(Revelations, 1997)
a cura di DOUGLAS E. WINTER
Indice
Uomini e peccati
1
Nella mia mente il fiume scorre in due direzioni. Verso il mare aperto,
verso il futuro e verso la morte, naturalmente; verso la rivelazione, forse
verso entrambi. E poi toma da dove è venuto, almeno in quei punti in cui
le correnti sono più perverse, dove compaiono i vortici, e dove le acque
sono come gonne di schiuma sui fianchi delle rocce. Da questi angoli, che
ho fatto miei, mi fermo a spiare. Nascondigli impervi sulle rive fangose,
nell'intrico dei rami. Da queste posizioni privilegiate posso guardare furti-
vamente il fiume che si contraddice, appuntandomi i particolari nel mio
blocco per poterli analizzare in seguito. Qualche volta mi sono persino av-
venturato nelle acque tumultuose: una volta di proposito, e una volta per
errore (un ramo si spezzò sotto di me e io rischiai di affogare, spinto avanti
e indietro tra le rocce come un volano). Non è stato per niente piacevole,
credetemi. Non prestate fede a quello che vi possono raccontare gli scia-
mani, che vi dicono, con occhi gonfi, come è bello fare il bagno nel fiume.
È la loro mutevolezza a proteggerli da ogni pericolo. Il resto di noi è molto
più fragile: è più facile che ci ammacchiamo o che ci feriamo nell'inonda-
zione. Per dire la verità, è terribile trovarsi nel bel mezzo di un torrente co-
sì impetuoso: senza sapere se verremo riportati nell'utero, nel conforto del-
le acque materne, o fuori, verso la fredda morte paterna. Trovarsi a sperare
un momento, ed essere allo stremo l'attimo successivo, senza sapere, per
metà del tempo, quale delle due prospettive dia conforto e quale generi
paura.
Ma finché me ne sto al sicuro sulla riva, come un semplice testimone,
penso che sia un buon posto per riflettere. E talvolta la vicinanza dell'ac-
qua, forse i suoi spruzzi, che velano l'aria, forse il suo scrosciare, che fa
tremare il cuore, provocano delle visioni.
Una volta, per esempio, mentre, seduto nel mio nascondiglio, spiavo il
fiume, immaginai di essermi spostato all'improvviso su una collina. La
scena che avevo davanti era come un mosaico di campi su cui uomini e
donne stavano lavorando. Molto di quello che vedevo in questa scena mi
richiamava alla mente una miniatura medievale. Il faticoso lavoro dei con-
tadini, l'assenza di qualsiasi segno di modernità - un veicolo, un palo del
telegrafo - ma, ancora più di questo, una monotonia in tutto il panorama
che dava la sensazione che il cielo ceruleo e l'orizzonte ondeggiante e tutto
quello che si trovava tra la collina e quell'orizzonte - siepi, sentieri, campi
e casupole - si trovassero sullo stesso piano di visione, ogni particolare
perfettamente a fuoco, e in rapporto perfetto l'uno con l'altro. Mi sembrava
che questo mondo si trovasse in qualche luogo tra la realtà e l'illusione. In
parte era un documento e in parte una decorazione.
Fissai lo sguardo su un uomo che arava a poca distanza da me. Vidi che
stava scavando tra dei cadaveri: la sua pala muovendosi scopriva i cadave-
ri, uno dopo l'altro. Si trattava di un cimitero? mi chiesi. Vedevo che c'era-
no dei segni nel terreno, ma non mi sembravano delle tombe: si trattava
semplicemente di ramoscelli privi di foglie, infilati nel terreno per segnala-
re la presenza dei cadaveri, che erano stati seppelliti a intervalli regolari in
tutto il campo.
Poi mi resi conto del mio errore. Tra i cadaveri si vedeva movimento. Si
rigiravano nel loro letto di vermi in modo da poter guardare il cielo, stirac-
chiando le loro membra pallide e nude come chi si risveglia da un sonno.
Alcuni si misero a sedere; adesso erano in piedi, ancora incerti sulle loro
membra. La maggior parte di loro era vecchia: coi visi avvizziti, i seni
svuotati, gli occhi ciechi, e con i reumatismi. E tuttavia sembravano felici
della loro condizione. Quando iniziarono a sentirsi più solidi sulle gambe e
a credere alla loro buona sorte iniziarono a fare salti, salutandosi l'un l'al-
tro, mettendo in mostra sorrisi senza denti. Poi iniziarono a farsi strada sul
sentiero pieno di solchi che portava al raggruppamento di capanne che si
trovava a poca distanza dal campo, col passo che si faceva più sicuro via
via che camminavano. Vidi le porte delle capanne che si spalancavano,
mentre i morti venivano accolti come se fossero stati attesi. Furono accesi
dei fuochi per riscaldarli, e davanti a loro venne posato dello stufato con
pane e vino. Mangiarono, si vestirono, e poi si sedettero ad ascoltare i
bambini dei loro ospiti, che parlavano loro con una grande solennità, come
fanno i bambini.
Dopo un certo tempo, iniziarono a vivere: iniziarono ad assumersi i
compiti degli uomini e delle donne che hanno scopo e appetito. E mentre
facevano questo e ricoprivano i tetti di paglia e pescavano e pregavano o
rimanevano seduti a contemplare il cielo, vidi che il fardello degli anni gli
cadeva di dosso. Vidi che i loro capelli si facevano più folti, e la loro carne
più rubiconda; vidi che i seni delle donne diventavano più voluttuosi e che
le loro facce stanche diventavano lisce, vidi gli uomini diventare più forti,
e le loro gengive riempirsi di denti, e vidi i due sessi posarsi addosso occhi
luminosi e sposarsi.
Adesso capivo la visione con una maggiore chiarezza. Queste persone
erano nate dalla tomba, e stavano vivendo all'indietro verso il ventre ma-
terno. Non c'è da meravigliarsi che avessero ascoltato con una tale atten-
zione i bambini al momento del loro ritorno; stavano facendo tesoro della
saggezza dei loro anziani.
Morivo dalla voglia di poter ascoltare quello che si dicevano: chiedere
loro, se avevamo una lingua in comune, cosa si provava a essere nati dalla
tomba. Ma questo non poteva succedere. Le coppie che avevo visto dis-
seppellire dall'uomo nel campo, a questo punto erano tornate all'infanzia,
un'infanzia tenuta in gran conto, e i più vecchi tra loro venivano portati in
braccio, mentre continuavano a rimpicciolirsi, fino a diventare poco più
grandi di vermi rossi nelle mani dei loro protettori. In questo stato veniva-
no riportati sul terreno dal quale erano venuti, e con grande irriverenza e
sonore risate e spreco di alcol, venivano seppelliti. Parecchie donne si de-
nudavano e ballavano saltellando sul terreno in modo da renderlo duro so-
pra le teste di quei semi. Poi la folla tomava al villaggio. E lì rimaneva in
attesa che il sole e la pioggia e la bontà di Dio onnipotente desse vita a u-
n'altra generazione.
Questa era stata la visione che avevo avuto sulla riva del fiume. Più di
una volta ero stato avvertito di non cercare un significato in questi sogni.
Vengono, dice molta gente, solo per distoglierci dalle semplici verità di
una vita vissuta in modo pragmatico. Ma io non ci credo, almeno non del
tutto. Anche se nemmeno io riesco a capire il significato di questa visione,
o di qualsiasi altra che vi possa raccontare, questo non significa che non
possa con profitto essere usata per la sua saggezza.
Nella mia mente il fiume scorre in due direzioni. In avanti verso la spie-
gazione delle cose, a una destinazione che giustifichi le agonie del viaggio.
E all'indietro, verso un tempo in cui il fiume era reale, e in cui quelli che
vagavano sulle sue rive avevano uno scarso interesse per le visioni.
***
Quest'uomo, per esempio, che si muove adesso tra gli alberi, con le scar-
pe che spolverano il ghiaccio dall'erba, che fissa la riva e le acque con gli
occhi, non è venuto qua alla ricerca di una rivelazione. Vuole solo trovare
la donna con cui ha diviso il suo lurido tugurio, a qualche miglio contro-
corrente da qua, negli ultimi quattro anni. Si chiama Agnes. Il nome di lui
è Martin, ma lei, per qualche ragione che non ricorda, lo ha soprannomina-
to Shank, e così è rimasto. Si tratta anche, diciamocela, dell'uomo più brut-
to di tutta questa parte dell'Inghilterra, la sua faccia è un'accozzaglia di bi-
torzoli e paresi, la barba, che lui taglia di rado, è incolta.
Manca un giorno all'anno Mille, e la maggior parte degli uomini e delle
donne che hanno timor di Dio che vivono lungo il fiume si sono riuniti nel-
la chiesa del villaggio di Tress per ringraziare il loro redentore. Ma Shank
ha una sola speranza di redenzione: la sua Agnes che ha osato vivere con
lui a dispetto della sua bruttezza e della sua anima violenta, la sua Agnes
che è uscita all'alba dicendo che doveva fare acqua, e che non era tornata
al loro letto accanto al focolare, la sua Agnes che una volta gli aveva detto
di non credere nel paradiso, ma che a lei sarebbe bastato dividere la tomba
con lui per l'eternità, diventare polvere al suo fianco. Lui non le aveva la-
sciato capire quanto lo avesse commosso udire tali parole. Solo più tardi,
solo vicino al fiume, aveva udito dei suoni animaleschi nelle vicinanze e si
era reso conto che si trattava del gemito del suo pianto pieno di gratitudine.
Nessuno di quelli che abitano lungo le rive del fiume amano Agnes più
di Shank. Anche se ha un cuore grande e i fianchi larghi, il suo corpo tra le
gambe è fatto in un modo strano; ha qualcosa dell'anatomia maschile e
qualcosa di quella femminile; è stranamente configurato. A Shank non im-
porta. In realtà lui trae conforto dal fatto che, nonostante i suoi capelli sia-
no lucidi e neri e che i suoi occhi siano fieri, nessun uomo la prenderebbe
in moglie. E allora che importanza ha che lei non gli possa dare bambini:
lui odia i bambini. Lui odia ogni cosa, a parte Agnes e il fiume.
Non si tratta di un tipo di vita che si possa definire civilizzata. Non han-
no parole affettuose l'uno per l'altra. Non pregano. Non parlano di niente
che sia astratto, parlano solo del cibo, del fuoco, del tetto che hanno sopra
la testa. A volte scopano, anche se nessuno dei due lo fa con grande appeti-
to. A volte, solo nei boschi, Shank si masturba. Occasionalmente stupra un
animale. Ma, comunque, loro vivono in una specie di matrimonio, un ma-
trimonio privo, per dire la verità, di qualsiasi pretesa di civiltà, ma legati
uno all'altra come una qualsiasi coppia che si sia scambiata i voti davanti
all'altare.
***
C'è nella nostra natura una fame rovinosa di realizzazione. Avendo avu-
to inizio, senza avere alcuna possibilità di scelta, vogliamo essere sicuri di
avere mano nella conclusione. Vogliamo segnarla, nel calendario dei tem-
pi. Là abbiamo avuto inizio. Qua terminiamo. E se al momento della no-
stra fine ci fosse una fine universale, sarebbe una cosa così brutta? Se la-
sciassimo solo sporcizia e mari morti a chi verrà dopo di noi, sarebbe una
cosa così brutta?
Ascoltatemi, anche se questo abbietto appetito è confessato solo dagli i-
sterici - da quel messia dissidente che conduce con prontezza il suo gregge
malandato sulla montagna, mentre conta le ore che mancano al suo Arma-
geddon (continuamente rinviato dalle loro preghiere) - è un desiderio uni-
versale. Tutti noi contiamo le ore. Tutti noi cerchiamo la realizzazione, an-
che se la temiamo. Desideriamo essere distrutti. Io desidero essere distrut-
to. Se dovessi incontrare Shank lungo il fiume sarei in difficoltà a non met-
termi sulla traiettoria del suo coltello.
E adesso la vede. Eccola, nel fango, a faccia in giù nel fango. Non è nu-
da, ma il suo abito è stato sollevato dall'acqua che la lambisce, e ne espone
i glutei. La sua carne è voluttuosa, persino nella luce incerta di dicembre, il
suo pallore vivido contro il fango scuro. La prima cosa che fa Shank quan-
do arriva vicino al corpo è tirare la stoffa ruvida e impregnata d'acqua sulle
sue nudità, in modo che il cielo e il fiume non la vedano in questo modo.
Solo allora tira fuori la sua faccia dal fango e la gira sottosopra. Le ferite
che le hanno tolto la vita sono sul collo, ma ce ne sono molte altre, tagli
più piccoli sulle braccia e sulle mani, dove ha cercato di lottare con il suo
assassino, alcuni sul seno, che diventano visibili solo quando Shank le lava
il viso e il busto con manciate di acqua gelata presa dal fiume. C'è poco
sangue, la maggior parte è già stata lavata via, le ferite sono solo lembi di
pelle da cui fluisce un fluido roseo. Ha gli occhi chiusi. La bocca è leg-
germente aperta, e le labbra sono bluastre. Alla fine, si costringe a guardar-
la tra le gambe, e scopre che le strane formazioni del suo sesso sono state
tagliate e mutilate orribilmente così che l'inguine per cui aveva stravisto
più di una volta mentre lei dormiva è diventato un ammasso irriconoscibile
di carne straziata. Non ha molte speranze, ma spera che fosse già morta
quando le è stato fatto questo.
Ritorna al fiume, immergendosi per qualche metro, per essere sicuro che
la può lavare con l'acqua più pulita, e con tenerezza, con una tenerezza an-
che maggiore di quando le aveva lavato la faccia, le lava l'inguine. Oh, a-
desso piange, e continua a piangere, e forse un poeta direbbe che aggiunge
le sue lacrime all'acqua con lui le lava il sesso, e se le lacrime potessero
guarire, come a volte fanno nei poemi, se il dolore potesse fare dei miraco-
li, come a volte succede nella narrativa, allora questa devozione potrebbe
restituirla alla sua curiosa interezza. Ma naturalmente non è così. E alla fi-
ne non riesce nemmeno più a piangere.
La solleva e la porta tra gli alberi, posandola su un delicato cuscino di
erba ghiacciata. Poi pensa, se perdo dell'altro tempo a occuparmi di lei,
l'uomo che le ha fatto questo se ne andrà di certo, tornerà tra le colline.
La posso seppellire più tardi. Ma posso solo catturarlo adesso. E per
quanto lei abbia sofferto lui soffrirà di più, oh, molto di più. Per quanto
abbia gridato forte, implorandolo di smettere, il suo assassino griderà
molto più forte.
In questo momento lui diventa un'altra cosa: diventa la morte vivente, un
uomo la cui unica espressione è il suo coltello. Adesso non è adirato, i col-
telli non si adirano. Adesso non ha lacrime, i coltelli non ne hanno. È sem-
plicemente affilato e appuntito e ineluttabile.
Non fatevi confortare da questo, anche se è difficile, lo so, non godere
dell'attimo mentre si muove tra gli alberi; è difficile non provare piacere
per la semplicità di ciò che è diventato.
Provo pena per Padre Michael e per le sue sbornie. Mi piacerebbe man-
dargli Cristo, proprio in questo momento. Mi piacerebbe descrivere come -
mentre Michael si versava un altro bicchiere di vino - avesse udito il suono
delle colombe tra le querce del sagrato, avesse posato il bicchiere, si fosse
diretto alla porta e avesse visto il Redentore, seduto tra gli alberi, che erano
miracolosamente in fiore. Michael avrebbe lasciato cadere il bicchiere, a-
vrebbe camminato incerto nella luce invernale, si sarebbe lasciato cadere
in ginocchio e si sarebbe pentito dei suoi peccati. E Gesù avrebbe posato il
palmo insanguinato sulla sua testa, e a bassa voce gli avrebbe detto che
non c'era necessità che temesse gli inferi, perché era stato salvato.
Ma oggi non mi riesce di trovare Gesù Cristo. La notte scorsa, mentre
ero seduto alla scrivania e organizzavo il lavoro della giornata, pensavo di
poter avere Cristo abbastanza vicino da poterlo descrivere. Ma oggi c'è
troppa nebbia, non riesco a vedere il Figlio, quindi come posso raffigurar-
melo in quel posto dolce come una melodia sotto le querce? Oh, direte voi,
inventatelo: è questo che fanno gli scrittori. A volte questo è vero: ma non
qua, non ora. Questa mattina ho una chiara visione di Padre Michael, che
medita sui terrori dell'inferno mentre beve avidamente il suo vino: ma il
suo Redentore non si vede da nessuna parte.
Il dottore mi dice che la mia depressione mi ha reso immune al piacere;
in altre parole non riesco a provare piacere nelle cose. Questo diventa par-
ticolarmente acuto quando mi occupo di quello di cui mi occupo ora: scri-
vo. Mi chiede da quanto mi sento così e gli rispondo che non lo so. Ho mai
provato piacere mentre mi dedicavo alla mia arte? C'è qualche piccola ec-
citazione sessuale nel movimento della penna sulla carta, immagino, qual-
che soddisfazione puritana nel vedere la pila di fogli riempiti che aumenta.
Ma piacere? Come nell'atto dell'amore, e del mangiare cioccolatini? No.
Questo mi porta a chiedermi se il mio lavoro non sia stato durante tutti
questi anni una forma di autopunizione: se non sono come Padre Michael
nella sua cella, mentre guarda fuori dalla piccola fessura che ha creato per
vedervi il mondo, e che poi, non credendo a ciò che vede, ritorna alle sue
meditazioni sulla sofferenza?
(In seguito penso: perché mai dovrei aspettarmi di trovare piacere nel la-
voro che faccio? Il piacere è una ricompensa, data al sistema umano dall'e-
voluzione in cambio dei servizi resi alla preservazione e all'aumento della
specie. Io non servo a nessuno scopo naturale nell'atto di scrivere storie.
Non fa fare alcun passo avanti alla razza umana che uno scrittore racconti
storie sull'incertezza, sulle tenebre e sulla rivelazione. Perché dovrei essere
ricompensato col piacere? Penso che la prova più vera della divinità nelle
nostre cose sia il fatto che indugiamo nelle nostre fantasie, che non siamo
semplicemente macchine per l'allevamento, programmate per procreare.
L'omosessuale nel suo calore sterile, l'anacoreta nella sua cella chiusa, lo
scienziato che misura la distanza tra galassie irraggiungibili, e il poeta a-
gonizzante nella ricerca di una sillaba, tutti vivono delle vite che non ser-
vono a nessuno scopo evolutivo. La divinità non diventa forse più visibile
quando a noi manca una applicazione pratica? Nel nostro essere sognatori,
nel nostro resistere agli imperativi dell'ovulo e dello sperma e della fami-
glia?)
C'è un uomo di nome Oswald che vive con la famiglia sul limitare del
bosco, a poca distanza dal villaggio. È l'unico uomo nelle vicinanze ad a-
vere a che fare regolarmente con Shank. Un uomo con un collo tozzo, cal-
vo, caparbio, a Oswald piace ridere, specialmente davanti alle brutte no-
tizie. I suoi vicini trovano questa cosa sconcertante, e a volte si chiedono
se sia completamente sano, ma in lui c'è una dose di buon senso che è dif-
ficile negare. Quando la più produttiva delle sue quattro mucche morì, e lui
fu trovato a ridere vicino al cadavere, poté solo far notare che sembrava
buffa con le zampe rigide sui fianchi, e che cosa avrebbe potuto fare co-
munque, non poteva di certo farla tornare in vita, e allora perché piangere?
Oggi Shank ha trovato Oswald fuori della sua capanna, seduto su di un
tronco. Sua moglie lo ha buttato fuori, dice lui, finché non smetterà di
stancarla con i suoi stupidi giochi. Shank gli dice cosa è successo ad Agnes
e, una volta tanto, Oswald non ride.
«Sono passati di qua tre montanari. È stato solo un'ora fa. Gli ho parlato
di persona, e posso assicurarti che uno di loro era un tipaccio», dice a
Shank.
Shank gli chiede che aspetto avesse questo mascalzone, e Oswald gli di-
ce: «Piccolo, con i capelli rossi, con la faccia di un maialino imberbe».
Questo fa ridere Oswald.
«Devo venire con te, per catturarlo?» gli chiede.
Shank risponde di no, questo è un lavoro solo suo. Oswald gli dice che
sarebbe felice di impiccare l'uomo, lo ha fatto in precedenza, quando la
giustizia lo ha richiesto, e gli piace farlo, soprattutto quando scalciano,
questo fatto lo fa sempre ridere. Alla fine, quando Shank se ne va, si offre
di seppellire Agnes. Shank gli risponde di no.
«Almeno lasciami portare il corpo a casa tua», si offre Oswald, «altri-
menti qualche animale la può prendere.»
Shank gli comunica la sua gratitudine, come meglio gli consente il suo
vocabolario limitato, e gli dice che sì, gli piacerebbe che portasse a casa il
corpo di Agnes. Poi se ne va, a caccia del maialino imberbe.
Non c'è bisogno che vi dica molto su quest'uomo la cui lama presumi-
bilmente ha fatto su Agnes un lavoro così terribile. Dovete solo sapere che
è innocente, almeno del crimine per cui tra breve morirà. Ha commesso al-
tri atti, quasi altrettanto terribili (Oswald non si sbaglia a vedere cattiveria
in lui); quindi forse c'è una certa giustizia in quello che sta per capitargli.
Ma poiché, almeno oggi, è un uomo che non si aspetta di essere stanato, ed
è in compagnia di altri due uomini (uno dei quali il suo fratellastro) che si
sentono altrettanto senza colpa in questo tardo pomeriggio, l'uomo non fa
alcun tentativo per coprire le proprie tracce. Abbastanza presto Shank tro-
va le prove del passaggio del trio, e ben presto si trova a breve distanza da
loro. Quando è abbastanza vicino da vederli, comunque, il che avviene al-
l'imbrunire, rimane indietro in attesa. Il trio ha acceso un piccolo fuoco tra
gli alberi, e sta cucinando un coniglio che uno di loro ha catturato; stasera
non andranno oltre. Shank può permettersi di acquattarsi contro un albero,
e guardare le stelle che cominciano a fare la loro comparsa in cielo, finché
gli uomini si addormentano. Allora li prenderà, uno alla volta. Non ha al-
cun dubbio in testa sulla necessità di risparmiare i compagni dell'assassino:
la loro vicinanza li condanna. E tutti e tre moriranno per il crimine di uno
solo.
***
E adesso torniamo a Shank, che ha osservato la sua preda per molte ore,
aspettando con pazienza che gli si presentasse l'occasione di fare del male.
Gli uomini hanno alimentato il fuoco per tre volte, in modo che continuas-
se a scoppiettare mentre bevevano e parlavano e bevevano di nuovo. Ma la
birra che avevano bevuto aveva preso il sopravvento, e loro avevano ap-
poggiato le teste per dormire, lasciando che il fuoco si consumasse. Ades-
so ci sono solo i tizzoni e alla sua luce irregolare Shank riesce a immagina-
re le facce dei tre uomini, inerti sotto le loro pellicce consunte.
Ha un suo piano: prima prenderà quello che sta più vicino a lui, che è
anche il più grande, e quindi il più pericoloso per lui. O almeno è questo
che lui immagina. In effetti Shank sta per muoversi dal suo nascondiglio
quando il terzo uomo (non il gigante, né l'assassino) si alza barcollando e
con terribili grugniti e schiarimenti di gola si allontana inciampando dal
campo. Shank ne deduce che l'uomo stia andando a pisciare, cosa che gli
torna comoda. Lo ucciderà mentre è impegnato a svuotarsi la vescica. Si
muove rapidamente e con calma verso il limitare del campo e verso il buio
in cui sta barcollando l'uomo, e gli si avvicina rapidamente, trovandosi a
breve distanza da lui, che sta appollaiato vicino a un albero a cagare. Fa fa-
tica, grugnisce, e impreca. Shank si ritrova addosso all'uomo prima che lui
se ne renda conto, e abilmente gli taglia la gola da un orecchio all'altro.
L'ultimo respiro dell'uomo gli sfugge dalla gola mentre cade sui suoi e-
scrementi, addosso all'albero.
Shank si gira a guardare gli altri due uomini. Nessuno dei due si è mosso
dal torpore del proprio sonno. Lui non degna l'uomo morto di una seconda
occhiata, ma torna rapidamente verso il fuoco in modo da poter pugnalare
il secondo compagno dell'assassino. È veloce. Alza il coltello, e lo fa cade-
re, dritto nel torace dell'uomo. Ma la pelliccia è più spessa di quanto Shank
non avesse immaginato, e impedisce alla lama di compiere ii suo fatale
dovere. L'uomo si alza, ruggendo, con la lama di Shank che gli tiene la
pelliccia infilzata nel torace. Lo getta contro il fuoco, ma a differenza della
sua vittima Shank non è istupidito dall'alcol, e in un battibaleno è di nuovo
addosso all'uomo, e gli infila il coltello nella carne. La pelliccia cade.
L'uomo si guarda il torace e vede il sangue che ne sgorga. In quel momen-
to Shank lo colpisce di nuovo, questa volta affondando il coltello nella
pancia dell'uomo e muovendolo avanti e indietro, dividendo carne, muscoli
e grasso. Quando lo estrae, il contenuto della pancia esce con lui, le sue in-
teriora, la sua cena, e la birra. L'uomo emette un gemito, quasi un sin-
ghiozzo, e cade riverso sul pelo. Shank non rimane lì a guardarlo morire.
Si butta addosso all'uomo che Oswald aveva chiamato un maialino imber-
be, l'uomo che farà soffrire ripetutamente per la morte di Agnes.
Il terzo uomo si è svegliato, e naturalmente si è alzato. Ma non ha alcuna
intenzione di combattere: la sua miglior difesa, ha deciso, sta nello scappa-
re. Shank ha comunque il vantaggio della furia. I suoi polmoni immettono
eroiche boccate d'aria, ha gli arti gonfi e pulsanti per la passione del mo-
mento, sente un'allegria che non ricorda di aver mai provato prima. Afferra
il maiale per i capelli, gli posa il coltello fatale vicino al collo, e lo taglia,
fa un taglio della lunghezza di un dito, non di più, ma abbastanza, abba-
stanza da permettere all'uomo di sapere che se cerca di lottare è un uomo
morto. Poi Shank lo trascina verso il fuoco e gli spinge la faccia verso le
fiamme che crepitano dai tizzoni.
«Hai ucciso la mia donna», dice, all'orecchio dell'uomo.
Nonostante il terrore, il maiale protesta, no, no, no, dice, non ha fatto
niente. Forse uno degli altri, ma non lui. Giura, sul sangue sacro di Cristo,
non ha fatto niente.
Shank spinge la faccia del suo prigioniero più vicino al fuoco. I riccioli
della barba disordinata dell'uomo prendono fuoco, e il fuoco si alza, forte e
luminoso. Lui ripete che non ha colpa, ma con ogni parola di protesta vie-
ne spinto più vicino alla fonte di calore. Adesso la sua barba ha preso fuo-
co, i capelli vicino alle orecchie si raggrinziscono, come del resto la fran-
gia e le ciglia. Inizia a essere colto dal panico, lotta per liberarsi di Shank.
Le sue parole di diniego sono diventate urla. Lui si agita e alcuni dei tizzo-
ni volano via, ma lui non riesce a liberarsi del suo tormentatore, che al-
l'improvviso si stanca di torturarlo e spinge la faccia dell'uomo in quello
che resta del fuoco. Oh, il maiale strilla, e rinvigorita dall'agonia la sua agi-
tazione raddoppia, fino a diventare abbastanza forte da liberarsi di Shank.
Tira fuori la faccia dai tizzoni, con la barba e i capelli in fiamme, e met-
tendosi in piedi, corre strillando. Shank per un attimo rimane paralizzato,
affascinato dallo spettacolo che gli si para davanti. Vorrebbe che ci fosse
qualcuno con cui dividerlo, forse Oswald, sì, Oswald riderebbe fino alle
lacrime.
Poi all'improvviso, l'uomo si allontana, ancora in fiamme, incespicando
tra gli alberi. Shank raccoglie il coltello, che aveva lasciato cadere nella
lotta, e lo segue. La preda non è difficile da trovare: la sua testa è una palla
luminosa che si agita nel buio.
E allora, Shank ode il fiume. Il montanaro lo ha portato al fiume. Può
vedere le acque che si muovono davanti a lui, riesce persino a vedere la
sua preda che zoppica nell'acqua schiumosa, in cui si butta per porre fine
alla sua agonia. Le fiamme si spengono, ma adesso Shank sta camminando
nella fanghiglia ghiacciata, e riesce ancora a vedere con una certa chiarez-
za la sua vittima. Si getta alla caccia nel fiume, afferra l'uomo, che ruggi-
sce sopra il rombo del fiume. Sono entrati nel fiume dove la corrente corre
bianca e veloce e nel loro essere sfiniti e feriti nessuno dei due riesce a op-
porvisi. La vittima di Shank è la prima a cadere, e Shank ne trae vantaggio,
spingendo la testa dell'uomo sotto l'acqua. Non lo affogherà, ha deciso, si
limiterà a indebolirlo abbastanza da renderlo obbediente. Poi lo riporterà
sulla riva, e inizierà a tagliarlo, e continuerà a farlo fino al suo ultimo re-
spiro. Solo allora, quando l'uomo non sarà più in grado di esprimere la sua
sofferenza, gli accoltellerà gli occhi e considererà vendicata la morte di
Agnes.
Ma prima deve tirare l'uomo fuori dall'acqua, cosa che si sta dimo-
strando diffìcile. Anche se la testa del maiale è stata sotto per un po', graf-
fia ancora la faccia di Shank, lasciandogli dei segni sulle guance. Shank ti-
ra l'uomo in superficie, cogliendo alla luce della luna una visione di come
il fuoco lo ha riempito di vesciche, poi colpisce la faccia ferita con un pu-
gno. L'uomo non rinuncia ancora a combattere. Raggiunge il collo di
Shank e lo tira giù nell'acqua. Questa volta sono le gambe di Shank a esse-
re trascinate via dalla corrente. Legati insieme, vengono portati a valle,
gettati a tratti contro le rocce, poi catturati da un mucchio di detriti (i rami
degli alberi, gli escrementi, una capra morta). La violenza del loro passag-
gio toglie il fiato a Shank, che però non molla la presa sulla sua preda. È
una caparbietà che lo distruggerà. Il corpo dell'uomo diventa più pesante,
sembra, e mentre sprofonda tira Shank giù con lui. Shank inspira acqua,
sputa, inala un'altra boccata, poi sprofonda sotto la superficie.
Solo ora si accorge che l'uomo che sembrava avere intenti così criminosi
è ormai annegato. È solamente la reazione dei suoi muscoli irrigiditi che lo
fa stringere a Shank in questo modo. Il resto, il movimento del suo corpo,
il modo in cui sembra voler trascinare Shank con sé di proposito, è tutto il
lavoro del fiume. Comunque, è troppo tardi per rinunciare alla lotta. Non
avrebbe potuto liberarsi nemmeno se avesse voluto, l'acqua presto ha la
meglio su di lui. E lui continua ad andare giù, finché esala l'ultimo respiro
pieno di sabbia in una nuvola di bolle d'argento.
Nella mia mente, il fiume alla fine arriva al capanno dove Agnes e
Shank hanno vissuto insieme. Ci vogliono quattro anni, quattro anni in cui
nessuno si avvicina al posto, a causa delle superstizioni, ma un febbraio
l'improvviso bel tempo fa sciogliere la neve pesante, e così le acque del
fiume gonfiandosi si alzano più di quanto non abbiano mai fatto a memoria
d'uomo, e il fiume entra nel capanno. È come un ospite non invitato, che
spalanca la porta, e rivolta il posto sottosopra. Riduce i pochi mobili in
frammenti, lava via gli ultimi residui di cenere dal camino, si impossessa
dei crani degli animali che Shank aveva collezionato e i sassi lisci e chiari
che Agnes era solita portare a casa dalle rive del fiume, e che chiamava i
suoi bambini, prende alcune ciotole di legno, una fiasca, un coltello o due,
le pellicce consunte sotto cui dormivano, si impossessa di tutto e tutto lava
via.
I muri del capanno stesso sopravvivono per un'altra stagione, ma col ca-
lore dell'estate successiva il posto all'improvviso cede. L'inverno seguente,
quando arriva ancora, l'inondazione si porta via quello che era restato, e in
primavera l'erba cresce dove c'era stata la capanna.
Non avverrà più alcun cambiamento importante in questo luogo per qua-
si mille anni. Il fiume continuerà a scorrere, un anno dopo l'altro, talvolta
arrivando quasi a gelare negli inverni più freddi, o ridotto a un ruscelletto
fangoso nelle estati più calde, ma sostanzialmente inalterato. Oh, sta inta-
gliando un bel sentiero, per dire la verità, erodendo una riva e depositando
limo sull'altra. Ma questi cambiamenti sono troppo sottili per essere visibi-
li al solo passare di un chiliad.
Gli alberi tra le sue rive crescono più lussureggianti, naturalmente. Get-
tano i loro semi, e quando l'albero originale perisce per malattia o vec-
chiaia, quei semi sono sostenuti dal caldo legno e dalle foglie che si sono
decomposti e crescono rigogliosi. In alcuni anni il sottobosco è addirittura
impenetrabile, poi un piccolo incendio elimina il legno morto, e ha inizio
un nuovo ciclo di crescita.
Posso dirvi poco delle storie degli uomini che si sono sviluppate là, sen-
za dubbio ci sono un numero infinito di avvenimenti che hanno luogo in
un posto simile, atti di seduzione e di devozione, piccole gentilezze, picco-
le crudeltà. Niente degno di nota, tuttavia, a parte questo: nell'estate del
1850, il pittore John Everett Millais venne qua, alla ricerca di una scena di
un fiume da poter dipingere in un quadro che aveva progettato. Il soggetto
deve essere quello di Ofelia che annega, che si allontana galleggiando con
la sua ghirlanda di fiori. Millais si fermò per un giorno a studiare le anse
del fiume. Voleva trovare un posto che si adattasse maggiormente ai parti-
colari del testo shakespeariano, ma questo fiume non ha salici. Alla fine
scelse il fiume Hogsmill, nel Surrey, e l'anno successivo fu là che dipinse
il suo capolavoro.
Il paesaggio non subisce cambiamenti significativi fino al 1940, con
l'approssimarsi della fine del millennio. Nel settembre di quell'anno un so-
litario bombardiere della Luftwaffe, azzoppato dal fuoco della contraerea
mentre attraversa la costa dell'Inghilterra, lascia cadere un carico intero di
bombe destinate a Londra, e parecchie finiscono nei pressi del fiume. Una
di queste non esplode e, persa nel sottobosco, non sarà scoperta che molto
tempo dopo. Una seconda esplode appena a nord del villaggio, uccidendo
del bestiame. È la terza bomba di cui ci occuperemo, perché fa saltare per
aria la chiesa di Tress, liberando dalle loro tombe i molti buoni cristiani
che vi avevano giaciuto convinti che non avrebbero mai più visto il cielo
fino al giorno del giudizio.
Quando, alla fine della guerra, la chiesa viene ricostruita, un artista che
era venuto a vedere il fiume per la prima volta perché era un seguace di
Millais, e aveva erroneamente creduto che il dipinto di Ofelia fosse stato
eseguito qui (e si innamorò al punto tale della tranquillità del posto da tra-
sferirvi la sua famiglia la primavera successiva), venne incaricato di dise-
gnare quattro finestre di vetro colorato. Solo tre dei quattro disegni furono
realizzati e consegnati. Sono gloriosi, il trionfo della sua carriera. Uno ri-
produce Giovanni Battista, in piedi nel fiume, circondato da una congrega-
zione di accoliti felici che aspettano di venire battezzati. Il secondo mostra
Cristoforo che regge il Bambin Gesù sulle spalle, in un altro fiume, questo
più selvaggio di quello in cui è in piedi Giovanni. Il terzo rappresenta Cri-
sto il Redentore che cammina sulle acque, mentre il pesce gli lambisce i
piedi feriti. In caso qualcuno possa pensare che si trattasse delle acque del-
la Galilea, il pittore si assicurò che i pesci fossero trote di fiume.
La quarta finestra avrebbe dovuto rappresentare il secondo avvento,
quando il fiume sarebbe risalito verso le sue sorgenti, e il sole, la luna e le
stelle avrebbero tutte brillato insieme, e Cristo, e l'anima spaventata che lo
reggeva, e lo sciamano che lo aveva battezzato sarebbero tornati in gloria a
perdonare i peccatori e a dividere con loro il segreto della benedizione. Ma
l'artista muore di un attacco di cuore prima di finire il suo capolavoro, e la
quarta finestra viene invece fatta di vetro liscio, attraverso il quale la con-
gregazione vede solo il cielo.
1900-1909
La grande burrasca
di Joe R. Lansdale
Gli abitanti di quelle isole che oggi chiamiamo le Indie Occidentali, al-
meno una volta all'anno, si ritrovavano il loro paradiso soggetto a un dio
terribile che portava venti selvaggi, pioggia e alla fine la devastazione.
Chiamavano il loro dio terribile Hurakan.
ore 18.38
ore 21.12
Più tardi quella sera la rossa fece qualcosa che gli diede fastidio e lui le
fece un altro occhio nero, poi si stiracchiò, le si stese addosso e si addor-
mentò. Mentre dormiva, sognò di avere una testa piena di capelli come
quella del signor Ronald Beems.
Fuori, il vento stava aumentando leggermente, soffiando caldo, man-
dando aria che sapeva di salmastro nelle strade di Galveston e attraverso le
finestre del bordello.
ore 21.34
Bill Cooper stava lavorando fuori sul terrazzo del primo piano che stava
costruendo. L'aveva quasi ultimato se non per qualche lavoro di finitura.
Senza che se ne rendesse conto da un po' di tempo si era fatto buio, e lui
stava cercando di finire al lume di una lanterna. Stava martellando un'asse
laterale quando sentì una goccia di pioggia. Si interruppe e guardò in su. Il
cielo notturno aveva un aspetto particolare, che per un attimo lo fece rima-
nere in osservazione. Studiò il cielo un momento più a lungo, e decise che
non era poi così brutto. Era solo la luce delle stelle a dargli quello strano
aspetto. Su di lui non caddero altre gocce.
Bill gettò il martello sul pavimento, lasciando il chiodo infilato solo per
metà, raccolse la lanterna, ed entrò in casa per tenere compagnia a sua mo-
glie e al suo figlioletto. Per quel giorno ne aveva avuto abbastanza.
ore 23.01
«Lil» Arthur lasciò la traversa davanti al tugurio e mise il badile sul por-
tico cadente. Stava per entrare quando vide un uomo a pochi metri di di-
stanza. L'uomo era bianco. Indossava degli abiti eleganti e un cappello.
Quando fu vicino al portico, si fermò, si tolse il cappello. Era Forrest
Thomas, l'uomo che «Lil» Arthur aveva battuto fino a fargli perdere i sensi
tre settimane prima. C'era voluto solo fino a metà del terzo round.
Persino nella luce incerta della luna, «Lil» Arthur riusciva a vedere che
Forrest sembrava messo male. Per un attimo, un fugace istante, si sentì
quasi male per averlo combinato così. Ma poi iniziò a chiedersi se l'uomo
avesse una pistola.
«Arthur», disse Forrest. «Sono venuto a parlarti un attimo, se va bene.»
Era certamente un atteggiamento diverso da quello della sera in cui
«Lil» Arthur era salito sul ring con lui. Allora Forrest Thomas era stato
pieno di sé e borioso e la parola negro si era posata sulle sue labbra con
forza e di frequente. Era arrabbiato perché il suo padrone lo aveva costretto
a lottare contro un uomo di colore. A sentire lui, meritava non meno di
John L. Sullivan, che si era rifiutato di lottare con un nero, considerando
questa una degradazione per il titolo dei pesi massimi.
«Sì», disse «Lil» Arthur. «Cosa vuoi?»
«Non ho niente contro di te», disse Forrest.
«Per me non ha importanza», gli rispose «Lil» Arthur.
«Mi hai dato una bella pestata.»
«Lo so. E lo posso fare di nuovo.»
«Non ci credevo prima, ma adesso lo so anch'io.»
«È questo che mi sei venuto a dire? Ti sei vestito bene, solo per venire a
parlare al negro che ti ha pestato?»
«Sono venuto per dirti dell'altro.»
«Dillo. Sono stanco.»
«È arrivato McBride.»
«Non mi stai dicendo niente di nuovo. Immaginavo che a un certo punto
sarebbe arrivato. Come faccio a combattere con lui se non viene?»
«Tu non sai niente su McBride. No davvero. Ha ucciso un uomo sul
ring, durante il suo ultimo combattimento a Chicago. E questo è il motivo
per cui Beems lo ha portato qua, per farti uccidere. Beems e il suo gruppo
ti vogliono morto perché hai battuto un bianco. A loro non importa che sia
io quello che hai pestato. A loro importa solo che si sia trattato di un bian-
co. Beems immagina sia un insulto alla razza, che un bianco sia stato bat-
tuto da un uomo di colore. Questo McBride ha qualche possibilità di com-
petere per il titolo mondiale. È a quel livello.»
«Mi stai dicendo che sei preoccupato per me?»
«Ti sto dicendo che Beems e i membri dello Sporting Club non l'hanno
presa bene. Hanno anche perso un sacco di soldi con le scommesse. Devo-
no sistemare le cose. Non sono tuo amico, ma immagino di doverti questo.
Sono venuto ad avvertirti che questo McBride è un assassino.»
«Lil» Arthur ascoltò per un attimo i grilli che si sfregavano le zampe,
poi disse: «Se io mi preoccupassi del fatto che quest'uomo è un assassino e
non combattessi con lui, questo sarebbe bello per il tuo capo, vero? Beems
potrebbe dire che il negro non si è fatto vedere. Che ha avuto paura di un
bianco».
«Se combatti con questo McBride ci sono buone probabilità che ti ucci-
da o che ti azzoppi. Dal momento che il pugilato è illegale, non ci sarà
nessuno a controllare come vanno le cose. Non per davvero. Il pubblico
presente non dirà niente. In ogni caso la loro stessa presenza è irregolare.
Se tu morissi o fossi ferito gravemente, finiresti nel golfo con un blocco di
granito attaccato all'uccello, e questo chiuderebbe il caso.»
«Mi stai dicendo che dovrei scappare?»
«Se scappi, Beems salva la faccia, e tu non le prendi, e magari non fini-
sci ammazzato. Pensaci.»
«Non stai facendo un favore a me. Stai solo facendo il lavoro per Be-
ems. Stai cercando di sconfiggermi con le parole. Bene, non mi farò pesta-
re. Bianchi. Neri. A righe. Non ha importanza. McBride sale sul ring, e io
lo butto giù. Tu torna da Beems. Digli che non ho paura, e che non scappe-
rò. E che niente di quello che hai tentato ha funzionato.»
Forrest si infilò il cappello. «Fai come vuoi, negro.» Si girò e si allon-
tanò.
***
Centro della perturbazione vicino alle Key West si muove verso nord.
Imbarcazioni dirette verso i porti della Florida e di Cuba dovrebbero e-
sercitare cautela. È probabile che la tempesta diventi pericolosa.
ore 10.23
ore 17.23
ore 17.30
«Lil» Arthur quella sera corse allo Sporting Club e vi rimase davanti,
con le mani nelle tasche dei pantaloni. Il vento era frizzante e l'aria aspra.
Sabato avrebbe combattuto con un contendente alla corona dei pesi mas-
simi, e anche se non sarebbe stato classificato come un incontro ufficiale e
McBride aveva acconsentito a partecipare per fare un po' di denaro, «Lil»
Arthur era felice di avere la possibilità di combattere con un uomo che un
giorno avrebbe potuto competere per il titolo. E se lo avesse battuto, anche
se non sarebbe stato riportato nei record di McBride, «Lil» Arthur avrebbe
saputo che era successo, avrebbe sconfitto uno sfidante al campionato
mondiale dei pesi massimi.
Ne aveva fatta di strada dalle Battle Royales dove aveva iniziato la sua
carriera. Era il suo amico Ernest che lo aveva convinto a iniziare. Una vol-
ta al mese, a volte con una maggiore frequenza, dei pugili bianchi voleva-
no che una manciata di ragazzi e di uomini neri venissero al club per un
combattimento aperto a tutti. Ne mettevano nove o dieci su un ring, a volte
li facevano spogliare nudi e gli facevano indossare delle maschere Sambo.
Lo aveva fatto anche lui una volta.
Mentre gli uomini di colore combattevano, i bianchi gettavano del dena-
ro e li incitavano a uccidersi l'un l'altro. A volte ne legavano due insieme
alle caviglie, e li facevano combattere. Il sangue scorreva come melassa
sulle frittelle. C'erano parecchie ossa rotte. E muscoli strappati. Per i bian-
chi era un gran divertimento, guardare un paio di negri che si riempivano
di pugni l'un l'altro.
«Lil» Arthur scoprì di essere bravo in tutto quel combattere, e buttò per-
sino giù Ernest, in realtà ponendo fine alla loro amicizia. Non poteva farne
a meno. Era salito sul ring, il sangue gli era andato alla testa per l'eccita-
zione, e avrebbe colpito chiunque si fosse avvicinato.
Iniziò a boxare regolarmente, acquistò una certa abilità. Niente più Bat-
tle Royales per lui. Si fece una reputazione tra i pugili di colore, e col tem-
po la sua fama raggiunse anche i bianchi.
Lo Sporting Club, a corto di nuovi sfidanti bianchi per il loro campione,
Forrest Thomas, diede a «Lil» Arthur venticinque dollari per confrontarsi
con il loro uomo, pensando che un uomo di colore e un bianco sarebbero
stati una novità, e che la superiorità della razza bianca sarebbe stata prova-
ta in un match di abilità e di velocità.
Appena prima del combattimento, «Lil» Arthur disse le preghiere, e poi
pensando che avrebbe combattuto davanti a un mucchio di bianchi arrab-
biati e meschini e, per la prima volta, davanti a donne bianche - donne del-
l'ambiente del pugilato, ma pur sempre donne, che volevano vedere un ne-
ro picchiato fino a che fosse ridotto in gelatina — prese della garza e si fa-
sciò il pene. Lo fasciò in modo da renderlo spesso come un manganello.
Immaginava che avrebbe dato a quei bianchi qualcosa da guardare. La co-
sa che temevano maggiormente. Uno stallone nero come il carbone.
Pestò Forrest Thomas come se fosse stato un figliastro impertinente, lo
pestò così duramente che interruppero il combattimento in modo che nes-
suno potesse vedere un uomo di colore che metteva al tappeto un bianco.
Senza averlo veramente voluto lo Sporting Club fu costretto a conse-
gnare il titolo a «Lil» Arthur John Johnson, e il fatto che adesso fosse un
uomo di colore a detenere la preziosa corona era come un osso di pollo che
gli si fosse conficcato in gola. Soprattutto nella gola di Beems. Come pre-
sidente in carica dello Sporting Club l'incontro era stato una sua idea, e
Forrest Thomas era stato il suo uomo.
Entra in scena McBride. Beems aveva fatto il lavoro di preparazione,
convincendo un paio dei membri più benestanti dello Sporting Club a fi-
nanziare un combattimento. Uno in cui un contendente vero alla corona dei
pesi massimi potesse pestare «Lil» Arthur e restituire la corona locale a un
uomo bianco, anche se quell'uomo avrebbe dovuto restituire la corona una
volta tornato a Chicago, lasciando il posto di nuovo vacante. In questo ca-
so, «Lil» Arthur poteva essere sicuro che non avrebbe mai avuto un'altra
possibilità di competere al titolo dello Sporting Club. In un modo o nell'al-
tro lo volevano fuori.
«Lil» Arthur non aveva mai visto McBride. Non sapeva come combat-
teva. Aveva solo sentito dire che era duro come la roccia e aveva delle pal-
le come una scimmia di ottone. Gli piaceva pensare di essere come lui.
Non aveva intenzione di rinunciare al titolo. Sabato avrebbe scoperto se
doveva cominciare a farlo.
ore 21.00
La rossa, con un labbro gonfio, due occhi neri e un livido sulla pancia, si
girò con circospezione e posò il braccio sul torace villoso di McBride. «Ne
hai avuto abbastanza?»
«Te lo dirò io quando ne ho avuto abbastanza.»
«Stavo pensando che potrei andare dabbasso a prendere qualcosa da
mangiare. Torno subito.»
«Avevi tempo prima. Se non hai mangiato, peggio per te. Io pago, qui. O
paga lo Sporting Club, fa lo stesso.»
«Un motore ha bisogno di carburante, se vuoi che funzioni.»
«Sì?»
«Sì.» La rossa si avvicinò e fece passare la mano tra i capelli di McBri-
de.
McBride le mollò uno schiaffo. «Non mi toccare i capelli. Stai lontana
dai miei capelli. E stai zitta. E non m'importa se tu vuoi scopare o no. Se
voglio scopare io, si scopa. Chiaro?»
«Sissignore.»
«Ascoltami bene, vado a cagare. Quando torno, voglio che ti lavi quel
brutto buco. Mi fa schifo sbattertelo dentro se non è pulito. Quindi lavati.»
«Fa così caldo. Sudo. E tu comunque mi sporcherai di nuovo.»
«Non mi importa. Tu lavati quella roba. A metterci l'uccello così mi si
ammoscia. M'attacchi qualcosa e vengo a cercarti e ti scambio il buco del
culo con la figa a suon di calci.»
«Non ho nessuna malattia, McBride.»
«Bene.»
«Perché sei così cattivo?» gli chiese la rossa all'improvviso, stupendosi
lei stessa che una frase del genere le fosse uscita di bocca. Si accorse che
un'osservazione di questo tipo non solo avrebbe fatto infuriare McBride,
ma che era comunque una domanda stupida. Era come chiedere a un pollo
perché beccava la merda. Lo faceva e basta. McBride era cattivo perché lo
era, tutto qua.
Ma mentre la rossa temeva il peggio, McBride diventava filosofo. «Non
si tratta di essere cattivo o no. È solo perché io posso fare quello che vo-
glio, e gli altri no. Hai capito, sorellina?»
«Sicuro. Non intendevo dire niente di male.»
«Se c'è uno capace di fare a me quello che faccio io agli altri, va bene. È
così che funziona. Non c'è uomo, donna o animale sulla terra che valga
qualcosa. Hai capito?»
«Certo, hai ragione.»
«Puoi scommetterci che ho ragione. L'unica cosa pura a questo mondo è
un bambino. Di essere umano o di animale un cucciolo nasce affamato e
innocente. Non può fare niente per conto suo. Poi cresce e diventa proprio
come gli altri. Un bambino è a posto fino a circa due anni. Poi dovrebbe
essere soffocato in modo da lasciare lo spazio disponibile. Mia sorella non
ha dato problemi fin quando ha avuto circa due anni, poi non ha fatto altro
che pretendere cose, con mia madre che gliele dava. Più tardi, nemmeno
mia madre ha più voluto aver niente a che fare con lei, proprio come me.
Superati i due anni non ha più voluto dir altro che guai. Come me. Come
chiunque altro.»
«Certo», rispose la rossa.
«Oh, stai zitta, non distingui il tuo culo dall'impronta di un maiale.»
McBride si alzò per andare in bagno. Prese il revolver, il portafogli e il
rasoio. Non si sarebbe certo fidato di una puttana, o di nessun'altra donna,
per quel che contava, almeno finché avesse potuto sbatterne una.
