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Testi della Conoscenza Tradizionale
© 2015 Kevalasa√gha
Tutti i diritti riservati
Stampato a Cittaducale
da NUOVA ARTI GRAFICHE
Via delle Scienze, 14
02015 S.Rufina di Cittaducale (RI)
CON IL COMMENTO
DI
ÂA°KARA
Avvertenze . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 12
Fonti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 14
Elenco Abbreviazioni . . . . . . . . . . . . . . pag. 15
Presentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 17
Bhagavadgıtå
con il Commento di Âa√kara
Qinto Adhyåya
Lo yoga della completa rinuncia . . . . . . . . . . pag. 239
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 273
Sesto Adhyåya
Lo yoga della meditazione . . . . . . . . . . . . pag. 279
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 317
Setimo Adhyåya
Lo yoga della conoscenza e della scienza distintiva . . pag. 323
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 343
Otavo Adhyåya
La descrizione del Brahman indistrutibile . . . . . . pag. 349
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 369
Nono Adhyåya
Lo yoga della conoscenza regale e del mistero sovrano . pag. 377
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 401
Decimo Adhyåya
Lo yoga della manifestazione sovrana . . . . . . . pag. 409
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 429
Undicesimo Adhyåya
Lo yoga della visione della Forma universale . . . . . pag. 431
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 463
Dodicesimo Adhyåya
Lo yoga della devozione . . . . . . . . . . . . . pag. 465
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 483
Tredicesimo Adhyåya
Lo yoga della distinzione tra
il campo e il conoscitore del campo . . . . . . . . pag. 487
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 555
Qatordicesimo Adhyåya
Lo yoga della separazione dalla terna dei gu√a . . . . pag. 569
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 589
Indice 11
Qindicesimo Adhyåya
Lo yoga del conseguimento del Puru≤otama . . . . . pag. 593
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 613
Sedicesimo Adhyåya
Lo yoga della distinzione delle nature devica e asurica . pag. 617
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 633
Diciassetesimo Adhyåya
Lo yoga della distinzione della triplice fede . . . . . pag. 637
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 653
Diciotesimo Adhyåya
Lo yoga della liberazione mediante la completa rinuncia . pag. 657
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 755
Testo sanscrito . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 767
AVVERTENZE
Al testo italiano
Inoltre:
Al testo sanscrito
Í. Ve. Íg Veda
Âa. Brå. Âatapatha Bråhma√a
Âve. ÂvetåŸvatara Upani≤ad
Tai. Taittirıya Upani≤ad
Tai. Å. Taittirıya Åra√yaka
Tai. Brå. Taittirıya Bråhma√a
Tai. Saæ. Taittirıya Saæhitå
Va. Vasi≤†ha Dharma S¥tra
Vi. Pu. Vi≤√u Purå√a
Vi. Smÿ. Vi≤√u Smÿti
Yå. Yåjñavalkya Upani≤ad
Yå. Dha. S¥. Yåjñavalkıya Dharma S¥tra
Yo. Âå. Yoga Âåstra
Yo. S¥. Yoga S¥tra
PRESENTAZIONE
K.
BHAGAVADGÙTÅ
CON IL COMMENTO
DI
ÂA°KARA
Om
Sia reso omaggio a Våsudeva
Nåråyaãa è al di là dell’Avyakta,
dall’Avyakta trae esistenza l’Uovo cosmico.
All’interno dell’Uovo cosmico
in verità sono questi mondi
e la Terra costituita dai sette Dvıpa1.
Introduzione di Âa§kara
(Ÿåækaropodghåta¢)
*
NOTE alla Introduzione di Âa§kara
1
Questa strofa dei Purå√a inneggia a Nåråya√a, la suprema En-
tità conscia, lo Spirito non-duale che, costituendo la Realtà suprema
(Brahman), è trascendente anche rispetto all’Immanifesto (avyakta)
e, nello stesso tempo, viene realizzato dai Saggi (ÿ≤i) come l’intimo
åtman di ogni essere. Dall’Immanifesto – l’Essere nel suo aspetto
qualificato ma ancora inespresso – in virtù di måyå emerge Hira-
√yagarbha, il Germe universale recato dalle Acque primordiali, dal
quale prende forma l’Uovo cosmico (a√ƒa): in quest’ultimo si mani-
festa l’universo, con i suoi diversi piani di esistenza e la totalità de-
gli esseri. Il verso è riportato da Âa§kara in ossequio alla Tradizione,
per mostrare che quest’opera è di importanza fondamentale e che
anche la Smÿti – quindi i Purå√a, gli Itihåsa e la stessa Gıtå – attesta
la dottrina della Non-dualità dell’åtman. Cfr. Ma. 1.10. I dvıpa rap-
presentano i sette simbolici continenti o regioni in cui è suddiviso
il piano terreno della esistenza manifesta.
2
Il Signore (Bhagavat) è qui Våsudeva, cioè l’åtman o il Bra-
hman supremo o inqualificato (nirgu√a) sotto l’aspetto qualificato
(sagu√a) di Signore (ÙŸvara) o Creatore dell’universo. Prajåpati è il
Signore delle creature. Per i vari altri Prajåpati, cfr. Ma. 3.34-35, dove
si afferma che sono dieci; altrove vengono menzionati in diversi
numero e nome. Cfr. anche Vi. Pu. Il dharma, termine di larga acce-
zione privo di un esatto corrispettivo in italiano, ha il significato di:
‘ciò che sostiene’, ‘ciò su cui si basa’ o ‘ciò che contiene in sé’ qual-
cosa. Designa la natura intrinseca, la proprietà primaria di un ente
– talora, per estensione, l’ente stesso – quindi il dovere, ‘ciò che si
deve compiere’ allo scopo di mantenere, conservare o salvaguarda-
re qualcosa, dunque dovere religioso o di ordine sociale, ecc. Ne de-
riva l’ulteriore significato di: via, sentiero, pratica finalizzata a un
conseguimento superiore. Il dharma in senso lato è correlato al ka-
40 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
*
Primo Adhyåya
Dhÿtarå≤†ra disse:
Sañjaya rispose:
1.7. Ma tra noi quelli che sono i più insigni ascolta [adesso],
o sommo tra i due-volte-nati, i capi della mia armata: te li elen-
cherò per la [tua] conoscenza 7.
Arjuna disse:
Sañjaya disse:
Arjuna disse:
1.34. Maestri, padri, figli e persino gli avi, gli zii, i suoceri,
nipoti e cognati e [altri] parenti ancora,...
Sañjaya disse:
*
NOTE al Primo Adhyåya
1
Il “campo del dharma” (dharmak≤etra) simboleggia il mondo
empirico nel quale si fronteggiano forze opposte e nel quale il jıva
svolge la sua esperienza vitale; in tal senso è anche karmak≤etra, il
“campo dell’azione”, quindi il piano della dualità, della limitazione,
della contrapposizione e della conflittualità, il regno della resisten-
za, dell’impedimento e della difficoltà. Il ‘campo’ di ogni essere è
caratterizzato dal suo dharma, l’insieme dei doveri spettanti all’in-
dividuo in base alle qualificazioni inerenti alla sua natura e alla sua
collocazione nell’ambito della società, e dal suo karman, il frutto
maturato e non degli atti compiuti. Kuruk≤etra, lett. “il campo di
Kuru”, dal nome dell’antenato di Kÿ≤√a, è lo storico sito bellico ubi-
cato nell’India settentrionale nel quale si svolse la guerra descritta
e che è ancora oggi mèta di visite e pellegrinaggi. Sañjaya è l’auri-
ga ministro del re Dhÿtarå≤†ra, privo della vista.
2
Il maestro di Duryodhana è Dro√a.
3
Il figlio di Drupada, re di Påñcåla, è Dhÿ≤†ådyumna.
4
Arjuna è l’arciere dei På√ƒava e il discepolo di Kÿ≤√a: a lui è
rivolto l’insegnamento di questo sacro testo.
5
Si tratta di valorosi combattenti assurti al rango di eroi e capi
delle rispettive armate.
6
Il figlio di Subhadrå è Abhimanyu.
7
Il “due-volte-nato” (dvija) è colui che, grazie alla iniziazione,
di cui l’investitura del sacro cordone è il segno palese, è rinato alla
vita spirituale, la vera nascita che lo porterà alla liberazione.
52 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
8
Mådhava è Kÿ≤√a, discendente di Madhu. Il carro simboleggia
il veicolo psicofisico, che nel suo sperimentare è trascinato da cavalli
quali i sensi e gli istinti o, più in generale, dai contenuti subconsci
preesistenti che ne hanno determinato la nascita. Il suo conduttore
(Kÿ≤√a) simboleggia l’åtman nel suo aspetto individuato, mentre
Arjuna è la mente egoica. Il simbolismo del carro ricorre anche in
alcune Upani≤ad, per es.: Ka. 1.3.9.
*
Secondo Adhyåya
(Lo yoga della investigazione discriminante1)
2.1. A lui (Arjuna), che era così sgomento, pervaso dalla pie-
tà e con gli occhi pieni di lacrime, Madhus¥dana (Kÿ≤√a) rivol-
se queste parole:
Arjuna disse:
2.7. Con il mio intero essere devastato dalla pecca della com-
miserazione e con l’intelligenza completamente confusa riguar-
do al [mio] dovere, ti chiedo: dimmi risolutamente quello che è
meglio per me; io sono tuo discepolo, istruiscimi, ti supplico.
Sañjaya disse:
[dal passo]: «Ti stai affliggendo per quelli che non dovrebbe-
ro essere rimpianti...» (Bha. Gı. 2.11).
Obiezione: A tale riguardo alcuni 6 sostengono: l’assolutez-
za (kaivalya, la liberazione) non può essere certo conseguita
soltanto grazie al mero fondarsi nella conoscenza dell’åtman
dopo aver operato la completa rinuncia a tutte le azioni.
In che modo, allora [può essere conseguita]?
Il conseguimento della assolutezza [discende bensì] dalla
conoscenza [ma] quando è abbinata all’attività [rituale, ecc.]
come l’Agnihotra, ecc.7 quale è contemplata nella Âruti e nella
Smÿti. Questo è il significato ben accertato di tutta la Gıtå. E
[a conferma di ciò costoro] adducono [diversi passi] che espri-
mono questo significato, come: «Ma se tu non affronterai
questo legittimo scontro...» (Bha. Gı. 2.33), «È la sola azione
quella per la quale tu possiedi qualificazione...» (Bha. Gı. 2.47),
«Perciò tu stesso compi l’azione come è stato fatto (dagli anti-
chi in passato)», ecc. (Bha. Gı. 4.15). Né si deve insinuare il
dubbio che l’attività rituale vedica conduce all’adharma per-
ché comporta [atti di] crudeltà, ecc. [nei confronti di esseri
viventi].
Perché?
[Perché Ÿrı Bhagavat] ha affermato: in primo luogo, che
l’azione che compete all’ordine k≤atra e che consiste specifi-
camente nel combattere, benché sia estremamente crudele dal
momento che comporta atti di violenza nei confronti di Mae-
stri, fratelli, figli, ecc., è il dharma proprio [dello k≤atriya], per
cui il compierla non conduce al demerito (adharma); in se-
condo luogo che, nel caso in cui non dovesse essere compiuta,
«...allora, obliando il tuo svadharma e il tuo onore, commette-
rai errore» (Bha. Gı. 2.33). Quanto detto fa comprendere chia-
ramente che le attività [rituali, ecc.] proprie [di ciascuno in
quanto] imposte a noi dalla Âruti per tutta la durata della vita
non sono atti la cui natura è contraria al dharma, nonostante
2.10 Secondo Adhyåya 57
vita, “né per coloro che scompaiono”, per quelli che lasciano
la vita, e nemmeno per quelli che vivono. In realtà, [veri] sa-
pienti sono coloro la cui saggezza è la consapevolezza dell’å-
tman, come [si può apprendere] dalla Âruti: «...avendo trasce-
so la [comune] sapienza...» (Bÿ. 3.5.1). Invero ti affliggi per
quelli che in realtà non vanno rimpianti in quanto sono eter-
ni, quindi sei un folle. Tale è il senso.
Perché essi non vanno rimpianti?
Perché hanno natura eterna.
In che senso?
In che senso?
“Non nasce”, non viene a esistere: vale a dire che per l’å-
tman non vi è cambiamento nello stato di essere che consi-
sta [per esempio] nella nascita; “né (mai) muore” – il termi-
76 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.20
può, un tal uomo...?», ecc. (Bha. Gı. 2.21), allo scopo di mo-
strare che per il conoscitore non può esservi nessuna qualifi-
cazione all’attività40.
Obiezione: Per quale cosa, allora, è qualificato il conosci-
tore?
Risposta: Ciò è stato esposto anche prima [quando si è ci-
tato il passo]: «...per i såækhya è [stato enunciato il sentiero]
attraverso lo yoga della conoscenza, per gli yogin è [stato
enunciato il sentiero] attraverso lo yoga dell’azione» (Bha. Gı.
3.3); e nello stesso senso [il testo] affermerà la completa ri-
nuncia a tutte le azioni [nel passo]: «Rinunciando completa-
mente nel pensiero a tutte le azioni...», ecc. (Bha. Gı. 5.13).
Obiezione: Comunque, si può obiettare che, per via della
espressione: “con la mente” (manaså), non si debba operare la
completa rinuncia anche nei confronti degli atti verbali (våci-
ka) o corporali (kåyika).
Risposta: No, dal momento che viene specificato: «...a tutte
le azioni...» (Bha. Gı. 5.13).
Obiezione: Potrebbe trattarsi bensì di “tutte le azioni”, ma
soltanto relativamente al mentale.
Risposta: No, perché le funzioni (vyåpåra) di parola e cor-
po sono [sempre] precedute dall’attività della mente e, in as-
senza di attività da parte della mente, neanch’esse sarebbero
logicamente ammissibili.
Obiezione: Si potrebbe completare il passo: «Rinunciando
completamente nel pensiero a tutte le azioni, dimora...» (Bha.
Gı. 5.13) con [la frase]: ‘escludendo gli atti mentali che sono
causa delle attività di parola e corpo ingiunte dalle Scritture’.
Risposta: No, per via della specificazione: «...non agendo
affatto né causando attività» (Bha. Gı. 5.13).
84 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.21
“O, ucciso, otterrai il cielo”, ossia: una volta che sarai stato
ucciso raggiungerai il mondo celeste, “o, vincitore” nei con-
fronti di Kar√a o altri eroi, “godrai la terra”. Il senso è che, in
ambedue i casi, non puoi trarne che un vantaggio. Poiché è
così, “Perciò sorgi, o figlio di Kuntı, a combattere in modo ri-
soluto”, vale a dire avendo maturato la certezza: ‘o soggio-
gherò i nemici oppure morirò’.
[Una volta che avrai compreso che] in tale contesto il
combattimento rappresenta lo svadharma (il tuo proprio dha-
rma come k≤atriya), ascolta questa istruzione rivolta a colui
che è impegnato a combattere.
2.45. I Veda hanno per oggetto la triade dei gu√a, [ma tu] o
Arjuna, devi essere libero dalle tre qualità e libero dalle coppie
[di opposti], sempre fermamente stabilito nel sattva, libero dal
possedere e dal conservare e padrone di te stesso.
2.46 Secondo Adhyåya 99
Risposta: Si dice:
Arjuna disse:
E ancora,
“Non vi è”, vale a dire: non esiste, non può essere [realizza-
ta] la “conoscenza” concernente la natura propria di åtman “da
parte di colui che non è concentrato”, la cui mente non sia
completamente raccolta, “e, per colui che non è concentrato,
non vi è [capacità di] meditazione”, [non è possibile] nessuna
costante dedizione alla conoscenza-realizzazione dell’åtman.
Così, “per colui che non medita”, per colui il quale non si impe-
gna fattivamente consacrandosi alla conoscenza-realizzazione
dell’åtman, “non [può aversi] la pace”, la pacificazione, “e, per
colui che non è pacificato, donde mai [può provenire] la felici-
tà?”. In effetti la felicità è quel volgersi indietro dei sensi [che
si ritraggono] dalla brama verso gli oggetti, mentre non consi-
ste affatto nel [perseguire e assecondare il] desiderio verso gli
oggetti: questo, infatti, è solo sofferenza. Vale a dire che, fin
quando sussiste la brama [verso gli oggetti], non si può am-
mettere ragionevolmente nemmeno un sentore di felicità.
Perché non vi è conoscenza per colui che non è concentrato?
Si dice:
“Perché”, per il motivo che “la mente che segue”, che di-
viene attiva in concomitanza con “i sensi nel loro vagabonda-
re”, nel loro attivarsi in relazione ai singoli rispettivi oggetti,
“disperde”, distrugge “la capacità di comprensione (prajñå) di
costui”, dell’asceta, generata dalla discriminazione tra l’å-
tman e ciò che non è l’åtman, in quanto la mente [stessa] è
intenta a immaginare gli oggetti dei sensi.
In che modo [la disperde]?
“...come il vento [porta via] una imbarcazione sull’acqua”,
sul mare: come il vento sospinge via un battello dalla rotta
stabilita dirigendolo verso una rotta errata, così la mente [di-
stratta dai sensi], distogliendo la consapevolezza incentrata
sull’åtman [dall’åtman stesso], la convoglia sull’oggettività
[presente esteriormente o proiettata interiormente].
Avendo esposto in diversi modi la motivazione del signifi-
cato illustrato nel passo: «Infatti... anche (la mente dell’uomo
saggio) che intende trattenerli» (Bha. Gı. 2.60), ora, conferman-
do quel [medesimo] senso, [Bhagavat] trae la sintesi:
2.69. Quella, che è notte profonda per tutti gli esseri, in essa
veglia colui che è completamente [auto-] controllato; quella,
nella quale [tutti] gli esseri vegliano, è notte profonda per il
[saggio] silenzioso che vede [realmente].
*
NOTE al Secondo Adhyåya
1
La “investigazione discriminante” è ciò cui si riferisce in que-
sto contesto il termine Såækhya, come apparirà chiaro in seguito.
2
Il termine Bhagavat significa: sacro, beato, glorioso, illustre,
ecc. e nella Gıtå designa il Signore Våsudeva nella forma di Kÿ≤√a;
talvolta è usato come titolo onorifico in riferimento a Vyåsa o altri
Saggi; la parola Ÿrı: splendore, gloria, grazia, ma anche: venerabile,
degno di adorazione, è un prefisso onorifico.
3
La completa rinuncia (saænyåsa) verso i beni, l’attività sacra-
le, ecc. insieme con la vita da monaco mendicante (pårivråjya)
privo di ogni possesso terreno spettano tradizionalmente solo al
bråhma√a, il quale soltanto può diventare saænyåsin, e non allo
k≤atriya.
4
Ogni ordine sociale o stadio di vita ha un suo proprio dharma.
5
In senso lato il dharma è l’espressione contingente della Leg-
ge divina a cui l’essere conscio deve conformarsi se intende inse-
rirsi armonicamente nell’equilibrio cosmico. Tutto ciò che gli è
opposto costituisce l’adharma, un fattore di disarmonia, squili-
brio, caduta e rovesciamento. Colui che rispetta il dharma, pro-
prio e universale, si pone in una condizione di armonia con il
contesto, favorevole alla conoscenza-realizzazione; colui che per-
segue l’adharma si allontana dal Principio e vi si contrappone co-
stringendosi in identificazioni imprigionanti sempre più limitate.
V. nota 5.33.
che compiono riti pervasi dal rajas. Cfr. Bha. Gı. 17.12.
22
Il sostrato è necessario, la sovrapposizione accidentale. Ciò
che varia è non-reale, ciò che non varia mai è reale. La trasforma-
zione causa-effetto non ha limite e i suoi fattori, scambiandosi mu-
tuamente, sono non-reali; quello che non varia è il loro sostrato, lo
sfondo sul quale si stagliano, apparendo, mutando e scomparendo.
Nella erronea percezione di una corda come altro, l’immagine (ser-
pente, ecc.) può cambiare o cessare al riconoscimento della corda
ma non la percezione dell’oggetto-corda: questa, sottostando alle di-
verse immagini, è reale, quelle semplici parvenze illusorie. Pertanto
la natura reale o non-reale di un ente deve essere inferita dalla con-
sapevolezza inerente.
23
Quando si percepisce un ente come: “questo è un vaso”,
ecc., l’oggetto di percezione: “questo”, ecc. rappresenta il reale,
mentre il nome-forma: “vaso”, ecc. il non-reale. La cognizione
della esistenza di “questo” è sadbuddhi, la nozione di nåmå-r¥pa è
asadbuddhi.
24
Qui abbiamo un attributo-colore che qualifica una forma-og-
getto: una doppia sovrapposizione o una reciproca qualificazione,
di un dato non-reale che qualifica un altro dato non-reale. Invece,
una cognizione nella forma: “questo loto – esistente – è blu”, rien-
tra nei casi precedenti, perché al fattore costante (questo, esistente),
percepito come ente-forma (il loto), viene sovrapposto un fattore
variabile (l’attributo-colore).
25
Perché nella percezione di differenti oggetti la consapevolez-
za della esistenza, benché unica e non-differenziata, è qualificata e
resa apparentemente molteplice dalle singole forme.
26
Possiamo avere coscienza della presenza del vaso, ma anche
della sua assenza, distruzione o non-esistenza: i contenuti possono
variare (conoscenza non-reale) ma non il contenente (coscienza
reale). Eliminati i contenuti sovrapposti (molteplicità), resta il So-
strato (unità assoluta).
27
Asserire che la conoscenza reale esiste in funzione del cono-
sciuto-non-reale, equivale a dire che il conosciuto determina la co-
128 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
47
Si rammenta che in questo contesto Såækhya e Yoga non de-
signano le omonime prospettive filosofiche ortodosse (darŸana),
ma rispettivamente la conoscenza e la disciplina ascetica-operati-
va, ossia: la discriminazione dell’åtman e i mezzi per ottenerla.
Tale accezione verrà esplicitata anche in seguito. Il termine ka-
rman, azione, ha una profonda valenza nella filosofia indiana. L’a-
zione, quando è compiuta con identificazione al soggetto agente e
allo scopo di ottenerne un frutto, comporta un effetto identificati -
vo che non si manifesta solo in concomitanza con l’atto, ma può
prodursi anche in un tempo futuro in forza della potenzialità che
racchiude e che deve necessariamente esprimere, determinando
una successiva rinascita. L’ordinario agire è un continuo accumu -
lo di karman, e l’essere è costretto a reincarnarsi indefinitamente
sperimentando passivamente quella che è definita la “ruota dell’e-
sistenza” (bhavacakra), ossia il divenire ciclico esistenziale (saæ-
såra). Per liberarsi dalla prigionia del karman, insegna Kÿ≤√a, è
necessario distaccarsi dal soggetto e dal frutto dell’azione: è l’agi-
re-senza-agire, essenza della istruzione della Bhagavadgıtå. V.
nota 4.35.
