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Saggi 307

Filosofia
fenomenologia e filosofia dell’esperienza
Collana diretta da Carmine Di Martino
Attualità della fenomenologia
a cura di Carmine Di Martino

Rubbettino
© 2012 - Rubbettino Editore
88049 Soveria Mannelli
Viale Rosario Rubbettino, 10
tel (0968) 6664201
www.rubbettino.it

Progetto Grafico:
Ettore Festa, HaunagDesign
Indice

Introduzione di Carmine Di Martino 9

Sezione prima
Attualità della fenomenologia

Dan Zahavi
Il senso della fenomenologia: una riflessione metodologica 25

Dieter Lohmar
La fenomenologia del futuro:
eidetica, trascendentale o naturalizzata? 49

Burt C. Hopkins
Fenomenologia e Pseudo-fenomenologia:
Cinque idoli che hanno fatto il loro tempo 71

Claudio Majolino
Molteplicità e costituzione.
Un manifesto per la fenomenologia 95

Sezione seconda
Ricerche

Michele Averchi
Io puro, unità di coscienza e temporalità
fenomenologica tra Ricerche logiche e Idee I 137
6 

Nicolas de Warren
Lo sguardo di Pamina.
Immagine e immaginazione
nella fenomenologia husserliana 193

Carmine Di Martino
Husserl e la questione uomo-animale 229

Elio Franzini
Le idee estetiche della fenomenologia 285

Claude Romano
La fenomenologia nella sua possibilità:
la disputa sull’a priori sintetico 313

Rocco Sacconaghi
Implicazioni metafisiche ed epistemologiche
del manoscritto husserliano sul copernicanesimo 347

Marta Ubiali
Abitualità trascendentali e orizzonte etico
della fenomenologia husserliana 383

Sezione terza
Al di là della fenomenologia

Renaud Barbaras
Il doppio superamento della fenomenologia 409

Jocelyn Benoist
Le vestigia del dato
(Apparire, apparenze, aspetti) 431

Vincenzo Costa
Sentirsi nel mondo:
elementi di una fenomenologia delle emozioni 455
 7

Hans-Helmuth Gander
Sull’attenzione.
Analisi fenomenologica e comprensione
etica dell’attenzione sociale 491

Roberta Lanfredini
La fenomenologia e il Mito del dato 513

Carlo Sini
Il piccolo inizio 537

Roberto Terzi
L’istituzione della storia:
Husserl, Merleau-Ponty, Derrida 549
Carmine Di Martino

Introduzione

Si può parlare di una attualità della fenomenologia e, in particola-


re, della fenomenologia di Edmund Husserl? Occorre intendersi
sul significato del termine attualità. Se dicessimo che la fenome-
nologia husserliana continua ancor oggi a essere studiata, che
ancora non si è interrotta la pubblicazione della immensa mole
dei manoscritti inediti, questo non ci autorizzerebbe a parlare di
una attualità della fenomenologia, perlomeno non più di quanto
potremmo parlare di una attualità di Platone e del platonismo.
Se invece adottiamo come indizio il fatto di per sé significativo
che non pochi filosofi oggi rivendicano per i rispettivi percor-
si una partenza o una prospettiva “fenomenologica”, abbiamo
qualche appiglio in più per parlare di una possibile attualità della
fenomenologia. Soprattutto in Francia sono infatti relativamente
numerosi i filosofi che avvertono l’esigenza di richiamarsi alla
fenomenologia, anche là dove le loro impostazioni sono rimaste
a lungo estranee ad essa. Talvolta si tratta semplicemente di ap-
pelli a una ispirazione o a uno stile fenomenologico, in quanto
esso comporta un riferimento filosofico all’esperienza, in chiave
non empirico-cognitiva, avvertito forse oggi come più necessario
o addirittura indispensabile. E tuttavia il fenomeno ha assunto
ormai una rilevanza internazionale, come documenta il volu-
me recentemente pubblicato in Germania sulla fenomenologia
francese contemporanea1.
Negli ultimi decenni, insomma, si è realizzata una “stra-
na” parabola, che ha condotto a un singolare “ritorno” del-

1. d. gondek, l. tengelyi, Neue Phänomenologie in Frankreich, Suhrkamp,


Berlin 2011.
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la fenomenologia e alla fenomenologia. Ma in che consiste


questa stranezza? Il problema è che la fenomenologia, pur
continuando a essere studiata, è apparsa per alcuni decen-
ni irrecuperabile da un punto di vista filosofico. Negli anni
Sessanta e Settanta essa è stata accantonata proprio nel paese
in cui è sorta (più sbilanciato verso forme di attualizzazione
del marxismo, come la Scuola di Francoforte, e modelli di
pensiero anglosassoni) e sottoposta a una severa messa in
questione in Francia, sotto i colpi convergenti del paradig-
ma strutturalista (nella sua complicità con antropologia e
psicanalisi), di quello marxista e della critica heideggeriana
dell’ontoteologia e della metafisica della presenza (si pensi a
Claude Levi-Strauss, Jacques Lacan, Michel Foucault, e poi
a Jacques Derrida, Jean-François Lyotard, ecc). Lo stesso ac-
cade in Italia, sebbene con uno scarto in avanti di più di un
decennio. Soprattutto dalla metà degli anni Settanta fino alla
metà degli anni Ottanta, la notevole opera di traduzione di
testi heideggeriani dà nutrimento a una nuova generazio-
ne di filosofi, i quali, prendendo simultaneamente congedo
dall’idealismo gentiliano e dall’orizzonte gramsciano – che
sembravano avere esaurito la loro spinta propulsiva –, si ispi-
rano decisamente alla “decostruzione” heideggeriana della
metafisica, sviluppando particolarmente l’Heidegger critico
del fondazionalismo occidentale e della Weltzivilisation, della
omologazione planetaria ad opera della tecnica (pensiamo
qui soprattutto a Carlo Sini, Gianni Vattimo, Vincenzo Vitiel-
lo, Massimo Cacciari). Con tempi e modi diversi, l’ermeneu-
tica heideggeriana sembrava aver prodotto un vero e proprio
rigetto anche della fenomenologia.
Nell’ambito della filosofia continentale europea, il di-
scorso heideggeriano sulla “fine della metafisica” divenne
in certi anni dominante, canonico. Il talento filosofico di
Martin Heidegger si era reso visibile anche nella capacità di
leggere l’intera storia della filosofia come una totalità siste-
matica retta da alcuni presupposti fondamentali: in sintesi,
essa sarebbe caratterizzata da quella interpretazione del sen-
so dell’essere come presenza, o semplice presenza, in cui la
Introduzione 11

differenza ontologica è obliata. In tutte le figure dell’essere


che si sono susseguite, l’essere è sempre stato interpretato
sul modello dell’essente presente, come principio, fondamen-
to, causa di esso. Fino a noi. La nostra sarebbe l’epoca del
nichilismo dispiegato, in cui dell’essere non ne è più nulla,
perciò l’epoca della fine della metafisica: vi sono solo essen-
ti semplicemente presenti, disponibili alla manipolazione
scientifico-tecnica. La razionalità filosofico-scientifica è in
se stessa l’attuazione destinata di questa riduzione dell’essere
all’essente e dell’essente a fondo utilizzabile: fino a Essere e
tempo, infatti, la filosofia è in qualche modo responsabile
dell’oblio dell’essere; da Introduzione alla metafisica in avanti
è l’essere stesso che si sospende nell’avvento dell’Occidente,
della razionalità filosofica e scientifico-tecnica, che ne rap-
presenta il culmine.
Al di là dei contenuti specifici di questa prospettiva, con
le sue discutibili profondità, ciò che qui importa è cogliere
quello che di essa ha lasciato il segno. Con Heidegger è la que-
stione stessa del fondamento che viene messa in discussione,
decostruita, più ancora che questa o quella interpretazione di
esso (idea, ousia, energeia, soggettività, coscienza, Dio, ecc).
Heidegger mostrerebbe cioè che essa ha un atto di nascita,
è storica, ed è divenuta impossibile, non per la negligenza o
l’opposizione di qualche pensatore, ma perché la metafisica è
giunta alla sua fine: non possiamo più pensare nei termini del
fondamento, cioè di un punto di arresto, di assicurazione, di
certezza, a cui tutto si può ricondurre. Di tutto ciò, proprio in
quanto siamo sull’orlo di un’epoca, noi vediamo la finitezza: le
figure dell’essere, della presenza fondante e rassicurante, sono
tutte interne a una parabola storica, e tramontano con essa.
Da una parte, allora, con Heidegger la filosofia mette
capo a una radicale storicizzazione di se stessa: essa non è
che una stagione determinata del pensiero, che sta per la-
sciare il posto a qualcosa d’altro che sta per venire e che noi
possiamo soltanto preparare, auspicare; niente giustifica la
sua superiorità, la sua convinzione di essere una entelechia
della ragione. La filosofia si assegna così un compito eminen-
12 carmine di martino

temente decostruttivo: attendere all’oltrepassamento della


metafisica, aiutare l’Occidente a declinare, e ciò si intrecce-
rebbe al superamento della pretesa dell’Occidente di essere
un capo, del suo intrinseco imperialismo. Dall’altra parte,
nonostante la prima ricezione heideggeriana, in Francia in
particolare, si sia caratterizzata in senso esistenzialistico, la
critica heideggeriana alla ontoteologia è anche una potente
messa in questione dell’umanismo e del soggettivismo che
da Descartes a Husserl aveva dominato la scena filosofica.
Anche il soggetto, anzi forse soprattutto il soggetto, si rivela
nella sua finitezza e storicità. Nella riflessione filosofica in-
scritta nella apertura heideggeriana si è dunque proceduto,
dagli anni ’60 agli anni ’80, a seconda che si trattasse di un
contesto francese o italiano, a una sistematica decostruzione
della metafisica della presenza in tutte le sue modulazioni.
Nel clima determinato dallo strutturalismo e dalla “fine
della metafisica”, sembrò allora che la fenomenologia fosse
rimasta vittima di una ingenuità e di un ritardo clamoro-
si e appartenesse a un’altra epoca filosofica: essa risultava il
porta-bandiera di un progetto complessivo, quello metafisico,
che era crollato nel suo insieme e appariva come gli ultimi
soldati giapponesi che continuavano a combattere quando la
Seconda guerra mondiale era a tutti gli effetti finita. Il sogno
di una filosofia come scienza rigorosa era definitivamente
tramontato. Il riferimento a una soggettività trascendenta-
le costituente – a una coscienza pura – appariva come un
imbarazzante residuo di cartesianesimo e suonava come un
soggettivismo, un idealismo soggettivo, divenuto filosofica-
mente improponibile. La riduzione trascendentale risultava
come la pretesa o l’illusione di accedere a un campo purificato
di esperienza, e quindi alla soggettività o intersoggettività
trascendentale, mediante una sospensione impossibile delle
validità. L’istanza dell’intuizione, cioè di una offerenza e di un
coglimento della cosa in carne e ossa, che qualificava il “prin-
cipio dei principi” della fenomenologia, era stata inesorabil-
mente messa in questione dal carattere interpretativo di ogni
rapporto col mondo. Il primato della percezione, presunto
Introduzione 13

o reale, era stato rovesciato dalla scoperta della dimensione


ermeneutica e pragmatico-affettiva dell’incontro con gli enti
intramondani: niente cose semplicemente presenti, ma prag-
mata in una prassi e in un universo di senso precompreso.
L’ambizione eidetica, quella cioè di raggiungere strutture – ei-
de –, era stata ampiamente sconfessata dal carattere storico,
finito, linguistico di ogni scoperta, quando non attribuita a
quella volontà di potenza che, con Nietzsche, si era rivelata
come l’autentico volto della volontà di verità. Insomma, la
fenomenologia pareva incarnare proprio ciò che si trattava
di lasciarsi alle spalle.
In Francia, si pensava che la lettura derridiana della feno-
menologia ne avrebbe sancito l’eclissi definitiva: «La fenome-
nologia rimane – nel suo “principio dei principi” – la più ra-
dicale e critica restaurazione della metafisica della presenza»2,
recita un noto passo di Della grammatologia (1965). Derrida
metteva in questione i concetti fondamentali della fenome-
nologia husserliana: l’intuizione, l’evidenza, la presenza,
l’esperienza e naturalmente la coscienza. Quest’ultima in-
carnava infatti in maniera eminente il valore di presenza:
presenza a sé, che si possiede in una assoluta coincidenza,
e che si propone come istanza ultima e insuperabile al di
qua di ogni finitezza (coscienza trascendentale). Anche se le
analisi husserliane della coscienza temporale, con la dialet-
tica ritenzionale-protenzionale, sembrano andare in un’altra
direzione, alla fine, secondo Derrida, in una interpretazione
che si discosta manifestamente dalla lettera husserliana, è
alla impressione originaria, vale a dire al presente, alla punta
di un presente impressionale, che Husserl attribuirebbe il
primato: «Da Parmenide a Husserl, il privilegio del presente
non è mai stato messo in questione. Non ha potuto esserlo.
È l’evidenza stessa e nessun pensiero sembra possibile fuori

2. j. derrida, De la grammatologie, Minuit, Paris 1967; trad. it. di R. Balzarotti,


F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso, A.L. Loaldi, Della grammatologia, Jaca Book,
Milano (1969) 1989, p. 55.
14 carmine di martino

dal suo elemento»3. E il primato del presente sarebbe solidale


con quello dell’intuizione, cioè di una supposta presa senza
resti – che avverrebbe nel batter di ciglia di un indivisibile
istante presente – di una supposta originaria presenza della
cosa. Invece che a un pensiero della presenza, cui si ricon-
durrebbe in ultima istanza la fenomenologia, bisognerebbe
dunque lavorare a un pensiero della differenza e della traccia.
Insomma, dopo la morte improvvisa di Maurice Merleau-
Ponty, avvenuta nel 1961, la fenomenologia in Francia sem-
brava avviata verso un’inesorabile uscita di scena, mentre si
andavano affermando lo strutturalismo, le critiche di Derrida
a Husserl, la “condizione postmoderna” di Lyotard. E invece,
a partire dai primi anni ’80 si intravedono i segni di una,
all’apparenza insospettabile, ripresa della fenomenologia.
Non si tratta ovviamente di un fulmine a ciel sereno. Alla
sua radice si trovano alcuni nomi e il loro profondo influsso
sugli orientamenti filosofici in Francia: Emmanuel Lévinas,
Paul Ricoeur, Michel Henry, Henri Maldiney e Jean Beaufret.
Come osserva Jean Greisch, sono stati questi i «resistenti»4,
gli autori che hanno reso possibile la rinascita della fenome-

3. j. derrida, Marges de la philosophie, Minuit, Paris 1972; trad. it. di M. Iofri-


da, Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1997, p. 64. Derrida, interpretando le
analisi husserliane sulla temporalità, sovrappone in modo improprio e abbastanza
sistematicamente la nozione di «ora» o «impressione originaria» a quella di «pre-
sente vivente», orientando così la comprensione della temporalità husserliana
nella direzione di un primato del presente e dunque di una appartenenza alla
metafisica della presenza. Lo si può evincere per esempio da questo passo: «Il
privilegio accordato alla coscienza significa dunque il privilegio accordato al
presente; e anche se si descrive, alla profondità a cui lo fa Husserl, la temporalità
trascendentale della coscienza, è al “presente vivente” che si accorda il potere di
sintesi e di raccolta incessante delle tracce» (j. derrida, Margini della filosofia,
cit., p. 44).
4. Scrive Greisch, a proposito dei nomi citati: «Ce sont ces “résistants” qui ont
en partie rendu possible un nouvel essor de la phénoménologie» (j. greisch,
Les Yeux de Husserl en France: Les tentatives de refondation de la phénoménologie
dans la deuxième moitié du XX siècle in Phénoménologie: un siècle de philosophie,
Ellipses, Paris 2002, p. 53). Il termine “resistenti” sta a significare che questi
autori si rivolgevano alla fenomenologia in un periodo in cui essa era messa
da parte.
Introduzione 15

nologia in Francia. Tale rinascita si rende evidente all’inizio


degli anni ’80 con l’emergere di una generazione di giovani
ricercatori destinati poi ad affermarsi5, il retroterra dei quali
è costituito non tanto da un diretto riferimento a Husserl,
quanto da un variegato e peculiare intreccio di Heidegger,
Lévinas, Merleau-Ponty, Henry, e anche, per quanto strano
possa sembrare, di Derrida. Due sono i fattori che occorre
tenere presenti. In primo luogo, il considerevole ampliamen-
to delle opere disponibili di Husserl e di Heidegger, che ha
modificato le prime e più intransigenti classificazioni dei
rispettivi orientamenti e dei rapporti tra essi. Lo studio tan-
to della fenomenologia genetica quanto del primo Husserl
offre un quadro più completo del percorso husserliano che
contribuisce a una reinterpretazione non idealistica della
fenomenologia (i problemi delle sintesi passive, della inten-
zionalità fungente, della pulsionalità e degli istinti originari,
dell’intersoggettività ecc., intervengono a scombussolare le
interpretazioni consolidate). In secondo luogo, si allarga an-
che la conoscenza del corpus heideggeriano e si sviluppano
di conseguenza le analisi della fase di gestazione di Essere e
tempo. Emergono i legami profondi e complessi tra il pensiero
heideggeriano e la fenomenologia husserliana: Heidegger co-
mincia a essere considerato come un fenomenologo (quale in
effetti egli stesso si era sempre ritenuto) e la sua opera inizia
ad essere riletta fenomenologicamente. Inoltre, come nota
Greisch, della nuova generazione di interpreti fanno parte
notevoli studiosi della storia della filosofia, i quali prendo-
no a interrogare i grandi testi della tradizione metafisica in
maniera fenomenologica, sul modello delle “interpretazioni
fenomenologiche” (di Aristotele, di Agostino, di Kant, ecc.)
realizzate da Heidegger stesso, guadagnando così uno sguar-
do nuovo su tutta la storia della filosofia.

5. Riportiamo qui la lista stilata da Greisch: J. Barash, R. Barbaras, R. Brague.


J.L. Chrétien, J.F. Courtine, F. Dastur, E. Escoubas, D. Franck, J.-Y. Lacoste, J.-L.
Marion, M. Richir, P. Rodrigo.
16 carmine di martino

Vi è dunque una chiara originalità nel “ritorno” a Husserl


verificatosi in Francia negli anni ’80 e tuttora perdurante6.
Anzitutto, come occorre rimarcare, i suoi protagonisti non
sono di stretta provenienza husserliana e i loro tentativi si
inscrivono dichiaratamente, per temi e riferimenti, in un
orizzonte post-heideggeriano. Non si può comprendere
adeguatamente lo sviluppo della fenomenologia francese
contemporanea se non si tiene conto, per esempio, come
afferma Benoist, che «la generazione attuale dei fenomeno-
logi francesi è costituita in gran parte dagli allievi di Jean
Beaufret o dagli allievi degli allievi di Jean Beaufret»7. Ciò
contribuisce a spiegare perché per essa non sono in primo
piano i problemi della coscienza trascendentale e del ritorno
agli atti costituenti della coscienza e in generale i problemi
di una teoria della conoscenza legata alla filosofia moderna,
bensì una ridefinizione dell’ambito della fenomenalità e una
nuova interrogazione sulle condizioni di manifestatività. Se
la metafisica come “epoca dell’essere” è finita, si pone da un
lato l’esigenza di reinterpretare la storia della filosofia e rico-
noscervi un senso (e la fenomenologia si presenta come un
modo efficace e potente per farlo), dall’altro il problema di
come affrontare filosoficamente, con quali armi, con quale
rigore, i “fenomeni”, ossia quegli ambiti di esperienza che
interpellano il pensiero e che possono anche oltrepassare il
confine di quelli tradizionalmente frequentati dalla fenome-
nologia. Quest’ultima diviene allora anzitutto un atteggia-
mento, un metodo – non necessariamente corrispondente al
senso originario del metodo husserliano – con cui affrontare
questioni vecchie e nuove, prendendo le mosse dai fenomeni,
dalle “cose stesse”, dalla “datità” o dalla “donazione” – secondo

6. Al riguardo rimandiamo anche al lavoro di c. canullo, La fenomenologia


rovesciata. Percorsi tentati in J.L. Marion, M. Henry e J.L. Chrétien, Rosemberg &
Sellier, Torino 2004.
7. j. benoist, L’idée de la phénoménologie, Beauchesne, Paris 2001, p. 7. Sono
allievi di Beaufret Courtine, Marion, Renaut, Janicaud, Vezin, Martineau (tradut-
tore di Essere e tempo), Munier; e sono allieve di Janicaud F. Dastur e E. Escoubas,
per citare degli esempi e senza pretendere troppo da queste indicazioni.
Introduzione 17

la sfruttata ambiguità della traduzione francese del tedesco


Gegebenheit –, assicurandosi una partenza filosoficamen-
te credibile e un modo di procedere rigoroso, provvisto di
un apparato concettuale non arbitrario. L’intreccio dei due
elementi evidenziati aiuta a comprendere perché la feno-
menologia sia divenuta il «centro pulsante» della filosofia
francese contemporanea e al contempo perché essa abbia
assunto quella singolare ed eccentrica piega “a-soggettiva”,
in cui contestualmente avviene una sorta di ripensamento
e di allargamento della “fenomenalità”, che ne costituisce la
marca. Proprio in ciò, infatti, osserva Tarditi, si riassumereb-
be l’idea comune all’indirizzo francese della fenomenologia:
«Lungo questo percorso si consuma la vicenda filosofica del
rovesciamento dell’Io husserliano in favore di un modello
di manifestatività completamente libero da ogni residuo di
costituzione intuitivo-soggettiva: l’evenemenzialità, ossia la
struttura dell’altrove (non necessariamente trascendente,
dunque libero da schemi causali di stampo metafisico), fa
strada ad una fenomenalità che si impone da sé e a partire
unicamente da sé, interpellando l’io e coinvolgendolo nella
manifestazione stessa»8. In quest’ottica il fenomeno, la ma-
nifestazione, è un evento di cui il soggetto non è più il fine
e di cui i suoi atti non costituiscono né la direzione né la
fondazione. Al contrario, è il soggetto a essere istituito come
tale in e da questo evento.
Il ritorno della fenomenologia – che ha il suo epicentro
in Francia e, a partire da esso, ripercussioni che ne oltre-
passano i confini – si produce in un contesto filosofico e
politico generale molto mutato rispetto a quello degli an-
ni ’60-’80. La capacità di presa della visione heideggeriana
dell’Occidente si è oggi notevolmente allentata e molte cose
che prima apparivano inaggirabili ora hanno perso la loro
urgenza e carica polemica (anche perché si sono in larga

8. c. tarditi, Plus d’une voix. Alle radici della fenomenologia francese, «Biblio-
teca husserliana. Rivista di fenomenologia», aprile 2011, ISSN 1826-1604, www.
biblioteca-husserliana.com, p. 15.
18 carmine di martino

misura realizzate nei costumi). Non ha dunque più senso


quella lettura che, da una parte, marcava i limiti degli ele-
menti portanti della fenomenologia husserliana in quanto
incompatibili con la visione heideggeriana della metafisica
e, dall’altra, ne valorizzava tutti quegli aspetti che potevano
essere letti come anticipazione di ciò che avrebbe detto e
fatto Heidegger. È il caso, per esempio, della discussione sulla
riduzione fenomenologico-trascendentale. Letta nell’ottica
della “decostruzione della metafisica della presenza” essa
non significava altro che ritorno a un cartesianesimo, a una
coscienza soggettivisticamente intesa (questa era già l’inter-
pretazione di Merleau-Ponty, oltre che di Heidegger e poi
di Derrida). Letta al di là di quest’ottica essa può significare
quella riconduzione all’esperienza che qualifica la filosofia
come tale e fuori della quale la filosofia non ha più niente da
dire, se non aggiungere la propria voce al coro delle ideolo-
gie o cedere il passo alle scienze empiriche. L’esperienza di
cui si occupa Husserl non è da intendersi in senso empirico,
bensì in senso fenomenologico-trascendentale. Ma ciò non
ha nulla a che vedere con un costrutto intellettualistico, una
proiezione idealistica: al contrario, essa identifica il momento
vivente dell’esperienza quale luogo di tutte le emergenze e
rivelazioni di senso, alla luce del quale non è possibile parlare
di “oggetto” in termini ingenuamente o dogmaticamente rea-
listici (come ne parlerebbe una scienza obbiettivisticamente
atteggiata) né di “soggetto” in termini idealistici, come se si
trattasse di un io attivo costituente, trasparente a se stesso e
padrone in casa propria («L’attività egologica presuppone la
passività – la passività egologica – ed entrambe presuppon-
gono l’associazione nella forma dello sfondo iletico ultimo
sottostante»9). Il passo riflessivo della riduzione, dunque, non
muove di per sé né verso un internalismo cartesiano né verso
una ingenua metafisica della presenza, e nemmeno implica
l’opzione per un io attivo che esercita il controllo sul mondo

9. e. husserl, Ms. C 3/41b-42a.


Introduzione 19

e su se stesso. La riduzione sottrae anzi il mondo e il soggetto


all’astrazione in cui essi vengono mantenuti dall’atteggia-
mento obbiettivistico-naturalistico e li rivela nella loro piena
concretezza, nella loro originaria con-costituzione. L’esercizio
della riduzione fenomenologica schiude insomma l’ambito
della manifestatività, apre l’accesso a un campo di esperienza
e di operazioni in cui si producono le costituzioni di senso.
Che l’indagine fenomenologica sia trascendentale significa
pertanto che essa si interroga sulle condizioni di manifesta-
tività dei fenomeni – evidentemente presupposte anche nella
ricerca scientifica in “terza persona” – e non che opti per una
metafisica soggettivistica in luogo di una oggettivistica. Sotto
questo profilo la fenomenologia incarna l’esigenza stessa di
un radicalismo filosofico, in cui, sospendendo i presupposti
dell’esperienza quotidiana e scientifica, si prendano di mira
datità e contesti d’esperienza mettendo in questione il come
essi si offrano per vederne sorgere il senso.
Nella prospettiva delle considerazioni compiute, si posso-
no allora individuare alcuni motivi di interesse e di attualità
della fenomenologia.
In primo luogo, là dove un certo sviluppo dell’ermeneuti-
ca, soprattutto di ispirazione gadameriana, ha condotto a una
trasformazione della filosofia in cultura o in visione del mon-
do, in un libero esercizio dell’interpretazione o in chiacchiera
ideologica, la fenomenologia rappresenta la possibilità per la
filosofia di avere come proprio terreno di indagine l’esperien-
za e di interrogarne modalità e insorgenza conservando un
rigore nel proprio modo di procedere. Comunque la si assu-
ma e la si incarni, l’istanza della fenomenologia costituisce in-
somma una via per chi non intenda rinunciare alla filosofia e
abbandonarsi a più o meno oscuri irrazionalismi, per chi non
plauda al suo superamento e alla sua dissoluzione in discorsi
retorici o letterari. È il motivo per cui anche Derrida, che pure
figura tra i critici più severi della fenomenologia, rivendica
per sé l’appellativo di fenomenologo: «dobbiamo oltrepassare
fenomenologicamente la fenomenologia. È quello che cerco
di fare anch’io. Rimango e voglio rimanere un razionalista,
20 carmine di martino

un fenomenologo. […] Vorrei rimanere fenomenologico in


ciò che dico contro la fenomenologia»10.
In secondo luogo, come documenta la crescente atten-
zione di talune scienze (innanzitutto scienze cognitive e
neuroscienze) per la fenomenologia, quest’ultima mostra
una positiva capacità di interagire con la ricerca scientifica.
Senza in alcun modo contestarne o sminuirne la portata, la
fenomenologia intende piuttosto sottrarla alle superstizioni
che ne minacciano la razionalità. Il suo contributo più de-
cisivo in questo senso non consiste tanto nel sottolineare la
necessaria coimplicazione e integrazione delle prospettive in
terza e prima persona (questo è quello che già provvedono a
fare gli scienziati che si rivolgono alla fenomenologia), quanto
nel mettere continuamente in questione le indebite ontologiz-
zazioni dei propri risultati che le scienze, nella misura in cui
sono obbiettivisticamente atteggiate, compiono. In contrasto
con l’impostazione naturalistico-obbiettivistica delle scienze,
la fenomenologia aiuta a comprendere che le “cose” o gli “og-
getti” delle ricerche non possono mai essere sganciati dalle
operazioni e dalle scritture implicate nella loro apparizione e
dunque scambiati con presunte “cose in sé” (non ci sono, nel
nostro cervello, neuroni in sé che fanno questo o quest’altro,
così come non ci sono bosoni di Higgs in sé, semplicemente
presenti, a portata di mano, anzi di sguardo, che aspettano
solo di essere colti dai nostri cervelli evoluti di scienziati).
Il che non comporta evidentemente che essi si trasformino
per questo in costruzioni arbitrarie o in “interpretazioni”
nel senso debolistico del termine – l’efficacia del procedere
scientifico è lì a testimoniarlo –, ma che la “natura” con cui
hanno a che fare le scienze non possa presentarsi come una
“natura in sé”, bensì come una rivelazione interna a codici
e scritture determinate. L’obbiettivismo resta un bersaglio
costante della critica fenomenologica husserliana.

10. j. derrida, On the Gift: A Discussion between Jacques Derrida and Jean-Luc
Marion, in j.d. caputo, m.j. scanlon (a cura di), God, The Gift and Postmoder-
nism, Indiana University Press, Bloomington and Indianapolis 1999, p. 75.
Introduzione 21

In terzo luogo, la fenomenologia, proprio in quanto im-


pegnata in una fedeltà all’esperienza, ai fenomeni e alla fe-
nomenalità, svolge una funzione critica anche nei confronti
delle ipotesi esplicative totalizzanti – non solo di carattere
scientifico, ma anche filosofico, siano esse metafisiche o
genealogico-ricostruttive. L’impostazione fenomenologica
porta con sé una modestia speculativa e una dimensione
anti-ideologica che non cessano di testimoniare la loro fe-
condità filosofica: essa invita infatti a non staccarsi da ciò che
si manifesta, perciò da quella fonte originaria che è il nostro
esperire, in cui si delineano evidenze e rivelazioni di senso,
e in cui necessariamente sono chiamati a radicarsi i percorsi
costruttivi e ricostruttivi delle teorie (scientifiche o filosofi-
che). Questo è forse il segreto della vitalità della fenomenolo-
gia: il suo non coincidere con una dottrina, vale a dire il suo
essere e proporsi come una istanza di radicalismo filosofico,
come un atteggiamento segnato dalla duplice esigenza di un
terreno originario, non posticcio, di partenza (l’esperienza
nel senso detto), e di un metodo per coglierlo, interrogarlo,
di uno sguardo a esso genuinamente ordinato (Husserl parla
a questo proposito di un mutamento dell’interesse, di un
volgersi al «come universale dell’essere-già-dato del mondo»,
ai «modi di datità» che gli ineriscono). In quest’ottica, al
netto di quanto di contingente e polemico pure vi era con-
tenuto, si può dire che Heidegger aveva visto giusto quando,
riferendosi alla fenomenologia, diceva che «l’essenziale per
essa non sta nell’essere reale come “corrente” filosofica (cioè
non come corrente della filosofia trascendentale derivata
dall’idealismo critico kantiano11). Più in alto della realtà si
trova la possibilità. La comprensione della fenomenologia
consiste esclusivamente nell’afferrarla come possibilità» 12.
In ciò soprattutto risiede l’attualità della fenomenologia: la

11. Le parole poste tra parentesi tonde sono quelle che Heidegger annota a
commento del passaggio sulla sua copia personale di Essere e tempo.
12. m. heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2010, pp. 54-55.
22 carmine di martino

possibilità di un esercizio dello sguardo che lasci la parola


alla manifestatività13.

***

Il volume si compone di tre sezioni:


1. Attualità della fenomenologia
2. Ricerche
3. Al di là della fenomenologia

La prima ospita i contributi che si concentrano sulla pro-


spettiva generale della fenomenologia e ne mettono a fuoco
l’attualità. Che cosa distingue l’impostazione della fenomeno-
logia? Che cosa ne rende feconda la presenza nel panorama
attuale? Compaiono qui i testi di Dan Zahavi, Dieter Lohmar,
Burt C. Hopkins, Claudio Majolino.
La seconda è costituita da studi – taluni dei quali molto
ampi – dedicati ai diversi temi della ricerca fenomenologica.
Si tratta dei contributi di Michele Averchi, Nicolas De War-
ren, Carmine Di Martino, Elio Franzini, Claude Romano,
Rocco Sacconaghi, Marta Ubiali.
La terza, infine, contiene saggi che mettono in rapporto
la fenomenologia con altre prospettive e approcci oppure
intendono segnalare vie che, muovendo dalla fenomenolo-
gia, conducono oltre essa. Gli autori sono Renaud Barbaras,
Jocelyn Benoist, Vincenzo Costa, Hans-Helmuth Gander,
Roberta Lanfredini, Carlo Sini, Roberto Terzi.

13. La presente introduzione è apparsa in forma di saggio in «Nóema. Rivista


on line di filosofia» (2012), con il titolo: Attualità della fenomenologia?
Sezione prima
Attualità della fenomenologia
Dan Zahavi

Il senso della fenomenologia:


una riflessione metodologica

Che ruolo gioca la coscienza nel portare alla luce la dimen-


sione del senso? Una delle correnti letture dello sviluppo della
fenomenologia post-husserliana definisce questo problema
riconoscendo che la produzione di senso non viene dominata
dall’operazione costitutiva della coscienza intenzionale. Ma
dato che questa dev’essere certamente stata la pretesa hus-
serliana originaria, da ciò può essere tratta esclusivamente la
conclusione che siamo costretti ad ammettere i limiti della
fenomenologia husserliana, e che i fenomenologi di oggi – in
quanto essi in generale sono ancora interessati a una chiarifi-
cazione del problema della costituzione del senso – debbano
seguire altri binari rispetto a quelli che Husserl ha magistral-
mente tracciato nelle sue opere classiche.
L’invito a contribuire al tema della “fenomenologia degli
eventi di senso” mi ha posto davanti a due sfide: da un lato
verificare se la fenomenologia husserliana contenga delle ri-
sorse che abbiano un valore permanente – da questo punto di
vista, concepisco il mio compito come una defensio di Hus-
serl –, dall’altro lato porre in connessione il più possibile le
mie riflessioni con il lavoro della psicologia empirica.
Prendo le mosse inizialmente dall’interrogativo interdisci-
plinare. Per molteplici ragioni è importante per i fenomenologi
addentrarsi nella ricerca empirica. I risultati della psicopatolo-
gia, della psicologia dello sviluppo e della psicologia cognitiva
sono rilevanti non solo per una comprensione fenomenologica
dell’intersoggettività, dell’esperienza di sé o della memoria; il
confronto con la ricerca di questo genere permette, inoltre, di
affinare la nostra propria comprensione del contributo straordi-
26 dan zahavi

nario della fenomenologia. Per dirlo in un altro modo e un po’


più criticamente, già un rapido sguardo ad alcuni risultati della
psicologia cognitiva ci insegna, a mio avviso, che l’approccio
della fenomenologia contemporanea tratteggiato prima ci con-
duce, in un certo qual modo, su una strada sbagliata: il fatto che
una delle principali caratteristiche distintive della fenomenologia
contemporanea debba essere stata la convinzione che la produ-
zione di senso non sia dominata dalla coscienza intenzionale,
non può francamente quadrare. E ciò perché questa posizione
non è né nuova né specificamente fenomenologica, ma al con-
trario si tratta di una tesi sostenuta da molto tempo da un gran
numero di teorici e di scienziati empirici.

1. L’elaborazione d’informazioni non cosciente

Intendo considerare brevemente, a scopo illustrativo, alcuni


risultati della psicologia cognitiva. Un esempio tipico, spesso
utilizzato, è noto come “esperimento dei due canali”. Le persone
testate vengono sottoposte simultaneamente, mediante cuffie,
a due flussi diversi di informazioni, uno dall’orecchio sinistro,
uno dal destro. Viene poi chiesto loro di dirigere la propria
attenzione a uno soltanto dei due flussi e di ripetere ogni volta
quello che sentono (in un solo orecchio). Questo richiede così
tanta attenzione che i soggetti non sono in grado di percepire
coscientemente il flusso di informazioni trasmesso nell’altro
orecchio. Non sono nelle condizioni né di identificare, né di
raccontare, né di ricordare che cosa hanno sentito. Diverse
ricerche sembrano tuttavia mostrare che, malgrado l’assenza di
qualsivoglia percezione cosciente di questi stimoli, ai quali non
è stata prestata attenzione, il loro senso può influenzare l’ascol-
tatore e addirittura la sua interpretazione delle informazioni
percepite coscientemente1. In un altro esperimento, che a dire il
vero appare un po’ brutale, le persone testate vengono sottopo-

1. Cfr. B.J. BAARS, In the Theater of Consciousness. The Workspace of the Mind,
Oxford University Press, Oxford 1997, p. 17.
Il senso della fenomenologia 27

ste a scosse elettriche ogni volta che sentono determinate pa-


role. Si è mostrato poi che la resistenza elettrica della loro pelle
(galvanic skin response) si modifica anche quando quelle stesse
parole vengono trasmesse all’orecchio cui non viene prestata at-
tenzione. Questo succede addirittura nel caso di parole provvi-
ste solamente di un nesso semantico con le parole in questione2.
Altri esperimenti empirici hanno messo in questione le opi-
nioni superficiali della filosofia circa il ruolo che l’esperienza
cosciente giocherebbe nel controllo delle azioni intenzionali. La
famosa illusione di Ebbinghaus ci mostra due bersagli circolari
della stessa grandezza (i cerchi più chiari al centro delle figure).

Uno è circondato da cerchi più grandi, l’altro da cerchi più


piccoli. Il bersaglio circondato dai cerchi più grandi viene
normalmente percepito come più piccolo di quello circondato
dai cerchi più piccoli. Questa illusione percettiva è abbastanza
stabile; tuttavia, se successivamente si cerca di afferrare uno
dei due bersagli, l’apertura della mano viene regolata secondo
la sua grandezza reale e non secondo quella visivamente per-
cepita. Il che significa: l’apertura della mano è la medesima in
entrambi i casi, sebbene i bersagli siano stati precedentemente
percepiti come differenti. Questi risultati hanno indotto i
ricercatori a ritenere che vi siano due distinti sistemi per-
cettivi: uno coinvolto nel controllo delle azioni, l’altro nella
generazione di esperienza cosciente. I parametri per le azioni
sarebbero dunque determinati da processi di elaborazione

2. Cfr. M. VELMANS, Understanding Consciousness, Routledge, London 2000,


p. 199.
28 dan zahavi

delle informazioni non coscienti che possono andare al di là


del contenuto delle nostre esperienze coscienti3.
Poniamo il caso che una persona testata venga sottoposta a
uno stimolo tattile e le venga richiesto di premere un bottone
non appena avverte lo stimolo. È sperimentalmente provato che
ci vogliono soltanto pochi millesimi di secondo perché lo sti-
molo epidermico raggiunga la superficie corticale. Dopo circa
100 millesimi di secondo si reagisce allo stimolo, vale a dire: il
bottone viene premuto. Ci vogliono invece circa 500 millesimi
di secondo, secondo alcune ricerche, prima che si arrivi ad avere
una percezione cosciente dello stesso stimolo. Tuttavia, abbiamo
l’impressione soggettiva di reagire soltanto dopo aver percepi-
to coscientemente il fatto che qualcosa ci ha toccato la pelle.
Quest’impressione sarebbe però una mera illusione, non sarebbe
nient’altro che una produzione tardiva del nostro cervello4.
In un articolo del 1991 lo psicologo britannico Max Vel-
mans ha valutato una grande quantità di risultati sperimen-
tali, tutti riguardanti il problema di come la coscienza entri in
gioco nei processi umani di elaborazione delle informazioni.
Egli riassume i risultati della sua ricognizione in questo modo:

Negli esempi addotti, abbiamo preso in considerazione tutte le fasi


principali dell’elaborazione di informazioni in un essere umano – dal-
la codificazione, allo “stoccaggio” nella memoria, al reperimento, fi-
no alla trasformazione in un output. Abbiamo valutato il ruolo della
coscienza nell’analisi e nella selezione di stimoli, nell’apprendimen-
to e nella memoria, nella produzione di reazioni volontarie, incluse
quelle che richiedono pianificazione e creatività […]. Ci sono aspetti
per cui l’esecuzione di queste attività non è in nessun caso fino in
fondo “cosciente” […]. Piuttosto, si prende coscienza di uno stimolo
soltanto dopo averlo analizzato e selezionato e si prende coscienza

3. Cfr. j. campbell, The Role of Demostratives in Action-Explanation, in n.


eilan, j. roessler (eds.), Agency and Self-Awareness, Clarendon Press, Oxford
2003, pp. 150-164.
4. Cfr. m. velmans, Is Human Information Processing Conscious?, in «Behavioral
and Brain Sciences» 14 (1991), pp. 651-726.
Il senso della fenomenologia 29

della propria reazione solo dopo averla già messa in atto. Questo non
vale soltanto per reazioni semplici, automatiche (come premere un
bottone o rilevare uno stimolo), ma anche per reazioni complesse, di
tipo precedentemente sconosciuto e volontarie5.

La coscienza sembra essere – così si può concludere da queste


considerazioni – una mera forma di output e non una compo-
nente direttamente coinvolta nel processo di elaborazione delle
informazioni e, come scrive Velmans, «questo sembra suppor-
tare l’epifenomenalismo»6. La coscienza starebbe all’intero or-
ganismo umano – così sostiene una posizione in voga – come
il fischio del vapore sta alla forza motrice di una locomotiva.
Detto in breve, l’ego, secondo la maggioranza dei ricercatori
cognitivi, non è affatto padrone in casa propria: né guida le
azioni, né controlla la formazione del significato. Quest’ultima
sembrerebbe essere molto più indipendente dalla coscienza
che ne abbiamo, dal nostro controllo e dalla nostra influenza.
Alcune di queste conclusioni possono essere, naturalmen-
te, contestate. Ma il mio scopo ora non è quello di criticare
questi risultati, di metterli alla prova o di rettificarli. Piutto-
sto, essi dovrebbero aiutarci a mettere in luce con maggiore
esattezza il contributo proprio della fenomenologia. Se le pre-
tese della fenomenologia devono essere di tutt’altro genere
rispetto a quelle appena presentate – e parto dal presupposto
che la maggior parte dei fenomenologi condividano quest’o-
pinione – allora dobbiamo chiederci: perché?

2. La riduzione

Dalla prospettiva di Husserl la risposta è relativamente chia-


ra: Husserl ha ripetuto insistentemente che non c’è modo di
comprendere di che cosa tratti la fenomenologia se l’epoché e
la riduzione trascendentale vengono considerate problemi spe-

5. Ivi, pp. 24-25.


6. Ivi, p. 26. Bisogna però precisare che Velman stesso non è un epifenomenalista.
30 dan zahavi

cialistici irrilevanti7: l’effetto della riduzione consiste proprio nel


fondare la radicale differenza tra la riflessione fenomenologica e
tutti gli altri metodi del pensiero. Potrebbe dunque essere utile
tener conto della seguente proposta: se ci chiediamo in che senso
la fenomenologia di Husserl contenga risorse rilevanti per le
ricerche fenomenologiche attuali sulla costituzione del senso, la
mia risposta è che Husserl ha descritto una quantità sterminata
di istanze metodologiche che sono indispensabili anche oggi
per ogni ricerca che si voglia proporre come fenomenologica.
Questa proposta, naturalmente, non è esente da obiezioni
possibili: due sono quelle principali. La prima obiezione è che
la riduzione può servire a ben poco per caratterizzare la ricerca
fenomenologica, dato che la maggior parte dei fenomenologi
dopo Husserl ha ritenuto che se ne potesse fare a meno. La
seconda obiezione sostiene che, qualunque sia il valore della
riduzione, essa è comunque, in ultima istanza, insufficiente.
Questa obiezione costituisce per alcuni fenomenologi un moti-
vo per radicalizzare la riduzione in diversi modi: nei paragrafi
che seguono mi confronterò con entrambe le obiezioni.

a. L’erronea interpretazione di stampo internalistico

È stato variamente argomentato che Husserl sostiene una


forma di idealismo trascendentale, il quale mette tra paren-
tesi tutte le domande riguardanti la realtà esterna per rivol-
gersi esclusivamente alle strutture interne dell’esperienza8.

7. Cfr. hua v, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen


Philosophie. Drittes Buch: Die Phänomenologie und die Fundamente der Wissen-
schaften, M. Biemel (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1971, p. 155. hua iii/1, Ideen zu
einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie. Erstes Buch:
Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, K. Schuhmann (Hrsg.),
Nijhoff, Den Haag 1976, p. 43; trad. it. di V. Costa, Idee per una fenomenologia
pura e per una filosofia fenomenologica. Libro primo: introduzione generale alla
fenomenologia pura, Einaudi, Torino 2002, pp. 44-45.
8. Cfr. s. blackburn, The Oxford Dictionary of Philosophy, Oxford University
Press, Oxford 1994, p. 181; r. mcintyre, d.w. smith, Husserl and Intentionality,
D. Reidel, Dordrecht 1982, xiv, pp. 87-88.
Il senso della fenomenologia 31

Altri hanno affermato che la metodologia trascendentale


di Husserl costringe quest’ultimo a una sorta di solipsismo
metodologico. Egli ignorerebbe il mondo stesso a favore
delle rappresentazioni mentali che rendono possibile l’in-
tenzionalità9. È stato anche detto che Husserl esclude tutte
le domande relative all’essere del mondo. Nel suo pensiero,
chiedersi se ciò cui si dirige l’intenzionalità esista o meno
sarebbe una domanda irrilevante. Da questa prospettiva,
criticare Husserl è relativamente facile: si può affermare che
Husserl ha mantenuto una tradizionale scissione soggetto-
oggetto, la quale lo espone a problemi inevitabili. Proceden-
do, in termini metodologici, separando mondo e spirito, egli
non soltanto perderebbe di vista il mondo, ma assumerebbe
una posizione dalla quale sarebbe poi impossibile ripren-
derlo in considerazione. Per motivi del genere a Husserl
sarebbe rimasta preclusa la possibilità di produrre teorie
accettabili sull’intersoggettività e sulla corporeità. La sua
fenomenologia trascendentale dovrebbe pertanto venire
accantonata in favore della fenomenologia ermeneutica ed
esistenziale di Heidegger o Merleau-Ponty10.
Io trovo che questa critica a Husserl sia semplicemente
fuori luogo. Essa ignora tutti i passaggi in cui Husserl rifiu-
ta esplicitamente l’idea per cui lo scopo dell’epoché e della
riduzione sarebbe quello di dubitare della realtà, ignorarla,
rinunciarvi o escluderla. Husserl sottolinea piuttosto che la
riduzione e l’epoché mirano a superare e a neutralizzare un
certo atteggiamento dogmatico nei confronti della realtà, nel
quale l’attenzione è concentrata sulla realtà in maniera diretta,
così come essa ci è data. Effettuare l’epoché e la riduzione
non significa in alcun modo rivolgersi verso la dimensione
interiore. Al contrario, l’epoché e la riduzione ci consentono
di indagare la realtà in un modo del tutto nuovo, cioè nel suo

9. Cfr. h.l. dreyfus, Being-in-the-World, MIT Press, Cambridge 1991, p. 50.


10. Cfr. r. mcintyre, Intending and Referring, in h.l. dreyfus, h. hall (eds.),
Husserl, Intentionality and Cognitive Science, MIT Press, Cambridge 1982,
pp. 215-231.
32 dan zahavi

significato e nel suo manifestarsi per la coscienza. In breve:


l’epoché ha a che fare con un cambio di atteggiamento nei
confronti della realtà e non con la sua esclusione.
Nella conferenza Fenomenologia e antropologia, tenuta
nel 1931 a Francoforte, Berlino e Halle, Husserl sottolinea che
l’unica cosa messa fuori gioco dall’epoché è una determinata
ingenuità, quell’ingenuità che assume il mondo semplice-
mente come ovvio, ignorando così il contributo della coscien-
za11. In questa conferenza, Husserl ripete con insistenza che il
passaggio da un’indagine del mondo ingenua ad un’indagine
riflessiva permette per la prima volta di indagare e compren-
dere il mondo in modo radicale12.
Pur differenziandosi da un’indagine diretta, l’indagine
riflessiva del mondo è e rimane senza dubbio un’indagi-
ne della realtà. Essa non è affatto l’indagine di un regno
extramondano e mentale, in qualunque modo esso venga
inteso. Solo una visione falsata delle nozioni di “senso” e
“fenomeno” può condurre a un simile fraintendimento. In
molti testi Husserl ha affermato anche che l’effettuazione
dell’epoché e della riduzione possiede una funzione euristica
e che per questo deve essere vista come un allargamento
(e non una limitazione) del campo di ricerca13. Per que-
sto motivo, nella Crisi, egli paragona l’epoché al passaggio
da una vita bidimensionale a una vita tridimensionale 14.
Husserl arriva addirittura a sostenere, come annota in Er-
ste Philosophie ii, che sarebbe meglio evitare di utilizzare

11. hua xxvii, Aufsätze und Vorträge (1922-1937), T. Nenon, H.R. Sepp (Hrsg.),
Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/London 1989, p. 173.
12. Ivi, p. 178.
13. Cfr. hua i, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, S. Strasser
(Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1950, p. 66; trad. it. di F. Costa, Meditazioni cartesiane,
Bompiani, Milano 1960, p. 73; hua vi, Die Krisis der europäischen Wissenschaften
und die transzendentale Phänomenologie. Eine Einführung in die phänomenolo-
gische Philosophie, W. Biemel (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1954, p. 154; trad. it. di
E. Filippini, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il
Saggiatore, Milano 1972, p. 179.
14. hua vi, p. 120; trad. it. p. 147.
Il senso della fenomenologia 33

il termine “messa fuori circuito” [Ausschaltung]. Questo


modo di esprimersi potrebbe facilmente condurci alla po-
sizione erronea secondo cui nella fenomenologia il mondo
non sarebbe più a tema, mentre la ricerca trascendentale,
in verità, riguarda «anche il mondo stesso, secondo tutto il
suo senso autentico»15.
Questa lettura può essere suffragata sulla base di alcuni
testi editi nel volume xxxiv della collana Husserliana re-
centemente pubblicato, Zur phänomenologischen Reduktion:
Texte aus dem Nachlass. In questi testi, composti tra il 1926
e il 1935, Husserl pone l’attenzione sul fatto che l’espressione
“messa fuori circuito” del mondo naturale non ha altro signi-
ficato se non che il filosofo trascendentale deve smettere di
porre il mondo ingenuamente16. Questo però non implica il
fatto che non si possa più osservare e tematizzare il mondo,
dare giudizi su di esso, eccetera, ma solamente che occor-
re fare tutto questo in modo riflessivo, considerando cioè il
mondo come correlato intenzionale17. Detto altrimenti: ese-
guire la riduzione e l’epoché significa introdurre un cambio
di atteggiamento tematico. Il mondo continua a mostrarsi
come fenomeno e rimane come tale nel focus della ricerca
fenomenologica18:

Il mondo come “fenomeno”, come mondo all’interno dell’epoché è


soltanto una modalità in cui il medesimo io, che dispone del mondo
come pre-dato, prende coscienza di questa pre-datità e di ciò che in
essa è contenuto e non una modalità in cui l’io rinunci ad essa e alle
sue validità o la faccia semplicemente sparire19.

15. hua viii, Erste Philosophie II, R. Boehm (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1959, p. 432.
16. hua xxxiv, Zur phänomenologischen Reduktion. Texte aus dem Nachlass
(1926-35), S. Luft (Hrsg.), Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/Lon-
don 2002, p. 21.
17. hua xxxiv, p. 58.
18. Ivi, pp. 204, 323.
19. Ivi, p. 223; cfr. ivi, pp. 83-84.
34 dan zahavi

Husserl insiste ripetutamente sul fatto che la riduzione dev’es-


sere intesa come un peculiare «salto riflessivo»20, che estende
la nostra capacità di comprensione, consentendo di intuire
con evidenza contesti di realtà unici. Da una parte, la consi-
derazione del mondo come fenomeno non è un’astrazione,
bensì, piuttosto, la tematizzazione di una dimensione che
altrimenti fungerebbe anonimamente: la dimensione della
datità. Effettuare la riduzione significa così, con le parole di
Husserl, liberare il mondo da un’astrazione nascosta e rivelar-
lo nella sua concretezza in quanto forma di senso costituita21.
Dall’altra parte la riduzione libera anche l’io dalle limita-
zioni del suo essere naturale. La mia vita quotidiana, naturale
è, secondo Husserl, una vita nell’autoalienazione, una vita che
non sa nulla della propria dimensione trascendentale. Per
mezzo della riduzione possiamo liberarci di quei paraocchi
che ci rendono normalmente inaccessibile il pieno carattere
trascendentale della vita22. Essa supera l’autoalienazione ed
eleva la soggettività a un nuovo livello dell’autocoscienza tra-
scendentale23. Questo, come Husserl sottolinea, non perché
la validità d’essere del mondo venga annullata: essa viene
soltanto relativizzata24. L’affermazione ripetutamente sentita,
secondo cui la riduzione introdotta da Husserl comporta una
sospensione delle posizioni d’essere, si basa quindi semplice-
mente su una interpretazione sbagliata. Così scrive Husserl
in un testo del 1930:

Se la fenomenologia trascendentale ha fatto il proprio lavoro, se per lo


meno ha circoscritto in generale la struttura universale dell’essere e del
mondo, allora anche il senso del metodo dell’epoché, che all’inizio era
necessariamente incomprensibile nella sua portata, è ora chiaro. L’epoché
conduce all’assoluto per me primo, a me in quanto io trascendentale; e,

20. Ivi, p. 219.


21. Ivi, p. 225.
22. Ivi, pp. 226, 233.
23. Ivi, p. 399.
24. Ivi, p. 233.
Il senso della fenomenologia 35

procedendo ad interpretare la costituzione dell’altro come altro uomo


e poi la mia stessa costituzione come uomo nel mondo – che in questo
modo riceve a sua volta il proprio senso trascendentale –, l’astensione dalla
posizione del mondo viene superata sistematicamente. I suoi fondamenti
trascendentali vengono messi in luce sistematicamente nell’evidenza tra-
scendentale, in quanto valgono trascendentalmente. E, infine, il mondo
essente comincia a ricostituirsi nella validità d’essere, la stessa che esso pos-
siede nell’ingenuità: solo che ora esso ricresce progressivamente, secondo
gli orizzonti del presupposto trascendentale che vengono messi in luce25.

b. L’interpretazione erronea di Heidegger

Per ottenere un’idea più concreta dello scopo della riduzione


desidero ora considerare la seconda, più ambiziosa, obiezione
contro di essa, la quale non mette in questione la riduzione come
tale, ma rileva un problema, sostenendo che Husserl non avrebbe
eseguito la riduzione in modo sufficientemente radicale.
Il primo a sollevare quest’obiezione sarebbe stato Heideg-
ger nei suoi Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, e la
critica ivi formulata è stata, da quel momento in poi, conti-
nuamente riproposta dagli heideggeriani. Mi concentrerò ora
sulla variante di tale critica esposta da Jean-Luc Marion in
Riduzione e donazione: la fenomenologia di Husserl sarebbe
ingenua e insoddisfacente poiché rimarrebbe imprigionata
in una metafisica della presenza. Il merito di Husserl, così si
argomenta, sarebbe certamente quello di aver messo a fuoco
i diversi modi dell’esser-dato, ma purtroppo egli lascerebbe
«non interrogata la donazione grazie alla quale egli ha potu-
to compiere l’allargamento»26. In altre parole, Husserl non
tratterebbe la domanda fondamentale relativa all’esser-dato
stesso. Cosa significa in assoluto “dare”, cosa entra in gioco

25. Ivi, p. 245.


26. j.-l. marion, Réduction et donation: Recherches sur Husserl, Heidegger et
la phénoménologie, PUF, Paris 1989, p. 62; trad. it. di S. Cazzanelli, Riduzione e
donazione. Ricerche su Husserl, Heidegger e la fenomenologia, Marcianum Press,
Venezia 2010, p. 78.
36 dan zahavi

se si parla del fatto che qualcosa è “dato”? Questa omissione


avrebbe ampie conseguenze: invece di orientarsi nelle sue
ricerche alle cose stesse, Husserl sarebbe guidato da presup-
posti e istanze tradizionali, il che significa cartesiane. Per
questo motivo, la fenomenologia di Husserl rimarrebbe in
ultima istanza non fenomenologica27 o fenomenologica solo
in parte28. La fenomenalità dei fenomeni verrebbe ridotta
alla certezza del loro esser-presente attuale29, all’oggettivi-
tà nel senso della sicurezza della permanenza. Questa fo-
calizzazione sull’esistenza oggettiva (sussistenza) si accom-
pagnerebbe all’incapacità di Husserl di trattare ciò che non
è presente, l’assente30. Per questo motivo, il fenomeno nel
senso di Husserl – definito e limitato secondo la presenza
per la coscienza – sarebbe un fenomeno superficiale, privo
di qualsiasi profondità31. Non è sufficiente tematizzare i soli
fenomeni, come già Husserl ha fatto magistralmente: occorre
una tematizzazione della loro stessa fenomenalità32. Questo
condurrebbe da una fenomenologia della superficie ad una
fenomenologia del profondo.
Il passo necessario, da intendersi come la seconda irruzione
della fenomenologia (dopo le Ricerche logiche di Husserl), sa-
rebbe già stato compiuto da Heidegger, che ha perseguito una
ricerca relativa all’essere dell’ente33. Un altro modo di descri-
vere l’errore fondamentale di Husserl si può dunque formulare
in questi termini: egli non avrebbe mai compreso che l’obiet-
tivo autentico della fenomenologia sarebbe quello di fornire
all’ontologia un metodo adeguato34. Naturalmente si potrebbe
controbattere, in difesa di Husserl, che egli, di fatto, ha parlato
più volte della dimensione ontologica della fenomenologia, ad

27. Ivi, p. 78; trad. it. p. 90.


28. Ivi, p. 124; trad. it. p. 134.
29. Ivi, p. 81; trad. it. p. 93.
30. Ivi, p. 89; trad. it. p. 100.
31. Ivi, pp. 90, 93, 97; trad. it. pp. 101, 104, 108.
32. Ivi, p. 99; trad. it. p. 109.
33. Ivi, p. 159; trad. it. p. 166.
34. Ivi, pp. 213-214; trad. it. pp. 214-215.
Il senso della fenomenologia 37

esempio nelle Meditazioni cartesiane, in Idee III, in Filosofia


Prima II e in Logica formale e trascendentale. In questo caso la
contro-obiezione di Marion suonerebbe più o meno in questo
modo: sebbene Husserl – addirittura prima di Heidegger – ab-
bia rimandato alle implicazioni ontologiche della fenomeno-
logia, questo non significa affatto che egli intenda l’ontologia
nello stesso senso di Heidegger35. Di fatto l’ontologia di Husserl
sarebbe un’ontologia degli oggetti e rimarrebbe tale. L’essente
esisterebbe solamente in rapporto al sussistere di un giudizio
che lo determina. Le ricerche husserliane sull’ontologia formale
mirano, ad esempio, a mettere in luce il substrato generale della
predicazione36. Ma proprio per questo motivo l’ontologia di
Husserl fallirebbe costantemente la comprensione della do-
manda sull’essere, così come Heidegger l’ha posta.
Nonostante la ripetuta sottolineatura husserliana della
differenza capitale tra realtà e coscienza, egli non avrebbe
compreso che quella differenza è di natura ontologica e cor-
risponde a una differenza d’essere. Husserl intenderebbe
sempre la coscienza come una “regione” che può essere col-
ta oggettivamente e non riuscirebbe pertanto a riconoscere
l’essere della coscienza a causa della sua radicale diversità
dall’essere degli enti mondani37. Riassumendo la critica, si
può dire che la riduzione trascendentale di Husserl

equivale ad una costituzione di oggetti. (a) Essa si dispiega mediante


l’Io intenzionale e costituente. (b) Essa fornisce a questo Io degli og-
getti costituiti, (c) presi all’interno delle ontologie regionali, le quali,
mediante l’ontologia formale, sono del tutto conformi all’orizzonte
dell’essere degli oggetti. (d) Essa esclude così dalla donazione tutto
ciò che non si lascia ricondurre all’essere degli oggetti, vale a dire le
differenze di principio dei modi d’essere (della coscienza, dell’utiliz-
zabilità, del mondo)38.

35. Ivi, p. 217; trad. it. p. 218.


36. Ivi, p. 230; trad. it. p. 229.
37. Ivi, pp. 77, 187-188; trad. it. pp. 190-191.
38. Ivi, p. 304; trad. it. p. 298.
38 dan zahavi

Prendo ora in esame alcuni dei principali punti critici: 1) nella


fenomenologia husserliana mancherebbe la tematizzazione
della fenomenalità del fenomeno. 2) Essa privilegerebbe l’io
attivo costituente. 3) Non sarebbe adeguata a cogliere l’essere
specifico della coscienza interpretandolo costantemente come
una forma dell’essere oggettivo. 4) Infine, la fenomenologia
husserliana, a motivo della sottolineatura dell’esistenza og-
gettiva, avrebbe occhi solo per la presenza e non riuscirebbe
a trattare il modo di datità di ciò che è assente, vale a dire
non-presente.
Se questa critica fosse giustificata, bisognerebbe ammet-
tere che la fenomenologia di Husserl sottostà a limitazioni da
prendere seriamente in considerazione e che, di conseguenza,
alla ricerca fenomenologica dopo Husserl non resterebbe al-
tro da fare se non superare queste limitazioni. Ma: la critica è
giustificata? Io credo di no. Secondo me la fenomenologia di
Husserl possiede le risorse per confutare tutte e tre le obie-
zioni: essa indaga proprio la dimensione della fenomenalità
e non solamente diversi tipi di fenomeni. Husserl ha ripetu-
tamente sottolineato che l’attività intenzionale presuppone la
passività. Ha analizzato il modo non-obiettivante dell’essere
della coscienza e ha discusso per esteso il gioco di alternanza
di presenza e assenza. Detto altrimenti: io ritengo che lo stes-
so Husserl si spinga palesemente oltre quella che si potrebbe
chiamare una fenomenologia piatta o superficiale. Se qual-
cosa manca di profondità, questa non è la fenomenologia di
Husserl, bensì l’attuale critica rivolta contro di essa.
Penso che si possa ammettere, senza troppi giri di parole,
che tra le ricerche sulla differenza tra percezione, empatia,
immaginazione e coscienza d’immagini e le domande che
pone Heidegger sussistano differenze importanti e decisive.
Tuttavia, mi sembra semplicemente bizzarro cercare possibili
parallelismi con Heidegger per la “radicalizzazione” di cui
parla Marion proprio negli scritti di Husserl sull’ontologia
formale. Il luogo naturale dove cercare qualcosa di simile
sono ovviamente gli scritti di Husserl sul tempo. Com’è uni-
versalmente noto, Husserl si limita, in Idee I, ad analizzare
Il senso della fenomenologia 39

i rapporti tra oggetto costituito e coscienza costituente. In


questo modo egli chiarifica come la datità degli oggetti sia
condizionata soggettivamente. Senza dubbio, a parte la sot-
tolineatura del fatto che le esperienze non sono date nella
stessa maniera (prospettica) degli oggetti, Husserl non va
a fondo quanto al problema del modo di datità della sog-
gettività. Husserl sapeva che un tale silenzio, dal punto di
vista fenomenologico, è inaccettabile e, in Idee I, afferma
esplicitamente di lasciare da parte i problemi più importanti
e fondamentali, cioè quelli che riguardano la coscienza del
tempo39. Detto altrimenti: ogni tentativo serio di giudicare
la radicalità dell’impresa husserliana deve necessariamente
tener conto degli scritti di Husserl relativi ai livelli più pro-
fondi della costituzione, prendendo in esame gli scritti di
Husserl sul tempo e sulla sintesi passiva. Essi contengono
le riflessioni che scandagliano più a fondo le strutture della
fenomenalità, l’essenza della soggettività, così come il gioco
di alternanza dell’esser-presente e dell’essere-assente, della
presenza e dell’assenza. Ma, mi sembra, Riduzione e dona-
zione non contiene nemmeno un riferimento a questi scritti.
Per motivi di spazio non posso addentrarmi oltre nelle
sottili analisi husserliane della coscienza del tempo, dell’au-
tocoscienza, della passività, della fatticità, dell’alterità e
dell’intersoggettività. Ciò non mi sembra neppure neces-
sario, poiché negli ultimi anni tutti questi ambiti sono già
stati dettagliatamente discussi da numerosi ricercatori che si
occupano di Husserl40. Esiste dunque una grande quantità

39. hua iii/1, p. 182; trad. it. p. 189.


40. Cfr. per esempio: j. benoist, Autour de Husserl, Vrin, Paris 1994; r. bernet,
La vie du sujet, PUF, Paris 1994; n. depraz, Transcendance et incarnation. Le statut
de l’intersubjectivité comme altérité à soi chez Husserl, Vrin, Paris 1995; n. depraz,
d. zahavi (eds.), Alterity and Facticity. New Perspectives on Husserl, Kluwer Aca-
demic Publishers, Dordrecht 1998; n. lee, Edmund Husserls Phänomenologie der
Instinkte, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht 1993; a. montavont, De la
passivité dans la phénoménologie de Husserl, PUF, Paris 1999; a. steinbock, Home
and Beyond. Generative Phenomenology after Husserl, Northwestern University
Press, Evanston 1995; d. welton, The New Husserl: A Critical Reader, Indiana Uni-
40 dan zahavi

di ricerche di cui occorre tener conto se si vuole criticare


Husserl in modo serio.
Da parte mia, invece, prima di tornare al tema principa-
le, intendo semplicemente presentare alcuni passaggi chiave
tratti da diverse opere di Husserl, che parlano contro la cri-
tica, ripetutamente sollevata, secondo cui Husserl conside-
rerebbe l’essere della soggettività come una forma dell’essere
oggettivo.
Già nelle Ricerche logiche Husserl contraddice quest’i-
dea. Nella Quinta Ricerca scrive, per esempio, che i vissu-
ti intenzionali sono “vissuti in trascorrenza”, ma nega che
essi appaiano in modo obiettivo: essi non vengono né visti
né uditi. Sono coscienti senza essere oggetti intenzionali41.
Questo significa che si può dirigere l’attenzione sui vissuti e
renderli così oggetto di una percezione interna42, ma soltanto
nel momento della riflessione. Contrariamente a Brentano,
che notoriamente partiva dal fatto che i vissuti sono tali in
quanto colti come oggetti secondari, Husserl non vuole equi-
parare l’(auto-)datità dei vissuti alla datità degli oggetti. Così
egli scrive, nella Sesta Ricerca: «essere vissuto non equiva-
le ad essere dato come oggetto»43 e, diciassette anni dopo,
nei manoscritti di Bernau: «il suo essere è tuttavia un essere

versity Press, Bloomington 2003; d. zahavi, Husserl und die transzendentale In-
tersubjektivität. Eine Antwort auf die sprachpragmatische Kritik, Kluwer Academic
Publishers, Dordrecht 1996; id., Self-Awareness and Alterity. A Phenomenological
Investigation, Northwestern University Press, Evanston 1999; id., Merleau-Ponty
on Husserl. A Reappraisal, in l. embree, t. toadvine (eds.), Merleau-Ponty’s
Reading of Husserl, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht 2002, pp. 3-29; d.
zahavi, Husserl’s Phenomenology, Stanford University Press, Stanford 2003, trad.
it. di M. Averchi, La fenomenologia di Husserl, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011;
id., Husserl’s Noema and the Internalism-Externalism Debate, in «Inquiry» 47/1,
2004, pp. 42-66.
41. hua xix/2, Logische Untersuchungen. Zweiter Band: Untersuchungen zur
Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis. Zweiter Teil, U. Panzer (Hrsg.),
Nijhoff, Den Haag 1984, pp. 395, 399; trad. it. di G. Piana, Ricerche Logiche, II., il
Saggiatore, Milano 1968, pp. 183, 187.
42. Ivi, p. 424; trad. it. p. 196.
43. Ivi, p. 669; trad. it. p. 443.
Il senso della fenomenologia 41

totalmente diverso da quello di tutti gli oggetti. È proprio


l’esser-soggetto […]»44.
Nel corso Einleitung in die Logik und Erkenntnistheorie
del 1906-07 ritroviamo Husserl alle prese con una domanda
simile. Comincia osservando che quando percepiamo siamo
sempre coscienti di un oggetto della percezione. Ma come
stanno le cose con le sensazioni e con la percezione stessa?
Le sensazioni e la stessa percezione sono a loro volta co-
scienti, ma non sono date come oggetti percettivi; non ven-
gono percepite45. Noi sappiamo di poter rivolgere la nostra
attenzione dagli oggetti percepiti al vissuto percettivo stesso.
In questo modo è possibile riflettere sul vissuto. Ma, per ri-
petere la domanda: come è dato il vissuto percettivo prima
della riflessione, come è presente pre-riflessivamente46? Nel
1906-07 Husserl risponde a questa domanda distinguendo
tra coscienza nel senso dell’esser-vissuto e coscienza nel sen-
so dell’intenzionalità. Mentre quest’ultima implica l’essere
rivolto a un oggetto, non è così per la prima. Come Hus-
serl scrive esplicitamente: «“Esperire” [Erleben] non indica
dunque un possesso oggettuale e un “aver rapporto” con
ciò che è oggettuale in questo o quel modo»47. E poco più
avanti continua:

Non si possono confondere la coscienza dello sfondo oggettuale e la co-


scienza nel senso dell’esser-vissuto. I vissuti in quanto tali possiedono
il loro tipo di essere, ma non sono oggetti di appercezione (altrimenti
incapperemmo in un regresso infinito). Lo sfondo, però, è per noi uno
sfondo oggettuale mediante il complesso di vissuti appercettivi che
in un certo senso lo costituiscono. Questi oggetti non sono oggetti
d’attenzione […] ma sono qualcosa di completamente altro per noi

44. hua xxxiii, Die Bernauer Manuskripte über das Zeitbewusstsein (1917/18),
R. Bernet, D. Lohmar (Hrsg.), Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/
London 2001, p. 287.
45. hua xxiv, Einleitung in die Logik und Erkenntnistheorie. Vorlesungen 1906/07,
U. Melle (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1984, p. 242.
46. Ivi, p. 244.
47. Ivi, p. 247.
42 dan zahavi

rispetto ai meri vissuti, per esempio le appercezioni che li obiettivano


e i vissuti d’atto stessi. […] La coscienza attenzionale dello sfondo e la
coscienza come mero vissuto sono da distinguere del tutto48.

La posizione di Husserl è pertanto piuttosto difficile da


fraintendere. Un vissuto intenzionale è cosciente di qual-
cosa di diverso da sé, cioè l’oggetto inteso. Allo stesso tem-
po il vissuto stesso si annuncia. Il vissuto non è soltanto
intenzionale, ma è anche caratterizzato da qualcosa che
Husserl chiama “coscienza originaria” [Urbewusstsein]49.
L’idea della coscienza originaria, che Husserl utilizzava già
nelle sue lezioni del 1906-07, non designa un determinato
vissuto intenzionale, piuttosto essa indica la dimensione
totale dell’autocoscienza pre-riflessiva e non-obiettivante
che è una componente integrale di ogni vissuto che emerge
nella coscienza stessa50.
Torno così nuovamente ai manoscritti di Bernau, poi-
ché essi contengono passaggi che mostrano chiaramente che
Husserl non è intenzionato a equiparare il modo d’essere del-
la soggettività con quello dell’essente oggettivo. Così scrive
Husserl in un passaggio abbastanza famoso:

In questo senso esso “l’io” non è un “essente”, bensì la controparte di


tutto l’essente, non un oggetto [Gegenstand] ma la postazione origina-
ria [Urstand] rispetto a tutto ciò che è oggettuale. L’io non dovrebbe
effettivamente chiamarsi “io”, non dovrebbe chiamarsi affatto, poiché
altrimenti è già diventato oggettuale. Esso è il Senza-nome al di sopra
di tutto quanto si può cogliere, non ciò che “sta”, “aleggia”, “è” sopra
tutto, bensì ciò che “funge”, cogliendo, valutando eccetera51.

48. Ivi, p. 247.


49. hua x, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins (1893-1917), R.
Boehm (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1966, pp. 89, 118-120; trad. it. di A. Marini,
Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo, FrancoAngeli, Milano
2001, pp. 114, 141-143.
50. hua xxiv, pp. 245-247.
51. hua xxxiii, pp. 277-278.
Il senso della fenomenologia 43

Si potrebbe dire molto di più su questo punto, ma penso sia


già divenuto evidente che, a mio avviso, la critica heidegge-
riana ad Husserl non è appropriata. Naturalmente, Marion
ha ragione quando sostiene che spesso Husserl è conosciuto
solamente attraverso la lettura di Heidegger. Ma questa è una
ragione adeguata per accordare alla lettura heideggeriana
uno status privilegiato? Dobbiamo considerare l’esposizione
di Heidegger dei limiti della fenomenologia di Husserl come
una fonte attendibile? Io credo di no. Non soltanto a causa
della sua base testuale limitata – Heidegger si riferisce per
lo più alle sole Ricerche logiche e a Idee I –, ma innanzitutto
perché Heidegger perseguiva i suoi obiettivi, aveva le sue ra-
gioni specifiche per mettere alla prova la propria dipendenza
nei confronti del suo vecchio maestro.
Steven Crowell, analizzando il lavoro del neo-kantiano
Emil Lask, ha recentemente richiamato la distinzione operata
da quest’ultimo tra ricerca positiva (empirica o metafisica) e
ricerca trascendentale. Si tratta della differenza che sussiste
tra l’indagine diretta di determinate entità, volta a mettere in
luce le loro caratteristiche materiali, e la ricerca trascendenta-
le, interessata alla struttura di verità o di comprensibilità delle
entità in questione. Lask opera in un dualismo tra l’ambito
delle entità (siano esse fisiche o metafisiche) da una parte e
l’ambito della loro validità (verità, comprensibilità) dall’altra.
La differenza tra ciò che è e ciò che vale corrisponde alla
differenza tra le entità e il loro senso. Questa, di nuovo, non
è una distinzione empirica, quanto piuttosto una distinzione
trascendentale. Si tratta di due modi diversi di analizzare la
stessa entità: prima nell’esperienza diretta e poi nell’analisi
riflessiva. La concezione di Lask del carattere riflessivo della
filosofia trascendentale è chiara. Il suo principio primo non
è una qualsivoglia entità, come un soggetto o una sostanza,
bensì qualcosa di più fondamentale, cioè la dimensione del
senso52.

52. Cfr. s.g. crowell, Husserl, Heidegger and the Space of Meaning, Northwe-
stern University Press, Evanston 2001, pp. 45, 51, 89.
44 dan zahavi

La posizione di Lask corrisponde in gran parte a quella


di Husserl. In ogni caso – e questo è un aspetto importante
per distinguere la fenomenologia e il neokantismo – un’a-
nalisi fenomenologica del senso deve sempre basarsi su una
teoria dell’intenzionalità. Solo una teoria di questo genere
può fornirci chiarezza riguardo all’evidenza e alla datità; la
chiarezza di cui abbiamo bisogno per evitare qualunque dog-
matismo. Così Husserl, al contrario di Lask, non pensava che
una teoria trascendentale del senso potesse essere edificata
con successo53 senza analizzare al contempo l’istituzione sog-
gettiva del senso.
È possibile mettere in luce il ruolo della soggettività nell’i-
stituzione del senso senza, così facendo, intendere il sogget-
to come l’istanza esclusiva che ne determina e controlla la
costituzione? Penso di sì. Infatti sussiste chiaramente una
differenza fondamentale tra il considerare il soggetto come
condizione necessaria per l’istituzione del senso e il con-
siderarlo come condizione sufficiente. Detto altrimenti: le
ricerche di Husserl sulla soggettività costituente si possono
intendere come un’indagine del dativo della manifestazione.
Non è dunque un caso che Husserl, molto spesso, usi la for-
mulazione: “qualcosa si costituisce nella coscienza”.
Comunque – e contro una convinzione erronea molto
diffusa – Husserl non ha ignorato il problema della passività
nella sua teoria della costituzione. Al contrario, egli ha de-
dicato a questa importante questione innumerevoli analisi.
Sebbene il punto di partenza di un’analisi fenomenologica
debbano essere gli atti in cui il soggetto prende posizione
attivamente, gli atti in cui il soggetto compara, distingue,
giudica, spera o vuole qualcosa, Husserl richiama l’attenzione
sul fatto che il soggetto, se è attivo, è anche costantemente
passivo; infatti “essere attivo” significa “reagire a qualcosa”54.
Così, scrive Husserl:

53. Cfr. ivi, pp. 54, 58.


54. hua iv, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Phi-
losophie. Zweites Buch: Phänomenologische Untersuchungen zur Konstitution, M.
Il senso della fenomenologia 45

L’attività egologica presuppone la passività – la passività egologica – ed


entrambe presuppongono l’associazione e la pre-coscienza nella forma
dello sfondo iletico ultimo sottostante [Untergrund]55.
L’analisi della struttura del presente originario (il fluire vivente che
permane) ci conduce alla struttura dell’io e dello strato ultimo [Un-
terschicht] permanente che la fonda, lo strato del fluire senza l’io [ich-
loses Strömen], il quale, attraverso una domanda a ritroso [Rückfrage],
riconduce a ciò che rende possibile anche l’attività sedimentata e che
quest’ultima presuppone: veniamo ricondotti a ciò che è radicalmente
pre-egologico56.
[...] Il fluire accade, il flusso non procede da un’attività [Tun] dell’io,
come se esso fosse diretto a realizzarlo. Come se si realizzasse a partire
da un’attività. Dunque esso non è qualcosa che è fatto [Getanes], non
è un’azione [Tat] (in senso lato)57.

Husserl riconosce dunque, senz’altro, che nello sfondo ul-


timo, nella dimensione profonda della soggettività, hanno
luogo processi di costituzione anonimi e non influenzabili
volontariamente58.

3. Conclusione

Il mio tentativo di difendere Husserl non significa che non


ci sia spazio per miglioramenti. I miglioramenti sono, na-
turalmente, sempre possibili. Ammetto che la trattazione

Biemel (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1953, pp. 213, 337; trad. it. di V. Costa, Idee
per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro secondo:
Ricerche fenomenologiche sopra la costituzione, Einaudi, Torino 2002, pp. 217, 329.
55. Ms. C 3, 41b-42a. Desidero ringraziare il prof. Rudolf Bernet per avermi
concesso il permesso di consultare i manoscritti inediti raccolti nell’Archivio-
Husserl di Lovanio.
56. hua xv, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß.
Dritter Teil: 1929-1935, I. Kern (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1973, p. 598.
57. hua xxxiv, p. 179.
58. hua ix, Phänomenologische Psychologie. Vorlesungen Sommersemester 1925,
W. Biemel (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1962, p. 514.
46 dan zahavi

husserliana di questi ultimi temi non si distingue per quel-


la completa chiarezza che ci si augurerebbe. Forse occorre,
quindi, distinguere tra la fenomenologia di Husserl e la fe-
nomenologia husserliana. È certamente possibile criticare la
prima nel quadro della seconda. Detto in breve, la questio-
ne decisiva non è se la fenomenologia di Husserl abbia dei
difetti che vale la pena di migliorare, bensì, piuttosto, se la
fenomenologia husserliana abbia dei deficit strutturali, che
la rendono inadeguata a fondare una ricerca fenomenologi-
ca all’altezza delle sfide dei nostri tempi. Penso sia divenuto
chiaro che i tratti fondamentali della metodologia husser-
liana, indipendentemente dai pro e dai contro delle analisi
fenomenologiche concrete di Husserl, siano irrinunciabili.
Perché Husserl ha insistito sul fatto che occorre eseguire la
riduzione fenomenologica se si vuole fare della fenomeno-
logia? Per quel che vedo io, lo scopo ultimo della riduzione
non consiste né nel consentirci di descrivere oggetti ed espe-
rienze il più precisamente ed esattamente possibile, né tanto
meno in una indagine completa dei fenomeni in tutta la loro
molteplicità fattuale.
Il suo compito autentico è piuttosto quello di indagare
i fenomeni in quanto fenomeni. Il che significa: in essa si
tratta di comprendere la dimensione della fenomenalità in
generale, si prospetta un’indagine della struttura più intima
dei fenomeni e della loro condizione di possibilità. Questo
compito è di carattere filosofico-trascendentale. Si tratta del
passaggio da un’indagine diretta (metafisica o empirica) di
oggetti a una indagine delle condizioni essenziali del senso
e della comprensibilità che rende possibile l’indagine diret-
ta. L’indagine dell’essenza della manifestazione – per usare
un’espressione di Michel Henry – è più fondamentale di ogni
indagine dell’interiorità psichica o dell’esteriorità fisica. La
precede, nella misura in cui in essa si tratta di indagare la
dimensione in cui ogni oggetto, sia esso interno o esterno,
si manifesta.
Di nuovo: penso che l’idea della riduzione sia la vera no-
vità. Essa è quel passo riflessivo che ha aperto una volta per
Il senso della fenomenologia 47

tutte il campo della ricerca fenomenologica. Quest’apertura è


presupposta in ogni radicalizzazione prevista dei fenomenologi
successivi. Di contro ai fraintendimenti ampiamente diffusi,
quel passo riflessivo non è costretto di per sé né a un interna-
lismo cartesiano, a una ingenua metafisica della presenza, né
alla preferenza per un io attivo che esercita il controllo.
Teniamo a mente questi chiarimenti e torniamo breve-
mente alle domande poste all’inizio: perché le riflessioni fe-
nomenologiche sulla costituzione del senso non sono state
superate (o forse addirittura rimpiazzate) per esempio dalle
ricerche empiriche sull’elaborazione di informazioni non-
coscienti? Una possibile risposta sarebbe che le ricerche sui
processi di elaborazione di informazioni non coscienti sono
indagini condotte dalla prospettiva della terza persona. Tale
carattere le differenzia fondamentalmente dall’indagine fe-
nomenologica che tenta di render giustizia alla prospettiva
della prima persona e alla dimensione soggettiva dell’isti-
tuzione del senso. Il problema di questa risposta è che essa
è senza dubbio necessaria e sufficiente rispetto alle analisi
fenomenologiche “standard”, ma sembra tuttavia essere meno
adatta se si considera l’indagine della dimensione profon-
da cui abbiamo accennato prima. Questo è anche il moti-
vo per cui alcuni, per esempio Janicaud, hanno messo in
questione che quella dimensione profonda possa essere in
generale denominata “fenomenologica”. Forse, si potrebbe
però trovare un’altra risposta. L’indagine fenomenologica è
trascendentale – nel senso più ampio del termine – in quanto
essa cerca di indagare e analizzare le condizioni necessarie
della formazione del senso, incluse quelle condizioni che so-
no presupposte in una ricerca scientifica “in terza persona”.
Al contrario, l’indagine psicologica parte da un approccio
obiettivante. Nelle analisi psicologiche, il senso sembra essere
qualcosa di semplicemente presente – pronto e a portata di
mano – e l’unica questione che resta da chiarire è come il
senso venga assunto ed elaborato dal cervello. Per quanto ci
si voglia affaccendare in una tale impresa, essa sicuramente
non esaurisce il problema.
48 dan zahavi

Io penso che entrambe le risposte colgano qualcosa di


essenziale riguardo all’impresa fenomenologica. Se esse ci
consentano una volta per tutte di distinguere tra psicologia
empirica e scienze cognitive da una parte e fenomenologia
dall’altra, questa è un’altra questione. Temo che, operando
una separazione troppo netta, si semplifichino troppo le cose.
Ma questo sarebbe il tema di un altro articolo59. Concludo
con una osservazione polemica: credo che tutti i fenomeno-
logi contemporanei che respingono la focalizzazione di Hus-
serl sulla prospettiva della prima persona in quanto troppo
cartesiana e la sottolineatura del trascendentale in quanto
troppo kantiana, ma che vogliono tuttavia sostenere che la
loro indagine sulla natura anonima dell’evento del senso si
distingue essenzialmente dalle tesi delle teorie naturalistiche,
strutturalistiche o metafisico-speculative, non solo dovreb-
bero spiegare in che cosa consiste tale distinzione, ma anche
in che senso tale impresa meriti in generale di essere carat-
terizzata come “fenomenologica”60.

[Traduzione dal tedesco di Andrea Staiti]

59. Cfr. d. zahavi, Phenomenology and the Project of Naturalization, in «Phe-


nomenology and the Cognitive Science» 3/4 (2004), pp. 331-347.
60. Questo studio è stato reso possibile dall’Ente Nazionale di Ricerca Danese.
Dieter Lohmar

La fenomenologia del futuro:


eidetica, trascendentale o naturalizzata?

C’è un futuro per la fenomenologia? Cosa significa, in gene-


rale, per una disciplina filosofica “avere un futuro”? Se con-
sideriamo il concetto di “avere un futuro” in senso stretto,
possiamo sicuramente affermare che ogni disciplina filosofica
avrà un futuro, vale a dire, di sicuro continueranno a essere
prodotte ricerche storiografiche e interpretative sulla corrente
di pensiero o sui filosofi a essa associati.
Ma certamente non è questo ciò che si intende ponendo la
domanda: la fenomenologia avrà un futuro? Ritengo, infatti,
che quando ci si riferisce alla fenomenologia la domanda ri-
guardi in primo luogo la sua efficacia, la capacità di accogliere
nuovi problemi e di proseguire lo sviluppo di quelli antichi.
Il “futuro” di una disciplina filosofica ha a che fare, dunque,
con questa specie di permanente vitalità, che si dimostra in
particolare nella capacità di accogliere nuove tematiche. La
fenomenologia ha un futuro non solo nel primo senso, ri-
stretto, del termine, ma anche sotto questo secondo profilo.
Per mostrare questo prenderò in considerazione soprattutto
la fenomenologia husserliana lasciando da parte, ai fini della
mia argomentazione, le diverse direzioni della fenomenologia
che si sono distaccate dal programma originario di Husserl.
La permanente vitalità delle correnti fenomenologiche
che hanno accettato il metodo husserliano solo parzialmente
andrebbe discussa e mostrata caso per caso. Alcune di queste
correnti del pensiero fenomenologico, infatti, hanno avuto
una grande influenza: il nuovo e radicale inizio di Heidegger
con l’analitica esistenziale, per esempio, ha un effetto impo-
nente e duraturo in quasi tutti i Paesi del mondo. La fenome-
50 dieter lohmar

nologia di Merleau-Ponty, con le sue analisi del corpo vivente,


esercita un grande fascino per il suo tentativo di connettersi
alla psicologia e alla scienza naturale del suo tempo. I rappre-
sentanti del cosiddetto “religious turn” della fenomenologia
francese, come Lévinas, Michel Henry, J.-L. Marion e molti
altri, lavorano per un coinvolgimento delle convinzioni e de-
gli interrogativi religiosi nella fenomenologia.
La fenomenologia di Husserl, da parte sua, intende essere
una chiarificazione eidetica e trascendentale della coscienza
e delle sue operazioni a partire dalla prospettiva interna dei
vissuti: del sentire, del conoscere, del volere, e così via. Le
analisi di Husserl si occupano principalmente della costitu-
zione dei diversi tipi di oggettualità e dello stile di evidenza
specifico di ciascuna di esse, vale a dire dei diversi stili di
riempimento delle intenzioni a esse corrispondenti. I due
metodi più importanti della fenomenologia sono il metodo
eidetico e la riduzione trascendentale.
La fenomenologia di Husserl è una disciplina incentrata
sul metodo. Pertanto, non può essere identificata con l’opera
di un singolo fenomenologo ed essere limitata a quest’ultima.
La fenomenologia, così come Husserl la intende, è in primo
luogo un metodo sulla base del quale tutti i successivi colla-
boratori del progetto chiamato “fenomenologia” potranno a
loro volta dare un contributo. Husserl stesso, da questo punto
di vista, è a sua volta soltanto un collaboratore, anche se cer-
tamente un collaboratore importante. Intesa come metodo
e come “lavoro filosofico”, la fenomenologia possiede ottime
possibilità di riuscire a integrare attivamente nel proprio am-
bito di ricerca nuove problematiche.
Nella prima parte di questo articolo mi occuperò di stabi-
lire il senso di una ricerca trascendentale in fenomenologia e
proverò a rispondere alla questione se questo tipo di ricerca sia
da considerarsi valido anche in futuro. Nella seconda porrò la
stessa domanda in merito al secondo elemento metodologico
cui si è fatto cenno, vale a dire il metodo eidetico. Nella terza
parte presenterò infine il progetto della “naturalizzazione della
fenomenologia” e discuterò il suo senso e i suoi limiti.
La fenomenologia del futuro 51

Così facendo proverò anche a mostrare perché la collabo-


razione tra scienza cognitiva e fenomenologia si rivela oggi
particolarmente promettente.

1. Il pensiero trascendentale è ancora attuale?

Fin da principio la riduzione trascendentale ha comportato


notevoli difficoltà. Per questo essa fu rifiutata già dai cosid-
detti “fenomenologi di Monaco” e, in seguito, anche da Hei-
degger, Fink, Sartre e Merleau-Ponty. Un problema centrale
relativo alla nozione di riduzione trascendentale è la sua mo-
tivazione: è difficile render conto di come si possa motivare,
contestualmente agli interessi pratici e quotidiani, qualcosa
come la messa tra parentesi di tutte le pretese di validità del
mondo e degli oggetti in esso inclusi.
Eugen Fink provò, ad esempio, a motivare l’effettuazione
dell’epoché facendo riferimento a esperienze-limite che, ve-
rificandosi, potrebbero predisporre il soggetto a mettere in
atto un espediente radicale di questo tipo, di carattere appa-
rentemente scettico. Ma non soltanto il motivo, bensì anche
lo scopo di tale espediente – vale a dire ciò che, effettuando
la riduzione fenomenologica, è possibile ottenere – è rimasto
per molti interpreti in larga parte incomprensibile. Si potreb-
be affermare che Husserl non è riuscito a motivare in modo
sufficientemente chiaro e convincente questo fondamentale
espediente metodologico. Questo però non significa che an-
che chi scrive sia dell’opinione che la riduzione trascendentale
sia priva di senso o che sia impossibile motivarla. Riguardo a
entrambe le questioni sono convinto del contrario e proverò
brevemente a spiegare perché. La riduzione trascendentale
è un metodo che si inserisce nel quadro dell’analisi feno-
menologica della coscienza e dei suoi contenuti. Tramite la
riduzione trascendentale possiamo risalire dal fenomeno,
cioè dalla coscienza di oggetti reali (o possibili) alla sensibi-
lità e alle operazioni psichiche che ci consentono di disporre
dell’oggetto di volta in volta considerato.
52 dieter lohmar

In Idee I l’epoché ha la funzione di risolvere l’enigma di come


sia possibile che noi, sulla base delle evidenze sensibili piuttosto
deboli di cui disponiamo, e della nostra esperienza limitata, riu-
sciamo a pervenire all’idea che il mondo nel suo complesso e gli
oggetti in esso inclusi siano “reali”, “oggettivi”, vale a dire che essi
non esistano soltanto adesso, nel momento in cui li percepisco,
ma anche in futuro, e che essi siano quello che sono non soltanto
all’interno della mia vita d’esperienza, ma per ciascun soggetto
alla stessa maniera. Questo scopo presenta dei parallelismi con
la cosiddetta scepsi accademica: Husserl, infatti, non intende
dubitare del fatto che il mondo esista veramente. Al contrario
egli vuole soltanto sapere con esattezza come e attraverso quali
atti intuitivi siamo giunti a disporre di questo tipo di credenza.
La riduzione non è, dunque, un dubbio o una scepsi: infatti,
per poter indagare il problema del “come”, noi dobbiamo sempre
partire – per così dire, euristicamente – dalle nostre convinzioni
fattuali relative al mondo, interrogando però radicalmente le
loro pretese di validità. Le analisi trascendentali in senso hus-
serliano presuppongono, dunque, l’esecuzione della riduzione
trascendentale, vale a dire presuppongono che noi mettiamo
temporaneamente “fuori circuito”, o “tra parentesi”, tutte le no-
stre convinzioni circa la realtà o l’irrealtà delle cose percepite e
la validità delle teorie che già conosciamo (per esempio quelle
della fisica, della chimica e di tutte le scienze naturali).
Ciò serve a far luce sull’origine intuitiva della nostra posi-
zione di una realtà oggettiva (e di tutte le altre modalità, come
la possibilità, il dubbio e così via) su un terreno esperienziale
che, tuttavia, non contiene (o non contiene più) proprio questa
posizione di cui vogliamo mettere alla prova il diritto. Si tratta
dunque del tentativo, libero da circoli viziosi, di chiarifica-
re la costituzione della posizione d’essere. Lo stesso vale, tra
l’altro, per le altre forme di riduzione proposte da Husserl (la
riduzione primordiale [primordiale Reduktion], la riduzione
al contenuto reale, la riduzione al presente vivente e così via)1.

1. Cfr. d. lohmar, Die Idee der Reduktion. Husserls Reduktionen und ihr
gemeinsamer methodischer Sinn, in Die erscheinende Welt. Festschrift für
La fenomenologia del futuro 53

Malgrado tale forma di sospensione, le analisi effettua-


te in regime di riduzione trascendentale non sono distanti
dall’esperienza. L’espressione husserliana “esperienza trascen-
dentale”, al contrario, non è per nulla erronea: essa coglie
addirittura il punto focale della prospettiva di ricerca tra-
scendentale. Il residuo della riduzione trascendentale (ciò che
resta dopo la sua effettuazione) è in prima istanza un campo
d’esperienza accessibile alla descrizione. La denominazione
“campo” allude qui del tutto consapevolmente ad altri campi
dell’esperienza, come ad esempio il campo visivo, il campo
tattile e così via. L’esperienza trascendentale è un campo nel
quale si trovano tutti gli oggetti intenzionali della percezione
e della conoscenza che erano già presenti nel nostro mondo
quotidiano prima che effettuassimo la riduzione. Vi è soltanto
una peculiarità: ora non aderiamo più al carattere posizionale
di realtà (relativamente alle cose) e di validità (relativamente
alle teorie). Questo carattere posizionale viene posto univer-
salmente fuori circuito, viene posto, per così dire, tra paren-
tesi. In questa modalità “tra parentesi”, esso rimane ancora
nell’ambito della coscienza insieme alla sua pretesa di validità,
il cui diritto resta ora da chiarire.
La riflessione trascendentale, utilizzando il metodo della
riduzione trascendentale, è dunque un procedimento diretto
alla chiarificazione di tali pretese di validità fondamentali
e deve pertanto necessariamente essere posta all’inizio del
progetto generale di chiarificazione della percezione, della
conoscenza e di ciò che le rende possibili. In questo senso essa
è irrinunciabile per una filosofia prima (prima philosophia)
fondamentale.
Com’è possibile allora, date queste premesse, che la feno-
menologia collabori con le scienze naturali empiriche o con
la scienza cognitiva, ad esempio nella modalità prospettata,
dalla “fenomenologia naturalizzata”? La risposta va da sé: se,
infatti, tramite la riduzione trascendentale, abbiamo messo in

Klaus Held, H. Hüni, P. Trawny (Hrsg.), Duncker & Humblot, Berlin 2002,
pp. 751-771.
54 dieter lohmar

luce le condizioni di possibilità fondamentali del percepire e


del conoscere, allora niente ci impedisce, nel procedere alla
chiarificazione delle caratteristiche specifiche del pensiero
umano, di tenere conto anche dei risultati e delle ipotesi delle
scienze naturali.

2. La fenomenologia è essenzialmente eidetica?

Il secondo metodo decisivo per la fenomenologia è il metodo


eidetico, vale a dire la cosiddetta visione d’essenza. Proprio
l’espressione “essenza” ha fatto ritenere erroneamente a mol-
ti filosofi che Husserl sostenga una specie di platonismo. Il
metodo eidetico, tuttavia, non fa altro che avvalersi di una
capacità insita alla conoscenza umana quotidiana, cercando di
raffinarla metodologicamente. Diversamente da quanto acca-
de in Platone, l’universale non viene però ipostatizzato in un
ambito d’esistenza proprio: al contrario, Husserl precisa che
si tratta solamente di un oggetto di conoscenza. Noi siamo in
grado di cogliere l’uguaglianza e gli aspetti simili di oggetti
differenti della vita quotidiana, vale a dire di accorgerci se que-
ste sedie, questi alberi o uomini lì di fronte a noi, in qualche
modo appaiono uguali. Sulla base delle nostre capacità naturali
questo procedimento viene definito come metodo eidetico, nel
senso di un rigore metodologico coscientemente perseguito,
e determinato poi più esattamente come assunzione attiva e
oggettivante di ciò che vi è di comune in tutti i casi.
Il metodo eidetico assume la sua forma definitiva nel
1925 nelle lezioni sulla Psicologia fenomenologica. Husserl lo
chiama, in questo contesto, “variazione eidetica”. Il punto
chiave della variazione eidetica consiste nella produzione
illimitata di variazioni di fantasia: questa produzione assume,
dunque, una valenza metodologica indispensabile. Il punto
di partenza è un esempio concreto dato intuitivamente, un
oggetto che funge anche in seguito da modello guida. Par-
tendo da questo oggetto possiamo produrre illimitatamente
varianti di fantasia possibili dell’esempio di partenza. Ognuna
La fenomenologia del futuro 55

di queste varianti è inoltre connessa con l’intenzione: “E così


via!”. Posso e voglio procedere sempre a variare come ho fatto
finora. Sebbene questa variazione possa de facto produrre
soltanto un numero finito di varianti, è proprio questo “e
così via” che impedisce di limitarsi a un ambito mondano
casualmente delimitato.
Nella visione che attraversa tutte le varianti possibili “si
mostra”, dunque, un invariante, un elemento di senso che,
trascorrendo all’interno di esse, permane identico a se stesso.
L’elemento invariante assume qui la forma di una sintesi di
coincidenza [Deckungssynthesis] di intenzioni parziali riferite
alle singole varianti. Husserl, con la sua teoria dell’intuizione
categoriale, aveva mostrato a questo riguardo che tali sintesi
di coincidenza rappresentano una forma di intuizione2. Dato
un preciso orientamento alla variazione illimitata, si può es-
sere sicuri che il comune elemento di senso che risulta dalla
variazione si presenterà anche in tutti gli altri casi possibili.
Avanzando una tale pretesa di conoscenza, vale a dire
affermando che tramite il metodo eidetico possono venir
determinati non soltanto fatti, ma anche elementi di senso
che si presentano necessariamente in tutti i singoli oggetti di
una specie oggettuale determinata, Husserl prende le distanze
dalla psicologia empirica. È il concetto specificamente feno-
menologico di a priori che in questo modo viene stabilito.
Anche la scienza empirica formula i propri risultati mediante
affermazioni generali, che tuttavia si fondano sul rilevamento
sempre limitato di dati fattuali, dati che vengono poi genera-
lizzati induttivamente. La definizione corretta e ben fondata
del metodo eidetico nella sua differenza dal metodo empirico,
oltre a determinare l’a priori fenomenologico, rappresenta al
contempo una sfida rivolta alle scienze empiriche: è la pretesa

2. Cfr d. lohmar, Die phänomenologische Methode der Wesensschau und ih-


re Präzisierung als eidetische Variation, in «Phänomenologische Forschungen»
2005, pp. 65-91; id., Husserl’s Concept of Categorical Intuition, in d. zahavi, f.
stjernfelt (eds.), Hundred Years of Phenomenology, Kluwer Academic Publi-
shers, Dordrecht/Boston/London 2002, pp. 125-145.
56 dieter lohmar

di fissare una struttura identica in “tutti” i casi empirici e in


“tutti” i casi possibili. La pretesa di determinare tutti i casi
possibili costituisce così una “rottura” tra le scienze naturali
empiriche e la fenomenologia. Il che significa: le rispettive
pretese conoscitive possiedono un senso diverso. Tuttavia tra
le scienze empiriche e la fenomenologia sussistono rapporti
di dipendenza reciproca. Così, per esempio, una visione d’es-
senza non può entrare in conflitto con la conoscenza empirica
e, viceversa, le visioni d’essenza possono condurre la ricerca
empirica a percorrere nuove vie. L’ambizioso metodo eidetico
di Husserl, a prima vista forse un po’ antiquato – o addirit-
tura platonico – dimostra così di essere uno dei più grandi
pregi della fenomenologia, proprio in vista di una possibile
cooperazione con le scienze empiriche.

3. La coscienza dal punto di vista delle scienze


cognitive – verso una fenomenologia
naturalizzata?

Una chiarificazione delle operazioni della coscienza è ciò cui


aspirano sempre di più, negli ultimi decenni, anche le neu-
roscienze, le neuroscienze cognitive e altre scienze naturali.
Le neuroscienze non indagano più soltanto il cervello come
organo, bensì cercano di avvicinarsi sempre di più anche alle
operazioni psichiche connesse al cervello. In questo modo
la coscienza e i suoi contenuti rientrano nel campo tematico
delle scienze naturali empiriche.
È a partire da questa situazione che va inteso il progetto
di una “fenomenologia naturalizzata”. Si tratta infatti del
tentativo perseguito da alcuni fenomenologi di cooperare
con le neuroscienze, con la psicologia empirica e la scienza
cognitiva. Molte singole ricerche si sforzano da tempo di
rendere comprensibile il nesso che sussiste tra l’indagine
fenomenologica della coscienza dalla prospettiva in prima
persona e l’indagine scientifica in terza persona. Le pietre
miliari di questo sviluppo sono state il volume di Jean Petitot
La fenomenologia del futuro 57

apparso nel 1999, dal titolo Naturalizing Phenomenology3 e


in seguito la fondazione della rivista «Phenomenology and
Cognitive Science» da parte di Shaun Gallagher e Natalie
Depraz4.
Espressioni come “naturalizzazione della fenomenologia”
e “fenomenologia naturalizzata” destano tuttavia preoccupa-
zioni in merito alla naturalizzazione dell’oggetto dell’indagine
fenomenologica che queste correnti potrebbero comportare.
Diversi fenomenologi esprimono dissenso circa una possibile
naturalizzazione della coscienza e dei suoi contenuti. Una
naturalizzazione di questo tipo era stata contestata risoluta-
mente già dallo stesso Husserl, che la considerava un grave
errore. Ma la naturalizzazione della coscienza non è nelle
intenzioni della cosiddetta “naturalizzazione della fenomeno-
logia”. Si tratta solamente di tentare di stabilire un nesso e di
avvicinare in modo più stretto le analisi, metodologicamente
molto diverse, delle neuroscienze cognitive, della psicologia
empirica e della fenomenologia.
In generale, la considerazione dei risultati empirici in
filosofia è stata ed è sempre di nuovo perseguita in modi e
prospettive diversi fin dai tempi di Aristotele. Nella situazione
odierna ciò significa: i filosofi, al giorno d’oggi, non dovreb-
bero più elaborare teorie sulla psiche senza tener conto delle
importanti ricerche empirico-psicologiche e scientifiche a
riguardo.
Così, ad esempio, George Lakoff e Mark Johnson pro-
muovono una nuova “filosofia responsabile nei confronti
dell’empiria”, fondata su una nozione scientifico-cognitiva
dell’inconscio e comprendente in sé l’ambito della cognizione
pre-riflessiva. Essi vedono in Merleau-Ponty e in John Dewey
dei precursori di questo stile di pensiero e considerano pos-

3. j. petitot, Naturalizing Phenomenology: Issues in Contemporary Phenome-


nology and Cognitive Science, Stanford University Press, Stanford 1999.
4. n. depraz, s. gallagher (eds.), Handbook of Phenomenology and Cognitive
Science: Editorial Introduction, Springer, Dordrecht 2010.
58 dieter lohmar

sibile e sensato un rapporto reciproco tra filosofia e scienze


cognitive5.
Dove vanno tracciati, tuttavia, i confini della collabora-
zione tra scienze metodologicamente così differenti come la
neurologia – con la sua impostazione cognitivista – da una
parte e la fenomenologia dall’altra? Dove risiede la possibile
utilità di una collaborazione di questo genere? Anche a queste
domande vi sono risposte di tono differente.
Shaun Gallagher intravede buone prospettive di stimolo e
chiarificazione reciproca (mutual enlightment) tra fenomeno-
logia e scienze cognitive6. Poiché il processo di chiarificazione
delle operazioni di coscienza nella psicologia empirica, nella
neurologia e nelle scienze cognitive è già molto sviluppato, i
risultati ottenuti possono rivestire anche una funzione critica
per le analisi fenomenologiche. Infatti: se vi sono dati empiri-
ci che contrastano con visioni eidetiche, l’analisi eidetica deve
confrontarsi con tale critica ed eventualmente ammettere i
propri errori e i propri limiti.
Viceversa, la fenomenologia può fornire un’interpreta-
zione dei risultati empirici delle neuroscienze. Infatti, essa
prende le mosse da uno sguardo diretto alla prospettiva in-
terna del vissuto: detto altrimenti, la fenomenologia dispone
già del senso del vissuto per come esso viene esperito. Appare
anche del tutto plausibile che le evidenze e le nozioni ottenute
fenomenologicamente possano produrre nuovi stimoli per
la ricerca sperimentale. In questo senso, dalla cooperazione
deriva una reciproca utilità.
Si potrebbe affermare che due scienze distinte che si oc-
cupano dello stesso oggetto, la coscienza, possono sempre in
qualche modo collaborare traendone un beneficio reciproco.

5. Cfr. g. lakoff, m. johnson, Philosophy in the flesh. The embodied mind and
its challenge to western thought, Basic Books, New York 1999; g. lakoff, r. nunez,
Where Mathematics comes from. How the embodied mind brings mathematics into
being, Basic Books, New York 2000.
6. Cfr. s. gallagher, Mutual Enlightment. Recent Phenomenology in Cognitive
Science, in «Journal of Consciousness Studies» 4 (1997), pp. 195-214.
La fenomenologia del futuro 59

Tuttavia occorre cautela. Già a prima vista si mostra che le


direzioni d’interesse inerenti ai due tipi di indagine sono mol-
to diverse tra loro. L’indagine empirica nella prospettiva in
“terza persona” intende in primo luogo sapere come stanno le
cose [was der Fall ist] e, per la precisione, come stanno le cose
circa i rapporti fisiologici di dipendenza tra mente e cervello:
ad esempio, quali gruppi di neuroni forniscono informazioni
essenziali a quali altri gruppi di neuroni.
La prospettiva di ricerca fenomenologica e trascenden-
tale è interessata, invece, alle compagini di operazioni delle
attività coscienziali accessibili introspettivamente; vale a dire,
essa piuttosto indaga il “come” dell’emergere di tali operazioni
nella prospettiva in prima persona del vissuto. Già questo
limitato confronto mostra che la differenza nei tipi di ap-
proccio esclude la possibilità di una semplice cooperazione
nel senso di uno scambio di risultati.
Vi sono però altre forme di collaborazione feconda. Fran-
cisco Varela intende il nesso tra scienze cognitive e fenome-
nologia in termini di dipendenza reciproca (constraints) e di
stimolazione reciproca a un’indagine più profonda di deter-
minati problemi7. Nemmeno Varela prende le mosse da una
semplice equiparazione o da un rapporto 1:1 (isomorfismo)
tra i rispettivi ambiti oggettuali.
È inoltre possibile anche un’interazione che consiste an-
zitutto nell’interpretazione fenomenologica dei risultati delle
neuroscienze cognitive. Questo genere di interpretazione mi
sembra particolarmente importante, perché la fenomenologia
prende sul serio tanto i contenuti quanto il soggetto dell’in-
tenzionalità e mira a un’analisi scientificamente fondata della
coscienza esperiente a partire da una prospettiva in prima

7. Cfr. f.j. varela, The Specious Present. A Neurophenomenology of Time Con-


sciousness, j. petitot, f. varela, b. pachoud, j.-m. roy (eds.), in Naturalizing
Phenomenology. Issues in Contemporary Phenomenology and Cognitive Science,
Stanford University Press, Stanford 1999, pp. 266-314. Cfr. anche f.j. varela, e.
thompson, e. rosch, The Embodied Mind. Cognitive Science and Human Expe-
rience, MIT Press, Cambridge 1991.
60 dieter lohmar

persona e radicata nell’intuizione. Spesso i risultati speri-


mentali delle neuroscienze cognitive vengono interpretati
solamente con i mezzi della psicologia “quotidiana”. Anche la
filosofia della mente di stampo analitico – a motivo della sua
prevalente esclusione del soggetto conoscente ed esperiente,
behaviouristicamente motivata, che si riflette in espressioni
come “mental states” – finora non è riuscita a offrire elementi
interpretativi che si adattino ai diversi risultati.
La forma minimale di una possibile collaborazione è lo
stimolo reciproco a intraprendere nuove ricerche. Anche que-
sto genere di cooperazione può essere in ogni caso molto
feconda.
Vi sono comunque approcci molto più ottimistici circa le
possibilità di collaborazione tra fenomenologia e scienze co-
gnitive. Shaun Gallagher, nel suo articolo Phenomenology and
Experimental Design. Toward a Phenomenologically Enlighte-
ned Experimental Science8, si chiede come la fenomenologia
possa dare il proprio contributo alle neuroscienze cognitive.
La sua proposta porta il titolo di “front-loaded phenomeno-
logy”: si tratta di fare “uso diretto della fenomenologia”, vale a
dire che i risultati delle indagini fenomenologiche devono ve-
nire considerati nella pianificazione delle indagini empiriche
(experimental design). In modo indiretto, la fenomenologia
funge qui come parte del quadro teorico entro il quale i dati
sperimentali vengono successivamente interpretati.

4. Perché proprio oggi si discute della


“naturalizzazione” della fenomenologia?

