noi», analogo all'enunciato di 4, I . Là si trattava di parole di
incoraggiamento, qui di un'esortazione. Come Dio nel settimo giorno
si riposò dalle sue opere, così anche l'uomo che è entrato nel riposo di
Dio «giunge al riposo dalle proprie opere». Cosa significa ? Riguardo
a Dio si tratta certamente degli atti creativi di cui riferisce Gen. I , dei
quali si può pensare soprattutto che costarono fatica e lavoro. Se in
seguito è detto che l'uomo è giunto al riposo dalle «sue opere», ciò
può solo significare che ha deposto quanto vi era di gravoso e ostaco-
70 Ebr. 4, 1 2 s. La parola di Dio come dimensione giudiziale
lante. Certo non si tratta dei pesi che gravano normalmente sulla vita
umana e che non vengono risparmiati a nessuno, ma piuttosto del com­
plesso degli errori di una vita, errori che necessitano del perdono. Que­
sta idea sarebbe allora del tutto analoga a quella che compare in 1 Pt.
4, I ss.: «colui che soffrì nella carne», Cristo, «ha fatto cessare ( = ha
portato riposo) dal peccato». Dietro a tale espressione vi è un ricchis­
simo patrimonio di idee giudeocristiano. Per esempio, dei giudeocri­
stiani Epifanio scrive che predicavano Cristo come grande «sabato»
(Pan. 3 0,3 2,6 ss.). Evidentemente la frase esplicativa non indica un
«riposo di Dio» che avrà inizio solo in un lontano futuro. È piuttosto
una realtà della salvezza offerta, la quale avrà prossimo compimento
con l'intervento di Dio.
1 1 . Da questa tensione nasce la necessità dell'esortazione a compie­
re ogni sforzo per entrare in «quel riposo», «perché nessuno cada nello
stesso tipo di disobbedienza (d'Israele)». Non è messa in discussione
la comunità nel suo complesso, ma la singola persona. In quanto «casa
di Dio» (3 ,6) la comunità ha comunque un fondamento più saldo e si­
curo rispetto a Israele. Il pericolo dell'apostasia è tuttavia da prendere
in seria considerazione dal singolo cristiano (cf. J, I 2; 4, I ). Il suo falli­
mento personale può comportare la perdita della salvezza, divenendo
così molto più profondo di quello d'Israele.

La parola di Dio rappresenta una dimensione giudizi ale (4, I 2 s.)

1 2 La pa ro la di Dio infatti è viva, efficace e più affilata di una spada a dop­


pio taglio, per cui trapassa fino alla divisione di anima e spirito, articola­
zioni e midollo, e giudica i sentimenti e i pensieri del cuore. 1 3 No n v'è
creatura che non sia manifesta davanti a lui. Anzi tutto è nudo e messo allo
scoperto davanti agli occhi di colui al quale dobbiamo rendere conto.

12 Anche il nuovo popolo di Dio prende le sue decisioni sapendo


s.
quanto sia inesorabilmente affilata la parola di Dio. Alla base della fra­
se ammonitrice di 4, 1 I vi è una concezione teologica che al tempo stes­
so porta a conclusione l'intero monito (3,7-4, I I ). Nel loro rigido orien­
tamento tematico le frasi suonano come un excursus. Formalmente si
tratta di un compatto enunciato allegorico riguardante le caratteristi­
che giudiziali della parola di Dio, che viene paragonata a una spada. Si
preannunciano così pensieri fondamentali che ancora una volta collo-
Ebr. 4, 1 0 s. Il pericolo della disobbedienza 71
cano l'autore vicino alla teologia alessandrina filoniana, benché s i pos­
sa scorgere anche il carattere peculiare della sua esposizione.
Effettivamente Filone (in un'interpretazione di Gen. 1 5 , 1 0) descrive
con parole simili la forza disgregante della parola (Rer. I J0- 1 40, 2 2 5 ,
2 3 4-2 3 6), intendendo però, sullo sfondo di una concezione del mondo
panteistica, di filosofia stoica, la capacità critica dell'intelletto di scom­
porre l'universo e di comprendere la composizione contraddittoria del
cosmo: «Perché il logos divino ha diviso e scomposto tutte le cose
nella natura». Differenziandosi nettamente da questa posizione, il me­
desimo concetto in Ebr. non presenta gli elementi di razionalità gene­
rale né quelli della scomposizione logico-razionale. Indubbiamente si
aggiungono poi concezioni strettamente bibliche che non sono orien­
tate al concetto di ragione né a un concetto filosofico di sapienza (cf.
Sap. 7,2 2), bensì alla testimonianza della volontà divina. Di conseguenza
la parola di Dio non è parte essenziale del mondo, ma tende a esso,
più esattamente all'uomo, per esporre e affermare ciò che Dio esige.
La «parola» non è la ragione del mondo su cui si basa ogni essere, ma
è qualcosa di inaudito che Dio manifesta in modo certo e vincolante
nel contesto dell'ascolto e dell'obbedienza. I fondamenti di questa con­
cezione si trovano nell'Antico Testamento, ove soprattutto i profeti
testimoniano la potenza della parola e se ne fanno carico (/s. 40,8;
49,2; Ger. 2 3,29 ). In Sap. 1 8, 1 5 la «parola di Dio» che libera Israele
nella notte pasquale è paragonata a un «guerriero implacabile» che dal
cielo si lancia sulla terra: «Come spada affilata egli portò il tuo ordine
inesorabile, e fermandosi riempì ogni cosa di morte». Che le parole
della torà siano simili a una spada è convinzione diffusa anche presso i
rabbi. Ebr. è più vicina a questo paragone di tipo immaginifico che
non al concetto filosofico di logos.
1 2. Per Ebr. la parola di Dio non è una parola il cui contenuto sia
comunque Dio o il divino, ma è ciò che Dio in persona pronuncia e le
cui caratteristiche gli sono conformi. Come lui, anch'essa è viva e in­
tende quindi portare alla vita (Deut. 3 2,47; 1 Pt. 1 ,2 3 ). Il non ascolto
comporta sempre la morte. La vera vita, proprio in considerazione
della vera realtà di questo mondo (cf. 2, 1 5 ), può solo essere espressa
con riguardo a Dio. La parola non è qualcosa di inanimato, non è eco
né fumo, ma ci porta più vicini alla realtà della sua persona. L'uomo
vive di essa (Le. 4,4). In quanto parola su Dio è anche parola di Dio.
La parola di Dio è «efficace»; provoca l'efficacia di cui parla. Dio
72 ·Ebr. 4, 1 .1 s. La parola di Dio come dimensione giudiziale
veglia sulla propria parola affinché essa «avvenga» (/s. 5 5 , 1 1 ). Può es­
sere fonte di salvezza o di perdizione, come mostra in modo esempla­
re la storia d'Israele. Quanto la duplice funzione della parola sia al cen­
tro della riflessione è evidenziato dalla terza caratteristica: è «più affi­
lata» di una spada a doppio taglio. Con questo diviene chiaro che ine­
vitabilmente non si tratta solo di vita e di efficacia, ma anche di divi­
sione e separazione, e dunque dell'istituzione di chiari rapporti da par­
te di Dio. Lo stesso concetto viene ripetuto in tre punti che propon­
gono altrettante nuove immagini. Quando «trapassa>>, la parola di Dio
divide ciò che vi è di più intimo, stretto e segreto. Anima e spirito de­
finiscono la parte spirituale dell'uomo, quella per così dire più interio­
re di cui si è responsabili di fronte a Dio. L'immagine della separazio­
ne delle articolazioni dal midollo probabilmente non intende introdur­
re l'ambito anatomico, ma si riferisce a qualcosa di strettamente legato
insieme. Infine si afferma che la parola è giudice «dei sentimenti e dei
pensieri del cuore», e quindi può mettere allo scoperto anche ciò che
vi è di più segreto. Evidentemente la parola di Dio è l'arma più affilata
che possa colpire l 'uomo. D'altra parte non esiste altro mezzo con cui
risultare più vittoriosi. La parola definisce la realtà della presenza di
Dio e dunque il mezzo della sua rivelazione nella vita dell'uomo, che
è creatura.
1 3 . Con la parola Dio ha creato l'uomo. Con la parola lo richiama
di continuo alla sua origine creaturale di cui è chiamato a render con­
to. La parola è tanto affilata quanto incorruttibile lo sguardo di Dio.
Egli giudica non in modo superficiale, ma conoscendo il reale stato di
cose, dal momento che ogni cosa davanti a lui è «nuda» e «messa allo
scoperto» . Le espressioni alludono al fatto che l'uomo deve giustifi­
carsi come una vittima che si aspetti in ogni momento il colpo fatale.
Con forte enfasi, alla fine della pericope è detto letteralmente: «al qua­
le dobbiamo rendere conto». Con questo è detto chiaramente che la
parola di Dio si aspetta una risposta da parte nostra.
Riassumendo, ribadiamo che 4, 1 2 ss. offre una dimostrazione del­
l'idea portante che la teologia della croce e la teologia della parola so­
no indissolubilmente connesse. Essa dà un volto all'intera testimonian­
za di Ebr. Soprattutto il seguito tiene conto di quest'idea. Se la testi­
monianza paolina può essere riassunta nella frase che la «parola della
croce» esiste in potenza, quella di Ebr. a sua volta nella frase che la
«parola del sacrificio» esige la nostra responsabilità (v. anche 1 3, 1 5 s.).
Ebr. 4, 1 z s. La parola di Dio come dimensione giudiziale 73
Molti interpreti fanno iniziare con 4, 1 4 una seconda ampia parte
che si estende sino a r o, r 8 . Conscio di essere un po' uscito dal semina­
to con la spiegazione del Sal. 9 5 , l'autore avrebbe ora ripreso risolu­
tamente il filo del discorso. In questo modo risulterebbe comprensibi­
le l'interesse più o meno improvviso per il definitivo oggetto principa­
le della lettera. Già per 3,7-4, 1 3 vi era motivo di obiettare a tale ipote­
si. L'intento palese di Ebr. è di comporre e allineare i pensieri all'in­
terno dell'omelia in modo tale da riprendere ogni volta parole e frasi
che essenzialmente presuppongano il fondamento omiletico del Sal.
I 1 0. Con 4, 1 4-6,20 abbiamo uno di questi nuovi pensieri, che tenta di
introdurre un tema ulteriore per trarne le debite conseguenze.
Parte seconda

«Tu s ei sacerdote» (Sal. 1 1 0,4)


(4, 1 4-6, 20)

La gioia di professare la fede nasce dal ministero sacerdotale


di Gesù, il q u ale ha portato aiuto fin nella t r ibola zione
più profonda dell'esistenza (4, 14-5,IO)

Questa parte tratta in primo luogo la realtà del sacerdozio di Gesù


in linea di principio, per cui ne vengono illustrate innanzitutto le ca­
ratteristiche essenziali, ossia la chiamata diretta da parte di Dio e l'in­
condizionata capacità di compassione. Si tratta dunque di spiegare più
approfonditamente idee precedentemente esposte in 2,9 ss. e 2, 1 7 ss.
L'esortazione parenetica di 4, 14, che riprende nuovamente le finalità
dell'ampia enunciazione di 3,7-4, 1 I nel senso del vero e proprio inten­
to pratico principale, segue J , I in modo obiettivo e concettualmente
consapevole. Il pensiero principale può essere strutturato in tre parti:
a) 4, I 4- I 6, come accennato, fa da ponte con affermazioni precedenti,
come mostrano soprattutto i concetti impiegati; b) 5,1 -4 espone le due
circostanze fondamentali già citate, che caratterizzano il ministero sa­
cerdotale: la capacità umana di compatire, e la chiamata da parte di
Dio; c) 5 , 5 - I o infine applica in successione inversa (vero chiasmo) i
criteri summenzionati al ministero di Gesù, al quale, benché chiamato
da Dio, non fu risparmiata l 'esperienza delle profondità della soffe­
renza umana. Le frasi conclusive di 5,9 e 5 , 1 0 anticipano la parte cen­
trale vera e propria (7, 1 - I o, 1 8 }, nella quale vengono spiegate minuzio­
samente le espressioni «al modo di Melchisedec» e «in eterno».
Quanto sia stretto il collegamento logico con la sezione precedente,
3,7-4, 1 I , è evidenziato dalla ripresa dei medesimi temi, importantis­
simi per l'autore. Sal. 1 1 0,4 afferma: «Il Signore ha giurato e non si
pentirà: 'Tu sei sacerdote in eterno secondo l'ordine di Melchisedec'».
Prima di dedicarsi a questo tema omiletico fondamentale, evidente­
mente l'autore in 3,7 ss. intendeva innanzitutto trattare di quel giura­
mento antico pronunciato in un momento di collera e rimorso per
non concedere la salvezza. Quanto di fatto lo abbia impegnato questa
Ebr. -4, 14-16. Manteniamoci fedeli alla confessione di fede 7S
affermazione del salmo lo deduciamo dalle riflessioni di 7, 1 8-22. La
coerenza con cui le frasi tratte dal Sal. I 1 o vengono continuamente
spiegate, apertamente o anche tacitamente, è prova convincente della
particolare struttura omiletica della lettera.