48
Le funzioni della mente sono: intelletto puro (buddhi), senso
dell’io (ahaækåra), memoria rappresentativa (citta) e mente seletti-
va-proiettiva (manas) connessa alla sfera sensoriale-razionale. Âa-
§kara spiega che in questo verso il samådhi si riferisce alla mente e
alla sua capacità di concentrazione, meditazione, ecc. Nel råjayoga
il samådhi è l’ultimo passo o membro (a§ga), la “contemplazione
immedesimativa” che implica la totale e perfetta identificazione co-
scienziale con l’oggetto di meditazione; è un potente ed efficace
mezzo realizzativo che risolve le cristallizzazioni mentali consen-
tendo che si manifesti “l’intelletto consustanziato di risoluzione”,
per cui gradatamente conduce allo svelamento della realtà. Con-
templare un oggetto distinto da sé nell’ottica della esperienza indi-
viduale non costituisce il vero samådhi. Il considerare solo finalità
di ordine umano terreno denuncia la mancanza di discriminazione
tra reale e non-reale e sbarra la strada all’instaurarsi della vera
contemplazione; in tal caso essa si riduce a una mera proiezione
immaginativa, sterile e vincolante.
132 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
*
Terzo Adhyåya
(Lo yoga dell’azione)
Arjuna disse:
3.11. ‘Con esso sostentate [voi] i deva, che quei deva sostenti-
no voi; sostentandovi reciprocamente, otterrete il Bene supremo’.
3.13. I giusti che si nutrono con i resti del sacrificio sono li-
berati da tutte le mancanze, ma coloro i quali, empi, preparano
la mensa solo per sé stessi, si nutrono di trasgressioni.
3.18. Per lui non vi è più nessun esito per ciò che è fatto né
alcuno per ciò che non è fatto qui; né, per costui, vi è qualcuno,
fra tutti gli esseri, il ricorso [al quale] abbia un risultato.
nel senso che, avendo essi già intrapreso l’azione al fine [della
salvaguardia] dell’equilibrio del mondo, cercarono la perfezio-
ne soltanto mediante l’azione, vale a dire senza aver operato
la completa rinuncia [anche] nei confronti dell’azione; se, in-
vece, Janaka e gli altri non avessero ancora acquisito l’auten-
tica visione, allora [si deve intendere che] essi cercarono di
raggiungere gradatamente la perfezione mediante l’azione
[disidentificata] costituendo essa [stessa] un mezzo di purifi-
cazione mentale.
Se poi credi anche che l’azione rituale che doveva essere
fatta (quella obbligatoria) era stata compiuta dagli antichi
[k≤atriya quali] Janaka e gli altri in quanto erano affatto non-
conoscitori e che essa non debba invece essere necessariamen-
te compiuta da un altro, il quale sia dotato dell’autentica vi-
sione e abbia adempiuto ogni dovere, pure così tu, che sei di-
pendente dal karman maturato (prårabdhakarman) [e quindi
uno k≤atriya come loro], “anche considerando il solo stesso
beneficio del mondo...” – il beneficio del mondo (lokasaægra-
ha) consiste nell’evitare a chiunque al mondo di imboccare
strade deviate – dunque, anche [considerando] solo tale utili-
tà “dovresti agire”.
Obiezione: Qual è il motivo per cui il beneficio del mondo
deve essere perseguito [attraverso l’azione]?
Risposta: Si dice:
3.22. O Partha, non c’è niente, nei tre mondi, che debba esse-
re fatto da Me, non c’è alcuna cosa che non sia ottenuta né che
si debba ottenere; [tuttavia] sono certamente impegnato nell’a-
zione [pur restandone fuori].
Arjuna disse:
*
NOTE al Terzo Adhyåya
1
Riferimento a Vÿttikåra. V. nota 2.6.
2
Poiché nel Terzo Adhyåya si afferma che la liberazione può
essere conseguita tramite la conoscenza dagli appartenenti agli al-
tri stadi di vita oltre a quello del capofamiglia, l’ipotetico avversa-
rio, interpretando arbitrariamente il pensiero del Commentatore,
ritiene non esservi contraddizione.
dispensa dai riti di carattere cruento imposti dalla Âruti, per esem-
pio ai gÿhastha, che costituiscono precisi obblighi, dunque azioni
che si devono obbligatoriamente effettuare.
12
Il conoscitore si è portato al di là del potere dei gu√a avendoli
compresi e risolti, e quindi trasceso la loro sfera di azione. Il non-
conoscitore, identificato al veicolo, risente invece della loro attività.
Cfr. Yo. S¥. 4.31, 34.
13
Si riferisce ai tre ordini sociali della società tradizionale aven-
ti il diritto di effettuare il sacrificio (bråhma√a, k≤atriya e vaiŸya).
14
Qui Âa§kara designa “sommo Bene” (paraæ Ÿreyas) sia la li-
berazione quale diretta conseguenza della realizzazione del Bra-
hman, sia l’accesso al mondo celeste (svarga), il paradiso quale dimo-
ra dei deva o in quanto stipato di ogni oggetto di desiderio. In que-
sto caso il frutto è commisurato alla condizione di identificazione
con il soggetto, quindi a uno stato coscienziale in cui ancora persi-
ste il senso della individualità. Nel primo, invece, essendo quest’ul-
tima completamente risolta, il sacrificio si identifica con la propria
soluzione nella stessa Conoscenza.
15
Si allude ai cinque, tra luoghi e strumenti, in relazione ai qua-
li si perpetrano giorno per giorno atti di violenza nei confronti del-
la vita, in questo caso animale: il rogo sacrificale, il recipiente del-
l’acqua e le tre diverse lame usate per incidere, squartare e pulire il
corpo dell’animale. Tali atti di indubbia crudeltà vengono annullati
dal quintuplice sacrificio che le Scritture impongono ai sacerdoti, e
cioè quello verso i deva, verso i Saggi (ÿ≤i), verso gli esseri umani,
verso gli Antenati (pitÿ) e verso gli Elementi (bh¥ta). Cfr. Ma. 1.67-73.
16
Cfr. Bha. Gı. 4.31. V. Ma. 3.118.
17
L’ap¥rva, lett. “senza-precedente”, è l’effetto singolo di una
data azione e, in particolare, come in questo caso, di un atto sacrifi-
cale. Laddove l’azione ordinaria è causa di altra azione ed effetto a
sua volta di un agire anteriore, innestandosi nel determinismo della
legge del karman, l’atto rituale rispondente ai dettami delle Scrittu-
178 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
Cfr. Mai. 6.37, Tai. 2.2.1, Pra. 1.14. V. anche: Ma. 3.76, Ma.
18
Bhå. 12.263.11.
22
Janaka e gli altri erano k≤atriya, per cui, in base alle norme
scritturali, non avrebbero potuto accedere allo stadio di saænyåsin.
Così, assecondando il proprio prårabdhakarman, che aveva prodot-
to la loro nascita in quella condizione, non operarono la completa
rinuncia alle azioni pur seguendo ugualmente il sentiero realizzati-
vo. Diversamente, infatti, gli altri avrebbero imitato il loro compor-
tamento determinando un disordine nell’equilibrio cosmico. La li-
berazione in vita venne comunque conseguita da loro grazie alla
conoscenza che avevano e al distacco nell’agire.
23
In sintesi, il senso del discorso di Bhagavat è: ‘Perché, onde
evitare la confusione dell’esistente, non imiti Me, che mantengo
l’equilibrio dell’universo, offrendo te stesso come esempio?’. Per
uno k≤atriya l’equilibrio dell’esistente è lo scopo primario, essen-
ziale, del quale i singoli atti ingiunti sono aspetti parziali.
24
Si veda in proposito Bha. Gı. 4.11.
25
Per quanto la distinzione nella mente (buddhibheda), già ac-
cennata nel verso 26 e che si concretizza nella proiezione di sogget-
to e oggetto e nelle immagini del mezzo, del frutto, della esperien-
za, ecc., sia innata nell’essere ordinario quale effetto della ignoran-
za, il conoscitore non deve indurre l’ignorante ad alimentare e con-
solidare tali proiezioni e a identificarvisi.
26
L’insegnamento di Kÿ≤√a-Våsudeva – che l’azione deve essere
compiuta – è rivolto, in questo particolare contesto, a coloro che
sono specificamente qualificati ad agire, come gli k≤atriya. Ponen-
do in atto questo insegnamento anche gli uomini “siffatti” (evaæ-
bh¥ta), che cioè posseggono la sola qualificazione per l’azione, si li-
berano dei frutti positivi e negativi del loro operato contribuendo
all’armonia universale.
27
Qui la “natura” è determinata dal karman accumulato che ha
prodotto l’incarnazione attuale, ha quindi una connotazione in ter-
mini di gu√a. Dal karman procede anche il dharma dell’essere e
conseguentemente il suo corso esistenziale. Nessuno può opporsi al
flusso e all’esprimersi delle potenzialità irrisolte. Anche Prajåpati si
180 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
ardente della brama che divora tutto e non si spegne se non a esau-
rimento del combustibile, che, per il fuoco del desiderio, è l’ogget-
tività su tutti i piani: questa è illimitata e autotrasformantesi essen-
do nient’altro che la proiezione esteriore della stessa individualità
irrisolta, ricettacolo di incompiutezze e conflittualità, e ancora in-
consapevole della sua vera natura.
tura dato che il termine para può riferirsi sia all’åtman, in quanto
“superiore”, trascendente rispetto alla buddhi, sia al “supremo” å-
tman, come compare nel commento. Il senso è equivalente. Questi ul-
timi versi sono una sintesi del processo alchèmico: isolamento del
Mercurio lunare (jıva) dal composto salino (veicolarità psicofisica),
fissazione del Mercurio e trasmutazione da lunare in solare (purifica-
zione del centro di autocoscienza dai contenuti), soluzione del Mer-
curio solare (jıvåtman purificato) nello Zolfo trascendente (åtman).
*
Quarto Adhyåya
(Lo yoga della conoscenza
e della completa rinuncia all’azione)
Arjuna disse:
“il corpo” [attuale] “non andrà più verso una [ulteriore] na-
scita”, non otterrà più un ritorno alla esistenza [individuata],
“[ma] costui verrà”, giungerà “a Me”, cioè sarà liberato.
Questo sentiero per la liberazione (mok≤amårga) non è
praticato [soltanto] nei tempi attuali.
Quando [è stato praticato], allora?
Anche in antichità.
di vita, ecc. vige soltanto nel mondo umano e non negli altri
mondi?
Oppure: è stato detto che, essendo contraddistinti da una
ripartizione in ordini sociali, stadi di vita, ecc., «...in ogni
caso... gli uomini seguono la mia via» (Bha. Gı. 4.11); dunque,
per quale ragione dovrebbero seguire necessariamente solo la
tua [via] e non [quella] di un altro?
Risposta: Si dice:
In che modo?
Poiché i riti perpetui che vengono celebrati in ossequio a
ÙŸvara sicuramente non producono alcun frutto [visibile, cioè
fruibile in questa esistenza], essi vengono comunemente defi-
niti in senso figurato come non-azioni; d’altra parte, il loro
mancato compimento, che è non-azione, comportando come
frutto l’opposto errore (pratyavåya), viene comunemente de-
finito in senso figurato anche come azione. A tale riguardo,
colui il quale, a motivo dell’assenza di frutto [visibile], vede
nel rito perpetuo la non-azione – proprio come una mucca,
più precisamente una mucca da latte, non viene più conside-
rata mucca [da latte] qualora non produca più quel frutto de-
finito latte – e, nello stesso modo, colui il quale invece nella
non-azione, cioè nel mancato compimento del [rito] perpetuo,
vede l’azione, in quanto apporta il frutto consistente nell’op-
posto errore che si manifesta come il mondo infernale, ecc.
[quegli è savio fra gli uomini, ecc.]14.
Questa spiegazione non è plausibile: dato che non si può
logicamente ammettere che dalla conoscenza di ciò [ossia
dell’assenza di frutto visibile per i riti perpetui e dell’incor-
rere nell’opposto errore per la loro mancata celebrazione]
possa discendere la liberazione dall’errore, [tale interpreta-
zione] la demolisce l’affermazione che ha [precedentemente]
proferito Bhagavat: «...ciò comprendendo sarai libero dal-
l’errore» (Bha. Gı.: 4.16).
In che senso?
Si ammetta pure che ciò che si definisce “affrancamento
dall’errore” (aŸubhånmok≤a√am) deriva dal compimento dei
[riti] perpetui, ma non dalla conoscenza dell’assenza [attuale]
del loro frutto. Infatti [nella Âruti] non si insegna che la libe-
razione dall’errore costituisce il risultato della conoscenza
dell’assenza di frutto [visibile] per i [riti] perpetui o [quello]
della conoscenza dei riti perpetui; né [si può intendere] che
qui lo abbia espresso Bhagavat stesso15. Con ciò si è data ri-
198 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.18
4.19. Colui del quale tutte le opere intraprese sono esenti dallo
stimolo del desiderio, le cui azioni sono consumate dal fuoco del-
la conoscenza, i saggi lo chiamano sapiente.
4.26. Altri sacrificano l’udito e gli altri sensi nei fuochi del
contenimento, altri sacrificano il suono e gli altri oggetti [sen-
soriali] nei fuochi dei sensi.
4.28 Quarto Adhyåya 215
*
NOTE al Quarto Adhyåya
1
Vivasvat, il Risplendente, è il Sole, talora indicato come il deva
Åditya, o S¥rya, ecc.; Manu, suo figlio, è il primo Legislatore univer-
sale e Ik≤våku è suo figlio. L’ordine bråhma√a detiene l’autorità spi-
rituale attraverso la conoscenza-sapienza e la qualificazione-compe-
tenza rituale, ecc. e nel piano umano esprime il ruolo brahmanico
quale essenza e principio fondante dell’universo.
2
L’ordine k≤atriya è il ruolo legislativo-guerriero, preposto alla
salvaguardia dell’equilibrio su cui si erge e mantiene la struttura so-
ciale e alla difesa della Legge con l’esercizio del potere temporale.
Gli altri ordini sono i vaiŸya, operatori dell’atto commerciale quale
scambio energetico tra le varie componenti sociali, e gli ٴdra, i pre-
statori d’opera, coloro cui spetta il compito di svolgere quelle atti-
vità che fungono da supporto o servono di ausilio per l’espressione
effettiva delle potenzialità energetiche della intera compagine. I va-
r√a non sono compartimenti isolati, ma esprimono complementar-
mente i diversi ruoli corrispondenti alla natura dei singoli indivi-
dui.
3
La differenziazione che individua e separa gli esseri è dovuta
alla sovrapposizione di nome e forma. Al di là di tale proiezione a
opera di måyå è il puro sfondo indifferenziato dell’åtman-Våsude-
va. Pur essendo eternamente costante, all’occhio annebbiato dalla
måyå sembra venire a manifestarsi come qualsiasi altro essere.
4
Coloro che hanno acquisito una mera cognizione concettuale del-
la dottrina si appoggiano alla conoscenza senza essere purificati dal
suo fuoco; essi vantano uno sterile nozionismo che porta al solo risul-
tato di alimentare la mente proiettiva. Il jñånatapas è l’ ‘ardore della
230 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
10
Per comprendere l’azione nella sua vera natura è necessario
riconoscere che vi è: un retto agire, inserito armonicamente nel
contesto universale e palesato dalla conformità alle Scritture; un
agire non-retto, sostanzialmente disarmonico, nel quale prevale la
componente individuale, che è evidenziato dal divario rispetto ai
dettami scritturali; infine un non-agire, quale l’astensione dall’atti-
vità e dalla responsabilità del ruolo di soggetto. Ogni modalità espri-
me un preciso grado di maturità spirituale. La “integrazione” (a-
dhyåhåra) delle tre possibilità, la comprensione dell’agire nella sua
vera natura, porta alla trascendenza dell’azione identificata e alla
azione-senza-azione che è l’insegnamento fondamentale della Gıtå.
11
Se l’azione dimorasse nella non-azione e viceversa, ciò impli-
cherebbe che l’una contiene l’altra, che l’una è consustanziata del-
l’altra. In tal caso la loro natura, opposta per definizione, cesserebbe
di essere e di generare contraddizione. Tale è la conseguenza di
una interpretazione letterale.
12
L’agire non può essere racchiuso nel non-agire, o farne parte,
né il non-agire nell’agire, perché, essendo l’uno l’opposto dell’altro,
si escluderebbero a vicenda. L’idea di azione implica il concetto di
esistenza, la non-azione quello di non-esistenza. Ma l’esistente non
può dimorare nel non-esistente, né il non-esistente nell’esistente.
La lettura del verso in chiave di contenenti e contenuti non ha il
sostegno della ragione.
13
I ritualisti, per i quali l’azione è il solo mezzo per conseguire
la liberazione.
14
Il rito perpetuo (nityakarman) viene effettuato al fine di otte-
nere l’accesso a condizioni superiori di esistenza nella nascita suc-
cessiva, per cui il suo frutto non è percepibile (adÿ≤†a) in questa, con-
trariamente ai riti finalizzati (kåmya) od occasionali (naimittika),
compiuti prevalentemente per ottenere frutti in questa vita.
15
L’affermazione di Kÿ≤√a si riferisce a ciò di cui si parla – azio-
ne e non-azione – e non alla mera presa di coscienza del fatto che i
232 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
to, non può risultare una esistenza. Il non-esistente non può dare
origine all’esistente, né viceversa, non potendosi stabilire tra loro
alcun tipo di rapporto.
Cfr. Bha. Gı. 6.29. V. anche: Ma. 12.91, Ma. Bhå. 5.46.25,
32
33
Cfr. 4.21 e relativo commento. Il dharma, cioè il merito acqui-
sito (pu√ya), determinando come frutto l’esperienza della esistenza
in stati superiori, può dar luogo ad attaccamento a tali condizioni,
per cui è anch’esso causa di identificazione e, quindi, fonte di erro-
re e di imprigionamento.
34
Ogni atto determina un frutto, essendo una causa che produ-
ce un effetto. A sua volta, l’azione è promossa da una volizione:
questa è la causa quella l’effetto. Il desiderio è la causa dell’effet -
to-azione come il seme lo è del germoglio. Una pianta privata del
suo seme non germoglia più, non si riproduce; così un’azione puri-
ficata dal proprio seme causale – il seme attivo (saæskåra) che sus-
siste quale impressione latente (våsanå) – è sterile, infeconda, im-
produttiva: essa si verifica come fine a sé stessa e cessa non appena
compiuta, senza necessità di riproporsi. D’altra parte, l’assenza del
seme implica quella del soggetto agente, che ne è il latore inconsa-
pevole. E così, poiché il seme – volizione, desiderio, presunta ne-
cessità, ecc. – che proviene dalla ignoranza, viene eliminato o risol-
to attraverso la conoscenza, ne consegue che l’azione, benché intra-
presa o portata a compimento, non cagiona alcun legame né sul
piano effettuale dell’agire prodotto, né su quello causale di una even-
tuale nuova identificazione al soggetto agente. Un’azione senza
seme, in definitiva, è un corpo inerte sul quale la spinta al movi-
mento è cessata: finita l’inerzia, il moto si esaurisce.
35
Il termine karman, come noto, designa non solo l’azione, o
l’oggetto dell’azione, ma anche la conseguenza dell’azione identi-
ficata. In altre parole definisce la legge causa-effetto, il determini -
smo causale sul quale si sorregge il moto circolare periodico del
divenire ciclico, la ruota della esistenza. A ogni azione corrispon-
de una reazione, si dice nella fisica. È bene però comprendere che
non è l’atto in sé apportatore del frutto, positivo o negativo – cioè
suscettibile di innalzare o svilire la condizione di esistenza – quan-
to lo stato di coscienza con il quale è compiuto, il grado di imme-
desimazione con il soggetto dell’azione, della fruizione, ecc. In
ogni caso il karman determina un frutto che nella sua espressione
concretizzata si diversifica a seconda della fase temporale. Il ka-
236 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
*
Quinto Adhyåya
(Lo yoga della completa rinuncia)
Arjuna disse:
*
NOTE al Quinto Adhyåya
1
I ritualisti dogmatici (P¥rvamımåæså) ritengono che ogni sin-
gola proposizione deve contenere una sola ingiunzione. In una nor-
ma quale: ‘il saggio deve osservare la completa rinuncia’, l’ingiun-
zione della completa rinuncia è l’oggetto principale; una eventuale
ulteriore specificazione, come: ‘la rinuncia dev’essere rispettata solo
dal conoscitore’, costituirebbe un argomento aggiuntivo, dunque
estraneo e inammissibile stando alla prassi scritturale. Tale convin-
zione si fonda sul principio in base al quale una doppia asserzione
potrebbe racchiudere una possibile contraddittorietà. Il non-cono-
scitore, che ha abbracciato il totale distacco dalla sfera empirica, pur
non avendo realizzato l’åtman, è, al pari di quello che lo ha realiz-
zato, tenuto a osservare la completa rinuncia, ma questo viene evi-
denziato solo dopo.
2
La rinuncia attuata dal non-conoscitore è parziale perché egli
tralascia solo le azioni relative ai doveri di stadio di vita, ecc., come
gli obblighi di capofamiglia, ecc., ma non quelle inerenti allo studio
e all’apprendimento dei Veda, per le quali è necessaria la nozione
dell’io. Questa rinuncia è dunque ben distinta da quella, completa,
del conoscitore il quale ha deposto persino il senso dell’io. È in re-
lazione a questa differenza che, per il non-conoscitore, l’azione è
migliore della rinuncia.
3
Analogamente a quanto già detto (2.2-17), il Såækhya designa
in questo contesto la conoscenza, dunque il jñånayoga, e, per esten-
sione, dato che questo si avvale primariamente e imprescindibilmen-
te della rinuncia, anche il saænyåsayoga. Per contro, il termine Yoga
da solo si riferisce alla pratica rituale operata secondo i dettami scrit-
turali. Così, da un lato vi è il Såækhya inteso come jñånayoga e saæ-
nyåsayoga, dall’altro lo Yoga come karmayoga. Mentre sotto il pro-
274 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
*
Sesto Adhyåya
porto all’åtman (la coscienza libera nella sua natura), così [un
sé individuato, identificato al composto psicofisico, che non
sia stato dominato], si pone in una condizione di antagoni-
smo in rapporto all’åtman.
6.19. ‘Come una fiamma che si trova al riparo dal vento non
vacilla’: tale è la similitudine tramandata per lo yogin che ha la
mente dominata e che si concentra nella unificazione di sé.
300 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 6.19
Arjuna disse:
Arjuna disse:
6.37. Colui che, [pur] non essendo un asceta [dedito alla pra-
tica yoga], è dotato della fede, [ma] ha la mente distolta dallo
yoga, non essendo pervenuto alla perfezione nello yoga, quale
strada prende, o Kÿ≤√a?
