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La Bhagavadgıtå, «Il Canto del Bea-

to», è un episodio del Mahåbhårata, la


colossale opera che celebra l’epopea
indiana e la cui compilazione, al pari
del Brahmas¥tra e delle raccolte dei
Veda, è attribuita a Vyåsa, la figura che
incarna la funzione della Intelligenza
universale.
Essa ha sempre esercitato un pode-
roso influsso sul pensiero rappresen-
tando da epoche immemorabili un
riferimento religioso, etico e filosofico
per la spiritualità non solo indiana.
Il termine ‘gıtå’ definisce un testo
recante l’istruzione in forma dialogica,
mentre l’appellativo ‘bhagavat’ designa
il Beato, il Venerabile per eccellenza, il
Signore, dunque l’Essere onniperva-
dente e inqualificato nella sua simbolica
manifestazione antropomorfa.
L’istruzione che Bhagavat-K®\ãa im-
partisce al discepolo Arjuna com-
prende sia la conoscenza non-suprema,
estesa anche alla Divina legge univer-
sale (dharma) e rivelante la giusta a-
zione da compiere, sia la conoscenza
suprema, quella riguardante il Princi-
pio trascendente che tutto promana e
riassorbe, il Sostrato metafisico della to-
talità sul quale si staglia l’intero pro-
cesso universale.
Al di là dell’immensurabile valore
letterario e poetico, la Gıtå possiede
Bhagavadgıtå

–––––––– 2 ––––––––
Testi della Conoscenza Tradizionale
© 2015 Kevalasa√gha
Tutti i diritti riservati

Stampato a Cittaducale
da NUOVA ARTI GRAFICHE
Via delle Scienze, 14
02015 S.Rufina di Cittaducale (RI)

Il presente volume è stato composto


con il carattere “Adri”
BHAGAVADGÙTÅ

CON IL COMMENTO

DI

ÂA°KARA

Traduzione dal Sanscrito, presentazione e note


a cura di
Kevalasa√gha
«Del non-essere non vi è venuta all’esistenza, dell’es-
sere non vi è cessazione di esistenza. Ma la verità
ultima di questi due è stata vista [solo] da coloro i
quali hanno compreso la natura di Quello»
(Bha. Gı. 2.16)

«Colui il quale nell’azione vede la non-azione, e il


quale nella non-azione [vede] l’azione, quegli è sa-
vio fra gli uomini»
(Bha. Gı. 4.18)

«Avendo abbandonato completamente ogni dharma,


in Me, nell’Unico, procedi per trovare rifugio»
(Bha. Gı. 18.66)
INDICE

Avvertenze . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 12
Fonti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 14
Elenco Abbreviazioni . . . . . . . . . . . . . . pag. 15
Presentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 17

Bhagavadgıtå
con il Commento di Âa√kara

Invocazione augurale . . . . . . . . . . . . . . . pag. 34

Introduzione di Âa√kara . . . . . . . . . . . . . pag. 35


Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 39
Primo Adhyåya
La disperazione di Arjuna . . . . . . . . . . . . pag. 43
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 51
Secondo Adhyåya
Lo yoga della investigazione discriminante . . . . . . pag. 53
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 123
Terzo Adhyåya
Lo yoga dell’azione . . . . . . . . . . . . . . . pag. 135
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 175
Qarto Adhyåya
Lo yoga della conoscenza e
della completa rinuncia all’azione . . . . . . . . . pag. 181
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 229
10 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

Qinto Adhyåya
Lo yoga della completa rinuncia . . . . . . . . . . pag. 239
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 273
Sesto Adhyåya
Lo yoga della meditazione . . . . . . . . . . . . pag. 279
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 317
Setimo Adhyåya
Lo yoga della conoscenza e della scienza distintiva . . pag. 323
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 343
Otavo Adhyåya
La descrizione del Brahman indistrutibile . . . . . . pag. 349
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 369
Nono Adhyåya
Lo yoga della conoscenza regale e del mistero sovrano . pag. 377
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 401
Decimo Adhyåya
Lo yoga della manifestazione sovrana . . . . . . . pag. 409
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 429
Undicesimo Adhyåya
Lo yoga della visione della Forma universale . . . . . pag. 431
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 463
Dodicesimo Adhyåya
Lo yoga della devozione . . . . . . . . . . . . . pag. 465
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 483
Tredicesimo Adhyåya
Lo yoga della distinzione tra
il campo e il conoscitore del campo . . . . . . . . pag. 487
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 555
Qatordicesimo Adhyåya
Lo yoga della separazione dalla terna dei gu√a . . . . pag. 569
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 589
Indice 11

Qindicesimo Adhyåya
Lo yoga del conseguimento del Puru≤otama . . . . . pag. 593
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 613
Sedicesimo Adhyåya
Lo yoga della distinzione delle nature devica e asurica . pag. 617
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 633
Diciassetesimo Adhyåya
Lo yoga della distinzione della triplice fede . . . . . pag. 637
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 653
Diciotesimo Adhyåya
Lo yoga della liberazione mediante la completa rinuncia . pag. 657
Note . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 755
Testo sanscrito . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 767
AVVERTENZE

Al testo italiano

Per una migliore intelligibilità del testo sono stati posti:

– tra parentesi tonde ( ) l’originale sanscrito di parole o frasi, le


fonti delle citazioni o le parti mancanti di queste, i riferimenti ai
Versi, ulteriori chiarimenti al concetto espresso;

– tra parentesi quadre [ ] parole o frasi integrative o sottintese,


fonti di citazioni o di passi presenti nel Commento e non menzionati;

– tra virgolette basse « » le citazioni tratte da fonti scritturali


rintracciate o meno, i Versi distinti da quello in esame;

– tra virgolette alte “ ” le parti del singolo Verso trattato nel


Commento, termini o frasi particolari, espressioni di rilievo;

– tra virgolette semplici ‘ ’ alcune parole o espressioni notevoli,


locuzioni esemplificative, frasi in discorso diretto e asserzioni dot-
trinali di importanza rilevante;

– in corsivo i termini sanscriti traslitterati, a eccezione di nomi


propri di luogo o di persona, e i termini italiani di interesse dottri-
nario; sono resi con parole unite da trattino termini non perfetta-
mente traducibili alla lettera con un solo vocabolo;

– nella forma tematica i termini sanscriti se sono sostantivi o


aggettivi, o in quella radicale se si tratta di verbi: così, ad esempio,
il termine Bhagavat verrà sempre riportato nella sua forma tema-
tica anziché al nominativo (bhagavån). Tuttavia, qualora sia prefe-
Avvertenze 13

ribile ai fini della comprensione, sostantivi e/o aggettivi possono


trovarsi nella forma declinata, i verbi in quella coniugata.

Inoltre:

– il Maiuscolo e il minuscolo seguono l’impiego convenzionale,


mentre un medesimo termine può trovarsi maiuscolo o minuscolo
se indica rispettivamente una Forma divina o un oggetto;

– l’inserimento di Obiezione e Risposta nel Commento, ridotto


al minimo indispensabile per una agevole comprensione, è sottinte-
so, per quanto si evinca dal testo;

– si considera il genere italiano dei vari termini sanscriti impie-


gati nella lingua originale, a eccezione di quelli entrati diversamen-
te nell’uso corrente;

– per agevolare la consultazione, è stata adottata la numerica


doppia separata da un punto (capitolo.verso);

– per le parole sanscrite è stata adottata la divisione sillabica;

– eventuali differenze tra passi e/o fonti scritturali sono impu-


tabili a una disomogeneità nelle relative redazioni.

Al testo sanscrito

– Le citazioni da fonti scritturali note o meno sono state ripor-


tate tra virgolette alte “ ”; la numerica multipla relativa alle succes-
sive partizioni è stata separata da punti come nell’originale;

– la traslitterazione segue i criteri comunemente adottati man-


tenendo la unione grafica delle parole come nel testo originale de-
vanågarı e la divisione sillabica;

– l’anusvåra, quando non traslitterato come µ, è stato talora


trasformato nella corrispondente nasale pronunciata.
FONTI

Per la traduzione della Bhagavadgıtå con il Commento di Âa√ka-


ra e delle altre opere citate è stato consultato il testo sanscrito ori-
ginale in devanågarı delle seguenti edizioni:

– Complete Works of Ârı Âa√kåråcarya in the original Sanskrit,


Volume VI: The Bhagavadgıtå Bhå≤ya, SAMATA BOOKS, Madras,
1910-1982;

– Works of Ârı Âa√karåcårya in original Sanskrit, Volume II:


Bhagavadgıtå with Âå√karabhåsya, MOTILAL BANARSIDASS, De-
lhi, Varanasi, Patna, 1929-1981.
ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI

Å. Dha. S¥. Åpastamba Dharma S¥tra


Bau. Dha. Âå. Baudhåyana Dharma Âåstra
Bau. Dha. S¥. Baudhåyana Dharma S¥tra
Bha. Gı. Bhagavad Gıtå
Bÿ. Bÿhadåra√yaka Upani≤ad
Bra. S¥. Brahma S¥tra
Chå. Chåndogya Upani≤ad
Dha. Dhammapåda (Bauddha)
Gau. Dha. Âå. Gautama Dharma Âåstra
Gau. Dha. S¥. Gautama Dharma S¥tra (Gautama Smÿti)
Gau. Kå. Gauƒapåda Kårikå
Ù. ÙŸå Upani≤ad
Jå. Jåbåla Upani≤ad
Ka. Ka†ha Upani≤ad
Kai. Kaivalya Upani≤ad
Kau. Kau≤ıtaki Upani≤ad
Ke. Kena Upani≤ad
Ma. Manu Smÿti (Saæhitå o Dharma Âåstra)
Må. Må√ƒ¥kya Upani≤ad
Ma. Bhå. Mahå Bhårata
Ma. Bhå. A. Pa. Mahå Bhårata AŸvamedha Parvan (14º)
Ma. Bhå. Âå. Pa. Mahå Bhårata Âånti Parvan (12º)
Ma. Bhå. Strı. Pa. Mahå Bhårata Strı Parvan (11º)
Ma. Bhå. U. Pa. Mahå Bhårata Udyoga Parvan (5º)
Må. Kå. Må√ƒ¥kya Kårikå
Mai. Maitri Upani≤ad
Mu. Mu√ƒaka Upani≤ad
Nå. Nåråya√a Upani≤ad
Pra. PraŸna Upani≤ad
16 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

Í. Ve. Íg Veda
Âa. Brå. Âatapatha Bråhma√a
Âve. ÂvetåŸvatara Upani≤ad
Tai. Taittirıya Upani≤ad
Tai. Å. Taittirıya Åra√yaka
Tai. Brå. Taittirıya Bråhma√a
Tai. Saæ. Taittirıya Saæhitå
Va. Vasi≤†ha Dharma S¥tra
Vi. Pu. Vi≤√u Purå√a
Vi. Smÿ. Vi≤√u Smÿti
Yå. Yåjñavalkya Upani≤ad
Yå. Dha. S¥. Yåjñavalkıya Dharma S¥tra
Yo. Âå. Yoga Âåstra
Yo. S¥. Yoga S¥tra
PRESENTAZIONE

Nel contesto della Tradizione metafisica universale – che,


sebbene presenti diversi linguaggi nelle varie epoche e civiltà,
è unica e univoca – l’India tradizionale contempla due rami:
la Âruti, la Tradizione ‘udita’ (da ©r¥, udire), o Veda (da vid,
‘vedere spiritualmente’, realizzare), che è di ordine non-uma-
no (apauru≤eya) in quanto ‘vista’ direttamente dagli antichi
Saggi veggenti (®≤i) che, appunto, la realizzarono coscienzial-
mente, e la Sm®ti, la Tradizione ‘rammentata’ (da sm®, ricor-
dare), che è di ordine umano (pauru≤eya).
La Âruti si identifica con i Veda i quali culminano nelle U-
pani≤ad, i Testi sacri per eccellenza che compongono il Vedå-
nta o ‘fine dei Veda’ – ove il termine ‘fine’ (anta) possiede il
duplice significato di coronamento e sintesi – e che formano,
a detta unanime, la più alta e risolutiva visione filosofica del-
l’Essere.
Alla Sm®ti, Conoscenza tradizionale, che pur essendo ispi-
rata dalla Âruti è ‘mediata’ dall’uomo, appartengono i Purå~a,
i Testi antichi, e gli Itihåsa, i grandi poemi epici, tra cui il Rå-
måyaãa, che narra le gesta di Råma, e il Mahåbhårata.
La Bhagavadgıtå, «Il Canto del Beato», è un episodio del
Mahåbhårata, “La Grande India”, la colossale opera che cele-
bra l’epopea indiana. L’intero poema è imperniato sulla guer-
ra civile che scoppiò tra i due rami primari, Kaurava e På~ƒava,
della stirpe del regno di Hastinåpura – regione localizzabile
nella odierna India settentrionale, un centinaio di chilometri a
nordest di Nuova Delhi – evento che ebbe davvero luogo
molto tempo prima della stesura del poema. Si tratta del più
18 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

grande componimento poetico conosciuto al mondo – conta


circa 400.000 versi – e consiste di diciotto libri (parvan), dalle
origini all’epilogo finale, più un libro che riassume la genea-
logia di Hari (Harivaµ©a).
La narrazione dei vari episodi inerenti alla lunga vicenda
bellica offre l’opportunità per inserire esposizioni dei più sva-
riati argomenti: da antiche leggende a miti, da disquisizioni
sulla interpretazione della legge (dharma) a dissertazioni di
carattere morale ed etico, da spiegazioni di natura ritualisti-
co-devozionale ad argomentazioni prettamente filosofiche; a
questo si aggiungono episodi del tutto estranei al contesto,
come la storia di Såvitrı, quelle di Damayantı e di Nala e trat-
tazioni, anche estese, dedicate precipuamente alla istruzione
di carattere spirituale (upade©a) fra cui il Sanatsujåtıyam e,
appunto, la Bhagavadgıtå.
I capitoli dal 25º al 42º del Sesto Libro del Mahåbhårata, ‘Il
Libro di Bhı≤ma’ (bhı≤maparvan), il re condottiero, formano i
18 Adhyåya della Bhagavadgıtå per un ammontare di circa
700 versi (©loka), per la maggior parte nel metro anu≤†ubh
(due emistichi di sedici sillabe ciascuno), talvolta nel metro
tri≤†ubh (due emistichi di ventidue sillabe ciascuno).
La data della sua stesura, verosimilmente posteriore a
quella del Mahåbhårata, nel quale sembra sia stata inserita in
un secondo tempo, non è nota, anche perché all’epoca vigeva
principalmente la trasmissione orale. Del resto la datazione di
un testo tradizionale può avere interesse solo da un punto di
vista storico o filologico, dato che la Tradizione, a cui la Gıtå
appartiene, si pone al di là del tempo e di qualunque contesto
storico come, altresì, di qualsiasi delimitazione geografica o
distinzione etno-culturale.
La compilazione del Mahåbhårata è attribuita a Vyåsa, ta-
lora identificato con Bådaråya~a, al quale è ascritta anche
quella del Brahmas¥tra e delle raccolte (saµhitå) dei Veda.
Non si tratta di un personaggio storico ma della simbolica
Presentazione 19

personificazione, anche come entità collettiva manifestantesi


in tempi e modi distinti, di una Funzione di ordine trascenden-
te, in particolare della Intelligenza universale. Il nome vyåsa
(lett. ‘Sistematore’, ‘Adattatore’, dalla radice: ås, esistere, per-
durare, con il prefisso: vi, variamente; dunque: ‘disporre ade-
guatamente nel tempo’) designa Colui la cui finalità, svolgen-
tesi lungo l’arco di ere, è quella di allestire, ordinare e adattare
la espressione originaria della Tradizione al grado di compren-
sione spirituale via via manifestato dall’essere umano nelle
successive fasi temporali (yuga), per cui stabilisce la connes-
sione con il Divino fissando la Conoscenza con il conferirle
un idoneo ed efficace linguaggio.
La Bhagavadgıtå è una delle opere poetiche più celebrate
nella letteratura indiana ed è tra quelle che hanno destato mag-
gior interesse oltre che nel campo religioso anche in quello fi-
losofico-speculativo, esercitando sempre un poderoso influsso
sul pensiero e, di conseguenza, sulla visione della vita e della
esistenza.
Malgrado la presenza di passi in apparente contrasto, essa
forma un tutt’uno organico e rappresenta da epoche immemo-
rabili un riferimento religioso, etico e filosofico per la spiri-
tualità indiana e, a cominciare dall’era moderna, anche per il
ricercatore occidentale. Indubbiamente costituisce un testo a
sé non solo per l’immensurabile valore letterario ma soprat-
tutto per la sua valenza dottrinaria e per l’insegnamento che
dispensa: infatti indica all’essere umano, assoggettato alla na-
tura di limitatezza e conflittualità proprie della condizione in-
dividuale, la Via per la totale trascendenza ed emancipazione,
cioè per la conoscenza-realizzazione del Brahman.
Nonostante appartenga alla Sm®ti, di cui esprime la sintesi
più elevata, la Bhagavadgıtå, per la sua incontestabile sacrali-
tà e autorevolezza, viene universalmente considerata Upani-
≤ad, cioè Scrittura sacra – spesso è indicata come Gıtå©åstra –
alla stessa stregua della Âruti e quindi dei Veda. Inoltre, poi-
20 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

ché prospetta la unione (yoga) dell’anima con lo Spirito Su-


premo, la riunificazione dell’essere individuale, il jıva, con la
propria Fonte divina e metauniversale, l’åtman, è considerata
anche Yoga©åstra, Scrittura sacra o tradizionale sullo yoga, in-
teso come procedimento unitivo, metodo realizzativo o disci-
plina ascetica in genere, a prescindere dall’omonimo dar©ana
o dalle sue forme particolari. Di tale accezione del termine yo-
ga si ha riscontro nei titoli tradizionali dei vari Adhyåya, che
evidenziano gli aspetti del processo realizzativo con le loro
differenti sfaccettature.
Un testo recante l’istruzione (upade©a) in forma dialogica
(saµvåda) è tradizionalmente chiamato gıtå (canto), mentre
l’appellativo bhagavad – lett. ‘colui che possiede bhaga’, cioè
l’insieme delle virtù come la conoscenza, la compassione, ecc.
– designa il Beato, il Signore, il Venerabile per eccellenza, la
cui rappresentazione sotto sembianza umana svolge una fina-
lità didattica: Egli infatti non è altri che Vi≤ãu, l’Essere onni-
presente e inqualificato – dunque il Brahman del Vedånta –
nella sua simbolica manifestazione antropomorfa.
Sebbene nella Sm®ti compaiano diverse altre opere di ge-
nere e nome simili, come l’Anugıtå, l’Uddhavagıtå, l’A≤†åva-
kragıtå, ecc., per la sua peculiarità la Bhagavadgıtå rappresen-
ta ‘il Canto per eccellenza’, per cui anche nei commentari è
spesso indicata semplicemente come Gıtå.
Âruti e Sm®ti sono le due facce di una medesima Scienza
sacra, svelata e resa disponibile per l’essere umano in posses-
so delle specifiche qualificazioni e diversificata in rapporto al
grado di maturità spirituale del singolo. Analoga differenzia-
zione compare all’interno della stessa Bhagavadgıtå in rela-
zione ai vari aspetti della conoscenza, dell’insegnamento im-
partito e della corrispondente modalità operativa.
Insieme con il Brahmas¥tra e con le principali Upani≤ad
classiche la Bhagavadgıtå forma la Prasthånatraya, la Triplice
testimonianza o Triplice Scienza del Vedånta.
Presentazione 21

La vicenda su cui si basa l’intero Mahåbhårata si svolge,


come accennato, nel regno di Hastinåpura. All’approssimarsi
del tempo della successione al trono attendevano due prìnci-
pi, Dh®tarå≤†ra e På~ƒu. Dh®tarå≤†ra, il primogenito, era cieco
dalla nascita, per cui non poteva salire al trono. Vi salì, inve-
ce, il fratello Pa~ƒu; i suoi figli, i På~ƒava, erano: il valoroso
Yudhi≤†hira, il primogenito, chiamato anche Dharmaråja (‘Re
del dharma’), quindi Bhıma, Arjuna – è il discepolo coprota-
gonista del dialogo della Bhagavadgıtå – e i gemelli Nakula e
Sahadeva. I figli del cieco Dh®tarå≤†ra, appartenente alla dina-
stia dei Kuru, erano i cento Kaurava; tra loro per audacia e
valore si distingueva Duryodhana (‘Colui che è difficile da
battere’).
Il regno di På~ƒu durò per breve tempo e alla sua prema-
tura morte gli succedette temporaneamente Dh®tarå≤†ra, il
quale accolse nella propria famiglia anche i cinque figli del
fratello accordando loro la medesima educazione e istruzione
riservata ai propri.
Per le leggi dell’epoca il re privo della vista non poteva
governare se non fino a quando il maggiore dei suoi figli, Yu-
dhi≤†hira non avesse raggiunto la richiesta età, dopo di che lo
scettro sarebbe passato automaticamente a lui. Tuttavia tra i
due gruppi di cugini nel tempo si insinuò gradatamente una
profonda rivalità e, all’ascesa al trono da parte di Yudhi≤†hira,
l’antagonismo era divenuto così violento da indurre Duryo-
dhana a impadronirsi del potere regale facendo ricorso alla
forza e tentando nel contempo di eliminare con qualsiasi mez-
zo il cugino Yudhi≤†hira.
Così i due rami della stirpe si separarono drasticamente e,
nell’intento di esercitare il proprio esclusivo dominio sull’in-
tero territorio, le due famiglie, i Kaurava, usurpatori del re-
gno, e i På~ƒava, che reclamavano la restituzione delle terre,
si opposero a tal punto che l’intera popolazione si schierò
dall’una e dall’altra parte sostenendo i due prìncipi e andando
22 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

a incrementare le fila dei rispettivi eserciti. In tal modo la ten-


sione crebbe a tal punto che lo stesso Yudhi≤†hira, determi-
nato a riappropriarsi con qualunque mezzo del potere e del
territorio usurpatigli da Duryodhana, era pronto a dare batta-
glia al cugino coinvolgendo l’intera compagine sociale. A
questo punto Dh®tarå≤†ra si rivolse al proprio ministro Sañja-
ya incaricandolo di recarsi presso Yudhi≤†hira con lo scopo di
indurlo a desistere dal suo bellicoso proposito.
Giunto presso di lui, Sañjaya gli prospettò uno scenario
terrificante: nonostante le loro ragioni, si sarebbe assistito a
distruzione e morte, fine di una civiltà e perdita di valori tra-
dizionali per un periodo di immensurabile durata con un dan-
no irreparabile per tutti. Così Yudhi≤†hira interpellò K®≤~a,
discendente di Yadu e a quel tempo a capo della famiglia Yå-
dava, il quale, pur dimorando in un territorio adiacente e quin-
di estraneo alla divergenza, si adoprò nell’intento di riconci-
liare le opposte fazioni e riportare la pace tra i due gruppi fa-
migliari. Il tentativo è descritto nei dettagli, insieme ai prepa-
rativi per la guerra, nel quinto libro del Mahåbhårata, l’Udyo-
gaparvan, il ‘Libro dei preliminari’, i cui capitoli dal 41º al 46º
formano il Sanatsujåtıyam, “L’insegnamento di Sanatsujåta”,
dal nome del saggio che impartì la sacra istruzione al re Dh®ta-
rå≤†ra in merito alla morte e ad altri argomenti.
Malgrado la mediazione di K®≤~a nel proporre una impar-
ziale ripartizione dei territori, il ricorso al conflitto fu ritenuto
ineluttabile e così i due eserciti si affrontarono in quello che
era un luogo sacro chiamato Kuruk≤etra, il ‘Campo di Kuru’,
dal nome di un comune antenato dei due prìncipi che lì stesso
aveva dedicato la propria esistenza a impegnative pratiche a-
scetiche. I contendenti spronarono anche K®≤ãa a partecipare
alla lotta ed egli acconsentì concedendo loro di scegliere se
essere affiancati da lui stesso o da parte dei suoi uomini. Il
prepotente Duryodhana optò per i guerrieri così che K®≤ãa si
schierò dalla parte dei På~ƒava divenendo l’auriga di Arjuna.
Presentazione 23

Precedentemente allo scoppio della battaglia vera e pro-


pria, al cieco e anziano Dh®tarå≤†ra apparve in visione il pa-
dre Vyåsa, santo veggente dotato di grandi poteri sopranna-
turali, il quale prospettò al figlio l’opportunità di avere, nono-
stante la sua cecità, una percezione divina dello scontro in
modo da poter seguire lo svolgersi delle sue fasi; egli rifiutò
tale straordinaria facoltà per sé, ma la implorò per il proprio
ministro Sañjaya che, diventato, così, veggente, cominciò a
descrivere minuziosamente all’anziano monarca le fasi della
guerra. È proprio a questo punto che prende inizio la narra-
zione della Bhagavadgıtå, quando Dh®tarå≤†ra chiede a Sañja-
ya che cosa stanno facendo i rispettivi eserciti allorché si tro-
vano schierati l’uno contro l’altro sul campo di battaglia.
Prima che lo scontro potesse aver luogo, era regola com-
piere da entrambi gli schieramenti un complesso e lungo ceri-
moniale che, dopo la supplica di protezione alle varie Divini-
tà, conferisse l’attribuzione dei ruoli ai condottieri e ai loro
guerrieri suggerendo inoltre le strategie di azione bellica. In
questo frangente, dunque prima che venga dato il segnale di
attacco, Arjuna ordina a K®≤ãa di condurre il suo carro nel
mezzo dei due eserciti in modo da poter avere una visione
complessiva del tutto. Ma lì, vedendo da un lato il fratello Yu-
dhi≤†hira, il benvoluto zio Bhı≤ma, il maestro d’armi Dro~a, il
cugino Duryodhana e tanti altri, e dall’altro ancora altri mae-
stri, parenti e i suoi migliori amici, cede allo sconforto presa-
gendo il massacro che sta per consumarsi; così confessa a K®-
≤ãa il proprio smarrimento e, manifestata la decisione di aste-
nersi dal combattere, si accascia affranto sul carro. K®≤ãa co-
mincia allora a spiegargli innanzitutto che la morte del corpo
non è una vera fine, in quanto la propria natura è immortale,
e, poi, che non è giusto astenersi da un’azione reputata ap-
propriata per il proprio ruolo nel contesto generale.
Nel corso del lungo e articolato dialogo gli fa comprende-
re che ciò che nasce deve morire e ciò che muore deve rina-
24 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

scere, in un ininterrotto circolo alimentato dall’agire identifi-


cato. Fin quando persiste tale condizione sovrapposta si ri-
veste un ruolo e, di conseguenza, si deve espletare quello che
è il proprio dharma e non agire secondo quello di altri. Quan-
do, sopraggiunta la maturità spirituale, si riconosce che il di-
venire ciclico (saµsåra) è mantenuto solo dalla propria pro-
fonda identificazione allo stato individuato, al veicolo, alla
funzione, alla condizione in atto e consiste perciò in una este-
sa e radicata proiezione, ci si può allora distaccare attraverso
una completa rinuncia (saµnyåsa) e dedicarsi esclusivamente
alla realizzazione dell’åtman privo di origine. Soltanto il Non-
nato, infatti, non è destinato a distruzione, solo il Non-duale è
libero da qualsivoglia limitazione ed è perciò Quello che, se si
aspira ad affrancarsi dal corso esistenziale trasmigratorio del-
la forma-apparenza, si deve realizzare sopra ogni cosa.
Si palesa così la vera natura di K®≤ãa come incarnazione
della divina Forma di Vi≤ãu quale Essere onnipervadente, il
quale può, Egli soltanto, impartire la vera conoscenza libera-
trice ad Arjuna giovandosi della singolare situazione in cui
questi versa, che lo rende particolarmente ricettivo nei suoi
confronti. Quella di K®≤ãa che parla ad Arjuna è dunque la
immagine simbolica dell’åtman che illumina il jıva, il suo ri-
flesso individuato e identificato con l’io, con i suoi veicoli e
con le sue condizioni transitorie e conflittuali per restituirlo
alla sua vera natura; è la Coscienza assoluta e autoesistente,
esente da qualsiasi condizionamento, che si svela alla coscien-
za riflessa, immedesimata al veicolo e alla sua condizione
contingente, influenzata dalla fruizione della esperienza e rei-
terante modalità identificative analoghe.
Dopo la prima dettagliata descrizione del campo di batta-
glia e dei personaggi che Arjuna vi riconosce, l’opera assume
la forma di un vero e proprio dialogo realizzativo in cui K®-
≤ãa, in considerazione dello stato psicologico in cui si trova
Arjuna, gli prospetta la conoscenza procedendo per gradi.
Presentazione 25

Dapprima quella che è la conoscenza non-suprema (aparavi-


dyå), riguardante il Principio primo della manifestazione, cioè
l’Essere qualificato universale (il Brahman saguãa o ‘con at-
tributi’, l’Uno-con-secondo delle Upani≤ad) con i suoi riflessi
successivi come princìpi (deva) della manifestazione nei suoi
vari e interrelati piani; conoscenza che dal punto di vista u-
mano si estende, perciò, anche alla Divina Legge (dharma), al
giusto agire (karman) – quello non dettato dalla propria indi-
vidualità incompiuta e quindi non vincolante – e al retto por-
si nei confronti della propria veicolarità e della propria sfera
esperienziale e cognitiva. Quindi impartisce a lui anche quella
che è la vera e propria Scienza del Brahman (brahmavidyå),
dunque la Conoscenza suprema (paravidyå), quella che con-
cerne l’Essere Assoluto e Non-qualificato (il Brahman nirguãa
o ‘senza attributi’, l’Uno-senza-secondo delle Upani≤ad), l’En-
te al di là del manifestato e del non-manifestato, dell’effetto e
della causa, vale a dire il necessario e imprescindibile Fonda-
mento metafisico della totalità attuale e potenziale, dell’essere
e del non-essere e della stessa infinita possibilità: in altre pa-
role, Quello che, essendo di per sé, consente al tutto la possibi-
lità di essere e che perciò, dal punto di vista filosofico, costi-
tuisce la sola ed unica Realtà.
Nella lunga esposizione viene trattata non solo la sfera de-
gli effetti ultimi, considerata sotto la prospettiva fisica-gros-
solana della mera corporeità individuale con il suo destino e
sotto quella sottile-energetica facente capo al mentale in ge-
nerale, ma anche la loro origine causale; non solo il piano ef-
fettuale-fenomenico dell’Essere manifestato, ma, altresì, quel-
lo causale-noumenico e, al di là di questo, la pura essenza me-
tafisica del Sostrato assoluto, trascendente il rapporto causale
e la stessa possibilità.
Sovrapposto a Quello, che rimane sempre indipendente, il
processo universale nella sua integralità, dal Principio primo
che è l’Essere qualificato (Brahman saguãa) fino all’ultimo
26 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

ente individuato, segue la legge di causa-effetto, il principio


deterministico rappresentato dal karman, per cui ad ogni cau-
sa segue un appropriato effetto, ad ogni atto un commisurato
frutto, e ciò al di là di quello che può essere un qualsiasi con-
cetto etico – si parla dell’assegnazione del frutto da parte del
Signore solo in senso causale e non morale né secondo un’ot-
tica individualistica di gratificazione-punizione. In primo luo-
go vi è da considerare che l’effetto, per il Vedånta Advaita, non
è altro che la causa stessa che appare sotto un certo aspetto;
in secondo luogo, che da una causa unica, potendo essa assu-
mere indefinite modalità formali, possono scaturire illimitati
effetti, diversificati in funzione dei parametri dimensionali
contingenti (spazio-tempo-causa).
Effetto e causa vengono riconosciuti come aspetti specula-
ri di una medesima entità che insieme emergono e insieme si
riassorbono, ovvero come le risultanti della apparente scissio-
ne polare di una unica, iniziale possibilità ma, al di là di que-
sta, che, appunto, è non-reale in sé e, come tale, può o meno
emergere e manifestarsi attraverso lo sviluppo delle qualità
che reca intrinsecamente, permane sempre, come necessaria
base, un Sostegno immutabile, indipendente e indescrivibile,
reale e quindi eternamente attuale: il Brahman incausato e in-
causante.
Si riconosce, così, non solo che la molteplicità diveniente e
contraddittoria – espressione finale della dualità connaturata
di nome e forma (nåma-r¥pa) sovrapposti – trae esistenza
dalla unità, ma anche che questa rappresenta l’attuazione di
quello che potrebbe definirsi un ‘seme’, ossia un aspetto com-
preso nella infinita potenzialità: oltre ciò vi è la Non-dualità
del Brahman, la cui essenzialità è quel puro Essere-Coscienza-
Beatitudine assoluti (sat-cit-ånanda) ripetutamente enunciato
dalle Scritture come la nostra più vera e profonda natura.
Quanto alla collocazione religiosa della Gıtå, coloro che si
rifanno alla concezione Vai≤ãava in quanto adoratori di Vi-
Presentazione 27

≤ãu, considerato però solo quale Principio sostenitore e con-


servatore dell’universo, identificano con questo la figura di
K®≤ãa. La loro è la visione Bhågavata, in quanto venerano il
Principio universale nella sua incarnazione o ‘discesa’ (ava-
tåra) nella fattezza umana di Bhagavat, evento che nel corso
delle epoche si verifica ogniqualvolta il Principio viene oscura-
to e la coscienza dell’essere prende una direzione discendente,
di crescente immedesimazione veicolare, con la conseguenza
di una progressiva degradazione delle energie-potenzialità in-
teressate e una corrispondente riduzione del grado di libertà.
Dunque la figura di K®≤~a è Våsudeva, o Nåråya~a, cioè
l’åtman stesso, o meglio il supremo åtman, ossia il Brahman
non-duale e inqualificato (nirgu~a), che simbolicamente viene
considerato di volta in volta sotto vari aspetti qualificati e li-
mitati: dal Brahman con-attributi (sagu~a) – lo stesso Âa√kara
in alcune opere lo definisce ‘effettuato’ (kårya) riconoscendo-
lo, appunto, effetto di måyå – quale Essere universale che so-
stanzia, comprende, sintetizza e riassorbe l’intera manifesta-
zione, a Ù©vara, il Signore che assegna agli esseri i frutti del
loro operato stabilendo così le rispettive condizioni di esisten-
za, dalle Forme divine che governano i fenomeni naturali fino
all’amico umano di Arjuna. È in tale molteplice modalità che
K®≤~a parla, senza mai esplicitare una distinzione relativa-
mente alla prospettiva da cui impartisce l’istruzione.
Così nella Gıtå, in un procedere dialogico senza soluzione
di continuità, l’Essere inqualificato (Brahman nirguãa) viene
implicitamente rappresentato come dotato di qualificazione
(saguãa), o come se avesse simbolicamente assunto una For-
ma universale (ÙŸvara, Puru\a, Puru≤ottama), divina o persino
umana (K®≤ãa). Pertanto si riscontra una molteplicità di inse-
gnamenti a prima vista distinti ma sostanzialmente coerenti e
confacenti ai diversi livelli di sviluppo spirituale dell’indivi-
duo e del corrispondente grado di risveglio della facoltà di in-
tuizione intellettuale superconscia (buddhi).
28 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

L’istruzione va dalla sfera corporea (si accenna addirittura


alla corretta alimentazione considerata dalla prospettiva delle
qualità sostanziali, i guãa, e alle posizioni adatte alla medita-
zione) a quella sottile delle energie mentali (forme di medita-
zione o di adorazione), dall’azione materiale effettiva allo stato
puramente meditativo e di inattività esteriore, dalla devozione
religiosa rivolta verso le Forme divine ed esprimentesi attra-
verso i riti sacrificali fino alla realizzazione finale, l’intuizione
e la integrale presa di coscienza della Realtà ‘diretta e imme-
diata’ delle Upani≤ad.
Prospettando l’istruzione di Bhagavat K®≤ãa, la Bhagava-
dgıtå riversa nel piano terreno l’influsso del Principio che ha
assunto sembianza umana; in tal senso è un testo iniziatico-
operativo in quanto, attraverso le parole di K®≤ãa ad Arjuna,
conferisce la iniziazione corrispondente ai vari aspetti della
via realizzativa – bhakti-devozione, karman-azione e jñåna-
conoscenza – impartendo l’insegnamento pratico relativo a o-
gnuno di essi.
Le tre forme – bhakti, karman e jñåna – esprimono lati di-
versi di una sola integrazione del reale rispondenti alle quali-
tà proprie (guãa) dell’individuo. Esse vanno comprese nella
loro valenza che, attraverso un’attenta operazione di trasfigu-
razione coscienziale, travalica il mero piano empirico fino a
trasmutare nelle loro radici trascendenti. Così la devozione-
-bhakti verso la Forma divina si risolve nella parabhakti, la
suprema devozione verso la sola e unica Divinità in cui l’ani-
ma individuale si annulla nella identificazione coscienziale
con Essa. L’azione-karman, affrancata dalla volizione indivi-
duale e dal risultato quale obiettivo impulsante, si risolve nel-
la ‘azione-senza-azione’, ovvero in un atto puro, indipendente
dalla nozione del frutto, un agire non condizionato da alcun-
ché in cui il soggetto agente è solo un veicolo di attuazione di
eventi: ciò che viene definito come la ‘giusta azione’, la quale
soltanto è non vincolante; in questo la Gıtå esorta a rivestire
Presentazione 29

senza indugio qualunque ruolo attivo qualora se ne presenti


la inderogabile necessità, a condizione di restare liberi dalla i-
dentificazione soggettiva con esso. Infine la conoscenza-jñå-
na, dapprima frammentata nella terna di soggetto-mezzo co-
gnitivo-oggetto e orientata verso l’esteriore formale-ogget-
tuale, viene rivolta all’interno, verso l’essenziale-unitario,
quindi integrata e risolta in una conoscenza di identità o Co-
noscenza suprema o ultima (jñånam uttamam), nella quale
scompare qualsiasi distinzione e che si rivela come pura e as-
soluta Coscienza-senza-secondo (cidadvaya) qual è, appunto,
la natura stessa del supremo åtman-Brahman.
Poiché l’insegnamento della Bhagavadgıtå è a un tempo e-
tico, religioso, filosofico e metafisico, il livello della istruzione
che si è in grado di comprendere dipende essenzialmente dalla
capacità di integrazione coscienziale di colui che lo recepisce,
vale a dire dalla risolutezza della propria istanza realizzativa.
Per la sua importanza l’Opera è stata fatta oggetto di Com-
menti (bhå≤ya) e spiegazioni estese (vyåkhyå) da parte di in-
numerevoli commentatori (v®ttikåra) appartenenti a varie
epoche e correnti di pensiero, ciascuno intento a evidenziare
quel particolare aspetto o contenuto concorde con la propria
visione. Si può dire che ognuno ha còlto nell’insegnamento
enunciato quello che gli ha consentito di percepire il proprio
stato coscienziale. Così abbiamo interpretazioni di carattere
religioso, etico, spiritualista e, dal punto di vista filosofico,
dualista, monista qualificato e non-dualista.
Il Commento (bhå≤ya) di Âa§kara (788-820) – una delle
prime opere scritte del Maestro – è il più autorevole e signifi-
cativo; ad esso hanno attinto numerosi filosofi come Ånanda-
giri, €dhara, Madhus¥dhana e altri. In epoca più tarda sono
state stilate altre spiegazioni per mano di Råmånuja (1200 ca),
orientato a un monismo mitigato (vi©i≤†ådvaita), Nimbarka
(1199-1276), Vallabha (1479) e altri, e la produzione di deluci-
dazioni della Gıtå continua ancor oggi.
30 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

Il Bhå≤ya ©a√kariano – è preceduto da una Introduzione


che, pur riassumendo la situazione in atto a quel tempo, con i
dovuti adattamenti risponde anche all’epoca attuale – è im-
prontato alla dottrina Advaita, per cui Âa√kara dà della Gıtå
principalmente una lettura non-dualista, ma questo sempre in
una visione integrale e onnicomprensiva – cosa che Lo con-
traddistingue in tutte le sue opere – senza cioè trascurare gli
aspetti inferiori come quelli devozionali, etici e persino con-
tingenti. Egli spiega che testi sacri come la Bhagavadgıtå in-
tendono operare il ripristino della conoscenza liberatrice in
una fase temporale in cui l’atto rituale, o l’attività sacrale in
genere, oscura la conoscenza in quanto le forme religiose, per
quanto originate da autentici aspetti tradizionali, hanno visto
gradualmente offuscarsi o perdersi la componente superiore e
trascendente della Tradizione, specificamente metafisica, con-
sentendo l’instaurarsi e il proliferare di un devozionalismo le-
gato a elementi simbolici privati del loro significato più pro-
fondo e a fattori formali arbitrari e in definitiva antitradizio-
nali. Nella sua disamina vengono pertanto escluse tutte quelle
possibilità legate al mero ritualismo e a una mediata commi-
stione tra azione rituale e conoscenza – queste ultime per de-
finizione incompatibili – in quanto non contemplate dalla
Âruti né ammissibili secondo ragione.
L’apparente contraddittorietà di alcuni passi viene risolta
da Âa§kara che li spiega attenendosi fedelmente alla Tradizio-
ne. Come sempre, Egli commenta i versi esaminandone siste-
maticamente le frasi parola per parola e portando avanti una
esposizione con uno sviluppo discorsivo, con numerosi esem-
pi, ripetizioni e citazioni; ne consegue che la forma in italiano
potrebbe risultare a tratti alquanto complessa. Va aggiunto
che molti versi, che presentano una certa ambiguità di lettura,
possono essere correttamente interpretati solo alla luce del
Commento ©a§kariano prestandosi, sia per le peculiarità della
lingua sanscrita sia per la varietà di significato dei singoli ter-
Presentazione 31

mini, a più letture distinte, talora divergenti e a volte perfino


opposte. Ne consegue che, analogamente ad altri testi iniziati-
ci, la Bhagavadgıtå non può essere compresa nella sua effetti-
va implicanza se non affrontandone lo studio dopo aver ac-
quisito una sufficiente conoscenza della dottrina inerente.
Nella perfetta evidenza della Non-dualità che caratterizza
la sua visione, neanche in questo Bhå≤ya Âa§kara delinea una
distinzione esplicita tra Brahman nirguãa, saguãa, Ù©vara, ecc.,
in quanto nella visione Advaita si considera reale in assoluto
solo il Brahman nirguãa, mentre tutto il resto è visto come
prodotto di måyå. Egli, dunque, si accorda costantemente con
le Upani≤ad nel considerare la måyå come il ‘potere del Bra-
hman’, la sua intrinseca capacità di apparire, alla coscienza ri-
flessa o individuata, come Essere qualificato o in un qualun-
que altro effetto o stato causato e condizionato.
È bene tener presente che tale aspetto sussiste solo dalla
prospettiva dell’ente che, configurandosi apparentemente
proprio attraverso la måyå ed emergendo come individualità
separata, soggiace, nel suo percepire, alla måyå stessa. In al-
tre parole la måyå, questa immensa possibilità, non crea né
altera l’oggetto percepito, ma condiziona la posizione coscien-
ziale del soggetto percipiente-agente. È proprio su questa che
la Bhagavadgıtå insegna ad operare la giusta rettificazione,
perché l’essere possa recuperare appieno la consapevolezza
della propria natura non condizionata da alcunché ma libera
dalla azione-identificazione vincolante, non sottoposta al de-
stino trasmigratorio bensì naturalmente affrancata da qual-
siasi sovrapposizione limitante, non rapportata a un secondo
reale o solo virtuale ma eternamente identica a quello stesso
Senza-secondo nel quale la totalità appare e scompare: in so-
stanza, la propria natura di åtman-Brahman.

K.
BHAGAVADGÙTÅ

« IL CANTO DEL BEATO »

CON IL COMMENTO
DI

ÂA°KARA
Om
Sia reso omaggio a Våsudeva

Nåråyaãa è al di là dell’Avyakta,
dall’Avyakta trae esistenza l’Uovo cosmico.
All’interno dell’Uovo cosmico
in verità sono questi mondi
e la Terra costituita dai sette Dvıpa1.
Introduzione di Âa§kara
(Ÿåækaropodghåta¢)

Il Signore (Brahman), dopo aver manifestato questo uni-


verso, volendo conservare la sua stabilità, creò dapprima i
Prajåpati (i Signori delle creature), come i Marıci, ecc., facen-
do [loro] adottare il dharma2 consistente nell’attività [rituale]
(pravÿtti) esposta dal Veda, quindi creò anche altri [esseri pri-
mordiali], quali Sanaka e Sanandana, ecc., facendo [a questi]
adottare il dharma consistente nell’astensione dall’attività (ni-
vÿtti), caratterizzato dalla conoscenza (jñåna) e dal distacco
(vairågya)3. In verità, la causa della conservazione [in esisten-
za] dell’universo è [proprio] il duplice dharma esposto dal
Veda, da un lato consistente nell’attività (pravÿtti) e dall’altro
consistente nell’astensione dall’attività (nivÿtti). Tale dharma,
che per [tutti] gli esseri viventi rappresenta in modo diretto
la causa della prosperità [nella vita attuale o in quelle future]
e del sommo Bene (ni¢Ÿreyas, la liberazione)4, dovette essere
praticato da [tutti] gli appartenenti agli ordini sociali (var√a)
e agli stadi di vita (åŸrama), cioè dai bråhma√a in poi, i quali
aspiravano alla felicità (Ÿreyas)5.
Ma poi, dopo lungo tempo6, a seguito dell’emergere del
desiderio e a causa del [conseguente] venir meno della cono-
scenza discriminante (vivekavijñåna) in coloro che seguivano
[le due vie], l’adharma si andò affermando sempre di più fin-
ché il dharma fu completamente soverchiato dall’adharma. Fu
proprio allora che Egli, l’Artefice primordiale (ådikartÿ), ossia
Vi≤√u, denominato Nåråya√a, mosso dall’intento di salvaguar-
36 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

dare la conservazione in esistenza (sthiti) dell’universo, si ma-


nifestò come essere corporeo [venendo generato] in Devakı
da Vasudeva, [incarnandosi] nella forma di Kÿ≤√a allo scopo
di proteggere il Brahman [nel suo aspetto] terreno, cioè la na-
tura della vita improntata al Brahman (bråhma√atva)7. Infatti
il dharma vedico può essere preservato [solo] attraverso la
salvaguardia della vita brahmanica, perché da quella dipende
la distinzione degli ordini sociali e degli stadi di vita 8. Così il
Signore stesso, in eterno perfettamente dotato di conoscenza,
divino potere, capacità, forza, vigore e splendore, esercita il
controllo sulla propria måyå, che appartiene a Lui in quanto è
Vi≤√u, che è consustanziata dei tre gu√a e costituisce la natu-
ra primordiale (m¥laprakÿti); sebbene sia non-nato (aja) e
inalterabile (avyaya), sebbene sia il Signore (ÙŸvara, Brahman)
degli esseri [tutti] e sia per propria natura eterno, puro, auto-
consapevole e libero, Egli appare attraverso la sua måyå come
se possedesse un corpo, cioè come se fosse una creatura gene-
rata, e [sotto tale sembianza] concede la propria grazia (anu-
graha) al mondo9. [Così] senza [perseguire] una qualsiasi fi-
nalità per se stesso, ma solo con l’intenzione di favorire gli es-
seri, Egli impartì l’istruzione concernente il duplice dharma
vedico ad Arjuna, il quale era sprofondato nel grande oceano
della sofferenza e della illusione, certamente pensando che il
dharma, una volta compreso e posto in atto da coloro che sono
superiormente qualificati, sarebbe tornato a una completa dif-
fusione. Questo dharma, così come è stato insegnato dal Si-
gnore, l’onnisciente venerabile Vedavyåsa lo ha raccolto nei
settecento Ÿloka denominati [Bhagavad] Gıtå. Così la Scrittura
della [Bhagavad] Gıtå compendia l’essenza del contenuto del-
l’intero Veda e il [suo vero] significato è difficile da compren-
dere. Infatti, sebbene molti [commentatori] ne abbiano appro-
fondito le affermazioni parola per parola allo scopo di rende-
re perfettamente chiara la sua portata, tuttavia, avvertendo
che i concetti che formano gli argomenti delle sentenze po-
Introduzione di Âa§kara 37

trebbero [ancora] essere afferrati dagli esseri ordinari secon-


do una molteplicità di interpretazioni totalmente contraddit-
torie, io ne fornirò sinteticamente una spiegazione allo scopo
di accertare distintamente il suo significato.
In breve, lo scopo di questa Scrittura della Gıtå (gıtåŸåstra)
è soltanto il [conseguimento del] Bene supremo, cioè la defi-
nitiva soluzione del divenire ciclico unitamente alla sua causa
[che è l’ignoranza], e ciò procede da quel dharma la cui natu-
ra è la [totale] dedizione alla conoscenza dell’åtman precedu-
ta dalla completa rinuncia (saænyåsa) a qualsiasi [forma di]
attività [rituale, sacrale, ecc.]. In tal senso, evidenziando pro-
prio questo dharma quale scopo della Gıtå, Bhagavat stesso
ha affermato nell’Anugıtå: «Invero, il dharma è affatto suffi-
ciente in relazione al raggiungimento dello stato del Brahman»
(Ma. Bhå. A. Pa. 16.12)10. E lì stesso è stato detto: «Non dipen-
de affatto né dal dharma né dall’adharma, non è in rapporto
né col puro né con l’impuro...» (Ma. Bhå. A. Pa. 19.7), «Colui,
il quale è totalmente risolto nell’Uno, ristà silenzioso e senza
alcun pensiero» (Ma. Bhå. A. Pa. 19.1) e «La conoscenza con-
siste nella rinuncia» (Ma. Bhå. A. Pa. 43.25). Anche qui, alla
fine, ad Arjuna viene detto: «Avendo abbandonato completa-
mente ogni dharma, in Me, nell’Unico, procedi per trovare ri-
fugio» (Bha. Gı. 18.66).
Sebbene il dharma inteso all’ottenimento della prosperità
[terrena o futura, ma comunque relativa] e consistente nel
compimento dell’attività (pravÿtti) sia stato ingiunto prospet-
tandolo tanto per gli ordini sociali che per gli stadi di vita,
poiché esso è anche la causa del raggiungimento della sede
dei deva, quando viene praticato in un’attitudine di [totale]
dedizione al Signore e qualora sia esente da [qualsiasi] con-
nessione a un frutto [immediato di ordine contingente], esso
[stesso] si concretizza nella purificazione della mente (sattva-
Ÿuddhi); così [tale dharma consistente nella Via dell’Azione]
diviene anche un mezzo [indiretto di realizzazione] del Bene
38 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

supremo (la liberazione) per colui la cui mente è stata [così]


purificata, [e ciò] sia perché contribuisce al conseguimento
della qualificazione a seguire la Via della Conoscenza sia per-
ché induce il sorgere della conoscenza [stessa]. E, in tal senso,
verrà detto, allo scopo di confermare questo stesso significa-
to: «(Colui che, abbandonato l’attaccamento, agisce dedican-
do) le sue opere al Brahman...» (Bha. Gı. 5.10) e «...gli yogin
(coloro che seguono il karmayoga) compiono l’azione per la
purificazione di sé abbandonando l’attaccamento» (Bha. Gı.
5.11).
La Scrittura della Gıtå, prospettando distintamente sia que-
sto dharma dalla duplice modalità, la cui finalità è il [conse-
guimento del] Bene supremo, sia la suprema Realtà denomi-
nata Våsudeva, che è anche il Brahman supremo e costituisce
il soggetto principale da trattare, presenta un argomento spe-
cifico e lo pone in connessione a una specifica utilità [rispettan-
do così i requisiti di una Scrittura conforme alla Tradizione]11.
Poiché nel suo intendimento vi è la realizzazione del perfetto
fine dell’essere umano, a tale scopo mi adopererò impegnan-
domi nella sua dilucidazione.
A questo punto [la Bhagavadgıtå prende inizio con le pa-
role]: “Dhÿtarå≤†ra disse: (Quando) sul campo del dharma (…si
furono adunati… che cosa fecero, o Sañjaya?)”, ecc.

*
NOTE alla Introduzione di Âa§kara

1
Questa strofa dei Purå√a inneggia a Nåråya√a, la suprema En-
tità conscia, lo Spirito non-duale che, costituendo la Realtà suprema
(Brahman), è trascendente anche rispetto all’Immanifesto (avyakta)
e, nello stesso tempo, viene realizzato dai Saggi (ÿ≤i) come l’intimo
åtman di ogni essere. Dall’Immanifesto – l’Essere nel suo aspetto
qualificato ma ancora inespresso – in virtù di måyå emerge Hira-
√yagarbha, il Germe universale recato dalle Acque primordiali, dal
quale prende forma l’Uovo cosmico (a√ƒa): in quest’ultimo si mani-
festa l’universo, con i suoi diversi piani di esistenza e la totalità de-
gli esseri. Il verso è riportato da Âa§kara in ossequio alla Tradizione,
per mostrare che quest’opera è di importanza fondamentale e che
anche la Smÿti – quindi i Purå√a, gli Itihåsa e la stessa Gıtå – attesta
la dottrina della Non-dualità dell’åtman. Cfr. Ma. 1.10. I dvıpa rap-
presentano i sette simbolici continenti o regioni in cui è suddiviso
il piano terreno della esistenza manifesta.
2
Il Signore (Bhagavat) è qui Våsudeva, cioè l’åtman o il Bra-
hman supremo o inqualificato (nirgu√a) sotto l’aspetto qualificato
(sagu√a) di Signore (ÙŸvara) o Creatore dell’universo. Prajåpati è il
Signore delle creature. Per i vari altri Prajåpati, cfr. Ma. 3.34-35, dove
si afferma che sono dieci; altrove vengono menzionati in diversi
numero e nome. Cfr. anche Vi. Pu. Il dharma, termine di larga acce-
zione privo di un esatto corrispettivo in italiano, ha il significato di:
‘ciò che sostiene’, ‘ciò su cui si basa’ o ‘ciò che contiene in sé’ qual-
cosa. Designa la natura intrinseca, la proprietà primaria di un ente
– talora, per estensione, l’ente stesso – quindi il dovere, ‘ciò che si
deve compiere’ allo scopo di mantenere, conservare o salvaguarda-
re qualcosa, dunque dovere religioso o di ordine sociale, ecc. Ne de-
riva l’ulteriore significato di: via, sentiero, pratica finalizzata a un
conseguimento superiore. Il dharma in senso lato è correlato al ka-
40 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

rman, l’azione causante, vista sotto una prospettiva deterministica.


Ogni ente conscio possiede ed è contraddistinto da un suo proprio
karman-dharma che lo pone in una particolare condizione di esisten-
za e ne dirige l’operato. V. nota 4.34.
3
Tali progenitori della stirpe umana sono esseri liberi dal deside-
rio, protesi solo alla trascendenza e distaccati da qualsiasi interesse
verso il piano empirico e da ogni ombra di volizione individuale; essi
sono, perciò, sempre puri e innocenti come fanciulli. Il più noto è
Sanatkumåra, l’ “eternamente giovane”. Cfr. Vi. Pu. 1.7.
4
Il termine ni¢Ÿreyas, lett. ‘senza superiore’, ‘ciò che non ha mi-
gliore’, designa sovente nelle Scritture tradizionali quello che per
l’essere è il Sommo Bene, o il Bene assoluto, cioè la definitiva libe-
razione (mok≤a, mukti) dal divenire ciclico esistenziale (saæsåra) –
lett. il termine saæsåra esprime il ‘confluire’, nel senso del fluire
complessivo della totalità formale, grossolana e sottile, costituente
la manifestazione espressa, cioè lo scorrere insieme delle forme in-
dividuate nel loro sviluppo evolutivo ed espressivo delle qualità
proprie, quelle per cui sono tali ovvero si trovano in tale condizio-
ne di esistenza – e così compare spesso nella Bhagavadgıtå e nel
bhå≤ya di Âa§kara. Cfr. 4.7, 7.18, 10.18 e 18.66. A volte definisce an-
che la natura del Brahman, essenziata di Perfezione, Pienezza e Bea-
titudine, come in 7.24, 10.1.
5
Ogni stadio di vita contempla una propria finalità esistenziale,
da conseguimenti di ordine individuale tramite l’assecondamento
del desiderio (kåma), il perseguimento della prosperità qui e nell’al
di là (artha) e l’osservanza di una condotta conforme al dovere ve-
dico (dharma), fino alla liberazione (mok≤a) dal divenire: cosa, que-
st’ultima, che rappresenta lo scopo sovrano della esistenza, il fine
umano per eccellenza (puru≤årtha).
6
Si accenna alla fase planetaria in cui il Dvåparayuga (la terza
era, le precedenti sono: Kÿtayuga o Satyayuga e Tretåyuga) volgeva
al termine e stava per iniziare il Kaliyuga, l’era oscura attuale, di
massima distanza dal Principio, caratterizzata da capovolgimento di
valori, disordine morale, ecc. e rivolta, secondo la Tradizione, verso
Note alla Introduzione di Âa§kara 41

la conclusione del ciclo universale. Alcuni ne fanno coincidere l’ini-


zio con la scomparsa di Kÿ≤√a.
7
Cfr. Ma. Bhå. Âå. Pa. 47.
8
Tra gli ordini sociali (var√a) quello dei bråhma√a è al vertice
della società tradizionale. Gli altri ordini – lo k≤atriya, connesso al
potere legislativo e militare, il vaiŸya all’aspetto finanza o di inter-
scambio energetico, e lo Ÿ¥dra all’aspetto operativo legato alla ne-
cessità – promanano da quello come riflessi da un Principio. Gli
stadi di vita (åŸrama) sono: brahmacarya, stadio dell’apprendimento,
gÿhasthya, dovere familiare e sociale, vånaprasthya, ritiro ascetico e
saænyåsa o completa rinuncia, ampiamente trattata nella Gıtå. Var√a
e åŸrama sono tra gli elementi costitutivi sulla cui equilibrata coesi-
stenza si regge la società vedica tradizionale. V. note 4.1, 2 e 6.
9
La måyå esprime l’immensa possibilità del Brahman, che nelle
Upani≤ad è detto: il “possessore” o il “signore” della måyå. È attra-
verso il suo “potere” di måyå, la capacità “che appartiene a Lui in
quanto Vi≤√u”, che, pur essendo totalmente trascendente, appare
nel suo aspetto qualificato (Brahman sagu√a, ÙŸvara), come il Signo-
re degli esseri e dei mondi. Qual è la natura di måyå e quale la sua
causa? Quale la sua sede? Qual è il suo effetto e quale il mezzo per
superarla? La måyå non è né reale (na sat) né non-reale (nåsat),
perciò non può essere né definita (anirvacanıya) né descritta (ani-
rdeŸya). Non può dirsi reale perché non appena la si osserva scom-
pare, ma nemmeno irreale in assoluto perché colui che vi soggiace
ne sperimenta gli effetti. In realtà il Brahman non è affetto da må-
yå: essa viene sovrapposta al Brahman (come capacità di apparire o
di essere percepito), per ignoranza della sua natura, da colui che ne
subisce l’effetto. Alla måyå universale corrisponde l’avidyå a livello
individuale, la non-conoscenza (ajñåna) o ignoranza di ordine me-
tafisico: pertanto inerisce alla posizione conoscitiva del soggetto e,
sussistendo in se stessa, può essere risolta con la conoscenza (vi-
dyå, jñåna). Måyå e avidyå si corrispondono reciprocamente: insie-
me esistono, insieme si dileguano. La måyå ha il duplice potere di
velamento (åvara√a) della realtà e di proiezione (vik≤epa) del non-
vero: nascondendo l’Essere inqualificato (Brahman nirgu√a) vi so-
42 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

vrappone la infinita possibilità di determinazione attraverso una


qualificazione (viŸe≤a) apparente, e proietta in seno a questa una in-
definita e cangiante molteplicità esprimentesi attraverso uno svi-
luppo progressivo delle qualità (gu√a): per questo si dice che la må-
yå si manifesta come movimento conformato e conformante. Alla
måyå è dovuta la percezione differenziata delle cose, la nozione di-
mensionale e la stessa scissione e conseguente relazione causa-ef-
fetto nonché lo stesso divenire ciclico esistenziale (saæsåra); per-
tanto è inindagabile: l’investigazione di una causa per la måyå si ri-
duce a un circolo vizioso o a una regressione senza fine; così abbia-
mo: ajñåna – måyå-avidyå – saæsåra. La måyå viene assimilata al-
l’Immanifesto principiale (avyakta) e alla Prakÿti, la natura primor-
diale, per la quale si rimanda a Bha. Gı. 13.1 e segg. – e come conti-
nuo divenire trasformante (saæsåra). V. nota 7.2. Per i gu√a, v. Bha.
Gı. 14.5 e segg.

L’Anugıtå (lett. ‘Il Canto susseguente’) è una sorta di riepilo-


10

go della Bhagavadgıtå che forma, al pari di quella, un episodio del


Mahåbhårata, comprendente i Capitoli dal 16 al 51 dell’AŸvamedha-
parvan.
11
All’inizio di ogni testo tradizionale vengono esposti i cardini
su cui si articola: il soggetto, lo scopo, l’ordine sociale o lo stadio di
vita a cui è rivolto e infine il rapporto tra l’opera e tali elementi. Qui
il soggetto è la Realtà suprema, il Brahman; lo scopo è la sua realiz-
zazione e, quindi, la liberazione dal divenire di måyå; l’ordine so-
ciale è quello degli k≤atriya per la Via dell’Azione e quello dei brå-
hma√a per la Via della Conoscenza, lo stadio è quello dei completi
rinunciatari (saænyåsin). Al riguardo Âa§kara afferma: “...colui il
quale abbia operato la completa rinuncia [a tutte le azioni] già dal
periodo dello studentato ed è fermamente stabilito soltanto nel Bra-
hman consegue il brahmanirvå√a” (ad Bha. Gı. 2.71).

*
Primo Adhyåya

(La disperazione di Arjuna)

Dhÿtarå≤†ra disse:

1.1. Quando, sul campo del dharma, sul Kuruk≤etra, si furo-


no adunati, con intenzioni bellicose, i miei [uomini] e gli stessi
[uomini] di På√ƒu, che cosa fecero, o Sañjaya? 1

Sañjaya rispose:

1.2. Invero, vedendo l’esercito dei På√ƒava schierato, allora


il re Duryodhana si accostò al suo Maestro e pronunciò il di-
scorso [seguente] 2:

1.3. O Maestro, rimira questa possente armata della prole


dei På√ƒu raccolta dal figlio di Drupada, tuo saggio discepolo 3.

1.4. Possenti arcieri vi sono quaggiù, eroi pari a Bhıma e Ar-


juna nel combattere, e ancora Yuyudhåna, Virå†a e Drupada
dal grande carro 4.

1.5. Dhÿ≤†aketu, Cekitåna e il valente re di KåŸi, Purujit, Ku-


ntibhoja e Âaibya, il più virile fra gli uomini 5.

1.6. Yudhåmanyu il possente e Uttamaujå il valente, il figlio


di Subhadrå e quelli di Draupadı, davvero tutti [guerrieri] dai
grandi carri 6.
44 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 1.7

1.7. Ma tra noi quelli che sono i più insigni ascolta [adesso],
o sommo tra i due-volte-nati, i capi della mia armata: te li elen-
cherò per la [tua] conoscenza 7.

1.8. Tu [stesso] o Signore, Bhı≤ma, Kar√a e Kÿpa, vincitore


di battaglie, AŸvatthåmå e Vikar√a e anche Jayadratha, figlio
di Somadatta,...

1.9. ...e molti altri valorosi, pronti a sacrificare per me la lo-


ro vita, servendosi di armi diverse e tutti Maestri nell’arte del
combattere.

1.10. Insufficiente è [in apparenza] la nostra armata, al co-


mando di Bhı≤ma; poderosa, invece, [sembra] questa loro arma-
ta, sotto il comando di Bhıma.

1.11. E, restando ben saldi in tutte le posizioni come sono


state assegnate, Bhı≤ma stesso dovete proteggere, invero, pro-
prio voi tutti.

1.12. Per spronare il suo istinto di lotta (di Duryodhåna) [al-


lora] l’anziano dei Kuru (Bhı≤ma), il potente avo, suonò sì forte
il suo corno da farlo ruggire come un leone.

1.13. Ben presto seguirono suoni potenti di conche, tamburi,


timpani e corni e, invero, ne nacque un gran frastuono.

1.14. Allora Mådhava (Kÿ≤√a) e lo stesso figlio di På√ƒu


(Arjuna), rimanendo ritti sul gran carro, tirato da bianchi ca-
valli, suonarono le conche loro divine 8.

1.15. Hÿ≤ıkeŸa (Signore dei sensi) suonò il suo påñcajanya,


Dhanañjaya (Arjuna, il Conquistatore delle ricchezze) il suo de-
1.23 Primo Adhyåya 45

vadatta e Bhıma, dalle terribili imprese e dal ventre di lupo,


suonò la sua grande conca pau√ƒra 9.

1.16. Il re Yudhı≤†hira, figlio di Kuntı, suonò l’anantavijaya,


Nakula e Sahadeva suonarono i loro sugho≤a e ma√ipu≤aka.

1.17. E il re di KåŸi, sommo arciere, e Âikha√ƒı, grande con-


duttore di carri, Dhÿ≤†adyumna, Virå†a e Såtyaki l’invincibile,...

1.18. ...Drupada e i figli di Draupadı tutti assieme, e il figlio


di Subhadrå, dalle possenti braccia, da ogni lato risuonarono,
ciascuno, le lor conchiglie, o Signore della terra.

1.19. Quel suono, al cui fragore echeggiarono persino la ter-


ra e il cielo, punse il cuore dei figli di Dhÿtarå≤†ra.

1.20. Allora På√ƒava (Arjuna), che aveva la scimmia per in-


segna, dopo aver visto schierati figli di Dhÿtarå≤†ra e volare le
armi da lancio, alzando l’arco,...10

1.21. ...rivolse in quel frangente, o Signore, della terra, que-


ste parole a Hÿ≤ıkeŸa (Kÿ≤√a):

Arjuna disse:

“O Acyuta (o Indissolubile, Kÿ≤√a), guida il mio carro tra i


due eserciti,...

1.22. ...perché io possa vedere gli uomini qui schierati, bramo-


si di guerreggiare e misurarsi con me in questa accesa mischia,...

1.23. ...perché io possa guardare questi stessi che sono qui


adunati, desiderosi di lottare, pronti a combattere per il volere
del figlio di Dhÿtarå≤†ra (Duryodhana), dal cuore iniquo”.
46 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 1.24

Sañjaya disse:

1.24. Così esortato da parte di GuƒåkeŸa (Colui dalle folte


chiome, o Signore del sonno, cioè Arjuna), o Bhårata (Dhÿtarå-
≤†ra: il re cieco discendente di Bharata), Hÿ≤ıkeŸa condusse il
migliore dei carri bloccandolo tra i due eserciti...

1.25. ...e, di fronte a Bhı≤ma, Dro√a e a tutti quei prìncipi


della terra, disse: “O Pårtha (o figlio di Pÿthå, cioè Arjuna), ri-
mira questi Kuru qui adunati” 11.

1.26. Allora Pårtha vide, che restavano immobili, i padri e


poi gli avi, i Maestri, gli zii, i fratelli, i figli, i nipoti e, ugual-
mente, anche i compagni,...

1.27. ...e, ancora, i suoceri e gli amici, a faccia a faccia, nei


due eserciti. Il figlio di Kuntı (Arjuna), vedendo tutti quei pa-
renti adunati in tal modo,...

1.28. ...mosso da pietà e con l’animo turbato parlò così:

Arjuna disse:

“O Kÿ≤√a, nel vedere questa mia gente mossa da ardore guer-


resco e in attesa del combattimento,...

1.29. ...le membra mi vengono meno e arsa è la bocca; un


tremito assale il mio corpo e irti diventano i miei capelli,...

1.30. ...dalla mano mi sfugge [l’arco] Gå√ƒıva e la mia stes-


sa pelle diventa ardentemente infuocata; non riesco più a reg-
germi in piedi e la mia mente è come se vacillasse.
1.38 Primo Adhyåya 47

1.31. E, ancora, segni nefasti io scorgo, o KeŸava (o Tu dalla


folta chioma, Kÿ≤√a), né prevedo [alcun] bene se uccido la mia
gente [pur] nel sacrificio della battaglia.

1.32. Non desidero vittoria, o Kÿ≤√a, né [alcun] regno, né


piaceri. Che cosa [può più valere per noi], o Govinda (o Capo
dei mandriani, Kÿ≤√a), un regno? Che cosa [possono più valere
per noi] i godimenti e la stessa vita?

1.33. Coloro per i quali desideriamo il regno, i godimenti e i


piaceri, quegli stessi sono schierati [qui] per combattere, rinun-
ciando alle ricchezze e alla vita.

1.34. Maestri, padri, figli e persino gli avi, gli zii, i suoceri,
nipoti e cognati e [altri] parenti ancora,...

1.35. ...o Madhus¥dana (o Distruttore del dèmone Madhu,


Kÿ≤√a), neanche se sarò ucciso voglio uccidere costoro, nemme-
no per il dominio del triplice mondo, quanto meno, dunque, per
amor della terra 12.

1.36. O Janårdana (o Scuotitore degli uomini Kÿ≤√a), quan-


do saranno uccisi i figli di Dhÿtarå≤†ra, quale piacere potremmo
mai avere? Anche facendo perire questi uomini ribaldi, la colpa
si attaccherebbe soltanto a noi.

1.37. Perciò non è degno, per noi, uccidere i figli di Dhÿtarå-


≤†ra, nostri parenti; in verità, o Mådhava, come potremmo esse-
re contenti dopo aver ucciso i nostri cari?

1.38. Seppur costoro, la cui ragione è guidata dalla cupidi-


gia, non riconoscano il male nel distruggere le famiglie né alcu-
na colpa nel tradire gli amici cari,...
48 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 1.39

1.39. ...come non sapremmo astenerci da codesta colpa, noi


che scorgiamo perfettamente il male nel distruggere le famiglie,
o Janårdana?

1.40. Con la fine della famiglia le [stesse] tradizioni perenni


[custodite da parte] della famiglia finiscono per disperdersi e,
quando il dharma è distrutto, è l’adharma, allora, che trionfa
sulla intera stirpe.

1.41. Quando l’adharma trionfa, o Kÿ≤√a, le donne della fa-


miglia [che devono sanamente perpetuare la progenie] diventano
corrotte e dalla corruzione delle donne, o Vår≤√eya (o discenden-
te di Vÿ≤√i, un antenato di Kÿ≤√a), deriva la confusione delle
classi sociali.

1.42. La confusione [delle classi sociali trascina] la famiglia


e coloro che hanno distrutto la famiglia nell’inferno stesso, per-
ché [colà] cadono gli [spiriti degli] antenati ai quali vengono a
mancare le offerte di riso e di acqua 13.

1.43. Per via di questi misfatti [perpetrati da parte] dei di-


struttori di famiglie, che causano la confusione degli ordini so-
ciali, vengono [altresì] annientate le perenni leggi di nascita e
le leggi della famiglia.

1.44. La dimora [finale] degli uomini le cui osservanze fa-


miliari sono state distrutte, o Janårdana, è inevitabilmente nel-
l’inferno: così ascoltammo.

1.45. Ohimé! Attenzione! Noi siamo determinati a commet-


tere una grave colpa, dacché siamo in procinto di uccidere la
nostra gente per avidità nei confronti della felicità del regnare.
1.47 Primo Adhyåya 49

1.46. Sarebbe meglio per me se i figli di Dhÿtarå≤†ra, con le


armi in pugno, mi uccidessero nella mischia, senza che io oppo-
nessi alcuna resistenza e privo di armi”.

Sañjaya disse:

1.47. Dopo aver così parlato, Arjuna, durante lo scontro, mise


da parte l’arco e le frecce e, montato sul [suo] carro, si accasciò
con l’animo sconvolto dal dolore.

Nelle Scritture yoga sulla conoscenza del Brahman


appartenenti alla Upani≤ad della sacra Bhagavadgıtå,
questo è il Primo Capitolo
nel dialogo tra Kÿ≤√a e Arjuna
intitolato:
‘La disperazione di Arjuna’.

*
NOTE al Primo Adhyåya

1
Il “campo del dharma” (dharmak≤etra) simboleggia il mondo
empirico nel quale si fronteggiano forze opposte e nel quale il jıva
svolge la sua esperienza vitale; in tal senso è anche karmak≤etra, il
“campo dell’azione”, quindi il piano della dualità, della limitazione,
della contrapposizione e della conflittualità, il regno della resisten-
za, dell’impedimento e della difficoltà. Il ‘campo’ di ogni essere è
caratterizzato dal suo dharma, l’insieme dei doveri spettanti all’in-
dividuo in base alle qualificazioni inerenti alla sua natura e alla sua
collocazione nell’ambito della società, e dal suo karman, il frutto
maturato e non degli atti compiuti. Kuruk≤etra, lett. “il campo di
Kuru”, dal nome dell’antenato di Kÿ≤√a, è lo storico sito bellico ubi-
cato nell’India settentrionale nel quale si svolse la guerra descritta
e che è ancora oggi mèta di visite e pellegrinaggi. Sañjaya è l’auri-
ga ministro del re Dhÿtarå≤†ra, privo della vista.
2
Il maestro di Duryodhana è Dro√a.
3
Il figlio di Drupada, re di Påñcåla, è Dhÿ≤†ådyumna.
4
Arjuna è l’arciere dei På√ƒava e il discepolo di Kÿ≤√a: a lui è
rivolto l’insegnamento di questo sacro testo.
5
Si tratta di valorosi combattenti assurti al rango di eroi e capi
delle rispettive armate.
6
Il figlio di Subhadrå è Abhimanyu.
7
Il “due-volte-nato” (dvija) è colui che, grazie alla iniziazione,
di cui l’investitura del sacro cordone è il segno palese, è rinato alla
vita spirituale, la vera nascita che lo porterà alla liberazione.
52 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

8
Mådhava è Kÿ≤√a, discendente di Madhu. Il carro simboleggia
il veicolo psicofisico, che nel suo sperimentare è trascinato da cavalli
quali i sensi e gli istinti o, più in generale, dai contenuti subconsci
preesistenti che ne hanno determinato la nascita. Il suo conduttore
(Kÿ≤√a) simboleggia l’åtman nel suo aspetto individuato, mentre
Arjuna è la mente egoica. Il simbolismo del carro ricorre anche in
alcune Upani≤ad, per es.: Ka. 1.3.9.

Kÿ≤√a viene nominato in vari modi, con appellativi che accen-


9

nano a doti divine o ad altre peculiarità, come: Madhus¥dana, A-


ris¥dana, Govinda, Våsudeva, Yådava, KeŸava, Mådhava, Janårda-
na, Hÿ≤ıkeŸa, Acyuta. Anche Arjuna viene chiamato in vari modi,
dei quali sarà data singolarmente la spiegazione. Per l’appellativo
Dhanañjaya (Conquistatore di ricchezza) si veda Bha. Gı. 18.29 e
Commento di Âa§kara.

På√ƒava (lett. discendente di På√ƒu) è Arjuna, la cui effigie


10

regale è rappresentata dalla scimmia Hanumån.

Pårtha è ancora Arjuna, in quanto figlio di Pÿthå. Talora è


11

chiamato Kaunteya, perché Pÿthå aveva anche nome Kuntı.


12
Il “triplice mondo” (triloka) è la manifestazione considerata
nelle tre sfere: fisica-grossolana, sottile-energetica e causale-nou-
menica. La sua controparte divina viene talora evocata con le Vyå-
hÿti, esclamazioni mistiche che simbolizzano la “terna dei mondi”
(lokatraya): la sfera terrena (bh¥r), la sfera intermedia sottoposta ai
deva (bhuvas) e quella del cielo (svar), dimora dell’Essere qualifica-
to quale Principio reggente della intera manifestazione.

Si tratta delle offerte rituali, consistenti in pallottole di riso (pi-


13

√ƒa) e in acqua (udaka), fatte agli Antenati e descritte nella sezione


del Mahåbhårata chiamata DharmaŸåstra (Ma. Bhå. 12.3. 214-215).

*
Secondo Adhyåya
(Lo yoga della investigazione discriminante1)

Sañjaya disse [a Dhÿtarå≤†ra]:

2.1. A lui (Arjuna), che era così sgomento, pervaso dalla pie-
tà e con gli occhi pieni di lacrime, Madhus¥dana (Kÿ≤√a) rivol-
se queste parole:

Ârı Bhagavat 2 disse:

2.2. Donde ti è sopraggiunta questa debolezza nel momento


difficile? Essa è indegna di un ario, non conduce al cielo ed è
apportatrice di infamia, o Arjuna.

2.3. Non cedere giammai a questo vile sentire, o Pårtha! Esso


non si conviene a te. Abbandonata la meschina debolezza di
spirito, sorgi, o Paraætapa (o Terrore degli avversari, Arjuna)!

Arjuna disse:

2.4. Come potrò, io, nello scontro, scagliarmi contro Bhı≤ma


e Dro√a, o Madhus¥dana, con i [miei] dardi, [contro quelli] che
sono entrambi degni di rispetto, o Aris¥dana (o Sterminatore
del nemico, Kÿ≤√a)?

2.5. Invero, è meglio vivere in questo mondo anche [solo] di


quanto elemosinato, che uccidere Maestri ampiamente stimati.
54 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.5

Ma dando la morte ai [miei] Maestri, per quanto avidi di gua-


dagno, godrei qui stesso [soltanto] di gioie intrise di sangue.

2.6. E non sappiamo [neanche] ciò che sarebbe meglio per


noi: se vincere [noi] o se essere, noi, vinti da loro. I figli di Dhÿ-
tarå≤†ra sono quelli schierati di fronte [a noi]: quale desiderio di
vivere potremmo [più] avere, noi, una volta uccisi quegli stessi?

2.7. Con il mio intero essere devastato dalla pecca della com-
miserazione e con l’intelligenza completamente confusa riguar-
do al [mio] dovere, ti chiedo: dimmi risolutamente quello che è
meglio per me; io sono tuo discepolo, istruiscimi, ti supplico.

2.8. Invero, non scorgo come possa venire allontanato da me


il dolore che ha inaridito i [miei] sentimenti, quando avessi ot-
tenuto sulla terra un prospero regno senza nemici o perfino la
sovranità sugli dèi.

Sañjaya disse:

2.9. Dopo che GuƒåkeŸa (Arjuna), l’uccisore dei nemici, ebbe


così parlato a Hÿ≤ıkeŸa (Kÿ≤√a), e detto a Govinda (Kÿ≤√a): ‘non
combatterò’, divenne allora silenzioso.

2.10. Hÿ≤ıkeŸa, come sorridendo, pronunciò, a lui (Arjuna)


che stava angosciato in mezzo ai due eserciti, queste parole, o
Bhårata:

Ordunque, questa parte, a cominciare dal passo: «Veden-


do l’esercito dei På√ƒava schierato...» (Bha. Gı. 1.2) fino al
passo: «...detto a Govinda: ‘non combatterò’, divenne allora
silenzioso» (Bha. Gı. 2.9), sta per essere spiegata in quanto in-
tesa a mostrare la causa del sorgere di quei mali quali la soffe-
renza, l’illusione mentale, ecc. che per gli esseri viventi costi-
2.10 Secondo Adhyåya 55

tuiscono il seme del divenire ciclico (saæsåra). In tal senso,


infatti, dal passo: «...Come potrò, io, (nello scontro, scagliar-
mi) contro Bhı≤ma...», ecc. (Bha. Gı. 2.4), da parte di Arjuna è
stato mostrato che sia la sofferenza (Ÿoka) che l’illusione men-
tale (moha) prodotte dal proprio [senso di] attaccamento o se-
parazione in rapporto a potere, maestri, figli, amici, affetti,
congiunti e parenti prossimi e lontani, sono dovute alla erro-
nea nozione: ‘io appartengo a loro, questi appartengono a me’.
Infatti, allorché la conoscenza discriminante [di Arjuna]
venne soverchiata dal dolore e dalla illusione, sebbene fosse
obbligato al combattimento, che è proprio il dovere peculiare
dello [ordine] k≤atra, [egli] si astenne da tale lotta manifestan-
do l’intenzione di intraprendere vita da mendicante, ecc., che
è il dovere di un altro [ordine sociale]3. E così, per tutti gli es-
seri viventi, i cui intelletti siano deviati dai difetti del dolore e
della illusione, si avrà in un modo analogo a questo la com-
pleta deposizione del proprio dovere, quello stesso che spetta
[loro] per propria natura, e l’assunzione di ciò che è [loro]
proibito 4. Sebbene [tutti gli esseri] siano intenti al compimen-
to del proprio dharma, la loro attività in relazione a parola,
mente e corpo, ecc. è [comunque] preceduta dall’impulso al
[conseguimento del] frutto (phala) ed è [pertanto sempre] as-
sociata al senso dell’io (ahaækåra). In tal caso, così essendo, a
causa dell’accumulo di merito e demerito (dharmådharma)5,
[per tali esseri ordinari] il divenire ciclico, consistente nella
[esperienza alterna o frammista di] felicità e sofferenza, ecc.
attraverso l’assunzione di nascite desiderabili e indesiderabili,
si verifica incessantemente; pertanto l’illusione mentale e il
dolore costituiscono il seme (bıja) del divenire ciclico. E poi-
ché Ÿrı Bhagavat Våsudeva (Kÿ≤√a) affermò che la loro cessa-
zione (nivÿtti) è determinata [soltanto] dalla conoscenza del-
l’åtman preceduta dalla completa rinuncia (saænyåsa) a [quel-
lo che è il frutto di] tutte le azioni (karman), al fine di accor-
dare la grazia al mondo intero [Egli] insegnò ciò ad Arjuna
56 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.10

[dal passo]: «Ti stai affliggendo per quelli che non dovrebbe-
ro essere rimpianti...» (Bha. Gı. 2.11).
Obiezione: A tale riguardo alcuni 6 sostengono: l’assolutez-
za (kaivalya, la liberazione) non può essere certo conseguita
soltanto grazie al mero fondarsi nella conoscenza dell’åtman
dopo aver operato la completa rinuncia a tutte le azioni.
In che modo, allora [può essere conseguita]?
Il conseguimento della assolutezza [discende bensì] dalla
conoscenza [ma] quando è abbinata all’attività [rituale, ecc.]
come l’Agnihotra, ecc.7 quale è contemplata nella Âruti e nella
Smÿti. Questo è il significato ben accertato di tutta la Gıtå. E
[a conferma di ciò costoro] adducono [diversi passi] che espri-
mono questo significato, come: «Ma se tu non affronterai
questo legittimo scontro...» (Bha. Gı. 2.33), «È la sola azione
quella per la quale tu possiedi qualificazione...» (Bha. Gı. 2.47),
«Perciò tu stesso compi l’azione come è stato fatto (dagli anti-
chi in passato)», ecc. (Bha. Gı. 4.15). Né si deve insinuare il
dubbio che l’attività rituale vedica conduce all’adharma per-
ché comporta [atti di] crudeltà, ecc. [nei confronti di esseri
viventi].
Perché?
[Perché Ÿrı Bhagavat] ha affermato: in primo luogo, che
l’azione che compete all’ordine k≤atra e che consiste specifi-
camente nel combattere, benché sia estremamente crudele dal
momento che comporta atti di violenza nei confronti di Mae-
stri, fratelli, figli, ecc., è il dharma proprio [dello k≤atriya], per
cui il compierla non conduce al demerito (adharma); in se-
condo luogo che, nel caso in cui non dovesse essere compiuta,
«...allora, obliando il tuo svadharma e il tuo onore, commette-
rai errore» (Bha. Gı. 2.33). Quanto detto fa comprendere chia-
ramente che le attività [rituali, ecc.] proprie [di ciascuno in
quanto] imposte a noi dalla Âruti per tutta la durata della vita
non sono atti la cui natura è contraria al dharma, nonostante
2.10 Secondo Adhyåya 57

che possano comportare [anche] forme di crudeltà nei con-


fronti di [esseri viventi come] animali, ecc.
Risposta: Ciò non è vero, in quanto da parte di Bhagavat, a
partire dal passo: «(Ti affliggi) per quelli che non dovrebbero
essere rimpianti...», ecc. (Bha. Gı. 2.11) fino al passo: «E poi,
considerando il tuo proprio dharma...», ecc. (Bha. Gı. 2.31), vie-
ne espressa una distinzione relativamente all’attenersi alla co-
noscenza (jñåna) o al fare assegnamento sull’attività rituale (ka-
rman), [modalità] che si fondano su due [opposte] concezioni.
Quella, descritta come la realizzazione consapevole della
essenza (tattva) qual è l’åtman in quanto realtà assoluta (pa-
ramårtha), è [definita come] Såækhya; tale concezione affer-
ma questo concetto: l’åtman è non-agente (akartÿ) poiché in
relazione all’åtman non si ha la sestuplice modificazione con-
sistente nella nascita, ecc.8 [La dottrina filosofica] che scaturi-
sce dalla effettiva realizzazione del significato di questo capi-
tolo determina la concezione Såækhya e i conoscitori dai qua-
li essa viene adottata sono [anch’essi detti] såækhya.
[Invece] la concezione che, prima del sorgere di questa co-
noscenza, presenta tale contenuto: lo yoga consiste nella pra-
tica dei mezzi di liberazione (mok≤asådhana) preceduta dalla
discriminazione tra il dharma e l’adharma e fondata sulla na-
tura di agente e sulla natura di fruitore dell’åtman, il quale
sarebbe distinto dal corpo, ecc., è [definita come] la concezio-
ne Yoga, e i praticanti ritualisti (karmin) dai quali essa viene
adottata sono [detti] yogin.
Pertanto, nel passo: «Questa, che ti è stata insegnata, è la
conoscenza in relazione al Såækhya. Ma [ora] ascolta questa
[altra conoscenza] in relazione allo Yoga...» (Bha. Gı. 2.39),
Bhagavat prospetta due distinte concezioni; delle due, laddove
dice: «In questo mondo un duplice sentiero fu da Me enuncia-
to in principio, o Anagha (o Tu senza pecca, Arjuna): (per i
såækhya è [il sentiero realizzativo] attraverso lo yoga della
58 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.10

conoscenza...)» (Bha. Gı. 3.3), esporrà separatamente ai såæ-


khya il sentiero realizzativo (ni≤†hå) attraverso lo “yoga della
conoscenza” (jñånayoga), il quale si fonda sulla concezione
Såækhya, e, in maniera simile, [laddove dice]: «...per gli yo-
gin è [quello] attraverso lo yoga dell’azione» (Bha. Gı. 3.3), in-
dicherà separatamente [agli yogin] il sentiero realizzativo at-
traverso lo “yoga dell’azione” (karmayoga), il quale si basa
sulla concezione Yoga. Così Bhagavat stesso ha enunciato due
distinti sentieri realizzativi fondati sulle concezioni che attri-
buiscono [all’åtman] una natura non-agente (akartÿtva) e di
unità (ekatva) o una natura agente (kartÿtva) e di molteplicità
(anekatva), riferendosi [rispettivamente] alla concezione Såæ-
khya e alla concezione Yoga, in quanto ha constatato che per
un solo essere umano è impossibile ricorrere contemporanea-
mente all’attività rituale (karman) e alla conoscenza (jñåna).
In maniera simile a questa menzione distinta, così stesso si
mostra nello Âatapatha Bråhma√a; dopo aver ingiunto la com-
pleta rinuncia a tutte le azioni: «(Quelli che vagano peregri-
nando), aspirando soltanto a quello stato (il Brahman), errano
avendo intrapreso la vita di monaci itineranti» (Bÿ. 4.4.22), a
completamento di ciò [si domanda]: «...cosa otterremmo da
una progenie, noi che abbiamo realizzato l’åtman e possedia-
mo questo mondo?» (Bÿ. 4.4.22). Sempre lì [si afferma che] il
Puru≤a [primordiale, ossia] l’åtman [che era uno soltanto],
prima di unirsi in matrimonio con una donna ma successiva-
mente alla [acquisizione ed espletazione della] istanza di co-
noscenza del [proprio] dharma, desiderò [ottenere] i mezzi
[di conseguimento] del triplice mondo 9, cioè la progenie e la
prosperità secondo due modalità: quella umana (månu≤a) e
quella divina (daiva). Tra le due, la prosperità di ordine uma-
no ha la natura dell’azione (karman) e costituisce un mezzo di
conseguimento del mondo dei Padri (pitÿloka), mentre la pro-
sperità di ordine divino consiste nella conoscenza (vidyå) e
costituisce il mezzo per conseguire il mondo degli Dei (deva-
2.10 Secondo Adhyåya 59

loka)10. In tal modo si mostra che tutte le attività rituali pre-


scritte dalla Âruti, ecc. concernono solamente colui che nutre
desiderio [di prosperità terrena o ultraterrena] ed è soggetto
alla ignoranza, [mentre nel passo: Bÿ. 4.4.22 si afferma in so-
stanza che] avendo abbandonato tali [desideri finalizzati al
rito, cioè la moglie e la ricchezza] «...errano avendo intrapre-
so la vita di monaci itineranti». Dunque la deposizione (vyu-
tthåna) [di qualsiasi attività rituale] viene ingiunta solamente
a colui che, libero dal desiderio, aspira al mondo che è l’åtman
(la sfera del puro Essere). In effetti, se Bhagavat avesse stabi-
lito l’associazione della conoscenza e dell’attività rituale pre-
scritta dalla Âruti, non sarebbe logicamente ammissibile una
tale menzione separata [dei due sentieri], né sarebbe plausibi-
le la domanda formulata da Arjuna [nel passo]: «...Se è tua
convinzione che la saggezza è superiore all’azione (o Janårda-
na, allora perché mi sospingi a una [così] terribile azione, o
KeŸava?)» (Bha. Gı. 3.1). In che modo Arjuna potrebbe attri-
buire a Bhagavat ciò che prima non è stato né detto da Bha-
gavat né udito [da Arjuna], cioè l’impossibilità che la cono-
scenza e l’attività rituale possano essere seguite [contempora-
neamente] da un solo individuo, e la superiorità della cono-
scenza rispetto all’azione [quale si apprende dal passo]: «...se
ritieni la conoscenza superiore all’agire...», ecc. (Bha. Gı. 3.1),
come se si trattasse di un errore?
Inoltre, se l’associazione dell’attività rituale con la cono-
scenza fosse stata espressa per tutti, allora sarebbe stata [im-
plicitamente] pronunciata anche per Arjuna; ma in tal caso,
stante l’istruzione su entrambi [i sentieri], che senso avrebbe
la domanda [da parte di Arjuna] avente per oggetto [soltanto]
uno dei due [sentieri, quale si legge nel passo] 11: «(O Kÿ≤√a,
elogi la completa rinuncia nei confronti delle azioni e altresì
lo yoga [dell’azione]). Quello, che è il migliore tra questi due,
quello solo dimmelo chiaramente» (Bha. Gı. 5.1). Infatti, se un
medico prescrive di assumere una [data pozione] dolce unita-
60 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.10

mente a una rinfrescante a quegli che desidera alleviare una


colica biliare, non può essere [sensatamente formulata da co-
stui] una domanda come: ‘di’, quale dei due [medicamenti] è
in grado [da solo] di calmare la colica?’.
Obiezione: Si potrebbe immaginare che la domanda di Ar-
juna sia stata indotta da una certa incapacità di discriminare
il significato di quanto ha enunciato Bhagavat.
Risposta: Anche in tal caso, Bhagavat, rispondendo appro-
priatamente a tale domanda, avrebbe dovuto esprimersi così:
‘io ho enunciato in maniera esplicita l’associazione di cono-
scenza e azione rituale: perciò, per qual motivo intendi erro-
neamente?’. Infine, non sarebbe ragionevole nemmeno affer-
mare come risposta appropriata [a quella domanda]: ‘prima
ho enunciato due sentieri realizzativi’, perché [ciò] risultereb-
be affatto estraneo a quanto domandato.
Non sarebbe ragionevolmente ammissibile neppure tutto
ciò [che è stato detto] in riferimento a una [ipotetica] commi-
stione della conoscenza con l’azione [quale sarebbe] imposta
dalla Smÿti [in quanto dovere dello k≤atriya], come l’enuncia-
zione della distinzione [dei sentieri, ecc.], perché [in tal caso]
non potrebbe essere a ragione ammesso [neanche l’interroga-
tivo]: «...perché mi sospingi a una [così] terribile azione, o
KeŸava?» (Bha. Gı. 3.1). Perciò nessuno può dimostrare che
nella Scrittura della Gıtå, risulti [indicata], ancorché in mini-
ma parte, la commistione della conoscenza dell’åtman con
l’attività, [come un’asserzione che provenga] o dalla Âruti o
dalla Smÿti.
Invero, per colui, il quale, a cagione di difetti derivanti
dall’ignoranza quali l’attaccamento, ecc., sia [dapprima] im-
pegnato nell’attività [sacra o profana] e [quindi] abbia purifi-
cato il mentale con il sacrificio, la donazione o l’ascesi, una
volta che sia sorta la conoscenza concernente l’essenza della
realtà suprema (paramårthatattva) [e quindi la consapevolez-
2.10 Secondo Adhyåya 61

za] che ‘tutto questo è il Brahman, uno soltanto e non-agente’,


per costui la pratica attiva in date attività svolte deliberata-
mente [può sussistere] esattamente come prima, [ma solo]
per [agevolare] la comprensione da parte di tutti, nonostante
che siano cessati [per lui] sia la [adesione alla] attività sia il
giovamento [eventualmente] prodotto dall’azione. Quella che
viene vista [come] avente natura di attività, per colui che è
impegnato nell’azione [sacra o profana], non costituisce un’a-
zione con cui possa aversi commistione con la conoscenza,
come per Bhagavat Våsudeva la [azione consistente nella spe-
cifica] attività inerente al dovere [dell’ordine] k≤atra non si
combina con la conoscenza per conseguire uno scopo umano
[determinato]; tale e quale [cioè inesistente] è la combinazio-
ne dei frutti di tale [commistione ipotizzata dall’avversario],
perché per il conoscitore il senso dell’io (ahaækåra) è assente.
Invero, il conoscitore della verità (tattvavid) non pensa: ‘sono
io che agisco’ né crea attaccamento al frutto di una tale [even-
tuale azione]. E [ancora, ciò è] come per colui che aspira al
mondo celeste (svarga)12, ecc.: l’offerta al fuoco [nel particola-
re rito chiamato Agnyådhåna13 compiuta preliminarmente e]
al fine di adempiere il proprio dovere [di ordine sociale] con-
sistente nella celebrazione di riti come l’Agnihotra, ecc., rende
certamente [quest’ultimo un rito] finalizzato (kåmya). D’altra
parte, se il desiderio [verso il mondo celeste, ecc.] di colui che
è impegnato nel compimento dell’Agnihotra, ecc. viene a ces-
sare ancor prima [del completamento di tale attività], ossia
mentre costui sta ancora celebrando l’Agnihotra, ecc., allora
per lui l’Agnihotra e gli altri [riti] cessano del tutto di essere
finalizzati [all’ottenimento di un frutto]. E in tal senso si espri-
me Bhagavat in passi come: «...pur compiendo [l’azione], non
[ne] è contaminato» (Bha. Gı. 5.7), «Essendo senza inizio ed
essendo privo di attributi, questo supremo åtman inalterabile,
sebbene risieda nel corpo... non agisce né è contaminato [dal
frutto dell’azione]» (Bha. Gı. 13.31) e in vari altri.
62 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.10

Viceversa, per quanto riguarda i passi: «Così conoscendo


è stata compiuta l’azione anche da parte degli antichi, protesi
verso la liberazione. Perciò tu compi pure l’azione come è sta-
to fatto dagli antichi in passato» (Bha. Gı. 4.15), e: «Mediante
l’azione soltanto, invero, Janaka e gli altri cercarono la perfe-
zione...» (Bha. Gı. 3.20), vi si deve scorgere una distinzione.
In che senso?
Innanzitutto, se Janaka e gli altri, pur essendo conoscitori
della verità, erano impegnati nel compimento delle attività, lo
fecero allo scopo di offrire un esempio con l’essere di benefi-
cio al mondo in quanto, come si legge in un passo, «...sono i
gu√a che agiscono sui gu√a...» (Bha. Gı. 3.28), per cui rag-
giunsero la perfezione (saæsiddhi) soltanto con la conoscenza.
[In altri termini] sebbene la completa rinuncia all’attività fos-
se stata [da loro] conseguita [come stadio di vita], essi rag-
giunsero bensì la perfezione [tramite la conoscenza, ma] solo
unitamente all’azione; vale a dire che non operarono la totale
rinuncia nei confronti dell’attività.
Viceversa, qualora costoro non fossero stati conoscitori
della verità, in tal caso spiegheremmo [il passo] nel senso che
Janaka e gli altri ottennero la perfezione (saæsiddhi) con quel
mezzo che è l’offrire l’azione a ÙŸvara, oppure [ottennero] la
perfezione come purificazione del mentale (sattvaŸuddhi) carat-
terizzata dal sorgere della conoscenza (jñånotpatti). Proprio
questo significato esporrà Bhagavat [nel passo]: «...gli yogin
compiono l’azione per la purificazione di sé...» (Bha. Gı. 5.11).
[Più avanti] dopo aver detto: «L’uomo trova la perfezione ono-
rando, mediante la propria opera, Quello (donde si ha il pro-
manare degli esseri e dal quale tutto questo [universo] è per-
meato)» (Bha. Gı. 18.46), [Bhagavat] enuncerà nuovamente il
sentiero realizzativo attraverso la conoscenza per colui che ha
[già] raggiunto la perfezione [tramite le opere, dicendo]: «Co-
me, colui che ha ottenuto la perfezione, così realizzi il Bra-
hman (ascoltalo da Me affatto in breve...)», ecc. (Bha. Gı. 18.50).
2.11 Secondo Adhyåya 63

Perciò il chiaro significato espresso nella Scrittura della


Gıtå è che il conseguimento della liberazione (mok≤apråpti) si
ha grazie alla sola conoscenza della realtà (tattvajñåna) e non
da una sua combinazione con l’attività rituale, e questo signi-
ficato lo dimostreremo ugualmente in ogni singolo caso nelle
diverse parti della [presente] opera.
A tale riguardo, Bhagavat Våsudeva avvertì la necessità di
risollevare Arjuna, che era così sprofondato nel grande oceano
della sofferenza, con la mente del tutto confusa riguardo al [pro-
prio] dovere e latore di una conoscenza illusoria, con la cono-
scenza dell’åtman; quindi, con compassione, guidandolo verso
la conoscenza dell’åtman, cominciò ad istruire Arjuna dicendo:

Ârı Bhagavat disse:

2.11. Tu ti stai affliggendo per quelli che non dovrebbero es-


sere rimpianti, eppure pronunci affermazioni sensate, [ma] i
saggi non si affliggono né per coloro che appaiono né per coloro
che scompaiono.

[Individui come] Bhı≤ma, Dro√a e gli altri non devono es-


sere rimpianti, non vanno commiserati, perché di retta con-
dotta (sadvÿtta) e perché la [loro] natura è di realtà suprema
(paramårtha), per cui sono eterni. “Tu ti stai affliggendo” per
loro, cioè “per quelli che non dovrebbero essere rimpianti”,
cioè sei angustiato [per la loro sorte]: [se] costoro muoiono
[per mano tua, tu pensi]: ‘sono io la causa di ciò: rimasto sen-
za di loro, che cosa farò del potere, dei piaceri e del resto?’ 14.
“...eppure pronunci affermazioni sensate”, [proferisci] espres-
sioni e affermazioni che rivelano saggezza e intelligenza: [ma]
questa stessa saggezza si rivela contraddittoria come fosse
[quella] di un pazzo, vale a dire che ti dimostri come se fossi
folle; infatti “i saggi”, i conoscitori dell’åtman, “non si afflig-
gono né per coloro che appaiono”, per quelli che vengono alla
64 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.11

vita, “né per coloro che scompaiono”, per quelli che lasciano
la vita, e nemmeno per quelli che vivono. In realtà, [veri] sa-
pienti sono coloro la cui saggezza è la consapevolezza dell’å-
tman, come [si può apprendere] dalla Âruti: «...avendo trasce-
so la [comune] sapienza...» (Bÿ. 3.5.1). Invero ti affliggi per
quelli che in realtà non vanno rimpianti in quanto sono eter-
ni, quindi sei un folle. Tale è il senso.
Perché essi non vanno rimpianti?
Perché hanno natura eterna.
In che senso?

2.12. Invero, mai Io fui affatto non-esistente, né tu né questi


prìncipi né, di là da qui, noi tutti saremo affatto non-esistenti.

“Invero mai”, in nessun tempo, “Io fui affatto non-esisten-


te”, ma certamente sono stato sempre esistente. Io sono esisti-
to sempre, eterno come lo spazio nei vasi, ecc., lungo le tra-
scorse venute all’esistenza e dissoluzioni del corpo. Tale è il
senso. “...né”, similmente, “tu” non fosti, ma certamente esi-
stesti sempre; “né”, similmente, [vi è stato un tempo in cui]
“questi prìncipi” non furono, ma certamente essi esistettero
sempre; “né”, similmente, “di là da qui”, ovvero neanche in un
tempo successivo alla distruzione di questo corpo, “noi tutti
saremo affatto non-esistenti”, ma certamente esisteremo [sem-
pre perché] eterni, in virtù della [nostra] propria natura di å-
tman, anche nei tre tempi. Tale è il significato. L’espressione
al plurale [è impiegata] a causa dell’apparenza di una molte-
plice differenziazione in relazione ai corpi e non nel senso di
molteplicità o distinzione in seno all’åtman.
Al riguardo, in che senso l’åtman è eterno?
[Il testo] espone un esempio:

2.13. Per l’essere incarnato, come si hanno in questo corpo


[le fasi di] infanzia, giovinezza e vecchiaia, così si ha [anche]
2.13 Secondo Adhyåya 65

l’assunzione di un nuovo corpo. In merito a ciò il saggio risolu-


to non resta confuso.

Quegli che possiede un corpo è [detto] un essere incarna-


to (dehin). “Per l’essere incarnato”, ossia per colui in relazione
al quale l’åtman appare manifestarsi in un veicolo fisico, “co-
me si hanno in questo corpo”, cioè finché il corpo sussiste,
“[le fasi di] infanzia”, ossia l’esistenza in uno stadio infantile,
ovvero la condizione di fanciullezza, la “giovinezza”, ovvero
l’esistenza come individuo maturo, che è la condizione inter-
media, “e la vecchiaia...”, cioè l’età del declino, la condizione
di decadimento fisico... – laddove queste tre condizioni [della
vita] sono completamente diverse l’una dall’altra. Tra loro,
alla cessazione della prima condizione l’åtman non si distrug-
ge, né nasce al sorgere della seconda condizione [ecc.].
Che cosa [avviene] allora?
Si osserva che l’åtman assume la seconda e la terza condi-
zione senza [subire alcuna] modificazione e restando [sem-
pre] unico [ossia il medesimo]; “così”, affatto tale e quale, “si
ha [anche] l’assunzione” da parte sua “di un nuovo corpo”,
vale a dire l’acquisizione di un ulteriore veicolo corporeo di-
verso dal corpo [attuale] per l’åtman, il quale rimane affatto
privo di modificazione. Così essendo, “in merito a ciò il sag-
gio risoluto”, l’essere dotato di intelletto [discriminante],
“non resta confuso”, non prova smarrimento [alcuno] 15.

Obiezione: Sebbene lo smarrimento dovuto alla [paura per


la] distruzione di sé [in quanto åtman] non possa aversi per
colui che sa perfettamente che l’åtman è eterno, tuttavia per
l’essere ordinario si constata il turbamento dovuto alla espe-
rienza di [coppie di opposti quali] freddo e caldo, piacere e
dolore, [come altresì] l’ottenebrazione indotta dal distacco
dalle cose piacevoli, e la sofferenza determinata dal contatto
con le cose spiacevoli.
66 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.13

Risposta: Dissipando questa affermazione di Arjuna, Bha-


gavat disse:

2.14. O figlio di Kuntı, invero le impressioni dei sensi [nate]


dal contatto con le cose materiali producono caldo e freddo, do-
lore e piacere; esse vanno e vengono, [per cui] sono imperma-
nenti. Sopportale pazientemente, o Bhårata.

Le impressioni dei sensi (måtra) vengono da noi perce-


pite come il suono, ecc.; i sensi (indriya) sono l’udito e gli
altri. I contatti relativi alle impressioni sensoriali si hanno
quando si verificano i contatti [dei sensi] con il suono e gli
altri [oggetti]: tali [contatti] “producono caldo e freddo, do-
lore e piacere”, cioè danno luogo a [sensazioni come quelle
di] caldo e freddo e quindi alla sofferenza o al godimento.
Oppure [secondo un’altra prospettiva] oggetti come il suo-
no e gli altri rappresentano [direttamente] i contatti (spa-
rŸa) per il motivo che entrano in contatto [con i sensi]. Co-
munque, sia le impressioni sensoriali sia i contatti [donde
originano] producono [le sensazioni ed esperienze di] caldo
e freddo, [e quindi] piacere e dolore. Ora il freddo può es-
sere talora piacevole talaltra sgradevole e, similmente, an-
che il caldo ha una natura non fissata (aniyata) [cioè inde-
terminata o variabile a seconda della circostanza, del sog-
getto, ecc.]. D’altra parte, il piacere e il dolore presentano
una natura determinata [per ciascuno], perché non variano
[il carattere della loro esperienza]16: questo è il motivo per
cui si ha una menzione separata del caldo e del freddo
[quali oggetti-causa] rispetto a loro due (piacere e dolore
quali effetti).
Poiché tali impressioni dei sensi [nate] dal contatto con le
cose materiali “vanno e vengono”, ossia per loro natura appa-
iono e scompaiono, per tale motivo “sono impermanenti”
(anitya). Pertanto “sopportale pazientemente (o Bhårata)”,
2.16 Secondo Adhyåya 67

cioè persevera nel tollerare il caldo, il freddo e gli altri [ogget-


ti o dualismi conflittuali]; vale a dire, non creare [l’idea di]
godimento o di sofferenza in [relazione a] loro17.
Obiezione: Che cosa si avrà, per colui che sopporta il cal-
do, il freddo, ecc.?
Risposta: Ascolta:

2.15. O migliore tra gli uomini, l’essere umano che queste


[impressioni] invero non turbano, equanime nel dolore e nel
piacere, [solo] quegli, saggio risoluto, è degno d’immortalità.

“...l’essere umano che... invero... equanime nel piacere e


nel dolore...” – è equanime nel dolore e nel piacere (samadu¢-
khasukha) colui per il quale il dolore e il piacere sono la me-
desima cosa, ovvero: [sebbene] sperimenti il piacere e il dolo-
re, resta immune sia dall’entusiasmo che dall’abbattimento –
“che queste [impressioni]”, quali sono state menzionate come
il caldo, il freddo, ecc., “...non turbano”, non fanno vacillare,
in virtù della [sua] percezione consapevole dell’åtman, [solo]
“quegli, saggio risoluto” (dhıra), cioè dotato di intelletto [di-
scriminante] e fermamente stabilito nella consapevolezza del-
l’åtman eterno, e il quale sopporta qualsiasi coppia [di oppo-
sti], “è degno d’immortalità”, cioè di una esistenza immortale,
ovvero della liberazione (mok≤a), vale a dire che diviene in
grado di conseguirla.
E quindi è opportuno tollerare [le coppie di opposti quali]
caldo, freddo, ecc. avendo rimosso [le nozioni di] sofferenza e
turbamento perché:

2.16. Del non-essere non vi è venuta all’esistenza, dell’essere


non vi è cessazione di esistenza. Ma la verità ultima di questi
due è stata vista [soltanto] da coloro i quali hanno compreso la
natura di Quello.
68 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.16

“Del non-essere” (asat, il non-reale), ossia di ciò che non è


[in assoluto], “non vi è”, non si dà “venuta all’esistenza” (bhå-
va), dove l’esistere (bhavana) è lo stato di ciò che è (astitå),
come [avviene] per il caldo e il freddo, ecc. [che sono sensazio-
ni-effetti] con le rispettive cause [che sono i contatti dei sensi
con gli oggetti]. Invero, sebbene il caldo e il freddo, ecc., insie-
me con le loro cause, vengano stabiliti attraverso mezzi di evi-
denza conoscitiva [come la percezione sensoriale, ecc.], non co-
stituiscono entità reali (vastusat): infatti ciascuno [di loro] è
una modificazione (vikåra) e una modificazione è destinata a
cessare (vyabhicarati) [per cui non ha natura di ‘ciò che è’].
Come la presenza di un vaso, ecc. (la forma), sebbene sta-
bilita attraverso la vista, è non-reale in quanto non si può per-
cepirla separatamente dall’argilla (il sostrato), così qualunque
modificazione è non-reale non potendo essere percepita sepa-
ratamente dalla sua causa. Inoltre, non solo l’effetto, come un
vaso, ecc., ha natura non-reale (asattva) in quanto non viene
percepito né prima della sua produzione né dopo la sua distru-
zione18, ma [è non-reale] anche la causa [sostanziale], come
l’argilla, ecc., perché non può essere percepita separatamente
dalla sua stessa causa [cioè i suoi componenti elementali, es-
sendo questi a loro volta un effetto e così via]19.
Obiezione: Essendo ciò (effetto e causa) non-reale, ne con-
segue l’inesistenza di tutto! 20
Risposta: No, perché nella percezione (upalabdhi) vi è in
ogni caso una duplice conoscenza: la nozione dell’essere (sa-
dbuddhi) e la nozione del non-essere (asadbuddhi) 21.
Quella conoscenza, il cui contenuto non cessa mai (la co-
scienza dell’essere), è reale; quella, il cui contenuto cessa (la
cognizione della forma-apparenza), è non-reale 22. Dovunque
le due conoscenze, presenti nell’ambito della percezione in
quanto distinte in reale e non-reale, vengono sperimentate da
chiunque, in relazione a un medesimo sostrato [di coscienza,
2.16 Secondo Adhyåya 69

nella forma]: ‘un vaso esistente’, ‘un tessuto esistente’, ‘un


elefante esistente’ [dove un ente-forma, variabile, qualifica la
coscienza della esistenza, invariabile]23, ma non come: ‘un loto
blu’ [dove un attributo qualifica un ente definito da un nome-
forma]24. In qualsiasi caso è così 25.
Delle due conoscenze, la cognizione [del non-essere, cioè
quella] relativa al vaso, ecc. può cessare (conoscenza non-rea-
le), così come è stato mostrato, ma non la nozione dell’essere
(conoscenza reale). Perciò il contenuto della conoscenza del
vaso, ecc. [come forma-modificazione percepita] è non-reale
in quanto destinato a cessare, ma non il contenuto della no-
zione dell’essere, non essendo destinato a cessare [in quanto
coscienza, o consapevolezza della esistenza in sé e quindi al di
là delle modificazioni].
Obiezione: Ma quando il vaso è distrutto e la conoscenza
del vaso è cessata, viene meno anche la conoscenza reale?
Risposta: No, perché si constata che la conoscenza dell’es-
sere può riferirsi a [un altro oggetto come] un tessuto, ecc.:
[infatti] la consapevolezza dell’essere è proprio quella il cui
[eventuale] contenuto è l’attributo [od oggetto] qualificante
(viŸe≤a√a) 26.
Obiezione: Tuttavia la conoscenza del vaso potrebbe esse-
re constatata anche in relazione a un altro vaso, [per cui tale
conoscenza, associata al contenuto, sarebbe sempre esistente]
al pari della conoscenza reale.
Risposta: No, dal momento che non viene constatata [per
esempio] in relazione a [un altro oggetto non direttamente
presente come] un tessuto, ecc.
Obiezione: Quando il vaso è distrutto, non si constata più
nemmeno la conoscenza reale [cioè il sostrato qualificabile,
viŸe≤ya].
70 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.16

Risposta: No, [ciò sarebbe assurdo proprio] a causa della


inesistenza [da voi ipotizzata] del [sostrato di coscienza che
come tale è il] qualificato (viŸe≤ya)! Se la conoscenza reale [che
è il sostrato privo di qualificazione ma suscettibile di essere
qualificato] esistesse [solo] quando ha come contenuto il qua-
lificante (viŸe≤a√a), quale sarà il suo contenuto se, in assenza
del [sostrato di coscienza che può essere] qualificato, non si
può ammettere nemmeno il qualificante?27 Invero, [tale difet-
to da Voi presunto] dovuto all’assenza di contenuto non si
avrà mai per la conoscenza reale (essendo essa il sostrato-
contenente sempre esistente)28.
Obiezione: Non è logico che in assenza del qualificato, e
quindi di [oggetti qualificanti come] vasi, ecc., permanga
[sempre] un medesimo e unico sostrato29.
Risposta: Non è così, perché si constata l’uguaglianza del
sostrato [di coscienza dell’essere] anche se uno dei due (og-
getto o attributo, consapevolezza della esistenza o della forma-
ente) è inesistente, come nel caso di un miraggio, ecc. nel quale
[la conoscenza si presenta nei termini]: ‘questa è acqua’ (dove
l’immagine dell’acqua, benché non-reale, qualifica il sostrato
di coscienza reale) 30.
Pertanto, del ‘non-essere’ (asat, il non-reale), come il cor-
po, ecc. e come le coppie [di opposti], unitamente alla propria
causa, non vi è venuta all’esistenza (bhåva). Viceversa, dell’
‘essere’ (sat, il reale), cioè per l’åtman, non vi è cessazione di
esistenza (abhåva), ovvero [non può esservi] assenza di esi-
stenza, perché, come abbiamo già detto, [la conoscenza ad
Esso inerente] non cessa mai31.
“Ma la verità ultima di questi due” così come sono stati
enunciati, vale a dire l’åtman e ciò che non è l’åtman, che
sono rispettivamente l’ ‘essere’ (sat, il reale) e il ‘non-essere’
(asat, il non-reale), accertata nei termini: ‘ciò che è, è sem -
pre, ciò che non è, non è mai’, “è stata vista”, cioè realizzata
2.17 Secondo Adhyåya 71

“[soltanto] da coloro i quali hanno compreso la natura di


Quello”.
[Il pronome] Quello (tad) [che compare nella parola: ta-
ttva, essenza, “natura di Quello”] definisce la totalità, indica il
Tutto, cioè il Brahman: Quello è il suo nome32.
Coloro i quali hanno compreso la natura di Quello (tattva-
darŸina¢) – [espressione che compare nella frase:] “...da colo-
ro i quali hanno compreso la natura di Quello” – sono quelli
totalmente dediti a realizzare Quello, cioè [a realizzare] l’es-
senza della natura di Quello, la natura del Brahman così qual
essa è.
Anche tu, adottata la visione di coloro i quali hanno com-
preso la natura di Quello, dopo aver distrutto [le nozioni di]
dolore e illusione e aver preso atto nella mente che le coppie
di opposti come caldo e freddo, ecc., [alcune] dalla natura sta-
bile (cioè costante e invariabile) e [altre dalla natura] instabile
(cioè incostante o variabile), sono solo una modificazione af-
fatto non-reale che si manifesta in maniera apparente come
l’acqua in un miraggio, pazienta tenacemente [sperimentando
tali coppie di opposti]! Tale è il senso.
Obiezione: Allora, che cosa è ciò che è assolutamente rea-
le, ovvero esiste sempre?
Risposta: Si dice:

2.17. Ma sappi che è indistruttibile Quello dal quale tutto


questo è permeato. Di questo Inalterabile nessuno può causare
la distruzione.

È indistruttibile (avinåŸi) ciò del quale non si può distrug-


gere la natura intrinseca. Il termine “ma” (tu) ha lo scopo di
esprimere una distinzione rispetto al non-reale. “(Ma) sappi”,
devi riconoscere chiaramente “che (è indistruttibile) Quello...”.
Quale?
72 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.17

“[Quello] dal quale tutto questo” universo, compreso lo


spazio, “è permeato”, è pervaso dal Brahman definito quale
Essere-reale (sat) come vasi e altri [oggetti sono pervasi] dal-
lo spazio [elementale]33.
La distruzione (vinåŸa) dell’Inalterabile (avyaya) comporta
la sua scomparsa [ovvero la sua cessata percezione] e, quindi,
la non-esistenza [in assoluto ovvero la cessazione di esisten-
za] dell’Inalterabile stesso; [ma] l’Inalterabile non si dissolve
né subisce aumento o diminuzione. Questo Brahman, definito
sat, non si disperde né di per sé, ossia per la sua stessa natura,
è soggetto a decadimento, essendo privo di parti come [inve-
ce] è un corpo, ecc., nemmeno per ciò che gli potrebbe appar-
tenere, poiché non vi è nulla che gli appartenga: un tale De-
vadatta può cadere in rovina per la perdita dei suoi beni, ma
non è così per il Brahman che non subisce perdita alcuna.
Quindi “Di questo Inalterabile” che è il Brahman “nessuno
può causare la distruzione”, nessuno tra noi è in grado di di-
struggerlo, nemmeno il Signore (ÙŸvara).
Invero il Brahman è il Sé (åtman) [per cui non può nem-
meno autodistruggersi] perché non si dà atto che vada contro
sé stessi.
Obiezione: Allora, che cosa è ciò che è assolutamente non-
reale, ovvero vede dissolversi di per sé la [propria] esistenza?
Risposta: Si dice:

2.18. Perituri sono detti questi corpi dell’eterno, dell’essere


incarnato, dell’indistruttibile, dell’inconoscibile. Perciò combat-
ti, o Bhårata.

Sono destinati a cessare quegli (gli enti) per i quali vi è un


termine (anta), una distruzione: essi sono [detti] “perituri” (a-
ntavat). Come cessa la nozione di realtà in relazione al mirag-
gio, ecc. in conseguenza dell’accertamento [della vera natura
2.18 Secondo Adhyåya 73

della immagine percepita] tramite i mezzi cognitivi appropriati


– e tale [accertamento] è la sua fine (anta) – così “perituri
sono (detti) questi corpi dell’eterno, dell’essere incarnato”, cioè
di quello che è come se possedesse un corpo, “dell’indistrutti-
bile”, dell’åtman cioè “dell’inconoscibile”, al pari dei corpi
[percepiti come immagini] di sogno o prodotti dall’incantesi-
mo [di un illusionista], ecc; vale a dire che “sono detti” essere
perituri da coloro che discriminano.
[Le espressioni] “dell’eterno” e “dell’indistruttibile” non
formano una ripetizione, perché nella comune esperienza si
ha una duplice specie di eternità e anche di distruzione. Come
un corpo, una volta ridotto in cenere, è divenuto invisibile,
per cui si dice che è andato distrutto, così è anche [per un cor-
po che] sebbene esistente, qualora sia cambiato a causa di
malattie, ecc. e abbia assunto un altro [aspetto] per cui è di-
venuto altro, si dice che sia andato distrutto. In questo conte-
sto ciò significa che, con le espressioni: “dell’indistruttibile” e
“dell’eterno”, per questo åtman non vi è rapporto con nessu-
na delle due forme di distruzione (quella per cui un ente scom-
pare e quella per cui un ente si trasforma divenendo altro da
sé). Altrimenti la natura eterna dell’åtman sarebbe simile a
quella della terra e degli altri elementi [che è solo di ordine
relativo e commisurata al tempo universale]. [Proprio] al fine
di evitare ciò [il testo] dice: “dell’indistruttibile” e “dell’eter-
no”. [L’espressione] “dell’inconoscibile” sta a significare: di
quello che non è conoscibile, di quello che non può essere de-
terminato attraverso i mezzi di conoscenza ordinari (pramå-
√a) quali la percezione sensoriale e gli altri34.
Obiezione: Comunque l’åtman viene determinato attraver-
so la Tradizione scritturale (ågama) e, prima [di questa], con
la percezione sensoriale, ecc.
Risposta: No, perché l’åtman è [sempre] autorealizzato
(svata¢siddha). Invero, è [soltanto] quando l’åtman, che è il co-
74 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.18

noscitore (pramåtÿ), è realizzato, che colui che intende acquisi-


re la vera conoscenza (pramitsu) può dedicarsi alla ricerca dei
mezzi validi di conoscenza; infatti, se prima non si è determi-
nato [cioè non si ha coscienza di] sé stessi come: ‘io sono così’
(il soggetto), non si può procedere a determinare il conoscibile
(l’oggetto). In effetti, l’åtman non è [mai] non-realizzato (apra-
siddha) per nessuno35. In verità la Scrittura (Ÿåstra), che rappre-
senta per eccellenza il mezzo di conoscenza autorevole e defi-
nitivo conferma la propria validità cognitiva in relazione all’å-
tman unicamente rimuovendo le sovrapposizioni di natura dif-
forme [dall’åtman stesso]36, ma non facendo conoscere un si-
gnificato altrimenti sconosciuto, e in tal senso anche la Âruti
afferma: «(...parlami del) Brahman, quello che è diretto e im-
mediato, colui il quale è il sé interno a tutto» (Bÿ. 3.4.1).
Poiché è così, ossia l’åtman è eterno e immutabile, “perciò
combatti...”, vale a dire non recedere dallo scontro.
In verità qui non viene ingiunto l’atto di combattere: in
effetti questi (Arjuna) si era già impegnato nel combattimen-
to, ma, essendo stato bloccato dal dolore e dall’offuscamento
mentale, era rimasto silenziosamente immobile; quindi Bha-
gavat opera soltanto la rimozione dei suoi impedimenti. Per-
ciò [il comando]: ‘combatti’, non costituisce una ingiunzione
[nuova a compiere qualcosa di necessario], ma solo una con-
ferma [di quanto già detto, ossia che le idee di dolore, ecc.
sono illusorie, per cui non vi è motivo di astenersi dal com-
battere, e, nello stesso tempo, che il combattere è il dharma
dello k≤atriya].
La Scrittura della Gıtå intende estinguere le cause del di-
venire ciclico quali il dolore, l’illusione, ecc. e non imporre at-
tività. Così Bhagavat cita due passi vedici che testimoniano
questo intendimento.
Ma, invero, questa tua convinzione, allorché pensi: ‘Bhı-
≤ma e gli altri verranno da me uccisi nel corso della battaglia’
e ‘io stesso sarò il loro uccisore’, è affatto erronea.
2.20 Secondo Adhyåya 75

In che senso?

2.19. Colui il quale lo considera ‘uccisore’, e colui il quale lo


pensa ‘ucciso’, entrambi costoro non conoscono distintamente:
questo [åtman] non uccide né viene ucciso.

“Colui il quale lo considera”, ritiene l’essere incarnato (l’å-


tman) di cui si sta trattando, “uccisore”, ossia l’agente in rela-
zione all’atto di uccidere, “e colui”, un altro, “il quale lo pensa
‘ucciso’”, come: ‘io sono stato ucciso attraverso l’uccisione del
[mio] corpo’, ossia [ritiene che egli stesso] è divenuto l’ogget-
to in relazione all’atto di uccidere, “entrambi costoro non co-
noscono distintamente” l’åtman, non posseggono la [reale]
conoscenza [di sé in quanto åtman] a causa della mancanza di
discriminazione. Ciò significa che entrambi coloro, i quali pen-
sano ‘io sono l’uccisore’ e ‘io sono stato ucciso’, per cui [ri-
tengono] l’åtman essere il contenuto della consapevolezza ‘io’
[identificata con il corpo], non hanno compreso la reale natu-
ra dell’åtman, perché “questo” åtman “non uccide”, cioè non
diviene il soggetto agente in relazione all’atto di uccidere, “né
viene ucciso”, cioè non diviene l’oggetto [in relazione al me-
desimo atto]; tale è il significato, e ciò in virtù della [sua] na-
tura di immodificabilità (avikriyatva)37.
Il senso secondo cui l’åtman è immodificabile, [lo chiari-
sce] il verso seguente:

2.20. Non nasce né mai muore; questo [åtman, pur] essendo


stato, non cessa di essere, e neppure viceversa. Non-nato, eterno,
costante, questo antico [åtman] non viene ucciso [neanche]
quando il corpo viene ucciso.

“Non nasce”, non viene a esistere: vale a dire che per l’å-
tman non vi è cambiamento nello stato di essere che consi-
sta [per esempio] nella nascita; “né (mai) muore” – il termi-
76 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.20

ne “o” (vå) è impiegato nel senso di “e” (ca), ossia: e non


muore (mai), il che nega un cambiamento come la distruzio-
ne finale. Il termine “mai” va connesso con le negazioni di
qualsiasi cambiamento, in questo modo: non nasce mai e
non muore mai.
Poiché “questo” åtman, [pur dapprima] “essendo stato”,
cioè esprimendo esistenza in atto, poi “non cessa di essere”,
cioè [non] procede più, nuovamente verso la non-esistenza,
perciò non muore. Infatti nel piano empirico si dice che muo-
re colui il quale, [pur] esistendo [un tempo, poi] non esiste
[più]. Ora, dal termine “oppure” (vå) e dal termine “non” (na)
[nella espressione “neppure viceversa” (vå na bh¥yas), si
nega che] inversamente [a quanto espresso] questo åtman,
non essendo [prima], possa [poi un tempo] venire a essere,
cioè di nuovo [a esistere], al pari di un corpo [che nasce];
[per cui si dice] “neppure viceversa”. Infatti, si dice che na-
sce colui il quale, [dapprima] non essendo, [poi] divenga esi-
stente; ma l’åtman non è così, quindi non nasce. Poiché è
così, perciò è “non-nato” (aja), e poiché non muore, perciò è
“eterno” (nitya).
Sebbene, quando vi è la negazione delle due modificazioni
relative all’inizio (ådi) e alla fine (anta) [della esistenza di un
ente], risultino negate [anche] tutte le [altre] modificazioni,
tuttavia si deve esprimere, con i termini propri relativi a tale
significato, la negazione [esplicita] delle modificazioni ine-
renti alle condizioni di esistenza intermedie; così si afferma
che, con [l’aggettivo] “costante” (ŸåŸvata), ecc., sarà espressa
altresì la negazione di tutte quelle modificazioni quali [le con-
dizioni di esistenza come] la fase giovanile, ecc., anch’esse
non menzionate esplicitamente. [Per quanto concerne l’ag-
gettivo] “...costante”: è costante (ŸåŸvata) ciò la cui esistenza è
stabilmente immutabile e in relazione a cui si nega [qualun-
que] cambiamento quale quello consistente in un decadimento
(apak≤aya): dunque esso (l’åtman) non decade di per sé, per la
2.21 Secondo Adhyåya 77

sua stessa natura, essendo privo di parti, e neppure si ha [per


l’åtman] un decadimento dovuto alla degenerazione dei suoi
attributi (gu√a), essendo privo di attributi (nirgu√a). [In rela-
zione all’åtman] viene negato anche quel cambiamento consi-
stente nello sviluppo (vÿddhi) e opposto al decadimento; per
cui è [detto] “antico” (purå√a). Infatti, si dice che si sviluppa e
si rinnova ciò che si accresce in virtù dell’accumulo [e della
trasformazione, ecc.] delle sue parti; ma questo åtman, essen-
do privo di parti, è [sempre] nuovo, dunque anche in passato
[come al presente e in futuro, essendo immutabile]; vale a dire
che l’ “antico” non è soggetto a sviluppo. Similmente non è
ucciso, cioè non subisce mutamento, neanche quando il corpo
viene ucciso oppure si trasforma: in questo contesto l’uccisio-
ne deve essere compresa nel senso di trasformazione (pariÌ-
ma) in modo da evitare una ripetizione [con quanto detto nel
verso precedente]; vale a dire che [l’åtman] non si trasforma
[mai]. Dunque in questo mantra vengono negati in relazione
all’åtman quei cambiamenti [che coinvolgono gli enti] di na-
tura empirica corrispondenti alle sei fasi del decorso trasfor-
mante esistenziale 38: il significato della sentenza è che l’å-
tman è esente da qualsiasi processo modificante [cui è sog-
getto ogni ente nel piano empirico]. Poiché è così, perciò si ha
la connessione di questo con il verso precedente: «...entrambi
costoro non conoscono distintamente» (Bha. Gı. 2.19).
Avendo dapprima asserito, nel verso: «Colui il quale lo
considera uccisore...» (Bha. Gı. 2.19), che [l’åtman] non divie-
ne [mai] né il soggetto né l’oggetto in relazione all’atto di uc-
cidere e avendo enunciato in questo [verso] la causa in rela-
zione a tale natura inalterabile, [Bhagavat] riassume il signifi-
cato esposto:

2.21. Colui il quale lo realizza come indistruttibile, eterno,


non-nato e inalterabile, come può, un tal uomo, o Pårtha, in -
durre, e chi, a uccidere? o uccidere chi?
78 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.21

“(Colui il quale lo) realizza”, [lo] conosce chiaramente


“come indistruttibile”, ossia esente da modificazioni quali
quella relativa allo stadio finale (distruzione), “eterno”, cioè
esente da trasformazione – [per ogni aggettivo va effettuata]
la connessione con “colui il quale [lo] realizza”, mentre il pro-
nome] “lo” (enam) definisce l’[åtman] esposto nel precedente
verso – “non-nato”, privo di nascita, e “inalterabile”, esente da
decadimento, “come può”, in che modo, “un tal uomo”, un
saggio [così] qualificato, può “uccidere...”, ovvero compiere
l’atto della uccisione? E come può “indurre... a uccidere”, ov-
vero ingaggiare qualcuno che uccida? Né, in nessun modo,
egli uccide alcuno, né, in nessun modo, induce qualcuno a uc-
cidere: il significato in entrambi i casi è solo il rigetto [dell’at-
tività], perché tale domanda non può avere senso. Il significa-
to del capitolo quale ha espresso Bhagavat è la negazione di
qualsiasi forma di attività per il saggio perché la [natura di]
immodificabilità [dell’åtman] e il senso del motivo [della im-
possibilità di dare un valore all’agire] sono, in fondo, la stessa
cosa.
Obiezione: Il rigetto dell’atto di uccidere viene menzionato
[solamente] a titolo di esempio. Scorgendo quale specifica ra-
gione nella impossibilità di agire da parte del saggio, Bhaga-
vat rigetta [tutte] le attività [allorché dice]: “...come può un
tal uomo...?”.
Risposta: La natura immutabile dell’åtman è già stata enun-
ciata in ogni caso come causa specifica in relazione alla impos-
sibilità di agire.
Obiezione: In effetti [tale natura] è stata espressa, ma non
può costituire una causa specifica, perché il saggio è distinto
dall’åtman immutabile: infatti, non si può sostenere che per
colui, il quale ha conosciuto [un oggetto come] un pilastro
inamovibile, non sussista più alcun atto [da compiere].
2.21 Secondo Adhyåya 79

Risposta: La saggezza (vidvattå) non riguarda l’aggregato


di corpo, ecc. il saggio essendo l’åtman [stesso]. Pertanto, in
definitiva il saggio è l’åtman, non associato [all’aggregato
corporeo-sensoriale, ecc.] e non soggetto a modificazione e,
poiché per tale saggio è impossibile l’attività [identificata con
l’individualità veicolare], il rigetto [dell’azione soggettiva] nei
termini: “come può, un tal uomo...?” è legittimo. Come l’å-
tman, nonostante che non sia soggetto ad alcun processo mo-
dificante, per via della ignoranza (avidyå), cioè in virtù di una
conoscenza che non [Lo] discrimina dalle modificazioni del-
l’intelletto, viene tuttavia immaginato come il soggetto perci-
piente (upalabdhÿ) di oggetti quali il suono e gli altri recati
dall’intelletto e dalle altre [funzioni mentali], così stesso, at-
traverso la conoscenza (vidyå), consistente [ancora] in una
modificazione dell’intelletto, dunque attraverso una conoscen-
za che, pur essendo anch’essa affatto non-reale dalla [prospet-
tiva della] realtà suprema, discrimina l’åtman da ciò che non
è l’åtman, l’åtman, affatto esente da qualsiasi processo modi-
ficante, viene detto [essere] il saggio (vidvat).
Dall’asserzione secondo cui il saggio non può agire [in
maniera individualistica], si comprende la risoluzione [espli-
citata da parte] di Bhagavat, in base a cui quegli atti, i quali
vengono imposti dalle Scritture, in effetti sono ingiunti [solo]
a colui che non possiede [ancora] la conoscenza.
Obiezione: Tuttavia anche la conoscenza certamente risulta
prescritta al non-conoscitore, perché [altrimenti] prescrivere
la conoscenza a colui che è già conoscitore sarebbe insensato
come macinare il macinato. In tal caso si può obiettare che
non è logicamente ammissibile la distinzione in base alla qua-
le le attività sono ingiunte al non-conoscitore e non al cono-
scitore.
Risposta: No, perché è ragionevole una distinzione relati-
vamente a esistenza o non-esistenza di ciò che deve essere
80 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.21

compiuto. Mentre, successivamente alla comprensione del si-


gnificato di ingiunzioni come quella relativa all’Agnihotra,
ecc., per il non-conoscitore il quale possiede una siffatta co-
noscenza quale: ‘io sono l’agente’, ‘[ciò] deve essere da me
compiuto’ e per il quale vi è ancora da effettuare la raccolta di
molteplici mezzi per [la celebrazione di] riti quali l’Agnihotra
e altri, sussiste [ancora qualcosa] che deve essere compiuto,
non è così, cioè non vi è [più] nulla da compiere che sussista
successivamente alla realizzazione del significato della sen-
tenza concernente la reale natura dell’åtman [espressa dal
passo]: «Non nasce...», ecc. (Bha. Gı. 2.20). Ciò nondimeno,
non sorge [alcuna] altra [consapevolezza] a eccezione della
conoscenza il cui contenuto è la natura di unità assoluta,
ecc. dell’åtman [nei termini]: ‘io non sono l’agente’, ‘io non
sono il fruitore’, ecc., e questa distinzione è pienamente le-
gittima.
Invece, per colui il quale considera l’åtman [caratterizzato
dall’attività, ovvero considera se stesso] come: ‘io sono l’a-
gente’, vi sarà inevitabilmente la nozione: ‘io devo fare que-
sto’: egli diviene qualificato in relazione a tale [compimento
di azione] e a lui sono ingiunte le attività. Egli è un non-cono-
scitore, come [si evince] dalla dichiarazione: «...entrambi co-
storo non conoscono distintamente» (Bha. Gı. 2.19), mentre
[si comprende che il passo]: «...come può, un tal uomo...?»
(Bha. Gı. 2.21) è rivolto al conoscitore che viene specificato,
anche per via della dichiarazione circa il rigetto dell’attività.
Perciò, sia il conoscitore [così] specificato, il quale ha rea-
lizzato l’åtman in quanto esente da ogni processo modifican-
te, sia colui il quale aspira ardentemente alla liberazione [pur
non avendo ancora realizzato la conoscenza dell’åtman], pos-
seggono ugualmente la qualificazione alla completa rinuncia
verso qualsiasi attività. Proprio per questo Bhagavat Nåråya-
√a, dopo aver distinto i conoscitori såækhya e i non-conosci-
tori ritualisti, fa loro comprendere le due vie realizzative
2.21 Secondo Adhyåya 81

[adatte rispettivamente a ciascuno nel passo]: «...per i såæ-


khya è [stato enunciato il sentiero] attraverso lo yoga della
conoscenza, per gli yogin è [stato enunciato il sentiero] attra-
verso lo yoga dell’azione» (Bha. Gı. 3.3), e lo stesso rivelò
Bhagavat Vyåsa al figlio: «Dunque, vi sono queste due vie...»
(Ma. Bhå. 12.3.240.6); in tal senso [Egli fece comprendere che]
la via delle opere viene certamente prima, e [soltanto] dopo la
completa rinuncia. Questa stessa suddivisione la mostrerà ri-
petutamente Bhagavat [nel corso della Gıtå]: il non-conosci-
tore della realtà (atattvavid) [è colui al quale si riferisce] sia
nel passo: «...colui il cui sé (la mente) è variamente confuso
dal senso dell’io pensa: ‘sono io l’agente’» (Bha. Gı. 3.27), men-
tre il conoscitore della realtà (tattvavid) sa: ‘io non agisco’,
che, in maniera simile, nel passo: «Rinunciando completa-
mente nel pensiero a tutte le azioni...», ecc. (Bha. Gı. 5.13).
Obiezione: In merito a ciò, alcuni pensatori sostengono
questa dotta congettura: a nessuno sorge [spontaneamente]
una consapevolezza come: ‘io sono l’åtman esente dalle sei
modificazioni corrispondenti alle condizioni della nascita,
ecc., non soggetto a processo modificante, non-agente e uni-
co’, sussistendo la quale potrebbe essere [a ragione] indicata
la completa rinuncia verso qualsiasi attività.
Risposta: Ciò non è [esatto], perché [in tal caso] si palese-
rebbe il difetto di una mancanza di senso per l’istruzione im-
partita dalle Scritture [nei termini]: «Non nasce...», ecc. (Bha.
Gı. 2.20). A costoro si dovrebbe domandare: perché, così come,
[solo] grazie al potere delle Scritture, sorge la conoscenza re-
lativa al dharma e all’adharma e si manifesta altresì la cogni-
zione del soggetto agente in quanto correlato a un ulteriore
corpo, non sorge allo stesso modo dalle Scritture la conoscen-
za della natura non soggetta a processo modificante, della na-
tura non-agente, della natura di unità, ecc. in relazione a quel
medesimo åtman?
82 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.21

Obiezione: Si potrebbe rispondere: perché [l’åtman] esula


dalla sfera sensoriale.
Risposta: No, perché dalla Âruti [si apprende]: «Soltanto
con la mente Lo si deve realizzare» (Bÿ. 4.4.19). La mente
(manas), purificata dalla istruzione delle Scritture e del Mae-
stro e dalla pacificazione, dall’autodominio e dalle altre [vir-
tù mentali], diviene lo strumento sensoriale (kara√a) [ido-
neo] in relazione alla percezione consapevole dell’åtman e
così, quando, al fine della comprensione di Quello, concorro-
no l’inferenza (anumåna) e le Scritture, [asserire] questo, os-
sia che la conoscenza [della sua natura] non sorge, è pura -
mente sconsiderato39. Inoltre si deve prendere atto che la co-
noscenza, allorché si manifesta, inevitabilmente disperde l’i-
gnoranza che le è opposta – ignoranza che è già stata mo-
strata [palesarsi] così: ‘io sono l’uccisore’, ‘io vengo ucciso’
[nel passo]: «...entrambi costoro non conoscono distinta-
mente» (Bha. Gı. 2.19) – e, sempre in questo contesto, si è
mostrato che per l’åtman e in relazione all’atto di uccidere,
[le idee concernenti] il ruolo di soggetto agente, la condizio-
ne di oggetto e la funzione di soggetto causante [nel far uc -
cidere] sono [tutte false nozioni] prodotte dall’ignoranza; e
ciò, ossia [l’asserto] che il ruolo di soggetto agente e le altre
cose siano prodotte dall’ignoranza, è ugualmente valido an-
che in riferimento a qualsiasi [forma di] azione, dato che la
natura dell’åtman non è soggetta ad alcun processo modifi-
cante: infatti è [solo] il soggetto agente che, sottoposto a un
processo modificante, può far agire un altro, in quanto og-
getto distinto da lui stesso [ordinando]: ‘fa’ [questo]!’. E
proprio queste [due false nature sovrapposte], cioè la natura
di soggetto agente o la natura di soggetto causante l’azione,
correlate senza eccezione a tutte le [forme di] attività, Bha-
gavat Våsudeva le nega in rapporto al conoscitore [nel pas-
so]: «(Colui il quale lo realizza) come indistruttibile... come
2.21 Secondo Adhyåya 83

può, un tal uomo...?», ecc. (Bha. Gı. 2.21), allo scopo di mo-
strare che per il conoscitore non può esservi nessuna qualifi-
cazione all’attività40.
Obiezione: Per quale cosa, allora, è qualificato il conosci-
tore?
Risposta: Ciò è stato esposto anche prima [quando si è ci-
tato il passo]: «...per i såækhya è [stato enunciato il sentiero]
attraverso lo yoga della conoscenza, per gli yogin è [stato
enunciato il sentiero] attraverso lo yoga dell’azione» (Bha. Gı.
3.3); e nello stesso senso [il testo] affermerà la completa ri-
nuncia a tutte le azioni [nel passo]: «Rinunciando completa-
mente nel pensiero a tutte le azioni...», ecc. (Bha. Gı. 5.13).
Obiezione: Comunque, si può obiettare che, per via della
espressione: “con la mente” (manaså), non si debba operare la
completa rinuncia anche nei confronti degli atti verbali (våci-
ka) o corporali (kåyika).
Risposta: No, dal momento che viene specificato: «...a tutte
le azioni...» (Bha. Gı. 5.13).
Obiezione: Potrebbe trattarsi bensì di “tutte le azioni”, ma
soltanto relativamente al mentale.
Risposta: No, perché le funzioni (vyåpåra) di parola e cor-
po sono [sempre] precedute dall’attività della mente e, in as-
senza di attività da parte della mente, neanch’esse sarebbero
logicamente ammissibili.
Obiezione: Si potrebbe completare il passo: «Rinunciando
completamente nel pensiero a tutte le azioni, dimora...» (Bha.
Gı. 5.13) con [la frase]: ‘escludendo gli atti mentali che sono
causa delle attività di parola e corpo ingiunte dalle Scritture’.
Risposta: No, per via della specificazione: «...non agendo
affatto né causando attività» (Bha. Gı. 5.13).
84 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.21

Obiezione: Questa completa rinuncia a tutte le azioni che


ha pronunziato Bhagavat potrebbe riguardare [solo] colui che
è in punto di morte e non colui che vive.
Risposta: No, perché [in tal caso] sarebbe inammissibile la
specifica asserzione: «...dimora felice... nella cittadella dalle
nove porte l’essere incarnato» (Bha. Gı. 5.13): infatti, colui che
è morto [o sta morendo], non può continuare a dimorare in
quel corpo [soltanto] grazie alla completa rinuncia a tutte le
azioni.
Obiezione: In riferimento a colui che non agisce né fa agire
[altri, il passo] potrebbe essere costruito così: ‘avendo operato
la completa rinuncia in relazione al corpo [al quale solo – e non
all’åtman – ineriscono le azioni, egli dimora, ecc.]’, e non co-
me: ‘dimora nel corpo [quale cittadella, ecc.]’.
Risposta: No, sia perché dovunque [nella Âruti e nella Smÿ-
ti] viene ribadita la natura immutabile dell’åtman [per cui
non può divenire talora agente diretto, talora agente indiretto
od oggetto, ecc.], sia perché l’atto di ristare (åsana) si riferisce
a una singolare condizione [di luogo, ecc.] laddove la completa
rinuncia non ha alcuna relazione con ciò; nello stesso tempo
il termine “rinuncia” (nyåsa) preceduto dal prefisso sam- [in
saænyåsa, “completa rinuncia”] ha il significato di un distac-
co (tyåga) e non di una deposizione (nik≤epa) [che lascia o fa
rimanere immobile qualcosa]. Pertanto nella Scrittura della
[Bhagavad] Gıtå [si fa comprendere che] colui che possiede la
conoscenza dell’åtman è qualificato solo in rapporto alla com-
pleta rinuncia e non all’azione, e [questo significato noi lo]
mostreremo più avanti, qui e là, in quei capitoli che trattano
della conoscenza dell’åtman.
Ma [ora] torniamo a parlare dell’argomento in discussione.
A tale riguardo, la natura indistruttibile dell’åtman è stata as-
serita; ma a che cosa essa è assimilabile? Si dice:
2.24 Secondo Adhyåya 85

2.22. Come un uomo, deposti gli abiti consunti, ne prende di


nuovi e differenti, così l’essere corporeo (l’anima incarnata, de-
hin), deposti i corpi logori, ne assume altri nuovi.

“Come” nel piano empirico “un uomo”, un essere umano,


“deposti gli abiti consunti”, abbandonati i vestiti divenuti
logori, “ne prende di nuovi”, ne acquisisce altri, integri, “e
differenti, così”, esattamente tale e quale, “l’essere incarna-
to”, cioè l’åtman, “deposti i corpi logori, ne assume altri”, si
congiunge con [ulteriori corpi] “nuovi”, rimanendo, come
l’essere umano, affatto privo di cambiamento. Tale è il signi-
ficato41.
Perché resta “affatto privo di cambiamento”?
[Ârı Bhagavat] dice:

2.23. Non lo tranciano le armi, non lo brucia la fiamma, non


lo macera l’acqua e non lo dissecca il vento.

L’essere corporeo in corso di trattazione (l’åtman) “non lo


tranciano le armi” essendo privo di parti, cioè armi da taglio
come spade o simili non possono provocare alcuno squarcio
nelle sue membra; similmente “non lo brucia la fiamma”, ne-
anche il fuoco lo riduce in cenere; ugualmente “non lo macera
l’acqua”: infatti la capacità dell’acqua di dar luogo a una disgre-
gazione delle membra con il renderle rammollite può eserci-
tarsi su un ente che sia composto di parti, ma ciò non è possi-
bile nel caso dell’åtman privo di parti; similmente, il vento di-
strugge una sostanza tenera con il disseccare il morbido, ma
l’åtman “non lo dissecca” neanche “il vento” 42.
Poiché è così, pertanto:

2.24. Questo [åtman] non può essere tranciato, questo [å-


tman] è incombustibile, inalterabile e mai disseccabile: eterno,
onnipresente, fisso e immobile è questo [åtman] perenne.
86 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.24

Poiché gli enti che sono causa di distruzione per l’uno o


l’altro [essere vivente, quali armi, fuoco, ecc.] non riescono a
distruggere tale åtman, perciò è “eterno” (nitya); essendo e-
terno, è “onnipresente” (sarvagata); essendo onnipresente è
“fisso” (sthå√u), cioè saldamente fermo come un palo infisso
[nel terreno]; essendo fisso, “immobile è questo” åtman che,
quindi, è “perenne” (sanåtana), da sempre esistente, non pro-
dotto da nessuna causa, vale a dire non nuovo (cioè non rin-
novantesi ma sempre uguale).
Riguardo a questi versi [da 2.21 a 2.24] non si deve ravvi-
sare alcuna ripetizione dovuta al fatto che la natura eterna e
la natura non soggetta a processo modificante [dell’åtman]
sono state già espresse dal solo verso: «Non nasce né mai muo-
re...», ecc. (Bha. Gı. 2.20) e per il motivo che quanto viene e-
nunciato e avente per oggetto l’åtman, pur [venendo] ripetu-
to talvolta [solo] verbalmente, talaltra concettualmente, non
aggiunge nulla al significato di questo stesso verso: infatti,
poiché l’oggetto rappresentato dall’åtman è assai difficile a
comprendersi, Bhagavat Våsudeva, fornendo ripetutamente la
connessione [dell’argomento con il contesto], delinea la natu-
ra di quello stesso oggetto con differenti parole in modo che,
una volta che la realtà non-manifesta sia entrata nella portata
dell’intelletto degli esseri trasmigranti, possa verificarsi l’e-
stinzione del [loro] divenire ciclico43.
E inoltre,

2.25. Questo [åtman] è non-manifesto, questo è impensabile,


questo [åtman] viene detto immodificabile. Perciò, conoscendolo
come tale, non devi [più] affliggerti.

Non-manifesto (avyakta) è quello che, non essendo oggetto


di alcuno strumento [di percezione, azione, ecc.], non si palesa.
Così “questo” åtman “è non-manifesto”. Proprio per tale ragio-
ne “questo è impensabile”: l’oggetto che rientra nella portata
2.26 Secondo Adhyåya 87

dei sensi cade anche nella sfera del pensiero, ma “questo” å-


tman, non ricadendo nella sfera sensoriale, “è impensabile”
(acintya). Inoltre Esso non si modifica [mai]; mentre il latte,
mescolato con il burro chiarificato, ecc., si modifica [assumen-
do un’altra natura], non è così per questo åtman che, essendo
altresì privo di parti, proprio per questo non è soggetto ad al-
cun processo modificante. Infatti non si constata nessun ente
che, privo di parti, subisca una [qualsiasi] modificazione. Per-
tanto, non essendo soggetto ad alcun processo modificante,
“questo” åtman “viene detto immodificabile” (avikårya).
“Perciò, conoscendolo come tale”, [ossia riconoscendo]
l’åtman nel modo in cui è stato descritto, tu “non devi [più]
affliggerti” [pensando]: ‘sono l’uccisore di costoro, essi ver-
ranno da me uccisi’.
Una volta compresa la natura eterna dell’åtman, si dice
questo:

2.26. E se credi che esso nasca di continuo o che muoia di


continuo, anche così, o Mahåbåhu (o Tu dalle possenti braccia,
Arjuna), tu non devi affliggerti per questo.

“E se” (atha ca) – [tale espressione] ha un senso concessi-


vo – “credi che esso”, l’åtman in corso di trattazione, “nasca
di continuo”, cioè, secondo l’ordinaria ammissione (lokaprasi-
ddhi), che sia nato, generato ogni qualvolta viene a esistere
come corpo, “o”, similmente, credi “che muoia di continuo”,
cioè che debba morire, che sia defunto ogni qualvolta avviene
la distruzione di tale [corpo], “anche così”, cioè anche nel
caso in cui l’åtman fosse [realmente] in tal modo [destinato a
a nascere e morire ripetutamente in quanto identico al corpo],
“o Mahåbåhu, tu non devi affliggerti per questo”, perché que-
ste due cose: la distruzione di ciò che possiede nascita e la na-
scita di ciò che è destinato a distruggersi – hanno inevitabil-
mente da essere. Ed essendo così,
88 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.27

2.27. Di colui che è nato invero è sicura la morte, e certa è la


nascita di colui che è morto. Pertanto, non puoi affliggerti per
ciò che è inevitabile.

“Di colui che è nato”, di quegli che ottiene una nascita,


“invero è sicura la morte”, il morire è ineluttabile, “e certa è la
nascita di colui che è morto”: questo fatto, che è il nascere e il
morire, non può essere evitato. “Pertanto, non puoi affliggerti
per ciò che è inevitabile”44.
Non è ragionevole neanche provare afflizione per gli enti
costituiti da un aggregato di effetti e strumenti (kåryakara√a,
i corpi quali aggregati di sensi e organi), perché:

2.28. Gli esseri sono non-manifesti all’origine, sono manife-


sti nello stato intermedio e ancora non-manifesti alla morte.
Quale [motivo vi è mai di] afflizione in ciò?