Per la prova dataci da Gesù, manteniamoci fedeli alla confessione


di fede e presentiamoci davanti a Dio (4,14- 1 6)
1 4 Poiché noi abbiamo ora u n g ra n de sommo sacerdote che è passato at­
traverso i cieli, Gesù, il Figlio di pio, manteniamoci fedeli alla confessione
di fede. 1 5 Infat ti noi non abbiamo un sommo sacerdote che non sia in
grado di compatire le nostre debolezze, ma piuttosto uno che è stato pro­
vato in ogni cosa allo stesso modo, ma senza peccato. 16 Accostiamoci dun­
que con gioia al trono della grazia, affi nché otteniamo misericordia e tro­
viamo grazia per essere aiutati nel tempo opportuno !
1 4. L'inizio, «poiché dunque abbiamo», non trae le conseguenze da
3,7-4, 1 J, né conclude qualcosa di detto in precedenza (v. in particola­
re 2, 1 7 ss.); riassume invece un dato di fatto: in Gesù noi possediamo
un eccellente sommo sacerdote, il cui ministero ci ha reso accessibile il
cielo schiudendoci così la natura più particolare di Dio. Se la frase dà
l'impressione che l'autore fino ad ora non abbia parlato d'altro, è per­
ché fondamentalmente il suo pensiero prende le mosse dal Sal. I I o.
L'affermazione riguardante la maestà di giudice del Figlio e la sua di­
gnità sacerdotale «secondo l'ordine di Melchisedec» dà l'impronta al
salmo. La testimonianza biblica trapela laddove è detto: «Poiché noi
abbiamo ora un grande sommo sacerdote che è passato attraverso i
cieli». Dal momento che, fondamentalmente, già nel salmo pasquale
sta scritto così, vi si può subito far riferimento, ovviamente con ac­
centi propri. Cristo, che ha schiuso il cielo, è presentato come sommo
sacerdote «grande»: esagerazione certo solo apparente, per quanto
questo titolo ellenistico riservato al sovrano indichi soprattutto la di­
gnità del Signore del mondo spettante a colui che è stato innalzato (v.
anche 1,4- 1 3). Questa espressione compare significativamente anche
in Filone, che con essa ha sottolineato l'importanza cosmica del sim­
bolo relativo al sommo sacerdote (Somn. 1 ,2 1 5 - 2 1 9; 2, I 8 3). A diffe­
renza di Filone Ebr. non intende illustrare la funzione di sommo sa­
cerdote di un logos celeste, bensì fornire la dimostrazione che proprio
il Gesù terreno, il Cristo della passione e della croce, è sia sommo sa-
76 �Ebr. 4, 14- 1 6. Manteniamoci fedeli alla confessione di fede
cerdote sia Figlio di Dio. Se in Filone il logos celeste si presenta come
colui che è realmente esistente, in base al quale l'elemento terreno,
come ad esempio il sommo sacerdozio giudaico, può essere spiegato e
diviene significativo, l'autore di Ebr. parte invece da un'altra prospet­
tiva; la realtà terrena di Gesù lo indirizza verso quel mondo celeste
che naturalmente neanche per lui ha costituito un problema. In questo
contesto occorre prestare particolare attenzione alla testimonianza of­
ferta dal significativo quadro del v. 1 4. Esso riporta una dichiarazione
riguardante il Gesù terreno cui è attribuito il titolo di «Figlio di Dio»,
al quale sono collegate indubbiamente concezioni non solo relative al­
l'esistenza; infatti secondo 1,4 egli ha «ereditato» questo nome. Né tan­
tomeno Gesù viene definito «Figlio» per distinguerlo da Gesù = Gio­
suè (4,8), come sostengono alcuni interpreti. Questo titolo cristologi­
co afferma piuttosto chi è realmente Gesù, innanzi tutto in quanto con­
tenuto principale della confessione di fede. Perciò ci viene precisato
che la sua funzione consiste nel ministero sacerdotale per il mondo in­
tero e per tutti gli uomini (v. già 1 , 3 e 2, 5 ss.). Di conseguenza, ogget­
to della «professione di fede» cristiana non è affatto semplicemente una
verità o una concezione a cui astrattamente aderire o meno; si tratta
invece di un qualcosa che si riconosce e si approva esistentivamente,
nel quale si ripone la propria speranza, consapevoli che altrimenti non
ve ne sarebbero altre. Nella «professione di fede », inoltre, si esprime
la lode dell'uomo ricolmo di lieta fiducia (cf. 4, 1 6; I 0, 1 9). In Ebr. la
testimonianza teologica e l'esaltazione liturgica si indirizzano in mo­
do unico a Gesù, che ha ereditato il titolo di «Figlio di Dio» e nell'a­
dempimento della propria mansione sacerdotale «è passato attraverso
i cieli» . Quale significato ha tale espressione ? Riteniamo sia da esclu­
dere l'ipotesi che, seguendo la teoria gnostica che conosce l'idea del
«viaggio celeste dell'anima», si riferisca a un ritorno o a un'ascensione
del salvatore attraverso le sfere celesti (cf. ad es. Test. Levi 3; A se. Ies.
7 ss.). Sia il contesto che il linguaggio (v. «passare attraverso») sugge­
riscono piuttosto che l'evento sia descritto in analogia al procedere
del sommo sacerdote che entra nel santo dei santi del tempio geroso­
limitano nel grande giorno dell'espiazione. Stando alla descrizione di
Flavio Giuseppe (Beli. 5 , 5 ,3 ss.) bisognava passare attraverso due ten­
de, all'ingresso una del santo l'altra del santo dei santi. Ornate di sim­
boli cosmici, le tende dovevano essere una raffigurazione del cielo.
L 'idea che non si tratti di un'ascensione al mondo celeste presentata in
Ebr. �h 1 4- 1 6. Manteniamoci fedeli alla confessione di fede 77
modo mitico, ma di una rappresentazione del ministero di Gesù col ri­
corso al noto rituale del tempio nasce non ultimo dalla constatazione
che ora anche i cristiani hanno accesso al «trono della grazia» .
1 5 · Dal v. 1 5 risulta evidente che l'autore mira a descrivere la man­
sione sacerdotale, non a elaborare speculazioni sulla redenzione. Co­
me in 2, 1 7' ss., l'attenzione è rivolta all'aspetto terreno del ministero
sofferto e sanguinante di Gesù. È evidente che il diritto a una gioiosa
professione di fede si basa non sulla figliolanza divina di Gesù, ma sul­
la sua umanità. Quanto alla scena del ministero, essa è duplice, com­
prendendo il cielo e la terra. Ciò che lì avviene acquisisce significato
immediato per comprendere la conferma da parte di Dio. In primo
luogo è detto che Gesù è stato in grado di com-patire le nostre debo­
lezze. Era una persona fatta di «sangue e carne» (2, 1 4). Patì c sofferse,
proprio come tocca dolorosamente a qualsiasi uomo di questa terra, né
tantomeno gli sono state risparmiate le lotte interiori personali. No n
solo dovette resistere alla tentazione «nello stesso modo» (cf. 2, 1 8},
ma anche ((in ogni cosa>> . Le tentazioni non gli si presentarono singo­
larmente o in modo sporadico, ma costituirono un esame in cui tutta
quanta la persona dovette dar prova di sé. N e faceva parte anche la ne­
cessità di una decisione estrema, che riguardò la tremenda eventualità
dell'apostasia. L'accento è dunque posto sull'espressione «(ma) senza
peccato», che segue la caratterizzazione dell'umanità di Gesù. Tale e­
spressione non dà un giudizio sul motivo delle tentazioni, ma valuta
l'effetto finale. Nella teologia d'impostazione biblica dell'autore, il
«peccato» cui Gesù si oppose parafrasa l'infrazione dei comandamenti
di Dio, anzi, in fondo è il rifiuto stesso di Dio (cf. 4, 1 6 ss.). L'espres­
sione in parola non va dunque intesa in senso etico-morale, magari in
considerazione degli innumerevoli peccati di ogni giorno, come po­
trebbe suggerire un fraintendimento moderno; essa si basa invece sulla
volontà di Dio resa manifesta, alla quale Gesù obbedì in una situazio­
ne limite radicale. N el caso di Gesù, dunque, il pericolo non consiste­
va unicamente nel commettere un cosiddetto peccato, ma nel divenire
infedele a Dio. Egli vi si oppose. La validità di questa interpretazione
è confermata da 5 ,7 ss. Da un certo punto di vista, tutta la tradizione
dell'Antico Testamento si attiene alla «impeccabilità» di Gesù nel sen­
so descritto. Sebbene predeterminato come caratteristica del servo di
Dio sofferente (cf. fs. 5 3,9), e addirittura insegnato in Filone a propo­
sito del sommo sacerdote e logos divino (Fug. 1 08), criterio di una cor-
78 Ebr. f , I -4. La cura dei doveri sacerdotali
retta comprensione resta pur sempre il fatto dell'obbedienza dimo­
strata sulla croce (Fil. 2,5 ss.; 2 Cor. 5,2 I ; I Pt. 1 , I 9; 2,22; 3 , 1 8; I Gv. 3 ,
5 ccc.).
1 6. Il fondamento della fede cristiana è dunque essenzialmente e ori­
ginariamente di tipo storico, non tanto prodotto di una fantasia reli­
giosa. La formula «senza peccato» fissa la sostanza della questione co­
mc una sigla teologica, poiché ne derivano conseguenze liberatorie. Il
trono di Dio, insomma, non è un trono del giudizio, ma un trono di
grazia. Con l'intronizzazione di Cristo, i rapporti tra uomo e Signore
sono cambiati. Chi gli si accosta nel giusto modo non viene respinto;
solo i nemici divengono sgabello per i suoi piedi (cf. Sal. I 1 o, I s. in 1 ,
3 I e I O, I J). Chi giunge non s e ne va via ancora più spoglio, giacché
«riceve misericordia» e «trova grazia» - due espressioni bibliche per
affermare chiaramente che si tratta dell'accoglienza dell'uomo davanti
a Dio, e non del disvelamento di misteri divini. N ella miseria l'uomo
ha bisogno di misericordia, nella colpa senza via d'uscita necessita
della grazia. In modo altrettanto tipico è detto in Sal. 1 1 1 ,4 che il Si­
gnore «è ricco di grazia e di misericordia». Inoltre, quando si sottoli­
nea che questo è m otivo di «aiuto tempestivo», probabilmente si in­
tende che Gesù libera sempre dalla prova e dalla tentazione, ovvia­
mente non solo nel momento attuale. Quest'asserzione acquista valo­
re soprattutto sullo sfondo dell' «oggi», ma non si limita affatto al mo­
mento liturgico, come prova l'espressione generica «accostiamoci dun­
que» . Grazie a Gesù, la comunità neotestamentaria può confidare nel
compiacimento divino in ogni problema e in ogni tentazione. Il con­
cetto un po' convenzionale dell' «aiuto» (v. anche 2, 1 8) sembra adattar­
si egualmente alla testimonianza della Scrittura (per il gruppo dei sal­
mi dell'balle/ cf. Sal. I 1 5 , I o ss.; Sal. I I 8,6, citato in I J,6).

La cura dei doveri sacerdotali è legata a determinati presupposti


( 5 , I -4)
1 Infatti ogni sommo sacerdote preso fra gli uomini viene costituito a favo­
re di uomini in relazione al rapporto con Dio, per offrire a Dio doni e sa ­
crifici per i peccati, 2 per cui egli è in grado di essere comprensivo con quelli
che sono nell'ignoranza e nell'errore, in quanto egli stesso è carico di debo­
lezza. 3 E perciò fa parte dei suoi doveri offrire per se stesso come per il
popolo (sacrifici) per i peccati. 4 Inoltre nessuno può attribuirsi tale ono­
re, ma vi ene chiamato da Dio, proprio com e Aron ne.
Ebr. s , 1 -4. La cura dei doveri sacerdotali 79
1-4. La pericope illustra il significato e il compito dell'ufficio sacer­
dotale. Vengono elaborate le caratteristiche generali per poi applicarle
a Cristo ( 5 , 5 - 1 0). Perciò non ci troviamo davanti alla motivazione di
4, 1 4- 1 6, quanto a una dimostrazione esplicativa al cui centro vi è la
massimo e più importante carica della comunità statale e cultuale giu­
daica.
1. L'attenzione tuttavia non si volge alla posizione politica del som­
mo sacerdote, che era al tempo stesso presidente del sinedrio, massi-
1no giudice e rappresentante dello stato, ma esclusivamente al suo com­
pito cultuale sacerdotale «davanti a Dio»; e in particolare è la solenne
liturgia nel grande giorno dell'espiazione che viene presa in conside­
razione. Questo avviene in modo tale da sottolineare tutti quei mo­
menti che sono essenziali per la sua azione vicaria in tale giorno. Della
festa in particolare ancora non si parla (v. sotto, cap. 9), ma si illustra ­
no le circostanze in cui al sommo sacerdote viene conferita la sua di­
gnità incomparabile: «preso fra gli uomini è costituito per uomini in
relazione al rapporto con Dio». In questo modo si richiama alla mente
ciò che di lui è detto nell'Antico Testamento (cf. Es. 28 ss.; Lev. r 6;
Num. 1 8 ss. ecc.) e non ciò che si è andato via via aggiungendo in man­
s ioni e specialità nel corso della storia d'Israele. Nel sommo sacerdote
si incarna la convinzione che davanti a Dio debba essere un uomo a
intercedere per gli uomini, «per offrire doni e sacrifici per i peccati».
È possibile che con ciò si pensi a offerte incruente e di sangue. Ancor
più probabile è che s'intendano le varie offerte presentate dal sommo
sacerdote nella festa dell'espiazione, e specificamente le offerte di san­
gue (8,3) perché rivestono un'importanza particolare (cf. Lev. r 6,1 5).
A ciò s i aggiunga c h e i l sommo sacerdote poteva agire i n questo modo
per sé e per il popolo solo nel grande giorno dell'espiazione.
z s. Il significato del rituale emerge piuttosto chiaramente nei due

versetti successivi, 2 s. L'affermazione che pone il sommo sacerdote


sullo stesso piano di «quelli che sono nell 'ignoranza e nell'errore» per
attribuirgli una « debolezza» che dev'essere anch'essa espiata può esse­
re adeguatamente compresa solo in base a quanto avviene nel giorno
dell'espiazione. Come è noto, in tale occasione il sommo sacerdote
pronunciava una confessione dei peccati rispettivamente per sé, per il
gruppo dei sacerdoti e per tutto il popolo (m]orna 3 ,8 ; 4,2; 6,2); in essa
si implorava il perdono per ciò che nell'anno trascorso era stato og­
getto di «mancanza, violazione, peccato». Evidentemente dovevano es-
Bo Ebr. J , I -4. La cura dei doveri sacerdotali
sere presentate a Dio tutte le mancanze commesse, involontarie e non
intenzionali, lievi e gravi, consapevoli e inconsapevoli, eccetto ovvia­
mente quelle che comportavano un radicale rifiuto (Num. I 5 ,22-3 I ) .
L'espressione «quelli che sono nell'ignoranza e nell'errore» si riferisce
a questo contesto. Quando inoltre del sommo sacerdote è detto che è
benissimo in grado di «capire», di «soffrire» e «sentire», il testo origi­
nario corrispondente (v. anche 4, I 5) intende la capacità insita nella
natura umana di sbagliare, violare e peccare in modo solidale, per
quanto essa possa tenersi nel giusto mezzo tra l'empia passione e la
divina incapacità di soffrire (Filone, Abr. 2 5 7; Deus 1 62 ss.). La realtà
di una «debolezza» di fondo che coinvolge la persona intera è tale an­
che per il sommo sacerdote, il quale quindi, secondo la legge, era
«obbligato» a pronunciare una confessione dei peccati «per sé come
per il popolo», e a «offrire (sacrifici) per i peccati» (cf. mfoma 1 ,2).
Particolarmente solenne e importante era il tamid al mattino del gior­
no dell'espiazione, come pure gli altri atti sacrificali. Ai fini della sua
argomentazione, in questo passo Ebr. rinuncia ai particolari che gli
sono noti.
4· Un altro punto di vista rilevante è la constatazione che nessuno è
in grado di arrogarsi da solo la «carica» o «onore» di sommo sacer­
dote, ma deve riceverla da Dio, come è dimostrato da Es. 2 8, I ss. in
relazione ad Aronne. Dietro tale funzione vi è dunque la chiamata di­
vina, non la propria volontà o la propria aspirazione. Aronne, in quan­
to antenato del sacerdozio levitico, venne prescelto da Dio «per essere
mio (cioè di Dio) sacerdote ». Laddove ci si arroga ingiustamente di­
ritti sacerdotali, come si proponeva la rivolta di Core (Num. 1 6), entra
in scena il giudizio di Dio, poiché «farà avvicinare a sé (solamente}
colui che egli avrà scelto» (Num. I 6, 5 ).
Quale significato teologico collega l'autore al sacerdozio giudaico ?
Il suo pensiero si basa su linee di fondo bibliche, ma a quanto pare
parla di un'istituzione ancora esistente, il che rimanda agli anni prece­
denti la distruzione del tempio (70 d.C.). Senza alludere a personalità
specifiche che, come si sa, in tarda epoca giudaica furono spesso con­
testate, indirizza i suoi pensieri al ministero sacerdotale come ideale.
L'importanza unica nel suo genere gli deriva dall'istituzione e dal com­
pito. È stato Dio a volere per il suo popolo il ministero sacerdotale,
ragion per cui Aronne e il sacerdozio levitico furono prescelti per
Israele. Evidentemente bisogna che siano degli uomini ad agire con
Ebr. J , J - I O. Gesù venne chiamato da Dio 81
funzione sacerdotale vicaria in favore di altri uomini, perché il popolo
di Dio gli si presenti santo e puro. Per poter prestare un giusto servi­
zio occorre dunque la solidarietà con gli uomini peccatori e deboli.
·rale servizio è necessario ovunque il fallimento e la colpa si facciano
largo. Ciò che nell'Antico Testamento appare come un'elezione parti­
colare ed esclusiva, nel Nuovo diviene compito di tutti.