Perché, tuttavia, il progetto di una cooperazione tra neuro-


scienze e fenomenologia ci appare auspicabile proprio oggi?
Questo a mio avviso ha a che vedere con lo sviluppo delle

8. Cfr. s. gallagher, Phenomenology and Experimental Design. Toward a Phe-


nomenologically Enlightened Experimental Science, in «Journal of Consciousness
Studies» 9/10 (2003), pp. 85-99.
La fenomenologia del futuro 61

neuroscienze cognitive: tali scienze empiriche e sperimen-


tali si avvicinano sempre di più al fenomeno e ai contenuti
della coscienza. Per questo motivo, una collaborazione con
le ricerche condotte “in terza persona” diviene sempre più
attraente anche per la ricerca eidetica in prima persona della
fenomenologia.
Ma di quanto le neuroscienze si sono già avvicinate a te-
matizzare i contenuti concreti della coscienza? In che misura
i procedimenti oggi in uso sono in grado di determinare, ad
esempio, i rapporti tra una configurazione dell’attività neu-
ronale e i relativi contenuti di coscienza?
I progressi nei metodi di osservazione dell’attività neuro-
nale del cervello mediante immagini, come ad esempio pet
(Positronen-Emissions-Tomographie) e fmr (Functional Ma-
gnetic Resonance), hanno fatto avanzare di molto, negli ultimi
decenni, le indagini sulle funzioni di singole aree cerebrali. In
questo modo, oggi si possono osservare nel cervello attività
cognitive, emozionali e motorie con diversi procedimenti,
mediante cui le differenze nell’attività metabolica delle cellule
e, quindi, anche l’attività neuronale, vengono rappresentate
graficamente. Tuttavia, per ora, anche queste impressionanti
rappresentazioni grafiche non sono sufficienti per identificare
in modo affidabile la specie esatta di attività psichica, cioè il
contenuto di coscienza, in base alle attività neuronali. Ciò
significa: oggi non si è ancora in grado di stabilire, sulla base
dell’osservazione dell’attività neuronale mediante procedi-
menti grafici, quale sia il contenuto di coscienza, cioè che
cosa la persona di volta in volta percepisca, voglia o pensi.
Le rappresentazioni-pet documentano solamente l’attività
metabolica delle cellule su determinate superfici cerebrali.
Se si conosce la funzione generale di una porzione di super-
ficie cerebrale (per esempio in base alle ricerche sugli effetti
della perdita della sua funzionalità) si può anche affermare
qualcosa sulle modalità proprie della funzione a essa corri-
spondente – ma comunque in maniera molto generica.
Per esempio, alla corteccia motoria compete il controllo
dei movimenti, il sistema limbico interessa molto generi-
62 dieter lohmar

camente i sentimenti, vi sono diverse aree del cervello cui


compete anzitutto il processo della percezione e così via. Se
ha luogo, per esempio, un aumento di attività in una parte del
sistema limbico, sappiamo che il soggetto probabilmente sta
provando un sentimento. Non siamo però in grado, sulla base
della configurazione conoscibile dell’attività metabolica, di
distinguere esattamente se si tratti di paura o di sorpresa, né
se la paura sia dovuta alla presenza di una tigre nel cespuglio
o al timore di deludere il direttore dell’esperimento9.
Una correlazione esatta tra la configurazione dell’attività
neuronale e il contenuto della paura non è ancora stata rag-
giunta in modo soddisfacente. Naturalmente si può provare a
circoscrivere i risultati in modo più preciso, se si imposta l’e-
sperimento orientandolo a una paura determinata (ad esempio
quella provata mentre guardo un filmato sulle tigri). Alla fine
tuttavia non riusciamo a sapere con precisione a che cosa si
riferisca esattamente la paura, poiché l’aumento del metaboli-
smo – pur producendo una configurazione dell’attività neuro-
nale relativamente nota e localizzata – non permette di trarre
alcuna conclusione quanto al contenuto del sentimento. Forse
miglioramenti futuri di questo metodo o lo sviluppo di nuovi
metodi renderanno possibile un’identificazione più precisa10.

9. Cfr. a questo proposito, ad esempio, la discussione in s.z. rapcsak, s.r.


galper, f.f. comer, s.l. reminger, l. nielsen, a.w. kaszniak, m. verfaellie,
j.f. laguna, d.m. labiner, r.a. cohen, Fear recognition deficits after focal brain
damage, in «Neurology» 54 (2000), pp. 575-581; r. adolphs, Neural systems for
recognizing emotion, in «Current Opinion in Neurobiology» 12 (2002), pp. 169-
177. Il problema della differenziazione appare particolarmente grave rispetto alle
emozioni, poiché esse sono spesso contenutisticamente legate a rappresentazioni
di grado più elevato, così che potrebbe verificarsi un effetto top-down. Uno studio
del sentimento del disgusto in merito alla reazione neuronale nel caso della sen-
sazione propria e in quello della visione di una rappresentazione filmica è offerto
in b. wicker, ch. keysers, j. plailly, j.p. royet, v. gallese, g. rizzolatti, Both
of Us Disgusted, in My Insula. The Common Neural Basis of Seeing and Feeling
Disgust, in «Neuron» 40 (2003), pp. 655-664.
10. Rimandando a “ricerche future” si suscita naturalmente anche la possibile
obiezione che qui si tratti soltanto di una “scienza che fa promesse”, che parte da
mere pianificazioni, ma che non manterrà mai quello che promette.
La fenomenologia del futuro 63

Per ora si può affermare che questa direzione di ricerca è


senza dubbio interessante, che può mettere in luce tanti fat-
tori rilevanti, e così via. Ci sono tuttavia dei validi motivi per
essere radicalmente scettici circa la possibilità di una identifi-
cazione totale. Si potrebbe affermare: il contenuto esatto della
coscienza umana non si lascia mai raffigurare con un proce-
dimento grafico. Anzitutto perché è troppo complesso, poi
perché vi sono difficoltà di principio connesse all’identifica-
zione di uno stato neuronale con un contenuto di coscienza,
e così via. Si può inoltre ritenere che una prova dell’“identità”
tra un contenuto di coscienza e uno stato neuronale (o un’at-
tività cerebrale) sia di principio impossibile, che tutto ciò
rappresenti quindi già di per sé una inaccettabile riduzione,
ecc. Tuttavia, queste proteste tipiche dell’umanista, nobili e
a volte anche un po’ altezzose, fondate sull’indimostrabilità
di principio dell’identità tra rapporti reali e contenuti di co-
scienza, devono accettare delle contro-obiezioni che hanno
dalla loro parte ottimi argomenti tratti dal common sense.
Vi sono, infatti, diverse relazioni tra oggetti nel mondo, la
cui identità è altrettanto indimostrabile, ma alla quale noi
crediamo fermamente. Penso qui, ad esempio, al rapporto
tra immagine e cosa. Naturalmente, non è possibile sempli-
cemente identificare un’immagine con una cosa, tanto più
quando la produzione dell’immagine è altamente elaborata
o addirittura viene prodotta elettronicamente mediante un
computer. Tuttavia, il nostro comportamento quotidiano mo-
stra che, di fatto, confidiamo senza riserve in un’identità di
questo genere, e in modo così totale da rischiare addirittura
la nostra vita sulla base di tali equiparazioni. Poniamo, ad
esempio, che un medico vi diagnostichi, con l’aiuto di una
radiografia o di una tomografia a computer, una malattia
pericolosa, che rende necessario un serio intervento operato-
rio. Naturalmente, vi fiderete della diagnosi e vi sottoporrete
all’intervento, anche se esso potrebbe essere molto pericoloso.
Tutti noi ci comporteremmo così, malgrado sia impossibile
dimostrare l’identità tra ciò che mostra la radiografia o la
tomografia e il mio corpo. Vi è soltanto un collegamento
64 dieter lohmar

statisticamente attendibile tra l’immagine e il dato spazio-


temporale: quando il tomogramma rileva un cambiamento
pericoloso, intervenendo successivamente si dimostra sem-
pre – o quasi sempre – che questo cambiamento pericoloso
si era verificato effettivamente nell’organismo. Questo colle-
gamento statistico presenta una certa insicurezza malgrado
la sua sostanziale affidabilità: occasionalmente si verificano
interferenze o risultati sbagliati nella produzione dell’imma-
gine; anche in questo contesto sono possibili confusioni e
diagnosi erronee. Tuttavia la nostra convinzione circa l’affi-
dabilità dell’immagine è così forte che noi saremmo disposti
a rischiare la vita per essa.
Un’attendibilità statistica convincente – come nell’esem-
pio della radiografia – ci convincerebbe dunque, di principio,
anche dell’identità di un contenuto di coscienza e di una
configurazione definita di attività neuronale. Si tratta soltanto
di riuscire a desumere in modo statisticamente affidabile il
sussistere dell’uno dalla presenza dell’altra.
È proprio questo che oggi siamo già in grado di fare,
anche se in un ambito molto ristretto. A questo proposito
occorre menzionare brevemente la ricerca sui cosiddetti neu-
roni specchio (mirror neurons) e soffermarsi, in particolare,
sul procedimento utilizzato in questo caso. Oggi esistono
infatti già degli strumenti per l’indagine dell’attività cere-
brale molto più precisi dei procedimenti grafici (pet, fmr).
Particolarmente impressionante è il metodo del single neuron
recording. Grazie a questo metodo si è osservata l’attività di
singoli neuroni in una piccola area del cervello di un animale
cavia (per esempio un macaco). Il metodo del single neuron
recording è però molto invasivo, vengono cioè impiantati dei
microelettrodi nel cervello. Per questo motivo esso non è
stato ancora sperimentato sugli uomini. Tuttavia, con questo
metodo, è già possibile registrare con precisione il potenziale
elettrico di svariate centinaia di neuroni contemporaneamen-
te, documentare la loro attività e, successivamente, valutarla
dal punto di vista statistico. Mi riferisco qui a varie ricerche
di Giacomo Rizzolati e Vittorio Gallese, intraprese all’U-
La fenomenologia del futuro 65

niversità di Parma nel 1995, volte a rintracciare i cosiddetti


neuroni specchio sulla corteccia motoria. La corteccia moto-
ria presiede al controllo dei nostri movimenti. Il metodo di
osservazione utilizzato da Rizzolatti e Gallese è stato il single
neuron recording. Questo metodo è così preciso che a ciascun
tipo di movimento della mano (precision grip) si può attri-
buire di volta in volta una singola configurazione dell’attività
neuronale, localizzando, ad esempio, un’area molto piccola e
specializzata della corteccia motoria. Questa configurazione
può essere riconosciuta identica sempre di nuovo in corri-
spondenza dello stesso movimento. Vale a dire: se ad esempio
una persona testata prende un piccolo oggetto con la mano
destra e poi ruota l’articolazione verso destra per vedere l’og-
getto dall’altro lato, risulta una configurazione caratteristica
dell’attività neuronale che in tutti i casi successivi può essere
identificata in modo statisticamente affidabile. Per esempio
si differenzia chiaramente dalla configurazione dell’attività
corrispondente nel caso della medesima rotazione della mano
verso sinistra (e anche da tutti gli altri movimenti). Con que-
sto metodo è stato dunque possibile realizzare, per lo meno
in un ambito molto ristretto, l’identificazione statisticamente
affidabile di una configurazione dell’attività neuronale e di
un contenuto di coscienza.
Si potrebbe tuttavia obiettare che un movimento corporeo
così insignificante non può essere considerato un contenuto
di coscienza “pieno”. Alcuni dei nostri movimenti sono del
tutto involontari, molti sono così insignificanti che la loro
regolazione può essere relegata a istanze corporee per così
dire “di ordine inferiore”, che non sono affatto coscienti.
Così, ad esempio, noi pensiamo di rado ai movimenti
delle nostre dita dei piedi, pur essendo in grado di farlo. Tra
l’altro è molto difficile descrivere il modo di rappresentarci
questo movimento nella nostra coscienza. Certo è che non si
tratta qui degli oggetti del pensiero “di grado superiore”, come
per esempio la comprensione di uno stato di cose (“il sema-
foro è verde” e simili). È molto poco probabile che le piccole
azioni corporee vengano rappresentate nella coscienza con
66 dieter lohmar

dei concetti. E, tuttavia, noi possiamo senza dubbio “pensarle”


coscientemente e anche rappresentarcele immaginativamen-
te: questo dimostra che disponiamo anche dei mezzi acon-
cettuali necessari per rappresentarci coscientemente azioni
insignificanti di questo genere. Possiamo addirittura rappre-
sentarci gli stessi insignificanti movimenti corporei in altri
individui, per esempio se vediamo che sono essi a muovere
la mano nel modo descritto. Tutto questo è mostrato dalle
ricerche di Rizzolatti e Gallese.
Non intendo qui tuttavia addentrarmi troppo nell’analisi
delle ricerche sui neuroni specchio, non è questo il mio te-
ma11. Desidero però menzionare che l’indagine di Rizzolatti
e Gallese offre una sorprendente visuale sulla modalità in cui
ci rappresentiamo i movimenti degli altri, vale a dire su come
ne abbiamo coscienza. È stato infatti mostrato che i neuro-
ni della corteccia cerebrale assumono una configurazione
di attività caratteristica non soltanto nel caso di movimenti
corporei propri, bensì che la stessa configurazione si può
rilevare anche quando l’animale cavia osserva i movimenti
di altre scimmie oppure i movimenti effettuati dal diretto-
re dell’esperimento. In questo caso è soltanto una parte dei
neuroni a essere attiva, eppure la configurazione dell’attività
rimane la medesima, in modo identificabile. Questa parte
della popolazione neuronale è stata chiamata perciò “neuroni
specchio”, poiché questi neuroni sono in grado di simulare in
qualche modo i movimenti visti dell’altro soggetto come se si
trattasse dei propri. Questo sembra essere un aspetto impor-
tante del modo in cui i movimenti corporei delle scimmie – e
forse anche i nostri – vengono rappresentati.
Occorre, dunque, dedurne che in questo caso l’“identi­
ficazione” del contenuto di coscienza e di un fenomeno neu-
rologico misurabile è già stata compiuta. Naturalmente si
tratta di un contenuto di coscienza relativamente semplice e
di complessità limitata. Ricerche paragonabili a queste sono

11. Cfr. d. lohmar, Mirror Neurons and the Phenomenology of Intersubjectivity,


in «Phenomenology and Cognitive Science» 5/1 (2006), pp. 5-16.
La fenomenologia del futuro 67

state condotte sull’uomo con un altro metodo che, mediante


un procedimento computerizzato non invasivo, segnalava
soltanto il livello di eccitabilità (level of arousal) di una deter-
minata area cerebrale12. La direzione delle ricerche sperimen-
tali, ad ogni modo, è già chiaramente delineata. È sorto un
interesse teso all’identificazione dei contenuti di coscienza e i
metodi utilizzati devono venire adeguati sempre più a questo
interesse e ulteriormente migliorati13.
L’identificazione statisticamente attendibile di attività
neuronale e contenuti coscienti è dunque già riuscita in un
contesto limitato. L’impulso essenziale, che ci fa apparire
sensata e necessaria una profonda collaborazione tra neuro-
scienza cognitiva e altre direzioni della psicologia empirica da
una parte e fenomenologia dall’altra, è proprio lo stato attuale
dei metodi di studio neurologici, che hanno come obiettivo
la determinazione dei contenuti della coscienza, nonché gli
ulteriori progressi che da essi ci si attende.
L’apporto della fenomenologia in tale collaborazione non
può però consistere semplicemente in un contributo alle aspi-
razioni delle neuroscienze: essa deve piuttosto mirare a fare
progressi nel proprio ambito di ricerca tramite i metodi che
le competono. E, su questo punto, la collaborazione auspicata
è sicuramente d’aiuto.
In un suo contributo recentemente apparso Dan Zahavi
ha messo in luce il vantaggio che la fenomenologia può trarre

12. Cfr. l. fadiga, l. fogassi, g. pavesi, g. rizzolatti, Motor fasciliation during


action observation. A magnetic stimulation study, in «Journal of Neurophysiology»
73 (1995), pp. 2608-2611.
13. Ci si domanda naturalmente come procederà questo sviluppo. Potrebbe arriva-
re il giorno in cui esisteranno macchine in grado di leggere la mente (mind-reading
machines), di fornire informazioni con grande probabilità statistica su ciò che una
persona pensa, vuole e sente. Non si tratta affatto di fantascienza, bensì soltanto
di una semplice e sensata prosecuzione di interessi di ricerca che vengono già da
tempo perseguiti. Già l’invenzione della macchina della verità mirava all’ispezione
dei nostri pensieri. Naturalmente si pongono a questo riguardo anche una serie
di questioni etiche e giuridiche: forse prima o poi diverrà addirittura necessario
promulgare una legge sulla protezione dei contenuti di pensiero personali (come
accadde in passato per il segreto epistolare).
68 dieter lohmar

da una tale collaborazione. La sua tesi è che le analisi fenome-


nologiche vengano “sfidate” dai risultati empirici della neu-
rologia e della psicologia empirica. Questa sfida esige quindi,
di volta in volta, analisi fenomenologiche nuove e più precise
dell’ambito fenomenico corrispondente. Così, ad esempio, la
ricerca sui neonati mostra elementi importanti della modalità
di accesso alla soggettività di altri uomini. Non è soltanto
grazie alle note e stimate ricerche di Meltzoff e Moore sull’i-
mitazione della mimica facciale nei neonati che sappiamo che
la teoria fenomenologica dell’intersoggettività è in contrasto
con le ricerche psicologiche attuali sulla cosiddetta “protoco-
municazione” prelinguistica. L’analisi fenomenologica della
memoria è ancora fortemente orientata alla ricostruzione
di episodi connessi tra loro. Oggi invece, nella psicologia
sperimentale, si distinguono diverse forme di memoria, per
esempio la memoria episodica (di eventi temporali passati),
la memoria lavorativa (come ad esempio tenere a mente per
breve tempo un numero telefonico), la memoria procedurale
(guidare una bicicletta) e la memoria semantica. Anche alla
fenomenologia è quindi richiesta una nuova e più dettagliata
analisi delle operazioni della memoria. Inoltre, non tutte le
forme di memoria contengono un rimando al passato. Tra
l’altro, in molte ricerche è stata smentita la convinzione che i
ricordi, perfino quando sono soggettivamente evidenti, siano
per questo da intendere come passive e fedeli ricostruzioni
del passato14.
Naturalmente questo tipo di collaborazione suscita molte
perplessità, alcune sono già state menzionate. Ad esempio, si
pone immediatamente la questione se il metodo empirico-
sperimentale e quello descrittivo-fenomenologico debbano
stare in un rapporto di contrasto insuperabile. Abbiamo già
visto però che la direzione trascendentale della fenomeno-

14. Cfr. d. zahavi, Phänomenologie und Kognitionswissenschaft. Möglichkeiten


und Risiken, in d. fonfara, d. lohmar (Hrsg.), Interdisziplinäre Perspektiven
der Phänomenologie, Springer, Dordrecht 2006, pp. 296-315.
La fenomenologia del futuro 69

logia, nel senso di una filosofia prima, non rappresenta qui


alcun ostacolo sostanziale.
Le riflessioni di Husserl rivolte contro la psicologia spe-
rimentale-empirica – esposte con vigore, ad esempio, ne La
filosofia come scienza rigorosa – si dirigono contro la natura-
lizzazione della coscienza sostenuta all’epoca di Husserl da
parecchi rappresentanti della psicologia sperimentale. Un
riduzionismo di questo genere, che consiste nell’equiparazio-
ne ontologica tra un vissuto intenzionale di coscienza e una
scarica elettrica dei neuroni, riduce il senso dei contenuti di
coscienza a stati fisici. Per Husserl una posizione del genere è
inaccettabile perché degrada un’intera dimensione autonoma
dell’esperienza a mero epifenomeno.
I rappresentanti delle scienze cognitive disponibili oggi
alla cooperazione con i fenomenologi, invece, non professano
un riduzionismo di questo tipo. Infatti, come Vittorio Gallese
sottolinea in un suo articolo, il contributo proveniente dalla
ricerca sui neuroni specchio, prendendo in considerazione
le teorie dell’intersoggettività proposte finora in ambito fe-
nomenologico (quella di Husserl e quella di Merleau-Ponty),
apprezza anzitutto il valore della ricerca fenomenologica in
merito alle operazioni ante-predicative e pre-riflessive15.
In conclusione, possiamo quindi essere ottimisti riguardo
al futuro della fenomenologia su tutti e tre i fronti della sua
ricerca: la fenomenologia del futuro sarà eidetica, trascen-
dentale e anche naturalizzata.

[Traduzione dal tedesco di Andrea Staiti]

15. Cfr. v. gallese, The “Shared Manifold” Hypothesis. From Mirror Neurons to
Empathy, in «Journal of Consciousness Studies» 5/7 (2001), pp. 33-50.
Burt C. Hopkins

Fenomenologia e Pseudo-fenomenologia:
Cinque idoli che hanno fatto il loro tempo

Introduzione

A circa un secolo di distanza dalla fondazione husserliana


della fenomenologia, la domanda “che cos’è la fenomenolo-
gia?” è rimasta ancora priva di una risposta univoca. Questa è
una testimonianza della vitalità duratura della fenomenologia
stessa, come metodo scientifico e come movimento filoso-
fico. Non si tratta di un caso. Da principio e fino alla loro
articolazione finale, Husserl ha contrapposto direttamente
il metodo e l’intento conoscitivo della sua fenomenologia a
ciò che chiamava “metafisica tradizionale”. Con l’espressio-
ne “metafisica tradizionale”, Husserl intende tutte le pretese
conoscitive che, dal suo punto di vista, eludono la conditio
sine qua non di ogni legittimità epistemologica, vale a dire
l’evidenza originaria, inseparabile dalla legittimazione dei
concetti e dei principi fondamentali del soggetto conoscente.
Secondo Husserl, soltanto la testimonianza dell’esperienza
non mediata da concetti può fornire questo tipo di legitti-
mazione, e soltanto la fenomenologia può ricavare questo
genere di testimonianza dall’esperienza.
Fornire questo tipo di legittimazione è il compito che Hus-
serl assegna tanto al metodo fenomenologico quanto alla fi-
losofia fenomenologica prospettata da questo stesso metodo.
Si tratta di un compito monumentale: tanto gli oggetti che
appartengono ad ogni possibile regione ontologica, quanto le
singole regioni ontologiche (inclusa la regione ontologica ma-
terialmente vuota caratterizzata come “qualcosa in generale”)
nonché l’essere fenomenologico della soggettività e del mon-
72 burt c. hopkins

do – che ultimamente rendono “possibile” ogni oggettività e


ogni regione ontologica –, tutto ciò, secondo Husserl, necessita
di una legittimazione. Per ragioni fenomenologiche, tanto il
processo quanto i risultati della legittimazione prospettati da
Husserl sono una questione intrinsecamente non concettuale.
Questo per il semplice motivo che i concetti propri della me-
tafisica tradizionale escludono di principio l’accesso all’essere
fenomenologico e alle sue strutture essenziali, quell’essere che
solo è in grado di legittimare ciò che esige una legittimazione.
Perciò, il metodo di Husserl e il tipo di conoscenza cui esso
aspira eluderanno sempre, per ragioni di principio, ogni ten-
tativo di riduzione o di concettualizzazione che voglia consi-
derarli alla stregua di nozioni metafisiche.
Tuttavia, non è certo un segreto che le conoscenze hus-
serliane relative alla metafisica tradizionale e alla storia della
filosofia in generale fossero decisamente limitate. Una chiara
evidenza di questa limitatezza è senza dubbio il modo in cui
Husserl caratterizza la metafisica tradizionale cui contrappone
la propria fenomenologia. Le metafisiche radicalmente diffe-
renti di Platone e Aristotele e le tradizioni che a esse si ispirano,
ad esempio, possono essere sussunte nella definizione husser-
liana della “metafisica” soltanto se si trascura il loro contesto
storico e si proiettano su di esse istanze filosofiche determinate,
specificamente moderne. Il sospetto che, in realtà, siano pro-
prio queste ultime a costituire il vero obiettivo polemico della
distinzione tra fenomenologia e metafisica operata da Husserl
è suffragato dalla seguente considerazione: il problema che la
fenomenologia di Husserl intende affrontare e risolvere è, da
cima a fondo, la formalizzazione totale della conoscenza che
caratterizza il progetto moderno di una mathesis universalis. La
formalizzazione della conoscenza, infatti, è ciò che consente di
formulare pretese conoscitive riguardo agli oggetti trascendenti
senza dover fornire una legittimazione originaria dei concetti e
dei principi che rendono possibile queste stesse pretese. D’altro
canto, il compito sotteso al progetto fenomenologico husserlia-
no è proprio quello di restituire al sapere l’integrità infranta da
questa formalizzazione. A questo proposito, la fenomenologia
Fenomenologia e pseudo-fenomenologia 73

si declina come scienza rigorosa delle fonti primarie non con-


cettuali della conoscenza, dell’oggettività e, con esse, dell’essere
di tutto ciò che è.
Per quanto riguarda la “metafisica tradizionale” cui la
fenomenologia di Husserl si oppone, se si estende la visuale
oltre la metafisica moderna (andando così oltre l’autocom-
prensione dello stesso Husserl rispetto alla propria opposizio-
ne alla filosofia tradizionale), si rende manifesto un secondo
senso di questa “opposizione”, che in questo caso può essere
caratterizzato più esattamente come uno “star di contro” o
“al cospetto di”. Infatti, se con il termine metafisica si inten-
dono le scienze più nobili dell’antichità greca, vale a dire la
dialettica di Platone e la filosofia prima di Aristotele, allora sia
il metodo fenomenologico sia la filosofia fenomenologica si
“contrappongono” a queste scienze come uno specchio si con-
trappone a ciò che riflette, in quanto origine delle proprie più
intime possibilità. Come intendo mostrare nella discussione
che segue, in questo caso la situazione è radicalmente diffe-
rente rispetto alla tesi avanzata da alcuni interpreti secondo
cui la fenomenologia di Husserl in qualche modo “porterebbe
a compimento” la metafisica o ne rappresenterebbe la “fine”.
Mi ripropongo di mostrare che la fenomenologia di Husserl,
in realtà, non rappresenta nulla di tutto questo. Piuttosto che
completare o concludere alcunché, la fenomenologia di Hus-
serl rimane fondamentalmente incompleta, tanto in merito
alla propria struttura fondamentale quanto a ogni possibile
esecuzione del proprio programma di ricerca. La mia tesi,
tuttavia, è che questa incompletezza caratteristica sia la più
grande virtù della fenomenologia di Husserl, nonché il cri-
terio che permette di distinguere la fenomenologia autentica
da ogni forma di pseudo-fenomenologia.

1. I principi fondamentali della fenomenologia

Il metodo fenomenologico di Husserl si radica in due principi


fondamentali che sono tanto irriducibili quanto inseparabi-
74 burt c. hopkins

li: la riflessione fenomenologica e la visione d’essenza. Alla


riflessione fenomenologica Husserl assegna la funzione di
assicurare l’accesso all’essere fenomenologico, mentre alla
visione d’essenza assegna la funzione di reperire e articolare la
struttura dell’essere fenomenologico. Questi due principi so-
no irriducibili l’uno all’altro a motivo della loro fondamentale
differenza: la riflessione fenomenologica assicura l’evidenza
originaria e legittimante, mentre la visione d’essenza coglie
e articola la struttura di questa evidenza. I due principi sono
inseparabili nel senso che tanto l’evidenza originaria quanto
la sua struttura articolata nella visione d’essenza sono con-
dizioni indispensabili per la conoscenza fenomenologica.
Il principio fondamentale della filosofia fenomenologica
di Husserl è l’intenzionalità, ossia la correlazione irriduci-
bile che sussiste tra la coscienza e ciò che nella coscienza si
manifesta. Da una parte, il termine intenzionalità designa la
fonte originaria di tutta l’esperienza e di tutta la conoscenza,
definendo le operazioni proprie della soggettività che produ-
cono l’orizzonte pre-concettuale che è sotteso a tutto il sapere,
nonché la datità originaria di ogni oggetto possibile del sapere
stesso. Dall’altra parte, l’intenzionalità coincide con il modo
d’essere dello stesso metodo fenomenologico, nella misura
in cui è proprio il carattere fondamentalmente intenzionale
della riflessione fenomenologica a rendere possibile la co-
noscenza fenomenologica dell’evidenza originaria, nonché
il coglimento e l’articolazione della sua struttura.

2. Lo psicologismo e il problema fenomenologico


di dar conto della possibilità statica e genetica
delle idee

Husserl formulò inizialmente la propria fenomenologia come


risposta ai problemi epistemologici del xix secolo. Il primo di
questi problemi riguardava la salvaguardia dei fenomeni ca-
ratteristici delle strutture ideali che definiscono la conoscenza
umana. Tali fenomeni necessitavano di essere salvaguardati
Fenomenologia e pseudo-fenomenologia 75

poiché la nuova scienza psicologica si proponeva di spiegare


l’origine delle idee come risultato dello sviluppo contingen-
te della mente umana. Questa spiegazione comportava una
concezione “naturale” della validità ultima delle proposizio-
ni logiche e matematiche. Secondo questa concezione ogni
“idea” sarebbe deducibile da esperienze precedenti, nelle quali
si suppone che essa abbia la propria origine. Nelle Ricerche
logiche Husserl ha mostrato che il problema irrisolvibile in
una concezione di questo genere è la riduzione dell’idealità
caratteristica delle proposizioni logiche, matematiche e scien-
tifiche a uno sviluppo interno al tempo naturale e, pertanto,
la confusione della validità ideale del concetto, che è onni-
temporale, con un “mitologico” sviluppo storico interno al
tempo. Più precisamente, la spiegazione psicologica delle idee
non riesce a distinguere una cosa dall’altra, incappando così
nell’errore più elementare nell’ambito del pensiero: la con-
traddizione. La prima cosa è in questo caso l’identità ideale
delle idee, mentre l’altra è lo sviluppo storico. In questo senso,
l’errore nella mancata distinzione tra identità ideale e svilup-
po storico e la confusione a cui questa mancata distinzione
dà adito costituiscono il modo in cui Husserl caratterizza
definitivamente il cosiddetto psicologismo.
Tuttavia, un conto è fornire una caratterizzazione dello
psicologismo, mentre un altro conto è superarlo. La critica
radicale di Husserl allo psicologismo solleva due problemi
specificamente fenomenologici, nessuno dei quali comporta
una semplice opposizione tra idee “astratte” immutabili ed
esperienza “empirica” mutevole. Il primo problema è la legit-
timazione epistemologica della validità atemporale delle idee
a fronte del riconoscimento della natura transeunte degli atti
del pensiero. Questa validità atemporale costituisce infatti
l’assunto fondamentale delle proposizioni della matematica e
della logica. Il secondo problema è come render conto dell’o-
rigine interna al pensiero della validità epistemologicamente
legittimata di queste idee stesse. Il primo problema feno-
menologico riguarda, dunque, la “possibilità” dell’“idealità”
propria delle idee, la possibilità della loro validità atemporale.
76 burt c. hopkins

Questo problema emerge ogni volta che la validità atemporale


(inseparabile dal significato intrinseco delle proposizioni ap-
partenenti alla conoscenza ideale) viene messa alla prova da
teorie scettiche come lo psicologismo. Il secondo problema,
invece, si pone in un secondo momento. Una volta stabilita
la possibilità della validità ideale, si tratta di riproporre il
problema della loro possibilità in un senso più profondo,
ovvero porre il problema dell’origine delle loro possibilità
stesse in quanto idealità.

3. L’idolo “statico-genetico” della fenomenologia

La confusione di questi due tipi di possibilità, connessi ma


differenti, dà adito al primo idolo della fenomenologia, che
ha ormai fatto il suo tempo e che intendo mettere in discus-
sione. Chi segue questo idolo commette il secondo errore più
elementare nell’ambito del pensiero: l’inconsistenza. L’idolo
in questione riguarda un problema interpretativo e può es-
sere caratterizzato come l’idolo secondo cui vi sarebbero due
differenti fenomenologie, quella “statica” e quella “genetica”.
L’idolo statico-genetico identifica dapprima il metodo feno-
menologico husserliano con il problema di stabilire la possi-
bilità dell’idealità propria delle idee e, usando la terminologia
di Husserl, denomina questo metodo (e la fenomenologia
che ne deriva) “statico”. In un secondo momento il metodo
husserliano viene invece identificato con il problema di sta-
bilire la possibilità dell’origine delle idee e, di nuovo usando
un termine dello stesso Husserl, il metodo e la fenomenologia
ad esso corrispondente vengono denominati “genetici”. Indi-
viduando due metodi fenomenologici distinti, quello statico
e quello genetico, questa interpretazione crede di essere fe-
dele a una supposta auto-interpretazione critica dello stesso
Husserl, secondo la quale la formulazione originaria della
fenomenologia, statica, sarebbe limitata da presupposizioni
che possono essere superate soltanto da una fenomenologia
genetica.
Fenomenologia e pseudo-fenomenologia 77

Come succede per tutti gli idoli, in questa interpretazione


vi è una sembianza di verità. È innegabile che Husserl distin-
gua il problema fenomenologico di dar conto della possibi-
lità statica dell’idealità dal problema fenomenologico di dar
conto della genesi di questa possibilità, proprio in quanto
possibilità statica. Così facendo, tuttavia, egli non distingue
due tipi o modi distinti di “fare” fenomenologia, ma piuttosto
designa due aspetti del medesimo problema fenomenologi-
co: legittimare epistemologicamente la conoscenza umana.
L’idolo delle due diverse fenomenologie, una statica e una
genetica (che per questa ragione abbiamo chiamato idolo
“statico-genetico”) riconosce questa distinzione soltanto in
maniera imperfetta, prendendo una cosa, cioè l’unità della
fenomenologia, per un’altra, cioè due fenomenologie. In que-
sto modo, invece di cadere in contraddizione, l’idolo statico-
genetico distingue la validità ideale dalla genesi di questa
validità, e tuttavia, nonostante questa distinzione, finisce per
avvilupparsi nella confusione della fenomenologia nella sua
unità con due tipi differenti di fenomenologia.

4. L’idolo dell’“essenzialismo” di Husserl

Il metodo di Husserl per legittimare la possibilità dell’idealità


è la visione d’essenza, caratterizzata inizialmente come un
processo per cogliere e portare a evidenza le formazioni in-
varianti di significato che sono presupposte dall’idealità della
conoscenza matematica e logica. Husserl estende in seguito
la nozione di visione d’essenza al coglimento e all’articola-
zione delle strutture invarianti presupposte dal significato
e dall’esperienza di tutte le oggettualità e regioni ontologi-
che (incluso l’essere fenomenologico del mondo e l’essere
mondano e trascendentale della soggettività). Il processo
della visione d’essenza implica il confronto e, in seguito, la
variazione immaginativa di esemplari stabiliti come dati di
partenza – di qualsivoglia idealità, significato o esperienza.
Questi esemplari devono venire studiati, nella loro dimen-
78 burt c. hopkins

sione essenziale, mediante un processo che conduca alla


scoperta dell’essenza come di ciò in cui si mostra il limite
invariante della variazione. Il coglimento di questo limite è
“guidato” dall’“indizio” fornito da ciò che viene reso oggetto
della considerazione eidetica, dal momento che la scelta di
un esemplare arbitrario di qualcosa è essa stessa già guidata
dal riconoscimento dell’esemplare in quanto qualcosa, come
per esempio una categoria, una cosa spaziale, un’esperienza
temporale, eccetera. Ciò che viene riconosciuto in questo mo-
do guida il confronto e la variazione degli esemplari arbitrari
e, così facendo, consente di scoprire e portare a evidenza la
struttura invariante che è responsabile della presentazione
stessa del dato esemplare in quanto è ciò che è. L’essenza
coincide così con la struttura invariante propria di ciascun
esemplare all’interno della molteplicità di esemplari generata
dal confronto e dalla variazione. Questa evidenza è immedia-
ta, vale a dire, il “vedere” relativo a una struttura invariante
non è mediato da un concetto: il filo conduttore che conduce
al reperimento di un’essenza non è un concetto sotto il quale
vengono raccolti gli esemplari, bensì uno “stile” prefigurante
il cui coglimento funge da criterio per l’individuazione di
quello che può e quello che non può essere riconosciuto come
esemplare dell’ambito di volta in volta sottoposto all’indagi-
ne. È proprio ciò che appare come invariante a esser denomi-
nato da Husserl “essenza”: quell’elemento che, attraversando
e strutturando gli esemplari secondo la guida fornita dallo
stile prefigurante, si mostra come limite oltre cui la variazione
dell’esemplare non consente più di riconoscerlo in quanto è
ciò che è.
Il fatto che la visione d’essenza si fondi nell’esperienza che
stabilisce l’esemplare di partenza come dato rende inappro-
priata l’interpretazione filosofica secondo cui questo meto-
do sarebbe da intendersi come elemento di una metafisica
speculativa o semplicemente come una forma di induzione
empirica. La visione o “intuizione” immediata, non concet-
tuale, dell’essenza, non è né una specie di intuizione intel-
lettuale né una specie di ragionamento induttivo. Una volta
Fenomenologia e pseudo-fenomenologia 79

raggiunto il limite di una molteplicità di esemplari, vale a


dire, una volta reperito l’elemento invariante inseparabile
da ciascun membro della molteplicità già generata – così co-
me di qualunque membro futuro della stessa –, la struttura
in questione perde la propria dipendenza dalla molteplicità
esemplare già data ed esibisce in quanto tale un’essenza pura,
scevra da ogni “fattualità”. Per designare il carattere a priori
di questa struttura Husserl riabilita il termine greco “eidos”.
Il secondo idolo che ha fatto il suo tempo, sul quale vorrei
richiamare l’attenzione, è l’argomentazione proposta da al-
cuni contemporanei, secondo i quali il fatto che Husserl si
occupi di essenze ed eide rappresenterebbe un punto di scon-
finamento della fenomenologia nella filosofia tradizionale,
e dunque il tratto specifico della fenomenologia husserlia-
na potrebbe venire identificato senza tener conto di questa
istanza1. Questo idolo si basa sulla mancata distinzione tra
il coglimento e la visione fenomenologica di un’essenza (che
è fondata nell’esperienza e responsabile della presentazione
stessa di quest’ultima in un’apprensione evidente non me-
diata da concetti) e una differente modalità di occuparsi di
essenze (non meglio specificata), caratteristica della filosofia
tradizionale. Dal momento che quest’ultima ha un carattere
ontologico e metafisico – vale a dire, si riferisce a essenze
indipendentemente dall’esperienza e senza la legittimazione
dell’evidenza –, l’associazione, nonché l’identificazione, del
supposto “essenzialismo” di Husserl con le istanze essenziali
metafisiche e ontologiche si basa su un errore fondamentale:
confondere una cosa con l’altra. Una posizione del genere, per
principio, non distingue il coglimento e l’articolazione delle
essenze tipico di Husserl dalle istanze relative alle essenze di
stampo ontologico e metafisico, ed è quindi un’auto-contrad-
dizione. Chiameremo l’idolo caratterizzato da quest’errore
“idolo dell’essenzialismo di Husserl”.

1. Cfr. per esempio il recente d. zahavi, Husserl’s Phenomenology, Stanford Uni-


versity Press, Stanford 2003; trad. it. di M. Averchi, La fenomenologia di Edmend
Husserl, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, capitolo primo.
80 burt c. hopkins

5. L’idolo dell’“internalismo”

Per Husserl il coglimento e l’articolazione delle essenze ha


luogo esclusivamente all’interno degli “atti” di riflessione
fenomenologica. Vi sono due caratteristiche fondamentali
di questo genere di riflessione che la distinguono dall’intro-
spezione empirica (percezione interna) e dall’appercezione
di stampo metafisico.
Anzitutto, ciò su cui si esercita la riflessione fenomeno-
logica e perciò, in un certo senso, ciò che cade “all’interno”
dell’angolo visuale di questo tipo di riflessione non è un og-
getto “interno” nel senso di un oggetto la cui interiorità sia
determinata in base alla supposta opposizione ontologica tra
oggetti interni ed esterni. L’interiorità dell’oggetto “interno”
dell’introspezione empirica, invece, è determinata proprio da
questo genere di opposizione. Infatti, la caratteristica che de-
finisce l’introspezione empirica in quanto percezione interna
è l’effetto provocato dalla tipologia ontologica dell’oggetto che
viene percepito, la cui specifica natura interna è intelligibile
soltanto nel contrasto con l’essere “esterno” di un altro tipo di
oggetti, quelli, appunto, che caratterizzano il tipo di percezione
in cui vengono colti come percezione esterna. Contrariamente
a tutto ciò, l’interiorità del contenuto riflesso propria della ri-
flessione fenomenologica è determinata dalla sua “immanen-
za” metodologica, motivata dalla prospettiva intenzionale di
questo genere di riflessione, vale a dire limitata dal “principio
di tutti i principi” fenomenologico, nonché dall’epoché e dalla
riduzione che lo regolano: essa deve attenersi a ciò che le appare
e precisamente così come le appare. L’immanenza metodolo-
gica caratteristica della riflessione fenomenologica è in grado,
perciò, di cogliere riflessivamente percezioni dirette tanto a
qualcosa di interno quanto a qualcosa di esterno, proprio nel
senso che il marchio “fenomenologico” di quest’ultimo tipo di
realtà non è di carattere ontologico ma fenomenico, stabilito
cioè dalla distinzione dei tratti essenziali che vengono colti
nei fenomeni riflessi e successivamente articolati nella visione
d’essenza.
Fenomenologia e pseudo-fenomenologia 81

In secondo luogo, diversamente dalla riflessione carat-


terizzata in senso metafisico, nella quale il momento spe-
cificamente riflessivo della riflessione è una funzione della
mente finita che “rispecchia” i principi eterni dell’essere, la
riflessione fenomenologica non esprime, e perciò non rap-
presenta, il contenuto su cui riflette. Inoltre, nella riflessione
fenomenologica questo stesso contenuto non manifesta alcun
tipo di carattere temporale. La riflessione fenomenologica
non è riflessiva nel senso metaforico della proiezione di un
raggio di luce che parte dalla mente per ripiegarsi su se stesso,
come immagine riflessa di un tutto senza tempo del quale essa
sarebbe una parte transeunte. Piuttosto, il momento riflessivo
della riflessione fenomenologica porta a coscienza esplicita
aspetti della coscienza psichica non esplicita che si presentano
a questa coscienza esplicita nel modo fenomenologico del “già
lì”. Vale a dire: ciò che giunge a coscienza esplicita in seguito
all’“atto” della riflessione fenomenologica è la coscienza che la
psiche possiede sia di se stessa sia di ciò che è altro da sé. Sia
l’autocoscienza, sia la coscienza di qualcosa di altro da sé, si
presentano come “già lì”, pronte a essere percepite, precedenti
la coscienza esplicita propria della riflessione fenomenologi-
ca. Il carattere prioritario di questa modalità del “già lì” non
è di natura temporale: non è né qualcosa che accade prima
(in ordine di successione) di essere colta in una riflessione
fenomenologica, né qualcosa che ricorre in ogni momento
del tempo. Essendo il “come” fenomenico che caratterizza la
modalità in cui ciò che viene colto nella riflessione fenome-
nologica appare, il “già lì” del contenuto riflesso caratterizza
il modo di presentazione inseparabile dall’orizzonte in cui
tutti i fenomeni, incluso il tempo, necessariamente appaiono.
La fenomenologia di Husserl prende a prestito il termi-
ne “tematizzazione” dalla psicologia per indicare il carattere
peculiare dell’esplicita “coscienza di coscienza” propria del
coglimento di ciò che nella riflessione fenomenologica viene
preso in considerazione. Questo termine intende esprimere
descrittivamente la natura dell’esperienza in cui una coscien-
za già in atto, ma non attivamente presente a se stessa, viene
82 burt c. hopkins

portata a un livello di emergenza, entrando così nel cerchio


di una coscienza attenzionalmente rivolta sia a se stessa sia a
ciò che le appare entro questa modalità attenzionale.
In questo tipo di esperienza non vi è manifestamente nul-
la di concettuale. La tematizzazione, indicando il raggiun-
gimento di un’esplicita “coscienza di coscienza”, non è né il
coglimento di qualcosa che ricade nell’ambito concettuale,
né il coglimento di qualcosa di concettuale in sé. Ciò che
appare nella tematizzazione nel modo del “già lì”, da parte
sua, può certamente essere qualcosa che ricade nell’ambito
concettuale o un concetto. Tuttavia, da questo non consegue
che la modalità di apprensione caratteristica della riflessione
fenomenologica in quanto tematizzazione sia già di per sé un
che di concettuale.
La confusione dell’interiorità tipica dell’immanenza me-
todologica che caratterizza la riflessione fenomenologica con
l’“essere rivolto a ciò che è interiore” caratteristico della per-
cezione interna dà adito al più persistente e pernicioso di tutti
gli idoli della fenomenologia che hanno fatto il loro tempo,
l’idolo dell’“internalismo”. L’errore sotteso a quest’idolo non è
né la mancanza di distinzione tra una cosa e un’altra, né una
distinzione inconsistente che porta a confonderle, ma proprio
il fatto di prendere l’una per l’altra. La percezione interna è
confusa con la riflessione fenomenologica, senza avvedersi del
fatto che quest’ultima è qualcosa di diverso e, pertanto, non
coincide con la percezione interna.
Quest’idolo, in effetti, non è un vero e proprio errore,
ma una sorta di auto-inganno. Come tale, esso emerge in
una modalità di coscienza che non ha consapevolezza di non
sapere ciò che crede invece di sapere. Questa modalità di
coscienza è responsabile della persistenza dell’idolo. Ciò che
lo rende così pernicioso è la tendenza ad associare la propria
inconsapevolezza, come modo di coscienza, al “concetto”
di riflessione. Quando questo accade, l’idolo dell’internali-
smo si frammenta immediatamente in una molteplicità di
sotto-idoli, i più importanti dei quali sono l’idolo della “co-
scienza pre-riflessiva e non riflessiva”, l’idolo della “coscienza
Fenomenologia e pseudo-fenomenologia 83

riflettente non-riflessiva”, l’idolo della “datità più originaria”,


ecc. Ciò che questi idoli hanno in comune è il fatto di esse-
re sottospecie dell’idolo dell’internalismo e della sua iden-
tificazione di ciò che è propriamente e oggettivamente un
modo irriducibile della coscienza con un oggetto. Quando
l’“interiorità” della coscienza esplicita caratteristica della ri-
flessione fenomenologica è, suo malgrado, intesa come se
fosse determinata dalla natura ontologica del suo oggetto
cosciente, ne consegue “logicamente” l’associazione del suo
modo di coscienza specifico con un concetto. Vale a dire, al
posto del modo del “già lì” che caratterizza l’apparire della
coscienza non esplicita “nell’”interiorità della coscienza espli-
cita della riflessione fenomenologica – conditio sine qua non
della conoscenza fenomenologica – l’idolo dell’internalismo
pone inconsapevolmente il “concetto” di riflessione come
percezione interna. Così, invece di indagare ciò che appare
alla riflessione nel modo del “già lì”, l’internalismo indaga la
“logica” della relazione tra i concetti di coscienza riflessiva
e coscienza pre-riflessiva o non-riflessiva. Questa logica è
articolata come segue: se la coscienza riflessiva presuppone
il coglimento tematico del suo oggetto, essa deve dunque
contrapporsi a una coscienza pre-tematica, non riflessiva;
siccome la riflessione, con la sua apprensione tematica, deve
“oggettivare” il proprio oggetto, la coscienza pre-riflessiva e
non riflessiva dev’essere la coscienza più originaria e quindi
il fenomeno fenomenologicamente più privilegiato; la feno-
menologia di Husserl, in forza del suo carattere riflessivo, è
pertanto inadeguata (o poco adeguata) a indagare la coscien-
za pre-riflessiva e non-riflessiva che caratterizza la forma di
datità più originaria dei fenomeni.
Una volta che questa logica rimpiazza il modo d’essere con-
cettualmente irriducibile della riflessione fenomenologica, gio-
chi e discussioni dialettiche assumono la veste di indagini feno-
menologiche. Le discussioni sulla possibilità, per la coscienza,
di essere riflessivamente cosciente di sé indipendentemente
dagli atti di auto-riflessione, quelle discussioni che intendono
stabilire un numero sempre crescente di dimensioni “pre-” o
84 burt c. hopkins

“non” riflessive dell’esperienza passiva (essendo stato respinto


il “concetto” di coscienza come troppo “teoretico” – a causa del
suo carattere “tematico” – per catturare la datità più originaria
dei fenomeni) hanno tutte in comune un elemento: proprio
le distinzioni che invocano, per esempio quella tra coscienza
“pre”-riflessiva e coscienza riflessiva, tra coscienza riflessiva
e riflettente, tra esperienza attiva e passiva, presuppongono
una modalità di coscienza che sia attenzionalmente rivolta ai
termini della distinzione senza coincidere con essi o essere ri-
ducibile a uno dei due. Questo dal momento che la distinzione
stessa tra coscienza riflessiva e pre-riflessiva indica un modo di
coscienza capace di rendere entrambe manifeste senza venire
a sua volta esaurito da uno dei due termini della distinzione
(la coscienza riflessiva o quella pre-riflessiva). Questo modo
di coscienza è esattamente ciò che viene reso evidente nella
riflessione fenomenologica, con la sua considerazione della
modalità fenomenologica dell’“esser già lì” di ciò che è colto.
Per esempio, la stessa pre-coscienza o coscienza pre-riflessiva
è qualcosa che, in quanto fenomeno, appare alla riflessione fe-
nomenologica nella modalità del “già lì”, che precede la propria
tematizzazione esplicita. Ciò che manca in tutte le sottospecie
di idoli dell’internalismo è proprio il riconoscimento dello sta-
tus non-concettuale e non-oggettivo di questo “pre-” e, perciò,
il suo designare una coscienza-di-coscienza concettualmente
e oggettivamente irriducibile.

6. L’idolo del “significato dell’essere in generale


come presenza”

La struttura essenziale tanto della coscienza non esplicita


tematizzata dalla riflessione fenomenologica quanto della co-
scienza esplicita che effettua questa tematizzazione è l’inten-
zionalità. Questa struttura si coglie in una visione d’essenza
che compara e varia gli esemplari di qualsivoglia coscienza,
stabilendo il limite dei molteplici esemplari prodotti nell’eidos
della correlazione a priori tra l’“intenzione” cosciente di un
Fenomenologia e pseudo-fenomenologia 85

oggetto e l’oggetto stesso come oggetto “intenzionale”, vale


a dire come oggetto il cui campo di possibilità e i cui limiti
sono definiti da ciò che costituisce la sua manifestazione sia
“nell’” intendere della coscienza sia nel “come” caratteristico
del suo modo di manifestarsi. Per ciascuno dei “momenti”
della correlazione intenzionale a priori, la visione d’essenza
coglie e articola anche un eidos. L’eidos dell’intendere coscien-
te è identificato nell’unità temporale propria delle molteplici
“modificazioni” cui la coscienza è stata sottoposta seguendo
la manifestazione di un oggetto intenzionale. Queste modi-
ficazioni manifestano la temporalità propria della coscienza,
una temporalità “immanente”, precisamente nel senso che
essa riproduce la genesi intenzionale della manifestazione
dell’oggetto intenzionale in quanto oggetto per la coscienza.
In ogni coscienza di un oggetto intenzionale, l’oggetto appare
originariamente nel modo della “presenza” immediata. La
“presentazione” immediata della presenza dell’oggetto ma-
nifesta come proprio limite la “ritenzione” della sua presen-
za, nel modo dell’“essere-appena-stato-esperito” relativo al
manifestarsi della presenza dell’oggetto. L’eidos proprio della
presenza dell’oggetto intenzionale, in quanto esso è uno e
lo stesso oggetto (invariante), si manifesta come persisten-
za della sua “emergenza” attraverso i modi successivi delle
sue modificazioni ritenzionali. Vi è dunque un limite oltre il
quale l’emergenza di un oggetto eccede la sua presenza in-
tenzionale. Oltre questo limite si entra nel substrato generale
della coscienza verso cui defluiscono i modi successivi della
coscienza ritenzionale. Quando questo limite viene raggiunto
l’oggetto intenzionale non è più presente alla coscienza.
Pur avendo oltrepassato il campo della coscienza inten-
zionale, transitando nel substrato generale della coscienza,
l’oggetto intenzionale non cessa di esistere. Esso rimane in
qualche modo lì, “nella” coscienza, ma sedimentato, al di
fuori dell’ambito della coscienza intenzionale e perciò, in un
certo senso, “dimenticato”. L’evidenza di tutto questo è schiac-
ciante. Sono sempre possibili atti coscienziali che, sebbene in
modo imperfetto, riescono a “ri-destare” la “storia passata”
86 burt c. hopkins

della “presentazione originale” di un oggetto intenziona-


le, così che esso venga “ri-presentato”. È dunque manifesto
che la presenza dell’oggetto intenzionale per la coscienza
non coincide né con il suo essere fenomenologico né con
il suo modo d’essere fenomenologico. Da una parte, l’essere
fenomenologico dell’oggetto intenzionale trascende la sua
presenza per la coscienza in quanto oggetto intenzionale:
il ridestamento, negli atti del “ricordo” fenomenologico di
oggetti la cui prominenza è receduta nel substrato generale
della coscienza, rende ampiamente testimonianza di questa
situazione. Dall’altra parte, il modo fenomenologico di questo
essere è inseparabile dall’intenzionalità della storia passata
della sua presentazione originaria alla coscienza. Il che si-
gnifica: così come vi è un limite oltre il quale l’emergenza
dell’oggetto intenzionale recede nel substrato generale della
coscienza, altrettanto vi è un limite della presentazione origi-
nale dell’oggetto alla coscienza. Il limite della presentazione
originale dell’oggetto è manifesto in quel “rimando” a nuclei
di significato ultimi e non sintattici che caratterizza tanto le
“implicazioni intenzionali nascoste” dell’oggetto quanto le
operazioni proprie dell’intenzionalità. Questi nuclei non sin-
tattici di significato, a loro volta, rimandano alla loro origine
in una presentazione originaria alla coscienza.
Il compito di rintracciare “la necessaria storia del senso”
(Sinnesgeschichte) di un oggetto intenzionale fin dalle sue
origini fa tutt’uno con il compito di stabilire “geneticamen-
te” la possibilità dell’idealità dell’oggetto intenzionale, vale
a dire la possibilità profonda della sua unità “statica”, come
invariante nel trascorrere caratteristico degli atti del pensie-
ro. Precisamente su questo punto, a prendere una strada in-
gannevole non è soltanto l’errore interpretativo che definisce
l’idolo “statico-genetico” della fenomenologia (nella misura
in cui non mantiene la distinzione tra la possibilità statica
che stabilisce l’idealità di un oggetto intenzionale come in-
variante e la possibilità genetica che rivela l’origine dei suoi
costituenti categoriali), ma anche, a sua volta, un altro idolo
che ha fatto il suo tempo, quello del “significato dell’essere
Fenomenologia e pseudo-fenomenologia 87

in generale come presenza”. Come l’idolo “statico-genetico”,


questo idolo attribuisce il riferimento di Husserl all’essenza
immanente dell’oggetto intenzionale al suo cartesianesimo.
Tuttavia, diversamente dall’idolo che crede di trovare un “al-
tro” Husserl e perciò un’altra fenomenologia husserliana nella
fenomenologia genetica, l’idolo del “significato dell’essere in
generale come presenza” cerca di rompere con la fenomeno-
logia di Husserl su due punti critici.
Un primo punto critico è quello ontologico. L’operare di
Husserl con gli eide dei fenomeni, incluso il tempo, è inteso
come segnale del fatto che il significato generale dell’essere
che guida la sua indagine avrebbe il proprio fondamento in
un modo derivato del tempo, cioè il presente. “L’essere come
presenza” è il motto di questo idolo e la sua pretesa critica è
che la fenomenologia di Husserl, invece di stabilire il signi-
ficato dell’essere in generale in una maniera realmente origi-
naria, sia guidata dalla sua pre-comprensione inindagata del
significato dell’essere, per come essa è esemplificata dall’esser-
presente di un oggetto al cospetto dell’intenzionalità cono-
scitiva del soggetto. Questa intenzionalità conoscitiva, a sua
volta, è determinata dalla copula del giudizio predicativo “è”,
poiché ciò che costituisce il fenomeno del significato dell’es-
sere è precisamente il “venire in presenza” della categoria
(eidos) nel riempimento della “posizione” propria del logos
apofantico (la proposizione), e non qualche predicato “reale”.
L’altro punto critico è di carattere metodologico. Il si-
gnificato dell’essere in generale non può essere indagato da
un metodo che si affida alla riflessione, poiché l’immanen-
za caratteristica della relazione intenzionale del riflesso con
l’atto di riflessione è già determinata nel suo modo d’essere
come presenza. Sulla scorta di varie “indicazioni formali”, che
mostrerebbero che il significato dell’essere in generale non
è originariamente la presenza, la fenomenologia dovrebbe
riformulare il proprio metodo in una maniera che consenta
al suo vero fenomeno, il significato dell’essere in generale,
di essere chiamato in causa e indagato. Una simile riformu-
lazione deve pertanto essere di carattere ermeneutico, deve
88 burt c. hopkins

cioè dipanare, in un senso deliberatamente interpretativo,


un fenomeno che innanzitutto e per lo più non si presenta e
perciò non appare, diversamente dal caso della presenza di
un oggetto. Per raggiungere il significato dell’essere in gene-
rale, quindi, l’ontologia deve diventare fenomenologia, deve
andare in cerca del mostrarsi stesso e da se stesso di questo
significato. Poiché, tuttavia, ciò che si mostra innanzitutto e
per lo più sono enti nella loro presenza, il metodo ermeneu-
tico della fenomenologia deve fare “violenza” al modo ordi-
nario in cui il fenomeno dell’essere si mostra, deve “ottenere”
da questo fenomeno l’auto-manifestatività originaria di ciò
che rende possibile l’auto-manifestatività derivata degli enti
nella loro presenza.
Vi sono due ragioni fondamentali per cui l’idolo del “si-
gnificato dell’essere in generale come presenza” è un idolo
che ha ormai fatto il suo tempo. Anzitutto, la presenza non
è il significato dell’essere dominante nella fenomenologia di
Husserl: la possibilità intrinseca di un oggetto intenzionale
non soltanto è inseparabile dalla sua storia sedimentata, ma
questa storia sedimentata stessa è a sua volta inseparabile
dalla storia intenzionale della sua presentazione originaria
alla coscienza. Né la riattivazione di questa storia sedimen-
tata nel ricordo, né l’indagine della sua storia intenzionale
sono guidate dalla presupposizione che l’essere dell’oggetto
intenzionale indagato sia esaurito o determinato dalla sua
perdurante “emergenza” di fronte allo sguardo intenzionale
della coscienza, come ritiene questo idolo del “significato
dell’essere in generale come presenza”. Inoltre, per Husserl, la
posizione d’essere interna al giudizio predicativo non è né l’u-
nico “sito”, né quello privilegiato, in cui l’essere appare come
fenomeno. L’essere viene posto anche nel giudizio collettivo
e sia la posizione copulativa sia quella collettiva di ciò che è
sono modi d’essere il cui significato è fondato sull’essere più
originario del mondo della vita e sull’operatività dell’essere
più originaria dell’intenzionalità: la soggettività trascenden-
tale. In secondo luogo, il “progetto” del metodo ermeneutico
di mettere allo scoperto il mostrarsi stesso e da se stesso del
Fenomenologia e pseudo-fenomenologia 89

significato originario dell’essere in generale è guidato da due


supposizioni di cui questo metodo non è in grado di dar
conto, per ragioni di principio. La prima consiste nella sup-
posizione che l’essere stesso abbia un significato in generale,
che va al di là del significato d’essere di questo o quell’ente, o
addirittura della totalità degli enti: che l’essere stesso abbia un
significato. (Il punto qui non è che la supposizione sia neces-
sariamente falsa, ma soltanto che è qualcosa che il metodo
ermeneutico è incapace di stabilire poiché funge come suo
punto di partenza. Vale a dire, ciò che la Auslegung propria
di questo metodo mette allo scoperto, ultimamente, è il Ver-
stehen del significato dell’essere in generale, e con questo il
suo disvelamento). La seconda supposizione è che il mostrarsi
stesso e da se stesso di questo significato sia qualcosa che
si verifica quando il “concetto formale” del fenomeno viene
“de-formalizzato”. (Ancora una volta, il punto qui non è che
questa supposizione sia necessariamente falsa, ma soltanto
che il metodo ermeneutico è, per ragioni di principio, inca-
pace di stabilire la sua verità. Per far questo esso dovrebbe
fondare la sua assunzione-guida trascendentale, secondo cui
la Auslegung è in grado di rendere trasparente la struttura
e il contenuto del Verstehen, cosa che non è evidentemente
in grado di fare, dato che il suo “principio” metodologico
fondante è la circolarità e perciò, almeno potenzialmente, la
trasparenza della Auslegung stessa. Questo significa che il suo
principio fondante presuppone ciò che esso stesso dovrebbe
fondare per giustificarsi “scientificamente”2).

2. Certamente Heidegger era ben cosciente di questo quando (nell’introduzione


di Essere e Tempo) distingueva il “concetto preliminare” della fenomenologia, e il
suo compito di stabilire l’analitica esistenziale del Dasein, dall’“idea della feno-
menologia”, che è quella di stabilire il concetto esistenziale di scienza e, con esso,
la verità delle pretese strutturali ermeneutiche avanzate nell’analitica esistenziale.
In generale a questa distinzione, e in particolare all’impatto metodologico sulla
concezione heideggeriana della fenomenologia dovuto all’abbandono del proget-
to di stabilire l’idea della fenomenologia, non è stata data l’attenzione che essa
meriterebbe all’interno della letteratura critica. Nella misura in cui la filosofia
ermeneutica di Gadamer si appropria delle considerazioni metodologiche-erme-
90 burt c. hopkins

7. L’idolo della “fine della metafisica”

Queste sono le due ragioni per cui l’idolo del “significato


dell’essere in generale come presenza” ha fatto il suo tempo.
Ciò che le rende stringenti è anche ciò che rende la fenome-
nologia di Husserl contemporanea dopo più di un secolo e,
invero, molto più contemporanea di tutti gli idoli presentati
finora, i quali hanno reclamato questo titolo per sé. Queste ra-
gioni sono stringenti a causa del carattere fondamentalmente
non sistematico della fenomenologia husserliana. Per come è
stata originariamente formulata da Husserl, la fenomenologia
trascendentale si basa su due grandi pilastri metodologici: la
riflessione fenomenologica e la visione d’essenza. Irriducibili
e inseparabili, questi pilastri non possono in alcun modo es-
sere sistematizzati, cioè non possono essere unificati sotto un
singolo concetto o una singola architettura. La coscienza di
coscienza e, con essa, il punto vivo del pensiero, il suo costan-
te tematizzare oggetti mediante la riflessione fenomenologica,
non possono mai essere subordinati o ridotti a ciò che la vi-
sione d’essenza rivela come invariante, e non soltanto perché
quest’ultimo elemento rimane per natura costante, mentre
l’altro è per natura in movimento. Il movimento proprio del
pensiero che coglie e descrive gli eide di ciò che si mostra
nella riflessione (i fenomeni della fenomenologia), il ricordo
che ridesta la storia sedimentata dell’oggetto in questione
(dunque la genesi della possibilità di questo essere) e, infine,
la storia intenzionale della presentazione originale dell’essere
in questione che può venir messa in luce a partire dalla sua
possibilità, tutto ciò rifiuta di essere unificato per formare un
tutto, un systhema che valga ora e per sempre. Il fenomeno
dell’intenzionalità, che rende manifesti sia l’essere del sogget-
to come materia della fenomenologia sia il modo d’essere del
suo metodo, non soltanto non può mettere capo a qualcosa

neutiche di Heidegger senza far riferimento al modo provvisorio in cui Heidegger


intendeva la loro scientificità, l’ermeneutica di Gadamer si basa interamente su
questa seconda supposizione.
Fenomenologia e pseudo-fenomenologia 91

di simile ma, occorre aggiungere, è proprio la rivelazione


graduale della possibilità intrinseca dell’intenzionalità di ogni
fenomeno (nonché il risultato di questa rivelazione) ciò che
fornisce la testimonianza stabile di questa impossibilità.
Essa si manifesta nel modo più clamoroso quando l’inda-
gine della storia intenzionale della fenomenologia fa i conti
con la propria origine, la quale rimanda alle due grandi scien-
ze della filosofia greca: la dialettica di Platone e la filosofia
prima di Aristotele. La fenomenologia di Husserl si “pone in
contrasto con” queste due scienze nel modo seguente: la legit-
timazione della possibilità propria della storia intenzionale,
inseparabile dagli oggetti indagati dalla fenomenologia, gli
eide, si riferisce a un limite che sta al di là della storia della
fenomenologia stessa, vale a dire si riferisce alla storia fattuale
della filosofia. Questo significa che la fenomenologia della
fenomenologia che Husserl prospetta nei suoi ultimi scritti
è necessaria per fondare pienamente la fenomenologia stessa
come modalità della conoscenza filosofica. Di questo è possi-
bile rendersi conto soltanto una volta riconosciuta la necessità
di una connessione essenziale tra la storia intenzionale della
presentazione originale degli oggetti intenzionali indagati
dalla fenomenologia e la storia effettiva del pensiero. Husserl
stesso si avvicinò a questo riconoscimento quando, nella sua
ultima grande opera (la Crisi), intravide la storicità insepara-
bile dall’origine degli oggetti a priori della conoscenza scien-
tifica naturale, e propose il metodo della “riflessione storica a
ritroso” come mezzo per indagare questo genere di origine.
Le indagini frammentarie di Husserl relative a questa storicità
non sono tuttavia in grado di legittimare pienamente né la
conoscenza simbolica formalizzata che definisce la mathesis
universalis della matematica moderna né la conoscenza ideale
caratteristica della geometria euclidea. In altre parole, tali
indagini non sono in grado di “deformalizzare” pienamente
i concetti e le nozioni che costituiscono i presupposti basilari
della fisica matematica moderna riconducendoli, insieme
con i concetti ideali che presuppongono, alla loro origine nel
mondo della vita pre-scientifica.
92 burt c. hopkins

In ogni caso, nonostante questa incompletezza, il testo


della Crisi abbozza i protocolli metodologici necessari per de-
formalizzare la conoscenza e, in questo modo, per legittimare
i concetti e i principi più basilari inerenti al soggetto cono-
scente a partire dall’evidenza originaria che sola può fornire
una simile legittimazione. Il primo protocollo metodologico
consiste nel movimento a “zig-zag” della riflessione storica a
ritroso della fenomenologia. Partendo dallo “zig” della crisi
filosofica del presente (vale a dire la mancanza di integrità
dell’episteme, inseparabile dalla sua formalizzazione), lo “zag”
della riflessione si muove verso il significato ideale presup-
posto, e dunque “sedimentato”, di questa formalizzazione
stessa. Dallo “zig” di questi significati, a sua volta, lo “zag”
della riflessione si muove successivamente a tematizzare le
operazioni intenzionali che sono inseparabili dalla possibilità
di queste idealità. Le analisi husserliane di queste operazioni
contenute nella frammentaria indagine Su L’origine della geo­
metria e nel testo della Crisi, tuttavia, sono insoddisfacenti,
e non soltanto in quanto frammentarie. Come Derrida ha
mostrato meglio di chiunque altro, i tentativi husserliani nella
Crisi di legittimare l’origine propria dell’idealità dell’ideale
in un “passaggio al limite” che caratterizza il reperimento
e il coglimento di un’essenza non possono che condurre a
un’aporia. Questo perché, all’interno della metodologia hus-
serliana, non viene dato conto della possibilità dello stile che
prefigura la variazione di quella molteplicità esemplare che
produce l’eidos come proprio limite. L’origine di questo stile,
dell’“in quanto” che consente all’esemplare iniziale di venire
selezionato, rimane un presupposto tanto del reperimento
quanto del coglimento esplicito dell’invariante in cui il suo
eidos diviene manifesto.
Tuttavia, la conclusione che Derrida trae da questa aporia
dà adito a un ultimo idolo che a mio avviso ha fatto il suo
tempo: l’idolo della “fine della metafisica”. Secondo Derrida la
fenomenologia rimarrebbe per principio incapace di indagare
l’origine dell’essere dell’idealità dell’ideale, poiché resterebbe
ancorata alla presupposizione ineluttabile del suo metodo
Fenomenologia e pseudo-fenomenologia 93

eidetico, e la conseguenza ultima di questa presupposizione


sarebbe che la fenomenologia rimane metafisica e al contem-
po conclude l’epoca della metafisica. Diversamente da tutti
gli altri idoli su cui ho richiamato l’attenzione, quest’idolo
non si basa sulla mancanza di distinzione, o di una distin-
zione consistente, per cui vengono infranti i presupposti più
elementari del pensiero, ma su ciò che, non senza una buona
dose di esitazione e di riserva, si potrebbe definire come una
mancanza di “sensibilità” intellettuale ed epistemologica al
cospetto del to agathon. L’origine dell’idealità dell’ideale, di
ciò che rende possibile la visione d’essenza in fenomenologia,
non riguarda soltanto il problema di stabilire la possibilità
dello stile prefigurante che guida il processo conoscitivo. A
essere in gioco è anche e in primo luogo l’origine stessa della
“motivazione” che assicura questo processo conoscitivo. Per
lo Husserl della Crisi, questa motivazione è decisamente di
carattere etico e non epistemologico. Il secondo protocollo
metodologico necessario a deformalizzare la conoscenza ma-
nifesta questa motivazione dando conto del carattere etico
della radicale responsabilità di sé del fenomenologo, una re-
sponsabilità che si fa carico del fallimento della scienza più
elevata dell’uomo contemporaneo, la fisica matematica, che
non è in grado di prendere in considerazione – né tantomeno
di tentare una risposta – la domanda: qual è il modo migliore
di vivere? Il sogno husserliano di un’etica razionale assicu-
rata una volta per tutte grazie al metodo “apodittico” della
fenomenologia – sogno che Husserl esprimeva nell’epoca
dell’incubo della seconda guerra mondiale – oggi può cer-
tamente apparirci ridicolo. Ma questo sogno è nato nel cono
d’ombra della ragione formalizzata, il problema fondamentale
che Husserl stesso, forse più di ogni altro filosofo del xx seco-
lo, si è sforzato di superare. In conclusione desidero suggerire
l’idea che dietro la motivazione di questo sogno husserliano
vi sia l’ombra di qualcosa che è molto più “demonico” del-
la formalizzazione del sapere. Quest’ombra non è generata
appena dalla dissociazione della scienza più elevata, la fisica
matematica, dall’idea del bene, ma dal riconoscimento che la
94 burt c. hopkins

“condizione di possibilità” ontologica dell’idealità dell’ideale


non è la natura epistemologica dell’ideale stesso, ma la pros-
simità di questa natura all’idea del bene. Entrambe le scienze
più elevate della filosofia greca, la dialettica e la filosofia pri-
ma, rimangono incomprensibili senza il riconoscimento di
questa prossimità. Esse restano però incomprensibili anche
a fronte di questo riconoscimento, almeno fintanto che il
tipo di comprensione con esso guadagnata resta interamente
determinato dal livello puramente concettuale della formaliz-
zazione del sapere. Il fatto che l’idolo della “fine della metafi-
sica” consista in una presa di distanza da questa possibilità a
motivo della sua incomprensibilità (vale a dire, nel rifiuto di
ammettere che questa possibilità, dopo tutto, potrebbe non
essere poi così incomprensibile) e il fatto che i due protocolli
prospettati nelle ultime riflessioni metodologiche di Husserl
vadano proprio nella direzione di un ridestamento, ancora
una volta, di questa possibilità – che è la più profonda di
tutte le possibilità metafisiche –, tutto questo rappresenta il
testamento definitivo della contrapposizione, o meglio, dello
“star di contro” che determina fondamentalmente il rapporto
che la fenomenologia intrattiene con la metafisica.

[Traduzione dall’inglese di Andrea Staiti]


Claudio Majolino

Molteplicità e costituzione.
Un manifesto per la fenomenologia*

Those are my principles, and if you don’t like them…


well, I have others.
Groucho Marx

Quello che segue potrebbe rispondere all’idea un po’ pere-


grina di un manifesto. In questa sede, infatti, non cercherò
di discutere di questo o quell’aspetto della fenomenologia di
Husserl o proporre una lettura alternativa di questo o quel
testo. Vorrei provare, invece, a correre il rischio di pormi qual-
che domanda sulla specificità della fenomenologia in quanto
tale. Più precisamente, vorrei cercare di rispondere in modo
un po’ diverso a quella domanda che tanto spesso mi sono sen-
tito rivolgere – a volte in modo imbarazzato, a volte in modo
piuttosto polemico o aggressivo – da studenti e amici, colleghi
e critici. La domanda, temibile e forse non proprio inevitabile,
è la seguente: “ma, in fondo, che cos’è la fenomenologia?”.

1.

A questo punto mi si potrebbe immediatamente obiettare


che, in fondo, non ha molto senso chiedersi cosa sia la fe-

* Quella che segue è la traduzione leggermente rimaneggiata di un testo che Claudio


Majolino ha presentato e discusso in due diverse occasioni: una prima volta nell’aprile
2011 alla Gonzaga University di Firenze, nel corso del 42° incontro annuale dello
Husserl Circle; una seconda volta nel maggio dello stesso anno nel corso del secondo
Workshop in Phenomenological Philosophy tenutosi a Boston University. Il testo qui
tradotto dall’inglese mantiene ancora molto della sua originaria destinazione [N.d.T.].
96 claudio majolino

nomenologia di fronte a un pubblico di “fenomenologi” e


“post-fenomenologi”. Mi si potrebbe contestare che, in fondo,
ogni volta che qualcuno ci chiede lumi sul senso e la portata
di quel che, in modo piuttosto vago, chiamiamo “fenomeno-
logia”, noi tutti sappiamo bene cosa rispondere e abbiamo già,
bella e pronta, una qualche risposta a effetto. Insomma, chi
non sa che cos’è la fenomenologia? Inoltre, mi si potrebbe far
notare che è difficile credere di poter dire qualcosa di nuovo
e originale sull’argomento: qualcosa che non si sappia già;
qualcosa che non sia già stato esplicitamente tematizzato e
discusso da Husserl, Heidegger, Sartre o Merleau-Ponty; che
non sia già stato valutato e ritenuto insufficiente da Frege,
Wittgenstein o Ryle; che Gadamer, Lévinas o Derrida non
abbiano già inchiodato ai suoi celati presupposti metafisici, e
quindi superato. In fin dei conti, mi si potrebbe chiedere – a
ragione – perché mai, in un’epoca in cui “fenomenologo” è
quantomeno sinonimo di “universitario che scrive su certa
gente che, nel secolo scorso, si faceva chiamare fenomenologo”,
dovremmo infliggerci l’ennesima domanda retorica su “che
cos’è la fenomenologia?”. In fondo, è davvero possibile fare
altro che non sia smerciare un po’ di vino vecchio in qualche
(non così) nuova botte, e contrabbandare l’ennesima disami-
na storica di un qualche concetto di “fenomenologia” già noto
e arcinoto facendola passare per un manifesto?
Se le cose stessero veramente così, dovremmo allora,
semplicemente, dismettere la domanda e ricordarci che la
vera sfida del nostro tempo è, eventualmente, quella di “fare
fenomenologia”, non di discuterne o darne definizioni. Negli
ultimi cinquant’anni, la fenomenologia si è infatti perlopiù
estenuata in un duplice compito: superare la fenomenologia
trascendentale di Husserl, metafisicamente compromessa,
e/o rendere fruttuose e utili le minuziose descrizioni husser-
liane di cui sono farcite le 55.000 pagine di Nachlaß, cercan-
do, dove possibile, di renderle compatibili con le posizioni
del mainstream post-heideggeriano e post-wittgensteiniano
sull’essere, la mente e il linguaggio. Il presupposto tacito, con-
diviso da ambedue le tendenze, è che siano i principi che
Molteplicità e costituzione 97

definiscono i paradigmi dominanti – tanto quello analitico


(ontologia analitica e filosofia del linguaggio) quanto quello
continentale (ermeneutica, decostruzione) – a dover fissare
l’agenda della fenomenologia e indicarne le direzioni future.
Il recente interesse della fenomenologia per le scienze cogni-
tive conferma, piuttosto che smentire, questa duplice tenden-
za. Agli studiosi di Husserl viene costantemente chiesto di
dimostrare come la sua fenomenologia – e, più in generale,
la fenomenologia come tale – sia in grado di raccogliere le
più recenti sfide del nostro tempo e, quindi, di esercitare il
suo diritto a sopravvivere nell’arena intellettuale del xxi se-
colo (eventualmente seducendo, con il suo fascino discreto,
la critica letteraria, la psicoanalisi, i gender studies o, appunto,
le scienze cognitive). Quanto al resto: pre-, proto- o cripto-
heideggeriano, quasi-wittgensteiniano o ultra-brentaniano,
iper- o anti-razionalista, ultimo filosofo della soggettività
assoluta o primo corifeo inconsapevole di una soggettività
decentrata, l’interesse di Husserl starebbe nel fatto di aver
intravisto – a volte con grande lungimiranza e a dispetto dei
limiti storici, concettuali o metafisici del suo pensiero – quel
che altri avrebbero poi visto in modo chiaro e lucido.
Ammetto di trovare questa immagine della fenomenolo-
gia piuttosto deludente. Per quel che mi riguarda, mi è sempre
piaciuto pensare che, se Husserl ha veramente qualcosa di
importante da dirci ora, deve trattarsi di qualcosa che non
sappiamo ancora, non di qualcosa noto a tutti. Magari, alla
fine si scopre davvero che non c’è niente di così importante
nella fenomenologia husserliana e che, effettivamente, tutto
è stato detto e visto. Universitario grafomane e imbevuto di
retorica fin de siècle – con un piede nell’Ottocento positivista
e l’altro nel Novecento delle grandi crisi – il destino filosofico
di Husserl si è già compiuto nel secolo scorso e ormai non ci
resta che celebrare, con un po’ di finta ammirazione, i resti
della sua fenomenologia erosa dal tempo, con la stessa pre-
cisione con cui le guide descrivono i ruderi di Selinunte alla
distratta attenzione dei pochi turisti. Ma se per caso non fosse
così, se ci fosse davvero qualcosa di nuovo da dire a partire
98 claudio majolino

da Husserl, in fondo dovrebbe trattarsi di qualcosa che né gli


eredi di Heidegger né i nipotini di Wittgenstein sono stati in
grado di scorgere. Insomma, non sarebbe male se si riuscisse
a scovare, dietro l’immagine di quell’Edmund Husserl eroico
capostipite del grande movimento fenomenologico che tutti
conosciamo, uno Husserl più discreto, pensatore “anacroni-
stico” e “inattuale”: “unzeitgemäß” in senso nietzscheano. Nel
qual caso, avremmo bisogno in primo luogo di una specie di
percorso a ostacoli. Un itinerario un po’ tortuoso che, schi-
vando i monumenti e i luoghi comuni husserliani, le banalità
e i riflessi pavloviani, ci permettesse di individuare alcuni
elementi chiave da cui, eventualmente, trarre la bozza di un
manifesto per la fenomenologia.
Nel lanciare l’idea di un’ennesima variante di quel gioco
un po’ stantìo chiamato “che cos’è la fenomenologia?” vor-
rei allora seguire una strada differente, evitando appunto
lo schema classico che consiste nel prendere le mosse dalla
solita lista di definizioni celebri, isolarne, confrontarne e di-
scuterne un paio, per poi scegliere la più presentabile per la
sensibilità del mainstream contemporaneo. Vorrei propor-
re, invece, di giocare con nuove regole e, più precisamente,
introducendo alcune limitazioni, anzi, una limitazione: nel
cercare di rispondere alla domanda “che cos’è la fenomeno-
logia?”, dovremo impegnarci ad abbandonare ogni risposta
che suoni familiare, tutto ciò che, già detto e già pensato, è
stato già usato per definire o caratterizzare il progetto feno-
menologico in quanto tale. Se, alla fine del gioco, dovessimo
renderci conto di aver lasciato cadere tutto quello in cui ci
siamo imbattuti, allora il risultato sarebbe triste ma chiaro e
dovremmo, a malincuore, concludere che non c’è davvero più
nulla da dire sulla fenomenologia come tale. E che, benché
deludente, l’immagine della fenomenologia descritta poc’anzi
è la sola disponibile.
Potremmo allora tranquillamente tornare alle nostre vec-
chie abitudini, scegliere questo o quel tema husserliano e/o
continuare ad applicare la riduzione fenomenologica a tutto
quello che ci capita sotto mano, dal tostapane al telefonino.
Molteplicità e costituzione 99

O, magari, scrivere l’ennesimo, ingiusto, minuzioso, articolo


sul metodo eidetico, l’ontologia formale/materiale, la teoria
dei segni di Husserl o stordire i partecipanti ai convegni fe-
nomenologici con decine di pagine su una strana boutade in
latino, sperduta tra le pagine di Idee I.

2.

Proviamo a chiederci allora di nuovo e soprattutto in modo


nuovo: “cos’è in fondo la fenomenologia?”.
Se lanciata a bruciapelo questa domanda concede due
possibili mosse: possiamo fornire una definizione standard
o iniziare con l’identificare una nozione chiave e servircene
come filo conduttore. Per quanto riguarda la prima possibi-
lità, la scelta è ampia: la fenomenologia è la scienza eidetica
della coscienza pura ridotta trascendentalmente (Husserl); è
apophainestai ta phainomena: lasciare che ciò che mostra se
stesso sia colto a partire da se stesso nel modo stesso del suo
rivelarsi (Heidegger); è la scoperta dell’essere come l’assoluto-
relativo trans-fenomenale (Sartre); è lo studio delle essenze
che le ricolloca nell’esistenza e nella fatticità e che ci permette
di descrivere il natürlicher Weltbegriff (Merleau-Ponty); è la
comprensione che ha luogo con il venire alla luce (Levinas).
La lista potrebbe allungarsi; ma poiché abbiamo stabilito che
avremmo lasciato cadere ogni risposta ready made, possiamo
già fermarci qui e provare la seconda mossa: individuare il
concetto chiave, il filo guida.
Ora, se ammettiamo la distinzione – classicamente suggerita
da Fink – tra concetti tematici e concetti operativi, il prossimo
passo sarà quello di decidere se la nostra nozione chiave vada
scelta tra i primi o tra i secondi. Se la prelevassimo dalla lista
dei concetti tematici, verremmo immediatamente inondati da
luoghi comuni, da nozioni importanti e a volte sì inaggirabili, e
tuttavia inutili per il nostro gioco: la fenomenologia avrebbe a
che fare con l’intenzionalità, la coscienza, l’esperienza vissuta,
la datità, l’imprescindibile correlazione di coscienza e mondo,
100 claudio majolino

l’intuizione, la soggettività trascendentale, la riduzione fenome-


nologica, ecc. Pertanto, se vogliamo veramente trovare qualcosa
di nuovo nella fenomenologia prendendo le mosse da Husserl e
rispettando la regola limitativa del “non devi servirti di nessun
approccio standard”, dobbiamo chiaramente preferire i concetti
operativi. Inoltre, se vogliamo aumentare le possibilità di riu-
scita, sarà meglio scegliere non tanto un concetto operativo, da
considerare subito come il concetto fondamentale della feno-
menologia (come la “donazione” di Marion, la “vita” di Michel
Henry, ecc.) quanto piuttosto identificare un intreccio – magari
piccolo – di concetti operativi, legati l’un l’altro, e i cui rapporti
reciproci sono di solito ignorati.

3.

Il piccolo intreccio di concetti operativi che vorrei proporre è


formato da due nozioni (a essere sinceri, l’intrico concettuale
è più complesso, ma per il momento, è bene limitarsi a esa-
minarne i nodi più importanti). Due concetti di cui Husserl
si serve costantemente, dai suoi primi saggi sulla filosofia
dell’aritmetica fino alla morte, e sui quali i commentatori
si sono sì, talvolta, soffermati, senza tuttavia mai veramente
metterli in rapporto in modo tale che la comprensione dell’uno
possa alterare la comprensione standard dell’altro.
Il primo concetto che ho in mente è considerato da tutti
come uno dei più importanti della fenomenologia di Husserl.
A tal punto importante che la definizione datane da Heideg-
ger (“lasciare che l’ente sia colto nella sua oggettività”1) non è
altro che la definizione generale della fenomenologia (“lasciare
che ciò che mostra se stesso sia colto a partire da se stesso nel
modo stesso del suo rivelarsi”) applicata alla fenomenologia

1. m. heidegger, Prolegomena zur Geschichte des Zeitbegriffs, GA 20, Vittorio


Klostermann, Frankfurt a. M., 1994, §§ 6, 71, 97; trad. it. di R. Cristin, A. Marini,
Prolegomeni alla storia del concetto di tempo, Il nuovo melangolo, Genova 1998,
§§ 6, 71, 97.
Molteplicità e costituzione 101

husserliana, dove “ciò che mostra se stesso” è l’“ente” invece


dell’essere, e il “modo stesso del suo rivelarsi” è l’“oggettività”
in luogo dell’Abwesenheit. Sto parlando del concetto di Kon-
stitution, facilmente traducibile con il termine “costituzione”.
Il secondo concetto, invece, potrà sembrare meno centrale
per il progetto fenomenologico nella sua totalità. Anche se
ricorre costantemente nell’opera di Husserl, e ha già attirato
l’attenzione di alcuni sparuti interpreti, si tratta di un concetto
largamente ignorato. Intendo parlare del concetto di Man-
nigfaltigkeit che, per ragioni che saranno chiare più avanti,
sarà bene tradurre a volte con molteplice, altre con moltepli-
cità, ma la cui equivocità andrà comunque mantenuta.
Il trucco sta ora nel mostrare come, rivelando l’intima re-
lazione tra questi due concetti chiave della fenomenologia hus-
serliana, e mostrando come il secondo modifichi la compren-
sione ordinaria del primo, sia possibile ricostruire in modo non
standard la struttura e il significato della fenomenologia come
tale. Un’operazione che, come è chiaro, non ha nulla di un’in-
terpretazione e tutto di una sperimentazione2. Vediamo come.

4.

Cominciamo con il concetto di costituzione. Robert Soko-


lowski ha scritto una volta che nessun altro concetto riflette
in sé la totalità del pensiero di Husserl «così completamente
e così bene» come il concetto di costituzione3. Dalla Filosofia

2. Anzi, colgo l’occasione per dire tutta la mia diffidenza nei confronti dell’er-
meneutica fenomenologica e di tutte quelle interpretazioni fenomenologiche di
questo e quello, che riempiono gli scaffali delle librerie (e i capitoli delle tesi di
dottorato).
3. r. sokolowski, The Formation of Husserl’s Concept of Constitution, Nijhoff,
Den Haag 1964, p. 223: «There is no other concept that reflects in itself the totality
of his thought so completely and so well. The philosophical value of his theory
of constitution is the philosophical value of phenomenology as a whole, and the
weakness and difficulty attached to this concept are the weakness and difficulty
inherent in phenomenology as a philosophical method».
102 claudio majolino

dell’aritmetica alla Krisis, la nozione di costituzione è decli-


nata in una grande varietà di forme e modalità, dalla costitu-
zione psicologica degli anni di Halle a quella trascendentale,
statica o genetica, degli anni della maturità.
Ma che vuol dire “costituzione”? In prima approssimazione,
potremmo dire che “costituzione” è il nome dato da Husserl al
risultato prodotto da alcune sintesi di coscienza in virtù delle
quali qualcosa appare in quanto significativo (meaningful)4: sia
esso un vissuto immanente (come una sensazione o un atto
intenzionale), una cosa trascendente (come un tavolo o una
casa), una persona (come Daniele De Santis), una trascendenza
immaginaria (come Emma Bovary o il castello di Elsinore)
o un’idealità (come una funzione a variabile complessa o un
teorema qualsiasi). Una tale significatività, che Husserl chiama
in modo generale Sinn, è duplice. Da un lato, si tratta infatti di
render conto del modo di essere-così-e-così (Sosein-sinn) dei
contenuti intenzionali d’esperienza, dall’altro, del loro modo
d’essere (Sein-sinn). I vissuti, le cose, le persone, le finzioni, le
idealità ecc. sono rilevanti in quanto sono (o non sono) e in
quanto sono (o non sono) in un modo (o in un altro).
Dopo aver esposto l’ingenua pre-datità dell’oggetto d’e-
sperienza alla neutralizzazione posizionale dell’epoché prima
e alla conversione tematica della riduzione fenomenologica
poi (laddove la prima indica la via che porta dall’apparizione
oggettiva alle sintesi costitutive dell’apparire soggettivo, la
seconda la percorre), il punto di vista cambia. Si passa dun-
que dalla semplice esperienza della significatività di qual-
cosa all’analisi descrittiva delle modalità strutturali di tale
esperienza, vale a dire alle operazioni intenzionali senza le
quali una tale esperienza sarebbe priva di senso (Sinnlos). In
termini husserliani, si dirà dunque che quel qualcosa (vissuto,
cosa, persona ecc.), che nel suo essere ed esser-così appare co-

4. Qui si utilizza l’espressione “meaningful” per rendere il termine husserliano


“Sinn”. “Meaningful” suggerisce a un tempo l’idea di qualcosa di “dotato di senso”,
ma anche di “significativo”, nel senso di saliente, rilevante. I due sensi convergono
esplicitamente nel Sinn husserliano. [N.d.T.].
Molteplicità e costituzione 103

me significativo soltanto a una coscienza capace di realizzare


determinate sintesi (siano esse passive o attive), è costituito.
Costituito, in senso stretto, dalle sintesi stesse e, in un senso
più ampio, dalla coscienza che compie le sintesi. Significatività
e costituzione sono dunque due concetti intimamente legati.
Fin qui, nulla di nuovo. Forse andrebbe giusto ricordato
che il concetto di costituzione appena abbozzato non va con-
fuso né con quello di creazione né con quello di costruzione.
Se la creazione è all’origine del Sein e del Sosein degli enti (ex
nihilo), la costituzione si riferisce semplicemente al Sein- e
al Soseinsinn (ex alio), alla significatività appunto di ciò di
cui si fa esperienza. Gli “oggetti” costituiti, d’altra parte, non
sono neppure delle costruzioni soggettive messe in piedi – in
modo a posteriori immaginativo (Hume) o a priori catego-
riale (Kant) – a partire da un materiale sensibile altrimenti
informe, ma si tratta appunto di fenomeni la cui trascendenza
è rilevante soltanto per una coscienza capace di strutturane
l’esperienza in un modo determinato5.

5.

Ma Husserl non si limita a descrivere la costituzione nei


termini appena indicati. Le analisi costitutive husserlia-
ne – come è chiaro, ad esempio, nelle lezioni sulla Filosofia
prima – sono spesso legate al tema “platonico” dei rizomata

5. Ricordiamo inoltre che Husserl distingue ancora tra costituzione statica e gene-
tica e che la “costituzione genetica”, a sua volta, non va confusa con la “genesi passiva”
degli oggetti fondati di ordine superiore (Cfr. hua i, Cartesianische Meditationen
und Pariser Vorträge, S. Strasser (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1950, §38; trad. it. di F.
Costa, Meditazioni cartesiane e i discorsi parigini, Bompiani, Milano 2002, § 38), la
quale si occupa del primo tipo di oggetti (tipi, essenze pure e impure, generalità,
ecc.) dal punto di vista del loro significato sedimentato, introducendo l’idea degli
strati di sedimentazione. Abbiamo quindi almeno quattro livelli di costituzione: 1.
costituzione statica di oggetti ideali (correlazioni noetico-noematiche) e di individui
come idealità istanziate; 2. costituzione genetica di individualità (sintesi passiva); 3.
costituzione genetica di oggetti di ordine superiore (sintesi attiva); 4. genesi passiva
di oggetti di ordine superiore (sintesi sedimentate).
104 claudio majolino

pantos: le radici di tutte le cose. Per Husserl la fenomenologia


costitutiva porta dunque con sé, letteralmente, un gesto di
radicalizzazione: essa tenta di afferrare quel che potremmo
chiamare le radici dell’apparire, da cui tutto scaturisce e tutto
cresce6. L’idea di congiungere costituzione e radicamento,
rapporto trascendentale tra significatività dell’esperienza e
sintesi di coscienza, da un lato, e ricerca delle radici o dei
veri inizi, dall’altro, è però estremamente rischiosa. E spesso
conduce Husserl a sovrapporre la distinzione trascendentale
tra ciò che è costituito e le sintesi costitutive alla distinzione
ontologica tra essere relativo (on kath’allo) ed essere assoluto
(on kath’auto). Sovrapposizione che, innegabilmente, rap-
presenta uno dei momenti più duri da digerire della feno-
menologia husserliana nella misura in cui sembra condurre,
inevitabilmente, dall’idea di costituzione al baratro idealista
trascendentale reso canonico dal tristemente celebre § 49 di
Idee I. Paragrafo in cui leggiamo, stupiti, che la coscienza è
quell’essere che «per necessità essenziale nulla “re” indiget ad
existendum»: non ha bisogno di nessuna “cosa” per esistere.
Una tesi così curiosa e maldestramente metafisica può
essere letta in molti modi7. Così come molteplici sono le ra-
gioni avanzate di volta in volta da Husserl nei suoi ripetuti
tentativi di difenderne la legittimità. Tuttavia per quel che ci
riguarda, questo secondo momento dell’analisi husserliana
della costituzione è importante per due ragioni. In primo
luogo, esso indica chiaramente che il concetto di costituzio-

6. Cfr. anche e. husserl, Philosophie als strenge Wissenschaft, in hua xxv,


Aufsätze und Vorträge (1911-1921), T. Nenon und H.R. Sepp (Hrsg.), Nijhoff, Dor-
drecht, 1987, p. 61; trad. it. di C. Sinigaglia, La filosofia come scienza rigorosa,
Laterza, Roma-Bari 1994, p. 86: «Per sua essenza la filosofia è però scienza dei
veri inizi, delle origine, dei rizomata panton. La scienza di ciò che è radicale deve
essere radicale anche nel suo procedere, e ciò sotto ogni aspetto».
7. Ho tentato di fornire la mia lettura di questo problema in un lungo saggio
intitolato La partition du réel: Remarques sur l’eidos, la phantasia, l’effondrement
du monde et l’être absolu de la conscience, in c. ierna, h. jacobs, f. mattens
(eds.), Philosophy, Phenomenology, Sciences. Essays in Commemoration of Edmund
Husserl, Springer/Dordrecht 2010, pp. 573-660.
Molteplicità e costituzione 105

ne non è soltanto legato con quello di significatività (cfr. §


4), ma anche connesso in qualche modo con quel gesto di
radicalizzazione della fenomenologia che Husserl identifica
con la cosiddetta ricerca delle “radici dell’apparire”. Rifiutare
le conclusioni idealiste della sovrapposizione tra costituente/
costituito ed essere-assoluto/essere-relativo non deve dunque
farci dimenticare né l’esistenza di un nesso tra il tema della
costituzione e quello dei rizomata pantos, né l’ambizione fi-
losofica che esso comporta.

6.

Ma c’è anche un’altra ragione per soffermarsi sul tema della


complicità tra analisi costitutiva e radicalizzazione della fe-
nomenologia, malgrado l’ingombrante idealismo che Husserl
crede di dover difendere. L’abbiamo detto, nell’arco del suo
itinerario filosofico Husserl tenterà non soltanto di giustifi-
care in vari modi la tesi del carattere assoluto della coscienza,
ma anche di rendere conto della differenza insormontabile
tra coscienza e mondo facendo ricorso più volte al concetto
di costituzione. Ora, uno di questi tentativi poggia su di un
argomento molto particolare, che Husserl stesso si troverà
poi a rifiutare e criticare violentemente, ma che, per quel
che riguarda il nostro percorso, è estremamente rivelatore.
Rivelatore nella misura in cui esso mette in rapporto, per la
prima volta in modo esplicito, il concetto di Kostitution con
quello di Mannigfaltigkeit.
L’argomento ricorre in diversi testi, ma la sua formula-
zione canonica si trova in Idee I. Husserl si chiede: per quale
ragione l’essere della realtà mondana dovrebbe essere relativo,
mentre quello della coscienza sarebbe invece assoluto? Non
potendo far uso di argomenti metafisici, Husserl deve quindi
spiegare una tale differenza nel modo d’essere a partire da
una differenza nel modo di apparire, e dunque identifica-
re un’eterogeneità strutturale nei tipi di costituzione relativi
all’esperienza della realtà mondana da un lato e a quella della
106 claudio majolino

coscienza dall’altro. In altri termini, Husserl deve poter dire


che la coscienza e il mondo reale sono l’una assoluta e l’altro
relativo perché appunto essi appaiono, rispettivamente, in
modo assoluto e in modo relativo.
È nel corso dell’analisi della costituzione della realtà
mondana (che Husserl vuole “relativa”) che costituzione e
molteplicità appaiono congiuntamente. I concreta individuali
trascendenti di ordine inferiore (e cioè le “cose” sensibili, di
cui consta in ultima istanza il mondo reale) appaiono ne-
cessariamente tramite la percezione, e la struttura eidetica
della percezione trascendente impone alle cose di apparire
per adombramenti, in modo tale che ogni singolo adombra-
mento anticipi e indichi il seguente in una catena infinita
di rimandi. Da questa constatazione eidetica Husserl trae la
conclusione che la struttura ontologica delle cose, il cui modo
di apparire è fatto di adombramenti, è quella di una “Einheit
der Mannigfaltigkeit” (em): l’unità di un molteplice. Difatti,
conformemente all’essenza della percezione trascendente, le
cose appaiono strutturalmente attraverso una serie di molte-
plici adombramenti, anche se ciò che si dà intenzionalmente
è una stessa identica cosa. L’essenza della percezione implica
appunto una discrepanza, un gap strutturale, tra l’apparizione
degli adombramenti e la datità di ciò che si adombra, tra il
molteplice di ciò che presenta la cosa (Darstellen) e l’unità della
cosa intesa (Meinen).
L’esperienza della cosa percettiva è dunque costituita in
quanto unità di una molteplicità o, per dirlo in un modo più
agile, costituita secondo una struttura-em. Da questo dato
eidetico Husserl trae la conclusione che è appunto lo scarto
strutturale uno/molti a essere responsabile, non soltanto del
modo di donazione non adeguato e non apodittico di quei
correlati d’esperienza chiamati “cose”, ma anche del loro mo-
do d’essere non assoluto e quindi relativo. Difatti, conclude
Husserl, poiché la serie delle apparizioni date nella catena di
adombramenti non è sufficiente a conferire né il Seinsinn né
il Soseinsinn della cosa, l’emergere della significatività di tale
esperienza deve essere ricondotto a una qualche altra fonte.
Molteplicità e costituzione 107

Mentre il molteplice delle apparizioni è di fatto presentato,


l’unità della cosa è intesa. Più precisamente: la cosa stessa è
data (Gegeben) nella misura in cui è presentata (Dargestellt)
attraverso molteplici apparizioni annodate in un nesso di
rimando (Hinweiszusammenhang) la cui unità è intesa (Ge-
meinte). La cosa è dunque data in se stessa nella misura in
cui la sua unità è costituita intenzionalmente a partire da una
molteplicità di adombramenti.

7.

Lo abbiamo già ricordato: Husserl abbandonerà in fretta


quest’argomento un po’ capzioso. Ma la scoperta è impor-
tante: la costituzione della cosa trascendente è quella di una
“Einheit einer Mannigfaltigkeit”, e la significatività dell’appa-
rire della quale costituzione deve rendere conto è legata all’e-
mergere di un certo tipo di molteplicità (Mannigfaltigkeit).
Ma che vuol dire “molteplicità”? Anche qui è bene pro-
cedere per gradi. Poiché si tratta di un concetto operativo,
è inutile cercare definizioni esplicite e tematizzazioni det-
tagliate nel corpus husserliano. Si può tuttavia cominciare
con il ricordare la definizione generale datane da Cantor, che
Husserl frequenta già all’epoca di Halle, secondo la quale una
molteplicità (Mannigfaltigkeit) è «un molteplice (Viele) che
può essere pensato come uno e i cui elementi possono essere
unificati in un intero grazie a una legge»8. Inoltre, poiché
Husserl mostra a più riprese maggiori affinità con la teoria
delle molteplicità di Riemann piuttosto che con quella di Can-
tor, è bene aggiungere che la Mannigfaltigkeit husserliana non
è semplicemente un insieme, nella misura in cui gli elementi
che essa riunisce secondo una legge non sono soltanto “uniti”
(geeignete) ma anche “ordinati” (geordnete):

8. Citato in hua xxi, Studien zur Arithmetik und Geometrie. Texte aus dem
Nachlass (1886-1901), I. Strohmeyer (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1983, p. 95.
108 claudio majolino

Con molteplicità, Cantor intende una semplice collezione di elementi


uniti in un certo modo. […] Questa concezione non coincide però con
quella di Riemann e viene diversamente impiegata nella teoria della
geometria, secondo la quale una molteplicità è una collezione, non
di elementi semplicemente uniti, ma anche ordinati e, d’altra parte,
non di elementi meramente uniti, ma connessi in modo continuo9.

Per evitare fraintendimenti sarà bene chiamare molteplicità


ogni molteplice ordinato secondo le leggi di una struttura-em
determinata. Una molteplicità non è dunque né un semplice
insieme (Inbegriff, Menge), né un tutto mereologico (Ganze).
In tal senso, una cosa che appare percettivamente non è costi-
tuita né come un intero le cui parti sono degli adombramenti
né come un semplice insieme di adombramenti, ma, appunto,
come una molteplicità di adombramenti (völlig konstituiert
in einer Mannigfaltigkeit von Abschattungen)10.

8.

Ora, all’interno dell’argomento idealista di Idee I (che ripren-


de in parte alcune indicazioni già presenti in La cosa e lo
spazio) è la cosa percettiva a essere costituita come l’unità (in-
tesa) di un molteplice (di apparizioni). Ma a uno sguardo più
attento, la presenza di una struttura-em non è affatto limitata
alla costituzione della regione eidetica della cosa. Anzi, una
volta identificato il nesso tra Kostitution e Mannigfaltigkeit
è possibile riconoscere un motivo generale, che serpeggia in
ogni analisi costitutiva, un principio generale secondo cui
tutto ciò che è costituito lo è in quanto molteplicità. In effetti,

9. Ivi, pp. 96-97: «Cantor versteht unter Mannigfaltigkeit schlechthin einen


Inbegriff irgend geeinigter Elemente […]. Aber dieser Begriff stimmt nicht mit
dem von Riemann und sonst der Theorie der Geometrie verwandten <überein>,
wonach eine Mannigfaltigkeit ein Inbegriff nicht bloß geeinigter, sondern auch
irgend geordneter Elemente ist, und andererseits nicht bloß geeinigter sondern
kontinuierlich zusammenhängender Elemente».
10. Ms. D 13 I (1921), p. 2.
Molteplicità e costituzione 109

la struttura-em può essere rintracciata non solo al livello fon-


dante della costituzione degli individui percettivi ma anche,
mutatis mutandis, al livello fondato della costituzione degli
oggetti di ordine superiore o ideale, come i significati e le
essenze (siano esse pure o impure).
Ricordiamo, ad esempio, che nel § 32 della Prima ricerca
logica l’idealità del significato, anche se direttamente posta
in contrasto con la “realtà dell’individuale”, è chiaramente
definita come una Einheit der Mannigfaltigkeit11. Nel § 19 della
Seconda ricerca logica ogni specie (Spezies) – e a quel tem-
po Husserl riteneva l’idealità del significato semplicemente
un caso particolare dell’idealità della specie in generale – è
ancora caratterizzata in termini di Einheit der Mannigfal-
tigkeit. Lo stesso accade nei Prolegomeni (cfr. §§ 29, 39) dove
i colori, i significati, i concetti, nonché la verità stessa, sono
tutte entità ideali («ein ideal Identisches gegenüber der Man-
nigfaltigkeit möglicher Einzelfälle») che si possono intuire a
fronte di una moltitudine dispersa dei casi singoli concreti
(«ein ideal Identisches ist gegenüber der Mannigfaltigkeit von
konkreten Einzelfällen»)12. E se passiamo dalle Ricerche logi-
che al tardo Esperienza e giudizio, sebbene molte cose siano
cambiate, l’idea di definire le idealità e le generalità in termini
di em resta immutata. Tra l’altro, è proprio nel celebre § 81b
di Esperienza e giudizio che Husserl lega esplicitamente la
costituzione delle generalità alla struttura di quello che ora

11. hua xix/1, Logische Untersuchungen. Zweiter Band. Erster Teil: Untersuchun-
gen zur Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis, U. Panzer (Hrsg.), Nijhoff,
Den Haag 1984, p. 102; trad. it. di G. Piana, Ricerche Logiche, vol. I, il Saggiatore,
Milano 2005, p. 370.
12. hua xviii, Logische Untersuchungen. Erster Band: Prolegomena zur reinen
Logik, E. Hollenstein (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1975, § 29, § 39; trad. it. di G.
Piana, Ricerche Logiche, vol. II, il Saggiatore, Milano 2005, § 29, § 39. Così come
in ogni adombramento appare l’intera cosa (da un’angolatura specifica), in ogni
istanziazione del rosso appare il rosso come tale (esemplificato in modo diverso).
Non ci può essere una cosa data senza adombramento così come non può esserci
una specie data senza istanziazioni. In ogni caso, come già osservato, mentre la
relazione di istanziazione/esemplificazione è specifica delle idealità, la relazione
adombramento/presentazione è specifica delle cose.
110 claudio majolino

chiama – in riferimento a Platone, ma anche ad Aristotele – lo


hen epi pollôn: l’unità di una generalità a priori, un oggetto
di tipo nuovo, un uno che non si ripete in ciò che è simile,
ma che è dato una volta sola nei molti («Das Eine wiederholt
sich also nicht im Gleichen, es ist nur einmal, aber im Vielen
gegeben»13).
Naturalmente, il tipo di molteplicità costituita sarà diffe-
rente nel caso di una generalità ideale o di un individuo per-
cettivo, così come diverse saranno le modalità di unificazione
del molteplice presenti nei due casi. Nel caso della struttura-em
propria della datità della cosa l’uno è presentato (dargestellt) nei
molti e i molti adombrano (abschatten) l’uno; in quello delle
generalità l’uno è piuttosto esemplificato (exemplifiziert) nei
molti laddove i molti istanziano (instanziert) l’uno14. Tuttavia,
in entrambi i casi, il motivo formale seguito da Husserl per
rendere conto della costituzione è lo stesso.

9.

Scoperto nel corso di un’analisi della costituzione dell’espe-


rienza della cosa percettiva, l’intreccio costituzione/moltepli-
cità si estende anche alla costituzione delle generalità ideali.
E la lista è destinata ad allungarsi.
In effetti, un’altra variante di struttura-em, appare addirit-
tura nella sfera delle cosiddette oggettività immanenti. Nelle
lezioni sul tempo, gli “oggetti” immanenti che appartengono
al flusso interno del tempo sono per l’appunto delle «unità
di una molteplicità assoluta non afferrata» («Einheiten einer

13. e. husserl, Erfahrung und Urteil, L. Landgrebe (Hrsg.), Hamburg, Felix


Meiner Verlag 1999, p. 392; trad. it. di F. Costa, L. Samonà, Esperienza e giudizio.
Ricerche sulla genealogia della logica, Bompiani, Milano 1995, p. 278.
14. Il che condurrà Husserl, nelle riflessioni di Bernau, alla distinzione tra la
costituzione temporale (Zeitlich) delle cose individuali e la costituzione omnitem-
porale [Allzeitlich] delle idealità. Cfr. hua xxxiii, Die Bernauer Manuskripte über
das Zeitbewusstsein (1917/18), R. Bernet, D. Lohmar (Hrsg.), Kluwer Academic
Publishers, Dordrecht 2001, p. 91.
Molteplicità e costituzione 111

absoluten nicht gegebenen Mannigfaltigkeit»15). E, ancora una


volta, Husserl riferisce questa nuova varietà di struttura-em a
una specifica forma di costituzione: «È nell’essenza di questa
unità come unità temporale che essa si “costituisca” nella
coscienza assoluta» («Zum Wesen dieser Einheit als zeitli-
cher Einheit gehört es, daß sie sich im absoluten Bewußtsein
“konstituiert”»)16. E Husserl si spinge così lontano da soste-
nere che, per comprendere in senso autentico i problemi con-
nessi alla relazione tra oggettualità immanenti e coscienza
offerente, «dobbiamo studiare accuratamente le moltepli-
cità di coscienza e le loro unità nelle quali si “costituisce”
l’oggetto»17. La coscienza, aggiunge Husserl, è infatti sempre
e necessariamente un nesso: «Abbiamo il nesso originario
della coscienza primaria del tempo, e al suo interno il molte-
plice del contenuto impressionale»18. In quest’ultimo caso la
variante di struttura-em all’opera non va intesa né in termini
di adombramento/presentazione (come per la costituzione
della cosa) né in termini di esemplificazione/istanziazione
(come per la costituzione degli oggetti ideali). Tornerò più
avanti su questo punto. Sembrerebbe dunque che anche l’ap-
parizione dei vissuti sia, in qualche modo, strutturata come
una molteplicità, vale a dire come un tipo del tutto particolare
di configurazione del molteplice.

15. hua x, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins (1893-1917), R.


Boehm (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1966, p. 284; Per la fenomenologia della co-
scienza interna del tempo (1893-1917), trad. it. di A. Marini, FrancoAngeli, Milano
1981, p. 287.
16. Ibidem.
17. hua x, pp. 284-285; trad. it. pp. 286-287. «Die wesentliche Beziehung des
immanenten Objekts auf ein gebendes Bewußtsein fordert hier die Lösung des
Problems dieser Gegebenheit, d. h., es müssen genau die Bewußtseinsmannigfal-
tigkeit und ihre Einheiten studiert werden in denen sich die Objekt konstituiert»
18. hua xxiii, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung. Zur Phänomenologie
der anschaulichen Vergegenwärtigungen. Texte aus dem Nachlass (1898-1925), E.
Marbach (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1980, p. 291: «Bewußtsein ist immer Zusam-
menhang und notwendig Zusammenhang. Wir haben den originären Zusam-
menhang, den des ursprünglichen Zeitbewußtsein, und in diesem haben wir die
Mannigfaltigkeit der impressionalen Inhalte».
112 claudio majolino

E potremmo concludere ricordando come – mutatis mu-


tandis – anche gli oggetti quasi-individuali di finzione, intuiti
nella coscienza di immagine o nella pura fantasia, appaiano
in quanto costituiti secondo un’altra variante di struttura-em.
Husserl, ancora una volta, ricorderà esplicitamente che in
questo caso «la molteplicità è un’altra rispetto a quella della
semplice cosa» («die Mannigfaltigkeit ist eine andere als für das
Ding schlechtin»)19. Le cose non vanno diversamente neppure
per la costituzione dell’esperienza dell’estraneo (Fremder-
fahrung) di cui Husserl nelle Meditazioni cartesiane descrive
la struttura appresentativa parlando di «unità e molteplicità
trasferite» («überschobene Einheit und Mannigfaltigkeit»)20
analogicamente a partire dal corpo proprio.