Mentre era al cesso a provare il nuovo gabinetto con lo scaricò dell'ac-
qua, la rossa uscì dal letto con addosso solo il lenzuolo. Scivolò fuori della
porta, scese dabbasso, e uscì in strada. Fece cenno a un uomo in un cales-
se, lo convinse a darle un passaggio, lieta di trovarsi fuori da quella situa-
zione, senza preoccuparsi della direzione che avrebbe preso.
ore 21.49
ore 13.06
ore 14.30
ore 16.30
***
ore 16.45
ore 20.00
Bill Cooper aprì gli occhi. Era stato sopraffatto da una sensazione di ti-
more. Si alzò con cautela, in modo da non svegliare Angelique, e andò nel-
la camera dall'altra parte del corridoio a controllare Teddy. Il bambino
dormiva profondamente, con il pollice in bocca.
Bill gli sorrise, poi si allungò verso di lui, e lo toccò delicatamente. Il
bambino era sudato, e Bill si accorse che nella stanza c'era un odore di
rancido. Aprì una finestra, mise fuori la testa, e guardò in su. Il cielo si era
schiarito e la luna brillava luminosa. Improvvisamente si sentì sciocco.
Forse la faccenda del temporale e il terrazzo che stava costruendo al piano
superiore di casa sua lo avevano messo in agitazione e lo avevano preoc-
cupato. Di certo, sembrava che il temporale si fosse allontanato.
Poi questo senso di soddisfazione passò. Quando esaminò il cortile, si
accorse che si era trasformato in argento fuso. E poi si accorse che era l'ef-
fetto della luce lunare sull'acqua. Il golfo si era fatto strada fino a raggiun-
gere la casa. Una barca a remi, che si era sciolta dagli ormeggi, galleggiava
lì accanto.
ore 8.06
Issac Cline aveva guidato il suo calesse fino alla spiaggia, avvisando co-
loro che abitavano nelle vicinanze di evacuare. Qualcuno lo aveva fatto.
Qualcun altro era rimasto. Molti erano passati attraverso parecchie tempe-
ste e pensavano che avrebbero superato anche quest'altra.
Tuttavia molti abitanti e turisti si erano diretti verso il lungo ponte a tra-
licci che portava alla terraferma del Texas.
Carri, calessi, cavalli e pedoni si erano ammassati sul ponte come formi-
che su un biscotto. Il cielo, che era stato stranamente chiaro e luminoso
nella prima mattinata, adesso era diventato grigio e aveva iniziato a piove-
re. Dei tre ponti ferroviari che portavano alla terraferma, uno era già sot-
t'acqua.
ore 15.45
Henry Johnson, con «Lil» Arthur che lo aiutava, salì sul carro accanto a
sua moglie. Tina reggeva un ombrello sopra le loro teste. Sul retro del car-
ro c'era il resto della famiglia, protetto da dei pali verticali piantati negli
angoli, che erano stati coperti con la tela cerata che era servita per il tetto
di casa.
Per tutto il giorno Henry aveva discusso se avessero dovuto andarsene.
Entro le due del pomeriggio si era reso conto che non si trattava semplice-
mente di un altro temporale. Questo sarebbe stato un maledetto avveni-
mento di portata eccezionale. Aveva organizzato la sua famiglia, e adesso,
in una maniera o nell'altra, sarebbe partito. Diede un'occhiata al suo tugu-
rio, all'acqua che scrosciava dal tetto come le cascate del Niagara. Non era
molto, ma era tutto quello che aveva. Dubitava che avrebbe retto per molto
sotto questo diluvio, ma cercò di non pensarci. Aveva delle preoccupazioni
più grosse. Disse a «Lil» Arthur: «Tu verrai con noi».
«Devo combattere», gli rispose il ragazzo.
«Tu non devi fare niente. Questo temporale ti porterà col culo in mare.»
«Devo, papà.»
Tina disse: «Forse tuo padre ha ragione, bambino. Dovresti venire».
«Sai che non posso. Quando il combattimento sarà finito, vi raggiunge-
rò. Lo prometto. In effetti con un tempo così ci metterò meno a vincere.»
«Fallo», disse Tina.
«Lil» Arthur salì sul carro, abbracciò la mamma e strinse la mano al pa-
dre. Henry parlò rapidamente e senza guardare «Lil» Arthur disse: «Buona
fortuna figliolo. Mettilo al tappeto».
«Lil» Arthur annuì. «Grazie, papà.» Saltò giù e girò dietrp al carro, sol-
levò la tela cerata, abbracciò le sorelle e diede la mano al cognato, Cle-
ment. Se lo tirò accanto e gli disse: «Stai fuori da mia sorella, capito?»
«Sì, Arthur. Certo. Ma penso che abbiamo un problema. È già piena.»
«Oh, merda», rispose «Lil» Arthur.
ore 16.03
Mentre Henry Johnson guidava i cavalli sul ponte di legno che collegava
Galveston alla terraferma si sentiva male. L'acqua lambiva le ruote del car-
ro. I cavalli erano nervosi, e la fila di fuggitivi sul ponte era infinita. Ci sa-
rebbe voluto un sacco di tempo ad attraversare, forse ore, e stando alle ap-
parenze, dal modo in cui l'acqua si alzava, non sarebbe passato molto tem-
po prima che il ponte fosse sommerso.
Disse una preghiera tra sé e sé: «Signore, prenditi cura della mia fami-
glia. E specialmente di quel mio figlio pazzo, 'Lil' Arthur».
Non gli venne in mente di includere anche se stesso nelle sue preghiere.
ore 16.37
Bess non voleva farsi attaccare al calesse. Era nervosa e aveva gli occhi
sbarrati. Il fienile era pieno d'acqua che grondava. Angelique con un om-
brello sopra la testa, aspettava che il calesse fosse pronto. Sentiva l'acqua
che ormai entrava anche nelle sue scarpe alte.
Bill si interruppe un attimo per calmare il cavallo, diede un'occhiata ad
Angelique, pensò che sembrava stranamente bella, con l'acqua che colava
a fiotti dall'ombrello. Si teneva stretto Teddy. Lui era addormentato, com-
pletamente ignaro di quello che gli stava succedendo attorno. In qualsiasi
altro momento, il bambino avrebbe strillato, seccato. Il vento e la pioggia
in realtà lo stavano aiutando a dormire. Almeno, pensò Bill, di questo sono
grato.
Quando il calesse fu pronto, l'acqua arrivava a metà polpaccio. Con
grande difficoltà Bill aprì la porta del fienile, vide che il cortile non esiste-
va più, e nemmeno la strada. Avrebbe dovuto indovinare la direzione da
prendere. Ma la cosa peggiore era che non era l'acqua prodotta dalla piog-
gia ad inondare le strade. Era definitivamente acqua di mare: l'acqua del
golfo si era alzata a inghiottire Galveston nel modo in cui si dice che l'oce-
ano avesse inghiottito Atlantide.
Bill aiutò Angelique e Teddy a salire sul calesse, poi prese le redini, e
schioccò a Bess. Lei strattonava e indietreggiava, ma alla fine, persuaden-
dola con le redini e con le parole, Bill la calmò. Iniziò ad arrancare nell'ac-
qua buia e potente.
ore 17.00
ore 17.20
«Lil» Arthur era in piedi nel portico, cercando di decidere se doveva sfi-
dare l'acqua che ormai era arrivata a lambire il portico, quando vide una
barca priva degli ormeggi che galleggiava.
Subito si buttò in acqua, e si mise a nuotare. La forza dell'acqua lo face-
va muovere in direzione della barca, e ben presto la bloccò. Mentre si ar-
rampicava dentro, si rese conto che la barca era piena per un terzo d'acqua.
Trovò un remo e un secchio mezzo pieno di terra. La terra si era trasforma-
ta in fango e stava iniziando a uscire dal secchio. Alcuni vermi morti sem-
bravano muoversi nella confusione. Il mondo era sottosopra per l'acqua, il
vento e il buio.
«Lil» Arthur prese il secchio e ne versò fuori il fango e i vermi, e iniziò
ad allontanarsi svuotando la barca dell'acqua. Ogni tanto posava il secchio
e usava i remi. Non che servissero a molto. L'acqua lo portava dove voleva
andare. In città.
ore 17.46
In città l'acqua non era così alta, ma ci volle quasi un'ora a McBride per
giungere allo Sporting Club. Per un isolato camminò con l'acqua che gli
arrivava alla vita, poi scese all'altezza del ginocchio, poi alla caviglia.
Quando arrivò la sua bombetta aveva perso la forma, e i suoi vestiti erano
rovinati. E l'acqua non aveva fatto bene nemmeno al suo revolver e al suo
rasoio.
Quando raggiunse l'edificio, fu sorpreso di trovare una folla di uomini
riuniti sulle scale. Molti stavano sotto all'ombrello, ma molti erano a testa
nuda. Tra di loro c'erano alcune donne. Per la maggior parte puttane. Le
donne decenti non vanno agli incontri di pugilato.
McBride salì le scale, e la folla lo bloccò. Lui disse: «Guardate, sono
McBride. Devo combattere col negro».
La folla si separò, e McBride, tra parole d'incoraggiamento e qualche
colpetto sulle spalle, riuscì a entrare. Dentro si poteva ancora sentire il
vento, ma sembrava lontano. La pioggia era solo un rumore di sottofondo.
Beems, Forrest, e i due anziani erano in piedi nell'ingresso e sembravano
tesi come galline all'ora di pranzo. Appena videro McBride, i loro visi si
rilassarono, e i due anziani si allontanarono. Beems disse: «Avevamo pau-
ra che non ce l'avrebbe fatta».
«Preoccupati del vostro investimento?»
«Immagino.»
«Sarei venuto anche se avessi dovuto arrivare a nuoto.»
«Se il negro non si fa vedere i soldi e il titolo sono suoi.»
«Non li voglio così», disse McBride. «Voglio colpirlo. Naturalmente, se
non si fa vedere, prenderò i soldi. Avete mai visto un tempo così brutto
prima?»
«No», rispose Beems.
«Mi aspettavo che non ci sarebbe stato nessuno.»
«I giocatori si fanno sempre vedere», disse Forrest. «Si giocano i soldi,
si giocano anche la vita.»
«Vai a trovarti qualcosa da fare, Forrest», gli disse Beems. «Farò vedere
lo spogliatoio a McBride.»
Forrest guardò Beems, ridacchiò un po', facendogli capire che sapeva
quello che aveva in mente. Beems era furioso. Forrest se ne andò. Beems
prese McBride per il gomito e iniziò a guidarlo.
«Non sono un cane per farmi portare», disse McBride.
«Molto bene», rispose Beems, e McBride lo seguì attraverso una porta
laterale fino a uno spogliatoio. Nella stanza c'erano cinque centimetri d'ac-
qua.
«Mio Dio», disse Beems. «Si è aperta una falla da qualche parte.»
«Un'acqua come questa», disse McBride, «con questa forza... lava via la
malta dai mattoni, filtrando attraverso le crepe del muro... Diavolo, per
quel che devo fare io va bene.»
«Ci sono dei pantaloncini e delle scarpe in quell'armadietto», disse Be-
ems. «Può cambiarsi se vuole.»
McBride si scrollò di dosso l'acqua, si sedette su una panca e si tolse
scarpe e calze, appoggiando i piedi sulla panca. Beems rimase nel suo pun-
to di osservazione a guardare l'acqua che saliva.
McBride tolse il rasoio dal fianco di una delle scarpe, lo tenne in modo
che Beems lo potesse vedere e disse: «Un guanto da boxe messicano».
Beems rise. Guardava mentre McBride si toglieva la bombètta, la giacca
e la camicia. Guardò con attenzione mentre si toglieva i pantaloni e le mu-
tande. McBride si avvicinò all'armadietto che Beems gli aveva indicato, si
fermò e si girò a fissare Beems.
«Ti piace quello che vedi, vero, amico?»
Beems non disse niente. Aveva il cuore in gola.
McBride fece una risata nella sua direzione. «L'ho saputo dalla prima
volta che ti ho visto, che sei una femminuccia.»
«No», disse Beems. «Niente del genere. Non è per niente così.»
McBride sorrise. In quel momento sembrava molto gentile. Disse: «Va
bene. Vieni qua. Non mi importa».
«Bene...»
«No. Davvero. È solo che, sai, bisogna stare attenti. Non far sapere a
nessuno. Non tutti capiscono, sai...»
Beems si stava quasi leccando le labbra mentre si avvicinava a McBride.
Quando fu più vicino, McBride fece un ampio sorriso e scaricò un
uppercut destro nello stomaco di Beems. Lo colpì con una tale forza che
lui cadde in ginocchio nell'acqua, poi si riversò in. avanti andando a sbatte-
re con la testa contro la panca. Gli cadde anche il cilindro, che finì in ac-
qua, navigò tra la fila di armadietti, fece un giro a destra vicina al muro, e
scomparve alla vista dietro una panca.
McBride tirò Beems per i capelli finché la testa di quest'ultimo fu vicino
al suo pene e disse: «Guardalo per un minuto, perché è tutto quello che a-
vrai.»
Poi lo fece rimettere in piedi trascinandocelo per i capelli e si mise a la-
vorare su di lui. Sinistri e destri. Niente di troppo potente. Ma più di quan-
to Beems avesse mai ricevuto. Quando ebbe finito, lo lasciò che giaceva
nell'acqua vicino alla panca a tossire.
McBride disse: «La prossima volta che piscerai, piscerai sangue, sorelli-
na». McBride prese una salvietta dall'armadietto, si sedette sulla panca, ci
mise sopra i piedi e se li asciugò. Poi si mise i pantaloncini da combatti-
mento. C'era uno specchio nell'interno dell'armadietto, e McBride rimase
sconvolto alla vista dei suoi capelli. Erano un macello. Passò parecchi mi-
nuti a rimetterseli a posto. Quando ebbe finito, guardò in basso verso Be-
ems, che fingeva di essere morto.
McBride disse: «Alzati, mammoletta. Fammi vedere dove devo com-
battere».
«Non dirlo a nessuno», disse Beems. «Ho moglie. Una reputazione. Non
dirlo a nessuno.»
«Ti farò una promessa», disse McBride, chiudendo l'anta dell'armadiet-
to. «Se quel dannato negro mi batte, ti scopo. Merda. Lascerò che mi scopi
tu. Ma non eccitarti tutto il buco del culo. Non ho intenzione di perdere.
Stasera, per come mi sento, potrei buttare al tappeto anche John L. Sulli-
van.»
McBride iniziò a uscire dallo spogliatoio, portando con sé le calze e le
scarpe da combattimento. Beems giaceva nell'acqua, lasciandogli un gros-
so vantaggio.
ore 18.00
Henry non riusciva a credere alla lentezza con cui la fila si muoveva.
Centinaia di persone che strisciavano da ore. Quando i Johnson arrivarono
vicino alla fine del ponte, quasi sulla terraferma, arrivò un'ondata di acqua
di un marrone scuro, che trascinò il calesse che avevano davanti giù dal
ponte. Anche il carro dei Johnson sentì l'onda, ma scivolò solo verso il pa-
rapetto. Ma il calesse colpì il parapetto, sobbalzò, lo superò, tirandosi die-
tro anche il cavallo. Per un attimo il cavallo rimase là appeso, con le zam-
pe posteriori che scivolavano giù, mentre con le zampe davanti tirava, poi
il parapetto cedette e il tutto finì in acqua.
«Oh, Gesù», disse Tina.
«Tieni duro», disse Henry. Sapeva che doveva fare presto, prima che ar-
rivasse un'altra ondata, perché se fosse stata più grossa, o se li avesse colti
vicino al buco che aveva fatto il calesse, anche per loro sarebbe stata la fi-
ne.
Dietro di loro i Johnson potevano sentire le urla della gente che stava
cercando di fuggire dalla tempesta. L'acqua si stava rapidamente alzando
sopra il livello del ponte e quelli che stavano a metà o in fondo si resero
conto che se non fossero passati in fretta non ce l'avrebbero fatta. Mentre
lottavano per portarsi avanti, il ponte scricchiolò e gemette come una voce
umana.
Il vento squarciò la tela cerata del carro e lo fece volar via. «Merda»,
disse Clement. «Non è una meraviglia?»
Un cavallo che portava un uomo e una donna, la donna portava un gran-
de cappello di paglia con due ali che si abbassavano di lato, passò di corsa
accanto ai Johnson. Il ponte era troppo scivoloso e il cavallo si muoveva
troppo velocemente. Le zampe gli si aprirono e cadde, iniziando a scivola-
re. Scivolò dritto nell'apertura che aveva fatto il calesse. Scomparve im-
mediatamente sotto l'acqua. Quando Henry azzardò un'occhiata in quella
direzione, vide il cappello che la donna portava venire a galla e poi allon-
tanarsi nell'acqua.
Quando il carro di Henry fu in linea con il buco, una nuova ondata mar-
rone passò sul ponte, ma stavolta più alta e più forte. Colpì i cavalli e il
carro di traverso. Il rumore dell'impatto ricordò a Henry di quando si era
trovato nella Guerra Civile e un carro su cui stava viaggiando fu colpito da
un cannone yankee. L'impatto lo aveva fatto ruotare su se stesso, e quando
aveva cercato di alzarsi, le sue gambe erano spezzate. Pensava che mai più
avrebbe provato tanta paura. Ma adesso aveva una paura anche maggiore.
Il carro sbandò di lato, colpì l'apertura, ma era troppo grande per pas-
sarci attraverso. Rimase appeso al parapetto, ma le fasce laterali si incrina-
rono per l'impatto. I familiari di Henry strillarono e si coricarono nel carro
mentre l'acqua si posava su di loro come una pesante mano. La pressione
dell'acqua staccò le ruote del carro dal loro asse, mandando il fondo del
carro a sbattere contro il ponte. Fortunatamente i fianchi tennero.
«Tutti fuori!» gridò Henry.
Lui, con la gamba rotta che si rifiutava di rispondere, ruzzolò fuori dal
carro, sul ponte, che adesso si trovava sotto un metro d'acqua. Afferrò una
fiancata e si tirò su, aiutò Tina a scendere, raggiunse il carro e tolse il ba-
stone dal sedile.
Clement e gli altri saltarono giù, e iniziarono ad affrettarsi a piedi verso
la fine del ponte. Quando arrivarono all'altezza di Henry, lui disse: «Muo-
vetevi, sbrigatevi. Non preoccupatevi per me».
Tina lo prese per il braccio. «Muoviti, donna», le disse. «Hai i ragazzi di
cui preoccuparti. Io devo liberare i cavalli.» Le diede un colpetto sulla ma-
no. Lei si allontanò con gli altri.
Henry estrasse il suo coltello di tasca e iniziò a liberare i cavalli dalle
briglie. Non appena furono liberi, entrambi gli animali andarono a sbattere
contro il parapetto. Uno rimbalzò indietro, girò su se stesso, e si diresse al-
l'estremità del ponte a un galoppo serrato, ma il colpo che diede l'altro ca-
vallo fu talmente forte da farlo capovolgere e finire a gambe all'aria. Pene-
trò nell'acqua e scomparve.
Henry si mise a cercare la sua famiglia. Non riusciva più a vederli. Di
certo erano già arrivati sulla terraferma.
Altre persone erano sopraggiunte a occupare il loro posto; gente con car-
ri, calessi, a cavallo o a piedi. Gente che sembrava arrampicarsi sull'acqua,
dal momento che ormai il ponte era completamente sotto il livello del ma-
re.
Poi Henry udì un ruggito. Si girò verso il lato a est del ponte. C'era una
pesante muraglia d'acqua che si era alzata proprio sopra di lui, e si stava
abbassando, come un mostruoso pigliamosche bagnato. E quando colpì
Henry e il ponte, e tutti gli altri che vi stavano sopra, li schiacciò con la sua
forza mandandoli a finire nella pancia del mare che ribolliva.
ore 18.14
ore 19.39
ore 19.45
ore 20.15
Il combattimento era iniziato tardi, subito dopo che due ragazzi di colore
con una gamba sola avevano fatto un paio di round, saltellando in giro,
cercando di colpirsi a casaccio con dei guanti da boxe enormi.
C'erano poche persone ma molto schiamazzo. Tanto da far dimenticare a
«Lil» Arthur il temporale che infuriava fuori. La folla continuava a grida-
re: «Uccidi il negro», aveva iniziato un coro di «tutti i negri mi sembrano
uguali», un numero con un ritmo coinvolgente che a «Lil» Arthur piacque
a dispetto di se stesso.
Le grida, la canzone erano intese a demoralizzarlo, ma lui scoprì che lo
eccitavano. Gli piaceva fare la parte del derelitto. Gli piaceva far rimangia-
re a quegli stronzi le loro parole. Inoltre, era lui il campione di Galveston,
non McBride, indipendentemente da quello che la folla voleva. Lui era co-
lui che stasera avrebbe dovuto passare tra le corde come vincitore. E aveva
fatto un cambiamento. Non avrebbe più permesso che lo presentassero
come «Lil» Arthur. Quando avevano chiamato il suo nome, e l'annunciato-
re, con riluttanza lo aveva definito il campione dello Sporting Club di Gal-
veston, aveva fatto come lui gli aveva chiesto. L'aveva chiamato con il
nome con cui d'ora in poi avrebbe voluto essere chiamato. Non «Lil» Ar-
thur Johnson. Non Arthur John Johnson, ma il nome con cui lui si chiama-
va: Jack Johnson.
Fino a questo punto, comunque, il combattimento non stava andando in
nessuna direzione precisa, e doveva ammettere che McBride sapeva colpi-
re. Aveva un modo suo di tirare dei brevi, violenti colpi alle costole, pugni
che sembravano coltellate.
Prima del combattimento, Jack, come aveva sicuramente fatto anche
McBride, aveva usato i pollici per risistemarsi il cotone nei guanti. Siste-
marli in modo che le nocche si trovassero contro il cuoio e facessero con-
tatto con la carne di McBride. Ma fino a ora McBride aveva evitato la
maggior parte dei suoi pugni. Quell'uomo era un maestro a scivolare tra i
pugni. Jack non aveva mai visto niente del genere prima. McBride riusciva
anche a scansare i colpi con un movimento secco dell'avambraccio. Una
mossa da vero professionista che la diceva lunga.
Ma anche così, Jack si rese conto che stava riuscendo a incassare i pugni
molto bene, e aveva scoperto qualcosa di veramente sorprendente. Le po-
che volte in cui aveva colpito McBride era quando, in preda all'eccitazio-
ne, si piegava in avanti con i piedi piatti e scagliava un uppercut. Questo
colpo non era una cosa su cui era molto allenato e quando lo aveva fatto in
precedenza, aveva lanciato il pugno stando sollevato sui talloni, torcendo il
corpo, nel modo tradizionale. Ma aveva scoperto, contro ogni logica, che
riusciva a tirare lo stesso colpo a piedi piatti piegandosi in avanti, e che in
questo modo il colpo era più potente.
Pensava di aver visto un po' di sorpresa sulla faccia di McBride quando
lo aveva colpito in questo modo. Per lui di certo lo era stata.
Andò avanti così fino all'inizio del quarto round, poi quando McBride si
alzò gli disse: «Ti ho coccolato abbastanza, negro, adesso devi combatte-
re».
Allora Jack vide cose che non aveva mai visto prima. Il modo in cui
questo tipo si muoveva era sorprendente.
Saltellava come un gatto, nel modo in cui aveva sentito dire che com-
batteva anche Gentleman Jim, e questo tizio era svelto con le mani. Lan-
ciava dei proiettili, e i proiettili stordivano molto più di prima. Jack si rese
conto che McBride si era controllato, cercando di rendere l'incontro più in-
teressante. E si accorse di qualcosa d'altro. Qualcosa di importante su se
stesso. Non sapeva sulla boxe tutto quello che credeva di sapere.
Cercò di colpire McBride, ma lui schivava i colpi con le braccia, allora
provò la sua arma a sorpresa, l'uppercut, e si accorse che con quello lo po-
teva colpire un po' allo stomaco, ma non abbastanza da mandarlo al tappe-
to. Quando arrivò il quinto round, Jack era spaventato. E ferito. E l'arbitro,
un bastardo pelle e ossa con dei baffi a manubrio, non gli dava una mano.
Ogni volta che immobilizzava McBride, li separava. Se era McBride a
immobilizzarlo, prendendolo a ditate negli occhi e a testate, l'arbitro rideva
come se stesse mangiando della gelatina.
Jack stava pensando che forse era il caso di andare al tappeto. Lasciarsi
cadere e rimanere giù, in modo da togliersi da questa situazione la prossi-
ma volta che McBride lo avesse colpito con uno di quei suoi colpi brevi
che sembravano un muro, ma poi il gong suonò e lui si sedette nel suo
sgabello, e Zio Cooter, l'unico uomo nel suo angolo, gli buttò dell'acqua
sulla bocca e gli fece sputare il sangue in un secchio.
Zio Cooter gli disse: «Se fossi in te, mi fìngerei morto. Lasciati cadere
su quel dannato tappeto e rimanici come se ci fossi inchiodato. Se non lo
fai quella testa di cazzo ti farà a pezzi. Così ti porti a casa qualche soldo e
non muori. Portare a casa qualche soldo fa bene e a morire non c'è fretta».
«Gesù. È bravo. Come faccio a batterlo?»
Zio Cooter massaggiò le spalle di Jack. «Non puoi. Fingiti morto.»
«Ci deve essere un modo.»
«Sì», disse Zio Cooter. «Potrebbe morirti addosso. Questo è il solo mo-
do in cui tu lo possa battere. Deve solo morire.»
«Grazie, Cooter. Sei di grande aiuto.»
«Piacere mio.»
Jack temeva il suono del gong. Guardava nell'angolo di McBride che
stava seduto sul suo sgabello come se fosse stato al bar, bevendosi una bot-
tiglia di birra, e chiacchierando con qualcuno tra il pubblico. Stava chie-
dendo che gli portassero un panino.
Forrest Thomas era nell'angolo di McBride e reggeva una salvietta sul
braccio, una salvietta piegata, in caso McBride ne avesse avuto bisogno,
cosa che, considerando che doveva farsi una bella sudata, non era impro-
babile.
Forrest guardò Jack, gli puntò contro un dito e abbassò il pollice come se
fosse stato il cane di una pistola. Jack riusciva a leggere una parola sulle
labbra di Forrest. La parola era: PUM!
L'arbitro si diresse all'angolo di McBride, si appoggiò al palo e, per
qualche motivo, si fece una risata con lui.
Il gong suonò. McBride diede la birra a Forrest e uscì dall'angolo. Jack
si alzò, vide Beems, con gli occhi neri, abbastanza malmesso, seduto in
prima fila. Malmesso o no, Beems sembrava felice. Guardò Jack e rise
come un becchino.
Questa volta Jack si prese una bella serie di colpi. Sembrava non riuscire
a fermare i ganci brevi di McBride, e sembrava che non riuscisse a colpirlo
con nessun altro colpo se non l'uppercut, e anche con quello non abbastan-
za forte. McBride stava andando meglio, più il tempo passava e più si scal-
dava. Se avesse preso un'altra birra con un panino, diavolo, avrebbe potuto
mettere Jack al tappeto in modo da potersi fare anche un caffè e una torta.
Jack decise di smettere di cercare di colpire la testa e le costole, e di cer-
care solo di entrare e di colpire McBride sulle braccia. In questo modo,
almeno sarebbe riuscito a colpire qualcosa. Lo fece, e si stupì vedendo alla
fine del round che McBride abbassava la guardia.
Jack tornò al suo angolo e Zio Cooter disse: «Continua a colpirlo sulle
braccia. Sembra che vada bene. Gli rovini gli strumenti».
«Me lo ero immaginato. Grazie mille.»
«Piacere mio.»
Jack studiò la folla nelle gradinate dello Sporting Club. Non guardavano
il ring. Avevano girato la testa verso la parete a est, e per una buona ragio-
ne. Stava vibrando. L'acqua stava filtrando, e aveva coperto il pavimento
sotto il ring per un'altezza di quindici centimetri. La gente che occupava le
prime due file della gradinata, tutto intorno al ring, era stata costretta ad al-
zare i piedi. Sopra di lui, Jack udì un rumore simile a quello che avrebbe
potuto sentire se qualcosa di grosso e terribile avesse tolto la pelle dalla te-
sta di un elefante.
Quando il gong suonò di nuovo e Jack si alzò dall'angolo, si accorse che
l'acqua era salita di altri cinque centimetri.
ore 20.46
Bill tenne la lanterna davanti a sé, con il braccio teso mentre si rannic-
chiava in cima alle scale. L'acqua ne aveva coperto la metà. La casa era
scossa come qualcuno che fosse stato seduto su un cavallo che scalpitava.
Sentiva le tegole che si liberavano, e volavano via.
Tornò in camera da letto. Il vento ululava. Le finestre vibravano. Un
paio di vetri erano saltati via. Il bambino piangeva. Angelique era seduta in
mezzo al letto, e cercava di coccolarlo ma Teddy non ne voleva sapere di
calmarsi. Bess stava in un angolo della stanza, con la testa appoggiata con-
tro la parete. Il cavallo agitava nervosamente la coda avanti e indietro, ni-
trendo.
Bill si alzò ad aprire le finestre per togliere un po' di forza al vento. Era
una cosa che sapeva che avrebbe dovuto fare molto tempo prima, ma stava
cercando di risparmiare al bambino il sibilo e l'umidità.
Folate di vento e di pioggia irrompevano dalle finestre aperte. Bill riu-
sciva a fatica a stare in piedi, tanta era la loro forza.
Quindici minuti più tardi sentì i mobili di sotto che sbattevano contro il
soffitto, galleggiando sul pavimento sopra cui stava lui.
ore 21.00
Mio Dio, pensò Jack, quanti round di questa cosa mi devo fare? La testa
gli doleva e le costole gli facevano anche più male, e dentro si sentiva co-
me se avesse inghiottito della colla bollente e stesse cercando di vomitarla.
Le gambe, che pur erano forti, iniziavano a sentire il peso del combatti-
mento. Aveva pensato che fosse un combattimento in quindici round, ma
si rese conto che erano già venti, e se per allora non aveva perso si sarebbe
potuti arrivare a venticinque.
Jack sbatté un guantone contro il gomito sinistro di McBride, lo vide fa-
re una smorfia e lasciar cadere il braccio. Allora fece seguire un uppercut,
e questa volta non si limitò a toccare McBride ma lo colpì con forza. L'im-
patto del colpo su McBride fu così forte che scoreggiò. Il panino che aveva
mangiato tra i round adesso non gli doveva sembrare più tanto una buona
idea.
Con la serie di colpi successivi Jack fece di nuovo centro con l'uppercut.
McBride indietreggiò e lui lo seguì, colpendolo sulle braccia, riuscendo
ogni tanto a inserire un uppercut, e persino a raggiungerlo con dei ganci e
dei dritti.
Poi ogni luce nell'edificio si spense, mentre le pareti si aprivano e le gra-
dinate iniziavano ad alzarsi sotto la spinta dell'acqua, facendo cadere gli
spettatori in un'oscurità bagnata. Anche il ring iniziò a muoversi, ad alzarsi
verso il soffitto, ma prima che scivolasse via da sotto a Jack, McBride gli
aveva dato un colpo di una tal forza che Jack ebbe la sensazione di aver
sentito che le vite passate avessero cessato di esistere; che gli antenati usci-
ti dal fango avessero sobbalzato per quel colpo, che di rimando fosse tor-
nato nel presente e si fosse spinto nel futuro, e indietro di nuovo. Il soffitto
volò via con una folata di vento, Jack si allungò, afferrò qualcosa e vi si
aggrappò come se ne fosse dipesa la sua vita.
«Stupido figlio di puttana», disse Zio Cooter, «mi hai preso per la testa».
ore 21.05
ore 22.00
Bill e Angelique erano nel letto con Teddy. L'acqua si stava alzando ol-
tre il bordo del materasso, buttandogli addosso un vento freddo e umido.
Avevano acceso il giradischi e stavano ascoltando un Gospel, ma il vento e
la pioggia erano entrati nel meccanismo e l'avevano fatto spegnere.
E mentre si spegneva, il muro più lontano si incrinò e cedette e pezzi di
legno arrivarono tra i flutti sul pavimento mentre il soffitto e il letto si cur-
vavano. Bess all'improvviso scomparve da un buco nel pavimento. Un at-
timo c'era, l'attimo dopo era scomparsa sotto l'acqua.
Bill afferrò Angelique per il braccio, la fece alzare nell'acqua che arriva-
va al ginocchio. Lei si teneva stretto Teddy. Lui li spinse dall'altra parte
della stanza mentre il pavimento si spostava, gli fece attraversare la porta
che conduceva alla terrazza non ancora ultimata, inciampò in un martello
che giaceva sotto l'acqua, ma riuscì a tenersi in piedi.
Bill non poteva far a meno di pensare a tutto il lavoro che aveva messo
in questa terrazza. Adesso non sarebbe mai stato finito. Odiava non portare
a termine i lavori. Lo odiava più del fatto che iniziasse a inclinarsi.
C'era un pilastro centrale che sembrava reggere bene, e loro vi presero
posizione dietro. Il pilastro era uno dei tanti attorno a cui era costruita la
casa: un pilastro di supporto che sollevava la casa sopra il normale livello
dell'acqua: collegava la camera da letto al terrazzo.
Bill cercò di guardare attraverso la pioggia scrosciante. Tutto quello che
riusciva a vedere era l'acqua. Galveston era coperta dal mare. Si era alzato
e aveva inghiottito la città e l'isola.
La casa iniziò a essere scossa violentemente. Udirono il legno che si
rompeva, lo sentirono vibrare. Il terrazzo oscillava con una maggiore in-
tensità.
«Non ce la faremo, vero Bill?» chiese Angelique.
«No, cara. Credo di no.»
«Ti amo.»
«Ti amo.»
Lui la strinse a sé e la baciò. Lei disse: «Non importa per me e per te.
Ma Teddy... Lui non sa... Lui non capisce. Dio, perché Teddy? È solo un
bambino... Come si annega, caro?»
«Un respiro profondo ed è finita. Solo un grosso sorso d'acqua, senza
opporre resistenza.»
Angelique iniziò a piangere. Bill si piegò, iniziò a cercare con le mani
sotto l'acqua che ricopriva il terrazzo. Trovò il martello. Si trovava in quel
punto perché si era impigliato in un buco del terrazzo non ancora ultimato.
Bill lo tirò fuori. C'era un grosso chiodo che sporgeva dal pilastro principa-
le. Lo aveva conficcato lì il giorno prima, perché fosse facile trovarlo. Era
il suo ultimo grande chiodo e aveva intenzione di conservarlo.
Usò la forbice del martello per estrarlo. Guardò Angelique. «Possiamo
dare a Teddy una possibilità.»
Angelique non riusciva a vedere bene Bill in quel buio, ma in qualche
modo intuì quello che il suo viso diceva. «Oh, Bill!»
«È una possibilità.»
«Ma...»
«Noi non ce la possiamo fare, ma il pilastro...»
«Oh, Signore, Bill», e Angelique si piegò, tenendosi Teddy stretto al
petto. Bill le afferrò le spalle, e disse: «Dammi il bambino».
Angelique singhiozzò, poi la casa si curvò a destra, solo il pilastro reg-
geva. Gli altri stavano cedendo, ma finora questo non si era spostato.
Angelique diede Teddy a Bill. Bill baciò il bambino, lo sollevò più in al-
to che poté sul pilastro, spinse il bambino contro il legno, e sollevò il brac-
cio. All'improvviso Angelique gli fu accanto, a sostenere il bambino. Bill
la baciò. Poi prese il martello e il chiodo, e piazzandolo dritto davanti al
polso di Teddy, glielo infilò nella carne con un colpo rapido.
Poi il temporale prese a soffiare ancora più furioso e il terrazzo si tra-
sformò in gelatina. Bill afferrò Angelique, e lei riuscì quasi a dire:
«Teddy», poi le forze della natura li portarono via assieme alla fragile ca-
sa.
Il meccanismo che faceva ruotare la luce del faro di Bolivar aveva smes-
so di funzionare. Le scale che portavano al faro si erano gradualmente
riempite di gente che cercava riparo dal temporale, e via via che si alzava
l'acqua la gente saliva. Per ultimo era arrivato un uomo con un ragazzo, e
di conseguenza era costantemente sull'ultimo piolo che si alzava. Con-
tinuava a dire: «Muovetevi, muovetevi a meno che vogliate vedere affo-
gare un uomo e il suo ragazzo». Tutti si spostavano in su. Poi l'uomo tor-
nava a ripetere il suo ritornello mentre l'acqua si alzava di nuovo.
Il faro stava diventando congestionato. La torre aveva iniziato a on-
deggiare. L'operatore, Jim Marlin e sua moglie, Elizabeth, accesero la
lampada a cherosene e la piazzarono nel centro della lente d'ingrandimento
circolare e cercarono di girare manualmente il raggio. Volevano che qual-
cuno sapesse che qui c'era un rifugio, anche se era sovraffollato e avrebbe
presto potuto cessare di esistere. La miglior cosa da fare era di spegnere la
luce e sperare di riuscire a salvare quelli che erano già lì, e se stessi. Ma
Jim ed Elizabeth non potevano fare una cosa del genere. Elizabeth disse:
«Per come la vedo io Jim, è tutto o niente, e il buon Dio lo vorrebbe allo
stesso modo. Io voglio che sia così».
Per tutta la notte udirono urla e grida d'aiuto, e una volta, quando il faro
funzionava ancora, avevano visto un giovane aggrappato a un pezzo di le-
gno. Quando la luce era tornata al punto in cui si trovava il giovane, era
svanito.
Adesso, mentre cercavano di far funzionare la luce manualmente, si ac-
corsero che era un'impresa senza speranza. Alla fine la lasciarono puntare
su un'unica direzione, e nella luce videro un paio di corpi trascinati da un
gran tappeto da cui pendevano delle corde, che sembravano tentacoli di
meduse. Le corde si erano intrecciate attorno ai due, e il tappeto sembrava
muoversi, si piegava e si apriva come un paio di grosse ali, come se fosse
stata una creatura marina che li portava in un posto segreto dove li avrebbe
mangiati in pace.
Né Jim né Elizabeth Marlin conoscevano i corpi gonfi impigliati tra le
corde, non avevano idea che si chiamassero Ronald Beems e Forrest Tho-
mas.
ore 5.00
ore 6.00
ore 7.03
1910-1919
Dovessi morire prima di svegliarmi
di David Morrell
Non era stato il primo caso, ma il primo caso per il dottor Jonas Binga-
man, anche se non se ne era reso conto fino a due giorni più tardi. Il pa-
ziente, un ragazzo con le lentiggini e i capelli rossi, giaceva esausto sotto
le coperte del suo letto. Bingaman, che quando la mamma in ansia del ra-
gazzo aveva telefonato stava per lasciare lo studio, si fermò sull'ingresso
della piccola camera da letto e si rese immediatamente conto che il ragazzo
aveva la febbre. Non si trattava solo del fatto che Joey Carter, che il dotto-
re aveva messo al mondo dieci anni prima, era rosso in faccia. Dopo tutto,
l'estate del 1918 era stata estremamente calda, e anche adesso, alla fine di
agosto, il dottore stava trattando casi di scottature. No, quello che gli aveva
fatto concludere così rapidamente che il ragazzo aveva la febbre era che,
nonostante facesse ancora caldo, Joey aveva i brividi sotto le lenzuola e
due coperte.
«È così sin da quando è arrivato a casa prima di cena», disse la madre di
Joey, Rebecca. Una donna sottile e insignificante di circa trentacinque anni
aveva preceduto il dottore nella stanza e gli aveva fatto cenno di seguirla
con urgenza. «Ho trovato il suo costume da bagno bagnato. È andato a
nuotare.»
«Nel torrente. Lo avevo avvertito del pericolo», disse il padre di Joey,
Edward. L'uomo allampanato, il miglior falegname di Elmdale, indossava
ancora la tuta e le scarpe da lavoro e aveva tracce di segatura negli spessi
capelli scuri. «Gli avevo detto di starci alla larga».
«Nel torrente?» Bingaman si girò verso Edward che aspettava ansioso
nel corridoio.
«L'acqua non è buona. Ti fa stare male. Lo so perché il ragazzo di Bill
Kendrick l'estate scorsa è stato male dopo esserci andato a nuotare. Ha re-
spirato sotto e ha ingoiato dell'acqua. Ha vomitato per tutta la notte. Avevo
avvertito Joey di non avvicinarsi, ma lui non mi ha ascoltato.»
«Il torrente che attraversa la fattoria dei Larrabee?»
«Sì, quello. Il bestiame sporca l'acqua. I loro escrementi seguono la cor-
rente e finiscono nel punto in cui si va a nuotare.»
«Sì. Mi ricordo che il ragazzo di Bill Kendrick è stato male per l'acqua
l'estate scorsa», disse Bingaman. «Ha vomitato Joey?»
«No.» La voce di Rebecca era tirata.
«Sarà meglio che gli dia un'occhiata.»
Mentre Bingaman attraversava la stanza si accorse che in un angolo c'era
una mazza da baseball. Appeso sul letto c'era un modello in balsa di uno
dei biplani Curtiss che l'American Expeditionary Force stava usando con-
tro i tedeschi, attaccato al soffitto con una corda.
«Non ti senti bene, Joey?»
Era evidente che al ragazzo ci volle un enorme sforzo per fare cenno di
no con la testa. Le palpebre erano appena socchiuse. Tossì.
«Hai nuotato nel torrente?»
Joey aveva problemi a fare cenno di sì. «Avrei dovuto ascoltare papà»,
mormorò con voce rauca.
«La prossima volta saprai qual è la cosa giusta da fare. Ma per adesso,
voglio che tu ti concentri sullo stare meglio. Adesso ti visiterò, Joey. Cer-
cherò di essere il più gentile possibile.»
Bingaman aprì la borsa nera e si sporse su Joey, e sentì il calore che spri-
gionava dal ragazzo. Suo padre e sua madre fecero un passo avanti, guar-
dando con attenzione. La tosse di Joey si fece più profonda.
Dieci minuti più tardi, Bingaman rimise lo stetoscopio nella borsa e si
drizzò.
«È di questo che si tratta?» chiese velocemente Edward. «Dell'acqua cat-
tiva che arriva dalla fattoria dei Larrabee?»
Bingaman esitò. «Perché non andiamo a parlare da qualche parte e la-
sciamo riposare Joey?»
E che aveva ucciso suo padre, apprese Bingaman quando arrivò all'ospe-
dale dopo avere finito il suo giro di visite mattutino. Neanche la mamma di
Joey e i due amici del ragazzo se la stavano passando troppo bene, lottava-
no per respirare nonostante gli fosse stato dato l'ossigeno. Ed erano stati
portati in ospedale altri otto casi.
«Stiamo ancora agendo sul presupposto che si tratti di polmonite», disse
Powell, mentre si metteva la maschera e si preparava a entrare nel reparto
in quarantena.
«Stanno facendo effetto il chinino e la canfora?»
«Solo marginalmente. Alcuni pazienti si sentono meglio per un po'. La
temperatura scende per un po'. Per esempio a Rebecca Carter la febbre è
scesa da quaranta a trentanove. Pensavamo di fare progressi, ma la tempe-
ratura si è alzata di nuovo. Alcuni pazienti sarebbero morti senza ossigeno,
ma non so quanto durerà la nostra scorta. Ne ho ordinato altro, ma il nostro
distributore ad Albany sta esaurendo le scorte.»
Conscio di quanto gli tirasse la maschera sul viso, Bingaman controllava
il reparto in quarantena in cui le infermiere, sotto organico e stremate, fa-
cevano del loro meglio per occuparsi dei pazienti, tra il sibilare delle bom-
bole di ossigeno e i colpi di tosse. In un angolo, una tenda era stata tirata
attorno a un letto.
«Alcuni dei pazienti tossiscono sangue», disse Powell.
«Cos'hai appena detto?»
«Sangue. Sono...»
«Prima di quello. Che il nostro distributore ad Albany sta per rimanere
senza scorte di ossigeno?»
«Sì.»
«Perché?»
«Il loro telegramma non lo diceva.»
«Si potrebbe trattare del fatto che ci sono troppi altri posti che ne hanno
bisogno?»
«A che cosa stai pensando?»
«Le attrazioni sono arrivate a Riverton da qualche altra destinazione.
Dopo Riverton sono andate da qualche altra parte.»
«Jonas, non stai suggerendo...»
«Pensi che tutta questa parte dello stato sia infettata?»
La radio senza fili stava sulla scrivania nello studio di Bingaman. Era
nera, era larga sessanta centimetri e alta e profonda quarantacinque. C'era-
no parecchi quadranti e manopole, un codice dell'alfabeto Morse e un mi-
crofono. Dal giorno in cui Marconi aveva trasmesso il primo messaggio ol-
tre oceano nel 1901, Bingaman era stato affascinato dal fenomeno. A ogni
nuovo sviluppo eccezionale nelle comunicazioni radio, il suo interesse a-
veva continuato a crescere, finché, alla fine, incuriosito dal fatto di poter
eventualmente ricevere trasmissioni radio della guerra in Europa, aveva
celebrato il suo cinquantaduesimo compleanno in marzo comprando l'ap-
parecchio che aveva davanti. Si era preparato e aveva superato con succes-
so l'esame richiesto dal governo per poter diventare un operatore radioa-
matore. Poi, avendo raggiunto il suo scopo, si era reso conto che le esigen-
ze del suo lavoro, per non parlare della mezza età, gli lasciavano poca e-
nergia per rimanere alzato fino a tardi a parlare con altri radioamatori nel
paese.
Adesso, comunque, provava un'energia maggiore di quanto non avesse
provato da molti anni. Marion, che si era stupita di veder tornare a casa suo
marito a metà pomeriggio, e correre di sopra avendole a fatica detto: «cia-
o», lo guardò togliersi la giacca, sedersi davanti alla radio e accenderla.
Quando gli chiese come mai si era preso un pomeriggio di libertà, lui le
chiese di stare tranquilla, per favore. Disse che aveva del lavoro da fare.
Stare tranquilla? Pensò. Lavoro da fare? «Jonas, so che sei stato sottopo-
sto a un'enorme pressione, ma non è una buona ragione per...»
«Per favore.»
Marion sempre più stupita, rimase a guardare mentre lui girava manopo-
le e parlava con forza al microfono, identificandosi con il nome e il nume-
ro di operatore che gli aveva dato il governo, cercando ripetutamente di
trovare qualcuno che gli rispondesse. Ci furono rumori di energia statica.
A volte Marion udiva un gemito elettronico. Si avvicinò di qualche passo,
sentendo la tensione di suo marito. Si sorprese quando udì una voce pro-
venire dalla radio.
Sollevato Bingaman rispose. «Sì, Harrisburg, ti sento.» Aveva sperato di
trovare qualcuno ad Albany o qualcun altro nello stato di New York, ma la
capitale della vicina Pennsylvania era abbastanza vicino, poteva essere
considerata un sostituto accettabile. Spiegò la ragione della sua chiamata,
la situazione in cui si trovava Elmdale, le informazioni di cui aveva biso-
gno, e non poté reprimere un grugnito quando ricevette una risposta im-
pensabile, molto peggio di qualsiasi cosa avesse mai potuto temere. «Qua-
rantamila? No, non è possibile che abbia capito bene, Harrisburg. Per favo-
re ripetete. Passo.»
Ma quando l'operatore ad Harrisburg ripeté la sua risposta, Bingaman
continuava a non riuscire a crederci. «Quarantamila?»
Marion sussultò quando, solo per la terza volta da quando erano sposati,
lo sentì imprecare.
«Bontà divina, aiutaci.»
Erano quasi le due del mattino quando Bingaman riuscì ad andare a casa.
Di nuovo spense i fari della sua Modello T. Di nuovo vide una fievole luce
gialla apparire alla finestra della sua camera da letto. Nonostante la stan-
chezza riuscì a sorridere a Marion che gli era venuta incontro sulla porta.
«Non puoi continuare a sfruttarti così», disse lei.
«Non ho alternative.»
«Hai mangiato?»
«Un panino mentre lavoravo. E ogni tanto una tazza di caffè.»
«Bene, adesso ti siederai a tavola. Scalderò il pollo e i dolci che ho fatto
per cena.»
«Non ho fame.»
«Non stai ascoltando quello che ho detto. Ti siederai a tavola.»
Bingaman rise. «Se insisti.»
«E domani verrò con te.. Avrei già dovuto farlo oggi.»
Lui si fece improvvisamente attento. «Marion, non sono sicuro...»
«Bene, lo sono io. Sono un'infermiera diplomata, e c'è bisogno di me.»
«Ma questo è diverso da quello che credi. Questo è...»
«Cosa?»
«Una delle infermiere è crollata oggi. Ha tutti i sintomi.»
«E le altre?»
«Sono sfinite, ma fino a ora, non si sono ammalate, grazie a Dio.»
«Allora le chance sono dalla mia parte.»
«No. Non voglio perderti, Marion.»
«Non posso rimanere barricata in casa. E tu? Guarda i rischi che stai cor-
rendo tu. Non voglio perderti nemmeno io. Ma se puoi correre tu dei rischi
allora posso farlo anch'io.»
Bingaman continuò a discutere con lei, ma sapeva che lei aveva ragione.
La città aveva bisogno d'aiuto, e nessuno dei due sarebbe stato in grado di
reggere la vergogna se non avessero adempiuto al loro obbligo morale.
Oggi aveva visto delle cose sorprendenti, persone sul cui aiuto lui aveva
contato, che gli avevano detto che era pazzo se pensava che avrebbero ri-
schiato la vita per aiutare dei pazienti con quella malattia; altri che non e-
rano mai andati in chiesa o partecipato alla vita della comunità che si erano
offerti di aiutare senza che gli venisse chiesto. Gli era venuta l'idea che l'e-
pidemia fosse il modo in cui Dio metteva alla prova quelli che non mori-
vano, per determinare chi era che valeva la pena di salvare.
L'idea si rafforzò dopo che ebbe mangiato il pollo e il dolce che Marion
gli aveva scaldato, il suo pranzo preferito, anche se lui lo aveva assaggiato
appena. Andò di sopra, ma invece di entrare in camera da letto, entrò nello
studio, si sedette stancamente alla scrivania, e accese la radio.
«Jonas?»
«Tra un attimo.»
Udendo i segnali di energia statica, girò le manopole e guardò i quadran-
ti. Periodicamente, parlava al microfono, identificandosi.
Alla fine contattò un altro operatore, questo a Boston, ma quando gli de-
scrisse quello che stava succedendo, i tremila nuovi casi giornalieri di Bo-
ston, con un numero di morti così alto che i 291 carri funebri della città e-
rano costantemente indaffarati, Bingaman fu ancora tormentato dal pensie-
ro di Dio. Secondo l'operatore radio di Boston non c'era comunità degli
Stati Uniti che non fosse stata toccata. Da Minneapolis a New Orleans, da
Seattle a Miami, da nord a sud, da est a ovest e in qualunque posto tra que-
sti punti la gente moriva a una velocità da fare impazzire. In Canada e in
Messico, in Argentina e in Brasile, in Inghilterra e in Francia, in Germania
e in Russia, in Cina e in Giappone... Non si trattava di un'epidemia ma di
un malanno universale, pandemico. Non si trattava solo degli Stati Uniti.