Chiamato da Dio, per la sua assoluta obbedienza


Gesù divenne autore della salvezza ( 5 , 5 - 1 0)
s Così anche Cristo non si attribuì da sé l'onore di divenire sommo sacer­
dote, ma (lo fece) colui che gli parlò così: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho
generato». 6 E lo stesso dice in un altro passo: «Tu sei sacerdote in eterno se­
condo l'ordine di Melchisedec». 7 Il quale nei giorni della sua carne offrì
pregh iere e supp lich e con forti grid a e lacrime a colui che poteva salvarlo
dalla morte, e fu esaudito per la sua angoscia; 8 sebbene fosse il Figlio, da
quello che patì i mparò l'obbedienza, 9 e avendo sperimentato la perfezio­
ne, divenne causa «della salvezza eterna» per tutti quelli che sono obbe­
dienti, Io nominato da Dio sommo sacerdote «secondo l'ordine di Melchi­
sedec».
s Sal. 2,7. 6 Sal. I IO,.f. 7 Sal. I 16, 1 ss. 9 /s. 4 f , I 7. IO Sal. I 10,4.

L'esito delle considerazioni di 5 , 1 -4 viene applicato a Cristo in


s s.
una pericope a parte, per dimostrare che il senso ultimo del sacerdo­
zio veterotestamentario in lui si è trovato incarnato, adempiuto e su­
perato. Un tipico «così anche» stabilisce il confronto tra Aronne e
Cristo; per prima cosa si sottolinea che neppure il secondo si è attri­
buito da sé l' «onore» e la «gloria» dell'ufficio sacerdotale. Quando
«divenne» sommo sacerdote - allusione alla sua passione - ciò accad­
de secondo la volontà e la parola di Dio. Le due citazioni tratte da Sal.
2,7 e Sal. 1 1 0,4 (cf. 1 , 1 3 ) contengono la promessa fatta a Cristo di es­
sere Figlio e sommo sacerdote, rafforzando così il privilegio spettante
a Gesù di potersi presentare davanti a Dio, Padre e Signore. Mentre
Sal. 2,7 sottolinea maggiormente l'incarico di Figlio, Sal. 1 1 0,4 ne evi­
denzia la perpetua dignità di sommo sacerdote. Una promessa elettiva
di Dio trova sempre chiara espressione. La combinazione delle due ci­
tazioni indubbiamente ha motivazioni sostanziali, per quanto possa
presupporre anche determinate regole relative alla tecnica interpreta­
tiva (cf. Sal. 2,7 e 1 IO,J). Se ciò è esatto, allora in questo contesto non
82 Un inno i n s ,7 ss.?
si tratta tanto dell'elaborazione di una cosiddetta dimostrazione pro­
fetica della costituzione di Gesù come sommo sacerdote, quanto del
chiarimento inequivocabile della sua vocazione unica e irripetibile. Le
parole, infatti, lasciano intendere che con Gesù Dio puntava a qualco­
sa di più grande che non con Aronne e il sacerdozio levitico. La sua
mansione sacerdotale consistette nella passione, con la quale «divenne
sommo sacerdote». Verosimilmente l'impiego di Sal. 2,7 (e in partico­
lare «lo oggi ti ho generato ») mira alla fattispecie dell'insediamento di
Gesù nella dignità sacerdotale conseguita ( 5 , I o). Per quanto riguarda
Sal. I I o,4, tale orientamento è fuor di dubbio. Ne consegue che l' «og­
gi», proprio come in Sal. 95 ,7, ha un particolare significato kerygmati­
co grazie al quale la morte e l'esaltazione di Gesù si presentano come
svolta escatologica di importanza cruciale. Definiscono il fondamento
di un ministero perpetuo, perciò con la citazione si può tranquilla­
mente parlare solamente di «sacerdozio)), tanto più che il testo man­
tiene chiaramente l'espressione unica «secondo l'ordine di Melchise­
dec » . L'importanza che ciò riveste verrà minuziosamente spiegata più
avanti (cap. 7). Intanto qui ci viene già anticipato che il sommo sacer­
dozio di Aronne non solo è stato incarnato per l'ultima volta, ma è sta­
to anche superato ed estinto (7, I 2). La ragione di questa nuova «isti­
tuzione)) trova una spiegazione nelle frasi seguenti ( 5,7- I o), che pur
rifacendosi a Sal. I 10,4 in modo poco logico, tuttavia, se viste in di­
pendenza dal v. 5 a, acquistano un loro significato.

Un inno in 5,7 ss.? Linguaggio e stile ebraizzante dei vv. 7- 1 0 in


tempi recenti hanno ripetutamente dato motivo di vedervi un fram­
mento innico rielaborato (E. Kasemann) o una professione di fede (G.
Schille). Si è tentata persino una ricostruzione (G. Friedrich, H. Zim­
mermann). In genere si parte dal sicuro presupposto che in questi ver­
setti si rispecchi un testo preformato (M. Rissi, J. Jeremias). Una spie­
gazione più ovvia delle particolarità linguistiche e materiali si ha pren­
dendo in considerazione l'eventualità, plausibilissima per il metodo
omiletico, che la raffigurazione della disperazione e del tormento di
Gesù possa effettuarsi partendo anche dalla prova scritturistica. Si pen­
si anzitutto a una serie di testi di salmi pertinenti, per cui accanto a
Sal. 2 2,3 .2 5, Sal. 3 1,23, Sal. 3 9, 1 3 e Sal. 69,2 ss. la preferenza va netta­
mente al Sal. 1 1 6 (= Sal. I I4 e 1 1 5 LXX) (cf. E. Grasser e Fr. Schro­
ger). La critica non può contestare l'esistenza di numerose dipenden-
Ebr. J , J - 1 0. Gesù venne chiamato da Dio 83
z e e contatti, per non dire che la conoscenza fondamentale del meto­
do omiletico di Ebr. torna a tutto vantaggio di una tale spiegazione.
Di conseguenza l'autore ha rielaborato un testo che la comunità pri­
mitiva aveva riferito a Cristo, prendendolo invece dal gruppo dei sal­
mi dell'balle/. Esso poteva servire come nessun altro a illustrare la lot­
ta interiore di Cristo, il quale è rivestito di «debolezza» ( 5 ,2); al tempo
stesso può tuttavia avere inciso anche la tradizione di una preghiera
drammatica di Gesù (v. il racconto del Getsemani, cf. in particolare
Le. 22,44; Mc. 1 4, 3 2 ss.; Gv. 1 2,27 ss.). Sembra più illuminante l'ipo­
tesi che la circostanza storica, di cui in un primo tempo dovette es­
servi una tradizione, sia stata sì importante, ma non tanto quanto la
relativa riflessione cristologica, in base alla dimostrazione profetica.

7· Il passaggio dal v. 6 al v. 7, che a prima vista sembrerebbe illogico


(«il quale») e con cui viene introdotta la testimonianza biblica sul
Cristo sofferente, poggia sul fatto che Ebr. ricorda qualcosa di cono­
sciuto, probabilmente per alludere a espressioni tipiche del testo bibli­
co. La descrizione della figura del Cristo biblico della passione porta
alla costruzione di una frase piuttosto lunga (ricca di participi) in 5 ,7-
1 o, che dalla miseria di Gesù giunge al Cristo innalzato, perché il suo
sommo sacerdozio si basa sulla dialettica del destino che da lui ci si
aspetta ( 5, 5 ). Apprendiamo che nulla gli fu risparmiato «nei giorni
della sua carne,., ossia durante la sua esistenza terrena, che comprese
la schiavitù sotto il timore della morte (2, 1 4 ss.) e l'esperienza della
«debolezza» ( 5 ,2). Anche il salmista invoca Dio «nei suoi giorni», os­
sia durante la sua vita (Sal. 1 1 6,2). Di fronte alla morte Cristo ha of­
ferto «preghiere » e «suppliche», duplice espressione usuale che equi­
para la sua preghiera ai doni del sommo sacerdote, come indica l'im­
piego della locuzione «offrire (sacrifici)» relativa al culto (cf. Filone,
Cher. 42). Allo stesso modo anche il salmista di Sal. 1 1 6, 1 in pericolo
di morte offre la sua «invocazione». Forse Ebr. ha illustrato con un mo­
do di dire tipico il contesto che gl'interessava in relazione a «preghie­
ra e intercessione ». L'inconsueta lotta che Cristo deve sostenere nella
preghiera viene illustrata con pochi tratti secondari che parlano di
«forti grida e lacrime», probabilmente in parte sull'esempio di Sal.
1 1 6,8 (cf. anche Sal. 22,2 5 ). Si potrebbe supporre che la tradizione re­
lativa alla passione che tratta di una «lotta nel Getsemani» (v. in parti­
colare Le. 22,4 1 ) sia stata rielaborata in senso biblico per insistere sulla
84 Ehr. s , s - r o. Gesù venne chiamato da Dio
disperazione di Cristo e al tempo stesso sul suo intervento di inter­
cessione presso Dio. In epoca più antica furono indubbiamente in pri­
mo luogo i salmi a favorire il voluto confronto messianologico. Un
Cristo sofferente di questo tipo era estraneo all'attesa giudaica di epo­
ca neotestamentaria, ed estremamente scandaloso. Mai ottenimento
dell'assenso divino apparve più urgente e sofferto che nel nostro pas­
so. Se vi è una tradizione molto tarda sul «gridare» e il «piangere» del
messia (v. Midr. Pesiq. R. 36 ( r 62a)), allora questa rappresenta un'ec­
cezione indotta dali' annuncio cristiano. Una massima giudaica può
aiutare meglio a capire: «Vi sono tre tipi di preghiera, ognuno più po­
tente del precedente: preghiera, grida e lacrime. La preghiera si fa in
silenzio, il grido a voce alta, ma le lacrime sono meglio di tutto» (Syn.
Zohar 2, 1 9b/2oa). È chiaro che Ebr. parla in modo analogo di una
preghiera che quanto a fervore e avvilimento non ha eguali (cf. anche
Os. I 2, 5 a proposito di Giacobbe; diverso invece Gen. 3 2,26). Può in­
tendere solo la lotta di Gesù con Dio nei giorni della passione quan­
do, stando alla testimonianza dei vangeli, implora con queste parole:
«Padre, se vuoi, allontana da me questo calice» (Le. 22,42); si poteva
quindi far riferimento a Sal. I I 6, 1 3 come ulteriore esternazione della
volontà di Gesù: «Prenderò il calice della salvezza>> (v. al riguardo 5 ,9:
«causa di salvezza>>). Il testimone dei LXX viene interpretato come
invocata «salvezza» di Cristo dalla morte, e non come «preservazio­
ne» dalla morte, che nel caso di Gesù non avrebbe mai corrisposto al
vero. In tale concezione Sal. I I 6,3 . 8 dice che l'anima è stata strappata
dalla morte e che il salmista cammina «nella terra dei viventi>>. Se si ri­
fiuta la versione a volte ipotizzata per cui il Cristo orante venne esau­
dito «non per la sua angoscia», allora la preghiera invocante la salvez­
za dalla morte è effettivamente stata ascoltata. C'è chi suggerisce che
Cristo venne esaudito «per la sua pietà». Contro tale ipotesi vi sono
sia argomenti d'ordine linguistico (cf. 1 2,28) sia il contesto stesso. L'i­
dea di Ebr. evidentemente è che Cristo abbia superato quell'angoscia
tremenda proprio grazie alla certezza di essere salvato dalla morte. In
fondo anche il Sal. I r 6 accenna a questo: qui l'orante parla esplicita­
mente della propria «angoscia», e osserva che la «morte dei suoi santi»
è preziosa agli occhi di Dio (v. Sal. I I 6, I 5 e cf. Str.-Bill. 1, 847).
8. Quest'idea estremamente audace sostiene che nel momento della
tentazione più grande, l'eventualità stessa della morte, Cristo ha di­
mostrato un'obbedienza filiale. Il gioco di parole «imparò ... patì » tro-
Ebr. J,J- I O. Gesù venne chiamato da Dio 85
va i parallelismi più stretti in Filone, che lo utilizza di frequente (ad
es . Fug. 1 3 8). Non si pensa alla disposizione d'animo devota e virtuo­
sa di Gesù, ma alla prova unica e irripetibile superata negli abissi del­
l'angoscia e nella notte della tentazione, quando divenne veratnente
uno con noi uomini. Proprio per questo al Figlio non è stato rispar­
miato nulla da Dio. Tuttavia non si può parlare di arbitrarietà, poiché
egli, pur riluttante, prese su di sé la sofferenza (e la morte) che provo­
cò il «perfezionamento». Egli ancora non era quello che sarebbe di­
ventato, ossia sommo sacerdote, sebbene fosse stato prescelto come
Figlio. Quando è detto che dovette imparare «la» obbedienza, sicu­
ramente s'intende un sacrificio di proporzioni tali da superare ampia­
mente i limiti del consueto. Quanto asserisce Ebr. trova in Fil. 2,7 ss.
il parallelo paolino più prossimo. La vera condizione di figlio si ottie­
ne solo mediante l'obbedienza - elaborata frase fondamentale della
teologia biblica relativa alla conoscenza, che fa apparire sbagliato in­
terrogarsi su un mito gnostico di redenzione il quale avrebbe potuto
influire sull'esposizione. Non sono la presunta natura divina, né tan­
tomeno il «sapere» o la «conoscenza» (gr. gnosis) a schiudere all'uomo
la salvezza, ma unicamente la fede e l'obbedienza (v. anche 4,2).
9· Si può dirlo in modo meno mitico e filosofico ? Presso Dio non
esiste alcun automatismo del processo di redenzione. Ebr. sviluppa un
duplice pensiero: che Gesù in quanto «reso perfetto» è motivo di sal­
vezza per gli uomini, e che inoltre mostra esemplarmente il come tale
redenzione sia possibile. «Perfezionamento» si ha con l'assoluta offer­
ta della vita davanti all'altare di Dio (cf. 4, 1 6), cioè donandosi a lui e
dando prova di sé nella condizione di empietà. Considerando i presup­
posti di questo concetto (cf. Es. 29,9. 3 3 ; Lev. 8,3 3; 1 6,3 2; 2 1 , 10; Num.
3,3), si potrebbe affermare che l'uomo non può presentarsi a mani
vuote di fronte a Dio, ma deve offrire almeno se stesso. Dal sacrificio
di Gesù nasce la necessità per l'uomo di essere totalmente legato a lui.
Se fosse soltanto un modello, vi si potrebbe rinunciare. Ma se egli è al
tempo stesso anche causa della nuova realtà, chiamata «salvezza eter­
na» (forse secondo /s. 4 5, 1 7; o piuttosto secondo l'espressione «sacer­
dote in eterno»; cf. in particolare anche Filone, Agric. 96), allora non
esiste perfezionamento al di fuori del fondamento posto. Con il Cri­
sto della passione si è aperto dunque l'accesso a una vita di donazione
e di accoglienza da parte di Dio, in quanto definisce la misura e l'og­
getto della fede.
86 Ebr. s ,r r -6,20. Comunità e speranza eterna

