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Storia Economica

Davide Morabito – a.a. 2020/21

Modulo A

Lezione 02
Capitolo 1 – La grande divergenza

• Età Mercantilista (~1500-1800)


◦ Epoca che inizia con le esplorazioni
geografiche e scoperte di Colombo e de Gama
– danno origine ad un’economia globale
integrata – logiche economiche sempre più
internazionalmente interrelate.
◦ Colonizzazione delle americhe; inizio di
esportazione di beni primari importanti,
staple-products (argento, zucchero, tabacco...)
◦ Asia centrale e orientale – esportazione di
spezie, tessuti e porcellane verso l’europa
• Catch-up (~1800)
◦ alcune economie (EU occidentale e USA) raggiungono o superano il paese più sviluppato
del momento (GB) tramite politiche economiche standard
• Big-push (~1900)
◦ grande salto di paesi come Giappone, URSS e Cina nella seconda metà del ‘900 –
avvicinamento ai paesi sviluppatisi nel corso dell’800 (principalmente EU e USA) dovuto
principalmente a massiccia pianificazione statale

PIL – Prodotto Interno Lordo:


Misura del valore totale di beni e servizi in una determinata economia (perlopiù calcolata per anno).
Tendenzialmente il PIL di una nazione è uguale al reddito totale di quell’economia. Quanto
un’economia produce significa quanto reddito genera, quanta ricchezza è in grado di creare.
► PIL pro capite: PIL diviso per il numero di abitanti.
Il PIL (per poterlo paragonare tra paesi) lo si misura tendenzialmente in “dollari internazionali” o
“dollaro Geary-Khamis” = dollaro per quanto poteva acquistare nel 1990 negli USA. Consente di
ragionare a parità di potere d’acquisto.

La grande divergenza riguarda la crescita ineguale, si, in termini di quantità ma soprattutto in termini di
velocità, di alcuni paesi rispetto ad altri tra 1820 e 2008. Il PIL pro capite britannico si moltiplica di
quasi 20 volte, quello del subcontinente indiano (4x) o dell’africa subsahariana (3-4x) molto meno.
Vista l’equivalenza tra PIL e reddito va ricordato che stiamo osservando effetti diretti sul benessere
della popolazione su un area del mondo – o almeno riguardo il reddito medio.

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L’equazione della divergenza (la linea) unisce due andamenti, tasso di crescita tra 1820 e 2008 sull’asse
Y, PIL pro capite nel 1820 sull’asse X. Chi era più ricco nel 1820 è cresciuto più velocemente. Tre
eccezioni significative sono le “tigri asiatiche”, il giappone e l’unione sovietica.
I tre secoli dell’età mercantilista comprendevano già i prerequisiti che hanno consentito ad alcune aree
del mondo di crescere più velocemente di altre nei secoli seguenti.

Una delle cause prevalenti della crescita del PIL pro capite è l’industrializzazione. Ovvero la quantità
di produzione manifatturiera sul totale del PIL che queste economie erano state in grado di produrre. Si
tratta dell’industria, la manifattura, il settore di trasformazione dei beni primari.

(Settore Primario = agricoltura; Secondario = industria; Terziario = commercio e servizi)

In questa tabella si evidenzia l’importanza del settore secondario negli ultimi due secoli e mezzo.
L’industrializzazione non è un fenomeno prevalentemente occidentale (a meno che non prendiamo
come esempio unico di essa la grande fabbrica) – la produzione manifatturiera e tessile esisteva prima
della rivoluzione industriale e continuò ad esistere dopo.
Aree come la Cina ed il subcontinente indiano avevano grande rilevanza manifatturiera. La Cina vede
nel 1750 il 33% della produzione manifatturiera mondiale; il subcontinente indiano il 25%. All’inizio
del ‘900 la struttura è ben diversa, GB, USA e EU occidentale producono quasi ¾ della produzione
manifatturiera totale. La sola GB aveva qui un prodotto pro capite di circa 38x quello cinese e 58x
quello indiano.
Un attore principale in questo spostamento della manifattura è dovuto alla meccanizzazione, la quale
rende più competitivo l’occidente. Con l’andare del ‘900 India e Cina—deindustrializzati dalla
competizione britannica—diverranno grossi produttori agricoli, restando poco competitivi nel settore
secondario (fino agli ultimi decenni, dove la questione comincia a cambiare).

I salari reali sono un’alternativa al PIL come metodo di misurazione del benessere e sviluppo di un
paese. Il PIL non tiene conto di vari fattori importanti quali la salute, speranza di vita e livello di
istruzione dei cittadini. Tutti questi sono aspetti importanti sia perché fanno parte del benessere ma
anche perché dicono molto sulle possibilità per l’andamento dell’economia del paese.

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Il PIL pro capite inoltre rappresenta la media tra ricchi e poveri, è quindi una misura che nasconde le
diseguaglianze interne ad un paese. Si possono quindi osservare guadagni individuali, questi sono
anche indicativi di come si è evoluto il tenore di vita della popolazione.
► Il salario reale è il reddito confrontato con il potere d’acquisto del reddito stesso.
Il salario reale dipende quindi dai prezzi dei beni.

La tabella esemplifica il modo con cui si


calcola il tenore di vita di una popolazione,
il paragone tra prezzi e salari. Il salario
viene paragonato ai prezzi dei beni di
sussistenza, quanto costava mantenere in
vita un individuo in un determinato
contesto. Cereali, proteine, vestiti, energia
(es. calore, combustibile), sapone.
Questo elenco costituisce il “paniere di
beni” necessari alla sussistenza.
(Il paniere si utilizza tutt’ora per calcolare
l’inflazione).

Alcuni paesi, con la crescita della popolazione—


dopo la peste nera del 1348, soprattuto nella seconda
metà del ‘400 e la prima del ‘500—, hanno visto i
loro redditi reali declinare, fino alla metà del 1600.
Le pandemie hanno tendenzialmente avuto una
funzione “equilibratrice”: diminuendo
drammaticamente la popolazione hanno fatto si che i
sopravvissuti avessero più reddito a disposizione
(soprattutto fondiario).
La diminuzione della popolazione ed il blocco dei
mercati causano una diminuzione nella domanda, con
conseguente crollo dei prezzi; questo fa crescere i
redditi reali.

Va considerato qui anche l’arrivo di metalli preziosi dal sud america e la conseguenze inflazione
monetaria – città come Londra, Firenze e Valencia a fine ‘500 e inizio ‘600 vedono una caduta dei
redditi reali.
Gli andamenti statistici di salari reali e PIL tendono a coincidere – l’aumento del PIL pro capite
coincide con l’aumento dei salari reali e viceversa.
Nel 1990 viene stabilito 1 dollaro internazionale al giorno come soglia mondiale della sussistenza.
Oggi, calcolando l’inflazione, si parla di 1,25 USD come soglia mondiale della povertà.

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Vediamo come la grossa divergenza tra Londra e
Pechino si sviluppa perlopiù in periodo di
industrializzazione.
Vivere al livello di sussistenza implica speranze
di vita inferiori. La stessa struttura fisica delle
persone cambia con il reddito, l’altezza media, ad
esempio, tende ad alzarsi con livelli di sussistenza
più alti. I redditi reali più elevati inoltre
permettono livelli di istruzione più alti.
Redditi reali più bassi tolgono l’incentivo a
meccanizzare la produzione o fare investimenti in
invenzione, produzione o acquisto di macchinari
che sostituiscono i lavoratori.
Laddove i salari aumentano gli imprenditori sono incentivati a meccanizzare la produzione o ad
affiancare macchine ai lavoratori che migliorano la qualità del lavoro.
La capacità di stare sopra al livello di sussistenza dice molto su come un’economia funziona. Dove la
maggioranza vive al livello di sussistenza scatta invece la trappola della povertà: bassi salari → bassi
incentivi ad investire nella meccanizzazione → meccanismi che fanno si che non crescano i redditi e lo
sviluppo industriale. Quando tutti vivono ai livelli di sussistenza la previsione vuole che si tenda a
rimanere a quei livelli.

Lezione 03
Capitolo 2 – L’ascesa dell’occidente

I diversi fattori che favoriscono o sfavoriscono lo sviluppo economico possono dividersi in:
• Fattori fondamentali
◦ Geografia, dotazioni naturali di un paese
• Casi/fattori contingenti
◦ Elementi che possono variare nel tempo – es. istituzioni presenti in un’area, fattori culturali.
Le istituzioni, nella storia economica, non sono solamente lo stato, le leggi, parlamento etc.; esse sono
tutto ciò che regola l’attività umana – in particolare ciò che regola i mercati; che siano regole scritte o
meno.
Prima globalizzazione o età mercantilista – 1500-1800
• Cambiamenti tecnologici
◦ Prevalentemente nei trasporti - trealberi
La prima globalizzazione è mossa prevalentemente da un cambiamento tecnico, i trealberi,
ovvero le nuove tecnologie di navigazione che vedono tre alberi, più robusti, armati di vele,
che si sono accompagnati a navi più robuste ed un utilizzo più massiccio del timone al posto
del remo – ciò permette a queste nuove navi di circumnavigare interamente il globo
terrestre.
Questa tecnologia è introdotta in primo luogo in Portogallo e in Spagna, poi nei paesi bassi
ed in Inghilterra. Essa permette di spostare merci all’interno dell’Europa (es. spostamenti
grano) ma la vera rilocalizzazione avviene grazie alle nuove scoperte geografiche.
• Ricollocazione delle manifatture europee – urbanizzazione
◦ Spostamento dall’oriente all’occidente, soprattutto alla GB.

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Il commercio va in entrambe le direzioni ma con il divario sono sempre più i grandi commercianti
europei a presidiare e animare i nuovi commerci internazionali.
I commercianti-conquistatori aprono nuove rotte commerciali e la strada a rapporti di potere e guerra
che si risolvono a favore degli stati europei. (Grazie soprattutto ad armi da fuoco, cavalleria e alle
malattie). Gli Aztechi e gli Inca verranno sottomessi dall’impero spagnolo e saranno tributari
esportatori di materie prime (es. argento) mentre i portoghesi inizieranno a beneficiare, soprattutto
verso l’indonesia, di commerci di spezie (chiodi di garofano, noce moscata).

I prezzi del pepe sul mercato inglese prima del 1600


sono ben più alti e instabili, successivamente il prezzo
tende a calare, convergendo verso quello dell’India, e a
stabilizzarsi, variare meno di anno in anno. Ciò accade
perché l’Inghilterra ha conquistato forniture di pepe
regolari, prevedibili e costanti. I costi di trasporto e
l’incertezza sono sempre minori, favorendo la
convergenza con i prezzi del paese di origine della
merce. Questa convergenza dà l’idea dell’importanza
dell’effetto della rivoluzione tecnologica dei trasporti
nel corso del ‘400-’500 e dell’importanza di alcune
istituzioni (compagnie delle indie orientali) nel regolare
e determinare le dinamiche del mercato globale.

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Le compagnie delle indie orientali erano delle società per azioni di alto valore, dove gli investitori
(inizialmente prevalentemente inglesi e olandesi) conferivano grossi capitali. Questi investitori
ricevevano dai governi le licenze necessarie a commerciare (in Asia e poi nelle Americhe) e a
guerreggiare. Queste compagnie erano vere e proprie forze militari – abilitate a fare la guerra per gli
interessi delle nazioni a cui appartenevano.

La compagnia inglese delle indie orientali viene riconosciuta ufficialmente nel 1600, la compagnia
delle indie olandesi viene autorizzata nel 1602; le loro abilità commerciali e militari gli permettono di
creare all’estero—soprattutto tra asia e americhe—dei centri commerciali fortificati, delle città armate
da utilizzare come base per conquistare mercati e dove sono collocati i magazzini principali dei beni
pimari da esportare verso la madrepatria. È tramite queste compagnie delle indie che, prima l’Olanda e
poi l’Inghilterra, creano i loro grandi imperi militari, coloniali e commerciali – a spese soprattutto del
Portogallo.

Il commercio coloniale è connesso allo sviluppo economico tramite due fattori principali:
1. Porta alla crescita delle città in madrepatria (il commercio coloniale globale necessita di centri
urbani, non si può gestire dalle campagne)
2. Favorisce la crescita industriale – soprattutto delle industrie manifatturiere che esportano beni
dalla madrepatria verso le colonie (dopo aver importato materie prime sempre da esse)

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La tabella 2.1 mostra i numeri riguardanti il processo di urbanizzazione. In alcune aree dell’europa del
centro-nord si verifica una forte urbanizzazione, si parla di distribuzione della popolazione per settore
produttivo (non solo per area geografica). (La popolazione rurale non-agricola implica o lavoro
manufatturiero in area extra-urbana o anche clero, commercianti, alcuni impiegati pubblici).
L’urbanizzazione è importante almeno per 4 ragioni principali:
1. La sua crescita (e quella delle manifatture esportatrici) porta all’aumento di domanda di
manodopera manifatturiera – crescono le imprese che fanno lavorare le persone in città. (Lo
stesso vale per la manodopera manifatturiera rurale, nelle campagne). Tutto ciò porta ad un
aumento dei salari e dei tenori di vita (poiché il numero di abitanti della città cresce ma
raramente alla velocità con cui cresce la domanda di manodopera).
2. Rivoluzioni agricole. L’espansione urbana e l’aumento dei salari tende a far aumentare la
domanda dei beni agricoli alimentari. La popolazione inurbata con potere d’acquisto ha bisogno
di mangiare—nell’antico regime ciò significa prevalentemente beni agricoli, cereali, legumi,
prodotti proteici—questo fa si che si sviluppi anche l’agricoltura. Per soddisfare la domanda
l’agricoltura va a perfezionarsi, sviluppare processi di razionalizzazione (quali le enclosures
inglesi), l’ampliamento delle terre sottoposte a coltura in Olanda etc. Aumenta quindi la
produttività del settore agricolo creandosi dinamiche virtuose per lo sviluppo economico.
3. L’espansione urbana ed i salari elevati portano anche a sviluppo di nuove fonti energetiche,
dovuto principalmente all’uso e quindi al costo sempre più elevato del legno (principale fonte
energetica nel medioevo assieme al
carbone).
Si introducono sempre più fonti energetiche
fossili. Queste possono fornire più calore per
unità e ristrutturano il mercato dell’energia.
I luoghi con più facile accesso alle fonti di
energia fossile (come nei casi in cui queste si
trovavano nel proprio sottosuolo o in quello
delle colonie) vedono una diminuzione dei
costi dell’energia (qui misurati in british
thermal units).

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4. Si eleva anche il livello di alfabetizzazione (1500-
1800). Gli storici oggigiorno tendono a dare più
enfasi alle spiegazioni di tipo economico rispetto a
quelle di ordine culturale (es. Protestantismo →
lettura dei testi sacri).
L’espansione del commercio e della manifattura
diede valore economico all’istruzione e la crescita
dei salari reali fece si che le famiglie avessero da
spendere per l’istruzione, dei figli e propria.

Lezione 04
Capitolo 3 – La rivoluzione industriale

Se osservata dal punto di vista del PIL, la rivoluzione industriale non fu una grande rivoluzione; la
crescita media del PIL nel periodo 1760-1850 è stata di circa l’1,5% annuo. In confronto ai tassi di
crescita delle grosse economie contemporanee non è molto elevata.
Il vero apporto di questa rivoluzione fu però la continuità della crescita. Questa durò diversi decenni e
portò ad un aumento significativo del salario reale.
Il vero motore della rivoluzione industriale fu il cambiamento tecnologico (macchina a vapore,
macchina per filare, per tessere cotone, i processi di fusione e raffinamento dell’acciaio etc.). Il
cambiamento investì diversi settori industriali – in questo senso si può parlare dell’affermazione di
general purpose technologies, GPT – tecnologie utili a propositi generali, non quindi iper-specializzate
ma che vanno ad influire su molti settori. Tendono ad essere necessari decenni per sviluppare i
potenziali delle GPT, il loro contributo all’economia si nota quindi ben dopo la loro invenzione.

La rivoluzione industriale nasce in Inghilterra per via di una serie di fattori:


Fondamentali:
• Aumento delle entrate fiscali grazie al riordino istituzionale compiuto dal parlamento dopo la
disfatta della monarchia inglese (1649) ↓
• Finanziamento di esercito e Royal Navy (fondamentali per l’espansione dei commerci globali)
• → Vantaggi per i salariati (commercio globale porta ad urbanizzazione → aumento possibilità
di lavoro e salari)
• Possibilità di espropriare le terre dei privati – ciò permette di costruire canali, caselli di
pedaggio, strade nuove; tutto un sistema di infrastrutture. (Politica parlamentare di intervento
pubblico)
• Rivoluzione scientifica del XVII secolo e alfabetizzazione

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Contingenti:
• Salari aumentati → aumento consumi e diversificazione di essi in ambito urbano (es. arredo
casa)
• Rapporti tra:
◦ Costo del lavoro / Costo del capitale (metà ‘700: 60% più alto in GB che nel resto EU)
(salari elevati e costo del capitale basso → finanziamento della meccanizzazione)
◦ Costo dell’energia / Costo del capitale
(dove si passa alle energie fossili è più conveniente impiegare macchine compatibili,
investire quindi in nuove macchine e strutture meccaniche. Ciò va considerato assieme al
costo del capitale che in Inghilterra in questo periodo era basso, favorendo gli investimenti)

Il costo del capitale consiste nel costo delle fonti di finanziamento utilizzate da un’impresa; di questo
si fa una media ponderata. In epoca contemporanea, finanzializzata, è determinato in primo luogo al
tasso di interesse che le banche centrali applicano ai prestiti che erogano agli imprenditori.
Prima della presenza di un sistema bancario così efficente/uniforme si ricorreva a prestiti privati o a
raccolta di denaro tramite famigliari.

Questa tabella mostra l’andamento del


rapporto tra salari e costo del capitale. Dove i
salari sono più di 1x il costo del capitale—
dove conviene di più prendere prestiti ed
investire nell’azienda che pagare sempre di più
i lavoratori—può decollare la rivoluzione
industriale. Dove i salari sono bassi o
addirittura inferiori al costo del capitale i
proprietari sono incentivati ad assumere più
lavoratori che investire in macchinari o in
ricerca.

► Con più capitale ed energia a propria disposizione i lavoratori britannici divennero più produttivi,
aumentando ulteriormente la crescita economica.

Vi sono stati due principali settori di applicazione delle nuove tecnologie della rivoluzione
industriale: l’industria del cotone e le diverse applicazioni della macchina a vapore.
Le nuove tecnologie introdotte in Europa portano alla rottura del modello che vedeva l’esportazione
della manifattura—soprattutto tessile—dalla Cina e dal subcontinente indiano all’Europa a metà ‘700.
La supremazia manifatturiera europea prenderà il sopravvento grazie soprattutto alla Spinning Jenny, al
Waterframe e al Mule. Con queste macchine è possibile risparmiare manodopera, riducendo lavoro e
salari. Nel corso dell’800 la meccanizzazione dell’industria del cotone si espanse prima al continente e
poi fino al terzo mondo. Nel 1820 i salari erano più alti in USA che in GB (telaio a vapore adottato
prima più velocemente in USA).
La macchina a vapore—già introdotta nel 600 ma perfezionata nel 700—è un grande esponente delle
GPT: l’energia del vapore ha un insieme diversificato di settori produttivi – es. industria cotoniera
(telaio a vapore), sistemi di trasporto (principalmente nell’800 – Ferrovie: GB; Navigazione, al remo
viene sostituita la ruota a pale: Internazionale/FR).

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Capitolo 4 – L’ascesa dei paesi ricchi

Tra 1815 e 1870 la rivoluzione industriale si espanse dalla GB al continente con grosso successo e in
tutte le industrie principali. Il Catch up di Germania, Francia e America settentrionale del XIX secolo
fu guidato da 4 tipi di interventi politici. Le “politiche economiche standard” avvengono nelle seguenti
aree: mercato nazionale; barriere protettive; banche; istruzione di massa.
Questo modello standard segue le seguenti politiche economiche:
1. Creazione di un mercato nazionale unitario – rimozione di dazi interni, costruzione di
infrastrutture in grado di effettuare spostamenti in un confine esteso.
2. Imposizione di dazi alle merci che provengono dall’esterno per proteggere le industrie nuove
interne dalla competizione internazionale.
3. Creazione di un sistema bancario unitario di investimento – permette di avere capitali da
prestare alle imprese industriali a costo relativamente basso e di stabilizzare la valuta.
4. Creazione di un sistema di istruzione di massa – indispensabile per lo sviluppo economico.

I risultati di queste politiche economiche standard riguardano:


1. Sviluppo di un’industrializzazione competitiva rispetto all’Inghilterra – non si tratta
semplicemente di una copia del modello britannico ma si tenta di essere più efficienti di essa (la
GB perderà il suo primato nel corso dell’800).
Alcune innovazioni sono internazionalmente collettive, es. automobile moderna – diverse parti
inventate o perfezionate in diverse nazioni che accedono agli standard economici inglesi.
2. Nascita di nuove industrie, ancora sconosciute alla GB: automobile, petrolio, energia elettrica,
chimica. Si tratta della seconda rivoluzione industriale (tardo ‘800 – inizio ‘900).
Seconda per via delle logiche diverse: grande importanza e finanziamenti dati alla ricerca,
laboratori, università (le innovazioni della prima erano perlopiù dovute ad artigiani sofisticati).
L’Europa occidentale superò gli scompensi tecnologici entro il 1870 ma i livelli di produzioni erano
ancora arretrati rispetto all’Inghilterra. Questo cambiò per la prima guerra mondiale quando sia
l’Europa occidentale che gli USA superarono la GB in termini di manifattura. Gli USA sorpassarono
l’Inghilterra anche in termini di innovamento tecnologico.

Lezione 05
Il carattere macro-economico del progresso tecnologico

Produttività = produzione per unità di tempo


“Circolo virtuoso” dello sviluppo economico:
alti salari → produzioni capital-intensive (che necessitano
grossi investimenti) → aumento dei salari

“Funzione di produzione mondiale”: tentativo di definire


quali siano le opzioni tecnologiche di ogni area del
mondo. Queste sono espresse dalla relazione tra PIL e
dotazione di lavoro e capitale (capitale per lavoratore =
rapporto tra capitale investito in un’economia e numero di
lavoratori attivi).

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La correlazione diretta presente globalmente ci dice che: più alto è il PIL per lavoratore più alta è la
quantità di capitale investito dagli imprenditori per lavoratore. Vi è rapporto positivo reciproco tra PIL
pro capite e capitale a disposizione per lavoratore.

La curva si appiattisce per la legge dei rendimenti decrescenti: ogni investimento, dopo una certa soglia
di unità di investimento, tende ad essere meno efficiente.

È necessaria un’alta quantità di capitale a disposizione per far si che il PIL cresca.

Vediamo 3 casi di traiettoria della crescita, USA,


Italia e Germania. Tutte e tre rispettano la funzione
di produzione mondiale. Gli USA hanno avuto una
funzione di produzione molto ripida, hanno
sfruttato bene il capitale per lavoratore. L’Italia ha
avuto un risultato migliore di quello della
Germania – questa ha avuto bisogno di maggiore
capitale per lavoratore per avere un PIL
paragonabile a quello italiano.

La tecnologia nuova tende quindi ad essere sviluppata in paesi già ricchi e poi a raggiungere i paesi
poveri. Questa è però costruita per le esigenze dell’economia dei paesi già sviluppati, ergo, labour-
saving (che fan risparmiare sul lavoro manuale) e capital-intensive (investire capitali per comprare
macchinari e innovare la tecnologia). La tecnologia inventata in questi paesi è quindi poco applicabile
ai paesi poveri, non vi è l’incentivo per acquistarla in paesi dove il costo del lavoro è basso.
La tecnologia odierna non passa nei paesi in via di sviluppo perché è troppo capital-intensive.

Il telaio meccanico Northrop è un telaio completamente automatico inventato nel ~1890. Questi telai
erano convenienti da installare negli USA – erano però addirittura già troppo costosi da essere installati
nella GB nel 1914. Questa tecnologia accresce quindi il vantaggio competitivo per i paesi più ricchi, in
questo caso gli USA, ma già inutile per paesi con costo del lavoro un po' più basso.

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Capitolo 5 – La crisi degli imperi nel XIX secolo

Gli imperi, entità statali estese su un insieme eterogeneo di popoli, fondati su di un’ideologia
egemonica—quali quello ottomano, persiano, russo, indiano, giapponese e cinese—, nel XIX secolo
perdono la preminenza economica che avevano in passato.
Le ragioni principali per questa caduta sono dovute alla rivoluzione industriale, riguardano:
1. Il costo degli investimenti rispetto ai salari – questi erano convenienti soltanto in occidente, non
negli imperi centro-orientali
◦ l’unica strada possibile—quella intrapresa dal Giappone—era di prendere la tecnologia
occidentale e rimodellarla per le condizioni locali. Si tratta di un processo difficile che solo
poche economie riescono a compiere.
2. La caduta dei costi di trasporto
◦ L’avvento della nave a vapore e delle ferrovie intensificarono la concorrenza internazionale,
caddero i costi di trasporto – i produttori che utilizzavano metodi tradizionali/artigianali non
riuscirono a sostenere i costi necessari a far concorrenza alle imprese occidentali.
La caduta dei costi di produzione e di trasporto per l’occidente, unita alla facilitazione della
competizione internazionale, fece si che i grandi imperi ripiegassero sempre più sull’agricoltura
mirando all’esportazione di materie prime agricole. Così facendo rischiarono di cadere quasi ovunque
nella trappola della povertà summenzionata (bassi salari, basso investimento manifatturiero, circolo).
La teoria dei vantaggi comparati tenta di fotografare l’economia globale nella storia – essa sostiene
che i paesi connessi dal commercio tendono a specializzarsi nella produzione di merci che possono
produrre in modo relativamente/comparativamente efficiente.
► Si esporta ciò che si produce in modo efficiente e si importa ciò che si produce in modo inefficiente.
Questa teoria prova a spiegare perché diversi paesi si specializzano in diverse produzioni. Essa spiega il
dato di fatto (cosa produciamo) ma non come ci si è arrivati o come se ne esce.

Lezione 06
La deindustrializzazione indiana

Abbiamo visto che una delle ragioni importanti per lo squilibrio economico tra oriente e occidente
riguarda i costi del lavoro e la meccanizzazione. L’inghilterra perfezionò macchine che aumentarono la
produttività industriale, soprattutto nell’industria del cotone, a causa del regime di alti salari; un sistema
di bassi salari ha disincentivato i produttori indiani dal meccanizzare l’industria. Tutto ciò, affiancato
all’espansione dei commerci globali e alla caduta dei costi di trasporto ha stabilito un sistema di
vantaggi comparati che si riflette nella situazione attuale.

Prezzi che alla fine del ‘700 erano ben diversi fra loro e
instabili vanno a convergere e a stabilizzarsi nel corso dell’800.
Le oscillazioni molto ampie significano problemi e
discontinuità negli approviggionamenti. Questi problemi,
assieme ai costi di trasporto, vanno diminuendo con
l’avanzamento della rivoluzione dei trasporti (soprattutto
grazie a ferrovie e navi a vapore). I prezzi tessili in India ed in
Inghilterra vanno a convergere, i mercati tendono ad

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“integrarsi” nel corso dell’800: reagiscono grossomodo agli stessi stimoli, rispondono alle stesse
logiche – transazioni che riguardano spazi anche lontani tra loro vanno a produrre lo stesso prezzo.

Lo stesso ragionamento può essere fatto paragonando i


prezzi reali del cotone grezzo tra il mercato di Liverpool
e quello di Gujarat.
Il mercato cotoniero di Liverpool è animato soprattutto
dal cotone delle colonie americane. Ciò significa che
l’India ha perso il suo vantaggio comparato nella
produzione manifatturiera, poiché i prezzi del loro
prodotto tessile sono simili a quelli londinesi,
mantenendo però mantenuto una competitività nella
produzione agricola—una specializzazione comparativa
—nel cotone grezzo, che sul mercato inglese e quello
indiano conservarono lo stesso prezzo.

(Il prezzo reale tiene conto dell’inflazione, il prezzo nominale no.)


L’India non è riuscita a svolgere il catch up per via della dominazione coloniale britannica—che inizia
nella metà dell’800—sono mancate le politiche economiche standard che hanno determinato il catch up
di Germania, Francia e USA rispetto al primato inglese. La creazione ferroviaria, l’alfabetizzazione e le
protezioni del mercato interno non si sono potute sviluppare in maniera adeguata sotto il dominio
coloniale. (La creazione ferroviaria portata avanti, invece che favorire l’industria metallurgica locale,
importò il necessario dalla GB e venne costruita per spostare truppe e favorire il trasporto di beni
agricoli, favorendo la de-industrializzazione).

Capitolo 6 – Le Americhe

Elenchiamo alcuni fattori fondamentali riguardanti il contesto generale dell’integrazione delle americhe
nell’economia globale e le conseguenze di essa. Essi si dividono tra geografici e demografici:
Geografici:
• Distanza dall’Europa (centro di irradiazione della prima età globale) – l’America settentrionale
era ben più raggiungibile dall’Europa che quella meridionale, ciò crea significative differenze
anche nei gradi di sviluppo.
• Le produzioni principali nella zona meridionale erano prevalentemente produzioni interne, non
avvenivano sulla costa, ciò implicava costi di trasporto elevati.
• I nord-americani avevano invece accesso a forme di agricultura più vicine alle coste e potevano
contare su una rete fluviale interna più efficiente (es. fiumi del mississippi).
• Vanno considerate anche le diversità climatiche riguardanti certi tipi di terreni/colture presenti
in alcune aree e non in altre.
Demografici:
• La mortalità: spesso per ragioni climatiche, climi malsani e tropicali vi era alta mortalità in
alcuni territori (Caraibi e l’Amazzone, soprattutto tra la popolazione europea. Ciò frena anche la
crescita economica.

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• Distribuzione della popolazione indigena irregolare (esasperata per via degli interventi
coloniali): la maggior parte degli indigeni viveva in messico oppure nelle ande, una parte più
piccola nelle aree che ora fanno parte degli USA.
• Ciò ha implicato un’ineguale distribuzione dei rapporti tra colonizzatori e indigeni: importante
riguardo l’andamento dell’alfabetizzazione.

