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Copertina
Il libro • L’autore
Colophon
Frontespizio
«Prologo». Galleria di personaggi e di fantasmi
1. Il 13, anno fatale. Balbo lo spagnolo
2. L’obelisco e le ombre di Facondo Novio, il matematico
3. Lucina, prima e dopo l’Ara Pacis
4. Il giardino dell’Ara. La bottega di Saura e Batraco
5. Da Enea a Livia, da Romolo a Roma. Il luogo dei poeti
6. La foto di famiglia. I disegni di Antero
7. Dedicata a Livia dopo l’addio di Ottavia, la sorella
8. L’Ara e il suo doppio. La vigna di Lullo Antigono
9. I festoni di Villa Medici e il cardinale Ricci
10. L’oblio di due imperatori. Poi gli scavi dell’ingegnere
«Conclusione». Per custode un pittore
Immagini
Il libro
Ha più di duemila anni, una storia lunga, ma avvolta in gran parte nel mistero
di tanti segreti. Molti di essi ancora non sono stati indagati. L’Ara Pacis è il
monumento dell’apoteosi di Augusto. Ideata nel 13 e inaugurata il 30 gennaio
del 9 a.C., dedicata alla moglie Livia nel giorno del suo cinquantesimo
compleanno, è la sintesi religiosa, etica e politica del principato di Augusto.
Eppure la vita di questo monumento fu brevissima e già nel II secolo d.C. se
ne perdono le tracce, tanto che non compare in molte delle cronache di quegli
anni. Perché una vita così breve? Perché si dovette aspettare fino alla fine del
XIX secolo per ritrovarla e riscoprirla? La sua vicenda è una appassionante
avventura, con tanti aspetti sconosciuti che queste pagine cercano di indagare
e svelare.
Ecco il racconto dell’Ara, dalla sua nascita alla sua scomparsa fino al suo
ritrovamento. Siamo accompagnati in questo viaggio nei secoli e nei millenni
da personaggi, alcuni noti altri meno ma tutti realmente vissuti, che
cercheranno di svelare i tanti misteri legati al monumento simbolo di Augusto
e del suo principato.
L’autore
Paolo Biondi (1955) è nato a Rimini, sposato, un figlio. Giornalista, vive e
lavora a Roma. È stato capo della redazione romana dell'agenzia Reuters e
analista di politica italiana. Ha scritto per lo stesso editore il romanzo Livia.
Una biografia ritrovata (2015) sulla moglie di Ottaviano Augusto.
Accenti nr. 26
ISBN 978-88-7470-583-2
Per informazioni sulle opere pubblicate
e in programma rivolgersi a:
Pagina soc. coop.
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Augusto rientrò a Roma di notte. Com’era suo costume fare. Non importava
questa volta neppure il fatto che la sua assenza si fosse protratta per circa tre
anni; che in città ci si azzuffasse su chi gli sarebbe dovuto andare incontro per
primo ad accoglierlo; che ci fossero trionfi da celebrare, questuanti da
consolare, cittadini da salutare, matrone da accarezzare.
Augusto non voleva nemmeno in questa occasione rompere la tradizione
dei suoi ritorni in città fatti col favore delle tenebre: venisse dai sobborghi
dopo breve assenza o giungesse di lontano da un lungo viaggio, o da una
lunga campagna militare, era la stessa cosa. Amava ed era solito rientrare
lontano da occhi indiscreti, senza i crepitii del giorno nei quali ogni avviso di
allerta si sarebbe potuto confondere, senza resse che avrebbero potuto celare
qualsiasi pugnale, senza baraonde ululanti e querule, senza celebrazioni
immodeste e false.
Augusto così aveva deciso. Così come aveva fatto distruggere ogni sua
statua d’oro nella città e vietato celebrazioni fuori luogo da parte del Senato o
salamelecchi ossequiosi verso di lui o verso membri della sua famiglia.
Amava il potere e comandare, ma era disgustato dall’altrui adulazione.
Voleva essere adulato, ma perché lo ordinava e lo meritava lui, non per
piaggeria di omuncoli. C’era poi da considerare che ad ogni ritorno si portava
appresso la stanchezza di un lungo viaggio e qualche nuova malattia noiosa.
Quasi sempre era solo il riapparire dei soliti vecchi malanni. Questa volta gli
era tornata la sua abituale raucedine e gli era sparita nelle ultime ore, quasi
d’improvviso, la voce: non riusciva proprio a parlare, non riusciva a farsi
sentire. Sarebbe stato quindi un ritorno insolitamente muto mentre a un capo
conviene farsi ascoltare: dare ordini precisi e indicazioni secche che giungano
sonore, chiare, tempestive, ovunque occorrano. Lunghe cavalcate e viaggi in
carro gli acuivano poi il dolore al ginocchio destro, quello stesso che era stato
colpito da un sasso in Dalmazia durante una delle (poche) battaglie davvero
combattute, in gioventù; così come il dolore per le ferite alla coscia sinistra
procurate nella stessa battaglia giovanile tornava, se non altro alla mente,
cavalcando. Ma i malanni per le conseguenze delle (rare) battaglie che
l’avevano visto gettarsi nella mischia finivano qui. A questi dolori si
aggiungevano quelli reumatici legati più all’approssimarsi ormai incombente
dei cinquant’anni che all’agitare di armi.
Il suo corpo era elegante e il suo aspetto faceva impazzire le matrone
dell’urbe, oltre a quelle di ogni paese e città che attraversasse. Lo sguardo
ammaliava, la perfezione del viso era quella di un dio. Eppure celava sotto la
tunica un segreto: la pelle era coperta di piaghe e i malanni erano il vero
tallone d’Achille di Augusto. E l’unica matrona che voleva partecipe di
questo segreto era Livia, la sua Livia che lo amava appassionata come
un’amante e lo accudiva come si accudisce un figlio. Lui parlava poco di
malattie, non amava mettere in mostra i suoi guai fisici più di quanto non
fosse necessario e non fossero universalmente noti i limiti di una salute
fragile che più di una volta aveva fatto temere il peggio per la sua stessa vita.
Dei suoi mali portava su tutto il corpo segni che nascondeva sotto fasciature,
maglie, e che venivano ricoperti dalle tuniche. Ne parlava, e come se ne
parlava, e ne scriveva spesso solo alla moglie Livia, unico vero medico del
quale avesse una fiducia piena e illimitata, l’unica che sapesse ogni volta
trovare o il dottore o la medicina giusti, l’unica che sapesse coltivare tutte le
erbe mediche che gli erano indispensabili, che sapesse vigilare e consigliargli
una dieta che lo tenesse al riparo dalle peggiori dissenterie. Ed anche questa
volta solo il cielo sapeva quanto Augusto avesse bisogno di rifugiarsi fra le
braccia e le cure di Livia. La moglie era l’unica che potesse tenere testa e
trovare rimedi più efficaci e sicuri di quelli di Antonio Musa, il più ascoltato
e stimato dei medici di Augusto.
Più che rifuggire la gloria, anche per questo ritorno voleva evitare di
mettere in evidenza questo suo stato sofferente e precario con un rientro
clamoroso, sotto gli occhi di tutti: voleva evitare di mostrarsi a tutti
insofferente, muto, desideroso delle cure di Livia e del silenzio rigeneratore
delle meditazioni, delle letture e delle scritture nel suo studiolo che si
affacciava al primo piano e dal quale si dominava il secondo peristilio della
casa sul Palatino. La sua vita del resto era pubblica in tutto, in quasi tutte le
ore del giorno e della notte; non voleva cedere alla folla anche questi pochi
momenti privati. Questa del ritorno notturno era per lui un’usanza tanto
consolidata che applicava anche al rientro dai piccoli e brevi spostamenti
appena fuori città, se gli impegni lo permettevano. Persino quando morì, a
Nola, fu poi riportato in città dai suoi cari e scortato da magistrati lungo la
strada di notte, anche perché si era in una torrida fine d’agosto. Vivo o morto,
il luminoso principe Augusto amava rientrare a Roma solo con il buio.
Sapeva che pronto ad attenderlo, per accoglierlo in pompa magna, c’era
Lucio Cornelio Balbo. Di quest’attesa lo aveva avvisato la moglie.
Gliel’avevano poi detto messi e consiglieri. Il generale spagnolo, nipote del
console di Roma del 40 a.C. che era stato segretario e consigliere di Giulio
Cesare, fu proconsole d’Africa. Riccio, faccia tonda, altezza media, con una
accentuata pinguedine che ne rivelava l’amore per la buona cucina, aveva uno
sguardo svelto, vigile e profondo. Proprio in quei giorni era nel bel mezzo dei
festeggiamenti per l’inaugurazione della nuova imponente opera che aveva
donato alla città, a ricordo perenne della sua impresa militare. In Africa, solo
una manciata di anni prima, aveva conquistato immensi onori e territori,
spingendosi al comando delle sue legioni lontanissimo dal Mare Nostrum, ai
confini del deserto e del mondo, e aveva riportato non solo decine e decine di
fiere per i giochi nell’urbe e lunghe file di schiavi in catene, ma aveva
condotto con sé anche la vittoria sui garamanti e il dono a Roma di nuovi
territori sottomessi e di nuove tasse da incassare.
Balbo non era di una famiglia dell’urbe: la sua stirpe aveva radici nei
territori un tempo di Cartagine, nella spagnola Cadice, dove era nato anche
lui, ma non gli difettavano per questo il coraggio e la maestria in battaglia.
Cadice era stata la prima città fuori d’Italia ad assumere diritto e lingua dei
romani. La prima città a voler diventare romana in tutto. A dare lustro alla
famiglia, che già nel nome portava i segni della sua grandezza ed evocava
una discendenza divina dal dio Baal, era stato lo zio; anche lui non era
cittadino romano per nascita, vivendo da re nella punica Cadice, ma aveva
ottenuto la cittadinanza dell’urbe direttamente da Pompeo per i meriti
acquisiti durante la guerra sertoriana. Era poi stato lo stesso Cesare, che
conobbe Balbo Maggiore questore nella Spagna Ulteriore, a portarlo
nell’urbe nella ristrettissima cerchia dei suoi consiglieri e collaboratori. Balbo
e la sua famiglia si occupavano di denaro e ricchezza, che prosperano
laddove c’è stabilità politica. Da buon mediatore Balbo frequentò
assiduamente Cicerone, al quale spesso si appellava e chiedeva consigli,
almeno fino a quando questi fu cesariano. La forza finanziaria dava allo
spagnolo una capacità di influenza di molto maggiore a quella di tanti
senatori, contava più di loro pur non avendo lui quel rango sociale che fu
invece conquistato dal nipote.
Ottaviano conobbe Balbo Maggiore nella cerchia stretta dei collaboratori di
Cesare. Del divo Giulio lo spagnolo arrivò, dicevamo, a fare anche il
segretario. E fu Balbo uno dei primi con il quale Ottaviano prese
segretamente contatto al suo rientro in Italia dopo l’assassinio di Cesare.
Balbo Maggiore viveva e operava nell’ombra, con sapienti consigli dati
lontano dal clamore della scena pubblica, nei conciliaboli delle segrete
stanze. Non lasciava tracce e quelle poche le troviamo solo in lettere private,
come quelle di Cicerone ad Attico, che ne citano le azioni e, molto più
raramente, le opinioni. Solo nel 40 riemerse sulla scena pubblica diventando
console. Negli anni successivi il finanziere fu un consigliere discreto e fidato
anche del giovane Ottaviano. Suo nipote, che portava lo stesso nome, poi
subentrò all’influente parente. Ed era questa prossimità della sua famiglia
prima con Cesare poi con Ottaviano ad averne fatto uno dei più intimi di
Augusto. Il giovane Balbo aveva ereditato dallo zio l’arte della mediazione,
una irresistibile attrazione per il potere, il ruolo discreto e defilato di
consigliere dei potenti. Ma soprattutto ne ereditò l’immenso patrimonio e la
capacità di farlo fruttare e crescere di giorno in giorno. La ricchezza di Balbo
Maggiore era tale che lo sfarzo della sua villa con annessi magnifici giardini,
a Tuscolo, aveva persino scandalizzato uno che pure era ben abituato al lusso
quale Cicerone, che lamentò la sfacciata ricchezza di Balbo in uno scritto
all’amico Attico, un altro al quale una smodata abbondanza certo non
difettava né faceva problema. Balbo Maggiore era così ricco che alla sua
morte lasciò da distribuire alla plebe romana più di quanto fosse riuscito a
lasciare al popolo persino Cesare. A differenza dello zio, il giovane Balbo
riuscì a conquistare il laticlavio: un posto in Senato raggiunto complici anche
le numerose ristrutturazioni del rango che Ottaviano mise in pratica per
rinnovare e aggiornare al cambiare dei tempi queste antiche assise dopo gli
ultimi travagliati decenni di Repubblica.
Augusto gli concesse il trionfo, al ritorno dalla lunga campagna in Africa
contro i garamanti, e gli permise così di sfilare per la strada sacra, risalendo
verso il tempio di Giove sul Campidoglio, scortato da re nemici in catene,
bestie d’ogni specie. Nel lento procedere del trionfo erano chiusi in gabbie di
legno gli animali più miti e serrati col ferro i recinti per le fiere più
pericolose. Ma nel corteo a brillare erano soprattutto casse e cassette d’ogni
tipo con l’aggiunta di ricchi bauli finemente rifiniti e ricolmi d’oro e di pietre
preziose. Quel luccichio d’oro e d’argento aveva impressionato anche
Augusto: l’anno seguente fece ordinare dal Senato che si riprendesse la
tradizione repubblicana, proprio per impulso di lui che in tutto e per tutto
voleva apparire come il restauratore degli antichi costumi romani sospesi o
cancellati da decenni di guerre civili, dell’utilizzo di parte del bottino di
guerra per ornare Roma con sempre nuovi monumenti. Monumenti ex
manubiis, come si soleva dire per queste opere fatte con i proventi di una
guerra e come scrisse poi lo stesso Augusto anche del suo nuovo e
magnificamente adornato foro che aveva deciso di far costruire con i soldi
delle sue imprese militari. L’urbe diventava un concentrato di marmi
variopinti in ogni dove, ma soprattutto nel campo Marzio che assomigliava
sempre meno a quella palude insalubre che era stato fino ad allora.
Destino volle che il giovane Balbo diventasse l’ultimo senatore e generale
al quale Augusto avesse concesso il trionfo, almeno l’ultimo non
appartenente alla sua schiera di figli e nipoti. Primo e ultimo estraneo alla
famiglia dunque, nel secolo d’oro inaugurato dal principe, a edificare un
monumento con un bottino di guerra. Allo spagnolo non difettavano né la
disponibilità economica né la magnanimità. Aveva voluto così far sorgere un
grande teatro completato da un criptoportico che donasse al complesso
magnificenza e polifunzionalità civile, come aveva fatto pochi decenni prima
Pompeo. Volle collocare il teatro a metà strada tra il foro e quell’area del
campo di Marte dove Agrippa aveva voluto numerosi edifici pubblici, fra i
quali i Septa e le sue terme e aveva rinnovato il Pantheon e il circo Flaminio.
Il teatro di Balbo era a due passi dal ponte Sublicio e dalla curva del
Tevere attorno all’isola Tiberina verso il Velabro, ma anche verso la parte
centrale del campo Marzio che i più vecchi ricordavano paludosa e con
acquitrini prima della sistemazione e bonifica da parte di Agrippa. La
dislocazione del teatro su un terreno un tempo paludoso causò, come
vedremo, qualche problema proprio nel momento della sua inaugurazione. La
cavea del nuovo teatro era elegantissima e in pietra, come ormai si usava dai
tempi di Pompeo, quando abbandonò il precario e fragile legno che veniva
usato prima per i teatri. Gli scultori al servizio di Balbo avevano adornato il
fondale con magnifici marmi, compresi bassorilievi raffiguranti Latona,
madre di Artemide e di Apollo. La citazione del dio, così caro ad Augusto e
protettore del principe nella vittoriosa battaglia di Azio, sarebbe stata un
grande omaggio che il marito di Livia avrebbe sicuramente apprezzato.
Almeno così pensava Balbo che chiese agli scultori di mettere rami di alloro
in ognidove nei vari riquadri del fregio marmoreo, sui timpani e nei riquadri
fra una colonna e l’altra. Quel monumento doveva apparire come un’apoteosi
dell’era augustea. Una bellicosa Artemide, intenta a prendere frecce dalla
faretra, ricordava poi, ben in vista lì sul palco, anche le imprese di caccia del
senatore di Cadice in terra africana.