“(Gli esseri sono) non-manifesti all’origine...”: di questi


esseri, quali figli, amici, ecc., i quali sono sostanzialmente
aggregati di effetti e strumenti (corpi e sensi) si ha [all’ini-
zio] la non-manifestazione, l’invisibilità, l’assenza della [loro
condizione di oggetti di] percezione: dunque, tali “esseri
sono non-manifesti all’origine”, cioè prima della loro venuta
in esistenza. Poi, una volta venuti in esistenza, ma prima
della morte, “sono manifesti nello stato intermedio e anco-
ra”, di nuovo “non-manifesti alla morte”; essi, la cui morte,
la cui scomparsa comporta lo stato non-manifesto, la [loro]
invisibilità, divengono “non-manifesti alla morte”; vale a
dire che essi, anche dopo la morte [oltre che prima della
nascita], raggiungono nuovamente l’assenza di manifesta-
zione [e quindi di percettibilità]. E in tal senso è stato detto:
«È arrivato dall’invisibile e, di nuovo, nell’invisibile è torna-
to. Né quello è tuo, né tu sei suo. Perché tormentarsi?» (Ma.
Bhå. Strı. Pa. 2.13).
2.29 Secondo Adhyåya 89

“Quale [motivo vi è mai di] afflizione in ciò?”, ovvero:


quale [ragione vi è di provare] tormento per esseri che prima
sono invisibili, poi [divengono] visibili e finiscono per di-
struggersi e sono quindi illusori? Tale è il significato.
Questo åtman di cui si sta trattando è difficile da conosce-
re chiaramente. Perché dovrei imputare proprio a te solo [tale
illusione] quando la causa dell’errore è comune a tutti? In che
senso questo åtman è difficile da conoscere chiaramente?
A questo punto [Ÿrı Bhagavat] dice:

2.29. Qualcuno [l’åtman] lo considera come una meraviglia,


qualcun altro [invece] come di una meraviglia ne parla, come
di una meraviglia un altro [ancora] ne sente parlare; ma anche
avendone sentito [parlare], non v’è alcuno che lo conosca [vera-
mente].

[L’espressione] “come una meraviglia” (åŸcaryavat) signi-


fica: al pari di una meraviglia mai vista prima, come qualcosa
di straordinario che venga percepito all’improvviso; così,
“come una meraviglia” significa: [in modo] simile a ciò. “Qual-
cuno” l’åtman “lo considera come una meraviglia”, come se
fosse una meraviglia, “qualcun altro [invece] come di una
meraviglia ne parla, come di una meraviglia un altro [ancora]
ne sente [parlare]; ma anche avendone sentito [parlare]”, o
avendolo considerato, “non v’è alcuno che” l’åtman “lo cono-
sca [veramente]” 45.
Oppure [una interpretazione alternativa può essere]:
quegli che vede (realizza) questo åtman è [egli stesso] simile
a una meraviglia, e colui che ne parla, o colui che ne ha udi-
to [parlare], quegli stesso è [uno solo] tra molte migliaia.
Quindi il senso è che l’åtman è difficile a comprendersi (dur-
bodha).
Adesso [Ÿrı Bhagavat] trae una sintesi del significato del
capitolo [intero]:
90 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.30

2.30. Questo essere incarnato eternamente inviolabile è [sta-


bilito] nel corpo di ciascuno, o Bhårata: perciò tu non devi pro-
var sofferenza per [nessuno fra] tutti gli esseri.

“Questo essere incarnato”, corporeo, “eternamente”, sem-


pre, in qualsiasi condizione, “inviolabile” essendo privo di
parti ed eterno, “è” stabilito “nel corpo”, nel veicolo corporeo,
“di ciascuno”, a motivo della sua onnipresenza, persino negli
esseri immobili e via di seguito. Sebbene il corpo di ogni esse-
re, il quale sia stato generato come creatura vivente, sia vul-
nerabile, poiché questo essere incarnato non può venire di-
strutto, “perciò tu non devi provar sofferenza per [nessuno
fra] tutti gli esseri”, per esempio per Bhı≤ma e gli altri.
Qui, in riferimento alla natura della realtà suprema, è sta-
to detto che nessuna afflizione né alcuno smarrimento è plau-
sibile; e [ciò] non soltanto in relazione alla natura della realtà
suprema, ma anche [in rapporto ad altro].

2.31. E anche considerando il [tuo] proprio dharma, non do-


vresti esitare: infatti per uno k≤atriya non vi è altro [dharma]
che sia migliore rispetto a un legittimo combattimento.

“(E) anche considerando il [tuo] proprio dharma...” – il


proprio dovere [di Arjuna in relazione alla sua classe sociale,
ecc.] è il dharma proprio di uno k≤atriya, cioè il combattimen-
to – dunque, anche [considerando] quello, tu “...non dovresti
esitare”, [non devi] deviare dal dharma di uno k≤atriya, dal
dharma connaturato, vale a dire coessenziale a sé stessi. E lo
stesso combattere, attraverso il dominio del territorio, [dato
che] persegue lo scopo del dharma [universale] e il fine di sal-
vaguardare le creature, è sommamente doveroso e non è avul-
so dalla Legge [universale, per cui non le si oppone]. Poiché è
così, di conseguenza “...per uno k≤atriya non vi è altro [dha-
rma] che sia migliore rispetto a un legittimo combattimento”.
2.34 Secondo Adhyåya 91

Per quale altro motivo tale combattimento lo si deve so-


stenere? Si dice:

2.32. E se [tale conflitto] è sorto in modo spontaneo, è una


porta aperta verso il cielo: felici gli k≤atriya, o Pårtha, che ot-
tengono un siffatto combattimento!

“E se [tale conflitto] è sorto in modo spontaneo”, è soprag-


giunto senza essere stato ricercato, “è una porta aperta”, di-
schiusa “verso il cielo”. Coloro, “gli k≤atriya... che ottengono”
questo, cioè “un siffatto combattimento, o Pårtha...”, non sono
forse “felici”?
Tuttavia, nonostante che [tale dovere dello k≤atriya consi-
stente nel combattere] debba essere così adempiuto, esso po-
trebbe anche non venire assolto.

2.33. Ma se tu non affronterai questo legittimo scontro, allo-


ra, obliando il tuo svadharma e il tuo onore, commetterai erro-
re,...

“Ma se tu non affronterai questo legittimo scontro”, [que-


sto] combattimento che non è avulso dalla Legge ed è [addi-
rittura] ingiunto, “allora”, a causa di tale omissione, “obliando
il tuo svadharma e il tuo onore” dovuto all’incontro con [divi-
nità sotto sembianza umana quali] Mahådeva e altri, certa-
mente “commetterai errore...”46. E non soltanto si avrebbe [in
tal caso] l’abbandono del proprio dovere e dell’onore, ma:

2.34. ...inoltre, gli esseri parleranno incessantemente del tuo


disonore e, per colui che è stato stimato, il disonore è peggiore
della [stessa] morte.

“...inoltre”, in relazione al combattimento, “gli esseri par-


leranno incessantemente”, a lungo, “del tuo disonore e, per
92 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.34

colui che è stato stimato” in quanto essenziato di rettitudine


e [considerato un] eroe in virtù di siffatte qualità, “il disono-
re è peggiore della [stessa] morte”; vale a dire che, per colui
che è stato [così] stimato, la morte è certamente preferibile
al disonore.
E, ancora,

2.35. Coloro [cioè i comandanti guerrieri] dai grandi carri


crederanno che tu, per paura, ti sia astenuto dal combattere e,
[pur] essendo stato da loro assai stimato, tu andrai incontro al
[loro] disprezzo.

“Coloro dai grandi carri”, [i comandanti guerrieri] come


Duryodhana e i suoi vassalli, “crederanno”, penseranno “che
tu, per paura” di Kar√a o altri e non per compassione “ti sia
astenuto dal combattere”, ti sia ritirato dalla lotta, “e, pur es-
sendo stato da loro”, cioè da Duryodhana e dagli altri, “assai
stimato”, dall’aver acquisito la loro grande considerazione
giustificata dalle [tue] nobili qualità, di nuovo “(tu) andrai in-
contro al loro disprezzo”, a un miserevole [giudizio].

2.36. E molte espressioni impronunciabili proferiranno i tuoi


nemici screditando [così] il tuo valore. Che cosa potrebbe essere
più doloroso di questo?

“E molte espressioni impronunciabili”, espressioni irripeti-


bili di varia foggia “proferiranno i tuoi nemici”, i tuoi avver-
sari, “screditando”, denigrando, “[così] il tuo valore”, la tua
peculiare e insuperabile valentìa nel batterti. “Che cosa po-
trebbe essere più doloroso di questo?”, cioè della sofferenza
dovuta al prendere su di sé tale biasimo? Il significato è che
non vi è nessun dolore più penoso di questo.
Dunque, [quando sarai impegnato] nel combattimento
contro Kar√a e gli altri,
2.38 Secondo Adhyåya 93

2.37. O, ucciso, otterrai il cielo, o, vincitore, godrai la terra.


Perciò sorgi, o figlio di Kuntı, a combattere in modo risoluto.

“O, ucciso, otterrai il cielo”, ossia: una volta che sarai stato
ucciso raggiungerai il mondo celeste, “o, vincitore” nei con-
fronti di Kar√a o altri eroi, “godrai la terra”. Il senso è che, in
ambedue i casi, non puoi trarne che un vantaggio. Poiché è
così, “Perciò sorgi, o figlio di Kuntı, a combattere in modo ri-
soluto”, vale a dire avendo maturato la certezza: ‘o soggio-
gherò i nemici oppure morirò’.
[Una volta che avrai compreso che] in tale contesto il
combattimento rappresenta lo svadharma (il tuo proprio dha-
rma come k≤atriya), ascolta questa istruzione rivolta a colui
che è impegnato a combattere.

2.38. Trattando allo stesso modo il piacere e il dolore, il gua-


dagno e la perdita, la vittoria e la sconfitta, preparati dunque a
combattere; in tal modo non potrai commettere errore.

“Trattando allo stesso modo”, ugualmente, “il piacere e il


dolore...”, vale a dire: senza provare attrazione [per l’uno] o
repulsione [per l’altro], e, in maniera simile, considerando
identici “...il guadagno e la perdita, la vittoria e la sconfitta,
preparati dunque a combattere; in tal modo”, affrontando il
combattimento, “non potrai commettere errore”. Questa istru-
zione consegue necessariamente [a quanto detto prima].
L’esempio relativo alla condotta empirica ordinaria, enun-
ciato a partire da: «E poi, considerando il tuo proprio dha-
rma...» (Bha. Gı. 2.31) e con altri versi [fino al 38], ha lo scopo
di allontanare la sofferenza e il turbamento mentale, ma non
rappresenta il tema principale. L’argomento che invece viene
trattato [primariamente] qui è la realizzazione della suprema
realtà (paramårthadarŸana) ed esso, già esposto [a partire da
2.20], viene riassunto [nel passo]: «Questa, che ti è stata inse-
94 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.38

gnata...» (Bha. Gı. 2.39) per mostrare la distinzione rispetto al-


l’oggetto del capitolo (la presa di coscienza del proprio dharma).
Infatti qui, quando più avanti, nel passo: «...per i såækhya è [il
sentiero realizzativo] attraverso lo yoga della conoscenza, per
gli yogin è [quello] attraverso lo yoga dell’azione» (Bha. Gı. 3.3),
viene tracciata chiaramente la distinzione in merito all’oggetto
[principale] della Scrittura [che è la modalità di realizzazione
della suprema realtà, allora] il duplice sentiero realizzativo, che
costituisce l’argomento della Scrittura, risulterà trattato in
modo facile e gli ascoltatori, [proprio] grazie a tale separazione
degli argomenti, potranno afferrarlo agevolmente.
Quindi [Ÿrı Bhagavat] dice:

2.39. Questa, che ti è stata insegnata, è la conoscenza in re-


lazione al Såækhya. Ma [ora] ascolta questa [altra conoscenza]
in relazione allo Yoga, dotato della quale conoscenza, o Pårtha,
spezzerai il legame del karman.

“Questa, che ti è stata insegnata”, che è stata enunciata a


te, “è la conoscenza”, la dottrina conoscitiva “in relazione al
Såækhya”, cioè in relazione all’argomento che è la discrimi-
nazione dell’ente che è la realtà suprema, [conoscenza] la
quale costituisce direttamente (såk≤åt) la causa della cessazio-
ne del male [cioè l’ignoranza] che è all’origine del divenire ci-
clico, come la sofferenza, l’illusione mentale, ecc. “Ma [ora]”,
proprio subito dopo, “ascolta questa” [altra] conoscenza “in
relazione allo Yoga” che [ti] sta per essere esposta, la quale è
un mezzo per l’ottenimento di quella: essa consta sia dello
yoga dell’azione (karmayoga), ovvero nel compimento di atti-
vità senza alcun attaccamento [al frutto], sia dello yoga della
contemplazione (samådhiyoga), ovvero nell’adorazione del Si-
gnore (ÙŸvara, Brahman); tuttavia [essa può essere posta in
atto solo] dopo che sia stato raggiunto l’annullamento delle
coppie [di opposti].
2.41 Secondo Adhyåya 95

[Quindi il testo] elogia tale conoscenza al fine di suscitare


l’interesse [del discepolo Arjuna]: “...dotato della quale cono-
scenza” concernente lo yoga, “o Pårtha, spezzerai il legame
del karman”. Il legame del karman (karmabandha) è quel vin-
colo, definito come [consistente di] merito e demerito [ecc.],
che è il karman stesso; vale a dire [che lo potrai spezzare] sol-
tanto grazie all’acquisizione della conoscenza ottenuta per
grazia del Signore47.
E vi è dell’altro:

2.40. In ciò nessuno sforzo è perduto né c’è difficoltà; anche


un poco di questa pratica protegge dalla grande paura.

“In ciò”, nello yoga dell’azione (karmayoga) quale sentiero


per la liberazione, “nessuno sforzo è perduto”. Lo sforzo rap-
presenta la dedizione, l’impegno profuso: orbene, di questo
non vi è distruzione, come [invece avviene nelle attività ordi-
narie, per esempio] nel caso dell’agricoltura [dove il frutto
può venire distrutto da intemperie o altro]. Ciò significa che
non vi è dubbio alcuno che lo sforzo intrapreso nello yoga è
[sempre e comunque] apportatore di un risultato.
E inoltre: “...né c’è”, e nemmeno esiste [alcuna] “difficoltà”,
come nel caso di un trattamento medico [che può incontrare
ostacoli o fallire]; “anche un poco di questa pratica”, l’appli-
cazione [sia pur piccola] di tale pratica yoga, “protegge dalla
grande paura”, difende dal terrore del divenire ciclico consi-
stente in [una serie illimitata di] nascite e morti.
Questa istruzione che è stata enunciata in relazione al Såæ-
khya e allo Yoga è caratterizzata così come verrà descritta:

2.41. Qui la mente concepisce una risoluzione unica, o Kuru-


nandana (o gioia dei Kuru, Arjuna), [mentre] di molteplice ra-
mificazione e, invero, senza fine sono i pensieri di coloro che
sono irresoluti.
96 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.41

“Qui”, lungo la via verso il Bene [supremo, la liberazione


(Ÿreyomårga)], “la mente”, stimolata da un autentico mezzo
conoscitivo, “concepisce una risoluzione” affatto “unica”, cioè
diviene di per sé certezza, e si pone a eliminare la moltepli-
cità delle ramificazioni del pensiero distinte e opposte [a tale
consapevolezza], “o Kurunandana”. Il divenire ciclico (saæ-
såra), in virtù del proliferare delle differenti ramificazioni di
tali [pensieri], ossia le concezioni che vanno in direzioni
contrastanti, diviene senza fine, privo di limite, incessante,
in continua espansione e [infinitamente] esteso; ma quando
i pensieri relativi a tale molteplicità senza fine sono cessati
in virtù del potere esplicato dalla conoscenza discriminante
indotta dal [retto] mezzo conoscitivo, anche il divenire cicli-
co si arresta.
I pensieri “di molteplice ramificazione” (bahuŸakha) sono
quelli dai quali si diramano molte derivazioni; per cui [la
espressione] “di molteplice ramificazione” significa: di molte-
plice varietà, “...e”, per via della varietà di tali ramificazioni
successive, “invero, senza fine sono i pensieri...”.
Di chi?
“...di coloro che sono irresoluti”, vale a dire di quelli che
sono privi della conoscenza discriminante che sia stata indot-
ta dal [retto] mezzo conoscitivo.
[Invece] in relazione a coloro la cui mente concepisce una
risoluzione unica [si dice]:

2.42. Questa, che è una espressione fiorita, la pronunciano


gli stolti che si compiacciono dei Veda [intesi] alla lettera, o
Pårtha, asserendo: [al di fuori di questo] non c’è altro.

“Questa”, quale verrà enunciata, “che è una espressione


fiorita”, cioè splendida come un albero in fiore, gradevole a
udirsi e dalla natura di sentenza (våkya), “la pronunciano...”.
Chi?
2.43 Secondo Adhyåya 97

“...gli stolti”, coloro dalla scarsa intelligenza, vale a dire


quelli che non discriminano, “che si compiacciono dei Veda
[intesi] alla lettera, o Pårtha”, soddisfatti di quelle sentenze
vediche che rivelano i mezzi per [ottenere] i frutti relativi alle
molteplici spiegazioni inerenti ai fini, “asserendo”, convinti di
dichiarare così: “non c’è altro” al di fuori delle attività [pre-
scritte nei Veda] che rappresentano il [solo] mezzo per [otte-
nere] il mondo celeste (svarga), gli armenti, ecc.
Inoltre essi,

2.43. Pieni di desiderio e con la mente rivolta esclusivamente


al cielo, predicano la rinascita come frutto dell’azione e [pre-
scrivono] molti riti speciali per ottenere il potere e il godimento.

“Pieni di desiderio”, cioè identificati con il desiderio, vale


a dire protesi [solo] a desiderare, “e con la mente rivolta esclu-
sivamente al cielo”: coloro, per i quali il supremo fine umano
è il mondo celeste, sono rivolti esclusivamente al cielo, ossia
antepongono il paradiso a tutto. [Essi] “predicano la rinascita
come frutto dell’azione”. La nascita stessa è il frutto dell’azio-
ne, il risultato degli atti [compiuti in passato]; tale risultato
dell’agire, cioè la nascita quale frutto dell’azione, essi lo pre-
suppongono in modo assoluto; dunque costoro affermano,
predicano la rinascita come frutto dell’azione e a tale afferma-
zione aderiscono completamente. [In tal modo prescrivono]
“...molti riti speciali...”; i riti speciali (kriyåviŸe≤a) sono, tra i
rituali, quelli specifici. La molteplicità (bahulå) si riferisce alla
loro espressione, cioè a quella multiforme modalità espressiva
con cui essi rivelano [i mezzi rituali tramite cui ottenere] il
mondo celeste, gli armenti, la discendenza, ecc., ossia “...per
ottenere il potere e il godimento”. Il potere (aiŸvarya) e il go-
dimento (bhoga) comprendono sia una [sorta di] sovranità di
natura divina che la [illimitata capacità di] fruizione; il rag-
giungimento di queste due, ossia la loro acquisizione, è l’otte-
98 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.43

nimento del potere e del godimento. I riti speciali costituisco-


no il mezzo per questo [ottenimento], e la loro multiforme
espressione la pronunciano gli stolti, i quali perseverano nel
divenire ciclico. Tale è il senso.
E per loro, ossia:

2.44. A quelli tenacemente attaccati al potere e al godimento


e la cui mente è assorbita da tale [aspettativa di frutti], l’intel-
letto consustanziato di risoluzione nel samådhi non si forma.

“A quelli attaccati al potere e al godimento...” [pensando]:


‘è necessario (kartavya) tanto il potere quanto il godimento’,
cioè quelli che sono interamente protesi verso potere e godi-
mento, ovvero identificati con loro, “e la cui mente (cetas) è
assorbita da tale” multiforme asserzione concernente i riti
speciali, per cui la [loro] consapevolezza discriminante [ne]
risulta [come] nascosta, quello che è “l’intelletto (buddhi)
consustanziato di risoluzione” (vyavasåya) sia in relazione al
Såækhya che in relazione allo Yoga, “nel samådhi...” – il [ter-
mine] samådhi è [qui impiegato per designare genericamen-
te] l’intelletto, ossia l’organo interno [nella integralità delle
sue funzioni]: in questo [loro organo interno così condiziona-
to] tutto viene contemplato in vista della fruizione da parte
dell’individuo – dunque, in tale samådhi, [l’intelletto consu-
stanziato di risoluzione] “non si forma”, vale a dire che non si
manifesta48.
Per coloro, i quali sono così privi di intelletto discriminan-
te e identificati con il desiderio, [Ÿrı Bhagavat] enuncia quello
che è il frutto:

2.45. I Veda hanno per oggetto la triade dei gu√a, [ma tu] o
Arjuna, devi essere libero dalle tre qualità e libero dalle coppie
[di opposti], sempre fermamente stabilito nel sattva, libero dal
possedere e dal conservare e padrone di te stesso.
2.46 Secondo Adhyåya 99

“I Veda hanno per oggetto la triade dei gu√a...”: hanno per


oggetto la triade dei gu√a quei [testi sacri] da parte dei quali
viene rivelato l’oggetto che è il divenire ciclico in quanto con-
sistente dei tre gu√a 49; ma tu, “o Arjuna, devi essere libero dalle
tre qualità” (nistraigu√yo), vale a dire immune dal desiderio
(ni≤kåma), “e libero dalle coppie [di opposti]” (nirdvandva): l’e-
spressione duale data dal termine ‘coppia [di opposti]’ (dva-
ndva) designa quelle duplici categorie di enti reciprocamente
contrari che sono la doppia causa di piacere e dolore; da ciò
devi rifuggire, cioè sii libero [anche] dalle coppie [di opposti]:
devi essere “sempre fermamente stabilito nel sattva” (nityasa-
ttvastha), cioè devi prendere rifugio per sempre nella qualità
del sattva. Similmente, sii “libero dal possedere e dal conserva-
re”: il possedere indica [anche] l’acquisizione di ciò che non è
stato acquisito, [mentre] il conservare è la protezione di ciò
che è stato acquisito; orbene, per colui che considera primaria-
mente il possedere e il conservare, la [corretta] esecuzione [del
proprio dharma] in relazione al bene [supremo, qual è la rea-
lizzazione dell’åtman in quanto conoscenza-liberazione], è dif-
ficile ad attuarsi; quindi, devi essere “libero dal possedere e dal
conservare”. Inoltre, sii “padrone di te stesso”, cioè esente da
[qualunque] distrazione mentale.
Per te che devi rispettare il tuo proprio dharma, questa è
l’istruzione.
Obiezione: Se gli innumerevoli frutti elencati in tutte le
sentenze vediche relative alle attività rituali non devono co-
stituire oggetto di ricerca, a che scopo essi devono essere spe-
rimentati in quanto offerti al Signore?
Risposta: Ascolta quanto viene detto:

2.46. Quale l’utilità di una cisterna d’acqua in un luogo


inondato da ogni parte dalle acque, tale è [l’utilità] di tutti i
Veda per un bråhma√a che conosca distintamente.
100 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.46

“Quale”, di quale entità è “l’utilità”, il frutto, il vantaggio,


in relazione allo scopo, qualunque esso sia, per esempio il ba-
gnarsi, o il dissetarsi, ecc., “di una cisterna d’acqua”, di un
serbatoio per le acque, come, nel piano empirico può essere
una quantità di pozzi, stagni, ecc., che si trovi “in un luogo
inondato da ogni parte dalle acque”, intendendo con ciò che
quel [vantaggio offerto dal pozzo, ecc.] è comunque incluso in
questo [essere ricco di acque], “tale”, nello stesso modo, ossia
di una entità affatto analoga è l’utilità “di tutti i Veda”, cioè
quel vantaggio costituito dal frutto delle attività esposte nei
Veda, come i riti [ecc.], “per un bråhma√a”, cioè per un com-
pleto rinunciatario (saænyåsin), “che conosca distintamente”
la realtà suprema; ciò significa che in tale vantaggio, qual è il
frutto della conoscenza (la realizzazione, cioè la liberazione),
che corrisponde [nell’esempio] al luogo inondato da ogni par-
te dalle acque, in esso, in maniera simile va considerato com-
preso [il frutto dei riti, corrispondente al beneficio arrecato da
un pozzo, ecc.]. Dalla Âruti si apprende: «Come, quando il
kÿta vince [nel giuoco a dadi con il massimo di quattro punti],
quelli [che sono i punteggi] inferiori sono compresi in quello
stesso [kÿta], così in lui (Raikva) entra tutto il bene che le
creature compiono. Colui, il quale conosce ciò che egli (Rai-
kva) conosce...» (Chå. 4.1.4), e [anche qui] verrà detto: «...tut-
ta l’azione, senza eccezione (trova completo compimento nel-
la conoscenza)» (Bha. Gı. 4.33).
Perciò, prima dell’acquisizione della qualificazione a dedi-
carsi esclusivamente alla conoscenza e fin quando vi è la qua-
lificazione per l’attività, anche l’azione rituale, [il cui frutto è]
corrispondente al vantaggio offerto dalla cisterna d’acqua, o
dal serbatoio, ecc., deve essere compiuta50.

2.47. Soltanto per l’agire ti compete la qualificazione, e non


mai per i [suoi] frutti; non devi dipendere dal frutto dell’azione,
ma il tuo non dev’essere neanche un attaccamento alla non-azione.
2.48 Secondo Adhyåya 101

“Soltanto per l’agire ti compete la qualificazione”, e non


per la via della conoscenza, e, in relazione a ciò, per te che sei
in procinto di compiere l’azione, “non” vi sia “mai”, in nessuna
circostanza, una propensione “per i [suoi] frutti”, la sete verso
il frutto dell’agire. Questo è il significato. Ma se tu aspiri al
frutto dell’azione, allora tu stesso dipenderai dall’acquisizione
del risultato del tale atto; così, “non devi dipendere dal frutto
dell’azione...”. Infatti, quando ci si impegna nell’attività essen-
do condizionati dalla brama verso il frutto dell’agire, allora si
diviene soggetti alla nascita proprio quale frutto dell’azione51.
“...ma il tuo non deve essere neanche un attaccamento alla
non-azione”, da parte tua non ci deve essere nemmeno propen-
sione verso la non-azione, verso l’inattività [pensando]: ‘a che
pro [compiere] l’attività, di natura dolorosa, se non si deside-
ra il frutto dell’azione?’.
Obiezione: Se l’azione non deve essere compiuta essendo
condizionati dal frutto dell’azione, in che modo, allora, deve
essere compiuta?
[Risposta:]

2.48. Stabilito nello yoga, compi le azioni rinunciando al-


l’attaccamento, o Dhanañjaya, essendo divenuto identico nel
successo e nell’insuccesso: il perfetto equilibrio [interiore che ne
risulta] viene detto yoga.

Essendo “stabilito nello yoga, compi le azioni” unicamente


per servire ÙŸvara, in ciò “rinunciando all’attaccamento”, [per-
sino a quello che potrebbe esprimersi come]: ‘che il Signore si
compiaccia di me’, “o Dhanañjaya...”. Il successo (siddhi) con-
siste essenzialmente nell’acquisizione della conoscenza gene-
rata dalla purificazione del mentale allorché l’azione viene
compiuta senza alcuna aspirazione al suo frutto; l’insuccesso
(asiddhi) è prodotto da un processo opposto a quello. Dunque,
102 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.48

compi le azioni “...essendo divenuto identico”, uguale, “nel


successo e” anche “nell’insuccesso”.
Qual è quello yoga, essendo stabilito nel quale [ad Arjuna]
viene detto: ‘...compi [le azioni...]’?
È questo stesso “perfetto equilibrio [interiore]” (samatva),
relativo [al proprio rimanere equanime in rapporto] al suc-
cesso e all’insuccesso, che “viene detto yoga”.
E ancora, rispetto a questa azione, cioè l’azione descritta,
effettuata allo scopo di propiziare Bhagavat e compiuta con la
mente in perfetto equilibrio [definito Yoga]:

2.49. Di gran lunga inferiore allo Yoga della conoscenza, o


Dhanañjaya, è invero l’azione; nella conoscenza, quindi, cerca
di prendere rifugio. Degni di pietà sono coloro [che agiscono]
motivati dal frutto [dell’azione].

“Di gran lunga inferiore”, enormemente al di sotto ri-


spetto “allo Yoga della conoscenza” (buddhiyoga), cioè all’a-
zione [effettuata] avendo assoggettato la mente nel perfetto
equilibrio interiore, “o Dhanañjaya, è invero l’azione” che
viene compiuta da colui che aspira al frutto, poiché [questa]
è causa di nascita, morte, ecc. Poiché è così, “nella conoscen -
za, quindi”, il cui ambito è lo Yoga [quale è stato descritto],
ovvero in quella conoscenza che è il Såækhya, la quale si ge-
nera quando quello [Yoga] giunge a completa maturazione,
“cerca di prendere rifugio”, ossia devi aspirare ad assumere
[la conoscenza] come dimora, essendo il mezzo per raggiun-
gere l’assenza di paura; vale a dire: divieni [tu stesso] ricet-
tacolo (Ÿara√a) per la conoscenza della realtà suprema (l’å-
tman), perché “degni di pietà”, miserabili, sono coloro che
compiono tale azione [di natura] inferiore, cioè “coloro [che
agiscono] motivati dal frutto [dell’azione]” essendo condi-
zionati dalla brama verso il suo risultato, come [si appren-
de] dalla Âruti: «O Gårgı, colui, il quale si diparte da questo
2.50 Secondo Adhyåya 103

mondo senza conoscere questo Indistruttibile, è un miserabi-


le» (Bÿ. 3.8.10).
Ascolta ora il frutto che ottiene colui il quale, avendo rag-
giunto il perfetto equilibrio della mente, persegue il proprio
dharma:

2.50. Colui che è dedito alla conoscenza depone qui entram-


bi: il buon operato e il cattivo operato; perciò consàcrati allo
yoga: esso è capacità [di distacco dal soggetto e dal frutto, ecc.]
nelle azioni.

Colui che è dedito alla conoscenza è quegli il quale ha as-


soggettato la mente stabilizzandola nel perfetto equilibrio in-
teriore. Poiché “Colui che è dedito alla conoscenza depone”,
abbandona “qui”, già in questo mondo (l’esistenza attuale),
“entrambi: il buon operato e il cattivo operato”, vale a dire il
merito e il demerito [derivanti dagli atti compiuti], grazie al
conseguimento della conoscenza e della purificazione della
mente, “perciò consàcrati”, dedicati interamente “allo yoga”
in quanto perfetto equilibrio della mente. Infatti [in questa
accezione] lo yoga “è capacità [di distacco dal soggetto e dal
frutto, ecc.] nelle azioni”; tale capacità (kauŸala) è una condi-
zione di [consapevole] attitudine [al distacco dal soggetto
agente e quindi dal frutto e dal suo desiderio]; per colui che è
impegnato nello svolgere attività, consiste nel [mantenere il]
perfetto, stabile equilibrio della mente in rapporto al successo
e all’insuccesso in quelle che sono le azioni definite come il
suo proprio dharma quando questo è perseguito con la co-
scienza costantemente dimorante nel Signore. In effetti esso è
una capacità [di trasmutare la stessa azione] perché anche gli
atti la cui natura è vincolante perdono tale loro qualità grazie
al perfetto equilibrio mentale [con cui vengono compiuti].
Perciò tu [stesso] sii uno che ha raggiunto il perfetto equili-
brio mentale.
104 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.51

2.51. Invero, avendo abbandonato il frutto originato dall’azio-


ne, in quanto dotati della conoscenza, i saggi, completamente libe-
rati dal legame della nascita, procedono verso la beatifica regione.

“Invero, avendo abbandonato il frutto originato dall’azio-


ne...” – tale è il nesso con quanto esposto altrove [nel verso
precedente]; il frutto originato dall’azione (karmaja) è il risul-
tato che viene generato dalle azioni e consiste nell’ottenimen-
to di corpi sia desiderabili che non-desiderabili. “...in quanto
dotati della conoscenza”, ossia poiché hanno raggiunto il per-
fetto equilibrio nella mente, avendo lasciato, cioè avendo in-
teramente deposto il frutto [delle azioni], “i saggi”, divenuti
conoscitori, “completamente liberati dal legame della nascita”
– il legame della nascita (janmabandha) è quel legame che
consiste proprio in una [ulteriore] nascita – dunque, comple-
tamente liberati da ciò, ossia essendo completamente liberi
dal vincolo della rinascita anche mentre sono ancora in vita,
“procedono verso la beatifica”, in quanto priva di qualsiasi
conflitto, suprema “regione” di Vi≤√u denominata liberazione.
Oppure la conoscenza prospettata a partire dal verso: «(Di
gran lunga inferiore) allo Yoga della conoscenza, o Dhanañja-
ya...» (Bha. Gı. 2.49) è proprio quella [espressa come Såækhya]
consistente nella realizzazione della realtà suprema, corrispon-
dente al luogo invaso da ogni parte dalle acque [citato nel
verso 2.46] e indotta dalla purificazione del mentale attraver-
so lo Yoga dell’azione [e non quella denominata Yoga della
conoscenza nel verso 2.48]; [questa alternativa si ha] perché
[nel verso 2.50] si apprende che [tale conoscenza] è diretta-
mente causa dell’annientamento [del frutto] sia del buon ope-
rato che cattivo operato.
Obiezione: Tale conoscenza, originata dalla purificazione
del mentale a sua volta generata dalla pratica dello Yoga [del-
l’azione], quando verrà acquisita ?
2.53 Secondo Adhyåya 105

Risposta: Si dice:

2.52. Quando il tuo intelletto avrà perfettamente superato la


farragine della illusione mentale, allora raggiungerai l’indiffe-
renza verso ciò che hai [ancora] da udire e ciò che hai [già]
udito.

“Quando”, nel tempo in cui “il tuo intelletto avrà perfetta-


mente superato”, avrà oltrepassato “la farragine della illusione
mentale”, ossia quell’impurità che consiste nella ottenebra-
zione della mente e avente natura non-discriminante e che,
avendo reso impura [anche] la consapevolezza discriminante
tra l’åtman e ciò che non è l’åtman, rivolge l’organo interno
(la mente) verso l’oggettività, vale a dire: quando sarà stata
raggiunta una condizione di estrema purezza [mentale], “allo-
ra”, in quel tempo “raggiungerai l’indifferenza”, il distacco
“verso ciò che hai [ancora] da udire e ciò che hai [già] udito”,
vale a dire che allora sia quanto è stato udito sia quanto non è
stato [ancora] udito52 si dimostrerà affatto privo di frutto53.
La conoscenza originata dalla discriminazione dell’åtman
è ottenuta attraverso il superamento della nebulosa palude
dell’illusione; se [tu domandassi] quando raggiungerai lo Yo-
ga [cioè l’Unione, ovvero la conoscenza] della realtà suprema
quale frutto originato dallo Yoga dell’azione, ascolta questo:

2.53. Quando il tuo intelletto, scosso dalla Âruti, si sarà fis-


sato, immobile e stabile, nel samådhi, allora conseguirai lo
Yoga.

“Quando”, nel tempo in cui “il tuo intelletto (buddhi), scos-


so dalla Âruti”, scosso, cioè risultando turbato perché confuso
in vario modo da quanto udito dalle Scritture che rivelano i
molteplici fini e mezzi e le loro relazioni, “si sarà fissato”, sarà
divenuto saldo, “immobile” (niŸcala), cioè sarà privo di qual-
106 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.53

siasi movimento proiettivo (vik≤epa, distrazione), “nel samå-


dhi” – [in questo caso] il samådhi indica l’åtman – cioè [quan-
do] la mente (citta) – l’intelletto (buddhi) sta a indicare l’orga-
no interno (anta¢kara√a, la mente nella sua integralità) – si
sarà assorbita in questo stesso åtman e colà resterà anche [in
maniera] “stabile” (acala), cioè libera da [qualsiasi] vacilla-
mento (vikalpa), “allora”, in quel tempo “conseguirai lo Yoga”,
cioè realizzerai la conoscenza discriminante (vivekaprajñå).
Inventando un pretesto per porre una domanda, Arjuna,
allo scopo di conoscere i segni caratteristici di colui che ha ot-
tenuto la conoscenza nel samådhi, chiese:

Arjuna disse:

2.54. Qual è la descrizione di colui dalla stabile conoscenza,


fermamente stabilito nel samådhi, o KeŸava? Come parla que-
gli dalla mente ferma, come siede e come cammina?

Quegli, la cui consapevolezza: ‘io sono il supremo Bra-


hman’ è costante, è saldamente stabilizzata, è “colui dalla sta-
bile conoscenza” (sthitaprajña); di questi, “qual è la descrizio-
ne”, quale la definizione, l’espressione? Ovvero, come viene
descritto costui dagli altri allorché è “fermamente stabilito nel
samådhi”, ossia è saldamente stabile nella contemplazione, “o
KeŸava?”. Colui dalla stabile conoscenza è di per sé “quegli
dalla mente ferma” (sthitadhı): costui “come parla...”, ovvero
“come siede e come cammina?”; vale a dire: qual è il suo modo
di sedersi o di camminare?
In questo verso [Arjuna] pone una interrogazione riguar-
dante i segni distintivi di colui dalla stabile conoscenza. In ef-
fetti, a partire dal verso: «(Quando, o Pårtha, uno) estirpa
(tutti i desideri...)» (Bha. Gı. 2.55) fino alla conclusione del
Capitolo, sia a colui stesso il quale, avendo rinunciato com-
pletamente fin dall’inizio alle attività, è dedito allo Yoga del-
2.55 Secondo Adhyåya 107

la conoscenza (jñånayoga), sia a colui il quale [ha attinto tale


condizione] grazie allo Yoga dell’azione (karmayoga), a en-
trambi vengono insegnati tanto le caratteristiche che contrad-
distinguono ‘colui dalla stabile conoscenza’ quanto, altresì, i
mezzi [per conseguirla]. Infatti davvero in ogni parte nelle
Scritture di carattere spirituale, quelli stessi che sono i segni
distintivi di colui che ha raggiunto lo scopo (ha realizzato la
stabile conoscenza, ha realizzato l’åtman) vengono insegnati
quali mezzi (sådhana) [per il suo conseguimento] in quanto
[essi stessi sono] ottenibili [solo] grazie a uno sforzo [ben de-
terminato]. E, come dice Bhagavat, i segni distintivi, che pos-
sono essere acquisiti tramite un appropriato impegno, costi-
tuiscono essi stessi mezzi [per conseguire la stabile fondatez-
za nell’åtman].

Ârı Bhagavat disse:

2.55. Quando [l’essere umano], o Pårtha, estirpa tutti i desi-


deri entrati nella sua mente e soltanto nell’åtman e dell’åtman
è appagato, allora viene detto [essere] colui dalla stabile cono-
scenza.

“Quando”, nel tempo in cui, “[l’essere umano] o Pårtha, e-


stirpa...” integralmente, ossia distrugge, lascia cadere comple-
tamente “tutti i desideri”, la totalità delle differenti volizioni,
“entrati nella sua mente”, penetrati nella mente, cioè penetra-
ti nel cuore (intelletto)...
Al completo abbandono di tutti i desideri, per via dell’as-
senza di una causa di soddisfazione [esterna] e dato che resta
solo una ragione per il sostentamento del corpo, si potrebbe
concludere che il suo comportamento possa diventare del tutto
simile a quello di un folle o di un essere irragionevole; pertanto
viene aggiunto: “ma soltanto nell’åtman”, ossia solo [dimoran-
do] nella sua propria natura di intimo åtman, “e dell’åtman”,
108 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.55

cioè di per sé soltanto, indipendentemente dall’ottenimento di


un ente esterno, “è appagato”, ossia è privo di interesse verso
altro grazie all’attingimento della essenza immortale determi-
nato dalla realizzazione della realtà suprema, “allora viene det-
to [essere] colui dalla stabile conoscenza”, dunque un conosci-
tore. Colui dalla stabile conoscenza è quegli la cui conoscenza,
sorta dalla discriminazione tra l’åtman e ciò che non è l’åtman,
è stabile, saldamente stabilizzata. Vale a dire che, deposti i de-
sideri mondani verso progenie, ricchezza [ecc.] e operata la
completa rinuncia [a tutte le azioni finalizzate], colui dalla sta-
bile conoscenza è pienamente pago [soltanto] dell’åtman.
E inoltre,

2.56. Colui la cui mente non è turbata dalle sofferenze, che


non aspira più ai piaceri sensoriali, che si è affrancato dall’e-
mozione, dalla paura e dall’ira, è detto un silenzioso dall’animo
fermo.

Quegli, la mente del quale, pur nell’esperienza del dolore,


non viene turbata, non risulta sconvolta “dalle sofferenze”
sperimentate, come quelle relative al corpo, ecc. 54, questi è
“Colui la cui mente non è turbata”; similmente, quegli la cui
brama, la cui sete [verso il godimento] è stata estinta, per cui
non si accresce conseguentemente a [quella che è l’esperienza
di] tali piaceri, diversamente da quanto avviene per il fuoco
[che aumenta allorché viene] alimentato con del combustibi-
le, è colui “che non aspira più ai piaceri sensoriali” per quanto
siano stati [da lui] sperimentati; “affrancato dall’emozione,
dalla paura e dall’ira...”, cioè colui dal quale l’emozione (råga),
la paura (bhaya) e l’ira (krodha) si sono dileguate, sono state
definitivamente allontanate, quegli, affrancato dall’emozione,
dalla paura e dall’ira, “è detto” allora “un silenzioso” (muni),
cioè un completo rinunciatario (saænyåsin), “dall’animo fer-
mo”, ossia dalla stabile conoscenza55.
2.58 Secondo Adhyåya 109

E ancora,

2.57. Quegli, il quale, privo di attaccamento in ogni circostan-


za, qualsiasi cosa sperimenti, sia pura che impura, non si ralle-
gra né si addolora, per lui la conoscenza è saldamente stabile.

“Quegli”, il muni, “il quale, privo di attaccamento in ogni


circostanza”, esente da qualunque forma di attaccamento per-
sino nei confronti del [proprio] corpo vivente, ecc., “qualsiasi
cosa sperimenti”, ovvero possa esperire, “sia pura che impura,
non si rallegra né si addolora”, vale a dire che pur sperimen-
tando il bene non ne viene appagato e pur sperimentando il
male non ne soffre, “per lui” stesso, immune da eccitazione o
depressione, “la conoscenza” generata dalla discriminazione
“è”, diviene “saldamente stabile”.
E inoltre,

2.58. E quando, come una tartaruga [che ritrae all’interno]


le zampe, questi ritira totalmente i sensi dagli oggetti sensoria-
li, [allora] la sua conoscenza diviene saldamente stabile.

“E quando, come una tartaruga [che ritrae all’interno] le


zampe”, cioè al pari di una tartaruga che, per paura, ritrae a
sé i propri arti, “questi”, l’asceta (yati) intento [a procedere]
nel sentiero della conoscenza, “ritira totalmente”, raccoglie
effettivamente così, da qualunque [direzione oggettuale], “i
sensi dagli oggetti sensoriali”, cioè [quando] colui che è fon-
dato nella conoscenza si autoraccoglie [ritraendosi] da tutti
gli oggetti [esterni e interni, allora] “la sua conoscenza divie-
ne saldamente stabile”. Il significato della sentenza è già stato
esposto.
Obiezione: A tale riguardo, anche i sensi di un malato, che
non è in grado di godere degli oggetti, giacciono ritirati [al-
110 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.58

l’interno] come le zampe di una tartaruga, ma [non viene me-


no] il gusto [che egli comunque avrebbe] nei confronti di tali
[oggetti]. In che modo può essere riassorbito [anch’esso]?
Risposta: È detto:

2.59. Gli oggetti sensoriali svaniscono totalmente per l’essere


incarnato che pratica la continenza, a eccezione del [loro] gusto
[che persiste; ma] per costui anche il gusto, realizzando il Su-
premo, svanisce.

Per quanto “Gli oggetti sensoriali” (vi≤aya) – e [qui] con il


termine “oggetto” vengono definiti gli organi sensoriali (i-
ndriya) che sperimentano gli oggetti dei sensi – “svaniscono
totalmente per l’essere incarnato”, dotato di corpo, “che prati-
ca la continenza”, ma anche per quegli che, assorto in una in-
tensa austerità (tapas), non fruisce della oggettività esteriore,
oppure per un folle, “a eccezione del [loro] gusto”, cioè facen-
do esclusione di quello che è il gusto (l’idea del piacere), con
la conseguente propensione (råga) verso gli oggetti, poiché si
constata che, in [espressioni quali]: ‘assorbito nel proprio gu-
sto’, ‘immerso nel gusto’, ‘esperto del gusto’ e altre è ben
noto l’impiego del termine “gusto” nel senso di “propensione”
(råga, passione, attaccamento).
“[...ma] per costui”, per l’asceta, “anche” quello, “il gusto”,
sottile e di natura coinvolgente (rañjana), “realizzando”, per-
cependo “il Supremo”, cioè il Brahman quale realtà suprema,
“svanisce” allorché egli sperimenta la consapevolezza: ‘io
stesso sono Quello’; vale a dire che la [sua] consapevolezza
[dapprima] rivolta verso gli oggetti si trasmuta divenendo
priva di seme [oggettuale verso cui volgersi ed estrinsecarsi].
In mancanza dell’autentica conoscenza non può aversi
una eliminazione del gusto [quale idea e senso del piacere],
perciò la consapevolezza data dalla autentica conoscenza [del-
2.61 Secondo Adhyåya 111

l’åtman] deve [assolutamente] essere resa stabile. Tale è il


senso.
L’aspirazione a ottenere la stabilità della consapevolezza
scaturiente dall’autentica conoscenza presuppone che prima i
sensi devono essere portati sotto il proprio controllo perché,
in mancanza di tale acquietamento, ne consegue un male.
[Così Bhagavat] dice:

2.60. Infatti, o figlio di Kuntı, i tormentosi sensi trascinano


con veemenza anche la mente dell’uomo saggio che intende
trattenerli.

Perché “Infatti, o figlio di Kuntı...” – qui ci si riallaccia al


[discorso momentaneamente] sospeso – “...i tormentosi sen-
si”, tendenzialmente impetuosi, scuotono profondamente l’in-
dividuo che, in verità, è naturalmente incline all’oggettività,
sebbene egli sia ben consapevole e palesemente in possesso
della conoscenza discriminante; essi, cioè, lo confondono e,
avendolo confuso, “trascinano con veemenza”, violentemente
“anche la mente dell’uomo saggio”, per quanto dotato di in-
telligenza, “che intende trattenerli”, che sta profondendo un
intenso impegno [per dominarli].
Poiché è così,

2.61. Trattenendo completamente tutti loro [il saggio] deve


sedersi e, concentrato, dev’essere assorto [solo] in Me. Invero, la
conoscenza di colui, i cui i sensi [si trovano] sotto controllo, è
saldamente stabile.

“Trattenendo completamente tutti loro”, operando il [loro]


contenimento, tenendo sotto controllo [tutti i sensi, il saggio]
“deve sedersi e, concentrato”, essendo completamente raccol-
to, “dev’essere assorto [solo] in Me” [con la consapevolezza]:
‘io sono Våsudeva, l’intimo åtman della totalità’. Colui che è
112 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.61

assorto [in questo modo], per il quale [vi è la consapevolezza]


‘io non sono altro [da Våsudeva]’, quegli è “assorto in Me”
(matpara). Pertanto così [cioè attinto tale stato] deve sedersi
[e restare]. Tale è il significato.
“Invero, la conoscenza di colui”, ossia dell’asceta che così
siede [ed è assorto], “i cui sensi”, grazie al continuo esercizio,
si trovano “sotto controllo, è saldamente stabile” 56.
Ordunque [Bhagavat] enuncia questa che è la radice di
ogni male [e che si rivela] quando tale assorbimento non si
verifica.

2.62. Per l’uomo che porta costantemente l’attenzione agli


oggetti sorge l’attaccamento verso quelli; dall’attaccamento si
genera il desiderio; dal desiderio [insoddisfatto] nasce l’irasci-
bilità.

“Per l’uomo”, per l’essere umano, “che porta costantemen-


te l’attenzione”, che pensa di continuo “agli oggetti” quali il
suono e gli altri guardando alle [loro] specifiche qualità og-
gettive [quali la bellezza, la bontà, ecc.], “sorge”, viene ad es-
sere “l’attaccamento”, l’aderenza, l’attrazione “verso quegli”
oggetti; “dall’attaccamento...” si genera “il desiderio”, la bra-
ma; “dal desiderio”, [qualora rimanga] insoddisfatto per una
qualunque ragione, “nasce l’irascibilità”.

2.63. Dall’irascibilità procede l’offuscamento mentale, dal-


l’offuscamento mentale la perdita della memoria, dalla perdita
della memoria l’indebolimento della ragione e a causa dell’in-
debolimento della ragione [l’uomo soggiogato dal desiderio,
ecc.] va verso la [propria] definitiva rovina.

“Dall’irascibilità procede l’offuscamento mentale” (saæmo-


ha), la mancanza di discriminazione concernente il giusto e il
non-giusto: infatti, quando si è adirati, essendo mentalmente
2.64 Secondo Adhyåya 113

confusi, si può persino offendere il Maestro; “...dall’offusca-


mento mentale [procede] la perdita della memoria” (smÿtivi-
bhrama), cioè si avrà la perdita, ovvero il disperdersi delle re-
miniscenze generate da quei semi prodotti dall’insegnamento
delle Scritture e del Maestro, vale a dire che anche in presen-
za di circostanze favorevoli al manifestarsi del ricordo [di tali
contenuti positivi] non si avrà il loro riemergere. Di conse-
guenza, “dalla perdita della memoria [si avrà] l’indebolimento
della ragione”, cioè la distruzione dell’intelletto. È detta di-
struzione dell’intelletto (buddhinåŸa) l’incapacità della mente
(l’organo interno, anta¢kara√a) di discriminare tra ciò che si
deve fare e ciò che non si deve fare; “...a causa dell’indeboli-
mento della ragione [l’uomo soggiogato dal desiderio, ecc.] va
verso la [propria] definitiva rovina”. Infatti l’essere umano
(puru≤a) è tale soltanto fin quando la sua stessa mente è in
grado di discernere tra ciò che si deve fare e ciò che non si
deve fare ma, quando subentra l’incapacità in merito a ciò, al-
lora l’uomo viene a essere completamente annientato. Pertan-
to, a causa della distruzione della sua mente, e quindi dell’in-
telletto (buddhi), egli va verso la [propria] definitiva rovina,
vale a dire che non è più in grado di perseguire il fine umano
per eccellenza (puru≤årtha, la liberazione).
Orbene, il prendere in considerazione l’oggettività è stato
esposto come la radice di ogni male. Dopo di ciò, viene adesso
enunciato quello che è il mezzo di liberazione:

2.64. Ma, muovendosi tra gli oggetti con i sensi svincolati da


attrazione e repulsione, da sé stesso posti sotto controllo, e auto-
dominato, raggiunge la perfetta pacificazione.

“...con (i sensi) svincolati da attrazione e repulsione...”; [l’e-


spressione] “attrazione e repulsione” (rågadve≤a) si riferisce
tanto alla attrazione [verso un oggetto] quanto alla repulsione
[da un altro]; invero la naturale attività dei sensi è inizialmente
114 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.64

accompagnata da tali [inclinazioni]. In relazione a ciò, colui il


quale aspira intensamente alla liberazione (mumuk≤u), “muo-
vendosi tra gli oggetti”, cioè pur sperimentando quelli inevita-
bili quali il suono e gli altri [relativi alla percezione sensoriale],
“con i sensi svincolati” da loro due (attrazione e repulsione),
cioè “da sé stesso posti sotto controllo...” – [l’espressione] con
tali [sensi] “da sé stesso posti sotto controllo” significa che i
suoi organi sensoriali (indriya), da lui stesso controllati, sono
stati perfettamente soggiogati – “e autodominato” – è da sé do-
minato quegli la cui mente segue il proprio volere – questi
“raggiunge la perfetta pacificazione”, dove la perfetta pacifica-
zione (prasåda) è lo stato di totale acquietamento che corri-
sponde al dimorare in sé stessi (svåsthya) [cioè nell’åtman].
Che cosa avviene quando vi è la perfetta pacificazione?
Si dice:

2.65. Nella perfetta pacificazione si verifica per lui la cessa-


zione di tutte le sofferenze, perché l’intelletto di quegli che ha la
coscienza perfettamente pacificata presto diviene onnipervasi-
vamente stabile.

E inoltre, “Nella perfetta pacificazione si verifica per lui”,


per l’asceta, “la cessazione”, la completa distruzione “di tutte
le sofferenze” quali quelle relative alla corporeità e le altre,
“perché”, per il motivo che “l’intelletto di quegli che ha la co-
scienza pacificata”, il cui organo interno (la mente) riposa in
se stesso, “presto”, subito “diviene onnipervasivamente stabi-
le”, al pari dello spazio che è onnipervasivamente stabile [in
quanto presente] dappertutto, vale a dire che resta affatto pri-
vo di movimento nella sua propria natura di åtman.
Poiché per colui, la cui coscienza è perfettamente pacificata
e il cui intelletto si è così stabilizzato, si ha il conseguimento
del proprio fine (kÿtakÿtyatå, il ‘compimento di ciò che dev’es-
sere compiuto’), perciò egli può procedere, con i sensi svinco-
2.67 Secondo Adhyåya 115

lati da attrazione e repulsione, impegnandosi nelle cose non


proibite dalle Scritture e indispensabili [per la sopravvivenza].
Tale è il significato del passo.
Questa stessa condizione di perfetta pacificazione viene
[ora] fatta oggetto di elogio:

2.66. Non vi è conoscenza da parte di colui che non è con-


centrato [nell’åtman] e, per colui che non è concentrato, non vi
è [capacità di] meditazione; ancora, per colui che non medita,
non [può aversi] la pace e, per colui che non è pacificato, donde
mai [può provenire] la felicità?

“Non vi è”, vale a dire: non esiste, non può essere [realizza-
ta] la “conoscenza” concernente la natura propria di åtman “da
parte di colui che non è concentrato”, la cui mente non sia
completamente raccolta, “e, per colui che non è concentrato,
non vi è [capacità di] meditazione”, [non è possibile] nessuna
costante dedizione alla conoscenza-realizzazione dell’åtman.
Così, “per colui che non medita”, per colui il quale non si impe-
gna fattivamente consacrandosi alla conoscenza-realizzazione
dell’åtman, “non [può aversi] la pace”, la pacificazione, “e, per
colui che non è pacificato, donde mai [può provenire] la felici-
tà?”. In effetti la felicità è quel volgersi indietro dei sensi [che
si ritraggono] dalla brama verso gli oggetti, mentre non consi-
ste affatto nel [perseguire e assecondare il] desiderio verso gli
oggetti: questo, infatti, è solo sofferenza. Vale a dire che, fin
quando sussiste la brama [verso gli oggetti], non si può am-
mettere ragionevolmente nemmeno un sentore di felicità.
Perché non vi è conoscenza per colui che non è concentrato?
Si dice:

2.67. Perché la mente che segue i sensi nel loro vagabondare


disperde la capacità di comprensione di costui, come il vento
[porta via] una imbarcazione sull’acqua.
116 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.67

“Perché”, per il motivo che “la mente che segue”, che di-
viene attiva in concomitanza con “i sensi nel loro vagabonda-
re”, nel loro attivarsi in relazione ai singoli rispettivi oggetti,
“disperde”, distrugge “la capacità di comprensione (prajñå) di
costui”, dell’asceta, generata dalla discriminazione tra l’å-
tman e ciò che non è l’åtman, in quanto la mente [stessa] è
intenta a immaginare gli oggetti dei sensi.
In che modo [la disperde]?
“...come il vento [porta via] una imbarcazione sull’acqua”,
sul mare: come il vento sospinge via un battello dalla rotta
stabilita dirigendolo verso una rotta errata, così la mente [di-
stratta dai sensi], distogliendo la consapevolezza incentrata
sull’åtman [dall’åtman stesso], la convoglia sull’oggettività
[presente esteriormente o proiettata interiormente].
Avendo esposto in diversi modi la motivazione del signifi-
cato illustrato nel passo: «Infatti... anche (la mente dell’uomo
saggio) che intende trattenerli» (Bha. Gı. 2.60), ora, conferman-
do quel [medesimo] senso, [Bhagavat] trae la sintesi:

2.68. Perciò, o Mahåbåhu, la conoscenza di colui, i cui sensi


sono stati ritirati totalmente dagli oggetti sensoriali, è salda-
mente stabile.

Poiché il male insito nell’attività dei sensi [allorché è ri-


volta ai rispettivi oggetti] è stato provato, “Perciò, o Mahåbå-
hu, la conoscenza di colui”, dell’asceta, “i cui sensi sono stati
ritirati totalmente”, cioè in tutte le modalità relative alle mol-
teplici forme immaginative, ecc. “dagli oggetti sensoriali” quali
il suono e gli altri, “è saldamente stabile”.
Per quegli che è di stabile conoscenza, per il quale è sorta
la conoscenza discriminante, questa stessa condotta empiri-
ca, sia in relazione alla vita ordinaria che all’osservanza del-
le norme scritturali, cessa alla cessazione della ignoranza per-
ché è un effetto della ignoranza. Inoltre si ha la cessazione
2.69 Secondo Adhyåya 117

della [stessa] ignoranza in quanto opposta alla conoscenza.


Così, nell’intento di rendere chiaro questo significato, [Bha-
gavat] dice:

2.69. Quella, che è notte profonda per tutti gli esseri, in essa
veglia colui che è completamente [auto-] controllato; quella,
nella quale [tutti] gli esseri vegliano, è notte profonda per il
[saggio] silenzioso che vede [realmente].

“Quella, che è notte profonda”, tenebra “per tutti gli esse-


ri...”, per qualunque essere in quanto, essendo per propria na-
tura oscurità (tamas), provoca l’assenza di discernimento in
relazione a tutte le categorie oggettuali (padårtha)...
Che cosa [significa]?
Che l’essenza della realtà suprema (paramårthatattva) può
diventare oggetto [di una presa di coscienza solo] per colui
che è di stabile conoscenza. Come quello che è giorno pieno
per i nottambuli è notte profonda per gli altri, tal quale, per
tutti gli esseri soggetti all’ignoranza, che corrispondono ai
nottambuli, la realtà suprema è notte profonda, cioè è come
una notte profonda, essendo inaccessibile a coloro che non
hanno la consapevolezza di Essa (atadbuddhi)57.
“...in essa”, che è propriamente la realtà suprema, “veglia”,
è perfettamente risvegliato dal sonno della ignoranza (ajñå-
nanidrå) “colui che è completamente [auto-] controllato” (saæ-
yamin), vale a dire lo yogin che è dotato di totale autocontrol-
lo in quanto ha dominato i propri sensi.
[Ma] “quella” notte profonda della ignoranza, caratterizza-
ta dalla distinzione tra percipiente (gråhaka) e percepito (grå-
hya) (la dualità soggetto-oggetto), “nella quale...”, notte pro-
fonda nella quale si dice che “gli esseri”, in realtà profonda-
mente addormentati, cioè pur essendo come profondamente
addormentati, “...vegliano”, quella [stessa notte della non-co-
noscenza], simile al sogno, avendo cioè natura di ignoranza,
118 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.69

“è notte profonda per il [saggio] silenzioso che vede”, [che ha


realizzato] la realtà suprema.
Quindi le attività [sacrali] risultano ingiunte solo in rela-
zione alla condizione di ignoranza e non relativamente alla
condizione di conoscenza. Infatti, quando la conoscenza sta
sorgendo, l’ignoranza si dilegua come l’oscurità notturna al
levare del sole mentre, prima dell’avvento della conoscenza,
l’ignoranza, che viene ritenuta [nella veste della conoscenza
distintiva, sensoriale, ecc.] un mezzo cognitivo autorevole,
sussiste sotto forma della differenziazione di azione, agente
e frutto e si dimostra essere la causa di qualsiasi attività.
Qualora invece non venga ritenuta un mezzo cognitivo auto-
revole, allora non si può ammettere secondo ragione nemme-
no che sia la causa dell’agire. Infatti l’agente si impegna nel-
l’azione [solo quando pensa]: ‘la [tale] azione deve essere
compiuta in quanto mi viene ingiunta dal Veda che è una fon-
te autorevole di conoscenza’, ma non [se crede]: ‘tutto questo
[universo di azioni, agenti e frutti] è unicamente [un illusorio
effetto della] ignoranza, simile alla [oscurità della] notte pro-
fonda’. E, ancora, per colui il quale ha [realizzato] la cono-
scenza: ‘tutto questo [universo...], generato dalla [apparen-
te] differenziazione, è nient’altro che [effetto della] ignoran-
za, simile alla [oscurità della] notte profonda’, per tale cono-
scitore dell’åtman la sola qualificazione consiste nella com-
pleta rinuncia a qualsiasi [forma di] attività e non nell’impe-
gnarsi nell’azione. E in maniera simile verrà mostrato, nel
passo: «Con la loro consapevolezza in Quello, con i loro å-
tman in Quello...», ecc. (Bha. Gı. 5.17), che la sua qualifica-
zione consiste soltanto nella stabile fondatezza nella cono-
scenza (jñånani≤†hå)58.
Obiezione: Anche in tal caso, cioè in assenza di un mezzo
autorevole di conoscenza che imponga l’impegno [in qualcosa,
dunque in mancanza di una specifica ingiunzione al riguar-
2.69 Secondo Adhyåya 119

do], non si può ragionevolmente ammettere l’impegno in


un’attività [come il dedicarsi alla conoscenza dell’åtman].
Risposta: No, perché la conoscenza dell’åtman concerne,
appunto, il proprio åtman [e, svelando una natura sempre esi-
stente, non necessita di alcuna forma di attività].
Invero, non ci si può aspettare che un mezzo autorevole
di conoscenza prescriva l’impegnarsi di sé nel proprio åtman,
perché, appunto, si tratta proprio dell’åtman [dunque di sé
stessi] e anche perché l’autorevolezza di tutti i mezzi validi
di conoscenza proprio in ciò (la realizzazione dell’åtman)
trova il proprio epilogo 59. Infatti, quando si verifica la com-
prensione della reale natura dell’åtman, non è più possibile,
da parte dei mezzi di conoscenza validi o in rapporto agli
oggetti da conoscere, [indicare o ingiungere] alcuna attività
relazionata (vyavahåra): infatti quella che è la definitiva fon-
te autorevole di conoscenza (il Veda) nega che l’åtman pos-
segga la natura di mezzo conoscitivo ancorché valido60; inol-
tre, al tempo stesso in cui opera tale negazione, perde il pro-
prio valore quale fonte autorevole di conoscenza, come l’in-
fluenza conoscitiva del [mondo onirico percepito durante il]
tempo del sogno [è limitata al sogno stesso e cessa] al risve -
glio. Anche nella sfera empirica, quando si è riconosciuto un
oggetto, non si constata più, per il mezzo cognitivo [che ha
operato il riconoscimento], la funzione [continuativa] di
strumento in tale attività (non essendo più necessario per
mantenere tale conoscenza) 61. Con ciò è definitivamente sta-
bilito che per il conoscitore dell’åtman non sussiste più alcu-
na qualificazione ad agire.
La liberazione può essere conseguita solo da parte dell’a-
sceta che è un [vero] conoscitore, che si è distaccato dal desi-
derio ed è di stabile conoscenza, ma non da colui che non ha
operato la completa rinuncia e carezza ancora il desiderio.
Mostrando questo significato, [Bhagavat] dice:
120 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.70

2.70. Come le acque si riversano nell’oceano che [tuttavia]


permane placido mentre viene riempito, tal quale [all’oceano,
solo] quegli [che rimane stabile anche] mentre tutti i desideri
fluiscono in lui consegue la pace, e non già colui che le brame
anela.

“Come le acque” provenienti da ogni parte “si riversano


nell’oceano che [tuttavia] permane placido – “permane placi-
do” (acalaprati≤†ha) quello per il quale, grazie a uno stato di
assenza di agitazione (acalatå), si ha una condizione costante
di stabilità – [anche] “mentre viene riempito” da tali acque,
per cui riposa stabilmente in sé stesso, continuando a restare
affatto privo di cambiamento, “tal quale [all’oceano, solo]
quegli”, l’uomo il quale, sebbene in presenza [o a contatto]
degli oggetti, similmente all’oceano che le acque non cam-
biano, [rimane stabile anche] “mentre tutti i desideri”, le par-
ticolari aspirazioni “fluiscono in lui” [provenendo] da ogni
parte e si dissolvono proprio in lui stesso, cioè non hanno al-
cun effetto sul dominio del suo proprio åtman, “consegue la
pace”, cioè la liberazione, “e non già” un altro, ossia “colui che
le brame anela”; le brame (kåma) concernono gli oggetti di
desiderio e colui che le brame anela, ossia la cui inclinazione
è desiderare tali oggetti, non la consegue affatto. Tale è il si-
gnificato62.
Poiché è così, perciò:

2.71. [Solo] l’uomo che, abbandonando tutti i desideri, si


muove privo di attaccamento, senza più il sentimento del mio e
senza il senso dell’io, quegli raggiunge la pace.

“[Solo] l’uomo”, il totale rinunciatario, “che, abbandonan-


do”, distaccandosi completamente da “tutti i desideri”, nella
loro integralità, senza eccezione, “si muove”, vale a dire erra
appagato e il cui comportamento è diretto alla sola sopravvi-
2.72 Secondo Adhyåya 121

venza, essendo “privo di attaccamento” – è privo di attacca-


mento (nispÿha) colui per il quale si è dileguato l’attaccamento
persino nei riguardi della mera sopravvivenza del [proprio]
corpo – “senza più il sentimento del mio” (nirmama), cioè che
ha abbandonato il senso della possessività (mamatva), che ha
eliminato l’adesione a [nozioni quali]: ‘questo è mio’ persino
nei confronti dell’accettazione di ciò che gli viene elargito per
la sua sola sussistenza corporale, “e senza il senso dell’io” (ni-
rahaækåra), vale a dire privo di qualsiasi alta opinione di sé
che lo induca a ostentare il suo possesso della conoscenza,
“quegli”, di tal natura, cioè di stabile conoscenza e conoscito-
re del Brahman, “raggiunge”, consegue “la pace” consistente
nella cessazione di tutte le sofferenze del divenire ciclico e de-
nominata estinzione (nirvå√a), vale a dire che diviene il Bra-
hman [stesso]63.
Questa stessa fondatezza nella Conoscenza viene ora elo-
giata.

2.72. Questa è la [condizione di] esistenza brahmanica, o


Pårtha; ottenendola, non ci si smarrisce più e, in questa dimo-
rando anche al tempo della morte, si approda al brahmanirvå√a
(la liberazione).

“Questa”, quale è stata descritta, “è la [condizione di] esi-


stenza brahmanica” (bråhmı sthiti), essa è l’esistere nel Bra-
hman, cioè la condizione [naturale di Essere] proprio in quan-
to si ha la natura del Brahman avendo completamente rinun-
ciato a qualsiasi azione, “o Pårtha; ottenendola”, attingendo
[tale condizione di] esistenza, “non ci si smarrisce più”, cioè
non si cade più vittima di offuscamento mentale, e “...in que-
sta” [condizione di] esistenza brahmanica quale è stata de-
scritta, “dimorando anche al tempo della morte”, financo alla
conclusione della vita, “si approda al brahmanirvå√a”, si
giunge alla estinzione [del divenire ciclico] nel Brahman.
122 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 2.72

Che altro dire, dunque?


[Anche] colui il quale abbia operato la completa rinuncia
[a tutte le azioni] già dal periodo dello studentato (brahmaca-
rya) ed è fermamente stabilito soltanto nel Brahman consegue
l’estinzione nel Brahman.

Nelle Scritture yoga sulla conoscenza del Brahman


appartenenti alla Upani≤ad della sacra Bhagavadgıtå,
questo è il Secondo Capitolo
nel dialogo tra Kÿ≤√a e Arjuna
intitolato:
‘Lo yoga della investigazione discriminante’.

*
NOTE al Secondo Adhyåya

1
La “investigazione discriminante” è ciò cui si riferisce in que-
sto contesto il termine Såækhya, come apparirà chiaro in seguito.
2
Il termine Bhagavat significa: sacro, beato, glorioso, illustre,
ecc. e nella Gıtå designa il Signore Våsudeva nella forma di Kÿ≤√a;
talvolta è usato come titolo onorifico in riferimento a Vyåsa o altri
Saggi; la parola Ÿrı: splendore, gloria, grazia, ma anche: venerabile,
degno di adorazione, è un prefisso onorifico.
3
La completa rinuncia (saænyåsa) verso i beni, l’attività sacra-
le, ecc. insieme con la vita da monaco mendicante (pårivråjya)
privo di ogni possesso terreno spettano tradizionalmente solo al
bråhma√a, il quale soltanto può diventare saænyåsin, e non allo
k≤atriya.
4
Ogni ordine sociale o stadio di vita ha un suo proprio dharma.
5
In senso lato il dharma è l’espressione contingente della Leg-
ge divina a cui l’essere conscio deve conformarsi se intende inse-
rirsi armonicamente nell’equilibrio cosmico. Tutto ciò che gli è
opposto costituisce l’adharma, un fattore di disarmonia, squili-
brio, caduta e rovesciamento. Colui che rispetta il dharma, pro-
prio e universale, si pone in una condizione di armonia con il
contesto, favorevole alla conoscenza-realizzazione; colui che per-
segue l’adharma si allontana dal Principio e vi si contrappone co-
stringendosi in identificazioni imprigionanti sempre più limitate.
V. nota 5.33.

Probabile riferimento al vÿttikåra Bodhåyana, autore di un


6

Commento alla Gıtå anteriore a quello di Âa§kara.


124 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

L’Agnihotra è un rito domestico in omaggio al deva del Fuoco


7

sacrificale (Agni) da celebrarsi quotidianamente al mattino e alla sera.

Si accenna alle sei fasi che caratterizzano il ciclo manifesto di


8

ogni entità formale: nascita-venuta all’esistenza, crescita, maturità,


declino, vecchiaia-degenerazione e morte-distruzione.

Il mondo degli uomini (manu≤yaloka), degli Antenati (pitÿloka)


9

e degli Dei (devaloka), corrispondenti rispettivamente alle sfere ter-


rena (pÿthivıloka), lunare (candraloka) e solare (ådityaloka).

Qui il termine “conoscenza” (vidyå) assume il senso di “medi-


10

tazione formale” (upåsana).

Il Sentiero della Conoscenza (jñånamårga) e il Sentiero del-


11

l’Azione (karmamårga), le due distinte vie realizzative.

Si fa cenno alla sfera lunare come mèta raggiunta da coloro


12

che compiono riti pervasi dal rajas. Cfr. Bha. Gı. 17.12.

Rito che consiste nella installazione di un fuoco sacrificale in


13

un dato luogo attenendosi alle indicazioni scritturali.


14
Si torni a 1.43 e segg.
15
Cfr. Vi. Smÿ. 20.49.

Mentre l’oggetto o il dato sensibile, il contatto con il quale è


16

causa di piacere o di dolore, può variare per ogni individuo a se -


conda della circostanza, ecc., l’esperienza in sé del piacere o del do-
lore, che ne è l’effetto, è uguale per tutti, quindi invariabile e comu-
ne determinando rispettivamente attrazione o repulsione. Il piace-
re, o il dolore, in altri termini, è tale per chiunque, mentre può dif-
ferirne la causa.

La eventuale obiezione, secondo cui l’indefinitezza del dive-


17

nire dipende dall’assenza di limite nella esperienza del piacere e del


dolore causati dal contatto con i sensi, viene demolita considerando
che il piacere e il dolore non sono entità reali ma reazioni soggetti-
Note al Secondo Adhyåya 125

ve di origine oggettuale, proiettiva, ecc. determinate dalla identifi-


cazione con il soggetto percipiente (io) e variabili in funzione di
questo, della condizione, ecc. Quando ciò è stato trasceso, o co-
scienzialmente devitalizzato, in assenza di contenuti preesistenti
subconsci, di qualità da esprimere e di volizioni, quindi in mancan-
za di una potenziale reattività, sia gli oggetti-cause sia le loro espe-
rienze-effetti assumono una connotazione neutra, priva di caratte-
ristiche positive o negative, tale che il potere esercitato da loro vie-
ne gradualmente a ridursi fino a svanire per cui la sua potenzialità
può essere agevolmente risolta.
18
Lo Ÿloka è un vero e proprio s¥tra che esprime in sintesi un’e-
videnza incontrovertibile: ‘Del non-reale non vi è esistenza, del
reale non vi è non-esistenza’; in altri termini: ‘l’essere è sempre, il
non-essere non è affatto’. Ciò che non è prima e non è dopo, non è
nemmeno durante, cioè nel momento intermedio in cui appare.
Che cosa percepiamo, allora? Una semplice apparenza, non-esisten-
te, su un sostrato di esistenza. Cfr. Må. Kå. 4.31, 40.
19
Retrocedendo da effetto a causa si entra inevitabilmente in
una regressione senza fine (anavasthå) – per ogni effetto vi è una
causa, questa a sua volta è effetto e così via – perché sul piano di
causa ed effetto non si può dare causa prima (incausata) o effetto
ultimo (incausante). Pertanto, dalla visuale di måyå la concatena-
zione causa-effetto è priva di limite sia in un senso che nell’altro
(anådyananta, senza inizio e senza fine). Il rapporto causa-effetto è
sostanzialmente lo stesso divenire (saæsåra); esso giunge a termine
solo quando, trasceso integralmente il suo piano, si realizza il Bra-
hman di là da causa ed effetto.
20
L’ipotetico oppositore, legato al piano della dualità-relazione,
non ammette l’esistenza di alcunché che non sia né causa né effet-
to. Paradossalmente considera reale proprio ciò che per definizione
non può esserlo.

La nozione dell’essere (sadbuddhi) si riferisce a ‘ciò che è’, la


21

conoscenza-consapevolezza relativa all’essere delle cose; la nozio-


ne del non-essere (asadbuddhi) a ‘ciò che non è’, la conoscenza-
126 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

consapevolezza relativa al non-essere delle cose. L’essere è ‘ciò


che è’ (sat), ciò che esiste sempre, quindi il reale, e la sua nozione
è la conoscenza del reale; il non-essere è ‘ciò che non è’ (asat) in
assoluto, ciò che non-esiste affatto, ovvero esiste-non-esiste, dun -
que appare e scompare, quindi il non-reale, e la sua nozione è la
conoscenza del non-reale. Un dato ente possiede esistenza e attri-
buti che lo qualificano come tale: quella è il suo essere, questi
sono un non-essere. Dato che il contenuto qualifica la conoscen-
za, la nozione dell’essere è una conoscenza reale, la nozione del
non-essere, ossia degli attributi fittizi, è una conoscenza non-rea-
le. Âa§kara spiega che la percezione (upalabdhi) – come la proie-
zione immaginativa (kalpanå), la concettualizzazione (saækalpa),
la rammemorazione (smara√a), ecc. – comporta una consapevo-
lezza della essenza – che è la componente reale (sat) della cono-
scenza – e una consapevolezza della forma – che è la componente
non-reale (asat) della conoscenza. Ora, la cognizione di un dato o
di un oggetto, quindi di un ente esistente, presuppone sia la co-
scienza della sua esistenza, cioè dell’essere, che la nozione del no-
me-forma (nåma-r¥pa) che lo distingue quale ente-oggetto, perti-
nente al divenire. Tra le due, la consapevolezza relativa all’essere,
proprio in quanto coscienza, è sempre ed è invariabile, per cui è
reale; viceversa la conoscenza del nome-forma, o dell’attributo,
ecc., in quanto modificazione sovrapposta, può essere o non-esse-
re, può presentarsi, mutare e cessare di porsi per cui, essendo va-
riabile, è non-reale. Nella conoscenza di un dato-oggetto questi
due aspetti sono sempre associati: il contenuto non-reale qualifica
quello reale sul quale è sovrapposto consentendo la cognizione
specifica del dato-oggetto particolare. La percezione-conoscenza
di un dato, ecc. implica pertanto una consapevolezza (sostrato di
coscienza) sulla quale la conoscenza relativa (forma-immagine) si
staglia come modificazione sovrapposta al sostrato con cui ha un
rapporto analogo a quello del contenuto (ådheya) rispetto al con-
tenente (ådhåra). In questa disamina Âa§kara intende provare at-
traverso l’evidenza conoscitiva che la conoscenza dell’essere, cioè
la coscienza in quanto essere, è l’åtman stesso, il Sostrato di qua-
lunque conoscenza, la conoscenza del non-essere una semplice
sovrapposizione di natura non-reale.
Note al Secondo Adhyåya 127

22
Il sostrato è necessario, la sovrapposizione accidentale. Ciò
che varia è non-reale, ciò che non varia mai è reale. La trasforma-
zione causa-effetto non ha limite e i suoi fattori, scambiandosi mu-
tuamente, sono non-reali; quello che non varia è il loro sostrato, lo
sfondo sul quale si stagliano, apparendo, mutando e scomparendo.
Nella erronea percezione di una corda come altro, l’immagine (ser-
pente, ecc.) può cambiare o cessare al riconoscimento della corda
ma non la percezione dell’oggetto-corda: questa, sottostando alle di-
verse immagini, è reale, quelle semplici parvenze illusorie. Pertanto
la natura reale o non-reale di un ente deve essere inferita dalla con-
sapevolezza inerente.
23
Quando si percepisce un ente come: “questo è un vaso”,
ecc., l’oggetto di percezione: “questo”, ecc. rappresenta il reale,
mentre il nome-forma: “vaso”, ecc. il non-reale. La cognizione
della esistenza di “questo” è sadbuddhi, la nozione di nåmå-r¥pa è
asadbuddhi.
24
Qui abbiamo un attributo-colore che qualifica una forma-og-
getto: una doppia sovrapposizione o una reciproca qualificazione,
di un dato non-reale che qualifica un altro dato non-reale. Invece,
una cognizione nella forma: “questo loto – esistente – è blu”, rien-
tra nei casi precedenti, perché al fattore costante (questo, esistente),
percepito come ente-forma (il loto), viene sovrapposto un fattore
variabile (l’attributo-colore).
25
Perché nella percezione di differenti oggetti la consapevolez-
za della esistenza, benché unica e non-differenziata, è qualificata e
resa apparentemente molteplice dalle singole forme.
26
Possiamo avere coscienza della presenza del vaso, ma anche
della sua assenza, distruzione o non-esistenza: i contenuti possono
variare (conoscenza non-reale) ma non il contenente (coscienza
reale). Eliminati i contenuti sovrapposti (molteplicità), resta il So-
strato (unità assoluta).
27
Asserire che la conoscenza reale esiste in funzione del cono-
sciuto-non-reale, equivale a dire che il conosciuto determina la co-
128 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

noscenza, che il non-reale genera il reale, o, in altre parole, che il


sostrato esiste in funzione della sovrapposizione.

Una sovrapposizione non può darsi in assenza di un sostrato:


28

quella dimostra e presuppone questo, ma questo è indipendente da


quella. D’altra parte, capovolgere le cose e ritenere che il sostrato
(il qualificato) dipenda dalla sovrapposizione (il qualificante) è co-
me asserire che ‘il contenuto contiene il contenente’. La coscienza
dell’essere ‘è sempre’ presente, la cognizione relativa al non-essere
‘è o non è’, in funzione del conosciuto; ma anche l’assenza o l’ine-
sistenza del conosciuto, dell’attributo-qualificante (viŸe≤a√a), essen-
do tale, prova che la coscienza-sostrato, il qualificato (viŸe≤ya), è co-
stantemente esistente, cioè reale. La conoscenza distintiva è so-
vrapposta alla conoscenza reale.

L’avversario sostiene che un oggetto illusorio non può posse-


29

dere attributi reali; così l’individuo, secondo tale obiezione, ritiene


reale sia l’oggetto che l’attributo perché, diversamente, non potreb-
be nemmeno prenderli in considerazione. Oppure, se è reale l’uno
(l’attributo, fattore di distinzione), dev’essere reale anche l’altro
(l’oggetto). Dicendo: ‘questo fiore è rosso’ o devono essere reali en-
trambi – fiore e colore – o nessuno dei due.
30
Il sostrato di coscienza non costituisce oggetto di percezione
o conoscenza, ma la natura stessa del soggetto. Nel miraggio: ‘que-
sta è acqua’, non solo la forma ‘acqua’ è non-reale, ma è inesistente
anche l’entità percepita come: ‘questa’, che è mera apparenza. Ciò
nondimeno vi è una consapevolezza qualificata da tale entità appa-
rente; consapevolezza che, sebbene l’entità qualificante sia non-
reale in quanto svanisce a una indagine più approfondita, resta
sempre come il suo sostrato. In altre parole, la cognizione di un
dato – vero o falso che sia, presente o assente, esistente o inesisten-
te, incostante o variabile – presuppone e comprova l’esistenza co-
stante e invariabile di un sostrato di coscienza e, conseguentemen-
te, la sua natura reale: tale sostrato non è altro che l’åtman.

La variabilità del qualificante prova la sua non-esistenza, il


31

suo non-essere, la sua natura in definitiva non-reale; l’invariabilità


Note al Secondo Adhyåya 129

del qualificato svela la sua costante esistenza, il suo essere, la sua


natura reale. Del resto l’åtman viene espresso come il Sostrato di
sat-cit-ånanda, sul quale, attraverso la måyå, si staglia l’universo
della proiezione cangiante di nåma-r¥pa.
32
La sovrapposizione, oggetto della conoscenza non-reale, è
espressa da “questo”; invece il Sostrato reale, trascendendo la qua-
lificazione e la stessa definibilità, può essere espresso solo in modo
astratto come: Quello (tad), o attraverso la negazione (neti neti). La
molteplicità della conoscenza non-reale si basa sulla unità assoluta
della conoscenza reale.
33
Cfr. Ma. Bhå. 12.240.20 e Bha. Gı. 8.22, 9.4, 11.38 e 18.46.
34
I mezzi di conoscenza ordinari (pramå√a) contemplati nel da-
rŸana Nyåya e ritenuti validi e sufficienti ai fini della conoscenza di
un ente, ecc. sono: la percezione sensoriale diretta (pratyak≤a), l’in-
ferenza o deduzione logica (anumåna), la comparazione o induzio-
ne analogica (upamåna) e la testimonianza scritturale (Ÿabda). A
loro il Vedånta e la P¥rva Mımåæså aggiungono: l’ipotesi finalizza-
ta (arthåpatti) e la non-percezione (anupalabdhi). Sono ritenuti evi-
denze conoscitive inoppugnabili.
35
La coscienza di essere è una proprietà intrinseca e costante
della esistenza di qualsiasi ente conscio.
36
Come l’idea del corpo, della natura agente, o finita e peritura,
ecc. La Scrittura è il “mezzo di conoscenza autorevole definitivo”
(antyaæ pramå√am) perché la sua asserzione è l’ultima, non su-
scettibile di critica o confutazione. Qualsiasi altro mezzo, onde ave-
re validità, deve adeguarsi o corrispondere a Essa.
37
Per questo e il successivo verso, cfr. Ka. 2.18-19 e Chå. 8.1.5, 8.10.2, 4.
38
Si torni alla nota al verso 2.8.
39
L’insegnamento tradizionale, che procede dalle Scritture
(Ÿåstra, ågama) attraverso il Maestro (guru, åcårya), deve essere
130 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

vagliato dalla ragione attraverso l’inferenza (anumåna); solo al-


lora diviene suscettibile di essere posto in atto attraverso una
presa di consapevolezza che segue alla intuizione intellettuale
superconsapevole (buddhi). La ragione, benché insufficiente a
cogliere l’åtman, può corroborare le asserzioni scritturali apren-
do la strada all’intuizione e fungere da supporto a un modo di
sentire ed essere improntato alla visione realizzativa. Le virtù
mentali sono: la pacificazione (Ÿama), l’autodominio sensoriale
(dama), lo spontaneo autoraccoglimento (uparati), la pazienza
perseverante (titik≤å), la fede incrollabile (Ÿraddhå) nelle Scrittu-
re, nel Maestro, nell’istruzione, ecc. e la stabilità mentale ( samå-
dhåna).

Si tenga presente che la qualificazione (adhikåra) implica la


40

soggezione a una norma (niyama) che regoli l’attività al fine di ri-


spettare l’osservanza di un dovere (dharma), sia imposto dalle
Scritture o assunto deliberatamente. In mancanza di finalità e di
obiettivi non vi è nulla che debba essere compiuto e la qualificazio-
ne si rivela solo quella di rimanere stabili nella consapevolezza del-
la realtà autoesistente.
41
Cfr. Vi. Smÿ. 20.50.
42
In riferimento ai versi Bha. Gı. 2.23-25, cfr. Vi. Smÿ. 20.51-53.

Secondo un’altra redazione: “in modo che, una volta che la


43

realtà immanifesta sia entrata nella sfera dell’intelletto come con-


sapevolezza della natura non soggetta a trasmigrazione per gli es-
seri trasmigranti, possa verificarsi...”.
44
In riferimento ai versi: Bha. Gı. 2.27-28, cfr. Vi. Smÿ. 20.29, 48.
45
Cfr. Ka. 1.2.7.

Si allude all’episodio in cui Arjuna, in occasione di un pelle-


46

grinaggio nell’Himålaya al fine di propiziarsi gli dèi prima del com-


battimento, incontra Âiva sotto le spoglie di un abitante delle mon-
tagne.
Note al Secondo Adhyåya 131

47
Si rammenta che in questo contesto Såækhya e Yoga non de-
signano le omonime prospettive filosofiche ortodosse (darŸana),
ma rispettivamente la conoscenza e la disciplina ascetica-operati-
va, ossia: la discriminazione dell’åtman e i mezzi per ottenerla.
Tale accezione verrà esplicitata anche in seguito. Il termine ka-
rman, azione, ha una profonda valenza nella filosofia indiana. L’a-
zione, quando è compiuta con identificazione al soggetto agente e
allo scopo di ottenerne un frutto, comporta un effetto identificati -
vo che non si manifesta solo in concomitanza con l’atto, ma può
prodursi anche in un tempo futuro in forza della potenzialità che
racchiude e che deve necessariamente esprimere, determinando
una successiva rinascita. L’ordinario agire è un continuo accumu -
lo di karman, e l’essere è costretto a reincarnarsi indefinitamente
sperimentando passivamente quella che è definita la “ruota dell’e-
sistenza” (bhavacakra), ossia il divenire ciclico esistenziale (saæ-
såra). Per liberarsi dalla prigionia del karman, insegna Kÿ≤√a, è
necessario distaccarsi dal soggetto e dal frutto dell’azione: è l’agi-
re-senza-agire, essenza della istruzione della Bhagavadgıtå. V.
nota 4.35.
48
Le funzioni della mente sono: intelletto puro (buddhi), senso
dell’io (ahaækåra), memoria rappresentativa (citta) e mente seletti-
va-proiettiva (manas) connessa alla sfera sensoriale-razionale. Âa-
§kara spiega che in questo verso il samådhi si riferisce alla mente e
alla sua capacità di concentrazione, meditazione, ecc. Nel råjayoga
il samådhi è l’ultimo passo o membro (a§ga), la “contemplazione
immedesimativa” che implica la totale e perfetta identificazione co-
scienziale con l’oggetto di meditazione; è un potente ed efficace
mezzo realizzativo che risolve le cristallizzazioni mentali consen-
tendo che si manifesti “l’intelletto consustanziato di risoluzione”,
per cui gradatamente conduce allo svelamento della realtà. Con-
templare un oggetto distinto da sé nell’ottica della esperienza indi-
viduale non costituisce il vero samådhi. Il considerare solo finalità
di ordine umano terreno denuncia la mancanza di discriminazione
tra reale e non-reale e sbarra la strada all’instaurarsi della vera
contemplazione; in tal caso essa si riduce a una mera proiezione
immaginativa, sterile e vincolante.
132 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

Si allude alla sezione relativa all’attività rituale (karmakå√ƒa),


49

in cui si espongono i mezzi per ottenere frutti di ordine relativo. I


gu√a sono gli attributi principiali, quelli che emergono direttamen-
te dalla qualificazione dell’Essere e che si riflettono in tutta la scala
della manifestazione, quindi in ogni ente e nell’individuo. Essi
sono: il sattva o la purezza esprimente armonia-equilibrio-lumino-
sità-quiete, il rajas o energia-dinamismo-calore-attività e il tamas o
massività-passività-oscurità-inerzia. Il divenire ciclico è detto “con-
sistente dei tre gu√a” in quanto il moto traslatorio del jıva è impul-
sato e mantenuto dalle nature e potenzialità dei gu√a che in tale
movimento si esprimono interagendo. La loro interazione induce
l’ente conscio ad agire, sperimentare, ecc. Quando i gu√a sono ri-
solti, la loro azione viene a cessare. Cfr. Yo. S¥. 4.32. V. Cap. 14.

Qualsiasi forma di felicità ottenuta grazie all’attività rituale,


50

alle opere ingiunte nei Veda, è comunque finita ed è compresa nella


beatitudine infinita che attinge colui che ha realizzato l’åtman attra-
verso la Conoscenza. Il grado di beatitudine è correlato alla propria
consapevolezza. Lo Yoga dell’azione, innalzando l’essere con l’atti-
vità disidentificata, gli consente di attingere forme di felicità crescenti
che tendono alla beatitudine del Brahman. Perciò l’azione, seppur li-
mitata, non è inutile finché la qualificazione ad agire è presente; ma
quando si palesa la qualificazione a conoscere, la conoscenza satura
il campo coscienziale con lo svelamento dell’åtman e la liberazione
dal saæsåra. Cfr. anche Ma. Bhå. 5.46.26 e Bÿ. 4.3. 32-33.

L’identificazione al soggetto dell’azione, ecc. è la causa con-


51

tingente, la rinascita è l’effetto. La loro concatenazione ininterrotta


è il saæsåra. Ma la causa primaria è l’ignoranza-avidyå.

Si allude alle Scritture ritualiste conosciute e a quelle ancora


52

da conoscere; ma tutte trattano dell’azione, dei suoi mezzi e dei


suoi frutti.

Quando, oltrepassata la soglia della illusione, si svela l’åtman


53

non-duale, ogni nozione appare inutile di fronte alla evidenza della


realtà. Le Scritture, l’insegnamento, ecc. posseggono utilità fino a
quando ci indirizzano verso la realizzazione, ma quando questa si
Note al Secondo Adhyåya 133

invera ogni cosa perde la propria importanza in quanto si rivela


appartenere alla sfera di måyå.
54
La sofferenza (du¢kha) ha tre origini: il corpo, la corporeità,
nel qual caso è di natura individuale (adhyåtmika); gli enti esterio-
ri, dagli elementi agli esseri consci di natura subumana, come gli
animali, ecc., nel qual caso è di natura cosiddetta elementale (adhi-
bhautika); gli esseri appartenenti a sfere superiori, come i deva o i
princìpi universali, nel qual caso è detta di ordine superumano (a-
dhidaivika). Anche il piacere (sukha) proviene da tre sfere analoghe.
Per entrambi la causa è l’ignoranza.
55
Quello del “completo rinunciatario” (saænyåsin) è l’ultimo
stadio di vita tradizionale (åŸrama), nel quale convergono gli altri:
lo studente (brahmacårin), il capofamiglia (gÿhastha) e l’anacoreta
(vånaprastha). Poiché il saænyåsin opera il completo distacco da
tutto, anche dal dharma, si dice che egli è al di là degli stadi (atyå-
Ÿramin). In diverse occasioni Âa§kara evidenzia la possibilità di ac-
cedere al saænyåsa da qualunque altro stadio, senza doverli speri-
mentare necessariamente tutti. Il “silenzioso” (muni) è colui che,
realizzato l’åtman, non avverte necessità di esprimersi, di esternare
contenuti o pronunziare affermazioni a qualunque grado. Vi è si-
lenzio a livello corporeo (non-azione), verbale (non-espressione) e
mentale (non-pensiero): al di là è il Silenzio della pura Coscienza
dell’åtman, il Quarto-turıya. Muni è colui che, risolto ogni moto
mentale, sia attuale che potenziale, dimora sempre in quel Silenzio
consapevole, trascendente e onnicomprensivo, che, secondo le Upa-
ni≤ad, è il Brahman stesso.
56
Cfr. Bha. Gı. 6.14.
57
La Realtà suprema è inconoscibile per il non-conoscitore im-
prigionato nella condizione individuata: per lui è simile a ciò che è
l’impenetrabile oscurità della notte per l’uomo ordinario. Vicever-
sa, è come il giorno fatto, palesandosi in modo totalmente chiaro al
conoscitore, quale una perfetta evidenza, vale a dire come quella
piena luce che gli addormentati o i sognatori notturni non vedono
ma possono solo immaginare in maniera falsa e riduttiva.
134 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

Colui che che ha preso atto della natura di apparenza del


58

mondo molteplice e svelato la Non-dualità essenziale non ha più


motivo di agire, venendo a mancare per lui la stessa distinzione tra
soggetto agente, oggetto dell’azione, mezzo, frutto, obiettivo, ecc.:
il suo unico modo di essere è l’autosoluzione nella Conoscenza, sve-
lando la propria identità di åtman.

L’essenza ultima (anta) di tutti i mezzi di conoscenza validi è


59

la Non-dualità dell’åtman e la loro funzione trova compimento


proprio nel dirigere la consapevolezza verso tale evidenza.
60
Cioè una natura di soggetto percipiente in senso dualistico.

Una volta che l’oggetto è stato conosciuto attraverso un mezzo


61

di conoscenza come un organo percettivo, ecc., tale strumento non


deve essere ulteriormente attivato dal conoscitore per sostenere la
conoscenza del medesimo oggetto. Quando la Scrittura ha rivelato
il suo significato e questo è stato compreso nella sua essenza, ha
esaurito la propria finalità.
62
Cfr. Vi. Smÿ. 72.7.

Nel contesto advaita il termine nirvå√a, “estinzione” o “as-


63

senza del soffio”, designa la soluzione della coscienza individuata


(jıva) nella Coscienza dell’åtman, stato da cui non vi è ritorno. Non
rappresenta invece un annullamento di sé nel vuoto-nulla (nichili-
sti). V. nota 5.10. Cfr. Bha. Gı. 12.13 e 18.53, Ma. Bhå. 12.237.34 e
Mu. 3.2.9.

*
Terzo Adhyåya
(Lo yoga dell’azione)

Le due dottrine della Scrittura [della Gıtå] concernenti


l’attività (lo yoga dell’azione) e l’astensione dall’attività (lo
yoga della conoscenza) sono state esposte da Bhagavat come
la conoscenza relativa allo Yoga e la conoscenza relativa al
Såækhya. A tale riguardo, a cominciare dal passo: «Quando...
uno estirpa (tutti) i desideri...» (Bha. Gı. 2.55) fino alla conclu-
sione dell’intero Adhyåya, dopo aver detto che coloro che si
affidano alla conoscenza Såækhya devono porre in atto la
completa rinuncia, si afferma che il conseguimento del fine
da parte di costoro [avviene] unicamente grazie alla fondatez-
za in tale [conoscenza] nel passo: «Questo... è lo stato brahma-
nico...» (Bha. Gı. 2.72). Invece, nel passo: «È la sola azione
quella per la quale tu possiedi qualificazione... ma il tuo non
deve essere neanche un attaccamento alla non-azione» (Bha.
Gı. 2.47) [Bhagavat] dice ad Arjuna che l’azione deve essere
compiuta una volta che ci si è affidati alla conoscenza dello
Yoga, ma non asserisce che il conseguimento del Bene [supre-
mo] si ha da quella soltanto. Con la mente turbata proprio per
aver appreso ciò, Arjuna formula un interrogativo [3.1-2]:
‘Come mai, dopo aver fatto apprendere a me, dedito al rag-
giungimento del Bene (la liberazione), la fondatezza nella co-
noscenza Såækhya quale mezzo diretto per il conseguimento
del Bene, [Bhagavat] mi ingiunge anche l’attività, consistente
in mali molteplici e [qui stesso] sperimentabili per [ottenere]
il frutto che è il Bene, ma in modo differito e insicuro?’ Tal è,
136 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 3.1

ben plausibile, la perplessità di Arjuna, a cui fa seguito la que-


stione: «...se (ritieni la conoscenza) superiore...», ecc. (Bha.
Gı. 3.1); d’altra parte, la sentenza che ha pronunziato Bhaga-
vat (da Bha. Gı. 3.3 in poi) in risposta alla domanda [è com-
prensibile solo] in relazione alla distinzione quale è stata fatta
nella Scrittura [tra conoscenza Såækhya e pratica Yoga].
Obiezione: Invece alcuni1, interpretando diversamente il
significato della domanda di Arjuna, sogliono intendere la ri-
sposta che ha fornito Bhagavat come [se fosse] discordante
rispetto a tale [domanda] e, a tal uopo, in questo contesto pre-
cisano daccapo il significato sia della interrogazione che della
relativa replica, ma secondo un senso opposto rispetto a quello
che era stato da loro stessi assodato nella sezione introduttiva.
In che modo?
Nella sezione introduttiva si giunge a stabilire quanto se-
gue: innanzitutto il significato accertato nella scrittura della
Gıtå consiste nella combinazione (samuccaya) di conoscenza e
attività sacrale per gli appartenenti a tutti gli stadi di vita e,
in secondo luogo, risulta categoricamente negato che la libe-
razione possa essere conseguita soltanto e unicamente attra-
verso la conoscenza, avendo cioè deposto le attività che sono
prescritte dalla Âruti per tutta la durata della vita. Viceversa
qui, mostrata la facoltà di scelta [per l’una o l’altra via] a se-
conda dello stadio di vita, viene enunciato l’abbandono delle
attività che la Âruti prescrive per l’intero corso vitale. Dun-
que, come potrebbe Bhagavat enunciare ad Arjuna un signifi-
cato contraddittorio a tal punto? O, d’altra parte, come po-
trebbe l’ascoltatore accettare un senso [così] conflittuale?
A tale riguardo si può ammettere questo: soltanto ai capo-
famiglia (gÿhastha) risulta preclusa la liberazione [qualora
venga conseguita] unicamente attraverso la sola conoscenza,
previo il completo distacco dall’attività contemplata nella
Âruti, ma non agli appartenenti agli altri stadi di vita 2.
3.1 Terzo Adhyåya 137

Risposta: Anche questa stessa [interpretazione] comporta


una contraddittorietà tra la precedente e la successiva [afferma-
zione]. Una volta assunto come ben accertato il significato se-
condo cui nella Scrittura della Gıtå la combinazione di conoscen-
za e azione rituale [viene prescritta] agli appartenenti a tutti gli
stadi di vita, perché mai [ora il Commentatore] asserirebbe che
la liberazione [conseguita] proprio attraverso la sola conoscenza
compete [soltanto] agli appartenenti ad altri stadi di vita [esclusi
i capofamiglia, ai quali è prescritta l’azione rituale], il che è con-
traddittorio nei riguardi di quella [precedente affermazione]?
Obiezione: Si può ipotizzare che [il Commentatore] abbia
pensato di riferirsi soltanto all’azione rituale esposta nella
Âruti, cosa che sarebbe stata espressa così: la liberazione [con-
seguita] proprio attraverso la sola conoscenza, esentata dal-
l’attività rituale ingiunta nella Âruti (Ÿrautakarman), risulta
preclusa [soltanto] ai capofamiglia. In tal contesto, sebbene
l’azione rituale riservata ai capofamiglia sia contemplata nella
Smÿti (smårtakarman), viene considerata come se fosse inesi-
stente, ed è per questo che si dice: ‘proprio attraverso la sola
conoscenza’ (jñånådeva kevalåt)3.
Risposta: Anche questo è contraddittorio. Perché mai la li-
berazione [conseguita] grazie alla conoscenza combinata con
l’azione rituale contemplata nella Smÿti sarebbe preclusa solo
al capofamiglia ma non agli appartenenti agli altri stadi di vita?
Come potrebbero ammettere ciò coloro che discriminano? E
inoltre, se come mezzo di liberazione le attività rituali contem-
plate nella Smÿti venissero associate [con la conoscenza] da
parte degli ¥rdhvaretas4, allora anche il capofamiglia deve ef-
fettuare la commistione [della conoscenza] con le [attività ri-
tuali] esposte nella Smÿti, ma non con quelle esposte nella Âruti.
Obiezione: È solo il capofamiglia che deve porre in atto la
combinazione [della conoscenza] con le [attività rituali] espo-
138 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 3.1

ste nella Smÿti e nella Âruti per conseguire la liberazione, men-


tre per gli ¥rdhvaretas la liberazione segue dalla conoscenza
associata con la sola azione rituale imposta dalla Smÿti.
Risposta: In tal caso, così stando le cose, per il capofami-
glia l’atto rituale, sia quello ingiunto dalla Âruti sia quello in-
giunto dalla Smÿti, dovrebbe essere rispettato primariamente,
malgrado comporti una serie di difficoltà e possegga una na-
tura assai penosa.
Obiezione: Si potrebbe dire che la liberazione può essere
conseguita soltanto da parte dei capofamiglia e [proprio] per
mezzo di tali sforzi di natura molteplice, ma non dagli appar-
tenenti agli altri stadi di vita, essendo [costoro] prosciolti dal-
l’attività rituale perpetua prescritta dalla Âruti5.
Risposta: Anche questo è erroneo, perché in tutte le Upa-
ni≤ad, negli Itihåsa, nei Purå√a e negli YogaŸåstra la completa
rinuncia a qualsiasi attività viene prescritta a colui che aspira
intensamente alla liberazione come mezzo complementare (a-
§ga) alla conoscenza6; inoltre, tanto nella Âruti quanto nella
Smÿti si contempla la complessiva esperienza lungo i vari sta-
di di vita [ma anche la possibilità di accedere all’ultimo, quello
del rinunciatario, provenendo da uno qualunque degli altri] 7.
Obiezione: Allora risulta stabilito che la combinazione del-
la conoscenza con l’azione rituale compete agli appartenenti a
tutti gli stadi di vita.
Risposta: No, perché a colui che aspira intensamente alla
liberazione è ingiunta la completa rinuncia a qualsiasi attivi-
tà, come si evince dai seguenti e altri passi della Âruti: «...ab-
bandonando il desiderio della progenie, la brama di prosperità
e l’aspirazione a dominare i mondi, intraprendono poi vita da
mendicanti» (Bÿ. 3.5.1, 4.4.22), «Perciò essi dicono che la ri-
nuncia eccelle tra queste forme di austerità» (Nå. 4.79), «Sol-
3.1 Terzo Adhyåya 139

tanto la rinuncia si distingue» (Nå. 4.78), «...non con l’azione


né con la progenie o la ricchezza, ma con il distacco alcuni
raggiunsero l’immortalità» (Kai. 12, Nå. 12.3), «Si può intra-
prendere vita da mendicante anche dallo stadio di studente»
(Jå. 4); «Distàccati dal dharma e dall’adharma, distàccati da
entrambi: il vero e il falso. Dopo esserti distaccato da entram-
bi, il vero e il falso, distàccati da ciò attraverso cui compi il di-
stacco» (Ma. Bhå. 12.3.329.40), «Avendo riconosciuto che il
saæsåra è affatto privo di sostanzialità e ricercando ardente-
mente l’essenza, coloro che non hanno contratto matrimonio
intraprendono vita da mendicanti essendosi fondati nel supre-
mo distacco» (Ma. Bhå. 12.3.331.44): così [parlò] Bÿhaspati,
mentre l’insegnamento di Âuka è: «Attraverso l’azione la per-
sona diviene schiava, e attraverso la conoscenza si libera: per-
ciò gli asceti che guardano alla sponda opposta non compiono
azioni» (Ma. Bhå. 12.3.241.7), e anche qui [si afferma]: «Ri-
nunciando completamente nel pensiero a qualsiasi azione...»
(Bha. Gı. 5.13), ecc. Poiché la liberazione non è effetto dell’a-
zione, per colui che aspira intensamente alla liberazione l’azio-
ne è del tutto priva di valenza pratica (anarthakya).
Obiezione: Si potrebbe obiettare che i [riti] perpetui devo-
no essere celebrati allo scopo di evitare i mali [derivanti dalla
loro mancata celebrazione].
Risposta: No, perché [nel caso della loro omissione] l’in-
correre nell’errore riguarderebbe [solo] colui che [ancora]
non è divenuto rinunciatario. Infatti non si può immaginare
che l’errore concerna il saænyåsin a motivo del suo mancato
compimento di riti quali l’Agnikårya o altri, allo stesso modo
in cui [concerne] i brahmacårin che, essendo ancora dediti al-
l’attività rituale [per il loro proprio stadio di vita] non sono
rinunciatari8. Né è possibile, e tantomeno ragionevole, imma-
ginare il manifestarsi dell’errore, che possiede una natura po-
sitiva (bhåvar¥pa) proprio dall’assenza [cioè dal mancato
140 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 3.1

compimento] dei riti perpetui (ossia da qualcosa che ha una


natura negativa o di non-esistenza, abhåva), perché dalla
stessa Âruti si apprende l’impossibilità del manifestarsi del-
l’essere (o del reale) dal non-essere (o dal non-reale): «...in
che modo l’Essere trarrebbe origine dal non-essere?» (Chå.
6.2.2). Se il Veda affermasse qualcosa di assolutamente inac-
cettabile, ossia che l’errore [con l’effetto positivo-esistente
che comporta] scaturisce dal mancato compimento di ciò che
è ingiunto [quindi da una causa di carattere negativo-non esi-
stente], allora si dovrebbe concludere che il Veda [stesso] non
rappresenta una fonte autorevole di conoscenza dal momen-
to che cagionerebbe il male: infatti, tanto il compiere quanto
il non compiere le [azioni ivi] ingiunte, avrebbe come frutto
unicamente la sofferenza. E in maniera simile si potrebbe
concepire un significato [parimenti] inammissibile, cioè che
la Scrittura abbia natura tale da indurre a compiere l’azione
e non già tale da rivelare una conoscenza, e ciò non è auspi -
cabile9. Perciò le azioni non competono ai rinunciatari e, di
conseguenza, la combinazione di conoscenza e azione rituale
non è ammissibile secondo ragione, anche perché [diversa-
mente] non sarebbe legittima la domanda di Arjuna: «Se è
tua convinzione che la saggezza è superiore all’azione...»
(Bha. Gı. 3.1). Infatti, se nel Secondo Adhyåya Bhagavat aves-
se detto [ad Arjuna]: ‘tu devi praticare la conoscenza e l’at-
tività attraverso la loro commistione’, allora la domanda di
Arjuna: «Se è tua convinzione che la saggezza è superiore
all’azione...» (Bha. Gı. 3.1) sarebbe inammissibile. Se ad Ar-
juna fossero state prospettate entrambe [nei termini]: ‘tu
devi praticare [insieme] la conoscenza e l’attività’, [allora]
sarebbe esplicitamente espressa quella stessa conoscenza che
è superiore all’azione e non potrebbero più essere ragionevol-
mente ammessi né il rimprovero né il quesito [formulati da
Arjuna nella prosecuzione del passo]: «...allora, perché mi so-
spingi a una [così] terribile azione, o KeŸava?» (ib.).
3.1 Terzo Adhyåya 141

Né è lecito immaginare che in precedenza Bhagavat avesse


inteso dire che Arjuna non deve praticare solo la conoscenza,
che è superiore [all’azione], [supposizione] in base a cui sareb-
be stata formulata la domanda: «Se (è tua convinzione che la
saggezza) è superiore...» (ib.) in riferimento a una distinzione
[tra conoscenza e azione, ovvero tra le due rispettive vie].
Se, ancora, si suppone che quanto Bhagavat ha esposto in
precedenza si riferisce alla possibilità di attuazione da parte di
esseri umani [appartenenti a stadi di vita, ecc.] distinti, dal
momento che una pratica simultanea di conoscenza e azione
non è possibile per via della loro reciproca incompatibilità, in
tal caso questa domanda: «Se (è tua convinzione che la cono-
scenza) è superiore...», ecc. (ib.) appare pienamente plausibile.
Anche immaginando che la domanda sia stata formulata
in assenza di discriminazione, la risposta che ha dato Bhaga-
vat relativamente alle due vie della conoscenza e dell’azione
in quanto oggetto di pratica da parte di esseri umani [appar-
tenenti a stadi di vita, ecc.] distinti appare logicamente inac-
cettabile; né è lecito supporre che la risposta che Bhagavat ha
dato sia dovuta a ignoranza [da parte sua]. E da questa con-
statazione circa la risposta che ha pronunzato Bhagavat, in
relazione alle due vie della conoscenza e dell’azione quali og-
getto di pratica da parte di esseri umani [appartenenti a stadi
di vita, ecc.] distinti, si ha che la combinazione di conoscenza
e azione rituale non può essere in nessun modo ammessa se-
condo ragione. Perciò questo significato, secondo cui la libe-
razione consegue proprio alla sola conoscenza, è ben accerta-
to nella [Bhagavad] Gıtå come in tutte le Upani≤ad.
Nel caso che sia possibile la commistione delle due, sareb-
be allora priva di senso la richiesta [di Arjuna] concernente
un oggetto solamente; per di più [Bhagavat] mostrerà in modo
enfatico l’impossibilità per Arjuna di dedicarsi [esclusivamen-
te] alla conoscenza nel passo: «Perciò, tu compi pure l’azio-
ne...» (Bha. Gı. 4.15).
142 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 3.1

Arjuna disse:

3.1. Se è tua convinzione che la saggezza è superiore all’a -


zione, o Janårdana, allora perché mi sospingi a una [così] terri-
bile azione, o KeŸava?

“Se è tua convinzione”, se vuoi intendere che “la saggezza”,


cioè la conoscenza, “è superiore”, è migliore rispetto “all’azio-
ne, o Janårdana...”.
Se si vuole che la conoscenza e l’azione siano combinate,
allora il mezzo per [ottenere] il Bene è [soltanto] uno [cioè la
loro unione]; ne consegue che da parte di Arjuna, [dicendo]:
‘la conoscenza è superiore all’azione’, sarebbe stato espresso
un inauspicabile atto di separazione della conoscenza dall’azio-
ne; infatti quello stesso [che è un mezzo unico] non può veni-
re scisso in relazione a quello che è il frutto [parimenti unico].
E similmente [Arjuna potrebbe pensare]: Bhagavat ha
prospettato la conoscenza come produttrice del Bene [distin-
tamente] dall’azione, ma poi mi induce ad agire [ordinando]:
‘compi l’azione’ che [invece] è produttrice di male; “...allora,
perché” mai, per quale motivo – come formulando un rimpro-
vero nei confronti di Bhagavat – dunque, perché, per quale
ragione, “mi sospingi a una [così] terribile azione...” cioè cru-
dele e dalla natura violenta? Come potrebbe venire giustificato
su base logica quello che ha detto?
Se poi si intende che Bhagavat abbia espresso per tutti la
combinazione [della conoscenza] con l’azione rituale prescrit-
ta nella Smÿti e [così] compresa da parte di Arjuna, in tal caso
una espressione quale: “...allora perché mi sospingi a una [così]
terribile azione?”, in che modo potrebbe essere legittimata?
E inoltre,

3.2. Con un’affermazione apparentemente ambigua, è come


se confondessi la mia comprensione. Esponi [a me], dopo avere
3.2 Terzo Adhyåya 143

accertato [quale è adatta a me], quella sola tramite cui io possa


ottenere il bene.

“Con un’affermazione apparentemente ambigua...”: sebbene


Bhagavat si esprima distintamente, tuttavia alla mia intelli-
genza ottenebrata l’affermazione che ha pronunziato Bhaga-
vat appare come se fosse ambigua; con essa “è come se con-
fondessi la mia comprensione”. Invero, Tu ti proponi di di-
sperdere la mia confusione mentale: come puoi [adesso] con-
fondermi? Per questo dico: per me ‘è come se confondessi la
mia comprensione’.
Ma se tu pensassi che è impossibile, per un solo essere
umano, il perseguire [insieme] sia la conoscenza che l’azione
rituale, dato che si riferiscono a soggetti distinti [per qualifi -
cazione, ecc.], in tal caso, così essendo, “esponi [a me]”, dim -
mi, “dopo avere accertato”: ‘questa soltanto è adatta per A-
rjuna, conformemente alla sua capacità di comprensione e
alla sua condizione’, “quella sola” delle due, vale a dire o la
conoscenza o l’azione rituale, “tramite cui”, per mezzo del-
l’una tra le due, ovvero la conoscenza o l’azione rituale, tra -
mite cui “io possa ottenere il bene”, ossia conseguire [la libe -
razione].
Infatti, se Bhagavat avesse enunciato la conoscenza anche
come mezzo complementare in relazione alla via dell’azione,
allora in che senso da parte di Arjuna vi sarebbe il desiderio
di apprendere in merito a un solo oggetto [desiderio espresso
con le parole]: ‘esponimi una delle due’? In effetti Bhagavat
non ha detto: ‘[ti] esporrò una soltanto delle due, tra cono-
scenza e azione rituale, e non già tutte e due’, [affermazione]
in base a cui [Arjuna], pensando che per lui stesso sarebbe
stato impossibile acquisirle entrambe, avrebbe richiesto di una
solamente.
Così Bhagavat, assolutamente in conformità alla doman-
da, fornì la risposta:
144 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 3.3

Ârı Bhagavat disse:

3.3. In questo mondo un duplice sentiero realizzativo fu da


Me enunciato in principio, o Anagha (o tu Senza errore, Arju-
na): per i såækhya è [stato enunciato il sentiero] attraverso lo
yoga della conoscenza, per gli yogin è [stato enunciato il sentie-
ro] attraverso lo yoga dell’azione.

“In questo mondo”, cioè per gli appartenenti ai tre ordini


sociali (v. nota 13), i quali [soltanto] sono qualificati a porre
in atto il significato delle Scritture, “un duplice sentiero”, un
doppio modo di [praticare la] devozione, che rappresenta l’au-
tentico senso da cogliere, “fu da Me”, Bhagavat onnisciente,
“enunciato in principio”, in origine, all’inizio della manifesta-
zione universale dopo aver manifestato le creature, mosso dal
proposito di svelare la continuità della trasmissione del signi-
ficato dei Veda affinché esse potessero conseguire la prosperi-
tà [terrena] o il Bene [supremo, la liberazione, v. nota 14], “o
Anagha”, o tu Senza errore.
Qual è, dunque, tale duplice sentiero realizzativo?
“...per i såækhya”, cioè per coloro che posseggono la cono-
scenza discriminante che concerne l’åtman e ciò che non è
l’åtman, che hanno operato la completa rinuncia sin dallo
stesso stesso stadio dello studentato (brahmacarya), che han-
no ben chiaro lo scopo della conoscenza del Vedånta, che ap-
partengono al più elevato ordine di monaci itineranti (para-
mahaæsaparivråjaka) e che sono stabilmente fondati solo nel
Brahman, “è” stato enunciato quello che è il sentiero realizza-
tivo “attraverso lo yoga della conoscenza”: [lo yoga della co-
noscenza (jñånayoga) è quello nel quale] la conoscenza stessa
(jñåna) è lo yoga [ossia il mezzo di unione-realizzazione del-
l’Assoluto]; “per gli yogin”, ossia per i ritualisti, “è” stato e-
nunciato quello che è il sentiero “attraverso lo yoga dell’azio-
ne”, cioè per mezzo dello yoga [inteso come pratica] consi-
3.3 Terzo Adhyåya 145

stente nell’attività: è lo yoga dell’azione (karmayoga), nel quale


l’azione stessa (karman) è lo yoga. Tale è il significato.
Se [si sostiene che] è stato già enunciato o verrà enunciato
da Bhagavat nella Gıtå, ed è affermato nei Veda, che la cono-
scenza e l’azione rituale, una volta che sono state combinate,
devono essere praticate da una medesima persona per ottene-
re un solo e unico obiettivo, come potrebbe qui [Bhagavat]
dire ad Arjuna, che lo ha avvicinato in modo affabile, che i
sentieri realizzativi della conoscenza e dell’azione si riferisco-
no a esseri umani dotati di distinte qualificazioni?
Se, ancora, si ritiene che Bhagavat pensi: ‘Arjuna, dopo
aver appreso delle due, ossia della conoscenza e dell’azione, le
perseguirà [entrambe] da sé, mentre agli altri dirò che esse
vanno perseguite da parte di esseri umani [appartenenti a
stadi, condizioni, ecc.] distinti’, allora si dovrebbe anche im-
maginare che Bhagavat è condizionato da simpatia e ostilità,
per cui perderebbe qualsiasi autorevolezza; ma ciò non è ra-
gionevole. Pertanto la combinazione di conoscenza e azione
rituale non può essere dimostrata tramite nessuna argomen-
tazione valida.
Per quanto concerne la superiorità della conoscenza nei
confronti dell’azione, pronunziata da Arjuna [nel verso 3.1],
essa risulta stabilita, anche perché non vi è nessuna confuta-
zione al riguardo; inoltre si giunge a comprendere che tale
sentiero realizzativo fondato sulla conoscenza deve essere
percorso solamente dai completi rinunciatari, essendo confer-
mata l’esplicita affermazione che ha fatto Bhagavat secondo
cui [i due sentieri, della conoscenza e dell’azione] devono es-
sere intrapresi da esseri umani [appartenenti a stadi, condi-
zioni, qualificazioni, ecc.] distinti.
Constatando che Arjuna versava in un profondo disagio
psichico e pensava così: ‘non intraprendo l’azione [comanda-
ta], dato che mi sospingi a un’azione che è essa stessa causa
di schiavitù’, Bhagavat disse...
146 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 3.3

Oppure [si può interpretare più precisamente in questo


modo]: poiché vi è una reciproca contraddittorietà tra i due
sentieri realizzativi della conoscenza e dell’azione e dato che
[in conseguenza di ciò] sussiste l’impossibilità, da parte di un
solo essere umano, di percorrerli simultaneamente, assunto
che uno soltanto dei due è il mezzo per realizzare il fine uma-
no per eccellenza (la liberazione), [ne discende che] la dedi-
zione all’azione è un mezzo [indiretto] per conseguire tale su-
premo scopo umano, [ma] in maniera non indipendente, in
quanto costituisce un mezzo [diretto solo] per [conseguire] la
fondatezza nella conoscenza; da parte sua la fondatezza nella
conoscenza, potendo essere acquisita attraverso quel mezzo
che è la dedizione all’azione, rappresenta un mezzo [diretto]
per realizzare il fine umano per eccellenza in maniera indi-
pendente, cioè senza il ricorso ad altro. Con l’intento di pro-
spettare questo significato Bhagavat disse:

3.4. Non dal mancato compimento delle azioni l’uomo ottiene


la libertà dall’agire, né soltanto con un completo atto di rinun-
cia [ad agire] attinge pienamente la perfezione.

“Non dal mancato compimento delle azioni...”, delle attivi-


tà sacrali, cioè gli atti sacrificali, ecc. che, celebrati qui, in
questa nascita, o in una nascita precedente, sono causa della
purificazione mentale (sattvaŸuddhi) in quanto producono la
distruzione degli errori accumulati: essendo causa di tale [pu-
rificazione] ed essendo altresì ciò attraverso cui sorge la co-
noscenza, sono anche la causa dello stabilirsi nella conoscen-
za, come si apprende dalla Smÿti nel passo: «La conoscenza
sorge negli uomini dalla distruzione dell’azione erronea quan-
do si vede l’åtman in sé stessi come sulla nitida superficie di
uno specchio» (Ma. Bhå. 12.3.204.8). Dunque, “Non dal man-
cato compimento”, dalla mancata effettuazione [delle azioni],
“l’uomo ottiene la libertà dall’agire” (nai≤karmya); non è gra-
3.4 Terzo Adhyåya 147

zie a tale modalità che [l’essere umano] consegue lo stato di


esistenza libero da azione, la vacuità di azione (karmaŸ¥nya-
tå), vale a dire la stabile fondatezza nello yoga della conoscen-
za che è esattamente la condizione di esistenza nella propria
reale natura di åtman esente da attività.
Obiezione: Dalla espressione: “Non dal mancato compimen-
to delle azioni (l’uomo) ottiene la libertà dall’agire...”, si com-
prende che dal loro compimento, che è opposto a ciò, ottiene
la libertà dall’agire. Per quale motivo, dunque, dal mancato
compimento delle azioni non ottiene la libertà dall’agire?
Risposta: Si dice: perché il compiere l’azione costituisce un
mezzo per [raggiungere] la libertà dall’agire. Infatti, prescin-
dendo dal mezzo appropriato, non può aversi il conseguimen-
to dell’obiettivo che si intende raggiungere, anche perché qui,
nella Âruti, viene dimostrato che lo yoga dell’azione costitui-
sce il mezzo per [intraprendere successivamente] lo yoga del-
la conoscenza, consistente propriamente nella libertà dall’agi-
re. Innanzitutto nella Âruti, nel passo: «I bråhma√a intendono
conoscere questo stesso [åtman] attraverso lo studio dei Veda
e per mezzo del sacrificio...», ecc. (Bÿ. 4.4.22), si insegna che il
karmayoga costituisce un mezzo per il jñånayoga in quanto
contribuisce a prendere consapevolezza dello stato di essere
che è l’åtman del quale si sta trattando e che deve essere rea-
lizzato. Anche qui [nella Bhagavadgıtå] verrà prospettato [lo
stesso significato in passi come]: «Ma il saænyåsa... è difficile
da conseguire prescindendo dallo yoga» (Bha. Gı. 5.6), «...gli
yogin (coloro che seguono il karmayoga) compiono l’azione
per la purificazione di sé abbandonando l’attaccamento»
(Bha. Gı. 5.11), «Il sacrificio, la donazione e la stessa ascesi
sono i purificatori degli avveduti» (Bha. Gı. 18.5) e così via.
Obiezione: Comunque [la Smÿti in diversi passi 10 il cui sen-
so può essere riassunto così]: ‘Avendo concesso l’assenza di
148 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 3.4

paura a tutti gli esseri, si può abbracciare la libertà dall’azio-


ne’, mostra che il conseguimento della libertà dall’azione di-
scende anche dalla completa rinuncia alle azioni che dovreb-
bero essere compiute 11 e, ancor più, è ben noto a chiunque
che la libertà dall’azione proviene dal mancato compimento
delle attività; e quindi, per colui che aspira alla libertà dall’a-
zione, quale sarà il giovamento derivante dal compimento
dell’azione?
Risposta: A ciò [Bhagavat] rispose: “né soltanto con un
completo atto di rinuncia [ad agire]”: né, tantomeno, con la
sola completa rinuncia “attinge pienamente la perfezione” (si-
ddhiæ samadhigacchati); cioè soltanto con il mero, [ancorché]
totale, distacco dall’azione privo però della conoscenza, [l’uo-
mo] non consegue la stabile fondatezza nello yoga della cono-
scenza che costituisce propriamente la libertà dall’azione.
Obiezione: Per quale ragione, dunque, soltanto con l’asso-
luta, mera, completa rinuncia all’attività, priva però della co-
noscenza, l’uomo non giunge a quella perfezione che propria-
mente costituisce la libertà dall’azione?
Risposta: Alla richiesta della ragione [Bhagavat] rispose:

3.5. Perché nessuno, neanche per un istante, può mai rima-


nere senza produrre azione, perché inevitabilmente ogni [essere
vivente] produce azione [sospinto in ciò] dai gu√a nati dalla
Prakÿti.

“Perché”, per il motivo che “nessuno, neanche per” la du-


rata di “un istante, può mai”, in nessun tempo, “rimanere” re-
stando “senza produrre azione...”.
Per quale motivo?
“...perché”, per la ragione che affatto “inevitabilmente
ogni” essere vivente “produce azione [sospinto in ciò] dai
3.7 Terzo Adhyåya 149

gu√a” – il sattva, il rajas e il tamas – “nati dalla Prakÿti”, ge-


nerati dalla Prakÿti. [L’espressione: “ogni [essere vivente]”
(sarva)] si riferisce al non-conoscitore (ajña), perché una suc-
cessiva sentenza dirà: «Colui il quale... dai gu√a non è turba-
to...» (Bha. Gı. 14.23)12.
In effetti, dato che [in 3.3] è stata operata una distinzione
dei såækhya [dediti al jñånayoga, dagli yogin, dediti al karma-
yoga], il karmayoga compete soltanto ai non-conoscitori e
non ai conoscitori (jñånin); mentre per i conoscitori, che non
vengono turbati dai gu√a in quanto in loro stessi è assente
qualsiasi cambiamento, non può essere a ragione ammesso il
karmayoga. E in tal senso è stata fornita una estesa spiegazio-
ne nel [commento al] passo: «(Colui il quale) lo realizza come
indistruttibile...» (Bha. Gı. 2.21).
Invece, per quanto concerne il non-conoscitore dell’åtman,
[sostenere che] egli viene sollecitato affinché non compia l’a-
zione [che gli compete e che gli è ingiunta], ciò non è affatto
vero. Al riguardo, [Bhagavat] disse:

3.6. Colui il quale, pur controllando completamente gli or-


gani di azione, siede rammemorando con la mente i contenuti
dei sensi, costui è detto un autoilluso dall’ingannevole compor-
tamento.

“Colui il quale, pur controllando completamente”, pur


avendo raccolto “gli organi di azione” (karmendriya) come le
mani, ecc., “siede”, ristà “rammemorando”, immaginando “con
la mente i contenuti”, gli oggetti “dei sensi, costui è detto un
autoilluso” (vim¥ƒhåtman), cioè uno la cui mente è soggetta a
illusione, “dall’ingannevole comportamento”, dalla condotta
erronea, dall’agire vizioso.

3.7. Ma colui il quale, frenando con la mente gli organi [di


percezione] intraprende, o Arjuna, con gli organi di azione il
150 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 3.7

karmayoga [restando] privo di attaccamento, costui si distin-


gue [dall’altro].

“Ma”, ancora, “colui il quale”, pur essendo un non-conosci-


tore ed essendo [perciò] qualificato [solo] per l’azione rituale,
“frenando con la mente gli organi” di percezione (buddhındri-
ya) “intraprende, o Arjuna, con gli organi di azione...”, come
la parola, le mani e gli altri...
Che cosa intraprende?
[Bhagavat] ha detto: “...il karmayoga” restando “privo di
attaccamento”, cioè libero dall’aspettativa del frutto, “costui si
distingue” dall’altro, [quello] dall’ingannevole comportamen-
to.
Poiché è così, pertanto:

3.8. L’azione fissata tu compila [pure], perché l’agire è mi-


gliore rispetto all’inattività (inerzia) e anche perché senza l’a-
zione non sarebbe possibile per te [neanche] il sostentamento
del corpo.

[L’azione] fissata (niyata) è [l’atto rituale] perpetuo inse-


gnato dalle Scritture. Quella che è “l’azione fissata”, la quale
non viene appresa dalla Âruti in quanto mirata a [ottenere] un
frutto, o Arjuna, “tu”, che sei qualificato in tale azione rituale,
quella [stessa] “compila [pure], perché”, per il motivo che “l’a-
gire è migliore”, è superiore “rispetto all’inattività”, al non-
agire, al mancato compimento dell’azione, per ciò che riguar-
da il frutto.
Perché?
“...anche perché senza l’azione”, cioè in assenza di attività,
“non sarebbe possibile per te”, da parte tua, neanche “il sosten-
tamento del corpo”, non si riuscirebbe [nemmeno] a ottenere
la sussistenza del veicolo corporeo. Quindi [così] viene consta-
tata nel piano empirico la distinzione tra l’agire e il non-agire.
3.10 Terzo Adhyåya 151

Ma se credi che l’azione [rituale, ecc., benché ingiunta]


non debba essere compiuta in quanto comporta un assogget-
tamento, anche questo è erroneo.
Perché?

3.9. All’infuori dell’azione [compiuta] in funzione del sacri-


ficio (agire non-vincolante), questo mondo è vincolato all’azio-
ne. Attieniti [dunque], o Kaunteya, a un’azione in funzione di
quello (il sacrificio), [rimanendo] libero da attaccamento.

Dalla Âruti [si apprende che] il sacrificio (yajña) è il Si-


gnore (ÙŸvara): «In verità il sacrificio è Vi≤√u» (Tai. Saæ. 1.7.4).
L’azione che viene effettuata in funzione di quello è [l’azio-
ne] ‘compiuta in funzione del sacrificio’ (yajñårtha). “All’in-
fuori...” di tale azione, cioè tramite una [modalità di] azione
differente [da quella improntata al sacrificio], “...questo mon-
do...” – il “mondo” (loka) designa colui per il quale vi è la
schiavitù in relazione all’agire e che, essendo qualificato [so-
lo] per questa [azione profana], è costretto ad agire e com -
pie [effettivamente tale specie di] attività – “...è vincolato al-
l’azione”, mentre non [lo è] da quella improntata al sacrifi-
cio (cioè offerta al Signore). “Attieniti”, dunque, “o Kaunteya,
a un’azione in funzione di quello”, cioè porta a compimento
[solo quella] improntata al sacrificio, rimanendo “libero da
attaccamento”, cioè privo di [qualsiasi] legame con il frutto
dell’agire.
Inoltre, la [retta] azione deve essere compiuta da colui che
è qualificato anche per questo [ulteriore motivo]:

3.10. In tempi remoti Prajåpati (il Signore delle creature, Ù-


Ÿvara), avendo manifestato le creature insieme con il sacrificio,
disse: ‘Propagatevi per mezzo di tale [sacrificio]. Questo sia per
voi la vacca [dell’abbondanza] che concede gli oggetti di desi-
derio ambiti’.
152 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 3.10

“In tempi remoti”, in antichità, al principio della manife-


stazione universale, “Prajåpati”, il creatore di tutte le creatu-
re, “avendo manifestato”, avendo fatto venire [all’esistenza]
“le” tre [specie di] “creature 13 insieme con il sacrificio”, asso-
ciandole con il sacrificio, “disse”, proferì: “Propagatevi per
mezzo di tale” sacrificio, celebratelo! La propagazione (pra-
sava) è la venuta all’esistenza, [ma anche] l’accrescimento.
“Questo” sacrificio “sia per voi”, divenga nei vostri confron-
ti, “la vacca [dell’abbondanza] che concede gli oggetti di de-
siderio ambiti”. La vacca che concede gli oggetti di desiderio
ambiti (i≤†akåmadhuk) è colei che, allorché viene munta, di-
spensa quegli speciali frutti che sono gli oggetti di desiderio
ambiti, bramati.
In che modo?

3.11. ‘Con esso sostentate [voi] i deva, che quei deva sostenti-
no voi; sostentandovi reciprocamente, otterrete il Bene supremo’.

“Con esso”, con il sacrificio, “sostentate [voi]”, dovrete nu-


trire “i deva”, come Indra e gli altri, e “che quei deva sostentino
voi”, che vi facciano prosperare tramite la pioggia, ecc. Così,
“sostentandovi reciprocamente”, cioè l’un l’altro, “otterrete”,
attraverso il conseguimento della conoscenza, “il Bene supre-
mo” consistente nella liberazione, ovvero raggiungerete quel
sommo bene che è il cielo (svarga)14.
Inoltre,

3.12. ‘Infatti, i deva sostentati dal sacrificio vi accorderanno


gli oggetti di fruizione desiderati’. Colui che fruisce di quanto è
da loro concesso senza contraccambiarli, quegli è affatto [simile
a] un ladrone.

“Infatti i deva, sostentati”, nutriti “dal sacrificio”, cioè sod-


disfatti tramite i sacrifici, “vi accorderanno”, concederanno a
3.14 Terzo Adhyåya 153

voi “gli oggetti di fruizione desiderati”, bramati, come donne,


armenti, figli, ecc. Questo è il significato. “Colui che usufruisce
dei favori”, cioè degli oggetti di fruizione, “concessi da loro”,
dai deva, “senza contraccambiarli”, ossia quegli che solamente
soddisfa il proprio corpo, i sensi [ecc.] senza devolvere [a sua
volta le offerte tramite i sacrifici] a questi deva, “senza dubbio
è [simile a] un ladrone”, è certamente un parassita, uno che
deruba gli stessi deva, ecc.

3.13. I giusti che si nutrono con i resti del sacrificio sono li-
berati da tutte le mancanze, ma coloro i quali, empi, preparano
la mensa solo per sé stessi, si nutrono di trasgressioni.

Quelli che, dopo aver portato a compimento la celebra-


zione dei sacrifici rivolti ai deva posseggono l’abitudine di
nutrirsi degli alimenti che costituiscono il resto di tali [sacri-
fici], denominato amÿta, sono “i giusti che si nutrono con i
resti del sacrificio”, i quali “sono liberati da tutte le mancan-
ze”, da tutti gli errori commessi in relazione ai cinque siti
[dei sacrifici animali] quali il rogo sacrificale, ecc.15, e da al-
tri [errori] generati da involontari atti di violenza o altro do-
vuti a negligenza.
“...ma (coloro) i quali, empi, preparano la mensa solo per
sé stessi”, approntano il cibo [soltanto] per soddisfare sé stes-
si, “si nutrono”, si sostentano “di trasgressioni”, cioè del loro
proprio errore16.
Anche per un’altra ragione l’azione deve essere compiuta
da colui che è qualificato [per l’attività]: infatti, è [proprio]
l’azione la causa dell’impulso al movimento della ruota del
mondo (jagaccakra).

3.14. Dal cibo vengono all’esistenza gli esseri [viventi]; dalla


pioggia ha origine il cibo, dal sacrificio si genera la pioggia e
dall’azione scaturisce il sacrificio.
154 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 3.14

“Dal cibo” ingerito [assimilato] e trasformato in sangue e


seme, in maniera evidente “vengono all’esistenza”, cioè sono
generati “gli esseri [viventi]; dalla pioggia”, dalla precipitazio-
ne piovosa, “ha origine il cibo”, si ha la produzione del nutri-
mento; “dal sacrificio si genera la pioggia”, come si apprende
dalla Smÿti: «L’oblazione posta nel fuoco raggiunge certamente
il sole, dal sole è generata la pioggia, dalla pioggia [proviene]
il nutrimento e da questo [traggono sostentamento e vita] le
creature» (Ma. 3.76); “il sacrificio” (yajña) è l’ap¥rva (lett. ‘sen-
za precedente’)17 e “dall’azione scaturisce” tale sacrificio. L’a-
zione (karman) designa l’atto (vyåpåra) del sacerdote officiante
(ÿtvij) e del sacrificante (yajamåna); da esso si ha il promana-
re di quello che è il sacrificio in quanto ap¥rva. [Per questo si
dice che] “dall’azione scaturisce il sacrificio”18.
E da dove proviene tale azione così imposta?
[Bhagavat] lo rivelò:

3.15. Sappi che l’azione ha origine in Brahmå e che Brahmå


trae origine dall’Indistruttibile; perciò Brahmå, onnipervadente,
è in eterno fondato sul sacrificio.

L’azione rituale ha origine in Brahmå (l’aspetto creatore


del Brahman sagu√a), Brahmå è il Veda. “Sappi”, prendi atto
“che l’azione”, quella della quale tale [sacrificio] è l’origine, la
causa, ciò che la rivela, “ha origine in Brahmå”.
A sua volta “...Brahmå”, definito come il Veda, “trae origi-
ne dall’Indistruttibile”. Vale a dire: riconosci “che Brahmå”,
quello del quale l’Indistruttibile, cioè il Brahman [nirgu√a],
ossia il supremo åtman è la sorgente, “trae origine dall’Indi-
struttibile”.
Poiché ha tratto origine direttamente dall’Indistruttibile,
denominato supremo åtman, come un respiro esalato da un
essere umano, “perciò Brahmå”, essendo colui che rivela tutte
le cose, è “onnipervadente” e, sebbene sia onnipervadente, “è
3.16 Terzo Adhyåya 155

in eterno”, sempre “fondato sul sacrificio” perché [in quanto


Veda] consiste principalmente del sacrificio e delle prescrizio-
ni inerenti [alle sue diverse modalità, ecc.].

3.16. Colui che qui non contribuisce a far girare la ruota


[del mondo] sospinta in rotazione così, la cui vita è trasgressiva
e che si volge [solo] al piacere dei sensi, costui, o Pårtha, vive
invano.

“Colui che”, [pur] essendo qualificato per l’azione rituale,


“qui”, in questo mondo, “non contribuisce a far girare la ruo-
ta” del mondo “sospinta in rotazione così”, in questo modo, da
ÙŸvara attenutosi al Veda e al sacrificio19, “la cui vita è trasgres-
siva...” – colui la cui vita è trasgressiva (aghåyus) è quegli il
cui vivere, il cui esistere in vita è improntato alla trasgressione,
all’errore – per cui vivendo commette [di continuo] errori, tan-
to “che si volge [solo] al piacere dei sensi” – si volge [solo] al
piacere dei sensi colui per il quale il piacere, il godimento, la
soddisfazione in relazione agli oggetti proviene [unicamente]
dai sensi – “costui, o Pårtha, vive invano”, inutilmente.
Perciò il significato [di questa parte] del capitolo [3.4-16]
è che l’azione rituale deve essere compiuta soltanto da colui
che vi è qualificato, dunque dal non-conoscitore. A comincia-
re dal passo: «Non dal mancato compimento delle azioni...»
(Bha. Gı. 3.4) fino alla chiusura [del discorso] con il passo:
«...senza l’azione non sarebbe possibile [neanche] far soprav-
vivere il tuo corpo» (Bha. Gı. 3.8), si è mostrato che prima del
conseguimento della idoneità (yogyatå) a seguire il sentiero
della conoscenza dell’åtman, la pratica del karmayoga deve
essere effettuata, come mezzo per accedere a quella, soltanto
da parte di colui che, non essendo conoscitore dell’åtman, è
qualificato [solo per l’attività rituale]. Inoltre, dal passo: «Al-
l’infuori dell’azione basata sul sacrificio...», ecc. (Bha. Gı. 3.9)
fino alla conclusione della sezione: «...costui, o Pårtha, vive
156 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 3.16

invano» (Bha. Gı. 3.16), è stata anche espressa una quantità di


ragioni in virtù delle quali colui che, non essendo conoscitore
dell’åtman, è qualificato [per l’azione rituale] deve impegnar-
si nella pratica dell’azione; infine è anche stata fatta menzio-
ne del male che discende dal mancato compimento dell’azione.
Una volta stabilito in questo modo, nell’eventualità da
parte di Arjuna di una domanda di tale contenuto: ‘la ruota
[del mondo] così posta in movimento deve essere fatta girare
da tutti o, piuttosto, soltanto da colui che non ha [ancora]
conseguito [la qualificazione per] la fondatezza soltanto nello
yoga della conoscenza, che deve essere seguito dai såækhya
cioè dai conoscitori dell’åtman, [fondatezza] che può essere
ottenuta dal non-conoscitore dell’åtman per mezzo della [pre-
ventiva] pratica dello yoga dell’azione descritto precedente-
mente?’, Bhagavat, o affatto autonomamente o per fornire
una distinta interpretazione del significato della Scrittura,
evidenziando che quanto si vuole mostrare qui, nella Scrittura
della Gıtå, corrisponde al significato espresso dalla Âruti [e
riassunto nei termini]: ‘Invero, avendo realizzato questo stes-
so åtman ed essendo retrocessi da [ogni] falsa conoscenza, i
bråhma√a, dopo aver abbandonato i desideri verso la proge-
nie, ecc., inevitabilmente coltivati da coloro che posseggono
conoscenze illusorie, intraprendono poi vita da mendicanti,
impegnandosi per il solo sostentamento del corpo; per loro, a
eccezione dell’assorbimento nella conoscenza dell’åtman, non
vi è null’altro da fare’ (Cfr. Bÿ. 3.5.1), disse:

3.17. Ma l’uomo per il quale vi è solo la gioia dell’åtman,


che è soddisfatto dell’åtman e che soltanto nell’åtman diviene
completamente appagato, per lui non esiste [più] alcunché da
compiere.

“Ma l’uomo”, l’essere umano, per esempio un såækhya,


dedito alla conoscenza-realizzazione dell’åtman, “per il quale
3.18 Terzo Adhyåya 157

vi è”, esiste “solo la gioia dell’åtman...” – colui ‘per il quale vi


è solo la gioia nell’åtman’ (åtmaratireva) è quegli per il quale
la quieta beatitudine risiede soltanto nell’åtman e non negli
oggetti [sensoriali, ecc.] – “che è soddisfatto dell’åtman” (å-
tmatÿpta), cioè pienamente appagato soltanto dall’åtman e
non dal gusto del cibo o altro, “e che”, avendo operato la com-
pleta rinuncia, “soltanto nell’åtman diviene completamente
appagato...” – invero, per chiunque [che sia un essere ordina-
rio] il completo appagamento viene raggiunto [grazie] all’ac-
quisizione dei beni esteriori – dunque che è anche completa-
mente appagato (saætu≤†a) unicamente nell’åtman, senza do-
ver ricorrere a tale [acquisizione esteriore], cioè che è del tutto
privo della brama verso qualsiasi cosa, “per lui”, che è un tale
conoscitore dell’åtman, “non esiste [più] alcunché da compie-
re”, vale a dire che non vi è [più] nulla [come un dovere di
classe, stadio di vita, ecc.] che debba essere compiuto.
E inoltre,

3.18. Per lui non vi è più nessun esito per ciò che è fatto né
alcuno per ciò che non è fatto qui; né, per costui, vi è qualcuno,
fra tutti gli esseri, il ricorso [al quale] abbia un risultato.

“Per lui”, per il quale la gioia è solo nel supremo åtman,


“non vi è più nessun esito”, un [qualsiasi] risultato, “in ciò
che è fatto”, cioè nell’azione...
Obiezione: Allora, dal non-fatto, cioè dalla non-azione si
avrebbe forse [per lui] un male, definito come conseguenza
opposta?
Risposta: “...né alcuno”, neppure uno, sia esso dovuto al-
l’incorrere nell’errore, sia all’oblìo di sé in quanto åtman, “per
ciò che non è fatto qui”, in questo mondo.
“...né, per costui, vi è qualcuno, fra tutti gli esseri”, fra [tut-
ti] gli esseri da Brahmå fino agli enti inerti, “il ricorso [al qua-
158 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 3.18

le] abbia un risultato”, cioè il ricorrere, il prendere rifugio, l’ap-


poggiarsi [al quale essere onde averne il risultato desiderato]
sia motivato da una finalità e ottenibile attraverso l’azione; ov-
vero non esiste [per lui] alcun oggetto che possa essere acqui-
sito facendo appello a un particolare essere, dal quale debba
venire effettuata una data attività mirata a tale [ottenimento]20.
Ma tu [ancora] non agisci nell’autentica visione [dell’å-
tman non-duale], corrispondente al luogo inondato da ogni
parte dalle acque (v. 2.46); poiché è così,

3.19. Perciò, privo di attaccamento, costantemente compi per


intero l’azione da compiersi perché, compiendo l’azione privo di
attaccamento, l’essere umano consegue il Supremo.

“Perciò, privo di attaccamento”, libero da qualsiasi legame,


“costantemente”, in ogni circostanza, “compi” sempre “per in-
tero l’azione da compiersi”, porta a termine ciò che deve esse-
re fatto, “perché”, per il motivo che, “compiendo” perfettamen-
te, effettuando “l’azione privo di attaccamento” in quanto fi-
nalizzata al Signore, “l’essere umano consegue il Supremo”, la
liberazione, attraverso la purificazione della mente. Tale è il
significato.
E anche perché:

3.20. Soltanto mediante l’azione, invero, Janaka e gli altri


cercarono la perfezione; anche considerando il solo stesso bene-
ficio del mondo dovresti agire.

Perché “Soltanto mediante l’azione, invero”, gli antichi


k≤atriya quali “Janaka e gli altri”, ossia Janaka, AŸvapati e i
successivi21, che erano conoscitori, “cercarono” di raggiunge-
re “la perfezione”, si impegnarono per [conseguire] la libera-
zione22. Se costoro fossero stati già in possesso dell’autentica
visione, di conseguenza il verso dovrebbe essere interpretato
3.21 Terzo Adhyåya 159

nel senso che, avendo essi già intrapreso l’azione al fine [della
salvaguardia] dell’equilibrio del mondo, cercarono la perfezio-
ne soltanto mediante l’azione, vale a dire senza aver operato
la completa rinuncia [anche] nei confronti dell’azione; se, in-
vece, Janaka e gli altri non avessero ancora acquisito l’auten-
tica visione, allora [si deve intendere che] essi cercarono di
raggiungere gradatamente la perfezione mediante l’azione
[disidentificata] costituendo essa [stessa] un mezzo di purifi-
cazione mentale.
Se poi credi anche che l’azione rituale che doveva essere
fatta (quella obbligatoria) era stata compiuta dagli antichi
[k≤atriya quali] Janaka e gli altri in quanto erano affatto non-
conoscitori e che essa non debba invece essere necessariamen-
te compiuta da un altro, il quale sia dotato dell’autentica vi-
sione e abbia adempiuto ogni dovere, pure così tu, che sei di-
pendente dal karman maturato (prårabdhakarman) [e quindi
uno k≤atriya come loro], “anche considerando il solo stesso
beneficio del mondo...” – il beneficio del mondo (lokasaægra-
ha) consiste nell’evitare a chiunque al mondo di imboccare
strade deviate – dunque, anche [considerando] solo tale utili-
tà “dovresti agire”.
Obiezione: Qual è il motivo per cui il beneficio del mondo
deve essere perseguito [attraverso l’azione]?
Risposta: Si dice:

3.21. Quale che sia [l’azione] che compie un essere eminente,


quella stessa [la compie anche] un altro uomo; quale il modello
che egli stabilisce, quello segue chiunque al mondo.

“Quale che sia” l’azione “che compie un essere eminente”,


illustre, “quella stessa [la compie anche] un altro”, differente
“uomo” che lo imita. E inoltre, “quale il modello”, profano o
sacro, “che egli”, l’essere eminente, “stabilisce, quello segue
160 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 3.21

chiunque al mondo”, vale a dire che [ogni essere umano] ade-


risce a quello stesso modello.
Se da parte tua in merito a ciò, ossia riguardo al doversi
operare per la salvaguardia dell’equilibrio del mondo, vi è an-
cora un dubbio, perché allora non guardi Me?23

3.22. O Partha, non c’è niente, nei tre mondi, che debba esse-
re fatto da Me, non c’è alcuna cosa che non sia ottenuta né che
si debba ottenere; [tuttavia] sono certamente impegnato nell’a-
zione [pur restandone fuori].

“O Pårtha, non c’è niente”, non esiste nulla, nemmeno


“nei tre mondi, che debba essere fatto da Me”, da parte mia,
perché “non c’è alcuna cosa che non sia ottenuta”, che non
sia [già] conseguita, “né che si debba ottenere”, né che [anco-
ra] debba essere conseguita; tuttavia Io “sono certamente im-
pegnato nell’azione” [pur restandone fuori].

3.23. Invero, se Io non mi impegnassi di continuo nell’azio-


ne, gli uomini, o Partha, seguirebbero in ogni caso il mio esem-
pio.

“Invero, se”, ancora, “Io non mi impegnassi di continuo”,


in qualsiasi momento, “nell’azione” in maniera instancabile e
diligente, “gli uomini, o Pårtha, seguirebbero in ogni caso”, in
qualsiasi modo, “il mio esempio”, di Me che sono il migliore 24.

3.24. Questi mondi sparirebbero se Io non compissi l’azione:


sarei l’artefice della confusione [delle classi sociali, ecc.] e porte-
rei a distruzione queste creature.

Tutti “Questi mondi sparirebbero”, si distruggerebbero,


“se Io non compissi l’azione”, per via dell’assenza dell’azione
che è la causa della conservazione dell’universo: inoltre, [con-
3.26 Terzo Adhyåya 161

seguentemente a ciò] “sarei l’artefice della confusione [delle


classi sociali, ecc.] “e”, per tale ragione, “porterei a distruzio-
ne queste creature”; vale a dire che, [sebbene Io] agisca per il
benessere delle creature, determinerei [invece] la loro rovina,
il loro annientamento, il che non si addice a Me che sono il
loro Signore.
Se, ancora, tu, o chiunque altro, avessi la consapevolezza,
come Me, di aver conseguito il proprio fine e di essere cono-
scitore dell’åtman, pur non essendovi più nulla che debba es-
sere fatto per sé stessi, [sappi che] si deve comunque operare
per l’altrui benessere. Così [Bhagavat] disse:

3.25. Come gli ignoranti, o Bhårata, agiscono [essendo] at-


taccati alla [risultanza della] azione, così il saggio deve agire
senza attaccamento con il proposito del beneficio per il mondo.

“Come” alcuni, “gli ignoranti, o Bhårata, agiscono [essen-


do] attaccati alla [risultanza della] azione” [pensando]: ‘sarà
per me il frutto di questa azione’, “così il saggio”, il conoscito-
re dell’åtman, “deve agire” essendo [sempre] “senza attacca-
mento...”.
Obiezione: [Essendo privo di desiderio, ecc.] tal quale [a
prima], a che scopo agisce?
Risposta: Ascolta questo: “...con il proposito”, cioè con la
volontà di operare allo scopo “del beneficio per il mondo”.
Così, per colui che ha il [solo] proposito di essere di bene-
ficio al mondo, [come] per Me, o per un altro che sia conosci-
tore dell’åtman, non c’è [più] nulla che debba essere compiuto
a eccezione del benessere di chiunque al mondo.
Quindi, per tale conoscitore dell’åtman, si insegna questo:

3.26. [Il conoscitore] non deve ingenerare la [nozione della]


distinzione nella mente degli ignoranti attaccati all’azione. Il
162 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 3.26

saggio deve indurre [loro] a svolgere qualsiasi attività, compor-


tandosi [egli stesso come se fosse] impegnato [in quella medesi-
ma azione].

La [nozione della] “distinzione nella mente” consiste nella


differenziazione (bheda) della consapevolezza (buddhi). La
[nozione della] distinzione nella mente è l’impulso al movi-
mento [proiettivo-identificativo] che produce la scissione del-
la consapevolezza [in soggetto, oggetto, azione, mezzo, frutto,
ecc.] sotto forma di convinzioni quali: ‘io devo fare questo e
godrò il frutto di questa azione’. “[Il conoscitore] non deve in-
generare”, non deve far sorgere tale [distinzione nella mente]
“...degli ignoranti”, di coloro che non discriminano, “attaccati
all’azione”, che aderiscono all’agire e che pertanto [ancora]
posseggono attaccamento.
Che cosa deve fare, invece?
“Il saggio deve indurre [loro] a svolgere”, deve far sì che
essi compiano [pure] “qualsiasi attività, comportandosi” egli
stesso “[come se fosse] impegnato”, intento in quella medesi-
ma azione che compete ai non-conoscitori.
In che modo il non-conoscitore, l’ignorante aderisce alle
azioni?
[Ârı Bhagavat] dice:

3.27. Le azioni sono in ogni caso impulsate dai gu√a della


Prakÿti, [ma] colui il cui sé (la mente) è variamente confuso dal
senso dell’io pensa: ‘sono io l’agente’.