Era dappertutto. Pieno di orrore, Bingaman pensò alla peste bubbonica,
conosciuta col nome di Morte Nera, che aveva colpito l'Europa nel Medio
Evo, ma quello che stava sentendo adesso era molto più diffuso della Mor-
te Nera, e se le cifre sulla mortalità che gli erano state date erano accurate,
il flagello in corso aveva un potenziale di letalità molto maggiore. Cielo, e
il freddo non era ancora arrivato! Cosa sarebbe successo quando il freddo
dell'inverno avrebbe aggravato i sintomi della malattia? Bingaman ebbe
un'immagine da incubo di milioni di cadaveri congelati disseminati per il
mondo senza che nessuno li seppellisse. Sì, l'influenza spagnola era il mo-
do in cui Dio metteva alla prova l'umanità, per giudicare come reagivano i
sopravvissuti, pensò. Poi un pensiero ancora più atroce lo colpì, dandogli i
brividi. O era possibile che si trattasse della fine del mondo?
«È morta?»
Bingaman aveva appena finito di accogliere venticinque nuovi pazienti
nella palestra che era stata trasformata in un ospedale. Mentre lui e il dot-
tor Kramer uscivano dal grande edificio - che si stava ben presto riempien-
do di letti occupati - strinsero gli occhi, disturbati dalla forte luce di set-
tembre, e notarono dei carri trainati da cavalli su cui venivano caricati i
cadaveri.
«Quanti ne sono morti la notte scorsa?»
«Quindici.»
«Continua a peggiorare.»
Bingaman vacillò.
«Cosa succede?» chiese Kramer. «Non ti senti bene?»
Bingaman non rispose ma invece si diresse faticosamente verso uno dei
carri. Il cadavere di una donna, con un'uniforme da infermiera, vi veniva
sollevato dentro.
«Ma l'ho vista solo ieri. Come è potuto succedere così in fretta?»
«Ho sentito dei rapporti che dicono che adesso ai sintomi ci vuole meno
tempo per svilupparsi», disse Kramer alle sue spalle. «Dal minimo segno
di essere stato infettato, una persona può sviluppare la malattia completa
entro le ventiquattro ore. Stamattina ho sentito la storia di un uomo, appa-
rentemente in salute che era uscito di casa per recarsi al lavoro. Non tossi-
va. Nessuno nella sua famiglia aveva notato che fosse febbricitante. È mor-
to per strada a un isolato dalla fabbrica in cui lavorava. Ho sentito un'altra
storia...»
«Sì?»
«Quattro donne ieri sera stavano giocando a bridge. La partita è finita al-
le undici. Nessuna di loro stamattina era viva.»
Bingaman sentiva un peso al torace. Le spalle gli dolevano. Gli occhi gli
facevano male, solo per mancanza di sonno, disse a se stesso. Prese la ma-
scherina dalla tasca, dal momento che se l'era tolta quando era uscito dal-
l'ospedale. «Da adesso in poi, penso che dovremo indossare sempre le ma-
schere, anche quando non siamo con i pazienti. Di giorno e di notte. A ca-
sa e al lavoro. Dappertutto.»
«A casa? Non ti sembra un po' esagerato?» chiese Kramer.
«Lo è?» Bingaman diede un'ultima occhiata all'infermiera morta, circa
vent'anni, lunghi capelli scuri, mentre il carro si allontanava rumorosamen-
te. Così giovane, tante ragioni per vivere, pensò. «Nessuno di noi è immu-
ne. La malattia ci circonda. Non c'è modo di dire chi possa essere ad attac-
carcela.» Guardò Kramer. «Continuo a ricordarmi che era l'infermiera che
ieri ha tossito mentre era nella stanza con noi.»
Non aveva idea di quanto tempo era stato via, ma gradualmente il mon-
do smise di ruotare, tutto si fece più tranquillo, e quando ritornò, lentamen-
te, indistintamente, gli sembrò che la sua gola non fosse mai stata così sec-
ca o di essere mai stato così debole. Gli occhi gli facevano male come se
fossero stati sprofondati nella sua testa. Aveva la pelle tirata per la disidra-
tazione, e grassa a causa delle sudate che aveva fatto. Allo stesso tempo,
sembrava vuota, come se avesse perso peso.
Queste sensazioni furono una cosa graduale. Lui giaceva passivamente,
e guardava una striscia di luce che entrava dalla finestra della camera da
letto alla sua sinistra. Poi la luce scomparve, e alla fine il raggio di sole en-
trò attraverso la finestra alla sua destra, e lui si rese conto che era stato se-
mincosciente per tutto il tempo in cui il sole era passato da est a ovest. Ma
non si stupì troppo di non essersi reso conto del fatto che niente nella stan-
za era cambiato, che la sua camicia da notte e le coperte erano le stesse che
aveva avuto al mattino, che nessuno era stato nella stanza, che Marion non
era entrata nella stanza.
Cercò di chiamarla, ma i suoi polmoni erano troppo deboli, la gola trop-
po secca, e non ne venne fuori niente. Cercò di nuovo e riuscì solo a pro-
durre un piagnucolio di animale.
Marion! pensò con disperazione. Non temeva per se stesso, non temeva
di essere stato lasciato solo, senza aiuto. Era terrorizzato per Marion. Se lei
non si stava prendendo cura di lui, questo significava che non ne era in
grado, e questo voleva dire...
Lo sforzo di muoversi lo fece tossire. La congestione provocava un ru-
more nel torace. Il respiro passava sibilando dai bronchi ingrossati e dalla
gola arida. Ma nonostante il dolore e la letargia, aveva la sensazione di sta-
re meglio, di non essere più in uno stato così febbrile. Il mal di testa non
era più così forte da dargli la sensazione che gli stesse esplodendo. I mu-
scoli gli facevano male, ma non come se l'avessero stiracchiato su una ra-
strelliera.
Quando si girò sul fianco e cercò di alzarsi dal letto, le gambe gli cedet-
tero. Crollò sul pavimento. Marion! Continuava a pensare. Si mise a stri-
sciare. Il movimento di una mano dietro l'altra gli ricordò la determinazio-
ne e la paura che aveva provato quando aveva imparato a nuotare. Una ca-
raffa sul tavolo attrasse la sua attenzione, e afferrò una sedia vicino al ta-
volo, lottando per alzarsi in piedi, per inclinare la caraffa verso le sue lab-
bra. L'acqua gli scorse a rivoletti verso la bocca, sopra le labbra piene di
croste e di tagli, sul mento, sopra la camicia da notte. Goffamente la rimise
al suo posto, preoccupato di farla cadere, dal momento che l'acqua era
troppo preziosa per rischiare di sprecarla. Ma per quanto fosse preziosa,
era anche tiepida e stantia, con un leggero sapore di polvere. Era evidente
che era lì da un po', e con una premonizione crescente, che lo riempiva di
terrore, cercò di chiamare il nome di Marion, rabbrividendo al suono sotti-
le della sua voce gracchiante, e si mise di nuovo a strisciare.
La trovò sul pavimento della cucina. Il suo primo pensiero in preda al
panico fu che fosse morta. Gemette ed ebbe la sensazione di sentire un'eco,
ma si rese conto che il secondo gemito era venuto da lei, debole, lontano,
ma pur sempre un gemito. Lottò sforzandosi di strisciare verso di lei con
maggiore energia. Le toccò la fronte e ne sentì provenire un calore terribi-
le. Sì. Era viva! Ma la cavernosità della sua tosse e la lentezza della sua re-
azione quando cercò di sollevarla lo riempì di paura. Si rese conto che do-
veva immediatamente preoccuparsi di farle ingurgitare dei liquidi. Afferrò
il piano del mobile della cucina, si tirò su, sudando mentre metteva in fun-
zione la pompa in cucina, per riempire una tazza d'acqua dal pozzo di casa.
Ci mancò poco che la facesse cadere e quasi non si ricordò di portare un
cucchiaio, ma alla fine si sedette esausto vicino a Marion sul pavimento
della cucina, le prese la testa in grembo e le versò dell'acqua tra le labbra
gonfie e secche. Il calore che emetteva era sorprendente. Lottando si avvi-
cinò alla ghiacciaia, usò uno scalpello per il ghiaccio per staccare con modi
goffi qualche pezzo di ghiaccio mezzo sciolto nel comparto superiore. Coi
pezzetti di ghiaccio avvolti in un asciughino, crollò di nuovo vicino a Ma-
rion, e le passò una pezza fredda sulla faccia rossa come una barbabietola.
Le sistemò la pezza sulla fronte, le infilò qualche altro cucchiaio d'acqua in
bocca, poi cedette alla sete e bevve dalla tazza. Alla fine gli scivolò di ma-
no e la lasciò cadere sul pavimento, bagnando sia Marion che se stesso.
Gemette, si sentì di nuovo le vertigini, e appoggiò la testa al pavimento.
Di nuovo buio. La cantina. Qualche passo per aprire la porta della canti-
na sotterranea. Sudando nonostante il freddo. Afferrando due barattoli del-
la marmellata di Marion da uno scaffale. Tossendo. Ondeggiando. Inciam-
pando nelle scale della cantina, raggiungendo la cucina, strizzando gli oc-
chi per la luce brillante del tramonto, scoprendo che le marmellate che lui
aveva preso con un tale sforzo erano dei cetrioli in salamoia.
Buio. Luce.
Buio. Luce.
Ancora luce. Marion non tossiva più. Bingaman in seguito concluse che
quello che le aveva salvato la vita era la sua costituzione robusta, anche se
quando era abbastanza presente, insisteva che era stato lui a salvarle la vi-
ta. Le sue somministrazioni, come le chiamava lei, e gli disse di non essere
così modesto.
«Sttt», le disse lui con amore. «Non consumare energia.»
Al contrario lui non aveva alcun dubbio che erano state le cure amorose
di Marion nello stadio iniziale della sua malattia che avevano salvato lui.
La malattia impietosa poteva essere combattuta sulla base dei sintomi. Do-
po di che il paziente sarebbe vissuto o morto sulla base delle sue risorse
personali, e adesso che Bingaman aveva sopportato l'esperienza intima del
potere devastante della malattia, si meravigliò che qualcuno avesse la forza
di resisterle.
Forse la forza non era il fattore determinante. Forse si trattava di fortuna.
O di destino. O della volontà di Dio. Ma se si trattava di quest'ultimo caso,
Dio certamente doveva essersi rivoltato contro una gran quantità di gente.
Per un presbiteriano come Bingaman, che credeva all'assioma per cui lavo-
ro duro e prosperità erano sinonimo di salvezza, l'idea che l'influenza po-
tesse essere la dimostrazione della disapprovazione divina nei confronti
del mondo era inquietante. Di certo, anche prendendo in considerazione la
guerra, il mondo non poteva essere un posto così brutto. Ed era proprio la
cosiddetta guerra con i suoi fucili mitragliatori e gas lacrimogeni, con clo-
ro e fosgene, iprite, e con gli orrori sempre crescenti, il problema?
Ma in questo caso, aveva senso che Dio in cambio infliggesse milioni di
altre perdite?
Ogni chiesa della città era stata trasformata in ospedale. Erano tutte pie-
ne.
Al cimitero non c'era più posto per i cadaveri. I becchini non riuscivano
a tener dietro al lavoro di rimuovere terra per scavare nuove fosse. I cada-
veri giacevano a file in un terreno ai margini della città. Sentinelle armate
vi facevano la guardia per impedire che gli animali li mangiassero, e ognu-
na, con indosso una maschera, pregava di non prendere l'infezione dai ca-
daveri. Ai funerali potevano partecipare solo i membri della famiglia con
indosso una maschera, e i pastori che, compatibilmente con un minimo di
dignità, cercavano di essere il più veloci possibili, mentre leggevano le
preghiere per i morti.
Avevo un uccellino
Si chiamava Enza.
Aprii la finestra.
Era in-flu-Enza.
1920-1929
Ariani e assenzio
di F. Paul Wilson
Ernst Drexler trovava divertenti le cose più strane. Questo era il modo in
cui le definiva: divertenti. Persino l'inflazione poteva essere divertente.
Karl Stehr ricordava di aver visto Ernst a varie manifestazioni artistiche
a Berlino prima di aver avuto veramente occasione di conoscerlo. Emerge-
va tra quella folla perennemente trasandata per l'abito e il panciotto sempre
stirati, per il colletto inamidato e la cravatta, per il cappello floscio che
portava o in testa o sotto il braccio, e per il suo caratteristico bastone col
manico d'argento foderato di pelle di rinoceronte nera. Portava i capelli ne-
ri tirati all'indietro, che partivano dalla fronte spaziosa, lisci come lino-
leum; aveva lunghe sopracciglia che incorniciavano luminosi occhi blu,
labbra sottili, un mento volitivo e la carnagione abbronzata anche in inver-
no completavano il quadro. Karl immaginava che Ernst avesse circa tren-
tacinque anni, ma il suo aspetto era quello di una persona più anziana.
Per settimane intere sembrava essere ovunque, e aveva sempre qualcosa
da dire. Alla personale di Paul Klee, dove era esposto il suo ultimo lavoro,
The Twittering Machine, Karl gli aveva sentito commentare sarcastica-
mente che Klee si fosse unito troppo precipitosamente alla Bauhaus. Ernst
si trovava sempre nei posti giusti: alla prima del Dr. Mabuse, der Spieler,
alla festa in onore degli attori per la rappresentazione cecoslovacca R.U.R,
e alle rappresentazioni segrete del Nosferatu di Murnau, per nominarne so-
lo alcuni.
E poi si volatilizzava. Scompariva per settimane o addirittura un mese
senza farne parola a nessuno. Quando ricompariva, riprendeva le cose do-
ve le aveva lasciate, come se non ci fosse stata alcuna interruzione. E
quando era in città praticamente viveva al Romanisches Cafe, dove ogni
sera lo si poteva vedere vagare tra i tavoli, col bicchiere in mano, una me-
teora vagante di ironia e pettegolezzi che lasciava cadere commenti secchi
e pieni di arguzia sull'arte e la letteratura come se si fosse trattato di frutta
matura. Nessuno sembrava ricordare chi lo avesse presentato per primo al-
la gente del caffè. Sembrava insinuarsi tra i clienti abituali per conto suo.
Dopo un po' si aveva la sensazione che ci fosse sempre stato. Tutti cono-
scevano Ernst, ma nessuno lo conosceva bene. La sua personalità era un
curioso incrocio di disponibilità e riserbo che Karl trovava stimolante.
La loro amicizia ebbe inizio nella fredda sera di un sabato primaverile.
Karl aveva chiuso la sua libreria in anticipo e stava vagando per la Buda-
pesterstrasse, dirigendosi al Romanisches Cafe, che si trovava all'angolo
fra Tauentzien e Gedachtniskirche: era grande per essere un caffè, con una
vasta area all'aperto e un interno spazioso che veniva utilizzato quando il
tempo era inclemente e durante la stagione fredda.
Karl, che indossava dei pantaloni alla zuava, si era sistemato sotto il ten-
done e aveva appoggiato le gambe su una sedia vuota vicino a lui, mentre
si beveva l'aperitivo tra vasi in fiore e rileggeva Siddharta. Sentendo uno
scalpiccio di tacchi alti, alzava lo sguardo verso le donne «moderne» che
passavano in coppie o terzetti, con gli abiti aderenti che svolazzavano alle
ginocchia e con i loro berretti lisci e stretti tirati giù sui capelli alla ma-
schietta; con le labbra rosse, gli occhi coperti dal mascara, e i cappotti rifi-
niti con una pelliccia morbida che copriva il collo.
Karl amava Berlino. Era innamorato della città da quando l'aveva vista
la prima volta, quando suo padre ve lo aveva portato prima della guerra. E
due anni prima, per il suo ventesimo compleanno, aveva abbandonato gli
studi all'università per portare avanti con lei una relazione di lunga durata.
La sua amante era il centro del mondo artistico, dove nascevano nuove li-
bertà. Qua potevi essere quello che volevi: un libero pensatore, un libero
amante, un comunista, persino un fascista; gli uomini potevano vestirsi
come le donne e le donne potevano vestirsi come gli uomini. Non esiste-
vano limiti. E i nuovi movimenti in campo musicale, nelle arti, il cinema e
il teatro avevano radici qua. Ogni volta che si girava vedeva una nuova
meraviglia.
La notte si stava coricando sull'amante di Karl quando Ernst Drexler si
avvicinò al suo tavolo e si presentò.
«Non siamo mai stati presentati formalmente», disse tendendogli la ma-
no. «Si chiama Stehr, vero? Si venga a unire a me al mio tavolo. Ci sono
alcune cose di cui mi piacerebbe parlare con lei.»
Karl si chiedeva di quali cose potesse desiderare di parlare con lui, que-
st'uomo che era più vecchio di lui di almeno dieci anni, ma dal momento
che non aveva progetti per la serata, lo seguì.
Al Romanische quella sera c'era la solita gente. Di recente si era trattato
di coloro che ruotavano intorno ai bohémien berlinesi, tutti gli artisti, scrit-
tori, giornalisti, critici, compositori, editori, direttori d'orchestra e chiunque
altro avesse a che fare con l'avanguardia artistica tedesca, oltre alle ragaz-
ze, ai ragazzi, e ai semplici nullafacenti. Alcuni si sedevano fissi in un po-
sto, altri passavano senza curarsene da un tavolo all'altro. Il fumo formava
una coltre di mussola sopra un miscuglio di barbe disordinate, criniere i-
spide, capelli alla maschietta che incorniciavano occhi tinti di nero, cap-
pelli, berretti, monocoli, pince-nez, bocchini lunghi trenta centimetri, ma-
glioni voluminosi, calze scure, abbigliamento d'epoca che spaziava dall'el-
lenico al preraffaellita.
«L'ho vista al Siegfried, l'altra sera», disse Ernst, mentre raggiungevano
un tavolo in un angolo buio, fuori dal flusso peristaltico. Ernst prese la se-
dia accanto al muro, da dove poteva osservare la stanza, e lasciò l'altra per
Karl.
«Cosa pensi dell'ultimo film di Lang?»
«Molto tedesco», rispose Karl prendendo posto e voltando con riluttanza
le spalle alla stanza. Era un osservatore di gente.
Ernst rise. «Che commento diplomatico! Ma molto vero. Inganno, tradi-
mento, e pugnalate alla schiena, sia in senso figurato che letterale. Davvero
tedesco. Anche se poco Neue Sachlichkeit.»
«Penso che il neorealismo fosse la cosa più lontana dalla mente di Lang.
Invece Die Strasse, d'altro lato...»
«Il Neue Sachlichkeit si unirà presto all'espressionismo nel mausoleo dei
movimenti. E che liberazione. È merda.»
«Kunst ist Scheisse?» disse Karl, ridendo. «Il dadaismo è il più morto di
tutti.»
Ernst rise di nuovo. «Cielo, sei acuto, Karl. È questa la ragione per cui
volevo parlare con te. Sei davvero brillante. Sei una delle poche persone in
questa stanza in grado di apprezzare il mio nuovo divertimento.»
«Davvero? E quale sarebbe?»
«L'inflazione.»
Prima che Karl gli potesse chiedere cosa intendeva, Ernst fece un cenno
a un cameriere di passaggio.
«Per me il solito, Freddy, e...?» Indicò Karl, che ordinò uno schnapps.
«Inflazione?» disse Karl. «Non ne ho mai sentito parlare... Cos'è, un
nuovo gioco di carte?»
«No, no», disse Ernst sorridendo. «Si gioca col denaro.»
«Naturalmente. Ma come...»
«Si gioca con denaro vero nel mondo reale. È davvero divertente. Ho i-
niziato a giocarlo all'inizio dell'anno.»
Freddy ben presto arrivò con lo schnapps di Karl. Per Ernst portò un bic-
chiere da vino vuoto, una caraffa di acqua fredda e una piccola ciotola di
cubetti di zucchero. Karl guardava affascinato mentre Ernst estraeva una
fiaschetta d'argento dalla tasca interna e ne svitava il tappo. Versò tre dita
di liquido verde chiaro nel bicchiere, poi si rimise in tasca la fiaschetta. Poi
tirò fuori un cucchiaio, prese un cubetto di zucchero dalla ciotola e lo ten-
ne sopra il bicchiere. Poi versò dell'acqua dalla caraffa, lasciandola cadere
sopra il cubetto e nel bicchiere per farla mischiare col liquido verde... che
iniziò a diventare di un giallo pallido.
«Assenzio!» sussurrò Karl.
«Proprio», disse Ernst. «Ho iniziato ad apprezzarlo prima della guerra. È
un peccato che adesso sia illegale, anche se è abbastanza facile da trova-
re.»
Adesso Karl capiva perché di solito Ernst prendeva questo tavolo appar-
tato. Istintivamente si guardò intorno, ma nessuno stava guardando.
Ernst sorbì e si asciugò le labbra. «Lo hai mai provato?»
«No.» Karl non ne aveva mai avuto l'occasione. E inoltre aveva sentito
dire che ti fa impazzire.
Ernst spinse il bicchiere dall'altra parte del tavolo. «Assaggia.»
Una parte di Karl lo spingeva a dire di no, mentre un'altra parte spingeva
la sua mano in avanti e gli faceva stringere le dita intorno al calice del bic-
chiere. Se lo portò alle labbra e ne prese un minuscolo sorso.
Il sapore amaro gli fece buttare la testa all'indietro e increspare le guan-
ce.
«È il suo sapore caratteristico», disse Ernst riprendendo il bicchiere. «Ci
vuole un po' per abituarcisi.»
Karl rabbrividì mentre inghiottiva. «Come è entrato in voga?»
«Per mezzo secolo, in tutto il continente, l'ora del cocktail è stata nota
come l'heure verte a causa di questo miscuglio.» Sorbì di nuovo, chiuse gli
occhi, assaporando. «Al momento giusto, nel luogo giusto, può essere... ri-
velatore.»
Dopo un attimo, aprì gli occhi e fece cenno a Karl di avvicinarsi.
«Qua. Spostati e siediti vicino a me. Voglio mostrarti qualcosa.»
Karl fece scivolare la seggiola dall'altra parte, vicino a Ernst, in modo
che entrambi potessero guardare l'affollato salone principale del Romani-
sche.
«Guardali, Karl», disse Ernst, indicando la stanza con il movimento del
braccio. «La crema degli artisti di questa città assistita dalla propria claque
e dalla propria corte di epigoni e accoliti che ride rumorosamente, e si mi-
schia all'immondizia e ai lunatici della città. Morfina-dipendenti e vegeta-
riani guancia a guancia con bolscevichi e uomini di mondo, arrivisti e a-
narchici, abortisti e antivivisezionisti, direttori e dilettanti, decani e demi
mondaines.»
Karl si chiese quanto tempo avesse passato Ernst a bere assenzio e a os-
servare la scena. E perché? Sembrava un entomologo che stesse studiando
un formicaio particolarmente interessante.
«Tutti vogliono unirsi alla parata», continuò. «Si muovono sotto l'illu-
sione autodeterminata di avere il controllo: 'Quello che accade alle arti a
Berlino oggi, il resto del mondo lo copia la settimana prossima'. Abbastan-
za vero, ma questa è la Maschera della Morte Rossa, Karl. Forze enormi
sono in gioco, intorno a loro, e loro sono certi di venirne schiacciati mentre
il gioco si sviluppa. La Germania sta cadendo a pezzi attorno a noi, gli im-
possibili debiti di guerra ci stanno soffocando, i francesi e i belgi sono ac-
campati nella valle della Ruhr da gennaio, i comunisti stanno cercando di
impadronirsi del nord, la destra e i monarchici possiedono la Baviera, e la
risposta della Reichsbank ai problemi economici è di stampare altro dena-
ro.»
«Va così male?» disse Karl.
«Certo. È solo carta. Ha mandato i prezzi alle stelle.» Si tolse il portafo-
gli dalla tasca interna, ne estrasse un biglietto, e lo passò a Karl.
«Un dollaro americano», disse lui.
Ernst annuì. Vale oro, come si dice. L'ho comprato a diecimila marchi in
gennaio. Ti interessa sapere quanto me lo pagherebbero oggi in banca?»
«Non lo so», iniziò Karl. «Forse...»
«Quarantamila. Quarantamila marchi.»
Karl era impressionato. «Hai quadruplicato il tuo denaro in quattro me-
si.»
«No, Karl», disse Ernst con un sorriso amaro. «Ho solo quadruplicato il
valore dei marchi che controllo. Il mio potere d'acquisto è esattamente
quello che era in gennaio. Ma io sono una delle poche persone in questa
terra scossa dalla tempesta che può dirlo.»
«Forse dovrei provare anch'io», disse Karl. Abassa voce, ammirando l'e-
legante semplicità del piano. «Prendere i miei risparmi e convertirli in dol-
lari.»
«Fallo», disse Ernst. «Vuota il tuo conto in banca, tira tutti i marchi che
hai fuori dal materasso, e convertili in dollari. Ma questa è solo sopravvi-
venza, non si può definire divertimento.»
«Sopravvivenza mi suona abbastanza bene», disse Karl.
«No, amico mio. La sopravvivenza non è mai abbastanza. Gli animali
limitano le loro preoccupazioni alla semplice sopravvivenza: gli esseri
umani cercano il divertimento. Questo è il motivo per cui bisogna trovare
un modo per rendere l'inflazione divertente. L'inflazione c'è. Non c'è niente
che noi possiamo fare per cambiarla. Quindi almeno divertiamoci con lei.»
«Non so...»
«Possiedi una casa?»
«Sì», rispose Karl lentamente, con cautela. Non sapeva dove l'avrebbe
portato questa conversazione. «E no.»
«Davvero? Vuoi dire che è completamente ipotecata?»
«No. In realtà è di mia mamma. Una piccola proprietà a nord della città,
vicino a Bernau. Ma gliela gestisco io.»
Il padre era un colonnello morto nelle Argonne, e l'aveva lasciata a lei.
Ma la madre non aveva disposizione per il denaro, e inoltre non era più la
stessa da quando il padre era morto cinque anni fa. Quindi Karl si era oc-
cupato delle terre e dei conti, ma passava la maggior parte del tempo a
Berlino. Amava la città e amava il rinascimento artistico che produceva.
La sua libreria andava a fatica in pari, ma lui non l'aveva aperta per trarne
un profitto. L'aveva fatta diventare un posto dove gli scrittori e gli artisti
del luogo erano i benvenuti e potevano curiosare e incontrarsi. Aveva at-
trezzato una piccola zona sul retro del negozio dove potevano sedersi a
parlare e bere il caffè che lui teneva in caldo per loro. Sognava che un
giorno uno dei poveri sconosciuti che approfittavano della sua ospitalità
sarebbe diventato famoso e forse avrebbe ricordato il posto con affetto. E
forse un giorno si sarebbe fermato a salutare Thomas Mann o l'introverso
Hermann Hesse. Finché quel momento fosse arrivato Karl si accontentava
di offrire caffè e dolci a scribacchini che facevano la fame.
Ma già dall'inizio, il negozio aveva dato dei dividendi non finanziari. Gli
permise di accedere al mondo della letteratura, e da lì a tutta la carovana
artistica che ruotava intorno a Berlino.
«Nessun pericolo di perderla?»
«No.» La proprietà produceva abbastanza, insieme alla pensione di papà,
da permettere alla mamma una vita confortevole.
«Bene. Accendi un'ipoteca. Prendi in prestito tutto il denaro che puoi,
poi converti tutti questi marchi in dollari americani.»
Karl rimase senza parole all'idea. La casa di famiglia non aveva mai
avuto vincoli. Mai. L'idea era impensabile.
«No. Non potrei.»
Ernst mise il braccio sulla spalla di Karl e si sporse verso di lui. Karl po-
teva sentire l'odore dell'assenzio nel suo alito.
«Fallo, Karl. Credimi su questo. È divertente, ma ne vedrai anche gli ef-
fetti pratici. Ricordati le mie parole, tra sei mesi sarai in grado di ripagare
tutto il mutuo con un solo dollaro americano. Una sola moneta.»
«Non so...»
«Devi. Ho bisogno di qualcuno che giochi con me. È molto più buffo
quando c'è qualcuno con cui dividere il divertimento.»
Ernst si drizzò e sollevò il calice.
«Un brindisi!» disse, e toccò il bicchiere di Karl col suo. «A proposito»,
aggiunse, «sai da dove ha avuto origine l'usanza di toccare i bicchieri per
un brindisi? Ai vecchi tempi, quando avvelenare un rivale era una moda tra
le classi alte, era diventata usanza di lasciare versare al tuo compagno un
po' della sua bevanda nel tuo bicchiere, e viceversa. In quel modo, se uno
dei bicchieri era avvelenato, entrambi ne avrebbero sofferto.»
«Com'è affascinante», disse Karl.
«Proprio. Inevitabilmente l'atto del versare era accompagnato dallo sbat-
tere dei bicchieri. Da qui, la consuetudine moderna.» Ancora una volta fe-
ce sbattere il suo bicchiere con l'assenzio con lo schnapps di Karl. «Credi-
mi, Karl. L'inflazione può essere molto divertente, e portare anche profitti.
Mi aspetto che il marco perda la metà del suo valore nelle prossime sei set-
timane. Quindi non perdere tempo.»
Alzò il bicchiere. «All'inflazione!» gridò, e vuotò il bicchiere.
Karl bevve il suo schnapps in silenzio.
Ernst si alzò dalla sedia. «Mi aspetto di vederti pieno di dollari e senza
alcun marco quando torno.»
«Dove vai?»
«Un viaggetto che faccio ogni tanto. Mi piace andare a nord attraverso la
Sassonia e la Turingia per vedere cosa stanno facendo i bolscevichi. Sono
membro del Partito comunista tedesco, sai. Sottoscrivo per Rote Fahne,
ascolto i comizi della Zentrale, e vado ai raduni. È molto divertente. Ma
una volta che ho fatto il pieno di retorica marxista, mi dirigo a sud, a Mo-
naco, per vedere quello che sta facendo l'altra estremità dello spettro poli-
tico. Sono anche membro del Partito Nazionalsocialista dei lavoratori tede-
schi e sottoscrivo per il loro Volkischer Beobachter.»
«Non ne ho mai sentito parlare», disse Karl. «Come fanno a chiamarsi
nazionale, se nessuno li conosce a livello nazionale?»
«Nello stesso modo in cui si possono chiamare socialisti quando sono
palesemente fascisti. Anche se io, per primo, ho qualche difficoltà a vedere
molta differenza tra le due estremità dello spettro. Si distinguono solo dalla
messa in scena e dalla retorica. I Nazional Socialisti, si chiamano Nazi,
hanno molto potere a Monaco e in Baviera, ma nessuno gli presta molta at-
tenzione da queste parti. Una volta devo portarti a sentire uno dei loro ca-
pi. Herr Hitler è un bel personaggio. Sono certo che al nostro amico Freud
piacerebbe farlo distendere sul suo lettino.»
«Hitler? Non ho mai sentito parlare nemmeno di lui.»
«Dovresti davvero sentirlo parlare qualche volta. È davvero divertente.»
Alcune settimane più tardi, quando Karl tornò dalla banca con i docu-
menti dell'ipoteca affinché sua madre li firmasse, vide qualcosa sul mon-
tante della porta di casa. Si fermò e guardò meglio.
Una mezuzah, una pergamena ebraica.
Estrasse il coltellino tascabile e la strappò dal legno, poi entrò.
«Mamma, di cosa si tratta?» chiese, lasciando cadere l'oggetto sul tavo-
lo.
Lei guardò nella sua direzione con i suoi grandi occhi marrone intelli-
genti. I capelli castani erano striati di grigio. Immediatamente dopo la mor-
te di papà aveva perso peso considerevolmente e non l'aveva mai riacqui-
stato. Una volta era vivace e felice, aveva un sorriso contagioso che le cre-
ava due fossette nelle guance. Adesso era pallida e tranquilla. Sembrava
che si fosse ristretta, nel corpo e nello spirito.
«Sai molto bene di cosa si tratta, Karl.»
«Ma non ti ho avvertita di non metterlo fuori?»
«Deve stare fuori.»
«Non di questi tempi, mamma. Non è salutare.»
«Dovresti essere orgoglioso di essere ebreo.»
«Non sono ebreo», disse lui.
Gli sembrava che avessero fatto questa discussione centinaia di volte di
recente, ma sua madre non voleva capire. Suo padre, il colonnello, era sta-
to cristiano, sua madre ebrea. Karl aveva deciso che non sarebbe stato né
l'uno né l'altro. Era ateo, uno scettico, un libero pensatore, un intellettuale.
Era tedesco per lingua e nascita, ma preferiva pensare a se stesso come a
un cittadino internazionale. I paesi e i confini delle nazioni dovrebbero es-
sere aboliti, e un giorno lo saranno.
«Se tua madre è ebrea», disse lei, «tu sei ebreo. Non puoi sfuggire a que-
sto fatto. Non ho paura di dire al mondo che sono ebrea. Non ero molto os-
servante quando tuo padre era vivo, ma adesso che se n'è andato...»
Gli occhi le si riempirono di lacrime.
Karl si sedette vicino a lei e le prese la mano tra le sue.
«Mamma, ascolta. Il paese è pervaso da sentimenti antisemiti di questi
tempi. Sono sicuro che finiranno, ma in questo momento stiamo vivendo
in un paese incredibilmente orgoglioso che ha perso una guerra e che vuole
incolparne qualcuno. Alcune delle persone più cattive hanno scelto gli e-
brei come capro espiatorio. Quindi fino a quando il paese non si rimette in
equilibrio, penso che sia meglio non farsi notare troppo.»
Il sorriso di lei era fiacco. «Se lo dici tu, caro.»
«Bene.» Aprì il raccoglitore che aveva portato dalla banca. «E adesso
dedichiamoci alle carte. Questi sono gli ultimi documenti per l'ipoteca,
pronti da firmare.»
La mamma si strinse le mani. «Sei sicuro di fare la cosa giusta?»
«Assolutamente sicuro.»
In realtà, adesso che gli ultimi documenti erano pronti, stava avendo dei
ripensamenti.
Karl aveva organizzato le cose in modo da prendere in prestito fino al-
l'ultimo centesimo che la banca gli avrebbe dato sulla proprietà della ma-
dre. Ricordava come si era sentito a disagio al bagliore avido negli occhi
del funzionario di banca, quando aveva firmato le carte. Immaginavano
rovesci finanziari, debiti di gioco, forse, un bisogno disperato di denaro
che avrebbe inevitabilmente portato al mancato pagamento e all'appropria-
zione da parte della banca. Gli occhi del presidente della banca avevano
brillato al di sopra degli occhiali da lettura, c'era mancato poco che si sfre-
gasse le mani anticipando quanto sarebbe successo.
Dubbi e paura si impadronirono di Karl adesso mentre la penna di sua
madre passava sopra la riga per la firma. Si stava comportando da pazzo?
Lui era un libraio e questi erano uomini che si occupavano di finanza. Chi
era lui per presumere di saperne più di uomini che passavano le loro gior-
nate a trattare di denaro? Stava agendo sulla base di un capriccio, spinto da
un uomo che conosceva a malapena.
Ma si fece coraggio, ricordando le ricerche che aveva fatto. Era sempre
stato bravo con le ricerche. Sapeva come estrarre le informazioni. Aveva
saputo che Rudolf Haverstein, il presidente della Reichsbank, aveva au-
mentato gli ordini di biglietti di banca e stava facendo funzionare le presse
a piena velocità e per lunghe ore. Guardò in silenzio mentre sua madre
firmava i documenti per l'ipoteca.
Aveva già chiesto prestiti personali, usando i gioielli di sua madre come
garanzia. Calcolando l'ipoteca, aveva accumulato cinquecento milioni di
marchi. Se li convertiva immediatamente, avrebbe avuto novemilaottocen-
to dollari per mezzo miliardo di marchi. Sembrava assurdo. Si chiedeva
chi fosse più pazzo, la Reichsbank o lui.
«Perché una birreria?» chiese Karl mentre si sedevano nella enorme sala
principale del Burgerbraukeller.
«Perché Monaco è il cuore del paese che beve la birra», disse Ernst. Una
cameriera formosa appoggiò un paio di boccali da litro di birra chiara sul
tavolo di assi di legno grezzo davanti a loro. «Se vuoi raggiungere queste
persone devi parlar loro quando bevono birra.»
Il Burgerbraukeller era enorme, e si ergeva su un appezzamento di ter-
reno di discrete proporzioni sul lato orientale del fiume Isar che tagliava la
città in due. Dopo lo Zirkus Krone era il luogo d'incontri più grande di
Monaco. Sparsi all'interno di questo vasto complesso si trovavano diversi
distinti bar e ristoranti, ma il centro era costituito dalla sala principale che
poteva ospitare tremila persone. Quella sera tutti i posti erano occupati, e
coloro che erano arrivati in ritardo stavano in piedi nei corridoi e affollava-
no il fondo della sala.
Karl bevve qualche sorso di birra per mandar giù un boccone di salsic-
cia. Tutto intorno a lui c'erano uomini vestiti di nero e di varie gradazioni
di marrone, tutti impazienti dell'arrivo del Führer. Ma vide alcune persone
in giacca e cravatta, e anche qualcuno che indossava i tradizionali calzoni
corti di pelle bavaresi e i cappelli tirolesi. Karl e Ernst avevano fatto im-
mediatamente amicizia con i loro vicini di tavolo dividendo con loro un
grosso piatto di formaggio, pane e salsicce che avevano ordinato nella cu-
cina piena di movimento. Anche se non erano in divisa, non affiliati ad al-
cuna organizzazione, e non indossavano delle fasce sul braccio, i due nuo-
vi venuti di Berlino adesso erano considerati Komraden dalla gente del po-
sto che divideva il loro lungo tavolo. Furono accettati con ancora maggior
entusiasmo quando Ernst menzionò il fatto che Karl era il figlio del colon-
nello Stehr, che aveva combattuto ed era morto nelle Argonne.
Karl pensò che era molto meglio essere accettati come camerati che il
contrario. Aveva ascoltato le conversazioni che si tenevano al tavolo, i ri-
petuti riferimenti in tono riverente ad Adolf Hitler come all'uomo che a-
vrebbe salvato la Germania da tutti i suoi nemici, sia interni che interna-
zionali, e che avrebbe riportato la terra dei padri alla gloria che meritava.
Karl intuiva che nemmeno il potere di Dio sarebbe stato sufficiente a sal-
vare qualcuno che in questa folla avesse osato dire qualcosa contro Herr
Hitler.
L'aria caliginosa era piena degli odori di qualsiasi birreria: di luppolo e
di malto versato, di fumo di tabacco, l'odore penetrante dell'aglio sulle sal-
sicce che si stavano cuocendo, di formaggio saporito, di corpi sudati, e di
attesa piena d'ansia. Karl stava finendo il suo ultimo boccale quando si ac-
corse di una certa agitazione tra la folla. Qualcuno con una cicatrice in fac-
cia era arrivato sul palco. Disse alcune parole tra la confusione che aumen-
tava e finì con il presentare Herr Adolf Hitler.
Con il fragore di un tuono la folla si alzò gridando: «Heil! Heil!», men-
tre un uomo minuto, alto circa un metro e settanta, che avrebbe potuto ave-
re un'età qualsiasi tra i trentacinque e i quarantacinque anni, salì i gradini
che portavano al palco. Indossava una giacca di lana marrone, una camicia
bianca con il colletto rigido, una cravatta sottile, con dei pantaloni al gi-
nocchio e calze marroni sulle corte gambe arcuate. Portava i capelli mar-
roni diritti con una riga sulla destra e pettinati sulla parte alta della fronte,
aveva un colorito giallastro, quasi giallo, e delle labbra sottili sotto dei cor-
ti baffetti. Camminava piegato leggermente in avanti con la testa inclinata
a sinistra, e le mani infilate nelle tasche della giacca.
È questo l'uomo che chiamano Führer? Sembra un negoziante, o un im-
piegato governativo, pensò Karl. È questo l'uomo che pensano salverà la
Germania? Erano forse tutti impazziti o ubriachi... o entrambe le cose?
Hitler raggiunse il podio e fissò il pubblico in attesa, e fu allora che Karl
ebbe il primo squarcio degli occhi indimenticabili di quell'uomo. Brillava-
no come fari dalla loro cavità, forando la stanza, sconcertando Karl col lo-
ro sorprendente fuoco azzurro. Guizzando ipnotici, pieni di fanatismo, pas-
savano in rassegna la stanza, tranquillizzandola, sfidando un'altra voce a
interrompere la sua.
E poi iniziò a parlare, con quel sorprendente tono da baritono che si al-
zava e si abbassava come in un'opera di Wagner, gettando degli improvvisi
suoni gutturali nell'aria che mettevano enfasi come fossero state pietre del-
le dimensioni di un pugno.
Per i primi dieci minuti parlò con voce pacata, rigidamente in piedi con
le mani intrappolate nelle tasche. Ma mentre la sua voce si alzava, e la pas-
sione si faceva più potente, le mani si liberarono, fini, gradevoli, mani con
lunghe dita che svolazzavano come piccioni e scendevano in picchiata co-
me falchi, che poi si stringevano in un pugno per colpire la cima del podio,
con colpi che sembravano inferti con una mazza.
I minuti passavano, trasformandosi in un'ora, poi due. Dapprima Karl
era riuscito a conservarsi distaccato, facendo a pezzi le parole di Hitler, se-
parando le verità scelte con attenzione dalle mezze verità e dalle bugie a-
perte. Poi, nonostante se stesso, iniziò a crollare sotto il magnetismo del-
l'uomo. Questo Adolf Hitler era un oratore talmente appassionato, così
preso dalle sue parole, che uno doveva seguirlo, qualunque fossero le falsi-
tà e la logica speciosa della sua oratoria. Non ci poteva essere alcun dubbio
che quest'uomo credeva inequivocabilmente in ogni parola che diceva, e in
qualche modo trasferiva queste ferventi convinzioni al suo pubblico, co-
sicché anche loro si convincevano inalterabilmente della verità di ciò che
diceva.
E non fu mai più convincente di quando chiamò tutti i leali tedeschi a ri-
spondere alla richiesta d'aiuto di una Germania malata e indebolita, non so-
lo malata finanziariamente ed economicamente, ma una Germania sul pro-
prio letto di morte da un punto di vista intellettuale e morale. Non vi era
alcun dubbio che la Germania fosse malata, messa a terra da una malattia
che non si può guarire con impiastri e unguenti e purganti. La Germania
aveva bisogno di una chirurgia radicale: quelle parti che erano malate e in-
cancrenite e stavano avvelenando il resto del sistema dovevano essere eli-
minate e bruciate prima che la guarigione potesse iniziare.
Karl ascoltava e rimaneva estasiato, inchiodato, incurante del tempo, pri-
gioniero di quella voce e di quelle parole.
E poi quest'uomo, questo Adolf Hitler, in piedi sul podio, bagnato dal
sudore, coi capelli attaccati alla fronte, agitando le mani, invitava tutti i le-
ali tedeschi a cui importava della loro madre patria a riunirsi intorno al
Partito nazista, e a marciare su Berlino, dove avrebbero ottenuto la pro-
messa dalla debole Repubblica di Weimar di bandire comunisti ed ebrei da
ogni posizione di potere e di scacciare le truppe francesi e belghe dalla val-
le della Ruhr, e una volta ancora rendere inviolati i confini della patria. Oh,
perdio, ci sarebbe stato un nuovo governo in carica a Berlino, uno che a-
vrebbe riportato la Germania alla grandezza a cui era destinata. La miseria
della Germania doveva essere debellata dalla forza della Germania. Il no-
stro giorno è giunto! Il momento è adesso!
La grande sala impazzì mentre Hitler faceva un passo indietro permet-
tendo alle ovazioni deliranti di più di tremila voci di far tremare i muri e le
travi accanto a lui. Persino Karl si alzò in piedi, pronto ad agitare in aria il
pugno e a gridare con quanto fiato aveva in gola. All'improvviso si sorpre-
se.
Cosa sto facendo?
Nel corso della mattina le strade di Monaco sui due lati del fiume erano
percorse da voci contrastanti che passavano con la stessa regolarità del
tramvai: il triumvirato si è messo con Hitler... i triumviri sono liberi e stan-
no organizzando delle contromosse contro il colpo di stato... la Reichswehr
si è ribellata ed è pronta a marciare su Berlino con Hitler... la Reichswehr
sta marciando su Monaco per sconfiggere il colpo di stato proprio come ha
fatto con il tentativo comunista il mese scorso... Hitler controlla completa-
mente Monaco e il suo esercito... alcuni ufficiali giovani e alcune unità di
polizia appoggiano il colpo di stato...
Karl inseguì ogni voce, cercando di conoscere la verità, ma la verità a
Monaco sembrava essere un bene molto aleatorio. Andò avanti e indietro
sul fiume Isar, tra il quartier generale dei rivoltosi nel Burgerbraukeller
sulla riva orientale e gli uffici governativi vicino a Marienplatz a occiden-
te, con la mano destra infilata in tasca, stretta sulla pistola, alla ricerca di
Hitler. Lui ed Ernst si erano separati, immaginando che due persone potes-
sero coprire una zona più ampia se erano divise.
A mezzogiorno Karl iniziò ad avere l'idea che Hitler non avesse poi tan-
to il controllo della situazione quanto gli faceva piacere far credere di ave-
re. E vero, le sue truppe sembravano avere una mano di ferro sulla città a
oriente del fiume, e una bandiera con la svastica sventolava da un balcone
sul Nuovo Municipio sul lato occidentale, ma Karl si era accorto che le di-
vise verdi della polizia bavarese di stato erano riunite alle estremità occi-
dentali dei ponti sull'Isar. Non bloccavano il traffico, ma sembravano vigi-
li. E le truppe della Settima Divisione della Reichswehr stavano attraver-
sando la città. Il quartier generale della Reichswehr sulla riva occidentale
era ancora sotto il controllo delle unità della Reichskriegsflagge del Kam-
pfbund, ma il quartier generale in sé adesso era circondato da due batta-
glioni di fanteria della Reichswehr e da un certo numero di unità di arti-
glieria.
La marea sta cambiando, pensò con una soddisfazione macabra Karl.
Forse alla fine non sarebbe stato necessario che usasse la pistola.
Era in piedi sul lato occidentale del ponte Ludwig, con le spalle al vento,
quando vide Ernst che si affrettava verso di lui dall'estremità più lontana.
«Vengono da questa parte!» gridò Ernst, con le guance rosse per l'ecci-
tazione e il freddo.
«Chi?»
«Tutti. Tutti quelli del colpo di stato, a migliaia. Hanno iniziato una
marcia per le vie della città. E Hitler è alla loro testa.»
Appena Ernst ebbe finito di parlare, Karl si mise a spiare tra le prime file
dei manifestanti. Nazisti in camicia marrone che portavano le loro bandiere
rosse e bianche che sbattevano e si agitavano al vento. Dietro di loro veni-
vano gli altri, che avanzavano a braccetto, dirigendosi direttamente verso il
ponte Ludwig. Individuò Hitler nelle prime file, con indosso il suo imper-
meabile marroncino e un cappello di panno. Vicino a lui c'era il generale
Ludendorf, uno degli eroi di guerra più rispettati del paese.
Si era radunata una folla di sostenitori e di semplici curiosi, mentre la
Polizia Verde si affrettava verso l'estremità a ovest del ponte per fermare i
manifestanti. Prima che si potesse organizzare, squadre di truppe d'assalto
sciamarono dai lati del corteo, circondandola e disarmandola.
La marcia emerse dall'altra parte del ponte senza che nessuno la potesse
fermare.
Karl rinsaldò la presa sulla pistola. L'avrebbe finita qua, adesso, senza
pensare a quali sarebbero potute essere le conseguenze per lui. Ma, attra-
verso la calca che lo circondava, non riusciva ad avere una visione chiara
di Hitler. E con sua grande delusione, molti spettatori si unirono alla mar-
cia al suo passare, ingrossandone ancora le file.
I manifestanti affluirono nella già affollata Marianplatz, davanti al mu-
nicipio, dove vennero accolti calorosamente e con grida di adulazione dalle
migliaia di persone che si erano raccolte là. Una interpretazione delirante
di «Deutschland über Alles» fece tremare i vetri delle finestre in tutta la
piazza e finì tra innumerevoli grida di «Heil Hitler».
Karl non riuscì mai ad avvicinarsi a meno di un centinaio di metri dal
suo obiettivo.
E adesso, con le file raddoppiate, la marcia era ripartita, questa volta di-
rigendosi a nord verso Wienstrasse.
«Si stanno dirigendo al quartier generale del Reichswehr», disse Ernst.
«È circondato», disse Karl. «Non riusciranno mai ad avvicinarsi.»
«E chi li fermerà?» disse Ernst. «Chi gli sparerà addosso con il generale
Ludendorf al fianco di Hitler e con tutti quei civili che sono con loro?»
Karl sentì che le mascelle si indurivano al ricordo della visione che gli
era passata per il cervello, che portava con sé l'immagine di sua madre,
vecchia, rinsecchita, nuda e sanguinante.
«Io.»
Partì di corsa per una strada parallela a quella della marcia, distanziando
con facilità la folla che si muoveva lentamente. Calcolò che i manifestanti
dovevano arrivare in Residenzstrasse per raggiungere l'edificio della Rei-
chswehr. Si nascose in un portone del Feldhermhalle, vicino all'inizio della
strada, e vi si piegò, ansante per l'esercizio a cui non era abituato. Alcuni
secondi più tardi, Ernst si unì a lui, respirando quasi normalmente.
«Non era necessario che venissi», gli disse Karl.
«Certo che l'ho fatto. Siamo testimoni di un cambiamento storico.»
Karl estrasse la pistola dalla tasca della giacca. «Ma dopo di oggi ne sarà
protagonista una persona diversa da Hitler.»
All'inizio della Residenzstrasse, dove si apriva su una piazza, Karl vide
delle unità della Polizia Verde che preparavano una barricata.
Bene. La marcia avrebbe dovuto rallentare mentre si avvicinava alla bar-
ricata, e quello sarebbe stato il suo momento.
«Ecco che arrivano», disse Ernst.
Le mani di Karl iniziarono a sudare mentre cercava il suo obiettivo tra le
prime file. Quando riuscì a identificare Hitler si accorse che la presa della
pistola gli scivolava tra le mani. Ecco. Questo era il suo momento storico,
in cui avrebbe potuto trasformare la storia in modo che non si verificassero
gli orrori che la visione gli aveva mostrato.
Fu colto da un dubbio che lo strinse alla base della gola come una mor-
sa. E se la visione fosse stata sbagliata? E se si fosse trattato solo dell'as-
senzio e di nient'altro? E se fosse stato sul punto di uccidere un uomo a
causa di allucinazioni da ubriaco?
Si liberò dei dubbi. No. Nessun dubbio. Nessuna esitazione. Hitler deve
morire. Qui. Adesso. Per mano mia.
Come aveva previsto, la marcia rallentò mentre si avvicinava alle barri-
cate, e le truppe d'assalto si avvicinarono alla Polizia Verde gridando:
«Non sparate! Siamo i vostri camerati! C'è il generale Ludendorf con noi!»
Karl sollevò la pistola, aspettando che gli si presentasse l'occasione.
Poi si aprì un passaggio tra lui e la forma di Hitler nell'impermeabile.
Adesso! Deve essere adesso!
Prese la mira, lentamente, con attenzione. Non aveva esperienza con le
pistole. Suo padre, quando era un ragazzo, lo aveva portato a caccia col fu-
cile, ma non vi aveva mai trovato una grossa soddisfazione. Non provava
piacere neppure in questo, era mosso solo dal senso del dovere. Ma sapeva
come prendere la mira, e davanti a lui c'era il cuore di questo mostriciatto-
lo che avanzava impettito. Si ricordò le parole di suo padre... «Schiaccia,
non tirare... schiaccia... fatti sorprendere dallo sparo...»
