Rossano De Laurentiis*
Abstract. The conference, in the tradition of Lectura Dantis begun by Boccaccio, reviews
the Divine Comedy from the point of view of citations of Sardigna (Inf. 22.89) or l’isola
d’i Sardi (Inf. 26.104) on Odysseus’ route, besides of such characters as Michele Zanche
(Inf. 22.81 ff.). The period during which Dante was in contact with Pisa must have also been
that during which he learned, albeit de relato, of the island, which was within the sphere
of influence of the Tuscan city in the 12th and 13th century. The depiction of an impervious,
malaria-ridden island as a fabulous land lingers in other mentions in the “sacred poem”:
it becomes a land which is far-off par excellence or, in Boccaccio’s words, “dee egli essere
più là che Abruzzi” (Decameron 8.3). This communication would link “sardità” under-
stood as culture and language with the other work in which Dante references its quality, De
vulgari eloquentia, with some incursions into the tradition of secular commentary on the
history of literary language (grammatica) and dialects (parlate) through to the 1800s and
1900s, centuries now somewhat more “far-off” for us, inhabitants of the new millennium.
Theologica & Historica. Annali della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, xxiv (2015), pp. 185-226.
Rossano De Laurentiis
ogni lingua «è sì vasta regione che sempre
concede novità di terre agli occhi di quanti
si fanno a visitarla». (Francesco Cherubini)1
1
Citazione tratta da M. Cortelazzo - C. Marcato, Dizionario etimologico dei dialetti ita-
liani, Utet, Torino 20052, VII dell’Introduzione; il Cherubini fu autore di un cospicuo
vocabolario ottocentesco milanese-italiano. Della Sardegna sentita come «piccolo con-
tinente remoto» scrisse l’antropogeografo francese Maurice Le Lannou.
2
Ivo Iori è professore di Tecnica delle costruzioni del corso di Architettura dell’Universi-
tà di Parma. Il brano è tratto dalla premessa L’iconologia è quel ramo, a C. Segre, Pittura,
linguaggio e tempo, Monte Università, Parma 2006, 9-11.
3
Inf. XXXIII 143-146: là dove bolle la tenace pece, / non era ancora giunto Michel Zanche, / che
questi [Doria] lasciò il diavolo in sua vece / nel corpo suo. G. Dossena, Storia confidenziale del-
la letteratura italiana: dalle origini a Dante, Rizzoli, Milano 1987, 260: «La trovata del tradi-
tore che va subito all’inferno mentre il corpo resta in terra come un automa manovrato
da un diavolo sarà giudicata eretica appena il testo dell’Inferno comincerà a circolare; poi
i teologi lasceranno perdere, giudicando che sia una fantasia poetica. Di preciso risulta
che i cattolici a questa cosa non ci credono».
4
A narrare la vicenda è il frate gaudente Alberigo de’ Manfredi, compagno di pena del
Doria. Si ha qui un esempio della sapienza costruttiva di Dante, che riprende indiretta-
mente un personaggio già comparso come barattiere, legato al genero Branca Doria, qua-
si un entrelacement di peccati e pene. Nell’Enciclopedia Dantesca, Ist. Enc. Italiana, Roma
1970-1976 (d’ora in avanti ED) i due profili (II, “Doria, Branca” e V, “Zanche, Michele”)
sono affidati a G. Petrocchi. Si veda anche G. Falco, “Simona Doria, moglie di Michele
Dante e la Sardegna: nel 750o anniversario della nascita
programma di letture è data dai canti di una cantica. Nel mio caso invece,
oltre alla contiguità storico-geografica tra Liguria e Sardegna, come fil rouge
con cui legare queste due esperienze, posso vantare la vicinanza che Dante
citava nel De vulgari eloquentia (d’ora in avanti Dve) I x 8: “Ora in entrambe
queste due metà” della penisola “le lingue variano”, e le elenca in senso
antiorario, fino alla “lingua […] dei genovesi [che si diversifica] da quella
dei sardi”5. La Corsica, invece, linguisticamente viene saltata, e citata per
metonimia in Purg. XVIII 81: [la luna] tra ’ Sardi e ’ Corsi il vede quando cade: i
popoli per le isole che abitano. Altra nota geografica: in Inf. XXVI Ulisse ri-
ferisce in prima persona la rotta seguita: L’un lito e l’altro vidi in fin la Spagna,
/ fin nel Morrocco, e l’isola dei Sardi, [in rima con tardi e riguardi]6 / e l’altre che
quel mare intorno bagna (vv. 103-105)7.
Gli anniversari
Zanche”, in Studi medievali, 18 (1952), 138-143. Brancaleone Doria nacque nel 1233 circa.
In un decreto del comune di Sassari del 17 marzo 1325 si trova la condanna di un Branca
Doria de Nurra (la «desolante montagna» nella malarica Sardegna di nord-ovest, nella cui
tenuta uccise il suocero): sembra essere l’ultima notizia documentata sul personaggio;
alcuni studiosi restano perplessi che sia lo stesso ancora capace di tramare all’età di no-
vanta anni (!); cfr. E. Costa, Sassari, Tip. Azuni, Sassari 1885, I, 133. G. Nuti, ad vocem, in
Dizionario Biografico degli Italiani, ritiene che si tratti di «confusione onomastica della fa-
miglia»; i Doria isolani del solo ramo di Torres erano almeno otto tra cui il famosissimo
Branca, marito di Caterina Zanche di Sassari, da cui ebbe sei figli (F.C. Casùla).
5
Il Poeta si occupa delle cose riguardanti la Sardegna nei canti Inf. XXII, XXVI, XXIX,
XXXIII; e Purg. VIII e XXIII. Come è noto nessuna città o regione è stata risparmiata
in particolare dai suoi strali; pertanto già essere nominati dal Poeta, anche in cattiva
luce, può considerarsi un onore. Le citazioni dantesche sono state ricontrollate sul sito
danteonline.it, basato sul testo Petrocchi della Commedia (Le Lettere, Firenze 1994), il
testo Rajna per il Dve (Società Dantesca Italiana, Firenze 19602) e Brambilla Ageno per
il Convivio (Le Lettere, Firenze 1995); i passi in traduzione italiana di Dve sono presi dallo
stesso sito, salvo diversa indicazione.
6
In rima, per il sing. “sardo” segnalo un sonetto responsivo di Guelfo di Collo Taviani (vv. 1-8):
Cecco Angelier, tu mi pari un musardo / sì tostamente corri, e non vi peni / diliberar, ma incontenente
sfreni / come poledro o punto caval sardo. / Or pensa sia dal ferrante al baiardo / ché con Dante di
motti tegni meni, / che di filosofia ha tante veni? / Tu mi pari più matto che gagliardo / […].
7
Dal commento di Iacopo della Lana abbiamo una testimonianza di alcuni toponimi in
uso allora: Tripoli di Barbarìa, Cicilia (Inf. XII 108; Purg. III 116), Sibilia e Setta (Septa, lat.
> Ceuta) (Inf. XXVI 110-111).
Rossano De Laurentiis
Storia politica
8
Il Cappugi 46, a p. 69; nella pagina http://manoscritti.bncf.firenze.sbn.
it/?segnature=cappugi-46 (controllato in data 15 sett. 2015); nel sito della BNCF si trova
una presentazione filmata dell’evento e la versione digitale del manoscritto. Si veda il
catalogo: Le bandiere di Dante: l’inaugurazione del monumento a Dante in Firenze capitale:
atti del convegno, Firenze, 15 ottobre 2013, a cura di L. Cirri, S. Casprini e A. Savorelli, Il
Campano, Pisa 2014.
9
Il 14 maggio 2015, per il 750° anniversario della nascita di Dante, è stata ricordata quell’a-
dunanza. Nel frattempo, dopo l’alluvione del 1966, il Dante corrucciato è stato spostato
dal centro della piazza all’angolo del sagrato della chiesa.
10
Questo è un passo che probabilmente ha fatto sì che il Dante poeta diventasse un’icona
della «religione civile e nazionale». Cfr. C. Dionisotti, Varia fortuna di Dante, in Id.,
Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi, Torino 1967, 255-303, a p. 268: «Per la
prima volta allora, nelle piazze ove era stato eretto l’albero della libertà, il popolo fu
chiamato a suon di trombe a celebrare gli antichi poeti […] di lì senza dubbio ha origine
la tradizione celebrativa che ancora oggi dura. Si spiega che il criterio topografico pre-
valesse allora su quello cronologico, che cioè la celebrazione avvenisse nel luogo dove
un grande poeta era nato o morto [o vissuto, anche indirettamente], indipendentemen-
te dalla ricorrenza della data di nascita o di morte. […] Come gli alberi della libertà e
il calendario repubblicano, così quelle pubbliche celebrazioni miravano a rinnovare un
sistema di vita che era, anche nelle città, strettamente regolato dalla religione tradi-
zionale. I santi patroni erano topograficamente, non cronologicamente, caratterizzati:
così i nuovi santi della religione civile e nazionale, i poeti».
11
Si veda la voce “Sardegna” in ED, V (1976), redatta da P.V. Mengaldo e F. Alziator;
quest’ultimo già autore di una Storia della letteratura di Sardegna, Ed. della Zattera,
Dante e la Sardegna: nel 750o anniversario della nascita
il controllo dell’isola, in un primo tempo prevalse Pisa, che con una politica
anche di matrimoni si innestò nel sistema giudicale che preesisteva alla loro
venuta 12; essendo tale istituzione una propaggine della magistratura bizan-
tina, e particolarmente di quella di Giustiniano 13. Un antico commentatore
della Commedia, il bolognese Iacopo della Lana, amico del Poeta, il cui com-
mento fu composto tra 1324 e ’2814, riporta la notizia erronea, ma creduta
vera, che i genovesi e i pisani, dopo la cacciata dei saraceni, si divisero l’isola
in modo che: «lo mobil tutto al Genovese colse / e la terra ai Pisani»15.
Il territorio era diviso in 4 province o giudicati: Gallura, Logudoro (oggi
Porto Torres 16), Cagliari e Arborea. Ricordiamo le potenti famiglie dei Vi-
sconti di Pisa e dei Malaspina di Lunigiana, con interessi rispettivamente
nei giudicati di Gallura 17 e Logudoro. L’isola rimase sotto l’influenza di Pisa
Cagliari 1954.
12
Carducci: «voi che re siete in Sardegna ed in Pisa cittadini», per evidenziare la dop-
pia attività di molte famiglie signorili pisane. Una eco simile si trova in E. Vittorini,
Sardegna come un’infanzia, Mondadori, Milano 1974 (ed. orig. 1952), 84, quando descrive
un doganiere del porto di Oristano: «Senz’altro; è il re del luogo. E riesco a capire per-
ché la Sardegna è stata per lungo tempo la terra dove un qualunque patrizio pisano o
genovese poteva venire a farsi un regno e chiamarsi re. Ugolino della Gherardesca era
re ad Iglesias. Un Doria era re a Castelsardo. Un altro Doria a Oristano. Un Malaspina a
Bosa. Questo doganiere è re su questa spiaggia. Chi vorrebbe metterlo in dubbio?».
13
Invece il commento del Lana afferma erroneamente che i quattro giudicati fossero una
invenzione pisana. Da qui la trasmissione di tale errore che diventa un elemento guida
nel secolare commento: tutti lo ripetono, finché non si giunge al ristabilimento della
verità storica. Secondo P. Ledda, Dante e la Sardegna: con 24 illustrazioni fuori testo, [ed.
anast. dell’originale: La “Rivista Sarda” editrice, Roma 1921] Gia editrice, Cagliari 1994,
20, 23 e nota 4, la falsa notizia è da ricondurre a una «finzione sorta quando Pisa cercava
ogni argomento per convalidare le sue pretese di dominio; quando, con colorazioni astu-
tamente false, cercava di far credere vero quello che la storia doveva di poi smentire».
14
Per i commenti antichi si rimanda in generale a S. Bellomo, Dizionario dei commentatori
danteschi: l’esegesi della ‘Commedia’ da Iacopo Alighieri a Nidobeato, Olschki, Firenze 2004.
15
Come la riporta Fazio degli Uberti, di illustre famiglia ghibellina, morto nel 1367, nel
suo Dittamondo, esemplato come imitazione del poema dantesco; cfr. III xii, vv. 79-80.
16
Il giudicato di Logudoro fu amministrato da re Enzo (titolo riconosciuto in virtù del
ruolo di giudice dal 1238 al 1245), figlio dell’imperatore Federico II; sposò la signora del
luogo Adelasia di Torres; e vi lasciò come luogotenente lo Zanche. Le notizie dei com-
menti antichi sono tuttavia contrastanti. Tommaso Casini sostiene che Zanche abbia
sposato la vedova Adelasia, la quale sappiamo essersi ritirata nel castello del Goceano
durante gli ultimi anni di vita.
17
Beatrice d’Este aveva sposato Nino Visconti di Pisa, ultimo giudice in Gallura, di cui ri-
mane vedova nel 1296, e in seguito fa ritorno a Ferrara; per poi sposare nel 1300 Galeazzo
Visconti, signore di Milano: entrambi esiliati nel 1302 per un rovescio politico; nel 1328 è
una seconda volta vedova, muore nel 1334 a Milano. In Purg. VIII 81 Dante cita quasi in
paronomasia: com’ avria fatto il gallo di Gallura, per il paragone tra l’arma (lo stemma)
dei Visconti di Gallura rispetto all’altro ramo della famiglia che aveva per arma la vipera
Rossano De Laurentiis
fino alla battaglia della Meloria (1284), quando la città toscana fu sconfitta
dai genovesi, e dovette cedere progressivamente i suoi diritti sulla Corsica
e sulla maggior parte della Sardegna. Con la presa di Castrum de Kallari da
parte degli aragonesi nel dicembre 1325, il dominio pisano ha termine.