10. Alla fine della riflessione Ebr. colloca il pronunciamento di Dio


tratto da Sal. I 1 0,4. Parla di un «annuncio pubblico» e dunque di una
«solenne proclamazione», per cui ora oltre al testo del salmo si parla
anche esplicitamente di «sommo sacerdozio» di Gesù. La conclusione
delle riflessioni di 4, I 4- 5, I O fa capire che c'è qualcosa di ancora più
profondo da spiegare. Soprattutto l'espressione «secondo l'ordine di
Melchisedec» è tanto enigmatica da richiedere una spiegazione a parte
(cf. 7, I ss.).

Contro ogni pigrizia che conduce all'apostasia irrevocabile,


la comunità deve aspirare alla maturità, tanto più che Dio
le ha fermamente promesso una speranza eterna ( 5, I I -6,20)
Con l'affermazione entusiastica che Dio ha solennemente proclama­
to Cristo «sommo sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec» (Sal.
1 1 0 ,4 ), l'autore torna al centro tematico della sua omelia. Tuttavia ri­
nuncia ad addentrarvisi subito. Forse che improvvisamente ha l'im­
pressione che i suoi lettori potrebbero non dedicare all'esposizione la
dovuta attenzione ? È più probabile che dopo attenta riflessione sia
stato inserito un ulteriore passaggio allo scopo di scuotere l'uditorio,
come è nel carattere dell'omelia che si definisce «parola di esortazio­
ne» . Quella che potrebbe sembrare un'idea repentina è invece un mo­
do di procedere intenzionale. Se ne ha conferma nella conclusione di
questa parte che, con nuove esortazioni, si conclude anch'essa con le
parole di Sal. I I 0,4. Queste pericopi di rimprovero riferite a una spe­
cifica situazione della comunità corrispondono in tutto alla forma del­
l'omelia prescelta. Gli enunciati di 5 , 1 I -6,2o comprendono due parti
diverse che si differenziano nettamente nel tono usato. Fino a 6, 8 pre­
valgono l'ammonimento e la minaccia di punizione, poi, sino a 6,20, è
la volta di incoraggiare e infondere fiducia. Evidentemente all'autore
erano giunte notizie riguardanti la situazione poco soddisfacente della
comunità a lui nota. Forse anche richiesto di una «parola di esorta­
zione», come usava allora, dopo un'accurata preparazione e non senza
continui rimandi alla sua base biblica l'autore entra ora nel merito dei
rapporti all'interno della comunità. Non è quindi un caso che sia pro­
prio questa pericope a mettere maggiormente in luce il carattere omi­
letico attuale dello scritto. Se in J ,7-4, 1 1 aveva insistito essenzialmente
sulla responsabilità dei cristiani per la singola persona, ora concentra
Ebr. J, 1 1 -6,2o. Comunità e speranza eterna 87
definitivamente l'attenzione sulla comunità nel suo complesso; l'aspro
rimprovero d'immaturità spirituale e l'accenno a un'impossibile secon­
da penitenza vanno seriamente intesi, benché sotto un certo aspetto
rientrino anche nei doveri omiletici. In caso contrario difficilmente vi
sarebbe la motivazione fornita da 6, 1 2 : « affinché non diventiate pi­
•••

gri». Questo modo di procedere costringe a riflettere sul significato


generale di un simile disegno in bianco e nero. Che gli interpellati, in
definitiva, non siano poi valutati proprio come immaturi, risulta chia­
ramente da quanto segue, dove non viene loro celata tutta la profondi­
tà della conoscenza cristologica (capp. 7 ss.).
Il rimprovero mosso agli ascoltatori, per cui non sarebbero abba­
stanza «perfetti>> per le idee che verranno presentate, indubbiamente
intende destarne l'interesse, come si riproponeva l'antica arte oratoria.
Il passaggio evidenzia in modo particolare quanto, in fondo, stesse a
cuore all'autore un discorso liturgico solenne. Perlomeno a una parte
degli ascoltatori viene richiamato alla mente il periodo iniziale della
loro esistenza cristiana, forse allo scopo di ottenerne al tempo stesso
anche un rinnovamento e un approfondimento della professione di fe­
de fatta al momento del battesimo. Nel complesso si può tuttavia af­
fermare che a quanto pare i neobattezzati non sono un tema a parte
della lettera. Forse questo può dipendere dal fatto che abbiamo a che
fare con una comunità giudeocristiana (cf. 6,6), la quale invece di ri­
uscire a sviluppare una forza missionaria maggiore, si trova a dover
affrontare i problemi creatisi al suo interno.
I I- 1 4· In particolare i concetti di questa riflessione presentata in
forma fortemente retorica procedono in questo modo: 5 , 1 1 - 1 4 moti­
vano la necessità dell'omelia con la pigrizia spirituale della comunità, i
cui componenti, a dire il vero, dovrebbero essere ormai in grado di es­
sere essi stessi dei maestri. Il termine «pigro, torpido>> delimita il te­
ma-guida sino a 6, 1 2. L'omelia stessa deve costituire un passo decisivo
per dimostrare le verità più profonde di cui si interessa una fede ma­
tura. I pensieri ruotano quindi tutt'intorno al tradizionale circolo di
immagini: bambino-adulto, latte - cibo solido, ignaro-perfetto. Che in
questo modo a essere interpellata non è una parte della comunità, bensì
la comunità intera, dimostra che un intento catechetico è stato espres­
so con linguaggio filosofico (cf. ad es. anche Filone, Agric. 9; Migr. 29) ,
e che non siamo davanti a una dottrina gnostica della perfezione. In
questo vediamo inoltre una netta differenza rispetto a 1 Cor. J, I -J .
88 Ebr. f , I 1 - 1 4. L a condizione spirituale della comunità
6, 1 -6 esorta a spingersi finalmente al di là delle nozioni elementari,
come si confà a persone che sono state «una volta illuminate». La ri­
flessione si conclude con parole ammonitrici che ricordano come non
esista una seconda penitenza per coloro che hanno apostatato, poiché
il rifiuto di Cristo equivarrebbe a una nuova crocifissione del Figlio di
Dio compiuta di persona.
7 s. I versetti 6,7 s. presentano una breve parabola sulla fertilità del­
la terra, che può ricevere la pioggia per la benedizione o per la maledi­
zione. La forma della raffigurazione è analoga a quella di 4, 1 2 ss., do­
ve alla stessa maniera vengono introdotti toni da giudizio.
9- 1 2. Con 6,9- I 2 si ha una netta svolta di pensiero: con saggi accen­
ti pastorali ci si appella alle forze buone attive nella comunità. Lettori
e ascoltatori vengono ora chiamati addirittura «carissimi».
I J- I 8. I vv . 6, I J - I 8 con l'intento di rafforzare la decisione riman­
dano all'esempio di Abramo, il quale grazie alla sua perseveranza ot­
tenne quella promessa che anche oggi è ancora motivo della speranza
cristiana. In questo modo l'autore, materialmente e concettualmente,
ha fatto nuovamente ritorno al tema principale, come indicano anche i
concetti impiegati (v. ad es. 6, I 7. I 8). Questa attenzione è confermata
anche dalla nuova menzione di un giuramento di Dio (v. sopra, 4, I 1 , e
sotto, 7,2 I ) che garantisce il fondamento della speranza cristiana.
. 1 9 s. I due versetti conclusivi, 6, I 9 s., definiscono nettamente il pas­
saggio al pensiero omiletico principale in cui lo sguardo è rivolto sia
indietro che in avanti (cf. 2, 1 7 ss.; 4, I 4 ss.; 7, I ss.; 9, 1 ss.). Rispetto a
5 , I o il versetto 6,20 presenta un impiego più completo di Sal. I I 0,4.
Nel complesso si può parlare di un'energica ripresa del tema principa­
le dell'omelia, stavolta però in via definitiva.