Lo spagnolo era conosciuto come uno dei più cari amici del principe al
quale negli ultimi anni aveva offerto consigli e suggerimenti su come
governare e utilizzare le casse dei denari pubblici. Ma si era distinto anche
nel governo dei suoi di denari, poiché con la gestione del bottino africano
aveva incrementato il mestiere di banchiere che era ormai la sua prevalente e
redditizia attività. Non tralasciò però mai il mestiere di consigliere. Augusto
ricordava bene quanto doveva, per le sue fortune, ai consigli dello zio dello
spagnolo, preziosi allorché inesperto rimise piede in Italia nei giorni
immediatamente successivi alla morte del divo Giulio.
Tutte queste cose avevano fatto sì che Cornelio Balbo avanzasse, con
certezza di sicuro risultato, la pretesa di poter essere lui a ricevere Augusto al
suo rientro in città, anche perché proprio in quei giorni aveva dato il via agli
spettacoli per l’inaugurazione del teatro. Il ritorno di Augusto si sarebbe
celebrato così, pensava lui, con il contorno delle feste per l’apertura del suo
teatro. Il nuovo edificio era imponente se non per dimensioni – poteva
ospitare poco più di undicimila spettatori, non tanti a confronto del vicino
teatro di Pompeo e di quello da poco inaugurato e dedicato a Marcello, figlio
di Ottavia e genero di Augusto, morto prematuramente – sicuramente per
fattura e ricchezza di ornamenti. Il monumento confinava da un lato con il
portico d’Ottavia, che Augusto aveva dedicato alla sorella e fatto erigere con
i soldi del bottino della guerra in Dalmazia, e inaugurato proprio dieci anni
prima; dall’altro con la porticus Minucia, ai Septa, dove Augusto soleva far
distribuire gratuitamente una volta al mese il frumento alla popolazione,
ricordando con tenace discrezione ai cittadini di Roma che prima di lui quello
stesso grano veniva loro sì distribuito, ma facendolo pagare.
Il fato volle che proprio in quell’inizio d’estate pochi giorni di temporali e
violente piogge in tutte le terre a nord di Roma provocassero una delle piene
del Tevere più dilaganti che a memoria d’uomo si ricordassero. Le fresche
pietre, i mattoni e i ricchi marmi di teatro e cripta ne subirono le
conseguenze: solo con delle barche ci si poteva avvicinare al nuovo edificio;
e dapprima gli operai e i maestri scalpellini, indaffarati nelle ultime rifiniture,
dovettero imparare anche il mestiere dei marinai per giungere al loro lavoro,
così come, poi, anche gli spettatori delle rappresentazioni inaugurali: tutti in
barca a teatro.
Balbo, che ben conosceva i meccanismi nella famiglia del principe, aveva
scritto una lunga e appassionata lettera a Livia perorando la causa e
insistendo per avere la principesca coppia agli spettacoli inaugurali, ben
sapendo che ormai tutte le questioni che riguardavano l’organizzazione civile
e artistica del principato dipendevano da Livia. Era sempre stato così, ma ora
ancora di più dopo che l’astro di Mecenate aveva iniziato la sua parabola
discendente.
Balbo aveva inviato dunque una lettera a Livia per pregarla di presenziare
agli spettacoli, insieme con il marito: «Vi aspetto, sicuro che vorrete dare
lustro con la vostra presenza a questo nuovo monumento che dono alla città
di Roma per renderla sempre più bella e rispondente a quei canoni d’arte e di
bellezza che Vitruvio ci ha insegnato, per dare lustro all’urbe che amiamo e
alla patria che ho da tempo eletta anche mia e che amo più di ogni cosa al
mondo». E via di questo tono per una lettera lunga e accalorata, ricordando i
tempi passati insieme, lui con la coppia dei principi, agli spettacoli e al circo,
e le ore trascorse nella casa del Palatino a dibattere strategie, e i giorni
spensierati ospite della villa al nono miglio della Flaminia...
Balbo non sapeva che proprio Livia era rimasta profondamente delusa dal
nuovo teatro. In esso infatti lo spagnolo non aveva potuto mettere alcuna
statua di Augusto, poiché il principe aveva vietato sue statue in edifici
pubblici nell’urbe, a meno che non fossero state decise e stabilite da lui
stesso. Così allora aveva optato per mettere, insieme con altri numerosi busti
di personaggi illustri e altre preziose opere di fattura sia greca sia romana che
ornavano il criptoportico e insieme con numerosi quadri di pittori greci,
anche un busto di Livia. Era in bella evidenza proprio all’ingresso del portico
sulla parte opposta all’esedra, nell’accesso più affollato durante le feste e le
rappresentazioni teatrali, quello che veniva dal teatro. Aveva commissionato
il busto personalmente a una delle scuole di scultori che andavano per la
maggiore a Roma, quella degli spartani Saura e Batraco. Si trattava della
scuola che aveva lavorato anche per lo stesso Mecenate e per Vitruvio
proprio negli ultimi anni dell’architetto poco prima della morte, che lo aveva
strappato a Roma da un paio d’anni. Il busto era ovviamente stato scolpito
secondo i canoni dei ritratti della moglie del principe: splendido ma al
vederlo, durante una furtiva visita segreta compiuta da Livia nel teatro
quando era ancora in fase di completamento, la moglie di Augusto era
rimasta senza fiato, come se all’improvviso lo specchio le avesse riflesso una
immagine distorta di sé, mai vista prima. Livia era abituata a vedersi ritratta
in statue e busti che la rappresentavano nel fiore della giovinezza e della
bellezza. Questo busto aveva sì reso giustizia ai suoi occhi enormi e allo
sguardo luminoso, l’aveva sì rappresentata con la pettinatura all’Ottavia che
lei amava e prediligeva più di ogni altra, e che le donava una altera eleganza
rusticana e una bellezza che le permettevano di non avere uguali in città. Ma
la rendeva ahimè qual era: una donna vicina alla soglia dei cinquanta. Le era
persino parso di notare in quella pietra la raffigurazione di una pelle flaccida
sul collo e gote imborsite dall’età. Guardando quel busto, per la prima volta
Livia vide quel che stava diventando: una donna sul finire dei suoi quaranta,
matura, ancora bella e affascinante, ma ormai lontana dagli anni lieti della
giovinezza. Tutto questo Balbo non lo sapeva, ma Livia sì, e con mestizia
non poteva dimenticarlo.
«Caro Balbo, tu sai quanto Augusto abbia a cuore la tua amicizia e sappia
bene quanto rispetto debba alla tua persona in particolare e alla tua famiglia,
compreso il compianto tuo zio. Non mancherà certo di dar lustro al tuo nuovo
teatro. Ma come tu sai altrettanto bene sarà lui a decidere, una volta sulla via
di ritorno e alle porte dell’urbe, chi convocare a sé e quando», iniziava la
lettera di risposta di Livia allo spagnolo, e proseguiva con mille ricordi e
ringraziamenti per il sostegno alle attività del principe: tante belle parole che
nulla lasciavano trasparire dei veri sentimenti di Livia e che non dissiparono,
anzi accentuarono, l’incertezza sulla effettiva volontà di Augusto.
Nel leggere quelle parole Balbo riandò col pensiero alle ore passate nel
triclinio ipogeo della villa al nono miglio della Flaminia, e risentì risuonare
nella stanza l’eco delle sue risate ai racconti di Augusto mentre Livia,
silenziosa, dischiudeva appena le labbra a un sorriso. Riandò con la memoria
alle domande di Augusto su questo e quel senatore, su questo e quel questore,
su questo e quel cavaliere e sulle loro mogli e sulle loro figlie. Balbo si rivide
pure seduto nello studiolo della casa di Augusto sul Palatino a parlare di
affari e di strategie, lui solo con Augusto a scrutarlo, e che rimaneva in
silenzio anche quando lui aveva finito di rispondere ed esporre, in attesa di
altri dettagli e come se anche il silenzio portasse notizie, anzi, come se le
notizie più importanti scaturissero da questi momenti di interrogata assenza di
suoni.
Balbo rimase deluso e frustrato nei suoi sogni di gloria, non tanto a causa
dell’acqua che scorreva per le strade del campo di Marte come torrenti
primaverili, quanto dal diniego di Augusto. Deluso rimase pure il Senato che
proprio in quei giorni aveva deciso che il ritorno del principe si sarebbe
dovuto celebrare con l’edificazione di un’ara sacrificale. Un’ara per celebrare
la nuova era di pace, al pari quasi della processione e delle celebrazioni che
pochi anni prima, appena quattro, erano state volute dallo stesso principe per
inaugurare il secolo d’oro, celebrato dai ludi secolari e dal carme cantato da
decine di fanciulli e decine di fanciulle con le parole di Orazio, nel tempio di
Apollo sul Palatino. Il Senato avrebbe voluto quella nuova Ara da dedicare
alla dea Pace nella stessa curia o di fronte a essa, nei pressi del piccolo
tempio di Giano nel foro, in modo da collegare in maniera evidente la nuova
era pacificata all’impresa di Augusto: secolo della pace e assenza di guerre di
romani contro romani si sarebbero potuti celebrare in quel luogo di fronte alla
curia, aula spesso ospite delle riunioni del Senato, e perciò stesso cuore della
vita pubblica della città e dell’impero.
Il Senato aveva stabilito anche che, per rendere più felice il già glorioso
ritorno di Augusto, fosse concessa l’impunità a tutti coloro che avessero
accolto «con atteggiamento supplice» il principe al rientro nel recinto sacro
del pomerio, cioè nel cuore della città di Roma. Ma Augusto, così come
aveva deluso le aspettative dell’amico Balbo, deluse pure quelle del Senato:
non volle né un’Ara della Pace di fronte alla curia, né incontrare folle festanti
e devote al suo rientro in città. Al popolo aprì le porte del suo palazzo, ma il
giorno dopo il suo rientro; concesse inoltre che in quel giorno fosse libero
l’accesso alle terme e ai bagni e che i barbieri tagliassero barba e capelli
gratis a chiunque si presentasse. Allo stesso tempo si fece seguire da frotte
festanti mentre saliva al Campidoglio dove si recò al tempio grande di Giove,
quello famoso nel mondo per lo splendore dei suoi marmi austeri e
multicolori, per porre sulle ginocchia del dio la corona del suo trionfo e un
ramo di alloro che aveva staccato dai fasci lì deposti per celebrare le sue
vittore in Gallia e Spagna.
L’alloro, come era ormai tradizione in quegli anni, proveniva dal laureto
nella villa di sua moglie Livia al nono miglio della Flaminia, dimora che
anche il principe aveva adottato come casa per l’otium e dove trovare riparo
nelle torride giornate estive che anche quell’anno erano giunte. Al pari di
Livia, Augusto adorava rifugiarsi nel triclinio ipogeo della villa, contornato
da quel giardino dipinto che mai soffriva per l’aridità dell’afa o per il
mutevole cangiare delle stagioni, ma sempre brillava con i suoi affreschi di
alberi e arbusti, di colorati e abbondanti fiori e frutti, di uccelli piccoli e
grandi.
Come sua moglie, amava anche lui, specialmente nella stagione estiva,
stendersi sui divani in quel triclinio scavato sotto la terra e si lasciava
trasportare dalla sua immensa vitalità: quell’andare immobile e vivace di
decine e decine di uccelli, quella ricchezza colorata e viva di frutti e di fiori.
Si lasciava cullare dal movimento di quel dipinto: il silenzioso spirare della
brezza del ponentino che reggeva in volo tanti volatili nella fissità delle ali
spalancate e quel vento appena percepito dal frullare di foglie e il piegarsi di
rami pennellati sui muri. Si sentiva aprire i polmoni e liberare la testa in
quell’immenso respiro: la profondità infinita di quel giardino che lo
contornava, aldilà della fitta boscaglia.
Augusto poi fece convocare il Senato. I senatori insistevano con l’idea
dell’altare della Pace: una bella idea, sì, ma ci sarebbe stato tempo per
pensarci. Anzi, il tempo era quello giusto. Non per il progetto del Senato, ma
per il coronamento di due opere alle quali il principe aveva a lungo pensato
durante il viaggio di ritorno e che ora bisognava avviare subito. Bella idea
quella della Pace a compimento delle questioni che aveva programmato, ma
voleva pensarci bene. Voleva sistemare prima due vicende con le quali aveva
a che fare fin dal principio della sua carriera pubblica, da quando aveva
raccolto l’eredità dal padre adottivo, Giulio Cesare. Si trattava di dire una
parola nuova sulla ricompensa dei militari e una sulle cariche dei senatori. La
prima questione era stata da sempre un suo punto di forza, da quando
rientrando in Italia a Brindisi, dopo la morte di Cesare, pagò le due legioni di
stanza in quel luogo più di quanto avesse loro promesso Antonio. Da subito
Ottaviano strappò così due legioni all’avversario e ottenne un esercito fedele,
come si vantò poi nell’incipit delle Res gestae: «All’età di diciannove anni,
con mia personale decisione e a mie spese personali, costituii un esercito con
il quale restituii a libertà la repubblica oppressa da una fazione». E Cicerone,
il 3 novembre del 44, confermava in una lettera ad Attico: «Sta macchinando
grandi cose. I veterani che si trovano a Casilino e a Calazia li ha fatti passare
dalla sua parte. E non c’è da stupirsi: distribuisce a ciascuno di loro
cinquecento denari».
Rimase una costante in tutta la sua vita: gran parte della sua forza l’aveva
costruita su un rapporto sempre positivo con le legioni, il braccio armato di
Roma, affidato alle cure e al comando dell’amico Agrippa, ma negli anni
seguenti anche a quello dei due figli acquisiti grazie al matrimonio con Livia,
Tiberio e Druso.
Ora non era più possibile procedere a nuovi espropri di terre sul suolo
romano per affidarle ai veterani; Augusto decise dunque di regolarizzare la
paga ai militari in servizio e di concedere una pensione in denaro ai suoi
pretoriani che avessero servito per almeno dodici anni e ai soldati tutti che
avessero servito per almeno sedici anni.
Non c’era solo un problema di finanziamento, ma anche di struttura interna
dell’esercito. Il numero delle legioni, che durante le guerre civili aveva
raggiunto l’esorbitante numero di 52, al servizio di comandanti diversi, dopo
Azio era stato ridotto a 26 per poi risalire lievemente a 28. Ma Augusto si
adoperò soprattutto a stabilizzarne il numero dei soldati a 5-6.000 per ogni
legione, reintegrati periodicamente per rimpiazzare le uscite per anzianità o
per morte in battaglia. Ogni legione era poi affiancata dagli auxilia, le truppe
ausiliarie composte da uomini dei popoli che man mano entravano sotto il
dominio di Roma. Gli ausiliari erano circa 500 per legione, ma potevano
crescere secondo le necessità fino a pareggiare quasi il numero dei soldati. Il
soldo base del legionario fu stabilito in 900 sesterzi l’anno (pari a 225 denari)
e il costo annuo complessivo dell’esercito venne stabilizzato in 60 milioni di
denari l’anno: una cifra enorme, ma certa e stabile.
«Ecco il padre dei miei figli», disse con un sorriso accogliendo il genero
Marco Vipsanio Agrippa nella più privata delle sue stanze, nell’abitazione sul
Palatino. Lo studiolo era affrescato con un raffinatissimo miscuglio di colori:
a dominare erano il cinabro e l’ocra con il nero a fare da sfondo alle fasce
fregiate. L’architettura era perfetta nel rincorrersi di immagini di esili colonne
con capitelli ionici e figure sobrie. Il tutto alleggerito da improvvise sorprese
come qualche uccelletto posato qua e là su una cornice. Agrippa nei dieci
anni di matrimonio con Giulia aveva avuto due figlie femmine e due maschi,
Lucio e Gaio, già adottati dal nonno per dare il segnale di un asse ereditario
certo e saldo. I due amici da anni non si vedevano, malgrado avessero tenuto
sempre un serrato scambio epistolare. Augusto e Agrippa vivevano la più
intensa e sobria delle amicizie, simbiosi rafforzata dal matrimonio di Agrippa
con l’unica figlia del principe. Il loro rapporto non era assiduo, ma reso
ancora più saldo dalla rarefazione nel tempo. Gli ultimi anni li avevano
passati lontani ai lati opposti dell’impero, entrambi distanti da Roma a
rafforzarne territori e confini come solo loro avrebbero potuto fare. In tutti
quei mesi si erano tenuti però in un fitto contatto con quasi quotidiani scambi
di lettere. Ma ora si trattava di potersi parlare guardandosi negli occhi, per
rendere più stabili e durature le fondamenta del principato: «Ti aspetta ora un
impegno gravoso, più di una lunga campagna militare. So bene che
preferiresti la seconda, ma non puoi deludermi in questo ancora più delicato
compito che solo tu puoi adempiere, perché sei l’unico a saper chiamare ogni
soldato di Roma per nome», gli disse Augusto accarezzando con la mano la
spalla della statua d’Apollo che aveva nello studiolo.