Staple thesis
Per spiegare il successo dell’economia coloniale del Nord America, anche in confronto alla parte centro
meridionale del continente americano, è comune impiegare questa teoria:
► essa prevede che la crescita economica di un paese in via di sviluppo sia spesso determinata dalle
sue esportazioni di materie prime.
La teoria venne formulata originariamente per il Canada – le sue esportazioni verso l’europa hanno
fornito il denaro necessario ad importare dall’inghilterra i prodotti manufatti.
Le Staple economies hanno le seguenti caratteristiche (per poter innestare un processo di crescita):
• Staple goods – prodotti primari da esportazione che hanno dei prezzi minori di quelli europei
• Gli incassi delle esportazioni devono essere una porzione elevata del reddito locale
• I ricavi medi per i coloni devono superare quelli europei per incentivare gli imprenditori europei
a trasferirsi alla colonia
Questo grafico riguardante il prezzo del grano nel
settecento mostra la correlazione costante (salvo
contingenze particolari) tra i costi nella colonia che
produce la materia prima e quelli nel paese
colonizzatore, dove si aggiunge il costo del trasporto.
I costi di trasporto in calo fanno si che la merce possa
essere venduta convenientemente sul mercato inglese.

Queste esportazioni erano attraenti e redditizie


per i coloni, questo si riflette nei salari reali degli
europei trasferiti alla colonia (dove i salari
dovevano essere più alti per incentivare i
lavoratori a prendere il rischio di spostarsi alle
colonie).

La staple thesis funziona anche per descrivere economie che non si sono sviluppate come quella
canadese o statunitense. Funziona almeno parzialmente per descrivere le sugar colonies caraibiche,
specializzate nella produzione di zucchero (es. Jamaica), questo staple product ha reso possibile
l’attivazione di dinamiche paragonabili a quella canadese o a quella americana della Pennsylvania. La
teoria si può applicare anche alle colonie meridionali dei futuri USA (es. Carolina del sud – riso e
indaco; Virginia e Maryland – tabacco) – queste colonie britanniche hanno fatto dei propri prodotti
staple dei volani della propria crescita. La differenza sostanziale con l’esempio del Canada e della

15
Pennsylvania riguarda la manodopera schiavile, che costituiva la maggior parte della manodopera di
queste aree.
L’abbondanza di manodopera a bassissimo costo o gratuita falsa la dinamica economica. Da una parte
la popolazione è schiavile, dall’altra vi è una diseguaglianza estrema che fa si che la dinamica non sia
di mercato ma di un’economia dove gli imprenditori hanno un enorme margine di profitto. Non si
creano quindi i diffusi incentivi al trasferimento per i coloni imprenditoriali che sviluppino un reddito
sufficiente a coprire i costi di produzione e far partire una domanda di produzione locale (monopolio
degli schiavisti o che?).
L’applicazione del modello Staple alle sugar colonies è appunto limitato, soprattutto per via della
mancanza di conseguente crescita sostenuta/sviluppo del paese.
Sia per le zone caraibiche che per gli USA del sud, la massiccia presenza di schiavi fa si che
l’alfabetizzazione si diffonda molto meno che negli stati del nord. Li l’alfabetizzazione era molto
elevata (New England: fino al 90% grazie alla creazione di scuole pubbliche con presenza
obbligatoria). L’economia di piccoli-medi imprenditori è redditizia e favorisce quindi
l’alfabetizzazione. Tenore di vita dei coloni, commercio, esportazione → incentiva reddittività
dell’investimento in istruzione: l’istruzione è necessaria per la capacità di leggere, scrivere, eseguire
calcoli, per il sistema giuridico, per gli atti immobiliari e i contratti scritti. Esistono quindi potenti
stimoli ad istruirsi. Nell’economia schiavile invece l’incentivo e il denaro per l’istruzione sono lontani
dall’esistere.
Lezione 07
L’economia coloniale: le Americhe e l’Africa

America Latina – tre regioni, diversi percorsi economici:


• Caraibi e Brasile
• Il Sud (Argentina, Cile, Uruguay)
• Messico e Ande
Il Brasile segue un percorso vicino a quello delle sugar colonies, le economie caraibiche, ma in un’area
molto più vasta. Gli staple-products del Brasile sono cambiati nel corso della storia—zucchero, oro,
caffè, gomma—, essi erano esportati dal Brasile con una produzione di tipo schiavile (o indigeni
americani o trasferiti dall’Africa). Dopo il superamento olandese nel mercato dello zucchero (Caraibi)
l’economia del Brasile si basò per tre secoli (1700-1900) su diversi singoli boom di singoli prodotti
Staple. Come per i Caraibi ma a differenza degli USA gli staple-boom del Brasile non si trasformarono
mai in crescita economica moderna.
Argentina e Cile ebbero produzioni abbastanza diversificate, come grano e bestiame, più
paragonabili all’economia dell’America del nord. Si tratta però di realtà molto più geograficamente
distanti dall’Europa, rendendo difficoltosa l’esportazione e quindi la competizione. Solo attorno alla
metà dell’800, con la rivoluzione dei trasporti, questi paesi ebbero la possibilità di esportare all’Europa
a prezzi più competitivi, dando il via ad un parziale decollo economico.
La situazione nel Messico e nelle Ande ha una storia molto determinata dalla conquista. Sia gli
Aztechi che gli Inca avevano già sfruttato ampiamente il lavoro forzato. La popolazione crolla grazie
alle malattie. I sopravvissuti indigeni vengono costretti al lavoro forzato. Si ha una situazione di
possibile decollo staple ma inficiato da enormi squilibri economico-sociali legati al lavoro schiavile.
Il Perù è troppo lontano dall’Europa per basarsi su un’economia staple. I galeoni spagnoli fanno più la
spola dal Perù verso Manila (PH)—scambiando argento con seta e the cinesi—che non gravitando
sull’Europa. Il Messico è sempre stata un’area penalizzata dal fatto che le produzioni agricole

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avvenivano essenzialmente al suo interno, nell’altopiano, molto distante dalle coste; il sistema di
trasporti era basato su muli—molto costoso quindi—e ciò rafforzò l’isolamento. Le istituzioni
legislative spagnole inoltre obbligavano l’economia messicana a rivolgersi solamente alla Spagna,
riservando il mercato coloniale ai propri manifatturieri.
Il costo del lavoro e quindi i redditi reali in Messico
erano già ben più bassi che i redditi reali a Londra –
la divergenza aumenta significativamente a fine
settecento, l’area messicana vede addirittura un calo
nel corso dell’800. La materia prima che il Messico
(ma anche le Ande) poteva esportare all’Europa era
soprattutto l’argento, questo non è uno staple product
come possono esserlo tabacco, cotone o grano.
L’argento ha effetti inflazionistici (dove c’è molto
argento tendono ad aumentare i prezzi) ed inoltre, la
sua esportazione non genera quel sistema di incentivi
per i coloni a trasferirsi e aprire le proprie aziende
agrarie in Messico: l’argento si estrae con pochi posti
di lavoro ed in pessime condizioni lavorative
(problema non solo per gli imprenditori esterni ma per l’economia locale in generale).
La ricchezza rimane divisa tra pochi ricchi proprietari, non viene redistribuita tra piccoli imprenditori e
altri coloni. L’argento quindi: genera inflazione, non crea molti posti di lavoro e lascia il ricavo nelle
mani di pochi – non può avviare una staple economy.

Gli USA sono invece l’esempio più riuscito di staple economy (soprattutto dopo l’indipendenza, 1776).
Le loro produzioni staple sono state essenzialmente tabacco, riso, indaco e—inoltrandosi nell’800—
cotone. Il cotone diviene sempre più economico da raccogliere e ripulire grazie alla sgranatrice di
Whitney (cotton gin) – essa fa da esempio classico di come una macchina può rendere sempre più
conveniente una produzione: dalla sua introduzione il cotone diviene sempre più economico da
produrre ed esportare; esso diviene la produzione staple che regna nella prima metà dell’800. Gli USA
passeranno da una pura economia staple ad affiancarci sempre più le politiche standard di catch-up.
Sono americane le prime proposte di politiche economiche standard; fu probabilmente Alexander
Hamilton nel 1792 il primo politico ed economista ad auspicarne l’introduzione (senza includere
l’educazione di massa).
In che modo e quando gli USA fanno il balzo da condizione di staple economy ad una condizione di
catch-up, emancipata dagli staple goods? L’ipotesi di Habakkuk dice che la crescita economica degli
USA e la loro emancipazione da puro ruolo di esportatore di materie prime avviene grazie
all’abbondanza di terre libere alla frontiera (occidentale – espansione coloniale fino alla California).
Questa espansione, l’abbondanza di terra, incentivò la crescita dei salari reali: sempre più coloni si
spostavano verso nuove terre e quindi chi rimaneva in città, sulla costa est, richiedeva sempre più
denaro per continuare a lavorare nelle imprese, manifatture o fattorie locali. La possibilità di trovare
redditi concreti nelle terre nuove da colonizzare aprendo aziende agrarie faceva si che i lavoratori che
rimanevano nell’est potessero richiedere salari più elevati minacciando di andarsene. (Gli USA
permettevano con poche formalità e denaro ai coloni, anche proletari o contadini, di impadronirsi delle
terre da loro occupate.) I salari alti incentivarono l’invenzione di tecnologie labour-saving che
aumentarono il PIL pro capite per poi aumentare i salari ulteriormente (emancipandosi dalla
dipendenza dal suo staple nella prima metà dell’800).

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Abbiamo da una parte una realtà Nord-Americana che riesce prima ad attivare un meccanismo di staple
economy e poi ad operare un balzo verso il modello europeo con il catch up – ed una parte di America
che non lo fa. Nel corso dell’800 gli USA divengono competitivi, fino a diventare la prima potenza
mondiale all’inizio del ‘900, mettendo in atto quel sistema di industrie competitive verso l’Europa che
distingue anche la realtà tedesca. Ad esempio nel sistema della armi da fuoco, fabbricazioni
meccaniche, biciclette, macchine per cucire, macchine agricole (l’agricoltura americana è meccanizzata
molto precocemente – ciò permette l’esportazione di beni agricoli a prezzi bassi nella seconda metà
dell’800), e soprattutto l’industria automobilistica—la catena di montaggio del fordismo.

Tutto ciò non accade nel resto dell’America, men che meno in Messico, nonostante fosse il paese con
più possibilità di avvicinarsi ad un catch up (per via di posizione geografica, relativa ricchezza del
territorio, dotazione di materie prime, presenza di un’agricoltura potenziamente ma difficilmente
esportabile). Dopo l’indipendenza il Messico riesce a portare avanti un catch up solo parziale per via di
alcune precondizioni negative ma anche per via dell’opposizione della popolazione. Il Messico attua
gradualmente alcune politiche standard—introduce dazi protettivi, crea delle banche—ma viene a
mancare in termini di istruzione (fino al XX sec) e, fino al 1880 in termini di creazione di un mercato
nazionale unitario (dazi e trasporti). I salari molto bassi fanno mancare l’incentivo salariale e la
ricchezza che permette alle classi lavoratrici di investire in istruzione (il retaggio dell’economia
schiavile porta un ristagno dei salari → trappola della povertà). L’alfabetizzazione è indicatrice della
composizione della forza lavoro: negli USA i maschi bianchi adulti alfabetizzati erano già più del 70%
a fine del 700 e si avvicinano al 100% nel 1850. Tuttavia la popolazione schiavile afroamericana
(~15% della popolazione) è analfabeta. Lo stesso modello vale per il Messico; la demografia bianca
maschile è istruita ma, qui, minoritaria. La sopravvivenza nel lungo periodo (con anche una crescita
numerica nel secoli successivi alle conquiste) di una popolazione indigena sfruttata fece si che
amplissimi strati della popolazione—essendo poveri e non destinatari di politica di istruzione—
rimanessero analfabeti. Fino al XX secolo il sistema di istruzione messicano non raggiunge gli standard
di applicazione a tutta la popolazione. Fù soltanto con la rivoluzione messicana (1911-20) che si
accrebbe la scolarizzazione (sebbene nel 1946 più della metà degli adulti era ancora analfabeta; con
uno sbilancio sempre verso il ceto bianco e maschile).
La stessa cosa avvenne negli USA fino agli anni ‘60 – solo dopo l’abolizione delle leggi di
segregazione la popolazione afroamericana avrà un autentico accesso all’istruzione. La differenza sta
nel fatto che negli USA la popolazione schiavile/ex-schiavile costituisce una percentuale molto
inferiore a quella messicana.

Capitolo 7 – L’Africa

L’Africa presenta molte similitudini con i problemi dell’America latina. Elenchiamo alcuni fattori
fondamentali.
Istituzionali (tutte le regole che vanno ad avere un influenza sulle dinamiche economiche):
1. Tratta degli schiavi
2. Colonialismo
3. Globalizzazione
◦ Le merci agricole esportate dall’africa sono divenute sempre meno vantaggiose da gestire
nel mercato globale. Inoltre la globalizzazione ha favorito la specializzazione di alcuni
stati/aree in un solo prodotto: nel momento in cui quel mercato entra in crisi l’intero paese
viene condannato alla povertà.

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4. Corruzione e autoritarismo (risultati dell’eredità coloniale)
5. Struttura della proprietà e mancanza di scrittura
◦ Nella realtà occidentale siamo abituati all’utilizzo della scrittura per stipulare contratti di
proprietà. Laddove la scrittura si afferma lentamente o non è presente oppure non esistono
sistemi burocratici di attestazione della proprietà – in questi casi queste istituzioni di tutela
della proprietà vengono meno. Nell’Africa—soprattutto subsahariana—erano assenti.
Geografici – l’abbondanza di terra rispetto alla popolazione determina:
1. Coltivazione itinerante (in Africa occidentale, dove vi era alta mortalità tropicale)
◦ L’abbondanza di terra promuove il processo di coltivare una terra, sfruttarla e poi disboscare
o bonificare altre terre per espandere l’agricoltura abbandonando le terre precedenti – questo
non incentiva la crescita di un’agricoltura intensiva, capital-intensive, paragonabile a quelle
europee (dove la minore quantità di terra pro capite = incentivo a sviluppare tecniche di
accrescimento della produttività della terra e del lavoro agricolo).
2. Mancanza di proprietà privata
◦ L’abbondanza della terra fa si che l’istituzione della proprietà privata di essa cresca
lentamente: l’abitudine di lasciare una terra dopo un raccolto fa si che non si crei un ceto
proprietario e le istituzioni politiche che ne esprimono gli interessi. La dimensione della
proprietà privata si riflette quindi in un modello politico che cresce imperniandosi sulla
categorie di tribù:
3. Modello politico imperniato sulla tribù
◦ gruppi minoritari locali che operano in maniera egalitaria al loro interno – bisogna chiedersi
anche quanto questo tipo di modello politico possa favorire uno sviluppo economico
paragonabile ai paesi della grande divergenza.
Demografici
La tratta degli schiavi (perdita di grosse porzioni della popolazione maschile giovane) + la mortalità
tropicale elevata (forse connessa anche ai disboscamenti → pandemie) determina:
1. Scarsa crescita della popolazione → difficoltà ad attivare meccanismi di crescita della domanda
di beni o di disponibilità di manodopera (che stanno al cuore dello sviluppo economico).
Un passaggio fondamentale nel corso dell’800 in Africa riguarda il passaggio dall’economia imperniata
nel commercio degli schiavi ad un economia del “commercio lecito”. Nel 1807 viene abolita la tratta
degli schiavi nell’impero britannico, continua però il fenomeno schiavile, soprattutto nell’America
latina – ne viene vietato però il commercio. Questo divieto fa si che l’africa—la cui economia
dipendeva in gran parte da questo commercio di risorse umane—si dovesse riconvertire al commercio
di materia prima, di staple products. Questi sono stati l’olio di palma (essenzialmente lubrificante per i
macchinari + sapone e candele; molto richiesto nel mondo industrializzato), l’oro e più avanti il cacao.
La misura del successo di questi prodotti è data dal
confronto dei prezzi. Il confronto tra prezzo dell’olio di
palma e prezzo del tessuto di cotone è dovuto al fatto che
l’Inghilterra importava olio di palma dall’africa e vi
esportava tessuto di cotone: questo rapporto ci restituisce
quindi il potere d’acquisto dell’olio di palma tra 800 e 900.
Questa produzione africana era molto conveniente nell’800
ma il suo potere crolla nel secolo successivo. La crescita
dei profitti nel secondo ‘800 è dovuta alla scoperta della
possibilità di estrarre dal nocciolo di palma olio adatto alla
margarina.

19
Nel ‘900 si trovano surrogati di questi prodotti, soprattutto per i lubrificanti, crolla quindi l’interesse
dell’occidente industrializzato nel prodotto, danneggiando fortemente i paesi che dipendevano dalla sua
esportazione.

La colonizzazione è un disincentivo all’applicazione delle politiche economiche standard. Le potenze


coloniali non hanno alcun interesse a sviluppare l’economia, l’istruzione, l’alfabetizzazione, i trasporti
e i mercati interni delle aree che vanno a colonizzare. Si colonizza per avvantaggiare la madrepatria
creando un mercato di sbocco per i propri prodotti industriali, beneficiare delle produzioni agricole di
materie prime da importare, creare luoghi di insediamento (es. Corno d’Africa nel fascismo) ovvero
spazi di sbocco e opportunità per le popolazioni che vivono in maniera difficile in area metropolitana e
per cercare nuove possibilità di investimento (lavoratori a basso prezzo, piccoli-medi mercati di sbocco
nelle colonie). A ciò si aggiunge la potente giustificazione ideologica di “civilizzazione”.
Le politiche economiche standard vengono quindi attuate solo parzialmente in tutta l’Africa. I vecchi
capi tribù diventano rappresentanti delle autorità imperiali europee—impongono tributi e lavoro
forzato, utilizzano poteri per ammassare fortune personali—tutto ciò crea in africa, com’era avvenuto
in india, una collusione tra ceti occidentali e ceti locali che rende improponibile l’applicazione di
politiche economiche che favoriscano le economie locali. Le ferrovie vengono costruite non per
favorire il mercato interno ma per spostare merci verso le coste e per spostare truppe, i dazi doganali
vengono tenuti bassi per favorire lo scambio con l’occidente. L’unica possibilità lasciata alle economie
colonizzate rimase quindi quella di specializzazione in singoli prodotti agricole con i rischi annessi.

Lezione 08
Capitolo 8 – Il ‘modello standard’ non funziona più

Il modello di catch up—che nell’800 aveva consentito a Germania, Francia, USA e altri di raggiungere
l’Inghilterra (se non di superarla) e che era stato applicato parzialmente nelle colonie—divenne datato
nel ‘900.

La Russia imperiale, regione isolata ed economicamente distante dall’occidente, vide alcuni episodi di
modernizzazione come l’abolizione del servaggio (1861-8) con Alessandro II (nella speranza che
questo bastasse a far partire lo sviluppo economico creando lavoratori liberi e proprietà privata) e
l’adozione di alcuni strumenti standard, quali la costruzione di lunghe tratte di ferrovia e l’utilizzo dei
dazi per proteggere l’industria locale. (Queste politiche posero le basi per alcune strutture economiche
che verranno valorizzate nella fase sovietica.) Vennero anche portate avanti politiche di valorizzazione
del sistema bancario: banche deboli vengono ampliate grazie anche ad approvigionamenti tedeschi e di
altri paesi europei. Rimangono problemi significativi quali la lentezza dell’avanzamento dell’istruzione
—solamente il 50% circa della popolazione adulta è alfabetizzata durante la prima guerra mondiale—e
la mancanza di una domanda di lavoro significativa. Ci sono, si, sviluppi industriali e agricoli, ma la
popolazione è molto elevata e l’agricultura rimane il settore più importante dell’economia (fino agli
anni 20/30). Rimanendo bassa la domanda di lavoro rimangono bassi i salari e la concentrazione di
ricchezza.

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Il Giappone è forse stato l’unico paese capace di assumere tecnologie occidentali per adattarle alla
realtà locale. Allen divide la storia giapponese in 4 epoche:
• Tokugawa (1603-1868)
◦ Inizia l’operazione di progresso tecnico opposto a quello dei paesi non-occidentali: visti i
redditi reali bassi nell’asia orientale, i giapponesi mirarono ad aumentare l’impiego di
manodopera per alzare la produttività della terra e del capitale. Inventarono nuove
tecnologie irrigue, impiegando forza lavoro per installarle, migliorarono i rendimenti delle
colture, impiantarono nuove varietà di riso più adatte al nuovo sistema. Quest’irrigazione
permetteva inoltre un secondo raccolto (come cotone, grano, canna da zucchero etc). I
contadini lavorarono più ore per ettaro e usarono meno capitale, utilizzando zappe invece
che aratri e animali da traino (entrambi costosi).
◦ I tentativi di utilizzare macchinari inglesi per la seta vennero scartati, vi fu invece l’utilizzo
di macchine, frugali e semplici, per la raccolta della seta e tecniche che agivano
direttamente sui vermi da seta (riproduzione selettiva e controllo della temperatura).
Vennero scartati alcuni sistemi occidentali (es. drenaggio di miniere con macchina a vapore)
per via dell’abbondante manodopera che riusciva a fare lo stesso lavoro senza tecnologie
costose. Si mirava in generale a migliorare la produttività della materia prima invece che ad
usare le macchine inglesi.
◦ La produzione di saké fa da eccezione che conferma la regola – si creano fabbriche ad
energia idraulica ad alta intensità di capitale; erano imprese semi-pubbliche dove il governo
ne limita la produzione. Si impose un massimo di impiego di ore che incentivò
indirettamente l’applicazione di tecnologie avanzate. (Si trattò di un’equivalente artificiale
dell’alto costo della manodopera in occidente).
◦ Lo sviluppo Tokugawa produsse prosperità, ma ineguale: forti diseguaglianze interne e bassi
salari reali (gran parte a livello di sussistenza). Si ebbe un discreto tasso di alfabetizzazione,
alta per una società agricola.
◦ 1853: Il Giappone è costretto ad aprire il commercio a USA, Inghilterra, Francia e Russia
(rimuovendo le forti restrizioni su commercio e contatto internazionale) per via di minacce
militari statunitensi.
• Meiji (1868-1905)
◦ La restaurazione Meiji porterà delle riforme istituzionali importanti:
- Riorganizzazione della proprietà fondiaria (abolizione del feudalesimo, apertura
dell’accesso alla terra ad ampi strati della popolazione, creazione di diritti di proprietà
moderni);
- 1890: messa per iscritto della costituzione (modello di monarchia costituzionale
prussiano);
- Creazione di un forte esercito nazionale - erode i privilegi tradizionali dei samurai (unica
casta autorizzata a possedere armi – 1873: coscrizione universale);
- Tassazione della terra sistematica che dà al governo nazionale risorse per proseguire le
riforme.
◦ L’economia in questo periodo vede avanzamenti significativi:
istruzione di massa (influente nell’abilità di adottare in futuro la tecnologia moderna) +
creazione di un mercato nazionale interno molto protetto (abolizione delle tariffe interne,
creazione di sistemi ferroviari, stradali, telegrafo all’avanguardia);
manca un sistema bancario forte e mancano i dazi esterni (occupazione dei porti giapponesi
e trattati internazionali dei decenni della restaurazione non li permettono contro le nazioni
privilegiate).

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◦ Continua il processo di ibridazione/adattamento tecnico: i salari sono ancora bassi e si mira
quindi all’ibridazione e al largo impiego di manodopera. (es. Mulino da seta di legno con
manovella p.122)
• Imperiale (1905-40)
◦ Si riesce ad attuare pienamente il modello standard – la ricetta nuova implica un ruolo
centrale per lo Stato. Viene recuperato il controllo sui dazi (1894-1911: trattati commerciali
e vittorie militari) per proteggere soprattutto la nuova industria siderurgica e militare (la
combinazione di queste riforme con lo scoppio della prima guerra mondiale diete una spinta
alle imprese giappones).
◦ Viene creato un potente sistema industriale tramite un modello specifico (diverso dalla
grande impresa industriale finanziaria statunitense), lo zaibatsu: conglomerati di grandi
imprese industriali e finanziarie, spesso unite da legami familiari – incanalano gli
investimenti verso l’industria, coordinano la produzione, faormano cartelli. La struttura
dello zaibatsu si basa meno sulla concorrenza di mercato e più su accordi, partecipazioni
incrociate tra imprese finanziarie e industriali. Con questo modello si riesce, anche grazie al
protezionismo, a fondare un sistema industriale competitivo che ovvia la scarsità di capitale
(continuerà a mancare quello bancario) grazie alla capacità di incanalare gli investimenti.
◦ Il sistema di tecnologia intensa ma frugale si sposerà con il “just in time” (sviluppato negli
anni 30 del ‘900), sistema giapponese che non è fondato sulla produzione di massa—come
quello fordista—ma sulla domanda di prodotto. Just in time, si produce solo nel momento in
cui il mercato richiede determinati prodotti. Questo sistema punta sul risparmio di materie
prime, di capitali, sulla frugalità tecnologica – su una produzione snella.
◦ I risultati ottenuti dall’applicazione del modello standard furono modesti, raggiungendo un
tasso di crescita del 2% annuo verso gli anni 40 (USA: 1,5%) – non abbastanza veloce per
recuperare i paesi ricchi. La crescita lenta era riflessa dai salari bassi.
• Crescita accelerata (1950-90)
◦ qui riesce a raggiungere i paesi più ricchi [...]
Il Giappone è l’ultimo paese ad applicare con successo, anche se con dei limiti, il modello standard. In
Giappone i salari aumentano nelle grandi imprese siderurgiche ma in agricoltura e nelle piccole-medie
imprese rimangono modestissimi e con una domanda di lavoro debole – rimane il lavoro manuale e le
meccaniche semplici. Il modello oramai funziona quasi ovunque molto parzialmente, per 3 ragioni
principali:
1. È divenuto molto complesso per i paesi arretrati arrivare al livello dei paesi più avanzati. I paesi
ricchi si sono sviluppati molto, hanno stabilito le loro regole, i loro mercati, le loro tecnologie –
ad un certo punto si esaurisce quindi anche l’efficacia delle 4 politiche standard. Inoltre le
tecnologie iniziano ad essere create per l’applicazione a fabbriche di ampie dimensioni, spesso
troppo grosse per i mercati dei paesi poveri (MES = minimum efficient size).
2. La domanda di lavoro cresce poco rispetto alla popolazione. I salari non crescono ovunque, solo
pochi ricevono i benefici della crescita. Il beneficio economico della popolazione rimane quindi
limitato, creando un insieme di squilibri che fanno si che la domanda di beni e i salari non
crescano rapidamente. Di conseguenza l’incentivo ad investire e a modernizzare non si sviluppa
abbastanza.
3. Il problema tecnologico rimane collegato ai salari reali. Le tecnologie che i paesi ricchi
utilizzano sono sempre più evolute e costose—create per via dei salari alti—e quindi sempre
meno adatte ai paesi poveri (alta intensità di capitale, grandi impianti, grandi mercati interni).
La forbice salariale tra paesi ricchi e poveri si è appunto allargata.

22
Lezione 09
Capitolo 9 – Il Big Push verso l’industrializzazione

Giappone, Taiwan, Korea del Sud, URSS e Cina sono esempi di paesi che nella seconda metà del ‘900,
in diversa misura, sono riusciti a guadagnare terreno o colmare il divario che li separava dalle
economie occidentali.
Il modello standard smise di essere efficace nei primi decenni del ‘900. La sua caratteristica
fondamentale—la creazione dei presupposti per uno sviluppo tecnologico, salariale e quindi
economico-sociale—non è più efficace, i paesi europei non sono più raggiungibili attraverso le
politiche economiche standard. I paesi che colmano il divario nella seconda metà del ‘900 lo fanno in
modo diverso e molto velocemente – con tassi di crescita talvolta superiori al 6, 7 o 8% annuale.
Tra i problemi per l’effettuazione di questo recupero vi sono i seguenti:
• I paesi “ritardatari” non hanno il mercato interno necessario per trascinare una grossa domanda
di beni manufatti, soprattutto industriali. L’industrializzazione richiede una domanda di beni
prima di tutto sul mercato interno (perché sia conveniente investire) – i sistemi di bassi salari e
ricchezza non hanno questa condizione.
• Il capitalismo si nutre di fiducia: degli imprenditori nel futuro/nelle istituzioni per investire; dei
risparmiatori nei sistemi bancari (consentendo a queste di aggregare capitale da prestare); dei
consumatori nel comprare beni, casa, automobili. Questa fiducia non si trova se l’economia è
disastrata, se mancano le istituzioni che garantiscono i titoli di proprietà o un mercato
inefficiente.
• È necessaria una pianificazione centralizzata per programmare lo sviluppo economico,
introducendo i fattori sostitutivi che il mercato non è in grado di effettuare da solo; tanto meno
se è globale.
L’unico modo in cui alcuni paesi sono riusciti a svolgere un big push—ovvero raggiungere tassi di
crescita del 6% o più per recuperare i paesi più ricchi nel corso di 60 anni (dato che partivano dal 25%
circa del loro PIL pro capite)—fu di costruire tutti gli elementi di un’economia avanzata (acciaierie,
centrali elettriche, fabbriche di veicoli, città etc.) simultaneamente. Tutto doveva essere costruito prima
della domanda – da qui la necessità della pianificazione centralizzata.