Dante odeporico
che Melanesi accampa (v. 80). Qui ci soccorrono i bestiari medievali: «sulla tomba di una
donna, non l’emblema della forza e della frode; troppo meglio starebbe l’emblema della
solerzia mattutina e della operosa virtú» (Eugenio Donadoni).
18
In due parti su Nuova Antologia, luglio 1895, ser. III, t. 58, 79 sgg.; vedi anche T. Casini,
Scritti danteschi, Lapi, Città di Castello 1913. Invece A. Bassermann, Orme di Dante in
Italia, opera tradotta sulla 2. ed. tedesca da E. Gorra, Zanichelli, Bologna 1902, esclude-
va recisamente la presenza di Dante nell’isola.
19
Casini, Scritti danteschi, cit., 119: «L’ipotesi sarebbe tutt’altro che campata in aria, e avreb-
be assai maggiore aspetto di verità che non abbiano tanti altri viaggi danteschi imagi-
nati a sodisfacimento di vanità municipali o genealogiche». Il lavoro di J.-J. Ampère fu
tradotto nel 1855, Viaggio dantesco, da Le Monnier.
20
Inf. XXXI 136-138: Qual pare a riguardar la Carisenda / sotto ’l chinato, quando un nuvol vada
Dante e la Sardegna: nel 750o anniversario della nascita
chitettonici: Montereggion di torri si corona (v. 41) per descrivere i giganti che
fanno corona al pozzo di Cocito; e come la pina di San Pietro a Roma (v. 59) La
faccia sua [di Nembrot] mi parea lunga e grossa (v. 58)21.
Per un luogo dove Dante non ebbe modo di viaggiare, sarà scusabile
qualche cedimento a visioni oleografiche, per sentito dire, della Sardigna (3
occorrenze nella Commedia; una in rima, Inf. XXII 89: digrigna : tigna 22). Le
fonti sull’origine, l’ambiente, i costumi venivano dall’antichità classica (ge-
ografi e storici greci 23): a volte possono avere carattere anche leggendario e
fantasioso, ma non prive di spunti utili ad inquadrare alcuni dati linguistici,
archeologici e storici, come il clima o le usanze.
Inf. XXIX 48: e di Maremma e di Sardigna i mali. Dante usa qui un’immagine
iperbolica di accumulo (o di similitudine ipotetica): i malati degli ospedali di
/ sovr’ essa sì, ched ella incontro penda. Questo canto infatti si presta ad accostamenti con
la morfologia di Sardegna: che me parve veder molte alte torri; / ond’io: “Maestro, dì, che
terra è questa?” / […] / sappi che non son torri, ma giganti, / e son nel pozzo intorno da la ripa
/ […] / torreggiavan di mezza la persona / li orribili giganti (vv. 20-21, 31-32, 43-44).
21
A.M. Chiavacci Leonardi: «una gran pigna di bronzo proveniente dal Mausoleo di
Adriano (o dal Pantheon), che ai tempi di Dante era sulla fonte nell’atrio di San Pietro
(postavi da papa Simmaco nel sec. VI); […] Oggi, restaurata, misura m 4.23 ed è situata
nel giardino dei Musei Vaticani, nel nicchione del Bramante al centro del Cortile della
Pigna, che da essa prende il nome».
22
Secondo E.G. Parodi, grande dantista genovese attivo a Firenze tra Otto e Novecento,
in “La rima e i vocaboli in rima nella Divina Commedia”, in Bullettino della Società dantesca
italiana 3 (1896), 81-156, un saggio-recensione poi ristampato in Id., Lingua e letteratura:
studi di teoria linguistica e di storia dell’italiano antico, a cura di G. Folena, con un saggio
introduttivo di A. Schiaffini, Neri Pozza, Venezia 1957, 2 voll., II, 214-15: «Nella […] ima-
ginazione [di Dante] maravigliosamente plastica e […] rudemente originale, egli vuole
la rima vigorosa ed audace, che s’adatti ai muscoli del suo pensiero, come una maglia,
e che lo atteggi così, da renderlo quasi sensibile alla vista ed al tatto; e se la rima non si
pieghi di buona voglia, egli cerca altrove il suo vocabolo o ne foggia uno nuovo, accisma,
flailli, ringavagna, attuia, dislaga, dismala, t’immii od altri consimili». La ‘maglia’ di rime
diventa così la «zona di contenimento e di resistenza contro le pressioni senza limiti
provenienti da un mondo esterno di peculiarità linguistiche e di pensieri idiosincratici,
ma anche come un “filtro” che consente l’ingresso eccezionale nella Commedia di forme
selezionate appartenenti a quelle stesse aree linguistiche e concettuali che erano state
così validamente contenute», cfr. D. Della Terza, “Istanze tradizionali e prospettive di
aggiornamento nella critica dantesca”, in Lettere italiane, 27 (1975) 3, 245-262, a p. 255.
23
Diodoro Siculo, IV, 29 sgg. Ricordiamo l’accostamento nelle carte geografiche antiche
di animali tipici alle zone corrispondenti: hic sunt leones per l’Africa. Forse i “muflo-
ni” potrebbero essere la fauna tipica della Sardegna più profonda; la cui uccisione, con
residuo di carcasse, era indicata da T. Porcacchi, Le isole più famose del mondo (1774)
come causa della malaria; a questa supposizione rispose il gesuita F. Gemelli, docente a
Sassari, Rifiorimento della Sardegna (1779), precisando che i mufloni erano una cacciagio-
ne apprezzata dalla popolazione.
Rossano De Laurentiis
all’Età del Bronzo, atti del convegno internazionale «Gorosti U5b3» (Cagliari-Alghero, 12-
16 giugno 2012), Le Monnier università, Milano 2013: «la lingua neolatina della Sardegna,
in particolare la varietà logudorese parlata nella sua parte interna meno accessibile, è
caratterizzata ancora oggi da aspetti arcaici e conservativi non più riscontrabili nel resto
del dominio romanzo. La stessa area presenta un considerevole numero di toponimi
che resistono ad ogni interpretazione in quanto relitti di sostrati preistorici, anteriori
alla colonizzazione romana del III secolo a.C.».
29
Gregorio Magno, Opere, IX, Indici, a cura di C. Secciani, Città Nuova editrice, Roma
2013, 115; in alcune lettere descrive il popolo dei Barbaricini come adorante pietre e legni.
Dice bene D. Scano (infra): «Si vuole che Dante, al quale erano familiari i classici latini,
sia stato, nel dir della nostra isola, influenzato dai cenni denigratori contenuti nelle
opere dei maggiori scrittori romani» (Cicerone, Marziale, Orazio).
30
Si veda il Commento di Pietro Alighieri, prima redazione del 1340-1342: «dissoluta ter-
ra, ut est Florentia, ubi Dominae ita inhoneste se gerunt, quasi plus dissolutae sint ut
feminae illius loci Sardiniae, qui dicitur Barbasia, ubi vadunt nudae mulieres»; e terza
redazione del 1359-1364: «abominando dissolutas mulieres alias florentinas et invere-
cundas magis quam sint femine Barbagie, ut dicit textus hic, contrate cuiusdam insule
Sardinee, que seminude vadunt» (Dartmouth Dante Project).
31
Dionigi Scano (1867-1949) fu ingegnere civile, suo il Palazzo Accardo al Largo di Carlo
Felice, esempio di liberty a Cagliari; ma anche architetto restauratore-ricostruttore di
monumenti romanici nell’isola; un “grande dilettante”, di quelli che le culture provin-
ciali spesso producono. Scrisse Ricordi di vicende e di personaggi danteschi di Sardegna, con
rigore documentario e aristocratico divertissement tra 1945 e ’49; pubblicato nel 1962 (si
trova ristampato in Scano, Ricordi di Sardegna nella ‘Divina Commedia’, con scritti di A.
Boscolo, M. Brigaglia, G. Pistarino, M. Tangheroni; Banco di Sardegna come sponsor;
Silvana editoriale, Milano 1982); riprese e aggiornò le ricerche di F. Vivanet, La Sardegna
nella ‘Divina Commedia’ e nei suoi commentatori, Tip. Azuni, Sassari 1879 (anche in opusc.),
uscito su Stella di Sardegna; questi fu Soprintendente ai monumenti della Sardegna, stes-
so ruolo di Scano che gli successe.
Rossano De Laurentiis
sere 32. Rettifica Scano: «L’impudicizia delle donne di Barbagia è una delle
tante panzane divulgate in terraferma [...] raccolte leggermente dal poeta».
Chi parla è Forese Donati 33 (e per lui l’amico Dante), e lancia l’invettiva
contro la dissolutezza – l’andar mostrando con le poppe il petto (v. 102) – delle
donne fiorentine per le quali non valeva nemmeno un paragone leggen-
dario, come a dire: “non te lo immagini nemmeno”.
Ancora il Ledda nel 1921 si impegnava in una difesa d’ufficio contro una fa-
cile e innocua credenza, confutabile anche solo col buon senso della natura
montuosa e fredda della Barbagia. Nel suo opuscolo si trova la didascalia di
una foto di donna otto-novecentesca con il “Costume di Sennori” – che da
sola basta a sfatare la leggenda –, si legge: «costumi femminili sardi dei tempi
di Dante, in uso anche oggi»34. Le “Note dei commentatori” riportate da
Ledda formano una tradizione di secondo grado, relativa alla ‘glossa’, all’in-
terno della quale si trovano notizie anche infondate, con evidenti problemi
di trasmissione; egli così passa in rassegna tali punti salienti nella “Critica
alle note dei commentatori” prospettando una piccola tradizione ‘riflessa’35.
I personaggi
32
Già Iacopo della Lana mostra perplessità sul luogo comune: «quando avvenne mai né in
Barbaria né in Saracina che le donne fossero sì sfacciate ch’elle convenissero essere corret-
te da li spirituali predicatori?»: sarà in pergamo interdetto (v. 100) ossia “proibito dal pulpito”.
33
ED, II (1970), voce “Donati Forese” di A. Jenni: «Dante fa di Forese nel poema uno dei
suoi personaggi più importanti, sotto il riguardo simbolico (cioè come momento essen-
ziale nell’itinerario ascetico del poema), e per l’importanza storico-documentaria che
rivestono le sue profezie».
34
Cfr. E. Besta, “La Sardegna al tempo di Dante”, in Studi per Dante, Hoepli, Milano
1935 (Conferenze dantesche tenute a cura del Comitato milanese della Societa Dantesca
Italiana, 3), 201-221 (anche in estratto).
35
Cristoforo Landino (1481) riporta le stesse notizie di altri commenti precedenti, contor-
nandole di una farraggine di notizie inutili: «A dichiarazione di questo detto noteremo
che l’isola di Sardigna è da Timeo detta Sadaleoti, perché ha forma di calzare, da noi
detta pianella». La forma della Sardegna «a modo di una pianta di piede umano» è in
Claudiano, De laudibus Stiliconis.
36
Ugolino (nome di battesimo) o Nino Visconti era figlio di Giovanni Visconti da Pisa e
di una figlia del conte Ugolino (con cui però fu in discordia); fu l’ultimo giudice (scil.:
governatore) di Gallura. Come capitano della Taglia (alleanza) guelfa fece molti viaggi a
Firenze e vi conobbe Dante con il quale strinse cordiale amicizia; morì nel 1296 in Sardegna
Dante e la Sardegna: nel 750o anniversario della nascita
tore più diretto di Dante per le vicende sarde, e forse anche il compagno di
espiazione nell’Antipurgatorio, Corrado Malaspina 37 (vv. 115 ss.). Ma anche
Marzucco Scornigiani da Pisa (Purg. VI 18), giurista, vissuto tra 1290 e 1300
nel convento di S. Croce a Firenze, dove Dante studiò, potrebbe avergli ri-
ferito qualche notizia 38. Il conte di Donoratico, Ugolino della Gherardesca,
impegnato nello sfruttamento delle risorse minerarie, favorì pure la diffu-
sione tra i sardi del volgare toscano; in sostituzione, nell’uso aulico, del
latino e del volgare sardo di tradizione giudicale: infatti se ne ha una delle
prime testimonianze nell’iscrizione della cattedrale di Iglesias (allora chia-
mata Villa di Chiesa)39, dove egli è ricordato come signore, re e domino 40.
Un documento più vicino agli anni di Dante è il Viaticum Sardiniae, del
febbraio 1253, compilato dalla ‘banda di San Francesco’ del mercante Orlan-
dino da Firenze, che riferisce di visite a Bosa e altre località 41. Resta il dubbio
se Dante ne sia venuto a conoscenza, anche indiretta.
dove era riparato per fuggire alle condanne della parte ghibellina di Pisa dopo la pace di
Fucecchio. Si veda il profilo “Visconti Nino” di E. Bonora in ED, V (1976); nell’Antipurga-
torio Dante ha con il Visconti «un affettuoso colloquio, unica ma sicura testimonianza di
rapporti di amicizia che in vita lo legarono a lui», e si ricorda la bella isocolia del v. 52, Ver’
me si fece, e io ver’ lui mi fei: a esprimere la reciprocità della grande stima.