La Prakÿti (la natura primordiale) è il Pradhåna, e rappre-


senta la condizione di equilibrio (såmyåvasthå) dei [tre] gu√a
(attributi principiali) che sono: il sattva, il rajas e il tamas. “Le
azioni”, sia empiriche che dettate dalle Scritture [dunque sia
profane che sacre], “sono in ogni caso”, in qualsiasi circostan-
za, “impulsate dai gu√a della prakÿti”, cioè dalle modificazioni
3.29 Terzo Adhyåya 163

(vikåra) di quella natura primordiale [che si presentano] sotto


le forme di effetto e strumenti (cioè come il corpo e i sensi,
kåryakara√a).
Il senso dell’io (ahaækåra) è il contenuto di consapevolez-
za, relativo a sé stessi, inerente all’aggregato corporeo-senso-
riale; “colui il cui sé è variamente confuso dal senso dell’io...”,
cioè quegli stesso il cui sé, cioè l’organo interno (la mente)
viene a essere stordito in modo vario, in più maniere da tale
[senso dell’io], costui [in apparenza] ha [assunto] le proprietà
peculiari di corpo e sensi: attraverso l’ignoranza (avidyå) si
identifica con [l’aggregato di] corpo e sensi e, pensando che
le azioni [del veicolo] competano a lui stesso in quanto åtman,
“pensa: sono io l’agente” delle tali e delle talaltre azioni.
Ancora per quanto riguarda il saggio,

3.28. Invece, o Mahåbåhu, colui che conosce la realtà in me-


rito alla distinzione sia dei gu√a che delle [loro] azioni [dall’å-
tman], pensando: ‘sono i gu√a che agiscono sui gu√a’, non ade-
risce [più alle loro azioni].

“Invece, o Mahåbåhu, colui che conosce la realtà (tattva-


vid) in merito a...”.
In merito a che cosa conosce la realtà?
In merito “...alla distinzione sia dei gu√a che delle [loro]
azioni”, vale a dire che conosce la realtà relativamente sia alla
distinzione dei gu√a che alla distinzione delle [loro] azioni
[dall’åtman, costui] “...pensando: sono i gu√a”, in qualità di
soggetti agenti, “che agiscono sui gu√a” in qualità di oggetti,
“non aderisce [più alle loro azioni]”, cioè non genera più [al-
cun] attaccamento [verso i risultati dell’agire].
Invece coloro, cioè:

3.29. Quelli che sono completamente confusi dai gu√a della


Prakÿti aderiscono alle funzioni dei gu√a. Colui che ha una co-
164 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 3.29

noscenza perfetta non dovrebbe turbare quelli che, ottenebrati


[dai gu√a], hanno una conoscenza imperfetta.

“Quelli che sono (completamente)”, veramente “confusi”,


essendo totalmente storditi “dai gu√a della prakÿti aderiscono
alle funzioni dei gu√a” [pensando]: ‘siamo noi che compiamo
l’azione per [ricavarne] un frutto’. “Colui che ha una cono-
scenza perfetta” (kÿtsnavid), cioè il conoscitore dell’åtman, di
per sé “non dovrebbe turbare quelli”, attaccati all’azione [dei
gu√a], “che, ottenebrati [dai gu√a]”, cioè coloro la cui consa-
pevolezza è ottenebrata in quanto scorgono unicamente il
frutto dell’azione, “hanno una conoscenza imperfetta”; vale a
dire che non dovrebbe creare [in loro] quell’impulso al movi-
mento [proiettivo-identificativo] che genera esso stesso la di-
stinzione nella mente (v. 3.26) 25.
In che modo, ancora, l’azione deve essere compiuta dal
non-conoscitore che, [pur essendo] qualificato [soltanto] re-
lativamente all’azione, aspira intensamente alla liberazione?
Si dice:

3.30. Rinunciando completamente a tutte le azioni [con il de-


porle come un’offerta] in Me, con la consapevolezza dell’adhyå-
tman, senza aspettative, divenuto privo del [concetto di] ‘mio’,
combatti libero dal tormento.

“Rinunciando a tutte le azioni” con il deporle [come offer-


ta] “in Me”, Våsudeva, il supremo Signore onnisciente, l’åtman
della totalità, “con la consapevolezza dell’adhyåtman”, ossia
con la chiara convinzione: ‘io, agente, agisco per ÙŸvara come
un servitore’, cioè con tale consapevolezza. E inoltre, “senza
aspettative”, avendo abbandonato qualsiasi assegnamento, tu,
“divenuto privo del [concetto di] ‘mio’...” – è privo del [con-
cetto di] ‘mio’ (nirmama) colui per il quale il [concetto di] ‘tuo’
è scomparso insieme all’idea del ‘mio’ – “...combatti libero dal
3.32 Terzo Adhyåya 165

tormento”, cioè essendo libero da afflizione, libero dalla soffe-


renza [interiore].
Questo, che l’azione deve essere compiuta, è il mio insegna-
mento, autorevolmente espresso. Così, similmente,

3.31. Gli uomini che costantemente seguono questo mio in-


segnamento, pieni di fede e liberi da critica, anch’essi vengono
liberati dalle azioni.

“Gli uomini”, gli esseri umani “che costantemente seguo-


no”, praticano “questo mio insegnamento”, [proveniente] pro-
prio da Me, “pieni di fede”, pervasi dalla fede, “e liberi da cri-
tica”, senza muovere alcuna critica nei confronti di Me, Våsu-
deva, il supremo guru, “anch’essi”, [pur essendo] siffatti [cioè
qualificati per la sola azione] vengono liberati dalle azioni”,
[le cui risultanze sono] definite come dharma e adharma (me-
rito e demerito)26.

3.32. Ma coloro i quali, disprezzando questo mio insegna-


mento, non lo seguono, sappi che costoro sono totalmente con-
fusi riguardo a qualsiasi conoscenza, perduti e inconsapevoli.

“Ma coloro i quali”, opposti a quelli, “disprezzando questo


mio insegnamento, non lo seguono”, disdegnando la mia dot-
trina non la praticano, “sappi che costoro”, che sono varia-
mente confusi relativamente a tutte le conoscenze, “sono to-
talmente confusi riguardo a qualsiasi conoscenza, perduti”,
votati alla rovina, “e inconsapevoli”, privi di discernimento.
Obiezione: Per quale ragione, dunque, non seguono il tuo
insegnamento, per cui non attuano il proprio dharma ma
praticano il dharma altrui? Perché, pur contrapponendosi a
Te, non temono di incorrere nell’errore di trasgredire il tuo
precetto?
166 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 3.33

Risposta: A tale riguardo [Bhagavat] disse:

3.33. Agisce corrispondentemente alla propria natura anche


colui che possiede la conoscenza; gli esseri si attengono alla
[loro rispettiva] natura: a che servirebbe una costrizione?

“Agisce corrispondentemente”, conformemente... a cosa?


“...alla propria”, alla sua intrinseca “natura...”. Si definisce
“natura” (prakÿti) il seme attivo (saæskåra), costituito da me-
rito e demerito, creato in precedenza e manifestantesi come
origine dell’attuale nascita: tale è la natura [propria di un es-
sere]. Ogni creatura agisce affatto corrispondentemente a
essa, “...anche colui che possiede la conoscenza”; quanto più
[agirà secondo la sua natura] un ignorante? Perciò “gli esseri
si attengono alla [loro rispettiva] natura”, la assecondano: “a
che servirebbe una costrizione”, sotto forma di proibizione,
per Me o per un [qualsiasi] altro [essere]? 27
Obiezione: Se ogni creatura agisce affatto corrispondente-
mente alla propria natura e se non vi è nessun [essere] che
sia privo di una [tale] natura [formata da quei semi], di con-
seguenza, poiché non si può logicamente ammettere [alcun
effetto che provenga da un] impegno di ordine umano, si
deve concludere che la Scrittura è priva di valore sia nel si-
gnificato che come finalità.
Risposta: Si risponde questo:

3.34. L’attrazione e la repulsione si fondano distintamente


sull’oggetto di ogni singolo senso [corrispondente]: non si sotto-
metta [nessuno] al potere di queste due perché esse rappresenta-
no per lui due nemici.

“L’attrazione e la repulsione (si fondano distintamente)


sull’oggetto di ciascun singolo senso”, cioè sugli oggetti [ri-
3.35 Terzo Adhyåya 167

spettivi] di tutti i sensi, ossia su contenuti quali il suono,


ecc., manifestandosi necessariamente in relazione a ciascun
singolo oggetto sensoriale come attrazione (råga) se in rap-
porto a un [oggetto] desiderabile o come repulsione (dve≤a)
se in rapporto a un [oggetto] indesiderabile. In merito a ciò,
viene [ora] enunciato questo che è lo scopo sia dell’impegno
che si richiede da parte dell’uomo che del significato della
Scrittura.
Chi è intento a realizzare lo scopo della Scrittura deve
già dall’inizio evitare di cedere all’attrazione e alla repulsio -
ne. Infatti, quella che è [definita come] la natura di un esse-
re umano dirige lungo il suo corso l’uomo proprio tramite
l’attrazione e la repulsione: allora si verificano sia l’abban-
dono del proprio dharma che l’adempimento del dharma al-
trui. Quando, al contrario, [l’uomo] riesce a controllare at-
trazione e repulsione [dovute a una falsa o illusoria cono-
scenza] grazie a quello che è il loro avversario [cioè la cono-
scenza discriminante], allora l’essere umano diviene [uno
con] la stessa visione scritturale e non più aggiogato alla
[propria] natura. Perciò “non si sottometta [nessuno] al po-
tere di queste due”, dell’attrazione e della repulsione, “per-
ché”, per il motivo che “esse rappresentano per lui”, per l’es -
sere umano, “due nemici”, vale a dire che si oppongono come
ostacoli alla via verso il Bene come due ladri [incontrati]
lungo la strada.
In tal caso, colui che è condizionato da attrazione e repul-
sione può interpretare difformemente anche il significato del-
la Scritture: ‘anche il dharma altrui, essendo un dharma, deve
essere [da me] assolutamente adempiuto’; ciò è errato.

3.35. Meglio il proprio dharma, [quantunque compiuto] sen-


za merito, che il dharma altrui perfettamente adempiuto. È pre-
feribile il decesso [avendo vissuto fondati] nel proprio dharma
[che in quello altrui, perché] il dharma di un altro arreca danno.
168 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 3.35

“Meglio”, più encomiabile, “il proprio dharma”, il dharma


che compete a sé stessi, quantunque [compiuto] “senza meri-
to”, sebbene venga adempiuto in modo privo di valore, “che il
dharma altrui perfettamente adempiuto”, anche portato a com-
pimento in maniera eccellente. “È preferibile” anche “il deces-
so”, il morire [avendo vissuto] fondati “nel proprio dharma”,
che vivere fondandosi nel dharma di un altro.
Perché?
Perché “il dharma di un altro arreca danno”, procura un
danno consistente [per esempio nella caduta] in mondi inferi,
ecc.28
Sebbene la radice del male sia stata menzionata nei passi:
«Per l’uomo che porta l’attenzione agli oggetti...» (Bha. Gı.
2.62), e: «...perché (esse)...», attrazione e repulsione, «...rap-
presentano per lui due nemici» (Bha. Gı. 3.34), essa era stata
enunciata in modo generico e non perfettamente chiaro. Ar-
juna, desiderando conoscere ciò, ossia questo stesso [argomen-
to] in modo sintetico e perfettamente chiaro [con la convin-
zione]: ‘invero, [solo] quando quella [causa del male] è cono-
sciuta, potrò compiere uno sforzo al fine di eliminarla’, disse:

Arjuna disse:

3.36. Ma condizionato da che cosa quest’uomo commette


l’errore, anche contro la [sua] volontà, o Vår≤√eya, come se vi
fosse costretto con la forza?

“Ma” essendo “condizionato da che cosa”, che costituisca


un impulso, “quest’uomo”, al pari di un servitore [obbligato]
dal sovrano, “commette l’errore”, compie l’azione [contraria
ai dettami scritturali], “anche contro la” sua stessa “volontà, o
Vår≤√eya”, o Tu che sei stato generato nella famiglia dei Vÿ≤√i,
“come se vi fosse costretto con la forza?”, come [il servitore]
lo è dal re, citato [prima] come esempio.
3.37 Terzo Adhyåya 169

Bhagavat disse: ‘Ascolta, tu, qual è il nemico che produce


ogni male e del quale tu mi hai chiesto’.
[In questo particolare contesto] è Våsudeva ad essere de-
nominato Bhagavat sia perché in lui, in Våsudeva, sussistono
eternamente i sei [attributi divini] quali la divina signoria e
gli altri in assenza di qualsiasi impedimento e nella loro tota-
lità, [come si apprende dal passo]: «La divina maestà (bhaga)
dei sei [attributi], cioè: della divina signoria, della totalità on-
nicomprensiva, della legge universale, della rinomanza, dello
splendore, del distacco e, infine, della liberazione: tale è la
[sua] designazione» (Vi. Pu. 6.5.74), sia perché è quegli nel
quale vi è la chiara conoscenza della venuta all’esistenza, ecc.,
[dell’universo, come si legge nel passo]: «Colui, il quale cono-
sce il sorgere all’esistenza e la distruzione, la stessa comparsa
e scomparsa degli esseri, la conoscenza e l’ignoranza, è deno-
minato Bhagavat» (Vi. Pu. 6.5.78).

Ârı Bhagavat rispose:

3.37. Questo [nemico] è il desiderio, la collera è questo [stes-


so]: la [sua] origine è il gu√a rajas. È il grande divoratore, è il
grande male: riconoscilo, qui, come il nemico.

“Questo [nemico] è il desiderio” (kåma): per chiunque al


mondo è dannoso in quanto ad esso è dovuta l’acquisizione di
ogni male da parte degli esseri viventi; questo stesso desiderio,
[quando è] ostacolato da qualche cosa, si trasforma in collera
(krodha). Quindi anche “la collera è questo [stesso desiderio]: la
[sua] origine è il gu√a rajas”. Il gu√a rajas indica sia il rajas sia il
gu√a relativo a quello (cioè in quanto attributo separato dagli al-
tri): esso (il gu√a rajas) ne è l’origine (del desiderio), ovvero il
desiderio è quello del quale il gu√a rajas è l’origine (samudbha-
va). Oppure [si può interpretare nel senso]: “[il desiderio] è l’o-
rigine del gu√a rajas”. Infatti, quando il desiderio si è manifesta-
170 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 3.37

to, impulsa il rajas ad agire e [quindi, per quanto detto in 3.27]


sospinge l’uomo [stesso] a compiere l’azione. [Dovunque, infat-
ti] si sente il lamento di coloro che, in preda al dolore, sono co-
stretti ad agire essendo ridotti in schiavitù, ecc. dall’effetto del
rajas: ‘invero è dalla brama che sono costretto ad agire!’.
“È il grande divoratore”, gran divoratore in quanto appar-
tiene a lui l’immenso alimento [consistente nella totalità degli
oggetti], proprio per questo “è il grande male”: infatti l’essere
vivente incorre nell’errore in quanto vi viene indirizzato dal
desiderio. Quindi “riconoscilo”, il desiderio, “qui”, nel divenire
ciclico, “come il nemico”.
[Ora Bhagavat] spiega attraverso vari esempi in che senso
[il desiderio] rappresenta un nemico.

3.38. Come il fuoco è nascosto dal fumo e lo specchio dalla


polvere, come l’embrione è avvolto dall'amnios, così questa [co-
noscenza] è occultata da quello (il desiderio).

“Come il fuoco”, che è essenzialmente luminoso, “è nasco-


sto dal fumo” che se ne sprigiona, che è di natura oscurante, o
“lo specchio dalla polvere”, e “come l’embrione è avvolto”, ri-
coperto “dall’amnios”, dall’involucro che fascia l’embrione,
“così questa [conoscenza] è occultata da quello (il desiderio)”.
Obiezione: Che cosa è ciò che viene espresso con il termi-
ne “questa” (idam) e che risulta occultato dal desiderio?
Risposta: Si dice:

3.39. È la conoscenza, o Kaunteya, a essere [così] avviluppa-


ta da questo costante nemico del conoscitore, sotto forma di de-
siderio, avido fuoco insaziabile.

“È la conoscenza... a essere [così] avviluppata da questo co-


stante nemico del conoscitore...”. Infatti, grazie a lei, il conosci-
3.40 Terzo Adhyåya 171

tore riconosce: ‘io sono in errore’, anche prima di venire condi-


zionato [dalle conseguenze], ed è sempre sofferente [a causa di
ciò]. Pertanto quello (il desiderio) rappresenta un costante ne-
mico (nityavairin) [solo] per il conoscitore, ma non per l’igno-
rante. Questi, infatti, quando si manifesta la brama [verso qual-
cosa], considera il desiderio come un amico ed è [soltanto] una
volta che si è procacciato la sofferenza quale effetto di quello
che [riconosce]: ‘io sono caduto nella sofferenza a causa della
brama’, ma non prima. Quindi esso è [riconosciuto come] un
costante nemico solamente per il conoscitore.
Sotto quale forma [si manifesta tale nemico]?
“...sotto forma di desiderio”: ha forma di desiderio (kåma-
r¥pa) ciò la cui apparenza è il desiderio, la stessa volizione.
[Dunque si manifesta] come quello che è “avido” – avido (du-
≤pura) è colui il cui soddisfacimento è difficile [da raggiunge-
re] – e come quello che è “fuoco insaziabile” – fuoco insazia-
bile (anala) è quello per il quale non esiste acquisizione che
sia sufficiente 29.
Ordunque [Bhagavat] parla in merito a qual è la colloca-
zione del desiderio che, avviluppando la conoscenza, rappre-
senta il nemico dell’intero universo: infatti è [solo] quando la
dimora del nemico è nota, che il nemico lo si può agevolmen-
te distruggere.

3.40. Si dice che i sensi, la mente e l’intelletto sono la sua


sede: esso, velando la conoscenza tramite questi, confonde l’es-
sere incarnato.

“Si dice che i sensi, la mente e l’intelletto sono la sua sede”,


la dimora del desiderio: “esso”, il desiderio, “velando”, ricopren-
do “la conoscenza tramite questi” sensi, ecc. che sono le [sue]
dimore, “confonde”, illude variamente “l’essere incarnato”,
l’essere corporeo (il jıva).
Poiché è così,
172 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 3.41

3.41. Perciò tu, o migliore dei Bharata, trattenendo i sensi


fin dal principio, l’errore eliminalo decisamente: infatti è il di-
struttore della conoscenza [reale] e della conoscenza distintiva.

“Perciò, tu, o migliore dei Bharata, trattenendo “i sensi fin


dal principio”, cioè ponendoli sotto controllo già dall’inizio,
“l’errore”, cioè il nemico in corso di trattazione qual è il desi-
derio che induce a commettere l’errore, “eliminalo decisamen-
te”, allontanalo completamente: “infatti è il distruttore della
conoscenza [reale] e della conoscenza distintiva”.
La conoscenza [reale] (jñåna) è la presa di coscienza del-
l’åtman, ecc. quale procede dalle Scritture e dal Maestro; la
conoscenza distintiva (vijñåna) è l’esperienza relativa a quella
in base alle proprie peculiarità30. Elimina, vale a dire: allonta-
na completamente da te stesso il [desiderio quale] distruttore
di quelle due, che sono entrambe un mezzo per conseguire il
Bene, ossia ciò che produce la [loro] distruzione.
Obiezione: È stato detto: ‘uccidi il nemico che è il desiderio
trattenendo i sensi fin dal principio’. A tale riguardo, qual è la
sede dove si deve annientare il desiderio?
Risposta: Si dice:

3.42. Dicono che i sensi sono superiori [rispetto al corpo], che


superiore ai sensi è la mente, che, invero, superiore alla mente è
l’intelletto [puro]: ma colui, il quale è al di là [persino] dell’in-
telletto [puro], è Quello (l’åtman).

“Dicono” i sapienti (pa√ƒit) “che i” cinque “sensi” (indri-


ya), quali l’udito e gli altri, in rapporto al corpo grossolano,
che è esteriore e limitato, “sono superiori”, lo trascendono in
virtù della loro natura sottile e interna [rispetto a quello], del-
la loro pervasività, ecc. Similmente, “che superiore ai sensi è
la mente” (manas), consustanziata di desideri e di incertezze,
3.43 Terzo Adhyåya 173

e “che, invero”, allo stesso modo, “superiore alla mente è l’in-


telletto [puro]” (buddhi), consustanziato di risolutezza; “ma
colui, il quale” è all’interno di tutti gli enti percepibili fino al-
l’intelletto puro, che, quale essere incarnato, il desiderio con-
giunto con i sensi, ecc. nelle loro [rispettive] sedi porta a con-
fondere attraverso il velamento della conoscenza, come è stato
detto (3.40), e il quale “è al di là [persino] dell’intelletto [puro],
è Quello”: il Veggente dell’intelletto, il supremo åtman31.
Che cosa [potrebbe mai esservi] al di là di Quello?

3.43. Avendo compreso in tal modo [l’åtman supremo in quan-


to] superiore all’intelletto [puro] e reso saldamente stabile l’åtman
[incarnato] per mezzo dell’åtman, o Mahåbåhu, uccidi il nemico
che ha l’aspetto del desiderio, [così] difficile da sottomettere.

“Avendo compreso”, avendo conosciuto in tal modo l’å-


tman [supremo] in quanto “superiore all’intelletto [puro] 32 e
reso saldamente stabile l’åtman [incarnato]”, avendo operato
la sua autentica stabilizzazione “per mezzo dello” stesso pro-
prio “åtman” – vale a dire: concéntrati per mezzo della mente
resa perfettamente purificata – “o Mahåbåhu, uccidi” lui, “il
nemico che ha l’aspetto del desiderio, [così] difficile da sotto-
mettere”, quello che è difficile da sottomettere (duråsada) in
quanto la sua sottomissione, o acquietamento, si raggiunge
[solo] con difficoltà essendo arduo da riconoscere per via dei
suoi molteplici e distinti aspetti.

Nelle Scritture yoga sulla conoscenza del Brahman


appartenenti alla Upani≤ad della sacra Bhagavadgıtå,
questo è il Terzo Capitolo
nel dialogo tra Kÿ≤√a e Arjuna
intitolato:
‘Lo yoga dell’azione’

*
NOTE al Terzo Adhyåya

1
Riferimento a Vÿttikåra. V. nota 2.6.
2
Poiché nel Terzo Adhyåya si afferma che la liberazione può
essere conseguita tramite la conoscenza dagli appartenenti agli al-
tri stadi di vita oltre a quello del capofamiglia, l’ipotetico avversa-
rio, interpretando arbitrariamente il pensiero del Commentatore,
ritiene non esservi contraddizione.

Secondo l’ipotetico oppositore la Âruti e la Smÿti prospettano


3

due forme di attività rituale distinte per finalità, qualificazione e pra-


tica. Il saænyåsin avrebbe abbandonato lo Ÿrautakarman ma sarebbe
tenuto ancora a osservare lo smårtakarman, per cui sembra che la li-
berazione possa conseguirla attraverso la commistione di conoscen-
za e azione. Da parte sua, il gÿhastha sarebbe tenuto a osservare lo
Ÿrautakarman, per lui fondamentale, per cui non può ottenere la li-
berazione se non attraverso la commistione di azione rituale e cono-
scenza. Infine, per il gÿhastha lo smårtakarman sarebbe solo comple-
mentare per cui può trascurarlo qualora venisse a mancare lo Ÿrau-
takarman. Così, mentre il saænyåsin conseguirebbe il mok≤a con
un’apparente commistione di conoscenza e azione rituale relativa
allo smårtakarman, il gÿhastha potrebbe conseguirlo solo con l’ef-
fettiva commistione della conoscenza e dell’azione rituale inerente
allo Ÿrautakarman. È evidente l’incongruenza di tale posizione.
4
Il termine ¥rdhvaretas, lett. ‘colui che ha sublimato il seme’,
designa il rinunciatario totale (saænyåsin) che ha trasceso anche lo
stadio di capofamiglia.
5
Secondo alcuni ritualisti dogmatici, fedeli assertori della
P¥rva Mımåæså, lo Ÿrautakarman può essere evitato solo da colui
176 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

che, per imperfezione o carenza fisica, non è in grado di compiere


le attività rituali previste mentre il saænyåsin, proprio perché esen-
tato da tale attività, non può pervenire alla liberazione. È evidente
che anche tale interpretazione è fallace.

Se la rinuncia competesse soltanto ai disabili fisici, per loro


6

essa non costituirebbe più un mezzo complementare ma uno stru-


mento primario e indispensabile. Anche questa conclusione è chia-
ramente inammissibile.

Un passo della Jåbåla Upani≤ad dice: «Al completamento della


7

fase dello studentato, si deve entrare nello stadio di capofamiglia;


lasciando la casa si deve andare a dimorare nella foresta ritirandosi
dal mondo; oppure ci si può ritirare dal mondo anche quando si è
studenti, o ritirare dalla casa o dalla foresta sia che si osservino di-
scipline o meno, che si sia completato lo studentato o no, che si sia
installato il fuoco sacro o no. In breve, il giorno stesso che ci si sen-
te disgustati dal mondo, quel medesimo giorno ci si dovrebbe riti-
rare da lui» (Jå. 4).
8
L’offerta da farsi al fuoco (agnikårya) e lo studio dei Veda (ve-
dådhyayana) sono i due unici obblighi imposti tradizionalmente
allo stadio del brahmacårin. La loro eventuale omissione costituisce
un grave errore solo per gli appartenenti a tale stadio e non per gli
altri, per i quali i doveri tradizionali sono differenti.

Come non si può logicamente ammettere che ciò che è essen-


9

zialmente un non-esistente, un ente negativo, possa produrre un


esistente, un ente positivo, ugualmente non si può pensare che le
Scritture, il cui scopo è svelare la conoscenza liberatrice – inerente
all’åtman libero dall’agire – intendano suggerire solo il compimen-
to di attività.
10
Cfr. Ma. Bhå. 12.3: 238.21, 243.26, 244.14, 277.22.

L’assenza di paura (abhaya) si riferisce alla immunità conces-


11

sa a quegli esseri che, in base ai comandi scritturali, dovrebbero co-


stituire vittima di sacrificio. Il concedere tale esenzione comporta la
Note al Terzo Adhyåya 177

dispensa dai riti di carattere cruento imposti dalla Âruti, per esem-
pio ai gÿhastha, che costituiscono precisi obblighi, dunque azioni
che si devono obbligatoriamente effettuare.
12
Il conoscitore si è portato al di là del potere dei gu√a avendoli
compresi e risolti, e quindi trasceso la loro sfera di azione. Il non-
conoscitore, identificato al veicolo, risente invece della loro attività.
Cfr. Yo. S¥. 4.31, 34.
13
Si riferisce ai tre ordini sociali della società tradizionale aven-
ti il diritto di effettuare il sacrificio (bråhma√a, k≤atriya e vaiŸya).
14
Qui Âa§kara designa “sommo Bene” (paraæ Ÿreyas) sia la li-
berazione quale diretta conseguenza della realizzazione del Bra-
hman, sia l’accesso al mondo celeste (svarga), il paradiso quale dimo-
ra dei deva o in quanto stipato di ogni oggetto di desiderio. In que-
sto caso il frutto è commisurato alla condizione di identificazione
con il soggetto, quindi a uno stato coscienziale in cui ancora persi-
ste il senso della individualità. Nel primo, invece, essendo quest’ul-
tima completamente risolta, il sacrificio si identifica con la propria
soluzione nella stessa Conoscenza.
15
Si allude ai cinque, tra luoghi e strumenti, in relazione ai qua-
li si perpetrano giorno per giorno atti di violenza nei confronti del-
la vita, in questo caso animale: il rogo sacrificale, il recipiente del-
l’acqua e le tre diverse lame usate per incidere, squartare e pulire il
corpo dell’animale. Tali atti di indubbia crudeltà vengono annullati
dal quintuplice sacrificio che le Scritture impongono ai sacerdoti, e
cioè quello verso i deva, verso i Saggi (ÿ≤i), verso gli esseri umani,
verso gli Antenati (pitÿ) e verso gli Elementi (bh¥ta). Cfr. Ma. 1.67-73.
16
Cfr. Bha. Gı. 4.31. V. Ma. 3.118.
17
L’ap¥rva, lett. “senza-precedente”, è l’effetto singolo di una
data azione e, in particolare, come in questo caso, di un atto sacrifi-
cale. Laddove l’azione ordinaria è causa di altra azione ed effetto a
sua volta di un agire anteriore, innestandosi nel determinismo della
legge del karman, l’atto rituale rispondente ai dettami delle Scrittu-
178 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

re innalza l’essere consapevole del proprio operare e lo astrae da


tale condizionamento. La sua azione, e quindi l’effetto che porta
con sé, non è preceduto da altra azione analoga e su sfera similare
e, parimenti, l’effetto non appartiene alla sfera ordinaria del perce-
pibile, per cui viene tradizionalmente definito adÿ≤†a, non-visibile.
Infatti esso si riferisce a condizioni di esistenza future e sovente su
altri e più elevati piani dell’essere. L’ap¥rva è l’essenza del sacrifi-
cio, con cui a certi livelli si identifica, e stabilisce, pur mantenendo
la relazione causale, la connessione dell’effetto con la causa ma al
di là delle dimensioni spazio-tempo-causali nelle quali si manifesta
il frutto dell’azione comune.

Cfr. Mai. 6.37, Tai. 2.2.1, Pra. 1.14. V. anche: Ma. 3.76, Ma.
18

Bhå. 12.263.11.

La ruota del mondo (jagaccakra) è stata posta in movimento


19

da ÙŸvara in conformità alle verità serbate nel Veda. Se l’uomo in-


tende vivere in armonia con il Principio deve contribuire a man -
tenere attiva la sua rotazione in conformità alla norma ıŸvarica-
principiale, cioè alimentare positivamente il processo determini-
stico tramite cui opera il karman con la costante e corretta esecu-
zione rituale nell’osservanza delle norme dettate da ÙŸvara stesso
(Brahmå) come prescrizioni rituali. Il comportamento contrario o
difforme da questo, dunque disarmonico nei confronti dell’essere
e della Vita, esprime uno stadio di identificazione veicolare im-
portante e quindi una condizione di individualità ancora prepon -
derante, nella quale qualsiasi anelito spirituale viene soffocato
dalla brama sensoriale. Ovviamente ciò comporta la propria auto-
limitazione nella sfera veicolare e l’assoggettamento alle sue rigi-
de leggi.

Chi trova la pienezza-compiutezza nell’åtman, avendone


20

realizzato consapevolmente la Non-dualità, non invoca più alcun


deva, non rivolge preghiere a nessuna divinità per ottenere qualco-
sa perché ha riconosciuto che ogni ente, persino ogni Forma divi-
na, è un aspetto dell’unico Brahman nel quale tutto è compiuto.
21
Janaka è un antico sovrano di Mithila. Cfr. Chå. 5.11.4.
Note al Terzo Adhyåya 179

22
Janaka e gli altri erano k≤atriya, per cui, in base alle norme
scritturali, non avrebbero potuto accedere allo stadio di saænyåsin.
Così, assecondando il proprio prårabdhakarman, che aveva prodot-
to la loro nascita in quella condizione, non operarono la completa
rinuncia alle azioni pur seguendo ugualmente il sentiero realizzati-
vo. Diversamente, infatti, gli altri avrebbero imitato il loro compor-
tamento determinando un disordine nell’equilibrio cosmico. La li-
berazione in vita venne comunque conseguita da loro grazie alla
conoscenza che avevano e al distacco nell’agire.
23
In sintesi, il senso del discorso di Bhagavat è: ‘Perché, onde
evitare la confusione dell’esistente, non imiti Me, che mantengo
l’equilibrio dell’universo, offrendo te stesso come esempio?’. Per
uno k≤atriya l’equilibrio dell’esistente è lo scopo primario, essen-
ziale, del quale i singoli atti ingiunti sono aspetti parziali.
24
Si veda in proposito Bha. Gı. 4.11.
25
Per quanto la distinzione nella mente (buddhibheda), già ac-
cennata nel verso 26 e che si concretizza nella proiezione di sogget-
to e oggetto e nelle immagini del mezzo, del frutto, della esperien-
za, ecc., sia innata nell’essere ordinario quale effetto della ignoran-
za, il conoscitore non deve indurre l’ignorante ad alimentare e con-
solidare tali proiezioni e a identificarvisi.
26
L’insegnamento di Kÿ≤√a-Våsudeva – che l’azione deve essere
compiuta – è rivolto, in questo particolare contesto, a coloro che
sono specificamente qualificati ad agire, come gli k≤atriya. Ponen-
do in atto questo insegnamento anche gli uomini “siffatti” (evaæ-
bh¥ta), che cioè posseggono la sola qualificazione per l’azione, si li-
berano dei frutti positivi e negativi del loro operato contribuendo
all’armonia universale.
27
Qui la “natura” è determinata dal karman accumulato che ha
prodotto l’incarnazione attuale, ha quindi una connotazione in ter-
mini di gu√a. Dal karman procede anche il dharma dell’essere e
conseguentemente il suo corso esistenziale. Nessuno può opporsi al
flusso e all’esprimersi delle potenzialità irrisolte. Anche Prajåpati si
180 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

manifesta in forza di un karman residuo proveniente dal ciclo uni-


versale anteriore. L’essere umano ottiene nascita in virtù del far-
dello inerente all’operato trascorso, i cui semi sono stati deposti
nelle precedenti esistenze. Ciò concerne anche il conoscitore che,
seppur distaccato dalla mera veicolarità, fisica e psichica, si manife-
sta in una forma corporea necessariamente assoggettata alle leggi
del karman-dharma.
28
Cfr. Bha. Gı. 18.47.

Il termine anala – sia ‘insaziabile’ che ‘fuoco’ – è la fiamma


29

ardente della brama che divora tutto e non si spegne se non a esau-
rimento del combustibile, che, per il fuoco del desiderio, è l’ogget-
tività su tutti i piani: questa è illimitata e autotrasformantesi essen-
do nient’altro che la proiezione esteriore della stessa individualità
irrisolta, ricettacolo di incompiutezze e conflittualità, e ancora in-
consapevole della sua vera natura.

Quando ci si risveglia (avabodha) prendendo coscienza della


30

propria natura di åtman, l’intero campo conoscitivo ne risente po-


sitivamente. Anche la conoscenza ordinaria, distintiva e duale, ri-
sulta illuminata da tale realizzazione e la stessa capacità di esperire
di ciascuno viene a trasmutarsi sotto l’influsso della conoscenza e
in funzione delle qualità peculiari dell’individuo.
31
Cfr. Ma. Bhå. 12.248.3-5, 12.297.19 e Ka. 1.3.10.

Tanto il verso che il commento possono avere una duplice let-


32

tura dato che il termine para può riferirsi sia all’åtman, in quanto
“superiore”, trascendente rispetto alla buddhi, sia al “supremo” å-
tman, come compare nel commento. Il senso è equivalente. Questi ul-
timi versi sono una sintesi del processo alchèmico: isolamento del
Mercurio lunare (jıva) dal composto salino (veicolarità psicofisica),
fissazione del Mercurio e trasmutazione da lunare in solare (purifica-
zione del centro di autocoscienza dai contenuti), soluzione del Mer-
curio solare (jıvåtman purificato) nello Zolfo trascendente (åtman).

*
Quarto Adhyåya
(Lo yoga della conoscenza
e della completa rinuncia all’azione)

Questo Yoga enunciato nel corso dei due [ultimi] Capitoli


– [yoga] che consiste nella totale dedizione alla conoscenza, è
accompagnato dalla completa rinuncia, è ottenibile tramite
quel mezzo complementare che è il karmayoga e nel quale è
racchiuso il significato del Veda consistente nell’attività e nel-
l’astensione dall’attività – rappresenta proprio lo Yoga che
Bhagavat stesso ha voluto esporre in tutta la Gıtå. Quindi, ri-
tenendo che il significato del Veda sia stato concluso [nella
sua esposizione], Ÿrı Bhagavat gli rende omaggio menzionan-
do la linea di trasmissione (vaæŸa).

Ârı Bhagavat disse:

4.1. Io dichiarai questo yoga imperituro a Vivasvat, Viva-


svat lo trasmise a Manu e Manu lo rivelò a Ik≤våku.

Al principio della manifestazione universale “Io dichiarai


questo yoga”, enunciato nel corso dei due [ultimi] Capitoli, “a
Vivasvat”, cioè ad Åditya (il deva Sole-S¥rya), per conferire
vigore agli k≤atriya, i protettori del mondo. [Solo quando di-
vennero pienamente] dotati di tale forza scaturiente dallo
yoga, essi poterono salvaguardare il Brahman (l’ordine brå-
hma√a)1. Quando sia l’ordine brahman sia l’ordine k≤atra fu-
rono tutelati, allora si poté preservare degnamente l’universo2.
182 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.1

[Tale yoga] è “imperituro” perché imperituro è il [suo]


frutto. Infatti il frutto di questo yoga che consiste nel fondarsi
stabilmente nell’autentica visione, [frutto] denominato libera-
zione (mok≤a), [mai] non perisce (na vyati).
Infine esso “Vivasvat lo trasmise a Manu, e Manu lo rivelò
a Ik≤våku”, suo figlio e primo reggente [del mondo].

4.2. Così, i regali saggi conobbero questo [yoga] avendolo ac-


quisito per successione [diretta] dall’uno all’altro. Poi, dopo lungo
tempo, o Paraætapa, qui [sulla terra] lo yoga è caduto nell’oblìo.

“Così, i regali saggi” – i regali saggi (råjar≤i) sono quei so-


vrani che furono anche saggi veggenti (essendosi dedicati al-
la realizzazione spirituale) – “conobbero questo”, cioè questo
yoga, “avendolo acquisito per successione [diretta] dall’uno
all’altro” k≤atriya. “Poi, dopo lungo tempo”, dopo un grande
lasso di tempo, “o Paraætapa, qui [sulla terra] lo yoga”, quan-
do la tradizione andò dispersa, “è caduto nell’oblìo”. Sono det-
ti avversari quelli che, per noi stessi, rappresentano antagoni-
sti; colui che, simile al sole, li arde con la potenza di fuoco delle
sue braccia di luce è [detto] paraætapa, per cui [tale nome] si-
gnifica: ‘Colui che arde l’altro’ (Colui che distrugge il nemico).
Vedendo sia che questo yoga era andato perduto essendo
stato carpito da coloro che erano [spiritualmente] incapaci e
non avevano sottomesso i propri sensi, sia che il mondo [de-
gli uomini] non era più in grado di perseguire il fine umano
per eccellenza, [Bhagavat aggiunse]:

4.3. Questo stesso antico yoga da Me oggi ti viene esposto, [a


te che] mi sei devoto e amico, perché questa [conoscenza racchiu-
sa nello yoga] è il segreto supremo.

“Questo stesso antico yoga da Me oggi”, adesso, “ti viene


esposto”, a te che “mi sei devoto e” [mi] sei anche “amico, per-
4.5 Quarto Adhyåya 183

ché”, per il motivo che “questa”, vale a dire la conoscenza [rac-


chiusa] nello yoga, “è il segreto supremo”.
Arjuna, allo scopo di dissipare il pensiero [che potesse even-
tualmente essere espresso da parte] di qualcuno: ‘non può es-
sere che Bhagavat abbia enunciato qualcosa di contradditto-
rio!’, e come formulando una critica, disse:

Arjuna disse:

4.4. La tua nascita è posteriore, [mentre] la nascita di Viva-


svat è anteriore; come si deve intendere che Tu hai rivelato per
primo questo [yoga]?

“La tua nascita” nella famiglia di Vasudeva “è posteriore”,


successiva, “[mentre] la nascita di Vivasvat”, cioè di Åditya,
“è anteriore”, è precedente, [essendo avvenuta] al principio
della manifestazione universale. Dunque, se si vuole evitare
una contraddizione, “come si deve intendere che Tu” stesso
“hai rivelato per primo questo [yoga]”, cioè quel medesimo
yoga che Tu mi hai esposto adesso?
Dissipando il dubbio relativo a Våsudeva, secondo cui [que-
sti] potesse non essere Bhagavat e, altresì, non essere onni-
sciente – tale, in effetti, è il senso della domanda di Arjuna –
Ârı Bhagavat disse:

Ârı Bhagavat disse:

4.5. Sono numerose le mie nascite passate e anche le tue, o


Arjuna. [Solo che] Io le conosco tutte, [mentre] tu non le cono-
sci, o Paraætapa.

“Sono numerose le mie nascite passate”, trascorse, “e an-


che le tue, o Arjuna. [Solo che] Io le conosco”, [le] ricordo
“tutte, [mentre] tu non [le] conosci”, non [le] ricordi, perché
184 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.5

la [tua] capacità di conoscere [rammentando] è ostacolata dal


merito e dal demerito, ecc. [accumulati e a causa dei quali hai
ottenuto questa nascita]. Invece, essendo Io per propria natu-
ra eterno, puro, autoconsapevole e libero, la [mia] capacità di
conoscere [rammentando] non subisce velamento [alcuno],
per cui Io conosco [cioè rammento tutte le mie nascite], “o Pa-
raætapa”.
Obiezione: Perché, allora, per Te, Signore eterno, si è avuta
nascita, sebbene non vi sia [alcun] merito né demerito?
Risposta: Si dice:

4.6. Pur essendo il non-nato e indefettibile åtman, pur es-


sendo il Signore degli esseri ed esercitando il potere sulla [mia]
propria natura, vengo in esistenza attraverso la mia stessa
måyå.

“Pur essendo il non-nato”, cioè affatto privo di nascita, “e”,


ugualmente, l’“indefettibile åtman”, cioè pur essendo per pro-
pria natura dotato di una infallibile capacità di conoscere, e,
ancora allo stesso modo, “pur essendo il Signore”, cioè pur
possedendo la facoltà di governo “degli esseri” [tutti], da Bra-
hmå fino a agli enti inerti, “ed esercitando il potere sulla [mia]
propria natura”, cioè tenendo sotto controllo quella mia pro-
pria natura che è la måyå di Vi≤√u, consistente dei tre gu√a –
[natura] in virtù della quale tutto l’universo esiste [manife-
standosi ciclicamente] e dalla quale nello stesso tempo [chi-
unque] viene confuso al punto da non poter riconoscere Vå-
sudeva, il proprio åtman – “vengo all’esistenza”, cioè divengo
apparentemente dotato di corpo, ossia come se fossi nato “at-
traverso la mia stessa måyå”, cioè non in realtà, [ma] al pari
di ogni essere al mondo3.
E tale nascita, quando e a che scopo [avviene]?
Si dice:
4.9 Quarto Adhyåya 185

4.7. Invero, ogniqualvolta sopravviene il declino della Legge


e il trionfo della licenza, allora, o Bhårata, Io manifesto Me stesso.

“Invero, ogniqualvolta sopravviene il declino”, la decadenza


“della Legge” (dharma), la quale consiste [nella ripartizione
degli esseri] in ordini sociali, stadi di vita, ecc., e che per gli
esseri viventi rappresenta il mezzo per [conseguire] la pro-
sperità terrena o il sommo Bene (la liberazione), “e il trionfo”,
l’affermazione “della licenza (adharma), allora, o Bhårata, Io
manifesto Me stesso” attraverso la måyå.
A che scopo?

4.8. Per la protezione dei giusti e per la distruzione dei mal-


vagi, per ristabilire la Legge vengo all’esistenza di età in età.

“Per la protezione”, per la tutela “dei giusti”, di coloro che


si trovano sulla retta via, “e per la distruzione dei malvagi”, di
coloro che commettono iniquità, e anche “per ristabilire la
Legge”, allo scopo di ripristinare l’autentica stabilità della
Legge universale (dharma) “vengo all’esistenza di età in età”,
cioè in ogni era cosmica (yuga).
Dunque,

4.9. Colui che conosce la mia nascita e la mia opera divine


così, nella [loro] vera essenza, o Arjuna, lasciato il corpo non
andrà più verso una [ulteriore] nascita, [ma] costui verrà a Me.

“Colui che conosce la mia nascita”, [apparentemente av-


venuta] tramite la [mia] natura di måyå, “e la mia opera”,
consistente nella protezione dei giusti, ecc., [nascita e opera]
“divine”, non appartenenti alla natura ordinaria [degli esseri
comuni] ma proprie della natura del Signore (ÙŸvara), “così”
come è stato detto, “nella [loro] vera essenza”, cioè così qual è
la loro reale natura (tattva), “o Arjuna, lasciato” questo che è
186 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.9

“il corpo” [attuale] “non andrà più verso una [ulteriore] na-
scita”, non otterrà più un ritorno alla esistenza [individuata],
“[ma] costui verrà”, giungerà “a Me”, cioè sarà liberato.
Questo sentiero per la liberazione (mok≤amårga) non è
praticato [soltanto] nei tempi attuali.
Quando [è stato praticato], allora?
Anche in antichità.

4.10. Liberi dalla passione, dal timore e dall’iracondia, pieni


di Me, in Me rifugiati, molti, purificati dal fuoco della conoscen-
za, hanno raggiunto il mio [stesso] Essere.

“Liberi dalla passione, dal timore e dall’iracondia...” – li-


beri da passione, timore e iracondia sono coloro nei quali la
passione-attaccamento, la paura e la collera sono sparite, dai
quali sono state disperse – “...pieni di Me”, cioè conoscitori
del Brahman, consapevoli dell’assenza di distinzione dal Si-
gnore, e “in Me” stesso, nel supremo Signore “rifugiati”, vale
a dire stabilmente fondati nella conoscenza assoluta, “molti”,
numerosi, “purificati dal fuoco della conoscenza” – e la stes-
sa conoscenza concernente il supremo åtman è il fuoco (ta-
pas): purificati per mezzo di quello, attraverso il tapas della
conoscenza – ossia essendo giunti a una elevatissima purez-
za, “hanno raggiunto il mio [stesso] Essere”, lo stato del Si -
gnore (Brahman), cioè hanno conseguito la liberazione.
Gli altri sono fondati bensì nella conoscenza, ma senza
che vi sia [in loro] un riferimento al [suo] fuoco; questa ca-
ratteristica è espressa con la specificazione: “...dal fuoco
della conoscenza” 4.
Obiezione: Allora in Te albergano benevolenza e ostilità,
dato che concedi la [realizzazione della] identità con l’åtman
soltanto a qualcuno e non a tutti.
Risposta: Si risponde:
4.11 Quarto Adhyåya 187

4.11. Come essi procedono verso di Me, così stesso Io li accol-


go: in ogni caso, o Pårtha gli uomini seguono la mia via.

“Come”, qualunque sia il modo attraverso il quale, qualun-


que sia il proposito con il quale, qualunque sia il frutto ricer-
cando il quale “essi procedono verso di Me, così stesso Io li
accolgo”, cioè li favorisco concedendo quel tale frutto. Da parte
loro non vi è [in tutti] l’intensa aspirazione alla liberazione:
infatti la ricerca di un frutto [di ordine contingente] (phalå-
rthitva) e l’intensa aspirazione alla liberazione (mumuk≤utva)
non possono coesistere simultaneamente in un solo e medesi-
mo [individuo]. Quindi, quelli che ricercano un frutto [di or-
dine contingente li favorisco] concedendo loro il frutto [am-
bìto]; quelli, già definiti come ritualisti, che tuttavia non ri-
cercano un frutto [di ordine contingente ma] aspirano alla
[acquisizione della conoscenza che li porterà alla] liberazione,
[li favorisco] concedendo loro la conoscenza; quelli che sono
conoscitori, completi rinunciatari e aspirano intensamente
alla liberazione [li favorisco] concedendo loro la liberazione;
ugualmente quelli che sono preda di sofferenza [li favorisco]
rimuovendo le [cause delle] loro sofferenze. Dunque, come
essi vengono, così stesso vado a loro incontro. Tale è il signi-
ficato. Giammai favorisco alcuno sotto l’effetto di benevolen-
za od ostilità e neppure soggiacendo alla illusione.
“...in ogni caso”, in qualsiasi modalità [lo facciano], “o Pår-
tha, gli uomini...” – qui sono detti uomini (manu≤ya) coloro i
quali profondono un intenso impegno nel compimento di qual-
siasi attività [sacrale] per la quale posseggono la qualificazio-
ne e il cui frutto intendono ottenere – “...seguono la mia via”,
il sentiero del Signore che dimora in qualsiasi condizione e [si
manifesta] anche in tutte le forme.
Obiezione: Se, dato che Tu, ÙŸvara, non possiedi difetti co-
me la passione-attaccamento e gli altri, in Te vi sono [sempre]
188 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.11

sia una compassione identica verso tutte le creature viventi


che la capacità di concedere qualsiasi frutto, perché non cer-
cano, tutti [gli esseri], di venire solo verso di Te, ardentemen-
te protesi verso la liberazione e con la stessa consapevolezza
che ‘Våsudeva è tutto’?
Risposta: A tale riguardo, ascolta qual è la causa:

4.12. Quelli che desiderano la [sola] realizzazione in rappor-


to alle azioni, sacrificano qui ai deva, perché subito nel mondo
umano si compie la realizzazione generata dall’azione.

“Coloro che desiderano”, che bramano “la [sola] realizza-


zione in rapporto alle azioni”, che si augurano il conseguimen-
to di quel frutto, “sacrificano qui”, in questo mondo, “ai deva...”
quali Indra, Agni e gli altri, come si apprende dalla Âruti: «Dun-
que, colui che, rendendo omaggio a un’altra divinità, pensi: ‘al-
tro è Quello e altro sono io’, costui non conosce davvero. Egli è
piuttosto simile a un animale per gli Dei» (Bÿ. 1.4.10); “...perché
subito”, per il motivo che, in verità, assai presto, “nel mondo u-
mano” – invero, la validità delle Scritture vige [solo] nel mon-
do degli uomini – per coloro che, desiderando il frutto, offrono
sacrifici a tali divinità [considerandole come] distinte [da loro
stessi], per costoro “subito si compie la realizzazione generata
dall’azione”, derivante dall’agire, [cioè l’ottenimento] del frut-
to delle azioni compiute in osservanza alle ingiunzioni relative
agli ordini sociali, agli stadi di vita, ecc.
Specificando: “perché subito nel mondo umano...”, Bhaga-
vat mostra che l’ottenimento del frutto dell’azione si ha an-
che negli altri [mondi, ma] le azioni [vengono ingiunte] in re-
lazione agli ordini sociali, agli stadi di vita, ecc. [soltanto] nel-
l’ambito del mondo umano: questa è la distinzione5.
Obiezione: Su quale causa si fonda la legge in base a cui
la qualificazione all’agire in relazione a ordini sociali, stadi
4.13 Quarto Adhyåya 189

di vita, ecc. vige soltanto nel mondo umano e non negli altri
mondi?
Oppure: è stato detto che, essendo contraddistinti da una
ripartizione in ordini sociali, stadi di vita, ecc., «...in ogni
caso... gli uomini seguono la mia via» (Bha. Gı. 4.11); dunque,
per quale ragione dovrebbero seguire necessariamente solo la
tua [via] e non [quella] di un altro?
Risposta: Si dice:

4.13. Il quadruplice sistema degli ordini sociali è stato da


Me creato in base alle suddivisioni delle qualità [individuali] e
delle attività [per le quali ciascuno possiede qualificazione].
Quantunque autore di tale [atto], sappi che Io sono non-agente
e inalterabile.

“Il quadruplice sistema degli ordini sociali è stato da Me”,


da ÙŸvara, “creato”, manifestato, come si apprende dalla Âruti:
«La sua bocca divenne il bråhma√a...», ecc. (Í. Ve. 10.90.12,
Puru≤as¥kta), “in base alle suddivisioni delle qualità e delle at-
tività [...]”, cioè sia in funzione della distribuzione delle quali-
tà (gu√a) [individuali] che in funzione della ripartizione delle
azioni (karman) [compiute da ciascuno]; il quadruplice sistema
degli ordini sociali consiste proprio nei quattro ordini sociali
(var√a)6. Le qualità (gu√a) sono: il sattva, il rajas e il tamas.
Tra loro, per un bråhma√a, il quale è costituito essenzialmen-
te di sattva, cioè nel quale il sattva predomina, le attività [per
le quali è qualificato] sono: «La calma mentale, l’autodomi-
nio, l’austerità...», ecc. (Bha. Gı. 18.42). Per uno k≤atriya, nel
quale predomina il rajas pur subendo l’effetto del sattva, le at-
tività [per le quali è qualificato] comportano l’eroismo, l’ar-
dore guerriero e via di seguito 7. Per un vaiŸya, nel quale il ra-
jas predomina ma subendo stavolta l’effetto del tamas, le
azioni vertono sull’agricoltura, ecc.8 Per uno Ÿ¥dra, per il qua-
190 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.13

le è il tamas a prevalere ma sottoposto all’effetto del rajas,


l’attività [per la quale è qualificato] si riduce al solo prestare
[la propria] opera [ad altri]. In questo modo è stato da Me
creato, in funzione della ripartizione delle qualità e delle atti-
vità [specifiche conseguenti], il quadruplice sistema degli or-
dini sociali. Tale è il significato.
E questo quadruplice sistema di ordini sociali non vige
negli altri mondi [all’infuori della sfera umana-terrena]; da
ciò la specificazione [fatta nel precedente verso]: «...nel mon-
do umano (si compie la realizzazione generata dall’azione)»
(Bha. Gı. 4.12).
Obiezione: Ah! Allora, essendo l’artefice, il soggetto del-
l’azione consistente nella creazione del quadruplice sistema di
ordini sociali, ecc. sei vincolato al [suo] frutto; di conseguen-
za Tu non sei perennemente libero, né sei l’eterno Signore!
Risposta: Si dice: “Quantunque”, pur essendo “autore di
tale” atto dalla visuale relativa di måyå, “sappi che Io”, dalla
prospettiva della realtà assoluta, “sono non-agente e”, proprio
per questo, riconosci che sono anche “inalterabile”, non sog-
getto al divenire esistenziale.
Ma poiché, dalla prospettiva della realtà suprema, Io non
sono affatto l’autore di quelle azioni, delle quali tu pensi che
io sia l’agente,...

4.14. Le azioni non mi macchiano, in Me non vi è la brama


del frutto dell’agire. Colui, il quale così Mi riconosce, costui non
è reso schiavo dalle azioni.

“Le azioni non mi macchiano” attraverso l’assunzione di


[nuovi] corpi, ecc., perché [in Me] il senso dell’io è assente, e
“in Me non vi è la brama (del frutto dell’agire)”, da parte mia
non vi è alcuna sete nei riguardi dei frutti di tali azioni. Inve-
ce, per gli esseri trasmigranti, per i quali in relazione all’agire
4.15 Quarto Adhyåya 191

sussiste la convinzione: ‘io sono l’agente’, si ha la sete verso i


suoi frutti ed è pienamente ragionevole che le azioni [li] con-
taminino. Essendo [tutto] ciò (ossia la convinzione di essere il
soggetto agente e il desiderio per il frutto) assente [in Me], le
azioni non mi macchiano. “Colui”, pur [essendo] un altro [ri-
spetto a Me], “il quale così”, in questo modo, cioè come il pro-
prio åtman, “Mi riconosce” [avendo la consapevolezza]: ‘io
non sono l’agente, né vi è in me brama verso il frutto dell’agi-
re’, “costui non è reso schiavo dalle azioni”, vale a dire che
per lui le azioni non sono più [vincolanti né] produttrici del-
l’assunzione di [nuovi] corpi, ecc.
[Con la consapevolezza:] ‘io non sono l’agente, in me non
vi è brama verso il frutto dell’agire’:

4.15. Così conoscendo è stata compiuta l’azione anche da


parte degli antichi, protesi verso la liberazione. Perciò tu compi
pure l’azione come è stato fatto dagli antichi in passato.

“Così conoscendo è stata compiuta l’azione anche da parte


degli antichi”, di coloro che sono vissuti in antichità, “protesi
verso la liberazione”. “Perciò tu”, con tale [consapevolezza],
poiché [il giusto agire] è stato posto in atto anche da parte
degli antenati, tu “compi pure l’azione...”: non si deve restare
seduti e assorti nel silenzio (inattivi) e neppure attuare una
completa rinuncia nei confronti di ciò che deve essere fatto, e,
se tu non sei un conoscitore dell’åtman, allora [agirai] per
raggiungere l’autopurificazione, se [invece già] sei un cono-
scitore della realtà, [allora lo farai] a beneficio del mondo;
[dunque ti comporterai] “...come è stato fatto dagli antichi”
quali Janaka e gli altri “in passato”, e non [solo come] viene
fatto, viene effettuato nei tempi attuali.
Obiezione: Se è qui (nel mondo umano) che deve essere
compiuta l’azione, io agirò soltanto in virtù della Tua affer-
192 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.15

mazione. Perché, dunque, [ti sei espresso] con una specifica-


zione quale: “come è stato fatto dagli antichi in passato”?
Risposta: Perché vi è grande difficoltà nella [esatta com-
prensione della natura della] azione.
In che senso?

4.16. Che cos’è l’agire? Che cos’è il non-agire? Anche i saggi


al riguardo sono perplessi. Perciò ti svelerò [che cos’è] l’agire:
ciò comprendendo sarai libero dall’errore.

“Che cos’è l’agire?” e “Che cos’è il non-agire? Anche i sag-


gi”, le persone intelligenti, “al riguardo”, su questo argomen-
to, “sono perplessi”, soggiacciono all’incertezza. “Perciò”, per-
tanto, Io “ti svelerò”, a te [rivelerò che cos’è] “l’agire” e il non-
agire: “ciò comprendendo”, prendendo consapevolezza [della
vera natura] dell’azione, ecc., “sarai libero dall’errore”, cioè
dal [male che è il] divenire ciclico esistenziale 9.
Tuttavia non devi neppure pensare questo: ‘è ben noto al
mondo che ciò che si definisce azione comporta l’attività del
corpo, ecc., mentre ciò che si definisce non-azione, cioè la sua
non-attività, consiste nel restare seduti e in silenzio’.
Che cosa si deve [davvero] comprendere al riguardo? E
perché?

4.17. Perché [non solo vi] è da comprendere [la natura] della


[retta] azione, [ma vi è] da comprendere anche [la natura] del-
la non-retta azione e [vi è] altresì da comprendere [la natura]
della non-azione: insondabile è [infatti] la possibilità dell’azione.

“Perché”, per il motivo che [non solo] vi è “da compren-


dere [la natura] della [retta] azione”, [compiuta in quanto]
viene ingiunta dalle Scritture, [ma] in ugual modo vi è “da
comprendere anche [la natura] della non-retta azione”, quella
4.18 Quarto Adhyåya 193

proibita, “e”, similmente, vi è altresì “da comprendere [la na-


tura] della non-azione”, quale [quella corrispondente a] una
condizione di silenzio. Si deve dunque operare una integra-
zione anche nei riguardi delle tre [modalità dell’azione]10.
Perché “insondabile”, ardua da cogliere, difficile da com-
prendere così qual essa è realmente, “è [infatti]” la vera natu-
ra, “la possibilità dell’azione”, ecc. – intendendosi, con [l’e-
spressione] ‘dell’azione, ecc.’, [la possibilità complessiva] del-
l’azione, della non-azione e della non-retta azione.
Obiezione: Qual è, dunque, la vera natura dell’azione e del
resto che si deve comprendere e che hai promesso [di svelar-
mi allorché hai detto]: ‘[ti] esporrò...’? (Bha. Gı. 4.16).
Risposta: Si dice:

4.18. Colui, il quale nell’azione vede la non-azione, e il qua-


le nella non-azione [vede] l’azione, quegli è savio fra gli uomi-
ni; egli è uno che ha realizzato lo yoga, uno che ha compiuto
l’azione nella sua interezza.

[L’espressione:] “(Colui, il quale) nell’azione...” si riferisce


all’azione [quale attività effettiva], ossia a ciò che viene com-
piuto (kriyate), dunque all’atto di ordine puramente empirico
(vyåpåra). Poiché sia l’attività (pravÿtti) sia la non-attività (ni-
vÿtti) si riferiscono a un soggetto agente e, invero, qualsiasi
cognizione relativa ad azione, agente, ecc. è possibile solo su
una base di ignoranza (avidyå), cioè soltanto fin quando non
si è compresa la Realtà (vastu), [viene detto:] “Colui il quale
vede” – la forma: ‘vedesse’ (paŸyet, ottativo) [quale compare
nello Ÿloka] sta per: ‘vede’ (paŸyati, indicativo) – in quella,
“nell’azione la non-azione”, l’assenza di azione, “e il quale”
vede “nella non-azione...”, nell’assenza di azione, “...l’azione,
quegli è savio fra gli uomini; egli è uno che ha realizzato lo
yoga”, cioè uno yogin, e “uno che ha compiuto l’azione nella
194 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.18

sua interezza”, che ha espletato l’azione nella sua integralità.


In tal modo viene reso elogio a colui il quale riconosce recipro-
camente l’azione e la non-azione l’una nell’altra.
Obiezione: Quanto viene asserito, cioè: “colui il quale nel-
l’azione vede la non-azione”, come, altresì, “nella non-azione
l’azione...”, è contraddittorio: infatti l’azione non può essere
non-azione, né la non-azione azione. Se così fosse (se vedesse
l’una nell’altra), come potrebbe, il testimone (darŸin, dra≤†ÿ),
percepire tale contraddittorietà? 11
Risposta: No. In realtà alla visione empirica dell’uomo or-
dinario, soggetto alla ignoranza, la stessa non-azione appare
come se fosse azione e, similmente, la stessa azione come
non-azione. In merito a ciò, allo scopo di mostrare la [loro] na-
tura qual essa è, Bhagavat dice: “Colui il quale nell’azione
vede la non-azione...”, ecc. Pertanto non vi è contraddizione,
sia perché si ammette la natura di saggezza, ecc. [di colui che
è in grado di percepire così], sia perché, laddove viene detto
[ripetutamente] che «...si deve comprendere» (boddhavyam)
(Bha. Gı.: 4.17) [in merito all’azione e alla non-azione, Bhaga-
vat] intende prospettare [le loro nature] così come sono. È
stato anche detto: «...ciò comprendendo sarai libero dall’erro-
re» (Bha. Gı.: 4.16), e l’emancipazione dall’errore non può di-
scendere da una conoscenza erronea. Da ciò [si evince che]
sia l’azione sia la non-azione vengono percepite in maniera
fallace dagli esseri viventi, per cui l’affermazione che Bhaga-
vat ha pronunziato nei termini: “Colui il quale nell’azione
(vede) la non-azione...”, ecc., intende dissipare tale loro falsa
concezione.
Quanto a ciò, inoltre, la non-azione non può essere il conte-
nuto dell’azione (cioè essere letteralmente collocata in quella)
come un frutto di badara sta in un recipiente, né l’azione può
essere il contenuto della non-azione, in quanto la non-azione è
[assoluta] assenza (o non-esistenza, abhåva) di azione12. Quin-
4.18 Quarto Adhyåya 195

di azione e non-azione vengono interpretate dalla gente co-


mune in maniera del tutto errata, come l’acqua [apparente-
mente percepita] in un miraggio o l’argento nella madreperla.
Obiezione: Tuttavia l’azione è tale per tutti, e in nessun
modo potrà essere [percepita] diversamente.
Risposta: Non è [affatto] così, perché si constata che, quan-
do una barca è in movimento, a colui che si trova a bordo gli
alberi che stanno sulle sponde del fiume appaiono muoversi
in senso contrario mentre, d’altra parte, si percepisce anche
che oggetti distanti, lontani dall’occhio, sembrano immobili
nonostante che stiano in movimento. Così, anche in questo
caso, la percezione dell’azione nella non-azione e la percezio-
ne della non-azione nell’azione costituiscono una conoscenza
erronea, per rimuovere la quale viene detto: “Colui il quale
nell’azione (vede) la non-azione...”, ecc.
Sebbene a questo che è stato finora obiettato si sia data ri-
sposta più di una volta, coloro i quali sono stati a lungo sog-
getti a una convinzione fallace e continuano a essere confusi,
dimenticando la realtà pur avendola ascoltata ripetutamente,
sollevano molteplici obiezioni basate su false premesse; così
Bhagavat, mostrando quanto sia difficile comprendere la real-
tà, risponde successivamente a ciascuna di loro. Pertanto l’as-
senza di azione nell’åtman, evidenziata dalla Âruti, dalla Smÿti
e dalla ragione, quale è stata già espressa in passi come: «Que-
sto [åtman] è non-manifesto, questo è impensabile...» (Bha.
Gı.: 2.25), «Non nasce né mai muore» (Bha. Gı.: 2.20), verrà
ancora ribadita.
Che l’erronea concezione, quale quella che attribuisce l’a-
zione all’åtman, nel quale vi è totale assenza di attività, sia
profondamente radicata [nell’uomo ordinario] si desume an-
che da quanto viene affermato [in uno Ÿloka precedente]:
«Che cos’è l’agire? Che cos’è il non-agire? Anche i saggi al
riguardo sono perplessi» (Bha. Gı.: 4.16).
196 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.18

L’azione compete al corpo fisico (deha), ecc. ma, sovrap-


ponendola all’åtman, gli esseri ordinari pensano: ‘io sono
l’agente, questa azione mi appartiene, io godrò il frutto di
questa azione’; in maniera simile, [pensando:] ‘io non faccio
nulla, per cui, restando in quiete, gusto la felicità’, cioè so-
vrapponendo all’åtman la cessazione dell’attività, che compe-
te al corpo e ai sensi, e la felicità determinata da tale [cessa-
zione, essi pensano]: ‘io resterò nel silenzio; grazie a ciò mi
affrancherò da qualsiasi sforzo e sarò libero dall’azione e feli-
ce’. A tale riguardo, onde rimuovere questa errata concezione
umana, Bhagavat dice: “Colui il quale nell’azione (vede) la
non-azione...”, ecc.
Ora l’azione, che compete al corpo e ai sensi, pur conti-
nuando a essere tale, cioè attività, viene da tutti attribuita al-
l’åtman, il quale è esente da attività e privo di cambiamento,
tanto che persino il sapiente pensa: ‘sono io che agisco’.
Quindi, “colui il quale nell’azione”, che da chiunque è [er-
roneamente] considerata appartenere intrinsecamente all’å-
tman e che appare come il movimento in senso contrario de-
gli alberi che si trovano lungo le sponde del fiume [a colui che
è sulla barca], “vede la non-azione”, cioè l’assenza di azione
qual essa è, come la [reale] assenza di movimento negli alberi,
“e” colui che vede “nella non-azione”, nel ritiro dall’attività di
corpo e sensi che viene sovrapposto all’åtman al pari dell’a-
zione e che, essendone la causa, produce da parte del senso
dell’io l’affermazione: ‘restando inattivo in silenziosa quiete,
sarò felice’, dunque colui che in tale non-azione vede “l’azio-
ne”, e quindi colui il quale così conosce la distinzione tra azione
e non-azione, “quegli è savio fra gli uomini”, è un conoscitore,
“egli è uno che ha realizzato lo yoga”, quindi uno yogin, “uno
che ha compiuto l’azione nella sua interezza”; vale a dire che
egli, liberato dall’errore, diviene uno che ha compiuto tutto
ciò che era da compiere.
Alcuni 13 spiegano diversamente questo Ÿloka.
4.18 Quarto Adhyåya 197

In che modo?
Poiché i riti perpetui che vengono celebrati in ossequio a
ÙŸvara sicuramente non producono alcun frutto [visibile, cioè
fruibile in questa esistenza], essi vengono comunemente defi-
niti in senso figurato come non-azioni; d’altra parte, il loro
mancato compimento, che è non-azione, comportando come
frutto l’opposto errore (pratyavåya), viene comunemente de-
finito in senso figurato anche come azione. A tale riguardo,
colui il quale, a motivo dell’assenza di frutto [visibile], vede
nel rito perpetuo la non-azione – proprio come una mucca,
più precisamente una mucca da latte, non viene più conside-
rata mucca [da latte] qualora non produca più quel frutto de-
finito latte – e, nello stesso modo, colui il quale invece nella
non-azione, cioè nel mancato compimento del [rito] perpetuo,
vede l’azione, in quanto apporta il frutto consistente nell’op-
posto errore che si manifesta come il mondo infernale, ecc.
[quegli è savio fra gli uomini, ecc.]14.
Questa spiegazione non è plausibile: dato che non si può
logicamente ammettere che dalla conoscenza di ciò [ossia
dell’assenza di frutto visibile per i riti perpetui e dell’incor-
rere nell’opposto errore per la loro mancata celebrazione]
possa discendere la liberazione dall’errore, [tale interpreta-
zione] la demolisce l’affermazione che ha [precedentemente]
proferito Bhagavat: «...ciò comprendendo sarai libero dal-
l’errore» (Bha. Gı.: 4.16).
In che senso?
Si ammetta pure che ciò che si definisce “affrancamento
dall’errore” (aŸubhånmok≤a√am) deriva dal compimento dei
[riti] perpetui, ma non dalla conoscenza dell’assenza [attuale]
del loro frutto. Infatti [nella Âruti] non si insegna che la libe-
razione dall’errore costituisce il risultato della conoscenza
dell’assenza di frutto [visibile] per i [riti] perpetui o [quello]
della conoscenza dei riti perpetui; né [si può intendere] che
qui lo abbia espresso Bhagavat stesso15. Con ciò si è data ri-
198 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.18

sposta alla concezione dell’azione nella non-azione [quale è


formulata dai ritualisti].
In effetti qui non viene [affatto] indicato che si deve assu-
mere la [loro] concezione, quella secondo cui nella non-azione
vi è [realmente] l’azione, ma solo che il [rito] perpetuo deve
essere compiuto [in ottemperanza alle ingiunzioni delle Scrit-
ture]. Inoltre, nessun frutto potrebbe mai aversi dalla cogni-
zione che il mancato compimento del [rito] perpetuo arreca
un opposto errore, né il mancato compimento del [rito] per-
petuo viene indicato come qualcosa da conoscere [per liberar-
si dall’errore], né, infine, si può a ragione ammettere che da
una falsa conoscenza come quella inerente all’azione e alla
non-azione [come sono state descritte per ultimo] possa di-
scendere come frutto la liberazione dall’errore, che a sua vol-
ta determina il conseguimento della saggezza, la realizzazione
dello yoga e la condizione di totale compiutezza nell’azione,
ecc., né [si può giustificarne] un elogio [in base a questi risul-
tati]. In effetti, la falsa conoscenza ha essa stessa direttamente
natura di errore: come potrebbe mai produrre la nostra libera-
zione dall’errore? Invero l’oscurità non può essere colei che
disperde la tenebra.
Obiezione: Comunque, né quella che è la concezione della
non-azione nell’azione, né quella che è la concezione del-
l’azione nella non-azione costituiscono una falsa conoscenza.
Che cosa sono, allora?
[Sono] forse una definizione in senso figurato dovuta alla
presenza e all’assenza di frutto?
Risposta: No, perché non si apprende la possibilità di trar-
re vantaggio da una siffatta definizione in senso figurato, per
quanto dovuta alla conoscenza [della natura] di azione e non-
azione, né si può scorgere una qualsiasi differenza [di utilità]
nell’abbandonare quanto è trattato nella Âruti per introdurre
un ulteriore concetto che, per la Âruti, sarebbe nuovo. Vice-
4.18 Quarto Adhyåya 199

versa, il fatto che i riti perpetui non producono frutto [visibi-


le] e che il loro mancato compimento cagiona la caduta agli
inferi può venire dichiarato in maniera ancor più diretta. In
tal caso, quale potrebbe essere lo scopo di un’affermazione
ambigua e dall’aspetto così sconcertante come: “colui il qua-
le... nell’azione vede la non-azione”?
A questo riguardo, spiegando in tal modo si dovrebbe im-
maginare che l’affermazione che ha espresso Bhagavat intenda
confondere tutti; tuttavia non sarebbe affatto logico sostenere
che l’argomento [concernente i riti perpetui e i loro frutti, ecc.]
debba essere occultato attraverso un linguaggio simbolico e
nemmeno che possa essere reso facilmente comprensibile
qualora espresso ripetutamente con altre parole 16. Il medesi-
mo soggetto viene esposto ancora più chiaramente nel passo:
«È la sola azione quella per la quale tu possiedi qualificazio-
ne, e non mai per i [suoi] frutti...» (Bha. Gı.: 2.47), per cui non
deve essere presentato di nuovo. Inoltre, ovunque si afferma
che si deve conoscere, e quindi porre in atto, [solo] ciò che
viene raccomandato, mentre non vi è alcuna necessità di
comprendere ciò che è privo di utilità; né la falsa conoscenza
è ciò che deve essere conosciuto, e nemmeno [si deve cono-
scere] l’apparenza del suo oggetto (in questo caso l’azione,
che, appunto, è apparente), che si conforma alla sua natura
[duale, anch’essa apparente]; infine, dal mancato compimen-
to dei [riti] perpetui, che è una non-esistenza, non potrebbe
mai sorgere nemmeno [quello che è l’effetto di] un opposto
errore [con le sue conseguenze concrete], che è una entità
esistente, per via di un’asserzione come: «Del non-essere non
vi è venuta all’esistenza...» (Bha. Gı.: 2.16) [anche] perché,
come mostrato nel passo: «...in che modo l’essere trarrebbe
origine dal non-essere?» (Chå.: 6.2.2), si nega recisamente che
l’essere possa generarsi dal non-essere17.
Qualora l’interlocutore pronunciasse un’affermazione se-
condo cui l’essere (sat, il reale) può provenire dal non-essere
200 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.18

(asat, il non-reale), ciò equivarrebbe a sostenere sia che lo


stesso non-essere diviene essere, sia che l’essere diviene non-
essere, e ciò non è logico, perché contrasta con qualsiasi evi-
denza conoscitiva.
Inoltre le Scritture non potrebbero ingiungere un’azione
priva di frutto, sia perché [tale azione] possederebbe di per sé
una natura penosa, sia perché non è ragionevole supporre che
ci si possa deliberatamente impegnare, dopo averlo vagliato,
in qualcosa che produce sofferenza.
Poiché si ammette che, quando si verifica il mancato com-
pimento di tali [riti perpetui], si determina la caduta agli inferi,
allora si deve altresì immaginare che le Scritture sono insen-
sate in quanto non recano un giovamento, dato che in en-
trambi i modi, cioè sia compiendo che non compiendo [i riti
ingiunti], si incorrerebbe comunque nel male. Infine, colui il
quale, pur dopo aver ammesso che il [rito] perpetuo è privo
di frutto, sostenesse che esso conduce a quel risultato che è la
liberazione, esprimerebbe una tesi autocontraddittoria.
Perciò lo Ÿloka: “Colui il quale... nell’azione vede la non-
azione...”, ecc. è suscettibile soltanto di una interpretazione,
quella conforme alla Âruti [e in rapporto all’apparenza del-
l’una nell’altra], e proprio in tal modo noi lo abbiamo spiega-
to18.
Questa stessa che è la realizzazione della non-azione nel-
l’azione, ecc. [e viceversa], viene ora fatta oggetto di elogio:

4.19. Colui del quale tutte le opere intraprese sono esenti dallo
stimolo del desiderio, le cui azioni sono consumate dal fuoco del-
la conoscenza, i saggi lo chiamano sapiente.

“Colui”, il conoscitore così come è stato descritto, “del qua-


le tutte le opere intraprese”, cioè le azioni, allorché vengono
intraprese, ovvero [quando] vengono effettivamente compiu-
te, “sono esenti dallo stimolo del desiderio” ed esenti altresì
4.19 Quarto Adhyåya 201

dalle proiezioni (saækalpa) che costituiscono la causa di tale


[desiderio], e che pertanto vengono effettuate unicamente
[come doveri] in quanto del tutto prive di una finalità contin-
gente – se egli è impegnato nell’attività [agisce] a beneficio
del mondo, se si è ritirato dall’attività, con il solo scopo della
sopravvivenza – colui “le cui azioni sono consumate dal fuoco
della conoscenza...” – la conoscenza è la percezione (darŸana)
della non-azione, ecc. nell’azione, ecc. [e viceversa] – quegli,
“le cui azioni”, caratterizzate dall’essere sia pure che impure
(rette e non-rette), “sono consumate dal fuoco della conoscen-
za” (Cfr. Bha. Gı. 4.10), da quello che è il fuoco divino, “i sag-
gi”, i conoscitori del Brahman “lo chiamano sapiente” in rela-
zione alla realtà suprema.
Invero, colui il quale ha compreso la non-azione, ecc. [nel-
l’azione e viceversa], proprio in virtù della realizzazione della
non-azione, ecc. [nell’azione, ecc.], è libero dall’agire (ni≤ka-
rman), è un completo rinunciatario e, trovandosi ad agire al
solo scopo del mantenersi in vita, non si impegna nell’attività
[ordinaria e finalizzata] nonostante che vi sia stato impegna-
to prima della discriminazione [della vera natura dell’azione,
ecc.]. In effetti, colui il quale, essendo già occupato in un’atti-
vità pregressa, abbia ottenuto in precedenza l’autentica rea-
lizzazione dell’åtman, questi, non scorgendo [più alcuna] uti-
lità nell’agire, certamente abbandona del tutto l’azione unita-
mente ai suoi mezzi.
Ma quegli, per il quale per qualche ragione persiste l’im-
possibilità del totale abbandono dell’azione, può, privo di at-
taccamento all’azione e al suo frutto, impegnarsi ancora nel-
l’attività come prima, [ma adesso soltanto] a beneficio del
mondo e non per una propria finalità; [in effetti costui] non
compie alcuna azione: tale [sua] azione risulta affatto [equi-
valente a] una non-azione, essendo, l’azione svolta da costui,
consumata dal fuoco della conoscenza. Con l’intento di pale-
sare questo significato, [Bhagavat] dice:
202 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.20

4.20. Avendo abbandonato l’attaccamento ai frutti dell’azio-


ne, sempre appagato, senza ricorrere ad alcun supporto, sebbene
[appaia] impegnato nell’attività, egli non produce più alcun
agire.

“Avendo abbandonato” l’immedesimazione nelle attività e


[quindi] “l’attaccamento ai frutti dell’azione” per mezzo della
conoscenza quale è stata descritta, “sempre appagato”, vale a
dire [sempre] privo di desiderio verso gli oggetti, “senza ri-
correre ad alcun supporto...”, cioè privo di [qualsiasi] soste-
gno – il ‘ricorso a un supporto’ (åŸraya) definisce ciò (come il
rito, ecc.) appoggiatisi al quale si cerca di realizzare uno sco-
po individuale (come la prosperità in questa esistenza o in
una condizione futura), vale a dire: privo del supporto che co-
stituisce un mezzo per [ottenere] il frutto desiderato, sia visi-
bile che invisibile; in realtà l’azione, allorché viene compiuta
da parte del conoscitore, è proprio una non-azione, avendo
egli realizzato la consapevolezza che l’åtman è privo di attivi-
tà trasformante.
Dunque, quegli che, essendo di tal natura, ha compreso
che l’azione, in quanto priva di [qualsiasi] utilità, deve essere
senz’altro abbandonata completamente insieme con il suo
mezzo, “...sebbene”, trovandosi nella impossibilità di recedere
[totalmente] da essa, “[appaia] impegnato nell’attività” come
prima con il proposito di recare beneficio al mondo o per evi-
tare il biasimo dei devoti, tuttavia “egli non produce più alcun
agire” perché possiede la consapevolezza dell’åtman in quan-
to privo di qualsiasi attività-cambiamento.
Infine, colui, opposto a quello prima descritto, per il quale
la realizzazione dell’åtman si è compiuta ancor prima di impe-
gnarsi nell’attività, per cui dimora nel Brahman interno a tutto
cioè nell’intimo åtman esente da ogni attività e mutamento,
egli, non percependo, grazie all’essere immune da [ogni] inte-
resse verso l’oggetto di desiderio sia visibile che invisibile,
4.21 Quarto Adhyåya 203

[alcun] vantaggio nell’azione finalizzata al [conseguimento di


un frutto] visibile e invisibile, avendo rinunciato completamente
all’azione e al mezzo a essa inerente, rimanendo attivo unica-
mente per il sostentamento del corpo fisico ed essendo un asce-
ta stabilmente fondato nella conoscenza, viene liberato.
Per mostrare questo significato, [Bhagavat] dice:

4.21. Colui il quale è privo di aspettative, il quale ha la mente


e il sé [corporeo] sotto controllo, dal quale ogni bramosia è stata
abbandonata, compiendo unicamente l’azione correlata al cor-
po fisico, non si procaccia danno.

“Colui il quale è privo di aspettative” – è privo di aspetta-


tive (niråŸir) quegli dal quale le aspettative si sono ritirate –
“il quale ha la mente e il sé [corporeo] sotto controllo” – ha la
mente e il sé [corporeo] sotto controllo (yatacittåtmå) quegli
dal quale entrambi, cioè sia la mente (citta), ossia l’organo in-
terno, che il sé [corporeo], ossia l’aggregato esterno costituito
di effetti (sensi) e strumenti (organi), sono stati posti sotto
controllo, completamente dominati – “dal quale ogni bramo-
sia è stata abbandonata” – ha abbandonato ogni bramosia
(tyaktasarvaparigraha) quegli dal quale qualsiasi [forma di]
appropriazione-possessività è stata deposta; [questi] “com-
piendo unicamente l’azione correlata al corpo fisico”, cioè
esclusivamente allo scopo della sussistenza del corpo, e affat-
to esente anche da [qualsiasi forma di] immedesimazione con
ciò (corpo, azione, mezzi ed effetti), “non si procaccia danno”,
non commette errore né [acquisisce] dharma [anch’esso] di
natura indesiderabile. [Infatti] per colui che aspira intensa-
mente alla liberazione, anche il dharma rappresenta propria-
mente un danno, in quanto determina un condizionamento.
Perciò diviene libero da entrambi (merito e demerito), vale a
dire che si libera dal divenire ciclico [che è costituito di dha-
rma e adharma]19.
204 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.21

Obiezione: Qual è [il significato della frase]: “(compiendo)


unicamente l’azione correlata al corpo fisico”? Con [l’espres-
sione]: ‘azione correlata al corpo fisico’ (Ÿårıraæ karma) si
deve intendere l’azione che viene effettuata [unicamente] at-
traverso il corpo fisico, oppure ‘l’azione correlata al corpo fisi-
co’ è quella il cui scopo è il solo mantenimento [in vita] del
corpo fisico?
Risposta: Che cosa ne conseguirebbe, se la ‘azione correlata
al corpo fisico’ fosse quella effettuata attraverso il corpo fisico
oppure se la [azione] ‘correlata al corpo fisico’ avesse lo scopo
che è il solo mantenimento [in vita] del corpo fisico?
Si risponde [quanto segue]. Per colui che sostenesse [que-
sta tesi]: ‘qualora la [specificazione] “correlata al corpo fisico”
venga interpretata come l’azione che viene effettuata [unica-
mente] con il corpo fisico, allora anche compiendo tramite il
corpo fisico un’azione proibita [dalle Scritture] e finalizzata al
[conseguimento di un frutto] visibile o invisibile non ci si
procaccia un danno’, si avrebbe il difetto che l’asserzione vie-
ne contraddetta [dalle Scritture]. Per un altro, poi, che soste-
nesse: ‘anche compiendo con il corpo fisico un’azione confor-
me alle Scritture e finalizzata al [conseguimento di un frutto]
visibile o invisibile non ci si procaccia danno’, si avrebbe il di-
fetto di una negazione nei confronti di ciò che non è ammes-
so [nemmeno da parte dell’avversario]. Dalla specificazione:
“compiendo unicamente l’azione correlata al corpo fisico”
(Ÿårıraæ kevalaæ karma kurvan) e dall’impiego del termine
“unicamente” (kevalam), risulterebbe [come] asserito in ma-
niera esplicita che, ‘compiendo l’azione che è oggetto di in-
giunzione o di proibizione [da parte delle Scritture], e in par-
ticolare effettuandola sia tramite la parola che con il pensiero,
ci si procaccia [comunque] un danno, definibile [rispettiva-
mente] come merito e demerito’: ma anche in tal caso, l’affer-
mazione dell’incorrere nel danno, [affermazione espressa] in
4.21 Quarto Adhyåya 205

ossequio alla tesi della esecuzione di quanto è ingiunto [dalle


Scritture] con la parola o con la mente, risulterebbe demolita
[dalle Scritture stesse]. D’altra parte, anche nel caso della tesi
relativa alla effettuazione di quanto è proibito, [l’affermazio-
ne del procacciarsi il danno] si rivelerebbe inutile, trattandosi
della mera ripetizione di un significato già acquisito.
Viceversa, qualora “l’azione correlata al corpo fisico” ve-
nisse interpretata in quanto [attività] finalizzata al solo man-
tenimento del corpo fisico, allora, non compiendo, tramite
quegli stessi [strumenti quali il] corpo, ecc., una [qualsiasi]
altra azione finalizzata al [conseguimento di un frutto] visibi-
le o invisibile, che sia intelligibile tanto come ingiunta quanto
come proibita [dalle Scritture] ed effettuabile attraverso il
corpo, la parola o la mente, ma – come [si desume] dall’im-
piego del termine “esclusivamente” – [effettuando esclusiva-
mente] quella [azione] finalizzata al solo mantenimento [in
vita] del corpo fisico ed esente dalla immedesimazione [con
tali veicoli esprimibile dalla consapevolezza]: ‘sono io che
agisco’, dunque, pur “compiendo (unicamente l’azione corre-
lata al corpo fisico)” e risultando con ciò meramente attivo
nel corpo, ecc. alla vista del mondo, “non si procaccia danno”.
Poiché per un siffatto [conoscitore] è impossibile procac-
ciarsi il danno [cagionato da ciò che viene] definito dal ter-
mine ‘errore’ (påpa), [ne consegue che egli] non ottiene più
[di tornare nel divenire ciclico esistenziale che è] il saæsåra
dal momento che ogni [sua] azione è stata consumata dal
fuoco della conoscenza, per cui si libera totalmente senza
impedimento [alcuno]. Questa [appena enunciata] costitui-
sce soltanto una conferma del frutto dell’autentica realizza-
zione [della non-azione nell’azione e viceversa] quale è stata
precedentemente esposta [in 4.18]. L’interpretazione in tal
senso di questo significato [della frase]: “(...compiendo) uni-
camente l’azione correlata al corpo fisico”, risulta con ciò
ineccepibile.
206 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.21

Poiché, per l’asceta che ha abbandonato ogni bramosia, la


possessività diventa impossibile [anche] in relazione al cibo,
ecc. necessario per il mantenimento del corpo, una volta am-
messo che, per sostentare il veicolo fisico, si debba praticare
l’elemosina, ecc., [Bhagavat], nell’intento di evidenziare i
[suddetti] mezzi per ottenere il cibo, ecc. necessari all’asceta
per il sostentamento del corpo, quali sono consentiti [dalle
Scritture] in base all’asserzione: «Ciò che non è stato mendi-
cato, che non è stato appositamente cercato, ciò che si è otte-
nuto occasionalmente...» (Bau. Dha. S¥. 21.8.12), dice:

4.22. Appagato da ciò che ottiene in modo occasionale, por-


tatosi al di là delle paia [di opposti], senza invidia ed equanime
nel successo e nell’insuccesso, quantunque agisca non rimane
vincolato [ai frutti dell’agire].

“Appagato da ciò che ottiene in modo occasionale...”: ciò


che viene ottenuto in modo occasionale rappresenta un’ac-
quisizione esente da richiesta, dunque: essendo appagato da
ciò, con la certezza che [quanto riceve gli] sarà sufficiente;
“portatosi al di là delle paia [di opposti]”: si dice portatosi al
di là della paia [di opposti] (dvandvåtıta) colui la cui mente
non si abbatte nonostante che sia aggredita dalle paia [di op-
posti] quali il caldo e il freddo, ecc.; “senza invidia”, avendo
disperso l’invidia e privo di sentimenti di ostilità, ma “equani-
me”, [sempre] uguale “nel successo e nell’insuccesso” in rela-
zione a quanto ottiene occasionalmente; orbene, colui che è
un siffatto asceta, equanime nell’ottenimento o nella privazio-
ne del cibo, ecc., ossia di ciò che è necessario per il sostenta-
mento del corpo, esente da entusiasmo e abbattimento, e spet-
tatore dell’azione nella non-azione, ecc. [e viceversa], essendo
stabilmente fondato nella consapevolezza dell’åtman così
qual è, pur impegnandosi con il corpo, ecc. in un’azione come
quella consistente nel peregrinare mendicando, ecc. al solo
4.22 Quarto Adhyåya 207

scopo del sostentamento del corpo e sempre così consapevo-


le: «...[in realtà io] non faccio proprio nulla...» (Bha. Gı. 5.8),
«...sono i gu√a che agiscono sui gu√a...» (Bha. Gı. 3.28), realiz-
zata l’assenza di una natura agente nell’åtman, in realtà non
compie nessuna azione, nemmeno quella di peregrinare men-
dicando, ecc. Tuttavia quando un’azione come il peregrinare
mendicando, ecc. viene percepita attraverso la comune visio-
ne del mondo empirico ordinario, ovvero quando la natura
agente viene sovrapposta [ossia erroneamente attribuita a
lui] dagli esseri ordinari, [allora costui] è [apparentemente
percepito come se fosse] agente. Invece, nel suo proprio sen-
tire, originato da mezzi di conoscenza validi quali le Scritture,
egli è [sempre] assolutamente non-agente.
Così egli, “...quantunque agisca”, [ossia anche compiendo]
l’azione consistente nel peregrinare mendicando, ecc. al solo
scopo del sostentamento del corpo e assumendo una [appa-
rente] condizione di agente quale gli è attribuita dagli altri,
“non rimane vincolato [ai frutti dell’agire]” perché l’azione,
che è la causa della schiavitù, è stata consumata dal fuoco della
conoscenza unitamente alla sua causa. [Anche] questa è una
ripetizione di quanto espresso [in precedenza, 4.19-21].
A conclusione del verso [che comincia con le parole]:
«Avendo abbandonato l’attaccamento ai frutti dell’azione...»
(Bha. Gı. 4.20), [con la frase]: «...sebbene [appaia] impegnato
nell’attività – come in precedenza – egli non produce più al-
cun agire» (ib.) si è mostrato che [per il conoscitore], quando
egli svela la consapevolezza dell’åtman privo di attività tra-
sformante come il Brahman, sebbene abbia già intrapreso l’a-
zione, e realizza l’inesistenza di agente, azione e frutto in re-
lazione a quell’åtman, ma che, pur pronto ad abbandonare com-
pletamente l’agire, per qualche ragione non sia in grado di
[fare] ciò, vi è [comunque assoluta] assenza di azione.
[Ora], per colui stesso, per il quale è stata mostrata l’as-
senza di azione,...
208 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.23

4.23. Per quegli il cui attaccamento è risolto, per colui che è


liberato, per quegli la cui mente è saldamente fondata nella co-
noscenza e il cui operato è improntato al sacrificio, il karman si
dissolve integralmente.

“Per quegli il cui attaccamento è risolto”, la cui adesione


[all’azione, ecc.] si è totalmente estinta, “per colui che è libe-
rato”, per il quale è cessata la schiavitù data da [immedesima-
zione al soggetto cui ineriscono] merito e demerito, ecc., “per
quegli la cui mente è saldamente fondata nella conoscenza”
– quegli la cui mente è saldamente fondata nella conoscenza
(jñånåvasthitacetas) è colui la mente del quale è fermamente
stabilita soltanto nella conoscenza – “e il cui operato è impron-
tato al sacrificio”, la cui attività ha il senso di un compimen-
to sacrificale, “il karman si dissolve integralmente”; ‘integral-
mente’ [significa]: in quanto procede insieme con il suo intero
frutto [maturato e non]. Vale a dire che il karman si disperde
nella sua integralità.
Obiezione: Per quale ragione, ancora, l’azione che viene
[da lui] compiuta si dissolve integralmente senza produrre la
maturazione del suo proprio effetto?
Risposta: Si dice: perché...

4.24. Il Brahman è l’atto di offerta, il Brahman è l’oblazione;


nel fuoco sacrificale che è il Brahman, dal Brahman [stesso] è
versata. È il Brahman stesso che deve essere realizzato da colui
che è assorto nella contemplazione dell’opera del Brahman.

“Il Brahman è l’atto di offerta”. Il conoscitore del Bra-


hman riconosce che quel dispositivo [sacrificale], attraverso
cui l’oblazione viene offerta nel fuoco, è il Brahman stesso;
egli percepisce la sua non-esistenza separatamente dall’å-
tman, come vede l’inesistenza dell’argento nella madreperla.
4.24 Quarto Adhyåya 209

Perciò si afferma che il Brahman stesso è l’atto di offerta,


come ciò, che [in apparenza] è argento, non è che la stessa
madreperla. Il Brahman è l’atto di offerta: tale è la [sua ap-
parenza nella] forma incompleta. Ciò che nel piano empirico
viene considerato sotto la nozione dell’atto di offerta (arpa-
√a), per questo conoscitore del Brahman è il Brahman stesso.
Questo è il significato 20.
“...il Brahman è l’oblazione”: in maniera simile, ciò che
viene appreso tramite il concetto di oblazione (havis), per
costui è il Brahman stesso. Similmente, “nel fuoco sacrificale
che è il Brahman...” – [quella del fuoco] è la sua forma com-
pleta, per cui anche il fuoco (agni) è ancora il Brahman –
laddove “dal Brahman [stesso]”, cioè dall’agente [ossia dal
sacrificante] “è versata” [l’offerta]: vale a dire che l’agente
(cioè colui che celebra il sacrificio) è ancora il Brahman, os-
sia: quegli, dal quale [l’offerta sacrificale] è versata [nel fuo-
co, dunque colui dal quale] è compiuto l’atto oblatorio, è il
Brahman stesso.
“È” ancora “il Brahman stesso” quello “che deve essere
realizzato” come frutto “da colui che è assorto nella contem-
plazione dell’opera del Brahman”. L’opera del Brahman è
l’operato [considerato] in quanto è il Brahman stesso; que-
gli, la cui contemplazione (samådhi) si svolge in [relazione a]
quella, è “colui che è assorto nella contemplazione dell’opera
del Brahman”: da lui, assorto nella contemplazione dell’opera
del Brahman, il Brahman stesso deve essere realizzato.
Così, anche l’azione effettivamente compiuta da parte di
colui il quale agisce a beneficio del mondo, in realtà è una non-
azione, essendo stata risolta dalla [realizzazione della] consa-
pevolezza del Brahman [unico nell’azione, nell’agente, nel
mezzo e nel frutto]21.
Così essendo, la rappresentazione della conoscenza in
quanto avente natura di sacrificio è a ragione ancor più plau-
sibile, dal momento che intende rendere elogio della autentica
210 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.24

conoscenza che possiede colui il quale si è ritirato dall’azione


e ha operato la completa rinuncia verso tutte le [forme di] at-
tività: quello, che è l’atto di offerta insieme con gli altri [fatto-
ri che entrano] nel sacrificio, risulta perfettamente realizzato
come il suo proprio åtman, il quale è il Brahman stesso, [sol-
tanto] da parte di colui che ha realizzato la realtà suprema.
Altrimenti, qualora la totalità fosse [per tutti in maniera evi-
dente] il Brahman, risulterebbe inutile e privo di senso affer-
mare specificatamente la natura di Brahman proprio e unica-
mente per l’atto di offerta e gli altri [elementi di un sacrifi-
cio]. Perciò, per il conoscitore, il quale ha realizzato che que-
sta totalità non è che il Brahman stesso, non vi è [più] azio-
ne [nel senso ordinario del termine] ed è [per lui parimenti]
inesistente anche l’idea stessa dei fattori [che concorrono al-
l’atto sacrificale]: non è dato constatare, infatti, che l’azione,
definita come sacrificio, possa compiersi in assenza della co-
gnizione dei suoi fattori.
Si osserva, appunto, che davvero qualunque sia il rito sa-
crificale, per esempio quello dell’Agnihotra o altri, esso pre-
suppone non solo la cognizione dei suoi fattori, quali la speci-
fica divinità a cui rivolgere l’offerta, ecc., [cognizione] deri-
vante dalla testimonianza scritturale, ma anche la immedesi-
mazione con il soggetto agente e l’intenzionale assegnamento
sul risultato; ma non [che un qualsiasi atto rituale possa essere
compiuto] quando la cognizione della differenziazione con-
cernente azione, agente e frutto è stata risolta o in assenza
della immedesimazione con la funzione del soggetto agente e
dell’intenzionale fare assegnamento sul risultato. Invece que-
sta [azione compiuta dal conoscitore] è un’azione in cui la
nozione della differenziazione dell’azione [stessa] e dei suoi
fattori quali l’atto di offerta e gli altri è stata risolta nella [pu-
ra e indifferenziata] consapevolezza del Brahman. Quindi essa
è propriamente una non-azione e come tale è stata prospetta-
ta [nei passi]: «Colui, il quale nell’azione vede la non-azione...»
4.24 Quarto Adhyåya 211

(Bha. Gı. 4.18), «...sebbene [appaia] impegnato nell’attività,


egli non produce più alcun agire» (Bha. Gı. 4.20), «...sono i
gu√a che agiscono sui gu√a...» (Bha. Gı. 3.28), «Colui che si è
unificato, conoscitore della essenza [di tutto] deve pensare: [in
realtà io] non faccio proprio nulla» (Bha. Gı. 5.8), ecc.. Con il
presentare qui e là [l’azione] in questo modo, [Bhagavat] si
propone di risolvere la nozione della differenziazione in rela-
zione ad azione, agente e frutto.
Inoltre è assodato che [riti sacrificali come] l’Agnihotra e
altri, celebrati per soddisfare il proprio desiderio (kåmya),
cessano di essere tali in concomitanza con la venuta meno del
desiderio in [relazione all’oggetto per ottenere il quale] quegli
stessi [sacrifici] quali l’Agnihotra e gli altri [vengono compiu-
ti]. Similmente si constata che le azioni producono un risultato
diverso a seconda che vengano effettuate previa determinazio-
ne o senza proposito. Nello stesso modo, anche in questo caso
l’azione [operata da parte] del conoscitore, per il quale la no-
zione della differenziazione tra i fattori che concorrono all’at-
to di offerta, ecc., l’azione stessa e il frutto si è risolta nella
consapevolezza [unica e priva di dualità] del Brahman, sebbe-
ne appaia esternamente come una effettiva attività, si muta in
una non-azione; per questo è stato detto: «(...il karman) si dis-
solve integralmente» (Bha. Gı. 4.23).
Obiezione: a tale riguardo alcuni dicono: ciò che è il Bra-
hman è l’atto di offerta e le altre cose. È proprio il Brahman
quello stesso che, essendo realmente stabilito nell’åtman del-
l’agente sotto la quintuplice forma dell’atto di offerta e degli
altri [fattori sacrificali], compie l’azione. In tal caso, la nozio-
ne concernente [la differenziazione tra] l’atto di offerta e gli
altri fattori non si estingue. Ciò nondimeno, si insegna che l’i-
dea del Brahman deve essere [sovrapposta] sull’atto di offerta,
ecc. come l’idea di Vi≤√u al suo simulacro, ecc., o come l’idea
del Brahman al nome, ecc.22
212 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.24

Risposta: In verità [il senso del verso] potrebbe anche es-


sere [interpretato] così se questa parte [del Capitolo] non
avesse lo scopo di rendere elogio al sacrificio [inteso però]
in quanto conoscenza. Ma qui, [nel passo]: «Superiore a ogni
sacrificio materiale è il sacrificio della conoscenza...» (Bha.
Gı. 4.33), alludendo a diverse specifiche azioni con il termine
‘sacrificio’ (yajña) e all’autentica visione, espressa dalle pa-
role: ‘sacrificio della conoscenza’ (jñånayajña), [Bhagavat]
esalta la conoscenza (jñåna); in questo caso, l’asserzione: “Il
Brahman è l’atto di offerta...”, ecc. è appropriatamente intesa
a rendere la conoscenza sotto l’aspetto del sacrificio. Altri-
menti, dal momento che tutto è il Brahman, l’affermazione,
proferita specificatamente, secondo cui l’atto di offerta e gli
altri [fattori] hanno proprio la natura del Brahman, sarebbe
del tutto superflua.
Ma per coloro 23, i quali sostengono che l’immagine (la vi-
sione-consapevolezza) del Brahman deve essere proiettata
sull’atto di offerta e sugli altri [fattori] come l’immagine di
Vi≤√u sul simulacro e come [l’idea del Brahman] sul nome, ecc.
[nelle rispettive meditazioni formali], per costoro la cono-
scenza del Brahman (brahmavidyå) quale è stata qui enuncia-
ta, non costituirebbe ciò che si intende esporre, dal momento
che la conoscenza [così intesa] risulta già oggetto [della espo-
sizione] dell’atto di offerta, ecc. Inoltre, attraverso la cono-
scenza [considerata] quale rappresentazione di una immagi-
ne, non potrebbe mai ottenersi un frutto come la liberazione.
Oltre a ciò, [in questo verso] si afferma: “È il Brahman stesso
che deve essere realizzato...”, il che è opposto a [quanto essi
sostengono, ossia che]: ‘il frutto che è la liberazione si ottiene
prescindendo dall’autentica conoscenza’, ed è anche contrad-
dittorio in rapporto all’argomento trattato.
In questo contesto, l’oggetto della disamina è costituito
sin dall’inizio dall’autentica conoscenza, come [si evince dal
passo]: «Colui, il quale nell’azione vede la non-azione...» (Bha.
4.25 Quarto Adhyåya 213

Gı. 4.18), e [come si comprende] anche dalla conclusione [del-


la parte, nei passi]: «Superiore al sacrificio materiale è il sa-
crificio della conoscenza...» (Bha. Gı. 4.33), «...ottenuta la co-
noscenza, ben presto raggiunge la suprema pace» (Bha. Gı.
4.39) e altri. Così il capitolo si conclude proprio esprimendo un
elogio nei confronti dell’autentica conoscenza. Oltretutto, così
essendo, si rivelerebbe privo di plausibilità logica [sostenere]
che qui si afferma, inaspettatamente e senza che ciò costituisca
argomento di trattazione, che l’immagine del Brahman deve
essere [sovrapposta] sull’atto di offerta, ecc. come l’immagine
di Vi≤√u sul simulacro. Perciò questo Ÿloka va interpretato esat-
tamente secondo il significato che è stato [da noi] spiegato.
Adesso, dopo aver rappresentato la conoscenza sotto l’a-
spetto del sacrificio, vengono qui enumerati altri [tipi di] sa-
crifici [ancora] allo scopo di elogiare tale [conoscenza].

4.25. Alcuni altri yogin compartecipano di un sacrificio ri-


volto solo ai deva. Nel fuoco del Brahman altri offrono il sacri-
ficio (il proprio åtman) per mezzo dello stesso sacrificio (per
mezzo del proprio åtman).

“Alcuni altri yogin”, i ritualisti, “compartecipano di un sa-


crificio rivolto solo ai deva”. Il sacrificio rivolto solo ai deva
(daivo yajña) è quel sacrificio attraverso il quale i deva vengo-
no propiziati; vale a dire che [tali ritualisti] effettuano soltanto
tale [forma di] sacrificio. [Dicendo] “Nel fuoco del Brahman...”,
con il termine Brahman viene espresso ciò che è esente da tut-
te le proprietà [condizionanti] del divenire ciclico quali [la sog-
gezione a] fame e sete, ecc. ed è enunciato da espressioni quali:
«Il Brahman è verità, conoscenza, infinito» (Tai. 2.1.3), «(...par-
lami) del Brahman, quello che è diretto e immediato, colui il
quale è l’åtman interno a tutto» (Bÿ. 3.4.1), e dal quale è esclu-
sa qualsiasi qualificazione: «(Quello è l’åtman indicato come)
‘non è così, non è così’» (Bÿ. 3.9.26, 4.2.4, 4.4.22, 4.5.15).
214 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.25

[Si dice] ‘il fuoco del Brahman’ (brahmågni) con l’intento


di asserire la [sua] natura di ricettacolo per porre l’offerta;
pertanto, quello che è il Brahman, quello è anche il fuoco [sa-
crificale]. In esso, cioè “Nel fuoco del Brahman altri”, differenti
conoscitori del Brahman, “offrono il sacrificio...” – [qui] è l’å-
tman [individuato, il jıvåtman] che viene definito con il nome
‘sacrificio’ (yajña), dato che il termine ‘sacrificio’ ricorre tra i
[vari] nomi dell’åtman – cioè pongono quello, il sacrificio che
è l’åtman, il quale in realtà è lo stesso supremo Brahman
[quando viene erroneamente] associato alle sovrapposizioni
limitanti (upådhi) [proprie della individualità] come l’intellet-
to (buddhi) e le altre, per cui [in apparenza] è caratterizzato
dalle proprietà delle sovrapposizioni limitanti che gli sono
state sovrapposte e ha la natura di una offerta (åhuti), [nel
fuoco sacrificale che è il Brahman] “...per mezzo dello stesso
sacrificio” consistente, come si è detto, nell’åtman stesso 24.
Esso, l’åtman associato alle sovrapposizioni limitanti, del
quale vi è [da parte del conoscitore] la consapevolezza come
[avente] la stessa natura propria del supremo Brahman privo
di sovrapposizioni, lo rendono quale offerta in Quello (il Bra-
hman) i rinunciatari completi, stabilmente fondati nella co-
scienza della identità dell’åtman con il Brahman. Tale è il si-
gnificato.
Questo stesso sacrificio consistente nell’autentica cono-
scenza, quale viene elencato tra i [vari] atti sacrificali come il
sacrificio rivolto ai deva, ecc. a partire da: «Il Brahman è l’at-
to di offerta...» (Bha. Gı. 4.24), è menzionato nel verso: «Supe-
riore al sacrificio materiale è il sacrificio della conoscenza, o
Paraætapa», ecc. (Bha. Gı. 4.33) e nei seguenti allo scopo di
elogiare [la conoscenza stessa].

4.26. Altri sacrificano l’udito e gli altri sensi nei fuochi del
contenimento, altri sacrificano il suono e gli altri oggetti [sen-
soriali] nei fuochi dei sensi.
4.28 Quarto Adhyåya 215

“Altri” yogin “sacrificano l’udito e gli altri sensi nei fuochi


del contenimento”. L’espressione al plurale (i fuochi) è dovuta
al fatto che il contenimento (saæyama) si differenzia in rela-
zione a ciascun senso. I fuochi sono gli stessi contenimenti; in
loro [gli yogin] sacrificano [i sensi]; vale a dire che operano lo
stesso controllo dei sensi; “...altri sacrificano il suono e gli al-
tri oggetti [sensoriali] nei fuochi dei sensi”, cioè nei sensi, in
quanto i fuochi sono [per loro] i sensi stessi: essi pensano
che l’assorbimento, attraverso l’udito e gli altri [sensi], degli
oggetti non opposti [a ciascun singolo senso] è [come] una
oblazione25.
E inoltre:

4.27. Altri ancora sacrificano tutte le attività sensoriali e le


funzioni delle energie vitali nel fuoco dello yoga che è l’autodo-
minio, acceso dalla conoscenza.

“Altri ancora sacrificano tutte le attività sensoriali...” – le


attività sensoriali (indriyakarman) sono le [rispettive] attivi-
tà dei [singoli] sensi – “e” nello stesso modo “le funzioni del-
le energie vitali...”. L’energia vitale (prå√a) è il soffio vitale
individuale, le funzioni di tali [soffi vitali diversificati] con-
sistono nella contrazione, nella espansione, ecc.; quelle [atti-
vità sensoriali e funzioni praniche] essi pongono “nel fuoco
della conoscenza che è l’autodominio...” 26. L’autodominio (å-
tmasaæyama) è il controllo praticato su sé stessi, ed esso
stesso è il fuoco dello yoga (yogågni): in quello, “nel fuoco
dello yoga che è l’autodominio, acceso dalla conoscenza”, si-
mile a una lampada a olio, [costoro] sacrificano, attraverso
la conoscenza discriminante, la condizione di luminosità
[delle attività sensoriali e delle funzioni delle energie vitali
così purificate] nello stato raggiunto, vale a dire che [co-
storo ivi] fanno perfettamente riassorbire [tali attività e fun-
zioni].
216 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.28

4.28. [Vi sono] i sacrificatori tramite le [proprie] sostanze, i


sacrificatori attraverso le austerità, i sacrificatori attraverso lo
yoga e, similmente, altri, [come] i sacrificatori attraverso lo
studio e la conoscenza e gli asceti dai rigidi voti.

“[Vi sono] i sacrificatori tramite le [proprie] sostanze”: i


sacrificatori tramite le [proprie] sostanze sono coloro i quali,
con l’idea del sacrificio, compiono la donazione dei loro beni
nei luoghi sacri; “i sacrificatori attraverso le austerità”: sono
sacrificatori attraverso le austerità (tapoyajña) quelli, dediti
all’ascesi, per i quali il sacrificio è l’austerità (tapas); “i sacri-
ficatori attraverso lo yoga”: sono sacrificatori attraverso lo
yoga (yogayajña) quelli per i quali il sacrificio è lo yoga, con-
sistente nel prå√åyåma, nel pratyåhåra, ecc.27 “e, similmente,”
vi sono “altri, [come] i sacrificatori attraverso lo studio e la
conoscenza”: sono sacrificatori attraverso lo studio (svådhyå-
yajñånayajña) coloro per i quali il sacrificio è lo studio (svå-
dhyåya), consistente nella pratica della costante ripetizione
del Íg e degli altri [Veda] secondo i dettami [scritturali]; sono
sacrificatori attraverso la conoscenza (jñånayajña) coloro per
i quali il sacrificio è la conoscenza consistente nell’accerta-
mento del significato delle Scritture; “e gli asceti”, [cioè uomi-
ni] votati all’ascesi, “dai rigidi voti”: sono [detti] dai rigidi
voti (saæŸitavrata) coloro i cui voti (vrata) sono davvero rigo-
rosi, ristretti e aspri.
E, ancora:

4.29. [Alcuni] sacrificano la espirazione nella inspirazio -


ne, similmente, altri [sacrificano] la inspirazione nella espi-
razione; intenti a ridurre i flussi espiratorio e inspiratorio
sono quelli dediti sommamente al prå√åyåma.

“[Alcuni] sacrificano la espirazione nella inspirazione”, vale


a dire che pongono (risolvono) la funzione del [soffio uscente
4.30 Quarto Adhyåya 217

o ascendente chiamato] prå√a nella funzione dell’apåna [cioè


il soffio entrante o discendente]: in sostanza essi praticano il
prå√åyåma denominato p¥raka (di riempimento); “similmen-
te, altri” sacrificano “la inspirazione (apåna) nella espirazione
(prå√a)”, cioè praticano il prå√åyåma denominato recaka (di
svuotamento).
“...i flussi espiratorio e inspiratorio...”: il flusso (gati) del
prå√a (flusso espiratorio o ascendente) è la fuoriuscita del sof-
fio dal naso e dalla bocca; il flusso dell’apåna (flusso inspira-
torio o discendente) è l’entrata [del soffio] verso il basso, cioè
in senso opposto a quello [del prå√a]. “Intenti a ridurre”, a li-
mitare questi due, cioè “il flusso espiratorio ed inspiratorio so-
no quelli dediti sommamente al prå√åyåma”, per i quali il [rag-
giungimento del [perfetto] controllo del respiro rappresenta
lo scopo ultimo; vale a dire che essi compiono il prå√åyåma
denominato kumbhaka (con ritenzione, interna o esterna).

4.30. Altri, che hanno limitato l’assunzione di cibo, sacrifi-


cano i prå√a nei prå√a. Anche tutti questi conoscitori del sacri-
ficio hanno le [proprie] impurità distrutte grazie al sacrificio.

“Altri, che hanno limitato l’assunzione di cibo...”: hanno


limitato l’assunzione di cibo (niyatåhåra) coloro per i quali
l’assunzione di cibo è ridotta, frugale. Avendo limitato l’as-
sunzione di cibo, essi “...sacrificano i prå√a”, differenziati nei
[cinque] soffi vitali, “nei prå√a” stessi. Qualunque sia il soffio
vitale per il quale è stato raggiunto il dominio, in quello stes-
so sacrificano gli altri soffi vitali differenziati, per cui essi van-
no come a penetrare [assorbirsi e risolversi] in quello. “Anche
tutti questi conoscitori del sacrificio hanno le [proprie] impu-
rità distrutte grazie al sacrificio”: hanno le [proprie] impurità
distrutte con il sacrificio (yajñak≤apitakalma≤a) coloro le cui
impurità sono state dissolte, eliminate attraverso i sacrifici
quali sono stati esposti.
218 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.31

Portati a compimento i sacrifici così come sono stati descritti,

4.31. Coloro che mangiano l’ambrosia, rimanenza del sacri-


ficio, raggiungono il Brahman eterno. Questo mondo non è per
colui che non sacrifica: per quale ragione [potrebbe mai essere
per lui] l’altro [mondo], o migliore fra i Kuru?

“Coloro che mangiano l’ambrosia, rimanenza del sacrifi-


cio...”: la rimanenza del sacrificio è ciò che avanza dai riti sa-
crificali; quando ciò [che resta] è l’ambrosia (amÿta), si tratta
allora dell’ambrosia che è rimanenza del sacrificio (yajñaŸi≤†å-
mÿta), e quelli che se ne nutrono sono coloro che mangiano
l’ambrosia, rimanenza del sacrificio (yajñaŸi≤†åmÿtabhujas). Do-
po aver compiuto i sacrifici che sono stati esposti, coloro i qua-
li, nel lasso di tempo che resta dopo tali [celebrazioni e prima
delle successive] e rispettando i dettami [scritturali], mangia-
no l’ambrosia, rimanenza del sacrificio, si nutrono del prescritto
cibo denominato ‘ambrosia’ (amÿta, l’immortale): se aspirano
intensamente alla liberazione, essi “raggiungono”, conseguono
“il Brahman eterno”, perenne, dopo lungo tempo, come si com-
prende in conformità alla natura del loro obiettivo 28.
Colui che non sacrifica (ayajña) è quegli per il quale non
esiste sacrificio, nemmeno uno solo tra [tutti] i sacrifici elen-
cati. “Questo mondo”, sebbene sia in comune a tutti gli esseri
viventi, “non è” per costui: “per quale ragione [potrebbe mai
essere per lui] l’altro [mondo]”, ottenibile tramite mezzi di-
stinti, “o migliore tra i Kuru?”.

4.32. Così molteplici specie di sacrifici sono allestite nella


bocca del Brahman. Sappi che essi sono tutti nati dall’azione:
così conoscendo sarai liberato.

“Così molteplici specie”, molte modalità “di sacrifici”, qua-


li sono state esposte, “sono allestite”, predisposte “nella bocca
4.33 Quarto Adhyåya 219

del Brahman”, cioè nell’accesso che è il Veda. Si dicono: ‘alle-


stite nella bocca del Brahman’ in quanto possono venire ap-
prese [solo] attraverso il Veda, come, ad esempio: ‘in verità
sacrifichiamo il prå√a nella parola’, ecc. [Per quanto riguarda
tali distinti sacrifici] “Sappi che essi sono tutti nati dall’azio-
ne” (karmaja), cioè sussistono grazie all’attività del corpo, della
parola o della mente, e non sono generati dall’åtman, perché
l’åtman è privo di attività. Pertanto, “così conoscendo sarai li-
berato” dall’errore, cioè: riconoscendo in questo modo: ‘queste
azioni non sono compiute da me, io sono privo di qualsiasi
attività, indipendente [da tutto]’, grazie a questa autentica
consapevolezza sarai liberato dalla schiavitù del divenire ci-
clico. Questo è il senso.
Con il verso: «Il Brahman è l’atto di offerta...», (Bha. Gı.
4.24) e gli altri l’autentica visione è stata rappresentata come
avente natura di sacrificio, e sono stati anche enunciati diver-
si sacrifici. [Adesso] si rende elogio alla conoscenza attraverso
tali [sacrifici] che sono strumenti per il conseguimento dei
[vari] fini umani29.
In che modo?

4.33. Superiore al sacrificio materiale è il sacrificio della


conoscenza, o Paraætapa: tutta l’azione, senza eccezione, o
Pårtha, trova completo compimento nella conoscenza.

“Superiore al sacrificio materiale”, che può essere effettua-


to per mezzo di sostanze materiali (dravya), “è il sacrificio
della conoscenza, o Paraætapa”. Infatti il sacrificio materiale
[ossia effettuato per mezzo di sostanze materiali] è apportato-
re di un frutto [del medesimo ordine, cioè relativo], mentre il
sacrificio della conoscenza (jñånayajña) non è produttivo di
[alcun] frutto [relativo]; quindi è superiore, maggiormente
degno di lode.
Perché?
220 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.33

Perché “tutta l’azione” [compiuta, cioè l’azione] nella sua


integralità30, “senza eccezione”, senza esclusione alcuna, “o
Pårtha, trova completo compimento nella conoscenza”, che è
il mezzo di liberazione corrispondente al luogo inondato da
ogni parte dalle acque 31, vale a dire che viene totalmente in-
tegrata [in quella], come [si apprende anche] dalla Âruti:
«Come, quando il kÿta vince [nel giuoco a dadi con il massi-
mo di quattro punti], quelli [che sono i punteggi] inferiori
entrano in quello (nel kÿta), così in lui (Raikva) entra tutto il
bene che le creature compiono. Colui, il quale conosce ciò
che egli (Raikva) conosce (costui diviene [come] lui [stes-
so])...» (Chå. 4.1.4).
Obiezione: Allora, per mezzo di che cosa può essere rece-
pita questa stessa eccellente conoscenza?
Risposta: Si dice:

4.34. Sappilo: prosternandoti, formulando quesiti e servendo,


impartiranno a te la conoscenza i conoscitori che hanno realiz-
zato la realtà,...

“Sappilo”, impara il precetto grazie al quale può essere re-


cepita [questa eccellente conoscenza]: “prosternandoti”, una
volta avvicinati i Maestri, con costante umiltà: [con] la rive-
renza, l’inchinarsi, il rendere ripetutamente omaggio [a loro];
con ciò e “formulando quesiti” [come]: ‘perché vi è la schiavi-
tù? perché vi è la liberazione? qual è la conoscenza? qual è l’i-
gnoranza?’, “e servendo”, in quanto così sollecitato dalla istan-
za di apprendere dagli istruttori, ecc. Ingraziati dalla [tua] de-
ferenza, “impartiranno”, esporranno “a te la conoscenza” qual
è stata specificamente enunciata, i Maestri, “i conoscitori”. Seb-
bene [tutti gli istruttori] posseggano la conoscenza, [soltanto]
alcuni hanno la virtù di aver realizzato la realtà, non gli altri;
per questo viene specificato: “(i conoscitori) che hanno rea-
4.36 Quarto Adhyåya 221

lizzato la realtà” (tattvadarŸin). Ciò che pensa Bhagavat [nel


pronunciare questa distinzione] è che [soltanto] la conoscen-
za impartita da quelli che sono [tali] autentici conoscitori è in
grado di determinare l’evento [della realizzazione-liberazio-
ne], non l’altra. E [soltanto] in tal caso è valida anche questa
affermazione:

4.35. ...[quella conoscenza] comprendendo la quale non ca-


drai più nella confusione mentale in questo modo, o På√ƒava,
e grazie alla quale potrai vedere [tutti] gli esseri, senza alcuna
eccezione, nell’åtman e quindi in Me.

“...[quella] conoscenza" da loro impartita “comprendendo


la quale”, ossia recependo, ottenendo la quale, “non cadrai
più”, nuovamente “nella confusione mentale in questo modo”,
vale a dire ‘così come ti trovi sprofondato nello smarrimen-
to adesso’, “o På√ƒava, e”, inoltre, [essa è] la conoscenza
“grazie alla quale potrai vedere tutti gli esseri, senza alcuna
eccezione”, da Brahmå fino agli enti inerti, direttamente
“nell’åtman”, nell’intimo åtman [di te stesso con la eviden-
te consapevolezza]: ‘questi esseri sono [tutti] contenuti in
me’, “e quindi” essi sono anche “in Me”, in Våsudeva, nel
Supremo Signore; vale a dire che realizzerai la natura di
identità del conoscitore del campo (il jıva) con il Signore
(ÙŸvara, il Brahman) quale è ben nota in tutte le Upani≤ad 32.
Quindi, [Bhagavat dichiara anche] la grandiosità di questa
conoscenza:

4.36. Quand’anche fra tutti gli immeritevoli tu fossi il più


indegno, potrai traghettarti completamente al di là di ogni er-
rore solo sulla zattera della conoscenza.

“Quand’anche fra tutti gli immeritevoli” autori di nefan-


dezze “tu fossi il più indegno”, responsabile di manchevolez-
222 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.36

ze estremamente gravi, “potrai traghettarti completamente


al di là di ogni errore”, al di là di questo mare di miseria, di
quest’oceano di sofferenza, “solo sulla zattera della conoscen-
za”, cioè soltanto servendoti di quella zattera che è la cono-
scenza.
Ora, per colui che aspira intensamente alla liberazione, è
stato detto che anche il merito costituisce un male 33.
Obiezione: In che modo la conoscenza distrugge l’errore?
Risposta: [Per spiegarlo] si espone un esempio.

4.37. Come il fuoco ardente riduce in cenere il combustibile,


o Arjuna, così il fuoco della conoscenza riduce in cenere tutte le
azioni.

“Come il fuoco ardente”, ben acceso, avvampante, “ridu-


ce in cenere”, nella condizione di cenere inerte, i bastoncini
che formano “il combustibile, o Arjuna, il fuoco della cono-
scenza”, il fuoco che è la conoscenza stessa, riduce in cenere
tutte le azioni”, vale a dire che le rende prive di seme 34. In
verità, il fuoco della conoscenza non può davvero trasforma-
re direttamente in cenere le azioni, come se fossero una so-
stanza combustibile. Pertanto il senso è che l’autentica cono -
scenza è la causa in rapporto alla [condizione di] assenza di
seme di tutte le azioni. [Ma] l’azione, dalla quale, in virtù del-
la sua potenzialità, è stato prodotto il corpo, essendo il suo
frutto già effettuato, viene a distruggersi soltanto attraverso
la [completa] esperienza [del suo frutto]. Quindi quelli che
sono i frutti non effettuati, [i cui atti produttivi sono stati]
compiuti sia prima del sorgere della conoscenza che in con-
temporaneità con il sussistere della conoscenza, come, altre-
sì, quelli compiuti [in passato] in innumerevoli nascite tra-
scorse, quelli solamente [il fuoco della conoscenza] riduce
tutti in cenere35.
4.39 Quarto Adhyåya 223

Poiché è così, perciò:

4.38. Invero, non esiste qui un mezzo di purificazione simile


alla conoscenza. Quella, la troverà, da sé, in se stesso, dopo [lun-
go] tempo, colui che ha raggiunto la perfezione nello yoga.

“Invero non esiste qui (in questo mondo) un mezzo di pu-


rificazione” (pavitra), uno strumento per purificarsi, qualcosa
che restituisca purezza, “simile”, pari “alla conoscenza”. “Quel-
la” conoscenza, “la troverà”, la otterrà assolutamente “da sé,
in se stesso, dopo” lungo “tempo, colui che ha raggiunto la
perfezione nello yoga”, cioè colui che aspira intensamente alla
liberazione e che, acquisita la totale capacità in quanto perfet-
tamente purificato, ha raggiunto la perfezione in relazione
allo yoga, cioè sia nel karmayoga che nel samådhiyoga36. Que-
sto è il significato.
Viene [ora] insegnato il mezzo tramite il quale soltanto si
compie la realizzazione della conoscenza:

4.39. Ottiene la conoscenza colui che ha fede, che è animato


da proposito per ciò e con i sensi perfettamente trattenuti: otte-
nuta la conoscenza, ben presto raggiunge la suprema pace.

“Ottiene la conoscenza colui che ha fede”, che è ardente-


mente proteso [verso la conoscenza]. Ma, sebbene sia in uno
stato di ardente aspirazione, il [suo] progresso può essere [an-
cora] un po’ tardivo; quindi [Bhagavat] precisa: “...che è ani-
mato da proposito in ciò” (tatpara), cioè dotato di profonda fi-
ducia relativamente ai mezzi per ottenere la conoscenza, quali
la completa dedizione al servizio nei confronti dell’istruttore e
gli altri37. Tuttavia, nonostante sia animato da proposito in ciò,
egli potrebbe non avere i sensi sotto controllo; per cui [Bhaga-
vat] aggiunge: “...con i sensi perfettamente trattenuti”. Ha i
sensi perfettamente trattenuti (saæyatendriya) colui i cui sensi
224 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.39

sono stati posti completamente sotto controllo e ritirati dagli


oggetti [rispettivi]. Colui che è siffatto, cioè: ha fede, è animato
da proposito in ciò e ha i sensi perfettamente trattenuti, costui
inevitabilmente ottiene [cioè realizza] la conoscenza.
Invero, gli [atti] esteriori, come il prostrarsi [ai piedi del
Maestro], ecc., potrebbero rivelarsi non assolutamente sicuri
[nel produrre gli effetti desiderati] per via del loro [possibile]
contatto con ciò che è ingannevole, ecc., mentre non è così in
relazione a quegli che ha fede, ecc. in ciò. [Pertanto solo quello
descritto] è il mezzo per ottenere con sicurezza la conoscenza.
Obiezione: Che cosa si avrà, dunque, dall’ottenimento del-
la conoscenza?
Risposta: Si dice: “ottenuta la conoscenza, ben presto”, af-
fatto prontamente “raggiunge la suprema pace”, la cessazione
[del divenire ciclico] denominata liberazione (mok≤a). Dall’au-
tentica conoscenza la liberazione si invera affatto istantanea-
mente: tale è il significato ben accertato e perfettamente noto
da tutte le Scritture e attraverso la ragione. A tale proposito
non si deve creare [alcun] dubbio: il dubbio, infatti, è il male
peggiore.
Obiezione: In che senso?
Risposta: Si dice:

4.40. L’ignorante, colui che non ha fede e l’essere dubbioso:


[ognuno di loro] va incontro a distruzione. Non vi è questo
mondo, né l’altro, né felicità [alcuna] per l’essere dubbioso.

“L’ignorante”, quegli che non è conoscitore dell’åtman,


“colui che non ha fede”, colui che non ripone fiducia nelle af-
fermazioni dell’istruttore e nelle Scritture, “e l’essere dubbio-
so”, colui la cui mente è piena di dubbi: [ognuno di loro] “va
incontro a distruzione”. Sebbene l’ignorante e colui che non
4.41 Quarto Adhyåya 225

ha fede siano [entrambi] destinati a distruzione, tuttavia non


[lo sono] così come [lo è] l’essere dubbioso. Invero l’essere
dubbioso è il peggiore di tutti [quelli che sono in errore].
Perché?
[Perché] “Non vi è questo mondo”, nonostante sia comune
a tutti, “né”, similmente, “l’altro” mondo, “né felicità [alcuna]
per l’essere dubbioso”, per colui la cui mente è piena di dubbi,
[proprio] a causa del sorgere del dubbio anche in relazione a
tali cose. Perciò, non creare [alcun] dubbio 38.
Perché?

4.41. Quegli la cui azione è stata deposta [insieme con il


frutto] attraverso lo yoga, quegli i cui dubbi sono stati comple-
tamente rimossi dalla conoscenza e il quale ha il dominio di sé,
o Dhanañjaya, le azioni non [lo] imprigionano [più].

“Quegli la cui azione è stata deposta [insieme con il suo


frutto] attraverso lo yoga”: colui la cui azione è stata deposta
attraverso lo yoga (yogasaænyastakarman) è colui dal quale
le azioni [ovvero le loro risultanze] denominate merito e de-
merito, avendo egli realizzato la suprema realtà, sono state
deposte attraverso lo yoga consistente nella presa di coscien-
za della realtà suprema.
Obiezione: In che senso [Bhagavat] definisce [costui] uno
le cui azioni sono state deposte attraverso lo yoga?
Risposta: [Egli è anche] “quegli i cui dubbi sono stati com-
pletamente rimossi dalla conoscenza”: colui i cui dubbi sono
stati completamente rimossi dalla conoscenza (jñånasaæchi-
nnasaæŸaya) è quegli per il quale il dubbio [in generale] è
stato completamente rimosso grazie alla conoscenza consi-
stente nella presa di coscienza della natura di identità dell’å-
tman e di ÙŸvara (Brahman). Quegli, il quale è così uno le cui
azioni sono state deposte attraverso lo yoga [e il cui dubbio è
226 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 4.41

stato completamente rimosso dalla consapevolezza della iden-


tità tra sé e il Brahman], “e il quale ha il dominio di sé, le azio-
ni”, [da lui oramai] riconosciute come aventi la natura di una
interazione tra i gu√a, “non” lo “imprigionano più”, né matu-
rano procurandogli un frutto di natura indesiderabile, ecc. “o
Dhanañjaya” (o Conquistatore di ricchezze) 39, perché colui, il
cui dubbio è stato completamente rimosso dalla conoscenza
che è causa del dissolvimento della impurità, [ottenuta] gra-
zie alla pratica del karmayoga, non è [più] imprigionato dalle
azioni; [questo avviene] sia perché l’azione [con il suo frutto]
è stata bruciata dal fuoco della conoscenza, sia perché quegli
che nutre dubbio in merito alla pratica della conoscenza o del-
l’azione va incontro [egli stesso] a distruzione.

4.42. Perciò, tagliatolo con la spada della conoscenza, il dub-


bio sull’åtman scaturito dalla ignoranza e insinuatosi nel cuore,
consàcrati allo yoga e sorgi, o Bhårata.

“Perciò, (tagliatolo) con la spada della conoscenza...”: la


conoscenza è l’autentica visione (samyagdarŸana) che elimina
difetti quali la sofferenza, l’illusione e gli altri: essa stessa è la
spada, la lama; [dunque, tagliatolo] con tale spada della cono-
scenza “il dubbio sull’åtman”, cioè su sé stessi – perché il dub-
bio [di cui si parla] concerne sé stessi: infatti [tale frase] non
va interpretata [nel senso che] ‘il dubbio riguarda un altro
[essere], dal quale altro deve effettuata la rimozione’, [inter-
petazione] in base a cui si sarebbe dovuto specificare: ‘di sé
stessi’40. Quindi, sebbene [il dubbio] concerna l’åtman [in ge-
nerale], si tratta proprio di sé stessi, [dubbio] che è il male
peggiore “scaturito dalla ignoranza”, generato dalla ignoranza
ossia dalla non-discriminazione, “e insinuatosi nel cuore”, an-
dato a stabilirsi nel cuore cioè nell’intelletto; [dunque] “...ta-
gliatolo, il dubbio...”, che costituisce la causa della propria di-
struzione, “consàcrati allo yoga”, cioè compi la pratica dell’a-
4.42 Quarto Adhyåya 227

zione [non-identificata o non-azione] quale mezzo per [otte-


nere] l’autentica conoscenza, “e sorgi” adesso a combattere “o
Bhårata”.

Nelle Scritture yoga sulla conoscenza del Brahman


appartenenti alla Upani≤ad della sacra Bhagavadgıtå,
questo è il Quarto Capitolo
nel dialogo tra Kÿ≤√a e Arjuna
intitolato:
‘Lo yoga della conoscenza
e della completa rinuncia all’azione’.

*
NOTE al Quarto Adhyåya

1
Vivasvat, il Risplendente, è il Sole, talora indicato come il deva
Åditya, o S¥rya, ecc.; Manu, suo figlio, è il primo Legislatore univer-
sale e Ik≤våku è suo figlio. L’ordine bråhma√a detiene l’autorità spi-
rituale attraverso la conoscenza-sapienza e la qualificazione-compe-
tenza rituale, ecc. e nel piano umano esprime il ruolo brahmanico
quale essenza e principio fondante dell’universo.
2
L’ordine k≤atriya è il ruolo legislativo-guerriero, preposto alla
salvaguardia dell’equilibrio su cui si erge e mantiene la struttura so-
ciale e alla difesa della Legge con l’esercizio del potere temporale.
Gli altri ordini sono i vaiŸya, operatori dell’atto commerciale quale
scambio energetico tra le varie componenti sociali, e gli ٴdra, i pre-
statori d’opera, coloro cui spetta il compito di svolgere quelle atti-
vità che fungono da supporto o servono di ausilio per l’espressione
effettiva delle potenzialità energetiche della intera compagine. I va-
r√a non sono compartimenti isolati, ma esprimono complementar-
mente i diversi ruoli corrispondenti alla natura dei singoli indivi-
dui.
3
La differenziazione che individua e separa gli esseri è dovuta
alla sovrapposizione di nome e forma. Al di là di tale proiezione a
opera di måyå è il puro sfondo indifferenziato dell’åtman-Våsude-
va. Pur essendo eternamente costante, all’occhio annebbiato dalla
måyå sembra venire a manifestarsi come qualsiasi altro essere.
4
Coloro che hanno acquisito una mera cognizione concettuale del-
la dottrina si appoggiano alla conoscenza senza essere purificati dal
suo fuoco; essi vantano uno sterile nozionismo che porta al solo risul-
tato di alimentare la mente proiettiva. Il jñånatapas è l’ ‘ardore della
230 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

conoscenza’: accendere questo sacro fuoco significa innescare un pro-


cesso catartico di purificazione, trasformazione e integrale soluzione.

Le ingiunzioni scritturali (vidhi) sono valide solo nella sfera


5

umana, nella quale vige il determinismo causale, e non nei mondi


superiori (deva) o inferiori (asura, ecc.), nei quali vi è la fruizione
del karman effettuato. Il rispetto delle prescrizioni permette l’accesso
a condizioni superiori, la loro trasgressione fa precipitare l’essere
in stati inferiori, ma da entrambi, a esperienza esaurita e se la co-
scienza lo permette, si fa ritorno alla sfera umana, cioè a quella con-
dizione di centralità dalla quale soltanto si può accedere consape-
volmente alla liberazione.

La diversificazione dei var√a risponde alle differenti qualità


6

(gu√a) individuali che determinano la natura (dharma) dei singoli.


In tal senso sono l’espressione armonica della unitarietà dell’orga-
nismo sociale che trae essere dalla Unità in quanto riflesso del Prin-
cipio. Il loro equilibrio interattivo mantiene la coesione dell’aggre-
gato sociale e alimenta il dinamismo vitale della sua intera espres -
sione. Un loro annullamento priverebbe l’insieme organico sia delle
sue funzioni primarie sia di un riferimento centrale stabile tale che
la società, privata della propria ragion d’essere, non può che dege-
nerare verso condizioni inferiori entropizzando i singoli elementi
componenti e le loro specificità. Nell’attuale Kaliyuga si constata
che non è l’attributo-qualità a conferire il ruolo, ma l’arbitrio o una
inerzialità karmica prevalente, così che l’intera struttura forma un
insieme disarmonico, tendente al complessivo squilibrio fino allo
stato di ente amorfo. Ma anche tale apparente dissonanza, vista
dalla prospettiva universale, concorre alla totale armonia. Si torni
alle note 1 e 2. V. anche Bha. Gı. 18.41 e note 18.21 e 22.
7
Cfr. Bha. Gı. 18.43.
8
Cfr. Bha. Gı. 18.44.
9
Cfr. Bha. Gı. 9.1.
Note al Quarto Adhyåya 231

10
Per comprendere l’azione nella sua vera natura è necessario
riconoscere che vi è: un retto agire, inserito armonicamente nel
contesto universale e palesato dalla conformità alle Scritture; un
agire non-retto, sostanzialmente disarmonico, nel quale prevale la
componente individuale, che è evidenziato dal divario rispetto ai
dettami scritturali; infine un non-agire, quale l’astensione dall’atti-
vità e dalla responsabilità del ruolo di soggetto. Ogni modalità espri-
me un preciso grado di maturità spirituale. La “integrazione” (a-
dhyåhåra) delle tre possibilità, la comprensione dell’agire nella sua
vera natura, porta alla trascendenza dell’azione identificata e alla
azione-senza-azione che è l’insegnamento fondamentale della Gıtå.
11
Se l’azione dimorasse nella non-azione e viceversa, ciò impli-
cherebbe che l’una contiene l’altra, che l’una è consustanziata del-
l’altra. In tal caso la loro natura, opposta per definizione, cesserebbe
di essere e di generare contraddizione. Tale è la conseguenza di
una interpretazione letterale.
12
L’agire non può essere racchiuso nel non-agire, o farne parte,
né il non-agire nell’agire, perché, essendo l’uno l’opposto dell’altro,
si escluderebbero a vicenda. L’idea di azione implica il concetto di
esistenza, la non-azione quello di non-esistenza. Ma l’esistente non
può dimorare nel non-esistente, né il non-esistente nell’esistente.
La lettura del verso in chiave di contenenti e contenuti non ha il
sostegno della ragione.
13
I ritualisti, per i quali l’azione è il solo mezzo per conseguire
la liberazione.
14
Il rito perpetuo (nityakarman) viene effettuato al fine di otte-
nere l’accesso a condizioni superiori di esistenza nella nascita suc-
cessiva, per cui il suo frutto non è percepibile (adÿ≤†a) in questa, con-
trariamente ai riti finalizzati (kåmya) od occasionali (naimittika),
compiuti prevalentemente per ottenere frutti in questa vita.
15
L’affermazione di Kÿ≤√a si riferisce a ciò di cui si parla – azio-
ne e non-azione – e non alla mera presa di coscienza del fatto che i
232 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

riti perpetui e obbligatori non producono effetti visibili in questo


ciclo di esistenza.

Qualora si renda necessario ricorrere a un simbolo, come per


16

una meditazione su Vi≤√u, per la quale si proietta la divinità su una


immagine o altro, nel caso in esame dovrebbe essere quello della
non-esistenza, cioè di una entità negativa; ma come tale non può
portare alla presa di coscienza di una entità positiva, anche perché
la distinzione in merito a quest’ultima non potrebbe determinarsi a
partire dall’assenza di distinzione nella non-esistenza. Si veda an-
che Bha. Gı. 18.48 e Commento di Âa§kara.

Da una non-esistenza, quale la omissione di un atto prescrit-


17

to, non può risultare una esistenza. Il non-esistente non può dare
origine all’esistente, né viceversa, non potendosi stabilire tra loro
alcun tipo di rapporto.

La sola lettura esatta è quella che da un lato svela la natura di


18

non-attività dell’åtman pur nell’agire dell’individuo e, dall’altro, la


natura di consapevolezza in atto dell’åtman per quanto riguarda il
non-agire individuale. Si tratta di trovare il giusto punto di osser-
vazione per riconoscere l’azione del veicolo, il moto del riflesso (jı-
va), nella non-azione e nel non-moto dell’åtman. Oltre l’apparenza
fenomenica vi è una Realtà immobile e immutabile che però, dalla
visuale ordinaria e relativa di måyå, si presenta come caratterizzata
da attività e cambiamento. L’azione identificata nasce dal desiderio
e questo dall’ignoranza; tale agire finalizzato imprigiona il soggetto
nel suo ruolo ponendo le basi per una ulteriore identificazione e la
progressiva limitazione della coscienza con la conseguente riduzio-
ne del grado di libertà. L’azione non-identificata, lasciata attuarsi
nel naturale esprimersi delle potenzialità dei gu√a in armonia con
il Principio, non può vincolare un soggetto inesistente, né può alte-
rare lo stato di perfetta immutabilità dell’åtman nella cui Coscienza
immota e onnicomprensiva sembra proiettarsi ogni moto apparen-
te. Saggio è colui che riconosce la non-attività dell’åtman nell’agi-
re-mutare-interagire dei veicoli e, viceversa, il moto apparente del
Note al Quarto Adhyåya 233

riflesso – come l’universale movimento (jagatı) di måyå – nella im-


mobilità onninclusiva dell’åtman.
19
Cfr. Bha. Gı. 18.47.

L’atto di offerta (arpa√a) include sia l’azione in sé che lo stru-


20

mento, quale lo specifico rituale, ecc.


21
L’azione presuppone la dualità. Quando la totalità, che si ma-
nifesta come la differenziazione tra agente, azione, strumento, og-
getto e frutto, è stata risolta nella Unità-senza-secondo del Brahman,
l’intera sovrastruttura mentale relativa al rito, ecc. si dissolve e quella
che permane esteriormente come attività empirica si rivela essere,
nella sua realtà più profonda, assoluta non-azione. Nella consapevo-
lezza della non-dualità non può che compiersi la non-azione.
22
Cfr. Chå. 7.1.5.
23
Si allude ancora ai ritualisti, di ovvia propensione dualista.
24
La “offerta del sacrificio per mezzo dello stesso sacrificio” è
‘l’offerta dell’åtman nell’åtman attraverso l’åtman’, cioè la soluzio-
ne del jıva, l’åtman nel suo aspetto-riflesso individuato, nell’åtman
supremo, cioè nel Brahman, attraverso l’åtman, cioè tramite la stes-
sa coscienza. La coscienza dell’åtman, infatti, presenta una conti-
nuità assoluta, priva di qualsiasi interruzione, scissura o disomoge-
neità, dal riflesso infinitesimo della individualità alla infinita luce
del Brahman. È grazie a questa continuità – il “filo dell’åtman”
(s¥tråtman) – che, con tale sacrificio, si può risalire dalla goccia alla
Fonte perenne.
25
Per quanto detto in precedenza gli yogin rappresentano anco-
ra i ritualisti. Essi si differenziano in rapporto al grado di consape-
volezza del reale che hanno maturato. Così, alcuni offrono in sacri-
ficio lo strumento sensoriale ponendolo sotto controllo – e quindi
risolvendone le attività dispersive e incontrollate – nel fuoco asce-
tico (tapas) del contenimento, dell’autocontrollo; a un livello infe-
riore, altri compiono l’offerta dell’oggetto nel relativo senso, e così
234 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

via. Il sacrificio di ciascuno si conforma al grado di realtà da lui at-


tribuito all’oggetto offerto e alla sua sede di consacrazione.

L’energia vitale individuale, genericamente indicata come


26

prå√a, si diversifica nei cinque soffi chiamati: prå√a, apåna, samå-


na, vyåna e udåna, dalle funzioni ben definite.
27
Si allude ai passi o membri (a§ga) del Råjayoga.

Celebrando i sacrifici, essi sono ritualisti e, quindi, per quanto


28

detto, la loro visione è improntata al dualismo. Pur aspirando ar-


dentemente alla liberazione, essi concepiscono una distinzione tra
la realtà-Brahman e il proprio essere (jıva), divario che il sacrificio
può colmare nella loro coscienza solo dopo indefinite ere di pro-
gressiva disidentificazione e attraverso una graduale soluzione del-
la individualità. In altre parole, pur essendo elevato il loro scopo –
la realizzazione della identità con il Brahman – non lo raggiungono
subito per via della distanza fittizia interposta dalle loro menti e
che, quale errore conoscitivo, viene progressivamente a risolversi
solo attraverso il reiterato rito purificatorio.

Il termine puru≤årtha, ‘il fine umano’, si riferisce alle quattro


29

principali finalità dell’operato dell’uomo: kåma, artha, dharma e


mok≤a, ossia: soddisfacimento del legittimo desiderio, ottenimento
dell’oggetto (condizione, bene, ecc.) ambìto in questa o nella suc-
cessiva esistenza, conformità al proprio dovere sociale, religioso,
ecc. e liberazione. In questo contesto il termine allude alle quattro
possibilità, anche se nella sua accezione specifica rappresenta solo
la liberazione (mok≤a) quale ‘fine umano per eccellenza’.
30
Si torni al verso 4.23 e relativo commento.
31
Cfr. l’immagine proposta in 2.46.

Cfr. Bha. Gı. 6.29. V. anche: Ma. 12.91, Ma. Bhå. 5.46.25,
32

12.240.21, Å. Dha. S¥. 1.23.1 e Ù. 6.


Note al Quarto Adhyåya 235

33
Cfr. 4.21 e relativo commento. Il dharma, cioè il merito acqui-
sito (pu√ya), determinando come frutto l’esperienza della esistenza
in stati superiori, può dar luogo ad attaccamento a tali condizioni,
per cui è anch’esso causa di identificazione e, quindi, fonte di erro-
re e di imprigionamento.
34
Ogni atto determina un frutto, essendo una causa che produ-
ce un effetto. A sua volta, l’azione è promossa da una volizione:
questa è la causa quella l’effetto. Il desiderio è la causa dell’effet -
to-azione come il seme lo è del germoglio. Una pianta privata del
suo seme non germoglia più, non si riproduce; così un’azione puri-
ficata dal proprio seme causale – il seme attivo (saæskåra) che sus-
siste quale impressione latente (våsanå) – è sterile, infeconda, im-
produttiva: essa si verifica come fine a sé stessa e cessa non appena
compiuta, senza necessità di riproporsi. D’altra parte, l’assenza del
seme implica quella del soggetto agente, che ne è il latore inconsa-
pevole. E così, poiché il seme – volizione, desiderio, presunta ne-
cessità, ecc. – che proviene dalla ignoranza, viene eliminato o risol-
to attraverso la conoscenza, ne consegue che l’azione, benché intra-
presa o portata a compimento, non cagiona alcun legame né sul
piano effettuale dell’agire prodotto, né su quello causale di una even-
tuale nuova identificazione al soggetto agente. Un’azione senza
seme, in definitiva, è un corpo inerte sul quale la spinta al movi-
mento è cessata: finita l’inerzia, il moto si esaurisce.
35
Il termine karman, come noto, designa non solo l’azione, o
l’oggetto dell’azione, ma anche la conseguenza dell’azione identi-
ficata. In altre parole definisce la legge causa-effetto, il determini -
smo causale sul quale si sorregge il moto circolare periodico del
divenire ciclico, la ruota della esistenza. A ogni azione corrispon-
de una reazione, si dice nella fisica. È bene però comprendere che
non è l’atto in sé apportatore del frutto, positivo o negativo – cioè
suscettibile di innalzare o svilire la condizione di esistenza – quan-
to lo stato di coscienza con il quale è compiuto, il grado di imme-
desimazione con il soggetto dell’azione, della fruizione, ecc. In
ogni caso il karman determina un frutto che nella sua espressione
concretizzata si diversifica a seconda della fase temporale. Il ka-
236 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

rman già maturato (prårabdha) è quello che ha dato luogo alla


condizione attuale, al corpo, alle sue qualità, alle predisposizioni,
ecc. e non può essere annullato; il karman accumulato (saæcita)
in passato ma non ancora maturato è quello che si concretizza in
una prossima espressione vitale; infine vi è un karman eventual-
mente da accumulare in futuro (ågåmin). La conoscenza non può
annullare il primo, ma può distruggere il secondo, quello i cui
frutti non sono giunti a maturazione, ed evitare il formarsi del
terzo in quanto impedisce l’emergere e il costituirsi di una sog-
gettività individuale agente.

La perfezione in questi due yoga, per quanto detto nei primi


36

capitoli, è la perfezione sia nella pratica dell’azione-non-azione che


nella conoscenza-contemplazione.

Gli altri mezzi sono elencati nelle Scritture come: l’ascolto


37

della istruzione, l’obbedienza, la sottomissione, la pratica costante e


l’osservanza di tutte le norme relative al dimorare presso un guru,
oltre, naturalmente, al costante assorbimento nella realtà tramite la
meditazione.

Le Scritture dicono: «Quale che sia il contenuto mentale (yacci-


38

ttam), di quello si diviene sostanziati (tanmayo bhavati). Questo è


l’eterno mistero» (Mai. 6.34.3). Come la mente di ÙŸvara manifesta
l’universo, così la mente individuale proietta il suo mondo e lo spe-
rimenta. La coscienza concretizza certezze-evidenze, la mente dub-
biosa dello scettico disgrega coesioni, disintegra l’unità reale in in-
definite possibilità irreali alimentando un divenire che, essendo senza
limite, non può non divergere disperdendosi fino all’annullamento.
V. nota 9.12.
39
Nel verso 18.29 Âa§kara spiega tale appellativo.

Nel caso che ci si riferisse ad altri, si sarebbe detto: ‘taglia il


40

dubbio sull’åtman di sé stessi, e non di un altro’. Dunque si tratta


proprio dell’autocondizionamento prodotto dalla incertezza in me-
rito al proprio åtman. Mentre nella mente dell’uomo comune può
insinuarsi tale dubbio, per il conoscitore, o per colui che ha fede nel-
Quarto Adhyåya 237

le Scritture, ecc., la realtà dell’åtman è una evidenza inoppugnabile.


D’altronde, di tutto si può dubitare, ma non di colui che dubita: l’es-
sere è cosciente; coscienza ed essere non possono non coesistere
nella loro natura infinita e non-duale.