Al genero Agrippa Augusto affidò la ristrutturazione delle legioni, della cui
fedeltà aveva imparato l’importanza. Era questa una delle prime e principali
lezioni apprese nel breve volgere dei mesi vissuti insieme con il padre
Cesare. Affidò ad Agrippa pure la nuova costituzione di una flotta
permanente basata sia a Miseno, nel Tirreno, sia a Ravenna, nell’Adriatico,
con altre basi minori per potere assicurare il dominio su tutti i mari e i grandi
fiumi. Ma il lavoro di ristrutturazione non si fermò alle milizie. Augusto dal
patrigno aveva imparato anche un’altra lezione: Cesare aveva stressato i suoi
rapporti con il Senato; aver imposto la sua autorità sull’assemblea delle genti
romane gli costò la vita e le 23 pugnalate che lo raggiunsero ai piedi della
statua di Pompeo. Augusto al contrario non si pose mai sopra il Senato, si
mostrò sempre pubblicamente come il restauratore della Repubblica, delle
sue istituzioni e delle sue leggi, concedendo onori ai senatori: «Restituii a
libertà la Repubblica oppressa da una fazione», scrisse ai primi posti
nell’elenco delle sue imprese. Dopo la battaglia di Azio, nella quale sbaragliò
– grazie ad Agrippa – Marco Antonio e Cleopatra e con la quale stroncò la
guerra civile, «più di 700 senatori militarono allora sotto le mie insegne, e di
essi, prima o poi, fino al giorno in cui furono scritte queste memorie, 83
furono eletti consoli, e circa 170 sacerdoti», aggiunse nelle Res gestae.
Il numero limite di 700 senatori Augusto lo stabilì dopo Azio, riducendone
il livello dai circa mille precedenti. Nel 18 a.C. procedette a un nuovo taglio
portandone il numero, che nel frattempo era nuovamente lievitato a circa 800,
a 600, cioè al numero previsto ai tempi di Silla. L’opera di ristrutturazione
durò fino a circa il 13, quando Augusto arrivò a impiegare nella magistratura
oltre 120 senatori, cariche che comprendevano anche i nuovi uffici stabiliti
nell’urbe: dalla cura degli alvei del Tevere a quella delle vie, dalla cura delle
opere pubbliche alla distribuzione del grano. Solo più tardi rese stabili anche
le corti pretorie dell’annona e dei vigili del fuoco, affidandone però la guida
all’ordine equestre, non a senatori. Proprio Balbo e la sua famiglia spagnola
erano la dimostrazione che forze nuove emergevano nella nuova Roma che si
stava velocemente trasformando, forze che, come con Balbo, dovevano poter
essere rappresentate in Senato.
«Dobbiamo favorire nelle nostre legioni la possibilità per tutti i più
meritevoli di crescere nella catena del comando. Vorrei poi che il Senato
coinvolgesse sempre più gli equites nella magistratura, fino a ottenere nuovi
senatori», aggiunse Augusto ad Agrippa alzandosi dalla sedia, avvicinandosi
alla porta e guardando giù, nel peristilio, inondato dal sole limpido del
meriggio. Un raggio di sole riluceva sulle candide vesti dell’Apollo che
Augusto aveva voluto nel suo studiolo, non solo come ornamento ma anche
per compagnia nelle sue ore solitarie di studio e di scrittura di lettere e ordini.
Le due riforme di esercito e Senato erano strettamente legate l’una all’altra.
La possibilità di carriera dei cavalieri permise progressivamente l’ingresso
nella magistratura, poi nel Senato stesso, permettendo la mobilità sociale in
una civiltà che negli ultimi tempi si era fossilizzata, tradendo quello spirito di
integrazione che era alla base della nascita e del successo di Roma. Roma e la
sua civiltà nacquero infatti dall’integrazione di popoli diversi (latini, sabini ed
etruschi) in un luogo di incontro e di transito quale era il guado del Tevere
nei pressi dell’isola Tiberina. Ora invece, al posto di essere un luogo di
incontro, la civiltà romana era stata trasformata da decenni di guerre civili in
luogo di scontro tra interessi diversi e contrastanti con un vertice di governo,
il Senato, incapace di comporli perché esso stesso statico e bloccato.
Augusto, che all’inizio della sua carriera e prima di sposare Livia aveva dalla
sua appena un senatore, era la persona giusta per riavviare il motore
dell’ascesa sociale in una società che andava rapidamente trasformandosi e
che si era allargata fino ai confini della terra. E lo fece coinvolgendo da
subito chi a quella società irrequieta era in grado di garantire stabilità e
ordine: l’esercito.
Mentre della riorganizzazione delle legioni Augusto ne parlò con Agrippa,
della riorganizzazione del Senato e dell’ordine equestre ne discusse a più
riprese anche con Livia e con la sorella Ottavia. Le donne conoscevano tutte
le famiglie di Roma, ne saggiavano gli umori e controllavano quindi la
partecipazione gentilizia alle riforme di Augusto. Esercito e magistratura:
erano questi i due pilastri sui quali si reggeva Roma, affiancando a essi la
stessa impalcatura religiosa, così come era stata definita da Virgilio nel suo
poema principale, l’Eneide. La raffigurazione divina, che di lì a qualche mese
sarebbe stata impressa nel marmo della recinzione dell’Ara Pacis Augusta,
prevedeva – com’era scolpito sul fronte anteriore dell’Ara – la presenza del
padre Enea, genitore di Iulo Ascanio e quindi progenitore di tutta la gente
Giulia, e quella del dio Marte, padre di Romolo; sul retro del recinto
dell’altare invece ci sarebbero state la raffigurazione della dea Roma e quella
della dea Pace, divinità che permettevano lo svilupparsi e il crescere della
civiltà romana.
Sulla collocazione dell’Ara e sull’intera disposizione di tutta la zona
settentrionale del campo Marzio Augusto ne parlò non solo e non tanto con
Agrippa, quanto soprattutto con Mecenate e con Orazio. Con questi ultimi
due poi i rapporti erano approfonditi e resi costanti soprattutto dalla moglie
Livia. Orazio aveva delineato nel Carme secolare tutto quello che Augusto
voleva esprimere nel dare inizio al secolo aureo. L’ode era stata recitata e
celebrata quattro anni prima da un coro composto da tre gruppi di sette
giovani ciascuno e altri tre gruppi di sette giovinette (in onore degli «dèi che
sempre si compiacquero dei sette colli») di fronte al tempio di Apollo
Palatino, recita che aveva dato inizio al ciclo aureo di cento e dieci anni:
Undenos deciens per annos, avevano cantano nell’occasione. Era il tempio
nella parte pubblica della casa di Augusto che si affacciava sul delizioso
portico detto delle Danaidi, le cinquanta figlie di Danao le cui erme
decoravano con marmi scuri egiziani parte del portico stesso.
Ma quel magnifico tempio, ornato di splendidi stucchi e terrecotte, non era
sufficiente per dare lustro ad Apollo e agli dèi tutelari di Roma. Augusto
aveva in progetto di rendere un altro luogo di Roma, il campo Marzio, «il più
santo dei luoghi», come ebbe poi a dire Strabone. In quel campo già aveva
collocato il suo mausoleo che dialogava a distanza con il Pantheon, i cui
ingressi si fronteggiavano lasciando dèi eterni e divinità più recentemente
ascese al cielo confrontarsi fra loro. Il principe voleva così completare la
sacralità di quel luogo che finora era stato dedicato ai soldati e ai morti.
Augusto non voleva che in quella zona prediletta e prescelta da lui prevalesse
un messaggio di morte o militaresco: nella terra dei militari e delle tombe
sarebbe ora fiorita la pace e la prosperità di Roma. Quel luogo avrebbe
dovuto evocare la santità, come facevano già i tanti templi. E come aveva
fatto da sempre la venerazione di Giunone, il culto di Giunone madre, che fin
dagli albori di Roma si professava nel campo Marzio. Milizie e luoghi del
ricordo di romani del passato non dovevano essere più sinonimi di guerre e di
morte: tutto doveva rientrare in un grande progetto proteso verso il futuro,
che comprendesse chi aveva contribuito a rendere grande Roma e chi l’aveva
difesa. Un luogo non fuori e distaccato dalla città, escluso da essa. Tutto
doveva rientrare nell’urbe, come vi rientrava e vi faceva a pieno titolo parte la
santità e la inviolabilità del pomerio. Fra Pantheon e mausoleo aveva idea di
porre, in onore di Apollo, un orologio che proiettasse la propria ombra sulla
terra di Roma, ordinandone il fluire del tempo e delle stagioni. Un omaggio
glorioso e imperituro a quel
sole fecondo che dischiudi e celi
il giorno con il tuo fulgido carro e nasci
uguale sempre e sempre nuovo, nulla mai
tu possa vedere più grande di Roma,
come aveva cantato Orazio nel suo Carme secolare. Ora quell’idea dell’Ara
della Pace Augusta, che in un primo tempo il principe aveva rifiutato nella
forma prospettata dal Senato, cioè pensata nel foro di fronte alla curia, poteva
essere rivista e ricompresa, venire utile per completare il progetto. Poteva
proprio rientrare nello stesso disegno che prevedeva l’obelisco-meridiana,
rappresentazione dei «riposti dardi» del «mite e quieto Apollo». Anzi l’Ara si
sarebbe posizionata proprio dove la meridiana apollinea avrebbe steso la sua
ombra all’imbrunire del 23 settembre, giorno natale di Augusto. Questo
decise il gran consiglio riunito. E la decorazione dell’Ara avrebbe dovuto
contenere tutto quanto indicato dal carme oraziano: dallo sbarco sul «lido
etrusco» della «schiera troiana» del «casto Enea», alla «romulea gente»,
ricordando che
già la Fede e la Pace, e l’Onore e l’antico
Pudore, e la negletta Virtù osano
tornare, e beata riappare con il suo
corno ben piena l’Abbondanza,
Facondo, che pure era abituato a vedere splendori, statue, bronzi e affreschi
magnifici in terra d’Egitto, rimase senza respiro di fronte a tale bellezza e
concentrazione di opere d’arte che nulla avevano da invidiare alla reggia di
Alessandria, quella che era stata di Antonio e Cleopatra. Seduta fra dee e dèi
di marmo ne trovò anche una in carne ed ossa: Livia Drusilla. Era la prima
volta che incontrava la moglie di Augusto, della quale aveva sentito tanto
parlare e della quale aveva pur visto numerose statue in Egitto e in Oriente.
Notò subito che non aveva nulla da invidiare ai suoi busti: ciò che quelli le
concedevano di più in bellezza e perfezione delle forme lei se lo riprendeva
con tanto di aggiunta con la luminosità e la profondità dello sguardo, uno
sguardo accogliente che nessuna statua avrebbe mai potuto replicare e nel
quale ci si beava da subito di riposare. Livia trasmetteva serenità più che
mettere soggezione. Potenza di quella donna era coinvolgere e conquistare
subito gli interlocutori, più che allontanarli distanti e ossequiosi. Donna bella
e matura, nel fiore di una maturità sulla quale l’energia della giovinezza
aveva ancora la meglio.
Mecenate invece, sebbene mellifluo e gentile nei gesti, appariva
appesantito dagli anni che gravavano più di quanto avrebbero dovuto su quel
corpo esile. Malgrado la spavalda intenzione di baldanza, era reso ricurvo
dalla vecchiaia e dalle prove di una vita che aveva retto il peso di più
responsabilità di quante non ne avrebbe volute. Anzi, una decina di anni
prima aveva vissuto quasi con sollievo il suo allontanamento dal ponte di
comando del principato, a causa di sospetti nati nel cuore di Augusto. La
colpa di tali sospetti era stata una fuga di notizie – colpa che si stendeva su di
lui minacciosa – mentre si operava per stroncare una cospirazione che vedeva
coinvolto fra i protagonisti suo cognato Murena. Su Mecenate pesava
l’accusa di avere, seppure indirettamente, messo sull’avviso il cognato di
essere stato scoperto. C’erano voluti anni per rinsaldare i rapporti con
Augusto, grazie anche alle amorevoli influenze che la moglie di Mecenate,
Terenzia, aveva sul principe. Ora, essendo venuto meno anche Agrippa, il
marito di Livia aveva bisogno come dell’aria del sostegno operoso di
Mecenate. Ma il vecchio non era certo più in grado di rispondere con la stessa
sagacia e vivacità di un tempo alle richieste dell’amico.
Ciò malgrado Facondo ebbe l’impressione quel giorno di essere introdotto
nel sancta sanctorum del potere dell’urbe, di esservi cooptato e avvolto,
sentiva pulsare il cuore dell’impero così come sembravano pulsare quelle
vene scarnificate che grondavano sangue dal corpo di Marsia, che non pareva
proprio essere di pietra.
«Caro Facondo Novio, siamo ammirati dalla tua fama di esperto di numeri
e di astri che ti precede e da quella delle tue opere che sappiamo ingegnose,
nella tua terra d’Egitto. Sappi però che tutto quello che finora hai fatto dovrà
essere oscurato dalla nuova impresa che ora ti attende a Roma. L’obelisco
che ti sei portato da Alessandria dovrà competere qua con altre grandi opere
d’ingegno e di bellezza e dovrà lottare per conquistarsi il posto che Augusto
gli vuole dedicare, nel suo ergersi ritto e forte verso il cielo», disse Mecenate
accompagnando queste ultime parole con una carezza pesante prima sul capo,
per poi scendere lieve sulla guancia e finire con quasi un solletico dei
polpastrelli sotto il mento del matematico. Le sue parole si facevano via via
più melliflue, quasi a nascondere la vigoria del messaggio in un luccichio
furbo degli occhi.
Livia intuì che era venuto il suo momento e mise fine a quella carezza:
«Intenzione di Augusto è rendere il campo Marzio il luogo più santo di
Roma, non solo per la presenza del Pantheon, ma anche con quella del suo
mausoleo, dell’altare della Pace e ora con questo obelisco che deve veicolare
il messaggio unico e complessivo di questi monumenti. Stenderà la sua
ombra a mezzogiorno verso il mausoleo a indicare che Apollo guida il sole al
suo apice e che trova compimento nell’opera di Augusto, opera che è azione
di pace per tutta la terra, pace che trae origine dalle imprese di Augusto sulla
terra. La stessa ombra, la sera del giorno anniversario del natale del nostro
principe, dovrà correre invece fino all’altare della Pace che già si sta
costruendo. Questa pace è fecondata dalle nascite di molti figli nella famiglia
di Augusto chiamati a rafforzare il secolo e confortati nel loro venire al
mondo dalla protezione di Giunone Lucina. Un secolo che trova ordine e
legalità nello scandire delle stagioni e del tempo, come la tua meridiana
testimonierà. Già Agrippa, prima della sua improvvisa dipartita da noi, ci
disse che l’obelisco che ci avresti portato aveva voluto già nel messaggio del
faraone che lo volle erigere insegnare agli uomini il cammino delle stagioni,
il fluire del tempo dalla semina alla mietitura, dall’attesa paziente al raccolto.
Ora vogliamo che anche chi non è in grado di interpretare i segni su quella
pietra possa leggere nei raggi che il divino Apollo manda qui sulla terra
l’ordinato fluire del tempo, in modo che possa essere evidente a chiunque che
questo nostro secolo di pace è il dono santo che Augusto fa a tutte le genti del
mondo».
Le parole di Livia, più formali di quanto non usasse solitamente,
riportarono la situazione alla gravità e sacralità che il momento esigeva,
togliendo Facondo dalle insidie di Mecenate e riconsegnandolo all’impegno
gravoso che l’attendeva.