10.

Insomma, in tutti questi casi, certamente molto differenti gli


uni dagli altri, vediamo Husserl procedere nel modo seguente:
1. prendere le mosse da differenti “oggetti” d’esperienze in-
tenzionali diverse, colti in intentio recta:
1.1 individui percettivi trascendenti: le cose (Dinge)21;
1.2 individui percettivi immanenti: i vissuti (Erlebnisse);
1.3 quasi-individui immaginari: le finzioni (Fikta);
1.4 generalità ideali: i significati, le specie o le essenze in
generale (Idealitäten);
1.5 altri individui dotati di vissuti: le persone (Personen);
2. operare, per così dire, una diffrazione del loro “essere
ingenuo”, come attraverso un prisma (la riduzione), mo-
strando un molteplice costituito secondo diverse varietà
di struttura-em;

19. Ivi, p. 597.


20. hua i, p. 182; trad. it. p. 138.
21. Husserl affronta il tema della struttura-EM degli abstracta individuali (que-
sto-colore-bruno-qui) nei manoscritti di Seefeld: cfr. hua x, pp. 237-268; trad. it.
pp. 249-274.
Molteplicità e costituzione 113

3. ricondurre l’emergere delle diverse strutture-em all’esi-


genza di quella che si potrebbe chiamare – stando alla
puntualizzazione terminologica fatta in precedenza – una
fenomenologia costituiva e differenziata delle molteplicità
destinata a prendere il posto di quel che, tradizionalmen-
te, abbiamo imparato a chiamare “ontologia”.

11.

L’affermazione di Heidegger secondo la quale nella fenome-


nologia di Husserl “essere” significherebbe “essere oggetto”,
e “essere oggetto” non sarebbe altro che “essere costituito da
una soggettività trascendentale”, appare a questo punto non
solo fuorviante, ma – per usare un’espressione cara agli hei-
deggeriani – occultatrice. Essa occulta infatti l’idea secondo
cui, in fenomenologia, per essere compreso nel suo signifi-
cato (Sinn) l’“essere” va diffratto in un molteplice e costitu-
ito come molteplicità. Il che suggerisce alcune osservazioni
preliminari.
In primo luogo, se – in un senso – è pur vero che in
Husserl “essere” significa “essere costituito”, di contro, “esse-
re costituito” non vuol dire affatto “essere costituito da una
soggettività” o “essere di fronte ad un soggetto”. Difatti, a ben
vedere, anche la soggettività trascendentale è costituta e co-
stituita in modi molteplici22. Non soltanto essa è costituita

22. Ovviamente riconoscere che la stessa soggettività trascendentale sia costituita


non è un argomento sufficiente per concluderne che la costituzione – nel senso
della costituzione di molteplicità – non sia costituita da un soggetto trascenden-
tale. Infatti, nei termini di Husserl, la soggettività trascendentale è costituita e
costituente. Il che pone una serie di difficoltà che non potrò esplorare in questa
sede. Tuttavia, è bene già ricordare che sebbene la nozione di costituzione sia più
ampia della soggettività trascendentale, un tale primato non porta né all’apolo-
gia di una soggettività ipertrofica né a un’ennesima variante di fenomenologia
del soggetto decentrato, ma soltanto a una seria riflessione – tutta ancora da
farsi – sullo statuto di questa strana “soggettività” costitutiva/costituente di cui
parla Husserl.
114 claudio majolino

nella coscienza interna del tempo, dal presente vivente, ma


anche – ho dimenticato di parlarne prima – in quella che si
potrebbe chiamare la coscienza interna dello spazio: il corpo
vivente. Nella prospettiva di Idee II, infatti, anche la coscienza
del corpo vivente si rivela essere costituita, precisamente da
un molteplice di cinestesi23. E le cinestesi, stando a quanto
Husserl afferma nel § 73 di La cosa e lo spazio24, sono appunto
delle Mannigfaltigkeiten, tanto nel senso non tecnico del mol-
teplice delle impressioni sensibili, quanto in quello tecnico
e matematico degli spazi topologici a n-dimensioni. Hus-
serl descrive infatti i due livelli della costituzione della cosa
spaziale in termini di “molteplicità lineare dell’avvicinarsi e
del retrocedere” (lineare Annäherungs- und Entfernungsman-
nigfaltigkeit) e di “molteplicità di rivolgimento doppiamente
ciclica” (zwiefach zyklische Wendungsmannigfaltigkeit)25.
In altri termini: le cose (concrete o astratte), i vissuti e
i corpi viventi, gli ego personali, il mio e quello degli altri,
le finzioni quasi-individuali, le specie e i generi sovra-indi-
viduali, così come ogni oggetto culturale o ideale di ordine
superiore, sono sì costituiti, ma appunto in quanto molteplici-
tà – e non in quanto oggetti di fronte a un soggetto. E la loro
“significatività” (Sinn) non sta tanto nel fatto che essi sono
quel che sono in quanto di fronte a un soggetto, ma nella
possibilità che una coscienza possa trovarli significativi solo

23. hua iv, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und Phänomenologische Phi-
losophie. Zweites Buch: Phänomenologische Untersuchungen zur Konstitution, M.
Biemel (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1952, § 10; trad. it. di V. Costa, Idee per una
fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro secondo, Ricerche
fenomenologiche sopra la costituzione, Einaudi, Torino 2002, § 10.
24. hua xvi, Ding und Raum. Vorlesungen 1907, U. Claesges (Hrsg.), Nijhoff,
Den Haag 1973, p. 255: trad. it. di M. Averchi e A. Caputo, a cura di V. Costa, La
cosa e lo spazio, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, pp. 308-309.
25. Va sottolineato che, nonostante Husserl sia certamente consapevole della
differenza tra il significato non tecnico di Mannigfaltigkeit come “moltitudine
di…” e il significato tecnico di “molteplicità” in quanto varietà a n-dimensioni,
egli sfrutti spesso l’equivocità del termine per gettare un ponte tra l’uno e l’altro
dei due significati. Questo si verifica soprattutto in La cosa e lo spazio. Proverò
più avanti a spiegare la correlazione tra il significato tecnico e quello non tecnico.
Molteplicità e costituzione 115

a condizione di produrre certe sintesi capaci di far emergere


una molteplicità dal molteplice (e cioè di essere costituita, a
sua volta, in un certo modo).
A voler essere onesti, non è Heidegger, ma Fink a essersi
avvicinato a una comprensione adeguata della nozione feno-
menologica di costituzione. Fink difatti caratterizza spesso la
costituzione come una Zusammenstellung. Il problema è che
lo stesso Fink finisce erroneamente per comprendere la Zu-
sammenstellung più come una “costruzione”, se non addirittura
come una “creazione” (cfr. supra § 4), che non a partire dell’e-
mergenza di una molteplicità. Fink si è forse lasciato troppo
affascinare dalla possibilità di identificare essere e essere-dato,
e di poter quindi portare a compimento l’idealismo fenome-
nologico, per insistere sul fatto che essere in fenomenologia
non vuol dire altro che essere-una-molteplicità e che, proprio in
quanto molteplicità apparenti, le cose, i vissuti, le finzioni ecc.
sollevano il problema della loro costituzione. Le cose, i vissuti,
le finzioni ecc. non “sono” delle molteplicità: una cosa è una
cosa, e un vissuto è un vissuto, non una molteplicità. Ma nella
misura della loro significatività, “molteplicità” è il nome della
modalità stessa del loro apparire.

12.

La seconda osservazione riguarda la natura della comprensione


heideggeriana della costituzione. In un certo senso, Heidegger
aveva ragione: la nozione di costituzione è il cuore del progetto
fenomenologico. Ma aveva ragione per il motivo sbagliato: la
costituzione non è il concetto centrale della fenomenologia
perché questa, nel far sì “che ciò che mostra se stesso sia colto a
partire da se stesso nel modo stesso del suo rivelarsi”, trasforma
infine il fenomeno in oggetto. La costituzione è al cuore della
fenomenologia perché – secondo lo stesso Heidegger – “logos”,
all’interno del termine composto “fenomeno-logia”, va com-
preso come synthesis, dove il syn- significa a sua volta, come
si dice nel § 7-b di Essere e tempo, «lasciar vedere qualcosa nel
116 claudio majolino

suo essere assieme (Beisammen) a qualcosa»26. In tal modo la fe-


nomenologia porta a espressione quello stare insieme precipuo
che rende i fenomeni significativi27. Il punto allora non è che
i fenomeni esistano, ma che essi si tengano insieme e, volendo
riscrivere il passo heideggeriano di Essere e tempo già più volte
richiamato, potremmo dire che il compito della fenomenologia
è quello di condurre a espressione lo stare insieme che fa sì “che
ciò che mostra se stesso sia colto a partire da se stesso nel modo
stesso della sua significatività”.
Il problema, tuttavia, è che Heidegger sembra compren-
dere il “beisammen” in termini di predicazione e, pertanto, il
solo molteplice con cui ha a che fare è quello delle molteplici
proprietà, qualità o aspetti dell’ente. Invece, se c’è appunto una
cosa che Husserl non qualifica mai in termini di em è appunto
il rapporto tra l’unità della cosa e la molteplicità delle sue pro-
prietà – che è appunto il modo più tradizionale di porre la que-
stione del molteplice, annegandola nella logica e nell’ontologia.
Inoltre, è bene insistere sul fatto che la nozione di co-
stituzione è ben più ampia di quella di soggettività trascen-
dentale28 e che la nozione di “molteplicità” in fenomenolo-
gia va considerata come prioritaria rispetto alla nozione di
“essere”29. Difatti, non appena comprendiamo che “essere” è il

26. m. heidegger, Sein und Zeit, GA 2, Max Niemeyer, Tübingen 2001, p. 33;
trad. it. di P. Chiodi, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 1976, p. 53.
27. Questo è il motivo per il quale la variazione eidetica − nel disfare un simile
stare insieme e rivelando la significatività di un concetto − è così cruciale per la
fenomenologia. Cfr. infra § 18.
28. Ovviamente, poiché l’ampliamento della costituzione secondo il filo condut-
tore del molteplice non è antitetica all’idea della costituzione come costituzione da
parte di una (inter-)soggettività trascendentale, e poiché con la dimensione inter-
soggettiva raggiungiamo il senso autentico in cui la soggettività trascendentale è
essa stessa tanto costituita quanto costituente, potremmo addirittura affermare che
l’inter-soggettività trascendentale ha la stessa estensione della costituzione. D’altra
parte, quello che fenomenologicamente conta nell’inter-soggettività trascenden-
tale è per l’appunto il fatto che abbiamo qui a che fare con una nuova forma di
stare insieme, irriducibile ma tuttavia legata ad altre forme di stare insieme.
29. Maggiori dettagli sulla questione si trovano in Les essences des “Recherches
Logiques”, in «Revue de Métaphysique et de Morale», 49/1 (2006), pp. 89-112, e
Molteplicità e costituzione 117

nome che la tradizione ontologica ha dato a un certo moltepli-


ce costituito, cristallizzato e fatto paradigma, non solo le cose
fisiche o le persone, ma anche gli Stati, le città, i gruppi, gli
aggregati, le coppie, appaiono finalmente non come collezioni
o raggruppamenti di enti, strane entità dallo statuto incerto,
ma in quanto “esseri” in senso pieno, molteplicità costituite
non diverse dalle altre. D’altronde, da Platone a Kant, la sto-
ria della filosofia è ricca di filosofemi imbarazzanti con cui
stigmatizzare la vasta famiglia di concetti che gravita intorno
alla nozione di “molteplicità”. Concetti che, spesso asettizzati
in metafisica (i molteplici significati dell’essere) e teoria della
conoscenza (le molteplici proprietà dell’ente), si sono invece
imposti sin dal principio e senza sconti alla periferia dell’im-
pero: in filosofia della matematica e filosofia politica30.

13.

Due domande rimangono ancora prive di risposta: entrambe


legate non tanto al rapporto tra costituzione e significatività,
ma a quello tra la costituzione e il tema dei rizomata panton.
La prima domanda è collegata con l’argomento idealista
di Idee I dal quale abbiamo preso le mosse. Se per Husserl la
cosa percettiva (e con essa il mondo reale) ha un essere rela-
tivo perché appare come l’unità-di-una-molteplicità, dobbia-
mo forse trarne la conclusione che la coscienza ha un essere
assoluto perché priva di una tale modo d’apparire? In altri
termini, in fenomenologia è possibile ammettere qualcosa
di fondamentalmente incostituito, cioè sprovvisto di qualsi-
voglia struttura-em? Inutile negare che una tale possibilità è

Husserl and the Vicissitudes of the Improper, in «New Yearbook for Phenomeno-
logy and Phenomenological Philosophy», 8 (2008), pp. 17-54.
30. E, a questo punto, non è difficile immaginare le implicazioni politiche e
culturali dell’abbandono della cosiddetta “questione dell’essere” in favore di una
problematica centrata sulla nozione di molteplicità e, più precisamente, sulle
diverse varietà di costituzione del molteplice.
118 claudio majolino

evocata a chiare lettere dallo stesso Husserl, non soltanto nei


passaggi già citati di Idee I, ma anche e soprattutto in diversi
gruppi di testi pubblicati nel volume di Husserliana xxxvi
(Transzendentaler Idealismus). Testi in cui si dice chiaramente
che la coscienza assoluta è l’unico essere incostituito e quindi
la radice (rizoma) – trascendentale – di ogni essere, in quan-
to il suo modo di apparire non è quello di una Einheit einer
Mannigfatligkeit. E, come già ricordato, per lo Husserl dell’i-
dealismo trascendentale soltanto l’essere relativo è costituito,
non l’essere assoluto. Se questo fosse effettivamente il caso,
allora il nostro tentativo di caratterizzare la fenomenologia
nella sua totalità, in un senso piuttosto insolito, come un
“portare al linguaggio le diverse modalità di costituzione del
molteplice e, in tal modo, rendere conto della significatività
dei fenomeni”, ne risulterebbe seriamente compromesso.
La seconda domanda è invece relativa alla pretesa novità
del tentativo stesso di fare della struttura-em propria di ogni
apparire il filo conduttore per comprendere la costituzione.
Qualcuno (diciamo: un derridiano qualsiasi) potrebbe in-
fatti chiedersi se anche il nostro Husserl un po’ insolito non
stia poi semplicemente giocando con distinzioni concettuali
piuttosto tradizionali quali l’uno e i molti, l’identità e la diffe-
renza: distinzioni che appartengono al nucleo più intimo del
discorso della sedicente metafisica occidentale della presenza.
In fin dei conti cosa c’è di più tradizionale dell’opposizione
platonica dell’uno e dei molti o dell’ossessione per le radici?
Non sarà forse che questo nostro nuovo Husserl assomigli
un po’ troppo a un vecchio platonico o neo-platonico? L’idea
di fenomenologia che vorremmo presentare è davvero un-
zeitgemäß o semplicemente altmodisch?

14.

Per quanto riguarda la prima obiezione, è senz’altro vero che


in molti testi Husserl sembra sostenere che il flusso di coscien-
za è allo stesso tempo costitutivo per le oggettività – siano esse
Molteplicità e costituzione 119

trascendenti o immanenti – e sprovvisto di struttura-em. E, in


fondo, è appunto dall’argomento in favore della distinzione
tra essere relativo del mondo reale e essere assoluto della
coscienza sulla base del modo di donazione del primo quale
em, che abbiamo imparato a identificare l’intrico/intreccio tra
costituzione e molteplicità. Tutto questo sembrerebbe dunque
condurre dritto all’idea secondo cui la coscienza assoluta, il
cui apparire è privo di struttura-em, sarebbe pertanto incosti-
tuita. Idea che appare chiaramente nel testo seguente, tratto
da un manoscritto del 1908:

La coscienza, l’essere nel senso radicale, è radicale nel senso proprio


del termine. Essa è la radice e – secondo un’altra immagine – la fonte
di tutto quanto si chiama altresì o può chiamarsi “essere”. Essa è la
radice: essa porta ogni altro essere individuale, sia esso immanente o
trascendente. Se essere è essere individuale, che dura e che nella sua
durata cambia e non cambia, essere temporale – allora la coscienza
non è essere. Essa è portatrice del tempo, ma non è stessa e in se stessa
temporalmente essente. Il che non le impedisce di ricevere, per mezzo
della “soggettivazione” (una specifica forma di oggettivazione), una
posizione all’interno del tempo e quindi di ricevere la “forma” di un
oggetto temporale che dura. Ma in se stessa è intemporale: non è
una Einheit der Mannigfaltigkeit e non rimanda a qualcosa di altro
dalla quale potrebbe o dovrebbe ottenere unità. Ma ogni altro essere
è per l’appunto unitario e si riferisce, direttamente o indirettamente,
al flusso assoluto di coscienza31.

31. hua xxxvi, Transzendentaler Idealismus. Texte aus dem Nachlass (1908-1921),
R.D. Rollinger, R. Sowa (Hrsg.), Kluwer Academic Publishers, Dordrecht 2003,
p. 70: «Das Bewusstsein, das Sein im radikalen Sinn, ist im radikalen, im echten
Sinn des Wortes. Es ist die Wurzel und – in einem anderen Bild – die Quelle
alles dessen, was sonst noch ‘Sein’heißt und heißen kann. Es ist die Wurzel: Es
trägt jedes andere, sei es immanente, sei es transzendente individuelle Sein. Ist
Sein individuelles Sein, dauernd und in seiner Dauer sich verändernd und nicht
verändernd, zeitliches Sein, so ist Bewusstsein kein Sein. Es ist Träger der Zeit,
aber nicht selbst und in sich selbst zeitlich seiend, was nicht hindert, dass es
durch ‘Subjektivierung’ (eine bestimmte Sorte von Objektivierung) Einordnung
in die Zeit erhält und dann zum Dauernden, zum Zeitobjekt ‘gestaltet’wird. In
sich selbst ist es aber unzeitlich, ist es keine Einheit der Mannigfaltigkeit, es weist
120 claudio majolino

In questo passaggio piuttosto straordinario Husserl pone


un’alternativa. O “essere” è univoco e, in tal caso, se “essere”
significa “essere costituito”, allora la coscienza non è essere
dal momento che non possiede una struttura-em; oppure
“essere” è equivoco – cioè leghetai pollakhôs – e, pertanto, la
coscienza assoluta è sì essere (e addirittura essere nel senso
più originario e primitivo), ma in tal caso tale “essere” non
è identificabile con l’“essere costituto” dal momento che la
costituzione è limitata al senso derivato dell’essere, cioè a
quell’essere relativo che presenta una struttura-em.
Se questo è senz’altro il dilemma con il quale Husserl si
è scontrato tutta la vita, oscillando ripetutamente da una so-
luzione all’altra, vale la pena notare che rimane aperta anche
una terza possibilità. Che Husserl abbia effettivamente intra-
preso in modo deciso questa terza via è materia di discussione
e, come promesso, intendo qui fare del mio meglio per non
lanciarmi in ricostruzioni filologiche. Ma una via d’uscita
fenomenologica da questo dilemma esiste: “essere” può essere
un termine univoco, lo si può identificare senza problemi
con l’“essere costituito”, a condizione che si riesca a mostrare
che anche il cosiddetto “essere assoluto della coscienza”, una
volta passato attraverso il prisma della riduzione, mostra una
peculiare struttura-em: l’Einheit der Mannigfaltigkeit propria
all’absolute Bewußtsein.

15.

Ora, come il testo appena citato mostra chiaramente (cfr. §


14), se il modello della struttura-em è quello dell’individuo
percettivo trascendente, della “cosa” (dove il molteplice è
quello degli adombramenti e l’unità quella di un’intenzione)
allora non ci sono dubbi: la coscienza assoluta non ha una

auf nichts weiter zurück, aus dem es als Einheit entnommen werden könnte und
müsste. Alles andere Sein aber ist eben einheitliches und weist mittelbar oder
unmittelbar auf den absoluten Bewusstseinsfluss zurück».
Molteplicità e costituzione 121

struttura-em. Ma poiché, passando in rassegna tutte le va-


rietà di costituzione emerse nel corso delle analisi costitutive
husserliane, abbiamo imparato a non confondere la struttura
formale dell’uno-e-i-molti (propria di ogni apparizione) con
la struttura materiale di una qualsiasi delle sue varietà – che
sia quella dell’uno-figurato-attraverso-i-molti-adombramenti
(propria dell’apparizione di una cosa), quella dell’uno-che-
dura-attraverso-molte-fasi-temporali (propria dell’apparizio-
ne di un vissuto) o quella dell’uno-istanziato-in-molti-casi-
individuali (propria dell’apparizione degli generalità ideali)
etc. – è facile evitare un simile errore. In altre parole: è solo
se si prende il “Sein als individuelles Sein”, considerando la
struttura-em dell’individualità come una specie di paradig-
ma, che si fa strada la tentazione di saltare alla conclusione
secondo cui “Bewußtsein ist kein Sein” (quindi incostituito).
Ma la coscienza assoluta non ha né la struttura-em di un
individuo, né quella di un quasi-individuo, e certamente non
assume la forma dello hen epi pollôn, la struttura-em specifica
delle generalità ideali. Il che non vuol dire necessariamente
che essa non abbia una struttura-em, ma che ne ha una sua
propria, peculiare e irriducibile alle altre. Struttura-em, che
non è niente altro che la struttura del presente vivente fluente:
un presente “costituto” dal molteplice intensivo di impressioni,
ri-tensioni e pro-tensioni e che è all’origine dell’apparire non
oggettivo della coscienza. Come Husserl afferma in un testo
del 1907, quel che è necessario è il ricalibramento costante del-
la nostra concezione della relazione tra l’uno e i molti – come
già avvenuto al passaggio dalla costituzione della cosa alla
costituzione del vissuto: «l’opposizione di unità e molteplice
riceve un senso nuovo che ci riporterà a uno strato più pro-
fondo di fatti di coscienza costitutivi»32.
Sarà soltanto dopo aver messo a punto una concezione
più raffinata della coscienza interna del tempo – non ancora

32. hua x, p. 271; trad. it. p. 277: «der Gegensatz von Einheit und Mannigfaltigkeit
einen neuen Sinn bekommt, der uns auf eine tiefer liegende Schicht von konstitu-
ierenden Bewußtseinsvorkommnissen zurückführen wird».
122 claudio majolino

del tutto disponibile nel 1907-08 – che Husserl sarà in grado


di afferrare il senso di un tale “neuen Sinn” in cui la coscien-
za assoluta può essere definita a partire dalla sua propria e
peculiare forma di unità nel molteplice. Il che avverrà, ad
esempio, nei manoscritti di Bernau.
La risposta alla prima domanda è quindi negativa: in feno-
menologia nulla è incostituito, neppure la cosiddetta coscienza
assoluta. Niente appare se non come molteplicità, quale che sia
il suo senso d’essere o d’essere-così.

16.

A questo punto qualcuno potrebbe inquietarsi e chiedermi:


se in fenomenologia nulla è inconstituito, cosa ne è dell’ir-
riducibilità del mondo o dell’Altro (con la A rigorosamente
maiuscola)? Ma la domanda poggia chiaramente su un frain-
tendemmo piuttosto grossolano. Essa tende infatti a con-
fondere la questione fenomenologica dell’incostituito con il
problema dell’assolutamente trascendente (il Fuori, il Mondo,
la Trascendenza, l’Altro, ecc.), ciò che la soggettività non può
comprendere (la Differenza, l’Insensato, il Brodo Primordiale
e quant’altro). Questa confusione è dovuta al ruolo egemo-
nico giocato da quello che si potrebbe chiamare il modello
“kantiano” della costituzione, secondo il quale le forme a
priori della sensibilità (spazio e tempo) e dell’intelletto (ca-
tegorie) agiscono su una moltitudine di materiali sensibili
grezzi portati all’unità fenomenale dell’oggetto (cfr. supra §
4). Di conseguenza il “vero trascendente” non sarebbe altro
che l’“incostituito”, quello che si riceve passivamente e che
segna la finitezza della coscienza prima ancora che questa
possa porre il suo sigillo sul sensibile e renderlo sensato.
Ma, se la nostra ipotesi è corretta, è ovvio che non è questo
il percorso seguito da Husserl. L’incostituito in fenomenologia
non è l’assolutamente non-soggettivo, ciò che la soggettività
riceve “dall’esterno”, che non controlla e che la determina nella
sua passività fattuale, ma, come abbiamo già visto, qualcosa il
Molteplicità e costituzione 123

cui apparire non è dovuto a nessuna forma di struttura-em. In


termini strettamente fenomenologici “incostituito” significa
“assolutamente semplice”, non “assolutamente trascendente”.
Ma, se l’“incostituito” è appunto qualcosa “che appare come
strutturalmente semplice”, siamo più nei paraggi dell’aploun
aristotelico (Metaph., Δ 5, 1015b 12: “semplice perché non può
essere più di uno”) che delle differenti forme di Transzendenz
care a neokantiani e heideggeriani di ogni tipo.
Pertanto, mentre la questione non fenomenologica
dell’incostituito coincide con il problema dell’ultra-trascen-
dente (e non-soggettivo), l’incostituito fenomenologico non
è nient’altro che il problema dell’unità che appare come la
più semplice, assoluta. Ora, all’inizio, avendo frettolosamente
identificato la struttura-em con la struttura fenomenale della
cosa trascendente e generalizzato il modo di costituzione
“contenuto/forma di apprensione”, Husserl ha ritenuto che la
coscienza assoluta, resistendo allo schema forma-contenuto,
dovesse essere considerata come qualcosa che appare in modo
semplice: dando così credito all’idea di un incostituito feno-
menologico (in seguito identificato con l’essere assoluto).
Tuttavia, resosi conto del fatto che anche la coscienza assoluta
possiede la sua propria struttura-em, Husserl ha i mezzi per
sbarazzarsi tanto della tesi della limitazione della costituzione
agli oggetti mondani (=generalizzazione della costituzione:
tutto è costituito), quanto del paradigma forma-contenuto
(=moltiplicazione della costituzione: la costituzione si declina
in molti modi). Il che ci permette di separare drasticamente
il problema dei rizomata panton dalla ricerca disperata di un
qualche aploun.

17.

C’è tuttavia un senso in cui è legittimo parlare del non-


costituito in fenomenologia costitutiva; anche se, per ovvie
ragioni, tale senso non ha nulla a che vedere con l’assolu-
tamente trascendente. Infatti, anche se non c’è niente di
124 claudio majolino

assolutamente incostituito, ci si può riferire al molteplice


che costituisce una molteplicità come a qualcosa di relativa-
mente incostituito. Le cosiddette “cose”, oggetti individuali
di percezione trascendente, ad esempio, sono molteplicità
che appaiono come costituite sulla base di un molteplice di
adombramenti. Tuttavia, nel momento in cui esse appaiono
in quanto esempi di essenze ideali, questa volta sono le es-
senze ad apparire come costituite sulla base di individualità
percettive: “cose” la cui costituzione via adombramenti è a
questo punto irrilevante, non significativa. “Costituite” da
una molteplicità di adombramenti, le cose appaiono invece
come “incostituite” quando intervengono nell’esperienza
quali supporti al molteplice dell’apparire di essenze ideali.
In tal caso gli individui percettivi trascendenti appaiono
non in quanto molteplicità di cui gli adombramenti sono
le dimensioni, ma in quanto essi stessi dimensioni di una
molteplicità d’ordine superiore.
Gli adombramenti, a loro volta, appaiono come “inco-
stituiti” in quanto dimensioni della molteplicità “cosa”, ma
in quanto essi stessi molteplicità, sono costituiti a loro volta
nel presente vivente. A sua volta il presente vivente è “inco-
stituito” se preso all’interno della molteplicità dell’esperienza
vissuta (Erlebnis), ma in quanto molteplicità è auto-costituito
come impressione/pro-tensione/ri-tensione. Insomma: l’er-
rore sta nell’ipostatizzare questa non-costituzione relativa o
orizzontale, sempre in fuga, che si potrebbe anche chiamare
“costituzione sedimentata”, e confonderla con la pretesa ri-
cerca dell’assoluto incostituito in quanto assolutamente tra-
scendente33.

33. Tra l’altro, confesso di non subire in alcun modo il fascino della fenomeno-
logia dell’Assolutamente Trascendente. Non mi sembra infatti che un tavolo, un
albero, un film o un residuo biquadratico siano meno trascendenti di una persona
o del Grande Fuori, sebbene le loro esperienze si costituiscono in modo molto
diverso in quanto tipi differenti di trascendenza. In fenomenologia la trascendenza
non conosce gradi, solo variazioni.
Molteplicità e costituzione 125

18.

Quanto alla seconda obiezione (cfr. supra § 13), relativa all’e-


ventuale retrogusto un po’ platonico del nostro intrico di
costituzione e molteplicità, è bene aggiungere a quanto detto
poc’anzi (cfr. supra § 17) una considerazione di tipo gram-
maticale.
Come già ricordato, il termine Mannigfaltigkeit contiene
una certa equivocità. In primo luogo, esso può essere uti-
lizzato indifferentemente tanto per parlare del molteplice
(ad esempio gli adombramenti della cosa, le fasi del vissuto,
le istanze dell’essenza, ecc.) quanto del suo apparire come
molteplicità (gli adombramenti della cosa, le fasi del vissu-
to, le istanze dell’essenza). Inoltre, nel suo uso del termine,
Husserl oscilla spesso tra un senso tecnico e un senso non
tecnico. Ma la grammatica del termine “Mannigfaltigkeit”
suggerisce una distinzione interessante che potrebbe fare luce
sulle relazioni tra i due sensi. In tedesco è possibile di solito
formulare frasi in cui Mannigfaltigkeit è presente come un
aggettivo nominalizzato, frasi che hanno la forma del tipo
“Es gibt eine Mannigfaltigkeit von…”: “c’è una moltitudine di
x”, “ci sono molti y”, “c’è una grande quantità di z” ecc. Simili
enunciati sembrano suggerire una correlazione/opposizione
dell’uno e dei molti. Una moltitudine è una moltitudine-di.
È questa forma grammaticale che alimenta il vecchio dibat-
tito filosofico sui molti pensati in relazione all’uno di cui i
Platonismi di tutte le epoche si nutrono. Ma non è questo il
punto importante.
Husserl, seguendo Riemann, si autorizza di fatto a formare
frasi in cui Mannigfaltigkeit appare come un nome a tutti gli
effetti, frasi del tipo: “x è una Mannigfaltigkeit” o, più precisa-
mente, “x si costituisce come una Mannigfaltigkeit”. Abbiamo
già ricordato come per Husserl lo spazio si costituisca come una
molteplicità ciclica (zyklische Mannigfaltigkeit), il tempo come
una molteplicità bidimensionale ortoide (cioè lineare) infinita-
mente estesa (orthöide Mannigfaltifkeit) ecc. In questo secondo
caso non abbiamo a che fare con l’uno che si oppone ai molti,
126 claudio majolino

ma con una molteplicità che si distingue da altre molteplicità.


In altri termini, non si tratta qui del problema del molteplice
come uno, ma delle modalità diverse in cui delle molteplicità
si differenziano le une dalle altre, sono collegate o disgiunte,
articolate o sconnesse e così via. Il compito della costituzione
è quindi duplice: rivelare e differenziare le molteplicità: pensare
l’uno-come-molti e, nello stesso tempo, i molti modi in cui i
differenti molti-come-uno, per così dire, si comportano nella
loro eterogeneità. Si tratta dunque, per riprendere i due termini
dell’equivocità della nozione di Mannigfaltigkeit, da un lato,
di mostrare come un molteplice si costituisca in molteplicità
e, dall’altro, di variare le molteplicità stesse. In altri termini,
l’opposizione platonica tra i molti e l’uno è caduca, nella mi-
sura in cui essa lascia il posto alla duplice problematica, del
tutto diversa, e tutta interna alla nozione di Mannigfaltigkeit,
del farsi molteplicità di un molteplice e delle diverse maniere
del farsi molteplicità. E poiché abbiamo visto (cfr. supra § 17)
che ogni molteplice è solo relativamente incostituito, più che
di fronte a un’ontologia dell’uno e dei molti siamo in presenza
di una serie di molteplicità in fuga.
Possiamo adesso cercare di rispondere alla seconda obie-
zione. Nel colmare la distanza tra i due significati di Man-
nigfaltigkeit – quello non tecnico (molteplice-di) e quello
tecnico (molteplicità) – le analisi costitutive di Husserl con-
giungono due questioni, molto differenti, che contaminano
drasticamente il problema tradizionale dell’uno-e-i-molti:
quella dello stare insieme proprio dell’apparire e quello del-
le varietà dello stare insieme in base al quale si costituisce il
campo dell’apparire. Per quanto ne so io, questa mossa non
ha eguali nella storia della cosiddetta tradizione metafisi-
ca occidentale (ammesso che una simile “tradizione” esista
davvero). Non mi sembra dunque che possa essere identifi-
cata con nessuna forma nota di “platonismo”. Al limite, essa
permette di ripensare, retrospettivamente e in maniera del
tutto diversa, una sorta di controstoria del platonismo in cui
non avrebbe più senso opporre l’uno ai molti, ma soltanto
una molteplicità ad altre molteplicità.
Molteplicità e costituzione 127

19.

A questo punto, tornando alla prima obiezione, quella re-


lativa all’incostituito (cfr. supra §§ 16-17), non dovrebbe es-
sere difficile riconoscere come, accanto alle “molteplicità di
adombramenti” (=cose) e a quelle molteplicità che potremmo
chiamare “molteplicità di fondazione” (=generalità ideali), sia
possibile riconoscere delle “molteplicità di modificazione”,
quali il presente vivente del tempo interno e del corpo vivente
dello spazio interno. Molteplicità le cui varietà di struttura-
em appaiono tuttavia in maniera del tutto diversa rispetto alle
molteplicità d’adombramenti o di fondazione e che, al tempo
stesso, sono irriducibili l’un l’altra (sebbene coordinate). In
tal senso, nulla di quanto è dato è incostituito, e la coscienza
interna del tempo, nella misura in cui è data nella sua specifica
modalità, non fa eccezione. La coscienza “assoluta” – secondo
la lezione della ritenzionalità – non è incostituita, ma, ancora
una volta, auto-costituita, a un tempo costituita e costituente.
Ma allora, cosa ne è della differenza tra coscienza e realtà
mondana, della quale Husserl era disperatamente alla ricer-
ca? Se la proliferazione dell’intrico costituzione/molteplicità
provoca l’estenuazione (o, piuttosto, l’irrimediabile relativiz-
zazione) dell’idea di “incostituito”, è chiaro che la distinzione
eidetica tra coscienza e realtà mondana non può più giustifi-
carsi a partire dall’opposizione tra essere relativo costituito ed
essere assoluto incostituito, e cioè tra qualcosa che appare co-
me Einheit einer Mannigfaltigkeit e qualcosa che appare come
Einheit ohne Mannigfatligkeit. Tuttavia, se l’interpretazione
metafisica di tale distinzione va certo abbandonata, c’è pur
sempre da chiedersi se ridefinire la fenomenologia in termini
di costituzione/differenziazione di molteplicità non permetta
di portare uno sguardo diverso sulla questione. Difatti, la
distinzione ontologica tra coscienza e mondo non è altro che
la versione ontologizzata dell’eterogeneità eidetica tra molte-
plicità etero-costituite (di adombramento o di fondazione) e
molteplicità auto-costituite (di modificazione: presente vivente
del tempo interno e corpo vivente dello spazio interno).
128 claudio majolino

Ora, la differenza tra molteplicità etero-costituite e molte-


plicità auto-costituite è chiaramente di natura eidetica, non
soltanto fattuale. E, da un punto di vista metodologico, in
che modo procede Husserl quando si tratta di render conto
di differenze eidetiche? Per variazione. In effetti, l’apparire di
ogni uno “fatto” di molti può – in linea di principio – essere
dis-fatto in libera fantasia, come l’analisi del famoso esempio
dell’annichilimento del mondo presentato nel § 49 delle Idee
I mostra chiaramente. Di conseguenza, se volessimo affron-
tare la discussione delle differenti ed eterogenee reazioni alla
variazione all’interno del presente quadro di una fenome-
nologica costitutiva delle molteplicità, dovremmo trarne la
seguente conclusione. L’opera differenziata della variazione
mostra che dobbiamo distinguere tra quelle molteplicità la
cui “Vernichtung” è immaginabile – e questo in modi diffe-
renti, a seconda delle differenti varianti di struttura-em – e
quelle per le quali una simile distruzione può essere solamen-
te detta, ma non immaginata. Potremmo chiamare le prime
“molteplicità fragili” e le seconde “molteplicità robuste”.
Le molteplicità etero-costituite sono strutturalmente fra-
gili: una volta disfatte esse appaiono come molteplicità di un
altro tipo. Prendiamo l’esempio di un oggetto percettivo, e
immaginiamolo svuotato di ogni orizzonte esterno, vale a
dire non più aperto a ulteriori adombramenti e tuttavia dato
intuitivamente. Se vi riusciamo, il nostro iniziale esempio
di oggetto percettivo si sarà trasformato in un esemplare di
oggetto puramente immaginato: esso svanisce come oggetto di
percezione (molteplicità di adombramenti) per trasformarsi
in un oggetto di pura fantasia (molteplicità di “immagini”
discrete, molteplici prospettive unificate in un modo del tutto
differente). Quando la variazione è continua e conduce da
una molteplicità a un’altra, abbiamo una molteplicità fragile.
In altre parole, gli esemplari di molteplicità fragili, una vol-
ta sottoposti all’esercizio metodico della libera variazione,
scompaiono come molteplicità di un certo tipo (individui
percettivi) e diventano esemplari di molteplicità di un tipo
differente (quasi-individui immaginari). Lo stesso vale per gli
Molteplicità e costituzione 129

oggetti fondati come, ad esempio, i significati. Un’espressione


linguistica il cui significato, tramite variazione, cessasse di
essere pubblico e ripetibile, diventerebbe una molteplicità di
tipo differente: un suono con una tonalità, un’altezza e una
qualità. Lo stesso per quanto riguarda i vissuti: un vissuto
privo di certe sintesi o certi caratteri strutturali è semplice-
mente un altro vissuto. Le molteplicità fragili hanno delle
frontiere: delle frontiere labili che si possono oltrepassare
per variazione continua.
Al contrario, le “molteplicità robuste”, una volta disfatte,
scompaiono: esse sono inimmaginabili se non in quanto auto-
costituite. Il molteplice da cui emergono come molteplicità
è virtuale e intensivo, costituito da elementi a tal punto fusi
insieme (Verschmolzen) da non poter essere concepiti l’uno
senza l’altro. Questo è per l’appunto il caso del tempo interno
(pro-tensione/ri-tensione/impressione primaria che costitui-
scono il flusso vivente) e dello spazio interno (le cinestesi che
costituiscono il corpo vivente). Ha senso pensare l’esperienza
di un corpo vivente non costituito dalle sue proprie cinestesi
come a un altro tipo di molteplicità? O immaginare un pre-
sente vivente non costituito da impressioni, pro-tensioni e
ri-tensioni? Certo, possiamo pensare o immaginare un ego la
cui vita non sia temporale (divinità, angeli, creature mitiche
o esseri di finzione che spuntano fuori da qualche racconto
di Lovecraft potrebbero servire al nostro scopo), ma non po-
tremmo né pensare né tantomeno immaginare una ritenzione
strappata alla sua catena di modificazioni. Una ritenzione
senza impressione primaria non apparirebbe come un altro
tipo di molteplicità, sarebbe semplicemente inconcepibile
e inimmaginabile in quanto molteplicità: niente che possa
apparire o essere significativo.

20.

A questo punto, avremmo certo torto a voler affermare, in


modo un po’ frettoloso, che con le “molteplicità robuste”
130 claudio majolino

abbiamo raggiunto qualcosa come i rizomata pantos di cui


Husserl era alla ricerca. Torto sì, ma non del tutto.
Infatti, le molteplicità robuste sono radicali soltanto in
un senso ben preciso: nel comprenderne l’autocostituzione
è come se andassimo fino in fondo, alle radici di quella si-
gnificatività dalla quale avevamo preso le mosse (cfr. supra
§ 4). Il Sinn di cui la costituzione è nata per rendere conto
può sopravvivere (anzi: sopravvive sempre) alla de-costi-
tuzione di una molteplicità fragile, allo scioglimento delle
legami e degli ordini che le sono propri (cfr. supra § 7). La
libera fantasia, seguendo il filo conduttore delle parole, ci
conduce da una molteplicità a un’altra molteplicità di tipo
o ordine differente. Il perimetro delle molteplicità fragili è
il perimetro di quel che è significativo, in modo condizio-
nato, contestuale, relativo, in rapporto a tutto il resto. Ma il
Sinn non può sopravvivere al tentativo – necessariamente
votato al fallimento – di de-costituzione di una molteplicità
robusta. La coscienza del tempo senza il presente vivente
o il presente vivente senza impressione/pro-tensione/ri-
tensione, non solo sono inimmaginabili, non sperimenta-
bili, ma sono anche, irrimediabilmente, privi di significato.
Più precisamente, “ritenzione senza impressione primaria”
è qualcosa che si può soltanto dire, filosofema a effetto per
postmodernisti privi di ispirazione, significativo – even-
tualmente – soltanto in quanto detto. Ma le cose sono del
tutto diverse per l’apparire del tempo interno e dello spazio
interno: significativi non soltanto in modo relativo, conte-
stuale ecc. ma anche senza contesto, in modo “assoluto” e
“fino alla fine”.
Come è ovvio, la distinzione tra molteplicità etero-costi-
tuite e auto-costituite non coincide del tutto con quella tra
coscienza e mondo reale suggerita da Husserl. Essa permette
tuttavia di comprenderne in modo radicalmente diverso il
senso e la portata.
La nozione husserliana di costituzione va difatti compresa
come l’indizio del tutto specifico di una teoria delle forme
secondo la quale ciò che è costituito non sono solo oggetti,
Molteplicità e costituzione 131

ma varietà di molteplicità34. Tra queste possiamo distinguere


le molteplicità etero-costituite “fragili”, cioè unità contingenti
delle quali si può immaginare l’annichilimento e la conse-
guente relativa perdita di significato attraverso la variazio-
ne. Da un punto di vista più generale, tenderei a sostenere
che l’importanza della costituzione vada letta di pari passo
con l’idea di una contingenza strutturale e specifica di ogni
singolo tipo di “tutto”, la cui “essenza” ci è rivelata dal modo
in cui ne fantastichiamo la perdita di identità. Oggetti fisici,
istituzioni, gruppi politici, ma anche menti, persone e teo-
rie, sono dunque non tanto costruzioni quanto molteplicità
costituite in modo di volta in volta specifico. Per quanto ri-
guarda le molteplicità “robuste”, anche esse sono contingenti,
ma la loro contingenza si situa al bordo della significatività
stessa. Ambedue i casi, comunque, mostrano come la varia-
zione, lungi dall’essere il nome di un semplice tecnicismo
metodologico, completi la costituzione. O, in altre parole: la
costituzione, compresa autenticamente, è compresa come, e
attraverso, variazioni di molteplicità.
Quanto al resto, non è difficile vedere come identificare
molteplicità robuste e radici dell’apparire sia un gesto a un
tempo affascinante e curioso. Ed è soprattutto curioso pen-
sare che le molteplicità auto-costituite, cui si potrebbero far
vestire i panni del tristemente celebre fundamentum incon-
cussum, siano tutt’altro che “inconcusse”, stabili, irremovibili
o solide. Nulla è solido abbastanza per resistere ai conflitti
immaginati dalla variazione. Neppure i rizomata pantos. La
sola differenza è tra ciò che smette di apparire trasformandosi
e ciò che si dissolve, tra il passaggio da un Sinn a un altro, e
la pura e semplice Sinnlosigkeit.

34. Devo confessare che non sono sicuro che la domanda “chi o cosa opera la
costituzione?” abbia ancora un qualche senso per la fenomenologia. Il che non
vuol dire lanciarsi in un’apologia scomposta del soggetto diminuito, umiliato, de-
centrato, ad-vocato ecc. Sui limiti di un tale gesto, cfr. il mio Autrui ou comment
s’en débarrasser. Prolégomènes à toute altérologie future qui voudra se présenter
comme phénoménologie (scritto in collaborazione con Stéphane Desroys du Rou-
re), in «Alter» 11 (2003), pp. 327-353.
132 claudio majolino

21.

Proviamo a concludere. Come si è concluso il gioco “che cos’è


in fondo la fenomenologia?” Il nostro percorso a ostacoli ci
ha davvero portati a un’immagine della fenomenologia suf-
ficientemente unzeitgemäß?
Difficile dirlo. Lascio ovviamente al lettore il compito di
giudicare. Per quanto mi riguarda, tuttavia, non credo affatto
di aver “interpretato” o “sovrainterpretato” Husserl – credo
invece di averlo preso piuttosto alla lettera. Per Husserl, i
concetti intervengono all’interno di giudizi espressi linguisti-
camente, vale a dire: degli enunciati. Enunciati che a loro volta
producono delle anticipazioni di intuizioni possibili. Una
volta riempiti intuitivamente, gli enunciati ci fanno vedere
quello che essi intendono così come esso è reso concepibile
dai concetti messi in gioco. Vedere quello che i concetti dicono
soltanto di poterci far vedere: è questo il telos del riempimento.
Ma laddove, di solito, questa idea husserliana viene riportata
all’interno della cornice euristica di una teoria della cono-
scenza, mi piace pensare che si tratti piuttosto di un segno
della vocazione in-attuale della filosofia in quanto tale.
La fenomenologia ci dice che inventare concetti filosofici
non è mai un mero esercizio “teoretico”. Ogni nuovo concetto
reca con sé non solo una nuova concezione ma anche la pos-
sibilità di vedere le cose altrimenti. Di fatto, il compito della
fenomenologia, così come costantemente praticata da Husserl,
non era quello di fornire una migliore e più intuitiva compren-
sione del mondo, della soggettività, del tempo, della percezione
e così via, quanto piuttosto quello di fabbricare nuovi concetti:
contro-intuitivi e paradossali, nel senso di qualcosa che va al
di là dell’opinione comune e filosofica, se non quando contro
quanto di solito si crede o ritiene valido: concetti quindi che,
nella loro forma espressa categorialmente, ci permettono di
scorgere il mondo, la soggettività, il tempo e la percezione in
modo diverso. All’interno del quadro fenomenologico, nuovi
concetti non sono mai soltanto nuovi concetti, essi sono anche,
per così dire, promesse di nuove, inedite, intuizioni.
Molteplicità e costituzione 133

Ed è da questa intuitività concettuale preconizzata da


Husserl, dalla sensibilità alle variazioni, insieme con quella
che potremmo chiamare la capacità del concetto di “molte-
plicità costituita” di alterare le nostre visioni ordinarie della
fenomenologia, che si potrebbe provare a ricominciare35.

[traduzione dall’inglese di Daniele De Santis]

35. Desidero ringraziare Burt Hopkins, Nicolas de Warren, Vincent Gérard e


Nathanaël Masselot per le molte istruttive discussioni sui temi qui trattati. Un
grazie del tutto particolare va a Daniele De Santis per l’eccellente lavoro di tra-
duzione e composizione del presente testo.
Sezione seconda
Ricerche
Michele Averchi

Io puro, unità di coscienza e temporalità


fenomenologica tra Ricerche logiche e Idee I

Introduzione1

Nel 1913 Husserl pubblica Idee I, testo in cui fa propria la


dottrina fenomenologica dell’io puro. Si tratta di una novità
considerevole rispetto alle posizioni espresse da Husserl do-
dici anni prima, nel secondo volume delle Ricerche logiche.
All’epoca, infatti, Husserl aveva preso in considerazione la
nozione di io puro, ma l’aveva giudicata implausibile e su-
perflua.
I motivi per cui Husserl ha cambiato parere, nel corso di
quei dodici anni, sono comprensibili solo se si considera la
dottrina dell’io puro in relazione al problema dell’unità di
coscienza, all’epoca oggetto di accese discussioni tra i diver-
si fautori di una psicologia descrittiva. La questione cui si
cercava di rispondere era: in che modo i diversi elementi di
coscienza si raccolgono in una unità esperita?
Per comprendere le soluzioni proposte da Husserl al
problema dell’unità di coscienza, inoltre, occorre esaminare
le ricerche da lui svolte, in particolare tra il 1905 e il 1909,
riguardo alla temporalità fenomenologica, la cosiddetta “co-
scienza interna del tempo”. Tali ricerche, infatti, non indagano
semplicemente la percezione dello scorrere del tempo, bensì
anche il costituirsi della coscienza in un flusso, in una unità
dinamica.

1. Desidero ringraziare Paolo Pezzullo per i preziosi dialoghi avuti nel corso
della stesura dell’articolo.
138 michele averchi

Il presente studio mira a porre in evidenza una serie di nessi


tra le tre tematiche: la nozione di io puro, il problema dell’unità
di coscienza e le ricerche sulla temporalità fenomenologica.
Per tale ragione, esso presenta uno schema tripartito: a) io
puro e unità di coscienza b) unità di coscienza e temporalità
fenomenologica c) temporalità fenomenologica e io puro.

1. Io puro e unità di coscienza

Nelle Ricerche logiche, la dottrina dell’io puro è discussa da


Husserl, in riferimento a Natorp, nel contesto del problema
dell’unità di coscienza. La filosofia e la psicologia descrittiva
tedesca alla fine del xix secolo, contesto in cui la riflessione
filosofica di Husserl prende avvio, affrontano il problema
dell’unità di coscienza nel quadro dello studio delle tipologie
e delle relazioni tra fenomeni di coscienza. Ciò risulta par-
ticolarmente evidente in Brentano e negli autori a lui vicini,
nelle cui opere si registra il recupero di tematiche e approcci
humeani2. Si tratta di comprendere cosa renda possibile la
coscienza unitaria di contenuti tra loro distinti. In che modo
i diversi contenuti entrano a far parte di un’esperienza unita-
ria? È sufficiente la loro presenza nella coscienza, o occorre
qualcosa di più? E che sarebbe tale “qualcosa”? Un substrato o
una funzione sintetica? Ci si trova, così, a fronteggiare la que-
stione dell’uno e dei molti, riferita all’ambito della coscienza.
Nella filosofia moderna e contemporanea, il tema dell’u-
nità di coscienza è stato sovente articolato in relazione al pro-
blema dello statuto del soggetto. Ciò avviene già in Hume3.
Ma anche per Locke ciò che garantisce l’unità di coscienza,

2. Per una ricostruzione del ruolo svolto dalla ricezione di Hume nella scuola
di Brentano cfr. m. kuehn, The Reception of Hume in Germany, in p. jones (eds.),
The Reception of David Hume in Europe, Thoemmes Continuum, London 2005,
pp. 100-138.
3. Cfr. d. hume, A Treatise of Human Nature, Book i, Part iv, Sect. vi: Of Per-
sonal Identity; trad. it. di P. Guglielmoni, Trattato sulla natura umana, Bompiani,
Milano 2001.
Io puro, unità di coscienza e temporalità 139

vale a dire la memoria, è al contempo ciò che garantisce il


preservarsi dell’identità soggettiva4. Sullo sfondo di tali ri-
flessioni vi è una discussione ormai millenaria che concerne
originariamente la dimostrazione dell’esistenza dell’anima,
cioè di un substrato di cui i fenomeni psichici siano altrettante
modificazioni. Tale argomentazione sarà poi recuperata dalla
psicologia razionalista e, come è noto, confutata da Kant nel
secondo paralogismo della Critica della Ragion Pura5.
Anche in autori più vicini a Husserl, quali Lotze e Liebmann,
l’unità di coscienza è discussa in riferimento al tema dell’identità
soggettiva. Lotze ritiene che l’unità di coscienza sia spiegabile
solo ammettendo la spontaneità di un soggetto che effettui una
sintesi attiva tra i contenuti di coscienza. In questo contesto, egli
introduce un’argomentazione antiempiristica destinata a esse-
re largamente ripresa dalla psicologia post-brentaniana, e cioè
l’affermazione secondo cui la semplice successione di contenuti
di coscienza non è sufficiente a generare la coscienza di tale
successione6. Liebmann, dal canto suo, identifica nell’unità di
coscienza la prova decisiva della confutazione del materialismo:
anche ammettendo che i fenomeni psichici siano generati da
fenomeni fisici, resterebbe di principio incomprensibile come
essi possano pervenire a un’unificazione. La materia, infatti, è
composta da parti tra loro spazialmente distinte, mentre la psi-
che è intrinsecamente unitaria7.
Il dibattito sull’unità di coscienza si arricchisce, alla fine
dell’800, di ulteriori dimensioni. Secondo James non vi sono
contenuti di coscienza da unificare, giacché è la coscienza

4. Cfr. j. locke, Essay Concerning Human Understanding, 2.27.9; trad. it. di N.


Abbagnano, Saggio sull’intelletto umano, utet, Torino 1971.
5. Per una ricostruzione dell’argomentazione razionalista circa l’esistenza dell’a-
nima basata sulla sua unità, e della sua confutazione da parte di Kant, cfr. t.m.
lennon, r.j. stainton (eds.), The Achilles of Rationalist Psychology, Springer,
New York 2008.
6. Cfr. h. lotze, Mikrokosmus, Bd. i., Buch ii.: Die Seele, Von Hirzel, Leipzig
1856; trad. it. di L. Marino, Microcosmo, utet, Torino 1988.
7. Cfr. o. liebmann, Zur Analysis der Wirklichkeit, Trübner, Straßburg 1911,
Cap. Gehirn und Geist, pp. 518-566.
140 michele averchi

stessa, come flusso incessante, a scorrere unitariamente. Le


parti della coscienza si ottengono a posteriori mediante astra-
zione8. Vi è qui una critica al cogito cartesiano e alle filosofie
che hanno tentato di cogliere l’identità soggettiva mediante
il ricorso alla riflessione, mentre essa si manifesta originaria-
mente nel farsi del continuum di coscienza. Il tema dell’unità
di coscienza si intreccia poi al tema dell’autocoscienza, che
gli autori dell’epoca affrontano secondo prospettive assai di-
versificate, tra cui il tentativo di chiarificazione del formarsi
nella coscienza della peculiare rappresentazione chiamata
“io”. Questo è l’orientamento di studiosi anche molto lontani
tra loro, quali Wundt e Mach9. Vi è infine la ripresa dell’“io
penso” kantiano da parte di autori quali Lipps e Natorp10, di
nuovo molto diversi tra loro.
Non è, dunque, un caso che Husserl discuta la nozione di
“io puro” nel contesto della Quinta Ricerca logica, dedicata
alla struttura della coscienza. Husserl prende in considera-
zione le tesi di Natorp, contenute nell’opera Einleitung in die
Psychologie, per verificare se occorra ammettere l’io puro per
spiegare l’unità di coscienza.

1.1 Natorp

Nel testo di Natorp preso in considerazione da Husserl la rela-


zione tra io (o io puro) e unità di coscienza emerge nel quadro

8. Cfr. w. james, The Principles of Psychology, Holt and Company, New York
1890, Cap. ix: The Stream of Thought; trad. it. di G.C. Ferrari, Principi di Psicologia,
Società Editrice Libraria, Milano 1909.
9. Cfr. per Wundt ad esempio Grundzüge der physiologischen Psychologie, Von
Engelmann, Leipzig 1908, pp. 454 e ss. Il locus classicus della discussione sull’io
in Mach è il suo Die Analyse der Empfindungen und das Verhältnis des Physischen
zum Psychischen, Fischer, Berlin 1903.
10. Sull’impostazione della psicologia di Lipps cfr. “Una scienza pura della co-
scienza”: l’ideale della psicologia in Theodor Lipps, a cura di S. Besoli, Quodlibet,
Macerata 2002. Il testo di Lipps più pregnante sul tema dell’io puro è Das Selb-
stbewusstsein, Bergmann, München 1901. Sul tema dell’io puro in Natorp, cfr. w.
schmidt, Psychologie und Transzendentalphilosophie: zur Psychologie-Rezeption
bei Hermann Cohen und Paul Natorp, Bouvier, Bonn 1976.
Io puro, unità di coscienza e temporalità 141

della distinzione tra fenomeni psichici e fenomeni fisici. Na-


torp esamina la nozione di “coscienza” proponendosi di evitare
qualsiasi definizione “metafisica” di essa («una cosa, una causa
o una forza»11) e caratterizzandola in quanto fenomeno. Cosa
contraddistingue, allora, il fenomeno della coscienza o, meglio,
i fenomeni di coscienza? La loro specificità non è rintracciabile
nel contenuto particolare di essi, giacché qualsiasi cosa può
divenire contenuto di coscienza. Natorp osserva: «per quanto
riguarda il contenuto di ciò di cui siamo consci, esso può essere
assai variato e mutevole»12. Un sentimento, un pensiero, un og-
getto del mondo fisico possono ugualmente divenire contenuti
di coscienza, e sarebbe vano cercare di individuare una qualche
caratteristica comune a essi. La specificità dei fenomeni di co-
scienza consiste, piuttosto, in una peculiare relazione, cioè la
relazione tra determinati elementi e un soggetto, un io. Natorp
afferma: «il modo di esprimersi riflessivo “ich bin mir bewusst”
allude già al fatto che alla coscienza appartiene inevitabilmente
il soggetto per cui qualcosa è contenuto di coscienza»13. Senza
un riferimento a un io, la nozione di coscienza non avrebbe
alcun significato. Gli oggetti sono contenuti di coscienza in
quanto entrano in relazione con un io.
L’io è da intendersi come centro di tutta la vita psichica,
in quanto qualsiasi contenuto di coscienza è in relazione con
esso. La metafora del “centro” non è, tuttavia, letterale, giacché
l’io si colloca su un piano distinto da quello dei contenuti di
coscienza. Infatti, la relazione all’io è il presupposto perché
un oggetto diventi contenuto di coscienza, perciò l’io stesso
non può mai divenire a sua volta oggetto di coscienza. Se l’io
divenisse oggetto di coscienza, dovrebbe essere oggetto in
relazione a un soggetto, cioè, di nuovo, a un io. L’io, dunque,
non può che essere necessariamente presupposto e non può
mai essere obiettivato.

11. p. natorp, Einleitung in die Psychologie nach kritischer Methode, Mohr, Tübin-
gen 1888.
12. Ivi, p. 12.
13. Ibidem.
142 michele averchi

Nella soluzione proposta da Natorp vi è un intreccio assai


stretto fra la definizione dei fenomeni di coscienza, il pro-
blema dell’unità di coscienza e il tema dell’io puro. La defi-
nizione dei fenomeni di coscienza è ottenuta in forza della
relazione dei contenuti di coscienza all’io puro. Di conse-
guenza, l’unità di coscienza globale, cioè quella che lega tra
loro tutti i contenuti di coscienza, non è ottenuta in forza di
relazioni intrapsichiche. Non sono anzitutto i rapporti tra i
diversi vissuti che ne assicurano l’unità, sebbene il modello
di Natorp non escluda la possibilità di tali rapporti. L’unità di
coscienza, piuttosto, è garantita dal fatto che ogni contenuto
di coscienza è in relazione con l’io puro. Solo in forza di ciò i
contenuti sono anche associati tra loro nell’unità di coscienza.
Tale relazione, pertanto, è la condizione di possibilità perché
sussistano anche relazioni intrapsichiche. Non sarebbe pos-
sibile un’unità parziale tra contenuti di coscienza, se non vi
fosse anzitutto l’unità globale di essa, resa possibile dal rife-
rimento di ogni contenuto all’io puro. Tra diversi contenuti
di coscienza vi è, quindi, una relazione mediata, fondata cioè
sulla relazione tra ciascun contenuto e l’io puro.
Nel modello di Natorp, non riveste una particolare ri-
levanza la distinzione tra unità di coscienza nell’istante e
unità di coscienza nella durata. Anche i contenuti presenti
simultaneamente alla coscienza, infatti, non si danno in uni-
tà anzitutto in forza di relazioni di tipo temporale, bensì in
quanto entrano in relazione con l’io puro. La temporalità di
coscienza svolge al riguardo un ruolo secondario.

1.2 Husserl nelle Ricerche logiche14

Nella Quinta Ricerca logica Husserl mette radicalmente in


discussione alcune delle premesse da cui Natorp aveva preso

14. Dal momento che ci interessa una ricostruzione storica dell’evoluzione del
pensiero husserliano, citiamo dal testo della prima edizione delle Ricerche logiche,
ricostruito nelle note del testo edito nel volume xix della Husserliana. Per tale
ragione, la traduzione è nostra.
Io puro, unità di coscienza e temporalità 143

avvio. Egli vuole individuare i criteri di distinzione tra fe-


nomeni psichici ed extra-psichici, e nel fare ciò elabora una
critica che accomuna singolarmente posizioni tra loro per
altri versi assai lontane, quali l’empiriocriticismo di Mach
e il neokantismo di Natorp. Sebbene il principale obiettivo
polemico di Husserl sia Mach, anche il modello di Natorp
risulta coinvolto nella critica.
Considerando il caso di un contenuto di coscienza mini-
male, cioè una sensazione visiva, Husserl si domanda quale
sia la distinzione tra il fenomeno psichico della sensazione e il
fenomeno fisico del colore oggettivo della cosa. Egli osserva:
«Proprio ai nostri giorni, è assai popolare una concezione che
afferma che l’uno e l’altro sono il medesimo, semplicemente
considerato secondo “punti di vista ed interessi” differenti:
considerato da un punto di vista psicologico o soggettivo, si
chiamerebbe “sensazione”; considerato da un punto di vi-
sta fisico o oggettivo, si chiamerebbe proprietà della cosa
esterna»15. Tale posizione, osserva Husserl, è poi estesa a una
considerazione generale del rapporto tra oggetti e soggetto,
secondo cui «la differenza tra il contenuto di coscienza nel-
la percezione e l’oggetto esterno in essa percepito sarebbe
una mera differenza di prospettiva, che considererebbe la
stessa manifestazione una volta nella connessione soggettiva
(nella connessione delle manifestazioni riferite all’io) e una
volta nella connessione oggettiva (nella connessione delle
cose stesse)»16. Sebbene Husserl si riferisca qui alle posizioni
sostenute da Mach, le critiche coinvolgono in certa misura
anche Natorp, nella misura in cui anche questi identifica nel
riferimento all’io il carattere distintivo dello psichico, seb-
bene la sua interpretazione di cosa sia l’io sia estremamente
lontana da quella di Mach.

15. hua xix/1, Logische Untersuchungen, Zweiter Band: Untersuchungen zur


Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis, E. Holenstein (Hrsg.), Nijhoff, Den
Haag 1984, p. 359.
16. Ivi, p. 359.
144 michele averchi

A giudizio di Husserl, la concezione machiana (e nator-


piana) incorre nella confusione tra oggetto e contenuto di co-
scienza. L’oggetto è ciò che la coscienza ha intenzionalmente
di mira, mentre il contenuto è ciò che entra realmente nella
coscienza come suo componente. Nel caso di esperienze ri-
guardanti il mondo esterno, i due termini non coincidono:
l’oggetto intenzionato è una cosa del mondo esterno, mentre
il contenuto è un elemento immanente alla coscienza, vale a
dire una compagine di sensazioni. Per convincersene, affer-
ma Husserl, basta considerare il diverso modo di datità dei
due elementi: «La manifestazione della cosa (il vissuto) non
è la cosa che si manifesta (ciò che, presuntivamente, ci sta
di fronte); esperiamo le manifestazioni nella connessione di
coscienza, mentre le cose ci si manifestano come essenti nel
mondo fenomenale. Le manifestazioni non si manifestano,
bensì vengono vissute»17. Vi è qui anche una allusione pole-
mica alla teoria brentaniana dell’oggetto interno, che non ci
è possibile affrontare qui.
Il criterio distintivo suggerito da Husserl è dunque il se-
guente: la cosa del mondo esterno, l’oggetto di coscienza, si
dà secondo adombramenti, mentre le sensazioni attraverso
cui si dà la cosa non si danno a loro volta per adombramenti.
Esse non sono tematicamente prese di mira, bensì vissute-
attraverso, analogamente al segno d’inchiostro in cui si legge
una lettera dell’alfabeto.
Grazie alla distinzione tra contenuto e oggetto di coscien-
za, Husserl identifica due differenti tipi di relazione: la rela-
zione degli oggetti all’io empirico e la relazione dei vissuti
all’io fenomenologico. Tale ulteriore distinzione risultava
inaccessibile al modello di Natorp, che confonde oggetti e
contenuti di coscienza. La relazione tra cose e io empirico è
una mera relazione tra cose, in quanto l’io empirico, dotato
di un corpo, è a sua volta una cosa tra le cose. Si tratta del
«rapporto tra due cose»18. Il secondo tipo di relazione, invece,

17. Ivi, pp. 359-360.


18. Ivi, p. 360.
Io puro, unità di coscienza e temporalità 145

è quello che riguarda propriamente il problema dell’unità di


coscienza. Tale relazione, infatti, è quella per cui tutti i vissuti
concorrono all’unità di un soggetto che Husserl, nella prima
edizione, chiama anche «io fenomenologico»19.
In cosa consiste l’io fenomenologico, e come si spiega
la connessione che lega tra loro dei vissuti di coscienza?
Secondo Husserl, tale unità non costituisce un problema
particolare, e non è in alcun modo necessario supporre una
funzione di unificazione espressamente dedicata a ciò. Se si
considera l’io fenomenologico, cioè la vita di coscienza, a
prescindere dalla sua relazione con il corpo cui è associata,
si osserva che «esso si riduce all’unità di coscienza, quin-
di alla complessione reale di vissuti, che noi (ognuno per il
suo io) in parte abbiamo a disposizione in noi con evidenza
e, per la parte restante, supponiamo con buone ragioni»20.
Husserl riassume così le proprie conclusioni: «è evidente,
che l’io non è niente di particolare»21. L’io fenomenologico,
cioè l’io psichico, non è nient’altro che la totalità dei vissuti
di un determinato individuo, tra loro connessi secondo le-
gami intrapsichici. Husserl fa qui riferimento ai propri studi
mereologici esposti nella Terza Ricerca logica, in cui ha già
mostrato come la nozione di totalità possa essere fondata
fenomenologicamente mediante le relazioni tra le parti. Così,
i contenuti di coscienza sono associati secondo legalità stabili,
che fanno sì che essi si raccolgano infine in un’unità globale
di coscienza. Tali legalità sono sufficienti a spiegare l’unità di
coscienza e non vi è alcun bisogno di ricorrere a un io come
ulteriore principio unificante22.
Concludendo la sua analisi, Husserl effettua una ulteriore
(oltre a quella tra oggetto e contenuto di coscienza e a quella tra

19. Ibidem.
20. Ivi, p. 363.
21. Ibidem.
22. Husserl lo definisce «un principio egologico proprio, portatore di tutti i
contenuti, che li unifica ulteriormente» (ivi, p. 364); il che lascia intendere che egli
stia qui pensando a una visione sostanzialistica dell’io, che deve essere evitata.
146 michele averchi

io empirico e io fenomenologico) triplice distinzione: quella tra


io fenomenologico nell’istante, io fenomenologico nella durata
temporale e io come oggetto persistente nei cambiamenti.
Le considerazioni svolte sinora da Husserl, infatti, riguar-
dano l’io fenomenologico nell’istante, ovvero ciò che risulta
accessibile all’indagine fenomenologica. Ogni istante della
vita di coscienza fornisce in via diretta una determinata por-
zione della totalità psichica, mentre il resto di essa è acces-
sibile in via indiretta, mediante le connessioni che lo legano
alla parte attualmente presente. Tali rimandi costituiscono
l’io fenomenologico nella durata temporale. Il rapporto tra io
fenomenologico nell’istante e io fenomenologico nella durata
è, come già notato, un rapporto tra parte e totalità.
Vi è poi un altro piano di indagine, che Husserl definisce
“metafisico”, ovvero la domanda se tale connessione di vissuti
costituisca una “cosa psichica” in senso proprio, una cosa in
sé al di là dei fenomeni. Così come le cose del mondo fisico
si costituiscono come identità nella molteplicità di variazioni,
si potrebbe arguire che la connessione dei vissuti dia vita a
un io come «oggetto sussistente»23, permanente nel corso del
flusso di coscienza. Husserl non esclude la possibilità di una
ricerca in tal senso, e non si mostra, quindi, “antimetafisico”
in senso assoluto. Egli ribadisce, tuttavia, che tale ordine di
considerazioni è estraneo a un’indagine fenomenologica e che
non vi è alcun bisogno di interrogarsi su un simile elemento
extrafenomenologico per dar conto della natura dei fenomeni
psichici. Per spiegare il fenomeno dell’unità di coscienza sono
sufficienti le relazioni tra contenuti psichici, così come l’analisi
fenomenologica li ha individuati. Si può, dunque, sospendere
la domanda se all’unità fenomenale dei vissuti corrisponda
l’unità reale di una “cosa psichica” regolata da rapporti causali.
La questione del rapporto tra io fenomenologico nell’i-
stante ed io fenomenologico nella durata consente a Husserl
di elaborare alcune embrionali riflessioni sul ruolo della tem-

23. Ivi, p. 364.


Io puro, unità di coscienza e temporalità 147

poralità nella vita di coscienza. Si è visto, infatti, che l’analisi


fenomenologica riguarda anzitutto l’io fenomenologico nell’i-
stante, vale a dire l’insieme di contenuti di coscienza presenti
in un dato istante di essa. L’analisi si estende poi all’io feno-
menologico nella durata, in forza delle relazioni tra la parte
attualmente data della coscienza e le parti restanti. Husserl
osserva che tali relazioni hanno natura anzitutto temporale:
«questo ruolo [connettivo] è svolto anzitutto anche dalla co-
scienza temporale soggettiva, intesa come adombramento delle
“sensazioni temporali”»24. Husserl sembra qui ipotizzare una
sorta di adombramento di sensazioni temporali che accompa-
gnerebbero la vita di coscienza: contenuti simultanei sarebbero
accomunati dalla medesima “sensazione temporale”. La succes-
sione di sensazioni temporali darebbe vita alla successione di
coscienza. Come vedremo, sarà proprio l’approfondirsi delle
ricerche al riguardo che condurrà Husserl a una revisione delle
proprie posizioni sul rapporto tra io puro e unità di coscienza.

2. Unità di coscienza e temporalità


fenomenologica25

2.1 La discussione con Meinong

Nel 1904 Husserl legge alcuni contributi di Meinong e Stern,


divenuti poi noti come “dibattito Stern-Meinong”, la cui pre-
sentazione nel dettaglio non è qui necessaria26. È invece assai

24. Ivi, p. 369.


25. Per un inquadramento generale delle ricerche husserliane sulla temporalità
fenomenologica e la loro rilevanza nella filosofia e nell’estetica contemporanea,
cfr. e. franzini, Il tempo e l’intuizione estetica, Unicopli, Milano 1982.
26. Per una ricostruzione del dibattito, cfr. in particolare t. kortooms, Phenome-
nology of Time: Edmund Husserl’s Analysis of Time-Consciousness, Springer, Dor-
drecht 2001. Sul rapporto tra Husserl e Stern cfr. n. de warren, The Significance
of Stern’s “Präsenzzeit” for Husserl’s Phenomenology of Inner Time-Consciousness,
in «New Yearbook for Phenomenology and phenomenological philosophy» 5/1
(2005), pp. 81-122.
148 michele averchi

significativo che le note di Husserl al riguardo includano una


prima formulazione esplicita del rapporto tra temporalità
fenomenologica e unità della coscienza.
Meinong individua due classi distinte di oggetti, carat-
terizzati da un differente rapporto alla durata nel tempo. La
prima classe è composta dagli oggetti “non distribuiti”, quegli
oggetti in cui lo scorrere del tempo non ha una funzione
costitutiva, mentre la seconda è composta dagli oggetti “di-
stribuiti”, in cui lo scorrere del tempo ha una funzione costitu-
tiva. Tra i membri della prima classe ci sono oggetti quali un
suono preso in sé o un colore, mentre l’esempio cardine della
seconda classe è una melodia. Secondo Meinong, gli oggetti
della prima classe restano identici a se stessi nello scorrere
del tempo, così che, prelevando a campione due diverse se-
zioni temporali di esse, non risulterebbe alcuna differenza.
Gli oggetti della seconda classe, invece, presentano una va-
riazione nel tempo, così che sezioni diverse risulterebbero
contenutisticamente differenti. Meinong si domanda: rispetto
agli oggetti distribuiti, in che modo si forma nella coscienza
una rappresentazione di essi? Sembra necessario un atto di
coscienza che effettui una sintesi tra i momenti temporalmen-
te distinti dell’oggetto. Occorre una funzione che tenga nota
dei diversi contenuti via via che essi fluiscono, per produrne
una rappresentazione unitaria. La domanda che sorge, dun-
que, è se la rappresentazione di un oggetto temporalmente
distribuito, cioè l’atto di coscienza che lo coglie, debba essere
a sua volta un oggetto temporalmente distribuito.
Husserl riformula la questione posta da Meinong nei
termini seguenti: «La rappresentazione (percezione, intui-
zione) di un mutamento è necessariamente un mutamento,
la rappresentazione di un processo è a sua volta un processo,
la rappresentazione di un divenire a sua volta un divenire; o
un modificarsi può essere intuito in un vissuto che è in quiete
e in sé immutato?»27. Il problema è dunque comprendere

27. hua x, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins (1893-1917), R.


Bohem (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1966, p. 222; trad. it. di A. Marini, Per la fe-
Io puro, unità di coscienza e temporalità 149

se la rappresentazione di un processo di modificazione, di


un divenire, sia a sua volta un divenire. Si pone anche la
questione complementare, ovvero se la percezione di una
non-modificazione sia a sua volta una non-modificazione o
se sia invece una modificazione. Si tratta di capire, cioè, in
che modo si strutturi l’unità di coscienza nel caso di oggetti
in divenire e di oggetti non in divenire.
Secondo Meinong l’unità di coscienza non può essere
l’esito di una semplice successione di stati di coscienza. Ogni
percezione istantanea, presa di per sé, darebbe infatti la rap-
presentazione di una stasi, a guisa di un fotogramma mentale.
Una somma di stasi non può produrre la rappresentazione di
un divenire. Perché ciò avvenga, occorre che ogni percezione
istantanea sia raffrontata con quella precedente e con quella
seguente, così da coglierne la variazione. Non è sufficiente,
pertanto, una successione di rappresentazioni, bensì occorre
una funzione che operi la sintesi e il paragone tra i loro con-
tenuti. Dal momento che ogni percezione di un determinato
contenuto si esaurisce nell’istante, non è possibile che tale
funzione sintetica sia effettuata dalla percezione istantanea
stessa. Meinong ne ricava che è necessario l’intervento di un
ulteriore atto sintetico, temporalmente non distribuito, che,
al termine del decorso percettivo, lo sintetizzi in un’unità.
La soluzione di Meinong non convince Husserl. Egli nota
che l’istante temporale in cui avverrebbe la sintesi finale della
rappresentazione del movimento è semplicemente astratto
dalla totalità del processo stesso. Preso di per sé, tale istante
non avrebbe alcun senso costitutivo. Inoltre, la spiegazione
meinongiana non rende conto del fatto che la percezione di
un processo si abbia già nel corso del suo divenire e non solo
alla sua fine.
La soluzione di Husserl consiste nell’affermare che la per-
cezione di un oggetto temporale ha luogo parallelamente allo
svolgersi nel tempo di tale oggetto. Mentre la melodia fluisce,

nomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917), FrancoAngeli, Milano


1981, p. 234.
150 michele averchi

avviene via via la sua percezione. L’intuizione percettiva ha


un carattere dinamico, e ciò vale anche per la percezione degli
oggetti che Meinong chiamerebbe temporalmente indistribu-
iti. Nella misura in cui uno di tali oggetti è percepito, la sua
percezione avviene in una dinamica di apprensione che ha
una certa estensione temporale. La percezione è, nella propria
essenza, un oggetto temporale: «La percezione di un oggetto
temporale è essa stessa, per essenza, un oggetto temporale.
Essa possiede in ogni caso un’estensione temporale»28. Ciò,
tuttavia, non sarebbe affatto sufficiente a dar conto dell’unità
di coscienza.
Se a ogni fase dell’oggetto corrispondesse una mera perce-
zione istantanea di esso, resterebbe inesplicato il modo in cui
tali percezioni concorrono all’unità di una sintesi di coscienza
parallela al decorso dell’oggetto. Come è possibile l’esperienza
di una continuità di fasi percettive? Secondo Husserl occorre
rinunciare all’idea, già di Brentano e poi di Meinong, che il
presente di coscienza sia un presente puntuale, istantaneo.
Il presente di coscienza è invece un presente dilatato, che
si estende in direzione del passato e del futuro: esso tiene
traccia dei contenuti immediatamente passati e si rivolge a
quelli immediatamente futuri. Il presente di coscienza non
è un punto, bensì un campo.
Husserl mostra di condividere un modello del presen-
te di coscienza, già adottato da autori quali James e Stern,
che distingue tra il tempo oggettivo e il tempo di coscienza,
la temporalità obiettiva e la temporalità fenomenologica. Il
tempo oggettivo è caratterizzato da una successione di istanti
puntuali, mentre il tempo di coscienza è caratterizzato da un
flusso di campi di coscienza che trapassano l’uno nell’altro.
Ciò che nel tempo oggettivo è appena passato, è trattenuto
nel presente di coscienza in quanto passato, formando una
coda ritenzionale. Il presente di coscienza è costituito da un
contenuto intuito come presente, circondato da un alone di

28. Ivi, p. 232; trad. it. p. 244.


Io puro, unità di coscienza e temporalità 151

contenuti intuiti come passati, ma dati nel presente in quanto


passati. Il fatto che la percezione fluisca parallela al proprio
oggetto non significa che ci sia una corrispondenza biunivoca
tra istanti della percezione e istanti dell’oggetto, perché ciò
che nel tempo dell’oggetto è passato è ancora presente nella
coscienza, in quanto passato. Ogni istante del flusso di co-
scienza è, dunque, formato dall’apprensione di una serie di
contenuti passati che culmina nel contenuto presente. L’unità
di coscienza nell’istante è data dal fatto che, avendo il presente
di coscienza un’estensione, esso conserva anche i contenuti
passati del decorso temporale dell’oggetto.
Per quanto riguarda il decorso complessivo della perce-
zione di un oggetto, Husserl osserva che esso può essere a
buon diritto definito «un continuo di continui»29, poiché ogni
istante del flusso di coscienza è un continuo, che trapassa poi
nell’istante successivo, il quale è a sua volta un continuo. La
dinamica della coscienza percettiva si svolge secondo una
struttura bidimensionale, che Husserl evidenzia nei propri
diagrammi sul tempo.
Tale prima soluzione offerta da Husserl al problema
dell’unità di coscienza incorre però in una grave difficoltà.
La percezione, si è visto, è a sua volta un oggetto temporale.
Essa si estende in una certa durata della temporalità fenome-
nologica. Un atto percettivo globale, dunque, è composto da
una sintesi di atti parziali, gli istanti presenti di coscienza, che
decorrono in una successione temporale. Ciò, tuttavia, rende
inevitabile il porsi la seguente domanda: è sufficiente una
successione di atti di coscienza perché si generi la loro sintesi?
Il problema di partenza, riferito ai contenuti di coscienza, si
ripropone ora su di un piano differente, vale a dire quello de-
gli atti di coscienza. Nel modello husserliano l’unità tra gli atti
è spiegata mediante la loro mera successione, data dal fatto
che ogni presente di coscienza trapassa nel successivo. Ma
ciò è sufficiente? Ogni presente di coscienza include infatti

29. Ivi, p. 233; trad. it. p. 245.


152 michele averchi

i contenuti passati, ma ciò non basta ad assicurare che esso


includa anche le apprensioni passate di tali contenuti. Ciò,
tuttavia, è necessario perché la percezione si costituisca come
un decorso di atti, e non si esaurisca nell’istante presente.
Occorrerebbe un ulteriore ordine di coscienza in cui il fluire
dei successivi istanti presenti di coscienza, gli atti parziali, sia
colto in un’unità. Ma anche ammettendo che vi sia un secon-
do ordine di temporalità di coscienza, che sintetizza gli atti
di coscienza, il problema si riproporrebbe: cosa fa sì che tali
atti di secondo ordine confluiscano in un’unità di coscienza?
E così via all’infinito. Vi è il rischio di un regresso infinito,
a meno di non voler postulare che vi sia un ultimo livello
di coscienza in cui la sintesi avvenga in modo inconscio, il
che sembra altamente problematico. Husserl riassume così il
problema, parlando della successione delle fasi di coscienza:
«Abbiamo una coscienza anche di questo succedersi? Ovvia
difficoltà: se ciò non debba richiedere un regresso all’infini-
to. Certo che, di questi stadi di coscienza, non abbiamo una
coscienza istantanea. Li abbiamo piuttosto in un rapporto di
successione e solo in un rapporto di successione»30. Le diverse
fasi di coscienza sono date come una mera successione e non
vi è un momento di coscienza che effettui la loro sintesi. Il
problema si ripropone, dunque: cosa rende possibile l’unità
di coscienza?
Emergono qui, dall’interno dell’analisi, due aspetti rile-
vanti: a) la questione dell’unità di coscienza si intreccia con
quella dell’autocoscienza. Si tratta, infatti, di comprendere
come la coscienza possa essere cosciente dei propri contenuti
e, al contempo, delle proprie fasi: in altri termini, come può
la coscienza essere auto-cosciente nel corso del proprio flu-
ire? Tale forma di autocoscienza sembra indispensabile per
spiegare la coscienza di oggetti. Se è vero che la percezione
ha una natura dinamica, occorre che ogni fase di coscienza
includa una coscienza delle proprie fasi passate e dunque

30. Ivi, p. 236; trad. it. p. 248.


Io puro, unità di coscienza e temporalità 153

una forma di autocoscienza che precede la riflessione. b) Il


primo tentativo di risposta effettuato da Husserl mostra con
chiarezza che l’unità di coscienza non può essere spiegata
ricorrendo a piani di coscienza distinti che effettuino una
sintesi di atti, poiché ciò conduce a un circolo vizioso: gli atti
di secondo grado che effettuano una sintesi tra atti, sarebbero
a loro volta degli atti, e dunque occorrerebbe spiegare cosa
rende possibile la loro sintesi, e così via all’infinito.

2.2 Unità degli oggetti immanenti e unità della coscienza


assoluta

Nel 1905, in seguito alle proprie lezioni sugli Hauptstücke aus


der Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis, Husserl si
dedica all’elaborazione di analisi che avranno un’importanza
decisiva per gli sviluppi della sua fenomenologia. Una parte
del lavoro avviene a Seefeld, in Tirolo, dove Husserl è rag-
giunto da alcuni studiosi, tra cui Pfänder, con cui intraprende
un vivace scambio di idee31. Gli argomenti trattati mettono
capo a una serie di problemi tra loro intrecciati: l’unità della
coscienza, il rapporto tra diversi flussi coscienza, la natura
della datità originaria.
Nel corso di tali analisi, Husserl si pone la questione dell’i-
dentità nell’ambito della datità immanente di coscienza. Il
modello di coscienza presentato nelle Ricerche logiche, e basa-
to sullo schema apprensione/contenuto, prevede che vi siano
contenuti immanenti, le sensazioni, che vengono interpretate
da apprensioni di coscienza in termini di rappresentanza per
gli oggetti trascendenti. Differenti complessi di sensazioni
possono venire interpretati come rappresentanti dello stesso
oggetto esterno. Quando osserviamo due facce differenti di
un cubo, il contenuto immanente è differente, ma l’oggetto

31. Per una ricostruzione accurata dell’incontro tra Husserl e Pfänder a See-
feld, e in generale del rapporto tra i due da un punto di vista teoretico, cfr. k
schuhmann, Die Dialektik der Phänomenologie I/ Husserl über Pfänder, Nijhoff,
Den Haag 1973.
154 michele averchi

intenzionato è il medesimo. L’identità dell’oggetto nell’espe-


rienza si fonda qui nel significato conferito dalle apprensio-
ni a complessi di sensazioni distinti. Come stanno le cose,
tuttavia, per quanto riguarda i contenuti immanenti stessi,
vale a dire le sensazioni? Esse non si danno solitamente alla
coscienza in quanto oggetti, bensì in quanto materia di atti di
coscienza, ma possono venire a loro volta tematizzate in un
tipo di atti specifici, cioè nella riflessione. Noi possiamo, ad
esempio, concentrarci sulle sensazioni attraverso cui il cubo
si manifesta. Ha senso il parlare qui di identità oggettuale?
Per indagare tale questione, Husserl prende in consi-
derazione un contenuto immanente di coscienza, ricavato
astrattivamente. Rivolgendosi a un oggetto trascendente, nel-
la fattispecie una bottiglia di birra, Husserl ne isola il colore
marrone, considerandolo come puro dato sensoriale. In che
termini è possibile parlare di identità riguardo a tale dato
sensoriale? Anzitutto, è possibile osservare che tale dato dura
nel tempo. Mentre lo si osserva, o lo si immagina, esso per-
dura in quanto “lo stesso”, nel corso di una certa estensione
temporale. Lungo lo scorrere del tempo, si può affermare
che “è sempre lo stesso marrone” o che “si modifica”, il che
implica che vi sia un’identità che non viene meno. C’è, quin-
di, un dato sensoriale che rimane identificabile nel corso di
una successione di fasi temporali. Il marrone che dura nella
percezione non è un genere o una specie, bensì un individuo,
un “qualcosa” o un “questo” che può essere indicato e preso
di mira in modo determinato. Ciò che si dà alla percezione
immanente non è anzitutto una somma di contenuti istanta-
nei, bensì un contenuto unitario che si prolunga nel tempo:
il primo dato è il marrone che dura. Le fasi temporali in cui
esso si estende possono successivamente essere colte a partire
da un atto di astrazione che scomponga il dato sensoriale
in una successione di istanti. La datità primaria non è però
la durata, bensì il “qualcosa” che dura. Ciò può essere colto
con maggiore chiarezza nel caso di un contenuto che varia
nel tempo. Se il marrone muta progressivamente di intensi-
tà o gradazione cromatica, ciò che è esperito è appunto un
Io puro, unità di coscienza e temporalità 155

contenuto che varia e non una sequenza di contenuti tra loro


sconnessi. La suddivisione in fasi avviene mediante un’ope-
razione riflessiva, di secondo grado.
L’analisi dell’esperienza percettiva di un contenuto im-
manente rileva così un tipo peculiare di unità di coscien-
za. Vi è, infatti, un’unità di coscienza oggettuale, in quanto
un determinato contenuto di coscienza si dà in essa come
oggetto unitario ed identificabile. Occorre allora effettua-
re una distinzione fenomenologica: da un lato vi è l’oggetto
immanente, che si dà come identità nella molteplicità delle
fasi temporali, e dall’altro vi è la successione di tali fasi in
cui l’oggetto immanente si mostra. Husserl sottolinea l’im-
portanza del tenere distinti i due tipi di unità: «Da un lato,
abbiamo la coscienza continua d’identità, e questa dà l’unità,
unità ininterrotta, identità nella continuità temporale, ciò
che, nel continuo flusso del tempo, è identico»32, si tratta
dell’unità dell’oggetto che dura in quanto identico; «dall’altro
lato – prosegue Husserl – abbiamo una coscienza interrotta,
spezzettata»33, ovvero la successione delle fasi in cui l’oggetto
dura, ricavate riflessivamente, e che possono essere a loro vol-
ta ricomposte nell’unità di una durata, cioè di una estensione
temporale. Ciò che occorre tenere fenomenologicamente di-
stinto è, da un lato, l’oggetto che dura e, dall’altro, la durata
delle fasi in cui esso dura. Husserl osserva che è certamente
possibile tematizzare l’estensione temporale in quanto tale,
vale a dire renderla a sua volta un oggetto, ma ciò avviene
mediante una riflessione che la rende un oggetto distinto da
quello che in essa dura. Il contenuto immanente non può
essere interpretato come un tutto le cui parti sarebbero le fasi
temporali di cui è composto. La fusione delle fasi temporali
dà vita all’estensione temporale dell’oggetto, mentre tra fasi e
oggetto vi è un rapporto diverso: non tra parti e tutto, bensì
tra un qualcosa che si mostra e il medium attraverso cui esso
si mostra.

32. HUA X, p. 240; trad. it. p. 252.


33. Ibidem.
156 michele averchi

Una prima conclusione delle analisi di Husserl sull’iden-


tità nella percezione è, dunque, la seguente: anche nell’im-
manenza si dà identità. Gli oggetti immanenti sono individui
dotati di un’estensione temporale, nel corso della quale essi
si mostrano come identici. Occorre pertanto distinguere tra
due tipi di unità coinvolti in tale manifestazione: l’unità di
coscienza dell’oggetto immanente e l’unità della sua estensione
temporale, data dalla successione delle sue fasi. Tale conclu-
sione rivela che l’ambito dell’immanenza di coscienza è più
articolato di quanto non fosse apparso a Husserl in preceden-
za. Esso, infatti, non è una mera successione di dati sensoriali,
giacché presenta già al suo interno una distinzione di piani.
Anche in esso si dà una distinzione tra ciò che appare e le
sue apparizioni.
La complessità dell’oggetto immanente si accresce se si
prende in considerazione il rapporto con la sua percezione.
Husserl torna sul problema della relazione tra fasi temporali
dell’oggetto e fasi della sua percezione, concentrandosi sulla
percezione immanente. Emerge la necessità di distinguere
tra la continuità di fasi temporali dell’oggetto e la continuità
di fasi della sua percezione.
Le due continuità non devono essere confuse, giacché esse
hanno una struttura fenomenologica differente. La continuità
di fasi percettive è chiamata da Husserl, con un termine par-
ticolarmente significativo, «continuità degli adombramenti
temporali»34. Si consideri ora la percezione di un qualunque
oggetto immanente, ad esempio di un suono considerato
come pura datità, e se ne sospendano i nessi con il mondo
circostante. Se si esamina un determinato istante della du-
rata del suono, si può osservare che in esso è presente una
determinata fase dell’oggetto, mentre le fasi precedenti sono
già trascorse. Come già osservato nel dibattito con Meinong,
tuttavia, nelle fasi percettive vi è di più che la fase presente
dell’oggetto. Nell’istante della percezione sono presenti anche

34. Ivi, p. 275; trad. it. p. 280.


Io puro, unità di coscienza e temporalità 157

le fasi passate dell’oggetto (almeno entro un certo tratto di


decorso), in quanto passate. Husserl nota al riguardo: «Or-
bene, noi dobbiamo per forza distinguere ciò che è effettiva-
mente immanente ad ogni momento-d’ora della percezione-
di-suono, da ciò che in esso obiettivamente appare»35. Vi è
un contenuto reale, effettivo, della percezione, che consiste
nella fase attuale dell’oggetto, e un contenuto oggettivo, vale a
dire la successione di fasi passate dell’oggetto che culmina in
quella presente. È questo secondo contenuto che determina
l’insorgere del senso oggettuale. Se le fasi passate non fossero
ritenute nel presente, non potremmo cogliere l’oggetto in
quanto tale, cioè come suono che dura. L’istante della per-
cezione abbraccia la fase presente del suono e una serie di
fasi passate di esso, che appaiono in modo non originario,
proprio in quanto passate.
Si potrebbe credere che Husserl stia semplicemente ap-
plicando alla percezione interna quanto già affermato nel
corso dei suoi studi sul dibattito Stern-Meinong. Anche lì,
infatti, era emersa con chiarezza la necessità di distinguere
la continuità di fasi dell’oggetto dalla continuità di fasi della
percezione. Non si tratta, tuttavia, solo di questo. Nel caso
del dibattito con Meinong, Husserl poteva distinguere tra
una successione temporale oggettiva – il tempo dell’ogget-
to – e una successione temporale fenomenologica, propria
della coscienza, cioè il flusso della percezione composto di
apprensioni di sensazioni. Le nuove analisi aprono a una re-
visione di tutto ciò. Infatti, esse mostrano che la divisione
tra successione temporale oggettiva (che Husserl chiama qui
reale) e fenomenologica (che Husserl chiama qui oggettiva)
è già interna alla coscienza stessa: è già nella coscienza che
emergono due flussi temporali, vi è da un lato la continuità
di fasi temporali dell’oggetto e dall’altro la continuità di fasi
percettive36.

35. Ibidem.
36. Occorrerebbe prendere in considerazione, al riguardo, anche il rapporto
tra le ricerche di Husserl sulla temporalità fenomenologica e quelle, coeve, sulla
158 michele averchi

Husserl afferma che tale scoperta impone un ripensamen-


to della nozione di immanenza. Quando si impiega questo
termine, si può essere inclini a utilizzare più o meno inav-
vertitamente una metafora spaziale. La coscienza sarebbe
una sorta di contenitore, in grado di “alloggiare” al proprio
interno un certo tipo di contenuti. Husserl riassume tutto ciò
con l’efficace immagine della coscienza come borsa37. Una si-
mile concezione risponde al problema dell’unità di coscienza
concependola come una “cosa”, un ambiente unitario, in cui
entrano ed escono di volta in volta immagini e sensazioni.
Anche il modello di coscienza proposto nelle Ricerche logiche
presenta analogie con tale concezione. Esso prevede contenuti
reali di coscienza, cioè le sensazioni, e funzioni di coscien-
za, cioè le apprensioni che interpretano le sensazioni. Ma le
descrizioni elaborate da Husserl a partire dai manoscritti di
Seefeld pongono tale modello in questione, perché mostra-
no che già nella coscienza immanente vi sono operazioni di
costituzione. Husserl osserva: «la percezione del suono nel
suo “ora” sempre nuovo non è un mero avere il suono, sia
pure il suono nella fase-di-ora. Piuttosto, in ogni “ora” tro-
viamo, accanto al contenuto fisico reale, un adombramento
o meglio: troviamo un peculiare adombramento di suono che
termina nell’ora-di-suono attualmente sentito»38. Ciò che in
un dato istante percettivo è presente alla coscienza non è la
mera sensazione presente, ma anche la ritenzione delle fasi
passate di essa.
L’oggetto immanente percepito è, pertanto, più che un
semplice contenuto inerte, incluso nella coscienza. L’unità
dell’oggetto che si manifesta, sia esso trascendente o imma-
nente, è resa possibile unicamente dall’operazione ritenziona-

riduzione fenomenologica. Un contributo importante al riguardo è r. bernet,


Husserl’s Early Time-Analysis in Historical Context, in «Journal of the British
Society for Phenomenology», vol. 40/2 (2009), pp. 117-154.
37. Per una critica di tale concezione di coscienza cfr. j.b. brough, Consciousness
is not a Bag: Immanence, Transcendence and Constitution in The Idea of Pheno-
menology, in «Husserl Studies» 24 (2008), pp. 177-191.
38. HUA X, p. 280; trad. it. p. 283.
Io puro, unità di coscienza e temporalità 159

le della coscienza. Se le fasi passate dell’oggetto non fossero


conservate dalla coscienza presente, l’oggetto non potrebbe
apparire per quel che è. La successione dei contenuti reali
di coscienza decorre in parallelo alla successione delle fasi
percettive, ma le due successioni si distinguono: le fasi per-
cettive hanno come contenuto la successione delle fasi pas-
sate dell’oggetto, che culminano nella sensazione presente.
È così possibile formulare alcune ulteriori osservazioni circa
la questione dell’unità di coscienza39.

2.2.1 Coscienza assoluta


Quando l’oggetto immanente si manifesta alla coscienza
nella riflessione non si mostra originariamente come suc-
cessione di fasi temporali. Esso appare come un qualcosa di
unitario ed identico che dura nel corso degli adombramenti
temporali. Si è poi osservato che l’oggetto può apparire come
qualcosa di unitario solo in quanto la percezione “ritiene”
in ogni proprio istante le fasi passate di esso. All’identità
intenzionale dell’oggetto corrisponde pertanto la continu-
ità dei suoi adombramenti temporali. Husserl nota: «una
“unità di coscienza” in un senso specifico, possiamo anche
dire un’unità di apprensione, coglie appunto in questa con-
tinuità d’adombramento la fase temporale identicamente
unitaria»40. L’unità dell’oggetto che si manifesta non è pen-
sabile senza la più profonda unità del flusso di coscienza in
cui esso si manifesta, mediante la ritenzione delle sue fasi
passate. Per descrivere il flusso di coscienza in cui l’ogget-
to immanente si mostra, Husserl introduce la nozione di
“coscienza assoluta”41. Con tale espressione, egli intende
marcare la distinzione interna al dominio dell’immanenza

39. Per un approfondimento sulle ricerche husserliane sulla sensazione cfr. v.


costa, Estetica trascendentale fenomenologica: sensibilità e razionalità nella filo-
sofia di Edmund Husserl, Vita e Pensiero, Milano 1999.
40. HUA X, p. 283; trad. it. p. 286.
41. Per una discussione estesa della nozione di coscienza assoluta, cfr. s. ri-
nofner-kreidl, Edmund Husserl: Zeitlichkeit und Intentionalität, Alber, Freiburg
i.B. 2000.
160 michele averchi

cui è stato condotto dalle proprie analisi. Vi è un primo


livello di immanenza, per così dire la sua superficie, che è
composto dalle oggettualità immanenti, le quali si mostra-
no come identità nella durata. Come si è visto, si tratta di
oggetti a tutti gli effetti o, in altri termini, il loro modo di
essere è quello dell’oggettualità (sebbene di una oggettualità
immanente e non trascendente, che viene dunque colta solo
nella riflessione). Vi è poi un livello più profondo, dato dalla
successione di fasi di coscienza in cui avviene la manifesta-
zione degli oggetti immanenti.
Il passaggio ulteriore che Husserl compie è notare che
tale successione, a differenza del livello precedente, non ha
a sua volta la struttura tipica dell’oggettualità. In questa
fase delle indagini husserliane, la coscienza assoluta risulta
essere caratterizzata perlopiù ex negativo. Il termine “asso-
luta” infatti allude al fatto che essa si dà in un modo diverso
dagli oggetti immanenti: gli oggetti immanenti, e in generale
tutti gli oggetti, si danno “attraverso” di essa. Il suono che
dura nell’immanenza, ad esempio, si dà come individuo
attraverso le fasi percettive che ne ritengono le fasi passate
insieme a quella presente. L’intenzionalità non è qui rivolta
alle fasi percettive stesse, bensì all’oggetto che in esse si ma-
nifesta. La coscienza assoluta non si dà come oggetto, bensì
è “vissuta attraverso”. Al contempo, Husserl osserva che essa
può però essere oggettivata da un atto riflessivo. Io posso
effettuare una riflessione, in cui prendo di mira il decorso
unitario della percezione del suono immanente. In questo
caso, l’unità della percezione si trasforma a sua volta in un
oggetto immanente che si dà attraverso una molteplicità di
fasi: il mio “continuare a percepire lo stesso oggetto”, cioè, è
a sua volta un’unità tematica peculiare. Husserl afferma che
qui non insorge il rischio di regresso all’infinito, giacché la
coscienza assoluta non si dà originariamente secondo un
senso oggettuale, bensì soltanto nella riflessione di secondo
grado. Dal momento, tuttavia, che la coscienza assoluta è
a sua volta un’unità, occorrerà indagare quale sia il modo
della sua unità originaria. Husserl la descrive come «unità
Io puro, unità di coscienza e temporalità 161

dell’obbiettivazione»42, vale a dire come unità che effettua


l’obbiettivazione, la costituzione di oggetti, senza divenire
oggetto a sua volta. Nulla in positivo è ancora chiarito sulla
struttura della coscienza assoluta, né, quindi, sulla sua unità.

2.3 Unità delle esperienze e unità dell’esperire

2.3.1 Distinzione tra esperienze ed esperire


Nel testo 41 del volume x della Husserliana, si trovano ul-
teriori considerazioni riguardo al problema dell’unità della
coscienza assoluta, introducendo la polarità esperire/espe-
rienza (Das Erleben/Die Erlebnisse). Lo stesso termine, im-
piegato al singolare o al plurale, denota qui strutture diver-
se. Le “esperienze” sono i singoli vissuti in cui qualcosa si
manifesta. Husserl amplia il terreno dell’indagine: lo studio
della temporalità della coscienza non è più limitato alla per-
cezione, ma include anche vissuti quali la rimemorazione
o la fantasia. Per un verso, infatti, anche in essi qualcosa si
manifesta, seppure in modo non originario, e per altro ver-
so anche essi entrano nell’unità di coscienza come vissuti
che hanno un proprio tempo fenomenologico. L’“esperire”
invece denota l’unità – non in senso costituito – in cui tali
esperienze fluiscono. Si tratta di una distinzione interna al-
la coscienza assoluta. In precedenza Husserl aveva distinto
tra unità immanente dell’oggetto e percezione in cui esso si
mostra, caratterizzando questa seconda in termini di coscien-
za assoluta. Adesso Husserl osserva che, in un certo senso,
questa stessa unità percettiva è il frutto di una sorta di og-
gettivazione – o quasi-oggettivazione (il termine non è di
Husserl): la percezione, o in generale il vissuto intenzionale,
che sto avendo, è tale solo a partire da un’unità di coscienza
che si estende al di là di esso. Le singole esperienze passano,
mentre l’esperire non passa nella misura in cui vi è coscienza.
Si tratta di una sorta di “finestra” sempre aperta, davanti a

42. HUA X, p. 286; trad. it. p. 289.


162 michele averchi

cui scorrono contenuti sempre nuovi. La metafora, tuttavia,


non è adeguata, perché nel caso dell’unità di coscienza asso-
luta non solo trascorrono contenuti sempre nuovi, ma anche
unità sempre nuove dell’esperirli. Sembra esserci, così, un
rapporto particolarmente complesso tra i livelli di coscienza.
La coscienza assoluta risulta composta, per così dire, da un
piano mobile di esperienze sempre nuove e da un piano fis-
so che è l’esperire. Nell’istante di coscienza di volta in volta
presente i due piani coincidono, giacché l’esperienza non è
data originariamente in modo oggettuale, non è tematica,
bensì è “vissuta attraverso”.
Husserl osserva che vi è un primato dell’esperire sulle
esperienze. Ogni esperienza vissuta, in cui ha luogo la sintesi
temporale tra fase presente e fasi passate dell’oggetto (nel caso
più semplice, quello della percezione), è a sua volta inserita in
un’unità di coscienza che coincide con essa nell’istante, ma
che se ne differenzia all’insorgere di una nuova esperienza.
L’unità dell’esperire non si ottiene come somma delle singole
esperienze, né mediante la loro fusione: una successione di
esperienze diverse non basterebbe per giustificare l’esperienza
della loro successione. Al contrario, vi è il dato fenomenolo-
gico della loro unità, cioè il fatto che un’esperienza trapassa
nella successiva senza che ciò segni una discontinuità ulti-
ma della coscienza. Io posso passare coscientemente da una
percezione a quella successiva, o ad un ricordo, una fantasia
ecc.: perché ciò sia possibile, occorre che l’unità dell’esperi-
re preceda le singole esperienze. Ciò è complicato dal fatto
che le esperienze, appartenendo alla coscienza assoluta, non
sono date originariamente come oggetti. Io non esperisco il
bicchiere davanti a me e, al contempo, un secondo oggetto
che sarebbe la mia esperienza del bicchiere. Io esperisco, piut-
tosto, il bicchiere davanti a me secondo una certa modalità
esperienziale (la percezione) che non tematizzo, bensì vivo.
Vi è una continua coincidenza tra l’unità d’esperienza di volta
in volta presente e l’unità dell’esperire. Ma l’unità dell’oggetto
esperito non potrebbe darsi se non a partire da una sintesi di
coscienza che non riguarda solo l’esperienza presente, bensì
Io puro, unità di coscienza e temporalità 163

la coscienza in quanto tale. Senza l’unità dell’esperire non


si darebbe l’unità dell’oggetto. Husserl osserva: «Quando
chiamiamo coscienza delle apparizioni e delle molteplicità
d’apparizione, dovremmo propriamente rifarci alla coscienza
originaria che le costituisce e indicare tale coscienza come
costituente»43.

2.3.2 Relazione tra esperienze ed esperire


Husserl si domanda in che modo sia possibile caratterizzare
le esperienze rispetto all’esperire e ipotizza che la risposta
consista nel carattere ritenzionale-protenzionale delle espe-
rienze. Tale risposta, però, non lo convince. Infatti, il rimando
al passato e al futuro presente in ogni esperienza è, a sua volta,
permanentemente “presente”. Si tratta, dunque, di una carat-
teristica dell’esperire. Le singole esperienze sono dotate di tale
rimando solo in quanto partecipano dell’unità dell’esperire,
che Husserl designa qui anche con il termine vita (Leben).
La risposta che invece egli individua è la seguente: alle
esperienze appartiene la successione temporale e la determi-
natezza di tale successione, cioè il fatto che essa mantiene un
ordine univoco. Egli afferma infatti (utilizzando il termine
“essente” per designare le esperienze): «Che ne è dell’essente?
La sequenza temporale e la determinatezza della sequenza
temporale, la necessità»44. Torniamo all’esempio della perce-
zione del bicchiere. Quando io passo da un’esperienza a quella
successiva, il nuovo istante presente di coscienza conserva
nella propria coda ritenzionale l’esperienza precedente. Se io,
dopo aver percepito il bicchiere, mi volgo al muro alle mie
spalle, la mia esperienza presente si dà in una continuità con
la percezione del bicchiere. Io, per così dire, “so” come ho fatto
ad arrivare al muro. Tra le due esperienze vi è un certo decor-
so, vi è cioè una certa sintesi, di natura anzitutto temporale.
Tale sintesi è possibile perché l’esperienza passata è custodita
dalla ritenzione da parte di quella presente, che non si limita

43. Ivi, p. 292; trad. it. p. 294.


44. Ivi, p. 301; trad. it. p. 301.
164 michele averchi

a conservare la fasi passate dell’oggetto, ma conserva anche


le fasi passate di coscienza relative a esso. In forza di ciò io
posso ritornare sulle mie esperienze precedenti e ricostruire
il mio vissuto. Io posso risalire al fatto che, prima di stare
percependo il muro, stavo percependo il bicchiere, e così via
all’indietro. Tutto ciò è conservato nell’esperienza presente.
L’esperienza presente trattiene ritenzionalmente non soltanto
una coda di fasi passate dell’oggetto, ma anche le fasi passate
dell’esperienza stessa, cioè del flusso di coscienza. Se così
non fosse, io non potrei rendermi conto di essere passato da
un’esperienza all’altra.
La distinzione tra esperire, o vita, ed esperienze si fon-
da dunque sulla dinamica ritenzionale. Io posso accorgermi
che le esperienze passano, ma l’esperire resta, grazie al fatto
che nell’esperienza presente resta una coda ritenzionale di
esperienze passate. Le esperienze passate non possono più
invertire o modificare il loro ordine. Tale ordine resta inva-
riato nel passare delle esperienze. Nel procedere del flusso
di esperienze, e aggiungendosene via via di nuove, la coda
ritenzionale che continuamente ha luogo nell’esperienza pre-
sente risulterà accresciuta. I rapporti tra esperienze passate,
secondo il prima e il dopo, risulteranno però inalterati. Anche
dopo un gran numero di esperienze future, io avrò sempre
percepito, nella data circostanza passata, prima il bicchiere,
poi il muro, poi la casa… ecc. Husserl riassume così: «pos-
sibilità obiettiva di stabilire la sequenza: allora c’era questo,
poi venne quest’altro, fino all’ora»45.
Tale osservazione chiarisce il rapporto tra esperire ed
esperienze. L’esperire non entra a far parte della catena tem-
porale oggettiva di esperienze. Esso, cioè, in quanto dimen-
sione stabile dell’esperienza presente, non è propriamente
“prima” o “dopo” nient’altro. È, in altri termini, un presente
che non passa. Ciò che passa sono le singole esperienze in
cui l’esperire, la vita, di volta in volta si identifica, per poi

45. Ibidem.
Io puro, unità di coscienza e temporalità 165

differenziarsene nel loro defluire. Ma, proprio in forza di tale


dinamica, l’esperire presente non passa mai. Si tratta di un
presente atemporale, che presenta inaspettate analogie con
la nozione neoplatonica e tardoantica di “nunc stans”46. Con
“atemporale” non si intende qui il fatto che tale dimensione
non abbia nulla a che vedere col tempo, bensì che non par-
tecipi del tempo oggettivo. L’esperire, che Husserl definisce
anche, con un altro termine celebre, “presente vivente” (le-
bendige Gegenwart) è, piuttosto, la fonte del tempo oggettivo.
Nell’avanzare delle esperienze, l’esperienza di volta in vol-
ta presente è sempre accompagnata da una coda ritenzionale
in cui sono ordinate le esperienze passate. Tale successione
fa ultimamente capo al presente vivente. Le posizioni relative
delle singole esperienze all’interno della loro successione,
infatti, sono determinate dalla loro relazione con l’esperienza
presente. La coda ritenzionale è una dimensione dell’espe-
rienza presente e, pertanto, l’intera successione di esperienze
passate è ad ogni nuovo istante presente in quanto passata,
secondo i rapporti stabili che la ordinano. Ciò invita Husserl
a riformulare la propria concezione del flusso di coscienza.
Husserl osserva che, in un certo senso, l’intera serie di espe-
rienze passate è continuamente riprodotta a partire dall’espe-
rienza presente. Egli afferma: «non viene “riprodotta” soltanto
la presenza coscienziale di allora col suo flusso, ma, “implici-
te” l’intera corrente di coscienza fino al presente vivente»47.
Per tale ragione, la coscienza interna del tempo non si svolge
come una semplice catena cui via via sia aggiungano nuovi
elementi. Piuttosto, ogni nuovo istante riscrive quelli passati,
perché è a partire da esso che si riconfigura la catena della loro
successione. La costituzione della temporalità di coscienza
procede dunque a ritroso, dal presente al passato, e si pre-
serva in forza della dimensione non transitoria del presente,
che Husserl chiama esperire, vita o presente vivente. Husserl

46. Considerazioni rilevanti sul rapporto tra “presente vivente” e “nunc stans”
si trovano nel classico k. held, Lebendige Gegenwart, Nijhoff, Den Haag 1966.
47. hua x, p. 303; trad. it. p. 303.
166 michele averchi

osserva: «abbiamo dunque, in questo caso, una retroazione. Il


nuovo rimanda ad altro nuovo che, subentrando, si determi-
na e modifica le possibilità riproduttive del vecchio, ecc.»48.