6.39 Sesto Adhyåya 311
*
NOTE al Sesto Adhyåya
1
La dottrina della commistione (samuccayavåda) sostiene che
per ottenere il frutto aspirato si deve abbinare l’azione rituale alla
conoscenza (meditazione); pertanto il rito, al pari della meditazione,
risulterebbe imposto per tutta la vita.
Il termine åruruk≤u definisce “colui che aspira” allo yoga, men-
tre la parola år¥ƒha designa “colui che si è elevato (spiritualmente)”
e lo ha ottenuto. Lo yoga – in quanto riunificazione della frammen-
tata e dispersa potenzialità individuale concomitante alla unione di
sé con il Divino – rappresenta una condizione più elevata rispetto a
quella della mera osservanza rituale imposta allo stadio di vita, ecc.
Yoga è insieme ascesi e ascesa spirituale e l’attingimento di que-
sto stato di “unificazione-raggiungimento” – tale è il senso della ra-
dice yuj: congiungere, unire, unificare ma anche: giungere, rag-
giungere – è sintetizzato dai due termini citati, derivanti dalla me-
desima radice åruh: salire, ascendere, raggiungere; in termini ope-
rativi si parla di realizzazione, quale effettiva presa di coscienza.
In questo Capitolo verranno descritti gli stati di: a) colui che
aspira allo yoga (yogåruruk≤u); b) colui che vi si impegna pratican-
dolo nelle sue peculiarità, come la meditazione, ecc. (yogapravÿtta o
semplicemente yogin); c) colui che lo ha pienamente raggiunto, che
ne ha ottenuto lo scopo (yogår¥ƒha).
2
L’avversario sostiene che la distinzione tra azione e rinuncia
riguarda quelli che, non possedendo la necessaria maturità spiritua-
le, non hanno ancora concepito la necessità di imboccare la via ver-
so la perfezione. Mentre l’azione rituale è imposta agli appartenenti
ai diversi stadi di vita e preclusa ai rinunciatari completi, coloro che
non hanno ancora intrapreso un percorso realizzativo esulano sia
dall’una che dall’altra prescrizione, per cui a loro deve essere rivol-
ta una specifica menzione del dovere in quanto differenziato nelle
318 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
varie modalità. Tuttavia ciò non tiene conto del fatto che anche il
dovere di stadio è un dato relativo, e come tale cessa di avere effet-
to all’avvento della conoscenza, per cui la stessa azione rituale non
deve essere portata avanti per tutta la vita ma va deposta quando si è
raggiunto lo stato di ‘unificazione’.
veicolo fisico con le facoltà sottili, cioè il corpo nel suo insieme or-
ganico e i singoli organi sensoriali con le loro funzioni. Pur non es-
sendo l’åtman – anzi, è definito per eccellenza, al pari del piano og-
gettuale, come non-åtman – viene chiamato ‘sé’ per il motivo che
rappresenta il primo dato di autoimmedesimazione per la coscienza
Note al Sesto Adhyåya 319
Sul terreno rialzato viene posata prima l’erba kuŸa, dalla fun-
10
Per la “mèta”, cfr.: Bha. Gı. 8.13, 8.21, 9.32, 13.28 e 16.22. V.
22
*
Settimo Adhyåya
(Lo yoga della conoscenza e della scienza distintiva)
7.1. Ascolta, o Pårtha, ciò, ossia come [tu], con la mente as-
sorta in Me, impegnandoti nello yoga e rifugiato in Me, possa,
senza [alcun] dubbio, interamente conoscermi.
7.6. Considera che tutti gli esseri hanno questa matrice: del-
l’intero universo Io sono l’origine e, similmente, la dissoluzione.
bhakti) colui il quale non scorge [alcun] altro [ente] che possa
essere oggetto di devozione – “...si distingue”, si porta in uno
stato di singolare superiorità, vale a dire che prevale [su tutti].
“...perché... caro...”: per il motivo che Io sono l’åtman [stes-
so] del conoscitore, per cui “Io sono oltremodo caro” a lui; in-
fatti è ben noto al mondo che l’åtman è caro [a ciascuno], per-
ciò, essendo l’åtman del conoscitore, Våsudeva è [oltremodo]
caro [al jnånin]. Tale è il significato.
“...ed egli”, il jñånin, dato che è per Me, Våsudeva, l’åtman
stesso, “è” oltremodo “caro a Me”.
Obiezione: Allora, le tre [specie di persone elencate], da
quella oppressa in poi, non sarebbero care a Våsudeva?
Risposta: Non è [da intendersi esattamente] così.
Obiezione: Che cosa [si deve intendere], allora?
Si dice:
7.27. Per via della illusione delle coppie [di opposti] suscitata
da desiderio e avversione, o Bhårata, tutti gli esseri, alla [loro]
creazione, soggiacciono all’offuscamento mentale, o Paraætapa.
*
NOTE al Settimo Adhyåya
1
Il Vedånta attinge dallo Yoga e dal Såækhya parte della nomen-
clatura dei princìpi, sia pur con qualche differenza nel significato.
L’universo manifesto è articolato nei tre piani: causale, sottile e
grossolano, in cui ogni sfera è causa della successiva – inferiore e
più esterna – nella quale manifesta una parte delle proprie poten-
zialità; ciò determina una limitazione dell’effetto rispetto alla causa,
più inclusiva e potenzialmente ricca. Si può dire che ogni piano è la
manifestazione di una possibilità insita in quello superiore, nel qua-
le si riassorbe a completamento del proprio ciclo espressivo. Gli
elementi (bh¥ta) elencati, omonimi di quelli grossolani – nella sua
opera Pañcıkara√am, Âa§kara dà una esposizione completa del pro-
cesso manifestante in relazione agli elementi – sono da intendersi
come le loro cause sottili, definite essenze o princìpi essenziali (ta-
nmåtra). La natura o Prakÿti si situa a livello causale e non in quello
effettuale degli elementi o degli enti formati; inoltre, pur essendo
sostanzialmente unitaria, in quanto esprime una qualificazione uni-
versale (viŸe≤a) ancorché indefinita – non è altro che la måyå – ap-
pare come se fosse suddivisa nei suddetti princìpi, assimilabili alle
categorie del Såækhya, da cui procedono gli elementi grossolani,
gli enti e gli stessi campi di esistenza ed esperienza. Cfr. Ma. Bhå.
3.210.17, 3.211.3, 12.311.10; Âve. 2.12, 6.2; Mai. 6.4.
2
Per il Vedånta la sfera individuale è un riflesso infinitesimo –
ma integrale – di quella universale. A livello universale la buddhi,
intelletto puro, rappresenta il Mahat, il “Grande”, per via della sua
immensa capacità comprensiva e proiettiva – ne scaturisce l’uni-
verso intero – ed è causa dell’ahaækåra dal quale a sua volta pro-
cede il manas. Così la buddhi viene assimilata anche alla Coscienza-
Intelligenza universale, mentre l’Ahaækåra universale, sorgente del
manas, è associato alla måyå e costituisce l’Immanifesto (avyakta),
344 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
4
La natura causale del Signore in rapporto all’universo non va
intesa in senso cronologico o come una reale trasformazione della
causa nell’effetto o in relazione alla produzione di questo. Il Bra-
hman non produce né si trasforma nell’universo ma appare come uni-
verso attraverso il suo stesso potere di måyå senza subire alcuna al-
terazione e rimanendo sempre identico a Sé stesso e privo di dualità.
È la dottrina della modificazione apparente (vivartavåda) predicata
dal Vedånta, che risolve le questioni in apparenza insolubili a cui
porta inevitabilmente l’applicazione della dottrina della trasforma-
zione sostanziale (pari√åmavåda) sostenuta da diverse scuole (Såæ-
khya, VaiŸe≤ika, ecc.). Per il Vedånta la molteplicità-dualità è appa-
rente, essa scaturisce come possibilità dalla unità qualificata; ma an-
che questa è non-reale, la sola realtà essendo la Non-dualità. La so-
vrapposizione (upådhi) non è altro che una modificazione apparente
(vikåra) e questa non è sostanzialmente distinta dal sostrato: l’onda
sonora non è altro che uno stato vibratorio dell’aria, di per sé senza
suono e immobile. Il Brahman nirgu√a, in quanto Assoluto metafisi-
co, è il Sostrato della totalità, attuale e potenziale e di ogni possibili-
tà. Nel suo aspetto di Essere qualificato, o Brahman sagu√a, è il Prin-
cipio originatore. Nel triplice ruolo della Trim¥rti è il Creatore (Bra-
hmå), il Conservatore (Vi≤√u) e il Distruttore (Âiva) dell’universo.
5
Negli Ÿloka 8-12, a conferma della visione del Vivartavåda,
Âa§kara evidenzia la gerarchia dei piani o stati dell’Essere: dal causale
procede il sottile, dal sottile il grossolano. L’effetto esprime una pos-
sibilità contenuta nella causa. L’ente formato (bh¥ta) non racchiude
l’essenza come un frutto il seme ma è la concretizzazione della sua
stessa essenza (tanmåtra), come un organo lo è della sua funzione.
6
La conformità al Principio genera armonia, bene, stabilità. Il
Bene è l’essenza del Vero. L’atto disarmonico, o difforme dal dha-
rma proprio e universale, non può che produrre una riduzione o un
impedimento alla esperienza del bene.
7
Cfr. Bha. Gı. 10.36.
8
Primo accenno ai gu√a: sattva, rajas e tamas. Sono gli aspetti –
differenziati dalla måyå – della qualificazione principiale (viŸe≤a). Il
346 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
che lega frutti e atti non è altro che l’attuazione della possibilità in-
sita nel seme causale che, pur comprendendo una indefinita molte-
plicità in quanto suscettibile di illimitata espressione, è e resta es-
senzialmente unità. Il Signore proietta la legge karmica e l’universo
sboccia.
15
Il testo gioca sui prefissi: sa, “unitamente a”, e adhi, “sopra”,
che Âa§kara spiega sintetizzandoli in saha: “insieme con”. Realizza-
re il Signore unitamente e sopra le varie sfere – si parla di sfera de-
gli elementi, dunque il piano terreno-umano o della esperienza or-
dinaria, di sfera divina, quella dei princìpi che l’essere comune cer-
ca di comprendere o quantomeno di propiziarsi nelle forme cui ri-
volge devozione e ritualità, e di sfera del sacrificio, precipuamente
quella in cui agendo sull’effetto si stimola la causa, ovvero la sfera
della causalità principiale – significa riconoscere il Sostrato bra-
hmanico come pervadente e quindi coesistente (sa, saha) con tutti i
piani della manifestazione, formale e informale, e non solo come
Entità trascendente e avulsa dal contesto empirico, oltre che come
Quello che presiede (adhi) a tutto quanto avviene in tali piani. In al-
tre parole, non si deve creare dualismo tra l’Essere e il divenire:
questo si sostiene su Quello, nel quale va reintegrato e risolto. Sol-
tanto integrando la totalità nell’unità, l’apparenza di molteplicità
trasformantesi nell’åtman e quindi in sé stessi, si può trascendere il
divenire ciclico di nascite e morti e risolversi nel Brahman, anche
se ciò dovesse verificarsi solo all’istante del trapasso, cioè del di-
stacco dalla veicolarità individuale, sempre che sussistano i requisi-
ti e sia stata attinta la giusta posizione coscienziale. È la videhamu-
kti, la liberazione che si verifica all’abbandono del corpo, mentre
quella del conoscitore puro è la jıvanmukti, liberazione in vita. Per
gli altri, i ritualisti e i meditanti della forma, vi è, come si vedrà, la
kramamukti, la liberazione differita che si invera al maturarsi della
coscienza lungo il corso di successive esistenze.
Le varie sfere (adhyåtman, adhibh¥ta, adhidaivata e adhiyajña)
verranno trattate nel Capitolo successivo.
*
Ottavo Adhyåya
(La descrizione del Brahman indistruttibile)
Arjuna disse:
uno stato di stabile fissità, colà [in tale stato], grazie alla men-
te mantenuta sotto controllo, procedendo dal cuore verso l’al-
to, ossia innalzandosi lungo la nåƒı ascendente (la su≤um√å),
“convogliando la propria energia vitale nel [centro del] capo,
intrapresa la concentrazione yoga...”, impegnato a concen-
trarsi e concentrandosi in quello stesso [stato]...
re, viene detto: «Nel periodo durante il quale...», ecc. (Bha. Gı.
8.23). La presentazione [anche del sentiero] del ritorno ha lo
scopo di rendere elogio all’altro sentiero (quello del non-ritorno).
*
NOTE all’Ottavo Adhyåya
1
Il prefisso adhi- applicato a un nome designa non solo ‘ciò che è
superiore a quel particolare ente’, ma anche ‘ciò che presiede sulla sfe-
ra relativa a quel nome’, o ‘ciò che ha quella sfera come proprio prin-
cipio’. Così il termine adhyåtman significa lett. ‘il sé superiore’, che è
al di sopra o al di là della sfera corporea sensoriale e quindi del mero
ego psico-fisiologico immediatamente percepito, dell’io sensoriale-
manasico quale centro cognitivo, percettivo e proiettivo. Rappresenta
dunque il sé individuato, cioè il jıvåtman, il riflesso di coscienza che è
testimone della intera sfera individuata nelle sue molteplici e interrelate
componenti (i vari upådhi, koŸa, ecc.) e nel suo percorso determinato
dagli atti trascorsi. Talora è anche il Sé supremo, lo Spirito trascenden-
te in quanto Coscienza senza dualità. V. anche le note 7.15, 8.3 e 8.6.
2
Il Vedånta ritiene la manifestazione stessa risultato dell’atto
sacrificale, in questo caso di ÙŸvara. Per quanto riguarda l’individuo,
secondo quanto viene detto a conclusione dell’Adhyåya (8.23 e
segg.), l’essere fa ritorno all’esistenza individuata provenendo dalla
sfera lunare nella quale ha esaurito l’esperienza del frutto del pro-
prio operato e in tale ridiscesa si serve di diversi veicoli temporanei
tra i quali la pioggia, ecc. Cfr. Bra. S¥. 3.1.8, 23 e Chå. 5.10.5.
3
Il termine adhibh¥ta indica la sfera degli elementi (bh¥ta), il li-
vello meramente materiale o sostanziale della manifestazione, cor-
rispondente al piano della terra (pÿthivı, bh¥r). Etimologicamente è
ciò che presiede alla categoria dei viventi in quanto forma l’insieme
delle loro componenti veicolari grossolane.
4
Il termine k≤ara denota sia il corpo, la corporeità distruttibile,
sia la condizione veicolare-formale individuata, destinata inevitabil-
mente a dissolversi.
370 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
5
Cfr. Bha. Gı. 8.23.
Il termine adhidaivata indica la sfera divina, assimilata allo
6
spazio (bhuvas) che avvolge il piano della terra, dalla quale vengo-
no regolati i fenomeni che interessano la vita e l’esperienza umana.
Adhidaiva è tutto quanto inerisce ai deva e alla loro natura. In que-
sto particolare contesto il Puru≤a può riferirsi sia allo Spirito supre-
mo e non-duale, sia all’Essere (Brahman) nel suo aspetto qualificato
(ÙŸvara o Hira√yagarbha), sia, infine, al puru≤a individuale.
7
Riguardo al contenuto mentale presente al tempo della dipar-
tita, cfr. Chå. 3.14.1, Pra. 3.10 anche Mu. 3.1.10, Bÿ. 1.4.15 e Chå. 8.2.
Per quanto riguarda l’effetto del pensiero sulla rinascita, cfr. Kau.
1.2, Ka. 1.3.7-8, Bÿ. 4.4.6, Âve. 5.7, 12 e Mai. 3.2 e 6.34. V. anche Ma.
12.55, Ma. Bhå. 14.36.30-31 e Yå. Dha. S¥. 3.207.
Qui il termine yoga indica l’applicazione indefessa, lo sforzo
8
Si torni alla nota 11. La “soppressione della mente nel loto del
17
Cfr. Bra. S¥. 3.4. Una sola devatå assume o si manifesta nelle
30
*
Nono Adhyåya
(Lo yoga della conoscenza regale e del mistero sovrano)
In che senso?
9.20. I conoscitori dei tre Veda, bevitori del soma, i cui vizi
sono stati mondati, adorando Me con sacrifici, pregano per [in-
traprendere] la via del cielo. Essi, raggiungendo il merito qual è
il mondo del dio Indra, godono in cielo i divini conviti dei deva.
“Il medesimo”, identico “Io sono per tutti gli esseri: nessu-
no mi è esecrabile né alcuno favorito”. Io sono come il fuoco:
come il fuoco non elimina il freddo per coloro che si trovano
discosti, mentre [lo] allontana [per colui che stia] giungendo
in sua prossimità, allo stesso modo Io concedo la [Mia] grazia
ai devoti ma non agli altri; “ma quelli che onorano Me”, ÙŸva-
ra, “con devozione, quelli” sono “in Me” in modo affatto natu-
rale, cioè non a motivo di un mio attaccamento, “e anche Io”
sono “in loro” in modo affatto naturale, e non negli altri; ma
non per questo vi è da parte mia [una qualsiasi] avversione
nei loro confronti 21.
Ascolta [ora] l’efficacia della [diretta] devozione verso di Me:
*
NOTE al Nono Adhyåya
1
In particolare si tratta dello yoga che risveglia la ku√ƒalinı
Ÿakti e la induce ad ascendere lungo la su≤umnånåƒı, la “nåƒı ri-
splendente”. La concentrazione (dhåra√å) costituisce un mezzo
ausiliario (a§ga) dello yoga. V. Ÿloka 8.10 e nota 8.11. Cfr. Yo. S¥.
3.1-3.
2
Mentre le varie prescrizioni (vidhi), i rituali (karman), i sacri-
fici (yajña) ecc. devono essere appresi dalla Âruti e dalla Smÿti, la
conoscenza del Brahman, per quanto anch’essa esposta nelle
Scritture o impartita da un Maestro qualificato, si realizza solo at-
traverso una diretta presa di coscienza, prescindendo dalla quale
resta mera concettualità incapace di apportare il frutto della libe-
razione. Il conoscere, tradizionalmente inteso, è essenzialmente
essere.
3
L’åtman pervade la totalità degli enti, con-forma e senza-forma:
essi sono compresi in Quello, mentre Quello non è collocato in
loro. L’assenza di finitezza dell’åtman implica la sua trascendenza
rispetto alla dimensionalità e all’intero insieme di parametri spazio-
tempo-causali e anche della stessa dicotomia formale-informale.
Cfr. Bha. Gı. 7.12.
4
Logicamente non si può immaginare che gli enti abbiano una
collocazione spaziale nell’åtman, perché Quello trascende lo spa-
zio e le altre dimensioni. Per l’åtman infinito e onnipervadente
non si può concepire alcun rapporto dimensionale o di altra spe-
cie con alcuna entità di natura finita e limitata. Non si può nem -
meno supporre che l’åtman possa dimorare negli esseri, perché
ciò comporterebbe una inammissibile limitazione dimensionale.
Cfr. Bha. Gı. 11.8.
402 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
5
La spiegazione di Âa§kara si basa sul fatto che la concezione
comune si esprime nei termini: ‘questo è il mio åtman’, ‘il mio åtman
viene purificato’, ecc. Tale espressione presuppone una natura og-
gettiva dell’åtman come altro da sé stessi, al pari di un ente-oggetto
appartenente alla sfera veicolare individuale e passibile di percezio-
ne, acquisizione, possesso e perdita. Kÿ≤√a, venendo incontro all’es-
sere ordinario, si esprime in modo conforme alla sua abitudine
mentale solo per meglio illustrare l’argomento. Così l’espressione
che ha pronunziato Bhagavat: “il mio åtman”, va intesa come: “Io,
in quanto åtman...”. D’altra parte l’åtman è Coscienza onnicom-
prensiva, per cui qualsiasi rapporto, anche quello con il proprio
corpo, è proiettato dall’ignoranza e puramente illusorio. Non si
deve pensare l’åtman nel corpo, ma questo – o meglio, la totalità di
ciò che ha forma e di ciò che non ha forma – nell’åtman, quale pos-
sibilità attuata ma sempre contenuta nella propria causa-sostrato.
hman, sono devoti solamente a Quello nel suo aspetto più alto,
identico alla stessa Coscienza-Conoscenza.
15
Qui con i termini “essere” (sat) e “non-essere” (asat) si desi-
gnano rispettivamente l’esistente (vidyamåna) e il non-esistente (a-
vidyamåna), ovvero il manifestato (grossolano e sottile, dunque
formale) e il non-manifestato (il causale, cioè il non-formale). L’
“essere” dello Ÿloka definisce il manifestato in quanto esistente,
quale effetto di una causa non-manifestata e quindi vista come
non-esistente dalla prospettiva empirica. Non si deve confondere
tale “essere” con il reale in assoluto, né il “non-essere” con il non-
reale in assoluto. Il postulato di non-esistenza assoluta del Principio
equivale a un’asserzione di totale nichilismo e nello stesso tempo
implica una tesi contraria all’evidenza: da una causa non-esistente
non può che derivare un effetto parimenti non-esistente, ma se tale
effetto è il mondo che sperimentiamo, come spiegare tale esperien-
za concreta e inoppugnabile? D’altra parte, sostenere che l’esisten-
te, effettivamente constatato, derivi dal non-esistente è privo di lo-
gica. Al di là di effetto manifesto e di causa non-manifesta, di esse-
re e non-essere, vi è il Brahman, il quale trascende anche la possibi-
lità-relazione esprimentesi nel binomio causale.
16
I ritualisti che agiscono identificandosi al ruolo di agente
vedono la propria esistenza oscillare periodicamente tra la condi-
zione di acquisizione del merito e quella della sua fruizione. In
tale alternanza esistenziale non godono la libertà, l’indipendenza
o l’autonomia (svåtantrya) di accedere a stati in cui tale soggezio-
ne è risolta definitivamente e rimangono per ere indefinite nel di -
venire che caratterizza tali condizioni: anche la sfera divina, per
quanto elevata e immensamente dilatata, resta pur sempre limita-
ta e non esente dal condizionamento di ordine relativo. Cfr. anche
Mu. 1.2.10.
17
Il Signore (ÙŸvara), assumendo la forma delle altre devatå cui
sono offerti i sacrifici, è il Fruitore di tutti questi mentre, quale Or-
dinatore interno (antaryåmin) di tutti coloro che compiono tali atti
rituali, ne è anche il Sovrano. I ritualisti che offrono sacrifici ad al-
tre divinità ritornano in questo mondo dalla sfera che è il frutto
transitorio dei loro sacrifici; ma colui che offre in sacrificio sé stesso
al Signore realizza la natura di Quello e non ritorna più nel piano
della esistenza individuale, ottenendo un frutto imperituro.
406 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
24
Per quanto concerne le espressioni ‘devoto a Me’ (madbhakta),
‘con Me come supremo’ (matpara) e ‘con Me come supremo obietti-
vo’ (matparåya√a), cfr. Bha. Gı. 2.61, 6.14, 11.55, 12.6, 20 e 18.65.