37
Un altro quadro dell’isola Dante dovette avere nel 1306 dai Malaspina, dei quali fu ospi-
te in Lunigiana e per i quali aveva risolto una controversia con il vescovo di Luni. I
Malaspina, signori di Osilo, dovevano illustrargli nei particolari la situazione e l’ambien-
te del Logudoro. Cfr. Dante e la Lunigiana: nel sesto centenario della venuta del poeta in
Valdimagra, 1306-1906, Hoepli, Milano 1909; e I Malaspina e la Sardegna: documenti e testi dei
secoli XII-XIV, a cura di A. Soddu, Centro di studi filologici sardi / CUEC, Cagliari 2005.
38
Voce “Scornigiani, Marzucco”, in ED, V (1976), a cura di R. Piattoli. Come i suoi ante-
nati, svolse un’intensa attività in Sardegna, non si sa se chiamatovi dalla corte arborense
o inviatovi da Pisa. Dante poté conoscerlo, oltreché di fama, di persona, allorché si
recava al convento di Santa Croce a far visita al giovanissimo frate Bernardo di Lapo
Riccomanni, suo nipote ex sorore, e dovette essere particolarmente colpito da quest’uo-
mo politico divenuto frate, sì da definirlo: lo buon Marzucco forte (Purg. VI 18).
39
Per la scrittura giuridica si ricorda il Breve di Villa di Chiesa, una robusta pergamena scrit-
ta in un volgare della Toscana, definito dall’archivista Francesco Bonaini: un volgare di
Pisa più schietto di quello presente negli statuti pisani da lui raccolti e pubblicati. Si veda
in proposito il passo del Dve I ix 7 sui Papienses: «discordiamo molto più dai nostri an-
tichissimi concittadini che dai nostri contemporanei anche più lontani. Per cui osiamo
affermare che se ora rinascessero i pavesi dei tempi più antichi, parlerebbero una lingua
distinta e diversa da quella dei pavesi di oggi».
40
Il Codex Diplomaticus Ecclesiensis di questa città fu pubblicato nel vol. XVII degli Historiae
Patriae Monumenta (1877), a cura di C. Baudi di Vesme, piemontese con affari minerari
nell’isola e sostenitore – come vedremo – della veridicità delle Carte d’Arborea; morto
nel marzo di quell’anno.
41
A. Ferretto, Codice diplomatico delle relazioni fra la Liguria e la Toscana e la Lunigiana ai
tempi di Dante, Tip. artigianelli di San Giuseppe, Roma 1901-1903, 2 voll., I, Dal 1265 al
Rossano De Laurentiis
Non c’è dubbio che il XXII dell’Inf. è un canto a tinte sarde, sia per i
personaggi che per, suppongo, alcuni attrezzi di scena. Mi riferisco alla cen-
namella (v. 10)42 evocata insieme – oltre a scene di battaglia (gualdane 43, v. 5)
e manovre militari (muover campo v. 1) – al semanticamente affine suffolerò
(v. 104), da Dante che fu feditore 44 a Campaldino, e forse assediatore a Ca-
prona 45. Ma siamo pur sempre in un canto (e una cantica) ai quali l’epica
eroica è negata: «non è possibile al Poeta levarsi più su dell’eroicomico,
o, in generale, del burlesco, che ha il suo più cospicuo esempio appunto
in quei canti de’ barattieri»46. Si consideri infatti la parodia del militaresco
segnale di marcia con cui si chiude il canto Inf. XXI, e si apre il canto succes-
sivo (con cui fa dittico) con il nobile attacco ai vv. 1-12, che sono l’esaustivo
commento di un elenco di azioni militari o pertinenti alla marineria e dei
rispettivi strumenti per dare il segnale di avvio 47.
1274, 216. E più di recente O. Schena - S. Tognetti, La Sardegna medievale nel contesto
italiano e mediterraneo (secc. XI-XV), Monduzzi, Noceto (PR) 2011, 114, dove è riportato
un atto notarile del 1253 in cui si fa riferimento a una «tarida [imbarcazione militare da
trasporto, in uso nel Medioevo] di Orlandino Fiorentino».
42
Strumento musicale antico e popolare simile alla “piva” o al clarino, dal lat. calamellus,
per via del francese chalemel o chanemele; ai vv. 9-10 si legge: e con cose nostrali e con
istrane; / né già con sì diversa cennamella. E qui il commentatore richiama il v. 139 con
cui si chiude il canto precedente per la funzione aerofona dello strumento; d’altronde
già in Matteo da Vendôme, Ars versificatoria I 53, v. 72 troviamo una tuba ventris. L’esito
ottocentesco e moderno del nome dello strumento è “ciaramella” (Italia centro-meri-
dionale), da cui anche il verbo ciaramellare, che ho trovato usato dottamente da Adolfo
Borgognoni in una lettera a Girolamo Vitelli: «la libertà ch’io mi son presa di ciaramel-
lar così a lungo con lei» (Ravenna, 9 aprile 1871); cfr. il carteggio D’Ancona-Vitelli (con
un’appendice sulle false Carte d’Arborea), a cura di R. Pintaudi, Scuola Normale Superiore,
Pisa 1991 (Carteggio D’Ancona, 11), 24.
43
Annota G. Poletto, Dizionario dantesco di quanto si contiene nelle opere di Dante Allighieri
…, Tip. editrice S. Bernardino, Siena 1885, III, ad vocem: «Spiegano per drappello, che
scorre il paese nemico»; anche nel senso di “banda” appena ricordato.
44
Nelle milizie comunali, cavaliere della prima schiera, armato alla leggera.
45
Stando all’episodio probabilmente autobiografico descritto in Inf. XXI 94-96: così vid’ ïo
già temer li fanti / ch’uscivan patteggiati di Caprona, / veggendo sé tra nemici cotanti.
46
E.G. Parodi, Il comico nella ‘Divina Commedia’, in Id., Poesia e storia nella ‘Divina Commedia’,
Neri Pozza, Vicenza 1965, 71-134, a p. 96.
47
Cfr. L. Spitzer, “Gli elementi farseschi nei canti XXI-XXIII dell’Inferno”, in Id., Studi
italiani, a cura di C. Scarpati, Vita e Pensiero, Milano 1976, 185-190; e D. De Robertis, “In
viaggio coi demòni”, Studi Danteschi, 53 (1981), 1-29.
Dante e la Sardegna: nel 750o anniversario della nascita
48
Il nome non viene fatto da Dante, ma lo sappiamo in base alla testimonianza dei com-
menti antichi, a partire dal Lana, poi diventata identificazione canonica; cfr. ED, I
(1970), voce di E. Chiarini. A più riprese M. Picone, “Baratteria e stile comico in Dante
(Inferno XXI-XXII)”, in Studi americani su Dante, a cura di G.C.Alessio e R. Hollander,
FrancoAngeli, Milano 1989, 63-86; “Giulleria e poesia nella Commedia: una lettura in-
tertestuale di Inferno XXI-XXII”, in Letture Classensi, a cura del Comune di Ravenna,
18 (1989), 11-30; ha fatto notare che i termini servo (v. 49) e ribaldo (v. 50) appartenevano
anche al lessico dei giullari, per cui si può supporre che Ciampòlo (dal fr. Jean-Paul)
abbia una “personalità giullaresca”: in tal caso potrebbe trattarsi del noto giullare fran-
cese Rutebeuf, il quale, per di più, nacque in Champagne (al tempo parte del Regno di
Navarra che si estendeva su entrambi i lati dei Pirenei) e scrisse in onore di Tebaldo II;
cfr. Picone, “La carriera del libertino: Dante vs Rutebeuf (una lettura di Inferno XXII)”,
in L’Alighieri: rassegna bibliografica dantesca, 44, n.s. 21 (2003), 77-94.
49
L’immagine molto viva per rendere «la ricchezza nascosta dei sensi morali» (Sapegno)
si arricchisce della similitudine di Inf. XXI 7, Quale ne l’arzanà de’ Viniziani. Inoltre “neri”
sono i diavoli di Malebolge come i “guelfi” di Lucca che affollano la fossa. Nel linguag-
gio odierno “neri” possono essere il lavoro, la paga e i fondi non dichiarati, sommersi:
tutte attività contra legem.
50
Nella topografia infernale siamo nell’ottavo cerchio dei fraudolenti, che comprende
dieci bolge (Malebolge), espressione toscana per borsa, tasca, sacca, o fossa. In Inf. XIX
14-18, Dante paragona le buche – per misura e forma – alla bocca dei pozzetti battesima-
li di San Giovanni in Firenze, dove egli ebbe il battesimo e sperò fino alla fine di essere
incoronato poeta (Par. XXV 8-9).
51
Quando meno te lo aspetti Dante lascia cadere con sommo understatement un commen-
to che è un esempio sublime di ‘paremio-poiesi’ (intendo di “creazione di un proverbio”
a caldo): Ahi fiera compagnia! ma ne la chiesa / coi santi, e in taverna coi ghiottoni (vv. 14-15).
52
Sui nomi dei diavoli, a parte il principio medievale nomina sunt consequentia rerum, «non
conviene insistere su tali probabili sensi dell’etimologia se non attenendosi al senso allu-
sivo o all’impressione fonica dei nomi, che godono di quella stessa libertà inventiva che
guidò la mano dei pittori di chiese nelle raffigurazioni dell’Inferno, quando tradussero
nell’orrido e nel mostruoso il senso del male e del peccato. […] Le Malebolge si affian-
cano alle scene infernali dell’arte bizantineggiante (Torcello, S. Angelo in Formis), alle
raffigurazioni di Giotto (Padova, Cappella degli Scrovegni), alle coreografie delle sacre
rappresentazioni […] non reca a meraviglia che, qualche anno dopo il 1350, in S. Maria
Novella a Firenze, nella cappella Strozzi, Nardo di Cione nell’affresco del Giudizio si at-
tenesse all’indicazione del racconto dantesco» (Fallani-Zennaro). Non è da escludere
l’ipotesi del Torraca che Dante coniasse questi vocaboli anche sulla traccia dei cogno-
mi o soprannomi, più o meno deformati, di personaggi suoi contemporanei; per es. la
serie Rubaconte, Rabicante (i.e. il rabbioso), Rubicante (i.e. il rosso); della stessa ipotesi
è il parafraste F. Fioretti, La selva oscura: il grande romanzo dell’Inferno, Rizzoli, Milano
Rossano De Laurentiis
2015, 207: «Rubicante, come a dire “Cante il rosso”. Tipo quel Cante dei Gabrielli di
Gubbio che, podestà a Firenze per conto dei Neri, avrebbe pronunciato qualche anno
dopo la sentenza della sua [di Dante] condanna a morte»; comprensibile perciò l’agget-
tivo pazzo (Inf. XXI 123) speso per la controfigura dell’accusatore.
53
Si veda U. Eco, Lector in fabula: la cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Bompiani,
Milano 1979.
54
Il riferimento puntuale a vicende della vita di Dante è utile, sebbene non esclusivo. Il
cantor rectitudinis dal particolare di cronaca vuole assurgere a fustigatore del peccato,
tipico della corruzione del mondo comunale e della detestata civiltà del denaro.
55
In modo simile Parodi, Il comico, cit., p. 96, suppone che «Dante, burlandosi dei diavoli e
dei barattieri, abbia voluto alludere ironicamente alla propria condanna per baratteria.
I diavoli sarebbero i suoi accusatori e persecutori [guelfi neri], dei quali egli descrive la
perfidia e amaramente li beffa; e, quanto ai barattieri, egli, che secondo la condanna,
sarebbe stato un loro confratello, li tratta come meritano, da uomo superiore, senza
sfoghi violenti, ma versando su di loro quando lo scherno e quando un’allegria ironica,
e mettendoli a tu per tu coi diavoli, in una gara di tranelli e d’inganni, come per dire:
gli uni valgono gli altri, e sono uguali pel mio disprezzo». Si veda anche E. Sanguineti,
Interpretazione di Malebolge, Olschki, Firenze 1961; e il più recente S. Bellomo, “Sul canto
XXII dell’Inferno”, in Filologia e Critica, 22 (1997), 20-36.
56
Dante non usa l’agg. “Italiano”; due volte ricorre nella Commedia a italico. La prima
forma, in senso linguistico ed etnico, si affermò definitivamente solo nel XVI sec.: nella
latinità medievale, nei testi francesi antichi e negli stessi testi italiani gli fecero a lungo
concorrenza da un lato lombardo, dall’altro le due parole dotte latineggianti, italo e itali-
co, e da una terza sponda lo stesso aggettivo latino.
Dante e la Sardegna: nel 750o anniversario della nascita
57
Cfr. A. Solmi, “Frate Gomita”, in Archivio storico sardo, 5 (1909), 344-355. In ED, III (1971),
la voce “Gomita” è affidata a P. Camporesi (1926-1997), tra l’altro antropologo: «Certo è
che si respira aria di ‘clan’ sardo, di consorteria regionale». Ledda, Dante e la Sardegna,
cit., 39: «Alcuni documenti senesi, conservati nel R. Archivio di Stato a Siena, compro-
vano la diffusione dei sardi in Toscana», un nome che torna infatti è Comita / Gomita.