L’obelisco, adagiato sulla sua armatura di legno, venne dunque scaricato
dalla nave nello stesso modo in cui era stato caricato. Iniziò la sua lenta
marcia verso la destinazione finale attraversando il Velabro, il foro boario e il
foro olitorio, costeggiando il lato occidentale del Campidoglio per poi
percorrere il tratto urbano della via Flaminia, cioè la via Lata, fino alla parte
settentrionale del campo Marzio. Facondo studiava il terreno e scrutava il
cielo. Era giunto a Roma in tempo per poter verificare l’angolazione esatta
dell’ombra all’imbrunire del 23 di settembre. Ma c’era una lievissima
discrepanza che non faceva corrispondere ombre e raggi solari nei suoi studi
con l’esatto trascorrere dei giorni e dei mesi, proprio in quel giorno che
avrebbe dovuto coincidere non solo con il giorno natale del principe, ma
anche con l’equinozio d’autunno. Ombra e studi non coincidevano per un
soffio, quisquilie sufficienti a togliere il sonno all’egiziano. Aspettò il
solstizio d’inverno a dicembre, poi l’equinozio di primavera a marzo: niente,
non c’eravamo proprio. Facondo studiava e ristudiava, passava intere notti a
scrutare il cielo e la posizione delle stelle, a scrivere numeri e numeri, a
studiare, pensare, calcolare. Ma, niente: c’era sempre qualcosa che per poco,
pochissimo, non corrispondeva ai suoi calcoli.
La primavera precedente Augusto era divenuto pontefice massimo e l’anno
successivo si compì e venne celebrato il primo anniversario della carica. Fu
proprio questa festa ad accendere un faro nella mente del matematico. Fra i
compiti del superiore dei quattro pontefici maggiori c’era anche quello di
applicare l’unica questione variabile che la riforma del calendario attuata
sotto Giulio Cesare aveva introdotto: dopo un certo numero di anni, fare
ripetere due volte il ventiquattresimo giorno di febbraio per avere un anno
che durasse un giorno in più e che correggesse così la discrepanza tra il
ripetersi dei 365 giorni che componevano un anno e l’effettiva durata del
compiersi del cammino del sole, pari a 365 giorni e 6 ore. Il problema era che
la riforma basata sugli studi del maestro di Facondo, il matematico
alessandrino Sosigene, era stata applicata in maniera maldestra: i sacerdoti
avevano fatto cadere e ripetere da allora l’anno bisestile ogni tre anni, invece
che ogni quattro come Sosigene aveva indicato. L’ultima volta era successo
proprio pochi mesi prima dell’arrivo di Facondo, nel mese precedente alla
investitura di Augusto quale pontefice massimo. Neanche di questa svista
poteva dunque essere considerato responsabile Augusto. A conti fatti il
calendario attualmente in vigore era tre giorni avanti rispetto a quello solare.
Ecco perché non tornavano i conti al povero Facondo che aveva perso su
questo piccolo errore notti e notti di sonno.
Studiare il rimedio fu però più facile di quanto era occorso per individuare
l’errore. Facondo stesso suggerì ad Augusto di attendere dieci anni prima di
riprendere l’introduzione del doppio conteggio del 24 febbraio, in modo da
recuperare i tre giorni che si erano aggiunti in maniera inopportuna e
riprendere l’esatto computo del tempo, senza introdurre nuove rivoluzionarie
mutazioni. Il matematico alessandrino nel frattempo aveva risolto molti dei
suoi problemi e poté fare i suoi calcoli tenendo presente la correzione sul
calendario che ora sapeva. Fu così che Augusto attuò, pochi anni dopo
Cesare, una nuova mini riforma del calendario, della quale il popolo
nemmeno si accorse. Di altre riforme del calendario però i romani se ne
avvidero, e come se se ne avvidero.
In pochi avevano notato la momentanea sospensione degli anni bisestili,
ma tutti invece si resero conto che il calendario dei giochi, delle celebrazioni,
dei sacrifici e delle processioni andava velocemente mutando e arricchendosi
di nuove ricorrenze e feste. Tant’è che proprio in quegli anni fiorirono
numerosi i calendari scolpiti su pietra per ricordare il ritmo delle celebrazioni.
Gran parte delle ricorrenze coincideva non solo con le date delle battaglie che
avevano portato alla pacificazione di Roma, ma anche con quelle che
rammentavano le tappe miliari della famiglia del principe a cominciare dal 17
gennaio, anniversario del suo matrimonio con Livia Drusilla, per terminare
con i grandi giochi che costellavano le giornate a partire dalla ricorrenza della
nascita di Augusto il 23 settembre: il 9 ottobre si celebrava l’anniversario
della dedicazione del tempio di Apollo sul Palatino, il 12 la costruzione
dell’altare della Fortuna Reduce, il 19 l’anniversario dell’assunzione della
toga virile da parte del principe, il 23 l’anniversario della battaglia di Filippi
contro gli assassini del divo Giulio, il padre divenuto dio. E questo solo per
ciò che riguarda le novità del mese di ottobre.
Nella grande distesa del campo Marzio, passeggiando fra boschetti e prati,
i romani avevano la possibilità di vedere con i loro occhi il nuovo ordine
dello spazio, del tempo e della storia. Da una parte la sacralità della vita con
il tempio degli dèi, dirimpettaio del mausoleo della nuova famiglia divina,
quella del principe. Divinità non recluse sull’Olimpo ma ben piantate in terra:
il Pantheon, edificato sulle ceneri di Romolo, era pronto ad accogliere lo
sguardo di nuovi ospiti, sguardi provenienti dal mausoleo di Augusto. Nel
boschetto di Lucina poi tre elementi indicavano l’intero fluire della vita di un
uomo: la fonte di Lucina per la nascita, la statua di Esculapio per la salute in
vita e il mausoleo per la morte. Infine l’altare della Pace indicava una nuova
stagione di prosperità e benessere con fiorenti frutti della terra e la certezza di
un futuro garantito e fortificato dal governo con mano sicura da parte di una
famiglia ricca di eredi. Eredi che erano destinati ad aumentare sotto la
benedizione della dea delle partorienti, Giunone Lucina, in continuità con la
storia divina e secolare di Roma. In mezzo a tutto l’ordinato fluire del tempo,
del lavoro e dell’amministrazione della giustizia, delle stagioni della terra e
del cielo e delle feste degli uomini, indicato dall’obelisco.
Facondo progettava come innalzare l’enorme stele, l’esatto orientamento
per raccogliere la luce del sole, l’inclinazione perfetta per non sbagliare un
secondo nel trascorrere secolare delle stagioni. L’obelisco attendeva paziente
posato sul campo, adagiato sulla sua armatura di legno, ed era già diventato
una nuova attrazione per i romani che si avvicinavano incuriositi da quei
simboli strani scolpiti sulla stele: occhi divini, palme, uccelli, onde del mare...
Quando tutto fu pronto, ed era passato un altro anno nel rincorrersi del tempo,
si iniziò a scavare in profondità per dare un appoggio sicuro alla pesante
meridiana, con fondamenta fatte di sassi nella prima parte, poi di pietre
sempre più piccole, infine di calcestruzzo a legare saldamente la base
dell’obelisco alla terra. Quando l’obelisco venne finalmente eretto, con la sua
palla dorata in cima che proiettava la sua ombra solare, venne lastricata anche
la striscia della meridiana che puntava verso il mausoleo, striscia che seguiva
l’allungarsi e ritrarsi nei vari mesi dell’anno dell’ombra del mezzogiorno, e
sul lastricato si iniziarono a segnare in lettere di bronzo le tappe del cammino
del sole, con l’indicazione delle varie stagioni, ciascuna con i suoi venti, i
suoi astri del cielo, le sue tappe nel passare dei giorni.
Quando però la furia del Tevere e l’innalzarsi del terreno costrinsero alcuni
decenni più tardi a sollevare più in alto le lastre della meridiana per non
lasciarle sepolte dal terreno, la perizia dei calcoli di Facondo fu sconvolta e la
precisione dello scandire del tempo si perse. L’età dell’oro di Augusto non
era un dono dato per sempre, ma una congiunzione degli astri e degli dèi in
un preciso momento del tempo e della storia, al quale riferirsi come un punto
unico e irripetibile. Il mistero della meridiana e la scienza dei calcoli di
Facondo rimasero poi per secoli sepolti e nascosti nelle viscere del campo
Marzio. L’obelisco cadde a pezzi, travolto da quello stesso tempo che voleva
domare e indicare. E piombò a terra anche il mistero delle sue scritte.
3
Lucina, prima e dopo l’Ara Pacis
Il nuovo grande ordine nei secoli, l’inizio della generazione dell’oro sono
quelli che saranno confermati nel Carme secolare di Orazio celebrato nel
tempio di Apollo sul Palatino nel 17 a.C., cioè 23 anni dopo l’egloga
virgiliana, e ribadito con la costruzione dell’altare della Pace, 27 anni dopo
quei versi, nel 13 a.C. Cioè la nostra Ara sigilla l’inizio della nuova era, era
di pace e di prosperità annunciata da una nascita e protetta dalla dea delle
nascite, la casta Lucina.
Nelle parole di Virgilio, scritte con tanto anticipo, troviamo descritto tutto
quello che sarà dipanato sul marmo dell’Ara, con il nuovo ordine apollineo
incarnato nella discendenza della stirpe romana di Augusto. Da questo punto
di vista non saremmo dunque di fronte all’annuncio di una sola nascita, ma in
presenza di più parti, in grado di garantire la discendenza del principe. Il
riferimento a Lucina non viene fatto solo a priori, riferito alla nuova era e al
monumento che annuncia, ma anche 13 anni dopo nel carme scritto
appositamente da Orazio per celebrare l’avvento dell’età dell’oro e
considerato il testo programmatico in base al quale l’altare verrà progettato.
Ed eccolo il passo oraziano nel Carme secolare:
Tu che al tempo dovuto mite schiudi
i parti, Ilizia, proteggi le madri,
oppure Lucina se così tu vuoi
essere chiamata, o ancora dea
del procreare. Porta a luce figli,
dà successo ai decreti dei Padri sulle nozze
e sulla legge maritale, feconda
di nuova prole.
«Oppure Lucina, se così tu vuoi essere chiamata». Orazio pare dire: fosse
per me ne farei anche a meno di chiamarti in causa o ti chiamerei Ilizia, ma
non posso proprio, visto che la dedica a Lucina mi è imposta dall’ineludibile
fato. Anche Orazio è costretto dunque a cercar posto e a chiedere spazio in
questa lunga fila di donne pellegrinanti verso la fonte di Lucina. Questi versi
dettano, fin nei dettagli, l’iconografia rappresentata in uno dei riquadri (dal
punto di vista dell’iconografia religiosa del monumento, il principale)
dell’Ara. E qualsiasi pellegrina passata sotto l’Ara nota che in ogni riquadro
non c’è altro che abbondanza di bambini: compaiono nei riquadri del
sacrificio di Enea e, ovviamente, in quello di Romolo e Remo; sono in quello
della dea Pace e può essere che facessero capolino anche in quello della dea
Roma; affollano entrambi i lati della processione. Ma soprattutto in questi
versi troviamo l’invocazione a Lucina. Alla dea è chiesto di proteggere il
lungo pellegrinare di madri per fecondare di nuova prole – la stessa prole
disseminata in ogni dove sui rilievi dell’Ara – l’incipiente secolo della pace,
avviato da Augusto e che sarà governato e guidato in seguito dalla sua
discendenza già numerosa.
L’inizio della nuova era pacificata prende il via dunque da una invocazione
a Giunone Lucina perché la dea fecondi Roma sempre di nuova prole,
secondo quanto auspicato anche dai «decreti sulle nozze e sulla legge
maritale» fatti approvare da Augusto in Senato, come dice Orazio. Il poeta si
riferisce a quell’insieme di leggi emanate fra il 18 e il 16 a.C. con le quali si
dava nuovo ordine morale al matrimonio, stabilendo fra chi poteva e doveva
essere contratto, esortando la procreazione di figli, penalizzando il celibato.
Le indicazioni di Orazio sono dettagliate non solo in questo, ma anche in
ogni altro frammento dei riferimenti divini, articolati e attenti a ogni virgola.
Ed ecco perché Augusto, a differenza del Senato che l’avrebbe voluta
all’ingresso della curia, volle l’Ara in quel preciso punto del campo Marzio,
«luogo sacro più di ogni altro», come scrisse Strabone descrivendolo: doveva
essere organica ed esplicativa, didattica di una serie di precetti che avevano a
che fare anche con l’ordine morale del principato, un ordine fondato sulla
famiglia e sulla sua prolificità, una famiglia sempre e dovunque affollata di
bambini, oltre che saldamente radicato nella struttura politica della società.
Perché il campo Marzio era luogo così sacro? Sicuramente perché in esso
c’era il punto nel quale venne cremato il corpo di Romolo e da lì il primo re
di Roma era volato in cielo, fra gli dèi. Era il punto che la tradizione voleva
essere quello sul quale era stato fatto costruire da Marco Vipsanio Agrippa,
dominus degli eserciti e quindi dello sviluppo e della gestione del campo
Marzio, il Pantheon. Sacro lo era dagli albori di Roma i cui pellegrinanti
cittadini in questo spazio fin dagli inizi della civiltà avevano invocato
Giunone, dea madre per eccellenza, alla quale più di un tempio era stato
dedicato. Ora ancora più sacro perché Augusto vi aveva fatto edificare il suo
scenografico mausoleo. Sacro perché, infine, le donne romane in dolce attesa
venivano in pellegrinaggio ad abbeverarsi alla fonte di Lucina per affidare la
gravidanza alla protezione della dea e per chiedere che la loro vita fosse
allietata da nuovi bambini. Perciò a due passi da quella fonte, circa a quaranta
metri di distanza, esattamente 13 pertiche, il principe decise di fare costruire
quell’altare, nel punto in cui la meridiana dell’obelisco di Facondo Novio
avrebbe spinto la sua ombra all’imbrunire di ogni 23 settembre, giorno della
sua nascita, la più importante delle nascite, poiché era quella di colui che
avrebbe potuto garantire il nuovo secolo di pace e di prosperità. Nascita da
mettere anch’essa sotto la protezione di Lucina. Una storia che avanza passo
dopo passo, come il lento andare delle nostre questuanti che attraversano i
secoli, le storie e la storia.
L’altare, Lucina e Livia, moglie di Augusto e in quanto tale custode della
sua progenie, diventano così una triade profondamente legata e intrecciata, tre
entità avviluppate l’una alle altre. L’Ara è a due passi dalla fonte di Lucina;
l’Ara è inaugurata nel giorno del cinquantesimo compleanno di Livia, donna
non più chiamata a procreare ma a custodire la progenie del principe; la fonte
è dedicata a Lucina nelle cui sembianze è rappresentata Livia, donna-dea alla
quale il monumento è dedicato. Non sarà solo un caso neppure se appena
qualche anno dopo anche il portico di Livia, l’altro grande monumento
dedicato alla moglie del principe, sarà edificato sull’Esquilino, a due passi da
un altro importante monumento della dea, il tempio di Giunone Lucina. Se
anche solo puro caso fosse, comunque è curioso e premonitore certo di indizi.
Una coincidenza casuale, che diventa un indizio disseminato con noncuranza.
Legato alla fonte di Lucina c’è anche lo sviluppo urbanistico della zona.
Quando l’Ara venne edificata, sempre Strabone racconta che «la straordinaria
grandezza della pianura permette senza impaccio le corse dei carri e ogni
altro esercizio con i cavalli e inoltre i giochi con la palla e il cerchio e la
lotta», ma parla anche di «opere d’arte disposte intorno». Quali erano? La
sola cosa che ci dice è che dietro il mausoleo era «un grande recinto alberato
con splendidi alberi». Boschi e prati dunque, parrebbe senza edifici, ma
sicuramente con «opere d’arte»: sappiamo della statua di Esculapio. Subito
dopo Augusto, però, la zona conosce una rapida trasformazione. Plinio il
Vecchio ci dice che già intorno al 30 l’orologio non funzionava più,
probabilmente per alluvioni legate ai frequenti straripamenti del vicino
Tevere che avevano alzato il terreno e fatto sprofondare obelisco e, forse,
l’Ara. Nel 69 giunge una nuova disastrosa alluvione citata persino da Tacito e
poco dopo, con Domiziano, arriva una nuova stagione di frenetico edificare.
Intanto il livello del terreno si è sicuramente innalzato di almeno tre metri
perché in tutta la zona è stata trasportata la terra frutto degli sbancamenti
delle pendici del Quirinale, dove si doveva fare posto a un nuovo foro, quello
di Traiano. La terra viene trasportata qua per almeno due ragioni: la prima è
che siamo molto vicini al nuovo foro e, la seconda, per cercare proprio di
porre un argine alle piene del Tevere salvando in qualche modo dalle acque il
resto della città, il cuore stesso della città e i suoi fori, alzando il livello del
terreno di fronte alla rincorsa furiosa da nord dei flussi tiberini in piena.