*
Quinto Adhyåya
(Lo yoga della completa rinuncia)

Con le [seguenti] affermazioni – a cominciare dal passo


che inizia con: «Colui il quale nell’azione vede la non-azio-
ne...» (Bha. Gı. 4.18), e si conclude dicendo: «...egli è uno che
ha realizzato lo yoga, uno che ha compiuto l’azione nella sua
interezza» (ib.), e quindi [con i passi]: «Colui... le cui azioni
sono consumate dal fuoco della conoscenza...» (Bha. Gı. 4.19),
«...compiendo unicamente l’azione correlata al corpo fisico...»
(Bha. Gı. 4.21), «Il Brahman è l’atto di offerta, il Brahman è
l’oblazione» (Bha. Gı. 4.24), «Sappi che essi sono tutti nati
dall’azione...» (Bha. Gı. 4.32), «...tutta l’azione, senza ecce-
zione, o Pårtha, (trova completo compimento nella conoscen-
za)» (Bha. Gı. 4.33), «...il fuoco della conoscenza (riduce in
cenere) tutte le azioni» (Bha. Gı. 4.37), fino [al passo]: «Que-
gli la cui azione è stata deposta [insieme con il frutto] attra-
verso lo yoga...» (Bha. Gı. 4.41) – Bhagavat ha enunciato la
completa rinuncia a ogni azione [come mezzo imprescindi-
bile per la conoscenza-realizzazione]; d’altra parte, con l’af-
fermazione: «...tagliatolo... il dubbio... consàcrati allo yoga...»
(Bha. Gı. 4.42), Egli ha intimato [ad Arjuna]: ‘compi l’azione’
consistente nello yoga e nell’effettivo atto [di combattere].
Ora, sia per l’impossibilità che le due – effettuazione dell’a-
zione e completa rinuncia all’azione – vengano poste in atto
congiuntamente da parte di un solo [individuo], sia per il
fatto che sarebbe impossibile ordinarne l’applicazione, [sep-
pure] in momenti diversi, a causa della loro reciproca con-
240 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 5.1

traddittorietà pari a [quella tra] due cose [opposte] come lo


stare fermi e il muoversi, ne consegue che, assunto che deb-
ba essere osservata soltanto una delle due, Arjuna, dopo aver
riflettuto così: ‘[soltanto] quella che è la più degna di lode
tra queste due – tra l’effettuazione dell’azione e la completa
rinuncia all’azione – deve essere posta in atto e non l’altra’,
e spinto dal desiderio di sapere quale delle due fosse la più
lodevole, disse: «O Kÿ≤√a, (elogi) la completa rinuncia nei
confronti delle azioni (e altresì lo yoga [dell’azione]. Quello,
che è il migliore tra questi due, quello solo dimmelo chiara -
mente)» (Bha. Gı. 5.1).
Obiezione: Comunque Bhagavat, con l’intenzione di mo-
strare attraverso le affermazioni testé citate che la dedizione
allo yoga della conoscenza concerne colui che ha realizzato
l’åtman, ha [implicitamente] stabilito [solo per costui] la com-
pleta rinuncia a tutte le azioni, ma non per il non-conoscitore
dell’åtman; quindi, dato che l’effettuazione dell’azione e la
completa rinuncia all’azione riguardano esseri umani distinti
[per qualificazione, ordine, stadio, ecc.], questa domanda [for-
mulata da Arjuna] con il desiderio di conoscere quale tra le
due sia maggiormente degna di lode appare superflua.
Risposta: È certamente vero che, stando alla vostra opinio-
ne, la domanda [di Arjuna] non sembra del tutto legittima;
tuttavia, dal suo proprio punto di vista, [cioè quello] di colui
che pone la questione, sosteniamo che il quesito è affatto ap-
propriato.
Perché?
Perché con le affermazioni appena citate Bhagavat ha vo-
luto dichiarare che il saænyåsa deve essere posto in atto [dal
conoscitore]; ora, dato che [tale ingiunzione] sarebbe impos-
sibile, a meno che ciò (l’oggetto della ingiunzione, il saænyå-
sa) risulti prevalente rispetto all’agente [a colui al quale è in-
dirizzata e dal quale deve essere attuata, ne consegue che] in
5.1 Quinto Adhyåya 241

questa prospettiva va incluso anche il soggetto agente che


non è conoscitore dell’åtman, per il quale viene comunque
enunciata in seguito1: perciò [secondo questa eventuale inter-
pretazione da parte di Arjuna, l’ingiunzione in base a cui] la
completa rinuncia dev’essere operata soltanto dal soggetto
agente che è conoscitore dell’åtman, non è quanto si vuole as-
serire [primariamente]. Per Arjuna, che così pensa, infatti,
anche per l’essere umano che non sia un conoscitore dell’å-
tman vi sarebbe la possibilità di porre in atto tanto la pratica
dell’azione quanto la completa rinuncia all’azione ma, a causa
di una [evidente] mutua incompatibilità tra le due, quale è
stata enunciata nel precedente capitolo, una volta assunto che
si debba attuare una sola delle due, si dovrà attuare [solo]
quella maggiormente degna di lode e non l’altra. Così la do-
manda volta a conoscere quale sia quella maggiormente de-
gna di lode non è priva di plausibilità logica.
Anche accertando il significato dell’affermazione contenu-
ta nella risposta si comprende che così stesso è il senso [inte-
so da parte] dell’interrogante.
In che modo?
La risposta è: «La completa rinuncia [all’azione] e il karma-
yoga conferiscono il Bene supremo entrambi; ma dei due, ri-
spetto alla completa rinuncia all’azione, il karmayoga è [per
te] il migliore» (Bha. Gı. 5.2). Si deve accertare questo: con
ciò, ossia affermando il beneficio del saænyåsa e del karma-
yoga posti in atto dal conoscitore dell’åtman, [beneficio] con-
sistente nel determinare il [conseguimento del] Bene supre-
mo, [come] ugualmente [ottenibile] da parte delle due (azio-
ne e rinuncia), la superiorità dello yoga dell’azione rispetto
alla completa rinuncia all’azione viene dichiarata per qual-
che ragione specifica? O piuttosto, tale [distinzione] viene
proferita bensì in riferimento alle due cose, il saænyåsa e il
karmayoga, ma quando vengono posti in atto da coloro che
non sono conoscitori dell’åtman?
242 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 5.1

In pratica [si deve accertare] se, [assunto che] la capacità


di conferire il Bene supremo spetta sia alla completa rinuncia
all’azione che allo yoga dell’azione posti in atto dal conoscito-
re dell’åtman, tra le due cose viene invece dichiarata la supe-
riorità dello yoga dell’azione rispetto alla completa rinuncia
all’azione, oppure se essa viene dichiarata bensì in riferimen-
to ad ambedue, saænyåsa e karmayoga, ma allorché vengono
praticati da colui che non è conoscitore dell’åtman.
In merito a ciò si dice: poiché è impossibile che il saænyå-
sa e il karmayoga vengano praticati da colui che ha realizzato
l’åtman, sia l’asserzione della loro intrinseca capacità di ap-
portare il Bene supremo, sia la dichiarazione della superiorità
dello yoga dell’azione rispetto alla completa rinuncia all’azio-
ne, entrambe queste [affermazioni] sono a rigor di logica inam-
missibili. D’altra parte, se la completa rinuncia all’azione e ciò
che le è del tutto opposto, cioè lo yoga dell’azione, consistente
nella pratica dell’attività [disidentificata], fossero possibili per
colui che non è conoscitore dell’åtman, allora sia l’asserzione
della capacità di conferire il Bene supremo da parte delle due,
sia la dichiarazione della superiorità dello yoga dell’azione ri-
spetto alla completa rinuncia all’azione, si rivelano entrambe
pienamente plausibili. Ma poiché, per colui che è conoscitore
dell’åtman è impossibile tanto il saænyåsa quanto il karmayo-
ga, la dichiarazione circa la capacità di conferire il Bene su-
premo da parte di entrambi, come altresì [l’asserto in base a
cui] lo yoga dell’azione viene distinto dalla completa rinuncia
all’azione, non può essere ammessa secondo ragione.
Obiezione: Al riguardo, si dice: per il conoscitore dell’å-
tman l’impossibilità [di attuazione] vige relativamente alle
due cose, il saænyåsa e il karmayoga, o, piuttosto, tale impos-
sibilità concerne uno solo dei due? Qualora l’impossibilità
concerna soltanto uno dei due, si tratterebbe della completa
rinuncia all’azione o, al contrario, dello yoga dell’azione?
5.1 Quinto Adhyåya 243

Inoltre si deve esporre anche qual è la causa in relazione a


tale impossibilità.
Risposta: A ciò si replica: per il conoscitore dell’åtman,
poiché la conoscenza illusoria (mithyåjñåna) è stata [da lui]
estirpata, il karmayoga, che è radicato in [tale] conoscenza
opposta [all’autentica conoscenza], sarà impossibile. Poiché
qui, nella Scrittura [della Bhagavadgıtå], in tutti quei passi nei
quali viene stabilita la reale natura dell’åtman, dopo aver san-
cito la completa rinuncia a qualsiasi attività per quel conosci-
tore dell’åtman – [conoscitore] il quale ha realizzato l’åtman
esente da attività trasformante come [il più profondo e auten-
tico] se stesso al di là di tutte quelle modificazioni come la
nascita, ecc., e la cui conoscenza illusoria è stata soppiantata
dall’autentica conoscenza – [rinuncia] consistente nel dimo-
rare stabilmente nella propria natura di åtman privo di qual-
siasi attività-cambiamento, si dimostra, per via della contrad-
dittorietà sia tra l’autentica conoscenza e la conoscenza illu-
soria che tra il loro effetto, che non vi è [da compiere alcun]
karmayoga che, essendo opposto a quello (il karmasaænyåsa)
e sostanzialmente fondato nella natura propria di un sé (ego)
caratterizzato dall’attività trasformante (sakriyåtman), pre-
suppone quindi l’identificazione con la funzione di soggetto
agente quale è radicata nella conoscenza illusoria, ne conse-
gue che quanto si afferma [successivamente] – ossia che ‘per
il conoscitore dell’åtman che ha estinto la conoscenza illuso-
ria il karmayoga è impossibile, essendo radicato nella opposta
conoscenza’ – è perfettamente ragionevole.
Obiezione: Quali sono, dunque, quei passi nei quali viene
stabilita la reale natura dell’åtman e si dimostra che per il cono-
scitore dell’åtman non vi è [alcun] karmayoga [da compiere]?
Risposta: A ciò si replica menzionando [i seguenti passi]:
«Ma devi realizzare [solo] Quello, l’Indistruttibile...» (Bha. Gı.
244 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 5.1

2.17), «Colui il quale crede: ‘questi è l’uccisore’...» (Bha. Gı.


2.19), «Colui il quale lo realizza come indistruttibile, eterno...»
(Bha. Gı. 2.21), ecc. In tutti questi [e altri ancora] si afferma
che per il conoscitore dell’åtman non vi è [più da osservare al-
cun] karmayoga.
Obiezione: Tuttavia, in tutti i passi nei quali viene accerta-
ta la reale natura dell’åtman si attesta chiaramente che [per il
conoscitore dell’åtman] vi è [da compiere] anche il karmayo-
ga: «Perciò combatti, o Bhårata» (Bha. Gı. 2.18), «E poi, con-
siderando il tuo proprio dharma...» (Bha. Gı. 2.31), «È la sola
azione quella per la quale tu possiedi qualificazione...» (Bha.
Gı. 2.47), ecc. E quindi, perché il karmayoga dovrebbe risulta-
re impraticabile per il conoscitore dell’åtman?
Risposta: A tale riguardo si dice: per via della contradditto-
rietà sia tra l’autentica conoscenza [su cui si fonda la completa
rinuncia all’azione] e la conoscenza illusoria [o falsa, su cui si
fonda lo yoga dell’azione] che tra i loro effetti. [È stato detto]
«...per i såækhya è [stato enunciato il sentiero] attraverso lo
yoga della conoscenza...» (Bha. Gı. 3.3): con ciò [è stata asseri-
ta] la fondatezza nello yoga dell’azione, in quanto riservata a
coloro che sono [identificati con le funzioni di] soggetto agen-
te e non hanno realizzato l’åtman, come distinta da quella che
è la fondatezza nello yoga della conoscenza, consistente nello
stabilirsi nella reale natura dell’åtman esente da attività tra-
sformante, riservata [invece] a coloro che, seguaci del Såæ-
khya, sono conoscitori della essenza (tattva, la reale natura)
dell’åtman; [questo] perché per il conoscitore dell’åtman non
vi è [più nessun] attingimento [da conseguire] essendo uno
che ha compiuto [tutto] ciò che era da compiere. Infatti è stato
detto che [per il conoscitore] non c’è nessun’altra [cosa] che
debba essere fatta: «...per lui non esiste [più] alcun dovere da
compiere» (Bha. Gı. 3.17). E anche perché in passi quali: «Non
dal mancato compimento delle azioni...» (Bha. Gı. 3.4), «Ma il
5.1 Quinto Adhyåya 245

saænyåsa, o Mahåbåhu, è difficile da conseguire prescindendo


dallo yoga...» (Bha. Gı. 5.6), ecc. lo yoga dell’azione viene in-
giunto come mezzo complementare alla conoscenza dell’å-
tman, mentre nel passo: «... per quegli stesso che [già] ha rag-
giunto lo yoga si dice che lo strumento [adeguato] è la pace»
(Bha. Gı. 6.3) si afferma che per colui, per il quale è sorta l’au-
tentica consapevolezza, lo yoga dell’azione non ha più alcuna
ragione di essere. Inoltre, nel passo: «...compiendo unicamente
l’azione correlata al corpo fisico, non si procaccia danno» (Bha.
Gı. 4.21), viene respinta [qualsiasi] azione a eccezione di quella
che consente il mantenimento del corpo fisico; inoltre, [asse-
rendo] «Colui che si è unificato, conoscitore della essenza [di
tutto], dovrebbe pensare: [in realtà io] non faccio proprio nul-
la...» (Bha. Gı. 5.8), con ciò [si intende che] anche in relazione
ad azioni quali quella del vedere, sentire, ecc. compiute unica-
mente per la conservazione [in vita] del corpo fisico, colui che
ha realizzato l’åtman così qual Esso è viene continuamente
spinto a raccogliersi sul contenuto di consapevolezza: ‘(non)
compio (null’affatto)’. Per colui che ha realizzato l’essenza del-
l’åtman neanche in sogno può aversi [una esperienza concer-
nente] il karmayoga, avendo questo causa nella conoscenza il-
lusoria ed essendo quindi contraddetto dall’autentica cono-
scenza. Pertanto, poiché è così [cioè per via di quanto è stato
esposto], è solamente per colui che non ha realizzato l’åtman
ed è [identificato con il ruolo di] soggetto agente che si hanno
sia la dichiarazione circa la capacità, da parte del saænyåsa e
del karmayoga, di conferire il Bene supremo, che l’affermazio-
ne circa l’eccellenza del karmayoga, in quanto facile da mettere
in pratica, rispetto alla completa rinuncia all’azione e a ciò che
le compete: infatti [questa rinuncia del non-conoscitore], con-
cernendo solo qualche singola azione e permanendo ancora [in
essa] la consapevolezza della funzione di soggetto agente, è so-
stanzialmente differente rispetto alla completa rinuncia a tutte
le azioni posta in atto dal soggetto conoscitore dell’åtman qua-
246 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 5.1

le è stato esposto prima, la quale è assai ardua a praticarsi es-


sendo associata a yama, niyama e alle altre [forme di autodo-
minio proprie dello yoga]. Così risulta stabilito che il senso
[della domanda] dell’interrogante (Arjuna) precedentemente
esposto viene convalidato anche attraverso una disamina del
significato delle parole nella risposta [di Kÿ≤√a]2.
Nella [evidenza della] impossibilità di una coesistenza di
conoscenza e azione, quale è espressa qui, nel passo: «Se è
tua convinzione che la saggezza è superiore all’azione...»
(Bha. Gı. 3.1), quando Arjuna chiese: «Quello, che è il miglio-
re tra questi due, quello solo dimmelo chiaramente» (Bha. Gı.
5.1), Bhagavat produsse una dichiarazione definitiva rispon-
dendo: il sentiero realizzativo attraverso il jñånayoga è per i
såækhya, cioè per i rinunciatari completi, mentre il sentiero
realizzativo attraverso il karmayoga è per gli yogin. Poiché
dalla espressione: «...né soltanto con un completo atto di ri-
nuncia [ad agire] attinge pienamente la perfezione» (Bha. Gı.
3.4), si stabilisce che il karmayoga deve essere accompagnato
dalla conoscenza, [Arjuna] mosso dalla istanza di comprende-
re distintamente se tra questi due, (saænyåsayoga e karmayo-
ga) per colui che non possiede la conoscenza, è meglio il saæ-
nyåsa oppure è migliore il karmayoga, [formulò un quesito].

Arjuna disse:

5.1. O Kÿ≤√a, elogi la completa rinuncia nei confronti delle


azioni e altresì lo yoga [dell’azione]. Quello, che è il migliore
tra questi due, quello solo dimmelo chiaramente.

“...elogi”, decanti, cioè reciti “la completa rinuncia”, il tota-


le distacco “nei confronti delle azioni”, [persino] quelle scrit-
turali, specificate in quanto devono essere compiute, “e altresì
lo yoga [dell’azione]”, ossia dichiari che è necessario effettuare
la pratica di quelle stesse [azioni cui si dovrebbe rinunciare].
5.3 Quinto Adhyåya 247

Da qui il mio dubbio: se è meglio la pratica dell’azione, oppu-


re il suo abbandono, dovendosi porre in atto [solo] ciò che è
maggiormente degno di lode. E, quindi, “Quello che è il mi-
gliore”, che è maggiormente degno di lode “tra questi due”
[sentieri] – il saænyåsa e il karmayoga – dalla cui attuazione
pensi che si abbia per me l’esito migliore, “quello solo”, essen-
do impossibile l’attuazione dell’uno e dell’altro congiunta-
mente da parte di un solo individuo, “dimmelo chiaramente”,
secondo la tua convinzione.
Riferendo la propria convinzione per stabilire definitivamen-
te [quale delle due cose fosse la migliore], Ÿrı Bhagavat rispose:

Ârı Bhagavat disse:

5.2. Il saænyåsa e il karmayoga, entrambi conferiscono il


Bene supremo; ma dei due, rispetto alla completa rinuncia all’a-
zione, il karmayoga è [per te] il migliore.

“Il saænyåsa”, il totale distacco nei confronti delle azioni,


“e il karmayoga”, anche la loro effettuazione, “entrambi” tali
[sentieri] “conferiscono il Bene supremo”, cioè apportano il
Bene supremo che è la liberazione, essendo [ambedue] causa
del sorgere della conoscenza; “ma”, sebbene entrambi conferi-
scano il Bene supremo, tuttavia “dei due”, entrambi causa [del
conseguimento] del Bene supremo, “rispetto alla” sola “comple-
ta rinuncia all’azione, il karmayoga è [per te] il migliore”. Così
[Bhagavat] esprime un elogio nei confronti del karmayoga.
Perché?
[Perché Bhagavat] aggiunge:

5.3. Si deve riconoscere come un costante saænyåsin quegli


che non rifiuta e non brama [nulla]. Infatti, senza [dipendere
dalle] coppie [di opposti], o Mahåbåhu, facilmente si affranca
dalla schiavitù.
248 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 5.3

“Si deve riconoscere”, deve essere considerato “come un


costante saænyåsin quegli”, il karmayogin, “che non rifiuta e
non brama” nulla in relazione a ciò che è [rispettivamente
fonte di] dolore o piacere, né in relazione ai loro mezzi. Que-
gli che, nonostante sia impegnato nello svolgimento di attivi-
tà, è in tal maniera, questi è un costante saænyåsin e come
tale deve essere riconosciuto. “Infatti, senza [dipendere dalle]
coppie [di opposti]”, ossia: poiché è libero dalle coppie [di op-
posti], “o Mahåbåhu, facilmente”, senza sforzo, “si affranca
dalla schiavitù”.
Obiezione: La contraddittorietà che sussiste tra il saænyå-
sa e il karmayoga, che devono essere posti in atto da esseri
umani [appartenenti a stadi] distinti e sono di per sé opposti,
deve aversi anche in relazione al [loro rispettivo] frutto; inve-
ce [da parte Vostra si ammette] ugualmente per entrambi la
capacità di conferire il Bene supremo.
Risposta: Assunto ciò, si risponde:

5.4. Che il Såækhya (jñånayoga) e lo Yoga (karmayoga)


siano distinti lo sostengono i fanciulli, [ma] non i sapienti. Co-
lui, che ha autenticamente intrapreso anche uno [solo dei due],
di entrambi coglie il frutto.

“Che il Såækhya e lo Yoga siano distinti”, in quanto oppo-


sti e latori di frutti differenti, “lo sostengono i fanciulli, [ma]
non i sapienti”. Al contrario i sapienti (pa√ƒita), cioè i cono-
scitori (jñånin) sanno che vi è un frutto unico e privo di con-
traddizione [per ambedue questi sentieri].
In che modo?
“Colui che ha autenticamente intrapreso”, vale a dire che
porta realmente in atto, “anche uno [solo dei due]”, tra il Såæ-
khya (jñånayoga) e lo Yoga (karmayoga), “di entrambi coglie
il frutto”, perché il Bene supremo (la liberazione) è lo stesso
5.5 Quinto Adhyåya 249

frutto di ambedue; pertanto non vi è contraddizione in rela-


zione al frutto.
Obiezione: Comunque, avendo esordito con l’esprimere un
elogio attraverso i termini saænyåsa e karmayoga [in quanto
riferiti a sentieri distinti], perché qui [Bhagavat] parla del
Såækhya e dello Yoga, che non costituiscono l’argomento in
corso di trattazione, come aventi un frutto unico?
Risposta: Questo non è un difetto. Sebbene Arjuna avesse
formulato un quesito riferendosi al saænyåsa e al karmayoga
[considerati] in assoluto, invece Bhagavat, senza discostarsi da
tale [questione], fornisce una risposta aggiungendo una sua
propria specifica spiegazione ed esprimendosi con una diversa
terminologia, cioè [parlando di] Såækhya e Yoga. Quei due stes-
si, il saænyåsa e il karmayoga, quando sono associati [rispetti-
vamente] alla conoscenza con i suoi mezzi specifici e a uno stato
di intelletto equanime, possono essere espressi con i termini:
Såækhya e Yoga. Tale è l’idea che Bhagavat intende esprimere.
Quindi la disamina etimologica non è estranea alla trattazione.
Obiezione: In che modo, dall’autentica effettuazione anche
di uno [soltanto di loro], si può cogliere il frutto di entrambi?
Risposta: Si dice:

5.5. Lo stato che è ottenuto dai såækhya, quello viene conse-


guito anche dagli yoga; colui, il quale vede il Såækhya e lo
Yoga come uno, costui vede [rettamente].

“Lo stato” denominato liberazione “che è ottenuto dai såæ-


khya”, cioè dai completi rinunciatari fermamente stabiliti nel-
la conoscenza, “quello viene conseguito anche dagli yoga” at-
traverso l’acquisizione della conoscenza della realtà suprema
e [la pratica] del saænyåsa – [in questo contesto] gli yoga
sono gli yogin – cioè da coloro i quali si dedicano alle attività
250 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 5.5

[conformemente alle Scritture, allo stadio, ecc.] senza mirare


a un frutto per sé stessi ma offrendole a ÙŸvara in quanto [an-
che] questo è un mezzo per ottenere [sia pur indirettamente]
la conoscenza. Quindi, “colui, il quale vede il Såækhya e lo
Yoga come uno”, in virtù del loro apportare un unico frutto,
“costui vede [rettamente]”, vale a dire conosce realmente.
Obiezione: [Se è] così, allora lo stesso saænyåsa è migliore
rispetto al karmayoga. Perché, allora, è stato dichiarato que-
sto: «...ma dei due, rispetto alla completa rinucia all’azione, il
karmayoga è [per te] il migliore» (Bha. Gı. 5.2)?
Risposta: Ascolta [qual è] la causa al riguardo. Quando hai
domandato: ‘qual è il migliore tra i due?’ (Cfr. Bha. Gı. 5.1), tu
hai formulato un quesito in merito al karmasaænyåsa e al ka-
rmayoga [considerati] in assoluto e Io, in conformità a tale
[interrogativo], ho espresso la risposta [nei termini]: ‘il karma-
yoga è migliore rispetto al karmasaænyåsa’ (Cfr. Bha. Gı. 5.2),
ciò [è stato pronunciato] senza fare alcun riferimento alla co-
noscenza. Invero, il saænyåsa che fa riferimento alla conoscen-
za viene da Me inteso come il Såækhya ed esso stesso è lo Yo-
ga della realtà suprema, mentre il karmayoga [quale si confor-
ma al rituale] vedico viene indicato metaforicamente come
Yoga o [anche] come saænyåsa in quanto possiede quel me-
desimo scopo [dello Yoga o del saænyåsa, cioè il mok≤a]3.
Obiezione: In che senso ha quel medesimo scopo?
Risposta: Si dice:

5.6. Ma il saænyåsa, o Mahåbåhu, è difficile da conseguire


prescindendo dallo yoga. L’asceta silenzioso (muni) dedito allo
yoga attinge rapidamente il Brahman.

“Ma il saænyåsa” relativo alla realtà suprema, “o Mahåbå-


hu, è difficile da conseguire”, da ottenere, “prescindendo dallo
5.7 Quinto Adhyåya 251

yoga”, senza [praticare] lo yoga”. “L’asceta silenzioso dedito


allo yoga...” – l’asceta silenzioso (muni) [è tale] in virtù della
sua [continua] meditazione sulla reale natura di ÙŸvara (Bra-
hman), ed egli è dedito al karmayoga [quale pratica del ritua-
le] vedico senza alcuna aspettativa di frutto [per se stesso]
ma offrendo spontaneamente [tali atti] al Signore; infine il
Brahman, consistendo nella conoscenza del supremo åtman, è
il saænyåsa oggetto della disamina che, appunto, viene detto
Brahman come [si apprende] dalla Âruti: «La rinuncia (nyåsa)
è il Brahman, e il Brahman è il Supremo» (Nå. 78) – “...attinge
rapidamente”, ossia consegue ben presto “il Brahman”, cioè il
saænyåsa relativo alla realtà suprema, consistente nella stabi-
le fondatezza nella conoscenza del supremo åtman. Per questo
Io ho detto: «...il karmayoga è [per te] il migliore» (Bha. Gı. 5.2).
Quando avviene, dunque, che questo [yoga dell’azione] è
[praticato come] un mezzo per ottenere l’autentica conoscenza?

5.7. Colui che [costantemente] è dedito allo yoga, il cui sé è


purificato, il cui sé [corporeo] è sottomesso, i cui sensi sono stati
dominati e il cui åtman è divenuto l’åtman di tutti gli esseri, pur
compiendo [l’azione], non [ne] è contaminato.

“Colui che [costantemente] è dedito allo yoga”, è con-


giunto con lo yoga, “il cui sé è purificato”, il cui sattva (il
mentale) è stato purificato, “il cui sé [corporeo] è sottomes-
so”, il cui veicolo fisico è stato sottomesso, “i cui sensi sono
stati dominati e il cui åtman è divenuto l’åtman di tutti gli
esseri” – colui il cui åtman è divenuto l’åtman di tutti gli es-
seri (sarvabh¥tåtmabh¥tåtmå) è quegli la cui intima consa-
pevolezza, ciò che è [propriamente] l’åtman, è diventata l’å-
tman di tutti gli esseri da Brahmå sino agli enti inerti – vale
a dire l’autentico conoscitore (samyagdarŸin), costui, essen-
do in tal maniera, “pur compiendo” l’azione, allorché agisce
a beneficio del mondo, “non [ne] è contaminato”, vale a dire
252 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 5.7

che non resta vincolato dalle [sue] azioni. E, in realtà, questi


non agisce [affatto], per cui:

5.8. Colui che si è unificato, conoscitore della essenza [di tut-


to], dovrebbe pensare: ‘[in realtà io] non faccio proprio nulla...’.
Pur vedendo, udendo, toccando, fiutando, mangiando, spostan-
dosi, dormendo, respirando,...

5.9. ...parlando, evacuando, afferrando, aprendo e chiudendo


gli occhi, deve affermare: ‘...ma sono i sensi che si muovono tra
gli oggetti sensibili’.

“Colui che si è unificato” (yukta), essendo completamente


raccolto [in quanto costantemente assorbito nella meditazio-
ne yoga], “conoscitore della essenza [di tutto]” – il conoscito-
re della essenza (tattvavid) è colui che conosce la realtà dell’å-
tman qual essa è, vale a dire che ha realizzato la realtà supre-
ma – “dovrebbe pensare”, dovrebbe considerare [sempre]:
“[in realtà io] non faccio proprio nulla (ma sono i sensi che si
muovono tra gli oggetti sensibili)”.
Obiezione: Quando, ovvero in che modo potrebbe pensare
[così] se è costantemente assorto nell’essenza?
Risposta: Si dice: “Pur vedendo...” [ecc.]. [In questo verso
è sottintesa] la connessione con il precedente [verso, dove
compare la voce verbale] “dovrebbe pensare” (manyeta). Per
colui il quale, essendo così un conoscitore della essenza e per-
cependo soltanto la non-azione in tutte le azioni, quali sono
le attività [specifiche] di corpo e sensi (kåryakara√a), dunque
per un tale autentico conoscitore la sola qualificazione con -
siste nella completa rinuncia a qualsiasi azione, avendo egli
realizzato la non-esistenza dell’azione. Colui che cerca di dis-
setarsi pensando all’acqua [percepita erroneamente] in un
miraggio, una volta presa consapevolezza della inesistenza
5.11 Quinto Adhyåya 253

dell’acqua [in quel luogo], non cercherà di spegnere lì stesso


la sua arsura.
Ma, d’altra parte, colui il quale non è un conoscitore della
essenza ed è impegnato nel karmayoga, cioè:

5.10. Colui che, abbandonato l’attaccamento, agisce dedi-


cando le sue opere al Brahman, quegli non è contaminato dal-
l’errore, come una foglia di loto [non è bagnata] dall’acqua.

“Colui che, abbandonato l’attaccamento” al frutto, sia pu-


re la liberazione, “agisce dedicando” tutte “le sue opere al Bra-
hman”, cioè offrendo tutte le azioni al Signore (ÙŸvara) [soste-
nuto dalla convinzione]: ‘[lo] faccio per Lui’, come un servi-
tore [fa] per il padrone, “quegli non è contaminato”, non vie-
ne a essere vincolato “dall’errore, come una foglia di loto [non
è bagnata] dall’acqua”, dalle gocce 4.
Il frutto stesso di tale azione [così compiuta] consiste uni-
camente nella mera purificazione del mentale (sattvaŸuddhi),
perché:

5.11. Con il corpo, con la mente, con l’intelletto superiore e


anche con i soli sensi, gli yogin [che seguono il karmayoga]
compiono l’azione per la purificazione di sé abbandonando l’at-
taccamento.

“Con il corpo”, tramite il veicolo fisico, “con la mente, con


l’intelletto superiore e anche con i soli sensi” privi di posses-
sività (mamatva), del tutto liberi dall’idea del ‘senso del mio’
[con la consapevolezza]: ‘compio l’azione solamente per il Si-
gnore e non già per [ottenerne] un frutto per me’ – il termine
“soli” (kevala) va connesso singolarmente anche con ciascuno
[dei termini precedenti] a partire dal corpo, ecc. [significan-
do: con il solo corpo, con la sola mente, ecc.] – ossia allo sco-
po di rimuovere la [nozione della] appartenenza a sé in tutte
254 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 5.11

le attività [individuali], “gli yogin”, ossia i ritualisti, “compio-


no l’azione per la purificazione di sé”, vale a dire per [ottene-
re] la purificazione del mentale, “abbandonando l’attaccamen-
to” verso il frutto.
Perciò, dato che la tua qualificazione consiste proprio in
questo, dunque: ‘compi senz’altro l’azione!’.
[Questo] anche perché:

5.12. Colui che è si è unificato [attraverso lo yoga], avendo


abbandonato [l’attaccamento verso] il frutto dell’azione, ottiene
la pace definitiva; [ma] colui che non si è unificato, [essendo]
attaccato al frutto attraverso il senso del desiderio, viene a le-
garsi tenacemente.

“Colui che si è unificato [attraverso lo yoga]”, essendo così


assorto [nella consapevolezza]: ‘compio le azioni per il Signore
e non per [ottenerne] un frutto per me’, “avendo abbandonato
[l’attaccamento verso] il frutto dell’azione”, essendosene cioè
completamente distaccato, “ottiene la pace definitiva”, cioè lo
stato finale di Essere (ni≤†hå bhavå) denominato liberazione,
procedendo successivamente attraverso [le condizioni di]: pu-
rificazione del mentale, conseguimento della conoscenza, com-
pleta rinuncia a qualsiasi azione e stabile fondatezza nella co-
noscenza. Tale è [il senso che sottintende] la restante parte
della sentenza. Viceversa, per quanto riguarda “colui che non
si è unificato [attraverso lo yoga]”, non essendo assorto [nella
consapevolezza di agire per il Signore], ma rimanendo così
“attaccato al frutto” [dell’azione, con l’idea]: ‘compio questa
azione per [ottenerne] un frutto per me’, “attraverso il senso
del desiderio...” – il senso del desiderio (kåmakåra) è l’operato
del desiderio, il suo agire come strumento, per cui [l’espres-
sione]: ‘attraverso il senso del desiderio’, significa: a causa
dell’impulso del desiderio – “...viene a legarsi tenacemente”.
Pertanto, il significato è: ‘diventa tu [stesso] unificato!’.
5.13 Quinto Adhyåya 255

5.13. Rinunciando completamente nel pensiero a tutte le


azioni, dimora felice, padrone di sé, nella cittadella dalle nove
porte l’essere incarnato, non agendo affatto né causando atti-
vità.

“Rinunciando completamente nel pensiero a tutte le azio-


ni”, cioè distaccatosi completamente attraverso l’intelletto di-
scriminante da tutte le azioni – [nella espressione] ‘tutte le
azioni’ (sarvå√i karmå√i) [sono comprese] quelle [attività ri-
tuali e non] che [in relazione ai dettami scritturali o ai fini in-
dividualistici] comprendono: il [rito] perpetuo (nitya), l’occa-
sionale (naimittika), il [rito] finalizzato (kåmya) e il proibito
(prati≤iddha) – vale a dire: distaccandosi totalmente [dall’a-
zione] grazie alla piena consapevolezza della non-azione nel-
l’azione, ecc., “dimora”, permane “felice...” – ossia: distaccato-
si dalle attività di parola, mente e corpo, libero da [qualun-
que] sforzo, con la mente perfettamente pacificata e ritiratosi
da qualsiasi obiettivo esteriore differente da se stesso: così
viene affermato che “dimora felice” – “...padrone di sé” (vaŸı),
vale a dire con i sensi sottomessi.
Dove e in che modo dimora [felice e padrone di sé]?
[Bhagavat] dice: “nella cittadella dalle nove porte”. Sette
sono le porte percettive dell’åtman situate nel capo e due nel-
la parte inferiore [del corpo] che servono per l’emissione di
urina ed escrementi; per via di tali porte il corpo è detto ‘la
cittadella dalle nove porte’ (navadvåraæ puram). È [detto es-
sere] una cittadella in quanto è come una cittadella il cui uni-
co signore è l’åtman [individuato], abitata da quelli che, come
cittadini, sono i sensi, la mente e l’intelletto con i loro oggetti,
[tutti] operanti per il suo scopo e in grado di apportare le co-
noscenze relative a molteplici frutti (oggetti). In tale cittadella
dalle nove porte dimora [felice, ecc.] “l’essere incarnato” (l’å-
tman nel suo riflesso individuato o jıvåtman) avendo comple-
tamente rinunciato a qualsiasi azione5.
256 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 5.13

Obiezione: A che scopo la specificazione [‘dimora nella cit-


tadella... che è il corpo’]? Infatti qualunque essere incarnato
dimora alla stessa maniera in un corpo, che si tratti di un com-
pleto rinunciatario o di uno che non ha operato la completa
rinuncia. In tal caso la precisazione appare inutile.
Risposta: Si dice: invero, qualunque essere incarnato, il
quale è soggetto all’ignoranza, percepisce se stesso unica-
mente come aggregato di corpo e sensi e pensa: ‘mi trovo in
una casa, sul pavimento, in un vestito’. Infatti, per colui che
percepisce se stesso soltanto come corpo non potrebbe mai
aversi la consapevolezza: ‘dimoro [attualmente] in un corpo
come in una casa’. Invece, per colui che percepisce se stesso
separatamente dall’aggregato di corpo, ecc., può ben aversi
una consapevolezza come: ‘dimoro [attualmente] in un cor-
po’. [In tal caso per costui] è logicamente ammissibile la
completa rinuncia per mezzo della mente, ossia con la con-
sapevolezza ovvero tramite la conoscenza discriminante (vi-
vekajñåna), alle azioni, [realmente] appartenenti ad altro
[che non l’åtman, ma] sovrapposte al supremo åtman attra-
verso l’ignoranza.
Per colui per il quale è sorta la conoscenza discriminante,
nonostante che abbia anche operato la completa rinuncia a
tutte le azioni, vi è il permanere nella cittadella dalle nove
porte che è il corpo stesso come in una casa a seguito dello
sviluppo dei semi attivi (saæskåra) il cui frutto è maturato, e
ciò per via del manifestarsi della [sua] consapevolezza parti-
colare (individuale) soltanto in relazione al corpo. Pertanto,
la specificazione: ‘dimora ancora nel corpo’, ha effettivamen-
te una sua ragion d’essere, in quanto fa riferimento alla dif -
ferenza del contenuto di consapevolezza per il saggio e per il
non-saggio.
Obiezione: Sebbene sia stato detto: “Rinunciando...” alle
azioni di corpo e sensi sovrapposte all’åtman attraverso l’i-
5.14 Quinto Adhyåya 257

gnoranza “dimora...”, tuttavia sia la natura agente che la natu-


ra causante l’azione possono in verità appartenere intrinseca-
mente all’åtman (per cui continuerebbero a manifestarsi an-
che nel completo rinunciatario).
Risposta: Ponendosi tale dubbio, [Bhagavat] aggiunge:
“...non agendo affatto” di per sé “né causando attività”, cioè
[non] impulsando il corpo e i sensi nelle [rispettive] attività
funzionali.
Obiezione: Forse [si intende che] la natura di agente e la
natura causante l’attività, essendo inerenti al proprio åtman
e appartenendo quindi all’essere incarnato, possono cessare
di esistere a causa della completa rinuncia allo stesso modo
in cui, al completo abbandono dell’atto di andare, non vi è
più movimento per colui che si sposta? Oppure [si vuole as-
serire che tali funzioni] non appartengono affatto all’åtman
di per sé?
Risposta: A ciò si replica: l’åtman non possiede di per sé
né una natura agente né una natura causante l’azione. Infatti
è stato detto: «...questo [åtman] viene detto immodificabile
(non soggetto ad attività trasformante)» (Bha. Gı. 2.25), «...seb-
bene risieda nel corpo, o Kaunteya, non agisce né è contami-
nato [dal frutto dell’azione]» (Bha. Gı. 13.31), mentre dalla
Âruti [si apprende]: «...è come se pensasse, è come se si muo-
vesse» (Bÿ. 4.3.7).
E inoltre:

5.14. Né la funzione di agente né gli oggetti manifesta per il


mondo il Signore, né la connessione con il frutto dell’azione; in-
vero è la natura propria che si esprime.

“Né la funzione di agente” [ordinando, per esempio]: ‘fa’


[così]’, “(né)”, e neppure “gli oggetti” sommamente desiderati
258 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 5.14

quali carri, vasi, sontuosi palazzi e altri “manifesta”, produce


da sé “per il mondo il Signore”, cioè l’åtman, “né la connes-
sione con il frutto dell’azione”, né [crea] la connessione di co-
lui che [ad esempio] ha prodotto un carro o altro con il frutto
di tale [atto].
Obiezione: Se l’essere incarnato non compie di per sé alcu-
na azione né fa agire [altri], chi è, allora, che si esprime agen-
do e facendo agire?
Risposta: Si dice: “...invero è la natura propria che si espri-
me”, come verrà detto poi: «(Questa mia) natura divina, inve-
ro...» (Bha. Gı. 7.14). La natura propria (svabhåva) è la natura
in sé, ovvero la måyå, la natura universale (prakÿti), consu-
stanziata di ignoranza.
Invece, dalla [visuale della] suprema realtà,

5.15. Non assume l’errore di alcuno e neanche il buon opera-


to [di altri] Quegli che tutto pervade. La conoscenza è avvilup-
pata dalla ignoranza: per questo i mortali sono smarriti.

E “Non assume”, non prende [su di sé] “l’errore di alcuno”,


neanche di un [suo] devoto, “e neanche” assume “il buon ope-
rato” [per quanto] compiuto dai [suoi] devoti.
Obiezione: A che scopo, allora, i devoti si impegnano a com-
piere il buon operato consistente in atti di adorazione, ecc. e
in sacrifici, donazioni e oblazioni nel fuoco sacrificale, ecc.?
Risposta: [Bhagavat] dice: “La conoscenza”, la consapevo-
lezza discriminante, “è avviluppata dall’ignoranza: per questo
i mortali sono smarriti” [credendo]: ‘sono io che agisco e fac-
cio agire [altri], sono io che sperimento [il frutto della mia
azione] e faccio sperimentare [ad altri il frutto delle loro azio-
ni]’; in tal modo essi, privi di discriminazione, cadono preda
di illusione e divengono soggetti al divenire ciclico.
5.17 Quinto Adhyåya 259

5.16. Invece, per coloro, la cui ignoranza è stata distrutta


dalla conoscenza dell’åtman, per costoro, simile al sole la cono-
scenza svela Quello, il Supremo.

“Invece, per coloro”, per i mortali, “la cui ignoranza...” – av-


viluppati dalla quale ignoranza i mortali erano smarriti – “...è
stata distrutta dalla conoscenza”, dalla conoscenza discrimi-
nante il cui oggetto è l’åtman, “per costoro, simile al sole” che
illumina la natura generata nella sua interezza, tal quale “la
conoscenza svela Quello, il Supremo”, la totalità di ciò che è
conoscibile, dunque la Realtà suprema.
Per quanto concerne [coloro per i quali] la conoscenza su-
prema si è svelata,

5.17. Con la consapevolezza in Quello, con l’åtman in Quel-


lo, dediti a Quello, con Quello come supremo approdo, se ne
vanno, senza tornare indietro, con l’impurità eliminata dalla
conoscenza.

“Con la consapevolezza in Quello” sono coloro la cui con-


sapevolezza (buddhi) si è risolta in Quello, nel Brahman; “con
l’åtman in Quello”: hanno l’åtman in Quello coloro per i quali
l’åtman è [stato svelato come] Quello stesso, cioè il supremo
Brahman; “dediti a Quello”: sono dediti a Quello (tanni≤†ha) co-
loro per i quali, dopo aver completamente rinunciato a tutte le
azioni, la condizione di esistenza, dunque la fondatezza, la per-
fetta aderenza e lo scopo ultimo, è soltanto in Quello, ossia nel
Brahman; “con Quello come supremo approdo”: hanno Quello
come supremo approdo (tatparåya√a) coloro per i quali Quello
stesso rappresenta l’obiettivo supremo, la mèta ultima, vale a
dire coloro che sono appagati solamente dall’åtman assoluto.
Quelli di tale natura, cioè gli asceti itineranti (yati), la cui
ignoranza è stata distrutta dalla conoscenza dell’åtman, “se ne
vanno, senza tornare indietro”, in quanto esenti dal legame
260 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 5.17

con un ulteriore corpo, “con l’impurità eliminata dalla cono-


scenza”. Hanno l’impurità eliminata dalla conoscenza coloro
per i quali l’impurità (kalma≤a), cioè il difetto che è causa del
[permanere nel] divenire ciclico, come l’errore [conoscitivo]
e altri, è stata dispersa, distrutta dalla conoscenza quale è sta-
ta esposta. Tale è il significato.
Obiezione: Tali sapienti, la cui ignoranza è stata distrutta
dalla conoscenza, in che modo percepiscono la realtà?
Risposta: Si dice:

5.18. In un bråhma√a pienamente dotato di conoscenza e


umiltà, in una vacca, in un elefante, in un cane e persino in uno
Ÿvapåka i [veri] sapienti vedono il medesimo [e unico Brahman].

Conoscenza e umiltà designano [indipendentemente] la


conoscenza (vidyå) e l’umiltà (vinaya), laddove con umiltà (in
senso filosofico) s’intende la soluzione (upaŸama) [della indi-
vidualità nel suo complesso]. Quegli che è un conoscitore ed
è totalmente autodominato è un bråhma√a pienamente dota-
to di conoscenza e umiltà, cioè pienamente dotato delle due,
dunque sia della conoscenza che dell’umiltà. In quello, cioè
“In un bråhma√a pienamente dotato di conoscenza e umiltà,
in una vacca, in un elefante, in un cane e persino in uno Ÿva-
påka (mangiatore di carne di cane, individuo di rango infi-
mo) i [veri] sapienti vedono il medesimo [e unico Brahman]”6.
Nel bråhma√a pienamente dotato di conoscenza e umiltà,
il quale è [al vertice delle creature elencate essendo] somma-
mente purificato e nel quale predomina il sattva, in una vac-
ca, che è nel mezzo [di tali creature] in quanto moderatamen-
te purificata e nella quale predomina il rajas, e [nelle creature
seguenti] a cominciare dall’elefante, in cui vi è soltanto il pu-
ro tamas, [in tutte queste creature] i [veri] sapienti vedono il
medesimo [e unico Brahman]; infatti essi sono coloro che han-
5.19 Quinto Adhyåya 261

no svelato l’intrinseca attitudine a percepire [in tutti gli esse-


ri] il medesimo e unico Brahman esente da modificazione e
assolutamente privo di qualsiasi contatto sia con i gu√a quali
il sattva e gli altri, sia, ugualmente, con i semi attivi (saæskå-
ra) da quelli generati, sia, affatto allo stesso modo, con gli im-
pulsi [potenziali] in cui prevale la natura di rajas o di tamas 7.
Obiezione: Tuttavia tali [sapienti] sono caratterizzati da
difetti, essendo persone il cui cibo non deve essere mangiato
[da altri, come si apprende] dalla Smÿti: «[Il pasto] di colui
che onora il suo pari [casta] in modo differente [da se stesso]
e il suo non pari in modo analogo [a se stesso] (non deve es-
sere consumato...)» (Gau. Dha. S¥. 17.20).
Risposta: Essi non hanno alcun difetto. Perché?

5.19. Qui stesso la venuta in esistenza è superata da coloro


la cui mente è fermamente stabilita nella identità [con il Bra-
hman]. Poiché il Brahman è privo di difetto e [sempre] identico
[a Sé stesso], perciò essi sono costantemente stabiliti nel Bra-
hman.

“Qui stesso” (in questo mondo), cioè anche mentre sono


ancora in vita, “la venuta in esistenza”, cioè la [condizione di]
nascita, “è superata”, è trascesa “da coloro”, dai sapienti che
vedono un [solo e] identico [Brahman in tutti gli esseri], “la
cui mente” – l’organo interno – divenuta priva di movimento,
“è fermamente stabilita nella identità” (såmya), cioè [risolta]
nella consapevolezza della identità relativamente al Brahman
[in quanto percepito] in tutti gli esseri.
Sebbene il [Brahman] privo di difetti, [manifestandosi] in
[corpi di] esseri che posseggono difetti, quali i mangiatori di
carne di cane e altri, appare agli stolti (i non-conoscitori, sog-
getti all’ignoranza) come se fosse contaminato dalle loro im-
purità, tuttavia non ha alcun contatto con tali difetti. “Poiché
262 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 5.19

il Brahman è privo di difetto...” (nirdo≤a), cioè per il motivo


che è totalmente esente da qualsiasi imperfezione, non è nem-
meno differenziato a seguito della differenziazione dei propri
attributi principiali (gu√a), perché la pura Coscienza (caita-
nya) è priva di attributi (nirgu√a). Inoltre [più avanti, in Bha.
Gı. 13.5-6] Bhagavat affermerà che la volontà [individuale] e
le altre [caratteristiche] sono proprietà del campo [di esisten-
za del jıva, il k≤etra, dunque del corpo, ecc., e non dell’åtman]
e anche [con riferimento all’åtman]: «Essendo senza inizio ed
essendo privo di attributi...» (Bha. Gı. 13.31).
In rapporto all’åtman non vi sono neppure le particolarità
ultime (åntyaviŸe≤a), [definite dal VaŸe≤ika] come causa della
distinzione in relazione a ciascun singolo corpo, perché in
merito alla loro esistenza non si può a ragione ammettere al-
cun mezzo di prova8. Quindi [il Brahman] è “...[sempre] iden-
tico [a sé stesso]” e anche unico (eka), “perciò essi sono co-
stantemente stabiliti” soltanto “nel Brahman”. Pertanto, nean-
che il più piccolo difetto può toccarli, perché in loro è assente
la [nozione di] individualità scaturiente dalla percezione di sé
come aggregato di corpo, ecc. Invece, l’aforisma [citato]: «[Il
pasto] di colui che onora il suo pari [casta, ecc.] in modo dif-
ferente [da sé stesso] e il suo non pari in modo analogo [a sé
stesso] (non deve essere consumato...)» (Gau. Dha. S¥. 17.20)
si applica [solo] a colui che possiede [ancora il senso della]
individualità scaturiente dalla percezione di sé come aggrega-
to di corpo, ecc., in quanto viene esplicitamente asserito che
si tratta di coloro che devono ricevere i dovuti onori. Si osser-
va infatti che, in relazione agli atti di omaggio e alla elargizio-
ne di offerte, vi è la ragione costituita dalla connessione con
particolari qualità, come l’essere un conoscitore del Brahman,
un conoscitore delle sei [scienze] ausiliarie 9, un conoscitore
dei Veda [e così via]. Ma il Brahman è totalmente esente da
qualsiasi relazione con quei difetti che sono le qualità [stesse],
per cui è appropriato [affermare che] “...essi sono costante-
5.20 Quinto Adhyåya 263

mente stabiliti nel Brahman”. Inoltre, il passo [prima citato]:


«... in modo differente [da sé stesso] e... in modo analogo [a
sé stesso]...», ecc. (Gau. Dha. S¥. 17.20) concerne l’attività ri-
tuale, mentre questa [parte della Bhagavadgıtå], a partire dal
passo: «Rinunciando completamente nel pensiero a qualsiasi
azione...» (Bha. Gı. 5.13) fino alla conclusione del Capitolo,
ha per argomento la completa rinuncia a qualsiasi attività.
Poiché il Brahman, cioè l’åtman, è privo di difetto e [sem-
pre] identico [a Sé stesso], perciò:

5.20. Non si rallegri ottenendo ciò che è piacevole, né si af-


fligga incorrendo in ciò che è spiacevole colui che ha l’intelletto
saldo e non è mentalmente confuso, che è conoscitore del Bra-
hman e che nel Brahman è stabilmente fondato.

“Non si rallegri”, non crei entusiasmo “ottenendo ciò che è


piacevole”, quand’anche acquisisca ciò che è desiderabile, “né
si affligga incorrendo in ciò che è spiacevole...”, quand’anche
acquisisca ciò che è indesiderabile. Infatti, per coloro che per-
cepiscono sé stessi unicamente come il corpo, l’acquisizione
di ciò che è piacevole e di ciò che è spiacevole induce rispetti-
vamente esaltazione o abbattimento, mentre non [è così] per
colui che percepisce se stesso come l’assoluto [åtman], perché
per lui non vi è acquisizione né di ciò che è piacevole né di
ciò che è spiacevole. E inoltre: “...colui che ha l’intelletto sal-
do”, cioè quegli il cui intelletto è saldo, esente da dubbiosità
[avendo svelato la consapevolezza]: ‘in tutti gli esseri vi è un
unico e medesimo åtman’, “e non è mentalmente confuso”,
cioè è immune dall’offuscamento mentale, “che è conoscitore
del Brahman” quale è stato esposto “e che nel Brahman è sta-
bilmente fondato”, vale a dire [colui che, svelata l’identità con
il Brahman, ristà perfettamente appagato, immobile e impas-
sibile] senza compiere [alcuna] attività ma avendo completa-
mente rinunciato a qualsiasi azione.
264 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 5.21

E inoltre, colui che è stabilmente fondato nel Brahman,

5.21. Colui, il cui sé [individuale] non è attaccato ai contatti


esteriori (sensoriali), trova la beatitudine che è nell’åtman. Egli,
con il sé assorbito nel Brahman tramite lo yoga, ottiene una
beatitudine indissolubile...

Nei contatti esteriori sono compresi quelli [cioè gli enti]


che sono esterni e che sono [conosciuti proprio attraverso
tali] contatti [sensoriali]. I contatti esteriori (båhyasparŸa)
[corrispondono perciò agli enti che] vengono conosciuti in
quanto sperimentati per contatto; così i contatti designano
in effetti gli oggetti [sensoriali], come il suono e gli altri.
“Colui il cui sé”, quegli il cui organo interno (la mente nel
suo complesso), “non è attaccato” a loro, “ai contatti esterio-
ri”, questi, il cui sé non è attaccato agli oggetti [sensoriali],
essendo immune da passione, “trova la beatitudine che è
nell’åtman”, cioè la prova [effettivamente], la percepisce.
Egli, con il sé assorbito nel Brahman tramite lo yoga...”. Lo
yoga designa la contemplazione (samådhi) [portata e mante-
nuta] nel Brahman: tale è il Brahmayoga; ha il sé assorbito
nel Brahman tramite lo yoga quegli il cui sé, cioè l’organo
interno (la mente), è immerso, unificato, completamente rac-
colto in Quello attraverso tale Brahmayoga. [Costui] “...ot-
tiene la beatitudine indissolubile”, cioè se ne compenetra.
Perciò colui che aspira alla [realizzazione della] beatitudine
indissolubile nell’åtman deve ritirirare i sensi dalla passeg-
gera passione verso gli oggetti esteriori. E deve ritrarli an-
che per un ulteriore motivo,

5.22. ...perché quei piaceri che nascono dai contatti [senso-


riali] sono soltanto fonti di sofferenza: hanno un inizio e [neces-
sariamente] una fine. O figlio di Kuntı, non è in loro che trova
la [sua] gioia il saggio.
5.23 Quinto Adhyåya 265

“...perché”, per la ragione che “quei piaceri (bhoga) che na-


scono dai contatti [sensoriali]”, cioè le fruizioni generate dai
contatti [con gli oggetti] attraverso gli organi sensoriali, “sono
soltanto fonti di sofferenza” essendo prodotti dall’ignoranza;
infatti le sofferenze pertinenti alla sfera individuale, ecc. hanno
causa solamente in tali [piaceri]. Come è qui, nel mondo [ordi-
nario], allo stesso modo è anche nell’altro mondo, come si
comprende dal termine “soltanto” (eva). Avendo riconosciuto
che nel divenire ciclico non vi è la benché minima felicità [sta-
bile], si dovrebbe ritirare i [propri] sensi dal miraggio degli og-
getti. [Invero gli oggetti e le fruizioni inerenti] non sono sol-
tanto fonti di sofferenza [di per sé e nel momento della loro
esperienza, ma] anche in quanto essi “hanno un inizio e [ne-
cessariamente] una fine”. La congiunzione (saæyoga) dei sensi
con gli oggetti costituisce l’inizio (ådi) dei piaceri, la stessa se-
parazione da loro ne è la fine (anta). Quindi, avendo un inizio e
una fine, sono impermanenti (anitya), vale a dire che appaiono
[come reali ed esistenti solamente] nel momento temporale
mediano. “O figlio di Kuntı, non è in loro”, nei piaceri [dati da-
gli oggetti sensoriali, ecc.], “che trova la [sua] gioia il saggio”,
colui che possiede discriminazione e ha compreso l’essenza
della realtà suprema; infatti si constata che la [collocazione
della] felicità negli oggetti concerne solo coloro che sono del
tutto privi dell’intelletto [discriminante], come animali e simili.
Vi è ancora questo impedimento assai nocivo, un ostacolo
che si oppone al [progresso sul] sentiero verso il Bene, che è
causa dell’incorrere in ogni male ed è difficile da estirpare.
Per eliminarlo si deve compiere uno sforzo superiore. Bhaga-
vat ha detto:

5.23. Colui che è capace qui stesso, di resistere, [anche] pri-


ma della separazione dal corpo, alla eccitazione che ha per im-
pulso desiderio e irritabilità, quegli è un essere unificato, quegli
è un uomo felice.
266 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 5.23

“Colui che è capace”, che è in grado “qui stesso”, cioè men-


tre è ancora in vita, “di resistere”, di opporsi, “[anche] prima
della separazione dal corpo”, vale a dire prima ancora della
morte...
La trattazione della morte come un limite (sımå) è [enun-
ciata] perché, per colui che vive, l’eccitazione avente per im-
pulso desiderio o collera è inevitabile: essa, infatti, ha infinite
cause. Ciò significa che fino alla morte, fino ad allora egli non
deve farsi cogliere distratto. [Per ciò che concerne] il deside-
rio: quella che è la brama, la sete in relazione a un oggetto
piacevole che, sperimentato, costituisce causa di felicità ed è
acquisito nella portata dei sensi mentre viene udito o viene
rammemorato, tale è il desiderio (kåma). [Per quanto riguar-
da] l’irritabilità: quella che è l’avversione (dve≤a) [che si ma-
nifesta] nei confronti di cose, che sono di per sé spiacevoli in
quanto sono [sempre] causa di sofferenza, quando vengono
viste o vengono udite o sono rammemorate: tale è l’irritabili-
tà (krodha). L’eccitazione (vega) che ha per impulso (udbhava)
desiderio e irritabilità è quello stato di esaltazione mentale il
cui stimolo è [dato da] desiderio o irritabilità. L’eccitazione, il
cui impulso è il desiderio, ha la natura di un potente scuoti-
mento dell’organo interno (la mente) caratterizzato [esterior-
mente] dal rizzarsi dei peli, dalla espressione ebbra degli oc-
chi, ecc.; l’eccitazione, il cui impulso è l’irritabilità, è caratte-
rizzata dal tremito corporeo, dalla sudorazione, dal serrare i
denti, dall’aggrottare le sopracciglia, dallo sguardo infuocato,
ecc. Colui che è in grado di resistere, di opporsi all’eccitazio-
ne che ha per impulso desiderio e irritabilità e che la inibisce,
“quegli è un essere unificato”, dunque uno yogin, e in questo
[stesso] mondo è “un uomo felice”.
Obiezione: E ancora: essendo divenuto in che modo, que-
gli che è stabilito nel Brahman, consegue [effettivamente] il
Brahman?
5.25 Quinto Adhyåya 267

Risposta: Dice Bhagavat:

5.24. Colui il quale ha la sua gioia all’interno, ha il suo di-


letto all’interno e, similmente, ha la sua luce soltanto all’inter-
no, tale yogin, divenuto il Brahman [stesso], raggiunge il Bra-
hmanirvå√a.

“Colui il quale ha la sua gioia all’interno...” – ha la sua


gioia all’interno colui per il quale la felicità è [solo] nell’ å-
tman interiore – in maniera simile “ha il suo diletto al l’inter-
no” colui per il quale il diletto, l’appagamento, il gaudio sono
solo nell’åtman interiore e, affatto “similmente, ha la sua
luce soltanto all’interno” colui per il quale la luce, lo splen-
dore sta solo interiormente, cioè soltanto nell’åtman; colui
che è siffatto, ossia “tale yogin”, essendo “divenuto il Bra-
hman, raggiunge il Brahmanirvå√a”, ossia consegue l’estin-
zione [della soggezione al divenire ciclico, ovvero la supre-
ma quiete-beatitudine] in Brahman, cioè la liberazione, qui,
mentre è ancora in vita 10.
E inoltre,

5.25. Ottengono il Brahmanirvå√a i saggi veggenti la cui


impurità (l’ignoranza) è stata distrutta, il cui dilemma è stato
troncato, i cui sé (gli aggregati corporeo-sensoriali) sono stati do-
minati e che sono felici nel [solo procurare] beneficio a ogni essere.

“Ottengono il Brahmanirvå√a”, cioè la liberazione, “i sag-


gi veggenti” (ÿ≤i), coloro che hanno l’autentica visione [spiri-
tuale], i completi rinunciatari, “la cui impurità (l’ignoranza)
è stata distrutta”, cioè sono privi di difetti, “il cui dilemma è
stato troncato”, che hanno spezzato il dubbio, “i cui sé (gli
aggregati corporeo-sensoriali) sono stati dominati”, che han-
no posto sotto completo controllo i [propri] sensi, “e che
sono felici nel [solo procurare] beneficio a ogni essere”, che
268 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 5.25

sono appagati nel concedere il loro favore, [nell’esprimere]


la propria benevolenza nei confronti di tutti gli esseri, essen -
do [del tutto] privi di qualsiasi forma di aggressività. Tale è
il significato.
E inoltre,

5.26. Per gli asceti totalmente affrancati da desiderio e ira-


scibilità, le cui menti sono state dominate e che hanno realizza-
to l’åtman, il Brahmanirvå√a esiste ovunque (prima e dopo la
morte fisica).

“Per gli asceti (yati) totalmente affrancati da desiderio e


irascibilità” – la bramosia [da un lato] e l’iracondia [dall’altro]
formano [la coppia di] desiderio e irascibilità (kåmakrodha) –
cioè per i completi rinunciatari che si sono affrancati da am-
bedue, “le cui menti sono state dominate”, i cui organi interni
[nel loro complesso] sono stati posti completamente sotto
controllo, “e che hanno realizzato l’åtman...” – hanno realiz-
zato l’åtman coloro per i quali l’åtman è divenuto oggetto di
una presa di coscienza, ossia è stato conosciuto – dunque, per
costoro, i quali hanno realizzato l’åtman, vale a dire: per colo-
ro i quali posseggono l’autentica visione-conoscenza, “il Bra-
hmanirvå√a”, cioè la liberazione, “esiste ovunque (prima e
dopo la morte fisica)”, cioè in entrambi i casi, ossia tanto per
coloro che vivono che per coloro che sono morti 11.
È stato detto [da Kÿ≤√a] che per i completi rinunciatari,
stabilmente fondati nell’autentica visione-conoscenza, la libe-
razione è immediata (sadyomukti), [mentre] il karmayoga, al-
lorché viene praticato in quanto offerto a ÙŸvara, cioè al Bra-
hman, attraverso la totale riverente devozione a ÙŸvara, con-
duce alla liberazione in maniera graduale [inizialmente] attra-
verso la purificazione del mentale, [quindi] con il consegui-
mento della conoscenza e [infine] mediante la completa ri-
nuncia a tutte le azioni: così Bhagavat ha affermato e lo ripe-
5.28 Quinto Adhyåya 269

terà passo dopo passo [mentre ora, a completamento della


trattazione della completa rinuncia quale mezzo per la cono-
scenza, afferma]: ‘ordunque esporrò estesamente un ulteriore
mezzo (a§ga) per [conseguire] l’autentica visione-conoscenza:
il dhyånayoga (lo yoga della meditazione)’. Invece qui [Bha-
gavat] insegna gli Ÿloka [seguenti] che costituiscono dei [veri
e propri] aforismi12.

5.27. Bloccati all’esterno i contatti esteriori [con gli oggetti


sensibili] e fissato lo sguardo al centro tra le sopracciglia, resi
equilibrati il flusso della espirazione e il flusso della inspirazio-
ne che scorrono all’interno delle narici,...

5.28. ...con i sensi, la mente e l’intelletto dominati, il [saggio]


silenzioso il cui supremo obiettivo è la Liberazione, che ha di-
sperso desiderio, paura e ira, e il quale è [così] sempre, quegli è
certamente liberato.

“Bloccati all’esterno i contatti esteriori [con gli oggetti


sensibili]...” quali il suono e gli altri: gli oggetti [di percezione
e di contenuto mentale, vi≤aya] quali il suono e gli altri, pene-
trati all’interno dell’intelletto attraverso gli accessi dell’udito,
ecc., sono bloccati all’esterno, cioè [restano come] il suono e
gli altri [oggetti] esteriori, da parte di colui che non li pensa.
Avendoli così bloccati all’esterno “...e fissato lo sguardo al
centro tra le sopracciglia” – ciò completa [la frase] – e, simil-
mente, “resi equilibrati il flusso della espirazione e il flusso
della inspirazione che scorrono all’interno delle narici, con i
sensi, la mente e l’intelletto dominati...” – ha i sensi, la mente
e l’intelletto dominati (yatendriyamanobuddhi) colui i cui sen-
si, la cui mente e il cui intelletto sono stati dominati, sono sta-
ti posti completamente sotto controllo – “...il [saggio] silen-
zioso” (muni), [così detto] per via della sua [costante] medita-
zione (v. 5.6), cioè il completo rinunciatario “il cui supremo
270 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 5.28

obiettivo è la liberazione” – ha come supremo obiettivo la li-


berazione (mok≤aparåya√a), mentre è immobile e stabile così
nel [mantenere una posizione del] corpo, quegli per il quale il
supremo (para) stato di quiete (ayana), la più alta mèta è la li-
berazione stessa13: questi ha come supremo obiettivo la libera-
zione ed è un [saggio] silenzioso; “...che ha disperso desiderio,
paura e ira”: ha disperso desiderio, paura e ira quegli dal qua-
le essi, ossia [l’insieme di] desiderio, paura e ira, dunque sia il
desiderio che la paura e anche l’ira, sono stati [tutti] dispersi
[avendo eliminato l’ignoranza che ne è la fonte]. Colui, com-
pleto rinunciatario, “...il quale (è)”, ossia vive così “sempre,
quegli è certamente liberato”: per la sua liberazione non deve
essere fatto [nulla] altro.
Che cosa vi è [ancora] da conoscere da parte di colui la
cui mente è così completamente assorta?
Si dice:

5.29. Conoscendo Me come il fruitore dei sacrifici e delle au-


sterità, come il MaheŸvara di ogni mondo e l’amico di tutti gli
esseri, raggiunge la pace.

“Conoscendo Me”, Nåråya√a, “come il fruitore dei sacrifici


e delle austerità”, cioè [Colui che fruisce] tanto dei sacrifici
quanto delle austerità, avendo [Io] la natura del soggetto agen-
te e avendo [anche] la natura della divinità [stessa a cui sono
rivolti], “come il MaheŸvara di ogni mondo”, come il grande
Signore (ıŸvara) di tutti i mondi, “e l’amico di tutti gli esseri”,
di tutte le creature viventi, che concede loro la sua grazia sen-
za aspettarsi favori in contraccambio, come il supervisore
(adhyak≤a) [in relazione al conferimento] dei frutti di tutte le
azioni che giace nel cuore di tutti gli esseri, come il testimone
di tutti i contenuti mentali, [colui la cui mente è così assorta]
“raggiunge la pace” (Ÿånti), cioè consegue la soluzione dell’in-
tero divenire ciclico esistenziale.
Quinto Adhyåya 271

Nelle Scritture yoga sulla conoscenza del Brahman


appartenenti alla Upani≤ad della sacra Bhagavadgıtå,
questo è il Quinto Capitolo
nel dialogo tra Kÿ≤√a e Arjuna
intitolato:
‘Lo yoga della completa rinuncia’.

*
NOTE al Quinto Adhyåya

1
I ritualisti dogmatici (P¥rvamımåæså) ritengono che ogni sin-
gola proposizione deve contenere una sola ingiunzione. In una nor-
ma quale: ‘il saggio deve osservare la completa rinuncia’, l’ingiun-
zione della completa rinuncia è l’oggetto principale; una eventuale
ulteriore specificazione, come: ‘la rinuncia dev’essere rispettata solo
dal conoscitore’, costituirebbe un argomento aggiuntivo, dunque
estraneo e inammissibile stando alla prassi scritturale. Tale convin-
zione si fonda sul principio in base al quale una doppia asserzione
potrebbe racchiudere una possibile contraddittorietà. Il non-cono-
scitore, che ha abbracciato il totale distacco dalla sfera empirica, pur
non avendo realizzato l’åtman, è, al pari di quello che lo ha realiz-
zato, tenuto a osservare la completa rinuncia, ma questo viene evi-
denziato solo dopo.
2
La rinuncia attuata dal non-conoscitore è parziale perché egli
tralascia solo le azioni relative ai doveri di stadio di vita, ecc., come
gli obblighi di capofamiglia, ecc., ma non quelle inerenti allo studio
e all’apprendimento dei Veda, per le quali è necessaria la nozione
dell’io. Questa rinuncia è dunque ben distinta da quella, completa,
del conoscitore il quale ha deposto persino il senso dell’io. È in re-
lazione a questa differenza che, per il non-conoscitore, l’azione è
migliore della rinuncia.
3
Analogamente a quanto già detto (2.2-17), il Såækhya designa
in questo contesto la conoscenza, dunque il jñånayoga, e, per esten-
sione, dato che questo si avvale primariamente e imprescindibilmen-
te della rinuncia, anche il saænyåsayoga. Per contro, il termine Yoga
da solo si riferisce alla pratica rituale operata secondo i dettami scrit-
turali. Così, da un lato vi è il Såækhya inteso come jñånayoga e saæ-
nyåsayoga, dall’altro lo Yoga come karmayoga. Mentre sotto il pro-
274 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

filo operativo vi è una netta distinzione, il frutto, o l’obiettivo per-


seguito da entrambi, è il medesimo: la liberazione (mok≤a). Così an-
che il karmayoga, la cui essenza è l’azione (karman), per quanto di-
sidentificata e non mirata al frutto diretto, convergendo sia pur in-
direttamente verso il mok≤a, può essere figuratamente assimilato a
un saænyåsa.
Cfr. Ma. Bhå. 3.213.20, 12.187.24, 12.242.18, Chå. 4.14.3, Mai. 3.2.
4

Nel canone buddhista, Dha. 401.


5
Per la ‘cittadella’, cfr.: Ma. Bhå. 12.240.32, Âve. 3.18, Ka. 2.2.1.
6
Cfr. Ma. Bhå. 12.240.19.
L’espressione: samadarŸinas potrebbe essere letta come: “ve-
7

dono identicamente” (samaæ darŸinas), cioè: ‘percepiscono identi-


camente il Brahman in tutti gli esseri elencati’. Data la costruzione
precedente dello Ÿloka – “in una vacca, in un elefante, ecc. – si è
preferita la forma: “vedono il medesimo” Brahman unico e senza-
secondo in tutti gli esseri, in riferimento all’attitudine, svelata dai
conoscitori, di percepire il Brahman in quanto privo di attributi,
esente da nome e forma, e quindi al di là di ogni possibile distinzio-
ne tra gli enti. Cfr. nota 13.70.
I semi attivi (saæskåra) sono i contenuti subconsci recati dal
jıva e formatisi dall’esperienza, dalla conoscenza, ecc. anche in esi-
stenze anteriori, che costituiscono semi di successive espressioni a
livello mentale (identificazione, esperienza, ecc.) e corporeo (azio-
ne, percezione, ecc.). Anche in tali semi vi è una commistione delle
caratteristiche dei gu√a, per cui possono essere sattvici, rajasici, ta-
masici o misti. Quando i saæskåra sono presenti, ma ancora non
maturati in condizioni effettive di esistenza, esperienza, azione,
ecc., si parla di veri e propri semi; quando giacciono in uno stato
meramente potenziale e non hanno assunto ancora una caratteristi-
ca definita vengono considerati come impulsi o tendenze latenti o
impressioni (våsanå) cariche di potenzialità espressiva e pronte a
svilupparsi. I saæskåra costituiscono il veicolo delle tre forme del
karman, per cui abbiamo i semi attivi maturati che hanno già dato i
loro effetti, i semi attivi ancora non maturati, che non hanno pro-
Note al Quinto Adhyåya 275

dotto le attività, ecc. e quelli che eventualmente si formeranno in


futuro. Quelli maturati non esistono più come tali, cioè come semi,
mentre possono formarsi di nuovo con una ulteriore identificazione
con quel soggetto agente che hanno prodotto; gli altri possono es-
sere risolti.
8
Il VaiŸe≤ika, il darŸana che si basa sul carattere distintivo (viŸe-
≤a) delle cose, postula gli atomi (a√u) come costituente ultimo dei
corpi e, poiché essi sono per definizione tutti uguali, eterni e indi-
stinguibili, le differenze tra gli enti devono essere imputate a un altro
genere di entità che accompagna tali atomi fin dal loro originarsi e
successivo combinarsi. Questa entità è definita come “particolarità
ultima” (åntyaviŸe≤a) – qualificazione finale in relazione all’indagine
conoscitiva, o iniziale se in relazione alla formazione degli enti – e
viene postulata come ciò che determina la distinzione fra le diverse
forme-qualità. La particolarità ultima, però, non è oggetto di perce-
zione diretta – è anche indefinibile – ma viene desunta per inferenza
dalla constatazione della diversità tra le cose. Le stesse sostanze (dra-
vya) della sfera materiale, postulate come eterne e indistruttibili,
sono distinte da tali åntyaviŸe≤a qualificanti. Data la distinzione che
sussiste tra le forme ultime, i corpi materiali, il VaiŸe≤ika sostiene che
l’åntyaviŸe≤a, benché non-percepibile, esiste anche nell’åtman, tale
che l’åtman stesso verrebbe a contenere intrinsecamente una diver-
sificazione, una eterogeneità. Tale asserto non è convalidato dal Ve-
dånta, per il quale la differenza appartiene al piano di måyå, concer-
ne la forma (insieme con il nome) e per tale motivo è meramente ap-
parente mentre, a livello di essenza, vi è solo Unità-senza-secondo –
quindi assoluta identità o assenza di distinzione – per cui non è legit-
timo né tantomeno necessario ricorrere a tale postulato. Per il Ve-
dånta la distinzione è prodotta dal residuo dell’azione compiuta (ka-
rmaŸe≤a), responsabile della modalità di venuta in esistenza e della
stessa condizione di coscienza del singolo ente e, come tale, sussiste
solo in relazione all’aspetto ultimo sul piano di måyå.
9
Con il termine ≤aƒa§ga, “i sei membri”, si può intendere: o le
sei scienze ausiliarie ai Veda (vedå§ga) – la pronuncia (Ÿik≤å), la
grammatica (vyåkara√a), l’interpretazione etimologico-simbolica
276 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

(nirukta), la scienza delle prescrizioni rituali (kalpa), la prosodia


(chandas) e l’astronomia (jyoti≤a) – o gli “otto membri” (a≤†å§ga)
dello Yoga classico o regale (råjayoga) di Pa†añjali, talvolta menzio-
nati escludendo i primi due considerati propedeutici – osservanze
(yama), restrizioni (niyama), posture (åsana), gesti simbolici (mu-
drå), respirazione armonizzata (prå√åyåma), ritiro sensoriale dal-
l’esterno (pratyåhåra), concentrazione mentale (dhåra√å), medita-
zione (dhyåna) e contemplazione coscienziale (samådhi).

La “estinzione in Brahman” (brahmanirvå√a) designa la solu-


10

zione nel Brahman della individualità e della intera proiezione di


måyå. Brahmanirvå√a si identifica con mok≤a. Il termine “estinzio-
ne” (nirvå√a) non indica lo spegnersi, lo scomparire o il dissolversi
della coscienza nel vuoto, nel nulla, nell’assenza di qualsiasi cosa,
ma la cessazione della identificazione vincolante, lo smorzarsi del-
l’impulso condizionante. Ciò implica il raggiungimento della totale
pacificazione grazie a una espansione della coscienza che infrange
le sovrapposizioni limitanti (upådhi) prodotte dall’ignoranza e con-
solidate in ere indefinite.

La condizione di esistenza non influenza il conoscitore, per il


11

quale il corpo è una dimora temporanea, un semplice veicolo con-


cretizzato dal karman e appartenente al piano di måyå. Risolta la
percezione di måyå nel sostrato brahmanico, la stessa antinomia
essere-non essere cessa di porsi e il saggio percepisce, sperimenta e
vive a livello coscienziale una continuità ininterrotta e reale. Tra-
scesa la molteplicità diveniente e fluttuante di måyå, si svela la rea-
le Unità senza-secondo del Brahman come Coscienza assoluta ed
eternamente autoidentica, onnipresente e onnicomprensiva, il So-
strato immutabile in cui è immerso tutto ciò che appare e scompare.

Sono aforismi (s¥tra) in quanto sintetizzano in poche, incisive


12

indicazioni l’essenza del metodo. In relazione all’argomento tratta-


to nel Capitolo – la completa rinuncia – le procedure descritte co-
stituiscono un valido preliminare e un ausilio durante la pratica.

Per la coscienza matura mok≤a deve rappresentare il punto di


13

arrivo, lo stato di pienezza-quiete-beatitudine senza opposizioni, il


Quinto Adhyåya 277

traguardo finale da raggiungere al di là di ogni obiettivo umano e


superumano, il vertice a cui tendere in ogni fase di attività, cono-
scenza, ecc. e la suprema Pace (paramaŸånti). È la mèta che, una
volta riconosciuta la natura apparente della intera stratificazione
sovrapposta, si identifica con la stessa via (ayana).

*
Sesto Adhyåya

(Lo yoga della meditazione)

Alla fine del Capitolo immediatamente precedente sono


stati recitati gli Ÿloka: «Bloccati all’esterno i contatti...» (Bha.
Gı. 5.27) e gli altri (5.28-29) quali [veri e propri] aforismi che
trattano lo yoga della meditazione (dhyånayoga) come ulte-
riore mezzo ausiliario (a§ga) per la [acquisizione della] auten-
tica conoscenza. Questo Sesto Capitolo procede a fornirne una
spiegazione. In tale contesto l’azione (karman) costituisce un
mezzo ausiliario esterno per lo yoga della meditazione: fin
quando un capofamiglia (gÿhastha) qualificato [in relazione al
compimento delle attività rituali] non è in grado di innalzarsi
allo yoga della meditazione, fino ad allora dovrà compiere l’a-
zione. Pertanto [Bhagavat] plaude a tale [condizione nel pas-
so]: «(Colui che) incurante...» (Bha. Gı. 6.1).
Obiezione: Che senso ha porre un limite [nei termini]: ‘fin
quando [il capofamiglia non è in grado di fondarsi nella cono-
scenza, per cui] aspira allo yoga della meditazione...’, se l’atto
rituale ingiunto [dalle Scritture, ecc.] deve tassativamente es-
sere compiuto per tutta la vita?1
Risposta: No, per via della specificazione: «Per il [saggio]
silenzioso che aspira allo yoga, si dice che l’azione è il [giu-
sto] mezzo...» (Bha. Gı. 6.3) e anche perché è stato espresso il
riferimento alla sola pacificazione [quale totale rinuncia] per
colui che ha raggiunto [la perfezione nello yoga]. Se si fosse
inteso che entrambi, cioè tanto l’abbandono [della azione] che
280 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 6.1

l’azione, devono essere praticati sia da colui che [ancora] aspi-


ra [allo yoga] che da colui che lo ha ottenuto, allora si rivele-
rebbero privi di significato sia la specificazione [espressa] tra-
mite la distinzione tra l’oggetto della rinuncia e dell’azione
[rispettivamente] per colui che aspira [allo yoga] e per colui
che lo ha ottenuto, sia il formulare una distinzione [tra i ri-
spettivi soggetti].
Obiezione: Tra gli appartenenti agli stadi di vita [come i
capofamiglia, gli studenti, ecc.], vi è qualcuno che aspira allo
yoga, qualcuno che lo ha ottenuto e altri che né vi aspirano
né lo hanno ottenuto: si può obiettare che è proprio in riferi-
mento a questi ultimi che tanto la specificazione: «Per (il sag-
gio silenzioso) che aspira (allo yoga...)» (Bha. Gı. 6.3) quanto il
fare una distinzione sono pienamente legittimi2.
Risposta: No, per via della esplicita espressione: «...per
quegli stesso...» (ib.) e per la ripetizione del termine yoga in:
«...che ha ottenuto lo yoga...» (ib.). Ciò comporta che per que-
gli stesso che prima aspirava allo yoga, una volta che lo abbia
ottenuto, vi è solamente da rispettare l’abbandono [dell’azio-
ne e del suo frutto], in quanto costituisce il mezzo per [otte-
nere] il frutto dello yoga. Quindi, non vi è alcuna azione che
debba essere compiuta per tutta la durata della vita, [e ciò]
anche per la menzione di colui che ha fallito nello yoga. Se è
al capofamiglia ritualista che nel Sesto Capitolo è ingiunto lo
yoga, [allora] sebbene egli fallisca nello yoga, [tuttavia] con-
segue [comunque] l’esito dell’attività, cioè il frutto dell’azio-
ne, per cui non è legittimo avanzare un dubbio in merito alla
sua [eventuale] rovina. Infatti l’atto rituale compiuto, sia esso
finalizzato (kåmya) o perpetuo (nitya), produce inevitabil-
mente il proprio frutto, laddove la liberazione, essendo eter-
na, non ha la natura di ciò che può essere ottenuto [come ef-
fetto di qualche azione, ecc.]. Abbiamo già detto [nel com-
mento a 4.18] che l’atto perpetuo (obbligatorio), venendo im-
6.1 Sesto Adhyåya 281

partito in base all’autorevolezza del Veda, deve concretizzarsi


in un [suo proprio] frutto; diversamente ne scaturirebbe il di-
fetto della inattendibilità del Veda; né è lecito asserire l’insuc-
cesso [del gÿhastha] in entrambe [le vie], fin quando sussiste
la [necessità da parte sua di impegnarsi nel compimento del-
la] azione perché, in rapporto all’azione, non si può logica-
mente ammettere [alcuna] causa di errore da parte di colui
che intende effettuarla3.
Obiezione: L’atto compiuto è stato oggetto di completa ri-
nuncia [in quanto offerto] al Signore: si può quindi obiettare
che tale azione non comporta [alcun] frutto per il soggetto
agente.
Risposta: No, dato che è ragionevole ammettere che la ri-
nuncia [all’azione la quale viene offerta] al Signore è causa di
un frutto ancora superiore.
Obiezione: Si potrebbe dire che [conduce] solamente alla
liberazione. La rinuncia alle proprie azioni compiute [offren-
dole] al Signore, quando è associata allo yoga, non comporta
altro frutto che la liberazione stessa e, dato che [costui per
ipotesi] ha desistito dallo yoga, ne consegue che è pienamente
legittimo nutrire il dubbio della rovina nei suoi confronti.
Risposta: No, perché nei passi [seguenti a cominciare] da:
«...stabilito in un [luogo] recondito, [ivi rimanendo] solitario,
con la mente e il sé [individuato] posti sotto controllo, privo
di [qualsiasi] aspettativa e libero dalla [nozione di] possessi-
vità» (Bha. Gı. 6.10) fino a: «...stabile nel voto del brahmacå-
rin» (Bha. Gı. 6.14) viene imposta la completa rinuncia all’a-
zione, e qui, durante il momento della meditazione, non può
sorgere il dubbio circa una [eventuale] assistenza da parte
della moglie, [motivo] per il quale verrebbe ingiunta una con-
dizione di assoluta solitudine (ekåkitva); né, d’altra parte,
un’asserzione come: «...privo di [qualsiasi] aspettativa e libe-
282 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 6.1

ro dalla [nozione di] possessività» (Bha. Gı. 6.10), è compati-


bile con [la condizione di] un capofamiglia; né, infine, è am-
missibile secondo ragione una questione [come quella solle-
vata in 6.38] circa l’insuccesso in entrambe [le vie, azione e
meditazione].
Obiezione: Nel passo: «(Colui che) incurante...» (Bha. Gı.
6.1) si afferma la condizione sia di saænyåsin che di yogin per
il ritualista stesso, ma [poi] per colui che “non accende il fuo-
co [sacro] ed è inattivo” viene negata tanto la condizione di
saænyåsin quanto quella di yogin.
Risposta: No, perché [il passo in questione] intende espri-
mere un elogio nei confronti della completa rinuncia al desi-
derio del frutto dell’azione, la quale costituisce un ausilio ester-
no verso il dhyånayoga. [Quindi, come si vedrà in seguito]
non si deve considerare saænyåsin e yogin uno che è soltanto
privo del fuoco e affatto inattivo.
Come [lo si deve considerare], allora?
Anche il ritualista (karmin) che, avendo completamente
rinunciato all’attaccamento al frutto dell’azione, pratica il
karmayoga allo scopo di [ottenere la] purificazione del men-
tale, «...quegli è un saænyåsin e uno yogin [al tempo stesso]»
(Bha. Gı. 6.1); [pertanto anch’esso viene] fatto oggetto di elo-
gio. Né si può ragionevolmente ammettere che, da parte di
un’unica sentenza, si abbia tanto l’elogio nei confronti della
completa rinuncia all’attaccamento verso il frutto dell’azione
quanto la proibizione [nei confronti] dell’ultimo stadio 4; né,
d’altra parte, Bhagavat può negare, per colui che non accende
il fuoco [sacro] ed è inattivo [in rapporto alla celebrazione ri-
tuale], cioè per colui che è realmente un completo rinunciata-
rio [per eccellenza], la condizione di saænyåsin e la condizio-
ne di yogin, quali sono ben note essendo prescritte nella Âruti,
nella Smÿti, nei Purå√a, negli Itihåsa e negli YogaŸåstra, anche
perché ciò contraddirebbe la sua propria espressione [prece-
6.1 Sesto Adhyåya 283

dente]. Infine, una negazione nei confronti del quarto stadio


(quello di saænyåsin) contrasterebbe con le affermazioni che
Bhagavat stesso ha pronunciato qui e là nei passi: «Rinuncian-
do completamente nel pensiero a tutte le azioni, dimora... non
agendo affatto né causando attività» (Bha. Gı. 5.13), «...che
vive nel silenzio, completamente soddisfatto di qualsiasi cosa,
privo di dimora, dalla mente stabile...» (Bha. Gı. 12.19), «[Solo]
l’uomo che, abbandonando tutti i desideri, si muove privo di
attaccamento...» (Bha. Gı. 2.71), «...che si è del tutto distaccato
da qualsiasi iniziativa...» (Bha. Gı. 12.16).
Perciò, per il [saggio] silenzioso che aspira allo yoga e ha
già abbracciato la condizione di capofamiglia, un rito come
l’Agnihotra o altri [simili], compiuto senza attaccamento al
frutto, costituisce un mezzo (sådhana) per ottenere lo yoga
della meditazione attraverso la purificazione del mentale. È
in tal senso che, con la frase: “...è un saænyåsin e uno yogin”
[anche il ritualista distaccato dal frutto del proprio agire] vie-
ne elogiato.

Ârı Bhagavat disse:

6.1. Colui che, incurante del frutto dell’azione, compie il do-


vuto atto [rituale], quegli è un saænyåsin e uno yogin [al tem-
po stesso], e non [deve essere considerato] uno privo del fuoco
[sacro] né un inattivo.

“(Colui che) incurante...”: è incurante (anåŸrita) colui che


non mira all’ottenimento [di qualcosa].
Di che cosa?
“...del frutto dell’azione”. Incurante di quello che è il frutto
dell’azione (karmaphala), cioè del risultato [di qualsiasi spe-
cie] di attività, significa che è esente dalla brama verso il frut-
to dell’azione. Invero, colui che nutre la brama verso il risul-
tato dell’attività, cioè che è condizionato dal frutto dell’azio-
284 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 6.1

ne, questi è certamente opposto a quello, a colui che è incu-


rante del frutto dell’azione. “Colui”, chiunque egli sia, “che...”,
essendo siffatto, “...compie”, effettua “il dovuto atto [rituale]”,
quale l’Agnihotra, ecc., come un [rito] perpetuo (nitya) che
deve [comunque] essere compiuto, che è opposto a un [rito]
finalizzato [compiuto per ottenerne un frutto], tale ritualista
(karmin) si distingue fra gli altri ritualisti; è [allo scopo di
chiarire] questo significato, che [Bhagavat] dice: “quegli è un
saænyåsin e uno yogin” [al tempo stesso]. Quegli è un saæ-
nyåsin e uno yogin in quanto è colui da parte del quale si ha
la completa rinuncia (saænyåsa), cioè il totale distacco, ed
egli è [insieme anche] uno yogin in quanto è colui da parte
del quale vi è la pratica dello yoga attraverso la stabilizzazio-
ne della mente nella contemplazione (samådhana): così, co-
stui deve essere riconosciuto pienamente dotato di tali quali-
tà. [Quindi] non si deve considerare saænyåsin e yogin uno
che è soltanto privo del fuoco e affatto inattivo. Uno privo del
fuoco (niragni) e inattivo (akriya) è quegli dal quale i fuochi
[sacrificali], che costituiscono mezzi ausiliari al compimento
delle attività rituali, sono stati estinti, e quegli stesso è [consi-
derato anche] inattivo in quanto per lui non esistono nemme-
no attività come l’austerità, la donazione, ecc. che non si av-
valgono del fuoco [sacrificale].
Obiezione: Tuttavia è ben noto nella Âruti, nella Smÿti e
negli YogaŸåstra che colui è privo del fuoco ed è [ritualmente]
inattivo è o un saænyåsin o uno yogin. Perché qui si afferma
quanto non è contemplato [dalle Scritture, ecc.], ossia che la
condizione di saænyåsin e la condizione di yogin concernono
colui che dispone del fuoco [sacrale] ed è attivo [nel rito]?
Risposta: Questo non costituisce un difetto, perché si è vo-
luto esprimere compiutamente per entrambi [i termini, saæ-
nyåsin e yogin, un ulteriore significato] attraverso una certa
spiegazione in senso secondario.
6.2 Sesto Adhyåya 285

In che modo [si è fatto] ciò?


La condizione di saænyåsin è dovuta alla [sua] completa
rinuncia operata nei confronti delle ideazioni (saækalpa) rela-
tive ai frutti delle azioni, mentre la condizione di yogin è do-
vuta sia alla effettuazione delle attività [rituali] quali mezzo
ausiliario in relazione allo [ottenimento dello] yoga, sia al
[suo] completo distacco nei confronti delle ideazioni relative
al frutto delle azioni, [ideazioni] che sono causa di distrazione
a livello mentale. Così la condizione di saænyåsin e la condi-
zione di yogin [in riferimento a colui che è privo del fuoco ed
è inattivo] vanno intese entrambe in senso secondario e non
in senso letterale.
Per mostrare [ancora] questo significato [Bhagavat] dice:

6.2. Sappi, o På√ƒava, che ciò che definiscono saænyåsa è lo


[stesso] yoga, perché nessuno, che non abbia [prima] rinunciato
completamente alle [proprie] ideazioni, può essere uno yogin.

“Sappi”, riconosci, “o På√ƒava, che ciò che” i conoscitori


della Âruti e della Smÿti “definiscono saænyåsa”, cioè la reale
completa rinuncia, consistente nel totale distacco da tutte le
azioni come dal loro frutto, “è lo [stesso] yoga” che consiste
nella pratica dell’attività.
Obiezione: Facendo appello a quale specie di affinità viene
proferita la loro identità, ossia del karmayoga, consistente
nell’attività effettiva (pravÿtti), con il reale saænyåsa, consi-
stente nell’abbandono dell’attività (nivÿtti), che è del tutto op-
posto a quello?
Risposta: Si afferma questo sulla base di un nesso. Infatti
tra il karmayoga e il reale saænyåsa vi è una similitudine at-
traverso il [nesso rappresentato dal] soggetto agente (kartÿ).
Invero, [da un lato] colui, il quale è un reale saænyåsin, che
[come tale] ha abbandonato tutte le attività insieme con i loro
286 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 6.2

mezzi, costui ha operato la completa rinuncia [anche] nei


confronti delle ideazioni concernenti tutte le azioni e i loro
frutti, [ideazioni] che sono la causa del desiderio che a sua
volta sta all’origine dell’azione; [dall’altro] il karmayogin,
proprio mentre sta compiendo l’azione, opera anch’egli la
completa rinuncia nei confronti della ideazione concernente il
frutto [dell’azione]. Volendo prospettare questo significato
[Bhagavat] aggiunge: “...perché”, per il motivo che “nessuno”,
nessun ritualista “che non abbia [prima] rinunciato completa-
mente alle [proprie] ideazioni” – [si dice che] non ha rinun-
ciato completamente alle [proprie] ideazioni colui che non ha
operato la completa rinuncia, che non ha posto in atto il tota-
le distacco dalla proiezione mentale concernente il frutto [del
proprio agire], quindi dal proposito [individualistico] – “può
essere uno yogin” assorto nella stabile contemplazione, vale a
dire che non può diventarlo, perché l’ideazione relativa al
frutto [dell’agire] è causa di distrazione mentale. Perciò [an-
che] quegli che è un ritualista, qualora fosse in grado di ri-
nunciare completamente alla ideazione relativa al frutto [del-
la propria attività rituale], costui potrebbe diventare uno yo-
gin caratterizzato dalla [capacità di immergersi nella] stabile
contemplazione, cioè [uno yogin] la cui mente non è distratta,
essendo uno che ha rinunciato completamente alla ideazione
relativa al frutto la quale è causa di distrazione mentale. Tale
è il senso.
Così, in relazione all’affinità esistente tra il reale saænyå-
sa e il karmayoga relativamente al soggetto agente, nel passo:
“Sappi, o På√ƒava, che ciò che definiscono saænyåsa è lo [stes-
so] yoga...”, il karmayoga è stato enunciato allo scopo di espri-
merne un elogio.
Avendolo dunque fatto oggetto di elogio come [equivalen-
te al] saænyåsa, in quanto il karmayoga [compiuto] senza fa-
re assegnamento al frutto [dell’azione] costituisce un mezzo
ausiliario esteriore per il dhyånayoga, adesso [Bhagavat] mo-
6.3 Sesto Adhyåya 287

stra [estesamente] il karmayoga quale mezzo per il [consegui-


mento del] dhyånayoga.

6.3. Per un [saggio] silenzioso che aspira a elevarsi allo yoga


si dice che lo strumento [adeguato] è l’azione; [invece] per que-
gli stesso che [già] si è elevato allo yoga si dice che lo strumento
[adeguato] è la pace.

“Per un ([saggio] silenzioso) che aspira a elevarsi...”, cioè


per colui che [ancora] non si è elevato [allo yoga], vale a dire
per colui che non è stato [finora] in grado di stabilirsi nel
dhyånayoga, per cui intende innalzarsi...
Per quale [aspirante viene detto questo]?
“Per” colui che è “un [saggio] silenzioso che aspira...”, vale
a dire per colui che ha operato la completa rinuncia nei con-
fronti del frutto dell’azione.
Per colui che aspira a che cosa?
“...allo yoga”; [per costui] “si dice che lo strumento [ade-
guato]”, cioè il [giusto] mezzo, “è l’azione”. Invece, “per que-
gli stesso che [già] si è elevato allo yoga si dice che la pace
(Ÿama) è lo strumento [adeguato]”, vale a dire che per colui
che ha ottenuto lo [stato di unificazione che è lo scopo dello]
yoga il [giusto] mezzo è la pacificazione, l’astensione da qual-
siasi attività. Quanto più si ritira dal movimento [indotto dal-
la pratica] delle attività, tanto più la mente di quegli che si va
liberando dal tormento [mentale e sensoriale] e ha sottomes-
so i sensi può stabilizzarsi nella contemplazione. Così essen-
do, egli presto diviene uno che ha ottenuto lo yoga. E in tal
senso [si ha una conferma] anche da parte di Vyåsa: «Per un
bråhma√a non vi è ricchezza paragonabile a questa [conoscen-
za del Brahman], essendo unità, identità [assoluta in ogni es-
sere], avendo natura di verità, quale intrinseca virtù, stabilità,
indulgenza, rettitudine e quieto ritiro dalla tale e dalla talaltra
azione» (Ma. Bhå. 12.3.175.37).
288 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 6.3

Ordunque, quando, costui, diviene uno che ha pienamente


ottenuto lo yoga?
Si dice:

6.4. Invero, quando non aderisce [più] né agli oggetti senso-


riali né alle azioni, colui che ha rinunciato completamente a
qualsiasi ideazione viene detto allora uno che si è elevato allo
yoga.

“Invero, quando” lo yogin la cui mente si va stabilizzando


nella contemplazione “non aderisce [più] (né) agli oggetti
sensoriali...” – gli oggetti sensoriali sono il suono e gli altri –
vale a dire [quando] non crea [più] rapporto con tali oggetti
dei sensi, “né alle azioni” [rituali], siano esse perpetue, occa-
sionali, finalizzate o proibite, avendo intuito l’inesistenza [in
loro] di un [qualsiasi reale] beneficio, [né nutre] l’idea che
debba compiere [qualcosa], “colui che ha rinunciato comple-
tamente a qualsiasi azione” – uno che ha rinunciato comple-
tamente a tutte le azioni è colui che possiede la capacità di ri-
nunciare completamente a tutte le ideazioni che sono causa di
desiderio oggettuale in questo e nell’altro mondo, “viene det-
to allora”, in quel tempo, “uno che si è elevato allo yoga”, cioè
uno che lo yoga lo ha [pienamente] ottenuto.
Dalla espressione: “colui che ha rinunciato completamente
a qualsiasi ideazione” [si evince] il significato in base a cui egli
deve rinunciare completamente a tutti i desideri e a tutte le
azioni. Infatti ogni desiderio ha radice nelle ideazioni, come si
apprende dai seguenti e altri passi della Smÿti: «Il desiderio, in
verità, ha causa nel pensiero e i sacrifici traggono origine [an-
ch’essi] dal pensiero» (Ma. 2.3), «O desiderio, io conosco la tua
origine: nasci sicuramente dal pensiero. Pertanto non ti pro-
ietterò, così per me non esisterai più» (Ma. Bhå. 12.3.177.25).
Inoltre, al totale distacco da tutti i desideri, si invera la
completa rinuncia verso qualsiasi azione, come si apprende
6.5 Sesto Adhyåya 289

dal seguente e da altri passi della Âruti: «...questo (puru≤a) è


identificato solo con il desiderio: quale è il suo desiderio, tale
è la sua volontà; quale è la sua volontà, tale è l’azione che
compie» (Bÿ. 4.4.5) e, dalla Smÿti: «Invero, quale che sia l’a-
zione che compie la creatura, tale è l’impulso [prodotto da
parte] del desiderio» (Ma. 2.4), ecc. E anche attraverso la logi-
ca [si giunge al medesimo risultato]: se vi è la completa ri -
nuncia a qualsiasi ideazione, nessuno può più fare nulla.
Perciò, con l’espressione: “colui che ha rinunciato comple-
tamente a qualsiasi ideazione”, Bhagavat impone il distacco
sia da tutti i desideri che anche da tutte le azioni.
Quando egli ha così dominato lo yoga, allora l’åtman [nel
suo stato apparentemente individuato di riflesso] viene ad
astrarsi dal divenire ciclico generato dall’errore.
Quindi:

6.5. Si deve innalzare l’åtman per mezzo dell’åtman; non si


deve [dunque] degradare sé stessi, perché solo l’åtman è amico
di sé stessi e [conseguentemente] solo l’åtman è nemico di sé
stessi.

“Si deve innalzare l’åtman” [nel suo riflesso individuato, il


jıva, che è] sommerso nell’oceano del divenire ciclico (saæså-
ra) “per mezzo dell’åtman”: si deve innalzare [sé stessi] da
tale [condizione], cioè ci si deve volgere in su, verso l’alto,
vale a dire che [ci] si deve portare nella condizione di colui
che si è innalzato fino a dominare lo yoga; “non si deve [dun-
que] degradare l’åtman”, cioè non si deve dirigere [sé stessi]
verso il basso, non ci si deve volgere al basso, “perché”, per il
motivo che “solo l’åtman è amico di se stessi”: infatti non esi-
ste alcun altro amico che conduca alla liberazione dal diveni-
re ciclico. Anche un amico [ordinario], infatti, per colui stesso
che aspira alla liberazione, è tale [cioè un nemico] dal momen-
to che l’attaccamento e gli altri [sentimenti] sono ricettacolo
290 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 6.5

di [potenziale] condizionamento. Perciò è perfettamente ap-


propriato sostenere che, invero, “solo l’åtman è amico di sé
stessi” [conseguentemente] “solo l’åtman è nemico”, è avver-
sario [di sé stessi]. Anche l’altro, quegli che è un avversario
esteriore, è reso antagonista in quanto [è così] proiettato [an-
cora] da sé stessi. Dunque è affatto appropriato sostenere che
“solo l’åtman è nemico di sé stessi”5.
Obiezione: È stato detto così che solo l’åtman è amico e
solo l’åtman è nemico nei confronti di sé stessi. A tale riguar-
do, [si domanda]: di quale specie è l’åtman [quando è] amico
di sé stessi? Di quale specie è l’åtman [quando è] nemico di sé
stessi?
Risposta: Si dice:

6.6. L’åtman è amico di sé stessi per colui dal quale il sé [in-


dividuato] è stato sottomesso dall’åtman stesso. Ma per colui
che non ha il sé [individuato sottomesso dall’åtman], lo stesso
sé [individuato] si pone in una condizione di ostilità, pari a un
nemico [esterno].

“L’åtman è amico di sé stessi per colui...”, l’åtman è amico


di sé stessi per quegli “dal quale il sé [individuato] è stato sot-
tomesso dall’åtman stesso”. Il sé [individuato] è l’aggregato
[corporeo sensoriale formato] di effetti e strumenti 6, per cui
[la frase: colui il cui sé individuato è stato sottomesso dall’å-
tman stesso] significa: colui i cui sensi sono stati sottomessi.
“Ma per colui che non ha il sé [individuato sottomesso dall’å-
tman]...”, cioè: ma per colui il cui sé [individuato] non è stato
sottomesso [dall’åtman], “lo stesso sé [individuato, identifi-
candosi al veicolo psicofisico] si pone in una condizione di
ostilità”, in una posizione di avversione, “pari a un nemico”:
come ciò che non è l’åtman (quale la corporeità con le sue li-
mitazioni, ecc.) rappresenta un nemico, un antagonista in rap-
6.8 Sesto Adhyåya 291

porto all’åtman (la coscienza libera nella sua natura), così [un
sé individuato, identificato al composto psicofisico, che non
sia stato dominato], si pone in una condizione di antagoni-
smo in rapporto all’åtman.

6.7. Per colui, il cui sé [individuato] è stato sottomesso, il


quale è perfettamente pacificato, il supremo åtman è riunificato
[anche nella esperienza di ogni coppia di opposti, dunque] nel
freddo e nel caldo, nel piacere e nel dolore e, ugualmente, nell’o-
nore e nel disonore.

“Per colui il cui sé [individuato] è stato sottomesso...”: co-


lui il cui sé [individuato] è stato sottomesso è quegli dal quale
il sé [individuato], consistente nell’aggregato di sensi e corpo,
è stato perfettamente dominato. Per costui, il cui sé [indivi-
duato] è stato sottomesso, “il quale è perfettamente pacifica-
to”, cioè per il saænyåsin il cui organo interno è totalmente
acquietato, “il supremo åtman è riunificato”, vale a dire che
si svela direttamente nella sua natura di åtman, anche [nella
esperienza di coppie di opposti, dunque] “nel freddo e nel cal-
do, nel piacere e nel dolore e, ugualmente, nell’onore e nel di-
sonore”, cioè sia nella gloria che nella infamia, cioè rimane il
medesimo (identico a Sé stesso) tanto nella venerazione quan-
to nel biasimo [altrui]7.

6.8. Colui, il cui sé (la mente) è pago della conoscenza e del-


la consapevolezza, è immutabile e ha le facoltà sensoriali per-
fettamente dominate, è detto unificato [attraverso lo yoga]: è
[dunque] uno yogin per il quale terra, pietra e oro sono la me-
desima cosa.

“Colui, il cui sé è pago della conoscenza e della consape-


volezza...”: la conoscenza (jñåna) è la totale cognizione degli
argomenti quali sono enunciati dalle Scritture, mentre la con-
292 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 6.8

sapevolezza (vijñåna) è la realizzazione attraverso la propria


esperienza delle cose conosciute proprio così come è in con-
formità alle Scritture. Colui il cui sé è pago della conoscenza e
della consapevolezza è quegli per il quale il sé, cioè l’organo
interno (la mente nel suo complesso), è appagato da loro due,
è saturo dei contenuti ingenerati da entrambe, cioè dalla co-
noscenza e dalla consapevolezza, “è immutabile”, vale a dire
che è privo di tentennamenti, “e ha le facoltà sensoriali per-
fettamente dominate”; colui, il quale è siffatto, “è detto”, è de-
cantato come “unificato (yukta): è [dunque] uno yogin per il
quale terra, pietra e oro sono la medesima cosa”. Colui per il
quale terra, pietra e oro sono la medesima cosa è quegli da
parte del quale una zolla di terra, un sasso o dell’oro sono
[considerati] identici.
E inoltre,

6.9. Colui il cui pensiero è identico riguardo al benevolo,


all’amico, al nemico, all’indifferente, a colui che è obiettivo, a
colui che è detestabile, al parente, [dunque a tutti questi] sia
buoni che anche cattivi, si distingue [da tutto].

Un solo termine [composito], che comincia con “benevo-


lo”, ecc. occupa metà dello Ÿloka. Benevolo (suhÿd) è colui che
fa del bene [ad altri] senza aspettarsi favori in cambio; amico
è colui che ha attaccamento [per noi]; il nemico è l’avversario;
indifferente è colui che non propende per alcuna opinione
[particolare]; obiettivo è quegli che tra due cose contrastanti
aspira [solo] al bene [liberamente da propensioni individuali];
detestabile è chi non ci è gradito; il parente è il famigliare.
“Colui il cui pensiero è identico” in merito a tutti questi, vale
a dire che non è portato a pensare: ‘chi è [costui]? qual è la
[sua] condotta?’ in relazione a loro, “[dunque a tutti questi]
sia buoni”, che seguono cioè le direttive scritturali, “che an-
che cattivi”, che cioè si comportano in modo trasgressivo, “si
6.10 Sesto Adhyåya 293

distingue [da tutto]” (viŸi≤yate), o, secondo un’altra lettura: [si


distingue, si discosta dal piano di relazione-apparenza che è il
divenire ciclico, per cui] viene completamente liberato (vimu-
cyate). Vale a dire che costui è il più elevato tra tutti coloro
che hanno raggiunto lo yoga8.
Quindi, per conseguire così il frutto supremo (la liberazio-
ne),

6.10. Lo yogin si concentri persistentemente sull’åtman, [es-


sendosi] stabilito in un [luogo] recondito, [ivi rimanendo] solita-
rio, con la mente e il sé [individuato] posti sotto controllo, privo
di [qualsiasi] aspettativa e libero dalla [nozione di] possessività.

“Lo yogin”, colui che è intento a meditare, “si concentri


persistentemente”, cioè fissi costantemente l’organo interno
(la mente) “sull’åtman”9, essendosi “stabilito in un [luogo] re-
condito”, appartato, “[ivi rimanendo] solitario”, senza compa-
gnia. Dalla [duplice] specificazione: “stabilito in un [luogo]
recondito” e “[ivi rimanendo] solitario”, [si comprende che] il
significato è: dopo aver operato la completa rinuncia; “...con
la mente e il sé [individuato] posti sotto controllo”: ha la mente
e il sé [individuato] posti sotto controllo quegli da parte del
quale la mente, cioè l’organo interno [in tutte le sue funzioni],
e il sé [individuato], cioè il veicolo fisico, sono stati perfetta-
mente dominati; “...privo di [qualsiasi] aspettativa”, cioè la cui
sete acquisitiva è stata estinta, e “libero dalla [nozione di]
possessività”, vale a dire privo [del senso] della presa di pos-
sesso. Ciò significa che, pur trovandosi nella condizione di
saænyåsin (dunque non soltanto nell’atto della pratica yoga),
deve concentrarsi avendo abbandonato qualsiasi [idea di]
possessività.
Adesso, in relazione a colui che si concentra nello yoga, si
vanno a esporre la norma concernente la postura, l’alimen-
tazione e la ricreazione, ecc. come [ulteriori] ausilii per [otte-
294 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 6.10

nere lo] yoga, [e anche] la caratteristica di colui che ha acqui-


sito lo yoga e il suo frutto, ecc. Quindi si procede [con gli Ÿlo-
ka seguenti], nei quali viene ora enunciata, per prima, la po-
stura stessa:

6.11. Installato, in un luogo chiaro, un seggio stabile, per sé


né troppo alto né troppo basso, e [dopo averlo] ricoperto di pan-
no, pelle di antilope e [erba] kuŸa,...

“Installato in un luogo”, in un posto “chiaro”, puro, pulito,


per propria natura o a seguito di purificazione rituale, “un seg-
gio stabile”, non vacillante, “per sé né troppo alto”, che non
sia eccessivamente rialzato, “né troppo basso, e [dopo averlo]
ricoperto di panno, pelle di antilope e [erba] kuŸa” – il seggio
ricoperto di panno, pelle di antilope e [erba] kuŸa è quel seg-
gio sopra al quale vengono collocati un panno, una pelle di
antilope e dell’erba kuŸa; al riguardo, l’ordine [di collocazio-
ne] del panno, della pelle di antilope, ecc. è inverso all’ordine
di lettura10.
Che cosa [fa], dopo avere installato [il suo seggio]?

6.12. ...colà, sedutosi sul seggio, avendo reso la mente [con-


centrata] in un unico punto e [restando costantemente] attivo
nel dominare la sostanza mentale e le facoltà sensoriali, [lo yo-
gin] si concentri nello yoga per la totale purificazione di sé.

“...colà, sedutosi su” quel “seggio... si concentri nello yoga...”.


In che modo?
“...avendo reso la mente [concentrata] in un unico punto”
dopo averla ritirata da tutti gli oggetti [esterni e interni], “e
[restando costantemente] attivo nel dominare la sostanza men-
tale e le facoltà sensoriali...”: sostanza mentale (citta) e facoltà
sensoriali (indriya) sono la mente [nel suo complesso] e [l’in-
sieme che formano] i sensi: è attivo nel dominare la sostanza
6.13 Sesto Adhyåya 295

mentale e le facoltà sensoriali colui da parte del quale le loro


funzioni attive sono state completamente soggiogate.
A che scopo, egli, si deve concentrare nello yoga?
[Bhagavat] dice: “per la totale purificazione di sé”, cioè
allo scopo di purificare totalmente l’organo interno (la mente).
[Fin qui] è stato esposto il seggio esteriore; adesso si
enuncia in che modo deve essere la postura del corpo.

6.13. Mantenendo [verticalmente] allineato e immobile [l’in-


sieme di] tronco, capo e collo, [divenuto così] stabile, osservando
attentamente [con lo sguardo interiore] l’estremità [interna] del
proprio naso e senza guardare intorno,...

“Mantenendo [verticalmente] allineato e immobile [l’in-


sieme di] tronco, capo e collo...”: [l’insieme di] tronco, capo e
collo comprende sia il tronco, sia la testa che il collo; tale [in-
sieme deve essere mantenuto verticalmente] allineato. Per co-
lui che mantenga [verticalmente] allineato tale [insieme] può
aversi [ancora] qualche movimento, per cui si specifica: “e
immobile”; “...stabile”, vale a dire: una volta che sia così dive-
nuto stabile, “osservando attentamente [con lo sguardo inte-
riore] l’estremità [interna] del proprio naso...”, cioè come ope-
rando un’attenta visione, prendendo [colà] consapevolezza...;
il termine “come” (iva) va considerato sottinteso. In effetti qui
non si vuole suggerire l’attenta osservazione della propria
estremità [esterna] del naso. Se si volesse intendere l’attenta
osservazione della estremità [esterna] del proprio naso [cioè
la punta, allora] la mente dovrebbe stabilizzarsi lì stesso nella
contemplazione e non sull’åtman, mentre [Bhagavat] enunce-
rà esplicitamente la stabile contemplazione della mente sul-
l’åtman nel passo: «...resa la mente stabilmente fissa sull’å-
tman...» (Bha. Gı. 6.25). Perciò, sottintendendo il termine
“come”, [con l’espressione]: “osservando attentamente...” si
afferma la convergenza di quella che è la vista interiore [alla
296 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 6.13

radice del naso11]; “...e senza guardare intorno...”, cioè senza


rivolgere lo sguardo nelle [varie] direzioni [sia all’esterno che
all’interno].
E inoltre,

6.14. ...[lo yogin] il cui sé è perfettamente pacificato, in cui


la paura è scomparsa e il quale è stabile nel voto del brahmacå-
rin, controllando perfettamente il mentale, con il pensiero [con-
centrato] su di Me, unificato, sieda avendo Me come scopo su-
premo.

“...[lo yogin] il cui sé è stato perfettamente pacificato” –


colui, il cui sé, ossia l’organo interno, è stato pacificato in
modo pressoché totale, costui ha il sé perfettamente pacifica-
to – “in cui la paura è scomparsa”, nel quale ogni timore si è
dileguato, e “il quale è stabile nel voto del brahmacårin... – il
voto del brahmacårin è la [totale adesione alla] condotta bra-
hmanica (brahmacårya) consistente nell’obbediente servizio
all’istruttore, nel nutrirsi [solo] di quanto è ricevuto in elemo-
sina, ecc., per cui [l’espressione: stabile nel voto...] equivale a
dire: fondato in ciò, che sia un attivo praticante di tale [mo -
dalità di vita]. E inoltre, “controllando perfettamente il men-
tale”, cioè trattenendo raccolte le funzioni della mente, “con il
pensiero [concentrato] su di Me” – colui, il cui pensiero è
[interamente rivolto] a Me, il supremo Signore, costui ha il
pensiero [concentrato] su di Me – “unificato”, essendo [così]
perfettamente assorto, “sieda”, si adagi in posizione seduta,
“avendo Me come scopo supremo”: ha Me come scopo supre-
mo (matpara) quegli per il quale Io [solo] (mad) rappresento
il sommo scopo (para). Può esservi qualcuno, per esempio
un amante, che, pur avendo il pensiero [costantemente] fis-
so sulla donna amata, non considera certo la donna come lo
scopo supremo.
Come [la considera], allora?
6.16 Sesto Adhyåya 297

[Può considerarla] alla pari, per esempio, di un re o di un


grande deva (cioè comunque degna di adorazione, ma non
come il Supremo). Invece questo [yogin] deve avere il pensie-
ro [concentrato] su di Me e avere [soltanto] Me come scopo
supremo12.
Ordunque viene enunciato il frutto dello yoga.

6.15. Concentrando così sempre se stesso, lo yogin dalla mente


trattenuta raggiunge la pace culminante nel nirvå√a, costante-
mente stabilita in Me.

“Concentrando così”, nella modalità quale è stata esposta,


“sempre se stesso”, ossia attuando la stabile contemplazione,
lo yogin dalla mente trattenuta...” – colui, la cui mente è stata
regolata, perfettamente dominata, questi ha la mente tratte-
nuta (niyata) – “...raggiunge la pace”, la [profonda] quiete in-
teriore (uparati) “culminante nel nirvå√a”; il nirvå√a è la libe-
razione (mok≤a), ed è culminante nel nirvå√a quella pace di
cui esso (il nirvå√a o mok≤a) è la definitiva soluzione (paramå
ni≤†hå). Dunque, consegue tale [pace] culminante nel nirvå√a,
“costantemente stabilita in Me”, intrinsecamente appartenen-
te a Me (madadhına).
Adesso si espongono le regole concernenti i mezzi di sus-
sistenza, ecc. dello yogin.

6.16. Ma lo yoga, o Arjuna, non è per colui che mangia trop-


po né per colui che non mangia affatto, né è per colui che ha
l’abitudine di dormire troppo e nemmeno per colui che veglia
[eccessivamente].

“(Ma) lo yoga (o Arjuna) non è per colui che mangia trop-


po...”, per colui che si nutre eccedendo la quantità di cibo com-
misurata per lui, “né” lo yoga è “per colui che non mangia af-
fatto”, come [è confermato] dalla Âruti: «Certamente, invero,
298 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 6.16

quale che sia la quantità di alimento commisurata per sé stes-


si, quella sostiene, essa non nuoce. Quando il nutrimento è
eccessivo nuoce, quando insufficiente non sostiene» (Âa. Brå.).
Perciò lo yogin non mangi né più né meno rispetto al cibo
proporzionato per se stesso. Oppure [si può intendere così]:
lo yoga non è per colui che mangia di più della quantità di
cibo prescritta allo yogin nello YogaŸåstra. Infatti la [giusta]
quantità [di cibo da ingerire] è stata enunciata [nello YogaŸå-
stra così]: «Metà [dello stomaco è riservata] al cibo unitamen-
te al condimento, il terzo [quarto dello stomaco] è per l’acqua,
mentre il quarto [quarto] va lasciato [libero] per permettere il
movimento dell’aria», ecc. (Yo. Âå.).
“...né”, similmente, lo yoga “è per colui che ha l’abitudine
di dormire troppo, e” lo yoga non è “nemmeno per colui che
veglia” eccessivamente, o Arjuna.
Obiezione: Come [deve essere], dunque, [colui per il quale]
è lo yoga?
Risposta: Si dice:

6.17. Per colui che ha alimentazione e ricreazione equilibra-


te, per colui il cui esercizio in relazione alle attività è equilibra-
to, per colui che ha il sonno e la veglia equilibrati è lo yoga che
elimina il dolore.

“Per colui che ha alimentazione e ricreazione equilibra-


te...”; l’alimentazione (åhåra) è [l’assunzione di] ciò che so-
stiene, ossia il cibo; la ricreazione (vihara) è lo svago, come il
passeggiare; ha alimentazione e ricreazione equilibrate colui
per il quale entrambe sono equilibrate, cioè per il quale sono
di entità [adeguatamente] proporzionata; similmente, “per co-
lui il cui esercizio in relazione alle attività è equilibrato”, cioè
per quegli per il quale l’esercizio in relazione alle [varie for-
me di] attività è misurato, contenuto; similmente, “per colui
6.19 Sesto Adhyåya 299

che ha il sonno e la veglia equilibrati”, per colui per il quale


entrambi, sia il sonno che la veglia, sono armonizzati, cioè
hanno tempi ben proporzionati; dunque, per lo yogin che ha
alimentazione e ricreazione equilibrate, il cui esercizio nelle
attività è misurato e ha il sonno e la veglia armonizzati “è lo
yoga che elimina il dolore”, che pone fine a tutte le sofferen-
ze. [L’espressione] “che elimina il dolore” (du¢khahan) signi-
fica che è lo yoga responsabile della distruzione di qualsiasi
sofferenza del divenire ciclico13.
Obiezione: Ordunque, quando [avviene che lo yogin] divie-
ne [così] equilibrato?
Risposta: Si dice:

6.18. Quando la mente, variamente trattenuta, rimane stabi-


le soltanto nell’åtman, [lo yogin] privo di brama nei confronti
di tutti gli oggetti di desiderio, viene detto allora equilibrato.

“Quando la mente, variamente trattenuta”, ossia trattenu-


ta in modo specifico con l’avere abbandonato il pensiero degli
oggetti esteriori, dunque perfettamente controllata, che cioè
ha acquisito la concentrazione in un unico punto, “rimane sta-
bile soltanto nell’åtman” assoluto, vale a dire che ottiene la
stabilità nel proprio åtman, [lo yogin] privo di brama nei con-
fronti di tutti gli oggetti di desiderio”, cioè quello yogin la cui
brama, o sete verso gli oggetti sia visibili che invisibili è scom-
parsa, “viene detto allora”, in tal caso, “equilibrato” (yukta),
perfettamente unificato.
Di tale yogin, cioè di colui la cui mente è stabilmente uni-
ficata, viene enunciata una similitudine:

6.19. ‘Come una fiamma che si trova al riparo dal vento non
vacilla’: tale è la similitudine tramandata per lo yogin che ha la
mente dominata e che si concentra nella unificazione di sé.
300 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 6.19

“Come una fiamma”, una lampada “che si trova al riparo


dal vento”, collocata in un luogo senza vento, privo di corren-
ti d’aria, “non vacilla”, non tremola: “tale è la similitudine...” –
è una similitudine (upamå) in quanto tramite essa viene espres-
so un paragone (upamıyate) – “tramandata”, concepita dai co-
noscitori dello yoga, da coloro che conoscono i processi men-
tali, “per lo yogin che ha la mente dominata”, il cui organo in-
terno è stato perfettamente controllato, “che si concentra nel-
la unificazione (yoga) di sé”, che lo pratica assiduamente, vale
a dire che pratica la stabile contemplazione14.
Così, divenuto unificato in virtù dell’esercizio continuo
dello yoga ed essendo simile a una lampada al riparo dal
vento,

6.20. Quando la mente, soppressa tramite la pratica dello


yoga, si risolve e proprio quando [il Saggio], vedendo l’åtman
attraverso l’åtman, è appagato [unicamente] nell’åtman,...

“Quando”, nel tempo in cui “la mente, soppressa tramite la


pratica dello yoga”, i cui processi [proiettivi e reattivi] sono
stati integralmente riassorbiti attraverso l’esercizio continuo
dello yoga, “si risolve”, va verso la [propria] soluzione, “e pro-
prio quando”, [esattamente] nel tempo in cui “[il Saggio], ve-
dendo l’åtman attraverso l’åtman”, cioè allorché percepisce la
suprema Coscienza, la cui natura propria è luce, attraverso
l’organo interno perfettamente purificato dalla stabile con-
templazione, “è appagato”, prova pieno appagamento unica-
mente “nel” proprio “åtman...”.
E, dunque,

6.21. ...quando conosce quella gioia trascendente che è affer-


rabile [solo] dall’intelletto superiore (buddhi) in quanto total-
mente al di là dei sensi, e [quando] questi stesso, fermamente
stabilito [in essa], non si discosta più dalla realtà,...
6.22 Sesto Adhyåya 301

La “gioia trascendente” è proprio [la beatitudine] assoluta


in quanto [l’aggettivo] “trascendente” (åtyantika) sta a signi-
ficare infinita (ananta); “...quella (gioia trascendente) che è af-
ferrabile [solo] dall’intelletto superiore...”, ossia che viene còl-
ta solamente attraverso l’intelletto superiore (buddhi) indi-
pendentemente dai sensi15; è afferrabile [solo] dall’intelletto
superiore “in quanto totalmente al di là dei sensi” (atındriya),
cioè trascende la sfera sensoriale, vale a dire che non è gene-
rata dagli oggetti [dei sensi]; “...quando”, dal momento [stes-
so] in cui “conosce”, sperimenta una siffatta gioia, “e [quan-
do] questi stesso”, il conoscitore, “fermamente stabilito” nella
propria natura di åtman, “non si discosta più” da quella stes-
sa, cioè “dalla realtà”, vale a dire non si allontana [più] dalla
realtà che è la sua stessa natura...
E ancora,

6.22. ...e, acquisito il quale [stato supremo], non pensa


[che vi è] un’altra acquisizione superiore a ciò, [una volta]
stabilito nel quale, non è [più] scosso neanche da una grave
sofferenza:...

“...e, acquisito il quale [stato supremo]”, ossia: avendo ac-


quisito, avendo realizzato quella che è la consapevolezza del-
l’åtman, “non pensa”, non immagina: vi è “un’altra”, distinta
“acquisizione”, cioè una ulteriore acquisizione “superiore a
ciò”; e anche “[una volta] stabilito nella quale” realtà dell’å-
tman “non è [più] scosso neanche da una grave sofferenza:...”,
[da una sofferenza] lancinante come quella dovuta a un colpo
inferto con una spada o altro.
Essendo stato [così] specificato attraverso tali peculiarità
quali quelle [espresse] nei passi che cominciano da: «Quan -
do (la mente...) si risolve...» (Bha. Gı. 6.20) e in quelli a se-
guire, lo yoga è stato enunciato in quanto specifica condizio-
ne di sé stessi:
302 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 6.23

6.23. ...tale separazione dal contatto con la sofferenza la si


conosca in quanto definita ‘yoga’. Tale yoga [però] deve essere
praticato con incrollabile determinazione e con una volontà in-
flessibile.

“Tale separazione dal contatto con la sofferenza...”: il con-


tatto con la sofferenza (du¢khasaæyoga) è il legame con le
[varie forme di] sofferenze, la separazione (viyoga) da ciò è la
separazione dal contatto con la sofferenza. “Tale separazione
dal contatto con la sofferenza la si conosca”, la si riconosca
proprio “in quanto definita yoga”. Vale a dire: si conosca, si
riconosca [tale separazione (viyoga) come yoga, cioè ‘unione’]
attraverso una denominazione [di natura] opposta.
Dopo avere riassunto il frutto dello yoga, si enuncia suc-
cessivamente la necessità di praticare lo yoga in riferimento
ai suoi presupposti, allo scopo di raccomandare incrollabile
determinazione e assenza di sconforto come requisiti [indi-
spensabili] per lo yoga.
“Tale yoga [però]”, il cui frutto è stato così esposto, “deve
essere praticato con incrollabile determinazione”, con grande
risolutezza, “e con una volontà inflessibile”: inflessibile, cioè
irremovibile.
Che cosa [dev’essere inflessibile]?
La volontà (cetas). Vale a dire che [lo yoga deve essere pra-
ticato] con quella, con una volontà, una decisione immune da
[ogni possibile causa di] abbattimento16.
E ancora,

6.24. Avendo abbandonato, senza eccezione, tutti i desideri


sorgenti dall’immaginazione, trattenendo variamente, [ma] solo
con la mente, la totalità dei sensi da ogni lato,...

I desideri sorgenti dall’immaginazione sono quei desideri


dei quali l’immaginazione (saækalpa) è la fonte. “Avendo ab-
6.26 Sesto Adhyåya 303

bandonato”, avendo completamente abbandonato “senza al-


cuna riserva”, cioè senza [lasciare alcuna] aderenza, tutti quei
[desideri] “sorgenti dall’immaginazione...”, e anche “tratte-
nendo variamente”, operando “solo con la mente”, ossia tra-
mite una equilibrata discriminazione, il controllo concernente
“la totalità dei sensi”, l’insieme dei sensi “da ogni lato”, cioè
integralmente17...

6.25. ...a poco a poco si ritiri [in se stesso] tramite l’intelletto


superiore mantenuto fermo e, resa la mente stabilmente fissa
sull’åtman, [lo yogin] non deve pensare nulla.

“...a poco a poco”, cioè non in modo repentino, “si ritiri”,


operi un [graduale] ritiro [in se stesso].
Tramite che cosa?
“...tramite l’intelletto superiore” (buddhi).
Come viene specificato [l’intelletto superiore]?
“...mantenuto fermo”, ossia tramite l’intelletto mantenu-
to in uno stato di fermezza, di stabilità. [Così la specificazio-
ne] “(tramite l’intelletto) mantenuto fermo” significa: [re-
so] unificato [e mantenuto] in una condizione di stabilità.
[L'espressione:] “stabilmente fissa sull’åtman”, [significa]:
fermamente stabilita nell’åtman [con la consapevolezza]:
‘l’åtman stesso è la totalità: non esiste nulla di distinto da
Quello’. Così, “...resa la mente stabilmente fissa sull’åtman,
[lo yogin] non deve pensare nulla”. Questa è la più alta for-
ma di yoga.
Riguardo a ciò, cioè allo yogin che è in tal modo impegna-
to a rendere la mente stabilmente fissa sull’åtman,

6.26. Qualunque sia il motivo per cui la mente va errando


vacillante e instabile, trattenendola dal tale e dal talaltro [og-
getto], si riconduca questa [mente] sotto controllo soltanto nel-
l’åtman.
304 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 6.26

“Qualunque sia il motivo...”, qualunque sia la causa,


come un rumore o altro, “...per cui la mente”, per via del di-
fetto insito nella sua propria natura, “va errando”, cioè si
estroverte [mostrandosi] “vacillante”, dotata di eccessiva
mobilità e proprio per questo “instabile”, [allora] “tratte-
nendola dal tale e dal talaltro [oggetto, ecc.]”, cioè [ritraen -
dola dal contatto e quindi sottraendola all’effetto indotto]
dalla tale o dalla talaltra causa, quale [può essere] un ru-
more o altro [oggetto di percezione], grazie a una medita-
zione che, avendo svelato la [natura di] apparenza per l’u -
na o l’altra causa tramite l’accertamento di ciò che realmen-
te è, determina il distacco [da tali cause], “si riconduca que-
sta” mente “sotto controllo soltanto nell’åtman”, la si ripor-
ti in quello stato sottoposto [unicamente] al potere dell’å-
tman [sottraendola alla influenza estrovertente dei sensi].
In tal modo la mente dello yogin, in virtù di tale esercizio
continuo dello yoga, nell’åtman stesso trova completa paci-
ficazione.

6.27. Invero, la gioia suprema discende in lui, nello yogin


che ha la mente perfettamente pacificata, che ha le passioni
placate e che, privo di impurità, è divenuto il Brahman.

“(...nello yogin) che ha la mente del tutto pacificata...”. Ha


la mente del tutto pacificata colui la cui mente è acquietata in
grado assai elevato. “Invero, la gioia suprema”, insuperabile,
“discende in lui, nello yogin che ha la mente perfettamente
pacificata”, cioè lo pervade, e “...che ha le passioni placate”,
vale a dire il cui attaccamento, che è [causa di] sofferenza,
come l’offuscamento mentale, ecc., è stato perfettamente di-
strutto, “e che, privo di impurità”, ossia liberatosi dall’adha-
rma, ecc. “è divenuto il Brahman”, cioè un jıvanmukta (libera-
to in vita); è divenuto il Brahman in quanto la sua consapevo-
lezza è questa: ‘la totalità è il Brahman stesso’.
6.29 Sesto Adhyåya 305

6.28. Unificando così sempre se stesso, lo yogin che ha l’im-


purità dispersa, facilmente ottiene la beatitudine oltre [ogni] li-
mite, cioè la completa unione con il Brahman.

“Unificando così”, attraverso il processo graduale quale è


stato esposto, “sempre”, in qualsiasi circostanza, “se stesso, lo
yogin” esente da [qualsiasi] impedimento relativamente allo
yoga, “che ha l’impurità dispersa”, il cui errore è stato disper-
so, “facilmente”, senza sforzo “ottiene la beatitudine trascen-
dente...” – è trascendente in quanto esiste avendo trasceso
[ogni] entità [contingente o finita], dunque eccelsa, insupera-
bile – “...cioè la completa unione con il Brahman”, attinge pie-
namente quella completa unione (saæsparŸa) con il Brahman
qual è la sua totale identificazione con il supremo Brahman.
Adesso viene prospettato quello che è il frutto dello yoga,
ossia la realizzazione della identità con il Brahman, grazie alla
quale si ha la completa cessazione del divenire ciclico.

6.29. L’åtman dimorante in ogni essere e tutti gli esseri nel-


l’åtman vede colui il cui sé è stato unificato attraverso lo yoga,
colui che percepisce il medesimo dappertutto.

“(L’åtman) dimorante in ogni essere”, cioè il proprio å-


tman in quanto stabilito in tutti gli esseri, “e tutti gli esseri”, a
cominciare da Brahmå fino agli enti inerti, “nell’åtman”, cioè:
e tutti gli esseri in quanto risolti in unità nell’åtman, “vede”,
percepisce “colui il cui sé è stato unificato attraverso lo yoga”,
il cui organo interno è totalmente riunificato, “colui che per-
cepisce il medesimo dappertutto”. Colui che percepisce il me-
desimo dappertutto (sarvatra samadarŸana), in tutti gli esseri,
cioè in tutti i differenti [esseri] da Brahmå fino agli enti iner-
ti, è quegli per il quale la percezione, cioè la conoscenza, con-
cerne il medesimo, inqualificato oggetto che è l’identità tra il
Brahman e l’åtman18.
306 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 6.29

Per questi, che ha realizzato la natura di unità assoluta


dell’åtman, viene [ora] esposto il frutto.

6.30. [Per colui] il quale vede Me dappertutto e vede tutto


in Me, per lui Io non svanisco [più] ed egli per Me non svani-
sce [più].

“[Per colui] il quale vede Me”, Våsudeva, l’åtman della to-


talità, “dappertutto”, in tutti gli esseri, “e vede tutto”, [qualun-
que] essere generato, da Brahmå in poi, “in Me”, nell’åtman
della totalità, “per lui”, che è così un conoscitore della natura
di unità assoluta dell’åtman, “Io”, ÙŸvara, “non svanisco [più]”,
non passerò nella impercettibilità [da parte sua], “ed egli per
Me non svanisce [più]”, ed egli, il conoscitore, per Me, Våsu-
deva, non viene [più] a dissolversi, non diviene impercettibile
[a Me]; [questo avviene] perché sia per lui che per Me vi è il
possesso di un unico åtman e, invero, quello che per defini-
zione è il proprio åtman è affatto caro a sé stessi, e anche per-
ché Io stesso sono il testimone della natura di unità assoluta
dell’åtman della totalità.
In riferimento a ciò, ossia all’autentica conoscenza ogget-
to [anche] del precedente Ÿloka, si delinea [ora] la liberazione
come il suo frutto:

6.31. Colui che, stabilito nell’unità, onora Me in quanto


presente in ogni essere, comunque stia vivendo, tale yogin vive
in Me.

“(Colui che, stabilito...) comunque”, in qualsiasi modo “stia


vivendo, tale yogin”, autentico conoscitore, “vive in Me”, in
Vi≤√u, la suprema Dimora. Vale a dire che egli è affatto libe-
rato per sempre, cioè non sarà ostacolato da alcunché [nel
procedere] verso la liberazione.
E vi è dell’altro:
6.30 Sesto Adhyåya 307

6.32. O Arjuna, colui che, con il rapportarlo a se stesso, dap-


pertutto vede come identico [al proprio], o il piacere o il dolore
[di qualunque altro essere], costui è considerato uno yogin del
più alto rango.

“...con il rapportarlo a se stesso...”. Ciò, attraverso cui si


opera una comparazione (upamıyate) con sé stessi, rappresen-
ta un termine di paragone (upamå); il rapportare [qualcosa
attraverso il riferirlo a tale termine di paragone] (aupamya) è
la condizione di [inclinazione a esperire in modo naturale]
tale comparazione. “Colui che” tramite quella, cioè “con il
rapportarlo a se stesso, dappertutto”, in tutti gli esseri, “vede
come identico [al proprio]”, uguale...
Che cosa vede identico?
Si dice: ‘come è per me il piacevole, il gradevole, così è
piacevole, favorevole per tutti gli esseri viventi’. Il termine
“o” (vå) è [usato] nel senso di “e” (ca) [per cui significa: e il
piacere e il dolore, cioè: sia l’uno che l’altro, per cui il senso
è]: ‘seppure si tratti di ciò che per me è doloroso, dunque av-
verso, indesiderabile, come è [per me], ugualmente è per tutti
gli [altri] esseri viventi, ossia doloroso, indesiderabile e av-
verso’; è così grazie al rapportarlo a sé stessi.
Egli vede come identico, ossia sotto una condizione di
uguaglianza, tanto il piacere quanto il dolore, ossia ciò che è
favorevole e ciò che è avverso, in tutti gli esseri; vale a dire
che non agisce nocivamente contro nessuno. Colui che, fer-
mamente stabilito nell’autentica conoscenza, è così caratte-
rizzato dall’essere del tutto inoffensivo, “costui è considera-
to”, è ritenuto, tra tutti gli yogin, “uno yogin del più alto ran-
go”, eccelso.
Avvedendosi della difficoltà di raggiungere la condizione
[propria] di questo yoga consistente nell’autentica conoscen-
za quale è stata descritta, Arjuna, fermo nel proposito di voler
apprendere un mezzo [sicuro] per conseguirla, disse:
308 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 6.33

Arjuna disse:

6.33. O Madhus¥dana, questo è lo yoga che tu hai predicato


attraverso [la realizzazione di] una identità; [ma] di questo io
non vedo, per via della instabilità [della mente], la [possibilità
di una condizione di] persistenza durevole,...

“O Madhus¥dana, questo è lo yoga che tu hai predicato at-


traverso [la realizzazione di] una identità”, per mezzo di una
condizione di immedesimazione; [ma] “di questo” yoga “io non
vedo”, non avverto, “per via della instabilità” della mente...
Che cosa?
“...la [possibilità di una condizione di] persistenza durevo-
le”, stabile. Ciò è ben noto.

6.34. ...perché, o Kÿ≤√a, la mente è instabile, turbolenta, po-


tente e tenace. Di questa mente io penso che il dominio sia ben
difficile da attuare, come [lo sarebbe] per il vento.

“...perché, o Kÿ≤√a, la mente è instabile...”. [Il nome] Kÿ≤√a


[deriva da] ‘(ciò che) strappa via’ (kÿ≤ati): la sua conoscenza
ha natura di ciò che rimuove, per via del [suo potere di] strap-
par via dagli uomini che gli sono devoti il difetto consistente
nell’errore, ecc.
“...perché”, per il motivo che, “o Kÿ≤√a, la mente è instabi-
le”. Non soltanto è assolutamente instabile (cañcala), ma an-
che “turbolenta” (pramathi), propensa a infliggere sofferenza:
essa tormenta il corpo e i sensi e, proiettandosi variamente, li
rende assoggettati. E inoltre è “potente” (balavat), notevol-
mente forte tanto che nessuno la può disciplinare, essendo as-
sai difficile da contrastare. E ancora, è “tenace” (dÿƒha), dura
da recidere al pari [della pelle] di uno squalo.
“Di questa” stessa “mente”, che è di siffatta natura, io pen-
so che il dominio”, la soppressione “sia ben difficile, come [lo
6.36 Sesto Adhyåya 309

sarebbe] per il vento”. Come il controllo del vento è difficile


da porre in atto, penso che il dominio della mente è ancora
[più] difficile da effettuare di quello. Tale è il senso.
Ârı Bhagavat ammise: ‘Questo [stato di cose] è così come
dici’.

Ârı Bhagavat disse:

6.35. Indubbiamente, o Mahåbåhu, la mente è difficile da


dominare e incostante; ma attraverso l’esercizio continuo, o
Kaunteya, e con la spassionatezza viene dominata.

“Indubbiamente”, cioè: non vi è [alcun] dubbio al riguar-


do, “o Mahåbåhu”, che “la mente è difficile da dominare e in-
costante; ma attraverso l’esercizio continuo...” – si definisce
esercizio continuo (abhyåsa) la reiterata prospettazione di un
medesimo contenuto della mente in riferimento a qualche og-
getto di pensiero – “...e con la spassionatezza” – si definisce
spassionatezza (vairågya) l’assenza di brama nei confronti de-
gli oggetti di fruizione desiderati, sia visibili che invisibili, ot-
tenuta grazie all’esercizio continuo della presa di consapevo-
lezza del difetto [insito nella loro natura]. Attraverso quello
(l’esercizio continuo) e con la spassionatezza, l’inclinazione
della mente, che per natura tende a estroflettersi, viene domi-
nata. È così che essa, la mente, viene dominata, e trattenuta
soppressa. Tale è il significato19.
Per quanto concerne [invece] colui il cui sé (la mente) non
è stato perfettamente posto sotto controllo tramite ciò,

6.36. Da parte di quegli, il cui sé non è perfettamente con-


trollato, lo yoga è difficile da ottenere – così è la mia convinzio-
ne – ma da colui, il cui sé è sotto controllo, il quale persevera
[nell’esercizio continuo e nella spassionatezza, lo yoga] può es-
sere pienamente conseguito con il mezzo adeguato.
310 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 6.36

“Da parte di quegli il cui sé non è perfettamente con-


trollato...”: ha il sé non perfettamente controllato quegli il
cui sé, cioè l’organo interno, non è stato posto completa-
mente sotto controllo attraverso l’esercizio continuo e la
spassionatezza; da lui, il cui sé non è perfettamente con-
trollato, “...lo yoga è difficile da ottenere”, cioè viene rag-
giunto [solamente] con difficoltà: “così è la mia convinzio-
ne”. Invece, per quanto riguarda colui il cui sé è sotto con -
trollo... – colui il cui sé, cioè il cui manas è stato portato,
attraverso l’esercizio continuo e la spassionatezza, in una
condizione di completo controllo, questi ha il sé sotto con-
trollo – “...ma” da lui, “da colui, il cui sé è sotto controllo”,
da colui “il quale persevera”, cioè si profonde in un impe -
gno anche assai ragguardevole, lo yoga “può essere piena-
mente conseguito con il mezzo adeguato”, tramite l’adeguato
mezzo quale è stato esposto.
A tale riguardo, attraverso l’applicazione [di sé stessi nella
pratica] dell’esercizio continuo dello yoga, [tutti] gli atti che
determinano l’ottenimento [di un frutto] in questo mondo e
nell’altro mondo, vengono completamente abbandonati, men-
tre l’autentica conoscenza, che è il frutto della perfezione nel-
lo yoga e costituisce il mezzo per [conseguire] la liberazione,
non è stata [ancora] ottenuta: [perciò] nutrendo il dubbio che
lo yogin, la cui mente [avvicinandosi al trapasso] è divenuta
instabile20, al momento della morte [possa allontanarsi] dal
sentiero dello yoga, [così che] per lui vi sarebbe [solo] la rovi-
na, Arjuna disse:

Arjuna disse:

6.37. Colui che, [pur] non essendo un asceta [dedito alla pra-
tica yoga], è dotato della fede, [ma] ha la mente distolta dallo
yoga, non essendo pervenuto alla perfezione nello yoga, quale
strada prende, o Kÿ≤√a?
6.39 Sesto Adhyåya 311

“Colui che, [pur] non essendo un asceta [dedito alla prati-


ca yoga]”, cioè non impegnandosi intensamente nel sentiero
dello yoga, “è dotato della fede” e di una inclinazione spiritua-
le alla devozione [ma], all’ultimo momento [della vita], “ha la
mente distolta dallo yoga”, cioè quegli il cui manas, il cui pen-
siero è turbato, la cui memoria si è dissolta, questi, “non es-
sendo pervenuto alla perfezione nello yoga”, cioè [non aven-
do ottenuto] il frutto dello yoga che è l’autentica conoscenza,
“quale strada prende, o Kÿ≤√a?”

6.38. Forse [costui], fallito in entrambi [i sentieri: karma-


mårga e yogamårga], va, privo di sostegno, a dissolversi come
un nembo che svanisce, o Mahåbåhu, smarrito sulla strada del
Brahman?

[Il termine] kaccid equivale a kim [nell’introdurre una in-


terrogazione]: “Forse [costui], fallito in entrambi [i sentieri]”,
cioè avendo fallito sia nel sentiero dell’azione (karmamårga)
che nel sentiero dello yoga (yogamårga), “va, privo di soste-
gno”, [venendo a trovarsi] senza alcun appoggio, “a dissolversi
come un nembo che svanisce, o Mahåbåhu”, trovandosi “smar-
rito sulla strada del Brahman?”, sul sentiero per il consegui-
mento del Brahman?, oppure non si dissolve?

6.39. Questo mio dubbio, o Kÿ≤√a, [solo tu] puoi dissiparlo


del tutto, perché non è plausibile che vi sia un altro, all’infuori
di Te, in grado di troncare tale incertezza.

“Questo mio dubbio”, che è in me, “o Kÿ≤√a, [solo tu] puoi


dissiparlo”, rimuoverlo “del tutto, perché”, per il motivo che
“non è plausibile che vi sia un altro, all’infuori di te”, non può
esservi un altro, differente da te, fosse anche un deva o un ÿ≤i,
“in grado di troncare tale incertezza”. Quindi tu soltanto puoi
dissolverlo. Tale è il significato.
312 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 6.40

Ârı Bhagavat disse:

6.40. O Pårtha, né qui stesso né nell’al di là può esservi per


lui distruzione, perché nessuno, che operi degnamente, può per-
correre la strada della rovina, o figlio.

“O Pårtha, né qui stesso”, in questo mondo, “né nell’al di


là”, nell’altro mondo, “può esservi”, vi è “per lui distruzio-
ne...”. [Qui] il termine “distruzione” (nåŸa) definisce l’otte-
nimento di una nascita [in una condizione] inferiore rispet-
to alla [nascita] precedente [cioè all’attuale]: non vi è una
tale [rinascita inferiore] per colui che ha fallito nello yoga;
“...perché”, per il motivo che “nessuno, che operi degnamen-
te”, il cui operato sia puro, “(può percorrere) la strada della
rovina”, [può imboccare] un corso indegno, “o figlio” (tåta).
[In genere] è il padre che viene detto tåta, in quanto propa-
ga (tanoti) se stesso [oltre la propria vita] sotto la sembianza
del figlio. Poiché, dunque, il padre stesso è [divenuto] il fi-
glio, così anche il figlio viene detto tåta. Anche un discepolo
viene chiamato figlio [e dunque tåta], perché [neanche lui,
se ha recepito l’insegnamento] può percorrere [la strada del-
la rovina].
Che cosa accade a costui?

6.41. Avendo raggiunto i mondi di coloro che hanno operato


meritoriamente e [colà] avendo dimorato per periodi illimitati,
colui che ha fallito nello yoga rinasce in una famiglia di puri e
ricchi di qualità.

Il saænyåsin impegnato nel sentiero dello yoga, “Avendo


raggiunto i mondi di coloro che hanno operato meritoria -
mente”, come quelli che hanno celebrato sacrifici quali l’A-
Ÿvamedha e altri, cioè essendovi pervenuto grazie alla [pro-
pria] capacità, e colà “avendo dimorato”, sperimentando la
6.43 Sesto Adhyåya 313

permanenza [nel fruire di tale condizione], “per periodi illi-


mitati”, per anni eterni 21, all’esaurimento di tale fruizione
“colui che ha fallito nello yoga rinasce in una famiglia”, in
una casa “di puri”, cioè di coloro che hanno operato nel
modo come è stato descritto, “e ricchi di qualità”, forniti di
eminenti possibilità.

6.42. Oppure viene all’esistenza proprio in una famiglia di


yogin savi. Invero, nel mondo è più difficile da ottenere una na-
scita simile a questa.

“Oppure viene all’esistenza” in un’altra [casa] rispetto alla


famiglia di ricchi di qualità, cioè nasce “proprio in una fami-
glia di yogin savi”, poveri [ma] dotati di [grande] intelligenza.
“Invero, nel mondo è più difficile da ottenere”, è ottenibile
con maggiore difficoltà rispetto a quella precedente, “una na-
scita”, in una famiglia dalla qualificazione come è stata enun-
ciata, “simile a questa”, cioè a quella che è la nascita in una
famiglia di poveri yogin, perché:

6.43. Colà riacquista quel contatto con la conoscenza acqui-


sito nella precedente incarnazione e si dedica attivamente all’a-
scesi molto più che allora nella [ricerca della] perfezione [nello
yoga], o Kurunandana.

“Colà”, nella famiglia degli yogin, “riacquista quel contatto


con la conoscenza...” – il contatto con la conoscenza (buddhi-
saæyoga) è l’aderenza alla consapevolezza [svelata] – “...ac-
quisito nella precedente incarnazione” – la precedente incar-
nazione è l’esistenza [in vita] nel corpo anteriore – “e si dedi-
ca attivamente all’ascesi molto più che allora”, si profonde in
un impegno ancor più grande rispetto alla purificazione opera-
ta in precedenza, “nella [ricerca della] perfezione [nello yoga]”,
tale da determinare la perfezione [nello yoga].
314 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 6.43

Obiezione: Perché [riacquista] il contatto con la conoscen-


za acquisito nel precedente corpo?
Risposta: Ciò viene ora esposto.

6.44. Perché da quello stesso esercizio continuo [dello yoga


che era stato] praticato in precedenza egli viene sostenuto, an-
che senza la sua volontà; sebbene aspiri [solo] alla conoscenza
dello yoga, trascende la [mera] brahmanica parola.

L’ “esercizio continuo praticato in precedenza” (p¥rvå-


bhyåsa) è l’esercizio continuo [dello yoga quale è stato] effet-
tuato nella precedente nascita. “Perché”, per il motivo che “da
quello stesso”, [da quel] potente [esercizio continuo praticato
in precedenza], “egli”, colui che ha fallito nello yoga, “viene
sostenuto” nella [conquista della] perfezione [yoga], “anche
senza la sua volontà”.
Se non sono state [da lui] compiute attività [demeritorie]
consistenti in ciò che è contrario al dharma, ecc., le quali sia-
no più potenti rispetto alla impressione mentale generata dal-
l’esercizio continuo dello yoga, allora [egli] viene sostenuto
da tale seme attivo (saæskåra) generato dall’esercizio conti-
nuo dello yoga. Se [invece] l’adharma prodotto è più forte,
anche l’impressione mentale generata dallo yoga viene total-
mente soverchiata da quello ma, all’esaurimento di tale [fat-
tore negativo], la tendenza indotta dallo yoga ricomincia a
produrre da se stessa il suo effetto; vale a dire che, di tale [ten-
denza positiva] non vi è distruzione completa per quanto ri-
manga latente anche per un considerevole lasso di tempo.
Quindi, “sebbene aspiri [solo] alla conoscenza dello yoga”,
cioè: nonostante che intenda [solo] conoscere la [sua] vera
natura, quel saænyåsin impegnato nel sentiero dello yoga,
malgrado che nello yoga abbia fallito, grazie alla capacità [da
lui stesso acquisita in precedenza] “trascende la brahmanica
6.46 Sesto Adhyåya 315

parola”, oltrepassa, cioè rimuove il [fine costituito dall’otteni-


mento del] frutto della pratica dell’attività rituale enunciata
nel Veda.
[Così stando le cose] quale esercizio continuo potrebbe
mai avere ancora da praticare colui che, avendo realizzato lo
yoga, è ben fondato in quello?
E per quale altra ragione la condizione di yogin è la mi-
gliore?

6.45. Invero, praticando l’ascesi con alacre impegno, lo yogin


il cui difetto è stato completamente purificato, perfezionatosi
lungo molteplici nascite, raggiunge la suprema mèta.

“(Invero) praticando l’ascesi con alacre impegno”, vale a


dire praticando l’ascesi in modo eccellente, in tal caso “lo yo-
gin”, il saggio “il cui difetto è stato completamente purificato”,
il cui errore è stato deterso in maniera totale, “perfezionatosi
lungo molteplici nascite...” – perfezionatosi lungo molteplici
nascite significa che, accumulando a poco a poco, in innume-
revoli nascite, la tendenza pura indotta [dall’esercizio conti-
nuo dello yoga], ha raggiunto la perfezione grazie a tale [ten-
denza positiva] prodottasi in molteplici nascite e [gradualmen-
te] accumulata – dunque, avendo, grazie a ciò, acquisito l’au-
tentica conoscenza, “raggiunge la suprema”, eccelsa “mèta”22.
Poiché è così, pertanto:

6.46. Lo yogin è considerato superiore agli asceti penitenti e


superiore anche ai conoscitori [delle Scritture], e persino ai ri-
tualisti lo yogin è superiore: perciò, o Arjuna, sii uno yogin.

“Lo yogin è considerato superiore agli asceti penitenti e”


riconosciuto “superiore anche ai conoscitori”, cioè migliore
anche rispetto a coloro che posseggono quella che è la sapien-
za quale mera erudizione relativa al significato delle Scritture,
316 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 6.46

“e (persino) ai ritualisti”, a coloro che celebrano riti quali l’A-


gnihotra e gli altri, “lo yogin è” specificato essere “superiore”:
poiché [è così], “perciò, o Arjuna, sii uno yogin”.

6.47. Colui che, dotato di fede, Mi onora con l’intimo åtman


risolto in Me, costui è da Me ritenuto fra tutti gli yogin il più
unificato.

“Colui che, dotato di fede”, essendo pieno di fede, “Mi


onora”, [Mi] rende omaggio “con l’intimo åtman risolto in
Me”, completamente unificato in Me, Våsudeva, “costui è da
Me”, da parte mia “ritenuto fra tutti gli yogin”, cioè tra [tutti]
quelli intenti a meditare su Rudra, Åditya e gli altri [deva], “il
più unificato”, [quello] assolutamente equilibrato. Ciò è quan-
to si è voluto intendere.

Nelle Scritture yoga sulla conoscenza del Brahman


appartenenti alla Upani≤ad della sacra Bhagavadgıtå,
questo è il Sesto Capitolo
nel dialogo tra Kÿ≤√a e Arjuna
intitolato:
‘Lo yoga della meditazione’.