La qualifica di frate conferma la presenza nell’isola di diversi ordini religiosi provenienti
dal continente e da oltralpe.
58
Il Torraca, come il resto della tradizione esegetica, correttamente attribuisce la perifra-
si al Gomita: «fraudolente in sommo grado». Altri hanno frainteso: «Dante dà misura
del grave stato di corruzione vigente in Gallura in quel tempo, definendola ”vasel d’ogni
froda”, cioè rifugio di ogni imbroglio», cfr. R. Mura, “I due sardi di Dante”, in Làcanas:
rivista bilingue delle identità, 17 (2005), online a lacanas.it. Casini-S. A. Barbi: «vaso, ri-
cettacolo d’ogni astuzia e inganno: locuzione calcata sull’espressione biblica citata in
Inf. II 28». Vas d’elezione: cosí è detto Paolo negli Atti degli apostoli IX 15. L’immagine
biblica dell’uomo creato dall’argilla diventa metafora del Dio come vasaio (già in Isaia
29, 16), «sì che figulus, molto comune nella Patristica, è adoperato nel senso di Deus cre-
ator; il mito greco d’altra parte offriva espressioni analoghe [Prometeo]» (E.R. Curtius,
Letteratura europea e Medio Evo latino, a cura di R. Antonelli, La Nuova Italia, Scandicci
1992 (ed. orig. 1948), 609, nota 1). Nel mito del Timeo (unica opera che il Medioevo co-
noscesse di Platone) Dio appare come un demiurgo, reso in latino con Deus artifex; un
topos molto efficace sia in letteratura che in mitologia. Con l’“arte fittile”, di plasmare
(= fingere, lat.) la materia, arriviamo alla fictio cioè l’«Invenzione della mente, ciò che si
crea con l’immaginazione», proprio come le “finzioni poetiche” di Dante. È probabile
inoltre l’eco di Matteo di Vendôme, Ars versificatoria, I 53, 21: vas sceleris.
59
Era una formula propria dei legali, dal lat. de plano. Cfr. M.T. Atzori, Glossario di sardo
antico, S.T.E.M. Mucchi, Modena 1975, 7: «Queste raccolte di pratiche giuridiche, di
donazioni, di permute, di fondazioni di monasteri e di chiese tramandano un lessico co-
pioso, ma limitato al mondo, che è loro proprio, né integralmente puro, perché “sono
frequenti latinismi ed italianismi”».
Rossano De Laurentiis
Usa con esso donno 60 Michel Zanche 61 (v. 88)
di Logodoro; e a dir di Sardigna
le lingue lor non si sentono stanche.
60
Dominus > ‘donno’; chiosato dall’Ottimo: «alla sardesca parla»; e in seguito da Francesco
di Bartolo da Buti (1481 ca.): «Parla l’autore a modo sardesco». Con il maschile singolare
sardo donnu il linguaggio giuridico del tempo indicava i giudici di Sardegna. Anche lessi-
calmente Dante restituisce il colore locale, parlando del giudicato di Gallura, di cui frate
Gomita era vicario per conto di Ugolino (detto Nino) de’ Visconti da Pisa (suo donno). Il
predicato onorifico ricorre una terza volta nell’episodio dell’altro Ugolino, conte della
Gherardesca: nel raccontare il suo terribile sogno premonitore, Dante gli pone in bocca
‘donno’, come una marca del periodo passato nell’isola: Questi [arcivescovo Ruggieri]
pareva a me maestro e donno (Inf. XXXIII 28). La puntualità dei riferimenti politici e lessicali
indica, in Dante, una conoscenza non approssimativa della Sardegna; e comunque un
riuso notevole delle notizie riferitegli. L’adopera anche il Boccaccio, Decameron, per il
prete «donno Gianni di Barolo» in una novella ambientata a Barletta (IX, x). Sugli aspetti
lessicali si veda M.L. Wagner, La vita rustica della Sardegna riflessa nella lingua, a cura di G.
Paulis, Ilisso, Nuoro 1996; ed. orig. tedesca del 1921; e G. Nencioni, “Il contributo dell’e-
silio alla lingua di Dante”, in Dante e le città dell’esilio, atti del convegno internazionale di
studi, Ravenna, 11-13 settembre 1987, a cura di G. Di Pino, Longo, Ravenna 1989, 177-198.
61
Le zanche, al plurale, ritorna in ultima di verso a Inf. XXXIV 79: volse la testa ov’ elli
[Lucifero] avea le zanche, rimante con anche (v. 77, parte del corpo; v. 81, avverbio). E in
Inf. XXI troviamo la terza rima: vv. 35, 37, 39 – anche (fianco) : Malebranche : anche (avv.).
Chissà che Dante non abbia scelto questo nome sardo per il suono aspro confacente allo
stile comico-realistico della parola “zanca”; che si trova anche in Inf. XIX 45 – di quel che sì
piangeva con la zanca. Termine dell’antico dialetto toscano per ‘gamba’; vivo anche oggi
in Toscana nella forma cianca. Cfr. P. Larson, Glossario diplomatico toscano avanti il 1200,
presso l’Accademia della Crusca, Firenze 1995, 708. Forse dal greco-bizantino tzanga, spe-
cie di calzatura propria degli imperatori, termine che si trova usato, anche nella forma
zanca, nel latino medievale (cfr. ad vocem in C. Battisti - G. Alessio, Dizionario etimolo-
gico italiano, G. Barbera, Firenze 1950-1957 e C. Du Cange, Glossarium mediae et infimae
Latinitatis, L. Favre, Niort 1883-1887). Riporto anche l’occorrenza del dialetto abruzzese,
mio dialetto materno, della parola cianghetta, prov.: “mettere la cianghetta [sgambetto]”;
da cianghe (= gambe) o cianca (= gamba), prov.: “ha buona anca e cattiva cianca” (G.
Finamore, Vocabolario dell’uso abruzzese, Scipione Lapi, Città di Castello 18932).
62
Nella reticenza della scena si sono avute diverse ipotesi di lettura: qualche chiosatore
locale ha visto nella tenacia dell’azione l’abitudine dei sardi di parlare della loro terra
quando si ritrovano lontani. A ciò farebbe pensare il commento di Guido da Pisa (1327
ca.): «Hanc proprietatem habent comuniter omnes Sardi»; integrato da S. Bellomo (a
cura di), D. Alighieri, Inferno, Einaudi, Torino 2013, 355, ad locum: «dunque potrebbe
essere un blasone popolare». «Altri credono che in Ciampolo navarrese vi sia il compia-
cimento per tutti gli scandali occorsi altrove rispetto ai suoi traffici, quasi un’attenuan-
te: “c’è chi ha fatto di peggio”. Invece Camporesi lo ritiene «(un profilo da intenditore,
quasi da ‘amatore’) bolle e fermenta d’ironia ammirativa». A questo punto – appiglian-
domi al beneficio del dubbio: un gallurese può comprendere un logudorese? – azzardo
Dante e la Sardegna: nel 750o anniversario della nascita
Per Dante gli isolani, anche i siciliani dunque, costituiscono etnie parti-
colari sotto il riguardo geolinguistico 64; come spiega in Dve I x 7: “le isole
del Mar Tirreno, cioè la Sicilia e la Sardegna, appartengono senza dubbio
all’Italia di destra, o piuttosto vanno associate ad essa” – aggiungo: per assi-
duità di rapporti e di commerci con la penisola 65. Nell’episodio di Inf. XXII,
alla domanda di Virgilio: conosci tu alcun che sia latino (v. 65), il gallurese
frate Gomita viene considerato, per bocca di Ciampolo il Navarrese: di là
vicino (v. 67), quindi «non sono italiani, ma da associarsi agli italiani»66, vale a
dire che Dante coglie geograficamente quell’affinità dei «Sardos etiam, qui
non Latii sunt, sed Latiis adsociandi videntur» (Dve I xi 7).
Sotto i regni romano-barbarici dei Vandali si era avuto un popolamento
con flussi dall’Iberia (baschi) e dall’Africa settentrionale (berberi)67. Man-
cando dei documenti scritti, aiutano la toponomastica e i relitti lessicali,
con fenomeni linguistici di “sostrato”, attraverso i quali si è cercato di ri-
costruire una lingua primitiva, prima della romanizzazione (protosardo,
sardo nuragico)68. Invece i fenomeni di “superstrato” principali sono stati
64
Cfr. Nocentini, Presentazione a Iberia e Sardegna, cit., p. 3: «Situata al centro del
Mediterraneo occidentale, la Sardegna si configura, dal punto di vista linguistico e non
solo, come un caso tipico rispondente alla norma dell’area isolata, in conformità alla
quale le varie ondate colonizzatrici che si sono succedute dalla preistoria all’epoca mo-
derna vi hanno mantenuto la loro facies originaria»; per alcuni aspetti rimasta fuori
dall’indoeuropeizzazione, e con un sostrato iberico comune alla Sicilia; entrambe furo-
no colonizzate dai Fenici e subirono la potenza di Cartagine (dal VI sec.).
65
Solo un es.: Benedetto Croce nelle note ad un testo napoletano del ’500, il Pentamerone,
spiega come nella Campania e a Napoli in special modo la pasta venisse chiamata “pasta
di Cagliari”.
66
Cito dalla voce “Sardi” – che è traduzione di Dve I xi 7 – dell’“Indice analitico dei nomi
e delle cose”, a cura di M. Casella, in Le opere di Dante: testo critico 1921 della Società
Dantesca Italiana; con un saggio introduttivo di E. Ghidetti, Le Lettere, Firenze 20113,
916.
67
La tradizione degli storici greci e latini (Sallustio et alii) riferisce di un leggendario
Sardus, figlio di Heracles, condottiero di invasori dalla Libia (nord-Africa), divenuto nel
tempo figura mitica e semidivina, il Sardus Pater, e da lui prenderebbe nome l’isola.
Altre ondate migratorie seguirono: una dall’Attica che portò aspetti della civiltà greca
(vedi i toponimi Ollolai, Oliena, Dolianova); un’altra dall’Iberia sotto la guida di Noras
[Norace], anche lui di stirpe semidivina; si ha notizia di un’ultima invasione condotta da
Aristeo, con insediamento votato alla coltivazione della terra, alla pastorizia, apicoltura
e olivicoltura (notizie tratte da Pantaleo Ledda).
68
Il termine sardo littu = bosco, diffuso nei dialetti centro-orientali, è un relitto preroma-
no, ossia un lascito di quel mondo stratificato e complesso che fu la Sardegna prelatina,
prima di tutto – come si è visto – in termini etnici, e ovviamente in termini linguistici.
Dante e la Sardegna: nel 750o anniversario della nascita
Il digramma qu- di origine iberica svolge la stessa funzione del ch- italiano, davanti alle
vocali e, i.
69
Il concetto di ‘brutto’ in logudorese è feu < feo (sp.), ma in campidanese è reso con
leggu < lleig (cat.). Invece comune è l’origine di sa bbotta (stivale) < bota (sp. e cat.); cfr.
Dizionario etimologico sardo, a cura di M.L. Wagner, 3 voll., Winter, Heidelberg 1960-
1964; nuova ed. a cura di G. Paulis, 2 voll., Ilisso, Nuoro 2008. Si segnala l’atlante tema-
tico Étude de géographie phonétique et de phonétique instrumentale du sarde di M. Còntini,
Edizioni dell’Orso, Alessandria 1987, 2 voll. «L’intera storia d’Italia – scritta, natural-
mente, solo dagli uomini di penna – può essere rivista in filigrana nell’ottica di chi l’ha
vissuta e sopportata: che cosa siano state per le popolazioni sottomesse, ad esempio,
le dominazioni straniere può rivelarlo l’esame di molte parole imprestate, che quelle
hanno condotte con sé» (M. Cortelazzo).
70
Cfr. Commedia della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo: testo sardo campidanese
del sec. XVII di frate A.M. di Esterzili; edito, secondo l’autografo conservato nella
Biblioteca Universitaria di Cagliari, da R.G. Urciolo; con un esordio di M.L. Wagner,
Fondazione Il Nuraghe, Cagliari 1959.
71
Benvenuto Rambaldi da Imola (inizi XIV sec.-1387 ca.) scrive un commento in latino
(1375-1383), e ripete dopo circa mezzo secolo le stesse cose – almeno per le notizie sarde
– dei commenti in volgare; fu ripreso dal Muratori nelle Antiquitates Italicae medii aevi,
ex typographia Societatis Palatinae in Regia Curia, Milano 1738-1742.
72
M. Davey nel suo Icnusa; or, Pleasant reminiscences of a two years’ residence in the island
of Sardinia, Binns & Goodwin, Londra 1860, 192 (ora in trad.: Ead., Icnusa: due piacevoli
anni nell’isola di Sardegna, Magnum, Sassari 2002); citato da M. Cabiddu, La Sardegna vi-
sta dagli inglesi: i viaggiatori dell’800, ESA, [Quartu Sant’Elena] 1982, 147. Si veda un’altra
impressione nel 1910 dell’avvocato londinese Crawford Flitch che ammira con meravi-
glia nelle stradine del centro storico di Cagliari gli abitanti che gli appaiono «impassibili
alle loro stesse emozioni», gente che esprime nude verita in un nudo linguaggio. Devo
la segnalazione a R. Caria, “Codici di giustizia e uguaglianza: tratti caratteristici delle
relazioni sociali”, saggio compreso in I simboli e l’identità dei sardi = Symbols and Identity
of Sardinians, scritto con S. Paulis, in italiano e inglese, PFTS University Press, Cagliari
2014, 184; il volume è arricchito dalle foto di S. Oppo.