E mentre Karl aspettava di farsi sorprendere, immaginò il cilindro di
piombo affusolato che esplodeva dalla canna, volando verso Hitler, affon-
dandogli nel torace, strappandogli i polmoni e il cuore, strappandogli la vi-
ta prima che lui potesse distruggere le vite degli sventurati, impotenti, mi-
lioni di innocenti che odiava così tanto. Vide Hitler che si piegava e cade-
va, vide un breve, violento spasmo di rabbia e confusione mentre il suo e-
sercito sparava selvaggiamente in tutte le direzioni, continuando coi tumul-
ti finché la Polizia Verde e le unità dell'esercito regolare non si fossero
chiuse intorno a loro per dividerli, per arrestarne i capi, e disperdere gli al-
tri. Forse si sarebbe levato qualcun altro che odiava gli ebrei, ma non a-
vrebbe avuto la combinazione unica di quest'uomo di magnetismo perso-
nale e potere oratorio. Il futuro che Karl aveva visto non sarebbe mai acca-
duto. La sua pallottola avrebbe tagliato il legame tra questo tempo e quel
futuro.
E quindi lasciò che il suo indice sudato accarezzasse il grilletto... schiac-
ciando...
Ma mentre la pistola sparava, qualcosa gli urtò il braccio. Il proiettile si-
bilò nell'aria fredda, alto, mancando Hitler.
Il tempo si fermò. I manifestanti si immobilizzarono, qualcuno a metà
passo. Tutti a eccezione di Hitler. Adesso aveva la testa girata verso Karl,
e i suoi occhi azzurro chiaro lo cercavano tra gli androni, le finestre, fino a
fissarsi nei suoi. I due uomini si fissarono l'un l'altro per un istante, un'eter-
nità... poi... Hitler sorrise.
E con quel sorriso il tempo riprese il suo ritmo mentre l'unico colpo di
Karl stava provocando una valanga di colpi da parte della Polizia Verde e
delle truppe del Kampfbund. All'improvviso sulla Residenzstrasse ci fu il
caos. Karl guardava pieno di orrore mentre la gente correva in tutte le dire-
zioni, urlando, sanguinando, cadendo e morendo. Il marciapiede divenne
rosso e scivoloso per il sangue. Lui vide che Hitler si abbassava e si teneva
basso. Pregò che il proiettile di qualcun altro lo trovasse.
Alla fine gli spari cessarono. I fucili tacevano, ma l'aria era ancora piena
delle grida dei feriti. Karl, sorpreso, vide Hitler che lottava per rimettersi in
piedi, poi lo vide volare via lungo il marciapiede, con l'arma spianata. Pri-
ma che lui riuscisse a riprendersi e mirare ancora con la pistola, Hitler era
saltato su una Opel berlina gialla, che lo aveva portato via.
Karl aggiunse le sue grida a quelle dei feriti. Si girò verso Ernst.
«Sei stato tu! Perché mi hai colpito il braccio? L'avevo nel mirino, e tu...
me l'hai fatto mancare!»
«Mi dispiace terribilmente», disse Ernst scrutando avidamente la carne-
ficina in strada davanti a loro. «È stato un incidente. Stavo sporgendomi in
avanti a guardare e ho perso l'equilibrio. Non preoccuparti. Penso che tu
abbia raggiunto il tuo scopo. Il colpo di stato è finito.»
Karl era fuori di sé dalla gioia quando Adolf Hitler venne catturato dalla
Polizia Verde due giorni più tardi, accusato di tradimento, e buttato in ga-
lera. Il Partito Nazional Socialista venne smantellato e dichiarato illegale.
Adolf Hitler aveva perso il suo firmamento politico, la libertà, e dal mo-
mento che era austriaco, c'era anche la possibilità che dopo il processo ve-
nisse deportato.
Mentre si aspettava il processo, Karl riaprì il negozio di libri e cercò di
reinserirsi nella normale routine a Berlino. Ma la visione dello spettro di
Adolf Hitler lo perseguitava. Hitler era ancora vivo, poteva ancora provo-
care gli orrori che Karl aveva visto. Lui aspettava famelico il processo, di
vedere Hitler umiliato, condannato a un minimo di vent'anni o deportato, o
ancora meglio: ucciso come traditore.
Durante i mesi che portarono al processo vide Ernst sempre meno di fre-
quente. Ernst sembrava essersi stancato di Berlino. Adesso era stata stabili-
ta la parità tra oro e marchi e questo aveva riportato l'inflazione sotto con-
trollo; il nuovo governo sembrava stabile, non c'erano altri colpi di stato in
fermentazione... la vita era molto meno «divertente».
Si incontrarono di nuovo a Monaco il giorno della sentenza di Hitler.
Come il processo, anche la sentenza si teneva nella sala delle conferenze
della vecchia scuola di Fanteria perché i tribunali regolari della città non
avevano spazio a sufficienza per le enormi folle attirate dalla cosa. Karl
non era riuscito a trovar posto dentro; né, apparentemente ci era riuscito
Ernst. Entrambi avevano dovuto accontentarsi di stare in piedi fuori sotto il
cielo luminoso di mezzogiorno ad aspettare le notizie insieme agli abitanti
della città.
«Non posso dire di essere sorpreso di vederti qua», disse Ernst, mentre si
davano la mano.
«Nemmeno io immagino che trovi tutto questo divertente.»
«Proprio.» Indicò col bastone. «Oh, cielo. Guarda quella gente.»
Karl li aveva già studiati, e lo avevano sconvolto. Migliaia di tedeschi
erano sciamati qui intorno a questo grande edifìcio di mattoni da tutto il
paese, cercando invano di entrare in tribunale. Due battaglioni della Polizia
Verde erano piazzati dietro a barriere di filo spinato per tenere lontana la
folla. Durante i venticinque giorni del processo, Karl si era mosso tra di lo-
ro e aveva provato orrore al rendersi conto di quante persone parlassero di
Hitler con i toni reverenti di adorazione riservati ai reali o a un dio.
Oggi le donne avevano portato bouquet di fiori per Hitler, e quasi tutti
nell'enorme moltitudine indossavano nastri rossi, bianchi e neri, i colori
nazisti.
«Adesso è una figura nazionale», disse Ernst. «Prima del colpo di stato
nessuno aveva sentito parlare di lui. Adesso il suo nome è conosciuto in
tutto il mondo.»
«E quel nome ben presto sarà in galera», disse con veemenza Karl.
«Senza dubbio. Ma ha fatto del processo un uso eccellente come podio
improvvisato.»
Karl scosse la testa. Non riusciva a capire perché i giudici avessero per-
messo a Hitler di parlare così prolungatamente dal seggio dei testimoni.
Per giorni, settimane, aveva continuato, ricevendo ovazioni a scena aperta
in tribunale, mentre i reporter trascrivevano le sue parole e le pubblicavano
perché tutta la nazione le potesse leggere.
«Ma oggi si arriva alla fine. Forse mentre noi ne stiamo parlando, la sua
sentenza viene pronunciata. Oggi Adolf Hitler andrà in prigione per un pe-
riodo molto, molto lungo. Anche meglio: oggi sarà deportato in Austria.»
«La prigione, sì», disse Ernst. «Ma non conterei sulla deportazione. È,
dopo tutto, un reduce decorato dell'esercito tedesco, e io credo che i giudici
siano più che un po' intimiditi dalla manifestazione di appoggio che ha ri-
cevuto qua e nel resto del paese.»
All'improvviso si sentirono delle grida provenienti dalle persone che sta-
vano più vicino all'edificio, seguite da un'allegria sfrenata mentre si spar-
gevano le voci sulla sentenza: cinque anni nella prigione di Landau... ma
con la possibilità di libertà provvisoria tra sei mesi.
«Sei mesi!» gridò Karl. «No, non può essere! È colpevole di tradimento.
Ha cercato di rovesciare il governo!»
«Buono, Karl», disse Ernst. «Stai attirando l'attenzione.»
«Non starò zitto!» gridò. «La gente deve sapere!»
«Non queste persone, Karl.»
Karl alzò le braccia verso il cerchio di facce arcigne che gli si erano
strette intorno. «Ascoltatemi! Adolf Hitler è un mostro! Dovrebbero chiu-
derlo nel buco più scuro e più profondo e gettare via la chiave! Lui...»
Venne colpito da un pugno al rene destro e un dolore lancinante gli per-
corse il torace. Mentre Karl inciampava in avanti, un altro uomo, con occhi
selvaggi e pieni di furia, gli diede un pugno in faccia mostrando i denti.
Lui crollò pesantemente sul pavimento mentre le grida di «comunista»,
«ebreo» gli riempivano le orecchie. Il cerchio gli si chiuse intorno, e il cie-
lo gli venne coperto da facce rabbiose, che non mostravano pietà mentre lo
colpivano alla schiena, alla pancia e alla testa con pesanti scarponi.
Karl stava perdendo l'ultimo bagliore di coscienza quando all'improvvi-
so i colpi cessarono e il cielo blu comparve di nuovo sopra di lui.
Con gli occhi offuscati vide Ernst che si piegava su di lui, scuotendo la
testa con sgomento.
«Buon Dio, amico! Hai un ultimo desiderio? Se non avessi chiamato la
polizia in tuo soccorso adesso saresti una poltiglia sanguinante!»
Dolorosamente Karl si appoggiò su un gomito e sputò sangue. Scene
dalla visione oscura iniziarono a passargli come un flash davanti agli oc-
chi.
«Succederà!» singhiozzò.
Si sentiva completamente solo, totalmente sconfitto. Hitler adesso aveva
un seguito a livello nazionale. Tra sei mesi sarebbe stato di nuovo per le
strade, nelle birrerie, a divulgare il suo odio. Questo processo non signifi-
cava la sua fine, era solo l'inizio. Lo aveva catapultato sulla scena naziona-
le. Era per strada. Avrebbe preso il sopravvento.
E la visione sarebbe diventata realtà.
«Dannazione, Ernst! Era proprio necessario che mi facessi sbagliare il
colpo?»
«Te l'ho detto, Karl. È stato un incidente.»
«Davvero?» Nel corso dei mesi, da quel freddo giorno d'autunno, i pen-
sieri di Karl erano ritornati spesso alla gomitata di un tempismo perfetto
che gli aveva fatto sbagliare il colpo. «Mi chiedo se si è davvero trattato di
un incidente, Ernst. Non riesco a liberarmi dalla sensazione che tu lo abbia
fatto di proposito.»
La faccia di Ernst si indurì mentre si alzò torreggiando sopra Karl.
«Credi quello che vuoi, Karl. Ma non posso dire che mi dispiaccia. Io,
per primo, sono convinto che il prossimo decennio o due saranno molto
più divertenti con Herr Hitler che senza di lui.» Il suo sorriso era freddo,
ma i suoi occhi brillavano per l'attesa. «Aspetto con ansia gli anni che ver-
ranno, e tu?»
Karl cercò di rispondere, ma le parole non venivano. Se solo Ernst sa-
pesse...
E poi vide il bagliore nei suoi occhi e una eventualità lo colpì con la for-
za di uno scarpone chiodato: forse Ernst sapeva.
Ernst si toccò la punta del cappello con il manico d'argento del suo ba-
stone. «Se tu mi vuoi scusare adesso, Karl, devo davvero andare. Devo in-
contrare un amico, un nuovo amico, per bere qualcosa.»
Si girò e si allontanò, mischiandosi alla folla crescente in rosso, bianco,
nero e marrone.
1930-1939
Triade
di Poppy Z. Brite
e Christa Faust
A Su Wei
Tra le quinte, nel teatro del Dragone Fortunato, l'aria era impregnata de-
gli odori del cerone e dell'incenso e del sudore dei ragazzi. Piccoli guerrie-
ri con giacche riccamente ricamate in oro e rosso si affollavano davanti a
frammenti di specchi, per dipingersi labbra e palpebre con lunghi pennelli.
A coppie facevano a turno per allungarsi i muscoli nelle difficili e dolorose
posizioni che preparavano i loro corpi ai rigori dell'Opera di Pechino. Le
cosce ruotavano sull'anca a 360 gradi, le spine dorsali si piegavano all'in-
dietro come erba al vento. Un ragazzo più grande, di quattordici anni circa,
si agganciò sulle orecchie una lunga barba bianca e prese una posa artriti-
ca, facendo ondeggiare le maniche a pieghe del suo abito.
Contro la parete più lontana, un ragazzo con una tunica iridescente verde
e argentea stava seduto con le braccia conserte. Era alto per la sua età, e
aveva due ampie spalle, polsi ossuti e mani grandi ed espressive. Il suo vi-
so dipinto, spigoloso e magro, avrebbe potuto essere considerato severo se
non fosse stato per un paio di orecchie comicamente larghe che ne emer-
gevano, come i manici di una brocca.
Spinse la testa all'indietro contro la parete piena di schegge di vetro, e
trasse un profondo sospiro. Il suo corpo era teso come una corda in attesa
di essere fatta vibrare. Il nastro bagnato che aveva legato intorno alla fron-
te stava iniziando ad asciugarsi sotto il berretto a punta, tenendogli la pelle
sopra agli occhi così tesa da rendergli impossibile sbatterli. Dopo un'ora o
due, gli asciugava talmente il bulbo oculare da procurargli degli spasmi.
Ma gli occhi che bruciavano e il prurito caldo della pelle sotto il trucco
erano tormenti familiari. Dopo otto anni, non valeva la pena di prenderne
atto più che dei crampi nello stomaco vuoto, o del dolore senza fine che gli
procurava ripetere in continuazione gli esercizi di punizione.
«Ji Fung.»
La voce bassa lo richiamò dalla sua meditazione senza scopo. Guardò in
su negli occhi grandi e truccati del suo migliore amico, Lin Bai, che vesti-
va l'abito bianco e argenteo del seducente Serpente Bianco.
Così vestito, Lin Bai si trasformava, da bel ragazzo qual era, in una vi-
sione di bellezza che turbava Ji Fung ogni volta che lo vedeva. Vedere la
faccia familiare del suo migliore amico offuscata dal capriccio faceva ri-
bollire lo stomaco di Ji Fung di un miscuglio di emozioni contraddittorie.
Gli ricordava le lunghe notti passate tra i morsi della fame quando lui e Lin
Bai si erano raggomitolati vicini sotto le coperte, a sussurrarsi i loro sogni
e segreti nel silenzio profondo del dormitorio.
Padron Lau era all'antica e credeva ancora che una donna vera sul palco
portasse sfortuna. Era stato lui a chiamare così Lin Bai, che significava Lo-
to nascosto, che era un nome da ragazza. E Lin Bai era brillante nei ruoli
femminili. Recitava i ruoli di guerrieri femmine come Mu Lan, o di eroine
da tragedia come Chu Ying-tai con la stessa finezza. Invece il torace ampio
e la bravura acrobatica naturale di Ji Fung, assieme alla sua voce passabile
cospiravano a tenerlo nei ruoli faticosi di soldato o di mangiatore di spade.
Lin Bai era nato per essere protagonista. Possedeva la grazia di una ron-
dine, la rigogliosa fragranza di un'orchidea completamente sbocciata, la
bellezza fredda della giada bianca. La sua voce era sonora e piena di colo-
re. Aveva già provocato fitte di invidia in stelle che avevano dieci anni più
di lui. I compagni di scuola lo odiavano perché era un cagnolino da salotto
viziato, il preferito del Padrone, che per lui aveva sempre una boccata di
riso caldo anche quando tutti gli altri erano affamati. Ji Fung era il suo u-
nico amico.
«Aiutami con le bandiere». Lin Bai arcuò leggermente in su la bocca
rosso ciliegia.
Ji Fung prese l'imbracatura imbottita con le sue quattro bandiere, facen-
do cenno a Lin Bai di girarsi. Lin Bai obbedì silenziosamente, a testa bas-
sa, sapeva obbedire a un ordine. Ji Fung tese le cinghie sul torace minuto
del suo amico e le legò strette, tirandole un po' per essere sicuro che a-
vrebbero retto. Lin Bai scosse la parte superiore del corpo, per prova. Il ri-
camo d'argento brillava mentre le quattro bandiere sventolavano come se
fossero state ali.
Lin Bai sorrise, e Ji Fung all'improvviso provò caldo e freddo allo stesso
tempo. Si girò dall'altra parte.
Delle tende polverose si aprirono all'estremità del camerino e Padron
Lau entrò nel bel mezzo di quella allegra confusione. La conversazione
musicale dei ragazzi si interruppe.
«Smettetela di giocare!» Le pesanti sopracciglia del Padrone si abbassa-
rono sui suoi occhi, poi si sollevarono in modo allarmante. Era un uomo
alto, muscoloso, con una bocca sensuale che sembrava fuori posto sotto il
suo naso che pareva una lama e i suoi occhi acuti, di pietra. Vedere il di-
sappunto in quegli occhi era l'incubo di ogni ragazzo, perché le sue puni-
zioni venivano dispensate frequentemente e senza preavviso. Ji Fung le
conosceva tutte: costretto a danzare e a fare salti mortali finché i legamenti
urlavano di dolore; costretto a piegarsi e a contare i colpi che riceveva fin-
ché il suo morbido didietro era completamente escoriato dalle bastonate;
costretto a stare in equilibrio sulle mani così a lungo che dopo non riusciva
a drizzare i polsi per ore.
Il Padrone era il loro insegnante il loro padre e il loro dio. Bramavano le
sue rare lodi e vivevano nel terrore della sua disapprovazione. Molti non
riuscivano a immaginare la vita senza di lui.
«La rappresentazione sta iniziando», disse il Padrone. «Niente errori.»
I ragazzi si misero in fila per farsi controllare. Padron Lau percorse la fi-
la, scrutando i suoi allievi con occhi pungenti. Ecco, un pompon storto su
un ornamento del capo si guadagnò una crudele tirata d'orecchio, una fac-
cia dipinta in modo imperfetto si attirò uno schiaffo doloroso dietro il col-
lo. Il Padrone superò Ji Fung e gli altri attori secondari con poco più di un
cenno del capo, ma si fermò davanti a Lin Bai per quasi un minuto, fissan-
dolo come se avesse avuto il dono di vedere attraverso il tessuto e la carne
fino alle profondità vermiglie del suo cuore che batteva. Lin Bai non ri-
cambiò lo sguardo del suo padrone. L'abbigliamento femminile e l'inclina-
zione timida degli occhi lo facevano sembrare riservato. Solo Ji Fung lo
conosceva abbastanza da leggere l'odio nella sua schiena rigida e nella sua
mascella tirata.
Lin Bai odiava Padron Lau con una violenza di cui Ji Fung non aveva
mai capito appieno la profondità. Ji Fung sapeva cosa significava maledire
in cuor suo il padrone mentre scacciava le lacrime sotto i colpi del bastone
di bambù, o durante le lunghe ore passate immobile in un'unica posizione
massacrante. Ma l'odio di Lin Bai era diverso, più profondo, una cosa che
teneva nascosta dentro di sé come un tesoro di cristallo dalle punte affilate,
una crisalide scura di cui non si poteva immaginare la forma finale. C'era
un'intensità particolare nell'aria tra il Padrone e il suo allievo più bravo che
faceva sentir male e debole Ji Fung, che era fieramente protettivo nei con-
fronti del suo amico.
«Bene», disse il Padrone all'improvviso, e allora la musica iniziò il suo
lamento, perché era arrivato il momento di entrare in quell'altro mondo.
La sala era quasi vuota. Niente altro che piccoli gruppi di teste grigie e
bambini che si muovevano irrequieti. Mentre era in piedi dietro le quinte Ji
Fung si trovò a desiderare di essere uno di quei bambini. Un ragazzino se-
duto tra la mamma e il papà in quel teatro appesantito dal rosso e dall'oro.
Un ragazzo che sarebbe tornato a casa tra i dolci e un letto morbido, non a
una tazza di riso e a un dormitorio affollato.
Era stato un ragazzo così, in un'altra vita. Da qualche parte dentro di lui
c'era un sogno vago di una bella casa e di un'amah sorridente. Di giocattoli
d'argento con una molla che li muoveva e di un cane nero con una morbida
pelliccia. Di una famiglia, zii e zie e cugini, di banchetti ricchi e rumorosi,
pieni di risate e di strani racconti.
Ma Ji Fung era troppo vecchio per desiderare il conforto senza preoccu-
pazioni dell'infanzia. E se permetteva alla sua mente di vagare troppo a
lungo per quei sentieri, di andare troppo oltre, sapeva che sarebbe finito
nei terribili crocevia della notte in cui era stato tolto dalla sua casa per
sempre.
Fino ad allora era stato chiamato solo Ji o figliolo. Aveva un altro nome
che era molto più lungo e più elegante, ma a casa era solo Ji; a volte Siu Ji,
o piccolino. Ma quella notte gli era stato tolto tutto, anche il suo vero no-
me.
Le mani disperate di sua madre lo avevano trascinato fuori da un sonno
difficile. Lo aveva messo a letto con qualche ora di anticipo e senza cena,
ignorando le sue grida di richiamo per la sua amah e per le focaccine di lo-
to al vapore che amava. Adesso lo stava scuotendo per svegliarlo e gli ab-
bottonava una semplice giacca di cotone. Lei indossava una tunica di un
blu spento e dei pantaloni larghi, aveva i capelli lucidi raccolti sul collo, e
la faccia pallida priva di trucco. Sembrava una serva, non la prima moglie
di un uomo ricco e potente.
Ji aveva saputo, nel modo in cui sanno i bambini, senza capire, che qual-
cosa di terribile stava accadendo. Si sentì male fino alle ossa e certo che il
mondo stesse per crollare. Sua madre non gli aveva detto più di una man-
ciata di parole nei suoi sette anni di vita. Adesso lo chiamava bravo ragaz-
zo e ometto mentre fissava il vuoto alle sue spalle. I suoi occhi brillavano
al buio come la luce della luna su acque minacciose.
Quando lui riuscì a parlare, si mise a piangere cercando di suo padre.
Suo padre aveva sempre tempo per lui, gli portava regali da Macao e da
Shanghai, faceva aspettare importanti uomini d'affari mentre si occupava
di una sbucciatura su un ginocchio o di un giocattolo rotto. Sì, suo padre
viziava il suo unico figlio, ma mai fino al punto da ridurlo all'impotenza,
perché i figli devono essere forti e brillanti. Ji un giorno si sarebbe seduto
dietro quella scrivania, avrebbe capito i misteriosi scambi che suo padre
dirigeva, li avrebbe diretti lui stesso.
Suo padre gli aveva già dato il sigillo col suo nome, un oggetto di giada
intagliato che Ji teneva sempre con lui. Adesso era nella sua mano sudatic-
cia, strappato da sotto il cuscino al suo risveglio, con le sue estremità fred-
de e i minuscoli caratteri familiari e rilassanti come la voce di suo padre.
Se solo avesse potuto vedere suo padre adesso, la notte avrebbe perso
quell'incredibile senso di minaccia.
Ma quando lo chiamò, sua madre si girò. Aveva la schiena rigida e stra-
na.
«Non parlare più di tuo padre», gli intimò.
L'odio nella voce di lei lo paralizzò come il veleno di un ragno. Ji in quel
momento seppe che il mondo era già finito.
Lei lo condusse attraverso la casa immobile, muovendosi come un fanta-
sma nei lunghi corridoi silenziosi. Le loro ciabatte di pezza non produce-
vano alcun suono sui pesanti tappeti e i pavimenti di marmo lucidi. Lui
chiese dove stavano andando, ma lei non rispose. Lui le chiese della sua
seconda madre e delle sue piccole sorellastre. Della terza madre col suo
pancione e gli occhi tranquilli. Della sua amah. Del cameriere col grande
torace e le forti braccia. Di chiunque potesse impedire a Ji di perdere il
controllo e di scivolare lungo una discesa sdrucciolevole, verso un futuro
imprevedibile. Ma sua madre non rispondeva a nessuna delle sue implora-
zioni. Gli stringeva solo il braccio e lo faceva camminare più velocemente.
Passando attraverso la cucina buia, vide le forme dell'amai e della cuoca
piegate sul pavimento vicino alla stufa. La testa dell'amah aveva un alone
di un liquido nero lucido che risaltava sulle mattonelle bianche. L'aria era
rancida di cibo vecchio e sapeva vagamente di vomito.
«Amah», chiamò, tirando in direzione del corpo crollato.
Sua madre lo zittì. «L'amah sta dormendo. È molto stanca.» Guardò da
un'altra parte. «Sono tutti molto stanchi. Devi stare tranquillo, e non sve-
gliarli.»
Ji cercò di guardarsi alle spalle mentre lei lo trascinava fuori dall'entrata
di servizio, ma era troppo buio, e la porta si richiuse troppo rapidamente
alle sue spalle.
Camminarono per tutta la notte, vagando senza meta per le strade, in vi-
coli scuri che puzzavano di interiora di pesce e di urina. Scivolarono senza
farsi notare tra battaglioni di soldati stranieri che si trascinavano per le
strade con le facce rubizze e il fiato da ubriachi. Quando superarono un
negozio che faceva spaghetti di soia, luminoso e affollato dietro le vetrine
opache per il vapore, Ji cercò di trascinare sua madre verso il punto da cui
proveniva il buon profumo. Si sentiva svenire per la fame adesso, ma lei
non si girò.
La notte di Hong Kong era un collage di immagini, orribili e fantastiche.
Vide prostitute dagli occhi incavati che ostentavano seni vizzi, e mendi-
canti bambini che leccavano il sangue dei polli sgozzati dai marciapiedi lu-
ridi fuori da un macello. Vide delle luci al neon luride riflesse sulle lunghe
macchine nere e lucide su cui viaggiavano milionari occidentali e le loro
donne esotiche dai capelli rossi. La ricchezza e lo squallore giacevano
fianco a fianco, intimi come amanti.
Per Ji, a sette anni e stanco, era un brutale sovraccarico di sensazioni.
Stringeva il suo sigillo di giada finché gli penetrò nella carne, deciso a non
piangere, a non vedere, a mettere ciecamente un piede davanti all'altro fin-
ché questo viaggio incomprensibile fosse terminato. Forse era ancora nel
suo letto e stava sognando, e la sua amah presto l'avrebbe svegliato con
una tazza di riso fumante.
Bocche ripugnanti senza denti mormoravano vicino a lui, ma lui non
guardava in su per vedere i loro proprietari. Luci brillanti danzavano sulla
coda dell'occhio, ma lui non si girava per vedere da dove provenissero.
Vedeva solo i suoi piedi, infilati in scarpe grossolane da contadino. Scarpe
nere di pezza, consumate alle estremità, che strisciavano su pietre unte. Un
passo dopo l'altro e la mano di sua madre gli sembrava come una morsa di
denti aguzzi intorno alla sua, e non gli permetteva mai di rallentare. La sua
stanza, il suo letto gli sembravano incredibilmente distanti. Forse non c'era
mai stato nient'altro che questo camminare senza fine. Forse la sua intera
esistenza era stata solo un sogno, l'invenzione di una mente vagante mentre
il suo corpo arrancava faticosamente.
Iniziò a diventare grigio, a perdere coscienza, avrebbe potuto continuare
per sempre se i suoi piedi non avessero inciampato in qualcosa di rigido
che gli impediva il passo. La sua vista tornò a farsi immediatamente nitida.
C'era una ragazza morta nel vicolo davanti a lui, per metà nascosta die-
tro a dei bidoni di immondizia che puzzavano. Era quasi carina, con le sue
manine piegate come conchiglie. Il suo lungo collo grazioso si apriva in un
rosso sorriso bagnato. Il suo abito di foggia occidentale macchiato di san-
gue le saliva intorno ai fianchi. Agli occhi infantili di Ji, le pieghe rosa del
suo inguine in vista apparivano come una terribile mutilazione, una ferita
molto peggiore di quella che aveva alla gola, un taglio profondo che non
sarebbe mai guarito. Fece un singhiozzo che gli fece accapponare la pelle.
Se sua madre lo avesse picchiato o gli avesse detto di stare tranquillo,
avrebbe potuto continuare ad amarla. Ma lei si limitò a guardarlo senza
vedere, persa in qualche inferno personale dove il terrore e il dolore del
suo unico figlio non avevano più importanza del ronzio delle mosche nei
bidoni dell'immondizia. Il vuoto sul suo viso era così terribile, così imper-
donabile che le lacrime di Ji gli morirono dentro, lasciandogli un freddo
così profondo che non si sarebbe mai più sciolto.
«Il tuo nuovo nome è Wang Ji Fung», disse lei. La sua voce era priva di
emozioni. «Tuo padre si chiamava Wang Sau. Tirava un risciò, ma è mor-
to. Dillo.»
Lui ripeté la bugia, senza capire, ma terrorizzato all'idea di fare un erro-
re. Fung significava fenice. Il suo nuovo nome era figlio della fenice.
«Se dirai mai a qualcuno il tuo vero nome, degli uomini cattivi verranno
a tagliarti la lingua. Capisci Wang Ji Fung?»
Lui si immaginò uomini dal viso indurito con abiti scuri che lo insegui-
vano con pistole nere sporche di grasso e coltelli affilati e crudeli come i
loro occhi. Annuì. Il suo terrore era enorme e puro.
Il sole apparve rosso all'orizzonte. Con lui arrivò uno spaventoso lamen-
to cadenzato, alto e potente, che echeggiava tra le mura di pietra dell'edifi-
cio principale della scuola coperte dal muschio. Era il suono che avrebbe
definito la sua vita per gli otto anni che seguirono: il rumore di giovani che
cantavano i loro esercizi mattutini. Gli diede un brivido premonitore che
gli fece venire i sudori freddi.
In un ufficio in ombra, rimase in piedi, immobile e in silenzio vicino a
sua madre mentre Padron Lau leggeva il contratto ad alta voce. Ji capì che
sarebbe appartenuto a quest'uomo per i dieci anni successivi, una proprietà
grezza che il Padrone si sarebbe impegnato a rifinire e a caricare di valore.
Avrebbe ricevuto cibo, rifugio e sarebbe stato addestrato, e se avesse di-
sobbedito, avrebbe potuto essere picchiato a morte.
L'appena nato Wang Ji Fung non provò altro che freddo mentre sua ma-
dre premeva il pollice nell'inchiostro nero appiccicaticcio e metteva il suo
marchio in fondo alla pagina. Sapeva scrivere perfettamente i caratteri del
proprio nome, ma lui immaginò che stesse fingendo di essere la vedova il-
letterata di un povero conducente di risciò.
Piegò la testa e si girò verso suo figlio. Ji Fung sentì di nuovo su di sé
quegli occhi freddi e bollenti.
«Non dimenticarti mai quello che ti è stato detto», disse lei.
Lui la guardò allontanarsi, le spalle dritte sotto la tunica blu a buon mer-
cato. Cercò di ricordare la manciata di capelli color ebano sul suo collo
pallido, i polsi delicati, la forma orgogliosa della schiena. Pensò di correrle
dietro, di buttarsi sulla sua schiena e sfracellarle il cranio delicato contro il
pavimento di pietra. Invece, allontanò lo sguardo. Fu l'ultima volta in cui
la vide.
Ji Fung giaceva piegato su se stesso, sepolto nel buio e nel dolore lanci-
nante. Una voce gli serpeggiava nella testa, nella pancia, continuando a
sussurrare le stesse parole.
Sta succedendo di nuovo.
La routine senza senso della sua vita era esplosa all'aperto. Sotto le lace-
razioni della sua pelle c'era il demone del caos violento della sua infanzia,
di eventi enormi e orribili che non poteva controllare e nemmeno capire,
eventi che lo trascinavano nella loro scia.
Quando le porte dell'armadio si aprirono, quasi si mise a gridare. Delle
mani lo afferrarono, cercando di tirarlo fuori. Lui agitò le braccia nella loro
direzione, sicuro che Padron Lau fosse tornato per picchiarlo a morte.
«Ji Fung.»
Un sussurro caldo vicino alla faccia, e un ricco profumo che sapeva di
rame. Ji Fung aprì gli occhi e vide Lin Bai, con del sangue scuro schizzato
sugli zigomi, che gli striava la fronte pallida e cadeva dal suo mento ap-
puntito. Negli occhi cerchiati di sangue di Lin Bai c'era un bagliore di paz-
zia che fece gelare il cuore di Ji Fung. Era come se la passione folle di sua
madre fosse tornata a perseguitare il viso familiare del suo solo amico, del
suo quasi-amante. Era paralizzato di fronte alla sua pazzia: minacciava di
strapparlo da questa vita e di ributtarlo vorticosamente nel passato.
«Dobbiamo andarcene di qua, adesso.»
Ji Fung strinse gli occhi e scosse la testa. Sentiva che il suo braccio ve-
niva tirato, ma non riusciva a muoversi. «Voglio vedere mio padre», si udì
dire con una voce da bambino.
«Ji Fung...» La voce di Lin Bai all'improvviso si fece più bassa, più fer-
ma. Prese il viso del suo amico tra le mani macchiate di sangue. «Non pos-
so lasciarti qua. Morirei senza di te. Se tu rimani, rimarrò anch'io e morirò
con te.»
Ji Fung aprì gli occhi. Vide le lacrime disegnare tracce di cristallo sul
sangue che si coagulava sulla faccia di Lin Bai. Il suo corpo perse la sensi-
bilità, divenne incapace di resistere, mentre Lin Bai lo avvolgeva tra le sue
braccia calde e sussurrava le parole che aveva bisogno di udire più di qual-
siasi altra cosa.
«Ti amo», disse Lin Bai.
L'antica armatura che avvolgeva il cuore di Ji Fung cadde a pezzi. Stava
ancora male per il terrore, ma questo poteva farlo. Poteva fuggire dalla
prigione della Scuola dell'Opera con Lin Bai al suo fianco, poteva cercare
una nuova vita dove aveva pensato che non ce ne fosse alcuna.
Contraccambiò il suo abbraccio per un lungo attimo, incapace di qual-
siasi altra cosa. Poi ricordò. «Aspetta», disse, liberandosi.
Sotto gli occhi incuriositi degli altri studenti, che avevano osservato tutta
la scena senza muoversi per non interferire, Ji Fung attraversò di corsa il
dormitorio fino alla sua branda. Le coperte portavano ancora le tracce del
calore dei loro corpi. Per un attimo toccò la trama sottile del tessuto, spia-
ciuto di essere stato interrotto. Ma quell'interruzione e qualsiasi cosa Lin
Bai avesse vissuto nello studio del padrone, avevano dato loro la possibili-
tà di essere liberi. Ci sarebbe stato tempo in seguito per trovarsi tra coperte
calde e carezze ancora più calde, se fossero stati fortunati. Ji Fung allungò
la mano sotto il sottile materasso di cotone, e strinse il pugno attorno al si-
gillo di giada. Lo mise in tasca e tornò correndo da Lin Bai, che si stava
fissando le mani, con un sorriso strano.
«Muoviti. Hai detto che dovevamo fare presto.»
Lin Bai guardò in alto e i suoi occhi tornarono normali. «Sì. Andiamo.»
Mano nella mano, spingendosi l'un l'altro nei passaggi scuri e nelle sale
maledette, volarono via dalla scuola che era stata il loro mondo per più di
metà delle loro vite.
Ji Fung si svegliò con la luce del sole che lo avvolgeva. Il suo primo
pensiero fu: «È tardi, il Padrone ci ucciderà per esserci addormentati...»
Poi la testa iniziò a battergli e una sensazione di nausea gli percorse gli
intestini, e lui ricordò ogni cosa. I muscoli gli dolevano, aveva l'uccello
caldo e infiammato. Lin Bai dormiva curvato accanto a lui, unica cosa fa-
miliare in questo terrificante mondo nuovo. Perique se n'era andato, la-
sciandosi dietro il dolce miasma dei vari prodotti per la cura del suo corpo.
Ji Fung fece scivolare il braccio attorno alla vita di Lin Bai, nascose la fac-
cia nella curva della sua spalla morbida come seta.
Lin Bai si agitò, fece un grugnito, poi balzò a sedere e iniziò a far vagare
lo sguardo nella stanza buia. I suoi occhi incrociarono quelli di Ji Fung, e
Ji Fung si rese conto che stava riacquistando la memoria.
«Ai-yaa», disse Lin Bai alla fine. «Mi sembra che la testa mi stia per
scoppiare.»
«Mi sembra che la vescica mi stia per scoppiare. Mi chiedo come sia il
bagno da queste parti.»
«Probabilmente di giada intagliata»
«Con finiture in oro.»
«E quadratini di fine seta per pulirsi.»
Facendo una risata indistinta che attraversò il loro malessere, i ragazzi
vacillarono da una parte all'altra della stanza, aprendo una porta dopo l'al-
tra. Trovarono diversi armadi enormi, pieni dei vestiti e delle scarpe di Pe-
rique. Ji Fung aveva pensato che tutto il guardaroba del suo ospite fosse
sparso nella stanza, ma si trattava in realtà solo di una minima parte di
quello che aveva da indossare. Tutto era profumato di legno di sandalo e di
colonia dall'odore aspro. Spalancando una porta si trovarono davanti una
vasca del tipo con le gambe a zampa, mentre dietro un'altra c'era una tazza
di porcellana brillante.
«È quasi un peccato pisciarci dentro», disse Ji Fung. Ma i ragazzi si mi-
sero fianco a fianco e lo fecero comunque, facendo schizzare un torrente di
urina nell'acqua chiara davanti a loro.
Perique ritornò portando con sé l'odore dello zucchero e dell'aria fresca
del mare. Buttò la giacca sul letto e si tirò accanto i ragazzi.
«Sembra che abbiate fatto i cattivi», disse.
Ji Fung si irrigidì tra le braccia profumate di Perique. «Cosa vuoi dire?»
Perique estrasse dalla giacca un foglio di giornale che era stato piegato
ripetutamente e lo lisciò sulla coperta. «Guardate.»
Ji Fung si accigliò vedendolo. Poteva sentire il sangue che gli saliva alle
guance. «Non ci vedo bene, leggi tu.»
Perique guardò in su e con comprensione disse: «Non sai leggere, ve-
ro?»
«Certo che sono capace.» Ji Fung agitò una mano come per scacciare il
pensiero. «Tutto il bere di ieri sera mi ha fatto venire il mal di testa. Tutto
qua.»
Perique sorrise e si strinse nelle spalle per mostrare che sapeva che Ji
Fung stava mentendo, ma non mancò completamente di garbo.
«Dice che Lau Tung Ho, padrone della Scuola dell'Opera di Hong Kong
è stato ucciso la notte scorsa. Pugnalato a morte. Due degli allievi sono
scomparsi, e sono ricercati per l'assassinio. Si chiamano Lin Bai e Wang Ji
Fung.
Perique girò la pagina e appoggiò il giornale. Lin Bai si sedette e si
sporse sopra la spalla di Ji Fung per guardare.
«Ecco la foto.»
Era un ritratto della loro classe, preso un anno prima dal proprietario del
teatro del Dragone Fortunato. Le teste dei fuggiaschi erano cerchiate. Ji
Fung era in piedi nell'ultima fila, in mezzo ai ragazzi più alti, e la sua fac-
cia era una macchia indistinta. Ma Padron Lau aveva messo il suo allievo
migliore davanti, e i lineamenti fini di Lin Bai erano immediatamente ri-
conoscibili.
Ji Fung provò una rabbia improvvisa e impossibile da controllare. Lin
Bai aveva distrutto il suo mondo sicuro e lo aveva trascinato in questo in-
comprensibile turbinio. Aveva ucciso chi si occupava di loro, e adesso e-
rano alla mercé di un nuovo custode, Perique, che era di certo affascinante,
ma anche pazzo.
Immediatamente si rese conto di quanto i suoi sentimenti fossero me-
schini. Non era lui che aveva dovuto sopportare l'umiliazione e le violenze
notturne per mano di Padron Lau. Non era lui che aveva dovuto affrontare
la tortura degli altri ragazzi per aver fatto una cosa che odiava. Quegli ono-
ri di dubbio valore appartenevano solo a Lin Bai.
Lin Bai aveva dovuto uccidere Padron Lau, lo aveva fatto per salvare la
vita di Ji Fung oltre alla sua. E Lin Bai aveva dovuto scappare. E Ji Fung
aveva scelto di scappare con lui, e adesso sarebbero per sempre stati legati
l'uno all'altro. Se marcire in prigione era parte del loro destino, sarebbero
marciti insieme.
Guardò su verso Perique. «Hai intenzione di denunciarci?»
Perique scoppiò in una risata. Ji Fung pensò di nuovo che la risata del
loro nuovo amico non era per niente gentile, ma quando arrivò ne fu solle-
vato. «E perdermi delle altre rappresentazioni personali? Non siate stupi-
di.» Buttò via il giornale e afferrò saldamente le mani dei ragazzi. «Ho le
mie abitudini che sono, come si può dire, al di fuori della legalità. Di rado
arrivano all'omicidio, ma sono costretto a essere tollerante verso coloro
che provano piacere in quel tipo di cosa.»
«Non mi è piaciuto!» Lin Bai gridò, poi si batté la mano libera sulla
bocca.
Perique sollevò un sopracciglio nero dalla forma perfetta. «Sei stato tu,
Piccolo Dono?» Stava scherzando con il nome di Lin Bai. Siu Lai signifi-
cava Piccolo Dono. Ji Fung era diventato Jung, o seme.
Lin Bai annuì, mentre la sconfitta e la vergogna gli coloravano la faccia.
Perique diede un colpetto sulla guancia liscia di Lin Bai, fece passare
una mano gentile sull'ispida peluria che aveva in testa. Il Padrone le rasava
una volta alla settimana, e adesso la crescita che avevano in testa era quasi
di sette giorni. «Buon per te. Avevo creduto che fosse stato Jung, ma i pe-
tali del loto possono nascondere un'ape con un ago pungente, vero?»
Lin Bai si strinse nelle spalle. Aveva gli occhi umidi, stava per lasciarsi
andare. Ji Fung voleva abbracciarlo, ma se a Lin Bai spiaceva di avere uc-
ciso il Padrone, era una cosa che doveva affrontare da solo. Non era cosa
da essere alleviata da un inutile tentativo di conforto.
«Deve essere stato molto crudele nei tuoi confronti», disse Perique.
«Voglio solo aiutare.»
Ji Fung non poté controllarsi. «Non ci conosci, ti piace il nostro aspetto,
è vero, ma non apparteniamo al tuo mondo. Perché sei così generoso con
noi? Perché rischiare dei guai per avere aiutato due criminali?»
«Mi piacciono i guai.»
«Bene, ma...» Ji Fung lottò per trovare un modo di dire quello che vole-
va senza far perdere la faccia a Perique. «Forse sei di nobile nascita o un
importante uomo d'affari internazionale. Noi siamo solo dei poveri attori
non abituati al tuo stile di vita. Non è giusto che tu debba metterti in peri-
colo per amor nostro.»
«In altre parole», sorrise Perique, «non hai intenzione di fidarti di me,
finché non ti avrò detto qualcosa di me stesso.»
Ji Fung e Lin Bai lo fissarono. Di certo Perique non era, non poteva es-
sere cinese. Nessun cinese avrebbe mai osato tagliare così nettamente un
velo di educata foschia.
«Non mi importa. Parlo cinque lingue, e mi piace dire quello che penso
in ognuna di loro. Beviamoci una tazza di caffè, va bene?» Perique le ordi-
nò, poi mise una poltrona dorata vicino al letto. «Da dove iniziamo? Sono
nato a Shanghai vent'anni fa. Mio padre era un artista di Parigi, un pazzo
avventuroso il cui talento era di certo di molto superiore alla sua ricchezza.
Mia madre era la figlia di un ricco commerciante della costa che possedeva
una flotta di giunche per il commercio dell'oppio. Ho avuto cinque fratelli
e sorelle, tre vivono in Francia, due a Londra. Io passo spesso le vacanze
all'estero, quindi siete stati fortunati a trovarmi qui adesso.»
Il caffè arrivò, forte e nero, con un profumo delizioso ma con un gusto
amaro e strano.
«Adesso i miei genitori sono morti. Mia madre, cinese mi ha lasciato
una fortuna, mio padre, francese, un sogno. Io ero come lui, mi aveva det-
to. Se il mondo avesse smesso di divertirmi, sarei morto. E gli ho creduto.
Quindi ho viaggiato per il mondo riempiendo il mio cervello delle idee più
nuove, il mio stomaco con le delicatezze più raffinate, e il mio letto con le
creature più amabili che potessi trovare.»
Ji Fung guardò Lin Bai e di nuovo Perique. «Perché noi due?»
Una sfumatura di cremisi infiammò le pallide guance di Perique, ma sta-
va sorridendo. «Mi piace guardare», disse.
Perique spinse i ragazzi fuori dalla berlina grigia in un vicolo che puzza-
va di bastoncini d'incenso e di ostriche. Una donna con una pelle bianca
per la cipria e con labbra rosse e impudiche stava in piedi vicino a una por-
ta di metallo grezzo. Perique le parlò rapidamente in una lingua che non
era familiare. Udendo la parola jazz, Ji Fung immaginò si trattasse di in-
glese. La donna aprì la porta e li spinse dentro.
L'interno era scarsamente illuminato, impregnato dall'odore del tabacco
e dell'oppio. Una bellezza esotica avvolta da un abito di seta bianca stava
cantando. Aveva una voce vivace e spensierata, che faceva le bolle come
lo champagne. Aveva la pelle scura come tè carico, occhi marroni con ci-
glia pesanti, e una bocca incredibilmente piena e sensuale. Perique le striz-
zò l'occhio, e lei sorrise.
Perique li portò tra le quinte, dentro un minuscolo camerino pieno di fio-
ri recisi. Il profumo dolce e umido era allo stesso tempo rinfrescante e pe-
netrante. Quando la canzone fu finita, la cantante venne verso di loro, se-
guita da ondate di applausi e da grida che la imploravano di cantare anco-
ra. Diede a Perique un bacio veloce sulla bocca e iniziò a parlare nella
stessa lingua straniera, lentamente e biascicando le parole.
Perique indicò i ragazzi mentre le rispondeva. La cantante annuì pensie-
rosa.
Perique si girò nuovamente verso i ragazzi. «Lai, Jung, questa è Clarise.
Vi aiuterà a prepararvi per i ruoli più importanti della vostra carriera di at-
tori, i ruoli che vi salveranno la vita.»
Con un sorriso lento, Clarise si slacciò il vestito e lo lasciò cadere. Le
punte morbide del suo seno caddero insieme a lui, perché erano cucite nel-
le coppe del reggiseno del vestito. Sotto, il suo torace era piatto, con picco-
li capezzoli marroni che si vedevano sotto un corsetto allacciato molto
stretto.
«Vedete?» disse in cantonese, con un accento forte e farfugliato. «Sono
un ragazzo come voi.»
Si accarezzò la protuberanza nelle mutande di seta.
«Ma è il mio segreto. E adesso sarà anche il vostro.»
Ji Fung scosse la testa, provando orrore a quella vista di virilità avvolta
in seta e pizzi, e all'idea che lui non sarebbe mai sembrato come questa
creatura. «Lin Bai fa la parte della donna», disse. «Non io.»
Perique rise vedendo il suo disagio. «Se la polizia ti prende, sarai con-
dannato a morte. E anche Lai.»
«Ma crederesti che sono una donna? È impossibile.» Ji Fung si prese le
orecchie, le tirò fuori come fossero state manici di una brocca. «Guarda
qua. Sarei la donna con meno pretese di tutta la Cina.»
Perique si strinse nelle spalle. «Hai un'idea migliore?»
Ji Fung si girò verso Lin Bai. «Diglielo! Lo sai che non è possibile.»
Lin Bai girò la testa, sorridendo dietro le dita.
Ji Fung saltò su. Il profumo dei fiori lo fece vacillare. «Siete tutti contro
di me.»
«Smetti di lottare», lo sgridò Clarise a voce bassa. «Se combatti, nessu-
no ti crederà.»
Sentì la mano di Lin Bai sulla spalla. «Non essere così sconvolto, Ji
Fung. Mi piacerebbe vederti nei panni di una ragazza.» Ji Fung lasciò ca-
dere la testa e le gambe gli cedettero. Sapeva riconoscere il momento della
sconfitta.
«Spogliatevi», disse loro Clarise. «Prima che possiate diventare donne,
dovete lasciare uscire l'uomo.» Sollevò un rasoio che brillava.
Quando Perique riuscì a smettere di ridere abbastanza a lungo da prende-
re fiato, Ji Fung era a metà strada verso la porta. «Depilazione, Jung, è solo
per la depilazione.»
***
***
Lin Bai giaceva nudo sulla pancia, con la testa che gli girava, la bocca
asciutta come sabbia. Aveva le guance rigate di lacrime che erano cadute e
si erano asciugate. Perique era uscito da ore, ostintatamente ottimista, certo
che con il denaro e con quelli che chiamava i suoi contatti, sarebbe riuscito
a trovare Ji Fung.
Lin Bai non nutriva questa speranza. Lui sapeva cosa stava succedendo.
Tutti quelli che cercavano di amarlo morivano, quindi Ji Fung era morto.
Lin Bai non aveva contrastato la sua malasorte uccidendo Padron Lau: l'a-
veva solo allontanata per un po'. Adesso lei l'aveva trovato, e Ji Fung era
sicuramente divorato tra le sue mascelle.
Sapeva che doveva andarsene da quell'albergo prima che la sua malasor-
te si riversasse anche su Perique, che era piuttosto stupido e debole, ma
dolce, che aveva salvato la sua vita infelice e quella di Ji Fung. Ma forse il
veleno lo aveva già toccato. Inevitabilmente avrebbe toccato tutte le perso-
ne di cui gli importava. Sarebbe andato lontano, in mezzo alle montagne, e
sarebbe diventato un eremita. Ma sapeva che non sarebbe sopravvissuto a
due lune. Aveva il cuore di un attore. Sarebbe appassito e morto senza un
pubblico. Forse avrebbe dovuto...
Calde lacrime appassionate ricominciarono a scendere, e Lin Bai si roto-
lò su un fianco per lasciarle cadere lentamente nelle lenzuola di seta im-
pregnate di sudore. Raggiunse la bottiglia di whisky americano che aveva
vicino solo per scoprire che le coperte erano fradice del suo contenuto
puzzolente. Gettò la bottiglia vuota contro il muro. Non si ruppe come a-
veva sperato, ma cadde con un rumore sordo sul tappeto.
Lin Bai chiuse gli occhi. Un dolore intenso gli pulsava alla testa, aveva i
crampi allo stomaco per il dolore, e si rese conto che desiderava morire più
di ogni altra cosa. La morte avrebbe posto fine al suo dolore ma, soprattut-
to, avrebbe posto fine al dolore di coloro che gli stavano intorno.
Come fare? La finestra non era abbastanza alta. Perique aveva preso con
sé la pistola. C'erano i rasoi, ma il sangue gli avrebbe ricordato Padron
Lau. Non voleva morire nel modo in cui era morto Padron Lau.
Si guardò disperatamente intorno nella stanza, cercando lo strumento
della sua morte. Gli occhi gli caddero sul comodino, dove Perique aveva
appoggiato un mezzo vassoio di piccoli dolci al forno, pieni di pasta di
bacche rosse e di dolce oppio. Ieri Perique aveva avvertito lui e Ji Fung di
non mangiarne più di uno alla volta, perché erano molto forti.
Lin Bai iniziò a mangiare i dolci con rapidi morsi, mentre il sapore forte
gli inaridiva la bocca. Quando ne ebbe finiti quattro, il piatto gli cadde dal-
le mani. Si lasciò andare all'indietro e aspettò che il vuoto si impossessasse
di lui.
***
Nessuno di loro era mai stato nella città chiusa tra le mura di Kowloon,
ma tutti ne avevano sentito raccontare cose terribili. Il posto era un covo
brulicante di cattivi, dove albergava dissoluzione e decadenza. Un uomo
che entrasse di notte e una donna che fosse stata sufficientemente pazza da
entrarvi in qualsiasi momento, soprattutto se era bella, difficilmente avreb-
bero visto il mattino. Perique raccontò loro di posti squallidi dove erano
tenute le donne, drogate e incatenate, costrette a fare tutte le cose abomi-
nevoli che un cliente potesse immaginare. Per il giusto prezzo, disse Peri-
que, uno poteva persino mutilare o uccidere una ragazza.