*
NOTE al Sesto Adhyåya

1
La dottrina della commistione (samuccayavåda) sostiene che
per ottenere il frutto aspirato si deve abbinare l’azione rituale alla
conoscenza (meditazione); pertanto il rito, al pari della meditazione,
risulterebbe imposto per tutta la vita.
Il termine åruruk≤u definisce “colui che aspira” allo yoga, men-
tre la parola år¥ƒha designa “colui che si è elevato (spiritualmente)”
e lo ha ottenuto. Lo yoga – in quanto riunificazione della frammen-
tata e dispersa potenzialità individuale concomitante alla unione di
sé con il Divino – rappresenta una condizione più elevata rispetto a
quella della mera osservanza rituale imposta allo stadio di vita, ecc.
Yoga è insieme ascesi e ascesa spirituale e l’attingimento di que-
sto stato di “unificazione-raggiungimento” – tale è il senso della ra-
dice yuj: congiungere, unire, unificare ma anche: giungere, rag-
giungere – è sintetizzato dai due termini citati, derivanti dalla me-
desima radice åruh: salire, ascendere, raggiungere; in termini ope-
rativi si parla di realizzazione, quale effettiva presa di coscienza.
In questo Capitolo verranno descritti gli stati di: a) colui che
aspira allo yoga (yogåruruk≤u); b) colui che vi si impegna pratican-
dolo nelle sue peculiarità, come la meditazione, ecc. (yogapravÿtta o
semplicemente yogin); c) colui che lo ha pienamente raggiunto, che
ne ha ottenuto lo scopo (yogår¥ƒha).
2
L’avversario sostiene che la distinzione tra azione e rinuncia
riguarda quelli che, non possedendo la necessaria maturità spiritua-
le, non hanno ancora concepito la necessità di imboccare la via ver-
so la perfezione. Mentre l’azione rituale è imposta agli appartenenti
ai diversi stadi di vita e preclusa ai rinunciatari completi, coloro che
non hanno ancora intrapreso un percorso realizzativo esulano sia
dall’una che dall’altra prescrizione, per cui a loro deve essere rivol-
ta una specifica menzione del dovere in quanto differenziato nelle
318 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

varie modalità. Tuttavia ciò non tiene conto del fatto che anche il
dovere di stadio è un dato relativo, e come tale cessa di avere effet-
to all’avvento della conoscenza, per cui la stessa azione rituale non
deve essere portata avanti per tutta la vita ma va deposta quando si è
raggiunto lo stato di ‘unificazione’.

Dovendo compiere una data azione imposta dallo stadio di


3

vita o altro, il soggetto agente si impegna diligentemente nella sua


effettuazione impulsato dalla idea del frutto. Fin quando l’atto rap-
presenta per lui un obbligo, non è ragionevole pensare che possa
assolverlo in maniera impropria o parziale, perché ciò equivarrebbe
ad agire consapevolmente contro sé stessi.
4
Si torni alla nota 5.1.
5
Data la peculiarità del termine åtman – sia la Coscienza supre-
ma riflessa in noi, sia il sé (spirituale o corporeo, ecc.), sia sé stessi
(pronome impersonale) – il verso può anche essere letto come: ‘Ci
si innalzi, e non ci si degradi [mai], tramite sé stessi: perché solo
noi stessi si è amici di sé stessi, solo noi stessi si è nemici di sé stes-
si’. In altre parole, dalla direzione impressa alla coscienza dipende il
“destino” dell’essere, il suo corso esistenziale, la benevolenza o l’o-
stilità verso di sé, l’innalzamento verso una definitiva sublimazione
o degradazione. L’amico o il nemico non sono esteriori; esterno e
interno sono proiezioni. Nell’åtman, nella vera natura di sé stessi –
Essenza priva di dualità – non vi è né esterno né interno. È il con-
tenuto mentale, attuale e potenziale, ciò che aggrava, limita e con-
diziona, dirige in alto o proietta in basso, libera o schiavizza. E solo
dal profondo del proprio essere può scaturire l’impulso alla realiz-
zazione di sé stessi in quanto åtman. Cfr. Ma. Bhå. 5.34.64.

L’aggregato di effetti e strumenti (kåryakara√asaæghåta) è il


6

veicolo fisico con le facoltà sottili, cioè il corpo nel suo insieme or-
ganico e i singoli organi sensoriali con le loro funzioni. Pur non es-
sendo l’åtman – anzi, è definito per eccellenza, al pari del piano og-
gettuale, come non-åtman – viene chiamato ‘sé’ per il motivo che
rappresenta il primo dato di autoimmedesimazione per la coscienza
Note al Sesto Adhyåya 319

condizionata dall’avidyå. È dunque un contenuto coscienziale da ri-


solvere e considerare come oggetto su cui operare il controllo e il
distacco.
7
Al conoscitore che ha pacificato la mente e dominato il com-
posto individuato il supremo åtman si svela in modo diretto e im-
mediato come il suo stesso åtman, quindi non più soggetto al movi-
mento proiettivo, identificativo e dispersivo di måyå ma perfetta-
mente riunificato in Sé stesso, cioè completamente raccolto nella
sua natura di Coscienza non-duale: nessuna coppia di opposti può
più turbare la sua profonda pacificazione.
Lo yogin, o il conoscitore che ha realizzato lo yoga, è rientrato
in sé stesso raccogliendosi da una iniziale condizione di esterioriz-
zazione percettiva e attiva; in altre parole, si è completamente as-
sorbito (samåhita) e quindi riunificato (yukta), reintegrando in sé le
proprie potenzialità e reintegrandosi egli stesso nell’åtman, operan-
do a tutti gli effetti la soluzione del jıva nell’åtman, e divenendo
così un realizzato. Anzi, per l’esattezza, per un tale saggio la stessa
distinzione tra realizzazione e non-realizzazione non ha più signifi-
cato, perché egli semplicemente è l’åtman supremo, di là da ogni
possibile dualità. Cfr. Bha. Gı. 12.18.
8
Colui il cui pensiero è identico (samabuddhi), il cui intelletto è
sempre il medesimo, cioè costantemente stabile e proteso all’ultima
Verità, è l’uomo la cui mente è stata affrancata dalla tendenza a
proiettare, diversificare e classificare, dunque a giudicare il prossi-
mo, a criticare l’altrui operato, natura, comportamento, ecc. in quan-
to è stata purificata da ogni impressione relativa alla differenziazio-
ne e al conseguente rapporto dualistico. Risolto l’ ‘io’ scompare an-
che l’ ‘altro’. Per il conoscitore, infatti, l’altro non è un reale ‘secon-
do’, ma l’apparenza proiettiva di un’altra forma assunta dalla me-
desima e unica coscienza, quella dell’åtman. Quando ci si libera dal-
la tendenza ad attribuire nome, qualità, ecc. all’ente che entra nel
campo della conoscenza, anche la forma si dissolve e si svela l’Uni-
tà essenziale del tutto: superato il piano di nåma-r¥pa si svela l’e-
terno sat-cit-ånanda che è l’åtman stesso. Conseguentemente ci si
affranca anche dal nesso azione-reazione, ovvero dalla legge di cau-
sa-effetto che caratterizza il divenire esistenziale trasmigratorio.
320 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

Un’altra lettura è: “...concentri persistentemente il sé (l’organo


9

interno) [sull’åtman], ecc.”, cioè fissi costantemente l’attenzione... Per i


passi dello yoga, cfr. Yo. S¥. 2.29; Chå. 8.15, Ka. 1.3.10-17, Mai. 6.18.30.

Sul terreno rialzato viene posata prima l’erba kuŸa, dalla fun-
10

zione sacrale, quindi il vello di antilope e, in ultimo, a contatto con


il corpo del meditante, il panno. L’ordine di stratificazione del seg-
gio ha un preciso valore sia pratico-operativo che rituale e simboli-
co. Nei trattati yoga tale argomento viene estesamente spiegato.

Il termine nåsikågra, l’estremità del naso, non designa la pun-


11

ta, ma il vertice, cioè la radice, approssimativamente posta al centro


del capo. È un modo pratico di localizzare l’åjñåcakra, sede del cen-
tro consapevole di autocoscienza individuale, a livello del quale oc-
corre far convergere, raccogliere, concentrare e risolvere l’atten-
zione cosciente nel corso del dhyåna o meditazione yoga. Altrove si
parla di farvi confluire il prå√a, ma sempre allo scopo della concen-
trazione della mente e della sua soluzione in un unico punto focale.
V. anche Bha. Gı. 6.25, 5.27 e 8.10.

Il termine matpara – costituito dalla base pronominale mad


12

(me) e dalla parola para (avente lo scopo di, finalizzato a, ma anche:


supremo) – sintetizza vari significati: ‘proteso verso di Me’, ‘miran-
te unicamente a realizzare Me’, ma anche: ‘avendo Me come scopo’,
o ‘considerando Me come supremo’ cioè considerando Me come l’o-
biettivo ultimo e sopra qualsiasi altro. Colui che, tendendo alla per-
fetta unificazione mediante la pratica dello yoga, considera un ente
come il Supremo, non può avere altro che Quello come proprio e
unico obiettivo esistenziale verso il quale incanalare, rivolgere e
consacrare la propria totale devozione, consapevolezza e istanza
realizzativa. È quanto si definisce il fine per eccellenza dell’essere
umano (puru≤årtha), l’obiettivo ultimo e più elevato, la suprema
mèta da raggiungere.

L’unificazione a cui porta la pratica yoga esige il perfetto equi-


13

librio nell’attività e nella quiete, nella nutrizione e nella fruizione.


L’equilibrio (yukti) è condizione necessaria sia per il distacco bilan-
ciato del sé incarnato (jıva) dalla condizione individuale caratteriz-
Note al Sesto Adhyåya 321

zata dalla identificazione al veicolo psicofisico che per la sua conse-


guente soluzione nell’åtman. Qualsiasi squilibrio genera tensione
che si traduce in instabilità e si concretizza nell’azione identificata,
compromettendo così il processo di disidentificazione dal composto
individuale e inducendo ulteriori proiezioni e impressioni subcon-
scie. Raggiungere l’equilibrio, il distacco armonico dai contenuti at-
tuali e potenziali, significa ridurre ed eliminare gradualmente la di-
spersione energetica-coscienziale e conseguire quella unificazione
che è l’essenza stessa dello yoga. Dalla yukti-equilibrio alla ekågratå-
fissità della consapevolezza in un centro permanente, il passo è breve.
14
L’espressione: “...che si concentra nella unione di sé [con l’å-
tman]” (yuñjato yogamåtmana¢) può essere letta anche: “che si
unifica praticando lo yoga dell’åtman”. Lo yoga letteralmente è una
‘unificazione’, e l’unificazione di sé stessi, attraverso la soluzione
della possibilità individuale, porta immancabilmente a quella con
l’åtman-Brahman.
15
Il piacere fisico o mentale è còlto attraverso i sensi (indriya) e
gustato tramite la mente sensoriale (manas), che ne elabora i dati,
ma la Beatitudine trascendente, che è la natura del Brahman, può
essere percepita solo attraverso la buddhi, l’intuizione intellettuale
superconscia.
16
Cfr. Ma. Bhå. 3.213.33.
17
L’espressione “trattenendo variamente” (viniyamya) si riferisce
alla pratica di contrastare l’azione di ciascun senso in maniera singo-
la, mirata ed esclusiva, in funzione delle peculiarità di ogni facoltà
sensoriale, contrapponendo a ogni tendenza quella a lei opposta.
18
Cfr. Ù. 6. V. anche: Ma. 12.91; Ma. Bhå. 12.240.21, 5.46.25.; Å.
Dha. S¥. 1.23.1.
19
Cfr. Yo. S¥. 1.12.
20
Al momento del distacco dal veicolo corporeo, il riflesso di
coscienza, recando con sé il corpo sottile, comprendente l’organo
interno cioè la mente nel suo complesso e le potenzialità relative
322 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

alle facoltà sensoriali (i prå√a), può subire l’influenza delle impres-


sioni mentali. Queste, non essendo del tutto risolte, possono rie-
mergere potentemente sotto forma di tendenze latenti (våsanå) –
dunque in veste di potenziali semi attivi (saæskåra) – che, non tro-
vando ostacoli alla propria espressione, quali possono essere, per
esempio: una forma mentale-corporea concretizzata, il pensiero cri-
stallizzato, atteggiamenti o abitudini mentali, ecc., sono in grado di
turbare l’equilibrio mentale raggiunto attraverso lo yoga e impri-
mere una particolare direzione verso una eventuale, successiva ri-
nascita, vanificando o comunque procrastinando il processo realiz-
zativo iniziato.

La natura eterna di tali cicli non è da intendersi in senso asso-


21

luto, ma si riferisce a una durata finita, anche se immensurabilmen-


te dilatata rispetto a quella umana, sorretta da parte dei cicli solari
ordinari, in quanto commisurata a piani superiori, caratterizzati da
un maggior grado di libertà ed estensione. Il tempo nelle diverse
sfere di esistenza ed esperienza scorre con ritmi diversi, come si
constata anche nel piano ordinario in relazione alle differenti con-
dizioni di coscienza degli esseri.

Per la “mèta”, cfr.: Bha. Gı. 8.13, 8.21, 9.32, 13.28 e 16.22. V.
22

anche Mai. 6.30.

*
Settimo Adhyåya
(Lo yoga della conoscenza e della scienza distintiva)

Dopo aver posto il seme per un [ulteriore] quesito [con lo


Ÿloka]: «Colui che, dotato di fede, Mi onora con l’intimo å-
tman risolto in Me, costui è da Me ritenuto il più unificato
persino fra tutti gli yogin» (Bha. Gı. 6.47), Ÿrı Bhagavat, con
l’intenzione di esporre questo: ‘proprio siffatta è la mia in-
trinseca essenza’ e ‘così [deve essere] colui il cui åtman si è
risolto in Me’, disse:

Ârı Bhagavat disse:

7.1. Ascolta, o Pårtha, ciò, ossia come [tu], con la mente as-
sorta in Me, impegnandoti nello yoga e rifugiato in Me, possa,
senza [alcun] dubbio, interamente conoscermi.

“Ascolta, o Pårtha, ciò” che Io sto per esporti, ossia “come”,


cioè il modo in cui tu, che, essendo siffatto, cioè “(con la men-
te assorta in Me)” – ha la mente assorta in Me colui la cui
mente è saldamente immersa in Me, nel supremo Signore dal-
la qualificazione quale verrà espressa – “impegnandoti nello
yoga”, operando la stabile contemplazione della mente, sei
“rifugiato in Me...” – è rifugiato in Me colui il cui rifugio (å-
Ÿraya) sono soltanto Io, il supremo Signore. Invero, chiunque
aspiri a qualche obiettivo di ordine umano, ricorre a dati stru-
menti quali il rito dell’Agnihotra e altri [riti], o l’austerità op-
pure la donazione come mezzo per [ottenere] ciò; ma questo
324 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 7.1

yogin, avendo abbandonato un [qualsiasi] altro mezzo este-


riore, assume Me soltanto come rifugio, così che diviene uno
la cui mente è assorta (åsakta) solamente in Me.
“...possa, senza [alcun] dubbio, interamente”, totalmente
“conoscermi” in quanto perfettamente dotato di attributi qua-
li l’onnipervasività, la forza, il potere, la divina sovranità e al-
tri, come: ‘senza dubbio così stesso è Bhagavat’.
E ciò [è per quanto] concerne Me.

7.2. Io ti esporrò questa conoscenza integralmente, insieme


con la [giusta] scienza distintiva, conoscendo la quale qui non
resta altro ancora da conoscere.

“Io ti esporrò”, ti rivelerò “questa conoscenza integralmen-


te”, in maniera completa, “insieme con la [giusta] scienza di-
stintiva”, cioè unitamente alla conoscenza distintiva, congiun-
ta con la [mia] propria esperienza diretta – [così Bhagavat]
rende lode a quella [stessa] conoscenza che si intende esporre
allo scopo di indirizzare verso [di essa] l’attenzione dell’a-
scoltatore – “conoscendo la quale”, conoscenza realizzando la
quale, “qui (in questo mondo) non resta altro”, non vi è [nulla
che] rimanga “ancora”, ulteriormente “da conoscere” quale
mezzo per il [conseguimento del] fine umano [per eccellenza,
cioè la liberazione]. Vale a dire che colui, il quale ha realizza-
to la mia essenza, costui diviene onnisciente. Quindi, poiché
comporta un frutto [così] qualificato [qual è la liberazione], la
conoscenza è difficile da ottenere.
In che senso [è difficile da ottenere]?
Si dice:

7.3. Tra mille persone, qualcuna profonde un grande impe-


gno per [raggiungere] la perfezione, [ma] anche tra quelle che,
profuso un grande impegno, hanno raggiunto la perfezione,
qualcuna [soltanto] Mi conosce nella essenza.
7.4 Settimo Adhyåya 325

“Tra mille”, fra innumerevoli “persone, qualcuna profonde


un grande impegno per [raggiungere] la perfezione”, compie
uno sforzo allo scopo di ottenere la perfezione, “[ma] anche
tra quelle che, profuso un grande impegno, hanno raggiunto
la perfezione” – [si dice che] raggiungono la perfezione [o
semplicemente vi aspirano in maniera autentica] coloro i quali
[una volta ottenuto lo yoga] si impegnano alacremente per
[conseguire] la liberazione – [anche] tra quelle, “qualcuna” sol-
tanto “Mi conosce nella essenza”, così come [realmente] sono.
Avendo suscitato l’interesse dell’ascoltatore attraverso la
[giusta] stimolazione, [Bhagavat] disse:

7.4. La terra, l’acqua, il fuoco, l’aria, lo spazio, il manas, la


buddhi, l’ahaækåra: questa è la mia natura-prakÿti ottuplice-
mente suddivisa.

È detto “terra” (bh¥mi) il principio essenziale (sottile) della


terra [quale elemento, pÿthivı]; non è [dunque la terra] grosso-
lana, per via della espressione: “...la (mia) prakÿti ottuplice-
mente suddivisa”. Similmente, definiti come acqua, ecc., cioè
“l’acqua, il fuoco, l’aria e lo spazio”, sono ancora i loro stessi
princìpi essenziali (tanmåtra)1. Il manas è [da intendersi piut-
tosto come] la causa del manas, per cui si riferisce all’ahaæ-
kåra; la buddhi è la causa dell’ahaækåra, cioè il principio che
è il Mahat; l’ahaækåra [universale] è l’Immanifesto (avyakta),
congiunto con l’ignoranza (la måyå)2.
Come il cibo, quando è mescolato con del veleno, viene
detto [anch’esso] velenoso, così l’Immanifesto, quando ha
[contatto con] l’impressione latente dell’ahaækåra, viene de-
finito come l’ahaækåra [universale] in quanto causa della ra-
dice (m¥la) [di tutto], poiché l’ahaækåra è ciò che conferisce
impulso [a tutto]. Infatti nel piano empirico si constata che
proprio l’ahaækåra (il senso dell’io) è il seme dell’attività di
ogni [essere individuato].
326 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 7.4

“...questa”, quale è stata descritta, “è la mia natura-prakÿti”,


la Ÿakti (il potere) che appartiene [intrinsecamente] a Me, la
måyå del Signore, “ottuplicemente suddivisa”, che si presenta
[apparentemente così] differenziata.

7.5. Questa è la [mia natura] non-suprema. Ma devi cono-


scere [anche] la mia natura suprema, distinta da essa, che costi-
tuisce il jıva, o Mahåbåhu, [natura] dalla quale è sostenuto
questo universo.

“Questa è la [mia natura-prakÿti] non-suprema (apara),


non trascendente, inferiore (nikÿ≤†a), impura, consistente es-
senzialmente nella soggezione al divenire ciclico (saæsåra) e
[quindi] produttrice di sofferenza.
“Ma devi conoscere [anche] la mia natura-prakÿti suprema
(para), superiore (prakÿ≤†a), perfettamente pura (viŸuddha),
costituita dal mio åtman, che è “distinta da essa”, da quella
quale è stata descritta, “che costituisce il jıva”, consiste cioè
nel conoscitore del campo (k≤etrajña), “o Mahåbåhu”, e costi-
tuisce la causa di sostentamento della energia vitale (la vita),
“dalla quale” natura, penetrata al suo interno, “è sostenuto
questo universo”3.

7.6. Considera che tutti gli esseri hanno questa matrice: del-
l’intero universo Io sono l’origine e, similmente, la dissoluzione.

“...hanno questa matrice”: queste due nature, la suprema e


la non-suprema, consistenti [rispettivamente] nel conoscitore
del campo e nel campo, costituiscono la matrice (yoni) di quelli
che sono gli esseri. “Considera”, sappi questo: “che tutti gli
esseri hanno questa matrice”. Poiché le mie due nature sono
la matrice di tutti gli esseri, quindi la causa “dell’intero uni-
verso”, [ne consegue che] in rapporto alla totalità “Io sono
l’origine”, la venuta all’esistenza, “e, similmente, la dissolu -
7.8 Settimo Adhyåya 327

zione”, la completa distruzione. Vale a dire che, in virtù della


[mia] duplice natura, Io sono sia il Signore onnisciente che la
causa [della venuta in esistenza, della conservazione e della
dissoluzione e riassorbimento] dell’universo4.
Poiché è così, pertanto:

7.7. Non vi è null’altro che sia più elevato rispetto a Me, o


Dhanañjaya: in Me tutto questo [universo] è intessuto, come [lo
è] una collana di gemme su un filo.

“Non vi è null’altro che sia più elevato rispetto a Me”, non


esiste una ulteriore causa [diversa] dal supremo Signore, “o
Dhanañjaya”: vale a dire che soltanto Io sono la causa dell’u-
niverso. Poiché è così, pertanto “in Me”, nel supremo Signore,
“tutto questo” universo, consistente nella totalità degli enti, “è
intessuto”, è legato unitamente, è dipendente, è fissato “come
[lo è] una collana di gemme su un filo”, vale a dire è tenuto
insieme, simile a una stoffa sull’intreccio delle fibre.
Obiezione: Tutto questo [universo] è intessuto in Te: [ma]
da quale e quale [altra] proprietà sei qualificato?
Risposta: Si dice:

7.8. Io [sono] il sapore nell’acqua, o figlio di Kuntı, sono la


luce nel sole e nella luna, il pra√ava (la sillaba om) in tutti i
Veda, il suono nella estensione spaziale e la natura umana negli
uomini.

“Io sono il sapore” dell’acqua; ciò che è l’essenza (såra),


quello è il sapore (rasa); in quello, cioè in Me divenuto il sa-
pore, è intessuta l’acqua. Tale è il significato. È così ovunque:
come “Io sono il sapore nell’acqua”, allo stesso modo “sono la
luce nel sole e nella luna, il pra√ava”, la [sacra] sillaba om, “in
tutti i Veda”, cioè: in quello, ossia in Me, divenuto il pra√ava,
328 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 7.8

sono intessuti tutti i Veda; similmente [sono] “il suono nella


estensione spaziale”, nello spazio, [essendo Io] divenuto [tale]
essenza [che è il suono], cioè: in quello, ossia in Me [che sono
divenuto il suono-essenza], è intessuta la estensione spaziale;
similmente [sono] “la natura umana”, la natura [propria] del-
l’essere umano, cioè la intelligenza dell’uomo, dalla quale [vie-
ne definita] la natura umana (pauru≤a), “negli uomini”, cioè:
in Me, che sono [divenuto] tale [natura intelligente dell’uo-
mo, tutti] gli uomini sono intessuti5.

7.9. Sono la gradevole fragranza nella terra e lo splendore


nel fuoco, sono la vita in tutti gli esseri e l’austerità negli asceti.

Inoltre Io “Sono la gradevole”, profumata “fragranza nella


terra”, cioè: in quella, ossia in Me, divenuto la fragranza, è in-
tessuta la terra. La gradevolezza (pu√yatva) appartiene alla fra-
granza proprio per sua stessa natura ed essa è stata prospettata
in relazione alla terra per implicare la natura di purezza del sa-
pore, ecc. [anche] in relazione all’acqua e agli altri [elementi o
enti citati]. Viceversa, la sgradevolezza [che può sperimentarsi]
per la fragranza, ecc. si verifica in quanto dovuta al contatto
con particolari elementi costitutivi del mondo diveniente in
rapporto alla ignoranza, alla difformità dal dharma, ecc.6
Inoltre sono “lo splendore nel fuoco”, il fulgore nella fiam-
ma e, similmente, “sono la vita in tutti gli esseri...” – la vita
(jıvana) è ciò grazie a cui tutti gli esseri vivono – “...e l’auste-
rità negli asceti”, cioè: in Me, che sono [divenuto] quell’auste-
rità (tapas), [tutti] gli asceti sono intessuti.

7.10. O Pårtha, conosci Me come il perenne seme di tutti gli


esseri: Io sono l’intelletto dei sapienti e l’ardore dei valorosi.

“O Pårtha, conosci Me come il perenne”, primordiale “seme”


che è causa del germogliare “di tutti gli esseri”; e inoltre “Io
7.12 Settimo Adhyåya 329

sono l’intelletto dei sapienti”, la capacità di discriminazione


dell’organo interno di coloro che sono muniti della capacità
di discriminare, “e l’ardore”, l’audacia “dei valorosi”, di coloro
che ne sono dotati7.

7.11. Io [sono] anche la forza dei forti, scevra di desiderio e


passione, e negli esseri sono il desiderio non opposto al dharma,
o migliore dei Bharata.

“(Io [sono] anche) la forza”, l’energia, il vigore “dei forti...”,


e tale forza (bala) è “scevra di desiderio e passione”. Il deside-
rio (kåma) e la passione (råga) costituiscono [la coppia inscin-
dibile di] brama e attaccamento. Il desiderio è la brama verso
gli oggetti che [ancora] non sono entrati nella portata [della
esperienza sensoriale], la passione è l’attaccamento verso gli og-
getti acquisiti. Io sono la pura forza il cui scopo è unicamente
quello del sostentamento del corpo, ecc., ed è immune da loro
due, cioè sia dal desiderio che dalla passione, e non già quella
[forza ordinaria] che, per gli esseri trasmigranti, è un mezzo
sia per [nutrire] il desiderio che per [assecondare] la passione.
E inoltre: “...e negli esseri” viventi “sono il desiderio non
opposto al dharma”, che non si pone in contraddizione rispet-
to al dharma che rappresenta il significato delle Scritture,
come il bisogno di nutrirsi o dissetarsi ha il solo scopo di so-
stentare il corpo, ecc.
E inoltre,

7.12. E qualunque siano quelle stesse peculiari condizioni di


esistenza caratterizzate dal sattva, caratterizzate dal rajas e ca-
ratterizzate dal tamas, sappi che esse provengono da Me soltan-
to; Io non [sono] in loro, ma esse [sono] in Me.

“E qualunque”, qualsivoglia “siano quelle stesse peculiari


condizioni di esistenza” (bhåva), o categorie principiali (padå-
330 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 7.12

rtha), “caratterizzate dal sattva”, cioè procedenti dal sattva,


“caratterizzate dal rajas”, cioè procedenti dal rajas, “e caratte-
rizzate dal tamas”, cioè procedenti dal tamas, “sappi” così
“che esse”, le peculiari condizioni di esistenza che vengono
generate dalla forza del karman che è proprio degli esseri vi-
venti, “provengono” tutte, nella loro totalità, “da Me soltanto”
allorché si originano.
Sebbene esse traggano origine da Me, tuttavia, “Io non
[sono] in loro”, cioè non appartengo intrinsecamente a loro,
non vi sono assoggettato, come [invece è] per gli esseri dive-
nienti, “ma”, al contrario, “esse [sono] in Me”, sono assogget-
tate a Me, Mi appartengono intrinsecamente8.
[Ora] Bhagavat manifesta il [suo] compatimento [nei con-
fronti dell’universo conscio asserendo]: ‘l’universo non rico-
nosce Me, sebbene sia siffatto, cioè [nonostante Io sia] il su -
premo Signore, eterno, puro, consapevole e libero per propria
natura, l’åtman di ogni essere, privo di attributi e [una volta
realizzato] causa del perfetto ardersi di quel seme del male
che è il divenire ciclico’.
Obiezione: E qual è, dunque, la causa della ignoranza da
parte dell’universo?
Risposta: Si dice:

7.13. Tutto questo universo, confuso da tali peculiari condi-


zioni di esistenza consustanziate dei tre gu√a, non riconosce Me
[che sono] trascendente rispetto a loro e inalterabile.

“Tutto questo universo” di innumerevoli esseri viventi,


“confuso da tali peculiari condizioni di esistenza”, ovvero dal-
le categorie principiali quali sono state descritte, “consustan-
ziate dei tre gu√a”, che sono cioè modificazioni dei gu√a sotto
le forme di attrazione, repulsione, obnubilamento, ecc., essen-
do dunque caduto nell’assenza di discriminazione, “non rico-
7.15 Settimo Adhyåya 331

nosce Me [che sono] trascendente rispetto a loro”, cioè avul-


so, sostanzialmente differente dai gu√a come sono stati espo-
sti, “e inalterabile”, immune da degenerazione, vale a dire
esente da tutte le modificazioni inerenti alla esistenza [relativa
degli enti] come la nascita, ecc.
Obiezione: In che modo, dunque, [un conoscitore] può oltre-
passare questa divina måyå di Vi≤√u essenziata dei tre gu√a?
Risposta: Si dice:

7.14. In verità, questa mia divina måyå, consustanziata dei


tre gu√a, è difficile da superare: coloro che trovano rifugio in
Me soltanto, costoro traversano questa måyå.

“In verità, questa mia divina måyå, consustanziata dei tre


gu√a” come è stata descritta, [proprio] per il motivo che è mia,
che appartiene a Vi≤√u, al deva che è il Signore, “è difficile da
superare”: è difficile da superare (duratyayå) colei il cui supe-
ramento, la cui trascendenza è [attuabile solo] con difficoltà. A
tale riguardo, così essendo, “...coloro che”, avendo completa-
mente abbandonato tutti i dharma, “trovano rifugio” con il loro
intero essere (åtman) [risolto] “in Me soltanto”, il Possessore
della måyå, divenuto il [loro] proprio åtman, “costoro traver-
sano”, oltrepassano “questa måyå” che obnubila tutti gli esseri,
si liberano, cioè, dalla schiavitù del divenire ciclico9.
Obiezione: Se traversano questa måyå quelli che hanno
trovato rifugio presso di Te, perché non prendono rifugio in
Te soltanto tutti [gli esseri]?
Risposta: Si dice:

7.15. Non prendono rifugio in Me gli operatori di iniquità,


gli stolti, gli uomini indegni, coloro la cui conoscenza è offusca-
ta dalla måyå, che si affidano alla natura degli asura.
332 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 7.15

“Non prendono rifugio in Me”, Nåråya√a, il supremo Si-


gnore, “gli operatori di iniquità”, [quelli] che agiscono nel-
l’errore, “gli stolti, gli uomini indegni”, cioè i peggiori, i più
abietti fra gli uomini, e quelli che, essendo “coloro la cui co-
noscenza è offuscata dalla måyå”, hanno la consapevolezza
annebbiata, “che si affidano alla natura degli asura”, consi-
stente nell’aggressività, nella falsità, ecc.
Viceversa, riguardo a coloro che sono gli uomini più ele-
vati, che agiscono meritoriamente,

7.16. Sono ripartite quadruplicemente le persone che, ope-


rando rettamente, Mi onorano, o Arjuna: l’oppresso, colui che
ha istanza di conoscenza, colui che intende ottenere un benefi-
cio e il conoscitore, o migliore dei Bharata.

“Sono ripartite quadruplicemente”, sono di quattro specie,


“le persone che, operando rettamente”, agendo meritoriamen-
te, “Mi onorano”, si inchinano [a Me], “o Arjuna: l’oppresso”,
colui che è completamente attorniato da situazioni tormento-
se, ad esempio chi viene sopraffatto da un mascalzone o è ca-
duto preda di animali feroci o di infermità, ecc.; “colui che ha
istanza di conoscenza”, che aspira a conoscere la [reale] es-
senza del Signore, “colui che intende ottenere un beneficio”,
che è desideroso di ricchezza, “e il conoscitore” (jñånin), colui
che ha realizzato l’essenza di Vi≤√u, “o migliore dei Bharata”.

7.17. Tra loro, il jñånin, costantemente unificato e votato al-


l’Unico, si distingue, perché Io sono oltremodo caro al jñånin ed
egli è caro a Me.

“Tra loro”, fra le quattro [specie di persone elencate], “il


jñånin”, il conoscitore della essenza (tattvavid), proprio per il
motivo che ha realizzato l’essenza ed è “costantemente unifi-
cato (nityayukto) e votato all’Unico” – è votato all’Unico (eka-
7.18 Settimo Adhyåya 333

bhakti) colui il quale non scorge [alcun] altro [ente] che possa
essere oggetto di devozione – “...si distingue”, si porta in uno
stato di singolare superiorità, vale a dire che prevale [su tutti].
“...perché... caro...”: per il motivo che Io sono l’åtman [stes-
so] del conoscitore, per cui “Io sono oltremodo caro” a lui; in-
fatti è ben noto al mondo che l’åtman è caro [a ciascuno], per-
ciò, essendo l’åtman del conoscitore, Våsudeva è [oltremodo]
caro [al jnånin]. Tale è il significato.
“...ed egli”, il jñånin, dato che è per Me, Våsudeva, l’åtman
stesso, “è” oltremodo “caro a Me”.
Obiezione: Allora, le tre [specie di persone elencate], da
quella oppressa in poi, non sarebbero care a Våsudeva?
Risposta: Non è [da intendersi esattamente] così.
Obiezione: Che cosa [si deve intendere], allora?

7.18. Nobili sono di certo tutti costoro, ma il jñånin è da Me


ritenuto l’åtman stesso perché egli, il cui åtman è unificato, si è
stabilito in Me soltanto, quale mèta senza superiore.

“Nobili”, sublimi, “sono di certo tutti costoro”, vale a dire


che anche i [restanti] tre mi sono certamente cari. Infatti,
nessuno, che sia votato a Me, può non essere caro a Me, a
Våsudeva. Tuttavia c’è una distinzione: ‘il jñånin è oltremodo
caro [a Me]’.
Perché tale [distinzione]?
[Perché] successivamente [il testo] dice: “...ma il jñånin è
da Me”, da parte mia, “ritenuto” indubbiamente [essere] “l’å-
tman stesso” non distinto da Me, “perché”, per il motivo che
“egli”, il jñånin impegnato a elevarsi, “il cui åtman è unifica-
to”, essendo la [sua] consapevolezza concentrata così: ‘io stes-
so, e non altri, sono Bhagavat Våsudeva’, “si è stabilito in Me
soltanto”, il supremo Brahman che deve essere realizzato,
334 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 7.18

“quale mèta senza superiore”, vale a dire che è [totalmente]


intento a realizzare [Me in quanto supremo Brahman].
Il jñånin viene poi elogiato ancora:

7.19. Al termine di molte nascite (vite), colui che possiede la


conoscenza trova rifugio in Me [avendo realizzato la consape-
volezza]: ‘Våsudeva è tutto’. Costui è una grande anima, ben
difficile a trovarsi.

“Al termine”, alla conclusione “di molte nascite (vite)” de-


dicate alla purificazione per [conseguire] la conoscenza, “co-
lui che possiede la conoscenza”, cioè colui la cui conoscenza
acquisita [in numerose esistenze] è completamente maturata,
“trova rifugio in Me”, l’åtman interiore.
Come?
[Avendo realizzato la consapevolezza:] “Våsudeva è tutto”.
Colui che così trova rifugio in Me, Nåråya√a, l’åtman della
totalità, “Costui è una grande anima” (mahåtman): non vi è
un altro simile a lui, o superiore; quindi è “ben difficile a tro-
varsi”, come è stato detto: «Tra mille persone...» (Bha. Gı. 7.3).
Si enuncia [ora] la causa per cui [da parte di alcuni] non
viene così realizzata [la consapevolezza]: ‘Våsudeva, l’åtman
stesso, è tutto’ (Qui Våsudeva si manifesta nella forma di
Kÿ≤√a).

7.20. Coloro il cui intendimento è travolto da tanti e tali de-


sideri prendono rifugio in altre divinità fondandosi nell’uno o
nell’altro rito penitenziale [in ciò] costretti dalla propria natura.

“Coloro il cui intendimento è travolto”, cioè la cui consa-


pevolezza discriminante è fuorviata “da tanti e tali desideri”
concernenti la progenie, gli armenti, il paradiso, ecc., “pren-
dono rifugio in altre divinità”, tendono verso divinità distinte
da Våsudeva, cioè dall’åtman, “fondandosi nell’uno o nell’altro
7.22 Settimo Adhyåya 335

rito penitenziale”, ossia ricorrendovi – è ben noto che quale


che sia il rito penitenziale (niyama) [adottato, esso] è [cele-
brato] allo scopo di propiziare una [particolare] divinità – “[in
ciò] costretti”, obbligati, “dalla propria natura”, dalla condi-
zione esistenziale peculiare a sé stessi, attraverso la particola-
re tendenza acquisita in altre [precedenti] nascite (vite).
E, per tali individui spinti dal desiderio,

7.21. Qualunque sia il devoto e qualunque sia la forma [di


Me] che intende pregare con fede, a ciascuno Io rendo incrolla-
bile quella stessa fede.

“Qualunque sia il devoto e qualunque sia la forma” divina


[di Me] “che”, essendo spinto dal desiderio, “intende pregare”,
adorare “con fede”, pieno [di fede], “a ciascuno”, a ciascun in-
dividuo spinto dal desiderio, “(Io) rendo incrollabile”, rendo
salda “quella stessa fede”.
Colui il quale intende pregare la tale forma divina con
quella fede, la stessa dalla quale è stato prima naturalmente
stimolato,

7.22. Costui, dotato di tale fede, cerca di propiziarsi quella


[forma divina] dalla quale ottiene quegli oggetti di desiderio
che, in verità, sono deliberati solo da Me.

“Costui”, essendo “dotato di tale fede” da Me concessa,


“cerca di propiziarsi”, agisce per ingraziarsi “quella” forma
divina “dalla quale”, cioè da quella che è la forma divina
[così] propiziata, “ottiene quegli oggetti di desiderio”, gli og-
getti a cui aspira; “che, in verità, sono deliberati”, vengono
stabiliti “solo da Me”, dal supremo Signore onnisciente, at-
traverso la conoscenza della ripartizione dei frutti in base
agli atti [compiuti]. Poiché tali oggetti di desiderio sono de -
liberati dal Signore, pertanto [il devoto pieno di fede che
336 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 7.22

adora una sua forma divina] li ottiene immancabilmente.


Tale è il significato.
Qualora il termine separato: hi tån [nella frase: “in verità
(hi), quegli (tån) (oggetti...)”, venga fuso in una parola: hitån
(benèfici), la seconda parte dello Ÿloka verrebbe letta così:
“...dalla quale ottiene gli oggetti di desiderio (kåmån) benèfici
(hitån)... deliberati solo da Me”]; tuttavia, è [solo] in senso se-
condario che si può concepire una natura benefica (hitatva)
negli oggetti di desiderio: per nessuno, infatti, gli oggetti di
desiderio rappresentano qualcosa di benefico.
Poiché tali [devoti che, adorando le diverse forme divine]
adoperano [determinati] mezzi [per raggiungere obiettivi] fi-
niti, sono privi di discriminazione e spinti dal desiderio, di
conseguenza:

7.23. Finito, invero, è quel frutto che viene a quelli di limita-


ta intelligenza. Coloro che venerano i deva vanno ai deva, colo-
ro che sono devoti a Me certamente vengono a Me.

“Finito”, destinato a distruzione, “invero, è quel frutto che


viene a quelli di limitata intelligenza”, a coloro la cui consa-
pevolezza è limitata. “Coloro che venerano i deva vanno ai
deva”. Coloro che venerano i deva (devayajas) [sono quelli
che] sacrificano ai deva; essi raggiungono i deva. “Coloro che
sono devoti a Me certamente vengono a Me”.
Così, sebbene [nei due casi] l’impegno per [ottenere] un
frutto infinito sia identico, [gli adoratori dei deva] non pren-
dono rifugio solamente in Me [e ottengono solo frutti finiti,
relativi e limitati].
Ah! Quale sofferenza devono provare!
[In tal modo] Bhagavat ha voluto mostrare il [suo] com-
patimento [nei loro confronti].
Qual è la causa per cui non prendono rifugio solamente
in Me?
7.25 Settimo Adhyåya 337

Si dice:

7.24. Coloro che mancano di intelletto ritengono Me, il Non-


manifesto, [come] caduto nella manifestazione, ignorando la
mia suprema Essenza inalterabile e senza superiore.

“Coloro che mancano di intelletto”, cioè coloro che non


discriminano, “ritengono Me, il Non-manifesto” (avyakta), il
Non-rivelantesi (aprakåŸa), “[come] caduto” attualmente
“nella manifestazione”, [cioè come se fossi] diventato visibi -
le, anche se sono il Signore eternamente realizzato, “igno-
rando”, non discriminando “la mia suprema Essenza”, la
[mia] propria natura di supremo åtman, “inalterabile”, esen-
te da degenerazione, “e senza superiore”, priva di qualunque
cosa che la trascenda; vale a dire che [essi] pensano [in Me
una falsa natura] ignorando la natura che appartiene intrin-
secamente a Me10.
Obiezione: Qual è la causa della loro ignoranza?
Risposta: Si dice:

7.25. Io non sono palese a chiunque, [essendo] completa-


mente avviluppato dalla [mia stessa] yogamåyå. Questo mondo
confuso non riconosce Me, il Non-nato, l’Inalterabile.

“Io non sono palese a chiunque”, ossia al mondo – vale a


dire: Io risulto manifesto soltanto ad alcuni che sono devoti a
Me – in quanto “completamente avviluppato dalla [mia stes-
sa] yogamåyå”. La yogamåyå è la måyå in quanto è quello
stesso yoga che è essenzialmente una unione, ossia la commi-
stione dei [tre] gu√a. Da tale yogamåyå [sono] completamen-
te avviluppato, totalmente nascosto. Tale è il significato. Pro-
prio per tale motivo, “Questo mondo confuso non riconosce
Me, il Non-nato, l’Inalterabile”, cioè: essendo completamente
338 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 7.25

avviluppato da quella [mia stessa] yogamåyå, il mondo non


può riconoscermi [nella mia vera natura].
Tuttavia, tale yogamåyå, appartenendo intrinsecamente a
Me, non può impedire la mia [stessa] conoscenza, cioè [l’on-
niscienza propria della mia natura] di ÙŸvara, del Possessore
della måyå, come [nel piano ordinario avviene] anche per al-
tri, ad esempio un mago: tale e quale [al caso della måyå per
Me] l’illusione [da lui proiettata non può ostacolare] la [sua
stessa] conoscenza11.
Poiché è così, pertanto:

7.26. O Arjuna, Io conosco gli esseri passati, presenti e futu-


ri, ma nessuno conosce Me.

“O Arjuna, Io” invero “conosco”, posseggo la conoscenza


concernente “gli esseri passati”, completamente trapassati,
[quelli] “presenti” e Io conosco anche gli esseri “futuri, ma
nessuno”, a eccezione di quell’unico [essere tra tanti] che è
votato a Me e ha preso rifugio in Me, “conosce Me”.
Proprio per la mancanza di conoscenza della mia Essenza,
non Mi onora [alcuno nella mia vera Essenza, cioè in quanto
åtman].
Alla questione: ‘da quale impedimento alla conoscenza
della mia Essenza, dunque, tutti gli esseri, allorché vengono
generati, si trovano ostacolati, per cui non Mi conoscono?’,
[Bhagavat] risponde questo:

7.27. Per via della illusione delle coppie [di opposti] suscitata
da desiderio e avversione, o Bhårata, tutti gli esseri, alla [loro]
creazione, soggiacciono all’offuscamento mentale, o Paraætapa.

“Per via della (illusione...) suscitata da desiderio e avver-


sione...”: il desiderio (icchå) e l’avversione (dve≤a) formano [la
coppia inscindibile di] attrazione-repulsione. Ciò che emerge
7.27 Settimo Adhyåya 339

a causa di questi due [si dice che] viene suscitato da desiderio


e avversione. [Dunque si deve intendere:] per via di ciò, ossia:
per via di ciò che è suscitato da desiderio e avversione...
Alla questione specifica: ‘per via di che cosa [suscitata da
desiderio e avversione, gli esseri soggiacciono all’offusca-
mento mentale]?’, si risponde questo: “Per via della illusione
(moha) delle coppie [di opposti]”. L’illusione [indotta da par-
te] delle coppie [di opposti] (dvandvamoha) è il turbamento
mentale che trova origine nelle [esperienze delle] coppie [di
opposti]. [La soggezione all’offuscamento mentale] è dovuta
a tale [illusione].
[Ordinariamente sono considerati e] vengono indicati
come “coppie [di opposti]” (dvandva) anche quei medesimi
desiderio e avversione, che sono reciprocamente opposti
come il freddo e il caldo, hanno per oggetto [rispettivamente]
il piacere e il dolore con le loro [proprie] cause, riguardano
tutti gli esseri secondo il momento e costituiscono [per loro]
un tormentoso imprigionamento12.
A tale riguardo, quando il desiderio e l’avversione si ma-
nifestano, allorché vengono sperimentati sostanzialmente in
concomitanza con il piacere e il dolore e con le loro [rispetti-
ve] cause, allora i due, portando sotto la propria influenza
l’intelligenza di tutti gli esseri, ingenerano l’illusione che [a
sua volta] si pone come causa di impedimento al sorgere della
conoscenza avente per oggetto l’essenza dell’åtman in quanto
realtà suprema.
Infatti, da parte di quegli la cui mente è soggetta al difetto
rappresentato da desiderio e avversione, non può aversi la co-
noscenza concernente un [qualsiasi] oggetto così quale esso è
[nella sua natura] neanche [se si trattasse di] un [ordinario
oggetto] esterno.
Vi è forse da aggiungere che, per colui che è mentalmente
confuso, il cui intelletto è oberato da entrambi (desiderio e
avversione), la conoscenza relativa all’åtman interiore non
340 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 7.27

può sorgere affatto, opponendosi una moltitudine di impedi-


menti?
Quindi, a causa di quella, cioè “Per via della illusione delle
coppie [di opposti] suscitata da desiderio e avversione, o Bhå-
rata”, o creatura discendente dei Bharata, “tutti gli esseri, alla
[loro] creazione”, alla [loro] nascita, cioè all’epoca della [loro]
venuta in esistenza, “soggiacciono all’offuscamento mentale”,
vanno soggetti al totale smarrimento essendo mentalmente
ottenebrati, “o Paraætapa”: vale a dire che tutti gli esseri che
vengono all’esistenza nascono già sotto l’influenza della illu-
sione [delle coppie di opposti].
Poiché è così, ne consegue che tutti gli esseri, [essendo]
mentalmente confusi e avendo l’intelligenza ostacolata dalla
illusione [indotta da parte] delle coppie [di opposti], non co-
noscono Me in quanto åtman, e proprio per questo non Mi
onorano nella [mia vera] natura di åtman13.
Obiezione: Chi sono, allora, coloro che, essendo affrancàti
dalla illusione delle coppie [di opposti], onorano Te nella [tua]
natura di åtman conformemente alle Scritture?
Risposta: Per chiarire il significato di quanto richiesto, si
dice:

7.28. Ma per gli uomini, il cui errore è giunto a termine, per


coloro il cui operato è meritorio, essi, affrancatisi dalla illusione
delle coppie [di opposti], onorano Me costanti nei [loro] voti.

“Ma per gli uomini, il cui errore è” ormai “giunto a termi-


ne”, quasi completamente esaurito o totalmente distrutto, “per
coloro il cui operato è meritorio...” – coloro il cui operato è
meritorio (pu√yakarma) sono quelli il cui agire puro costitui-
sce causa di purificazione mentale – dunque, per costoro, il
cui operato è meritorio, “essi, affrancatisi dalla illusione delle
coppie [di opposti]”, cioè liberatisi dalla [soggezione alla] illu-
7.30 Settimo Adhyåya 341

sione dovuta alle [esperienze contrastanti di desiderio e avver-


sione causata dalle] coppie [di opposti] quale è stata descritta,
“onorano Me”, il supremo åtman, “costanti nei [loro] voti”.
Sono definiti: “costanti nei [loro] voti” (dÿƒhavrata) coloro la
cui consapevolezza è fermamente risoluta nel voto di totale di-
stacco [da mezzi e fini di ordine relativo] in questo modo: ‘pro-
prio così è l’essenza della realtà suprema e non altrimenti’.
Obiezione: A che scopo essi onorano [Te in quanto åtman]?
Risposta: Si dice:

7.29. Coloro i quali, preso rifugio in Me, si dedicano profusa-


mente all’ascesi per liberarsi da vecchiaia e morte, costoro rea-
lizzano pienamente Quello, il Brahman, il supremo åtman, e
[conoscono] il karman nella sua interezza.

“Coloro i quali, preso rifugio in Me”, cioè essendo [sem-


pre] con la consapevolezza assorta in Me, il supremo Signore,
“si dedicano profusamente all’ascesi per liberarsi da vecchiaia
e morte”, si impegnano intensamente nell’ascesi per affran-
carsi dalla vecchiaia e dalla morte (quindi dalla rinascita, cioè
dal divenire ciclico), “costoro realizzano pienamente”, total-
mente “Quello”, che è “il Brahman” trascendente, realizzano
“il supremo åtman”, cioè quella che è la realtà concernente
l’åtman interiore, e conoscono [anche] “il karman nella sua
interezza”, nella sua integralità14.

7.30. Coloro i quali Mi realizzano nella sfera degli elementi


e nella sfera divina e anche nella sfera del sacrificio, costoro,
con la consapevolezza unificata, possono realizzarmi persino
nel momento della dipartita.

“(Coloro i quali Mi realizzano) nella sfera degli elementi e


nella sfera divina...”: la sfera degli elementi (il piano terreno-
342 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 7.30

umano, adhibh¥ta) e la sfera divina (il piano divino, adhidai-


va) [presi congiuntamente] formano la sfera degli elementi e
la sfera divina. [La frase] “Coloro i quali Mi realizzano nella
sfera degli elementi e nella sfera divina” [significa]: [...realiz-
zano Me] in quanto [sono Quello] che esiste insieme alla sfe-
ra degli elementi e alla sfera divina. E, dunque, coloro i quali
[Mi] realizzano “...anche nella sfera del sacrificio...” – [l’e-
spressione] nella sfera del sacrificio [significa: in quanto esi-
stente anche] insieme alla sfera del sacrificio15, “costoro, con
la consapevolezza unificata”, con la mente completamente as-
sorta, “possono realizzarmi persino nel momento della dipar-
tita”, cioè [anche soltanto] al tempo della morte.

Nelle Scritture yoga sulla conoscenza del Brahman


appartenenti alla Upani≤ad della sacra Bhagavadgıtå,
questo è il Settimo Capitolo
nel dialogo tra Kÿ≤√a e Arjuna
intitolato:
‘Lo yoga della conoscenza e della scienza distintiva’.

*
NOTE al Settimo Adhyåya

1
Il Vedånta attinge dallo Yoga e dal Såækhya parte della nomen-
clatura dei princìpi, sia pur con qualche differenza nel significato.
L’universo manifesto è articolato nei tre piani: causale, sottile e
grossolano, in cui ogni sfera è causa della successiva – inferiore e
più esterna – nella quale manifesta una parte delle proprie poten-
zialità; ciò determina una limitazione dell’effetto rispetto alla causa,
più inclusiva e potenzialmente ricca. Si può dire che ogni piano è la
manifestazione di una possibilità insita in quello superiore, nel qua-
le si riassorbe a completamento del proprio ciclo espressivo. Gli
elementi (bh¥ta) elencati, omonimi di quelli grossolani – nella sua
opera Pañcıkara√am, Âa§kara dà una esposizione completa del pro-
cesso manifestante in relazione agli elementi – sono da intendersi
come le loro cause sottili, definite essenze o princìpi essenziali (ta-
nmåtra). La natura o Prakÿti si situa a livello causale e non in quello
effettuale degli elementi o degli enti formati; inoltre, pur essendo
sostanzialmente unitaria, in quanto esprime una qualificazione uni-
versale (viŸe≤a) ancorché indefinita – non è altro che la måyå – ap-
pare come se fosse suddivisa nei suddetti princìpi, assimilabili alle
categorie del Såækhya, da cui procedono gli elementi grossolani,
gli enti e gli stessi campi di esistenza ed esperienza. Cfr. Ma. Bhå.
3.210.17, 3.211.3, 12.311.10; Âve. 2.12, 6.2; Mai. 6.4.
2
Per il Vedånta la sfera individuale è un riflesso infinitesimo –
ma integrale – di quella universale. A livello universale la buddhi,
intelletto puro, rappresenta il Mahat, il “Grande”, per via della sua
immensa capacità comprensiva e proiettiva – ne scaturisce l’uni-
verso intero – ed è causa dell’ahaækåra dal quale a sua volta pro-
cede il manas. Così la buddhi viene assimilata anche alla Coscienza-
Intelligenza universale, mentre l’Ahaækåra universale, sorgente del
manas, è associato alla måyå e costituisce l’Immanifesto (avyakta),
344 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

sede causale della manifestazione. A livello individuale, in relazione


all’organo interno (anta¢kara√a, la mente), vi sono funzioni analo-
ghe, con i medesimi rapporti causali e una simile associazione del-
l’ahaækåra con l’ignoranza, in questo caso a livello individuale, l’a-
vidyå. L’Avyakta è dunque il Brahman sagu√a, prima determinazio-
ne dell’Assoluto o Brahman nirgu√a.
La qualificazione (viŸe≤a) è il seme degli attributi (gu√a) e com-
prende sinteticamente l’intera espressione universale nella sua triplice
fase (creazione-conservazione-dissoluzione) quale completo sviluppo
espressivo delle potenzialità ivi racchiuse. Ma il Brahman sagu√a è an-
ch’esso un “prodotto” di måyå, per cui è solo a monte della sua emer-
genza-qualificazione, e quindi oltre la stessa infinita possibilità di qua-
lificarsi, che si situa il vero, eterno e immutabile Brahman. La måyå, in
quanto possibilità, “appartiene” al Brahman nirgu√a – nelle Upani≤ad
il Brahman nirgu√a è decantato come il Possessore, il Signore della
måyå (v. nota 8) – ed è proprio tramite la måyå che non soltanto sem-
bra emergere il Brahman sagu√a, ma avviene anche che l’Essere quali-
ficato, sotto l’aspetto del Dio-Persona, ÙŸvara, proietta, mantiene e
riassorbe l’universo. L’effetto (universo), infatti, non è altro dalla causa
(måyå) e, come tale, ne mantiene le peculiarità. Solo il Brahman è di là
da effetto e causa ed è Quello, e non altri, che si riflette in ogni essere
come il proprio åtman. D’altra parte la måyå non tocca il Brahman
perché, esprimendo una possibilità, esiste solo in se stessa mentre, dalla
prospettiva della realtà suprema, non è affatto. Per quanto concerne le
due distinte accezioni del termine Immanifesto (avyakta), si torni alla
nota 1 alla Introduzione di Âa§kara. Cfr. anche i passi: Bha. Gı. 2.25, 7.4,
7.24, 8.18, 8.20, 12.1, 12.3, 12.5, 13.5 e 13.13. Si torni anche alle note: 9
alla Introduzione di Âa§kara, 12.3 e 13.33.

Si tratta della Coscienza quale natura essenziale della proie-


3

zione universale. È attraverso il riflesso di quella Coscienza che il


Signore (Brahman) si rispecchia nell’essere conscio (jıva). Le due
nature, come si vedrà (Cap. 13), sono chiamate il ‘campo’ e il ‘cono-
scitore del campo’, cioè l’oggetto e il Soggetto del conoscere-esistere.
Poiché la delimitazione dimensionale (spazio-tempo-causa) compe-
te solo alla oggettività, ne consegue che la pura Soggettività è per
natura infinita e illimitata, anche nell’ordine individuato.
Settimo Adhyåya 345

4
La natura causale del Signore in rapporto all’universo non va
intesa in senso cronologico o come una reale trasformazione della
causa nell’effetto o in relazione alla produzione di questo. Il Bra-
hman non produce né si trasforma nell’universo ma appare come uni-
verso attraverso il suo stesso potere di måyå senza subire alcuna al-
terazione e rimanendo sempre identico a Sé stesso e privo di dualità.
È la dottrina della modificazione apparente (vivartavåda) predicata
dal Vedånta, che risolve le questioni in apparenza insolubili a cui
porta inevitabilmente l’applicazione della dottrina della trasforma-
zione sostanziale (pari√åmavåda) sostenuta da diverse scuole (Såæ-
khya, VaiŸe≤ika, ecc.). Per il Vedånta la molteplicità-dualità è appa-
rente, essa scaturisce come possibilità dalla unità qualificata; ma an-
che questa è non-reale, la sola realtà essendo la Non-dualità. La so-
vrapposizione (upådhi) non è altro che una modificazione apparente
(vikåra) e questa non è sostanzialmente distinta dal sostrato: l’onda
sonora non è altro che uno stato vibratorio dell’aria, di per sé senza
suono e immobile. Il Brahman nirgu√a, in quanto Assoluto metafisi-
co, è il Sostrato della totalità, attuale e potenziale e di ogni possibili-
tà. Nel suo aspetto di Essere qualificato, o Brahman sagu√a, è il Prin-
cipio originatore. Nel triplice ruolo della Trim¥rti è il Creatore (Bra-
hmå), il Conservatore (Vi≤√u) e il Distruttore (Âiva) dell’universo.
5
Negli Ÿloka 8-12, a conferma della visione del Vivartavåda,
Âa§kara evidenzia la gerarchia dei piani o stati dell’Essere: dal causale
procede il sottile, dal sottile il grossolano. L’effetto esprime una pos-
sibilità contenuta nella causa. L’ente formato (bh¥ta) non racchiude
l’essenza come un frutto il seme ma è la concretizzazione della sua
stessa essenza (tanmåtra), come un organo lo è della sua funzione.
6
La conformità al Principio genera armonia, bene, stabilità. Il
Bene è l’essenza del Vero. L’atto disarmonico, o difforme dal dha-
rma proprio e universale, non può che produrre una riduzione o un
impedimento alla esperienza del bene.
7
Cfr. Bha. Gı. 10.36.
8
Primo accenno ai gu√a: sattva, rajas e tamas. Sono gli aspetti –
differenziati dalla måyå – della qualificazione principiale (viŸe≤a). Il
346 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

Brahman nirgu√a, attraverso la måyå, appare come sagu√a, cioè do-


tato di quegli attributi la cui commistione si riflette in ogni ente. Per
il Vedånta, il dinamismo cosmico, che trae origine da una sorta di
“squilibrio” iniziale in seno ai gu√a – analogo allo k≤obha dello Âi-
vaismo – non è altro che la tendenza a ricomporre l’equilibrio vir-
tuale; la loro interazione determina il corso esistenziale di ogni es-
sere, fin quando questo non si astrae dal loro processo.
9
Per il “Possessore della måyå”, cfr. Âve. 3.1.
10
Cfr. Bha. Gı. 9.11.

Il Signore ÙŸvara, il Brahman qualificato, attraverso il potere


11

proiettivo e velante di måyå, si cela dietro la immagine-apparenza


dell’universo molteplice. È il Jıva cosmico, di cui quello individuale
è riflesso infinitesimo e puntiforme. Quando il jıva subisce l’effetto
di måyå – al suo livello si parla di avidyå – pur avendo in sé la co-
noscenza, questa è ostacolata dalla divina Illusione; qualora se ne
affranchi, la comprende nella sua natura e la vede risolversi nella
sua Fonte, come la parvenza di serpente nella corda. Il potere pro-
iettivo avvolge l’ente che emerge come tale proprio attraverso il
suo effetto, non Colui che ne dispone. Si ricorda che la qualificazio-
ne che dà luogo alla apparente emergenza del Brahman sagu√a è
essa stessa un prodotto di måyå e che il solo e unico Ente al di là
della måyå è il Brahman nirgu√a.

Per le ‘coppie di opposti’, cfr. Mai. 3.1-2, 6.29. Desiderio e av-


12

versione, che esprimono qualità (gu√a) innate nell’essere e dovute


al karman accumulato in precedenza, formano propriamente la causa
di cui le paia di opposti sperimentate oggettivamente sono gli effetti.

Si torni al commento al 7.26. La conoscenza della essenza rea-


13

le di un dato presuppone l’equidistanza dalle eventuali reazioni in-


dotte dalla sua esperienza e quindi il loro annullamento.

Si torni allo Ÿloka 4.23 e al relativo commento. Il conoscitore


14

che ha trasceso il saæsåra, ha compreso anche il determinismo cau-


sale – la legge del karman – nella sua essenza unitaria: la relazione
Settimo Adhyåya 347

che lega frutti e atti non è altro che l’attuazione della possibilità in-
sita nel seme causale che, pur comprendendo una indefinita molte-
plicità in quanto suscettibile di illimitata espressione, è e resta es-
senzialmente unità. Il Signore proietta la legge karmica e l’universo
sboccia.
15
Il testo gioca sui prefissi: sa, “unitamente a”, e adhi, “sopra”,
che Âa§kara spiega sintetizzandoli in saha: “insieme con”. Realizza-
re il Signore unitamente e sopra le varie sfere – si parla di sfera de-
gli elementi, dunque il piano terreno-umano o della esperienza or-
dinaria, di sfera divina, quella dei princìpi che l’essere comune cer-
ca di comprendere o quantomeno di propiziarsi nelle forme cui ri-
volge devozione e ritualità, e di sfera del sacrificio, precipuamente
quella in cui agendo sull’effetto si stimola la causa, ovvero la sfera
della causalità principiale – significa riconoscere il Sostrato bra-
hmanico come pervadente e quindi coesistente (sa, saha) con tutti i
piani della manifestazione, formale e informale, e non solo come
Entità trascendente e avulsa dal contesto empirico, oltre che come
Quello che presiede (adhi) a tutto quanto avviene in tali piani. In al-
tre parole, non si deve creare dualismo tra l’Essere e il divenire:
questo si sostiene su Quello, nel quale va reintegrato e risolto. Sol-
tanto integrando la totalità nell’unità, l’apparenza di molteplicità
trasformantesi nell’åtman e quindi in sé stessi, si può trascendere il
divenire ciclico di nascite e morti e risolversi nel Brahman, anche
se ciò dovesse verificarsi solo all’istante del trapasso, cioè del di-
stacco dalla veicolarità individuale, sempre che sussistano i requisi-
ti e sia stata attinta la giusta posizione coscienziale. È la videhamu-
kti, la liberazione che si verifica all’abbandono del corpo, mentre
quella del conoscitore puro è la jıvanmukti, liberazione in vita. Per
gli altri, i ritualisti e i meditanti della forma, vi è, come si vedrà, la
kramamukti, la liberazione differita che si invera al maturarsi della
coscienza lungo il corso di successive esistenze.
Le varie sfere (adhyåtman, adhibh¥ta, adhidaivata e adhiyajña)
verranno trattate nel Capitolo successivo.

*
Ottavo Adhyåya
(La descrizione del Brahman indistruttibile)

Con il passo: «...costoro realizzano pienamente Quello, il


Brahman...» (Bha. Gı. 7.29), Bhagavat ha fornito ad Arjuna
[alcuni concetti che sono divenuti] semi per [ulteriori sue]
domande. Quindi, formulando quesiti relativamente a ciò, A-
rjuna disse:

Arjuna disse:

8.1. Che cosa è Quello, il Brahman? Che cos’è l’adhyåtman?


Che cos’è il karman, o Puru≤ottama? E che cosa viene proclama-
to adhibh¥ta? Che cosa si definisce adhidaiva?

8.2. Qual è l’adhiyajña? In che senso è qui, in questo corpo,


o Madhus¥dana? E in che modo, al tempo della dipartita, sei
conoscibile da coloro che hanno dominato sé stessi?

Ârı Bhagavat, onde accertarle definitivamente, rispose a


queste domande secondo la [loro] successione.

Ârı Bhagavat rispose:

8.3. Il Brahman supremo è l’Indistruttibile; si definisce adhyå-


tman la propria essenza (il jıvåtman); l’impulso estrovertente,
generatore dell’origine della esistenza degli esseri, è conosciuto
come karman.
350 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 8.3

Il supremo åtman (cioè il Brahman supremo) “è l’Indistrut-


tibile” (ak≤ara), in quanto non si distrugge [mai], come [si ap-
prende] dalla Âruti: «Invero, sotto il dominio di Colui il quale
è l’Ak≤ara, o Gårgı...» (Bÿ. 3.8.9); mentre [qui il termine ak≤a-
ra] non si riferisce alla sillaba om [talora designata come a-
k≤ara], per via della successiva specificazione: «...om in quan-
to unico e indistruttibile Brahman...» (Bha. Gı. 8.13). Inoltre la
specificazione di “supremo” (parama) è maggiormente plausi-
bile se riferita al Brahman indistruttibile, privo di qualsiasi
cosa che Lo trascenda [che non alla sillaba om].
“Si definisce adhyåtman1 la propria essenza” (svabhåva): è
l’esistenza di quello stesso supremo Brahman che, quale åtman
interiore (pratyagåtman) in ogni corpo, è la [più profonda e
autentica] essenza di sé stessi. La propria essenza è l’ente (il
riflesso di coscienza) che, avendo dapprima presieduto al pro-
prio corpo-veicolo con il dimorare [in quello] come åtman in-
teriore, [in seguito] ha la propria soluzione nella realtà supre-
ma che è il Brahman: [essa] viene detta adhyåtman, viene cioè
indicata tramite il termine: adhyåtman (lett. ‘sé superiore’).
“...generatore dell’origine della esistenza degli esseri...”:
l’esistenza degli esseri è la [venuta in] esistenza [della totali-
tà] degli esseri; la sua origine è l’origine della esistenza degli
esseri; il generatore dell’origine della esistenza degli esseri
(bh¥tabhåvodbhavakara) è ciò che la produce, vale a dire ciò
che determina la venuta all’essere degli enti esistenti.
“L’impulso estrovertente (visarga) (generatore dell’origi-
ne...)”: è l’atto di offerta [come quello] del dolce di riso, ecc.
rivolto ai deva, con il completo abbandono della [propria] ric-
chezza; questo stesso, ossia il sacrificio che costituisce l’im-
pulso estrovertente, è “conosciuto come karman”, cioè è desi-
gnato con il termine karman perché, invero, da questo, che
costituisce il seme, vengono all’esistenza [tutti] gli esseri, ani-
mati e inanimati, procedendo con ordine dalla pioggia, ecc.
[attraverso le varie fasi e sfere di esistenza] 2.
8.5 Ottavo Adhyåya 351

8.4. L’adhibh¥ta è la [sfera della] esistenza [della corporei-


tà] distruttibile e l’adhidaivata è il Puru≤a; l’adhiyajña sono Io
stesso, qui nel corpo, o raro tra i gli esseri incarnati.

“L’adhibh¥ta...” (la sfera materiale) esiste in quanto presie-


de alla categoria dei viventi3.
Qual è esso?
“...è la [sfera della] esistenza [della corporeità] distruttibile4”:
distruttibile perché soggetta a distruzione, a completa disso-
luzione; vale a dire un [qualsiasi] ente caratterizzato da nascita.
“...l’adhidaivata è il Puru≤a”, perché la totalità ne è riempi-
ta; oppure è il puru≤a [individuato] per via del suo riposare
nella cittadella [del corpo]5, dunque [lo stesso] Hira√yagarbha
penetrato all’interno del Sole, come Colui che è lo stimolatore
dei sensi [compresa la mente] di tutti gli esseri viventi6.
“...l’adhiyajña...” (il Sacrificio primordiale, sommo o per
eccellenza) è colui che si identifica con qualsiasi sacrificio
(yajña), e quindi la divinità (devatå) definita Vi≤√u, come [si
apprende] dalla Âruti: «Il sacrificio, in verità, è Vi≤√u» (Tai.
Saæ. 1.7.4). Invero, quegli che è Vi≤√u “...sono Io stesso, qui
(nel corpo)”, in questo corpo. Di quello che è il sacrificio, Io
sono l’adhiyajña: il sacrificio, infatti, potendo essere celebrato
[solo] attraverso la corporeità, è intimamente associato con il
corpo, sussiste grazie al corpo che ne è il ricettacolo, “o raro
tra gli esseri incarnati” (dehabhÿt, lett. ‘possessori di corpo’).

8.5. E colui il quale, pensando soltanto a Me al tempo della


fine, liberatosi del veicolo individuato, si diparte, costui raggiun-
ge il Mio stato di essere: su ciò non vi è dubbio.

“E colui il quale, pensando soltanto a Me”, supremo Signo-


re Vi≤√u, “al tempo della fine”, al momento della morte, “libe-
ratosi del veicolo individuato” (kalevara), abbandonato com-
pletamente il corpo fisico, “si diparte”, se ne va, “costui rag-
352 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 8.5

giunge il Mio stato di essere”, la reale essenza di Vi≤√u: “su


ciò”, in merito a questo argomento, “non vi è”, non esiste “dub-
bio” se egli la raggiunga o no 7.
Questa legge non concerne solamente Me (cioè lo stato
supremo di Vi≤√u-åtman).
Che cosa [altro riguarda], allora?

8.6. Qualunque sia la [condizione di] esistenza, l’una oppure


l’altra, evocando mentalmente la quale abbandona il veicolo fi-
sico alla fine [della vita], proprio quella o la tale altra [condi-
zione di esistenza] raggiunge, o Kaunteya, quegli che è costan-
temente assorto nella meditazione su di essa.

“Qualunque sia la [condizione di] esistenza, l’una oppure


l’altra”, qualificata da una [precisa] divinità, “evocando men-
talmente la quale”, cioè qualunque sia [la condizione di esi-
stenza] pensando alla quale “abbandona”, depone completa-
mente “il veicolo individuato alla fine [della vita]”, al tempo
conclusivo, cioè al momento della separazione dalla energia
vitale, “proprio quella” stessa “o la tale altra [condizione di]
esistenza” che è stata riportata alla mente “raggiunge, o Kaunte-
ya”, e non un’altra differente, “quegli che è costantemente”,
in ogni circostanza “assorto nella meditazione su di essa” (cioè
nella sua consapevolezza).
Colui che ha meditato su una data [condizione di] esisten-
za, essendo uno dal quale è stata esercitata con continuità la
pratica [della meditazione] con il portare [continuamente]
alla consapevolezza [un certo stato dell’essere], costui è dive-
nuto [egli stesso] tale [condizione di] esistenza, cioè ha [il
proprio] essere in quello [stato che per lui ha costituito og -
getto di meditazione].
Poiché è così, cioè [poiché] la meditazione [al momento]
finale è causa dell’acquisizione di un ulteriore veicolo corpo-
reo [o stato di esistenza],
8.8 Ottavo Adhyåya 353

8.7. Perciò in ogni momento medita su di Me e combatti.


Con la mente e l’intelletto fissàti in Me, proprio a Me verrai,
senza dubbio.

“Perciò in ogni momento medita su di Me” come [insegna-


no] le Scritture “e combatti”, cioè compi il [tuo] proprio dove-
re di combattere. “Con la mente e l’intelletto fissàti in Me”,
cioè essendo tu quegli la mente e l’intelletto del quale, cioè
appartenenti al quale, sono fissàti in Me, in Våsudeva, “pro-
prio a Me” come sono stato meditato “verrai”, giungerai,
“senza dubbio”, su ciò non vi è dubbio.
E inoltre,

8.8. Meditando continuamente con l’attenzione consapevole


concentrata nello yoga della pratica assidua e non tendente ver-
so altro, [costui] raggiunge il supremo Puru≤a risplendente, o
Pårtha.

“Meditando continuamente”, cioè ponderando di continuo


sulla istruzione delle Scritture e del Maestro “(con l’attenzione
consapevole) concentrata nello yoga della pratica assidua...” 8.
La pratica assidua (abhyåsa) consiste nel riproporre [insisten-
temente alla consapevolezza] il medesimo contenuto in rela-
zione a un unico ente, cioè Me, che costituisco l’oggetto verso
cui portare il pensiero, senza alcuna interruzione dovuta a
contenuti differenti, e la [stessa] pratica assidua è yoga. L’at-
tenzione consapevole (cetas) dello yogin è unificata in tale
[yoga della pratica assidua] quando è assorbita soltanto in
ciò. Con la mente [unificata] in tale [yoga, ecc.] “e non ten-
dente verso altro” – non tende verso altro ciò che non è incli-
ne a volgersi verso un oggetto differente [da quello stabilito
per la meditazione] – dunque con tale [attenzione consapevo-
le] non tendente verso altro, “[costui] raggiunge”, consegue,
“il supremo” – [supremo] in quanto non vi è alcun ente che
354 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 8.8

Lo trascende – “Puru≤a risplendente”, l’Essere [che simbolica-


mente dimora] nel cielo, [più precisamente] nel disco solare,
“o Pårtha”.
E come è qualificato il Puru≤a che egli raggiunge?
Si dice:

8.9. Colui che profondamente e incessantemente riporti la


consapevolezza sull’Antico Saggio, sul Reggitore [dell’universo],
più piccolo di un atomo, sul Conferitore di tutto, dalla forma
impensabile, radioso come il sole e al di là della tenebra [medi-
tando su Quello, raggiunge il supremo Puru≤a risplendente].

“Colui”, chiunque egli sia, “che mediti”, che mediti “sul-


l’Antico”, primordiale “Saggio”, il remoto Veggente, onni-
sciente, “sul Reggitore”, sul Governatore “di tutto” l’univer-
so 9, “più piccolo”, più sottile persino “di un atomo” [di per sé
estremamente] sottile, “sul Conferitore”, sul molteplice Di-
spensatore “di tutto” l’insieme del frutto dell’azione, ossia su
Colui che [lo] assegna agli esseri viventi in maniera differen-
ziata [secondo il loro karman], “dalla forma impensabile...”,
non avendo Quello nessuna forma determinata: è di forma
impensabile quello che nessuno è in grado di concepire.
[Colui che profondamente e incessantemente riporti la
consapevolezza] su Quello, “...radioso come il sole” – come è
per il sole, [Quello] la cui radianza è lo splendore della eterna
Coscienza, perciò è [detto] radioso come il sole – “e al di là
della tenebra”, cioè trascendente rispetto alla ottenebrante il-
lusione costituita dalla ignoranza, ‘meditando su Quello... rag-
giunge (il supremo Puru≤a risplendente)’; la connessione [con
tale espressione presa] dal precedente [Ÿloka è sottintesa]10.
E inoltre,

8.10. Al tempo della dipartita, con la mente immobile, dota-


to della devozione e della stessa forza dello yoga, facendo con-
8.11 Ottavo Adhyåya 355

fluire debitamente l’energia vitale al centro tra le sopracciglia,


costui raggiunge Quello, il supremo Puru≤a risplendente.

“Al tempo della dipartita”, al momento della morte, “con


la mente immobile”, priva di qualsiasi movimento [di agita-
zione, proiezione, ecc.], “dotato della devozione” – la devozio-
ne (bhakti) è [intesa nel senso di] un atto di [continua] vene-
razione – dunque, assorto in tale [continuo atto], “e della
stessa forza dello yoga” – la forza dello yoga (yogabala) è la
vigoria che si sprigiona dallo [esercizio continuo dello] yoga.
La forza dello yoga consiste nella stabile fissità della mente
generata dalla moltitudine dei semi [positivi] nati dalla con-
templazione (samådhi), per cui significa: dotato di tale [spe-
ciale forza-stabilità]. Dunque, avendo dapprima portato sotto
controllo la mente nel loto del cuore 11 e successivamente otte-
nuto, in maniera graduale, il dominio sulla materia (la corpo-
reità, ecc.)12 per mezzo della nåƒı ascendente (la su≤um√å)13,
“facendo confluire”, stabilizzando “debitamente”, ossia senza
essere [mai] disattento, “l’energia vitale al centro tra le so-
pracciglia14, costui”, il saggio, cioè lo yogin, in questo modo
“raggiunge”, realizza “Quello, il supremo Puru≤a risplendente”,
essenziato di splendore, quale è stato specificato nel passo:
«(Colui che profondamente e incessantemente riporti la con-
sapevolezza) sull’Antico Saggio...» (Bha. Gı. 8.9).
Ancora una volta Bhagavat fornisce una indicazione del
Brahman che [lo yogin] cerca di realizzare attraverso il mezzo
[descritto] e che sta per essere enunciato in quanto specifica-
to da tali qualificazioni come quelle che menzionano i cono-
scitori dei Veda.

8.11. Quello che i conoscitori dei Veda designano come l’In-


distruttibile, nel quale entrano gli asceti affrancàti dalle passio-
ni e aspirando al quale osservano il [voto di] brahmacarya,
quello stato ti descriverò in sintesi.
356 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 8.11

“Quello che i conoscitori dei Veda”, coloro che conoscono


il [vero] significato dei Veda, “designano come l’Indistruttibi-
le...”. È indistruttibile in quanto non si distrugge [mai], non è
destinato a dissolversi, come [si apprende] dalla Âruti: «O
Gårgı, i conoscitori del Brahman affermano: invero, questo è
l’Ak≤ara» (Bÿ. 3.8.8) e Lo definiscono attraverso la rimozione
di qualsiasi qualificazione: «Esso non è grossolano né sotti-
le...», ecc. (ib.); dunque, “...nel quale entrano”, penetrano, al
conseguimento dell’autentica conoscenza, “gli asceti”, coloro
che si impegnano in tale sforzo, ovvero i rinunciatari “affran-
càti dalle passioni...” – sono affrancàti dalle passioni coloro
che hanno disperso, che hanno completamente estinto ogni
[forma di] passione-attaccamento – “...aspirando al quale” In-
distruttibile – [la voce verbale] “a conoscere” [va desunta]
dalla restante parte [dello Ÿloka, per avere: ‘aspirando a cono-
scere il quale...’] – “...osservano”, rispettano “il [voto di] bra-
hmacarya” sotto [la guida di] un istruttore spirituale, “quello
stato”, stato che deve essere [investigato e] realizzato e che è
denominato l’Indistruttibile, “ti descriverò in sintesi”: la [pa-
rola] ‘sintesi’ (saæk≤epa) esprime la concisione, per cui [signi-
fica]: ‘te lo esporrò in modo conciso’15.
Dopo avere esordito [con l’affermare]: «O beato, colui, tra
gli uomini, il quale meditasse intensamente sulla sillaba om
fino alla dipartita, quale mondo, invero, conseguirebbe? A lui
egli rispose: O Satyakåma, in verità questo stesso Brahman, il
quale è [conosciuto come] supremo e non-supremo, è la sillaba
om» (Pra. 5.1-2), [la Âruti corrobora quanto detto] con la se-
guente affermazione: «Ancora, colui che medita intensamente
su questo om come sul supremo Puru≤a per mezzo di questa
stessa sillaba come costituita di tre misure, costui... viene innal-
zato dai mantra del Såma [Veda] sino al mondo di Brahmå (so-
maloka, Hira√yagarbha)», ecc. (Pra. 5.5). [Anche altrove], dopo
aver cominciato [con il passo]: «(Quello, che conosci) come di
là dal merito e di là dal demerito...» (Ka. 1.2.14), [la stessa Âruti
8.12 Ottavo Adhyåya 357

aggiunge]: «Quella mèta che tutti i Veda testimoniano e alla


quale tutte le pratiche ascetiche fanno riferimento, mirando
alla quale [gli uomini] intraprendono il brahmacarya, quella
mèta ti esporrò sinteticamente: questa è om» (Ka. 1.2.15).
Con i passi [citati] e altri la meditazione sulla sillaba om,
[sillaba considerata] sia come espressione [diretta] del Bra-
hman supremo sia come [suo] simbolo al pari di una immagi-
ne, [meditazione] che si è voluto esporre [prima] come mezzo
di realizzazione del Brahman supremo per coloro dall’intellet-
to limitato o mediocre, è stata enunciata [poi] come ciò che in
un tempo successivo determina il frutto della liberazione.
Quella stessa meditazione sulla sillaba om [considerata] sotto
la forma in cui è stata esposta in precedenza, cioè in quanto
capace di dare il frutto della liberazione in un tempo successi-
vo e quindi costituente un mezzo di realizzazione del Bra-
hman supremo quale è stato presentato nei passi da: «(Colui
che profondamente e incessantemente riporti la consapevo-
lezza) sull’Antico Saggio, il Reggitore [dell’universo]...» (Bha.
Gı. 8.9) a: «Quello che i conoscitori dei Veda designano come
l’Indistruttibile...» (Bha. Gı. 8.11), deve essere esposta anche
qui, unitamente alla stabile concentrazione nello yoga, ossia
insieme a ciò che è strettamente connesso a quanto implicato
[dall’argomento principale]. Tale è lo scopo con cui prende
inizio la successiva [parte della] sezione 16.

8.12. Controllando tutte le porte [del corpo] e trattenendo la


mente nel cuore, convogliando la propria energia vitale nel
[centro del] capo, intrapresa la concentrazione yoga,...

“Controllando tutte le porte [del corpo]”, cioè tutti quelli


che sono gli accessi [di emissione, ecc.] e tutti gli accessi rela-
tivi alla percezione, dunque esercitando il controllo su tutte
quelle [porte], e “trattenendo la mente nel cuore”, operando
la [sua] soppressione nel loto del cuore 17 fino a raggiungere
358 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 8.12

uno stato di stabile fissità, colà [in tale stato], grazie alla men-
te mantenuta sotto controllo, procedendo dal cuore verso l’al-
to, ossia innalzandosi lungo la nåƒı ascendente (la su≤um√å),
“convogliando la propria energia vitale nel [centro del] capo,
intrapresa la concentrazione yoga...”, impegnato a concen-
trarsi e concentrandosi in quello stesso [stato]...

8.13. ...pronunciando [coscienzialmente] om in quanto unico


e indistruttibile Brahman e pensando continuamente [solo] a
Me, colui che si diparte, quando abbandona il corpo, costui rag-
giunge la suprema mèta.

“...pronunciando [coscienzialmente] om in quanto unico e


indistruttibile Brahman”, cioè risuonando la sillaba om in quan-
to costituisce una designazione del Brahman, ossia in quanto
rappresenta quel significato18, “e pensando [solo] a Me”, me-
ditando [solo] su [di Me in quanto] ÙŸvara (Brahman), “colui
che si diparte”, che muore, “quando abbandona il corpo”, quan-
do depone completamente il veicolo fisico – [l’espressione]
‘quando abbandona il corpo’ sta a indicare specificamente il
trapasso, vale a dire il passaggio al di là [della condizione ma-
nifesta individuata] che si compie con il distacco dal corpo e non
già con la distruzione di sé stessi – “costui”, distaccandosi in
tal modo, “raggiunge”, consegue “la suprema”, eccelsa “mèta”19.
E inoltre,

8.14. Quegli dall’attenzione consapevole non rivolta ad altro,


il quale medita sempre con continuità su di Me, da parte di un
tale yogin costantemente unificato, o Pårtha, Io sono facilmente
realizzabile.

“Quegli dall’attenzione consapevole non rivolta ad altro...”


– ha l’attenzione consapevole non rivolta ad altro (ananyace-
tas) colui la cui vigile consapevolezza non si dirige verso un
8.15 Ottavo Adhyåya 359

oggetto differente [dal Brahman] – ossia lo yogin “il quale me-


dita sempre con continuità”, in ogni circostanza, “su di Me”, il
supremo Signore...: [l’espressione] “con continuità” (satatam)
esprime l’assenza di interruzione, [mentre] “sempre” (nitya-
Ÿas) si riferisce a un lungo lasso di tempo; dunque, non [sol-
tanto] per un semestre o [anche] per un anno.
Che cosa [significa], allora?
Il significato è: “Quegli... il quale medita su di Me” senza
interruzione per tutta la vita.
“...da parte di un tale yogin costantemente unificato”, cioè
per lo yogin la cui attenzione consapevolezza è sempre perfet-
tamente assorta, “o Pårtha, Io sono facilmente realizzabile”,
posso essere realizzato con facilità20.
Poiché è così, ne consegue che, avendo l’attenzione consa-
pevole non rivolta ad altro, [tale yogin] sarà sempre perfetta-
mente assorto in Me.
Obiezione: Che cosa può aversi dalla Tua facile realizzabilità?
Risposta: Si risponde: ascolta ciò che deriva dalla Mia faci-
le realizzabilità.

8.15. Essendo venute a Me, le grandi Anime non otterranno


[più] una ulteriore nascita, dimora di sofferenze ed effimera,
avendo raggiunto la suprema perfezione.

“Essendo venute a Me”, avendo raggiunto Me, ÙŸvara (Bra-


hman), cioè avendo attinto il Mio [stesso] stato di essere (ma-
dbhåva), “(le grandi Anime) non otterranno [più] una ulterio-
re nascita”, non avranno più una nuova venuta all’esistenza.
Obiezione: Come è qualificata la ulteriore nascita che non
avranno [più]?
Risposta: [Bhagavat] espone la sua qualificazione: è una
“...dimora di sofferenze...” (du¢khålaya). È dimora, sede delle
360 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 8.15

sofferenze proprie della sfera individuale, ecc. La nascita è


[detta] dimora della sofferenza in quanto in essa si possono
incontrare [tutte] le sofferenze. E non soltanto è dimora di
sofferenze: è anche “effimera” (aŸåŸvata), la sua natura essen-
do continuamente mutevole.
“...le grandi Anime”, cioè gli asceti, “non otterranno [più]
una” simile “ulteriore nascita... avendo raggiunto”, avendo
conseguito “la suprema”, eccelsa “perfezione” denominata li-
berazione (mok≤a).
[Invece] coloro che non realizzeranno Me, costoro devono
nuovamente fare ritorno [alla condizione individuata e formale].
Obiezione: Ancora, quelli che avranno conseguito un’altra
[mèta] differente da Te, faranno [anch’essi] ritorno?
Risposta: Si dice:

8.16. A cominciare dal mondo di Brahmå, [tutti] i mondi


sono soggetti a ritornare nuovamente [alla esistenza formale], o
Arjuna, ma, venendo a Me, o figlio di Kuntı, non esiste [più] ri-
nascita.

“A cominciare dal mondo di Brahmå...”: il mondo (bhuva-


na) è ciò in cui esistono (bhavanti) gli esseri (bh¥ta), per cui
[il mondo di Brahmå] significa il Brahmaloka 21. “A cominciare
dal mondo di Brahmå...” – cioè tutti “i mondi”, insieme con il
mondo di Brahmå – “...sono soggetti a ritornare nuovamente
(punaråvartin), per propria natura devono tornare ancora
[alla esistenza formale], “o Arjuna, ma venendo a Me”, l’Uni-
co, “o figlio di Kuntı, non esiste [più] rinascita”, non vi è più
una ulteriore venuta all'esistenza.
Obiezione: Perché [tutti] i mondi, insieme con il Brahma-
loka [stesso], sono soggetti a ritornare nuovamente [all'esi-
stenza]?
8.18 Ottavo Adhyåya 361

Risposta: A causa della limitatezza del [loro] tempo.


In che senso?

8.17. Sanno che [quello] che è il giorno di Brahmå racchiu -


de mille yuga e che [anche] la notte [di Brahmå] delimita mil-
le yuga quelle creature che conoscono il giorno e la notte [di
Brahmå].

Il giorno la cui conclusione, il cui termine comprende mil-


le yuga 22 è il giorno che racchiude mille yuga. “Sanno che”
quello “che è il giorno di Brahmå”, cioè di Prajåpati, ossia di
Viråj, “racchiude mille yuga e” anche “che la notte [di Brahmå]
delimita mille yuga...”, essendo [nella sua durata] perfettamen-
te equivalente al giorno.
Chi [sono costoro]?
“...quelle creature che conoscono il giorno e la notte [di
Brahmå]”, vale a dire i sapienti nel calcolo del tempo.
Poiché è così, quei mondi, la cui durata nel tempo è limi-
tata [qualunque essa sia], sono conseguentemente destinati a
tornare nuovamente [all'esistenza].
Si descrive [ora] ciò che avviene durante il giorno e la notte
di Prajåpati.

8.18. Dall’Immanifesto tutte le manifestazioni emergono al


sopraggiungere del giorno [di Brahmå]; al sopraggiungere della
notte [di Brahmå] si dissolvono lì stesso, in ciò che è conosciuto
come Immanifesto.

“Dall’Immanifesto...”: l’Immanifesto (avyakta) è la condi-


zione di sonno [profondo] di Prajåpati. Da tale Immanifesto
vengono rese visibili le manifestazioni (vyakti); cioè “...tutte le
manifestazioni”, ossia le creature generate consistenti negli
enti mobili e immobili (animati e inanimati), “emergono”, ap-
paiono manifestarsi, “al sopraggiungere del giorno”: in quel
362 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 8.18

tempo che è il sopraggiungere del giorno, l’avvento del gior-


no di Brahmå, cioè al tempo del risveglio.
Similmente, “al sopraggiungere della notte” di Brahmå, cioè
al tempo del [suo assorbirsi nel] sonno [profondo], tutte le ma-
nifestazioni “si dissolvono lì stesso, in ciò che è” stato prima
espresso in quanto “conosciuto come Immanifesto”23.
Allo scopo di evitare il [presunto] difetto consistente nell’ac-
quisizione [del frutto] di ciò che non è stato compiuto e nella
perdita [del frutto] di quanto è stato compiuto, poi per mostra-
re che l’impegno delle Scritture in relazione a [quanto viene
insegnato su] schiavitù e liberazione possiede un preciso esito
e infine per prospettare il distacco relativamente al divenire ci-
clico, [affermando nel verso seguente che] la “moltitudine di
enti, essendo più volte venuta all'esistenza, senza volerlo si
dissolve” in virtù del contenuto karmico dovuto alla ignoranza,
ecc. quale radice della sofferenza, [Bhagavat] afferma questo:

8.19. Quella stessa moltitudine di enti, essendo più volte ve-


nuta alla esistenza, senza volerlo si dissolve al sopraggiungere
della notte [di Brahmå], o Pårtha, e riemerge al sopraggiungere
del giorno [di Brahmå].

La “moltitudine di enti” (bh¥tagråma), consistente nell’in-


sieme complessivo di esseri mobili e immobili (animati e ina-
nimati), che esisteva in un tempo (ciclo universale) preceden-
te, “essendo più volte venuta alla esistenza” all’avvento di
[ogni] giorno [di Brahmå], “quella stessa”, non un’altra, “sen-
za volerlo”, cioè non seguendo una propria deliberazione, “si
dissolve” ogni volta al sopraggiungere della notte [di Bra-
hmå], cioè alla distruzione del [suo] giorno, “o Pårtha, e” an-
cora senza volerlo “riemerge”, torna a nascere, “al soprag-
giungere del giorno [di Brahmå]”.
Nel passo: «(...pronunciando) om in quanto unico e indi-
struttibile Brahman...» (Bha. Gı. 8.13) è stato esposto il mezzo
8.20 Ottavo Adhyåya 363

per il conseguimento di Quello che è l’Indistruttibile quale è


stato presentato [prima]. Ordunque, allo scopo di indicare la
natura propria dello stesso Indistruttibile, quale deve essere
raggiunto attraverso il sentiero yoga, si dice questo:

8.20. Ma, trascendente rispetto a quello, all’Immanifesto, vi è


un altro Essere, Non-manifesto e perenne: è Quello il quale non si
distrugge [neanche] quando tutti gli esseri vanno a dissolversi.

“(Ma) trascendente...”, cioè totalmente distinto, separato.


Rispetto a che cosa?
“...rispetto a quello, (all’Immanifesto)” enunciato prima. Il
termine “ma” (tu) ha lo scopo di evidenziare la natura di tota-
le distinzione dell’Ak≤ara (cioè del Non-manifesto) che si in-
tende esporre rispetto all’Immanifesto [prima citato]. L’Esse-
re (bhåva) [Non-manifesto, avyakta] che è denominato Ak≤a-
ra è il supremo Brahman.
Sebbene [in base a quanto afferma lo Ÿloka] vi sia una to-
tale distinzione [di questo Ak≤ara-Avyakta rispetto all’Imma-
nifesto precedentemente esposto], onde evitare che possa sor-
gere una errata idea di affinità di natura [tra loro, Bhagavat]
dice: “un altro...”: ‘altro’ (anya) significa ‘totalmente distinto’
[da quello], per cui [è sottinteso che] tale “Non-manifesto” è
al di là della portata dei sensi [compresa la mente]. Per questo
è stato detto: “...trascendente (para) rispetto a quello...”.
Per quale motivo, ancora, è [detto] trascendente?
[Perché] è “altro” [cioè differente] rispetto all’Immanife-
sto prima menzionato, che consiste di ignoranza e costituisce
il seme della moltitudine degli enti. Il senso è che tale Essere
è totalmente distinto [da quello]24.
Inoltre è “perenne” (sanåtana), cioè primevo (quindi sem-
pre esistente): tale Essere “è Quello il quale non si distrugge
[neanche] quando tutti gli esseri” a cominciare da Brahmå,
“vanno a dissolversi” [venendo riassorbiti nell’Immanifesto].
364 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 8.21

8.21. È detto il Non-Manifesto, l’Indistruttibile. Quello lo


chiamano la suprema Mèta, conseguita la quale non ritornano
[più]. Esso è la Mia suprema dimora.

Quello, il quale “È detto il Non-Manifesto, l’Indistruttibi-


le”, “Quello” stesso Essere Non-Manifesto, conosciuto come
Indistruttibile, “lo chiamano la suprema”, eccelsa “Mèta, con-
seguita la quale”, l’Essere raggiunto il quale [coloro che Lo
hanno realizzato] “non ritornano [più]” al divenire ciclico.
“Esso è la Mia suprema dimora”, la [Mia] eccelsa sede, vale a
dire il supremo stato di Vi≤√u25.
[Adesso] si espone il mezzo per realizzarlo.

8.22. Esso è il supremo Puru≤a, o Pårtha, realizzabile, invero,


[solo] grazie a una devozione non rivolta [anche] ad altro, all’inter-
no del quale dimorano gli esseri e dal quale tutto questo è permeato.

“Esso è il supremo Puru≤a”: [è detto Puru≤a] per il [suo] ri-


posare nella cittadella [del corpo] oppure per la sua natura di
pienezza26 e supremo in quanto privo di entità [a lui] superiori,
perché non vi è nulla al di là del Puru≤a, “o Pårtha”. Esso è
“realizzabile, invero, [solo] grazie a una devozione non rivolta
ad altro”, consistente [propriamente] nella conoscenza avente
per oggetto l’åtman, Puru≤a “all’interno del quale”, dentro al
quale “dimorano gli esseri”, che costituiscono effetti – infatti
l’effetto esiste in quanto si manifesta all’interno della [propria]
causa – e, ancora, Puru≤a “dal quale tutto questo” universo “è
permeato”, è riempito come un recipiente, ecc. lo è dallo spazio.
Per la realizzazione [di tale Puru≤a cioè] del Brahman da
parte degli yogin dei quali si è già trattato (8.12), che meditano
sul Brahman in quanto connesso con il pra√ava (la sillaba om)
e otterranno la liberazione in un tempo differito, vi è da esporre
il Sentiero settentrionale (uttaramårga) [a partire dal passo se-
guente dove] onde impartire il significato che si vuole esprime-
8.24 Ottavo Adhyåya 365

re, viene detto: «Nel periodo durante il quale...», ecc. (Bha. Gı.
8.23). La presentazione [anche del sentiero] del ritorno ha lo
scopo di rendere elogio all’altro sentiero (quello del non-ritorno).

8.23. Nel periodo durante il quale si sono dipartiti, invero gli


yogin procedono sia verso il non-ritorno che anche verso il ritor-
no: quel periodo ti esporrò, o migliore dei Bharata.

[La parte della frase:] “Nel periodo durante il quale”, va


connessa con la [voce verbale] separata: “si sono dipartiti...”
[che compare separata nello Ÿloka]. “Nel periodo durante il
quale”, nel quale “(si sono dipartiti), invero gli yogin...” – sono
detti yogin sia gli yogin [veri e propri, intenti nella conoscenza,
o nella pratica yoga e nella meditazione]27 che i ritualisti; tutta-
via i ritualisti sono [considerati] yogin in senso secondario, per
via della specificazione: «...per gli yogin è [stato enunciato il
sentiero] attraverso lo yoga dell’azione» (Bha. Gı. 3.3) – “...(pro-
cedono) sia verso il non-ritorno” (anåvÿtti), cioè verso l’assenza
di una ulteriore nascita, “che anche verso il ritorno” (åvÿtti),
che è opposto a quello (quindi verso una ulteriore nascita).
[Dunque si deve intendere]: a seconda del periodo duran-
te il quale si sono dipartiti”, sono morti, “gli yogin procedono
verso il non-ritorno” e, a seconda del periodo durante il quale
si sono dipartiti, [altri yogin] procedono “verso il ritorno: quel
[duplice] periodo ti esporrò, o migliore dei Bharata” 28.
[Bhagavat] parla di quel [duplice] periodo.

8.24. Il Fuoco, la Luce, il Giorno, la [Quindicina] chiara [di


luna crescente] e il Semestre del corso [solare] ascendente: di-
partitisi [essendo] colà [fondati], raggiungono il Brahman gli
uomini che sono conoscitori del Brahman.

Il “Fuoco” (agni) è la divinità (devatå) identificata con il


tempo [e sul corso del quale presiede]. Similmente, la “Luce”
366 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 8.24

(jyotis) è anch’essa una divinità identificata con il tempo. Op-


pure [si può interpretare nel senso che] sia il Fuoco che la
Luce rappresentano proprio le due divinità quali vengono de-
scritte nella Âruti. Ma per l’importanza [del termine: “perio-
do” nel passo:] «Nel periodo durante il quale...» e «...quel pe-
riodo...» (Bha. Gı. 8.23) [va inteso] il riferimento [a un unico
corso], come nel caso di una foresta di mango 29. Similmente, il
“Giorno” (ahar) è la divinità identificata con il giorno, la
“[Quindicina] Chiara” (Ÿukla) è la divinità della quindicina
chiara e, anche per quanto concerne il “Semestre del corso
[solare] ascendente” (≤a√måså uttaråya√a), si tratta ancora
della stessa divinità che costituisce il Sentiero settentrionale
[o ascendente, uttaramårga]. Questo criterio [di interpreta-
zione di tali enti-simbolo] è stato stabilito altrove 30.
“...dipartitisi [essendo] colà [fondati]”, cioè morti [con la
coscienza stabilita]31 in quel sentiero, “raggiungono il Bra-
hman gli uomini che sono conoscitori del Brahman”, che me-
ditano sul Brahman, che sono assorti nella meditazione sul
Brahman.
Nella restante parte della sentenza va sottintesa l’espres-
sione: “nel corso del tempo” (krame√a); infatti, per coloro che,
stabilmente fondati nell’autentica conoscenza, hanno ottenu-
to la liberazione immediata (sadyomukti, equivalente alla libe-
razione in vita, jıvanmukti), non vi è in nessun caso una mèta
da raggiungere o un luogo donde tornare, come [si apprende]
dalla Âruti: «...per costui i suoi organi non si dipartono» (Bÿ.
4.4.6); quelli i cui prå√a sono risolti nel Brahman, quegli stessi
sono consustanziati del Brahman, costoro sono divenuti il Bra-
hman stesso32.

8.25. Il Fumo, la Notte e, similmente, la [Quindicina] scura


[di luna calante] e il Semestre del corso [solare] discendente:
[dipartitosi essendo fondato] colà, lo yogin, raggiunta la [sfera
della] luce lunare, torna indietro.
8.27 Ottavo Adhyåya 367

Il “Fumo” (dh¥ma) e la “Notte” (råtri) sono la divinità


identificata con il fumo e [quella] identificata con la notte.
Analogamente, la “Oscura” (kÿ≤√a) è la divinità della quindi-
cina oscura [di luna calante]. Il “Semestre del corso [solare]
discendente” (≤a√måså dak≤i√åyana) è la stessa divinità di
prima [che costituisce il Sentiero meridionale o discendente,
dak≤i√amårga].
“...[dipartitosi essendo fondato] colà 33, lo yogin”, cioè il ri-
tualista che celebra [i sacrifici offrendoli] alla divinità prescel-
ta (i≤†a) e alle altre, “raggiunta la [sfera della] luce lunare”, os-
sia l’esistenza nella [sfera della] luna, una volta che abbia spe-
rimentato il frutto [del suo operato], all’esaurimento di tale
[frutto], di nuovo “torna indietro” qui [nella sfera terrena].

8.26. Invero, questi due, il Chiaro e l’Oscuro, sono ritenuti i


due eterni cammini del mondo: con l’uno [l’essere] va verso il
non-ritorno, con l’altro ritorna ancora [nella manifestazione].

“...il Chiaro e l’Oscuro...”: il Chiaro e l’Oscuro sono il


[cammino] Chiaro e [quello] Oscuro. [Il primo] è chiaro in
quanto è illuminato dalla conoscenza, [il secondo] è oscuro
per via della mancanza di quella. “Invero, questi due, il Chia-
ro e l’Oscuro, sono... i due... cammini del mondo”, [ma soltan-
to] per coloro che sono qualificati nella conoscenza (medita-
zione) e nell’azione [rituale], mentre non possono essere
[percorsi] proprio da chiunque al mondo. Essi sono “eterni”,
perpetui in virtù della perpetuità del divenire ciclico. Tra loro,
“con l’uno”, tramite il Chiaro, “[l’essere] va verso il non-ritor-
no, con l’altro”, differente (cioè l’Oscuro), “ritorna ancora”, di
nuovo [nella manifestazione]34.

8.27. Conoscendo queste due strade, o Pårtha, nessuno yogin


soggiace [più] alla illusione. Perciò in ogni momento sii concen-
trato nello yoga, o Arjuna.
368 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 8.27

“Conoscendo queste due strade”, i due sentieri quali sono


stati esposti, “o Pårtha”, l’una che riporta al divenire ciclico,
l’altra che conduce alla liberazione, “nessuno”, neanche uno
[tra gli] “yogin soggiace [più] alla illusione” 35.
“Perciò in ogni momento sii concentrato”, assorto “nello
yoga, o Arjuna”. Ascolta [ora] una esaltazione di tale yoga.

8.28. Qualunque sia il frutto meritorio prestabilito in rela-


zione ai Veda, ai sacrifici, alle stesse austerità e alle donazioni,
conoscendo ciò, lo yogin trascende tutto questo e consegue la su-
prema, originaria Sede.

“Qualunque sia il frutto meritorio prestabilito” dalle Scrit-


ture “in relazione ai Veda” debitamente studiati, “ai sacrifici”
correttamente celebrati, “alle (stesse) austerità” ben praticate
“e alle donazioni” sinceramente elargite, [dunque] in relazio-
ne a [tutte] queste [cose], “conoscendo ciò, lo yogin”, com-
prendendo e sperimentando autenticamente il significato che
[Bhagavat] ha espresso attraverso l’accertamento delle sette
domande [formulate nei primi due Ÿloka], “trascende”, si por-
ta al di là di “tutto questo” insieme di frutti “e consegue la su-
prema”, eccelsa, “originaria Sede” divina, l’Essere che è all’o-
rigine [del mondo], vale a dire che realizza il Brahman, la
causa [prima e incausata della totalità].

Nelle Scritture yoga sulla conoscenza del Brahman


appartenenti alla Upani≤ad della sacra Bhagavadgıtå,
questo è l’Ottavo Capitolo
nel dialogo tra Kÿ≤√a e Arjuna
intitolato:
‘La descrizione del Brahman indistruttibile’.

*
NOTE all’Ottavo Adhyåya

1
Il prefisso adhi- applicato a un nome designa non solo ‘ciò che è
superiore a quel particolare ente’, ma anche ‘ciò che presiede sulla sfe-
ra relativa a quel nome’, o ‘ciò che ha quella sfera come proprio prin-
cipio’. Così il termine adhyåtman significa lett. ‘il sé superiore’, che è
al di sopra o al di là della sfera corporea sensoriale e quindi del mero
ego psico-fisiologico immediatamente percepito, dell’io sensoriale-
manasico quale centro cognitivo, percettivo e proiettivo. Rappresenta
dunque il sé individuato, cioè il jıvåtman, il riflesso di coscienza che è
testimone della intera sfera individuata nelle sue molteplici e interrelate
componenti (i vari upådhi, koŸa, ecc.) e nel suo percorso determinato
dagli atti trascorsi. Talora è anche il Sé supremo, lo Spirito trascenden-
te in quanto Coscienza senza dualità. V. anche le note 7.15, 8.3 e 8.6.
2
Il Vedånta ritiene la manifestazione stessa risultato dell’atto
sacrificale, in questo caso di ÙŸvara. Per quanto riguarda l’individuo,
secondo quanto viene detto a conclusione dell’Adhyåya (8.23 e
segg.), l’essere fa ritorno all’esistenza individuata provenendo dalla
sfera lunare nella quale ha esaurito l’esperienza del frutto del pro-
prio operato e in tale ridiscesa si serve di diversi veicoli temporanei
tra i quali la pioggia, ecc. Cfr. Bra. S¥. 3.1.8, 23 e Chå. 5.10.5.
3
Il termine adhibh¥ta indica la sfera degli elementi (bh¥ta), il li-
vello meramente materiale o sostanziale della manifestazione, cor-
rispondente al piano della terra (pÿthivı, bh¥r). Etimologicamente è
ciò che presiede alla categoria dei viventi in quanto forma l’insieme
delle loro componenti veicolari grossolane.
4
Il termine k≤ara denota sia il corpo, la corporeità distruttibile,
sia la condizione veicolare-formale individuata, destinata inevitabil-
mente a dissolversi.
370 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

5
Cfr. Bha. Gı. 8.23.
Il termine adhidaivata indica la sfera divina, assimilata allo
6

spazio (bhuvas) che avvolge il piano della terra, dalla quale vengo-
no regolati i fenomeni che interessano la vita e l’esperienza umana.
Adhidaiva è tutto quanto inerisce ai deva e alla loro natura. In que-
sto particolare contesto il Puru≤a può riferirsi sia allo Spirito supre-
mo e non-duale, sia all’Essere (Brahman) nel suo aspetto qualificato
(ÙŸvara o Hira√yagarbha), sia, infine, al puru≤a individuale.
7
Riguardo al contenuto mentale presente al tempo della dipar-
tita, cfr. Chå. 3.14.1, Pra. 3.10 anche Mu. 3.1.10, Bÿ. 1.4.15 e Chå. 8.2.
Per quanto riguarda l’effetto del pensiero sulla rinascita, cfr. Kau.
1.2, Ka. 1.3.7-8, Bÿ. 4.4.6, Âve. 5.7, 12 e Mai. 3.2 e 6.34. V. anche Ma.
12.55, Ma. Bhå. 14.36.30-31 e Yå. Dha. S¥. 3.207.
Qui il termine yoga indica l’applicazione indefessa, lo sforzo
8

prodigato in maniera continuativa, intensiva e senza mezzi termini.


V. anche Bha. Gı. 12.9.
Il Reggitore (anuŸåsitÿ) della totalità, essendo Colui che proiet-
9

ta, sostiene e riassorbe l’universo, è anche il perfetto Dispiegatore


del mondo, Quello che ne è il Regolatore-Ordinatore per eccellenza.
10
Cfr. Ma. Bhå. 5.44.29, Âve. 3.8 e Mu. 2.2.6.
Il loto del cuore (hÿtpu√ƒarıka) rappresenta simbolicamente il
11

centro coscienziale dell’essere, il punto focale in cui la Coscienza


dell’åtman si riflette palesandosi come autocoscienza individuale,
simbolicamente dimorante a livello dell’anåhatacakra. È il nucleo
più profondo del proprio sentire ed essere, nel quale lo yogin deve
far convergere e stabilizzare la consapevolezza.
La “materia” (bh¥mi) si riferisce alla sfera elementale in quan-
12

to costitutiva del veicolo a livello sia fisico-grossolano che sottile-


energetico. La pratica yoga conferisce il controllo su tale sfera che è
propriamente l’adhibh¥ta, intesa dunque nei suoi elementi grosso-
lani (sth¥labh¥ta) e sottili (s¥k≤mabh¥ta). Attraverso lo yoga si rag-
giunge il dominio sulle funzioni di tali koŸa sino a sublimarne le
Note all'Ottavo Adhyåya 371

potenzialità e risolverle nella pura Consapevolezza. Lo yoga con-


sente perciò la realizzazione attraverso un procedimento progressi-
vo e continuo (prakramasiddhi) – un processo risolutivo irreversi-
bile – di integrazione e conseguente soluzione di ogni veicolo-sfera
in quello superiore che porta a una dilatazione della potenzialità sia
in relazione alle proprietà e capacità funzionali proprie del veicolo
stesso, sia, soprattutto, per quanto concerne la consapevolezza.
13
Le nåƒı sono i “canali sottili” lungo i quali fluisce il prå√a.
Formano una sorta di rete luminosa deputata a distribuire e regola-
re il flusso della energia vitale all’interno dell’organismo. Situando-
si a livello sottile, la struttura delle nåƒı costituisce un tramite tra la
sfera mentale (il sottile superiore) e quella fisica-corporea. Secondo
la scienza tradizionale le nåƒı sono numerosissime – se ne contano
ben 72000 – ma le principali sono tre: iƒå, pi§galå e su≤um√å.
Quest’ultima, centrale, nella quale confluiscono tutte le altre, ha un
percorso verticale che passa per tutti i centri di energia-coscienza
(cakra) ed è la direttrice lungo cui si snoda il moto ascendente della
energia nota come ku√ƒålinı (‘l'arrotolata’), il potere serpentino ri-
svegliato dallo yoga, dal prå√åyåma e dagli åsana. La su≤um√å, data
la sua collocazione, segna anche il percorso seguito dal riflesso di co-
scienza (jıva) nel suo ritirarsi dalla periferia veicolare, concentrarsi e
ascendere fino a distaccarsi dal corpo passando per la sommità del
capo al tempo del trapasso. La concentrazione del prå√a, e quindi
della consapevolezza, lungo la su≤um√å comporta l’apertura dei ca-
kra, il riequilibrio delle singole sfere funzionali cui essi sono preposti
e la riarmonizzazione energetica dell’intero aggregato.
14
Si allude alla pratica della meditazione in cui l’attenzione co-
sciente viene raccolta da una condizione periferica, concentrata e
risolta nella sua fonte a livello individuale: il jıvåtman. È questo il
punto centrale dal quale è possibile poi operare la soluzione nel-
l’åtman non-duale. Si torni anche alla nota 6.11.
15
Cfr. Ka. 1.2.15.
16
Il “tempo successivo” in cui si compie la realizzazione per ta-
luni yogin è la conclusione del ciclo universale (kalpa). Se ne parle-
372 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

rà più dettagliatamente nel corso della esposizione dei due Corsi a


partire dal verso 8.23.

Si torni alla nota 11. La “soppressione della mente nel loto del
17

cuore” è l’assorbimento dell’organo mentale nella sua integralità


percettiva-proiettiva, il suo arresto e quindi la sua estinzione, cioè
la sua soluzione nella pura autocoscienza individuale. Sebbene sia
uno stato esente da movimento effettivo, permangono in esso i se-
mi latenti di un moto potenziale, che perciò proprio e unicamente
da tale condizione possono essere risolti.

La sillaba om, per il Vedånta, è sia il “nome-simbolo” del Bra-


18

hman, che “il Brahman stesso”. Su tale analogia-identità si basa la


corretta meditazione su om. Per una trattazione completa in merito
alla sillaba om e alla meditazione inerente (sulla sillaba intera e sul-
le sue parti o misure) si vedano, tra le Upani≤ad, innanzitutto la
Må√ƒ¥kya, in particolare con kårikå di Gauƒapåda e bhå≤ya di
Âa§kara, quindi la PraŸna, la Chåndogya, la Maitri, ecc. In particola-
re, cfr. Mu. 2.2.3-4 e, per la Smÿti, Mårkandeya Purå√a 42.7-8.

Il Vedånta insegna che nascita e morte sono parte integrante


19

della vita, manifesta e non. Non sono punti di discontinuità – l’esi-


stenza, a qualunque piano, non può che partecipare della continuità
del Sostrato – ma rappresentano i punti di flesso della perenne oscil-
lazione tra lo stato manifestato-formale e quello non-manifestato o
informale. Tale oscillazione si mantiene finché sussistono semi po-
tenziali (saæskåra) da esprimere e sviluppare; quando questi sono
stati arsi dal fuoco della conoscenza-meditazione, il passaggio al di là
della forma comporta la soluzione di sé (jıvåtman) nel Brahman. È la
forma-entità quello che si risolve, non l’essenza cosciente, che, inve-
ce, liberata dalla limitazione contingente di veicolo e condizioni, si
espande liberamente fino a realizzare l’identità con Quello.
20
Cfr. Ma. Bhå. 12.241.32, 14.19.66; Mai. 6.28.

Il Brahmaloka, il “mondo di Brahmå”, è la sfera dell’Essere


21

qualificato universale cui fanno riferimento le esistenze di tutte le


altre sfere inferiori. È la prima determinazione dell’Assoluto Inqua-
Note all'Ottavo Adhyåya 373

lificato. Âa§kara fa tale precisazione perché altrove tale termine in-


dica il mondo, cioè lo stato che è il Brahman.
22
La cosmogonia vedica ordina il tempo in cicli universali (ka-
lpa), contenenti diversi “periodi” o “intervalli di Manu” (manva-
ntara), vere e proprie ere ciascuna delle quali è sottoposta a un
Legislatore cosmico, a loro volta suddivisi in ulteriori “ere cosmi-
che” formanti una sorta di anelli di congiunzione (yuga) tra le di-
verse fasi o epoche a livello universale. L’argomento è trattato in
dettaglio nei testi tradizionali, ma si rammenti che il tempo, come
lo spazio e la causalità, è solo una delle dimensioni, coesistenti e
interdipendenti, del divenire-relativo-apparenza che si manifesta-
no in concomitanza con l’espressione universale e che con questa
si riassorbono al compiersi del suo ciclo; non posseggono esisten-
za reale. La loro diversificazione ed estensione viene prospettata
al solo fine di agevolare la comprensione del processo universale.
Cfr. Ma. 1.73.
23
Per la manifestazione e il riassorbimento degli esseri, cfr. Ma.
1.52, 1.57; Ma. Bhå. 5.44.30. V. anche Âve. 4.1, Tai. 3.1.1, Mu. 2.1.1.
24
Come precisa Âa§kara, il Brahman sagu√a è l’Immanifesto
“che consiste di ignoranza e costituisce il seme” della molteplicità
manifesta. La sua manifestazione è allo stato potenziale. Invece il
Non-manifesto è il Brahman nirgu√a quale Fondamento assoluto
del manifestato e del non-manifestato, cioè della manifestazione sia
in atto che in potenza. La manifestazione esprime quella possibilità
attuata tra infinite possibili (che competeranno ad altri cicli-kalpa),
la quale emerge nel suo completo sviluppo e riassorbimento dalla
qualificazione originaria o principiale, anch’essa apparente.
25
Cfr. Ka. 2.3.10, Mai. 6.30. Si torni anche a Bha. Gı. 6.45. Qui
Vi≤√u designa il Brahman.
26
Âa§kara fornisce l’etimologia tradizionale (nirukti) del termi-
ne Puru≤a: è l’Ente che ha il “riposo” (Ÿayana), il naturale dimorare
nella cittadella (puri) del corpo e la cui natura è pienezza-onniper-
vadenza (p¥r√atva), in quanto, come Coscienza-Esistenza, è Ciò che
374 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

“riempie” (p¥rati), che satura la totalità universale, manifesta e non.


Cfr. Bha. Gı. 8.4. Pertanto il Puru≤a qui significa il Brahman.
27
Cfr. Terzo Adhyåya.

Il corso degli yogin che si dipartono da questo mondo è asso-


28

ciato al periodo in senso simbolico e non cronologico. Il “tempo”


(kåla) o “periodo” indica piuttosto la condizione coscienziale acquisi-
ta tramite la meditazione o la pratica rituale e legata ai rispettivi re-
quisiti. La meditazione e la pratica rituale, dati i relativi presupposti
– la conoscenza e l’ignoranza – dirigono la coscienza in direzioni op-
poste, l’una risolvendo il dualismo soggetto-oggetto, l’altra consoli-
dandolo. La nozione di “chiaro”, riferita al corso solare ascendente o
settentrionale, alla quindicina di luna crescente, al giorno, al fuoco,
ecc., è associata alla meditazione (formale) e al suo esito; il corso che
porta a imboccare innalza l’essere verso sfere superiori conducendo-
lo verso il devayåna e, quindi, al non-ritorno all’esistenza individua-
le. La nozione di “oscuro”, riferita al corso solare discendente o meri-
dionale, alla quindicina di luna calante, alla notte, al fumo, ecc., è as-
sociata all’ignoranza quale base dell’attività identificata, anche di or-
dine rituale; il corso che porta a imboccare spinge l’essere verso con-
dizioni analoghe a quelle terrene per quanto superiori e quindi al ri-
torno all’esistenza individuale. Sono la meditazione e l’azione rituale
che predispongono l’essere all’accesso all’uno o all’altro corso.

Nella espressione corrente la preponderanza, o anche la sola


29

cospicua presenza, di alberi di mango, peraltro non comunissimi, in


una foresta mista, fa sì che questa venga detta per eccesso ‘una fo-
resta di mango’. Così il peso del termine periodo – ripetuto nel ver-
so – portando a prescindere dalle singole diverse Forme divine
elencate, implica una ben precisa condizione coscienziale, e quindi
una sola Via per volta, caratterizzata da diverse Forme divine che
ne simboleggiano altrettante fasi o aspetti parziali. Per una tratta-
zione più approfondita si torni ancora a Bra. S¥. 3.4 anche con il
Commento di Âa§kara.

Cfr. Bra. S¥. 3.4. Una sola devatå assume o si manifesta nelle
30

diverse forme descritte che costituiscono i suoi aspetti consecutivi


Note all'Ottavo Adhyåya 375

nel procedere lungo il corso in questione. Lo stesso è per la Via me-


ridionale. Le varie forme sono altrettanti simboli.
31
Vale a dire procedendo lungo tale Via settentrionale.
32
Per il corso solare, cfr. Bÿ. 5.10 e 6.2.15; Chå. 4.15.5-6, 5.10.1-2;
Mu. 1.2.5, 6, 11 e 3.1.6; Pra. 1.10; Mai. 6.30. Per quello lunare, cfr. Bÿ.
5.10 e 6.2.16; Chå. 5.10.3-6; Pra. 1.9; Mu. 1.2.7-10 e 3.2.9.
33
Cioè abbandonato il veicolo nel persistere della coscienza in
tale aspetto oscuro della Divinità nelle forme elencate; dunque, pro-
cedendo lungo tale Via meridionale a causa del proprio agire ritua-
listico e quindi dualistico.
34
Come si comprende dai versi 8.24-26, vi sono tre possibilità.
La prima è la liberazione immediata (sadyomukti): il conoscitore
realizza “qui e ora” il Brahman, nel quale si risolve identicamente o
mentre è ancora in vita (jıvanmukti) o alla deposizione del corpo fi-
sico (videhamukti), annullando all’istante il divenire ciclico. La se-
conda è la liberazione differita (kramamukti) che compete a coloro
che hanno acquisito una conoscenza intellettuale del Brahman e si
sono dedicati alla meditazione (formale): costoro imboccano la Via
degli Dei (devayåna) e procedono verso l’Essere qualificato, il Bra-
hman sagu√a, dal quale, al riassorbimento finale dell’universo al
termine del ciclo (kalpa), si risolveranno nel Brahman nirgu√a. La
terza possibilità concerne i ritualisti ai quali viene accordato l’ac-
cesso alla Via dei Padri (pitÿyåna) che, pur consentendo loro di spe-
rimentare il frutto positivo del proprio operato in sfere superiori,
non ne permette ancora il distacco dalla forma, per cui sono co-
stretti a ridiscendere all’esistenza individuata. Nel primo caso vi è
una trascendenza immediata della individualità, nel secondo un su-
peramento graduale attraverso l’identificazione meditativa (upåsa-
na) con le Forme divine fino all’Essere universale, nel terzo vi è la
persistenza di un seme individuale che deve esprimersi.
Coloro che non seguono questi due corsi, cioè gli esseri ordina-
ri legati alla propria individualità e identificati con il veicolo, la
condizione, il ruolo, ecc., rinascono nelle forme da loro concepite,
consapevolmente o meno, durante l’esistenza.
376 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

Il divenire ciclico (saæsåra) è detto perpetuo perché, al pari del


sogno, non possiede né un principio né una conclusione sperimen-
tabili sul suo stesso piano. Talvolta lo si definisce “senza inizio e
senza fine” (anådyananta) non per alludere a una natura di infini-
tezza-eternità, ma per suggerire l’idea di una finitezza non-delimi-
tata paragonabile a uno sviluppo circolare.

Colui che ha acquisito la conoscenza del determinismo karmi-


35

co e quindi dei meccanismi che innescano l’imbocco dell’uno o del-


l’altro sentiero “non soggiace più alla illusione”: la comprensione
del saæsåra comporta la sua soluzione, il riconoscimento della cor-
da dissolve all’istante l’immagine del serpente. Avendo maturato
la consapevolezza della loro natura di illusorietà, lo yogin tralascia
la via delle opere e l’idea della esperienza degli eventuali suoi frutti
dedicandosi esclusivamente alla conoscenza-meditazione per diri-
gersi verso la Via degli Dei, come si vedrà nel successivo Ÿloka, o
direttamente verso la realizzazione dell’Assoluto.

*
Nono Adhyåya
(Lo yoga della conoscenza regale e del mistero sovrano)

Nell’Ottavo [Capitolo] è stato enunciato lo yoga della con-


centrazione (dhåra√åyoga) in quanto qualificato attraverso [la
convergenza del flusso prå√ico lungo] le nåƒı1 ed è stato pre-
sentato anche il suo frutto, consistente proprio nel consegui-
mento del Brahman in un tempo successivo attraverso [il cor-
so ascendente che concerne] la sequenza del Fuoco, della Fiam-
ma, ecc. [quali enti acquisiti come veicoli, sequenza] avente
natura di un non-ritorno [alla forma o esistenza individuata].
A tale riguardo, onde allontanare il sospetto che il frutto del
conseguimento del Brahman possa essere ottenuto solo con
tale processo [come la pratica yoga, ecc.] e non altrimenti, Ÿrı
Bhagavat disse:

Ârı Bhagavat disse:

9.1. Ma a te, che non eccepisci, rivelerò il sommo segreto: è


questa conoscenza [quando è] unita alla [presa di] consapevo-
lezza, realizzando la quale ti libererai dalla impurità.

Questa conoscenza del Brahman, [già] esposta nei prece-


denti Capitoli, sta per essere esposta accostandola a quella
consapevolezza [precedentemente presentata]: per questo
[Bhagavat] dice: “questa”. Il termine “ma” (tu) intende affer-
mare la distinzione [di questa conoscenza del Brahman da
quella appena enunciata e consistente nella meditazione, ecc.].
378 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 9.1

Invero soltanto questa autentica conoscenza è il mezzo per


conseguire direttamente la liberazione, come [si comprende]
dai seguenti e altri passi sia della Âruti che della Smÿti: «Våsu-
deva è tutto» (Bha. Gı. 7.19), «...l’åtman stesso è tutto questo»
(Chå. 7.25.2), «Uno soltanto senza secondo» (Chå. 6.2.1), «In-
vece coloro i quali conoscono diversamente da ciò vanno sot-
to un altro sovrano, appartengono a mondi destinati a distrug-
gersi...» (Chå. 7.25.2).
“(Ma) a te, che non eccepisci”, a te che non avanzi critiche,
“rivelerò”, esporrò “il sommo segreto”, l’arcano supremo.
Qual è esso?
“è (questa) conoscenza...” (jñåna).
Come è specificata?
“... [quando è] unita alla [presa di] consapevolezza” (vijñå-
na), cioè alla diretta esperienza (anubhava), “realizzando”,
conseguendo “la quale ti libererai dalla impurità”, cioè dalla
schiavitù del divenire ciclico2.
Ed essa:

9.2. È la conoscenza regale, è il mistero sovrano, questo su-


premo purificatore; è immediatamente comprensibile, conforme
al dharma, ben agevole ad attuarsi e imperitura.

“È la conoscenza regale” (råjavidyå), la sovrana delle co-


noscenze perché è dotata di estremo splendore: infatti la co-
noscenza del Brahman rifulge infinitamente su tutte le [al-
tre] conoscenze. Allo stesso modo “è il mistero sovrano” (rå-
jaguhya), il principale dei misteri. [Pertanto essa è anche]
“questo supremo purificatore” (pavitra), lo strumento di pu-
rificazione [per eccellenza]: la conoscenza del Brahman è lo
strumento di purificazione più elevato fra tutti i mezzi per
purificarsi [dagli atti compiuti], perché riduce in cenere af-
fatto all’istante il karman, consistente sia nel dharma che
nell’adharma (merito e demerito), unitamente alla sua radice
9.2 Nono Adhyåya 379

[che è l’ignoranza-avidyå] per quanto [tale karman sia sta-


to] accumulato in parecchie migliaia di nascite; pertanto che
[altro] vi è da dire sulla sua natura di strumento di purifica-
zione [totale]?
E inoltre [la conoscenza regale del Brahman] “è immedia-
tamente comprensibile”: è immediatamente comprensibile
(pratyak≤åvagama) ciò la cui comprensione si verifica attra-
verso una percezione immediata (pratyak≤a), come [avviene]
per il piacere, ecc.
Ancora, si constata che ciò che possiede molteplici qualità
può avere una natura contraddittoria rispetto al dharma; [ma]
la conoscenza dell’åtman non si contrappone al dharma [non
essendo differenziata].
Come è?
Al contrario, essa è “conforme al dharma”, non contrav-
viene al dharma.
Ora, sebbene sia così, poiché [si potrebbe ritenere che la
conoscenza del Brahman] è difficile da realizzare, pertanto
[Bhagavat] afferma: “ben agevole ad attuarsi”, come la scienza
di distinguere le [varie specie di] pietre preziose [quando è in-
segnata da un esperto]. Al riguardo, si vuole che gli altri atti
[rituali, ecc.], che comportano sforzi limitati e possono facil-
mente essere compiuti, posseggono un frutto [parimenti] limi-
tato e che quelli che sono difficili da compiere [e che richiedo-
no uno strenuo impegno] hanno un frutto [più] grande; inve-
ro, assunto che [si potrebbe erroneamente ritenere che] questa
[conoscenza del Brahman], essendo facile da ottenere [in
quanto non richiede uno sforzo fisico come lo richiedono i riti,
ecc.], decada quando il suo frutto si distrugge, pertanto [Bha-
gavat] afferma: “imperitura”. Per questa [conoscenza regale]
non vi è distruzione in concomitanza al [distruggersi del pro-
prio] frutto, come [invece avviene] per l’azione; per questo
motivo è [detta] inalterabile. Pertanto la conoscenza dell’å-
tman è [sommamente] degna [di essere realizzata].
380 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 9.3

Ma coloro, i quali sono:

9.3. Gli uomini senza fede in questo dharma [che è la cono-


scenza regale o dell’åtman], o Paraætapa, non avendo conseguito
Me, persistono nel solco del divenire ciclico asservito alla morte.

[Quelli] “senza fede”, totalmente privi di fede “in questo


dharma” che è la conoscenza dell’åtman, cioè quelli che non
credono (nåstika) né nella propria reale natura [di åtman] né
nel frutto della sua [realizzazione], intenti a commettere em-
pietà e a coltivare insegnamenti segreti di carattere demonia-
co (åsura), che ammettono soltanto la concezione secondo cui
il mero corpo fisico è l’åtman, dediti ai piaceri mondani e al
vizio, “Gli uomini senza fede..., o Paraætapa, non avendo con-
seguito Me”, il supremo Signore – il [mancato] conseguimen-
to di Me [da parte loro] è certamente fuor di dubbio; il signifi-
cato [dello Ÿloka] è: senza aver attinto nemmeno quella devo-
zione (bhakti) che è un particolare sentiero per conseguire
[indirettamente e nel tempo] Me – “persistono...”, senza dub-
bio permangono...
Dove?
“...nel solco del divenire ciclico asservito alla morte”. Il di-
venire ciclico asservito alla morte (mÿtyusaæsåra) è il divenire
esistenziale in quanto associato alla morte; il suo solco (vartma)
è il corso [della esistenza che porta ad assumere le condizioni]
di esseri inferiori e soggetti alla sofferenza, quali animali, ecc.;
vale a dire che [costoro] continuano a sperimentare l’esistenza
in quello stesso [divenire esistenziale trasmigratorio].
Dopo aver suscitato l’interesse di Arjuna con il rendere
lode [alla conoscenza regale, Bhagavat] disse:

9.4. Da Me, di forma non-manifesta, è permeato questo inte-


ro universo. In Me dimorano tutti gli esseri, ma Io non sono in
loro stabilito.
9.5 Nono Adhyåya 381

“Da Me, di forma non-manifesta...”. Io sono Quello la cui


forma è non-manifesta (avyaktam¥rti). [L’espressione] “Da
Me, di forma non-manifesta”, [significa]: da Quello, la cui for-
ma – cioè la Mia reale natura – non è manifesta, vale a dire
[da Quello] la cui reale natura trascende la portata dei sensi
[compresa la mente, dunque] da Quello il quale è il supremo
Essere, “è permeato”, è pervaso “questo intero universo”.
In Quello, cioè “In Me”, ossia dentro di Me, che ho forma
non-manifesta, “dimorano”, hanno esistenza “tutti gli esseri”,
da Brahmå sino agli enti inerti. Infatti non si può immaginare
come oggetto di esperienza (conoscenza) nessun essere che
sia privo dell’åtman. Quindi [tutti gli esseri] hanno esistenza
in quanto “in Me dimorano”, ossia in quanto hanno natura
dotata dell’åtman che sono Io [stesso]: per questo vengono
detti avere esistenza in Me. Io stesso sono l’åtman di tali esse-
ri. Ne consegue che a quelli di intelletto ottenebrato, può
sembrare che [Io] sia stabilito in loro; pertanto affermo: “ma
Io non sono in loro”, in tali esseri “stabilito”, in virtù dell’as-
senza di contatto con ciò che ha forma [essendo Io privo di
forma]: invero Io sono l’essenza ultima persino dello spazio.
Infatti un ente privo di contatto non può essere stabilito in
nessun luogo come se fosse contenuto [in un ente che ne sia
il contenente]3.
Proprio per questo, cioè poiché la Mia natura è priva di
qualsiasi contatto,

9.5. Neppure dimorano in Me gli esseri [in quanto forme-ap-


parenze]. Considera il mio yoga sovrano! Sostenente [tutti] gli
esseri, ma non stabilito negli esseri, il mio åtman è la causa di
esistenza degli esseri.

“Neppure dimorano in Me gli esseri [in quanto forme-


apparenze]” a cominciare da Brahmå. “Considera il mio yo-
ga”, il potere, il mio influsso “sovrano”: il mio yoga sovrano,
382 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 9.5

cioè del Signore, significa la reale natura dell’åtman qual essa


è. E in tal senso, a motivo della [mia] natura priva di qualsiasi
contatto, anche la Âruti mostra l’assenza di contatto [nel pas-
so]: «...privo di contatto perché in verità non è toccato da
nulla...» (Bÿ. 3.9.26).
Considera che vi è anche un altro prodigio: nonostante sia
privo di contatto [con qualsiasi essere, il mio åtman] è “Soste-
nente [tutti] gli esseri”, cioè sostiene [in esistenza tutti] gli
esseri, “ma non” [è] “stabilito negli esseri”, come si è mostra-
to con l’illustrazione quale è stata enunciata [prima], dato che
è logicamente inammissibile il [mio] dimorare negli esseri 4.
In che senso, ancora, Egli dice: “il mio åtman”?
Separando l’aggregato composto dalla corporeità fisica
(l’universo materiale), ecc. e sovrapponendo ad esso il senso
dell’io, [Bhagavat] pronuncia l’espressione: “il mio åtman”
[come] adeguandosi alla ordinaria opinione, mentre certamen-
te non ritiene, come [invece fa] chiunque al mondo, che l’å-
tman sia altro da sé stessi5. Allo stesso modo [il mio åtman] è
“la causa di esistenza degli esseri”. La causa di esistenza degli
esseri (bh¥tabhåvana) è ciò che fa esistere gli esseri, che li fa
emergere [dalla non-differenziazione] e li fa sviluppare [nel
loro specifico ciclo].
Dimostrando con una illustrazione il significato, quale è
stato esposto nei due [precedenti] Ÿloka, [Bhagavat] disse:

9.6. Come l’immensa atmosfera, [per quanto] ovunque in


movimento, è costantemente stabilita nello spazio [immobile],
così devi considerare che tutti gli esseri sono stabiliti in Me.

“Come” nel piano empirico “l’immensa atmosfera, [per


quanto] ovunque in movimento”, nonostante che si muova in
ogni direzione, dappertutto, “è costantemente stabilita nello
spazio [immobile]”, è sempre fondata nello spazio [illimitato
e quindi di per sé privo di qualsiasi qualità tramite cui possa
9.8 Nono Adhyåya 383

esprimere movimento], “così devi considerare”, devi ricono-


scere in questo modo, “che (tutti gli esseri) sono stabiliti”, an-
che senza [avere] alcun contatto, “in Me” che sono onnipre-
sente come lo spazio.
Così, come l’atmosfera [è sempre racchiusa] nello spazio,
tutti gli esseri sono [stabiliti] in Me durante il tempo della
loro esistenza. Essi, cioè:

9.7. Tutti gli esseri, o Kaunteya, ritornano nella mia propria


natura alla fine di un kalpa (ciclo universale) e di nuovo, all’i-
nizio di un [altro] ciclo universale, Io li proietto.

“Tutti gli esseri, o Kaunteya, ritornano nella mia stessa”,


propria “natura” (prakÿti) non-suprema, inferiore, consustan-
ziata dei tre gu√a, “alla fine di un kalpa”, all’epoca della disso-
luzione, “e di nuovo, all’inizio di un [altro] ciclo universale”,
all’epoca della venuta in esistenza [di un altro universo], “Io li
proietto”, faccio emergere nuovamente tali esseri come [ho
fatto] in precedenza.
Così [facendo ricorso alla mia natura] consistente di igno-
ranza6:

9.8. Ricorrendo alla mia propria natura proietto ripetuta-


mente questa intera moltitudine di enti priva di potere [pro-
prio] in quanto [è] sotto il potere della Prakÿti...

“Ricorrendo alla mia propria”, intrinseca “natura” (prakÿti)


con il mantenerla sotto controllo, “proietto ripetutamente
questa intera moltitudine di enti”, ossia tutto il complesso di
esseri che esiste e si manifesta dalla Prakÿti, [moltitudine che
è] “priva di potere [proprio]”, cioè non è autonoma, “in quan-
to [è] sotto il potere della Prakÿti...”, cioè sotto il dominio del-
la Mia propria natura [di Signore-possessore della måyå-Pra-
kÿti] venendo a essere portata sotto controllo da parte di altre
384 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 9.8

[entità differenti dal Signore] a causa di difetti quali l’igno-


ranza e gli altri7.
Obiezione: Allora, per il supremo Signore, cioè per Te che
disponi variamente questa eterogenea moltitudine di enti, vi
sarebbe un rapporto con il dharma e con l’adharma dovuti a
tale [atto di proiezione]?
Risposta: Bhagavat aggiunse questo:

9.9. ...né tali atti, o Dhanañjaya, legano Me, che rimango


[come] seduto [in disparte a osservare], simile a un asceta indif-
ferente, senza attaccamento verso tali azioni.

“...né tali atti” dovuti alla eterogenea creazione della mol-


titudine di enti, “o Dhanañjaya, legano Me...”, ÙŸvara.
Ora [Bhagavat] enuncia la causa in relazione alla [sua]
natura priva di rapporto con le azioni.
“...che rimango [come] seduto [in disparte a osservare], si-
mile a un asceta indifferente”: come quegli che, non tenendo
in considerazione alcunché, è un asceta indifferente [a tutto]
(udåsına), tale e quale [le azioni non vincolano Me, che ri-
mango come] seduto [in disparte], “senza attaccamento”, es-
sendo l’åtman esente da qualsiasi attività modificante, “verso
tali azioni”, cioè privo di attaccamento al frutto [della mia
opera], libero dalla identificazione: ‘[sono] Io [che] agisco’,
allo stesso modo in cui anche per chiunque altro l’assenza di
identificazione con la condizione di agente e l’assenza di at-
taccamento al frutto [dell’azione] sono causa dell’assenza di
legame [al frutto e quindi al dharma e all’adharma]. Al con-
trario, lo stolto si lega con le [proprie] azioni come un [fa]
baco da seta nel bozzolo. Tale è il senso.
Obiezione: Al riguardo, con i passi: «(...proietto ripetuta-
mente) questa intera molteplicità di enti...» (Bha. Gı. 9.7) e
9.10 Nono Adhyåya 385

“...che rimango, come un distaccato,...”, [sembra che] viene


enunciata una contraddizione.
Risposta: Onde evitare [tale obiezione, Bhagavat] afferma:

9.10. Sotto la supervisione da parte di Me, la Prakÿti secerne


il mobile e l’immobile. Per tale causa, o Kaunteya, l’universo
ruota variamente nella sua integralità.

Totalmente “Sotto la supervisione da parte di Me”, dalla


natura propria di åtman immodificabile e consistente di pura
Coscienza, “la Prakÿti”, cioè la mia måyå essenziata dei tre gu-
√a e consistente nell’ignoranza, “secerne”, fa emergere “il mo-
bile e l’immobile” universo. E in tal senso vi è anche il mantra:
«Un unico Deva è celato in tutti gli esseri, è onnipervadente
ed è l’intimo åtman di ogni essere. È il supervisore delle atti-
vità, è Colui che dimora in tutti gli esseri, è il Testimone co-
sciente, assoluto e senza attributi» (Âve. 6.11). “Per tale causa”,
ossia a motivo dell’esserne il supervisore (adhyak≤a), “o Kau-
nteya, l’universo” mobile e immobile, cioè consistente essen-
zialmente nel manifestato (il piano effettuale, sottile e grosso-
lano) e nel non-manifestato (il piano causale), “ruota varia-
mente nella sua integralità” attraverso tutte le condizioni 8. In-
fatti qualsiasi attività appartenente alla sfera empirica – [espri-
mibile nei termini] ‘io godrò questo’, ‘vedo questo’, ‘odo que-
sto’, ‘sperimento il piacere’, ‘provo dolore’, ‘per ottenere ciò,
farò questo’, ‘apprenderò questo’, ecc. – è dovuta all’assun-
zione [fittizia e da parte del soggetto] della natura di oggetto
di percezione: dunque si fonda nella consapevolezza (avagati)
e nella consapevolezza si risolve. Versi come il seguente e al-
tri mostrano questo significato: «Colui, il quale è il sommo
Veggente, dimora nel supremo spazio [racchiuso nell’incavo
del cuore]» (Í. Ve. 10.129. 7, Tai. Brå. 2.8.9). E quindi9, dato
che, in assenza di un ulteriore ente consapevole distinto [dal
386 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 9.10

Brahman], vi è [necessariamente] l’inesistenza [anche] di un


altro fruitore, sia una domanda in merito a ciò, come: ‘qual è
la ragione di questa manifestazione a opera del Deva unico, il
quale, essendo unicamente coscienza e costituendo il testimo-
ne della totalità, è realmente privo di relazione con qualsiasi
fruizione?’, sia una [eventuale] risposta [a essa], sono entram-
be logicamente inammissibili10. In passi come i seguenti e altri
dello stesso tenore [la Âruti si chiede]: «Chi potrebbe conoscere
[il Brahman] direttamente? Chi potrebbe qui dichiarare don-
de e perché è stata generata questa molteplice manifestazione?»
(Í. Ve. 10.129.6, Tai. Brå. 2.8.9)11. E anche Bhagavat ha mostra-
to [la percezione della manifestazione molteplice come frutto
di ignoranza] nel passo: «La conoscenza è avviluppata dall’i-
gnoranza: per questo i mortali sono smarriti» (Bha. Gı. 5.15).
Così, sebbene Io sia eterno, puro, autoconsapevole e libero
per propria natura, onnisciente e l’åtman di tutte le creature,

9.11. Gli stolti disconoscono Me, [quando sono] rivestito del-


la forma umana, non conoscendo la mia suprema essenza di
grande Signore degli esseri.

“Gli stolti”, coloro che non discriminano, “disconoscono


Me”, commettono un atto di mancanza di riconoscimento,
una mancanza di venerazione [nei miei riguardi allorché sono]
“rivestito della forma umana”, del corpo [umano], ossia quan-
do sono identificato alla natura di essere umano, cioè allorché
agisco ordinariamente attraverso un corpo umano, “non co-
noscendo la mia suprema”, trascendente “essenza”, la [mia]
realtà di supremo åtman simile allo spazio ma assolutamente
più intimo persino rispetto allo spazio [in rapporto agli altri
elementi], “di grande Signore degli esseri”, ossia quale il pro-
prio åtman che è il grande Signore (ÙŸvara) di tutti gli esseri. E
quindi costoro, miserabili, a motivo di tale atto di disconosci-
mento di Quello, cioè di Me, sono destinati a distruzione.
9.13 Nono Adhyåya 387

In che senso?

9.12. [Nutrìti] di vane speranze, di vuote attività, di inutili


conoscenze e privi di giudizio, si affidano alla illusoria natura
dei råk≤asa (spiriti malvagi) e degli asura (dèmoni).

“[Nutrìti] di vane speranze...”: coloro le cui speranze, o


preghiere sono infruttuose sono [nutrìti] di vane speranze.
Similmente “...di vuote attività”: per loro, anche quegli atti
sacrificali quali l’Agnihotra e gli altri, che devono essere da
loro celebrati, sia per la mancanza di venerazione nei riguar-
di del Signore che per il disconoscimento della propria natu-
ra di åtman, quegli stessi atti si rivelano affatto sterili, privi
di frutto, per cui [essi sono detti] “...di vuote attività”. Allo
stesso modo [sono detti nutrìti] “...di inutili conoscenze”,
cioè dalle conoscenze vacue, in quanto per loro neanche la
conoscenza apporta alcun frutto. Inoltre sono “privi di giudi-
zio” coloro che hanno allontanato [da sé] la discriminazione.
Tale è il senso. Inoltre essi “si affidano alla illusoria natura
dei råk≤asa e degli asura”, cioè sono fondati nella credenza,
apportatrice di smarrimento, secondo cui il corpo fisico è
l’åtman; vale a dire che, inclini ad atteggiamenti brutali e-
sprimentisi come: ‘squarta! rompi! bevi! divora! ruba l’altrui
proprietà!’, sono dediti ad atti efferati, per cui partecipano di
una natura che appartiene ai råk≤asa e agli asura, come [si
apprende anche] dalla Âruti: «I mondi infernali... (in quelli
vanno) coloro i quali...» (Ù. 3)12.
D’altra parte, coloro, i quali sono pieni di fede, costoro
sono impegnati nel sentiero della liberazione consistente nel-
la devozione al Signore:

9.13. Ma, o Pårtha, le grandi Anime, fondate nella natura


divina, onorano Me con la mente non rivolta ad altro ricono-
scendomi come indissolubile origine degli enti.
388 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 9.13

“Ma, o Pårtha, le grandi Anime” (mahåtman), dalla consa-


pevolezza non-limitata, essendo “fondate nella natura divina”,
cioè propria dei deva e caratterizzata da calma mentale, auto-
dominio, compassione, fede, ecc., “onorano”, venerano “Me”,
ÙŸvara, “con la mente non rivolta ad altro”, senza [alcun] altro
[contenuto] nella consapevolezza, “riconoscendomi come indis-
solubile origine degli enti”, cioè quale sorgente, causa degli enti
[inerti] a cominciare dallo spazio e anche degli esseri viventi.
In che modo?

9.14. Glorificando sempre Me con forte determinazione e sal-


di nei loro voti e riverenti, Mi onorano, eternamente unificati
nella [loro] devozione,...

“Glorificando sempre”, in ogni circostanza, “Me”, il Signo-


re dalla natura propria del Brahman, “con forte determinazio-
ne”, con le loro qualità, consistenti nel raccoglimento senso-
riale, nella calma mentale, nell’autodominio, nella compassio-
ne e nella inoffensività, ecc. totalmente consacrate, “e saldi
nei loro voti...” – sono saldi nei propri voti (dÿƒhavrata) colo-
ro il cui voto è saldo, fermo, inamovibile – “...Mi onorano”,
[Mi] rendono omaggio, quale åtman dimorante nel cuore, es-
sendo “eternamente unificati nella [loro] devozione”.
Quale che sia il modo in cui [costoro e altri Mi] venerano,
questo viene [ora] enunciato.

9.15. ...mentre, sacrificando attraverso il sacrificio della co-


noscenza, anche altri onorano Me nella [Mia] natura di unità
[assoluta], [alcuni] nella [Mia] natura di distinzione, [e altri
ancora Mi onorano] molteplicemente come Colui dagli innume-
revoli volti.

“...mentre, sacrificando attraverso il sacrificio della cono-


scenza...” – il [loro] sacrificio (yajña) è la stessa conoscenza
9.16 Nono Adhyåya 389

(jñåna) concernente il Signore – dunque, consacrandosi attra-


verso tale sacrificio della conoscenza, “...anche altri 13 venera-
no Me...”, Bhagavat, avendo completamente abbandonato [qual-
siasi] altra [forma di] adorazione. E tale conoscenza è [in vari
modi]: “...nella [Mia] natura di unità [assoluta]”, per cui [co-
storo Mi] onorano sacrificando con la conoscenza-consapevo-
lezza della realtà suprema: ‘il supremo Brahman è soltanto
unità assoluta” (ekatva); mentre alcuni [Mi onorano] “nella
[Mia] natura di distinzione” [come]: ‘Colui che dimora in dif-
ferenti forme nel Sole, nella Luna, ecc., è lo stesso Signore
Vi≤√u’; invece altri [ancora] onorano “molteplicemente”, cioè
in molti modi [diversi], (Me “come Colui dagli innumerevoli
volti”) ossia Quegli che ha tutti gli aspetti, l’Onniforme [come]:
‘Colui che è stabilito [cioè si manifesta] molteplicemente è lo
stesso Signore che possiede tutti gli aspetti (sarvatomukha),
l’Onniforme (viŸvar¥pa)’.
Obiezione: Se [costoro Ti] venerano in molteplici modalità
[differenti], in che senso [sostieni che] venerano Te soltanto?
Risposta: A ciò [Bhagavat] rispose:

9.16. Io sono il Kratu, Io sono lo Yajña, Io sono lo Svadhå. Io


sono l’au≤adha, Io sono il mantra, Io stesso sono il burro fuso, Io
sono il fuoco, Io sono l'oblazione.

“Io” stesso “sono il Kratu”, una particolare [specie di] atti-


vità rituale contemplata nella Âruti (Veda); “Io sono lo Yajña”,
[il rituale di adorazione] contemplato nella Smÿti; e inoltre “Io
sono lo Svadhå”, il cibo offerto [in sacrificio] agli Antenati.
“Io sono l’au≤adha”: si definisce con il termine au≤adha l’inte-
ra classe [di vegetali commestibili costituita] di riso, orzo, ecc.,
quale viene a costituire alimento per tutti i viventi. Oppure lo
svadhå rappresenta il nutrimento in generale, comune a tutti
gli esseri viventi, mentre l’au≤adha è il medicamento [ricavato
390 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 9.16

dalle erbe, o≤adhi] atto a curare le affezioni; “Io sono il mantra”,


[l’inno salmodiato] con il quale l'oblazione viene offerta agli
Antenati e alle Divinità; “Io stesso sono il burro fuso” e dun-
que l'oblazione; “Io sono il fuoco”: il fuoco (agni) è quello nel
quale l'oblazione viene offerta; “Io sono l'oblazione”, cioè l’at-
to della offerta sacrificale.
E inoltre:

9.17. Il Padre Io sono di questo universo, [come anche] la


Madre, il Dispensatore e l’Antenato; [Io sono] il conoscibile, il
Purificatore, la sillaba om e, ancora, il Íg, il Såma e lo Yajur [Veda].

“Il Padre”, il Genitore “Io sono di questo universo, [come


anche] la Madre”, la Genitrice, “il Dispensatore”, Colui che
assegna variamente agli esseri viventi il frutto delle [loro]
azioni, “e l’Antenato”, il Progenitore (il Padre dei padri); “[Io
sono] il conoscibile”, Ciò che deve essere conosciuto, “il Puri-
ficatore”, Colui che purifica, “la sillaba om e, ancora, il Íg, il
Såma e lo Yajur [Veda]”.
E inoltre:

9.18. Sono la Mèta, il Sostegno, il Signore, il Testimone, la


Dimora, il rifugio, l’amico, sono l’origine e la dissoluzione, il
fondamento, lo stato di quiete, il seme indistruttibile.

“Sono la mèta”, cioè il frutto dell’agire, “il sostegno”, Que-


gli che sostiene nutrendo, “il Signore”, il Sovrano, “il Testimo-
ne” di ciò che è stato compiuto e di ciò che [ancora] non è
stato compiuto da parte degli esseri viventi; “la Dimora” nella
quale albergano gli esseri viventi; “il rifugio” per coloro che
sono sopraffatti dal patimento in quanto distruggo la sofferen-
za; “l’amico” in quanto, pur agendo benevolmente, non pre-
tendo un’analoga azione benevola in cambio; “sono l’origine”,
la venuta all’esistenza dell’universo, “e la dissoluzione”, ciò in
9.19 Nono Adhyåya 391

cui esso si dissolve; similmente sono “il fondamento”, nel quale


[l’universo] è stabilito; “lo stato di quiete”, la condizione di ri-
poso che gli esseri viventi si augurano di sperimentare in un
tempo futuro; “il seme indistruttibile” quale causa del [conti-
nuo] sviluppo [trasformante del mondo], indistruttibile in
quanto [attivo] fin quando perdura il manifestarsi del diveni-
re ciclico: infatti nulla, che sia privo di seme, può svilupparsi
e, poiché si constata che lo sviluppo [trasformante del mondo]
è eterno14, ne consegue che anche la continuità di esistenza
del seme [del divenire ciclico] non è soggetta ad alterazione.
Oltre a ciò,

9.19. Sono Io che riscaldo, sono Io che trattengo e produco la


pioggia; sono l’immortale [natura] e anche la morte, Io sono
l’essere e il non-essere, o Arjuna.

“Sono Io che”, essendo divenuto il sole, “riscaldo” attra-


verso taluni potenti raggi, “sono Io che”, tramite alcuni [altri]
raggi, “produco la pioggia” e, dopo averla prodotta, nuova-
mente [sono ancora Io che] la “trattengo” tramite altri raggi e
quindi la produco di nuovo durante gli otto mesi della stagio-
ne delle piogge; “sono l’immortale [natura]” dei deva “e anche
la morte” per i mortali, “Io sono l’essere” (il manifestato), esi-
stente in quanto connesso a ciò di cui [è effetto], “e il non-es-
sere” (il non-manifestato, la causa), che è opposto a quello, “o
Arjuna”. Comunque né il Signore può di per sé non essere af-
fatto in assoluto, né la causa e l’effetto sono [rispettivamente]
esistente (reale) l’uno e non-esistente (non-reale) l’altra 15.
Dunque, coloro che hanno realizzato la conoscenza, i quali
Mi onorano adorandomi attraverso i sacrifici precedentemente
esposti, tramite le varie modalità di astensione [dall’attività
rituale, ecc.] corrispondenti alle concezioni circa la [Mia] na-
tura di unità assoluta o di distinzione, ecc., costoro conseguo-
no Me proprio secondo la loro particolare conoscenza.
392 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 9.19

Invece, i non-conoscitori, che ambiscono al [solo soddisfa-


cimento del] desiderio, [cioè]...