Rossano De Laurentiis
La storia linguistica
73
Una raccolta di Editti, pregoni, ed altri provvedimenti…, 3 voll., nella Reale Stamperia,
Cagliari 1775, fornisce tutte le leggi emanate nell’ultimo mezzo secolo in testo italiano,
comprese quelle che erano state emanate in spagnolo; cfr. P. Del Giudice, Storia del
diritto italiano, II, Fonti: legislazione e scienza giuridica dal secolo decimosesto ai giorni nostri,
Hoepli, Milano 1923, 18.
74
M.L. Wagner, La lingua sarda, Francke, Berna 1951, 187. Nel 1764 da Torino fu disposta
una riforma delle università di Cagliari e Sassari; e si stabilì che l’insegnamento scolasti-
co dovesse essere solamente in italiano.
75
Il “sardo” deve essere considerato autonomo dai sistemi dialettali di area italica, gallica
e ispanica e pertanto classificato come idioma a sé stante nel panorama neolatino; una
“lingua” a prescindere dai sistemi di definizione standard internazionali (ISO 639-1 e
sgg.). D’altronde la distinzione tra “lingua” e “dialetto” può essere disonesta a proposi-
to del siciliano o del sardo, poiché non è facile né pacifica, e anzi «possono avere radici
politiche» (G. Dossena). In Sardegna fino a tempi recenti, l’attività letteraria è stata plu-
rilingue, per cui si è parlato più appropriatamente di letteratura degli italiani, piuttosto
che di letteratura italiana.
76
Ma cfr. Parodi, Lingua e letteratura, cit., II, 222-223, note 26, 28. Sardigna (Inf. XXII 89), in
rima aspra con digrigna (v. 91): nel canto Inf. XXI si trovano digrignan li denti (v. 131) con
digrignar (v. 134); mentre l’altra rima con grattarmi la tigna (Inf. XXII 93) è espressione po-
polaresca e gergale fiorentina. La i invece di Sardegna si deve all’azione del nesso palata-
le che segue, del tipo famiglia – consiglio – benigno – gramigna ecc., similmente a Corniglia
per Cornelia, perché così e non altrimenti si diceva allora, secondo le leggi fonetiche del
dialetto fiorentino, il quale muta in i un antico e chiuso [anafonesi]; mentre il senese e
l’aretino dicevano e in parte dicono tuttora fameglia ecc. Mentre L. Serianni, Lezioni di
grammatica storica italiana, Bulzoni, Roma 2009, p. 52, ritiene che la forma dipenda dalla
circostanza che i breve e i lunga danno in sardo entrambi i. Sardigna, anche fuor di rima,
torna in Inf. XXIX 48, Purg. XXIII 94 e in Petrarca. Si trova Sardignia in un documento
pisano: “Ricordi di cose familiari di Meliadus Baldiccione de’ Casalberti” (1339-1382), in
Archivio storico italiano, s. I, 8 (1850), Append. La stessa oscillazione nel Fiore, son. 88, tra
l’ed. Contini (1984) bisogna : ripogna : vergogna e quella Allegretti (2011) bisognia : ripognia
: vergognia.
Dante e la Sardegna: nel 750o anniversario della nascita
L’uso metaforico di simia è frequente nei secoli XII e XIII; un topos come
nella situazione «mathematicus ab antiquis dictus est simia naturalium phi-
losophorum», registrata da Curtius 80, che allega due esempi da Dante: il
passo suddetto del Dve e il verso Inf. XXIX 139: com’ io fui di natura buona
scimia, parole messe in bocca al falsario Capocchio. Il rilievo negativo per
Dante scatta forse dal fatto che l’eccessiva e quasi mimetica somiglianza
col latino (= scimmiottare)81 rende il sardo una lingua semi-artificiale, il cui
aspetto eteronomo e poco duttile, viene reso nelle formule sclerotizzate, da
sillabario, presenti nell’esemplificazione di Dve 82.
77
Dve I x 7: «nec insule Tirreni maris, videlicet Sicilia et Sardinia, non nisi dextre Ytalie
sunt, vel ad dextram Ytaliam sociande». La cartografia dell’epoca di Dante risente della
concezione teologica dell’oriente come origine della vita, e sede del Paradiso terrestre,
e pertanto posto in alto. Ne consegue che la penisola veniva spesso rappresentata in
orizzontale, con il Tirreno a destra (in basso), e l’Adriatico a sinistra (in alto) dell’Ap-
pennino; cfr. Nota su la geografia di Dante nel ‘De vulgari eloquentia’, a cura di F. Bruni,
nell’ed. Fenzi del Dve per la Salerno editrice (2012), 243-261.
78
Il toponimo Domusnovas è frequente in Sardegna.
79
Dve I xi 7: “E anche rigettiamo i Sardi, che non sono italici ma agli italici sembrano do-
versi accompagnare, perocché questi soli ci appaiono privi di un lor proprio vulgare, e
imitatori di grammatica [lingua latina] come le scimie degli uomini: essi dicono infatti:
Domus nova e Dominus meus” (trad. di G.L. Passerini). Il giudizio sprezzante – ma a metà
Ottocento non ancora circolante – è probabilmente da intendersi anche sotto la specie
del suono, al quale Dante attribuiva molta importanza nella ricerca del volgare illustre.
E ce ne danno una parziale conferma i versi di Fazio degli Uberti, Dittamondo III xii,
55-57: Io vidi, che mi parve maraviglia / una gente che niuno non la intende / né essi sanno quel
ch’altri pispiglia (ed. a cura di G. Corsi, Bari, Laterza, 1952, I, 218); postillati dallo Scano:
«più aderente al vero [...] versi confermanti la lenta evoluzione della lingua sarda che,
mantenendo antiche forme e strutture proprie del latino, si rese inintelliggibile a quanti
erano adusati al dolce idioma italiano».
80
Cfr. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, cit., cap. XIX: “La scimmia come
metafora”, 601-603; l’es. riportato è di Giovanni di Salisbury.
81
Sappiamo con la linguistica moderna che la lingua non si crea o sviluppa a tavolino, ma
è un fenomeno in continua evoluzione di cui i dizionari registrano forme e novità, ter-
mini usciti dall’uso, ecc. Scimmiottare il processo di formazione di una lingua neolatina
fu l’operazione dei falsari delle Carte di Arborea (vedi infra).
82
P. Rajna, Il trattato De vulgari eloquentia, Successori Le Monnier, Firenze 1896, 64, ha
Rossano De Laurentiis
86
M. Loporcaro, Profilo linguistico dei dialetti italiani, Laterza, Roma-Bari 2013, 62
87
Vi sono 4 aree dialettali: logudorese (centro-nord), nuorese (centro-est), campidanese
(centro-sud), arborense (centro-ovest); e diverse aree sub-dialettali (gallurese, sassarese,
catalano di Alghero, ligure di Carloforte). Baudi di Vesme, Considerazioni politiche ed
economiche sulla Sardegna, dalla Stamperia Reale, Torino 1848, 49-51, si occupò anche di
parlate locali: «e vidi io stesso il Pater stampato in venti dialetti sardi diversi». Ancora ci
è d’aiuto il Dante del Dve I ix 4, quando parla del diverso modo di parlare tra quartieri
della stessa città di Bologna: «quod mirabilius est, sub eadem civilitate morantes, ut
Bononienses Burgi sancti Felicis et Bononienses Strate Maioris».
88
Cfr. R. Rindler Schjerve, “Sardinian: Italian”, in Bilingualism and linguistic conflict in
Romance, vol. V di “Trends in Romance Linguistics and Philology”, edited by R. Posner,
J.N. Green, Mouton de Gruyter, Berlin-New York 1993, 271-294: «Sardinian is a minority
language of the Romance group spoken on the Island of Sardinia. Sardinian is the larg-
est minority language spoken in the Italian administrative territory».
89
M. Durante, Dal latino all’italiano moderno: saggio di storia linguistica e culturale,
Zanichelli, Bologna 1981, 88: «L’isolamento della latinità sarda si preannuncia nel pe-
riodo tardo imperiale, con la conservazione della velare seguìta da vocale palatale e del
congiuntivo imperfetto. Nel periodo vandalico e bizantino la latinità sarda, isola di un
mondo di contatti sommerso, si evolve in un tipo romanzo autonomo che è il più affine
al latino, e poi si fraziona internamente nel basso medioevo».
90
M.A. Jones, Sardinia, in The Romance languages, Martin & Vincent eds., Routledge,
London 1988, 314. Il sardo ha ricevuto il riconoscimento ufficiale dallo Stato italiano di
lingua protetta delle minoranze (legge n. 482/1999) e prima dalla Regione autonoma
della Sardegna (n. 26/1997).
91
«I dialetti sono normali risultati dello svolgimento linguistico, che nelle rispettive re-
gioni hanno o non hanno ancora raggiunto stabilità di uso letterario. Perciò la Divina
Commedia è scritta in dialetto fiorentino, mentre le commedie di Stenterello sono in ver-
nacolo fiorentino» (Devoto-Oli).
92
Anche Dante, Dve I xiii 1-2, nella rassegna di dialetti italici denunciava i limiti dei
“Toscani, che, rimbecilliti dalla loro demenza, arrogano a sé il titolo del volgare illustre.
E qui non è soltanto il volgo a sragionare, ma so che persino più d’un importante perso-
Rossano De Laurentiis
naggio è di questa idea: ad esempio Guittone d’Arezzo, che mai si è volto a un volgare
curiale, [et alii …] le poesie dei quali, a ben guardarle, si vedranno scritte in una lingua
non più che municipale e mai curiale. E poiché i Toscani in questa follia strepitano più
degli altri, sembra giusto e utile sgonfiare uno ad uno della loro superbia i volgari mu-
nicipali di Toscana” (trad. di V. Coletti).
93
F. D’Ovidio, Scritti linguistici, a cura di P. Bianchi, Guida, Napoli 1982, 71, il fiorentino,
ma in fondo ogni dialetto, lo «si dovrà perciò tener sempre come un vivo specchio d’i-
talianità sincera e fresca, e solo non prenderlo a norma quante volte diverga dall’uso
letterario, ove questo è saldamente stabilito; e prenderlo come un consigliero spesso
prezioso, non come un’autorità assoluta, dovunque l’uso letterario ondeggi o manchi
del tutto». Ricordiamoci dell’arzanà [= arsenale] de’ Viniziani (Inf. XXI 7) che Dante
prende a prestito da una città marinara, mancando a Firenze tale tradizione; e a Venezia
questa parola era stata importata da un etimo arabo, da cui viene anche “darsena”: ter-
mine tecnico accolto dal dialetto genovese.
94
Anche Dante nella Commedia fa dire a Farinata: La tua loquela ti fa manifesto / di quella
nobil patria natio (Inf. X 25-26); nell’episodio dei due ipocriti frati gaudenti Catalano e
Loderingo: E un che ’ntese la parola tosca (Inf. XXIII 76); a Marco Lombardo: parlandomi
tosco (Purg. XVI 137). Mentre il pisano conte Ugolino lo apostrofa: ma fiorentino / mi
sembri veramente quand’ io t’odo (Inf. XXXIII 11-12).
95
L. Serianni, Il secondo Ottocento, in “Storia della lingua italiana”, a cura di F. Bruni, Il
Mulino, Bologna 1990, 93.
96
Il titolo richiama il verso d’inizio di un sonetto di Vittorio Alfieri del 1786, scritto per
condannare la soppressione dell’Accademia della Crusca da parte del granduca Pietro
Leopoldo. E. De Amicis, L’idioma gentile, Treves, Milano 1905, 54: «E anche a te, bruno
sardignolo, poiché ti vedo ridendo dei sicilianismi, dirò amorevolmente il fatto tuo, quan-
tunque del tuo bel dialetto latineggiante io sia un po’ innamorato: a te che qualche
volta, parlando italiano, alzi le scale invece di salirle, e culli il tuo fratellino per dormirlo,
e non pigli caffè perché non ti prova, e chiami cotti i fichi d’India maturi, e occhi cattivi
[da ogus malus] gli occhi malati; a te che parti al villaggio, e torni da campagna, e vai al
braccetto con gli amici, e a chi ti domanda l’ora alle dodici e dieci rispondi che è assai
ora che è sonato mezzogiorno, e a chi ti rivolge domande indiscrete dici che non entri il
naso negli affari tuoi, e se non la smette subito, che finisca da una volta d’importunarti.
Per farla corta, non t’ho citato che una dozzina d’esempi; mi dispiace d’esser troppo
pochi; ma te ne potrei pienare più pagine. A si biri, piseddu».
Dante e la Sardegna: nel 750o anniversario della nascita
97
Per le classi III, IV e V elementare secondo i programmi dell’11 novembre 1923; Giuseppe
Carabba, Lanciano 1925-1926.