Anche così, Lin Bai insistette per andare con loro. Non poteva passare
un'altra notte in attesa in albergo: disse che sarebbe impazzito. Ricordando
l'immagine del corpo floscio del suo amante disteso sul letto Ji Fung cedet-
te. Pensò che chiunque cercasse di interferire con Betty Lee avrebbe avuto
più di quanto non avesse desiderato, nessuno poteva aspettarsi che una ra-
gazza così schiva fosse capace di fare una capriola a mezz'aria e di dare un
doppio calcio volante abbastanza forte da spezzare un cranio.
La città tra le mura non fu all'altezza delle loro aspettative. La sua massa
claustrofobica di pietre e legno era quasi deserta. Una volta questo posto
era stato la fortezza Manchu contro gli inglesi, fortificata con muri dello
spessore di cinque metri, dominata dalla mano d'acciaio dello Yamen. Do-
po la presa di possesso degli inglesi il posto era diventato una terra di nes-
suno, governato solo dalla legge del coltello alla gola.
A Hong Kong, e in altre parti di Kowloon, la Festa del Fantasma Affa-
mato era in pieno svolgimento. Ji Fung e Lin Bai conoscevano bene questa
celebrazione, dal momento che includeva rappresentazioni speciali dell'O-
pera per intrattenere i morti. Piccoli falò spiccavano in ogni vicolo e vico-
letto, in ogni marciapiede e cortile. Il fumo che proveniva dai bastoncini
d'incenso si mischiava a quello dei falò. L'aria umida aveva un profumo
dolce, un po' di bruciato. Copie di carta di beni di prima necessità e di lus-
so, mobili, automobili, abiti, venivano bruciate in questa serata per proteg-
gere i propri antenati dal bisogno. Ji Fung pensò di nuovo al ragazzo che
era morto al suo posto, dato alle fiamme cosicché a suo padre non mancas-
se un figlio nell'aldilà.
Dentro alle mura, comunque, la festa stessa era come un fantasma, anche
incredibilmente affamato, sembrava. La maggior parte delle strutture ca-
denti erano vuote e scure. Alcune case erano così malmesse e ondeggianti
da dare la sensazione di essere sul punto di crollare, e di rimanere in piedi
solo perché erano sorrette dagli edifici che avevano a fianco, come un ca-
davere che fosse sostenuto da due storpi. Qua e là, dei minuscoli fuochi e-
rano alimentati da pezzi di ossa, e merda umana seccata, tenuti in vita da
anime prostrate che occasionalmente li nutrivano con regali ritagliati da
carta stampata a buon mercato. Le strade erano così strette che i ragazzi
dovevano passare davanti a queste misere celebrazioni in fila indiana per
evitare di bruciacchiarsi i piedi. Gli abitanti della città non prestavano loro
alcuna attenzione. La maggior parte non alzava nemmeno la testa al loro
passaggio, e quelli che lo facevano si affrettavano subito a distogliere lo
sguardo.
«È come se avessero paura di noi», sussurrò Lin Bai, mentre un ragazzo
muscoloso li guardava dalla soglia di un sudicio negozio, per poi nascon-
dercisi dentro.
«Pensano che siamo la Triade», disse Perique.
Ji Fung lo guardò. «Lo siamo.»
«Tu lo sei. Io sono in vacanza.» Perique evitò con cura una pozzanghera
di schifoso fango. «Shanghai sembrerà dannatamente bella dopo questo.»
Arrivarono al negozio di macellaio che Gong Sut Fo aveva nominato.
Teste di maiale arrosto erano in mostra in vetrina, con gli occhi che spor-
gevano dalle orbite, la pelle fragile e semitrasparente, le mandibole spezza-
te a metà e allargate in modo da mostrare due file di denti affilati come ra-
soi. Sopra di loro era appesa una fila di anatre mal conservate, ammuffite e
infestate da uova di mosche. Una singola candela bruciava nel negozio, e
alla sua luce un ragazzino stava scuoiando un cane. La massa colorata dei
suoi intestini giaceva accanto a lui. Il suo corpo nudo era macchiato di
sangue, e i suoi lunghi capelli neri ne erano completamente intrisi.
Si affrettarono a superare il negozio e girarono nello stretto vicolo che
stava alle sue spalle. Il vecchio chiosco del venditore di scarpe e la sua ca-
sa si trovavano in una leggera rientranza del muro dell'edificio del macel-
laio. Il suo territorio era segnato da un ammasso di ciabatte di pezza e san-
dali di pelle grezza. Dietro c'era una pentola per cucinare e un materasso.
Un vecchio mise da parte la ciotola di spaghetti mentre Ji Fung entrava
nel vicolo. La sua faccia scura era secca come la pelle dei sandali, ma i
suoi occhi erano acuti e brillanti.
«Scarpe per il giovane gentiluomo?» chiese.
«Mi piacerebbe comprare alcuni dei tuoi sandali di erba», disse Ji Fung,
provando la sensazione di essere ancora sul palcoscenico.
Il vecchio sorrise, rivelando un unico dente.
«Ah», disse. «Ho vergogna ad ammettere che me ne è rimasto solo u-
no.»
Allungò la mano nel mucchio di scarpe e tirò fuori un singolo sandalo
intrecciato di vecchio stile, come quelli indossati dai monaci.
«Comunque, della migliore qualità. Fatto a mano coi cannicci migliori.»
Ji Fung guardò alle sue spalle Perique e Lin Bai all'inizio del vicolo. Pe-
rique si strinse nelle spalle. Ma Lin Bai gli fece un leggero cenno di assen-
so, come aveva sempre fatto quando Ji Fung aveva bisogno di un suggeri-
mento.
Trasse un profondo sospiro e disse la sua battuta. «Me ne serve solo uno
per il viaggio che devo fare.» Poi estrasse la banconota che aveva piegato
con cura sul traghetto e la consegnò come gli era stato insegnato.
Il vecchio annuì, mentre le sue dita scure piene di nodi prendevano la
banconota e la nascondevano con una velocità maggiore di quello che gli
occhi di Ji Fung non potessero vedere. Sollevò la pentola rivelando così un
buco profondo, ne tolse una scatola di lacca rossa, ne spolverò via polvere
e cenere, e la mise nelle mani di Ji Fung.
Era più grossa di quanto lui si sarebbe aspettato. Abbastanza grande per-
ché fosse necessario reggerla con due mani, e aveva un'elaborata serratura
di ottone. Lui l'avrebbe dovuta portare al sicuro a Shanghai. Soppesandola
nella sua presa, faceva fatica anche a concepire il valore che questa sem-
plice scatola rappresentava. Non solo il valore monetario, ma la quantità di
fiducia che suo zio aveva riposto in lui. Ji Fung in silenzio promise allo
spirito di suo padre che la fratellanza non sarebbe stata delusa.
Il treno si era fermato di nuovo. Questa era la settima volta, e non ave-
vano nemmeno raggiunto Soochow.
Perique alzò gli occhi e scosse la testa, ma i ragazzi lo ignorarono, incol-
lati al finestrino circondato da orde di venditori ambulanti. Questa gente
era talmente abituata a vedere treni fermi sulle rotaie che andavano in giro
con la loro mercanzia, aspettando che succedesse. Quando accadeva, si af-
frettavano con i loro vassoi di merendine e tazze d'argilla di tè, ninnoli e
giocattoli. Perique era disgustato al vedere come questi bifolchi prolifera-
vano, come mosche o qualche altra specie di parassiti seccanti. Desiderava
che i suoi ragazzi non li incoraggiassero.
Quando alla fine Ji Fung e Lin Bai si sedettero di nuovo avevano le
braccia piene di paccottiglia. Pere marrone e palle di riso al vapore in fo-
glie di loto. Coni di carta pieni di spaghetti fritti in olio di semi. Uno spec-
chietto con un dragone rosso e oro sul dietro. Un granchio di bambù con le
antenne e le gambe che si muovevano. Una scimmia di latta dipinta su un
bastone.
Iniziarono a dividersi il cibo, scartando le molli foglie verdastre, tra nu-
vole di vapore, servendosi dai coni di carta con dei bastoncini eleganti. Pe-
rique storse il naso. «Come fate a mangiare quelle cose?»
«Sono buone!» disse Lin Bai. Il suo rossetto era quasi completamente
scomparso. Solo gli angoli della bocca erano ancora di un rosso brillante.
«Qua.» Ji Fung gli offrì una pera, ma Perique scosse la testa con violen-
za.
«Non hai imparato niente? Questi contadini usano la merda umana per
fertilizzare i loro raccolti. Il loro cibo è pieno di ogni tipo di malattie. Co-
lera, dissenteria.»
Lin Bai rise. «Nessuna malattia riesce a sopravvivere con questi.» Solle-
vò un peperoncino rosso rugoso tra i suoi bastoncini d'argento, poi se lo in-
filò in bocca.
«Inoltre», aggiunse Ji Fung, «quel cibo nella carrozza ristorante è terribi-
le. Ha il sapore di carne insipida bollita nel vomito di un bambino.»
Perique sibilò esasperato. Le sue speranze di trasformare questi animali
selvatici in giovani civilizzati diminuiva ogni giorno che passava.
I ragazzi si scambiarono uno sguardo di sbieco, e Ji Fung si allungò per
tirare le tende dello scompartimento.
«Adesso, solo un attimo», iniziò Perique, ma loro si erano già buttati
uno addosso all'altro, baciandosi e succhiandosi e gemendo e lasciandogli
vedere tutto, e lui si ricordò perché amava tanto quei due animaletti.
Quella notte, Ji Fung avrebbe potuto giurare che Perique li aveva trasci-
nati in tutti i bar e night club di Shanghai. Ogni posto era affollato di gente
che sembrava desiderare di divertirsi fino alla disperazione. Il jazz lubrifi-
cava la soffocante aria notturna. I bicchieri venivano riempiti, vuotati e
riempiti di nuovo. La folla che aveva creato questo carnevale improvvisato
si era riversata numerosa nelle strade, e i ragazzi lasciarono che li trasci-
nasse come una calda marea di alcol.
Ji Fung cercò di mantenersi a distanza da questa baldoria. Sotto il sorriso
gaio di ogni ubriaco sembrava nascondersi una disperazione profonda. Tra
la folla qui e là c'erano dei soldati, molti dei quali dolorosamente giovani,
e tutti bevevano come se si fosse trattato del loro ultimo giorno al mondo.
Le prostitute sciamavano come topi. Anche le più vecchie e le più malate
lavoravano alacremente. Tutti sembravano essere pronti ad afferrare l'ulti-
ma possibilità di divertirsi.
La notte perse presto interesse per Ji Fung, ma gli ci vollero ore per riu-
scire a trascinare Perique al Cathay Hotel.
In piedi per conto suo vicino alla finestra, Ji Fung guardava il porto non
ancora illuminato dall'alba. Riusciva a distinguere parecchie navi giappo-
nesi, tra cui una grande ammiraglia da cui sventolava un Sol Nascente. Si
sentiva profondamente a disagio e quando Lin Bai gli fece scivolare le
braccia calde attorno alla vita, Ji Fung indietreggiò.
«Le cose si mettono male, qui», sussurrò Lin Bai, appoggiando le labbra
sul collo di Ji Fung. «Riesci a sentirlo?»
Ji Fung annuì. «Penso che presto a Shanghai ci sarà la guerra.»
«Non solo a Shanghai.» Lin Bai appoggiò il mento sulla spalla di Ji
Fung e rimase a fissare il porto. «Voglio dire in tutta la Cina. Non stavi fa-
cendo attenzione stasera, ma tutti parlano della guerra. Della rivoluzione.
Conversazioni pazzesche. C'è battaglia dappertutto.»
Lin Bai afferrò Ji Fung per la vita, appena sopra il rigonfiamento dei
glutei. «Penso che ce ne dovremmo andare.»
Ji Fung girò la testa per guardare la faccia di Lin Bai. «Tornare a Hong
Kong?»
«No.» Lin Bai continuava a fissare fuori della finestra. «In America.»
«Non essere sciocco. Dove troveremmo il denaro?»
«Pei ce l'ha.»
Ji Fung si girò a guardare Perique, che dormiva agitato in un ammasso di
coperte.
«Lasciamoci alle spalle il vecchio mondo», disse Lin Bai. La sua pelle
nuda era calda e setosa contro la schiena di Ji Fung. «Lasciamoci alle spal-
le la sfortuna. Iniziamo una nuova vita a Hollywood, come abbiamo so-
gnato.»
Ji Fung si girò e prese Lin Bai tra le braccia. Le curve del corpo del suo
amante erano così preziose, così fragili. «Non posso lasciare la mia fami-
glia», disse.
Lin Bai si liberò, con gli occhi scuri e profondi. «Sono io la tua famiglia.
E anche Pei lo sarebbe, se glielo permettessi.»
Ji Fung stava in silenzio. Suo zio gli aveva restituito la sua identità per-
duta. Aveva dato a Ji Fung un lignaggio, una storia, lo aveva fatto sentire
legato non solo alla sua famiglia per sangue, ma alla più grande fratellanza
della Triade. E, dopo avere ritrovato il nipote a lungo dato per perduto, Ji
Fung non pensava che Gong Sut Fo sarebbe stato felice di perderlo di nuo-
vo. In effetti, se avesse fatto una qualunque cosa che avesse potuto far rite-
nere a suo zio di essere il figlio di sua madre, sospettava che non lo avreb-
be lasciato vivere.
«Bai», disse. Aveva la voce stanca, distrutta. «Per favore non costringer-
mi a scegliere.»
***
***
L'ospedale era una specie di inferno del tutto nuovo. I dottori e le infer-
miere si muovevano come sonnambuli attraverso un oceano di ferite, cura-
vano solo quelli che sembravano avere una possibilità di sopravvivere, e
agli altri iniettavano morfina e li lasciavano nei corridoi a morire. Era
completamente buio prima che Ji Fung riuscisse a ottenere che qualcuno
guardasse Lin Bai. Il dottore era inglese, appena più vecchio di Perique. I
suoi occhi azzurri erano cerchiati dalla fatica, e le mani erano coperte di
sangue fin oltre il gomito.
«Sua moglie ha una commozione cerebrale e, temo, una frattura del cra-
nio all'attaccatura dei capelli. Deve cercare di tenere la ferita pulita, dal
momento che un'infezione al cervello può provocarne la morte.»
Il dottore prese un fazzoletto e si asciugò il sudore dalla fronte.
«Le darei delle medicine, ma non ne sono rimaste. Le darei della garza
per medicare la ferita, ma non ne abbiamo abbastanza. Non c'è nient'altro
che possa fare per lei.»
Fuori la serata era calda e ripugnante. I vivi avevano fatto del loro me-
glio per ripulire le strade dai morti, ma il compito era estremamente gravo-
so e il caldo non perdonava. La puzza di bruciato, di carne che marciva a-
veva già iniziato a penetrare l'umida brezza estiva. Camminavano lungo il
Bund, dove il fiume rinfrescava un po' l'aria, alla ricerca del loro albergo.
Non riuscirono a trovarlo. Le navi giapponesi erano ancora all'ancora nel-
l'acqua scura, immobile, forse vantandosi per la città che stavano distrug-
gendo.
Ji Fung teneva Lin Bai mentre vomitava sangue e cioccolato contro l'e-
dificio della Banca di Hong Kong e di Shanghai. L'odore della bile era
quasi il benvenuto, perché almeno sapeva di vita.
«Ji Fung», sussurrò Lin Bai, quasi come se avesse letto nel pensiero del
suo amante. «Sto morendo.»
«Zitto», gli sussurrò Ji Fung. «Smettila con questi discorsi che portano
sfortuna.»
«La sfortuna è la sola cosa che abbiamo», si lamentò Lin Bai. «Il mondo
sta morendo. Non c'è via di scampo.»
«Non preoccuparti.» Ji Fung lisciò all'indietro i capelli sudati e sporchi
di sangue che cadevano sul viso di Lin Bai. «Stiamo andando a casa a
Hong Kong. Là saremo al sicuro.»
«Non c'è via di scampo», ripeté Lin Bai. «Mi sento le vertigini...» Si al-
lontanò strisciando da Ji Fung e iniziò di nuovo a vomitare.
Si era formata una folla dall'altra parte della strada, che gridava e spin-
geva. Avvicinandosi di qualche passo, Ji Fung vide che la confusione era
concentrata attorno a un veicolo militare aperto. La folla aveva afferrato
gli occupanti e li stava trascinando nella strada, attaccandoli con pietre,
lunghe schegge di legno appuntite, qualunque cosa mortale capitasse loro
tra le mani.
Mentre Ji Fung guardava, un giovane soldato giapponese si liberò dalla
folla e scappò con passo incerto attraversando la strada verso di lui. La
faccia dell'uomo era una maschera di sangue, aveva il naso rotto, le labbra
e le orecchie spezzate. La divisa era a brandelli. Sotto i capelli tagliati cor-
ti, Ji Fung riusciva a vedere dei profondi tagli sulla testa. In parecchi punti
si poteva vedere il cranio che brillava. Una ferita che dava l'impressione di
un semolino infernale ne esponeva il cervello.
Il soldato afferrò Ji Fung per il bavero e urlò qualcosa in una rima fatta
di sillabe spezzate. Poi iniziò a cadere. Prima di rendersi completamente
conto di ciò che stava facendo Ji Fung lo prese e lo abbassò con delicatez-
za per terra. Le mani del soldato trovarono le sue, e Ji Fung le tenne con
forza. I giapponesi potevano essere diavoli di invasori e torturatori. Ma i
giapponesi erano un'astrazione. Questo giovane era come lui, una pedina in
un sistema implacabile, messo in moto da forze al di là della loro com-
prensione.
Ji Fung cullò il soldato morente, fissandolo negli occhi. Una delle pupil-
le era esplosa e riempiva l'iride di un nero senza fondo. Mentre Ji Fung fis-
sava in quell'occhio, gli sembrò che le immagini del cervello danneggiato
del soldato si imprimessero nel suo. Gente che non aveva mai visto, pae-
saggi che non conosceva. Una stanza silenziosa dove un padrone meditava,
mentre il suo corpo immobile era un vascello colmo delle immagini fluide
del combattimento. Una ragazza con un kimono ricamato, con dei boccioli
di ciliegia intrecciati nei lunghi capelli neri.
Una bolla di sangue spesso si gonfiò e schizzò fuori dalle labbra dell'uo-
mo. Il suo corpo si irrigidì tra le braccia di Ji Fung, e un profondo rantolo
lungo e bagnato arrivò dal torace. Mentre la vita abbandonava il soldato, le
immagini che si formavano nella testa di Ji Fung sembrarono venire dal fu-
turo. Vide il corpo dell'uomo che si decomponeva nel punto in cui giaceva,
che esplodeva nel calore umido, invaso dalle mosche e maturo dei frutti
della decomposizione. Vide un vecchio e una vecchia che leggevano una
lettera, mentre le loro facce si afflosciavano per la pena. Vide quella che
sembrava una lunga fila di bambini fantasmi in un corridoio buio, semitra-
sparenti e privi di sostanza, che si allungavano fino all'infinito. I bambini
che quest'uomo avrebbe avuto, forse, e i loro figli, e i figli dei loro figli. Le
loro manine erano piegate sul torace, come se sapessero che non sarebbero
mai nati.
Le dita del soldato si chiusero sulla sua manica, un riflesso della morte.
E all'improvviso Ji Fung pensò che si trovava in una strana città, la città in
cui quest'uomo aveva vissuto con la sua famiglia. Qualcosa era caduto dal
cielo, una bomba, ma più terribile di qualsiasi bomba avesse mai visto
Shanghai. Stava scappando da un calore terribile che gli cuoceva la pelle e
gli dava la sensazione che i suoi occhi stessero friggendo nelle orbite. I
suoi organi stavano cuocendo dentro di lui. Non poteva andare più in là.
Cadde, rotolandosi nel nero che provocava vesciche, e fissò un'immagi-
ne che era decisamente al di là della sua possibilità di comprensione. Una
corona di fuoco che ingigantiva si alzò nel cielo striato. Sotto c'era una
gran colonna di fumo in cui riusciva a vedere delle forme annerite che si
contorcevano, ondeggiando. Dev'essere alto un milione di li. Come era
possibile che qualcuno vivesse in un mondo in cui poteva accadere una co-
sa del genere? Non era sicuro se aveva chiuso gli occhi o se era stato acce-
cato, ma qualsiasi cosa era preferibile alla vista di quella nuvola infernale.
Ji Fung sbatté gli occhi. Era piegato sulle scale dell'edificio della Banca
di Hong Kong e Shanghai e cullava tra le braccia un uomo morto. Dietro
di lui, poteva udire Lin Bai che vomitava e sputava; sembrava che fossero
passati solo pochi secondi. Fissò la faccia distrutta del soldato. «Cosa mi
hai mostrato?» sussurrò. «Avresti vissuto per vedere queste cose? Se è co-
sì, allora ringrazia di essere morto stasera.»
Posò il corpo del soldato e andò ad aiutare il suo amante.
Sul ponte affollato di una vecchia giunca che si chiamava Devil Fox, Ji
Fung si sedette con la schiena contro una montagna di corda di canapa che
stava marcendo, cullando in grembo la testa di Lin Bai. Era una buona po-
sizione, che occasionalmente riceveva l'ombra delle consunte vele marroni
che lo facevano pensare a enormi ali di insetto ricurve. Ji Fung aveva
scambiato il suo fermacravatte di brillanti, l'orologio d'oro di Perique e tut-
to il resto a parte il braccialetto di giada di Lin Bai in cambio di un passag-
gio a Hong Kong, ringraziando Perique in silenzio per l'ultima frenetica
giornata di shopping.
Adesso i loro visi erano bruciati dal sole e dal vento e avevano le labbra
secche per il sale. Ji Fung non aveva mangiato niente da quando aveva di-
viso l'ultimo candito con Lin Bai due giorni prima. Mentre lasciava che il
cioccolato gli si sciogliesse in bocca era difficile credere che solo due
giorni prima era stato sulla porta del negozio di via Nanking ad ascoltare
«le ragazze» che litigavano. Sulla giunca c'era ancora dell'acqua fresca, ma
c'erano talmente tante persone a bordo, che non sarebbe durata che uno o
due giorni.
Lin Bai si agitò sul suo grembo e si lamentò a bassa voce, un suono do-
loroso e senza speranza. Ji Fung fece del suo meglio per calmarlo, control-
lando le bende piene di croste che gli coprivano la ferita alla tempia. Era
lurida e puzzolente, ma Ji Fung aveva usato l'ultima striscia di tessuto della
sua camicia e non voleva iniziare a strappare la giacca, poiché era l'unica
protezione che avevano contro il sole.
«Hing», sussurrò Lin Bai. Fratellone, un soprannome con cui non chia-
mava Ji Fung da anni. «Ho sete.»
«Presto potrai avere dell'acqua. Verranno con il secchio.» Ji Fung mas-
saggiò la guancia di Lin Bai. Nessuno dei due aveva ancora bisogno di far-
si la barba, ma sulla mascella di Lin Bai c'era una sottilissima ombra di
sottili peli neri. Ji Fung si chiese per quanto tempo ancora il suo amante
sarebbe stato in grado di passare per una donna, e cosa sarebbe successo se
li avessero scoperti. La folla di rifugiati si sarebbe coalizzata contro di lo-
ro, li avrebbe gettati in mare per risparmiare qualche sorsata d'acqua? L'o-
dio era così profondo? O in tempi disperati come questi i tabù meno im-
portanti si sarebbero persi lungo la strada?
Per fortuna, era improbabile che le persone che erano maggiormente vi-
cine a loro notassero qualcosa di strano: un vecchio quasi cieco che porta-
va su una corda tre gabbie squisitamente intagliate piene di grilli; un paio
di donne esauste con una manciata di bambini dagli occhi incavati che ri-
chiedevano tutta la loro attenzione.
Quella sera, il tempo divenne brutto. Erano entrati nella scia di un tifone,
e non erano in grado di dire se riuscivano a starne ai margini o se vi si sta-
vano dirigendo in mezzo. Ji Fung coprì Lin Bai con la giacca e si raggomi-
tolò sotto la pioggia senza nient'altro che il sottile panciotto di seta e i pan-
taloni macchiati di sangue. Il mare sotto di loro si agitava furioso. La fac-
cia di Lin Bai era mortalmente pallida, e le labbra erano di un blu livido.
Occasionalmente cadeva nel delirio, balbettando qualcosa a Ji Fung o a Pe-
rique o a Padron Lau, poi singhiozzando come se dovesse spezzarglisi il
cuore. Ji Fung cantava ogni canzone che conosceva, cercando di calmarlo,
ma Lin Bai non si univa a lui, nemmeno quando Ji Fung dimenticava le
parole.
Il vecchio con le gabbie di grilli diede loro qualche sorsata di vino di
prugne da una bottiglietta che aveva nascosto in una scarpa di pezza, di-
cendo che avrebbe fatto qualsiasi cosa per aiutare due giovani amanti.
Raccontò loro una storia di due amanti che si erano trasformati in grilli per
sfuggire a dei genitori che non approvavano la loro unione. Ji Fung fu lieto
della pioggia senza fine perché poteva mascherare le sue lacrime.
Al mattino il vecchio era morto, con la bocca senza denti piena di piog-
gia. L'equipaggio lo buttò in mare e prese le graziose gabbie di grilli. Ji
Fung riuscì a mettere al sicuro la bottiglia di vino di prugne, che adesso era
quasi vuota. Guardò le acque agitate che sbatacchiavano la fragile struttura
del vecchio finché degli squali di passaggio la tirarono sotto. Lui rabbrividì
e si strinse più vicino a Lin Bai. Mancavano ancora tre giorni per arrivare a
Hong Kong.
La pioggia non cessava. Invece il mare divenne più violento. Guardare il
cielo era quasi come guardare un velo d'argento che lentamente discendeva
prendendo la forma di una spirale. A Ji Fung dolevano le ossa per il freddo
e l'umidità e per dover lottare contro il vento. Arrivavano onde più alte del-
la barca, muri di morte di un verde grigiastro che li avrebbero inghiottiti in
un secondo se il vento avesse cambiato direzione. A volte l'acqua copriva
il ponte, lavando via vomito e fagotti non legati. La gente perdeva le poche
cose preziose che era riuscita a mettere in salvo dalle macerie di Shanghai.
Le onde intorno a loro erano disseminate di vestiti da sposa di seta, teiere
dorate, ritratti di antenati dai visi duri e scatole di lacca simili a quella che
Lin Bai aveva rotto in via Nanking. Così tanti tesori, adesso privi di valore,
proprio come una manciata di sabbia.
L'acqua iniziò a chiedere in pegno bambini e vecchi che non ce la face-
vano più a tener duro. I passeggeri si legavano agli alberi e al sartiame tri-
stemente sicuri che sarebbero annegati quasi sicuramente se la giunca si
fosse capovolta, ma pronti a rischiare piuttosto che essere buttati in mare.
Ji Fung usò un grosso pezzo di canapa bagnata per legarsi con Lin Bai a un
pesante uncino di ferro che si trovava sul ponte. In mente non aveva alcun
pensiero che non fosse di sopravvivenza.
Quando arrivarono al porto di Hong Kong, più della metà dei passeggeri
se n'era andata.
Il tifone che si era portato dietro la barca nella sua scia era già arrivato
sull'isola. Era come se la distruzione di Shanghai li avesse seguiti a casa,
usando l'acqua e il vento anziché il fuoco per attaccare il paesaggio fami-
liare. Le giunche e i sampan nel porto erano stati fissati saldamente ma le
onde li sbatacchiavano ancora qua e là crudelmente. Una bandiera di av-
vertimento sventolava in cima a un lungo palo sul molo. Due triangoli uno
in cima all'altro, vertice contro vertice. Ji Fung pensò che il simbolo sem-
brava una clessidra a cui stesse per finire il tempo.
Gli ci volle quasi tutta la notte per trovare un albergo. Migliaia di viag-
giatori, di rifugiati e di persone di Kowloon che avevano perso l'ultimo
traghetto avevano cercato un buco in attesa che passasse la tempesta. Alla
fine riuscì a scambiare l'ultimo braccialetto di giada di Lin Bai per una mi-
nuscola stanza in un albergo di terz'ordine che ospitava per lo più marinai
stranieri.
Posò Lin Bai sul materasso macchiato, gli tolse le calze strappate e lo
straccio bagnato che il suo vestito era diventato, e lo coprì con una minu-
scola coperta grigia. Non era necessario: la carne nuda di Lin Bai irradiava
il calore della malattia come una fornace ben rifornita.
«Hing... Di' al Padrone che sto troppo male per andare da lui. Non lo
sopporto stasera.»
Respirò faticosamente, e Ji Fung gli prese la mano. Sembrava un artiglio
senza carne, quasi troppo caldo per tenerlo. «Il Padrone è morto», disse Ji
Fung. «Non ti toccherà mai più.»
«Chen Bau dovrà fare la parte del Serpente Bianco.» Gli occhi giallastri
di Lin Bai vagarono da una parte all'altra senza vedere. «Digli di usare il
vestito con le piume di quaglia.»
Ji Fung vide una goccia di cristallo cadere sul collo scarno di Lin Bai.
Forse che il dannato tetto stava perdendo? La toccò con un dito, poi l'as-
saggiò. Calda e salata. Una lacrima, la sua.
«Ji Fung?» la voce di Lin Bai era spessa e bassa, arrochita dall'infezione.
«Un giorno lasceremo questo posto, vero? Andremo a Hollywood. Non ci
saranno più delle noiose opere cinesi per noi. Saremo cowboy e gangster.»
«Va bene», disse Ji Fung. Si spogliò e scivolò sotto le coperte, prenden-
do il corpo scheletrico e bollente di Lin Bai tra le braccia. «Quando starai
meglio, ti prometto che ce ne andremo da questo posto. Ma prima mi devi
promettere che migliorerai. Me lo prometti?»
Ma Lin Bai era silenzioso, il suo respiro affannoso e tormentato. Ji Fung
passò il resto della notte tenendolo tra le braccia, cercando di pensare a tut-
te le cose che aveva sempre voluto dire, mormorandole tutte nei capelli su-
daticci dietro il collo di Lin Bai. A volte cantava dei brani d'opera, facendo
finta che gli mancassero le parole, cercando di convincere Lin Bai a unirsi
a lui.
«Ma quelli che erano sinceri alla fine si sono uniti.» Si ricordava delle
membra inerti di Lin Bai tra le sue braccia. «Anche se a migliaia di chilo-
metri di distanza...»
Ma non riusciva a cantare la strofa successiva, anche se l'aveva incisa
nella mente bassa e chiara.
Anche se strappati l'uno all'altro dalla morte...
Ji Fung guardava in giù il viso bianco di Lin Bai e si rendeva conto che
stava morendo. Mentre una luce rossastra filtrò nel cielo, lui giaceva in a-
scolto dell'ultimo respiro del suo amante, lungo e lento, il suono della sua
anima che scivolava fuori dalle sue labbra socchiuse.
Ji Fung baciò quelle labbra. Erano secche, leggermente dolci, immobili
come la morte stessa.
Lui giacque con il corpo di Lin Bai tra le braccia per un lungo tempo,
mentre ascoltava la tempesta che infuriava di fuori. Non aveva paura: sa-
peva che Lin Bai non gli avrebbe mai fatto del male, lo aveva saputo anche
quando aveva la pistola puntata alla faccia. Ma quando sentì che il freddo
si impadroniva del corpo che aveva tra le braccia, rabbrividì e si sedette
per vestirsi.
Mentre allacciava i piccoli bottoni intarsiati, sentì una sporgenza nella
tasca sinistra. Vi infilò la mano e scoprì l'anello dimenticato di Sincere e il
sigillo di giada che una volta era stato il ricettacolo di tutte le sue speranze
e dei suoi sogni. Il gioiello rosso sangue era abbagliante come lo era stato
quando Lin Bai lo aveva indicato a Perique nella vetrinetta, un migliaio di
anni prima.
Lui aveva immaginato l'espressione sul viso di Lin Bai quando glielo
avesse fatto scivolare sul dito sottile. Ma adesso era troppo tardi per que-
sto. Il mondo era morto. Lin Bai era morto. Non era rimasto niente. La fa-
miglia che aveva significato così tanto per lui sembrava non aver più valo-
re senza Lin Bai a dividerla con lui. Inutile come una manciata di sabbia.
Si raggomitolò nel letto e singhiozzò sulla spalla del suo amante che stava
diventando freddo, desiderando di essere morto.
Ma mentre la giornata passava, scoprì che il suo desiderio non si realiz-
zava. Aveva il corpo rigido, pieno di dolori e coperto di lividi, molto lon-
tano dalla consolazione inerte della morte. A meno che avesse voluto ucci-
dersi, avrebbe dovuto vivere. Si girava e rigirava tra le mani l'anello e il si-
gillo. Mentre la luce del sole si dileguava, anche il tifone si allontanava.
Un silenzio limpido, fatato cadde sulla città. Era arrivato l'occhio del ci-
clone e Ji Fung sentì un piano concretizzarsi dentro di lui.
Vendere l'anello gli avrebbe dato abbastanza denaro per le due cose di
cui aveva maggiormente bisogno.
Per prima cosa un biglietto per l'America. In secondo luogo, una botti-
glia di cherosene.
Pensava che Lin Bai avrebbe approvato entrambi gli acquisti.
Gong Sut Fo stava prendendosi le sue soddisfazioni con una cantante
americana, una bellezza dai capelli rossi e con lunghe gambe, occhi ambra-
ti e capezzoli rosa corallo. Aveva un temperamento altero come i suoi co-
lori, e questo incontro era costato molto a Gong Sut Fo sia in denaro che in
tranquillità. Quando un servo pallido e tremante lo interruppe con quattro
colpi alla porta, divenne furioso.
«Osi disturbarmi?» Gong Sut Fo si buttò addosso una vestaglia di seta
nera e rossa. «Che cosa c'è che non può aspettare finché un uomo non ha
finito con... non ha finito?»
«Un fantasma, Gwan.» Davvero un fantasma. Gwan era una parola usata
in segno di rispetto, fantasma significava che si trattava di una cosa che
non si poteva discutere davanti alla cantante, e il servo aveva la stessa e-
spressione che avrebbe avuto se qualcuno gli avesse ucciso l'unico figlio.
La cantante capiva un po' di cantonese. Si tirò la coperta sul seno caden-
te e si accigliò. «Un fantasma? Di cosa sta parlando?»
Seccato dalla piega presa dagli avvenimenti, con l'uccello che si rinsec-
chiva come una vecchia rapa, Gong Sut Fo scoprì che la voce piatta del-
l'americana gli dava sui nervi. Le baciò le dita curate. «Mimi... mia dol-
ce...» trasse un profondo sospiro, ricordando la sensazione carezzevole del
suo corpo. «Giuro che tornerò da te al più presto.»
Mentre si affrettava giù dalle scale, poteva sentire le grida nel vicolo die-
tro la cucina. Spinse via il servo ossequioso per farsi strada e si diresse ri-
soluto verso la folla di cuochi e di inservienti, fuori della porta di servizio,
nel vicolo.
L'odore lo colpì immediatamente, l'odore indimenticabile che si era inci-
so nella sua memoria otto anni prima in un corridoio del piano superiore
della casa di suo fratello. Era un odore di grasso che colava, di capelli che
friggevano e di carne, ripugnante ma in qualche modo stuzzicante.
C'era un cadavere che bruciava nel vicolo.
«Pazzi!» sputò, spingendo i servi verso la porta della cucina. «Volete
che tutto il vicinato vada in fiamme? Andate. Prendete dell'acqua!» I servi
sciocchi formarono immediatamente una fila per portare secchi e bacinelle
d'acqua. Anche così, passarono parecchi minuti prima che riuscissero a
spegnere l'incendio.
Gong Sut Fo si piegò a esaminare il corpo. Aveva gli arti raggrinziti, e si
erano ripiegati nella posizione fetale. La faccia era l'apertura di un incubo
di carne carbonizzata e di ossa strinate. Ma i piedi non erano quasi per
niente bruciati e lui non fece fatica a riconoscere le lucide scarpe bianche e
nere che aveva ordinato a Chi Gwai di dare a suo nipote. Gong Sut Fo sen-
tì una strana sensazione al torace, come se stesse sprofondando e vide che
il cadavere teneva stretto qualcosa in mano.
Fu difficile aprire i pugni stretti, e riuscì a farlo solo rompendogli alcune
dita. Andarono in pezzi come degli spaghetti bruciacchiati. Alla fine trovò
quello che stava cercando.
La giada era stata incrinata dal calore, ma i caratteri ricurvi portavano
ancora il nome di suo nipote.
Il servo che aveva disturbato Gong Sut Fo durante l'amplesso adesso si
inginocchiò davanti a lui, tremando ancora più violentemente di prima.
Aveva in mano un pezzo di carta piegato.
«Questo è stato trovato sulla porta della cucina», disse, e se la diede a
gambe non appena Gong Sut Fo ebbe preso il pezzo di carta.
Le parole in inglese erano scritte con una calligrafia disordinata, infanti-
le. Il biglietto diceva semplicemente: «Sono il figlio di mia madre».
Quando il loro padrone tornò in casa, i servi gettarono una vecchia co-
perta sui resti fumanti del cadavere e mandarono via dal vicolo una piccola
folla di curiosi. Nella confusione della ritirata nessuno si accorse dell'alta
ragazza insignificante con un fazzoletto grigio tirato sulle larghe orecchie.
Nessuno si chiese perché stava sorridendo, anche se il suo viso era pieno di
lacrime.
1940-1949
A Cavallo del nero
di Charles L. Grant
Quando si alzò il sole, era bianco come l'estate, e le ombre che gettava
non erano per niente ombre, ma semplicemente punti nell'aria dove le cose
si andavano a nascondere fino al ritorno della luna. In una piccola stalla,
passata attraverso troppe intemperie per essere pittoresca, un paio di caval-
li si mossero con difficoltà; in una piccola casupola di due stanze troppo in
rovina per essere davvero comoda, le assi scricchiolavano e un bollitore fi-
schiò debolmente mentre la brezza scivolava attraverso la finestra piena di
fenditure per morire sul pavimento spoglio.
Quando il bollitore si fermò, non ci fu più alcun suono.
Nel cortile sul davanti, che ospitava prevalentemente fango sbiadito ed
erba piegata, una lucertola dalla coda blu guizzava da una pietra all'altra, si
immobilizzava, guizzava di nuovo via, scivolando sotto il basso porticato
dove il sole non poteva arrivare e il calore non era opprimente come una
fornace.
Dov'era l'orizzonte e in quali direzioni si sarebbe potuto stagliare al di là
delle montagne, se queste avessero avuto un colore, se la foschia non ne
avesse macchiato le vette ammorbidendone i contorni?
Nel portico era seduto un uomo, che reggeva tra le mani una tazza di lat-
ta con del caffè. Non doveva combattere contro il freddo, ma lui sentì un
brivido, e sorseggiò il liquido denso come se in qualche modo l'inverno
avesse trovato la strada per penetrare nel suo midollo.
Quando ebbe finito, appoggiò la tazza vicino alla sedia e guardò la stra-
da nera che si snodava davanti a quella che di questi tempi passava per ca-
sa sua.
La terra si srotolava senza uniformità, e là fuori nel deserto c'erano sal-
via e pini marittimi, cactus e arbusti, ciottoli vaganti con la forma modella-
ta dal vento, e diritto davanti a lui in distanza, una fila di alberi dalla ricca
chioma che delimitavano le anse di uno stretto fiume che appariva minac-
cioso ma non si avvicinava mai.
Non si mosse nulla.
Un'ora più tardi trasse un lungo sospiro e si costrinse ad alzarsi. Si sti-
racchiò, si sfregò un occhio con la nocca, e si stiracchiò di nuovo. Era un
uomo che non aveva spessore finché non si arrabbiava, il cui volto non a-
veva espressione finché la rabbia non tirava le pieghe cotte dal sole e strin-
geva gli occhi foschi e cupi.
Portava una camicia scozzese con le maniche arrotolate, due bottoni a-
perti, il colletto rovinato e sfilacciato. Jeans. Scarponi consunti. Una cintu-
ra di pelle resa sottile dall'uso. Uno Stetson con la tesa calata.
Guardava la strada.
Non si mosse nulla.
Fece un cenno con la testa, lentamente, e lentamente si girò, scendendo
dal portico per dirigersi verso la stalla relativamente fresca. Lì diede da
mangiare e da bere al nero ombroso, diede da mangiare e sellò la tranquilla
roana, lasciò che il nero si facesse strada nel recinto parzialmente erboso
irrigato dalla sorgente, dove si diresse immediatamente verso la falsa pro-
messa di ombra, sotto a un vecchio pioppo. La cavalla non era proprio pel-
le e ossa ma al solo guardarla chiunque avrebbe capito che una buona cor-
sa l'avrebbe sicuramente uccisa.
Quando raggiunge l'albero, girò la testa.
L'uomo annuì, una promessa, e si girò, massaggiando il collo della vec-
chia roana, sussurrandole alle orecchie, adulandola, dicendole che aveva la
sensazione che non sarebbero stati soli a lungo.
Una volta in sella, col cappello basso, lasciò che lei trovasse la strada per
uscire, seguendo il ciglio tra la carreggiata e il vasto fossato che la delimi-
tava. Si muovevano con lentezza, l'uomo e la cavalla dalla lunga coda, solo
di rado succedeva che avessero fretta. Quella mattina era in ritardo. Di so-
lito, quando usciva, se ne andava appena dopo l'alba, prima che la giornata
avesse la possibilità di accendere il suo fuoco bianco. C'era stato un sogno,
comunque, con le facce lucide di compagni assenti aspettati a lungo di cui
sente da molto la mancanza: anche loro erano soli e, come lui, stavano cer-
cando.
Cavalcò in direzione est, verso una città che era poco visibile a causa
degli avvallamenti del terreno, senza preoccuparsi del calore del sole. Non
aveva senso andare più velocemente, la giornata e la distanza li avrebbero
traditi. Nemmeno quando, guardandosi alle spalle, vide la nuvola di polve-
re che muoveva verso di lui. Non si fermò. Continuò a cavalcare. Un mo-
tore fendeva l'aria.
Non si mosse nulla.
Nemmeno la roana.
Alla fine, per un attimo la macchina e la cavalla procedettero affiancati,
ignorandosi finché la macchina accelerò e andò ad accostare sul ciglio un
centinaio di metri più avanti. La roana fu costretta a prendere la strada,
sbuffando e drizzando le orecchie.
Il conducente si sporse fuori del finestrino, scosse la testa, e fissò il ca-
valiere attraverso dei sottili occhiali da sole che non rispecchiavano altro
che il cielo.
«Tu», disse il conducente, con un sorriso, «sei un figlio di puttana diffi-
cile da trovare, lo sai?» Una faccia rotonda, un po' abbronzata. Denti da
pescecane.
Il cavaliere guardò pazientemente verso il basso, senza dire niente.
«Per amor del cielo, Rob, quando diavolo hai intenzione di mettere un
telefono?» Matt Dumont si sfregò le sopracciglia, e appoggiò il braccio sul
finestrino aperto. «Dannazione, odio venire fin qua. È come guidare in una
maledetta fornace.»
Rob Garland mosse le labbra, forse in un sorriso, forse no. «Allora non
venire.» Una voce, molto più profonda del motore, o della notte nel deser-
to.
«Come diavolo faccio altrimenti a mettermi in contatto?» Una voce così
piatta, che la maggior parte della gente faceva fatica a sentirla. «Gesù.»
Diede un colpetto delicato alla portiera. «Ti piace? Una Roadmaster. L'ho
avuta per quattro soldi quando il vecchio Davidson ha fatto fagotto per an-
dare a Los Angeles il mese scorso. Ha comprato delle azioni della Frazer,
ha detto che non voleva essere sleale», ragliò. «Ci puoi credere? Un ban-
chiere sleale?» Ringhiò di nuovo.
«Ho da fare, Matt. Cosa vuoi?»
«Te.»
Rob grugnì.
«Giuro, Rob, è tutto. Voglio solo parlare. È una cosa così terribile? Be-
viamo qualcosa da Dinah, cosa ne dici?»
Nello spostare l'altro braccio, Dumont toccò il clacson con il gomito.
Lo strombettio improvviso fu smorzato dall'oppressione del caldo.
La roana non si mosse nemmeno.
«Non hai bisogno di me, Matt. Diavolo, non ti piaccio nemmeno.»
Dumont piegò la testa e sorrise, mettendo in mostra una fessura tra i
denti davanti. «E allora?»
«Allora non c'è niente che tu possa dire che non abbia già sentito almeno
un centinaio di volte in precedenza. Non mi è piaciuto quando le ho sentite
allora, e sono sicuro che non mi piacerà sentirle da Dinah.» Si portò le dita
alla tesa del cappello. «Guida piano, Matt. Se ti capita qualcosa da queste
parti, non ti troverà nessuno.»
«Tu vivi da queste parti, tu mi troverai.»
Bob toccò il collo della roana per farla muovere. «No», disse. «Non cre-
do.»
«Dannazione, Garland», gli urlò alle spalle Dumont, al colmo dell'esa-
sperazione. «La guerra è finita, idiota. Quando imparerai che i tempi cam-
biano?»
Un momento più tardi la macchina accelerò superandolo, col clacson che
suonava, e le gomme che sollevavano sabbia, poi si inerpicò per una salita
e scomparve alla vista.
Rob e la roana continuarono a cavalcare, lentamente come il caldo che
cavalcava con loro.
Era seccato che Dumont si fosse fatto vedere, seccato che la sua quiete
fosse stata disturbata da quel veicolo col muso lungo. Non aveva niente
contro le macchine, ma erano completamente inutili qui fuori, e i cretini
come Dumont guidavano come se avessero avuto il diavolo sopra il tetto.
Sperava che l'uomo non fosse in città al suo arrivo. Non aveva alcun desi-
derio di parlare. Aveva già parlato, e combattuto, e corso, e sanguinato.
Quello era successo allora, adesso era diverso.
Poi superarono un edificio che una volta era stato un deposito di vagoni,
quando la vecchia miniera era ancora attiva, ma le miniere erano vuote dal-
la morte di Franklin Delano Roosevelt, e le rotaie erano scomparse da un
pezzo, forgiate in cisterne, il tetto era crollato, le porte erano a pezzi, le fi-
nestre senza vetri, c'erano tracce di coyote nella polvere, e i rampicanti
crescevano dove una volta il macchinista stava in piedi ad asciugarsi la
fronte con un fazzoletto che era quasi lungo come il suo braccio.
Superarono un vecchio vagone che era sprofondato nel fossato, le cui
ruote ormai erano un ricordo, con i dadi arrugginiti, il fondo pieno di sassi
e di erbacce e delle ossa che erano i resti del pranzo di un falco. Mancava-
no delle assi: ne aveva prese un paio anche lui quando l'inverno aveva reso
necessario il fuoco.
Superarono degli operai che stavano impiantando dei pali per il telefono,
che tendevano dei cavi, chiedendosi ad alta voce chi diavolo con la testa a
posto potesse ordinare tutto questo, qua fuori in mezzo al niente, in un po-
sto che non portava da nessuna parte.
Lo ignorarono.
Andava bene.
Un falco in volo si allontanò all'alzarsi del sole.
Le ombre sprofondavano a terra.
Alla fine, senza rendersi conto di quanto tempo fosse passato, portò la
roana oltre le grandi porte aperte dell'unica stalla rimasta in città, scese da
cavallo, e disse a Solomon Winks di trattar bene la ragazza, che di questi
tempi sentiva ancora di più il caldo.
«Non dovrebbe cavalcarla così a lungo in giornate come questa, signor
Garland», si intromise il garzone di stalla, scuotendo la testa dispiaciuto in
direzione della cavalla, parlandogli, liberandolo della sella, afferrando un
panno umido per rinfrescare un po' la bestia.
«Abbiamo camminato.»
Il nero sospirò. «La cavalla ha camminato, lei cavalcava.»
Rob fece una risata tranquilla, dando alla cavalla una zolletta di zucche-
ro, permettendogli di strofinarsi sul suo torace.
Solomon, che non indossava altro che una tuta da lavoro e una maglietta
senza maniche, versava dell'acqua in un abbeveratoio. «Le dispiace se le
chiedo come mai è venuto, signor Garland? Pensavo che non l'avrei vista
per un altro paio di settimane.»
«Sono venuto a dare un'occhiata, figliolo, solo a dare un'occhiata.»
L'uomo dai capelli bianchi lo guardò di traverso, mettendo in evidenza
una fronte piena di cicatrici, come se qualcuno lo avesse morso nel sonno.
«Lei non dà mai solo un'occhiata.»
Rob si strinse nelle spalle. «Quando ne senti il bisogno ti devi muovere,
tutto qua.»
Diede una pacca sulla groppa della roana in segno di saluto. Poi indicò il
garzone. «Non pensarci troppo, Solomon, mi hai sentito? Che tu ci creda o
no, a volte uno si annoia tutto solo laggiù.»
Solomon annuì.
Rob sapeva che non ci credeva.
Dopo aver preso col palmo della mano un po' d'acqua dall'abbeveratoio
ed essersela buttata in faccia, uscì dall'edificio lungo e alto, annusando gli
odori del fieno e del sudore, del fresco e del caldo, finché raggiunse la por-
ta che conduceva al retro del negozio dei mangimi. Lo attraversò e tornò in
strada senza salutare l'impiegato e si fermò sotto la tenda con le frange che
non si muoveva.
Macchine accostate al marciapiede, macchine al semaforo nuovo, pedoni
in giacca e cravatta, in jeans e in abiti da passeggio che avevano sostituito
gli abiti da lavoro, quando i loro proprietari avevano lasciato le loro occu-
pazioni per tornare a casa nel deserto, dall'oceano. Una volta li conosceva
tutti, adesso ne conosceva a stento una decina. Si spostavano, i giovani lo
facevano, andavano nelle città sulla costa, al di là delle montagne, e nelle
città oltre le pianure.
I vecchi si fermavano.
I giovani morivano.
I vecchi no.
E anche il posto non era quasi per niente cambiato, la lunga strada prin-
cipale che brillava minacciosamente, mentre il calore in distanza dava
l'impressione che si sollevassero delle braccia fantasma, a nascondere le
montagne, facendo contorcere i pali che avevano sostituito gli alberi, coi
cavi al posto dei rami e traverse al posto dei ramoscelli. Gli edifici erano
prevalentemente in legno, qualcuno di pietra, pochi di mattoni. Le case, le
chiese, la scuola erano tutte sulle strade che stavano alle spalle dei grandi
edifici a due piani che ospitavano gli uffici e i negozi.
Una piccola città distesa nel deserto che aspettava di essere scoperta da
una grande città.
Due isolati più in là, si infilò nella porta del primo ristorante della zona,
il più piccolo, il meno frequentato, con le sue tovaglie di tela cerata a qua-
dri rossi, i ventilatori da pavimento e un bancone lungo la parete sinistra,
dei séparé lungo quella di destra, una manciata di tavoli in mezzo e sul
fondo. Una tenda semitrasparente tirata per metà sulla finestra teneva fuori
il riverbero. Tre uomini nel primo séparé, dei cappelli appesi al muro, nes-
suno ai tavoli.