2.4 La revisione dello schema apprensione/contenuto

Si ricorderà che il modello da cui le indagini di Husserl sull’u-


nità di coscienza avevano preso le mosse era quello da lui stesso
definito “schema apprensione/contenuto”. Secondo tale model-
lo, la coscienza è strutturata in termini di contenuti immanenti,
le sensazioni, che vengono interpretate da atti corrispondenti
secondo sensi oggettuali molteplici. Vi sarebbe, dunque, un
contenuto reale della coscienza, vale a dire le sensazioni. Le
ricerche sull’unità di coscienza e sulla temporalità fenome-
nologica, tuttavia, sollevano due problemi al riguardo. 1) In
primo luogo, lo schema apprensione/contenuto mal si accorda
con la scoperta che anche nell’immanenza di coscienza hanno
luogo processi di costituzione. La sensazione immanente, così
come essa si dà, nel suo durare nel tempo fenomenologico, è
già un costituito. Essa non rappresenta dunque un primum,
un’unità fondamentale, dell’esperienza, ma è già un derivato.
Già nello schema apprensione/contenuto Husserl concepiva le
sensazioni e gli atti intenzionanti come intrinsecamente relati:
secondo tale modello, nella coscienza non vi sono sensazioni
sparse che vengono raccolte, bensì esse si danno sempre in
unità con gli atti. Tuttavia la scoperta che le sensazioni in cui
la riflessione si imbatte sono già dei costituiti tende a mettere
in dubbio la validità stessa della nozione di sensazione come
elemento originario della coscienza. 2) In secondo luogo, lo
schema apprensione/contenuto mal si accorda con le analisi
svolte sulla ritenzione, perché esse pongono in questione l’i-
dea di contenuti reali di coscienza. Gli ultimi passaggi svolti
hanno mostrato che la dinamica ritenzionale non è un sem-
plice ritenere ciò che è passato. Essa consiste, piuttosto, in un

48. Ibidem.
Io puro, unità di coscienza e temporalità 167

rigenerarsi, istante per istante, di ciò che è passato, a partire dal


presente non transitorio di coscienza49. Ciò sembra suggerire
che, a tramandarsi nella ritenzione, non sia tanto un contenuto
reale, quanto bensì un senso oggettuale.
In forza degli sviluppi delle sue ricerche, Husserl giun-
ge alla conclusione che ciò che è realmente contenuto nella
coscienza è solo la sensazione sonora attuale. Quel che resta
della sensazione sonora passata è una sorta di «risonanza»50.
In altri termini, ciò che si conserva è la coscienza-di una sen-
sazione sonora passata. Io non ho più un contenuto reale di
coscienza, bensì ho la coscienza-di avere avuto tale contenuto
presente. Husserl osserva dunque che a conservarsi non è il
contenuto reale di coscienza, bensì «qualcosa di modificato:
una coscienza di sensazione passata»51, e conclude: «ciò che
si trova non è insomma un suono reale, ma un esser-stato-
suono»52. La conclusione di Husserl, dunque, è che l’unità
dell’esperienza nella successione di fasi di coscienza è ottenu-
ta a prescindere dal permanere di sensazioni quali contenuti
reali di coscienza. Non è né plausibile, né necessario, che la
coscienza conservi realmente le sensazioni per costituire i
propri oggetti nel fluire di esperienze. Occorre, piuttosto,
che la coscienza conservi le proprie fasi passate, vale a dire la
coscienza-di avere avuto una certa sensazione.

2.5 Il rapporto tra unità di coscienza e temporalità


fenomenologica

Anche alla luce di tale revisione dello schema apprensione/


contenuto, Husserl torna sulla questione fondamentale ri-
guardante l’unità di coscienza, così come essa si era imposta a

49. Per uno studio delle implicazioni di tale concezione della coscienza nella
psicoterapia cfr. d. stern, The Present Moment in Psychotherapy and Everyday
Life, Norton & Company, New York 2004.
50. hua x, p. 324; trad. it. p. 319.
51. Ibidem.
52. Ibidem.
168 michele averchi

partire dalle lezioni del 1904-05 e dal confronto con Meinong


e Stern. Si tratta del problema del regresso all’infinito. Se una
successione di coscienza non basta di per sé a produrre una
coscienza di successione, occorre una funzione che effettui la
sintesi. Ma se tale funzione è svolta da un’ulteriore fase di co-
scienza, essa a sua volta entra nella successione di coscienza, e
richiederebbe un ulteriore funzione in grado di effettuare una
ulteriore sintesi, e così via. Anche il ricorso a piani distinti di
coscienza riproporrebbe l’analoga questione. Una possibile
alternativa sarebbe postulare una funzione inconscia che ef-
fettui la sintesi, ma ciò risulta del tutto incompatibile con il
metodo dell’analisi fenomenologica.
Husserl prova a tirare le fila dei propri studi per rispon-
dere a tale problema, concentrandosi in particolare sulla
funzione della ritenzione nella costituzione del flusso di co-
scienza. Egli osserva anzitutto che, alla luce della revisione
dello schema apprensione/contenuto, il flusso di fasi passate
dell’oggetto ritenute dal ricordo e il flusso di esperienze delle
fasi passate dell’oggetto ritenute dal ricordo sono uno e un
medesimo flusso. Non occorre che si conservino i contenuti
reali dell’oggetto, basta che si conservi l’esperienza di essi.
Ma, giunto a tale conclusione, Husserl osserva: «ed ecco al-
lora la difficoltà: non ho forse anche un ricordo del moto del
flusso, dell’emergere di sempre nuovi ora […]? Non si profila
la minaccia di un regresso all’infinito?»53.
Grazie alle analisi svolte negli anni precedenti, Husserl for-
mula una risposta per molti versi sorprendente: «il flusso di
coscienza è bensì dal canto suo successione, ma adempie da
sé le condizioni di possibilità della coscienza di successione»54.
Egli osserva, cioè, che il processo per cui il flusso di coscienza
si costituisce come una successione e il processo per cui esso
è cosciente di tale successione non sono due processi distinti,
bensì uno e un medesimo processo. Il flusso di coscienza diviene
consapevole delle sue fasi passate nel corso del suo costituirsi

53. Ivi, p. 332; trad. it. p. 325.


54. Ivi, p. 332; trad. it. p. 326.
Io puro, unità di coscienza e temporalità 169

come successione. Ciò elimina il rischio del regresso infinito,


perché elimina la necessità del ricorso a un’ulteriore funzione
che compia la sintesi tra fasi di coscienza. Il flusso di coscienza,
così come esso è strutturato, è in grado di adempiere da sé a tale
funzione. Mentre il flusso di coscienza opera la costituzione delle
proprie oggettualità, sia trascendenti che immanenti, esso opera
al contempo la propria autocostituzione. Husserl si domanda:

non si costituisce, anche il flusso di coscienza, come unità nella co-


scienza? In esso si costituisce dunque l’unità della durata di suono, ma
esso stesso si costituisce a sua volta come unità della coscienza della
durata di suono. Non dovremmo aggiungere, allora, che tale unità
si costituisce in una maniera del tutto analoga, che anch’essa è una
serie temporale costituita, che, insomma, bisogna parlare di un’ora,
un prima ed un dopo temporali55?

A tali interrogativi, Husserl fornisce una risposta affermativa:


«è nell’uno ed unico flusso della coscienza che si costituisce
l’unità temporale immanente del suono e, insieme, l’unità del
flusso stesso della coscienza»56. L’unità del flusso di coscienza,
cioè l’unità soggettiva, si costituisce in parallelo all’unità ogget-
tiva. Occorre dunque distinguere tra due tipi di intenzionalità,
che pure si presentano strettamente intrecciati nell’attività della
coscienza. Vi è un’intenzionalità rivolta alla costituzione degli
oggetti di coscienza, e vi è un’intenzionalità rivolta alla costitu-
zione del flusso stesso di coscienza. Entrambe si fondano sulla
struttura della ritenzione, ma l’una prende di mira l’oggetto
nella sua identità, attraverso le diverse fasi di coscienza, men-
tre l’altra prende di mira il fluire stesso delle fasi di coscienza.
Husserl, come è noto, definisce tali due forme di intenzionalità
“intenzionalità trasversale” e “intenzionalità longitudinale”.
Perché Husserl può giungere a tale conclusione, e quali
conseguenze ne derivano? Secondo quanto osservato in pre-
cedenza, il flusso di coscienza si impernia sulla dinamica riten-

55. Ivi, p. 378; trad. it. p. 362.


56. Ibidem.
170 michele averchi

zionale. Ogni istante del flusso conserva le esperienze passate e,


pertanto, in ogni istante la coscienza si presenta come un flusso
proprio in forza della dinamica ritenzionale. All’insorgere di
un nuovo istante di coscienza è ancora una volta in forza di
tale dinamica che l’istante precedente e la sua coda di espe-
rienze precedenti scivolano nel passato, costituendo la coda
ritenzionale della nuova esperienza presente. Contrariamente
al primo modello proposto da Husserl, e grazie alla revisione
dello schema apprensione/contenuto, non vi è un flusso di
sensazioni da conservare ritenzionalmente, e in aggiunta un
flusso di atti di coscienza di cui spiegare la sintesi. Il processo
ritenzionale basta per spiegare il costituirsi del flusso di co-
scienza: la coscienza è formata da una successione di fasi, che
si costituisce mediante la ritenzione, ed è proprio mediante ciò
che, al contempo, vi è coscienza della successione. Le esperien-
ze passate, infatti, in quanto ritenute sono anche “consapute”.
Vi è tuttavia ancora qualcosa da esplicare. A partire dall’i-
stante presente, la catena ritenzionale costituisce il flusso di
coscienza. Husserl obietta però a se stesso che, in tal modo,
si rischia di presupporre ciò che si vuole spiegare. Cosa si-
gnifica, infatti, “istante presente”? Tale espressione sembra
implicare un riferimento al tempo fenomenologico, che a sua
volta implica un riferimento al flusso di coscienza. Ciò sem-
bra valere per ogni istante di coscienza. Ogni ricordo, infatti,
corrisponde a un determinato “ora” del flusso di coscienza. Il
ricordo di una certa fase della melodia ha avuto un suo “ora”,
che è trapassato nella ritenzione. Husserl osserva: «d’altra
parte, il ricordo è pur qualcosa che ha un proprio ora e lo
stesso ora, per es., di un suono»57. In base a che cosa, dunque,
l’istante presente riceve la sua connotazione di “presente”?
La risposta di Husserl a questa auto-obiezione fa rifermento a
quella dimensione dell’esperienza da lui definita “esperire”, “vita”
o “presente vivente”. Egli afferma: «Il flusso dei modi di coscienza
non è un processo, la coscienza-di-ora non è a sua volta ora»58.

57. Ivi, p. 333; trad. it. p. 326.


58. Ibidem.
Io puro, unità di coscienza e temporalità 171

Si tratta di un’asserzione assai controintuitiva, ma che risulta


comprensibile alla luce del percorso d’indagine svolto negli anni
precedenti. In che senso egli afferma che la coscienza dell’ora
non è ora? Ogni istante di coscienza, ogni esperienza presente è
ciò a partire da cui, in modo continuo, si ricostituisce retroatti-
vamente la catena ritenzionale del flusso di coscienza. Quando
subentra un nuovo istante, l’esperienza precedente scivola nel
passato e la nuova esperienza a sua volta si identifica col presente.
Tale presente non transitorio, a partire dal quale continuamente
si ricostituisce la catena ritenzionale, non entra dunque mai a sua
volta nella catena stessa. Esso non ha una posizione nella succes-
sione di coscienza, poiché esso è sempre e soltanto “ora”, ma in un
senso peculiare, giacché non è mai né prima né dopo nient’altro.
Husserl afferma dunque che la coscienza dell’ora non è ora, nel
senso che tale coscienza non acquisisce mai una posizione nella
linea del tempo fenomenologico. Il flusso di coscienza, come già
notato, non è un processo di accumulazione di esperienze. Esso
si ricostituisce continuamente a partire dall’istante presente. Per
tale ragione, il flusso di coscienza non andrebbe, propriamente,
neppure chiamato “flusso”:

questo flusso è qualcosa che noi chiamiamo così in base al costituito,


ma che non è nulla di temporalmente “obiettivo”. È l’assoluta sogget-
tività, e ha le proprietà assolute di qualcosa che si può indicare, con
un’immagine, come “flusso”; di un punto di attualità, di un punto-ora
che è fonte originaria, ecc. Nel vissuto dell’attualità, noi abbiamo il
punto-fonte originario e una continuità di momenti di risonanza59.

3. Io puro e temporalità fenomenologica

Nella prima edizione delle Ricerche logiche, come si è visto,


Husserl discute il tema dell’io puro in relazione al problema

59. Ivi, p. 371; trad. it. p. 356.


172 michele averchi

dell’unità di coscienza. Nella seconda edizione delle Ricerche


logiche, pubblicata nel 1913, Husserl ritratta le proprie posi-
zioni circa l’io puro sostenute nella prima edizione. Mentre
nella prima edizione, confrontandosi con Natorp, aveva scrit-
to: «Devo tuttavia confessare che non sono affatto in grado
di trovare un tale io primitivo come centro necessario di
relazione»60, nella seconda aggiunge una nota a piè di pagi-
na che recita: «Nel frattempo ho imparato a trovarlo, vale a
dire, ho imparato a non essere indotto in errore dalla paura
dei travisamenti della metafisica dell’io nel coglimento puro
del dato»61. Alcune pagine prima62 Husserl aveva aggiunto
una nota in cui analogamente ridiscuteva il tema dell’io puro,
suggerendo che vi sono vissuti per loro natura egologici, il
cui io non può essere identificato con l’io empirico.
Nello stesso anno Husserl pubblica Idee I, in cui presenta
una descrizione fenomenologica della coscienza caratteriz-
zata dalla presenza dell’io puro, ribadendo dunque di aver
mutato opinione rispetto al proprio libro precedente. Il fatto
che in Idee I egli introduca l’io puro significa forse che egli
ha mutato atteggiamento circa il problema dell’unità di co-
scienza? Che rapporto c’è tra le ricerche e le risposte indivi-
duate da Husserl al problema negli anni tra il 1905 e 1909 e
l’introduzione dell’io puro in Idee I? Ancora: che rapporto
c’è tra l’io puro, così come Husserl ne parla in Idee I, e la
temporalità di coscienza, così come Husserl l’ha studiata tra
il 1905 e il 190963?

60. Ivi, p. 374.


61. Ibidem.
62. Ivi, p. 368.
63. Negli anni tra il 1905 e il 1913, Husserl si pone talora esplicitamente la domanda
circa il rapporto tra io puro, unità e temporalità di coscienza. Egli si domanda, cioè,
se per spiegare l’unità del flusso di coscienza non sia necessario riconoscere un
principio egologico unificante. Un passaggio significativo si trova in un testo datato
“Settembre 1907” ed elaborato da Husserl nel contesto delle lezioni sulla logica
e teoria della conoscenza del 1906-07, edito nel volume xxiv della Husserliana:
hua xxiv, Einleitung in die Logik und Erkenntnistheorie. Vorlesungen 1906/07, U.
Melle (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1984. Nel quadro di considerazioni più ampie,
Husserl giunge a discutere il problema della temporalità e della coscienza del
Io puro, unità di coscienza e temporalità 173

3.1 Io puro e coscienza pura

L’io puro non coincide con la coscienza pura, campo cui si


accede mediante la riduzione fenomenologica. L’io puro, piut-
tosto, appartiene alla regione della coscienza pura. La necessità
di una distinzione tra coscienza pura e io puro è espressa da
Husserl già nel paragrafo 33, in cui egli, parlando della co-
scienza trascendentale come residuo fenomenologico, afferma:
«L’essere da mostrare non è altro se non ciò che per motivi
essenziali può venire indicato come “puri vissuti”, “pura co-
scienza” con i suoi “puri correlati” e dall’altra parte il suo “pu-

tempo, e osserva che «il grande problema della coscienza del tempo non è solo il
problema del tempo oggettivo per il mondo oggettivo, bensì il problema del tempo
“soggettivo”, la forma di tutto ciò che è percepito “interiormente”» (ivi, p. 421). In
una nota aggiunta in seguito egli specifica che al riguardo occorre distinguere
tra la temporalità costituente del flusso di coscienza e quella degli oggetti imma-
nenti di coscienza. Da qui, Husserl muove ad alcune considerazioni circa l’unità
di coscienza, così come essa si costituisce nel singolo soggetto. Egli afferma che
l’identità soggettiva consiste appunto nell’insieme dei vissuti tra loro connessi:
«le percezioni etc. del singolo io formano una connessione, la connessione della
coscienza fenomenologica» (ibidem) e cioè «una coscienza-io della percezione
interna, vale a dire la coscienza-io che si trova nella percezione interna come unità
di percezioni, rappresentazioni, giudizi etc.» (ibidem). A questo punto, Husserl
si dimostra però perplesso circa la plausibilità di una definizione dell’io come
mero fascio di vissuti tra loro connessi. Egli afferma, al riguardo, di non riuscire a
decidersi in via definitiva: «Tuttavia, questa è una grande questione, a cui troppo
mi sono sottratto, l’evidenza dell’io come un identico, che quindi non può con-
sistere nel fascio. Non si dovrebbe ammettere che io “mi” trovo già sempre come
assolutamente certo, in quanto ho gli atti, vivo negli atti molteplici ma sempre in
quanto uno ed il medesimo?» (ibidem). In altri termini, egli si domanda se l’espe-
rienza non mostri forse che nel flusso di coscienza vi è un’identità stabile, non
riducibile al semplice fluire interconnesso dei vissuti. La domanda resta aperta,
ed è interessante che Husserl sottolinei la connessione tra il problema della natu-
ra egologica del flusso di coscienza e quello della coscienza del tempo: «Finisco
dunque, per quanto riguarda l’enigma della costituzione soggettiva del tempo,
con una domanda» (ivi, p. 422). Anche se Husserl non impiega in tale contesto il
termine “io puro”, è chiaro che egli si riferisce a esso, dal momento che poco prima
aveva distinto l’io di coscienza dall’io empirico. È anche rilevante, da un punto
di vista storiografico, notare che in nota a tale passaggio Husserl rimanda al testo
di Pfänder Einführung in die Psychologie del 1904, in cui Pfänder rivendica una
concezione egologica forte della coscienza, imperniata sulla nozione di “io puro”.
174 michele averchi

ro io”»64. Ulteriori indicazioni circa l’io puro in rapporto alla


coscienza pura sono fornite nel paragrafo 46, in cui Husserl
afferma che l’io puro appartiene necessariamente alla coscienza
pura, in quanto appartiene necessariamente a una determinata
classe di vissuti, cioè i vissuti di tipo cogito. La sua esistenza è
necessariamente implicata dalla datità di tali vissuti. Ciò può
essere colto mediante un atto riflessivo che tematizzi tali vis-
suti: «dirigendosi il mio afferrare riflessivo sul mio vissuto, io
afferro un assoluto “esso stesso” la cui esistenza non può di
principio essere negata; non è per principio possibile pensare
che esso non esista»65. Non solo in tale atto io colgo la datità
del vissuto come indubitabile, ma colgo anche me stesso come
soggetto puro di tale atto. In tali osservazioni Husserl lascia
ancora indeterminato cosa sia propriamente da intendersi per
io puro e accenna solo al fatto che l’io puro ha a che fare con
i vissuti attuali di coscienza. Tali vissuti sono ciò che Husserl
definisce “vissuti del tipo cogito”. L’io puro ha un’esistenza ne-
cessaria, non nel senso di una necessità assoluta a priori, ma
nel senso che esiste necessariamente nella misura in cui si dà
la coscienza. Husserl parla di necessità fattuale, da distinguersi
da una pura necessità eidetica.

3.2 Il darsi dell’io puro nella coscienza: i vissuti attuali

L’io puro non cade con la riduzione fenomenologica, dal mo-


mento che anche dopo la riduzione vi sono necessariamente
nella coscienza dei vissuti di tipo “cogito”. L’argomentazione
è dunque la seguente: la coscienza include necessariamen-
te vissuti di tipo “cogito” anche dopo la riduzione, i vissuti
di tipo cogito implicano necessariamente l’io puro, ergo l’io

64. hua iii/1, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen


Philosophie. Erstes Buch: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, K.
Schuumann (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1976, p. 67; trad. it. di V. Costa, Idee per
una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Libro primo: Intro-
duzione generale alla fenomenologia pura, Einaudi, Torino 2002, p. 97.
65. Ivi, p. 97; trad. it. p. 111.
Io puro, unità di coscienza e temporalità 175

puro sopravvive alla riduzione. Quale è la forma in cui l’io si


dà nella coscienza? Husserl osserva: «Dopo aver eseguito tale
riduzione è evidente anzitutto che, se percorriamo i moltepli-
ci vissuti del flusso che rimane come residuo trascendentale,
non incontreremo mai l’io puro; esso non è un vissuto tra
gli altri vissuti»66. L’io puro non è un vissuto tra i tanti, e la
sua costante presenza, come Husserl afferma in un celebre
passaggio, «non è quella di un vissuto stupidamente persi-
stente, di una “idea fissa”»67. L’io, piuttosto, “vive attraverso”
i vissuti di tipo “cogito”, identificandosi di volta in volta con
essi senza però venire meno allorché essi vengono meno. L’io,
afferma Husserl, appartiene «a ogni vissuto che giunga o che
defluisca, e il suo “sguardo” va all’oggetto “attraverso” ogni
attuale cogito»68. Ora, nel fluire dei vissuti di tipo “cogito”
emerge la distinzione tra l’io puro ed essi:

E tuttavia l’io è qualcosa di identico. Mentre in linea di principio ogni


cogitatio può mutare, venire o andare – anche se si può mettere in dubbio
se essa sia transeunte per necessità o soltanto, come ci appare, di fat-
to –, l’io puro sembra invece essere qualcosa di necessario per principio
e, poiché si presenta assolutamente identico attraverso ogni mutamento
reale o possibile dei vissuti, non può venire considerato in nessun senso
una parte effettiva o un momento effettivo dei vissuti stessi69.

I vissuti di tipo “cogito” sono quelli che Husserl chiama an-


che “vissuti attuali”. Secondo Husserl, un vissuto può avere
luogo nel nostro flusso di coscienza, senza che il suo oggetto
sia da noi esplicitamente preso di mira. Ad esempio, posso
percepire un rumore di fondo nell’ambiente in cui lavoro,
senza tematizzarlo esplicitamente. La tematizzazione, quando
avviene, non deve necessariamente assumere la forma di una
predicazione, bensì, in generale, la forma di un rivolgimento

66. Ivi, p. 123; trad. it. p. 143.


67. Ibidem.
68. Ibidem.
69. Ibidem.
176 michele averchi

o di una riconfigurazione dell’attenzione. Quando tale ricon-


figurazione ha luogo, l’oggetto che era in precedenza preso
di mira arretra a sfondo e il corrispondente vissuto si muta
in inattualità. Ogni vissuto attuale è sempre circondato da
una corte di vissuti inattuali, che possono volgersi in vissuti
attuali. Un flusso di coscienza costituito da meri vissuti attuali
è impensabile: «il flusso di coscienza non può mai consistere
di pure attualità»70. Nel flusso di coscienza si danno di volta
in volta vissuti attuali, sempre circondati da vissuti inattuali
che si volgono in attualità e viceversa. L’io puro si identifica di
volta in volta col vissuto attuale, e se ne distingue non appena
quest’ultimo si volge in inattualità, identificandosi col nuovo
vissuto attuale. Al flusso di coscienza appartengono necessa-
riamente vissuti attuali, e nei vissuti attuali è necessariamente
operativo l’io puro, ergo l’io puro appartiene necessariamente
al flusso di coscienza.

3.3 Il rapporto tra io puro e flusso di coscienza:


Ichbezogenheit e centratura

Vi è una relazione privilegiata tra l’io puro e i vissuti attuali.


L’io puro vige nei vissuti attuali, mentre non vige in quelli
inattuali. Se non vi fosse altro da aggiungere, bisognerebbe
concludere che il tema dell’io puro in Idee I non ha nulla a
che vedere col problema dell’unità di coscienza. Quest’ul-
timo, infatti, riguarda la connessione tra tutti i vissuti del
flusso di coscienza, mentre l’io puro sarebbe soltanto una
caratterizzazione di un certo tipo di vissuti. Husserl, tuttavia,
sebbene insista sul fatto che tra io puro e vissuti attuali vi sia
un rapporto privilegiato, aggiunge che vi è un rapporto più
ampio tra l’io puro e tutti i vissuti che entrano nell’unità di
un determinato flusso di coscienza. Dopo aver descritto il
rapporto tra io puro e vissuti attuali, egli osserva: «Gli altri
vissuti, che costituiscono il milieu generale rispetto all’at-

70. Ivi, p. 71; trad. it. p. 83.


Io puro, unità di coscienza e temporalità 177

tualità dell’io, mancano certamente di questo caratteristico


riferimento all’io che abbiamo appena discusso. E tuttavia
partecipano anch’essi all’io puro, come questo ad essi. Essi gli
“appartengono” come “suoi”, sono il suo sfondo di coscien-
za, il suo campo di libertà»71. I vissuti inattuali, che sono in
potenza vissuti attuali, sono dunque privi di una specifica
relazione egologica, nel senso che l’io puro non vige in essi,
ma sono in rapporto con l’io nel senso che gli appartengono,
sono “suoi” vissuti, anche se l’io puro non è attivo in essi. La
relazione di appartenenza non deriva dall’essere i vissuti un
prodotto o il risultato di una azione dell’io puro; piuttosto, il
solo fatto che essi siano in potenza vissuti attuali li rende in
quanto tali già appartenenti all’io. Si tratta di una distinzione
fenomenologica che occorrerebbe approfondire e che trova
qualche analogia nella distinzione, proposta da alcuni autori
contemporanei, tra autorship e ownership degli stati mentali72.
Mentre la relazione specifica che Husserl definisce “Ichbe-
zogenheit” riguarda solo i vissuti attuali, la relazione di ap-
partenenza all’io puro riguarda necessariamente tutti i vissuti
di un determinato flusso di coscienza: in quanto è inserito
nell’unità di un flusso di coscienza, ogni vissuto è ipso facto
appartenente all’io puro relato a quel flusso. Per Husserl, si
tratta di una proprietà essenziale dei vissuti, che egli indica
addirittura come la loro proprietà essenziale più rilevante:
«Tra le peculiarità essenziali di carattere generale del territo-
rio trascendentalmente purificato dei vissuti, il primo posto
spetta alla relazione di ogni vissuto all’io “puro”»73.
Di che natura è la relazione tra l’io puro e tutti i vissuti?
In che modo è possibile specificare ciò che Husserl definisce
l’appartenere di tutti i vissuti all’io puro? Una volta distinta
tale relazione dalla Ichbezogenheit propria dei vissuti attuali,
è possibile aggiungere qualcosa al riguardo? Le indicazioni

71. Ivi, p. 179; trad. it. p. 201.


72. Cfr. ad esempio g. lynn stephens, g. graham, When Self-Consciousness
Breaks: Alien Voices and Inserted Thoughts, MIT Press, Boston 2000.
73. hua iii/1, p. 179; trad. it. p. 200.
178 michele averchi

che fornisce Husserl sono estremamente preziose. Egli in-


fatti afferma che tale relazione è intimamente connessa alla
temporalità fenomenologica. Ciò mostra chiaramente che la
posizione di Husserl in Idee I non può essere appiattita su
quella di Natorp: la temporalità di coscienza non gioca, in
quest’ultimo, nessun ruolo nella relazione tra vissuti e io pu-
ro. Husserl, invece, ribadisce anzitutto la funzione essenziale
della temporalità fenomenologica nella costituzione del flusso
di coscienza, mostrando di non aver cambiato idea rispetto
alle conclusioni del 1909: «La proprietà essenziale, che il titolo
“temporalità” esprime per i vissuti in generale, non indica sol-
tanto qualcosa che universalmente appartiene a ogni singolo
vissuto, ma anche una forma necessaria che unisce i vissuti
tra loro»74. Egli aggiunge, subito dopo: «Ogni vissuto, come
essere temporale, è un vissuto del suo io puro»75. Occorre
osservare che la clausola introdotta qui da Husserl è del tutto
incompatibile con il modello di coscienza proposto da Na-
torp. Husserl afferma che i vissuti appartengono all’io puro in
quanto esseri temporali, cioè in quanto inseriti nella dinamica
di costituzione della temporalità fenomenologica. Che non
si tratti di una affermazione casuale lo mostra una ulteriore
citazione, tratta dai materiali preparatori stesi da Husserl in
vista della scrittura di Idee I. Si tratta di un abbozzo datato
luglio 1912, in cui Husserl scrive:

Ogni vissuto ha necessariamente la sua durata, in questa forma che


si costituisce in una continua produzione vivente di punti di presente
sempre nuovi e punti di passato sempre nuovo. Qui la durata del vis-
suto è necessariamente sezione di un tempo infinito del vissuto, che è
una forma unitaria per tutti i vissuti riferibili allo stesso io puro. Si può
anche dire che la relazione unitaria all’io puro è equivalente all’intro-
duzione dei vissuti con le loro durate in un flusso del tempo, coglibile
intuitivamente in una riflessione che lo abbraccia in unità: tutti i vissuti,
che in una intuizione riflessiva possono essere introdotti in un unico

74. Ivi, p. 182; trad. it. p. 204.


75. Ibidem.
Io puro, unità di coscienza e temporalità 179

ed unitario flusso della costituzione vivente del tempo, che li include


intuitivamente, appartengono ad una coscienza pura, ad un io puro76.

Husserl, dunque, descrive il costituirsi dei vissuti nell’unità


di un flusso di coscienza mediante le loro relazioni temporali.
Egli parla dell’unità di coscienza come di una forma costi-
tuente che ha luogo mediante la temporalità fenomenologica,
e afferma che l’appartenenza dei vissuti a un unico flusso
temporale è equivalente alla loro appartenenza all’io puro.
Quando Husserl parla di equivalenza tra appartenenza al
flusso e appartenenza all’io puro non intende affermare che
le due relazioni siano in realtà la medesima o che siano sullo
stesso piano. L’appartenenza al flusso temporale di coscienza
è piuttosto da intendersi come condizione di possibilità perché
i vissuti possano appartenere all’io puro. I vissuti appartengo-
no all’io puro in quanto appartengono al flusso di coscienza.
Poco prima del passaggio in cui Husserl afferma che ogni
vissuto appartiene all’io puro in quanto essere temporale,
egli afferma infatti che la dimensione della costituzione della
temporalità fenomenologica è più profonda della dimensione
della coscienza trascendentale, includente l’io puro, raggiunta
dalla riduzione fenomenologica: «L’“assoluto” trascendentale,
che abbiamo raggiunto per mezzo delle riduzioni, in verità
non è l’ultimo, ma qualcosa che a sua volta si costituisce in
un certo senso profondo e del tutto caratteristico, avendo
la sua sorgente originaria in un ultimo e vero assoluto»77. Il
contesto rende inequivocabile il fatto che Husserl, parlando
di tale “ultimo e vero assoluto” si stia riferendo alla costitu-
zione della temporalità fenomenologica. A conforto di tale
interpretazione vi è poi un’ulteriore passaggio, pubblicato in
Idee II e scritto nel periodo tra il 1913 e il 1915. In esso Husserl
afferma, riferendosi ai vissuti:

76. hua iii/2, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen


Philosophie. Ergänzende Texte (1912-1929), K. Schumann (Hrsg.), Nijhoff, Den
Haag 1976, p. 553.
77. hua iii/1, p. 182; trad. it. p. 203.
180 michele averchi

Del resto bisogna tener presente che le unità di cui ci stiamo occupando,
[…] sono a loro volta unità già costituite coscienzialmente, unità cioè
che si costituiscono in una “coscienza” più profonda, corrispondente-
mente multiforme, in un senso diverso, un senso per cui tutto ciò che
noi fino a ora chiamavamo “coscienza” o vissuto non si propone come
un che di effettivo, bensì soltanto come l’unità del “tempo immanente”
nel quale la coscienza stessa si costituisce. […] Questo elemento più
profondo, il tempo immanente, e tutte le unità del vissuto si articolano in
esso, e tra queste unità qualsiasi coscienza che sia costitutiva del cogito,
sono state lasciate in disparte di proposito in questi paragrafi; la nostra
ricerca si è mantenuta completamente nell’ambito della temporalità
immanente. In questa sfera rientra anche l’io puro e identico. L’io puro
è in quanto io identico di questo tempo immanente78.

Si tratta di un testo in cui Husserl riassume le proprie posizioni:


1) la dimensione dell’immanenza di coscienza è costituita da
una dimensione più profonda. Vi è una coscienza costituente il
tempo immanente. Husserl si riferisce qui a quella dimensione
di cui si è occupato nelle ricerche tra il 1905 e il 1909, e che in Idee
I chiama “l’ultimo vero assoluto”; 2) l’io puro appartiene alla di-
mensione dell’immanenza di coscienza. Esso è “l’identico di tale
tempo immanente”. Ponendo in relazione le due affermazioni, si
evince che Husserl colloca la coscienza costituente la temporalità
fenomenologica a un livello più profondo dell’io puro.

3.3.1 Il rapporto tra io puro e flusso di coscienza:


onnitemporalità
Ciò che vorremmo arguire è che i vissuti hanno un legame
con l’io puro in quanto hanno un legame con il presente
non temporale di coscienza. In forza della struttura di au-
tocostituzione del flusso, imperniata sul presente vivente, il

78. hua iv, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Phi-
losophie. Zweites Buch: Phänomenologische Untersuchungen zur Konstitution, M.
Biemel (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1952, p. 102; trad. it. di E. Filippini Idee per una
fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica. Libro secondo: Ricerche
sopra la costituzione, a cura di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, p. 107.
Io puro, unità di coscienza e temporalità 181

flusso è già dotato di un punto di orientamento interno. La


relazione tra l’io puro e i vissuti è resa possibile da tale previo
orientamento interno al flusso. Che tale interpretazione sia
plausibile è mostrato a nostro avviso da una seconda carat-
teristica dell’io puro che emerge dalle descrizioni di Husserl
elaborate nel periodo di Idee I, e cioè la “onnitemporalità”.
L’io puro vive o vige attraverso la fase di coscienza di vol-
ta in volta presente, senza sprofondare con essa nel passato
ritenzionale. Husserl scrive, come già riportato:

L’io sembra esistere costantemente, necessariamente, e questa costanza


non è quella di un vissuto stupidamente persistente, di una “idea fissa”.
L’io appartiene invece a ogni vissuto che giunga o che defluisca, e il
suo “sguardo” va all’oggetto “attraverso” ogni attuale cogito. Il raggio
di questo sguardo muta con ogni cogito, spunta con ogni nuovo cogito
e sparisce con esso. E tuttavia l’io è qualcosa di identico79.

Si può concluderne che, se l’io non insorge e trascorre


al modo delle esperienze, esso è sprovvisto di una propria
estensione temporale. Husserl prosegue sottolineando, a tale
riguardo – con una affermazione che abbiamo già utilizza-
to –, la differenza tra io puro ed esperienze:

Mentre in linea di principio ogni cogitatio può mutare, venire o an-


dare – anche se si può mettere in dubbio se essa sia transeunte per
necessità o soltanto, come ci appare, di fatto –, l’io puro sembra in-
vece essere qualcosa di necessario per principio e, poiché si presenta
assolutamente identico attraverso ogni mutamento reale o possibile
dei vissuti, non può venire considerato in nessun senso una parte
effettiva o un momento effettivo dei vissuti stessi80.

L’io puro, pertanto, risulta essere atemporale, non solo nel


senso della temporalità oggettiva, ma anche nel senso della
temporalità fenomenologica. Tale determinazione sembre-

79. hua iii/1, p. 123; trad. it. p. 143.


80. Ibidem.
182 michele averchi

rebbe qui ricondurre Husserl nell’orbita di Natorp. Ma vi è


di più.
In un manoscritto del 1915 Husserl specifica che la atempo-
ralità dell’io puro va intesa come onnitemporalità. L’io puro è
atemporale, non nel senso che esso non intrattiene alcuna rela-
zione con la temporalità, ma, al contrario, nel senso che esso è
presente in ogni fase temporale del flusso di coscienza: si tratta
non di una estraneità, bensì di una onnipresenza nel flusso. Sol-
tanto così è possibile spiegare la dinamica delle rimemorazioni:
l’io può riconoscere come propri dei vissuti passati, perché vi è
una identità completa tra l’io presente in essi e l’io attualmente
presente. Ad ogni vissuto presente nel flusso corrisponde una
“fase” dell’io, che perdura nella propria presenza non transitoria.
Husserl afferma, descrivendo il flusso di coscienza:

Questo flusso è un flusso di tempo fenomenologico (forma del tempo


fenomenologico) e a questo tempo si ascrive il soggetto dei vissuti.
A ogni ora appartiene, in riferimento a tutti i vissuti dell’ora in que-
stione, sia originario sia modificato nel ricordo, una fase dell’io in
quanto io operativo, rivolto, attivo o che potrebbe rivolgersi. Quindi,
un campo fenomenologico di durata, in quanto campo dell’io, in cui
l’io è onnipresente81.

3.4 Io puro e presente vivente

Resta aperta una domanda: in forza di che cosa l’io puro può
essere sempre presente? Come è possibile che esso intrattenga
una tale relazione con tutti i vissuti appartenenti al flusso? La
nostra tesi è la seguente: l’io puro può essere sempre presente,
ed essere in rapporto con tutti i vissuti del flusso, in virtù del
suo rapporto con il presente non temporale di coscienza, che
Husserl chiama anche “presente vivente”. Il luogo originario di
manifestazione dell’io puro è, infatti, il presente non temporale
di coscienza. Dal momento che tutto il flusso di coscienza si

81. hua xiii, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass.
Erster Teil (1905-1920), I. Kern (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1973, p. 52.
Io puro, unità di coscienza e temporalità 183

struttura in rapporto a tale presente non temporale, anche l’io


puro può entrare in rapporto con tutti i vissuti.
Che tale interpretazione non sia una forzatura, emerge chia-
ramente in un passaggio straordinariamente significativo dei
manoscritti di Bernau (1917), in cui Husserl affina le descrizioni
svolte in precedenza. Si tratta di un efficace riassunto dell’intero
percorso svolto sinora. Anzitutto Husserl osserva che l’io puro,
in quanto polo dei vissuti, è di per sé “sovratemporale”:

Ma qui occorre ora notare che l’io, in quanto polo identico per tutti i
vissuti e tutto ciò che è onticamente a sua volta incluso nell’intenzio-
nalità dei vissuti (ad esempio la natura presunta in quanto presunta)
è polo per tutte le successioni temporali, e necessariamente in quanto
tale è “sovra”-temporale, l’io per cui il tempo si costituisce, per cui
c’è temporalità, oggettualità individuale singolare nell’intenzionalità
della sfera dei vissuti, ma che non è a sua volta temporale82.

L’io puro intrattiene relazioni con tutti i vissuti, ma non è a


sua volta un oggetto, sia pure immanente: lo diviene solo nella
riflessione. Husserl aggiunge poi che esso entra in relazione coi
vissuti in virtù di un punto sorgivo che di per sé non è coglibile:
«il punto sorgivo vivente di questo entrare, e pertanto il punto
d’essere vivo, con cui l’io stesso entra in una relazione soggettiva
con il temporale, e diviene a sua volta temporale e durevole, è
di principio non direttamente percepibile»83. Infine, specifica
quale sia il modo originario di datità dell’io puro, prima del
suo coglimento riflessivo. La scelta terminologica al riguardo
è particolarmente significativa, dal momento che Husserl parla
di una “vita originaria” che fluttua al di sopra di tutto ciò che è
temporale. Egli scrive, infatti, riguardo all’io puro: «È appunto
essere soggetto, e in quanto tale ha il proprio modo di vivere
in una vita originaria che fluttua al di sopra di tutto ciò che è

82. hua xxxiii, Die Bernauer Manuskripte über das Zeitbewusstsein (1917/1918),
R. Bernet, D. Lohmar (Hrsg.), Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/
London 2001, p. 277.
83. Ivi, p. 80.
184 michele averchi

temporale, una vita che, però, subito penetra nella temporalità


e fornisce in modo secondario all’io stesso, in quanto polo-
soggetto dei suoi vissuti nel tempo, una posizione nel tempo
e una durata nel tempo»84. Una tale affermazione risulterebbe
di per sé di ardua comprensione. Cosa è da intendersi, con tale
dimensione di “vita originaria”? Il tutto si chiarisce se lo si pone
in relazione con le ricerche sull’unità del flusso di coscienza
svolte da Husserl tra il 1905 e il 1909, interpretando tale “vita
originaria” nei termini di ciò che allora egli aveva definito “pre-
sente vivente”. Si ricorderà, infatti, che un altro termine impie-
gato da Husserl per designare tale dimensione di coscienza era
precisamente “vita” (Leben) distinta dai vissuti (Erleben). Nelle
ricerche tra il 1905 e il 1909 Husserl era giunto alla conclusione
che la “coscienza dell’ora non è a sua volta ora”, cioè che vi è un
presente non temporale di coscienza, che coincide di volta in
volta con la fase presente del flusso di coscienza, ma che non
trascorre insieme a essa. Tale dimensione, che abbiamo definito
“presente non temporale”, è il punto di orientamento a partire da
cui si costituisce il flusso temporale di coscienza, ed essa è chia-
mata precisamente “vita” da Husserl. Ciò che nei manoscritti di
Bernau egli chiama Urleben, intesa come dimensione originaria
a partire dalla quale si costituisce la temporalità immanente, ma
che non è a sua volta temporale, coincide dunque con ciò che
egli aveva in precedenza chiamato “vita”, e risulta comprensibile
in che senso Husserl ne affermi la non-temporalità.
È interessante notare che Husserl, nello stesso anno, de-
scrive la dimensione del presente non temporale di coscienza
nei termini di una “forma” dello scorrere del flusso, utiliz-
zando esplicitamente il termine nunc stans per sottolinearne
la atemporalità e il ruolo di orientamento rispetto al flusso
di coscienza:

Tutto ciò, però, scorre in modo tale che si costituiscono vissuti co-
me eventi nel tempo fenomenologico, nel costante fluire-attraverso

84. Ivi, p. 287.


Io puro, unità di coscienza e temporalità 185

di questo stile di coscienza (una forma permanente della coscienza


trascendentale più interiore, che la nuova riflessione ci ha dischiuso).
Ciò avviene in un modo correlativo di orientamento, dallo stile stabile.
Il “presente ora” sorgivo originario funge da punto-zero continuo dell’o-
rientamento, e tutto ciò che è appena passato è orientato in relazione a
lui. Questo punto-zero è, quanto alla forma, il nunc stans, ma è fluente
in quanto fonte originaria della costituzione di un punto di identità
sempre nuovo del tempo fenomenologico, vale a dire di una fase sempre
nuova dell’evento che di volta in volta si estende mediante tale tempo85.

Al contempo, nei manoscritti di Bernau, Husserl afferma che


la dimensione della vita originaria è quella cui appartiene
originariamente l’io puro. L’io puro, dunque, è in relazio-
ne con ogni vissuto del flusso (centratura) ed è presente in
ognuno di essi (onnitemporalità) proprio perché vive origi-
nariamente in tale dimensione di presente non temporale di
coscienza, a partire dal quale continuamente si configura il
flusso di coscienza. L’unità del flusso non è generata dall’io
puro, bensì dal presente non temporale di coscienza; ma l’io
puro intrattiene con quest’ultimo una relazione privilegiata
e, di conseguenza, entra in relazione col flusso di coscienza
secondo le proprietà che abbiamo descritto86.

Conclusioni

Tiriamo ora le fila della nostra ricostruzione. Nelle Ricerche


logiche Husserl ritiene l’io puro un’ipotesi superflua per spie-
gare la vita di coscienza, mentre in Idee I egli afferma di essere
riuscito a trovare l’io puro, cui dedica una serie di analisi. Si
è visto che tali affermazioni, di per sé piuttosto lapidarie ed

85. hua xxv, Aufsätze und Vorträge (1911-1921), T. Nenon, H.R. Sepp (Hrsg.),
Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/London 1987, p. 223.
86. Per una discussione del rapporto tra soggettività e temporalità nei mano-
scritti di Bernau cfr. anche d. zahavi, Time and Consciousness in the Bernau
Manuscripts, in «Husserl Studies» 20/2 (2004), pp. 99-118.
186 michele averchi

enigmatiche, risultano comprensibili se collocate nel quadro


delle indagini e dei dibattiti sull’unità di coscienza in cui
Husserl era all’epoca coinvolto.
Nelle Ricerche logiche, Husserl discute l’io puro come ri-
sposta possibile al problema dell’unità di coscienza, problema
che egli suddivide in tre questioni particolari: l’unità interna
all’atto di coscienza, l’unità tra atti di coscienza, e l’unità
della “cosa reale”, eventualmente studiabile dalla metafisica,
che farebbe da substrato alle prime due. Una volta estro-
messa la terza questione dall’ambito della fenomenologia,
Husserl risolve la prima ricorrendo ai nessi intrinseci alle
parti dell’atto di coscienza, che si danno come un tutto con-
giunto, e marginalizza la seconda affermando che gli atti sono
tra loro connessi secondo legami di successione non meglio
precisati. Non vi è, pertanto, bisogno di ricorrere all’io puro
per spiegare alcuno dei tre tipi di unità di coscienza.
Il dibattito tra Meinong e Stern suggerisce a Husserl una
revisioni delle proprie posizioni. Il problema della percezione
di oggetti in divenire mostra, infatti, che anche all’interno
del singolo atto di coscienza vi è una sintesi tra momenti
successivi, che non possono darsi simultaneamente pena la
distruzione della percezione (si pensi all’esempio della melo-
dia) e neppure, per lo stesso motivo, possono darsi in modo
irrelato. Husserl spiega l’unità interna degli atti di coscienza
distinguendo tra tempo oggettivo e tempo fenomenologico.
Il tempo fenomenologico, che caratterizza gli atti, è costitu-
ito da istanti di presente esteso in cui è conservato ritenzio-
nalmente il contenuto delle fasi precedenti dell’oggetto. Ciò
rende conto dell’unità interna all’atto di coscienza, ma non
chiarisce in che modo avvenga la sintesi tra successivi atti
di coscienza. Husserl diviene consapevole del rischio di un
regresso infinito.
Un nuovo impulso all’approfondimento del problema è
fornito a Husserl dalle proprie ricerche sull’individuazione,
inaugurate a Seefeld nel 1905. Husserl prende in conside-
razione il contenuto immanente degli atti di coscienza, in
particolare degli atti percettivi, che diviene riflessivamente
Io puro, unità di coscienza e temporalità 187

accessibile nella forma dell’oggettualità, e si interroga sullo


statuto di esso. Nel caso, ad esempio, del colore marrone di
una bottiglia di birra, considerato in quanto pura sensazione
astratta dal rimando oggettuale esterno, è possibile conside-
rare tale contenuto di coscienza come oggetto in quanto tale,
dotato di una propria individuazione e distinto dalle proprie
manifestazioni. Ciò si vede nel fatto che l’oggetto immanente
dura nel tempo, e ha una propria estensione temporale di-
stinta dalla successione di fasi in cui esso si mostra. Emerge
così un nuovo tipo di unità di coscienza: l’unità dell’oggetto
immanente di coscienza. Quale è il rapporto tra tale unità e
l’unità delle fasi in cui esso si presenta?
Si genera in questo modo un quadro estremamente arti-
colato di tipologie di unità di coscienza. Vi è l’unità interna
all’atto, garantita dalla struttura del tempo fenomenologico.
Vi è poi l’unità tra atti, la cui struttura resta da chiarificare.
Vi sono inoltre l’unità dell’oggetto immanente di coscienza
e l’unità delle fasi in cui esso si presenta. In che modo è pos-
sibile coordinare tali differenti tipi di unità all’interno della
vita di coscienza? Husserl si rifiuta di ricorrere alla soluzio-
ne proposta da alcuni neokantiani, tra cui Natorp, secondo
cui occorrerebbe postulare un io puro, esterno al flusso di
coscienza, che ne garantirebbe la sintesi globale. Egli, piutto-
sto, procede in direzione di un affinamento delle analisi sulla
struttura temporale della coscienza.
Un primo passo svolto da Husserl nella soluzione del pro-
blema è la revisione della nozione di immanenza, riassunta
nell’affermazione secondo cui la coscienza non è una borsa.
Le analisi sui contenuti immanenti di coscienza accessibili ri-
flessivamente hanno mostrato, cioè, che anche nell’immanen-
za hanno luogo processi di costituzione. L’oggetto immanente
è costituito dalla ritenzione, che ne trattiene le fasi passate e
gli conferisce così una durata e un’identità nel tempo. Emerge
qui un duplice piano dell’immanenza di coscienza: vi è il pia-
no dei contenuti di coscienza, costituiti ritenzionalmente, e
vi è il piano dell’unità di apprensione di coscienza che ritiene
le fasi passate del contenuto immanente e le sintetizza con la
188 michele averchi

presente. Tale piano più profondo è chiamato da Husserl “co-


scienza assoluta”, per sottolineare che, anche nella riflessione,
essa non si dà nella forma di un contenuto o di un oggetto di
coscienza, poiché essa è l’unità che effettua l’oggettivazione.
Sembra così essersi ulteriormente complicato il quadro
dei tipi distinti di unità di coscienza, dacché a esso si è ag-
giunta l’unità della coscienza assoluta. In realtà, tale ulterio-
re elemento costituisce la chiave di volta e la soluzione del
problema preso di mira da Husserl in tale corso di indagini.
Il passo successivo dell’analisi husserliana, infatti, è pro-
prio la descrizione della struttura dell’unità di coscienza da
lui chiamata “coscienza assoluta”. Husserl ne distingue due
dimensioni, che connota con i termini di “esperienze” (Er-
lebnisse) ed “esperire” (Erleben). Le esperienze sono i sin-
goli vissuti in cui un oggetto, immanente o trascendente, si
costituisce. L’esperire è quella dimensione sempre presente
dell’esperienza soggettiva, che coincide di volta in volta con
la singola esperienza, ma che se ne distingue non appena
quest’ultima sprofonda nel passato.
Il punto di svolta delle ricerche consiste nell’osservare
che l’unità dell’esperienza è resa possibile a partire da qual-
cosa che si estende al di là di essa. Le esperienze insorgono
in coincidenza con l’esperire, e se ne distanziano scivolan-
do nel passato, ma mantenendo il rapporto di successione
“oggettivo” secondo il quale sono via via insorte. L’esperire
funge da punto di orientamento del flusso, a partire dal quale
ogni esperienza riceve la propria collocazione irrevocabile
nel flusso e, pertanto, la propria identità stabile. In questo
modo, anche le fasi dell’oggetto cui l’esperienza si riferisce
ricevono una struttura di successione stabile che consente la
costituzione dell’identità oggettiva. In che modo, dunque,
avviene il processo di costituzione del flusso delle esperienze
a partire dall’esperire? Ciò accade mediante la struttura della
ritenzione. La fase presente di coscienza non ritiene soltanto
il contenuto della fase precedente, bensì ritiene la fase pre-
cedente stessa. Ciò risolve il rischio di regresso all’infinito
adombrato da Husserl nel corso del confronto con Meinong.
Io puro, unità di coscienza e temporalità 189

Il processo per cui ha luogo l’unità interna all’atto, cioè la


ritenzione, è lo stesso per cui ha luogo l’unità tra atti succes-
sivi e la costituzione del flusso di coscienza, in cui, infine, ha
luogo anche la costituzione dei suoi oggetti. All’interno del
singolo atto di coscienza, cioè dell’esperienza, vi è qualcosa
che lo oltrepassa, e cioè la dinamica ritenzionale mediante cui
l’esperire unifica le esperienze in un flusso. Tale conclusione
impone anche una revisione del modello di atti di coscienza
basato sullo schema apprensione/contenuto: nella ritenzione
non vengono conservati contenuti reali di coscienza, bensì la
coscienza di essi. Ciò chiarifica ulteriormente in che modo la
costituzione dell’unità degli oggetti di coscienza e l’unità delle
esperienze avvengano mediante uno e il medesimo processo.
Vi è un’obiezione possibile alla soluzione qui proposta al
problema dell’unità di coscienza e del rapporto tra i diversi
tipi di essa. Husserl se ne avvede rapidamente. Secondo tale
soluzione, la chiave di volta dell’unità di coscienza è data
dall’esperire, quella dimensione sempre presente di coscien-
za che coincide di volta in volta con l’esperienza presente
ma se ne distingue allorché quest’ultima scivola nel passato.
Ma che senso ha affermare che tale dimensione è “sempre
presente”? Non implica ciò una posizione nella catena tem-
porale, e quindi un più profondo livello di coscienza che le
conferisca tale posizione? E ciò non conduce, di nuovo, a un
regresso infinito, giacché questo livello più profondo sareb-
be a sua volta “presente”, e così via? La risposta di Husserl è
sorprendente e costituisce uno dei risultati più significativi
della sua indagine. Egli afferma che la coscienza dell’ora non
è ora. Vale a dire: la dimensione dell’esperire non occupa
una posizione nella catena del tempo oggettivo, e neppure
una posizione nella catena del tempo fenomenologico. Essa,
semplicemente “è”, e a partire da essa il tempo si costituisce.
Al cuore del flusso di coscienza, come garante della sua unità,
si scopre così un presente non-temporale di coscienza, da cui
il tempo scaturisce. Abbiamo osservato che Husserl giunge-
rà a chiamare anche tale elusiva dimensione di coscienza,
elusiva proprio perché solitamente troppo vicina a noi per
190 michele averchi

tematizzarla, “nunc stans”. L’unità di coscienza non è, quindi,


garantita dal postulare un io puro esterno al flusso, bensì da
tale presente non-temporale di coscienza, a partire dal quale,
in ogni istante, il flusso si rigenera e ritrova la propria unità.
In ciò consiste la suggestiva risposta di Husserl al problema
dell’unità di coscienza.
Si può così tornare alla questione di partenza del nostro
studio. Nelle Ricerche logiche, Husserl afferma che l’io puro
è un’ipotesi non necessaria. Si è, intanto, chiarito quale è
il fine per cui l’io puro non sarebbe necessario, vale a dire
per spiegare l’unità di coscienza. Nel corso delle successive
indagini, in particolare dal 1905 al 1909, Husserl è giunto a
spiegare l’unità di coscienza, individuando al cuore di questa
la dimensione del presente non temporale di coscienza. In
che modo, allora, è da intendere l’introduzione dell’io puro
nel modello di coscienza proposto da Husserl in Idee I? Si
tratta forse di un cambio di rotta di Husserl, che giungerebbe
ad allinearsi al modello dei neokantiani e far ricorso all’io
puro per spiegare l’unità di coscienza? A nostro avviso, le
cose non stanno così. Non solo Husserl continua a consi-
derare valido il modello di struttura di coscienza elaborato
tra il 1905 e il 1909, ma egli descrive l’io puro e ne individua
alcune proprietà proprio a partire da tale modello. In partico-
lare, ciò che abbiamo voluto porre in evidenza è che Husserl
opera uno strettissimo avvicinamento tra io puro e presente
non temporale di coscienza, parlando di quest’ultimo co-
me dell’ambito in cui l’io puro ha la propria vita originaria.
A partire da ciò, divengono comprensibili affermazioni al-
trimenti enigmatiche contenute in Idee I e nei testi coevi,
secondo cui l’io puro sarebbe in relazione a tutti i vissuti
del flusso di coscienza e sarebbe onnitemporale. Secondo la
nostra ipotesi interpretativa, tali caratteristiche dell’io puro
derivano proprio dallo stretto rapporto tra esso e il presente
non temporale di coscienza.
Quali sono gli spunti utili che è possibile ricavare da tale
ricostruzione complessiva? A nostro avviso, ve ne sono in
particolare tre. In primo luogo, essa contribuisce a chiarificare
Io puro, unità di coscienza e temporalità 191

una vessata questione storiografica, e cioè quella del cam-


bio di atteggiamento rispetto alla dottrina dell’io puro che
si ravvisa in Husserl tra le Ricerche logiche e Idee I. Secondo
la nostra ipotesi interpretativa, tale cambio di atteggiamento
non va inteso come una rottura radicale, dal momento che
Husserl resta fedele a un approccio che non ricorre all’io puro
per spiegare l’unità di coscienza. D’altra parte, la novità di
Idee I non va neppure minimizzata, poiché essa si poggia su
sviluppi delle ricerche di Husserl sull’unità di coscienza, e
in particolare sulla struttura del presente non temporale di
coscienza, che risultavano inaccessibili all’epoca delle Ricer-
che logiche. In secondo luogo, come già osservato, la nostra
ricostruzione consente di comprendere e rendere plausibili
alcune elusive proprietà dell’io puro, così come esso è descrit-
to da Idee I. A nostro avviso, prendendo in considerazione i
testi coevi a Idee I, fino ai manoscritti di Bernau, emerge un
modello fortemente unitario e coerente che integra l’io puro
nelle ricerche sull’unità e sulla temporalità di coscienza. In
terzo luogo, infine, è estremamente interessante che Hus-
serl giunga a individuare un nesso strettissimo tra io puro,
e cioè il polo minimale dell’identità soggettiva, e il presente
non temporale di coscienza – ciò che, non senza ambiguità
terminologiche, egli chiamerà anche “presente vivente”. È,
cioè, interessante che per Husserl l’io nella sua forma mi-
nimale si collochi là dove il tempo scaturisce e si costituisce
come incessante novità. Mentre molti filosofi e psicologi si
sono interrogati sul tema dell’identità soggettiva a partire
dal tempo costituito (la memoria, l’identità del soggetto nei
mutamenti, ecc.) sarebbe prezioso poter continuare ad ap-
profondire l’indagine fenomenologica del soggetto a partire
dal tempo costituente, studiando quale sia l’esperienza di
questa dimensione originaria del tempo che il soggetto ha,
e nel quale esso vive.
Nicolas de Warren

Lo sguardo di Pamina.
Immagine e immaginazione nella
fenomenologia husserliana

1.

L’ubiquità delle immagini definisce in modo essenziale l’e-


sperienza della modernità. Senza dubbio è divenuto ormai
un luogo comune asserire che il mondo contemporaneo è
saturato dalla produzione, dall’immagazzinamento, dalla
circolazione, dal consumo e dalla manipolazione di imma-
gini. Questa proliferazione delle immagini e delle tecnologie
per la produzione di immagini, senza precedenti storici, ha
esercitato un impatto significativo sulla formazione dell’ide-
ologia e della propaganda; se rivolgiamo la nostra attenzione
al mondo dello spettacolo, vediamo che la società moderna
e le sue cangianti vedute sono divenute momenti familiari
di auto-esame culturale. Le indagini della psicologia della
rappresentazione visiva hanno fatto progredire la nostra
comprensione del modo in cui cogliamo le immagini e altre
forme visive di significazione, specialmente grazie ai recenti
contributi della scienza cognitiva.
Se considerata in una prospettiva storica più ampia, que-
sta particolare attenzione per la coscienza d’immagini è un
fatto relativamente recente. In termini di indagine psicologi-
ca, Gustav Fechner, noto per l’audacia della sua “psico-fisica”,
fu uno dei primi, nel tardo Ottocento, ad applicare i metodi
della psicologia scientifica a problemi estetici1. L’estetica “dal
basso” di Fechner era consona agli intenti di Franz Brenta-

1. Cfr. g. fechner, Vorschule der Ästhetik, Bd. II, Breitkopf & Härtel, Leipzig
1876.
194 nicolas de warren

no e di altri psicologi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del


Novecento, i cui sforzi comuni stabilirono definitivamente
lo studio della rappresentazione visiva come lo studio di un
gioco “illusionistico” interno alla costituzione dell’esperienza
percettiva. Meno nota, contestualmente a questa fioritura
dell’interesse per il tema della coscienza d’immagini, è l’opera
di Edmund Husserl. Si tratta di un tema sottovalutato all’in-
terno del vasto corpus dei suoi scritti, ma, ciononostante,
la riflessione husserliana sulla coscienza d’immagini è una
risorsa che vale la pena rendere nota nella sua interezza e
far reagire nei dibattiti odierni sulla rappresentazione visiva:
vi sono ragioni forti per raccomandare di misurarsi con le
analisi di Husserl, come spero di mostrare in questo saggio.
Sebbene l’analisi fenomenologica husserliana presenti
a prima vista una marcata affinità con la psicologia speri-
mentale e con la psicologia della Gestalt che, a grandi linee,
rappresentano la nervatura degli scritti di Arnheim e Gom-
brich – due pionieri nell’esame della rappresentazione visuale
–, la posizione di Husserl è significativamente distinta, ad
esempio da quella molto influente di Gombrich, che consi-
dera la rappresentazione visuale come un’illusione dovuta
alla somiglianza. Husserl insiste a sua volta sul fatto che la
somiglianza sia il nucleo irriducibile della rappresentazio-
ne visiva: un’immagine raffigura (abbilden) il suo oggetto
per somiglianza (Ähnlichkeit). Tuttavia, la somiglianza non
è intesa come un tipo di fedeltà naturale, vale a dire come
un’interazione causale tra la copia e l’originale, né la lettu-
ra di un’immagine è intesa come se un elemento che porta
un’informazione codificata producesse una risposta percet-
tiva somigliante alla visione diretta dell’oggetto raffigurato.
Al contrario: la coscienza d’immagine viene analizzata da
Husserl in quanto forma specifica di intenzionalità. Tuttavia,
questa analisi della coscienza d’immagine in base alla nozione
di intenzionalità non ci offre semplicemente un altro nome o
una nuova veste per una nozione tradizionale di somiglianza
come imitazione (mimesis), come una manifestazione artifi-
ciale che imita o sembra una seconda manifestazione. Sebbe-
Lo sguardo di pamina 195

ne Husserl mantenga l’idea secondo cui la somiglianza svolge


un ruolo centrale nella raffigurazione, la coscienza d’imma-
gine non è intesa strettamente nei termini di una coscienza
di imitazione – vale a dire, di una relazione che distingue due
manifestazioni separate, una copia e il suo originale.
Un’indagine fenomenologica della coscienza d’immagine
rivela che l’essenza della somiglianza è la coscienza che rende
visibile qualcosa all’interno di un’altra manifestazione; non
l’imitazione di una manifestazione mediante una seconda
manifestazione, bensì il rendere presente qualcosa che non si
manifesta all’interno di qualcosa che si manifesta: rendere vi-
sibile l’invisibile. Sottolineando la centralità della somiglianza
visiva, descritta appropriatamente come forma specifica di in-
tenzionalità, una fenomenologia della coscienza d’immagini
fornisce anche un argomento forte contro l’espunzione della
nozione di somiglianza dalla rappresentazione visuale, per
come essa viene effettuata, ad esempio, da Nelson Goodman
in Languages of Art2. Nella nostra prospettiva di contem-
poranei, l’accento posto da Husserl sull’intenzionalità del-
la raffigurazione come nucleo della coscienza d’immagine
(Bildbewußtsein) traccia una linea guida alternativa tra Gom-
brich, che riduce la somiglianza a un’illusione, e Goodman,
che interpreta le immagini come forme denotative governate
da convenzioni semantiche.
Il modo in cui Husserl rende conto della raffigurazione
pittorica reinterpretandola come “presentificazione” (Verge-
genwärtigung), cioè come forma distinta del “render presente”,
si mantiene a distanza tanto da una riduzione delle immagini
a illusioni quanto dalla considerazione delle immagini come
descrizioni. La costituzione della somiglianza, in questo qua-
dro fenomenologico, chiama in causa il lavorio dell’immagi-
nazione all’interno della coscienza d’immagine. La costitu-
zione della raffigurazione si fonda su ciò che Husserl chiama

2. n. goodman, Languages of Art: An Approach to a Theory of Symbols, Ha-


ckett Publishing, Indianapolis 1968; trad. it. di F. Brioschi, I linguaggi dell’arte, il
Saggiatore, Milano 1998.
196 nicolas de warren

“immaginazione percettiva”, vale a dire su una manifesta-


zione dell’immaginazione interna all’esperienza percettiva.
Un’analisi della coscienza d’immagine è perciò inseparabile
dalla comprensione della funzione peculiare dell’immagi-
nazione, tanto dell’“immaginazione percettiva”, quanto del-
la forma pura dell’immaginazione, la fantasia (Phantasie).
L’operazione husserliana decisiva per questa chiarificazione
consiste nella scorporazione dell’immaginazione dalla co-
scienza d’immagini, vale a dire, il rifiuto dell’impostazione
tradizionale che interpreta l’immaginazione come una forma
peculiare di coscienza d’immagini. Secondo l’efficace formu-
lazione di Jean-Paul Sartre, Husserl libera l’immaginazione
dall’illusione dell’immanenza mediante la critica della “teoria
dell’immagine” riferita all’immaginazione – l’idea secondo
cui gli atti immaginativi richiederebbero un’immagine o una
similitudine interna all’occhio della mente.
La scorporazione dell’immaginazione dalla coscienza
d’immagine, operata da Husserl, spiana la strada a una solida
fondazione dell’immaginazione, che spesso risulta mancare
nei dibattiti contemporanei sulla rappresentazione pittorica.
Il riconoscimento del ruolo dell’immaginazione nel formarsi
della rappresentazione visiva è tanto diffuso quanto ininda-
gato.
In Arte e illusione, ad esempio, Gombrich conclude il suo
studio ritornando sul quadro Wivenhoe Park di John Con-
stable – il dipinto che gli fornisce lo spunto per il suo argo-
mento iniziale contro la similitudine e il cosiddetto “occhio
innocente”. Nel capitolo finale di Arte e illusione, Gombrich
osserva che «Wivenhoe Park di Constable, il quadro di cui
abbiamo tante volte parlato, ci aiuterà a dare un significato
preciso e netto a quest’idea di unire immaginazione e natura,
il mondo interno e quello esterno»3. La “trasfigurazione” del

3. e.h. gombrich, Art and Illusion. A Study in the Psychology of Pictorial Re-
presentation, Princeton University Press, Princeton 2000, p. 386; trad. it. di R.
Federici, Arte e illusione. Studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica,
Einaudi, Torino 1965, p. 471.
Lo sguardo di pamina 197

mondo visibile operata nella rappresentazione visiva, l’idea


centrale di Arte e illusione, chiama in causa una concezio-
ne dell’immaginazione che rimane, tuttavia, bisognosa di
un’esposizione più completa. In un recente lavoro che sfida
sia gli scritti di Gombrich sia quelli di Goodman, mirando
a reintegrare il fondamento raffigurativo per le rappresen-
tazioni visive, John Hyman osserva che la raffigurazione è
«alla radice un atto immaginativo»4. Tuttavia, qual è la natura
di quest’atto immaginativo? Si tratta dello stesso tipo di atti
dell’immaginazione “pura”? Una risposta completa a queste
e ad altre domande non può essere fornita in questo saggio.
Quello che è possibile presentare è soltanto uno schizzo della
proposta fenomenologica di Husserl, in vista di un esame più
approfondito in futuro.
L’interesse di Husserl per la coscienza d’immagini, svilup-
patosi per la prima volta nel corso di lezioni dal titolo Phanta-
sie und Bildbewußtsein (1904-05), e coltivato sporadicamente
all’interno di manoscritti successivi, non culminò mai in una
teoria esaustiva e completa5. È importante sottolineare che
Husserl, sotto il titolo “coscienza d’immagini” (Bildbewußt-
sein), intende l’esperienza percettiva di figure o immagini nel
senso ristretto della raffigurazione. Tanto le immagini non-
rappresentative, quanto le formazioni visive “immaginifiche”
cadono al di fuori del dominio individuato da questo titolo.
Lo stato incompleto e spesso frammentario di questi scritti ri-
flette le idiosincrasie dell’habitus intellettuale di Husserl, così
come l’approccio selettivo al fenomeno qui esaminato. Invece

4. j. hyman, The Objective Eye: Color, Form, and Reality in the Theory of Art,
University of Chicago Press, Chicago 2006, p. 190. Ho preso visione dell’eccellente
lavoro di Hyman troppo tardi, durante la stesura del presente articolo, per poter
assimilare del tutto la sua linea argomentativa e confrontarmi a fondo con essa,
sebbene l’impostazione del suo tentativo di ripensare la raffigurazione e la vexata
queastio del realismo in riferimento a Gombrich e Goodman mi sia stata utile per
mettere a fuoco il contributo di Husserl sullo sfondo del dibattito contemporaneo.
5. hua xxiii, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung. Zur Phänomenologie der
anschaulichen Vergegenwärtigungen. Texte aus dem Nachlass (1898-1925), E. Mar-
bach (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1980.
198 nicolas de warren

di abbracciare l’intero fenomeno della coscienza d’immagi-


ni, Husserl ne tratta selettivamente alcuni aspetti, guidato
in primo luogo dal suo interesse per la struttura dell’inten-
zionalità e per la costituzione delle presentazioni intuitive
(anschauliche Vorstellungen). Qui, come altrove, il pensiero di
Husserl continua a muoversi sullo sfondo della sua ambizione
filosofica. La caratterizzazione husserliana della sua impre-
sa filosofica come progetto di ricerca è fondamentale per la
teoria e la pratica della filosofia fenomenologica. Essa viene
a galla nelle sue metafore preferite (ad esempio, la coscienza
pura come territorio da esplorare) e trova espressione nel
sogno di poter organizzare una coorte di assistenti di ricerca,
ciascuno alle prese con un tema particolare, sotto l’egida della
sua direzione metodologica e sistematica.
Questo ethos di ricerca si manifesta in modo ancora più
decisivo nel lavoro concettuale richiesto dal pensiero feno-
menologico. Tracciando un percorso all’interno degli scritti
di Husserl, dobbiamo entrare nel suo modo di pensare simil-
mente a come entreremmo in un laboratorio intellettuale nel
quale le distinzioni concettuali vengono coniate, esaminate
e testate sull’esperienza. Non abbiamo a che fare con un ap-
proccio unilaterale che ritaglia l’esperienza in base a nozioni
prefabbricate, bensì siamo consegnati all’elasticità delle “co-
se stesse”, dalle quali la comprensione concettuale emerge
attraverso le sintesi del riempimento e della delusione, che
Husserl descrive come prova e tribolazione dell’evidenza,
nonché traiettoria della scoperta filosofica. Per leggere un
testo husserliano occorre partecipare al tentativo che esso
incarna.

2.

Nell’opera di Mozart Il flauto magico, quando a Tamino viene


presentato per la prima volta un ritratto di Pamina, egli si
lancia in un canto che contiene una dichiarazione implicita
del paradosso che definisce l’immagine: «Dies Bild ist bezau-
Lo sguardo di pamina 199

bernd schön, / Wie noch kein Auge je gesehn! / Ich fühl’es, wie
dies Götterbild / mein Herz mit neuer Regung füllt»6. Tenendo
in mano questo ritratto “incantevolmente bello”, tuttavia, che
cos’è questo oggetto, mai visto prima da occhi umani, il cui
potere riempie il cuore di entusiasmo? Si tratta del ritratto
stesso oppure della presenza raffigurata di Pamina? L’ambi-
guità che sussiste tra il tenere in mano “questo ritratto”, cui
Tamino rivolge la propria attenzione percettiva, e l’ammirare
la bellezza divina di Pamina, che viene a sua volta resa oggetto
di attenzione e percepita, può essere illustrata più in dettaglio
giustapponendo un’altra scena in cui figura il ritratto di Pami-
na, ma in modo differente. In questa seconda scena Papageno
consulta il ritratto di Pamina che porta intorno al collo (e che
gli era stato dato da Tamino) per identificare l’ignara Pamina.
Pamina risponde alla cauta domanda di Papageno che gli
chiede la sua identità affermando “Sono io” – “Io sono Pami-
na”. Papageno dice quindi, rivolgendosi all’immagine di lei
che tiene in mano: «Das will ich gleich erkennen [Er sieht das
Portrait an]»7. Come esemplificato in queste scene del Flauto
magico, un’immagine può fungere in due modi: nelle mani
di Papageno essa è un’imitazione artificiale che assomiglia ad
una manifestazione attuale e mediante la quale Papageno è in
grado di identificare il suo originale. Nelle mani di Tamino
essa è invece un’“immagine divina” (Götterbild), l’attualiz-
zazione affettiva di ciò che è altro-dal-visibile; la presenza di
Pamina – l’oggetto che Tamino non ha mai visto – riempie il
suo cuore di entusiasmo e di desiderio.
Il riconoscimento di quest’ambigua magia dell’immagi-
ne – l’apparenza di qualcos’altro [something else] in qualcosa
d’altro [something other] – può essere fatto risalire alle più
antiche riflessioni sulle immagini della storia della filosofia

6. w.a. mozart, e. schikaneder, Die Zauberflöte: Eine größe Oper in zwei


Aufzügen, 1918, p. 14: «Questo ritratto è così incantevolmente bello, / nessun
occhio ne ha mai visto uno simile! / Sento che quest’immagine divina riempie il
mio cuore di un entusiasmo nuovo».
7. Ivi, p. 29: «Voglio accertarmene subito (guarda il ritratto)».
200 nicolas de warren

occidentale, riflessioni situate, in qualche modo sorprenden-


temente, nel contesto della discussione relativa alla memoria e
all’immaginazione. In questi primissimi confronti con il pro-
blema dell’immagine, è la classificazione della rappresenta-
zione visiva come imitazione a far da sfondo alla discussione
filosofica e non l’attualizzazione di ciò che è altro-dal-visibile.
In questo sviluppo della concezione greca dell’immagine e
nella trasformazione di quest’ultima da “presentificazione”
dell’invisibile a imitazione dell’apparenza vi è una trama
complessa, che non occorre (e che non possiamo) trattare
in questa sede; intendiamo piuttosto prendere le mosse da un
esempio, con il quale comincia la riflessione sull’immagine
nella storia della filosofia8.
Prendiamo come esempio la definizione di immagine
fornita da Aristotele nel suo breve trattato De memoria et
reminiscentia9. Un’immagine memorativa è una «sorta di
figura o dipinto»10 (zographema) di ciò che è assente (cfr.
450a). In quanto dipinto, un’immagine memorativa (phan-
tasma) rappresenta ciò che è «altro» da sé (heteron) in virtù
del fatto di essere una copia di ciò che essa non è. Perciò,
un’immagine memorativa può essere percepita o in quanto
immagine o in quanto immagine di qualcosa, in quanto copia
di un originale. Come scrive Aristotele, «un animale dipinto
in un quadro è sia animale sia immagine (kai zoon esti kai
eikon), ed entrambi sono un’unica e medesima cosa, ma la
loro nozione non è la stessa e si può considerare in quanto
animale e in quanto immagine» (450b)11.

8. Cfr. j.-p. vernant, From the “Presentification” of the Invisible to the Imitation
of Appearance, in Myth and Thought among the Greeks, trad. inglese di J. Lloyd,
J. Fort, Zone Books, New York 2006, pp. 333-349.
9. Nella discussione che segue non insisterò sui termini “memoria” e “ricordo”,
né proporrò una differenziazione tra di essi. Me ne servirò in modo intercambia-
bile secondo le finalità della mia analisi.
10. aristotele, Della memoria e della reminiscenza, ne I piccoli trattati naturali,
trad. it. di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari 1971, p. 48.
11. Ivi, pp. 49-50.
Lo sguardo di pamina 201

Nel contesto del De memoria et reminiscentia, la propo-


sta di Aristotele di considerare le immagini memorative co-
me “una sorta di figura o dipinto” risponde direttamente al
problema della memoria: come possiamo rendere il passato
nuovamente presente? Come può qualcosa di presente rap-
presentare qualcosa di assente? Aristotele definisce esplici-
tamente la memoria in riferimento al tempo: «la memoria è
di quanto è avvenuto» (449b)12.
Mentre l’esperienza percettiva rende presente un oggetto,
la memoria rende presente un evento passato, qualcosa di
assente. La memoria si basa su una “sensazione inattuale”,
nella misura in cui gli oggetti ricordati non sono attualmente
presenti. E tuttavia, nota Aristotele, «si potrebbe chiedere
come mai, presente l’affezione nell’anima e assente l’oggetto,
ci si ricordi di ciò che non è presente» (450a)13. Un atto del
ricordo è «uno stato o un’affezione presente»; tuttavia, se la
memoria rivela il passato, come può qualcosa di presente rive-
lare qualcosa di assente? Messo alla prova da questa difficoltà,
Aristotele guarda all’immagine per trovare una soluzione:
un’immagine memorativa dev’essere una «copia» o «esibire
una similarità» (eikon) con un evento passato. Sia nel caso
delle immagini, sia nel caso della memoria, la coscienza deve
attraversare una distanza o una separazione tra una copia e
il suo originale. La relazione tra la copia e il suo originale,
in entrambi i casi, può essere descritta come una relazione a
senso unico: la copia deve la propria esistenza all’originale al
quale si riferisce e che letteralmente fa esistere la copia. Senza
l’originale, una copia sarebbe priva di datità. La memoria si
riferisce a un presente che un tempo era stato percepito e
che per definizione non può più essere percepito di nuovo;
questa relazione indiretta con la percezione è mediata da
immagini, e pone così la memoria sotto il patrocinio dell’im-
maginazione (cfr. 449b-450a)14. Memoria, immaginazione

12. Ivi, p. 45.


13. Ivi, p. 48.
14. Cfr. ivi, pp. 44-49.
202 nicolas de warren

e immagine sono connesse da un problema comune: come


qualcosa di assente può essere reso presente? Per Aristotele,
come per larga parte della tradizione filosofica discendente
dai suoi scritti, la memoria e l’immaginazione sono entrambe
definite per mezzo dell’immagine, nella misura in cui viene
detto che entrambe chiamano in causa la natura paradossale
dell’immagine: essere uno essendo due.
La formulazione aristotelica descrive l’apparenza ambigua
dell’immagine fornendoci, in vista del nostro obiettivo, una
serie di punti di riferimento per un’indagine fenomenolo-
gica: l’immagine come apparenza dentro un’apparenza, il
senso di questo “dentro” come somiglianza, l’idea capitale
che un’immagine si basi sul riconoscimento della differen-
za tra l’immagine stessa e il suo oggetto, l’idea che la co-
scienza d’immagine sia una coscienza di “alterità”. Queste
conquiste fondamentali, relative alla costituzione dell’im-
magine, si sono radicate nella storia della filosofia. Inoltre,
nei termini proposti da Aristotele, la coscienza d’immagini
è stata riconosciuta come tratto distintivo degli esseri uma-
ni. Nel saggio Image-making and the Freedom of Man, ad
esempio, Hans Jonas amplifica la posizione fondamentale di
Aristotele specificando che l’apprensione di un’immagine
dipende strutturalmente dalla percezione dell’alterità nella
medesimezza [sameness]. Come osserva Jonas, «per l’ani-
male la mera similitudine non esiste. Quando la percepisce,
l’animale percepisce o la medesimezza o l’alterità, ma non
entrambe in uno, come accade a noi nell’apprensione di una
similitudine»15. Quest’apprensione dell’alterità nella medesi-
mezza è un tratto distintivo degli esseri umani e fornisce un
punto di riferimento cardinale per l’antropologia filosofica
di Jonas. Da un punto di vista fenomenologico, dobbiamo
riconoscere e perseguire questa dualità dell’immagine come

15. h. jonas, Image-making and the Freedom of Man, in H. Jonas, The Phenomenon
of Life. Towards a Philosophical Biology, Northwestern University Press, Evanston
2001, p. 166; trad. it. di A.P. Becchi, Homo pictor: della libertà del raffigurare, in
Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, Einaudi, Torino 1999, p. 214.
Lo sguardo di pamina 203

elemento distintivo della coscienza d’immagini, fondato nella


costituzione della coscienza stessa.
L’idea sottesa all’impostazione di Aristotele, secondo
cui l’immaginazione farebbe affidamento a una immagine
o somiglianza mentale – un’idea che riflette l’affermazione
aristotelica fondamentale secondo cui tutto il pensiero si basa
su immagini – esemplifica ciò che Sartre ha opportunamente
denominato «illusione dell’immanenza»16 e che ha dominato
la storia della filosofia dell’immaginazione. La diagnosi sar-
triana (che pesca significativamente in Husserl) identifica un
“duplice errore” che sta all’origine di quest’illusione. Quando
immagino di incontrare il mio amico Alfredo, sebbene Alfre-
do non appaia realmente di fronte a me, egli nondimeno ap-
pare in quanto manifestazione. Io “vedo” il suo volto di fronte
a me e vorrei potergli parlare. Secondo l’idea prevalente di
immagine, io sarei in questo caso alle prese privatamente,
rinchiuso nel cerchio del mio sguardo mentale, con un’imma-
gine o somiglianza immateriale della manifestazione attuale
di Alfredo. La sua immagine, al cospetto del mio sguardo
mentale, sarebbe una copia della sua manifestazione attuale
prodotta dalla storia passata delle mie esperienze percettive; si
tratterebbe di una rappresentazione o di un’idea meno vivida
e vigorosa. Questa interiorizzazione dell’oggetto immaginato
è inseparabile non soltanto da un’interpretazione dello stesso
come immagine immanente, ma anche da un’interpretazione
generale dell’immagine che confonde l’oggetto raffigurato
nell’immagine con la manifestazione dell’immagine stessa.
Infatti, seguendo quest’idea, quando immagino di vedere
Alfredo nel suo appartamento a Pisa, ciò che guardo con il
mio occhio mentale dovrebbe essere la sua immagine proprio
perché Alfredo, in quanto oggetto dell’immagine, non viene
attualmente visto. “Vedere” Alfredo di fronte a me con il mio
occhio mentale significherebbe semplicemente “vedere” la
sua immagine.

16. Cfr. j-p. sartre, L’être et le néant, Gallimard, Paris 1976; trad. it. di G. Del
Bo, L’essere e il nulla, il Saggiatore, Milano 2008.
204 nicolas de warren

Da un punto di vista fenomenologico, questo duplice er-


rore si basa su una duplice mancanza. Primo: la mancanza
di distinzione tra l’atto di coscienza e il suo oggetto trascen-
dente, vale a dire, il mancato riconoscimento del carattere
obiettivante degli atti di coscienza – la mancata identificazio-
ne dell’oggetto intenzionale in quanto oggetto trascendente
–, secondo: il mancato riconoscimento dell’intenzionalità
propria dell’immagine e, in base a questo tipo di intenzio-
nalità, la mancanza di una distinzione in termini intenzionali
tra l’immagine e l’oggetto raffigurato in essa. L’idea guida di
Husserl secondo cui è possibile esaminare gli atti di coscienza
in quanto tipi differenti di forme obiettivanti dell’intenziona-
lità chiarifica la confusione tra immagine e oggetto raffigurato
o, nel caso dell’immaginazione, tra un atto immaginativo e
il suo oggetto trascendente immaginato. Districare questo
duplice errore tradizionale richiede il riconoscimento della
coscienza d’immagine come forma specifica di intenzionalità.
Riconoscere l’intenzionalità dell’immagine libera l’imma-
ginazione non soltanto dall’illusione dell’immanenza, ma
anche dall’illusione che si tratti di una forma di coscienza
d’immagini.

3.

Nel 1918, mentre era sul suo letto di morte, al collezionista


d’arte Alexander Schnütgen venne presentato un crocifisso.
Dopo aver esaminato l’oggetto che gli veniva tenuto innanzi,
egli dichiarò con fare da esperto: «quattordicesimo secolo»
e, immediatamente dopo, morì17. L’ultima osservazione di
Schnütigen indica la densità stratificata dell’immagine, vale a
dire, i differenti piani che sono implicati nella sua costituzio-
ne. Quando guardiamo un’immagine possiamo far riferimen-
to a un’ampia gamma di disposizioni valutative percettive:

17. Cfr. v. groebner, Defaced. The Visual Culture of Violence in the Late Middle
Ages, Zone Books, New York 2004, p. 88.
Lo sguardo di pamina 205

possiamo considerare l’immagine solamente come artefatto


materiale, come una cosa al pari delle altre cose; possiamo
valutare l’immagine in quanto immagine, la qualità della
sua esecuzione, la sua appartenenza a un determinato stile
di raffigurazione; e, certamente, possiamo focalizzarci sulla
materia o sul soggetto raffigurati, sulle espressioni facciali
di uno dei personaggi rappresentati, eccetera. L’esempio del
crocifisso del quattordicesimo secolo di Schnütigen è signi-
ficativo perché, come afferma Valentin Groebner, l’imma-
gine della crocifissione è carica di una gamma di significati
visivi. Non soltanto la scena della crocifissione può essere
resa con diversi mezzi artistici (scultura, pittura, incisione),
non soltanto la passione di Cristo ammette stili differenti di
rappresentazione visiva, ma il significato della crocifissione
nella forma specifica di ciò che essa raffigura, di ciò che noi
vediamo, è a sua volta, sebbene in una modalità differente,
una funzione di condizioni storiche e culturali variabili18.
Dal punto di vista fenomenologico la coscienza d’imma-
gine viene presa in considerazione a partire da un’indiffe-
renza o da una sospensione esplicita del contenuto culturale
specifico di un’immagine. Questa precauzione metodologica
non intende negare né sminuire lo status proprio di un’im-
magine in quanto oggetto di una cultura visiva. Piuttosto, il
nostro interesse è rivolto ad articolare la costituzione della
coscienza d’immagine, la sua condizione di possibilità, nel
senso della sua struttura eidetica specifica – quella deter-

18. Scrive Groebner: «Chiaramente nel quindicesimo e nel sedicesimo secolo


le persone potevano vedere due cose abbastanza diverse quando guardavano
un crocifisso. Noi siamo abituati a vedere nell’immagine di Gesù crocifisso un
sistema semiotico di secondo ordine, cioè, un segno che annuncia: “Io sono un
segno”. […] I contemporanei del secolo che intercorre tra Nicolò Cusano e Mar-
tin Lutero guardavano queste immagini anche come rappresentazioni religiose.
Per essi, tuttavia, i ritratti di questo corpo maschile tormentato testimoniavano
spettacoli reali di violenza fisica. […] Negli anni successivi al 1525, le immagini di
Gesù crocifisso divennero meno grafiche e cruente. Invece di raffigurare l’agonia
mortale di un criminale torturato, esse iniziarono a mostrare – come nell’opera
di Cranach – un Redentore appeso con grazia e rilassatezza sulla croce». (ivi,
pp. 119-120).
206 nicolas de warren

minata struttura essenziale connessa a quelle determinate


operazioni di coscienza senza delle quali non vi potrebbe
essere alcuna coscienza di un’immagine attuale.
Vista attraverso la lente descrittiva della concezione
husserliana di intenzionalità, la coscienza di un’immagine,
in quanto atto obiettivante di coscienza, possiede una for-
ma complessa. Come accade per ogni atto apprensionale
obiettivante, l’oggetto intenzionale trascende la coscienza;
l’immagine che io percepisco di fronte a me non è un con-
tenuto immanente della mia mente, né la mia percezione
dell’immagine è mediata da una rappresentazione o da una
somiglianza interne. Come accade nel caso paradigmatico
della coscienza percettiva, la coscienza d’immagine intende
il proprio oggetto direttamente, lungo la scala di riempimenti
e delusioni possibili di un’intenzione signitiva che funge da
guida e si auto-corregge costantemente. In ogni caso, mentre
nella percezione di una cosa la coscienza intende un ogget-
to provvisto di una singola dimensione di oggettualità, nel
caso della coscienza percettiva di un’immagine la coscienza
apprende diversi oggetti intenzionali stratificati. Secondo l’a-
nalisi di Husserl l’intenzionalità della coscienza d’immagine
è composta di tre oggetti intenzionali distinti ma inseparabili,
correlati a tre atti apprensionali noetici stratificati. Rimo-
dellando la memorabile caratterizzazione di Aristotele, po-
tremmo dire che invece di essere una e la stessa, la coscienza
d’immagine è triplice, sebbene nessuna delle tre intenzioni
sia identica all’altra.
Husserl distingue tra “cosa-immagine” (Bildding), “og-
getto dell’immagine” (Bildobjekt) e “soggetto dell’immagine”
(Bildsubjekt). Cogliere un’immagine come raffigurazione di
un “soggetto dell’immagine” – cioè vedere l’immagine in
quanto immagine di qualcosa – significa al contempo cogliere
un oggetto percettivo (una “cosa-immagine”) in quanto im-
magine (in quanto “oggetto dell’immagine”) – vedere qual-
cosa in quanto immagine. Nella costituzione della coscienza
d’immagine ciascuno di questi aspetti non è né un oggetto
intenzionale indipendente né può venire appreso isolatamen-
Lo sguardo di pamina 207

te dagli altri. Per esempio, quando ammiro il ritratto dipinto


da David, Napoleone mi appare in una modalità differente
da quella in cui mi appaiono le altre cose nella stanza o in cui
mi apparirebbe Napoleone qualora comparisse realmente ac-
canto al suo ritratto. Quando mi guardo intorno nella stanza
e percepisco altre cose, ad esempio questa sedia Luigi xiv, io
non vedo nulla che appare all’interno della propria manife-
stazione. Posso soltanto guardare la sedia, ispezionare il suo
design e ammirare la sua eleganza. Tuttavia, nel manifestarsi
della sedia non vi è nulla da cercare al di là della manifesta-
zione della sedia stessa. Un pattern visivo che non presenta
un “soggetto dell’immagine” raffigurato al proprio interno,
vale a dire, un pattern visivo non costituito lungo la distin-
zione tra oggetto dell’immagine e soggetto dell’immagine
può essere appreso soltanto come decorazione, ornamento
o simili. Per contrasto, un’immagine è una manifestazione
diversa dalle altre manifestazioni. L’immagine è una manife-
stazione percettiva in cui è data un’altra manifestazione. Noi
guardiamo la manifestazione di qualcosa d’altro all’interno
di una determinata manifestazione, non come una seconda
manifestazione, ma come una manifestazione altra dalla ma-
nifestazione entro cui essa è data. Vediamo il volto austero
di Napoleone nel dipinto. Il fenomeno del “vedere-dentro”
definisce l’essenza di un’immagine nella sua differenza per-
cettiva dalla percezione di cose. L’immagine è l’apertura di ciò
che si manifesta a qualcosa di altro dalla manifestazione, un
“dentro-cui” (Worin) originario o un “aprirsi” (Sichöffnens)
nel quale una non-manifestazione, ovvero “l’invisibile”, si
manifesta19. In quanto manifestazione, vale a dire, in quan-
to qualcosa che percepisco, un’immagine è un “dentro-cui”
originario, tanto di spazio quanto di tempo, un’apertura in
cui è dato qualcosa di “irreale” – Napoleone, che non si trova
effettivamente nella stanza. Husserl nota: «Pertanto le presen-

19. Cfr. e. fink, Vergegenwärtigung und Bild, in Studien zur Phänomenologie


1930-1939, Nijhoff, Den Haag 1966, pp. 74-76; trad. it. di N. Zippel, Studi di Feno-
menologia, Lithos, Roma 2010, pp. 136-138.
208 nicolas de warren

tazioni di un’immagine sono presentazioni peculiari in cui un


oggetto percepito è in grado di presentare, tramite la somi-
glianza, un oggetto ulteriore, nella modalità familiare in cui in
cui l’immagine fisica presenta l’originale»20. Sebbene questa
modalità di presentazione accada mediante la somiglianza
(Ähnlichkeit), il suo effetto non va descritto come imitazione,
ma come un “presentare” (vorstellig machen). L’originale di
cui Husserl parla non gode di una forma di esistenza separata
dal proprio “essere-dipinto” in un’immagine; in altri termini,
il legame di somiglianza che contemporaneamente separa e
connette l’immagine e l’oggetto in essa raffigurato possiede
la forma dell’intenzionalità, il cui tratto distintivo consiste
nel rendere presente ciò che non si manifesta effettivamente
in una manifestazione attuale. Il senso con cui noi guardia-
mo dentro un’immagine è il senso con cui qualcosa è reso
presente tramite l’immagine. L’aspetto peculiare di questa
forma di presentazione è la modalità in cui qualcosa di altro-
dalla-manifestazione (il soggetto dell’immagine, Napoleone,
che non è effettivamente presente) è, nondimeno, dato in una
manifestazione attuale – la cosa attuale che io colgo come
immagine di Napoleone (la tela che vedo in quanto ritratto
di Napoleone).

4.

Un’immagine è l’apertura e la trasformazione di una mani-


festazione radicata nell’esperienza percettiva. Fondandosi
sull’esperienza percettiva, un’immagine deve possedere una
forma di esistenza materiale – una tela, uno schermo, della
carta, eccetera. Un’immagine può venire appesa al muro, po-
sta accanto al tavolo, distrutta o nascosta alla vista – e tuttavia
un’immagine è una cosa differente da tutte le altre cose, poi-

20. hua xxiii, p. 19. Cfr. e. fink, Vergegenwärtigung und Bild, cit., p. 74; trad.
it. p. 136: «vediamo per così dire dentro il mondo d’immagine». Husserl parla di
«hineinschauen» e «hineinblicken» [guardare dentro]. Cfr. hua xxiii, pp. 31, 34.
Lo sguardo di pamina 209

ché in questa cosa vista come immagine mi appare qualcosa


in maniera diversa da come vedo le altre cose presenti in
questa stanza (questo tavolo, questa penna); qualcosa si ma-
nifesta, non come un’altra manifestazione, ma come qualcosa
di altro dalla manifestazione. La complicità dell’esperien-
za percettiva nella costituzione della coscienza d’immagine
rende conto della precarietà della datità dell’immagine. In
ogni momento un’immagine può tornare a essere trattata e
percepita come una cosa ordinaria. In ogni momento un’im-
magine può venir deturpata, distrutta o nascosta alla vista,
oppure coperta come gli oggetti avvolti da un velo. In ogni
momento posso rifiutarmi di vedere l’immagine come imma-
gine. Un’immagine richiede il consenso della mia coscienza
per poter essere vista nel suo complesso come immagine di
qualcosa. Infatti, se percepissi l’immagine soltanto come una
mera cosa, guardando, ad esempio, questo dipinto come se
non fosse altro che una tela appesa al muro, non sarei più in
grado di percepirlo come immagine; analogamente, se mi
fosse possibile percepire l’oggetto dell’immagine sganciato
dalla propria base materiale, sarei ugualmente incapace di
percepire quel qualcosa come immagine, poiché è sempre un
oggetto percettivo determinato a dover essere percepito come
immagine. Devo essere in grado di percepire queste linee nere
in quanto linee nere, in quanto oggetti percettivi, per poter
percepire proprio queste linee nere in quanto linee che trat-
teggiano un’immagine. Sulla base del dipinto in quanto cosa
materiale, io riconosco questa superficie dipinta in quanto
immagine e, in base a questa apprensione dell’immagine,
apprendo il soggetto raffigurato (“Napoleone”) tramite una
forma di somiglianza. La struttura tripartita della coscienza
d’immagine si costituisce mediante una doppia apprensione:
l’apprensione di questo oggetto percettivo e l’apprensione
dell’oggetto dell’immagine.
Questa doppia apprensione descrive in termini fenome-
nologici l’apprensione del “due-in-uno” riconosciuta da Ari-
stotele. L’oggetto dell’apprensione è uno, vale a dire, è identico
per le due apprensioni sovra-ordinate, quella dell’oggetto fi-
210 nicolas de warren

sico e quella dell’oggetto dell’immagine (la pittura sulla tela è


l’immagine in quanto immagine che io percepisco), e tuttavia
tra queste due apprensioni sussiste un conflitto (Widerstreit).
Quando riconosco un oggetto fisico in quanto immagine,
l’apprensione dell’oggetto dell’immagine “vince” (siegt), come
dice Husserl, sull’apprensione dell’oggetto fisico, senza però
sconfiggere interamente l’apprensione dell’oggetto fisico, che
continua a sussistere come uno strato sottostante. Se l’appren-
sione dell’oggetto fisico venisse soppressa del tutto non avrei
più alcunché da guardare percettivamente come immagine.
La coscienza di un’immagine si fonda costantemente su una
coscienza minimale della materialità a essa sottostante. Ad
esempio, quando ammiro il dipinto di Cézanne delle cinque
mele, la mia attenzione è rivolta alla modulazione del colore
e alle rapide pennellate di nero che delineano la forma delle
mele. La percezione sottostante della tela è ancora all’opera,
però, finché sono focalizzato sull’immagine in se stessa, essa
non si manifesta, sebbene sarebbe falso affermare che essa
non sussiste del tutto. La tela, in un certo senso, non viene
vista come tale, poiché quello che vedo è l’immagine; tuttavia
l’immagine è dipinta sulla tela e, in questo senso, condivide
il medesimo contenuto percettivo dell’apprensione relativa al
supporto-tela. Nondimeno, il contenuto percettivo della tela
e la sua coloritura materiale sono stati “rubati” o “sottratti”
(geraubt) dall’apprensione dell’immagine. I contenuti percet-
tivi di giallo, nero ecc., vengono appresi come momenti co-
stitutivi dell’immagine e non come macchie di colore su una
superficie piana. Il conflitto tra le due apprensioni, tuttavia,
non può essere interamente risolto: è come se l’apprensione
dell’oggetto dell’immagine, il mio vedere l’oggetto percettivo
in quanto immagine dovesse trasformare il contenuto per-
cettivo sottostante superandolo, senza potersi interamente
distaccare dal proprio necessario ancoraggio percettivo. Tut-
tavia, nella misura in cui l’apprensione dell’oggetto percettivo
è stata “sottratta”, il suo contenuto percettivo si “scioglie” o
“fonde” (verschmelzen) in una singola unità manifestativa
(l’immagine) che è tuttavia ancorata al mondo percettivo.
Lo sguardo di pamina 211

Certamente la mia coscienza può sempre rivolgersi alla mate-


rialità dell’oggetto fisico (cosa-immagine). Ad esempio: noto
uno strappo sulla tela. In questo caso, lo strappo è talmente
brutto e grave che non posso fare a meno di focalizzarmi
sull’oggetto-dipinto che è stato danneggiato.
Il conflitto che costituisce la coscienza d’immagini è
esemplificato nella funzione propria della cornice di un di-
pinto. La cornice – come Husserl indica brevemente in una
serie di osservazioni memori delle riflessioni più ampie di
Georg Simmel nel saggio Der Bildrahmen – riveste una dupli-
ce funzione21. Una cornice insiste visivamente sulla distanza
o separazione che sussiste tra il dipinto e il suo ambiente
percettivo; essa esclude e mette da parte il mondo circostante
percettivo e anche ogni possibile spettatore, che è costretto
a incontrare il dipinto da una certa distanza. Come osserva
Simmel: «I confini della cornice significano qualcosa di com-
pletamente diverso da ciò che si definisce confine di una cosa
naturale»22. La cornice è al contempo continua e discontinua
rispetto agli oggetti percettivi: continua nel senso che essa
abita il medesimo spazio percettivo degli altri oggetti cir-
costanti (il muro, la sedia) e discontinua nel senso che essa
demarca uno spazio separato nel quale si manifesta un’altra
manifestazione, quella dell’immagine. La doppia apprensio-
ne caratteristica della coscienza d’immagini è simbolizza-
ta visivamente nella separazione o divisione operata dalla
cornice. In questo spazio dentro un altro spazio, l’oggetto

21. Husserl parla brevemente delle cornici dei dipinti, in hua xxiii p. 47. Cfr. g.
simmel, Der Bildrahmen. Ein ästhetischer Versuch in g. simmel, Gesamtausgabe
- Band VII, Aufsätze und Abhandlungen 1901-1908, Suhrkamp, Frankfurt a. M.
1984, pp. 101-108; trad. it di L. Perucchi, La cornice, in Il volto e il ritratto. Saggi
sull’arte, pp. 101-108. Sebbene non sia possibile qui approfondire ulteriormente
quest’idea, è possibile applicare il principio guida della descrizione husserliana
delle cornici anche ai dipinti privi di cornice; il punto è che un dipinto è un og-
getto finito con dei confini spaziali definiti. Questi margini, tuttavia, dovrebbero
essere descritti in quanto realizzano una funzione duplice nella costituzione della
coscienza d’immagine. Desidero ringraziare Agnes Heller per avermi fatto notare
l’importanza di questo genere di chiarificazione.
22. Ivi, p. 101; trad. it. p. 101.
212 nicolas de warren

dell’immagine e il suo “hineingedeutetes Subjekt” – il soggetto


dell’immagine che esso proietta – possono apparire anche
nella dimensione dell’esperienza percettiva. Un dipinto è un
oggetto che percepiamo. E tuttavia questo oggetto percettivo
(il dipinto) possiede un “valore di realtà” (Realitätswert) che
si suddivide in due dimensioni o contesti (Zusammenhänge).
Un’immagine è un aspetto dell’esperienza percettiva dotato di
una forma, di una realtà, in cui però appare qualcosa d’altro
dalla realtà: è come se la realtà, tramite un artificio umano,
aprisse uno spazio entro se stessa, dentro cui possiamo vedere
qualcosa d’altro dal reale, vale a dire una manifestazione che
è tale in una modalità diversa da quella in cui le cose si ma-
nifestano come reali, senza per questo situarsi interamente
al di là di questa modalità. L’immagine, essendo un dentro
senza un fuori, nondimeno supportato dall’esperienza per-
cettiva, rivela il tipo di trascendenza che contraddistingue la
coscienza d’immagine.

5.

La questione della doppia apprensione gioca un ruolo centra-


le per la costituzione della coscienza d’immagini e per il tipo
di trasformazione peculiare mediante cui quest’ultima amplia
il campo delle manifestazioni percettive. Secondo l’analisi
abbozzata prima, l’immagine ha una forma di manifestazione
ibrida. La scissione interna alla manifestazione si rispecchia
in una scissione, o conflitto, interno alla coscienza stessa.
Un’immagine dev’essere creata materialmente mediante la
manipolazione e la messa in forma di oggetti fisici (vernice,
carboncino, ecc.). È attraverso questa messa in forma e a
partire da questo modo di guardare un oggetto fisico che, in
virtù della doppia apprensione descritta in precedenza, viene
in luce l’oggetto dell’immagine, mediante la trasformazione
e l’apertura operata nell’esperienza percettiva. Un’immagine
deve essere vista come qualcosa di più della sua materialità,
sebbene una traccia sottesa di questa materialità rimanga
Lo sguardo di pamina 213

sempre debolmente presente, in misura maggiore o minore:


ad esempio, a seconda che le pennellate siano più o meno
pronunciate. Husserl caratterizza l’oggetto dell’immagine co-
me una “finzione” sostenuta e costituita dall’“immaginazione
percettiva”. L’immaginazione trasforma un dato percettivo,
nel senso specifico di un’apprensione interpretativa inter-
polata e “sovraordinata” che si innesta sul dato percettivo,
trasformando e aprendo la manifestazione percettiva all’in-
terno della quale fa il suo ingresso una manifestazione fittizia,
costituendosi nel tipo di conflitto peculiare che contraddi-
stingue la coscienza d’immagini. Ciò che si produce è una
distanza interna alla manifestazione, in cui la manifestazione
di un oggetto dell’immagine viene distinta, anche se non in-
teramente sganciata, dalla manifestazione percettiva. Con le
parole di Husserl: «l’oggetto dell’immagine è dato comunque
in un’apprensione percettiva, modificata mediante il carattere
dell’immaginazione; essa porta in sé il carattere dell’irrealtà,
del conflitto con il presente attuale»23.
L’apprensione percettiva sottesa è modificata dall’imma-
ginazione nel suo carattere o modo di presentazione: ciò che
si verifica è la trasformazione di una presentazione percettiva
(Gegenwärtigung) in una presentificazione (Vergegenwärti-
gung) di qualcosa di altro-dal-visibile, cioè del soggetto
dell’immagine “spirituale” (geistig) raffigurata, quel sogget-
to che, come dice Husserl, viene ridestato e reso manifesto
dall’oggetto dell’immagine. Quest’apertura dell’esperienza
percettiva alla datità di ciò che è altro-dalla-manifestazione è
marcata dal carattere di irrealtà che confligge con l’esperienza
percettiva effettiva (o “reale”). Un oggetto dell’immagine è
una finzione visiva, una manifestazione che “aleggia” sulla
superficie del proprio supporto materiale; pertanto, l’ogget-
to dell’immagine perviene a datità senza una coscienza che
ponga implicitamente l’immagine stessa come una manife-
stazione che non si manifesta nella stessa modalità in cui si

23. hua xxiii, p. 47.


214 nicolas de warren

manifestano gli oggetti percettivi. Per queste ragioni l’oggetto


dell’immagine non può essere descritto come un oggetto esi-
stente. Come scrive Husserl: «L’oggetto dell’immagine non
possiede un’esistenza autentica, il che significa non soltanto
che esso non possiede esistenza al di fuori della mia coscien-
za, ma anche che non possiede esistenza all’interno della mia
coscienza stessa: l’oggetto dell’immagine non possiede esi-
stenza in generale»24. Più enfaticamente, ed espresso in un
modo che sarebbe successivamente risuonato con forza nel
pensiero di Sartre, l’oggetto dell’immagine è “un nulla” (ein
Nichts). La trascendenza dell’immagine è la penetrazione
incompleta della “nullità” nella pienezza della manifestazione.
In Husserl il fattore della libertà rimane implicito se para-
gonato con la relazione esplicita tra libertà e trascendenza
dell’immagine che ritroviamo in Hans Jonas e il nesso tra
libertà e immaginazione che troviamo in Sartre. La trascen-
denza dell’immagine, per Husserl, non va né equiparata alla
trascendenza degli oggetti percettivi, né tanto meno misco-
nosciuta riducendo l’“immagine di fantasia” (Phantasiebild)
a una rappresentazione psicologica. La “figura di fantasia”,
pertanto, gode della medesima corposità di un oggetto tra-
scendente e tuttavia si muove all’interno di un registro di
trascendenza diverso da quello dell’esperienza percettiva.
Fondandosi sul conflitto che sussiste all’interno della
doppia apprensione di oggetto percettivo e oggetto dell’im-
magine, il soggetto dell’immagine “satura” o “penetra” (dur-
chdringen) l’apprensione dell’oggetto dell’immagine. Husserl
riconosce che vi sono diverse modalità della raffigurazione
(Abbildungsarten) senza tuttavia esplorare più dettagliata-
mente il senso della relazione di somiglianza, mediante cui un
oggetto dell’immagine presenta il proprio soggetto. In ogni
caso, la differenza che sussiste tra l’oggetto dell’immagine e il
soggetto dell’immagine dev’essere colta nella sua specificità
perché si possa parlare di una coscienza d’immagine.

24. Ivi, p. 24.


Lo sguardo di pamina 215

Sebbene sia l’oggetto dell’immagine a manifestarsi in


senso stretto, la sua manifestazione non ha una validità au-
tonoma, poiché essa è, per così dire, al servizio del soggetto
dell’immagine. L’oggetto dell’immagine rappresenta qualcosa
di altro da sé – altro da sé perché, ad esempio, un animale
raffigurato coincide con la propria raffigurazione colorata. Io
devo cogliere le linee, le pennellate, eccetera, come ciò che
assomiglia al soggetto raffigurato, dato che è precisamente la
coscienza della differenza tra l’oggetto e il soggetto dell’im-
magine ciò che costituisce la coscienza d’immagini. Questa
coscienza della differenza costituisce una distanza interna alla
manifestazione, nel senso specifico della «manifestazione di
un non-ora in un ora» o, in altri termini, di «qualcosa che
non si manifesta in qualcosa che si manifesta»25.
Il soggetto dell’immagine non “si manifesta” in se stes-
so come una manifestazione; il suo modo di datità è quel-
lo dell’“altro-dal-manifestarsi”, di ciò che non si manifesta
internamente a una manifestazione. Il tipo di trascendenza
specifica della coscienza d’immagini richiede che il soggetto
dell’immagine raffigurato “penetri” o “saturi” l’immagine.
Proprio il mancato riconoscimento del senso in cui il soggetto
dell’immagine “penetra” l’oggetto dell’immagine spiega la
facilità con cui è possibile addirittura non accorgersi di al-
cun tipo di distinzione tra oggetto e soggetto dell’immagine.
L’intenzionalità riferita all’oggetto dell’immagine costituisce
una manifestazione obiettiva (io guardo l’immagine) in cui
si annida un altro tipo di intenzionalità, di ordine differente
eppure inseparabile dalla prima. L’intenzionalità riferita al
soggetto dell’immagine non costituisce una manifestazione,
piuttosto intende e rende manifesto proprio il non-manife-
starsi dell’oggetto in quanto tale. Il manifestarsi dell’immagi-
ne rappresenta un altro oggetto (il soggetto dell’immagine).
L’immagine porta a manifestazione un altro oggetto, oppure
lascia che un altro oggetto si manifesti “alla luce” dell’imma-

25. Ivi, p. 29: «eine Erscheinung eines Nicht-Jetzt im Jetzt» o «eines Nicht-er-
scheinenden im Erscheinenden».
216 nicolas de warren

gine stessa e al suo posto. Vediamo il quadro per quello che


è solo nella misura in cui vediamo qualcosa internamente
a esso – qualcosa che il quadro, strettamente inteso, non è.
Un minimo di riconoscimento è così implicato e implicito
in ogni forma di coscienza d’immagini. Devo riconoscere
l’immagine in quanto immagine di qualcosa. Tuttavia, pos-
so percepire i segni nelle grotte di Lascaux come elementi
che costituiscono un qualche tipo di immagine senza però
cogliere esplicitamente l’identità del soggetto che in essa è
raffigurato; inoltre, il riconoscimento del soggetto raffigura-
to ammette gradazioni differenti di riempimento intuitivo.
Anche se riconosco solamente che vi sono immagini dipinte
sul muro, le immagini misteriose nelle grotte di Lascaux sono
in ogni caso date in una coscienza d’immagine, sebbene, ap-
punto, in quanto immagini che non si riescono a identificare.
Tuttavia, vedo ancora qualcosa di raffigurato nell’immagine,
anche soltanto l’indeterminatezza di un interrogativo visi-
vo – si tratta di uno sciamano o di uno strano animale? Per
contrasto, se riconosco l’immagine di Napoleone apprendo
chiaramente il soggetto dell’immagine nell’oggetto dell’im-
magine: vedo Napoleone nel dipinto.
L’intenzionalità specifica del “rendere presente nella
coscienza d’immagini”, sintetizzata nella formula “vedere-
dentro”, non deve venire confusa, come Husserl sottolinea,
con altre forme di rappresentazione, come inferenze, o di
apprensione di tipo concettuale. Laddove è possibile fare in-
ferenze sulla base di ciò che è raffigurato in un’immagine e,
procedendo, è possibile muoversi verso un registro di sapere
descrittivo e concettuale (ad esempio, quando esplicitiamo il
contenuto iconografico di un’immagine), questi atti “di grado
superiore” dell’elaborazione pittorica devono essere fondati
sulla presentazione intuitiva e raffigurativa della coscienza
d’immagini26. La coscienza d’immagini è la manifestazione

26. Cfr. ivi, pp. 27-28. Husserl sottolinea che la raffigurazione della coscienza
d’immagine non è un “sapere concettuale”.
Lo sguardo di pamina 217

di “altro-dalla-manifestazione” nella manifestazione, non la


relazione tra due o più manifestazioni separate.
Husserl distingue inoltre, sotto il titolo di “coscien-
za d’immagini”, tra immagini “immanenti” e immagini
«simboliche»27. La coscienza d’immagini è una forma di ap-
prensione che si riferisce a qualcosa d’altro per somiglianza o
analogia; un’immagine non rimanda oltre se stessa: rimanda
piuttosto in se stessa o attraverso se stessa. L’immagine è uno
spazio immanente di manifestazione caratterizzato da una
presentazione nel modo del “rimandare all’interno” (Hinein-
weisen). Per contrasto, un’immagine simbolica è una presen-
tazione nel modo del “rimandare oltre sé” (Hinwegweisen).
Un simbolo non rende presente (vorstellig) il proprio oggetto
alla stessa maniera in cui lo fa un’immagine immanente. Il
soggetto di una presentazione simbolica non risiede all’inter-
no; abbiamo tuttavia una raffigurazione o un “vedere dentro”
(hineinschauen) rivolto al soggetto. Nel caso delle immagini
(immanenti) il soggetto dell’immagine va a coincidere (deckt
sich) con l’oggetto dell’immagine; l’immagine riceve il pro-
prio carattere peculiare alla luce di ciò che essa raffigura, ma
al contempo il soggetto raffigurato viene appreso mediante
l’oggetto dell’immagine. Attraverso un’immagine gettiamo
uno sguardo sul suo soggetto, che è rappresentato nella mo-
dalità del “non-manifesto” interno al suo «esser raffigurato»
(nichterscheinende bildmässig repräsentierte)28.
La struttura della coscienza d’immagine è in sé triplice, e
tuttavia disponiamo soltanto di due apprensioni stratificate
l’una sull’altra e in conflitto tra loro, nella forma di una “dop-
pia apprensione” incentrata su di un unico oggetto percetti-
vo. Il soggetto dell’immagine si manifesta, in senso stretto,
perché viene reso presente in quanto altro dalla manifesta-
zione, in quanto è ciò che non si manifesta. In altri termini,
il soggetto dell’immagine è reso presente come qualcosa di
altro dalla manifestazione nella forma dell’esser-raffigurato.