La condizione spirituale della comunità non è soddisfacente


( 5 , I I - 14)
1 1 Su questo argomento dobbiamo fare u n' ampi a omelia, difficile anche da
spiegare, poiché siete diventati duri d'orecchio. 1 2 E voi che da tempo or­
mai dovreste essere maestri, avete ancora bisogno che vi s'insegnino certi
primi fondamenti delle parole di Dio, tanto più che vi siete ridotti ad avere
ancora bisogno di latte invece che di cibi solidi. 1 3 Infatti chi riceve ancora
il latte p erc hé ignaro del giusto discorso è immaturo. 14 Il cibo solido in­
vece è per persone mature le quali, attraverso l'esperienza, posseggono sen­
s i esercitati a distinguere il bene d al m ale .
Ebr. J,I 1 - 14. La condizione spirituale della comunità 89
1 1 . È la riflessione sostanziale del predicatore e teologo che spinge
l'autore a non sviluppare subito l'ultima testimonianza, a non parlare
subito di «questo argomento», ossia la frase centrale improntata al Sal.
1 I o. Deve dilungarsi in un'ampia esposizione e in una spiegazione dif­
ficile da illustrare soprattutto perché i cristiani interpellati sono diven­
t ati «duri d'orecchio», alla lettera «torpidi di udito» . Da un punto di vi­
sta puramente formale l'autore giustifica la successiva ampiezza degli
enunciati (cf. 7, 1 - I o, I 8) con la difficoltà dell'intento che lo anima. D'al­
tra parte giunge a spiegare che ampiezza e difficoltà sono proprio ciò
di cui la comunità ha bisogno. In altre parole, non è semplice parlare
dell'argomento che segue. Cosa ancora più importante, non è affatto
scontato poter essere ascoltatori. Il mistero della persona di Cristo non
si disvela così facilmente né tanto meno lo si può avvicinare con pigri­
zia o indifferenza. Bisogna smettere di essere duri d'orecchi, difetto
proprio di ogni comunità media. L'autore non ha intenzione di illu­
strare il mistero di Cristo secondo il Sal. I 1 o staccandolo da un'analisi
critica della situazione interna della comunità. Il rimprovero per chi è
duro d'orecchi è aspro, e stando al contesto mira anche alla speranza
languente degli interpellati (cf. 6, 1 2). Se già prima gli ammonimenti
non mancavano, lo stesso non si può dire di affermazioni dirette che
ci potessero far conoscere più da vicino la comunità destinataria dello
scritto. Per questo passo però è diverso. Evidentemente l'autore si è ac­
corto che la verità umana, che può essere oltremodo scomoda, diventa
esprimibile solo di fronte alla più profonda verità di Cristo. Laddove
questo accade, quella che noi chiamiamo critica non ha l'ultima paro­
la. Occorre sia dimostrarne la fondatezza (cf. 6,7 ss.) sia destare il co­
raggio e la fiducia per poter prendere l'altra strada, quella migliore (co­
sì 6,9 ss.). Di là del retore e del teologo s'intravede il padre spirituale.
1 2. In fin dei conti, coloro che in lui vedono il maestro, e sicura­
mente devono averlo anche cercato come tale, dovrebbero essere già
da tempo essi stessi dei «maestri» . La formulazione fa pensare che l'au­
tore di fatto sia ben informato riguardo alla nascita della comunità,
avvenuta alcuni anni prima. Verosimilmente proprio a lui si deve ad­
dirittura la conversione cristiana o perlomeno l'istruzione decisiva. In
fondo, la comunità dovrebbe ormai essere in grado di compiere ciò
che invece si aspetta da lui. Naturalmente non tutti sono in grado di
essere «maestri» (compito eminente, v. ad es. 1 Cor. 1 2,2 8), però esiste
una crescita spirituale che si richiede a tutti. Non è che tale afferma-
90 Ebr. J,I I - 1 4· La condizione spirituale della comunità
zione si riferisca a un periodo di catecumenato piuttosto lungo e in
fondo inutile, quanto a un processo di maturazione successivo al bat­
tesimo, che non c'è stato pur rientrando nell'essere cristiano. Non ri­
guarda un perfezionamento interiore nel senso di una «divinizzazio­
ne» come per gli gnostici, ma dello sviluppo della capacità d'insegna­
mento, che comporta anche la facoltà personale di penetrare nella ve­
rità di Cristo. Ebr. dà così voce a una concezione fondamentale del pri­
mo cristianesimo per cui in sostanza ogni cristiano è istruito diretta­
mente «da Dio» (cf. 1 Tess. 4,9), della qual cosa egli, che ha ricevuto lo
Spirito, può di fatto essere a conoscenza (cf. 6,4 ss.). Tanto più deplo­
revole è che gli interpellati siano rimasti visibilmente inattivi, ossia
spiritualmente «torpidi», ragion per cui devono ricevere nuovamente
«certi primi fondamenti delle parole di Dio». In questo versetto non
va esclusa la possibilità di un'altra versione: «Voi ... avete nuovamente
bisogno di qualcuno che v'insegni i primi fondamenti delle parole di
Dio» . In questo caso sarebbe maggiormente accentuata la contraddi­
zione per cui essi, che dovrebbero essere già in grado d'insegnare, ne­
cessitano ancora di un maestro. Privilegiando la traduzione da noi
proposta si mette maggiormente in risalto che si sta parlando di deter­
minate nozioni basilari, elencate poi di fatto in 6, 1 . Il termine «fonda­
menti iniziali», impiegato in filosofia, rimanda probabilmente a inse­
gnamenti di base impartiti ai catecumeni. Quanto alle «parole di Dio»
che ne sono l'oggetto, la scelta dei concetti rivela forse che la comuni­
tà non sa interpretarle come «pronunciamenti divini» riguardanti Ge­
sù. Effettivamente si tratta di qualcosa di più, ossia della profondità
della conoscenza relativa a Cristo, con cui intenzionalmente si porta
un argomento di ragione, mentre non si presenta affatto un criterio
gnostico per l'essere cristiano (cf. 6, 1 : «insegnamento iniziale su Cri­
sto»). Il livello assolutamente insoddisfacente della capacità d'insegna­
re è tratteggiato infine anche in 1 2b. Ebr. riprende un'immagine usua­
le tanto nella filosofia (cf. Filone, Omn. prob. 1 6o; Epict. 2, 1 7) quanto
nel cristianesimo delle origini ( 1 Pt. 2,2 ), che qui ha una certa asprezza
critica. Non considerano che sono ancora nella condizione del bam­
bino, anzi del lattante, mentre da tempo ormai dovrebbero essere
maturi e indipendenti (cf. anche Filone, Migr. 4 6) ? Con coerente logi­
ca, Ebr. riferisce l'immagine alla «persona incapace dì parlare», non
autonoma e che deve essere servita invece di agire da sé, esprimendo
in chiari termini quali sono i suoi pensieri. Il lattante che si nutre di
Ebr. 6,1 -6. Il cristiano necessita di una crescita spirituale 91
latte e non di «nutrimento solido» vive in uno stato di dipendenza e
passività (cf. Filone, Agric. 9).
1 3 . Una frase generica e chiarificatrice sottolinea la necessità di un
«giusto ( = esatto) discorso». Con un linguaggio elevato e al tempo
stesso ebraizzante, il testo originario parla di «discorso della giusti­
zia», intendendo per significato il «giusto discorso». Forse si fa già
allusione al compito vero e proprio del cristiano adulto, che deve svi­
luppare la «giusta parola>). Come anche altrove, l'autore parla di cose
che tutti sanno (ad es. in 3,4) per accentuare } ,ovvietà di ciò che sta di­
cendo. Ciò che rientra nella normalità dovrebbe suscitare consenso
generale. Ma ciò che è valido per il quotidiano spinge anche a trarre le
debite conseguenze per quanto riguarda la vita spirituale.
1 4. Prova di una completa maturità del cristiano non è dunque la
conoscenza mistica, come per la gnosi, bensì l'applicazione della fa­
coltà acquisita di discernere il bene dal male. Mentre il lattante non è
in grado di decidere sul tipo di nutrimento, l'uomo adulto può invece
decidere benissimo se ad es. un cibo gli piace o no. Ma forse la frase
non vuoi essere c osì univoca. Con l'espressione drastica «per distin­
guere il bene dal male>) si può anche pensare che i cristiani interpellati
a dire il vero dovrebbero sapere cosa «giova» loro nell'età cristiana
raggiunta. Se anche non è in discussione la loro volontà o meno di ri­
manere cristiani, si tratta comunque di condurre una «battaglia buona
o cattiva». Perciò il cristiano dovrebbe acquisire «facoltà esercitate»,
considerazione che sottolinea come l'uomo possegga senz'altro una
capacità di comprensione per le cose spirituali (v. anche Filone, Leg.
all. 3 , 1 8 3 : «organi d i senso»), che è sottoposta, e anzi dev'esserlo, alla
capacità di formazione. Lo scopo dunque - per dirla in un'unica frase
- è il «cristiano maturo» che si preoccupa della profondità della testi­
monianza e deve anche essere in grado di trasmetterla.

Poiché ogni apostasia sarebbe irrevocabile,


il cristiano necessita di una crescita spirituale (6, 1 -6)
1 Perciò, lasciando da parte la dottrina elementare su Cristo, pensiamo alle
cose da adulti maturi, così da non dover gettare di nuovo le fondamenta,
vale a dire il ravvedi mento dalle opere morte e la fede in D io, 2 la dottrina
delle immersioni battesimali, l'imposizione delle mani, la ris urrezione dei
morti e il giudizio eterno. 3 Questo faremo, se Dio lo permette. 4 Infatti è
impossib ile che quelli che sono stati illuminati una volta, che hanno gusta-
9.2. Ebr. 6, 1 -6. Il cristiano necessita di una crescita spirituale

to il dono celeste, che hanno ricevuto e sono diventati partecipi dello Spiri­
to santo, 5 che inoltre hanno gustato la buona parola di Dio e le potenze
del mondo futuro, 6 siano rinnovati ancora una volta nel ravvedimento se
dovessero apostatare, crocifiggendo di nuovo loro stessi il Figlio di Dio ed
esponendolo all'infamia.
1. Con un energico «perciò» iniziale l'autore trae le debite conse­
guenze per sé e la comunità. Intende guidarla verso ciò che è veramen­
te degno di lei. Non si limita a qualche ammonimento, come ci si sa­
rebbe potuti aspettare dopo quanto esposto sino ad ora, ma vuole ri­
mediare senza indugio all'errore riconosciuto. Dato che dal punto di
vista cronologico gli interpellati sono cristiani adulti, è ora che lo di­
ventino anche concretamente. In questo senso l'autore ripone molte
speranze in loro ( 6,9 ) . Sarebbe un ben cattivo maestro della sua co­
munità se volesse solo istruire e non venire subito in aiuto. Questo
comporta che si metta da parte la «dottrina elementare su GesÙ» pas­
sando ad argomenti adatti a persone mature. Ciò che chiama «maturi­
tà» va compresa come opposizione alla condizione di chi è ancora mi­
norenne; dunque non equivale semplicemente a «perfezione» (tradu­
zione comunque possibile). Infine non pensa a una condizione fisico­
morale, bensì alla capacità, acquisita con l'esercizio, di dedicarsi a ri­
flessioni più profonde che comprendono non solo una parte della ve­
rità di Cristo, ma tutto il suo complesso con le conseguenze che ne
derivano. La verità di Cristo è simile a un edificio di cui sono state
poste le fondamenta. Bisogna ancora erigere le mura, perché le fonda­
menta da sole rappresenterebbero un qualcosa d'incompleto, anzi di
addirittura impossibile in sé (analogamente 1 Cor. J , I o ss.). Essere cri­
stiano non è una condizione per sua natura perfetta, ma un continuo
cogliere e trasmettere quelle verità che danno forma alla vita indiriz­
zando a uno scopo. Ciò che per Ebr. è il fondamento, o l'istruzione di
base, viene elencato e precisato meglio . Per prima cosa, in una frase a
due elementi è menzionato «il ravvedimento dalle opere morte e la
fiducia in Dio))' per indicare già il rapporto reciproco tra le grandezze
citate. Nel tempo messianico non si può più costruire sulle «opere»,
ma solo sulla fede fiduciosa. Parlando di opere «morte» e di «fiducia
in Dio», anche se in modo riassuntivo, emerge un contatto con il pen­
siero paolino (cf. Rom. 4, 5 ). La novità che rende possibile un agire «vi­
vente» è unicamente la fede dell'epoca di Cristo. Perciò i due nuclei
tematici hanno un rapporto tanto stretto.
Ebr. 6, 1 -6. Il cristiano necessita di una crescita spirituale 93
2. È chiaro che questa descrizione di un'istruzione ricevuta in un
tempo precedente presuppone cristiani di origine giudaica, come con­
ferma anche il seguito, dove si menziona esplicitamente la «dottrina»
ricevuta prima, che equivale alle «fondamenta gettate», per suddivide­
re in altri due grossi nuclei tematici il materiale catechetico: «la dot­
trina delle immersioni battesimali e dell'imposizione delle mani, della
risurrezione dei morti e del giudizio eterno». Nonostante il linguag­
gio conciso, per prima cosa si penserà che - come indica il plurale - nel
giudaismo le lustrazioni e i riti di purificazione hanno sempre avuto
una grande importanza (ad es. presso gli esseni). In tale eventualità non
è chiaro se l'istruzione cristiana si sia espressa negativamente al riguar­
do, oppure se ne abbia ammesso l'uso entro certi limiti (come in 9, 1 0).
Tuttavia è altrettanto ipotizzabile che sia stata approfondita la parti­
colarità del battesimo di Gesù rispetto a quello di Giovanni e ad altre
lustrazioni cultuali (cf. Atti 1 8,24 ss.; 1 9, 1 ss.), ricavando quindi il ca­
rattere unico e irripetibile del primo in quanto battesimo dello Spirito.
Considerando le frasi che seguono in 6,4 ss., questa riflessione è un
po' a parte, dato che sembra esservi un chiarimento di quello che in
certo qual modo distingue il cristianesimo. Anche l' «imposizione del­
le mani» è uno specifico atto cristiano che rientra nell'istruzione. Co­
me è noto, già la prima chiesa compiva tale azione per conferire lo
Spirito santo (Atti 8, 1 7. 1 9; 9, 1 2 . 1 7; 1 3 ,3 ecc.). Non va tuttavia dimen­
ticato che prendeva direttamente a modello dal giudaismo l'ordina­
zione dei discepoli al compito di maestri per divenire essi stessi dot­
tori, con un rito in cui venivano loro «imposte» le mani, come si dice
tecnicamente (cf. al riguardo Num. 27, 1 8 ss.; Deut. 3 4,9). L'autore
può aver pensato che il dono dello Spirito, ricevuto con tale atto, ren­
deva il singolo cristiano al tempo stesso anche maestro della parola di
Dio, circostanza di cui i cristiani qui rimproverati non hanno appro­
fittato. Quando infine si fa cenno all'insegnamento riguardante la «ri­
surrezione dei morti e il giudizio eterno», si tratta ancora una volta di
temi giudaici tradizionali. Ovviamente Ebr. può solo presupporre che
il loro significato sia stato messo particolarmente in risalto alla luce
della verità di Cristo. Oggetto dell'annuncio della risurrezione dove­
va essere innanzi tutto, anche per il giudeocristianesimo, il Risorto stes­
so. Questi però al tempo stesso garantisce anche l'assoluzione mise­
ricordiosa nel giudizio estremo. I sei temi relativi all'istruzione ca­
techetica rivelano indubbiamente un destinatario giudeocristiano della
,.. Ebr. 6, 1 -6. Il cristiano necessita di una crescita spirituale
lettera, anche se l'elenco mette in luce una certa obiettività neutrale
che sottolinea al massimo come lo sforzo debba tendere a una più
profonda comprensione della verità. In questo caso allora vengono
schiusi orizzonti totalmente diversi. Comunque il rilievo dato ai sei
temi ribadisce a sufficienza quella che deve essere considerata la dot­
trina fondamentale dell'istruzione dei catecumeni: abbandono del pas­
sato, inserimento nel nuovo e infine evidenziazione della gravità della
decisione presa in vista delle cose future. N on è certo poco, ma se non
bisogna fermarsi a questo è proprio perché le varie linee che conflui­
scono in Cristo e che sottolineano il carattere irripetibile e prodigioso
dell'evento sono troppo brevi. La venuta di Gesù è sufficiente come
causa e motivo di fede, ma non porta oltre per quanto riguarda lo «Ze­
lo per la piena convinzione della speranza sino alla fine» (6, 1 1 ). Quel­
lo che è elencato può bastare giusto per i cristiani che sono agli inizi e
intendono affrontare le difficoltà dell'ora presente, non certo per quei
seguaci la cui perseveranza e coerenza, rivolta con speranza in avanti,
nasce dall'inesauribile verità di Cristo, dà tensione alla vita e impulso
missionario alla comunità.
3 · Trattandosi di qualcosa di estremamente importante, la decisione
di aspirare alla «maturità» viene inoltre fatta dipendere dalla volontà
di Dio di coronare di successo l'impegno comune. L'autore si esprime
come il giudeo fervente (v. anche 1 Cor. 1 6,7) che si accerta del favore
di Dio, poiché la sua buona volontà da sola non basta. La frase non
cela tanto il dubbio che Dio possa non permettere qualcosa, ma sotto­
linea la certezza che con il suo aiuto tutto vada a buon fine in qualsiasi
circostanza. Ebr. punta a coinvolgere in questa sua personale certezza
la comunità intera che, essendo pigra, ne ha bisogno.
4· Essa sta correndo un grosso rischio, per cui è necessario che com­
pia tale passo. Se infatti si arrivasse al punto di rinunciare anche a quan­
to è indispensabile, nessun aiuto sarebbe più possibile. Una frase relati­
vamente estesa nega la possibilità che vi possa essere un secondo rav­
vedimento, ribadendo quindi, al tempo stesso, l'unicità e irripetibilità
della conversione a Cristo. Si tratta di una pura constatazione, senza
riferimenti specifici agli ascoltatori. Tuttavia da tali parole essi dove­
vano rendersi conto che era tempo di cambiare modo di pensare e di
imparare, per giungere finalmente alle verità eterne. È colpa della loro
pigrizia se sono fermi, minacciati dal pericolo dell'apostasia. Non esi­
ste assolutamente la possibilità di retrocedere a prima del battesimo.
Ebr. 6,1 -6. Il cristiano necessita di una crescita spirituale 95
A questo s i allude parlando d i «quelli che sono stati illuminati una vol­
ta» (v. anche 2 Cor 4,6; inoltre Iust., Apol. 1 ,61). Da un punto di vista
.