Nessuno al bancone finché non si sedette sullo sgabello più vicino alla
cassa, lasciò cadere il cappello sullo sgabello a fianco del suo, e prese un
menù che si trovava tra lo zucchero e il ketchup. Mentre guardava la lista,
senza davvero leggerla, dal momento che l'avrebbe potuta recitare a me-
moria, sentì qualche risata sommessa alle sue spalle, dei sussurri scambiati
velocemente e una risata aperta.
Per un attimo chiuse gli occhi.
Ai vecchi tempi, pensò con desiderio, ai vecchi tempi.
In quell'attimo di buio benedetto udì il leggero cigolio della porta bascu-
lante, nella parete posteriore, e i passi di una donna.
«Ehi», disse uno degli uomini, «Ehi, cowboy.»
Quando aperse gli occhi, la vide in piedi davanti a lui, con le braccia
conserte sotto il seno, con una sopracciglia folta sollevata. I capelli biondi
erano tagliati corti. La divisa che indossava era fatta in parti uguali di mac-
chie pallide e di colore sbiadito da troppo tempo per avere ancora un no-
me.
«Ehi, tu cowboy.»
Il suo viso aveva zigomi alti e le guance incavate, labbra scure e spesse,
occhi scuri e raramente spalancati. Una volta avrebbe ballato, avrebbe det-
to le parole giuste, fatto le promesse necessarie, qualsiasi cosa pur di vede-
re quello che c'era sotto i bottoni che le tiravano sul davanti. Ma il secolo
andava avanti e alla sua età lui si limitava a guardare, a sorridere e ad a-
spettare la domanda.
«Sessantadue?» chiese lei, con la punta della lingua sull'angolo della
bocca. «No.»
«Dannazione.»
«Ehi, cowboy!»
Chiuse di nuovo gli occhi, li riaprì, e le scrutò il viso alla ricerca di un
segno qualsiasi.
È il tuo turno, gli rispose lei con un cenno; c'è così dannatamente caldo
per pensare!
Sapeva come si sentiva lei, e fece girare lo sgabello verso il séparé, e gli
uomini con le loro stupide risate mentre gli leggevano gli anni sul viso e
sul dorso delle mani posate distrattamente sulle cosce.
«Mi spiace, vecchio», disse uno di loro. «Pensavamo che fossi qualcun
altro.»
Gli altri due repressero il riso.
«Forse potresti aver ragione», rispose con calma.
Aspettava.
Non si mosse nulla.
Solo il ronzio e il rombo delle pale dei ventilatori negli angoli in fondo.
Da qualche parte, fuori, il nitrito di un cavallo, gli zoccoli che sbattevano
sul terreno duro.
Il più giovane e il più alto dei tre scivolò con facilità fuori dal séparé, la
cravatta leggermente storta, gli ampi baveri che gli facevano sembrare il
torace più piccolo, mentre i pantaloni abbondanti gli regalavano gambe da
gigante. Si muoveva con cautela, scrutando Rob attraverso la polvere ap-
pesa nell'aria come una stella. Quando uno dei suoi amici fece un sibilo nei
suoi confronti, scosse il capo con violenza, una volta, poi si fece scivolare i
pollici nella cintura alta.
«Hai idea di chi sono?» chiese. Aveva lo spazio tra il naso e il labbro
coperto dai baffi, come Douglas Fairbanks e i capelli pettinati all'indietro
come Tyrone Power.
Rob si strinse nelle spalle.
«Clark», disse stancamente la cameriera, «va' da qualche altra parte, va
bene? Non ho bisogno di questo.»
Clark Mitchell le ammiccò, oltre la spalla di Rob. «Dinah, nessun pro-
blema. Sto solo facendo una domanda, tutto qua.»
Il suo compagno rise.
Rob guardava.
Clark si appollaiò sul bordo del tavolo, con un piede che dondolava.
«Allora, hai idea di chi sono?»
La diligenza che correva rumorosamente per la strada tirata da sei cavalli
agitati, una donna e una bambina che indossavano due cappelli simili,
quattro cavalieri su cavalli imbizzarriti. Un uomo che sbirciava da una fi-
nestra, una gran stella d'argento appuntata sul suo gilè di pelle. Rob lo
guardò: poi distolse lo guardo.
«Ehi», disse Clark a voce bassa. Senza gentilezza.
Rob gli voltò le spalle, dette un colpetto sul menù, aggrottò un sopracci-
glio verso Dinah. «Caffè, uova, pane tostato, pancetta e prosciutto, e se ce
l'hai burro.»
«Il razionamento è finito», disse lei, con un sorriso rapido. «Sai, davvero
dovresti venire in città più spesso.»
Lui fece una risata silenziosa, ma non perse l'espressione interrogativa
del suo sguardo.
O l'apprensione.
Non aveva niente a che fare con i tre uomini dietro di lui.
«Ehi, cowboy, sto parlando con te.»
Lei prese il menù dal bancone e lo rimise al suo posto. «Fammi un favo-
re», disse, dirigendosi verso la cucina. «Non fare confusione, sono sola
oggi.»
Una mano si allungò oltre la coscia sullo sgabello e lo fece girare.
Clark sorrise: lì non c'era niente.
«Non sei molto gentile, vecchio, lo sai? Ti faccio una domanda e tu mi
ignori. Come ti aspetti di essere una stella se mi ignori?»
Rob si accigliò.
«Vedete?» disse Clark agli altri. «Ve lo avevo detto che non mi conosce-
va.»
Senza dare la sensazione di essersi mosso, Rob si alzò, afferrò i baveri
del vestito, lo sollevò, e senza sforzo portò il giovane al séparé, lasciando-
lo cadere sul sedile. Si sporse verso di lui, adesso aveva una mano sul nodo
della cravatta del giovane, mentre con l'altra la tirava, facendo un cappio.
«Non mi importa per niente chi sei», disse con calma, «e decisamente
non mi interessa sapere perché sei qua. Toccami ancora, e ti spello. Vivo.»
La faccia di Clark si riempì di chiazze, gli occhi gli uscirono dalle orbite.
I suoi amici erano a bocca aperta. Il cappio si strinse.
«Sei un tizio della televisione», disse Rob, facendosi più vicino, parlan-
do a voce più bassa. «Non mi fai impressione.»
Lasciò andare la cravatta con una contorsione e uno scatto del polso, e il
giovane boccheggiò, sputacchiò, crollò in avanti, mentre alla fine i suoi
amici si decidevano a venire in suo aiuto.
Rob guardò in basso verso di loro.
«Avevate ragione, a proposito», disse loro, ritornando verso il bancone.
«Impossibile», disse con disprezzo uno di loro. «Sei troppo dannatamen-
te vecchio.»
Rob sedette, sorridendo. «Figliolo, tu non sai cosa voglia dire vecchio.»
Tornò a voltare loro la schiena.
Aspettò finché sentì la porta a due battenti fermarsi dopo avere cigolato
a lungo, aspettò finché i passi si allontanarono rumorosamente sulla passe-
rella d'assi, aspettò finché il rumore degli speroni fu soffocato dal borbottio
tossicchiante di un autobus, aspettò finché il sottile odore della pistola ben
oliata fu sostituito dall'aroma del suo cibo.
I tre uomini se ne erano andati.
Dinah appoggiò un fianco al bancone e lo guardò mangiare, senza dire
nulla, dicendo tutto, mentre lui guardava lei che lo guardava, e immagina-
va che ormai dovesse avere circa quarantacinque anni. Non aveva un mari-
to, lui era andato a combattere nel Pacifico e non era tornato, forse era
morto, forse no; non aveva figli, e non aveva una famiglia di cui parlare.
Aveva il ristorante, tutto qua.
E un paio di volte al mese, aveva lui, sullo sgabello vicino al bancone,
che la guardava mentre lo osservava.
«Rob?» disse, con una voce giovane, incerta e un po' spaventata. Lui
mangiò.
«Solomon è venuto sul retro mente stavo cucinando.»
Lui grugnì. «Quell'uomo parla troppo.»
«Dice...»
Rob la guardò, nient'altro, e lei si girò a prendere uno straccio pulito per
passare un bancone che non era stato toccato da nient'altro che dal piatto di
Rob, e da un leggero strato di polvere.
Era stato a Los Angeles, a San Diego, aveva preso il treno da Denver a
Saint Louis. Non era, come si lamentava amaramente Dumont con tutti
quelli che lo volevano stare a sentire, un uomo che viveva nel passato, che
odiava il presente e sabotava il futuro. Gli piaceva andare al cinema, il te-
lefono lo affascinava quanto lo irritava, e più di una volta aveva benedetto
l'aria condizionata nel bar di Clay Poplar. Non che, si corresse, funzionasse
sempre, specialmente nei giorni più caldi di fine luglio.
Ma i tempi cambiavano.
Prima o poi, glielo avrebbe dovuto dire.
Prima o poi, i suoi amici sarebbero arrivati.
Dumont lo incrociò che stava uscendo dal negozio del ferramenta, con
un piccolo sacchetto di chiodi in una mano, un martello nell'altra. Aveva
un corpo rotondo che andava d'accordo con la faccia rotonda, le gambe
corte e due mani piccole e tozze, e il vestito che indossava era troppo co-
stoso e di sartoria per essere stato acquistato da quelle parti.
«Parlami», gli chiese.
«Sto andando a casa.»
«Ti seguirò come un cagnolino.»
Rob rise. «Sono certo che lo farai.»
In distanza, il grido solitario di una locomotiva, col fumo che si alzava
sopra i tetti perché non c'era vento che se lo portasse via.
Un bastardo stava scavando alla base di un palo per legare i cavalli, fiu-
tando con insistenza.
Un portatore cinese superava rapidamente l'angolo, li vide, si inchinò e
scomparve alla vista.
«Smettila», disse Dumont.
Rob continuava a camminare. Che l'uomo lo seguisse o no, non poteva
importargliene di meno.
«Ascolta Rob», disse l'uomo, tenendo la voce bassa, avvicinandosi un
po', ma senza toccarlo, «c'è un tizio in città, si chiama Clark Mitchell. La-
vora per la National Broadcasting Company, NBC, come alla radio, vo-
gliono allargare la loro rete televisiva. Sai di cosa si tratta, una rete? La
gente a New York vede lo stesso programma allo stesso momento della
gente di Los Angeles. E tutti i posti in mezzo? Stanno sistemando dei ripe-
titori e delle stazioni locali. Rob, hai visto un apparecchio televisivo, vero?
Gesù, hai idea di cosa sto parlando?»
Rob continuava a camminare, l'uomo poteva continuare o no.
«Almeno dimmi che hai sentito parlare di Ed Sullivan e di Milton Ber-
le.»
Con riluttanza Rob annuì.
Dumont volse lo sguardo al cielo. «Grazie, Dio, per i piccoli favori. A
ogni modo, questo Mitchell è come un reporter. Lui va alla televisione alla
sera e racconta le notizie. È una persona davvero importante da questa par-
te del Mississippi.»
«Ho già una radio», disse Rob, guardando dentro la vetrina di un nego-
zio, pensando che era arrivato il momento di comprarsi un paio di camicie
nuove. Ne aveva quattro, una aveva troppe toppe per essere usata in com-
pagnia, e due avevano delle macchie. Usava la quarta solo occasionalmen-
te.
Più tardi decise, forse domani.
«Qui stiamo parlando del futuro, Rob», insistette Dumont, afferrandogli
il braccio e poi lasciandolo andare come se ne fosse stato bruciato. «Tutto
quello che voglio sono dieci acri, dieci acri pidocchiosi. Cristo, quanti ne
hai? Cinque, seimila? Che sarebbero per te dieci acri di dannata sabbia in
meno?»
Rob guardò in basso verso di lui. «Dieci acri di meno di dannata sab-
bia.»
«Molto divertente.» Dumont si asciugò la faccia con un fazzoletto già
macchiato di sudore. «Stiamo parlando della ricchezza, Rob. Tu vendi a
me, io vendo a loro, e poi dividiamo.»
Sull'angolo, Rob si fermò per lasciar passare una diligenza postale, e il
guidatore con il fucile lo salutò toccandosi il cappello. Dentro una donna
con un cappello pieno di piume sorrise timidamente.
«Potrei venderglielo direttamente io», disse Rob, attraversando la strada.
«No, non lo faresti. Ma lo venderesti a me, vero?»
Superarono il negozio di mangime, e Rob si fermò all'angolo dell'edifi-
cio. «No.»
«Perché, dannazione?» Dumont chiese alla sua schiena.
Rob non rispose.
«Gesù Cristo, se lanciano la dannata Bomba, tutto quello che ti rimarrà
saranno cinque, seimila acri dove non riuscirai a far crescere nemmeno
della dannata erbaccia.»
Solomon se n'era andato.
Rob sellò la roana e la portò all'aperto.
Dumont si allontanò dall'animale, asciugandosi di nuovo la faccia. «Rob,
per favore mi devi ascoltare. Mitchell non rimarrà qua per sempre. Se non
prendiamo una decisione adesso, lui sceglierà un altro posto.» Si aggrappò
alla staffa. «Gesù, Rob, devi aiutarmi a uscire da questa situazione. Sei l'u-
nica speranza che mi è rimasta.»
La staffa si mosse, la mano si allontanò.
«Che Dio ti maledica, Garland! Arrivi in questo modo, a cavallo di quel
dannato animale, e spaventi a morte metà della città.»
Rob si sporse in avanti e diede un colpetto sulla spalla dell'uomo. «Be-
ne», disse. «Hanno ragione.»
Mentre cavalcava verso il ciglio della strada, un terzetto di ragazzini
passava a gran velocità in una decappottabile.
Risero e suonarono il clacson.
La roana non si mosse.
***
***
Amy guidò fino a lui e si sedette sui gradini ai suoi piedi, con la gonna a
pieghe raccolta attorno alle gambe. Parlarono dei bambini, di quelli che e-
rano i suoi preferiti e di quelli che la facevano diventare matta e di quelli
che si mettevano a piangere perché i loro papà si svegliavano la notte, u-
dendo gli spari e i rumori dei cacciabombardieri, dei cannoni e delle grana-
te.
Erano passati quattro anni, e si continuava a morire.
«E adesso questo», disse lei con rabbia.
Lui accese una lanterna e l'appese al gancio che pendeva dal soffitto del
portico. La luce non era tanta, ma almeno lui non stava ascoltando un fan-
tasma.
«Che cosa?» disse, sedendosi di nuovo, accavallando una gamba sopra
l'altra, sorseggiando dalla tazza che aveva riempito di nuovo.
«Sai quello che voglio dire.» Lei allungò una mano e gli toccò lo stivale,
lo afferrò e tirò finché lui avvicinò la sedia, e lei appoggiò la guancia al
suo ginocchio. La mano che lui aveva libera ondeggiava sulla testa di lei,
sentendola senza toccarla, mentre il fuoco della lanterna era un riflesso del
fuoco tra i suoi capelli. «Voglio dire che hai visto così tante cose, Rob.
Macchine e aerei e più guerre di quante penso che tu voglia ammettere. Tu
sei un libro di storia in movimento, e non lo sai nemmeno.» Quando lei
spostò leggermente il peso del corpo un dito le sfiorò i capelli e si spostò.
«Io sono stata a scuola, e non so niente, e sono io che dovrei dire a quei
ragazzi di non avere paura.»
Lui non riuscì a evitarlo; le toccò i capelli, modellandoglieli sul cranio e
seguendone la caduta fino alla spina dorsale.
Lei sospirò e gli abbracciò la gamba.
I coyote cantarono.
Una diligenza passò veloce come un fulmine, con i cavalli che sbuffava-
no e la frusta che schioccava.
Fuori dal buio.
Nel buio.
«Ti odio», disse sognante.
Lui grugnì.
Lei si spostò facendoglisi più vicina. «Perché hanno paura di te?»
Lui non sapeva come rispondere, quindi rimase in silenzio, sperando che
questa volta, con questa donna, non ci fosse altro tempo oltre a quello che
avevano.
Così giovane, e così presto sarebbe stata vecchia.
«Stavo pensando di andare alla riunione in quella tenda domani.»
«Oh?»
Lei rise, solo un po'. «Mi dispiace per quel predicatore, tutto qua. È così
piccolo. Non so se nessuno lo prenderà sul serio.»
Lo avrebbero fatto; sapeva che lo avrebbero fatto.
Lo fanno sempre.
E non sbagliano mai.
Lei si ritrasse e si girò per appoggiarsi al palo, con la luce della lampada
che gettava delle ombre morbide sulla sua faccia, facendola sembrare più
giovane. «Io so chi sei, sai?»
Lui non disse niente.
Lei rise e l'età svanì. «Sono un'insegnante, ricordi? Posso mettere insie-
me le cose, leggere, scrivere e fare cose magiche di questo tipo.»
Lui non disse niente.
«Tu sei un fuorilegge.»
Lui inspirò profondamente, poi espirò lentamente.
Lei scosse la testa stupita. «Siamo praticamente alla metà del secolo, e
abbiamo un fuorilegge vivo e vegeto appena fuori della città.» La lanterna
le si riflesse negli occhi. «Pensavo che fossero tutti morti.»
I coyote cantarono.
«Lo sono», sussurrò lui.
Una folata di vento, la lanterna scricchiolò e si agitò, facendo entrare e
uscire il suo viso dall'ombra.
«È questo il motivo per cui hanno così tanta paura di te? Perché pensano
che tu...»
Un'automobile dal muso lungo accostò dietro la station wagon dalle
fiancate di legno di Amy. I fari tagliarono la notte e si spensero. Il motore
tossì. Sbatté una portiera. Lei si sistemò la gonna, accigliandosi per l'intru-
sione, guardando lui alla ricerca di un indizio su cosa fare, cosa dire, ma
lui si limitò a scuotere la testa, in modo che lei quasi non se ne accorse, si
fece solo un po' più piccolo come se all'improvviso si fosse ritrovato ad-
dosso altri decenni, pesantissimi.
Lei sbatté le palpebre, poi sorrise, e si girò mentre un uomo attraversava
il cortile facendo scricchiolare la ghiaia.
«Signor Garland, buona sera.»
Rob annuì. «Signor Mitchell.»
«Mi riconosce finalmente. Lo prenderò come un complimento.» Mi-
tchell si fermò quando raggiunse la luce, mise un piede sul portico, si spor-
se in avanti, appoggiandosi a un braccio. Buttò il cappello all'indietro, si
toccò il mento. «E lei è l'insegnante, vero? Signorina...?»
«Russell», disse lei in modo compassato.
Lui annuì. «Naturalmente.» Un sorriso a Rob, non da squalo, solo un lu-
po. «Mi sembra, signorina Russell, che ci sia una celebrità in mezzo a
noi.»
«È così?»
«Sì, certo. Il signor Garland è quello che noi nel mondo della televisione
chiamiamo una personalità.»
Il suo sguardo non si spostò.
«Davvero?»
«Su, signorina Russell. Mi sta dicendo che non lo sapeva?» Denti da lu-
po. «Robert Garland, data di nascita sconosciuta, pena di morte non appli-
cabile, nessun nome di comodo come Billy the Kid o Six-Gun Morgan, ha
passato parecchio tempo in diverse galere e prigioni in tutto il West. Per
assassinio. Sfortunatamente sembra che non ci sia in giro una prigione in
grado di trattenerlo.»
«È così?»
Mitchell smise di ridere. «È un assassino, signorina Russell. Sono pronto
a scommettere che ci sono ancora dei mandati di cattura col suo nome in
ogni stato a est delle Montagne Rocciose e a ovest del Mississippi. Cosa ne
dice lei, signor Garland?»
«Faccia un colpo da maestro», disse Rob con voce roca. «Chiami la leg-
ge e faccia arrestare un vecchio stanco che si siede a fatica sul suo vecchio
cavallo. Un colpo da maestro.»
«Non voglio farla arrestare, signor Garland. Voglio solo la sua terra.»
La lanterna ondeggiava ancora cigolando.
La faccia di Mitchell entrava e usciva dall'ombra.
«Sa», disse, ignorando Amy adesso, «che ci sono già più di un milione
di apparecchi televisivi nel paese? Ha un'idea di quanta gente veda la mia
faccia ogni settimana? Sa quanta gente vedrebbe la sua faccia ogni sera se
io parlassi di lei?» Abbassò la testa, poi guardò di nuovo in su. «Non ci sa-
rebbe un poliziotto in questo paese che non conoscerebbe il suo nome.»
Si raddrizzò, lisciandosi la cravatta con il palmo della mano.
Amy disse: «Perché?» Indicò la notte. «Ci sono decine e decine di città
in cui potrebbe andare e ognuna di loro è più grande della nostra. Perché
diavolo vuole proprio noi? Perché sta facendo pressione su Rob?»
Lui si toccò il cappello e si allontanò, guardandosi alle spalle, e disse:
«Perché posso».
Li aveva incontrati tutti, ne aveva amati alcuni, era andato avanti quando
non riusciva più a guardarli morire, quando non riusciva più a sopportare
lo sguardo nei loro occhi o i deboli baci che gli davano, o il tocco tremante
delle loro dita soffici sulla sua pelle, quando iniziavano a farsi delle do-
mande, e iniziavano, alla fine, a odiarne il suono e la vista, che si allonta-
nava.
Quando vedeva come funzionava.
Bevve.
Quella notte aveva cavalcato là, la notte in cui ci fu il sole, e aveva senti-
to il vento e aveva visto il nero che il sole si era lasciato alle spalle. Non lo
spaventò né lo eccitò.
Ma lo intristì, solo un po'.
Ci si era abituato, solo un po': i posti, le facce, le uccisioni e i salvataggi,
il whisky, l'idromele, il vino, l'acqua; le capanne, le torri, le lunghe strade e
i passi di montagna.
Le cavalcate.
Bevve.
***
Tuttavia non c'era mai stato un momento come quello di oggi, nessun
momento in cui potesse finalmente vedere la fine della strada. Terra o pie-
tra, cemento o sassi, c'era sempre una curva, si attraversava un fiume, che
scorreva tortuoso su una montagna, scivolando in una vallata di cui non si
era accorto mentre viaggiava.
Lo rendeva un po' triste.
Solo un po'.
Non per la fine della strada, ma per loro e perché non sapevano.
Era vecchio.
Era lento.
Immaginava, mentre la luce della luna svaniva, che forse stava davvero
arrivando il momento.
Ma lo rendeva triste.
Solo un po'.
Svuotò la bottiglia.
Dormì.
Non sognò.
Si svegliò quando il sole stava quasi per tramontare, si girò per sedersi,
si tenne la testa tra le mani, e fissò il pavimento.
perché posso
Si diresse alla porta e si appoggiò allo stipite, strizzando gli occhi alla
luce del giorno che stava morendo, guardando i camion e le carrozze,
scuotendo la testa con un semplice sorriso mentre occasionalmente scivo-
lava avanti e indietro nel tempo, allora e adesso. Quando un lungo autobus
grigio passò senza fermarsi, distolse lo sguardo chiedendosi come mai
Dumont e Amy fossero gli unici a vedere. Non aveva pensato che fossero
così speciali, un imbroglione e un'insegnante, ma non aveva pensato nep-
pure che quel sole notturno fosse così speciale.
E non lo era.
Non nel modo a cui pensavano loro.
Lui si girò e rimase in piedi nel portico, analizzando l'aria, in ascolto, e
seppe che i suoi amici non sarebbero arrivati quella notte. Per un attimo ne
rimase perplesso, era quasi sicuro che ci sarebbero stati, finché non passò
un camion con parecchie casse sul fondo. Sulle fiancate c'era una scritta.
Apparecchi televisivi. Uno di questi, ne era sicuro, era per Clay Poplar e
sua moglie.
Nessuna bomba qua.
Ma, comunque, la fine.
«Bene», disse a bassa voce. Aveva finalmente preso una decisione.
Si mosse nella grande stanza, raccogliendo le cose che pensava gli sa-
rebbe piaciuto mettere in salvo, e rimettendole al loro posto, quando si rese
conto di quello che stava facendo. Mentre si muoveva, sollevando la pol-
vere, respirò profondamente, e canticchiò senza tono, continuando a tocca-
re, finché il giorno non se ne fu andato. Poi allungò la mano sotto il letto e
ne estrasse una vecchia valigia, con le cinghie di pelle consumata e le fini-
ture di ottone ossidate. Il cuoio si spezzò quando lo toccò, il coperchio si
deformò quando lo sollevò e lui usò entrambe le mani per sollevare il nero
che stava lì dentro e metterlo sul materasso.
«Bene», disse all'abbigliamento che non usava da così tanto tempo.
«Bene.»
Si spogliò.
Si vestì.
Raccolse il cappello, con la tesa ampia e nero, e uscì sul portico.
I coyote cantarono.
Lui rispose.
Una pioggia di meteore balenò nel cielo bruciando, balenò morendo, la-
sciando nella sua scia tracce di luce senza speranza.
Girò intorno alla baracca fino alle stalle, ancora non completamente si-
curo di dover cavalcare stasera finché non entrò e vide che la roana giace-
va sul fianco nel suo recinto.
«Oh, Signore», sussurrò, tanto per se stesso quanto per la cavalla. Le si
inginocchiò al fianco, e le massaggiò il fianco caldo, suggerendole con un
sussurro che sarebbe andato tutto bene, vecchia mia, tu non ci sarai, non
adesso, non stavolta.
Quando si alzò, con le giunture che scoppiavano, la schiena rigida, un
nitrito basso nel recinto a fianco lo fece girare, sollevare un sopracciglio
senza dire niente, mentre portava il nero slanciato nel cortile e lo sellava.
E, mentre lo faceva, guardava il cielo, guardava la strada, pensando che
c'era ancora qualcosa che poteva fare prima che dovesse fare quello che
doveva fare.
Un passo, e con facilità si ritrovò in groppa al cavallo.
Un complimento, un tocco ed erano in strada, e viaggiavano nel centro,
niente alle loro spalle e niente davanti a loro.
I coyote smisero di cantare.
E immediatamente si fermò alle porte della stalla, da dove internamente
si vedeva una luce.
Il nero attraversò rumorosamente lo spazio aperto, quasi impennandosi,
e Solomon uscì, accigliato, finché non vide Rob.
«Oh, Gesù», disse il vecchio. Si guardò intorno freneticamente, dicendo
a Rob con ogni sobbalzo e ogni sospiro che stava pensando di scappare,
che voleva nascondersi, ma che era terrorizzato a fare qualsiasi cosa che
non fosse di rimanere lì in piedi. Poi si mise una mano sulla faccia finché
smise di tremare. «Avevo intenzione di andare alla riunione alla tenda, ma
tutto questo lavoro... Dannazione, avrei dovuto andarci.» Si sporse a guar-
dare oltre il nero, si accigliò di nuovo, e scrutò il cortile. «Sei solo?»
«Per un po'», rispose Rob. «Non ti devi preoccupare.»
Solomon quasi si afflosciò per quanto grande era il suo sollievo. «Ti di-
spiace se ti chiedo per quanto?»
Rob rise. «Sei una peste, Solomon. Vuoi sapere troppo.»
«Ne ho il diritto.»
Rob ci pensò sopra e sorrise. «Non molto, per come vanno le cose. Ma
troppo per te. Va bene?»
«Diavolo no. Vivrò per sempre.»
L'uomo sul nero si abbassò a stringere la mano del nero, a lungo e con
forza, e fece girare il cavallo per dirigersi sulla strada principale.
Cavalcando nel centro della strada.
Le luci della strada e delle case e dei negozi si abbassavano mentre pas-
sava, e non tornavano più a brillare.
Si fermò una seconda volta quando raggiunse la taverna dell'Horseshoe.
Scese da cavallo e spinse la porta, senza preoccuparsi del silenzio che ave-
va interrotto il pianista a metà di una nota, né delle occhiate che ricevette
dagli uomini ai tavoli sul fondo, vicino al juke-box. Andò diritto al bar e si
sedette su uno sgabello vicino a Dumont. Il barista era un giovane che riu-
scì a stento a non rimanere a bocca spalancata quando vide Rob, poi men-
tre la sorpresa veniva sostituita da un sogghigno si girò a dire una parola
alle due donne che sedevano all'estremità del bar. Loro guardarono in su e
ridacchiarono.
«Cosa diavolo vuoi?» gli chiese Dumont.
Rob mise la mano nella tasca della camicia e ne tirò fuori un rotolo di
biglietti legati con uno spago. Prese la mano dell'uomo e gli mise il denaro
nel palmo, chiudendogli le dita intorno.
«Esci, Matt», disse, abbassando la voce. «Sali su quella tua bella Road-
master, e vattene.»
Dumont fissò i biglietti, sbatté gli occhi una volta, e si alzò. «Da che
parte?» disse, dirigendosi alla porta.
«Non ha importanza», gli disse Rob, mentre buttava un biglietto sul
banco per pagare quello che Dumont aveva bevuto, poi si alzò e lo seguì.
Fuori, senza perdere tempo, si sedette sul nero e guardò Dumont che si
affrettava a correre via, e poi, essendosi ricordato qualcosa di vitale, si fer-
mava, e tornava indietro. Si allungò verso la staffa, ma senza toccarla.
«Perché io?» chiese.
Rob gli fece una smorfia. «Clay è alla riunione.»
«Figlio di puttana.»
«Forse. Forse no.»
Dumont annuì e se ne andò, senza guardarsi indietro, svoltando oltre
l'angolo dove l'albero che reggeva il poster si ergeva da solo tra i rifiuti
delle sue foglie cadute.
Il nero agitò la testa e sbuffò.
Cavalcarono.
Le luci si abbassavano, scomparendo, una o due esplodendo in un breve
bagliore.
Zoccoli, zoccoli metallici, che echeggiavano sulla pietra e sul legno mol-
to dopo essersi lasciati la città alle spalle.
Vide la luce in distanza, un bianco brillante, reso ancora più brillante dal
fatto che la notte era così buia.
Continuarono a cavalcare.
Oltrepassarono un buco in un improvvisato recinto di corda, oltre il qua-
le c'erano parcheggiate parecchie decine di automobili e una manciata di
camioncini intorno a un grande tendone da circo. Su alcuni pali vicino al-
l'entrata ardevano delle torce, abbastanza in alto anche per un uomo alto.
Sui cavi dei tiranti c'erano delle decorazioni. Dei pennoni si piegavano sul-
la cima.
Poteva udire una voce provenire dall'interno, ma non riusciva a capire le
parole. Non che avesse importanza. Sapeva quello che dicevano: il peccato
e la corruzione, la salvezza e la dannazione, l'ascesa e la caduta in un abis-
so nero avvolto dal fuoco.
Entrò cavalcando, tenendo il nero a freno, quando il centinaio di persone
o più che si trovavano sulle sedie da campeggio si resero conto che lui era
là.
Davanti, su di un palco alto, il piccolo predicatore nel suo vestito nero,
che teneva in alto la sua Bibbia, si bloccò nel bel mezzo di un verso, con la
bocca aperta, gli occhi spalancati, un dito che puntava al soffitto di stoffa.
«Tu!» gridò il predicatore. «Come osi!»
Rob lo ignorò.
Spinse il nero in avanti, nel corridoio centrale, guardando le facce alla
ricerca di quella di cui aveva bisogno.
«Tu! Osi! Nella casa del Signore!»
Amy sedeva nel corridoio.
Lui la vide, sorrise, continuò a cavalcare.
«Vattene, Satana!» ordinò il predicatore.
Quando il nero raggiunse il palco, sbuffò, tese le orecchie all'indietro,
pestò gli zoccoli poi si girò.
Nessuno parlò, nessuno gridò, nessuno pregò, nessuno si mosse.
Rob risalì il corridoio, lentamente, senza un suono, finché si trovò di
nuovo davanti Amy.
Si era mezzo alzata, lasciandovisi ricadere quando lui la raggiunse, si
sporse in avanti e le disse: «Di' a Jean e Pete che i bufali stanno arrivan-
do.»
Si raddrizzò prima che lei potesse parlare, scrutò le facce finché lo vide,
compiaciuto ed elegante in un nuovo abito gessato, col cappello in grem-
bo, guardandosi intorno come se tutti avessero dovuto conoscere la sua
faccia.
«Satana!» gridò il predicatore, il primo suono che si udì per qualche
tempo.
Poi il vento iniziò a gonfiare e a far ondeggiare le pareti della tenda, e i
pennoni e le decorazioni si spezzarono, con rumore di spari e di tuono.
Rob estrasse la pistola e mirò a Clark Mitchell.
«Con me», disse semplicemente.
Mitchell rise e si strinse nelle spalle.
Armò il cane.
«Con me.»
Mitchell si lisciò la cravatta, incerto e dubbioso.
Una donna piagnucolò, un uomo brontolò, il vento faceva gonfiare le pa-
reti e iniziò a ruggire nel deserto.
«Non lo dirò un'altra volta», gli disse Rob.
Mitchell lo sfidò solo per un secondo prima di alzarsi e di farsi strada
con tono di scusa lungo il corridoio. «Mi dispiace, reverendo», disse men-
tre si rimetteva il cappello. «Non la farai franca», disse a Rob.
Il nero avanzava.
Mitchell indietreggiava.
«Satana, vattene da questa gente!» gridava il predicatore.
Rob si guardò alle spalle, sollevò la testa, e il predicatore si immobiliz-
zò.
Tu lo sai, pensava Rob, come se il predicatore lo avesse potuto udire, tu
lo sai, ma non parlerai.
Allora Mitchell crollò, e implorò aiuto mentre scappava dalla tenda.
Rob lo seguì senza fretta, fermandosi, una volta all'esterno, per permet-
tere al vento di dirgli dov'era andato l'uomo. Verso la strada, sembrava, e il
nero iniziò a trottare, mentre la polvere che si sollevava faceva scintille, e
dalle narici e dalla pelle gli usciva il vapore.
I pennacchi si ruppero, le decorazioni si agitavano, una fune si spezzò e
il tetto iniziò a cedere.
Una volta in strada, Rob fece girare il nero verso est e lo lasciò correre.
Non vedeva Mitchell, ma non aveva importanza. Quell'uomo non aveva
immaginazione, avrebbe cercato rifugio nella notte, poi avrebbe cercato di
ritornare quando fosse stato sicuro che Rob lo aveva superato.
Il nero correva. Fuoco e fumo.
E rallentò quando Mitchell iniziò a vedersi, dritto davanti a loro, senza
cappello, con la giacca che ondeggiava, mentre si guardava alle spalle e
cercava di correre più velocemente, essendosi accorto che Rob veniva ver-
so di lui.
La caccia non durò a lungo. Rob gli si accostò, si abbassò, e lo colpì alla
spalla. Mitchell inciampò sul selciato e sbandò, si rotolò e si mise carponi
in ginocchio, con le mani unite implorando, col sangue tra le dita, mentre
Rob si girava e aspettava.
La pistola ancora armata.
Il sangue copriva il lato destro della faccia di Mitchell, mentre scendeva.
Sassolini e ghiaia gli si erano attaccati alla guancia e al sopracciglio, gli
era venuta via una manciata di capelli mettendo in mostra il cuoio capellu-
to.
«Non puoi fare questo», disse Mitchell, tremando così tanto da barcolla-
re. «Tu non sai chi sono io.»
Rob non disse niente.
«Ci sarà la tua faccia su ogni giornale, su ogni schermo. Non puoi fare
questo!»
Il nero abbassò la testa e la scosse.
«Sapranno chi sei, stupido figlio di puttana!» Singhiozzò e si coprì la
faccia.
Vento invernale.
«No», disse Rob. «Non andrà così.»
Mitchell abbassò le mani, aveva sangue anche sulle labbra e sui denti.
Non capiva: con una mano tesa implorava: «Cosa diavolo ti ho fatto?»
L'uomo sul nero guardava indietro in direzione della tenda, verso le
fiamme che iniziavano a lambirne i lati, cancellando qualche stella, mentre
delle figure minuscole si allontanavano dal fuoco.
«Hai fatto vedere loro la Bomba», disse, girando di nuovo lentamente la
testa. Occhi foschi.
Mitchell deglutì, ebbe un conato di vomito, sputò. «E allora?»
L'uomo sul nero piegò la testa verso la tenda. «Il predicatore dice loro
che si tratta dell'Armageddon.»
«Gesù Cristo. Cosa diavolo significa?»
«Si sbaglia.»
Mitchell cercò di alzarsi, ricadde in ginocchio sulle mani, e si lamentò.
«Pazzo», sussurrò. «Buon Dio, è pazzo!»
«Tu lo sei», gli disse l'uomo.
Tirò il grilletto.
Mitchell si tirò su, la schiena rigida, finché il vento non lo rifece cadere.
Rob aspettò finché un'altra folata fece rotolare il corpo nel fossato, e si
assicurò che Amy fosse sfuggita all'incendio.
Aspettò finché il nero non si stancò di stare fermo.
E allora ricominciò a cavalcare.
Una strada breve, stavolta.
E lo intristiva.
Solo un po'.
1950-1959
Le porte aperte
di Whitley Strieber
Per quanto riguarda le notti, vi avverto che sono pericolose
Di notte il vento cambia e arrivano i sogni
Fa molto freddo
Ci sono strane stelle vicino ad Arturo
Voci che piangono in cielo un nome sconosciuto.
Archibald MacLeish
Epistola da lasciare sulla terra
La meteora tracciò nel cielo una scia di luce, seguita da un ululato silen-
zioso, che lasciò una strana sensazione di vita. Il dottore, un dottore del
cielo, allontanò lo sguardo come se si fosse trattato di una cosa appestata.
Lui inspirò una boccata d'aria suburbana, sentì che gli gonfiava il petto,
sentì anche una leggera pressione sotto il torace che era quella della morte.
Della morte, aliena come la meteora, che arrivava da un posto scono-
sciuto, per andarsene in un posto sconosciuto.
Della morte e delle cose viste. Cosa ne poteva dire?
Cosa poteva dire?
«Ci sono quantità indivisibili di significato, risoluzioni, l'inflessibilità
del peccato, la condizione di inattività dell'anima. Della mia anima.»
Le luci di Princeton brillavano intermittenti lungo le colline, frammenti
di memoria che portavano alla mente i giorni incoscienti e pieni di energia
in cui aveva insegnato là. Inspirò un'altra boccata d'aria, e la fatica che fece
lo colpì in tutto il suo orrore.
«Come fai a resistere, von Neumann», disse al vento. «Von Nooman»,
disse di nuovo, pronunciandolo all'americana. «Com'è possibile che quello
sia tu?»
Il fisico, il commissario, l'ebreo ungherese nell'abito a tre pezzi, l'uomo
più acuto del mondo. Il cattolico.
Si chiedeva se il neoplasma fosse pallido o semitrasparente, o dello stes-
so colore del fegato in cui viveva. Poteva sentire un rigonfiamento che
spingeva, poteva sentirne la pressione, come se la mano gentile di un bam-
bino avesse premuto sulla sua pancia dall'interno, o come una gravidanza.
Si toccò la tempia. «Tipicamente, questo neoplasma estende la sua meta-
stasi al cervello, spesso collocandosi nella sede della coscienza.» Mentre
se la sfregava, respirava rumorosamente, e sentiva i capelli muoversi sotto
le dita. Un bambino avrebbe trasformato in grida quei rumori e si sarebbe
strappato i capelli dalle radici.
Sospirò alla nuova folata d'aria. Come disprezzava la notte. Dormire era
un tormento, lo guardavano dormire, guardavano dal di dentro, tenendogli
gli occhi addosso, mentre le loro lunghe labbra ridevano con un desiderio
lascivo.
La parte più terribile, comunque, non era quella. La parte più terribile
era il risveglio. Prima, il lento ritorno della coscienza, poi l'improvviso pe-
so dei ricordi che tornano, poi con un urlo soffocato e l'irrigidimento di
ogni muscolo del suo corpo: essi sono reali.
Tre di loro correvano sul marciapiede, fuggivano. Stanotte ce n'erano
tre. Il loro odore che si posava sull'aria del giardino: come carta che brucia
lentamente.
«Esiste la possibilità che la nostra interpretazione iniziale non fosse cor-
retta, nemmeno come orientamento. Esiste la possibilità che...»
Dicevano: la sua mente si fa più debole. Dicevano: è un sintomo. Ma lo-
ro non sapevano quello che lui aveva visto.
I suoi colleghi accettarono con delicata condiscendenza il suo ritorno al-
la Chiesa. Non riusciva a spiegarsi con loro, perché, per farlo, avrebbe do-
vuto rivelare il suo segreto, e se lo avesse rivelato, sarebbe stato come to-
gliere il dito dalla diga.
Quel dito era la salvezza del mondo: il cancello veniva mantenuto chiuso
dall'ignoranza.
Altrimenti avrebbero cavalcato verso la realtà sull'onda della conoscenza
e questa era la ragione per cui stava morendo. La natura si era accorta della
sua conoscenza e stava rifiutando il disordine implicito in essa, uccidendo-
lo con il cancro.
Lettera non ultimata al presidente Eisenhower, 1956, Ultra Top Secret:
«Qualcosa nel modo diverso in cui essi vedono la realtà significa che, nel
nostro mondo, alla lettera, non sono reali e devono usare il fatto che noi
crediamo in essi come un ponte. Per questa ragione, il diniego ufficiale de-
ve essere assoluto e aggressivo. Il pubblico non deve sapere che sono
qua».
Se la gente avesse saputo quello che c'era in fondo al giardino... se aves-
sero saputo quello che li aspettava al momento della morte, cosa vedevano
i passeggeri, ormai destinati alla fine, danzare nei corridoi degli aerei che
si sfracellavano, cosa entrava in cabina con loro
«... emergenza del traffico aereo...»
prima che cadessero come farfalle spezzate. E poi cosa, poi cosa?
Emergenza...
«Il suo fegato non funziona, dottor von Neumann. Possiamo rimetter-
glielo in funzione, ma lei non si può aspettare una cura definitiva.»
Non vedrà il 1957, 1958, 1959, 1960, sessantuno sessantadue sessantatré
sessantaquattrocinquesei...
Alzò lo sguardo al cielo. «Dio, prendimi. Cristo, prendimi. Vergine,
prendi quest'uomo che ne ha uccisi a milioni.»
«John, il tuo lavoro non è un peccato. Il tuo lavoro è teso a ottenere un
benessere più grande per il mondo. In quel senso è un'estensione del corpo
di Cristo.»
«Ho fatto bruciare a morte quindicimila bambini, padre, e ne ho mutilati
altri trentaseimila.»
«Devi avere fede nel potere del Signore. Devi credere nel suo perdono.
Cristo vuole i tuoi peccati. Portali a lui.»
«Nessuno vuole i miei peccati. Loro vogliono i miei peccati.»
«Vogliono farti sentire così in colpa da farti aprire l'anima alla grazia. Di
questo si nutrono.»
«Essi si nutrono di tutti noi.»
Una faccia scruta nella sua da mezzo metro di distanza e lui vede in 1
questi occhi universali la distruzione dell'uomo. Se i malvagi sono vera-
mente malvagi, allora tutte le anime saranno consegnate nelle loro mani,
anche le anime degli eletti e dei buoni.
«Non ci credo!»
«Padre, è vero!»
«Dio non può lasciare andare i buoni. I salvati sono salvati.»
«Anche loro! Persino il paradiso è invaso. Dio sta perdendo, non vede?
Ciò che ha creato lo sta distruggendo, e quello è il segreto dei secoli.»
«Prega con me, John. Prega semplicemente. Ave Maria, piena di grazia,
il Signore è con Te...»
«Lei non è niente, è una semplice donna... una piccola ebrea che si è
persa in un passato lontano.»
«È colei che ha contribuito a creare l'essenza. La stella del mare. La re-
gina di maggio. Lei ha posato i piedi sulla testa del serpente.»
«Parole! Parole sciocche!»
«Le parole sono le fondamenta del mondo. Lui ha fatto tutto con le paro-
le.»
«La formazione originaria della materia ha raggiunto la massa critica ed
è esplosa.»
«Il Verbo era con Dio e il Verbo era Dio. Parliamo della stessa cosa, ve-
di?»
«Cosa ti succede quando muori, padre?»
«Qualsiasi cosa Dio desideri.»
«Se dà alla tua anima...» S'interruppe, poi distolse lo sguardo, cercando
di nascondere il suo dolore all'arguzia del vecchio prete con la faccia da
bambino. Ma il verbo lo seguì poiché il verbo non era Dio, non più.
Poi in quegli occhi vede il viso di suo padre... e gli occhi svaniscono.
«Perdonami, Signore, perdona i miei folli peccati.»
Anche il prete svanisce, la conversazione di tre mesi prima svanisce,
mentre le dita scorrono lungo le pagine della Bibbia. Adesso è troppo buio
per leggere, con questi occhi che ingannano. «Dio, lasciami tenere il dito
nella diga che la mia mente ha rotto. Lascia che l'inondazione non mi fac-
cia annegare. Dio, il tumore è così terribilmente difficile da sopportare.»
Sta di nuovo male. Il suo pasto è stato troppo abbondante. Allora è la bi-
le, la bile diventa un veleno che rafforza i suoi sogni di morte... anche i so-
gni dei suoi giorni in Ungheria, delle canzoni dell'infanzia, dei sigari e dei
baffi di suo padre, della gioia di correre tra le foglie in autunno. La bile gli
porta la poesia, la bile lo condanna ai suoi ricordi.
Dopo la diagnosi - quella notte tardi - si era svegliato e l'aveva vomitata,
pura e amara. Si era coricato sulle piastrelle del bagno, steso su un fianco
nel suo pigiama grigio, ascoltando l'acqua che finiva di gorgogliare nella
tazza, e poi lo sfarfallio dei lepidotteri contro la lampada del soffitto.
L'uomo più acuto del mondo in quel momento era diventato solo un altro
corpo...
che aveva visto i loro strani abiti blu, le uniformi scintillanti scivolare tra
realtà e incubo...
che aveva sentito il tocco lacerante dei loro artigli e la morbidezza della
loro pelle di cervo.
Seppelliti in una cantina in quell'aeroporto, seppelliti sotto la pista di at-
terraggio, sotto l'area di stivaggio della benzina, sotto le unità refrigeranti,
sotto i magazzini delle armi, dove gli scarafaggi giocavano tra le incrosta-
zioni delle tubature, essi giacevano in un freddo che mozza il respiro e in
un silenzio dominato dal ronzio dei compressori, mentre le loro labbra
morte racchiudevano quella che sembrava una specie di estasi.
Erano arrivati a causa dell'esplosione della bomba, in qualche modo at-
tratti dalla sua furia - o si trattava del fatto che un'esplosione atomica è così
violenta che avvelena anche il mondo dell'anima?
Per un certo tempo dopo la diagnosi, aveva lavorato furiosamente. Per
alcune settimane. Poi gli avevano detto di smettere di fumare, e quello lo
aveva fatto sentire in qualche modo nudo, portandolo a vedere in modo più
diretto quello che avrebbe desiderato di non essere in grado di vedere.
Passò del tempo con padre Dubois, seguendo il suo fumare incessante,
ritmico, ascoltando le sue spiegazioni, i suoi raggiri, meravigliandosi ai
suoi racconti di Chiesa, così ricchi, poetici e spirituali.
Si era avvicinato a coloro che avrebbero dovuto essere morti, guidato da
quel brillante soldato di nome Arthur... cosa? Ancora il cervello, qual era il
nome dell'uomo? Arthur... un tenente colonnello nella sua nuova uniforme
dell'aviazione... Exner? E il giovane aveva detto: «Si stanno decomponen-
do dottor von Neumann, ma non sembrano morti».
Come poteva un altro mondo essere così strano? Come poteva tutto
quello che lo legava alla realtà essere così diverso, e tuttavia così coerente?
Essi non vedevano niente alla nostra maniera, tuttavia tutto quello che fa-
cevano aveva un senso.
Morto, fuori dal suo corpo, non sarebbe stato al sicuro da loro.
Dottor von Neumann, stai morendo. Dottore del cielo, dottore di questo
mondo minuscolo, ladro dei segreti di Dio, folle Prometeo: stai morendo.
E guarda, c'è qualcun altro là fuori tra le ombre, proprio sotto quell'albero,
tranquillo e accovacciato come un fungo grigio.
La teoria della terra cava. Perry che si avvicinava al limitare nord: «C'è
una vista fantastica, sono sul limitare di un altro mondo, di una grande
fenditura che si allarga dove ci dovrebbe essere il Polo...»
Dottore?
«Avevo la sensazione che fosse qui a collezionare anime», aveva detto
l'ometto. L'ometto che era venuto alla base aerea, un essere insignificante
arrivato da qualche località vicino a Roswell, New Mexico, con quel terri-
bile segreto in mente. Le vene gli pulsavano nella testa. Aveva grandi mani
che teneva intrecciate, macchie di sudore sotto le ascelle, e stringeva una
sigaretta arrotolata a mano, che lui chiamava una pillola, e il dottor von
Neumann aveva detto: «Non dovrà mai ripetere quésto». E aveva pensato:
«Una persona del pubblico sa la verità». E poi aveva pensato: «Se parla
dovrà morire». Ma lui non aveva parlato.
Lo aveva fatto suo figlio. Il ragazzo aveva parlato in Marina, e nella vita
civile, aveva raccontato storie selvagge sui demoni del deserto. Scompar-
so, era scomparso: uno dei tanti. Era morto guardando il fucile in faccia,
morto come se stesse esaminandone la pelle di metallo alla ricerca di im-
perfezioni.
Essi avevano lasciato la sua macchina sul ciglio della strada.
«Dottore, siamo qui per raccogliere la sua" anima. La vostra, scusateci.
La vostra anima. Il possessivo arcaico suona più definitivo, non crede?»
È possibile calcolare la velocità con cui un tumore aumenta, e in questo
modo stabilire il ritmo con cui comprime, ostruisce e impedisce. Mentre la
bile si accresce, il sangue diventa detrito di fogna, gli occhi prendono un
colorito giallastro e la pelle diventa olivastra. E il sangue diventa marrone,
marrone come i rifiuti congelati che pendevano dalla coda dell'aereo ad
Anchorage, quando erano andati a vedere... come si chiama? La fonte di
tutti i sussurri, la cosa che veniva dal ghiaccio. Ricordava il senso di
commemorazione sull'aereo, lo stravagante dipartimento della Guerra, no,
è cambiato, il dipartimento della Difesa, cibo, tutti i lussi di quel meravi-
glioso Super Connie con la livrea dell'aviazione degli Stati Uniti. Avevano
pensato che avrebbero svelato il segreto dei secoli.
Poi avevano visto la rigida stalattite marrone che pendeva dal fondo del-
l'aereo, i loro rifiuti che si erano ghiacciati diventando solidi non appena
erano usciti dalla toilette. Ah, ah, ah, il colonnello Tizio e il colonnello
Caio avevano riso, anche il generale Walter, diavolo, come si chiama, la
tua memoria se ne sta andando, aveva riso. Poi avevano attraversato la pi-
sta per dirigersi alle macchine, altri sigari, altro alcol, e tu pensi, tu sei il
commissario di tutto questo, commissario von Neumann con il tuo bel ve-
stito, perché sei capace di risolvere complicate operazioni con la mente...
Puoi misurare l'ampiezza del tempo, il grido incandescente della morte
dell'atomo, la probabilità che Sant'Agostino avesse davvero capito la natu-
ra del mondo.
Tu, il padrone, non sapevi che vedere la cosa significava entrare nel suo
corpo, come aveva fatto Giona, e giacere nel suo esofago pulsante per il
resto dei tuoi giorni, sapendo che essa ti possedeva e che ti avrebbe posse-
duto per sempre.
L'avevano portata là e seppellita nel ghiaccio perché anche per loro era
troppo terribile da sopportare, troppo potente perché i demoni la control-
lassero? C'era davvero un maligno oltre a Satana, più corrosivo, più inva-
sivo?