Molto probabilmente è verso la fine del I secolo, appena un secolo dopo la
costruzione dell’altare, sotto l’imperatore Domiziano, che viene edificato
lungo la via Lata l’arco cosiddetto di Portogallo, proprio alle spalle dell’Ara.
L’arco è a pochi metri dal lato settentrionale dell’altare ormai quasi
sommerso e sparito alla vista per l’innalzarsi del livello di calpestio.
Partorienti pellegrine pestavano nuova terra e nuove dune stratificando orme
su orme, terra su terra nel loro lento andare. E con il livello del terreno
vennero alzati anche altri edifici con ricche colonne delle quali non è rimasta
traccia, se non qualche citazione in autori di pochi secoli dopo che fecero in
tempo a vederne dei resti. Di queste colonne possiamo rintracciare le vestigia
anche noi, nei rafforzamenti sotterranei altomedievali delle mura dell’abside
di San Lorenzo in Lucina, dove compare più di un frammento di fusto
scanalato ancora visibile negli scavi, fusti provenienti come si soleva fare da
rovine di antiche vestigia nelle vicinanze.
L’unica cosa della quale siamo certi è che con Adriano – e sono passati
così altri tre decenni da Domiziano – si costruisce nella stessa area e le tracce
le vediamo ancora oggi: a meno di dieci metri dall’Ara, in corrispondenza
dell’attuale abside di San Lorenzo in Lucina, ci sono i resti di un ambiente
riccamente affrescato che probabilmente inglobava anche il muro di cinta,
alto un metro e novanta, costruito intorno all’Ara Pacis per salvaguardarla da
acqua e terreno ma chiudendola così definitivamente alla vista. Il muro di
contenimento infatti, almeno nella sua parte posta di fronte al lato anteriore
dell’altare, era proprio a ridosso dei bassorilievi. Poco più in là, proprio verso
la fonte, vediamo ancora pavimenti in mosaico dello stesso periodo e tutto
lascia supporre che questi ambienti facessero parte di uno stesso edificio che
inglobava sia l’Ara sia la fonte. Chi frequentava questi ambienti fungeva
anche probabilmente da custode dell’una e dell’altra, cioè custode di luoghi
sacri: sacerdoti o vestali di Lucina. Sacerdotesse preposte a controllare quel
lento pellegrinare.
Cosicché quando giungiamo al 366, cioè all’elezione papale di Damaso che
avviene proprio negli ambienti che nel frattempo si sono sviluppati qui, per la
prima volta troviamo una citazione nella quale si dice che l’assemblea
elettiva si tiene in Lucinis. Da questo semplice riferimento è nata, secoli
dopo, la convinzione che i locali dell’elezione appartenessero ad una chiesa
domestica e si pensò che potessero essere stati messi a disposizione dunque
da una tale Lucina, matrona e proprietaria del luogo, confondendola forse con
quella Lucina, santa donna cristiana proprietaria della villa sull’Ostiense dove
san Paolo venne sepolto. Ma la identificazione di una Lucina proprietaria
anche di questo luogo nel campo Marzio contrasta con la notizia che
l’edificazione poi della chiesa, sotto Sisto III, quindi negli anni compresi fra
il 432 e il 440, avviene su concessione di uso del terreno da parte
dell’imperatore Valentiniano che aveva evidentemente un diritto di proprietà
o una prelazione sugli edifici. E perché mai? La proprietà del luogo è della
matrona Lucina o dell’imperatore? Molte delle chiese erette in quegli anni
venivano collocate su terreno imperiale, a spese dell’imperatore. Il fatto che i
locali inglobassero un altare imperiale e una fonte pubblica sacra e che
storicamente fossero in qualche modo al loro servizio – sebbene obsoleti,
almeno per quanto riguarda l’altare ormai scomparso alla vista –
spiegherebbe la necessità dell’autorizzazione imperiale. Il luogo sacro
apparteneva fin dalla sua origine all’imperatore. E la matrona Lucina è
dunque una pura invenzione medievale che si sovrappone e cela il culto della
dea. Oppure solo il frutto di un po’ di confusione con un’altra Lucina,
matrona romana di sante cristiane virtù e che viveva lontano da queste pietre
e fonti, lungo la via Ostiense.
Nel nostro caso il riferimento in Lucinis sarebbe dunque da collegare alla
fonte cara alle partorienti e non a una matrona proprietaria degli edifici.
Anche il nome di San Lorenzo in Lucina potrebbe dunque non fare memoria
altro che della fonte dedicata a Giunone Lucina, protettrice delle partorienti, e
il ricordo affidato ormai solo al sagrestano sarebbe in realtà un pezzo di storia
romana giunto fino ai nostri giorni, o quasi, per tradizione orale. Una
tradizione pellegrinante di bocca in bocca fra i secoli.
Fantasie? Piuttosto un altro mistero legato all’Ara che ci aiuta a guardare
con occhi nuovi ad alcuni suoi bassorilievi e a quella folla festante di
bambini. E che ha fatto pellegrinare anche noi oggi per il campo Marzio
inseguendo solo degli indizi, ripetuti di bocca in bocca per millenni. Il nome
di Lucina è un mistero che entra ed esce a più riprese in questa zona del
campo Marzio, un mistero che attraversa epoche e storie diverse. Ma c’è una
costante: la devozione alla divina protezione della prolificità, della maternità.
Il nome di Lucina non è importante solo per capire dove viene costruita la
chiesa di San Lorenzo, ma anche per comprendere dove e perché Augusto fa
costruire qualche secolo prima il nostro altare. Soprattutto ci può essere
d’aiuto per interpretare alcune sue raffigurazioni sui suoi bassorilievi, per
cercare di sondare altri suoi misteri.
4
Il giardino dell’Ara. La bottega di Saura e
Batraco
Il campo di Marte era un po’ bosco e un po’ giardino. Nei giorni di festa i
romani venivano a passeggiare, portavano i cavalli al passo tenendoli per le
briglie oppure li cavalcavano al piccolo trotto, mentre le matrone sfoggiavano
chitoni, tuniche, himation e mantelli variopinti dell’ultimo tessuto alla moda.
Di grande attualità era la sfavillante seta che i mercanti portavano
dall’Oriente lungo le strade dell’Asia. I bambini intanto rincorrevano i cerchi
e giocavano a palla. Chi non aveva tempo di raggiungere le ville degli ozii in
campagna o sui monti Sabini, verso i colli dell’Etruria o lungo il litorale
tirrenico, veniva qui nella bella stagione a passeggiare e conversare fino a
sera. Ma anche nelle belle giornate di sole d’inverno il campo era affollato di
gente. Non solo boschi e prati, ma anche una distesa di opere d’arte, una
rassegna di statue greche e romane di marmo o di bronzo, a cielo aperto,
attraverso le quali ripercorrere pagine gloriose di storia e divini insegnamenti
morali.
I giovani si spingevano nei due boschi: uno a nord, alle spalle del mausoleo
che Augusto aveva fatto costruire per sé e la propria famiglia e che guardava
al Pantheon ricalcandone pedissequamente la pianta circolare, con gli ingressi
dei due edifici che dialogavano di lontano; l’altro era proprio fra il Pantheon
e il Tevere ed era detto il bosco dei principi. Poi c’era il boschetto di Giunone
Lucina, proprio fra il mausoleo e la via Lata. Aveva al centro la fonte e poco
più in là, verso il mausoleo, Augusto aveva fatto piazzare la imponente statua
di Esculapio. Vi era anche un terzo bosco, interamente di platani: si trovava
all’interno del portico di Pompeo, fra il teatro – il primo teatro stabile e in
muratura che si fosse costruito a Roma – e la curia di Pompeo, ma i ricchi
edifici che lo circondavano così come la gran quantità di opere d’arte delle
quali era costellato ne facevano un luogo meno popolare e più austero.
Al limite orientale di quest’area, a una trentina di metri dalla via Lata,
all’estremità meridionale del boschetto di Giunone Lucina si era deciso di
stabilire l’altare della Pace. L’area sacra e inviolabile intorno all’altare,
un’area quadrata di 40 piedi di larghezza nel lato principale e di 36 piedi di
profondità, era stata inizialmente circoscritta da un’alta palizzata sormontata
e addobbata da festoni vegetali. Ma la palizzata fu subito sostituita da un
prezioso recinto di marmo bianco proveniente dalle cave situate nel
settentrione delle terre etrusche. Marmo da scolpire e colorare dentro e fuori
con ricchi bassorilievi. Per decidere come e con cosa adornare il tutto erano
state costituite ad hoc addirittura due commissioni. La prima, quella con la
responsabilità ultima del progetto, fu istituita dal Senato per approvare il
programma iconografico dell’altare: fu questa commissione che decise che i
bassorilievi avrebbero dovuto avere come punto di riferimento il Carme
secolare di Orazio, poi la quarta egloga delle Bucoliche e l’Eneide di Virgilio
per rappresentare «l’inizio di un tempo di prosperità e di pace, grazie
all’opera di Cesare Augusto, un nuovo ordine replicato per tutti i popoli della
terra, posti sotto la divina protezione di Apollo e con discendenze prolifiche
assicurate per intercessione di Giunone Lucina», come si disse in Senato al
momento di costituire la commissione. Si faceva riferimento esplicito anche
alla famiglia del principe che garantiva a «tutti prospettive di prosperità». La
commissione affidò poi la costruzione ed il dettaglio delle raffigurazioni a un
gruppo di esperti nei vari campi: da filosofi a matematici, da scultori a pittori,
da poeti a sacerdoti. Da questo gruppo di persone fu formata una seconda
commissione della quale si presero carico Vipsanio Agrippa, Livia e
Mecenate. Agrippa, in partenza per la Pannonia, incaricò di seguire l’opera
per suo conto uno degli architetti della scuola di Vitruvio; Livia e Mecenate
istruirono un gruppo di scultori e di poeti. Nella fase di studio furono
coinvolti anche filosofi e matematici perché era chiaro che la costruzione «è
una simmetria il cui calcolo gli architetti devono scrupolosamente conoscere
e applicare. La simmetria nasce dalla proporzione, in greco analogia. E la
proporzione è la commisurabilità di ogni singolo membro dell’opera e di tutti
i membri nell’insieme dell’opera, per mezzo di una determinata unità di
misura o modulo», come aveva lasciato scritto Vitruvio nei suoi libri, in
particolare in quello sull’architettura. Tutto era già scritto, si trattava solo di
seguire e applicare gli insegnamenti.
Analogia: quante analogie furono studiate per ogni parte dei bassorilievi
sul recinto dell’Ara! La parte interna, visibile solo ai sacerdoti e agli
officianti, avrebbe ricalcato gli schemi soliti: avrebbe raffigurato una
staccionata di recinzione con festoni di frutta, doni per il sacrificio, nastri
delle offerte, bucrani e pàtere. I bucrani erano i crani di bue, le carcasse delle
teste delle bestie residue delle offerte che si era usi issare sui pali della
staccionata di recinzione delle are e che venivano perciò riproposti anche nei
dipinti e nelle sculture; le pàtere invece erano coppe piatte, simili a piatti col
bordo rialzato, i più diffusi fra gli strumenti dei sacrifici e utilizzate per
contenere vino o acqua per aspergere le offerte. L’Ara inoltre avrebbe
ricordato nei suoi decori tutte le genti che potevano partecipare di quella
pace. Ma era sull’esterno, la parte che tutti avrebbero potuto vedere ed
ammirare, che sarebbe stata illustrata una summa del principato scolpita a uso
e consumo del popolo, della gente comune, delle donne partorienti che
andavano lì vicino a bere l’acqua della fonte di Giunone Lucina, dei comuni
passanti lungo la via Lata, dei giovani che cercavano il fresco fra i prati e i
boschi del campo Marzio. Con una attenzione particolare: il tutto avrebbe
dovuto essere comprensibile anche ai fanciulli che in quei prati giocavano ai
cerchi. Il messaggio di pace e di prosperità che da quei marmi emanava
avrebbe dovuto essere percepito da tutti e da ciascuno, fossero partecipanti al
sacrificio, pellegrine di Lucina o anche solo distratti passanti del luogo.
Perciò nulla venne lasciato al caso o all’estro inventivo dei migliori artigiani
del marmo del momento.
La parte esterna inferiore venne affidata per la decorazione alla bottega di
Saura e Batraco. Erano questi due scultori originari di Sparta divenuti
ricchissimi grazie alle innumerevoli opere che erano state commissionate loro
dalle famiglie romane del tempo, secondo l’usanza che andava sempre più
diffondendosi di adornare le case, quelle delle famiglie consolari o quelle dei
nuovi ricchi, di statue e marmi. Roma non era più una città di soli mattoni e
andava rapidamente trasformandosi in una città di marmo, dei marmi più
sfarzosi e colorati, provenienti da ogni parte del mondo. I due scultori erano
divenuti così ricchi che avevano eseguito a loro spese e in omaggio all’urbe –
della quale erano diventati cittadini – parte degli ornamenti marmorei dei due
templi, in particolare di quello di Giove, inseriti nel portico di Ottavia, nella
parte meridionale del campo Marzio, a ridosso del foro olitorio e del foro
boario.
Saura e Batraco avevano la loro bottega in una insula della suburra, insula
alla quale si accedeva per uno stretto vicolo, ma a due passi da un vicus che
era percorribile anche dai carri, indispensabili per trasportare i pesanti blocchi
di pietra dei quali era un gran via vai da e per la bottega. Il negozio in realtà
riuniva tre diversi ambienti dell’insula, nei quali era stato ricavato un ampio
passaggio tra l’uno e l’altro e scelti fra quelli che avevano un’altezza
maggiore rispetto a quella abituale. All’ingresso, appoggiata a terra, una
grossa lucertola in marmo lunga più di tre piedi e colorata in grigioverde, e
con una lingua biforcuta dardeggiante fra il rosso e l’ocra, pareva giocare con
la sua zampa con una grossa ranocchia nell’atto di saltellarle intorno
leggiadra, malgrado la pesante mole marmorea, con il gozzo rigonfio in
procinto di gracidare. Pareva sentirlo il verso di quella ranocchia, fra i mille
rumori della bottega. Si trattava di una sorta di insegna dei padroni di casa:
Saura e Batraco, lucertola e ranocchia appunto, secondo il significato greco
dei rispettivi nomi. Sul lato opposto, appoggiata svogliatamente a un angolo,
come cosa di nessun valore, attendeva le ultime rifiniture col pennello una
statua di Apollo Citaredo, con nella mano sinistra una lira nell’atto di essere
pizzicata con indice e pollice della mano destra e una lunga veste leggiadra e
pieghettata giù giù a coprire le gambe del dio, delle quali la gamba sinistra
era protesa in un passo in avanti. Era una statua commissionata da Publio
Sulpicio Quirinio, uno dei cosiddetti uomini nuovi, cioè coloro che non
avevano alle spalle una famiglia di tradizioni consolari e senatorie, che stava
facendo il diavolo a quattro per farsi eleggere console l’anno successivo. Pur
non essendo originario dell’urbe, ma provenendo dal municipio campestre di
Lanuvio, si era distinto agli occhi del principe come valente soldato e fedele
servitore. Perciò, al termine di una fulgida carriera, un paio di anni prima
Augusto l’aveva nominato proconsole della provincia di Creta e di Cirenaica.
Aveva svolto il compito con polso ferreo, senza stritolare quelle popolazioni
di nobile tradizione, e con puntiglioso rispetto degli ordini ricevuti. Ora non
voleva lasciare cadere quell’esperienza e gli onori raccolti, ma pensava a
ragione di poter aspirare legittimamente al consolato. Perciò stava investendo
tutto per finanziarsi una campagna elettorale che non lasciasse nulla di
intentato e per darsi quel lustro che non poteva certo vantare per tradizione
familiare. L’Apollo era solo l’ultima di una serie di statue che aveva o
comprato dai mercanti di opere d’arte o commissionato alle botteghe romane
di artisti. Sarebbe dovuto finire quell’Apollo proprio nel vestibolo di casa, al
centro dell’impluvio: un segnale evidente di fedeltà assoluta al principe e al
suo pantheon divino che avrebbe dovuto essere subito percepibile a tutti
coloro che mettevano piede in casa sua. Perciò non aveva lesinato spese per
questa opera che voleva splendente e il più possibile simile al modello:
«Meglio di quella di Prassitele», aveva ordinato a Saura con una punta di
civetteria, solleticando l’ego artistico dello spartano. La bottega degli scultori
era usa a sentirsi fare di queste richieste, visto l’emergere di una gran quantità
di uomini nuovi che il periodo e la politica del principe stava favorendo,
portando nuova linfa in quel Senato la cui stantia aria tardo-repubblicana
insensibile alle richieste dei baldanzosi populares era stata fra le cause delle
guerre civili ormai archiviate.