98
Cfr. L. Serianni, Il primo Ottocento, in “Storia della lingua italiana” a cura di F. Bruni, Il
Mulino, Bologna 1989, 81. D’altronde se ci rifacciamo all’etimo diálektos, la conversazio-
ne, il parlare ordinario secondo Ippocrate, è uno dei sette sensi (udito, vista, odorato,
gusto, tatto, inspirazione-espirazione), il suo organo è la bocca; tutti i sensi mettono in
contatto l’ánthropos, l’essere umano, con il cosmo e gli danno conoscenza e ignoranza.
99
Tanca, sf, pl. –che; der. del catalano tancar ‘chiudere’ (1918); in Sardegna, terreno recin-
tato in cui pascolano le greggi: «Elias è ... nella sconfinata solitudine della tanca battuta
dal sole» (Gabrielli, Grande dizionario italiano, Hoepli); l’esempio si trova in Grazia
Deledda, scrittrice che ha fatto uso del dialetto, glossando o annotando i termini sardi
usati, spesso nella loro veste naturale.
100
Attestato prima del 1895; dal sardo orbaci, che è dall’arabo al-bazz ‘tela, stoffa’: «Tessuto
di lana, resistente e impermeabile, caratterizzato dalla più o meno evidente irregolarità
del filato, tipico della Sardegna; oltre che per i costumi tradizionali sardi, è usato anche
per abiti; in periodo fascista, essendo il tessuto prescritto per la giacca della divisa, passò
estensivamente a indicare l’intera divisa, divenendo quindi uno degli emblemi del regi-
me: indossare l’orbace; gerarchi in orbace» (Devoto-Oli). Secondo un’etimologia com-
pleta viene da albàche: “stoffa bianca che, tolta dal telaio, viene fatta bollire con legno
di campeggio, vetriolo ecc., perché acquisti un bel colore nero lucente”. La voce è una
sardizzazione dell’italiano antico albagio (còrso albagiu, pisano antico albacio, albascio,
arbagio).
101
Si veda il caso ben noto a Dante del suo maestro Brunetto Latini che usa per la prosa
didattica del Tresor il francese, «plus délitable et plus commune a tous langages». La
constatazione vale ancora oggi con l’italiano che per farsi valere in certi frangenti: l’U-
nione Europea e presso gli emigrati di altri continenti, spesso deve appigliarsi a Dante e
al verso del bel paese là dove ’l sì suona (Inf. XXXIII 80). D’altra parte nel cap. precedente di
Convivio I x 5 si trova: «lo naturale amore de la propia loquela», dove Dante spiega che
vuole sdoganare il volgare che «seguita uso» (Ibi, I v 14) per dare una lingua di servizio
ai non addetti al lavoro letterario.
Rossano De Laurentiis
lingua sarda” verso altri dialetti protagonisti nella storia della lingua e lette-
ratura neolatina; a creare una “grammatica culturale sarda”, come è stato
detto, «una chanson de geste quadrilingue (latino-sardo-italo-catalana)»102.
Si tratta di un episodio fra diversi, verificatisi in Italia nell’Ottocento, se-
colo romantico 103 e d’oro per la lessicografia dialettale 104, innestato sulle ori-
gini medievali di una lingua di cui si cercavano patenti di nobiltà all’ombra
di più campanili 105, anche con restauri non necessari e rifacimenti di sana
102
Cfr. M. LŐrinczi, “La storia della lingua sarda nelle Carte d’Arborea”, in L. Marrocu (a
cura di), Le carte d’Arborea. Falsi e falsari nella Sardegna del XIX secolo, AM&D Edizioni,
Cagliari 1997, 407-438 (anche online), richiama la funzione delle grandi Esposizioni in-
ternazionali di metà Ottocento, antesignane dei musei etnografici, che esibiscono una
serie di simboli culturali delle singole nazioni e dei singoli nazionalismi. In quanto si
gioca al rilancio, coll’intento di superare se stessi e di stupire gli altri partecipanti non-
ché il pubblico, l’esibizione rituale di beni ritenuti culturalmente prestigiosi si svolge e si
consuma sotto il segno della dismisura. Cfr. B. Stoklund, “The Role of the International
Exhibitions in the Construction of National Cultures in the 19th Century”, Ethnologia
Europaea, 24 (1994), 35-44.
103
Alla cultura popolare si attribuiva una dignità, con i suoi documenti, la sua vicenda
sottotraccia a quella della lingua nazionale, a partire dalle identiche origini latine. Nel
celebre Prospectus alla loro rivista Romania, 1 (1872), 2-3, Paul Meyer e Gaston Paris pre-
cisarono: «Nous attacherons surtout du prix, soit à des recherches sur le latin vulgaire,
source encore peu explorée de nos idiomes, soit à des études sur un dialecte représenté
par des monuments anciens, soit à des monographies sur la langue de tel ou tel écrivain.
[…] Nous écartant ici, pour des raisons faciles à comprendre, de la règle chronologique
posée plus haut, nous serons heureux d’accueillir toutes les études qui pourront contri-
buer à faire connaître les patois modernes» [c.vo nel testo]. Lo si può leggere integral-
mente in Tra ecdotica e comparatistica: le riviste e la fondazione della Filologia romanza: atti
del convegno annuale della Scuola di dottorato europea in Filologia romanza, Siena, 3-4 ottobre
2006, a cura di M.L. Meneghetti e R. Tagliani, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione
Ezio Franceschini, Firenze 2009, 207-213, a p. 209.
104
Si veda C. Marazzini, L’ordine delle parole: storia di vocabolari italiani, il Mulino, Bologna
2009; lo studio dei dialetti si accompagnò a una profonda curiosità per le tradizioni
popolari e per le forme letterarie della cultura orale, canti e racconti; il vocabolario del
dialetto serviva anche da strumento per meglio intendere questo materiale popolare.
Cfr. A. Prati, I vocabolari delle parlate italiane, Caponera, Roma 1931 (rist. anast. Arnaldo
Forni, Bologna 1987); M. Cortelazzo, I dialetti e la dialettologia in Italia (fino al 1800), Narr
Verlag, Tübingen 1980. Risalgono all’Ottocento tutti i più importanti vocabolari dialet-
tali, per la maggior parte ancora oggi insostituiti. Nell’isola si ricorda fra i primi il Nou
dizionariu universali sardu-italianu, compilau de su sacerdotu benefiziau Vissentu Porru,
de sa tipografia Arciobispal, Casteddu [Cagliari] 1832.
105
A questo fa pensare un passaggio della lettera di Baudi di Vesme in risposta a D’Ancona,
per smontare le confutazioni delle “cartaccie” da parte di Vitelli: «non so spiegar-
mele altrimenti fuorché supponendo che il Vitelli (che non conosco, né so chi sia) sia
Sassarese; e che come al Tola, così a lui, senza che pur egli sen renda conto, un mal in-
teso amore di campanile faccia d’istinto, rigettare quei documenti, scoperti e pubblicati
da Cagliaritani», si trova nel carteggio D’Ancona-Vitelli, cit., 153.
Dante e la Sardegna: nel 750o anniversario della nascita
pianta, per cui «la contraffazione dell’antico è l’altra faccia dei puristi e dei
cosiddetti “linguaioli”»106.
C’era una certa consapevolezza del fenomeno se nel luglio 1895, a Bo-
logna, fu discussa una tesi di laurea Su le falsificazioni e i falsari nella lettera-
tura italiana, autore Luigi Bonollo 107. Tra i casi trattati nella dissertazione vi
fu quello delle Carte d’Arborea «finte e prodotte da varii», spuntate fuori
a Cagliari negli anni ’40 del XIX sec. (periodo in cui avvenne la fusione con
il Piemonte) ad opera di Pietro Martini, della Biblioteca Universitaria della
città, uno degli artefici della «grandiosa impostura», il quale pubblica una
prima volta la Pergamena di Arborea (Timon, Cagliari 1846), destinata a con-
fluire nella raccolta più ampia di: Pergamene, codici e fogli cartacei di Arborea,
in cinque parti (Timon, Cagliari 1863-1865)108.
Sulla base di conoscenze circolanti e ipotesi storiche allettanti 109 si cercava
di fabbricare delle prove per rivendicare un primato cronologico assoluto in
àmbito romanzo, rispetto anche al francese non letterario dei Giuramenti di
Strasburgo (842 d.C.): con un ‘precocissimo’ testo in volgare; e insieme rima-
neva da documentare un’attività poetica in Sardegna, svolta in ‘italiano’ da
106
G. Gorni, Il Dante perduto: storia vera di un falso, Einaudi, Torino 1994, 129: «Produssero
scritture in antico volgare, e in genere prima o poi le dichiararono come opera loro, le
firme più illustri: Giacomo Leopardi e suo padre Monaldo, il loro congiunto Terenzio
Mamiani, Cesare Guasti e Pietro Fanfani, Giuseppe Chiarini, Domenico Gnoli, Niccolò
Tommaseo, […] Francesco Zambrini in più prove»; quest’ultimo fu presidente della
Commissione per i testi di lingua nell’Emilia, quindi sostenitore dell’imitazione dell’au-
reo Trecento.
107
Carducci approvò il lavoro, proponendolo per una premiazione; la relazione si trova
a stampa nella III serie di Ceneri e faville, vol. XXVIII dell’Edizione nazionale delle sue
opere.
108
LŐrinczi, “La storia della lingua sarda nelle Carte d’Arborea”, cit., 8 (versione online);
si ritiene che la falsificazione diplomatica (forma) e storica (contenuto) sia stata atten-
tamente preparata, per il richiamo ad un luogo caro alla memoria storica dei Sardi:
quell’Arborea sede del giudicato sotto Eleonora e la sua corte, in cui fu redatta la Carta
de logu, capostipite del «diritto patrio» in vigore fino al 1827, quando fu sostituita dal
Codice Feliciano. Ciò produsse un bisogno, a livello elitario, di una compensazione che
giustificasse parte della Storia di Sardegna di G. Manno (per Alliana e Paravia, Torino
1825-1827, 4 voll.), secondo un procedimento avvenuto anche per la storia ufficiale che
vorrebbe muovere da documenti “veri”: «In questa grande massa d’informazioni tro-
vano posto anche alcuni elaborati complessi costruiti intorno a immaginari momenti
antichi della lingua sarda e intorno a fittizie riflessioni metalinguistiche (fittizie rispetto
al Medioevo, ma non per l’Ottocento) […] viene riprodotta una storia della lingua sarda
redatta nel Duecento e in lingua sarda».
109
A. Borgognoni in una lettera (la stessa di nota 42) a Vitelli, da Ravenna, 9 aprile 1871:
«ho a preferenza gustato, ciò che mi pare veramente la parte originale del suo scritto, la
genesi, così evidentemente provata di quella falsificazione sulla falsariga della storia del
Manno», in Pintaudi, Introduzione al carteggio D’Ancona-Vitelli, cit., 22.
Rossano De Laurentiis
poeti sardi prima della scuola siciliana 110. Di volata noto che i Canti Còrsi del
Tommaseo escono a Venezia nel 1840-1841, e chissà che un’emulazione non
sia scattata in qualcuno nell’allestire i falsi d’Arborea 111.
Il tutto costruito con un meccanismo a scatole cinesi, con rimandi retro-
spettivi, che oggi ci fanno sorridere, ma all’epoca con un pubblico ingenuo
e «una società che di questi falsi aveva disperatamente bisogno»112, poteva
funzionare 113. Wendelin Foerster, allievo del glottologo Adolfo Mussafia,
mise seriamente in dubbio l’autenticità del “monumento letterario” su base
paleografica e con prove estrinseche 114; e scrisse la parola fine ad una que-
110
La storia dugentesca (la falsa data di creazione è il 1222, quasi un secolo prima del De vul-
gari eloquentia) presente tra le Carte di Arborea sarebbe stata stilata da Comita de Orrù su
richiesta di suo cognato, Pietro Dessì, per le seguenti ragioni: trovandosi quest’ultimo
a Firenze intorno al 1270 (quando Dante era appena un fanciullino, e certamente non
poteva ancora canzonare i Sardi a causa della loro parlata), lì incontrò il romano Paolo,
il quale manifestò il suo disprezzo per la lingua sarda (è degna di nota la triangolazione
Firenze - Roma - Sardegna, collegata a questioni di rivalità linguistiche); secondo l’arca-
dico Vincenzo Gravina, solo i Toscani e i Romani avrebbero serbato intera la pronunzia
originaria; cfr. M. Vitale, La questione della lingua, Palumbo, Palermo 19622, 117.
111
Annalisa Nesi sta lavorando per l’editore Guanda, sotto la direzione scientifica di F.
Bruni, all’edizione annotata dei Canti Còrsi del Tommaseo, il quale sentiva nella lingua
della copiosa tradizione orale isolana il più puro dei dialetti italiani. Infatti la Corsica
nel sec. XI divenne possedimento pisano, e conserva ancora un idioma toscano ricco di
aspetti arcaici.
112
In questo senso va l’impressione di Michele Amari sugli amici e colleghi senatori gen.
Alberto della Marmora e conte Baudi di Vesme, i quali «amando tanto gli studi delle
cose sarde, credettero a que’ primi miracoli e inghiottirono tutti gli altri senza potersi
accorgere della magagna», si trova in “Carteggio D’Ancona”, vol. I. D’Ancona-Amari, a
cura di P. Cudini, Scuola Normale Superiore, Pisa 1972, 9. Nel XIX sec. in Sardegna la
borghesia ricca e colta tollerò i falsari di varia natura, anche deliberatamente. Si veda il
ritratto agiografico che ne fa F. Vivanet, Pietro Martini: la sua vita e le sue opere, Timon,
Cagliari 1866.