*
Decimo Adhyåya
(Lo yoga della manifestazione sovrana)
E inoltre,
Arjuna disse:
10.14. Tutto questo che mi dici, o KeŸava, penso che sia real-
tà. Invero non conoscono la tua manifestazione, o Venerabile,
[né] i deva né i dånava (asura).
10.22. Dei Veda sono il Såma Veda, dei deva sono Våsava
(Indra) e dei sensi sono la mente, degli esseri sono la coscien-
za.
Nel gruppo “Dei Veda sono il Såma Veda, dei deva” quali
Rudra, Åditya e gli altri “sono Våsava”, cioè Indra, “e dei sensi”,
che sono undici a cominciare dalla facoltà visiva, ecc., “sono
la mente”, sono la facoltà mentale (manas) costituita da idea-
zione e dubbio, “degli esseri sono la coscienza”, la coscienza
(cetanå) costantemente manifestantesi come la funzione del-
l’intelletto nell’aggregato di corpo e sensi.
“E anche ciò che è il seme di tutti gli enti”, la causa del [loro]
germogliare, “quello Io [sono], o Arjuna”. Onde riassumere il
Capitolo, [Bhagavat] enuncia la sintesi del [proprio] potere
espressivo: “Non vi è alcun ente, mobile o immobile”, cioè sia
mobile (conscio, vivente) che immobile (non-conscio, inerte), “che
possa esistere”, che possa essere, “senza di Me”. Infatti ciò che
da Me dovesse essere escluso, completamente abbandonato, ciò
risulterebbe insostanziale (privo di åtman), cioè un vuoto (Ÿ¥-
nya); quindi la totalità è essenziata da Me. Tale è il significato.
*
NOTE al Decimo Adhyåya
1
Il testo: svayamevåtmanåtmånaæ vettha tvam... contiene sia il
termine åtman, che, come noto, designa tanto il pronome imperso-
nale “sé”, o “sé stessi”, quanto “il Sé” – appunto “l’åtman” – che
l’indeclinabile svayam, avente il senso: “di per sé, da sé”. Tenendo
conto della voce verbale imperativa (vettha), un’altra lettura è: “Di
per sé soltanto, conosci l’åtman tramite l’åtman, Tu o Puru≤otta-
ma...”. Il senso, comunque, è: ‘Tu soltanto, o sommo Puru≤a, puoi
conoscere l’åtman – in quanto Te stesso – attraverso l’åtman – os-
sia attraverso Te stesso – perché la natura e il potere della cono -
scenza, ecc. appartengono a Te solamente’. Ovvero: ‘Tu, o Puru≤o-
ttama, da te soltanto, puoi conoscere Te stesso in quanto åtman at-
traverso Te stesso quale åtman’. Solo l’åtman, cioè il supremo Bra-
hman, può conoscere realmente Se stesso in quanto tale, proprio in
virtù dell’essere l’åtman della totalità. Il jıva, per poter conoscere
l’åtman, cioè realizzare il Brahman, deve diventare l’åtman, cioè as-
sorbirsi completamente in Quello fino a risolversi in Quello. La co-
noscenza tradizionale è conoscenza di identità e questa non si tra-
smuta in realizzazione se non diventa piena ed effettiva coscienza.
2
Nella consapevolezza che “tutto è il Brahman” – anche se il
Brahman è infinitamente più di tutto – e che ogni cosa ne è un par-
ticolare aspetto, qualunque ente può essere preso come simbolo e
fungere da supporto per la contemplazione indiretta di quella Real-
tà unica e trascendente da cui tutto promana. Dice la Âruti: «Tutto
questo è certamente il Brahman» (Chå. 3.14.1).
3
I Vasu sono esseri semidivini identificati con l’Acqua, la Stella
polare, la Luna, la Terra, il Vento, il Fuoco, l’Aurora e la Luce. Il
Meru è il mitico Monte fulcro di rotazione della terra e dimora dei
deva.
430 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
*
Undicesimo Adhyåya
(Lo yoga della visione della Forma universale)
Arjuna disse:
“Mira gli Åditya”, che sono dodici, “i Vasu”, che sono otto,
“i Rudra”, che sono undici, “i due ÅŸvin e i Marut” che sono in
sette gruppi di sette. E “Allo stesso modo, mira le molte” altre
“meraviglie”, le cose prodigiose “mai viste prima” nel mondo de-
gli uomini né da te, da parte tua, né da nessun altro, “o Bhårata”.
Certamente non è questo soltanto, ma:
11.8. Non puoi, invero, vedere Me soltanto con questa tua vi-
sta [umana], [per cui] ti concedo la vista divina: contempla
[adesso] il mio divino potere.
Sañjaya disse:
11.13. Colà il På√ƒava vide allora nel corpo del Dio dei deva
l’intero universo, stabilito nell’Uno ma molteplicemente diffe-
renziato.
Arjuna disse:
11.15. O Dio, nella tua forma corporea scorgo tutti gli dèi,
come, altresì, le moltitudini di distinti esseri, il signore Bra -
hmå che sta seduto sul [suo trono di] loto, tutti i Í≤i e i divini
serpenti.
11.25. Solo nel mirare le tue bocche dai denti formidabili si-
mili alle fiamme divoratrici del Tempo, non riconosco [più] le
direzioni cardinali e non trovo [più] rifugio. Sii benevolo, o Si-
gnore dei deva, dimora degli universi.
Sañjaya disse:
Arjuna disse:
Similmente,
11.42. ...e da qualsiasi cosa sia stato [Tu da me] offeso per
scelleratezza, sia durante il giuoco che nel dormire, sia nel corso
di un consesso che nel consumare i pasti, tanto [che mi trovassi
io] da solo, o Acyuta, che anche diversamente, io [imploro] Te,
o Immensurabile, di cancellare ciò.
“...e da qualsiasi cosa sia stato [Tu da me] offeso”, cioè sia
stato, ti sia sentito insultato “per scelleratezza...”, a causa di
una mancanza di rispetto [da parte mia nei tuoi confronti]...
In quali circostanze?
[Per esempio] “...sia durante il giuoco che nel dormire, sia
nel corso di un consesso che nel consumare i pasti...” – il
giuoco è un [qualunque] diversivo, come l’esercizio del cam-
minare, il dormire è il riposare, il consesso può essere un’adu-
nanza, il consumare i pasti è l’atto di mangiare; dunque, in
queste [circostanze cioè] sia durante il giuoco che dormendo,
sia nel corso di un consesso che nel consumare i pasti, “tanto”
11.43 Undicesimo Adhyåya 455
che [Tu] sia stato offeso, sia stato ingiuriato trovandomi “da
solo”, in [tua] assenza, “o Acyuta, che anche diversamente”,
in presenza di ciò, ossia all’udire [Tu stesso] ciò, tale che [Tu
ne] sia stato intimamente offeso percependolo direttamente,
vale a dire [essendo Tu presente] nel particolare atto [di in-
giuria da parte mia], “io [imploro] Te, o Immensurabile”, o
[Tu] che trascendi la comprensione, “di cancellare” tutto “ciò”
che è stato generato dall’errore, di usare indulgenza [nei miei
confronti], perché Tu...
11.45. Sono [divenuto] eccitato nel vedere ciò che non era
stato [mai] visto prima, e [nonostante ciò] la mia mente è assai
angosciata dalla paura. Quella forma soltanto mostrami, o Dio.
Sii benevolo, Signore dei deva, dimora dell’universo.
“Né per mezzo dello studio dei Veda o dei sacrifici...”, cioè:
neanche attraverso lo studio dei quattro Veda o, parimenti,
attraverso lo studio dei sacrifici (yajña). Poiché è ben noto
che lo studio dei sacrifici [si acquisisce] proprio grazie allo
studio dei Veda, la menzione separata dello studio dei sacrifici
intende indicare la conoscenza specifica dei sacrifici. Simil-
mente, né “...tramite atti di donazione”, come [la cessione,
quale mezzo espiatorio, di tanto oro quanto è] il peso di un
uomo, “neanche per mezzo di rituali” [ancorché] prescritti
dalla Âruti, quali l’Agnihotra o altri, “né”, ancora, “attraverso
rigide austerità” come quella del Cåndråya√a (nella quale la
quantità di cibo cala fino ad annullarsi e quindi cresce di nuo-
vo seguendo le fasi lunari) o altre severe astinenze...
Dunque “...Io” non “posso essere visto in tale forma...” –
[si ha l’espressione] ‘tale forma’ (evaær¥pa¢) in quanto Io sono
Colui al quale [soltanto] appartiene la Forma universale quale
[ti] è stata mostrata – “...nel mondo degli uomini”, nel mondo
umano, “da altri che te”, [cioè: non posso essere percepito] da
un [qualsiasi] altro [essere] oltre a te, “o eroe dei Kuru”.
11.51 Undicesimo Adhyåya 459
Sañjaya disse:
Arjuna disse:
*
NOTE all’Undicesimo Adhyåya
1
Cfr. Bha. Gı. 9.15.
2
Cfr. Bhå. Gı. 11.38.
3
Sia il termine indicante la discesa, cioè l’incarnazione in con-
dizione umana, sia quello che definisce la rimozione o l’eliminazio-
ne di qualcosa discendono, etimologicamente, da una medesima ra-
dice, t™, preceduta dal prefisso ava-, ossia: avatåra. Le schiere dei
sura, esseri solari o luminosi, quindi deva, sono discese (avatır√a) e
si sono incarnate in forma umana (manu≤yasaæsthåna) per consen-
tire agli uomini di portare a esaurimento (avatåra) il carico karmi-
co acquisito dalla stirpe umana sulla terra. Ogni discesa divina con-
templa questa finalità e si compie nel periodo in cui più pressante è
la necessità di riportare l’essere umano sulla via della rettitudine e
della conformità al Principio.
4
Cfr. Bha. Gı. 11.45.
5
ParaŸuråma viene considerato una incarnazione parziale di
Vi≤√u discesa in passato per fronteggiare, ridurre all’impotenza e
punire l’ordine k≤atriya colpevole di aver soverchiato i bråhma√a e
capovolto la gerarchia tradizionale. Si tratta, dunque, di un eroe di
natura divina.
6
Per l’intero passo, cfr. Kau. 2.11.
7
In questo contesto sat e asat definiscono ancora il manifestato
e il non-manifestato, il formale (piano effettuale, grossolano e sotti-
le) e ciò che è allo stato non-formale (causale). Dal punto di vista
della realtà suprema (paramårtha), sono non-reali in quanto entram-
bi sovrapposizioni (adhyåropa). Si torni alla nota 9.15.
464 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
8
Si torni a Bha. Gı. 11.18.
*
Dodicesimo Adhyåya
(Lo yoga della devozione)
Arjuna disse:
Da dove?
“...dall’oceano del divenire ciclico connesso alla morte”. Il
divenire ciclico è [definito come] connesso alla morte (mÿtyu-
saæsara) perché il divenire ciclico (saæsåra) è asservito alla
morte (mÿtyu) ed esso stesso è simile a un oceano perché
come un oceano è difficile da attraversare; perciò “...Io di -
vengo Colui che [li] trae definitivamente fuori dall’oceano
del divenire ciclico connesso alla morte, [ma] non dopo lun-
go tempo...”.
Quando, allora?
Affatto immediatamente, “...o Pårtha, per coloro la cui
consapevolezza è immersa in Me”. Hanno la consapevolezza
immersa in Me coloro la consapevolezza dei quali è immersa,
cioè totalmente penetrata, completamente assorbita in Me,
nella [mia] Forma universale.
Poiché [soltanto] per costoro è così, pertanto:
12.13. Colui che verso tutti gli esseri è privo di ostilità, che è
amorevole e affatto compassionevole, che è senza possessività,
privo di senso dell’io, equanime nel dolore e nella gioia, tolle-
rante,...
[colui] la cui attitudine sta nel desistere del tutto sia dalle azio-
ni pure come da quelle impure, “pieno di devozione, quegli mi
è caro”.
*
NOTE al Dodicesimo Adhyåya
1
È detto “unificato” (yukta) lo yogin che ha raggiunto la unione
(yoga), il fine dello yoga. Quando non vi è più distinzione tra que-
sto yogin e l’oggetto dello yoga, si dice che egli è “il più unificato”
(yuktatama), il “migliore tra gli unificati”, ossia lo è “in modo per-
fetto”. È lo yogin per eccellenza. Del resto si può parlare di “unio-
ne” (yoga) o “unificazione” (yukti, ekıbhava) fin quando ne sussi-
stono i termini – un ente che si unisce a un altro o vi si immerge –
il che presuppone una dualità ma, per il “perfetto unificato” vi è, in
effetti, una vera e propria unità-identità: in altre parole, è “senza-
secondo”.
2
Cfr. Bha. Gı. 8.20 e relativo Commento.
3
Il Brahman è l’intimo åtman di ogni essere e quindi della tota-
lità e, come Ordinatore interno di tutto l’universo, è l’Immutabile
che governa dall’interno la mutevole corrente delle forme indefini-
te che si avvicendano nel flusso del divenire. Si veda anche Bha. Gı.
15.16.
4
In questo e in altri bhå≤ya Âa§kara, ponendosi da una prospet-
tiva metafisica, denomina ÙŸvara sia il Signore, il Dio persona, l’Es-
sere universale, il Brahman non-supremo o con attributi (sagu√a),
sia il Brahman supremo o senza attributi (nirgu√a): il primo è un
aspetto qualificato di Quello inqualificato. Il Brahman, l’Imperituro
non-manifesto, attraverso il suo potere di måyå, si manifesta come
il Signore che assegna agli esseri il frutto del loro operato e conce-
de la liberazione alle coscienze mature. In altri casi il significato ap-
pare chiaro dal contesto. V. anche nota 18.
5
Cfr. Bha. Gı. 2.61, 6.14, 11.55 e nota 6.12.
484 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
Qui, come si comprende anche dal resto dello Ÿloka, con “cono-
9
Cfr. Ma. Bhå. 12.237.34. Si torni a Bha. Gı. 2.71. V. anche Bha.
14
Gı. 18.53.
Dodicesimo Adhyåya 485
15
Si torni alla nota 6.
16
Qui si parla del controllo della sola parola. Simboleggia il si-
lenzio (mauna) come status. Colui che osserva il voto del silenzio
(maunin, muni) ha operato il silenzio sui tre piani della espressione:
corporeo, verbale e mentale. Il silenzio del corpo è la non-azione,
l’agire disidentificato dal soggetto agente; il silenzio della parola è
la non-espressione verbale, l’espressione che non nasce dall’io ma
proviene direttamente dall’intelletto superiore (buddhi); il silenzio
della mente è l’assenza di pensiero, la soluzione del processo pen-
sativo, ideativo e proiettivo e anche percettivo, nella piena consa-
pevolezza dell’åtman. Per il discepolo si tratta di voti da rispettare,
per il conoscitore sono il triplice aspetto di una condizione natura-
le. Il conoscitore-muni dimora sempre in mauna, da cui vibra e ir-
radia una profonda e non-duale Coscienza, trasmettendola attra-
verso la sua silenziosa presenza, perché, come dicono le Upani≤ad,
‘il Silenzio cosciente è il Brahman stesso’.
17
Cfr. Bha. Gı. 11.55.
18
Qui Vi≤√u, il Pervadente, designa ancora il Brahman incondi-
zionato, talora definito come il supremo Signore (parameŸvara) o
anche solo ÙŸvara.
*
Tredicesimo Adhyåya
(Lo yoga della distinzione
tra il campo e il conoscitore del campo1)
sono queste due vie...», ecc. (Ma. Bhå. 12.3.240.6), ecc. e [anche]
qui [nella Bhagavadgıtå, a partire dal Secondo Capitolo] i due
sentieri realizzativi sono stati esposti [dicendo che] vi sono
soltanto queste due vie [quella dell’azione e quella della cono-
scenza, Bha. Gı. 3.3] mentre si comprende, dalla Âruti, dalla
Smÿti e attraverso la ragione, che l’ignoranza (avidyå), unita-
mente al suo effetto, deve essere eliminata 8.
Intanto, riguardo alla Âruti [vi sono i passi]: «Se qui [un es-
sere umano] lo ha realizzato, allora [per lui] vi è la verità; se
qui non [lo] ha realizzato, [per lui] vi è grande rovina» (Ke.
2.5.), «(...Realizzando) Quello così, il saggio diviene qui [stesso]
immortale9» (Âve. 3.8), «Colui che ha realizzato... non ha più
nulla da temere» (Tai. 2.9.19)10, mentre, per quanto concerne il
non-conoscitore: «(Ma, fin quando egli proietta la benché mi-
nima differenza in seno a Questo) allora per lui sussiste la pau-
ra» (Tai. 2.7.1), «Vivendo dentro all’ignoranza... (gli stolti gira-
no... come ciechi guidati da uno anch’esso cieco)» (Ka. 1.2.5),
«(Certamente colui, il quale, invero) conosce (quel supremo)
Brahman, diviene il Brahman stesso» (Mu. 3.2.9), «(Dunque,
colui che, rendendo omaggio a un’altra divinità, pensi) ‘altro è
Quello e altro sono io’, costui non conosce davvero. Egli è piut-
tosto simile a un animale per i deva» (Bÿ. 1.4.10); [invece, con-
cernenti] il conoscitore dell’åtman, [vi sono i passi]: «...costui
diviene tutto questo [universo]» (Bÿ. 1.4.10), «Quando (gli uo-
mini fossero riusciti ad avvolgere lo spazio) come una pelle...»
(Âve. 6.20) e, simili a questi, migliaia [di altri passi].
Poi vi sono i passi della Smÿti: «La conoscenza è avvilup-
pata dall’ignoranza: per questo i mortali sono smarriti...»
(Bha. Gı. 5.15), «Qui stesso la venuta in esistenza è superata
da coloro la cui mente è fermamente stabilita nella identità
[con il Brahman]» (Bha. Gı. 5.19), «...perché, vedendo identi-
camente dappertutto...» (Bha. Gı. 13.28), ecc.
[A ciò si arriva] anche attraverso la ragione: «Gli uomini
evitano i serpenti, gli aculei dell’erba kuŸa e, ugualmente, i
492 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.2
Qual è Esso?
L’ente di cui si sta trattando, che si deve conoscere, è “...il
supremo Brahman” (paraæ brahma): [è detto supremo perché]
non vi è nulla che lo trascende.
Obiezione: Qui, [leggendo] anådi matparam [anziché anå-
dimat param], alcuni scindono il termine [senza-principio,
anådimat, da supremo, param]: [infatti] la mancanza di signi-
ficato [insita nella contraddittorietà] dovuta al suffisso mat,
nel senso espresso attraverso il [composto nominale denomi-
nato] bahuvrıhi, è indesiderabile, per cui prospettano il signi-
ficato in maniera diversa: ‘Il [Brahman] supremo, del quale Io
sono il sommo potere denominato Våsudeva, è dotato di tale
[natura senza inizio]’38.
Risposta: In verità, così, cioè qualora sia ammissibile il
senso [da Voi ipotizzato, il suffisso -mat] risulterebbe pronun-
ciato una sola volta [senza venire ripetuto, per cui la presunta
mancanza di significato risulterebbe evitata]. Ma il [suddetto]
senso non può essere ammesso, perché [pronunciando l’e-
spressione]: “Quello viene detto: né esistente, né non-esisten-
te”, si vuole suscitare l’istanza di conoscere chiaramente il
Brahman proprio attraverso la negazione di qualsiasi qualifi-
cazione. D’altra parte, la prospettazione di una natura dotata
di [un qualsiasi] potere e la negazione di [ogni] qualificazione
è una contraddizione in termini; perciò, sebbene vi sia identi-
tà di significato [tra anådi e anådimat], [si deve riconoscere
che] l’impiego del suffisso -mat attraverso il [composto nomi-
nale del tipo] bahuvrıhi ha lo scopo di completare la [metrica
della] strofa.
‘Io ho detto che si deve conoscere il frutto consistente nel-
la immortalità’: reso attento [Arjuna] con tale stimolazione,
[Bhagavat] aggiunse: né Quello, che deve essere conosciuto,
viene detto esistente (na sat), né, ancora, Quello viene detto
non-esistente (asat).
520 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.12
come organo interno (mente) sia come organi esterni (di azio-
ne e percezione), attraverso [le facoltà specifiche di tali or -
gani come] l’apprendimento certo, la proiezione immaginati-
va, l’ascolto, l’espressione verbale, ecc., come se fosse [davve-
ro] attivamente impegnato nelle funzioni di ogni senso, come
si apprende dalla Âruti: «...è come se pensasse, è come se si
muovesse» (Bÿ. 4.3.7).
Obiezione: Qual è, dunque, la causa per cui si deve com-
prendere che non è affatto [davvero] attivamente impegnato
[in tali funzioni]?
Risposta: A ciò si risponde: [perché] “è perfettamente pri-
vo di qualsiasi senso”, vale a dire: privo di qualsiasi strumen-
to sensoriale. Quindi, Quello che deve essere conosciuto non
può [davvero] impegnarsi in maniera attiva nelle funzioni
sensoriali.
Invece, per quanto concerne questo mantra: «Pur essendo
privo di mani e di piedi, Egli afferra e si muove rapidamente;
Egli vede senza occhi e ascolta senza orecchie...», ecc. (Âve.
3.19), il senso che si vuole prospettare è questo: Quello, che
deve essere conosciuto, è dotato del potere di scindersi [appa-
rentemente] conformandosi alle qualità delle sovrapposizioni
limitanti formanti tutti gli organi, mentre non si vuole affatto
indicare direttamente una natura dotata di attività quali quel-
la di muoversi rapidamente, ecc., laddove il significato di tale
mantra è analogo al senso [implicito nella espressione appa-
rentemente contraddittoria] del mantra: «Il cieco vide una
gemma» (Tai. Å. 1.11).
Poiché è privo di qualsiasi strumento sensoriale, Quello
che deve essere conosciuto è “non-attaccato [a nulla]” (asa-
kta), cioè privo di contatto con qualsiasi cosa, ma, nonostante
sia così, tuttavia “è il sostegno stesso della totalità”. Infatti
tutto è collocato nell’Essere (sat), perché si comprende che il
concetto di ‘essere’ (sadbuddhi) permea la totalità 44. Infatti
526 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.14
*
NOTE al Tredicesimo Adhyåya
1
In talune recensioni questo Adhyåya è intitolato: Lo yoga della
discriminazione tra il Puru≤a e la Prakÿti (puru≤aprakÿtivivekayoga).