Nella stanza a fianco la polvere di marmo ricopriva non solo il pavimento
ma ogni banco, ripiano, suppellettile e persino le pareti, e contribuiva così a
rendere meno scuro e, almeno apparentemente, più luminoso l’ambiente.
Erano polveri bianche di marmi lunensi o greci, ma anche polveri verdi di
cipollino, gialle di Numidia, nere africane, rosse del Tenaro. A terra era
riposto, quasi d’intralcio al passaggio, un modellino in creta dell’ornamento
di una trabeazione, a quel che sembrava di un tempio, con elementi
geometrici e bassorilievi che parevano rappresentare una scena di caccia con
Diana protagonista nell’atto di sfilare una freccia dalla faretra posta sulle
spalle e con l’arco pronto nell’altra mano già proiettato a mirare un cervo in
fuga. In questo caso si trattava sicuramente di una commissione per un
edificio pubblico, uno dei tanti dei quali la politica urbanistica di Augusto
andava favorendo la costruzione in quegli anni, permettendo a tutta la città di
crescere con una domanda in continua crescita di mano d’opera e di
maestranze. Il tutto per la gioia delle botteghe degli artisti, in particolare di
quelle più ricercate e alla moda come questa, che non riuscivano a soddisfare
la quantità di commesse ed erano costrette a ricercare continuamente mano
d’opera altamente qualificata e consona al livello della bottega. Perciò
l’angusto spazio pullulava di ragazzotti figli di liberti, garzoni di bottega
assetati di imparare dai maestri più esperti ogni segreto del mestiere, nella
speranza di potere emergere fra gli altri e diventare così i nuovi Skopas o
Lisippo romani.
Su un tavolaccio ingombro di morse e dove scalpelli e compassi erano stati
alla rinfusa raccolti in una cassetta, Saura aveva ammassato una quindicina di
disegni arrotolati. L’unico srotolato, fermato aperto sul tavolo da un pesante
scalpello a sinistra e da un brandello di listello di marmo sulla destra,
mostrava una pianta d’acanto dalla quale si innalzava in verticale un alto
pistillo e partivano girali a destra e a manca. Su un altro rotolo più piccolo
appoggiato sopra il primo disegno erano indicate le dimensioni delle volute di
un girale, poi la distanza di un girale dall’altro con numeri e segni strani
scritti al centro e ai lati, sopra e sotto. Saura dava indicazioni ad altri artigiani
su come riprodurre quei disegni in scala più vasta e sezionarli in riquadri e
diagonali per poterli riprodurre poi più agevolmente: «Solo allora potremo
disegnarli sulle lastre di marmo che stanno disponendo come recinto
dell’Ara. Tu Faustolo come al solito ti occuperai dei ponteggi ricordando che,
come usi far sempre, partiremo a scalpellare dalla parte superiore del fregio
per scendere man mano a quella inferiore, ma il ponteggio sarà fatto solo
quando avremo finito il disegno del fregio sul marmo e per fare il disegno
useremo solo scale. Intanto qui a bottega procederemo con le prove dei
colori, soprattutto con l’oro dei girali che dovrà risaltare più di ogni altra
cosa, mentre il verde delle foglie dovrà essere così variegato da non apparire
mai come monotona e monocroma tinta dominante. L’azzurro dovrà essere
sufficientemente scuro da fare risaltare ogni più piccolo particolare». Detto
questo Saura si allontanò e andò a sedersi su una sedia in legno nell’angolo
della bottega dove l’attendeva già su un’altra sedia Batraco. I due
confabularono a lungo, talvolta animatamente e accompagnando le parole con
ampi gesti delle mani. Fra loro parlavano sempre solo in greco con un forte
accento della Laconia, l’area più meridionale del Peloponneso, sebbene la
zona di provenienza della famiglia di Batraco fosse in realtà la confinante
Messenia, e il mescolarsi assortito e colorito dei due diversi accenti e dialetti
rendeva il loro parlare spesso incomprensibile ai più.
«L’Apollo di Sulpicio Quirinio va consegnato entro le prossime due
settimane: non possiamo lasciare che il fregio del recinto dell’altare blocchi
ora ogni altro lavoro. Un sacchetto di sonanti denari ci aspetta e ci sarà
indispensabile per pagare Faustolo, Seleuco e Ciro – che vantano arretrati più
di tutti gli altri – e allungare qualche asse ai garzoni se vogliamo che si
gettino con foga nella nuova opera», disse col broncio Saura abbassando il
tono della voce per non farsi sentire dai lavoranti che ronzavano intorno e con
fare quasi minaccioso si rivolgeva verso Batraco. Non era certo il basso
volume della voce a togliere impeto a Saura che sottolineava e marcava ogni
singola parola che andava dicendo, con particolare enfasi su “denari” e
“asse”. Batraco, dei due, era quello meno attento ai problemi amministrativi
ed organizzativi del lavoro, ma era più rigido su una sorta di controllo di
qualità di ogni anche pur minima opera che potesse uscire con il marchio di
fabbrica, di altissimo livello, che la bottega si era guadagnato in quegli anni.
Batraco sosteneva che non tutte le maestranze della bottega, in particolare
un paio di giovani dell’Illiria da poco aggregatisi a loro, fossero in grado di
eseguire i lavori attenendosi alle impostazioni rigide del nuovo progetto
augusteo, e che almeno la sbozzatura del fregio sarebbe toccata direttamente
a loro e l’avanzamento dei lavori agli artisti più esperti della bottega. Saura
vedeva bene che le cose sarebbero andate così e sbuffava pensando ai lunghi
mesi cui il lavoro li avrebbe tenuti impegnati, rinviando di molto lucrose e
ben più facili commesse. Sapeva che nessun colpo di martello in quell’opera
sarebbe potuto andare fuori posto e che ogni scheggia di marmo sgrezzata
avrebbe dovuto significare un messaggio di ordine, bellezza e legalità per
ogni singolo cittadino romano che passasse di fronte all’opera.
Quando i preparativi furono terminati, i due spartani iniziarono a sbozzare i
disegni sul marmo: si partì dal fregio settentrionale dove l’umidità avrebbe
più facilmente ossidato il marmo rendendolo potenzialmente col passare del
tempo sempre più difficile da lavorare e, soprattutto, da colorare. Batraco
disegnò la pianta d’acanto centrale con il suo alto pistillo, mentre Saura
procedeva con le ampie volute dei girali, aiutandosi non solo con i disegni
preparatori, ma verificando con squadre e compassi che ogni proporzione
nelle distanze e ogni curva delle volute rispettassero i calcoli iniziali. Le
prime figure a prendere forma furono i tre cigni bianchi del lato sinistro del
fregio, terminali verticali delle tre ramificazioni armoniose dei girali: armonia
e ordine delle volute, nel moltiplicarsi e ramificarsi dei girali, trovavano da
subito glorificazione nella divina rappresentazione apollinea dei cigni alati. Il
dispiegarsi delle loro ali appariva accogliente allo sguardo del passante e, nel
gesto di raccogliere quegli sguardi, pronto a proiettarli nella prospettiva
futura di nuovi voli promessi cogliendo l’attimo presente. Un volo colto nel
suo momento terrestre, a beneficio dei terrestri, come aveva scritto Orazio:
«Tardi ritorna in cielo, resta a lungo lieto fra la progenie di Quirino, né ti
sottragga, in spregio a queste nostre colpe, spirar di vento troppo rapido». Un
muovere d’ali ampio e quasi immobile nella sua levità. Volo di dèi che
«sempre si compiacquero dei sette colli». E proprio quei colli che cingono a
corona il campo Marzio faranno da sfondo a questo sacro agitar di ali di
apollinei cigni. Poi lunghi colli sinuosi, a completare le volute dei girali,
nell’eterno fluire del tempo radicato nella concretezza dell’oggi. I cigni
sarebbero toccati a Saura che, proprio poche settimane prima, aveva
terminato una statua di Leda col cigno, per il portico del peristilio di casa di
Publio Quintilio Varo, marito di Claudia Pulcra, figlia di Marcella Minore e
dunque nipote di Ottavia, la sorella di Augusto. Si era passati poi alle volute
dei primi girali verticali del fregio dell’ara, a partire dalle foglie d’acanto.
Girali che disegnano una cetra, strumento caro ad Apollo: il suo risuonare si
spande lungo le volute del fregio vegetale e le sue note riempiono tutta la
piana del campo, il suo verde, i suoi boschi.
Disegnata l’armonia dell’insieme si iniziò la cura del dettaglio. Dapprima
furono posti fiori e vegetali vari al centro di ogni girale. Alla base, nel primo
girale a fianco dell’acanto, Batraco sbozzò un asparago, segno di fecondità,
omaggio a quella pace che permette alla vita di rinascere e riprodursi. Era, fra
l’altro, uno dei frutti della terra preferiti da Augusto, anche se Livia non
voleva che ne abusasse perché inadatto alle sue frequenti infezioni urinarie.
Ma quando ne trovava alla sua mensa, o in quei pasti frugali con i quali
intervallava la giornata e talvolta pure la notte, dovevano essere i migliori che
si potessero avere e coltivare. Perciò anche nei pressi di Roma Livia faceva
coltivare asparagi le cui piante provenivano da Ravenna, le migliori che si
trovassero ovunque, con frutti teneri e grossi, pesanti fino a tre libbre; sempre
che non si volesse ricorrere agli asparagi d’Egitto che talvolta arrivavano a
Roma con le navi insieme con qualche carico di grano.
Subito sopra, invece, dal girale pendeva un tralcio di vite, con un bel
grappolo ricco e florido. Fra tanti simboli apollinei che ci faceva questo frutto
così legato a Dioniso e ai suoi fedeli? Dopo anni di censura a tutto quello che
poteva ricordare Dioniso, dio caro ad Antonio che in Bacco soleva
identificarsi, ecco irrompere ora il segnale che la pace era finalmente stata
fatta anche fra gli dèi. La battaglia di Azio vinta da Augusto, che aveva di
fatto messo fine a decenni di guerre civili e segnato la sconfitta di Antonio e
della malefica regina d’Egitto, aveva per anni portato con sé la cancellazione
di tutto quello che avrebbe potuto ricordare Antonio e le sue divinità
protettrici. Così dai monumenti ufficiali del principe e nelle decorazioni delle
sue case era stato bandito da quel momento ogni riferimento dionisiaco e con
esso bandite erano pure la vite con l’uva e l’edera. A dire il vero però i
simboli dionisiaci, ad iniziare dal dio stesso, con i correlati tralci d’uva e rami
d’edera, abbondavano negli affreschi della casa di Agrippa e di sua moglie
Giulia, la bella casa appena fuori città, sull’altra parte del Tevere fra la riva
del fiume e le pendici del monte Vaticano e il bosco dei Cesari. Era la villa,
ironia della sorte, nella quale aveva vissuto la stessa Cleopatra durante la sua
permanenza romana, nei tre anni alla fine della vita del divo Giulio, una villa
appartata dal centro della città, dove invece Cesare aveva vissuto con la
moglie Calpurnia. Poi la casa oltre il Tevere, verso il Vaticano, venne
acquistata da Agrippa che la ristrutturò completamente e ne fece la sua
residenza con Giulia, quando il principe gli diede in sposa la sua figlia unica
e prediletta. Agrippa aveva collegato con un ponte sul Tevere la villa con il
campo Marzio, zona della quale era custode e padrone, dove aveva il
controllo diretto delle truppe quando si avvicinavano alla linea del pomerio,
senza mai addentrarsi in esso, per i comizi. Negli affreschi della villa,
commissionati da Giulia dopo il matrimonio, Dioniso aveva fatto il suo
ingresso fino a giungere sui muri della stessa camera della sposa e tralci di
vite abbondavano ovunque. Augusto, e soprattutto la moglie Livia, avevano
sempre mal sopportato quel segnale di ribellione che da una parte era indice
dell’animo inquieto della figlia del principe, dall’altro indicava il tacito
assenso del marito. Agrippa covava nell’animo sentimenti repubblicani, pur
avendo con entusiasmo e ardore contribuito a tutti i successi del principe.
Così ora sui marmi dell’Ara l’apparire di abbondanti tralci di vite, uniti
ovunque ai soliti rami di alloro, era il segno più appariscente che la nuova era
di pacificazione aveva davvero avuto inizio ed anche il conflitto più duro a
morire, ultimo dei grandi conflitti civili, era ormai acqua passata ed era lecito
senza alcun timore avviluppare anche tralci di vite alla pace.
La vite poi rafforzava l’immagine di come una stessa pianta può crescere in
varie direzioni, partendo dall’unicità del tronco e delle radici per diramarsi
nella molteplicità dei tralci: lo stesso messaggio che era rappresentato e
supportato dai girali d’acanto e rafforzato dai tralci e i loro frutti copiosi e
variamente distribuiti. Se non fosse stato sufficientemente chiaro il messaggio
globale di pace, sarebbe dunque bastato questo a rendere evidente a tutti
quanto anche il fregio vegetale fosse essenziale nell’indicazione generale che
l’intera Ara voleva dare a tutti e a ciascuno. Tutto ciò era già stato
sintetizzato in un verso di Virgilio: e pluribus unum, da più suoni un’unica
voce, una frase che da sola era il compendio del lavoro che il circolo di
Mecenate andava facendo in quegli anni indefessamente.
In totale sono un centinaio le piante, i fiori e i frutti disseminati fra i girali
scolpiti dai due spartani e dai loro giovani allievi nel fregio vegetale dell’Ara:
non solo simboli di fertilità, maternità e propiziatori, ma anche piante che
sfidano l’aridità di terreni impervi a testimoniare il prevalere del vitalismo e
la volontà di rinascita della terra tenacemente perseguita. Poi piante e fiori
d’acqua fino ai fiori del campo Marzio e l’acanto nello splendore delle sue
foglie e la ricchezza dei fiori e l’alloro. Abbondano le piante con fiori
multipetali quali la ninfea, l’alcea, l’anemone, il papavero e la rosa che fanno
apparire gentili anche diversi bulbi come l’aglio che non poteva mancare in
questa rappresentazione vegetale, visto il suo uso benefico contro malefìci
velenosi. Il papavero e la rosa riprendevano una antica simbologia della
caducità della vita e della morte, tradizione rigogliosa in Oriente e ricompresa
ora nella cultura romana. L’aglio invece era utilizzato dalla stessa Livia in
numerosi dei suoi intrugli medicamentosi e come pronto intervento sicuro
contro morsi di serpi o per disinfettare in modo vario l’intestino da possibili o
solo temute infezioni alimentari. Non paia strano che una testa d’aglio faccia
la sua comparsa in questo catalogo del mondo vegetale da esibire a
insegnamento e consolazione per tutto il popolo. Proprio il suo utilizzo su
ogni tavola e in ogni casa rendeva più comprensibili e semplici a tutti i
messaggi del fregio e dell’intera Ara, la poneva all’interno dell’esperienza di
ogni famiglia, la faceva sentire semplice e immediata nel suo insegnamento
complesso ed eterno. Non a caso l’aglio appariva vicino agli otto petali
dell’anemone, simbolo di bellezza e di grazia, ma anche di caducità e
transitorietà, vista la breve durata della sua fioritura.
Batraco andava scalpellando in modo singolare il ripetersi di ninfee
raffigurate di fronte e di retro, a tutto tondo o con varie inclinazioni: così
come il sole che sorprende il cielo all’alba e si nasconde al tramonto, si
abbassa e si alza sull’orizzonte col cambiare delle stagioni, risplende nel
meriggio e declina verso l’orizzonte. Sole apollineo identificato qui con la
ninfea, la pianta sacra agli egizi riconfermando la pacificazione con quel
mondo che per ultimo ha insistito nel sobillare guerre civili e che per primo è
poi giunto vicino al cuore di Roma. E da questo cuore non è stato staccato per
volere di Augusto l’Egitto in forma di provincia, non ha ricevuto perciò
alcuna delega di governo consolare, ma è rimasto in legame diretto con l’urbe
e il principe, centro pulsante del mondo e dell’impero. La pacificazione viene
simbolizzata dai colpi di scalpello di Batraco così dal comparire sulla pietra
del candido fiore che ama l’acqua e dal suo cuore giallo splendente, come
splendente e insostenibile è la luce abbagliante del divino sole. Non può non
risaltare l’abbondanza di cardi rappresentati dallo scultore spartano con fiori e
foglie spinose a ricordare la dura lotta per la sopravvivenza, la tenacia,
veicolo sicuro di longevità. Il cardo allontana da sé con i suoi aculei il piede
distratto del passante o la lingua vorace di qualche quadrupede in cerca di
cibo; sa combattere l’aridità del terreno accontentandosi del poco
indispensabile alla sopravvivenza; sa fare tesoro dell’umidità momentanea
per superare anche lunghi periodi di aridità. E simili ai cardi sono le carline,
abbondanti sul fregio, spinose e aculee anch’esse, ma così dolci e preziose
per colpire e curare le più pervicaci e dure malattie quale è la peste,
sterminatrice di popoli ed eserciti, sempre in agguato e temuta più dei nemici
crudeli e assassini. Lo sapeva bene lo spartano Batraco, visto che la peste di
Atene che uccise anche Pericle era stata la vera unica vincitrice della guerra
del Peloponneso.