formale si tratta di un concetto della mistica ellenistica, ma anche il


pensiero cristiano può affermare che Cristo è «irradiato» su colui che
riceve il battesimo (Ef 1 , 1 8; 5,1 3) come luce per la vita, poiché strappa
dal potere delle tenebre (Col. I , I J ). All'« illuminazione», inoltre, è di­
rettamente collegato il ricevimento dello Spirito, «dono celeste» che
trasmette vita celeste e forze ultraterrene. N o n lo si possiede, ma se ne
diviene partecipi, in quanto lo Spirito contraddistingue ampiamente la
realtà attuale del Cristo esaltato, realtà che nessuno può rivendicare per
sé solo. Quando poi è detto che i cristiani lo hanno «gustato», questo
significa che hanno ricevuto un nutrimento, per così dire, costruttivo
sia per l'anima sia per il corpo. Resta da chiarire se questo modo di di­
re sia influenzato anche da determinate azioni simboliche durante l'at­
to battesimale (per l'espressione cf. 1 Pt. 2,3). È possibile che come ac­
cadeva durante i riti misterici pagani, ai battezzandi venissero presen­
tati, con funzione simbolica, determinati doni che potevano apparire
loro come assaggio del nutrimento celeste (ad es. latte, miele ecc.).
5. Quando poi è detto «e inoltre hanno gustato la buona parola di
Oio e le potenze del mondo futuro)), ci si appella al ricordo di qualco­
sa di promesso a livello personale. Si aggiunga che alla celebrazione
del battesimo spesso si univa anche la prima celebrazione dell'euca­
ristia. Si trattava sempre di un'anticipazione dei beni del mondo futu­
ro, che non erano affatto considerati solo puramente spirituali. Se an­
che in seguito Ebr. ricorrerà a concetti ellenistici, tuttavia resta indi­
scutibile l'esistenza di concezioni giudaiche rabbiniche. Infine, la de­
scrizione dei cristiani «illuminati una volta» mira a evidenziare la gran­
dezza e la ricchezza dei doni ricevuti col battesimo.
6. Se chi li ha ricevuti dovesse apostatare, questi non potranno più
essere concessi, cosa che la comunità potrebbe rimproverarsi. In fon­
do con essi la grazia di Dio viene resa presente in modo simbolico.
Non è possibile trattarli a proprio piacimento. O li si riceve una volta
per sempre, o ci si rinuncia del tutto. Per mettere in risalto quanto sia
tremenda l'apostasia, l'autore parla in modo intimidatorio del cristia­
no che apostatando «crocifigge di nuovo con le sue mani il Figlio di
Dio esponendolo all'infamia (umiliante dell'esecuzione pubblica)».
Solamente se si considera che la lettera è indirizzata a lettori giudeo­
cristiani si può cogliere tutta l'asprezza accusatoria che si cela dietro
96 Il problema del secondo ravvedimento
questa frase. In fondo dovevano essere soprattutto i cristiani di origi­
ne giudaica a sentire la morte del messia come una grave colpa del lo­
ro popolo, mentre, d'altra parte, per loro il dono della fede e della
connessa remissione dei peccati era tanto più prezioso. Si poteva pen­
sare forse a un argomento più duro ?

Il problema del secondo ravvedimento. La questione del secondo


ravvedimento è in fondo uguale a quella del secondo battesimo, se il
concetto di «ravvedimento» è visto da un punto di vista puramente
teologico e non in base alla posteriore comprensione ecclesiale del
ravvedimento come pentimento e penitenza. Più precisamente, la di­
scussione non riguarda la caduta in singoli peccati (qualunque pecca­
to), bensì l'apostasia in generale. Ebr. si esprime su quello che stando
ai vangeli Gesù ha chiamato il peccato contro lo Spirito santo (Mc. 3,
29). Anche altrove la testimonianza del Nuovo Testamento conosce la
possibilità di una chiara alternativa posta alla fede, espressa dali' op­
posizione «o ... o .. » (1 Tim. 1 , 1 9; Mt. 2 5 , 1 ss. ecc.). Il problema teolo­
.

gico posto da 6,4 ss. non è il fatto in sé di una possibile apostasia, né


tantomeno una sua discussione, bensì a chi tocchi giudicare, e con
quali criteri si decida, della cosiddetta «apostasia». Il duro giudizio di
Lutero su questo passo e dunque sull'intera lettera è noto. Il presup­
posto da cui parte è una precisa dottrina del peccato, e soprattutto del
peccato mortale, propria della chiesa successiva e che al tempo della
lettera agli Ebrei ancora non esisteva. Da un punto di vista storico,
quindi, la posizione di Lutero oggi non è più accettabile. In fin dei
conti non si tratta assolutamente di constatare, da parte della chiesa o
di un funzionario, un caso di apostasia da colpire con sanzioni eccle­
siastiche; è invece l'annuncio a evidenziare la possibilità che questo
avvenga, costringendo quelli che stanno rischiando a dare un nuovo
orientamento alla loro vita. Il diritto a ciò esiste se la fede cristiana
non è solo fondamento della grazia, ma anche pietra di paragone nel
giudizio. E questo per Ebr. è indiscutibile. Chi eleva 6,4 ss. a principio
della disciplina penitenziale della chiesa, come i novaziani del n1 e IV
sec., non riconosce il significato delle possibilità che ci sono state
aperte in Cristo, e rende la chiesa una comunità farisaica settaria. Vi
sono giudizi che Dio riserva a sé affinché siano presi da tutti più se­
riamente in sacro orrore.
La vegetazione sterile viene eliminata (6,7 s.)
7 I nfa tt i il terreno imbevuto della p i ogg ia che cade di frequente su di esso e
p rod u ce «vegetazione» utile per quelli per i quali viene coltivato, partecipa
alla benedizione di Di o . 8 Ma se «produce spine e cardi» è inutile e pros­
sima alla maledizione che all a fine lo porta a es se re bruciato.
7 s. Gen. ) , 1 7.

Un breve discorso per immagini in 6,7 s. interrompe le dure frasi che


esortavano a cambiare mentalità. Agendo esteriormente quasi come la
descrizione di un idillio naturale, esso ha invece lo scopo d'illustrare
la gravità del giudizio, gravità di cui gli ascoltatori devono essere in­
formati. Mancando ogni interpretazione, il discorso si avvicina al ge­
nere della parabola. Quanto al suo significato, non vi sono dubbi: lad­
dove la benedizione ricevuta non porta frutto, si ha l'eliminazione di
ciò che è sterile o inutile. Quest'immagine che rimanda alla storia bi­
blica delle origini ha lo scopo di catturare senza tante parole ammoni­
trici il consenso dell'uditorio.
7· Ebr. intende mostrare che cosa deve aspettarsi colui che apostata
c per suo conto crocifigge nuovamente Cristo: invece della benedizio­
ne si attira la maledizione. Il punto di partenza è esattamente l'imma­
gine opposta, ossia la terra imbevuta di piogge frequenti (v. anche Deut.
1 r , r o s.) che produc e una vegetazione utile. Dietro l'affermazione si
cela la convinzione, diffusa anche sul piano filosofico, che ogni evento
naturale per sua destinazione (= entelechia) in fondo mira all'utile, co­
me pure ogni erba della terra esiste per il meglio dell'uomo (al riguar­
do cf. Filone, Agric. 8 ss.). Dunque le uniche piante di valore sono
quelle coltivate (v. anche Gen. I , I I ss.; J , I 7). D'altronde solo la «ter­
ra» riarsa che beve avidamente il dono celeste della pioggia per pro­
durre «vegetazione utile» risponde alla propria destinazione, che ol­
tretutto consiste nel produrre per coloro «per i quali viene coltivata».
La terra, per così dire, materna esiste per l'essere umano (v. anche Fi­
lone, Op. 1 3 3 ) In tal modo è oggetto di benedizione divina, e anche
.

in seguito verrà coltivata con zelo. Forse il concetto di «benedizione»


è scelto in considerazione della testimonianza biblica di Gen. J , I 7·
8. Ma se il terreno produce invece «spine e cardi» - espressione trat­
ta dalla Bibbia per indicare una vegetazione senza valore - allora è «inu­
tile» e vicino alla «maledizione», come si può ricavare dalla citazione
precedente; non ha corrisposto alle attese riposte in esso, venendo co-
98 Ebr. 6,9- 1 2 . C'è speranza che la comunità vinca la propria pigrizia
sì meno alla propria destinazione. La fine è il fuoco del giudizio divi­
no. Poiché tale asserzione coincide con l'intento kerygmatico, la lieve
illogicità - che considerata in un certo modo ha anche ragion d'essere
- con cui viene giudicata la terra non deve turbare. La gravità dell'im­
magine prospettata non può essere ignorata né ha bisogno di altre pa­
role. L'autore volge nuovamente l'attenzione ai suoi lettori che vor­
rebbe sì portare alla comprensione, ma senza abbandonarli.
La parabola è formulata senza dubbio in modo magistrale. L' espo­
sizione tradisce la capacità narrativa e la limpida logica dell'oratore.
Pur riprendendo il linguaggio biblico, al tempo stesso lo adatta al pen­
siero dell'epoca. Ci si potrebbe anche chiedere se non ci sia un certo
legame con le parabole di Gesù (cf. Mt. 7, 1 6 ss.; Mc. 4, 14 ss.), ma ov­
viamente la certezza non esiste. Sarebbe infine da valutare se il carat­
teristico elemento della «pioggia che cade di frequente)) non introduca
un simbolo messianico di un certo rilievo per il tempo pasquale, per
cui potrebbero esser presi in considerazione anche passi come Giac.
5,7, e in particolare Gl. 2,23 e Os. 6,3 (cf. b Ta'an. 4 a- 5 a) . Qualunque
conclusione si finisca per trarre, non si può negare che i versetti s'in­
seriscono nelle strutture rigidamente bibliche del ragionamento prin­
cipale in modo di gran lunga migliore rispetto a quanto possa sembra­
re a prima vista (cf. anche Filone, Deus 1 5 5 ss.).

C'è speranza che la comunità vinca la propria pigrizia (6,9- 1 2.)


9 Quanto a voi però, carissimi, anche se parliamo così, siamo convinti delle
cose m igliori e di ciò che (vi) porta alla salvezza. I o D i o, infatti, non è in­
giusto da dimenticare la vostra opera e l'amore dimostrato nel suo nome
qu a nd o avete dato sostegno ai santi e ancora li sostenete. 1 1 Desideriamo
p erò che ciascuno di voi dimostri il medesimo zelo in tutta la convinzione
della speranza, fino alla fine, 12 perché non diventiate pigri ma piuttosto
imitatori di coloro che con la fede e la perseveranza ereditano le promesse.
Con 6,9 ss. si ha una svolta decisiva non solo nel tono, ma anche nel
pensiero. Se fino ad ora solo tra le righe si percepiva che l'autore non
ha intenzione di abbandonare i suoi ascoltatori, ora questo viene det­
to esplicitamente. Se fino ad ora prevaleva la gravità giudiziale del ser­
mone ammonitore, gli enunciati che seguiranno ora irradiano fiducia
appassionata e incoraggiamento vigoroso. Non è certo nell'intento del­
la lettera suscitare timori e avvilimento tra i suoi ascoltatori. Le dure
Ebr. 6,9- 1 2. C'è speranza che la comunità vinca la propria pigrizia 99
frasi non mirano a frustrare i cristiani ormai impigriti, ma a renderli
attivi sul piano della pronta comprensione e dell'autocoscienza penti­
ta. In questo rientra naturalmente anche l'incitamento.
9· Con espressioni inequivocabili l'autore manifesta la simpatia e
l'affetto che prova. Il «noi» letterario dà peso alla frase, vi si riesce a
percepire il maestro che fa leva sulla propria autorità. Egli confida nel
«bene» che caratterizza i membri della comunità, e lo fa da cristiano
oltre che da uomo. Certo è consapevole di aver pronunciato parole gra­
vi e scomode perché non poteva né era in grado di trattenersi, ma cio­
nonostante essi non devono sentirsi abbandonati né ripudiati, al con­
trario. Li chiama, e solo qui, «carissimi», c dunque si sente profonda­
mente legato a loro, cosa che è qui della massima importanza. A spin­
gerlo non sono state amarezza o incomprensione, ma preoccupazione
e affetto, perciò è lungi dal voler attenuare o ritirare ciò che ha affer­
mato. Si esprime con estrema cautela quando dice di essere convinto
«delle cose migliori», se confrontate a quanto denunciato in 6,8 .
10. Per quanto riguarda la salvezza i suoi ascoltatori non falliranno
e i motivi di questo non vanno ricercati in loro stessi, ma nella giusti­
zia (= fedeltà) di Dio, che certamente non dimentica le opere d'amore
da loro compiute nel suo nome. Colpisce l'espressione «la vostra ope­
ra e l'amore». Si può solo pensare a un impegno particolare che richie­
da le forze riunite della comunità. Non si tratterà certo di opere di be­
neficenza nell'ambito della propria comunità. È altrettanto improba­
bile che si tratti di particolari «servizi» resi durante un'epoca di perse­
cuzione ( I O,J 2 ss.). La frase allude piuttosto a una straordinaria opera
di sostegno intrapresa dalla comunità per aiutare un gruppo esterno,
«i santi». Se questa iniziativa è avvenuta così dichiaratamente nel no­
me di Dio, e se è diventata nel frattempo un'istituzione fissa, allora si
dovrebbe senz'altro valutare se non vi sia un riferimento alla grande
colletta dei primi tempi del cristianesimo, di cui sentiamo parlare più
di una volta nel corpus paolino (nella parte relativa al terzo viaggio mis­
sionario) (cf. 2 Cor. 8 , 5 ). L'espressione indubbiamente tipica «servire i
santi» si riferirebbe dunque anch'essa al sostegno finanziario alle chie­
se povere della patria palestinese (cf. Rom. I 5,2 5 .3 I ; 1 Cor. r 6, I ; 2 Cor.
8,4; 9, 1 . 1 2; Atti 1 1 ,29). Sappiamo che questa iniziativa era un proposi­
to sia della missione giudeocristiana sia di quella etnicocristiana (Gal.
2, 1 o), e che durò vari anni. Quando si parla tecnicamente dei «santi» è
probabile che si riprenda una definizione della chiesa gerosolimitana.
1 00 Ebr. 6,9- r2. C'è speranza che la comunità vinca la propria pigrizia
Se la lettera agli Ebrei risale davvero al tempo precedente il 70 d.C.,
allora questa spiegazione, che non è l'unica tra gl'interpreti, diventa
notevolmente più probabile. Per quanto i particolari vadano precisati
meglio, l'autore è sotto l'effetto di una potenza esemplare dell'amore,
estesa e disponibile. Non è in grado di sottrarvisi, perché Dio benedi­
ce soprattutto questa disponibilità al sacrificio e al servizio. Vuole che
la carità regni tra gli uomini, soprattutto tra quelli che, grazie a Cristo,
l'hanno raggiunta davanti al trono stesso della grazia (4, I 6).
I I. Se possibile, lo zelo nell'esercizio dell'amore - oggi parleremmo
d'impegno sociale - da un certo punto di vista è più facile da suscitare
e quindi più facile da mantenere dello «zelo in tutta la convinzione
della speranza fino alla fine». L'amore per il prossimo, se è un senti­
mento autentico e naturale, ha sempre un oggetto immediato in cui ri­
conoscere la necessità e il significato del suo compito. Questo è più
difficile nel caso della speranza cristiana che, essendo viva, è in grado
d'influire sul cristiano solo se gli viene continuamente promessa. Una
comunità che collabora attivamente e con spirito di disponibilità può
compiere grandi cose se vi è il desiderio di superarsi l'un l'altro (cf. 2
Cor. 9,2 ). Perché la speranza sia viva, ci vuole però lo zelo del singolo
cristiano, mentre, viceversa, ogni cosa dipende dalla capacità o meno
di ciascuno di mantenere tale atteggiamento. Evidentemente Ebr. in­
tende ravvivare e rafforzare l'attesa del singolo in seno alla comunità;
ecco spiegato lo struggente e appassionato «noi desideriamo (fervida­
mente) ». Laddove si impiegano le forze di un attivo amore per il pros­
simo, «tutta la convinzione» dovrebbe avere il suo caposaldo. Anche
se il cristiano non si fa servo per avere in cambio un compenso, tutta­
via s'impegna soprattutto per colui «nel cui nome» agisce nell'amore,
ed è proprio a questo nome che è collegata la speranza (cf. 6, 1 3 ss.).
Verosimilmente si pensa che alla fine l'amore e la speranza si vincono
o si perdono insieme.
1 2.. Visto sotto questo aspetto, il v. 1 1, in fondo, prosegue coeren­
temente. Il concetto di pigrizia rimanda a 5 , 1 1 ; ma mentre là si consta­
tava una diffusa «pigrizia nell'ascolto», qui si tratta più di una pigrizia
generale che colpisce tutta la vita cristiana. Accanto alle parole della
promessa, sono i modelli della fede e della perseveranza ad avere l'im­
portanza maggiore. È a questi che bisogna rifarsi, non· imitandoli - ne
risulterebbero solo delle caricature - bensì cercando di riprodurne l'e­
sistenza vissuta pienamente. L'espressione «di coloro che ... ereditano
Ebr. 6,I J-20. La promessa di Dio ad Abramo 101