2
Âa§kara si pone, come sempre, dal punto di vista metafisico
non-dualista; dal piano di måyå, o della manifestazione, ÙŸvara, cioè
il Brahman, appare sotto due aspetti: il non-supremo, che è la Pra-
kÿti assimilata al ‘campo’ – la totalità del conoscibile – e il supremo
che è il Puru≤a, assimilato al ‘conoscitore del campo’ – il Conosci-
tore per eccellenza – cioè, nell’ordine trascendente: alla måyå e al
Brahman; in quello contingente: alla sfera individuale e al jıva. La
distinzione tra universale e individuale è frutto di proiezione: ‘il
jıva non è altri che il Brahman stesso’, la differenza è dovuta alle
sovrapposizioni limitanti o upådhi che definiscono lo stato indivi-
duato. V. nota 6. Il modo in cui ÙŸvara diviene causa di creazione,
ecc. dell’universo sarà chiarito in 13.26.
3
Cfr. Bha. Gı. 7.17 e 12.15-20.
4
Âa§kara sintetizza le finalità (artha) del Puru≤a in fruizione
(bhoga) e liberazione (mok≤a), che rappresentano gli estremi. La
fruizione riassume i tre fini inferiori (kåma, artha, dharma), la libe-
razione è il “fine per eccellenza dell’essere umano” (puru≤årtha).
5
Il frutto del proprio agire viene sperimentato fin quando sus-
siste l’individualità, con l’insieme veicolare che di volta in volta
viene a condensarsi attorno al centro di autocoscienza.
6
I termini k≤etra e k≤etrajña hanno una doppia valenza: a livello
individuale sono il veicolo e il sé individuato (jıvåtman) o riflesso
individuato dell’åtman, a livello universale sono la Prakÿti o natura
556 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
14
Per tutti gli assertori dell’åtman (åtmavådin) l’esperienza
del divenire cessa alla realizzazione della identità con il Brahman.
Sebbene allora vengano meno l’argomento e l’importanza delle
Scritture, prima di tale evento esse mantengono la loro valenza.
Tuttavia alcuni ritualisti dogmatici, pur sostenendo l’esistenza
dell’åtman al di là della corporeità, insistono sulla necessità di
continuare a compiere l’attività rituale anche dopo il sorgere della
conoscenza.
15
Se schiavitù e liberazione si verificassero in successione, biso-
gnerebbe stabilire la causa che le produce perché, in assenza di una
causa, sarebbero entrambe reali, ma, essendo opposte, ciò rappre-
senta una contraddizione in termini. Qualora avessero una causa,
questa potrebbe risiedere sia in un altro ente distinto che in loro.
Nel primo caso, essendo prodotte da altro, schiavitù e liberazione,
sarebbero entrambe non-reali, per cui non potrebbero inerire al-
l’åtman né si porrebbe la necessità di una liberazione inesistente da
una schiavitù parimenti inesistente. Nel caso che la causa risieda in
loro, non potrà esservi alcuna liberazione in assenza di una ulterio-
re causa esterna che garantisca la soluzione della condizione di
schiavitù, per cui le Scritture perderebbero la loro autorevolezza.
Da ciò si deve concludere che schiavitù e liberazione sono solo so-
vrapposizioni all’åtman.
16
Se la condizione di schiavitù fosse priva di inizio sarebbe
eterna, quindi reale, per cui non potrebbe mai essere annullata,
ma ciò è in contrasto con le Scritture e con gli altri mezzi validi di
conoscenza. Parimenti, se la liberazione avesse un inizio, non sa-
rebbe reale, per cui non potrebbe essere definitiva né svelare una
natura eterna.
17
Uno stato eterno è necessariamente reale e non può annullar-
si in riferimento a un fattore dimensionale (spazio-tempo-causa) e
non-reale per essere sostituito da un altro stato, anch’esso necessa-
riamente non-reale. La natura di eternità-infinitezza-acausalità,
quale indipendenza dalle dimensioni nel loro complesso inscindibi-
le, è la natura del reale e come tale non può mutare o annullarsi.
558 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
ti”: «Io sono Brahman» (Bÿ. 1.4.10), «Tu sei Quello» (Chå. 6.8.7),
«Questo åtman è il Brahman» (Må. 2) e altri, che sintetizzano la
dottrina Advaita e svelano la verità in maniera chiara, immediata e
inequivocabile come una identità sempre esistente.
Note al Tredicesimo Adhyåya 559
25
La conoscenza ci fa comprendere che il ‘conoscitore del cam-
po’, cioè il jıva, non è affatto il ‘campo’ ma il Brahman stesso e che
il saæsåra non ha esistenza reale ma costituisce una proiezione so-
vrapposta; invece l’ignoranza identifica il ‘conoscitore del campo’
con il ‘campo’ rendendolo asservito al divenire ciclico e alla limita-
tezza delle condizioni che lo caratterizzano. Come il jıva è il cono-
scitore del campo che è la sfera individuale, una volta attinta la Co-
noscenza, si realizza che il Brahman è il conoscitore di quel campo
che è la sua stessa måyå.
26
Se il conoscitore possedesse o acquisisse la natura del cono-
sciuto perderebbe la propria distinzione da quello, distinzione che
gli conferisce appunto il ruolo di soggetto di fronte all’oggetto, per
cui la stessa funzione della conoscenza non sarebbe possibile. Inol-
tre, in tale ipotesi, il conoscente si identificherebbe con la totalità
del conoscibile, e non con un ente soltanto, perdendo così la pro-
pria natura di unità e acquistando indefinite proprietà estranee.
27
Oggetto e soggetto verrebbero a confondersi reciprocamente
e nessuno dei due potrebbe esistere e porsi come tale.
28
Se l’åtman fosse realmente affetto dalla ignoranza e dai suoi
effetti come attributi coessenziali e sperimentasse tali proprietà, è
come se, pur essendo il soggetto, percepisse sé stesso in qualità di
oggetto. Che un ente conscio sia a un tempo il soggetto e l’oggetto
della conoscenza è una palese contraddizione. Anche nella comune
esperienza la distinzione tra conoscente e conosciuto è una eviden-
za che non necessita di dimostrazione. Una lampada non può illu-
minare sé stessa o la propria luce come oggetto, perché la luce è la
sua natura inseparabile; d’altra parte, ciò che illumina è altro da lei.
La stessa definizione di ‘conoscitore del campo’ implica che ‘cono-
scitore’ e ‘campo’ sono affatto distinti come lo sono il soggetto e
l’oggetto della conoscenza. Cfr. anche l’Introduzione di Âa§kara al
Brahmas¥trabhå≤ya.
tÿ) presentano il suffisso: -tÿ, che denota il soggetto dell’atto del co-
noscere, dell’azione conoscitiva. In realtà l’åtman è pura Coscienza
e, come tale, non può non conoscere: la conoscenza propria dell’å-
tman non risponde a un atto contingente, come quello di fare qual-
cosa, ma alla espressione di una natura autoesistente e immutabile,
a uno stato di essere inalterabile consustanziato della capacità di co-
noscere. La definizione dell’åtman come “conoscitore” o “perfetto
Note al Tredicesimo Adhyåya 561
che si può definire è esistente, ciò che non si può definire è inesi -
stente, e un ente che non esiste non può nemmeno essere conosciuto;
né, tantomeno, la sua conoscenza eventuale – ammesso che possa
essere acquisita – può determinare un qualsiasi frutto. Tuttavia è
un dato di fatto che, per l’essere che vi soggiace, la non-conoscenza
(avidyå) produce il divenire (saæsåra).
re, prima del loro avvento non potrebbe esistere né schiavitù né li-
berazione e, poiché l’inesistenza di queste ultime sarebbe eterna
come l’assenza della loro causa, ugualmente la loro assenza si pro-
trarrebbe in eterno anche dopo, in mancanza di una causa che in-
terrompa, per assurdo, tale eternità.
52
Cfr. Ma. Bhå. 12.217.7.
si e l’organo interno.
Note al Tredicesimo Adhyåya 565
56
L’intelletto (mahat), il senso dell’io (ahaækåra) e i cinque
elementi primari (bh¥ta) o le cinque sensazioni primarie (tanmå-
tra).
57
Il ‘variante’ (prakÿti) è ciò che di per sé è suscettibile di varia-
re e che, assumendo una diversa connotazione-apparenza, si pre-
senta come ‘variato’ (vikÿti). Poiché tale concatenazione può propa-
garsi indefinitamente, l’intero insieme di prakÿtivikÿti costituisce
effetto-kårya, mentre la sua base, cioè la sostanza principiale o Pra-
kÿti, ne è la causa-kåra√a.
58
Âa§kara non traccia distinzione tra il termine Puru≤a, corri-
spondente al Brahman o al paramåtman, e il puru≤a quale jıvåtman
perché, in fondo, si tratta di una medesima e unica natura: la Co-
scienza. Riflesso e Fonte, spazio circoscritto e spazio totale, trascese
le differenze sovrapposte, si svelano Uno.
59
L’assoggettamento al saæsåra presuppone un soggetto co-
sciente distinto dall’oggetto non-cosciente; in assenza di uno dei
due non può darsi alcuna relazione vincolante. L’åtman è sempre
libero, mentre il saæsåra, essendo una proiezione sovrapposta, non
ha esistenza autonoma.
60
Ånandagiri precisa che l’avidyå, identificata con la måyå, for-
ma, per analogia, la causa sostanziale (upådåna), mentre il deside-
rio è la causa efficiente (nimitta).
61
La conoscenza discriminante (vivekajñåna) porta al distacco
(vairågya) e attraverso questo si instaura la completa rinuncia (saæ-
nyåsa) che a sua volta rafforza il discernimento intuitivo: si crea
così un circolo virtuoso che porta invariabilmente alla presa di co-
scienza della realtà.
62
L’azione nasce comunque dalla ignoranza, perciò secondo
l’oppositore non vi è differenza tra atti passati maturati, atti non
maturati e atti futuri.
63
Cfr. Bha. Gı. 18.66.
566 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
*
Quattordicesimo Adhyåya
(Lo yoga della separazione dalla terna dei gu√a)
In che modo?
“...tramite l’attaccamento alla felicità”, la produzione di
uno stretto contatto della felicità, che costituisce l’oggetto,
con l’åtman che è il soggetto, nella forma: ‘io sono felice’.
[In realtà] l’adesione alla felicità è solamente illusoria, è
essa stessa ignoranza. Infatti una proprietà dell’oggetto non
può appartenere al soggetto, e Bhagavat ha affermato che
proprietà quali quelle che cominciano con il ‘desiderio’ e fi-
niscono con la ‘fermezza’ (Bha. Gı. 13.6 e segg.) appartengono
solamente al ‘campo’. Quindi è soltanto attraverso l’ignoran-
za, la quale costituisce una caratteristica propria [del cono-
scitore]9 consistendo nell’assenza di discriminazione tra il
soggetto e l’oggetto, che è come se [il sattva] congiungesse
[il conoscitore del campo] alla felicità, che non è propria di
sé stesso, cioè [lo] rende come se fosse attaccato [alla felici-
tà], ossia rende colui che è privo di [qualsiasi] attaccamento
come se fosse attaccato, dunque [rende] colui che [di per sé]
non è felice [né non-felice] come se fosse felice [non-felice,
ecc.]. “...e”, in modo simile, “tramite l’attaccamento alla co-
noscenza”; a causa della sua associazione con la felicità [nel
presente verso, si comprende che anche la conoscenza qui
menzionata] è una proprietà dell’organo interno (la mente),
cioè soltanto del ‘campo’, dunque dell’oggetto, e non dell’å-
tman (conoscitore del campo). Se fosse una proprietà dell’å-
tman, non si potrebbe a ragione ammettere l’attaccamento,
né sostenere plausibilmente una [condizione di] schiavitù.
Dunque l’attaccamento in relazione alla conoscenza, ecc. va
considerato come in relazione alla felicità, “o Anagha”, o tu
dal comportamento non sregolato.
Si dice:
14.18. In alto vanno quelli stabiliti nel sattva; nel mezzo re-
stano i rajasici; i tamasici, stabiliti nella natura dell’infimo
gu√a, vanno in basso.
580 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 14.18
tisi nella forma oggettiva di corpo e sensi, ossia vede [cioè rea-
lizza la consapevolezza di] questo: ‘soltanto i gu√a, stabiliti in
ogni condizione, sono gli agenti di tutte le azioni’, “e realizza
Colui che trascende i gu√a”, il quale costituisce il testimone
delle attività dei gu√a, “egli”, il veggente, “raggiunge il mio
stato”, [consegue] lo stato di essere che è proprio [unicamen-
te] di Me.
In che modo [lo] raggiunge?
Arjuna disse:
E inoltre,
*
NOTE al Quattordicesimo Adhyåya
1
Cfr. Bha. Gı. 13.26.
2
Nel Vedånta il Puru≤a e la Prakÿti rappresentano il ‘conoscito-
re del campo’ e il ‘campo’ nell’ordine universale, cioè il Brahman e
la sfera di måyå. Nella sfera individuale il ‘conoscitore’ è il jıva, o
jıvåtman, cioè l’åtman nel suo aspetto-riflesso di essere vivente, e il
‘campo’ è la spazialità veicolare unitamente alla totalità degli enti
correlati. Ma nella dottrina Advaita il jıva non è altro dal Brahman
– l’Upani≤ad sentenzia: «Tu sei Quello» (Chå. 6.8.7) – per cui si ri-
solve la stessa antitesi individuo-universo. Come il sole è il medesi-
mo sia visto attraverso una finestra che uscendo allo spazio aperto,
così l’åtman – sia realizzato in sé (Brahman, paramåtman) che perce-
pito come riflesso nell’essere (jıva) – è uno soltanto, senza-secondo.
Si torni alla nota 13.37.
3
Cfr. Bha. Gı. 13.21.
4
Cfr. Bha. Gı. 14.27 e Commento di Âa§kara. Una uguaglianza
presuppone sia la distinzione tra gli enti che il possesso di attributi
suscettibili di confronto; ciò comporta la possibilità di conoscerla
come oggetto. Una identità implica il risolversi sia degli eventuali
attributi che della stessa distinzione tra gli enti in una unità assolu-
ta e priva di differenziazione.
5
La måyå non si contrappone al Brahman: attraverso il potere
di måyå il Brahman, assumendo apparentemente un aspetto quali-
ficato, proietta l’universo e lo riassorbe. Dunque è la stessa apparen-
za di Quello percepita a causa della ignoranza della sua natura. È
attraverso la måyå che l’essere individuato emerge configurandosi
come ente separato e venendo a subirne l’effetto a livello conoscitivo.
590 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
13
Qui il Mahat designa il Brahman, il Principio metafisico nel
quale paiono emergere e restare compresi gli altri princìpi manife-
stanti.
14
L’azione rettamente condotta (karman sukÿta) è sia quella im-
posta dal dharma sia quella ordinaria ma compiuta senza identifi-
cazione al soggetto agente e senza attaccamento al frutto. L’azione
rajasica è quella effettuata con tali identificazione e attaccamento,
quella tamasica è quella contraria al dharma o fatta nella completa
obnubilazione mentale.
15
Cfr. Ma. Bhå. 12.314.3-4.
16
Il termine mithyåjñåna, si è visto, può significare sia ‘falsa
conoscenza’ che ‘illusoria ignoranza’. In entrambi i casi si tratta di
una conoscenza difforme dal vero che induce l’essere in errore –
l’identificazione con i gu√a – con ciò che ne consegue. Quando vi è
identificazione con il sattva, l’essere sperimenta l’esistenza come
deva, quando è con il rajas rinasce nella sfera umana, quando con il
tamas, in quella inferiore (animali o vegetali). V. nota 13.69.
17
Per la trascendenza dei gu√a, cfr. Yo. S¥. 4.32. Riguardo alla
Smÿti, cfr. Ma. Bhå. 12.251.22.
18
Perché nella lingua sanscrita la vocale e è sempre lunga.
19
Cioè sembra che continui a produrre azione pur non identifi-
candosi più con il soggetto agente né agendo in vista di un frutto.
Tale apparenza è oggetto di percezione per gli altri, non-conoscito-
ri, mentre, restando privo di attività e cambiamento, sono i suoi
veicoli che espletano l’inerzialità acquisita.
20
Cfr. Bha. Gı. 2.15, 6.7, 12.13, 12.18. La presa di consapevolezza
della natura trascendente e immutabile dell’åtman fa sì che il cono-
scitore, identificandosi all’åtman stesso, cessa in modo naturale di
impegnarsi nell’azione identificata, di rapportarsi in qualsiasi modo
ad altri esseri e di giudicare l’altrui operato, semplicemente perché
non vede più un “secondo”.
592 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
*
Quindicesimo Adhyåya
(Lo yoga del conseguimento del Puru≤ottama)
*
NOTE al Quindicesimo Adhyåya
1
Il termine aŸvattha – la pianta di Ficus indica religiosa, nota
anche come pippala – significa: “ciò la cui esistenza (sthåtå) può
non esserci (a-) l’indomani (Ÿva)” e definisce quello che per eccel-
lenza è cangiante, transeunte, privo di sostanzialità: il divenire.
L’albero del divenire è illusorio (måyåvÿk≤a) perché radicato nella
måyå, nell’Immanifesto (unità), dal quale si manifesta ramificando-
si indefinitamente (molteplicità) con i frutti delle azioni, e può es-
sere sradicato con la conoscenza.
2
‘In alto’ (¥rdhvam) significa ‘al di là’ della radice stessa del-
l’AŸvattha. La sua radice è la causa, le ramificazioni l’effetto. Cau-
sa ed effetto, anche a livello universale, sono proiezioni non-reali
sovrapposte al Brahman, il Puru≤ottama del Cap. XV, che pertanto
è di là da entrambi, per quanto costantemente presente nell’uno e
nell’altra. La perenne oscillazione causa-effetto, che conferisce
impulso al divenire condizionante, è apparente come la loro sepa-
razione concettuale e la loro reciproca relazione. L’Avyakta qui è
l’Immanifesto (måyå) di cui si parla in Bha. Gı. 8.18, 20. V. note
15.5 e 7.2.
3
L’aŸvattha è detto ‘perenne’ o ‘imperituro’ perché non è pos-
sibile stabilirne inizio o termine dal suo stesso piano; pertanto può
essere reciso solo attraverso la conoscenza che trascende la dimen-
sionalità spazio-tempo-causale.
4
Si dice che la sezione rituale dei Veda (karmakå√ƒa) protegge
o avvolge l’albero del divenire in quanto, trattando il rito e il suo
frutto, abbraccia la panoramica completa delle possibilità offerte al-
l’essere nell’ambito della esperienza relativa.
614 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
inizio, il divenire sia anche senza fine, per cui la liberazione sareb-
be impossibile. Ma, se di un ente non si percepisce né principio né
termine e nemmeno l’esistere nel tempo mediano, allora è apparen-
te la sua stessa esistenza. L’apparenza, penetrata acutamente, lascia
intravedere il sostrato. Lo scambio del non-esistente con l’esistente
implica che la posizione conoscitiva del soggetto conoscente è af-
fetta da errore.
Per questo verso e il 12, cfr. Âve. 6.14, Ka. 2.2.15, Mu. 2.2.10 e
7
Mai. 6.24.
da cui non torna indietro, cioè non riemerge alla condizione indivi-
duata.
13
Cfr. Bÿ. 4.4.2, Chå. 6.15.1-2, Kau. 3.3.
14
L’åtman è immediatamente conoscibile perché è la coscienza
stessa del conoscitore. Tuttavia, paradossalmente, il conoscitore
non osserva all’interno la eterna Sorgente di sé stesso, ma rivolge
l’attenzione agli oggetti esterni, obliando la sua natura e pensando-
si corpo, ecc.
15
Cioè in grado di distinguere tra l’åtman e ciò che non è l’å-
tman.
16
Solo il discernimento intuitivo (viveka) porta a una presa di
coscienza ma, fin quando è assente, prevalgono le proiezioni e le
abitudini immaginative che lo studio delle Scritture, per quanto as-
sociato alla riflessione, non può sradicare da solo.
17
Prå√a e apåna sono i due soffi principali del quintuplice prå-
√a, ossia i flussi discendente e ascendente; la congiunzione del ri-
flesso di coscienza (jıva) con il prå√a e con l’apåna è ciò che accen-
de e alimenta il fuoco digestivo e respiratorio, vitalizzando l’intero
aggregato veicolare.
18
Il simbolismo del “fruitore” (bhoktÿ) e del “fruibile” (bhojya)
ricorre nelle Scritture. Sono il divoratore e il nutrimento divorato,
il Soggetto e l’oggetto dell’essere, della esistenza, della esperienza,
l’åtman e il saæsåra. La totalità (sarva) è formata da loro due, sim-
boleggiati da Agni e Soma. Colui che ne prende coscienzialmente
atto, astraendosi dal conosciuto (il campo) si reidentifica con il sog-
getto conoscente (il conoscitore del campo). La “contaminazione da
parte della impurità del cibo” è il potere vischioso, esplicato dalla
oggettività cangiante, di attrarre e coinvolgere l’essere nella espe-
rienza mantenendolo nel divenire. Cfr. Bÿ. 1.2.5, 1.4.6, 2.2.4 e 4.4.24;
Chå. 1.3.7, 1.13.4, 2.8.3, 2.12.2, 2.14.2, 3.13.1, 3.13.3 e 4.3.8; Pra. 2.11.
19
La conoscenza distintiva e anche la memoria sono sostanziate
di coscienza, ne sono modificazioni che possono emergere forman-
dosi e scomparire dissolvendosi, ma il loro Sostrato resta sempre.
616 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
*
Sedicesimo Adhyåya
(Lo yoga della distinzione delle nature devica e asurica)
ciò che deve essere fatto quale mezzo per [conseguire] il fine
umano [per eccellenza], “né la [via della] astensione dall’atti-
vità”, ossia né quella che è l’astensione dall’agire, ovvero da
ciò che non si deve fare in quanto causa di male.
Non soltanto essi non sanno affatto [che cosa sono] l’atti-
vità e l’inattività: “né in loro vi è purezza e neppure una giu-
sta condotta, né verità”. Infatti gli [uomini] asurici sono privi
di purezza, privi di un degno comportamento, ingannatori e
mendaci.
E inoltre,
*
NOTE al Sedicesimo Adhyåya
1
La triplice natura umana partecipa in varia misura di quelle di
deva, asura e rak≤as e queste, a loro volta, rispecchiano le proprietà dei
gu√a. Così deva, asura e rak≤as sono aspetti o qualità della Prakÿti. La
natura propria dei deva è essenzialmente sattvica, luminosa, pura ed
esprimente equilibrio; i rak≤as – o råk≤asa, lett. ‘ciò o colui da cui
guardarsi’, cioè entità maligna – sono una categoria di asura, compre-
si anche quelli chiamati bh¥ta, che influenzano negativamente gli es-
seri umani distogliendoli dalla retta via: la loro natura propria è essen-
zialmente rajasica, disordinatamente attiva, mancante di equilibrio e a
sua volta destabilizzante e squilibrante; quella degli asura è essenzial-
mente tamasica, quindi oscura, impura e generante condizioni limitate
e asservite. Per i rak≤as cfr. 11.36, 17.2 e 17.4; v. anche nota 17.3. Da
quella devica-sattvica a quella asurica-tamasica si ha una crescente
identificazione con il veicolo individuato. In pratica deva e asura rap-
presentano gli estremi e le loro tendenze condizionano l’essere umano
in ragione del suo grado di maturità spirituale. Le componenti di sattva,
rajas e tamas, che si manifestano nell’azione, dipendono dal karman
accumulato nelle precedenti esistenze e rappresentano una predispo-
sizione sotto forma di impressioni subcoscienti (våsanå), suscettibili di
determinarsi in semi attivi (saæskåra) e quindi di concretarsi nell’agi-
re, pensare ed essere di ciascuno. Per questo vengono descritte come
le ‘radici secondarie’ dell’albero del divenire ciclico (Bha. Gı. 15.2).