Gli artisti spartani disseminarono il fregio poi delle squamose foglie del
cipresso che compaiono qua e là a purificare l’aria e ad avvicinare tutti gli
astanti ad Apollo in paradiso, con questo simbolo di eterna immortalità. O
della perenne alchemilla che, guardandola qui raffigurata, ben si comprende
perché è anche detta erba stellata. Non promette il paradiso, ma sicuri sollievi
per lenire pelle infiammata e bruciori persistenti: la sola vista è presagio di
una notte serena, annunciata con la sua forma quale rilassante stella del
firmamento. Ed ecco ancora sul fregio marmoreo altri bulbi disseminati qua e
là come segnale di vita e rinascita.
Saura e Batraco, fedeli ai loro nomi, hanno fatto dei fregi non solo una
sintesi del mondo vegetale ma di tutta la poliedrica vivacità della natura. Sia i
due lunghi bassorilievi laterali inferiori che i quattro che affiancano le porte,
se ci avviciniamo e li guardiamo nel dettaglio, sono anche un bestiario
ricchissimo: non ci sono solo i venti cigni che aiutano i girali a spiccare il
volo verso il cielo, ma i due spartani hanno disseminato il bassorilievo qua e
là di passeri che paiono saltellare da un cespuglio all’altro, come accade nella
boscaglia o nei giardini. Poi lumache e farfalle, scorpioni e cavallette e grilli,
come dovevano trovarsi abbondanti nei prati del campo Marzio. Non
mancano nascosti fra bestie e vegetali gli eruditi e didattici spunti letterari:
sotto il cespo d’acanto al centro del lungo fregio settentrionale un serpentello
dal dorso rosso fuoco insidia una nidiata di passerotti appena fuoriusciti
implumi dalle candide uova. Scena ripresa da precedenti lavori degli scultori
del Peloponneso e che ricorda l’Iliade laddove ai greci, stanchi per il lungo
stare lontani da casa, torna alla mente la profezia fatta loro alla partenza per
Troia, la premonizione del «serpe dal dorso scarlatto» che si lancia verso «un
nido di passeri appena nati, nascosti sotto le foglie, otto, e nona la madre che
li aveva dati alla luce» – nove come gli anni di assedio per i greci – e della
fuga dal nido dei passeri – i troiani – in cerca di un nuovo nido. È il ripetersi
della storia di Enea raccontata sull’ara. Dalla distruzione di quel nido nasce la
ricerca e la fondazione di una nuova casa imperitura ed eterna, in una terra
lontana, la terra dei latini. Così quella del serpente più che una insidia diventa
un sospingere la storia verso il suo destino e compimento. Rispetto all’acanto,
sul lato opposto della scena del serpentello ecco apparire una ranocchia
saltellante e più in là una lucertola curiosa. Non è la sola coppia di rane e
lucertole che troviamo nel fregio: in ciascuno dei sei quadri vegetali, nei
pressi della pianta di acanto dalla quale si dipartono i girali, compaiono una
rana e una lucertola, Saura e Batraco appunto, a mo’ di firma sull’augusta
opera. Nei primi cinque riquadri vegetali i due animaletti sono sparpagliati
qua e là alla base dell’acanto. Ma nell’ultimo, quello che appare sotto il
riquadro della dea Pace, la lucertola e la ranocchia sono vicine, alla base,
sulla sinistra del cespo, in quella che parrebbe essere la firma ultima e
definitiva dell’opera. Una usanza, quella dei due scultori spartani di firmarsi,
citata anche da Plinio a proposito del portico di Ottavia: «Rimangono tuttora
scolpite [...] una lucertola e una rana, con una chiara allusione ai loro nomi».
Terminato di rimirare gli innumerevoli elementi, nessuno posto a caso ma
con certosina precisione e sicura intenzione, basta fare un passo indietro per
accorgersi che ogni piccolo dettaglio non è una storia a sé, ma un ricamo su
una rappresentazione di perfetto e ben evidente ordine. La molteplicità dei
particolari assume un polifonico e perfetto ordine preordinato: nulla è
casuale. Da questo punto di vista l’intuito degli artisti aveva potuto più delle
precise indicazioni dei filosofi, dei letterati e dei matematici. «Saura,
occorrerà che i girali appaiano in splendente giallo, meglio se rilucenti d’oro,
in modo da risaltare rispetto al verde dominante dei vegetali e all’azzurro
lucente dello sfondo, ridando ordine e direzione ai mille colori di petali, ali,
bacche, bulbi e frutti. Un giallo lucente dal centro fino all’estrema periferia
del riquadro», disse Batraco quando ancora nella bottega si facevano prove di
colori e disegni di come sarebbe dovuta essere dipinta l’opera sul marmo. Per
far meglio prendere il colore dalla pietra, i garzoni ripassavano la raspa sulle
superfici più lisce in modo che il colore e l’oro poi non rischiassero di
staccarsi.
Già, l’oro. Il giallo – perché non averci pensato prima? –, ecco il filo
conduttore di tutto il fregio, che avrebbe fatto risaltare il procedere dal centro
alle estreme periferie del mondo, dal basso verso l’alto, nel ritmato
moltiplicarsi dall’uno al trino di ogni tralcio. Era questo movimento laterale e
ascensionale che l’intera rappresentazione suggeriva e che i venti cigni
raccoglievano di slancio e, con la voluttuosità del collo ricurvo, portavano a
compimento verso l’alto. Dopo essersi perso nei mille messaggi di ogni più
piccolo dettaglio del fregio, il passante che lo rimirava a distanza, fosse lui
popolano o signore, schiavo o patrizio, plebeo o filosofo, magistrato o
gladiatore, veniva rapito dalla perfetta direzione d’ordine, dal preciso
incasellarsi di ogni dettaglio in un insieme di perfezione tale da richiamare
sentimenti di divina serenità e di terrestre legalità. Un ordine che era
indicazione morale di rispetto della legge, fosse essa divina o umana. Quello
che nei calcoli dei filosofi era pura astrazione e nei numeri dei matematici
una fredda precisione, nei girali gialli d’oro pensati da Batraco divenne
coinvolgente sensualità. A che fare altro erano stati chiamati loro, i migliori
scultori a Roma del momento, se non per metterci un bel tocco di geniale
sinteticità?
Fino ad allora i girali d’acanto avevano vissuto nei monumenti solo in
orizzontale. Li troviamo disseminati su templi e monumenti, persino su
statue, quasi tutti di età augustea. Girali che si dipanano tutti da un cespo di
acanto, ma sempre rappresentati in orizzontale, soprattutto sui fregi dei templi
e sui timpani. Nell’Ara per la prima volta si sprigionano anche in verticale,
esemplificando il tema della pianta che trae origine da un’unica radice per
svilupparsi in ogni direzione. L’unità a fondamento della molteplicità. Sarà
bastato uno sguardo a quell’immagine, qualche secolo più tardi per fare
rivivere quelle forme. È questo un tema caro alla cultura del principato e che
passerà all’architettura cristiana, metafora della parabola della vite e dei
tralci, fin dai primissimi esempi, già in età costantiniana.
Nel mausoleo di Galla Placidia a Ravenna, che è del 425 d.C., in uno dei
mosaici del soffitto è ripreso il tema dei girali d’acanto sul modello dell’Ara
Pacis, ed anche qui i girali sono in giallo per risaltare maggiormente sullo
sfondo. Il mausoleo ravennate viene costruito sul modello del mausoleo di
Costanza (la figlioccia di Costantino) che era stato fatto edificare a Roma nel
340 circa come cappella laterale della enorme basilica circense di
Sant’Agnese sulla Nomentana, due miglia circa fuori dalle mura aureliane,
nella zona delle catacombe. Nel mausoleo di Costanza, del quale ci sono
giunti sola una parte dei tappeti di mosaici che ricoprivano tutte le pareti, non
ci sono i girali d’acanto e un tema simile in una crociera del soffitto è
sviluppato solamente con tralci di vite che si dipartono dai quattro pinnacoli.
Ma è presumibile che il tema fosse rappresentato in una delle parti che non è
giunta fino a noi e che il mosaico ravennate riprenda dunque un modello qui
probabilmente presente sulle pareti o addirittura nella cupola o in altre zone
andate perse ed ora prive di copertura musiva. Il secondo esempio cristiano in
ordine temporale nel quale il tema è sviluppato è l’abside destra nel transetto
d’ingresso del battistero del Laterano, sempre a Roma, che è del 460,
successivo all’edificio costantiniano e a quello ravennate. Anche qui i girali
d’acanto sono sviluppati nel mosaico in una tinta che appare oggi gialla-
verdastra su fondo blu. Quasi simile è il mosaico nell’abside a conclusione
della navata destra della chiesa di Santa Maria in Cosmedin, dell’VIII secolo,
sempre nell’urbe. Stessa tinta del Laterano: girali giallo-verdastri su fondo
blu. Poi questo motivo conoscerà una nuova interruzione, per riprendere in
maniera esplosiva e possente con quello che resta l’esempio più conosciuto
dei girali d’acanto come allegoria della parabola della vite e dei tralci, quello
dell’abside della basilica di San Clemente, mosaico del XII secolo, dove la
tinta è una sola: oro splendente. Siamo ormai diversi secoli più avanti e
l’esempio di San Clemente dimostra come la raffigurazione sia rientrata a
quel tempo di diritto e d’ora in poi in pianta stabile nell’iconografia cristiana,
e non venga rappresentata solo in parti architettoniche laterali, ma si prenda
tutta la scena principale. I girali di acanto ne hanno fatto di strada a partire dal
campo Marzio e come allegoria del tutto che si dipana da un unico centro!
Dagli albori del secondo millennio dell’era cristiana in poi li troveremo
ovunque.
Resta da chiedersi da dove l’architettura cristiana abbia copiato e ripreso il
tema. Se l’origine è indiscutibilmente il modello dell’Ara Pacis, che
rappresenta il prototipo della raffigurazione, altrettanto indiscutibile è che
anche gli esempi più antichi (come abbiamo visto, il primo potrebbe essere
quello di Costanza nel 340 o comunque quello ravennate del 425) non
possono essersi rifatti alla nostra Ara che allora era sicuramente già
scomparsa dalla vista da tempo. L’altare della Pace augusteo viene infatti
inghiottito parzialmente dalla terra già alla fine del I secolo e sicuramente
scompare dalla vista dalla fine del II secolo. Ed anche l’opera di Saura e
Batraco non viene mai citata, probabilmente perché non è più vista. Tant’è
che Cassio Dione, lo storico greco che meglio ci descrive nei dettagli il
periodo augusteo scrivendone fra la fine del II e gli inizi del III secolo, cita
l’Ara solo per dire che non venne costruita là dove il Senato l’avrebbe voluta.
Per il resto tace come se l’opera per lui non esistesse e non fosse esistita
proprio. Non sono giunti a noi altri esempi di raffigurazioni che abbiano
ripreso il motivo, eppure una continuità del modello deve esserci stata e ci
deve essere stata proprio in età augustea, giacché il suo significato appartiene
sicuramente alla filosofia del principato e si perde invece nei regimi
assolutistici e monocratici imperiali successivi. Quel buco di quattro secoli
resta un mistero, ma indizi per spiegarlo ce ne sono, anche più di uno. Li
ritroveremo frammentati e disseminati più avanti nel nostro racconto.
5
Da Enea a Livia, da Romolo a Roma. Il luogo
dei poeti
Quella cassetta pesava più di una triremi a pieno carico e scottava sulla pelle
più dell’insolazione causa dell’attuale febbre del poeta. Virgilio non era
ancora sbarcato, steso sulla sua barella per la forte febbre che gli impediva
anche solo di reggersi in piedi, che già si preoccupa solo di quella cassetta
con i rotoli del suo poema. A suo dire non era completo, intere parti erano da
rivedere. Molte correzioni le aveva chiare in mente: ripetizioni da evitare,
versi fiacchi da riscrivere, immagini scontate da cambiare. Doveva lasciare
alla storia un capolavoro, non un poema pieno di imperfezioni, o almeno di
quelle che lui credeva lo fossero, malgrado i pareri contrari di Mecenate e
dello stesso Augusto, di Livia e di Plozio.
Era appena stato in Asia minore, sui luoghi di Troia, per rivedere molti dei
riferimenti geografici del suo poema. Non sopportava alcuna imprecisione nel
raccontare il viaggio di Enea dalla vecchia patria distrutta e in fiamme alla
nuova, verde e ricca di futuro. Il percorso di Enea e del Palladio che aveva
descritto nei suoi versi doveva appartenere alla storia, e non rischiare di
apparire come una storiella, una invenzione poetica. Sulla strada del ritorno,
ad Atene, aveva incontrato Augusto e Livia, anche loro al rientro da un
viaggio, quello in Siria, dove si erano attardati non solo per questioni di
Stato, ma anche per lunghe vacanze con gli amici Erode e sua sorella Salome.
Ad Augusto Virgilio aveva raccontato con entusiasmo le molte correzioni
apportate al testo dopo avere verificato con esattezza i riferimenti geografici
della prima patria di Enea. Augusto aveva goduto di questa precisione, che a
lui a dire il vero pareva davvero eccessiva, che dava ancora più sicura
immagine di certezza storica al poema sulle origini di Roma e su quelle della
sua famiglia, i Giulii. Il principe aveva trovato il caro poeta oltremodo
affaticato e, su consiglio della moglie Livia sempre attenta anche alla salute
degli amici in particolar modo a quelli della cerchia di Mecenate, aveva
insistito per convincerlo a ripartire presto, come avrebbero fatto anche lui e
Livia, per tornare a Roma e lì, nella sua casa, ritrovare forze ed energie.
Virgilio non ne voleva sapere: avrebbe voluto finire il lavoro e le correzioni
al suo poema nella terra di Omero. Un presentimento gli diceva che solo in
quella terra il suo poema sarebbe stato al sicuro e sarebbe potuto giungere a
una degna conclusione. Ma le insistenze di Augusto e la debolezza lo
convinsero ad anticipare il viaggio di ritorno, verso la più stabile e
accogliente Roma. Era attanagliato da un senso di sfinimento, al termine di
un lungo viaggio e un duro lavoro superiori alle sue energie indebolite anche
per il peso degli anni su un corpo infiacchito.
Proprio pochi giorni prima dell’incontro ateniese con Augusto, aveva
voluto recarsi a Megara, la cittadina attica nei pressi di Atene ritenuta patria
della commedia, per lavorare al suo poema protetto dagli dèi e dalle muse e
consolato dalla vista del mare. Aveva già apportato numerose correzioni ai
suoi versi e non solo di stile e grammaticali. Aveva tolto quelle che a lui
erano apparse imperfezioni geografiche, dopo la verifica sui luoghi, o quelli
almeno che si ritenevano essere i luoghi sui quali si era abbattuta l’ira funesta
degli achei e dai quali se n’era fuggito Enea con i suoi. Altre correzioni si
apprestava a fare in un lavoro di cesellatura che immaginava ancora lungo.
L’amore per il mare e per il lavoro all’aria aperta l’avevano invece abbattuto:
un giorno si era fermato più del dovuto e del previsto in riva al mare a
rileggere, riscrivere, annotare e una insolazione presa a Megara aveva
stroncato la resistenza del suo debole fisico, causandogli una febbriciattola
persistente e noiosa.
Il viaggio verso Brindisi e la costa italiana, per quanto breve, e con un mare
non certo piatto ma agitato dalle prime avvisaglie di burrasche autunnali,
aveva fatto il resto. La febbre era salita e ora gli impediva di ragionare. Il
bruciore degli occhi gli oscurava la luce, ma non perdeva mai di vista quella
cassetta con la cosa più preziosa che aveva, il frutto di una intera vita, il
poema amato più di ogni altra opera che aveva lasciato, più delle opere sulla
natura e sul lavoro nei campi. Nel porto di Brindisi la gente andava e veniva
dalle barche. Una nave stava per partire per la Grecia da dove invece la
comitiva di Virgilio tornava. Dove erano finiti Vario Rufo e Plozio Tucca?