L’URSS è un caso classico di big push verso l’industrializzazione. Nato nel 1917 anche se
istituzionalizzato dopo, la NEP giunge negli anni 20, i piani quinquennali negli anni ‘30 e ‘40. Quando
nasce l’URSS si trova di fronte ai problemi classici dei paesi poveri: stanziamento della popolazione
nelle campagne, prevalenza dell’agricoltura su piccola scala, investimenti scarsi, alfabetizzazione
scarsa, industria localizzata in pochi poli cittadini e poco competitiva internazionalmente.
Le imprese vennero nazionalizzate, l’agricultura venne in larga parte collettivizzata – dal 1928 in poi
iniziano ad essere attivati questi piani quinquennali la cui strategia si fonda su 4 pilastri:
1. Investimenti verso l’industria pesante (siderurgica e meccanica)
2. Fissazione di obiettivi di produzione (quanto bisogna produrre, in che periodo – attraverso
capitali concessi dallo stato)
3. Collettivizzazione dell’agricoltura (misura difficile, i contadini erano contrari – vi saranno
tracolli della produzione agricola soprattutto all’inizio, 1928-33)
4. Istruzione di massa universale e obbligatoria (enfasi sull’inclusione delle donne, per la prima
volta nel corso della storia raggiungono titoli di studio, posizioni e retribuzioni paragonabili a
quelle maschili – il che influsice positivamente sull’economia)

23
L’esperimento sovietico fu per certi versi un grosso successo, per altri un fallimento – soprattutto verso
la fine. Vi fu una grande crescita economica – dopo la seconda guerra mondiale le fabbriche crebbero,
gli investimenti furono incanalati verso l’industria pesante, vi fu grande urbanizzazione (a questo
contribui molto la collettivizzazione dell’agricoltura) e occupazione pressoché piena. Lo stato ha per
decenni incanalato investimenti e creato posti di lavoro facendo crescere molto rapidamente il PIL pro
capite nel corso soprattutto degli anni ‘50 e ‘60.
Fu soprattutto dagli anni ‘70 e ‘80 che l’economia sovietica iniziò a sfaldarsi e—dopo la perestroika di
Gorbachev—negli anni ‘80 il paese inizò ad aprirsi verso un’economia di mercato. La popolazione
sovietica è sempre cresciuta a tassi ridotti; il disastro della seconda guerra mondiale ha tragicamente
aiutato il PIL pro capite, in maniera analoga lo ha fatto la riduzione della fertilità e il conseguente
contenimento della popolazione.
Tra anni ‘70 e ‘80 quando si esaurisce l’eccesso di offerta di lavoro (soprattutto a causa degli
investimenti per lo sviluppo della siberia e la corsa agli armamenti – i capitali dedicati all’industria
civile vengono spostati). Il problema fondamentale di ogni pianificazione centralizzata riguarda la
necessità di enormi apparati burocratici che devono organizzare la produzione: grossi investimenti in
industria pubblica tendono a portare a forme di corruzione, strumentalizzazione politica degli
investimenti per guadagnare voti, apertura di impianti inefficienti e scarsi controlli dell’efficenza degli
investimenti industriali.

Nel Giappone la pianificazione centralizzata trovò successi ancora maggiori: tra 1950 e 1990 il PIL
pro capite cresce a ritmi di quasi 6% all’anno con un picco dell’8% (1953-73). Nel 1990 il tenore di
vita del Giappone era già allineato a quello dell’Europa occidentale.
Il MITI (ministero del commercio internazionale) ha coordinato questi enormi investimenti (quasi 1/3
del PIL negli anni ‘70 verso l’industria, creando un’economia ad alti salari nell’arco di una
generazione). Viene ribaltata la politica tecnologica graduale precedente basata su adattamenti e bassi
salari. Vi fu una grossa crescita guidata da investimenti che fece in modo che il costo del lavoro si
adattasse ad un contesto tecnologico nuovo. Sempre contrassegnato da frugalità, es. il toyotismo,
organizzazione del lavoro in senso avanzatissimo che produce meccanica elettronica di grande
precisione con una semplicità di mezzi.
I problemi principali di ogni pianificazione statale sono i seguenti:
• Difficoltà nel capire quanto produrre e che dimensioni dare agli impianti industriali su cui si
investe. È possibile fare dei calcoli ma, vista l’imprevedibilità del futuro, è complesso fare
simulazioni e si rischia di fare “cattedrali nel deserto”. Va stabilita la dimensione efficiente di
investimento rispetto anche al cambiamento tecnologico.
• Difficoltà nello scegliere le tecnologie efficienti. Gli imprenditori nel mercato scelgono e
adattano le tecnologie ai propri bisogni di volta in volta – se è lo stato che deve scegliere ed
investire massicciamente la dinamica è diversa. Che tecnologia scegliere, come organizzare il
lavoro, puntare sul just in time o sulla produzione di massa? Quanto produrre? Con quali
dinamiche? Che tipi di prodotti e che tipi di tecnologie?
• Bisogna espandere la domanda interna – far crescere la nascita della società di consumo in un
tempo decine di volte inferiore a quello impiegato dai paesi occidentali.
• Capire che ruolo avere nel mercato internazionale.
◦ L’industria siderurgica giapponese ha iniziato lentamente ad esportare – per esportare
bisogna essere competitivi su mercati stranieri, soprattutto in quelli di paesi che si sono già
industrializzati. Il Giappone è stato molto abile in questo, riuscendo a spiazzare la
concorrenza nel mercato statunitense, soprattutto nel settore dell’acciaio, l’automobilistica e
gli elettrodomestici.

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Il Giappone, anche in vista del supporto recatogli dagli USA (la sua apertura alle merci giapponesi) in
quanto stazione anticomunista vicino alla Cina, vede una crescita di successo fino al 1991. L’esplosione
della bolla immobiliare introduce un’epoca di deflazione e contrazione dei consumi. Oggi il Giappone
rimane al livello economico dei paesi avanzati occidentali. Il big push giapponese si chiude per via
della crisi immobiliare e finanziaria del ‘91 e grazie al fatto che il Giappone ha raggiunto l’occidente
(tappando i buchi in termini di capitale per lavoratore, educazione per lavoratore e produttività) e la
frontiera tecnologica mondiale rendendo sempre più difficile creare nuove fonti di ricchezza specifica.

Le “tigri asiatiche” sarebbero quelle economie dell’estremo oriente asiatico molto aggressive o
dinamiche. Queste hanno caratteristiche molto specifiche, poco generalizzabili. Hong Kong e
Singapore sono città-Stato molto localizzate e finanzializzate, legate al commercio mondiale. Korea del
Sud e Taiwan sono due ex-colonie giapponesi che seguirono molto da vicino il modello giapponese:
creando sistemi educativi moderni, sviluppando le infrastrutture, l’industria pesante e, dopo gli anni ‘50
—con l’espulsione del Giappone dalle sue colonie e la redistribuzione delle proprietà giapponesi—
puntano a grosse pianificazioni industriali con restrizioni sulle importazioni, esclusione di imprese
straniere nel paese, protezione dei produttori manifatturieri (sovvenzionati dallo stato) ed investimenti
sull’industria pesante (siderurgia, cantieristica [navi], automobilistica). I profitti derivavano in larga
parte dalle aziende pubbliche (anche Taiwan, 1985 = 12%). Si tratta di paesi capitalistici dove la
pianificazione di Stato ha avuto un ruolo pesantemente determinante.

La Cina ha avuto un big push soprattutto tra 1950-78, poi proseguito a fasi alterne nei decenni
successivi fino alle quote dell’ultimo decennio (crescite fino al 10%+). La Cina ha visto la
compresenza di due periodi storici, quello di pianificazione (1950-78) e quello “di mercato”. La
rivoluzione prende il potere nel 1949 in una situazione economica disastrosa con un PIL di pro capite di
448$, oggi è tra i 6 e gli 8 mila dollari; nel periodo di pianificazione la Cina segue da vicino i dettami
sovietici spingendo molto sugli investimenti nell’industria pesante, sulla collettivizzazione
dell’agricoltura e sull’urbanizzazione (tassi di investimento elevati, come URSS, ~1/3 del PIL;
tecnologia avanzata; produzione di acciaio) – il PIL pro capite in questo periodo raddoppia, si vedono
tassi di crescita fino al 4%, con la media del 2,8%.
La seconda fase si apre con la morte di Mao nel 1976 e vede delle riforme in senso capitalistico. La
crescita accelera dal 2,8% (media tra 1950-78) al 6,7% (media tra 1978-2006). Le riforme principali
furono:
1. Riforme dell’agricoltura: l’agricoltura collettivizzata dava problemi di scontentezza dei
contadini (non possono trattenere o commercializzare parte del loro prodotto; non posseggono
la terra). Si inizò a pagare di più le quote di prodotto agricolo che superavano il piano → ciò
incentivò i contadini a produrre di più.
◦ Poco alla volta si smantella la collettivizzazione e si creano sistemi di aziende familiari
(terra divisa in piccoli lotti dati in affitto a famiglie). Le quote di produzione vengono
consegnate allo Stato ma gli eccessi possono essere trattenuti e venduti (anche a prezzi
elevati) dai contadini.
2. L’innovazione agricolo-tecnologica (assieme alle riforme summenzionate) crea una
“rivoluzione verde”. Vengono selezionate nuove piante di riso (simili e trovate prima dell’IR-8
giapponese) con resa altissima → esplode la produzione agricola cinese. Il riso era già
conosciuto in precedenza ma perché rendesse doveva ricevere alte quantità di fertilizzante,
quelli tradizionali a base di nitrato impedivano la formazione adatta del frutto. La crescita di
nuove forme di fertilizzante permise questo boom della produzione.

25
Ciò accanto ad altre modificazioni: superficie irrigata, qualità delle infrastrutture, tecnologie
meccaniche più avanzate → una vera rivoluzione dell’agricoltura che fece crescere il contributo
del PIL del settore agricolo dal 4,9% al 8,9-10% annuo.
Vi sono paragoni tra la storia indiana e quella cinese in termini di tecnologia agricola. Le aziende
agricole indiane si sono meccanizzate molto, ebbero un accesso al credito grazie al denaro distribuito
dalle banche di Stato indiano superiore. Questa meccanizzazione fece si che la manodopera necessaria
a coltivare la terra potesse ridursi→ espulsione di manodopera agricola verso le città (grossa
urbanizzazione). La Cina ha evitato questo conflitto tra tecnologia e manodopera puntando sulla
piccola e media proprietà di gestione contadina. La proprietà pubblica della terra salvaguarda i piccoli
produttori e mantiene il legame tra terra e manodopera.
3. Viene promossa sempre più la formazione di unità di villaggio (Township and Village
Enterprises, TVEs) che producono beni di consumo manufatti (con macchinari di medio
avanzamento) e commercializzano abbondantemente la loro produzione manufatturiera. (Nel
‘96 il 26% del PIL era dovuto a questa produzione a domicilio commercializzata; prima per la
quota eccedente il piano, poi dal ‘92 quando i piani vengono meno si commercia liberamente).
4. Nel ‘92 il 14o congresso del partito comunista cinese adotta il termine di economia socialista di
mercato – con obbiettivo una serie di riforme: abolizione dei piani centralizzati; creazione di un
sistema finanziario che sostituisca lo Stato per l’allocazione dei capitali; trasformazione di
imprese pubbliche in società di capitali dove possono entrare anche i privati; chiusura e tagli
strutture improduttive con riorientamento della manodopera a settori più produttivi.
Il tutto con uno Stato che però continua a guidare attivamente il settore energetico, l’industria
pesante, la meccanica, l’aerospaziale – uno Stato meno coinvolto ma ancora molto presente
(crea le regole della macroeconomia, dirige la politica monetaria).
L’alto tasso di crescità del PIL cinese è dovuto ad una serie di fattori. Le riforme hanno contribuito ma
non bastano a spiegare la questione – il retaggio socialista (educazione di massa, grosso settore
industriale, istituzioni scientifiche con grossa capacità di ricerca e sviluppo) continua ad avere un ruolo
importante.

(Lez 10 = Parziale)

26
Modulo B

Lezione 11
L’Italia dal medioevo a oggi

Il caso italiano dimostra quanto sia importante la differenza tra PIL aggregato e PIL pro capite. Il PIL
pro capite dà un’immagine dello sviluppo economico italiano nel lungo periodo piuttosto altalenante e
negativa. È cresciuto sia il PIL aggregato che la popolazione. Il PIL aggregato fa pensare che
l’economia italiana nel lungo periodo abbia dato risultati tendenzialmente soddisfacenti poiché,
nonostante le fasi di crisi (come le grandi pesti di metà 300 e 600), il PIL è cresciuto. Il PIL aggregato
ci restituisce una storia di crescita, quello pro capite di decadenza.
La crescita demografica in Italia ha un’accelerazione soprattutto nel basso medioevo (X-XI sec in poi),
vi è una crisi demografica legata alla peste del Boccaccio (1348 – crolla la popolazione europea
addirittura di metà, in base alle stime), una ripresa lenta nel 1400, una più significativa nel 1500, una
nuova crisi demografica tra anni ‘30 e ‘50 del 1600 (a seconda delle aree geografiche), ed una crescita
ininterrotta della popolazione dal 1700 (e più impetuosamente con la rivoluzione industriale).
Da cosa dipende questa dinamica altalenante? Vari elementi influenzano l’andamento della popolazione
in economia; questi possono essere compendiati sotto la categoria di energia:
• Questa include soprattutto il cibo (disponibile per le persone ma anche per gli animali che
lavorano la terra, o di cui le persone si cibano);
• i combustibili – che siano legna, carbon-fossile, torba, sfruttamento del vento, il sole
(fondamentale per l’agricoltura, l’optimum climatico è il momento in cui l’irradiazione solare è
ottimale alla formazione di alimenti, della biomassa che gli uomini possono sfruttare a loro
vantaggio) etc.
La storia dell’Italia nel medioevo fino alla peste di Boccaccio (1348) è stata una storia di crescita
demografica che si può interpretare come crescita della disponibilità energetica. Nel medioevo si
modificarono le forme di organizzazione del lavoro (si comincia ad usare il cavallo nei lavori agricoli, a
sviluppare le rotazioni agricole e l’allevamento, ad utilizzare il mulo nei trasporti, nasce l’aratro
metallico, si sfrutta di più l’energia delle ruote idrauliche e si sfrutta meglio il vento tramite lo sviluppo
di navi—fino a poi la trealberi quattrocentesca), un insieme di cambiamenti qualitativi e quantitativi
fanno si che cresca la disponibilità energetica e quindi anche la popolazione; ciò pone le basi per la
crescita moderna.

La storia economica dell’Italia inizia a divaricarsi rispetto a quella del continente europeo dopo la peste
del 1348. Fino a quel momento l’Italia è stata l’economia più avanzata e dinamica del continente
(assieme forse alle Fiandre), dopo la peste la cosa inizia a cambiare: si assiste ad una lentezza di
innovazione energetica (precludendo la possibilità di un grande sviluppo oltre-oceano nell’epoca del
colonialismo), il nuovo sfruttamento delle fonti energetiche che avviene nel nord Europa (torba, carbon-
fossile, vento) non include la penisola. L’Italia inizia a divergere dall’essere un’economia agraria
matura.
Per economia agraria matura si intende un’insieme di elementi economici che caratterizzarono in
parte l’Italia settentrionale ma soprattutto le grandi monarchie nazionali europee: Inghilterra, Francia e
Paesi Bassi (contribuendo alla loro supremazia tra ‘600 e ‘700). Questi elementi includono:

27
• Nuove produzioni agricole, più semplici da coltivare e fortemente energetiche (es. patata e mais)
• Sviluppo delle rotazioni: non più con un maggese (messa a riposo del terreno) ma una rotazione
continua delle colture: questa consente di produrre significativamente senza dover
necessariamente lasciare a maggese la terra.
• Aumento della quantità di bestiame che può essere approvvigionato ed allevato su un dato
appezzamento di terra
• Uso più ampio di risorse energetiche del sottosuolo (carbon-fossile e torba) – che vengono poi
trasformate in movimento dalla macchina a vapore

L’Italia, riguardo lo sviluppo delle risorse energetiche, si comporta diversamente in base alle fasi
storiche.
Il basso medioevo (X – XIV secolo)
forse la fase più dinamica per l’Italia. (Le ipotesi sono vaghe per via della scarsità di dati riguardo il
periodo).
1. Aumento consistente della popolazione – alcune stime puntano ad un 3x
2. Aumento dell’urbanizzazione – questa può avvenire solo se aumenta la produttività agricola
(necessità di produzione di alimenti per i lavoratori urbani – tendenzialmente l’aumento
dell’urbanizzazione ha dietro un’agricoltura che sta aumentando la sua produttività del lavoro);
◦ quella delle attività secondarie era più alta, quindi aumentava anche la produttività
manifatturiera. Vi fu quindi una produttività del lavoro aumentata nel suo complesso.
3. Aumento del PIL – sia aggregato che pro capite (ipotesi induttiva basata sui dati che alimentano
il punto 2);
4. Aumento dell’ineguaglianza (nelle economie del passato coincideva con l’aumento
dell’urbanizzazione).

Dal 1348 a metà ‘600:


1. Lento ma significativo recupero della popolazione persa durante la peste (la quale durò per tutta
la seconda metà del ‘300).
2. L’urbanizzazione è grosso modo stabile (non cresce o cresce a ritmi lenti; recupero parziale).
3. Diminuzione della produttività del lavoro agricolo (da 100 a 83, tab 7.2) – (il capitale e le
innovazioni rimangono stabili mentre la popolazione ri-aumenta → rendimenti marginali
decrescenti dell’aumento del fattore lavoro + raffreddamento del clima).
4. Aumento del PIL aggregato ma, con un aumento della popolazione, una diminuzione del PIL pro
capite.

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Si tratta di una crescita prevalentemente estensiva, non intensiva – all’interno dunque delle strutture
tecniche del passato. La diminuzione della disuguaglianza ha a che fare con la diminuzione del reddito
pro capite.

Tra metà ‘600 e 2000:


Troviamo da una parte l’esplosione della popolazione. Quest’analisi si svolge sul centro-nord perché è
l’area su cui abbiamo più dati; inoltre quando si lavora sul lungo periodo tendenzialmente bisogna
selezionare aree omogenee – quelle che hanno la maggior parte di informazioni d’archivio fin dal
medioevo (i comuni medievali e le signorie di età moderna avevano implementato precocemente delle
forme di registrazione di un insieme di dati).
Cresce significativamente l’urbanizzazione e soprattutto si ha un’esplosione della produttività del lavoro
agricolo (40x) e del PIL. La crescita del PIL pro capite è meno entusiasmante, quello aggregato cresce
di ben 70x, quello pro capite solo di 13,8x.

La storia dell’Italia tra X e XX secolo presenta una crescita quasi ininterrotta del PIL aggregato.
Le fasi di caduta erano essenzialmente dovute alla crisi del rapporto tra energia e popolazione, energia
ed economia – spesso si interpretano le pandemie come frutto del peggioramento della disponibilità
energetica: spesso la peste si diffondeva quando la popolazione era più elevata, quindi quando le risorse
energetiche a disposizione pro-capite diminuivano; si mangiava meno, si abitava in luoghi stretti e
quindi è forse possibile trovare un nesso tra disponibilità energetica, demografia ed andamento delle
pandemie. In questo senso esse farebbero da riequilibratori del rapporto tra popolazione e risorse (dopo
grosse crisi seguono fasi di crescita dovute al crollo della popolazione: meno forza lavoro → aumento
salari; meno domanda → crollo dei prezzi; meno persone che possono lavorare e possedere la terra →
diminuzione dei prezzi fondiari → diminuzione delle disuguaglianze).
Dal punto di vista del PIL pro-capite abbiamo una fase molto fortunata (900 – 1300), una lunga
decadenza (1300 – fine ‘800) e poi, con l’età giolittiana (boom: 1895-1913), l’Italia riesce a recuperare
un posto al centro della leadership economica (Dalla periferia al centro, Zamagni).

29
La crisi del Settecento

Il momento più critico non fu tanto la crisi del ‘600, bensì quella del ‘700. A questo secolo tendiamo ad
attribuire valenze positive—illuminismo, ampliamento dei traffici, internazionalizzazione delle città
italiane, figure intellettuali internazionali etc.—, esso fu di certo intellettualmente dinamico, gli
indicatori economici però fanno pensare ad un secolo collocato tra due crescite. Crisi economica,
collocata tra crescita medievale e crescita contemporanea, che culminò nel corso del XVIII secolo -
soprattutto a causa dell’aumento della popolazione. Questa esplosione senza precedenti non ha
spiegazioni certe, la scomparsa della peste—non sappiamo perché sia scomparsa dall’occidente europeo
nel corso del ‘700, pressoché definitivamente—fece diminuire la mortalità (rapporto tra numero di
morti e popolazione media), accanto ad un innalzamento lieve delle temperatura che ha inciso
positivamente sulla resa agricola dei terreni. Tutto ciò ha fatto crescere la popolazione e sbilanciato il
rapporto tra essa e PIL, precipitando l’Italia nella crisi del ‘700.
La conseguenza più immediata di una crisi del PIL pro capite è un calo dei salari reali. Si creò quindi
una divaricazione tra salari italiani reali e di altre città europee. Diminuisce infatti anche la statura
media (dati derivanti dal momento della leva) – ciò testimonia in maniera chiara la difficoltà presente
nell'approvvigionarsi di energia in maniera crescente.

Abbiamo quindi una crescita medievale (900-1300) – dove cresce la disponibilità energetica della
popolazione, il PIL aumenta più della popolazione (facendo crescere quindi anche il PIL pro capite).

Si ha poi una lunga decadenza (1300-1800) che si conclude solo a fine ‘800. Le cause della lunga
decadenza (e della mancata prima fase di crescita moderna) sono causa di un dibattito aperto ma tra i
principali indiziati si può annoverare:
• Mancanza di una rivoluzione agraria paragonabile a quella Inglese – un'agricoltura che non
cresce nella sua produttività pro capite (mancanza di: rotazione continua, enclosures,
razionalizzazione della produzione agricola—in Italia presente solo in zona lombarda)
• Mancanza di materie prime come carbone e ferro
• Aumento della densità demografica non accompagnata da una crescita superiore del PIL

La lunga decadenza cessa dove inizia lo Stato italiano. A fine ‘800, nella seconda fase di crescita
moderna vi è:
1. Sviluppo dell’agricoltura legato in primo luogo alla diffusione dei fertilizzanti chimici, poi alla
meccanizzazione (poco presente fino a ‘900 inoltrato).
2. Caduta dei costi di trasporto – la rivoluzione dei trasporti fece si che si potessero importare
prodotti alimentari—soprattutto dalle Americhe—a prezzo più basso.
3. Forte disponibilità dei “salti d’acqua” che permette un vantaggio competitivo all’industria
elettrica italiana (Edison Italia – 1883; prima impresa, precoce)
4. Forte emigrazione italiana verso America del nord e sud permette un riequilibrarsi del rapporto
tra risorse e popolazione. Questo generava redditi anche grazie alle “rimesse” degli emigrati: il
denaro che essi spedivano alle famiglie in Italia.

30
Lezione 12
Lo sviluppo economico italiano dopo l’unità (1861)

Ancora nella prima metà dell’800 l’Italia rimase molto indietro rispetto alle principali economie
continentali, il PIL pro capite crebbe molto lentamente. Tra 1810 e 1860 si ha forse lo 0.5% annuo al
Centro e al Nord (crescita non sufficiente a colmare gli effetti della crisi del 700, il livello di reddito del
centro-nord del 1300 e 1400 si raggiunse solo a fine 1890’s). Vi sono indizi che già qui vi sia un divario
significativo di crescita tra Nord e Sud Italia.
Già con l’800 abbiamo un grosso problema di dati ed informazioni su PIL, prezzi, produzione etc.
Alcuni stati raccoglievano le prime statistiche, altri meno. Non sappiamo se le statistiche trovate nelle
documentazioni d’archivio fossero affidabili e in che grado. Secondo Cohen e Federico (vedi saggio
annesso) solamente le statistiche della bilancia commerciale (differenza tra ammontare di importazioni
ed esportazioni – può essere attiva se le esp. sono maggiori delle imp., o viceversa.) dei paesi che
componevano la penisola italiana prima del 1861 sono davvero affidabili.
Dalla documentazione emerge che molti dei beni esportati ed importati tra stati italiani erano di valore
elevato laddove riguardava il mercato della seta. La seta pare esser stato lo staple product degli stati
italiani più ricchi nell’800 (Lombardia, Piemonte, Calabria, in parte Toscana). L’ultima fase, quella
della tessitura, è sempre stata piuttosto debole nell’Italia dell’800, si tendeva ad esportare verso la
Francia la seta da tessere. Il prodotto di esportazione principale dell’Italia era dunque il filato di seta
grezza, più o meno torto. Questo staple product consentì, tra prima e seconda metà dell’800—a cavallo
della crisi della pebrina, che danneggiò il baco da seta allora utilizzato e impose l’importazione di
nuovi bachi dal Giappone—uno sviluppo della ricchezza italiana e la creazione di domanda di lavoro,
soprattutto nelle campagne (molta della produzione era decentrata alle campagne, ancora
abbondantemente in parti del ‘900).
Il problema di precisione del dato statistico riguarda anche gli anni immediatamente successivi
all’unità d’Italia. Il primo censimento della popolazione viene effettuato nel 1861 ma il ministero
dell’agricoltura, industria e commercio (MAIC) raccolse dati che non sempre gli storici ritengono
affidabili. La mancanza di fondi negli anni 90 dell’800 influì negativamente sulla loro affidabilità. Nel
1957 l’ISTAT (istituto nazionale di statistica) pubblicò una serie di stime del PIL annuali tra 1861 e
1956 – queste riguardavano, oltre che al PIL, i consumi e gli investimenti. Si tratta di stime, il PIL
storico non può che essere stimato laddove non si hanno istituti di statistica ufficiali che fanno calcoli
regolarmente in maniera rigorosa. Neanche le serie ISTAT del ‘57 sono esenti da problemi
sull’attendibilità delle fonti usate e sull’elaborazione metodologica (tant’è che hanno ripubblicato
versioni modificate più volte). Giorgio Fuà, economista, tentò
nel 1969 di correggere queste stime ISTAT, tornò sui dati
fornendo nuove stime su stock di capitale, crescita del PIL etc.
Oggigiorno chiamiamo infatti le statistiche ISTAT/Fuà.
Considerando l’incertezza dei dati riguardanti l’800 possiamo
immaginare i problemi che siano presenti per i secoli
antecedenti.
La crescita dell’indice PIL parte da 40-50 all’unità d’Italia e
giunge a circa 200 agli inizi della seconda guerra mondiale. Le
diverse stime concordano sul fatto che la crescita ottocentesca
fu lenta, fino almeno agli anni ‘90 dell’800. La crescita
giolittiana fu molto sostenuta, a cavallo degli anni della prima

31
guerra mondiale. Il PIL crollò durante la guerra per poi riprendersi nel ventennio successivo. Vi fu una
crisi finanziaria nel 1929 (non significativa come quella bellica) ed una crescita sostanziale fino almeno
alla seconda guerra mondiale.
L’Italia nel secondo ‘800 non vede alcun vero e proprio catch-up nei riguardi della GB. Soltanto con il
boom giolittiano (1895-1913) essa si avvicina ai livelli di crescita delle economie più sviluppate; per
poi avere il suo vero boom con il secondo dopoguerra. Il vero miracolo economico italiano sarà
appunto quello degli anni ‘50 e dei primi anni ‘60.

Valore aggiunto e PIL sono sostanzialmente sinonimi; il PIL valuta il valore finale dei beni e dei servizi
nel loro sbocco sul mercato – calcola quindi il valore aggiunto dal processo produttivo. Vediamo qui
come l’andamento del PIL pro capite può ridimensionare la crescita del PIL totale (dato che considera
la crescita della popolazione). Anche considerando il boom del 1951-1963 vediamo che, come nel caso
di Ercolani, il PIL può avere un tasso di crescita del 6,27% mentre quello pro capite del 5,55%. Epoche
come anni 10, 20 e 30 vedono tassi di crescita del PIL (secondo le stime più pessimistiche, Ercolani) di
1,56% mentre quello pro capite 0,61%.

Un criterio alternativo per il calcolo della crescita di un paese è l’indice dello sviluppo umano (HDI –
Human development index). Si tratta di uno dei modi di far fronte al problema del limite del PIL come
quantità in grado di sintetizzare la crescita del benessere, la performance effettiva, complessa del paese.
L’HDI è una media tra PIL pro capite, aspettativa di vita e istruzione (calcolata con media degli anni di
scuola e percentuale di alfabetizzazione).
Tra 1870 e 1913 la crescita dell’HDI italiano fu molto impetuosa, seconda solo al Canada; ciò consentì
di tenere il passo con gli altri paesi OCSE. L’Italia rimase però ultima nella classifica dei 16 paesi
dell’OCSE (organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) sia nel 1870 che nel 1950.
Rimane quindi ancora oggi molto lavoro per raggiungere il livello di sviluppo di altri paesi. Tuttavia, la
crescita dell’indice di sviluppo umano italiana è aumentata ad un ritmo addirittura doppio di quello del
PIL (tra 1870 e 1913). Il paese fu più bravo di altri nel convertire la crescita economica nello sviluppo
umano – gli altri partivano però da posizioni più elevate, rendendo difficile raggiungerli.

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1861-1960
Per valutare l’economia di un paese bisogna analizzare la sua struttura. Attraverso il caso italiano
possiamo imparare come si guarda ad un’economia nazionale. Per struttura di un’economia si intende
la distribuzione della forza lavoro nei tre settori principali: agricoltura – industria – servizi. La pubblica
amministrazione viene a volte distinta dai servizi (come nelle seguenti tabelle di Cohen).
Negli anni 1861 – 1960 si ridusse il settore agricolo
e crebbero industria e servizi → da qui la crescita
della produttività (ovvero di prodotto per ora di
lavoro).
L’analisi della struttura economica italiana tra fine
800 e boom economico ci dice che il settore
agricolo si è ridotto mentre sono cresciuti industria e
servizi. Abbiamo diverse stime, ISTAT, ISTAT/Fuà,
etc., che ci restituiscono velocità diverse. Questo
spostamento della forza lavoro è importante perché
generalmente l’agricoltura è un settore a bassa
produttività. Il passaggio di manodopera a secondo
e terzo settore rappresenta una crescita della
produttività del lavoro (detta anche produttività
aggregata).

La tabella 1.6 ci permette di iniziare ad osservare il


divario tra Nord e Sud Italia.
Questo divario è fotografato impetuosamente dal PIL pro capite – si è ampliato fortemente tra 1871 e
1971.