9.20. I conoscitori dei tre Veda, bevitori del soma, i cui vizi
sono stati mondati, adorando Me con sacrifici, pregano per [in-
traprendere] la via del cielo. Essi, raggiungendo il merito qual è
il mondo del dio Indra, godono in cielo i divini conviti dei deva.

“I conoscitori dei tre Veda”, coloro che conoscono il Íg, il


Såma e lo Yajur [Veda], “adorando”, onorando “Me” nella for-
ma di Vasu e degli altri deva, “con sacrifici” quali l’Agni≤†oma
e altri, “bevitori del soma...” – sono bevitori del soma in quan-
to libano il soma (la bevanda consacrata ai deva) [durante la
celebrazione dei riti sacrificali] – “...i cui vizi sono stati mon-
dati”, i cui difetti sono stati purificati proprio da tale libagione
di soma, “pregano per [intraprendere] la via del cielo”, il cor-
so che conduce al cielo (svar), dove la via del cielo (svargati) è
quel corso che è il cielo stesso [in quanto mèta]. Ed “Essi, rag-
giungendo il merito”, avendo conseguito il frutto del [pro-
prio] merito “qual è il mondo del dio Indra (sovrano dei deva),
godono” la condizione [risultante da parte] di centinaia di sa-
crifici scritturali, cioè “i divini conviti dei deva”, ossia fruiscono
“in cielo” dei godimenti divini, di piaceri sovrannaturali.

9.21. Essi, dopo aver goduto il vasto mondo celeste, all’esau-


rimento del merito, entrano nel mondo dei mortali. Così, fedeli
alla dottrina dei tre Veda e desiderosi di godere, ottengono l’an-
dare e il tornare.

“Essi, dopo aver goduto il vasto”, l’immensamente esteso


“mondo celeste, all’esaurimento del merito entrano nel mon-
do dei mortali”, rientrano in questo [mondo terreno]. “Così,
fedeli alla dottrina dei tre Veda”, cioè al solo rituale vedico nel
modo che è stato enunciato, “e desiderosi di godere...” – sono
9.22 Nono Adhyåya 393

desiderosi di godere (kåmakåma) coloro che ambiscono [solo]


agli oggetti del desiderio – “...ottengono l’andare e il tornare”:
l’andare e il tornare (gatågata) rappresentano l’accesso [nel
mondo superiore o divino per il merito acquisito] e il rientro
[al mondo umano al suo esaurimento], cioè sia il procedere
[verso condizioni superiori o divine] che il fare ritorno [alle
condizioni inferiori o terrene]; vale a dire che ottengono sola-
mente l’andare e il tornare [condizionati dall’azione], ma non
l’autonomia [di spostarsi ed esperire] in qualsiasi [condizione]16.
Invece, coloro che, privi di desiderio, sono autentici cono-
scitori, cioè:

9.22. Gli uomini che, contemplando Me senza essere altro


[da Me], Mi venerano compiutamente, a loro, sempre riunifica-
ti, Io concedo la sicurezza nel possesso [raggiunto].

“Gli uomini”, ossia i completi rinunciatari, “che, contem-


plando”, essendo giunti a “Me”, il supremo deva Nåråya√a in
quanto [sono il loro stesso] åtman, cioè “senza essere altro
[da Me]”, ossia essendo divenuti non-separati [da Me], “Mi
venerano compiutamente, a loro”, i quali hanno realizzato la
realtà suprema e [sono] “sempre riunificati”, ossia costante-
mente dediti allo yoga [attraverso la meditazione], “Io concedo
la sicurezza nel possesso [raggiunto]”: il possesso è l’acquisi-
zione di ciò che non è stato [ancora] ottenuto, mentre la sicu-
rezza consiste nella sua preservazione; dunque, accordo [loro]
entrambe le cose.
Poiché [è stato detto]: «...ma il jñånin è da Me ritenuto l’å-
tman stesso...» (Bha. Gı. 7.18) e «...ed egli è caro a Me» (Bha.
Gı. 7.17), pertanto costoro mi sono cari essendo divenuti il
mio [stesso] åtman.
Obiezione: Comunque, anche agli altri devoti Bhagavat
certamente concede la sicurezza nel possesso [raggiunto].
394 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 9.22

Risposta: In verità [Bhagavat] certamente concede [loro la


sicurezza nel possesso raggiunto], ma vi è questa distinzione:
quelli sono taluni devoti i quali si sforzano di ottenere la sicu-
rezza nel possesso [raggiunto] anche per amore di sé, cioè per
sé stessi, mentre coloro che hanno realizzato la consapevolez-
za di non essere altro [dall’åtman e dunque dal Signore] non
mirano a ottenere la sicurezza nel possesso [acquisito]. Infatti
costoro non coltivano avidità per sé stessi né in vita né in pun-
to di morte: essi hanno davvero il [proprio] rifugio unicamen-
te nel Signore. Quindi è lo stesso Signore che concede loro la
sicurezza nel possesso [raggiunto].
Obiezione: Comunque, se Tu stesso sei anche altre divini-
tà, i loro devoti onorano ancora Te soltanto.
Risposta: In verità è così:

9.23. Anche coloro che, devoti ad altre divinità, [le] onora-


no pienamente dotati di fede, anch’essi, invero, onorano sem-
pre Me, o Kaunteya, [benché] non in modo conforme ai [veri]
precetti.

“Anche coloro che, devoti ad altre divinità...” – devoti ad


altre divinità (anyadevatåbhakta), cioè pur essendo votati ver-
so altre forme divine – “[le] onorano”, [le] venerano [essen-
do] “pienamente dotati di fede”, ossia [restando] fedeli alla
convinzione circa la loro reale esistenza, “essi invero onorano
sempre Me, o Kaunteya, [benché] non in modo conforme ai
[veri] precetti”. La non osservanza dei precetti (vidhi) corri-
sponde alla mancanza della conoscenza, per cui il significato
è: [Mi] onorano, sebbene in un modo che non è conforme alla
conoscenza.
Perché si dice che costoro [Mi] onorano [ma] in modo
non conforme ai [veri] precetti?
Perché:
9.25 Nono Adhyåya 395

9.24. In verità Io sono sia il fruitore che il Signore stesso di


ogni sacrificio, ma costoro non mi riconoscono nella [Mia vera]
essenza, per cui decadono [dal conseguimento del frutto].

“In verità”, essendo l’åtman della divinità [di volta in volta


onorata], “Io sono sia il fruitore che il Signore stesso di ogni
sacrificio”, quindi di tutti i sacrifici, tanto quelli contemplati
dalla Âruti quanto quelli ingiunti dalla Smÿti. Infatti il sacrifi-
cio ha il suo signore in Me, poiché è stato detto: «...l’adhiya-
jña sono Io stesso, qui...» (Bha. Gı. 8.4); “...ma costoro non Mi
riconoscono” così, nella [Mia vera] essenza”, quale [realmen-
te] è, “per cui”, avendo compiuto l’adorazione in modo non
conforme ai [veri] precetti, “decadono”, si allontanano dal
[conseguimento del] frutto del rito sacrificale17.
Anche coloro, i quali [Mi] onorano in modo non conforme
ai [veri] precetti, ma con il pieno possesso della devozione ver-
so altre divinità, anche per costoro inevitabilmente si invera il
[conseguimento del] frutto del sacrificio18.
In che modo?

9.25. Vanno ai deva quelli che sono votati ai deva, vanno ai


pitÿ quelli che sono votati ai pitÿ, vanno ai bh¥ta quelli che sa-
crificano ai bh¥ta, ma coloro che onorano Me vengono a Me.

“Vanno”, giungono “(ai deva) quelli che sono votati ai


deva”; votati ai deva (devavrata) sono coloro dei quali il voto,
la regola e la devozione sono rivolti ai deva: essi vanno ai
deva; “vanno ai pitÿ” quali AgniŸvatta e gli altri “quelli che
sono votati ai pitÿ”, quelli che sono devoti ai pitÿ e impegnati
in atti di fede, ecc. [rivolti ai pitÿ]; “vanno ai bh¥ta”, quali i
Vinayaka, l’insieme delle måtÿ, le quattro bhaginı e gli altri 19,
“quelli che sacrificano ai bh¥ta”, gli adoratori dei bh¥ta, “(ma)
coloro che onorano Me”, che nutrono l’attitudine a venerare
Me, come i Vai≤√ava, “vengono” certamente “a Me”.
396 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 9.25

Sebbene vi sia una [certa] similitudine nell’impegno [a


rendere omaggio alle divinità, tuttavia gli uomini] non vene-
rano soltanto Me, e ciò a motivo della ignoranza, per cui essi
divengono idonei per [conseguire solo] un frutto limitato 20.
Per coloro che Mi sono devoti non vi è soltanto un frutto
infinito consistente nel non-ritorno [a questo mondo], ma
[per loro] Io divengo facile da venerare.
In che modo?

9.26. Chiunque mi offra con devozione sia una foglia, sia un


fiore, sia un frutto oppure dell’acqua, ciò [stesso] Io divoro, se è
stato presentato con devozione da quegli il cui sé è devoto.

“Chiunque mi offra”, [porga] a Me “con devozione sia una


foglia, sia un fiore, sia un frutto oppure dell’acqua”, persino
[semplice] acqua, “ciò [stesso]”, come la foglia, ecc. “Io divoro”,
accetto, “se è stato presentato con devozione” – presentato
con devozione [significa] porto come offerta a seguito di un
atto di devozione – “da quegli il cui sé è devoto”, cioè da colui
il cui intelletto è puro.
Poiché è così, pertanto:

9.27. Qualunque cosa tu faccia, qualunque cosa tu mangi,


qualunque cosa tu offra in sacrificio, qualunque cosa tu dia,
qualunque sforzo di austerità tu compia, o Kaunteya, fallo come
avessi un debito con Me.

“Qualunque cosa tu faccia” da te decisa (ossia non impo-


sta dalle Scritture, ecc.), “qualunque cosa tu mangi” e “qua-
lunque cosa tu offra in sacrificio”, ossia qualunque oblazione
rituale tu effettui, [che sia] rispondente alla Âruti o alla Smÿti,
“qualunque cosa”, come oro, cibo, burro chiarificato, ecc., “tu
dia”, tu offra ai bråhma√a o ad altri, “qualunque sforzo di au-
sterità tu compia”, qualunque disciplina ascetica tu persegua,
9.29 Nono Adhyåya 397

“o Kaunteya, fallo come avessi un debito con Me”, rimetten-


dolo completamente a Me.
Ascolta [ora] ciò che si invera per te che così agisci:

9.28. In questo modo ti libererai dai legami delle azioni dai


frutti puri e impuri. Con il sé concentrato sullo yoga della com-
pleta rinuncia, [essendo così] totalmente liberato, giungerai a Me.

“...dai frutti puri e impuri”. Le azioni dai frutti puri e im-


puri sono quelle [azioni] i cui frutti, puri e impuri, sono ri-
spettivamente [quelli] desiderati e [quelli] indesiderati; i lega-
mi delle azioni (karmabandhana) sono i legami costituiti dalle
azioni stesse [quando sono compiute essendo identificati al
soggetto e in vista di un frutto per sé stessi]: agendo “In que-
sto modo”, cioè «come avessi un debito con Me» (Bha. Gı. 9.27),
“ti libererai” da loro, ossia “dai legami delle azioni dai frutti
puri e impuri”. Si definisce yoga della completa rinuncia (saæ-
nyåsayoga) quello che comporta la completa rinuncia [al frut-
to dell’agire] unitamente a quello che è uno yoga [vero e pro-
prio] in quanto attività compiuta offrendola a Me. Tu, essen-
do “Con il sé concentrato sullo yoga della completa rinuncia”,
cioè come colui, del quale il sé, ossia il tuo organo interno, è
unificato attraverso tale yoga della completa rinuncia, [essen-
do così] “totalmente liberato” dai legami dell’azione mentre
ancora sei in vita, alla caduta di questo corpo “giungerai”,
verrai “a Me”.
Obiezione: Allora Bhagavat nutre attrazione e repulsione,
dato che concede la sua grazia ai devoti ma non agli altri.
Risposta: Ciò non è [così, perché]:

9.29. Il medesimo Io sono per tutti gli esseri: nessuno mi è


esecrabile né alcuno favorito, ma quelli che onorano Me con de-
vozione, quelli [sono] in Me e anche Io [sono] in loro.
398 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 9.29

“Il medesimo”, identico “Io sono per tutti gli esseri: nessu-
no mi è esecrabile né alcuno favorito”. Io sono come il fuoco:
come il fuoco non elimina il freddo per coloro che si trovano
discosti, mentre [lo] allontana [per colui che stia] giungendo
in sua prossimità, allo stesso modo Io concedo la [Mia] grazia
ai devoti ma non agli altri; “ma quelli che onorano Me”, ÙŸva-
ra, “con devozione, quelli” sono “in Me” in modo affatto natu-
rale, cioè non a motivo di un mio attaccamento, “e anche Io”
sono “in loro” in modo affatto naturale, e non negli altri; ma
non per questo vi è da parte mia [una qualsiasi] avversione
nei loro confronti 21.
Ascolta [ora] l’efficacia della [diretta] devozione verso di Me:

9.30. Anche colui di ben riprovevole comportamento [passa-


to], se Mi onora senza ricorrere ad altre [divinità], dev’essere
considerato come affatto assennato perché egli è giunto a una
risoluzione autentica.

“Anche colui di ben riprovevole comportamento”, sebbe-


ne sia uno il cui comportamento è [stato in passato] davvero
biasimevole, cioè anche quegli la cui condotta è [stata] asso-
lutamente spregevole, “se Mi onora senza ricorrere ad altre
[divinità]”, cioè mantenendo la devozione non rivolta ad al-
tri, “dev’essere considerato”, dev’essere riconosciuto “come
affatto assennato”, proprio come [se fosse sempre stato in
Me] genuinamente assorto, “perché egli è giunto a una ri-
soluzione autentica”, cioè quale dev’essere, in quanto egli è
[divenuto] di saggia determinazione. E, avendo deposto
qualsiasi esteriore condotta riprovevole, in virtù della [sua]
autentica risoluzione,

9.31. Ben presto diviene un animo virtuoso e accede alla


pace perpetua. O Kaunteya, devi riconoscere che colui che mi è
devoto non è mai perduto.
9.33 Nono Adhyåya 399

“Ben presto”, rapidamente “diviene un animo virtuoso”, co-


lui la cui mente è affatto virtuosa, “e accede alla pace perpetua”,
consegue l’eterna pacificazione. Ascolta la suprema verità: “O
Kaunteya, devi riconoscere”, devi operare il deciso riconosci-
mento “che colui che mi è devoto”, a Me [in quanto supremo
Signore], che è completamente stabilito in Me [soltanto], che
è devoto a Me con il suo intimo åtman, “non è mai perduto”.
[Questo avviene] anche:

9.32. Perché, avendo trovato rifugio in Me, o Pårtha, nono-


stante costoro siano di origini impure, come donne, vaiŸya e, si-
milmente, perfino Ÿ¥dra, essi conseguono [tutti] la mèta suprema.

“Perché”, per il motivo che “avendo trovato rifugio in Me”,


avendo preso Me come rifugio, “nonostante costoro siano di
origini impure...” – hanno origini impure coloro la cui forma
di esistenza [in base alla nascita] è impura – dunque, [sebbe-
ne] siano di nascita impura...
Quali sono tali [nascite impure]?
Bhagavat dice: “...come donne, vaiŸya (mercanti) e, simil-
mente, perfino Ÿ¥dra (prestatori d’opera), essi conseguono”,
raggiungono “la mèta suprema”, eccelsa (la liberazione) 22.
[Se conseguono la liberazione coloro dalla nascita impura,]

9.33. Quanto più [certamente raggiungeranno la suprema


mèta della liberazione] i bråhma√a virtuosi e, allo stesso modo,
i re saggi e devoti? [Pertanto tu] avendo conseguito questo mon-
do impermanente e infelice, onora Me!

“Quanto più [certamente raggiungeranno la suprema mèta


della liberazione] i bråhma√a virtuosi”, [i bråhma√a] dalle
origini virtuose, “e, similmente, i re saggi e devoti?”. Sono re
saggi i sovrani che sono anche saggi (ÿ≤i). Poiché è così, per-
tanto [tu], “avendo conseguito questo mondo”, cioè il mondo
400 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 9.33

umano, “impermanente”, mutevole a ogni istante, “e infelice”,


privo di felicità, cioè avendo ottenuto la [nascita in] condizio-
ne umana, la quale è un mezzo per [conseguire] il fine umano
[per eccellenza, cioè la liberazione] ed è difficile da ottenere,
“onora”, venera [soltanto] “Me” 23.
In che modo?

9.34. Sii [sempre] con la mente [stabilita] in Me, [sii sempre]


devoto a Me, [sii sempre] uno che sacrifica a Me, rendi omaggio
a Me. Unificandoti così, con Me come supremo obiettivo, certa-
mente verrai a Me, l’åtman.

“Sii [sempre]”, tu, “con la mente-consapevolezza [stabili-


ta] in Me”: [ha la mente stabilita in Me] colui la mente del
quale, cioè la tua, è [sempre] in Me, in Våsudeva. Allo stesso
modo, sii [sempre] “devoto a Me” [soltanto]. Sii [sempre]
“uno che sacrifica a Me”, la cui attitudine è offrire sacrificio a
Me, e “rendi omaggio a Me” soltanto.
“Unificandoti”, fissando la mente (consapevolezza) “così...
certamente verrai”, giungerai “a Me”, [realizzerai il Signore]
ÙŸvara, [cioè realizzerai] “l’åtman”. Infatti Io sono l’åtman di
tutti gli esseri e la suprema mèta, il supremo obiettivo: “...così”,
vale a dire: ponendoti [coscienzialmente] “con Me come su-
premo obiettivo”, raggiungerai tale [obiettivo supremo], cioè
Me, che ho questa natura; tale è il nesso con la precedente
[parte del verso]24.

Nelle Scritture yoga sulla conoscenza del Brahman


appartenenti alla Upani≤ad della sacra Bhagavadgıtå,
questo è il Nono Capitolo
nel dialogo tra Kÿ≤√a e Arjuna
intitolato:
‘Lo yoga della conoscenza regale e del mistero sovrano’.

*
NOTE al Nono Adhyåya

1
In particolare si tratta dello yoga che risveglia la ku√ƒalinı
Ÿakti e la induce ad ascendere lungo la su≤umnånåƒı, la “nåƒı ri-
splendente”. La concentrazione (dhåra√å) costituisce un mezzo
ausiliario (a§ga) dello yoga. V. Ÿloka 8.10 e nota 8.11. Cfr. Yo. S¥.
3.1-3.
2
Mentre le varie prescrizioni (vidhi), i rituali (karman), i sacri-
fici (yajña) ecc. devono essere appresi dalla Âruti e dalla Smÿti, la
conoscenza del Brahman, per quanto anch’essa esposta nelle
Scritture o impartita da un Maestro qualificato, si realizza solo at-
traverso una diretta presa di coscienza, prescindendo dalla quale
resta mera concettualità incapace di apportare il frutto della libe-
razione. Il conoscere, tradizionalmente inteso, è essenzialmente
essere.
3
L’åtman pervade la totalità degli enti, con-forma e senza-forma:
essi sono compresi in Quello, mentre Quello non è collocato in
loro. L’assenza di finitezza dell’åtman implica la sua trascendenza
rispetto alla dimensionalità e all’intero insieme di parametri spazio-
tempo-causali e anche della stessa dicotomia formale-informale.
Cfr. Bha. Gı. 7.12.
4
Logicamente non si può immaginare che gli enti abbiano una
collocazione spaziale nell’åtman, perché Quello trascende lo spa-
zio e le altre dimensioni. Per l’åtman infinito e onnipervadente
non si può concepire alcun rapporto dimensionale o di altra spe-
cie con alcuna entità di natura finita e limitata. Non si può nem -
meno supporre che l’åtman possa dimorare negli esseri, perché
ciò comporterebbe una inammissibile limitazione dimensionale.
Cfr. Bha. Gı. 11.8.
402 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

5
La spiegazione di Âa§kara si basa sul fatto che la concezione
comune si esprime nei termini: ‘questo è il mio åtman’, ‘il mio åtman
viene purificato’, ecc. Tale espressione presuppone una natura og-
gettiva dell’åtman come altro da sé stessi, al pari di un ente-oggetto
appartenente alla sfera veicolare individuale e passibile di percezio-
ne, acquisizione, possesso e perdita. Kÿ≤√a, venendo incontro all’es-
sere ordinario, si esprime in modo conforme alla sua abitudine
mentale solo per meglio illustrare l’argomento. Così l’espressione
che ha pronunziato Bhagavat: “il mio åtman”, va intesa come: “Io,
in quanto åtman...”. D’altra parte l’åtman è Coscienza onnicom-
prensiva, per cui qualsiasi rapporto, anche quello con il proprio
corpo, è proiettato dall’ignoranza e puramente illusorio. Non si
deve pensare l’åtman nel corpo, ma questo – o meglio, la totalità di
ciò che ha forma e di ciò che non ha forma – nell’åtman, quale pos-
sibilità attuata ma sempre contenuta nella propria causa-sostrato.

Il “ciclo universale” (kalpa) comprende “il giorno e la notte di


6

Brahmå”. Nella cronologia tradizionale il kalpa si suddivide in ma-


nvantara, o “ere dei vari Manu”, e queste, a loro volta in yuga. Cfr.
Bha. Gı. 8.17-19. Si è visto che la natura inferiore del Brahman si
identifica con la sua qualificazione che emerge come prodotto di
måyå. Così si dice che la prakÿti del Signore è consustanziata di
ignoranza-avidyå; questo non perché il Signore, ÙŸvara, è affetto da
ignoranza, ma perché l’intera manifestazione universale di enti ed
eventi è una proiezione che si sovrappone al Sostrato e, celandolo
agli occhi di colui che è soggetto all’avidyå, non ne permette la
chiara visione o consapevolezza. La måyå è accostata all’avidyå
perché per colui che vi è sottomesso vige il suo effetto differenzian-
te. Qui la natura-prakÿti del Signore designa anche il suo potere-yoga
di proiezione-manifestazione e anche di conservazione e riassorbi-
mento. Il Signore “proietta gli esseri all’inizio di un altro ciclo
come prima” non nel senso che si tratta degli stessi esseri, ma in
quanto è sempre e solo Lui la causa della loro venuta in esistenza.
Ogni essere segue il proprio ciclo karmico all’interno di quello uni-
versale, che li comprende tutti, e l’universo stesso riemerge a causa
del proprio seme irrisolto. Dalla prospettiva della Realtà suprema la
stessa alternanza seme-universo, o causa-effetto, si rivela apparente
Note al Nono Adhyåya 403

come qualsiasi dualità. Essendo di là da effetto e causa, il Brahman


trascende anche il loro rapporto.
7
Il controllo supremo della esistenza di ogni ente avviene sem-
pre e soltanto da parte del Signore. Tuttavia, a causa della sogge-
zione all’ignoranza e ai difetti che su quella si innestano, come l’or-
goglio, la cupidigia, ecc., gli esseri cadono sotto il potere diretto di
altre entità o deva che non sono altro che riflessi, espressioni infe-
riori o indirette del Signore, al quale anch’esse devono la loro ra-
gion d’essere. Si tratta dunque di un ulteriore condizionamento. Si
torni alle note 7.2, 8.
8
La voce verbale viparivartate, dalla radice vÿt con l’aggiunta
dei prefissi vi- e pari-, esprime una rotazione, dunque una natura
ciclica, periodica, ripetitiva, che permea qualunque ordine di esi -
stenza e avviene in modo completamente pervasivo (pari) e vario
(vi) ossia molteplicemente differenziato. Richiama il concetto del-
la “ruota della esistenza” (bhavacakra): il mondo è un complesso
organico-armonico strutturato in cicli su cicli, del quale l’ordine di
esistenza più grande corrisponde alla dimensione universale. La
rotazione come tale rappresenta un circolo chiuso su sé stesso,
dallo sviluppo illimitato e dal perdurare indefinito, non avendo né
inizio né fine. L’essere ordinario, costretto nella sua limitata sfera
di conoscenza e identificato al contingente, percepisce frammenti
parziali di tali ciclicità come archi aperti, ritenendoli reali e isolati
i quali, visti come enti finiti, appaiono dotati di un principio e di
un termine.
9
Pur essendo il creatore dell’universo, ÙŸvara ne è solo il testi-
mone non coinvolto nelle sue vicende, come il sognatore non è
realmente immerso nella vicenda del sogno, essendo questo intera-
mente racchiuso nella sua mente proiettiva.
10
Non è logico formulare o rispondere alla domanda: ‘qual è lo
scopo della creazione?’. Non si può dire che sia intesa per la frui-
zione da parte del Supremo, perché Quello, essendo totalmente tra-
scendente, non fruisce di nulla: è pura Coscienza-Testimone. D’al-
tra parte non può esservi nemmeno un distinto fruitore, dato che
404 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

non esiste un altro ente conscio. Il Brahman è Essere-Coscienza


senza-secondo e, non essendovi esistenza al di là della coscienza,
non è legittimo concepire un ente esistente che sia però totalmente
estraneo alla coscienza, o viceversa. Anche l’ente inerte entra nel
campo della coscienza come oggetto. Né la creazione ha come sco-
po la liberazione, essendo di natura del tutto opposta. La ricerca di
uno scopo è caratteristica del pensiero umano. Nella manifestazio-
ne non vi sono scopi ma solo cause che si determinano in effetti e
che, a loro volta, promanano da una Causa primaria: la manifesta-
zione stessa è espressione della måyå del Brahman e, come tale, ha
natura di apparenza sovrapposta alla Realtà, laddove Quella, quale
Sostrato assoluto, è Causa incausata e ineffettuata.

Non si può conoscere il Brahman in qualità di oggetto, essen-


11

do, l’åtman, il Soggetto per eccellenza; né ha senso chiedersi donde


abbia origine la manifestazione e quale ne sia la causa, perché la re-
lazione causale vige solo nella måyå.

La direzione impressa alla coscienza durante la vita determi-


12

na il suo volgersi, dopo la morte, verso quello stesso stato coltivato


consapevolmente o meno. È l’eterna legge della persistenza identi-
ficativa, secondo cui la coscienza è attratta verso quello stato che
maggiormente è stato concepito, meditato o esperito. Coloro che
vivono da råk≤asa, spiriti malvagi o geni perversi, o asura, dèmoni
o geni di infimo ordine, cioè sotto l’influenza delle loro nature, ri-
nascono nelle condizioni che esse permettono, sperimentando pas-
sivamente l’effetto doloroso del loro stesso agire trascorso.

Sono coloro che, fondatisi e risoltisi identicamente in Bra-


13

hman, sono devoti solamente a Quello nel suo aspetto più alto,
identico alla stessa Coscienza-Conoscenza.

Si tratta di eternità non assoluta ma relativa al ciclo universa-


14

le in atto. Non si dimentichi che il tempo (kåla) è una delle dimen-


sioni che sorgono a essere in concomitanza con la manifestazione
stessa, le altre sono lo spazio (deŸa) e la causalità (nimitta). L’eterni-
tà del divenire si riferisce alla natura priva di limite di una immen-
sa proiezione circolare. Si torni alle note: 6.17, 8.26 e 9.8.
Note al Nono Adhyåya 405

15
Qui con i termini “essere” (sat) e “non-essere” (asat) si desi-
gnano rispettivamente l’esistente (vidyamåna) e il non-esistente (a-
vidyamåna), ovvero il manifestato (grossolano e sottile, dunque
formale) e il non-manifestato (il causale, cioè il non-formale). L’
“essere” dello Ÿloka definisce il manifestato in quanto esistente,
quale effetto di una causa non-manifestata e quindi vista come
non-esistente dalla prospettiva empirica. Non si deve confondere
tale “essere” con il reale in assoluto, né il “non-essere” con il non-
reale in assoluto. Il postulato di non-esistenza assoluta del Principio
equivale a un’asserzione di totale nichilismo e nello stesso tempo
implica una tesi contraria all’evidenza: da una causa non-esistente
non può che derivare un effetto parimenti non-esistente, ma se tale
effetto è il mondo che sperimentiamo, come spiegare tale esperien-
za concreta e inoppugnabile? D’altra parte, sostenere che l’esisten-
te, effettivamente constatato, derivi dal non-esistente è privo di lo-
gica. Al di là di effetto manifesto e di causa non-manifesta, di esse-
re e non-essere, vi è il Brahman, il quale trascende anche la possibi-
lità-relazione esprimentesi nel binomio causale.
16
I ritualisti che agiscono identificandosi al ruolo di agente
vedono la propria esistenza oscillare periodicamente tra la condi-
zione di acquisizione del merito e quella della sua fruizione. In
tale alternanza esistenziale non godono la libertà, l’indipendenza
o l’autonomia (svåtantrya) di accedere a stati in cui tale soggezio-
ne è risolta definitivamente e rimangono per ere indefinite nel di -
venire che caratterizza tali condizioni: anche la sfera divina, per
quanto elevata e immensamente dilatata, resta pur sempre limita-
ta e non esente dal condizionamento di ordine relativo. Cfr. anche
Mu. 1.2.10.
17
Il Signore (ÙŸvara), assumendo la forma delle altre devatå cui
sono offerti i sacrifici, è il Fruitore di tutti questi mentre, quale Or-
dinatore interno (antaryåmin) di tutti coloro che compiono tali atti
rituali, ne è anche il Sovrano. I ritualisti che offrono sacrifici ad al-
tre divinità ritornano in questo mondo dalla sfera che è il frutto
transitorio dei loro sacrifici; ma colui che offre in sacrificio sé stesso
al Signore realizza la natura di Quello e non ritorna più nel piano
della esistenza individuale, ottenendo un frutto imperituro.
406 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

L’adorazione di altre forme di divinità non è infeconda: il suo


18

frutto è coerente alla forma di adorazione, alla natura della divinità,


al suo ruolo, ecc., anche se è comunque finito e limitato nel tempo.

I Bh¥ta, oltre a designare gli elementi o gli enti in genere, defi-


19

niscono una classe di deva inferiori e di natura maligna quali cause di


condizionamento e asservimento per gli uomini che sono loro devoti,
ovvero che si assoggettano, coscientemente o meno, a tali princìpi.

Il non-conoscitore è portato a onorare come devatå ciò stesso


20

in cui il suo intelletto ripone il concetto di realtà o divinità. Quale il


dio venerato, tale il frutto acquisito; quale l’identificazione, tale l’e-
sperienza procurata in questa e nella successiva esistenza. Cfr. an-
che Bha. Gı. 7.23.

Così commenta Ånandagiri: “Quelli che manifestano la loro


21

devozione a Me, cioè al Signore, anche in forme inferiori, per esem-


pio assolvendo ai propri obblighi di ordine sociale o rispettando i
doveri inerenti allo stadio di vita, proprio grazie a quella stessa de-
vozione di sommo rango ottengono gradualmente la perfetta puri-
ficazione mentale (sattvaŸuddhi). Così essi sono in Me nel senso che
la loro mente, così purificata, diviene idonea per accogliere la con-
sapevolezza della Mia esistenza, ed è ben noto che Io accordo loro
ogni benevolenza. Come la luce del sole che, sebbene illumini ogni
oggetto, viene riflessa perfettamente solo in uno specchio nitido,
allo stesso modo anche il supremo Signore si palesa in maniera im-
mediata solo in quegli esseri umani la cui mente, benché dapprima
pregna di contenuti immondi, è divenuta perfettamente pura attra-
verso la devozione, ecc.”.
22
Cfr. Ma. Bhå. 14.19.61.

La condizione umana è la sola idonea per intraprendere il


23

percorso realizzativo verso la liberazione trattandosi di una condi-


zione mediana, di equilibrio ed equidistanza dalle condizioni supe-
rumane o divine (deva) e da quelle subumane o inferiori (asura,
ecc.). Solo da questa condizione di centralità si può operare il di-
stacco e rendersi liberi dai vincoli esistenziali.
Nono Adhyåya 407

24
Per quanto concerne le espressioni ‘devoto a Me’ (madbhakta),
‘con Me come supremo’ (matpara) e ‘con Me come supremo obietti-
vo’ (matparåya√a), cfr. Bha. Gı. 2.61, 6.14, 11.55, 12.6, 20 e 18.65.

*
Decimo Adhyåya
(Lo yoga della manifestazione sovrana)

Nel Settimo e anche nel Nono Adhyåya è stata dilucidata la


natura essenziale (tattva) del Signore unitamente alle manife-
stazioni del suo potere espressivo (vibh¥ti). Ordunque, quali
che siano le forme in cui Bhagavat può essere concepito, quelle
forme si procede a enunciare. [Inoltre], sebbene sia stata [già]
esposta, anche la reale natura propria che Bhagavat possiede
di per sé deve essere [nuovamente] enunciata essendo assai dif-
ficile da conoscere distintamente, per cui Bhagavat parlò così.

Ârı Bhagavat disse:

10.1. Ancora una volta, o Mahåbåhu, ascolta la mia supre-


ma parola che Io rivelerò a te, che di essa ti compiaci, per il tuo
bene.

“Ancora una volta”, di nuovo, “o Mahåbåhu, ascolta la mia


suprema parola”, la mia propria eccelsa espressione rivelatri-
ce della realtà senza superiore, suprema [parola] “che (Io)”
pertanto “rivelerò a te, che di essa ti compiaci” – a te che ti
compiaci assai della mia parola come se [nell’ascoltarla] libas-
si nettare d’immortalità – “per il tuo bene”, per desiderio del
tuo bene.
Perché [Bhagavat dice]: ‘Io [ti] parlerò...’?
[Perché la natura di Bhagavat è difficilmente afferrabile]
per cui Egli disse:
410 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 10.2

10.2. Le legioni degli esseri divini non sanno la mia maestà,


né [la sanno] i grandi Saggi, perché Io sono comunque il princi-
pio dei deva e dei ÿ≤i.

“Le legioni degli esseri divini” (suraga√a), a cominciare da


Brahmå, non sanno”, non conoscono...
Che cosa non sanno?
“...la mia maestà”, lo splendore, l’assoluta eminenza del
potere del Signore; oppure [il termine] ‘maestà’ (prabhava)
sta per [l’atto di] ‘origine’ (prabhavana), cioè la [mia] venuta
all’essere (utpatti); “né”, neppure [la] sanno “i grandi Saggi”, a
cominciare da Bhÿgu.
Per quale ragione essi non [la] conoscono?
Si dice: “...perché”, per il motivo che “Io sono comunque”,
in ogni modo, “il principio”, la causa [stessa] “dei deva e dei”
grandi “ÿ≤i”.
E inoltre,

10.3. Colui che conosce Me come il Non-nato, il Senza-prin-


cipio e il grande Signore dei mondi, quegli, tra i mortali non
soggetto alla illusione, è affrancato da tutti i vizi.

“Colui (che conosce Me) come il Non-nato, il Senza princi-


pio...”, ecc.: poiché Io sono il principio dei deva e dei grandi
ÿ≤i, non vi è un altro [essere che possa considerarsi come un]
principio in relazione a Me, per cui Io sono non-nato (aja) e
senza-principio (anådi). La natura priva di principio costitui-
sce la causa in relazione all’essere privo di nascita e “Colui
che conosce”, che ha realizzato tale [Essere, cioè] “Me come il
Non-nato, il Senza-principio e il grande Signore dei mondi”, il
grande Signore degli universi, come il Quarto (turıya), “que-
gli”, esente dalla ignoranza e dai suoi effetti, “tra i mortali”,
tra gli uomini “non soggetto alla illusione”, libero da ogni of-
fuscamento mentale, “è affrancato”, cioè si libererà “da tutti i
10.5 Decimo Adhyåya 411

vizi”, da tutti gli errori commessi sia intenzionalmente che in


modo inconsapevole.
Io sono il grande Signore (maheŸvara) dei mondi anche
per questo [ulteriore motivo]:

10.4. L’intuizione, la conoscenza, l’essere immune dall’of-


fuscamento mentale, la pazienza, la veracità, l’autodominio, la
calma interiore, la gioia, il dolore, l’esistenza e la non-esistenza,
il timore e la stessa assenza di timore,...

“L’intuizione” (buddhi) è la capacità dell’organo interno


(la mente) di comprendere gli argomenti [più] sottili, ecc.: in-
fatti dicono che colui, che ne è dotato, possiede intuizione; “la
conoscenza” (jñåna) è la comprensione di concetti quali l’å-
tman e altri; “l’essere immune dall’offuscamento mentale” (a-
saæmoha) è l’attività, preceduta dalla discriminazione, [effet-
tuata] in riferimento alle cose che si presentano all’improvvi-
so e che devono essere considerate [nella loro natura]; “la pa-
zienza” (k≤amå) è la condizione di assenza di reazione della
mente di colui che viene assalito [fisicamente] o colpito da in-
giuria; “la veracità” (satya): si dice veracità la espressione che
viene pronunciata proprio e soltanto allo scopo di imprimere
nel pensiero di altri la propria esperienza in merito a qualcosa
così come è stato visto e così come è stato udito; “l’autodomi-
nio” (dama) è la pacificazione degli organi sensoriali esterni;
“la calma interiore” (Ÿama) è la pacificazione dell’organo in-
terno; “la gioia” (sukha) è il piacere, “il dolore” (du¢kha) è la
sofferenza; “l’esistenza” (bhava) è la venuta all’essere, “la
non-esistenza” (abhava) è ciò che le è opposto; “il timore”
(bhaya) è l’inquietudine “e la stessa assenza di timore” (abha-
ya) è ciò che le è opposto.

10.5. ...l’inoffensività, l’equanimità, la soddisfazione, l’au-


sterità, la generosità, la fama e l’infamia: esse sono le predi -
412 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 10.5

sposizioni diversificate degli esseri quali provengono da Me


soltanto.

“...l’inoffensività” (ahiæså) consiste nel non nuocere agli


esseri viventi, “l’equanimità” (samatå) è la condizione in cui
la mente è equanime [verso tutto e tutti], “la soddisfazione”
(tu≤†i) è il contentamento, l’idea di [aver raggiunto] un’acqui-
sizione completa in relazione agli [oggetti] ottenuti, “l’auste-
rità” (tapas) è il tormento inflitto al corpo quando è preceduto
dal completo controllo dei sensi, “la generosità” (dåna) è la
completa distribuzione [dei propri beni agli altri] per quanto
possibile, “la fama” (yaŸas) è la rinomanza [di sé] dovuta [alla
propria conformità] al dharma, mentre “l’infamia” (ayaŸas) è
il disonore determinato [dalla propria deviazione] dal dha-
rma; “esse”, così come sono state elencate cominciando dal-
l’intuizione, ecc. “sono le predisposizioni diversificate”, molti-
plicate corrispondentemente al proprio agire [di ciascuno]
“degli esseri”, cioè degli esseri viventi, “quali provengono da
Me soltanto”, ossia da ÙŸvara.
E inoltre,

10.6. I sette grandi Saggi, come anche i quattro antichi Manu,


[consustanziati] della Mia [stessa] natura, sono stati generati
dalla [mia] mente: di loro sono queste creature nel mondo.

“I sette grandi Saggi”, quali Bhÿgu e gli altri, “come anche i


quattro antichi Manu”, loro congiunti nei tempi remoti, ben noti
come Såvar√a [Manu], “[consustanziati] della Mia [stessa] natu-
ra...”, cioè con la loro consapevolezza risolta in Me, essi furono
[tutti] dotati del potere intrinseco a Vi≤√u; ed essi “...sono stati
generati dalla [mia] mente”, cioè sono sorti all’esistenza, sono
stati prodotti soltanto dalla [mia] mente: “di loro”, cioè dei
Manu e dei grandi Saggi, “sono queste creature”, che consistono
di enti mobili e immobili, “nel mondo” della manifestazione.
10.8 Decimo Adhyåya 413

10.7. Colui, il quale realmente conosce questa manifestazio-


ne sovrana e il mio yoga, costui viene a essere dotato di uno
yoga che non vacilla: su ciò non vi è dubbio.

“Colui il quale conosce realmente”, nella sua essenza, os-


sia così come è, ciò, “questa manifestazione sovrana” quale è
stata descritta, cioè la [mia vera] estensione [in quanto Essere
infinito] “e il mio yoga...”, il compimento, l’effettuazione della
stessa, ossia lo yoga quale appartiene intrinsecamente a Me –
oppure si definisce yoga ciò che viene a generarsi attraverso
lo yoga, come l’onniscienza quale capacità propria dello yoga
del Signore – “...costui viene a essere dotato”, diviene fornito
“di uno yoga che non vacilla”, che non è instabile, consistente
nella fissità nell’autentica conoscenza: “su ciò”, relativamente
a questo significato, “non vi è dubbio”, non esiste incertezza.
Di quale specie di yoga che non vacilla viene a essere do-
tato?
Si dice:

10.8. Io sono l’origine di tutto; da Me tutto procede: così com-


prendendo, onorano Me i sapienti, perfettamente dotati di con-
centrazione.

“Io”, il supremo Brahman chiamato Våsudeva, “sono l’origi-


ne”, la sorgente “di tutto” l’universo; “da Me” soltanto “tutto”
l’universo, dalla natura di [una continua] attività modificante
e consistente nella [venuta in] esistenza e nella distruzione,
nell’azione, nel [suo] frutto e nella fruizione [di questo], “pro-
cede: così”, in tal modo “comprendendo, onorano”, rendono
omaggio a “Me i sapienti”, dai quali è stata compresa l’essenza
della realtà suprema, “perfettamente dotati di concentrazione”;
la concentrazione indica la contemplazione, la profonda iden-
tificazione con la realtà suprema, vale a dire: perfettamente
dotati di ciò, ossia completamente assorti [in essa].
414 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 10.9

E inoltre,

10.9. Con la mente [assorbita] in Me, con i prå√a fatti con-


fluire in Me, istruendosi reciprocamente e continuamente par-
lando di Me, essi sono appagati e gioiscono.

“Con la mente [assorbita] in Me...”: hanno la mente [as-


sorbita] in Me (maccitta) coloro la cui mente (consapevolezza)
è [sempre assorbita] in Me; “con i prå√a fatti confluire in Me”:
hanno fatto confluire i prå√a in Me (madgataprå√a) coloro i
cui prå√a, quali [quelli che attivano] la [funzione della] vista
e le altre [facoltà sensoriali], sono stati raccolti e portati a con-
vergere [solo] verso di Me, vale a dire [coloro dei quali] gli
organi sensoriali sono stati riassorbiti in Me; oppure [l’espres-
sione] ‘con i prå√a fatti confluire in Me’ sta a significare ciò:
le cui esistenze vitali (jıvana) sono dedicate [interamente] a
Me; “istruendosi reciprocamente”, cioè stimolandosi l’un l’al-
tro a comprendere, “e continuamente parlando di Me” in quan-
to qualificato da proprietà peculiari quali la conoscenza, la
potenza, il vigore, ecc., “essi sono appagati”, cioè trovano un
completo appagamento, “e gioiscono”, sperimentano la felici-
tà come [l’amante] in compagnia dell’amato.
Coloro i quali, essendomi devoti, Mi onorano nelle moda-
lità quali sono state esposte,

10.10. A loro, [che sono] costantemente unificati [a Me] e


che [Mi] onorano avendo maturato l’amore [nei miei confronti],
dono quel contatto con l’intuizione tramite cui essi possono tro-
vare Me.

“A loro, costantemente unificati”, sempre intenti [a medi-


tare su di Me], “e che [Mi] onorano”, [Mi] rendono omaggio
essendo receduti da qualsiasi volizione esteriore...
Forse [Mi onorano] per ottenere qualcosa, o per altro?
10.11 Decimo Adhyåya 415

[Bhagavat] dice: no, [ma solo] “avendo maturato l’amore


[nei miei confronti]”. L’amore (prıti) è il profondo affetto, vale
a dire: a quelli che Mi onorano avendo acquisito tale [affetto],
“dono”, concedo “quel contatto con l’intuizione...”. L’intuizio-
ne (buddhi) è l’autentica conoscenza (samyagdarŸana) avente
per oggetto la mia reale essenza; il contatto (yoga) con essa è
il contatto con l’intuizione (buddhiyoga). Dunque, [concedo
loro] “quel contatto con l’intuizione tramite cui”, per mezzo
del quale contatto con l’intuizione “(essi) possono trovare Me”,
il supremo Signore che è l’åtman [stesso], cioè possono rea-
lizzarmi come [il loro stesso] åtman.
Chi sono costoro?
Quelli che Mi onorano con tali modalità quali l’avere la
mente [sempre assorbita] in Me, ecc.
Obiezione: A che scopo [doni loro il contatto con l’intui-
zione]? Ovvero: qual è la causa di impedimento nel realizzare
Te, che il contatto con l’intuizione, quale concedi a coloro che
Ti sono devoti, è in grado di distruggere?
Risposta: In riferimento a ciò [Bhagavat] dice:

10.11. Per compassione nei confronti di loro stessi, Io distrug-


go la tenebra generata dalla ignoranza, stabilito nella [loro] me-
ditazione sull’åtman, con la fiamma radiosa della conoscenza.

“(Per compassione) nei confronti di loro stessi”, [cioè pen-


sando] ‘in che modo possa aversi con certezza [per loro] il
[conseguimento del] Bene per eccellenza’ (la liberazione): in
tale sentimento di compassione, dunque a motivo della com-
prensione [verso di loro], “Io distruggo la tenebra generata
dalla ignoranza”, prodotta dall’assenza di discriminazione, con-
sistente in contenuti illusori e produttrice [a sua volta] di cie-
co ottundimento, [venendo Io a essere] “stabilito nella [loro]
meditazione sull’åtman...”: la meditazione concernente l’åtman
416 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 10.11

è il luogo (e il mezzo) di soluzione dell’organo interno; dun-


que, essendo [Io] stabilito in quella stessa – “...con la fiamma
(radiosa) della conoscenza”, che, per natura, è essenziata di
discriminazione, è aspersa con l’unguento della grazia proce-
dente dalla devozione, è gonfiata dal vento della identificazio-
ne della consapevolezza a Me, è stimolata dalla coscienza al
pari di un mezzo di purificazione come il brahmacarya o altri,
è sostenuta da un organo interno completamente distaccato
[dalla esperienza ordinaria] ed è situata nel ricettacolo interio-
re, [reso] immune dalle folate di attaccamento e avversione,
di una mente liberata dagli oggetti; vale a dire: con la fiamma
della conoscenza che è “radiosa” dell’autentica consapevolez-
za quale scaturisce dalla meditazione concentrata quando vie-
ne costantemente praticata.
Dopo aver ascoltato circa la manifestazione sovrana del
Signore quale è stata enunciata e il [suo] potere, Arjuna parlò.

Arjuna disse:

10.12. Il supremo Brahman, il sublime splendore, il sommo


purificatore sei Tu; il Puru≤a perenne, il Divino, il Deva primor-
diale, il Non-nato, l’Onnipervadente:

“Il supremo Brahman”, cioè il supremo åtman, “il sublime


splendore”, cioè il più alto fulgore, “il sommo Purificatore”, il
Purificatore eccelso, “sei Tu; il Puru≤a perenne”, ossia eterno,
“il Divino”, l’Ente dimorante nel cielo, “il Deva primordiale”:
il Deva primordiale è l’Ente all’origine di tutti i deva, “il Non-
nato, l’Onnipervadente...”, Colui che possiede la facoltà di es-
sere dappertutto: di questa natura...

10.13. ...proclamano Te tutti i Saggi, e ugualmente [afferma-


no] il divino veggente Nårada, Asita e [anche] Devala e [ancora
in questo modo afferma pure] Vyåsa, e Tu stesso me lo dichiarasti.
10.16 Decimo Adhyåya 417

“...proclamano”, recitano di “Te tutti i saggi” a cominciare


da Vasi≤†ha, “e ugualmente [affermano] il divino veggente
Nårada, Asita e” anche “Devala e” ancora in questo modo af-
ferma pure “Vyåsa, e Tu stesso me lo dichiarasti”.

10.14. Tutto questo che mi dici, o KeŸava, penso che sia real-
tà. Invero non conoscono la tua manifestazione, o Venerabile,
[né] i deva né i dånava (asura).

“Tutto questo”, così come è stato proclamato dai saggi su di


Te, e questo “che mi dici”, che esponi [Tu] direttamente, “o KeŸa-
va, penso che sia realtà”, soltanto verità. “Invero, non conoscono
la tua manifestazione”, [la manifestazione che è soltanto] di Te,
“o Venerabile”, né “i deva né i dånava” (asura dimoranti in cielo).
Poiché Tu sei il Principio dei deva, ecc., pertanto

10.15. Da Te soltanto, attraverso Te stesso, Tu conosci Te


stesso, o Puru≤ottama, o sorgente degli esseri, o Signore degli es-
seri, o Dio dei deva, o sovrano dell’universo:

“Da Te soltanto, attraverso Te stesso, Tu conosci”, realizzi


“Te stesso” quale Signore (ÙŸvara) dotato di insuperabile cono-
scenza e di poteri quali la divina sovranità, la forza e gli altri 1,
“o Puru≤ottama, o sorgente degli esseri” – la sorgente degli
esseri (bh¥tabhåvana) è ciò che porta in esistenza [tutti] gli
esseri – “o Signore degli esseri”, o Governatore (ıŸitÿ) degli es-
seri, “o Dio dei deva, o sovrano dell’universo”:

10.16. ...degnati di rivelare, invero senza riserve, le [tue] pro-


prie divine manifestazioni, tramite le quali manifestazioni Tu,
avendo pervaso questi mondi, vi risiedi.

“...degnati di rivelare”, di esporre, “invero senza riserve, le


[tue] proprie divine manifestazioni...” – cioè: degnati di rive-
418 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 10.16

lare quelle che sono le [tue] manifestazioni in quanto åtman


– “...tramite le quali manifestazioni” dell’åtman, infinitamente
estese nella [loro] grandezza, “Tu, avendo pervaso questi
mondi, vi risiedi”.

10.17. In che modo posso io conoscere Te, o Yogin, meditando


profondamente con continuità? In quali e quali [altri] aspetti
posso concepirti, o Venerabile?

“In che modo posso io conoscere”, realizzare distintamen-


te “Te, o Yogin, meditando profondamente con continuità? In
quali e quali [altri] aspetti”, o forme-entità (vastu), “posso
concepirti”, puoi divenire per me oggetto di meditazione, “o
Venerabile?”.

10.18. Parlami ancora estesamente del [tuo] proprio potere e


della [tua] manifestazione sovrana, o Janårdana, perché non vi
è sazietà per me che ascolto circa l’immortalità.

“Parlami ancora estesamente del tuo proprio potere”, qua-


lificato come potere yoga del Signore, “e della [tua] manifesta-
zione sovrana” [pervasiva della totalità] delle categorie degli
oggetti di meditazione2, nonostante che ciò sia stato già espo-
sto in precedenza, “o Janårdana...” – [si ha per Kÿ≤√a l’appella-
tivo] Janårdana perché per [sua] natura disperde (ardati) [gli
Asura], cioè per la sua facoltà di assegnare una sede a esseri
(jana) quali gli Asura, che costituiscono gli antagonisti dei
Deva, dunque per il motivo che è colui che li precipita negli
inferi, ecc.; oppure perché viene supplicato da tutte le genti al
fine di ottenere la prosperità terrena o il sommo Bene (la libe-
razione) quale fine [ultimo] per l’essere umano – “...perché”,
per il motivo che “non vi è sazietà per me”, non c’è [ancora]
completo appagamento per me “che ascolto circa l’immortali-
tà” nella espressione che scaturisce dalla tua bocca.
10.20 Decimo Adhyåya 419

Ârı Bhagavat disse:

10.19. Orbene, ti esporrò, invero, le [mie] proprie divine ma-


nifestazioni sommariamente, o migliore tra i Kuru, [perché]
non vi è limite alla mia vastità.

“Orbene”, adesso “ti esporrò le mie proprie divine mani-


festazioni”, cioè [esporrò] a te quelle che sono le manifesta-
zioni sovrane di me stesso, ossia gli aspetti esistenziali (bha-
va) in relazione al cielo, “sommariamente”; cioè Io [ti] espor-
rò sommariamente la principale, cioè quella che, di volta in
volta, è la [mia] manifestazione sovrana principale, “o mi-
gliore tra i Kuru”: in verità, non è possibile enunciarle nella
loro totalità nemmeno in un centinaio di anni, perché “non
vi è limite alla mia vastità”, vale a dire per le mie manifesta-
zioni.
A tale riguardo, ascolta innanzitutto [quella che è] la pri-
ma in assoluto:

10.20. Io sono l’åtman, o GuƒåkeŸa, stabilito nel ricettacolo


di ogni essere; Io soltanto sono il principio, l’intermedio e la fine
degli esseri.

“Io sono l’åtman”, l’intimo åtman, “o GuƒåkeŸa...” – il son-


no (nidrå) è il torpore mentale (guƒåkå): [l’appellativo] Guƒå-
keŸa designa il Signore di quello [stato], cioè colui che ha
soggiogato il sonno, oppure ‘colui dalla folta chioma’ (ghana-
keŸa) – “...stabilito nel ricettacolo di ogni essere”: Io sono l’å-
tman stabilito nel ricettacolo (åŸaya), cioè nell’intimo cuore
[spirituale] di tutti gli esseri, l’intimo åtman che deve essere
costantemente meditato. Qualora vi sia incapacità in ciò [os-
sia nel praticare tale meditazione diretta sull’åtman], Io devo
essere meditato nelle forme esistenziali successive, perché “Io
soltanto sono il principio”, cioè la causa, e similmente “l’in-
420 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 10.20

termedio”, il sussistere, “e la fine”, la dissoluzione “degli esse-


ri”, e così Io devo essere meditato.

10.21. Fra gli Åditya Io [sono] Vi≤√u, dei luminari [sono]


Ravi il raggiante (il sole), tra i Marut sono Marıci, degli astri Io
[sono] ÂaŸı (la luna).

“Fra” i dodici “Åditya (i figli di Aditi, madre dei deva) Io


[sono]” Åditya, denominato “Vi≤√u, dei luminari” rifulgenti
“[sono] Ravi, il [sole] raggiante”, radioso; “tra i Marut”, cioè
tra le diverse divinità dei Marut, “sono Marıci, degli astri Io
[sono] ÂaŸı”, la luna.

10.22. Dei Veda sono il Såma Veda, dei deva sono Våsava
(Indra) e dei sensi sono la mente, degli esseri sono la coscien-
za.

Nel gruppo “Dei Veda sono il Såma Veda, dei deva” quali
Rudra, Åditya e gli altri “sono Våsava”, cioè Indra, “e dei sensi”,
che sono undici a cominciare dalla facoltà visiva, ecc., “sono
la mente”, sono la facoltà mentale (manas) costituita da idea-
zione e dubbio, “degli esseri sono la coscienza”, la coscienza
(cetanå) costantemente manifestantesi come la funzione del-
l’intelletto nell’aggregato di corpo e sensi.

10.23. Dei Rudra sono Âa§kara (Âiva) e degli Yak≤a e dei


Råk≤asa [sono] VitteŸa, dei Vasu sono Påvaka e delle montagne
Io [sono] il [monte] Meru.

Inoltre, “Dei Rudra”, che sono undici, “sono Âa§kara (il


Benevolo, o Âiva, il Distruttore) e degli Yak≤a e dei Råk≤asa”,
cioè sia tra gli Yak≤a (benevoli esseri semidivini) che tra i Rå-
k≤asa (spiriti malvagi), “[sono] VitteŸa” (il Signore della ric-
chezza), cioè Kubera, mentre “dei Vasu”, che sono otto, “sono
10.26 Decimo Adhyåya 421

Påvaka”, cioè Agni (il Fuoco), “e delle montagne” svettanti “Io


[sono] il [monte] Meru”3.

10.24. E dei Purodhas considera Me il principale, o Pårtha,


cioè Bÿhaspati; dei condottieri Io [sono] Skanda, dei mari sono
Sågara (l’oceano).

“E dei Purodhas”4 come anche dei regali Purohita “conside-


ra Me il principale”, sappi che sono il preminente, “o Pårtha,
cioè Bÿhaspati”, perché egli è il principale Purodhas di Indra;
“dei condottieri”, cioè dei signori dei condottieri, “Io sono
Skanda”, il Signore dei condottieri divini (deva delle battaglie);
“dei mari...” – quei mari che sono le divine riserve d’acqua –
per quei mari “sono”, rappresento “l’oceano”.

10.25. Dei grandi saggi Io [sono] Bhÿgu; delle invocazioni


sono il monosillabo (om); dei sacrifici sono l’offerta del japa;
delle cose immobili [sono] l’Himålaya.

“Dei grandi saggi Io [sono] Bhÿgu (uno dei progenitori


della stirpe umana, v. 10.6); delle invocazioni”, costituite di
parti (quarti) di parole, “sono il monosillabo” (om); “dei sacri-
fici sono l’offerta del japa (ripetizione sommessa); delle cose
immobili sono l’Himålaya”.

10.26. Di tutti gli alberi [sono] l’AŸvattha e dei Saggi divini


[sono] Nårada, dei Gandharva [sono] Citraratha, dei Perfetti
[sono] il muni Kapila.

“Di tutti gli alberi [sono] l’AŸvattha5 e dei Saggi divini


[sono] Nårada”. I Saggi divini (devar≤i) sono coloro i quali,
pur essendo certamente dei deva, hanno conseguito la saggez-
za (ÿ≤itva) in virtù della loro comprensione dei mantra: tra
loro sono Nårada; “dei Gandharva (cantori celesti semidivini)”,
422 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 10.26

sono il gandharva denominato “Citraratha, dei Perfetti” (si-


ddha), [di coloro] che già sin dalla nascita hanno conseguito
un’assoluta eminenza relativamente al dharma, alla conoscen-
za, al distacco e alla natura divina, “[sono] il muni Kapila”6.

10.27. Dei cavalli considera Me come l’Uccai¢Ÿravas, sorto


dall’ambrosia, degli elefanti regali [considera Me] come l’Airå-
vata e degli individui come il Sovrano degli uomini.

“Dei cavalli considera”, riconosci “Me come l’Uccai¢Ÿravas”,


quello che è il regale cavallo denominato Uccai¢Ÿravas (Colui
dal possente nitrito: il cavallo di Indra), “sorto dall’ambrosia”,
cioè sorto dal rimescolamento [dell’oceano primordiale] per
trarne l’ambrosia (amÿta), “degli elefanti regali” considera Me
– [tale voce verbale sottintesa] segue [dalla parte precedente]
– “come l’Airåvata”, cioè quello che è l’elefante dei Signori
(ıŸvara) appartenente alla stirpe di Iråvat (Colui che è nato
dall’oceano: l’elefante di Indra), “e degli individui”, cioè degli
esseri umani, considera, conosci Me “come il Sovrano degli
uomini” (narådhipa), il [loro] re.

10.28. Delle armi Io [sono] la folgore, delle vacche sono Kå-


madhuk e sono anche Kandarpa, Colui che genera, [mentre] dei
serpenti sono Våsuki.

“Delle armi Io [sono] la folgore”, scaturita dalle ossa di


Dadhıci, “delle vacche”, delle mucche da latte “sono Kåma-
dhuk”, [la mucca] di Våsi≤†ha cioè Colei che esaudisce tutti i
desideri, oppure [l’appellativo kåmadhuk, ‘colei che offre il
desiderato’, designa] in generale qualsiasi mucca da latte, “e
sono anche Kandarpa, Colui che genera”, cioè il Progenitore
[primordiale], ossia il desiderio (kåma), mentre “dei serpen-
ti”, cioè delle differenti specie di serpenti, “sono Våsuki”, il
re dei serpenti.
10.31 Decimo Adhyåya 423

10.29. E ancora, dei Någa sono Ananta, degli esseri acquatici


Io [sono] Varu√a, mentre degli Avi sono Aryaman e dei gover-
natori Io [sono] Yama.

“E ancora, dei Någa, sono Ananta”, cioè fra [tutte] le specie


di serpenti sono il re dei serpenti (l’Infinito-Ananta è il serpente
su cui giace Vi≤√u prima della creazione); “degli esseri acquatici
Io [sono] Varu√a”, cioè Io [sono] il re delle divinità acquatiche;
“mentre degli Avi sono” il re dei Pitÿ denominato “Aryaman e
dei governatori”, cioè di coloro che operano il controllo [su tutti
gli esseri] “Io [sono] Yama (il deva della Morte)”.

10.30. Dei [dèmoni] Daitya sono Prahlåda, per i calcolatori


[del tempo] Io [sono] il Tempo, mentre degli animali Io [sono] il
re delle bestie e degli uccelli [sono] Vainateya.

“Dei Daitya”, degli appartenenti alla stirpe di Diti, “sono”


quello denominato “Prahlåda, per i calcolatori [del tempo]”,
cioè per coloro che effettuano calcoli, che svolgono conti [sul
succedersi degli istanti, degli eventi, ecc.], “Io [sono] il Tem-
po, mentre degli animali Io [sono] il re delle bestie” (mÿge-
ndra), cioè il leone o la tigre, “e degli uccelli”, ossia fra [tutti] i
volatili, “[sono] Vainateya”, cioè Vinatåsuta (Garuƒa), l’Alato
(la simbolica aquila veicolo di Vi≤√u).

10.31. Dei soffi sono il vento, dei guerrieri armati Io [sono]


Råma, mentre fra gli esseri acquatici sono Makara e dei fiumi
sono la figlia di Jahnu.

“Dei soffi”, dei purificatori, “sono il vento”, cioè Våyu, “dei


guerrieri armati Io [sono] Råma”, cioè di coloro che imbrac-
ciano armi, Io [sono] Råma (il mitico re eroe del Råmåya√a, o
la settima incarnazione di Vi≤√u), il figlio di DaŸaratha, “men-
tre fra gli esseri acquatici...”, cioè tra i pesci, ecc., Io mi distin-
424 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 10.31

guo per nascita con il nome di “...Makara (simbolico pesce vei-


colo di Varu√a), e dei fiumi”, delle acque che scorrono “sono”
la Ga§gå (il Gange), “la figlia di Jahnu”.

10.32. Delle creazioni Io [sono] il principio e la fine e lo stes-


so intermedio, o Arjuna, delle conoscenze [sono] la conoscenza
dell’åtman supremo, per coloro che speculano Io [sono] la dot-
trina risolutiva.

“Delle creazioni”, delle manifestazioni “Io [sono] il princi-


pio e la fine e lo stesso intermedio”, cioè Io [sono] la venuta
all’esistenza, la conservazione e la dissoluzione “o Arjuna”.
Inizialmente (Bha. Gı. 10.20) è stato detto che [Io sono] il prin-
cipio, la fine, ecc. per [tutti] gli stessi esseri governati, ecc.,
mentre qui [vengo definito il principio, ecc.] proprio per la
totalità della stessa creazione.
“Delle conoscenze” (vidyå) sono “la conoscenza dell’åtman
supremo” (adhyåtmavidyå), che è la [conoscenza] preminente
in quanto concerne la liberazione; infine, “per coloro che spe-
culano Io” sono “la dottrina risolutiva” (våda), che è quella
preponderante in quanto è il mezzo di accertamento definiti-
vo di un significato. Qui [l’espressione] “per coloro che spe-
culano” (pravadatåm) è comprensiva di tutte le differenti spe-
cie di argomentazioni [prodotte] a opera del disputante, quali
il våda, il jalpa e la vita√ƒå7.

10.33. Delle sillabe sono la lettera a e di [tutto] ciò che concerne


le parole composte [sono] il dvandva; ancora Io [sono] il Tempo
inesauribile, [sempre] Io [sono] il Dispensatore rivolto ovunque.

“Delle sillabe”, cioè delle [singole] classi [alfabetiche], “so-


no la lettera a”, la classe [relativa], “e di [tutto] ciò che con-
cerne le parole composte”, cioè in relazione alla famiglia dei
termini compositi, sono “il” composto (samåsa) [denominato]
10.34 Decimo Adhyåya 425

“dvandva” (coppia). E inoltre “ancora Io [sono] il Tempo”


(kåla) ben noto come “inesauribile”, esente da distruzione e
definito a cominciare dall’infinitesimo istante temporale; op-
pure [sono] il supremo Signore in quanto Colui che determi-
na (kåla) il tempo stesso; “[sempre] Io [sono] il Dispensatore”
del frutto dell’agire, Colui che lo assegna variamente e che è
“rivolto ovunque”, ossia che guarda da ogni parte [nel confe-
rimento del frutto delle azioni a ciascun essere].

10.34. Io [sono] anche la morte, ghermitrice di tutto, e lo svi-


luppo per coloro che diverranno [prosperi]. Delle doti femminili
[sono] la Gloria, la Bellezza dignitosa, la Favella, la Memoria,
l’Intelligenza, la Costanza, la Pazienza.

La morte (mÿtyu) è di due specie: una che ghermisce la


ricchezza, ecc., un’altra che ghermisce la vita; tra loro quella
che ghermisce la vita viene detta “ghermitrice di tutto” (sa-
rvahara): vale a dire che sono quella. Oppure Io [sono] quello
che è “il ghermitore di tutto”, ossia il supremo Signore, per
via del [suo] riassorbire la totalità alla dissoluzione universa-
le; “e lo sviluppo...”, l’accrescimento, la prosperità, ovvero il
mezzo per il suo raggiungimento...
Per quali [esseri]?
“...per coloro che diverranno”, cioè per coloro che diverranno
prosperi, vale a dire idonei a conseguire uno stato di floridità.
“Delle doti femminili [sono] la Gloria, la Bellezza dignito-
sa, la Favella, la Memoria, l’Intelligenza, la Costanza, la Pa-
zienza”, ossia queste che per le donne sono le [qualità] più
alte, quand’anche in possesso della sola parvenza delle quali
chiunque [tra le donne] si ritiene del tutto appagata.

10.35. Similmente, degli Inni [sono] il Bÿhatsåman, dei metri


Io [sono] la Gåyatrı, dei mesi Io [sono] il MårgaŸır≤a, delle sta-
gioni quella che abbonda di fioriture.
426 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 10.35

“Similmente, degli inni [del Såma Veda]” (såman) sono “il


Bÿhatsåman”, il principale, “dei metri (chandas) Io [sono] la
Gåyatrı”, vale a dire: dei versi sacri (ÿc) contraddistinti da me-
tri quali la [forma chiamata] gåyatrı e altri, Io sono il verso
sacro che è la Gåyatrı (Í. Ve. 3.62.10)8; “dei mesi Io [sono] il
MårgaŸır≤a (il mese tra ottobre e novembre incentrato sul ple-
nilunio autunnale), delle stagioni quella che abbonda di fiori-
ture”, la primavera.

10.36. Sono l’astuzia degli ingannatori, Io [sono] lo splendo-


re dei magnifici, sono la vittoria, sono la determinazione, Io
[sono] la bontà dei buoni.

“Sono l’astuzia”, quale quella concernente il gioco d’azzar-


do, ecc., “degli ingannatori”, di coloro che tramano raggiri, “Io
[sono] lo splendore dei magnifici, sono la vittoria” dei trionfa-
tori, “sono la determinazione” dei risoluti, “Io [sono] la bontà
dei buoni”, dei puri.

10.37. Dei Vÿ≤√i sono Våsudeva, dei På√ƒava [sono] Dha-


nañjaya, dei muni Io [sono] Vyåsa stesso, dei poeti [sono] il
vate UŸanå.

“Dei Vÿ≤√i”, cioè dei discendenti di Yadu, “sono Våsudeva”,


ossia: Io [sono] questi stesso (Kÿ≤√a) che è il tuo amico, “dei
På√ƒava [sono] Dhanañjaya (Arjuna)”, cioè tu stesso; “dei mu-
ni”, cioè di coloro che, conoscitori di tutte le categorie [dell’esi-
stente], sono assorti nella meditazione, “Io [sono] Vyåsa stesso
(mitico compilatore dei Veda, ecc.), dei poeti”, di coloro dalla
vasta visione, “sono il vate UŸanå (il precettore dei Daitya)”.

10.38. Dei dominatori sono lo scettro, l’accortezza sono di


coloro che vogliono vincere, mentre sono il silenzio stesso dei se-
greti, Io [sono] la conoscenza dei conoscitori.
10.40 Decimo Adhyåya 427

“Dei dominatori”, di coloro che, non sottomessi [da alcuno],


esercitano il potere, “sono lo scettro”, lo strumento di domi-
nio, “l’accortezza sono di coloro che vogliono vincere, mentre
sono il silenzio stesso dei segreti”, dei misteri; “Io [sono] la
conoscenza dei conoscitori”.

10.39. E anche ciò che è il seme di tutti gli enti, quello Io


[sono], o Arjuna. Non vi è alcun ente, mobile o immobile, che
possa esistere senza di Me.

“E anche ciò che è il seme di tutti gli enti”, la causa del [loro]
germogliare, “quello Io [sono], o Arjuna”. Onde riassumere il
Capitolo, [Bhagavat] enuncia la sintesi del [proprio] potere
espressivo: “Non vi è alcun ente, mobile o immobile”, cioè sia
mobile (conscio, vivente) che immobile (non-conscio, inerte), “che
possa esistere”, che possa essere, “senza di Me”. Infatti ciò che
da Me dovesse essere escluso, completamente abbandonato, ciò
risulterebbe insostanziale (privo di åtman), cioè un vuoto (Ÿ¥-
nya); quindi la totalità è essenziata da Me. Tale è il significato.

10.40. Non vi è un limite ai miei divini poteri espressivi, o


Paraætapa, ma questa estensione del [mio] potere espressivo è
stata da Me rivelata [soltanto] brevemente.

“Non vi è limite ai miei divini poteri espressivi” (vibh¥ti),


alle [mie] promanazioni, “o Paraætapa”: infatti nessuno può
descrivere o conoscere la intera vastità dei divini poteri espres-
sivi del Signore, dell’åtman della totalità; “ma questa estensio-
ne del [mio] potere espressivo è stata da Me rivelata [soltanto]
brevemente”, cioè [solo] in parte.

10.41. Qualsiasi ente manifesti possenza, esprima bellezza o


solamente vigore, sappi, tu, che quello stesso ha origine da una
particella del mio splendore.
428 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 10.41

“Qualsiasi ente”, [qualsiasi] cosa al mondo “manifesti pos-


senza”, sia dotato, cioè, di potere espressivo, “esprima bellezza”,
manifesti solenne grazia o effonda prosperità, “o solamente
vigore”, o possegga [solo] energia, “sappi, tu”, riconosci, tu,
“che quello stesso ha origine da una particella del mio splen-
dore”, cioè di ÙŸvara; ciò la cui origine è una particella, cioè
una singola parte dello splendore di ÙŸvara, è ciò che “ha ori-
gine da una particella del [suo] splendore”: questo tu devi sa-
pere. Tale è il significato.

10.42. Ovvero: quale vantaggio [verrebbe] a te, o Arjuna, da


tale sì vasta conoscenza? Sostenendo questo intero universo con
una [sola] parte [di Me], Io rimango stabile.

“Ovvero: quale vantaggio” verrebbe “a te, o Arjuna, da tale


sì vasta conoscenza...”, cioè di siffatta specie ma incompleta?
Ascolta, tu, questo significato completo che si va a esporre
[da parte mia]: “Sostenendo”, avendo creato singolarmente
un saldo supporto per “questo intero universo con una [sola]
parte [di Me]”, con un solo membro, con un solo piede, me-
diante [l’assumere] la natura propria di tutti gli esseri, “Io [ri-
mango] stabile”. In tal senso vi è anche il mantra: «Tutti gli
esseri sono un [solo] suo piede» (Í. Ve. 10.10.6).

Nelle Scritture yoga sulla conoscenza del Brahman


appartenenti alla Upani≤ad della sacra Bhagavadgıtå,
questo è il Decimo Capitolo
nel dialogo tra Kÿ≤√a e Arjuna
intitolato:
‘Lo yoga della manifestazione sovrana’

*
NOTE al Decimo Adhyåya

1
Il testo: svayamevåtmanåtmånaæ vettha tvam... contiene sia il
termine åtman, che, come noto, designa tanto il pronome imperso-
nale “sé”, o “sé stessi”, quanto “il Sé” – appunto “l’åtman” – che
l’indeclinabile svayam, avente il senso: “di per sé, da sé”. Tenendo
conto della voce verbale imperativa (vettha), un’altra lettura è: “Di
per sé soltanto, conosci l’åtman tramite l’åtman, Tu o Puru≤otta-
ma...”. Il senso, comunque, è: ‘Tu soltanto, o sommo Puru≤a, puoi
conoscere l’åtman – in quanto Te stesso – attraverso l’åtman – os-
sia attraverso Te stesso – perché la natura e il potere della cono -
scenza, ecc. appartengono a Te solamente’. Ovvero: ‘Tu, o Puru≤o-
ttama, da te soltanto, puoi conoscere Te stesso in quanto åtman at-
traverso Te stesso quale åtman’. Solo l’åtman, cioè il supremo Bra-
hman, può conoscere realmente Se stesso in quanto tale, proprio in
virtù dell’essere l’åtman della totalità. Il jıva, per poter conoscere
l’åtman, cioè realizzare il Brahman, deve diventare l’åtman, cioè as-
sorbirsi completamente in Quello fino a risolversi in Quello. La co-
noscenza tradizionale è conoscenza di identità e questa non si tra-
smuta in realizzazione se non diventa piena ed effettiva coscienza.
2
Nella consapevolezza che “tutto è il Brahman” – anche se il
Brahman è infinitamente più di tutto – e che ogni cosa ne è un par-
ticolare aspetto, qualunque ente può essere preso come simbolo e
fungere da supporto per la contemplazione indiretta di quella Real-
tà unica e trascendente da cui tutto promana. Dice la Âruti: «Tutto
questo è certamente il Brahman» (Chå. 3.14.1).
3
I Vasu sono esseri semidivini identificati con l’Acqua, la Stella
polare, la Luna, la Terra, il Vento, il Fuoco, l’Aurora e la Luce. Il
Meru è il mitico Monte fulcro di rotazione della terra e dimora dei
deva.
430 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

Il purodhas è il sacerdote eletto a capo di quelli nominati diret-


4

tamente dal re e preposti alle celebrazioni rituali ufficiali.

L’AŸvattha è il simbolico albero della esistenza, cioè del dive-


5

nire. V. 15.1 e segg.


6
È il compilatore del darŸana Såækhya.

Il våda, o “dottrina risolutiva”, è il procedimento argomenta-


7

tivo che consente di pervenire alla verità relativamente a una certa


questione. Il jalpa, o dibattito, è una “replica opposta”, ossia l’argo-
mentazione con la quale il disputante cerca di sostenere la propria
tesi e confutare quella avversaria con una ulteriore interrogazione
o fornendo una presunta risposta decisiva. La vita√ƒå, o “diatriba”,
è una replica contraria e fallace e consiste nel contestare sterilmen-
te le argomentazioni o le affermazioni contrarie senza però tentare
o essere in grado di dimostrare un’altra tesi.
8
Per la Gåyatrı, cfr. Bÿ. 5.14.1-7 e Chå. 3.12.

*
Undicesimo Adhyåya
(Lo yoga della visione della Forma universale)

Le manifestazioni espressive del potere del Signore sono


state enunciate e, in tale [contesto], udito quanto ha espressa-
mente dichiarato Bhagavat, ossia: «Sostenendo questo intero
universo con una [sola] parte [di Me], Io rimango stabile»
(Bha. Gı. 10.42), e desiderando sperimentare direttamente la
Forma primordiale di ÙŸvara con la quale [Bhagavat] consu-
stanziò l’universo, Arjuna disse:

Arjuna disse:

11.1. L’asserzione da Te proferita a mio beneficio, cioè il su-


premo segreto definito adhyåtman, da quella questo mio smar-
rimento è stato fugato.

“L’asserzione”, l’affermazione concernente la discrimina-


zione tra l’åtman e ciò che non è l’åtman, “da Te proferita a
mio beneficio”, allo scopo di concedermi la grazia, “cioè il su-
premo segreto” da serbare, senza nulla che lo trascende, “defi-
nito adhyåtman, da quella” asserzione “questo mio smarri-
mento è stato fugato”, vale a dire che la [falsa] cognizione do-
vuta all’assenza di discriminazione è stata rimossa.
E inoltre:

11.2. In verità l’apparire e lo sparire degli esseri sono stati


da parte mia uditi abbondantemente da Te, o Tu dagli occhi
432 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 11.2

come petalo di loto (Kamalapattråk≤a), come anche la [Tua]


imperitura grandezza.

L’apparire (bhava) è la venuta all’esistenza (utpatti), lo


sparire (apyaya) è la dissoluzione (pralaya). “In verità” ambe-
due, “l’apparire e lo sparire degli esseri sono stati da parte
mia uditi abbondantemente”, cioè non in maniera sintetica
[ma estesamente], “da Te”, dalla Tua presenza, o Kamalapa-
ttråk≤a...” – [l’appellativo] colui dagli occhi come petalo di loto
(kamalapattråk≤a) [viene spiegato così]: colui, cioè Tu, gli oc-
chi del quale, cioè i tuoi, sono tali e quali al petalo di loto (ka-
malapattra), cioè al petalo del fiore di loto (kamala), è colui
dagli occhi come petalo di loto – “...come anche la [Tua] im-
peritura”, inestinguibile “grandezza”; [la voce verbale] ‘è stata
udita’ viene inserita [in quanto sottintesa per dare: “...come
anche è stata udita la Tua grandezza inesauribile”].

11.3. Ciò è [proprio] così come affermi di Te stesso, o sommo


Signore. Desidero [adesso] vedere la tua Forma divina, o Puru-
≤ottama.

“Ciò è [proprio] così come”, nel modo in cui “affermi”, dichia-


ri “di Te stesso, o sommo Signore”. Tuttavia “Desidero [adesso]
vedere la tua Forma divina”, [la vera natura] appartenente a Te
in quanto Vi≤√u e [quindi] perfettamente dotata di conoscenza,
divina sovranità, capacità, potenza e radianza, “o Puru≤ottama”.

11.4. Se pensi che per me è possibile conoscerla, o Potente, o


Signore dello yoga, allora mostrami, Tu, l’åtman imperituro.

“Se pensi”, [se] ritieni “che per me”, Arjuna, “è possibile


conoscerla, o Potente”, o Sovrano, “o Signore dello yoga...”:
[l’appellativo di] Signore dello yoga (yogeŸvara) si riferisce sia
agli yogin sia agli yoga [differenti], per cui lo YogeŸvara è il
11.7 Undicesimo Adhyåya 433

loro Signore. Poiché io sono oltremodo intenzionato a cono-


scere [la Tua divina natura], “...allora”, pertanto “mostrami,
Tu”, per il mio beneficio, “l’åtman imperituro”.
Essendo stato così interpellato da Arjuna, Ÿrı Bhagavat parlò.

Ârı Bhagavat disse:

11.5. Mira, o Pårtha, le mie molteplici forme divine, a centi-


naia, anzi, a migliaia, e di differenti colori e fattezze.

“Mira, o Pårtha, le mie (molteplici) forme (divine) a centi-


naia, anzi, a migliaia”, vale a dire innumerevoli. Ed esse sono
“molteplici”, cioè [esprimentisi] in molteplici modalità, e,
quali esistenze a livello divino, sono “divine”, ossia sovranna-
turali, “e di differenti colori e fattezze”: sono di differenti co-
lori e fattezze (nånåvar√åkÿti) le forme delle quali sono molti
e totalmente differenti sia i colori, [presentandosi] in modali-
tà come il blu, il giallo, ecc., che, similmente, le fattezze, quali-
ficate da costituzione composita, collocazione, ecc.

11.6. Mira gli Åditya, i Vasu, i Rudra, i due AŸvin e i Marut.


Allo stesso modo, mira le molte meraviglie mai viste prima, o
Bhårata.

“Mira gli Åditya”, che sono dodici, “i Vasu”, che sono otto,
“i Rudra”, che sono undici, “i due ÅŸvin e i Marut” che sono in
sette gruppi di sette. E “Allo stesso modo, mira le molte” altre
“meraviglie”, le cose prodigiose “mai viste prima” nel mondo de-
gli uomini né da te, da parte tua, né da nessun altro, “o Bhårata”.
Certamente non è questo soltanto, ma:

11.7. Qui, stabilito nell’Uno, l’intero universo, mobile e im-


mobile, mira adesso nel mio corpo, o GuƒåkeŸa, e quant’altro
desideri vedere.
434 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 11.7

“Qui, stabilito nell’Uno”, fondato solamente nell’Uno, “l’in-


tero universo”, la totalità, “mobile e immobile”, in quanto esi-
ste sia nel movimento che nell’immobilità, “mira adesso”, in
questo momento, “nel mio corpo, o GuƒåkeŸa, e quant’altro”
in merito a cui nutri incertezza, come la vittoria o la sconfitta,
ecc., in relazione a quanto dissi: «...se vincere noi o essere
vinti...» (Bha. Gı. 2.6), anche quello, se lo “desideri vedere”.
Ma, d’altra parte,

11.8. Non puoi, invero, vedere Me soltanto con questa tua vi-
sta [umana], [per cui] ti concedo la vista divina: contempla
[adesso] il mio divino potere.

“Non puoi, invero, vedere Me”, latore di una forma uni-


versale, “soltanto con questa tua vista [umana]”, naturale,
cioè con i tuoi propri occhi, “[per cui] ti concedo la vista divi-
na”, [concedo] a te quella divina [facoltà di percezione] grazie
alla quale potrai, in verità, vedere [Me]: con essa “contempla
[adesso] il mio divino potere”, vale a dire il divino potere che
è l’eccelsa capacità yoga intrinsecamente appartenente a Me
in quanto ÙŸvara.

Sañjaya disse:

11.9. Avendo parlato così, o re, allora Hari (Kÿ≤√a), il gran-


de signore dello yoga, mostrò a Pårtha la [sua] suprema Forma
divina...

“Avendo parlato così”, nel modo quale è stato esposto, “o


re” Dhÿtarå≤†ra, “allora”, subito dopo, “Hari” (Colui che elimi-
na l’errore), ossia Nåråya√a (Kÿ≤√a), “il grande Signore dello
yoga...” – quegli, il Signore dello yoga, è anche grande – “...mo-
strò a Pårtha”, manifestò al figlio di Pÿthå “la sua suprema For-
ma divina...”, cioè la [sua] forma universale,
11.11 Undicesimo Adhyåya 435

11.10. ...dotata di innumerevoli bocche e occhi, dai vari me-


ravigliosi aspetti, con molti divini ornamenti, nell’atto di bran-
dire numerose divine armi,...

“...dotata di innumerevoli bocche e occhi”: ha innumerevoli


bocche e occhi quegli nella cui sembianza compaiono innume-
revoli bocche e occhi; “dai vari meravigliosi aspetti”: ha vari me-
ravigliosi aspetti quegli nella cui espressione esteriore coesisto-
no aspetti differenti e meravigliosi, ossia sorprendenti; simil-
mente, “con molti divini ornamenti”: ha molti divini ornamenti
quegli sul quale figurano numerosi ornamenti di divina fattez-
za; allo stesso modo, “nell’atto di brandire numerose armi divi-
ne...”: brandisce numerose armi divine quegli dal quale differenti
armi di natura divina vengono impugnate minacciosamente.
[Va operata] la connessione della voce verbale: “mostrò”,
con il precedente [Ÿloka].
E inoltre,

11.11. ...recante divine ghirlande e vesti, aspersa di unguenti


di divina fragranza, consustanziata di ogni meraviglia, riful-
gente, illimitata, con la faccia rivolta dappertutto.

“...recante divine ghirlande e vesti”: reca divine ghirlande


e vesti quella [forma divina] dalla quale, essendo il Signore,
sono indossate divine ghirlande di fiori e vesti; “aspersa di
unguenti di divina fragranza”: è aspersa di unguenti di divi-
na fragranza quella [forma] sulla quale è stata compiuta l’ir-
rorazione rituale con unguenti dal profumo celestiale; “consu-
stanziata di ogni meraviglia”: ricca di ogni prodigio, e “riful-
gente, illimitata”: è illimitato quegli per il quale non esiste ter-
mine, “con la faccia rivolta dappertutto”, con lo sguardo rivolto
ovunque in quanto costituisce l’åtman di tutti gli esseri 1.
Tale [forma Bhagavat] mostrò, ovvero Arjuna vide: [ciò] è
sottinteso.
436 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 11.11

Viene ora enunciata una similitudine in relazione a quello


che è il fulgore della forma universale del Signore.

11.12. Se nel cielo a un tratto venisse a balenare il fulgore


[persino] di mille soli, ciò potrebbe assomigliare [solo in mini-
ma parte] a quello che è il fulgore del grande åtman.

“Se nel cielo”, nello spazio intermedio (antarik≤a), oppure


nel paradiso quale terza regione celeste [a partire dalla terra],
“a un tratto (venisse) a balenare” quello che è “il fulgore [per-
sino] di mille soli...”, di qualcosa che si manifestasse all’im-
provviso come mille soli, ovvero un migliaio di astri solari,
“ciò potrebbe assomigliare [solo in minima parte] a quello
che è il fulgore del grande åtman”, cioè della stessa Forma
universale [del Signore].
Se questo [come è in effetti] non accade, allora ciò signifi-
ca che il fulgore della stessa Forma universale [del Signore]
supera [ogni altro splendore].
E inoltre:

11.13. Colà il På√ƒava vide allora nel corpo del Dio dei deva
l’intero universo, stabilito nell’Uno ma molteplicemente diffe-
renziato.

“Colà”, in tale Forma universale [del Signore], “il På√ƒa-


va”, cioè Arjuna, “vide”, percepì “allora nel corpo del Dio dei
deva”, ossia di Hari (Kÿ≤√a), “l’intero universo stabilito nell’U-
no”, fondato stabilmente nell’Uno, “ma molteplicemente dif-
ferenziato” attraverso le distinzioni in deva, antenati, esseri
umani, ecc.

11.14. Allora egli, Dhanañjaya (Arjuna), pervaso di meravi-


glia, con i capelli irti, chinato il capo davanti al Dio e con le
palme giunte, parlò:
11.16 Undicesimo Adhyåya 437

“Allora egli, Dhanañjaya”, avendo visto ciò, “pervaso di


meraviglia, con i capelli irti”, ossia come quegli i cui capelli si
sono raddrizzati essendo stato pervaso dallo stupore, “chinato
il capo”, restando a lungo inchinato rendendo omaggio “da-
vanti al Dio” latore della Forma universale, “e con le palme
giunte” in segno di riverente saluto, stando cioè con le mani
unite a formare un incavo, “parlò”, disse...
Come [parlò]?
Esternando la propria esperienza, Arjuna disse: ‘Io vedo la
Forma universale che Tu mi hai mostrato’.

Arjuna disse:

11.15. O Dio, nella tua forma corporea scorgo tutti gli dèi,
come, altresì, le moltitudini di distinti esseri, il signore Bra -
hmå che sta seduto sul [suo trono di] loto, tutti i Í≤i e i divini
serpenti.

“O Dio, nella tua forma corporea scorgo”, percepisco “tutti


gli dèi, come, altresì” quelle che sono “le moltitudini di distin-
ti esseri...”. Le moltitudini di distinti esseri sono i gruppi for-
manti le molteplici, specifiche condizioni di esistenza dei di -
stinti esseri, sia mobili (senzienti) che immobili (insenzienti).
E inoltre [scorgo] “il signore” dalle quattro bocche, “Brahmå”,
reggitore delle creature, “che sta seduto sul [suo trono di]
loto”, vale a dire mentre è assiso sul seggio del [monte] Meru
al centro del loto della terra, “tutti i Í≤i”, da Vasi≤†ha in poi, “e
i divini serpenti”, quali Våsuki e simili, che risiedono nel
mondo celeste.

11.16. Dotato di innumerevoli braccia, ventri, volti e occhi


vedo dappertutto Te, Forma infinita. Né una fine, né un inter-
medio e nemmeno un inizio di Te scorgo, o Signore del Tutto, o
Forma universale.
438 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 11.16

“Dotato di innumerevoli braccia, ventri, volti e occhi...”:


colui il quale possiede innumerevoli braccia, ventri, volti e oc-
chi sei Tu, che hai innumerevoli braccia, ventri, volti e occhi.
Quello, dalle innumerevoli braccia, ventri, volti e occhi “vedo
dappertutto”, cioè dovunque, “Te”, o Tu quale “Forma infini-
ta”. Ha forma infinita Colui che possiede infinite forme; tale
Forma infinita [vedo dappertutto].
“Né una fine”, dove la fine è una conclusione, “né un inter-
medio”, dove si definisce intermedio ciò che sta tra due estre-
mi opposti, “e nemmeno un inizio di Te scorgo...”, cioè: di Te,
Dio, non vedo né la cessazione, né lo stato intermedio e nem-
meno l’origine, “...o Signore del Tutto, o Forma universale”.
E inoltre,

11.17. Ornato di diadema, munito di scettro, con il disco [in


mano], quale massa di luce dappertutto rifulgente, vedo Te, dif-
ficile a guardarsi, tutt’intorno risplendente come sole e fuoco
fiammeggianti, immensurabile.

“Ornato di diadema”: si definisce ‘ornato di diadema’ colui


il cui capo reca quella caratteristica decorazione; quegli è or-
nato di diadema; [io Ti vedo come] Colui che è ornato di dia-
dema. Similmente “munito di scettro”: munito di scettro è
quegli che impugna uno scettro; [io Ti vedo come] Colui che
è munito di scettro. In maniera simile, “con [in mano] il di-
sco”: tiene in mano il disco quegli che regge un [emblema re-
gale-solare a forma di] disco; [io Ti vedo] anche [come] Colui
che tiene [in mano] il disco. [E ancora, Ti vedo] “quale massa
di luce”, come un corpo di luce “dappertutto rifulgente”: è
dappertutto rifulgente quegli il cui risplendere si irradia do-
vunque; [io Ti vedo come] Colui che è [una massa di luce]
dappertutto rifulgente. [Così] “vedo Te, difficile a guardarsi”:
è difficile a guardarsi quegli che può essere osservato [solo]
con difficoltà; [io Ti vedo come] Colui che è difficile a guar-
11.18 Undicesimo Adhyåya 439

darsi e “tutt’intorno”, tutto attorno, dovunque “risplenden-


te come sole e fuoco fiammeggianti”: il sole e il fuoco sono
[espressi dal termine duale] ‘sole e fuoco’ (analårkau); quan-
do sia il sole che il fuoco sono [entrambi ben] fiammeggianti,
[vengono detti] ‘sole e fuoco fiammeggianti’. È risplendente
come sole e fuoco fiammeggianti quegli, cioè Tu, il cui splen-
dore, ossia il tuo [rifulgere], è come se fosse il risplendere di
entrambi [quale è stato prima descritto], cioè del sole e del
fuoco fiammeggianti. [Io vedo] Colui, cioè Te, risplendente
come sole e fuoco fiammeggianti. [E infine] “immensurabile”
significa: non suscettibile di essere determinato, impossibile a
delimitarsi.
Da ciò stesso, cioè dalla tua prospettazione del Tuo [stes-
so] potere yoga, inferisco che:

11.18. Tu sei l’indistruttibile supremo che deve essere realiz-


zato; di questo intero [universo] Tu sei il sostrato ultimo; Tu sei
l’inalterabile guardiano del dharma perenne. Tu sei da me rite-
nuto il primordiale Puru≤a.

“Tu sei l’indistruttibile, supremo”, il Brahman che non si


distrugge [mai] e “che deve essere realizzato”, che dev’essere
conosciuto da coloro che aspirano ardentemente alla liberazio-
ne (mumuk≤u); “di questo intero” universo “Tu sei il sostrato
ultimo”, finale: il sostrato (nidhåna) è ciò su cui [un ente, ov-
vero il tutto] giace; vale a dire [che Tu sei] la suprema sede
[della totalità]. E inoltre, “Tu sei l’inalterabile...” – inalterabile
perché in Te non avviene [mai alcun] cambiamento – “...guar-
diano del dharma perenne”. Il dharma (la Legge universale) è
perenne, ossia eterno, in quanto la sua esistenza è costante; il
custode di tale [dharma] è il guardiano del dharma perenne.
“Tu sei da me ritenuto”, da parte mia sei considerato “il pri-
mordiale”, antico, “Puru≤a” supremo2.
E inoltre,
440 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 11.19

11.19. Senza inizio, medio e fine, dotato di infinito potere,


dalle innumerevoli braccia, con la luna e il sole come occhi,
vedo Te, con il viso di fuoco fiammeggiante, mentre con il tuo
proprio splendore riscaldi questo universo.

“Senza inizio, medio e fine”: è senza inizio, [senza] medio


e [senza] fine quegli per il quale non esiste inizio, [né] medio,
[né] fine. [Dunque, vedo] Te senza inizio, medio e fine; “dota-
to di infinito potere”: non vi è limite al tuo potere, [sei dun-
que] dotato di infinito potere [e io vedo] Te in quanto dotato
di infinito potere. Similmente, “dalle innumerevoli braccia”: è
dalle innumerevoli braccia colui, cioè Tu, le braccia del quale,
cioè le tue, sono innumerevoli; [dunque, io vedo] Te come
Colui dalle innumerevoli braccia; “con la luna e il sole come
occhi”: ha la luna e il sole come occhi colui, cioè Tu, i cui oc-
chi, ossia i tuoi, sono costituiti dalla luna e dal sole, cioè [per
il quale] la pupilla oculare è sia la luna che il sole: [così io
vedo] Te con la luna e il sole come occhi; “vedo Te, con il viso
di fuoco fiammeggiante”: ha il viso di fuoco fiammeggiante
colui, cioè Tu, il cui viso, cioè il tuo, è [luminoso] come fuoco
e da quello [stesso] si sprigionano [anche] fiamme: [io vedo]
Te con il viso di fuoco fiammeggiante, “mentre con il tuo pro-
prio splendore riscaldi questo universo”, mentre accendi [di
vita] la totalità.

11.20. Invero, questo che è in mezzo tra il cielo e la terra è


pervaso da Te, unico, e [lo sono anche] tutte le direzioni spazia-
li. Avendo visto questa tua forma meravigliosa e terribile, il tri-
plice mondo resta scosso, o grande åtman.

“Invero, questo che è in mezzo tra il cielo e la terra”, cioè


lo spazio intermedio, “è pervaso da Te, unico” latore della
Forma universale, “e” [sempre da Te] sono pervase “tutte le
direzioni spaziali. Avendo visto”, avendo percepito “questa
11.22 Undicesimo Adhyåya 441

tua forma meravigliosa”, sorprendente, “e terribile”, tremen-


da, “il triplice mondo resta scosso”, cioè la terna dei mondi
viene turbata ovvero spaventata, “o grande åtman”, o infinita
Autoesistenza.
Ordunque, in precedenza ad Arjuna era sorto un dubbio,
quale [quello espresso nel passo]: «...se vincere noi o essere
vinti...» (Bha. Gı. 2.6); onde dissiparlo, Bhagavat procede [a
dire]: ‘[Ti] mostrerò che la vittoria dei På√ƒava è inevitabile’.
Vedendo ciò, [Arjuna] disse ancora:

11.21. Invero, in Te entrano queste legioni di sura (deva); al-


cuni, in preda al timore, cantano [supplicandoti] con le palme
congiunte. Dopo aver gridato: ‘che sia il bene!’, le schiere dei
Mahar≤i e dei Siddha ti glorificano con laudi ridondanti.

“Invero, in Te entrano”, cioè dentro di Te sono viste im-


mergersi, “queste” bellicose “legioni di sura” pronte a guer-
reggiare, quali raggruppamenti di deva come i Vasu e altri,
che sono qui discese (avatır√å¢) incarnandosi nella condizio-
ne umana per portare a estinzione (avatåråya) il fardello ter-
reno3. Colà (tra loro) “alcuni”, trovandosi “in preda al timore,
cantano [supplicandoti] con le palme congiunte”, [mentre] al-
tri, essendo incapaci di fuggire, Ti lodano. Presagendo occa-
sione di catastrofe e altra [sventura] nello scontro che incal-
zava, “Dopo aver gridato: che sia”, che possa essere “il bene”
per il mondo!, “le schiere dei Mahar≤i e dei Siddha”, cioè le
moltitudini di grandi Saggi e di esseri perfetti, “Ti glorificano
con laudi ridondanti”, pregnanti.
E vi è dell’altro:

11.22. I Rudra e gli Åditya, i Vasava e quelli che sono i Så-


dhya, i ViŸve [deva], i due AŸvin e i Marut e anche gli U≤mapa,
le schiere dei Gandharva, degli Yak≤a, degli Asura e dei Siddha
Ti ammirano attoniti proprio tutti.
442 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 11.22

“I Rudra e gli Åditya, i Vasava e quelli che sono i Sådhya...”


ossia le famiglie dei Rudra, ecc. (v. 10.23 e segg.), “i ViŸve”
deva, [e poi] i due deva [noti come] “i due AŸvin e i Marut e
anche” i pitÿ [conosciuti come] “gli U≤mapa, le schiere dei
Gandharva, degli Yak≤a, degli Asura e dei Siddha”, cioè i Ga-
ndharva a cominciare da Håhå e H¥h¥, gli Yak≤a a inziare da
Kubera, gli Asura a partire da Virocana e i Siddha come Kapi-
la e gli altri; i loro raggruppamenti sono le schiere di Gandha-
rva, Yak≤a, Asura e Siddha: costoro “Ti ammirano”, [Ti] guar-
dano “attoniti”, essendo “proprio tutti” loro pieni di stupore.

11.23. Nel vedere la tua grandiosa forma dotata di innume-


revoli bocche e occhi, dalle innumerevoli braccia, cosce e piedi,
dai molti ventri, dai molti formidabili denti, o Mahåbåhu, i
mondi rimangono scossi e così io [pure].

“(Nel vedere) la tua grandiosa forma”, l’immensa [forma]


che appartiene a Te, “dotata di innumerevoli bocche ed oc-
chi...” – è dotata di innumerevoli bocche e occhi quella sem-
bianza nella quale sono molte le bocche, ossia le facce, come
anche gli occhi, gli sguardi – “dalle innumerevoli braccia, cosce
e piedi...” – ha innumerevoli braccia, cosce e piedi quella sem-
bianza nella quale sono molte le braccia, come anche le cosce e
i piedi – e, inoltre, “dai molti ventri...” – ha molti ventri quella
[sembianza] nella quale compaiono molti ventri – “dai molti
formidabili denti...” – ha molti formidabili denti quella [sem-
bianza] caratterizzata da una bocca spalancata piena di molte
terribili zanne. [Dunque], “Nel vedere...” siffatta forma, “...o
Mahåbåhu, i mondi”, cioè gli esseri viventi che abitano i mon-
di, “rimangono scossi”, tremano per il terrore, “e così io” pure.
Al riguardo, questa è la causa:

11.24. Invero, vedendo Te alto quanto i cieli, sfolgorante di


molti colori, con la bocca spalancata e con gli occhi splendenti e
11.25 Undicesimo Adhyåya 443

immensi, [trovandomi] con l’intimo åtman scosso, non trovo


forza né pace, o Vi≤√u.

“(Invero, vedendo Te) alto quanto i cieli”, vale a dire che


tocchi il cielo, “sfolgorante”, fiammeggiante, “di molti colori...”
– [vedo] quegli, cioè Te, dai molti colori in quanto in tale
[sembianza], ossia in Te, appaiono le differenti terribili colo-
razioni che caratterizzano le molteplici condizioni di esistenza
– “con la bocca spalancata...” – [vedo] quegli, cioè Te, con la
bocca spalancata in quanto in tale [sembianza], cioè in Te, le
[molte] bocche, le fauci sono aperte, dilatate – “e con gli oc-
chi splendenti e immensi...” – [vedo] quegli, cioè Te, con gli
occhi splendenti e immensi in quanto in tale [sembianza],
cioè in Te, gli occhi appaiono splendenti, accesi, e immensi,
[oltremodo] ampi. “Invero, vedendo Te... [trovandomi] con
l’intimo åtman scosso...” – io sono quegli il cui intimo åtman,
cioè il mio manas, resta scosso, atterrito [da tale percezione],
per cui, trovandomi con l’intimo åtman scosso, “non trovo
forza”, fermezza, “né” ottengo “pace”, pacificazione, appaga-
mento mentale, “o Vi≤√u”.
Perché?

11.25. Solo nel mirare le tue bocche dai denti formidabili si-
mili alle fiamme divoratrici del Tempo, non riconosco [più] le
direzioni cardinali e non trovo [più] rifugio. Sii benevolo, o Si-
gnore dei deva, dimora degli universi.

“Solo nel mirare”, [soltanto] vedendo “le tue bocche dai


denti formidabili”, le tue [fauci] caratterizzate da terribili zan-
ne “simili alle fiamme divoratrici del Tempo...” – la fiamma
divoratrice del Tempo è il fuoco che arde i mondi al tempo
della dissoluzione universale; dunque, al solo mirare le [tue]
bocche [armate di zanne] simili alle fiamme divoratrici del
Tempo, cioè somiglianti a tale [fuoco], “non riconosco [più]
444 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 11.25

le direzioni cardinali” discriminando tra oriente e occidente,


cioè divengo confuso riguardo all’orientamento, “e” quindi
“non trovo [più alcun] rifugio”, non scorgo [più motivo di]
serenità.
Pertanto, “Sii benevolo”, sii clemente, “o Signore dei deva,
dimora degli universi” 4.
Quella, che era la mia paura di essere sopraffatto dagli al-
tri, è stata dispersa, perché...

11.26. E in Te, quelli laggiù, cioè i figli di Dhÿtarå≤†ra, tutti


affatto insieme alle moltitudini dei custodi del suolo terreno e
Bhı≤ma, Dro√a e, allo stesso modo, quegli che è il figlio di S¥ta,
insieme anche ai nostri capi guerrieri,...

“E in Te, quelli laggiù, cioè i figli di Dhÿtarå≤†ra...”, come


Duryodhana e gli altri a seguire... – [è sottintesa] la connes-
sione con la [parte di frase] separata: “entrano concitati”
[che compare nello Ÿloka seguente] – “...tutti affatto insie-
me”, unitamente “alle moltitudini dei custodi del suolo terre-
no...” – i custodi del suolo terreno [sono coloro i quali] pro-
teggono il suolo terreno, ossia la terra (pÿthivı); dunque [in-
sieme] con le loro moltitudini; “e”, inoltre, “Bhı≤ma, Dro√a
e, allo stesso modo, quegli che è il figlio di S¥ta”, cioè Kar√a,
“insieme anche ai nostri capi guerrieri” quali Dhÿ≤†adyumna
e gli altri a seguire, ossia insieme con i principali comandan -
ti degli eserciti...
[Tutti questi] e [altri] ancora [in Te, cioè]:

11.27. ...nelle tue bocche, provviste di spaventosi, formidabili


denti, entrano concitati: alcuni, impigliatisi tra i [tuoi] denti,
vengono visti con le teste sbriciolate.

“...nelle tue bocche...”, nelle tue fauci, “entrano concitati”,


trovandosi preda della concitazione.
11.29 Undicesimo Adhyåya 445

Come sono specificate [tali tue] fauci?


“...provviste di spaventosi”, terrificanti “denti”. E inoltre,
“alcuni”, tra coloro che sono penetrati nelle [tue] fauci, “impi-
gliatisi tra i [tuoi] denti” come la carne quando viene mangia-
ta, “vengono visti”, vengono percepiti “con le teste sbriciolate”,
con i [loro] crani ridotti in polvere.
In che modo entrano nelle [tue] bocche?
[Arjuna] disse:

11.28. Come le innumerevoli correnti d’acqua dei fiumi flui-


scono dirette verso un oceano soltanto, così questi eroi del mon-
do degli uomini si precipitano nelle tue bocche che sputano
fiamme.

“Come le innumerevoli correnti d’acqua dei fiumi” che


scorrono impetuosi, ossia le molteplici correnti dei corsi d’ac-
qua caratterizzate dalla turbolenza, “fluiscono dirette”, essendo
[tutte] rivolte “verso un oceano soltanto”, [ove] si immergono,
“così” [in modo] tale e quale, “questi eroi del mondo degli uo-
mini”, [questi che sono] leoni nel mondo umano, quali Bhı-
≤ma e gli altri, “si precipitano nelle tue bocche che sputano
fiamme”, che avvampano.
A che scopo costoro vi entrano? E in che modo?
[Arjuna] disse:

11.29. Come in una fiamma ardente i moscerini si precipitano


con pieno slancio per trovarvi distruzione, così, appunto, anche
le creature si addentrano con [un simile] pieno slancio nelle tue
bocche per trovarvi il [proprio] dissolvimento.

“Come in una fiamma”, in un fuoco “ardente i moscerini”,


i piccoli insetti volanti, “si precipitano con pieno slancio per
trovarvi distruzione...” – hanno un pieno slancio (samÿddha-
vega) quelli il cui impeto si accresce, il cui volo risulta accele-
446 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 11.29

rarsi [in prossimità della fiamma] – “...così, appunto, anche le


creature”, gli esseri viventi “si addentrano con [un simile]
pieno slancio nelle tue bocche per trovarvi il [proprio] dissol-
vimento”. Da parte tua, Tu...

11.30. Divori intere stirpi umane ingoiandole completa-


mente con le [tue] fauci infuocate, avendo riempito di fiamme
l’intero universo. I tuoi terribili raggi ardono potentemente, o
Vi≤√u.

“Divori”, gusti, “intere”, complete “stirpi umane ingoian-


dole completamente”, facendole entrare interamente all’inter-
no [di Te], “con le [tue] fauci infuocate”, con le [tue] bocche
fiammeggianti, “avendo riempito di fiamme, l’intero univer-
so”, avendolo saturato per intero, cioè nella sua totalità. E,
inoltre, “I tuoi terribili raggi”, le [tue] spaventose fiamme “ar-
dono potentemente”, emanano splendore ardente, “o Vi≤√u”,
o Tu dal potere di pervadere tutto.
Poiché è così, ossia sei per natura terribile, pertanto:

11.31. Svelami chi sei, o Eccelso, sotto questa terribile forma.


Onore sia a Te, o sommo fra gli Dei! Sii benevolo: vorrei cono-
scere [Te] distintamente [come] l’Essere originario, perché non
comprendo il tuo operare.

“Svelami”, rivela a me, “chi sei, o Eccelso, sotto questa ter-


ribile forma”, sotto una sembianza [così] spaventosa.
“Onore sia a Te, o sommo fra gli Dei”, a Te eminente fra
[tutti] gli Dei! “Sii benevolo!”, concedi [a me] la grazia!
“Vorrei conoscere [Te] distintamente”, realizzare [Te] in
modo specifico, [come] “l’Essere originario”, l’Esistenza pri -
meva, “perché”, per il motivo che “non comprendo il tuo
operare”, la tua propria modalità di azione. [A ciò] Ÿrı Bha-
gavat replicò:
11.33 Undicesimo Adhyåya 447

Ârı Bhagavat disse:

11.32. Sono il Tempo, il maturo artefice della distruzione


dell’universo, qui occupato a dissolvere le stirpi umane. Anche
senza di te, tutti i guerrieri, schierati in fila contrapposte, sono
destinati a cessare di esistere.

“Sono il Tempo (kåla), il maturo artefice della distruzio-


ne dell’universo...” – ascolta in che senso: ‘maturo’ (pravÿddha)
in quanto [sono colui] il cui scopo è giunto a maturazione,
‘artefice della distruzione dell’universo’ in quanto [sono
colui] che compie la distruzione dei mondi – “...qui”, ossia
in questo momento “occupato a dissolvere”, a riassorbire
“le stirpi umane”. “Anche senza di te”, pure in tua assenza,
“tutti i guerrieri”, i combattenti quali Bhı≤ma, Dro√a, Kar√a
e gli altri, dai quali deriva la tua apprensione, “schierati in
fila contrapposte...” – sono in fila contrapposte quelli di-
sposti in schieramento contro schieramento, ossia schierati
gli uni di contro agli altri – “...sono destinati a cessare di
esistere”.
Poiché è così,

11.33. Perciò tu sorgi e conquista la gloria! Sconfitti gli avver-


sari, goditi un prospero regno. Costoro sono stati da Me stesso
decisamente annientati già da tempo. Sii, tu, soltanto lo stru-
mento [di ciò che dovrà essere], o Savyasåcin.

“Perciò tu sorgi e conquista la gloria!”, [quella gloria che


conquisterai] in quanto guerrieri straordinariamente valorosi,
quali Bhı≤ma, Dro√a e gli altri, invincibili persino dagli Dei,
saranno stati sconfitti da Arjuna, [gloria] che solamente dai
meriti la si può guadagnare. “Sconfitti gli avversari”, quali
Duryodhana e gli altri, “goditi un prospero regno”, senza ri-
vali e libero da controversie.
448 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 11.33

“Costoro sono stati da Me stesso decisamente annientati”,


indubbiamente eliminati, privati della vita “già da tempo. Sii,
tu, soltanto lo strumento [di ciò che dovrà essere], o Savyaså-
cin”; Arjuna viene detto Savyasåcin, cioè ‘colui che scaglia le
frecce [ossia tende l’arco] anche con la mano sinistra’, quella
[in genere] inadatta [a tale scopo].

11.34. Sia Dro√a, che Bhı≤ma, che Jayadratha e Kar√a e, si-


milmente, anche gli altri valenti eroi, che da Me sono [già] stati
soppressi, tu distruggili! Non esitare: combatti e nello scontro
sgominerai [tutti] gli avversari.

“Sia Dro√a...” – Bhagavat elenca tutti coloro in rapporto a


ciascuno dei quali vi è titubanza da parte di Arjuna– “...da Me
sono stati [già] soppressi”. Al riguardo, è ben nota, innanzi-
tutto, la causa di incertezza relativamente a Dro√a e Bhı≤ma:
Dro√a era stato il maestro [di Arjuna] nella disciplina del tiro
con l’arco, era pienamente munito di armi divine e, in parti-
colare, era stato il suo proprio istruttore più importante;
Bhı≤ma aveva la morte sotto il proprio comando ed era an-
ch’egli pienamente provvisto di armi divine: [una volta] ven-
ne a combattere, corpo a corpo, contro ParaŸuråma e non ne
fu sopraffatto5. In maniera simile, Jayadratha, il cui padre por-
tava avanti un tapas [per tener fede al proposito]: ‘chiunque
sia quegli che farà cadere a terra la testa di mio figlio, anche
la sua testa cadrà’. Kar√a stesso era munito di una lancia in-
vero infallibile concessagli da Indra; poiché era un figlio del
Sole, nato da una fanciulla, per questo viene menzionato pro-
prio per nome.
“...da Me sono [già] stati soppressi, tu”, quale mero stru-
mento [del mio operato divino], “distruggili! Non esitare”,
non avere timore di loro: “combatti e nello scontro”, nella bat-
taglia, “sgominerai [tutti] gli avversari”, i nemici come Du-
ryodhana e gli altri6.
11.35 Undicesimo Adhyåya 449

Sañjaya disse:

11.35. Udita questa dichiarazione da parte di KeŸava, Kirı†in


(Colui che è cinto del diadema, datogli da Indra, cioè Arjuna),
con le palme congiunte e palpitante, reso omaggio, ancora una
volta parlò a Kÿ≤√a balbettando, [essendo] assai impaurito, in-
chinandosi.

“Udita questa dichiarazione da parte di KeŸava” quale è


stata enunciata in precedenza, “Kirı†in (Arjuna)”, ponendosi
“con le palme congiunte e palpitante”, tremando, “reso omag-
gio, ancora una volta parlò a Kÿ≤√a”, di nuovo si espresse
“balbettando...”.
Quando si hanno gli occhi pieni di lacrime sia perché so-
praffatti dal dolore, per colui che è invaso da paura, sia per il
prorompere della eccitazione, per colui che è colmo di passio-
ne, la voce è [rotta dalla emozione, cioè] ostacolata dalla sali-
vazione e quindi la favella di quegli, il cui parlare è [divenuto
così] fievole, risulta impacciata; colui che si esprime in tal
modo è [detto] balbettante. Tale è [il significato che ha] l’e-
spressione: [Arjuna] “parlò... balbettando”, cioè si espresse in
maniera indistinta.
“...[essendo] assai impaurito”, trovandosi con la mente an-
cora invasa dalla paura, “inchinandosi”, ponendosi in atteg-
giamento di riverenza... [Si deve operare] la connessione della
voce verbale: “disse” con la parte separata [dello Ÿloka].
Qui, in questa circostanza, l’espressione di Sañjaya è sin-
golarmente significativa.
In che senso?
Pensando che quando i quattro invincibili, ossia Dro√a e
gli altri, fossero stati abbattuti da Arjuna, lo stesso Duryodha-
na, rimasto senza protezione, sarebbe stato certamente ucciso,
per cui Dhÿtarå≤†ra, essendo ormai privo di speranza riguar-
do alla vittoria, si sarebbe prodigato per una pacificazione e
450 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 11.35

quindi vi sarebbe stata la pace per entrambi (Dhÿtarå≤†ra e


Arjuna). [Ma egli, Dhÿtarå≤†ra] non dette ascolto a ciò, perché
prevalse ciò che doveva essere.

Arjuna disse:

11.36. È il caso che l’universo, o Hÿ≤ıkeŸa, goda della tua


gloria e conseguentemente se ne rallegri. I Rak≤as, spaventati,
corrono da ogni parte mentre tutte le schiere dei Siddha si pro-
strano.

“È il caso...” (sthåne), ossia è giusto...


Che cosa è giusto?
“... che l’universo, o Hÿ≤ıkeŸa”, udita la celebrazione della
Tua grandezza, “goda”, raggiunga l’esaltazione per via “della
Tua gloria”: è il caso che ciò [avvenga], vale a dire: è giusto
[che ciò sia così].
Oppure il [termine] “caso” si riferisce in particolare [al Si-
gnore considerato alla stregua di] un oggetto [di meditazione,
culto, ecc., nel senso]: è giusto che il Signore sia oggetto di
esaltazione, ecc. perché ÙŸvara è l’åtman della totalità ed è
[pertanto] l’Amico di tutti gli esseri.
In maniera simile [si interpreta la voce verbale] “conse-
guentemente se ne rallegri” (anurajyate), cioè raggiunga, in
seguito a ciò, la gioia. E così dev’essere spiegato qualora si ri-
ferisca all’oggetto.
E inoltre, “I Rak≤as, spaventati”, in preda al terrore, corro-
no”, fuggono “da ogni parte...” – anche questo [va a integrare
il senso] quando [l’espressione] “è il caso” si riferisce all’og-
getto – “...mentre tutte le schiere dei Siddha”, cioè le moltitu-
dini dei Siddha come Kapila e gli altri, “si prostrano”, [Ti]
rendono omaggio – e anche di ciò è il caso.
[Ora il testo] mostra la causa per la quale il Signore è og-
getto di esaltazione, ecc.
11.38 Undicesimo Adhyåya 451

11.37. E perché non dovrebbero onorarti, o grande åtman,


che, più grande [di tutto], sei l’Artefice originario [creatore di
tutto] perfino di Brahmå? O Infinito, o Signore dei deva, o Di-
mora dell’universo: Tu sei l’Ak≤ara, l’essere e il non-essere, [sei]
Quello che è il Supremo.

“E perché non dovrebbero onorarti”, per quale motivo non


dovrebbero renderti onore, “o grande åtman”, a Te “che, più
grande...”, più importante [di tutto]... – poiché l’Artefice origi-
nario (ådikartÿ) è la causa, quindi, per tal motivo – “sei l’Artefi-
ce originario [creatore di tutto] perfino di Brahmå?”, cioè di Hi-
ra√yagarbha (cioè la Causa stessa di Brahmå e di tutto il resto)?
Come potrebbero non renderti omaggio? Vale a dire che,
pertanto, Tu sei il debito e appropriato oggetto sia della esal-
tazione, ecc. che della riverenza.
“O Infinito, o Signore dei deva, o Dimora dell’universo: Tu
sei l’Ak≤ara... [sei] Quello che è il Supremo” (para) quale vie-
ne appreso nel Vedånta.
Qual è Quello?
È “...l’essere e il non-essere”. L’essere (sat) [risponde alla
cognizione di ciò che] è l’esistente, mentre il non-essere (asat)
è laddove vi è la cognizione della non-esistenza. I due, l’essere
e il non-essere, [in verità] costituiscono [solo] sovrapposizio-
ni rispetto all’Ak≤ara, del quale, attraverso loro, si afferma in
senso figurato che [Quello] è essere o non-essere (esistente o
non-esistente). Invece, dalla [prospettiva della] Realtà supre-
ma, Quello, cioè l’Ak≤ara, in merito al quale i conoscitori dei
Veda affermano che soltanto l’Ak≤ara è l’Essenza (tattva) e
null’altro, è trascendente sia rispetto all’essere che al non-
essere7. Tale è il senso.
[Quindi Arjuna] rende lode [a Kÿ≤√a] ancora una volta.

11.38. Tu sei il deva primordiale, il Puru≤a originario, Tu sei


il sostrato ultimo di questo universo. Sei il conoscente e il cono-
452 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 11.38

scibile e la suprema dimora. Da Te è permeato il tutto, o Tu


dalle infinite forme.

“Tu sei il deva primordiale” (ådideva), essendo il creatore


dell’universo; “il Puru≤a...”, per via del [tuo] dimorare nella cit-
tadella [del corpo], “...originario” cioè antico; “Tu” soltanto “sei
il sostrato ultimo”, estremo, “di questo universo”, perché in esso
l’intero universo si sostiene sia [risolvendosi] alla [epoca della]
grande dissoluzione che [fondandovisi] nelle altre [fasi di ma-
nifestazione]. E inoltre “Sei il conoscente” (vettÿ), sei davvero il
conoscitore (veditÿ) di tutto ciò che ha natura di oggetto di
conoscenza, e sei ciò che è “il conoscibile” (vedya), ossia [tut-
to] quello che può essere conosciuto; “e la suprema Dimora”,
lo stato supremo che appartiene a Vi≤√u. “Da Te è permeato il
tutto”, è pervasa la totalità, “o Tu dalle infinite forme”, [così
chiamato] in quanto non esiste un limite alle tue sembianze 8.
E inoltre,

11.39. Tu sei Våyu, Yama, Agni, Varu√a, ÂaŸå§ka e Prajå-


pati, il grande Antenato. Omaggio, omaggio a Te sia reso mi-
gliaia di volte! Di nuovo e ancora omaggio, omaggio a Te!

“Tu sei Våyu” e “Yama” ed “Agni, Varu√a”, il signore delle


acque, e “ÂaŸå§ka”, la Luna; Tu sei “Prajåpati”, come KaŸyåpa
e gli altri, “e il grande Antenato”, dove il grande Antenato è il
progenitore anche dei grandi pitÿ, vale a dire [che sei] il Pa-
dre persino di Brahmå. “Omaggio, omaggio a Te”, Ti “sia reso
migliaia di volte! Di nuovo e ancora omaggio, omaggio a Te!”.
[Le parole] “Di nuovo e ancora...” (punaŸca bh¥yo ’pi) espri-
mono la pronuncia, effettuata molte volte, dell’insieme di rei-
terate ripetizioni dell’atto di rendere omaggio: ciò mostra un
sentimento di incompleto appagamento [nel rendergli omag-
gio], da parte di lui stesso (Arjuna), dovuto alla sua fede e alla
sua devozione estreme [nei confronti di Kÿ≤√a].
11.41 Undicesimo Adhyåya 453

Similmente,

11.40. Omaggio a Te frontalmente e poi da tergo, omaggio


sia a Te ancora da ogni parte, o Tutto. Tu, di infinita tempra e
smisurato valore, permei completamente tutto: quindi sei il
Tutto.

“Omaggio a Te frontalmente”, a Te dalla direzione iniziale


(est), “e poi da tergo”, cioè [omaggio] a Te anche dall’opposto
(ovest); “omaggio sia ancora a Te da ogni parte”, da tutte le
direzioni, “o Tutto” che sei stabilito ovunque.
“...di infinita tempra e smisurato valore...” è Colui la cui
tempra è infinita e il cui valore è smisurato. La tempra (vırya)
è il potere (såmarthya), mentre il valore (vikrama) è l’audacia
(paråkrama). Qualcuno, sebbene dotato di tempra, può tuttavia
non eccellere nell’attaccare i nemici oppure manifestare scar-
sa audacia. Ma poiché “Tu, di infinita tempra e di smisurato
valore”, in quanto possiedi un vigore illimitato e un coraggio
immensurabile, “permei completamente tutto”, cioè pervadi
autenticamente l’intero universo come unico åtman, “quindi”,
per tale motivo Tu “sei”, costituisci [Tu stesso] “il Tutto”, vale
a dire che non vi è nulla che possa esistere senza di Te.
Poiché io, per mancanza di una conoscenza completa nei
confronti della Tua grandezza, posso [inavvertitamente] aver
mancato di rispetto [nei tuoi riguardi], pertanto:

11.41. Ciò che con temerarietà, credendoti un [modesto]


amico, possa essere stato detto, [chiamandoti]: ‘O Kÿ≤√a, o Yå-
dava (discendente di Yadu, cioè Kÿ≤√a), o compagno’, da me,
che ignoro questa tua grandezza, per negligenza oppure per
trasporto,...

“Ciò che con temerarietà”, eccedendo, trasmodando, “cre-


dendoti un [modesto] amico”, considerandoti, attraverso una
454 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 11.41

concezione del tutto erronea, alla stregua di un coetaneo,


“possa essere stato detto, [chiamandoti]: ‘O Kÿ≤√a, o Yådava,
o compagno’, da me, che ignoro”, che sono confuso e non ri-
conosco...
Che cosa ignoro?
[Il testo lo] dice: “...questa tua grandezza”, la [tua] maestà,
la natura onniforme di ÙŸvara. La connessione tra: “questa
tua” (tavedam) e “grandezza” (mahimånam) [deve essere ope-
rata anche] in presenza di una discordanza grammaticale 9; si
avrebbe invece una corretta concordanza grammaticale qua-
lora la lettura [della parte: “questa tua”] fosse: tavemam
(tava+imam).
“...per negligenza” (pramåda), ossia per via di uno stato
mentale alterato, “oppure per trasporto”, laddove si definisce
trasporto (pra√aya) la confidenza scaturita dall’affetto; dun-
que: tutto ciò che possa aver detto anche per tale causa.

11.42. ...e da qualsiasi cosa sia stato [Tu da me] offeso per
scelleratezza, sia durante il giuoco che nel dormire, sia nel corso
di un consesso che nel consumare i pasti, tanto [che mi trovassi
io] da solo, o Acyuta, che anche diversamente, io [imploro] Te,
o Immensurabile, di cancellare ciò.

“...e da qualsiasi cosa sia stato [Tu da me] offeso”, cioè sia
stato, ti sia sentito insultato “per scelleratezza...”, a causa di
una mancanza di rispetto [da parte mia nei tuoi confronti]...
In quali circostanze?
[Per esempio] “...sia durante il giuoco che nel dormire, sia
nel corso di un consesso che nel consumare i pasti...” – il
giuoco è un [qualunque] diversivo, come l’esercizio del cam-
minare, il dormire è il riposare, il consesso può essere un’adu-
nanza, il consumare i pasti è l’atto di mangiare; dunque, in
queste [circostanze cioè] sia durante il giuoco che dormendo,
sia nel corso di un consesso che nel consumare i pasti, “tanto”
11.43 Undicesimo Adhyåya 455

che [Tu] sia stato offeso, sia stato ingiuriato trovandomi “da
solo”, in [tua] assenza, “o Acyuta, che anche diversamente”,
in presenza di ciò, ossia all’udire [Tu stesso] ciò, tale che [Tu
ne] sia stato intimamente offeso percependolo direttamente,
vale a dire [essendo Tu presente] nel particolare atto [di in-
giuria da parte mia], “io [imploro] Te, o Immensurabile”, o
[Tu] che trascendi la comprensione, “di cancellare” tutto “ciò”
che è stato generato dall’errore, di usare indulgenza [nei miei
confronti], perché Tu...

11.43. Sei il Padre dell’universo mobile e immobile, Tu [sei]


per questo [mondo] l’oggetto di culto e il guru più importante.
Non vi è un [altro ente] identico a Te: donde [mai potrebbe ve-
nire a essere] un altro superiore [a Te] in tutto il triplice mondo,
o Tu di incommensurabile potere?

“Sei il Padre”, sei il genitore “dell’universo”, dell’insieme


di esseri [che è a un tempo] “mobile e immobile”, cioè anima-
to e inanimato. “Tu [sei] per questo” universo...” non il Padre
solamente, [ma anche] “...l’oggetto di culto”, al quale si deve
[somma] venerazione perché [sei] “il guru più importante”,
l’Istruttore più autorevole.
Perché sei Tu il guru più importante?
[Il testo lo] dice: inoltre “Non vi è un” altro [ente] “identi-
co a Te”, simile a Te. Infatti non può [in nessun modo] aversi
una diade di ÙŸvara perché, qualora vi fosse una molteplicità
di ÙŸvara, non si potrebbe più ammettere secondo logica una
[qualsiasi forma di] esistenza in atto [per l’universo]10. [Per-
tanto] se non può affatto esistere un altro [ente] identico a
Te, “donde” mai potrebbe venire ad essere “un altro [ente] su-
periore [a Te] in tutto il triplice mondo” intero, “o [Tu] di in-
commensurabile potere?”. L’estensione (pratimå) è quella
[grandezza] di cui si può dare commensura. È ‘di incommen-
surabile potere’ (apratimaprabhåva) quegli, cioè Tu, per il po-
456 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 11.43

tere del quale, cioè il tuo, non esiste commensura. Pertanto


[l’espressione] “o [Tu] di incommensurabile potere” significa:
o [Tu] dall’insuperato potere.
Poiché è così,

11.44. Perciò, inchinandomi e offrendo interamente il [mio]


veicolo, io [imploro] Te, o Signore venerabile, per [ottenere] la
grazia. Come un padre [perdona l’errore] del figlio, come l’ami-
co [perdona l’errore] dell’amico, [come] l’amante [perdona l’er-
rore] dell’amata, voglia [Tu], o Dio, tollerare [i miei errori].

“Perciò, inchinandomi”, rendendo omaggio, “e offrendo


interamente”, totalmente “il [mio] veicolo”, il corpo, prostran-
domi umilmente, “io [imploro] Te, o Signore venerabile”, o
Padrone degno di lode, “per [ottenere] la grazia”, perché [Tu
mi] conceda la grazia.
Tu, ancora, nel modo in cui “...un padre” perdona l’errore
“del figlio”, e “come l’amico [perdona]” ogni errore “dell’amico”,
o “come l’amante” perdona l’errore “dell’amata”, così “voglia
[Tu], o Dio, tollerare”, sopportare, perdonare [i miei errori].
Questo è il significato.

11.45. Sono [divenuto] eccitato nel vedere ciò che non era
stato [mai] visto prima, e [nonostante ciò] la mia mente è assai
angosciata dalla paura. Quella forma soltanto mostrami, o Dio.
Sii benevolo, Signore dei deva, dimora dell’universo.

Io “Sono [divenuto] eccitato nel vedere ciò che non era


stato [mai] visto prima”, cioè questa tua Forma universale che
non era mai stata percepita prima né da me né da altri, “e
[nonostante ciò] la mia mente è assai angosciata dalla paura”.
Quindi” Quella forma soltanto mostrami”, [rivela] a me, “o
Dio”, che per me è clemente. “Sii benevolo, o Signore dei deva,
dimora dell’universo”. [L’espressione] “dimora dell’universo”
11.47 Undicesimo Adhyåya 457

(jagannivåsa) sta per: ‘o dimora dell’universo’ (he...), [in quan-


to Tu sei] la sede dell’universo11.

11.46. Ornato di diadema, munito di scettro e con il disco [in


mano]: soltanto in questo modo io desidero vedere Te, con quel-
la sola forma dalle quattro braccia, o Tu che possiedi mille
braccia, o Forma universale.

“Ornato di diadema”, guarnito da una corona, in maniera


simile “munito di scettro”, provvisto dell’asta regale, “e con il
disco [in mano]: soltanto in questo modo io desidero”, anelo
“vedere Te...”: il significato è come in precedenza (Bha. Gı.
11.17). Poiché è così, pertanto “...con quella sola forma dalle
quattro braccia”, ossia sotto l’aspetto del figlio di Vasudeva,
“o Tu che possiedi mille braccia”, pur essendoti presentato [a
Me] nella totalità dei tuoi aspetti, “o Forma universale”, vale a
dire: [desidero vedere Te] con quella sola forma [universale],
avendo Tu riassorbito la totalità degli aspetti [terribili con i
quali Ti sei rivelato a me].
Avvertendo che Arjuna era terrorizzato e avendo riassor-
bito la totalità degli aspetti [terrificanti con i quali gli si era
mostrato], Ÿrı Bhagavat, rassicurandolo con espressioni ama-
bili, parlò [a lui ancora]:

Ârı Bhagavat disse:

11.47. Da Me, reso benevolo, ti è stata mostrata, o Arjuna,


attraverso il [mio] proprio [potere dello] yoga, questa forma
suprema, radiosa, universale, infinita, principiale, quella mia
[forma] che non è stata [mai] vista prima da altri che te.

“Da Me, reso benevolo...”. Si definisce benevolenza (prasåda)


l’atteggiamento favorevole verso di te. [Dunque] “Da Me, reso
benevolo”, cioè dotato di tale [atteggiamento], “ti è stata mo-
458 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 11.47

strata, o Arjuna, questa suprema forma”, cioè la [mia] Forma


universale, “attraverso il [mio] proprio [potere dello] yoga”, in
virtù del divino potere a Me intrinseco, “radiosa”, ridondante di
luce, “universale”, totale, “infinita”, cioè priva di limite, “princi-
piale”, esistente fin dall’inizio, “quella mia” forma, propria [solo]
di Me, “che non è stata [mai] vista prima da altri che da te”, da
nessun altro all’infuori di te. [Bhagavat] loda tale [sua Forma
universale] in quanto ritiene: ‘tu (Arjuna) hai conseguito certa-
mente il [tuo] fine grazie alla visione della mia propria forma’.

11.48. Nè per mezzo dello studio dei Veda o dei sacrifici o


tramite atti di donazione, neanche per mezzo di rituali né at-
traverso rigide austerità Io posso essere visto in tale forma nel
mondo degli uomini da altri che te, o eroe dei Kuru.

“Né per mezzo dello studio dei Veda o dei sacrifici...”, cioè:
neanche attraverso lo studio dei quattro Veda o, parimenti,
attraverso lo studio dei sacrifici (yajña). Poiché è ben noto
che lo studio dei sacrifici [si acquisisce] proprio grazie allo
studio dei Veda, la menzione separata dello studio dei sacrifici
intende indicare la conoscenza specifica dei sacrifici. Simil-
mente, né “...tramite atti di donazione”, come [la cessione,
quale mezzo espiatorio, di tanto oro quanto è] il peso di un
uomo, “neanche per mezzo di rituali” [ancorché] prescritti
dalla Âruti, quali l’Agnihotra o altri, “né”, ancora, “attraverso
rigide austerità” come quella del Cåndråya√a (nella quale la
quantità di cibo cala fino ad annullarsi e quindi cresce di nuo-
vo seguendo le fasi lunari) o altre severe astinenze...
Dunque “...Io” non “posso essere visto in tale forma...” –
[si ha l’espressione] ‘tale forma’ (evaær¥pa¢) in quanto Io sono
Colui al quale [soltanto] appartiene la Forma universale quale
[ti] è stata mostrata – “...nel mondo degli uomini”, nel mondo
umano, “da altri che te”, [cioè: non posso essere percepito] da
un [qualsiasi] altro [essere] oltre a te, “o eroe dei Kuru”.
11.51 Undicesimo Adhyåya 459

11.49. Non angosciarti e non cadere nello sconcerto per aver


visto questo mio sì terribile aspetto. Libero dalla paura e con la
mente gratificata, rimira, tu, ancora quella stessa mia forma
[benevola].

“Non angosciarti”, non vi sia [in te] timore, “e non cade -


re nello sconcerto”, non avere la mente confusa, “per aver
visto”, dopo aver percepito “questo mio aspetto sì terribile”
quale [ti] è stato mostrato. “Libero dalla paura”, affrancan-
doti da [ogni] timore, “e” trovandoti “con la mente gratifica-
ta, rimira, tu, ancora”, nuovamente, “quella stessa (mia) for-
ma” dalle quattro braccia nell’atto di reggere la [effigie del-
la] conchiglia, il disco e lo scettro, cioè questa forma da te
prediletta.

Sañjaya disse:

11.50. Così Våsudeva, avendo parlato in tale maniera ad A-


rjuna, mostrò di nuovo la sua propria forma e il Mahåtman,
avendo assunto ancora una volta la sua placida sembianza,
consolò quegli che era impaurito.

“Così”, in questo modo, “Våsudeva, (avendo parlato in tale


maniera)”, avendo proferito siffatta espressione “ad Arjuna,
mostrò di nuovo”, rivelò ancora “la sua propria forma” [uma-
na] in quanto nato nella famiglia di Vasudeva “e il Mahå-
tman, avendo assunto ancora una volta”, nuovamente, “la sua
placida sembianza”, cioè [quella] dall’aspetto perfettamente
pacificato, “consolò”, rincuorò “quegli che era impaurito”.

Arjuna disse:

11.51. Nel vedere questa tua placida umana forma, o Janå-


rdana, adesso sono ridivenuto sereno e tornato alla [mia] natura.
460 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 11.51

“Nel vedere questa tua placida umana forma”, perfetta-


mente pacificata, per me benevola, “o Janårdana, adesso”, ora
“sono ridivenuto...”, [sono] tornato a essere...
Che cosa?
“...sereno”, con la mente perfettamente tranquilla, e sono
“tornato alla [mia] natura”, cioè nella mia propria condizione
[di spirito].

Ârı Bhagavat disse:

11.52. Ben difficile a vedersi è questa mia forma, che [tutta-


via tu] hai osservato; anche i deva continuamente bramano
contemplare questa forma.

Ben difficile a vedersi (sudurdarŸa) è ciò la cui visione [si


verifica solo] con grande difficoltà. “Ben difficile a vedersi è
questa mia forma, che [tuttavia tu] hai osservato; anche i deva
continuamente”, sempre “bramano contemplare questa” mia
“forma”: vale a dire che, sebbene [persino i deva] aspirino in-
tensamente a vederla, [tuttavia] non [la] hanno [mai] vista,
come [invece è accaduto a] te, né [mai la] vedranno.
Perché?

11.53. Io, né attraverso i Veda, né con l’austerità, né con la


donazione e nemmeno con l’offerta sacrificale posso essere visto
in siffatta parvenza come Mi hai visto [tu]...

“Io, né attraverso i Veda”, persino attraverso i quattro Veda


quali il Íg, lo Yajus, il Såman e l’Atharva, “né con l’austerità”,
per quanto tormentosa come il [voto chiamato] Cåndråya√a o
altro, “né con la donazione” di mucche, terreni, oro, ecc. “e nem-
meno con l’offerta sacrificale” quale il sacrificio [vero e proprio],
o l’adorazione rituale, “posso essere visto in siffatta parvenza”,
nell’aspetto quale [ti] è stato mostrato, “come Mi hai visto” tu...
11.55 Undicesimo Adhyåya 461

In che modo, allora, [posso essere visto]?


Si dice:

11.54. ...ma grazie a una devozione non rivolta [anche] ad


altro Io posso, o Arjuna, in siffatta forma essere conosciuto, ve-
duto e penetrato nella essenza, o Paraætapa.

“...ma [solo] grazie a una devozione...”, qualificata in che modo?


[Bhagavat lo] dice: “...non rivolta [anche] ad altro...” (ana-
nya), ossia che non si disperde [volgendosi pure verso altre
forme divine, ecc.]12. [Solo] quella che, invero, non si dirige
mai separatamente verso un altro [deva, ecc.] che non sia il
Signore, è una devozione non rivolta [anche] ad altro. Una
devozione non rivolta [anche] ad altro è quella mercé la quale,
persino attraverso tutti i [propri] sensi, non si può percepire
altri che Våsudeva. Grazie a tale fede “...Io posso, o Arjuna, in
siffatta forma”, ossia sotto l’aspetto della [mia] Forma universale
“essere conosciuto” in conformità alle Scritture. Non solamente
[posso essere così] conosciuto in conformità alle [dichiarazio-
ni delle] Scritture, [ma], ancora in conformità alle [dichiara-
zioni delle] Scritture, pure “veduto e penetrato nella essenza”,
cioè realizzato direttamente nella [Mia] reale natura, “o Pa-
raætapa”, cioè [in modo] tale da determinare la liberazione.
Ora, riassumendo il significato che costituisce l’essenza
(såra) della intera Scrittura della [Bhagavad] Gıtå, vòlto al
[conseguimento del] sommo Bene (la liberazione), si dice:

11.55. Colui che compie l’azione per Me, che ha Me come


Supremo, che a Me è devoto, che è affrancato da [ogni] attacca-
mento, che è libero da avversione verso tutti gli esseri, costui Mi
raggiunge, o På√ƒava.

“(Colui) che compie l’azione per Me...”. L’azione compiuta


per Me (matkarman) è l’azione dedicata a Me, colui che la ef-
462 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 11.55

fettua è colui che compie l’azione per Me (matkarmakÿt);


“...che ha Me come Supremo...”: un servitore compie l’azione
per il padrone ma non per sé stesso, [né] considera il padrone
come la mèta suprema da raggiungere dopo la [propria] di-
partita; invece questi, il quale compie l’azione per Me e consi-
dera Me soltanto come la [propria] suprema mèta, ha Me come
Supremo. Quegli, per il quale Io rappresento la suprema, ulti-
ma mèta, è colui che ha Me come Supremo (matparama). Si-
milmente, “...che è devoto a Me”: colui che onora soltanto Me
con tutti i mezzi, con tutto sé stesso e con qualsiasi sforzo, è
colui che è devoto a Me (madbhakta)13; “...affrancato da [ogni]
attaccamento”: l’attaccamento (sa§ga) è la propensione (prıti),
l’affetto; [l’espressione] ‘affrancato da [ogni] attaccamento’
(sa§gavarjita) significa: affrancato da [qualsiasi] legame con
la ricchezza, i figli, gli amici, la moglie; dunque affrancato da
[tutto] ciò; “...che è libero da avversione”, si è distaccato dalla
insofferenza, cioè è privo di [qualsiasi] sentimento di ostilità
“verso tutti gli esseri”, per quanto possano avere arrecato of-
fesa estremamente grave a lui stesso: colui, che è siffatto e a
Me [sempre e totalmente] devoto, “...costui Mi raggiunge”;
soltanto Io stesso sono per lui la suprema mèta (parå gati¢),
non esiste [per costui] alcun’altra mèta.
Questa è la riverita istruzione da Me impartita a te, “o
På√ƒava”.

Nelle Scritture yoga sulla conoscenza del Brahman


appartenenti alla Upani≤ad della sacra Bhagavadgıtå
questo è l’Undicesimo Capitolo
nel dialogo tra Kÿ≤√a e Arjuna
intitolato:
‘Lo yoga della visione della forma universale’

*
NOTE all’Undicesimo Adhyåya

1
Cfr. Bha. Gı. 9.15.
2
Cfr. Bhå. Gı. 11.38.
3
Sia il termine indicante la discesa, cioè l’incarnazione in con-
dizione umana, sia quello che definisce la rimozione o l’eliminazio-
ne di qualcosa discendono, etimologicamente, da una medesima ra-
dice, t™, preceduta dal prefisso ava-, ossia: avatåra. Le schiere dei
sura, esseri solari o luminosi, quindi deva, sono discese (avatır√a) e
si sono incarnate in forma umana (manu≤yasaæsthåna) per consen-
tire agli uomini di portare a esaurimento (avatåra) il carico karmi-
co acquisito dalla stirpe umana sulla terra. Ogni discesa divina con-
templa questa finalità e si compie nel periodo in cui più pressante è
la necessità di riportare l’essere umano sulla via della rettitudine e
della conformità al Principio.
4
Cfr. Bha. Gı. 11.45.
5
ParaŸuråma viene considerato una incarnazione parziale di
Vi≤√u discesa in passato per fronteggiare, ridurre all’impotenza e
punire l’ordine k≤atriya colpevole di aver soverchiato i bråhma√a e
capovolto la gerarchia tradizionale. Si tratta, dunque, di un eroe di
natura divina.
6
Per l’intero passo, cfr. Kau. 2.11.
7
In questo contesto sat e asat definiscono ancora il manifestato
e il non-manifestato, il formale (piano effettuale, grossolano e sotti-
le) e ciò che è allo stato non-formale (causale). Dal punto di vista
della realtà suprema (paramårtha), sono non-reali in quanto entram-
bi sovrapposizioni (adhyåropa). Si torni alla nota 9.15.
464 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

8
Si torni a Bha. Gı. 11.18.

L’aggettivo idam (questo) è declinato al neutro mentre il ter-


9

mine mahiman (grandezza) è maschile.

Mentre una causa può produrre molteplici effetti, che appaio-


10

no tali a seconda dell’angolazione conoscitiva, princìpi causali dif-


ferenti non possono determinarsi univocamente in un solo effetto.
Nella ipotesi di più ÙŸvara, l’uno potrebbe contrapporsi all’altro nel-
la volontà o nell’atto creativi o distruttivi, per cui sia la venuta al-
l’esistenza (utpatti), sia la conservazione (sthiti), sia la dissoluzione
finale (pralaya) non potrebbero non risentire di tali interferenze.
Scrive Ånandagiri nella sua †ıkå: “[Ammettendo più ÙŸvara] potreb-
be aversi che, laddove un ÙŸvara intenda creare, un altro intenda di-
struggere, perché non è a ragione immaginabile che i differenti ÙŸva-
ra nutrano i medesimi propositi [al medesimo tempo]. Così, essendo
ognuno indipendente dall’altro nel proprio volere, l’atto dell’uno
potrebbe essere contrastato da quello dell’altro, determinando, per
l’universo, l’effettiva impossibilità di esistenza”. Se tale reciproco
contrasto non avesse luogo, quindi unico il loro proposito, la loro
pluralità non avrebbe più ragione di essere.
11
Si torni a Bha. Gı. 11.25.
12
Cfr. Bha. Gı. 8.22-23 e 9.31.
13
Cfr. Bha. Gı. 7.18, 23, 25-26, 31 e 9.34.

*
Dodicesimo Adhyåya
(Lo yoga della devozione)

[Dice Arjuna:] Nei Capitoli a cominciare dal Secondo fino a


quello (il Decimo) che tratta delle manifestazioni espressive del
potere [del Signore] è stata enunciata la meditazione-conoscen-
za concernente il supremo åtman, ovvero il Brahman, l’Ak≤ara,
specificato in quanto completamente privo di qualsiasi sovrappo-
sizione limitante, mentre qua e là è stata esposta la meditazione
[sulla conoscenza] concernente Te quale Signore di qualsiasi con-
dizione caratterizzata dalla capacità inerente a ogni divino pote-
re e a ogni conoscenza. Invece, nel Capitolo relativo alla [manife-
stazione della tua] Forma universale (l’Undicesimo), Tu hai pro-
spettato, ancora al fine della meditazione-conoscenza, la tua pro-
pria Forma universale come Signore primordiale, avente natura
di åtman dell’intero universo, e, avendo ciò mostrato, hai affer-
mato: «Colui che compie l’azione per Me...», ecc. (Bha. Gı. 11.55).
Quindi, in relazione a queste due prospettive, io ti interro-
go sospinto dall’ardente desiderio di conoscere quale delle
due (la meditazione-conoscenza dell’Imperituro o l’azione de-
dicata al Signore) sia la migliore. Così parlò Arjuna.

Arjuna disse:

12.1. Così costantemente dediti, [sono] quei devoti che ono-


rano Te, e [vi sono] anche coloro che [onorano] l’Indistruttibile
non-manifesto. Tra [tutti] costoro, quali sono i più dotati [della
conoscenza] dello yoga?
466 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 12.1

[Il termine] “così” (evam) si riferisce al significato espres-


so nello Ÿloka immediatamente enunciato, cioè: «Colui che
compie l’azione per Me...», ecc. (Bha. Gı. 11.55).
“Così costantemente dediti”, cioè impegnati senza interru-
zione essendo totalmente assorti nell’azione dedicata al Signore,
nel senso che è stato espresso all’inizio, “[sono] quei devoti che”,
trovandosi senza altro rifugio, “onorano Te...”, cioè meditano
sulla [tua] Forma universale così come è stata [da Te] mostrata.
“...e [vi sono] anche” altri, ossia “coloro che”, abbandonata
ogni volizione individuale e operata la completa rinuncia nei
riguardi di qualunque [forma di] attività, “[onorano] l’Indi-
struttibile”, cioè il Brahman così come è stato specificato, che
è “non-manifesto” (avyakta) in quanto al di là della portata
dei sensi [compresa la mente] perché totalmente scevro di
qualsiasi sovrapposizione limitante (che possa costituire og-
getto di percezione, di definizione, ecc.).
Se nel piano empirico vi è qualcosa entro la portata dei
sensi, ciò viene detto “manifesto” (vyakta), in virtù della radi-
ce verbale añj (esprimere, esternare; vi+añj = manifestare), a
motivo della sua natura di oggetto; ma questo Imperituro è
opposto a ciò. [Pertanto] il significato è: ‘...e [vi sono] anche
coloro che onorano Quello che è stato specificato dalle pro-
prietà quali sono state elencate (cioè dediti alla meditazione
sull’Assoluto incondizionato)’.
“Tra [tutti] costoro”, cioè fra i due [tipi di devoti], “quali
sono i più dotati [della conoscenza] dello yoga?”, ossia: quali
sono veramente conoscitori dello yoga?

Ârı Bhagavat disse:

Per quanto riguarda coloro che onorano l’Ak≤ara, essi sono


autentici conoscitori che hanno estinto le [proprie] volizioni
individuali; tralasciamoli per un momento, di loro parleremo
più avanti. Invece, per quanto concerne gli altri,
12.3 Dodicesimo Adhyåya 467

12.2. Coloro che, avendo immerso la mente in Me, sempre


unificati onorano Me dotati di fede suprema, costoro sono da
Me ritenuti unificati in modo perfetto.

“Coloro che”, essendo devoti, “avendo immerso”, avendo


[integralmente] posto “la mente in Me”, nella Forma universale,
nel supremo Signore, “sempre unificati”, cioè essendo costante-
mente assorti nel modo espresso dallo Ÿloka enunciato al termi-
ne del Capitolo immediatamente precedente, “onorano Me”, il
Signore che governa su tutte le pratiche yoga, l’Onnisciente, la
cui percezione (visione spirituale) è totalmente libera dall’an-
nebbiamento dovuto a cause di afflizione (kleŸa) come la passio-
ne, ecc., essendo “dotati di fede suprema”, eccelsa, “costoro sono
da Me ritenuti”, sono da parte mia considerati “unificati in modo
perfetto”. Infatti essi trascorrono il giorno e la notte con la con-
sapevolezza ininterrottamente assorbita in Me: per questo è giu-
sto dire di loro che sono unificati in modo perfetto (yuktatama)1.
Obiezione: Forse gli altri non sono unificati in modo perfetto?
Risposta: Non [è così], ma ascolta ciò che va detto nei loro
riguardi.

12.3. Ma quelli che contemplano dovunque l’Imperituro,


l’Indescrivibile, il Non-manifesto, l’Onnipresente e l’Impensa-
bile, l’Immutabile, l’Immobile, il Permanente,...

“Ma quelli che contemplano dovunque”, ossia onorano dap-


pertutto “l’Indistruttibile, l’Indefinibile...”: essendo non-mani-
festato, è al di là della portata della parola per cui non può
essere definito, pertanto è indefinibile (anirdeŸya); “...il Non-
manifesto...”: è non-manifesto (avyakta) in quanto non viene
[reso] manifestato attraverso nessun mezzo conoscitivo2.
Si chiama contemplazione (upåsana) l’identità, [ottenuta]
con il renderlo oggetto [di profonda meditazione], dell’ente
468 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 12.3

che deve essere contemplato, dopo averlo assimilato in con-


formità alle Scritture, [quando sia mantenuta] per lungo tem-
po grazie a un flusso continuo di consapevolezza [sempre]
uguale simile a un filo di olio: tale condizione [i saggi] la
chiamano contemplazione.
[Il testo] enuncia la qualificazione dell’Imperituro che deve
essere contemplato: [è] “Onnipresente”, cioè pervadente come
lo spazio, e “Impensabile”: è impensabile in quanto non è ma-
nifesto. Infatti, ciò che rientra nella sfera sensoriale, può esse-
re pensato anche attraverso la mente, ma l’Imperituro, essen-
do opposto a ciò, è impensabile.
[Inoltre Esso] è “Immutabile” (k¥†astha). [Si dice] ‘falso’
(k¥†a) un oggetto di buona qualità a vedersi ma recante difet-
to all’interno. È ben noto nel mondo ordinario [l’uso concer-
nente] il termine ‘falso’ in [espressioni come]: ‘di falsa natu-
ra’ (k¥†ar¥pa), ‘falsa testimonianza’ (k¥†asåk≤ya), ecc. e, in
maniera simile, indicando una imperfezione contenuta all’in-
terno, [tale termine viene impiegato] in modo da definire in
senso secondario il seme del molteplice divenire ciclico, cioè
l’ignoranza, ecc., come nei passi: «Si deve riconoscere la Pra-
kÿti, invero, come la måyå e il Grande Signore, invero, come
Colui che governa la måyå» (Âve. 4.10), «(...questa) mia...
måyå... è difficile da superare» (Bha. Gı. 7.14). È ben noto il
[ricorso al termine] ‘falso’ [come pure il suo significato figu-
rato in tali sentenze e] anche in altre. [Ora il termine] “immu-
tabile” (k¥†astha) è quello che è stabilito (stha) internamente a
tale [ente] falso (k¥†e) in quanto sovrintende a ciò3. Oppure è
[detto] immutabile in quanto stabile come una catasta (k¥†a)
[di oggetti pesanti, ecc.]. Proprio per questo è “Immobile” e,
poiché immobile, è “Permanente”, vale a dire eterno.