Il prete una volta aveva detto una cosa curiosa: «Dio si adegua al buio. È
l'amore di Dio che produce il fuoco di Satana».
La Città di Dio, il Giardino di Dio: non un posto fisico, in realtà, ma un
luogo fuori della natura del tempo. La terra, lo vedeva ora, non era per
niente un globo: era l'energia del tempo a renderla rotonda e a collocarla
sulla sua rotta perfetta in cielo. In realtà il mondo era un immenso arazzo,
che veniva continuamente tessuto dagli indaffarati vermi della vita. Sì, un
arazzo in un palazzo della mente di Dio: era quello che si intendeva per «si
adegua al buio». L'uomo più acuto del mondo adesso sapeva che il buio e
la luce erano uno il fondamento dell'altro. Dio e Satana erano sposati.
Ed essi guardano la parte della tappezzeria che tu hai tessuto, e non sono
soddisfatti. Tu hai introdotto l'orribile filo marrone della tua arroganza e
della tua ingordigia. Tu hai detto sì, lascia che pubblichi questo, lascia che
calcoli quello, lasciami decodificare il segreto del buio e della luce, che tu
sei uno, che sei sempre stato uno, lasciami quindi essere la mente superiore
che dirige la rivelazione.
Così anch'io ho rubato, come Prometeo, come Eva, ho rubato il tuo se-
greto, che dietro la divinità di Dio e la malvagità delle ombre ci sei tu...
Anche i colonnelli lo hanno visto, nell'elegante corpo della cosa, nei
ghiacci del nord. Ed erano ammutoliti per quello che essa rifletteva, non le
loro belle facce, ma le loro vecchie anime grottesche. Avevano visto tutti
che erano in qualche modo parte della cosa, che l'avevano aumentata e fat-
ta crescere fino a che aveva modellato dei macchinari forgiandoli dai dan-
nati e li aveva fatti volare nei cieli del mondo. Questo alla faccia dei co-
lonnelli e delle loro macchine e dei loro sigari. Invece di essere uccisi era-
no stati chiusi in un manicomio senza finestre, accuditi da infermiere sor-
de. Un compromesso tra il presidente e l'uomo più acuto del mondo.
«Gli spari, generale», aveva detto quando avevano iniziato a scivolare
nei cieli: detto con acida ironia. Ma la povera stupida creatura aveva repli-
cato: «Dannatamente giusto!»
Ed eccoli gli aerei... che volano alti, così terribilmente drammatici, che
attraversano i cieli del 1951... pilotati da giovani con le guance luminose,
che leggono romanzi in formato tascabile e masticano gomma... giovani
che pensano ai Brooklyn Dodgers e ai St. Louis Browns... che portano nel-
le loro pance di metallo la fine del mondo...
Noi applaudiamo. Sferragliano, sferragliano, di qui e di là sferragliano.
Alla radio nella sala di raduno suonava Blue Moon: Blue Moon, era di Do-
rothy O'Shea? L'irlandese di Manhattan.
Cara, il cibo delizioso di Manhattan, Manhatta, la parola indiana... tutto
andato. Con la celebrazione dei suoi vari ...ati, professorato, com-
missariato... nave affondata, gli aerei che venivano portati fuori, le bombe
che venivano fatte sfilare, i reattori atomici che venivano scoperti, adesso
si perdevano in un'unica immagine offuscata di uniformi e nel forte odore
di sidol che emanava da questa collezione di ufficiali.
Si lasciò cadere su una sedia da giardino in ferro, resa umida dalla ru-
giada notturna. Il suo lungo respiro successivo gli portò il profumo delle
foglie... il Progetto Manhattan, dove avevamo scelto le foglie della morte,
decodificando, decodificando, calcolando, trovando l'equilibrio della giu-
stizia atomica... mentre essi affamati guardavano dagli alti cieli... sperando
che riuscissimo nel nostro intento.
Desiderava così tanto accendere un sigaro, che fece il gesto di toccarsi i
fianchi alla ricerca del coltellino e dell'accendino, poi si mise la mano nel
taschino alla ricerca dei cubani dolci che avrebbero dovuto trovarsi là.
Concentrata al massimo nel suo tumore, in questa calda notte estiva, ci
deve essere tutta la storia del pianeta. In ogni tumore. E quelle meteore e-
rano solo pietra e ferro provenienti da un pianeta lontano o erano davvero
dei cancri volanti, che cercavano per tutto il cosmo una vittima da infesta-
re?
Non ne era sceso uno, librandosi nel giardino sul retro, per poi scivolare
sfrigolando tra l'erba?
No, di certo no.
Non era volato tranquillamente dentro dalla finestra?
No.
E aveva proceduto lungo il corridoio, sputando quando toccava il muro?
No.
Lasciando un fumo che puzzava di pelle umana bruciacchiata?
No.
Non era entrato in camera da letto?
No.
Sempre più vicino
NO.
Sul sottile strato di pelle tremolante...
NO!
E poi... dentro. La siringa veniva inserita: ecco, John, non è doloroso, è
solo sgradevole... lei con il suo lino bianco strusciante nel pomeriggio cal-
do, nel profondo pozzo di marmo della toilette, in ginocchio, con le nati-
che nude esposte alle sue attenzioni da contadina... Magda profumava così,
aveva il sapore profondo, acuto e dolce di tutta la carne.
Magda, un'ebrea... soffocata, emerge dalla morte e dai ricordi di casa.
Che lo aveva curato, lavato, spazzolato, si era occupata di lui, lo aveva te-
nuto sul suo enorme ventre e gli aveva fatto capire che ogni donna, ebrea o
no, porta dentro di sé la presenza luminosa della Vergine. «Dio e Dea»,
aveva detto Magda. «Lei è sua madre e sua moglie.» Magda, un'ebrea cat-
tolica pagana. Il padre di lui aveva ridacchiato e aveva detto che avrebbe
dovuto imparare il catechismo da un prete.
Magda sotto la pioggia, con le sue grandi mani che davano conforto, si
appoggiava allo stipite della porta, inspirava l'aria profumata dei meli in
fiore, mentre essi salivano lentamente schiamazzando sulla spina dorsale
d'Europa...
Come è difficile trovare i propri peccati in questa vita. Magda non era
una mia responsabilità; era una serva a pagamento, lo erano tutti.
Dio, ce ne siamo andati: prima i comunisti, poi la Guardia di Ferro che
calpestava il raffinato impero austro-ungarico della mia infanzia.
Dio, ci siamo lasciati i nostri servitori alle spalle.
Dio, penso di aver amato questa Magda che mi ha accudito, che mi ha
cresciuto, portato in spalla, che ha dormito su un letto di cenci a fianco del-
la mia culla. Ricordo... o è il cancro a ricordare... il sapore preciso del suo
latte.
Potete crederci che adesso l'Ungheria fa parte dell'impero di Stalin? È
stato bravo a prendersi i magiari, a rubarli a se stessi. Oh, quel mostro dai
grandi baffi che si riempiva la pipa...
Con i suoi aerei. Tu, Giuseppe. Harry lo chiamava lo zio Joe. Ike no.
Non si fa illusioni su di lui. «Quei russi erano come animali.» Nessuna il-
lusione: «Gesù Cristo, John, non riesci a farmi una bomba più grande? E
più in fretta, per amor del cielo, farla più in fretta? Costruisci le attrez-
zature, chi se ne importa se perdono? Sei un patriota o no? Costruisci, per
amor di Dio!»
Costruire strutture imperfette, signore, dove fare alchimie che avvele-
neranno i secoli a venire, signore?
«Autorizzo la costruzione di grossi edifici grigi pieni di ventilatori e ori-
fizi e condotti, e al diavolo i bambini di quel parco!»
Il plutonio è così complesso che è come una specie vivente, con bisogni
e diritti e desideri, persino morali ed etici, e una coscienza che si basa, co-
me la nostra, solo sulla propria sopravvivenza.
Rocky Flats, oh, Dio, è così imperfetto. Anche Oak Ridge, che ironia
questo nome bucolico, è imperfetto. Orifizi che si aprono sull'ampio pome-
riggio blu, un cigolio metallico, e i ventilatori che succhiano, succhiano,
succhiano e un millesimo di grammo che vola in quel mondo da cartolina
che sta fuori, pieno di lunghe macchine blu e pallide case, che risuona del-
le canzoni della Principessaprimaveraestateautunnoinverno e della vecchia
fattoria, e gli irrigatori che sputano e il sole che risplende sui campi di po-
modori... a Oak Ridge, dove la tarda notte ha portato il ritmo furtivo della
fornicazione, e le donne cariche di bambini passavano con i loro cesti della
spesa riempiendoli di cereali e di bistecche al sangue e di litri di latte e
succhi di frutta e corn flakes e biscotti, e su tutti loro il marchio della be-
stia, che aumenta e diminuisce con il rossore delle guance e appare nello
sguardo limpido di occhi molto felici.
Terra di orgoglio e libertà.
Ike: «Siamo qui per proteggere quei bambini, dottore. Mi dia delle bom-
be più grosse! Adesso! Ieri!»
E come sono carine le nuove bombe all'idrogeno con la loro linea affu-
solata e con le loro pinne argentee, che navigano attraverso il silenzio blu
del Pacifico, ammiccando come foglie d'argento nel ventoso cielo tropica-
le. E sono anche carini i ragazzi che guardano con quei loro occhi chiari,
da americani, mentre fanno bolle con la gomma e nella loro testa navigano
i risultati del baseball considerati come perfetti numeri divini.
Si tratta della morte della luce. Le luci si spengono in tutta Europa... a-
desso le ricordo, le luci nelle sale da ballo di Pest, di Vienna, di Berlino,
dei caffè concerto spumeggiami e le arti di noi ebrei. Giudei. Judenratt.
Osweicim. Il desiderio di neve fresca che devono avere avuto i miei servi e
i miei amici. Da ebreo a cattolico a von. Von Neumann. Padre nostro che
sei... Cristo, ok, rinunciamo, lui è il messia.
«Padre, perdonami.»
«Dio perdona.»
E più indietro, durante la prima guerra, come avevamo sofferto per la
mancanza del caffè e dei vini dolci e freddi della campagna del Reno, per
lo champagne francese e per le nobili paste del nostro impero... e dopo, i
pettegolezzi fatali dei fucili.
Buda nel 1918: una città resa vecchia da tre anni di fanfare, all'im-
provviso nebbiosa per il carbone grezzo e i pezzi di legno che bruciano e
rendono grigia e triste anche la neve che scende. E nella tristezza, una sot-
tile specie di nobiltà; e in alto, in alto nel cielo, ho visto aerei argentei co-
me fantasmi di un futuro... che è arrivato in modo estremamente veloce...
muoversi silenziosi e improbabili sotto la vasta cupola nuvolosa.
E adesso, America: «Mi considero l'uomo più fortunato del mondo...»
Lou Amyotrophic Lateral Gehrig, la voce che ha inaugurato il futuro, che
echeggia come in una cattedrale fatta di parchi vuoti, mentre i nervi emet-
tono il ronzio della danza sclerotizzante e fatale di un'intera nazione.
Perché la sclerosi era stata liberata, era fuggita con me, era venuta con
me, nel mio viaggio mistico nella natura più profonda del paese, arrivando
come me in un aeroplano d'argento proveniente dal futuro, portando (con
me) fino alle colline di Hollywood con le sue case dall'architettura a sbalzi,
i suoi fruscianti vestiti blu e le sue lunghe macchine, le crudeltà dell'Euro-
pa che rapidamente, senza far rumore ricoprirono tutto di una tristezza
senza tempo.
Pensava spesso a Lou Gehrig, che era morto per la più terribile di tutte le
morti. L'uomo più atletico del mondo era stato ridotto un micron dopo l'al-
tro alla più assoluta paralisi mortale fino a giacere, immobile e silenzioso,
con gli occhi infossati e chiusi a sognare la più alta, la più lontana, la più
sorprendente corsa alla casa base. È morto come morirai tu, mia terra adot-
tiva. Sorridendo, apro le mani. In esse, vedo il bagliore penetrante del plu-
tonio. «Ho la tua medicina.»
Naturalmente l'uomo più acuto del mondo era anche il più pericoloso.
Sedeva con i piedi nell'erba, guardando le giunchiglie sparse nel giardino,
dolci ombre silenziose nel buio. Era seduto anche in quell'aeroplano d'ar-
gento del suo primo approccio e pensava: Oh, Adolf con la tua colonia
Guerlain e coi tuoi sigari clandestini, con gli occhiali cerchiati d'oro come
quelli di Harry, ma più segreti, hai scortato i nostri figli nei sotterranei in-
crostati delle tue sale, e noi ebrei, mettendo insieme questo e quel piccolo
ingrediente, abbiamo risposto con la bomba.
Nel senso più terribile, lavoriamo per Dio. Lavoriamo per Dio, noi che
abbiamo menti troppo eleganti per sopportare Dio, lavoriamo per una ra-
gazza di dodici anni con i capelli color del grano e labbra come le rose di
Sharon, che negli anni di mezzo della tua vita, caro Adolf, è rimasta nuda
in piedi, coi capelli color del grano brulicanti dei tre stadi di vita del pi-
docchio, ad ascoltare nel buio il rumore dei cristalli che cadevano e poi le
grida acute di altri ottocento bambini con i capelli color del grano e le lab-
bra di Sharon, a provare il gas, pensando terrorizzata, nell'ultima umiliante
confusione, che l'argento della fibbia della cintura Gott mit uns dell'uomo
gentile che l'aveva spinta dentro fosse un talismano di liberazione. E quin-
di tese le mani in alto all'occhiolino che mille e seicento altre mani stavano
grattando e pensò di aver visto brillare dal suo Hakenkreuz lucidato un'al-
tra luce...
La luce che avevo nella mente luce d'acciaio
luce dei peccati d'Europa e del giovane viaggio dell'America
luce blu ardente della valle di Sharon.
«John, prenderai freddo.»
Voce? Reale? No.
«Adesso puoi avere un po' di cognac.»
«Sì.»
Deferente, conscio che il soggiorno illuminato avrebbe buttato delle om-
bre sulla sua pelle da notte delle streghe, cosciente che tutte le donne, le
cui mani presto avrebbero lavato il suo corpo morto, gli avrebbero lanciato
quelle occhiate terribilmente codarde, lui si muove obbediente verso la
porta. E continua anche l'altro viaggio che sta compiendo, portando le om-
bre della vecchia Europa nel sole dell'America che rapidamente diminuisce
d'intensità.
Oh, America, non ti conoscevo allora, ma adesso siedo su di te, tra-
sportato dalla tua gioventù con ali d'argento nella mia missione di morte,
questo vecchio con un forte accento, pieno di cancro, con la figura legger-
mente arrotondata e con i suoi abiti di sartoria, lui che può parlare con Ike,
come tu parli con Charlie di Charlotte, oh, America.
Strana creatura nata dalla morte dell'Europa, sono venuto a divorarti con
il mio veleno atomico.
Ike aspira una sigaretta, questo uomo fiero, intenso, questo Ike sorri-
dente. «Cosa ne direbbe di darmi due bombe al mese? Non può essere così
difficile. Due al mese.» Si gira nella sua sedia girevole di pelle, guarda
fuori verso le rose del prato della Casa Bianca. «Dannazione, penso che sia
ubriaca», dice con la convinzione biascicata di un prete. Una donna qua-
drata, piccola, si muove sull'erba come se stesse cercando un orecchino
perduto.
«Signor presidente, non abbiamo le capacità per raddoppiare la pro-
duzione in un anno.»
La sedia si rigira rumorosamente. Gli occhi, adesso umidi, lo guardano
con la tristezza senza paura di una pantera all'angolo. «Stalin verrà qua, e
avrà bombe a migliaia.»
«Signore, questo è...»
«Non mi dica che è impossibile, Johnny! Non ci pensi nemmeno. Le di-
co io cosa è possibile!»
«Avremo sessanta bombe per la metà del '54, signore. Sessanta.»
«Garantito? Sicuro?»
«Sono io l'amministratore delle bombe.»
Io, l'amministratore. Commissario della commissione per l'Energia ato-
mica. Perché? Ero un sognatore troppo bravo, così bravo che hanno messo
me, uno straniero, a capo di tutti i sognatori.
«Dottor von Neumann, sto chiedendo se la commissione per l'Energia
atomica garantisce al presidente sessanta bombe atomiche in grado di fun-
zionare per il 1° gennaio 1954. Qual è la sua risposta?»
«Vagando e sognando giù per Moonlight Bay...»
Il cancro dice: «Ehi, sognatore».
Il cancro dice: «Cosa ne diresti di un musical su di me?»
Il cancro dice: «Lo puoi chiamare... ehm... vediamo... forse lo puoi
chiamare, Signor Lento».
«Vieni dentro per il tuo cognac, John.»
Giù per Moonlight Bay.
Nessuno sa niente della sensualità della morte, che è una delle cose più
terribili del morire lentamente. Cadere da una montagna, svegliarsi in un
incendio, essere schiacciati da una cassaforte che cade: queste sono le mor-
ti di coloro che sono benedetti.
Le morti lente appartengono a noi maledetti, in grado di vedere gli strani
demoni infantili che vedo io farsi più vicini... sempre più vicini... vederli, e
vedere a un milione di chilometri di distanza la gente normale che naviga
in un arcobaleno che io non posso toccare.
Il frutto dell'albero della conoscenza: mi ci sono ingrassato e li ho visti, e
ho visto la cosa che è peggio di Satana e meglio di Dio e così ho perso
completamente la mia collocazione. «Tutto quello che sono riuscito a fare,
padre, è stato ficcare il dito nella diga, proprio quel dito che aveva fatto il
buco!»
«Non ti seguo.»
No, sicuramente no, perché se così fosse, la farei uccidere per la sua
stessa sicurezza e per la salvezza del mondo. Più sai, America, più spro-
fondi.
«Padre, cosa può fare uno che ha un peccato che non si può confessare?»
«Per ricevere l'assoluzione, tutti i peccati devono essere confessati nel
confessionale. Non possiamo semplicemente dire: 'Ho peccato, assolvimi'.
I peccati devono essere raccontati.»
«E se il racconto in se stesso è un peccato?»
Il prete, alla fine, era stato zittito. Non aveva risposta, e John von Neu-
mann seppe in quel momento di essere perduto. Lui, tra tutti gli uomini
che erano mai esistiti, aveva commesso un peccato imperdonabile.
Nella morte lenta c'è passione, c'è liberazione, c'è un'orribile sensualità.
Perché pensate che le pubbliche esecuzioni vengano fatte da puttane? Per-
ché il corpo morente arrivava al rapimento mentre il cappio si stringeva o
il gas sibilava? Perché sembrano rapiti, quelli che hanno dato la vita?
Essere tagliato fuori dall'atto del respirare - soffocato, avvelenato, spap-
polato - rappresenta anche un piacere per il corpo e allora il vecchio malato
di cancro diventa sensuale in modo rivoltante. Dopo che lui ha finito con la
moglie, lei vaga nelle profondità della casa. Ben presto lui sente dei rumori
soffocati e si accorge che sta vomitando per l'effetto che le fa.
Lui la ama comunque.
«Vieni, faremo un fuoco.»
«Arrivo.»
Allora, in un silenzio di tomba, dalla finestra nera della casa accanto,
una voce... è inglese, inglese... all'improvviso capire sembra importante...
cos'è Gillgillyosenfeffercastenellenbogen vicino al mare? Ah, una canzo-
ne. Una canzone alla radio. Se ho mai avuto bisogno di te, ho bisogno di te
ora... Se ho mai avuto bisogno d'amore, ne ho bisogno ora...
Si sposta lentamente più vicino alla casa, con indosso il suo vestito nero
con il panciotto, con la catena d'oro del padre che tintinna minac-
ciosamente. Se ho mai avuto bisogno di te... È un valzer, meine Liebchen?
Se ho mai avuto bisogno d'amore, ne ho bisogno ora... Mi sento così com-
pletamente solo, da non sapere cosa fare.
Diavolo di un Prometeo, tramandato nei secoli da uno scienziato al-
l'altro, come un virus della mente... il dispiacere prometeico... ladri del
fuoco... prendimi tra le braccia e non lasciarmi mai andar via... Oh Dio ci
sei... dormono tutti, quindi va bene...
Trova un'altra panca, qui lo raggiunge un profumo di fiori senza nome.
Le jacarande che fioriscono di notte, o no, non si può trattare di loro, le ja-
carande sono californiane. Non ci sono jacarande a Princeton.
«Cosa sta fiorendo?»
«Parla, John. Stai dicendo che sei malato?»
«Che fiore sta fiorendo?»
«Non ci sono fiori adesso. Entra. Entra.»
Formalmente, come potrebbe fare il papa, distese la mano verso le voci
smorzate che provenivano dalla radio, America, salvami, ba ba ba boom.
America, mi hai travolto. Adesso è arrivato il momento, America, fa' l'a-
more con il mio sarcoma.
Hai l'odore di un cancro al fegato, sì, e nel reparto oncologico, c'è un
odore combinato di esterasi marci, di decomposizione chimica unito al
puzzo della pelle biliosa.
Cosa si fa, dal momento che non è possibile fermare i tumori? Li si de-
via. Si costruiscono piccole aperture temporanee per far scorrere la bile.
Un'apertura qua, un'apertura là. Ti aprono dappertutto.
Sente di nuovo i rumori in fondo, vicino al cancello. Si affretta, arriva a
un altro punto debole, e si prepara a chiuderlo.
«Oh, sta ritornando dal sentiero!»
Si è dato il compito di camminare avanti e indietro in questo piccolo
giardino europeo nel bel mezzo dell'America, di camminare, presidiando il
posto contro di essi nella notte.
«John, ti devo chiedere di entrare.»
«Ci sono dei bambini qua.»
«Entra.»
«Solo un altro momento.»
Essi opprimono questo ebreo che è arrivato dopo le lunghe ondate mi-
gratone su una nave d'argento, proiettato nella grandezza dei cieli, portan-
do il fuoco nelle mani di questi Amerikaner felici... di queste persone mi-
gliori... bum bum bum Mr. Sandman, portami i tuoi sogni... con le loro
gomme e i loro libri tascabili che non metteranno le persone in fila per
provare la bomba su di loro...
Come ha fatto Giuseppe... trentaseimila morti all'istante. Cosa si aspet-
tava, mettendogli addosso delle stupide divise e mandandoli fuori a fare
delle «manovre atomiche»?
Ma noi, i sostenitori di Prometeo... Noi non avevamo bisogno di mano-
vre, noi avevamo città intere su cui provare le bombe. Terra spoglia, più
bruciata di quanto non avrebbe mai dovuto essere.
Le anime di Hiroshima e Nagasaki: nei suoi sogni peggiori se ne sono
andate persino le anime.
«Salve, dottor von Neumann.»
«Buona sera.»
Si sta dondolando sul cancello, con le labbra pallide di Sharon che ardo-
no di ardore notturno. «C'era lei alla radio.» Dice raadio.. aahdio.
«Ah.»
«Lei è l'uomo più acuto del mondo.»
«Ah, ah! Allora non hanno parlato a Herr Doktor Einstein, non credo.»
Lei allunga le mani, piega le dita, ordinandogli di avvicinarsi. E lui va
con trepidazione - conosco un posto buio e isolato - sì, a causa della terri-
bile debolezza del corpo e per il terribile abbraccio in cui lo avvolge la
morte tentatrice, e sente immediatamente un fuoco elettrico bruciargli den-
tro, che è il bisogno del corpo di lasciarsi dietro il suo seme, che sulla terra
è la cosa più vicina all'amore di Dio - ricco, umido, odoroso, sensuale, che
lecca, succhia, sfrega, grida l'amore del caro vecchio Dio al centro protu-
berante, scuro e imploso, di ogni cosa...
«Perché non indossi semplicemente una camicia?»
«Sono un gentiluomo.»
«Oh.»
Lui sa che lei si sta facendo domande sul suo corpo, e come reagirebbe
se lo vedesse? Naturalmente farebbe emergere la sua Magda, non la sua
Lorelei. Arriverebbe con un sorriso, con le braccia lisce incipriate dal cre-
puscolo, gli occhi resi più scuri dall'infinito, dicendo: «Vuoi un pezzo di
gomma?»
Oh materna Magda, ho tanta paura. L'avevi anche tu mentre ti gasavano,
paura? L'avevi quando le luci si sono spente con un rumore sordo, elettri-
co, e l'avevi quando i cristalli di Zyclon-B hanno iniziato a scendere sba-
tacchiando come pioggia dura, molto dura? L'avevi quando hai sentito le
grida soffocate di tutte le Magde d'Europa e l'odore del cloro e la puzza
dell'urina e delle feci che si liberavano, mentre la tempesta di donne urlanti
intorno a te muoveva dita tremanti sulle serrature e sulle prese d'aria?
«Come ti chiami? Immagino che tu sia la figlia del mio vicino, il signor
Chilton?»
«No.»
«Allora...» Si interruppe. Il sudore gli usciva da tutto il corpo. Dita d'ac-
ciaio gli chiudevano la gola.
«Chi sono io, Jancsi?»
Non c'è risposta. Ma come hanno fatto? Come hanno potuto venire qua
in questa forma terribile, nella forma di una ragazza che ha disceso la lun-
ga rampa verso il buio?
Di nuovo il sorriso. Le labbra si allontanano dai denti come ali terribili, i
denti stessi sono lunghi e bagnati, la lingua all'interno regge un occhio di
cristallo.
Essa.
L'hanno trovata nel deserto vicino a qualche squallida immenzionabile
piccola città. Essa è comparsa nella forma di una macchina sventrata che
ha vomitato larve nel terreno. Larve provenienti dallo spazio, larve pro-
venienti dall'aldilà, larve provenienti proprio dal centro del suo fegato...
«Vuoi sederti? Con me?»
Non posso, non oso dire di no. «Io... naturalmente...»
Così si siedono sull'ultima panca che ha sistemato qui con le sue mani
nel '49... era d'estate? La Panca della Guardia in fondo al giardino, al con-
fine del mondo. «Jancsi, sta' calmo. Siediti, siediti.»
«Sì, mi siederò con te.»
Lei lo conduce, si siede, si siede anche lui e rimane in attesa, lei lo tira
giù in modo che lui giaccia sulla panca con la testa sul suo grembo, e lui
guarda in su come se avesse guardato la Magda della sua infanzia, la
Sylvia Maria della sua gioventù, i lunghi colli e l'orgoglio di queste donne,
i cui tratti, nei gentili visi divini, sono stati toccati dall'ombra dell'anima
più di quelli di qualsiasi uomo.
«Mia mamma e mio papà dicono che sei malato.»
«È così, bambina.»
Lei posa dita leggere come zanzare sulle guance di lui. Un'altra mano
giace sulle mani congiunte di lui. I suoi occhi sono chiusi da altre dita e al-
tre dita gli toccano il collo... non è abituato a dita che lo tocchino inti-
mamente, non fa parte della sua storia... adesso è nudo, un bambino incerto
in grembo alla dea dell'enormità con i capelli nel cosmo delle stelle, con
gli occhi che riflettono un'infinità di case e focolari, con i denti che strin-
gono affamati il cibo dell'anima.
Ed ecco che da lui proviene un grido. Un grido. Un grido e...
«Jancsi?»
C'era una storia su di lui che aveva fatto il giro di Princeton, terra delle
menti elette, che non era un essere umano ma un semidio che aveva fatto
uno studio dettagliato sugli esseri umani e che li poteva imitare perfetta-
mente.
È ironico che adesso sia davvero nelle mani di un semidio, un demone
ridacchiante nelle vesti di una ragazzina i cui capelli biondi come il grano
portano in sé il sottile odore intorpidente dello Zyklon-B.
Le famiglie di Budapest della ricca borghesia come la sua avevano in
generale posto una grande enfasi sullo sviluppo delle capacità sociali; mo-
di cortesi e affascinanti erano coltivati come strumenti essenziali per avan-
zare avanzare, i bombardieri che avanzavano sopra la terra fumante, l'a-
vanzata dei gloriosi eserciti dei bombardieri. Ecco i fucili... ecco gli aerei...
Gli uomini nel B-36 che ascoltano WEAF alla radio mentre armano le
bombe. «Il grassone è su. Tre. Due. Uno. Armata. Prepararsi alla conse-
gna. Aprite le porte... porte aperte...»
Nel luminoso pomeriggio azzurro, le porte si aprono sulla faccia della
terra, la terra che sorride al cielo, il cielo che le sorride di rimando e questo
demone di scarafaggio ronzante pieno di uomini di Jackson, tifosi dei Chi-
cago Cubs, e indiani sradicati che vivono a Cleveland... «Ehi, ragazzi, i
Cubbies ce la faranno a vincere il campionato.»
«No, assolutamente no, vinceranno i Reds.»
«Vuoi scommettere? Siamo a Hiroshima?»
«Sì. Ci siamo. Noi... conto alla rovescia per sganciare.»
«Niente contraerea. La contraerea è buona.»
«Ok, sgancia la bimba.»
«Sono pronto.»
«I Cubbies.»
«I Reds.»
«Sgancia. Vai.»
Oh Enola Gay hai visto quello che ho visto io, li abbiamo proprio siste-
mati per benino, waw, quei musi gialli... guarda...
Cubbies.
Reds.
Bastardi yankee, ragazzi, cosa?
Ehi, mi chiedo se una bomba potrebbe bruciare un'anima.
Sei un amante dei musi gialli, Jernigan?
No, io no. Solo che c'è una calma terribile nel mio cuore in questo mo-
mento.
Avevo la sensazione che la cosa fosse qua a raccogliere le anime.
«Per favore, per favore non me lo fare rivivere.»
«È un tuo successo.»
«No... il mio dolore.»
Lei si infila in profondità nella sua mente, portando con sé strati di pelle
bruciata giapponese che appende al filo della sua memoria, nel sole del
mattino tanto amato nell'infanzia, ad asciugarsi e pulirsi al fresco.
La cosa più terribile dell'essere punito dai demoni è che a loro piace così
tanto. Non li consuma come fa con i torturatori umani. Le SS hanno dovu-
to andare in analisi. Herr Doktor Schleicher con la sua valigetta piena di
Schutz Staffel carta protocollo, ti si sarebbe avvicinato offrendoti Zigaret-
ten e dicendo: «Così tanti ebrei sacrificati per la terra degli avi, eh?» E tu,
nell'intimità di quella stanza, ti saresti permesso di piangere, eh?
«Ma questo non è un mio peccato. Il mio peccato è...»
«È?»
«È-di-esistere.» E in ciò c'è tutto il suo essere, e lui piange al vedere tut-
to il suo essere, provando una tremenda agonia al sapere e vedere che tutti
i peccati appartengono a tutti i peccatori, e quindi, per la sua anima moren-
te, lui piange.
I demoni non piangono. Infatti più soffri, più forti essi diventano. La tua
agonia li porta al raggiungimento di una specie di orgasmo. Che diventa
permanente, come l'equilibrio del sole, la tua agonia è il loro piacere: l'alfa
e l'omega, intrecciati in perfetta armonia.
Lei dice: «Voglio venirti a trovare ogni giorno».
«Oh, bambina, non ce n'è bisogno.»
Naturalmente non sta mentendo con la testa sul grembo di una ragaz-
zina, no, ma standole seduto accanto, corretto nel vestire come nei modi,
mentre respira la freschezza della sua pelle e dei suoi capelli, e ascolta la
purezza della sua voce che arriva a spiegare perché il cuore mistico del
giudaismo è emigrato in America e ne ha fatto una roccaforte protetta dalle
bombe.
La voce di Ben Bernie esce dalla televisione. «Vuoi comprare un'ana-
tra?»
Milton, Zio Miltie, Texaco, puoi dare la tua macchina in mano all'uomo
che indossa...
Stelle nel cielo come polvere appesa in der Morgenlicht.
Luce del mattino, così presto? «Dove sono, Padre del Cielo, dove so-
no?»
Sei nella tua mente, John. Hai raggiunto una posizione singolare. Sei in
una posizione super, né qui né lì.
La mente vede i B-36 46 56 66 76 86 96 come sarà nel 2006 quando il
genere umano giudicherà il genere umano, togliendo l'ultima pelle pulita
dai fili della mente, Oh Dio proteggimi...
John, ho intenzione di mettere la tua anima in un'altra carne, proprio nel
corpo di questa ragazza, che nell'anno 1962 ti porterà nel suo grembo, sì,
questa ragazza che adesso a undici anni si dondola sul cancello del tuo
giardino sarà, dopo che Orione sarà passato davanti alla luna per tre volte,
tua madre.
Tu tocchi la mano della bambina, la mano di tua madre, che ti solleverà
di nuovo nel mondo, riportando il diamante pazzo della tua anima alla luce
ineluttabile. «Come ti chiami bambina?»
«Sally. Lo sai. Ci siamo già incontrati.»
«Tu non sei Sally. Tu non sei una bambina.»
«Hai paura?»
«Sì, Sally. Ho paura.»
«Allora vieni con me.»
«No.»
«Devi venire con me.»
«No!»
Qualcosa gli salta sulla schiena, lui lancia un grido, inciampa sotto il pe-
so, sente un sussurro aspro. «Tu verrai con noi! Io ti porterò là, tu vecchio
brontolone!» Dure mani di ragazzo, cicciotte, gli afferrano le orecchie e ti-
rano finché agli angoli dei suoi occhi delle comete iniziano a brillare, e lui
barcolla fuori dai cancelli del giardino, nel vicolo comune, con il suo sel-
ciato segnato da solchi e i suoi bidoni dell'immondizia, con i suoi steccati e
il salice con i suoi rami sporgenti. Lei volteggia tra i cespugli ricchi di ve-
getazione, passando con facilità in qualche passaggio da bambini, un posto
segreto, immagina, dove ci sono...
dozzine...
... i bambini del mondo dannato, gli eredi dell'indeterminatezza del
quantum e delle radiazioni di Enola Gay: un mondo condannato a soffrire
a causa di ciò che lo ha salvato.
«Ehi, ha portato l'ebreo. L'ebreo! È qua.»
«Ehi, buon uomo, hai intenzione di spogliarti? Fammi vedere il tuo caz-
zo ebreo tutto nudo, come, uau, glieli hanno bruciati via in Polonia. A mio
papà è successo a Monte Cassino, signor ebreo, come ti ci vedevi in quella
situazione?»
«Bene, Dio ha dato a Hitler Himmler e lo Zyklon-B, ma ha dato a noi,
gli ebrei, Albert Einstein e me.»
«A mio papà è successo.»
«Piego il mio ginocchio grato sulla tomba di tuo padre, Oh America, ti
porto in cambio del tuo sangue, la chiave del futuro del mondo.»
Principio:
Una volta che la mente adotta l'esperienza come insieme di quantum,
cessa di credere a se stessa come a un fattore di controllo, e il mondo in-
comincia a quel punto a manifestarsi in un modo più vero, più reale e, me-
no determinato. È solo dall'interno del contesto di menti in questa condi-
zione che può arrivare un pensiero genuinamente nuovo e utile.
Esposizione del principio:
«Il commissario per l'Energia atomica dottor John von Neumann, consi-
derato da molti come l'uomo più acuto del mondo, ha affermato al simpo-
sio internazionale sul futuro della scienza che si è tenuto a Dumbarton O-
aks che il genere umano deve 'iniziare il processo di sviluppare intelligen-
ze più grandi di quella umana, se dobbiamo continuare a progredire verso
una singola teoria funzionale alla spiegazione di tutte le operazioni fisiche.'
Il dottor von Neumann ha inoltre detto che 'si scoprirà che l'intelligenza
umana non sarà sufficiente a raggiungere la teoria unificata che adesso
stiamo ricercando. Per far questo dobbiamo, in effetti, creare un nuovo
Dio, uno che parli con noi'. Il reverendo dottor Herb Trickler delle Chiese
Unificate di Dio ha presentato una protesta formale alla conferenza, de-
scrivendo il dottor von Neumann come un 'ebreo eretico e un comunista
senza Dio'.»
I ricordi sono fatti di questo... uh uh... sono fatti di questo...
Un'infinità di conferenze e, in seguito, un'infinità di polli uccisi, bolliti,
essiccati e serviti; il dottor von Neumann è diventato la vittima di un rag-
gio gamma o di un neutrone ad alta velocità che è riuscito a sfuggire alla
protezione di piombo, a Los Alamos o a Oak Ridge o da qualche altro reat-
tore al carbonchio, e adesso nel suo fegato c'è un cancro che è come un
pezzo di antracite vivente e il reverendo Trickler è diventato membro del
Congresso e con i suoi modi bacchettoni e il. suo stretto collare fa risonare
strali sul comunismo dicendo: «Questa Fondazione Nazionale della Scien-
za non riceverà mai un centesimo di finanziamento pubblico», un pronun-
ciamento che, grazie a Dio, Ike ignora.
«Potrei farle il bagno come faccio con le mie bambole.»
«Scusa?»
«Continua a grattarsi. Se le facessi il bagno con del sapone da bucato, si
sentirebbe meglio?»
«Mi sentirei meglio, oh, e nell'acqua fredda...»
Magda: piccolo amore, piccola colomba, sto cantando per te, sto can-
tando, piccolo amore, piccola colomba. Oh so, so che è così, che i magiari
una volta con le loro voci toccavano il cielo, quando erano liberi.
E mentre un uomo muore, lascia dietro di sé uno strato dopo l'altro di
morte, finché c'è solo la sua nudità e la tomba, e questa è la strada che John
von Neumann sta attraversando con il suo passo goffo, lento, con i suoi
occhi gialli e una palla da biliardo che gli tira nella pancia.
«Dottore, mi spiace doverle dire che la medicina non ha fatto abbastanza
passi avanti da poterle offrire qualcosa che serva come cura.»
«C'è un'opzione chirurgica, in questo caso?»
«Temo di no, dottore. Ci sono dei ritrovati chimici, ma questo tipo di
trattamento è agli inizi. Probabilmente non faremmo nient'altro che farla
stare ancora peggio.»
«Dottore, si rende conto che sono in una posizione molto delicata, per
quanto riguarda il mio lavoro? Che è il motivo per cui mi sento in dovere
di chiederle: ci sono misure drastiche?»
«Una teoria dice che un organo si può trapiantare. Ma è solo una teoria.»
«Perché non limitarsi a resecare il fegato?»
«Non possiamo. Non c'è modo di controllare l'emorragia.»
Sessantasei. 76, ultimo treno, 86, tutti a bordo, 96, Belsen, Belsen treno
per Belsen, Therienstadt, Auschwitz e Biarritz...
«Quindi, dottore, mi sta dicendo che devo morire?»
«Temo di sì, dottore.»
Rimase in piedi là, sentendosi a pezzi, dal momento che aveva solo cin-
quantatré anni e così via, e loro pensavano come era amaro che si fosse
trattato di un dannato raggio gamma che si era liberato a Oak Ridge o a
Los Alamos, a causa della distrazione di qualche ragazzino...
Un ragazzino americano, l'attenzione americana, Cubbies, Yankee,
Philly A, il commissario von Neumann che muore. «Ma, dottore, non pos-
so morire, sono una risorsa. Il paese ha bisogno di me. Tutto il mondo oc-
cidentale. Sono un bastione contro gli ismi.»
«Mi spiace dottore, mi spiace davvero.»
«Dottore, sarebbe meglio per il paese se mi potesse dare la maggior
quantità di tempo produttivo possibile.»
«Naturalmente dottore.»
Regime: una dieta leggera, aspirina, novacristina, poi il tentativo di rese-
zione fallisce. Si sveglia, e capisce dalle loro facce che... «Prognosi?»
«La radioterapia alla cavità addominale può portare altre complicazioni
dovute al fatto che non possiamo individuare il tumore perfettamente e il
fegato è così dannatamente sensibile.»
«Succederà presto?»
«Non presto. Prima, dottor von Neumann, verrà mangiato. Lentamente.
Perché ha compiuto un peccato subdolo e terribile, e Dio vuole che passi
una certa quantità di tempo a rifletterci sopra, nella speranza che possa
guadagnarsi il perdono prima dello scadere del suo tempo. Altrimenti, una
delle anime migliori che siano mai state create dovrà essere distrutta.»
Bambini al chiaro di luna, angeli forse, o forse demoni, in piedi, mano
nella mano, cantavano a un vecchio preso dalla paura mentre moriva:
1960-1969
Uomini di fiammiferi e Joo
di Etlizabeth Massie
Lo Status Quo
«Immagini di uomini di fiammiferi»
Gary non pensava che il suo ginocchio avrebbe avuto bisogno di punti,
ma gli bruciava come se fosse stato di fuoco. Il taglio gli attraversava la
rotula, non era profondo, ma sanguinava tantissimo. La tuta da lavoro che
indossava era strappata, e lui non aveva niente con cui rammendarla. Im-
precò sottovoce, si toccò il taglio ancora una volta, tanto per vedere fino a
che punto poteva fargli male, poi guardò verso la strada e le macchine che
passavano.
Non si era mai buttato da un veicolo in movimento prima. Era una cosa
per cui serviva agilità, lo sapeva, ma il vecchio che gli aveva dato un pas-
saggio lo aveva afferrato per le sue parti intime, e non aveva avuto alterna-
tiva. Gary aveva fatto l'autostop per tutta la strada da Chicago alla Virgi-
nia, immaginava che si fosse trattato di un migliaio di miglia, o almeno un
paio di centinaia e fino ad ora era andato tutto bene. Una ragazza era un po'
fuori e lui non era sicuro se sarebbero rimasti in strada, ma anche quella
cosa era finita bene. Gary aveva fatto con lei una quindicina di miglia pri-
ma di ringraziarla, io mi fermo qua, mia nonna vive in fondo a quel vialet-
to, ci vediamo.
Le cose erano state sopportabili durante la settimana appena trascorsa.
Le dita rotte, che aveva tenute insieme con del nastro adesivo che aveva
strappato da un avviso di una vendita all'asta su una strada di campagna in
Illinois, sembrava che fossero in via di guarigione.
Ma questo zotico che gli aveva dato l'ultimo passaggio lo aveva portato
a considerare che forse era il caso di camminare per le ultime trenta miglia.
L'uomo era sembrato abbastanza innocuo, sulla settantina, con un berretto
dei John Deere e una pila di volantini del Farm Bureau sul sedile davanti.
Ma dopo un paio di miglia, a metà della montagna verso il Blue Ridge
Parkway, l'uomo aveva iniziato a parlare di tori.
«Sei un ragazzo di campagna, ragazzo?»
«No. Sono di Worth.»
«Dove si trova?»
«Vicino a Chicago.»
L'uomo annuì come se ne avesse sentito parlare ma non gli interessasse
veramente. Fece ruotare il braccio fuori dal finestrino del suo Ford Falcon,
indicando alla persona sulla macchina che aveva dietro di sorpassarlo e di
smetterla di stargli alle calcagna.
«Negli ultimi giorni ho vissuto sulla strada», disse Gary. «Non è stato
facile, ma finora ce l'ho fatta.»
«Ti è mai capitato di passare del tempo con le vacche?»
Gary aveva lanciato uno sguardo all'uomo senza girare la testa. Non sa-
peva dove tutto questo stava portando. Forse il vecchio aveva delle sagge
considerazioni da fare e nessuno con cui condividerle. Gary decise di la-
sciarlo parlare. Aveva deciso la settimana prima che avrebbe cercato di
non avere pregiudizi verso le cose. Sarebbe stato aperto verso ogni cosa,
verso ogni persona. Avrebbe abbracciato la pace e la comprensione. Non
avrebbe giudicato, e tutta quell'altra robaccia. Un voto che aveva fatto a se
stesso per compensare tutto il male che aveva visto di recente. Tutto il ma-
le che aveva fatto. Conducimi ciecamente. Lasciami credere.
«No», rispose Gary. «Non so molto delle vacche.»
«Pensavo di sì, vista la tuta da contadino che indossi.»
Gary aveva indosso una tuta. All'inizio si era trovato un po' in imbarazzo
per questo, ma si era sforzato di superare la cosa. Quando si era lasciato la
città alle spalle, non era passato da casa. Era più facile decollare con quello
che aveva già con sé, una sacca contenente occhiali da sole, un'insegna di
cartone arrotolata, una torcia, un pacchetto di sigarette, un paio di canne,
un pettine nero di plastica e duecento dollari che gli erano rimasti dalla
primavera precedente, quando aveva lavorato come segnalatore in un'im-
presa di costruzioni stradali. Dopo due giorni di viaggio si era imbattuto in
un temporale che aveva bagnato gli unici abiti che aveva, un paio di jeans
e una maglietta. Quindi aveva rubato la tuta e una seconda maglietta, blu,
con le maniche lunghe che strappò da una fila di panni dietro a una piccola
casa di mattoni che aveva trovato sulla sua strada. Aveva lasciato qualche
dollaro attaccato al filo.
Ogni due giorni Gary si cambiava d'abito. Oggi era il giorno della tuta.
«No», disse Gary, appoggiando il braccio sul bracciolo del Falcon. Gli
piaceva tenere le dita rotte verso l'alto quando poteva. «La porto solo per-
ché è comoda.»
Il vecchio tossì, sputò fuori dalla finestra, e risucchiò su un molare. Poi
disse: «Ti piacciono le cose comode?»
«Be'», disse Gary. Si interruppe, poi disse: «Certo».
A quella battuta l'uomo rise, anche se Gary non stava seguendo il filo dei
suoi pensieri.
«Non vale per tutti?» disse l'uomo. «A tutti piacciono le cose comode.
Cose che ti fan sentire bene.»
Gary sentì qualcosa indurirsi in fondo alla bocca, con uno scatto. «Sia-
mo in cima alla montagna ora, mi sembra. Mi può lasciare qua, va bene?
Non voglio farla deviare dalla sua strada.»
«No», disse l'uomo. «Vado fino in fondo. E anche tu.» L'uomo si leccò il
labbro inferiore e le sue sopracciglia bianche cespugliose iniziarono a con-
trarsi.
Gary fece passare il braccio attraverso le cinghie della sacca e mise en-
trambe le braccia sul bracciolo. Tese i muscoli delle gambe.
«Sei piuttosto carino, sai, con quei capelli lunghi», disse l'uomo. «Ti pia-
ce quando qualcuno ti passa la mano nei capelli, ragazzo?»
«Mi faccia scendere», disse Gary. Il suo voto di correttezza gli fece ag-
giungere: «Per favore».
«Hai quel bel pelo sulla faccia e sul mento, come un uomo vero. Scom-
metto che hai dei bei peli anche tra le gambe, vero? Scommetto che è bello
sentirli!»
E l'uomo, con un grido deliziato, appoggiò una mano sull'inguine di
Gary che spinse la porta e saltò giù.
Mentre si allontanava rotolando dalla macchina verso il ciglio della stra-
da, si accorse con sollievo che l'uomo non rallentava. La portiera aperta
della macchina si richiuse a causa della pendenza della strada e della velo-
cità del furgone che continuava a correre sulla montagna.
Poi Gary si sedette e vide il taglio sulla gamba.
«Dannato pervertito!» gridò Gary in direzione del Falcon che stava
scomparendo. La gamba gli pungeva e lui per un po' cercò di tenersi la fe-
rita. Ma il sangue diminuì e lui si alzò, prese atto del fatto che la tuta era
rovinata, e si fece scivolare la sacca sopra la spalla.
Doveva ancora percorrere circa trenta miglia, e non se la sentiva al mo-
mento di fare un altro tentativo con una macchina.
Voto di pace e comprensione o meno.
Dalla sala da pranzo giunse la voce di sua madre: «Sei venuta a casa a
piedi da scuola oggi?»
Dall'ingresso Sharon rispose: «Sì. Rachel voleva andare a fare spesa pri-
ma della partita di pallone. Io non ne avevo voglia».
I piatti che venivano rimessi a posto tintinnavano. Sua madre era sempre
puntuale, sempre corretta, sempre una buona moglie per il dottor Louis Ri-
chards, Jr. Si cenava in sala da pranzo, mai al tavolo della cucina. I tova-
glioli erano sempre di stoffa, e i piatti sempre di porcellana.
«Cielo, Sharon. Tu e Rachel non avrete litigato, vero?»
«No.»
Sharon strinse le braccia attorno alla cartella e iniziò a salire a due scali-
ni alla volta, fermandosi in cima quando le venne un crampo allo stomaco.
Sì, Signore, per favore, fa' che succeda. Il principio della fine.
Ma i crampi terminarono in fretta come erano arrivati, senza lasciare al-
tro che un leggero senso di bruciore. Lei percorse il corridoio verso la sua
camera da letto e si chiuse la porta alle spalle.
Buttò i libri sulla scrivania. Si sedette sul letto, facendo attenzione a non
stropicciare le coperte in modo da non doverlo rifare prima di scendere a
cena. Tutto intorno a lei c'erano arredi di buon gusto scelti da sua madre.
Sedie bianche, tende bianche, un copriletto bianco. Puro e bianco, come la
loro figlia. Su un pezzo di sughero incorniciato c'erano foto di Davy Jones
e Walter Koenig, strappati da alcuni numeri della rivista 16 Anni. Non c'e-
rano poster, comunque. I poster erano volgari.
Qualcuno bussò alla porta della camera da letto, e dal corridoio, Lou, il
suo fratellino, disse: «Stasera scelgo io il programma alla TV. Alle sette e
mezzo c'è uno special di Banana Split».
«Bene», disse Sharon. «Adesso scompari.»
Lei giacque sul letto e allungò il braccio per aprire il cassetto del suo
comodino. Da dentro estrasse un piccolo album di ritagli. Lo aprì, lo tenne
sollevato, e rimase a fissare i nuovi ritagli che aveva messo insieme da a-
prile.
«Gli avvenimenti del giorno» per lei era sempre stata una parola sporca,
fino alla primavera scorsa. Qualsiasi cosa oltre alla città di Neison in cui
viveva non aveva niente a che fare con lei, con loro. Chi aveva tempo di
occuparsi di cose che non fossero la famiglia, gli amici e le majorette? Ma
poi Sharon si era innamorata. Lo aveva visto nel notiziario della sera, e la
sua faccia e i suoi occhi le avevano rapito il cuore. Era bello.
Il padre di Sharon lo odiava, naturalmente. L'uomo era un radicale, l'uo-
mo era un antiamericano. Voleva uguali diritti per i neri. L'uomo voleva la
fine della guerra. L'uomo era un liberale. Il governo doveva stare attento a
uomini scaltri come quello.
Gli amici di Sharon non sapevano nemmeno chi fosse quell'uomo. Beh,
forse avevano sentito fare il suo nome e di certo conoscevano suo fratello
morto, ma non leggevano mai i giornali, e non guardavano mai la televi-
sione se non per vedere il Selvaggio Selvaggio West e Gomer Pyle.
Bobby.
Sharon aveva scritto il suo nome su tutti i suoi quaderni. Aveva preso il
suo vecchio album dei ritagli delle girl-scout, aveva strappato via tutti i ri-
cordi dei campeggi e aveva dato inizio al suo libro di Bobby.
E poi lo avevano ucciso. Gli avevano sparato alla testa nella cucina di un
albergo il 5 giugno. Morì il 6 giugno. I suoi amici avevano stretto le spalle.
Suo padre aveva detto: «Se dai tempo al tempo le cose si sistemano. Scom-
metto che il governo ci ha qualcosa a che fare. Sono più furbi di quanto la
gente non voglia credere».
Il 7 giugno Sharon aveva invitato Darrell Harner a casa sua mentre i suoi
genitori erano fuori. Nel cortile, dietro il gazebo, aveva scopato la stella
del calcio per alleviare il suo dolore.
La cosa non aveva aiutato. Aveva passato il resto dell'estate ad evitare le
telefonate insistenti di Darrell.
E adesso.