XIX-XX Secolo
Gli storici dell’economia vedono una grande trasformazione, soprattutto dopo l’unità e fino alla
seconda guerra mondiale l’Italia si trasforma da paese fondamentalmente agricolo a paese industriale e
relativamente prospero (Cohen: tra 1860 e 1940). Si vede una crescita significativa dell’HDI e un
insieme di altri cambiamenti. Per rispondere alla domanda riguardante il grado di successo dello
sviluppo italiano si utilizzano i grandi modelli della crescita italiana. Questi modelli hanno spesso una
connotazione in un senso o nell’altro, ottimistico (si focalizzano sulle discontinuità, sui successi delle
misure) o pessimistico (non felice riuscita complessiva, alternanza di fasi positive e negative).
• Ottimisti
◦ Si enfatizza l’importanza del salto, la discontinuità – tra unità e 1970 si videro avanzate
significative: età giolittiana (1895/1903-1914), anni ‘20-’30, boom dopoguerra (‘50-’60).
◦ Si sottolinea che il trend del PIL, anche pro capite, nella media nazionale è cresciuto.
◦ Sottovalutano il divario tra Nord e Sud focalizzandosi sulla crescita complessiva.

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▪ 2 gruppi: Romeo/Geschenkron vedono discontinuità nella produzione industriale negli
anni 80/90 dell’800 (rispettivamente) || Altri vedono l’aumento nel tasso di crescita
come una fluttuazione ciclica positiva rispetto ad un trend comunque crescente.
• Pessimisti
◦ Ispirazione tendenzialmente marxista. Si focalizzano sulle difficoltà, le lentezze, di
modernizzazione oltre che di sviluppo economico. Il tasso di crescita del PIL fu inferiore a
quello di altri paesi allo stesso livello di sviluppo – vogliono quindi individuare le
caratteristiche che hanno frenato la crescita.
◦ Sottolineano le lentezze dell’agricoltura (Gramsci, Sereni – mancata rivoluzione/riforma
agraria dopo l’unificazione – rimasugli feudali. Mancanza di una piccola-media diffusa
proprietà contadina non ha consentito all’agricoltura italiana di meccanizzarsi).
◦ Debolezza dei mercati interni – poca domanda dei beni manufatti e di beni di consumo
durevoli (dovuta sempre alla mancata proprietà dei contadini → non incentivati ad investire
per via del rimasuglio feudale).
◦ Debolezza degli investimenti – scarsità di capitale sul mercato nazionale, debolezza del
sistema bancario e degli investimenti pubblici. (Investimenti sbagliati e “troppa spesa
pubblica assistenzialista”).
◦ Scarsa efficacia di elementi di catch-up: sistema ferroviario, banche (deboli e frammentate)
e protezioni doganali (presenti – unificarono il mercato interno tra nord e sud ma concessero
forse troppe protezioni, non consentirono la crescita competitiva internazionale).
Il modello che oggigiorno riscuote più consenso è quello Fenoaltea, Bonelli-Cafagna. Esso si può
definire gradualista, non ha molta simpatia per le categorie di push e balzo (ottimisti di categoria 2). La
storia economica italiana può essere letta, più che attraverso discontinuità, leggendo le fasi di crescita
rapida che portarono diversi cambiamenti. Le fasi di crescita vanno viste come momenti di
accumulazione di ricchezza, capitali e benessere; che provocarono trasformazioni strutturali
(soprattutto riguardo la tripartizione agricoltura-industria-commercio).
Vediamo fasi di crescita tra: 1830-40 (esportazioni, staple products); 1880-90; 1895-1906 (Giolittiana);
1920-29). Queste hanno visto crescita dell’economia e della posizione dell’Italia rispetto ad altri paesi e
hanno creato trasformazioni strutturali emancipando l’Italia dalla dipendenza dall’agricoltura. Queste
crescite furono determinate da diversi fattori: esportazioni, andamento dell’accumulazione di capitale,
spesa pubblica, protezionismo (1880-90) – l’enfasi è spesso posta sugli investimenti industriali
(Fenoaltea), talvolta finanziati dallo Stato (siderurgico, trasporti, sistema bancario), e talvolta finanziati
da capitali esteri (soprattutto tramite l’acquisizione di titoli e azioni e tramite investimenti fatti in
impianti produttivi italiani da parte di aziende estere).
Non vi furono, secondo questo modello, grandi balzi, discontinuità, big-push in Italia, bensì varie fasi
avrebbero migliorato la condizione del paese modificandone le condizioni strutturali.
Le cause delle singole fasi di crescita ed espansione del modello Fenoaltea, Bonelli-Cafagna (che
enfatizza il ruolo dello Stato – Fenoaltea almeno nella prima fase di pensiero) possono essere riassunte
nei seguenti punti:
1. variazioni degli investimenti industriali
2. variazioni degli investimenti esteri
3. fluttuazioni dell’offerta domestica
4. andamento delle esportazioni agricole (seta – meno importanti dopo la crisi agricola 1880)
5. ruolo dello Stato: imposizione fiscale, spesa pubblica, sussidi, tariffe doganali
6. crescita del commercio mondiale

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Lezione 13
Zamagni – Capitolo 2, Il filo della storia
Dalla fine della seconda guerra mondiale fino al 2016.
1. Ricostruzione (1946-1951)
2. Miracolo economico (1952-1973, crisi petrolifera) – normalmente si intende fino al 1963, la
nostra concezione si estende
3. Ritorno dell’instabilità (1974-1992, inizio delle privatizzazioni)
4. Fase delle riforme incomplete (1993-2007 – tra anni di tangentopoli e inizio della seconda
repubblica)
5. Grande crisi internazionale (2008-2016)
L’Italia ha avuto a lungo un’economia mista – né socialista né pienamente di mercato. Dopo la crisi
del 1929 (ma anche prima per alcuni aspetti) lo stato ha avuto un ruolo importantissimo in economia.
Nel 1933 venne istituito l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) – una holding company,
società finanziaria che ne possedeva delle altre; questa procedette negli anni successivi alla
nazionalizzazione delle imprese industriali e delle banche più importanti. Dopo questa crisi lo stato
entrò a surrogare carenze di capitali e di energie imprenditoriali che la crisi aveva spazzato via;
assumendo su di sé la proprietà delle imprese—cantieristica (navi), buona parte della siderurgia, parte
dell’automobilistica, buona parte del settore dei trasporti e delle telecomunicazioni etc.—quasi la metà
della capitalizzazione di borsa delle società italiane dopo la crisi del ‘29 venne acquisita dopo il ‘33
dall’IRI. Questo acquisisce la proprietà delle più importanti banche italiane: banche miste come banca
commerciale italiana, credito italiano e banca di Roma. L’economia mista invade sia il settore
industriale che quello bancario, creando una condizione di mercato specifica – seppur non così distante
da altri paesi europei (soprattutto dopo la crisi del 2008, è tipico in questi momenti che lo Stato subentri
investendo nella proprietà o nella completa nazionalizzazione di alcune imprese. Lo Stato nella storia
economica italiana non ha fatto solo il regolatore ma anche l’imprenditore (ha anche fondato l’ENEL
nel 1962, ente nazionale che prende in sé le precedenti imprese private di energia elettrica; l’ENI—ente
nazionale idrocarburi—nasce già pubblica nel 1953, si occupa di distribuzione di petrolio ed energia).
Va considerato il ruolo dello Stato nell’economia italiana, nel bene (inventando grosse imprese come
ENI che hanno avuto un ruolo determinante nel collocare l’economia italiana in ambito internazionale)
e nel male (nelle occasioni in cui l’intervento pubblico divenne “carrozzone pubblico”, un grosso
ombrello dove confluiva la proprietà di imprese private gestite male – tramite l’aiuto di alcuni partiti
politici a cui sono affiliati questi imprenditori alcune imprese vengono nazionalizzate per gli interessi
degli imprenditori privati, caricando sulle spalle delle finanze pubbliche imprese che non riescono a
gestire privatamente).

Fase della ricostruzione (1946-1951)


In Italia si intende non solo ricostruzione fisica degli edifici dopo la seconda guerra mondiale ma anche
ricostruzione di una reputazione internazionale e di una stabilità politica. Si è in un contesto di
inflazione molto elevata, in un paese uscito sconfitto dalla guerra—e quindi con le 4 potenze vincitrici
che si dividono l’Europa—, l’aspetto politico (governi italiani prima ad ampia partecipazione politica,
che poi vedono un prevalere della componente cattolica, soprattutto a partire dal ‘48 – DC) vede la
messa in atto di un insieme di misure come quelle di Einaudi: controllo inflazione, stabilizzazione dei
cambi monetari. La stabilità politica e finanziaria derivante fecero da prerequisiti per aprire l’Italia alla
ricezione del Piano Marshall (1948). Viene “modernizzata” l’industria italiana tramite grosse imprese

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che lavorano con sistemi americani (catene di montaggio, larga scala, cambiamento dell’organizzazione
aziendale, americanizzazione anche degli stili comunicativi e del marketing).
Lo Stato continua ad avere un ruolo importante, in particolare grazie al piano per l’acciaio (O.
Sinigaglia) – si propugna fortemente la necessità che l’Italia rimanga nella grossa produzione
siderurgica occidentale. Questo prevede grandi impianti a ciclo integrale (partono dalla materia prima e
producono acciaio – non partono dai rottami ma dalle miniere di ferro e dai giacimenti di carbone).
L’Italia partecipa quindi alla CECA (comunità europea del carbone e dell’acciaio) come membro
fondatore.
Accanto a questo importante ruolo pubblico vi è una sviluppata industria privata, rimasta tale
nonostante la crisi del ‘29 (es.: la Edison—impresa elettrica fra le più importanti d’Europa—verrà
nazionalizzata solo nel 1962; per la chimica la Montecatini; per l’automobilistica la Fiat).

Tra le riforme sociali ed economiche più importanti della ricostruzione elenchiamo:


• la nascita dei più importanti sindacati: CGIL, CISL, UIL;
• la riforma agraria: l’eliminazione del latifondo nel sud;
• la costruzione di un grosso piano di edilizia popolare – il piano INA-Casa (o case Fanfani,
ministro che la promosse);
• gli interventi per il Mezzogiorno: SVIMEZ (società di sviluppo del mezzogiorno, propone
strumenti per riattivare l’economia meridionale) e la Cassa per il Mezzogiorno (bonifiche,
miglioramenti agrari, industrializzazione – vide anche però la costruzione delle “cattedrali nel
deserto”, non riuscì a fare pienamente da volano per lo sviluppo territoriale e sociale);
• l’ingresso nel Fondo Monetario Internazionale (FMI, nato nel 1947) – uno dei problemi
fondamentali era la stabilizzazione del cambio della lira rispetto alle altre valute europee. In
quest’organizzazione la moneta non poteva essere arbitrariamente svalutata (svalutazione
competitiva – le autorità governative in Italia emettevano molta moneta facendone calare il
prezzo sul mercato internazionale, facendo risultare i prezzi delle merci italiane più convenienti
all’estero, trascinando le esportazioni ma indebolendo la moneta e quindi la reputazione
economica del paese). L’ingresso nel’FMI fece guadagnare reputazione ai governi italiani.

Il miracolo economico (1952-1973)


• Imitazione del “modello americano” – è in questi anni che si dispiega pienamente il piano
Marshall – l’americanizzazione si estende a molti aspetti della società italiana, anche
culturalmente, nei tipi di consumi oltre che nelle strutture economiche (diffusione dei
supermercati, delle vendite per corrispondenza, del cinema e della musica americani) –
direzione più capitalistica (vi sarà forte interferenza degli USA contro es. il PCI)
◦ L’Italia è comunque un sistema di piccole-medie imprese – non tutto il sistema diventa
quindi all’americana;
• Sviluppo territorialmente ampio – Tre Italie: differenze territoriali e dimensionali – Nord-Ovest
comprende il triangolo industriale italiano (ToMiGe); Nord-Est vede un’industrializzazione più
recente e spontanea, fondata dal basso su agricoltura e piccole-medie imprese; nel Sud prevale
l’orientamento statale ed una maggiore arretratezza sul piano dello sviluppo industriale privato.
• Aumento sia della domanda interna che dell’export – il boom economico crea reddito e salari
→ urbanizzazione e aumento del potere di acquisto → aumento della domanda interna; salari
italiani più bassi che quelli occidentali (nonostante il patto con i sindacati fece aumentare i
salari rispetto alla fase agricola) → favorisce le esportazioni di prodotti manufatti e agricoli, i
prodotti costano meno per via dei salari più bassi.

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Durante il miracolo economico l’Italia sviluppa una serie di settori industriali all’avanguardia: chimica
(primato della plastica italiana, premio nobel per i polimeri), energetica (nucleare e petrolifera),
aerospaziale (Finmeccanica, una delle parti migliori del settore pubblico italiano), elettronica.
L’Italia nel 1963 apre il più grande impianto nucleare d’Europa, possiede un terzo delle capacità
produttive nucleari del continente. Il nucleare verrà eliminato in un referendum ma l’Italia è comunque
emblema di ricerca scientifica e tecnico-ingegneristica di stampa internazionale. Nel ‘64 è il terzo
paese, dopo l’URSS e gli USA a lanciare un satellite in orbita.
Vi sono stati un insieme di grandi successi innovativi e al contempo una situazione più conservatrice
nel settore agricolo, finanziario e statale. Queste componenti più tradizionali inclusero:
• L’agricoltura rimane poco produttiva e meccanizzata
• “Bancocentrismo” – le banche continuano ad avere un ruolo centrale, nel mondo anglosassone
lo strumento di finanziamento principale divenne invece sempre più la borsa. Nel 1946 nasce
mediobanca (fondata da due banche pubbliche: banca commerciale italiana e credito italiano),
essa diverrà anche un sistema politico di gestione delle imprese italiane – fa da camera di
compensazione di equilibri politici, economici, proprietari (Enrico Cuccia sarà l’uomo più
influente del sistema bancario nella seconda metà del 900).
• Forte ruolo dello Stato (ERI, ENI, EFIM—ente che finanziava le industrie manifatturiere—e
ENEL).

Ritorno dell’instabilità (1974-1992)


Premesse:
La fine degli anni sessanta vedono in vari luoghi—tra cui USA, Francia, Europa, Italia—il montare di
proteste sociali di studenti e lavoratori che sfoceranno nell’autunno caldo nel ‘69. Qui si diffondono
anche nelle fabbriche italiane scioperi “a gatto selvaggio”: di breve durata ma riguardanti tante squadre
di lavoro sul territorio della fabbrica. Vengono al pettine i nodi che il miracolo economico non aveva
risolto: in particolare il divario tra crescita economica e compressione salariale – un’esportazione di
prodotti industriali a cui non fa fronte un miglioramento proporzionale dei salari reali.
> Lo Statuto dei lavoratori fu una legge approvata dal parlamento Italiano nel 1970 – si tratta di una
grande discontinuità poiché: limita la libertà di licenziamento (art. 18 – obbligo di reintegrare un
lavoratore che ottiene sentenza favorevole da un tribunale); proibisce pratiche di controllo dei
lavoratori (tramite telecamere o personale); impedisce la discriminazione ideologica; dà libertà alle
organizzazioni sindacali di riunirsi nei luoghi di lavoro. Questo statuto vale però solo per le imprese
sopra ai 15 dipendenti – viene infatti considerato come uno dei motivi per cui le imprese hanno limitato
la loro crescita numerica al di sotto dei 15. Le lotte salariali di quest’epoca portano ad un
miglioramento sostanziale dei salari reali, ad un miglioramento dei sistemi di welfare e quindi ad un
insieme di progressi che equiparano le condizioni di lavoro italiane (se non migliori) che quelle degli
stessi decenni in Europa.
> La prima crisi petrolifera si verifica nel 1973-74, la seconda nel ‘79. Ciò porta ad una contrazione
nella domanda di petrolio (ed automobili, che vanno a petrolio), ad aumenti nei costi dell’energia e
quindi all’aumento dei costi di produzione.
> La nascita del regime di cambi fluttuanti segna una nuova fase rispetto a quella del FMI – questo
reintroduce la possibilità di svalutare una moneta.
Prima ancora il sistema monetario europeo era fondato sul gold standard (gli stati potevano emettere
monete del valore a cambio fisso dell’oro che la banca nazionale deteneva nei suoi forzieri).

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Il regime del FMI era fondato sul gold exchange standard (affermatosi dopo la crisi degli anni ‘30 del
gold standard – questo fa si che una moneta, quella dell’economia più forte, il dollaro, faccia da
standard – gli stati possono battere una moneta di valore equiparabile al dollaro contenuto nei forzieri
della banca nazionale. Gli USA, battendo dollaro, devono invece ancora basarsi sul gold standard,
avere oro a cambio fisso che garantisce il valore del dollaro. Il sistema rimane quindi ancorato all’oro
attraverso il dollaro).
Nel 1971 gli USA cessano di fare da base di questo sistema, nasce quindi il regime di cambi fluttuanti
in base a quale le monete vengono comprate e vendute sul mercato – in base all’acquisto e alla vendita
guadagnano e perdono di valore come ogni altra merce soggetta alla legge di domanda e offerta. Ciò
consente ad alcuni paesi, come l’Italia, di applicare un nuovo-vecchio modello per favorire le
esportazioni, quello della svalutazione competitiva. Seppur favorisca l’esportazione, lo svantaggio sta
nel fatto che deprezzando una moneta questa viene considerata instabile, quindi sempre meno
desiderabile. Ciò si riflette sulla reputazione internazionale del paese e della sua politica.
Aspetti importanti della fase:
• Politica monetaria espansiva (riguardo le esportazioni – svalutazione competitiva): comporta
inflazione. l’Italia ebbe un problema accentuato di inflazione tra anni ‘70 e ‘80 — dovuto in
parte alla politica monetaria espansiva messa in atto dalla banca d’Italia e poi dal sistema della
“Scala mobile”. Questo consistette in un accordo (firmato: 1975) tra Confindustria (allora
guidata da Gianni Agnelli – esponente della famiglia che possedeva la FIAT) e i sindacati: viene
accettata la proposta sindacale di proteggere interamente i salari dall’inflazione. Il salario
diviene “variabile indipendente”, la scala mobile prevede un meccanismo automatico di crescita
dei salari ogni tre mesi in base all’andamento dei prezzi. Questo sistema consente ai lavoratori
di mantenere il potere d’acquisto ma genera una spirale di inflazione: l’aumento dei costi di
produzione (aumento del costo del petrolio) genera un aumento dei prezzi → aumento dei salari
→ inflazione sempre più elevata (11% nel 1973 – 21% nel 1980).
• Nel 1979 infatti l’Italia entra nello SME (sistema monetario europeo) – una riedizione del FMI
in ambito europeo, nato per evitare svalutazioni competitive. Si tratta di un sistema di cambi
fissi aggiustabili – si fissa un range di possibile oscillazione delle singole monete europee, la
moneta può svalutarsi ma entro una percentuale (tendenzialmente tra 10% e 15%).
• Indipendenza della Banca d’Italia (1981) – storicamente questa banca ebbe un ruolo di
concordia con i governi, si tratta della banca che ha il compito di battere la moneta e vigilare sul
sistema bancario. Come ogni banca nazionale essa dovrebbe essere—secondo la concezione di
politica economica oggi prevalente—indipendente dalla politica. La dirigenza della banca
centrale deve dimostrare di essere indipendente dalla politica e di agire quindi per
considerazioni economiche piuttosto che politiche. Se una banca nazionale è legata al governo
(come lo era prima la Banca d’Italia), essendo ad esempio obbligata a comprare i titoli di stato
italiani non comprati dal pubblico, facendo le proprie politiche monetarie in base alle
indicazioni dei governi (che avrebbero la tendenza ad assecondare la popolazione), questa perde
di legittimità. L’indipendenza della Banca d’Italia fu importante per il ritorno
all’addomesticamento dell’inflazione (assieme alla rimozione della scala mobile nel 1985).
Questi momenti importanti vedono l’Italia stanteggiare in un periodo di instabilità e poi, avvicinandosi
al 92, un far fronte ad essa tramite stabilizzazione monetaria, indipendenza della banca centrale e
l’abolizione della scala mobile. Tutto ciò non impedisce al governo di continuare di mettere in atto
politiche di espansione della spesa pubblica—quindi di aumento del debito pubblico—che costruiranno
le basi di molti dei problemi ancora odierni.

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Lezione 14

Età delle riforme incomplete (1993-2007)


1. Trattato di Maastricht (1992)
◦ obbiettivi: moneta unica (l’euro inizierà a circolare veramente nel 2002) e controllo della
spesa pubblica (era ed è il tallone d’Achille dell’economia italiana).
◦ Si tratta del debito dello Stato nei confronti di tutti gli altri soggetti; cittadini (“soggetti
economici nazionali”) o Stati, cittadini o banche estere. Costoro possono comprare i titoli
del debito pubblico – i “titoli di credito dello Stato”.
◦ Gli Stati oggi tendono a spendere più di quanto non gli entri e quindi la differenza viene
coperta emettendo titoli di Stato. Nel caso italiano questi vengono comprati perlopiù
nazionalmente.
◦ Il trattato di Maastricht fissa dei parametri: non va superato il 60% del PIL – all’epoca
l’Italia superava già il 100% – arrivava al 130% negli ultimi mesi. Oggi con il COVID
siamo giunti ad un debito che sfora il 150%. Gli USA ed il Giappone hanno una % più alta
ma questi hanno delle loro banche di emissione, gestiscono la propria moneta. Con la
nascita dell’Euro l’Italia ha ceduto la sua emissione alla banca centrale europea e quindi non
ha la sua autonomia monetaria.
◦ Pochi mesi prima del trattato l’Italia era stata esclusa dalla SME per l’oscillazione della lira.
◦ La percentuale di debito sul PIL non è l’unico parametro introdotto: tassi di inflazione, tassi
di interesse applicati dalle banche, deficit di bilancio – all’epoca l’Italia non rispettava
alcuno di questi parametri. Anche per questo si parla di epoca di riforme: dopo questo
trattato l’Italia ha passato un decennio di riforme per adeguare il sistema economico ai
parametri del trattato e più ampiamente ai nuovi paradigmi di economia politica che si
stavano affermando in quegli anni:
◦ Fino agli anni 60-70 prevaleva un paradigma keynesiano—forte intervento dello Stato, Stato
che crea domanda per favorire i consumi etc.—, ci si muove poi in direzione liberista o
neoliberista, si pensi a Friedman, Thatcher, Reagan etc; ciò avviene in contemporanea al
collasso dell’unione sovietica, vedendo il pendolo dell’economia mondiale verso quella di
mercato.
2. Sistema pensionistico contributivo:
◦ 1995 – sistema Dini: da un sistema retributivo (pensioni assegnate sulla base
dell’ammontare dell’ultima retribuzione prima della pensione) ad un sistema contributivo
(pensione data in base ai contributi effettivamente versati dai lavoratori nell’arco della
propria vita: ciò riduce la spesa pensionistica e quindi la spesa pubblica).
3. Privatizzazioni e altre riforme solo parzialmente riuscite
◦ dismissione di imprese pubbliche, privatizzazione di molte imprese che facevano capo
all’INI o all’ENI. L’ENI solo in parte, l’ENEL e le grandi banche ex-miste (poi diventate
banche di interesse nazionale: Banca Commerciale, Credito Italiano, Banca di Roma)
vengono invece portate sul mercato, quotate in borsa e privatizzate – completamente o
quasi. Le privatizzazioni aiutano a migliorare il rapporto debito pubblico/PIL dall’altra non
sono sufficienti a far rientrare il debito nei parametri di Maastricht che perché non sempre si
accompagnano a liberalizzazioni: vengono privatizzati alcuni settori ma non viene
liberalizzato il mercato, i nuovi operatori privati si comportano quindi come i vecchi
operatori pubblici, senza quindi vero miglioramento del servizio o riduzione dei prezzi.
4. Impegno a ridurre il debito pubblico

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◦ continua a perdurare – vi sono altri provvedimenti di cui parla la Zamagni (es. abrogazione
della cassa per il mezzogiorno, 1984 → peggioramento delle condizioni economiche del
Sud. Tra ‘51 e ‘71 il PIL pro capite del Sud Italia in parte torna a convergere con quello del
Nord, dopo la fine del finanziamento pubblico e le limitazioni dell’Europa il Sud torna a
divergere.)

Si mostra il rapporto tra debito pubblico e PIL


in Italia tra 1900 e 2018. Dopo il COVID siamo
tornati ai livelli del primo dopoguerra. Dopo la
fine delle guerre il debito pubblico precipita;
questo avviene perché spesso esso è mangiato
dall’inflazione. La crescita è lenta negli anni 50-
60, più impetuosa alla fine degli anni ‘70 (crisi
petrolifera) e poi molto ripida negli anni ‘80
(politiche pubbliche di nazionalizzazione di
sistemi produttivi del sistema industriale
italiano, aumento della spesa pensionistica,
aumento dei salari pubblici); si ha un rientro in
corrispondenza delle riforme di Maastricht e poi
una ripresa della crescita del debito, soprattutto
dopo la crisi del 2008.
Il punto chiave del debito pubblico è la fiducia
che permette agli investitori quando è basso: se
è troppo alto è più difficile che questi comprino
i titoli dello Stato, riempendone le casse.
L’ipotesi del bond europeo vuole una collettivizzazione del debito pubblico dei paesi europei,
istituendo un debito unico per tutta l’Europa (i paesi “virtuosi”, con un rapporto PIL/debito più basso,
sono ovviamente recalcitranti).
Il periodo delle riforme incomplete fece si che l’Italia riuscì ad adeguarsi ad alcuni dei parametri di
Maastricht. L’impossibilità di contrarre immediatamente la spesa pubblica portò a deroghe, all’Italia e a
molti paesi europei, rispetto al raggiungimento dei parametri. I tagli effettuati hanno inciso su molti
aspetti dell’economia (servizi scolastici, burocratici, ospedalieri, assistenza al lavoro, cassa
integrazione) – l’economia italiana ha sofferto e il tasso di crescita del PIL è diminuito sotto la
media europea. L’economia italiana era già in una fase molto critica, se non addirittura di declino
(studi di inizio 2000). I problemi dell’economia italiana sono di grande periodo, non solo della crisi del
2008: problemi di produttività del lavoro, di scarsa diffusione dell’alfabetizzazione (di alto livello),
investimenti industriali minori nelle imprese italiane rispetto ad altri paesi europei, problemi di qualità
del servizio pubblico e delle infrastrutture. L’economia italiana e anche il suo apparato statale non sono
riusciti a modernizzarsi alla stessa velocità di altri paesi occidentali o del big-push; i suoi problemi non
sono quindi contingenti ma strutturali, hanno a che fare con il periodo più lungo. Vi sono stati vari anni,
prima del 2008, dove l’Italia era tra i paesi il cui PIL cresceva meno al mondo. In alcuni anni questo era
a livello 0 se non in recessione (per tre trimestri).
In questo periodo viene rafforzata la fisionomia economica nazionale chiamata “quarto capitalismo”
(in quanto successivo cronologicamente a primo [800, triangolo industriale, boom età giolittiana],
secondo [capitalismo di Stato, iniziato nel fascismo e dopo la crisi del ‘29] e terzo capitalismo [dei
distretti industriali, piccola e media impresa raccordata in distretto]).

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Esso origina in questi anni dai distretti industriali, vede la nascita delle “multinazionali tascabili” –
imprese leader a livello mondiale di alcune specializzazioni di nicchia (biomedica, elettromeccanica,
meccanica avanzata) che nascono spesso non da grandi imprese ma all’interno dei distretti industriali.
In zone quindi di specializzazione, fatte da piccole-medie imprese (qualche centinaio di dipendenti) ma
con estensione multinazionale. Queste affrontarono in maniera egregia l’industrializzazione nonostante
la piccola-media dimensione.

Prima degli anni ‘70 la


crescita è significativa, si
vede li una flessione breve
attorno alla crisi petrolifera
del 73-74; una ripresa, un
rallentamento ed una ripresa
più impetuosa negli anni 80;
una significativa flessione in
occasione di tangentopoli
(crisi economica generalizzata
degli anni ‘90) e delle
restrizioni di Maastricht.
Si ha poi una stabilizzazione e una mancata crescita negli anni 2000 e una crisi molto significativa
dopo il 2008 (che prosegue in questi mesi; si prospetta un ritorno del PIL pro capite al livello degli anni
‘90).

Crisi del 2008


link consob – nacque dagli USA, all’interno del loro sistema bancario. Era molto legata al rapporto tra
finanziamenti e sistema immobiliare. Si vide una grossa offerta immobiliare e edilizia appaiata ad una
nuova possibilità e gusto per l’acquisto degli immobili (che ha sempre visto una preferenza per l’affitto
piuttosto che l’acquisto di case). L’aumento degli acquisti delle case, favorito anche da bassi tassi di
interesse, fece si che anche le persone che non potevano permettersi di comprare le case, che non
potevano sostenere a lungo i tassi di interesse che potevano andare a crescere, comprassero casa.
Dopo il 2007(?), nella fase espansiva dell’economia statunitense, la Federal Reserve aumenta il tasso di
sconto (l’interesse che la banca centrale pone sui prestiti alle banche commerciali), le banche
commerciali a loro volta aumentano l’interesse praticato sui loro prodotti: tra cui i mutui. I mutui
aumentarono sempre più, i risparmiatori si trovarono nella condizione di non essere in grado di pagare
il mutuo e quindi di dover vendere le proprie case.
La conseguenza fu quindi un crollo del prezzo degli immobili → prodotti finanziari tossici come i
mutui subprime diventarono privi di prezzo. Molte cose impacchettate nei mutui subprime erano però
state comprate a loro volta da altre banche, imprese ed amministrazioni pubbliche (es. Comune di
Milano): questo creò poi—quando ci fu un crollo della borsa, degli immobili e quindi del valore delle
banche che avevano concesso quei prestiti o comprato quei prodotti—a un crollo generalizzato della
fiducia nel sistema economico (quintessenza di ogni crisi economica).
Tutto ciò avvenne negli USA ma, in un contesto altamente globalizzato, si è espanso rapidamente in
Europa ed in Italia (giunta soprattutto nel 2011-12, crolli del PIL: fino al 4-5% in meno).