27. Cfr. ivi, pp. 52, 54.


28. Cfr. ivi, p. 31.
218 nicolas de warren

Una relazione di somiglianza lega l’oggetto dell’immagine


e il soggetto dell’immagine. Questa apprensione dell’ogget-
to dell’immagine non ha validità in se stessa, poiché funge
da apertura che rende presente il soggetto dell’immagine. Il
soggetto dell’immagine, il mio riconoscimento di ciò che è
raffigurato nell’immagine, a sua volta, è costituito mediante
una forma specifica di intenzionalità. Come abbiamo stabi-
lito, l’intenzionalità riferita al soggetto dell’immagine non
può venire sganciata dall’apprensione dell’oggetto dell’im-
magine. Tuttavia, il soggetto dell’immagine non è dato in
quanto manifestazione ulteriore. L’oggetto dell’immagine
cede la propria manifestazione al soggetto dell’immagine, il
quale, tuttavia, non appare in se stesso, ma è dato come ciò
che non si manifesta internamente al manifestarsi dell’oggetto
dell’immagine. Possiamo parlare di “coincidenza” (Deckung)
e, perciò, di una distanza interamente colmata tra oggetto e
soggetto dell’immagine soltanto come caso ideale in cui «ve-
diamo perfettamente nell’oggetto dell’immagine il soggetto
dell’immagine»29. Husserl ammette tuttavia che questo ideale
resta un caso-limite (Grenzfall). Infatti, un simile ideale di
raffigurazione definisce necessariamente un’impossibilità: se
un’immagine fosse perfetta, infatti, non potremmo più aver
coscienza della differenza tra oggetto e soggetto dell’imma-
gine, e di conseguenza non potremmo più guardarla come
immagine di qualcosa. Un’immagine perfetta sopprimerebbe
la distinzione che rende possibile un’immagine in generale.
Questa distanza interna alla manifestazione si riflette nella
coscienza: la coscienza d’immagini è possibile in generale
soltanto sul fondamento di una coscienza scissa e in conflitto
con se stessa (eine Zwiespältigkeit des Bewußtseins).
L’idea guida nell’analisi della coscienza d’immagini hus-
serliana consiste nel riconoscimento del fatto che il soggetto
dell’immagine non si manifesta. Quando guardo un dipin-
to di Napoleone, Napoleone mi è dato come ciò che non

29. Ivi, p. 35.


Lo sguardo di pamina 219

si manifesta e, nondimeno, mi appare comunque nel suo


non-manifestarsi, all’interno della manifestazione dell’im-
magine. L’essenza di un’immagine è la “ri-presentificazione”
o il “render presente” dell’“altro dalla manifestazione” nella
forma della raffigurazione (“vergegenwärtigt”, “verbildlicht”,
“veranschaulicht”30 sono i tre termini connessi nell’anali-
si fenomenologica husserliana). Il soggetto dell’immagine
satura l’immagine. Ma cosa significa questo? In che senso
possiamo parlare del soggetto dell’immagine come ciò che la
satura, come ciò che è dato nel suo non-manifestarsi interno
a una manifestazione? È proprio su questo punto cruciale
dell’analisi fenomenologica husserliana che ci si imbatte in
un’affermazione a tutta prima insolita, sorprendente e sugge-
stiva. Husserl osserva: «Di fronte a un’immagine guardiamo
dentro, intendendo l’oggetto, oppure dall’interno di essa è
l’oggetto che guarda noi». E ancora: «è come se il sogget-
to ci guardasse attraverso questi tratti raffigurati [Züge]»31.
Quando guardiamo un’immagine, qualcosa incomincia a
sua volta a rivolgere il proprio sguardo su di noi. È come se
l’intenzionalità del guardare (Anschauung) invertisse il pro-
prio corso a metà strada, per così dire, mettendosi di contro
all’intenzionalità della mia coscienza che guarda l’oggetto
dell’immagine. Il soggetto dell’immagine mi guarda. Esso
non si manifesta poiché guarda l’immagine in cui si riflette.
Il modo del suo non-manifestarsi è colto descrittivamente
con lo sguardo. Il soggetto dell’immagine è lo sguardo di ciò
che non si manifesta, lo sguardo in quanto altro dal mani-
festarsi. Queste suggestive osservazioni non costituiscono
ancora una piena fondazione fenomenologica dell’immagine.
Ciò che esse segnalano, o quantomeno accennano come pro-
spettiva di pensiero possibile, è che un soggetto raffigurato
possieda uno sguardo proprio che incontriamo a metà strada
internamente all’immagine. La sorprendente e forse inattesa
ambiguità che si rivela nel cuore dell’analisi husserliana è che

30. “Presentificato”, “messo in immagine”, “reso intuitivo”, N.d.T.


31. hua xxiii, p. 32 [corsivo mio].
220 nicolas de warren

non possiamo stabilire con certezza chi o che cosa ponga in


atto questo sguardo. L’“oppure” (oder) nell’affermazione di
Husserl appena citata porta in sé, senza tuttavia coglierlo ap-
pieno, questo paradosso dell’immagine, che abbiamo cercato
di riformulare in una nuova prospettiva. L’immagine è qual-
cosa che guardiamo dalla distanza rispettosa dello spettatore
o è qualcosa in cui veniamo assorbiti? Come scrive Husserl:
«Chi si immerge puramente in un’immagine guardandola
vive nel suo carattere d’immagine [Bildlichkeit], disponendo
della presentificazione dell’oggetto nell’immagine stessa»32.
La coscienza d’immagine è un’apertura per la datità di un
oggetto che può manifestarsi nella modalità dell’altro-dalla-
manifestazione (Bewusstseins des “Andersseins” des gemeinten
Objekts). Tale distanza interna alla manifestazione è anche
una differenza di temporalità (anche se in queste pagine non
posso addentrarmi nella complessa relazione che sussiste tra
coscienza d’immagini, immaginazione e coscienza del tem-
po). Una caratteristica peculiare dell’immagine è la mancanza
di qualsivoglia segno distintivo temporale definito, trattando-
si della manifestazione di un’assenza. Quando vedo il ritratto
di Napoleone, non mi “ricordo” del suo volto raffigurato come
se si trattasse di un oggetto che avevo visto in passato (come
mi accadrebbe se percepissi la fotografia di un mio amico
come spunto per un atto di ricordo), né percepisco l’im-
magine che ho di fronte come anticipazione di un incontro
con Napoleone in futuro. Apprendo l’oggetto intenzionale
(“soggetto dell’immagine”) in quanto “inattuale”, vale a di-
re, in quanto dato nella sua “non-manifestazione” interna a
una manifestazione (interna a un’immagine). La coscienza
d’immagini è la coscienza di un’“alterità” (Bewußtseins des
“Andersseins”) basata su un conflitto (Widerstreitsbewußtsein)
e su un «raddoppiamento di coscienza» (Verdoppelung des
Bewußtseins)33. La coscienza è raddoppiata, in conflitto con se

32. Ivi, p. 37.


33. Cfr. ivi, p. 32; pp. 46-47; h. jonas, Image-making and the Freedom of Man,
cit., p. 163; trad. it. p. 214.
Lo sguardo di pamina 221

stessa: l’immagine è più della propria incarnazione fisica, fino


al punto che ciò che vedo nell’immagine è più del semplice
oggetto fisico “immagine”. Non appena crolla la differenza
tra oggetto e soggetto dell’immagine essa diventa, per così
dire, un idolo: l’alterità di ciò che non si manifesta, si mani-
festa nella coincidenza con l’immagine presente. Non appena
crolla il conflitto tra l’oggetto fisico e l’oggetto dell’immagine,
l’immagine diviene mondana, smette di essere un’immagine
divenendo semplicemente un’altra cosa tra le cose.
Quando Tamino ammira il ritratto di Pamina, la pre-
sentazione di lei come altro dalla manifestazione cattura il
suo sguardo. «Quest’immagine divina/riempie il mio cuore
di un entusiasmo nuovo». Quando non guardiamo soltan-
to un’immagine, come fa Papageno, ma soccombiamo allo
sguardo di un’immagine, come fa Tamino, «ci sentiamo vicini
all’oggetto, come se fossimo veramente tutt’uno con esso,
come se esso ci stesse veramente di fronte»34.

6.

Contrariamente alla coscienza d’immagine, l’immaginazione


è una forma di coscienza che non si fonda sull’esperienza
percettiva di un oggetto fisico, o cosa-immagine, che funge da
base o supporto materiale per l’oggetto immaginato. Sebbene
l’immaginazione possa fungere all’interno della coscienza
d’immagini, nella modalità descritta precedentemente della
“immaginazione pittorica”, l’immaginazione in senso pro-
prio, quella che Husserl chiama “pura fantasia” (reine Phan-
tasie) è discontinua rispetto all’esperienza percettiva. Que-
sto carattere discontinuo non impedisce all’immaginazione
di intromettersi nell’esperienza percettiva. Senza dubbio
questa discontinuità può essere vista come la condizione di
possibilità per trasformare l’esperienza percettiva attraverso

34. hua xxiii, p. 34.


222 nicolas de warren

l’immaginazione. Mentre la coscienza d’immagine si basa


sulla doppia apprensione e sul conflitto tra cosa-immagine
in quanto immagine e oggetto dell’immagine in quanto sog-
getto dell’immagine, l’immaginazione, mancando della base
percettiva, non possiede la medesima forma costitutiva della
doppia apprensione. Non vi è nulla di paragonabile a una
percezione sottostante o ad un oggetto dell’immagine dotato
di una forma di manifestazione ibrida: vedere l’immagine
di un unicorno non è lo stesso che immaginare un unicor-
no – l’unicorno che immagino “si muove”, “cambia colore” e
simili in una dimensione di coscienza popolata da altre cre-
ature immaginarie. L’unicorno immaginario non può essere
localizzato a una distanza determinata dal mondo percettivo;
l’immaginario è immune dalle pressioni materiali del mondo.
L’analisi secondo cui l’immaginazione è priva di un sup-
porto percettivo va di pari passo con la chiarificazione della
sua possibile confusione con allucinazioni e altre forme di
deformazione percettiva. Le allucinazioni stanno in conti-
nuità con la coscienza percettiva. Se ho un’allucinazione in
cui vedo un elefante rosa, l’oggetto della mia allucinazione
appare all’interno del mio campo percettivo proprio perché
si fonda su un dato di carattere percettivo. L’elefante rosa sta
muovendosi di soppiatto dietro di me; si sta nascondendo
dietro l’angolo. Un unicorno immaginato invece è disconti-
nuo rispetto alla mia esperienza percettiva e non può mai en-
trare in conflitto con una percezione sottostante. L’unicorno
che immagino non può essere localizzato all’interno del mio
campo percettivo; non si trova né a destra né a sinistra del
tavolo. Non vi è alcun contesto di esperienza percettiva che
parli a favore o contro rispetto all’unicorno immaginato in
quanto unicorno immaginato. Un’illusione percettiva, infatti,
come Husserl precisa nella sue Lezioni sulla sintesi passiva,
entra in conflitto o con delle esperienze percettive o con altre
illusioni percettive35. Io posso accorgermi improvvisamente

35. hua xi, Analysen zur passiven Synthesis, M. Fleischer (Hrsg.), Nijhoff, Den
Haag 1966; trad. it. di V. Costa, Lezioni sulla sintesi passiva, Guerini, Milano 1993.
Lo sguardo di pamina 223

di aver scambiato un manichino di cera per un mio amico.


In casi di questo genere, il riconoscimento del mio errore
percettivo richiede non soltanto che io vada oltre l’apparenza
ingannevole di una manifestazione, ma anche che una per-
cezione successiva “cancelli” (durchstricht) quella precedente
(ora vista come erronea). La correzione delle illusioni per-
cettive richiede l’effettiva posizione di restrizioni da parte di
esperienze percettive ulteriori. La resistenza alla correzione
immediata richiede una pretesa continuata dell’illusione che
vada a contrastare i richiami percettivi del mondo. Nell’analisi
fenomenologica di Husserl (che non possiamo restituire in
dettaglio in questo saggio) le illusioni percettive si radicano
nel tessuto motivazionale dell’esperienza percettiva e si si-
tuano nel contesto della coerenza o “normalità” del mondo.
Questo ineludibile carattere mondano dà alle illusioni una
carica di significato o un’assenza di significato possibile. Nel
caso dell’immaginazione, invece, la relazione che sussiste tra
l’unicorno immaginato e il mio mondo percettivo è intera-
mente priva di un nesso. Come nota Husserl: «La relazione
al presente manca del tutto nella manifestazione stessa di ciò
che è immaginato»36. L’oggetto immaginato non si fonda su
un dato percettivo o su “qualcosa di presente” (wir haben kein
“Gegenwärtiges”). Mancando di ogni riferimento al presente
effettivo, un oggetto immaginato non è posto all’interno del
mondo intersoggettivo delle cose. L’immaginario appartie-
ne ad altri mondi, sconnessi dal tessuto motivazionale del
mondo percettivo. L’unicorno immaginato beneficia di una
forma di datità che non porta il peso del mondo. Questa
discontinuità che sussiste tra l’esperienza percettiva e l’imma-
ginazione è descritta, col lessico fenomenologico husserliano,
nei termini di una assenza di “coincidenza” (Deckung); senza
la coincidenza di apprensioni percettive e atti immaginativi
(come accade invece nel caso della coscienza d’immagine e
del conflitto della doppia apprensione che la costituisce), nel

36. hua xxiii, p. 79: «die Beziehung auf die Gegenwart fehlt in der Erscheinung
selbst ganz und gar».
224 nicolas de warren

caso dell’immaginazione la modalizzazione di una credenza è


resa impossibile. Tuttavia, sebbene gli atti immaginativi siano
slegati dal terreno del mondo percettivo, Husserl continua
a parlare dell’immaginazione come una facoltà che genera
“mondi”, ciascuno dei quali possiede il proprio “tempo” e il
proprio “spazio” – mondi immaginari o virtuali nel senso
di interi sussistenti e conchiusi per traiettorie d’esperienza
possibili.
L’idea per cui la coscienza d’immagine si fonda necessa-
riamente su un dato percettivo comporta il riconoscimento
del fatto che le immagini si fondano su una forma di da-
tità che condivide con quella delle esperienze percettive il
carattere “imprevedibile” del mondo percettivo come tale.
Un unicorno immaginato è invece un oggetto che produ-
co spontaneamente per me stesso. E tuttavia, questa datità
auto-prodotta occulta spesso la mia libertà, nonché la forma
di datità specifica dell’oggetto immaginato. Mentre posso
rifiutare di riconoscere o non riconoscere un’immagine,
l’immaginazione rifiuta il rifiuto. Non posso sbagliarmi
nel riconoscere un unicorno immaginato o scambiarlo per
qualcosa d’altro (l’unicorno trasformato può trasformarsi in
un’altra creatura, ad esempio un grifone). Nulla può essere
negato all’interno dell’immaginazione. L’unica opzione di
rifiuto consiste nell’interruzione dell’atto immaginativo, nello
smettere di immaginare. Il piacere del rifugio che sperimen-
tiamo nell’immaginazione, questo piacere, che consiste nel
perderci temporaneamente in un altrove, dipende dalla dis-
simulazione della nostra stessa mano che sta dietro alla pro-
duzione dell’oggetto immaginato. Da questo punto di vista, la
coscienza immaginativa gioca e spesso vive sulle spalle della
distanza che c’è tra il dare e il ricevere la propria produzione.
Anche se sono pienamente consapevole di creare l’oggetto
immaginato (vale a dire, sono io a produrre volontariamente
l’oggetto immaginato), esso continua ad essere un oggetto che
sperimento come dato a me in quanto altro da me stesso, in
quanto “non-io”, cioè, ad esempio, in quanto unicorno che
immagino. Come la coscienza d’immagine, l’immaginazione
Lo sguardo di pamina 225

è a sua volta una coscienza riferita a un’“alterità”, ma, nel caso


dell’immaginario, l’alterità possiede una forma radicale, data
la sua fondamentale discontinuità con il mondo percettivo.
Tuttavia, l’operazione auto-generatasi dell’immaginazione
non implica il fatto che l’oggetto immaginato sia un oggetto
immanente, che esiste meramente “nella mia testa”. Essendo
una forma rigorosa di intenzionalità, l’immaginazione è un
atto di apprensione oggettivante che trascende se stesso. In
quanto oggetto intenzionale, l’unicorno immaginato trascen-
de la coscienza, sebbene la sua trascendenza non si muova
nel registro della trascendenza percettiva né di quella della
coscienza d’immagini. Come dice opportunamente Sartre,
l’analisi intenzionale husserliana dell’immaginazione «re-
stituisce al centauro la sua trascendenza nel seno stesso del
suo nulla»37.
La restituzione della trascendenza all’immaginazione apre
la via al riconoscimento della forma di “doppia-coscienza”
che caratterizza quest’ultima. Infatti, l’interpretazione tradi-
zionale dell’oggetto immaginato in quanto contenuto pura-
mente immanente deriva da una mancata distinzione tra la
forma unica e modificata del carattere d’atto immaginativo
e l’oggetto intenzionale immaginato. Se immagino di vedere
il mio amico Alfredo, non vedo veramente il mio amico in
carne e ossa; né Alfredo compare veramente di fronte alla
mia porta, ma, allo stesso tempo, io faccio veramente l’e-
sperienza di percepire il mio amico. Io infatti lo vedo, ma
lo vedo solo nel senso che quest’atto di visione è a sua volta
un atto immaginato, ma è nondimeno esperienza attuale,
Alfredo mi è dato38. La coscienza dà a se stessa il proprio

37. j-p. sartre, L’imagination, PUF, Paris 1936, p. 147; trad. it. di A. Bonomi,
L’immaginazione, Bompiani, Milano 1962, p. 127. Fink (in e. fink, Vergegenwär-
tigung und Bild, cit., p. 57; trad. it. p. 115) suggerisce l’idea affascinante che alla
dimensione ontologica del “fittizio” non si addica la distinzione fenomenologica
fondamentale di “trascendente” e “immanente”.
38. Per un’analisi esaustiva dell’immaginazione e della sua relazione con la co-
scienza del tempo vedi r. bernet, Conscience et existence. Perspectives phénome-
nologiques, PUF, Paris 2004, pp. 75-117.
226 nicolas de warren

oggetto immaginato insieme a una parvenza di percezione a


esso corrispondente e auto-prodotta, una “quasi-percezione”.
Adottando il gergo tecnico della fenomenologia husserlia-
na (che negli ultimi passaggi ho deliberatamente evitato),
nell’immaginazione la componente noetica e la componente
noematica dell’intenzionalità vengono entrambe modificate.
L’oggetto noematico e l’atto noetico di apprensione vengono
entrambi trasformati, anche se in modi differenti. L’oggetto
immaginato è dato in una “quasi-percezione” o percezione
immaginata. Quando immagino di “vedere” il mio amico Al-
fredo, la mia coscienza è diretta all’oggetto immaginato come
tale: io “vedo” il mio amico con il suo sorriso caratteristico,
con la sua borsa di marca “Max il Cuoiaio” in spalla, ecc.
Quando immagino Alfredo, mi dirigo direttamente sull’og-
getto immaginato. Non sono diretto all’atto immaginativo
mediante cui “vedo” il mio amico, anche se, per essere sicuro,
posso eventualmente decidere di rivolgere la mia attenzione
al mio “quasi-atto” di visione per mezzo della riflessione, caso
in cui è l’atto immaginato stesso a divenire oggetto o tema
della mia coscienza.
Fatte queste considerazioni, possiamo concludere che
l’immaginazione produce la manifestazione di una manife-
stazione secondo un duplice significato. In quanto “doppia-
coscienza”, la coscienza provoca all’interno di se stessa la
propria stessa parvenza, vale a dire, replica l’attività che le è
propria in una forma modificata. Immaginando di “vedere”
il mio amico creo una parvenza della mia attività percettiva.
Questa parvenza di percezione costituisce il “come se” (als ob)
o carattere irreale dell’immaginario: il mio amico mi si mani-
festa come se si manifestasse veramente in carne e ossa, poiché
immaginandolo è come se lo percepissi veramente. Secondo
l’analisi di Husserl sembra che io veda il mio amico Alfredo,
mentre in effetti non sto vedendo assolutamente nulla che si
trovi all’interno del mondo percettivo. Non sto guardando
qualcosa che assomiglia a un unicorno o l’immagine di un
unicorno, un’“immagine interna”, e tuttavia la mia coscienza
assume la forma modificata del somigliare a ciò che significa
Lo sguardo di pamina 227

percepire un unicorno. La mia coscienza diviene per se stessa


questo sembrare di vedere e, in questo senso, diviene altro da
se stessa nella forma del “somigliare all’esperienza” di ciò di
cui essa non sta veramente facendo esperienza. Somigliando
all’esperienza di “guardare un oggetto percettivo”, senza per-
ciò credere di star guardando per davvero qualcosa di reale,
la coscienza giunge a “neutralizzare” se stessa al punto che la
sua stessa percezione simulata, o quasi-percezione, diviene
oggetto d’esperienza, sebbene non venga posta in se stessa
come esperienza percettiva attuale39.
Seguendo Husserl, possiamo distinguere tra coscienza
d’immagini e immaginazione distinguendo tra la “coscien-
za di un conflitto” (Widerstreitsbewußtsein) della coscien-
za d’immagine e la “coscienza di ciò che non è presente”
(Nichtgegenwärtigkeitsbewußtsein) dell’immaginazione40.
Mentre la coscienza d’immagine è una coscienza media-
ta – qualcosa di altro dalla manifestazione si rende presente in
una manifestazione – l’immaginazione è simile alla coscienza
percettiva poiché il suo oggetto è dato in maniera diretta, sen-
za la mediazione di un’immagine o di una rappresentazione
intermedia, interna o esterna. Husserl ridefinisce l’imma-
ginazione come “presentificazione” (Vergegenwärtigung) in
contrasto con la coscienza percettiva, definita “presentazione”
(Gegenwärtigung). Nell’apprensione percettiva di un oggetto,
l’oggetto mi è dato “in persona” o “in quanto attualmente
presente” (gegenwärtig). L’oggetto immaginato è dato come
assenza di se stesso in persona, come se fosse attualmente
presente. In quanto modo di coscienza originario, la Verge-
genwärtigung è una coscienza di alterità (Andersseins). La

39. Tuttavia questa forma di neutralizzazione tipica dell’immaginario, sotto il


titolo “come se”, non deve essere confusa con la modificazione di neutralità di cui
Husserl parla nei paragrafi 109-112 di Ideen I. Come Fink precisa in Vergegenwär-
tigung und Bild, il carattere “come se” dell’immaginazione modifica sia il “nucleo
di senso” noematico sia l’effettuazione (Vollzug) dell’atto: è come se percepissi un
unicorno - è come se mi apparisse un unicorno. Cfr. e. fink, Vergegenwärtigung
und Bild, cit., pp. 21-22; trad. it. pp. 72-73.
40. Cfr. hua xxiii, p. 59.
228 nicolas de warren

“doppia coscienza” dell’immaginazione è incompatibile con


se stessa poiché la coscienza produce la parvenza di se stessa,
divenendo per così dire il “sosia” (Doppelgänger)41 di se stessa.
Mediante gli atti immaginativi, la coscienza diviene altro da
se stessa, ma al contempo, in questo stesso movimento di
auto-trascendimento, si apre a qualcosa d’altro per divenire
se stessa, come accade quando guardiamo l’immagine im-
mortale di una persona amata e/o evochiamo la presenza di
amici lontani, condividendo le gioie e le tribolazioni delle
loro vite, incompatibili ma non incomparabili con la nostra.

[Traduzione dall’inglese di Andrea Staiti]

41. Per l’interpretazione della “doppia coscienza” in termini di incompatibili-


tà vedi r. bernet, Conscience et existence. Perspectives phénomenologiques, cit.,
pp. 112-113.
Carmine Di Martino

Husserl e la questione uomo-animale

1. La prospettiva fenomenologica

L’irrompere della vita come problema segna il nostro pre-


sente. In tale irruzione s’intrecciano questioni di carattere
filosofico, scientifico, etico, giuridico, politico. Nella esplo-
sione della biologia e della genetica su un versante scientifico,
della bioetica e della biopolitica su un versante filosofico,
per indicare solo alcune discipline-simbolo, è la «vita» che
si ripropone al pensiero, secondo i suoi molteplici risvolti:
uno fra essi, tra i più inaggirabili, è quello relativo al rapporto
tra i viventi umani e i viventi non umani. Con la pubblica-
zione de L’origine delle specie nel 1859 accade, come si sa,
un mutamento epocale dello sguardo al vivente. La teoria
darwiniana orienta in un nuovo senso l’interrogazione sul
rapporto tra animalità e umanità; la domanda sull’origine
dell’uomo acquista una forma dominante, quella “scientifico-
evolutiva”, e l’uomo non si trova più a mezza via tra l’animale
e il dio, ma sull’estremo confine di una linea continua che va
dall’ameba allo scimpanzé. Da alcuni decenni, nell’ambito
delle scienze, attraverso la biologia molecolare, per esempio,
si è fatta strada una visione sistemica della vita (che si accor-
da con un certo pensiero ecologico), che integra e mette in
questione lo schema evolutivo lineare darwiniano. Si aprono
immensi sviluppi e si approfondisce il solco tra concezioni
contrapposte, riconducibili alla classica alternativa tra visione
continuista e visione discontinuista della vita umana. La pro-
spettiva darwiniana e la teoria dei sistemi complessi danno,
dai loro rispettivi versanti, nuova e decisiva linfa e argomen-
230 carmine di martino

ti alla visione continuista, secondo la quale tra animalità e


umanità vi sono solo differenze di grado e non differenze di
essenza. Insieme a ciò occorre menzionare gli sviluppi straor-
dinariamente fecondi della antropologia, della paleontologia,
della psicologia, dell’etnologia, della archeologia, ecc., che
hanno messo a disposizione una quantità sorprendente di
“dati” e formulato teorie ricostruttive, relative all’apparizione
dell’uomo e alle caratteristiche delle prime comunità umane,
largamente condivise dalle comunità scientifiche.
La posta in gioco della discussione è, da un punto di vista
etico e politico, oltre che filosofico, di notevole importanza
e, proprio a causa di ciò, sui due lati del campo di battaglia
si trovano facilmente a combattere “metafisiche” contrappo-
ste. La nostra domanda è la seguente: la fenomenologia può
dare un contributo al ripensamento di simili questioni, può
aiutarci ad affrontare il problema del rapporto tra animalità
e umanità al di là di ideologiche e pregiudiziali alternative?
Le questioni accennate, si sa, non rientrano come tali
nelle prerogative e nei compiti della fenomenologia hus-
serliana. Per sua natura essa non si occupa di fatti, non si
impegna in affermazioni ontologiche, per esempio su uo-
mini e animali, e nella differenziazione tra enti esistenti, ma
nella descrizione di diversi tipi di strutture di coscienza e di
esperienza, a prescindere – in questo caso – dal “fatto” delle
specie in cui si realizzano. Nell’opera di Husserl la tematiz-
zazione fenomenologica della differenza uomo/animale si
inscrive nel quadro di una chiarificazione della concreta (in-
ter)soggettività trascendentale che costituisce il mondo. Si
può ritrovare un esempio di tale impostazione nel testo n. 11
del volume xv della Husserliana – in linea di continuità con
quanto esposto nel § 55 di Meditazioni cartesiane –: in esso
viene affrontato il problema della costituzione trascenden-
tale del mondo a partire dalla normalità umana, dal mon-
do già dato come «mondo di noi uomini»1, di «noi uomini

1. hua xv, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Dritter Teil, I. Kern


(Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1973, p. 163 (la traduzione è nostra).
Husserl e la questione uomo-animale 231

normali»2. Poiché la normalità emerge solo a partire dalla


anormalità e dalle anomalie, è necessario il riferimento ai
folli, ai bambini, ai malati, ai vecchi, ma anche agli animali,
in quanto essi esperiscono il mondo in modo anomalo («Al-
la problematica delle anomalie appartiene anche il problema
dell’animalità e quello della gradazione degli anomali in in-
feriori e superiori»3). L’intersoggettività trascendentale che
costituisce il mondo umano deve dunque essere esplicata
nei suoi caratteri essenziali attraverso il confronto con altre
soggettività possibili date fenomenicamente, quella animale
e quella umana “anormale”. La descrizione delle strutture
della soggettività trascendentale non può fare a meno di
queste distinzioni, poiché essa procede per assimilazioni
e contrasti. La differenza tra coscienza umana e coscienza
animale interessa dunque la fenomenologia in vista della
chiarificazione tanto dell’eidos “ego trascendentale” quanto
della concreta intersoggettività trascendentale che costi-
tuisce il mondo (comunità trascendentale interspecifica).
In una certa misura, infatti, anche l’animale contribuisce
alla costituzione del nostro mondo4. Inoltre, il terzo moti-

2. Ivi, p. 165.
3. Prosegue Husserl: «In rapporto all’animale, l’uomo, per dirla in modo costi-
tutivo, rappresenta il caso normale, così come io stesso sono, in senso costitutivo,
la norma originaria per tutti gli uomini; gli animali sono costituiti essenzialmente
per me come variazioni anomale della mia umanità, non importa se poi anche
negli animali bisognerà distinguere di nuovo normalità e anomalia. Si tratta sem-
pre di modificazioni intenzionali nella struttura di senso stessa, modificazioni
che si testimoniano come tali» (hua i, Cartesianische Meditationen und Pariser
Vorträge, S. Strasser (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1950, trad. it. di F. Costa, Medi-
tazioni cartesiane e discorsi parigini, Bompiani, Milano 2002, pp. 144-145).
4. Scrive Husserl nel testo n. 11 del xv volume: «Il mondo per antonomasia, il
mondo reale è esclusivamente il correlato di noi uomini come unità dei nostri
modi di apparizione umani e all’interno di ciò di quelli umani normali e di quelli
umani anormali […] Ci si domanda se è davvero corretto, in quanto si potrebbe
obbiettare che, se gli animali sono compresi come in rapporto al mondo, allora
essi possono anche occasionalmente fungere come con-costituenti il mondo. Se
il cane viene osservato come cane da caccia, allora egli può insegnarci cose che
noi ancora non sappiamo. Egli amplia il nostro orizzonte di esperienza. Il cane,
l’animale, ha in sé originariamente il suo mondo d’esperienza concordante e lo
232 carmine di martino

vo di interesse risiede nella chiarificazione dell’esperienza


concreta del mondo della vita in cui la coscienza animale
e la coscienza umana appaiono come polo noematico che
funge da filo conduttore per le rispettive costituzioni. Se il
contenuto di tale polo noematico per la coscienza animale
è effettivamente diverso da quello concernente la coscien-
za umana, la riduzione eidetica mostrerà che quel tipo di
coscienza appartiene a una regione ontologica distinta da
quella a cui appartiene la coscienza umana.
Se, sotto un certo profilo, i riferimenti alla differenza uomo-
animale attraversano l’intera opera husserliana, essi ottengono
tuttavia un’attenzione specifica e un più ampio spazio temati-
co solo nell’ultima fase della riflessione di Husserl, forse anche
sotto la spinta della nascente antropologia filosofica, che ha in
Scheler, Plessner e Gehlen (oltre che in Driesch e in von Uexküll
in ambito scientifico) i suoi più noti rappresentanti, e della più
tardiva lettura, compiuta negli anni della stesura della Crisi delle
scienze europee, de La mythologie primitive. Le monde mythique
des Australiens et des Papous di Lévy-Bruhl. L’interesse suscitato
dal volume dell’etnologo fu tale da innescare in Husserl una
riflessione approfondita, che diede luogo all’elaborazione di un
manoscritto e di una lettera di risposta all’autore, con alcune
significative indicazioni circa il senso e la legittimità attribuibili,
secondo Husserl, alla scienza antropologica5.
Le analisi husserliane, conformemente all’impostazione
della fenomenologia (adottata in qualche modo anche dai tre
iniziatori dell’antropologia filosofica, legati in senso ampio e
diversificato alla prospettiva fenomenologica, e dallo stesso

veicola. Se la pensiamo così, ciò non ha come conseguenza, forse, il costruire una
sintesi tra questa esperienza e la nostra esperienza umana e l’avere quindi una
realtà-del-mondo come unità d’esperienza che si estende sinteticamente a tutte
le esperienze umane e animali?» (ivi, pp. 166-167).
5. La lettera è contenuta in e. husserl, Briefwechsel, K. Schuhmann und E.
Schuhmann (Hrsg.), Hua Dokumente, Band III/1-10, Springer 1994. È disponibile
una traduzione italiana a cura di V. De Palma, Lettera a Lucien Lévy-Bruhl, in «La
Cultura», 1 (2008), pp. 75-82. Il manoscritto husserliano sull’opera di Lévy-Bruhl
è conservato presso lo Husserl-Archiv di Lovanio con la segnatura K III 7.
Husserl e la questione uomo-animale 233

Heidegger nel corso del 29/306), si attengono a una chiara


prescrizione metodologica: le peculiarità strutturali degli uo-
mini e degli animali possono essere mostrate solo attraverso
un’analisi dei rispettivi mondi, quello proprio degli uomini e
quello proprio degli animali (con tutte le differenze interne
all’animalità). In altri termini, la fenomenologia propone un
accesso intenzionale alla struttura dei viventi (l’analisi feno-
menologica è sempre ed essenzialmente analisi intenzionale):
le diverse soggettività, animali e umane, possono e devono
essere portate alla luce analizzando il tipo di mondo a esse
correlato. In virtù dell’originario rapporto intenzionale (in
un senso necessariamente lato) che ogni vivente intrattiene
col suo mondo, noi possiamo risalire alla soggettività vivente
costitutivamente coinvolta nella manifestazione di quel deter-
minato mondo, stabilire cioè quali atti siano necessariamente
implicati nella sua manifestazione o, viceversa, in mancanza
di quali atti esso non potrebbe manifestarsi. Se la correlazio-
ne intenzionale è una struttura in cui qualcosa si manifesta,
possiamo indagare i diversi modi intenzionali muovendo dal
tipo di mondo che in essi giunge a datità. Nella prospettiva
fenomenologica husserliana si tratta insomma di cogliere le
differenti strutture dei viventi (umani e non umani) a partire
dai differenti mondi, in un cammino regressivo che va dal
costituito al costituente. In questa direzione, in un registro
fenomenologico e nell’ambito di un’analisi trascendentale,
vanno intese le affermazioni sugli animali e sulla loro psico-
logia che si trovano nei testi husserliani, nonostante il regime
di riduzione resti per lo più implicito ed esse possano perciò
anche venir lette come risultati di analisi psicologiche.
In via preliminare, occorre subito notare che un’analisi in-
tenzionale che prenda le mosse dal tipo di mondo comporta
essenzialmente una prospettiva assimilante e comparativa: sia-
mo noi, a partire dalla nostra esperienza del mondo, a parlare

6. m. heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt – Endlichkeit – Ein-


samkeit, Klostermann, Frankfurt a. M. 1983, trad. it. di P. Coriando, Concetti fonda-
mentali della metafisica. Mondo - Finitezza - Solitudine, Il Melangolo, Genova 1999.
234 carmine di martino

di mondi ambiente animali. Gli animali non sanno niente del


mondo ambiente che noi, «umanizzandoli»7, attribuiamo loro.
Nell’indagine fenomenologica sulla soggettività vivente ani-
male e sul suo mondo ambiente noi facciamo evidentemente
uso di una «interpretazione analogizzante». Essa tuttavia non
preclude affatto l’accesso al fenomeno, né incoraggia costru-
zioni arbitrarie, bensì caratterizza la sua specifica accessibilità.
Il problema riguarda la nozione fenomenologica di datità:
gli animali hanno uno specifico modo di darsi nella nostra
esperienza, che non può essere modificato a nostro piacimento
e che costituisce il terreno di ogni interpretazione. Il mondo
animale può «essere conosciuto nella sua tipica più precisa solo
attraverso l’esperienza» che ne abbiamo, a partire dalla «tipica
dei suoi modi di datità»8. Come si danno gli altri viventi – non
gli uomini, ma gli animali –, anch’essi da sempre presenti nel
nostro mondo familiare? Come noi li esperiamo? Gli animali,
nella loro propria modalità di esistenza e in quanto vivono
nel mondo secondo i loro modi intenzionali, vengono neces-
sariamente esperiti in forza di una analogizzazione fondata
sul nostro percepire, pensare, valutare, agire, vale a dire sulla
nostra esperienza “personale” con i suoi modi intenzionali. I
viventi non umani ci si offrono in una «entropatia, che è una
variazione assimilante dell’entropatia tra uomini»9.
L’elemento primo della comprensione entropatica degli
animali riguarda anzitutto il loro corpo, che, come il nostro,
si offre ed è colto come un «sistema di organi di percezione
e organi pratici, attraverso cui l’ambiente percettivo è lì per
l’animale»10. Beninteso, ciò che si dà in virtù di una tale en-
tropatia, che inizia con l’assimilazione del Körper in quanto
Leib, è la vita animale in se stessa e per se stessa. Noi uomini
cogliamo la vita animale come un analogo della nostra, ma ciò
non costituisce in nessun senso un arbitrio: non abbiamo altro

7. hua xv, p. 181.


8. Ivi, p. 623.
9. Ivi, p. 182.
10. Ivi, p. 182.
Husserl e la questione uomo-animale 235

modo di coglierla, né essa – la vita animale – ha altro modo di


darsi. L’interpretazione analogizzante e la comprensione entro-
patica non rappresentano un limite “soggettivo” che andrebbe
superato, ma la soglia manifestativa, l’essenziale condizione
di visibilità della vita animale in se stessa. Fuori di essa non
apparirebbe alcunché. Il riferimento all’esperienza (e perciò
all’analisi intenzionale e all’entropatia) può essere avvertito
come un problema solo se non si interroga la provenienza dei
nostri concetti e si crede di poter parlare di “mondi ambiente”
di zecche e scimpanzé, di “psicologie” e di “comportamenti
animali”, e di altro ancora, come fossero cose in sé, oggetti già
pronti e disponibili ai nostri protocolli osservativi e alle nostre
pure descrizioni. Ciò che distingue una ricerca fenomenologi-
camente orientata dalla ricerca empirica praticata dalle scienze
biologiche o da una psicologia scientifica, senza per questo
contrapporvisi, è dunque proprio la continua interrogazione
dei nostri concetti, la consapevolezza sempre di nuovo rinno-
vata del loro radicamento in una esperienza, che può essere
solo la nostra, quella di noi uomini. Lo si comprende ancor
più in riferimento alla psicologia, la quale, scrive Husserl è

per principio una psicologia umana, come psicologia prima e che


poggia autenticamente sull’esperienza. La psicologia degli animali,
invece, è puramente costruttiva, e la legittimità della sua costruzio-
ne presuppone una psicologia umana, cioè una psicologia realmente
intenzionale11.

2. Ich-struktur animale

Alla luce delle affermazioni compiute, addentriamoci nel no-


stro tema. Per accostare la questione uomo/animale, abbiamo
insistito sulla peculiarità del punto di vista fenomenologico:
occorre passare attraverso una analisi del mondo. Nel citato

11. Ivi, p. 185.


236 carmine di martino

volume xv, uno dei testi più significativi in proposito è la


Appendice x, intitolata Welt und Wir. Menschliche und tie-
rische Umwelt12. In esso Husserl ci fornisce una trattazione
sintetica e sufficientemente conclusa della differenza tra il
mondo ambiente dell’animale e quello dell’uomo13.
In linea con l’impostazione cui abbiamo accennato, Hus-
serl chiarisce da subito che gli animali possiedono una sog-
gettività, una struttura egologica, cui è correlato un mondo
ambiente.

Gli animali, gli esseri animali, sono come noi soggetti di una vita di
coscienza in cui, in un certo modo, è dato anche un “mondo ambiente”
come il “loro”, sulla base di una certezza d’essere. L’essere-soggetto si
riferisce all’anima di tali esseri. La loro vita di coscienza, intesa in un
senso puramente animale, è centrata, e l’espressione “soggetto per una
coscienza”, dotato di coscienza, indica qualcosa di analogo o di più
generale dell’ego umano delle cogitationes di questi o quei cogitata:
per questo non abbiamo nessun termine che sia adeguato. Anche
l’animale possiede qualcosa come una struttura egologica14.

Husserl non esita a riconoscere, soprattutto in riferimento agli


animali superiori, che la vita di coscienza animale è centrata:
vi è cioè un soggetto dei vissuti, ovviamente colto come un
analogo o una generalizzazione dell’io umano (sotto questo
profilo bisogna notare una sensibile differenza tra la posizione

12. Ivi, pp. 174-185.


13. Non sono numerose le ricerche dedicate al problema dell’animale e della
differenza uomo-animale in Husserl. Il lavoro di René Toulemont, pubblicato
con il titolo L’essence de la société selon Husserl, PUF, Paris 1962, pp. 79-82 e pp.
192-198, è a tutt’oggi uno dei pochi ad affrontare la problematica con una relativa
completezza e con una discreta ampiezza di riferimenti. Egli identifica un elenco
dei manoscritti principali in cui Husserl fornisce le linee di una fenomenologia
dell’animale e una tematizzazione della differenza antropologica. Dopo il volume
di Toulemont, tra i rari studi in proposito, segnaliamo: il n. 3, anno 1995, della
rivista «Alter. Revue de phénoménologie», interamente dedicato all’animale nella
tradizione fenomenologica; cfr. inoltre, c. lotz, c. painter (Eds.), Phenomenology
and Non-Human Animal, Springer, Berlin 2007.
14. hua xv, p. 177.
Husserl e la questione uomo-animale 237

husserliana e quella heideggeriana espressa nel citato corso


del 1929-’30, Concetti fondamentali della metafisica15).
Qual è allora la differenza tra struttura egologica animale
e umana? Un’indicazione – fra le molte disponibili – si può
trovare nella Appendice xii a Idee II, laddove si opera una di-
stinzione tra un «io animale» e un «io umano». L’io animale
o meramente animale è l’io della psiche, riferito ai «vissuti
psichici della sfera sensibile»16, implicato in tutte quelle opera-
zioni che richiedono un’attività egologica – come il percepire
attenzionale – e per le quali non sarebbe sufficiente appellarsi
alla dinamica di inibizione-disinibizione delle pulsioni, senza
riferimento a un centro, a un soggetto degli atti. L’io umano,
invece, è l’io che si auto-appercepisce, l’io autocosciente e che
può prendere posizione su se stesso. Tuttavia, se nelle analisi di
Idee II il problema è anzitutto quello di mostrare un «io mera-
mente animale» come strato dell’«io umano», in Welt und Wir
e nei manoscritti dello stesso periodo il richiamo alla «struttura
egologica» animale ha piuttosto il senso di sottolineare, confor-
memente al modo di darsi degli animali, per lo meno di certi
animali, il fatto che essi «per noi esistono evidentemente come
soggetti che si rapportano, in modo evidentemente comprensi-
bile, alle cose, agli altri, a noi»17. Si tratta, insomma, di mettere
in risalto il darsi di una «soggettività» animale all’interno di un

15. Heidegger ritiene di non dover riconoscere agli animali una soggettività né,
correlativamente, un mondo ambiente. Per l’animale occorre parlare di «capacità
istintuale» e di «cerchio disinibente». Heidegger sostiene la tesi – che egli definisce
in un senso peculiare “metafisica” – della «povertà di mondo» dell’animale e intende
farlo proprio a partire dalle «ultime ricerche della biologia», nella fattispecie dai
concetti di von Uexküll di «mondo ambiente» e di «mondo interiore» degli animali.
Cfr. m. heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., pp. 250 e ss.
16. hua iv, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Phi-
losophie. Zwietes Buch: Phänomenologische Untersuchungen zur Konstitution, M.
Biemel (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1952, Nachdruck 1971; trad. it. Idee per una
fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica II e III, a cura di V. Costa,
Einaudi, Torino 2002, p. 331.
17. hua xv, p. 625. Utilizziamo, per questo testo del vol. xv, la traduzione italiana
realizzata da M. Vergani, in E. Husserl, Metodo fenomenologico statico e genetico,
a cura di M. Vergani, il Saggiatore, Milano 2003, pp. 98-99.
238 carmine di martino

rapporto di comprensione entropatica, anzitutto in riferimento


agli animali superiori. Per gli animali inferiori è infatti difficile
parlare di un ego attivo, pur essendo ovviamente essi stessi
strutturalmente provvisti di uno specifico mondo ambiente e
del sistema costitutivo correlato. Se consideriamo gli animali
superiori, che essi

abbiano occhi per vedere, che abbiano orecchi, che abbiano zampe, che
stiano in piedi, sdraiati, corrano, sollevino e trasportino, mangino e si
comprendano l’un l’altro così come essi sono, che essi comprendano
anche noi come dotati di tali caratteristiche, e così via, e tutto ciò in
una evidenza che deriva dalla reciproca comprensione e dal trovare
reciproca conferma, per essi come per noi – questo è chiaro18.

Il loro movimento, il loro correre, il loro sollevare, traspor-


tare, mangiare, il loro intendersi e anche intenderci mostra
che essi sono “esseri dotati di anima”, soggetti di una vita di
coscienza a cui in certo modo è dato coscienzialmente un
mondo ambiente in una certezza d’essere: il mondo che è dato
loro percettivamente come presente non subisce infatti mo-
dalizzazioni se non per l’insorgere di esperienze contrastanti.

3. Mondo ambiente e mondo culturale

Se l’animale ha una propria soggettività, una propria


Ichstruktur, una propria modalità psichica, una propria ma-
niera di appercepire, proprie funzioni costitutive e, in correla-
zione a ciò, un proprio mondo ambiente, un proprio orizzonte
mondano, che rapporti intercorrono tra Ichstruktur animale
e umana e tra i rispettivi mondi ambiente? Nell’affermazione
di una Ichstruktur e di un mondo ambiente animale, a partire
dalla considerazione degli animali superiori, è implicata tanto
una comunanza – data per via analogica –, quanto una diffe-

18. Ivi, pp. 625-626; trad. it. p. 99.


Husserl e la questione uomo-animale 239

renza rispetto all’io e al mondo umano. È questa differenza


del medesimo genere di quella che sussiste tra la soggettivi-
tà degli animali inferiori e quella degli animali superiori? Il
mondo ambiente umano è solo una determinazione ulteriore
e più differenziata del mondo ambiente animale (similmente
alla differenza tra mondi ambiente di animali inferiori e su-
periori)? E, dall’altra parte, come pensare l’elemento comune
che consente la comprensione entropatica – ed entro certi
limiti anche reciproca – tra uomini e animali? Rinviando
alle battute conclusive l’ultima questione, concentriamoci
sul rapporto che intercorre tra le due esperienze del mondo.
Per Husserl il mondo ambiente umano «non è soltanto
un mondo ambiente animale particolare, semplicemente più
differenziato». Il carattere essenzialmente diverso del mondo
umano è enunciato in maniera diretta e sintetica. Si tratta di
qualcosa che subito appare.

Se si paragonano animale e uomo (entrambi presenti nel mondo am-


biente umano e dunque rispettivamente compresi come i soggetti dei
mondi ambiente per loro rispettivamente validi) salta subito all’occhio
che l’uomo in quanto persona è soggetto di un “mondo culturale”,
che è il correlato della comunità universale delle persone, in cui ogni
persona è consapevole di essere in riferimento al suo mondo umano,
al mondo culturale in cui vive. L’animale non vive (essendone consa-
pevole) in un mondo culturale19.

L’uomo, in quanto persona, è soggetto di un mondo culturale


ed è cosciente di esservi immerso, di riceverlo, di esservi
conformato e di poterlo trasformare. Il mondo culturale è
un’eredità rispetto a cui egli, in quanto essere personale, è
chiamato a prendere posizione, che può mettere a distanza.
E ciò è quanto dire che è cosciente di sé. Tra tutti gli esseri
dotati di «coscienza», solo l’uomo ha la «cultura» e ha un
«sapere di sé». Si tratta di una posizione consolidata nella

19. Ivi, p. 180.


240 carmine di martino

riflessione di Husserl, che ha sempre trovato ampia espres-


sione nelle sue opere.
Che cosa dobbiamo intendere con «cultura»? Il fatto che
gli uomini, come persone, siano soggetti di cultura è testi-
moniato dalle prestazioni che essi realizzano nel loro vivere
comune e dalle opere che le documentano.

Per cultura – scrive Husserl – non intendiamo nient’altro che l’insieme


delle operazioni [Leistungen] realizzate da uomini accomunati nelle
loro continue attività; operazioni che hanno una esistenza perma-
nente e spirituale nell’unità della coscienza della comunità e della sua
tradizione mantenuta sempre viva. In virtù dell’incarnazione fisica,
dell’espressione che le aliena dall’originario creatore, esse possono
essere esperite nel loro senso spirituale da chiunque sia in grado di
ri-comprenderle [nach-verstehen]. In seguito, possono sempre di nuo-
vo diventare punti di irradiazione di effetti spirituali su generazioni
sempre nuove nell’ambito della continuità storica. E proprio in ciò
tutto quello che è racchiuso in un termine come “cultura” trova il suo
modo peculiare ed essenziale di esistenza oggettiva e funge, d’altronde,
da fonte costante di accomunamento20.

La cultura è pertanto un insieme di Leistungen – operazioni,


produzioni, azioni – che possiedono una caratteristica es-
senziale: esse sono provviste di una esistenza «permanente e
spirituale», hanno una sorta di onni- o sovra-temporalità, si
tramandano nella loro identità all’interno di una coscienza
comunitaria e della sua vivente continuità storica. Poiché
tali operazioni si incarnano fisicamente, si incorporano in
una espressione materiale, esse acquistano una esistenza
obbiettiva, separata dal loro creatore originario, rendendosi
intersoggettivamente disponibili: chiunque può esperirle nel
loro «senso spirituale», posto che sia in grado di farlo (un
bambino troppo piccolo, una persona appartenente a un’al-

20. hua xxvii, Aufsätze und Vorträge (1922-1937), E. Marbach (Hrsg.), Kluwer
Academic Publischers, Dordrecht 1988, pp. 3-94; trad. it. di C. Sinigaglia, L’idea
di Europa. Cinque saggi sul rinnovamento, Raffaello Cortina, Milano 1999, p. 26.
Husserl e la questione uomo-animale 241

tra cultura, un uomo affetto da gravi anomalie potrebbero


non essere in grado di ricomprendere il senso spirituale di
determinate operazioni a partire dalle espressioni che le in-
carnano). L’espressione assicura un’esistenza obbiettiva all’e-
spresso, al «senso», consegnandolo alla comprensione delle
generazioni future. Le azioni, le operazioni, i comportamen-
ti, le acquisizioni degli uomini vanno perciò a costituire un
patrimonio stabile, permanente, disponibile, che può essere
costantemente incrementato: ogni nuova generazione s’in-
scrive nell’unità di una cultura, non deve ricominciare da
capo, poiché eredita le operazioni e le acquisizioni di quella
precedente, proprio in quanto esse possiedono una identità
ideale (spirituale) ripetibile, trasmissibile, comprensibile: il
loro «senso spirituale» può essere compreso e ricompreso,
perciò nuovamente esperito nella sua identità. Ciò implica
la capacità di dissociare i mezzi dagli scopi e di riconoscere
il senso dell’azione altrui – che cosa l’altro intendeva fare con
quella determinata azione –, dunque di variarla in vista di un
migliore raggiungimento del medesimo scopo.
Con «cultura» non si devono intendere però solo le «ope-
razioni» (Leistungen), bensì anche le «opere» (Werke). Nella
Appendice iii del xxvii volume della husserliana, relativa
al Terzo dei Cinque saggi sul rinnovamento, a tema è «l’uo-
mo come soggetto di beni e di opere, come soggetto di una
cultura»21. Husserl vi torna per indicare il discrimine tra uo-
mini e animali, in corrispondenza di un punto del saggio in
cui sta mettendo in luce l’aspirazione, il tendere propriamente
umano con i suoi scopi.

Anche l’animale ha scopi, scopi che possono persino essere relati-


vamente permanenti e, in modo corrispondente, anche l’animale ha
permanenti realizzazioni di scopi, ma solo l’uomo – l’essere raziona-
le – ha la cultura. Solo il tendere (Streben) dell’uomo si pone sotto

21. hua xxvii, Aufsätze und Vorträge (1922-1937), T. Nenon e H.R. Sepp (Hrsg.),
Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/London 1989, Appendice iii,
pp. 97-100 (la traduzione è nostra).
242 carmine di martino

l’egida di idee coscientemente direttrici di scopi (e non di meri istinti


permanentemente diretti) e ha di conseguenza orizzonti infiniti; solo
l’uomo tende, agisce, opera, realizza opere permanenti che soddisfano
scopi permanenti che superano il giorno e le ore22.

Entrambi, dunque, animali e uomini, nel loro tendere sono


diretti a scopi. Ma solo il tendere degli uomini è guidato da
«idee» di scopi e possiede un orizzonte infinito. Lo documenta-
no proprio le opere da essi realizzate, le quali hanno il carattere
della permanenza, nel senso peculiare della infinità: le opere
umane sono create per superare il presente, il momento, la
situazione data, si collocano cioè sotto il segno dell’infinità23.
Se gli animali hanno scopi relativamente permanenti e
anche permanenti realizzazioni di essi, solo gli uomini hanno
la cultura. Solo gli uomini hanno coscientemente scopi, vale
a dire si rappresentano scopi, individuali o comunitari, po-
tendoli sempre identificare come gli stessi, oppure mettere in
questione e abbandonare, e orientano coscientemente in base
a essi il loro agire, secondo orizzonti che superano la finitezza
delle situazioni date e che potenzialmente non hanno limite,
realizzando «opere permanenti», inscritte in un orizzonte di
infinità, concepite e prodotte per servire a un’infinità d’identici
scopi per un’infinità aperta di persone e di situazioni possibili.
Un qualunque attrezzo da lavoro – per esempio un aratro – ha
queste caratteristiche, è creato per questa permanenza. È ciò
che caratterizza ogni «oggetto culturale». La stessa cosa vale

22. Ivi, p. 97.


23. «Un’opera permanente è un’opera non finalizzata a un bisogno momentaneo,
quanto piuttosto studiata per una ripetizione potenzialmente infinita dei mede-
simi bisogni, della stessa persona o di diverse persone della medesima cerchia
comunitaria. Il suo scopo è una infinità aperta di medesimi scopi che sono sin-
teticamente unificati in un’idea. Ogni arnese, ogni oggetto d’uso, una casa, un
giardino, una statua, un altare sacrificale, un simbolo religioso e così via – tutti
questi sono esempi. Un’infinità interminabile di scopi da realizzare, riferita a
un’aperta infinità di persone e di occasioni realmente possibili, è “lo” scopo di
tale oggetto culturale. E ciò riguarda ogni oggetto culturale in generale» (ivi,
pp. 97-98).
Husserl e la questione uomo-animale 243

infatti per un «altare sacrificale» o un «simbolo religioso» e


così via. In un’ottica husserliana possiamo allora dire: un’o-
pera, un oggetto culturale, incarna un’«idea», un «senso», in
cui si unificano un sistema di scopi e di finalità che travalica-
no l’orizzonte attuale e il bisogno momentaneo di un singolo.
Creare «attrezzi, case, armi, i quali recano in sé l’infinità della
ripetizione possibile di finalità e del raggiungimento di beni»24
significa essere riferiti nel proprio tendere a orizzonti di in-
finità, essere in rapporto con le generazioni passate e quelle
future, con orizzonti di umanità aperti all’indietro e in avanti.
Tenendo fermo a questi caratteri, bisogna aggiungere,
in terzo luogo, che «culturali» non sono soltanto gli oggetti
«creati» dall’uomo, le «opere» (la casa, il giardino, l’altare, le
armi e così via), ma anche, sebbene in un senso più largo, tutte
le «cose» della vita quotidiana, con cui l’uomo è in rapporto
all’interno del suo mondo circostante. Tali cose si presentano
sempre come “ricreate” dall’uomo, provviste di un senso spi-
rituale, che si è costituito in atti intenzionali determinati. Tutte
le «cose» del nostro mondo circostante ci vengono incontro e
ci motivano non in virtù delle loro proprietà fisicalistiche, ma
in virtù del loro senso: esse sono sempre anzitutto colte nel
loro valore d’uso, come possibilità d’azione, con le loro finalità
e i loro scopi, permanentemente disponibili in tempi e spazi
diversi, in situazioni diverse. Perciò il mondo circostante

non è il mondo “in sé”, ma un mondo “per me”, è, appunto, mondo cir-
costante del suo soggetto egologico, esperito da esso, comunque presente
alla sua coscienza, un mondo posto con un suo particolare statuto di
senso attraverso i vissuti intenzionali del soggetto stesso. Come tale,
esso in certo modo diviene costantemente, genera costantemente se
stesso attraverso le evoluzioni di senso e le sempre nuove formazioni
di senso, che comportano inerenti posizioni e cancellazioni di senso25.

24. Ivi, p. 98.


25. hua iv, pp. 190-191.
244 carmine di martino

Il mondo circostante si costituisce negli atti della persona, la


quale è sempre in questa o quella modalità intenzionale: sen-
te, desidera, rappresenta, valuta, persegue qualcosa, agisce;
in ciascuno di questi atti essa è in rapporto con gli oggetti
del suo mondo circostante, che si presentano perciò, di volta
in volta, come oggetti d’uso, pratici, di desiderio, di valore,
belli, gradevoli e così via. Gli oggetti del mondo circostante
umano sono sempre provvisti di un «senso spirituale» e co-
me tali rientrano nella sfera della cultura: «non sono le cose
essenti in sé della natura – delle scienze naturali esatte e delle
determinatezze che esse ritengono le uniche obbiettivamente
valide – bensì sono le cose esperite»26. Il mondo circostante
umano è, per così dire, fatto di significati, di formazioni di
senso, non di mere cose: è solo mediante un “impoverimento”,
che può essere metodicamente perseguito in un atteggiamen-
to modificato (come quello naturalistico), che noi possiamo
avere a che fare con mere cose, private astrattivamente del
senso con cui si presentano in quanto cose esperite.

Gli oggetti del mondo circostante, di fronte ai quali l’io è attivo attra-
verso le sue prese di posizioni, dai quali è motivato, si costituiscono
originariamente negli atti di questo io. I beni, le opere, gli oggetti d’uso
etc. rimandano ad atti valutativi e pratici, attraverso i quali le “mere co-
se” ottengono questo nuovo strato d’essere. Se prescindiamo da questo
strato, siamo rimandati alla “natura” in quanto ambito delle mere cose27.

Pertanto, anche quando si tratta di un albero o della pioggia


che cade dal cielo, vale a dire di cose “naturali”, con la loro
ovvia dimensione intuitivo-sensibile, nell’originaria espe-
rienza personale esse si offrono come cose “culturali”, vale a
dire come “il cielo che sta sopra di noi”, “la pioggia che irriga”,
“l’albero che dà i frutti”, cioè come “cose” dell’esperienza, con
il loro «senso spirituale», e non come mere cose naturali. Gli
oggetti del mondo ambiente umano sono “culturali” anche

26. Ivi, p. 193.


27. Ivi, p. 218.
Husserl e la questione uomo-animale 245

quando sono “naturali”, poiché si annunciano sempre rivestiti


di un senso spirituale, trasmissibile nella sua identità, che si è
costituito attraverso atti personali e sociali, in atteggiamenti
motivazionali e pratici. Solo nell’atteggiamento naturalisti-
co e teoretico-obbiettivante dello scienziato si presentano le
mere cose della natura, che sono dunque un prodotto e non
qualcosa di originario.
Tirando le fila, essere soggetti di un mondo culturale si-
gnifica essere soggetti di un mondo fatto di significati, di
beni, di opere e, insieme, di finalità e di scopi coscientemente
presenti e infinitamente ripetibili.
E l’animale? L’animale non vive in un mondo culturale.
Il che, beninteso, non significa che gli animali non abbiano
ciò che Scheler chiamava una «tradizione»28, un complesso di
comportamenti acquisiti trasmissibili. Sono innumerevoli gli
esempi in tale direzione, dagli uccelli che apprendono dai ge-
nitori il canto tipico della loro specie ai giovani scimpanzé che
apprendono le tecniche d’uso degli strumenti possedute dagli
adulti intorno a loro. Gli animali di talune specie non mancano
di intelligenti innovazioni e di invenzioni comportamenta-
li. Essi – come tutti gli altri animali – non dispongono però
della capacità di creare una cultura. L’animale, come osserva
Husserl, non ha opere, beni, strumenti, non ha un mondo di
essenti, cioè di cose permanenti nel tempo e attraverso i mu-
tamenti, identificabili nella loro individualità come qualcosa
di passato, di presente o di futuro. Sebbene una scimmia possa
utilizzare un mezzo per uno scopo e poi riutilizzarlo in circo-
stanze simili allo stesso scopo, essa, secondo Husserl, non lo
riconosce «in quanto» strumento, poiché non ha mai dinanzi

28. Scheler distingue una tradizione animale da una tradizione in senso pecu-
liarmente umano. Per via della «memoria riproduttiva», attraverso i fenomeni
della «imitazione» e del «copiare», si verifica, nella vita animale, in particolare
in mammiferi e vertebrati, «quel fatto fondamentale rappresentato dalla “tra-
dizione”, un fatto capace di aggiungere alla ereditarietà biologica la dimensione
completamente nuova della determinazione del comportamento animale grazie
alla vita passata dei suoi simili» (m. scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo,
trad. it. a cura di G. Cusinato, FrancoAngeli, Milano 2000, p. 98).
246 carmine di martino

a sé una «cosa» dotata del significato permanente di «servire


a» un determinato scopo in ogni possibile simile caso futuro,
vale a dire non ha davanti a sé una permanente possibilità
pratica, un significato stabile, un «senso spirituale»29. Sono
sempre gli istinti, la situazione caratterizzata da essi, a sugge-
rire alla scimmia la possibilità pratica inerente alla cosa. Essa
non la possiede stabilmente né a fortiori possiede la totalità di
possibilità in cui ogni singola possibilità si inscrive e senza la
quale nemmeno apparirebbe. L’animale allora non agisce in
senso proprio, ma “agisce” solo secondo l’istinto e non ha veri
e propri strumenti. «Esclusivamente l’uomo ha non solo pos-
sibilità pratiche singole dinanzi a sé, bensì perlustra orizzonti
aperti di possibilità nella forma di infinità costruite in maniera
cosciente, più o meno determinate»30. Proprio in quanto ha a
disposizione una totalità di possibilità pratiche, l’uomo si libera
dalla immediatezza della pressione dell’ambiente, travalica il
mondo dato: mediante atti di presentificazione (di rimemora-
zione e di fantasia), egli si sottrae alle attualità e diventa «colui
che liberamente sceglie».

Mentre s’immedesima perciò nelle possibilità – possibilità che egli


costruisce con la fantasia, in cui egli si concepisce come operante e
agente, di cui gusta con la fantasia le soddisfazioni possibili e i valori
possibili dello scopo – egli si libera dalla costrizione delle attualità
singole, dagli stimoli pulsionali delle realtà esperite31.

29. Scrive Husserl: «L’animale agisce in senso improprio, agisce istintivamente,


e se utilizza mezzi per scopi, riconoscendoli persino come mezzi, ciò rimane
confinato a casi singoli. La stessa scimmia, che riutilizza un mezzo che una volta
aveva colto come adoperabile per uno scopo e utilizzato, non lo riconosce come
un attrezzo, come un arnese, come un bastone, cioè come un oggetto finalizzato
permanente, determinato in modo permanente per questo fine, permanentemente
disponibile e messo a disposizione per servire nello stesso modo in ogni caso
analogo che dovesse verificarsi di nuovo» (hua xxvii, pp. 99-100).
30. hua xxvii, p. 100.
31. Ibidem.
Husserl e la questione uomo-animale 247

Ma certi animali non documentano a sufficienza una possi-


bilità di indipendenza dall’immediatezza e una capacità di
scelta del tutto simile a quella umana? Se una scimmia è in
grado – come attestano certi studiosi – di dissimulare l’eufo-
ria per la scoperta del cibo allo scopo di evitare che gli altri
membri del gruppo si accorgano del bottino e limitino il suo
godimento, ciò non dovrebbe attestare in modo abbastanza
chiaro la sua capacità di liberarsi dall’attualità dello stimolo,
di governare le sue pulsioni e di prefigurare le conseguenze
future delle sue azioni? Senza dubbio essa dimostra un certo
grado di libertà e imprevedibilità, ma ciò che continua a man-
care alla scimmia, secondo Husserl, è la capacità di trascen-
dere la situazione effettiva, di andare oltre il mondo ambiente
dato, di astrarsi da esso, come accade quando, per esempio,
presentifichiamo il volto della persona amata e immaginiamo
di realizzare in sua compagnia il viaggio da tempo desiderato,
prefigurandolo nella fantasia in ogni particolare, oppure ci
proiettiamo in un tempo a venire e vagliamo le possibilità
d’azione che presumibilmente ci verranno incontro e ci “ve-
diamo” agire così e così. Per far ciò occorre avere a disposi-
zione l’intera sfera dei significati, l’«universo delle possibilità
passibili di considerazione pratica»32 e poterle liberamente
presentificare, variandole e combinandole: solo in questo
modo diviene possibile “progettarsi”. Ma proprio di questo
l’animale non dispone. Esso è perciò inesorabilmente legato
alla “realtà”. «L’uomo è libero, per lui la possibilità precede le
realtà. Egli domina la realtà dominando le possibilità»33. Le
operazioni e le opere umane sono quindi realizzate secondo
possibilità rappresentate in anticipo e valutate: l’uomo può
progettare, può scegliere tra tutti i possibili quel possibile che
reputa più valido, decidersi per ciò che riconosce migliore.
Egli non pone altresì solo scopi individuali, ma anche scopi
comunitari e, in una comunione del volere, in vista di essi
sviluppa un agire comunitario. L’animale non agisce, proprio

32. Ibidem.
33. Ivi, p. 98.
248 carmine di martino

perché non si rappresenta in anticipo il suo scopo come una


possibilità continuamente identificabile; il suo fare resta in
questo senso debitore agli stimoli pulsionali, anche nei casi
in cui dimostra un’intelligenza pratica e una relativa indipen-
denza dalla attualità dello stimolo. Allo stesso modo, la sua
messa in comune della aspirazione è diretta istintualmente; la
comunità animale non si presenta come una comunità di sco-
pi, i cui membri abitualmente, rinnovando le loro intenzioni,
pongano scopi, potendoli sempre identificare come gli stessi.

4. Tempora mutantur

Dunque, l’uomo ha a disposizione una totalità di possibilità


pratiche, di significati, che può liberamente presentificare,
anticipare nella fantasia, connettere e combinare, progettando
in tal modo il suo comportamento futuro. Ma dobbiamo ora
aggiungere l’aspetto più qualificante il mondo ambiente uma-
no come mondo culturale: esso muta, evolve costantemente.
In esso vi sono sempre nuove formazioni di senso; nuovi
significati e nuovi oggetti vengono generati, altri vengono
abbandonati, altri si trasformano, vengono riplasmati, dando
luogo a inedite e imprevedibili configurazioni, che preludono
ad altri cambiamenti e ad ulteriori costruzioni, e così via,
senza soluzione di continuità. Tutto ciò ovviamente è in un
costitutivo rapporto all’agire degli uomini, ai loro interessi e
scopi, essi stessi in movimento.
Ora, se il mondo culturale muta è perché l’uomo è un «es-
sere storico». Il soggetto personale vive cioè «in una “umani-
tà” che è nel divenire storico, nel divenire che crea storia; tale
umanità è la soggettività in quanto portatrice di un “mondo
storico”»34. L’espressione «mondo storico» indica il mondo
culturale-umano come mondo che

34. hua xv, p. 180.


Husserl e la questione uomo-animale 249

porta in sé il significato spirituale ricevuto dall’uomo, dell’umanità


totale, in qualità di titolo di proprietà ontiche delle realtà e della loro
storicità ontica, in quanto aventi tale significato a partire dall’agire,
dagli interessi, dagli scopi e dai sistemi di scopi umani35.

Il mondo storico è dunque il mondo degli uomini come


mondo dei significati spirituali, in quanto incessantemente
costituiti, plasmati e riplasmati dalle prassi degli uomini, a
partire dai loro interessi, dai loro scopi e complessi di scopo,
i quali mutano anch’essi in conseguenza del fare umano. Le
opere e i significati preesistenti fungono da premessa per altre
opere e altri significati e così via. Il mondo circostante umano
come mondo culturale è in continua evoluzione.
Il senso di tale carattere storico si chiarisce in paragone con
la vita animale. Il mondo ambiente degli animali non muta,
è fisso, stazionario. «Ogni generazione animale nel proprio
presente comunitarizzato ripete il proprio specifico mondo
ambiente secondo la tipica propria della specie in questione»36.
Nella vita di tutte le specie animali vi è una tipica comporta-
mentale sempre identica a se stessa cui corrisponde lo stes-
so specifico mondo ambiente che si ripete sempre uguale: la
ripetizione della tipica concreta è la ripetizione del mondo
ambiente specifico. L’animale vede solo le possibilità pratiche
dischiuse dai suoi istinti e “agisce” solo in presenza e sotto
la pressione di essi, i quali restano costanti nel passare delle
generazioni. Il mondo ambiente di lupi, scimmie, delfini, ecc.
non muta o almeno non in maniera significativa. Gli “oggetti”
di quel mondo ambiente non si trasformano, non divengono,
non progrediscono, né conoscono alcuna catastrofe: si ripe-
tono. L’attività degli animali ha un carattere pressoché fisso.
Nelle specie che entrano in contatto con l’uomo, in taluni ca-
si, si possono verificare ampliamenti, che sono in senso lato

35. Ibidem.
36. Ibidem.
250 carmine di martino

“umanizzazioni”37 (gli animali domestici, allevati a contatto


con gli uomini, in un certo senso, afferma Husserl, acquista-
no «i tratti della natura umana»38). Il mondo ambiente degli
animali non evolve, è stazionario: vale a dire, non è un mondo
culturale o, che è lo stesso, non è un mondo storico.
Solo il mondo ambiente umano, proprio in quanto è un
mondo culturale, è in un continuo e progressivo sviluppo:
«la cultura di ogni presente umano è un terreno per crea-
re la nuova cultura della nuova generazione dell’umanità,
possiamo anche dire che ne costituisce le premesse»39. Gli
oggetti culturali, infinitamente disponibili nella loro identità
e reiterabili nei loro scopi, rappresentano il punto di partenza
di creazioni sempre nuove. Le finalità e gli scopi contenuti
nelle opere già prodotte, le relative forme di compimento, la
soddisfazione e i risultati raggiunti motivano nuovi interessi
e nuovi scopi, che portano alla creazione di altri strumenti
e alla delineazione di altre attività, mentre vecchi strumenti
e vecchi scopi diventano inattuali, tramontano, e precedenti
attività conoscono l’oblio. Come afferma Husserl,

il volto culturale del mondo ha una tipica che si ripete concretamente


in un certo modo o sembra ripetersi, ma per gli uomini vale tempo-
ra mutantur et nos mutamur in illis. I tempi sono i tempi realmente
riempiti nel tempo umano unitario, riempiti con le realtà di volta in
volta formate in modo finalizzato. La tipica concreta si modifica nella
ripetizione40.

Nonostante tutti i cambiamenti, anzi, proprio attraverso di


essi, permane un tipo generale del mondo culturale e dell’esi-
stenza umana, con «una propria struttura essenziale che può

37. Cfr. in proposito, a. staiti, Geistigkeit, Leben und geschichtliche Welt in der
Transzendentalphänomenologie Husserls, Ergon Verlag, Würzburg 2010, pp. 216-221.
38. hua xv, p. 626; trad. it. p. 100.
39. Ivi, p. 180.
40. Ivi, p. 181.
Husserl e la questione uomo-animale 251

essere dispiegata attraverso una indagine metodica»41 e che


rende sempre comparabili mondi ambiente diversi.
Una considerazione a sé stante andrebbe fatta per lo
sviluppo che caratterizza il mondo culturale dell’umanità
primitiva. Vi è già qui una differenza rispetto agli animali e
alla comunità animale, al mondo ambiente a essi correlato
(un mondo ambiente non culturale): i primitivi sono infatti
degli uomini, hanno i loro scopi e agiscono razionalmente,
riflettono sulle loro possibilità pratiche, realizzano opere il
cui senso può di nuovo essere compreso, penetrare in una
tradizione. Ma la cultura ha presso l’umanità primitiva un
fine eminentemente conservativo: «lo scopo nella vita della
tribù è quello di conservare la propria vita, di conservarla nel
modo migliore possibile». Il mutamento si configura dunque
nei termini di un miglioramento o di perfezionamento della
situazione della vita presente. «L’ideale della migliore con-
servazione possibile non è quello di un futuro lontano che
sia poi raggiungibile. Ciò che il primitivo vede come futuro
davanti a sé, nella misura in cui egli in generale rappresenti
o possa rappresentare il futuro, è una medesima cosa che
continua sempre nella stessa maniera». Anche per il mondo
ambiente dell’umanità primitiva vi è quindi sviluppo, ma si
tratta di uno sviluppo che ha come obbiettivo la conserva-
zione della vita presente, «senza un cosciente ideale guida di
avanzamento»42. L’orizzonte dei primitivi non supera quello
della tribù e del suo territorio, i beni culturali che vi appaiono
sono destinati a soddisfare i bisogni presenti di coloro che
partecipano al presente della vita sociale.
Ora, riprendendo il filo del discorso, se un mondo cul-
turale è in continuo sviluppo nell’avvicendarsi delle genera-

41. hua vi, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale
Phänomenologie. Eine Einleitung in die phänomenologische Philosophie, W. Biemel
(Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1954, Nachdruck 1962; trad. it. La crisi delle scienze
europee e la fenomenologia trascendentale: introduzione alla filosofia fenomeno-
logica, a cura di W. Biemel, avvertenza e prefazione di E. Paci, traduzione di E.
Filippini, il Saggiatore, Milano 1961, p. 396.
42. Ms. K III 7/15.
252 carmine di martino

zioni, se non deve essere ricostituito ogni volta, sicché ogni


generazione non ricomincia da capo, è perché gli uomini
sono capaci di trasmissione culturale e possiedono l’unità di
un tempo storico. Gli oggetti culturali sono identità ideali di
principio infinitamente iterabili, trasmissibili, esperibili da
una concatenazione infinitamente aperta di generazioni. Le
formazioni di senso che costituiscono l’unità di una cultura si
comunicano, si trasmettono, si tramandano alle generazioni
future formando una tradizione (in un senso ben diverso
dalla tradizione animale). Tutto il mondo culturale, in tutte le
sue forme, sussiste per noi in base alla tradizione e la nostra
esistenza umana si muove all’interno di un numero indefinito
di tradizioni. Dal passato ci provengono possibilità di com-
portamento, significati, prodotti, che possono venire appresi,
compresi, nuovamente esperiti e trasformati (la capacità di
decostruzione e di trasformazione della tradizione è il tratto
peculiare dell’essere storico dell’uomo). Grazie all’immanen-
za a una tradizione viva, anzitutto attraverso l’imitazione e
l’educazione, i bambini divengono familiari con il mondo di
significati che caratterizza la totalità umana in cui nascono.
Divenuti adulti, essi esperiscono le formazioni di senso e le
opere del loro mondo circostante come momenti di uno svi-
luppo che rimanda a un passato e a un futuro infinitamente
aperti, che s’inscrive nella catena delle generazioni passate e si
promette a quelle a venire (è ciò che Husserl esprimeva prima
con: «vivere in un mondo culturale essendone consapevoli»).
Questo è il tempo storico in cui vive e si sa ogni umanità
determinata, l’umanità nel suo complesso: è un tempo che
abbraccia la connessione infinita delle generazioni, tutto il
passato e tutto il futuro.
Gli animali, al contrario, non hanno – secondo Hus-
serl – né sviluppo né tempo storico; neppure è data loro in
maniera cosciente l’unità di un mondo che attraversa la suc-
cessione delle generazioni.

Un animale non realizza nell’unità della propria vita un sistema di


acquisizioni spirituali di cui fa esperienza come sviluppo, non ha l’u-
Husserl e la questione uomo-animale 253

nità di un tempo che abbracci le generazioni come tempo storico e


nemmeno come unità di un mondo che le attraversa, l’animale non
ne “ha” coscienza43.

Se l’uomo è un essere storico, l’animale è senza storia poiché


è essenzialmente privo della consapevolezza del tempo. Esso
non ha pertanto un mondo generativo in cui vive in manie-
ra cosciente, nessuna cosciente esistenza nell’infinità aperta
delle generazioni che l’hanno preceduto e lo seguiranno.

5. Io personale e connessione generativa

Alla luce dei risultati acquisiti possiamo tornare sulla differenza


tra la struttura egologica umana e animale. Se anche l’animale
possiede qualcosa come una struttura egologica, l’uomo – so-
stiene Husserl – «la possiede in un senso peculiare rispetto
a tutte le particolarità egologiche degli animali affini gli uni
agli altri; il suo io – l’io nel senso abituale del termine – è un
io personale»44. L’io umano si distingue da quello animale
in quanto è un io personale. Il termine «persona» appartie-
ne saldamente al vocabolario husserliano e viene utilizzato
da Husserl per indicare il tratto propriamente umano dell’io,
una «essenza» che, fino a prova contraria, troviamo istanziata
nella specie empirica «uomo». Nulla vieta, da un punto di vi-
sta fenomenologico, che l’essenza personale si istanzi in altri
tipi empirici, per esempio un ipotetico marziano, oppure che
possano apparire in un futuro vicino o lontano gatti con una
coscienza personale, come il “gatto con gli stivali” delle fiabe.
Ma nel mondo concretamente già dato, che fenomenologi-
camente assumiamo nel suo senso d’essere, gli animali, che
pure possiedono una soggettività, sono dotati di coscienza, non
sono persone, non possiedono i tratti dell’essenza personale.
L’io personale, o meglio, la comunità degli io personali è per-

43. hua xv, p. 181.


44. Ivi, p. 177.
254 carmine di martino

tanto il correlato di un mondo storico-culturale, di un mondo


di acquisizioni spirituali e di opere, in continuo mutamento,
che si tradizionalizza e si evolve, che reca in sé l’infinità degli
scopi, dei fini, degli orizzonti incessantemente riconosciuti e
plasmati dagli uomini. L’io personale necessariamente implica-
to nel darsi di un mondo storico-culturale è l’io autocosciente
e libero, temporale e storico.
Personale è «il soggetto che non soltanto è, ma che anche
si appercepisce come soggetto», ha una autocoscienza; «una
psiche non ha necessariamente una autocoscienza»45. In con-
nessione a ciò abbiamo l’io libero, l’io degli atti liberi, che ha
la facoltà di prese di posizione che si riferiscono a se stesso
e può far valere questa libertà anche nei confronti dei suoi
stessi atti liberi, delle sue stesse libere prese di posizione. Alla
soggettività animale manca precisamente questo «strato»46
personale: nel suo itinerario dallo stato embrionale fino alla
maturità l’animale non giunge mai ad essere persona, non
ha perciò la facoltà, propria dell’uomo, della «coscienza di sé
nel senso pregnante dell’introspezione personale (inspectio
sui)», né la facoltà, che su questa prima si fonda, «di prese
di posizione, di atti personali, che si riferiscono riflessiva-
mente a se stessi e alla propria vita: la conoscenza, la valu-
tazione e la determinazione pratica di sé (autoaffermazione
e autoformazione)»47. Personale è quindi quell’io che può
rendersi oggetto di se stesso, che ha la possibilità di un «ori-
ginario afferramento di sé, di una “autopercezione”, e quindi
anche la possibilità delle corrispondenti modificazioni dell’af-
ferramento di sé, della memoria di se stesso, della fantasia
su se stesso ecc.»48. L’autopercezione ha la seguente forma:
io percepisco di aver percepito questo e quest’altro e di con-
tinuare a percepirlo, percepisco che la tal cosa, per quanto
dapprima non percepita, attraeva la mia attenzione, oppure

45. hua iv, p. 340.


46. Ivi, p. 275.
47. hua xxvii, p. 28.
48. hua iv, p. 106.
Husserl e la questione uomo-animale 255

che ero mosso e ancora lo sono da una gioia, percepisco di


aver preso nel tal momento una certa decisione e di volerla
mantenere tuttora. Se l’uomo non è un «mero animale, sia
pure perfetto nel suo genere», è proprio perché possiede tale
autocoscienza o autopercezione:

Nel suo esser riferito riflessivamente a se stesso, l’uomo non vive


ingenuamente in modo puramente immediato, non è semplicemente
“dentro” il mondo che lo circonda. Ma, riflettendo su se stesso, sulle
possibilità (che appartengono alla sua essenza) di successo o di in-
successo, di soddisfazione o insoddisfazione, di felicità o infelicità,
giudica, valutando se stesso, e determina la propria condotta49.

Al sapere di sé è essenzialmente connesso il sapersi in una


relazione costitutiva con gli altri. Il soggetto personale «è,
come la parola “persona” già cointende, persona di un’uma-
nità cosciente chiusa in se stessa ma, di volta in volta per la
persona, è persona di un’umanità cosciente come orizzonte
aperto senza fine, è persona di una totalità: il “noi tutti insie-
me” (wir insgesamt)»50. All’io personale appartiene una rela-
zione cosciente a una totalità umana, «una totalità [Totalität]
indistinta e innumerabile»51, l’unità di un noi complessivo.
Ogni io umano,

è per se stesso persona in una connessione generativa infinitamente


aperta, nella concatenazione e nella ramificazione delle generazioni.
Egli è (egli si sa) in questa connessione – vale a dire come figlio dei
propri genitori, cresciuto grazie all’educazione ricevuta da loro e a
quella dei suoi co-soggetti in comunicazione, a loro volta adulti e
divenuti adulti – operante lui stesso d’ora in poi in veste co-educatore,
in quanto in linea di massima co-determina il loro essere personale in

49. hua xxvii, p. 41.


50. hua xv, pp. 177-178.
51. Ivi, p. 177, n. 6.
256 carmine di martino

un commercio immediato o mediato con essi, essendo eventualmente


a sua volta già padre o madre etc52..

Essere persona significa dunque essere e sapersi in una con-


nessione generativa infinitamente aperta, come provenienti
dai propri genitori ed educati da essi e, al di là di essi, da
una comunità di altri uomini, attraverso una comunicazione
immediata e mediata, in una vita esperienziale comunitaria,
a propria volta consapevolmente impegnati nell’educazione
degli altri, in quanto nuovi genitori o, prima ancora e più ge-
neralmente, in quanto ci si trova con gli altri in uno scambio
continuo.
La questione della generatività porta con sé un altro nodo
significativo: l’essere persona è allo stesso tempo «una essenza
dell’uomo in generale»53 e un punto d’arrivo, il compimento
cui può giungere un soggetto umano nella sua maturità. Il
soggetto umano è in un certo senso in cammino verso l’attua-
zione del suo essere persona e, una volta giuntovi, può anche
regredire: può sempre intervenire un trauma, una anomalia,
un’alterazione. Ciò che Husserl intende dire è chiarito dal
significato che embrioni, neonati e bambini, oltre a vecchi e
malati, assumono in questo contesto di discorso.

La connessione generativa – scrive Husserl – include i neonati, e in


generale i “pre-bambini” [Frühkinder], per così dire gli embrioni, che
vengono compresi come lo stadio iniziale dei bambini veri e propri. I
bambini veri e propri sono pre-persone [Vorpersonen] negli stadi che
precedono la maturità, la quale rappresenta un punto di compimento
del tipo persona. Essi hanno a livello coscienziale qualcosa del mondo
ambiente reale (diversamente dallo stadio embrionale), ma non ancora
il mondo pienamente riferito a un “noi tutti”, all’umanità54.

52. Ivi, p. 178.


53. hua xxvii, p. 28.
54. hua xv, p. 178.
Husserl e la questione uomo-animale 257

Tra i bambini e gli adulti vi è una differenza legata all’avere in


maniera pienamente cosciente il mondo. Sotto questo profilo,
i neonati e i bambini, che appartengono di diritto alla connes-
sione generativa, non sono ancora compiutamente persone,
perché non possiedono a pieno titolo il mondo del «noi tut-
ti», il mondo intersoggettivamente valido, non sono ancora
soggetti di un mondo circostante comune: lo diventeranno.
«È difficile – annota Husserl – esprimere ciò chiaramente:
questo essere-persona, che non è ancora un essere-persona
pienamente reale, lo diviene nella maturità»55. L’io personale
pienamente reale è dunque il soggetto normale adulto: questi
è il correlato della manifestazione di un mondo circostante
a tutti comune. Sono cioè i soggetti normali adulti che, pro-
prio in virtù della loro normalità, possono fungere, e fungere
insieme agli altri, in una connessione comunicativa unitaria,
«come costitutivo per “il” mondo nella forma de “il” mondo,
un universo di essenti in quanto essenti “per noi tutti”»56. Nella
sua maturità, il soggetto normale adulto svolge, in comune
con gli altri soggetti adulti, una funzione costitutiva nella ma-
nifestazione de “il” mondo: “il” mondo, che è sempre anche
un mondo ambiente storico determinato, è perciò il correlato
della totalità delle persone adulte e normali. Altrimenti, invece
del mondo comune, avremmo mondi idiomatici (infantili o
patologici). Senza la comunità delle persone adulte e norma-
li non apparirebbe il mondo circostante a tutti comune, “il”
mondo: «solo gli adulti, in quanto persone pienamente nor-
mali e nella connessione unitaria della loro vita comunicativa
con la forma unitaria della loro personale temporalità, sono
i soggetti del mondo, che è il loro»57.
Le differenze strutturali tra uomini e animali si evidenzia-
no ulteriormente se si confrontano i modi della generatività.
Si possono infatti considerare gli uomini «come “specie ani-

55. Ibidem.
56. Ibidem.
57. Ibidem.
258 carmine di martino

mali superiori”»58, da un punto di vista zoologico; abbiamo


così «la connessione generativa degli uomini in quanto ani-
mali di una specie» e poi, procedendo in senso filogenetico,
di tutte le specie animali nell’unità di un’unica discendenza.
Qui parliamo di generatività e discendenza in senso biologico
e biopsichico. Ma occorre anche considerare, in paragone a
essa, «un’altra generatività o “discendenza”, la quale è esclu-
sivamente peculiare all’uomo, all’essere personale»59, una
generatività o una “discendenza” che chiameremmo spirituali
o sociali, vale a dire un complesso di forme di connessione, di
filiazione, di condivisione, di comunicazione, di commercio
reciproco, che producono una vasta gamma di unioni perso-
nali e di associazioni, le quali «culminano infine in una as-
sociazione totale, il popolo umano»60. Ogni soggetto umano
vive già in una tale connessione con le altre persone e fuori
di essa non realizzerebbe il proprio essere-persona, non di-
venterebbe un adulto normale. Ogni persona possiede perciò

l’orizzonte totale “popolo”. In questo orizzonte hanno luogo poi nella


vita interna al mondo (dell’uomo in quanto uomo in un popolo) tutte
le collaborazioni finalizzate, tutti gli impegni etc. Tutti gli atti “sociali”
e le associazioni “sociali” sussistono nell’orizzonte del popolo61.

Per considerare la generatività vitale animale, Husserl si do-


manda:

le api si sviluppano come noi, come “bambini” che crescono spiritualmen-


te entrando nel mondo degli adulti divenendo simili ad essi? O ancora,
possiamo prendere in esame animali che nell’analogia sono più vicini
a noi, i mammiferi, la cui corporeità [Körperlichkeit] come corporeità
viva [Leiblichkeit] è più simile alla nostra: un piccolo capriolo e gli stessi
cuccioli degli animali domestici, un puledro etc., sono come bambini

58. Ivi, p. 179.


59. Ibidem.
60. Ivi, p. 180.
61. Ibidem, n. 8.
Husserl e la questione uomo-animale 259

che hanno lo stesso sviluppo di un bambino umano? Dal punto di vista


biofisico ciò non crea grosse difficoltà, ma dal punto di vista psichico sì62.

Se ci atteniamo allo sviluppo bio-fisico non emergono par-


ticolari differenze. Se invece prendiamo di mira lo svilup-
po psichico, la situazione muta radicalmente. Il bambino,
crescendo nel mondo degli adulti, realizza cambiamenti che
risultano incomparabili a quelli che caratterizzano l’animale:
il bambino eredita un mondo culturale, una tradizione di
significati, di identità ideali, partecipa alla manifestazione
di un mondo di essenti, di un mondo di cose permanenti.

L’animale non ha la facoltà che gli permetterebbe di avere una coscien-


za, la consapevolezza di un mondo essente, di un mondo di cose per-
sistenti nel tempo, nei cambiamenti, nella causalità dei cambiamenti
a seconda delle circostanze etc., un mondo unico e allo stesso tempo
omogeneo grazie alla spaziotemporalità universale, la possibilità di
identificare sulla base delle localizzazioni spaziotemporali, sulla base
del passato e del futuro anticipato e presentificato63.

6. Tempo e linguaggio

Che cosa significa che l’animale non dispone della facoltà


che gli permetterebbe di possedere la consapevolezza di un
mondo di essenti, di cose persistenti nel tempo? Husserl in-
dica assai sinteticamente gli elementi che ci consentirebbero
di sviluppare il problema.
La differenza tra mondo umano (culturale, storico) e
mondo animale, generatività umana e animale, rimanda a
una differente esperienza temporale.

Per noi la vita spirituale dell’animale e della pianta si estende nel tempo
e, in quanto vita intenzionale, essa è “storica” [geschichtlich], attraversa

62. Ivi, p. 183.


63. Ivi, p. 184.
260 carmine di martino

questa temporalità tramite una unità della “storicità”, dell’“operazione


spirituale” – tutte queste parole sono tuttavia molto rischiose64 –, si
potrebbe dire della “motivazione” nel senso più generale (sebbene ciò
sia di nuovo rischioso)65.

La vita dell’animale, come anche quella della pianta, si an-


nuncia nella nostra esperienza come una vita nel tempo, sto-
rica in questa accezione, se consideriamo tanto gli individui
quanto le specie che vediamo coinvolte in una evoluzione
universale. «Ma la pianta e anche l’animale non vivono in un
mondo temporale a loro cosciente, non hanno nessun oriz-
zonte di tempo che possa schiudersi»66. Ciò ovviamente non
significa che nella vita psichica dell’animale non sia all’opera
una sintesi temporale continua, in cui l’identità si mantiene
attraverso il cambiamento, ma che esso non ha coscienza
del tempo e non dispone di orizzonti temporali. «L’animale
vive nel presente ed è per se stesso costituito in un “io del
presente” [“Gegenwarts-Ich”]»67. Tale presente non può essere
puntuale, come non può esserlo per l’uomo, ma l’animale
non ha coscienza del suo estendersi da una parte e dall’al-
tra, infinitamente, esso non possiede cioè il «presente come
modalità del tempo»68. L’animale vive «in una temporalità ri-
stretta (limitata dalla ristrettezza della ri-memorazione [Wie-
dererinnerung] e della pre-memorazione [Vorerinnerung])»69.
Nell’analisi husserliana questo punto riveste un’importanza
particolare. L’animale non ha rimemorazioni vere e proprie,
«sebbene esso abbia occasionalmente dei ricordi relativi al
suo passato»70, né rappresentazioni di fantasia intuitive. La
ristrettezza della sua temporalità è anche ciò che preclude
agli animali l’esperienza di un mondo di essenti, di “cose”. Le

64. Riportiamo qui tra i trattini le parole che Husserl mette in nota.
65. Ms. A V 24/9a.
66. Ibidem.
67. Ms. A V 5/12.
68. Ms. A V 24/9a.
69. hua xv, p. 405.
70. Ms. A V 5/12.
Husserl e la questione uomo-animale 261

rimemorazioni e le rappresentazioni di fantasia, mediante le


quali possiamo presentificare il passato e anticipare il futuro,
sono infatti essenziali per la costituzione di un mondo di
essenti, cioè di unità permanenti, di cose identiche attraverso
i mutamenti, identificabili nella loro individualità, provviste
di una posizione obbiettiva nello spazio e nel tempo.
Gli animali hanno il passato

solo come ritenzionalità e colgono la medesimezza [Selbigkeit] delle


cose solo nella forma di un riconoscere primario, che non conosce
ancora quel tornare sul passato che è proprio della rimemorazione
(come un quasi-ripercepire) e che non rende possibile alcuna identi-
ficazione dei luoghi temporali e spaziali, e nemmeno l’individualità
delle cose in quanto essenti71.

Gli animali non possono tornare attivamente sul passato in


modo da ripresentarselo “intuitivamente”, ossia “quasi” nuo-
vamente percependolo (come accade quando ritorniamo ri-
memorativamente sull’appartamento che abbiamo visto ieri,
accompagnati dall’agente immobiliare, e ripercorriamo la
disposizione delle stanze, con i rispettivi spazi, quasi nuova-
mente percependoli, presentificandoci anche le impressioni
che di volta in volta ci sono state suscitate). La mancanza di
rimemorazioni preclude all’animale l’identificazione dei luoghi
spazio-temporali e la costituzione dell’individualità permanen-
te delle cose, la costituzione di “essenti”. Gli animali superiori
riconoscono, al suo ripresentarsi, un certo oggetto come lo
stesso, identificando il contenuto di esperienza presente con
il contenuto di esperienza passata, hanno associazioni e attese
determinate, sanno che cosa aspettarsi e come comportarsi a
ogni nuova apparizione di questo o quell’oggetto, ma non lo
identificano come un individuo permanente che ha assunto
posizioni diverse nel tempo e nello spazio, come l’identico nella
variazione. E ciò dipende dalla mancanza di rimemorazioni

71. hua xv, p. 184.


262 carmine di martino

vere e proprie: è solo nella attiva rimemorazione che si costi-


tuiscono, infatti, l’identità del rimemorato e la sua posizione
spazio-temporale. Per l’animale, l’oggetto è dato sempre come
presenza, anche quando gli è attribuito un contenuto esperito
nel passato. Il cavallo riconosce il suo padrone, questi gli si pre-
senta come familiare e ben noto («O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna; tu capivi il suo cenno ed il
suo detto»). Ma tale identificazione è passiva. Il cavallo non
può tornare attivamente sulle situazioni vissute insieme al suo
padrone, quasi-ripercependole, identificandole come passate,
collocandole cioè in una determinata posizione temporale, e
identificando nel ricordo il padrone stesso come passato. I vis-
suti passati rimangono nella coscienza animale come orizzonti
non tematizzati e non tematizzabili. Vale a dire, sono ridesta-
bili da vissuti presenti, ma non possono essere resi oggetto di
una presentificazione, di una rimemorazione, di una (attiva)
tematizzazione, che consenta di “quasi” nuovamente vedere il
passato («O cavallina, cavallina storna […] tu devi dirmi una
cosa! Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise: esso t’è qui nelle pu-
pille fise. Chi fu? Chi è?»72). La coscienza animale ritiene tutto
il passato («esso t’è qui nelle pupille fise»), ma questo non si
offre come il campo del ritrovabile nel ricordo: il passato funge
nel presente, quando è ridestato, come qualificante il noto e,
per contrasto, il nuovo, ma non diventa oggetto di un ricordo.
La mancanza negli animali (anche negli animali superiori)
di autentiche rimemorazioni può fenomenologicamente es-
sere colta solo in una interrogazione a ritroso a partire dalla
indisponibilità per essi di un mondo di essenti, così come si
annuncia nella nostra esperienza a partire dalla osservazione
dei loro comportamenti.
Sul lato della fantasia, Husserl si domanda: hanno, gli
animali,

72. G. Pascoli, La cavalla storna, in id., Poesie, Garzanti, Milano 1987,


pp. 547-550.
Husserl e la questione uomo-animale 263

rappresentazioni di fantasia intuitive nello stesso nostro senso? Hanno


orizzonti che essi possano come noi rendere intuitivamente chiari?
Hanno rappresentazioni di fini, rappresentazioni di scopi come imma-
gini anticipatrici del futuro (o forse) come qualcosa di soddisfacente
che sia il termine di un cammino pratico, di un cammino esso stesso
intuitivamente rappresentato73?

La questione è nuovamente se gli animali dispongano di una


capacità di presentificazione (rimemorazione e fantasia sono
due forme di presentificazione). Anche nelle rappresentazioni
di fantasia si tratta di rendere presente, “quasi” percependolo,
qualcosa di assente. Che esse siano “intuitive”, sebbene la
coscienza non abbia a che fare in questo caso con qualcosa
di presente, bensì di presentificato, di (solo) rappresentato,
significa infatti che in esse l’oggetto assente appare, anche se
non “in carne e ossa” (altrimenti si tratterebbe di percezioni
e non di presentificazioni): io posso rappresentarmi nella
fantasia il mio ritorno a casa, mentre ancora sono in treno,
pregustandomi una doccia calda e immaginandomi poi da-
vanti a una tazzina di caffè, come se “vedessi”.
Ora, l’animale non dispone di rappresentazioni di fantasia
intuitive allo stesso modo in cui non dispone di rimemora-
zioni, e in ragione di ciò esso non ha un mondo di essenti
(la costituzione della “cosa” richiede infatti che io la possa
rimemorare e variare nella fantasia), né può progettare la
propria vita, sottomettendola a una revisione, anticipando
un futuro lontano o impossibile come qualcosa in grado di
soddisfarlo e al cui perseguimento dedicarsi anima e corpo.
Se guardiamo gli animali superiori, vi è indubbiamente in essi
una capacità di previsione74. Ma, protendendosi in avanti se-
condo determinate aspettative, essi sono pur sempre orientati
a un futuro appagamento di uno stimolo pulsionale presen-
te. Gli animali sono legati alla realtà e alla attualità, anche
quando prevedono – relativamente – le conseguenze future

73. hua xv, pp. 183-184.


74. Cfr. infra, le considerazioni finali del § 3.
264 carmine di martino

di comportamenti propri o altrui. L’animale non ha davanti a


sé gli orizzonti di passato e di futuro, non ha uno sguardo che
abbracci il tempo in modo unitario, non può fare un “piano”
che riguardi la sua vita e la renda oggetto della sua volontà.
Certo, anche nella vita dell’animale (tenuto conto delle diffe-
renze tra animali inferiori e superiori) vi è maturazione, ma
tutto ciò che esso cerca è la soddisfazione dei suoi bisogni, che
sono sempre momentanei, pur apparendo a intervalli più o
meno regolari. La vita degli animali è essenzialmente rivolta
al dato presente, orientata alla conservazione di sé attraverso
la replica di comportamenti periodici che si svolgono oggi
come si svolgevano ieri e si svolgeranno domani (ciò può
solo in una misura limitata e parziale essere modificato dal-
la “umanizzazione” che avviene quando, per esempio, uno
scimpanzé è allevato e addestrato in una famiglia umana).
Gli animali non vivono dunque in un mondo temporale
cosciente, né hanno una coscienza del tempo obbiettivo, in
cui le cose e gli eventi ottengono la loro posizione spazio-
temporalmente definita.

Il tempo è una costruzione spirituale dell’uomo, che si perfeziona nello


sviluppo umano e assume la forma del tempo ordinato e misurato. Il
presente umano è un modo del tempo e si espande fino al co-presente
[Mitgegenwart] spaziale, perciò l’uomo vive nella temporalità spaziale,
in essa tutte le acquisizioni umane e tutte le mere cose – in quanto
irrilevanti per il bisogno pratico – hanno il loro posto. L’attuale mon-
do ambiente dell’uomo è lo spazio-tempo concretamente riempito.
L’animale vive “come mero essere-del-presente” [als pures Gegenwart-
swesen], ma il suo presente, come in generale il suo tempo, è tempo
solo se guardato e giudicato dal nostro punto di vista di uomini75.

La conclusione che occorre trarre da queste osservazioni sulla


temporalità è che gli animali non ne sanno nulla del mondo
ambiente che noi entropaticamente attribuiamo a essi, non

75. Ms. A V 24/11a.


Husserl e la questione uomo-animale 265

hanno la consapevolezza di un mondo essente, di un mondo


singolare e allo stesso tempo omogeneo, in forza della spa-
ziotemporalità universale, della possibilità di compiere iden-
tificazioni sulla base delle localizzazioni spaziotemporali, del
passato e del futuro anticipato e presentificato. Per gli animali
bisognerebbe forse parlare di intenzionalità pulsionalmente
dirette alla concordanza, in forza delle quali la molteplicità
delle manifestazioni percettive si assembla normalmente in
una unità concordante. Noi – noi uomini – interpretiamo
l’intenzionalità “istintiva” animale come costitutiva di un
mondo ambiente, come se gli animali «fossero di fatto una
specie di uomini inferiori, come se anch’essi avessero l’essente,
le connessioni d’essere e scopi diretti all’essente»76.
Ma non vi è negli infanti una intenzionalità pulsionale-
istintiva comparabile a quella animale? E, in questo caso,
come il bambino piccolo passa dalla temporalizzazione istin-
tiva dei materiali iletici alla temporalizzazione del mondo,
ossia alla temporalizzazione dell’essente? Nel soggetto umano
avviene «una trasformazione costante dell’intenzionalità pas-
siva in attività tramite la facoltà di ripetizione»77. Il passaggio
dalla intenzionalità passiva, dalla temporalizzazione istintiva,
alla intenzionalità attiva e alla temporalità di essenti avvie-
ne nel bambino grazie alla «capacità “del sempre di nuovo”
[Vermögen des “immer wieder”]»78. È questo il modo con cui
Husserl allude a quella apertura essenziale alla «costituzione
di essenti» di cui gli animali sarebbero privi e che la tradizione
ha chiamato ragione. Egli evoca la solidarietà di temporalità
e razionalità come condizione alla quale l’uomo può avere
un mondo di cose permanenti, identificabili nella loro indi-
vidualità secondo la loro posizione nello spazio e nel tempo.

Come rendere comprensibile il fatto che l’animale non abbia dei


ricordi veri e propri, intuizioni iterative come percezioni iterative

76. Ibidem.
77. Ibidem.
78. Ibidem.
266 carmine di martino

e accompagnate dalla capacità del “sempre di nuovo”, e perciò che


non abbia la costituzione di essenti secondo la forma d’essere della
temporalità? L’uomo ha la “ragione”; quanto è stato detto è forse una
caratterizzazione dei livelli più bassi della “razionalità”79?.

L’animale, dunque, è senza coscienza del tempo e «senza ra-


gione [vernunftlos]. L’animale reagisce e non ragiona»80.
Nella parte finale di Welt und Wir, ripercorrendo la linea
della differenza uomo-animale, Husserl introduce il tema
della lingua.

Fare conoscenza, progettare possibilità, volere, produrre, agire etc., le


opere, le formazioni indirizzate a uno scopo, le formazioni comuni-
cative, in quanto rendono comunicabile sempre di nuovo una stessa
cosa: tutto ciò è escluso. Gli animali non hanno alcuna “proposizione”
né in senso stretto né in senso lato. Gli animali si intendono, com-
prendono delle espressioni sonore – ma non hanno alcuna lingua81.

Il fatto che gli animali non abbiano «alcuna lingua» ha con-


seguenze decisive sulla formazione di un mondo obbiettivo.
Husserl attribuisce, come si sa, alla lingua una funzione
determinante e insostituibile nella formazione e nella trasmis-
sione dei significati e degli oggetti culturali. A questo nodo egli
ha dedicato pagine assai note nella Appendice iii a La Crisi delle
scienze europee, su cui autori come Merleau-Ponty e Derrida
si sono fruttuosamente soffermati. Nell’ambito del problema
della costituzione delle obbiettività ideali, interrogandosi su
come una formazione di senso che sorge nella dimensione
psichica interna diventi una oggettualità ideale disponibile
per chiunque, Husserl sottolinea anzitutto – come abbiamo
richiamato – la funzione della rimemorazione. La presenza
originale di una determinata formazione di senso «nell’attua-
lità del primo atto produttivo, cioè nell’“evidenza” originaria,

79. Ibidem.
80. Ms. K III 7/11.
81. Ibidem.
Husserl e la questione uomo-animale 267

non porta a un risultato permanente a cui possa spettare una


esistenza obbiettiva». Infatti, l’evidenza vivente passa, senza
tuttavia diventare un nulla: essa può sempre essere ridestata.
Emerge qui il ruolo costitutivo della rimemorazione, attraverso
la quale il vissuto passato quasi si rinnova e viene rivissuto.

Accanto all’attiva rimemorazione del passato sorge una attività real-


mente produttiva; si costituisce così, in una coincidenza (Deckung) ori-
ginaria, l’evidenza dell’identità: ciò che ora si realizza originariamente
è identico a ciò che un tempo era stato evidente. Insieme, si fonda
così la possibilità attiva di una illimitata riproduzione nell’evidenza
dell’identità (coincidenza dell’identità) della formazione, nella catena
infinita delle riproduzioni82.

La costituzione dell’identità di una formazione di senso e la


possibilità di una sua illimitata riproduzione nella catena gene-
razionale si fonda dunque su una prima “ripetizione”, sull’attiva
rimemorazione in cui il vissuto passato quasi si rinnova.
E tuttavia, la rimemorazione, la ripetizione originaria, è
necessaria, ma non sufficiente: essa, pur indispensabile alla
costituzione della identità del senso spirituale, non assicura una
piena evidenza della identità della formazione spirituale, non le
procura una esistenza obbiettiva e perciò intersoggettivamente
disponibile e trasmissibile. A questo scopo occorre considerare
la funzione congiunta dell’entropatia e della lingua e ricono-
scere l’umanità come una comunità entropatica e linguistica.

Nella connessione di una comprensione linguistica vicendevole, il


prodotto originario e l’atto produttivo del singolo soggetto possono
venir compresi attivamente dagli altri. Come attraverso la rimemora-
zione, attraverso questa piena comprensione del prodotto altrui deve
necessariamente aver luogo una co-realizzazione attuale e propria del-
la attività presentificata, e insieme deve delinearsi una piena evidenza

82. hua vi, p. 386-387.


268 carmine di martino

della identità della formazione spirituale nei prodotti dei destinatari


e dei mittenti della comunicazione e viceversa83.

È grazie alla funzione linguistica che un mondo di signifi-


cati identici e ripetibili può costituirsi ed essere tramandato.
Prima della incarnazione in un linguaggio, l’evidenza della
identità di senso che sorge nello spazio coscienziale di un
individuo attraverso la rimemorazione non acquista una
esistenza obbiettiva, non diventa esperibile nel suo senso da
altri, non può trasmettersi, non entra perciò a far parte del
mondo culturale, non può neppure in definitiva compiuta-
mente costituirsi.
In quanto è il linguaggio a permettere la costituzione di
identità ideali obiettive, vale a dire di acquisizioni spirituali
trasmissibili, tradizionalizzabili, esso è per ciò stesso indi-
spensabile alla formazione di un mondo culturale e di un
orizzonte infinitamente aperto. «Evidentemente soltanto
attraverso la lingua e attraverso le sue documentazioni ad
ampio raggio, in quanto comunicazioni possibili, l’orizzonte
dell’umanità può essere un orizzonte infinitamente aperto,
come di fatto è sempre per l’uomo»84. L’orizzonte della vita
umana, il mondo in cui gli uomini vivono, è illimitato in
quanto, mediante il linguaggio, gli uomini possono comu-
nicarsi contenuti di senso oltrepassando qualsiasi confine di
spazio e di tempo.