12.4. ...che, controllando completamente l’insieme dei sensi,


[sono] sempre equanimi, costoro realizzano certamente Me, [e
questi stessi sono] contenti della felicità di tutti gli esseri.
12.5 Dodicesimo Adhyåya 469

“...che, controllando completamente”, trattenendo autenti-


camente, raccogliendo “l’insieme dei sensi”, il fascio dei sensi,
“[sono] sempre”, in qualsiasi circostanza “equanimi”: sono
equanimi (samabuddhi) coloro il cui stato mentale è [sempre]
il medesimo, uguale nell’acquisizione del desiderato come del
non-desiderato; “...costoro”, i quali sono siffatti, “realizzano
certamente Me, [e questi stessi sono] contenti della felicità di
tutti gli esseri”. Di loro non si può dire nulla [altro se non che]
costoro realizzano [certamente Me], perché, infatti, è stato
detto: «...ma il jñånin è da Me ritenuto l’åtman stesso...» (Bha.
Gı. 7.18). Infatti, per coloro che sono [divenuti] della [medesi-
ma] natura del Signore non si può dire che siano unificati in
modo perfetto o non unificati in modo perfetto.
Invece,

12.5. Sofferenza maggiore è per coloro la consapevolezza dei


quali è fissata sul Non-manifesto, perché la mèta che è il Non-
manifesto viene raggiunta con difficoltà da coloro che posseg-
gono un corpo.

“Sofferenza maggiore...”: seppure vi sia una sofferenza dav-


vero grande per coloro che sono intenti a compiere l’azione
per Me, ecc. [come descritto in 11.55], invero “Sofferenza mag-
giore è” per coloro che si identificano con l’Imperituro, cioè
per i conoscitori della realtà suprema, [tale sofferenza essen-
do] dovuta al totale distacco dalla identificazione con il [pro-
prio] veicolo individuato (deha); “...è per coloro la consapevo-
lezza dei quali è fissata sul Non-manifesto...”, per quelli le cui
coscienze sono stabilite nel Non-manifesto (avyakta). Hanno la
consapevolezza fissata sul Non-manifesto coloro la consapevo-
lezza dei quali è [costantemente] stabilita nel Non-manifesto.
“...perché”, per il motivo che quella, cioè “la mèta che è il
Non-manifesto” costituita dall’Imperituro (ak≤ara), “viene rag-
giunta con difficoltà da coloro che posseggono un corpo”, cioè
470 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 12.5

da coloro che si identificano con il [proprio] veicolo individua-


to. Per questo la [loro] sofferenza è maggiore.
Di quella che è la condotta empirica di coloro che medita-
no sull’Imperituro parleremo in seguito.

12.6. Ma quelli che, avendo completamente rinunciato a tutte


le azioni [con il porre i loro frutti] in Me, considerano Me come il
Supremo e, assolutamente senza [ricorrere ad alcun] altro yoga,
Mi onorano meditando,...

“Ma quelli che, avendo completamente rinunciato a tutte


le azioni [con il porre i loro frutti] in Me”, in ÙŸvara4, ed es-
sendo coloro che “considerano Me come il Supremo...” – con-
siderano Me come il Supremo (matpara) quelli per i quali Io
[soltanto] rappresento il Supremo5 – “e, assolutamente senza
[ricorrere ad alcun] altro...”: non ha altro [oggetto di contem-
plazione] quegli per il quale, eccezion fatta per l’åtman, ossia
il deva che è la [stessa] Forma universale, non esiste [alcun]
altro supporto [di meditazione].
[Dunque] “...assolutamente senza [ricorrere ad alcun] al-
tro...”.
Quale [altro]?
“...yoga”, cioè [oggetto di] contemplazione (samådhi), “Mi
onorano meditando”, riflettendo [su di Me]...
Che cosa [si invera] per costoro?

12.7. ...per costoro Io divengo Colui che [li] trae definitiva -


mente fuori dall’oceano del divenire ciclico connesso alla morte,
[ma] non dopo lungo tempo, o Pårtha, per coloro la cui consa-
pevolezza è immersa in Me.

“...per costoro”, ossia per quelli che sono [costantemente e


profondamente] assorti nella sola meditazione su di Me, “Io”,
ÙŸvara, “(divengo) Colui che [li] trae definitivamente fuori...”.
12.9 Dodicesimo Adhyåya 471

Da dove?
“...dall’oceano del divenire ciclico connesso alla morte”. Il
divenire ciclico è [definito come] connesso alla morte (mÿtyu-
saæsara) perché il divenire ciclico (saæsåra) è asservito alla
morte (mÿtyu) ed esso stesso è simile a un oceano perché
come un oceano è difficile da attraversare; perciò “...Io di -
vengo Colui che [li] trae definitivamente fuori dall’oceano
del divenire ciclico connesso alla morte, [ma] non dopo lun-
go tempo...”.
Quando, allora?
Affatto immediatamente, “...o Pårtha, per coloro la cui
consapevolezza è immersa in Me”. Hanno la consapevolezza
immersa in Me coloro la consapevolezza dei quali è immersa,
cioè totalmente penetrata, completamente assorbita in Me,
nella [mia] Forma universale.
Poiché [soltanto] per costoro è così, pertanto:

12.8. In Me soltanto la [tua] mente deponi, in Me [soltanto]


l’intelletto risolvi; [in tal modo] dimorerai in Me soltanto, dopo
di qui: non vi è dubbio.

“In Me soltanto”, nella [mia] Forma universale quale ÙŸva-


ra, “la [tua] mente” (manas), connaturata di ideazioni e alter-
native6, “deponi”, stabilisci; “in Me” soltanto “l’intelletto” (bu-
ddhi), che opera la determinazione, “risolvi”, deponi7.
Da ciò, che cosa si avrà per te?
Ascolta: [in tal modo] certamente “dimorerai”, sarai stabi-
lito, ossia prenderai dimora “in Me soltanto” come il mio stes-
so åtman, “dopo di qui”, cioè dopo il decesso del corpo: “non
vi è dubbio”, su ciò non si deve nutrire incertezza.

12.9. [Ma] se non puoi fissare stabilmente la [tua] mente in


Me, allora, grazie allo yoga [consentito da parte] della pratica
assidua, cerca di raggiungere Me, o Dhanañjaya.
472 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 12.9

“[Ma] se”, nel caso in cui “non puoi fissare stabilmente”,


stabilire fermamente così, nel modo come ho detto, “la [tua]
mente in Me, allora”, in seguito a ciò, “grazie allo yoga [con-
sentito da parte] della pratica assidua...”. La pratica assidua
(abhyåsa) consiste nel riportare con insistenza la mente su un
unico supporto [di meditazione] dopo averla ritirata da qual-
siasi [altra ideazione, ecc.]. [Qui] lo yoga consiste nella con-
templazione profonda (samådhåna) resa possibile da tale pre-
cedente [pratica assidua]. Grazie a tale yoga [consentito da
parte] della pratica assidua, “cerca”, sforzati “di raggiunger-
mi”, di conseguire la [mia] Forma universale, “o Dhanañjaya”8.

12.10. Se sei incapace anche nella pratica assidua, diventa


quegli il cui supremo fine è agire per Me: anche [solamente]
compiendo le azioni al mio scopo, otterrai la perfezione.

“[Se] sei incapace”, [se] sei inefficiente “anche nella pratica


assidua, diventa” allora “quegli il cui supremo fine è agire per
Me”. L’azione [effettuata] per Me (matkarman) ha Me come
scopo; colui che ha ciò come sommo obiettivo è quegli il cui su-
premo fine è l’azione [effettuata] per Me (matkarmaparama),
vale a dire, quegli per il quale la cosa principale è agire per Me;
“...anche” solamente “compiendo le azioni al mio scopo” [seppu-
re] senza la pratica assidua [della meditazione], “otterrai la per-
fezione” attraverso l’acquisizione [prima] della purificazione
della mente (sattvaŸuddhi), poi dello yoga (cioè della contempla-
zione), quindi della conoscenza (la presa di consapevolezza).

12.11. Se non sei capace di fare neanche questo, rifugiandoti


nello yoga finalizzato a Me, opera, allora, l’abbandono del frut-
to di qualsiasi azione avendo il sé controllato.

“Se”, ancora, “non sei capace di fare neanche questo”, os-


sia ciò che è stato espresso come il diventare quegli il cui su-
12.12 Dodicesimo Adhyåya 473

premo fine è l’azione [effettuata] per Me, “rifugiandoti nello


yoga finalizzato a Me...”: rinunciando completamente alle azio-
ni mentre vengono compiute [con il porre i loro frutti] in Me,
ciò che produce la loro esperienza [distaccata] è lo yoga fina-
lizzato a Me. Dunque, avendo preso rifugio in quello, “opera,
allora”, cioè immediatamente, “l’abbandono del frutto di qual-
siasi azione”, cioè la completa rinuncia al frutto di tutte le [tue]
azioni, “avendo il sé controllato”, vale a dire trovandoti [sem-
pre] con la mente completamente dominata.
Adesso [Bhagavat] rende elogio all’abbandono del frutto
di qualsiasi azione:

12.12. Migliore, invero, è la conoscenza rispetto alla pratica


assidua, rispetto alla conoscenza eccelle la meditazione, rispetto
alla meditazione [eccelle] l’abbandono del frutto dell’azione;
dall’abbandono [si avrà] immediatamente la pace.

“Migliore, invero”, maggiormente degna di lode, “è la co-


noscenza...” (jñåna)9.
Rispetto a che cosa?
“...rispetto alla pratica assidua” (abhyåsa) preceduta dalla
discriminazione (viveka); “rispetto alla conoscenza”, rispetto
anche a quella, “eccelle la meditazione” (dhyåna) preceduta
dalla conoscenza. Anche “rispetto alla meditazione”, [ancor-
ché] accompagnata dalla conoscenza eccelle – [tale voce ver-
bale] va tratta [dalla parte precedente] – “l’abbandono del
frutto dell’azione” (karmaphalatyåga). Così, “dall’abbandono”
del frutto dell’azione, accompagnato dalle specificazioni pre-
cedenti, si avrà affatto “immediatamente”, e non già trascorso
un certo lasso di tempo, “la pace” (Ÿånti), cioè la soluzione
(upaŸama) del divenire ciclico unitamente alla sua causa (l’i-
gnoranza).
L’abbandono del frutto di tutte le azioni è impartito come
mezzo per [conseguire] il Bene (la liberazione) per il non-co-
474 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 12.12

noscitore impegnato nell’attività, qualora questi non sia in


grado di porre in atto i mezzi precedentemente insegnati, e
non certo come primo [mezzo da adottare], e [proprio] per
questo l’abbandono del frutto di qualsiasi azione viene fatto
oggetto di elogio attraverso l’istruzione concernente la supe-
riorità dell’uno rispetto all’altro [in relazione ai successivi
mezzi elencati] nel passo: “Migliore, invero, è la conoscenza
rispetto alla pratica assidua...”, ecc., perché viene appreso
come ciò che deve essere posto in atto qualora non si sia ca-
paci di applicare i mezzi già trattati.
In base a quale similitudine di proprietà peculiari [con gli
altri mezzi] si ha l’elogio [dell’abbandono del frutto dell’azione
come mezzo per la liberazione]?
[Nella Ka†ha Upani≤ad] si afferma che l’immortalità è
[conseguita] dal perfetto annullamento di tutti i desideri:
«Quando tutti (i desideri che sono fissati nel suo cuore) deca-
dono...» (Ka. 2.3.14); ciò è ben noto [anche dalla Âruti10], e
‘tutti’ i desideri comprendono [anche quelli concernenti] i
frutti delle attività ingiunte sia dalla Âruti che dalla Smÿti,
mentre per il conoscitore stabilmente fondato nella medita-
zione la pace si ha affatto immediatamente all’abbandono di
tali [desideri]. L’uguaglianza relativamente all’abbandono di
tutti i desideri si ha [anche] per l’abbandono del frutto del-
l’azione operato dal non-conoscitore e, in virtù della loro na-
tura di uguaglianza, vi è questo elogio dell’abbandono del
frutto di tutte le azioni inteso a esprimerne un altissimo plau-
so. Nello stesso modo in cui, [narrando che poiché] l’oceano
venne bevuto dal bråhma√a Agastya [in un tempo remoto],
anche i bråhma√a di quest’epoca, [proprio] per l’affinità esi-
stente relativamente alla loro natura di bråhma√a, vengono
fatti oggetto di elogio, così si insegna che [anche] il karmayo-
ga, a motivo [dell’essere affiancato da parte] dell’abbandono
del frutto delle azioni, è un mezzo per [conseguire] il sommo
Bene (la liberazione).
12.12 Dodicesimo Adhyåya 475

E qui vengono enunciati sia lo yoga consistente nel fissare


stabilmente la consapevolezza su Bhagavat, cioè sulla [sua]
Forma universale, presumendo una distinzione tra l’åtman e
ÙŸvara, sia la effettuazione, ecc. dell’azione per Bhagavat. Con
l’indicazione secondo cui [il karmayoga] è un effetto della
ignoranza [data nel passo]: «Se non sei capace di fare neanche
questo...» (Bha. Gı. 12.11), [Bhagavat] mostra che il karmayo-
ga non può ragionevolmente concernere colui che medita sul-
l’Ak≤ara, per il quale non vi è distinzione [tra sé e l’Ak≤ara
stesso], similmente Bhagavat mostra che la meditazione sul-
l’Ak≤ara non si addice a colui che persegue il karmayoga. Dopo
aver asserito, nel passo: «...costoro realizzano certamente Me...»
(Bha. Gı. 12.4), l’indipendenza di coloro che meditano sul-
l’Ak≤ara in relazione al conseguimento dell’assolutezza (la li-
berazione), [Bhagavat], nel [successivo] passo: «...per costoro
Io divengo Colui che [li] trae fuori...» (Bha. Gı. 12.7), mostra
che per gli altri (i seguaci del karmayoga), i quali si sottomet-
tono a ÙŸvara, vi è la dipendenza da un altro [ente]. Infatti, se
costoro venissero considerati essere l’åtman di ÙŸvara, [allora]
in virtù dell’assenza di distinzione quale è stata mostrata,
essi stessi avrebbero la natura di Ak≤ara, per cui risulterebbe
inappropriato in relazione a loro affermare l’atto di trarli fuo-
ri [dall’oceano del divenire da parte di Bhagavat]. E poiché
Bhagavat ha certo sommamente a cuore il bene di Arjuna, im-
partisce a lui solamente il karmayoga, il quale non è [diretta-
mente] connesso con l’autentica visione (conoscenza) ma è
correlato alla concezione di una distinzione [tra l’agente e il
frutto]11. Nessuno si disperderebbe [nell’azione finalizzata,
ecc. compiuta] in una condizione di assoggettamento a qual-
cun [altro] dopo aver realizzato, attraverso i mezzi validi di
conoscenza, che lui stesso è ÙŸvara, per via della contradditto-
rietà [tra le due cose]. Per questo [Bhagavat] procede [nel-
l’impartire l’insegnamento dicendo]: per coloro che meditano
sull’Ak≤ara, che sono stabilmente fondati nell’autentica visione,
476 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 12.12

che sono altresì completi rinunciatari e hanno abbandonato


tutte le volizioni individuali esporrò l’insieme di norme come
[nel passo]: «Colui che verso tutti gli esseri è privo di ostili-
tà...» (Bha. Gı. 12.13), le quali costituiscono un mezzo per
[conseguire] direttamente l’immortalità 12.

12.13. Colui che verso tutti gli esseri è privo di ostilità, che è
amorevole e affatto compassionevole, che è senza possessività,
privo di senso dell’io, equanime nel dolore e nella gioia, tolle-
rante,...

“Colui che verso tutti gli esseri è privo di ostilità”, cioè


non nutre avversione [nei loro confronti] e non prova intolle-
ranza neanche verso ciò che causa sofferenza a lui stesso, in
quanto percepisce tutti gli esseri come sé stesso, “che è amo-
revole...” – è amorevole (maitra) quegli che sperimenta [in
ogni circostanza] l’affettuosità, l’amicizia, una condizione di
affabilità – “...e affatto compassionevole...” – la compassione,
la pietà, la carità verso coloro che sono afflitti: è compassio-
nevole (karu√a) quegli che è [sempre pienamente] dotato di
tale [qualità] – vale a dire il completo rinunciatario che con-
cede l’assenza di timore a qualunque essere 13, “che è senza
possessività”, esente dalla nozione del ‘mio’, “privo di senso
dell’io”, che ha rimosso la nozione dell’ ‘io’, “equanime nel
dolore e nella gioia...” – è equanime nel dolore e nella gioia
quegli per il quale il dolore e la gioia sono identici in quanto
privi della capacità di indurre avversione e attaccamento [ri-
spettivamente] – “...tollerante”, cioè quegli che, munito di tol-
leranza, resta affatto inalterato sia se ingiuriato sia, addirittu-
ra, se percosso...14

12.14. ...pienamente soddisfatto, unificato, dal sé controllato,


dotato di ferma convinzione, con la mente e l’intelletto fissati in
Me, il quale è devoto a Me, quegli mi è caro.
12.15 Dodicesimo Adhyåya 477

“...pienamente”, continuamente “soddisfatto”, convinto di


aver ottenuto a sufficienza, sia nel caso che ottenga sia che
non ottenga i mezzi per sostentare il corpo; similmente, è sod-
disfatto sia nella esperienza del buono che in caso contrario.
Costantemente “unificato”, cioè [sempre] con la mente com-
pletamente raccolta; “dal sé controllato”, con la propria indole
completamente posta sotto controllo; “dotato di ferma con-
vinzione...”: è dotato di ferma convinzione in riferimento al-
l’oggetto che è la realtà dell’åtman quegli la convinzione, la
determinazione del quale è ferma, cioè stabile; “con la mente
e l’intelletto fissati in Me”; la mente (manas) è connaturata di
concezione e rappresentazione15, mentre l’intelletto (buddhi) è
caratterizzato dalla determinazione (adhyavasåya). Ha la
mente e l’intelletto fissati in Me quel rinunciatario completo
del quale i due (mente e intelletto) sono fissati, stabiliti in Me
soltanto. Colui “...il quale”, siffatto, “è devoto a Me, quegli mi
è caro”. Qui viene spiegato ciò che è stato [già] espresso nel
Settimo Adhyåya [nel passo]: «...perché Io sono oltremodo
caro al jñånin ed egli è caro a Me» (Bha. Gı. 7.17).

12.15. Colui dal quale non è tormentato il mondo e il quale


dal mondo non è tormentato, che si è liberato da eccitazione,
invidia, paura e inquietudine, quegli mi è caro.

“Colui”, il completo rinunciatario, “dal quale non è tormen-


tato”, non va incontro ad afflizione, non riceve tribolazione né
viene scosso “il mondo e”, in maniera analoga, “il quale dal
mondo non è tormentato, che si è liberato da eccitazione, in-
vidia, paura e inquietudine...” – [l’espressione] ‘da eccitazio-
ne, invidia, paura e inquietudine’ significa: [liberato] da quel-
le [cause di afflizione] che sono sia l’eccitazione che l’invidia,
sia la paura che l’inquietudine; l’eccitazione (har≤a) è la [con-
dizione di] esaltazione dell’organo interno, caratterizzata dal
fremito dei peli, dalla lacrimazione, ecc., [che si verifica] al -
478 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 12.15

l’acquisizione dell’[oggetto] agognato; l’invidia è il livore [per


la sua mancata acquisizione]; la paura è l’apprensione; l’in-
quietudine è uno stato di ansia – orbene, “...quegli” che si è li-
berato da loro “mi è caro”.

12.16. Colui che è incurante, puro, pronto, indifferente, im-


mune da sofferenza, che ha completamente abbandonato ogni
iniziativa, che mi è devoto, quegli mi è caro.

“Colui che è incurante” del veicolo fisico, dei sensi, degli


oggetti sensoriali e delle [loro reciproche] relazioni, cioè privo
di aspettativa nei confronti degli oggetti del bisogno, “puro”,
dotato di purezza esteriormente e interiormente, “pronto”, in
grado di agire correttamente e subito in merito al da farsi im-
mediato, “indifferente” – è indifferente quell’asceta che non
appoggia l’opinione di nessuno, per quanto [possa essergli]
amico, ecc. – “esente da disagio”, che ha estinto ogni appren-
sione, “che ha completamente abbandonato ogni iniziativa...”
– le iniziative (åraæbha) sono le attività, motivate dal deside-
rio, che vengono intraprese onde goderne il frutto qui o nel-
l’altro mondo: ha abbandonato ogni iniziativa colui la cui atti-
tudine consiste nel deporre totalmente tutte quelle [azioni]
intraprese; “...quegli mi è caro”.
E inoltre,

12.17. Colui che non esulta né esecra, che non si addolora né


nutre aspettative, che ha abbandonato completamente il buono
e il non buono, pieno di devozione, quegli mi è caro.

“Colui che non esulta” all’acquisizione del desiderato “né


esecra” nello sperimentare il non desiderato, “che non si ad-
dolora” alla separazione dall’oggetto amato “né nutre aspetta-
tive” nei confronti di ciò che non ha [ancora] acquisito, “che
ha abbandonato completamente il buono e il non buono”, cioè
12.19 Dodicesimo Adhyåya 479

[colui] la cui attitudine sta nel desistere del tutto sia dalle azio-
ni pure come da quelle impure, “pieno di devozione, quegli mi
è caro”.

12.18. Colui che è il medesimo di fronte al nemico e all’amico


e, similmente, nell’onore e nel disonore, che è equanime dinanzi
al freddo e al caldo, nel piacere e nel dolore, totalmente affran-
cato dall’attaccamento,...

“Colui che è il medesimo di fronte al nemico e all’amico e,


similmente, nell’onore e nel disonore”, nell’adulazione come
nella esecrazione, “che è equanime dinanzi al freddo e al cal-
do, nel piacere e nel dolore”, in ogni circostanza “totalmente
affrancato dall’attaccamento...”.
E ancora,

12.19. ...che [nella propria considerazione] ha uguali biasi-


mo e lode, che vive nel silenzio, completamente soddisfatto di
qualsiasi cosa, privo di [attaccamento alla] dimora, dalla mente
stabile, pieno di devozione [nei miei confronti], quegli mi è caro.

“...che [nella propria considerazione] ha uguali biasimo e


lode”. [L’espressione] ‘biasimo e lode’ indica sia il biasimo
che la lode; ha [nella propria considerazione] uguali biasimo e
lode colui per il quale i due sono uguali; “...che vive nel silen-
zio”, cioè osserva il silenzio avendo la parola perfettamente
sotto controllo16; “completamente soddisfatto di qualsiasi cosa”
che sia necessaria unicamente quale mezzo di sostentamento
del corpo. E, in tal senso, è stato detto: «Di qualsiasi cosa si
copra, di qualsiasi cosa si nutra, dovunque si ponga a giacere,
i deva lo conoscono come un bråhma√a» (Ma. Bhå. 12.3.245.12).
E inoltre: “privo di [attaccamento alla] dimora”, o ‘senza casa’,
come [viene definito] da un altro passo della Smÿti: è privo di
dimora colui per il quale non esiste dimora, sede o abitazione
480 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 12.19

definitiva; “...dalla mente stabile”: è uno dalla mente stabile


(sthiramati) colui il cui pensiero ha come stabile contenuto la
realtà suprema; [colui che è] “...pieno di devozione [nei miei
confronti], quegli mi è caro”.
L’insieme delle caratteristiche di coloro che meditano sul-
l’Ak≤ara, che sono receduti da tutte le volizioni individuali e
sono completi rinunciatari stabilmente fondati nella conoscen-
za della realtà suprema, quali sono state menzionate in prece-
denza a cominciare dal passo: «Colui che verso tutti gli esseri
è privo di ostilità...», ecc. (Bha. Gı. 12.13), vengono riassunte
[nel verso conclusivo del Capitolo]:

12.20. Coloro che, invero, si dedicano totalmente a questa


[via] immortale conforme al dharma, quale è stata esposta, che
sono pieni di fede, che considerano Me come il Supremo e sono a
Me devoti, quelli mi sono oltremodo cari.

“Coloro”, i completi rinunciatari “che, invero, si dedicano


totalmente”, che aderiscono “a questa [via] immortale confor-
me al dharma...” – è conforme al dharma in quanto non avul-
sa dal dharma, ed essa è anche immortale in quanto è il mez-
zo per [conseguire] l’immortalità – “quale è stata esposta” a
cominciare dal passo: «Colui che verso tutti gli esseri è privo
di ostilità...», ecc. (Bha. Gı. 12.13), essendo “pieni di fede, che
considerano Me come il Supremo...” – considerano Me come
il Supremo (matparama) coloro per i quali la mèta suprema,
cioè senza nulla che la trascenda, sono Io [stesso] cioè l’åtman
che è l’Ak≤ara17 – “...e sono a Me devoti”, cioè rifugiati nella
suprema devozione caratterizzata dalla conoscenza della real-
tà suprema, “...quelli mi sono oltremodo cari”.
Ciò che è stato indicato nel passo: «...perché (Io) sono ol-
tremodo caro al jñånin...» (Bha. Gı. 7.17), viene qui riassunto
spiegandolo [in questo passo finale con le parole]: “...e sono a
Me devoti, quelli mi sono oltremodo cari”, per il motivo che,
12.20 Dodicesimo Adhyåya 481

aderendo “a questa [via] immortale conforme al dharma, qua-


le è stata esposta”, si diviene oltremodo cari al Signore Vi≤√u,
cioè al supremo Signore (parameŸvara, Brahman). Perciò que-
sta [via] immortale e conforme al dharma deve essere seguita
con intenso impegno da parte di colui che aspira alla liberazio-
ne, da colui che aspira intensamente a raggiungere la suprema,
amata dimora di Vi≤√u. Tale è il significato della sentenza18.

Nelle Scritture yoga sulla conoscenza del Brahman


appartenenti alla Upani≤ad della sacra Bhagavadgıtå,
questo è il Dodicesimo Capitolo
nel dialogo tra Kÿ≤√a e Arjuna
intitolato:
‘Lo yoga della devozione’

*
NOTE al Dodicesimo Adhyåya

1
È detto “unificato” (yukta) lo yogin che ha raggiunto la unione
(yoga), il fine dello yoga. Quando non vi è più distinzione tra que-
sto yogin e l’oggetto dello yoga, si dice che egli è “il più unificato”
(yuktatama), il “migliore tra gli unificati”, ossia lo è “in modo per-
fetto”. È lo yogin per eccellenza. Del resto si può parlare di “unio-
ne” (yoga) o “unificazione” (yukti, ekıbhava) fin quando ne sussi-
stono i termini – un ente che si unisce a un altro o vi si immerge –
il che presuppone una dualità ma, per il “perfetto unificato” vi è, in
effetti, una vera e propria unità-identità: in altre parole, è “senza-
secondo”.
2
Cfr. Bha. Gı. 8.20 e relativo Commento.
3
Il Brahman è l’intimo åtman di ogni essere e quindi della tota-
lità e, come Ordinatore interno di tutto l’universo, è l’Immutabile
che governa dall’interno la mutevole corrente delle forme indefini-
te che si avvicendano nel flusso del divenire. Si veda anche Bha. Gı.
15.16.
4
In questo e in altri bhå≤ya Âa§kara, ponendosi da una prospet-
tiva metafisica, denomina ÙŸvara sia il Signore, il Dio persona, l’Es-
sere universale, il Brahman non-supremo o con attributi (sagu√a),
sia il Brahman supremo o senza attributi (nirgu√a): il primo è un
aspetto qualificato di Quello inqualificato. Il Brahman, l’Imperituro
non-manifesto, attraverso il suo potere di måyå, si manifesta come
il Signore che assegna agli esseri il frutto del loro operato e conce-
de la liberazione alle coscienze mature. In altri casi il significato ap-
pare chiaro dal contesto. V. anche nota 18.
5
Cfr. Bha. Gı. 2.61, 6.14, 11.55 e nota 6.12.
484 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

Il termine composto saækalpavikalpa si riferisce alla mente e


6

comprende vari significati: ideazione e alternativa, risoluzione e


dubbio, concetto e immaginazione, ecc. Indicano la duplice facoltà
di pervenire a una cognizione certa o incerta in merito a un dato
oggetto, ovvero di determinarne esattamente la natura o di proiet-
tare molteplici possibilità.

La voce verbale imperativa ‘deponi’ (niveŸaya, causativo di ni-


7

viŸ) acquista diversi significati: collocare, sprofondare, assorbire,


immergere, arrestare, ecc. che si riferiscono all’atto di risolvere la
mente, nella integralità delle sue funzioni, arrestando il flusso pen-
sativo, ideativo e percettivo.

Nel verso 8.8 la pratica assidua (abhyåsa) indicava il riportare


8

continuamente l’attenzione consapevole sull’oggetto di meditazione


che è l’åtman ed era identificata con lo yoga; qui invece costituisce
un mezzo preliminare per stabilizzarsi nello yoga, cioè nella contem-
plazione dell’åtman. Del resto l’accezione operativa del termine yoga,
“unione”, comporta prima l’unirsi deliberatamente a qualcosa, poi il
permanere nella unità con quello.

Qui, come si comprende anche dal resto dello Ÿloka, con “cono-
9

scenza” si intende l’aspirazione conoscitiva, unitamente all’acqui-


sizione concettuale della dottrina, la quale prepara il terreno alla
conoscenza in quanto presa di coscienza.
10
Cfr. Bÿ. 4.4.6.

L’autentica visione (samyagdarŸana) implica l’assenza di dua-


11

lità e nella consapevolezza di questa nessun agire è possibile, mentre


l’azione presuppone la distinzione tra agente, frutto, atto e mezzi.
12
Cfr. Bha. Gı. 11.55.
13
Cfr. Bha. Gı. 3.4 e nota 3.11.

Cfr. Ma. Bhå. 12.237.34. Si torni a Bha. Gı. 2.71. V. anche Bha.
14

Gı. 18.53.
Dodicesimo Adhyåya 485

15
Si torni alla nota 6.
16
Qui si parla del controllo della sola parola. Simboleggia il si-
lenzio (mauna) come status. Colui che osserva il voto del silenzio
(maunin, muni) ha operato il silenzio sui tre piani della espressione:
corporeo, verbale e mentale. Il silenzio del corpo è la non-azione,
l’agire disidentificato dal soggetto agente; il silenzio della parola è
la non-espressione verbale, l’espressione che non nasce dall’io ma
proviene direttamente dall’intelletto superiore (buddhi); il silenzio
della mente è l’assenza di pensiero, la soluzione del processo pen-
sativo, ideativo e proiettivo e anche percettivo, nella piena consa-
pevolezza dell’åtman. Per il discepolo si tratta di voti da rispettare,
per il conoscitore sono il triplice aspetto di una condizione natura-
le. Il conoscitore-muni dimora sempre in mauna, da cui vibra e ir-
radia una profonda e non-duale Coscienza, trasmettendola attra-
verso la sua silenziosa presenza, perché, come dicono le Upani≤ad,
‘il Silenzio cosciente è il Brahman stesso’.
17
Cfr. Bha. Gı. 11.55.
18
Qui Vi≤√u, il Pervadente, designa ancora il Brahman incondi-
zionato, talora definito come il supremo Signore (parameŸvara) o
anche solo ÙŸvara.

*
Tredicesimo Adhyåya
(Lo yoga della distinzione
tra il campo e il conoscitore del campo1)

Nel Settimo Adhyåya sono state delineate le due nature


di ÙŸvara – quella costituita dai tre gu√a e ottuplicemente
suddivisa è la non-suprema (apara) in quanto causa del dive-
nire ciclico [ed è definita ‘campo’], mentre l’altra, che costi-
tuisce il jıva, è definita come il ‘conoscitore del campo’ ed è
consustanziale ad ÙŸvara [stesso], è la suprema (para) – na-
ture attraverso le quali ÙŸvara viene a essere la causa della
venuta in esistenza, della conservazione e della dissoluzione
del mondo. A tale riguardo, attraverso l’accertamento delle
due nature definite come ‘campo’ e ‘conoscitore del campo’,
prende inizio il Capitolo concernente il ‘campo’ (k≤etra), fi-
nalizzato a determinare la reale essenza di Colui che le pos-
siede, cioè di ÙŸvara2.
Nel Capitolo immediatamente precedente, a cominciare
dal passo: «Colui che verso tutti gli esseri è privo di ostilità...»,
ecc. (Bha. Gı. 12.13) fino alla conclusione del Capitolo, è stato
esposto questo [duplice argomento]: il sentiero realizzativo
dei completi rinunciatari che sono conoscitori della realtà e il
modo in cui essi vivono.
Ora, essendo unificati in quale conoscenza della realtà, co-
storo, grazie a una condotta caratterizzata dalle particolarità
quali sono state descritte, divengono ‘cari’ (priya) al Signore?3
Questo Capitolo prende inizio anche con tale intento [di
fornire una risposta a questa domanda].
488 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.1

Dunque, la natura [inferiore, quella che è propriamente la


Prakÿti] essenziata dei tre gu√a, trasformatasi fino ad assume-
re la forma di tutti gli effetti (kårya, i corpi), gli strumenti
(kara√a, i sensi) e i loro oggetti (vi≤aya), si combina con l’ag-
gregarsi [nei suoi elementi costitutivi] e assume la forma del
corpo e dei sensi, ecc. per portare a effettuazione il [duplice]
scopo [del Puru≤a] consistente nella fruizione (bhoga) o nella
emancipazione [dal divenire ciclico] (apavarga)4. Tale aggre-
gato (saæghåta) è questo corpo [attuale] e, in relazione a que-
sto stesso, Bhagavat ha detto:

Ârı Bhagavat disse:

13.1. Questo corpo, o Kaunteya, è il ‘campo’: così viene defi-


nito; colui che conosce [questo corpo, ecc.] lo chiamano: il ‘cono-
scitore del campo’: così [lo definiscono] i conoscitori di ciò.

“Questo...” – ciò che viene espresso con tale pronome [Bha-


gavat lo] specifica come il “...corpo, o Kaunteya...”, [denomi-
nato ‘campo’ (k≤etra)] o perché deve essere protetto dal dan-
no [eventualmente] procurato [dall’esterno] (k≤ata), o perché
soggetto a distruzione (k≤aya), o perché suscettibile di dete-
riorarsi (k≤ara√a), oppure perché in questo, come in un cam-
po, si raccolgono i frutti dell’operato5 – “...è il ‘campo’: così...”:
il termine “così” (iti) [qui non è impiegato per chiudere un di-
scorso diretto ma] possiede il significato della espressione: ‘in
questo modo’ (evam), per cui [il senso è]: “...il campo (k≤etra):
così”, in questo modo “viene definito”, viene denominato.
“...colui che conosce”, che discerne chiaramente questo
campo che è il corpo, dalla pianta dei piedi alla testa, attraver-
so una cognizione spontanea o grazie a una percezione stimo-
lata dalla istruzione [impartita da altri], cioè lo rende oggetto
[di conoscenza] distintamente [da sé stesso], “lo chiamano”,
denominano tale conoscitore, “il conoscitore del campo: così...”
13.2 Tredicesimo Adhyåya 489

[pure qui] il termine “così” (iti) possiede ancora, come in pre-


cedenza, il significato della espressione: “in questo modo” (e-
vam), per cui [il senso è]: “...il conoscitore del campo (k≤etra-
jña): così”, in questo modo lo chiamano...
Chi sono [quelli che lo chiamano così]?
“...i conoscitori di ciò”: sono conoscitori di ciò (tadvidas)
coloro che conoscono i due, ossia [conoscono le nature con -
cernenti] il campo e il conoscitore del campo.
In questo modo sono stati definiti sia il campo che il cono-
scitore del campo6.
Obiezione: Soltanto questo è ciò che si deve comprendere
attraverso la conoscenza?
Risposta: No. [Infatti] si dice:

13.2. Sappi, inoltre, che Io sono il conoscitore del campo in


tutti i campi, o Bhårata. Quella, che è la conoscenza del campo
e del conoscitore del campo, Io la considero la [autentica] cono-
scenza.

“Sappi”, riconosci, “inoltre, che Io”, il supremo Signore al di


là del divenire ciclico, “sono il conoscitore del campo”, caratte-
rizzato nel modo in cui è stato esposto, cioè il conoscitore del
campo perfettamente distinto dalle molteplici sovrapposizioni
limitanti inerenti al campo che caratterizzano [tutti gli esseri]
da Brahmå fino agli enti inerti, “in tutti i campi” 7. Il senso è:
realizza Quello che, eliminata la differenziazione di tutte le so-
vrapposizioni limitanti, è al di là della sfera sia delle definizioni
verbali che dei concetti di ‘esistente’ e di ‘non esistente’, ecc.,
“o Bhårata”, perché, a prescindere dalla natura del campo, del
conoscitore del campo e del Signore, così qual essa è, non vi
è altro che permanga nella portata della conoscenza. Perciò
“Quella, che è la conoscenza del campo e del conoscitore del
campo”, che costituiscono il conoscibile (essendo ciò che si
490 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.2

deve conoscere), conoscenza attraverso la quale i due vengono


resi oggetto [di conoscenza], “Io”, ÙŸvara (Brahman), ossia Vi≤√u,
la considero la [autentica] conoscenza”.
Obiezione: Comunque, se in tutti i campi vi è un unico ÙŸva-
ra, dacché non esiste [nessun] altro [ente] separato da Quello,
allora si deve concludere che ÙŸvara ha una natura soggetta al
divenire ciclico. Oppure, poiché, a prescindere da ÙŸvara, non
vi è esistenza [reale] di [alcun] essere trasmigrante, ne con-
segue il difetto della non esistenza del divenire ciclico. Ora,
ambedue le cose sono indesiderabili, perché si incorrerebbe
nella perdita di valore per le Scritture concernenti la schiavitù
e la liberazione con le rispettive cause e, inoltre, ciò sarebbe
anche in contraddizione con i mezzi validi di conoscenza, come
la percezione sensoriale e gli altri. Innanzitutto il divenire ci-
clico viene constatato attraverso la percezione sensoriale in
quanto caratterizzato da piacere e dolore unitamente alle loro
[rispettive] cause e, dalla percezione della varietà insita nel-
l’universo, si inferisce che il divenire ciclico ha causa nel dha-
rma e nell’adharma. Se vi fosse una identità (unità) di natura
tra il sé [individuato] e ÙŸvara, tutto questo si rivelerebbe, se-
condo ragione, inammissibile.
Risposta: No, perché [ciò] deve essere ammesso in virtù
della distinzione tra conoscenza e ignoranza. [Nella Ka†ha U-
pani≤ad si legge]: «Queste due hanno direzioni opposte e sono
di gran lunga contrastanti: quella che è l’ignoranza e quella che
è conosciuta come conoscenza» (Ka. 1.2.4) e, con il medesimo
senso, anche la differenza del frutto delle due, cioè degli ogget-
ti concernenti la conoscenza e l’ignoranza, viene indicata come
totalmente contraddittoria: «Il bene e il desiderabile (si presen-
tano entrambi all’essere umano: avendoli valutati appieno, il
saggio discerne i due...)» (Ka. 1.2.2). Il bene (Ÿreyas) è oggetto
della conoscenza, mentre il desiderabile (preyas) è effetto della
ignoranza. In tal senso [si esprime] anche Vyåsa: «Dunque, vi
13.2 Tredicesimo Adhyåya 491

sono queste due vie...», ecc. (Ma. Bhå. 12.3.240.6), ecc. e [anche]
qui [nella Bhagavadgıtå, a partire dal Secondo Capitolo] i due
sentieri realizzativi sono stati esposti [dicendo che] vi sono
soltanto queste due vie [quella dell’azione e quella della cono-
scenza, Bha. Gı. 3.3] mentre si comprende, dalla Âruti, dalla
Smÿti e attraverso la ragione, che l’ignoranza (avidyå), unita-
mente al suo effetto, deve essere eliminata 8.
Intanto, riguardo alla Âruti [vi sono i passi]: «Se qui [un es-
sere umano] lo ha realizzato, allora [per lui] vi è la verità; se
qui non [lo] ha realizzato, [per lui] vi è grande rovina» (Ke.
2.5.), «(...Realizzando) Quello così, il saggio diviene qui [stesso]
immortale9» (Âve. 3.8), «Colui che ha realizzato... non ha più
nulla da temere» (Tai. 2.9.19)10, mentre, per quanto concerne il
non-conoscitore: «(Ma, fin quando egli proietta la benché mi-
nima differenza in seno a Questo) allora per lui sussiste la pau-
ra» (Tai. 2.7.1), «Vivendo dentro all’ignoranza... (gli stolti gira-
no... come ciechi guidati da uno anch’esso cieco)» (Ka. 1.2.5),
«(Certamente colui, il quale, invero) conosce (quel supremo)
Brahman, diviene il Brahman stesso» (Mu. 3.2.9), «(Dunque,
colui che, rendendo omaggio a un’altra divinità, pensi) ‘altro è
Quello e altro sono io’, costui non conosce davvero. Egli è piut-
tosto simile a un animale per i deva» (Bÿ. 1.4.10); [invece, con-
cernenti] il conoscitore dell’åtman, [vi sono i passi]: «...costui
diviene tutto questo [universo]» (Bÿ. 1.4.10), «Quando (gli uo-
mini fossero riusciti ad avvolgere lo spazio) come una pelle...»
(Âve. 6.20) e, simili a questi, migliaia [di altri passi].
Poi vi sono i passi della Smÿti: «La conoscenza è avvilup-
pata dall’ignoranza: per questo i mortali sono smarriti...»
(Bha. Gı. 5.15), «Qui stesso la venuta in esistenza è superata
da coloro la cui mente è fermamente stabilita nella identità
[con il Brahman]» (Bha. Gı. 5.19), «...perché, vedendo identi-
camente dappertutto...» (Bha. Gı. 13.28), ecc.
[A ciò si arriva] anche attraverso la ragione: «Gli uomini
evitano i serpenti, gli aculei dell’erba kuŸa e, ugualmente, i
492 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.2

pozzi, una volta che li abbiano conosciuti ma, per ignoranza,


alcuni vi incappano. Vedi, dunque, quanto eccellente è il frut-
to della conoscenza!» (Ma. Bhå. 12.3.201.16). Allo stesso modo
si comprende che il non-conoscitore, la cui convinzione è che
l’åtman è il [solo] corpo fisico, ecc., essendo totalmente con-
dizionato da attrazione, repulsione, ecc., ed effettuando [come
conseguenza di ciò] l’esperienza del dharma e dell’adharma,
nasce e muore [ripetutamente], mentre coloro i quali, realiz-
zando l’åtman in quanto totalmente separato da corpo, ecc.,
grazie alla soluzione dell’attività relativa al dharma o all’adha-
rma, [soluzione] derivante dalla perfetta deposizione [delle
idee] di attrazione, repulsione, ecc., si liberano [dal divenire
ciclico di nascite e morti]; nessuno può ragionevolmente con-
futarlo. A tale riguardo, così essendo, è [solo] attraverso la
differenziazione delle sovrapposizioni operata dalla ignoranza
che sembra aversi, per il conoscitore del campo, il quale è ÙŸva-
ra stesso (cioè l’åtman ovvero il Brahman), una natura sog-
getta al divenire ciclico, come per l’åtman [nel suo riflesso in-
dividuato che è il jıva sembra aversi] una identificazione con
il veicolo fisico e gli altri. Infatti è ben noto che l’identifica-
zione dell’åtman con ciò che non è l’åtman, come il veicolo fi-
sico, ecc., la quale costituisce una ferma [e innata] convinzio-
ne per tutte le creature, è prodotta dalla ignoranza, come la
[falsa] idea di una persona nella sagoma di un tronco [visto
da lontano], mentre né la natura della persona diviene real-
mente quella del tronco, né, viceversa, la natura del tronco
[diviene] quella della persona. Similmente, [nessuna] proprie-
tà della coscienza assoluta (caitanya, cioè l’åtman) [viene a
essere una proprietà] del corpo, né [alcuna] proprietà del cor-
po, come [soggezione a] piacere, dolore, illusione, ecc. [viene
a essere] una proprietà della coscienza assoluta, cioè [una
proprietà intrinsecamente] appartenente all’åtman, perché
non si distingue da ciò che è un prodotto della ignoranza al
pari dell’invecchiamento e della morte [del corpo, ecc.].
13.2 Tredicesimo Adhyåya 493

Obiezione: No, perché non vi è corrispondenza [tra i due


casi]. Infatti il tronco e la sagoma umana, entrambi essendo
evidentemente oggetto di conoscenza, vengono mutuamente
scambiati da parte del conoscitore a causa della ignoranza; in-
vece, per il corpo e per l’åtman, si ha una reciproca sostitu-
zione proprio del conosciuto con il conoscitore, per cui l’esem-
pio non è appropriato [con quanto si vuole illustrare]11. [Stante
tale scambio] ne consegue l’ipotesi secondo cui la natura del
corpo, sebbene [questo] sia il conosciuto, diviene [realmente
la natura] dell’åtman cioè del conoscitore [e viceversa].
Risposta: No, perché [in tal caso] si avrebbe il difetto di
una natura di non-coscienza, ecc. [per l’åtman]. Infatti, se le
proprietà del corpo, come piacere, dolore, illusione, desiderio,
ecc., cioè [le proprietà] del ‘campo’ (k≤etra), che rappresenta
il conoscibile (jñeya), divenissero [realmente proprietà] del
conoscitore (jñåtÿ), allora si dovrebbe dire qual è la causa del-
la distinzione tale che [solo] alcune delle proprietà del campo,
che è oggetto di conoscenza, divengono di per sé [proprietà]
dell’åtman venendogli sovrapposte attraverso l’ignoranza,
mentre [altre proprietà, quali] l’invecchiamento, la natura
mortale, ecc. non lo divengono. [E questo] sia perché [dagli
effetti come il rimanere testimone immutato dei cambiamenti
fisici, ecc.] si inferisce che [le proprietà del corpo] non diven-
gono [realmente proprietà dell’åtman] essendo sovrapposte
attraverso l’ignoranza, al pari dell’invecchiamento, ecc., sia
perché [tali proprietà] hanno natura di ciò che deve essere
evitato o ricercato [in quanto sono attributi-oggetti]. A tale
riguardo, così essendo, [si deve concludere che] il divenire ci-
clico, fondato nel conoscibile e consistente nella funzione di
agente e nella funzione di fruitore, è [soltanto] sovrapposto al
conoscitore (cioè all’åtman) attraverso l’ignoranza; ne conse-
gue che, per il conoscitore, non vi è nulla a causa del quale
possa subire [reale] alterazione, come per il cielo [non vi è al-
494 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.2

cuna vera ragione per la quale debba divenire realmente con-


cavo o impuro solo] per via della concavità e della impurità
sovrapposte [a esso] dai fanciulli. Pertanto, stando così le cose,
non si può dubitare, neanche minimamente, che ÙŸvara (cioè il
Brahman o l’åtman), che è il conoscitore del campo, ossia Bha-
gavat [stesso], il quale è ugualmente presente in tutti i campi,
possegga una natura soggetta al divenire ciclico. Infatti non è
dato constatare in nessun luogo al mondo che per un dato ente
possa aversi un miglioramento o un peggioramento [reali]
per via di proprietà che gli vengono sovrapposte attraverso
l’ignoranza [della sua natura].
Per quanto riguarda ciò che è stato asserito [dall’ipotetico
oppositore], e cioè che l’esempio addotto non è concorde [con
il caso in esame], ciò non è vero.
Perché?
Perché quello che si vuole affermare è che l’affinità di na-
tura in relazione all’esempio e a ciò che viene esemplificato
consiste unicamente in una sostituzione (adhyåsa) operata at-
traverso l’ignoranza; pertanto tale [immagine] non si discosta
[dall’argomento].
Per quanto concerne, poi, ciò che voi asserite, ossia che
[l’esempio da noi addotto] non è appropriato [in relazione a
quello che si vuole dimostrare] riguardo al conoscitore, anche
la fallacia di tale [tesi] è già stata mostrata attraverso la [men-
zione della] vecchiaia, ecc.
Obiezione: Si può obiettare che il conoscitore del campo
acquista una natura soggetta al divenire ciclico in virtù del
suo essere affetto dall’ignoranza.
Risposta: No, perché l’ignoranza deriva dal tamas. Infatti,
poiché la sua natura consiste essenzialmente in un velamento
(åvara√a) [della reale natura delle cose], l’ignoranza, sia che
determini una falsa percezione [difforme dalla natura delle
cose], sia che comporti una percezione incerta, sia che com -
13.2 Tredicesimo Adhyåya 495

porti l’assenza di percezione, è un contenuto conoscitivo (pra-


tyaya) che ha origine dal tamas, perché all’avvento della luce
della discriminazione si ha la sua [immediata] cessazione: in-
fatti si sperimenta la [medesima] triplice ignoranza, consisten-
te nell’assenza di percezione, ecc., anche in riferimento a quel
difetto [visivo] come l’essere affetto da cateratta che, consisten-
do essenzialmente in un velamento, trae origine dal tamas12.
Obiezione: Al riguardo alcuni affermano: allora l’ignoranza
è una proprietà intrinseca del conoscitore.
Risposta: No, perché si deve riconoscere che il difetto che
produce la cateratta, ecc. risiede [solo] nell’organo che è l’oc-
chio [e non nel soggetto che vede attraverso quello]. Per quan-
to concerne ciò che voi pensate, cioè: ‘l’ignoranza è una pro-
prietà intrinseca del conoscitore’, e [quindi] anche che: ‘la na-
tura soggetta al divenire ciclico, cioè la condizione caratteriz-
zata dalla proprietà che è l’ignoranza, appartiene al conosci-
tore del campo’, per cui sarebbe illegittimo [affermare] quan-
to è stato [da noi] detto al riguardo, ossia che: ‘il conoscitore
del campo è ÙŸvara stesso e non un essere trasmigrante’, orbe-
ne ciò non è [esatto], perché si constata che il difetto che de-
termina la falsa percezione, ecc. sta nell’organo della vista. La
deformazione [percettiva] dovuta all’affezione da cateratta o
altro, cioè la falsa percezione, ecc., come, altresì, la sua causa,
non appartiene al soggetto percipiente (grahıtÿ), perché quan-
do la cateratta è stata rimossa attraverso il [giusto] trattamen-
to effettuato sull’occhio, non si ha più [tale falsa] percezione
da parte del soggetto percipiente. [Pertanto] come tale [difet-
to] non costituisce una proprietà intrinseca del soggetto per-
cipiente, allo stesso modo i contenuti conoscitivi relativi al-
l’assenza di percezione, alla falsa [percezione] e alla [perce-
zione] dubbia, come le loro cause, sono sempre e assolutamen-
te pertinenti soltanto allo strumento, e non già al soggetto co-
noscente, cioè al conoscitore del campo; inoltre, poiché la loro
496 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.2

natura è quella di oggetto di conoscenza (saævedya), non pos-


sono costituire [nello stesso tempo] la natura intrinseca del
conoscitore, come è per la luce di una lampada 13. Inoltre, dato
che essi sono soltanto oggetto di conoscenza, [possono essere
conosciuti solo attraverso organi di percezione distinti dal co-
noscitore, perché] la natura di oggetto di conoscenza è affatto
distinta da quella di sé stessi [come soggetto conoscente], in
quanto non si ammette, da parte degli assertori di qualsiasi
dottrina, la [persistenza di una] natura sottoposta a difetti
come l’ignoranza, ecc. quando vi è la [realizzazione della] as-
solutezza (la liberazione), nella quale si ha il distacco da qual-
siasi organo di percezione. Se [tali strumenti, ecc.] costituis-
sero per il conoscitore del campo, cioè per l’åtman, la natura
intrinseca, al pari del calore per il fuoco, allora non potrebbe
mai verificarsi nessuna separazione [da loro e dai loro condi-
zionamenti]; d’altra parte per l’åtman, che è immodificabile,
onnipresente come lo spazio e privo di forma, non si può am-
mettere a ragione né contatto né separazione in rapporto ad
alcunché. [Così] è stabilito che il conoscitore del campo è lo
stesso eterno Ak≤ara (il Brahman), come si apprende anche da
quanto afferma esplicitamente Bhagavat: «Essendo senza ini-
zio ed essendo privo di attributi...», ecc. (Bha. Gı. 13.31).
Obiezione: In tal caso, in assenza sia del divenire ciclico
che dell’essere trasmigrante, si avrà il difetto per cui le Scrit-
ture sono [sempre] prive di significato, ecc.
Risposta: No, perché [tale conclusione] viene ammessa da
chiunque e, invero, un difetto ammesso da tutti gli assertori
delle dottrine dell’åtman non viene sostenuto da uno [soltan-
to, come il fautore del Vedånta Advaita].
Obiezione: In che senso viene ammesso [da qualunque as-
sertore delle dottrine dell’åtman il fatto che le Scritture per-
dono il loro valore all’avvento della realizzazione]?
13.2 Tredicesimo Adhyåya 497

Risposta: Invero, tutti gli assertori delle dottrine dell’å-


tman sostengono che per i sé [individuati che si sono] liberati
non vi è più alcuna esperienza né del divenire ciclico né della
condizione di essere trasmigrante, pur non ammettendo la
tesi del difetto della mancanza di significato, ecc. [in assoluto]
delle Scritture14. Allo stesso modo, da parte nostra [pur am-
mettendo che], quando i conoscitori del campo (i jıva) realiz-
zano l’identità con ÙŸvara (Brahman), vi è la perdita di valore
per le Scritture, [si considera tuttavia che] esse continuano a
possedere il loro significato [per coloro che si trovano anco-
ra] nella sfera della ignoranza. Dunque, come per tutti i duali-
sti le Scritture, ecc. mantengono il loro significato solo in re-
lazione alla condizione di schiavitù, ma non nella condizione
del liberato, così [è anche per noi].
Obiezione: Comunque, secondo tutti i dualisti le due con-
dizioni di schiavitù e di liberazione costituiscono per l’åtman
due stati reali in assoluto; quindi, essendo esistente sia ciò
che si deve evitare sia ciò che si deve ricercare, che i mezzi
per ottenerli, si dovrà avere [anche] il possesso di significato
per le Scritture, ecc. Invece per i non-dualisti, poiché il [mon-
do] duale è non-reale in assoluto e dato che è non-reale in as-
soluto anche la condizione di schiavitù dell’åtman, essendo
prodotta dall’ignoranza, si deve supporre [che essi asserisco-
no in assoluto] la mancanza di significato delle Scritture, ecc.,
in quanto queste sarebbero prive di argomento.
Risposta: No, perché in relazione all’åtman non si può a
ragione ammettere una varietà di condizioni. Innanzitutto, se
le due condizioni di schiavitù e liberazione appartenessero
[realmente] all’åtman, esse si dovrebbero verificare o in si-
multaneità (yugapad) o in successione (krame√a). In primo
luogo, [nella ipotesi che si presentino] in simultaneità, a causa
della [loro reciproca] contraddittorietà non potrebbero [affat-
to] verificarsi, come lo stare fermo e il muoversi per un [me-
498 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.2

desimo e] unico [ente]; viceversa, nel caso che si presentino


in successione, in assenza di una causa [che ne stabilisca l’or-
dine], ne consegue il difetto della impossibilità di liberarsi; in-
fine, qualora fossero imputabili a un altro [ente], in quanto di
per sé inesistenti, si avrebbe il difetto della [loro] non-realtà
e, in tal caso, si perverrebbe alla confutazione della ipotesi
[iniziale, secondo cui schiavitù e liberazione sono stati che
appartengono realmente all’åtman]15.
Inoltre [sempre nella ipotesi di una loro successione], ac-
certando quale, tra le due condizioni di schiavitù e di libera-
zione, sia la precedente e quale la susseguente, la condizione
di schiavitù deve essere immaginata come la precedente, pri-
va di inizio ma dotata di fine, e ciò è in contrasto con i mezzi
autorevoli di conoscenza; similmente, la condizione di libera-
zione [deve essere immaginata come la successiva e quindi]
come avente un inizio ma priva di una fine, ma si comprende
che anche questa [ipotesi] è affatto in contraddizione con i
mezzi autorevoli di conoscenza16; né si può postulare una na-
tura eterna per ciò che procede da una condizione precedente
a una condizione successiva17. Dunque, se, onde rimuovere il
difetto di una natura non eterna [per l’åtman], non va conce-
pita alcuna diversificazione relativamente alle condizioni di
schiavitù e di liberazione [in relazione all’åtman], ne conse-
gue che il difetto della perdita di significato, ecc. delle Scrittu-
re non deve essere respinto neanche da parte degli stessi dua-
listi. Così, in virtù della identità [di tesi in rapporto al duali-
sta], il [succitato] difetto non viene confutato [nemmeno]
dall’assertore della non-dualità.
Inoltre la [presunta] mancanza di significato delle Scrittu-
re non può essere asserita [in assoluto], perché l’oggetto delle
Scritture concerne l’uomo non saggio in relazione a ciò che
gli è ordinariamente ben noto. Infatti è [solo] da parte dei non
conoscitori che si ha la concezione dell’åtman (cioè di sé stes-
si) come [identificati con] causa ed effetto, che non sono l’å-
13.2 Tredicesimo Adhyåya 499

tman, e non da parte dei conoscitori, perché per i conoscitori,


sussistendo [in loro] la conoscenza della natura dell’åtman
(cioè di sé stessi) come altro sia dalla causa che dall’effetto,
sarebbe inammissibile la concezione di sé come ‘io’ in relazio-
ne ai due (cioè alla causa e all’effetto). Invero, se neanche uno
estremamente stolto o un folle concepirebbe una identità nel-
l’acqua e nel fuoco, o nella luce e nella oscurità, quanto meno
[allora, può concepirla] colui che discrimina?18
Perciò, intanto, per colui che ha realizzato la natura del-
l’åtman come altro da causa ed effetto, non vi è Scrittura che
ingiunga prescrizioni o proibizioni e certamente, quando [a
qualcuno] sia stato imposto di agire nei termini: ‘Devadatta, fa’
questo!’, [nessun altro, come un tale di nome] Vi≤√umitra, seb-
bene presente sul posto, all’udire il comando, potrebbe ritenere:
‘sono stato esortato io [ad agire]’; invece, tale convincimento
potrebbe [in quest’ultimo] sorgere a motivo di un errore nel-
l’afferrare il destinatario di tale ordine. Analogamente è anche
per causa ed effetto [in relazione a prescrizioni e proibizioni].
Obiezione: Comunque, nonostante vi sia la concezione del-
l’åtman come altro sia dalla causa che dall’effetto, potrebbe
aversi, in relazione al rapporto con ciò che deriva dalla natura
[cioè dall’ignoranza-avidyå], la cognizione che si è ancora og-
getto [di prescrizione da parte] delle Scritture [per cui anche
il conoscitore potrebbe pensare]: ‘sono costretto a compiere
una data attività quale mezzo per [ottenere] un frutto deside-
rabile’, [oppure]: ‘sono costretto a evitare di compiere una
[data] attività che è causa [dell’ottenimento] di frutti indesi-
derabili’, nello stesso modo in cui da parte del padre e dei figli
si ha l’acquisizione del contenuto di ingiunzioni e proibizioni
reciproche nonostante che [in ognuno] vi sia la consapevolez-
za di sé come l’uno differente dagli altri19.
Risposta: No, perché è stato stabilito che l’identificazione
di sé con cause ed effetti può aversi soltanto prima dell’acqui-
500 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.2

sizione della consapevolezza di sé [come åtman] in quanto to-


talmente distinti [da cause ed effetti]. Infatti, è [solo] dopo che
sia stato perfettamente applicato il contenuto di ingiunzioni e
proibizioni che viene realizzata la natura dell’åtman come
altro da cause ed effetti, non prima 20. Da ciò è stabilito che le
ingiunzioni e le proibizioni delle Scritture hanno per oggetto
[solamente] il non-conoscitore.
Obiezione: Comunque, in passi come: “Colui che aspira al
paradiso dovrebbe sacrificare”, “Non si dovrebbe mangiare
carne di animale ucciso col veleno” e in altri, si ravvisa la
inapplicabilità delle norme [relative a ingiunzioni e proibi-
zioni] sia per coloro che hanno la conoscenza dell’åtman in
quanto totalmente distinto [da corpo, ecc. come da cause ed
effetti], sia per coloro che hanno la concezione dell’åtman
come il solo corpo, ecc.; di conseguenza, in mancanza di un
soggetto agente, si potrebbe arguire la mancanza di signifi-
cato delle Scritture.
Risposta: No, perché si deve logicamente ammettere che il
compimento [delle attività oggetto di ingiunzione] e l’asten-
sione [da quelle oggetto di proibizione] si hanno soltanto in
riferimento a colui che è stato appropriatamente istruito [solo
attraverso le Scritture, cioè il non-conoscitore]. Certamente il
conoscitore del Brahman che ha realizzato la natura di unità
assoluta del conoscitore del campo (il jıva) con ÙŸvara (il Bra-
hman) non si impegna più nell’azione [scritturale]; similmen-
te, anche l’assertore della inesistenza dell’åtman, per il quale
non vi è un mondo ulteriore, non si impegna nell’attività [im-
posta dalle Scritture].
Invece, colui che è stato appropriatamente istruito [attra-
verso le Scritture], convinto della [continuità di] esistenza
dell’åtman [al di là della vita corporea 21] in virtù del fatto che
l’apprendimento delle Scritture concernenti ingiunzioni e
proibizioni diverrebbe logicamente inammissibile [per colui
13.2 Tredicesimo Adhyåya 501

che ha realizzato l’assenza di dualità], il quale tuttavia non


conosce direttamente e specificamente l’åtman [nella sua rea-
le natura], una volta sorto il desiderio nei confronti del frutto
dell’azione ed essendo altresì pieno di fede, si impegna nel-
l’attività: è una evidenza per noi tutti. Quindi le Scritture non
sono prive di utilità [in assoluto].
Obiezione: Tuttavia, alla vista della mancata effettuazione
delle attività [sacrali] da parte di coloro che discriminano, si
potrebbe supporre una perdita di significato della Scrittura in
relazione all’astensione dall’attività posta in atto da coloro
che seguono quelli.
Risposta: No, perché si deve riconoscere che la discrimi-
nazione inerisce soltanto a qualcuno [e non a tutti o a molti].
Infatti, tra molti esseri viventi, così come è adesso 22, qualcu-
no soltanto potrà divenire dotato di discriminazione; d’altra
parte gli stolti non seguono colui che discrimina, perché il
loro impegnarsi nell’azione dipende da difetti come l’attra-
zione e la repulsione, dato che si constata il [loro] dedicarsi,
per esempio, alle arti magiche, ecc. e anche perché l’attività
inerisce alla natura propria [dell’essere individuato]: infatti
è stato detto: «...invero è la natura propria che si esprime»
(Bha. Gı. 5.14). Perciò il divenire ciclico consiste unicamente
nella ignoranza e concerne soltanto ciò così come appare [al-
l’essere ordinario], né l’ignoranza, con il suo effetto, appar-
tiene [realmente] al conoscitore del campo in quanto assolu-
to, né, infine, la falsa conoscenza è in grado di deteriorare
l’Ente che è la realtà suprema. Infatti, [come] l’acqua di un
miraggio non può rendere fangoso un suolo secco con la
propria liquidità [che è solo apparente], similmente l’igno-
ranza non può fare nulla al conoscitore del campo e, pertan-
to, è stato detto questo: “E realizza Me anche il come cono-
scitore del campo...”, e: «La conoscenza è avviluppata dalla
ignoranza...» (Bha. Gı. 5.15).
502 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.2

Obiezione: Perché, allora, anche gli eruditi (pa√ƒit) hanno,


come [tutti] gli esseri trasmigranti, [idee come]: ‘io sono così’,
e ‘questo è proprio mio’?
Risposta: Ascolta: la loro erudizione (på√ƒitya) consiste in
quella che è la concezione dell’åtman soltanto in relazione al
campo (il corpo, ecc.). Se, d’altra parte, vedessero il [vero] co-
noscitore del campo non soggetto ad attività modificante, di
conseguenza non aspirerebbero ad alcuna fruizione né ad al-
cuna azione [con l’idea]: ‘[questo] deve essere mio’: [infatti]
la fruizione e l’azione sono certamente attività modificanti. È
per questo che, così essendo, il non-conoscitore, sospinto dal-
la ricerca del frutto, si impegna nell’attività [identificata]. Vi-
ceversa per il conoscitore che ha realizzato l’åtman immodifi-
cabile, [trovandosi costantemente] nell’astensione dall’attivi-
tà a causa dell’assenza della ricerca del frutto, si afferma in
senso figurato la sua astensione dall’attività (nivÿtti) [in con-
comitanza] all’acquietamento dell’attività empirica dell’aggre-
gato di effetto e strumenti (corpo e sensi)23.
Vi è poi un’altra [specie di] erudizione ostentata da parte
di alcuni, che può essere riassunta così: ‘ÙŸvara stesso (il Bra-
hman) è il conoscitore del campo e, per lo stesso conoscitore
del campo, il campo è un oggetto distinto; al contrario, io sono
un essere asservito al divenire ciclico consustanziato di piace-
re e dolore, e la cessazione del divenire ciclico può essere da
me raggiunta [dapprima] attraverso la conoscenza distintiva
del campo e del conoscitore del campo, quindi, realizzando di-
rettamente il conoscitore del campo come ÙŸvara attraverso la
meditazione, infine per mezzo dello stabilirsi nella reale natu-
ra di Quello’.
Quegli (il discepolo) che viene risvegliato alla conoscenza
secondo questi termini e quegli (il maestro) che [in questo
modo] risveglia alla conoscenza, nessuno di loro è un... cono-
scitore del campo; colui che [insegnando] in tal modo pensi:
13.2 Tredicesimo Adhyåya 503

‘[così facendo] rendo le Scritture pregne di significato in me-


rito al divenire ciclico e alla liberazione’, dev’essere piuttosto
bandito dagli eruditi. Egli è uno che sopprime l’åtman: di per
sé soggetto alla illusione, porta allo smarrimento anche gli altri
essendo al di fuori della trasmissione tradizionale del [vero]
significato delle Scritture, attuando la distruzione di ciò che
viene appreso dalla Âruti24 e la diffusione di ciò che non appar-
tiene all’insegnamento della Âruti. Perciò, privo della [vera]
conoscenza di ordine tradizionale, nonostante possegga il sa-
pere in merito a tutte le Scritture, deve essere guardato con
diffidenza come uno scriteriato.
Per quanto riguarda ciò che è stato detto – cioè: ‘data l’i-
dentità con il conoscitore del campo, ÙŸvara acquista una na-
tura soggetta al divenire ciclico’, e: ‘data l’identità dei cono-
scitori del campo con ÙŸvara, ne consegue che, in assenza di
[qualsiasi] essere trasmigrante, si ha il difetto della inesisten-
za del divenire ciclico’ – questi due [presunti] difetti sono
stati confutati attraverso la comprensione della sostanziale
differenza di natura tra conoscenza e ignoranza (e quindi tra i
loro effetti)25.
In che modo?
L’Ente (il Brahman) che è la realtà suprema non è affetto
dalle imperfezioni proiettate attraverso l’ignoranza, per quan-
to [sembri essere] nella loro portata, e in tal senso è stato mo-
strato un esempio: il suolo secco non verrà mai reso fangoso
dall’acqua di un miraggio. Anche il difetto [presunto da altri]
che comporta l’inesistenza del divenire ciclico come conse-
guenza della inesistenza dell’essere trasmigrante, è stato con-
futato prendendo atto che sia il divenire ciclico sia l’essere
trasmigrante hanno natura di entità proiettate attraverso l’i-
gnoranza.
Obiezione: Comunque si può obiettare che la soggezione
alla ignoranza da parte del conoscitore del campo fa sì che si
504 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.2

abbia il difetto di una sua natura asservita al divenire ciclico e


che il suo prodotto, cioè la soggezione alla sofferenza, ecc.,
venga percepito come una evidenza.
Risposta: No, perché il conoscibile è una proprietà intrin-
seca del campo, dato che non si può logicamente ammettere
che un difetto che si produce in relazione a quello (cioè al-
l’oggetto conosciuto) inerisca al conoscitore del campo, cioè
al soggetto della conoscenza. Qualunque tipo di difetto, peral-
tro inesistente, [tu] attribuisca al conoscitore del campo, po-
sto che si deve logicamente riconoscere la natura di tale [at-
tributo] come oggetto di conoscenza, costituisce soltanto una
proprietà intrinseca del campo (l’oggetto) e non una proprietà
intrinseca del conoscitore del campo (il soggetto); da parte
sua il conoscitore del campo non può essere affetto da ciò,
perché non si può ammettere secondo ragione una completa
[reale] associazione del conoscitore con il conosciuto 26. Se tale
completa associazione fosse possibile, non si potrebbe più
nemmeno ammettere a ragione la natura di conoscibile [per
l’oggetto né quella di conoscente per il soggetto] 27. Se la natu-
ra caratterizzata dalla ignoranza, insieme, ahimé, alla sogge-
zione alla sofferenza, ecc. [che ne è il frutto], costituisse una
proprietà intrinseca dell’åtman, come potrebbe essere perce-
pita direttamente? Ovvero [venendo percepita direttamente
come oggetto], come [potrebbe costituire] una proprietà in-
trinseca del conoscitore del campo?28
Una volta stabilito che tutto il conoscibile è il ‘campo’ (Bha.
Gı. 13.5-6) e che soltanto il soggetto conoscente è il ‘conoscito-
re del campo’ (Bha. Gı. 13.1), [dire che] l’ignoranza, con la sog-
gezione alla sofferenza, ecc. costituisce un attributo che qualifi-
ca il conoscitore del campo e una proprietà intrinseca del co-
noscitore del campo e che essa può essere percepita diretta-
mente [dallo stesso conoscitore del campo], esprime una totale
contraddittorietà assolutamente basata sulla sola ignoranza.
13.2 Tredicesimo Adhyåya 505

Al riguardo alcuni chiedono:


Obiezione: A chi appartiene l’ignoranza?29
Risposta: A quegli stesso da parte del quale viene percepita30.
Obiezione: Da parte di chi viene percepita?
Risposta: A tale riguardo si dice: la domanda: ‘da parte di
chi viene percepita l’ignoranza?’ è priva di senso.
Perché?
[Perché] se l’ignoranza viene percepita [da te, allora tu]
percepisci anche quegli al quale inerisce e, quando viene per-
cepito colui che la possiede, la domanda: ‘a chi appartiene
essa?’, non è legittima. Infatti, qualora venisse visto quel tale
che possiede delle mucche, la domanda: ‘di chi sono le muc-
che?’ non ha più senso.
Obiezione: Comunque l’esempio è inappropriato. Se le muc-
che e il loro possessore vengono [entrambi] visti direttamente
[e simultaneamente], diviene [oggetto di] percezione diretta
anche la loro connessione: [in tal caso] la domanda [di chi
sono le mucche?] è priva di ragione. Invece, l’ignoranza e il
suo possessore non sono ambedue [oggetto di] percezione di-
retta allo stesso modo, perché [se lo fossero] la questione sa-
rebbe [anch’essa] priva di senso [e non si porrebbe affatto].
Risposta: Una volta conosciuto il rapporto con l’ignoranza
di colui al quale l’ignoranza inerisce e che [tuttavia] non è [og-
getto di] percezione diretta, che cosa importa a te?
Obiezione: Poiché l’ignoranza è la causa del male, essa do-
vrebbe essere completamente eliminata 31.
Risposta: [Soltanto] quegli che dall’ignoranza è affetto in-
tende eliminarla completamente.
Obiezione: L’ignoranza appartiene proprio a me stesso.
506 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.2

Risposta: Allora conosci sia l’ignoranza che colui che la


possiede, cioè l’åtman.
Obiezione: [Li] conosco [ambedue], ma non attraverso una
percezione diretta.
Risposta: Se [li] conosci per inferenza (anumåna), in che
modo puoi stabilire la connessione [tra loro due]? Infatti non
è possibile cogliere la connessione di te [stesso in quanto å-
tman], cioè del conoscitore, con l’ignoranza, la quale costitui-
sce l’oggetto della conoscenza, perché in quel momento l’i-
gnoranza è congiunta [con te] proprio come l’oggetto di co-
noscenza lo è con il conoscitore32. Né può esservi un [ulterio-
re] soggetto percipiente (grahıtÿ) della relazione del conosci-
tore con l’ignoranza, né un’altra conoscenza che abbia per og-
getto [tale relazione], perché [in entrambe le ipotesi] si per-
verrebbe a una regressione senza fine (anavasthå): se anche la
relazione del conosciuto con il conoscitore fosse [a sua volta]
conosciuta [come oggetto di conoscenza] deve essere postula-
to un altro conoscitore, [quindi si deve postulare] un altro
[conoscitore] anche per tale [primo conoscitore, poi] un altro
per questo [e così via senza un termine], per cui una regres-
sione senza fine diviene inevitabile.
Se, d’altra parte, l’ignoranza, o qualunque altro [ente] co-
noscibile, fosse oggetto di conoscenza, essa sarebbe sempre e
soltanto oggetto di conoscenza; similmente, anche il conosci-
tore è sempre e soltanto il soggetto della conoscenza e non di-
viene mai l’oggetto del conoscere e, quando è così, per il sog-
getto della conoscenza, cioè per il conoscitore del campo, non
vi è nulla da cui possa [realmente] essere deteriorato, come
l’ignoranza, la soggezione alla sofferenza o altro.
Obiezione: Comunque [per il conoscitore] vi è proprio que-
sto difetto che è la [sua] natura di perfetto conoscitore del
campo in quanto affetto da imperfezione.
13.2 Tredicesimo Adhyåya 507

Risposta: No, perché la natura di perfetto conoscitore (vi-


jñåtÿ), per l’[åtman] immodificabile la cui natura propria è la
perfetta conoscenza (vijñånasvar¥pa), viene pronunciata in
senso secondario: come per il fuoco, in virtù unicamente della
sua natura di calore, si ha la definizione in senso figurato
come di ciò che compie l’atto di riscaldare, tale e quale [è il
caso della definizione di conoscitore] 33. Quanto a questo, Bha-
gavat ha [già] mostrato che l’azione, l’agente e il frutto non
ineriscono affatto all’åtman di per sé, ma che azione, agente,
ecc. vengono detti inerire all’åtman in senso secondario, es-
sendo solo sovrapposti attraverso l’ignoranza. Così è stato
mostrato, qui e là, in diversi contesti: «Colui il quale crede:
‘questi è l’uccisore’...» (Bha. Gı. 2.19), «Le azioni sono in ogni
caso impulsate dai gu√a della prakÿti...» (Bha. Gı. 3.27), «Non
assume l’errore di alcuno...» (Bha. Gı. 5.15), ecc. e proprio in
questo modo lo abbiamo spiegato e lo prospetteremo anche
nei contesti successivi.
Obiezione: Oh! Allora, se nell’åtman non vi è di per sé esi-
stenza di [alcuna reale] identificazione con azione, agente e
frutto, cioè se [tali fattori dell’azione] sono [solo] sovrapposti
attraverso l’ignoranza, si deve concludere che le attività [di
ordine rituale sacrale] devono essere effettuate solo dal non-
conoscitore e non da parte dei conoscitori34.
Risposta: In verità si conclude [proprio] così, e ciò stesso
mostreremo nel passo: «...perché, per il possessore di corpo,
non è possibile (abbandonare le azioni integralmente)» (Bha.
Gı. 18.11) e nel contesto riassuntivo del significato della in-
tera Scrittura [della Bhagavadgıtå] lo prospetteremo [anco-
ra] dettagliatamente: «(Come, colui che ha ottenuto la perfe-
zione, così realizzi il Brahman, ascoltalo da Me) affatto in
breve, o Kaunteya, che è il supremo compimento della cono-
scenza» (Bha. Gı. 18.50). [Quanto esposto fin] qui con una
ricca spiegazione è abbastanza [per comprendere la natura
508 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.2

del ‘campo’ e del ‘conoscitore del campo’ e, conseguentemen-


te, la distinzione tra di essi], e così si riassume [concludendo
la trattazione dell’argomento].
[Nel passo seguente]: «Quello che è il campo e...», ecc.
(Bha. Gı. 13.3) viene presentato un verso comprensivo del si-
gnificato del[l’intero] Capitolo sul campo e [di quanto] inse-
gnato [a partire] dal verso [iniziale]: «Questo corpo...», ecc.
(Bha. Gı. 13.1), perché è ragionevole esporre dapprima in sin-
tesi il significato che verrà spiegato estesamente [in seguito].

13.3. Quello che è il campo e quale sia la [sua] natura, quale


fattore di modificazione sia e quale [effetto sorga] da quale [cau-
sa], e, ancora, chi sia egli (il conoscitore) e di quale potere [sia
dotato]: ciò ascolta concisamente da me.

Con il termine “quello” (tad) [il testo] si riferisce a «Que-


sto corpo...» (Bha. Gı. 13.1) menzionato [all’inizio del Capito-
lo]. Dunque, “Quello che è il campo”, cioè questo [corpo quale
è stato già] presentato, “e quale sia la [sua] natura”, cioè qua-
le la natura [in quanto contraddistinta] dalle sue intrinseche
proprietà. Il termine “e” (ca) [ripetuto nel verso] ha lo scopo
di esprimere una serie [di cose].
“...quale fattore di modificazione sia”: [l’espressione] ‘qua-
le fattore di modificazione sia’ (yadvikåri) indica [che cosa è]
ciò di cui esso (il campo, cioè il veicolo) forma una modifica-
zione, “e quale” (yad) effetto sorga “da quale (yatas) [causa]”;
così è il resto della sentenza; “e, ancora, chi sia egli”, il cono-
scitore del campo [così] enunciato, “e di quale potere [sia do-
tato]”: con [l’espressione] ‘di quale potere [sia dotato]’ (ya-
tprabhåva) ci si riferisce a colui i cui poteri sono quelle facoltà
[inerenti alle funzioni sensoriali, ecc.] quali provengono dalle
sovrapposizioni limitanti.
“...ciò”, ossia l’essenza del campo e del conoscitore del cam-
po, qual essa è e così come è stata specificata, “ascolta conci-
13.4 Tredicesimo Adhyåya 509

samente”, sinteticamente “da me”, dalla mia espressione, e,


una volta ascoltato ciò, riflettici. Questo è il significato.
[Da qui in avanti Bhagavat] esprime un elogio di ciò che
si vuole enunciare, ossia della reale natura del campo e del
conoscitore del campo qual essa è, allo scopo di stimolare l’in-
tuizione dell’ascoltatore.

13.4. I Saggi veggenti ne hanno decantato in molti modi con


svariati metri, singolarmente, e anche con gli stessi termini degli
aforismi sul Brahman, recanti argomentazioni perfettamente
stabilite.

“I Saggi veggenti” (ÿ≤i), come Vasi≤†ha e gli altri, “ne han-


no decantato in molti modi”, ne hanno recitato in molte ma-
niere, “con svariati”, multiformi “metri” – i metri (chandas)
sono i ÿc e gli altri – cioè hanno decantato [il campo e il cono-
scitore del campo] “singolarmente”, separatamente, con tali
metri “e anche con gli (stessi) termini degli aforismi sul Bra-
hman...”. Gli aforismi (s¥tra) sul Brahman sono gli enunciati
(våkya) che designano il Brahman [in genere, e non solo le
specifiche asserzioni del Brahmas¥tra che li spiegano e sanci-
scono]. I termini (pada) [di tali aforismi] sono definiti come
quelli grazie ai quali il Brahman viene fissato, compreso e co-
nosciuto. Ne consegue che tramite quegli stessi [termini e afo-
rismi] risulta decantata anche l’essenza del campo e del cono-
scitore del campo qual essa è. L’åtman viene conosciuto attra-
verso i termini tratti dagli aforismi sul Brahman quali [nume-
rosi passi delle Upani≤ad come]: «Soltanto sull’åtman [nella
sua natura indivisa], così si deve meditare...» (Bÿ. 1.4.7) e altri.
“...recanti argomentazioni perfettamente stabilite”, cioè di-
mostrate, la cui natura è esente da incertezza; vale a dire su-
scettibili di far sorgere un contenuto conoscitivo certo.
Ad Arjuna, divenuto attento grazie a questo elogio, Bha-
gavat disse [ancora]:
510 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.5

13.5. I grandi elementi, il senso dell’io, l’intelletto e lo stesso


immanifesto, gli organi, dieci più uno, e le cinque sfere senso -
riali,...

“I grandi elementi...” (mahåbh¥ta); essi sono [definiti]


‘grandi’ perché permeano tutte le modificazioni: si tratta
[quindi] degli elementi sottili (s¥k≤mabh¥ta), mentre i grosso-
lani (sth¥la) verranno menzionati con l’espressione: ‘oggetti
dei sensi’; “il senso dell’io” (ahaækåra), la causa dei grandi
elementi, consistente nel contenuto [della consapevolezza]
‘io’; “l’intelletto” (buddhi), causa del senso dell’io, il quale con-
siste nell’intuizione, “e lo stesso immanifesto”. L’immanifesto
(avyakta) è il potere non-manifestato, indifferenziato del Si-
gnore, quale è espresso [nel passo]: «(In verità, questa) mia
(divina) måyå... è difficile da superare» (Bha. Gı. 7.14). Il ter-
mine “stesso” (eva) intende evidenziare che si tratta della Pra-
kÿti, cioè proprio di questa stessa Prakÿti ottuplicemente sud-
divisa35, mentre il termine “e” (ca) intende riferirsi a un insie-
me di cose differenti.
“...gli organi, dieci...” – i cinque organi di conoscenza (bu-
ddhındriya), come l’udito e gli altri, [così denominati] perché
permettono di conoscere, e i cinque organi di azione (karme-
ndriya), come la parola, le mani e gli altri, [così denominati]
perché producono l’azione: essi sono dieci – “...più uno”.
Qual è esso?
La mente (manas), consustanziata di proiezione pensativa,
ecc., è l’undicesimo36, “...e le cinque sfere sensoriali”, cioè [le
rispettive sensazioni-tanmåtra concernenti] gli oggetti [dei
sensi] come il suono e gli altri. I seguaci del Såækhya consi-
derano questi stessi [enti elencati formare] le ventiquattro ca-
tegorie principiali (tattva)37.
Dunque, Bhagavat asserisce ora che anche quelli che i Vai-
Ÿe≤ika considerano attributi dell’åtman sono soltanto proprietà
del ‘campo’ ma non appartengono al ‘conoscitore del campo’.
13.6 Tredicesimo Adhyåya 511

13.6. ...il desiderio, l’avversione, il piacere, il dolore, l’aggre-


gato, l’intelligenza, la fermezza di spirito: questo è, in breve, il
campo rappresentato con le sue modificazioni.

“...il desiderio” (icchå) [viene descritto così]: colui che in


precedenza ha percepito che un oggetto di una data specie
gli ha procurato piacere, in seguito, percependone [un altro]
della medesima specie, desidera ottenerlo in quanto [ritiene
che anche questo] è causa di piacere. Questo stesso deside-
rio è una caratteristica dell’organo interno e, essendo ogget-
to di conoscenza, è [una proprietà concernente] il campo. In
maniera simile “l’avversione” (dve≤a) [viene descritta così]:
colui che [in precedenza] ha sperimentato un oggetto di una
data specie come causa di sofferenza, in seguito, percependo
un oggetto della medesima specie, prova avversione verso di
esso. [Anche] questa che è l’avversione, essendo oggetto di
conoscenza, è [una proprietà concernente] solamente il cam-
po. Similmente, “il piacere” (sukha) è ciò che è gradevole, se-
reno, consustanziato di sattva; essendo oggetto di conoscen-
za, è [una proprietà concernente] solamente il campo; “il do-
lore” (du¢kha) è ciò che è di per sé non gradevole; essendo
oggetto di conoscenza, è anch’esso [una proprietà concernen-
te] il campo; “...l’aggregato” (saæghåta) è il composto di cor-
po e sensi. La “intelligenza” (cetanå) è la lucentezza concer-
nente l’apparire della coscienza dell’åtman che si manifesta
in tale [composto di corpo e sensi che è l’aggregato] come
funzione dell’organo interno, allo stesso modo in cui il fuoco
[si manifesta] in una massa metallica incandescente; anch’es-
sa è [una proprietà concernente] il campo, in quanto è ogget-
to di conoscenza. La “fermezza di spirito” (dhÿti) è ciò attra-
verso cui il corpo e gli organi che hanno raggiunto una con-
dizione di spossatezza vengono sostenuti [nelle loro funzioni
dalla volontà dell’individuo]; anch’essa, essendo oggetto di
conoscenza, è [una proprietà concernente] il campo. L’insie-
512 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.6

me comprensivo del desiderio e delle altre cose intende defi-


nire tutte le proprietà dell’organo interno, perché riassume
quanto è stato detto [nei termini]: “questo è, in breve, il cam-
po rappresentato con le sue modificazioni”, cioè enunciato
insieme alla modificazione che è il mahat (la buddhi o intel-
letto) e alle altre.
Quello che è il campo, cioè l’insieme differenziato il cui
composto forma il campo, costituisce quanto enunciato [nel
passo]: «Questo corpo... è il campo» (Bha. Gı. 13.1), ed è stato
spiegato in quanto suddiviso nella differenziazione che co-
mincia con «I grandi elementi...» (Bha. Gı. 13.5) e termina con
“la fermezza di spirito” (Bha. Gı. 13.6).
Da parte sua il conoscitore del campo possiede la qualifi-
cazione quale sta per essere enunciata. [Nel passo]: «Quello
che si deve conoscere [ti] esporrò...» (Bha. Gı. 13.12), Bhaga-
vat esporrà, di sua stessa iniziativa, tale [conoscitore del cam-
po] unitamente alla sua qualificazione, cioè quel conoscitore
del campo dalla completa conoscenza del quale sorge l’im-
mortalità. Per adesso Bhagavat dispensa l’insieme di mezzi
[necessari] per la sua conoscenza, [insieme] consistente nel-
l’umiltà, ecc., vivendo nel [rispetto del] quale il [discepolo]
qualificato diviene idoneo alla conoscenza di Quello che si
deve conoscere e dedicandosi al quale un completo rinuncia-
tario viene detto fondato nella conoscenza; insomma quell’in-
sieme di umiltà, ecc. definibile [esso stesso] con il termine
‘conoscenza’ in quanto costituisce un mezzo [necessario] per
[realizzare] la conoscenza.

13.7. Umiltà, innocenza, inoffensività, tolleranza, rettitudine,


rispetto per l’Istruttore, purezza, costanza, totale controllo di sé,...

“Umiltà...”: la condizione di colui che vanta un’alta stima è


l’orgoglio, ovvero una elevata considerazione di sé, e la sua
assenza è l’umiltà (amånitva); “innocenza”: è ingannevolezza
13.8 Tredicesimo Adhyåya 513

l’ostentare il compimento del proprio dovere e la sua assenza è


l’innocenza (adaæbhitva); “inoffensività” (ahiæså) è il non reca-
re offesa, il non causare sofferenza agli esseri viventi; “tolleran-
za” (k≤ånti) è il mancato alterarsi [restando impassibili] al rice-
vere offesa da parte di altri; la “rettitudine” (årjava) è una na-
tura di onestà, di dirittura morale; il “rispetto per l’Istruttore”
(åcåryopåsana) è il servizio, reso con l’obbedienza, ecc., al Mae-
stro che impartisce l’istruzione sui mezzi per [conseguire] la li-
berazione; la “purezza” (Ÿauca) è il lavaggio delle impurità del
corpo fisico con acqua e terra e quindi la rimozione delle impu-
rità della mente come l’attaccamento, ecc. per mezzo di idee di
natura opposta; la “costanza” (sthairya) è una condizione di sta-
bilità consistente nella perseveranza dell’operato soltanto nel
sentiero verso la liberazione: il “totale controllo di sé” (åtmavi-
nigraha) è il totale controllo dell’aggregato di effetto (corpo) e
strumenti (sensi), definito con il termine ‘sé’ (åtman) in quanto
portato ad agire illegittimamente a vantaggio di sé stessi; così
il totale controllo di sé consiste nel mantenere soltanto in que-
sto retto sentiero (sanmårga) tale [aggregato veicolare], che sa-
rebbe per natura portato ad agire in tutte le direzioni.
E inoltre,

13.8. ...distacco nei confronti degli oggetti sensoriali e assen-


za dello stesso senso dell’io, considerazione del male insito in
nascita, morte, vecchiaia, malattia e sofferenza,...

“Il distacco...” (vairågya) è una condizione di spassionatezza


“verso gli oggetti sensoriali” goduti, sia visibili che invisibili,
quali il suono e gli altri, “e l’assenza del senso dell’io” è la con-
dizione in cui non vi è sentimento dell’io; la “considerazione
del male insito in nascita, morte, vecchiaia, malattia e sofferen-
za”: si tratta della nascita, della morte, della vecchiaia, delle
malattie e delle sofferenze; dunque, è la considerazione del
male singolarmente presente in ciascuna di tali [affezioni] che
514 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.8

[nella elencazione] cominciano con la nascita e terminano con


la sofferenza in genere. Alla nascita (janma) il male sta nel di-
morare nel grembo e nella espulsione attraverso l’organo geni-
tale femminile: la considerazione è la riflessione su ciò. Simile è
la considerazione sul male in relazione alla morte. E simile è, in
riferimento alla vecchiaia, la considerazione del male insito nel
calo della facoltà di intendimento, della vigoria e del calore
corporeo ed anche nel venire trattati senza riguardo. Simile è
la considerazione del male insito nelle malattie, come per i ma-
lanni che colpiscono la testa, e, ancora simile, è [la considera-
zione del male insito] nelle sofferenze provenienti dal proprio
veicolo individuato, da fattori esterni o da entità divine.
Oppure [il passo può essere interpretato così]: ‘le stesse
sofferenze (du¢kha) sono il male’, [per cui la lettura diventa]:
‘...considerazione, analogamente alla precedente [lettura], di
quello, che è il male della sofferenza [stessa], in relazione a
nascita, ecc.’; [in tale interpretazione] la nascita è sofferenza,
la morte è sofferenza, la vecchiaia è sofferenza e le malattie
sono sofferenza. La nascita e le altre cose sono sofferenza in
quanto causa di sofferenza, non già perché siano sofferenza
per loro propria natura.
Così, dalla considerazione del male insito nella sofferenza
in relazione a nascita, ecc., sorge conseguentemente l’indif-
ferenza verso i godimenti degli oggetti attraverso il corpo e i
sensi; da qui si ha il volgersi dei sensi verso l’intimo åtman
per la [realizzazione della] visione-consapevolezza dell’å-
tman. In questo modo la considerazione del male insito nella
sofferenza di nascita, ecc. viene detta ‘conoscenza’ (jñåna) in
quanto è un mezzo per [realizzare] la conoscenza.
E ancora,

13.9. ...non-aderenza, assenza di attaccamento morboso ver-


so il figlio, il coniuge, la casa, ecc., e una costante equanimità
mentale negli eventi desiderati e non desiderati,...
13.10 Tredicesimo Adhyåya 515

“...non-aderenza”: l’aderenza (sakti) è sostanzialmente l’af-


fetto verso gli oggetti che inducono attaccamento, la sua as-
senza è la non-aderenza; l’“assenza di attaccamento morboso”
è la mancanza di un legame eccessivo. Si definisce attaccamen-
to morboso (abhi≤va§ga) propriamente una specifica aderenza
consistente nella propria identificazione con [un ente che è]
altro [da sé stessi], come quando, in presenza di un essere fe-
lice o di un essere sofferente, [si pensa ordinariamente]: ‘io
stesso sono felice’ o ‘sono sofferente’, o, fin quando questi vive
o è in punto di morte, [si pensa]: ‘io stesso vivo’ o ‘morirò’.
Verso che cosa [non deve nutrirsi tale attaccamento morboso]?
“...verso il figlio, il coniuge, la casa, ecc.”. In base ai termi-
ni menzionati [da intendersi nel senso]: verso i figli, verso il
coniuge, verso la casa, ecc., [si evince che tale non-attaccamen-
to deve essere esteso] anche ad altri esseri, per quanto estre-
mamente cari, come tutti quelli che ci offrono servigi, ecc.
Inoltre ambedue (la non-aderenza e il non-attaccamento
morboso), avendo per scopo la conoscenza, vengono definiti
[anch’essi] ‘conoscenza’.
“...e una costante equanimità mentale...”, un equilibrio
mentale...
In quali [circostanze]?
“...negli eventi desiderati e indesiderati”. Dunque, un equi-
librio mentale affatto costante negli eventi desiderati e indesi-
derati, cioè in quelli che sono gli eventi, gli accadimenti sia di
cose desiderate sia di cose indesiderate. E questa costante equa-
nimità mentale, [quando la mente] non si esalta negli eventi
desiderati né si abbatte negli eventi indesiderati, è [anch’essa
chiamata] ‘conoscenza’ [in quanto è un mezzo per realizzarla].
E inoltre,

13.10. ...e verso di Me, grazie allo yoga della non-alterità,


una devozione non soggetta a distrazione, la ricerca di luoghi
perfettamente isolati, il disgusto verso il consesso degli uomini...
516 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.10

“...e verso di Me”, ÙŸvara, “grazie allo yoga della non-alteri-


tà”, cioè grazie a una contemplazione [di sé] non separatamen-
te [dal Signore]... Una ferma, inalterabile convinzione consa-
pevole così: ‘non vi è altro Signore al di là di Våsudeva: quindi
Quello soltanto è, per noi, la Mèta’, è lo yoga della non-alteri-
tà (ananyayoga); dunque, grazie ad esso “una devozione”, una
venerazione non suscettibile di venire deviata, cioè “non sog-
getta a distrazione”. Anche essa [essendo un mezzo realizzati-
vo della conoscenza] è [detta] ‘conoscenza’.
“...la ricerca di luoghi perfettamente isolati”. Perfettamen-
te isolato [significa totalmente libero] da impurità, ecc. per
propria natura o grazie a una purificazione rituale, dunque
esente da [timore dovuto alla presenza di animali come] ser-
penti, tigri, ecc., ossia un luogo perfettamente isolato da selve
[piene di animali], [lontano da] sponde di fiumi [ove si reca-
no persone e animali], templi intitolati a deva [ove si affolla-
no pellegrini], ecc. Colui per il quale ricercare un tale [luogo]
è un’attitudine [spontanea] è quegli che ricerca luoghi perfet-
tamente isolati, e la sua condizione è la ricerca di luoghi per-
fettamente isolati (viviktadeŸasevitva). Infatti, poiché nei luo-
ghi perfettamente isolati la mente si acquieta, di conseguenza
è [solo] in un [luogo] perfettamente isolato che la consapevo-
lezza dell’åtman può emergere. Per questo [anche] la ricerca
di luoghi perfettamente isolati viene detta ‘conoscenza’.
“...il disgusto “, la ripugnanza “verso il consesso degli uo-
mini”: il consesso degli uomini (janasaæsad) è il radunarsi,
l’aggregarsi di uomini ordinari, privi di purificazione e non
inclini alla disciplina. Dunque non [si riferisce al disgusto nei
confronti di] un consesso di [uomini] purificati e disciplinati,
perché un tale [consesso] è un ausilio per la conoscenza. Quin-
di si tratta del disgusto nei confronti della comunità di uomini
ordinari, [disgusto che] avendo come fine la conoscenza, è
[anch’esso detto] ‘conoscenza’.
E inoltre,
13.11 Tredicesimo Adhyåya 517

13.11. ...costanza nella conoscenza dell’adhyåtman e visione


dello scopo della conoscenza della essenza: [tutto] ciò è procla-
mato conoscenza, [mentre viene detto] ignoranza ciò che rispetto
a essa è opposto.

“...costanza nella conoscenza dell’adhyåtman”: la conoscen-


za dell’adhyåtman è la conoscenza concernente l’åtman e le
altre cose [inerenti]; la condizione di trovarsi costantemente
in essa è la costanza (nityatva). La conoscenza della essenza
(tattvajñåna) è dovuta al completo sviluppo della consapevo-
lezza dei mezzi per [realizzare] la conoscenza quali l’umiltà e
gli altri [descritti a partire da Bha. Gı. 13.7]; il suo fine è la li-
berazione, la cessazione del divenire ciclico. La chiara perce-
zione di tale [fine] è “la visione dello scopo della conoscenza
della essenza”. Infatti, è [soltanto] quando si percepisce il frut-
to della conoscenza della essenza che ci si può impegnare nel-
la pratica dei mezzi per [realizzare] tale [scopo]. “[Tutto] ciò”
che è stato esposto cominciando dalla umiltà fino alla percezio-
ne dello scopo della conoscenza della essenza “è proclamato
conoscenza”, in quanto il suo fine è la [realizzazione della]
conoscenza, [mentre viene detto] “ignoranza ciò che rispetto
a essa”, cioè rispetto a questa [conoscenza] quale è stata enun-
ciata, “è opposto”, [si presenta] in modo contrario. Dunque, la
superbia, l’ipocrisia, la crudeltà, l’intolleranza, la disonestà,
ecc. sono l’ignoranza che deve essere conosciuta al fine di po-
terla eliminare completamente dato che è la causa del perpe-
tuo movimento del divenire ciclico.
Che cosa deve essere conosciuto attraverso la conoscenza
quale è stata esposta?
Palesandosi tale istanza conoscitiva, [Bhagavat] disse:
«Quello che si deve conoscere...» (Bha. Gı. 13.12).
Obiezione: Comunque l’umiltà e le altre [virtù elencate]
formano le restrizioni (yama) e le osservanze (niyama) [del
518 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.11

Råjayoga]. Per loro mezzo non si può conoscere Quello che


deve essere conosciuto. Infatti non è dato constatare che l’u-
miltà e le altre [virtù] siano in grado di definire esattamente
[la reale natura] di qualche ente e, in ogni caso, si constata
che è in grado di definire quello che si deve conoscere soltan-
to quella stessa conoscenza che lo ha [direttamente] per og-
getto. Infatti un dato [ente] non può essere percepito attraver-
so una conoscenza avente per oggetto un altro [ente], come il
fuoco [non può essere conosciuto] per mezzo della conoscen-
za, ad esempio, di un vaso.
Risposta: Questo non è un difetto, perché abbiamo detto
che [tutto ciò] viene detto ‘conoscenza’ sia perché costituisce
un mezzo per [realizzare] la conoscenza, sia perché è una cau-
sa concomitante in relazione alla [realizzazione della] cono-
scenza.

13.12. Quello che si deve conoscere [ti] esporrò, conoscendo il


quale si attinge l’[Essere] immortale. È il Senza-principio, il
supremo Brahman. Quello viene detto: né esistente, né non-esi-
stente.

“Quello che si deve conoscere” (jñeya), che deve essere co-


nosciuto, “[ti] esporrò” eccellentemente, [te lo] enuncerò così
qual esso è.
Qual è il frutto [di tale conoscenza]?
Ciò [che si espone subito dopo]. [Bhagavat] pronunciando
tale stimolazione allo scopo di rendere attento l’ascoltatore, dis-
se: “...conoscendo il quale...”, ossia [realizzando] Quello che si
deve conoscere, “...si attinge l’[Essere] immortale”, cioè l’immor-
talità, vale a dire che non si è più soggetti a [nascita e] morte.
“È il Senza-principio...”. Possiede principio (ådimat) ciò
per il quale esiste un inizio. Se non ha un inizio, è senza-prin-
cipio (anådimat).
13.12 Tredicesimo Adhyåya 519

Qual è Esso?
L’ente di cui si sta trattando, che si deve conoscere, è “...il
supremo Brahman” (paraæ brahma): [è detto supremo perché]
non vi è nulla che lo trascende.
Obiezione: Qui, [leggendo] anådi matparam [anziché anå-
dimat param], alcuni scindono il termine [senza-principio,
anådimat, da supremo, param]: [infatti] la mancanza di signi-
ficato [insita nella contraddittorietà] dovuta al suffisso mat,
nel senso espresso attraverso il [composto nominale denomi-
nato] bahuvrıhi, è indesiderabile, per cui prospettano il signi-
ficato in maniera diversa: ‘Il [Brahman] supremo, del quale Io
sono il sommo potere denominato Våsudeva, è dotato di tale
[natura senza inizio]’38.
Risposta: In verità, così, cioè qualora sia ammissibile il
senso [da Voi ipotizzato, il suffisso -mat] risulterebbe pronun-
ciato una sola volta [senza venire ripetuto, per cui la presunta
mancanza di significato risulterebbe evitata]. Ma il [suddetto]
senso non può essere ammesso, perché [pronunciando l’e-
spressione]: “Quello viene detto: né esistente, né non-esisten-
te”, si vuole suscitare l’istanza di conoscere chiaramente il
Brahman proprio attraverso la negazione di qualsiasi qualifi-
cazione. D’altra parte, la prospettazione di una natura dotata
di [un qualsiasi] potere e la negazione di [ogni] qualificazione
è una contraddizione in termini; perciò, sebbene vi sia identi-
tà di significato [tra anådi e anådimat], [si deve riconoscere
che] l’impiego del suffisso -mat attraverso il [composto nomi-
nale del tipo] bahuvrıhi ha lo scopo di completare la [metrica
della] strofa.
‘Io ho detto che si deve conoscere il frutto consistente nel-
la immortalità’: reso attento [Arjuna] con tale stimolazione,
[Bhagavat] aggiunse: né Quello, che deve essere conosciuto,
viene detto esistente (na sat), né, ancora, Quello viene detto
non-esistente (asat).
520 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.12

Obiezione: Comunque, dopo aver proclamato con grande


enfasi, quasi promettendo solennemente di farlo: “Quello che
si deve conoscere [ti] esporrò...”, l’asserzione: “Quello viene
detto ‘né esistente, né non-esistente’” non sembra coerente
[con la promessa].
Risposta: No; quanto detto è pienamente coerente [con la
promessa di spiegazione].
In che senso?
Invero, essendo al di là della portata della parola, il Bra-
hman, che è ciò che si deve conoscere, viene espresso in tutte
le Upani≤ad soltanto per mezzo della negazione delle qualifi-
cazioni, come nei passi: «non è così, non è così» (Bÿ. 2.3.6),
«né grossolano, né sottile» (Bÿ. 3.8.8) e altri, e non [in termini
come]: ‘Quello è [in] questo [modo]’.
Obiezione: Comunque, quell’ente, che non viene espresso
in termini di esistenza (astiŸabda), non esiste [affatto]: se Quel-
lo, che si deve conoscere, non può essere espresso in termini
di esistenza, [allora] non esiste. [Infatti] è una contraddizione
in termini [asserire]: “Quello che si deve conoscere...” e ‘non
può essere espresso in termini di esistenza’39.
Risposta: [Quello che si deve conoscere, definito come “né
esistente...”] tantomeno non è non-esistente, perché non co-
stituisce oggetto della cognizione di non-esistenza40.
Obiezione: Comunque, qualsiasi cognizione conoscitiva de-
ve sempre corrispondere ai concetti o di esistenza o di non-esi-
stenza. In tal caso, così essendo, anche ciò che è conoscibile o
deve essere oggetto di un contenuto conoscitivo corrispondente
al concetto di esistenza, o deve essere oggetto di un contenuto
conoscitivo corrispondente al concetto di non-esistenza.
Risposta: No, perché, essendo al di là [della portata] degli
strumenti sensoriali (ivi compresa la possibilità di rientrare in
13.12 Tredicesimo Adhyåya 521

una definizione verbale o concettuale), non è oggetto di un


contenuto conoscitivo corrispondente a nessuno dei concetti
delle due cose (esistenza o non-esistenza). Infatti, un tale og-
getto, che sia comprensibile attraverso i sensi, come un vaso
o altro, o costituisce oggetto del contenuto conoscitivo corri-
spondente al concetto di esistenza [se presente o percepibile,
ecc.], oppure deve costituire oggetto del contenuto conosciti-
vo corrispondente al concetto di non-esistenza [se assente o
distrutto, ecc.]; invece questo [Brahman] che si deve conosce-
re, essendo al di là della sfera sensoriale [compresa la mente],
non essendo afferrabile attraverso un mezzo conoscitivo sia
pur valido, come la parola, non può costituire oggetto del
contenuto conoscitivo corrispondente ad alcuno di questi due
concetti, per cui si afferma: ‘Quello viene espresso così: né
esistente, né non-esistente’.
Per quanto riguarda ciò che è stato [da Voi] obiettato, os-
sia: ‘[affermare] “Quello che si deve conoscere...” e “Quello
viene detto: né esistente, né non-esistente”, rappresenta una
contraddizione in termini’, ciò non è contraddittorio, come si
apprende dalla Âruti: «Quello è affatto altro dal conosciuto ed
è anche al di là del non-conosciuto» (Ke. 1.3).
Obiezione: Si potrebbe supporre che anche la Âruti esprima
un significato autocontraddittorio, come quando, dopo aver
intrapreso l’allestimento del sito sacrificale appositamente
per la celebrazione, si domanda: «...(chi sa) se nell’altro mon-
do esiste (qualche bene) oppure no?» (Tai. Saæ. 6.1.1). Si può
ipotizzare che [anche nel caso in esame] sia così.
Risposta: No, perché il passo della Âruti che espone una na-
tura differente dal conosciuto e dal non-conosciuto ha lo scopo
di spiegare un significato che è necessario comprendere chia-
ramente, mentre il passo: «...se nell’altro (mondo)...», ecc. (Tai.
Saæ. 6.1.1) è un’asserzione di conferma (arthavåda) quale parte
integrante di una prescrizione41. Inoltre [è così] anche per via
522 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.12

della evidenza dimostrativa per la quale il Brahman non può


essere espresso tramite parole quali ‘esistente’, ‘non-esistente’
e così via: infatti qualsiasi termine venga impiegato per espri-
mere un [dato] significato, quando viene udito da coloro che
ascoltano, acquista un [particolare] senso in rapporto alla com-
prensione convenzionale basata su quelle che sono la classe
(jåti), l’azione (kriyå), la qualità (gu√a) e la relazione (saæba-
ndha); né potrebbe essere diversamente, perché questo non vie-
ne constatato. Ciò è come [nei seguenti casi]: [i concetti defini-
ti di termini quali] ‘mucca’ o ‘cavallo’ [vengono appresi e di-
stinti] tramite la classe, [le voci verbali] ‘cuoce’ e ‘recita’ [ven-
gono apprese e distinte] attraverso l’azione, [i colori] ‘bianco’
o ‘nero’ [vengono definiti] dalla qualità-colore, [i termini] ‘ric-
co possidente’ e ‘possessore di armenti’ [lo sono] per via di
una relazione. Viceversa, il Brahman non appartiene a una
classe, per cui non può essere definito con termini quali ‘esi-
stente’ o altri; neppure possiede qualità, attraverso cui possa
essere definito con termini esprimenti qualità, perché è sen-
za-attributi (nirgu√a); né, ancora, può essere definito con ter-
mini che esprimono un’azione, essendo privo di attività, come
afferma il passo della Âruti: «...privo di parti, senza attività, pa-
cificato...» (Âve. 6.19); inoltre, essendo unità, non possiede rela-
zione [con alcunché]; infine, essendo privo di secondo (adva-
ya), non costituendo oggetto [per alcun senso] ed essendo l’å-
tman [di tutto], non può essere espresso attraverso nessun ter-
mine, per cui è appropriato quanto affermano passi della Âruti
come: «...dal quale le parole recedono...», ecc. (Tai. 2.9.1) e altri.
Ora, potendo sorgere il dubbio che ciò che si deve cono-
scere abbia natura di non-esistenza, dato che non costituisce
oggetto né del termine né del concetto relativi alla ‘esisten-
za’42, [Bhagavat] dimostrando la natura di esistenza di Quello
attraverso le sovrapposizioni limitanti che costituiscono gli
strumenti sensoriali di tutti gli esseri viventi, allo scopo di
dissipare tale dubbio, dice:
13.13 Tredicesimo Adhyåya 523

13.13. Con le mani e i piedi dappertutto, Quello, con le brac-


cia, la testa e la bocca dappertutto, provvisto di orecchie dap-
pertutto nel mondo, avviluppando la totalità, ristà [immobile].

“Con le mani e i piedi dappertutto...”: ha le mani e i piedi


dappertutto Quegli le mani e i piedi del quale sono dovunque;
“Quello” è ciò che si deve conoscere. L’esistenza (astitva) del
conoscitore del campo [sebbene unico] si estende dappertutto
[venendo desunta] grazie alle sovrapposizioni limitanti che
formano gli strumenti sensoriali di tutti i viventi ed è detto
‘conoscitore del campo’ per via delle sovrapposizioni limitan-
ti [proprie] del ‘campo’, mentre il campo è variamente diffe-
renziato per mezzo di [molteplici strumenti sensoriali come]
mani, piedi, ecc. L’insieme di qualificazioni prodotto dalla dif-
ferenziazione delle sovrapposizioni limitanti del campo appar-
tiene al conoscitore del campo soltanto in via illusoria; così,
[affermando]: «Quello è detto: né esistente, né non-esistente»
(Bha. Gı. 13.2), si afferma che [il conoscitore del campo] deve
essere conosciuto grazie alla rimozione di tale [insieme].
Sebbene il prodotto delle sovrapposizioni limitanti [nel co-
noscitore del campo] abbia natura illusoria, tuttavia, onde far
comprendere la [sua] esistenza, si dice, immaginando come se
si trattasse di proprietà che appartengono [realmente] a ciò
che si deve conoscere [ossia al Brahman]: “con le mani e i
piedi dappertutto...”, ecc. Invero, in tal senso si ha l’asserzione
da parte dei conoscitori della Tradizione: ‘Ciò che è privo di
dispiegamento (Non-manifesto), viene spiegato attraverso la
sovrapposizione e la negazione [delle sovrapposizioni]’. Le
mani, i piedi e le altre cose, che si riconoscono costituire do-
vunque le parti di qualsiasi corpo, sono proprio l’effetto do-
vuto alla presenza del potere di Quello che deve essere cono-
sciuto; pertanto sono segni caratteristici della presenza [e
quindi della esistenza] di Quello che deve essere conosciuto.
Ciò nonostante, è [solo] in senso figurato che vengono detti
524 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.13

inerire a Quello che si deve conoscere. In maniera simile deve


essere spiegato il resto.
“Con le mani e i piedi dappertutto, Quello”, che è Ciò che
si deve conoscere, “con le braccia, la testa e la bocca dapper-
tutto...”: ha le braccia, la testa e la bocca dappertutto quegli
del quale le braccia, le teste e le bocche sono dovunque;
“...provvisto di orecchie dappertutto...”: le orecchie sono il
senso dell’udito, quegli al quale appartiene tale [senso, viene
detto] provvisto di orecchie; “...nel mondo”, cioè nel corpo dei
viventi [tutti], “avviluppando”, pervadendo completamente
“la totalità, ristà [immobile]”, cioè possiede stabile esistenza
(sthiti)43.
Ora, dalla sovrapposizione di sensi [di azione, percezione,
ecc.] quali le mani, i piedi, ecc., che costituiscono sovrapposi-
zioni limitanti, potrebbe sorgere il dubbio che [tutto] ciò ap-
partenga [realmente] a Quello che si deve conoscere. Lo scopo
del verso che compare in seguito è quello di evitare ciò.

13.14. [Pur mostrando] l’apparenza delle qualità di tutti i


sensi, è perfettamente privo di qualsiasi senso, [pur essendo]
non-attaccato [a nulla], è il sostegno stesso della totalità e, [pur
essendo] privo di attributi, è il fruitore degli attributi.

“[Pur mostrando] l’apparenza delle qualità di tutti i sen-


si...”. Nell’insieme di “tutti i sensi” (sarvendriya) sono compresi
sia tutti quei sensi come l’udito e gli altri, denominati organi
di percezione (buddhındriya) e organi di azione (karmendri-
ya), che, nell’organo interno, la buddhi e il manas, essendo
parimenti sovrapposizioni limitanti di Quello che si deve co-
noscere. Inoltre, anche l’udito e gli altri costituiscono una so-
vrapposizione limitante proprio attraverso la sovrapposizione
limitante dell’organo interno, per cui il significato è così:
Quello che si deve conoscere si manifesta attraverso le qualità
di tutti i sensi che costituiscono sovrapposizioni limitanti sia
13.14 Tredicesimo Adhyåya 525

come organo interno (mente) sia come organi esterni (di azio-
ne e percezione), attraverso [le facoltà specifiche di tali or -
gani come] l’apprendimento certo, la proiezione immaginati-
va, l’ascolto, l’espressione verbale, ecc., come se fosse [davve-
ro] attivamente impegnato nelle funzioni di ogni senso, come
si apprende dalla Âruti: «...è come se pensasse, è come se si
muovesse» (Bÿ. 4.3.7).
Obiezione: Qual è, dunque, la causa per cui si deve com-
prendere che non è affatto [davvero] attivamente impegnato
[in tali funzioni]?
Risposta: A ciò si risponde: [perché] “è perfettamente pri-
vo di qualsiasi senso”, vale a dire: privo di qualsiasi strumen-
to sensoriale. Quindi, Quello che deve essere conosciuto non
può [davvero] impegnarsi in maniera attiva nelle funzioni
sensoriali.
Invece, per quanto concerne questo mantra: «Pur essendo
privo di mani e di piedi, Egli afferra e si muove rapidamente;
Egli vede senza occhi e ascolta senza orecchie...», ecc. (Âve.
3.19), il senso che si vuole prospettare è questo: Quello, che
deve essere conosciuto, è dotato del potere di scindersi [appa-
rentemente] conformandosi alle qualità delle sovrapposizioni
limitanti formanti tutti gli organi, mentre non si vuole affatto
indicare direttamente una natura dotata di attività quali quel-
la di muoversi rapidamente, ecc., laddove il significato di tale
mantra è analogo al senso [implicito nella espressione appa-
rentemente contraddittoria] del mantra: «Il cieco vide una
gemma» (Tai. Å. 1.11).
Poiché è privo di qualsiasi strumento sensoriale, Quello
che deve essere conosciuto è “non-attaccato [a nulla]” (asa-
kta), cioè privo di contatto con qualsiasi cosa, ma, nonostante
sia così, tuttavia “è il sostegno stesso della totalità”. Infatti
tutto è collocato nell’Essere (sat), perché si comprende che il
concetto di ‘essere’ (sadbuddhi) permea la totalità 44. Infatti
526 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.14

neppure i miraggi potrebbero apparire in assenza di uno sfon-


do [su cui stagliarsi]. Pertanto, per il motivo che sostiene tut-
to, è [definito come] il sostegno della totalità (sarvabhÿt).
Si ammetta anche questo: vi è un’altra porta di accesso
grazie alla quale è possibile comprendere la reale natura (sa-
ttva) di Quello che deve essere conosciuto: Quello che si deve
conoscere, “[pur essendo] privo di attributi” (nirgu√a), cioè
privo di quegli attributi principiali (gu√a) che sono il sattva, il
rajas e il tamas, tuttavia “è il fruitore degli attributi”; ossia,
Quello, che deve essere conosciuto, è sia il fruitore (lo speri-
mentatore) sia il soggetto percipiente, attraverso la porta del
suono e degli altri [oggetti dei sensi], degli attributi quali il sa-
ttva, il rajas e il tamas, allorché si sono trasformati assumendo
la forma di piacere, dolore, illusione, ecc.
E inoltre,

13.15. All’esterno e all’interno degli esseri, immobile e tutta-


via mobile, a motivo della [sua] sottigliezza Quello è inconosci-
bile distintamente, e lontano e vicino è Quello...

In rapporto al corpo racchiuso esteriormente dalla pelle,


immaginato attraverso l’ignoranza come il proprio sé, si defi-
nisce l’esterno (bahis) avendo posto quello stesso [corpo] come
limite; similmente, in rapporto all’intimo åtman, posto ancora
il corpo come limite, si definisce l’interno (antar). Ora, dicen-
do “All’esterno e all’interno (degli esseri)”, sembra sottintesa
l’assenza del mezzo. [Onde evitare tale errata conclusione45]
si dice questo: “immobile e tuttavia mobile”. Per quanto sia
“mobile e immobile”, Quello stesso, che è ciò che si deve co -
noscere, si presenta anche sotto la sembianza di un corpo,
come la corda che sembra serpente.
Obiezione: Se Quello che si deve conoscere fosse la totalità
“immobile e tuttavia mobile”, in quanto oggetto della perce-
13.16 Tredicesimo Adhyåya 527

zione empirica, per quale motivo non viene conosciuto distin-


tamente da tutti come: ‘è questo’?
Risposta: Si dice: in verità, sebbene Quello si presenti sotto
l’apparenza della totalità, tuttavia è sottile come lo spazio. Per-
tanto [proprio] “a motivo della [sua] sottigliezza”, sebbene sia
conoscibile nella sua propria natura, “è inconoscibile distinta-
mente” dai non-conoscitori. Invece da parte dei conoscitori è
costantemente conosciuto, come [si apprende] dai seguenti
passi autorevoli [del tipo]: «...l’åtman stesso è tutto questo»
(Chå. 7.25.2), «Tutto questo è certamente il Brahman» (Chå.
3.14.1) e altri. Poiché non è distintamente conoscibile [come
oggetto, ne risulta che Esso] è “lontano”, non potendo essere
raggiunto dai non-conoscitori nemmeno in decine di migliaia
di milioni di anni, “e vicino”, essendo, Quello, l’åtman dei co-
noscitori46.
E ancora,

13.16. ...e indiviso, eppure come stabilito diviso negli esseri,


Quello deve essere conosciuto anche come il tutore degli esseri,
il divoratore e l’originatore.

“...e indiviso” in ciascun corpo, Quello, unico come lo spa-


zio, “eppure come stabilito diviso negli esseri”, in tutti i viventi,
poiché percepito proprio nei [loro] corpi, “Quello deve essere
conosciuto anche come il tutore degli esseri” in quanto sostie-
ne [tutti] gli esseri; ed è il tutore degli esseri al tempo della
conservazione universale (sthiti), mentre al tempo della disso-
luzione universale (pralaya) è “il divoratore” [degli esseri],
dotato della capacità di ingoiarli, “e l’originatore” [degli esse-
ri] al tempo della venuta in esistenza dell’universo (utpatti) in
quanto capace di dar [loro] origine, [non come produttore di
effetti sussistenti ma] come una corda o altro [lo è] per il ser-
pente erroneamente immaginato, ecc.47
528 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.16

Obiezione: Ma se, pur essendo esistente dappertutto, non


viene percepito, allora si potrebbe supporre che Quello che si
deve conoscere è [mera] oscurità (tamas).
Risposta: No.
Obiezione: Che cosa è, allora?
Risposta: In aggiunta [a quanto già detto],...

13.17. Quello è anche la Luce delle luci, e viene detto: al di là


della oscurità; è [la terna di] conoscenza, conoscibile e mèta del-
la conoscenza, singolarmente fissata nel cuore di ognuno.

“Quello”, che si deve conoscere, “è anche la Luce delle


luci...” quali il sole e gli altri [astri]: infatti il sole e gli altri
astri luminosi risplendono in quanto accesi dalla luce della
coscienza assoluta dell’åtman, come [si apprende] da passi
della Âruti come: «...per mezzo del quale il sole rifulge, acceso
dalla [sua] luce» (Tai. Brå. 3.12.9), «...tutto questo risplende
dello splendore di Quello» (Âve. 6.14) e altri e anche dalla
Smÿti [che si esprime così] qui stesso: «Quella Luce che, pe-
netrata nel sole...», ecc. (Bha. Gı. 15.12) e altrove; “...e viene
detto: al di là della oscurità”, cioè non toccato dalla ignoranza.
Allo scopo di risollevare quegli (Arjuna), che era caduto
nell’abbattimento al pensiero della difficoltà insita nella rea-
lizzazione della conoscenza, ecc., [Bhagavat] enunciò la “co-
noscenza” (jñåna), quale [è stata considerata nei versi che
espongono] l’umiltà, ecc. (Bha. Gı. 13.7-11), il “conoscibile”
(jñeya), enunciato a partire dal verso: «Quello che si deve co-
noscere [ti] esporrò...», ecc. (Bha. Gı. 13.12-17), e la “mèta del-
la conoscenza” (jñånagamya): viene detto mèta della cono-
scenza lo stesso conoscibile, una volta che sia stato conosciu-
to, cioè il frutto della conoscenza, ma che è [prima detto] co-
noscibile in quanto deve [ancora] venire conosciuto. Anche
13.18 Tredicesimo Adhyåya 529

questa terna [di conoscenza, conoscibile e mèta della cono-


scenza] “è singolarmente fissata”, cioè stabilita in special modo
“nel cuore”, nella intuizione “di ognuno”, di qualunque specie
di essere vivente, cioè proprio là dove la terna si manifesta di-
stintamente.
Allo scopo di riassumere il senso che è stato appena e-
spresso provvede questo Ÿloka [seguente].

13.18. Così si è enunciato sommariamente il campo, in modo


simile la conoscenza e il conoscibile. Colui che è devoto a Me,
conoscendo distintamente questa [autentica visione], diviene
idoneo per [conseguire] il Mio stato.

“Così”, in questo modo,“si è enunciato sommariamente”,


in sintesi, “il campo”, cominciando dai ‘grandi elementi’ fino
al ‘sostentamento’ (Bha. Gı. 13.5-6), “in modo simile la cono-
scenza”, a cominciare dalla ‘umiltà’ fino a comprendere la ‘vi-
sione dello scopo della conoscenza della essenza’ (Bha. Gı.
13.7-11), e “il conoscibile”, dal passo: «Quello che si deve co-
noscere...» (Bha. Gı. 13.12) fino al passo: «...viene detto al di là
della oscurità» (Bha. Gı. 13.17).
Questo stesso, invero, è l’intero significato del Veda e an-
che il significato della [Bhagavad] Gıtå espresso in modo rias-
suntivo.
Chi è colui che diviene qualificato in relazione a questa
autentica conoscenza?
Si dice: “Colui che è devoto a Me...” – è devoto a Me (ma-
dbhakta)48 quegli il cui proprio [intero] essere (åtmabhåva) è
completamente fissato in Me, nel Signore onnisciente, nel su-
premo guru Våsudeva, e la cui consapevolezza è integralmen-
te presa da questa convinzione, ossia che tutto ciò che vede,
ascolta o tocca è solamente Bhagavat, ossia Våsudeva – “...co-
noscendo distintamente questa” autentica visione così come è
stata esposta, “diviene idoneo per [conseguire] il Mio stato": il
530 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.18

Mio stato (madbhåva) è lo stato di essere che è peculiare a Me,


cioè la natura di supremo åtman; [costui diviene qualificato]
per [realizzare anch’egli] tale Mio stato, cioè consegue la libe-
razione.
In quel contesto, nel Settimo [Adhyåya], dove sono state
presentate le due nature di ÙŸvara (Brahman), la suprema e la
non-suprema, consistenti [rispettivamente] nel conoscitore del
campo e nel campo, è stato affermato: «(Considera che tutti)
gli esseri hanno questa matrice» (Bha. Gı. 7.6).
In che senso la duplice natura di campo e di conoscitore
del campo è la matrice degli esseri?
[A ciò] adesso si risponde:

13.19. Sappi che la Prakÿti e lo stesso Puru≤a sono entrambi


senza inizio, e sappi che le modificazioni e le stesse qualità
hanno origine dalla Prakÿti.

“Sappi che la Prakÿti e lo stesso Puru≤a...” – la Prakÿti e il


Puru≤a rappresentano le due nature di ÙŸvara (Brahman) –
“...sono entrambi senza inizio”: essi sono senza inizio (anådi)
perché di loro non esiste principio. Poiché ÙŸvara è eterno, è
legittimo il porsi in quanto eterne anche delle due nature di
Quello, cioè di ÙŸvara. Infatti la divina sovranità (ıŸvaratva) di
ÙŸvara consiste proprio nell’essere dotato delle due nature, ov-
vero della duplice natura attraverso la quale ÙŸvara diviene la
causa della venuta in esistenza, della conservazione e della
dissoluzione dell’universo. Tali due [nature] essendo prive di
inizio, sono la causa del divenire ciclico (anch’esso privo di
inizio).
Obiezione: Alcuni interpretano il termine ‘senza inizio’
(anådi) come un composto sintetico [del tipo] tatpuru≤a 49 nel
senso di ‘non-originario’ (nå ’’di = na+ådi, ossia ‘ciò che non
esiste fin dall’origine’): solo così, infatti, viene sicuramente
13.20 Tredicesimo Adhyåya 531

stabilita la natura causale di ÙŸvara. Se, invece, la Prakÿti e lo


stesso Puru≤a fossero eterni, l’universo sarebbe un loro stesso
prodotto e per ÙŸvara non si avrebbe [più] la natura di creato-
re in rapporto all’universo.
Risposta: Ciò non può essere, perché ne conseguirebbe sia
il difetto per cui, prima della venuta in esistenza della Prakÿti
e del Puru≤a, per ÙŸvara non potrebbe aversi la natura di divi-
na sovranità in mancanza di qualcosa su cui esercitare il domi-
nio, sia il difetto [ulteriore] per cui, in assenza di una causa
per il divenire ciclico, non potrebbe esservi liberazione50; quin-
di si avrebbe anche il vizio della mancanza di significato delle
Scritture [che promettono la liberazione] e, ancora, il difetto
della inesistenza tanto della schiavitù quanto della liberazione51.
Qualora, invece, si abbia l’eternità per le due nature di ÙŸva-
ra, tutto questo può essere ragionevolmente ammesso.
In che modo?
“...e sappi”, riconosci “che le modificazioni e le stesse qua-
lità...” che verranno menzionate – le modificazioni (vikåra)
sono quelle a cominciare dall’intelletto (buddhi) fino al corpo
e agli organi, mentre le qualità (gu√a) sono le [modificazioni]
trasformate che hanno assunto la forma di contenuti quali il
piacere, il dolore, l’illusione – “...hanno origine dalla Prakÿti”.
La Prakÿti è la måyå di ÙŸvara (Brahman), essenziata dei tre
gu√a, cioè il [suo] potere di causare le differenti produzioni,
delle quali, consistendo [queste] in modificazioni (enti) e qua-
lità (attributi), essa è l’origine; dunque, sappi che tali modifi-
cazioni e qualità hanno origine dalla Prakÿti, sono cioè trasfor-
mazioni della Prakÿti52.
Quali sono, dunque, le modificazioni e le qualità che han-
no origine dalla Prakÿti?

13.20. In rapporto alla funzione di produttore di effetto e


strumenti, si dice che la Prakÿti ne è la causa. Il Puru≤a, in rap-
532 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.20

porto alla funzione di sperimentatore dei piaceri e dei dolori, si


dice che ne è la causa.

“In rapporto alla funzione di produttore dell’effetto e degli


strumenti...” – l’effetto (kårya) è il corpo, gli strumenti (kara-
√a) sono i tredici [sensi, ecc.] stabiliti in esso 53. I cinque ele-
menti che danno luogo al corpo e i cinque oggetti [dei sensi]
che sono le modificazioni originantisi dalla Prakÿti prima men-
zionate, sono compresi nel citato termine: ‘effetto’, mentre le
qualità, anch’esse originantisi dalla Prakÿti, consistenti in pia-
cere, dolore e illusione, sono comprese nel citato termine:
‘strumento’, dato che risiedono negli organi [sensoriali]. La
natura di produttore (kartÿtva), ossia la natura di ciò che fa
sorgere (utpådakatva), in riferimento a tali effetto e strumen-
ti, è quella che è [definita come] la funzione di produttore di
effetto e strumenti; in rapporto a essa, cioè “in rapporto alla
funzione di produttore di effetto e strumenti si dice che la
Prakÿti ne è la causa”, cioè il principio, in quanto è ciò che dà
loro origine. Così la Prakÿti è [anche] la causa del divenire ci-
clico essendo colei che dà origine all’effetto e agli strumenti
(cioè al corpo e alle funzioni sensoriali).
Anche in questa [diversa] lettura: “in rapporto alla funzio-
ne di produttore di effetto e causa” [leggendo kåryakåra√aka-
rtÿtve in luogo di kåryakara√akartÿtve, si ha che] ciò che è ef-
fetto di quello, del quale è una trasformazione (pari√åma), è
un [suo] prodotto o modificazione e quello che è suscettibile
di modificarsi (vikårin) è la causa di entrambi, cioè della mo-
dificazione e del modificato, ovvero dell’effetto e della causa
stessa in rapporto alla funzione di produttore54.
Oppure le sedici modificazioni 55 sono l’effetto; ovvero i
sette56, che sono [reciprocamente e alternativamente] il va-
riante e il variato (prakÿtivikÿti), quelli stessi vengono detti
[di volta in volta] cause ed effetti 57. In rapporto alla funzione
di loro produttore, “si dice che la Prakÿti ne è la causa”, pro-
13.20 Tredicesimo Adhyåya 533

prio in quanto è colei che dà [loro] origine. “Il Puru≤a...” – si


enuncia [adesso] ciò, cioè come esso sia la causa del divenire
ciclico, laddove [i termini] puru≤a, jıva, conoscitore del campo
(k≤etrajña), fruitore-sperimentatore (bhoktÿ) sono sinonimi –
“...in rapporto alla funzione di sperimentatore”, di soggetto per-
cipiente “dei piaceri e dei dolori...”, cioè di quelli che sono gli
oggetti di esperienza (bhogya), “...si dice che ne è la causa”58.
Obiezione: In che senso, dunque, si afferma che la Prakÿti e
il Puru≤a sono la causa del divenire ciclico attraverso tali [loro
rispettivi] natura di produttore di effetto e strumenti e ruolo
di sperimentatore di piacere e dolore?
Risposta: A ciò si risponde: in assenza della trasformazio-
ne, attraverso sé stessa, della Prakÿti [di per sé non-consape-
vole e ponentesi come oggetto] sotto forma di causa ed effetto,
cioè di corpo e organi, e in assenza della funzione, [espressa]
da parte di un Puru≤a [di per sé] consapevole, di soggetto per-
cipiente di ciò, donde mai potrebbe aversi un divenire ciclico
[il quale necessariamente si basa sul rapporto conoscente-
conosciuto]?59
Allorquando dovesse aversi la congiunzione, avente na-
tura di ignoranza, attraverso la [sua] natura di fruitore, del
Puru≤a, che è opposto a quella, con la Prakÿti, oggetto di frui-
zione, trasformata in sé stessa in causa ed effetto sotto forma
di corpo, organi, piacere e dolore, allora si avrà il divenire
ciclico.
Quindi, quanto detto, cioè che la Prakÿti e il Puru≤a costi-
tuiscono la causa del divenire ciclico [rispettivamente] attra-
verso la natura di produttore di corpo e organi e attraverso la
funzione di sperimentatore del piacere e del dolore, è perfet-
tamente legittimo.
Obiezione: Che cosa è, dunque, ciò che si definisce ‘diveni-
re ciclico’ (saæsåra)?
534 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.20

Risposta: Il divenire ciclico è la completa [ossia piena, in


quanto identificata] esperienza di piacere e dolore e, per il Pu-
ru≤a, la condizione di assoggettamento al divenire ciclico sta
nella [sua] condizione [acquisita] di completo sperimentatore
delle cose piacevoli e di quelle dolorose.
Quanto a ciò che è stato detto, ossia che la condizione di
assoggettamento del Puru≤a al divenire ciclico corrisponde al
ruolo di completo sperimentatore delle cose piacevoli e di
quelle dolorose, qual è, allora, la causa di ciò?
Si dice:

13.21. Poiché il Puru≤a è stabilito [come jıva] nella Prakÿti,


fruisce delle qualità generate dalla Prakÿti. L’attaccamento alle
qualità è la causa in relazione alle sue nascite in buone o catti-
ve matrici.

“Poiché”, per il motivo che “il Puru≤a”, il fruitore, “è stabi-


lito [come jıva] nella Prakÿti...” – [l’espressione] ‘stabilito nel-
la Prakÿti’ (prakÿtistha) significa: [apparentemente] dimoran-
te nella Prakÿti che consiste di ignoranza ed è trasformata nella
forma di corpo e sensi, cioè entrato come åtman nella Prakÿti
– perciò “fruisce”, vale a dire: percepisce “le qualità generate
dalla Prakÿti”, cioè prodotte dalla Prakÿti e manifestate sotto
forma di piacere, dolore e illusione, [creando una convinzio-
ne] così: ‘io [sono] felice’ [oppure] ‘[sono] infelice’, ‘stolto’,
‘erudito’ [ecc.]. L’attaccamento (sa§ga) [del Puru≤a, o meglio
del suo riflesso-jıva], come identificazione di sé (åtmabhåva),
con le qualità che si vanno sperimentando quali piacere, dolo-
re e illusione, sebbene [queste] sussistano [solo] nell’ambito
della ignoranza, è la principale causa del divenire ciclico, cioè
della rinascita [del Puru≤a], come si apprende dalla Âruti nel
passo: «...quale è il suo desiderio, tale è la sua volontà (...tale è
l’azione che compie... ciò egli consegue)» (Bÿ. 4.4.5) e in altri.
Ciò stesso ha espresso [Bhagavat nello Ÿloka]: “L’attaccamen-
13.21 Tredicesimo Adhyåya 535

to alle qualità”, l’immedesimarsi agli attributi, “è la causa”, la


ragione “in relazione alle sue nascite”, [cioè alle rinascite] del
Puru≤a, ossia del fruitore, “in buone o cattive matrici”. Le buo-
ne o cattive matrici comprendono sia le matrici (yoni) pure
(satya) che le impure (asatya); le nascite (janman) in quelle,
che sono le matrici pure o impure, sono le nascite in buone o
cattive matrici; in relazione a quelle, cioè in relazione alle na-
scite in buone o cattive matrici, che costituiscono l’oggetto
[per il soggetto che è il Puru≤a immerso nell’avidyå], la causa
è l’attaccamento alle qualità.
Oppure si può aggiungere il termine ‘divenire ciclico’ [nel-
la frase, in modo da avere]: ‘l’attaccamento alle qualità è la
causa del suo divenire ciclico in relazione al nascere in buone
o cattive matrici’. Le matrici buone [o pure] sono le matrici di
di natura divina, ecc.; le matrici cattive [o impure] sono le ma-
trici di animali, ecc. In virtù di una conformità di significato
andrebbero considerate anche le matrici umane come matrici
[differenziate in] buone e cattive, in quanto ciò non è in con-
traddizione [con quanto espresso].
Quanto detto significa: l’ignoranza (avidyå), definita come
l’essere stabilito nella Prakÿti [da parte del Puru≤a], e il deside-
rio (kåma), come attaccamento alle qualità, sono [insieme] la
causa del divenire ciclico60, e ciò è stato espresso al fine di evi-
tarlo, dove la conoscenza (jñåna) e il distacco (vairågya), asso-
ciati con la completa rinuncia (saænyåsa), sono il mezzo per
[operare] la [loro] cessazione, come è ben noto nella Scrittura
della [Bhagavad] Gıtå61. E tale conoscenza, avente per argomen-
to il campo e il conoscitore del campo, è stata presentata [a co-
minciare] dal passo: «...conoscendo il quale si attinge l’immor-
talità» (Bha. Gı. 13.12), dove si è affermato [che tale operazione
deve essere effettuata] sia negando [in quel medesimo passo]
ciò che è altro [dall’åtman] sia sovrapponendo [all’åtman, nei
passi successivi] ulteriori proprietà non pertinenti alla sua [vera]
natura [ma efficaci come simbolo o supporto di meditazione].
536 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.21

Di Quello stesso si fornisce ora una indicazione in modo


diretto:

13.22. [È] il Testimone e Colui che acconsente, Colui che so-


stiene, il Fruitore, il grande Signore, il supremo åtman: anche
così viene espresso; in questo corpo è il Puru≤a supremo.

È “il Testimone” (upadra≤†ÿ), essendo il Veggente sempre


presente, di per sé non coinvolto nell’azione. Come tra i sa-
cerdoti officianti, allorché sono impegnati nel compimento di
un atto rituale, ve n’è un altro, esperto nella conoscenza del
rito sacrificale, che non partecipa all’azione ma che, [stando]
seduto dietro di loro, rileva [eventuali] pregi e difetti nella
esecuzione [del rito] da parte dei sacerdoti celebranti, tale e
quale, non coinvolto nelle attività di corpo e sensi ma distinto
in quanto totalmente differente da loro, è il veggente (dra≤†ÿ),
cioè il Testimone di tali corpo e sensi unitamente alle loro [ri-
spettive] funzioni, [che è tale solo] grazie alla [sua] costante
presenza.
Oppure [si dà questa interpretazione]: il corpo, [i sensi
come] la vista [e gli altri], la mente empirica (manas) e l’intel-
letto puro (buddhi) e il sé [individuato] sono i veggenti. Tra
loro, il corpo è il veggente [più] esterno e, cominciando da
esso, il sé [individuato] è il veggente più interno e direttamen-
te presente, al di là del quale non vi è un veggente ancora più
interno; esso, essendo il veggente più attiguo, deve essere
[considerato come] il testimone (upadra≤†ÿ) [dove il prefisso
upa- applicato al termine dra≤†ÿ, veggente, esprime appunto
una vicinanza].
Oppure [il Puru≤a, ponendosi come riflesso individuato o
jıvåtman] è il testimone perché, al pari dell’upadra≤†ÿ rituale,
rende tutto oggetto [conosciuto, cioè osserva tutto].
Ed è “Colui che acconsente” (anumantÿ). Il compiacimento
e l’assenso, in coloro che stanno compiendo tali attività, e la
13.22 Tredicesimo Adhyåya 537

soddisfazione [per gli atti compiuti]: quegli che esprime ciò è


colui che acconsente. Oppure è Colui che acconsente perché,
sebbene sia di per sé non partecipe delle attività di corpo e
sensi, tuttavia appare come se fosse attivo in concomitanza
con loro, per cui è [detto] ‘colui che acconsente’. Oppure è
[detto] colui che acconsente perché, essendo il loro testimone
(såk≤in), non ostacola mai quelli (gli organi) che sono impegna-
ti nelle loro rispettive attività funzionali.
“...Colui che sostiene”; l’atto di sostenere (bhara√a) viene
definito, in rapporto al corpo, ai sensi, alla mente empirica e
all’intelletto puro – che si sono aggregati a formare il mezzo
per espletare attività a favore di un altro [ente], cioè l’åtman
che è pura Coscienza (caitanyåtman), e consistono in riflessi
apparenti della pura Coscienza – come ciò che è determinato
solamente dall’åtman di pura Coscienza, il quale è per propria
natura un sostegno: così l’åtman viene detto ‘Colui che sostie-
ne’ (bhartÿ).
“...il Fruitore”: i contenuti dell’intelletto (la mente), essen-
ziati di piacere, dolore e illusione, che hanno per oggetto tutti
gli stati [possibili del mentale], appena sorgono si manifesta-
no chiaramente distinti in quanto sono come afferrati dall’å-
tman consapevole tramite la sua propria natura di eterna Co-
scienza simile a [quella che è la natura di] calore per il fuoco;
così l’åtman viene detto il fruitore (bhoktÿ).
“...il grande Signore”: poiché è l’åtman della totalità, poi-
ché è indipendente e poiché è sia grande (mahån) che il Si-
gnore (ÙŸvara), è [detto] il grande Signore (maheŸvara).
“...il supremo åtman”: l’åtman, definito come testimone
ultimo, ecc. è trascendente rispetto agli enti che cominciano
con il corpo e finiscono con l’intelletto, concepiti [erroneamen-
te] come l’åtman interiore, per cui è [detto] il supremo åtman
e con questo termine: ‘supremo åtman’ (paramåtman) “...an-
che così viene espresso...”, decantato nella Âruti.
Dove si trova Quello?
538 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.22

“...in questo corpo è il Puru≤a supremo”, [supremo in quan-


to è trascendente perfino] rispetto all’Avyakta, il quale verrà
definito nel passo: «Ma vi è un altro Puru≤a, il più alto, chia-
mato paramåtman...» (Bha. Gı. 15.17) e il quale, presentato a
partire dal passo: «Sappi, inoltre, che Io sono il conoscitore
del campo...» (Bha. Gı. 13.2), è stato esposto compiutamente
attraverso la estesa spiegazione [data fin qui].
[Ora il testo espone] questo stesso åtman quale è stato
enunciato [cioè il conoscitore del campo]:

13.23. Colui il quale così realizza il Puru≤a e la Prakÿti in-


sieme con le [sue] qualità, pur comportandosi in qualsiasi modo,
costui non rinasce più.

“Colui, il quale così”, nel modo in cui è stato espresso, “rea-


lizza” direttamente “il Puru≤a”, come [il contenuto della co-
scienza] ‘io’ [privata di ogni attributo di identificazione], “e la
Prakÿti”, quale è stata enunciata, cioè consistente nell’ignoran-
za, “insieme con le [sue] qualità”, cioè le sue proprie modifi-
cazioni, e che grazie alla conoscenza è stata riconosciuta come
non-esistenza [reale], “pur comportandosi in qualsiasi modo”,
in qualsiasi maniera (cioè qualunque sia stata la sua condotta
empirica, sia che si conformi ai dettami scritturali o se ne al-
lontani), “costui”, al decadere di questo corpo da conoscitore,
“non rinasce più”, non viene nuovamente a essere per [acqui-
sire] un nuovo corpo; vale a dire, non assume più un ulteriore
veicolo corporeo. Dal termine “pur” (api) [si desume questo]:
vi è forse da aggiungere che tantomeno nascerà quegli che è
stabilito nel [compimento del] proprio dovere?
Obiezione: Sebbene sia stata affermata l’assenza di una ul-
teriore nascita immediatamente dopo il sorgere della cono-
scenza, tuttavia per gli atti compiuti [in questa esistenza] pri-
ma del sorgere della conoscenza, per quelli che avverranno in
13.23 Tredicesimo Adhyåya 539

un tempo successivo e per quelli effettuati in molteplici nasci-


te anteriori, per [tutti] questi, non avendo essi dato luogo al
[loro rispettivo] frutto, non è logico [postulare] la distruzio-
ne: dovrebbero aversi [almeno altre] tre nascite, poiché non è
ragionevole che ciò che è stato fatto non dia luogo a frutto,
come in riferimento al frutto degli atti compiuti e maturati
nelle [forme delle attuali] nascite, né si riscontra alcuna di-
stinzione in rapporto alle azioni62. Perciò i tre tipi di atti (pas-
sati, attuali ma compiuti prima di realizzare la conoscenza, e
futuri) dovranno pur dar luogo a tre nascite [distinte], oppu-
re, tutti [i tre tipi di atti], raccolti insieme, dovranno dar luo-
go ad [almeno] una [ulteriore] nascita. Altrimenti, ponendosi
la completa distruzione [di tutto il frutto] di ciò che è stato
compiuto [senza distinzione di tempi], si avrà in ogni caso il
difetto di una incertezza [nell’esito della conoscenza] e la per-
dita di significato delle Scritture. Pertanto quanto è stato det-
to, cioè: “costui non rinasce più”, non è legittimo.
Risposta: No, perché in centinaia di passi della Âruti si af-
ferma che tutte le azioni [compiute da parte] del saggio sono
completamente consumate: «...e per lui vengono distrutti [gli
effetti di tutti] gli atti...» (Mu. 2.2.8), «(Certamente colui, il
quale, invero) conosce (quel supremo) Brahman, diviene il Bra-
hman stesso» (Mu. 3.2.9), «...la sua [esistenza] durerà solo fin
quando (non si libererà [del corpo]...)» (Chå. 6.14.2), «...come i
filamenti alla estremità di una canna... tutti gli errori... vengo-
no arsi...» (Chå. 5.24.3), ecc. E anche qui è stato detto: «Come
(il fuoco ardente riduce in cenere) il combustibile...», ecc. (Bha.
Gı. 4.37), mentre [più avanti] si affermerà la consumazione
[del frutto] di qualsiasi azione63.
[Ciò si comprende] anche per mezzo della ragione: infatti
[solo] gli atti dovuti alla ignoranza e al desiderio, essendo [que-
sti stessi] la causa del seme del male, danno luogo al germo-
glio di una ulteriore nascita e qui [nella stessa Bhagavadgıtå]
540 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.23

Bhagavat ha affermato in vari passi che [soltanto] gli atti com-


piuti in associazione con il senso dell’io sono suscettibili di
produrre frutto, ma non gli altri. Anche [altrove è stato detto]:
«Come i semi completamente arsi dal fuoco non germogliano
più, allo stesso modo il sé (il corpo) non può formarsi nuova-
mente dalle afflizioni bruciate dalla conoscenza» (Ma. Bhå.
12.3.111.17, Va. 199.107) 64.
Obiezione: Si ammetta pure l’estinzione, a opera della co-
noscenza, degli atti compiuti in un tempo successivo al sorge-
re della conoscenza, dato che essi coesistono con la conoscen-
za [stessa]; ma non è ammissibile che [la conoscenza] annulli
gli atti compiuti qui, in questa nascita, prima del sorgere della
conoscenza, o quelli compiuti in esistenze trascorse.
Risposta: No, perché nel [citato] passo: «(...il fuoco della
conoscenza riduce in cenere) tutte le azioni» (Bha. Gı. 4.27),
non viene fatta alcuna distinzione.
Obiezione: Potrebbe trattarsi di “tutte le azioni” ma soltan-
to in relazione a quelle compiute in un tempo successivo alla
[realizzazione della] conoscenza.
Risposta: No, perché non è a ragione ammissibile una cau-
sa per tale restrizione [di significato]. Per quanto concerne
ciò che è stato detto [dall’oppositore]: ‘come non vengono di-
strutte, nonostante vi sia la conoscenza, le azioni che già han-
no cominciato a dare il loro frutto producendo la nascita pre-
sente, così non è logica neanche la distruzione delle azioni i
cui frutti non sono ancora maturati’, ciò non è [esatto].
Perché?
Perché, al pari di una freccia scagliata, il loro frutto si è
già prodotto. Come una freccia scoccata dall’arco in direzione
di un bersaglio, anche dopo che ha superato il bersaglio, non
cessa di procedere come prima fin quando non cade a causa
dell’esaurirsi dell’impulso impressole, così, per quanto sia sta-
13.24 Tredicesimo Adhyåya 541

to soddisfatto lo scopo della [esperienza attraverso la] esisten-


za corporea, il karman che è maturato dando luogo al corpo
continua [a esprimersi] esattamente come prima fino al com-
pleto esaurimento dell’impulso. Viceversa, come la stessa frec-
cia, ma non ancora scoccata, cioè priva dell’impulso iniziale
che darebbe luogo alla sua traiettoria, nonostante stia già po-
sizionata sull’arco può esserne tratta via, allo stesso modo le
azioni i cui frutti non sono maturati e che pertanto giacciono
ancora [allo stato potenziale] nella loro propria sede [che è la
mente, citta], vengono resi sterili dalla conoscenza65. Così è
definitivamente stabilito che quanto asserito, cioè che, al de-
cadere di questo corpo da conoscitore, “costui non rinasce
più”, è pienamente legittimo.
Qui, in relazione alla [realizzazione della] autentica cono-
scenza, vengono descritti questi differenti ausilii, a cominciare
dalla meditazione.

13.24. Con la meditazione alcuni contemplano nell’åtman


l’åtman tramite l’åtman, altri [lo contemplano] con lo yoga che
è il Såækhya, e attraverso il karmayoga altri [ancora].

“Con la meditazione...”. Così si definisce la meditazione


(dhyåna): quell’atto mentale (cintana) che, attraverso la con-
centrazione [dell’attenzione consapevole] in un punto (ekå-
gratå), riassorbe [prima] le funzioni sensoriali come l’udito e
le altre nella mente [distogliendole] dai loro rispettivi oggetti
quali il suono e gli altri, e [poi riassorbe anche] la mente nel-
l’essere consapevole interiore (cetayitÿ), è la meditazione. Così
è solo in via di similitudine che si hanno frasi del tipo: ‘l’airo-
ne è come se meditasse’, o [passi quali]: «...la terra è come se
meditasse... le montagne è come se meditassero...» (Chå. 7.6.1).
La meditazione comporta un contenuto di consapevolezza
(pratyaya) continuo e ininterrotto, simile a un filo di olio. Tra-
mite essa, cioè “Con la meditazione alcuni” yogin “contempla-
542 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.24

no nell’åtman”, cioè nell’intelletto, “l’åtman”, cioè la coscien-


za interiore (pratyakcetana), “tramite l’åtman”, cioè tramite la
stessa propria coscienza interiore, attraverso l’organo interno
purificato dalla meditazione.
“...altri [lo contemplano] con lo yoga che è il Såækhya”.
Così si definisce il Såækhya 66, come l’atto mentale [in cui si
pensa]: ‘questi gu√a – il sattva, il rajas e il tamas – rappresen-
tano per me un oggetto di percezione; delle loro attività io
sono il testimone in quanto sono altro da loro. [Infatti] sono
l’åtman eterno e totalmente differente dai gu√a’, [e tale] è
questo yoga [nel senso di pratica meditativa associata al] Såæ-
khya 67. Per mezzo di esso contemplano l’åtman tramite l’å-
tman: [tale parte] prosegue [essendo sottintesa].
“...e attraverso il karmayoga...”: la stessa azione è yoga al-
lorquando viene compiuta con l’intendimento di offrirla al Si-
gnore. Tale modo di agire, avendo per obiettivo lo yoga, viene
detto in senso secondario yoga; tramite tale [karmayoga], cioè
tramite tale purificazione mentale, che consente il sorgere
della conoscenza, “...altri [ancora contemplano in sé stessi l’å-
tman tramite l’åtman]”.

13.25. Altri, invece, non conoscendo così, avendone udito da


altri, meditano devotamente e anch’essi, avendo come sommo
obiettivo quanto udito, oltrepassano sicuramente la morte.

“Altri, invece, non conoscendo così” l’åtman quale è stato


descritto, neanche in uno solo tra [tutti] questi [modi] differenti,
“avendone udito da altri” Maestri [che hanno loro impartito l’in-
segnamento] dicendo: ‘meditate su questo stesso’, “meditano
devotamente”, contemplano essendo pieni di fede, “e anch’essi,
avendo come sommo cammino quanto udito, oltrepassano si-
curamente”, trascendono certamente “la morte”, cioè il diveni-
re ciclico congiunto con la morte. Hanno come sommo cammi-
no quanto udito (Ÿrutiparåya√a) coloro per i quali quanto han-
13.26 Tredicesimo Adhyåya 543

no udito (Ÿruti), ossia ciò che hanno appreso attraverso l’ascol-


to (Ÿrava√a), rappresenta il sommo cammino o percorso, il più
elevato mezzo per percorrere il sentiero verso la liberazione, in
quanto costoro dipendono in maniera esclusiva dall’autorevo-
lezza della istruzione [impartita loro] da parte di altri, essendo
di per sé poveri di discernimento; tale è il senso. Vale a dire:
vi è forse da aggiungere che tanto più trascendono la morte
coloro che autonomamente posseggono discriminazione nei
riguardi dell’autorevolezza [della Âruti, dei Maestri, ecc.]?
La conoscenza avente per oggetto l’identità tra il conosci-
tore del campo (il jıva) e ÙŸvara (il Brahman) [enunciata a par-
tire da Bha. Gı. 13.2] è stata esposta quale mezzo di liberazio-
ne nel passo: «...conoscendo il quale si attinge l’immortalità»
(Bha. Gı. 13.12). Ciò per quale ragione?
Allo scopo di mostrare la ragione di ciò prende inizio lo
Ÿloka [seguente].