41
La grande crisi internazionale (2008-2016)

• L’Italia è colpita molto gravemente dalla crisi: perché?


◦ L’Italia venne colpita più gravemente che gli altri paesi europei e soffrì anche di più che
nella crisi del 1929 (che portò all’erezione dell’IRI e ad una serie di interventi pubblici). Fu
un’eccezione tra i paesi più sviluppati – questi la contenerono meglio, negli altri paesi
occidentali essa non fu grave quanto quella del ‘29. Tra le cause vediamo:
1. Dimensione piccolo-media delle imprese italiane – queste erano molto fondate sul mercato
interno →
2. (correlata alla prima) crollo forte della domanda interna – perché? →
3. Spesa pubblica già molto contratta negli anni precedenti, i parametri da rispettare fecero si
che un sistema molto fondato sulla spesa pubblica non poté effettuare quegli investimenti e
quegli ammortizzatori sociali che altri paesi come la Germania misero in atto con maggiore
efficienza. Oppure, non poterono effettuare nazionalizzazioni (gli USA nazionalizzarono
banche ed imprese industriali—Lehmann Brothers a parte—a seguito della crisi, nonostante
la tradizione liberista) – questo era possibile solo dove lo stato poteva fare spesa pubblica,
come si era fatto dopo la crisi del ‘29.
I redditi degli italiani erano quindi in larga parte sostenuti dalla spesa pubblica, il venir
meno di essa partecipò nel crollo della capacità d’acquisto e quindi della domanda interna.
L’intero sistema andò quindi in recessione, sprofondando in una crisi molto lunga.
4. (p.61) Le riforme furono poco incisive, si continuò a tagliare spesa pubblica per convincere
i mercati dell’affidabilità del paese (il rischio era che smettessero di comprare debito
pubblico, risultando ad un default dell’Italia). Tagli ed austerità in periodi in cui vi era
bisogno di spese pubbliche. Spread = allargamento dell’interesse che l’Italia deve pagare
per convincere gli investitori a comprare il suo debito pubblico rispetto al prezzo che paga
la Germania. Lo Spread è appunto questo divario tra paese X e Germania (paese di
riferimento, rapporto debito/PIL inferiore). In una condizione di tagli e riforme l’Italia si
trovò in un ingorgo che ha accelerato dinamiche critiche già presenti prima del 2008.
• Tagli alla spesa pubblica e Jobs Act
◦ Ha interessato il governo PD-Renzi nel 2014-2016 ma era già presente nel dibattito
anteriore. Si tratta del diritto al lavoro. Fu posto sotto attacco l’articolo 18 dello statuto dei
lavoratori: garantiva il reintegro alle posizioni da cui erano stati licenziati nel caso di
sentenza favorevole. L’abrogazione di questo articolo aveva lo scopo di dinamicizzare il
mercato del lavoro—nella convinzione, contestata, che una maggiore facilità di non-
reintegro (diciamolo, licenziamento) avrebbe facilitato la creazione di nuovi posti di lavoro
e avrebbe reso il rapporto tra domanda e offerta di lavoro più dinamico; incentivando le
aziende a creare posti di lavoro a tempo indeterminato (nella consapevolezza che fosse più
facile licenziare un lavoratore che si mostrava inadeguato).
◦ Questa riforma, su cui l’Europa insistette molto, fallì nel far fronte al contesto. La
disoccupazione è si, scesa (rimane ora attorno all’8-9%), quella giovanile (18-30) vede una
situazione dove più del 25-30%—in alcune aree il 50%—dei giovani non riescono a trovare
un primo impiego.
◦ Il nostro sistema di welfare continua ad essere designato prevalentemente per le fasce più
vecchie della popolazione. Si è investito poco sui giovani in difficoltà. (rimane uno dei
problemi più grossi del nostro sistema economico)

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• Fallimento delle riforme costituzionali
◦ L’Italia non è quindi riuscita a mettere a punto le riforme costituzionali che tanti economisti,
politici e giuristi ritengono indispensabili per migliorare anche la performance economica
del paese:
◦ Riforma della giustizia; riforma della pubblica amministrazione; riforma dei sistemi
educativi che consenta una crescita del tasso di frequenza alla scuola media superiore e
all’università; riforma del sistema degli appalti (infrastrutture migliori e attuabili più
rapidamente); riforme costituzionali in senso ampio – soprattutto in termini di elaborazione
e approvazione delle leggi e snellimento di esecuzione delle leggi stesse (es. referendum di
Renzi o taglio dei parlamentari). La mancanza di riforme che permettono una maggiore
rapidità del processo decisionale ed esecutivo non ha aiutato l’uscita dalla crisi e ad
accrescere la fiducia nei confronti degli investitori internazionali (sia in termini di acquisto
del debito pubblico che che come investitori industriali/imprenditoriali – investimenti diretti
esteri in Italia).

Lezione 15
Le tre Italie – Analisi Quantitativa

Nord-Ovest (triangolo industriale - ToMiGe); Nord-Est e Centro (distretti industriali, piccola-media


impresa); Sud (impresa pubblica).
L’esercizio quantitativo ci fa capire come si studia un’economia nazionale. Si andrà a vedere quali sono
le quantità più importanti da analizzare per uno storico dell’economia o un economista per ricostruire la
fisionomia di un’economia nazionale. Le tipologie di quantità si possono dividere in:
1. Popolazione e Forza Lavoro
2. PIL, Distribuzione Settoriale, Produttività, Prezzi
3. Rapporti con l’estero (EXP, IMP, Bilancia dei pagamenti)
4. Settore Pubblico (bilancio e debito)
5. Sistema di Welfare
6. Indicatori Istituzionali

1. Popolazione e Forza Lavoro


Solo con il 900 abbiamo dei censimenti della popolazione davvero affidabili. La fonte più importante
per l’Italia contemporanea sono i censimenti sviluppati ogni 10 anni.
Il tasso di fertilità equivale al numero medio di figli per donna fertile (ovvero tra i 15 e i 49 anni).
Esso è utile per capire quanti figli per donna si possono misurare mediamente in un’economia. Il tasso
di fertilità è utile per comprendere il ruolo sociale della donna: dove declina il tasso di fertilità
aumentano la scolarizzazione/alfabetizzazione femminile, l’emancipazione della donna dal lavoro in
famiglia e l’occupazione femminile (soprattutto in imprese industriali ma anche agricole e terziarie).
Una società che favorisce l’alfabetizzazione e l’occupazione femminile tende ad essere più aperta,
inclusiva e laica.
L’immigrazione è essenziale per comprendere le dinamiche della popolazione, va considerata la
percentuale di popolazione emigrata e immigrata all’interno dei censimenti.

43
La crisi del 2008 ebbe un impatto sulla distribuzione geografica della popolazione tra le tre italie. La
popolazione si spostò tendenzialmente da sud verso nord della penisola e aumentò l’emigrazione
italiana verso l’estero. La crisi fece da spartiacque per le dinamiche della popolazione.
La speranza di vita—stima degli anni medi in cui vive un cittadino di un determinato paese—è
continuamente aumentata in Italia. Il paese è tra quelli in testa nella classifica mondiale per la
lunghezza media della vita. Il tema è significativo sia per le condizioni sanitarie che per la possibile
ricaduta sulla spesa pubblica – una popolazione che vive più a lungo invecchia di più.
Il tema della forza lavoro deve considerare i tassi di attività e i tassi di disoccupazione. Si analizzeranno
questioni riguardanti il mercato del lavoro.
La tabella mostra alcuni andamenti significativi. La
prima colonna mostra l’aumento della popolazione
residente in Italia calcolata in milioni (aggiungere 3
zeri – il % è un errore di stampa). Si ha un’impetuosa
crescita negli anni del miracolo economico. Un
rallentamento tra anni 80 e 2000, e un aumento
significativo negli ultimi 10-15 anni sostanzialmente
legato al tasso di immigrazione. Si ha una crescita ma
poi negli ultimi anni le stime ci danno una stabilità
attorno ai 60 milioni di abitanti a cui contribuisce
significativamente l’andamento delle immigrazioni
poiché il tasso di fertilità declina, passando da 2,3 figli per donna a 1,3; nella seconda metà del ‘900
c’è stato quasi un dimezzamento del tasso di fertilità, compensato da un aumento delle migrazioni. Ci
sono stati decenni, dagli anni 50 agli anni 70, in cui l'Italia ha avuto più emigrati che immigrati, quindi
un saldo migratorio negativo (l’anno fotografa il decennio precedente, censimento). Negli ultimi anni
invece il saldo migratorio è stato positivo.
Il tema della popolazione è di per sé neutro – nella storia abbiamo assistito a preoccupazioni perché le
popolazioni aumentavano troppo o perché aumentavano troppo poco o decrescevano. I regimi totalitari
hanno avuto tendenzialmente un’attenzione mercantilista alle risorse: cercano di aumentare le
popolazioni (viste come prestigio nazionale). Assistiamo però anche a preoccupazioni verso la
sovrappopolazione del pianeta – un eccesso di popolazione può rivelarsi critico soprattutto dove il
sistema economico non fornisce l’energia necessaria al sostentamento della popolazione. Essere più o
essere meno non è di per sé un dato negativo o positivo: dipende dal rapporto popolazione-risorse e da
come la popolazione vive; dalla capacità di acquisire benessere, di vivere dignitosamente e da un
equilibrio globale del rapporto popolazione-risorse (e della loro distribuzione).
La speranza di vita italiana è aumentata significativamente dagli anni 50 ad oggi. Le donne tendono ad
avere una speranza di vita più alta rispetto all’uomo (1-2 anni) – le cause non sono chiarissime,
possono riguardare la qualità del lavoro o essere genetiche. L’Italia è tra i paesi posizionati meglio al
mondo riguardo la speranza di vita, il che è un bene e un male: dimostra che probabilmente la qualità
della vita migliora e che gli apparati sanitari siano buoni ma al contempo influisce sul dibattito sulle
pensioni e sull’assistenza sanitaria per la popolazione più anziana. Il tema va governato bene a livello
politico altrimenti ricade sulle spalle dei giovani: se la demografia cresce poco, si limita
l’immigrazione e la popolazione invecchia si crea un problema del rapporto tra popolazione e risorse.
Ogni vantaggio o crescita in economia ha un costo che va valutato nella comprensività dei fattori.
L’equilibrio distributivo della popolazione tra le tre italie è cambiato nel tempo. Tra anni 50 e 60 c’è
stata un’emigrazione del Sud verso l’estero o dal Sud verso il Nord. Lo stesso ha riguardato il Nord-Est

44
— regioni come Veneto e Friuli hanno ceduto molta popolazione sia al Nord-Ovest sia all’estero. C’è
stata un epoca in cui il Nord-Ovest ha guadagnato popolazione persa da NE e CS, dopo che il NO
aveva perso popolazione “nativa” (soprattutto in conseguenza di un calo del tasso di fertilità – dove le
donne si sono alfabetizzate e impiegate di più). Nel 2011 vediamo che il Sud nuovamente cede
popolazione in conseguenza della crisi del 2008 (che diminuì di molto le disponibilità di lavoro
soprattutto al Sud); crebbe quindi la popolazione a NO, NE e Centro Italia. Sebbene queste aree ebbero
perso popolazione in favore dell’estero – spesso si trattava di popolazione qualificata, alfabetizzata e
giovane che cercava lavoro all’altezza delle proprie aspettative altrove. Anche NO e NE hanno ceduto
popolazione sebbene non in misura così macroscopica come al Sud.
La tabella 3.2 mostra le principali quantità che si
utilizzano per studiare l’andamento della forza lavoro
di un’economia. Le due principali quantità sono tasso
di attività e tasso di disoccupazione. Il tasso d’attività
è il rapporto tra popolazione “attiva” (in grado di
lavorare: assolto all’obbligo scolastico e in condizioni
fisiche adatte – dai 15 fino ai 64 anni; numero destinato
ad aumentare parzialmente per via dell’aumento della
speranza di vita). Il tasso di attività italiano non è mai
stato particolarmente alto, soprattutto a causa degli
scarsi livelli di occupazione femminile. Questa è
inferiore rispetto ad altri paesi occidentali – oggi solo il
50% delle donne lavorano al di fuori delle mura
domestiche. La questione è spesso legata alle condizioni sociali dell’assistenza all’infanzia – le donne
spesso lavorano e poi abbandonano il posto dopo la nascita di un figlio; è troppo costoso affidarlo agli
asili o a personale specializzato. C’è anche storicamente una scarsa propensione degli uomini italiani
ad aiutare la donna nella vita domestica.
Il tasso di disoccupazione è il rapporto tra popolazione che cerca occupazione e la “forza lavoro”
(occupati + disoccupati). Non misura il tasso assoluto di persone che non lavorano ma la quantità di
coloro che cercano lavoro rispetto alla somma tra coloro che lo cercano e quelli che lo hanno. Chi non
cerca lavoro non è considerato disoccupato statisticamente. Il tasso tende a sottostimare i disoccupati,
anche perché tra gli occupati ci sono anche coloro che lavorano poche ore a settimana e coloro che non
hanno un lavoro a tempo indeterminato. Va considerato anche il lavoro in nero – che è però spesso di
qualità scarsa se non al limite dello schiavismo.
Dopo il 2008 il tasso di disoccupazione è disceso e poi aumentato meno di quanto ci si poteva aspettare
probabilmente grazie alle riforme del mercato di lavoro come il Jobs Act. Abbiamo visto epoche che si
sono avvicinate alla piena occupazione (mai ottenuta, si considera <4%) tra anni 50-70; in fasi di
espansione dell’economia il tasso di disoccupazione si riduce.

Vediamo nella tab. 3.3 la distribuzione della


forza lavoro. Si ha un declino impetuoso della
distribuzione impiegata in agricoltura, soprattutto
negli anni del boom economico. L’economia
agricola, in termini di percentuale di forza lavoro,
ha assunto in Italia un ruolo marginale – questo è
un bene in termini di produttività del lavoro
(tendenzialmente quella agricola è penalizzante
dal pdv statistico).

45
Dopo il boom c’è stata una contrazione nell’industria – le economie si stanno sempre più
terzializzando. La dinamica post-crisi 2008 ha segnato un’ulteriore riduzione nella crescita
dell’industria, trend che probabilmente continuerà e che ha cambiato anche fisicamente la faccia della
nostra città.
Vediamo due quantificazioni possibili riguardo le ore di lavoro: annuali per lavoratore e ore annuali
perse. Queste ultime parlano sostanzialmente degli scioperi: sono un indicatore significativo del tasso
di conflittualità. Negli anni ‘50 c’è una sostanziale pace sindacale—per favorire l’export si trovò un
accordo—negli anni ‘60 e ‘70 riemerge la conflittualità operaia, segnando anche in Italia una svolta
nelle richieste di miglioramento salariale. Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad un decisissimo calo
della turbolenza sindacale e degli scioperi.
Le ore di lavoro annuali vedono una media significativa, si ha una quantità intermedia rispetto ai paesi
occidentali. (La scuola italiana prevede molte più ore rispetto ad altri paesi europei ma anche i
lavoratori italiani sono nella media europea).

2. PIL, Distribuzione Settoriale, Produttività, Prezzi


• Andamento del PIL (anche disaggregato per
regione/tre italie):

Viene riportato sia il tasso di crescita medio annuale per


periodi che la raffigurazione del numero assoluto. C’è un
rallentamento della crescita, nel boom si aveva una crescita
del 5%, si arriva addirittura alla recessione nella crisi del 2008
e poi una crescita lenta nei periodi successivi.

• Composizione del PIL (in base al settore produttivo):

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Il PIL disaggregato per settore confermano la nostra narrazione: l’agricoltura ripiega, l’industria trova il
suo picco a metà anni ‘80 per poi ripiegare lasciando spazio ai servizi. Si inizia a vedere la questione di
importazioni ed esportazioni. Nel complesso l’Italia ha mantenuto un buon equilibrio tra i due, indice
di una dinamicità economica.
Gli investimenti declinano con il declino dell’industria – il grosso di essi si fanno nel settore
industriale.

• Inflazione (prezzi e potere d’acquisto dei salari)


L’inflazione viene calcolata attraverso il
paniere dei beni, riguarda il calcolo del costo
della vita. In Italia ha avuto dei picchi nelle
fasi di crisi petrolifere e di politiche monetarie
espansive. Dopo la metà degli anni 80,
soprattutto con il referendum sull’abolizione
della scala mobile è passata ad essere molto
più sotto controllo. Di per sé l’inflazione non è
né positiva né negativa: va contestualizzata.
L’inflazione bassa non è necessariamente un bene: le fasi di crisi economica portano con sé una
riduzione dei consumi, una contrazione del potere d’acquisto e quindi un calo dei prezzi. Il fatto che i
prezzi calino mentre si va in deflazione non è necessariamente un bene per l’economia. Come non è un
bene un’inflazione troppo alta: genera incertezza sui mercati, sull’efficacia degli investimenti – se
investo in titoli o macchinari e non so quanto questo varrà tra 1 o 5 anni sarò meno indotto a farlo.
L’inflazione alta genera incertezza, l’inflazione troppo bassa è spesso segnale di contrazione dei
consumi. Si tratta di una quantità che va contestualizzata assieme a tutte le altre che vengono prese in
analisi.

• Redditi pro capite

Una misura della crisi del PIL italiano in


mancata crescita negli ultimi decenni è il
confronto su redditi pro capite europei,
americani e giapponesi.
Il calcolo sul reddito pro-capite in indice
(media UE occidentale = 100) mostra
chiaramente come l'Italia abbia perduto
significativamente reddito pro-capite.
Basta confrontarla con la Spagna: prima
avevano 30 punti di differenza, oggi solo 6.

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• Produttività del lavoro (PIL per ora lavorata)

Il fatto che l’Italia soffra di bassa


produttività del lavoro esprime le
condizioni di sviluppo tecnologico e di
modernizzazione dei servizi. Quanto si
produce a parità di ore lavorate è legato
alla qualità della prestazione lavorativa
e agli ausili di cui i lavoratori possono
disporre. Notiamo un calo della
produttività, presente anche in altri
paesi, ma accentuato in Italia.
(Il Giappone soffre di un calo
significativo prevalentemente legato
alla sua dimensione agricola).
Si vede comunque una tendenza al calo
della produttività del lavoro in buona parte dell’occidente – questo dà l’idea delle difficoltà che i settori
secondari e terziari hanno nel guadagnare nuovi spazi di sviluppo e miglioramento della produzione e
della prestazione lavorativa.

La tabella 3.9a disaggrega il PIL pro


capite per regione (con indice Italia =
100) e lo deflaziona (tiene conto del
costo della vita).
La disaggregazione regionale permette
di capire come l’Italia sia riuscita a
rimanere presente e relativamente
competitiva sul mercato internazionale
di fronte a indicatori preoccupanti come
la contrazione del PIL, la recessione,
problemi di produttività del lavoro e di
reddito pro capite.
Una parte dell’Italia si è mostrata molto
vivace—il NE e il centro—la
spiegazione è quindi quella delle tre
italie. Un’Italia è molto in sofferenza,
altre parti hanno competitività elevata –
soprattutto quella dell’Italia del Centro
Nord, che ha mantenuto una capacità di
accrescere il PIL alta, sebbene meno
entusiasmante che nel passato.
La divergenza rispetto ad altre regioni, soprattutto quelle del Sud, è aumentata (anche deflazionando).
Andrebbero operati dei correttivi (problema di economia sommersa, problema di trasferimenti
pubblici), abbiamo però comunque un'Italia plurale e divergente che, sommariamente, riesce a
mantenere una difficoltosa competitività internazionale.

48
Lezione 16

3. Rapporti con l’estero (EXP, IMP, Bilancia dei pagamenti)

La bilancia commerciale—uno degli elementi più importanti della bilancia dei pagamenti—è un conto
in cui vengono registrate le differenze tra ammontare delle importazioni e ammontare delle esportazioni
di merci di un paese. Si parla di saldo della bilancia commerciale quando si conteggia questa
differenza. Se le esportazioni sono maggiori il saldo sarà positivo e viceversa.
Il tema della bilancia commerciale, e più ampiamente quello della bilancia dei pagamenti, è di
contabilizzare. Si parla appunto di voci della contabilità nazionale. Vi sono differenze tra i saldi
provenienti da varie fonti (banca d'Italia e ISTAT sono quelle più importanti) – i dati sono soggetti a
errori. Esistono voci specifiche che riguardano gli errori e le discrepanze; spesso sono dovute ai mercati
neri che provocano scompensi quando si vanno a calcolare valori monetari o quelli delle transazioni
finanziarie.
La bilancia dei pagamenti è il rendiconto che registra tutte le operazioni effettuate verso l’estero. Si
può valutare in un periodo dato (mese, anno, trimestre); avviene in valuta nazionale. La bilancia vede
varie componenti, la più importante è il saldo commerciale. Un saldo negativo della bilancia
commerciale può costituire un problema anche se non necessariamente. L’Italia ha tendenzialmente
avuto un comportamento virtuoso e quindi il suo saldo è perlopiù stato in equilibrio.
La merce differisce dal servizio—seppur anch’esso sia un bene che può avere un valore economico
quantificabile—in quanto il secondo è costituito da un’attività immateriale. Il bilancio commerciale
considera l’ammontare di esportazioni e importazioni di merci. La bilancia dei pagamenti invece
considera tutte le operazioni, i pagamenti, effettuati da un'economia statale nei riguardi dell’estero :
comprende anche quindi beni, servizi, transazioni finanziarie – tutto ciò che ha una dimensione anche
immateriale.
La voce più importante della bilancia dei pagamenti riguarda il conto corrente, ovvero la parte che
riguarda il bilancio commerciale. La maggior parte delle transazioni riguarda infatti le merci.
Il conto del capitale costituisce una dimensione piuttosto modesta: riguarda i trasferimenti di scorte,
oggetti di valore prezioso, oggetti unici.
Più influente è il costo finanziario – comprende tutte le attività con una dimensione finanziaria: monete,
depositi, oro monetizzato, obbligazioni, azioni, quote, fondi comuni, prestiti etc.

49
Si nota l’equilibrio tra importazioni ed esportazioni. La bilancia commerciale tende a rimanere stabile.
Non è sempre positiva, soprattutto nei momenti di crisi petrolifera – l’Italia è tradizionalmente
vulnerabile al rialzo dei prezzi delle materie prime come petrolio e gas naturale (carente di risorse del
sottosuolo a livello geografico).
A partire dal 2012 l’Italia ha oscillato tra una dimensione di aumento delle importazioni rispetto alle
esportazioni con un bilanciamento successivo – esportazioni che si sono riavviate. Questo attesta ad
una difficoltà dell’interpretazione dei dati – se nel 2015 il saldo era positivo possiamo dire che
l’economia italiana ha ricominciato ad essere dinamica; d’altra parte è probabile che buona parte di
questo equilibrio positivo sia dovuto alla caduta della domanda interna che conseguì dalla crisi (non
quindi che si sia imparato ad esportare di più ma che sia diminuito il consumo di prodotti di
importazione). Il saldo positivo non è quindi un fattore favorevole in maniera assoluta, ogni dato va
considerato nel suo contesto complesso.
La bilancia dei pagamenti—che include anche i redditi primari negativi, redditi che un paese paga a chi
non risiede in Italia e che quindi rappresentano uscite di denaro—fotografa questa dimensione di
entrate e uscite di reddito, finanziarie, di denari, redditi secondari (es. eredità importate da parenti
esteri). Vediamo il peso crescente che hanno le rimesse degli immigrati – queste possono incidere o
meno sulla bilancia. L’Italia non ha mai avuto un deficit persistente né nella bilancia commerciale né
nella bilancia dei pagamenti. Rimane un paese tendenzialmente esportatore—di manifattura e servizi—
non ha avanzi enormi ma neanche disavanzi così negativi.
In questo grafico, a differenza che
nella tabella di Zamagni, si
separano merci e servizi. Vengono
disaggregate anche importazioni ed
esportazioni delle merci. Abbiamo
un andamento che vede nel caso
specifico delle merci una regolare
superiorità delle esportazioni.
Vediamo una caduta sia delle
importazioni che delle esportazioni
dopo la crisi del 2008 – da una
parte è dovuta alla caduta dei
consumi interni e dall’altra per via
della crisi generalizzata delle
imprese che fanno quindi fatica ad esportare e ad essere competitive. Entrambe si riprendono, le
esportazioni più delle importazioni (il che non è necessariamente tranquillizzante poiché può essere
indice di caduta dei consumi interni).

50
Per i servizi notiamo una tendenziale coincidenza e fasi in cui le importazioni superano le esportazioni.
La dimensione dei redditi primari e secondari vede valori significativi – ciò restituisce l’idea di
un’economia abbastanza legata al mondo, anche dal pdv delle relazioni di lavoro.

Il disavanzo della bilancia commerciale nel lungo periodo può diventare un problema. Paesi virtuosi
come la Germania esportano molto più di quanto importano. Se la questione diviene problema
strutturale si può ricorrere ad alcuni rimedi:
• Riserve ufficiali di valuta
◦ pagare le importazioni in moneta estera (palliativo, non riforma strutturale)
• Prestiti internazionali nella valuta necessaria a pagare le importazioni
◦ problema poiché vanno ripagati con gli interessi
• Svalutazione della moneta
◦ favorisce l’esportazione
• Protezionismo (USA oggi sull’industria)
◦ barriere doganali sulle importazioni (come fece anche l’Italia negli anni 70-80 o come fa
l’EU per la propria agricoltura)
▪ problemi: può peggiorare la qualità di prodotti o servizi sul mercato interno (no
concorrenza con l’estero); può alzare i prezzi delle merci (per via dei dazi e per via della
mancanza di concorrenza)
• Aggiustamenti strutturali per diminuire l’IMP e/o aumentare l’EXP
◦ es. diminuzione dei salari reali → calo domanda interna = calo delle importazioni
Un altro modo per migliorare il saldo commerciale è quello di favorire gli investimenti esteri:
l’investimento estero in attività locali viene considerato contabilmente come un influsso di liquidità. Il
disinvestimento un deflusso.
La Cina negli ultimi decenni è stata brava ad attrarre investimenti esteri (molte fabbriche europee e
anche italiane), questi portarono capitali e moneta al bilancio commerciale creando un avanzo di
bilancio. La Cina ha sempre sofferto di una mancanza di petrolio locale, la sua costante importazione
ha pesato sul bilancio – il COVID ha aiutato parzialmente per via della diminuzione delle uscite di
capitale dovute al fermarsi dei turisti cinesi.

4. Settore Pubblico (bilancio e debito)


Le principali quantità che si analizzano riguardanti il settore pubblico sono:
• Andamento della spesa pubblica
◦ denaro dello Stato utilizzato per l’acquisizione di beni o servizi pubblici ad es. infrastrutture
di trasporto, servizi di pubblica amministrazione—tra cui la spesa sanitaria, istruzione,
pensioni, spesa sociale (sussidi, welfare)—, spese di difesa militare, ricerca e sviluppo,
finanziamento dei beni artistici, servizio pubblico radio-televisivo
◦ Se la spesa pubblica ammonta ad una cifra maggiore delle entrate dello Stato (disavanzo)
questo dovrà compensare ottenendo prestiti, emettendo quindi titoli pubblici (formando
debito pubblico, con annesso interesse).
• Rapporto Debito pubblico / PIL
◦ Permette di comprendere quanto del valore di una produzione di un anno si può
proporzionare all’andamento dell’indebitamento. In un contesto “sano” la discrepanza tra la
capacità di produrre ricchezza di un paese ed il suo indebitamento dev’essere limitata.

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• Andamento del Saldo primario (saldo senza calcolo interessi sul debito)
◦ ovvero differenza tra entrate e uscite al netto degli interessi (il pagamento degli interessi sul
debito diventa debito a sua volta – questo viene calcolato solo nel disavanzo)
◦ Se il saldo primario è positivo allora la spesa pubblica è in equilibrio – significa che le
entrate/tasse sono in equilibrio con le uscite
◦ Se è negativo allora il debito pubblico è elevato e si sta continuando a pagare la spesa
corrente (la spesa pubblica in corso) con nuovo indebitamento
◦ Il saldo primario dell’Italia è positivo. Soprattutto dopo Maastricht l’Italia ha tagliato la
spesa pubblica e l’andamento dell’interesse non cresce.
• Livelli di tassazione
◦ Uno dei problemi dell’economia italiana sono “le tasse troppo alte” – tra 1975 e oggi la leva
fiscale (percentuale di tasse sui redditi medi degli italiani) è cresciuta di 18 punti
percentuali.
◦ Un problema grosso in Italia è l’evasione fiscale: il divario tra le aliquote fiscali applicate e
le entrate effettive dello Stato viene stimato essere oggi attorno al 15% (valori molto elevati
soprattutto in settori come il commercio al dettaglio, piccolo artigianato, turismo). È più
difficile effettuare i controlli in settori dove le aziende sono piccole.
◦ La lentezza/inefficienza dell’amministrazione della giustizia non disincentiva l’evasione
fiscale.
Si vede qui la forte espansione della spesa pubblica,
contenuta solo negli ultimi anni (calata dopo il 91,
Maastricht).
L’aumento della spesa sociale: l’Italia partì da un
sistema sociale molto snello/stretto, poi espanso
(→lez17).
Disavanzo catastrofico negli anni 80 e 90.
Saldo primario negativo ma poi tornato a livelli
positivi.
Debito pubblico rispetto al PIL che oggi raggiunge il
150%.
Bisogna distinguere tra indebitamento pubblico e privato: il debito pubblico italiano è elevato ma le
famiglie italiane hanno poca propensione ad indebitarsi. Le famiglie italiane hanno un buon livello di
ricchezza a livello di risparmi e di investimenti (tendenzialmente immobiliari).
L’economia italiana non è quindi considerata dagli investitori internazionali come a rischio di
insolvenza – proprio perché le famiglie sono poco indebitate e quindi possono continuare ad acquistare
debito pubblico.

Il debito pubblico in % sul PIL è cresciuto nelle varie fasi


storiche, rientrato dopo le privatizzazioni e dopo Maastricht, ha
trovato una fase di stabilità in conseguenza del governo Monti
e delle pressioni dell’Europa post 2008 per poi ricrescere
impetuosamente in corrispondenza della crisi.