2
Secondo Ånandagiri l’intrepidezza è l’assenza di indecisione o
di incertezza nel rispettare le norme scritturali, il coraggio interiore
che allontana il dubbio circa la loro validità e i loro esiti.
3
Le prime tre caratteristiche riguardano solo la qualificazione
(adhikåra) per il jñånayoga, le altre sono comuni sia a quello che al
karmayoga.
634 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
4
Si torni a Bha. Gı. 10.4, 12.13, 13.7 e relativi Commenti.
zienti, la cui coscienza può essere risvegliata alla propria vera natu-
ra o deviata verso identificazioni fittizie e imprigionanti. Il ruolo
asurico può influenzare in modo nefasto coloro che si avvicinano a
tali esseri coinvolgendoli per affinità karmica.
dalle qualità che gli attribuiamo nella nostra psiche – viene indica-
to (16.13) con il suggestivo termine di manoratha: ‘il carro della
mente’, nel senso di ciò che dirige il pensiero nel suo formarsi e
concretarsi in atto acquisitivo, espressione che nell’impiego con-
venzionale ha assunto il significato di: ‘piacere intimo’, ‘gioia del
cuore’, fonte o causa di soddisfazione interiore, ovviamente per il
senso dell’io.
maleolente fiume che separa la terra dei viventi dal regno dei mor-
Sedicesimo Adhyåya 635
*
Diciassettesimo Adhyåya
(Lo yoga della distinzione della triplice fede)
Arjuna disse:
17.19. L’ascesi che viene fatta con una concezione errata, per
infliggere torture [a sé stessi] o allo scopo di nuocere al prossi -
mo, quella è dichiarata tamasica.
“L’ascesi che viene fatta con una concezione errata”, con una
convinzione priva di discernimento, “per infliggere torture” a
sé stessi “o allo scopo di nuocere al prossimo”, cioè al fine di
distruggerlo totalmente, “quella” ascesi “è dichiarata tamasica”.
Adesso viene enunciata la natura triplice della donazione.
17.28. Ciò che è offerto, ciò che viene donato, l’ascesi prati-
cata e [tutto] ciò che è stato compiuto senza fede viene detto
asat, o Pårtha, e ciò non [porta a nessun frutto] né nell’al di là
né qui.
*
NOTE al Diciassettesimo Adhyåya
1
Nel precedente Capitolo Kÿ≤√a aveva esposto il destino di
quelli che hanno fede nelle Scritture e di quelli che non hanno fede
in loro pur conoscendole sotto il profilo concettuale o formale. Si
tratta rispettivamente di coloro che credono in una esistenza che
trascende la mera corporeità fisica (åstika) e di coloro che non vi
credono (nåstika). Ora Arjuna si interroga sulla via di quegli altri
che, non conoscendo affatto le Scritture o trascurandone i dettami,
posseggono tuttavia la fede nella esistenza trascendente e quindi
nelle attività sacrali ad essa indirizzate.
2
Cioè l’insieme dei semi attivi che accompagnano il jıva nella
sua peregrinazione esistenziale sotto forma di tendenze latenti o
impressioni subliminali (våsanå) unitamente alle facoltà sottili. Per
i saæskåra e le våsanå si torni ai versi: 3.33, 5.13, 5.18, 6.44 e alle
note: 4.34, 5.7 e 6.22.
3
Conformemente alla propria natura, l’essere permeato di sattva
porta venerazione ai deva, gli enti di indole benigna che popolano
le sfere celesti, quello saturo di rajas agli spiriti caratterizzati da
una accentuata volubilità che dimorano nella sfera intermedia, quelli
ottenebrati dal tamas si rivolgono a dèmoni di estrazione oscura e
maligna appartenenti alle sfere inferiori. Tra i deva, sui quali pre-
siede Indra, vi sono, ad esempio i Vasu, ecc.; gli Yak≤a sono dèmoni
potenzialmente maligni facenti capo a Kubera, i Rak≤as dèmoni mal-
vagi sottoposti a Nairÿta (v. nota 16.1). I Preta sono gli spettri dei
defunti che ancora non hanno raggiunto il mondo dei Pitÿ e i Bh¥ta
spiriti di carattere maligno della famiglia degli Yak≤a. Le Måtÿkå
sono i princìpi di genere femminile che affiancano tali entità infere,
talora identificati con le vocali dell’alfabeto (o con tutte le lettere,
come nel Trika Âaiva). In generale tutti questi esseri, quando fatti
654 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
‘om sonoro’ i tre stati relativi, sia nella sfera individuale (veglia, so-
gno e sonno profondo) che in quella universale (totalità grossolana,
sottile e causale); b) come ‘om silenzioso’ il loro Sostrato trascenden-
te, assoluto e inqualificato, cioè il Quarto (turıya). Il termine tat de-
signa Ciò che, essendo privo di attributi (nirgu√a), non è esprimibi-
le direttamente ma solo attraverso la negazione (neti neti, v. Bÿ. 2.3.6)
o con un pronome in forma impersonale: Quello (tad). Il termine sat,
come si vedrà, definisce ‘Ciò che è’, dunque l’Essere, il Reale, il Vero
e costituisce la base dell’esistente manifesto (da cui satya, verità). La
designazione completa: oæ tatsat è anche considerata un mahåvåkya.
9
Quelli che proclamano il Brahman sono gli assertori della dot-
trina del Brahman (brahmavådin), che si appoggiano alla Âruti e alla
Smÿti, i seguaci dei Veda-Upani≤ad, i quali predicano il Brahman
quale realtà unica e senza-secondo. Cfr. anche Å. Dha. S¥. 1.4.13.7,
Tai. 1.8.1, Chå. 1.1.8-9, Mai. 6.4, 6.37 e 7.11.
10
Il nome sat non solo definisce in senso diretto ‘ciò che è’, cioè
l’Essere, il reale in assoluto – dunque, il Brahman – ma in senso in-
diretto anche ciò che è non-reale, o che lo è in modo relativo. Alla
nascita di un figlio, per esempio, si dice che questo ‘viene all’esisten-
za’, cioè ‘esiste’, ma, dalla prospettiva della realtà suprema, nulla
viene a essere che già non sia, né, viceversa, alcuna cosa, se è, può
cessar di essere; ciò che nasce e muore è, proprio per questo, non-
esistente; mentre l’Essere-sat non nasce né muore, ma è sempre.
Così, sebbene il termine sat si riferisca primariamente al Brahman,
che è il solo essere-reale, tuttavia può riferirsi in senso secondario
anche a un ente illusorio, ovvero reale solo in senso relativo, qual
è, ad esempio, un figlio. Allo stesso modo, sebbene il termine så-
dhu, che significa il Bene, il Retto per eccellenza, si riferisca anch’es-
so primariamente al Brahman in quanto Summum Bonum, assoluti
Bene-Rettitudine, tuttavia può concernere in senso secondario an-
che l’essere la cui condotta è buona o retta solo limitatamente e in
modo relativo.
L’abbinamento con il triplice mantra, la pronuncia o la pura as-
serzione coscienziale del nome sat, attraverso un processo di trasmu-
tazione e soluzione, porta a perfezione l’atto veicolandone l’inten-
656 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
zione in sfere trascendenti. Tutti gli enti sono aspetti del Brahman
a livello di måyå che tale accorgimento, correttamente adottato,
reinnesta al Principio.
zionato con la evocazione coscienziale di uno dei tre nomi del Bra-
hman, o pronunciando la triplice denominazione, cioè il mantra:
oæ tatsat.
*
Diciottesimo Adhyåya
(Lo yoga della liberazione mediante la completa rinuncia)
Arjuna disse:
mezzi quali sono stati esposti. [Tutta la frase che s’inizia con]
“Riguardo a ciò, essendo così...”, si riferisce alla causa della im-
maturità mentale [di colui che considera l’åtman come l’agente].
In rapporto a ciò, in merito a questi [cinque fattori del-
l’azione], il non-conoscitore, “il quale vede, invero, l’assolu-
to”, il puro “åtman come l’agente...” [pensando]: ‘io stesso
sono l’agente dell’azione’ che viene [invece] eseguita da [tali
fattori] immaginati, attraverso l’ignoranza, come non distinti
dall’åtman [stesso]...
Obiezione: Perché [costui vede in questo modo]?
Risposta: “...essendo di intelletto incompiuto”, cioè avendo
l’intelletto non purificato dal Vedånta, dal Maestro, dalla istru-
zione e dalla ragione. Anche quegli che, pur affermando l’åtman
come affatto distinto dal corpo, ecc., vede lo stesso åtman
come agente, anche questi è di intelletto incompiuto (akÿta-
buddhi). Dunque, “...essendo di intelletto incompiuto costui
non vede” l’essenza dell’åtman o dell’azione. Tale è il signifi-
cato. Pertanto “è di perversa intelligenza”; è di perversa intel-
ligenza (durmati) quegli la cui intelligenza, [essendo] riprove-
vole, pervertita e deviata, diviene continuamente la causa
dell’ottenimento di nascita e morte. Costui, pur vedendo, non
vede [veramente]. Ciò è come quando, affetti da diplopia, [si
percepisce] una luna sdoppiata, o come [guardandola] tra nu-
vole in movimento, [si crede] la luna muoversi, oppure come
quegli che, seduto su un carro, [considera] sé stesso in movi-
mento quando sono altri (i portatori) a muoversi.
Chi è, dunque, colui che, di buona intelligenza, vede au-
tenticamente?
Si dice:
porto e gli altri, viene riunito nei tre fattori quali lo strumento
dell’agire e gli altri, cioè viene a costituire un triplice raggrup-
pamento in base alla distinzione delle [rispettive] sedi come la
parola, la mente e il corpo fisico. Questo, che viene detto lo
“strumento dell’agire”, ossia ciò per mezzo di cui si agisce,
come [per esempio] l’udito, ecc. all’esterno, o come l’intellet-
to, ecc., situato all’interno; [quindi] “l’oggetto” (karman) è ciò
che, essendo sommamente desiderato, deve essere acquisito
in vario modo da parte dell’agente attraverso l’agire; [e infi-
ne] “l’agente” (kartÿ) è colui che, caratterizzato dalle sovrap-
posizioni limitanti, compie effettivamente le azioni; “[questa
altra terna] è il triplice sostegno aggregante”, cioè avente tre
aspetti: il sostegno aggregante (saægraha) è ciò su cui [un ente
composito] si sostiene venendo ivi mantenuto unito, e [anco-
ra] il sostegno aggregante dell’azione è ciò che sostiene uniti-
vamente [i fattori che determinano] l’azione. Infatti l’azione
avviene [solo] nella concomitante presenza di questi tre: per-
ciò questa [terna] è il triplice sostegno aggregante dell’azione.
Dopo di ciò, si procede ora a esporre la triplice distinzione
di azioni, fattori e frutti [ecc.], in base alla distinzione dei gu√a:
sattva, rajas e tamas, perché tutti [quelli] sono consustanziati
dai gu√a. A tal uopo [Bhagavat] dà inizio [al primo Ÿloka di
questa sezione]:
na, nel suo vittorioso corso (digvijaya), per questo egli, Arjuna,
è [chiamato anche] Dhanañjaya.
18.38. Quella [che nasce] dal contatto dei sensi con gli og-
getti, la quale inizialmente è simile al nettare e, maturatasi, è
come veleno, quella felicità è menzionata come rajasica.
“Quella” felicità che nasce “dal contatto dei sensi con gli
oggetti, la quale” felicità “inizialmente”, al primo istante, “è
simile al nettare”, identica al nettare, “e, maturatasi, è come
veleno...” – è come veleno perché, a trasformazione completa-
18.40 Diciottesimo Adhyåya 693
18.40. Una esistenza tale, che cioè sia libera da questi tre
aspetti qualificati (gu√a), prodotti dalla Prakÿti, non c’è né sulla
terra e nemmeno fra i deva in cielo.
della ruota, ecc., né essi sostengono che il vaso e gli altri og-
getti prendono forma direttamente e solo dall’argilla. Quindi,
proprio a una relazione del non-reale [con le cause che lo ren-
derebbero reale] si deve ricorrere come restante [possibilità].
Obiezione: Comunque, sebbene [l’oggetto sia] non-reale
[prima di venire manifestato], una [sua successiva] relazione
definita come di ‘inseparabilità’ non crea contraddizione.
Risposta: No, perché non è dato constatare [questa relazio-
ne] nel caso del figlio di una donna sterile o in altri casi [ana-
loghi]. [Postulando che] per la non-esistenza precedente di
un vaso o altro, ma non per il figlio di una donna sterile, ecc.,
vi sia una relazione con la propria causa, sebbene siano uguali
le [loro] non-esistenze, si dovrebbe spiegare la [presunta] di-
stinzione della [loro] non-esistenza. Ma [riguardo a quello
che sono]: la non-esistenza di un [ente], la non-esistenza di
due, la non-esistenza di tutti [gli enti], la non-esistenza ante-
riore [alla loro manifestazione], la non-esistenza dopo la [loro]
completa distruzione, la non-esistenza reciproca e la non-esi-
stenza in assoluto, nessuno può delineare una distinzione in
base a tali definizioni; inoltre, in assenza di una distinzione,
[non è ammissibile nemmeno l’ipotesi secondo cui da un lato]
soltanto la ‘non-esistenza precedente del vaso’ assume, grazie
al vasaio, ecc., lo stato di ‘esistenza del vaso’, quindi entra in
relazione con l’esistenza denominata ‘parti costituenti’ [del
vaso] e, [una volta che tale non-esistenza è divenuta esistenza
in quanto] connessa [con tali cause] diviene idonea per qual-
siasi [altra] azione modificante, ma non che la non-esistenza
successiva alla distruzione è solamente [quella] del vaso, seb-
bene si tratti [ugualmente] di non-esistenza. Così in nessun
caso si avrà mai che le [diverse] non-esistenze, a cominciare
da quella inerente alla distruzione [di un ente], possano esse-
re in grado di esplicare una qualche relazione [per diventare
esistenze], cioè che solo per la non-esistenza precedente si
706 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.48
In dettaglio?
No, dice [Bhagavat, ma] “affatto in breve”, soltanto conci-
samente, “o Kaunteya”, cioè: ascolta come [costui] consegue
così il Brahman.
Per prospettare quale sia il conseguimento del Brahman
[espresso] con tale [frase: ‘come consegue così il Brahman’,
Bhagavat] dice: “...che è il supremo compimento della cono-
scenza”. Il compimento (ni≤†hå) è il completo coronamento
(paryavasåna), cioè la perfetta conclusione (parisamåpti).
Di che cosa?
[Bhagavat, specificando, aggiunge] “...che è il supremo
[compimento] della conoscenza” del Brahman.
Obiezione: Di quale natura è quella [conoscenza]?
Risposta: Ha la stessa natura della conoscenza dell’åtman.
Obiezione: Di quale natura è tale [conoscenza dell’åtman]?
Risposta: Ha la stessa natura dell’åtman.
Obiezione: Di quale natura è l’åtman?
Risposta: La sua natura è quella che ha espresso Bhagavat,
che può essere compresa dalle sentenze delle Upani≤ad e a cui
si perviene tramite la stessa ragione41.
Obiezione: La conoscenza assume la forma dell’oggetto [co-
nosciuto], ma in nessun caso si sostiene che l’åtman sia un
oggetto di conoscenza o abbia una forma.
Risposta: Invero, dalla Âruti si apprende la natura dell’å-
tman in quanto [simbolicamente] caratterizzata da una forma
[nei passi]: «...rifulgente come il sole...» (Âve. 3.8), «...essen-
ziato di splendore...» (Chå. 3.14.2), «...autoluminoso» (Bÿ. 4.3.9).
Obiezione: No, perché tali sentenze hanno lo scopo di con-
futare il possesso [da parte dell’åtman] di una natura di oscu-
18.50 Diciottesimo Adhyåya 711
[da parte] del corpo, affermano: ‘il puru≤a è il corpo fisico, ca-
ratterizzato dalla consapevolezza’. Altri ancora sostengono
che la consapevolezza appartiene ai sensi, altri asseriscono
che la consapevolezza è della mente (manas), infine altri so-
stengono che la consapevolezza è propria dell’intelletto (bu-
ddhi). Alcuni, poi, giungono alla conclusione che l’Immanifesto
(avyakta), chiamato anche Indifferenziato (avyåkÿta), che è al
di là anche di quello (dell’intelletto), è uno stato della ignoran-
za (avidyå) che si pone come åtman 43. In tutti questi casi, in-
fatti, dall’intelletto fino al corpo fisico, la causa della erronea
identificazione con l’åtman [di ciascun veicolo] risiede nella
sua condizione di manifestazione della coscienza dell’åtman
e, conseguentemente, la conoscenza avente per oggetto l’å-
tman non deve essere fissata.
Che cosa [si deve fare] allora?
Si deve soltanto operare la cessazione della sovrapposizio-
ne all’åtman di nome, forma, ecc., mentre non si deve creare
[e insegnare] una conoscenza distintiva riguardo alla coscien-
za [propria] dell’åtman dal momento che verrebbe intesa in
maniera non separata da tutte le categorie sovrapposte attra-
verso l’ignoranza. Invero, proprio per questo i buddhisti as-
sertori del Vijñånavåda sono arrivati alla conclusione che non
vi è affatto alcuna realtà a eccezione delle idee (vijñåna) e che
esse non abbisognano di una evidenza conoscitiva [a loro]
esterna [onde essere provate] venendo comprese in quanto
autoconosciute [grazie al loro contenuto di consapevolezza].
Perciò si deve operare unicamente la rimozione di quanto so-
vrapposto al Brahman attraverso l’ignoranza, ma non [com-
piere] uno sforzo mirato a [ottenere] una conoscenza distinti-
va del Brahman, perché [Quello] è assolutamente evidente.
Sebbene [il Brahman] sia assolutamente evidente, facile
da conoscersi, il più vicino [ente a sé stessi] e costituisca l’å-
tman [di ognuno], a coloro il cui intelletto è trascinato via
dalle differenti apparenze di nome e forma immaginati attra-
18.50 Diciottesimo Adhyåya 713
E inoltre,
Arjuna disse:
Sañjaya disse:
*
NOTE al Diciottesimo Adhyåya
1
Gli atti rituali finalizzati (kåmyakarman) sono i riti celebrati
solo per ottenere come specifici esiti frutti da godere subito e non
compiuti in ossequio a ingiunzioni scritturali.
2
Gli atti rituali perpetui (nityakarman) sono quelli ordinari od
obbligatori, cioè da compiersi sempre, e gli atti rituali occasionali
(naimittikakarman) quelli straordinari, da celebrarsi in particolari
circostanze e a seguito di ingiunzione scritturale.
3
Mentre è evidente per chiunque la differenza tra un vaso e un
tessuto, non lo è quella tra i significati di saænyåsa e tyåga che,
come spiegherà Âa§kara, pur riferendosi alla medesima cosa e in-
tendendo essenzialmente un solo significato ultimo, assumono di-
stinte connotazioni in relazione a colui cui si riferiscono. V. 18.6 e
segg.
4
V. Capitolo Tredicesimo.
5
Âa§kara fa questa precisazione perché il termine api ha il dop-
pio significato di congiunzione coordinativa: anche, e di congiun-
zione concessiva: sebbene. Dunque, le azioni menzionate, cioè il
sacrificio, la donazione e la pratica ascetica, vanno comunque fatte
per quanto possono rappresentare, per i non-conoscitori, altrettan-
te cause di condizionamento.
6
Cioè l’identificazione con il soggetto agente.
7
La mente, considerata nella sua funzione di citta, memoria cri-
stallizzata, è anche il ricettacolo delle våsanå e, quindi, dei saæskåra
che determineranno le future identificazioni e incarnazioni.
756 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
8
Tra i termini dehin (possessore di corpo fisico) e dehabhÿt
(portatore di corpo fisico), come fa notare Âa§kara, vi è una diffe-
renza: il primo designa l’essere corporeo, l’essere incarnato; il se-
condo l’essere incarnato che, identificandosi al proprio corpo, gli
attribuisce realtà. Si tratta, perciò, del conoscitore e del non-cono-
scitore rispettivamente. Cfr. 2.13, 2.14, 2.59; 3.40, 3.42, 5.13, 14.5,
14.7-8, 17.2.
9
La rinuncia al frutto deve essere operata in maniera comple-
ta già in vita, perché altrimenti dopo la dipartita si viene condi -
zionati dalla esperienza del frutto non desiderato ma ugualmente
acquisito.
10
Il solo fondarsi nel sentiero conoscitivo non rimuove le cause
del divenire se non è accompagnato dalla completa rinuncia a qual-
siasi forma di attività identificata: il concetto condiziona, la presa
di coscienza libera. Saænyåsa e jñåna devono integrarsi.
11
I cinque organi di azione, i cinque organi di percezione, la
mente e il senso dell’io.
12
Il principio divino deve essere presente in ogni mezzo di ef-
fettuazione perché questo sia attivo nella sua propria funzione. Ogni
facoltà sensoriale è tradizionalmente sorretta da un deva.
13
Qui si tratta chiaramente del darŸana Såækhya, del quale il
saggio Kapila fu il codificatore.
14
Come taluni jaina o gli Ÿrama√a, particolare categoria di asceti
itineranti adoratori di immagini.
15
Il conoscitore della realtà, avendo realizzato l’åtman, ha risolto
definitivamente il senso dell’io. Non è a questi che il verso allude.
16
Colui che ha appreso le Scritture adegua il proprio comporta-
mento, esteriore e interiore, a una deliberata tacitazione del senso
dell’io – per cui si dice comunemente che ne è privo – mentre, in
effetti, non lo ha risolto in via definitiva.
Note al Diciottesimo Adhyåya 757
17
Cioè i frutti in questa esistenza e quelli nella successiva, noti
come dÿ≤†a e adÿ≤†a. Per la comprensione dell’azione e della non-
azione si torni a 4.18 e relativo Commento.
18
Con questa precisazione Âa§kara sottolinea che la conoscen-
za distintiva è altro dall’intelletto. Qui l’intelletto (buddhi) designa
la mente in generale. La conoscenza distintiva, la cui triplice natura
è stata descritta in 18.20-22, è una particolare modificazione (vÿtti)
della sostanza mentale (citta) tra le varie possibili, dunque uno sta-
to assunto da questa. Le stesse funzioni diversificate dell’organo in-
terno, dalle più grossolane (manas) alle più pure (buddhi), come an-
che le våsanå e i saæskåra, sono cittavÿtti. Dice Patañjali nello Yo-
gas¥tra (1.2), «Lo yoga è la soppressione (nirodha) delle modifica-
zioni mentali». Attraverso tale nirodha, il citta, liberato dalle vÿtti,
si risolve in cit: la pura coscienza dell’åtman.