le promesse» non s i riferisce a un preciso gruppo di persone del passa­


to d'Israele o del presente della chiesa (così sotto, 1 1 , 1 ss. e r 2, r ss.),
ma a quanti, in modesto anonimato e nonostante tutte le prove e av­
versità, percorrono la via della speranza «sino alla fine», che anche per
essi comprende « meta» e «significato», anzi «compimento» (cf. Ps. Sal.
I 2,8). Il plurale «promesse» si riferisce alla molteplice testimonianza
offerta dalla Scrittura. Del numero illimitato di coloro che andrebbero
ricordati come modelli di fede e di perseveranza, nel seguito viene tut­
tavia scelta e messa in risalto un'unica figura.
La promessa di Dio ad Abramo ha comunque valore immutabile
{6, I J -20)
1 3 Quando infatti Dio fece la promessa ad Abramo, «giurò per se stesso»,
poiché non vi era nessuno superiore per cui avrebbe potuto giurare. 1 4 E
disse: «In verità, benedicendo voglio benedirti (molto) e moltiplicando vo­
glio moltiplicarti ( molto)». r s E così, avendo perseverato, conseguì la pro­
messa. 16 Gli uomini infatti giurano per qualcuno superiore a loro e il giu­
ramento per loro serve da convalida per escludere ogni controversia. 17 Per­
ciò Dio, che voleva mostrare più chiaramente agli eredi della promessa l'ir­
rcvocabilità del suo intento, intervenne con un giuramento 1 8 perché con
due atti immutabili, nei quali è impossibile che Dio mentisca, noi avessimo
un forte incoraggiamento; noi, che abbiamo cercato rifugio aggrappandoci
alla speranza che ci è posta innanzi, 19 nella quale noi abbiamo un'ancora
dell'anima, sicura oltre che salda, «che penetra fin nell'interno della corti­
na», zo ove Gesù è entrato per noi come precursore, essendo divenuto
sommo sacerdote «in eterno secondo l'ordine di Melchisedec» .
1 3 s. Gen. 22, 1 6 ss. 19 Lev. 1 6,2. 1 2. 10 Sal. 1 10,4.

1 3 -20. In quanto popolo, Israele ha ricevuto molte promesse. In tal


senso l'annuncio dei profeti parla chiaro. Se si vogliono prendere sin­
gole figure dell'antica alleanza che sono state ritenute degne di riceve­
re promesse personali, allora si può menzionare solamente Davide, il
fondatore della monarchia (cf. 2 Sam. 7, 14 ss.). Se infine si vuole indi­
care una personalità che vada oltre il solo Israele, allora Abramo
emerge in solitaria grandezza. La testimonianza che lo riguarda nella
lettera è insolitamente estesa. È importante che appaia ripetutamente
come destinatario della promessa divina, e anzi che, in fondo, abbia
ricevuto le promesse divine maggiori dal punto di vista del contenuto.
A bramo è portato sempre come esempio fulgido del fatto che il mon-
1 02 Ebr. 6,I J-20. La promessa di Dio ad Abramo
do e la promessa di Dio appartengono alla fede, fede che non è puro
appannaggio d'Israele per quanto esso sia anche il popolo del messia
(cf. Gen. 1 2,2). Questo pensiero dovette colpire profondamente l'au­
tore. Seguendo le regole dello scriba giudaico del tempo, studia a fon­
do il mistero, e cioè le allusioni a Cristo nella figura di Abramo. La
pericope 6 ,I 3 -20 costituisce quindi un passaggio improvviso, ma certo
ponderato, a 7, I ss.4 ss. È notevole la differenza rispetto a Paolo. È
vero che anche l'autore di Ebr. in Abramo vede il destinatario della
promessa (cf. Rom. 4, 1 4 ss.; Gal. J,8. r 6), ma sviluppando il tema pren­
de una strada completamente diversa, visto che non vengono presi
minimamente in considerazione né la fede che giustifica né il signifi­
cato, unico nel suo genere, che la figura dei padri riveste per i gentili.
Mancando dunque un interesse teologico specifico per il mondo etni­
cocristiano, se ne può dedurre che abbiamo a che fare con un teologo
giudeocristiano. Per rafforzare la perseveranza della sua comunità in­
siste più sull'elemento formale della promessa che non su quello con­
tenutistico, per cui in primo luogo interessa l'insolita forma del giu­
ramento, dal momento che al tempo stesso ne deriva anche l'assolu­
tezza della sua validità. Se Dio definisce non solo un concetto, ma la
realtà della fede, allora la parola con cui promette è qualcosa di più di
un semplice «discorso»: è un impegno assoluto, un «giuramento» in­
crollabile, come direbbe la Bibbia.
1 3 . Ebr. parla della promessa di Dio fatta ad Abramo come se si
trattasse di una sola. Dal punto di vista contenutistico e materiale
questo è certo vero, tuttavia i racconti inerenti ad Abramo riferiscono
che la promessa venne ripetuta più di una volta (cf. Gen. 1 2,2 ss.; 1 3 ,
1 6; I 5 , 5 ss.; I 7, 5 ss.). Per illustrare l'importanza di questa promessa
assolutamente irrevocabile si rimanda alle ultime parole pronunciate
da Dio (Gen. 22, 1 6 ss.). Vi si riferisce che, per quanto riguarda Abra­
mo, Dio «giurò per se stesso» - formulazione alquanto singolare per il
pensiero di un biblista come l'autore, che infatti si appresta a illustrarne
il significato. Poiché Dio non aveva nessuno superiore a lui sul quale
poter giurare, giurò «per se stesso». Di per sé non bisogna cercare as­
solutamente nulla dietro questa espressione che si serve di un'immagi­
ne antropomorfa. Le cose stantio diversamente - come già accennato
- per il punto di vista di allora. Che si tratti di un sistema di pensiero
più ampio ed elaborato è provato soprattutto da due testi di Filone, la
cui scuola di metodologia ermeneutica sembra essere stata un tempo
Ebr. 6,I J-20. La promessa di Dio ad Abramo 1 03
seguita dall'autore. Le dichiarazioni di Filone presentano un ragiona­
mento parallelo a Ebr. Nel primo passo (Sacr. 93 ) spiega diffusamente
che Dio è certo credibile anche solo sulla semplice parola. Le sue pa­
role non hanno bisogno di un giuramento, ma gli equivalgono sempre.
Ma quando nella Scrittura Dio è ripctutamente descritto nell'atto di
giurare qualcosa, ciò avviene per dare all'uomo, che pensa in termini
umani, il necessario aiuto per capire. Nel secondo passo (Leg. ali. 3 ,203
ss.), che fa esplicito riferimento a Gen. 22, 1 6 ss., trattando sorpren­
dentemente lo stesso problema, si constata che Dio soltanto è il garan­
te più potente, prima per se stesso e poi anche per le sue opere; di
conseguenza egli può giurare solo per se stesso, offrendosi anche co­
me certezza.
1 4. Andando oltre Filone, Ebr. trae conseguenze per la fede della
comunità cristiana che è consapevole in modo nuovo di Dio c della
sua parola. Questa circostanza ha influito addirittura sul testo della
frase divina, che in un punto particolare differisce da quello dci LXX.
Invece di parlare della moltiplicazione della «discendenza» di Abra­
mo, è prevalsa la formulazione « e io ti moltiplicherò (molto)». In
•••

questo modo viene distolta l'attenzione dalla pluralità della discen­


denza, ovvero da giudei e gentili, in cui anche Paolo vede l'adempi­
mento della promessa. L'interesse teologico punta più sulla figura del
patriarca stesso, il quale ha ottenuto l'adempimento della promessa
sotto forma di una « grande moltiplicazione». Da 1 1 ,8 ss. emerge an­
cora più chiaramente che essa, secondo Ebr., comprende anche
l' «eredità» della «terra straniera», e naturalmente in primo luogo l sac­
co, coerede della promessa, la cui voluta immolazione è prototipo del
sacrificio di Cristo ( I I , I 7 ss. ).
I 5. Tale definizione del contenuto della promessa chiarisce perfet­
tamente la constatazione del v. I 5 · Abramo dimostrò perseveranza e
fiducia davanti a Dio riguardo sia alla promessa della terra sia a quella
di un figlio e così « conseguì la promessa)). Ovviamente Ebr. dà per
scontato che Abramo dovesse ancora sperimentare l'adempimento di
quanto gli era stato promesso per la prima volta in Gen. I 2,2 ss. (cf.
Gen. 2 3 ) . Lo può constatare senza difficoltà perché parte dalla con­
vinzione teologica che entrambi i doni, la terra ricevuta e il figlio ge­
nerato, racchiudevano già in sé il bene salvifico futuro ( 1 I , I o) . Anche
se la «promessa» non si era ancora realizzata, gli antenati potevano
comunque veder la e salutarla «da lontano)) ( 1 1 , 1 3 ). Di qui emerge che
1 04 Ebr. 6,I J-2.0. La promessa di Dio ad Abramo
la redazione della promessa divina di Gen. 22, I 6 ss . è accentuata tipo­
logicamente in senso cristologico e non già, come avviene in Paolo, in
senso messianico-ecclesiologico. Ciò che si può imparare da A bramo
è principalmente la perseveranza nella fede in una salvezza futura.
1 6. Tutto il peso delle asserzioni, il cui proposito per il momento si
può solo leggere fra le righe, viene ulteriormente rafforzato nel v. I 6;
qui si ricorda quale usanza sia in vigore fra gli uomini per dimostrare,
con una gradazione dal minore al maggiore, che lo stesso vale anche e
soprattutto per Dio. Gli uomini giurano per qualcuno che è superiore
a loro, e il giuramento ha lo scopo di escludere qualsiasi controversia.
Avendo l'autore seguito Filone per quanto riguarda il metodo, non
stupisce trovare in quest'ultimo, parola per parola, la stessa frase di
valore universale (Sacr. 9 3 ; cf. anche Somn. I , I 2). In modo del tutto
analogo nel seguito si afferma subito che presso Dio lo stesso deve ac­
cadere in misura ancora maggiore.
1 7. Ebr. ribadisce energicamente che Dio ha voluto garantire la fer­
mezza della sua promessa proprio mediante un giuramento, in modo
tale che «grazie a due atti irrevocabili nei quali Dio è impossibile che
mentisca noi avessimo un grande incoraggiamento» (cf. I 8); si riferi­
sce alla sua parola, che promette ed è credibile, e al giuramento per se
stesso. Oggetto di quest'ultimo, stando al contesto, è la promessa di
Gen. 2 2, I 6 ss., che, secondo l'interpretazione fornita, s'identifica nel­
l' «eredità» resa reale e accessibile in Cristo. È da notare che in questo
modo è preso indirettamente in considerazione il tema principale se­
condo il quale Dio garantisce con giuramento la sua salvezza, tema
che può esser stato suggerito fondamentalmente da Sal. I I o, 4 (cf. a 3,7
ss. e 7,20 ss.). Quando in questo passo la traduzione letterale afferma
che Dio «è intervenuto con un giuramento», si ha l'associazione di
due concetti. Dio è colui che giura e al tempo stesso colui che garanti­
sce il giuramento, cioè, per così dire, «colui che sta in mezzo», «al quale
l 'uno si richiama e sul quale l'altro fa affidamento» (Fr. B leek).
1 8. Questi due dati di fatto che sottolineano la veracità di Dio (cf.
Num. 2 3 , 1 9; Rom. 3 ,4; Tit. I,J) possono e devono dunque servire da
« grande incoraggiamento» alla comunità. La «veracità» di Dio dimo­
stra di essere soprattutto fedeltà alla promessa pronunciata; in essa i
cristiani, che conoscono fin troppo bene l'incostanza umana, possono
trovare un punto fermo assoluto; né lo abbandoneranno coloro che
cercano proprio in essa «rifugio». In un mondo ostile che perseguita
Ebr. 6,I J-20. La promessa di Dio ad Abramo 105
l'uomo e gli d à la caccia, l a possibilità di sopravvivere esiste a motivo
della speranza cristiana. Essa è in grado di strapparci a un vortice fata­
le. Acquistiamo certezza in forza della fedeltà incondizionata di Dio
che si esprime nelle parole della promessa. Se la storia delle religioni
insegna che la parola di Dio ha sempre mosso l'uomo, la storia d'Israe­
le, al cui inizio troviamo la figura di Abramo, testimonia che la parola
di Dio nel suo movimento ha una meta a cui l'uomo può tenersi ag­
grappato se nella tempesta della vita non vuole diventare un relitto
sbattuto sulla spiaggia.
1 9 . La tribolazione esistenziale dell'uomo dell'antichità trapela per
un momento quando Ebr. parlando della «speranza afferrata» usa
l'immagine dell' «ancora dell'anima, sicura oltre che salda», che pos­
sediamo. Come in 2, 1 , nel linguaggio e nel pensiero, altrimenti assolu­
tamente biblici, s'insinua un'immagine estranea, piuttosto di filosofia
popolare, che descrive lo smarrimento e la minaccia che incombono
sull'uomo immerso in un mare di errori e tempeste. Riemerge una cer­
ta familiarità con Filone che, a proposito degli uomini privi della vera
fede in Dio, può affermare (Dee. 67) che sono sballottati eternamente
qua e là, irrequieti come imbarcazioni oscillanti che «non entrano mai
in porto né trovano mai àncora sicura nella verità». Ma se Filone vede
il «sostegno più nobile della vita dell'anima>> nella «necessaria fede nel
Dio eternamente vivente», Ebr. fa un decisivo passo avanti per la co­
munità cristiana definendo «àncora» la speranza garantita da Dio.
Certo, la fede dà sostegno in una vita esposta a tempeste, ma solo la
speranza fornisce l'orientamento. È inevitabile che sorga l'interrogati­
vo sul fondamento della speranza. Interrompendo bruscamente l'im­
magine, si asserisce che l'àncora «penetra fin nell'interno della corti­
na», richiamando così il testo di Lev. 1 6, 2. 1 2. Perciò il saldo fonda­
mento della speranza è il santo dei santi, che contraddistingue l' «in­
terno della cortina» e delimita il luogo del sacrificio espiatorio annua­
le nel giorno dell'espiazione. L'àncora è nascosta, proprio come invi­
sibile doveva essere quanto accadeva all'interno del santo dei santi. Es­
sa è al tempo stesso assolutamente affidabile, perché fa presa nel luogo
stesso di Dio. Da 4, 14 risulta che Ebr. naturalmente pensa al cielo, o
meglio al santuario celeste .
.2.0. Per tornare al tema principale, concludendo la sezione l'autore
riprende l'idea che Gesù è entrato nel santo dei santi (cf. 4, 14), preci­
sando che lo ha fatto per noi come «precursore». Inoltre si cita di nuo-
1 06 Ebr. 6, I J-20. La promessa di Dio ad Abramo
vo e letteralmente il testo di Sal. I I 0,4. Ciò a cui già in 5, I o si faceva
riferimento tematico può essere ora definitivamente sviluppato nel­
l'omelia. Ebr. ha già considerato vari aspetti importanti. Gesù è diven­
tato sacerdote «in eterno»; e questo entrando «per noi» nel santo dei
santi, o più precisamente ottenendo, mediante la sua morte, il compi­
mento, ossia l'insediamento nella nuova dignità. L'espressione «per
noi» evidenzia lo scopo del suo ministero vicario, che necessita l'ac­
quisizione personale. Quando inoltre è detto che Gesù è penetrato nel
santo dei santi come «precursore», allora si considera in special modo
la meta sperata dalla comunità cristiana, violando e superando il ritua­
le giudaico che riservava l'ingresso nel locale al solo sommo sacerdote.
Parte terza