52
Lezione 17

5. Sistema di Welfare
Sinonimi di welfare sono Stato sociale o spesa sociale – l’ultima riguarda la parte di spesa pubblica che
serve a coprire il sistema di Stato sociale. Si tratta dei provvedimenti introdotti per ridurre le
diseguaglianze economiche.
La disuguaglianza economica riguarda qualsiasi disparità nella distribuzione dei redditi, della
ricchezza, di alcuni beni—come l’istruzione—essa può essere tra singoli individui, tra gruppi sociali
(es. tra migranti e residenti, tra diversi gruppi religiosi, culturali, tra orientamenti sessuali, tra generi),
tra regioni (es. tre italie o dualismo nord-sud), tra paesi etc.
Secondo alcune teorie la diseguaglianza è intrinseca allo sviluppo del capitalismo (es. Piketty, Marx) –
il corollario di quest’inevitabilità è che non si possa incidere significativamente su di esse dall’interno
del sistema. Altri approcci, di stampo liberista, sostengono che la diseguaglianza sia connaturata alla
società e che sia un incentivo al miglioramento, alla competizione e alla crescita. L’approccio non
auspica una riduzione delle diseguaglianze, auspica anzi che siano mantenute per un eventuale
beneficio per l’economia nel suo complesso.
Nella storia italiana degli ultimi 50-70 anni il welfare state ha acquisito un peso—in termini di spesa
pubblica—sempre crescente (a partire soprattutto dagli anni 50). L’Italia si posiziona al di sopra della
media UE—sia in livello assoluto che in livello relativo rispetto al PIL—in termini di spesa sociale
degli ultimi anni.
Un problema dibattuto riguarda la coerenza del sistema di welfare rispetto le sue finalità – diminuisce
veramente le diseguaglianze? Da una parte si constata che quello italiano tende a favorire molto la
popolazione anziana rispetto a quella giovanile. In molte economie occidentali (tra cui la nostra) c’è
molta più povertà nella popolazione giovanile che in quella anziana. Questa ha potuto beneficiare nel
tempo di tutti quei provvedimenti di espansione della spesa pubblica che ha fatto si che le generazioni
precedenti potessero avviarsi alla maturità con un insieme di risorse (anche come il lavoro fisso) che le
generazioni giovani non hanno. Favorendo la popolazione anziana il sistema italiano potrebbe non
essere quindi in grado di contrastare veramente la povertà.
Un aspetto positivo pare essere quello della vistosità
della spesa per la salute. Viene considerato tra i
migliori sistemi sanitari del mondo e le statistiche
sull’aspettativa di vita paiono essere coerenti con
questa visione.
La figura 3.3 mostra la posizione dell’Italia superiore
alla media UE rispetto ai parametri sia di spesa pro
capite assoluta che in % del PIL. Buona parte di
questa spesa sociale è legata alle pensioni – queste
hanno aumentato enormemente la loro incidenza:
8,2% nel 1974 a 14,2% nel 1996. Quasi un raddoppio
negli anni decisivi di espansione del debito pubblico
(soprattutto anni 80). Buona parte del debito è quindi
dovuto alla spesa per le pensioni: anche a causa di
leggi molto favorevoli nei riguardi di pensioni
anticipate (baby pensioni e sistema retributivo—
percentuale consistente dell’ultimo stipendio
percepito).

53
La preoccupazione di riformare il sistema pensionistico fu
una delle caratteristiche principali delle riforme
incomplete (1993-2007).

La composizione percentuale della spesa sociale vede le


pensioni ridurre il proprio peso (da 62% nel 2003 a 58%
nel 2014). La spesa al secondo posto è quella della saluta
(che nonostante la contrazione ha mantenuto un buon
livello). Le altre spese sono invece piuttosto ridotte (la
disoccupazione ha avuto un aumento dovuto al
diffondersi del problema dopo il 2008). Le spese per la
famiglia sono invece piuttosto ridotte in Italia – ciò causa,
tra le altre cose, una scarsità del tasso di occupazione
femminile.
La spesa per la salute pro capite è moderata in Italia
rispetto ad altri paesi – rimane però tra i paesi con la
speranza di vita più alta. Non tutta la speranza di vita è
direttamente legata alla spesa sanitaria, vanno considerate
una serie di altre variabili. Si stima che meno del 20%
della speranza di vita sia legata ai sistemi sanitari in senso
stretto.

Vediamo qui, in parte in base a stime ed in parte a


statistiche, comparazioni internazionali su quanto
il sistema di welfare dei vari paesi è stato efficace
nel contrastare la povertà. Si vede l’incisione
della spesa sociale sulla diseguaglianza di
reddito.
Le persone a rischio povertà o a rischio di
esclusione sociale sono coloro che hanno un
reddito disponibile al di sotto del 60% del reddito
medio.
In Italia la spesa sociale impattava sulla persona a rischio povertà in maniera piuttosto significativa. Nel
2008 si vede una riduzione dal 25,5 al 18,9% in Italia per via del sistema di welfare. Il calo negli altri
paesi considerati era più basso.
Le cose cambiarono dopo la crisi del 2008 – aumenta la popolazione a rischio povertà e anche la
riduzione diventa meno eclatante. L’Italia riesce comunque ad abbattere abbastanza, quasi del 20%, la
percentuale della popolazione a rischio povertà negli ultimi anni. Si continua però ad essere attorno al
20% mentre altri paesi occidentali sono più vicini al 15.

54
Rimane molto consistente in Italia il numero di persone in condizione di povertà assoluta – ovvero
persone con spesa per consumi pari o inferiore alla soglia della povertà. Questa riguarda la fruizione di
beni e servizi definiti essenziali per la vita (ISTAT). Queste persone sono concentrate soprattutto
nell’Italia del Sud – essa mostra livelli di povertà comparabili a quelli dell’Europa orientale o del
bacino del mediterraneo non europeo. Nelle isole una persona su quattro è a rischio povertà.
Nel settore del sostegno alla disoccupazione c’è ancora molta strada da fare per lo Stato sociale italiano
rispetto a quello europeo.

Per comparare le diseguaglianze di reddito tra principali paesi europei si usa il coefficiente di GINI. Si
tratta di un indice di concentrazione che ha un valore compreso tra 0 e 1 o tra 0 e 100 – misura la
distribuzione del reddito o di ricchezza nell’ambito di una curva di disuguaglianza interna al paese.

Questo grafico tratta le diseguaglianze di


reddito (non ricchezza) dopo la seconda
guerra mondiale.
Il caso della Bulgaria mostra come in un
paese di tradizione socialista, con una
diseguaglianza bassa, dopo la caduta del
muro si vede una crescita elevata della
diseguaglianza.

Si vede qui il coefficiente di Gini, sempre sul reddito,


tra vari paesi europei prima e dopo la crisi del 2008.
Le crisi tendono ad incrementare le diseguaglianze –
in Italia queste non sono aumentate enormemente. Le
diseguaglianze sono distribuite geograficamente, Sud
e isole sono più diseguali, il NE relativamente più
egalitario.
Anche la Svezia, che esprime un livello di welfare più
efficace ed interventista, ha comunque un coefficiente
pari a 25 – le diseguaglianze di reddito rimangono
persistenti all’interno del sistema capitalista in
generale.

55
6. Indicatori Istituzionali

Si mantiene come definizione di istituzioni quella ampia, riguardante tutte le “regole del gioco”,
l’insieme di norme scritte o anche talvolta tacite che hanno un influenza sull’economia. È difficile
misurare la qualità delle istituzioni. Le stime tentano di incorporare alcuni elementi oggettivi, numerici,
ma soprattutto devono rilevare le opinioni della cittadinanza sulle proprie istituzioni. Si pensi all’indice
della corruzione percepita o all’indice della qualità di stampa. Si sconta quindi un margine di
approssimazione alto.
Due indicatori quantitativi relativi alla qualità delle istituzioni sono il WGI (Worldwide Governance
Indicator) e l’EQI (European Quality of Government Index).

Il WGI è una sintesi di 6 indicatori di base: libertà di espressione; stabilità politica e assenza di
violenza in un paese; efficacia del governo (funzionamento dei servizi pubblici); qualità della
regolazione economica; stato di diritto (come uno stato riesce a proteggere i contratti); controllo della
corruzione.

Nelle popolazioni ristrette è più semplice mantenere sotto controllo il livello di corruzione o la qualità
amministrativa. L’Italia è collocata in una posizione sempre di retroguardia. Ciò suscita un po di
scetticismo riguardo la metodologia di calcolo dell’indice. Suscita incredulità anche il passaggio forte
di alcuni indici—come per l’Italia il passaggio da 1,03 a 0,34 tra 1996 e 2015 per quanto riguarda la
stabilità politica (che incl. cambi di governo non pianificati, periodi di mancato funzionamento del
governo, frequenza delle proteste, scioperi, guerre civili etc.), nell’arco di un epoca che ha visto
l’affermazione del sistema politico maggioritario, quindi un miglioramento della stabilità.
Questi indici vanno visti con prudenza, vanno migliorati sul piano della metodologia. Ad esempio gli
italiani possono essere più propensi a dichiararsi scontenti di alcuni aspetti (come il controllo della
corruzione) per via della riduzione della propensione al patriottismo conseguente il rigetto del passato
fascista.

56
EQI (European Quality of Government Index) – più affidabile

Per il 2013 è stato calcolato con una media aritmetica di 4 dei 6 indicatori che abbiamo visto – sono
state rimosse la stabilità politica e la qualità della regolazione perché non presentano variabili regionali
significative (libertà di espressione; efficacia di governo; stato di diritto; controllo della corruzione). Si
calcola la media di questi indicatori distribuiti in maniera regionale. L’obbiettivo è di osservare come
all’interno di un paese varia la qualità degli indicatori istituzionali. Non si tratta tanto della media
nazionale quanto stabilire se questi indicatori si differenziano all’interno del territori.
La tabella mostra che in paesi come l’Italia ci sia un’enorme enorme distribuzione di variazione
territoriale rispetto all’indice. In alcune regioni, prevalentemente al Sud, ci sono indici molto bassi, in
altre—particolarmente al CN—gli indicatori sono più alti. Anche la Francia ha delle differenze
regionali accentuate nonostante la Monarchia li si consolida molto presto rispetto ad altri paesi europei
come l’Italia o la Germania che hanno avuto un’unificazione politica tarda.
Si è propensi a dire oggi che questi indicatori impattino molto sulla crescita economica. Si sostiene che
la qualità delle istituzioni, soprattutto in periodi di crisi, possa avere un impatto decisivo sulla crescita
economica. Pare esserci una correlazione pressoché diretta (fig 3.6) tra tasso di crescita economica ed
indicatori istituzionali.

Lezione 18
Capitolo IV – Le specificità dell’economia italiana

L’economia italiana è un’economia di mercato. Abbiamo visto il ruolo importante dello Stato come
imprenditore—nel sistema manifatturiero e terziario italiano—, dopo le privatizzazioni degli anni ‘90
questo si è ritirato grandemente, sebbene non sia assente. Si parla comunque di un capitalismo di
mercato, che interloquisce con il mondo, e nello specifico uno fatto di medie e piccole imprese con
una forte specializzazione. La specializzazione viene chiamata generalmente “nicchia” produttiva.

57
Questa si assume sotto il termine di made in Italy – spesso preso come sinonimo di qualità, design ed
originalità. Le nicchie su cui l’Italia ha una forte vocazione esportatrice sono molte (non solo moda e
design) e sono diversificate.

La tabella 4.1 ci mostra alcune delle importanti


nicchie. La percentuale di forza lavoro
storicamente impiegata in “industrie
tradizionali” (come tessile, abbigliamento e
cuoio) si è significativamente ridotta nell’ultimo
cinquantennio. Nel 1951 prendeva un terzo
dell’occupazione, nel 2011 poco più del 10%.
Questi settori, seppur ridimensionati
quantitativamente, continuano ad avere una
rilevanza internazionale.
La percentuale di addetti al settore meccanico è
invece aumentata, arrivando a occupare quasi il
42,8%.

La tab 4.2 mostra come sono cambiate le


dimensioni delle imprese italiane. La grande
impresa è oramai molto minoritaria rispetto ad
un passato in cui essa (>500 addetti) vedeva un
25% delle imprese, oramai si tratta di meno del
10%. Le imprese con meno di 20 dipendenti
rappresentano oggi più del 40% del tessuto
imprenditoriale italiano; se arriviamo a 50
dipendenti si supera la maggioranza.
Le grandi imprese hanno caratteristiche
generalmente di produzione su larga scala e di
grossi investimenti su ricerca e sviluppo (settore che alla piccola e media impresa provoca più
difficoltà). La dimensione di un’impresa non è soltanto legata al numero di dipendenti ma anche ad una
certa maniera di organizzare tutta la filiera del valore industriale – dalla ricerca e sviluppo fino alla
commercializzazione e la vendita. L’osservazione delle dimensioni non è quindi fine a se stessa ma il
ragionamento su esse permette di comprendere come il cambiamento strutturale abbia inciso sul PIL e
su di un insieme di caratteristiche anche su rapporti tra impresa e società.

Da questi dati emergono due problemi fondamentali per l’economia italiana.


1. Come mai le PMI italiane hanno sviluppato la loro importanza e come fanno a rimanere
competitive in un contesto mondiale? (Questo vale sia per l’impresa manifatturiera che per
settore bancario e turismo).
2. A cosa è dovuta la crisi della grande impresa in Italia e come mai le grandi imprese che
esistevano—sia private che pubbliche—non si sono consolidate e si rivelano in ripiegamento?

58
1 – Come fanno le PMI italiane a rimanere competitive in un contesto globale?

Il distretto industriale è caratteristico dell’economia italiana, è stato oggetto di studi anche di


ricercatori esteri (economisti, antropologi, sociologi e storici). I distretti industriali sono una categoria
che ha cambiato più volte definizione nel corso del tempo (proprio per via della quantità di ricerca):
► si tratta di una concentrazione di PMI, dei cluster, specializzate nella produzione di un tipo base di
prodotto in tutte le sue possibili versioni.
Le PMI riunite in un distretto industriale (che tendenzialmente coincide con un territorio) producono
tutti i prodotti intermedi che partecipano alla produzione di un dato prodotto finale. Si ha un insieme di
attività che ruotano attorno alla produzione del tipo base di prodotto – vedono tutto un contorno che va
dalla ricerca/ideazione, alla materia prima alla commercializzazione. È la prossimità territoriale delle
imprese a permettere lo sviluppo di questi distretti. L’organizzazione della forza lavoro è importante:
nel distretto si troveranno anche scuole per la formazione dei tecnici del settore. La dimensione
territoriale del distretto industriale favorisce anche gli scambi di esperienze personali, relazioni, il
circolare delle conoscenze e la cooperazione, lo sviluppo di una forza lavoro specializzata (es.
trasmissione in famiglia delle competenze legate al prodotto).
Alfred Marshall definiva ciò l’atmosfera industriale – un territorio a forte vocazione specializzata in
un cluster produttivo ha un insieme di esternalità (categoria economica per l’atmosfera che circola
all’esterno delle imprese) che consentono a tutte le imprese di crescere secondo le modalità tipiche del
distretto.

Ciò si vede bene anche nel tema dell’innovazione – quando si profila un nuovo prodotto/fase di
produzione non è solamente un’impresa che lancia l’innovazione ma vengono coinvolte più imprese.
La competizione tra imprese presenti nel distretto è comunque presente, si vede però un travaso di
conoscenze, un’emulazione. Si tende a brevettare poco nei distretti industriali (ed è tramite i brevetti
che si misura l’innovazione) – non perché non facciano innovazioni ma perché brevettare implica la
possibilità di essere copiati (soprattutto in un contesto così piccolo). Il mantenimento geloso di un
segreto produttivo fa si che sia disincentivata la brevettazione (che è già una forma di pubblicità).

Le PMI si mantengono quindi competitive nei distretti industriali riuscendo a sviluppare queste
esternalità positive, queste atmosfere industriali, che consentono la crescita grazie a questo scambio –
questa continua interazione tra imprese, lavoratori, formazione, esposizione, sviluppo, marketing etc.
Questo promuove anche le attività di spin-off – i dipendenti specializzati spesso si mettono in proprio,
mantengono strette relazioni con l’impresa da cui escono ma realizzano delle imprese autonome che
vanno ad arricchire la pluralità del sistema di distretto. L’unità territoriale costituisce un vantaggio
competitivo.
I distretti industriali non sono solamente produzioni manifatturiere – si vede una compresenza dei vari
anelli della catena del valore. Innovazione e ricerca, formazione del personale, formazione di
competenze manageriali, creazione di tecnologie specializzate, fasi di vendita, di marketing, di
assistenza post-vendita e tutta la filiera del valore che viene coinvolta. Si trova anche uno sbocco
internazionale grazie proprio a quest’interrelazione tra le differenti fasi della produzione.
Queste esternalità sono positive quando beneficiano i soggetti coinvolti nella vita di un’impresa –
quelle negative sono invece quelle come l’inquinamento, ovvero tutte le esternalità indesiderabili.

59
Questa tabella, costruita tramite dati
Istat dai censimenti che fotografano
anche le realtà industriali, permette di
vedere degli esempi di distretti
industriali.
Le specializzazioni sono moltissime: il
censimento del ‘91 fissa 199 distretti
industriali italiani — in essi vi erano
2,2 milioni di addetti, quindi il 42%
della forza lavoro manifatturiera
dell’Italia.
Il processo per identificare un distretto
per le statistiche è in parte quantitativo
ed in parte qualitativo.
I distretti industriali sono per la
maggior parte nel nord e nel centro
della penisola.
Dove c’è stata storicamente una
maggiore diversificazione locale —
legata alle esperienze dei comuni, delle
signorie, ad agricolture di stampo di piccola proprietà e con affittanza invece che latifondo — si vede
una maggiore propensione della popolazione a sviluppare esperimenti di piccola impresa, favorendo la
creazione di distretti industriali.
La parte meridionale della penisola ha visto storicamente la prevalenza del latifondo: un agricoltura che
poco incentivava il consolidamento di competenze imprenditoriali.
Si tende a leggere la piccola impresa come epifenomeno della crisi della grande impresa – dismissioni
di personale che finisce per mettersi in proprio etc. Quest’interpretazione è stata smentita dalle ricerche
più recenti – non tutte le storie economiche locali riescono a produrre uno sbocco imprenditoriale di
PMI. Anche nel Sud ci sono state grandi imprese pubbliche che hanno dismesso, ciò non ha però
portato con sé la crescita di PMI dal basso.
La storia economica di alcune aree italiane—in parte legate alla storia dell’agricoltura del luogo, in
parte ad una storia di autonomie amministrative (comuni, enclave di autogestione)—è fondamentale
per comprendere come sono nate le tradizioni civiche che fecero da punto importante per lo sviluppo
per i distretti industriali.
È avvenuto un significativo travaso di dipendenti tra un settore e l’altro—si guardi la decrescita nel
settore tessili-abbigliamento o nel settore di prodotti per la casa—e sono nate e cresciute nuove
specializzazioni: l’alimentare, con tutta la nuova enfasi sul km-0 ha avuto un grosso incentivo. La
fisionomia di queste realtà cambia, un distretto può cambiare nel tempo inglobando nuove
specializzazioni e cambiando la propria. Il distretto può trasformarsi anche per il fatto che è composto
di PMI locali, che hanno quindi meno difficoltà a cambiare vocazione e a cambiare il prodotto (il che è
più difficile per le grandi imprese).
C’è stato in nel decennio riportato (2001-2011) una significativa perdita degli addetti nei distretti
industriali in corrispondenza alla terzializzazione dell’economia (e alla crisi del 2008). In questo la
globalizzazione e l’esportazione all’estero di fasi della produzione di molti produttori italiani ha indotto
una significativa perdita del numero di addetti. È possibile che con la crisi attuale, come stava in parte
già avvenendo, si torni ad un accentramento della manifattura su territorio italiano.

60
- Le industrie pesanti hanno resistito meglio delle leggere alla delocalizzazione:
Si assiste ad un ripiegamento dell’occupazione, anche nei distretti, esso è però diversamente distribuito
(o non avvenuto) a seconda dei settori. Le industrie pesanti—meccanica, siderurgico—hanno avuto una
tenuta sostanziale. Queste sono le più difficili da de-localizzare (sia per questioni di trasporto dei
prodotti che per la complessità dei processi, difficili da delegare ad aree con minore tradizione
manifatturiera-meccanica come il sudest asiatico). I settori che hanno sofferto di più sono stati quelli
più tradizionali (es. calzatura, cuoio, abbigliamento) – questi subirono una delocalizzazione molto
elevata. Il processo di rientro di queste produzioni—in conseguenza del fatto che il costo del lavoro nei
paesi esteri sta aumentando e del cambio di caratteristiche della produzione (come l’aumento
dell’informatica annessa e alla robotizzazione)—fa si che sia sempre più complesso riuscire ad
investire e produrre a grande distanza dai mercati di sbocco. È in corso un processo inverso, una ri-
localizzazione delle produzioni all’Italia.

- Le imprese in distretto hanno reagito alla crisi meglio delle corrispettive fuori distretto:
Anche durante la crisi, in un così intenso processo di ristrutturazione produttiva, il distretto ha protetto
meglio le proprie imprese rispetto agli equivalenti negli stessi settori fuori dai distretti.

Questi dati vanno presi con prudenza perché le analisi ISTAT relative ai distretti industriali non
comprendono quell’insieme di cluster imprenditoriali che si trovano nelle città. La loro definizione dei
distretti è molto precisa ed esclude le città. Questo è perché la definizione manifesta interesse per la
dimensione territoriale dei distretti. Esistono però cluster di produzione con una fisionomia distrettuale
pur includendo la città: la Zamagni fa l’esempio della packaging valley – attorno a Bologna, questa
produce macchinari per l’impacchettamento. Pur essendo economicamente molto importante questo
cluster non è presente all’interno delle statistiche ISTAT perché al suo interno esiste una città (altro es.:
food valley attorno a Parma; distretto di cuoio a Firenze; distretto turistico di Rimini – quest’ultimo è
escluso in quanto non manifatturiero – possono esserci distretti terziari come turismo e arte).

La media impresa nasce spesso nel distretto – non cresce isolatamente dal contesto. Molte di quelle
medie imprese che oggi chiamiamo multinazionali tascabili nascono in questi ambienti come piccole
imprese. Accolgono sfide globali come la meccanizzazione e l’allargamento dei mercati (altra
caratteristica che affonda nella storia italiana di lungo periodo, già nel medioevo le imprese di lana
riuscivano ad esportare in tutta Europa). A partire prevalentemente dagli anni 90 si vede
l’ingrandimento di piccole imprese distrettuali: esse diventano più innovative nel loro prodotto
rendendolo più competitivo. Cambiano dimensione, capacità di innovatività e di conseguenza
l’organizzazione. Il distretto tende ad avere una struttura orizzontale, le medie imprese si mostrano
invece come imprese leader, volte direttamente ai mercati internazionali – si emancipano dalle
dinamiche tipiche dei distretti pur avendo avuto li le loro origini.
Queste medie imprese talvolta acquisiscono una leadership nel distretto, fanno si che le altre imprese,
più piccole, diventino le loro sub-fornitrici – imprese che non hanno più un mercato diretto di sbocco
dei loro prodotti ma che producono per la media impresa. Questo accade anche quando la media
impresa diventa impresa distributrice; un esempio è l’IKEA, essa nasce in un contesto specifico di
produzione di mobili in legno, diventa internazionale e fa si che le altre imprese che producono
oggettistica e mobili divengano sue sub-fornitrici. La piccola impresa scompare come marchio e vende
attraverso la media impresa.
Si tratta di una mutazione genetica del distretto causata dagli imperativi della globalizzazione.

61
La catena del valore è rappresentata in quest’immagine.
La metafora serve a ricordarci che un
impresa non produce valore solamente
in una fase. Essa ha una serie di fasi
che possono consistere di attività
primarie o attività di supporto.
Le attività primarie sono tutte quelle
indispensabili a produrre e vendere:
logistica interna ed esterna (rapporti
coi fornitori, immagazzinamento,
spostamento e stoccaggio), operations
(operazioni fisiche di produzione),
marketing e vendite, servizi (assistenza
alla clientela, concessionari,
finanziamento all’acquisto). Tutte queste attività primarie confluiscono nel margine, nel profitto (e
quindi nel valore che genera per azionisti/proprietari).
Le attività di supporto sono varie: infrastruttura fisica dell’impresa (ciò che si vede fisicamente),
gestione delle relazioni industriali/risorse umane, ricerca e sviluppo della tecnologia più adatta alla
produzione (macchine, software, formule e brevetti), approvvigionamenti (rapporto economico –
individuare fornitori, spostare produzione, acquisizione di materie prime e prodotti intermedi, dei
mercati e della clientela).

Lezione 19
Anche le imprese di distretto sono aperte a livello globale ed esportano i loro prodotti, la novità del
quarto capitalismo e quindi delle multinazionali tascabili non sta quindi solo nella vocazione
all’esportazione, bensì riguarda il fatto che queste lavorano a livello globale anche aprendo filiali
all’estero e quindi ampliando la catena del valore; inoltre tendono ad acquistare imprese o filiali di
imprese o fabbriche estere. Ampliano quindi la loro presenza legale, produttiva (o di stoccaggio se si
occupano di logistica) oltre ai confini italiani, spesso oltre al continente europeo.
Si tratta di aspetti particolarmente importanti quando queste producono beni che non vengono smerciati
immediatamente sul mercato, bensì quando producono beni intermedi i cui clienti sono altre imprese—
intermedi di lavorazione chimica, meccanica-siderurgica, l’energia elettrica—, per produrre beni
intermedi è più proficuo essere fisicamente vicini ai propri clienti. La vicinanza permette sia di
ampliare che di fidelizzare la propria clientela.
Nel contesto odierno, marcato molto dallo stile organizzativo-imprenditoriale toyotista (nato in
Giappone tra anni 60-70), è messo sempre più al centro dell’attenzione il rapporto tra impresa fornitrice
e impresa che consuma il bene intermedio – è enfatizzata anche la necessità di concordare e negoziare
con il fornitore le caratteristiche dei prodotti che servono. Il rapporto di fiducia permette quindi di
richiedere oltre che prezzi migliori un prodotto più adeguato. La presenza fisica delle multinazionali
tascabili all’estero presenta quindi un grosso vantaggio che le PMI distrettuali non hanno.

La media impresa è difficile da definire, esistono vari modi. Sulla base del volume di Zamagni
(p.104) essa viene definita in base a
• Dipendenti e fatturato: <500 addetti - fatturato tra 16-355 milioni di euro
• Autonomia e proprietà: la MI non deve far parte di un gruppo, dev’essere autonoma

62
Osserviamo la dinamicità delle multinazionali tascabili prima e dopo il 2008. La crisi ha comportato
grossi problemi a livello di fatturato e occupazione dell’industria manifatturiera a livello aggregato. Il
panorama che emerge dalle medie imprese è un po più confortante. Di fronte alla caduta della domanda
interna le multinazionali tascabili hanno agito riqualificandosi: dirigendosi all’estero ed esportando
sempre più la loro produzione. La meccanica è il settore che mostra la più elevata propensione
all’esportazione – anche alimentare, bevande e prodotti chimici sono riusciti a mantenersi in una buona
posizione nonostante la crisi.
Il successo delle multinazionali tascabili è appunto dovuto alla loro capacità di esportazione anche in
un contesto di crisi globale. Esse hanno mostrato capacità di esportazione maggiore di quella delle
grandi imprese. Zamagni riporta il paragone tra Italia e Germania: il saldo totale della bilancia
manifatturiera italiana è di 94 miliardi nel 2015, Germania: 329 miliardi – la grande differenza è dovuta
al fatto che in Germania le grandi imprese hanno un surplus di 229 miliardi, in Italia un deficit di 4
miliardi (p.106). Il paragone permette di capire che la grande impresa tedesca è più orientata verso
l’esportazione, raggiungendo quindi un surplus nettamente superiore e in proporzione molto più
importante – in Italia invece ad esportare sono soprattutto le medie imprese, anche quando le grosse
vanno in deficit.
La tab 4.5 mostra il
TPI – Marco Fortis
condusse uno studio
statistico delle
caratteristiche della
forza esportativa
italiana. L’Italia è un
paese esportatore con
il primo posto nei
settori a vocazione di
media impresa:
abbigliamento, cuoio,
tessile, meccanica.
L’industria italiana,
soprattutto grazie alla
media impresa e alla multinazionale tascabile, ha delle possibilità di rilancio se superata questa crisi la
domanda interna tornerà a crescere e quella internazionale si riprenderà. Sarà in questo caso sempre la
media impresa, probabilmente, la carta competitiva che l’Italia potrà giocare.

63
Le medie imprese hanno due problemi specifici.
• La proprietà è essenzialmente familiare (anche per le multinazionali tascabili) – spesso si tratta
delle famiglie dei fondatori che si tramandano l’eredità. La consanguineità della proprietà non è
una garanzia di successo nel lungo periodo. Le qualità imprenditoriali non si tramandano con i
geni, capita spesso che i figli non siano in grado di mandare avanti l’impresa o non siano
interessati a farlo. Soprattutto nella terza generazione (“sindrome dei buddenbrook”) si tendono
a trovare nipoti che vendono l’azienda perché preferiscono altri tipi di carriera o fare i redditieri.
Non si garantisce quindi la riproduzione delle competenze manageriali, imprenditoriali, e delle
capacità innovative.
• Scarsa propensione a crescere e a quotarsi in Borsa – anche dove hanno avuto un buon
successo le medie imprese italiane tendono a mantenere la proprietà accentrata. Si vuole
mantenere una fusione totale tra famiglia e impresa, non diluire quindi la proprietà, rischiando
di perdere il controllo totale, ad esempio quotandosi in borsa (guadagnando, si, più capitali per
ampliarsi, ma perdendo centralità).
La borsa italiana rimane infatti piccola—conta qualche centinaio di imprese, quelle mondiali ne
quotano diverse migliaia—il rischio è che la media impresa rimanga tendenzialmente piccola o
che venga venduta ad imprese estere. Capita infatti che le famiglie, piuttosto che perdere il
controllo, preferiscano vendere l’intera impresa a gruppi stranieri (es. sistema moda e lusso).