19
La specificazione “per mezzo dello yoga” significa che, per con-
trollare pienamente tutte quelle attività, la sola fermezza non è suf-
ficiente se non è accompagnata e sostenuta dalla pratica ascetica in
generale e da quella meditativa in particolare.
20
Lett.: “a trasformazione completata” (pari√åme); si tratta di
qualcosa che assume connotazione e qualità diverse con il suo svi-
luppo nel progredire del tempo. In tal senso la trasformazione (pari-
√åma) consiste nella completa maturazione (paripåka) di semi vir-
tuali.
21
I primi tre ordini o classi sociali (var√a): bråhma√a, k≤atriya e
vaiŸya, sono spesso indicati con i nomi impersonali dei rispettivi
ruoli universali: brahman, k≤åtra, viŸa, che definiscono la corrispon-
dente funzione a livello universale. Qui risultano menzionati con
un termine composto: bråhma√ak≤atriyaviŸåm.
22
La causa primaria o causa sostanziale (upådånakåra√a) sa-
rebbe in questo caso la Prakÿti, mentre la natura propria (svabhå-
va), a sua volta causa dei gu√a attraverso i semi attivi (saæskåra)
e le impressioni latenti (våsanå), sarebbe una causa secondaria o
efficiente (nimittakåra√a). Così abbiamo, in successione causale:
758 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
29
Per il VaiŸe≤ika la realtà ultima è costituita da infiniti atomi
(a√u) di dimensione infinitesima e impercettibili ai sensi. La loro
combinazione o unione forma aggregati che, a partire da quello
composto da due atomi (dvya√uka), costituiscono gli enti sostan-
ziali (dravya) che sono oggetto di percezione, ecc. V. nota 5.8.
30
Per il VaiŸe≤ika la causa combinante (samavåyi) è quella che
induce gli atomi (a√u) a combinarsi l’uno con l’altro producendo
gli enti percepibili: è la causa della venuta all’essere di un ente, con-
siderata anche la sua causa sostanziante o materiale, la quale, una
volta attuata, è associata a una relazione di inseparabilità (samavå-
yasaæbandha). Quella non-combinante o disgregante (asamavåyi)
è quella che induce il processo opposto: è la causa della distruzione
di un ente, considerata anche come causa desostanziante o demate-
rializzante. Quella efficiente (nimitta) è la causa che determina il
formarsi di un ente in presenza delle cause relative alla sostanza e
allo strumento: nella fabbricazione di un vaso l’argilla è la causa
materiale, la ruota quella strumentale e il vasaio quella efficiente.
La produzione del vaso necessita della combinazione delle tre cause.
Nei diversi darŸana le definizioni delle varie tipologie della causa
possono differire leggermente ma il concetto di combinazione cau-
sale e quello di trasformazione, adottati dal VaiŸe≤ika e dal Såæ-
khya, sono analoghi per ogni dottrina.
31
Un ente non-esistente, come le corna di una lepre, non dipen-
de da alcuna causa né per la sua manifestazione né per la sua distru-
zione proprio perché, essendo non-reale, non viene a esistere né ces-
sa di esistere; la sua esistenza, come la sua distruzione, può essere
solo immaginata, ma in tal caso è presente la sola causa sostanzia-
le, che è la fantasia del pensatore. Anche così, però, le corna di le-
pre continuano a non avere esistenza reale. Un ente non-esistente
non ha alcun rapporto con i vari tipi di causa concernenti la venuta
all’essere, ecc. degli enti che esistono anche per un tempo limitato.
32
Il ricorso al rapporto causa-effetto può essere adottato solo in
riferimento a un ente effettivamente manifestato e non riguardo a
ciò che è oggetto di supposizione o fantasia.
760 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
33
Se si ammettesse che il non-esistente possa divenire esistente
e viceversa, tutti i mezzi validi di conoscenza perderebbero la pro-
pria autorevolezza perché non si potrebbe più sostenere che l’esi-
stente continua a esistere sempre e il non-esistente continua a non-
esistere, con la conseguenza che si avrebbe per assurdo la possibilità
di passare dalla esistenza alla non-esistenza in qualsiasi momento e
senza una ragione.
34
La concomitanza inseparabile (samavåya) è la sesta categoria
contemplata nel VaiŸe≤ika, quella per la quale l’ente sostanziale, nato
dalla unione di più atomi, è reale.
35
In sostanza, per il VaiŸe≤ika l’esistenza di un ente corrisponde
invariabilmente alla sua relazione con la causa formata dagli atomi,
sempre esistenti ma invisibili, e con l’esistenza stessa. In assenza di
una tale relazione l’ente è definito non-esistente, in sua presenza
diviene esistente. Resta da spiegare, però, il superamento di tale di-
scontinuità essenziale – dalla non-esistenza alla esistenza – e la stes-
sa causa che determina la relazione dell’ente non-esistente con una
causa esistente.
36
Non si può in nessun modo stabilire un criterio logico per
differenziare le varie specie di non-esistenza. Qualunque sia l’attri-
buto qualificante – esistente in quanto viene definito – esso non
potrà mai entrare in rapporto con un non-esistente. La non-esi-
stenza, a qualunque modalità ci si riferisca, è indistinguibile.
37
Postulare una trasformazione, o l’assunzione di un nuovo stato
(åpatti), implica un cambiamento, ma se da una esistenza si procede
a una esistenza, o da una non-esistenza si passa a una non-esistenza,
oltretutto con le medesime caratteristiche anche formali (il vaso che
resta vaso, ecc.), non c’è più un cambiamento e tale asserto si rivela
privo di ogni valore logico.
38
L’azione comporta una modificazione – i termini che le defi-
niscono (kriyå, vikriyå) hanno una medesima radice (kÿ) – per cui il
cambiamento è insito nella funzione naturale dei gu√a. I gu√a si
originano dalla qualificazione principiale (viŸe≤a) a monte della
Note al Diciottesimo Adhyåya 761
51
Attraverso la chiara, pura, serena e tranquilla natura benigna
del proprio åtman. Il jıva è pura autocoscienza qualificata da conte-
nuti pregressi (våsanå). Una volta che se ne sia discriminata, viene
meno la stessa funzione di accentramento-focalizzazione e, priva di
moto attuale e potenziale, si risolve nell’åtman, cioè si svela åtman.
52
Cfr. Bha. Gı. 6.32.
53
Il jıva perfettamente purificato e pacificato, in cui i gu√a sono
stati riassorbiti, il loro moto estinto e la loro carica annullata, saturo
della completa e suprema devozione (parabhakti), “entra in Quello”
non come un ente che penetra spazialmente in un altro, ma nel sen-
so che, grazie a una espansione che trascende la dimensionalità, va
a immergersi, assorbirsi completamente e risolversi nel Brahman
onnipresente. Âa§kara specifica che “entra in Me stesso” in quanto
la coscienza individuata, infrante le circonferenze limitanti delle
sovrapposizioni fittizie, si risolve identicamente in Quello in quan-
to Coscienza assoluta. In altre parole: ‘entra nell’åtman supremo
attraverso l’åtman individuato’, in virtù della sua natura di Non-
dualità, che soltanto ora si palesa evidente. Come appare chiaro in
molte sue opere, per Âa§kara la coscienza ‘Io’ – di cui l’io psicofi-
siologico è riflesso infinitesimo – si identifica al paramåtman, nel
quale si risolve identicamente quando sono state risolte tutte le
eventuali qualificazioni sovrapposte. Cfr. Pañcıkara√a 6, Må. 12.
54
Cfr. Bha. Gı. 13.7 e segg.
55
Cfr. Bha. Gı. 18.10.
56
L’ “errore opposto” (pratyavåya) è quello che comporta l’atto
di omissione: il non fare ciò che si deve fare.
57
Perché la persistenza di un frutto, sia buono che cattivo, con-
dizionerebbe comunque l’essere legandolo alla sua esperienza.
58
Altrimenti sarebbero superflue sia l’ingiunzione che la proibi-
zione, in quanto l’essere accerterebbe da sé l’effetto buono o cattivo
del proprio agire.
764 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara
59
Il dovere connesso al rito perpetuo (nityakarman) e quello ine-
rente all’atto sacrale finalizzato (kåmyakarman) producono frutti
che maturano e vengono sperimentati in un tempo futuro, quindi
in una condizione che, dallo stato attuale di esistenza, non è diret-
tamente percepibile; essi sospingono il jıva nel mondo dei Padri, o
nella sfera della Luna. Dato che determinano una ulteriore esperien-
za, non risolvono gli effetti di un agire in contrasto con il dharma
universale. Solo la realizzazione dell’åtman dissolve ogni frutto, me-
ritorio e demeritorio, e conferisce all’essere la piena libertà di Essere.
60
Elencati in Bha. Gı. 12.6-11.
61
V. Bha. Gı. 13.7-11, 14.22-26 e 15.3-5.
62
V. Bha. Gı. 18.12.
63
V. Bha. Gı. 18.14.
64
Come una nozione espressa in questa forma in senso figurato.
65
La consapevolezza il cui contenuto è illusorio (mithyåpratya-
ya) è una nozione fallace, come la conoscenza di qualcosa difforme-
mente dalla sua natura o con attributi diversi. Cfr. Introduzione di
Âa§kara al Brahmas¥trabhå≤ya.
66
Per esempio nel caso di un orientamento errato; mentre l’uso
del senso figurato presuppone l’esatta nozione dell’oggetto definito.
67
Per colui che non discrimina, il corpo, i sensi, ecc. sono real-
mente l’åtman, e non solo in senso figurato; per lui la convinzione
che tali veicoli sono l’åtman perdura in concomitanza con la sogge-
zione alla illusione.
68
I mezzi validi di conoscenza, o pramå√a, sono: la percezione
sensoriale diretta (pratyak≤a), l’inferenza logica su base evidente
(anumåna), l’induzione analogica su base di comparazione (upamå-
na), l’asserzione scritturale (Ÿabda), il postulato basato su evidenza
(arthåpatti) e l’assenza di percezione (anupalabdhi).
Note al Diciottesimo Adhyåya 765
69
Con il termine: “direttamente” (såk≤åt), si intende: indipenden-
temente dalla Âruti che tratta della conoscenza del Brahman. Per lo
stato di cessazione della identificazione ai veicoli, cfr. UpadeŸaså-
hasrı 2.4.5 e 2.19.227.
70
La “peregrinazione esistenziale” (bhråma) e la “falsa nozione”
(bhrånti) sono espresse da termini provenienti dalla medesima ra-
dice verbale (bhram): vagare, errare.
71
Il termine aŸuŸr¥≤u significa: ‘colui che non vuole ascoltare’,
colui che non presta attenzione alle parole del guru, dunque, per
estensione: colui che non obbedisce alle sue direttive.
72
Cfr Âve. 6.22, Bÿ. 6.3.12, Chå. 3.11.5-6, Mu. 3.2.10-11 e Mai. 6.29.
73
Cfr. Chå. 7.1.3.
74
Qui il nome Vyåsa non indica solo il padre del re, ma, riferen-
dosi a un Ente sovrannaturale, trascende il personaggio storico, ed
esprime simbolicamente la personificazione di una Funzione uni-
versale, quella della Intelligenza cosmica. Letteralmente definisce
Colui che è l’Adattatore, il Compilatore per eccellenza. Per la Tra-
dizione è lo stesso Vi≤√u, l’Essere onnipervadente, che, scendendo
nella manifestazione all’occorrenza, assume tale connotazione. In
questa era (kaliyuga), prossima alla conclusione del ciclo universale
(kalpa), il Vyåsa specifico è Kÿ≤√a-Dvaipåyana, così denominato per
il suo colore scuro (kÿ≤√a) e per il fatto di essere nato in un’isola;
inoltre, essendo vissuto a lungo nel BadarikåŸrama, è detto anche
Bådaråya√a. A tale figura viene fatta risalire, pur nel contrasto di
ere differenti, la stesura dei Veda, del Mahåbhårata e dei Purå√a,
quindi della triplice Testimonianza (prasthånatraya) formata da Upa-
ni≤ad, Brahmas¥tra e Bhagavadgıtå.
75
Si torni all’Undicesimo Adhyåya.
*
TESTO SANSCRITO
Ÿrımadbhagavadgıtå
Ÿrımacchaækaråcåryaviracitena
bhå≤yena sahitå
oæ namo våsudevåya |
Ÿåækaropodghåta¢ |
iti Ÿå§karopodghåta¢
atha prathamo ’dhyåya¢
dhÿtarå≤†ra uvåca –
sañjaya uvåca –
arjuna uvåca –
1.31 prathamo ’dhyåya¢ 773
sañjaya uvåca –
ŸvaŸurånsuhÿdaŸcaiva senayorubhayorapi |
tånsamık≤ya sa kaunteya¢ sarvånbandh¥navasthitån || 1.27 ||
arjuna uvåca –
sañjaya uvåca –
*
atha dvitıyo ’dhyåya¢
sañjaya uvåca –
taæ tathå kÿpayåvi≤†amaŸrup¥r√åkulek≤a√am |
vi≤ıdantamidaæ våkyamuvåca madhus¥dana¢ || 2.1 ||
Ÿrıbhagavånuvåca –
kutastvå kaŸmalamidaæ vi≤ame samupasthitam |
anåryaju≤†amasvargyamakırtikaramarjuna || 2.2 ||
arjuna uvåca –
gur¥nahatvå hi mahånubhåvåñ-
Ÿreyo bhoktuæ bhaik≤amapıha loke |
hatvårthakåmåæstu gur¥nihaiva
bhuñjıya bhogånrudhirapradigdhån || 2.5 ||
kårpa√yado≤opahatasvabhåva¢
pÿcchami tvåæ dharmasaæm¥ƒhacetå¢ |
778 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 2.7
na hi prapaŸyåmi mamåpanudyåd-
yacchokamuccho≤a√amindriyå√åm |
avåpya bh¥måvasapatnamÿddhaæ
råjyaæ surå√åmapi cådhipatyam || 2.8 ||
sañjaya uvåca –
Ÿrıbhagavånuvåca –
avyaktådınıti | avyaktådınyavyaktamadarŸanamanupalabdhirå-
dire≤åæ bh¥tånåæ putramitrådikåryakara√asaæghåtåtmakånåæ
tånyavyaktådıni bh¥tåni prågutpatte¢ | utpannåni ca prå§maranå-
dvyaktamadhyåni | avyaktanidhanånyeva punaravyaktamadarŸa-
naæ nidhanaæ mara√aæ ye≤åæ tånyavyaktanidhanåni | mara√å-
d¥rdhvamapyavyaktatåmeva pratipadyanta ityartha¢ | tathå co-
ktam “adarŸanådåpatita¢ punaŸcådarŸanaæ gata¢ | nåsau tava na
tasya tvaæ kå paridevanå” (ma. bhå. strı. 2.13) iti | tatra kå paride-
vanå ko vå pralåpo ’dÿ≤†adÿ≤†aprana≤†abhråntibh¥te≤u bh¥te≤vitya-
rtha¢ || durvijñeyo ’yaæ prakÿta åtmå kiæ tvåmevaikamupålabhe
sådhåra√e bhråntinimitte | kathaæ durvijñeyo ’yamåtmetyata åha –
åŸcaryavatpaŸyati kaŸcidenam-
åŸcaryavadvadati tathaiva cånya¢ |
åŸcaryavaccainamanya¢ Ÿÿ√oti
Ÿrutvå ’pyenaæ veda na caiva kaŸcit || 2.29 ||
åŸcaryavaditi | åŸcaryavadåŸcaryamadÿ≤†ap¥rvamadbhutama-
kasmåddÿŸyamånaæ tena tulyamåŸcaryavadåŸcaryamivainamåtmå-
naæ paŸyati kaŸcit | åŸcaryavadenaæ vadati tathaiva cånya¢ | åŸca-
792 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 2.29
bhogaiŸvaryaprasaktånåæ tayåpahÿtacetasåm |
vyavasåyåtmikå buddhi¢ samådhau na vidhıyate || 2.44 ||
samatvabuddhiyuktamıŸvarårådhanårthaæ karmoktametasmåtka-
rma√a¢ –
arjuna uvåca –
Ÿrıbhagavånuvåca –
rågadve≤aviyuktaistu vi≤ayånindriyaiŸcaran |
åtmavaŸyairvidheyåtmå prasådamadhigacchati || 2.64 ||
åp¥ryamå√amacalaprati≤†haæ
samudramåpa¢ praviŸanti yadvat |
tadvatkåmå yaæ praviŸanti sarve
sa Ÿåntimåpnoti na kåmakåmı || 2.70 ||
*
atha tÿtıyo ’dhyåya¢
arjuna uvåca –
Ÿrıbhagavånuvåca –
arjuna uvåca –
Ÿrıbhagavånuvåca –
kåma e≤a krodha e≤a rajogu√asamudbhava¢ |
mahåŸano mahåpåpmå viddhyenamiha vairi√am || 3.37 ||
kåma iti | kåma e≤a sarvalokaŸatruryannimittå sarvånarthaprå-
pti¢ prå√inåm | sa e≤a kåma¢ pratihata¢ kenacitkrodhatvena pari-
√amate | ata¢ krodho ’pye≤a | rajogu√asamudbhavo rajaŸca tadgu-
√aŸca rajogu√a¢ sa samudbhavo yasya sa kåmo rajogu√asamu-
dbhava¢ | rajogu√asya vå samudbhava¢ | kåmo hyudbh¥to raja¢
pravartayanpuru≤aæ pravartayati | tÿ≤√ayå hyahaækårita iti du¢-
khitånåæ raja¢kårye sevådau pravÿttånåæ pralåpa¢ Ÿruyate | ma-
håŸano mahadaŸanamasyeti mahåŸano ’ta eva mahåpåpmå | kåme-
na hi prerito jantu¢ påpaæ karoti | ato viddhyenaæ kåmamiha
saæsåre vairi√am || kathaæ vairıti dÿ≤†åntai¢ pratyåyayati –
*
atha caturtho ’dhyåya¢
Ÿrıbhagavånuvåca –
arjuna uvåca –
Ÿrıbhagavånuvåca –
niråŸıryatacittåtmå tyaktasarvaparigraha¢ |
Ÿårıraæ kevalaæ karma kurvannåpnoti kilbi≤am || 4.21 ||
niråŸıriti | niråŸırnirgatå åŸi≤o yasmåtsa niråŸı¢ | yatacittåtmå
cittamanta¢kara√amåtmå båhya¢ kåryakara√asaæghåtaståvubhå-
vapi yatau saæyatau yena sa yatacittåtmå | tyaktasarvaparigraha-
styakta¢ sarva¢ parigraho yena sa tyaktasarvaparigraha¢ | Ÿårıraæ
4.22 caturtho ’dhyåya¢ 835
dravyayajñåstapoyajñå yogayajñåstathåpare |
svådhyåyajñånayajñåŸca yataya¢ saæŸitavratå¢ || 4.28 ||
Ÿreyåndravyamayådyajñåjjñånayajña¢ paraætapa |
sarvaæ karmåkhilaæ pårtha jñåne parisamåpyate || 4.33 ||
Ÿreyåniti | Ÿreyåndravyamayåddravyasådhanasådhyådyajñåjjñå-
nayajño he paraætapa | dravyamayo hi yajña¢ phalasyåraæbhako
jñånayajño na phalåraæbhako ’ta¢ ŸreyånpraŸasyatara¢ | kathaæ