113
Si veda C. Villa, “Baudi di Vesme e le Carte d’Arborea: filologia e passioni nel Piemonte
sabaudo”, in “Feconde venner le carte”: studi in onore di Ottavio Besomi, a cura di T. Crivelli,
con una bibliografia a cura di C. Caruso, Casagrande, Bellinzona 1997, 606-626, a p. 609;
e a p. 616: «Per inventare i suoi contenuti il contraffattore adottò un procedimento poi
seguito dal suo editore [Martini]; perché muovendo da osservazioni generali, come l’i-
dea dantesca che il volgare abbia circa centocinquant’anni, costruì testi che confermas-
sero questa dichiarazione»; di fronte alla dimostrazione degli accademici di Berlino che
«le carte fanno sistema fra di loro ma sono incoerenti o contraddicono fatti dei quali
non c’è ragione di dubitare, l’editore dei falsi non cercò nuove prove ma a sua volta
sviluppò altre deduzioni».
114
W. Foerster, “Sulla questione dell’autenticità dei codici di Arborea”, in Memorie della
Reale Accademia delle Scienze di Torino, s. II, 4 (1905), 223-254: «dal 1845 in poi a Cagliari, un
frate di nome Cosimo Manca, amico di Ignazio Pillito, impiegato negli Archivi di Stato,
vendeva per mezzo di lui delle pergamene, dei codici e fogli cartacei, il cui numero
Dante e la Sardegna: nel 750o anniversario della nascita
stione che aveva agitato le acque nelle ristrette élite romanistiche d’Italia e
d’Europa per quasi sessanta anni, con la conclusione che i sostenitori dell’au-
tenticità, in cattiva o buona fede, avevano determinato lo smacco della filo-
logia italiana, smentita e ridicolizzata dalla scienza tedesca. Il D’Ancona 115
affiderà al giovane scolaro Girolamo Vitelli, futuro papirologo, la confuta-
zione definitiva delle carte arborensi 116, articolata in due parti e preceduta a
mo’ di prologo da una Lettera a Paul Meyer 117.
fra editi e inediti supera la quarantina, e che passarono pressoché tutti nella Biblioteca
Universitaria di Cagliari. […] La loro provenienza è tutta ravvolta nel buio; si accenna
ad un convento di Oristano, il quale però è di origine moderna, del sec. XVII (1662), e
fu soppresso nel 1832. Perciò nessuno di questi codici riferisce e ricorda cose di questo
monastero».
115
Cfr. D’Ancona-Mussafia, a cura di L. Curti, vol. VI del “Carteggio D’Ancona”, Scuola
Normale Superiore, Pisa 1978, Introduzione, XXVI. In una lettera a Mussafia del gen-
naio 1866 cerca di avere un parere che possa suffragare le sue impressioni; ecco cosa
risponde il linguista dalmata, 24 febbraio (lett. n. 38): «A me pajono un eccellente scher-
zo. Dura un po’ a lungo. Nell’ultima aggiunta all’aggiunta trovate persino una storia
letteraria scritta nel dugento con saggi di poesia, in una delle quali un gentilissimo poe-
ta invoca le ninfe. Che cosa volete di più?». Queste riflessioni prolungatesi tra addetti ai
lavori costituiscono il «centro della discussione storico-letteraria in Italia e segnano un
discrimine di nitidezza non comune tra la vecchia e la nuova cultura».
116
Esce su Il Propugnatore, luglio-ottobre 1870, 270: «Da questa lezione [del D’Ancona] ho
tratto utilissimi suggerimenti pel mio lavoro, e non di rado ne ho estratto qualche spe-
ciale argomento o notizia». Il tono della polemica assunse un livello di molto superiore
alla qualità dell’oggetto del casus belli; fu tuttavia un modo anche di serrare le fila degli
studiosi validi da quelli più corrivi. Il D’Ovidio sulla prudenza di D’Ancona nella querel-
le parla di «consigli malvacei» (26 ottobre 1870), ma sa essere molto diretto in un’altra
lettera del 25 febbraio 1871 al Vitelli, espostosi in prima linea nella schermaglia: «Una
cosa però s’impara da queste sfuriate contro di noi; s’impara […] a esser cauti nel non
azzardare espressioni che possano dare appiglio all’avversario. Il polemista trae partito
da tutto. Una espressione sfuggitati evidentemente in un momento di distrazione, una
frase che hai avuto il torto di lasciar correre benché un po’ ambigua, una inesattezza
d’importanza secondaria a cui per pigrizia non hai badato, lui te la coglie avidamente, te
la mette in mostra, ci batte ci ribatte, te ne fa un casus belli; e scivolando prudentemente
sul resto dice d’averti sgominato! Per cui per premunirsi contro questi attacchi la caute-
la non è mai troppa!», entrambe le lettere sono riportate da R. Pintaudi, Introduzione
al carteggio D’Ancona-Vitelli, cit., 18-19.
117
Si rimanda al carteggio D’Ancona-Vitelli, cit.; tra le testimonianze raccolte spiccano, per
acutezza e prontezza d’intuito, i giudizi di Paul Meyer. Questi fu un raccoglitore di
fossili lessicali, con cui ricostruire la storia di una lingua parlata – come dovette essere il
sardo (anzi gli idiomi sardi) –, allo stesso modo di quel raccoglitore danese di musiche
folcloriche, Andreas Fridolin Weis Bentzon (1936-1971), che registrò il suono delle “lau-
neddas”, insieme ai canti demotici. D’altronde anche la Commedia imparata a mente dai
cantambanchi ebbe una sua fruizione recitata e probabilmente musicata, basti pensare
alla figura del trovatore Sordello da Goito, mantovano che compose in provenzale, o al
musico e cantore Casella di Purg. II. Per un interessante indagine sulla musica al tempo
Rossano De Laurentiis
di Dante si veda il materiale messo in linea dalla Società Dantesca Italiana di Firenze,
http://danteonline.it/italiano/risorse.htm
118
Cito dalla lettera di D’Ovidio a Vitelli, 25 febbraio 1871, in carteggio D’Ancona-Vitelli,
cit., 1. D’Ovidio richiama i termini della polemica con il conte Baudi di Vesme, impren-
ditore minerario che aveva preso a cuore la sorte delle Carte arborensi dopo la morte di
Martini; ma i suoi argomenti, come gli fece notare con ironia toscaneggiante il Vitelli,
erano solo «moccoli» critici.
Dante e la Sardegna: nel 750o anniversario della nascita
rardo 119 ci dicesse delle inesattezze, commettesse degli equivoci, accettasse
delle voci improbabili. Ma non che ne ignorasse addirittura l’esistenza!120
119
Cfr. C. Baudi di Vesme, “Di Gherardo da Firenze e di Aldobrando da Siena, poeti del
secolo XII”, Stamperia Reale, Torino 1866, 65-67, 70-71 [Memoria della R. Accademia delle
Scienze di Torino, s. II, t. XXIII]: «Aldobrando è un guelfo che invoca l’Italia […] il pensie-
ro dell’Italia presso gli imperiali o ghibellini si confondeva colle memorie del Romano
Impero […] Italia felice e potente per la concordia delle cento sue città». Il “Petrarca
sardo”, secondo una formula suggerita da una nota di Alessandro D’Ancona, La poesia
popolare italiana, Giusti, Livorno 19062, 7: «una canzone di petrarchesca architettura,
attribuita ad Aldobrandino da Siena […] cito questa canzone, che ad ogni modo non
sarebbe popolare, per sempre più affermare la mia incredulità».
120
Pintaudi, Introduzione al carteggio D’Ancona-Vitelli, cit., 20-21. Semplicemente Dante e
la sua vicenda servivano agli autori ed editori delle carte arborensi per fare da modello
a una contro-storia della letteratura italiana, che non iniziasse in Sicilia, come appunto
Dante testimoniò quando scrisse “che tutto quanto gli Italiani producono in fatto di
poesia si chiama siciliano; e che troviamo che molti maestri nativi dell’isola hanno can-
tato con solennità” (Dve I xii 2). Il piemontese Baudi di Vesme volle che i ‘suoi’ «creatori
di una lingua comune italiana» fossero almeno sardi, così da poter dire che il Regno di
Sardegna con i Savoia fosse progenitore non solo dell’Italia politica, ma anche di quella
letterario-linguistica.
121
Cfr. il settecentesco autore erudito di componimenti sardo-latini: M. Madao, Il
Ripulimento della Lingua Sarda [...], ms., Biblioteca Universitaria, Cagliari (poi stampato
a Cagliari nel 1782 da Titard), con cui si voleva dimostrare l’identità tra sardo e latino.
E anche J. Day, “Riflessioni di un ‘annalista’ sulla storia sarda”, in Id., La Sardegna come
laboratorio della storia, a cura dei Rotary Club di Cagliari, 1994, 19-24.
122
T. De Mauro, La fabbrica delle parole: il lessico e problemi di lessicologia, Utet, Torino 2005,
231-232, sul Grande Dizionario della Lingua Italiana del Battaglia “in cammino” e i suoi
spogli: «La letteratura domina ancora, ma, come nell’iconografia delle vecchie esposi-
zioni universali, le sono ormai compagne, pur in lontanante schiera, filosofia e scienze,
matematica, diritto, diari, lettere e scritti privati, verbali di consigli e assemblee, cro-
nache e scritti dei giornali e i dizionari del passato, che fur già primi [Petrarca, Trionfo
d’Amore 4, v. 36], insomma molti dei luoghi […] in cui le parole nascono, si collegano, si
determinano e vivono e […] fanno da “semenzaio” all’uso che poi ne fanno romanzieri
e poeti, non tutti consapevoli ancora che “le parole / sono di tutti e invano / si celano
nei dizionari / perché c’è sempre il marrano / che dissotterra i tartufi / più puzzolenti
e più rari”», citazione da E. Montale, Satura II, Le parole.
Rossano De Laurentiis
123
Scuola linguistica tedesca della seconda metà dell’Ottocento interessata allo studio dia-
cronico delle lingue specialmente attraverso le leggi fonetiche, delle quali sosteneva la
costanza e la regolarità in aree geografiche determinate (Sabatini-Coletti).
124
La dissertazione XXXII delle Antiquitates Italicae Medii Aevi (t. II, 1739) dedicata all’origi-
ne della lingua italiana, definisce così la lingua del documento sardo del 1170 rinvenuto:
«Lo strumento esistente nell’Archivio del suddetto Monistero, e da me dato alla luce, è
scritto nella lingua volgare di Sardegna, la quale era un misto d’italiana e spagnuola».
125
Il Ledda nella Prefazione al suo opuscolo, in data Roma, Settembre 1921, indirizza i suoi
studi a chi «volesse raccogliere e ordinare il materiale abbondantissimo riguardante la
Sardegna, che ancora giace inedito negli archivi pubblici e privati di Pisa, di Firenze, di
Genova, di Massa, di Roma, di Cassino, di Marsiglia e della Sardegna stessa». Un altro
posto è l’Archivio dei Benedettini camaldolesi di Fontebuona.
126
Villa, “Baudi di Vesme e le Carte d’Arborea”, cit., 615: «le carte d’Arborea integrano
perfettamente le osservazioni del Martini nelle sue opere storiche, costruite sui testi
dell’erudizione settecentesca».
127
Il Mabillon (1687) pubblica un documento del 1113, definendolo «Charta barbaro ser-
mone de donatione Ecclesiae Sancti Nicolai in Regno Sardiniae».
128
“Condàghe” (dal bizantino kontàkion: forma di inno liturgico) era un documento am-
ministrativo in uso nella Sardegna bizantina e giudicale, indicativamente fra l’XI ed il
XIII secolo. Definiva originariamente la raccolta degli atti di donazione a favore di un
Dante e la Sardegna: nel 750o anniversario della nascita
formatasi su un ceppo dialettale con caratteri peculiari 129. Si vedano gli Sta-
tuti sassaresi del XIII sec., scritti in gotica testuale i due in pergamena dei
cinque codici pervenuti (tre sono in logudorese, due in latino). Mentre agli
inizi della stampa si hanno le prime testimonianze tipografiche locali, con
diverse pubblicazioni che si adeguano per lo più ai contenuti suggeriti dai
Gesuiti 130.
Una prima liason con l’Etruria continentale 131 si era avuta nei bronzetti
etruschi (IX-VI sec. a.C.); vista la natura metallifera di entrambe le terre 132.
Uno dei motivi ricorrenti nella produzione nuragica è la “navicella” o “bar-
chetta”, che si può assimilare al dantesco vasello snelletto e leggero (Purg. II
41)133. Inoltre i bronzetti nuragici hanno un’equivalente in pietra, di maggior
proporzione, nelle statue scoperte nel 1974 nei pressi di Mont’e Prama 134.
Può essere qui utile richiamare il concetto di Bindfehler, che non si applica
135
Per lo spunto cfr. C. Villa, “Cataloghi di biblioteche, regesti di fonti, schede e appunti
danteschi”, in Testimoni del vero: su alcuni libri di biblioteche d’autore, a cura di E. Russo, in
Studi e testi italiani, 6 (2000), 9-20, a p. 11.
136
Il “retablo” è una pala d’altare dipinta di tipo polittico, di grande dimensione, tipico
della Spagna e America Latina. Molto importante anche nella Sardegna del Trecento.