Sharon delicatamente rimise l'album nel cassetto. Poi si diede ancora un
pugno sullo stomaco, stringendo i denti, stavolta implorando il Diavolo,
dal momento che Dio non sembrava interessato.
***
Si era presentata una terza scelta. Non un tuffo dal belvedere, né ritorna-
re dai suoi genitori. Ma camminare appresso ad un uomo pieno di lividi e
in disordine con indosso una tuta verso un posto nelle montagne di cui non
aveva mai sentito parlare.
Camminarono per almeno quindici miglia prima che iniziasse a fare
buio. Sharon era stanca, ma strinse i denti e non lo fece vedere. Ogni volta
che una macchina passava, e lei suggeriva che facessero l'autostop, lui ri-
spondeva di no.
Parlarono, prima della vita selvaggia che vedevano sui margini della
strada, poi della famiglia, poi degli avvenimenti del momento. Sharon
chiese a Gary cosa pensava dell'assassinio di Bobby Kennedy. Lui le disse
che era un maledetto peccato.
Sharon pensò che le sarebbe piaciuto quest'uomo, nonostante la sua tuta.
Un altro miglio, e Sharon disse a Gary di essere incinta.
Alle sei e mezzo, Sharon si fermò stanca morta e aspettò che Gary si ac-
corgesse che non gli stava più dietro. Lui si fermò dieci metri più avanti e
si guardò alle spalle.
«Cosa succede?»
Sharon sospirò. «Vorrei che tu ripensassi all'idea di chiedere un passag-
gio. Cosa abbiamo ancora domani? Altre dieci miglia?»
«Se il passaggio si dimostra un pericolo?»
«E se non lo è? La maggior parte della gente è gentile, non è vero?»
«Non so.»
«Se ci tagliano la gola non darne la colpa a me. Okay?»
«Stasera ci riposeremo e inizieremo domani.»
«Aspetta, arriva qualcuno.» Sharon inclinò la testa, ascoltando il veicolo
che si avvicinava dalla curva.
«Io no...»
Sharon iniziò a fare dei cenni con la mano. «È un vecchio. Mi sembra a
posto!»
«Bene», disse Gary. Il camioncino vibrò sulla strada e accostò. Sharon si
avvicinò al finestrino e parlò a voce bassa per un momento. Poi fece un
cenno a Gary. «Va nella nostra direzione! Muoviti.»
Gary raccolse la sua sacca e si avvicinò. «Se il tipo inizia a parlare di
mucche, io me la filo prima che tu faccia in tempo a strizzare gli occhi.»
«Cosa vuoi dire?»
«Niente.»
Il guidatore si chiamava Mitchell. Non aveva niente da dire sulle muc-
che e le tute. Sharon era seduta tra i due uomini.
«Mancano solo dieci o quindici miglia a Conner Falls, e il tuo volantino
dice che il posto è da quelle parti», disse lei.
Gary annuì ma non disse niente.
Andava bene, pensò lei. Se lui non apprezzava la cosa lo avrebbero fatto
almeno i suoi piedi.
***
Sunrise si svegliò con il sole: uomini e donne uscirono dalle loro capan-
ne e si riunirono sul pascolo che c'era in cima alla montagna e guardarono
il punto rosso che si alzava da una cima lontana e iniziava la sua salita nel
cielo. Stavano in silenzio durante questo rituale mattutino. Tutti in piedi a
fissare il cielo.
Gary e Sharon, che avevano dormito su delle stuoie nella capanna che
avevano trovato nella nebbia, uscirono nel portico a guardare l'assemblea
mattutina della comunità. La donna che li aveva salutati la sera prima se
n'era andata prima che Sharon e Gary si fossero svegliati. Ma la sera prima
aveva detto loro che si chiamava Gem.
«È un posto più grande di quello che avrei creduto», sussurrò Gary a
Sharon, ma lei lo zittì, per paura che se avessero parlato prima che fosse
giunto il momento sarebbero stati scacciati di nuovo sulla strada ghiaiosa.
C'erano forse un centinaio di cittadini di Sunrise, la maggior parte di lo-
ro uomini e donne tra i venticinque e i trent'anni. Alcune donne accudiva-
no dei bambini, nessuno dei quali aveva più di tre anni. Gli abiti che indos-
savano erano strane combinazioni, tutti di certo adatti alla temperatura au-
tunnale che iniziava a rinfrescare, ma brutti e stridenti e senza alcuno stile.
Nessun completo pantalone alla moda e abiti a tubino nel mucchio. Sharon
provò una fitta di superiorità, poi ne provò vergogna. Gli abiti di Gary era-
no altrettanto bizzarri di quelli di queste persone. E Gary era davvero una
brava persona.
Le altre capanne erano vicine a quella in cui avevano dormito Gary e
Sharon; alcune di queste erano all'aperto, altre al riparo degli alberi. Sha-
ron era pronta a scommettere che questo posto era stato una chiesa o una
fattoria modello per un certo tempo.
Dopo dieci minuti passati in meditazione il gruppo si sciolse e la gente
iniziò a sparpagliarsi, parlando liberamente. Gary lasciò il portico e si di-
resse verso una coppia che stava seduta sotto un albero nelle vicinanze, te-
nendosi per mano. Sharon lo seguì.
«Ciao», salutò Gary.
I due guardarono in su. Sbatterono gli occhi e sorrisero. L'uomo aveva i
capelli biondi e sporchi che gli arrivavano alla vita. La donna, di origini a-
siatiche, portava i capelli raccolti in numerose trecce legate con fili di ca-
prifoglio.
«Bene, ciao», disse l'uomo.
«Siamo arrivati la notte scorsa», disse Gary. «Abbiamo dormito in quel-
la capanna, con una donna che si chiama Gem. Siamo nuovi.»
«Bene, bene, amico», disse l'uomo. Sembrava che avesse un impedimen-
to nel parlare, le sue parole uscivano un po' strascicate. Sbatteva spesso gli
occhi: e il bianco dei suoi occhi non era esattamente bianco. Buttò i capelli
indietro e tese la mano a Gary e Sharon. «Dovete venire a incontrare A-
braham.»
«Chi?» chiese Sharon.
La donna ridacchiò. Sembrava strano, una donna di trent'anni che ridac-
chiava come una ragazzina. Ma era un suono talmente felice che Sharon
non poté fare a meno di sorridere. «Abraham per Wind. Giona per me. È il
fondatore di Sunrise, quello che ci ha accolto qua.» Anche la sua voce era
un po' strascicata. Sharon si chiese se l'altezza del posto giocasse degli
scherzi con i suoni.
L'uomo biondo si alzò e prese la donna per il braccio. «Venite con noi.
Non dorme, anche se non è uscito per vedere l'alba. Lui è molto impegna-
to, a organizzare per noi, a fare per noi, si vede di rado.»
«A fare cosa?» chiese Sharon.
Allora fu il turno dell'uomo di ridacchiare, e la donna si unì a lui. Il suo-
no della risata era acuto e aperto e libero. Gary guardò prima la coppia poi
Sharon, e quando Sharon rise, lo fece anche lui. La coppia condusse Sha-
ron e Gary attraverso il pascolo a una lontana fila di alberi, dove, per conto
suo, si ergeva una capanna un po' più grande delle altre. Superarono una
donna seduta sull'erba, che stava occupandosi di due bambini piccoli. Uno
dei due, una bimbetta, aveva una testa decisamente troppo piccola per il
suo corpo. All'altro bambino, un maschietto che non doveva ancora avere
compiuto due anni, mancavano entrambe le braccia.
Sharon sentì che i polmoni le si stringevano, e si costrinse a guardare
avanti e non i bambini.
Alla capanna, Wind salì sulla veranda e bussò alla porta.
«È molto occupato, ma mai tanto da non riuscire ad accogliere i nuovi
ospiti», disse Wind. Bussò di nuovo. Ci fu una risposta dall'interno, un
suono profondo e caloroso che sembrava un miscuglio tra Babbo Natale e
Charlton Heston.
«Entrate.»
Come Gary e Sharon si avvicinarono, Wind tese la mano e trattenne
Sharon.
«Oh, solo uno per volta», disse Wind. «Deve incontrarsi con noi uno per
volta, per conoscerci, per capirci.»
Sharon guardò la donna. Giocava con una delle sue treccine e sorrideva.
«Okay», concesse Sharon.
Si sedette sullo scalino più basso della capanna, mentre Wind e la donna
si allontanavano.
Gary entrò.
Ottobre 1968
Divisero la capanna con la donna che si chiamava Gem e i suoi tre mari-
ti. Nella capanna, che aveva solo due stanze, una era quindi per Gem e la
sua famiglia, e la seconda, quella sul davanti, per Sharon e Gary. Gem era
dolce e i suoi mariti (agli occhi di Dio, aveva detto loro) erano tranquilli e
senza pretese, così simili l'uno all'altro da sembrare gemelli. Passavano le
giornate a disegnare, a zappare il terreno, a cantare e a dormire.
E tutto quello che Gary poteva fare, era giacere vicino a Sharon la notte,
e non tirarsela vicino e fare l'amore con lei. Lui la amava. La amava tanto
da provare dolore. Lei non si faceva più le trecce, lasciava i suoi capelli li-
beri, e vederglieli ondeggiare al vento lo eccitava. Quando mangiavano
tutti insieme, cosa che avveniva sul pascolo quando il tempo era buono o
nella grande sala da pranzo quando pioveva, lui riusciva a malapena a
mangiare a volte, guardando i suoi movimenti aggraziati e il suo sorriso
aperto e onesto.
Questo posto aveva fatto meraviglie per lei.
Perché non aveva fatto lo stesso per lui? Lui si sentiva perso e solo. Ci
vuole solo tempo, diceva a se stesso. Non tutti si liberano facilmente della
mancanza di fiducia. La notte pregava il potere dell'universo perché gli
permettesse di essere assorbito dalla libertà, ma per adesso stava conti-
nuando a lottare.
Una cosa che lo rendeva nervoso era il fatto che Sharon sembrava infa-
tuata del capo del gruppo, che chiamava Bobby. Le sue comparse, una vol-
ta al mattino a colazione, e una volta alla sera a cena, duravano per tutto il
giorno nella conversazione di lei. Gary, per questo motivo, non pensava
che l'uomo gli piacesse tanto, e chiamarlo Amico era difficile.
Scopare Sharon lo avrebbe aiutato ad alleviare le sensazioni cattive, an-
che se il pensiero non faceva che farlo sentire più in colpa.
Gary odiava il cibo. Aveva tutto lo stesso sapore, come se fosse stato sul
punto di andare a male, e più il tempo passava più aveva questa sensazio-
ne. Le donne di Sunrise potevano essere capaci di fare un quadro o tessere
una vestaglia, ma di certo non erano capaci di cucinare niente di comme-
stibile. Amico era il responsabile della preparazione del cibo. Era lui che
ordinava le provviste, ed era lui che controllava i lavori in cucina, ma di
certo il tizio non sapeva niente sul gusto. Gary si chiedeva sempre più
spesso cosa ci facesse quell'uomo con il suo tempo libero. Non lo passava
di certo leggendosi libri di cucina.
Dopo aver mangiato, Gary non si sentiva mai completamente bene. Sen-
tiva la lingua spessa e si sentiva stupido. Anche il suo modo di parlare si
era fatto strascicato come quello degli altri abitanti di Sunrise. Si muoveva
con una maggiore lentezza. A volte faceva solo finta di mangiare, poi sci-
volava fuori da Sunrise all'emporio della vecchia sulla Strada 947 e si
comprava delle merendine dalla macchinetta esterna con il poco denaro
che gli era rimasto nel sacco.
In qualche modo, sapeva che se Amico lo avesse scoperto, l'uomo non
ne sarebbe stato per niente felice.
Ma in qualche modo, a Gary non importava. Tollerava tutto questo fin-
ché non avesse trovato la forza vitale che cercava. Finché fosse stato av-
volto dalla pace e dall'amore che tutti gli altri intorno a lui sembravano a-
vere colto.
Ne ho bisogno adesso, portamela adesso, lasciami avere abbastanza fi-
ducia da trovarla!
La sola forza vitale di cui fosse cosciente era il bruciore che provava
quando era vicino a Sharon. Lei lo abbracciava e gli sorrideva, ma nient'al-
tro. Lui sapeva che era innamorata di Amico. La maggior parte delle donne
di Sunrise sembravano esserlo. E anche alcuni uomini. E tutto questo dove
lo portava?
Gary si diede al giardinaggio e iniziò ad aiutare a riparare le molte ca-
panne di Sunrise. Scherzava con gli altri che lavoravano accanto a lui, con
una zappa o un martello tra le mani.
E aspettava la salvezza, sognando Sharon ad occhi aperti.
Novembre 1968
Sharon sedeva nell'erba sul limitare del pascolo, con i piedi che le pen-
devano nel pendio. Aveva le mani intrecciate intorno al rigonfiamento che
le cresceva nella pancia. Il sole stava calando, e la riunione serale si era
sciolta. Oltre il declivio, le poiane volavano in circolo. Su un filo d'erba vi-
cino a lei si era posata una cavalletta, che stava scrutando l'aria con le sue
antenne. Gary era in giro con alcuni degli altri, che stavano trasportando le
ultime zucche della stagione. C'era una leggera brezza che soffiava sul de-
clivio e sul pascolo. L'aria odorava di rame e di cannella.
Bobby si venne a sedere vicino a Sharon. Le prese la mano e le diede un
colpetto. Sharon voleva entrare dentro di lui, ma non osava. Era troppo im-
portante per quello. Che lui fosse uscito durante il giorno per vederla era
l'unica gloria di cui aveva bisogno.
«Grazie di tutto», disse Sharon timidamente.
«Grazie a te. Sei una donna amorevole e innocente.» Rimasero seduti in
silenzio. Sharon all'improvviso ebbe paura che se non avesse detto nient'al-
tro Bobby se ne sarebbe andato. Quindi chiese: «Mi chiedo chi abbia vinto
le elezioni oggi?»
«Elezioni?»
«Il presidente?»
«Non so di cosa stai parlando», disse Bobby, e Sharon seppe che, nel
suo oblio, aveva ragione lui. Anche lei doveva dimenticare, come aveva
fatto lui. Come era saggio. Come era buono. Come era innocente.
Grazie a Dio, pensò.
Bobby rimase seduto un po' più a lungo, poi si alzò e si diresse alla sua
capanna a fare il suo lavoro. Qualunque esso fosse. Lui lo sapeva, e questa
era l'unica cosa che avesse importanza.
Dicembre 1968
Febbraio 1969
Bobby era estatico. Venne a vedere Sharon, che era stata portata fuori
sul portico della capanna a riposare nonostante il freddo vento invernale.
Le baciò la fronte, poi sollevò il bambino per esaminarlo. Sharon guardava
l'uomo gentile e pieno di amore mentre portava la minuscola bambina alle
guance, poi la girò per presentarla alla congregazione sotto la neve.
«Un minuscolo bene prezioso!» disse. «Un bambino innocente in questo
mondo, che ci è stato regalato. Libera dalle leggi terribili del mondo. Libe-
ra di essere quello che deve essere.»
Ci furono dei mormorii tra la folla, la maggior parte erano suoni di pia-
cere e di stupore.
Bobby si girò di nuovo verso Sharon. Aveva gli occhi umidi e segnati.
«Ho chiamato la bambina Jewel», disse. «Un gioiello del nostro amore. Un
gioiello che brillerà nei nostri cuori. Sarà per sempre parte di noi.»
Baciami, pensava Sharon.
Bobby si piegò in avanti e baciò Sharon sulle guance. La sua anima esul-
tava. Bobby restituì la bambina, e Sharon ne cullò il minuscolo corpo con-
tro il collo. Lui scese gli scalini del portico e sillabò il nome della bambina
mentre con i piedi tracciava le lettere nella neve. In grosse lettere, che tutti
potessero vedere.
«Jool.»
Bobby si girò, ammiccò e ritornò alla sua capanna. Attraverso le lacrime
Sharon vide Gary che spostava il peso da un piede all'altro, in piedi in
mezzo alla folla. Lei voleva chiamarlo, dirgli di sorridere, la bambina stava
bene e la loro minuscola parte di mondo era a posto, ma aveva la gola sec-
ca per le grida del parto, quindi chiuse gli occhi e lasciò che Gem e Willow
le dessero qualche colpetto e si occupassero di lei e che poi la portassero
dentro quando il suo corpo si era raffreddato.
Luglio 1969
Sharon conteneva a fatica la sua felicità. Mentre Joo prendeva il latte dal
suo seno e Gem giaceva vicino a lei sull'erba, contando le foglie di un ra-
mo sporgente, lei si ripeteva con la mente quello che Bobby le aveva detto
mentre stavano cogliendo i mirtilli.
«Abbiamo una cosa molto speciale stasera a cena», aveva detto.
«Di cosa si tratta?» gli aveva chiesto. Dio, com'era bello quell'uomo, an-
cora più bello del primo Bobby. Non riusciva nemmeno a ricordarsi il co-
gnome del primo Bobby, o perché lo aveva amato.
«Non sarebbe così speciale se te lo dicessi», disse lui, mettendo il brac-
cio intorno a Sharon e toccandole gioiosamente il mento. «Ma ha a che fa-
re con il tuo amico Gary. Non dirglielo. Avrò bisogno del tuo aiuto. Mi
aiuterai stasera, vero?»
«Oh», disse Sharon. «Naturalmente!» Joo tossì, e Sharon si mise la bam-
bina in grembo e le diede qualche colpetto affettuoso sulla schiena.
Gem disse: «Ce ne sono oltre trecento!»
Certo che ti aiuterò, pensò Sharon.
Giocò la sua parte per il resto della giornata. Era un cittadino di Sunrise
drogato e felice. Finì di rastrellare, strappò le erbacce dai fagioli, e si unì
agli altri per il pranzo al pascolo. Tenne persino la bimba di Sharon, fa-
cendo attenzione a non guardare le sue gambe direttamente. Sperava che il
sudore freddo che aveva sulle braccia venisse interpretato come sudore di
fatica. Quando Gillian arrivò zoppicando per unirsi alla folla del pranzo e
tutti mormoravano che la poveretta doveva essersi fatta male, ma come so-
no allegre quelle bende tutte colorate, Gary dovette lottare per controllare
la rabbia.
Un professore pazzo.
No, era anche peggio. Un imperatore pazzo, re di tutto quello che vede-
va, isolato sulla montagna, al sicuro, lontano dal mondo terribile di cui
spesso borbottava.
Sharon, buon Dio, perché siamo qua?
Gary non poteva permettere che questa pazzia continuasse. Ma non era
stato in grado di immaginare come interromperla.
Se non uccidendo Amico, e lui aveva fatto un voto di non commettere
più violenza.
Nel pomeriggio, mentre riparava la cancellata di una capanna, lottava al-
la ricerca di idee. Niente gli sembrava possibile. Non c'era modo di con-
vincere la comunità di quello che stava succedendo. Amavano questo po-
sto. Amavano il loro Bobby, il loro Abraham, il loro Giona. Il suo Amico.
Forse, quindi, avrebbe solo dovuto prendere Sharon e scappare. Lasciare
gli altri alla loro euforia.
Sì, decise, mentre suonava la campana della cena, e gli altri giardinieri
ridevano e raccoglievano i loro attrezzi. Dopo cena avrebbe preso Sharon e
se ne sarebbe andato da quel posto.
Anche se avesse dovuto imbavagliarla. Anche se avesse dovuto imbava-
gliarla e legarla e gettarsela sulle spalle.
Sharon era seduta tra Gem e Gary, e teneva la sua bambina. Erano in sa-
la da pranzo perché la pioggia aveva ricominciato a scendere, battendo sul
tetto di metallo ed entrando dalle finestre aperte. I piedi di Sharon batteva-
no al ritmo della pioggia. Non riusciva a fermarli e non voleva. Stasera,
Bobby le avrebbe permesso di fare qualcosa di speciale.
I piatti di portata giravano per i tavoli, e tutti prendevano le loro porzioni
di purè e crema di grano. Bobby era seduto al suo solito posto al tavolo
principale, con le mani raccolte, sorridente. Era così dolce che non si ser-
visse mai quando gli altri mangiavano. Diceva che voleva sempre assicu-
rarsi che prima ce ne fosse abbastanza per loro. Gary stava seduto in silen-
zio, muovendo le patate con la forchetta.
«Rallegrati», gli disse lei, toccandolo col gomito. Lui le sorrise.
«Così va meglio», disse lei.
E poi Bobby si alzò e sollevò la mano per chiedere l'attenzione di tutti i
presenti.
1970-1979
Whatever
di Richard Christian Matheson
Ti dovrai arrendere
Alla verità tanto triste
Alla sporca verità.
Boz Scaggs, Lowdown
Rolling Stone
MEMO Interno
M:
Cattive notizie. Ho guardato tra le pagine di Matheson. Sono francamen-
te stupita. Sono davvero affascinanti. Tuttavia in qualche modo elusive.
Nonostante l'orrore di ciò che è successo in realtà, non sono nient'altro che
una raccolta di ritagli. Evocativi. Ma fugaci. Non mi sorprende che Esqui-
re e The New Yorker abbiano deciso di lasciar perdere. Il mio suggerimen-
to è che noi facciamo lo stesso.
MOSCHE.
Colpiscono la pelle come proiettili di sangue coagulato. Si attaccano alla
pietra liscia, alle mura della roccaforte, dormendo all'ombra che striscia
furtiva; iceberg d'ombra.
Turisti. Calore.
Mezzelune salate sotto le ascelle. Sandali che strisciano sulla roccia anti-
ca. Sigarette turche. Amanti si tengono le mani umide.
Una città abbandonata. Morta da molto tempo. Da prima della nascita di
Cristo. Odiata. Martellata sul legno con chiodi; lasciata a sanguinare, come
un vitello al macello. Grida senza risposta. Ragioni non fornite.
Una coppia.
Giovane. Diciannove. Diciassette anni. Lui. Lei.
Una relazione. Due mesi. Stati d'animo incontrollabili. Passione e paura.
Sofferenza.
La Nikon di lei che ritaglia qualche attimo di tempo: un bisturi che scat-
ta dolcemente. Ricordi per un libro. Un album. Un mausoleo da salotto.
Una lotta continua. In macchina da Parigi a Montecarlo. Fermandosi per
strada per un caffè ghiacciato. Un paese affascinante.
Lui apre la custodia della chitarra. Le corde di metallo bollenti sotto il
sole; dita che brandiscono. Suona una nuova ballata. Canta a voce bassa
Dei bambini si radunano. Lui sorride, un santo a piedi nudi. Parla di lei.
Lei cerca di non ascoltare. Sente che la sua vita è spazzata via. Lui non è
più suo.
Lei inizia a piangere.
Lui sta tornando in America. Da quel bastardo di Tutt.
Per i Whatever.
Rivista Bam.
9 dicembre 1969
Quando ti ho incontrato
non servivo a molto.
Una confezione da sei di nulla.
Non ero sicuro da toccare
Rolling Stone
Appunti sparsi. Febbraio 1970
Il gruppo di recente formazione Whatever sta al momento incidendo,
con un mago della produzione di uno studio di L.A. Purdee Boots. Si dice
che i Beatles e gli Hollies stiano collaborando e che le incisioni, fino a ora,
siano eccezionali. L'album, ancora senza titolo, deve uscire per VOICE
Records entro la fine dell'anno.
Rivista Crawdaddy.
Agosto 1976
«E Hubris.
«Stanley Hubris. Uno dei nostri migliori registi», dice ridendo Greg Ma-
gurk, socio di Rikki Tutt e fondatore insieme a lui dei Whatever. Al mo-
mento si trova sul bordo della piscina, sotto a cinquanta chili di ossido di
zinco, una lattina da un metro e ottanta di Crisco.
«Ci accusano sempre di voler fare lo sgambetto ai giornalisti, sai? Come
se commerciassimo in chiacchiere da sabbie mobili e sfidassimo gli iniziati
ad avvicinarsi.» Tutt è stufo.
È una giornata blu oltremare, perfetta a Honolulu. Tutt, Magurk e il re-
sto dei Whatever si stanno prendendo qualche giorno di vacanza lontano
da Los Angeles, mentre limano le canzoni che hanno appena scritto per il
nuovo album, Philip's Head, un tributo al membro della band Phil Zapata,
che è morto il mese scorso al Greenwich Village. Tutt, un pilota civile, ha
portato la band al funerale a Sag Harbor in aereo, in un Avianca 707 che
avevano comprato e riarredato, un ritiro galleggiante, che hanno sventrato
e riempito di oggetti edonistici caldi e pelosi.
Il jet, che i Whatever chiamano SPOT, li ha portati sulle isole e porta il
gruppo a tutti gli spettacoli. Tra gli ospiti occasionali dell'aereo si contano
la moglie di un primo ministro che era scappata per unirsi alla danza libera
di Tutt e Magurk, e un vescovo cattolico che aveva perso la fede dopo aver
scoperto che il sesso non coinvolgeva esclusivamente lui, e di conseguenza
aveva gettato via il cappello rosso e aveva finito con il vivere con un
membro delle Sister Sledge.
Casualmente, chiedo se è vero del buco nella testa di Zapata.
Tutt annuisce, sgocciolando ananas sul terrazzo della sua casa in affitto a
Diamond Head. «Trapanazione. Se l'è fatta da solo. Ha deciso la misura
della punta e... è entrato.»
Magurk gioca con un telescopio, chiude un occhio davanti alle lenti di
precisione, alla ricerca di qualche indesiderato.
«Aveva sempre voluto una maggiore elevazione mentale. Per come la
vedeva Phil, i bambini nascono con il cranio aperto... e finché non diven-
tiamo adulti...» Cerca un'immagine.
«... il casco non ossifica», suggerisce Tutt.
«... giusto. A ogni modo, si forma, e rinchiude le membrane che cir-
condano il cervello e bloccano le pulsazioni che provengono dal cuore.
L'idea è che, lì dentro, il cervello è troppo compresso e ha fame di sole e di
un po' di aria fresca. Quindi Phil si mette in testa...»
«... a ogni modo, temporaneamente», aggiunge Tutt.
«... che stava perdendo il contatto coi sogni e così via. Poi si immagina
che il suo equilibrio mentale si stia muovendo verso l'egoismo e la psicosi
finale, che, argomenta Phil, era l'eredità dell'uomo, collettivamente e in-
dividualmente. A quel punto decide di farsi un buco in testa.»
Tutt sta canticchiando e lottando con un cocco che continua a sfuggire al
suo grembo e al suo coltello, e rotola via.
«A ogni modo lo ha fatto a mano con questo strano strumento che aveva
comprato in un negozio di strumenti chirurgici. Si chiama trapano. Una
specie di cavatappi che fai funzionare manualmente. Una specie di punta
di metallo circondata da un anello di denti da sega», spiega Magurk.
Tutt continua. «La punta entra nel cranio. Poi tieni il trapano fermo fin-
ché la sega rotante scava una galleria, dopo di che può essere estratta. Se
tutto va bene, la sega rimuove un disco di osso ed espone il cervello.»
«Assumendo che ce ne sia uno», dice Magurk. Abbassa la voce, con tri-
stezza. «C'era una confusione terribile, l'ha asportato per metà.»
«I poliziotti dicono che sembrava che avesse un grosso fiore in fronte.»
Magurk mette a fuoco il telescopio. «Non si può provocare il benessere
imminente. Chi l'ha detto?»
«Il tizio al McHale Navy?»
Annuiscono con aria sobria.
Anche se Tutt e Magurk sono stati criticati per aver portato la conversa-
zione su un piano impertinente e crudele, dopo un pomeriggio con loro, è
evidente che questo genere di conversazione è solo il loro umorismo priva-
to fatto di botta e risposta, che si delizia di accoppiamenti esoterici. In real-
tà hanno in mente di dare una percentuale considerevole dei profitti di Phi-
lip's Head alla vedova di Zapata, Joyce, che è rimasta sola con due bambi-
ni piccoli, Lon e Will. Tutt e Magurk sono i padrini dei ragazzi e li chia-
mano spesso mentre sono in giro. Nel frattempo hanno contattato molti
personaggi importanti che dovrebbero prendere il posto di Zapata alle ta-
stiere nell'album.
E per quanto riguarda le nuove canzoni?
«Ci piacciono. A Phil sarebbero piaciute. Ma prima di incidere, voglia-
mo provare il nuovo materiale in piccoli club. Qua sarebbe perfetto. Molto
sottotono. Sono tutti felici alle Hawaii.»
«Anche i lebbrosi sono felici.»
«A ogni modo siamo venuti per evitare i cattivi scribacchini.»
Vuole dire i critici. Non è che la band abbia cattive recensioni. È che è
inevitabile che Tutt e Magurk vengano definiti la voce del loro tempo. Ma
loro non sono mai andati in cerca di quel tipo di gratificazioni.
«Ci trattano come se fossimo qualcosa di speciale. Voglio dire, andiamo,
ragazzi, chi ci ha definito la coscienza trafitta dell'intorpidimento post-
hippy? Scriviamo solo canzoni!»
«Guarda», dice Magurk, «non neghiamo quello che succede. Quando ne-
gli ultimi anni si è visto il palazzo pieno di re venali, con i loro valletti in-
triganti che spiano la concorrenza, con il paese nel mezzo di questa guerra
terribile, coi bambini che bruciano vivi, come si fa a scrivere d'amore?»
Rimangono in silenzio. Guardano le onde che si infrangono. Le nubi si
spostano lentamente.
Magurk scribacchia qualcosa in un blocco, riscrivendo le parole di una
nuova canzone per cui la band ha già pronta la musica al Music Plant di
L.A. Si chiama «Flesh Diction.»
«Dieci anni fa era facile», dice Tutt. «Per scopare ti bastava vestirti me-
glio di John Sebastian e citare Siddharta.» Guarda il sole che penetra con
lo scarso interesse di un misantropo. «... Cieli di marmellata, sai?»
Magurk non ascolta nemmeno. «Le Hawaii sono un complesso miscu-
glio di uomo e natura», dice a nessuno in particolare, adocchiando una
bambola formosa che emerge dalle onde.
Rivista Billboard.
Settembre 1971
Sono state fatte oggi le Nomination per tutte le categorie Grammy. Non
è stata una sorpresa per nessuno che Whatever di Rikki Tutt e Greg Ma-
gurk abbia avuto la Nomination per le categorie Best New Rock Group e
Best Album. Il primo album del gruppo, Know Means Know, è stato ven-
dutissimo, è tra i preferiti della critica e il numero due nella classifica dei
primi 100 album di Billboard.
Da una conversazione registrata.
Parigi, Francia. Tour Eiffel.
20 dicembre 1974
«E adesso la canzone che sta dando una bella batosta alle classifiche...
'Yeah, Right', dei Whatever, un inno da esaurimento che sembra aver fatto
alzare la temperatura a un'intera generazione. Pete Towshend: prendete no-
ta.»
È uno scherzo?
Chi comanda?
Mi hanno portato la small
Avevo chiesto una large.
Lasciami stare,
andrà tutto bene.
Non è rimasto niente,
ma è tutto mio.
Tagliami la gola
Guardami dissanguarmi.
Non piangere bambina,
Goditi la corsa.
«Signor presidente, parliamo un po' della sua vita privata con la First
Lady. Ho sentito che a lei e a Pat piace molto guardare lo sport alla televi-
sione.»
«La ginnasta sovietica Olga Korbut è un'atleta sorprendente. Non sono
un sostenitore di quel governo, ma la bravura può emergere in posti sor-
prendenti.»
«Ho anche delle spie che mi dicono che è un appassionato della musica
di Stan Kenton. Si balla alla Casa Bianca? Voi due? Soli?»
Nixon ride. Prende un sorso dell'acqua che Frost gli ha offerto.
«Non penso che farei bene a rispondere a questa domanda senza avere
l'autorizzazione di Pat. Lei è molto riservata sulle questioni romantiche.»
«I film preferiti di quest'anno?»
«Vediamo dei film alla Casa Bianca, come sa. Abbiamo qualche amico.
Ci è piaciuta molto The Poseidon Adventure, Jeremiah Johnson. What's
Up Doc? Mi è anche piaciuto Deliverance, ma Pat si è trovata a disagio
per la violenza.»
«E il rock'n'roll?
«Pat è una fan di Helen Reddy. Il disco First Time Ever I Saw Your Face
è decisamente piacevole.»
«Sto parlando del vero rock'n'roll.»
Ridacchia.
«Mi faccia un'altra domanda.»
«Di sicuro conosce i Rolling Stones, i Beatles...»
«Naturalmente. Dei giovani che hanno davvero talento.»
«E i Whatever?»
Nixon sbatte le ciglia. Vede cosa sta per arrivare.
«Si rende conto di quanto siano stati critici verso la sua politica estera?»
«No, non ne sono al corrente.»
«Le posso assicurare, signor presidente, che sembrano parlare a nome
della loro generazione e rispecchiare l'insoddisfazione dei giovani ameri-
cani.»
«La gente dell'Asia sudorientale ha bisogno del nostro aiuto.»
«E allora cosa mi dice degli altri problemi? Una delle canzoni numero
uno della band, 'World of Hurt', riporta l'accusa dei membri della band su
quella che loro pensano sia l'apatia di Washington sul problema dell'elimi-
nazione dei rifiuti tossici. Di certo ne è stato informato.»
Nixon fa un sorriso tirato, stringe le mascelle, riflette.
«È una domanda o un'accusa?»
«Perché i membri della band sono stati picchiati e arrestati dalla polizia
durante una manifestazione per la pace al Washington Monument? È a co-
noscenza dell'arresto?»
«Stiamo parlando di politica o di musica rock?»
«Stiamo parlando della sua popolarità che sta diminuendo tra i giovani
degli Stati Uniti, signore.»
Nixon si asciuga il labbro superiore.
«Loro credono che il suo governo stia portando avanti una campagna
non dichiarata e immorale di violenza militare nel sudest asiatico e che lei
voglia blandire le voci dell'opposizione. Che lei sta portando al macello i
giovani del suo paese.»
«Non si brucia la bandiera degli Stati Uniti. Non si fa. Questa band... lo
hanno fatto sul palcoscenico.»
«E cosa mi dice del loro oltraggio e della loro disperazione... in realtà di
quella dei giovani di tutto il paese?»
«Non si brucia la bandiera.»
Quando Tutt la vide per la prima volta, disse che aveva visto la fine.
Lampeggiava come un avvertimento precognitivo in fase REM, una
mezza immagine. Uno sguardo attraverso il buco della serratura di una
forma uccisa, buttata, non si sa dove, nei suoi pensieri. La sensazione che
niente di buono avrebbe potuto venire dallo stare con lei.
Tutt ricordava che lei aveva detto poco. Un sorriso che rivelava qualco-
sa. Niente. Tutto quello che aveva bisogno di credere. Era il suo dono: se
ne era accorto troppo tardi.
Lei era scura. I capelli. Gli occhi. I gioielli. Aveva sopracciglia perfette
su un bel viso. Sembrava forte, sicura. Tuttavia dentro di lei da qualche
parte cadevano delle lacrime. Tutt lo sentì in un battere di ciglia. Un atti-
mo.
Lei sorrideva con troppa facilità, ricorda di avere pensato. Adesso vor-
rebbe aver fatto più attenzione a quell'impressione fugace, ben presto offu-
scata, spazzata via. Avrebbe pagato in seguito per quella svista.
Nei suoi occhi si sentiva a casa. Gli piaceva il calore della sua pelle, an-
che se non l'aveva toccata. Ma sentiva che era calda, come un raggio di so-
le che scivola silenziosamente tra le persiane.
Poteva sentire il suo profumo e pensare per un momento che era sempre
stato il suo profumo preferito, anche se non sapeva collocarlo. Non riusci-
va a collocare niente di lei. Ma la conosceva... almeno, dice, sentiva che
doveva.
L'astrologo che aveva incontrato nello studio di registrazione durante il
primo album aveva predetto il suo incontro con Inga. Gli aveva detto che
avrebbe incontrato la donna con cui sarebbe stato per sempre. La sua ani-
ma gemella. La compagna che sarebbe stata impressa sulla sua carne come
i sottili fili colorati che attraversano le banconote.
Tuttavia lui sapeva che niente di buono avrebbe potuto provenire dalla
loro vita insieme. Persino il giorno in cui la sposò, aveva paura. C'era qual-
cosa di sbagliato. In quel giorno, nella bella chiesa sopra il mare che rilu-
ceva, piena di amici e familiari, lui si sentì male. Mentre si baciavano,
Rikki sentì che stava morendo.
Caro te,
un'annotazione dai fuori di testa.
Grazie per la lettera. Ci va bene fare l'intervista con te a Miami. L'unico
ostacolo possibile è che stiamo facendo il Midnight Special registrando a
distanza dal Cameo Theater. Siamo in città per fare una manifestazione per
Bobby Seale, o per raccogliere del denaro per le tette di Joan Baez, o qual-
che altra cosa del genere.
Crosby, Stili + Nash (le maledette pastiglie per dormire all'amaranto) ci
aiutano. Abbiamo bisogno di un pomeriggio per controllare il suono. Cosa
ne diresti se facessimo l'intervista il giorno dopo, così possiamo riposare?
Altrimenti saremo costretti a mandare segnali a distanza.
Saremo al Bel Air. Ci piace perché, da bravi narcisisti, ci piace trattarli
male e pretendere bambinaie a tempo pieno che eseguono le nostre richie-
ste impossibili. Soprattutto quelle sordide, che hanno a che fare con le zo-
ne basse.
Tutt vuole comprare un cappotto a Miami. Il suo è stato ridotto in cenere
dalla sua ultima donna che sembra una macchinetta mangiasoldi, mentre
girava per la proprietà di Lennon. Qualcosa a proposito di qualcuno che
stava accendendo un fuoco e aveva bisogno di legna. Lei pensava che a-
vessero detto lana.
Pensi che John falci il prato da solo? Forse costringe Ringo a farlo in
cambio del permesso di entrare negli uffici della Apple a soffiarsi la pro-
boscide.
Non conosciamo bene Miami e ci portano facilmente a credere qualsiasi
cosa, siamo dei turisti ideali. Siamo davvero felici se possiamo farci porta-
re in giro come una specie strana in prestito da uno zoo della costa occi-
dentale e ci piacerebbe controllare tutte le cose affascinanti, comple-
tamente degradanti, o al cui ritmo sia facile ballare.
Ieri sera ho scritto quattro canzoni nuove con Tutt. Deve aver inghiottito
un piano. Da qualsiasi parte lo tocchi, ne tiri fuori della musica.
Ci vediamo a Miami.
MAGURK
Rivista Cashbox.
Settembre 1974
Per l'uscita del nuovo album dei Whatever per la VOICE Records, Just
Forget It, i distributori musicali di tutto il mondo stanno dandosi molto da
fare per entrare in contatto con il supergruppo. Parecchie tra le maggiori
catene musicali hanno annunciato progetti per esporre Just Forget It in tut-
te le loro vetrine, e distribuire magliette e felpe griffate tra i clienti.
Anche Wallach Music City di L.A. esporrà il manifesto dei Whatever su
tutto il lato del negozio che dà su Sunset Boulevard. Sul tetto, la copertina
dell'album, un cervello di due piani attraversato da una diagonale rossa, sa-
rà affiancato da una riproduzione lunga sei metri dell'album del debutto dei
Whatever che recentemente è stato pubblicato di nuovo.
La sera dell'uscita, la VOICE Records terrà una festa a inviti nell'elegan-
te Kaleidoscope Club di L.A. con i membri della band. Tra le iniziative
della costa orientale ci sarà l'allestimento di una carovana di mezzi della
VOICE che trasporteranno i clienti da Central Park ai negozi di dischi di
Manhattan fino alle ore piccole.
Altre feste da «Pazzie di mezzanotte» organizzate a livello internaziona-
le includeranno spettacoli laser, sessioni di ascolto gigantesche, e un con-
certo dal vivo trasmesso via satellite nei cinema.
A chi ha chiesto di questo blitz promozionale, Rikki Tutt e Greg Magurk
hanno risposto stringendosi nelle spalle: «Immagini in cerca di significa-
to».
Parte di articolo.
Albuquerque, New Mexico.
Luglio 1977
Newsweek.
11 settembre 1974
A cosa pensano Rikki (Ronni) Tutt e Greg Magurk dei Whatever? Le te-
nebre del loro secondo e più recente album, Just Forget It, uscito la setti-
mana scorsa, hanno scatenato una straziante polemica.
Mentre il primo album della band, l'intossicante Know Means Know era
surrealista alla Lewis Carroll, pieno di cerebralità post-psichedelica, di
pulsioni che danno dipendenza e ghiribizzi lirici, il secondo è più difficile
da collocare. Non c'è niente del sentimento deliziato della band, catturato
sotto una pioggerellina alla Magritte, degli sforzi precedenti; nessuna in-
venzione fine a se stessa che ti fa storcere il naso.
La band sta cambiando. Philip Zapata, che adesso è completamente sin-
tetizzato, e G.G. Wall, con il suo strumento tormentato da Jimi e dall'espe-
rienza, non riescono a salvare i loro capi rimasti senza fede. Ascoltare la
musica dei Whatever è quasi come guardare un amico eloquente in preda a
una soffocante depressione.
Potrebbe essere che le pagliacciate del Watergate e il conto delle salme
del Vietnam abbiano lasciato Tutt, Magurk e compagnia in uno squallido
funk di cui non riescono a liberarsi? Mentre Just Forget It è un insieme
brillante di canzoni, stupefacenti dal punto di vista lirico, non c'è possibili-
tà di sbagliare sul fatto che siano deprimenti. L'assassinio della cultura pop
ne riempie ogni nota e ogni parola, e il loro primo obiettivo è colpire i po-
tenti dei titoli dei giornali. Il governo è in cima alla lista.
«Addicts» è un gioco ossessivo sulla farsa dello scandalo Watergate,
pieno di imprecazioni amare. Nessuno ne esce vivo, incluso G. Gordon
Liddy, John Dean, John Ehrlichman, e l'ex presidente Richard M. Nixon.
I loro doni e i loro trucchi non diminuiscono, ma gli scrittori delle can-
zoni sembrano averne dimenticato la gioia. Questo è un album di innume-
revoli doni, comunque pesantemente inquieto. I Whatever hanno bisogno
di sollevare la testa dallo squallore della politica di guerra degli Stati Uniti
e dal piagnucolante rancore dei contestatori, prima che Tutt e Magurk sia-
no ancora in grado di dire qualcosa di buono.
FORTEMENTE RACCOMANDATO
Brutte strade, brutta gente. Bar che lavano via la morte dai loro marcia-
piedi ogni mattina. Si erge un capannone abbandonato e in rovina. Dentro,
un tizio che ha fatto un viaggio di migliaia di chilometri all'ora e ha conti-
nuato a viaggiare, si sta svegliando.
Si chiama Oz Peterson, ed era un poliziotto a Chinatown. Fino a quando
lui e il suo partner si erano fatti prendere dagli spacciatori peruviani, e Oz
aveva visto il tizio con cui viaggiava tagliuzzato lentamente, torturato per
strappargli delle informazioni. Il suo partner, Nicky, non parlò. Ma gli ci
erano voluti tre giorni per ucciderlo alla fine. E Oz ha ancora delle imma-
gini da incubo di Nick, appeso come carne da macello, con gli squarci del
coltello che gli aprono il corpo, che sanguina a morte.
Oz si sfrega mentre si sveglia, si prepara il caffè, mentre un sole coperto
dal fumo si alza nel suo loft. È pieno di tele dipinte di immagini esorciz-
zanti di sé. Dopo la sua morte, Oz è scomparso, è crollato, si è messo a be-
re, ha perso la strada, sperando che non lo trovassero più.
Era finito a Los Angeles a dipingere, mettendosi a fare dei lavoretti da
investigatore privato quando aveva bisogno di soldi. Sorveglianze per di-
vorzi, telefoto, diventando grasso. Andava a casa la sera e si metteva a par-
lare ad alcune immagini di Huerredura e a dipingere finché le immagini
non iniziavano a fargli paura. Facce. Bambini urlanti. Lame che tagliavano
il sole. Gocce rosse che gocciolavano sul pavimento del suo loft e lo face-
vano sedere a gambe incrociate a pensare di farla finita.
Ma un colpo alla porta lo fermò.
Si alzò in piedi, l'aveva già vista. Ma guardò giù, non volendo stabilire il
legame, non volendo correre il rischio di farsi piacere nessuno. E così ave-
vano viaggiato insieme nell'ascensore del loft, un migliaio di volte e lui
seppelliva la faccia sotto una maschera di morte e lei non chiese mai. Lui
l'aveva sempre ritenuta una puttana. Pallida, vistosa. Capelli da Edgar
Winter, una astrazione ironica. Faccia graziosa, occhi furbi. Occhi che
probabilmente sapevano che lui era chiuso in se stesso e che non avrebbe
fatto domande.
Ma poi lei disse che aveva bisogno di droga. Ne aveva? Era per un ami-
co. Un braccio affamato che aveva bisogno di qualcosa di buono.
Lui non rispose e lei seppe.
Lei lo convinse ad andare a letto e fece qualche giochino che gli fece
passare il torpore. E si strinsero l'uno all'altra e lui la guardava, sentendosi
in colpa. Cosa ci faceva qua una come lei?
«Qua la gente viene lasciata agli angoli della strada a farsi raccogliere.»
Gli piace. Stare vicino a lei.
Combatte per prendere una decisione. Alla fine tira fuori le manette dal
comodino e le ancora il polso sottile al letto.
Lei si contorce, urla parolacce.
Lui chiama i poliziotti.
E mentre portano via Inga, lui ne schizza la faccia. Lei gli urla dietro, dal
sedile posteriore della macchina di pattuglia. Lui è in piedi sul marciapiedi
lurido, finisce il carboncino. Torna nella sua stanza. Appende lo schizzo e
si ubriaca.
Il moschettiere della stanza ovale, «Gerry», quest'anno sta andando pe-
sante sulle droghe, mettendo la gente in carcere senza libertà condizionata.
Forse Magurk stavolta non riuscirà a tirar fuori Inga.
Anche se l'ha mandata dentro lui.
Time.
10 aprile 1978
E continua così questa passeggiata mortale tra le fantasie dei media coi
loro falsi sogni. Agli occhi di Tutt, Magurk, Wall e McGoo, L.A. è un e-
norme orrendo appetito, dipinto con toni inumani che vanno dal grigio in-
dustriale al rosso che ricorda le ferite da arma da fuoco. Tagliano un'inci-
sione profonda e tirano indietro la carne per mostrare la povertà falsamente
elegante del mondo dello spettacolo, una festa che affoga i suoi piccoli nel-
le bugie prima di mangiarli.
Nelle testimonianze di sangue dei Whatever, la città che riluce fosca-
mente inghiottisce le vite, mentre le sue strade vengono insozzate da carne
malata, da sguardi più bui del catrame. Le puttane avanzano impettite,
commerciando la morte, e dappertutto questo paesaggio avvelenato in-
ghiotte la speranza e diffonde, mentre nessuno guarda, il cancro della città.
Da «Hurting Inside», arriva questo brivido spensierato:
Ho fatto un colpo,
Trasportando anime perse.
Alcuni mettono in discussione il metodo,
Ma la vita è una questione di obiettivi.
Non contenti di sparare sulla falsità delle luci del neon, si tuffano in una
problematica più profonda con il loro pezzo «Black Sky» fortemente am-
bientalista, impostato su una presenza feroce del pianoforte e la vocalità
rabbiosa di Tutt.
(coro)
Il cielo è nero.
L'orologio si è fermato per sempre.
Il cielo è nero.
Le fiamme hanno raggiunto la foresta.
Il cielo è nero.
L'uomo cattivo arriva con un sorriso.
Ha fame ed è vuoto.
Si fermerà per un po'.
Rikki Tutt è a dorso nudo, e si fissa davanti allo specchio. La sua band, i
Whatever, è a Minneapolis, e fa da apertura per il gruppo rock latinoame-
ricano Malo che suonerà per uno stadio pieno a metà. I giorni delle sale
piene e degli album numero uno sono finiti; questa programmazione so-
vrapposta di stili musicali diversi mette le cose in un rilievo significativo.
Negli anni recenti i Whatever hanno avuto scarse vendite di dischi e bas-
sa affluenza di pubblico ai concerti. Il gruppo sembra una vittima, almeno
parzialmente, della discomusic. Recentemente, sono stati scacciati dallo
stadio a fischi quando hanno aperto a Sarasota per i KC e i Sunshine. Allo
stesso modo anche nella vita privata hanno vissuto la loro parte di vera
tragedia.
Il chitarrista G.G. Wall è morto per una overdose di eroina a una festa a
Hollywood, data dal megagruppo dei Seahorse. Il batterista Stomp McGoo
è stato messo in prigione per violenza sessuale su una minorenne, sebbene
la ragazza in seguito abbia ammesso di aver mentito. Stomp si è riunito al
gruppo per la produzione del disastrosamente impopolare album, Skin and
Bones.
Per un tour Wall fu sostituito da Snap Brown, che aveva suonato con
Billy Preston, Blood, Sweat and Tears, la Eric Burdon Band, Howlin'
Wolf, e suonava regolarmente a Londra e New York.
Brown ha lasciato il gruppo dopo otto mesi per formare gli SHAKE, un
gruppo di risonanza internazionale che si distingue per un'allegra musica
dance e colorati costumi da calipso. Il loro primo album, Boogie Bay, è nu-
mero uno in America e in Gran Bretagna, e tutte le composizioni sono di
Brown.
Anche se Magurk e Tutt sono apertamente critici della musica di Brown,
e dicono di provare orrore per il fatto che Brown sia una superstar, Brown
non risponde mai sulla stampa. Il suo album da solista French Eyes, occhi
francesi, e stato ridicolizzato da Tutt e Magurk che lo hanno chiamato
«French Fries», patatine fritte, e hanno paragonato il suo istinto musicale a
un fast food.
Nel frattempo, i Whatever continuano a fare concerti per pagare le spese
legali che aumentano a spirale a causa della vertenza in corso con il loro ex
manager Lenny Lupo che, sostengono, si è appropriato indebitamente dei
diritti dei loro quattro album. Lupo obietta che è tutta un'invenzione e che
è stato licenziato quando aveva ancora interessi negli album che la band
aveva fatto e nei progetti futuri, in caso ce ne fossero.
«Spazzatura inventata», dice Tutt.
Il gruppo è stato anche querelato dai genitori della quindicenne che era
stata picchiata a morte al loro concerto di Atene del 1978. La polizia greca
dice che il servizio d'ordine privato assunto dai Whatever non ha fatto
niente per intervenire quando la ragazza è stata aggredita da una folla indi-
sciplinata, arrabbiata perché i Whatever avevano dovuto abbreviare il loro
concerto a una sola ora per il collasso che G.G. Wall aveva avuto sul pal-
co. È dura stabilire se il gruppo sia riuscito a riprendersi dopo la sua morte
per overdose.
«Mi manca», ammette Tutt. «Non so... forse è stato intelligente a tirar-
sene fuori. Il mondo si sta addormentando. A nessuno importa niente. È un
torpore globale. Voglio dire, un dannato attore è in corsa per la presiden-
za.»
«Corre a piedi, se è per quello», aggiunge Magurk.
«Oh, cammina adesso?» Tutt mastica del sedano.
Magurk quasi sorride.
«A un certo punto qualcosa non ha funzionato», dice. «Voglio dire che
la dannata Donna Summer è numero uno. Sono stato a trovare mia madre a
Sarasota, e anche lei ne è condizionata.»
Tutt manda giù un sorso di tequila. «Forse è solo tuo padre. Lui è un tipo
tranquillo.» Fa un cenno