Così gli uomini in quanto uomini, gli altri, il mondo – il mondo di


cui gli uomini parlano, di cui parliamo e possiamo parlare noi – e,
d’altra parte, la lingua sono un intreccio che non può essere disfatto,
un intreccio che è sempre nella certezza della sua inscindibile unità
relazionale, anche se di solito soltanto implicitamente, nella dimen-
sione dell’orizzonte85.

83. Ivi, p. 387.


84. Ivi, p. 385; trad. modificata.
85. Ivi, p. 386.
Husserl e la questione uomo-animale 269

È in forza della lingua che il mondo circostante umano è un


mondo a tutti comune, un mondo obbiettivo, che “chiunque” ha
come orizzonte. «Il suo essere obbiettivo presuppone gli uomini,
in quanto uomini che hanno una lingua generale»86. L’analisi
husserliana prevede poi, com’è noto, un terzo passaggio costitu-
tivo, relativo alla scrittura, che lasciamo qui in sospeso87.

7. Il marchio dell’infinità

Nella Appendice xxiii del xv volume, intitolata Teleologie,


Husserl ritorna sulla differenza uomo-animale da un’altra
angolatura, fornendo un ulteriore sviluppo delle considera-
zioni proposte.

L’animale, in una condizione di regolare soddisfazione dei suoi istinti


e dei valori con ciò definiti, vive in un mondo ambiente finito in una
temporalità ristretta (limitata dalla ristrettezza della ri-memorazione
[Wiedererinnerung] e della pre-memorazione [Vorerinnerung]), nella
periodicità della fame (in senso allargato), aumentando come fame
nella forma vuota e poi riempiendosi, nel riempimento stesso di nuo-
vo aumentante e solo dopo decrescente, è “felice”. Più precisamente,
esso è da affamato insoddisfatto e da saziato soddisfatto, pienamente
appagandosi quando si sazia; se potesse abbracciare con lo sguardo
la sua vita, quella che così trascorre, non potrebbe augurarsi niente
di meglio88.

L’animale dunque è “felice” in quanto vive in un mondo am-


biente finito, chiuso, stazionario, come abbiamo detto, in
quanto ha una temporalità ristretta, non è cosciente degli
orizzonti temporali che si estendono in avanti e all’indietro;
esso vive nella periodicità dell’istinto, vale a dire nella alter-

86. Ibidem.
87. Ci permettiamo in proposito di rimandare a c. di martino, Il medium e le
pratiche, Jaca Book, Milano 1998, in cui ci siamo estesamente occupati del tema.
88. hua xv, p. 405.
270 carmine di martino

nanza tra fame e sazietà. L’animale, in definitiva, è diretto a


quei valori finiti che soddisfano i suoi bisogni e definiscono
interamente il suo orizzonte vitale.
Essenzialmente diversa è la condizione umana.

L’uomo vive nell’“infinità” (Der Mensch lebt in der “Unendlichkeit”),


che è il suo costante orizzonte di vita, egli eccede gli istinti, crea valori
di grado superiore ed eccede questi valori. Ogni uomo si trova in
un mondo di valori infinitamente aperto, e cioè un mondo di valori
pratici, che sono da eccedere “in infinitum” e che erano stati generati
da accrescimenti secondo la modalità umana89.

All’essenza della vita umana appartiene un tendere, un desi-


derare, un aspirare nella forma della infinità, cui corrisponde
il continuo superamento di quei valori di grado superiore che
prendono il posto degli istinti. L’eccedenza e l’eccesso sono la
dimensione dell’aspirazione e dell’agire umano. L’io si trova
così in un mondo di valori infinitamente aperto, frutto di uno
sviluppo e suscettibile di sviluppi ulteriori, senza soluzione di
continuità. Abbiamo già visto questa stessa infinità nell’acca-
dere del mondo circostante, nelle possibilità pratiche in esso
racchiuse, nell’apertura al futuro del proprio agire possibile,
nella temporalità che comprende orizzonti di passato e di
futuro. In una battuta: l’infinità è il costitutivo orizzonte di
vita dell’uomo. Egli è direzionato «all’infinito alla “perfezio-
ne”, alla vera autoconservazione»90, e ogni suo ideale reca in
sé il marchio di questa infinità.

Non è un caso – scrive Husserl – che l’uomo, continuamente oc-


cupato con particolari dell’esperienza, della valutazione, della mira
desiderante e agente (il perseguire uno scopo), non giunge mai a un
appagamento, o piuttosto che nessuna soddisfazione nel particolare
e nella finitezza è reale e piena soddisfazione, e che la soddisfazione

89. Ibidem.
90. Ivi, p. 403.
Husserl e la questione uomo-animale 271

rimanda a una totalità della vita e a una personale totalità di essere, a


una unità nella totalità dei valori abituali, che superi ogni finitezza91.

A ciò è connessa l’esperienza della parzialità di ogni soddi-


sfazione, che motiva la ricerca e la creazione di nuovi valori
rispetto a quelli già esperiti, nella direzione di una soddi-
sfazione totale a cui l’essere personale non può fare a me-
no di tendere. L’esperienza della parzialità è l’altro lato della
apertura alla infinità. Essa è preclusa all’animale, il quale,
una volta soddisfatto nei suoi bisogni, non può trovare un
valore di grado superiore a quelli già esperiti: l’animale non
vive nell’eccesso e dunque nemmeno nella parzialità, nella
strutturale sproporzione, vive in ciò che si potrebbe chia-
mare “perfezione” o “felicità”. Invece, ogni volta che l’uomo
crea un valore, ogni volta che abbraccia consapevolmente
le possibilità di vita e dell’agire che gli si offrono, egli già si
espone all’esperienza dell’insoddisfazione. Il semplice fatto
che qualcuno accanto a lui disponga di altri valori o di valori
maggiori motiva il movimento di superamento dei valori ac-
quisiti e affermati, in una tensione incessante92. Diversamente
dall’animale, che vive nel finito ed è soddisfatto, l’uomo vive
nell’infinito ed è insoddisfatto, è in una sproporzione strut-
turale tra la sua aspirazione e i suoi raggiungimenti:

L’infinità come orizzonte di vita di ogni uomo, nella misura in cui il


suo orizzonte di vita abbraccia l’infinità dell’umanità generativa, e in
quanto a lui dischiusa, introduce morte e destino nell’orizzonte e la
possibilità del suicidio, anche la possibilità di “suicidio” intersogget-
tivo. Nella dischiusa infinità la felicità è un controsenso93.

91. Ivi, p. 404


92. «L’uomo, e quindi l’umanità, è in un movimento incessante – nella tensione
pratica verso un mondo di valori per lui, verso un mondo di valori per tutti, che
potrebbe dare contemporaneamente a tutti possibilità di felicità, per ciascuno il
volto di un mondo di valori, per lui godibile» (ivi, p. 406).
93. Ibidem.
272 carmine di martino

Alcuni anni prima della stesura di queste note, nei Cinque


saggi sul rinnovamento, Husserl aveva tematizzato ampia-
mente questa tendenza alla perfezione come costitutiva della
storicità della vita umana, evidenziando come essa assuma
la forma di una aspirazione attiva e consapevole grazie alla
possibilità che il soggetto personale ha di abbracciare con lo
sguardo tutta la propria vita e deciderne la direzione. Si tratta
ovviamente di una possibilità dell’io personale, autocosciente
e libero. Invece di essere orientato in maniera passiva dal-
le proprie pulsioni e inclinazioni, dagli affetti nel senso più
ampio del termine, l’io personale dispone della possibilità di
agire liberamente e attivamente. Egli può osservare e valutare
il mondo che lo circonda e i motivi che lo guidano, lasciarli
sussistere o contrastarli. L’io personale può sempre passare
da motivazioni passive a motivazioni attive.

Questo significa che l’uomo ha la facoltà di “inibire” gli effetti del suo
fare passivo […] e dei presupposti che lo motivano passivamente (in-
clinazioni, intenzioni), di metterli in questione, di sottoporli a esame e
di prendere una decisione volontaria solo sulla base della conoscenza
che ne risulta della situazione effettiva, delle possibilità realizzabili in
essa racchiuse e dei loro relativi valori. In quest’ultima il soggetto è in
senso pregnante soggetto di volontà94.

Ma non è anche l’animale un soggetto di volontà? Quando


ordiniamo al nostro cane di andare qui o là e constatiamo
che esso non ha alcuna intenzione di agire conformemente
al nostro ordine, sicché dobbiamo trascinarlo “contro la sua
volontà”, vincendo la sua fiera opposizione, non siamo forse
di fronte a un soggetto di volontà? Sì, certamente, ma non
a un soggetto di volontà «in senso pregnante», se stiamo ai
termini husserliani. Che significa ciò? Anzitutto che l’animale
non possiede una volontà nella forma dell’«in generale», non
può decidere la direzione da assegnare alla sua vita, conside-

94. hua xxvii, p. 29.


Husserl e la questione uomo-animale 273

rata nella sua interezza95. In secondo luogo, l’animale non ha


una volontà diretta su se stesso:

Un vero animale, nella sua interiorità, può essere un io, ma esso non
è un io che vuole liberamente, ciò che qui significa anzitutto un io
che non solo in generale vuole, ma che ha una volontà diretta su se
stesso, che forma se stesso e insieme una volontà che plasma la sua
intera vita in conformità a scopi96.

Auto-formazione e auto-plasmazione sono estranee all’ani-


male.
A che cosa è legata la possibilità di volere nella forma
dell’«in generale» e quella di auto-plasmarsi in conformità
a idee di scopi? È qui evidentemente chiamata in gioco la
dimensione della temporalità, cui abbiamo accennato poco
sopra. A differenza dell’animale, infatti, l’uomo è capace di
ciò che Husserl chiama Überschau, di una visione d’insieme
sulla propria vita, di uno sguardo che abbraccia in modo
unitario i suoi orizzonti di passato e di futuro. In tale sguar-
do il mio «io posso» si proietta e si estende, la mia vita giace
distesa dinanzi a me come possibilità pratica: assumo la mia
situazione e le possibilità che concepibilmente mi si offrono,
valuto quel che presumibilmente mi resta da vivere e conside-
ro i beni o i valori che intendo affermare, quello che desidero
fare di me, prendo insomma in mano me stesso e decido che
da domani cambierò vita, mi licenzierò dall’ospedale in cui
presto servizio e andrò in Africa, al servizio delle popolazioni
più povere. Solo l’uomo può mettere in questione se stesso,

95. «Il “mero animale” può, per esempio, in determinate circostanze, agire sem-
pre di nuovo nello stesso modo, ma non possiede la volontà nella forma della
generalità. Non conosce ciò che l’uomo esprime con le parole: “Voglio in generale
e, dovunque ritrovo le stesse condizioni, agire in questo modo, poiché simili beni
hanno per me valoro in generale”» (ivi, p. 30).
96. hua xxxvii, Einleitung in die Ethik. Vorlesungen Sommersemester (1920-
1924), H. Peucker (Hrsg.), Kluwer Academic Publishers, Dordrecht 2003; trad.
it. parziale Introduzione all’etica, a cura di F.S. Trincia, Traduzione di N. Zippel,
Laterza, Roma-Bari 2009, p. 235.
274 carmine di martino

può guardare a sé come destino e struggersi per l’esito della


sua vita colta come totalità, perché solo l’uomo può «prefig-
gersi un fine generale di vita, può assoggettare sé e la propria
intera vita, nella sua infinita apertura al futuro, all’istanza
di una regola sorta dalla sua libera volontà»97. Sono quindi
forme di vita esclusivamente umane quelle secondo cui un
soggetto si dedica incondizionatamente al perseguimento di
un determinato bene o di un tipo di valori che esso dappri-
ma riconosce come l’unico in grado di procurargli una vita
soddisfacente, degna, buona, la quale non è per nulla già data
con la vita stessa.
Quanto più la propria umanità è autenticamente vissuta,
tanto più ogni azione è concepita in vista di scopi riconosciu-
ti, perciò del proprio vero Sé, di una totalità di soddisfazione.
Il modo dell’evoluzione e dello sviluppo umano si distingue
dunque nettamente sia da quello meramente organico, sia da
quello meramente animale.

Anche l’uomo, al pari dell’animale, possiede sotto l’aspetto corporeo,


così come sotto quello spirituale, un suo sviluppo organico con relativi
stadi evolutivi. Ma l’uomo, in quanto essere razionale, ha anche la
possibilità e la libera facoltà di una evoluzione del tutto diversa nella
forma di una libera guida ed educazione di sé verso una idea teleologica
assoluta, conosciuta da sé (formata liberamente nel proprio conoscere
razionale), valutata da sé e da sé presupposta nella volontà98.

L’idea teleologica, il rapporto con una perfezione, con un fine


generale di vita coscientemente posto e perseguito, s’inscri-
ve nell’infinità della apertura temporale, nella infinità degli
orizzonti di passato e di futuro, e si connette con la consape-
volezza di essere in una connessione generativa infinita. È in
questo quadro che si delinea la differenza tra il rapporto che
gli uomini intrattengono con il destino e la morte e quello
esperito da certe specie animali (scimmie, elefanti, ecc.).

97. hua xxvii, p. 32.


98. Ivi, pp. 43-44.
Husserl e la questione uomo-animale 275

Per quanto si possa discutere se l’animale, l’animale di grado superiore,


possa diventare esplicitamente cosciente della morte come evento
mondano e come proprio destino, è fuori discussione che questo non
può essere il caso rispetto alla morte del genere. La vita umana è espli-
citamente riferita alla sua morte, ma anche alla sua storia umana, e
quindi al futuro dell’umanità e con ciò alla vita e alla morte dell’uma-
nità in generale e del mondo umano in quanto suo mondo culturale99.

In virtù dell’infinità dell’apertura temporale gli uomini si rap-


portano al destino e alla morte possibile del proprio genere.

8. Fenomenologia e scienza dell’origine

Ritornando ora al problema posto in principio, possiamo


osservare che la fenomenologia husserliana ci ha condotto
al cospetto di due dimensioni: le differenze strutturali tra
mondo umano e mondo animale, perciò tra le rispettive sog-
gettività (io personale e io animale), e l’elemento comune,
cui abbiamo più rapidamente accennato. Il mondo ambiente
animale non è, fino a prova contraria, un mondo culturale:
l’animale può rispondere a una cultura – come gli scimpanzé
e i bonono allevati dalla nascita e per molti anni in un am-
biente familiare umano –, sviluppando alcuni aspetti della
cognizione sociale e dell’apprendimento culturale dell’uomo,
ma non creare ex-novo un mondo culturale. Anche nel caso
degli animali domestici non si va oltre un certo sviluppo: ogni
singolo animale, nel percorso che lo conduce dall’inizio em-
brionale fino alla maturità, «non matura mai fino a divenire
una persona»100. La differenza tra il mondo ambiente animale
e quello umano è correlativa a quella tra io animale e io uma-
no. Siamo di fronte a differenze strutturali. Non si tratta qui
di far valere una qualche guisa di specismo. La distinzione
husserliana tra uomo e animale, a partire dall’esperienza del

99. E III 10, p. 17.


100. hua xv, p. 180.
276 carmine di martino

mondo della vita, emerge come distinzione fenomenologica,


cioè come differenza tra due strutture di esperienza del mon-
do. Di fatto, queste due diverse strutture si trovano associate a
determinati tipi empirici, “uomo” e “animale”; un’associazio-
ne che potrebbe sempre essere smentita da esperienze future,
ad esempio se incontrassimo un cane parlante. Ma finché
questo non succede, non possiamo far altro e legittimamente,
da un punto di vista fenomenologico, che mantenere quella
associazione: si danno due diverse strutture di esperienza del
mondo e una pertiene unicamente alla specie empirica uomo.
Concentriamoci ora sul fattore comune. Se noi possiamo
empatizzare e interpretare il movimento degli animali come
analogo al nostro, vi deve essere qualcosa che rende possi-
bile l’analogia, la quale ha un carattere del tutto diverso da
quella che utilizziamo quando diciamo che l’acqua si inabissa
nel terreno o il sole si nasconde dietro la collina. Quando
comprendiamo il comportamento degli animali come un
attaccare il nemico, accudire la prole, procurarsi del cibo,
scavarsi una tana, sentire o vedere, ritrarsi o protendersi e
così via, noi stiamo senz’altro realizzando una analogizzazio-
ne, ma sulla base di una fondata possibilità di trasposizione
nell’animale, che ci permette di esperirli entropaticamente nei
loro modi psichici (il che non si dà e non ha senso rispetto
all’acqua e al sole). Se, pertanto, come l’esperienza mostra,
una comprensione entropatica – non solo assimilante, ma,
in determinati casi, anche reciproca – tra noi uomini e gli
animali può attuarsi è perché vi è un elemento comune, che
ne schiude la possibilità. Ciò sarà com’è ovvio più evidente
nel caso degli animali superiori. Husserl s’interroga in modo
esplicito in proposito.

Chiaramente riguardo all’esperire attraverso il quale ci si presentano


gli animali e attraverso il quale li esperiamo nel loro modo psichico
peculiare, ciò significa ancora una volta che l’animale ha il proprio
ambiente finito, il proprio modo dell’orizzonte mondo, in virtù della
propria modalità psichica, e a partire dalla propria maniera di ap-
percepire, delle proprie funzioni costitutive; e il suo modo non è il
Husserl e la questione uomo-animale 277

nostro. Il nostro ambiente, considerato ancora in modo così esteso,


non è quello del coleottero, dell’ape, della colomba o dell’animale
domestico (che, certo, allevato a contatto degli uomini, ha acquisito
realmente i tratti della natura umana). Eppure li comprendiamo, li
esperiamo, dunque deve esserci qualcosa in comune nel modo di
apparizione delle unità101.

È il «qualcosa in comune» che rende possibile l’entropatia.


Quest’ultima affermazione ne sviluppa un’altra, compiuta da
Husserl qualche pagina prima, relativa alla comprensione tra
uomini che provengono da culture estranee. Quando io in-
contro uomini appartenenti a un mondo ambiente estraneo,
diverso dal mio, non posso, egli scrive,

comprendere le loro modalità di relazione con questo mondo e com-


prendere questo stesso mondo come essi lo comprendono e come
questo mondo è per loro, come questi uomini sono l’uno per l’altro
e così via. E tuttavia li comprendo e ci comprendiamo gli uni gli altri
in quanto uomini. Nel nostro rapporto vitale abbiamo uno strato
adeguato a tal fine che si determina nell’entropatia reciproca, e viene
compreso nella verifica di concordanza come nucleo di senso della
certezza d’essere102.

Se con tutte le effettive differenze io comprendo gli “altri” e


reciprocamente essi mi comprendono, vi deve essere «uno
strato adeguato a tal fine». Pertanto, in una misura variabile a
seconda di quali animali consideriamo, questa comprensione
entropatica si realizza anche tra gli uomini e gli animali: vi
deve dunque essere anche qui «uno strato adeguato a tale
fine». Sia la comprensione entropatica tra uomini di diverse
culture sia quella tra uomini e animali implica il “qualcosa
in comune”, fatte salve ovviamente tutte le necessarie distin-
zioni, per esempio tra la comprensione entropatica che può
esservi tra l’uomo e la zecca, la comprensione parzialmente

101. hua xv, p. 626; trad. it. p. 100.


102. Ivi, p. 625; trad. it., p. 98.
278 carmine di martino

reciproca che può esservi tra l’uomo e il cavallo, la compren-


sione entropatica e reciproca in senso stretto che si realizza
unicamente tra uomini.
Ora, il verificarsi dell’entropatia attesta l’elemento comu-
ne, ma lascia aperto il problema di come esso debba essere
inteso. La nozione husserliana di strato è infatti tanto utile
sul piano descrittivo quanto precaria sul piano ontologico.
L’elemento comune è uno «strato» effettivamente isolabile
di «animalità»? Esso sarebbe lo stesso in entrambi, animali e
uomini? Negli uomini si aggiungerebbe allora semplicemen-
te un altro strato, sovrapposto al primo in maniera statica?
Husserl non sembra intendere lo strato «personale» come
un’aggiunta che lascerebbe intatta un’animalità concepita
come strato autonomo, a sé stante.

Certo l’uomo partecipa dell’animalità, ha in qualche modo un animale


in sé. Non però come se l’avesse in sé sotto forma di un reale livello
inferiore, di un terreno che effettivamente costituirebbe il fondamento
di un piano superiore, che a sua volta vi poggerebbe staticamente103.

Nell’uomo, si potrebbe dire, vi è un altro modo di essere


quell’animalità (istinti, impulsi, affezioni, ecc.) che pure lo
accomuna agli animali: la sua umanità trasforma l’animalità
che ha in sé in «qualcosa di un genere totalmente nuovo»104.
Da quando l’uomo fa la sua apparizione, dunque, esso
non è più un animale, vale a dire non è semplicemente la
somma di animalità – concepita come qualcosa di isolabi-
le – e umanità («essenza personale»), bensì qualcosa di es-
senzialmente diverso: la sua umanità, per così dire, riscrive
l’animalità che pure vive in lui. Vale a dire, l’uomo non è il
risultato della sovrapposizione di uno strato umano a uno
strato animale; si tratta piuttosto di una trasformazione. Più
radicalmente, allora, dovremmo dire, in termini che non
sono più semplicemente husserliani: quando appare, l’uo-

103. hua xxxvii, cit., p. 235.


104. Ibidem.
Husserl e la questione uomo-animale 279

mo riconosce in sé quell’animalità che vede esprimersi in


gradi diversi nell’universo dei viventi che lo circonda e che
coglie come suo sfondo nel momento stesso in cui la mette
a distanza. L’animalità “accade” solo nell’accadere della sua
differenza, vale a dire solo nel suo superamento, con l’appa-
rizione dell’uomo, il quale, proprio in quanto la supera, può
riconoscerla e attribuirla agli animali e a se stesso, stabilendo
con ciò la sua continuità e la sua discontinuità nei confronti
del regno animale. Ma in tale passaggio l’animalità umana è
già diventata altro dall’animalità animale. A rigore, quindi,
si dovrebbe dire non solo che, nel momento in cui appa-
re, l’uomo non è più un animale, ma che, in quanto vivente
umano, nella sua differenza, esso non lo è mai stato105, poi-
ché l’apparizione dell’uomo è al contempo l’apparizione e il
superamento (trasformazione) della animalità animale106.
Se ora, però, cambiamo orizzonte e solleviamo un’altra
domanda, quella sull’origine delle differenze e sui rapporti
di “derivazione” tra esse, la fenomenologia non ha apporti
da offrirci. Lo sguardo fenomenologico resta eterogeneo alla
domanda sulla genesi e sull’evoluzione dei viventi, tanto nella
sua forma scientifica quanto in quella storico-genealogica o
metafisica. Anche la cosiddetta fenomenologia genetica si
mantiene in un’essenziale estraneità rispetto a un’indagine
di carattere scientifico, genealogico o metafisico sulla genesi.
Essa è perciò poco sensibile al tema della continuità o di-
scontinuità evolutiva, mentre lo è alle differenze di strutture

105. Ho tentato di sviluppare il problema in un saggio a cui mi permetto di


rimandare: c. di martino, L’uomo e l’animale, la morte e la parola, in F. Leoni e
M. Maldonato (a cura di), Al limite del mondo. Filosofia, estetica, psicopatologia,
Dedalo, Bari 2002, pp. 89-123.
106. Il tema dell’animalità, com’è noto, acquisterà una centralità peculiare nell’am-
bito della fenomenologia genetica husserliana, emergendo come il sostrato di vita
pulsionale primordiale in cui si radica anche la soggettività egologica personale,
l’intenzionalità passiva in cui bisogna ricercare l’origine della intenzionalità attiva
e costituente: in tal senso Husserl utilizzerà, a partire dagli anni ’20, l’espressione
«vita trascendentale» in luogo di «soggettività», intendendo riferirsi con ciò alla
dimensione più profonda del trascendentale-costituente.
280 carmine di martino

di esperienza. Le questioni della genesi acquistano tutta la


loro rilevanza se si intende sviluppare una considerazione
metafisica o una interrogazione storico-evolutiva relativa
alle specie animali, alla comparsa dell’uomo e così via. Sul
versante della speculazione metafisica, ma soprattutto su
quello dell’indagine e della ricostruzione scientifica il pa-
norama è oggi particolarmente ricco e in costante sviluppo.
La prospettiva darwiniana, con le sue attuali modulazioni e
correzioni (come l’epigenetica, per esempio), s’interseca in
vario modo con la «visione sistemica della vita» e la «teoria
della complessità» (la dinamica non lineare dei sistemi). E ciò
non manca di produrre conseguenze sulla ricerca filosofica
e i suoi tentativi. Anche in filosofia, linearismo e teleologia,
nei quali resta comunque saldamente inscritta la teoria dar-
winiana classica, tendono a lasciare il posto a una visione
in cui i viventi, piuttosto che essere disposti secondo uno
schema lineare, sono i nodi o gli eventi di una rete, di una
totalità. Sulla base di indagini scientifiche nei rispettivi campi,
si ottengono le varie ipotesi sull’origine (della vita, dei viven-
ti, dell’uomo), con il loro intrinseco carattere “retroattivo”,
ossia ricostruttivo e congetturale. Lo stesso occorre dire sul
lato delle ricerche paleontologiche, etnologiche, psicologiche,
ecc., e delle rispettive teorie ricostruttive.
Vi è allora, per così dire, un duplice problema, che sembra
mettere in questione la decisività dell’analisi fenomenologica
delle questioni affrontate: a) essa non si colloca sul piano
della domanda sull’origine, sia nella sua forma scientifica
oggi dominante, vale a dire genetico-evolutiva, sia in quella
filosofica, genealogico-antropologica o metafisica; b) nella
sua indagine sulla coscienza animale e sul suo rapporto alla
coscienza umana, essa non si avvale di un apparato scienti-
fico-sperimentale (sebbene non sia per nulla indifferente ai
risultati delle scienze positive, come dimostra l’interesse di
Husserl stesso per le ricerche etnologiche di Levy-Bruhl). La
fenomenologia, seguendo il suo principio metodico, prende
le mosse dai modi di datità di mondo ambiente animale e
mondo ambiente umano, dalle manifestazioni di coscienza
Husserl e la questione uomo-animale 281

animale e umana, così come essi si offrono nell’esperien-


za del mondo della vita. Il suo intento è quello di cogliere
strutture, tipi, nelle loro peculiarità, differenze, relazioni, e
la sua ambizione è quella di fondare, a partire dalle analisi
fenomenologico-trascendentali, anche scienze empiriche co-
me l’antropologia o la psicologia.
L’avvio dell’indagine fenomenologica è ciò che il mondo
della vita ci lascia in consegna e predelinea passivamente
(sicché non ci aspettiamo – nonostante la nostra infanzia sia
stata popolata di gatti con gli stivali che mettono nel sacco
uomini che si pensano astuti – che il nostro gatto erediti le
opere della generazione che lo ha preceduto, rimemori e di-
scuta avvenimenti passati, progetti un cambiamento del suo
stile di vita complessivo ecc.). Muovendo dai comportamenti
animali come contenuti esemplari interpretabili psicologica-
mente e sottoponibili alla riduzione, posso procedere a una
analisi eidetica della coscienza animale così come, attraverso
di essi, mi si offre. Le datità del mondo della vita, ossia dell’e-
sperienza prescientifica, interrogate fenomenologicamente,
ci conducono a quelle affermazioni via via richiamate sulla
non disponibilità di un mondo storico-culturale, di un con-
sapevole rapporto alle generazioni passate e future, di rime-
morazioni vere e proprie e di rappresentazioni di fantasia
intuitive, di scopi consapevoli e dunque di azioni in senso
proprio, e così via, che caratterizzerebbe la vita degli animali.
Ma le ricerche delle scienze empiriche (le neuroscienze,
l’etologia cognitiva, la psicologia, la biologia, ecc., la lista sa-
rebbe troppo lunga) non rendono le analisi fenomenologiche,
pur rispettabili in se stesse, inutili ai fini di stabilire costitu-
zioni e confini “ontologici” di e tra specie “animali” (umane
e non umane)? Trattandosi di fatti, di realtà empiriche, delle
caratteristiche di specie animali concrete, non spetta proprio e
soltanto alle scienze empiriche, con le distinte e complementari
prospettive, sulla base di fondate osservazioni, sperimentazio-
ni, rilevazioni, misurazioni, rese possibili da nuovi e raffinati
strumenti di indagine, pronunciarsi a riguardo delle diverse
capacità cognitive, della coscienza temporale, delle abilità lin-
282 carmine di martino

guistiche, dello statuto di intenzionalità ed emozioni animali e


umane e così via? Non è esclusivo compito delle scienze dirci,
quanto a ciascuna capacità cognitiva, una parola sensata sui
rapporti tra la specie umana e quelle non umane, stabilire se
vi siano eventuali differenze e di quale tipo esse siano?
Senza dubbio né l’indagine fenomenologica né qualsi-
voglia altra ricerca filosofica possono ignorare l’immenso
lavoro delle scienze empiriche (di quelle citate e delle molte
nemmeno menzionate), l’imponenza dei risultati da esse rag-
giunti e il loro valore in molti sensi decisivo. Ciò non significa
tuttavia che viventi umani e animali divengano per ciò stesso
appannaggio esclusivo delle scienze empiriche e che l’analisi
fenomenologica o filosofica non possa più legittimamente oc-
cuparsene, se non per produrre narrazioni prive di qualsiasi
attendibilità, oppure per ripetere in un registro umanistico-
discorsivo quello che le scienze hanno già e in modo ben
più rigoroso stabilito nel loro linguaggio tecnico. La feno-
menologia (come ogni filosofia che non intenda tramutarsi
in letteratura e rinunciare al rigore) si candida a offrire un
apporto originale e irrinunciabile anche o forse soprattutto
sui temi di cui abbiamo trattato, per più di un motivo.
Proprio in quanto scopre l’apriori universale della corre-
lazione, la fenomenologia mette in evidenza e al tempo stesso
in questione il terreno di esperienza che implicitamente vige
in ogni osservazione, descrizione, ricostruzione scientifica.
A quali condizioni possiamo parlare di capacità cognitive
umane e animali, di memoria episodica o semantica, di lin-
guaggi, oppure di neuroni che si comportano in questo o
quel modo? A meno di collocarsi in una visione ingenua-
mente naturalistica e obbiettivistica – spesso lontanissima
da quella di tanti scienziati –, bisogna riconoscere, come la
fenomenologia ci invita a fare, che le “cose” e gli “oggetti”
delle ricerche scientifiche non esistono in sé, separatamente
dalle operazioni e dai codici che ne consentono l’apparizione.
Gli “oggetti” delle scienze portano con sé le loro condizioni
di visibilità, sono rivelazioni interne a una esperienza, quin-
di anche a prassi e a scritture determinate, senza in alcun
Husserl e la questione uomo-animale 283

modo essere autorizzati a concludere a partire da ciò che


tali “oggetti” siano mere “interpretazioni” – il che sarebbe
peraltro in aperto contrasto con l’evidenza schiacciante dei
successi pratici della scienza. Non si tratta di sminuire i ri-
sultati delle scienze, che mantengono tutta la loro specifica
validità, ma di non cancellare lo spessore delle operazioni e
delle presupposizioni in essi implicati, di non consegnarsi in
modo ignaro alla tendenza obbiettivante e ontologizzante del
procedere scientifico (tendenza che appartiene al suo farsi,
ma non necessariamente al suo concepirsi), presumendo per
esempio di mettere capo a una “ontologia in sé” dell’animale o
alla natura in sé della mente. Ciò ci consente di salvaguardare
l’autentica razionalità dei risultati scientifici, senza scivolare
in dogmatismi e superstizioni, e di chiarire altresì i rapporti
tra la prospettiva in terza persona e la prospettiva in prima
persona, come si usa dire oggi.
La fenomenologia restituisce insomma i suoi diritti all’e-
sperienza e in ultima istanza all’esperienza prescientifica, sot-
tolineandone il carattere intrascendibile proprio in quanto
luogo originario di manifestatività. Con la fenomenologia
l’esperienza prescientifica, la doxa, sveste i panni della mera
apparenza, dissolta dalla spiegazione scientifica, e riacquista
il senso di una fonte di senso insuperabile, di un regno di
evidenze ultime, a cui occorre sempre di nuovo rivolgersi,
anche quando si tratta di interrogare la vita di uomini e ani-
mali. Non vi è altra partenza possibile e già da sempre, volenti
o nolenti, noi vi facciamo ricorso. La fenomenologia porta
nei suoi cromosomi una fedeltà sempre rinnovata alla ma-
nifestatività, perciò a quel terreno originario di evidenze e di
senso da cui necessariamente partono e a cui sono chiamate
a tornare, se vogliono razionalmente giustificarsi, anche tutte
le ipotesi esplicative totalizzanti, scientifiche o filosofiche. In
tale fedeltà consiste anche la sua dimensione anti-idolatrica
e il motivo della sua irrinunciabilità107.

107. Il presente contributo è già apparso in forma di saggio in «Nóema. Rivista


online di filosofia» (2012).
Elio Franzini

Le idee estetiche della fenomenologia

1.

Husserl – è bene esserne consapevoli in via preliminare – è


un autore che di per sé suscita atteggiamenti di studio tra
loro radicalmente differenziati. La gran mole di materiale
manoscritto, il tormento con cui elaborava e modificava i suoi
stessi lavori editi, la struttura “in progress” del suo pensiero,
lo rendono infatti del tutto disponibile a letture filologiche
o storico-ricostruttive, a sottili distinzioni, ad analisi di mi-
croproblemi, che inevitabilmente assumono la parte, anche
minuscola, come il tutto. Si desume da queste indagini che
non solo non vi è un Husserl soltanto, ma che ciascuna sua
opera, anche edita, ha una sua propria storia, che variamente
può essere inserita nell’insieme.
D’altra parte, accanto all’infinità delle filologie e degli
esercizi storicizzanti, davvero poderosi per un “contempo-
raneo”, si pone un atteggiamento del tutto opposto: dal mo-
mento che Husserl è stratificato, complesso, variegato, è lecito,
quasi doveroso, non solo fargli dire quel che più aggrada, ma
anche inserirlo in problematiche che sono da lui ignorate o
soltanto sfiorate.
Sarebbe troppo facile negare che questi atteggiamenti, con
le loro innumerevoli varietà prospettiche, abbiano un’effetti-
va ragion d’essere: la fenomenologia come “movimento”, in
definitiva, ha costruito una “scolastica” solo su base storico-
filologica e ha invece originato prospettive di interesse teorico
soltanto quando si è distaccata da ogni rigida “ortodossia”. I
due estremi non si toccano mai e, di conseguenza, parlando
286 elio franzini

oggi, a più di cent’anni dalle Ricerche logiche, di “fenome-


nologia” si intende qualcosa di strano che, pur essendo del
tutto definito, e possedendo un centro ben individuabile,
cioè l’opera di Edmund Husserl, è in realtà indeterminabile
senza lunghe discussioni, sottili distinzioni e imbarazzi di
vario genere. Può infatti accadere – è accaduto – che chi ha
di mira le “conclusioni fondative” del pensiero husserliano
sia infastidito dal suo procedere argomentativo, giungendo a
ritenere poco importanti i suoi stessi elementi fondamentali,
e dal sottile rigore delle sue analisi e chi, invece, ama queste
ultime perda completamente di vista il quadro progettuale
dell’insieme.
Di fronte a questa dicotomia, molte sono le soluzioni pos-
sibili, meno forse quelle reali. Non ultima, ovviamente, quella
di non studiare più Husserl come un contemporaneo, che
suscita passioni e dispute, ma consegnarlo tranquillamente
alla storia della filosofia, prendendo da lui, con serenità, ciò
che serve – non considerando più, per dirla in sintesi, la “fe-
nomenologia” come un movimento o una “famiglia”, sia pure
litigiosa. Esisterebbero allora Husserl, alcuni che a lui si ri-
chiamano e determinati problemi che si potrebbero chiamare
“fenomenologici”, ma nulla da inserire in una storia unitaria
e teleologica. Peraltro, che ben pochi abbiano davvero “fatto”
fenomenologia, come avrebbe voluto Husserl, è indubbio, e
dovrebbe far pensare. Come dovrebbe far pensare il fatto che,
in definitiva, vi è in Husserl stesso una sorta di “schizofrenia”
filosofica che può imbarazzare: da un lato preferiva, quando
sentiva l’esigenza di pubblicare, le “introduzioni”, cioè stru-
menti che potessero presentare il suo pensiero in un quadro
unitario, se non teleologico; dall’altro, ha lasciato materiale
costituito da analisi di problemi particolari.
L’imbarazzo è evidentemente troppo grande per cercare
una risposta univoca, che abbia la pretesa di presentarsi come
verità. Sarebbe, appunto, sempre una verità che non terrebbe
conto del carattere quantomeno bipolare del proprio oggetto
di studio, cioè di Husserl stesso. Ma se si cedesse del tutto
all’imbarazzo, la conclusione prima accennata risulterebbe
Le idee estetiche della fenomenologia 287

un’inevitabile necessità: la fenomenologia husserliana sareb-


be un residuo del passato, un residuo “monumentale”, senza
dubbio, ma che va trattato come i monumenti.
Se non si vuole giungere a questa conclusione, o se si
intendono ritardare i suoi effetti (tutti, prima o poi, entrano
nella storia e sono destinati alla pietra, se non altro quella fu-
nebre), quel che si può in primo luogo suggerire è di assoluta
banalità: Husserl e la fenomenologia non sono realtà distinte,
ma si identificano in toto. Non si intende con ciò che si debba
cercare un’ortodossia per costruire credibili orizzonti feno-
menologici, ma che indagini fenomenologiche sono possibili
soltanto “a partire” da Husserl. Husserl non è un feticcio, ma
il costruttore di un “metodo” – di una via – che ha sufficiente
chiarezza e struttura argomentativa per poter aprire numerosi
orizzonti di ricerca. D’altra parte, se il mondo è l’oggetto di
queste ricerche, non è sufficiente essere sottili descrittivisti di
questa realtà mondana per poter entrare nel contesto di una
fenomenologia organizzata e coerente. Né è sufficiente vedere
Husserl come “mito” per trasformarsi in discreti mitizzatori.
Ciò significa, con grande semplicità, che indagini feno-
menologiche serie e competenti possono senza dubbio fare a
meno di ossessivi richiami testuali, di scolastica ripetitività, di
tutto quell’orpello retorico che appartiene al momento della
sua nascita. Fuor di metafora: perdersi nelle questioni stori-
che della fenomenologia, nelle sue sottili distinzioni significa,
se il lavoro riesce bene, dimostrare di essere buoni storici
della filosofia, ma senza per questo avere davvero operato
delle ricerche fenomenologiche (nessuno definirebbe mai
“cartesiano” uno storico della filosofia che ha scritto accurati
studi sull’ottica o la geometria di Descartes; e perché deve
essere lecito con Husserl ciò che con altri non funziona?).
La fenomenologia, dunque, non solo non può confon-
dersi con la sua storia, ma neppure va mischiata con le af-
frettate ricerche di tutti coloro che ne usano a piacere parti
e brandelli, sia per negare a essa qualsivoglia verità, sia per
esaltare magnifiche e progressive sorti della filosofia, quasi
sempre destinate a correggere i destini dell’umanità. Lecito
288 elio franzini

per chiunque utilizzare quel che si preferisce; ma, appun-


to, Husserl non va trattato in modo diverso da altri classici:
nessuno riterrebbe hegeliano chi usasse la parola dialettica e
dunque non si comprende perché a volte basti una confusa
infarinatura di mal studiati concetti fenomenologici per es-
sere inseriti nella “famiglia”. Ancora una volta, fuor di meta-
fora: il primo compito attuale del fenomenologo è quello di
ricostruire il proprio albero genealogico. Alla fine di questo
percorso sarebbe giusto ammettere che Husserl, come tutti
i grandi filosofi della conoscenza, può e deve essere “utiliz-
zato” da chiunque, purché tale chiunque non pretenda di
specchiarsi nell’immagine di colui dal quale intende trarre
qualche particolare.
Un lavoro di “dimagrimento” della fenomenologia su un
doppio versante – quello dei suoi storici e dei suoi orecchia-
tori, anche grandi – è forse un compito che può avere un suo
non secondario interesse, proprio per evitare di confrontarsi
su feticci e “falsi problemi” – falsi, ovviamente, perché si si-
tuano al di fuori degli orizzonti teorici della fenomenologia
stessa.
Orizzonti che, con rara lucidità, ha così delineato uno
studioso che certo non appartiene ai sacri circoli, Jean Michel
Salanskis: Husserl è una via a partire dalla quale la filosofia,
«trovando un’identità non alienante e non mutilante, possa
far agire la propria seduzione in direzione del mondo, illu-
minandone le mutazioni e i labirinti»1. Husserl è colui che,
forse unico negli ultimi cent’anni, ha compreso il progetto
epistemologico della filosofia occidentale, riannodando tra
loro problematiche antiche, per far comprendere non destini
torbidi e finalità fumose, ma il senso di un percorso cono-
scitivo che è quello stesso in cui si è posto il problema della
“ragione” nel suo rapporto con il mondo. In Husserl non vi
è mai quell’autoreferenzialità perniciosa che si riscontra nei
suoi storici, in molti seguaci e in vari seguaci-detrattori. In

1. j.m. salanskis, Husserl, Les Belle Lettres, Paris 1998, p. 13.


Le idee estetiche della fenomenologia 289

lui sono chiari gli orizzonti razionali di una filosofia della


conoscenza, con buona pace di coloro che in lui vedono un
moralista, un retore o soltanto un abile argomentatore.
La fenomenologia, allora, è metodo: proprio perché suo
oggetto è il mondo nella totalità dei suoi strati ontologici, pro-
prio perché il correlato del mondo è il nostro (il mio, il tuo)
sguardo, si tratta di comprendere che la verità del rapporto
originario tra il mondo e il nostro sguardo, la verità naturale
del senso comune, quello in base al quale conosciamo e vivia-
mo, non può essere autoreferenziale e va invece dimostrata
e argomentata, appunto, “indirizzata”, inserita cioè nel con-
testo di un metodo in cui il linguaggio, la terminologia, non
prevalga sui contenuti, sulla loro schiettezza e originarietà.
Ma la centralità del metodo non deve creare equivoci: la
fenomenologia non è soltanto metodo. È invece processo, e
progetto, di indagine intenzionale che, attraverso la descri-
zione dei fenomeni, vuole giungere ad afferrare i sensi che
sono nelle cose stesse.

2.

Questa descrizione è in primo luogo tentativo di cogliere


la fenomenologia come fondazione di un orizzonte estetico
per la conoscenza. Cercare un’estetica per la fenomenologia
non è qui meditare né sul senso ontologico o intenzionale
dell’oggetto estetico né sul significato degli strati di senso che
compongono l’opera d’arte: in Husserl si indica piuttosto una
strada che conduce verso il logos del mondo estetico, cioè sui
problemi generali e fondativi della conoscenza. L’estetica è
un nucleo essenziale del pensiero husserliano laddove questo
si definisce come tentativo di riproblematizzare l’orizzonte
del rapporto tra doxa ed episteme. Il “modello estetico” è un
progetto epistemologico al centro del quale si pone la lunga
ricerca husserliana per comprendere funzione e ruolo della
soggettività, dal momento che costruire una scienza significa
sempre costruire una scienza della soggettività e della sua vita
290 elio franzini

operante estetica, all’interno della quale, come in Kant, si trat-


ta di uscire dalla contrapposizione leibniziana tra simbolico e
intuitivo comprendendo la genesi intuitiva del simbolico. La
simbolizzazione necessaria alla scienza deve cioè essere colta
nella sua genesi estetico-intuitiva: il senso d’essere del mondo
della vita viene afferrato in quanto formazione soggettiva,
operazione della vita esperiente. L’estetica, in questo quadro
genetico, non è né una premessa alla conoscenza oggettiva né
la descrizione di specifici oggetti o di processi degustativi o te-
oretici, bensì l’origine della conoscenza stessa, che nell’attività
soggettiva esibisce le sue manifestazioni simboliche, radicate
nella verità intuitiva della vita ingenua e della natura umana.
Estetica è in primo luogo interrogazione della vita che
esperisce il mondo, del fungere originario del soggetto,
sempre presente, anche in modo anonimo, nella relazione
di senso che instaura con il nostro circostante mondo della
vita. In questa direzione l’estetica permette la tematizzazione
della scienza universale della soggettività nelle sue molte-
plici esperienze di senso, che fungono in qualsiasi processo
logico-conoscitivo, in qualsiasi atto della natura umana, che
è sempre attività intenzionale di un corpo proprio esperiente.
Non lasciare che questo orizzonte di fenomeni rimanga
anonimo o si cristallizzi in oggettività astratte significa porsi
sul piano riflessivo di un’estetica fenomenologica attraverso
cui si individuano i luoghi delle sintesi originarie radicate nel
mondo della vita. Il mondo della vita è notoriamente il regno
ontologico di primordiali evidenze esperienziali, dato sempre e
comunque secondo modi intuitivi. Ma ontologia – proprio per
non rinchiudere il senso dell’estetica fenomenologica nell’e-
splorazione di alcune pur importanti ontologie regionali – si-
gnifica esplicitazione di un processo, di una serie di processi
descrittivi che rivelano come gli enti, le cose del mondo, non si
diano in una trascendenza (metafisica o intenzionale che sia),
bensì nella formazione immanente degli atti soggettivi, laddove
cioè le sintesi passive esplicitano la loro presenza nel contesto
di un’esperienza percettiva. È indubitabile, si è detto, che l’on-
tologia del mondo della vita, che l’epoché rende possibile, sia
Le idee estetiche della fenomenologia 291

il terreno originario di questa esperienza. Ma un discorso fon-


dativo sul senso estetico del mondo della vita non può essere
solo ontologico: l’ontologia apre la strada a quello che Husserl
chiama “un compito molto più grande”, cioè la fondazione di
una psicologia trascendentale. L’operatività psicologica signi-
fica, in estrema sintesi, la possibilità di un’attività che, pur non
essendo “ontologizzante”, cioè costitutiva di specifiche regioni
di esperienza, rende possibile l’ontologia, cioè l’esplicitarsi di
un’intenzionalità costitutiva in cui si colgano le specificità ei-
detiche delle varie regioni della nostra esperienza dell’essere.
Discendere in questo goethiano “regno delle Madri” si-
gnifica affrontare un territorio estetico che Husserl definisce
“disperatamente multiforme e in una continua differenziazio-
ne”. Qui l’evidenza non è un feticcio teoretico, bensì l’auto-
offrirsi intuitivo delle cose stesse per un’attività soggettiva,
irriducibile a un piano pacificamente ontologico. La nota af-
fermazione del 1935 «la filosofia come scienza, come scienza
seria, rigorosa, anzi apodittica – il sogno è finito»2 è allora
indice della consapevolezza della necessità di una costante
ritematizzazione estetica della fenomenologia in quanto psi-
cologia trascendentale, e non come ontologia. Prima ancora
di occuparsi di ontologie regionali, prima ancora di essere
“scienza rigorosa”, la fenomenologia è comprensione dell’io
temporale, dell’io estetico, cioè scoperta «del modo d’essere
concretamente necessario della soggettività assoluta», che dà
senso al mondo, alla verità del mondo, «anche all’esistenza
umana nel mondo già dato spazio-temporalmente»3.
Se il pensiero oggettivo «ignora il soggetto della
percezione»4, la vita che esperisce il mondo ha questo soggetto

2. hua vi, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale
Phänomenologie. Eine Einführung in die phänomenologische Philosophie, W. Biemel
(Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1954, p. 509; trad. it. di E. Filippini, La crisi delle scienze
europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1961, p. 183.
3. Ivi, p. 275; trad. it. 289.
4. m. merleau-ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945,
p. 240; trad. it. di A. Bonomi, Fenomenologia della percezione, il Saggiatore, Milano
1968, p. 283.
292 elio franzini

al suo centro, un corpo proprio, un corpo estetico che fonda,


nelle sue sintesi e nella sua dinamicità attiva, l’oggettività stessa.
L’esteticità del senso e la sua inesauribilità si rivelano quindi
nell’intenzionalità fungente, intenzionalità estetica che è fon-
damento della psicologia trascendentale, esteticità possibile
solo in un “sentire comune” fondativo dell’intersoggettività.
Per mostrare questo percorso si incroceranno qui due strade.
In prima istanza si mostrerà come il nucleo estetico della feno-
menologia sia fondato sulla tematizzazione del senso comune;
su queste basi, in secondo luogo, si coglierà come esso rive-
sta un’importante funzione di modellizzazione simbolica per
comprendere il destino gnoseologico del pensiero husserliano.

3.

Il giudizio estetico è dunque il modello – l’idea estetica – per


un sapere antropologico che scaturisce da una relazione ori-
ginaria (fungente, intenzionale, trascendentale) tra una co-
munità di senso e il mondo della vita: la conoscenza certo
viaggia attraverso variazioni e modificazioni, la molteplicità
degli sguardi si dà soltanto con il sentire comune dei soggetti
corporei, le cose appaiono in varie circostanze, ma il senso
del mondo, quello in cui si vive e si pensa, è in una genesi
inseparabile dalle qualità estetiche delle cose così come esse
sono “per noi”; una genesi in cui alcuni oggetti esibiscono
nel loro darsi estetico il senso simbolico di un sapere dove
il legame tra rappresentazione e concetto mantiene sempre
un fondo di anonimia, non colmato né da norme assolute
né dalle rappresentazioni affini e dove l’intenzione stessa dei
soggetti è nella sua storicità sempre “fungente” e mai esaurisce
la tematizzazione del senso del fenomeno.
Quando Husserl, dunque, concludendo la Crisi, parla della
filosofia come riflessione dell’umanità su se stessa e come rea-
lizzazione della ragione, non sta facendo esercizio né di retorica
filosofica né di costruibili territori utopici: prosegue invece un
programma avviato sin dalle sue prime opere, affermando la
Le idee estetiche della fenomenologia 293

validità di un sapere comprensivo delle istanze chiarificatrici


che le cose presentano nelle loro sintesi qualitative, un sapere
capace di afferrare l’oggettività del fenomeno determinandolo
mediante concetti e verità oggettive, all’interno della genesi
fondativa di un sentire comune che si rinnova sempre di nuovo.
La “ragione”, la ragione scientifica, non è una facoltà mi-
tica bensì, come nel Kant della Critica del Giudizio, esercizio
del pensiero, di un’antropologica e comunitaria “facoltà di
giudicare” e, in quanto tale, consapevolezza della vita este-
tica, del suo sviluppo in una “costante intenzionalità”, in cui
ciò che diviene è “la persona stessa”, nei suoi diversi gradi
di autoconsiderazione e di responsabilità di sé, del proprio
essere nel mondo e in una comunità di uomini. La scienza
che così si sviluppa non tende a una perfezione oggettivata,
ma, in quanto scienza del mondo della vita, scienza dell’at-
teggiamento naturale, che ne fonda il senso comune sulle sue
stesse dinamiche esperienziali, è una funzione antropologica,
ancorata al suo essere sensibile e corporeo. La ragione è dun-
que sempre estetica, e l’estetica è la motivazione originaria
della filosofia, esibizione temporale di processi razionali la
cui intenzionalità è sempre fungente, il cui sentire e giudicare
è sempre sentimento comprensivo dell’altro. La fenomenolo-
gia si pone, in prima istanza, come fondazione di un senso
comune, inteso tuttavia come un’interrogazione sul suo si-
gnificato per il pensiero, la conoscenza, il sapere. Il senso
comune non è “banalità” o “buon senso” che adatta tra loro
pensiero, linguaggio e forme di vita, bensì ha ruolo fondativo
nell’edificio del nostro sapere. La fenomenologia insegna che
non è possibile separare ontologia – intesa come descrizione,
anche ingenua, degli eventi che accadono in un determinato
contesto di esperienza – ed epistemologia, cioè il tentativo
di connettere la descrizione a un sapere fondato, che deter-
mini le sue regole in base alle caratteristiche intrinseche al
processo.
È evidentemente in questo dubbio che si inserisce il di-
scorso fenomenologico sul senso comune. Che rende anzi la
fenomenologia stessa, in quanto sedicente filosofia fondativa,
294 elio franzini

scientifica, rigorosa, ecc., una filosofia del senso comune. E


senza che, al suo interno, vi sia alcuna paradossalità. Perché,
ovviamente, per “spiegare” questa affermazione bisogna appa-
rentemente uscire dal senso comune e, appunto, interrogan-
dosi, cercare una spiegazione. Con ciò si è detta la “banalità”
da cui la fenomenologia stessa prende avvio: il senso comune
lo si ha soltanto quando lo si esercita senza interrogarsi su
di esso, senza cercare di “spiegarlo”. Il senso comune come
“sapere che non si interroga su se stesso”, agendo in base a
un’intuizione abitudinaria e associativa, è quel che Husserl
chiama “atteggiamento naturale”. Su tale orizzonte, anche
nella famiglia fenomenologica, esistono molti equivoci, forse
perché il suo nome è connesso a quello di epoché o “sospen-
sione del giudizio”. Al di là di ciò, l’essere qui del mondo, il suo
essere alla mano e il modo quotidiano di comportarsi in esso,
di viverne il senso come senso “vero” – di una verità estetica
che è così verità che non ha bisogno di interrogarsi su se
stessa – è il presupposto fondamentale della fenomenologia,
che porta con sé non solo un ovvio rifiuto dello scetticismo,
in tutte le sue forme (gnoseologiche, linguistiche, analitiche,
giocose, ermeneutiche, ecc.), ma anche i suoi due essenziali
fondamenti conoscitivi, cioè la teoria dell’associazione e la
questione delle sintesi passive. Non è possibile qui dilungarsi
sulla assoluta centralità del loro ruolo nella fenomenologia:
ma si deve sottolineare che il legame con il senso comune è
essenziale, perché nell’atteggiamento naturale, anche senza
teorizzare, noi giudichiamo esteticamente e intuitivamente in
quanto abbiamo consapevolezza preriflessiva che i processi
associativi non sono il frutto di un’abitudine psicologica in-
fondabile, bensì certezze empiriche fondate nell’afferramento
di nessi che sono nelle cose mondane e nell’esperienza che di
esse abbiamo. L’adattamento alle situazioni non è un gioco
linguistico, bensì la comprensione estetica dello statuto on-
tologico della forma di vita corrispondente.
Con ciò si è introdotto un altro elemento essenziale per
questa identificazione tra il senso comune e l’husserliano
atteggiamento naturale (identificazione che allontana Husserl
Le idee estetiche della fenomenologia 295

da Kant, e il senso comune del fenomenologo da quello kan-


tiano, in cui tuttavia ha le sue origini, come in altro contesto
si potrebbe teorizzare): il senso comune, come vuole la sua
etimologia, troppo spesso dimenticata in famiglia analitica, è
un giudizio estetico, è l’attestazione del presupposto veritativo
presente all’interno del nostro “sentire” il mondo. Si giudica
non “attraverso” i sensi, bensì sentendo, “con” i sensi, con
l’attività corporea, interpretando i segni estetici delle cose
nella direzione che il materiale stesso da cui sono costituiti
induce, costruendone la situazionalità.
Non si tratta quindi di distinguere, come Deleuze, “senso
comune” (nome dell’identità dal punto di vista dell’io puro
e dell’oggetto a esso correlato) e “buon senso” (come punto
di vista degli io empirici e di oggetti qualificati), come prin-
cipi, rispettivamente, della differenza e dell’identità, quan-
to di comprendere che, proprio perché non sono “facoltà”,
bensì funzioni o operazioni della “natura umana”, risultano
sempre inseparabili dalla natura dell’oggetto e dal punto di
vista con cui tale natura è considerata. La conoscenza non è
un’operazione univoca, bensì si distende in una serie di atti
che variano con gli atteggiamenti soggettivi loro correlati.
Tutti sappiamo, con buon senso e per senso comune, che un
pezzo di legno galleggia sul mare; non tutti ne conoscono
il motivo: ma il pezzo di legno continua a galleggiare. Se si
vuole trarre un sapere teorico da questo dato empirico ci
si porterà su un piano che, comunque si voglia chiamarlo
(scientifico, epistemologico, teoretico, ecc.), non è contrario
a quello del senso comune, ma semplicemente richiede un
diverso atteggiamento del soggetto.
Tuttavia, di fronte a questo nuovo atteggiamento, che ri-
cerca cause, bisogna essere consapevoli che anche il senso
comune possiede un valore conoscitivo, caratteristico della
doxa, ma non privo di significato: perché è in base a questo
sapere che si sono costruiti utensili, che il genere umano ha
prodotto, vissuto, conosciuto. Questa conclusione non inficia
affatto l’ipotesi di partenza che vede il senso comune come un
sapere originario “ingenuo”, non in grado di “autogiustificar-
296 elio franzini

si”: semplicemente sostiene che il senso comune non è una


realtà metafisica o una costante psicologica, bensì l’orizzonte
di possibilità di ogni conoscenza reale e possibile e di tutti
gli atteggiamenti, orizzonte che deve venire riflessivamente
indagato e che dunque sfuma al mutare dell’atteggiamento.
Nella sua radicalità, persino banale, il presupposto del senso
comune è che “tutti sentiamo” e che (ma in direzione diver-
sa da quella aristotelica in quanto rivolta alle sole funzioni
soggettive) tra i sensibili “propri” alcuni appaiono in quanto
“comuni”; e, per di più, i “propri” stessi inaugurano una for-
ma di condivisione del sapere: non sentiamo tutti allo stesso
modo – e dunque la differenza regna nel sensibile –, ma esiste
una profonda analogia nei processi sensibili, che li accomuna
e che rende possibile la ricerca riflessiva di una loro essenza,
di un loro comune “stile”.
Si può banalizzare l’intera questione appiattendola sull’i-
dealismo dell’epoché: è invece in gioco il rapporto tra giudizio
estetico e giudizio riflessivo, tra presenza e rappresentazione.
La certezza passiva del senso comune ne tradirebbe l’essenza,
molto semplicemente, se si interrogasse su se stessa. “Inse-
gnare a pensare” non è mostrare esempi senza nessi, bensì
costruire quei nessi a partire dai quali l’esempio sia compren-
sibile. La “tematizzazione” del senso comune significa allora
il tentativo di fondarne la verità, esplicitando, come scrive
Husserl, «l’interpretazione della problematica intercorrente
tra Hume e Kant», che «ci ha portati ora alla necessità di
chiarire il fatto che il mondo già dato è il “terreno” universale
di tutte le scienze obiettive, di qualsiasi prassi obiettiva in
generale: al postulato, cioè, di una scienza di nuovo tipo che
investa la soggettività per la quale il mondo è già dato»5. Con
queste parole Husserl rivela che la comprensione del nesso
tra esperienza e giudizio, del nesso originario pre-riflessivo, si
realizza trasportando la humeana scienza della natura umana
su un territorio critico-trascendentale quale originaria con-

5. hua vi, p. 150; trad. it. pp. 174-175.


Le idee estetiche della fenomenologia 297

dizione di possibilità (non fattualista, non naturalista, non


psicologista) di ogni conoscenza possibile. Questo percorso
husserliano è finalizzato al tempo stesso alla fondazione di
un nuovo criterio di “scientificità” che, attraverso la com-
prensione e l’interpretazione delle funzioni conoscitive del
senso comune, possa riproblematizzare e risignificare l’antica
questione dell’aisthesis.
La fenomenologia, nei suoi aspetti genetici, è dunque
tematizzazione del territorio di senso dischiuso dal senso
comune, tentativo cioè di esibirne i sensi fondanti. Se il sen-
so comune è “il mondo della vita”, nel suo significato più
semplice ed elementare, il compito del filosofo sarà quello
di comprendere i nessi che costituiscono tale mondo, senza
farne l’elogio e senza ontologizzarlo.
Per Husserl – e qui può essere l’origine di molteplici equi-
voci – costruire una scienza significa certo sempre costru-
ire una scienza della soggettività e della sua vita operante
estetica. Ma forse l’equivoco si rivela solo terminologico se
si sottolinea che «finché vivo naturalmente, io vivo ininter-
rottamente entro questa forma fondamentale di ogni vivere
“attuale”, sia che io affermi o no il cogito, sia che mi diriga
“riflessivamente” sull’io e sul cogitare o no»6. L’atteggiamento
naturale, la sua “tesi”, comporta dunque la consapevolezza
della verità “naturale” del mio mondo circostante, della sua
esistenza e del mio rapporto con esso. La “scienza” dell’at-
teggiamento naturale è così in primo luogo il disvelamento
critico-trascendentale del mondo della vita. Ciò è possibile
però solo attraverso “un giusto ritorno all’ingenuità della
vita”: ma un ritorno che, nel suo spessore antispeculativo,
ritenga che la funzione originaria della filosofia sia non con-

6. Cfr. hua iii/1, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen


Philosophie. Erstes Buch. Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, K.
Schuhmann (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1967, p. 59; trad. it. di V. Costa, Idee per una
fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, libro primo, Introduzione
generale alla fenomenologia pura, Einaudi, Torino 2002, p. 64.
298 elio franzini

fondersi con l’oggetto della propria indagine, presentandosi


piuttosto come atteggiamento riflessivo, in quanto “ragione”.
Il trascendentalismo che si oppone all’obiettivismo non
è un’astratta opzione teoreticistica, ma l’esigenza di fondare
una filosofia radicalmente estetica per la quale il senso d’essere
del mondo-della-vita già dato è una formazione soggettiva, è
un’operazione della vita esperiente, un’operazione prescienti-
fica radicata nel senso comune: si costruisce così il senso e la
validità d’essere del mondo, del mondo concretamente, sensi-
bilmente, intuitivamente esperito. Il mondo della vita è allora
un regno ontologico di evidenze esperienziali originarie, che
viene dato sempre e comunque secondo modi intuitivi, senza
alcuna sustruzione concettuale attraverso un radicale ripensa-
mento delle possibilità della psicologia, in cui il disvelamento
dell’anonimia del fungere soggettivo possa riaprire il problema
stesso della fondazione della scienza. Su questa strada, uno
dei principali compiti di una scienza del mondo della vita è
mostrare la validità conoscitiva dell’estetico, la sua capacità
fondativa, dal momento che ogni operazione scientifica, ogni
scienza, e ogni logica, è radicata nell’esteticità precategoriale
del mondo della vita e nelle sue sintesi passive.
In qualsiasi momento sarà possibile tornare all’atteggia-
mento naturale, ma con un progresso, «perché non riuscirò
più a ritrovare la mia vecchia ingenuità» e «tutt’al più potrò
comprenderla»7. Potrò comprendere – ed è il senso di una
psicologia trascendentale – il processo dell’intenzionalità
fungente, sapendo che l’io ingenuo «non era altro che l’io
trascendentale nel modo dell’occlusione ingenua, al quale
inerisce inseparabilmente un altro lato costitutivo»8. Vengo
così a conoscenza delle «funzioni trascendentali reciproca-
mente intrecciate e che si spingono sino all’infinito»9.
Un mondo che è per tutti, intersoggettivamente, comu-
ne ed è il terreno stesso dell’intenzionalità fungente, di quel

7. hua vi, p. 214; trad. it. p. 234.


8. Ibidem.
9. Ibidem.
Le idee estetiche della fenomenologia 299

senso comune valido per tutti i soggetti reali e possibili, dal


momento che «nessun soggetto può sottrarsi all’implicazione
intenzionale per cui rientra nell’orizzonte di tutti i soggetti»10.
Ciò significa che tutte le “anime”, tutte le singole “nature uma-
ne” hanno un medesimo senso comune poiché costituiscono
un’unica unità nell’intenzionalità, formata dalla reciproca
implicazione dei flussi di vita, dei flussi di esperienza intuitiva
dei singoli soggetti. Il senso comune si ridefinisce così come
un’inerenza intenzionale fungente al medesimo mondo della
vita. E la fenomenologia è, in tutte le sue articolazioni, una
tematizzazione intenzionale del senso comune.
Il legame, in questo contesto, tra fondazione veritativa del
senso comune e intersoggettività è, come è noto, l’ulteriore
passaggio della problematica fenomenologica: se si ammette
che esiste un’anonimia che deve sempre essere indagata, oltre
ad avviare particolari analisi intenzionali sulle varie regioni di
senso del nostro comune mondo, si esplicita che tali indagini
non possono mai venire obbiettivate, mantenendo sempre
aperto il legame con l’originario “sentire comune”, con la vita
che esperisce il mondo e con le sue molteplici genesi di senso.
Questo movimento non è valido solo per l’io singolo: «nella
vita che conduciamo insieme noi abbiamo in comune un
mondo già dato, il mondo che è e che vale per noi, il mondo
di cui noi, anche nel nostro vivere-insieme, facciamo parte,
il mondo per tutti noi, il mondo già dato in questo senso
d’essere»11. L’intenzionalità fungente è infatti vita, “comunan-
za”, intersoggettività e di conseguenza implica un’evoluzione
verso quella che Husserl chiama “soggettività del noi” (Wir-
subjektivität), che è sempre fungente, «e attraverso la quale
diventano tematici anche gli atti in cui essa funge, malgrado

10. Ivi, p. 259; trad. it. p. 275. Questa analisi è la sintesi di quella più ampia che
Husserl propone nei paragrafi 47-50 della quinta delle Meditazioni cartesiane (hua
i, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, S. Strasser (Hrsg.), Nijhoff,
Den Haag 1950; trad. it. di F. Costa, Meditazioni cartesiane e discorsi parigini,
Bompiani, Milano 2002).
11. hua vi, p. 112; trad. it., p. 139.
300 elio franzini

il residuo non-tematico, per così dire anonimo, costituito


dalle riflessioni fungenti di questa tematica»12.
Se il pensiero oggettivo, come già si osservava, «ignora il
soggetto della percezione»13, la vita che esperisce il mondo
ha questo soggetto al suo centro anche quando i suoi pro-
cessi sono anonimi, appunto “fungenti”, funzionanti, pur in
assenza di un “nome” oggettivo a designarli traducendoli in
legge. Ma il soggetto della percezione è nel corpo proprio,
nel corpo estetico: affermare quindi che il senso comune è
in tale corpo significa riconoscere al centro dei processi di
ogni sapere un’originarietà senziente.
Lasciando tuttavia a lato lo specialismo linguistico, si
vuole affermare che siamo qui in un orizzonte “greco”, che
la fenomenologia riattualizza, affermando che la scienza na-
sce come tematizzazione epistemologica del senso comune
e delle sue ontologie: filosofia, dunque come esercizio criti-
co del giudizio e della riflessione. Esercizio, in primo luogo,
appunto, di un senso comune in cui possa riconoscersi un
senso antropologico in quanto possibilità originaria (a priori,
come condizione di possibilità radicata nel processo stesso)
di dialogo e conoscenza.
Senso comune, sentimento comune che, come scrive
Kant, fa diventare il dialogo «la condizione necessaria della
nostra conoscenza»14: principio presupposto in ogni logica,
a priori che vive e funziona anche quando è anonimo, fon-
do estetico per ogni giudizio, per ogni conoscenza possibile.
Questo sentimento comune non è l’opinione comune sogget-
ta ai pregiudizi che già Hume tanto temeva, bensì, come Kant
sottolinea sulla scia di Hume, e collegandosi alla definizione
di una sorta di illuminismo “perenne”, la possibilità a priori
di decostruire sistemi normativamente unitari attraverso un

12. Ibidem.
13. m. merleau-ponty, Phénoménologie de la perception, cit., p. 240; trad. it.
p. 283.
14. i. kant, Kritik der reinen Vernunft, Heimann, Berlin 1870, § 40; trad. it. di
A. Bosi, Critica del Giudizio, Tea, Milano 1989, § 40.
Le idee estetiche della fenomenologia 301

potere critico, che sia alla base stessa dei decorsi di pensiero,
simbolo della loro originaria e fungente esteticità.

4.

Tale modello epistemologico – che vale per tutte le scienze


reali o possibili – è, come si diceva, il senso originario di
quel percorso cognitivo che si disegna come interrogazione
simbolica, assumendo nell’ultimo Husserl, e dopo di lui in
Merleau-Ponty, il nome di intenzionalità fungente. Questa
intenzionalità simbolica è una forma di indagine descritti-
va sugli oggetti che sempre si rinnova, vivendo di “temi” e
sempre di nuovo superandoli. Essa si riconnette a un’ulte-
riore caratteristica fenomenologica presente nel primo Hus-
serl, anch’essa essenziale per una fenomenologia simbolica
del senso comune: non si vogliono “spiegare” le evidenze,
riducendole a categorie del pensiero causale, sia esso de-
terministico o storicistico, bensì descriverle, descriverne i
nessi e i decorsi. Conoscere non significa affatto “spiegare”,
cioè costruire teorie deduttive, bensì chiarificare l’idea nei
suoi elementi costitutivi, cioè «comprendere il senso ideale
dei nessi specifici nei quali si documenta l’obiettività della
conoscenza»15.
Indagare questo modello epistemologico non significa
allora “spiegarlo”, bensì chiarificare un’idea di scienza, e il sen-
so fondativo che la descrizione fenomenologica in essa riveste.
L’intenzionalità fungente che l’interrogazione manifesta è
un’esigenza di chiarificazione e non di spiegazione, esigenza
che è all’origine di ogni fondazione epistemologica.
Tale chiarificazione richiede uno sguardo descrittivo che
si eserciti sulle evidenze empiriche mettendone in rilievo, in

15. hua xix/2, Logische Untersuchungen. Zweiter Band: Untersuchungen zur


Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis. Zweiter Teil, U. Panzer (Hrsg.),
Nijhoff, Den Haag 1984, p. 21; trad. it. di G. Piana, Ricerche Logiche, vol. i, il
Saggiatore, Milano 1986, p. 286.
302 elio franzini

primo luogo, le caratteristiche generali. Il simbolo è, in virtù


del suo stesso etimo e della storia che ne è alla base, un intero,
nel senso che comporta una riunificazione di parti.
Esistono tuttavia almeno due modi per formare interi: in
alcuni le parti si “compenetrano”, mentre in altri sono “esterne
le une alle altre”, determinando in questo modo «forme reali di
connessione»16, cioè contenuti indipendenti gli uni rispetto agli
altri che formano nuovi contenuti. Se l’intero di prima specie è
un “flusso”, che potrebbe essere facilmente esemplificato con la
bergsoniana durata interiore, o con un’ingenua visione dell’or-
ganismo, il secondo intero – un intero da costruire attraverso
nessi – è quello che si presenta in una fenomenologia che ha
nella genesi estetica del simbolico il suo modello. Il simbolo
è costituito da parti relativamente indipendenti le une dalle
altre, che devono essere tra loro “collegate”, “associate”. Quel
che Husserl chiama “tempo oggettivo” è l’esempio di tale intero,
indicando anche la natura temporale del simbolico. Nel tempo
constatiamo infatti che «ciò che unifica veramente ogni cosa»
sono i «rapporti di fondazione»17: un mero “essere insieme” non
basta a costituire un intero temporale, né un simbolo. Perché
ciò accada, l’unità della intentio deve cogliere nessi concreti ed
esperienziali tra le parti, legami associativi fondati nella natura
stessa dei contenuti, nelle loro qualità.
Modello, dunque, di un metodo epistemologico in cui lo
sguardo tematizzante va oltre se stesso e il visibile, di una de-
scrizione che è chiarificazione e non spiegazione, di un intero
che unifica parti secondo i modi della nostra esperienza, di una
connessione che permette di cogliere nel tempo e nei suoi ritmi
il senso ultimo di tale esperienza, il simbolico si presenta come
orizzonte che manifesta la necessità epistemologica di una sin-
tesi tra i contenuti, una sintesi non metafisica e astratta, bensì
capace di associare, in nessi descrivibili, tali contenuti nella
produttività delle loro differenze. Come scrive Husserl «la feno-

16. hua xix/2, p. 276; trad. it., ii vol., pp. 66-67 (siamo nella Terza delle Ricerche
logiche).
17. Ibidem.
Le idee estetiche della fenomenologia 303

menologia dell’associazione è, per così dire, una prosecuzione


ad un più alto livello della teoria della costituzione originaria
del tempo»18. Il simbolo è quell’esperienza che è alla base della
costituzione associativa di un intero come trama trascendenta-
le dell’esperienza stessa: fa comprendere che i nessi associativi
non sono soltanto «dei fatti causali e privi di regole, ma eventi
soggetti a una legalità che può essere portata alla luce, e delle
strutture che possono essere esibite fenomenologicamente»19.
In questa direzione ogni intero – e ancora una volta il simbolo
ne è modello –, mostrando la sua essenza temporale, rinvia
oltre sé, oltre la mera sensazione, costruendo sia delle “attese”
che vanno sempre di nuovo “riempite”, sia delle connessioni
costitutive tra gli istanti: è il tempo l’origine trascendentale di
tutte le sintesi, che devono poi essere “mostrate”, connettendo
nello spazio le varie dimensioni della temporalità.
Il mondo si presenta senza dubbio, al primo sguardo,
come una serie di discontinuità: ma il compito della cono-
scenza – ed è qui la sua radice simbolica, “riunificatrice” – è
quello di costituire, tramite le operazioni dell’esperienza, la
percezione, la rimemorazione, la memoria, l’immaginazione,
una trama stratificata di rimandi associativi fondati nei con-
tenuti stessi, che si “ridestano” attraverso i nostri atti.

5.

Sarebbe a questo punto necessario, per meglio spiegare la


genealogia di questo percorso conoscitivo, un commento par-
ticolareggiato della terza parte della husserliana Crisi delle
scienze europee, nella convinzione che essa dispieghi quel
significato gnoseologico delle idee estetiche che Kant non

18. hua xi, Analysen zur passiven Synthesis, M. Fleischer (Hrsg.), Nijhoff, Den
Haag 1966, p. 118; trad. it. di V. Costa, Lezioni sulla sintesi passiva, Guerini, Milano
1993, p. 170.
19. v. costa, L’estetica trascendentale fenomenologica, Vita e Pensiero, Milano
1999, p. 141.
304 elio franzini

ha prospettato nella sua radicalità. E che, al di là di Hus-


serl stesso, può mostrare come la descrizione di particolari
orizzonti ontologici, dove i processi simbolici, l’esercizio del
“come se”, sono potenziati dalla natura stessa del correlato
oggettivo – dalla densità presentiva della rappresentazione
immaginativa –, abbia una funzione fondativa per un pensie-
ro con una finalità epistemica e non dossica. Fuor di metafora:
alcune immagini – non necessariamente artistiche – avvia-
no una “catena” morfologica che, dimostrando la capacità
rappresentativa del pensiero nel suo elaborare l’esperienza,
manifesta anche il valore conoscitivo dell’intero processo. La
concettualizzazione finita di rappresentazioni finite, cioè la
genesi del pensiero scientifico, è semplicemente la ricondu-
zione di tale processo in quadri ontologici specifici e formal-
mente categorizzati: essa quindi ne afferma e potenzia, e non
certo smentisce, la verità originaria. In queste forme si con-
creta il nostro “mondo della vita”, che è il regno delle evidenze
originarie: evidenze che vanno descritte non “attraverso” le
loro qualità, ma in quanto sono una stratificazione qualitativa
che si presenta-rappresenta, come le idee estetiche, al nostro
sguardo, nei modi – possibili e reali – dell’esperienza.
La differenza tra queste “idee estetiche” e gli apparati fi-
niti delle scienze, di tutti quegli orizzonti che presentano le
cose in un’entificazione definita, anche quando ne vorrebbero
offrire la dinamicità vitalistica, storica, linguistica, ecc., non
è ontologica, bensì metodologica: l’entificazione che «è una
sustruzione teoretico-logica, la sustruzione di qualche cosa
che di principio non è percettibile, di principio non esperi-
bile nel suo essere proprio, mentre l’elemento soggettivo del
mondo-della-vita si distingue ovunque e in qualsiasi cosa
proprio per la sua esperibilità»20. Molteplici analisi possibi-
li condurrebbero a un principio elementare, che è tuttavia
presupposto di un’indagine della rappresentazione imma-
ginativa quale nucleo fondante di un pensiero che si rive-

20. hua vi, p. 130; trad. it. p. 156.


Le idee estetiche della fenomenologia 305

la come terreno comune di un senso ugualmente comune,


considerato in quanto punto di partenza analogico – “come
se” originario – di ogni possibile “pensiero” sul mondo, sia
esso schematico o simbolico. Questo principio elementare
suggerisce che «il sapere scientifico-obiettivo si fonda sull’e-
videnza del mondo-della-vita»21, la cui tematizzazione non
è uno «scrupolo intellettualistico determinato dalla mania,
propria dell’epoca moderna, di teorizzare tutto»22, bensì un
modo per interrogarsi sull’essenziale problema epistemolo-
gico della “obiettività” (e della sua “verità”)23. È un modo per
riprendere il discorso kantiano, comprendendo che vi è un
orizzonte intuitivo che rientra nel nostro mondo, nel mondo
del senso comune, nel mondo-della-vita, “prima” di qualsiasi
teoria e di qualsiasi linguaggio: è in virtù di tale presenza,
articolata e stratificata in sguardi, in atti d’esperienza, che si
determina il “come” delle cose, e su di esso si sviluppano i
nessi associativi e analogici dei loro “come se” immaginati-
vi, processo in cui l’intuizione estetico-presentativa entra in
comunicazione, veritativa e fondante, con il pensiero, dive-
nendone la condizione trascendentale.
La prospettiva di una “scienza del mondo della vita” quale
radice intuitiva di ogni sapere scientifico possibile e reale, ha,
come è noto, conseguenze di vario genere (anche relative,
se correttamente intese, a una metafisica della conoscenza
scientifica, che forse andrebbe pensata con maggior attenzio-
ne per le cose e meno sospetto per le parole), stratificate in
un ordine fenomenologico che si distende in varie “regioni”
dell’esperienza, che vanno dall’analisi formale dei principi
generali alla descrizione di specifici campi qualitativi.
È chiaro il contesto generale del discorso: le ricerche
scientifiche si articolano in indagini “ontologiche”, e la lo-
ro stessa verità è nel determinarsi dei nessi tra le loro varie

21. Ivi, p. 133; trad. it. p. 159.


22. Ivi, p. 135; trad. it. p. 161.
23. Si ritiene che le pp. 152-163 della Crisi siano una traccia per leggere l’intero
percorso epistemologico della cosiddetta filosofia occidentale.
306 elio franzini

parti, tra i loro “enti” costitutivi, sia formali sia materiali. I


vari piani ontologici determinano le proprie leggi secondo
nessi intrinseci, che organizzano in un intero organico, e in
forme metodologiche, le specificità sensibili che gli enti stessi
esaminati suggeriscono (appunto, una ricerca sulle strutture
linguistiche “procederà” diversamente da un’indagine bio-
logica, anche se segue il medesimo “principio”, la medesima
“condizione di possibilità”). Questi piani ontologici, in quanto
si pongono in un quadro genetico e genealogico, determinano
orizzonti di “scientificità”, che si connettono a correlativi piani
di evidenza, di verità, di certezza, ecc.
Il problema della terza Critica di Kant, il problema stes-
so della filosofia critica, e in seguito della fenomenologia, è
comprendere se tale legame tra ontologia ed epistemologia,
che ne determina sia le condizioni di possibilità sia le evi-
denze fenomeniche, esaurisca o meno nel suo radicamento
intuitivo i “limiti” del pensiero (o se il pensiero non possa
trovare modalità espressive là dove questi limiti divengono
“termini”, risultando insuperabili)24. Il senso comune attesta
infatti che noi pensiamo a partire dall’esperienza che abbia-
mo del mondo e dei suoi oggetti, senza che tuttavia questa
attività, che pur disegna precise ontologie (come dimostra il
secondo Wittgenstein), si trasformi in apparato scientifico.
Abbiamo dunque “idee estetiche”, in cui esibiamo rappresen-
tazioni sensibili che fanno pensare, attestando, quale terreno
comune di questo vasto campo di sapere, una “ontologia del
mondo della vita”.
Tuttavia, invece di tenere distinti questi due piani o di
postularne una continuità scandita da ben chiare differenze
di perfezione (esemplifichiamo con Wittgenstein la prima
posizione, con i leibniziani la seconda), risaliamo alle loro
comuni condizioni di possibilità, e in primo luogo all’espe-
rienza sensibile, senza la quale non vi sarebbe né concetto

24. È questo il senso generale della polemica, non sempre giustificata in tutti i
suoi passaggi, condotta da Hegel contro Kant a partire dalla stessa Scienza della
logica.
Le idee estetiche della fenomenologia 307

né pensiero, ai modi con cui questa esperienza si “presenta”


(che la tradizione filosofica chiama “schematismo trascen-
dentale”): vediamo allora che gli “enti” in cui si articola non
si pongono in una staticità astratta, ma vengono sempre di
nuovo “tematizzati” da uno sguardo descrittivo, senza il quale
non vi sarebbe quella “genesi”, in primo luogo storica e meto-
dologica, da cui le scienze traggono i loro progressi “pratici”.
Questo sguardo tematizzante viene in luce, divenendo esso
stesso orizzonte di indagine, nel momento in cui si cerca di
costruire una “scienza” del mondo della vita, in cui cioè si
comprendono i principi in base ai quali noi in esso operiamo,
viviamo, rappresentiamo.
Chiamare questa “prassi” di comune esperienza fondan-
te – che radica nell’estetico ogni sapere possibile e reale – con
il nome di “intenzionalità fungente” può essere solo un vizio
terminologico. Ma si esce da tale vizio se si afferma che tale
processo vuole attestare come non si danno enti, visibili e
invisibili, processi descrittivi e linguistici, sapere scientifico
e discorso comune, senza una costante e rinnovata operati-
vità soggettiva e intersoggettiva, che interroga “in presenza”
il senso estetico delle cose, e vede in esso l’origine di ogni
costruzione di sapere25. Ovvero: le ontologie regionali, con i
loro processi di fondazione veritativa, non si danno in un’a-
stratta e autoreferenziale autonomia, bensì in una vera e pro-
pria “referenzialità” originaria con un’operatività soggettiva
che in esse agisce, nascendo da un legame precategoriale tra
l’intuizione e il pensiero.
Questi principi generali, che eliminano tutte le fessure tra
essere ed ente, o le incolmabili distanze tra visibile e invisibile,
o fenomeno e noumeno, di cui hanno più o meno argomenta-
to filosofi di ogni epoca e natura, dicono semplicemente che
tutte le nostre rappresentazioni, ovvero tutti i nostri modi di
“presentare” il mondo che intuiamo con gli atti della nostra
esperienza, si pongono nel quadro di una comune fondazione

25. È da questa prospettiva che prende avvio quell’orizzonte fondativo che, nella
Crisi, Husserl chiama “psicologia trascendentale”.
308 elio franzini

veritativa, che ha, nella rinnovata “descrizione” dei “come” in


cui il mondo stesso appare, il suo radicamento.
Da questi principi generali, si traggono tuttavia anche
piani descrittivi particolari, che hanno la specifica funzione
di evitare l’entificazione dello stesso mondo della vita, esi-
bendone sempre di nuovo la genesi descrittiva e veritativa.
Le immagini simboliche, come già Kant aveva prospettato,
sono le rappresentazioni che sempre di nuovo presentano il
processo genealogico del mondo della vita e del suo “funge-
re”. Simboli, appunto, il cui intrinseco senso estetico, anche
dove si manifesta attraverso rappresentazioni finite e concetti
finiti, non è in essi “rappresentabile”, in quanto si pone come
loro stessa condizione di possibilità o, meglio, come il loro
“fungere”. Ciò significa che la “verità” di queste immagini non
si offre all’interno di un senso assoluto, di un’unitaria onto-
logia dell’immagine, bensì sempre e comunque attraverso
fenomeni, cioè specifiche ontologie regionali, da descrivere
nei loro nessi, capaci di esibire sia il senso specifico del campo
(le differenze, le analogie, i percorsi possibili, le genesi dei
significati) sia il processo generale – epistemologico – in cui
queste ricerche vanno poste.
La verità è nel campo dell’indagine e nel suo dispiegar-
si genetico attraverso processi d’esperienza, non all’interno
delle logiche autoreferenziali del pensiero. Se si vuole dun-
que osare qualche veloce conclusione, si può ipotizzare che
una “verità” dell’immagine simbolica non abbia in sé alcuna
oscurità, dal momento che questo termine, che certo ha un
suo significato retorico, che neppure Kant dimentica, espri-
me non semplici “segni”, linguistici o formalizzabili, bensì
percorsi dell’esperienza, percorsi del senso comune, posti tra
la rappresentazione estetica, l’immagine presentativa e la ca-
pacità di pensare, ovvero di elaborare su queste basi pensieri
analogici, strutture formali, trame di “come se” che dispiega-
no i nessi intrinseci ai legami tra i fenomeni e l’esperienza che
di essi si può avere. Il “come” delle cose non è definito una
volta per tutte da una descrizione formalizzata, ma è un senso
genetico che sempre di nuovo si manifesta tramite “come se”,
Le idee estetiche della fenomenologia 309

cioè nessi analogici. Il valore fondativo e generale di questo


percorso – e del suo funzionamento epistemologico – non è
dato soltanto da un suo manifestarsi ontologico, ma dall’in-
tero processo conoscitivo che la descrizione esibisce. Quelle
immagini che abbiamo chiamato, con Kant, “simboliche”, e
che possiamo facilmente descrivere nelle ontologie regio-
nali dell’arte, della cultura, della storia, di quei campi che
si potrebbero chiamare “motivazionali”26, hanno dunque la
funzione di esplicitare, descrivendo specifici quadri eidetici,
un senso generale, un’esigenza trascendentale sulla quale si
edifica il rapporto stesso tra il pensiero e l’esperienza.
Chiamare questo processo “intenzionalità fungente”27 in-
dica una strada ben precisa, al di là delle difficoltà terminolo-
giche: i processi che le descrizioni di ontologie di “immagini”
esibiscono non si esauriscono sul piano retorico, ma hanno
un autentico valore e significato conoscitivo, che conduce ad
alcune generali conseguenze filosofiche. Il pensiero non può
separarsi dall’esperienza, né il fenomeno dal suo darsi in tale
esperienza: ogni artificio linguistico – filosofia dell’ente, me-
tafisica, differenza, e altre similari figure retoriche – non toc-
cano la “struttura” di questo percorso conoscitivo, che rifiuta
di adeguarsi ai nomi che le mode delle retoriche filosofiche
hanno per loro disegnato. Affermare che questo processo si
dispiega in un quadro “intenzionale” significa così porre in
esso la centralità del soggetto non come realtà a se stante, ben-
sì in quanto sua implicita condizione di possibilità veritativa,
come piano di una “psicologia trascendentale”, condizione
che le cose non si “danno” in una pesantezza ontologica che
precede lo sguardo, gli atti complessi e stratificati dell’espe-
rienza che abbiamo del mondo e dei suoi teatri simbolici. Si-

26. Ovvero, per usare la terminologia husserliana del secondo volume delle Idee,
quei campi che si riferiscono alla natura “spirituale”, dove regnano “motivi” e non
“cause”.
27. Ovvero intenzionalità “precategoriale”, che è attività sempre vivente, che
opera nella tematizzazione senza esaurirsi in essa, ma anzi sempre di nuovo
rinnovandone il senso.
310 elio franzini

gnifica che il soggetto non si riconosce nelle rappresentazioni


che descrivono le sue “immagini del mondo”, ma cerca in esse
una sempre nuova profondità del rapporto che al mondo, e
alle sue rappresentazioni, lo connette.
L’utilizzazione del termine “immagine” non può essere
risolta in chiave storica e, a rigore, neppure in modo definito-
rio. In senso stretto con tale parola si intende al tempo stesso
una “esperienza” e una “ontologia” o una serie di stratificati
contesti ontologici che tale esperienza, modificando i suoi
atteggiamenti, può rappresentare: sono dunque “immagini”
sia le rappresentazioni memorative sia le raffigurazioni, sino a
quelle rappresentazioni allusive che si sono chiamate simboli-
che. Le immagini, dunque, pur nelle loro differenze tipologi-
che e morfologiche, che possono essere indagate da specifiche
analisi fenomenologiche, sono accomunate dal fatto di porsi,
di esibirsi, in quanto “rappresentazioni di qualcosa”, sia questo
“qualcosa” presente, assente o esistente altrove. L’immagine
è, di conseguenza, sempre “rappresentativa”, ed è “immagi-
ne” anche un oggetto che, nella sua presenza empirica, viene
“tematizzato” e descritto nelle sue qualità essenziali.
Con ciò, tuttavia, si introduce il secondo problema. La
“rappresentatività” delle immagini, cioè la loro essenza em-
pirico-fenomenica, che implica vari livelli di esperienza,
non ne esaurisce la “verità”: l’immagine, infatti, non solo
può “eccedere”, come nel caso descrittivamente evidente
dell’immagine simbolica, la rappresentazione, ma anche,
e in senso più generale, rimanda sempre di nuovo a una
sua condizione di possibilità, che con essa si presenta, ma
che non può venire a sua volta rappresentata, in quanto
è fungere del soggetto, ovvero costante possibilità di te-
matizzazione del “come” del mondo e dei suoi “come se”.
Questo significa che la parola “verità” è definita solo nella
genesi stessa del suo presentarsi attraverso immagini, le
cui “regole” possono venire descritte, esibendo tuttavia
una riserva di senso che è la stessa attestata dalla presenza
sempre vivente del mondo della vita, da quelle sue imma-
gini che fanno “pensare molto”.
Le idee estetiche della fenomenologia 311

La verità che si presenta nelle forme “vitali” delle im-


magini simboliche, e nelle loro metamorfosi di senso, è la
stessa che appare al senso comune, e che il senso comune
senza “tematizzarla” abitualmente vive, costruendo in tal
modo comunità di senso, con i propri sistemi di riferimento
assiologico. La fenomenologia non ha altra verità: assume
soltanto il compito storico di condurre tale verità condivisa
dal terreno singolare della psicologia, dall’individualità della
doxa, dell’opinione, alla sua consapevolezza riflessiva, che ne
ricerchi le condizioni di possibilità.
Claude Romano

La fenomenologia nella sua possibilità:


la disputa sull’a priori sintetico

È sorprendente leggere, in talune esposizioni della dottrina


del Circolo di Vienna, che la critica rivolta da alcuni suoi
esponenti a uno dei concetti centrali della fenomenologia di
Husserl, e in qualche modo della fenomenologia tout court,
quello di a priori sintetico, permetterebbe di stabilirne l’inco-
erenza e porterebbe quindi a una confutazione in piena regola
dell’intera dottrina fenomenologica. Per limitarci all’ambi-
to francese, uno storico avveduto e rigoroso come Maurice
Clavelin non esita ad affermare che «Hahn ha chiaramente
segnalato il carattere indifendibile di una simile affermazione
[quella dell’esistenza di a priori sintetici]»1. Pierre Jacob, nel
suo scritto su L’empirismo logico, dichiara che le «ragioni» dei
positivisti per rifiutare la tesi di Husserl sono le più «sempli-
ci» e che la loro argomentazione è delle più «ragionevoli»2,
senza sollevare l’ombra di un interrogativo quanto all’esito
del dibattito. Le cose sono però davvero così evidenti? La
soluzione proposta dall’empirismo logico è davvero così lim-
pida? Scopo di questo articolo è dimostrare che non è così.
Se si dovesse qualificare con una parola l’argomentazione di
Schlick, senz’altro la più precisa e sviluppata su questo punto,
bisognerebbe dire invece che essa è essenzialmente retorica
e del tutto innocua rispetto alla tesi che intende combattere.
Ciò è almeno quanto mi ripropongo di mostrare nelle rifles-

1. m. clavelin, La première doctrine de la signification du Cercle de Vienne, in


«Les Études philosophiques» 4 (1973), p. 481.
2. p. jacob, L’empirisme logique, ses antécédents, ses critiques, Minuit, Parigi
1980, p. 111.
314 claude romano

sioni che seguono. Certo, con ciò non avremo affatto stabilito
positivamente la fondatezza della posizione husserliana, né
l’esistenza di a priori materiali; tutt’al più avremo, forse, for-
nito alcuni indizi che permettono di comprendere meglio a
che genere di problema dovrebbe rispondere l’elaborazione
di tale concetto.

1. Husserl e le strutture a priori dell’esperienza:


l’idea di fenomeno-logia

Agli occhi di Husserl sono gli a priori sintetici, ossia le essenze


materiali, a costituire l’ambito proprio della fenomenologia;
gli a priori analitici rientrano, dal canto loro, nell’ambito della
logica formale e dell’ontologia formale in generale. La dottri-
na con cui abbiamo a che fare non è dunque una dottrina tra
altre in seno all’edificio husserliano, ma è proprio quella che
lo sostiene da cima a fondo, quella che permette di fornire
una caratterizzazione più precisa del logos cui può fare appello
la fenomeno-logia in quanto “scienza rigorosa”, al punto che
la sua critica, ove si dimostrasse giustificata, minaccerebbe
di distruggere l’impresa fenomenologica nel suo complesso.
Quello che vale per Husserl vale, d’altronde, per un buon
numero dei suoi successori, Scheler, Heidegger, Fink, ma
anche Merleau-Ponty, Patočka, Sartre e altri. Per limitarsi a
un esempio, il senso nuovo, “ontologico”, che viene conferito
all’a priori in Sein und Zeit, lungi dal derivare da una rottura
rispetto a Husserl, se ne ispira apertamente: «Da Husserl ab-
biamo imparato di nuovo non solo a comprendere il senso di
ogni “empiria” filosofica genuina, ma anche a maneggiare gli
strumenti relativi. L’“apriorismo” è il metodo di ogni filosofia
scientifica che comprenda se stessa»3.
Per Husserl l’accesso all’a priori è d’ordine intuitivo: esso
poggia su un’intuizione delle essenze, una Wesensschau. È

3. m. heidegger, Sein und Zeit, Max Niemeyer, Tubingen 1986, p. 50; trad. it.
di P. Chiodi, Essere e Tempo, Longanesi, Milano 2001, p. 70, n. 11.
La fenomenologia nella sua possibilità 315

questa la tesi che subirà i più decisi assalti dei fenomeno-


logi posteriori a Husserl. Tanto appartiene necessariamen-
te all’idea di una fenomenologia che vi siano delle strutture
necessarie e a priori della fenomenalità, irriducibili a degli
a priori logico-linguistici, quanto è lontano dal conseguire
l’unanimità tra i sostenitori di questo metodo l’idea che l’ac-
cesso a questi a priori debba effettuarsi attraverso il medium
dell’intuizione, che in questo caso sarebbe in grado di porci
alla presenza di «verità eterne» liberate da qualsiasi condi-
zionamento storico e perfino linguistico. È questa la posta
in gioco attorno alla quale si annoda la discussione tra una
fenomenologia eidetica e una fenomenologia ermeneutica.
Non è questa la sede per entrare in tale dibattito, ma da es-
so possiamo trarre un precetto metodologico. Se vogliamo
interrogarci sulla portata delle critiche di Schlick circa la
possibilità stessa di una fenomenologia in generale, è giusto
dissociare due aspetti del problema, il primo di più ampia
portata, il secondo riguardante unicamente la fenomenologia
nella sua versione husserliana: 1) il problema della possibilità
stessa di a priori sintetici, ossia di legalità non empiriche che
strutturano il campo fenomenale in quanto tale e che ogni
fenomenologia è chiamata a mettere in luce; 2) la questione
più circoscritta della possibilità di un accesso intuitivo a que-
sti a priori mediante un coglimento eidetico. Moritz Schlick,
del resto, ha dedicato un articolo a ciascuno di questi due
interrogativi: «Gibt es ein materiales A priori?»4 e «Gibt es
intuitive Erkenntnis?»5. Nelle riflessioni che seguono ci dedi-
cheremo esclusivamente al primo problema. Prima di entrare
nel vivo dell’argomento è opportuno tuttavia osservare che,
sebbene Husserl abbia sempre difeso il carattere intuitivo

4. m. schlick, Gibt es ein materiales A priori?, in Gesammelte Aufsätze 1926-


1936, Müller, Saarbrücken 2006, pp. 18-30; trad. it. di P. Parrini, Esiste un a priori
materiale?, in Forma e contenuto, Bollati & Boringhieri, Torino 1987, pp. 167-179.
5. m. schlick, Gibt es intuitive Erkenntnis?; trad. ingl. di P. Heath, Is there an
intuitive knowledge?, in Philosophical Papers, vol. i, Reidel, Dordrecht/Boston/
London 1979, pp. 146 e ss.
316 claude romano

dell’accesso all’a priori, che va di pari passo con la datità in


persona (Selbstgegebenheit) degli oggetti ideali, sebbene abbia
sempre sostenuto che le idealità formano una sfera di oggetti
autonomi per i quali il fatto di essere espressi o meno resta
contingente, egli ha ribadito nel corso dell’intera sua opera
uno stretto rapporto tra ideazione ed espressione, poiché il
coglimento intuitivo degli a priori può diventare un pensiero
in senso autentico, passibile di essere vero o falso, soltanto
una volta espresso in un giudizio: «intuire non equivale a
pensare»6, per riprendere la sua formula.
Veniamo dunque alla questione dei criteri di distinzione
tra a priori sintetici materiali e a priori analitici formali.
Occorre sottolineare, in primo luogo, la differenza es-
senziale che distingue l’approccio husserliano al problema
dall’approccio kantiano. Molte «oscurità» del pensiero di
Kant derivano, agli occhi di Husserl, dal fatto che «a Kant
è sfuggito il concetto fenomenologicamente autentico dell’a
priori»7. La determinazione kantiana dell’a priori risente in-
fatti, secondo Husserl, di una triplice insufficienza: 1) Kant ha
avuto torto a identificare l’a priori con il formale (che si tratti
delle forme a priori della sensibilità, tempo e spazio, o delle
forme logiche pure, vale a dire delle categorie dell’intelletto),
misconoscendo così l’esistenza di contenuti di esperienza o
di oggettività a priori. Tra questi oggetti a priori si trovano
le «essenze» o generalità eidetiche, che si danno in atti sui
generis di ideazione a un’esperienza necessariamente «pura»,
distinta dalla conoscenza empirica degli oggetti individuali.
Vi è, di conseguenza, un’esperienza a priori di questi oggetti,
senza che tali oggetti divengano per questo oggetti empirici

6. hua xix/1, Logische Untersuchungen. Zweiter Band: Untersuchungen zur


Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis. Erster Teil, U. Panzer (Hrsg.), Nijhoff,
Den Haag 1984, p. 172; trad. it. di G. Piana, Ricerche logiche, vol. i, il Saggiatore,
Milano 1968, p. 440.
7. hua xix/2, Logische Untersuchungen. Zweiter Band: Untersuchungen zur
Phänomenologie und Theorie der Erkenntnis. Zweiter Teil, U. Panzer (Hrsg.),
Nijhoff, Den Haag 1984, p. 733; trad. it. di G. Piana, Ricerche logiche, vol. ii, il
Saggiatore, Milano 1968, p. 504.
La fenomenologia nella sua possibilità 317

o che possano essere derivati da oggetti empirici attraverso


un processo di generalizzazione o di astrazione. L’a priori
non dipende più, come in Kant, dalle “condizioni di possi-
bilità dell’esperienza possibile”, nel senso che esso sarebbe
inferito per mezzo di una argomentazione trascendentale:
esso è dato. 2) Kant ha avuto, a torto, la tendenza a limitare
la portata dell’a priori riferendolo alla sensibilità e all’intel-
letto in quanto facoltà del soggetto e, d’altronde, in quanto
facoltà umane. Ora, il «prius» dell’a priori non si riferisce
unicamente a una priorità dal punto di vista del soggetto (né,
a fortiori, dal punto di vista dell’uomo), ma a una priorità dal
punto di vista della cosa: in termini aristotelici, il proteron
pros hemas rimanda necessariamente a un proteron physei.
Misconoscendo ciò, Kant si è reso responsabile di una sogget-
tivizzazione illegittima e perfino di una antropologizzazione
dell’a priori che ne restringe la validità, poiché approda a una
relativizzazione dei suoi due caratteri essenziali: l’universalità
e la necessità. 3) Kant ha sì riconosciuto la possibilità di un a
priori sintetico, ma non ha oltrepassato, nella sua determina-
zione della differenza tra giudizi sintetici e analitici, un punto
di vista viziato dallo psicologismo8: l’ambizione di Husserl
è dunque quella di elaborare da capo i concetti di analitico
e di sintetico, prendendo le distanze dal tentativo kantiano,
ossia scoprendo un criterio di distinzione che si fonda sulla
natura delle oggettività stesse.

8. i. kant, Kritik der reinen Vernunft, A 6/B 10; trad. it. di P. Chiodi, Critica della
ragion pura, utet, Torino 1967, p. 80: «O il predicato B appartiene al soggetto A
come qualcosa che è contenuto (dissimulatamente) in questo concetto A; oppure
B si trova totalmente al di fuori del concetto A, pur essendo in connessione con
esso. Nel primo caso dico il giudizio analitico, nel secondo sintetico». Questa
definizione si basa sulla differenza fra atti di pensiero che aggiungono qualche
cosa a un concetto e altri che non fanno che esibirne il contenuto immanente,
senza che Kant precisi in che modo queste due operazioni siano possibili. Perché
questa distinzione divenga eidetica, essa deve vertere non più su atti dello spirito o
su giudizi, bensì sulla natura stessa delle entità ideali, essenze e stati di cose, presi
di mira in tali atti e giudizi. Queste idealità possono essere di due tipi: formali e
materiali.
318 claude romano

È nei paragrafi 11 e 12 della Terza ricerca logica che tale


progetto trova il proprio compimento. Ciò che caratterizza un
concetto materiale, precisa Husserl, è che esso dipende stret-
tamente dalle “singolarità contingenti” che esso sussume (per
esempio, il concetto di albero, dagli alberi che posso incontrare
e di cui faccio esperienza); ciò non vale per i concetti formali,
che si riferiscono soltanto a proprietà assolutamente indiffe-
renti a qualsiasi «materia concreta», a qualsiasi contenuto:

Concetti come qualche cosa ed uno, oggetto, qualità, relazione, connes-


sione, pluralità, numero cardinale, ordine, numero ordinale, intero, par-
te, grandezza, ecc. hanno un carattere fondamentalmente diverso da
quello di concetti come casa, albero, colore, suono, spazio, sensazione,
sentimento, ecc., che portano ad espressione la materialità. Mentre i
primi si raggruppano attorno all’idea vuota del qualcosa o dell’oggetto in
generale e sono collegati ad esso mediante assiomi ontologico-formali, i
secondi si ordinano attorno a diversi generi materiali supremi (categorie
materiali), nei quali si radicano le ontologie materiali9.

I primi concetti valgono per tutti i mondi possibili, non sono


vincolati ad alcuna particolarità contingente di questo mon-
do: è per questo che sono puramente formali e che le loro
connessioni a priori dipendono da necessità puramente for-
mali, dunque analitiche. I secondi, al contrario, possiedono
una connessione intrinseca alle “singolarità contingenti” del
mondo come esiste di fatto (il concetto di albero, diversa-
mente dal concetto di intero, si applica solo a un mondo in
cui esistono alberi, o almeno in cui possono esistere alberi) e
sono qualificati come materiali; le loro connessioni a priori
dipendono da necessità sintetiche. Questi due tipi di necessità
possono essere illustrati da tipi diversi di giudizi. Vi sono, in
primo luogo, giudizi che rientrano nella sfera dell’analitico:
1) “un intero non può esistere senza parti”; 2) “non possono
esservi re, padrone, padre, se non vi sono sudditi, servitori,

9. hua xix/1, p. 256; trad. it. p. 42.


La fenomenologia nella sua possibilità 319

bambini”. Il primo di questi esempi attiene a una necessità


analitica che, nella riedizione dell’opera del 1913, Husserl qua-
lifica come «pura», mentre il secondo attiene a una necessità
analitica la cui natura non è meglio specificata. La ragione
di tale differenza è, senza dubbio, la seguente: i termini pre-
senti nel primo giudizio («intero», «parte») si riferiscono a
concetti puramente formali, mentre quelli che appaiono nel
secondo giudizio («re», «padroni», ecc.) rimandano a concetti
materiali, legati a particolarità di questo mondo, sebbene in
entrambi i casi il tipo di necessità che il giudizio esprime sia
di natura puramente formale o analitica. Per quale motivo?
Nel primo esempio, «intero» e «parte», in quanto con-
cetti «vuoti» propri di una ontologia formale, sono termini
correlativi: non può esservi parte senza un intero di cui essa
sia parte, né si può avere l’intero senza le parti di cui esso sia
l’intero. O, come scrive Husserl, «una parte come tale non può
in generale esistere senza un intero di cui essa è parte»10. In
altre parole, la negazione di questa proposizione non è mate-
rialmente falsa, è una contraddizione logica, un «controsenso
(Widersinn) “formale”, “analitico”»11: è contraddittorio parlare
di parte senza intero e viceversa.
Anche il secondo giudizio presenta un esempio di ne-
cessità analitica, sebbene i concetti che contiene siano con-
cetti materiali. Nella proposizione “non può esservi re senza
suddito”, “re” e “suddito” si dicono uno in relazione all’altro,
di modo che appartiene formalmente al concetto di “re” che
ogni re eserciti la propria regalità in relazione a dei sudditi,
e al concetto di “suddito” che ogni suddito non è tale se non
in quanto subordinato a un re. Utilizzando una formulazione
che non è quella di Husserl, è una verità formale-analitica
che, se x è un re e se esiste una y di cui x è il re, esiste allora
anche una x di cui y è il suddito e, di conseguenza, y è un
suddito. Il giudizio “non può esservi re senza suddito”, ossia
“se qualcuno è re di qualcuno, allora qualcuno è il suddito di

10. Ivi, p. 257; trad. it. p. 43.


11. Ivi, p. 258; trad. it. p. 43.
320 claude romano

qualcuno”, può quindi ricondursi a un teorema della logica


delle relazioni: se x ha con y la relazione R, y ha con x una
relazione che è l’inverso di R. Anche se include concetti ma-
teriali, la verità del giudizio considerato non dipende, quindi,
in alcun modo dal contenuto materiale di tali concetti.
La situazione è del tutto differente nel caso di una pro-
posizione materiale del tipo: “un colore non può esistere
senza una cosa che abbia questo colore”12; “un colore non
può esistere senza una certa estensione ricoperta da esso”.
Infatti, anche se un colore non è concepibile (immaginabi-
le) senza una estensione di cui esso è il colore, il nesso qui
non è analitico, poiché dipende in una parte essenziale dal
contenuto dei concetti in questione e non unicamente dalla
loro forma: queste proposizioni sono dunque sintetiche. «La
differenza salta agli occhi»13, scrive Husserl. Il concetto di
colore, infatti, non è un concetto relazionale: è unicamente
rispetto all’esperienza possibile del colore in generale che si
rivela la necessità a priori di tale proposizione. La necessità
è quindi materiale: «Colore non è un’espressione relativa il
cui significato includa la rappresentazione di una relazione
ad altro. Benché il colore non sia “pensabile” senza l’oggetto
colorato, tuttavia l’esistenza di un oggetto colorato qualsia-
si, e precisamente di una estensione, non è “analiticamente”
fondata nel concetto di colore»14.
Perché, però, non concludere piuttosto da tutto ciò che
tale proposizione è una proposizione empirica contingente?
Perché non è concepibile (immaginabile) che si possa un giorno
fare l’esperienza di un colore senza una estensione corrispon-
dente (il che non significa senza una superficie, poiché vi sono
colori “atmosferici”, non localizzabili, come il blu del cielo). La
proposizione è dunque a priori. Essa differisce radicalmente
da proposizioni empiriche, quali “l’acqua bolle a cento gradi”
o “tutti i corvi sono neri”. Qui resta sempre aperta la possibilità

12. Cfr. Ivi, p. 257; trad. it. p. 43.


13. Ibidem.
14. Ibidem.
La fenomenologia nella sua possibilità 321

che si possa un giorno osservare l’esistenza di corvi bianchi, o


una ebollizione dell’acqua prodotta a una temperatura diversa,
in condizioni fisiche particolari, nel qual caso i fatti osservati
invaliderebbero queste proposizioni. È invece inconcepibile a
priori che un colore si presenti all’esperienza essendo sprov-
visto di estensione; non è che non possiamo immaginare
questa situazione per ragioni contingenti connesse ai limiti
della nostra facoltà di immaginazione, come sarebbe il caso,
ad esempio, per un esercito di un milione di uomini: “non
possiamo immaginare” significa qui che neppure sappiamo
che cosa immaginare. E poiché non possiamo neanche con-
cepire ciò che sarebbe un contro-esempio, tale proposizione
è necessaria. La sua necessità, tuttavia, non è analitica, essa
si fonda «nella particolarità essenziale dei contenuti»15, essa
dipende dal fatto che tutti i colori che noi vediamo, e che im-
pariamo a nominare, si offrono alla vista come occupanti una
certa estensione, una certa porzione di spazio. Noi possiamo
comprendere a priori, senza mai aver fatto l’esperienza di al-
cun re, la necessità, perché vi sia un re, che vi siano dei sudditi
sui quali egli regna; ma non possiamo comprendere a priori,
senza aver fatto l’esperienza di alcun colore, che ogni colore è
estensione. Un cieco può accettare questa proposizione come
appartenente alla “definizione” dei colori, ma non coglierne la
necessità eidetica. E tuttavia, questa proposizione non è a poste-
riori, essa non dipende da alcuna generalizzazione induttiva.
Lo scopo di Husserl in questi passaggi è, dunque, distin-
guere due specie di necessità: nessuna è dipendente dall’e-
sperienza nel senso che potrebbe essere invalidata da essa, ma
una di queste necessità, pur essendo a priori, non è di natura
logica, è una necessità «fattuale», che dipende dalle particola-
rità di questo mondo (dai concetti materiali che permettono
di pensarlo). È una impossibilità materiale che si incontri un
colore senza estensione, ma non è una contraddizione logica
poiché non è analiticamente contenuto nel concetto di colore

15. Ivi, p. 258; trad. it., p. 43.


322 claude romano

che esso non possa esistere altrimenti che in forma estesa. E lo


stesso dicasi per tutte le essenze e tutte le relazioni tra essenze
che la fenomenologia prende a tema: “ogni oggetto spaziale
non può essere percepito che per adombramenti”, ecc.
Fin qui, i criteri di distinzione tra questi due a priori (la
sfera dei giudizi e, più in generale, delle legalità che a essi
corrispondono16) restavano ancora intuitivi. La questione
che a questo punto si pone è sapere se sia possibile proporre
un criterio formale di distinzione tra di essi, che è l’obiettivo
dichiarato del paragrafo 12. Husserl si richiama espressamente
a Bolzano e alla sua definizione dell’analiticità mediante la
sostituibilità17. Egli propone la seguente definizione:

Possiamo quindi definire proposizioni analiticamente necessarie quelle


che comportano una verità pienamente indipendente dalla natura
concreta particolare delle loro oggettualità (concepite come deter-
minate o in una generalità indeterminata) e dalla fattualità eventuale
del caso dato e del valore della posizione completa di esistenza [...].
In una proposizione analitica deve essere possibile sostituire ogni
materia concreta, mantenendo integralmente la forma logica della
proposizione, con la forma vuota qualcosa18.