« In eterno secondo l'ordine di Melchisedec»


(Sa /. I I0,4) (7, I - IO, I 8 )

Salendo per due versanti omiletici differenti, Ebr. si è avvicinato al ver­


setto centrale di Sal. I I0,4, che con il v. I caratterizza l'intero salmo
(cf. 4, 14- 5 , 1 0 e 5 , 1 1 -6,20). Questo modo di procedere ammette con­
clusioni plausibili sul fondamento testuale dell'omelia, che fornisce
contenuto e direzione alle idee. Le affermazioni che seguono dimo­
strano innegabilmente di essere interpretazione della testimonianza
biblica, in cui accanto al nome e alla figura di Melchisedec viene trat­
tato principalmente il significato del giuramento biblico (Sal. I 1 0,4a).
Con 7, 1 - 10, I 8, chi ascolta il sermone si trova davanti alla parte didat­
tica vera e propria, nella quale ogni testimonianza contribuisce a met­
tere in risalto la grandezza di Cristo.

La carica perpetua del sommo sacerdozio di Gesù


secondo l'ordine di Melchisedec comporta l'abrogazione
del sacerdozio levitico nonché della legge mosaica (7, I -28)
In 7, I - 2 8 per prima cosa ci si preoccupa di dimostrare il mistero
della persona e della carica di Cristo. Qui la convinzione riguardo a
un'esemplarità (tipologica) particolare di Melchisedec si fonde con la
fede in una p reesistenza del Figlio, che sotto un certo aspetto potreb­
be anche essere stata realtà figurativa primordiale. Evidentemente da
Sal. I 10,4 si ricava più di quanto il versetto stesso non dica; infatti nel
testo originale l'espressione «secondo l'ordine di Melchisedec» signi­
fica solo «alla maniera del sacerdozio di Melchisedec>>. Quando poi
l'autore la carica di significato partendo dalla narrazione di Gen. 1 4,
oltremodo oscura per la comprensione biblica contemporanea, allora
nasce inevitabile la domanda sui suoi presupposti ermeneutici e stori­
co-religiosi. In questo, il moderno lettore della Bibbia percepisce mag­
giormente l'estraneità di tale arte interpretativa. Constatiamo inoltre
che quanto Ebr. offre è un tentativo di dimostrare la preesistenza di
Cristo a partire dal Sal. I 10, tentativo che va ampiamente compreso,
108 Ebr. 7,1-28. Sommo sacerdote secondo l'ordine di Melchisedec

dal punto di vista sia metodologico sia contenutistico, alla luce di Fi­
lone. Se in questo non siamo neanche più in grado di seguirlo, tuttavia
oggi più che mai resta il compito di rendere teologicamente possibile
l'enunciazione dell'eterno significato di Gesù. È necessario soffer­
marsi brevemente sulla forma e la struttura dell'omelia, che in questa
parte viene particolarmente caricata dal punto di vista tematico.
1-3. In 7, 1 - 3 tutta la conoscenza di Ebr. riguardo a Melchisedec, trat­
tenuta sin da 5 , 1 ss., emerge infine appieno con un'unica frase assai
estesa, che è al tempo stesso un elenco e un'interpretazione. Le carat­
teristiche che definiscono il mistero del personaggio vengono riporta­
te in modo conciso, pur mantenendo l'usuale stile elevato. 7,1 - 3, sia
materialmente sia dal punto di vista metodologico ermeneutico, è alla
base di tutto il discorso successivo, che ha lo scopo di dimostrare il
sacerdozio eterno di Cristo secondo l'ordine di Melchisedec nel senso
di Sal. I I 0,4. Stile, contenuto e collocazione omiletica della frase non
consentono di avanzare l'ipotesi di un inno, magari rielaborato.
4- 1 .1. Con i vv 4- I 2 l'attenzione dell'ascoltatore viene spostata sul
.

particolare fatto che Abramo diede la decima a Melchisedec, da cui si


può arguire la sottomissione del sacerdozio levitico al sacerdozio di
Melchisedec-Cristo. Il procedimento ideale segue le usuali regole er­
meneutiche, riconoscibili nella lettera: a) constatazione di un caso sin­
golare della Scrittura, v. 4; b) ricerca del significato più profondo par­
tendo dal sapere generale, v. 5; c) accentuazione del caso paradossale,
in cui si ha un'allusione al significato spirituale più profondo, v. 6; d)
conclusione dal minore al maggiore, v. 7; e) descrizione della con­
clusione, vv. 8 ss.: Melchisedec-Cristo è superiore a Levi. Nei vv I 1 s. .

si argomenta in modo tipico per ipotesi, partendo dal contrario.


I J - I 7. Nei vv. I J - I 7 si giunge finalmente all'identificazione esplici­
ta di Melchisedec con Cristo, la cui origine dalla tribù di Giuda deve
testimoniare della correttezza della dichiarazione di Sal. I I 0,4. Cristo
non sarebbe diventato sommo sacerdote secondo la «legge di una p re­
scrizione carnale» bensì per la «potenza di una vita indistruttibile» .
I 8-2 5. I successivi versetti I 8-2 5 ancora una volta passano dalla per­
sona di Cristo al nuovo ordinamento da lui inaugurato, per cui viene
introdotta per la prima volta l'idea del «testamento» maggiore. L'af­
fermazione trova sostegno nell'allusione al giuramento prestato da
Dio. A una promessa più grande corrisponde al tempo stesso una «spe­
ranza maggiore» . Anche questi versetti si rivelano facilmente parte del-
Ebr. 7, 1 - 3 . La figura eterna di Melchisedec 1 09
l, intera dimostrazione, di cui la conclusione dal minore al maggiore è
caratteristica. Il v. 2 5 ha un leggero contatto con Rom. 8,34.
2.6-2.8. I vv. 26- 2 8 sono una specie di riassunto dell'intero discorso.
In essi si ribadisce ancora una volta il sacerdozio eterno e incorruttibi­
le di Cristo. I due versetti 27 e 28 proseguendo 4, 1 4 ss. rimandano a
qualcosa di tematicamente nuovo (v. il concetto «una volta per tut­
te»). Al posto del sacerdozio della «debolezza», con Cristo si ha il sa­
cerdozio eterno del « Figlio reso perfetto» (cf. I , 2 e Sal. 2,7).
Per la tecnica interpretativa di Ebr. è fondamentale il continuo ri­
mando a Sal. I I 0,4 nelle varie sezioni (vv. J . I 1 ss. I 7.2 1 ss.2 8). Con una
lieve schematizzazione vi si può riconoscere un particolare impegno
per quanto riguarda le seguenti espressioni: 7, 1 -3 «Melchisedec», 4- 1 2
«secondo l'ordine d i Melchisedec», I J - I 7 «sacerdote in eterno», 1 8 -2 5
«il Signore ha giurato», 26-28 «Figlio in eterno» (Sal. 2,7 e I 1 0,4).
Recentemente nel cap. 7 si è voluto vedere un midrash-pesher su
Sal. I 10,4 e Gen. 1 4, 1 7-20 (F. Schroger). I due testi biblici che parlano
di Melchisedec, tratti dall'Antico Testamento, rispettivamente dal li­
bro dei Salmi e dal libro della Genesi, sarebbero stati accostati secon­
do il metodo interpretativo rab binico richiamandosi alla seconda re­
gola di rabbi Hillel, secondo la quale due passi corrispondenti si com­
pletano e s'integrano a vicenda. Di fatto l'elaborazione dei testi proce­
de in modo tale che il loro accostamento produce una dichiarazione
riguardante Cristo unica nel suo genere. Forse però il concetto di mi­
drash non è del tutto adeguato. Se in questo abbiamo ragione, allora ci
troviamo davanti a una sorta di tecnica interpretativa allegorica come
quella di Filone, tecnica che l'autore di Ebr. possiede in modo perfet­
to. Il sacerdozio di Gesù viene ora illustrato definitivamente e com­
pletamente, avendo cura di svelare la profondità del contesto salvifico.
Il compositore è guidato dalla convinzione che quanto dichiarato a
proposito del «sacerdote in eterno secondo l'ordine di Melchisedec»
non possa essere pura declamazione, ma necessiti di argomentazione.
È quanto giustamente fa, anche se naturalmente a modo suo.
La figura eterna di Melchisedec
si rivela incarnazione del Figlio di Dio (7, 1 -3)
1 Questo «Melchisedec» infatti, «re di Salem, sacerdote del Dio altissimo,
che andò incontro ad Abramo (per riceverlo) mentre ritornava dalla bat­
taglia dei re» e «lo benedisse», 2 a l quale Abramo diede pure «la decima di
I IO Ebr. 7, 1 -3 . L a figura eterna di Melchisedec
ogni cosa (del bottino}», che se s'interpreta (il nome) è innanzitutto un «re
di giustizia», ma poi anche «re di Salem», che significa «re di pace», 3 sen­
za padre, senza madre, senza genealogia, che non ha né un inizio dei giorni
né fine di vita, ma è anzi fatto simile al Figlio di Dio, egli dunque rimane
«sacerdote» per sempre.
1 ss. Gen. 1 4 , 1 7-2.0.

1.Sulla base di Gen. 14, I 7 ss., il v. I descrive sommariamente l'in­


contro tra Melchisedcc e Abramo; in un'unica frase sono concentrati
tutti i fattori di rilievo per la dimostrazione: «Questo Melchisedec in­
fatti ... rimane sacerdote per sempre». Per prima cosa viene richiamato
alla memoria l'evento in sé. N ella Scrittura, Melchisedec è presentato
come « re di Salem», ossia di Gerusalemme, stando al senso letterale
(cf. Sal. 76,3). Egli era un «sacerdote del Dio altissimo», espressione
che al tempo di Ebr. poteva essere intesa esclusivamente nel senso del
monoteismo giudaico. Contempla la certezza che Dio è l'unico e il
più alto (Filone, Leg. all. 3,8 2 ). Ogni minima forma di echi politeistici
non era più ammissibile né lecita. Abbreviando Gen. I 4 è detto inoltre
che fu Melchisedec ad «andare incontro» ad Abramo, e non - come lì
- il re di Sodoma, del quale Melchisedec in quanto re di Salem era alla
pari, circostanza che si può dedurre solo indirettamente (cf. Gen. I 4,
I 8). Venne così introdotta l'idea di un' «accoglienza» solenne del vin­
citore e trionfatore (v. anche Filone, Abr. 23 5), perché il concetto gre­
co di «andare incontro» in questo senso è puramente tecnico. Così
anche gli altri particolari emergono con maggiore evidenza. In primo
luogo vi è che Melchisedec ha benedetto Abramo, cosa che documen­
ta la superiorità del primo rispetto al secondo; poi vi è la consegna da
parte di Abramo della decima «di ogni cosa» - ossia del bottino (v. 4).
2. Se pensiamo che in Abramo il giudeo praticante venerava il pa­
triarca per eccellenza e che vi era l'abitudine di pronunciare una be­
nedizione in sua memoria, si riesce a comprendere quanto la circo­
stanza des