yata¢ sarvaæ karma samastamakhilamapratibaddhaæ pårtha jñåne
mok≤asådhane sarvata¢saæplutodakasthånıye parisamåpyate anta-
rbhavatıtyartha¢ | “yathå kÿtåya vijitåyådhareyå¢ saæyantyevame-
naæ sarvaæ tadabhisameti yatkiñca prajå¢ sådhu kurvanti yasta-
dveda yatsa veda” (chå. 4.1.4) iti Ÿrute¢ || tadetadviŸi≤†aæ jñånaæ
tarhi kena pråpyata ityucyate –
yogasaænyastakarmå√aæ jñånasaædhinnasaæŸayam |
åtmavantaæ na karmå√i nibadhnanti dhanañjaya || 4.41 ||
844 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 4.41
tasmåditi | tasmåtpåpi≤†hamajñånasaæbh¥tamajñånådavivekå-
jjåtaæ hÿtsthaæ hÿdi buddhau sthitaæ jñånåsinå Ÿokamohådido≤a-
haraæ samyagdarŸanaæ jñånaæ tadevåsi¢ khaægastena jñånåsinå
’’tmana¢ svasyå ’’tmavi≤ayatvåtsaæŸayasya | na hi parasya saæŸa-
ya¢ pare√a cchettavyatåæ pråpto yena svasyeti viŸe≤yeta | ata å-
tmavi≤ayo ’pi svasyaiva bhavati | chittvainaæ saæŸayaæ svavinåŸa-
hetubh¥taæ yogaæ samyagdarŸanopåyaæ karmånu≤†hånamåti≤†ha
kurvityartha¢ | utti≤†ha cedånıæ yuddhåya bhårateti ||
*
atha pañcamo ’dhyåya¢
arjuna uvåca –
848 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 5.1
Ÿrıbhagavånuvåca –
pralapanvisÿjangÿhnannunmi≤annimi≤annapi |
indriyå√ındriyårthe≤u vartanta iti dhårayan || 5.9 ||
tadbuddhayastadåtmånastanni≤†håstatparåya√å¢ |
gacchantyapunaråvÿttiæ jñånanirdh¥takalma≤å¢ || 5.17 ||
yatendriyamanobuddhirmunirmok≤aparåya√a¢ |
vigatecchåbhayakrodho ya¢ sadå mukta eva sa¢ || 5.28 ||
*
atha ≤a≤†ho ’dhyåya¢
Ÿrıbhagavånuvåca –
suhÿnmitråryudåsınamadhyasthadve≤yabandhu≤u |
sådhu≤vapi ca påpe≤u samabuddhirviŸi≤yate || 6.9 ||
sukhamåtyantikaæ yattadbuddhigråhyamatındriyam |
vetti yatra na caivåyaæ sthitaŸcalati tattvata¢ || 6.21 ||
arjuna uvåva –
Ÿrıbhagavånuvåca –
*
atha saptamo ’dhyåya¢
Ÿrıbhagavånuvåca –
udårå iti | udårå utkÿ≤†å¢ sarva evaite trayo ’pi mama priyå e-
vetyartha¢ | na hi kaŸcinmadbhakto mama våsudevasyåpriyo bha-
vati | jñånı tvatyarthaæ priyo bhavatıti viŸe≤a¢ | tatkasmådityata å-
ha jñånı tvåtmaiva nånyo matta iti me mama mataæ niŸcaya¢ | å-
sthita åroƒhuæ pravÿtta¢ sa jñånı hi yasmådahameva bhagavånvå-
sudevo nånyo ’smıtyevaæ yuktåtmå samåhitacitta¢ sanmåmeva pa-
raæ brahma gantavyamanuttamåæ gatiæ gantuæ pravÿtta itya-
rtha¢ || jñånı punarapi st¥yate –
iti srımadbhagavadgıtås¥pani≤atsubrahmavidyåyåæ
yogaŸåstre Ÿrıkÿ≤√årjunasaævåde
jñånavijñånayogo nåma
saptamo ’dhyåya¢
*
athå≤†amo ’dhyåya¢
arjuna uvåca –
srıbhagavånuvåca –
sahasrayugaparyantamaharyadbrahma√o vidu¢ |
råtriæ yugasahasråntåæ te ’horåtravido janå¢ || 8.17 ||
*
atha navamo ’dhyåya¢
Ÿrıbhagavånuvåca –
te pu√yamåsådya surendralokam-
aŸnanti divyåndivi devabhogån || 9.20 ||
traividyeti | traividyå ÿgyaju¢såmavido måæ vasvådidevar¥pi-
√aæ somapå¢ somaæ pibantıti somapå¢ | tenaiva somapånena p¥ta-
påpå¢ Ÿuddhakilbi≤å yajñairagni≤†omådibhiri≤†vå p¥jayitvå svarga-
tiæ svargagamanaæ svareva gati¢ svargatiståæ prårthayante | te
ca pu√yaæ pu√yaphalamåsådya saæpråpya surendralokaæ Ÿatakra-
to¢ sthånamaŸnanti bhuñjate divyåndivi bhavånaprakÿtåndevabho-
gåndevånåæ bhogån ||
*
atha daŸamo ’dhyåya¢
Ÿrıbhagavånuvåca –
arjuna uvåca –
paraæ brahma paraæ dhåma pavitraæ paramaæ bhavån |
puru≤aæ ŸåŸvataæ divyamådidevamajaæ vibhum || 10.12 |
paramiti | paraæ brahma paramåtmå paraæ dhåma paraæ te-
ja¢ pavitraæ påvanaæ paramaæ prakÿ≤†aæ bhavån | puru≤aæ Ÿå-
Ÿvataæ nityaæ divyaæ divi bhavamådidevaæ sarvadevånåmådau
bhavamådidevamajaæ vibhuæ vibhavanaŸılam || ıdÿŸåm –
Ÿrıbhagavånuvåca –
*
athaikådaŸo ’dhyåya¢
arjuna uvåca –
Ÿrıbhagavånuvåca –
paŸyådityånvas¥nrudrånaŸvinau marutastathå |
bah¥nyadÿ≤†ap¥rvå√i paŸyåŸcaryå√i bhårata || 11.6 ||
dvå jayame yadi vå no jayeyu¢” (bha. gı. 2.6) iti yadavoca¢ | tadapi
dra≤†uæ yadıcchasi || kiæ tu –
sañjaya uvåca –
anekavaktranayanamanekådbhutadarŸanam |
anekadivyåbhara√aæ divyånekodyatåyudham || 11.10 ||
aneketi | anekavaktranayanamanekåni vaktrå√i nayanåni ca
yasminr¥pe tadanekavaktranayanam | anekådbhutadarŸanamane-
kånyadbhutåni vismåpakåni darŸanåni yasminr¥pe tadanekådbhu-
tadarŸanam | tathånekadivyåbhara√amanekåni divyånyåbhara√åni ya-
smiæstadanekadivyåbhara√am | tathå divyånekodyatåyudhaæ di-
vyånyanekånyasyådınyudyatånyåyudhåni yasmiæstaddivyåneko-
dyatåyudhaæ “darŸayåmåsa” iti p¥rve√a saæbandha¢ || kiæ ca –
divyamålyåæbaradharaæ divyagandhånulepanam |
sarvåŸcaryamayaæ devamanantaæ viŸvatomukham || 11.11 ||
arjuna uvåca –
brahmå√amıŸaæ kamalåsanasthaæ
ÿ≤ıæŸca sarvånuragåæŸca divyån || 11.15 ||
anekabåh¥daravaktranetraæ
paŸyåmi två sarvato ’nantar¥pam |
nåntaæ na madhyaæ na punastavådiæ
paŸyåmi viŸveŸvara viŸvar¥pa || 11.16 ||
anådimadhyåntamanantavıryam-
anantabåhuæ ŸaŸis¥ryanetram |
paŸyåmi tvåæ dıptahutåŸavaktraæ
svatejaså viŸvamidaæ tapantam || 11.19 ||
dyåvåpÿthivyoridamantaraæ hi
vyåptaæ tvayaikena diŸaŸca sarvå¢ |
dÿ≤†vådbhutaæ r¥pamidaæ tavograæ
lokatrayaæ pravyathitaæ mahåtman || 11.20 ||
11.23 ekåda©o ’dhyåya¢ 927
bah¥daraæ bahudaæ≤†råkarålaæ
dÿ≤†vå lokå¢ pravyathitåstathåham || 11.23 ||
nabha¢spÿŸaæ dıptamanekavar√aæ
vyåttånanaæ dıptaviŸålanetram |
dÿ≤†vå hi tvåæ pravyathitåntaråtmå
dhÿtiæ na vindåmi Ÿamaæ ca vi≤√o || 11.24 ||
daæ≤†råkarålåni ca te mukhåni
dÿ≤†vaiva kålånalasaænibhåni |
diŸo na jåne na labhe ca Ÿarma
prasıda deveŸa jagannivåsa || 11.25 ||
åkhyåhi me ko bhavånugrar¥po
namo ’stu te devavara prasıda |
vijñåtumicchåmi bhavantamådyaæ
na hi prajånåmi tava pravÿttim || 11.31 ||
Ÿrıbhagavånuvåca –
sañjaya uvåca –
yaccåvahåsårthamasatkÿto ’si
vihåraŸayyåsanabhojane≤u |
eko ’thavåpyacyuta tatsamak≤aæ
tatk≤åmaye tvåmahamaprameyam || 11.42 ||
Ÿrıbhagavånuvåca –
na vedayajñådhyayanairna dånair-
na ca kriyåbhirna tapobhirugrai¢ |
evaær¥pa¢ Ÿakya ahaæ nÿloke
dra≤†uæ tvadanyena kurupravıra || 11.48 ||
må te vyathå må ca vim¥ƒhabhåvo
dÿ≤†vå r¥paæ ghoramıdÿ§mamedam |
vyapetabhı¢ prıtamanå¢ punastvaæ
tadeva me r¥pamidaæ prapaŸya || 11.49 ||
sañjaya uvåca –
ityarjunaæ våsudevastathoktvå
svakaæ r¥paæ darŸayåmåsa bh¥ya¢ |
åŸvåsayåmåsa ca bhıtamenaæ
bh¥två puna¢ saumyavapurmahåtmå || 11.50 ||
938 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 11.50
arjuna uvåca –
Ÿrıbhagavånuvåca –
*
atha dvådaŸo ’dhyåya¢
arjuna uvåca –
evaæ satatayuktå ye bhaktåstvåæ paryupåsate |
ye cåpyak≤aramavyaktaæ te≤åæ ke yogavittamå¢ || 12.1 ||
evamiti | evamityatıtånantaraŸlokenoktamarthaæ paråmÿŸati
“matkarmakÿt” ityådinå | evaæ satatayuktå nairantarye√a bhagava-
tkarmådau yathokte ’rthe samåhitå¢ santa¢ pravÿttå ityartha¢ | ye
bhaktå ’nanyaŸara√å¢ santastvåæ yathådarŸitaæ viŸvar¥paæ paryu-
påsate dhyåyanti | ye cånye ’pi tyaktasarvai≤a√å¢ saænyastasarva-
karmå√o yathåviŸe≤itaæ brahmåk≤araæ nirastasarvopådhitvåda-
vyaktamakara√agocaram | yadi loke kara√agocaraæ tadvyaktamu-
cyate ’ñjerdhåtostatkarmakatvåt | idaæ tvak≤araæ tadviparıtaæ Ÿi-
≤†aiŸcocyamånairviŸe≤a√airviŸi≤†aæ tadye cåpi paryupåsate te≤å-
mubhaye≤åæ madhye ke yogavittamå¢ ke ’tiŸayena yogavida itya-
rtha¢ ||
Ÿrıbhagavånuvåca –
ye tvak≤aramanirdeŸyamavyaktaæ paryupåsate |
sarvatragamacintyaæ ca k¥†asthamacalaæ dhruvam || 12.3 ||
ye tviti | ye tvak≤aramanirdeŸyamavyaktatvådaŸabdagocaramiti
na nirde≤†umaŸakyate ’to ’nirdeŸyamavyaktaæ na kenåpi pramå√e-
na vyajyata ityavyaktaæ paryupåsate pari samantådupåsate | upåsa-
naæ nåma yathåŸåstramupåsyasyårthasya vi≤ayıkara√ena såmıpya-
mupagamya tailadhåråvatsamånapratyayapravåhe√a dırghakålaæ
yadåsanaæ tadupåsanamåcak≤ate | ak≤arasya viŸe≤a√amåhopåsyasya
sarvatragaæ vyomavadvyåpyacintyaæ cåvyaktatvådacintyam | ya-
ddhi kara√agocaraæ tanmanasåpi cintyam | tadviparıtatvådacintya-
mak≤araæ k¥†asthaæ dÿŸyamånagu√amantardo≤aæ vastu k¥†am |
k¥†ar¥paæ k¥†asåk≤yamityådau k¥†aŸabda¢ prasiddho loke | tathå
cåvidyådyanekasaæsårabıjamantardo≤avanmåyåvyåkÿtådiŸabdavå-
cyatayå “måyåæ tu prakÿtiæ vidyånmåyinaæ tu maheŸvaram” (Ÿve.
4.10) “mama måyå duratyayå” (bha. gı. 7.14) ityådau prasiddhaæ ya-
ttatk¥†aæ tasmink¥†e sthitaæ k¥†asthaæ tadadhyak≤atayå | athavå
råŸıriva sthitaæ k¥†astham | ata evåcalam | yasmådacalaæ tasmå-
ddhruvaæ nityamityartha¢ ||
kleŸo ’dhikataraste≤åmavyaktåsaktacetasåm |
avyaktå hi gatirdu¢khaæ dehavadbhiravåpyate || 12.5 ||
*
atha trayodaŸo ’dhyåya¢
Ÿrıbhagavånuvåca –
mahåbh¥tånyahaækåro buddhiravyaktameva ca |
indriyå√i daŸaikaæ ca pañca cendriyagocarå¢ || 13.5 ||
mahåbh¥tånıti | mahåbh¥tåni mahånti ca tåni sarvavikåravyå-
pakatvådbh¥tåni ca s¥k≤må√i | sth¥låni tvindriyagocaraŸabdenåbhi-
dhåyi≤yante | ahaækåro mahåbh¥takåra√amahaæpratyayalak≤a-
√a¢ | ahaækårakåra√aæ buddhiradhyavasåyalak≤a√å | tatkåra√ama-
vyaktameva ca na vyaktamavyaktamavyåkÿtamıŸvaraŸakti¢ “mama
måyå duratyayå” (bha. gı. 7.14) ityuktam | evaŸabda¢ prakÿtyava-
13.7 trayoda©o ’dhyåya¢ 957
amånitvamadaæbhitvamahiæså k≤åntirarjavam |
åcåryopåsanaæ Ÿaucaæ sthairyamåtmavinigraha¢ || 13.7 ||
958 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 13.7
adhyåtmajñånanityatvaæ tattvajñånårthadarŸanam |
etajjñånamiti proktamajñånaæ yadato ’nyathå || 13.11 ||
kårånbuddhyådidehendriyåntångu√åæŸca sukhadu¢khamohapra-
tyayåkårapari√atånviddhi jånıhi prakÿtisaæbhavånprakÿtirıŸvarasya
vikårakåra√aŸaktistrigu√åtmikå måyå så saæbhavo ye≤åæ vikårå-
√åæ gu√ånåæ ca tånvikårångu√åæŸca viddhi prakÿtisaæbhavånpra-
kÿtipari√åmån || ke punaste vikårå gu√åŸca prakÿtisaæbhavå¢ –
*
atha caturdaŸo ’dhyåya¢
sarvamutpadyamånaæ k≤etrak≤etrajñasaæyogådutpadyata i-
tyuktam | tatkathamiti tatpradarŸanårthaæ “paraæ bh¥ya¢” ityådira-
dhyåya årabhyate | athaveŸvaraparatantrayo¢ k≤etrak≤etrajñayorja-
gatkåra√atvaæ na tu såækhyånåmiva svatantrayorityevamartham |
prakÿtisthatvaæ gu√e≤u ca sa§ga¢ saæsårakåra√amityuktam | ka-
smingu√e kathaæ sa§ga¢ ke vå gu√å¢ kathaæ vå te badhnantıti |
gu√ebhyaŸca mok≤a√aæ kathaæ syåt | muktasya ca lak≤a√aæ va-
ktavyamityevamarthaæ ca bhagavånuvåca –
Ÿrıbhagavånuvåca –
paraæ bh¥ya¢ pravak≤yåmi jñånånåæ jñånamuttamam |
yajjñåtvå munaya¢ sarve paråæ siddhimito gatå¢ || 14.1 ||
paraæ bh¥ya iti | paraæ jñånamiti vyavahitena saæbandha¢ |
bh¥ya puna¢ p¥rve≤u sarve≤vadhyåye≤vasakÿduktamapi pravak≤yå-
mi | tacca paraæ paravastuvi≤ayatvåt | kiæ tat | jñånaæ sarve≤åæ
jñånånåmuttamamuttamaphalatvåt | jñånånåmiti nåmånitvådınåm |
kiæ tarhi | yajñådijñeyavastuvi≤ayå√åmiti | tåni na mok≤åyedaæ tu
mok≤åyeti parottamaŸabdåbhyåæ stauti Ÿrotÿbuddhirucyutpådanå-
rtham | yajjñåtvå yajjñånaæ jñåtvå pråpya munaya¢ saænyåsino
mananaŸılå¢ sarve paråæ siddhiæ mok≤åkhyåmito ’småddehaba-
ndhanåd¥rdhvaæ gatå¢ pråptå¢ || asyåŸca siddheraikåntikatvaæ da-
rŸayati –
arjuna uvåca –
Ÿrıbhagavånuvåca –
*
atha pañcadaŸo ’dhyåya¢
Ÿrıbhagavånuvåca –
¥rdhvam¥lamadha¢ŸåkhamaŸvatthaæ pråhuravyayam |
chandåæsi yasya par√åni yastaæ veda sa vedavit || 15.1 ||
*
atha ≤oƒaŸo ’dhyåya¢
Ÿrıbhagavånuvåca –
abhayaæ sattvasaæŸuddhirjñånayogavyavasthiti¢ |
dånaæ damaŸca yajñaŸca svådhyåyastapa årjavam || 16.1 ||
abhayamiti | abhayamabhırutå | sattvasaæŸuddhi¢ sattvasyå-
nta¢kara√asya saæŸuddhi¢ saævyavahåre≤u paravañcanamåyånÿ-
tådiparivarjanaæ Ÿuddhasattvabhåvena vyavahåra ityartha jñåna-
yogavyavasthiti¢ jñånaæ Ÿåstrata åcåryataŸcå ’’tmådipadårthånå-
mavagamo ’vagatånåmindriyådyupasaæhåre√aikågratayå svåtma-
saævedyatåpådanaæ yoga¢ | tayorjñånayogayorvyavasthitirvya-
vasthånaæ tanni≤†hatå | e≤å pradhånå daivı såttvikı saæpat | yatra
ca ye≤åmadhikÿtånåæ yå prakÿti¢ saæbhavati | såttvikı socyate | då-
naæ yathåŸakti saævibhågo ’nnådınåæ | damaŸca båhyakara√ånå-
mupaŸama¢ | anta¢kara√asyopaŸamaæ Ÿåntiæ vak≤yati | yajñaŸca
Ÿrauto ’gnihotrådi¢ | smårtaŸca devayajñådi¢ | svådhyåya ÿgvedå-
dyadhyayanamadÿ≤†artham | tapo vak≤yamå√aæ Ÿårırådi | årjava-
mÿjutvaæ sarvadå || kiæ ca –
asatyamaprati≤†haæ te jagadåhuranıŸvaram |
aparasparasaæbh¥taæ kimanyatkåmahaitukam || 16.8 ||
cintåmaparimeyåæ ca pralayåntåmupåŸritå¢ |
kåmopabhogaparamå etåvaditi niŸcitå¢ || 16.11 ||
åŸåpåŸaŸatairbaddhå¢ kåmakrodhaparåya√å¢ |
ıhante kåmabhogårthamanyåyenårthasaæcayån || 16.12 ||
*
atha saptadaŸo ’dhyåya¢
åyu¢sattvabalårogyasukhaprıtivivardhanå¢ |
rasyå¢ snigdhå¢ sthirå¢ hÿdyå åhårå¢ såttvikapriyå¢ || 17.8 ||
ka†vamlalava√åtyu≤√atık≤√ar¥k≤avidåhina¢ |
åhårå råjasasye≤†å du¢khaŸokåmayapradå¢ || 17.9 ||
devadvijagurupråjñap¥janaæ Ÿaucamårjavam |
brahmacaryamahiæså ca Ÿårıraæ tapa ucyate || 17.14 ||
17.16 saptada©o ’dhyåya¢ 1007
tasmådomityudåhÿtya yajñadånatapa¢kriyå¢ |
pravartante vidhånoktå¢ satataæ brahmavådinåm || 17.24 ||
*
athå≤†ådaŸo ’dhyåya¢
arjuna uvåca –
Ÿrıbhagavånuvåca –
adhi≤†hånamiti | adhi≤†hånamicchådve≤asukhadu¢khajñånådı-
nåmabhivyakteråŸrayo ’dhi≤†hånaæ Ÿarıram | tathå kartå upådhila-
k≤a√o bhoktå | kara√aæ ca Ÿrotrådikaæ Ÿabdådyupalabdhaye pÿtha-
gvidhaæ nånåprakåraæ taddvådaŸasaækhyam | vividhåŸca pÿtha-
kce≤†å våyavıyå¢ prå√åpånådyå¢ | daivaæ caiva daivameva cåtrai-
te≤u catur≤u pañcamaæ pañcånåæ p¥ra√amådityådi cak≤urådyanu-
gråhakam ||
niyataæ sa§garahitamarågadve≤ata¢kÿtam |
aphalaprepsunå karma yattatsåttvikamucyate || 18.23 ||
vi≤ayendriyasaæyogådyattadagre ’mÿtopamam |
pari√åme vi≤amiva tatsukhaæ råjasaæ smÿtam || 18.38 ||
ramahaæsaparivråjakånåmeva labdhabhagavatsvar¥påtmaikatva-
Ÿara√ånåæ na bhavati | bhavatyevånye≤åmajñånåæ karmi√åmasaæ-
nyåsinåmitye≤a gıtåŸåstroktasya kartavyårthasya vibhåga¢ || avi-
dyåp¥rvakatvaæ sarvasya karma√o ’siddhamiti cet | na | brahmaha-
tyådivat | yadyapi Ÿåstråvagataæ nityaæ karma | tathåpyavidyåvata
eva bhavati | yathå prati≤edhaŸåstråvagatamapi brahmahatyådila-
k≤a√aæ karmånarthakåra√amavidyåkåmådido≤avato bhavati | a-
nyathå pravÿttyanupapatte¢ | tathå nityanaimittikakåmyånyapıti |
dehavyatiriktåtmanyajñåte pravÿttirnityådikarmasvanupapanneti
cet | na | calanåtmakasya karma√o ’nåtmakartÿtvasya “ahaæ karo-
mi” iti pravÿttidarŸanåt | dehådisaæghåte ’haæpratyayo gau√o | na
mithyå iti cet | na | tatkårye≤viti gau√atvopapatte¢ | åtmıyo dehå-
disaæghåte ’haæpratyayo gau√o | yathåtmıye putre åtmå vaiputra-
nåmåsıti | loke cåpi mama prå√a evåyaæ gauriti tadvat | naivåyaæ
mithyåpratyaya¢ | mithyåpratyayastu sthå√upuru≤ayoragÿhyamå-
√åviŸe≤ayo¢ | na gau√apratyayasya mukhyakåryårthatvamadhika-
ra√astutyarthatvålluptopamåŸabdena | yathå siæha devadatto ’gni-
rmå√avaka iti siæha ivågniriva krauryapai§galyådisåmånyavattvå-
ddevadattamå√avakådhikara√astutyarthameva | na tu siæhakårya-
magnikåryaæ vå gau√aŸabdapratyayanimittaæ kiñcitsådhyate | mi-
thyåpratyayakåryaæ tvanarthamanubhavatıti | gau√apratyayavi≤a-
yaæ ca jånåti | nai≤a siæho devadatta¢ syånnåyamagnirmå√avaka
iti | tathå gau√ena dehådisaæghåtenåtmanå kÿtaæ karma na mu-
khyenåhaæpratyayavi≤aye√åtmanå kÿtaæ syåt | na hi gau√asiæhå-
gnibhyåæ kÿtaæ karma mukhyasiæhågnibhyåæ kÿtaæ syåt | na ca
kraurye√a pai§galyena vå mukhyasiæhågnyo¢ kåryaæ kiñcitkri-
yate | stutyarthatvenopak≤ı√atvåt | st¥yamånau ca jånıto nåhaæ siæ-
ho nåhamagniriti | na siæhasya karma mamågneŸceti | tathå na saæ-
ghåtasya karma mama mukhyasyåtmana iti pratyayo yuktatara¢
syåt | na punarahaæ kartå mama karmeti | yaccåhuråtmıyai¢ smÿ-
tıcchåprayatnai¢ karmahetubhiråtmå karma karotıti | na | te≤åæ
mithyåpratyayap¥rvakatvånmithyåpratyayanimitte≤†åni≤†ånubh¥-
takriyåphalajanitasaæskårap¥rvakå hi smÿtıcchåprayatnådaya¢ |
yathåsmiñjanmani dehådisaæghåtåbhimånarågadve≤ådikÿtau dha-
rmådharmau tatphalånubhavaŸca | tathåtıte ’tıtatare ’pi janmanıtya-
nådiravidyåkÿta¢ saæsåro ’tıto ’någataŸcånumeya¢ | tataŸca sarvaka-
rmasaænyåsasahitajñånani≤†hayå ’’tyantika¢ saæsåroparama iti si-
1046 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.66
arjuna uvåca –
sañjaya uvåca –
*
Finito di stampare nel mese di dicembre 2015 da NUOVA ARTI GRAFICHE
Via delle Scienze, 14 - 02015 S. Rufina di Cittaducale (RI)