In altri termini, una proposizione analitica è una proposizione


che può essere interamente formalizzata, in cui i termini con-

16. Husserl parla non solo di proposte, ma anche di leggi sintetiche a priori, poi-
ché per lui la necessità che esse esprimono è tanto ontologica quanto linguistica.
Beninteso, il riconoscimento delle leggi sintetiche a priori dipende per una parte
essenziale dalla possibilità di formularle in giudizi; ma ciò non implica, agli occhi
di Husserl, che la necessità che esse esprimono sia di natura linguistica.
17. Cfr. b. bolzano, Wissenschaftslehre, J. Berg (Hrsg.), Friedrich Froman Ver-
lag, Stuttgart/Bad Cannstat 1988, pp. 41-42. Husserl considera Bolzano uno dei
più grandi logici di tutti i tempi (cfr. hua xviii, Logische Untersuchungen. Erster
Band: Prolegomena zur reinen Logik, E. Holenstein (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag
1957, p. 227; trad. it. Ricerche Logiche cit., Vol. i, p. 231). Sui legami di Husserl con
Bolzano, cfr. j. benoist, L’a priori conceptuel, Bolzano, Husserl, Schlick, Vrin, Parigi
1999, capp. vi-vii; p. bucci, Husserl e Bolzano. Alle origini della fenomenologia,
Unicopli, Milano 2000.
18. HUA XIX/1, p. 260; trad. it. p. 45; trad. mod.
La fenomenologia nella sua possibilità 323

creti possono essere sostituiti salva veritate dalla forma vuota


del «qualcosa»19 (Etwas) in generale e, di conseguenza, le cui
condizioni di verità rimangono invariate quando si fanno
variare tutti i termini materiali20. Date queste condizioni, una
proposizione sintetica a priori è una proposizione il cui valore
di verità dipende dai suoi concetti materiali e che, dunque,
quando è vera, è resa falsa da ogni sostituzione di variabili
ai suoi termini concreti: «Ogni legge pura che includa dei
concetti materiali in modo tale da non consentire una loro
formalizzazione salva veritate (in altri termini, ogni legge di
questo genere che non sia una necessità analitica) è una legge
sintetica a priori»21. Così, è sintetico a priori un giudizio come
quello che servirà da esempio preferito agli empiristi logici:
“un oggetto non può essere allo stesso tempo uniformemente
rosso e verde”. Infatti questa proposizione sarebbe resa falsa
dalla sostituzione di termini concreti differenti (per esempio
“sferico” a “rosso” e “grande” a “verde”); essa non può essere
interamente formalizzata salva veritate.
Queste definizioni ci fanno realmente progredire ver-
so una giustificazione della distinzione analitico/sintetico
che non sia più di natura psicologica? Sì e no. Certamente
sì, poiché il tentativo di fornire un criterio formale dell’a-
nalitico mediante la possibilità di sostituire ai termini di
una proposizione la forma vuota del «qualcosa» non ha più
niente di psicologico. No, nella misura in cui – come sotto-
linea Peter Simons22 – Husserl non ha risolto il problema
di ciò che Quine chiama la hidden analyticity più di quanto
abbiano fatto Bolzano, Leibniz e Kant prima di lui. Non vi

19. hua xix/1, p. 259; trad. it. p. 45.


20. Cfr. il notevole articolo di p. simons, Wittgenstein, Schlick and the A Priori, in
h.j. dahms (Hrsg.), Philosophie, Wissenschaft, Erklärung. Beiträge zur Geschichte
und Wirkung des Wiener Kreises, De Gruyter, Berlino 1985, pp. 67-80, ripreso in p.
simons, Philosophy and Logic in Central Europe from Bolzano to Tarski: Selected
Essays, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht 1992, pp. 371 e ss.
21. hua xix/1, p. 260; trad. it. p. 45.
22. Cfr. p. simons, Philosophy and Logic in Central Europe from Bolzano to Tarski,
Kluwer Academic Publishers, Dordrecht 1992, p. 374.
324 claude romano

sono forse casi in cui la sostituzione della forma del «qual-


cosa» ai termini concreti non preserva il valore di verità
della proposizione e in cui tuttavia abbiamo l’intuizione
che la proposizione è né più né meno analitica (come in:
«tutti e soltanto gli scapoli sono non-sposati», per ripren-
dere l’esempio di Quine23)? Qui “non-sposato” non equivale
rigorosamente a “scapolo”? E tuttavia, bisogna sostenere
che questa proposizione sia sintetica a priori? È possibile
darle il medesimo statuto di “ogni colore è estensione” dal
momento che, palesemente, l’estensione e il colore non sono
la stessa cosa? Sembra proprio di no: la proposizione sui
celibi sembra intuitivamente molto più vicina alla propo-
sizione di Husserl “non vi è re senza suddito”, vale a dire a
una proposizione analitica. E tuttavia il criterio di Husserl
non permette di stabilirlo: tali ne sono i limiti.

2. La critica di Schlick

Con l’a priori materiale e l’intuizione delle essenze che per-


mette di accedervi disporremmo dunque, stando a Husserl,
di un sapere concettuale che non sarebbe né di natura empi-
rica (ottenuto per generalizzazione), né di natura puramente
linguistica (relativo alle regole d’uso di certi termini o alle
loro definizioni); un sapere che, da un lato, non può essere
né confermato né invalidato dall’esperienza, poiché riguarda
le strutture invarianti di questa, e che, dall’altro, non è pura-
mente legato a convenzioni linguistiche. La filosofia avrebbe,
appunto, come proprio ambito quello delle verità materiali,
situato tra il campo delle scienze empiriche positive e il cam-
po puramente formale della logica. Un campo simile non
esiste, replica Schlick. Su di lui incombe l’onere della prova.

23. w.v.o. quine, Two Dogmas of Empiricism, in From a logical point of view,
Harvard University Press, Cambridge 1953, pp. 22-23; trad. it. di P. Valore, Due
Dogmi dell’empirismo, in Da un punto di vista logico. Saggi logico-filosofici, Cor-
tina, Milano 2004, p. 45.
La fenomenologia nella sua possibilità 325

Impegnandosi in tale problema, Schlick fa implicitamen-


te della fenomenologia – che egli qualifica come «la scuola
filosofica più influente nella Germania contemporanea»24 –,
la principale rivale del Circolo di Vienna; egli afferma che l’a
priori dei fenomenologi è la sfida suprema lanciata alle tesi
dell’empirismo logico – le teorie fenomenologiche «paiono
mettere in pericolo le sue posizioni più seriamente di quelle
proposizioni di cui tratta la Critica della Ragion Pura»25 –, tan-
to che è pronto a far dipendere tutto l’esito del dibattito dalla
sola risposta a questa domanda: vi sono o non vi sono a priori
sintetici? Come egli ha scritto, l’empirismo logico «è pronto
a rivedere la propria posizione qualora gli esiti dell’esame gli
fossero sfavorevoli»26. Tale drammatizzazione della posta in
gioco, che rientra nella retorica della disputatio, non deve ma-
scherare il fatto che Schlick non dubita un solo istante dell’esito
della controversia. Ciò che per lui si tratta di stabilire non è che
non vi siano a priori sintetici, perché non se ne sarebbero an-
cora scoperti, o perché quelli che si pretende di avere scoperti
non sarebbero tali, bensì che, per motivi logici, non possono
esservene; di conseguenza, ciò non rivela solamente la falsità,
bensì l’assurdità della dottrina fenomenologica.
Il punto di partenza di Schlick è una difesa dell’identifi-
cazione kantiana tra l’a priori e il formale, anche se è oppor-
tuno intendere il formale, dal suo punto di vista, in un senso
diverso da quello di Kant. Si è visto in che misura si tratti di
uno dei punti di rottura della fenomenologia con il kantismo.
Come sottolinea Max Scheler, in conformità con Husserl,
«uno degli errori fondamentali della teoria kantiana è di aver
identificato l’“apriorico” con il “formale”»27. Schlick stesso cita

24. m. schlick, Form and Content. An Introduction to Philosophical Thinking, in


Gesammelte Aufsätze, 1926-1936, Müller, Saarbrücken 2006, pp. 151-249; trad. it.
di P. Parrini, Forma e contenuto, in Forma e contenuto, Boringhieri, Torino 1987,
pp. 46-148.
25. m. schlick, Gibt es ein materiales A priori?, cit., p. 24; trad. it. p. 173.
26. Ibidem.
27. m. scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik, in
Gesammelte Werke, Bd. ii, Francke, Bern/München 1966, p. 73; trad. it. di G.
326 claude romano

questo passo per prendere il partito di Kant. Certo, rimpro-


vera all’autore della Critica della ragion pura di aver ammesso
l’esistenza di proposizioni sintetiche a priori in matematica,
ma lo loda per essere stato capace di accorgersi che nessun
contenuto di esperienza poteva essere a priori: «Kant, del
tutto correttamente, aveva visto questo e noi, conformemente,
dobbiamo interpretare la sua concezione che tutta la logica
debba essere compresa a partire dal principio di contraddi-
zione come un riconoscimento del suo carattere puramente
tautologico»28. L’unico errore di Kant è stato dunque di non
aver identificato il formale con il logico-formale e di aver am-
messo, accanto alla formalità dei formalismi, quella di forme
a priori della sensibilità e di concetti a priori dell’intelletto,
postulando così una mescolanza ambigua di formale e di
empirico, «una strana mistura di forma e contenuto»29. Ma, a
condizione di non cadere in questo errore, l’empirismo logico
può appellarsi a Kant nella sua delimitazione assolutamente
rigorosa dei rispettivi campi dell’analitico e del sintetico, ossia
del formale e dell’empirico, delimitazione in virtù della quale
non può restare alcuno spazio per una terza possibilità: «non
esiste alcun a priori tranne che nella tautologia, e non esiste
niente di sintetico, nessuna conoscenza reale, tranne che dal
lato dell’a posteriori»30.
Per comprendere la tesi di Schlick – e dell’empirismo lo-
gico in generale – secondo cui «tutte le proposizioni sono,
di principio, sintetiche a posteriori oppure tautologiche» (da
cui consegue che delle proposizioni sintetiche a priori sono
«logicamente impossibili»31), occorre comprendere le grandi
linee della sua dottrina del significato. Che cosa significano
“analitico” e “sintetico” per il Circolo di Vienna? Questi ter-

Caronello, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori. Nuovo tentativo


di fondazione di un personalismo etico, San Paolo, Cinisello Balsamo 1996, p. 81.
28. m. schlick, Gibt es ein materiales A priori?, cit., p. 21; trad. it. p. 171.
29. id., Form and Content. An Introduction to Philosophical Thinking, cit., p. 227;
trad. it. p. 126.
30. Ivi, p. 226; trad. it. p. 127.
31. m. schlick, Gibt es ein materiales A priori?, cit., p. 25; trad. it. p. 174.
La fenomenologia nella sua possibilità 327

mini sono impiegati per designare proprietà di proposizioni


e unicamente di proposizioni: «Una proposizione – scrive
Schlick – è analitica quando è vera in virtù della sua pura
forma; chi ha compreso il senso di una tautologia, ne ha vi-
sto al contempo la verità; essa, pertanto, è a priori. Di una
proposizione sintetica si deve anzitutto intendere il senso e
dopo stabilire se è vera o falsa; quindi essa è a posteriori»32.
In altre parole, le proposizioni analitiche si limitano a rivelare
le regole che guidano l’impiego dei loro termini costitutivi,
regole di natura logica che si impongono necessariamente
a ogni utilizzatore del linguaggio in cui sono formulate. Di
conseguenza, questi enunciati non dicono nulla del mondo né
di alcuno stato di fatto. “Piove o non piove”, ad esempio, è una
proposizione analitica nella misura in cui questo enunciato
non faccia che esprimere le regole che presiedono all’uso
della disgiunzione (“o”): quando tale disgiunzione è inclu-
siva, l’enunciato è vero se, e solamente se, almeno uno dei
suoi termini è vero. La verità di tale proposizione è dunque
indipendente dal tempo che fa, essa non dipende da alcuno
stato del mondo, non esprime niente riguardo a esso, si limita
ad esprimere (Wittgenstein avrebbe detto: a mostrare) una
regola puramente formale inerente all’uso del linguaggio,
o anche un metodo per applicare alla realtà le proposizioni
“piove” e “non piove”, un metodo per parlare delle cose. Ne
consegue che questo enunciato, che non contiene alcun con-
tenuto fattuale, è vero in virtù della sua sola forma. Esso è una
tautologia. Comprendere l’enunciato non vuol dire altro che
cogliere una regola d’uso. Comprendere il suo significato e
comprenderne la sua verità sono quindi una sola e unica cosa.
Diversamente stanno le cose per gli enunciati sintetici.
Una cosa è cogliere il loro significato, altra cosa è poter di-
re se sono veri o falsi. Ad esempio: «Tutti i corpi di rame
conducono l’elettricità» è una proposizione la cui validità
deve essere accertata mediante sperimentazioni adeguate.

32. Ivi, p. 22; trad. it. p. 171.


328 claude romano

Dunque il problema di sapere se questo enunciato è provvi-


sto di senso differisce dal problema di sapere se esso è vero.
Questo enunciato è dotato di significato se ciascuno dei suoi
termini (“rame”, “elettricità”) può essere dedotto da enun-
ciati più primitivi, da enunciati di osservazione o “enunciati
protocollari”. Esso può, tuttavia, avere un senso senza essere
vero. Per accertare la sua verità occorre confrontarlo con delle
osservazioni. Poiché la sua validità appare irriducibile a un
criterio puramente formale, bisogna far intervenire un fat-
tore non linguistico: l’esperienza. Di conseguenza, un simile
enunciato è necessariamente a posteriori. Secondo la parola
d’ordine dell’empirismo logico, «il Significato di una Propo-
sizione è il Metodo della sua Verificazione»33.
È facendo conto su questa distinzione tra giudizi analitici
(o tautologie) e giudizi sintetici (empirici) che Schlick si ci-
menta a mostrare «l’impossibilità logica» di ogni a priori sin-
tetico. Secondo i fenomenologi, vi sarebbero enunciati o leggi
a priori che, ciononostante, non sarebbero formali o vuoti,
che non sarebbero quindi tautologie, bensì possiederebbero
un rapporto intrinseco all’esperienza e al suo contenuto. In
Forma e contenuto, Schlick ne dà diversi esempi: «Ogni nota
ha necessariamente un’altezza e un’intensità»; «La superficie
di un corpo fisico (o di una macchia del campo visivo) non
può essere allo stesso tempo rossa e verde nello stesso luogo
e nello stesso momento»; «L’arancione come qualità di colore
si colloca tra il rosso e il giallo»34. Questi esempi non sono
esattamente gli stessi scelti da Husserl nei §§ 11-12 della Terza
ricerca logica, ma per il fenomenologo costituiscono senza
esitazione possibili esempi di a priori sintetico.
Prendiamo la proposizione: “la medesima superficie non
può essere allo stesso tempo verde e rossa”. Qual è il suo
statuto? Non è certo una proposizione empirica, risponde

33. m. schlick, Form and Content. An Introduction to Philosophical Thinking,


cit., p. 181; trad. it. p. 77.
34. Ivi, p. 226; trad. it. p. 127.
La fenomenologia nella sua possibilità 329

Schlick, benché apprendiamo manifestamente a riconoscere


la differenza del rosso e del verde attraverso l’esperienza:

Nessuno nega che è unicamente e soltanto tramite l’esperienza che


possiamo sapere se il vestito (di una sola tinta) portato da una certa
persona in un certo momento era verde, rosso o di qualche altro
colore; ma anche nessuno può negare che, una volta saputolo verde,
non vi è bisogno di alcuna ulteriore esperienza per sapere che non è
rosso. Questi due casi si collocano su livelli completamente diversi.
Vano sarebbe ogni tentativo di spiegare che la differenza fra essi è una
differenza puramente di grado, dicendo per esempio che nel primo
caso si tratta di un’asserzione immediata di esperienza, ma che anche
la seconda proposizione risale in ultima analisi a certe esperienze
perché in definitiva solo attraverso di esse scopriremmo che il verde
e il rosso sono incompatibili in un medesimo posto35.

Osserviamo che Husserl non ha mai preteso che tale diffe-


renza fosse di grado. Egli ha affermato che esiste una neces-
sità che, pur essendo universale, non è di natura logica, ma
dipende dall’esperienza. Occorre però comprendere bene
che l’esperienza in questione non è quella dell’empirismo.
Husserl non vuol certamente dire che avremmo bisogno
di nuove esperienze, posto che un abito sia uniformemen-
te rosso, per apprendere che esso non è verde. Egli afferma,
proprio come Schlick, che noi sappiamo ciò necessariamente
a priori; aggiunge, però, che il senso di questo a priori è ir-
riducibile al suo senso strettamente logico. Per Husserl noi
sappiamo per esperienza, e tuttavia a priori, che due colori
distinti non possono occupare la stessa superficie allo stesso
tempo: l’«esperienza» che egli invoca non è priva di forma,
non è la semplice e nuda ricezione di sense data della tradi-
zione empirista, possiede essa stessa delle strutture a priori
attinenti, ad esempio, ai rapporti possibili tra colori. In altri
termini, per Husserl vi è non solamente una esperienza dell’a

35. m. schlick, Gibt es ein materiales A priori?, cit., p. 26; trad. it. p. 175.
330 claude romano

priori (l’intuizione eidetica), ma anche degli a priori dell’e-


sperienza, ossia delle legalità non empiriche che conferisco-
no a quest’ultima le sue strutture invarianti. Schlick rileva
incidentalmente che il concetto di «esperienza» di Husserl e
dei fenomenologi è irriducibile a quello dell’empirismo – «al-
la parola “esperienza” si attribuisce un significato del tutto
nuovo»36 –, ma non approfondisce questa osservazione, non
dice in che cosa questi due concetti differiscono né ciò che
rende preferibile quello che egli utilizza. Per Schlick tutto
accade come se affermare che la proposizione in questione
è legata alla nostra esperienza non potesse voler dire che
una sola cosa: che essa può essere confermata o invalidata
da questa. Ora, per Husserl, l’a priori materiale non potrebbe
essere né confermato né invalidato per la semplice ragione che
non possiamo neppure concepire (immaginare) ciò che potrebbe
voler dire che esso possa esserlo. La sua necessità non è mi-
nore della necessità logica (né d’altra parte superiore a delle
probabilità empiriche): essa è di un’altra natura. L’impossi-
bilità materiale non è solamente l’impossibilità di pensare o
di immaginare altrimenti le cose, ma è l’impossibilità che le
cose siano altrimenti. È ciò che Schlick misconosce quando
sostiene che l’impossibilità per una stessa macchia di essere
allo stesso tempo (uniformemente) rossa e (uniformemente)
verde non può essere che di due ordini, empirico o logico:
«Il verde e il rosso sono incompatibili l’uno con l’altro non
perché io non li abbia mai visti presentarsi insieme, ma perché
la proposizione “questa macchia è tanto verde quanto rossa”
è una concatenazione di parole priva di senso»37. Qui Schlick
“dimentica” la sua propria osservazione sull’eterogeneità dei
due concetti di esperienza, il suo e quello che egli discute, fa
come se Husserl avesse sostenuto che l’incompatibilità tra
i colori proveniva da una generalizzazione empirica; non
prende neppure in considerazione la specificità della risposta
fenomenologica, se non per confutarla.

36. Ivi, p. 21; trad. it. p. 170.


37. Ivi, trad. it. p. 178.
La fenomenologia nella sua possibilità 331

Schlick ragiona, di fatto, partendo da premesse che non


si cura di esplicitare, ma che sono le seguenti. Anzitutto, ogni
necessità è di ordine logico, in conformità alla tesi sostenuta da
Wittgenstein nel Tractatus: «Una costrizione, secondo la quale
una cosa debba avvenire poiché ne è avvenuta un’altra, non v’è.
V’è solo una necessità logica»; «Come v’è solo una necessità
logica, così pure v’è solo una impossibilità logica»38. L’esempio
che in Wittgenstein viene a illustrare questa affermazione è
preso appunto dal campo del colore: «Che, ad esempio, due
colori siano a un tempo in un luogo del campo visivo è im-
possibile: impossibile logicamente, poiché ciò è escluso dalla
struttura logica del colore. […] (L’enunciato secondo cui un
punto del campo visivo ha nel medesimo tempo due diversi
colori, è una contraddizione)»39. Purtroppo, qui Wittgenstein
non precisa in che cosa consista questa «struttura logica» dei
colori, e ancor meno in che cosa tale necessità sia di natura
puramente logica40. La conseguenza che pare legittimo trarre
da queste affermazioni, agli occhi di Schlick, è del tutto in linea
con l’empirismo: se non vi è altra necessità che quella logica,
tutto ciò che appartiene al campo dell’esperienza deve essere
contingente. In poche parole, l’esperienza si riduce a una mol-
teplicità atomica di sense data, ed è assurdo supporre in mezzo
a una simile molteplicità qualcosa come delle strutture inva-
rianti: ogni struttura non può essere che proiettata sull’esperienza
da una griglia logico-linguistica. Il Tractatus permette così a
Schlick di ritrovare le tesi fondanti dell’empirismo classico e,
più precisamente, la sua associazione tra atomismo sensua-
lista e nominalismo, come la si troverebbe, ad esempio, nei
testi di Hume. È la distinzione humiana tra matters of fact e
relation of ideas, almeno se si accetta di leggerla secondo una

38. l. wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Routlegde & Kegan Paul,


London 1922, p. 6375; trad. it. di A.G. Conte, in Tractatus logico-philosophicus e
Quaderni 1914-1916, Einaudi, Torino 1968, p. 78.
39. Ivi, trad. it. p. 79.
40. Cfr. p. simons, Philosophy and Logic in Central Europe from Bolzano to Tarski,
Klawer Academic Publishers, Dordrecht 1992, p. 364.
332 claude romano

tendenza dominante in seno al Circolo di Vienna, come una


prefigurazione delle tesi dell’empirismo logico che funge qui
da pensiero-guida: «Tutti i ragionamenti si possono dividere
in due specie, cioè in ragionamenti dimostrativi o concernenti
relazioni fra idee, e ragionamenti morali concernenti materia
di fatto e di esistenza»41. Le proposizioni delle scienze (geo-
metria e algebra) che poggiano su relazioni di idee possono
essere scoperte «con una semplice operazione del pensiero,
senza dipendenza alcuna da qualche cosa che esista in qualche
parte dell’universo»42; esse corrispondono alle «proposizioni
di una natura puramente concettuale» di Schlick. Al contrario,
le proposizioni che trattano di fatti (matters of fact) e la cui
negazione non è contraddittoria, sono di natura empirica e di
conseguenza non celano alcuna necessità. Tale è, ad esempio, la
relazione di causa-effetto. Questa opposizione non ammette un
terzo termine, ed è il motivo per cui, agli occhi di Hume, non
può esservi discorso intermedio tra le scienze dimostrative e le
scienze empiriche. La metafisica, che pretende questo statuto, si
riduce a un’illusione: «Se ci viene nelle mani qualche volume,
per esempio di teologia o di metafisica scolastica, domandia-
moci: contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità o
sui numeri? No. Contiene qualche ragionamento sperimentale
su questioni di fatto e di esistenza? No. E allora, gettiamolo nel
fuoco, perché non contiene che sofisticherie e inganni»43.
Non si capirebbe niente dell’impresa di Schlick, della sua
critica dell’a priori sintetico, ma anche, più in generale, della
sua denuncia della fenomenologia come specimen di «meta-
fisica», se si ignorasse il retroscena storico a partire dal quale
si sviluppa il suo pensiero. L’antitesi dell’analitico-formale e
del sintetico-empirico non è che la riformulazione dell’anti-
tesi di Hume nel contesto e alla luce della logica matematica

41. d. hume, An Enquiry Concerning Human Understanding, Hackett Publishing,


Indianapolis 1993, p. 22; trad. it. di M. Dal Pra, Ricerche sull’intelletto umano,
Laterza, Roma-Bari 1974, p. 49.
42. Ivi, trad. it. pp. 38-39.
43. Ivi, trad. it. pp. 209-210.
La fenomenologia nella sua possibilità 333

moderna. Partendo dalla duplice premessa: 1) non vi è ne-


cessità se non di natura logica; 2) l’esperienza è interamente
contingente, Schlick argomenta come segue: poiché l’affer-
mazione secondo cui un abito uniformemente rosso non può
essere allo stesso tempo uniformemente verde non può essere
né confermata né invalidata dall’esperienza, allora essa non
ha alcun rapporto con l’esperienza ed è quindi analitica. Essa
esprime una impossibilità che, essendo una inconcepibilità
di principio, non può essere che logica. Bisogna concluderne
che essa non esprime alcuno stato di fatto, che è cioè una
tautologia: «Le nostre proposizioni “materiali” a priori sono
in verità di natura puramente concettuale, la loro validità è
logica, esse hanno un carattere tautologico, formale»44. Ciò
implica, in primo luogo, che questi enunciati in cui la feno-
menologia crede di scoprire delle verità profonde, dei principi
evidenti che permettono di fondare delle ontologie regionali,
sono in realtà delle “banalità” che non hanno altro uso che
“retorico”; in secondo luogo, che la negazione di queste tauto-
logie non produce proposizioni empiriche false, ma contrad-
dizioni logiche, vale a dire proposizioni completamente prive
di senso. Una proposizione come “la stessa superficie è allo
stesso tempo uniformemente verde e uniformemente rossa”
non è falsa empiricamente, essa contravviene alle leggi della
sintassi logica, esprime una impossibilità logica, di modo che
non ci è neppure possibile conferire a questa combinazione di
parole un qualsiasi senso: «le regole logiche che disciplinano
l’uso delle parole relative ai colori vietano un tale impiego
così come anche vieterebbero di dire, per esempio: “Il rosso
chiaro è più rosso del rosso scuro”»45. Per Husserl vi sarebbe
una differenza tra quest’ultima proposizione, che è analiti-
camente falsa, un controsenso formale, una contraddizione
(Widersinn, Widerspruch) di cui d’altronde neppure direbbe
che sia un non-senso (Unsinn), e la prima, che è falsa a priori,
ma non contraddittoria, poiché la sua falsità non dipende da

44. m. schlick, Gibt es ein materiales A priori?, cit., p. 28; trad. it. p. 177.
45. Ivi, trad. it. p. 178.
334 claude romano

criteri puramente logici. Per Schlick, non vi è differenza di tal


genere: queste due proposizioni sono non-sensi46. Non vi è
alcuna distinzione da fare tra ciò che Husserl qualificherebbe
come «controsenso formale» e ciò che qualificherebbe come
«controsenso materiale»47. Ma, improvvisamente, Schlick è
costretto a render conto dell’impossibilità logica connessa a
una proposizione che attribuisce due colori a una stessa su-
perficie, postulando che la logica si estende ben oltre la logica
formale nella sua accezione classica (che è ancora quella di
Husserl), oltre il campo dei connettori proposizionali, del-
le variabili, dei quantificatori, dei valori di verità; egli deve
ammettere, in accordo con Wittgenstein, che esista qualche
cosa come «una grammatica logica delle parole relative ai
colori»48, senza essere realmente in grado di precisare – non
più del suo predecessore – ciò che fa di questa grammatica
una grammatica logica.
Questo è il motivo per cui, al termine dell’esposizione di
Schlick, il lettore può difficilmente evitare l’impressione che
tutta la sua argomentazione si sviluppi parallelamente a quella
di Husserl senza mai avere realmente presa su di essa. Schlick
ha definito altrimenti l’esperienza, la logica, l’analiticità, il
significato di un enunciato. Ha, però, fatto più di questo?

46. A differenza di Wittgenstein, Schlick non sembra far differenza tra una pro-
posizione priva di senso (sinnlos), come sono le tautologie nel Tractatus, e una
proposizione che è non-senso (unsinnig). Di conseguenza, egli neppure si pone
il problema dello statuto logico delle proposizioni che impiega – problema che
aveva portato Wittgenstein ad affermare che occorreva buttare la scala dopo
esservi salito (cfr. l. wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, cit.; trad. it.
p. 82).
47. Dal punto di vista di Husserl, occorre distinguere, in conformità con la
Quarta Ricerca logica, § 12-14, tra 1) una espressione priva di senso, un non-senso
(Unsinn), come «verde è o»; 2) una espressione contraddittoria, un controsenso
formale, analitico che è tuttavia dotato di senso (sinnvoll), come «un rosso chiaro
è più rosso di un rosso scuro», «un tutto può esistere senza parti»; 3) una espres-
sione sintetica, ma sbagliata a priori, ossia un «controsenso materiale» come «vi
è un colore inesteso», «questo quadrato è rotondo», «una medesima superficie
può essere contemporaneamente uniformemente rossa e verde», ecc.
48. m. schlick, Gibt es ein materiales A priori?, cit., p. 28; trad. it. p. 178.
La fenomenologia nella sua possibilità 335

Ha provato che le proposizioni sintetiche a priori di Husserl


erano in verità analitiche o si è accontentato di ribattezzare
col nome di “analitico” l’a priori materiale dei fenomenologi?
Ha fornito un argomento decisivo che riduce al nulla la loro
tesi, o ha semplicemente sviluppato il proprio ragionamen-
to a partire da differenti premesse? In quest’ultimo caso, la
sua argomentazione resterebbe puramente verbale. Essa non
avrebbe permesso di dimostrare niente, non costituirebbe in
alcun modo una confutazione della posizione fenomenolo-
gica, né a fortiori una dimostrazione del suo carattere privo
di senso, del suo statuto «metafisico» nel senso che i posi-
tivisti conferiscono a questo termine. È quanto occorre ora
esaminare.

3. È stato logicamente dimostrato che l’a priori


sintetico è logicamente impossibile? Critica
dell’argomentazione di Schlick

La tesi di Schlick, abbiamo visto, non è solamente l’afferma-


zione del fatto che non si siano ancora scoperte proposizioni
sintetiche a priori, ma che sia impossibile scoprirne, che la
nozione di proposizione sintetica a priori sia tanto assurda
quanto quella del cerchio quadrato: «L’empirismo che io rap-
presento ritiene di essere chiaro sul fatto che tutte le asserzio-
ni sono, di principio, o sintetiche a posteriori o tautologiche;
proposizioni sintetiche a priori gli sembrano logicamente
impossibili»49. Ma Schlick è in grado di provare realmente
questo punto? E che cosa occorrerebbe fare per farlo?
La risposta a questi interrogativi non lascia dubbi. Per riu-
scirvi occorrerebbe che Schlick fosse in grado di fornire una de-
finizione di ciò che intende con “proposizione analitica” distinta
da quella che egli dà di “proposizione a priori”, e una definizione
di “proposizione sintetica” distinta da quella di “proposizione a

49. Ivi, p. 25; trad. it. p. 174.


336 claude romano

posteriori”, poiché in caso contrario la sua affermazione secondo


cui una proposizione sintetica a priori è logicamente impossibile
non sarebbe altro che una petizione di principio. Esaminiamo,
ad esempio, il seguente passo di Schlick:

Una proposizione sintetica, quindi una proposizione che esprime


realmente una conoscenza, nella vita e nella scienza viene sempre
impiegata per comunicare un fatto, e cioè appunto quel fatto la cono-
scenza del quale essa contiene. Una proposizione analitica, viceversa,
o – per esprimerci con più chiarezza – una tautologia, ha una funzione
completamente diversa [...]. Una tautologia è, naturalmente, vera a
priori; essa non esprime alcun fatto e la sua validità non si fonda,
pertanto, su alcuna sorta di esperienza50.

È chiaro che qui Schlick definisce l’analitico mediante l’a-


priorità e il sintetico mediante l’aposteriorità; ma, allora, la
sua affermazione secondo cui solo le proposizioni analitiche
sono a priori non è a rigore nient’altro che una tautologia
conseguente alle sue definizioni iniziali. A queste condizio-
ni, la sua tesi secondo cui “ogni proposizione è o sintetica a
posteriori o tautologica” non può costituire in nessun caso
una confutazione della tesi di Husserl. Nella misura in cui
Schlick presuppone che il solo a priori sia di natura logica
e che tutto quanto non è a priori in questo senso sia empiri-
co, non è difficile concludere che l’idea stessa di un a priori
sintetico, ossia empirico, è contraddittoria – ma, beninteso,
questa “dimostrazione” non ha dimostrato nulla. Finché si
rimane a questo punto, se vi è un “truismo”, per riprendere
l’espressione che Schlick applica all’a priori sintetico dei fe-
nomenologi, questo è proprio la tesi di Schlick!
Ma è possibile andare oltre? L’unico modo per farlo, sem-
bra, ossia l’unico modo di stabilire positivamente la fondatez-
za della tesi di Schlick, sarebbe partire da definizioni dell’a-
nalitico e del sintetico che non la rendano banale, quindi che

50. Ibidem.
La fenomenologia nella sua possibilità 337

non pongano sin dall’inizio l’equivalenza di queste nozioni


con quelle di a priori e di a posteriori. Ma ciò è possibile? Sì,
senza dubbio, o almeno questa è la via che Schlick sembra
imboccare all’inizio del suo ragionamento, riabilitando la
definizione kantiana dell’analitica mediante il principio di
non-contraddizione. Nella Critica della ragion pura, infatti,
Kant propone la seguente definizione: «se il giudizio è ana-
litico, affermativo o negativo, la sua verità deve in ogni caso
poter essere sufficientemente conosciuta in virtù del principio
di contraddizione»51. In termini formali, ciò significa che una
proposizione p è analitica se, e solamente se, si può derivare
dalla sua negazione non p una contraddizione logica, ossia
una proposizione della forma p & non p. Schlick comincia
richiamandosi espressamente a questo criterio kantiano
dell’analitica: «L’idea di Kant», vale a dire «la sua opinione
che la logica intera doveva essere compresa a partire dal prin-
cipio di contraddizione», egli precisa, «era del tutto corretta».
Prendendo così partito per Kant, Schlick, che lo sappia o
meno, si oppone una volta di più alle Ricerche logiche. Qui
Husserl rifiuta di definire la logica a partire dal solo principio
di non-contraddizione, non solamente perché esistono delle
oggettività propriamente logiche che devono poter essere
date esse stesse intuitivamente52, ma soprattutto perché Kant
«non notò mai quanto poco le leggi logiche posseggano in
ogni caso il carattere di proposizioni analitiche nel senso che
egli stesso aveva fissato per definizione»53. Quali proposizioni
della logica formale, infatti, possono realmente derivarsi dal
solo principio di non-contraddizione? Praticamente nessuna.
Occorrerebbe al limite completare la formulazione kantiana
precisando che le proposizioni analitiche sono quelle che è

51. i. kant, Kritik der reinen Vernunft, A 151/B 190; trad. it. p. 198.
52. Cfr. hua xix/2, p. 732; trad. it. p. 504: «Fu fatale per Kant (a cui nonostante
tutto ci sentiamo molto vicini) il fatto che egli abbia ritenuto di potersi sbarazzare
della sfera puramente logica in senso stretto con l’osservazione secondo cui essa
sottostà al principio di non-contraddizione».
53. Ibidem.
338 claude romano

possibile derivare a partire dal principio di contraddizione


e di tutta la classe delle verità logiche (principio d’identità,
legge della doppia negazione, ecc.). La definizione kantiana
dovrebbe allora essere modificata nel modo seguente: p è
analitico se, e solamente se, si può derivare da non p una
contraddizione della forma p & non p per mezzo delle sole
verità logiche. Il campo del sintetico sarebbe allora quello
delle proposizioni che non possono essere oggetto di una
tale derivazione. Schlick, diversamente da Husserl, non rileva
tale difficoltà; né si preoccupa della necessità di completare
la definizione di Kant. Tuttavia, anche supponendo che si
proceda a questa riforma, per conseguire appunto una defi-
nizione dell’analitico che non faccia già intervenire la nozione
di a priori e una definizione del sintetico che non faccia già
intervenire la nozione di a posteriori, sarebbe ciò sufficiente
per legittimare la tesi di Schlick – dunque per confutare quella
di Husserl?
È possibile dire di una proposizione del tipo: “uno stesso
oggetto non può essere uniformemente verde e rosso allo
stesso tempo” che essa sia analitica nel senso che abbiamo
appena precisato? In questo caso, dovrebbe essere possibile
stabilirlo per mezzo di una derivazione formale adeguata.
Finché questa dimostrazione non è stata effettuata (e nien-
te prova che possa esserlo), l’affermazione secondo cui gli
enunciati sintetici a priori di Husserl sarebbero in verità ana-
litici non ha ricevuto l’ombra di una giustificazione. Si pone
infatti immediatamente il problema della presenza in tale
proposizione di termini apparentemente inanalizzabili che
impedirebbero di ridurla a una contraddizione con l’ausilio
di sole verità logiche.
Schlick, a dire il vero, non si pronuncia su questo problema.
Un altro membro del Circolo di Vienna, Hans Hahn, lo ha in-
vece preso sul serio. Per Hahn, la negazione della proposizione
del fenomenologo – se così la si può designare –, ossia “una
stessa superficie può essere allo stesso tempo rossa e verde”,
equivale alla contraddizione logica: “una stessa superficie può
essere allo stesso tempo rossa e non rossa”. Hahn scrive infatti:
La fenomenologia nella sua possibilità 339

Noi impariamo, sono tentato di dire per ammaestramento, ad applicare


la designazione “rosso” a certi oggetti, e stipuliamo che la designazione
“non rosso” sarà applicata a tutti gli altri oggetti. Sulla base di questa
deliberazione possiamo poi affermare con assoluta certezza che non
esiste alcun oggetto al quale si applicherebbero allo stesso tempo la
designazione “rosso” e la designazione “non rosso”. Il che si formula co-
munemente dicendo che niente è allo stesso tempo rosso e non rosso54.

Se si accoglie questo suggerimento, ne consegue che la propo-


sizione apparentemente sintetica a priori di Husserl è in realtà
una proposizione analitica nel senso kantiano (modificato),
poiché non è che l’espressione del principio di non-contrad-
dizione: «non (Rx e non Rx)». Ma questo suggerimento deve
essere accolto? La risposta è no, per almeno due ragioni.
In primo luogo, il campo delle verità sintetiche a priori
come lo concepisce Husserl comprende un gran numero di
proposizioni di cui è impossibile prima facie ridurre la nega-
zione a una contraddizione logica. Come fare per «ogni colore
è estensione»? «Ogni suono possiede un’altezza e una inten-
sità»? O ancora, «l’arancione, in quanto qualità di colore, si
situa tra il rosso e il giallo»? Né Schlick né Hahn ce lo dicono.
Certo, ciò sarebbe possibile qualora si scegliesse di definire il
colore, ad esempio, come una qualità visiva dell’estensione,
in modo tale che derivi analiticamente da questa definizione
che un colore inesteso è contraddittorio; ma allora sarebbe
stata compiuta una nuova petizione di principio. Poiché, lo-
gicamente parlando, non vi è nulla come la definizione del
colore, né d’altra parte di alcun termine materiale.
In secondo luogo, anche se ci si attenesse al solo esempio
che Hahn ha scelto di esaminare, non è affatto certo che le
cose siano così semplici. Che cosa vieta di dire che uno stes-
so oggetto può essere allo stesso tempo uniformemente blu
e uniformemente verde, a condizione di intendere con ciò

54. h. hahn, Logik, Mathematik und Naturerkennen, in «Einheitswissenschaft»


1932, n. 2, citato secondo m. clavelin, La première doctrine de la signification du
Cercle de Vienne, cit., p. 477.
340 claude romano

che esso è turchese, ossia di designarne il colore, il turchese,


mediante una combinazione di colori elementari? È vero, per
contro, che non si può dire che uno stesso oggetto è rosso
e verde allo stesso tempo. Ma come render conto, appun-
to, di questa differenza? Non è precisamente questo tipo di
differenza che Husserl ha in mente quando parla di a priori
materiali, ad esempio di rapporti necessari e a priori tra i co-
lori che non potrebbero essere derivati dai soli principi della
logica? Così, dal punto di vista che ci interessa, quello della
possibilità dell’a priori materiale, sarebbe piuttosto l’irridu-
cibilità dell’esempio citato a una contraddizione logica che
darebbe da riflettere. Questa irriducibilità non indicherebbe
che la verità della proposizione in questione, senza essere
empirica, è nondimeno inanalizzabile? Vale a dire, che vi è
realmente un sintetico a priori? Ma allora non solamente il
tentativo di Hahn fallirebbe il suo obiettivo, bensì condur-
rebbe a una conclusione rigorosamente opposta a quella che
egli formula. Poiché sembra proprio che i colori intrattengano
appunto rapporti di compatibilità e di incompatibilità che
non dipendono dalle sole leggi della logica, ma che dipen-
dono dall’esperienza che noi ne abbiamo, senza per questo
derivare da una generalizzazione induttiva sulla base di tale
esperienza: giudizi quali “il blu è più vicino al verde che al
rosso”, “l’arancione è composto di giallo e di rosso”, “si può
parlare di un rosso arancione, ma non di un rosso verdastro”
esprimono precisamente simili rapporti.
Ciò che risulta da queste considerazioni è che è molto dif-
ficile – per non dire impossibile – applicare alle proposizioni
sintetiche a priori di Husserl la definizione ristretta («kantia-
na») dell’analitico. È molto difficile derivare dalla negazione
delle proposizioni che Husserl qualifica come sintetiche a
priori una contraddizione logica, in modo da dimostrare che
sono analitiche55. Schlick, d’altra parte, neppure ci si prova, a

55. È quanto Wittgenstein ha visto molto presto e che l’ha portato, nelle sue Os-
servazioni sulla forma logica del 1929, a rinunciare alla difesa della tesi del Tractatus
secondo cui enunciare che un punto del campo visuale ha allo stesso tempo due
La fenomenologia nella sua possibilità 341

differenza di Hahn, sia che ne veda d’acchito l’impossibilità,


sia che eluda accuratamente il problema per le necessità della
propria causa. La sua strategia consiste, piuttosto, nel passare
senza soluzione di continuità da questa prima definizione
dell’analitico a una seconda che, identificando l’analitico all’a
priori in generale, permette di derivare analiticamente dalla
definizione stessa dell’analitico l’impossibilità del sintetico a
priori. Con un simile gioco di prestigio, Schlick dà l’impres-
sione di aver risolto il problema; ma nel caso in cui queste
due definizioni dell’analitico non fossero equivalenti, l’intera
sua argomentazione poggerebbe, in ultima istanza, su di un
equivoco.
Nel passo che abbiamo già commentato, ma che è centrale
sotto questo aspetto, si può leggere: «Kant, del tutto corretta-
mente, aveva visto questo e noi, conformemente, dobbiamo
interpretare la sua concezione che tutta la logica debba essere
compresa a partire dal principio di contraddizione come un
riconoscimento del suo carattere puramente tautologico»56.
Schlick slitta qui da una prima caratterizzazione (ristretta,
“kantiana”) dell’analitico, secondo la quale ogni proposizione
analitica è certo a priori, poiché derivabile formalmente dalle
sole verità logiche, ma non ogni proposizione a priori è neces-
sariamente analitica, a una seconda caratterizzazione molto
più ampia, in virtù della quale è analitica ogni proposizione

colori differenti è una contraddizione (cfr. l. wittgenstein, Tractatus logico-


philosophicus, cit.; trad. it. p. 78). Infatti, la tabella di verità di una proposizione
quale “una stessa superficie non può essere uniformemente rossa e uniformemente
verde allo stesso tempo” differisce da quella di “A e non-A” nella misura in cui
nulla corrisponde nella realtà alla possibilità per “A è rosso” e “A è verde” di essere
vere nel medesimo istante; questa riga della tabella di verità deve dunque essere
soppressa con una notazione logica adeguata (di ciò che Wittgenstein chiama
allora “un linguaggio fenomenologico”). La proposizione sull’incompatibilità
dei colori non è una contraddizione logica, ma ciò che Wittgenstein chiama una
“esclusione”. Questo varco aperto nella concettualità del Tractatus dal problema
dei colori reciprocamente esclusivi porterà Wittgenstein all’abbandono dell’idea
dell’indipendenza delle proposizioni elementari e all’elaborazione della sua no-
zione di “grammatica”.
56. m. schlick, Gibt es ein materiales A priori?, cit., p. 21; trad. it. p. 171.
342 claude romano

di cui chiunque comprenda il senso percepisce subito per ciò


stesso che essa è vera (“analitico” diventa allora sinonimo di
“vero in virtù della sola sua forma”, ossia di “tautologico”; e
“sintetico” vuol dire ora: la cui verità non può essere stabilita
per mezzo della sola comprensione del suo senso, ma esige il
ricorso all’esperienza). Attraverso questo mero cambiamento
di definizione, Schlick ha identificato questa volta il campo
dell’analitico con quello dell’a priori e il campo del sintetico
con quello dell’a posteriori, dal che consegue logicamente che
l’idea di sintetico a priori è una contraddizione in termini.
Se ci si attiene alla prima definizione dell’analitico, tutto re-
sta ancora da fare, poiché rimane da dimostrare per mezzo
di procedure formali appropriate che tutte le proposizioni
a priori sono eo ipso analitiche. Se ora si passa alla seconda
definizione, questa dimostrazione formale è divenuta super-
flua, poiché si è definito questa volta il campo dell’a priori per
mezzo dell’analiticità. Passando da una definizione all’altra,
Schlick ha quindi eluso il problema della dimostrazione della
propria tesi limitandosi a modificare le proprie definizioni.
Tuttavia, Schlick non ha affatto fornito alcuna giustifica-
zione di queste nuove definizioni. Ora, non avendo chiarito
ciò che giustifica il fatto che noi consideriamo le proposizioni
sintetiche a priori di Husserl come vere in virtù della loro
sola forma, indipendentemente da ogni considerazione di
fatti, Schlick non ha chiarito nulla. Potrebbe darsi benissimo,
infatti, che i termini descrittivi possiedano qui un contenuto
concettuale inanalizzabile, e che sia per la conoscenza a priori
di tale contenuto che si sappia che sono vere senza per questo
avere bisogno di alcuna conoscenza empirica. È esattamente
ciò che sosterrebbe Husserl. Per lui non vi è nessuna diffi-
coltà ad affermare che chiunque comprenda il senso delle
proposizioni in questione sa anche, per ciò stesso, che sono
vere; in compenso, rifiuterebbe di concluderne che sono vere
in virtù della loro forma solamente, dunque che sono delle
tautologie, per la buona e semplice ragione che rifiuterebbe
l’identificazione del campo dell’a priori in generale con quello
dell’analitico. Ma Schlick nasconde la difficoltà passando dal
La fenomenologia nella sua possibilità 343

senso ristretto di “analitico” al suo senso ampio, ossia esten-


dendo il concetto di “analitico” ben oltre il suo uso kantiano
(e husserliano), in modo che delle proposizioni che non sa-
rebbero mai state considerate da Kant come analitiche, quali
“ogni colore è estensione”, “la stessa superficie non può essere
allo stesso tempo verde e rossa”, ecc., possano ricevere questa
caratterizzazione. Tutta l’argomentazione di Schlick poggia
dunque né più né meno che su un utilizzo equivoco del termi-
ne “analitico”, su di un ampliamento del suo senso tale per cui
esso finisce per coincidere con quello di “a priori”. Ma finché
la “dimostrazione” si limita a questo, occorre affermare, in
primo luogo, che il genere di obiezione che Schlick rivolge a
Husserl – cioè che egli ha ridotto la questione di diritto (quid
juris?) a una questione di fatto (quid facti?), in altre parole che
egli non ha interrogato le condizioni di possibilità dell’a priori
sintetico, ma si è accontentato di affermarne l’esistenza – si
applica altrettanto bene, se non meglio, alle affermazioni di
Schlick; in secondo luogo, che il criterio dell’analitico fornito
da Schlick, cioè che “chiunque comprende il significato di una
tautologia vede per ciò stesso che essa è vera”, è insufficiente:
di fatto, resta un criterio psicologico e nient’altro.
Insomma, delle due l’una: o l’affermazione secondo cui le
proposizioni analitiche sono vere in virtù della loro sola for-
ma, in modo tale che chiunque le comprende sa nello stesso
tempo che sono vere senza far ricorso all’esperienza, è una
definizione di queste proposizioni; nel qual caso Schlick non
ha fatto che ribattezzare le proposizioni sintetiche a priori di
Husserl come “analitiche” senza aver stabilito in che cosa lo so-
no. Oppure si tratta di una proprietà che queste proposizioni
possiedono, e allora deve essere possibile mostrare attraverso
quale procedimento logico i termini “colore” ed “estensione”,
ad esempio, possono essere eliminati dalla proposizione “ogni
colore è estensione” e rimpiazzati da variabili di predicati che
la rendano vera per tutte le loro sostituzioni possibili: ma que-
sto compito non è stato compiuto da Schlick. Bisogna poter
mostrare, grazie a tale sostituzione di variabili di predicati,
che la negazione di questa proposizione è contraddittoria in
344 claude romano

virtù della sua sola forma, dunque che questa proposizione si


lascia dedurre dai soli principi della logica. Ma dove questo
è stato mostrato?
Beninteso, se questo non è stato mostrato (e senza dubbio
non può esserlo), siamo tornati al nostro punto di partenza,
vale a dire al problema dei termini inanalizzabili. Ora, proprio
questo era anche il punto di partenza di Husserl. Se vi sono re-
almente dei termini il cui contenuto descrittivo è inanalizza-
bile (e Schlick non ha affatto stabilito che non ve ne fossero),
allora la distinzione di proposizioni analitiche a priori (che
rimangono vere per ogni sostituzione possibile di variabili) e
di proposizioni sintetiche a priori, che non sono sorte da una
generalizzazione (dunque che non possono essere invalidate
dall’esperienza), ma che non si sottopongono a una tale so-
stituzione salva veritate – questa distinzione mantiene tutta
la propria forza. Tali proposizioni sono sicuramente a priori,
ma è molto improbabile che siano analitiche. Lungi dall’es-
sere stata dimostrata l’impossibilità di un a priori sintetico,
la tesi di Husserl uscirebbe piuttosto rafforzata dalle lacune
dell’argomentazione di Schlick.
Ci ricolleghiamo così, per altra via, alle conclusioni di
Peter Simons. Le intuizioni di Husserl e di Bolzano si sovrap-
pongono in parte al problema della hidden analyticity eviden-
ziato da Quine. Anziché dire che questo problema corrode la
possibilità stessa di una distinzione tra l’analitico e il sintetico,
si potrebbe piuttosto concluderne che le proposizioni la cui
analiticità non può essere stabilita formalmente, e che non
per questo sono sorte da una generalizzazione empirica, sono
sintetiche a priori. Come scrive Peter Simons,

il concetto [di analiticità] di Bolzano-Husserl, malgrado le difficoltà


ben note relative all’analiticità implicita, non sembra peggiore dei
concetti abituali dei positivisti logici, e presenta il vantaggio di non
aver bisogno di un ampliamento della logica per includere dei concetti
dotati di un contenuto empirico specifico. Si immagina sovente che
le ricerche filosofiche di Wittgenstein e del Circolo di Vienna siano
un passo avanti verso una filosofia esatta. Occorre tuttavia ammet-
La fenomenologia nella sua possibilità 345

tere invece che, su certi punti, tradizioni anteriori, come la prima


fenomenologia (pre-trascendentale), erano notevolmente più esatte57.

Non bisognerebbe però cedere troppo in fretta alla tentazione


di opporre un primo Husserl, rigoroso e appassionato della
logica, a un secondo, cosiddetto vago e metafisico, secondo un
luogo comune dell’esegesi. Al contrario, il fatto significativo
è che Husserl non abbandona il criterio di Bolzano neppure
dopo la svolta trascendentale. Si legge ad esempio in Idee I che,
per le verità sintetiche, «la sostituzione di termini indetermi-
nati a quelli determinati non dà luogo ad alcuna legge logico-
formale, come accade invece in modo caratteristico sul piano
delle necessità “analitiche”»58. Anche se Bolzano non è citato,
qui si ha esattamente la definizione della Terza ricerca logica.
La lezione che si trae da tutto ciò è che, anche se è senza dubbio
difficile stabilire positivamente l’esistenza di a priori materiali,
ossia di strutture necessarie della fenomenalità in quanto tale,
e anche se Husserl ha avuto – a torto – la tendenza a pensare
tutte le descrizioni fenomenologiche come basate su simili a
priori, misconoscendo per ciò stesso tutto ciò che spetta, nella
fenomenologia, a presupposizioni storiche, resta nondimeno il
fatto che non è solamente la prima fenomenologia di Husserl
(pre-trascendentale) che esce intatta dalla critica di Schlick; è
la fenomenologia come tale nella sua possibilità.

[Traduzione dal francese di Carmine Di Martino]

57. Cfr. p. simons, Philosophy and Logic in Central Europe from Bolzano to Tarski,
Kluwer Academic Publishers, Dordrecht 1992, p. 376.
58. hua iii/1, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen
Philosophie. Erstes Buch: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, K.
Schuhmann (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1976, p. 31; trad. it. di V. Costa, Idee per una
fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, libro primo: introduzione
generale alla fenomenologia pura, Einaudi, Torino 2002, p. 39. Cfr. anche il § 14,
per la differenza tra “substrati pieni” e “substrati vuoti”, in cui si trova anche un
riferimento implicito a Bolzano.
Rocco Sacconaghi

Implicazioni metafisiche ed epistemologiche


del manoscritto husserliano sul
copernicanesimo

Introduzione

Vi è una sola umanità e una sola Terra […]: essa è l’arca che sola rende
possibile il senso di ogni movimento, e di ogni quiete quale modalità
di un movimento. Ma la sua quiete non è appunto una modalità di
un movimento. Ora però tutto questo sembrerà stravagante o perfino
folle, in contrasto con ogni conoscenza scientifica della realtà e della
possibilità reale […]. Ma anche se si vorrà ravvisare nei nostri tentativi
la più incredibile hybris filosofica, noi non recediamo dalla conse-
quenzialità del nostro chiarimento delle necessità di ogni donazione
di senso sia per l’ente che per il mondo […]. L’Ego vive e precede ogni
ente reale e possibile, ente inteso in ogni senso, sia reale che irreale1.

Il manoscritto D17 del 1934, conosciuto come Umsturz der ko-


pernikanischen Lehre in der gewöhnlichen weltanschaulichen
Interpretation (Rovesciamento della dottrina copernicana
nell’interpretazione della corrente visione del mondo)2, è

1. e. husserl, Umsturz der kopernikanischen Lehre in der gewöhnlichen wel-


tanschaulichen Interpretation. Die Ur-Arche Erde bewegt sich nicht. Grundlegen-
de Untersuchungen zum phänomenologischen Ursprung der Körperlichkeit, der
Räumlichkeit der Natur im ersten naturwissenschaftlichen Sinne, in m. farber
(ed.), Philosophical Essays in Memory of Edmund Husserl, Harvard University
Press, Cambridge 1940, pp. 324-325; trad. it. di G.D. Neri, Rovesciamento della
dottrina copernicana nella corrente visione del mondo. L’Arca originaria Terra non si
muove. Ricerche fondamentali circa l’origine fenomenologica della corporeità, della
spazialità, della natura nel senso primario delle scienze naturali, in «Aut Aut» 245
(1991), pp. 17-18.
2. Il manoscritto reca la data 7-9 maggio 1934, ed è registrato con la sigla D17.
La trascrizione dell’originale stenografico è stata compiuta da Ludwig Landgrebe
348 rocco sacconaghi

uno tra i più suggestivi e densi inediti lasciatici in eredità


da Husserl. Esso ospita un’analisi fenomenologica della spa-
zialità originaria del soggetto che conduce all’affermazione
dell’insopprimibilità dell’esperienza della Terra come nostro
suolo originario e quindi alla critica della sua parificazione
agli altri pianeti. Su questa base, Husserl propone una cri-
tica fenomenologica – e non una confutazione – della pro-
spettiva cosmologica inaugurata da Copernico. Il sottotitolo
del manoscritto, Die Ur-Arche Erde bewegt sich nicht (L’arca
originaria Terra non si muove), esprime bene l’audacia della
riflessione husserliana, la quale, sviluppandosi nel solco della
“rivoluzione copernicana” attuata da Kant, giunge a propor-
re un rovesciamento (non semplicemente metaforico, ma
nemmeno puramente scientifico) del copernicanesimo vero
e proprio e sembra quasi lambire – non solo sul piano espres-
sivo – il confine che separa la filosofia dalla poesia e dalla
mitologia. Emerge così in modo dirompente l’originalità – e
per certi versi l’ambiguità – della posizione in cui si trova la
fenomenologia husserliana rispetto alla tradizione filosofico-
scientifica moderna, che ha nel copernicanesimo uno dei
propri eventi fondanti dalla notevole carica simbolica. Que-
sto manoscritto, lungi dal contestare o rovesciare i cardini
del pensiero husserliano3, ne offre un’espressione tanto co-

alla fine degli anni Trenta. Da qui in avanti ci riferiremo a questo testo con l’ab-
breviazione Umsturz. Su questo manoscritto husserliano, cfr. g.d. neri, Terra e
Cielo in un manoscritto husserliano del 1934, in «Aut Aut» 245 (1991), pp. 19-44; k.
held, Sky and Earth as Invariants of the Natural Life-world, in C.-F. Cheung, E.W.
Orth (eds.), Phenomenology of Interculturality and Life-world, Alber, Freiburg 1998,
pp. 21-41; p. kerszberg, The Phenomenological Analysis of the Earth’s Motion, in
«Philosophy and Phenomenological Research» 2 (1987), pp. 177-208; j. himanka,
Husserl’s Argumentation for the Pre-Copernican View of the Earth, in «Review of
Metaphysics» 3 (2005), pp. 621-644; a.j. steinbock, Home and Beyond: Generative
Phenomenology after Husserl, Northwestern University Press, Evanston 1995 (in
particolare il capitolo vii, Transcendental Concepts of the Lifeworld, pp. 97-121).
3. È ciò che invece sostiene Merleau-Ponty, il quale vede in Umsturz una delle
riflessioni husserliane in cui più esplicitamente emergono direzioni teoriche che
esasperano ed eccedono i limiti della fenomenologia stessa, conducendo a un
intreccio di empirico e trascendentale. Secondo Merleau-Ponty, Husserl sarebbe
Implicazioni metafisiche ed epistemologiche 349

erente quanto efficace. In esso sono condensate molte delle


principali categorie e tematiche fenomenologiche, le quali,
sebbene non siano presentate in modo organico e sistematico,
sono concepite in assoluta continuità con le precedenti ope-
re husserliane e vengono “messe all’opera” in modo tale da
raggiungere una delle più originali e sintetiche formulazioni
dell’idealismo fenomenologico, esibendone così la comples-
sità interna e l’irriducibilità rispetto alle filosofie precedenti.
Nel presente contributo non si intende realizzare un’e-
sposizione sistematica di Umsturz, o una disamina completa
delle tematiche in esso presenti, e nemmeno sviluppare ul-
teriormente le analisi su spazialità, corporeità e decorsi per-
cettivi, permanendo all’interno dell’indagine husserliana.
Piuttosto, identificando nel tentativo di un definitivo supe-
ramento dell’obiettivismo la cifra dell’atteggiamento feno-
menologico – a partire dal quale soltanto le analisi stesse
possono essere attuate e comprese – si cercherà, con uno
stile più “speculativo” che fenomenologico, di mettere in lu-
ce le implicazioni metafisiche ed epistemologiche di questo
manoscritto.

obbligato dall’esito delle sue stesse indagini a smentire il proprio idealismo: «Pro-
getto di possesso intellettuale del mondo, la costituzione diviene sempre di più,
via via che il pensiero di Husserl matura, il mezzo per svelare un rovescio delle
cose che non è stato costituito da noi. Era necessario questo insensato tentativo
di sottomettere ogni cosa allo statuto della coscienza, al limpido gioco dei suoi
atteggiamenti, delle sue intenzioni, delle sue imposizioni di senso, bisognava
spingere all’estremo il ritratto di un mondo saggio che la filosofia classica ci
ha lasciato, per rivelare tutto il resto: quegli esseri, al di sotto delle nostre idea-
lizzazioni e oggettivazioni, che le alimentano segretamente, e in cui si stenta a
riconoscere dei noemi: la Terra, per esempio, che non è in movimento come i
corpi oggettivi, ma neppure in riposo, poiché non si vede a che cosa potrebbe
essere “inchiodata” – “suolo” o “ceppo” dei nostri pensieri come della nostra
vita, che potremo sì spostare o riportare, quando abiteremo altri pianeti, ma solo
perché avremo allora ingrandito la nostra patria, che non possiamo sopprimere»
(m. merleau-ponty, Signes, Gallimard, Paris 1960, p. 227; trad. it. di G. Alfieri,
a cura di A. Bonomi, Segni, il Saggiatore, Milano 2003, p. 234). Per una critica
dell’interpretazione merleau-pontyana di questo manoscritto ci permettiamo
di rimandare a r. sacconaghi, Intrascendibilità dell’esperienza e atteggiamento
naturale in Merleau-Ponty, in «acme» (2011), vol. lxiv, fasc. iii, pp. 165-182.
350 rocco sacconaghi

1. L’obiettivismo, le “omogeneizzazioni”
e l’impossibilità della storia

1.1 La ricomprensione trascendentale dell’esperienza


naturale

«Noi copernicani, noi uomini dell’età moderna diciamo: la Ter-


ra non è “tutta la natura”, essa è uno dei corpi celesti nello spazio
cosmico infinito»4. Così Husserl descrive il nostro “sentire”
di moderni, l’immagine che abbiamo della nostra posizione
nel cosmo – e quindi nell’essere –, plasmata dall’assimilazione
irriflessa della teoria cosmologica copernicana. L’idea che la
Terra sia «uno dei corpi celesti nello spazio cosmico infini-
to», o semplicemente un «grande masso»5 su cui ci trovia-
mo, è assunta come ovviamente vera nonostante smentisca
la nostra esperienza naturale. La Terra infatti ci si presenta a
livello percettivo come il nostro suolo e, da un punto di vista
esistenziale-emozionale, viene sentita innanzitutto come il luo-
go della nostra nascita e della nostra esistenza – perciò da un
punto di vista metafisico-morale viene (quasi) inevitabilmente
concepita come il centro dell’universo.
Le analisi fenomenologiche presentate in queste pagine,
pur non riaffermando il geocentrismo classico, “conferma-
no” questa esperienza naturale e smentiscono la sua smentita
scientifica, rivelando come ogni modo di esperienza della
quiete e del movimento sia «sempre riferito in primo luogo
al suolo di tutti i corpi-suolo relativi, al suolo terrestre»6. Da
un punto di vista fenomenologico – ovvero dal punto di vista

4. «La Terra è un corpo di forma sferica; certamente non un corpo percepibile


tutto in una sola volta e da una sola persona, bensì in una sintesi primordiale
come unità di esperienze individuali collegate reciprocamente. Ma è pur sempre
un corpo!» (e. husserl, Umsturz der Kopernikanischen..., cit., p. 308; trad. it.
p. 4)
5. «Così ora la Terra è il grande masso sul quale essi [gli altri corpi] posano e
a partire dal quale si sono sempre formati per noi (o avrebbero potuto formarsi)
dei corpi più piccoli, per frammentazione o per separazione» (ibidem).
6. Ivi, p. 312; trad. it. p. 7.
Implicazioni metafisiche ed epistemologiche 351

di quella che Husserl ritiene la filosofia prima, intesa come


scienza rigorosa fondamentale –, la Terra non è una semplice
“cosa” tra le altre. Essa infatti originariamente non è esperita
come un oggetto costituito7. Al fine di indicare questa «cosa
di genere particolare»8 – per la quale Merleau-Ponty conia
l’espressione «quasi-oggetto»9 – Husserl usa il termine evo-
cativo “arca” (o arca originaria, Ur-Arche), nel quale in un
certo senso i diversi livelli appena considerati (percettivo,
esistenziale-emozionale, metafisico-morale) sono conden-
sati: «Che dire della stessa arca Terra? Essa non è a sua volta

7. Nella sua introduzione all’Origine della geometria di Husserl, riferendosi al


manoscritto husserliano sul copernicanesimo, Derrida distingue la geometria – la
scienza degli oggetti costituiti – dalla geologia, la scienza della Terra, che da un
punto di vista husserliano sarebbe impossibile: «La geometria è infatti la scienza
di ciò che è assolutamente oggettivo, la spazialità, negli oggetti che la Terra, il
nostro luogo comune, può indefinitamente fornire, come terreno d’intesa con
gli altri uomini. Ma se una scienza oggettiva delle cose terrestri è possibile, una
scienza oggettiva della Terra stessa, terreno e fondamento di questi oggetti, è
tanto radicalmente impossibile quanto quella della soggettività trascendentale.
La terra trascendentale non è un oggetto e non può mai diventarlo; e la possibilità
di una geometria è rigorosamente complementare all’impossibilità di ciò che si
potrebbe chiamare una geologia, scienza oggettiva della Terra stessa. È il senso
del frammento che riduce più che “confutare” l’ingenuità copernicana, e mostra
che la Terra, nella sua archi-originarietà, non si muove» (j. derrida, Introduction
à L’Origine de la Géométrie de Husserl, PUF, Paris 1962, pp. 78-79; trad. it. di C.
Di Martino, Introduzione a Husserl L’origine della geometria, Jaca Book, Milano
1987, pp. 136-137). In nota, Derrida offre una breve descrizione dell’operazione
teorica husserliana presente nel manoscritto: «Husserl “riduce” la tesi coperni-
cana facendo apparire come suo presupposto trascendentale la certezza d’una
Terra come origine di ogni determinazione cinetica oggettiva. Si tratta dunque di
esumare la Terra, di mettere a nudo il terreno originario sepolto sotto i depositi
sedimentari della cultura scientifica e dell’oggettivismo. Poiché la Terra non può
diventare corpo mobile» (ivi, p. 78; trad. it. p. 136).
8. hua iv, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Phi-
losophie. Zweites Buch: Phänomenologische Untersuchungen zur Konstitution, M.
Biemel (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1952, p. 158; trad. it. di E. Filippini Idee per una
fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, libro secondo: Ricerche
sopra la costituzione, a cura di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, p. 159.
9. m. merleau-ponty, La nature. Notes du cours du Collège de France, D. Séglard
(éds.), Seuil, Paris 1995, p. 110; trad. it. di M. Mazzocut-Mis, F. Sossi, a cura di M.
Carbone, La natura, Cortina, Milano 1996, p. 114.
352 rocco sacconaghi

già un corpo, non è un corpo celeste fra i corpi celesti»10. In


queste analisi gioca un ruolo decisivo l’idea husserliana che
la corporeità del soggetto sia essenzialmente coinvolta nella
costituzione trascendentale dell’esperienza11. L’inclusione del
suolo terrestre nel campo trascendentale è infatti uno svilup-
po dell’interpretazione fenomenologica del corpo-vivo, che,
come la Terra, non può essere cosalizzato proprio perché
partecipa all’attività di costituzione12:

La Terra può altrettanto poco perdere il suo senso di “dimora pri-


mordiale”, di arca del mondo, quanto poco il mio corpo [Leib] può
perdere il proprio senso d’essere del tutto peculiare di corpo proprio
primordiale [Urleib], da cui ogni corpo proprio deriva una parte del
suo senso d’essere e quanto [resta vero che] noi uomini, nel nostro
senso d’essere, precediamo gli animali, ecc.13.

La prospettiva fenomenologico-trascendentale viene presen-


tata dunque in questo manoscritto come una ri-conquista
filosofica dell’esperienza naturale ingenua (percettiva ed esi-
stenziale-emozionale) e una ri-comprensione rigorosamente
scientifica – su base intuitivo-descrittiva – della concezione
metafisico-morale implicita a livello naturale. Husserl delinea
questo stesso “movimento” nel § 9 della Crisi delle scienze
europee, quando scrive che «l’unica via possibile per superare
l’ingenuità filosofica che si nascondeva nella “scientificità”

10. e. husserl, Umsturz, p. 320; trad. it. p. 13. Cfr. anche ivi, pp. 323-324; trad.
it. pp. 16-17.
11. «Io ho tutte le cose di fronte a me, le cose sono tutte “là” – a eccezione di una
sola, appunto del corpo vivo che è sempre “qui”» (hua iv, p. 159; trad. it. p. 160);
«abbiamo insieme stabilito però anche questa limitazione: che esso [il corpo] si
presenta come una cosa di un genere particolare, tanto che non si può ordinare
senz’altro nella natura come un elemento tra gli altri» (ivi, p. 158; trad. it. p. 159).
12. «Il mio corpo [Leib] nell’esperienza primordiale, a differenza dei corpi
esterni, esso non conosce spostamento né quiete, ma solo moto interno e quiete
interna. […] Ma anche il suolo su cui cammina o non cammina il mio corpo non
viene esperito come un corpo [Körper] che possa essere integralmente spostato
oppure no» (e. husserl, Umsturz, p. 314; trad. it. p. 9).
13. Ivi, p. 323; trad. it. p. 16.
Implicazioni metafisiche ed epistemologiche 353

della filosofia obiettivistica tradizionale» è «un giusto ritorno


all’ingenuità della vita, ma attraverso una riflessione che si
innalzi al di sopra di essa»14.
La verità della riduzione fenomenologica non può dun-
que essere considerata come parallela o addirittura opposta
rispetto alla verità dell’atteggiamento naturale, né totalmente
neutra rispetto a questioni di ordine morale e metafisico15. In
Umsturz questi piani si condensano in una “visione” sintetica
che, pur essendo resa possibile dalla sospensione della “tesi
generale dell’atteggiamento naturale” (la cosiddetta Weltthe-
sis) e della considerazione metafisica del mondo, ricompren-
de questi due piani a partire da una prospettiva ulteriore.
Questa sintesi favorisce notevolmente l’immedesimazione
nella prospettiva husserliana. Se infatti l’atteggiamento tra-
scendentale fosse completamente altro rispetto all’esistenza
quotidiana e meramente indifferente rispetto alle questioni
ultime sul significato, sarebbe perlomeno più difficile “inse-
diarsi” in esso e verificarne la legittimità e la fecondità, non
potendo comprendere appieno come esso possa sorgere e
che scopo possa avere.
In questa riflessione trascendentale che ritorna sul piano
naturale e ricomprende implicitamente quello metafisico – in
una sintesi che permane rigorosamente implicita –, rimane
escluso per motivi essenziali il piano della scienza positiva.
Esso ovviamente viene dapprima fenomenologicamente “so-
speso” come quello naturale, ma mentre l’analisi puramente
trascendentale torna su quest’ultimo recuperandolo, il pro-
blema dello statuto veritativo della scienza positiva rimane
in sospeso. La teoria copernicana come tale, in questo senso,

14. hua vi, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale
Phänomenologie. Eine Einführung in die phänomenologische Philosophie, W. Biemel
(Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1954, p. 60; trad. it. di E. Filippini, La crisi delle scienze
europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1961, p. 88.
15. In questo manoscritto si esplicita il legame essenziale tra il piano analitico-
descrittivo della filosofia di Husserl e l’attenzione a tematiche etico-morali che,
sin dai Prolegomeni, ha sempre determinato le sue opere, e che nelle conferenze
di Vienna e di Praga del 1935 ha la più sontuosa e allarmata espressione.
354 rocco sacconaghi

non viene contestata in senso assoluto: «Forse a livello della


fenomenologia si deve dire che i calcoli e le teorie matema-
tiche dell’astrofisica successiva a Copernico e quindi anche
l’intera fisica mantengono comunque, nei loro propri limiti,
una validità»16. La scienza naturale, secondo Husserl, perde
completamente la propria legittimità «non in quanto teorizza,
ma in quanto crede di conseguire nelle sue teorie l’assoluta ve-
rità dell’universo, anche se con gradi relativi di perfezione»17.
Ciò che risulta completamente destituito di validità è pertanto
l’elevazione a livello metafisico – e assiologico – della teoria
scientifica. L’attribuzione di uno statuto veritativo ontologico
all’omogeneizzazione della Terra agli altri pianeti implica il
decentramento cosmologico (in senso metafisico) del sog-
getto, che prefigura la sua parificazione assiologica agli altri
esseri viventi: «L’omogeneizzazione – scrive Husserl – viene
da noi intesa senz’altro in modo tale che la Terra stessa sia
un corpo, sul quale per caso ci troviamo a strisciare»18. In
questa affermazione è sinteticamente tracciato l’itinerario
che dalla riduzione della Terra a pianeta porta alla concezione
del soggetto come un ente tra gli altri senza alcuna “priori-
tà trascendentale”, in quanto riducibile a un “qualcosa” che
per caso vi striscia sopra, come farebbe appunto un animale.
L’ulteriore omogeneizzazione identificata da Husserl è quella
tra organico e inorganico:

E non è mancato molto che si pensasse – anzi a volte lo si è pensato


davvero e diffusamente – che sia una mera fatticità, un dato di fatto
proprio delle leggi naturali che governano il mondo, se a certi corpi
[Körper] o tipi di corpi aventi una struttura fisica si trova ad essere
congiunto (causalmente) un corpo vivo [Leib] animale e una vita
psichica; per cui sarebbe concepibile che questi stessi corpi, così strut-
turati, non fossero appunto che dei meri corpi [Körper]19.

16. e. husserl, Umsturz, p. 321; trad. it. p. 15.


17. Ivi, p. 321; trad. it. pp. 14-15
18. Ivi, p. 321; trad. it. p. 14.
19. Ibidem.
Implicazioni metafisiche ed epistemologiche 355

1.2 Il copernicanesimo come espressione ed esemplificazione


dell’obiettivismo

Husserl non è qui interessato alla comprensione dello svi-


luppo storico20 che ha portato all’assunzione irriflessa delle
diverse omogeneizzazioni nella nostra percezione delle cose e
perciò non mette a tema il copernicanesimo in quanto evento
che ha storicamente “prodotto” le successive indebite equiva-
lenze. Il copernicanesimo rappresenta per Husserl un luogo
privilegiato per la comprensione dello sviluppo del pensiero
moderno – quindi della fenomenologia stessa, che ne è il
culmine e al contempo il superamento – non come momento
storico, ma come figura paradigmatica di quell’assetto del
pensiero che sta alla base del dualismo psico-fisico e quindi
della crisi, ovvero l’obiettivismo. Nella cosmologia coperni-
cana, infatti, agisce e si rivela la “logica” dell’obiettivismo, che
potremmo descrivere come l’assunzione del «punto di vista di
Sirio», espressione voltaireana di Camus21 con cui Merleau-
Ponty indica l’idea per cui è necessario (e possibile) uscire
dai limiti dell’esperienza soggettiva per coglierne la verità
oggettiva22. In questo senso, il copernicanesimo rappresenta
una illustrazione coerente, attuata tramite una “proiezione su
scala cosmologica”, di questo movimento del pensiero: il sog-
getto che esce da sé per conoscersi guardandosi dall’esterno.
Questa logica viene “amplificata” dai suoi inevitabili
risvolti rivoluzionari in ambito esistenziale-emozionale e

20. Egli compie una considerazione di tipo storico-genealogico nella Krisis,


prendendo in considerazione in modo particolare la figura di Galileo, «un genio
che scopre e insieme occulta» (hua vi, p. 53; trad. it p. 81). Per una trattazio-
ne delle implicazioni culturali delle prospettive cosmologiche, cfr. r. brague,
La Sagesse du monde: Histoire de l’expérience humaine de l’Universe, Librairie
Arthème Fayard, Paris 1999; trad. it. di M. Zannini, La saggezza del mondo. Storia
dell’esperienza umana dell’universo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005.
21. a. camus, Le mythe de Sisyphe, Gallimard, Paris 1942; trad. it. di A. Borelli,
Il mito di Sisifo, Bompiani, Milano 2001, p. 74.
22. m. merleau-ponty, Sens et non-sens, Nagel, Paris 1948, p. 159; trad. it. di P.
Caruso, Senso e non senso, il Saggiatore, Milano 2004, p. 114.
356 rocco sacconaghi

metafisico-morale: per la natura stessa della tematica co-


smologica – direttamente legata al problema della totalità –,
è quasi impossibile evitare lo sconfinamento, consapevole o
meno, dal piano puramente scientifico al piano metafisico e
quindi assiologico ed esistenziale. Da questo punto vista, ad
esempio, i Pensieri di Pascal – di cui si può ravvisare un’eco
anche nel testo husserliano, come suggerisce anche Guido
Davide Neri23 – rappresentano una vibrante documentazione
del sentimento generato dalla nuova cosmologia e dei pro-
blemi filosofici che essa pone. Anche Nietzsche, in un passo
della Genealogia della morale, tratteggia con la sua consueta
forza espressiva le implicazioni emozionali e morali del co-
pernicanesimo. Nel tentativo di argomentare come la scienza
moderna, lungi dal costituire un superamento degli ideali
ascetici, ne sia in realtà un segreto alleato, Nietzsche evoca
il nesso tra il decentramento cosmologico e la perdita della
dignità ontologica dell’uomo, affermando che «da Copernico
in poi sembra che l’uomo sia finito su un piano inclinato»
e rotoli «sempre più velocemente […] verso “il sentimento
perforante del proprio nulla”»24.
Un testo di Freud del 1916, intitolato Una difficoltà del-
la psicanalisi25, presenta un sorprendente parallelismo con

23. Cfr. g.d. neri, Terra e Cielo in un manoscritto husserliano del 1934, cit., p. 38.
24. «Non progredisce inarrestabilmente, da Copernico in poi, proprio l’auto-
rimpicciolimento dell’uomo, la sua volontà di auto-rimpicciolimento? Ahimè, la
fede nella sua dignità, unicità, insostituibilità nella gerarchia degli esseri è spari-
ta – l’uomo è diventato animale, animale, senza metafora, detrazione o riserva, lui
che, nella sua fede di una volta, era quasi Dio […]. Da Copernico in poi sembra
che l’uomo sia finito su un piano inclinato – ormai rotola sempre più velocemente
lontano dal centro – verso dove? Verso il nulla? Verso il “sentimento perforante
del proprio nulla”?» (f. nietzsche, Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift,
Tredition, Hamburg 2011, p. 132; trad. it. di S. Giametta, La genealogia della morale,
Rizzoli, Milano 1997, p. 207).
25. s. freud, Eine Schwierigkeit der Psychoanalyse, in «Imago», Bd. V/1 1917,
pp. 1-7; trad. it. di C. Musatti, Una difficoltà della psicoanalisi, in s. freud, Opere,
vol. viii, Bollati Boringhieri, Torino 1976, pp. 657-664. Il nesso con questo testo
è sottolineato da G.D. Neri nel suo Terra e Cielo in un manoscritto husserliano
del 1934, cit., p. 21.
Implicazioni metafisiche ed epistemologiche 357

Umsturz e può aiutarci ulteriormente a comprendere la po-


sizione husserliana, poiché “incarna” l’obiettivismo e ne mo-
stra gli effetti26. Freud infatti traccia un rapporto di continuità
(non ulteriormente specificato) tra la perdita della centralità
cosmologica – e quindi metafisica – dell’uomo implicata nella
rivoluzione copernicana e la negazione (che sarebbe invece
determinata dalle tesi darwiniane) della superiorità ontologica
dell’uomo rispetto agli altri esseri viventi. La continuità è data
dal fatto che i due eventi rappresenterebbero le prime “umi-
liazioni” inferte al narcisismo proprio dell’uomo – rispettiva-
mente l’umiliazione cosmologica27 e quella biologica28. La terza
umiliazione sarebbe determinata proprio dalla psicanalisi, la
quale, mostrando al soggetto il suo essere dominato da pulsio-
ne inconsce, impedirebbe a esso di considerarsi «padrone in

26. Prendiamo in considerazione questo breve testo freudiano con la sola inten-
zione di darne una lettura “strategica”, funzionale rispetto allo scopo di questo
contributo, e non certo di desumerne la posizione di Freud su questi problemi,
né tantomeno di affrontare il tema – assai complesso – del confronto tra il padre
della psicoanalisi e Husserl (cfr. f.s. trincia, Husserl, Freud e il problema dell’in-
conscio, Morcelliana, Brescia 2008).
27. Scrive Freud: «Dapprima, all’inizio delle sue indagini, l’uomo riteneva che
la sua sede, la terra, se ne stesse immobile al centro dell’universo, mentre il sole,
la luna e i pianeti si muovevano attorno ad essa con traiettorie circolari. [...]
La posizione centrale della terra era comunque una garanzia per il ruolo do-
minante che egli esercitava nell’universo, e gli appariva ben concordare con la
sua propensione a sentirsi il signore di questo mondo. La distruzione di questa
illusione narcisistica si collega per noi al nome e all’opera di Niccolò Copernico
nel sedicesimo secolo. [...] Quando essa [la scoperta di Copernico] fu universal-
mente riconosciuta, l’amor proprio umano subì la sua prima umiliazione, quella
cosmologica» (s. freud, Eine Schwierigkeit der Psychoanalyse, cit.; trad. it. p. 660).
28. «L’uomo – osserva Freud –, nel corso della sua evoluzione civile, si eresse a
signore delle altre creature del mondo animale. Non contento di un tale predomi-
nio, cominciò a porre un abisso fra il loro e il proprio essere. Disconobbe ad esse
la ragione e si attribuì un’anima immortale, appellandosi a un’alta origine divina
che gli consentiva di spezzare i suoi legami con il mondo animale. [...] Sappiamo
che le ricerche di Charles Darwin e dei suoi collaboratori e predecessori hanno
posto fine, poco più di mezzo secolo fa, a questa presunzione dell’uomo. L’uomo
nulla più è, e nulla di meglio, dell’animale; proviene egli stesso dalla serie animale
ed è imparentato a qualche specie animale di più e a qualche altra di meno. [...]
E questa è la seconda umiliazione inferta al narcisismo umano, quella biologica»
(ivi; trad. it. pp. 660-661).
358 rocco sacconaghi

casa propria»29, come altrimenti tenderebbe a fare. Le prime


due “umiliazioni” inferte al narcisismo coincidono esattamente
con due delle omogeneizzazioni di cui parla Husserl: l’omo-
geneizzazione della Terra agli altri pianeti e quella dell’uomo
agli altri animali. La terza omogeneizzazione identificata da
Husserl, quella tra organico e inorganico, non coincide – se
non indirettamente30 – con la terza umiliazione.
Quest’ultima tuttavia potrebbe essere interpretata proprio
come un’espressione dell’obiettivismo (analoga allo psicologi-
smo criticato nei Prolegomeni): per intendere l’inconscio co-
me espropriazione dell’identità soggettiva, perciò nel senso di
«un processo “in terza persona”»31, occorre aver già assunto

29. Così Freud descrive la terza umiliazione: «La terza umiliazione, di natura
psicologica, colpisce probabilmente nel punto più sensibile. “[...] Lo psichico non
coincide affatto in te con ciò che ti è cosciente. L’attuarsi di qualche cosa nella tua
psiche e il fatto che questo qualche cosa ti sia anche noto, son faccende diverse.
[...] Tu ti comporti come un sovrano assoluto che si accontenta delle informazioni
del suo primo ministro senza scendere fra il popolo ad ascoltarne la voce. Rientra
in te, nel tuo profondo, se prima non impari a conoscerti, capirai perché ti accade
di doverti ammalare; e forse riuscirai ad evitare di ammalarti”. Così la psicoanalisi
voleva istruire l’Io. Ma le due spiegazioni – che la vita pulsionale della sessualità
non si può domare completamente in noi, e che i processi psichici sono per se
stessi inconsci e soltanto attraverso una percezione incompleta e inattendibile
divengono accessibili all’Io e gli si sottomettono – equivalgono all’asserzione che
l’Io non è padrone in casa propria. Esse costituiscono insieme la terza umiliazione
inferta all’amor proprio umano, quella che chiamerei psicologica. Non c’è quindi
da meravigliarsi se l’Io non concede la propria benevolenza alla psicoanalisi e
continua ostinatamente a non crederle» (ivi; trad. it. pp. 661-663).
30. Possiamo ravvisare un’analogia con la terza omogeneizzazione husserliana
in Al di là del principio di piacere, laddove Freud individua nella “nostalgia per
l’inorganico” la cifra della pulsione di morte che definisce ogni forma di vita or-
ganica (cfr. s. freud, Jenseits Des Lustprinzips, Internationaler Psychoanalytischer
Verlag, Wien, 1921; trad. it. di A.M. Marietti e R. Colorni, Al di là del principio di
piacere, Bollati Boringhieri, Torino 1986).
31. Risulta molto interessante a questo proposito la posizione di Merleau-Ponty,
il quale sostiene che vi sia una convergenza tra i risultati delle analisi fenomeno-
logiche husserliane e alcune intuizioni freudiane. Innanzitutto, egli distingue la
consapevolezza teorica che Freud aveva delle sue stesse scoperte – consapevolezza
in via di maturazione e impregnata di motivi positivisti – e il reale contenuto delle
sue scoperte, che condurrebbe in una direzione opposta: «Bisogna qui ammettere
che resta ancora molto da fare per trarre dall’esperienza psicoanalitica tutto ciò che
Implicazioni metafisiche ed epistemologiche 359

una prospettiva “in terza persona” su di sé. In altri termini: dal


punto di vista fenomenologico, per ammettere l’alienazione
alla radice della nostra coscienza, occorre assumere un punto
di vista già alienato. In questo senso, quella che Freud presenta
come terza umiliazione sancirebbe, in termini psicanalitici, il
principio epistemologico senza il quale non sarebbe possibile
ammettere nemmeno le prime due umiliazioni-omogeneizza-
zioni. È solo per lo stabilirsi di questo assetto di pensiero che
diviene possibile dare «per scontato che la Terra è soltanto uno
dei corpi accidentali dell’universo, uno dei tanti, sicché sarebbe
quasi ridicolo, dopo Copernico, voler pensare che la Terra, “solo
perché noi per caso ci viviamo sopra”, sia il centro del mondo,
privilegiato addirittura per la sua “quiete”, rispetto al quale tutto
ciò che è mosso si muoverebbe»32. Il copernicanesimo è inizial-
mente una semplice espressione di questa logica, ma una volta
comparso ne diviene un catalizzatore, poiché offre la possibi-
lità – seppur solo teorica – di svincolare la propria prospettiva
dalla sua stessa “base”, dall’Ur-Boden della nostra esperienza.
In questo modo, esso incrementa la tendenza a ritenere l’espe-
rienza come illusoria, come una fase iniziale e ingenua della
conoscenza che può e deve essere superata:

essa contiene, e che gli psicoanalisti, a cominciare da Freud, si sono accontentati


di una impalcatura di nozioni poco soddisfacenti» (m. merleau-ponty, Signes,
cit., p. 291; trad. it. p. 300); «a prescindere dalle formulazioni filosofiche, è fuori
di dubbio che Freud ha penetrato sempre meglio la funzione spirituale del corpo
e l’incarnazione dello spirito» (ivi, p. 291; trad. it. p. 301). In particolare, Merleau-
Ponty sostiene che la categoria freudiana di inconscio non possa essere interpretata
come un processo “in terza persona”, sebbene sia talvolta così presentato da Freud
stesso: «Per render conto di questa osmosi tra la vita anonima del corpo e la vita
ufficiale della persona, ciò che costituisce la grande scoperta di Freud, occorreva
introdurre qualcosa tra l’organismo e noi stessi come sequenza di atti deliberati,
di conoscenze espresse. Questo qualcosa fu l’inconscio di Freud. […] L’inconscio
evoca a prima vista il luogo di una dinamica degli istinti di cui ci sarebbe dato solo il
risultato. Eppure, l’inconscio non può essere un processo “in terza persona” perché
è proprio l’inconscio a scegliere ciò che di noi sarà ammesso all’esistenza ufficiale,
a evitare i pensieri e le situazioni alle quali resistiamo, e perché esso non è dunque
un non-sapere, ma piuttosto un sapere non riconosciuto, non formulato, che non
vogliamo assumere» (ivi, p. 291; trad. it. p. 300).
32. e. husserl, Umsturz, p. 321; trad. it. p. 14.
360 rocco sacconaghi

Anche se [è] per noi il suolo di esperienza [Erfahrungsboden] per


tutti i corpi, nella genesi empirica della nostra rappresentazione del
mondo. Questo “suolo” [Boden] non viene dapprima esperito come
corpo; solo a un livello superiore della costituzione del mondo a par-
tire dall’esperienza esso diventa il corpo-suolo [Boden-Körper]; con
il che si sopprime la sua forma originaria di suolo33.

La reificazione della coscienza e la riduzione della Terra a


“grande masso” costituiscono dunque l’inevitabile “contro-
partita” ontologica di questa posizione epistemologica:

In queste scienze dell’infinità che si riferiscono alla natura nella sua totali-
tà, l’atteggiamento corrente è quello per cui i corpi viventi non sono altro
che dei comuni corpi solo casualmente dotati di una struttura peculiare,
che quindi si potrebbero anche pensare completamente aboliti; cosicché
è possibile una natura senza organismi, senza animali e senza uomini34.

Nella misura in cui si crede di dover (e di poter) assumere


un punto di vista estraneo alla propria esperienza per poterla
conoscere, questa subisce una distorsione prospettica che
dà luogo a una sostanzializzazione del trascendentale (che
equivale alla sua negazione35), su cui si fonda il dualismo
ontologico con le sue successive rielaborazioni in chiave ma-
terialista o spiritualista.

1.3 L’omogeneizzazione degli eventi e l’inconcepibilità della


storia

L’ultima decisiva implicazione dell’obiettivismo tematizzata


in questo manoscritto – ancorché non diffusamente – è l’im-

33. Ivi, p. 308; trad. it. p. 4.


34. Ivi, p. 321; trad. it. p. 14.
35. È precisamente questo il senso dell’«auto-fraintendimento» in cui secondo
Husserl sarebbe incorso Descartes, il quale pur avendo scoperto l’ego cogito ne
ha poi misconosciuto la natura trascendentale interpretandolo come res cogitans,
perciò come una sostanza (cfr. hua vi, p. 80; trad. it. p. 106).
Implicazioni metafisiche ed epistemologiche 361

possibilità di concepire la storia. Si tratta di un’ulteriore forma


di omogeneizzazione: l’omogeneizzazione dello spazio e degli
enti implicata nel copernicanesimo si trova infatti in una re-
lazione essenziale con l’omogeneizzazione del tempo e degli
eventi. Husserl coglie un nesso tra la riduzione della realtà a
ciò che è obiettivamente constatabile e la riduzione della storia
a un’incessante metamorfosi senza senso – come emerge ad
esempio in un passo della Conferenza di Praga: «Il mondo e
l’esistenza umana – si chiede Husserl – possono avere un senso
se le scienze ammettono come valido e come vero soltanto ciò
che è obiettivamente constatabile, se la storia non ha altro da
insegnare se non che tutte le forme del mondo spirituale, tutti i
legami di vita, gli ideali [...] si formano e poi si dissolvono come
onde fuggenti?»36. Se si assume una prospettiva “oggettiva”
nella convinzione che l’esperienza soggettiva sia illusoria, si
perderà tutto ciò che soltanto all’interno di quest’ultima può
emergere, ovvero la specificità e il valore dei singoli eventi.
Presupponendo l’oggettivabilità di enti ed eventi, l’obiettivi-
smo nega che essi assumano un senso in relazione al soggetto,
coinvolto a sua volta in questa omogeneizzazione.
La cosmologia copernicana, in quanto espressione e po-
tenziamento della medesima logica, rende ancor più difficile
concepire la storia. Heinrich Rickert sostiene in questo senso
che la rivoluzione astronomica copernicana abbia di fatto reso
impraticabile una considerazione filosofica della storia: nel
momento in cui l’uomo perde la sua centralità cosmologica,
non vi è più motivo di riferire a lui gli eventi37. L’idea che le

36. Ivi, pp. 4-5; trad. it. p. 36.


37. Cfr. h. rickert, Geschichtsphilosophie, in id., Die Philosophie im Beginn des
zwanzigsten Jahrhunderts: Festschrift für Kuno Fischer, W. Windelband (Hrsg.), Carl
Winter’s Universitäts Buchhandlung, Heidelberg 1904-1905, vol. ii, pp. 51-133; trad.
it. di S. Barbera e P. Rossi, Filosofia della storia, in Lo storicismo tedesco, a cura di
P. Rossi, utet, Torino 1977, pp. 341-423. Rickert sostiene che la «trasformazione,
avvenuta all’inizio del mondo moderno, delle rappresentazioni del cosmo» (ivi,
p. 121; trad. it. p. 411) – trasformazione «ancora oggi importante perché ha creato
in linea di principio l’immagine del mondo che dobbiamo ritenere definitiva, e in
ogni caso l’unica finora scientificamente sostenibile» – abbia comportato la fine di
362 rocco sacconaghi

omogeneizzazioni conducano all’impossibilità di concepire


una storia è adombrata da Husserl quando afferma che la
Terra è pensata come «un corpo sul quale per caso ci troviamo
a strisciare»: considerato obiettivisticamente, il fatto di vive-
re su questa Terra non presenta alcun senso razionalmente
concepibile, è una pura contingenza. Per Husserl, si tratta
di una posizione assurda, come emerge nel seguente passo,
in cui il nesso essenziale tra obiettivismo e negazione di un
senso storico viene esplicitato ulteriormente:

Non si può ammettere l’assurdità (perché è davvero tale) che consiste


nel dare inavvertitamente per scontata la concezione naturalistica
del mondo, cioè quella dominante, per poi considerare in termini
antropologistici e psicologistici la storia degli uomini come storia della
specie, e l’elaborazione della scienza e dell’interpretazione del mondo
entro lo sviluppo degli individui e dei popoli come un evento ovvio
e accidentale che si è prodotto sulla Terra, ma che avrebbe potuto
verificarsi altrettanto bene su Venere o su Marte38.

tutti i «tentativi di filosofia della storia» (ibidem). Egli vede nella trasformazione
della concezione cosmologica la radice del decentramento antropologico: «tutte
queste trasformazioni sono avvenute, in linea di principio, per opera delle dottrine
di Copernico e di Giordano Bruno e non già – come molti ritengono – per opera
della biologia moderna» (ivi, p. 122; trad. it. p. 412). Ancor più della rivoluzione
copernicana, per Rickert è stata decisiva «la distruzione dell’idea di un cosmo
chiuso, che si può abbracciare con un solo sguardo», distruzione consumatasi con
«la dottrina dell’infinità del mondo di Giordano Bruno» (ibidem), considerata
come «lo scoglio su cui doveva naufragare ogni filosofia della storia che voleva
essere “storia universale” nel senso rigoroso del termine»: il nesso tra l’infinità del
mondo e la fine della stessa possibilità di una “storia” consiste nel fatto che «di ciò
che è temporalmente e spazialmente illimitato vi è soltanto scienza di leggi; e la
storia universale perde così per sempre il suo significato vero e proprio» (ibidem).
L’uomo perde la centralità che tradizionalmente si è attribuito, poiché «il suo teatro,
la terra, ha perduto il suo significato nel cosmo infinito. Essa è diventata l’esemplare
indifferente di un genere, e altrettanto indifferente diventa, nella prospettiva di
una scienza di leggi, tutto quanto di singolare e di particolare avviene su di essa»
(ibidem). Per un confronto tra Husserl e Rickert, cfr. i. kern, Husserl und Kant.
Eine Untersuchung über Husserls Verhältnis zu Kant und zum Neukantianismus,
Nijhoff, Den Haag 1984; a. staiti, Geistigkeit, Leben und geschichtliche Welt in der
Transzendentalphänomenologie Husserls, Ergon, Würzburg 2010.
38. e. husserl, Umsturz, p. 323; trad. it. p. 16.
Implicazioni metafisiche ed epistemologiche 363

2. L’incontestabilità dell’esperienza originaria e il


riaprirsi della storia

2.1 Incontestabilità e intrascendibilità dell’esperienza


originaria

L’obiettivismo è una posizione che Husserl reputa assurda,


insostenibile in quanto contraddittoria in se stessa. Non si
tratta di un’auto-contraddittorietà logica, come quella im-
putata già da Agostino agli scettici – e ripresa da Husserl in
Storia critica delle idee39 –, bensì di una più radicale forma
di auto-oblio, di un’alienazione senza la quale la tesi scettica
non sarebbe concepibile teoricamente né tantomeno etica-
mente accettabile. Tale auto-contraddittorietà va intesa in
senso fenomenologico, poiché lo stabilirsi dell’obiettivismo
implica la negazione di ciò che per Husserl è il trascendenta-
le: l’esperienza soggettiva originaria. L’obiettivismo pertanto
rappresenta un’assurdità nella prospettiva fenomenologica
perché, smentendo l’esperienza da cui pur sorge, nega la pro-
pria stessa condizione di possibilità40.
La riduzione trascendentale, nelle intenzioni di Husserl,
è invece l’atto conoscitivo che permette di attenersi all’origi-
nario, ed in questo senso si presenta come l’esatto opposto di
ogni forma di astrazione41: «il nostro prescindere dal mondo

39. hua vii, Erste Philosophie (1923-1924). Erster Teil: Kritische Ideengeschichte,
R. Boehm (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1959, p. 61; trad. it. parziale di G. Piana,
Storia critica delle idee, Guerini, Milano 1989, p. 78.
40. Esso infatti si instaura al prezzo di un duplice oblio del soggetto: l’oblio
dell’esperienza personalistica che dà luogo all’atteggiamento naturalistico («L’at-
teggiamento naturalistico – scrive Husserl in Ideen II – è subordinato a quello
personalistico e […] attraverso l’astrazione o, meglio, attraverso una specie di
oblio di sé da parte dell’io personale, ottiene una certa autonomia, assolutizzando
così, e in modo illegittimo, il suo mondo, la natura» (hua iv, pp. 183-184; trad. it.
p. 188) e l’ulteriore oblio di questa stessa operazione.
41. Questa istanza husserliana è stata colta e ben espressa da Lévinas: «la ri-
duzione non si sforza più di realizzare una semplice astrazione», e «ci rivela la
nostra vita nella sua autentica concretezza, e ciò è molto di più di quanto avviene
nell’atteggiamento psicologico, in cui l’uomo è percepito come una parte della
364 rocco sacconaghi

intero nella forma della riduzione fenomenologica – scrive


Husserl in Ideen I – è qualcosa di totalmente diverso da una
mera astrazione di componenti di connessioni più ampie,
siano esse necessarie o fattuali»42. In quanto unica forma di
indagine scientifica che non ottiene il proprio tema attraverso
un’astrazione – bensì al contrario tramite l’inclusione temati-
ca di ogni nesso intenzionale –, la fenomenologia vanta uno
statuto essenzialmente diverso rispetto alle scienze positive.
Nessuna ricerca scientifica positiva, secondo Husserl, può
perciò smentire lo strato dell’esperienza rivelato dall’indagi-
ne fenomenologico-trascendentale. Ciò che per Freud è una
sorta di “illusione trascendentale”, frutto del narcisismo che ci
definisce, per Husserl è un sapere originario e inconfutabile:

Rispetto a questo stato di cose, a questa dignità costitutiva o gerar-


chia di valori [Wertordnung], non possono cambiare nulla tutte le
assimilazioni (omogeneizzazioni) che si vengono necessariamente
costituendo in connessione reciproca, [come quella] del corpo proprio
con il mero corpo [Körper] ovvero del soma corporeo assimilato agli
altri corpi, dell’umanità vista come specie animale fra le altre specie
animali, e così infine anche della Terra come corpo cosmico fra gli
altri corpi cosmici43.

Ora, nell’atto stesso di “difendere” l’esperienza originaria,


attestandone la natura trascendentale, la riduzione fenome-
nologica vincola il soggetto a essa. L’affermazione dell’inog-

natura, e dove il senso della sua esistenza è falsato» (e. lévinas, Théorie de l’in-
tuition dans la phénoménologie de Husserl, Vrin, Paris 2001, p. 213; trad. it. di V.
Perego, La teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl, Jaca Book, Milano
2002, p. 166); «la riduzione fenomenologica è precisamente il metodo con l’aiuto
del quale ritorniamo all’uomo nella sua vera concretezza» (ivi, p. 163).
42. hua iii/1, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen
Philosophie. Erstes Buch: Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, K.
Schuhmann (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1976, p. 120; trad. it. di V. Costa, Idee per
una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. i, libro primo.
Introduzione generale alla fenomenologia pura, Einaudi, Torino 2002, p. 126.
43. e. husserl, Umsturz, p. 324; trad. it. p. 16.
Implicazioni metafisiche ed epistemologiche 365

gettivabilità della Terra, interpretabile come estensione e svi-


luppo della difesa del «diritto proprio degli strati inferiori»44
dell’esperienza, rappresenta un’efficace illustrazione dell’im-
possibilità del Kosmotheoros45: l’incontestabilità dell’espe-
rienza originaria deriva proprio dall’insopprimibilità del
vincolo trascendentale che ci lega a essa. In termini giuridici
potremmo dire che il soggetto ha il diritto di non essere ri-
dotto a un mero ente, ma non ha il diritto di superare i limiti
trascendentali della propria esperienza, proprio perché se li
superasse incorrerebbe inevitabilmente nella reificazione di
sé e degli altri.
Il soggetto non può essere ridotto a ente perché è la fonte
del senso del mondo, ma questo non significa che possa as-
sumere rispetto al mondo una posizione assoluta nel senso
di oggettivante: al contrario, proprio la natura trascendentale
del soggetto implica che non possa svincolarsi dal suo proprio
stesso suolo, la Terra. In questo senso, l’inclusione della Terra
nella dimensione trascendentale della soggettività, a differen-
za di quanto sostiene Merleau-Ponty, non apre una breccia
nell’idealismo husserliano in direzione di una filosofia della
natura “trasfigurata” in senso trascendentale: al contrario, è
proprio in quanto costituisce il senso del mondo che il sog-
getto non può assumere una prospettiva al di fuori di sé, che
gli permetta di oggettivare il mondo e se stesso.

44. e. husserl, Erfahrung und Urteil. Untersuchungen zur Genealogie der Logik,
Claassen, Hamburg 1954, p. 45; trad. it. di F. Costa e L. Samonà, Esperienza e giudi-
zio. Ricerche sulla genealogia della logica, Bompiani, Milano 1995, p. 42: «il dominio
della doxa non è dominio di evidenze di ordine inferiore a quello dell’episteme,
[...] ma è propriamente il dominio dell’ultima originarietà al quale si riferisce per
il suo senso la conoscenza esatta il cui carattere dev’essere scrutato come quello di
un puro metodo e non di una via verso la conoscenza atta a procurare una cosa
in sé». Perciò, anche se il cammino della conoscenza «consiste essenzialmente
nell’elevarsi dalla doxa all’episteme, [...] non ci si deve dimenticare dello scopo
ultimo, dell’origine e del diritto proprio degli strati inferiori».
45. Cfr. m. merleau-ponty, Le visible et l’invisible, a cura di C. Lefort, Galli-
mard, Paris 1964, p. 32; trad. it. di A. Bonomi, riveduta da M. Carbone, Il visibile
e l’invisibile, Bompiani, Milano 1993, p. 42.
366 rocco sacconaghi

2.2 Obiettivismo come negazione e assolutizzazione dei


limiti dell’esperienza

La fenomenologia attua così un’“assunzione filosofica” dei


limiti dell’esperienza46 – che altro non sono se non le le-
galità trascendentali che presiedono al costituirsi del senso
del mondo e della storia – permettendo di tracciare la reale
fisionomia della soggettività e di riconoscerne la peculia-
re “centralità trascendentale”. L’obiettivismo invece compie
l’operazione opposta e conduce perciò a opposti esiti: esso
infatti attua un superamento epistemologico dei limiti trascen-
dentali dell’esperienza che conduce all’assolutizzazione in
senso ontologico e assiologico dei limiti stessi.
La prospettiva esemplificata dal brano freudiano sopra
citato (a prescindere dalla ben più complessa posizione ef-
fettiva del padre della psicoanalisi) mostra bene come l’asso-
lutizzazione in chiave ontologica e assiologica dei limiti del
soggetto presupponga un loro surrettizio superamento in
senso epistemologico. Una teoria che neghi lo statuto veri-
tativo dell’esperienza soggettiva in nome della sua finitezza e
dell’invalicabilità dei suoi limiti implica l’affermazione della
possibilità di un loro oltrepassamento: per dire che l’uomo
è solo un frammento di materia sperduto nell’universo è in-

46. È questo il senso del cosiddetto “principio di tutti i principi” presentato


da Husserl in Ideen I: «Nessuna teoria concepibile può indurci in errore se ci
atteniamo al principio di tutti i principi: cioè che ogni intuizione originalmente
offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà original-
mente nell’“intuizione” (per così dire in carne ed ossa) è da assumere come esso
si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà» (hua iii/1, p. 52; trad. it. pp. 52-53).
Lévinas fa emergere con chiarezza la centralità della questione dei limiti sottoli-
neando come la fenomenologia husserliana operi una sorta di «capovolgimento
in “positività” e in “struttura essenziale di tutto ciò che veniva considerato come
scacco, difetto, contingenza empirica da una filosofia che commisurava il dato
all’altezza dell’ideale (ma che già Kant denunciava come illusione trascenden-
tale)»; per questo motivo egli parla della fenomenologia come di una «filosofia
post-kantiana» (e. lévinas, En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger,
Vrin, Paris 1949, p. 114; trad. it. di F. Sossi, Scoprire l’esistenza con Husserl e Hei-
degger, Cortina, Milano 1998, pp. 128-129).
Implicazioni metafisiche ed epistemologiche 367

fatti necessario aver accesso a una prospettiva che sia ultra-


soggettiva. Merleau-Ponty rileva la medesima assurdità della
pretesa oggettivante nell’ambito della ricerca storica:

Il senso più profondo del concetto di storia non è quello di chiudere


in un punto del tempo e dello spazio il soggetto pensante; quest’ul-
timo può apparire così solo a un pensiero che sia esso stesso capace
di uscire da ogni spazialità o temporalità per vederlo nel suo luogo e
nel suo tempo. Ma il senso storico discredita appunto il pregiudizio
di un pensiero assoluto47.

In questo passo il filosofo francese esibisce il paradosso per cui


lo storicismo, che vorrebbe confinare il soggetto nei suoi limiti
spazio-temporali, può di fatto essere affermato solamente da
un soggetto capace di oltrepassare questi stessi limiti tramite
uno sguardo di sorvolo. L’affermazione della storicità come
carattere essenziale del soggetto ne definisce la fisionomia e
perciò i limiti, ma non implica la sua riduzione a mero oggetto,
il suo confinamento “in un punto del tempo e dello spazio”, che
invece presupporrebbe la sua capacità di assumere uno sguardo
assoluto negando così i limiti che vorrebbe assolutizzare. Ci
troveremmo perciò di fronte a un “soggetto-cosa” definito dai
suoi limiti empirici e tuttavia capace di riconoscersi come tale
astraendosi totalmente da questi stessi limiti: in ciò consiste
l’assurdità fenomenologica dell’obiettivismo.
Il seguito del brano nietzscheano sugli effetti della rivo-
luzione copernicana prima proposto ci aiuta a cogliere l’in-
consistenza teorica dell’obiettivismo, mettendo in scena la
conflittualità psicologico-morale che lo attraversa:

Ogni scienza (e nient’affatto la sola astronomia, sul cui effetto avvilente


e mortificante Kant ha fatto una rimarchevole confessione: «essa an-
nulla la mia importanza»…), ogni scienza, quella naturale altrettanto
che quella innaturale – così chiamo io l’autocritica della conoscenza –,

47. m. merleau-ponty, Signes, cit., p. 136; trad. it. pp. 147-148.


368 rocco sacconaghi

mira attualmente a persuadere l’uomo a rinunciare al rispetto di sé che


egli aveva avuto finora, come se il medesimo non fosse stato nient’altro
che una bizzarra presunzione; si potrebbe dire addirittura che ogni
scienza ripone il suo proprio orgoglio, la sua propria aspra forma di
atarassia stoica nel mantenere in piedi questo disprezzo di sé dell’uo-
mo faticosamente conquistato come sua ultima e più seria pretesa di
stima di fronte a se stesso48.

Nietzsche propone qui una “drammatizzazione” del tentativo


di auto-reificazione del soggetto – a suo parere implicato nella
scienza moderna –, rilevando in esso un’oscillazione che svela
l’insopprimibilità di ciò che vorrebbe negare: l’affermazione
del disprezzo di sé si rivela essere un’espressione paradossale
della strutturale “stima” che l’uomo ha di se stesso – inevitabile
riflesso psicologico dell’implicito sapere della propria natura
trascendentale. La negazione della centralità del soggetto non
è altro che un modo indiretto e “assurdo” – appunto – di riaf-
fermare ciò che non può essere negato se non astrattamente.