Perché non erano lì con lui, al suo fianco? Virgilio provò a chiamarli ad alta
voce. Gli uscì un suono sgraziato e acuto, più un gemito di dolore che una
parola. Gli schiavi, spaventati, appoggiarono la lettiga sulla banchina e subito
Plozio, che era solo qualche passo più indietro, si fece avanti e girò la benda
umida sulla fronte del poeta mantovano per cercare di rinfrescargli testa e
mente. A Brindisi non mancavano certo gli amici: Plozio e Vario stavano
accompagnando Virgilio verso casa di Quinto Servio Flacco. Durante il
tragitto Virgilio chiamò nuovamente a sé Vario e gli chiese ancora, come già
aveva fatto ad Atene prima della partenza, nel caso fosse sopraggiunta la
morte che sentiva vicina, di distruggere la cassetta con il poema che nel
delirio gli appariva ora ancora più disastroso e orrendamente mutilo e
bisognoso di correzioni. Soprattutto aveva chiara la percezione che il suo
poema era pervaso da una inquietudine che aveva l’impressione di non aver
saputo ancora incanalare, come una storia senza fine. Un po’ come la sua vita
che si portava dentro una irrequietezza alla quale neppure la morte avrebbe
saputo trovare fine, come un cammino senza meta, un fuoco inestinguibile.
Vario, del quale «nessuno sa trattare l’epica ferrigna col suo impeto» come
aveva scritto Orazio, gli raccolse la mano destra accarezzandola e gli disse di
non preoccuparsi ché avrebbe pensato lui a tutto. Una fiammata di febbre, che
a lui dovette sembrare il fuoco ardente che si levava dai rotoli del suo poema,
finì il poeta dell’Eneide, con la mano abbandonata in quelle dell’amico. Era il
21 settembre dell’anno 19. Non era nemmeno riuscito ad arrivare a casa di
Quinto Servio Flacco a Brindisi. La notizia raggiunse Augusto e Livia mentre
erano in prossimità del rientro a Roma. La prima preoccupazione di Augusto
fu di inviare un messaggio fatto recapitare con urgenza a Vario e Plozio con
l’ordine di mettere in salvo i bagagli di Virgilio, con particolare cura per la
cassetta contenente il poema epico su Enea e le origini di Roma. Più tardi,
fatte con solennità le esequie, il principe incaricò la coppia di amici, i due
poeti epicurei napoletani, di curare e pubblicare il poema virgiliano. Erano
stati i massimi cultori e conoscitori dell’Eneide e gli ultimi giorni passati con
l’autore avrebbero loro permesso di inserire anche eventuali e nuove
correzioni secondo il volere del poeta. Lo studio per la pubblicazione del
testo accrebbe ulteriormente le loro competenze e conoscenze dell’opera.
Ma anni dopo, quando si trattò di scegliere i particolari del poema da
rispettare secondo il dettato virgiliano nei quattro riquadri religiosi dell’Ara,
se n’erano già andati, seppure da pochi mesi, entrambi. Anche loro, come
Virgilio. Non c’era più né l’autore né alcuno dei due curatori diretti della
pubblicazione del poema. Si doveva cercare dunque qualcun altro che
verificasse la rispondenza dei fregi dell’altare all’epica virgiliana con rigore
filologico. Il prescelto avrebbe dovuto dimostrare di avere ereditato le
competenze dei curatori dell’opera, senza distanziarsi inoltre dal solco
tracciato in origine. Sulla base di tale solco del resto Augusto stava già
costruendo la sua casa sul Palatino e il suo principato con i riferimenti al
lupercale, alla casa di Romolo e alla Roma quadrata. Il principe esigeva
fedeltà assoluta all’opera virgiliana, per dare fondamenta solide e sicure alla
costruzione del suo principato e alla sua stirpe.
La scelta non fu difficile: Mecenate incaricò un altro poeta di quelli che
popolavano gli incontri nel suo auditorio dell’Esquilino, Gaio Valgio Rufo,
che era stato amico e seguace di Virgilio oltre che prossimo dei due epicurei
napoletani, di seguire la correttezza dei riquadri rispetto all’epica virgiliana e
oraziana. Gaio, in quei mesi, era impegnato soprattutto a consolidare il suo
futuro in politica: l’anno seguente venne eletto console suffetto, alla morte
repentina di Marco Valerio Messalla Appiano – marito di Claudia Marcella
Minore, figlia di Ottavia – divenne così collega di consolato di Publio
Sulpicio Quirino. Malgrado gli impegni della politica e delle magistrature lo
avvolgessero, non disdegnò questo ritorno alla sua attività di poeta e, una
volta accettato, prese il compito con estrema passione e profuse grande studio
poiché l’impresa era gravosa e impegnativa.
Valgio Rufo, a dire il vero, era stato in privato da Mecenate per vedere di
allontanare da sé quel calice che appariva ricolmo di inebriante nettare ma
che minacciava di distoglierlo dall’impegno politico che avvertiva per sé in
quel momento come predominante. Mecenate fu chiaro e netto: «Più volte ho
resistito io stesso agli assalti di Augusto che vorrebbe da me una presenza più
assidua nella gestione della vita politica di Roma e del principato. Ma lui
stesso ha sempre compreso che la trama che si va tessendo in questi miei orti
sull’Esquilino è una stoffa preziosa con cui rivestire la sua iniziativa. L’utilità
di questo impegno è per lui e per tutti noi, se non più importante, almeno pari
all’attività politica. Nella percezione del popolo e nella forza che ha la poesia
e l’arte tutta di giungere alla gente, sia essa quella delle antiche famiglie
romane o quella che abita i piani alti delle insule nei vicoli della suburra, il
nostro compito appare strategico e fondamentale. Non ti appaia dunque
questo lavoro come una distrazione, ma guardati piuttosto dal farti distogliere
e distrarre in esso da altro, qualsiasi sia l’altra cosa, politica compresa».
Valgio Rufo rimase sorpreso: non aveva mai sentito Mecenate, solitamente
mellifluo e rotondo nel presentare anche i pensieri più spigolosi, così
tagliente e diretto, andare dritto al cuore della questione senza fronzoli e
arzigogoli. Lo fissò profondo negli occhi e con l’intensità dello sguardo di un
attimo intese e diede a intendere di avere compreso.
Gli incontri con la bottega di scultori prescelti per la parte superiore
dell’Ara si tennero nella villa di Mecenate sull’Esquilino. Il gruppo di scultori
era quello che faceva capo a Dario il macedone che stava lavorando anche
nella casa di Augusto sul Palatino. «L’impianto dell’opera è a voi noto. Si
tratta qui di dettagliare i quattro riquadri con il riferimento religioso
dell’altare. A chi guarda il recinto dell’Ara dalla parte dell’ingresso dovrà
essere chiaro quali sono le origini della nostra stirpe. A chi lo lascia dalla
parte posteriore deve rimanere il messaggio sulla saldezza di Roma e sulla
prosperità del suo presente e del suo futuro», iniziò Mecenate nelle sue poche
parole di introduzione ai presenti, e con un cenno del capo passò la parola a
Gaio.
Dario non solo seguiva le parole che venivano dette, ma prendeva veloci
appunti mentre uno dei suoi era pronto con fogli e pennelli a preparare veloci
schizzi se ce ne fosse stata necessità. Mecenate però non aveva lasciato nulla
al caso e un liberto dei suoi, Marco Mecenate, non perdeva una sola parola di
quelle che venivano dette e scriveva tutto. Costui era stato allievo di Marco
Tullio Tirone, il liberto che Mecenate aveva ereditato da Cicerone e che
aveva inventato un genere di scrittura rapida ormai noto in tutta Roma. Con
esso riusciva ad appuntare ogni parola che veniva detta, sistema che gli aveva
reso possibile raccogliere e scrivere tutti i discorsi di Cicerone e farli così
giungere fino a noi. Tirone era sopravvissuto a lungo al suo primo padrone,
ma se n’era andato dalla vita ormai da una decina d’anni: ora era Marco
Mecenate ad avere ereditato la sua scienza, ripetendola e donandole nuovo
impulso.
«Il primo riquadro, come sapete, deve riguardare l’arrivo nelle nostre terre
di Enea con il figlio Iulo Ascanio, primogenito della gens Giulia destinata per
volere degli dèi al governo di Roma. La sacralità del quadro dovrà rendere
implicitamente chiaro il riferimento a Venere, madre divina del nostro Enea e
quindi genitrice di tutti i Giulii. Sulle azioni nelle quali rappresentare Enea e
sulla sua compagnia non c’è nulla da inventare, visto che ce le ha lasciate
magistralmente descritte Virgilio con la sua opera», iniziò Gaio proseguendo
con citazioni e richiami dotti dall’Eneide, mostrando da subito di sapere
interpretare bene il suo compito, e che la scelta di affidarlo a lui era stata
ottima e oculata. Ricordò quindi come Enea avesse portato con sé nel Lazio e
vi «insedia i vinti penati». A conferma di quanto il dio Tiberino gli aveva
detto in sogno, Enea trova al suo arrivo sulla riva del «ceruleo Tevere, fiume
gratissimo al cielo», pronta per essere sacrificata «una grande scrofa sgravata
d’un parto di trenta capi, bianca, sdraiata al suolo, bianchi intorno alle poppe
i nati», come aveva scritto Virgilio. «Quindi il riquadro dovrà rappresentare il
sacrificio di Enea agli dèi, appena giunto nel Lazio in prossimità del Tevere,
cinto come un dio per ricordarne la stirpe divina e la gran madre Venere.
Enea sarà accompagnato dal figliolo Iulo Ascanio. Il sacrificio avviene in
presenza dei penati portati con sé da Enea e che rappresentano la continuità
della nuova città che sta per nascere con la vecchia Troia. I penati dovranno
essere posti in un tempietto al cui interno si possano immaginare altre statue,
sebbene non in vista, quale il Palladio trasportato da Enea nel Lazio; Palladio
che, come sapete, non può mai essere visto da alcun mortale non autorizzato
e che sarà custodito nel sacello dei templi. Il tempietto con i penati dovrà
dunque alludere a quello di Vesta dove il Palladio è ora custodito. Va da sé
poi che nel riquadro appaiano gli inservienti che portano, con il vino
sacrificale, la bianca scrofa pronta a essere immolata. Mi pare che il quadro
sia tutto descritto e non ci sia nulla né da togliere né da aggiungere, ma solo
da essere rappresentato. Tutto chiaro?», concluse velocemente Gaio
aspettando il cenno del capo di Dario che non aveva proprio nulla da
aggiungere.
Il quadro venne magistralmente interpretato dallo scultore tanto che, anni
dopo, Ovidio nei suoi Fasti dimostrava di avere bene appreso la lezione dalla
sua vista:
Agli innumerevoli titoli di Cesare [Augusto], che egli ha preferito
ottenere per i suoi meriti, si aggiunge l’onore pontificale.
[...] Dèi dell’eterna Troia, bottino ben degno del suo portatore,
Enea, che carico di esso poté salvarsi dai suoi nemici,
v’è un sacerdote della sua stirpe che si cura di un nume
parente: o Vesta proteggi il capo del tuo congiunto.
Gaio rifece una piroetta guardando uno ad uno i suoi interlocutori negli
occhi per essere sicuro che lo seguissero e comprendessero.
«Ricapitolando: la nostra Pace avrà i segni della prosperità ovunque
intorno a lei e rappresentati in una corona sul suo capo. Porterà in grembo
due fanciulli: come due furono i gemelli dai quali si generò la Roma
quadrata; due sono i figli, Lucio e Gaio, sui quali il padre Augusto ripone le
sue speranze di eredità; due sono i figli di Livia, Tiberio e Druso, che
garantiscono sicurezza ai nostri confini; due sono i Dioscuri che
abbeverarono i loro cavalli nella fonte di Giuturna nel foro per portare
imperituro annuncio di vittoria. Di fianco a lei, la dea avrà i simboli apollinei
a garantire prosperità in cielo e in mare e avrà ai suoi piedi greggi e armenti,
come una prosperosa divinità della terra e di tutta Roma a ricordare che “gli
dèi sempre si compiacquero dei sette colli”».
Ovidio la vide realizzata questa Pace come venne poi scolpita nel marmo
sul recinto dell’altare da Dario e, nei Fasti, così la descrisse: «Eccola la Pace,
con l’alloro di Azio sui capelli raccolti».
La corona di alloro sui capelli della dea Pace è dunque alloro di Azio, a
ricordare da dove ha potuto avere inizio la concordia che ora regnava su
Roma.
Circa due anni dopo la riunione sull’Esquilino, giunse a Mecenate la
seguente lettera da parte di Augusto: «Caro Mecenate, la morte di mia sorella
Ottavia mi ha segnato profondamente. Ciò soprattutto per il ruolo da lei avuto
in tutta la mia vicenda alla guida di Roma, fin da quando accettò – per me e
per sostenere e aiutare me solo – di sposare Marco Antonio. E pensare che lei
allora era ancora nel periodo del lutto del suo primo marito, ma si gettò con
ardore anche in questa nuova avventura e non la spaventarono neppure in
seguito le umiliazioni personali che questa scelta le costò. Ai suoi funerali
questa sua lunga storia al mio fianco si è potuta toccare con mano quando due
dei suoi generi hanno voluto trasportare il suo corpo dal foro all’ustrinum, nel
campo Marzio, per la purificatrice catasta di fuoco prima della tumulazione
delle sue ceneri nel mausoleo che sarà mio in riva al Tevere. Questi generi
sono stati per lei come due figli, anche se in modi molto diversi: il primo è
Iullo Antonio che è figlio carnale di Marco Antonio e della sua prima moglie
Fulvia, ma che è stato cresciuto da mia sorella come un figlio prediletto,
finché figlio non lo è diventato veramente sposando la di lei figlia Marcella.
Il secondo genero che trasportò il corpo morto di Ottavia è stato Druso, figlio
di mia moglie Livia, perciò anche mio, marito appassionato di Antonia, figlia
di Ottavia. Il legame di Druso con Ottavia è stato così forte, e non solo per
causa di Antonia, che ho voluto che fosse lui a proclamare la seconda delle
orazioni funebri, dopo la mia, per rendere il massimo dell’onore a questa mia
sorella. Lei nacque, a Nola, nella stessa casa nella quale mio padre morì, casa
perciò sacra alla nostra famiglia e alla quale amo tornare come si fa quando si
torna con gioia alla fonte della propria salute. Fin dalla sua nascita ha vissuto
il destino della nostra famiglia. Druso ha parlato di Ottavia con amore di
figlio, dimostrando di avere appreso, abbeverandosi a sua volta alla fonte
prolifica e sicura di Livia, come una madre sia fonte inestinguibile d’amore.
In questi mesi, l’altro figlio di Livia, Tiberio, ha preso come sposa mia figlia
Giulia, madre fra gli altri di Lucio e Gaio che ho adottato come figli per dare
un segno concreto di certezza e continuità al principato. Livia in tutti questi
anni preziosa e silenziosa al mio fianco è stata un segno vivente per tutta
Roma dei nostri valori più forti e radicati: fila la lana delle mie vesti, si
prende cura della mia salute come il migliore dei medici, cresce i miei figli
vigilando sulla loro educazione e scegliendo i precettori, mi è al fianco con
una presenza costante e sicura, condivide in tutto e per tutto le mie scelte
anche quando condividere vuol dire tacere. In particolare ora, che Ottavia se
ne è andata, lei e lei sola è l’esempio di donna per tutta l’urbe, è il segno di
un futuro di pace e di prosperità per tutti. Voglio dunque che la dea Pace, che
già è stata abbozzata nei riquadri del recinto esterno dell’altare a lei dedicato,
abbia gli stessi tratti della donna che nella processione sul fianco dell’altare
mi segue e rappresenta Livia. Il volto della dea della Pace deve essere chiaro
a tutta Roma che è quello di Livia».
Agli scultori di Dario non restò che adattarsi al volere di Augusto e diedero
al volto della Pace, che già avevano sbozzato, gli stessi tratti di quelli nella
processione attribuiti a Livia. I lineamenti di quale persona siano stati
consegnati a quel volto non sono più dunque un mistero per nessuno.
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La foto di famiglia. I disegni di Antero