2 – Perché le grandi imprese italiane non si consolidano?

Le grandi imprese piuttosto che consolidarsi perdono terreno nella storia economica italiana degli
ultimi decenni. L’indice Global 500 (Fortune – rivista americana) mostra le più importanti imprese del
mondo sulla base del giro di affari.
Le più grandi imprese italiane hanno posizioni
tendenzialmente di retroguardia. Queste sono
spesso le eredi delle imprese pubbliche che sono
state privatizzate. Soltanto 3 imprese di questa
tabella sono nate come già private
(Assicurazioni Generali, Unipol e EXOR—
gruppo che comprende FCA, Ferrari e CNH).
Le altre imprese presenti sono ex-pubbliche –
buona parte sono risultanti dalla liquidazione
dell’IRI (nel 2000) e dal mondo delle
privatizzazioni parziali degli anni ‘90. Si vede
una pluralità di settori tra queste poche grandi
imprese italiane: servizi, trasporti, banca e finanza, elettricità, petrolio, gas, assicurazioni e meccanica.
Mancano grossi settori che hanno in passato avuto importanza economica determinante, come quello
chimico, la farmaceutica etc. Molte produzioni che in passato sono state affidate anche alle grandi
imprese oggi sono o scomparse o praticate all’interno delle PMI distrettuali o a vocazione esportatrice.
Nella storia delle più grandi imprese italiane lo Stato ha quindi giocato un ruolo determinante. Esso è
stato presente in primo luogo all’interno del complesso IRI, ENI, ENEL o nelle banche di interesse
nazionale. Vengono qui inclusi gruppi che ancora oggi hanno importanza: Finmeccanica, Leonardo etc.
– il mondo non va pensato solo tramite le grosse sigle ma tramite le altre imprese che possedevano le
loro holding: es. Finsider (holding siderurgica, oggi inesistente in quanto venduta), Fincantieri (poi

64
acquisita da un azienda francese), Telecom (una volta STET, poi privatizzata nel ‘97), ENI (grosse
dimensioni – petrolchimico e gas).
Le privatizzazioni furono in parte un successo ed in parte un’occasione fallita: talvolta non erano
accompagnate da liberalizzazioni, quindi si continuò ad operare come si faceva nelle imprese
pubbliche. Il contributo delle privatizzazioni alla minimizzazione del debito pubblico non fu esaltante.
La Cassa depositi e prestiti oggi è una SPA, si tratta di una banca di Stato (nata nell’800 come cassa di
raccolte del risparmio totale), diventata la mano dello Stato dove si vuole procedere alla ri-
nazionalizzazione di settori privatizzati (es. problema di Autostrade).

La scarsa affezione del capitalismo italiano verso la grande impresa può essere spiegata attraverso 3
fattori principali:
• La lunga tradizione espressa dai distretti industriali: amministrazioni locali, scarso
accentramento politico, molteplicità delle vocazioni economiche dei singoli territori e stati
preunitari, artigianalità – si sono mantenute delle caratteristiche culturali/antropologiche
della produzione e dell’imprenditorialità italiana.
• Storia economica e politica – ruolo pesante dello Stato imprenditore che determina un
monopolio di Stato sulla grande impresa (solo poche famiglie sono riuscite a negoziare con lo
Stato uno spazio di intervento); la Fiat divenne monopolista della produzione di automobili in
dialogo continuo con lo Stato (“ministerialismo” di un imprenditore – costante negoziazione
degli imprenditori con la politica per negoziare lo spazio di azione; lo Stato però in cambio gli
dà molto). Molti sostengono che il grosso sviluppo delle autostrade rispetto a quello scarso del
trasporto merce su rotaia è stato dovuto storicamente alla volontà dello Stato (che volle dare
spazio all’industria automobilistica). La DC vide favorevolmente le PMI, il PC l’impresa
statale.
• La borsa italiana è sempre stata una realtà piccola—in parte per scarsa propensione delle
famiglie a quotarsi, in parte per mancanza di una vera regolamentazione. La CONSOB, autorità
che vigila sul mercato borsistico, venne creata negli anni ‘70 (l’equivalente anglosassone nei
primi anni del 900). La scarsa fiducia degli italiani verso la borsa (come luogo di incontro tra
domanda e offerta di titoli di proprietà, delle azioni) fu anche dovuta alla mancanza di
regolamentazione, la mancanza di istituzioni che ne garantissero la trasparenza – apparse solo
negli ultimi decenni.
La borsa italiana venne privatizzata negli anni 90 e assorbita dalla London stock exchange nel
2007 – questa cambierà probabilmente proprietà di nuovo per via del conflitto di interessi tra
borsa di Londra e borsa d’Italia (inizialmente borsa di Milano, che ha poi assorbito le altre
borse italiane diventando un unico circuito telematico). Rimane il problema di chi possiede le
borse e quindi di come vengano regolate e condotte.

Nel 1951, prima del boom, c’erano già 130 società


italiane quotate in borsa, oggi ne abbiamo poco meno
di 400. Nonostante la grossa espansione
dell’economia italiana la propensione delle imprese a
quotarsi è rimasta bassa. Anche le privatizzazioni
degli anni 90 non hanno dato un impeto significativo.
Il boom economico degli anni ‘60 ha addirittura visto
una diminuzione (venne infatti trainato da imprese di
proprietà familiare o comunque non quotate).

65
Lezione 20
Capitolo V – Il fattore umano

Caratteristiche demografiche
Tra queste, in Italia, abbiamo:
• Alta speranza di vita
• Basso tasso di occupazione femminile
◦ la cultura mediterranea non favorisce l’impiego degli uomini nei lavori domestici
• Immigrazione in crescita
◦ compensò il calo demografico dovuto alla bassa fertilità e all’emigrazione degli italiani
(soprattutto dopo la crisi del 2008)

Problemi dell’invecchiamento della popolazione


Problema caratteristico della società italiana, esso ha alcuni risvolti significativi:
• Spesa pensionistica
• Spesa sanitaria e per l’assistenza
• Riduzione demografica e quindi del numero di giovani → difficoltà per il welfare italiano per
assestare una politica di supporto per la povertà giovanile (vera emergenza italiana dal pdv della
spesa sociale)
• Invecchiamento → Diminuzione del tasso di imprenditorialità e di “innovatività” o propensione
al rischio
Una popolazione più vecchia segnala un aumento delle condizioni generali di salute – di fronte alle
quali molte persone mature decidono di continuare a lavorare – però alcune caratteristiche economiche
come la volontà di innovare, fare impresa, rischiare, non sono distribuite omogeneamente nelle varie
età.

Disoccupazione o sottoccupazione giovanile


Si intrecciano qui dimensioni famigliari, istituzionali e speranza di vita. Si tratta dei giovani che non
trovano lavoro o che non ne trovano di adeguato al loro titolo di studio o alle loro aspettative. Si ha una
prevalenza di ventenni o trentenni che soffrono di disoccupazione, stipendi bassi o precari.
Ciò produce problemi anche a livello economico:
• la mobilità sociale (lo status sociale include: come si vive, beni materiali posseduti, tipo di
lavoro svolto, ruolo socioculturale) – importante fattore, quantificabile per giudicare la qualità
di un’economia – è ridotta.
◦ Si è tendenzialmente sopperito al problema, in Italia, con la spesa pensionistica: si è vista la
disoccupazione giovanile e l’andamento delle pensioni + aumento della speranza di vita
come in compensazione reciproca. Le pensioni venivano condivise dai nonni con i genitori
dei nipoti, a ciò si aggiungeva una notevole ricchezza accumulata dalle generazioni che
hanno beneficiato dalla spesa pubblica degli anni 60-80 che veniva condivisa ad esempio
donando case o patrimonio – questo consentiva una redistribuzione, surrogata di una buona
economia, tra le varie generazioni.
◦ Oggi le cose non vanno così. È vero che le famiglie italiane hanno una propensione al
risparmio, utile a comperare una casa, ma non si hanno risultati di crescita complessiva della
mobilità sociale e del benessere dei giovani. Terminato il surrogato (oggi ridotto), il giovane
si trova in condizioni di disparità.

66
La famiglia
Essa è definita in economia in termini non perfettamente aderenti all’uso quotidiano:
Insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela o affettivi,
coabitanti ed aventi dimora abituale nello stesso comune (anche se non sono ancora iscritte
nell'anagrafe della popolazione residente del comune medesimo). Può anche essere costituita da una
sola persona.
Si parla di domicilio—vivere assieme—, non necessariamente residenza, indipendentemente da ciò che
unisce. Più del 50% dei nuclei familiari milanesi sono composti da una persona.
La famiglia da una parte ha un ruolo di supporto, anche economico, fondamentale – nelle attività di
cura –, un’eccessiva attenzione sulla famiglia però è percepita e studiata (anche dagli antropologi)
come un problema nella società italiana. Il “familismo amorale” è stato elaborato da alcuni antropologi
per descrivere la tendenza al nepotismo e al privilegiare la famiglia rispetto ad altre realtà sociali che
può portare a risvolti non favorevoli a livello economico e sociale (vedi lez23).

La famiglia ha una sua dimensione istituzionale: lo Stato norma i rapporti famigliari nel tempo. Non
ci sono solo cultura e retaggio tradizionale dei costumi a stabilire le relazioni in una famiglia. Sta
cambiando il concetto di famiglia nella sensibilità comune. Cambiano anche le leggi che la riguardano:
• Nel 1970 viene introdotto il divorzio.
• Nel 1975 vengono parificati i diritti di padre e madre all’interno della famiglia.
• Nel 1978 viene legalizzato l’aborto.
• Nel 2012 vengono parificati i diritti di tutti i figli: nati dentro e fuori dal matrimonio (in
crescita: p. 139 – nel 2014 erano il 28%).
• 2015: divorzio breve (divorzio meno costoso e più veloce: 6 mesi-1 anno);
• 2016: legge sulle unioni civili (regolano i diritti delle coppie di fatto del medesimo sesso).
L’istituzionalizzazione della famiglia incide sulle dinamiche sociali ed economiche. L’aumento del
tasso dei divorzi dopo la legge dei divorzi brevi (andato a parificarsi con lo standard europeo)
esemplifica come una legge istituzionale può andare ad avere influenza sui costumi (il che avrà un
impatto su società ed economia).
Il lato istituzionale ha un lato che riguarda il ruolo della donna.
• L’età del matrimonio in Italia negli ultimi decenni è sempre più avanzata → fertilità più bassa.
La donna lavora quindi di più e permane nel suo ruolo lavorativo più a lungo, ha così la
possibilità di ottenere posti lavorativi più gratificanti.
• Il tema si riflette sulla struttura dei salari: la legislazione non presenta discriminazione
femminile negli ultimi decenni – la parità di remunerazione viene dichiarata nel 1977. Nei fatti
però i vari aspetti indicati (le donne svolgono la maggior parte dei servizi domestici; doppio
lavoro dentro e fuori casa; cultura che preclude alle donne posizioni di grande responsabilità)
fanno si che i salari rimangano più bassi nella media (sia a parità di mansione che nel
complesso della popolazione): questa è una caratteristica di tutte le economie del mondo.
Il telelavoro in periodo COVID permette di armonizzare in alcuni casi lavoro all’interno dell’azienda
con lavoro familiare. La maggiore diffusione del part-time e la maggiore crescita dei servizi di welfare
offerti dall’impresa (asili aziendali, benefit) negoziati anche dai sindacati migliorano relativamente la
situazione – nel complesso però il problema rimane.
Tra 2000 e 2016 si verifica un aumento di ricchezza diffuso nei paesi sviluppati. Alcune realtà vedono
più aumenti, prevalentemente in termini di capitale finanziario (ricchezza investita in azioni,
obbligazioni, capitali aziendali) – soprattutto negli USA e nel Giappone. Altrove, come in Italia,

67
Francia e Germania, c’è stata un’incidenza più moderata della ricchezza finanziaria e una maggiore
incidenza del capitale immobiliare. La tassazione patrimoniale, in Italia, implicherebbe tassazione della
casa (la stragrande maggioranza della ricchezza in Italia riguarda gli immobili).
Bisogna parlare anche di ricchezza netta: ovvero vanno sottratti i debiti: le famiglie italiane sono più
ricche di altre perché tendono ad accumulare meno debiti (9% della ricchezza lorda delle famiglie
italiane). Di conseguenza esse hanno un ammontare di ricchezza pro-capite superiore a quella di molti
altri paesi sviluppati (tab 5.1).
La ricchezza pro-capite italiana prima e dopo la
crisi del 2008 ha sostanzialmente tenuto. C’è stata
una crescita significativa della ricchezza pro-
capite, accentuata in Italia (anche se si parla di
medie l’indicatore è significativo).
La ricchezza pro-capite italiana è alta rispetto ad
alcuni paesi europei come Germania e Paesi
Bassi. L’incidenza dei patrimoni finanziari in
Italia è relativamente più bassa rispetto ad altri
paesi e l’incidenza del debito privato è molto
bassa. I dati mostrano una minore propensione
all’indebitamento ed una migliore capacità di far
fronte alle necessità della vita con la ricchezza
esistente.
La colonna del ‘quota del patrimonio netto
detenuto dall’1% più ricco’ mostra che l’Italia ha
una distribuzione della ricchezza più egualitaria
rispetto a buona parte degli altri paesi elencati
(battuta soltanto da Giappone, Paesi Bassi, UK e Grecia) //peccato che ciò non sia riflesso dall’indice
GINI, es – Francia 2016: 29,3 – Italia: 33,1.
Tutto sommato la ricchezza reale—al netto del debito—delle famiglie italiane è elevata. La sua
distribuzione all'interno della popolazione ha consentito al paese di sopportare, senza ripercussioni
troppo devastanti, la grossa crisi del 2008.

Istruzione e Ricerca
• Il problema dell’alfabetizzazione
◦ L’Italia ha sempre avuto problemi di analfabetismo – tra 1951 e 1981 c’è stato un forte
aumento della frequenza nella scuola secondaria (da 11 a 52%); aumento della frequenza
universitaria (da 3,5 a 17%) – poi continuata negli ultimi anni.
◦ In Italia la dispersione scolastica continua ad essere abbastanza ampia. Si ha anche
l’analfabetismo di ritorno: molti dopo aver frequentato la scuola dell’obbligo smettono di
leggere e scrivere e non sono più in grado di interpretare il testo a loro sottoposto.
◦ Il tasso di alfabetizzazione femminile è aumentato significativamente negli ultimi decenni.1
• L’accesso agli studi universitari
◦ Rimane che l’Italia è uno dei paesi in cui ancora oggi il conseguimento di una licenza
universitaria si attesta al 15% (GB: 37%, Media Europea: 26%, GER: 23%).
◦ 1Oggi spesso sono le donne a conseguire la maggioranza delle lauree universitarie.
• Gli investimenti in ricerca

68
Si parla di sottoccupazione quando le aspettative di impiego dei titoli di studi non sono soddisfatte:
questo avviene spesso in Italia. La struttura dell’impresa e del mercato del lavoro determinano gli
incentivi dei giovani a conseguire un determinato titolo di studio. La somiglianza tra Germania e Italia
è qui rilevante: dove prevale un sistema economico di media o piccola impresa (prevalgono anche a
grandi linee le stesse industrie – industria meccanica) si ha spesso una richiesta di forza lavoro
diplomata → non incentiva la domanda di laureati. La somiglianza più forte riguarda il settore
meccanico; in Germania esso è strutturato sulla media impresa.

Questi dati riguardano il rapporto tra alfabetizzazione, PIL e speranza di vita. L’HDI ibrido consiste
in una selezione di quantità che vengono solitamente riunite nell’human development index e si dà la
media di tre indicatori: speranza di vita, alfabetizzazione e PIL pro capite – normalizzati tra 0 e 1.
Tra 1951 e 2007 le varie aree italiane
hanno avuto una convergenza rispetto
alla speranza di vita e anche rispetto
all’istruzione. In passato i divari erano
più rilevanti.
Il PIL invece ha mantenuto una
distribuzione diseguale (migliorata
leggermente).
L’HDI ibrido è piuttosto ravvicinato tra
le varie aree. La lettura disaggregata dei
tre indici mostra la divaricazione tra PIL
e altri indicatori. Non è quindi sempre
necessariamente la crescita del PIL a
determinare lunghezza di vita ed istruzione. Le relazioni sono complesse e non determinabili soltanto
in termini di ricchezza e povertà.
La categoria di “modernizzazione passiva” viene formata per interpretare questi dati: si ha da una
parte una crescita di alcuni fattori modernizzanti (vita e istruzione), che non sono però bastati a far
convergere il reddito tra tutte le aree regionali. Crescita che non ha creato altra crescita – che non ha
prodotto nuove capacità di creare ricchezza e reddito.
(Il capitale sociale permetterà di fotografare le differenze tra Nord e Sud che i fattori del capitale
umano non fotografano.)

Accesso all’università
Oggi c’è un maggiore accesso all’università ma una problematica di investimenti in ricerca. Si studia di
più ma la capacità—privata e pubblica—del sistema per l’investimento in ricerca e sviluppo è ridotta.

Investimenti in ricerca
La spesa (a grandi linee divisa equamente tra pubblica e privata) di investimento in ricerca in Italia si
attesta sull’1,4% del PIL; media UE: 2%; GER, JP e USA investono molto di più.
Le PMI, i distretti e le multinazionali tascabili, fanno ricerca incrementale ma soltanto il 40% delle
PMI tra 10 e 49 addetti dichiarano di aver investito in innovazione.
Solo le imprese più grandi (tra 50 e 249 addetti) segnalano per il 63% di aver impegnato le proprie
risorse in ricerca. Questa percentuale cresce al 77% se si superano i 250 addetti.

69
C’è quindi un divario di investimenti in rapporto alla dimensione delle imprese ed un divario regionale:
le differenze regionali sono ampie. Emilia Romagna, Lazio e Friuli investono molto, la Lombardia è
mediana – aree a vocazione turistica come Valle d’Aosta ed Alto Adige hanno un investimento molto
più basso.
L’aumento dell’incidenza della spesa pubblica sul PIL ha costretto l’Italia a ridimensionare la spesa
pubblica in ricerca. Di conseguenza essa annaspa ed aumenta il fenomeno della fuga dei cervelli
(circolo vizioso, ma è un problema solo se non immigrano cervelli dall’estero). Il sistema italiano
esporta cervelli ma non ne importa.

Migrazioni: Interne ed Esterne


L'Italia vide, soprattutto negli anni del boom, una forte migrazione interna (dal sud al nord). Dopo la
crisi del 2008 l’Italia ha visto ripartire entrambe le migrazioni, interna ed esterna. Tra 2001 e 2011 il
Sud ha perso mezzo milione di persone—soprattutto giovani—un terzo delle quali laureati. Molti
hanno trovato lavoro nel centro-nord del paese ma molti andarono all’estero.
Dopo la crisi del 2008 il fenomeno si è amplificato. Si vede un’impennata delle partenze degli italiani
(115 mila nel 2016) di fronte ad una riduzione forte dell’immigrazione (dovuta ad una serie di
regolazioni nazioni ed internazionali). Si vide un divario di 80 mila persone – per lo più giovani e
laureati (metà delle quali emigrano dal Sud). Si ha quindi un depauperamento del capitale umano.
Molta della manodopera dell’immigrazione
economica (persone che giungono mosse
dall’intento di migliorare le proprie
condizioni) non ha la stessa qualificazione
sul piano dell’istruzione oppure non può
farla valere in Italia per il mancato
riconoscimento dei titoli di studio. Lo
squilibrio corrente si traduce in un travaso di
capitale umano che l’Italia perde a vantaggio
del resto del mondo.
Si calcola che i costi a persona del capitale
umano qualificato esportato sia di 4000 euro
a persona. Si ha un cambiamento da un
paese di immigrazione a uno di emigrazione,
il che ha un risvolto economico importante.

Calano gli immigrati per residenti.


La popolazione straniera residente in italia cresce ad un
ritmo sempre più impetuoso, arriva fino a costituire l’8%
della popolazione totale.
La residenza non è uguale alla cittadinanza, i residenti
non acquisiscono automaticamente la cittadinanza –
questi sono la una parte ridotta. Circa 1 milione di
persone oggi, giunte da paesi stranieri, hanno ottenuto la
cittadinanza.

70
Arriviamo a circa il 10% di popolazione
straniera in Italia, circa 6 milioni di
individui nel complesso.
Ciò che aiuta in particolar modo a
comprendere la mobilitazione politica
dietro al tema migratorio è soprattutto la
rapidità del fenomeno. La popolazione è
aumentata impetuosamente in percentuale
in un lasso di tempo ristretto. Rapidità
forse mai conosciuta in passato trattandosi
di un paese prevalentemente di
emigrazione.
Come dimostrano i dati, le migrazioni in
Italia sono soprattutto dovute alla ricerca di miglioramento di condizioni economiche e si dirigono
prevalentemente alle regione dove è più alta la possibilità di trovare lavoro. Questo ha decentralizzato
la migrazione e ha consentito di non sviluppare quei quartieri-ghetto affollati e degradati che si sono
creati in altri paesi. Anche in questo senso le tensioni legate al fenomeno sono state ridotte dalla
redistribuzione e dalla tradizione di piccoli-medi centri italiani che hanno recepito e mediamente
integrato la popolazione migrante.

La tabella 5.5 mostra come l’incidenza della popolazione nata all’estero sul totale dei residenti, in
Italia, è decisamente più bassa rispetto ad altri paesi EU. Questa è un’altra delle ragioni per cui l’UE
tende a favorire un radicamento della migrazione su territorio italiano (appoggiandosi solo sul dato
quantitativo).
Gli aspetti distintivi del fenomeno immigratorio recente (2000 – oggi) in Italia sono:
• Rapidità del processo
• Carattere economico
• Decentralizzazione – ruolo determinante a livello di ricadute sociali e capacità di integrazione

71
• Varietà della composizione – molto bilanciata per sesso, meno per nazione (nazionalità albanesi,
marocchine, cinesi e filippine sono in cima). La varietà ha evitato la creazione di comunità
chiuse (paragonabili a quelle di altri paesi) – favorisce tendenzialmente l’integrazione.
Lezione 21
L’innovazione tecnologica in Italia

«Il progresso economico nella società capitalistica significa disordine»


–Joseph Schumpeter

L’imprenditore per Schumpeter è un rivoluzionario, un trasgressivo – crea i cicli economici con


un’attività di distruzione creatrice.
L’innovazione entra piuttosto tardi al centro della teoria economica. Per molto tempo ha prevalso l’idea
– nel paradigma neoclassico – per cui le economie avrebbero avuto una convergenza in funzione di
un’unica capacità complessiva di innovare. I paesi che sfruttano a pieno le opportunità tecnologiche
trascinano l’ondata verso l’innovazione ma ad un certo punto tutte le economie dovrebbero convergere
in un unico percorso di innovazione. Per l’economia neoclassica l’innovazione dovrebbe avere una
tendenza naturale ad espandersi, ad equalizzare tutti i mercati.
Sappiamo che non è così: le tecnologie vengono create per le specifiche caratteristiche di un mercato e
non è automatico che le economie sviluppate si travasino altrove. È anzi più probabile che non accada.
Gli storici economici oggi sono infatti più interessati a vedere come si evolvono i sistemi di
innovazione nazionale (Vasta, Giannetti – vedi saggio). I processi innovativi—un elemento chiave della
crescita—sono da ricondurre ad una serie di fattori ampia – fattori interdipendenti, cumulativi, e molto
condizionati dal loro contesto. L’innovazione è path-dependent – dipende dal percorso.

Sistema nazionale di innovazione


L’innovazione non è automatica e non si diffonde automaticamente.
Si tratta invece di un circolo che vede in maniera sistemica un contesto
Progresso istituzionale in grado di produrre un determinato progresso tecnico che a
Istituzioni
tecnico sua volta fa crescere caratteristiche di capitale umano e capitale sociale,
che a loro volta determinano le istituzioni.
I processi innovativi vanno ricondotti a fattori interdipendenti,
cumulativi di tipo istituzionale, sociale e umano. Diversi sistemi
Capitale nazionali prenderanno quindi sentieri di sviluppo tecnico divergenti. Ciò
umano e non significa che i sistemi nazionali non possano comunicare tra loro e
sociale che la tecnologia non possa circolare – questo non è però automatico e
richiede alcuni presupposti (descritti nel primo modulo).

Come misurare il progresso tecnico?


Per misurare lo sviluppo tecnico e paragonarlo tra paesi bisogna misurarne l’input e l’output.
L’input misura la quantità di risorse che uno stato dedica alle attività di ricerca e sviluppo (spesa di
R&D, generalmente rispetto al PIL).
L’output utilizza l’indicatore (o proxy) dei brevetti. Le statistiche sui brevetti si basano sul presupposto
che essi facciano da specchio per l’attività inventiva e innovativa di un sistema nazionale. Per molti

72
paesi disponiamo dei registri dei brevetti (molti paesi li hanno già istituiti nel corso dell’800 – anche in
alcuni stati italiani pre-unità). È difficile però paragonare la produzione di brevetti in diversi paesi.
Input + Output = Innovation Index / Technology Achievement Index (TAI delle Nazioni Unite).

Input
• Problemi di fonti – Le spese dell’input, di Ricerca e Sviluppo possono essere difficili da
valutare/misurare: per molto tempo non si è utilizzato un modello metodologico condiviso (da
metà anni ‘50 si ha un quadro abbastanza affidabile per alcuni paesi).
• Processo di convergenza – paiono esserci convergenze in alcuni momenti nella quantità di R&D
rispetto al PIL tra diversi paesi. In altri momenti—soprattutto in quelli di crisi—investimenti e
spese in ricerca (difficili da giustificare pubblicamente) vengono tagliate. I trend sono alle volte
convergenti, in altre divergenti – dipendono dalle condizioni economiche dei singoli paesi.
Dove aumenta la spesa pubblica diventa più complesso investire in ricerca e sviluppo. I processi
sono tendenzialmente di convergenza: le economie nazionali hanno compreso che sia necessario
investire molto in ricerca per avere uno sviluppo economico nel futuro.
• Imprese pubbliche, Stato, Università – Le spese di ricerca e sviluppo sono prevalentemente
pubbliche. Oggi si è tornati a sottolineare come solo lo Stato possa investire molto in ricerca e
non attendersi un ritorno immediato nel proprio investimento. Le aziende industriali possono si
investire ma tendenzialmente mireranno alla ricerca applicata, monetizzabile il più velocemente
possibile. Il ruolo dello Stato è insostituibile per investire in ricerca teorica/non
immediatamente applicata, che non ha preoccupazioni di mercato. Lo Stato finanzia anche
l’impresa privata – tramite sgravi fiscali e aiuti consente alle imprese private di fare ricerca, dà
loro le condizioni economiche e fiscali per promuoverla. Leggi, regolamenti e istituzioni hanno
un ruolo fondamentale anche per incentivare i privati a fare ricerca.

Negli anni 50 e 60 vediamo alcune


economie come USA e GB investire
molto in R&D; mantenere nel tempo
questa grande quantità di investimenti
(seppur a fase alterne – negli anni
recenti la GB ha ridotto molto la
spesa). In altre realtà guadagna spazio
nel tempo – l’Italia ha quintuplicato la
sua quantità di spesa in ricerca e
sviluppo sul PIL – rimane però indietro
rispetto ad altri paesi sviluppati.

Il livello di input non chiarisce i motivi per cui si investe o meno in ricerca e sviluppo (per l’Italia
abbiamo considerato la dimensione delle imprese che non favorisce l’investimento – vanno prese in
considerazione altre variabili istituzionali e culturali). Non spiega inoltre in cosa si è fatta innovazione
ed in cosa no – per questo ci rivolgiamo all’output.

Output – i brevetti
• Problemi di fonti – esse sono in parte disomogenee (dipendono dai vari sistemi legislativi per la
registrazione dei dati). Rimane il problema del lungo periodo – i dati non sono disponibili per
tutta la storia in maniera omogenea; la situazione migliora a partire da fine 800.

73
• In alcuni stati si registrano meno i brevetti, alle volte si va all’estero per registrare i propri
brevetti. È possibile che molte imprese facciano ricerca e sviluppo in un territorio e poi vadano
a brevettare altrove, dove è più vantaggioso o dove i brevetti sono meglio tutelati. (La maggior
parte delle quantità vede infatti una prevalenza di brevetti registrati negli USA).

In queste tabelle, infatti, si prendono


come riferimento i brevetti rilasciati
negli USA a residenti stranieri per paese.
Questo si fa perché i dati riguardanti gli
USA sono relativamente accessibili
(database degli USA patent and
trademark office) e perché permettono di
ottenere una comparazione
internazionale (si escludono i brevetti
statunitensi e quelli rilasciati a cittadini
canadesi – ci sarebbe una sovra-
rappresentazione).
L’Italia ha una posizione relativa che non
muta molto nel tempo: tra fine 800 e
inizio 900 ha una quota percentuale di
brevetti che va dall’1 al 4% (nel
momento di massima espansione,
durante il miracolo economico: anni 50 e
60). Si rimane in posizioni arretrate
rispetto a paesi che investono molto di
più: USA, Germania, Francia, Svizzera.
Si vede l’enorme avanzata del Giappone
che si apre di più al mercato straniero e
investe di più in ricerca. A fine 900 i
Giapponesi brevettavano un brevetto su
due di quelli concessi negli USA.
Se guardiamo la statistica normalizzata a
livello pro-capite (su un milione di abitanti – tab 6.3) vediamo un miglioramento della posizione
italiana. Oggi l’Italia brevetta di più sul mercato americano di riferimento. Questo aumento dei brevetti
pro-capite da un idea di come le economie abbiano investito sempre più rispetto alla loro popolazione. I
livelli di equilibrio dei paesi gli uni rispetto agli altri rimangono abbastanza bilanciati.
Questa figura fotografa il peso della
capacità innovativa italiana misurata
attraverso i brevetti registrati negli USA
rispetto al resto del mondo. Vi è una
distribuzione per fasi: in alcuni momenti
essa aumentato il proprio peso innovativo
– da fine 800, in età giolittiana, fino a fine
WW1. Vi è un declino nella fase
dell’autarchia—tra anni 20 e 30—e un
crollo pronunciato nel disastro della

74
seconda guerra mondiale. A partire dagli anni del boom – da fine anni 40 fino a fine anni 70 – la
capacità di innovare rispetto al resto del mondo è cresciuta, per poi declinare fino a fine secolo.
Si ha appunto un andamento per fasi della capacità innovativa italiana ed una performance complessiva
– rispetto agli altri paesi – sostanzialmente debole.