2.3 La “provenienza” dalla Terra come fattualità


trascendentale

Si potrebbe pensare che il riferimento al suolo terrestre vin-


coli il soggetto a una dimensione “preistorica” o a-storica,
rispetto alla quale lo sviluppo storico si configurerebbe come
un avvicendarsi di eventi determinati da una logica parallela.
Per Husserl, al contrario, la Terra è essenzialmente coinvolta
nel movimento storico che definisce la soggettività come tale.
L’insopprimibilità del vincolo che lega il soggetto all’origina-
rio non solo non determina un’estraneità alla “logica” della
storia, bensì la implica come propria condizione di possibilità
e ne riapre al contempo la stessa pensabilità.
Vediamo come questo emerge dall’interno delle analisi
presentate in Umsturz. Per mettere alla prova la sua stessa

48. f. nietzsche, Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift, cit., p. 132; trad.
it. p. 207.
Implicazioni metafisiche ed epistemologiche 369

tesi, Husserl effettua una serie di esperimenti mentali – tra-


mite variazioni eidetiche –, immaginando le più disparate
prospettive sulla Terra. A quali condizioni può essere messo
in discussione che ogni modo di esperienza della quiete e del
movimento sia «sempre riferito in primo luogo al suolo di tut-
ti i corpi-suolo relativi, al suolo terrestre»49, permettendo così
di pensare la Terra come un corpo a sua volta in movimento?
Occorrerebbe poter identificare un suolo alternativo «cui si
riferisca ogni esperienza del corpo e quindi anche ogni espe-
rienza dell’essere perseverante nella quiete e nel moto»50. A tal
fine Husserl s’immagina di essere un uccello («Ora supponia-
mo che io sia un uccello e che possa volare […]. Comprender-
li significa trasporsi in loro in quanto esseri che volano»51), o
ancora concepisce l’(allora futuristica) eventualità di trovarsi
su un veicolo spaziale («Un corpo in movimento [veicolo] e
su di esso il mio corpo-navicella volante. “Potrei volare tanto
in alto che la Terra mi apparirebbe come una sfera”. La Terra
potrebbe essere così piccola da poterla perlustrare da ogni
parte e pervenire indirettamente alla rappresentazione della
sfera. Scopro così che è un grande corpo sferico»52) – posi-
zioni che potrebbero permettere di costituire la Terra come
oggetto. Tali prospettive tuttavia non giustificherebbero a
suo parere l’oggettivazione della Terra, poiché il nesso che
ci lega a essa come nostro riferimento originario permane
anche nel momento in cui ce ne distanziassimo in maniera
tale da poterla percepire come sfera: «l’uccello, l’aereo […]
si muovono in quanto esperiscono la Terra come “corpo”
natale [Stamm-“Körper”] “corpo”-suolo»53. Husserl elabora
anche l’ipotesi di un’immaginaria “seconda Terra”54, a par-
tire dalla quale la Terra originaria, di nuovo, dovrebbe poter

49. e. husserl, Umsturz, p. 312; trad. it. p. 7.


50. Ibidem.
51. Ivi, p. 315; trad. it. p. 10.
52. Ivi, p. 317; trad. it. p. 11.
53. Ibidem.
54. «Si dirà forse: la difficoltà non sussisterebbe se io e noi potessimo volare e
disponessimo di due Terre come corpi-suolo, a partire da ciascuna delle quali
370 rocco sacconaghi

essere ridotta a corpo cosmico oggettivabile, ma nemmeno


questa eventualità permetterebbe ai suoi occhi l’assunzione
della Terra come semplice pianeta: «Ma cosa significa due
Terre? Due frammenti di una Terra con una umanità. Insieme
formerebbero un unico suolo e sarebbero simultaneamente,
ciascuno, un corpo per l’altro e irrelativo al suolo sintetico
del loro insieme»55.
Consideriamo ora quello che appare come il più elaborato
esperimento mentale proposto da Husserl. Egli immagina
di essere nato e di vivere con la sua famiglia su una grande
“aeronave” che attraversa lo spazio: in tal caso, la sua patria
d’origine (Urheimat) sarebbe l’aeronave stessa, che dunque
fungerebbe per lui da Terra56. Sembrerebbe di aver trovato
così un suolo alternativo a quello terrestre originario, che
permetterebbe di oggettivare quest’ultimo. A questo punto
interviene un argomento che, seppur analogo a quelli con-
siderati sinora, introduce un elemento ulteriore e decisivo,
vale a dire il concetto di storicità trascendentale come impli-
cazione essenziale della prospettiva fenomenologica sulla
Terra. Anche nel caso in cui un uomo non avesse mai messo
piede sul suolo terrestre, scrive Husserl, per il nesso storico
ineludibile con le generazioni precedenti provenienti dalla

potessimo raggiungere l’altra a volo. In questo modo, appunto, l’una diventerebbe


corpo per l’altra che fungerebbe da suolo» (ivi, p. 318; trad. it. pp. 11-12).
55. Ivi, p. 318; trad. it. p. 12.
56. Scrive Husserl: «È però anche possibile che il suolo terrestre si allarghi,
magari in modo tale che io arrivi a comprendere che lo spazio del mio suolo
terrestre primitivo è percorso da molto tempo da grandi aeronavi: su una di
esse io sono nato, vive la mia famiglia, ed essa era il mio suolo di esistenza [mein
Seinsboden], finché non ho appreso che siamo solo dei naviganti sulla Terra più
vasta, ecc. In tal modo una molteplicità di località suolo [Bodenstätten], di dimore
[Heimstätten], può pervenire all’unità di una sola località-suolo. […] Ma per di
più ora mi posso anche figurare che siano delle dimore [Heimstätten]. Si deve
però riflettere: ognuna di esse trae la propria “storicità” a partire dal rispettivo
“io” che vi ha dimora. Se io sono nato figlio di naviganti, parte della mia crescita
si verifica sulla nave; quest’ultima non si caratterizzerebbe per me come nave in
relazione alla Terra – fintanto che non si fosse stabilita un’unità – ma sarebbe
essa stessa la mia “Terra”, la mia patria d’origine [Urheimat]» (ivi, p. 318; trad. it.
pp. 12-13).
Implicazioni metafisiche ed epistemologiche 371

Terra, questa non cesserebbe di fungere per lui da riferimento


primario e insopprimibile della spazialità. Husserl sostiene
che la vicenda individuale di ognuno, qualunque storia abbia,
è sempre necessariamente il “momento” di un’«unica storia
originaria» che nella Terra ha la «propria patria»:

I miei genitori però non sono originari della nave, essi avevano anco-
ra una residenza [Zuhause] più antica, un’altra patria d’origine. Nel
mutamento delle dimore (se la parola dimora [Heimstätte] designa
come di consueto il territorio, personale o familiare, su cui vivo) resta
acquisito in generale il fatto che ogni io ha una sua patria d’origine – e
una patria siffatta appartiene ad ogni popolo originario [Urvolk] con
il suo territorio d’origine [Urterritorium]. Ma ogni popolo e la sua
storicità, come ogni sovra-popolo (sovra-nazione) ha naturalmente
a sua volta la propria patria, in ultima analisi, sulla “Terra” e tutti
gli sviluppi, tutte le storie relative hanno, pertanto, un’unica storia
originaria [Urhistorie], di cui essi sono episodi57.

Quest’ultimo argomento svincola la base dell’attività costitu-


tiva del soggetto dallo stadio corporeo-percettivo individuale,
estendendola in direzione di una storicità trascendentale:
Husserl mette qui in campo la provenienza storica come ri-
ferimento trascendentale e perciò insopprimibile. La Terra
non è oggettivabile perché, anche se è possibile porsi fisica-
mente in una prospettiva per cui apparirebbe come una “cosa”
costituita, analogamente a come potrei fare con una biglia o
un’arancia, da essa io provengo, direttamente o meno. Dal mio
corpo non posso alienarmi appunto perché è il mio corpo;
dalla Terra, invece, potrei separarmi fisicamente e contem-
plarne l’immagine – e tuttavia, questo non ne cancellerebbe
l’originaria funzione di suolo, di arca. Husserl sostiene così

57. «Certo è anche possibile che questa storia originaria sia stata [quella di] un
insieme di popoli vissuti e sviluppatisi in modo totalmente separato, tutti disposti
però, gli uni rispetto agli altri, nell’orizzonte aperto ed indeterminato dello spazio
terrestre» (ivi, p. 319; trad. it. p. 13).
372 rocco sacconaghi

l’incontestabilità dell’idea per cui «la Terra, “solo perché noi


per caso ci viviamo sopra”, sia il centro del mondo»58.
In ultima analisi, dunque, il cuore dell’argomentazione
husserliana è la constatazione dell’assoluta originarietà di
questo fatto, non scomponibile in ulteriori elementi o ricon-
ducibile a determinate cause: la Terra è il “centro” del cosmo
semplicemente per il fatto che noi proveniamo da essa59.
In questo senso, la prospettiva storico-teleologica interviene
come principio epistemologico fondamentale – ancorché
implicito – nell’analisi husserliana sulla spazialità: è solo in
quest’ottica storica peculiare che il suolo terrestre può essere
inoggettivabile. La prospettiva teleologica è implicata nella
natura generativa – cioè appunto trascendentale – del vincolo
che lega il soggetto al suo proprio suolo. Husserl parla infatti
di una genesi terrena compresa nella genesi costitutiva tra-
scendentale della soggettività: «tutti gli animali, tutti gli esseri
viventi, in genere tutto ciò che è, ha il suo senso d’essere solo
a partire dalla mia genesi costitutiva, e questa genesi “terrena”
ha la precedenza»60. Ed è per questo che, nell’atto stesso di

58. Ivi, p. 321; trad. it. p. 14.


59. Si tratta di una contingenza radicale che non è interpretabile come pura
insensatezza, bensì come fondamento primo e indeducibile del senso: in questo
consiste quella che Husserl chiama «irrazionalità della fattualità trascendentale»
(hua vii p. 188; trad. it. p. 202; cfr. anche hua i, Cartesianische Meditationen und
Pariser Vorträge, S. Strasser (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1950, p. 114; trad. it. di
R. Cristin, Meditazioni cartesiane con l’aggiunta dei discorsi parigini, Bompiani,
Milano 2002, p. 105). Per questa categoria cfr. s. luft, Facticity and Historicity
as Constituens of the Lifeworld in Husserl’s Late Philosophy, in id., Subjectivity
and Lifeworld in Transcendental Phenomenology, Northwestern University Press,
Evanston 2011, pp. 103-124; m. vergani, Fatticità e genesi in Edmund Husserl.
Un contributo dai manoscritti inediti, La Nuova Italia, Firenze 1998. La fattualità
trascendentale non precede la soggettività, bensì coincide con essa: il fatto che la
soggettività trascendentale “si trovi” sul suolo terrestre non può essere conside-
rato pre- o extra-intenzionale – e perciò meramente empirico –, proprio perché
è definito essenzialmente dal suo riferimento alla soggettività. Nella misura in
cui la soggettività trascendentale non è una sostanza separabile dal resto dell’es-
sente, l’inclusione in essa del suo proprio suolo non può essere intesa come un
trasferimento del trascendentale in una dimensione pre-soggettiva.
60. e. husserl, Umsturz, p. 324; trad. it. p. 17.
Implicazioni metafisiche ed epistemologiche 373

criticare la pretesa metafisica implicita nel copernicanesimo,


Husserl riapre la possibilità di concepire la storia come tale61.
Le omogeneizzazioni sono da considerare innanzitutto un ef-
fetto dell’oblio della storicità originaria – oltre a esserne, come
già abbiamo visto, un ulteriore incremento. Se la storicità non
è considerata come originaria, il cosmo subisce un’inevitabi-
le omogeneizzazione; a sua volta, questa omogeneizzazione
rende impossibile concepire la storia.
Solamente sulla base di questo nesso tra storicità e
spazialità il discorso husserliano sull’ Europa può avere

61. È interessante notare come anche Rickert – dopo aver attribuito alla rivolu-
zione astronomica la responsabilità della fine dei tentativi di una filosofia della
storia – individui in una prospettiva filosofica trascendentale, quella di Kant, la
possibilità di riaprire la pensabilità della storia – e quindi la legittimità di una
sua considerazione filosofica. Kant, osserva Rickert, ha «paragonato la sua teoria
della conoscenza all’impresa di Copernico» (h. rickert, Filosofia della storia, cit.,
p. 122; trad. it. p. 412): seguendo «questo paragone anche in un’altra direzione»,
possiamo vedere come Kant abbia condotto a una nuova prospettiva sulla storia:
«Grazie a Kant l’uomo viene posto di nuovo – con il pieno riconoscimento della
moderna scienza della natura – al “centro” del mondo: certamente non in senso
spaziale, ma in modo ancor più significativo per i problemi della filosofia della
storia. Ora tutto “gira” nuovamente intorno al soggetto» (ivi, p. 123; trad. it. p.
413); «L’idealismo trascendentale ha significato, proprio in virtù del “punto di
vista copernicano”, una conversione nella via che la filosofia credeva di dover
imboccare sulla base della nuova immagine del mondo fornita dall’astronomia:
una conversione, però – e questo è l’elemento decisivo – la quale lascia del tutto
intatta la nuova immagine del mondo e ciononostante rende possibile riprendere
i vecchi problemi» (ivi, pp. 122-123; pp. 412-413). Nella misura in cui il soggetto
viene pensato al centro in senso trascendentale, si chiede Rickert, «che cosa può
ancora significare di fronte a questo il fatto che il teatro della storia rappresenta
spazialmente e temporalmente una piccola particella destinata a scomparire, posta
in un punto qualsiasi dell’universo?» (ivi, p. 123; trad. it. p. 413). L’opera di Kant
«sgombra anzitutto la via dagli impedimenti che si frappongono a concepire un
essere come la storia» (ibidem), poiché «il corso singolare dello sviluppo dell’uma-
nità ha nuovamente potuto essere concepito – con l’aiuto dei concetti assoluti di
ragione e di libertà – come unità, e venir articolato nei suoi diversi stadi in modo
tale da misurare ogni stadio in base al suo contributo specifico alla realizzazione
del senso del mondo» (ivi, p. 124; trad. it. p. 414). Perciò, anche se «Kant non ha
creato egli stesso un sistema di filosofia della storia», scrive Rickert, «sulla base
del suo pensiero ne sono sorti uno dopo l’altro, e in ciò dobbiamo riconoscere
certo un’influenza non inessenziale» (ibidem).
374 rocco sacconaghi

una validità fenomenologica: a partire dall’affermazione


dell’incontestabilità e della correlativa intrascendibilità
dell’esperienza originaria, Husserl può attuare una filo-
sofia della storia, o storia trascendentale62, che, essendo
radicata in un luogo – il suolo terrestre – non può non
investire la prospettiva geografica rendendo a sua volta
possibile una geografia trascendentale, irriducibile alla ge-
ografia “positiva”, orientata obiettivisticamente («come si
caratterizza la forma spirituale dell’Europa? Non geogra-
ficamente, non dal punto di vista della carta geografica,
come se fosse possibile circoscrivere su questa base gli
uomini che vivono sul territorio europeo e considerar-
li umanità europea»63). Nella misura in cui si intende il
vincolo originario con la Terra in senso teleologico, in-
fatti, si traccia implicitamente una linea che dalla Terra

62. Sul tema della filosofia della storia come storia trascendentale nella fenome-
nologia husserliana ci permettiamo di rimandare a r. sacconaghi, Teleologia e
questione degli inizi in Husserl, in «Rivista di Filosofia Neo-scolastica», 4 (2008),
pp. 537-560.
63. hua vi, p. 318; trad. it. p. 332. In questa direzione, ad esempio, si è mosso Wal-
denfels, il quale sostiene che «in modo analogo a come Husserl parla di una storia
interiore del senso, si potrebbe parlare di una geografia interiore, appartenente ad
una “geografia trascendentale”» (b. waldenfels, L’Europa di fronte all’estraneo,
in r. cristin, m. ruggenini (a cura di), La fenomenologia e l’Europa, Vivarium,
Napoli 1999, p. 52). In questo senso egli attribuisce a Husserl il merito di «aver
riscoperto che il senso e l’idea non hanno soltanto il loro tempo e le loro date, ma
anche il loro luogo nel mondo» (ibidem). Waldenfels in nota indica come fonte
del termine “geografia trascendentale” un frammento di Merleau-Ponty, sebbene
quest’ultimo parli in realtà di “geologia trascendentale” e di “inscrizione quasi
geografica”. In una densa nota di lavoro datata 1 giugno 1960, allegata alla sua
opera incompiuta Il visibile e l’invisibile, Merleau-Ponty scrive: «la geografia, – o
meglio: la Terra come Ur-Arche mette in evidenza l’Ur-Historie carnale (Husserl
- Umsturz...). In realtà si tratta di cogliere il nexus – né “storico” né “geografi-
co” – della storia e della geologia trascendentale [...], l’Urstiftung simultanea di
tempo e spazio la quale fa sì che ci sia un paesaggio storico e una inscrizione
quasi geografica della storia» (m. merleau-ponty, Il visibile e l’invisibile, cit.,
p. 312: trad. it. p. 270). Su questo tema, cfr. a. j. steinbock, Reflections on Earth
and World: Merleau-Ponty’s Project of Transcendental History and Transcendental
Geology, in v.m. fóti (ed.), Merleau-Ponty. Difference, materiality, painting, New
Jersey 1996, pp. 90-111.
Implicazioni metafisiche ed epistemologiche 375

come suolo della soggettività conduce alla considerazione


dell’Europa come una entità trascendentale64: concepita in
una prospettiva teleologica, la Terra può essere vista come
“figura” dell’ Europa. Se invece la Terra fosse concepita
come la base trascendentale pre-soggettiva e a-storica del
soggetto, all’Europa non potrebbe essere accordato alcuno
statuto particolare: l’idea della priorità del suolo terrestre
sarebbe in questo caso in contrasto con l’affermazione del-
la peculiarità di uno dei suoi continenti. L’Europa appa-
rirebbe, come ogni altro continente, come una variante
relativa ed empirica dell’unica Terra e sarebbe “riassorbita”
nel più originario suolo terrestre proprio in nome dell’im-
possibilità di trascendere il vincolo originario con esso.
Se invece, come abbiamo visto, la Terra non può essere
oggettivata proprio in quanto viene riconosciuta come il
“luogo” della coscienza trascendentale, l’Europa, definita
essenzialmente dal fatto di essere il luogo di nascita della
filosofia – ovvero dell’auto-coscienza trascendentale –,
non può che assumere il medesimo carattere trascenden-
tale. Pur attribuendole una validità universale, Husserl non
concepisce la razionalità filosofica come svincolabile dal
luogo in cui è sorta: «ogni forma spirituale sta per essenza
in uno spazio storico universale o in un’unità particolare
del tempo storico, nella coesistenza e nella successione, e
ha una propria storia»65. Il fatto stesso che la razionalità
filosofica, “entelechia” della ragione universale, sia sorta e
si sia sviluppata in Europa, “trasfigura” lo statuto dell’Eu-
ropa stessa costituendola come una «forma spirituale»66:
l’ Europa, perciò, non può essere concepita come «una

64. Su questi temi, cfr. r. gasché, Europe, or the Infinite Task. A Study of a Phi-
losophical Concept, Stanford University Press, Stanford 2009; m. signore (a cura
di), Edmund Husserl. La crisi delle scienze e la responsabilità storica dell’Europa,
FrancoAngeli, Milano 1985; a. masullo, c. senofonte (a cura di), Razionalità
fenomenologica e destino della filosofia, Marietti, Genova 1991; r. cristin, m.
ruggenini (a cura di), La fenomenologia e l’Europa, Vivarium, Napoli 1999.
65. hua vi, p. 318; trad. it., p. 332.
66. Ibidem.
376 rocco sacconaghi

mera follia storico fattuale, un conseguimento casuale in


mezzo ad altre umanità e ad altre storicità completamente
diverse»67.
La legittimità fenomenologica dell’identificazione della
natura peculiare dell’Europa, dunque, si rende evidente sulla
base del riconoscimento dell’inoggettivabilità della Terra; al
contempo, la natura storico-trascendentale e perciò teleolo-
gica del vincolo del soggetto con il suolo terrestre viene per
così dire esemplificato e “salvaguardato” dall’analogia con
l’Europa. L’evento della nascita della filosofia, considerato
come un «inizio teleologico»68, o anche «nascita spirituale»69,
può essere interpretato come il paradigma a partire da cui
Husserl pensa anche il “fatto” della soggettività trascenden-
tale, “ospitato” dal suolo terrestre e ad esso essenzialmente
vincolato: entrambe sono fattualità trascendentali, ovvero
definite da ciò che con esse si inaugura e non determinate
da cause empiriche. Così come non possiamo sottrarci al
radicamento nell’«arca originaria Terra», per lo stesso moti-
vo non possiamo concepire l’universalità che caratterizza la
filosofia come svincolabile dalla sua “inscrizione geografica”
in Europa. La Terra e l’Europa rappresentano per Husserl
dei “limiti trascendentali” della nostra esperienza, il cui ri-
conoscimento non implica l’auto-confinamento in un punto
casuale dello spazio e del tempo, bensì l’assunzione della pro-
spettiva teleologica come unica condizione di realizzazione
dell’universalità.

67. Ivi, p. 13; trad. it. p. 44.


68. Ivi, p. 72; trad. it. p. 100. Derrida spiega il significato di questa categoria
scrivendo che se da una parte «la Ragione teleologica abitava già l’umanità nei
suoi tipi empirici prima della presa di coscienza filosofica che l’ha fatta nascere
a se stessa, annunciando alla storia il senso puro della storicità, vale a dire il suo
senso stesso» (j. derrida, Introduction à L’Origine de la Géométrie de Husserl,
cit., p. 206), dall’altra occorre riconoscere che «la presa di coscienza di ciò che vi
era segna già una rottura e, di conseguenza, un’origine radicale e creatrice» (ivi,
pp. 161-162; trad. it. p. 206).
69. hua vi, p. 319; trad. it. p. 334.
Implicazioni metafisiche ed epistemologiche 377

2.4 La sintesi incompiuta e la volontà filosofica come


superamento dell’alienazione

Si tratta ora, conclusivamente, di fare un ultimo passo nel ten-


tativo di comprensione della posizione husserliana, che – co-
me abbiamo detto – in questo manoscritto si delinea in modo
coerente con tutta la sua opera precedente. Prima di identi-
ficare questo passo ulteriore, tentiamo un bilancio sintetico
di quanto emerso finora.
Come emerge bene in Filosofia prima, l’inizio della fi-
losofia è concepito da Husserl innanzitutto come un atto
della volontà, che tuttavia non è fine a se stesso, bensì deve
condurre a una posizione “etica” e infine a un atteggiamen-
to – quello trascendentale – che è anche conoscitivo. Dopo
anni di analisi e riflessioni, con Umsturz si rivela anche la
prospettiva “cosmologica” di questo atteggiamento: in questo
brano l’esercizio della riduzione fenomenologica comporta
l’esibizione del “luogo” in cui questo stesso esercizio colloca
il proprio soggetto, e questo luogo in un certo senso coin-
cide con il luogo in cui ci troviamo già da sempre, il suolo
terrestre. La descrizione della soggettività trascendentale,
che si arricchisce progressivamente nel corso dell’itinerario
husserliano, da Idee I e II alla Crisi, passando per le lezioni
sulla filosofia prima e sulla sintesi passiva, per Logica formale
e trascendentale e Meditazioni cartesiane, conduce all’imma-
gine a noi già “familiare” di un soggetto vincolato al proprio
suolo a livello percettivo, “immaginativo”, culturale e storico.
È per questo motivo che, come abbiamo già notato, di fronte
a questo testo risulta più semplice l’immedesimazione nell’at-
teggiamento trascendentale: la riflessione fenomenologica
riconduce all’esperienza originale del mondo.
Ovviamente questo ritorno non vuole essere una semplice
ripetizione, bensì una esplicitazione e una difesa dell’espe-
rienza naturale – laddove invece quest’ultima è ancora aperta
al dubbio su di sé e incorre perciò facilmente in relativizza-
zioni che la riducono a “illusione trascendentale”. Ciò che
l’immagine “già familiare” permette di portare a evidenza
378 rocco sacconaghi

filosofica è l’intreccio tra l’assoluta irriducibilità del sogget-


to e la natura trascendentale dei suoi limiti – perciò la non
casualità e l’intrascendibilità della sua collocazione cosmica
e storica, che tuttavia non comporta la sua reificazione. Il
soggetto atteggiato in senso trascendentale è vincolato al pro-
prio suolo tanto quanto quello atteggiato naturalmente, ma
a differenza di quest’ultimo è cosciente dell’insopprimibilità
e dell’incontestabilità di questo stesso vincolo, a partire da
quale soltanto ogni ulteriore conoscenza è possibile.
Ciò che abbiamo cercato di mostrare è come lo svelarsi di
questa inedita prospettiva cosmologica presenti una più am-
pia prospettiva “metafisica” come già insita nell’atteggiamento
trascendentale: nell’esercizio della riduzione trascendentale,
etico e scientifico al contempo, sono implicate una posizione
critica nei confronti dei tentativi di omogeneizzazione (della
Terra agli altri pianeti, degli uomini agli animali, della vita
organica a quella inorganica) e l’affermazione della possibilità
della storia – e perciò, indirettamente, si riconoscono la pecu-
liarità e il compito dell’Europa. In un certo senso, si potrebbe
dire che queste determinazioni metafisiche in senso lato co-
stituiscono la radice stessa della riduzione fenomenologica,
e non soltanto dei “reperti fenomenologici”, delle scoperte
possibili a partire da essa. Si comprenderebbe in questo sen-
so la vivida impressione, che si impone leggendo le pagine
di questo manoscritto, dell’attuarsi di una sintesi dei piani:
problematiche metafisiche, morali ed esistenziali riemergono
dall’interno dell’esercizio di osservazione pura dei fenome-
ni (che richiede, per stabilirsi, la sospensione metodica di
queste stesse problematiche), e come esito dell’assunzione
dell’unica posizione libera dall’orientamento mondano ci si
ritrova “epistemologicamente inchiodati” al suolo terrestre.
E tuttavia, per comprendere sino in fondo la posizione
husserliana, occorre rilevare che si tratta di una sintesi es-
senzialmente incompiuta (e proprio per questo Umsturz ri-
mane perfettamente coerente con il resto della produzione
husserliana): pur ospitando un’affermazione di natura ap-
parentemente ontologica – la Terra non si muove, poiché è
Implicazioni metafisiche ed epistemologiche 379

il nostro suolo –, che a sua volta comporta determinazioni


metafisico-morali (in senso antropologico) e scientifiche (in
chiave cosmologica), in questo manoscritto si mantiene una
perfetta (ancorché problematica) distinzione dei piani. L’in-
compiutezza della sintesi emerge chiaramente dal fatto che,
come abbiamo notato, il piano della scienza positiva ne rima-
ne necessariamente escluso. Proprio nel testo in cui Merleau-
Ponty crede di scorgere le tracce di una nuova ontologia, sulla
base della quale si dovrebbe superare il dualismo ontologico
cartesiano e perciò la separazione di filosofia (riflessiva) e
scienza (positiva)70 in direzione di una loro implicazione re-
ciproca, Husserl ribadisce con nettezza l’assoluta autonomia
della fenomenologia. La Terra, in senso fenomenologico, è
inoggettivabile, poiché non è “qualcosa”: ma, così come non
può essere messo in questione da alcuna teoria scientifica,
questo dato fenomenologico non può (e non vuole) confutare
alcuna teoria scientifica – la teoria copernicana rimane perciò
intatta. La fenomenologia non oppone alla determinazione
ontologica della Terra come pianeta la determinazione on-
tologica della Terra come suolo: la Terra non è il nostro suo-
lo – o meglio, lo è solo nella misura in cui il suolo non è una
cosa, ma appunto una dimensione inoggettivabile in quanto
essenzialmente relativa alla soggettività trascendentale. Se la
sintesi tra piano naturale, fenomenologico e metafisico fosse
compiuta, definitiva, si otterrebbe una metafisica della Terra
come suolo: ma quest’operazione, lungi dall’esprimere fedel-
mente la prospettiva fenomenologica, condurrebbe a una
peculiare forma di nuova “mitologia”, la quale non sarebbe
nient’altro che un’inedita versione dell’obiettivismo71.

70. Cfr. r. sacconaghi, Intrascendibilità dell’esperienza e atteggiamento naturale


in Merleau-Ponty, cit. pp. 172-175.
71. È interessante notare, in quest’ottica, come la fenomenologia sia talvolta
intesa come funzionale a determinate teorie ecologiche. In particolare, si sono
rilevate affinità tra l’affermazione dell’inoggettivabilità del suolo con il concetto
di “Gaia”, nome mitologico utilizzato per esprimere un’interpretazione della Terra
come entità vitale generativa che precede la soggettività umana, come un “tutto
originario” vivente di cui noi, esseri umani, saremmo parte. In altri termini, l’idea
380 rocco sacconaghi

D’altro canto, è proprio per la rigorosa distinzione del


piano fenomenologico-trascendentale da quello positivo-na-
turale (e quindi antropologico-cosmologico) che la fenome-
nologia non può non sviluppare a sua volta una prospettiva
trascendentale su cosmologia, antropologia, storia e geografia:
una prospettiva scientifica fondata e fondante, che tuttavia
proprio per potersi costituire come tale deve resistere alla ten-
denza dell’attribuzione di un carattere ontologico assoluto a
ciò che appare, ai “prodotti” delle sue analisi. In questo senso,
se da una parte l’immagine della “posizione dell’uomo nel
cosmo” che questo manoscritto ci restituisce ci appare come
“già familiare”, dall’altra si tratta di una prospettiva che in
ultima analisi si rivela quasi straniante e persino difficile da
concepire, in quanto, come Husserl spesso ripete, essenzial-
mente innaturale: ma è uno straniamento che vorrebbe essere
il contrario dell’alienazione, poiché permette di invertire la
direzione naturale del pensiero, e perciò di sradicare l’embrio-
nale obiettivismo in cui siamo originariamente immersi. Se si
concepisse in senso ontologico ciò che appare alla coscienza

per cui la Terra non è un oggetto potrebbe essere interpretata come implicita attri-
buzione a essa del carattere di soggetto. Si tratterebbe però di una nuova versione
dell’obiettivismo, seppur tradotto in chiave post-dualista (approccio olistico) e
post-meccanicista (paradigma sistemico). In quanto esterno alla soggettività, il
punto di vista si presenterebbe come un’astrazione rispetto all’esperienza origina-
ria tanto quanto quello del naturalismo dualista, il cui esito inevitabile – ancorché
esprimibile con differenti sfumature – sarebbe il misconoscimento della funzione
costitutiva della coscienza. L’interpretazione in senso primariamente ecologico
della critica husserliana all’obiettivismo comporterebbe perciò un’eterogenesi
dei fini che ci condurrebbe alla negazione della fenomenologia stessa e a una
nuova forma di oblio della soggettività. Cfr. j. lovelock, Gaia. A New Look
at Life on Earth, Oxford University Press, Oxford 1979; w.i. thompson (ed.),
Gaia 1. A Way of Knowing: Political Implications of the New Biology, Lindisfarne,
Hudson 1987; trad. it. di L. Maldacea, Ecologia e autonomia. La nuova biologia:
implicazioni epistemologiche e politiche, Feltrinelli, Milano 1988; w.i. thompson
(ed.), Gaia 2. Emergence: The new science of becoming, Lindisfarne, Hudson 1991.
Per le interpretazioni in chiave ecologica della fenomenologia, cfr. c.s. brown,
t. toadvine (eds.), Eco-Phenomenology. Back to the Earth Itself, State University
of New York, Albany 2003; d. macauley (ed.), Minding Nature. The Philosophers
of Ecology, The Guilford Press, New York/London 1996.
Implicazioni metafisiche ed epistemologiche 381

una volta attuata la riduzione trascendentale, si avrebbe quella


che Husserl ha definito ingenuità trascendentale72, che consi-
ste nel ripetersi dell’obiettivismo all’interno dell’atteggiamen-
to trascendentale non appena si perde «la motivazione di chi
comincia a filosofare»73, ovvero la spinta alla autoconoscenza
assoluta. Questo concetto peculiare ci svela dunque “in ne-
gativo” la natura profonda della fenomenologia husserliana:
l’atteggiamento trascendentale, infatti, si presenta come la
realizzazione piena dell’istanza filosofica non innanzitutto in
quanto ha accesso conoscitivo alla dimensione trascendentale
dell’esperienza, bensì in quanto è determinato dall’assun-
zione etica del telos dell’autoconoscenza assoluta. Il vero su-
peramento dell’alienazione, nell’ottica husserliana, consiste
proprio in questa consapevole “ripetizione” della volontà
di autocomprensione: solo nell’attivo volersi comprendere
il soggetto non è condannato ad assumere una prospettiva
esterna, ovvero mondana e perciò reificante.

72. Husserl in Filosofia prima introduce il concetto di ingenuità trascendentale


(cfr. hua viii, Erste Philosophie (1923-1924). Zweiter Teil: Theorie der Phänomeno-
logischen Reduktion, R. Boehm [Hrsg.], Nijhoff, Den Haag 1959, pp. 169-173; trad.
it. di A. Staiti, a cura di V. Costa, Filosofia prima. Teoria della riduzione fenome-
nologica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007, pp. 217-221) proprio per indicare
la possibilità dell’assunzione di un orientamento mondano anche nell’esercizio
della riduzione trascendentale: di fronte al campo dell’esperienza che ci si apre
una volta attuata la riduzione, si potrebbe inavvertitamente considerare in senso
obiettivistico ciò che appare. Si può cioè svincolare la “pratica fenomenologica”
dalla spinta critica da cui pur si è originata: «l’intera teoria della riduzione trascen-
dentale può venir svincolata dalla motivazione di chi comincia a filosofare» (ivi,
p. 170; trad. it., p. 218). Possiamo realizzare un’analisi fenomenologica anche nel
caso in cui «lo scopo di una filosofia (nel nostro senso)» ci sia divenuto «del tutto
indifferente» (ibidem) e venga abbandonato. Ma nel momento in cui la riduzione
viene praticata senza la spinta all’autocomprensione filosofica del soggetto, si ri-
cade inesorabilmente nell’ingenuità. Si tratta di un’ingenuità “superiore” a quella
naturale, caratteristica di «ogni mossa conoscitiva che non è guidata dall’idea di
una conoscenza assoluta, di una conoscenza giustificata assolutamente e sotto ogni
aspetto» (ivi, p. 171; trad. it., p. 219): in questo consiste la «pretesa autenticamente
filosofica» (ivi, p. 172; trad. it., p. 220).
73. Ivi, p. 170; trad. it., p. 218.
Marta Ubiali

Abitualità trascendentali e orizzonte etico


della fenomenologia husserliana

Introduzione

Le sedimentazioni passive e le acquisizioni permanenti gio-


cano un ruolo fondamentale nella concezione husserliana
dell’io e della sua costituzione, sebbene non sempre sia stata
colta adeguatamente la centralità di questa dimensione nel
quadro della riflessione di Husserl. Un attento esame della
sua opera mostra chiaramente, infatti, come nel corso dello
sviluppo del suo pensiero alcune categorie – per esempio
quelle di sedimentazione, di abitudine, di passività secondaria
(sekundäre Passivität), di ridestamento (Weckung) dell’inabis-
sato – si trovino ad assumere una rilevanza sempre maggiore.
Ciò cui tutti questi termini fanno riferimento è quella di-
mensione che Merleau-Ponty ha giustamente indicato come
l’«index d’une énigme»1 da un punto di vista fenomenologi-
co, vale a dire quella zona d’ombra della vita dell’io in cui i
confini tra attività e passività, tra volontario e involontario,
tra conscio ed inconscio assumono o possono assumere un
contorno sfuocato. Proprio in virtù del carattere inavvertito o
nascosto di questa sfera d’esperienza potrebbe apparire con-
tradditorio parlare di una sua possibile analisi fenomenolo-
gica, ma – come avremo modo di comprendere meglio in se-
guito – la contraddizione è solo apparente, tanto che Husserl
non si sottrae al compito di «irradiare luce fenomenologica in

1. m. merleau-ponty, Préface, in a. hesnard, L’œvre de Freud et son impor-


tance pour le monde moderne, Payot, Paris 1960, p. 9.
384 marta ubiali

questa notte»2, ossia di indagare da un punto di vista genetico


il senso della storia sedimentata della coscienza, i suoi nessi
associativi sempre all’opera e la sua legalità motivazionale.
È necessario tuttavia specificare, prima di entrare nel
merito della nostra indagine, che la «fenomenologia [del]
cosiddetto inconscio»3 non mira alle strutture empiriche o
psicologiche della soggettività, bensì a quelle trascenden-
tali, accessibili grazie alla via genetica che la riduzione fe-
nomenologica inaugura. Nella prospettiva husserliana essa
non coincide con una sorta di ricostruzione psicoanalitica
di stampo freudiano4, quanto piuttosto con l’individuazione
di quel livello trascendentale e quindi invariante della vita
dell’io che egli definisce il «destino della coscienza», un de-
stino in base al quale «tutti i cambiamenti e le modificazioni

2. hua xi, Analysen zur passiven Synthesis, M. Fleischer (Hrsg.), Nijhoff, Den
Haag 1966, p. 154; trad. it. di V. Costa, Lezioni sulla sintesi passiva, Guerini, Milano
1993, p. 74.
3. Ivi, p. 154; trad. it. pp. 120-121.
4. Non è qui possibile trattare adeguatamente il complesso e interessante tema
del confronto tra l’approccio fenomenologico-husserliano e quello psicoanalitico-
freudiano al problema dell’inconscio. Indichiamo, quindi, alcuni lavori particolar-
mente significativi tra i numerosi che nell’ultimo decennio hanno trattato questo
tema: r. askay, j. farquhar, Apprehending the inaccessible: Freudian Psychoa-
nalysis and Existential Phenomenology, Northwestern University Press, Evanston
2006; r. bernet, Unconscious consciousness in Husserl and Freud, in The new
Husserl: a critical reader, D. Welton (eds.), Indiana University Press, Bloomington
2003, pp. 199-219; j. brudzinska, Die phänomenologische Erfahrung und die Frage
nach dem Unbewussten. Überlegungen im Anschluss an Husserl und Freud, in d.
lohmar, d. fonfara (Hrsg.), Interdisziplinäre Perspektiven der Phänomenologie.
Neue Felder der Kooperation: Cognitive Science, Neurowissenschaften, Psychologie,
Soziologie, Politikwissenschaft und Religionswissenschaft, Springer, Dordrecht
2006, pp. 54-71; n. depraz, Pulsion, Instinct, Desir. Que signifie Trieb chez Husserl?
- à l’epreuve des perspectives de Freud, Merleau-Ponty, Jonas et Scheler, in «Alter.
Revue de Phénoménologie» 9 (2001), pp. 113-125; l. perreau, Phénoménologie
husserlienne et métapsychologie freudienne: la pulsion et l’incoscient, in «Alter.
Revue de phénoménologie» 14 (2006), pp. 11-30; a.m. serra, Archäologie des (Un)
bewussten. Freuds frühe Untersuchung der Erinnerungsschichtung und Husserls
Phänomenologie des Unbewussten, Ergon Verlag, Würzburg 2010; f.s. trincia,
Husserl, Freud e il problema dell’inconscio, Morcelliana, Brescia 2008; r.h. zie-
gler, Die Phänomenologie und die Provokation des Unbewussten, in «Husserl
Studies» 26/2 (2010), pp. 107-130.
Abitualità trascendentali e orizzonte etico 385

di cui fa esperienza rimangono, dopo la modificazione, in


essa sedimentati come “storia” [Geschichte]»5.
Un’affermazione di Husserl, tratta dalle sue lezioni sulla
sintesi passiva, si rivela sintetica ed efficace al fine di mettere
a fuoco e introdurre il problema qui trattato:

La coscienza è un divenire incessante. Ma non è una mera successione


di vissuti, un flusso nello stesso senso in cui si pensa ad un flus-
so obiettivo. La coscienza è un divenire incessante in quanto è una
costituzione incessante di obiettività nel progressus incessante della
successione dei livelli. È una storia [Geschichte] mai interrotta. E la
storia è una costituzione stratificata di formazioni di senso sempre
più alte dominata da una teleologia immanente6.

Questa considerazione possiede un carattere altamente


problematico e, senza dubbio, mette in rilievo una natura
dinamica della vita dell’io, una natura “in divenire”, che ap-
pare lontana dall’immagine di una vita trascendentale pura
intesa come un livello totalmente altro rispetto al divenire
empirico dell’esistenza. Come avremo modo di mostrare nel
corso del lavoro, attribuire alla coscienza il carattere di una
«storia mai interrotta», di «un divenire incessante» teleolo-
gicamente orientato, conduce a un radicale ripensamento
della nozione husserliana di trascendentale, e in particolare
di io-trascendentale.
È necessario procedere gradualmente, seguendo un per-
corso che metta in luce le diverse implicazioni problematiche.
Innanzitutto intendo concentrarmi sulla nozione husserliana
di inconscio, così da porre in primo piano il fenomeno del
progressivo inabissarsi dei vissuti di coscienza e della loro
sedimentazione. Successivamente prenderò in considerazio-
ne i passaggi del secondo volume delle Idee in cui Husserl
espone la legge delle opinioni intenzionali permanenti (blei-
bende Meinungen), quella legge eidetica propria dell’io puro

5. hua xi, p. 38; trad. it. p. 74.


6. Ivi, pp. 218-219; trad. it. p. 286.
386 marta ubiali

che funge da condizione di possibilità per la costituzione di


ogni habitus egologico. Uno degli scopi principali sarà in
questo caso quello di comprendere il senso della categoria – a
prima vista ossimorica – di “abitudine trascendentale”. Infine,
dopo avere messo a fuoco la dinamica di costituzione della
personalità e del carattere dell’io, mi propongo di enucleare
le implicazioni etiche sottese a queste riflessioni husserliane.

1. L’inconscio: il «regno delle cose dimenticate e


apparentemente ridotte a un nulla»7

Il divenire incessante della coscienza implica un graduale


sedimentarsi dei vissuti di coscienza, che mano a mano si
inabissano, perdendo progressivamente forza affettiva, sen-
za tuttavia perdere mai una potenziale forza motivazionale.
Condizione di possibilità di tale dinamismo è la coscienza
interna del tempo. Agli occhi di Husserl, «la sintesi che di
continuo si realizza nella coscienza originaria del tempo»8
incarna la sintesi motivazionale più originaria, e consiste
in «un ambito formale universale, in una forma costituita
sinteticamente, cui devono partecipare tutte le altre possi-
bili sintesi»9. Il presente vivente, in quanto «punto-limite
perennemente sfuggente tra passato e futuro»10, trascolora
ritenzionalmente nell’appena passato. La ritenzione viene
da Husserl paragonata, com’è noto, a una «coda di cometa»11
che accompagna ogni presente vivente; questo momento del

7. Ivi, p. 78; trad. it. pp. 120-121.


8. Ivi, p. 125; trad. it. p. 177.
9. Ivi, p. 125; trad. it. p. 178.
10. hua xiii, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass.
Erster Teil: 1905-1920, I. Kern (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1973, p. 162: «ewig fliehen-
de Grenzpunkt zwischen Vergangenheit und Zukunft».
11. hua x, Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins (1893-1917), R.
Boehm (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1966, p. 30; trad. it. di A. Marini, Per la feno-
menologia della coscienza interna del tempo (1893-1917), FrancoAngeli, Milano
1981, p. 67.
Abitualità trascendentali e orizzonte etico 387

flusso temporale assume nella cornice di questa trattazione


un ruolo fondamentale, in quanto lo scorrere ritenzionale
di ogni presente è la dinamica che ne determina l’inevita-
bile trapassare nella dimensione del passato e, quindi, della
dimenticanza, dell’inconscio12.
Un’osservazione fenomenologicamente attenta della vi-
ta dell’io mostra che in ogni istante esso è sottoposto a una
pluralità di stimoli affettivi che lo motivano contemporane-
amente. Solo alcuni di essi, però, si trovano in primo piano
(Vordergrund) e sono quindi vissuti coscientemente dall’io:
una larga parte di stimoli colpisce invece l’io a partire dallo
sfondo (Hintergrund) della vita di coscienza. Proprio questo
sfondo è indicato da Husserl come inconscio: un «grado zero
della vivacità coscienziale», che tuttavia «non è affatto un nulla.
Esso è un nulla soltanto rispetto alla forza affettiva e quindi
rispetto a quelle operazioni che presuppongono un’affettività
che abbia valore positivo (sopra il punto zero)»13. Ciò che pro-
gressivamente si inabissa nello sfondo della memoria rappre-
senta quella che Husserl definisce passività secondaria, ossia
ciò che, nonostante sia sprofondato nelle sfere inconsce dell’io,
«porta sempre con sé il marchio della sua origine [Stempel des
Ursprungs]»14 e continua ad esercitare una forza motivazionale.
La vita dell’io si mostra simile a un iceberg: la punta di
ciò che momentaneamente si trova in primo piano racchiude
tutta la profondità di quanto apparentemente è andato perdu-
to; le sedimentazioni, le pulsioni inconsce, rimangono sotto
la superficie. Non è un caso che alla domanda “Chi sei tu?”

12. Cfr. per un approfondimento del rapporto tra ritenzione e sedimentazione:


d. lohmar, Konstitution der Welt-Zeit. Die Konstitution der objektiven Zeit auf
der Grundlage der subjektiven Zeit, in a. ferrarin (a cura di), Passive Synthesis
and Life-world - Sintesi passiva e mondo della vita, ETS, Pisa 2006, pp. 55-77; i.
yamaguchi, Die Frage nach dem Paradox der Zeit, in «Recherches Husserlienne»
17 (2002), pp. 25-49.
13. hua xi, p. 167; trad. it. p. 225.
14. hua xxxi, Aktive Synthesen: Aus der Vorlesung “Transzendentale Logik”
1920/21, R. Breeur (Hrsg.), Kluwer Academic Publishers, Dordrecht 2000, p. 40;
trad. it. di L. Pastore, Lezioni sulla sintesi attiva, Mimesis, Milano 2007, p. 92.
388 marta ubiali

sia impossibile rispondere senza riferirsi alla propria storia,


a ciò che progressivamente s’è andato costituendo e che ora
continua a vivere in noi come acquisizione permanente.
In un testo del 1934, Husserl scrive che si può definire
«inconscia l’attività che si è sedimentata e il suo costante
co-fungere nei ridestamenti, nella continua associazione e
quindi nell’abitualità che intrinsecamente vi appartiene e che
è costante e costantemente si modifica»15. Sussiste quindi un
co-fungere dell’inconscio, una sua operatività, che manife-
sta la sua presenza nell’attività di sintesi delle associazioni
involontarie, così come del resto nel costante sorgere delle
abitualità e dei comportamenti abituali.
Il manoscritto E iii 10, risalente al 1930, è un documento
che riveste in questa prospettiva una notevole importanza.
Husserl vi appunta: «Problema dell’“affetto messo tra paren-
tesi” come “malattia dell’anima”: un’abituale insoddisfazione
che non è un niente, anche quando non ci si pensa»16; e an-
cora si domanda: «Come può venir cancellata una pulsione
originaria, una pulsione sessuale – Ascesi? Ogni validità na-
scosta co-funge associativamente (Freud)»17. Quest’ultimo
passaggio (uno dei rari luoghi in cui, occupandosi di questi
temi, Husserl fa esplicito riferimento a Freud18) evidenzia

15. hua xxxiv, Zur phänomenologischen Reduktion. Texte aus dem Nachlass
(1926-1935), S. Luft (Hrsg.), Kluwer Academic Publishers, Dordrecht 2000, p. 472.
16. Ms. E iii 10, pp. 1-2: «Problem des “eingeklammten Affektes” als “Krankheit”
der Seele: Eine habituelle Unbefriedigung, die nicht ein Nichts ist, auch wenn
nicht daran gedacht wird».
17. Ivi, p. VI: «Wie kann ein Urtrieb, wie der Geschlechtstrieb, durchstrichen
werden – Askese? Jede verdeckte Geltung fungiert assoziativ mit (Freud)».
18. Husserl e Freud, pur essendo contemporanei (sono nati rispettivamente nel
1856 e nel 1859, e morti nel 1938 e nel 1939) e pur avendo frequentato entrambi le
lezioni di Franz Brentano rimanendone influenzati – seppur in misura diversa –,
hanno lavorato parallelamente senza mai venire veramente a contatto. Sono ra-
rissimi i luoghi in cui Husserl cita esplicitamente il padre della psicanalisi. Oltre
al manoscritto qui preso in considerazione, un altro breve accenno si trova nel
manoscritto B ii 3/16a, risalente al giugno 1934, in cui Husserl indica le proprie
riflessioni sul tema degli istinti come «precorritrici della psicoanalisi “freudia-
na” – con i suoi affetti messi tra parentesi, le sue “rimozioni” etc. [eine Vordeu-
tung auf die “Freudsche” Psychoanalyse – mit ihren eingeklammerten Affekten,
Abitualità trascendentali e orizzonte etico 389

con chiarezza il punto che maggiormente qui ci interessa. Per


l’autore ciò che non viene (o non viene più) vissuto coscien-
temente dall’io, è impossibile che venga eliminato del tutto:
nell’inconscio esso continua a rimanere valido e ad esercitare
quindi una certa influenza. Aggiunge di seguito: «Ignorare o
voler ignorare. Ma così l’affetto viene semplicemente nasco-
sto, sospinto in basso e dunque lì [è] operativo come tutto ciò
che viene nascosto e sospinto in basso»19. Ciò che è nascosto
continua ad esistere e ad esercitare una pressione sull’io, in
quanto – come sottolinea Husserl nei corsi sull’etica – «niente
può andare perso. [...] Ciò che è nascosto non è un nulla e
ciò che è inibito non è una potenzialità verbale ma reale, e
una volta che torna in vigore si può comprendere che essa
non era mai morta, piuttosto era solo una vita dormiente»20.
Come quest’ultima affermazione mostra chiaramente, per
Husserl sussiste una corrispondenza essenziale tra la natu-
ra dell’inconscio e la possibilità del ridestamento (Weckung)
dei nessi ormai nascosti ma pur sempre attivi. «Per ogni co-
scienza vaga io posso ricercare come dovrebbe apparire il suo
oggetto»21: la possibilità di interrogare se stessa e ogni proprio
vissuto appartiene strutturalmente alla soggettività trascen-
dentale e costituisce il presupposto del rifiuto di concepire la

ihren “Verdrängungen” usw.]». Nella biblioteca privata di Husserl troviamo, tut-


tavia, – come fa notare Holenstein – solo due brevi testi di Freud (le sue cinque
lezioni del 1909 Ueber Psychoanalyse, e la sua Selbstdarstellung nell’edizione del
1936), ed entrambi senza segni di lettura (cfr. e. holenstein, Phänomenologie
der Assoziation, Nijhoff, Den Haag 1972, p. 321).
19. Ivi, p. 2: «Wegsehen und Wegsehen-wollen. Aber damit ist der Affekt nur
“verdeckt”, hinuntergedrückt und doch da, wirksam wie alles Verdeckt-hinun-
tergedrückte».
20. hua xxxvii, Einleitung in die Ethik. Vorlesungen Sommersemester 1920 und
1924, H. Peucker (Hrsg.), Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/Lon-
don 2004, p. 327.
Cfr. v. biceaga, The Concept of Passivity in Husserl’s Phenomenology, Springer,
Dordrecht 2010, pp. 64 e ss.
21. hua i, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, S. Strasser (Hrsg.),
Nijhoff, Den Haag 1950, p. 22; trad. it. di F. Costa, Meditazioni cartesiane e discorsi
parigini, Bompiani, Milano 2002, p. 19.
390 marta ubiali

dimensione passiva della vita di coscienza come un regno inac-


cessibile22. Husserl sottolinea a più riprese che il processo di
sedimentazione è un processo progressivo e che quindi in ciò
che viene definito inconscio vi è una gradualità, una sempre
maggior lontananza dalla vivacità coscienziale. A questo pro-
posito Husserl compie la distinzione tra ricordi vicini (Nahe-
rinnerung) e ricordi lontani (Fernerinnerung), ossia tra ricordi
che sono ancora – per così dire – nella scia ritenzionale, e ri-
cordi che invece fanno riferimento a un passato ormai lontano
nel tempo: per questi ultimi il termine Wiedererinnerung non è
appropriato, in quanto essi non sono raggiungibili tramite una
semplice presentificazione memorativa, bensì solo attraverso
il recupero di nessi associativi ridestanti.
Condizione di possibilità per il ridestamento è la sintesi as-
sociativa. Quest’ultima è strutturata secondo una legalità mo-
tivazionale. Un nesso associativo («la relazione di somiglianza
tra il ridestante e il ridestato»23) motiva il ridestamento e rende
quindi possibile il recupero di ciò che sembrava essere andato

22. Eugen Fink, nell’appendice al § 46 della Crisi, espone in modo chiaro questa
posizione fenomenologica rispetto al concetto di inconscio, anche se occorre
sottolineare che mentre Fink con queste affermazioni vuole distinguere netta-
mente l’approccio fenomenologico da quello psicoanalitico, in Husserl – come
abbiamo già avuto modo di vedere – non è vi ancora una consapevolezza critica
della distanza tra le due strade e, di conseguenza, non vi è polemica nei confronti
del metodo freudiano. Scrive Fink: «i problemi che si presentano sotto il titolo
di “inconscio” devono essere innanzitutto compresi nel loro peculiare caratte-
re problematico, e devono essere esposti metodicamente, in modo esauriente,
secondo la precedente analitica della “coscienzialità” [Bewusstheit]». Scopo di
Fink è appunto criticare «le mitiche “teorie”, abbozzate sullo sfondo di un’opaca
empiria, sull’essenza propria della vita», poiché esse si fondano su un’«ingenuità
filosofica di principio»: si tratta nientemeno che di «un’omissione. Si crede di
sapere già che cosa sia il “conscio”, la coscienza, e ci si sottrae al compito di
tematizzare progressivamente quel concetto, rispetto al quale qualsiasi scienza
dell’inconscio deve delimitare il proprio tema, il concetto appunto di coscienza»
(e. fink, Appendice di Fink sul problema dell’inconscio, in hua vi, Die Krisis der
europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phänomenologie, W. Biemel
(Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1959, pp. 473-475; trad. it. di E. Filippini, La crisi delle
scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 2002,
pp. 498-450.
23. hua xi, p. 123; trad. it. p. 175.
Abitualità trascendentali e orizzonte etico 391

perduto. Quella che emerge nelle riflessioni di Husserl è un’acce-


zione inusuale della categoria di “motivazione”: normalmente si
parla di “motivazioni” o di “motivi” per indicare ciò che spinge
l’io a compiere una determinate azione, ad assumere un certo
atteggiamento, a scegliere una cosa invece che un’altra. Husserl
invece dichiara esplicitamente in una nota di Idee I che il suo
«concetto fenomenologico di motivazione» è una «generalizza-
zione di quel concetto di motivazione secondo cui possiamo dire,
per esempio del volere uno scopo, che esso motiva il volerne i
mezzi»24. Nel quadro della fenomenologia husserliana la moti-
vazione assume un significato centrale proprio perché essa non
riguarda più soltanto uno specifico ambito di fenomeni (quelli
volontari o più in generale pratici), bensì diventa la struttura
dell’esperienza stessa, colta in qualsiasi suo aspetto. L’esperienza
è un complesso motivazionale in quanto viene da Husserl con-
cepita come un sistema di connessioni e rimandi di senso: la sua
insistenza nel ribadire il nesso tra esperienza e legalità aprio-
rica della motivazione ha come scopo principale quello di far
risaltare la strutturale Verständlichkeit dell’esperienza e di ogni
dimensione della vita dello spirito. Se tutto è motivato, tutto ha
un perché, un senso: «La natura è il regno dell’incomprensibilità.
Il regno dello spirituale, invece, è quello della motivazione. La
motivazione, però, sottostà a leggi motivazionali e tutte queste
leggi sono pienamente comprensibili»25.
Husserl individua in particolare due generi di motiva-
zione: quello attivo-razionale e quello passivo-irrazionale. Il
primo genere focalizza quella che normalmente, anche nel
linguaggio ordinario, viene indicata come motivazione. Il

24. hua iii/1, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen


Philosophie. Erstes Buch. Allgemeine Einführung in die reine Phänomenologie, K.
Schuhmann (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1967, p. 101; trad. it. di V. Costa, Idee per
una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, libro primo, Introdu-
zione generale alla fenomenologia pura, Einaudi, Torino 2002, p. 117.
25. hua xxxvii, Einleitung in die Ethik. Vorlesungen Sommersemester 1920 und
1924, H. Peucker (Hrsg.), Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/Lon-
don 2004, p. 107; trad. it. di N. Zippel, Introduzione all’etica, Laterza, Roma-Bari
2009, p. 104.
392 marta ubiali

secondo ambito, invece, è quello che tocca più direttamente


l’interesse della presente ricerca, in quanto arriva a include-
re nel cerchio della motivazione la vita inconscia e passiva
dell’io. Sebbene Husserl non manchi di ribadire la profonda
differenza tra il livello attivo e quello passivo della vita dell’io,
egli al contempo sottolinea che tale differenza non è sancita
dalla presenza di due ordini causali diversi (quello motiva-
zionale e quello meccanico-causale), bensì da due modalità
diverse della medesima connessione motivazionale.
Come è possibile, tuttavia, parlare di motivazione dove
l’io non prende alcuna decisione? La psicologia tradizionale
ha interpretato spesso l’associazione come una mera forma
di causalità obiettiva, mentre per Husserl, al contrario, essa
costituisce un modo dell’intenzionalità. L’esperienza è un
intrecciarsi di nessi associativi, una catena inesauribile di
connessioni di senso. Ogni istante della nostra vita mostra
molteplici esempi di associazioni che operano passivamente:
«durante una conversazione ci viene in mente uno splendido
paesaggio marino. Se riflettiamo sui motivi per cui ci è ve-
nuto in mente allora troviamo, per esempio, che una piega
della conversazione ce ne ricorda immediatamente una simile
formulata l’estate scorsa al mare, in una festa»26.
Husserl è ben consapevole di proporre un’accezione im-
propria del termine “motivazione” usandolo tanto per la sfera
attivo-decisionale quanto per quella passivo-associativa. Ciò
che, tuttavia, per Husserl rimane come obiettivo è la possibi-
lità di sottolineare gli strutturali intrecci di senso che operano
a qualsiasi livello della vita dell’io, anche in quello meramente
associativo27:

Il fatto che “a” mi ricorda “b”, che una cartolina del duomo di Berlino
mi ricorda il castello di Berlino, non è un saltare semplicemente mec-

26. hua xi, p. 122; trad. it. p. 173.


27. Cfr. j.c. vargas bejarano, Phänomenologie des Wollens. Seine Struktur, sein
Ursprung und seine Funktion in Husserls Denken, Peter Lang, Frankfurt am Main
2006, pp. 201 e ss.
Abitualità trascendentali e orizzonte etico 393

canico da un elemento vissuto a quello precedente, ma un elemento


è carico di un’intenzionalità che rinvia all’altro elemento, e, senza
qualcosa di simile, non capiremmo alcun segno né alcuna parola del
discorso e così via. Dico “non capiremmo”. Di fatto, senza qualcosa
di questo genere, non capiremmo proprio nulla, perché solo grazie
alla coscienza c’è qualcosa da capire28.

Poiché, come abbiamo appena mostrato, l’intera sfera pas-


siva dell’associazione involontaria è per Husserl un regno di
motivazioni perennemente all’opera, è inscritta allora nella
natura stessa dell’inconscio – fenomenologicamente inte-
so – la possibilità del ridestamento dei nessi di senso che si
sono inabissati. I vissuti sedimentati sono anch’essi compresi
nella dimensione della Verständlichkeit motivazionale, come
indica chiaramente Husserl nel secondo volume delle Idee:

In questo contesto il singolo vissuto è allora motivato da uno sfon-


do oscuro, ha “motivi psichici”, che si possono interrogare: come mi
è venuta in mente questa cosa – che cosa mi ha portato a ciò? Che
queste domande siano possibili è un fatto che caratterizza qualsiasi
motivazione in generale. I motivi sono spesso nascosti in profondità,
ma possono venir portati in luce attraverso la “psicoanalisi”. [...] Nella
maggior parte dei casi però la motivazione è realmente presente nella
coscienza, ma non riesce ad assumere un rilievo, non viene notata, è
inavvertita (“inconscia”)29.

Il progressivo inabissarsi ritenzionale dei vissuti di coscienza


conduce per Husserl alla costituzione della Geschichte sedi-
mentata dell’io; come abbiamo visto, ciò che si inabissa non
scompare e continua a motivare in modo perlopiù inavvertito.

28. hua xxxvii, p. 180; trad. it. p. 176.


29. hua iv, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen
Philosophie. Zweites Buch, Phänomenologische Untersuchungen zur Konstitution,
M. Biemel (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1952; trad. it. di V. Costa, Idee per una
fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, libro secondo, Ricerche
fenomenologiche sopra la costituzione, Einaudi, Torino 2002, pp. 222-223, 226.
394 marta ubiali

2. Le abitualità trascendentali

La coscienza è, dunque, un progressivo sviluppo. Il flusso


temporale di Urimpression, Retention, e Protention rappresen-
ta la condizione trascendentale della dinamica di questa storia
dell’io. A partire da una prospettiva genetica intendiamo ora
indagare più da vicino l’essenza e il ruolo che questo incessan-
te divenire gioca nella formazione e nella costituzione dell’io.
Il § 29 del secondo volume delle Idee, intitolato Costitu-
zione di unità nell’ambito della sfera immanente. Le opinioni
intenzionali (Meinungen) permanenti come sedimentazioni
nell’io puro, si rivela a questo proposito un testo di centrale
importanza. Intendo percorrerne con particolare attenzione i
passaggi, in quanto ritengo che essi racchiudano delle impli-
cazioni che non sempre sono state colte nella loro rilevanza
teoretica. Le pagine di questo paragrafo offrono infatti la pos-
sibilità di comprendere come, per Husserl, la dinamica del
progressivo sedimentarsi dei vissuti di coscienza non abbia
un carattere meramente personale o psicologico, bensì tra-
scendentale. Entriamo ora nello specifico.
Husserl segnala in queste pagine l’esistenza di una «legge
eidetica propria dell’io puro», la quale stabilisce che

ogni “opinione intenzionale” è una instaurazione, che rimane pro-


prietà del soggetto fin tanto che non gli si presentino motivazioni che
esigono un “cambiamento” della presa di posizione, una rinuncia alla
vecchia opinione, oppure l’abbandono parziale di alcune sue compo-
nenti, una modificazione nell’insieme. Ogni opinione intenzionale di
un unico e medesimo io rimane necessariamente nella catena delle
rimemorazioni fin tanto che non viene cancellata in virtù di certi
motivi30.

Le opinioni intenzionali permanenti sono dunque formazioni


di unità che si costituiscono nel flusso monadico della coscien-

30. hua iv, p. 113; trad. it. p. 117.


Abitualità trascendentali e orizzonte etico 395

za e che «si possono chiamare “abituali”», sebbene «l’habitus


di cui si parla non inerisce all’io empirico ma all’io puro»31. La
dinamica che questa legge individua è quella per cui,

a priori, io sono lo stesso io, nella misura in cui, nelle mie prese di
posizioni, sono necessariamente conseguente e in un senso determina-
to; ogni “nuova” presa di posizione fonda un’“opinione intenzionale”
permanente, cioè un tema (un tema dell’esperienza, un tema del giu-
dizio, un tema del piacere, un tema del volere), tanto che a partire da
questo momento, per quanto mi possa cogliere come lo stesso io per
un numero indeterminato di volte, come lo stesso io che ero prima e
come lo stesso io che è adesso e che un tempo era, mantengo i miei
temi, li assumo come temi attuali, così come un tempo li avevo posti32.

Ogni Stellungnahme fonda perciò nell’io un che di stabi-


le, di permanente, o meglio: un’instaurazione che tende a
permanere finché non insorgono nuovi motivi provocando
un mutamento della precedente presa di posizione e quindi
dell’io stesso.
Nel mutare delle prese di posizione io «continuo a essere
lo stesso, ma sono lo stesso all’interno di un mutevole flusso
di vissuti in cui, spesso, si costituiscono nuovi motivi»33. Tale
«consequenzialità dell’io»34 è ciò che ne determina il pro-
gressivo formarsi dell’identità. Afferma Husserl nelle lezioni
sulla sintesi passiva: «Così l’io rimane come io concorde,
concorde con “se stesso”, come io conseguente. Quello che ho
detto, l’ho detto, quello che ho deciso, rimane deciso. Così io
sono sempre lo stesso, il soggetto identico di una spontaneità
concorde»35.

31. Ivi, p. 111; trad. it. p. 116.


32. Ivi, pp. 111-112; trad. it. p. 116.
33. Ivi, p. 112; trad. it. p. 117.
34. Ivi, p. 113; trad. it. p. 117.
35. hua xi, p. 360: «So bleibt es als Ich einstimmig, einstimmig mit “sich selbst”,
als Ich konsequent. Was ich gesagt habe, habe ich gesagt, was ich entschieden habe,
bleibt entschieden. So bin ich immer derselbe, identisches Subjekt einstimmiger
Spontaneität» traduzione mia.
396 marta ubiali

Quanto era stato precedentemente affermato circa la


strutturale possibilità di ridestare i vissuti acquista ora un’im-
portanza centrale, in quanto «un io statico e permanente non
potrebbe costituirsi se non si costituisse uno statico e per-
manente flusso di vissuti, se quindi le unità originariamen-
te costituite dei vissuti non potessero venir riprese [...] e se
non esistesse la possibilità di portare ciò che è oscuro alla
chiarezza»36. La possibilità del Weckung ha direttamente a che
fare con la libertà dell’io, con il suo Ich kann o, detto in altri
termini, con quel livello quasi impercettibile della volontà che
precede ogni vera e propria Stellungnahme – ogni autentico
“sì” [ein eigenes Ja], per usare i termini scelti da Husserl:

La passata convinzione (esperienza, ecc.) resta valida per me – e ciò


non significa altro che questo: io la “adotto”, e riproducendola par-
tecipo nuovamente anche alla credenza in essa. Non si tratta di un
consenso, di un dire sì come nel caso della risposta a una domanda, a
un dubbio, a una mera supposizione. E tuttavia io devo dare qualche
cosa come un consenso, in quanto dobbiamo distinguere due strati: il
ricordo e il soggetto passato, la credenza passata, la passata convinzio-
ne, il passato esperire, ecc., mentre l’attuale soggetto non partecipa. E
tutto ciò comporta una partecipazione, anche se questa partecipazione
non è un vero e proprio passo, un vero e proprio sì [kein eigenes Ja]37.

Per chiarire tale legalità essenziale, Husserl offre un esempio


semplice, ossia il caso in cui io nutra un rancore. Egli nota

36. hua iv, p. 113; trad. it. p. 117. Cfr. anche le lezioni sulla logica trascendentale
del 1920-21: «A seguito di questi processi propri della presa d’atto attuale, che sono
processi di esplicazione, l’oggetto, anche quando è sprofondato nella passività,
permane costituito come quell’oggetto caratterizzato dalle sue rispettive determi-
nazioni. Esso ha assimilato quelle strutture di senso, originariamente costituite
negli atti che abbiamo descritto, in quanto sapere abituale [habituelles Wissen].
A tutta prima, in una nuova percezione realizzata successivamente, l’oggetto è
dato alla coscienza con l’orizzonte naturalmente vuoto delle cognizioni acquisite,
e ogni nuova esplicazione ha il carattere di una ripetizione e di una riattivazione
dell’associazione propria di questo “sapere” già acquisito» (hua xxxi, p. 23; trad.
it. p. 73).
37. hua iv, p. 117; trad. it. pp. 121-122.
Abitualità trascendentali e orizzonte etico 397

a questo riguardo che i vissuti dell’io «hanno una relazione


reciproca e costituiscono qualcosa di permanente, che dura:
la convinzione, quel rancore, che era sorto allora, in un certo
punto del tempo e per certi motivi, e che a partire da quel
momento era diventato una permanente proprietà dell’io,
rimanendo tale anche in quei segmenti intermedi della durata
fenomenologica, in cui non era costituito nell’ordine dei vis-
suti»; e aggiunge: «La stessa cosa si può dire dell’unità di una
decisione, di uno sforzo, di un entusiasmo, di un amore, di un
odio, ecc.»38. Il rancore di un tempo sopravvive quindi come
proprietà permanente dell’io, anche nel momento in cui non
è più attuale o cosciente. Esso non va mai totalmente perdu-
to, ma tende piuttosto a permanere a partire dal momento
della sua originaria istituzione: «Questo ricordo “sussiste”
per sempre, fin tanto che non insorgano motivi capaci di
eliminarlo e quindi capaci di eliminare anche la legittimità
del ricordo originario»39.
Se – come le pagine di Idee II prese in considerazione indi-
cano – tale legalità dinamica inerisce al formarsi di un habitus
che non riguarda la mera vita empirica e fattuale dell’io bensì
quella trascendentale, sorgono ora più chiaramente alcuni
interrogativi. Innanzitutto occorre chiedersi di nuovo e più
approfonditamente: cosa significa che la legge delle opinioni
intenzionali permanenti sia una Grundgesetzlichkeit dell’io
puro e non dell’io empirico? Queste bleibende Meinungen
vengono indicate da Husserl come habitus dell’io, ma come
può un habitus inerire all’io puro? In che senso è possibile
parlare, insomma, di “abitualità trascendentali”?
Il § 32 delle Meditazioni cartesiane – dal titolo L’io come so-
strato di abitualità – offre un importante contributo a questo
riguardo. Qui infatti Husserl chiarisce che «questo io-centro
non è un vuoto polo di identità (e tanto meno lo è qualunque
oggetto) ma esso, in virtù della conformità a regole della ge-
nesi trascendentale, per ogni atto che emana da sé, ottiene un

38. Ivi, pp. 113-114; trad. it. p. 118.


39. Ivi, p. 115: trad. it. p. 120.
398 marta ubiali

nuovo senso oggettivo, una nuova proprietà stabile»; cosicché


«quando io per esempio mi decido per la prima volta, con
un atto di giudizio per un essere ed essere-così, questo atto
fuggente trapassa, ma io ci sono ancora in quanto rimango
l’io che si è deciso in un certo modo determinato»40.
Ogni presa di posizione dell’io comporta una sorta di
retroazione, poiché non solo determina la relativa azione, ma
implica anche un cambiamento permanente nell’io: l’identità
dell’io si costituisce progressivamente, e tale costituzione può
venir ricostruita geneticamente. Afferma Husserl nei Pariser
Vorträgen: «L’io non è soltanto polo di prese di posizione
che vanno e vengono; ogni presa di posizione fonda nell’io
qualcosa di permanente, una convinzione [Überzeugung] che
resta, per così dire, fino a nuovo ordine»41.
Si comprende quindi in che senso Husserl possa definire
trascendentali le abitualità. “Abitudine trascendentale” è cer-
tamente un’espressione ossimorica, in quanto le abitualità di
per sé sembrerebbero appartenere alla sfera della contingenza
empirica: tuttavia è possibile parlare di abitualità trascenden-
tali in quanto la loro fondazione originaria inaugura ogni vol-
ta un nuovo orizzonte trascendentale nell’esperienza dell’io42.
La categoria di “abitualità trascendentale” getta una nuova
luce sul concetto di io puro husserliano: ogni fondazione ori-
ginaria di una convinzione permanente è trascendentale, poi-
ché essa diviene una sedimentazione abituale, ed «è dunque
d’ora in poi un tratto permanente nel mio io, finché io non
l’abbia abbandonata tramite nuovi atti. Ogni intendere attuale
si converte in una mia intenzione d’ora innanzi permanente.

40. hua i, pp. 100-101; trad. it. p. 92 (traduzione leggermente modificata).


41. Ivi, p. 29; trad. it. p. 25.
42. Cfr. h. goto, Der Begriff der Person in der Phänomenologie Edmund Husserls:
Ein Interpretationsversuch der Husserlschen Phänomenologie als Ethik im Hinblick
auf den Begriff der Habitualität, Königshausen & Neumann, Würzburg 2004, pp.
111 e ss.; k. held, Lebendige Gegenwart. Die Frage nach der Seinsweise des transzen-
dentalen Ich bei Edmund Husserl, entwickelt am Leitfaden der Zeitproblematik,
Nijhoff, Den Haag 1966.
Abitualità trascendentali e orizzonte etico 399

Con ogni atto si amplia la consistenza abituale dell’io, il quale


quindi cresce e diviene con i suoi atti sempre nuovi»43.
L’io «porta in sé […] la sua intera storia sempre da
svolgere»44, e ogni nuova presa di posizione apre un campo
di possibilità esperienziale che può mutare solo all’insorgere di
nuovi motivi e di conseguenti nuove prese di posizione dell’io.

3. La costituzione del carattere permanente e il


suo orizzonte etico

Dal momento che «l’io reale include l’io puro quale statuto
nucleare appercettivo»45, la legalità della genesi trascenden-
tale dell’io puro rappresenta la condizione di possibilità della
costituzione dello stile personale di ogni individuo e del suo
carattere. Scrive Husserl a questo proposito nelle Meditazioni
cartesiane:

In quanto l’io per una sua propria genesi attiva si costituisce come
sostrato identico delle permanenti proprietà-dell’-io, esso si costituisce
anche in un processo ulteriore come io personale stabile e permanente
[…]. E anche se, in generale, le convinzioni sono soltanto relativa-
mente permanenti, esse hanno i loro modi di cambiamento (mediante
la modalizzazione delle posizioni attive, tra cui è la cancellazione o
negazione, annientamento della loro validità); intanto l’io in tali cam-
biamenti conserva uno stile permanente con l’unità d’identità che lo
attraversa, un carattere personale46.

43. hua xxxvii, p. 334: «[s]ie ist nun ein bleibender Zug in meinem Ich, solange
ich sie nicht in neuen Akten aufgegeben habe. Jedes aktuelle Meinen verwandelt
sich in meine hinfort verbleibende Meinung. Mit jedem Akt erweitert sich der
habituelle Bestand meines Ich, das also mit seinen immer neuen Akten wächst
und wird» traduzione mia.
44. hua xi, p. 360: «trägt es […] seine ganze wieder aufzuwickelnde Geschichte
in sich» traduzione mia.
45. hua iv, p. 110; trad. it. p. 115.
46. hua i, p. 101; trad. it. p. 93 (traduzione leggermente modificata).
400 marta ubiali

Ogni presa di posizione, ogni decisione volontaria e ogni


motivazione inconscia che influenzi l’io possiede un carattere
auto-determinante, in quanto inaugura un nuovo orizzonte
che non è solo un orizzonte di azione, bensì innanzitutto
un nuovo orizzonte di sé, ossia un progressivo determinar-
si dell’identità personale di ciascuno. Sostiene Husserl che
«l’io, mentre ora vuole in un certo modo, con ciò fonda un
atteggiamento volontario, un volere abituale e permanente,
e perlomeno in generale, “rimane” nel suo volere. E così esso
viene compreso»47. La delineazione progressiva del carattere,
della personalità, è per Husserl un tratto distintivo dell’essen-
za della soggettività personale, in quanto le persone – come
egli afferma nel 1930 – «possono fungere e fungono da ele-
menti ultimi delle comunità personali e delle umanità supe-
riori: appartengono loro caratteri personali permanenti, e
ove essi siano conoscibili in questo aspetto da parte di loro
stessi o degli altri, essi hanno, in quanto oggetti dell’Umwelt
[…], i loro personali caratteri di significato [ihre personale
Bedeutungscharaktere]»48.
Identità personale e volontà sono nella prospettiva hus-
serliana due categorie legate da un nesso molto stretto. Il ca-

47. hua xiv, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlass.
Zweiter Teil: 1921-1928, I. Kern (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1973, pp. 168-169.
Cfr. a questo proposito a. noor, Individualité et volonté, in «Études phénoméno-
logiques» 13-14 (1991), pp. 137-164.
48. hua xv, Zur Phänomenologie der Intersubjektivität. Texte aus dem Nachlaß.
Dritter Teil: 1929-1935, Iso Kern (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1973, p. 58: «als letzte
Elemente von personalen Gemeinschaften und zuoberst Menschheiten fungieren
können und fungieren: Es gehören ihnen, wo es sich um bleibende Einheiten
handelt, bleibende personale Charaktere zu, und sofern sie selbst in dieser Hin-
sicht für sich selbst und Andere erfahrbar sind, haben sie, als Gegenstände der
Umwelt, […] ihre personalen Bedeutungscharaktere».
Scrive a questo riguardo Ullrich Melle: «Per Husserl l’identità personale presup-
pone convinzioni durevoli. Tali convinzioni durevoli sono sedimentazioni abituali
di prese di posizione libere, teoretiche e pratiche dell’“io”. La mia persona sarebbe
frammentata e disintegrata se il mio prendere posizione non si cristallizzasse in
convinzioni abituali. Io sono io finché ho opinioni armoniche. Solo in questo
modo posso conservare me stesso» (u. melle, The Development of Husserl’s Ethics,
in «Études phénoménologiques» 13-14 (1991), traduzione mia, p. 126).
Abitualità trascendentali e orizzonte etico 401

rattere autodeterminante di ogni atto volontario – in base al


quale l’io è sia soggetto che oggetto di ogni Stellungnahme o
«Quasi-Stellungnahme»49 – implica, infatti, che ogni presa di
posizione sia caratterizzata da una sorta di irreversibilità. Non
si tratta certamente di un’irreversibilità che escluda il suben-
trare di eventuali mutamenti o l’irrompere di una novità, in
quanto – come la legge delle opinioni intenzionali permanenti
ha mostrato – nuovi motivi sollecitano incessantemente nuove
prese di posizione; l’irreversibilità qui in questione è piuttosto
un altro modo per esprimere quel “non potere mai andare per-
duto” di ogni contenuto di coscienza. Ogni presa di posizione e
ogni atteggiamento volitivo tendono a permanere e a formare
in questo modo l’io e la sua personalità.
Questa dinamica trascendentale riguarda «tutte le mie
abitualità che mi sono parimenti proprie e che, a partire dai
miei propri atti che le fondano, si costituiscono come convin-
zioni stabili»50. Il procedere della vita conduce quindi paral-
lelamente al sorgere progressivo di una determinata identità
personale, vale a dire dell’«elemento identico nel variare […]
dei modi della volontà, che hanno dal canto loro un’unità
interna nel loro mutamento modale»51. L’io non si presenta
perciò come un polo statico, ma piuttosto come un polo in
costante divenire, in quanto

io ho quindi già sempre un che di predato, un mondo predato nella


mobilità fluente e, relativamente ad esso, il processo delle attività at-
tuali [der aktuellen Tätigkeiten], il quale in ultima istanza sfocia nell’a-
zione attualmente riconfigurante [in aktuell umbildende Handlung] e

49. hua xxxviii, Wahrnehmung und Aufmerksamkeit. Texte aus dem Nachlass
(1893-1912), T. Vongehr und R. Giuliani (Hrsg.), Kluwer Academic Publishers,
Dordrecht/Boston/London 2004, p. 402.
50. hua i, p. 134; trad. it. p. 125 (traduzione leggermente modificata).
51. hua xxxix, Die Lebenswelt. Auslegungen der vorgegebenen Welt und ihrer
Konstitution. Texte aus dem Nachlass (1916-1937), R. Sowa (Hrsg.), Kluwer Aca-
demic Publishers, Dordrecht 2008, p. 594: «des Identischen im Wandel der Modi
[…] der Willensmodi, die ihrerseits in ihrem modalen Wandel eine innere Einheit
haben» traduzione mia.
402 marta ubiali

finisce in un nuovo possesso, in qualcosa di esistente per me d’ora in


poi [einem nunmehr für mich Seienden]52.

Le riflessioni compiute sinora conducono verso nuovi interro-


gativi. Ciò che è emerso in controluce attraverso le precedenti
analisi è, infatti, una precisa concezione della soggettività per-
sonale, una concezione che – come brevemente verrà mostrato
di seguito – possiede nell’orizzonte del pensiero husserliano
una forte connotazione etica. Questo è del resto un tratto che
attraversa l’intera opera husserliana: in essa l’etica non si confi-
gura come una sezione a sé stante, bensì come una dimensione
o una tensione che la accompagna costantemente53.
Il primo passo da compiere ora è quello di comprendere
le implicazioni etiche inscritte nei risultati teoretici che sono
emersi nel cammino compiuto. Alcuni elementi raccolti si-
nora giocano qui un ruolo chiave. Innanzitutto la centralità
della dimensione della volontà e in particolare il carattere di
autodeterminazione che caratterizza ogni presa di posizio-

52. Ivi, p. 597: «Und so habe ich immer schon Vorgegebenes, eine vorgegebene
Welt in strömender Beweglichkeit und darauf bezüglich den Prozess der aktuellen
Tätigkeiten, letztlich in aktuell umbildende Handlung ausmündend und endend
in einer neuen Habe, einem nunmehr für mich Seienden».
53. Negli ultimi anni, in particolare dopo la pubblicazione delle lezioni di intro-
duzione all’etica del 1920-24, è notevolmente cresciuta l’attenzione verso questo
aspetto – in precedenza forse sottovalutato – del pensiero husserliano. Molti sono
gli studi che hanno contribuito ad approfondire la rilevanza della dimensione
etica della fenomenologia; mi permetto di citarne solo alcuni: i.a. bianchi, Etica
Husserliana, Studio sui manoscritti inediti degli anni 1920-1934, FrancoAngeli,
Milano 1999; s. lodoilt, Husserl und das Faktum der praktischen Vernunft. Anstoß
und Herausforderung einer phänomenologischen Ethik der Person, in c. ierna, h.
jacobs, f. mattens (eds.), Philosophy, Phenomenology, Sciences. Essays in Com-
memoration of Edmund Husserl, Springer/Dordrecht/Heidelberg/London/New
York 2010, pp. 483-503; s. luft, Das Subjekt als moralische Person. Zu Husserls
späten Reflexionen bezüglich des Personenbegriffs, in p. merz, a. staiti, f. steffen
(Hrsg.), Geist – Person – Gemeinschaft. Freiburger Beiträge zur Aktualität Husserls,
Ergon Verlag, Würzburg 2010, pp. 221-240; u. melle, Husserls personalistische
Ethik, in b. centi, g. gigliotti (a cura di), Fenomenologia della ragion pratica:
L’etica di Edmund Husserl, Bibliopolis, Napoli 2004, pp. 327-356; h. peucker,
From Logic to the Person: An Introduction to Edmund Husserl’s Ethics, in «Review
of Metaphysics» 62 (2008), pp. 307-325.
Abitualità trascendentali e orizzonte etico 403

ne, sia essa esplicita o inavvertita: l’io, essendo allo stesso


tempo soggetto e oggetto di ogni volere, viene plasmato da
ogni manifestazione volitiva54. Un secondo elemento che
contiene una certa rilevanza etica è la dinamica di costante
sedimentazione dei vissuti e il ruolo trascendentale giocato
dalle abitualità nella costituzione dell’io e della sua persona-
lità. Il presupposto teoretico di questi risultati è sicuramente
il riconoscimento della motivazione come legalità essenziale
dell’intera vita dell’io, sia nelle sue dimensioni attive che in
quelle passive o involontarie. Ogni presa di posizione vo-
lontaria viene motivata e, a sua volta, motiva una nuova e
permanente proprietà dell’io: ciò rappresenta una legge tra-
scendentale della costituzione dell’io e allo stesso tempo la
condizione di possibilità per la costituzione dello stile etico
di ogni persona. Scrive infatti Husserl:

Ogni esplicazione di una volontà e allo stesso modo, in massimo gra-


do, di un atto [...] è una modificazione del mio Io, che non si deve in
alcun modo intendere come una tabula rasa in cui i vissuti attuali si
iscrivono per poi risparire; [...] io rimango qui lo stesso Io che persi-
ste secondo la modalità specificatamente tipica delle trasformazioni
egologiche. [...] Di volta in volta, io ho le mie validità permanenti55.

54. Dorion Cairns mette particolarmente in evidenza nelle sue celebri Con-
versations with Husserl and Fink il ruolo essenziale che la volontà gioca nella
costituzione della personalità: «La struttura della personalità è fondamentalmente
volitiva, decisionale» (d. cairns, Conversations with Husserl and Fink, Nijhoff,
Den Haag 1976, traduzione mia, p. 47). A questo proposito scrive Enzo Paci: «Si
pone qui il problema dell’Ich Pol e cioè il problema dell’autocostituzione dell’Ich
che acquista il carattere di un Io personale, […]. Ciò che l’Io sente e decide (e
anche ciò che non ha deciso) forma la sua personalità: l’Ich Pol è costituito da
decisioni, da convinzioni e atti che in lui permangono. Ciò che permane costi-
tuisce il complesso delle qualità personali dell’Io» (e. paci, Tempo e verità nella
fenomenologia di Husserl, Laterza, Bari 1961, p. 118).
55. hua xxix, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale
Phänomenologie. Ergänzungsband: Text aus dem Nachlaß 1934-1937, R.N. Smid
(Hrsg.), Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/London 1993, p. 372;
trad. it. parziale di N. Ghigi, La storia della filosofia e la sua finalità, Città Nuova,
Roma 2004, p. 71.
404 marta ubiali

L’identità dell’io e la sua personalità etica non sono il sem-


plice risultato della somma delle sue capacità, delle sue doti,
bensì si costruiscono progressivamente sulla base di convin-
zioni fino a quel momento valide, e sulla base del sorgere di
nuovi motivi che di volta in volta conducono l’io a ulteriori
prese di posizione. Ogni nuova decisione volontaria non è
indipendente bensì strettamente legata alla catena delle prece-
denti opinioni intenzionali permanenti: «io dipendo da certi
motivi, riprendendo una vecchia decisione io dipendo dalle
precedenti decisioni, io sono quello che sono ora in quanto
determinato dal mio essere precedente (dall’essere del mio
decidermi)»56. Tale dipendenza dell’io dai suoi precedenti
vissuti non implica in nessun modo una concezione deter-
ministica dello sviluppo della personalità; secondo Husserl,
infatti, l’io in ogni istante è libero di prendere posizioni to-
talmente imprevedibili rispetto alle esperienze antecedenti. È
d’altra parte innegabile che ciascun io possieda nel decidere
un proprio stile abituale. Come Husserl a questo proposi-
to sottolinea, «in quanto soggetto di prese di posizione e di
convinzioni abituali io ho il mio stile induttivamente attivo
che mi porterà a un’autoappercezione corrispondente, e co-
sì anche un altro potrebbe enunciare induttivamente come
potrebbero delinearsi le mie prese di posizione»57. La propria
storia e il proprio stile abituale influenzano quindi costante-
mente ogni nuovo passo. Nel corso della vita si costituisce la
personalità etica sulla base dell’educazione ricevuta, dell’i-
struzione, degli avvenimenti, ma soprattutto sulla base della
libera e personale presa di posizione con cui l’io di volta in
volta risponde a tali accadimenti58. Una responsabilità etica
grava secondo Husserl su ogni singola decisione:

56. hua iv, p. 331; trad. it. p. 324.


57. Ibidem.
58. Osserva Husserl: «Questo: “io non posso prendere una certa decisione, non
posso per esempio decidermi a commettere un assassinio”, “non posso fare una
cosa del genere”, definisce come io sono (eventualmente com’ero prima, come
presuntivamente sarò in futuro); tutti i motivi che possono essere determinanti di
un assassinio non sono per me motivi efficaci. La possibilità dell’assassinio è una
Abitualità trascendentali e orizzonte etico 405

Quali motivazioni agiscono in quest’occasione, che ruolo gioca so-


prattutto questo meraviglioso fenomeno dell’autodeterminazione,
nel quale l’Io, per così dire, non rilascia da sé ingenuamente, come
accade di solito, un atto, mediante il quale agisce poi razionalmente,
bensì pone volontariamente se stesso come Io, e precisamente come
Io che d’ora in poi vuole solo il Bene, ed eventualmente si “rinnova”
appieno “nell’interiorità”, o perlomeno si decide a voler diventare un
nuovo Io59?

Il “meraviglioso fenomeno dell’autodeterminazione” – in-


sieme all’Erneuerung, a esso fortemente legato – rappresen-
ta il nucleo delle riflessioni etiche di Husserl. Nella misura
in cui sia le motivazioni attive/razionali che quelle passive/
irrazionali concorrono alla costituzione della personalità,
è importante al contempo sottolineare che sono le prime a
giocare un ruolo decisivo in ambito etico, in quanto l’etica
ha direttamente a che fare con la libertà e la capacità decisio-
nale propria dell’io. Il concetto di persona è così per Husserl
strettamente legato alla categoria di responsabilità60:

possibilità pratica in quanto io, posto che lo volessi, potrei realizzarlo. Qualsiasi
azione volontaria si rifà a un ambito pratico, e perciò anche questa» (ibidem).
59. hua xxxvii, p. 162; trad. it. p. 158.
60. La categoria di responsabilità come centrale nella definizione dell’io personale
viene sottolineata a più riprese non solo da Husserl, ma anche da altri fenomenologi
come per esempio Edith Stein, Max Scheler o Roman Ingarden. Edith Stein sottolinea
infatti che «quando vediamo una pianta o un animale “atrofizzati”, nei quali, cioè, le
capacità specifiche non si sono sviluppate, diamo la responsabilità di ciò a condizioni
di vita sfavorevoli, semmai alla persona che li ha posti in simili condizioni inadeguate.
Anche nell’essere umano prendiamo in considerazione fattori simili, ma in più con-
sideriamo lui stesso responsabile di ciò che egli è diventato» (e. stein, Der Aufbau
der menschlichen Person, Herder, Freiburg I. B., Basel, Wien 1994, pp. 77-78; trad. it.
di M. D’Ambra, La struttura della persona umana, Città Nuova, Roma 2000, p. 123).
Lo stesso vale per Scheler, il quale mette in evidenza come l’imputabilità di un’azione
possa venir meno in determinate circostanze come la malattia mentale, motivo per
cui «nelle analisi psichiatriche d’un carattere colpito da malattia si dovrebbe pertanto
evitare nel modo più rigoroso di usare espressioni di biasimo o di lode». Tuttavia «la
malattia psichica, pur rendendo nulla l’“imputabilità” delle azioni alla persona, non
elimina affatto la “responsabilità” della persona: la responsabilità è eideticamente in-
scindibile dall’essere della persona» (m. scheler, Der Formalismus in der Ethik und die
406 marta ubiali

La psiche non è un piano, davanti al quale l’Io sta come un musicista


che volesse provare a se stesso la propria bravura, facendo scorrere
in certo modo meccanicamente gli atti vitali come meravigliosi suoni
melodici [...]. L’Io morale, al contrario, l’Io della costante e ininterrotta
autoeducazione, è l’Io che vuole migliorarsi, trasformarsi (se stesso
come Io) a tal punto che, in quanto Io etico, può essere eo ipso solo
un Io che-vuole-il-bene61.

La sorgente di un’autentica vita etica consiste per Husserl in


una costante decisione volontaria che implica sì una presa di
posizione ma, al contempo, come sua conseguenza, conduce
alla costituzione di un habitus morale permanente. Come
il filosofo afferma, infatti, nei corsi sull’etica del 1920-24,
«l’essere-Io è un costante divenire-Io. Sono soggetti, giacché
si sviluppano continuamente»62.

materiale Wertethik. Neuer Versuch der Grundlegung eines ethisches Personalismus, in


Gesammelte Werke, Band ii, Franke Verlag, Bern 1966, p. 478; trad. it. di G. Carosello,
Il Formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori. Nuovo tentativo di fondazione di
un personalismo etico, S. Paolo, Cinisello Balsamo 1996, p. 595). Interamente dedicato
al tema della responsabilità e chiaramente esemplificativo della sua centralità nella
fenomenologia della persona umana è, invece, Über die Verantwortung di Roman
Ingarden (r. ingarden, Über die Verantwortung, Reclam, Stuttgart 1970; trad. it. di
A. Setola, Sulla responsabilità, cseo biblioteca, Bologna 1982).
61. hua xxxvii, p. 162; trad. it. p. 159.
62. Ivi, p. 104; trad. it. p. 102.
Sezione terza
Al di là della fenomenologia
Renaud Barbaras

Il doppio superamento della fenomenologia

La mia interrogazione non si colloca nel quadro della feno-


menologia soltanto: essa vuole essere un’interrogazione sulla
fenomenologia stessa. Si tratta di chiedersi a quali condizioni
la fenomenologia è possibile, o piuttosto cosa è necessaria-
mente implicato dalla pratica fenomenologica, o ancora, detto
altrimenti: in quale direzione ci si deve impegnare e fino a
dove ci si deve spingere se si vogliono rispettare le esigenze
proprie della pratica fenomenologica? Farsi carico di questa
domanda porta a dei risultati inattesi. Mostrerò infatti che,
lungi dall’implicare un principio di chiusura, il rispetto dell’e-
sigenza costitutiva della fenomenologia conduce a una forma
di superamento di quest’ultima, superamento in un certo
qual modo interno, come se la fenomenologia non potesse
essere veramente se stessa che a condizione di farsi altro da
sé, come se non potesse costituirsi che eccedendosi. Come
vedremo questo superamento è duplice: esso conduce dalla
fenomenologia ad una cosmologia e da questa a una meta-
fisica. Ma va da sé che, a sua volta, il senso che conferiremo
alla cosmologia e alla metafisica si modificherà per mezzo
del quadro fenomenologico nel quale l’una e l’altra prendono
posto, trasformato in forza della loro origine fenomenologica.
Partiamo dunque da ciò che Husserl stesso caratterizza
come il compito proprio della fenomenologia, compito al
quale egli dedica la sua vita, ossia quello dell’elaborazione
dell’a priori universale della correlazione. Questo a priori
decreta che «ogni ente, qualunque ne sia il senso e qualun-
que ne sia la regione, è l’indice di un sistema soggettivo di
correlazione», il che significa che «nessun uomo pensabile,
410 renaud barbaras

comunque possa trasformarsi, potrebbe esperire il mondo


attraverso modi di datità […] diversi da quelli di una relati-
vità in costante movimento, di un mondo che è dato alla sua
vita di coscienza la quale è accomunata a quella degli altri
uomini»1. Questa correlazione sancisce dunque la relatività
reciproca di ciascuno dei poli, relatività che è costitutiva del
loro essere stesso: un ente trascendente che non fosse relativo
a dei modi di datità soggettivi non sarebbe, e lo stesso vale
per una coscienza che non si rapportasse a un trascendente,
che non fosse intenzionale. Pensare la correlazione, quindi,
non significa semplicemente caratterizzare una relazione a
partire dai termini che essa mette in rapporto, giacché ciò
equivarrebbe a presupporne il senso; significa pensare secon-
do la correlazione, prendere questa relatività come punto di
partenza, installarsi, per così dire, in essa al fine di mettere
in luce il senso d’essere dei termini che essa collega.
Per ciò che concerne il termine trascendente, ho afferma-
to che il suo essere riposa sul suo apparire. Ora, parlare di
apparire porta necessariamente a introdurre una distinzione
fra l’ente che appare e la sua apparizione; se è vero che l’essere
dell’ente consiste nell’apparire, questo apparire stesso esige
che l’ente non si confonda con la sua apparizione, che esso
rimanga come ritratto o in difetto rispetto a essa, proprio
al fine di poter apparire. In altri termini: ciò che appare si
assenta sempre dalle sue proprie apparizioni poiché esso ne
è il soggetto e rimane dunque sempre velato in esse. Questa
distanza di ciò che appare altro non è se non la sua stessa
trascendenza, tanto irriducibile quanto ineluttabile: essa non
rinvia a una dimensione situata al di là dell’apparizione, non è
l’inverso di una prossimità possibile. Non essendo nient’altro
che la propria apparizione, l’apparente non può essere colto

1. hua iv, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale
Phänomenologie. Eine Einführung in die phänomenologische Philosophie, W. Bie-
mel (Hrsg.), Nijhoff, Den Haag 1954, p. 187; trad. it. di E. Filippini, La crisi delle
scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 2002,
p. 192.
Il doppio superamento della fenomenologia 411

altrove che in essa: esso si dà come la sua profondità o la sua


trascendenza.
Questa prima descrizione conduce sin d’ora a superare il
quadro dell’ente propriamente detto, compreso come un’en-
tità unitaria, di diritto determinabile, vale a dire suscettibile
di costituire l’oggetto di una conoscenza adeguata. Compre-
sa come momento costitutivo dell’apparire la trascendenza
non può essere che quella del mondo stesso, o piuttosto, il
mondo non è che l’altro nome di questa trascendenza pura.
Il mondo non è né la totalità degli enti né un grande Oggetto
o un grande Ente, ma l’eccesso inassegnabile di ogni ente
rispetto a se stesso, che prende la forma della continuabilità
dell’esperienza e ne garantisce così la donazione. Infatti, non
potrei mai superare l’aspetto attuale di tale oggetto in favore
di nuovi aspetti che confermeranno o disconosceranno ciò
che avevo posto a partire da questo aspetto, se non mi fosse
garantita immediatamente la possibilità di superare questa
esperienza attuale e se, di conseguenza, non mi fosse già ori-
ginariamente data questa scena o questo quadro in seno al
quale la mia esperienza si svolge. Come scrive Patočka, «che
io abbia sempre di nuovo, dovunque mi trovi, la possibilità di
realizzare la stessa continuazione, ciò non è semplicemente
anticipato ma dato, non sotto la forma di una semplice in-
tenzione, ma di una presenza indipendente dal riempimento
contingente e dalla semplice anticipazione vuota»2. Questa
presenza non è altro che quella del mondo. Ricordiamo, senza
potervisi soffermare, che la relazione del mondo agli enti che
vi appaiono è di tutt’altro ordine rispetto alle relazioni che
sorreggono le cose: essendo un elemento che non contiene
le cose se non nella misura in cui è contenuto in esse, la sua
unità non costituisce un’alternativa alla sua molteplicità.
Tuttavia, la questione più difficile è quella del senso
d’essere del soggetto della correlazione. Quest’ultimo è as-

2. j. patočka, Épochè et réduction - Manuscrit de travail, dans Papiers


phénoménologiques, trad. fr. di E. Abrams, Million (coll. Krisis), Grenoble 1995,
p. 178.
412 renaud barbaras

segnato a due condizioni: da un lato, esso esiste in un altro


modo rispetto agli altri enti, in quanto ne è precisamente
la condizione, ma, dall’altro lato, esso fa parte del mondo,
testimonia una parentela ontologica con esso, senza la quale
non potrebbe più farlo apparire. Ora, in Husserl, queste due
dimensioni rimangono inconciliabili: c’è un abisso insor-
montabile tra la coscienza empirica e la coscienza trascen-
dentale, poiché quest’ultima non può costituire il mondo
che a condizione di non farne parte, di esserne separata da
un abisso di senso che circoscrive lo spazio di un assoluto.
La questione è dunque la seguente: come pensare l’esse-
re del soggetto in modo tale che esso possa far apparire il
mondo e farne parte sotto lo stesso rapporto, così che la sua
appartenenza al mondo non comprometta, ma al contrario
condizioni la sua attività fenomenalizzante? È dalla parte di
ciò che distingue il soggetto dagli altri enti mondani, vale a
dire dalle cose propriamente dette, che troveremo la via di
una soluzione. Scrive Husserl, in un inedito che non posso
che fare mio: «chi ci salva dalla reificazione della coscienza
è il salvatore della filosofia, anzi il suo creatore». Ma cosa
significa sfuggire a una reificazione della coscienza? Pensare
la coscienza come una sfera immanente costituita di vissuti
ci permette di sfuggire a questa reificazione, anche se questa
sfera è, secondo Husserl, un assoluto fuori dal mondo? In
realtà, come Patočka ha definitivamente stabilito, facendo
riposare l’attività costitutiva sulla sfera immanente dei vis-
suti, accessibile alla riflessione e di principio suscettibile
d’un auto-coglimento adeguato, Husserl subordina l’ap-
parire a un apparente e sottomette così surrettiziamente la
fenomenalità a una certa categoria di cose che, per quanto
siano soggettive o immanenti alla coscienza, conservano
nondimeno lo statuto di cose, in quanto restano suscettibili
di una donazione intuitiva. Ora, «c’è un campo fenomena-
le, un essere del fenomeno come tale, che non può essere
ridotto a nessun ente che appare al suo interno e che perciò
è impossibile spiegare a partire dall’ente, che quest’ultimo
sia di una specie naturalmente oggettiva o egologicamen-
Il doppio superamento della fenomenologia 413

te soggettiva»3. Così, il senso d’essere che qualifica la cosa


come tale e la rende suscettibile di costituire l’oggetto di
un’intuizione, al di là della differenza fra oggetti e vissuti,
è il suo carattere statico. È perché la cosa rimane quella che
è – ed è in questo, in verità, che consiste il suo modo d’essere
–, che essa è suscettibile di essere colta nell’intuizione, di
otturare lo sguardo con la sua pienezza; ed è precisamente
in tal senso che i vissuti sui quali Husserl fonda l’attivi-
tà costitutiva sono ancora delle cose. Allora, sfuggire alla
reificazione della coscienza non significa abbandonare il
mondo in favore di un ambito extra-mondano che sarebbe
ancora sostanziale: è, al contrario, superare l’approccio sta-
tico del soggetto in favore di un approccio dinamico. Dire
che il soggetto si distingue dagli altri enti, ossia che non è
in alcun modo una cosa, che è la negazione della cosalità,
non significa che esso non è niente, ma che esso esiste nel
modo stesso di questa negazione. Mentre gli enti mondani
sono ciò che sono, il soggetto non è ciò che è, nel senso
per cui esso esiste come sua propria negazione. Ora, a cosa
può rimandare questa negazione effettiva e attiva se non
al movimento stesso? Lungi dall’allontanarci dal mondo,
questa negazione effettiva che è il movimento ci inscrive al
contrario profondamente in esso. Non vi è movimento che
non avvenga in seno al mondo, inteso a titolo di posizione
fondamentale richiesta da questa negazione. Un movimento
che fosse movimento di niente non sarebbe movimento, non
più che un movimento che non accadesse in nessun luogo.
La fluidità del movimento suppone lo spessore del mondo,
la sua negazione incessante rimanda a una realtà da nega-
re, che si tratti di una posizione o di una determinazione.

3. j. patočka, Le subjectivisme de la phénoménologie husserlienne et l’exigence


d’une phénoménologie asubjective, in Qu’est-ce que la phénoménologie?, trad. fr. di
E. Abrams, Million (coll. Krisis), Grenoble 2002, p. 239; trad. it. di G. Di Salvatore,
Il soggettivismo della fenomenologia husserliana e l’esigenza di una fenomenologia
asoggettiva, in Che cos’è la fenomenologia? Movimento, mondo, corpo, Campostrini,
Verona 2009, pp. 303-304.
414 renaud barbaras

Così, è a condizione di passare da un approccio statico a


un approccio dinamico che ci diamo i mezzi per conciliare
la differenza del soggetto con la sua appartenenza: sotto lo
stesso rapporto, quello del movimento, il soggetto differisce
radicalmente dagli enti mondani e appartiene al mondo.
Questo movimento rimanda alla vita stessa, poiché essa
è riferita a un vivere più profondo della distinzione tra una
vita intransitiva (Leben) e una vita transitiva (Erleben): ap-
partenendo al mondo come vivente, il soggetto lo fa apparire
poiché, insieme, lo vive. Ora, questo riferimento alla vita ci
permette di specificare la natura di tale movimento. Situato,
per così dire, più in alto del semplice spostamento, dal mo-
mento che fa apparire il mondo, tale movimento non si con-
fonde tuttavia con un semplice esperire per il fatto che esso
si dispiega in seno al mondo. Esso costituisce un’esperienza
che prende la forma di un’anticipazione, un terzo modo d’es-
sere, più profondo perché più originario, che sta all’esperi-
re «soggettivo» e al semplice spostamento come il vivere in
quanto tale sta all’esperienza transitiva (Erleben) e all’essere
in vita (Leben). Ora, lo statuto del polo trascendentale della
correlazione conferma e chiarisce questa caratterizzazione
dinamica del soggetto. Se quest’ultimo esiste nel modo di un
vivere che elude la distinzione dello spostamento spaziale e
dell’esperire soggettivo, è perché ciò che è vissuto, o piuttosto
preso di mira in esso, è caratterizzato dall’impresentabilità
e si sottrae a qualsiasi intuizione. È nella misura in cui il
mondo viene in qualche modo a sradicare l’ente dal regime
della piena presenza che il soggetto è strappato a qualsiasi
forma di coincidenza con se stesso per compiersi nella forma
del vivere. L’eccesso rispetto a sé che caratterizza il vivere
dinamico corrisponde all’eccesso irriducibile del mondo ri-
spetto a ciò che vi appare. Sono questi vincoli teorici derivati
dalla correlazione che mi hanno condotto a definire il vivere
soggettivo come desiderio. Infatti il proprio del desiderio è
che ciò che lo placa allo stesso tempo lo acuisce, che niente
di ciò che vi risponde può appagarlo; questa è la ragione
per la quale esso non fa l’esperienza del suo oggetto se non
Il doppio superamento della fenomenologia 415

attraverso lo slancio incessante che lo porta verso di esso. Il


desiderio è inestinguibile perché niente lo può appagare, e
niente lo può appagare perché ciò che esso prende di mira,
in verità, vale a dire il mondo, è di una natura tale che esclu-
de l’appropriazione: all’eccesso non positivo del mondo può
corrispondere solo l’insaziabile anticipazione del desiderio.
Così, al termine di questa analisi propriamente fenomenolo-
gica dei termini della correlazione, possiamo affermare che
essa mette in rapporto un soggetto la cui vita è desiderio e
un mondo che è profondità pura.
È a questo punto che siamo condotti a superare una pri-
ma volta la fenomenologia in direzione di una cosmologia,
per riconoscere che il nostro movimento fenomenalizzante
ha per vero soggetto il mondo stesso, il quale si inserisce in
un archi-movimento, che è quello di una physis. Almeno tre
ordini di considerazioni ci costringono a questo. Il primo
concerne precisamente il desiderio. È infatti il momento di
aggiungere che il desiderio ha un significato ontologico: esso
rimanda a un difetto d’essere ed è dunque sempre desiderio
di sé; è il soggetto stesso del desiderio che, alla fine, è in gioco
nel desiderio. Allora, se il desiderio tende sempre ad attua-
lizzare il mondo, approcciandovisi, è perché in esso risiede il
suo essere, e attraverso esso può compiersi come soggetto. Il
desiderio rivela dunque in maniera costitutiva la connivenza
ontologica del soggetto con il mondo che questi prende di
mira: l’oggetto del desiderio, che non è oggetto ma mondo, è
il soggetto stesso in quanto il suo essere risposa nel mondo,
in quanto nel suo essere ne va del mondo. Così, al di là del
rapporto di manifestazione che si stabilisce tra il soggetto
e il mondo, occorre riconoscere, quale vera condizione del
desiderio e della sua potenza di manifestazione, un rappor-
to d’essere. Ciò ci riporta, in secondo luogo, alla questione
dell’appartenenza: se è vero che, in quanto movimento, il
soggetto non è estraneo al mondo, soggetto e mondo si op-
pongono tuttavia ancora come la negazione e la posizione
che è ad essa sottesa. Il movimento per il quale il soggetto è
al mondo si dispiega nel mondo, ma non è ancora del mondo.
416 renaud barbaras

Ora, abbiamo riconosciuto la necessità d’una connivenza on-


tologica tra soggetto e mondo. Occorre dunque affermare che
vi è un’appartenenza originaria del soggetto al mondo, una
iperappartenenza, che ci illumina sul vero senso di quest’ul-
timo. Se il soggetto è movimento e se appartiene al mondo
nel modo della parentela ontologica, allora l’essere del mondo
deve essere esso stesso collocato dalla parte del movimento,
l’approccio statico al mondo che ha prevalso finora deve esse-
re superato a favore di un approccio risolutamente dinamico.
Il nostro movimento come tale si dispiega certamente sullo
sfondo di un mondo che è totalità, ma il soggetto di questo mo-
vimento è in continuità con il mondo, il quale è nel suo fondo
una realtà processuale, di modo che il movimento del soggetto
proviene in verità dal processo stesso del mondo. Allora, la dif-
ferenza del soggetto nei confronti del mondo come totalità de-
gli enti non è in alternativa rispetto a un’identità più profonda
con il mondo come realtà dinamica. Questa conclusione può
essere confermata, in terzo luogo, alla luce di una riflessione
sulla vita. Infatti, l’insorgenza di un movimento orientato in
seno a un organismo rimane profondamente incomprensibi-
le. Come, da ciò che è estraneo all’ordine del movimento, da
un semplice corpo dotato di certe proprietà, potrebbe nascere
un movimento intenzionale? In verità, l’organismo può muo-
versi solo perché appartiene già in qualche modo all’ordine
del movimento, perché si trova ontologicamente dalla parte
del movimento. Sicché, non è tanto l’organismo a produrre il
movimento, quanto il movimento che dà luogo all’organismo
o, piuttosto, che attraversa un certo ente che perciò si chia-
ma organismo. L’iperappartenenza dinamica del soggetto a
un mondo processuale significa che la nostra vita non è mai
anzitutto e soltanto la nostra, che essa è la vita che è solo in
quanto s’inscrive in una vita che non è la vita della persona,
che è una vita del mondo nel senso in cui Aristotele parlava di
una vita delle cose. Detto altrimenti, non è perché siamo degli
esseri viventi, vale a dire degli organismi, che noi viviamo; è al
contrario perché viviamo, perché abbiamo ricevuto in condi-
visione la vita, che siamo degli esseri viventi.
Il doppio superamento della fenomenologia 417

La presa in considerazione di questo soggetto che è desi-


derio e che è del mondo ci conduce dunque ad affermare che
il suo movimento non proviene da lui, ma da più lontano;
esso si inserisce in un proto-movimento che corrisponde al
vero senso d’essere del mondo e determina quest’ultimo come
physis. Proseguiamo grazie a ciò nell’assunzione della que-
stione della correlazione allo stesso modo in cui siamo passati
dalla considerazione dei poli della correlazione, certamente
ricompresi a partire da o secondo la correlazione, all’essere
stesso della correlazione: non più dei termini considerati in
quanto sono in relazione, ma ciò che, in essi, rende possi-
bile la relazione stessa e che è necessariamente una forma
di parentela ontologica. Se il soggetto e il mondo possono
essere, nel loro essere stesso, relativi l’uno all’altro, è nella
misura esatta in cui l’uno e l’altro appartengono a una re-
altà più profonda di cui essi sono delle modalità e che è di
natura essenzialmente processuale. Il soggetto e il mondo si
rapportano l’uno all’altro perché sono inseriti in un archi-
movimento che è l’opera del mondo o, piuttosto, il mondo
come opera. È in questo senso che l’analisi fenomenologica
ci conduce a un’indagine di natura cosmologica. Occorre
tuttavia aggiungere da subito che questa cosmologia rima-
ne fenomenologica. Ciò che vale per il soggetto, infatti, vale
per il mondo stesso, di modo che questa physis dovrà essere
compresa essa stessa come un movimento fenomenalizzante,
e la fenomenalizzazione effettuata dal soggetto rimanderà
così a una proto-fenomenalizzazione che è l’opera del mondo
stesso. Bisogna – in altri termini – riconoscere che la fenome-
nologia dinamica rimanda a una dinamica fenomenologica.
La prima, abbiamo visto, fa apparire la condizione dinami-
ca della fenomenalizzazione soggettiva; essa mette in luce il
movimento nel cuore