Fra gli esecutori si ricorda un maestro napoletano Pietro Orimina, che conosceva la
pittura di Firenze e Siena, probabile autore del polittico di Ottana (Nuoro) all’interno
della basilica di S. Nicola, collocabile fra 1339 e ’44. Un altro celebre è il Retablo di San
Giorgio a Perfugas (Sassari), il più grande della Sardegna, risalente al XVI sec. Cfr. C.
Segre, Come si “racconta” una storia per immagini, in Id., Pittura, linguaggio e tempo, cit.,
44-48 (uscito col titolo “Ma il diavolo sta di profilo”, su Il Giorno, 17 febbraio 1974), a p.
44: «Nel Medioevo, l’interpretazione era prevalentemente simbolica. […] Ogni avveni-
mento era simbolo d’un altro, ogni simbolo era più vero del fatto storico (deformabile
senza scrupoli). […] Il mondo come foresta di simboli, per dirla con Baudelaire: simboli
mutevoli di una realtà già data. È affascinante osservare la “traducibilità” dei simbo-
li dall’aspetto verbale (testo scritto) a quello figurativo (miniatura, mosaico, affresco,
ecc.). […] L’artista parte quasi sempre, è vero, da un testo preciso; ma poi agiscono
su di lui tradizioni iconografiche che attuano una specie di esegesi secolare, e, come il
commento d’un testo letterario, sovrappongono al simbolismo di base allusioni ad altri
simboli, lungo una catena di rivelazioni. […] Si sa che l’illustrazione (per esempio le
vetrate o i cicli di affreschi) era, in epoca di prevalente analfabetismo, mezzo di comuni-
cazione e suggestione basilare: testi quasi esclusivamente illustrati venivano definiti la
Bibbia dei poveri (Biblia pauperum)».
137
Mi riferisco ai temi figurativi che ritornano nei bronzetti e nelle sculture in pietra, per
es. il “pugilatore”, su scala differente: per un uso privato nel primo caso e per il rito
pubblico nel secondo. Per stare alle edizioni della Commedia, penso alla differenza che
passa tra una stampa aldina di piccolo formato come Le terze rime di Dante (1502, in cor-
sivo, per un lettore che viaggia), e un pesante incunabolo del Quattrocento (concepito a
somiglianza dei codici, con ampi margini per le glosse, “libro da banco” per eccellenza).
138
Villa, Cataloghi di biblioteche, cit., 20.
Dante e la Sardegna: nel 750o anniversario della nascita
nei mosaici del Battistero di San Giovanni a Firenze, note ovviamente allo
stesso Dante 139.
Dall’arte figurativa all’architettura: possiamo verificare anche in questo
campo alcuni spunti utili grazie a Dionigi Scano e la sua Storia dell’arte in
Sardegna dall’XI al XIV secolo (1907), dove ricorda che «l’arte del Medio Evo
in Sardegna è essenzialmente arte di architetti» (Carlo Aru). Egli infatti
sostiene che «Poche chiese d’Italia si presentano con sincera architettura
medievale [romanica], senza aggiunte senz’alterazioni, come queste di Sar-
degna». Un accostamento di architettura ed ecdotica, in nome di una filo-
logia che a volte applicata acriticamente può non essere veritiera, e quindi
tradire la storia o travisarla, si trova esemplificata nello storico dell’archi-
tettura Carlo Cresti, che opportunamente mette a confronto il gusto di
revival gotico con cui fu restaurato il Palagio dell’Arte della Lana, sede della
Società Dantesca Italiana, dove si tengono le Lecturae Dantis, nel cuore di Fi-
renze: «paragonando la prassi adottata dall’architetto allo specifico campo
operativo dei dantisti si potrebbe notare che la regola dell’intervento apo-
crifo 140 sul testo-monumento risultava in aperto contrasto con il criterio
del riferimento al documento originale che guidava la ricerca degli studiosi
intenti a ripulire il testo dantesco dalle superfetazioni successive»141.
139
Dante poté ispirarsi nei suoi canti infernali a questo ciclo figurativo; ma a sua volta
diventa fonte per gli illustratori successivi. Cfr. C. Occhipinti, La ‘Commedia’ come fonte
poetica nelle arti figurative (treccani.it, 2008): «la libertà immaginativa di Michelangelo
doveva avvalorarsi, agli occhi degli storici dell’arte di ogni epoca, pure nel rispetto della
tradizione artistica, specialmente toscana, tre-quattrocentesca, che offriva esempi sva-
riati di visionaria e microscopica descrizione di creature diaboliche, che Michelangelo
doveva conoscere bene. [… e] agli affreschi del Camposanto di Pisa o a quelli di Nardo
di Cione nella Cappella Strozzi di Santa Maria Novella, eseguiti nel 1357, ove i maledetti
si mostrano stracciarsi le vesti, e le scene affrescate seguono precisamente i versi del
poema». Per lo stesso genere di indagini si veda L. Pasquini, “Lucifero e i dannati: dai
mosaici di Torcello e Firenze alla Commedia dantesca”, in Atti del XVII Colloquio dell’As-
sociazione italiana per lo studio e la conservazione del mosaico, Teramo, 10-12 marzo 2011, a
cura di F. Guidobaldi e G. Tozzi, Scripta Manent edizioni, Tivoli 2011, 611-622.
140
Sottolineo ‘apocrifo’ perché storicamente il concetto si è evoluto, per indicare all’inizio
quegli scritti religiosi che non si dovevano divulgare; ma già nel III sec. d.C. era sino-
nimo di “falso” – servì a indicare quei libri testamentari che non fanno parte della lista
canonica di quelli rivelati. In filologia, indica delle opere che, attribuite ad un autore,
non gli appartengono.
141
Cfr. C. Cresti, “Nel nome di Dante tra conformismo e modernismo”, in ...E nell’ido-
lo suo si trasmutava: la Divina Commedia novamente illustrata da artisti italiani: concorso
Alinari 1900-1902, a cura di C. Cresti e F. Solmi, Bologna, settembre-ottobre 1979, 7-22, a
p. 9,
Rossano De Laurentiis
ziali è stato lasciato in bianco, e ripieno [solo] con delle lettere minuscole.
[…] Pare che l’editore avesse intenzione di mandare ornata la sua edizione
d’un gran numero di figure, giacché in testa di ciascun canto si vedono gli
spazj bianchi destinati a riceverle; ma poi non furono riempiti che quelli
lasciati in testa de’ canti primo e secondo dell’Inferno, dove si osservano
due incisioni al bulino che comunemente si hanno per eseguite da Baccio
Baldini sopra i disegni di Sandro Botticelli [pare presentati l’anno prima ai
Medici]. Qualche esemplare ha tre figure incise tutte sulla carta stessa del
volume, ma la terza è ripetizione della prima» (Batines). L’esemplare sassa-
rese (segnatura: Rari 1) rientra in questo lotto avendo le prime tre incisioni
(“rami”, ma forse d’argento 156). A differenza degli esemplari «preziosissimi
e rarissimi» completi delle 19 figure per i primi 19 canti di Inferno: le «altre
17 [sono] attaccate in seguito [tirate a parte su carta sottile] con colla agli
spazi bianchi de’ rispettivi loro Canti»157. Provenance: acquisizione dei libri
di «Proprietà del Barone Pasquale Tola» nel 1875 (come testimoniato nel
contro-piatto anteriore)158.
Durante il lungo periodo ibero-romanzo della dominazione spagnola la
Commedia dovette avere una circolazione ridotta nell’isola, non essendo la
lingua ‘italiana’ con cui era scritta né lingua comune né lingua letteraria 159, e
Poema, è in caratteri più piccoli […] Questa edizione veramente magnifica […] non
porta però gran vanto di correttezza.»), una breve scheda del paleotipo si trova nel
catalogo della mostra cagliaritana del 1984, Cittadella dei Musei, 13 aprile-31 maggio:
Vestigia vetustatum: documenti manoscritti e libri a stampa in Sardegna dal XIV al XVI secolo.
Fonti d’archivio: testimonianze ed ipotesi, Edes, Cagliari 1984, 86-87, n° 10. Si veda anche E.
Barbieri, “Di alcuni incunaboli conservati in biblioteche sassaresi”, in Itinera Sarda: per-
corso tra i libri del Quattro e Cinquecento in Sardegna, a cura di G. Petrella, CUEC, Cagliari
2004, 41-65, a p. 64. Commento su una colonna di 60 linee (la gabbia della mise en page).
156
In base alla scheda della mostra suddetta, la terza incisione è il Monte Santo di Dio del
vescovo Antonio Bettini (Firenze 1477).
157
P.C. de Batines, Bibliografia Dantesca, Tip. Aldina editrice, Prato 1845, I, 36-47, a p. 40
(nuova ed. anast. di Salerno editrice, Roma 2008): il lavoro dell’incisione «dovendo na-
turalmente procedere con minore prestezza che l’impressione del testo, fu […] cagione
che abbandonasse l’editore l’idea di fare l’incisione sulla carta del volume, e si appiglias-
se al compenso di attaccarvele con colla».
158
Pasquale Tola (1801-1874), da Sassari, fu magistrato e politico, autore di un Dizionario
biografico degli uomini illustri di Sardegna (Tip. Chirio e Mina, Torino 1837-1838, in 3 voll.) e
di un Codice diplomatico di Sardegna con altri documenti storici, raccolto, ordinato ed illustrato
(Ibi, 1845, 2 voll.)
159
Possiamo prendere come termine di paragone l’affermazione di G.G. Trissino, Dubbii
grammaticali (1529), da una zona eccentrica come il nord-est d’Italia; in Id., Scritti lingui-
stici, a cura di A. Castelvecchi, Salerno editrice, Roma 1986, p. 91: «conciò sia che oggidì
quasi a niuno se insegni italiano, ma a tutti se insegna latino e poi lo italiano se impara
da sé; onde adviene che moltissimi sanno scrivere correttamente latino e niuno quasi
Rossano De Laurentiis
Ancora un anniversario
mente scattata ad arte, si vede uno stormo di uccelli (stornelli 163, gru 164,
colombi 165), per lo piacere uman che rinovella / seguendo il cielo (Par. XXVI 128-
129); una pietra tutta spuntoni che potrebbe essere dell’Inferno (XVI 135: o
scoglio o altro che nel mare è chiuso)166. Per correr miglior acque alza le vele / omai
la navicella del mio ingegno, / che lascia dietro a sé mar sì crudele (Purg. I 1-3); e
l’attacco di Par. II: O voi che siete in piccioletta barca. Insomma tutte e tre le
cantiche sono presenti nella foto che vuole essere sineddoche dell’isola e
del poema.
Ha scritto il filosofo cattolico francese Étienne Gilson: «Per un italiano
l’opera di Dante raggiunge tutte le fibre del suo essere. La lingua italiana,
la storia dell’Italia in cerca della sua unità e persino della sua personalità di
Stato moderno, tutto nella Commedia contribuisce a farne lo specchio della
nazione»167. Detto in modo analogo e diverso: se Dante è stato il padre della
lingua italiana, e quindi è l’italiano; i “sardi” (idiomi e popolo) devono con-
frontarsi con lui per verificare quanto ne sono stati lontano e quanto invece
gli debbono nella lunga storia di avvicinamento culturale, e poi anche di
appartenenza all’Italia, scoprendo tuttavia motivi di una rivendicazione lin-
guistica, e per questa via di orgoglio identitario, che probabilmente a Dante
stesso non sarebbero dispiaciuti 168.
Gli studi danteschi si avviano a celebrare il settimo centenario della
scomparsa del Poeta, nel 2021, a un secolo dalla foto Alinari, e ritengo che
continuano a trovare in Sardegna e nei sardi una valida occasione di crescita
e verifica, per studiare e far conoscere alle nuove generazioni (i Millennials,
come le chiamano) il sommo Poeta, e annullando per via di bellezza la di-
stanza che separa l’isola dal continente, ell’è quel mare al qual tutto si move
(Par. III 86), in una “continuità di lettura” che la storia e il presente ci testi-
moniano, e ci impegna per il futuro.
163
Inf. V 40-41: E come li stornei ne portan l’ali / nel freddo tempo, a schiera larga e piena.
164
Inf. V 46: E come i gru van cantando lor lai.
165
Purg. II 125: li colombi adunati a la pastura.
166
Un altro verso adatto è: tra le schegge e tra ’ rocchi de lo scoglio (Inf. XXVI 17); la parola sco-
glio ricorre in Inferno 15 volte (tre nel canto XXI, più un iscoglio, v. 107); una in Purgatorio.
167
É. Gilson, Dante e Beatrice: saggi danteschi, a cura di B. Garavelli, Medusa, Milano 2004,
43. Lo scritto uscì nel 1965 col titolo Dalla ‘Vita Nuova’ alla ‘Divina Commedia’. Propongo
il concetto di corpus, tecnicamente una collezione di testi selezionati e organizzati per
facilitare le analisi linguistiche; in senso traslato per intendere un canone, la tradizione
di testi e contesti che identificano una nazione, o una regione.
168
Dionisotti, Geografia e storia, cit., 35: «un’esigenza unitaria, di una ideale unità lingui-
stica e letteraria, proposta e richiesta a una reale, frazionata varietà, un’unità insomma
che supera, ma nel tempo stesso implica questa varietà».