Nella storia italiana ci sono stati settori industriali più innovativi ed altri che lo sono stati meno – è
quindi importante andare a vedere la quantità di brevetti in maniera disaggregata per settore.

Disaggregazione settoriale dei brevetti 1963-1982


L’Italia mostra una specializzazione in alcuni comparti specifici: Chimica – Gomma – Meccanica
Questi sono stati i settori che hanno più trascinato la capacità italiana di fare innovazione –
l’innovatività degli anni ‘50 e ‘60 è stata dovuta alla capacità di specializzarsi in settori ad alta
innovatività. Successivamente il paese si è concentrato su settori più tradizionali (tessile, alimentari,
pelletteria, alcuni comparti meccanici); la de-specializzazione ha ridotto la capacità di fare brevetti. Se
ci si concentra di più su settori tradizionali e si disinveste da quelli nuovi come la chimica
(montecatini), il nucleare, l’informatica (olivetti) non si può che brevettare meno. Questo è il principale
responsabile di questo declino di innovatività/brevettualità relativamente all’Italia della seconda metà
del ‘900.

L’indice RTA (revealed


technological advantage)
mostra il vantaggio
tecnologico (prendendo
sempre come base la fonte
statistica USA) in una
condizione di stabilità.
Settori come chimica, meccanica e farmaceutica hanno brevettato di più nel mondo nella seconda metà
del 900. I settori più tradizionali hanno brevettato meno. Esistono quindi settori più innovativi, dove c’è
più vantaggio comparato nella capacità innovativa del paese – i paesi specializzati in settori meno
innovativo brevettano meno.

In Italia le specializzazioni rimangono


tendenzialmente stabili e riguardano settori
tradizionali. I dati vanno presi con cautela:
alcuni settori possono aver avuto una buona
innovatività senza una richiesta brevettuale
negli USA – alcune multinazionali italiane
possono aver brevettato nelle sedi italiane
(senza registrarlo all’estero) etc.

Le imprese più innovatrici nella storia


economica italiana furono la Olivetti (1963-
1992, privata, settore informatico); Euratom e

75
CNR (pubbliche – ricerca); Montedison e chimica (1973-1982); ENI, SIR, FIAT (energetico,
petrolifero, meccanico – dal 1983).

Input + Output – TAI (Technology Achievement Index)


Indice proposto dalle Nazioni Unite. Essendo complesso valutare i molti aspetti istituzionali rilevanti
per l’innovazioni e le ricadute delle innovazioni (i brevetti non ci dicono quali siano i risvolti delle
innovazioni brevettate), si tenta di fotografare in maniera più complessiva la realtà. Vengono incluse
oltre ai brevetti:
• Capacità di creare tecnologia
• Diffusione delle innovazioni recenti
• Diffusione delle innovazioni consolidate (brevettate da >X anni)
• Presenza di skills/capacità di innovazione elevate
L’eterogeneità degli indicatori inclusi permette di non basarsi solamente sui brevetti, di considerare
un’altra serie di aspetti per giungere a fotografare l’efficienza tecnologica di un paese.

Questa tabella mostra uno


scenario più articolato, che non ci
fa dipendere solamente dai
brevetti. La misurazione è più
adatta a realtà come quella
italiana dove il sistema di PMI e
distretti fa si che i brevetti non
siano un indicatore molto
significativo.
L’Italia a fine 900 è posta al
ventesimo posto tra i paesi
considerati, tutti i paesi
industrializzati la precedono. La
collocazione da l’idea di un paese
che ha difficoltà forti ad adattarsi
agli avanzamenti tecnologici in
atto.
L’Italia si trova in una situazione
abbastanza anomala: il PIL è
relativamente buono ma la
posizione innovativa è poco
soddisfacente. Come per il
capitale umano, la realtà
innovativa dell’Italia non è un
riflesso del suo PIL.

Questa discrasia tra TAI e PIL riflette probabilmente la struttura economica del paese – la capacità
innovativa è concentrata nei distretti industriali, specializzati in settori tradizionali; essi condividono

76
conoscenze contestuali ma sviluppano un’inferiore capacità di innovazione nei settori di punta della
tecnologia globale. Il sistema regge, produce PIL, ma non resta sulla cresta dell’innovatività.

L’anomalia dell’Italia è riflessa dalla


quantità ridotta di paesi presenti nel
quadrante IV della tabella. La capacità
innovativa limitata rispetto
all’innovatezza del PIL rende il paese
più simile economicamente a Hong
Kong che agli USA, Giappone o GB.
Il sistema italiano crea ricchezza ma
non con metodi innovativi – bisogna
riflettere sulle possibilità che il sistema
avrà in un sistema globalizzato dove
l’innovazione sarà sempre più la vera
discriminante della crescita e della
competitività.

Lezione 22
Il capitale sociale nell’economia italiana

Il tema del capitale sociale permette un tentativo per affrontare le anomalie dell’economia italiana
come
• “Modernizzazione passiva” – (scollamento tra PIL divergente tra tre italie con crescita bassa e
alfabetizzazione, istruzione e speranza di vita che vedono invece un’uniformazione territoriale
ed una crescita maggiore – quindi un miglioramento del capitale umano senza un corrispettivo
aumento del reddito; oppure appunto una maggiore uniformazione territoriale tra fattori di
capitale sociale con una divergenza economica territoriale).
• Scollamento tra TAI e PIL.

Il “calabrone Italia” (Giacomo Becattini) è una metafora: il calabrone non avrebbe le caratteristiche
fisiche per volare ma lo fa comunque (peso corporeo troppo elevato per le sue ali) – nonostante un
sistema di PMI, scarsamente innovativo e poco propenso a generare ricchezze in contesto molto
competitivo, l’Italia riesce a rimanere in volo nella crisi del 2008 e restare tra i paesi più
industrializzati.
Becattini spiega il paradosso—similmente a Vera Zamagni—partendo dalla diversità del sistema
italiano: alta specializzazione di nicchia e piccola-media dimensione sono fattori che la aiutano a
mantenerla in gioco in un contesto minacciato dalla competizione fondata su uniformazione globale,
rigidità della grande impresa (inabilità di cambiare nel breve periodo). Le PMI fanno più fatica a
competere sui grandi aggregati ma sono più flessibili, rispondono meglio ai mutamenti generali di un
mercato.

77
Il capitale sociale
Riguarda l’insieme di fattori che predispongono le persone a lavorare per fini condivisi sulla base di
relazioni fiduciarie. Per spiegare fenomeni economici è utile analizzare anche i fattori che non vedono
solamente i singoli individui lavorare per arricchire sé stessi, bensì quelli che riguardano il “bene
comune”, una finalità che può beneficiare tutti. Non si tratta di un tentativo di incentivare
comportamenti più sociali, bensì di un analisi dei fattori presenti che fanno funzionare meglio
un’economia quando si creano le relazioni di fiducia—e le istituzioni correlate—che beneficiano tutti;
creando un benessere economico più stabile e duraturo.
L’analisi implica anche l’identificazione delle caratteristiche che possono essere generalizzate e
consigliate come ricette per interventi di politica economica.

Il tema del capitale sociale o dell’economia civica fu al centro della tradizione di pensiero—soprattutto
italiana—tra medioevo ed età moderna (illuminismo lombardo e napoletano; Verri, Galliani, Beccaria).
I pensatori correlati mettono al centro della loro attenzione una visione civica dell’economia: essa è di
beneficio collettivo soltanto se si opera all’interno del più ampio contesto sociale in cui ci si trova.
Questa dimensione è stata molto ridimensionata nella tradizione di pensiero economico anglosassone—
soprattutto quella utilitarista—che ha molto insistito sul ruolo dell’interesse individuale nel motivare
l’agire economico (Smith, Bentham etc.). Si ritiene qui che l’individuo agisca anche per il bene
collettivo quando massimizza il proprio bene economico individuale – arricchendosi si arricchirebbe la
collettività (non c’è necessariamente un egoismo antropologico ma una convergenza tra risultati).
Nel 900 si vedono sociologi o politologi, come Putnam (Making democracy work, Civic Traditions in
Modern Italy - 1993), che pongono il capitale sociale come determinante, non unica ma significativa,
dell’attività e della crescita economica. Putnam prende in considerazione l’Italia perché si tratta di un
paese con una lunga tradizione civica, di autogoverno (locale, comunale – differenziazioni territoriali),
che fanno dell’Italia un laboratorio naturale per vedere come le differenti tradizioni civiche si
traducono in diversi modi di fare economia e accumulare capitale sociale.
Zamagni sottolinea nel cap. 6 come Putnam distingue il capitale sociale in 3 tipi via via più inclusivi.
• Bonding – breve raggio; di verifica quando la fiducia/l’agire sinergico sono limitati al piccolo
gruppo: alla famiglia (anche allargata)
• Bridging – “getta i ponti”; legali civici di tipo locale/comunale
• Linking – propensione alla collaborazione esce dal contesto locale e diviene nazionale o
sovranazionale
Se il capitale sociale rimane al livello di base, di bonding, familiare, il funzionamento della società e
dell’economia si inceppa; si tratta del modello familista dell’economia di clan, dei gruppi ristretti—es.
Mafia—il capitale sociale non è qui propriamente sociale, è modo di privilegiare sé stessi e gli
individui immediatamente collegati. Un eccesso di questo capitale sociale spesso si traduce in mancato
sviluppo. Lo sviluppo tende a migliorare con l'ampliamento della sfera di collaborazione.
Per Putnam l’affermarsi di un modello piuttosto che un altro dipende dalle tradizioni civiche —
quell’insieme di caratteristiche istituzionali che le diverse parti di un paese/diversi paesi hanno
sviluppato nella loro storia.

Come si misura il capitale sociale (come capitale civico)


Zamagni ricorda la proposta di Giuso, Sapienza e Zingales che nel 2011 propongono di definire il
capitale sociale come capitale civico – propongono di identificarlo come insieme di valori e credenze
che aiutano i soggetti a cooperare tra loro per realizzare attività di rilevanza sociale. Si distingue

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chiaramente tra capitale sociale e umano – quello sociale è insieme di valori, credenze, caratteristiche
culturali (mentre quello umano è costituito da indicatori come qualità della vita etc.); costumi che
aiutano i soggetti a cooperare per stabilire attività con rilevanza sociale positiva – che beneficiano tutti.
Si parla di presenza o assenza di capitale sociale, non di capitale sociale “negativo”.
Si riprende da Putnam l’idea per cui il capitale sociale venga tramandato culturalmente, che sia fondato
nelle tradizioni storiche e nelle istituzioni – costumi che contribuiscono a creare coesione sociale,
distribuzione del reddito più egalitaria; fattori che beneficiano tutti e che consentono di dare all’attività
economica una rilevanza sociale.
Il capitale sociale come capitale civico, quando presente in maniera ottimale, porta ai seguenti esiti:
• Coesione sociale
◦ far si che ci si percepisca come legati, che la progettualità sia collettiva più che individuale
• Distribuzione dei redditi più egualitaria
• Bassi livelli di disoccupazione
• Alti livelli di capitale umano
È quindi auspicabile un buon livello di capitale sociale, come si può comprendere però se sia presente o
meno?
L’unica maniera di quantificarlo è utilizzare sondaggi. Indagini di tipo qualitativo perlopiù riferite a
relazioni di fiducia. La propensione alla fiducia può essere negativa o positiva. Si valutano
caratteristiche come:
• Propensione al dono
◦ es. sangue, organi
• Esercizio del volontariato
• Partecipazione alle elezioni (vista come propensione all’azione collettiva)
• Esistenza di realtà politiche e di rappresentanze locali democratiche
• Numero di realtà associative di impegno civico (associazioni, club, scuole volontarie, teatri,
cinema – iniziative culturali)
Come indicatori negativi abbiamo le scarse propensioni ai fattori summenzionati oppure l’esistenza di
fenomeni riguardanti la violazione delle regole di vita collettiva, ad es.:
• Evasione fiscale e corruzione
• Mancato pagamento dei biglietti su mezzi pubblici
• Abbandono di rifiuti
La letteratura concorda sul fatto che la maggior presenza di fattori positivi di capitale sociale porta ad
una crescita economica più efficace.
La fonte più importante per il suo calcolo in Italia è l’ISTAT – dal 2013 produce annualmente un
Rapporto BES (Benessere equo e sostenibile): esso offre un quadro ampio dei principali fenomeni
economici, sociali e ambientali – https://www.istat.it/it/archivio/236714
Vengono inclusi domini di: salute, istruzione e formazione, lavoro, conciliazione dei tempi di vita (tra
lavoro e vita personale), benessere economico, relazioni sociali, istituzioni e politica, benessere e
sicurezza, benessere soggettivo (soddisfazione personale), paesaggio e patrimonio culturale, ambiente,
innovazione, qualità dei servizi. Il tutto anche in maniera disaggregata per i vari fattori (es. tra giovani e
non; tra regioni).
Zamagni rapporta i dati BES del 2015 nella tab 6.1 (il trend prima del COVID era di miglioramento, i
dati del 2019 sono più virtuosi che quelli qui rapportati). La tabella riporta gli indicatori più
strettamente collegati alla definizione di capitale civico. Questi sono più elevati al Nord rispetto al Sud.
Alcune regioni, in particolare quelle bilingui (Trentino, Val d’Aosta, Friuli) hanno una posizione
elevata. Nel centro Italia la regione del Lazio abbassa la media. Al Sud crescono gli indicatori di

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difficoltà, i valori sono più bassi soprattutto in Calabria ed in Campania (tasso di omicidi alto). L’indice
composito delle relazioni sociali è fatto 100 per l’Italia – si disaggrega poi per partecipazione civile e
politica, attività di volontariato, organizzazioni no-profit, lunghezza dei processi civili e tasso di
omicidi.

La tabella 6.2 mostra il dato diacronico: si hanno delle stime per l’inizio 900 (dati quindi meno
rigorosi, basati su ricostruzioni storiche). Per queste indagini si nota una convergenza nel tempo del
capitale sociale tra diverse regioni.

Lezione 23
Abbiamo visto che per quanto riguarda il capitale sociale ci sono una pluralità di fattori. Sono tutti i
fattori che predispongono le persone a collaborare verso fini collettivi invece che individuali –
essenzialmente realizzando relazioni di fiducia.
La fiducia è una risorsa economica in diversi settori: la stessa costruzione di legami creditizi la
necessita, il tasso di interesse varia sul merito di credito stimato per il creditore. La costruzione della

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fiducia può cambiare le condizioni economiche. Siamo indotti a comportarci nei riguardi degli altri
diversamente in base alla fiducia che riteniamo essi meritino. In condizioni di fiducia si può prestare
denaro gratuitamente o senza contratto, si può privilegiare alcune relazioni di lavoro – la fiducia è un
potente strumento di riduzione dei costi di transazione. È un bene che consente di rapportarsi al
mercato con maggiore sicurezza – anche nei riguardi di un sistema economico nel suo complesso: la
presenza di fiducia nel futuro induce ad investire di più. Spesso le crisi economiche sono crisi di
fiducia: un crollo della borsa crea sfiducia nel futuro e a far si che le persone siano indotte a spendere di
meno.

Gli indicatori regionali di capitale sociale attorno al 2015 (tab 6.1) permettono di costruire un
indicatore che rileva una grossa differenza regionale. Si privilegia il nord rispetto al sud e le regioni
bilingui rispetto a quelle monolingui. Il Nord-Est pare presentare i livelli più alti di capitale sociale,
anche lungo tutto il ‘900 (tab 6.2). Queste statistiche sono coerenti con quanto visto riguardo le PMI e i
distretti industriali: questi richiedono relazioni fiduciarie ed esternalità positive per crescere e
mantenersi (es. Emilia Romagna).
Il Sud non è rimasto immobile nel tempo, alcune regioni come Abruzzo, Molise e Sardegna hanno
riscontrato miglioramenti significativi. Altre, come la Calabria e la Campania, sono rimaste arretrate. Il
capitale sociale non è quindi statico.

Per quanto riguarda la correlazione tra regioni bilingui e capitale sociale ci sono alcune spiegazioni, la
più immediata richiama l’eterogeneità della società (linguistica, etnica) come fattore positivo nel lungo
periodo. Le realtà che si sono abituate nel tempo a rapportarsi con diversità culturali hanno sviluppato
maggiore capacità associativa, reti di relazione, comportamenti virtuosi di stampo civico –
comportamenti che stanno al cuore della definizione di capitale sociale. La diversità interna porta a
sviluppare migliori istituzioni di inclusione, confronto e valorizzazione della dinamica civile.
Beni comuni (Elinor Ostrom – Premio Nobel 2009)– in aree montane, di confine, di tradizione a
pascolo o boschiva vi è una tradizione legata alla presenza di beni condivisi da tutti i membri della
comunità. Le principali risorse economiche—boschi, foreste, pascoli, laghi, riserve di pesca, sistemi
irrigui (mantenuti dalla società nel suo complesso)—sono da tempo regolati collettivamente. Fu
necessario che i singoli si accordassero perché lo sfruttamento del bene comune potesse beneficiare
tutti. È possibile che questa lunga consuetudine con la negoziazione (tra fazioni, clan, famiglie, etnie
etc.) abbia portato regioni la cui economia in passato era molto basata su beni comuni a sviluppare
istituzioni migliori e forme di capitale sociale preziose.

Il “familismo amorale”
Il Sud Italia fu invece oggetto di una precoce unificazione in un unico regno gestito da potenze
straniere (che non avevano quindi incentivi a migliorare le condizioni economiche e sociali della
popolazione), da un governo autocratico (non quindi espressione diretta delle popolazioni). Questo
abbinato ad una prevalente tradizione agricola di stampo latifondista (il latifondo non porta alla
condivisione del rischio tra proprietari e affittuari) – essa non consente lo sviluppo di istituzioni locali e
di sviluppo urbano fiorite invece nel centro nord dopo la disgregazione del potere imperiale
centralizzato con la nascita di comuni, governi signorili e delle autonomie degli stati
territoriali/regionali.
Questa lunga eredità di distanza tra Stato e popolazioni locali nel Sud può aver creato una mancanza di
fiducia → accentuato la tendenza alla creazione di potentati locali, gruppi di stampo clanistico e

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familistico che si sostituivano allo Stato all’interno di tutti i territori in cui era meno presente. Da qui le
difficoltà al momento dell’unificazione di costruire una rete di istruzione, di organizzazione della
società civile, che ha avuto un ruolo anche nella estraneità culturale con cui le elite meridionali hanno
vissuto il momento dell’unificazione. Anche per un insieme di inadeguatezze dello Stato unitario:
mancata emancipazione dei contadini dalle forme più dure del latifondismo; mancata ridistribuzione
della terra ai contadini. Tutto ciò può aver contribuito nel tempo a determinare una sfaldatura di
accumulazione nel capitale sociale di alcune parti d’Italia. Ciò è stato compendiato nella categoria di
“familismo amorale”, coniata dai coniugi Banfield (The Moral Basis of a Backward Society, 1958) –
costoro effettuarono una ricerca etnografica sul campo, vivendo in un paese lucano per vari anni.
Definiscono il familismo amorale l’atteggiamento di
«Massimizzare unicamente i vantaggi materiali di breve termine della propria famiglia nucleare,
supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo».
Si tratta della tendenza a massimizzare i vantaggi del proprio circolo ristretto basandosi sul presupposto
che tutti gli altri facciano la stessa cosa. L’ideologia è che tutta la società si fondi su relazioni di potere
autointeressate – è in questo senso amorale, si basa su di una visione misantropica.
Il familismo amorale è proprio la negazione del capitale sociale – la non-volontà di vedere forme di
azione economica diversa rispetto alla tutela della propria cerchia ristretta.

Criminalità organizzata e debolezza della società civile organizzata


Si realizza un circolo vizioso, di povertà e stagnazione. Si ha da una parte una società civile
debolmente organizzata che favorisce la creazione di criminalità organizzate; e viceversa situazioni in
cui la criminalità organizzata presidiando il territorio sfavorisce gli investimenti e scoraggia la fioritura
della società civile: favorisce la disoccupazione e la povertà → ciò spinge le persone a sostenere la
criminalità come risorsa alternativa rispetto ad una società e ad uno Stato poco presenti.
Le ricerche come quelle dei Banfield mettono in luce che nelle società dotate di basso capitale sociale
si tendono a ritrovare:
• Storica debolezza dello Stato e delle élites
• La base “famigliare” – struttura di clan, mantenuta anche come struttura organizzativa di alcune
forme di criminalità organizzata (spesso hanno struttura locale, radicata in famiglie, clan, gruppi
pre-esistenti)
(La criminalità organizzata ha comunque oramai forme organizzative internazionali; molte sue versioni
superano i confini italiani).
Zamagni insiste sulla statistica dei tassi di omicidio, più elevati in Campania ed in Calabria (Sicilia ad
una certa distanza) – proprio nelle regioni dove la criminalità organizzata italiana è nata e cresciuta per
poi ramificarsi anche altrove.
La ricerca sui mercati illegali è divenuta
statisticamente rilevante negli ultimi anni – si
cominciano ad avere le prime stime
attendibili dei giri d’affari annuali dei mercati
illegali in vari paesi. Questa tabella riguarda
l’Italia e i settori dove la criminalità
organizzata è più innestata. Tra le pratiche
più economicamente irrompenti troviamo il
pizzo, la richiesta della tangente o le
pressioni per cui gli esercizi pubblici e le

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imprese si rivolgano prioritariamente a certi fornitori – tutte le forme di pressioni economiche ed
estorsioni finanziarie che turbano la vita fisiologica di un’impresa.
Il pizzo soffoca la piccola e media imprenditorialità – implica un controllo del territorio da parte di
gruppi criminali ed impedisce di condurre le proprie attività con trasparenza e tranquillità. Il problema
della contraffazione—la concorrenza illegale—presenta prodotti a costi e qualità inferiori,
danneggiando la concorrenza. La truffa è un crimine particolarmente invasivo poiché spesso coinvolge
professionisti e impiegati pubblici corrotti che aiutano le organizzazioni criminali riciclando denaro
sporco (che non potendo essere tesaurizzato in forme ordinarie dev’essere investito in attività come bar,
ristoranti, negozi, edilizia, hotel) – ciò crea un’area grigia di attività economica che conferisce un aura
di rispettabilità alle organizzazioni criminali e genera nuovo mercato nero, condizioni di lavoro
precario ed espande le attività criminali. Commercio di droga, traffico di esseri umani, usura. L’usura
vede persone che ridotte in condizioni economiche complicate che corrono al mercato nero del credito,
chiedono denaro in prestito e gli interessi molto elevati che si accumulano possono portare a
disperazione e suicidio.

Il ‘Terzo settore’: né mercato né Stato


Si tratta di un settore che non è né direttamente
correlato all’impresa privata, capitalista, mirante al
profitto – né un’impresa Statale o una funzione
pubblica. Si tratta del settore non-profit. Secondo
l’ultimo censimento a disposizione (2011) questo
occupava circa 1 milione di dipendenti remunerati
e 4,7 milioni di volontari a tempo pieno (+ un
numero indefinito di volontari occasionali). Vede in
Italia ben 300 mila istituzioni non-profit. Sono
attività che si distribuiscono in diversi settori,
spesso in attività culturali, sportive, del tempo
libero, di cura dell’ambiente (FAI, Legambiente
etc.). Il settore ambientale ha avuto il maggiore
sviluppo negli ultimi anni e vede la maggior parte
degli enti. Spesso anche attraverso istituzioni cooperative. Anche altri settori sono significativi:
assistenza sociale (tentativo di colmare le inadeguatezze della spesa pubblica); educazione e ricerca
(scuola e altre forme di educazione, università popolari, università per gli anziani); organizzazioni
religiose; salute (“ausiliarità/terzietà/sussidiarietà” – ruolo non sostitutivo ma sussidiario nei riguardi
della mano pubblica).

Le istituzioni non-profit (InP) non sono destinate alla realizzazione dei profitti ma questo non significa
che non ne facciano: la differenza sta nel fatto che questi vengono reinvestiti per scopo organizzativo.
Alcune chiudono i bilanci in pareggio (spendono quanto hanno guadagnato), altre che possono
realizzare profitti una volta saldate le spese/stipendi – reinvestendo gli utili per scopi organizzativi. La
legge del 1947 che ha favorito la nascita di realtà come cooperative sociali, associazioni di promozione
sociale, fondazioni etc. Dando sgravi fiscali notevoli perché assumessero lo stato di ONLUS
(organizzazioni non lucrative di utilità sociale) – che grazie a questo ordinamento hanno avuto una
crescita rapida; anche perché sono state capaci di intercettare i bisogni della società che molte
istituzioni private e pubbliche non riescono ad intercettare.

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Cooperative sociali
Non sono cooperative in generale: la loro forma organizzativa è quella di soci che aderiscono ad un
progetto comune per trarne servizi. Si tratta di una parte specifica del mondo della cooperazione. Le
società sono costituite per gestire in comune un impresa che fornisce servizi ai suoi stessi soci (scopo
mutualistico) ma dedicandosi a settori specifici (previsti dalla legge n381, 1891):
• Tipo A: Dedicate ai servizi alla persona
• Tipo B: Inserimento nel mondo del lavoro di categorie svantaggiate (anche migranti)
◦ Queste generalmente hanno più contatto diretto con il settore privato poiché utilizzano vari
canali per dare lavoro alle figure svantaggiate. Si creano quindi relazioni virtuose tra settore
privato e mondo della cooperazione. Si tratta di uno dei motivi per cui l’integrazione dei
migranti in Italia ha avuto uno sbocco lavorativo anche riconosciuto.
La CARITAS è un’organizzazione cattolica di grande importanza (fondata nel 1972) che si è articolata
nelle varie diocesi italiane e ha contribuito a creare saldatura tra attività religiose e opere di carità (di
inserimento sociale e di servizi alla persona).

La crisi del 2008 ha comportato diffusione e intensificazione delle attività di terzo settore – fino a
formare un vero e proprio contesto che oggi si inizia a definire di economia sociale.
“Economia Sociale”
Riguarda la somma tra mondo del terzo settore e mondo delle cooperative sociali.
Non tutte le InP sono cooperative sociali – sono ONLUS che possono assumere varie forme, possono
essere cooperative come possono non esserlo, l’importante è che rispettino la non-lucratività ed il re-
investimento degli utili.
Il complesso dell’economia sociale ha aiutato molto l’Italia ad essere colpita meno pesantemente dalla
crisi del 2008. L’economia sociale genera capitale sociale creando un circolo virtuoso che ne espande
gli effetti positivi sul resto dell’economia capitalistica.

Conclusioni
Il modello economico italiano può essere virtuoso anche in contesto di globalizzazione perché nelle sue
forme migliori è stato tale per cui la diversità territoriale si è fusa con una capacità sociale, comunitaria,
di fare impresa.
La Zamagni ricorda la figura di Adriano Olivetti, un’“imprenditore civile”, egli ha mostrato in tutti i
suoi scritti e nella sua attività (manifesto: L’ordine politico delle comunità, 1947). Egli si mostra come
animatore dello sviluppo e della crescita economica ma anche come responsabile nei riguardi delle
comunità di riferimento, dove sorgono le sue aziende. Si tratta di una visione antitetica a quella odierna
di molte grosse imprese che producono in un determinato luogo solo per via di alcune possibilità
economiche (basso costo del lavoro, sistemi politici favorevoli etc.). La sua visione viene considerata
umanistica, civile, l’imprenditore dev’essere responsabile nei confronti della comunità: da cui trae
risorse di lavoro e a cui deve restituire risorse di società civile (es. Ivrea – città/comunità). Nelle realtà
in cui olivetti ha aperto i suoi impianti c’è la tendenza a costruire edifici di alta qualità, per le residenze
dei lavoratori e per i luoghi di lavoro, creare teatri, biblioteche, sviluppare la formazione della
popolazione: farsi carico della missione sociale e della responsabilità sociale dell’impresa e
dell’imprenditore. Il tema può costituire anche un paradigma competitivo in un contesto di
globalizzazione.

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C’è quindi la possibilità di poter trovare una collocazione del sistema economico italiano in un contesto
globale. La globalizzazione disarticola i sistemi produttivi locali, tende ad uniformare il diritto del
lavoro, le forme di impiego, le forme di lavoro e produzione, gli oggetti di consumo – ma allo stesso
tempo l’identità storica italiana fa da “arma segreta”, si rifletta nella MI di vocazione internazionale che
mantiene però una sua fisionomia locale ed una capacità di colloquiare con il territorio.

La categoria oggi utilizzata di “economia civile di mercato” designa un modello economico in


opposizione al capitalismo indifferenziato e uniformante a livello globale. Prende le mosse dall’identità
dei territori: un’economia che investe nell’infrastruttura delle comunità, che crede nelle tradizioni
locali, che coltiva l’associazionismo e le relazioni familiari – allo scopo di produrre coesione ed
inclusione sociale; non di rinchiudere le società locali nel loro orizzonte limitato. Si tratta di una sfida
identitaria per poter affrontare la globalizzazione portando un contributo di differenza, quindi
competitivo. L’economia italiana di stampo illuminista rappresentava già un rifiuto di separazione tra
mercato dell’interesse privato e relazioni sociali come luogo di solidarietà (tipica del modello
utilitarista). Questo superamento ha dato luogo ad un insieme di teorie economiche che oggi si
riflettono nel lavoro di Stefano Zamagni o Luigino Bruni che stanno costruendo una teoria micro-
economica alternativa rispetto a quella mainstream/neo-classica: si tratta di una sfida teorica, non solo
pratica/materiale.

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