13.26. Quanto viene a essere generato, qualsiasi sia la [sua


forma di] esistenza, sia mobile che immobile, sappi che ciò è
[generato] dalla congiunzione del campo e del conoscitore del
campo, o migliore dei Bharata.

“Quanto”, [tutto] ciò, [qualunque sia] l’ente che “viene ge-


nerato”, che emerge all’essere, “qualsiasi sia la [forma di] esi-
stenza...”
Vi è assenza di distinzione [tra gli enti esistenti]?
No. [Bhagavat infatti] dice: “sia mobile che immobile...”,
cioè tanto [una forma di esistenza] mobile (ja§gama) quanto
una [forma di esistenza] immobile (sthåvara)68, “...sappi”, rico-
nosci questo, e cioè “che ciò” è generato “dalla congiunzione
del campo e del conoscitore del campo, o migliore dei Bharata”.
Obiezione: Che cosa si intende, dunque, con questa ‘con-
giunzione (saæyoga) del campo e del conoscitore del campo’?
544 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.26

Innanzitutto la congiunzione del conoscitore del campo con il


campo non può essere una specifica relazione indotta dallo
stretto contatto (saæŸle≤a) tra le parti di oggetti compositi,
come [il contatto di] un vaso con una corda perché, al pari
dello spazio, [il conoscitore del campo] è privo di parti (nira-
vayava); neppure consiste in una [specifica relazione di] ap-
partenenza [inscindibile] (samavåya), perché non è dato com-
prendere, tra il conoscitore del campo e il campo, una relazio-
ne reciproca come tra causa ed effetto.
Risposta: Si dice: la congiunzione del campo e del conosci-
tore del campo, cioè dell’oggetto e del soggetto, che sono di
natura affatto distinta, consiste nella reciproca sostituzione
(adhyåsa) delle loro proprietà: è il confondere, attraverso l’as-
senza di discriminazione, le nature proprie del campo e del
conoscitore del campo, come la congiunzione della corda, del-
la madreperla, ecc. [rispettivamente] con il serpente, con l’ar-
gento, ecc. sovrapposti [a queste] a causa dell’assenza di una
conoscenza grazie a cui tali [oggetti] possano essere discrimi-
nati. Questa stessa congiunzione del campo e del conoscitore
del campo, avente natura propria di una sostituzione, consiste
in una falsa conoscenza (mithyåjñåna)69.
Colui il quale, dopo aver acquisito la completa conoscenza
della differenza che definisce il campo e il conoscitore del
campo conformemente alle Scritture, separi perfettamente,
come [si estrae] il midollo dalla canna, il conoscitore del cam-
po, caratterizzato nel modo in cui è stato descritto, dal campo,
la cui natura è stata mostrata prima, costui realizza come la
sua propria natura sia il Brahman, quale è [definito] dal tale
[passo]: «Quello viene detto: ‘né esistente, né non-esistente’»
(Bha. Gı. 13.12), che è Quello che si deve conoscere e ha la pe-
culiarità di essere isolato da qualsiasi sovrapposizione limi-
tante, che il campo con questa risoluta consapevolezza, cioè:
‘esso è affatto non-reale – al pari di elefanti proiettati dal po-
13.27 Tredicesimo Adhyåya 545

tere di suggestione [di un illusionista], o di oggetti percepiti


in sogno, o simile alla cittadella celeste dei Gandharva, ecc. –
ma [soltanto] appare come reale’; per costui, a causa della con-
traddittorietà con l’autentica conoscenza-visione quale è stata
esposta, la falsa conoscenza si disperde. Così, poiché la causa
della sua [eventuale] rinascita è stata dispersa, quanto è stato
detto con tale [passo]: «Colui il quale così realizza il Puru≤a e
la Prakÿti con le [sue] qualità...» (Bha. Gı. 13.23), come ciò che
si afferma [in generale]: ‘il conoscitore non nasce più’, è per-
fettamente ammissibile secondo ragione.
Nel [citato] passo: «...costui non rinasce più» (Bha. Gı.
13.23), è stata asserita l’assenza di rinascita attraverso la
estinzione del seme del divenire ciclico che è l’ignoranza,
ecc. come frutto dell’autentica visione. È stato anche detto
che la causa della nascita è la congiunzione del campo e del
conoscitore del campo dovuta alla ignoranza. Quindi, essendo
ciò che rimuove tale ignoranza, l’autentica visione, sebbene
sia stata già esposta, viene nuovamente espressa in termini
differenti:

13.27. Colui che identicamente vede, in quanto stabilmente


dimorante in tutti gli esseri, il supremo Signore, l’Indistruttibile
negli enti distruttibili, quegli vede [veramente]...

“(Colui che) identicamente70 (vede...)”, senza [alcuna] di-


stinzione, “in quanto stabilmente dimorante”, cioè in quanto
esplicante la [propria] esistenza...
Dove?
“...in tutti gli esseri” viventi, da Brahmå fino agli enti
inerti...
Chi?
“...il supremo Signore...”: è il supremo Signore (parame-
Ÿvara) in rapporto al corpo, ai sensi, alla mente, all’intelletto,
all’Immanifesto (l’ignoranza causale, la måyå) e all’åtman [in-
546 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.27

dividuato, il jıva]. [Dunque, la frase è: colui che vede] identi-


camente Quello in quanto dimorante in tutti gli esseri; [costui]
distingue tali [esseri con l’espressione] “negli enti distruttibi-
li” (vinaŸyatsu), mentre [vede] Quello, il supremo Signore, che
è “l’Indistruttibile” (avinaŸyantam): [tutto] questo allo scopo
di prospettare l’assoluta differenza del supremo Signore ri-
spetto agli esseri.
Perché?
Perché di tutti i cambiamenti di stato (bhåvavikåra) [quel-
lo] consistente nella nascita è la radice (m¥la), mentre tutti gli
altri cambiamenti di stato successivi alla nascita hanno termi-
ne con la distruzione (vinåŸa); non esiste alcun cambiamento
di stato oltre la distruzione, perché non vi è più esistenza [di
alcunché]: infatti le proprietà consustanziali (dharma) esisto-
no fin quando esiste l’ente a cui tali proprietà consustanziali
appartengono (dharmin). Quindi, con l’affermazione dell’as-
senza del cambiamento di stato definitivo [qual è la distruzio-
ne], vengono confutati tutti i cambiamenti di stato che prece-
dono tale condizione unitamente ai loro effetti. Con ciò risul-
ta stabilita proprio l’assoluta sostanziale differenza [di natu-
ra] del supremo Signore rispetto a tutti gli esseri, come, altre-
sì, la sua natura priva di qualificazione e la sua natura di uni-
tà assoluta.
“Colui che vede...” il supremo Signore così, nel modo in
cui è stato esposto, “...costui vede [veramente]”.
Obiezione: Comunque, anche chiunque [altro] al mondo
vede: perché [costui dovrebbe vedere] in maniera differente?
Risposta: In verità [chiunque al mondo] vede, ma vede in
maniera del tutto opposta [alla realtà]. Per questo viene fatta
la specificazione: ‘[ma] quegli soltanto vede [veramente]’.
Come una vista affetta da timira (diplopia) percepisce una
[immagine della] luna [come se fosse] sdoppiata e, in relazio-
ne a costui, quegli che percepisce una sola luna viene distinto
13.28 Tredicesimo Adhyåya 547

[con le parole]: ‘costui soltanto vede [rettamente]’, così stesso


anche qui colui che vede l’åtman, quale è stato descritto, cioè
unico e indiviso, quegli viene distinto da coloro che vedono in
maniera del tutto opposta l’åtman, cioè come molteplice e dif-
ferenziato, [con la specificazione]: ‘quegli soltanto vede [ve-
ramente]’. Gli altri, sebbene [anch’essi] vedano, tuttavia non
vedono [correttamente], perché la [loro] percezione è del tut-
to opposta [alla realtà], come nel caso di quegli che percepi-
sce diverse immagini della luna. Tale è il significato.
Ora si deve esprimere un elogio dell’autentica conoscenza
quale è stata [fin qui] esposta attraverso la menzione del [suo]
frutto. [A tale scopo] provvede lo Ÿloka [seguente].

13.28. ...perché, vedendo identicamente il Signore in quanto


invariabilmente stabilito dappertutto, [costui] non distrugge
[più] l’åtman attraverso l’åtman, per cui raggiunge la suprema
mèta.

“...perché”, per il motivo che, “vedendo”, percependo “iden-


ticamente il Signore”, definito come è stato enunciato nello
Ÿloka immediatamente precedente, “in quanto invariabilmen-
te stabilito dappertutto”, cioè stabilito in ugual modo in tutti
gli esseri...
Vedendo identicamente... che cosa [fa costui]?
“...[costui] non distrugge [più]”, non distrugge [più] “l’å-
tman” suo proprio “attraverso l’åtman”, cioè proprio attraver-
so sé stesso, “per cui”, in virtù di tale assenza di offesa, “rag-
giunge la suprema”, eccelsa “mèta” denominata liberazione.
Obiezione: Comunque, davvero nessun essere vivente di
per sé nuoce al suo proprio åtman (cioè a sé stesso). Perché,
allora, viene detto: “non nuoce [più]” come [dato] non acqui-
sito, come [invece si dice]: «Non alla terra il fuoco deve essere
consacrato, né allo spazio intermedio...», ecc. (Tai. Saæ. 5.2.7)?
548 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.28

Risposta: Questo non è un difetto, perché si deve logica-


mente ammettere una [sorta di] occultamento dell’åtman a
motivo della ignoranza. Infatti qualsiasi essere soggetto alla
ignoranza, avendo occultato l’åtman, che è assolutamente
evidente [come coscienza di essere o sorgente inestinguibile
della consapevolezza di sé] ed è diretto e immediato (såk≤å-
daparok≤åd), considera ciò che non è l’åtman (come il corpo,
ecc.) come se fosse l’åtman (cioè come sé stesso). Così, com-
piendo sia l’atto virtuoso che l’atto vizioso, distrugge anche
quello [che per lui è un] åtman acquisito (cioè il corpo) e cer-
ca di acquisire un altro åtman (un ulteriore corpo); distrutto
così anche quello nuovo, e distrutto così anche quell’altro
[corpo acquisito], distrugge allo stesso modo ogni [nuovo]
corpo che venga [da lui] acquisito. Qualsiasi non-conoscitore
è dunque un ‘uccisore’ dell’åtman (åtmahan).
Anche per ciò che concerne quell’åtman che è la suprema
realtà, è come se venisse ucciso ogni volta attraverso l’igno-
ranza, in assenza di un frutto [percepibile] della [sua conti-
nuità di] esistenza. Così i non-conoscitori sono [in questo
senso] proprio tutti uccisori dell’åtman.
Invece, per quanto riguarda l’altro, colui che vede l’åtman
nel modo quale è stato espresso, costui non distrugge né ucci-
de “l’åtman attraverso l’åtman, per cui raggiunge la suprema
mèta”, vale a dire che per lui vi è il frutto quale è stato espo-
sto (cioè la liberazione).
Obiezione: È stato detto che, vedendo identicamente il Si-
gnore in quanto stabilito in ogni essere, [egli] non distrugge
più l’åtman attraverso l’åtman. Ciò non può essere logicamen-
te ammesso, [perché un solo e unico Signore, costantemente
identico a sé stesso, non può essere percepito] in [vari] åtman
differenziati dalla distinzione dovuta a una totale diversità
delle proprie rispettive qualità e azioni.
Risposta: Potendo sorgere questo dubbio, [Bhagavat] dice:
13.30 Tredicesimo Adhyåya 549

13.29. Colui il quale vede che solamente dalla Prakÿti [tutte]


le azioni vengono compiute in ogni caso e, allo stesso modo, che
l’åtman è non-agente, costui vede [veramente].

“...dalla Prakÿti”: la Prakÿti è la måyå del Signore, consu-


stanziata dei tre gu√a, come viene descritto nel mantra: «Si
deve riconoscere la Prakÿti, invero, come la måyå...» (Âve. 4.10).
“Colui il quale vede”, percepisce “che solamente dalla Pra-
kÿti”, trasformatasi sino ad assumere le forme di causa ed ef-
fetto come il mahat, ecc., e da nessun altro [ente], “[tutte] le
azioni”, [apparentemente] prodotte dalla parola, dalla mente
e dal corpo, “vengono compiute”, vengono svolte, “in ogni
caso”, in tutte le modalità, “e, allo stesso modo, che l’åtman”,
cioè il conoscitore del campo, “è non-agente”, essendo total-
mente distinto da qualsiasi sovrapposizione limitante, “costui
vede [veramente]”, cioè è uno che percepisce la suprema real-
tà. Tale è il senso. Ciò significa che non si può secondo logica
ammettere nessun mezzo di evidenza in relazione a una [pre-
sunta] differenziazione in Quello che è non-agente, privo di at-
tributi e privo di qualificazione, come [non vi è] per lo spazio.
Ancora una volta [Bhagavat] spiega quella stessa autenti-
ca conoscenza con altre parole:

13.30. Quando riconosce che l’esistenza [nella sua moltepli-


cità e quindi quella] di ogni singolo essere trova fondamento
nell’Uno e che da ciò stesso si ha il [suo] dispiegamento, allora
consegue il Brahman.

“Quando”, nel tempo in cui “riconosce che l’esistenza [nella


sua molteplicità e quindi quella] di ogni singolo essere”, cioè
la singola [e diversificata] esistenza degli esseri [tutti], la loro
molteplice varietà (pÿthaktva), “trova fondamento nell’Uno”,
stabilita in quanto esistente nell’unico åtman, cioè realizza
nella sua natura di immediatezza l’åtman conformemente alla
550 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.30

istruzione delle Scritture e del Maestro come: «...l’åtman stes-


so è tutto questo» (Chå. 7.25.2), “e che da ciò stesso”, e che da
Quello soltanto “si ha il [suo] dispiegamento”, il suo sorgere
alla esistenza, il suo sviluppo, quando cioè vede tale dispiegarsi
in termini come questi o simili: «(Invero, per colui stesso, il
quale... conosce così, certamente) i prå√a [scaturiscono] dal-
l’åtman, la speranza [scaturisce] dall’åtman, la memoria dal-
l’åtman, lo spazio dall’åtman, il fuoco dall’åtman, l’acqua dal-
l’åtman, l’apparire e lo scomparire [delle cose] dall’åtman, il
cibo dall’åtman,... (dall’åtman stesso [scaturisce] tutto questo
[universo])» (Chå. 7.26.1), “allora”, in quel tempo “consegue il
Brahman”, vale a dire che diviene il Brahman stesso71.
Poiché, data l’identificazione dell’åtman unico con tutti i
veicoli corporei, si potrebbe concludere che [l’åtman stesso]
entri in contatto con le loro imperfezioni, si dice questo:

13.31. Essendo senza inizio ed essendo privo di attributi,


questo supremo åtman inalterabile, sebbene risieda nel corpo, o
Kaunteya, non agisce né è contaminato [dal frutto dell’azione].

“Essendo senza inizio...”: l’essere senza inizio (anåditva) è


l’esistenza che non [procede] da un inizio. L’inizio è la causa.
È senza inizio (anådi) ciò per il quale non vi è una tale [causa].
Invero, ciò che possiede inizio è di per sé stesso destinato a
degenerare, ma questo [supremo åtman], essendo privo di
inizio, è altresì privo di parti – tale [concetto] viene aggiunto
– per cui non è suscettibile di alterazione distruttiva (dovuta
alla separazione delle parti).
Similmente, “essendo privo di attributi...”. Invero, ciò che
possiede attributi (sagu√a), a motivo della degenerazione degli
attributi, degenera [esso stesso], ma questo [åtman], essendo
privo di attributi, non degenera, per cui [si dice]: “...questo
supremo åtman inalterabile”: è inalterabile perché per lui non
si verifica [mai nessuna] alterazione. Poiché è così, quindi,
13.31 Tredicesimo Adhyåya 551

“sebbene risieda nel corpo...” – si dice che risiede nel corpo


(Ÿarırastha) in quanto la percezione dell’åtman si verifica nei
corpi – ...tuttavia “non agisce”, essendo affatto privo degli
strumenti (gli organi) per [compiere] tale [azione], “né è con-
taminato” dal suo frutto. Invero, colui che è [identificato con]
il soggetto agente, costui è contaminato dal frutto dell’azione,
ma questo [supremo åtman] è non-agente, per cui non è con-
taminato dal frutto [dell’agire]. Tale è il significato.
Obiezione: Chi è, dunque, che agisce nei corpi ed è conta-
minato [dal frutto dell’azione]? Innanzitutto, se è un altro
[ente], distinto dal supremo åtman, che agisce in quanto do-
tato di corpo ed è contaminato, di conseguenza questa identi-
tà del conoscitore del campo con il Signore, quale è stata enun-
ciata nel passo: «E realizza Me anche come il conoscitore del
campo...», ecc. (Bha. Gı. 13.2) e in altri [simili], non può [più]
essere ammessa conformemente a ragione. Se, invece, non vi
è un altro essere dotato di corpo e distinto dal Signore, allora
si deve dire chi è colui che agisce e che è contaminato [dal
frutto dell’agire]; oppure, [si deve concludere che] non vi è
un [essere] supremo [come ÙŸvara-Brahman]. In ogni caso tale
concezione conforme alle Upani≤ad, quale ha dichiarato Bha-
gavat, è difficile da comprendere e difficile da spiegare, ed è
stata completamente abbandonata dai seguaci del VaiŸe≤ika,
dai fautori del Såækhya, dagli arhat e dai Buddhisti.
Risposta: A tale proposito, Bhagavat stesso ha pronunciato
questa replica: «...invero è la natura propria che si esprime»
(Bha. Gı. 5.14). In effetti, la comune esperienza (vyavahåra), se-
condo cui [l’essere] per propria natura agisce ed è contaminato
[dal frutto dell’agire], è mera ignoranza, mentre, dalla prospet-
tiva della realtà suprema, nel supremo åtman unico tale [espe-
rienza duale] non esiste; per questo Bhagavat ha mostrato qui
e là che, per i monaci itineranti del più alto ordine (parama-
haæsaparivråjaka), stabiliti nella conoscenza, cioè fondati in
552 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 13.31

questa concezione inerente alla dottrina [Såækhya] della realtà


suprema [quale è stata prospettata nel Secondo Adhyåya], i
quali hanno trasceso l’esperienza (attività relazionata) indotta
dalla ignoranza, non vi è [alcuna] qualificazione ad agire.
Analogamente a che cosa [l’åtman] non agisce né è conta-
minato?
Al riguardo [Bhagavat] fornisce un esempio:

13.32. Come l’onnipresente åkåŸa, in virtù della sua sotti-


gliezza, non è contaminato [dagli oggetti], così l’åtman, [sebbe-
ne] stabilito dovunque nel corpo, non è contaminato [dalle sue
affezioni].

“Come l’onnipresente åkåŸa”, cioè lo spazio (kha), “in vir-


tù della sua sottigliezza”, cioè grazie alla sua natura sottile, ed
essendo anche pervasivo “non è contaminato [dagli oggetti
che contiene]”, non entra in contatto [con tali oggetti], “così
l’åtman, [sebbene] stabilito dovunque nel corpo, non è conta-
minato [dalle sue affezioni]”. E inoltre,...

13.33. Come il disco solare, unico, illumina questo intero mon-


do, così, o Bhårata, illumina il campo intero il Signore del campo.

“Come il disco solare”, il Vivificatore (savitÿ), il Sole (ådi-


tya), [benché] “unico, illumina”, rende manifesto “questo inte-
ro mondo, così”, tale e quale, “illumina il campo (intero)”, dai
grandi elementi fino al sostentamento72, [pur] essendo unico,...
Chi?
“...il Signore del campo” (k≤etrin), vale a dire il supremo åtman.
Qui la illustrazione del disco solare persegue anche un du-
plice obiettivo in riferimento all’åtman: al pari del sole [che
rende visibile la molteplicità universale], l’åtman è unico in
tutti i campi e [come conoscitore del campo] non è maculato
[dal conosciuto cioè dal campo].
13.34 Tredicesimo Adhyåya 553

Questo Ÿloka [conclusivo] intende riassumere il significato


dell’intero Capitolo.

13.34. Coloro che, con l’occhio della conoscenza, comprendo-


no così la differenza tra il campo e il conoscitore del campo e la
liberazione dalla natura di essere [individuato], costoro rag-
giungono il Supremo.

“Coloro che, con l’occhio della conoscenza...” – l’occhio è


la [stessa] conoscenza relativa all’åtman, ingenerata dalla
istruzione delle Scritture e dalla grazia del Maestro: dunque
attraverso tale occhio della conoscenza – “...comprendono”,
conoscono distintamente “così”, nel modo in cui è stata pro-
spettata, “la distinzione”, la peculiare totale differenza recipro-
ca “tra il campo e il conoscitore del campo” come sono stati
spiegati, “e la liberazione dalla natura di essere [individuato]...”
– [la natura di essere individuato (bh¥taprakÿti)] è la natura-
condizione propria degli esseri, consistente nella ignoranza e
chiamata Avyakta73 – [dunque, coloro che così comprendono
anche] la emancipazione da tale natura dell’essere, il raggiun-
gimento della [consapevolezza della sua] non-esistenza, “co-
storo raggiungono il Supremo”, cioè conseguono la essenza
della realtà suprema che è il Brahman, vale a dire che non ac-
quisiscono [più] un ulteriore veicolo corporeo.

Nelle Scritture yoga sulla conoscenza del Brahman


appartenenti alla Upani≤ad della sacra Bhagavadgıtå,
questo è il Tredicesimo Capitolo
nel dialogo tra Kÿ≤√a e Arjuna
intitolato:
‘Lo yoga della distinzione
tra il campo e il conoscitore del campo’

*
NOTE al Tredicesimo Adhyåya

1
In talune recensioni questo Adhyåya è intitolato: Lo yoga della
discriminazione tra il Puru≤a e la Prakÿti (puru≤aprakÿtivivekayoga).
2
Âa§kara si pone, come sempre, dal punto di vista metafisico
non-dualista; dal piano di måyå, o della manifestazione, ÙŸvara, cioè
il Brahman, appare sotto due aspetti: il non-supremo, che è la Pra-
kÿti assimilata al ‘campo’ – la totalità del conoscibile – e il supremo
che è il Puru≤a, assimilato al ‘conoscitore del campo’ – il Conosci-
tore per eccellenza – cioè, nell’ordine trascendente: alla måyå e al
Brahman; in quello contingente: alla sfera individuale e al jıva. La
distinzione tra universale e individuale è frutto di proiezione: ‘il
jıva non è altri che il Brahman stesso’, la differenza è dovuta alle
sovrapposizioni limitanti o upådhi che definiscono lo stato indivi-
duato. V. nota 6. Il modo in cui ÙŸvara diviene causa di creazione,
ecc. dell’universo sarà chiarito in 13.26.
3
Cfr. Bha. Gı. 7.17 e 12.15-20.
4
Âa§kara sintetizza le finalità (artha) del Puru≤a in fruizione
(bhoga) e liberazione (mok≤a), che rappresentano gli estremi. La
fruizione riassume i tre fini inferiori (kåma, artha, dharma), la libe-
razione è il “fine per eccellenza dell’essere umano” (puru≤årtha).
5
Il frutto del proprio agire viene sperimentato fin quando sus-
siste l’individualità, con l’insieme veicolare che di volta in volta
viene a condensarsi attorno al centro di autocoscienza.
6
I termini k≤etra e k≤etrajña hanno una doppia valenza: a livello
individuale sono il veicolo e il sé individuato (jıvåtman) o riflesso
individuato dell’åtman, a livello universale sono la Prakÿti o natura
556 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

universale e il Puru≤a, lo Spirito cosciente. Sotto il profilo filosofico


sono l’oggetto e il soggetto della conoscenza. Dalla prospettiva A-
dvaita la distinzione scompare: al di là del ‘campo’ e del ‘conoscitore
del campo’ è il Brahman non-duale sul quale si stagliano entrambi.
Attraverso lo yoga insegnato nella Bhagavadgıtå il campo viene
reintegrato nel conoscitore del campo, il jıva si risolve in Brahman.
Cfr. Ma. 12.12, Vi. Smÿ. 96.97-98, Âve. 6.16, Mai. 2.5.

Le sovrapposizioni limitanti distinguono l’intera gamma degli


7

esseri attraverso il nome e la forma (nåma-r¥pa). Il loro Sostrato è


il puro sat-cit-ånanda, unico e non-differenziato.

Le due vie, dell’azione (karman) e della conoscenza (jñåna),


8

portano rispettivamente alla fruizione (bhoga) e alla liberazione


(mok≤a). Poiché la fruizione mantiene l’asservimento al divenire ci-
clico e l’azione, che la consente, si fonda sulla ignoranza, è quest’ul-
tima ciò che si deve eliminare.

Questa è la lettura riportata da Âa§kara in questo bhå≤ya e a


9

cui fanno fede diverse recensioni. La lettura originaria, cui si attie-


ne Âa§kara stesso nel suo bhå≤ya alla ÂvetåŸvatara Upani≤ad, è:
«Conoscendo Quello soltanto si trascende la morte...» (Âve. 3.8, ta-
meva viditvåti mÿtyumeti). Il resto del passo è identico.
10
Cfr. anche Tai. 2.4.1.

Per l’ipotetico oppositore una cosa è lo scambio di due enti


11

entrambi oggetto di conoscenza, un’altra lo scambio del soggetto


con l’oggetto.

Åvara√a e vik≤epa, i due poteri (Ÿåkti) dell’avidyå, in simulta-


12

neità si manifestano e insieme scompaiono al sorgere della Cono-


scenza. Si torni alla nota 9 alla Introduzione di Âa§kara.

Nonostante che sia rivelato dalla luce di una lampada, l’og-


13

getto è altro da entrambe. La presenza o assenza dell’oggetto non


influisce sulla lampada e sul suo intrinseco potere di illuminare,
cioè sul conoscitore e sulla sua natura di conoscenza. V. nota 26.
Note al Tredicesimo Adhyåya 557

14
Per tutti gli assertori dell’åtman (åtmavådin) l’esperienza
del divenire cessa alla realizzazione della identità con il Brahman.
Sebbene allora vengano meno l’argomento e l’importanza delle
Scritture, prima di tale evento esse mantengono la loro valenza.
Tuttavia alcuni ritualisti dogmatici, pur sostenendo l’esistenza
dell’åtman al di là della corporeità, insistono sulla necessità di
continuare a compiere l’attività rituale anche dopo il sorgere della
conoscenza.
15
Se schiavitù e liberazione si verificassero in successione, biso-
gnerebbe stabilire la causa che le produce perché, in assenza di una
causa, sarebbero entrambe reali, ma, essendo opposte, ciò rappre-
senta una contraddizione in termini. Qualora avessero una causa,
questa potrebbe risiedere sia in un altro ente distinto che in loro.
Nel primo caso, essendo prodotte da altro, schiavitù e liberazione,
sarebbero entrambe non-reali, per cui non potrebbero inerire al-
l’åtman né si porrebbe la necessità di una liberazione inesistente da
una schiavitù parimenti inesistente. Nel caso che la causa risieda in
loro, non potrà esservi alcuna liberazione in assenza di una ulterio-
re causa esterna che garantisca la soluzione della condizione di
schiavitù, per cui le Scritture perderebbero la loro autorevolezza.
Da ciò si deve concludere che schiavitù e liberazione sono solo so-
vrapposizioni all’åtman.
16
Se la condizione di schiavitù fosse priva di inizio sarebbe
eterna, quindi reale, per cui non potrebbe mai essere annullata,
ma ciò è in contrasto con le Scritture e con gli altri mezzi validi di
conoscenza. Parimenti, se la liberazione avesse un inizio, non sa-
rebbe reale, per cui non potrebbe essere definitiva né svelare una
natura eterna.
17
Uno stato eterno è necessariamente reale e non può annullar-
si in riferimento a un fattore dimensionale (spazio-tempo-causa) e
non-reale per essere sostituito da un altro stato, anch’esso necessa-
riamente non-reale. La natura di eternità-infinitezza-acausalità,
quale indipendenza dalle dimensioni nel loro complesso inscindibi-
le, è la natura del reale e come tale non può mutare o annullarsi.
558 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

Un ente reale non può procedere ab aeterno e cessare nel tempo, né


nascere nel tempo e perdurare all’infinito. Ciò che è, è sempre e
non può non-essere; ciò che non è in un tempo, non può essere mai.
Si torni a Bha. Gı. 2.16 e relativo Commento.

L’essere ordinario, identificandosi al veicolo e sperimentando


18

la situazione contingente, considera sé stesso come realmente con-


nesso a causa ed effetto, laddove questi sono o l’azione e il suo ri-
sultato, o l’adÿ≤†a (il frutto invisibile dell’operato trascorso) e il cor-
po attuale. Il conoscitore, sapendo che l’åtman è altro da ciò, non
può porsi nemmeno come soggetto egoico in relazione all’azione o
alla esperienza dei suoi frutti.
19
Cfr. Bÿ. 1.5.17.
20
Cfr. Bra. S¥. 3.4.26-27.

Evidentemente costui ha appreso solo la parte delle Scritture


21

dedicata all’attività sacrale e al suo frutto (karmakå√ƒa).

Âa§kara allude al kaliyuga, l’attuale “era oscura”, nella quale


22

è sempre più difficile il risveglio dell’essere alla consapevolezza


della sua natura.

L’attività empirica (vyavahåra) dell’aggregato di effetto e


23

strumenti, cioè di corpo e sensi, è l’azione diretta al sostentamento


fisico, o quella che esprime un karman maturato in via di esauri-
mento, quindi di natura prettamente inerziale. A tale azione il co-
noscitore non si identifica, essendo una sola funzione veicolare-
strumentale. Alludendo a quello che agli occhi degli altri è il suo
acquietamento, si parla di non-attività (nivÿtti) del conoscitore, che
in realtà è sempre al di là dell’azione.

Dalla Âruti vengono appresi i mahåvåkya, i “grandi enuncia-


24

ti”: «Io sono Brahman» (Bÿ. 1.4.10), «Tu sei Quello» (Chå. 6.8.7),
«Questo åtman è il Brahman» (Må. 2) e altri, che sintetizzano la
dottrina Advaita e svelano la verità in maniera chiara, immediata e
inequivocabile come una identità sempre esistente.
Note al Tredicesimo Adhyåya 559

25
La conoscenza ci fa comprendere che il ‘conoscitore del cam-
po’, cioè il jıva, non è affatto il ‘campo’ ma il Brahman stesso e che
il saæsåra non ha esistenza reale ma costituisce una proiezione so-
vrapposta; invece l’ignoranza identifica il ‘conoscitore del campo’
con il ‘campo’ rendendolo asservito al divenire ciclico e alla limita-
tezza delle condizioni che lo caratterizzano. Come il jıva è il cono-
scitore del campo che è la sfera individuale, una volta attinta la Co-
noscenza, si realizza che il Brahman è il conoscitore di quel campo
che è la sua stessa måyå.
26
Se il conoscitore possedesse o acquisisse la natura del cono-
sciuto perderebbe la propria distinzione da quello, distinzione che
gli conferisce appunto il ruolo di soggetto di fronte all’oggetto, per
cui la stessa funzione della conoscenza non sarebbe possibile. Inol-
tre, in tale ipotesi, il conoscente si identificherebbe con la totalità
del conoscibile, e non con un ente soltanto, perdendo così la pro-
pria natura di unità e acquistando indefinite proprietà estranee.
27
Oggetto e soggetto verrebbero a confondersi reciprocamente
e nessuno dei due potrebbe esistere e porsi come tale.
28
Se l’åtman fosse realmente affetto dalla ignoranza e dai suoi
effetti come attributi coessenziali e sperimentasse tali proprietà, è
come se, pur essendo il soggetto, percepisse sé stesso in qualità di
oggetto. Che un ente conscio sia a un tempo il soggetto e l’oggetto
della conoscenza è una palese contraddizione. Anche nella comune
esperienza la distinzione tra conoscente e conosciuto è una eviden-
za che non necessita di dimostrazione. Una lampada non può illu-
minare sé stessa o la propria luce come oggetto, perché la luce è la
sua natura inseparabile; d’altra parte, ciò che illumina è altro da lei.
La stessa definizione di ‘conoscitore del campo’ implica che ‘cono-
scitore’ e ‘campo’ sono affatto distinti come lo sono il soggetto e
l’oggetto della conoscenza. Cfr. anche l’Introduzione di Âa§kara al
Brahmas¥trabhå≤ya.

Ånandagiri introduce così la diatriba: “Questa ignoranza de-


29

termina una falsa conoscenza; essa non è una entità autoesistente e


560 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

deve necessariamente sostenersi su qualcosa che esiste autonoma-


mente. Questo qualcosa non può essere la Coscienza, la quale è di
per sé conoscenza assoluta, né vi è un altro ente autoesistente al-
l’infuori di essa. Da qui nasce la domanda [dell’ipotetico interlocu-
tore]”.

Ånandagiri aggiunge alla domanda precedente: “Stai formu-


30

lando il quesito per sapere se l’ignoranza appartiene, come attribu-


to, a un ente autoesistente, oppure per conoscere in particolare
qual è l’ente a cui appartiene? Innanzitutto, se l’ignoranza risulta
conosciuta, tale domanda è superflua perché, non potendo [l’igno-
ranza] esistere di per sé, deve necessariamente essere conosciuta
da un altro ente [autoesistente] al quale appartiene. Viceversa, se
l’ignoranza risulta non conosciuta, come puoi supporre che essa
abbia esistenza? Dunque l’interlocutore intende conoscere l’ente al
quale l’ignoranza inerisce. Da qui la questione”.
31
Onde poterla eliminare, è necessario sapere a chi essa ineri-
sce.

Nel momento in cui si sperimenta l’ignoranza attraverso i


32

suoi effetti, come la soggezione al dolore, ecc., il soggetto ne viene


affetto, per cui non può percepire sé stesso nella sua natura discri-
minata dalla relazione con l’oggetto. Nella esperienza del sogno il
dormiente si trova identificato con il soggetto della vicenda onirica,
con l’oggetto costituito dall’ambiente proiettato e con la loro rela-
zione e non è consapevole né della reale natura proiettiva di tutti
questi né della propria.

I termini “conoscitore” (jñåtÿ) e “perfetto conoscitore” (vijñå-


33

tÿ) presentano il suffisso: -tÿ, che denota il soggetto dell’atto del co-
noscere, dell’azione conoscitiva. In realtà l’åtman è pura Coscienza
e, come tale, non può non conoscere: la conoscenza propria dell’å-
tman non risponde a un atto contingente, come quello di fare qual-
cosa, ma alla espressione di una natura autoesistente e immutabile,
a uno stato di essere inalterabile consustanziato della capacità di co-
noscere. La definizione dell’åtman come “conoscitore” o “perfetto
Note al Tredicesimo Adhyåya 561

conoscitore” non allude dunque a un processo cognitivo – la cono-


scenza di un oggetto non necessita dello svolgersi di un’azione nei
suoi riguardi ma solo della sua presenza – ma al fatto che il cono-
scitore è conoscenza, e questa è quello.
34
Secondo Ånandagiri l’ipotetico interlocutore intende trovare
una discordanza nella tesi advaita relativa alle Scritture, asserendo
che queste spesso impongono la celebrazione dei riti unitamente
alla conoscenza.
35
L’immanifesto (avyakta) designa la sostanza Prakÿti primor-
diale identificata con la stessa måyå, come si comprende dall’intero
passo in questione. Per l’Immanifesto si torni a Bha. Gı. 7.4, 8.18 e
8.20, alla nota 1 alla Introduzione di Âa§kara e alle note 7.2, 8.24 e
12.4.
36
Come undicesimo organo viene definito l’ “organo interno”
(anta¢kara√a) cioè la mente nel complesso delle sue facoltà specifi-
che: mente sensoriale e razionale analitica (manas), intelletto o in-
tuizione superconscia (buddhi), senso dell’io (ahaækåra) e memoria
rappresentativa (citta) che è anche il deposito delle impressioni la-
tenti (våsanå). Si torni alla nota 12.11.
37
Il darŸana Såækhya è la “dottrina della enumerazione”. Essa
interpreta la molteplicità, manifesta e non, ordinandola in 24 prin-
cìpi essenziali (tattva). Tali categorie sono riconducibili a una pola-
rità principiale irresolubile: il Puru≤a e la Prakÿti (o Pradhåna), per
il Såækhya due enti reali e distinti. Il Puru≤a è lo Spirito cosciente,
l’elemento maschile, il polo attivo, plasmatore e dinamico; la Pra-
kÿti la Materia insenziente, l’elemento femminile, il polo passivo,
plasmabile e statico. L’azione del Puru≤a sulla Prakÿti genera le for-
me-entità e, attraverso i gu√a, il dinamismo universale (jagatı). I
concetti di Puru≤a e Prakÿti sono acquisiti anche da altri darŸana: lo
Yoga li contempla integrandoli in un Principio causale unico (ÙŸva-
ra); il Vedånta, assimilando la Prakÿti alla måyå, trascende anche il
Principio ıŸvarico qualificato considerandolo come determinazione
dell’Assoluto inqualificato che è il Brahman, con il quale identifica
562 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

il Puru≤a delle Upani≤ad. La sostanza prakÿtica primordiale e impla-


smata del Såækhya, dal Vedånta non è più trattata come un ente
sostanziale (causa materiale, upådåna), ma considerata dalla pro-
spettiva della realtà suprema come una possibilità (Ÿakya) o capacità
(Ÿakti) proiettiva-velante (åvara√a-vik≤epa) che viene sovrapposta
al sostrato non-duale del Brahman. Si torni alla nota 9 alla Introdu-
zione di Âa§kara, v. nota 14.2.

Nella lingua sanscrita, per definire o qualificare gli enti, si im-


38

piegano spesso parole composite: i composti nominali. Il tipo detto


bahuvrıhi, lett. “dal molto riso” ossia: “colui che possiede molto
riso”, è uno di essi; nella sua tipica costruzione possono comparire
tanto aggettivi, quanto sostantivi o particelle enclitiche, ecc. Nel
caso in esame il termine: anådi, lett. “senza principio” – formato
dal termine: ådi, “inizio”, preceduto dal prefisso privativo: an-, “sen-
za”, “privo di” – compare anche con il suffisso: -mat, che denota
possesso. Secondo l’ipotetico oppositore, la coesistenza in un me-
desimo termine di un prefisso che indica l’essere privo di qualcosa
e di un suffisso che indica il possesso di qualcosa è una contraddi-
zione che, causa la discordanza dei sensi inerenti ai concetti di
“senza” e di “con” (con-senza-principio), comporta la perdita di si-
gnificato (anarthakya). Per tale motivo propone una diversa lettu-
ra, nella quale il suffisso: -mat, scisso dal termine: anådi, viene ap-
plicato al pronome: tad, “ciò”, per mantenere un senso coerente
(tanmat, “dotato di ciò”). V. anche nota 49.

L’ipotetico avversario afferma in maniera semplicistica: ciò


39

che si può definire è esistente, ciò che non si può definire è inesi -
stente, e un ente che non esiste non può nemmeno essere conosciuto;
né, tantomeno, la sua conoscenza eventuale – ammesso che possa
essere acquisita – può determinare un qualsiasi frutto. Tuttavia è
un dato di fatto che, per l’essere che vi soggiace, la non-conoscenza
(avidyå) produce il divenire (saæsåra).

Per Âa§kara un ente non-esistente può anche essere definito,


40

per esempio: le corna di una lepre. Sta alla facoltà di comprensione


riconoscere la sua impossibilità di esistenza. Così, per affermare
Note al Tredicesimo Adhyåya 563

che un ente è realmente non-esistente, occorre che risponda al con-


cetto di non-esistenza (nåstibuddhi).
41
Un’asserzione di conferma (arthavåda) non fa che convalida-
re quanto è già noto attraverso altre affermazioni, ecc. per cui, es-
sendo parte integrante di una precedente sentenza il cui significato
sia già dato per acquisito, non deve possedere valore autorevole di
per sé, essendo, questo, subordinato alla validità dell’asserzione a
cui appartiene. Qui la domanda pleonastica conferma il senso prin-
cipale.
42
Un’asserzione di conferma non deve mai essere interpretata
nel senso letterale, perché possiede un valore simbolico, per cui va
letta in modo tale da non contravvenire al significato principale in
oggetto. V. nota precedente.
43
Per questo e per il verso seguente, cfr. Ma. Bhå. 12.240.29,
12.302.17, 14.19.49 e 14.40.4. V. anche: Âve. 3.16-17 e, per i versi fino
al 18, cfr. Vi. Smÿ. 97.17-21.
44
Cfr. Bha. Gı. 2.16 e relativo Commento di Âa§kara.
45
La errata conclusione per cui il corpo, che nei due casi rappre-
senta un limite, è inesistente: ciò contraddice la comune esperienza.
46
Cfr. Ù. 5 e Mu. 2.1.2.
47
Âa§kara precisa che le funzioni di ‘originatore’ (prabhavi≤√u)
e di ‘divoratore’ (grasi≤√u) non denotano un reale agire dell’åtman,
negli aspetti creativo e distruttivo, in rapporto agli esseri e quindi
all’universo, ma la sua natura di Supporto per la sovrapposizione
della proiezione universale e il suo riassorbimento. La totalità degli
enti, la molteplicità delle forme sono mera apparenza sovrapposta,
permeata dalla Unità del sostrato reale. Creazione, conservazione e
distruzione universali sono una grande sovrapposizione evanescente
al Brahman.
48
Cfr. Bha. Gı. 9.32, 9.34 e 11.55.
564 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

Grammaticalmente il composto nominale tatpuru≤a, lett. “l’uo-


49

mo di lui”, “il suo uomo”, è un composto descrittivo subordinato,


nel quale il primo termine qualifica il secondo. Si torni alla nota 38.

L’effetto (kårya) è una data modalità di apparenza della causa


50

(kåra√a). Se ÙŸvara fosse la sola causa dell’universo, distinta dalle


due nature, il saæsåra sarebbe privo di un termine, perché da una
causa eterna non può che provenire un effetto eterno; di conseguen-
za i jıva non potrebbero mai aspirare a una liberazione da un dive-
nire perpetuamente reiterantesi. Il medesimo risultato si avrebbe in
mancanza di una causa per la schiavitù, perché costituirebbe una
natura e non vi sarebbe una causa neanche per il suo opposto: la li-
berazione.

Se le due nature avessero un inizio, come sostiene l’opposito-


51

re, prima del loro avvento non potrebbe esistere né schiavitù né li-
berazione e, poiché l’inesistenza di queste ultime sarebbe eterna
come l’assenza della loro causa, ugualmente la loro assenza si pro-
trarrebbe in eterno anche dopo, in mancanza di una causa che in-
terrompa, per assurdo, tale eternità.
52
Cfr. Ma. Bhå. 12.217.7.

I cinque organi di azione (karmendriya), i cinque organi di


53

percezione (buddhındriya) più il senso dell’io (ahaækåra), l’intel-


letto (buddhi) e la mente empirica (manas).

Se l’effetto è una semplice apparenza formale della causa – in


54

tal senso va intesa la ‘trasformazione’ (pari√åma) della causa – la


separazione di causa ed effetto, e conseguentemente la loro relazio-
ne causale (kåryakåra√asaæbandha), è una sovrapposizione. La ca-
pacità della sostanza prakÿtica di modificarsi (vikåra) assumendo
una varietà di configurazioni formali le conferisce il ruolo di ‘pro-
duttrice della causa’ (prakÿti), mentre il suo trovarsi nel prodotto ul-
timo modificato (vikÿta) le assegna quello di ‘produttrice dell’effetto’.

I dieci organi di percezione e azione, i cinque oggetti dei sen-


55

si e l’organo interno.
Note al Tredicesimo Adhyåya 565

56
L’intelletto (mahat), il senso dell’io (ahaækåra) e i cinque
elementi primari (bh¥ta) o le cinque sensazioni primarie (tanmå-
tra).
57
Il ‘variante’ (prakÿti) è ciò che di per sé è suscettibile di varia-
re e che, assumendo una diversa connotazione-apparenza, si pre-
senta come ‘variato’ (vikÿti). Poiché tale concatenazione può propa-
garsi indefinitamente, l’intero insieme di prakÿtivikÿti costituisce
effetto-kårya, mentre la sua base, cioè la sostanza principiale o Pra-
kÿti, ne è la causa-kåra√a.
58
Âa§kara non traccia distinzione tra il termine Puru≤a, corri-
spondente al Brahman o al paramåtman, e il puru≤a quale jıvåtman
perché, in fondo, si tratta di una medesima e unica natura: la Co-
scienza. Riflesso e Fonte, spazio circoscritto e spazio totale, trascese
le differenze sovrapposte, si svelano Uno.
59
L’assoggettamento al saæsåra presuppone un soggetto co-
sciente distinto dall’oggetto non-cosciente; in assenza di uno dei
due non può darsi alcuna relazione vincolante. L’åtman è sempre
libero, mentre il saæsåra, essendo una proiezione sovrapposta, non
ha esistenza autonoma.
60
Ånandagiri precisa che l’avidyå, identificata con la måyå, for-
ma, per analogia, la causa sostanziale (upådåna), mentre il deside-
rio è la causa efficiente (nimitta).
61
La conoscenza discriminante (vivekajñåna) porta al distacco
(vairågya) e attraverso questo si instaura la completa rinuncia (saæ-
nyåsa) che a sua volta rafforza il discernimento intuitivo: si crea
così un circolo virtuoso che porta invariabilmente alla presa di co-
scienza della realtà.
62
L’azione nasce comunque dalla ignoranza, perciò secondo
l’oppositore non vi è differenza tra atti passati maturati, atti non
maturati e atti futuri.
63
Cfr. Bha. Gı. 18.66.
566 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

Le ‘afflizioni’ (kleŸa) vengono così enumerate nello Yogas¥tra


64

di Pa†añjali: «Le afflizioni sono: l’ignoranza (avidyå), il senso del-


l’ ‘io sono’ (asmitå), l’attrazione (råga), la repulsione (dve≤a), l’at-
taccamento alla vita (abhiniveŸa)» (Yo. S¥. 2.3). Sono tutti potenziali
‘semi’ (bıja) di identificazione al corpo e, quindi, di rinascita.

La mente, in particolare il suo aspetto di citta, o “coscienza


65

cristallizzata”, è il deposito delle tendenze subconscie (våsanå) che,


provenienti da esperienze passate, costituiscono i semi attivi (saæ-
skåra) di ulteriori identificazioni e azioni di impulso soggettivo. Il
karman acquisito e non ancora maturato si conserva sotto forma di
våsanå, le quali possono essere portate a sviluppo (rinascita) o bru-
ciate dalla Conoscenza (liberazione).
66
V. il Secondo Adhyåya. La “contemplazione dell’åtman nel-
l’åtman tramite l’åtman” è ‘l’autocontemplazione della coscienza
senza uscire da sé stessa (senza proiettarsi all’esterno) tramite il
proprio essere consapevole’. L’autocoscienza (jıva), cioè il principio
di individuazione del riflesso cosciente (cetanå), una volta che è
perfettamente purificato, si risolve nella Coscienza pura (caitanya):
il jıva ritorna nell’åtman.

Il Såækhya è stato definito nel Secondo Adhyåya come la co-


67

noscenza acquisita attraverso la investigazione intellettuale; poiché


è un mezzo per realizzare lo yoga o unione, viene detto esso stesso
yoga.

Cioè sia entità consapevoli, come i jıva, sia entità non-consa-


68

pevoli, come i veicoli, gli oggetti inanimati, le condizioni, ecc. Qua-


lunque differenza o dualità è una proiezione sovrapposta all’åtman,
né potrebbe essere diversamente.

Il ‘conoscitore del campo’ non può realmente congiungersi


69

con il ‘campo’ all’atto della conoscenza, esperienza, ecc. Il conosce-


re ordinario non determina l’unione del soggetto con l’oggetto, pena
la impossibilità della conoscenza nei termini: ‘io conosco questo’.
Lo stesso rapporto conoscente-conosciuto prova la loro naturale
separazione. Il termine mithyåjñåna può essere letto sia come ‘falsa
Tredicesimo Adhyåya 567

o illusoria conoscenza’ (mithyå+jñåna), sia come ‘illusoria ignoran-


za’ (mithyå+ajñåna), nel senso che l’ignoranza che porta a operare
tale scambio di nature non ha esistenza reale ma è essa stessa una
sovrapposizione. Anche l’ignoranza, in quanto assenza di conoscen-
za, presuppone la conoscenza come sostrato; diversamente non po-
trebbe aversi la sua eliminazione. V. note 14.8 e 14.14.
70
Il termine samam, che compare nei versi 13.27 e 28, può esse-
re interpretato sia come avverbio – “identicamente”: alla medesima
maniera, come una sola cosa – che come accusativo dell’aggettivo
sama – “identico”, medesimo, uguale, lo stesso – in tal caso riferito
al Signore: «Colui che vede... il medesimo supremo Signore in quan-
to...» (Bha. Gı. 13.27) e «...vedendo... dappertutto il medesimo Signo-
re...» (Bha. Gı. 13.28). Cfr. nota 5.7.
71
Cfr. il citato passo Mu. 3.2.9 e Ma. Bhå. 12.17.23.
72
Cfr. Bha. Gı. 13.5-6.
73
Cfr. Bha. Gı. 13.5.

*
Quattordicesimo Adhyåya
(Lo yoga della separazione dalla terna dei gu√a)

È stato detto che la totalità, quando viene a essere, emerge


all’esistenza dalla congiunzione del ‘campo’ con il ‘conoscito-
re del campo’1.
In che modo [avviene] ciò?
Allo scopo di mostrarlo prende inizio il Capitolo che co-
mincia [dicendo]: «La suprema (conoscenza) ancora una vol-
ta...» (Bha. Gı. 14.1).
Oppure: il ‘campo’ e il ‘conoscitore del campo’, che dipen-
dono da altro cioè da ÙŸvara (Brahman) e non sono indipendenti
come invece è per i seguaci del Såækhya2, costituiscono la causa
dell’universo: in questo senso si è affermato che l’essere stabi-
lito nella Prakÿti [da parte del conoscitore del campo] e il [suo]
attaccamento alle qualità3 sono la causa del divenire ciclico.
In quale gu√a e in che modo si ha l’attaccamento [del co-
noscitore del campo]? Oppure: quali sono i gu√a? Ovvero, in
che modo [lo] condizionano? O, ancora, in che modo potrà
aversi la liberazione dai gu√a?
Inoltre si deve esporre anche la peculiarità del liberato, e a
tale scopo Bhagavat parlò.

Ârı Bhagavat disse:

14.1. La suprema conoscenza ancora una volta [ti] esporrò, la


più elevata fra le conoscenze, comprendendo la quale tutti i silen-
ziosi hanno raggiunto [dipartendosi] da qui la somma perfezione.
570 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 14.1

“La suprema conoscenza...” – [deve effettuarsi] la connes-


sione [dell’aggettivo “suprema”] con il [sostantivo “conoscen-
za” che si trova] separato [più avanti nel verso] – “...ancora
una volta”, nuovamente, sebbene sia stata ripetutamente
esposta in tutti i Capitoli precedenti, “[ti] esporrò...”; essa è
suprema in quanto ha per oggetto la realtà ultima (paravastu).
Qual è essa?
È “la” conoscenza “più elevata fra” tutte “le conoscenze”
perché ha il frutto più elevato.
[Con l’espressione] “fra le conoscenze” non si intende: fra
l’umiltà e le altre cose [elencate in Bha. Gı. 13.7-11, pure dette
in senso figurato ‘conoscenze’].
Che cosa [s’intende], allora?
[Essa è la più elevata] fra quelle [conoscenze] aventi per
oggetto i sacrifici e le altre cose che devono essere conosciute.
Quelle [infatti] non conducono alla liberazione, mentre questa
porta alla liberazione; per questo [Bhagavat] ne esprime lode
con i due termini “suprema” (para) e “la più elevata” (uttama),
allo scopo di suscitare interesse nella mente dell’ascoltatore.
“...comprendendo la quale”, cioè la conoscenza compren-
dendo, realizzando la quale “tutti i silenziosi” (muni), cioè i
completi rinunciatari dediti alla meditazione, “hanno raggiun-
to”, hanno conseguito, “[dipartendosi] da qui”, da questa con-
dizione di schiavitù corporea, [e procedendo] verso l’alto, “la
somma perfezione” denominata liberazione.
E di questa perfezione [Bhagavat ora] mostra la natura di
assolutezza:

14.2. [Coloro che] ricorrendo a questa conoscenza, sono per-


venuti alla identità con Me, né all’atto della creazione [dell’u-
niverso] rinasceranno né alla dissoluzione saranno turbati.

“[Coloro che] ricorrendo a questa conoscenza” quale è


stata esposta, cioè mettendo in pratica i mezzi per [realizzare]
14.3 Quattordicesimo Adhyåya 571

la conoscenza, “sono pervenuti alla identità con Me”, vale a


dire che hanno conseguito la reale natura che è propria di Me,
del supremo ÙŸvara...
In effetti, l’identità (sådharmya) non consiste in una [sem-
plice] uguaglianza di proprietà peculiari, perché nella Scrittu-
ra della [Bhagavad] Gıtå non è dato comprendere [alcuna] dif-
ferenza tra il ‘conoscitore del campo’ (il jıva) e ÙŸvara (il Bra-
hman), e questa menzione del frutto viene pronunciata allo
scopo di lodare [la conoscenza]4.
“...né all’atto della creazione [dell’universo]”, né al tempo
della manifestazione universale “rinasceranno”, verranno [nuo-
vamente] all’esistenza, “né alla dissoluzione [dell’universo]” a
opera del Brahman, cioè al tempo della distruzione finale, “sa-
ranno turbati”, vale a dire non ne saranno scossi.
[Ora Bhagavat] espone di quale specie sia la congiunzione
del ‘campo’ con il ‘conoscitore del campo’, la quale è la causa
[della venuta in esistenza] degli esseri.

14.3. La mia matrice è il grande Brahman. In quella Io de-


pongo il germe. L’origine di tutti gli esseri avviene da questo, o
Bhårata.

“La mia matrice”, cioè la Prakÿti consustanziata dei tre


gu√a, la måyå che appartiene intrinsecamente a Me ed è co-
stituita da [nient’altro che] Me 5, la quale è la causa [della esi-
stenza, ecc.] di tutti gli esseri, “è il grande Brahman”: così vie-
ne specificata la stessa matrice (yoni) a motivo della sua gran-
dezza rispetto a tutti gli effetti prodotti e per il fatto di essere
il sostegno (bhara√a) delle sue modificazioni6.
“In quella”, cioè nella matrice che è il grande Brahman,
“Io”, ÙŸvara, dotato del potere conferitomi dalla duplice natura
di ‘campo’ e di ‘conoscitore del campo’, “depongo”, affido “il
germe”, il seme della nascita di Hira√yagarbha, cioè il seme
che è causa della nascita di tutti gli esseri; vale a dire che con-
572 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 14.3

giungo con il ‘campo’ il ‘conoscitore del campo’, il quale con-


forma la propria natura alle sovrapposizioni [successive] del-
la ignoranza, del desiderio e dell’azione.
“L’origine”, la venuta all’esistenza “di tutti gli esseri”, at-
traverso la venuta all’esistenza di Hira√yagarbha, “avviene da
questo”, da tale deposizione del seme, “o Bhårata”.

14.4. [Quali che siano] le forme che si originano in tutte le


matrici, o Kaunteya, di quelle il grande Brahman è la matrice,
[mentre] Io sono il padre che depone il seme.

“[Quali che siano] le forme che si originano in tutte le ma-


trici”, come deva, pitÿ, uomini, armenti, animali selvatici, e al-
tro, “o Kaunteya”, cioè le forme consistenti in condensazioni
corporee composite formate dallo sviluppo di [varie] membra,
“di quelle” forme “il grande Brahman”, che comprende tutte
le condizioni, “è la matrice”, la causa, “[mentre] Io”, ÙŸvara,
“sono il padre che depone il seme”, l’artefice della deposizio-
ne del germe.
Quali sono i gu√a? In che modo condizionano [il ‘conosci-
tore del campo’]?
Si dice:

14.5. Il sattva, il rajas e il tamas: così sono i gu√a originati


dalla Prakÿti, che incatenano, o Mahåbåhu, al corpo l’essere in-
carnato, l’Inalterabile.

“Il sattva, il rajas e il tamas: così”, in questo modo “sono”


definiti “i gu√a...”. [La parola gu√a] è un termine convenzio-
nale. I gu√a non ineriscono a una sostanza (dravya) [come
qualità oggettiva] al pari di un colore, ecc., né qui si vuole
esprimere una differenza di natura (anyatva) tra l’attributo-
gu√a e colui che lo possiede (gu√in). Perciò, come attributi,
sono sempre dipendenti da un altro ente, e precisamente dal
14.6 Quattordicesimo Adhyåya 573

‘conoscitore del campo’, in quanto sono consustanziati di


ignoranza, per cui è [solo] come se incatenassero il ‘conoscito-
re del campo’. Pertanto, poiché acquisiscono l’åtman dopo
averlo reso supporto [della loro espressione], si dice [che lo]
“incatenano”7.
Inoltre essi sono “originati dalla Prakÿti”, cioè sono gene-
rati dalla måyå del Signore, per cui sembra che “incatenano,
o Mahåbåhu...”: Mahåbåhu (Colui dalle possenti braccia) è
[detto per eccesso] quegli le cui braccia, grandi e forti, [di-
stese] arrivano fino alle ginocchia; dunque, “(che incatena-
no) o Mahåbåhu, al corpo”, al veicolo individuale, “l’essere
incarnato” cioè colui che possiede il corpo, che è “l’Inalte-
rabile”, laddove la [sua] natura di inalterabilità è stata già
enunciata dallo Ÿloka: «Essendo senza inizio...», ecc. (Bha.
Gı. 13.31)8.
Obiezione: Comunque [nel medesimo verso] si è affermato
che l’essere corporeo non è contaminato [dall’agire, ecc.].
Perciò, in che senso qui si afferma, al contrario, che “(i gu√a)
incatenano... (al corpo l’essere incarnato...)”?
Risposta: Noi abbiamo evitato [tale incongruenza] con
[l’aggiungere] le parole: ‘come se’ (iva), per cui [il senso divie-
ne]: ‘è come se incatenassero al corpo l’essere incarnato...’.
Riguardo a questi [gu√a] dal sattva in poi, innanzitutto si
espone la definizione dello stesso sattva.

14.6. Tra loro il sattva, in virtù della sua assenza di macula-


zione, è illuminante e salutare; [esso] condiziona [il conoscitore
del campo] tramite l’attaccamento alla felicità e tramite l’at-
taccamento alla conoscenza, o Anagha.

“...il sattva, in virtù della sua assenza di maculazione”, si-


mile a una gemma trasparente, “è illuminante e salutare”, in-
nocuo; [esso] “condiziona” tale [conoscitore del campo]...
574 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 14.6

In che modo?
“...tramite l’attaccamento alla felicità”, la produzione di
uno stretto contatto della felicità, che costituisce l’oggetto,
con l’åtman che è il soggetto, nella forma: ‘io sono felice’.
[In realtà] l’adesione alla felicità è solamente illusoria, è
essa stessa ignoranza. Infatti una proprietà dell’oggetto non
può appartenere al soggetto, e Bhagavat ha affermato che
proprietà quali quelle che cominciano con il ‘desiderio’ e fi-
niscono con la ‘fermezza’ (Bha. Gı. 13.6 e segg.) appartengono
solamente al ‘campo’. Quindi è soltanto attraverso l’ignoran-
za, la quale costituisce una caratteristica propria [del cono-
scitore]9 consistendo nell’assenza di discriminazione tra il
soggetto e l’oggetto, che è come se [il sattva] congiungesse
[il conoscitore del campo] alla felicità, che non è propria di
sé stesso, cioè [lo] rende come se fosse attaccato [alla felici-
tà], ossia rende colui che è privo di [qualsiasi] attaccamento
come se fosse attaccato, dunque [rende] colui che [di per sé]
non è felice [né non-felice] come se fosse felice [non-felice,
ecc.]. “...e”, in modo simile, “tramite l’attaccamento alla co-
noscenza”; a causa della sua associazione con la felicità [nel
presente verso, si comprende che anche la conoscenza qui
menzionata] è una proprietà dell’organo interno (la mente),
cioè soltanto del ‘campo’, dunque dell’oggetto, e non dell’å-
tman (conoscitore del campo). Se fosse una proprietà dell’å-
tman, non si potrebbe a ragione ammettere l’attaccamento,
né sostenere plausibilmente una [condizione di] schiavitù.
Dunque l’attaccamento in relazione alla conoscenza, ecc. va
considerato come in relazione alla felicità, “o Anagha”, o tu
dal comportamento non sregolato.

14.7. Sappi che il rajas è essenziato di passione, quale sor-


gente di sete [verso le cose] e attaccamento. Esso incatena, o
Kaunteya, tramite l’attaccamento all’azione, l’essere incar-
nato.
14.8 Quattordicesimo Adhyåya 575

“Sappi”, riconosci “che il rajas è essenziato di passione”; la


[denominazione di] passione (råga) proviene dalla capacità di
colorare (rañjana) [la mente del conoscitore attraendola con la
natura piacevole delle cose10, e il rajas] è essenziato di passione
come la terra rossa, ecc. [lo è del colore rosso]; “...quale sorgente
di sete [verso le cose] e attaccamento”: la sete (tÿ≤√å) è l’intenso
desiderio verso ciò che non si è [ancora] ottenuto, l’attacca-
mento (åsa§ga) è uno stretto contatto consistente nell’affezio-
ne da parte della mente nei confronti dell’oggetto ottenuto. La
sorgente (samudbhava) di sete e attaccamento sta all’origine
sia della sete [verso le cose da ottenere] che dell’attaccamento
[verso quelle ottenute].
“Esso incatena”, tale rajas incatena, “o Kaunteya, tramite
l’attaccamento all’azione...”, cioè con il far aderire alle attività
apportatrici sia di un [frutto] visibile che di un [frutto] invisi-
bile11; l’attaccamento all’azione (karmasa§ga) è l’avere essa
come unico scopo. Il rajas incatena tramite tale [attaccamento
all’agire] “l’essere incarnato”.

14.8. Ma sappi che il tamas nasce dall’ignoranza: è offusca-


mento mentale per ogni essere incarnato; tramite negligenza,
indolenza e torpore esso incatena [l’essere incarnato] o Bhårata.

“Sappi che il tamas”, il terzo gu√a, “nasce dall’ignoranza”;


nasce dall’ignoranza in quanto è generato dall’ignoranza; “è
offuscamento mentale”, sorgente di illusione, fattore di assen-
za di discriminazione “per ogni essere incarnato”, per tutti co-
loro che posseggono un corpo; “tramite negligenza, indolenza
e torpore...”: negligenza, indolenza e torpore sono sia la non-
curanza [negli atti dovuti], sia l’apatia [nell’agire in generale],
sia il sonno [anche mentale]; tramite tali negligenza, indolen-
za e torpore “esso”, il tamas, “incatena [l’essere incarnato], o
Bhårata”.
Ora si espone sinteticamente l’azione dei gu√a.
576 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 14.9

14.9. Il sattva fa aderire [il conoscitore] alla felicità, il rajas


all’azione, o Bhårata, ma, oscurando la conoscenza, il tamas,
invero [lo] fa aderire alla negligenza.

“Il sattva fa aderire [il conoscitore] alla felicità, il rajas”


[lo] fa aderire – [tale voce verbale] viene aggiunta dalla pre-
cedente [frase] – “all’azione, ma, oscurando la conoscenza”,
occultando la discriminazione prodotta dal sattva attraverso il
suo proprio essere un velamento, “il tamas invero [lo] fa ade-
rire alla negligenza”, dove ha nome negligenza (pramåda) l’o-
missione di ciò che è acquisito come dovere.
Quando [avviene che] i gu√a producono l’effetto descritto?12
Si dice:

14.10. Il sattva si manifesta avendo soverchiato il rajas e il


tamas, o Bhårata; il rajas [si manifesta avendo soverchiato] il
sattva e il tamas stesso; allo stesso modo il tamas [si manifesta
avendo soverchiato] il sattva e il rajas.

Quando “Il sattva si manifesta”, emerge e si sviluppa


“avendo soverchiato” totalmente i due [altri gu√a], cioè “il
rajas e il tamas”, allora, affermandosi pienamente, il sattva
produce il suo proprio effetto consistente nella conoscenza,
nella felicità, ecc., “o Bhårata”; in maniera simile, quando “il”
gu√a “rajas” [si manifesta, emerge e] si sviluppa avendo so-
verchiato totalmente i due [altri gu√a], cioè “il sattva e il ta-
mas stesso”, allora produce il suo proprio effetto che è l’azio-
ne, come il governare, ecc.; esattamente “allo stesso modo”,
quando “il” gu√a chiamato “tamas" [si manifesta, emerge e] si
sviluppa avendo soverchiato totalmente i due [altri gu√a],
cioè “il sattva e il rajas”, allora produce il suo proprio effetto
che è il velamento, ecc. della conoscenza.
Quando un gu√a diviene prevalente, qual è, allora, il suo
segno caratteristico (li§ga)?
14.12 Quattordicesimo Adhyåya 577

Si dice:

14.11. Quando, in tutti gli accessi [sensoriali] in questo cor-


po, viene a generarsi la luce, la conoscenza, allora si riconosca
così, che, invero, il sattva è totalmente sviluppato.

“...in tutti gli accessi [sensoriali]...”: [gli accessi sensoriali]


sono per l’åtman gli accessi della percezione, cioè tutti gli or-
gani sensoriali come l’udito e gli altri. “Quando” in loro, “in
tutti gli accessi [sensoriali] in questo corpo, viene a manife-
starsi la luce”, cioè la funzione dell’organo interno, ossia del-
l’intelletto, quella stessa [luce] è “la conoscenza”. Così, quan-
do la luce chiamata conoscenza viene a manifestarsi [in tutti
gli accessi...], “allora”, attraverso quel segno caratteristico
che è la luce della conoscenza, “si riconosca così, che, invero,”
certamente, “il sattva è totalmente sviluppato”, è predomi-
nante.
Del rajas predominante, questo [che verrà descritto] è
l’indizio:

14.12. La bramosia, l’iperattività, l’intraprendere le azioni,


l’irrequietezza, il desiderio ardente: nel rajas totalmente svilup-
pato questi si manifestano, o migliore dei Bharata.

“La bramosia” (lobha) è il voler appropriarsi delle sostanze


altrui; “l’iperattività” (pravÿtti) è l’esagerato attivismo; “l’in-
traprendere” (årambha) è la generica tendenza a effettuare...
Che cosa?
“...le azioni”; “l’irrequietezza” è l’assenza di pacificazione,
cioè lo stato di eccitazione scaturiente dalla passione-attacca-
mento, ecc.; “il desiderio ardente” (spÿhå) è la sete [di acquisi-
zione, esperienza, ecc.] concernente in generale qualsiasi og-
getto: “nel” gu√a “rajas totalmente sviluppato questi” segni
caratteristici “si manifestano, o migliore dei Bharata”.
578 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 14.13

14.13. L’oscurità, l’inerzia, la negligenza e lo stesso offusca-


mento mentale: nel tamas totalmente sviluppato questi si mani-
festano, o Kurunandana (o Gioia dei Kuru).

“L’oscurità” (aprakåŸa) è l’assenza di discriminazione, “l’i-


nerzia” è l’assenza di attività in assoluto, “la negligenza” è il
suo effetto “e lo stesso offuscamento mentale” è la mancanza
di discernimento, vale a dire una condizione di stolidità; “nel”
gu√a “tamas totalmente sviluppato questi” segni caratteristici
“si manifestano, o Kurunandana”.
[Adesso Bhagavat] mostrando che anche quel frutto che si
consegue dopo la morte è causato da attaccamento e passione
ed è interamente proveniente dai gu√a, dice:

14.14. Invero, se il sattva è perfettamente sviluppato quando


il portatore del corpo va incontro alla dissoluzione [della forma],
allora raggiunge i mondi immacolati dei sommi conoscitori.

“Invero, se il sattva è perfettamente sviluppato”, cioè se è


predominante, “quando il portatore del corpo”, l’åtman [indivi-
duato, v. nota 18.8], “va incontro alla dissoluzione [della forma]”,
cioè va verso la morte, “allora raggiunge”, cioè consegue “i mondi
immacolati”, esenti da impurità, “dei sommi conoscitori”, cioè
di coloro che conoscono il Mahat13 e gli altri princìpi (tattva).

14.15. [Invece] giunto alla dissoluzione [della forma corporea]


quando vi è il rajas [come gu√a dominante], nasce tra coloro
che sono attaccati all’agire; similmente, dissoltosi quando vi è
il tamas [come gu√a dominante], nasce in matrici di [esseri]
poveri di intelletto.

“[Invece] giunto alla dissoluzione [della forma corporea]”,


raggiunta la morte “quando vi è il rajas” quale gu√a totalmente
sviluppato, “nasce tra coloro che sono attaccati all’agire”, cioè
14.18 Quattordicesimo Adhyåya 579

tra gli uomini aggiogati dall’attaccamento all’azione; “similmen-


te”, proprio nello stesso modo, “dissoltosi”, morto “quando vi è
il tamas” [come gu√a] totalmente sviluppato “nasce in matrici
di [esseri] poveri di intelletto ”, cioè in matrici di animali o simili.
[Adesso] si enuncia ancora, in breve, il senso dei versi
precedenti.

14.16. Di un’azione rettamente condotta dicono che il frutto


è sattvico e privo di impurità; il frutto del rajas è il dolore, men-
tre del tamas l’ignoranza è il frutto.

“Di un’azione rettamente condotta”, vale a dire sattvica, i


sapienti “dicono che il frutto è” esso stesso “sattvico e privo
di impurità; il frutto del rajas”, cioè dell’azione rajasica, “è il
dolore”; anche il frutto proveniente dalla qualificazione ad
agire è esso stesso dolore, cioè anch’esso rajasico, perché [l’ef-
fetto] è conforme alla causa. Similmente, “mentre del tamas”,
cioè dell’azione tamasica difforme dal dharma, “l’ignoranza”,
come prima, [è il frutto]14.
Che cosa [altro] deriva dai gu√a?

14.17. Dal sattva si origina la conoscenza, dal rajas la stessa


bramosia, dal tamas sorgono la negligenza e l’offuscamento
mentale e anche l’ignoranza stessa.

“Dal sattva” affermatosi pienamente “si origina”, si genera


“la conoscenza, dal rajas la stessa bramosia, dal tamas sorgo-
no” entrambi, cioè “la negligenza e l’offuscamento mentale”, e
sorge “anche l’ignoranza stessa”.
E inoltre,

14.18. In alto vanno quelli stabiliti nel sattva; nel mezzo re-
stano i rajasici; i tamasici, stabiliti nella natura dell’infimo
gu√a, vanno in basso.
580 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 14.18

“In alto”, verso i mondi divini, ecc., “vanno”, nascono “quel-


li stabiliti nel sattva”, cioè stabilmente fondati nei modi del
gu√a sattva; “nel mezzo”, tra gli esseri umani, “restano”, na-
scono “i rajasici; i tamasici, stabiliti nella natura dell’infimo
gu√a...” – l’infimo gu√a è quello che è anche il gu√a più bas-
so, cioè il tamas; la sua natura consiste nel torpore, nell’indo-
lenza, ecc.; quelli che sono stabilmente fondati in tale [natura]
sono quelli stabiliti nella natura dell’infimo gu√a, cioè gli stol-
ti – “...vanno in basso”, cioè nascono tra gli animali, ecc. 15
Nel precedente Capitolo è stato brevemente detto che quel-
lo che è l’attaccamento del Puru≤a (cioè del conoscitore del cam-
po), congiunto con la falsa conoscenza in virtù della sua natura
di essere stabilito nella Prakÿti, con gli oggetti di fruizione, cioè
con i gu√a che consistono essenzialmente di piacere, dolore e
illusione, [attaccamento] la cui natura è così [esprimibile]: ‘io
sono felice, o sofferente, o stolto’, è la causa del divenire cicli-
co, consistente nell’ottenimento da parte del Puru≤a di nascite
in matrici pure e impure. Ciò [è stato spiegato più diffusamen-
te] qui, dove, a cominciare dal passo: «Il sattva, il rajas e il ta-
mas: così sono i gu√a originati dalla Prakÿti...» (Bha. Gı. 14.5)
sono poi stati menzionati: la natura propria dei gu√a, la funzio-
ne svolta dai gu√a, la capacità dei gu√a di condizionare attra-
verso la loro propria natura e quello che è il destino dell’essere
imprigionato dalla natura dei gu√a; ora, dopo avere enunciato
tutto questo come causa della schiavitù la cui radice è la falsa
conoscenza16, poiché si intende esporre la liberazione in quanto
procedente dall’autentica conoscenza, pertanto Bhagavat dice:

14.19. Quando il veggente riconosce che l’agente non è altro


dai gu√a e realizza Colui che trascende i gu√a, egli raggiunge
il mio stato.

“Quando il veggente”, il quale sia un saggio, “riconosce


che l’agente non è altro”, non è distinto “dai gu√a” trasforma-
14.21 Quattordicesimo Adhyåya 581

tisi nella forma oggettiva di corpo e sensi, ossia vede [cioè rea-
lizza la consapevolezza di] questo: ‘soltanto i gu√a, stabiliti in
ogni condizione, sono gli agenti di tutte le azioni’, “e realizza
Colui che trascende i gu√a”, il quale costituisce il testimone
delle attività dei gu√a, “egli”, il veggente, “raggiunge il mio
stato”, [consegue] lo stato di essere che è proprio [unicamen-
te] di Me.
In che modo [lo] raggiunge?

14.20. L’essere incarnato, avendo trasceso questi tre gu√a


che sono l’origine dei corpi, perfettamente liberato da nascita,
morte, vecchiaia e dolore, ottiene l’[essere] immortale.

“L’essere incarnato, avendo trasceso”, avendo oltrepassa-


to, mentre è ancora in vita, “questi tre gu√a” quali sono stati
descritti, cioè in quanto costituiscono le sovrapposizioni limi-
tanti della måyå, “che sono l’origine dei corpi”, cioè sono i semi
della venuta all’essere dei corpi, il saggio, essendosi “perfetta-
mente liberato da nascita, morte, vecchiaia e dolore” – [il ter-
mine composto indicante] ‘nascita, morte, vecchiaia e dolore’
significa: sia la nascita, sia la morte, sia la vecchiaia che il do-
lore – [ossia essendosi definitivamente affrancato] da loro
mentre è ancora vivente, “ottiene l’[essere] immortale” (cioè
l’immortalità); vale a dire che in questo modo «...raggiunge il
mio stato» (Bha. Gı. 14.19).
Individuando [nell’affermazione]: ‘trascendendo i gu√a
mentre è ancora in vita, ottiene l’immortalità’, il seme per
una [ulteriore] domanda, Arjuna parlò:

Arjuna disse:

14.21. Con quali segni caratteristici, colui che ha trasceso


questi tre gu√a, si manifesta, o Signore? Qual è la [sua] condot-
ta? E come supera questi tre gu√a?
582 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 14.21

“Con quali segni caratteristici”, [con quali indizi] “colui che


ha trasceso”, che ha oltrepassato “questi tre gu√a” che sono
stati spiegati, “si manifesta, o Signore?”.
“Qual è la [sua] condotta?”. [La domanda:] ‘qual è la [sua]
condotta?’, [significa]: ‘qual è il comportamento spontaneo di
costui’?
“E come supera questi tre gu√a?”, in che modo procede
onde trascendere [i gu√a]?17
Interrogato da Arjuna, in questo Ÿloka, circa la caratteristi-
ca di colui che ha trasceso i gu√a e il mezzo con cui operare la
trascendenza dei gu√a, Bhagavat pronunciò una Risposta alle
due domande in modo separato:

Ârı Bhagavat rispose:

Innanzitutto, per quanto concerne [la domanda]: ‘associa-


to a quali segni caratteristici si manifesta colui che ha trasce-
so i gu√a?’, ascolta ciò:

14.22. L’illuminazione, l’attività e lo stesso offuscamento


mentale, o På√ƒava: [questi stati] non detesta [quando sono]
presenti, e non [li] desidera [quando sono] assenti,...

“L’illuminazione” è effetto del sattva, “l’attività” è effetto


del rajas, “e lo stesso offuscamente mentale” che è effetto del
tamas: queste cose “non detesta [quando sono] presenti...”,
cioè quando si manifestano come effettivo contenuto di con-
sapevolezza. [Invece egli] potrebbe detestarli [solo] se privo
dell’autentica conoscenza [pensando]: ‘un contenuto mentale
tamasico si è generato in me: da quello io sono [reso] confuso’;
in maniera simile [può pensare]: ‘un’azione rajasica, essenzia-
ta di sofferenza, è sorta per me: impulsato al movimento da
tale rajas, io sono stato scosso dalla [mia] propria natura; que-
sta, che è una deviazione dalla condizione propria della mia
14.23 Quattordicesimo Adhyåya 583

natura, si verifica per me in modo doloroso’; [ancora] in modo


simile [può pensare]: ‘il gu√a sattvico, la cui essenza è la luce,
mi condiziona portandomi in una condizione caratterizzata
dal possesso di discriminazione e facendomi aderire alla feli-
cità’. [Viceversa] quegli, che ha trasceso i gu√a così [come è
stato prima descritto], non [li] detesta [quando sono] presenti
[sotto tali o altre forme].
A differenza di un essere umano [ordinario] che, essendo
impregnato di sattva o degli altri [gu√a], cerca [di sperimen-
tare nuovamente] gli effetti del sattva, ecc., scomparsi dopo
che si sono palesati a lui stesso, [non] è così per quanto con-
cerne colui che ha trasceso i gu√a, vale a dire che “...non [li]
desidera [quando sono] assenti,...”.
[Ma] questo segno caratteristico non è [oggetto di] perce-
zione diretta da parte di altri.
Che cosa è, allora?
Questo è una caratteristica che riguarda solo sé stessi,
perché [oggetto di] percezione diretta [soltanto] per il pro-
prio åtman. Infatti, l’avversione o il desiderio inerenti a noi
stessi non [li] percepisce un altro.
Ordunque [Bhagavat] pronuncia la Risposta alla doman-
da: «Qual è la [sua] condotta?» (Bha. Gı. 14.21).

14.23. ...colui il quale, simile a un indifferente, seduto [in


meditazione], dai gu√a non è turbato; colui il quale [avendo la
consapevolezza] proprio così: ‘sono i gu√a che agiscono’, rima-
ne stabile e non si agita,...

“Colui”, il completo rinunciatario, “il quale, simile a un in-


differente...”; come un indifferente (udåsına), non propende per
l’opinione di nessuno, così questo conoscitore dell’åtman, “se-
duto [in meditazione]”, cioè impegnato nel sentiero [quale per-
corso coscienziale-realizzativo] tramite cui si perviene alla tra-
scendenza dei gu√a, “dai gu√a non è turbato” in quanto non si
584 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 14.23

allontana dalla condizione [propria] di una conoscenza discri-


minante. Questo stesso [significato, lo Ÿloka] rende ora chiaro:
“colui il quale [avendo la consapevolezza] (proprio) così: sono i
gu√a”, trasformatisi nelle forme oggettive del corpo e dei sensi,
“che agiscono” reciprocamente, “rimane stabile...” (avati≤†hati)
– l’impiego della diatesi attiva (parasmaipada, lett. ‘voce per un
altro’) [in luogo della diatesi media, åtmanepada, lett. ‘voce per
sé stessi’, cioè avati≤†hate] è dovuto al timore di contravvenire
alla metrica del passo 18; oppure, un’altra lettura è: “continua
[in apparenza] ad agire” (anuti≤†hati)19; “...e non si agita”, non
si distoglie [dal proprio essere], vale a dire che rimane assolu-
tamente [stabile] nella condizione inerente alla propria natura.
E inoltre,

14.24. ...equanime nel dolore e nel piacere, stabilito in sé, che


considera identici una zolla di terra, un sasso o dell’oro, che ri-
tiene uguali piacevole e spiacevole, che è fermo di animo, che
ugualmente accetta biasimo e lode,...

“...equanime nel dolore e nel piacere”: è equanime nel do-


lore e nel piacere (samadu¢khasukha) quegli per il quale dolo-
re e piacere sono identici; “stabilito in sé”, cioè perfettamente
pacificato in quanto stabilmente fondato nel proprio åtman;
“che considera identici una zolla di terra, un sasso o dell’oro”:
considera identici una zolla di terra, un sasso o dell’oro colui
per il quale una zolla di terra, un sasso o un pezzo di oro sono
la medesima cosa; “che ritiene uguali piacevole e spiacevole”:
questi stesso che ritiene uguali piacevole e spiacevole è quegli
per il quale il piacevole e lo spiacevole, cioè sia gli oggetti
piacevoli che gli oggetti spiacevoli, sono uguali, identici; “che
è fermo di animo”, ossia è un saggio risoluto; “che ugualmen-
te accetta biasimo e lode”: biasimo e lode sono sia la condan-
na che l’esaltazione di sé; accetta ugualmente biasimo e lode
quell’asceta per il quale biasimo e lode sono uguali 20.
14.26 Quattordicesimo Adhyåya 585

E inoltre,

14.25. ...che rimane uguale nell’onore e nel disonore, uguale


dalla parte sia di amici che di nemici, che abbandona completa-
mente ogni iniziativa; egli è detto: colui che ha trasceso i gu√a’.

“...che rimane uguale”, identico, privo di cambiamento “nel-


l’onore e nel disonore, uguale dalla parte sia di amici che di ne-
mici”: sebbene alcuni siano indifferenti nella propria opinione,
tuttavia all’opinione altrui appaiono come se fossero dalla par-
te di amici o di nemici; [invece, riguardo al conoscitore Bhaga-
vat] dice: uguale dalla parte sia di amici che di nemici; “che ab-
bandona completamente ogni iniziativa”: le iniziative sono le
azioni che vengono effettuate allo scopo di [ottenerne un frutto]
visibile o invisibile. Abbandona completamente ogni iniziativa
quegli la cui attitudine sta nell’abbandonare completamente
qualsiasi azione intrapresa [a tale scopo], vale a dire che trala-
scia qualsiasi azione a eccezione di quelle finalizzate al mero so-
stentamento del corpo; “egli è detto: colui che ha trasceso i gu√a”.
Dal passo: «...simile a un indifferente...» (Bha. Gı. 14.23)
fino a questo: “egli è detto: colui che ha trasceso i gu√a”, è sta-
to enunciato il mezzo per [operare] la trascendenza dei gu√a
che deve essere posto in atto da parte del completo rinuncia-
tario che aspira intensamente alla liberazione fin quando ciò
deve essere compiuto attraverso uno sforzo; invece, quando
ciò è divenuto stabilmente presente [nella sua stessa natura],
essendo oggetto di conoscenza da parte di lui stesso, diviene
la caratteristica indicativa dell’asceta che ha trasceso i gu√a21.
Adesso [Bhagavat] pronuncia la Risposta alla domanda:
«E come supera questi tre gu√a?» (Bha. Gı. 14.21).

14.26. E colui che con un incrollabile yoga della devozione


onora Me, costui, avendo completamente trasceso questi gu√a, è
atto a divenire [uno con] il Brahman,...
586 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 14.26

“E colui”, sia un asceta o un ritualista, “che con un incrol-


labile”, che non vacilla mai, “yoga della devozione...”: la devo-
zione (bhakti) è l’adorazione (bhajana), ed essa stessa è yoga;
dunque, con tale incrollabile yoga della devozione “onora Me”,
ÙŸvara, Nåråya√a, “costui, avendo completamente trasceso
questi gu√a”, quali sono stati enunciati, “è atto a divenire
[uno con] il Brahman”: il ‘divenire [uno con]’ (bh¥ya) è il
‘risolversi nello stato di essere proprio di’ (bhavana), per cui
[l’espressione]: “(atto) a divenire [uno con] il Brahman’, si-
gnifica: ‘diviene idoneo a risolversi nel Brahman’, [cioè pron-
to] per la liberazione22.
Perché si ha questo?
Si dice:

14.27. ...perché del Brahman Io sono la sede, dell’Immortale


e dell’Inalterabile, del dharma perenne e della gioia assoluta.

“Perché”, per il motivo che “del Brahman”, cioè del supre-


mo åtman, “Io sono la sede”, cioè Io, l’intimo åtman (pratya-
gåtman), sono la sede (prati≤†hå) [del Brahman] perché in
questo [intimo åtman, cioè nell’åtman individuato, ovvero:
nel riflesso che è il jıvåtman, il supremo åtman] risiede.

Del Brahman di quale natura [sono la sede]?


“...dell’Immortale”, dell’Indistruttibile, “(e) dell’Inalterabile”,
di Quello che non subisce cambiamento, “del dharma peren-
ne”, eterno, cioè della conoscenza che è il dharma, di Quello
che può essere realizzato attraverso il dharma che è lo yoga
della conoscenza, “e della gioia” la cui natura è beatitudine
“assoluta”, ossia imperturbabile. Cioè: del supremo åtman la
cui propria essenza è l’immortalità e le altre [cose elencate] e
la cui natura è la suprema beatitudine, l’intimo åtman è il ri-
cettacolo, e [solo] attraverso l’autentica conoscenza la [sua]
natura di supremo åtman può essere accertata. Questo è ciò
14.27 Quattordicesimo Adhyåya 587

che è stato espresso [con la frase]: «...è atto a divenire [uno


con] il Brahman» (Bha. Gı. 14.26). Il senso è questo: ‘Io sono il
Brahman stesso, cioè quel potere (Ÿakti) attraverso il quale, os-
sia attraverso il potere di ÙŸvara, il Brahman risiede [nell’inti-
mo åtman di ciascun essere], cioè si manifesta al fine di con-
cedere la grazia, ecc. a coloro che [gli] sono devoti, perché non
vi è [alcuna] differenza tra il potere e Colui che lo possiede’.
Oppure, se [qui], con il termine Brahman, si intendesse
esprimere il Brahman differenziato (savikalpaka) [cioè quello
‘con-attributi’ o sagu√a, allora il senso sarebbe]: di quel Bra-
hman, Io stesso, in quanto [Brahman] non-differenziato (nirvi-
kalpaka) [cioè Quello ‘senza-attributi’ o nirgu√a], e nessun al-
tro, sono la sede, la dimora.
Come viene specificato quello del quale [Io, il Brahman
non-differenziato o senza-attributi, sono la sede]?
[Io sono la sede] “...dell’Immortale”, caratterizzato dalla
proprietà di non essere soggetto alla morte, “e dell’Inalterabile”,
cioè di quello che è immune da degenerazione; e inoltre [Io
sono la sede] “del dharma perenne”, eterno, caratterizzato
dall’essere fondato nella conoscenza, “e della gioia” da quello
generata, la quale è “assoluta” in quanto fissata in quell’unico
stato: [la frase] “Io sono la sede” si riferisce, appunto, a questo.

Nelle Scritture yoga sulla conoscenza del Brahman


appartenenti alla Upani≤ad della sacra Bhagavadgıtå,
questo è il Quattordicesimo Capitolo
nel dialogo tra Kÿ≤√a e Arjuna
intitolato:
‘Lo yoga della separazione dalla terna dei gu√a’

*
NOTE al Quattordicesimo Adhyåya

1
Cfr. Bha. Gı. 13.26.
2
Nel Vedånta il Puru≤a e la Prakÿti rappresentano il ‘conoscito-
re del campo’ e il ‘campo’ nell’ordine universale, cioè il Brahman e
la sfera di måyå. Nella sfera individuale il ‘conoscitore’ è il jıva, o
jıvåtman, cioè l’åtman nel suo aspetto-riflesso di essere vivente, e il
‘campo’ è la spazialità veicolare unitamente alla totalità degli enti
correlati. Ma nella dottrina Advaita il jıva non è altro dal Brahman
– l’Upani≤ad sentenzia: «Tu sei Quello» (Chå. 6.8.7) – per cui si ri-
solve la stessa antitesi individuo-universo. Come il sole è il medesi-
mo sia visto attraverso una finestra che uscendo allo spazio aperto,
così l’åtman – sia realizzato in sé (Brahman, paramåtman) che perce-
pito come riflesso nell’essere (jıva) – è uno soltanto, senza-secondo.
Si torni alla nota 13.37.
3
Cfr. Bha. Gı. 13.21.
4
Cfr. Bha. Gı. 14.27 e Commento di Âa§kara. Una uguaglianza
presuppone sia la distinzione tra gli enti che il possesso di attributi
suscettibili di confronto; ciò comporta la possibilità di conoscerla
come oggetto. Una identità implica il risolversi sia degli eventuali
attributi che della stessa distinzione tra gli enti in una unità assolu-
ta e priva di differenziazione.
5
La måyå non si contrappone al Brahman: attraverso il potere
di måyå il Brahman, assumendo apparentemente un aspetto quali-
ficato, proietta l’universo e lo riassorbe. Dunque è la stessa apparen-
za di Quello percepita a causa della ignoranza della sua natura. È
attraverso la måyå che l’essere individuato emerge configurandosi
come ente separato e venendo a subirne l’effetto a livello conoscitivo.
590 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

Qui e nel verso successivo l’espressione “grande Brahman” si


6

riferisce alla natura fondante del Brahman nei confronti della


Prakÿti, nella quale prendono forma tutte le modificazioni-entità
individuate. Si tratta dunque del Brahman sagu√a, l’unità (Uno
con secondo) che racchiude la totalità (secondo), il seme della
molteplicità. In fondo, måyå e Brahman sagu√a si identificano e
coesistono.

Âa§kara precisa che l’impiego del termine gu√a in relazione


7

alla Prakÿti, cioè alla måyå, è convenzionale (påribhå≤ika) perché:


a) non designa una qualità oggettiva o proprietà peculiarmente
inerente a una data sostanza, tale, cioè, che la sostanza-entità
possa essere definita dalla qualità; b) non stabilisce una sostan-
ziale distinzione tra l’ente a cui appartiene e la sua specificità;
c) essendo applicato a qualcosa, non è autoesistente e deve ne-
cessariamente dipendere dall’esistenza di ciò a cui si riferisce. In
altre parole, i gu√a coesistono con l’ente che li possiede, la må-
yå-Prakÿti, ma non lo condizionano; condizionano invece l’ente
che, per ignoranza, con loro si identifica, cioè il puru≤a indivi-
duato (jıva).

Per quanto riguarda i gu√a, per la Smÿti, cfr. Ma. 12.24-40;


8

Ma. Bhå. 12.194.29-36 e 12.219.25-31; Yå. Dha. S¥. 3.137-139 e, per


la Âruti, cfr. Mai. 3.5.

L’ignoranza non è una proprietà del ‘campo’ ma uno stato del


9

‘conoscitore del campo’ sovrapposto alla sua natura di conoscenza.


V. nota 13.69.

Il termine rañjana designa sia la ‘colorazione’ indotta da un


10

ente che la ‘piacevolezza’ insita in qualcosa.

Il frutto visibile (dÿ≤†a) e quello invisibile (adÿ≤†a) si riferisco-


11

no all’esito dell’azione in questa esistenza o nella successiva.

Ånandagiri precisa la domanda: i gu√a agiscono in simulta-


12

neità o in successione? concordemente o discordemente? A tali


questioni la Gıtå dà le rispettive risposte.
Note al Quattordicesimo Adhyåya 591

13
Qui il Mahat designa il Brahman, il Principio metafisico nel
quale paiono emergere e restare compresi gli altri princìpi manife-
stanti.
14
L’azione rettamente condotta (karman sukÿta) è sia quella im-
posta dal dharma sia quella ordinaria ma compiuta senza identifi-
cazione al soggetto agente e senza attaccamento al frutto. L’azione
rajasica è quella effettuata con tali identificazione e attaccamento,
quella tamasica è quella contraria al dharma o fatta nella completa
obnubilazione mentale.
15
Cfr. Ma. Bhå. 12.314.3-4.
16
Il termine mithyåjñåna, si è visto, può significare sia ‘falsa
conoscenza’ che ‘illusoria ignoranza’. In entrambi i casi si tratta di
una conoscenza difforme dal vero che induce l’essere in errore –
l’identificazione con i gu√a – con ciò che ne consegue. Quando vi è
identificazione con il sattva, l’essere sperimenta l’esistenza come
deva, quando è con il rajas rinasce nella sfera umana, quando con il
tamas, in quella inferiore (animali o vegetali). V. nota 13.69.
17
Per la trascendenza dei gu√a, cfr. Yo. S¥. 4.32. Riguardo alla
Smÿti, cfr. Ma. Bhå. 12.251.22.
18
Perché nella lingua sanscrita la vocale e è sempre lunga.
19
Cioè sembra che continui a produrre azione pur non identifi-
candosi più con il soggetto agente né agendo in vista di un frutto.
Tale apparenza è oggetto di percezione per gli altri, non-conoscito-
ri, mentre, restando privo di attività e cambiamento, sono i suoi
veicoli che espletano l’inerzialità acquisita.
20
Cfr. Bha. Gı. 2.15, 6.7, 12.13, 12.18. La presa di consapevolezza
della natura trascendente e immutabile dell’åtman fa sì che il cono-
scitore, identificandosi all’åtman stesso, cessa in modo naturale di
impegnarsi nell’azione identificata, di rapportarsi in qualsiasi modo
ad altri esseri e di giudicare l’altrui operato, semplicemente perché
non vede più un “secondo”.
592 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

Quelle che, prima dell’avvento della conoscenza, sono virtù


21

da acquisire attraverso un impegno largamente profuso da parte


dell’asceta, in quanto mezzi per il suo ottenimento, all’atto della
realizzazione si svelano spontaneamente come proprietà connatu-
rate al conoscitore.

Ånandagiri precisa che il bhaktiyoga accennato è la stabile,


22

costante e prolungata contemplazione del Brahman – dunque un


vero e proprio yoga quale disciplina realizzativa – che si instaura
dopo aver ritirato la percezione esteriore da tutto ciò che non è
l’åtman e riassorbito la potenzialità proiettiva interiore nella pura
consapevolezza: trascesi i gu√a ed estinto ogni seme virtuale, la co-
scienza si risolve identicamente in Brahman.

*
Quindicesimo Adhyåya
(Lo yoga del conseguimento del Puru≤ottama)

Poiché [solo] da Me dipende sia, per i ritualisti, il frutto


dell’azione, che, per i conoscitori, il frutto della conoscenza,
pertanto coloro che onorano Me attraverso lo yoga della de-
vozione, ottenendo gradualmente la conoscenza con il favore
della mia grazia, trascesi i gu√a raggiungono la liberazione.
Che dire, dunque, di coloro che conoscono chiaramente, in
maniera autentica, la stessa reale essenza dell’åtman? Quindi
Bhagavat, pur non essendo stato interrogato da Arjuna [in
merito a ciò], parlò con il proposito di esporre la reale essen-
za dell’åtman (åtmatattva) [pronunciando il passo che prende
inizio con le parole]: «Con le radici in alto...» (Bha. Gı. 15.1).
Qui, innanzitutto, definisce la natura propria del divenire cicli-
co attraverso l’immagine che delinea un albero, con l’intenzio-
ne di [infondere in Arjuna il] distacco: infatti, [soltanto] colui
che è perfettamente distaccato è qualificato per [conseguire]
la conoscenza della reale essenza del Signore, e nessun altro.

Ârı Bhagavat disse:

15.1. Con le radici in alto e i rami in basso proclamano l’A-


Ÿvattha1 imperituro, del quale i chandas sono le foglie. Colui che
lo conosce è un conoscitore dei Veda.

“Con le radici in alto...”: essendo al di là del tempo, avendo


natura [infinitamente] sottile, essendo la causa, essendo eterno
594 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 15.1

e, altresì, essendo grande, il Brahman, cioè l’Avyakta, dotato


del potere di måyå, viene detto [risiedere] ‘in alto’ (¥rdhvam)2.
Quello è la radice (m¥la) di questo, cioè di questo che è l’albe-
ro del divenire ciclico “con le radici in alto” (¥rdhvam¥la), e
[ciò si apprende] dalla Âruti: «Dalle radici in alto e dai rami in
basso: questo è l’AŸvattha perenne» (Ka. 2.3.1). Anche nel
Purå√a [è detto]: «Originatosi dalla radice che è l’Avyakta,
con il favore di Quello stesso si è poderosamente sviluppato.
Della stessa buddhi è fatto il fusto e le cavità al suo interno
sono i sensi, i grandi elementi sono le sue ramificazioni e, si-
milmente, ha per foglie gli oggetti [dei sensi]; il dharma e l’a-
dharma sono la sua splendida fioritura che matura nei frutti
del piacere e del dolore. Il perenne albero del Brahman è il
supporto per la vita di tutti gli esseri e questo stesso, che è ri-
cettacolo del Brahman, dal Brahman procede in eterno. Aven-
dolo abbattuto e spaccato con la suprema spada che è la cono-
scenza, e avendo quindi conseguito la gioia dell’åtman, da ciò
non si ritorna più indietro», ecc. (Ma. Bhå. A. Pa. 47.12-15).
L’albero “Con le radici in alto e i rami in basso...” – ha i
rami in basso questo [albero] i cui rami stessi, che sono il ma-
hat (la buddhi), il senso dell’io e gli altri tanmåtra, si estendo-
no verso il basso – cioè il divenire ciclico consustanziato di
måyå, lo “proclamano”, lo definiscono “l’AŸvattha...”, ossia
quello destinato a distruggersi a ogni istante – è [definito con
il termine] aŸvattha ‘ciò la cui esistenza stabile non si ha nep-
pure l’indomani’ (na Ÿvo ’pi sthåtå) – “...imperituro”. Questo
stesso albero del divenire ciclico è imperituro perché è sorto
in un tempo senza inizio attraverso l’illusione del saæsåra: in-
fatti è ben noto che la serie ininterrotta dei corpi, ecc. è senza
inizio e senza fine; [per questo] lo [chiamano] imperituro3.
Di quello stesso albero del divenire ciclico [si fornisce poi]
questa specificazione: “del quale i chandas sono le foglie”. I
chandas (metri vedici), definiti come il Íg, lo Yajus e il Såma
[Veda], sono le foglie dell’albero del divenire ciclico per via
15.2 Quindicesimo Adhyåya 595

della loro [funzione di] copertura protettiva nei suoi confron-


ti, al pari delle foglie [per un albero ordinario]. Come le foglie
di un albero sono [disposte e sviluppate] per proteggerlo av-
volgendolo completamente, così i Veda, essendo finalizzati a
prospettare il dharma e l’adharma, con le loro cause e i loro
frutti, hanno come fine di proteggere, avvolgendolo comple-
tamente, l’albero del divenire ciclico4.
“Colui che lo conosce”, [che conosce] l’albero del divenire
ciclico con la sua radice, così come è stato esposto, “è un co-
noscitore dei Veda”, vale a dire un conoscitore del significato
dei Veda: infatti non vi è altro, per quanto affatto insignificante,
che resti da conoscere oltre a questo albero del divenire ciclico
insieme con la sua radice. Quindi il conoscitore del significa -
to di tutti i Veda conosce tutto [quello che vi è da conoscere].
Così è resa lode alla conoscenza dell’albero del divenire cicli-
co unitamente alla sua radice 5.
Viene [ora] enunciata un’altra rappresentazione delle par-
ti costitutive di questo stesso albero del divenire ciclico:

15.2. In basso e in alto si protendono i suoi rami, vitalizzati


dai gu√a, con gli oggetti sensibili per germogli, e verso il basso
si propagano le [sue] radici, strettamente legate alle azioni,
[fino] nel mondo degli uomini.

“In basso”, dagli uomini fino a ciò che è inerte, “e in alto”


fino alla dimora di Brahmå, di Colui che ha manifestato la to-
talità – questo è il termine – “si protendono i suoi rami”, cioè
[le condizioni di esistenza che sono] i frutti sia della conoscen-
za che dell’azione [conseguiti] conformemente all’agire e in
accordo con quanto appreso dalla Âruti, i quali si estendono
come rami di un albero, “vitalizzati dai gu√a”, accresciuti, resi
solidi dai gu√a quali il sattva, il rajas e il tamas che sono le
[loro] cause sostanziali (upådåna); “con gli oggetti sensibili
per germogli...”: gli oggetti sensibili (vi≤aya), come il suono e
596 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 15.2

gli altri, sono come germogli in quanto è come se germoglias-


sero dai rami che sono i frutti delle azioni come il corpo [at-
tuale], ecc. [è frutto del passato agire], per questo i rami hanno
gli oggetti sensibili per germoglio.
La radice suprema dell’albero del divenire ciclico, cioè la
[sua] causa sostanziale (l’Avyakta), è stata enunciata in pre-
cedenza (in Bha. Gı. 15.1). Ordunque [vengono enunciate]
quelle che sono come radici sviluppantisi successivamente,
quali cause dell’agire conforme al dharma o contrario al dha-
rma, cioè le impressioni mentali latenti (våsanå), come l’attra-
zione, la repulsione, ecc., generate dai frutti delle azioni: “...e
verso il basso si propagano”, affondano “le [sue] radici”, dalla
sfera divina in giù, “strettamente legate alle azioni...”. Quelle
[radici che sono le impressioni latenti], strettamente legate
alle azioni e conseguentemente all’emergere delle quali si ma-
nifesta lo stretto legame (anubandha) che si crea subito dopo
l’azione consistente sia nel dharma che nell’adharma, [si
estendono] specificatamente “[fino] nel mondo degli uomini”:
è infatti ben noto che la qualificazione all’agire compete [in
special modo] agli uomini (per via della loro corporeità e del-
la identificazione con tale condizione).
Invece, per quanto concerne questo albero del divenire ci-
clico che è stato descritto,

15.3. Qui (in questo mondo) la sua forma non è percepita


come è, né la [sua] fine né un inizio né una continuità di esi-
stenza. Tale AŸvattha, dalla radice ben sviluppata, [una volta
che sia stato] reciso con la tenace spada del non-attaccamento,...

“Qui (in questo mondo) la sua forma non è percepita”, cioè


non lo è così stesso “come è” stata dettagliatamente descritta:
essendo simile a un sogno, alla [parvenza di] acqua in un mi-
raggio, alla illusione [proiettata da un mago], o alla celeste cit-
tadella dei Gandharva, invero essa, per sua natura, scompare
15.4 Quindicesimo Adhyåya 597

non appena la si osservi; proprio per questo “né la [sua] fine”,


né una condizione stabile di compimento, ossia una completa
conclusione esiste [come percepibile], e, similmente, “né un ini-
zio”, perché nessuno arriva a comprendere: ‘ha cominciato a esi-
stere dal [tale] principio’, “né una continuità di esistenza”, dac-
ché nessuno può percepirne l’esistenza nel tempo intermedio6.
“Tale AŸvattha”, quale è stato enunciato, “dalla radice ben
sviluppata...” – ha la radice ben sviluppata quello le cui radi-
ci, eccellentemente sviluppatesi, hanno raggiunto tale svilup-
po mantenendosi solide – cioè l’albero del divenire ciclico,
“...[una volta che sia stato] reciso”, divelto insieme con il [suo]
seme, “con la (tenace) spada del non-attaccamento...” – il
non-attaccamento è la deposizione dei desideri concernenti i
figli, la ricchezza, i mondi – dunque [una volta reciso] con quel-
la che è la tenace spada del non-attaccamento, resa forte dalla
determinazione rivolta verso il supremo åtman e affilata sulla
pietra della pratica assidua della reiterata discriminazione...

15.4. ...allora deve essere rintracciato quello stato, pervenuti


al quale [gli esseri] non tornano più. E in quello stesso primor-
diale Puru≤a prendo rifugio, quello dal quale si è sprigionato
l’originario impulso creativo.

“...allora”, dopo di ciò, “deve essere rintracciato...” – il rin-


tracciare (parimårga√a) è una ricerca (anve≤a√a), vale a dire
che deve essere conosciuto “quello stato” di Vi≤√u, “pervenuti
al quale” stato, cioè penetrati [nel quale, gli esseri] “non tor-
nano più indietro”, non ritornano ancora nel divenire ciclico.
In che modo deve essere rintracciato?
[Bhagavat lo] dice: “E in quello stesso primordiale Puru-
≤a”, che è stato espresso con il termine ‘stato’ (pada), cioè nel-
lo stato di essere (bhava) che è al principio [della esistenza],
“prendo rifugio”; così deve essere rintracciato, allo scopo di
trovarvi protezione. Tale è il significato.
598 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 15.4

Qual è quel Puru≤a?


Si dice: [è] “quello dal quale”, il Puru≤a dal quale “si è spri-
gionato”, si è effuso “l’originario”, antico “impulso creativo”
che ha dato luogo all’albero dell’illusorio divenire ciclico (saæ-
såramåyåvÿk≤a), simile alla suggestione visiva indotta da un
illusionista.
In che modo gli esseri raggiungono quello stato?
Si dice:

15.5. Privi di orgoglio e di offuscamento mentale, con il di-


fetto dell’attaccamento sconfitto, sempre [stabiliti] nell’adhyå-
tman, interamente ritiratisi dal desiderio, [gli asceti] totalmen-
te emancipati dalle coppie [di opposti] conosciute come piacere
e dolore pervengono, liberi dallo smarrimento, a quello stato
inalterabile.

“Privi di orgoglio e di offuscamento mentale”: orgoglio


(måna) e offuscamento mentale (moha) sono la presunzione e
lo smarrimento; sono privi di orgoglio e di offuscamento men-
tale coloro dai quali i due sono stati allontanati, cioè immuni
sia dall’orgoglio che dall’offuscamento mentale; “aventi il di-
fetto dell’attaccamento sconfitto”: il difetto dell’attaccamento
è il difetto che consiste nell’attaccamento (sa§ga) stesso e
hanno il difetto dell’attaccamento sconfitto coloro dai quali il
difetto consistente nell’attaccamento è stato definitivamente
soppresso; “sempre [stabiliti] nell’adhyåtman”, sempre [stabi-
liti] nella ponderazione sul supremo åtman, cioè che conside-
rano Quello come il Supremo; “interamente ritiratisi dal desi-
derio”: si sono interamente ritirati dal desiderio coloro dai
quali i desideri sono stati abbandonati senza eccezione e senza
alcun residuo; gli asceti, cioè i completi rinunciatari, “totalmen-
te emancipati”, completamente affrancatisi “dalle coppie [di
opposti]”, quali il piacevole e lo spiacevole, ecc., “conosciute
come piacere e dolore, pervengono, liberi dallo smarrimento”,
15.7 Quindicesimo Adhyåya 599

esenti da offuscamento mentale, “a quello stato inalterabile”


quale è stato enunciato.
Quello stesso stato viene ancora specificato:

15.6. Quella [dimora] non la illumina il sole, né colei dalle


falci, né quello che divampa. Quella [dimora], giungendo alla
quale non tornano indietro, è la mia suprema dimora.

[Il pronome] “Quella” (tad) è [connesso con] la ‘dimora’


(dhåma), perché va collegato alla [parola] “dimora” che com-
pare separatamente [nel verso].
“Quella” dimora, lo stato la cui natura è splendore, “non la
illumina il sole”, l’astro solare, per quanto sia dotato del pote-
re di illuminare tutto, “né”, similmente, “colei dalle falci”, la
luna, “né quello che divampa”, nemmeno il fuoco.
“Quella”, la dimora di Vi≤√u, “giungendo alla quale”, con-
seguendo [la quale], “non tornano indietro” e [la quale è] lo
stato che il sole, ecc. non illumina, “è la mia suprema dimora”,
lo stato di Vi≤√u7.
Obiezione: È stato detto: “giungendo alla quale [gli esseri]
non tornano indietro”. Tuttavia, invero, qualsiasi andare (gati)
finisce con il tornare (ågati), dato che ‘[tutte] le congiunzioni
hanno termine con separazioni’: ciò è ben noto. Perché [allo-
ra] si dice che non vi è ritorno per coloro che sono pervenuti
a tale dimora?
Risposta: Ascolta [qual è] il motivo in proposito:

15.7. Un perenne riflesso di Me stesso, divenuto essere viven-


te nel mondo vivente, attira i [cinque] sensi e la mente come se-
sto [organo], fondati nella Prakÿti.

“Un perenne”, antico “riflesso”, cioè un frammento, una


parte, un punto – tale [è l’interpretazione], non vi è un altro
600 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 15.7

significato differente – “di Me stesso”, del supremo åtman,


cioè di Nåråya√a, “divenuto essere vivente” (jıva), ben noto
come l’agente e il fruitore, “nel mondo vivente”, nel mondo
degli esseri viventi, cioè nel divenire ciclico (saæsåra)... Come
un riflesso del sole, presentandosi quale immagine del sole
sull’acqua, alla rimozione della causa [della sua percezione
separata] che è l’acqua, non torna indietro [nell’acqua su cui
era percepito], ma raggiunge l’identità con quello stesso [sole],
esattamente così [è anche per il jıva 8]; oppure, come lo spazio
racchiuso da un vaso o altro, presentandosi delimitato dalla
sovrapposizione limitante che è il vaso, ecc., alla rimozione
della causa [della sua percezione separata] che è il vaso, ecc.,
conseguito lo spazio [totale] non torna indietro [in un vaso,
ecc.]. Quindi, quanto detto, cioè: «...giungendo al quale non
tornano indietro...» (Bha. Gı. 15.6), è pienamente plausibile.
Obiezione: Tuttavia, per il supremo åtman che è privo di
parti, donde mai può aversi una parte, un punto, un riflesso?
Qualora fosse composto di parti, si avrebbe il difetto della sua
totale distruzione per via della separazione delle parti.
Risposta: Questo non è un difetto, perché il punto, il rifles-
so, [la parte, ecc.], essendo delimitato dalle sovrapposizioni li-
mitanti create dall’ignoranza, è come proiettato immaginati-
vamente [e non costituisce realmente una frazione dell’å-
tman]. E questo significato è stato diffusamente mostrato nel
Capitolo sul ‘campo’ (Bha. Gı. 13).
Ora, essendo il jıva un riflesso di Me, in che modo può as-
soggettarsi al divenire ciclico o astrarsene?9
Si dice: “...attira”, cioè attira a sé “i [cinque] sensi e la men-
te come sesto [organo]”, cioè [le facoltà quali] l’udito, ecc.,
“fondati nella Prakÿti”, cioè stabiliti nel proprio fondamento
(svasthåna) che è la Prakÿti, come il padiglione auricolare e le
altre [sedi corporee dei sensi]10.
In qual tempo [il jıva attira a sé il veicolo fisico, ecc.]?
15.10 Quindicesimo Adhyåya 601

15.8. Il Signore, quando assume un corpo e anche quando [lo]


depone, presi [con sé] questi [organi], procede insieme [a loro]
come [fa] il vento [quando raccoglie] i profumi da un luogo.

“Il Signore (ÙŸvara)...”, cioè il jıva, il possessore dell’aggre-


gato di corpo, ecc., (quando assume un corpo) – [la parte di
frase:] “e anche quello che” (yaccåpi)11 sta per: “e anche quan-
do” (yadå cåpi)12 – [dunque: e anche quando lo] depone...”,
allora attira [a sé...] – [tale voce verbale] va connessa [dal
precedente verso], per primarietà [di senso], in virtù del si-
gnificato della seconda parte dello Ÿloka – e quando, da un
precedente corpo [lasciato] assume un altro differente corpo,
allora, “presi [con sé] questi” sei organi compresa la mente,
“procede insieme [a loro]”, si muove unitamente [a loro], va...
Come che cosa [procede]?
[Bhagavat lo] dice: “...come [fa] il vento”, il soffio della brez-
za, “[quando raccoglie] i profumi” di fiori, ecc. “da un luogo”13.
Quali sono, dunque, tali [organi che il jıva porta con sé al
trapasso]?

15.9. L’udito, la vista e il tatto, [e poi] il gusto e lo stesso


odorato: sovrintendendo a questo [insieme di facoltà] e anche
alla mente entra in rapporto con gli oggetti sensibili.

“L’udito, la vista e il tatto”, cioè l’organo formato dalla


[intera] pelle, “[e poi] il gusto e lo stesso odorato: sovrinten-
dendo (a questo [insieme di facoltà]) e anche alla mente” come
sesto [organo, quello interno], l’ente stabilito nel corpo (il jı-
va), tramite ciascun organo, “entra in rapporto con gli oggetti
sensibili” quali il suono e gli altri. Così è [per il jıva che è] en-
trato in un corpo [provenendo] da un [altro] corpo.

15.10. [Il jıva] allorché depone [un corpo], o anche quando è


stabilito [in esso], oppure quando, assecondando i gu√a, speri-
602 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 15.10

menta la fruizione, coloro che sono totalmente assoggettati alla


illusione non [lo] scorgono; [invece lo] vedono coloro che pos-
seggono l’occhio della conoscenza.

“[Il jıva] allorché depone” un corpo precedentemente as-


sunto, cioè lo abbandona completamente [alla morte fisica],
“o anche quando è stabilito”, è dimorante in un corpo, “oppure
quando, assecondando i gu√a”, assecondando cioè seguendo,
vale a dire congiungendosi con le qualità di piacere, dolore e
illusione, ecc., “sperimenta la fruizione”, ossia mentre perce-
pisce [gli oggetti esteriori quali] il suono, ecc., “coloro che
sono totalmente assoggettati alla illusione”, cioè coloro che
soggiacciono in molteplici modi alla illusione, dato che la loro
mente è attratta con forza dal godimento di oggetti sia visibili
che invisibili, “non” lo “scorgono”, nonostante sia siffatto ed
entri assolutamente nella portata della [loro] percezione con-
sapevole14.
Ah! Che male avviene!
E così Bhagavat, mostrando compassione, [aggiunge]: in-
vece lo “vedono coloro che posseggono l’occhio della cono-
scenza”, cioè quelli ai quali le fonti autorevoli del conoscere
hanno conferito la vista spirituale, vale a dire che hanno una
percezione distinta15.

15.11. E, sforzandosi, gli yogin lo vedono in quanto profon-


damente stabilito in sé stessi. [Invece] per quanto si sforzino,
coloro il cui sé non è stato purificato, privi di intelligenza [di-
scriminante], non lo vedono.

“E, sforzandosi”, compiendo un notevole sforzo, “gli yo-


gin” dalla mente completamente assorta “lo vedono”, l’åtman
che è argomento di trattazione, come [consapevolezza]: ‘io
sono questo’, ossia lo percepiscono “in quanto profondamente
stabilito in sé stessi”, cioè nel proprio intelletto (buddhi).
15.12 Quindicesimo Adhyåya 603

“[Invece] per quanto si sforzino” ricorrendo [anche] alle


fonti autorevoli di conoscenza come le Scritture, ecc., “coloro
il cui sé (il mentale) non è stato purificato”, cioè per quanto
compiano un notevole sforzo, coloro i cui sé non sono stati
completamente purificati attraverso le austerità e la sottomis-
sione dei sensi, coloro che non si ritraggono da una cattiva
condotta, il cui orgoglio non è stato estirpato, “privi di intelli-
genza [discriminante]”, privi di discernimento intuitivo, “non
lo vedono”16.
[Fin qui è stato descritto] lo stato che la luce del fuoco e
[persino] del sole, sebbene sia quello che illumina tutto, non
può illuminare e, una volta conseguito il quale, coloro che
aspirano intensamente alla liberazione non tornano più indie-
tro verso il divenire ciclico, lo stato del quale i jıva sono riflessi
infinitesimi che esistono come frammenti in conformità alla
differenziazione delle sovrapposizioni limitanti, come gli spazi
racchiusi in vasi, ecc. [lo sono] per lo spazio [totale]; orbene,
volendo esporre in relazione a quello stato sia la natura di å-
tman della totalità sia la natura di sede di qualsiasi esperien-
za, Bhagavat enuncia sinteticamente la possente manifesta-
zione [proseguendo quella enunciata nel Cap. 10] nei [prossi-
mi] quattro versi:

15.12. Lo splendore che, promanante dal sole, illumina l’uni-


verso intero, che è nella luna e che è nel fuoco, quello splendore
sappi che è il mio.

“...promanante dal sole...”, avente sede nel sole [dal quale


si irradia].
Che cosa è [che promana e si irradia dal sole]?
“Lo splendore”, il fulgore, la luce “che (promanante dal
sole) illumina”, rivela “l’universo intero”, nella sua totalità,
“che è nella luna”, lo splendore che esiste manifestandosi nel-
l’astro dalle falci, “e che è nel fuoco”, in quello che reca l’of-
604 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 15.12

ferta sacrificale [ai deva], “quello splendore sappi che è il mio”,


riconoscilo come intrinsecamente appartenente a Me: esso è
lo splendore di Vi≤√u.
Oppure [si può interpretare come]: “lo splendore proma-
nante dal sole...”, cioè la luce la cui essenza è la coscienza as-
soluta (caitanya), “...che si manifesta [anche] nella luna e nel
fuoco, quello splendore sappi che è il mio”, appartiene intrin-
secamente a Me: esso è lo splendore di Vi≤√u.
Obiezione: Comunque, la luce la cui natura è la coscienza
assoluta è presente sia negli enti immobili (inanimati) che ne-
gli esseri mobili (animati) in modo identico a [tutti] loro; in
tal caso, in che senso è [pronunciata] questa specificazione:
“...che, promanante dal sole...”, ecc.?
Risposta: Questo non è un difetto, perché si deve ammette-
re la sua maggior manifestazione [nel sole, ecc.] in virtù della
prevalenza [in esso] del sattva. Infatti, nel sole e negli altri
[enti elencati] il sattva è oltremodo puro e quindi estremamen-
te trasparente, per cui è lì stesso (in tali enti) che la luce si ma-
nifesta maggiormente. Per questo viene fatta la specificazione.
Invece non [significa che la luce] è ridondante solamente lì (in
tali enti). Infatti, come, nel piano empirico, sebbene l’immagi-
ne di un volto rimanga uguale, il volto non si riflette su una
superficie di legno o su un muro, ecc. ma si riflette invece su
un specchio, ecc. più o meno nitido e in proporzione al [suo]
grado [di nitidezza], tale e quale [è il caso in esame].
E inoltre,

15.13. Entrando nella pesante [terra], Io sostengo [tutti] gli


esseri con l’energia [divina] e nutro tutte le piante essendo dive-
nuto il soma gustoso.

“Entrando nella pesante [terra]”, penetrando nella terra,


“Io sostengo [tutti] gli esseri”, cioè l’universo [animato e non],
15.14 Quindicesimo Adhyåya 605

“con l’energia”, con la forza, cioè quella che è la forza di natu-


ra divina totalmente esente da desiderio e passione, penetra-
ta nella terra per sostenere l’universo e grazie alla quale la
pesante terra non cade verso il basso né si sgretola. In tal sen-
so vi è anche l’affermazione sacra: «...tramite cui il sublime
cielo e la terra sono [mantenuti] stabilmente fissi... quella
[energia] sostenne la terra» (Tai. Saæ. 4.1.8). Quindi, quanto
detto, cioè: ‘entrando nella pesante [terra], sostengo gli esse-
ri mobili e immobili’, è perfettamente legittimo.
“...e” inoltre “nutro tutte le piante” nate sulla terra, come il
riso, l’orzo, ecc., cioè le rendo floride e ricche di gradevole sa-
pore “essendo divenuto il soma gustoso”, essendo il soma pre-
gno di sapore, la cui natura è la sapidità. Infatti il soma è il ri-
cettacolo di qualsiasi sapore ed esso nutre tutte le piante
compenetrandole con la sua propria sapidità.
E inoltre,

15.14. Io, diventando [il fuoco] VaiŸvånara in quanto fonda-


to nel corpo dei viventi, congiuntomi con prå√a e apåna, digeri-
sco la quadruplice specie di cibo.

“Io” stesso, “diventando” il fuoco “VaiŸvånara” che è stabili-


to nello stomaco, come si apprende anche dalla Âruti: «Questo
fuoco, che è all’interno dell’uomo e tramite cui si digerisce
questo cibo che viene mangiato, è VaiŸvånara», ecc. (Bÿ. 5.9.1),
cioè essendo VaiŸvånara, “in quanto fondato”, cioè essendo pe-
netrato “nel corpo dei viventi”, degli enti che hanno la vita,
“congiuntomi con prå√a e apåna”, cioè unendomi ossia essen-
do congiunto con il prå√a e con l’apåna17, “digerisco”, effettuo
la digestione “del quadruplice cibo”, dell’alimento ingerito in
quattro modi diversi: quello che viene gustato, quello che viene
divorato, quello che viene succhiato e quello che viene leccato.
Per colui il quale riconosce che il fuoco VaiŸvånara è il
fruitore, che il soma è il cibo di cui godere e che questi due in-
606 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 15.14

sieme, Agni e Soma, formano la totalità, non si avrà mai alcu-


na contaminazione da parte della impurità del cibo18.
E infine,

15.15. E Io sono profondamente situato nel cuore di ciascuno;


da Me [provengono] la memoria, la conoscenza e la [loro stessa]
perdita. Io stesso sono altresì Colui che deve essere conosciuto
mediante tutti i Veda e ancora Io sono l’autore del Vedånta e il
[vero] conoscitore dei Veda.

“(E) Io sono profondamente situato nel cuore”, cioè nel-


l’intelletto (buddhi) essendo l’åtman “di ciascuno” della intera
moltitudine di esseri viventi. Quindi “da Me”, dall’åtman,
“[provengono] la memoria e la conoscenza” per tutti i viventi
“e la” loro [stessa] “perdita”, la [loro] scomparsa 19. Come, per
coloro dalle azioni meritorie, sorgono a essere sia la memoria
che la conoscenza in considerazione dell’agire meritorio, così,
per coloro dalle azioni demeritorie, si ha la perdita, cioè lo
svanire, la scomparsa tanto della memoria quanto della cono-
scenza [proprio] a motivo del [loro] agire demeritorio.
“Io stesso sono altresì Colui che deve essere conosciuto”,
che deve essere realizzato “mediante tutti i Veda”, cioè il su-
premo åtman, “e ancora Io sono l’autore del Vedånta”, vale a
dire l’artefice della trasmissione tradizionale del significato
del Vedånta, “e il [vero] conoscitore dei Veda”, cioè il conosci-
tore del significato dei Veda.
A partire dal passo: «(Lo splendore) che, promanante dal
sole...» (Bha. Gı. 15.12), è stata sinteticamente esposta la pos-
sente manifestazione del Signore denominato Nåråya√a ope-
rata dalle [sue] eccellenti sovrapposizioni limitanti [di natura
divina, come il suo veicolo-aspetto solare, ecc.].
Ordunque, i successivi Ÿloka proseguono allo scopo di sta-
bilire con assoluta certezza la natura propria di Quello stesso,
in quanto assoluto, privo di sovrapposizioni limitanti e perfet-
15.16 Quindicesimo Adhyåya 607

tamente distinto dalle sovrapposizioni limitanti sia periture


che imperiture. A tale riguardo, raccogliendo triplicemente
ciò che è l’insieme di significati dei Capitoli precedenti e di
quelli seguenti, [Bhagavat] dice:

15.16. Questi sono i due puru≤a nel mondo: il distruttibile e


lo stesso indistruttibile. Il distruttibile è [identificato con] tutti
gli esseri, [mentre] l’indistruttibile viene detto immutabile.

“Questi” insiemi raccolti separatamente “sono” detti “i due


puru≤a nel mondo”, nel divenire ciclico: “il distruttibile” (k≤ara)
[è così detto] in quanto si dissolve; il distruttibile, destinato a
totale distruzione, forma un [intero] gruppo; l’altro [gruppo]
è il [solo] Puru≤a, “l’indistruttibile”, del tutto opposto a quel-
lo20. Il potere di måyå del Signore (Brahman), il seme della ve-
nuta all’esistenza del puru≤a denominato distruttibile, il ricet-
tacolo dei molteplici semi attivi (saæskåra) del desiderio, del-
l’azione, ecc. delle creature divenienti (saæsårin): [tutto ciò]
viene definito il puru≤a indistruttibile.
Quali sono [ancora] i due puru≤a?
Così Bhagavat, di sua stessa iniziativa, afferma:
“Il distruttibile è [identificato con] tutti gli esseri”, vale a
dire che è la totalità universale [costituita] delle modificazioni
(vikåra), “[mentre] l’indistruttibile viene detto immutabile”
(k¥†astha) perché è saldamente stabilito (sthita) come una
montagna (k¥†a), un cumulo, una massa; oppure è [detto k¥†a-
stha] in quanto si fonda (sthita) nelle molteplici modalità in-
gannevoli della måyå: [infatti] la måyå è ‘falsa’ (k¥†a) cioè in-
gannevole, tortuosa ed elusiva; [infine, è detto imperituro]
perché non è destinato a distruggersi, in virtù della natura
priva di termine del seme del divenire ciclico21.
[Ma vi è] un altro [Puru≤a] totalmente distinto da questi
due, dal distruttibile e dall’indistruttibile, non toccato dal du-
plice difetto insito nelle sovrapposizioni limitanti concernenti
608 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 15.16

il distruttibile e l’indistruttibile, ed eterno, puro, autoconsape-


vole e libero per propria natura.

15.17. Ma vi è un altro Puru≤a, il più alto, chiamato para-


måtman il quale, entrando nella terna dei mondi, [la] sostiene,
quale imperituro Signore.

“Ma vi è un altro Puru≤a, il più alto”, il più elevato, assolu-


tamente distinto da questi due [puru≤a prima menzionati, il
distruttibile e l’indistruttibile]: è il supremo åtman; ed Esso è
‘supremo’ (parama) in raffronto ai due åtman prodotti dalla
ignoranza, come il corpo, ecc., ed [esso solo] è l’åtman, in
quanto è l’intima coscienza di tutti gli esseri. Per questo nel
Vedånta è “chiamato”, è enunciato come “paramåtman”.
Quello stesso viene specificato [così]: “...il quale, entran-
do”, penetrando con il suo intrinseco potere della forza della
Coscienza assoluta “nella terna dei mondi” denominata: bh¥r,
bhuvas e svar22, “[la] sostiene”, sorregge, cioè sostiene unica-
mente con la propria natura di Essere, “quale imperituro...” –
è imperituro in quanto per Lui non può [mai] esservi annien-
tamento.
Chi è?
[È il] “...Signore” (ÙŸvara) onnisciente denominato Nårå-
ya√a (Brahman), la cui natura è il dominio [dell’universo].
Questo nome: Puru≤ottama (il più alto Puru≤a), per il Si-
gnore quale è stato estesamente enunciato, è ben noto. Ora,
mostrando il possesso di un significato per il [suddetto] nome,
con lo stabilire la derivazione etimologica per il nome di Quel-
lo, Bhagavat prospetta Sé stesso [nei termini]: ‘Io sono il Si-
gnore cui nulla è superiore’.

15.18. Poiché Io supero il distruttibile e sono il più alto [in


assoluto] anche rispetto all’indistruttibile, sono nel mondo e nel
Veda celebrato come il Puru≤ottama.
15.20 Quindicesimo Adhyåya 609

“Poiché Io supero il distruttibile”, [poiché] Io oltrepasso l’al-


bero dell’illusorio divenire ciclico, “e sono il più alto [in assolu-
to]”, il più elevato, ovvero il più sublime [fra tutti i puru≤a] “an-
che rispetto all’indistruttibile”, cioè anche rispetto a quello che
è il seme dell’illusorio albero del divenire ciclico, quindi, essendo
il più alto rispetto ai due, al distruttibile e all’indistruttibile, “so-
no, nel mondo e nel Veda, celebrato”, proclamato “come il Puru-
≤ottama”: così Mi conoscono gli uomini [a Me] devoti, e questo
nome compilano i poeti nei [loro] componimenti poetici, ecc.;
Puru≤ottama: con questa denominazione [essi Mi] invocano.
Ordunque, viene enunciato questo frutto che compete a
colui che ha realizzato l’åtman quale è stato etimologicamen-
te spiegato:

15.19. Colui che, libero da qualsiasi offuscamento mentale,


conosce Me così, come il Puru≤ottama, quegli è conoscitore di
tutto e onora Me con tutto il suo essere, o Bhårata.

“Colui che, libero da qualsiasi offuscamento mentale”, es-


sendo completamente esente da qualsiasi obnubilamento men-
tale, “conosce Me”, il Signore dalla specificazione quale è stata
esposta, “così”, nel modo quale è stato enunciato, cioè “come il
Puru≤ottama” [con la consapevolezza]: ‘Io sono questo’, “quegli
è conoscitore di tutto”, è onnisciente ed è stabilito in ogni esse-
re in quanto conosce tutto essendo [egli stesso] l’åtman della
totalità; “e onora Me con tutto il suo essere”, essendo l’åtman
di tutto, “o Bhårata”23.
Avendo esposto in questo Capitolo la conoscenza della
reale natura di Bhagavat, [conoscenza] il cui frutto è la libera-
zione, ordunque [Bhagavat stesso] la fa oggetto di elogio.

15.20. Così questa segretissima scienza è stata da Me rivela-


ta, o Anagha. Realizzando questa si diviene un saggio e quegli
che ha compiuto [tutto] ciò che è da compiersi, o Bhårata.
610 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 15.20

“Così”, in tal modo “(questa) segretissima”, quella da pro-


teggersi maggiormente, cioè la più riposta...
Qual è tale [segretissima cosa]?
La “scienza” (Ÿåstra). Sebbene venga detta ‘scienza’ l’intera
[opera] chiamata [Bhagavad] Gıtå, tuttavia soltanto qui, nel
Capitolo [presente], questa [conoscenza] viene detta ‘scienza’,
e ciò allo scopo di renderne elogio, come [si comprende] dal
contesto. Infatti tutto il significato della Scrittura della [Bha-
gavad] Gıtå risulta espresso concisamente in questo Adhyåya;
e non soltanto lo stesso significato della Scrittura della [Bha-
gavad] Gıtå.
Che cosa [altro]?
Anche tutto il significato del Veda qui trova completo com-
pimento. È stato detto: «Colui che lo conosce è un conoscito-
re dei Veda» (Bha. Gı. 15.1) e «Io stesso sono altresì Colui che
deve essere conosciuto mediante tutti i Veda» (Bha. Gı. 15.15).
“...questa... è stata da Me rivelata”, recitata, “o Anagha”, o Tu
senza errore.
“Realizzando questa” scienza nel significato quale è stato
prospettato “si diviene”, si diventa “un saggio”, non diversa-
mente, “e quegli che ha compiuto [tutto] ciò che è da com-
piersi, o Bhårata”. Ha compiuto [tutto] ciò che è da compiersi
(kÿtakÿtya) colui dal quale è stato compiuto (kÿta) [tutto] ciò
che è da compiersi (kÿtya), [tutto] ciò che deve essere com-
piuto (kartavya). Vale a dire che tutto quello, che un bråhma√a
venuto all’esistenza in una nascita eletta deve compiere, ciò
diviene compiuto quando la reale natura del Signore è stata
realizzata, né, per qualcuno, ciò che deve essere compiuto po-
trebbe trovare il proprio compimento in qualche altro modo.
Tale è il senso.
È stato anche detto: «...tutta l’azione, senza eccezione, o
Pårtha, trova completo compimento nella conoscenza» (Bha.
Gı. 4.33). E vi è anche la dichiarazione di Manu: «Questo è, in-
vero, il coronamento di una nascita, in particolare per un
15.20 Quindicesimo Adhyåya 611

bråhma√a, perché, conseguendo ciò, il due-volte-nato diviene


quegli che ha compiuto [tutto] ciò che vi è da compiere, e non
altrimenti» (Ma. 12.93).
Dacché hai ascoltato da Me questa essenza della realtà su-
prema, pertanto sei uno che ha ottenuto il suo scopo (kÿtå-
rtha), o Bhårata.

Nelle Scritture yoga sulla conoscenza del Brahman


appartenenti alla Upani≤ad della sacra Bhagavadgıtå,
questo è il Quindicesimo Capitolo
nel dialogo tra Kÿ≤√a e Arjuna
intitolato:
‘Lo yoga del conseguimento del Puru≤ottama’

*
NOTE al Quindicesimo Adhyåya

1
Il termine aŸvattha – la pianta di Ficus indica religiosa, nota
anche come pippala – significa: “ciò la cui esistenza (sthåtå) può
non esserci (a-) l’indomani (Ÿva)” e definisce quello che per eccel-
lenza è cangiante, transeunte, privo di sostanzialità: il divenire.
L’albero del divenire è illusorio (måyåvÿk≤a) perché radicato nella
måyå, nell’Immanifesto (unità), dal quale si manifesta ramificando-
si indefinitamente (molteplicità) con i frutti delle azioni, e può es-
sere sradicato con la conoscenza.
2
‘In alto’ (¥rdhvam) significa ‘al di là’ della radice stessa del-
l’AŸvattha. La sua radice è la causa, le ramificazioni l’effetto. Cau-
sa ed effetto, anche a livello universale, sono proiezioni non-reali
sovrapposte al Brahman, il Puru≤ottama del Cap. XV, che pertanto
è di là da entrambi, per quanto costantemente presente nell’uno e
nell’altra. La perenne oscillazione causa-effetto, che conferisce
impulso al divenire condizionante, è apparente come la loro sepa-
razione concettuale e la loro reciproca relazione. L’Avyakta qui è
l’Immanifesto (måyå) di cui si parla in Bha. Gı. 8.18, 20. V. note
15.5 e 7.2.
3
L’aŸvattha è detto ‘perenne’ o ‘imperituro’ perché non è pos-
sibile stabilirne inizio o termine dal suo stesso piano; pertanto può
essere reciso solo attraverso la conoscenza che trascende la dimen-
sionalità spazio-tempo-causale.
4
Si dice che la sezione rituale dei Veda (karmakå√ƒa) protegge
o avvolge l’albero del divenire in quanto, trattando il rito e il suo
frutto, abbraccia la panoramica completa delle possibilità offerte al-
l’essere nell’ambito della esperienza relativa.
614 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

Per il simbolismo dell’albero del divenire, cfr. Âve. 3.9 e 6.6,


5

Ka. 2.3.1, Mai. 6.4, 15.

Si potrebbe erroneamente supporre che, in mancanza di un


6

inizio, il divenire sia anche senza fine, per cui la liberazione sareb-
be impossibile. Ma, se di un ente non si percepisce né principio né
termine e nemmeno l’esistere nel tempo mediano, allora è apparen-
te la sua stessa esistenza. L’apparenza, penetrata acutamente, lascia
intravedere il sostrato. Lo scambio del non-esistente con l’esistente
implica che la posizione conoscitiva del soggetto conoscente è af-
fetta da errore.

Per questo verso e il 12, cfr. Âve. 6.14, Ka. 2.2.15, Mu. 2.2.10 e
7

Mai. 6.24.

Il jıva, raggiungendo la dimora di Vi≤√u, si risolve nell’åtman,


8

da cui non torna indietro, cioè non riemerge alla condizione indivi-
duata.

Un riflesso ha la stessa natura della sua fonte, per cui un ipo-


9

tetico oppositore potrebbe chiedersi: come mai, se la fonte del jıva,


cioè l’åtman, è immutabile e libera dal divenire, quello invece è as-
soggettato al divenire? Questo avviene perché il riflesso, ignorando
la propria natura, si identifica con il veicolo e con la sua condizione
nel piano relativo contingente. L’ignoranza, si ricorda, è una sovrap-
posizione alla Conoscenza.

Il riflesso puntiforme, che è un punto focale di coscienza, di-


10

viene un centro di attrazione per i costituenti del veicolo, sia sottile


che grossolano, e i due piani, regno della forma, appartengono alla
måyå, sono fatti, cioè, di sostanza prakÿtica.

Nella forma in cui si presenta il verso: “Il corpo che assume e


11

anche quello che depone...”, ecc.

Per cui il senso diventa: “...quando assume un corpo e anche


12

quando [lo] depone...”, come riportato nel verso.


Note al Quindicesimo Adhyåya 615

13
Cfr. Bÿ. 4.4.2, Chå. 6.15.1-2, Kau. 3.3.
14
L’åtman è immediatamente conoscibile perché è la coscienza
stessa del conoscitore. Tuttavia, paradossalmente, il conoscitore
non osserva all’interno la eterna Sorgente di sé stesso, ma rivolge
l’attenzione agli oggetti esterni, obliando la sua natura e pensando-
si corpo, ecc.
15
Cioè in grado di distinguere tra l’åtman e ciò che non è l’å-
tman.
16
Solo il discernimento intuitivo (viveka) porta a una presa di
coscienza ma, fin quando è assente, prevalgono le proiezioni e le
abitudini immaginative che lo studio delle Scritture, per quanto as-
sociato alla riflessione, non può sradicare da solo.
17
Prå√a e apåna sono i due soffi principali del quintuplice prå-
√a, ossia i flussi discendente e ascendente; la congiunzione del ri-
flesso di coscienza (jıva) con il prå√a e con l’apåna è ciò che accen-
de e alimenta il fuoco digestivo e respiratorio, vitalizzando l’intero
aggregato veicolare.
18
Il simbolismo del “fruitore” (bhoktÿ) e del “fruibile” (bhojya)
ricorre nelle Scritture. Sono il divoratore e il nutrimento divorato,
il Soggetto e l’oggetto dell’essere, della esistenza, della esperienza,
l’åtman e il saæsåra. La totalità (sarva) è formata da loro due, sim-
boleggiati da Agni e Soma. Colui che ne prende coscienzialmente
atto, astraendosi dal conosciuto (il campo) si reidentifica con il sog-
getto conoscente (il conoscitore del campo). La “contaminazione da
parte della impurità del cibo” è il potere vischioso, esplicato dalla
oggettività cangiante, di attrarre e coinvolgere l’essere nella espe-
rienza mantenendolo nel divenire. Cfr. Bÿ. 1.2.5, 1.4.6, 2.2.4 e 4.4.24;
Chå. 1.3.7, 1.13.4, 2.8.3, 2.12.2, 2.14.2, 3.13.1, 3.13.3 e 4.3.8; Pra. 2.11.
19
La conoscenza distintiva e anche la memoria sono sostanziate
di coscienza, ne sono modificazioni che possono emergere forman-
dosi e scomparire dissolvendosi, ma il loro Sostrato resta sempre.
616 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

I due puru≤a – il mondo e la sua radice måyå, domìni rispetti-


20

vamente della molteplicità e dell’unità indistinta – sono anch’essi


sovrapposizioni all’unico, reale Puru≤a, ma vengono considerati
reali a seconda della prospettiva e del grado di visione spirituale
dell’individuo.
21
Cfr. anche Bha. Gı. 12.3.
22
Si torni alla nota 1.12.

Al di là dei due puru≤a, il distruttibile e l’indistruttibile, al di


23

là della manifestazione e oltre l’Avyakta, l’Essere qualificato, l’Uno-


con-secondo, cioè di là da molteplicità e unità, è il vero Puru≤a, l’U-
no-senza-secondo, il Sostrato di effetto e causa, il Fondamento me-
tafisico dell’essere e del non-essere, dell’esistente attuale e del non-
esistente o potenziale. Esso è totalmente trascendente, immutabile
ed eterno, non può essere descritto in alcun modo (neti neti) e può
essere realizzato solo attraverso una conoscenza di identità. La frase
che Âa§kara riporta sovente in tali casi – ‘Io sono questo’ (ayama-
hamasmi) – non sottintende una proiezione interna alla sfera men-
tale egoica, ma allude alla soluzione della intera condizione indivi-
duale in una immediata e integrale presa di coscienza soggettiva,
pienamente e definitivamente risolutiva.

*
Sedicesimo Adhyåya
(Lo yoga della distinzione delle nature devica e asurica)

Nel Nono Adhyåya si è accennato alle nature dei viventi


come: devica (daivı), asurica (åsurı) e rak≤asica (råk≤ası). Per
prospettarle in maniera dettagliata prende inizio il Capitolo che
comincia con: «Intrepidezza, completa purezza del sattva,...»,
ecc. (Bha. Gı. 16.1). Tra loro la natura devica porta alla libera-
zione dal divenire ciclico, mentre quella asurica e quella ra-
k≤asica alla caduta nella schiavitù. Così si procede a esporre
[prima] quella devica onde poterla attingere e [poi] le altre
due per poterle escludere completamente1.

Ârı Bhagavat disse:

16.1. Intrepidezza, completa purezza del sattva (il mentale),


perseveranza nella conoscenza e nello yoga, carità, dominio [di
sé], sacrificio, studio [dei Veda], austerità, rettitudine,...

La “Intrepidezza” è l’assenza di paura2; la “completa purez-


za del sattva” è la perfetta purezza del sattva quale organo in-
terno, cioè la totale eliminazione [di attitudini quali quelle]
dell’inganno verso il prossimo, della illusione, della mendaci-
tà, ecc. in qualsiasi attività relazionata: ciò implica che l’agire
empirico deve essere impulsato da una natura del mentale [per-
fettamente] purificata; la “fermezza nella conoscenza e nello
yoga”: la conoscenza è la comprensione del significato di ter-
mini quali åtman e altri secondo [quanto affermano] le Scrit-
618 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 16.1

ture e il Maestro, mentre lo yoga consiste nel portare i [conte-


nuti conoscitivi così appresi], resi oggetto [di meditazione], a
uno stato di identità con sé stessi attraverso la concentrazio-
ne [della mente ottenuta] grazie al ritiro dei sensi, ecc. [dal-
l’attività esteriore]; la perseveranza (vyavasthiti) nella cono-
scenza e nello yoga, è la costante permanenza (vyavasthåna)
nei due, cioè la stabile fondatezza in loro. Questa [che è rias-
sunta in: intrepidezza, completa purezza mentale e perseve-
ranza nella conoscenza e nello yoga] è la preminente condi-
zione devica o sattvica e, dovunque si manifesti tale natura,
che è quella di coloro che sono qualificati [da tali attributi],
essa viene detta sattvica3.
La “carità” (dåna) è la elargizione di cibo e altro secondo
le possibilità, il “dominio [di sé]” (dama) è la pacificazione de-
gli organi esterni, mentre la pace (Ÿånti), cioè la pacificazione
dell’organo interno (la mente), verrà menzionata [nel prossimo
verso]; il “sacrificio” è sia quello prescritto dalla Âruti, come
l’Agnihotra, ecc., sia quello ingiunto dalla Smÿti, come i riti sa-
crificali rivolti ai deva, ecc.; lo “studio [dei Veda]” è la lettura
del Íg e degli altri Veda per comprendere l’adÿ≤†a (il frutto in-
visibile e differito degli atti sacrali); la “austerità” (tapas) verrà
descritta in relazione al corpo, ecc.; la “rettitudine” (årjava) è
una condizione di dirittura morale in qualsiasi circostanza.
E inoltre,

16.2. ...innocuità, veracità, assenza di collera, abbandono,


pace, assenza di malizia, compassione verso [tutti] gli esseri,
totale assenza di brame, dolcezza, modestia, assenza di irre-
quietezza,...

La “...innocuità” è l’inoffensività, l’esclusione di atti di vio-


lenza verso [tutti] i viventi; la “veracità” è l’esprimere una
cosa qual essa è, evitando lo spiacevole e il falso; l’“assenza di
collera” è la repressione dell’ira che prorompe quando si vie-
16.3 Sedicesimo Adhyåya 619

ne percossi o insultati da altri; l’“abbandono” è la completa ri-


nuncia, in quanto la donazione è stata già esposta in preceden-
za; la “pace” è la pacificazione dell’organo interno (la mente);
l’“assenza di malizia” è il non discreditare [il prossimo]: la ma-
lizia (paiŸuna) è [ad esempio] il rendere palese l’altrui manche-
volezza e l’assenza di tale [attitudine] è assenza di malizia; la
“compassione verso [tutti] gli esseri” è la pietosa sensibilità
verso coloro che sono sofferenti; la “totale assenza di brame”
è l’impassibilità dei sensi [anche] quando sono a contatto de-
gli oggetti sensibili; la “dolcezza” è la delicatezza, la non cru-
dezza [nella espressione, nell’agire, ecc. nei confronti del pros-
simo]; la “modestia” è una dignitosa umiltà; la “assenza di ir-
requietezza...” è l’attitudine di colui che non mette in attività
[organi quali] la parola, le mani, i piedi, ecc. in mancanza di
uno scopo.
E inoltre,

16.3. ...ardore, tolleranza, fermezza di spirito, purezza, man-


canza di malvagità, assenza di arroganza. [Tali caratteristiche]
appartengono a colui che è nato per una perfezione divina, o
Bhårata.

L’“...ardore” (tejas) è l’audace determinazione e non la lu-


minosità che pervade la pelle; la “tolleranza” (k≤amå) è il man-
cato insorgere di un’alterazione interiore per colui che venisse
insultato o [persino] percosso, mentre dicemmo4 che l’assenza
di collera (akrodha) è la repressione della [suddetta] alterazio-
ne [interiore] quando è sorta: così vi è una distinzione tra la
tolleranza e l’assenza di collera; la “fermezza di spirito” è la
particolare condizione dell’organo interno che cancella quello
sfinimento a cui sono giunti il corpo e i sensi [dopo aver soste-
nuto uno strenuo sforzo] tale che i sensi, da lei sorretti, e
quindi il corpo [intero] non cedono più alla spossatezza; la
“purezza” è di due specie: quella esteriore viene effettuata con
620 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 16.3

l’acqua e l’argilla mentre quella interiore, consistente nell’as-


soluta mancanza di maculazioni nella mente e nell’intelletto,
è l’assenza di impurità quali l’illusione, la passione, ecc.: così
la purezza è duplice; la “mancanza di malvagità” è la comple-
ta assenza della intenzione di recare offesa [a chiunque], cioè
l’inoffensività; l’“assenza di arroganza”: l’arroganza è l’opinio-
ne [di sé] in modo spropositato e quegli per il quale essa si
manifesta è un arrogante; la presenza di tale [atteggiamento]
è arroganza, mentre la sua mancanza è l’assenza di arroganza,
vale a dire l’assenza della presunzione di sé stessi come asso-
lutamente degni di venerazione.
[Tali caratteristiche] a cominciare dalla intrepidezza fino
a questa [assenza di eccessiva autoconsiderazione] “apparten-
gono a colui che è nato per una perfezione (saæpad)...”.
Come è specificata tale perfezione?
È “...divina” in quanto è della natura propria dei deva. Vale
a dire [che tali caratteristiche appartengono] a colui che, ve-
nuto a nascere manifestando tale [potenziale perfezione divi-
na], è degno del potere [stesso] dei deva, cioè a colui che è
destinato alla [suprema] felicità, “o Bhårata”.
Ordunque viene esposto il conseguimento della condizio-
ne asurica.

16.4. L’ipocrisia, la presunzione, l’arroganza, la collera e


anche la durezza d’animo e l’ignoranza. [Tutte queste caratte-
ristiche sono proprie] di colui che è nato per il conseguimento di
una condizione asurica, o Pårtha.

“L’ipocrisia” è la condizione di colui che ostenta il [compi-


mento del] dovere; “la presunzione” è la superbia dovuta a sa-
pienza, ricchezza, parentela, ecc.; “l’arroganza” e “la collera”
sono state già esposte; “e anche la durezza d’animo”, cioè l’e-
sprimersi crudelmente come, ad esempio, [definire] vedente un
cieco, o di bell’aspetto uno storpio, o di elevata nascita quegli
16.6 Sedicesimo Adhyåya 621

che ha origini misere, ecc.; “e l’ignoranza”, cioè una conoscen-


za priva di discriminazione, il cui contenuto fallace concerne
ciò che deve essere fatto, ciò che non deve essere fatto, ecc.
“[Tutte queste caratteristiche sono proprie] di colui che è
nato per...”.
Per che cosa è nato?
[Bhagavat lo] dice: “...per una condizione asurica”. La natu-
ra asurica è quella propria degli asura; dunque [sono caratteri-
stiche proprie] di colui che è nato per [ottenere] tale [natura].
[Adesso] viene enunciato l’effetto delle due condizioni.

16.5. La perfezione divina è considerata [adatta] alla totale


liberazione; alla caduta nella schiavitù la [condizione] asurica.
Non preoccuparti, o På√ƒava: [tu] sei nato per la divina perfe-
zione.

Quella che è “La perfezione divina è ritenuta, è considera-


ta”, è ritenuta [adatta] “alla totale liberazione” dalla schiavitù
del divenire ciclico; “alla caduta nella schiavitù” – la caduta
nella schiavitù rappresenta un condizionamento [progressivo]
irreversibile5 – a tale esito [è destinata] “la” condizione “asu-
rica” e allo stesso modo anche quella rak≤asica.
A tal punto, detto questo, in Arjuna si insinuò il dubbio:
‘sono forse, io, congiunto con la natura asurica, oppure sono
congiunto con la natura divina?’. Scorgendo la natura di tale
considerazione, Bhagavat disse: “Non preoccuparti, o På√ƒa-
va”, non crearti angoscia: “[tu] sei nato per la divina perfezio-
ne”, cioè sei nato manifestandola [pienamente nelle caratteri-
stiche anzidette].

16.6. Due [sono] le creazioni dell’essere in questo mondo:


quella divina e quella stessa infernale. Quella divina è stata
ampiamente descritta. Quella infernale, o Pårtha, ascolta [ades-
so] da Me.
622 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 16.6

“Due [sono]”, assommano a due “le creazioni dell’essere...”,


cioè le creazioni (sarga), le manifestazioni (sÿ≤†i) degli esseri
umani, le creazioni dell’essere [umano] che vengono manife-
state [nell’Uno-con-secondo]. Si tratta di due creazioni perché
gli stessi esseri vengono manifestati in quanto congiunti con la
duplice natura divina e infernale; per questo, come si apprende
dalla Âruti, si dice che due sono le creazioni dell’essere: «Dupli-
ce, invero, è la stirpe di Prajåpati: i deva e gli asura» (Bÿ. 1.3.1).
“...in questo mondo”, vale a dire nel divenire ciclico, per-
ché si deve logicamente ammettere che la duplice divisione
concerne tutti [gli esseri nella manifestazione].
Quali sono le due creazioni dell’essere?
Si dice: proprio le due nature, “quella divina e quella stes-
sa infernale”.
[Ora Bhagavat] enuncia lo scopo in relazione alla ulteriore
ripetizione delle due [nature] già esposte: la creazione dell’es-
sere che è “quella divina è stata ampiamente descritta”, è sta-
ta esposta in una grande quantità di modi, a cominciare dal
passo: «Intrepidezza, completa purezza del sattva...», ecc. (Bha.
Gı. 16.1), ma quella infernale non è stata [ancora descritta] in
maniera eauriente. Quindi, allo scopo di escluderla completa-
mente, “quella infernale, o Pårtha, ascolta”, apprendi [adesso]
estesamente ”da Me”, dal discorso che sto per proferirti. La
natura infernale verrà ora prospettata come una specifica pro-
prietà dell’essere vivente [da qui] fino alla conclusione del
Capitolo, perché [solo] rendendola direttamente percepibile,
si può operare la sua completa eliminazione.

16.7. Gli uomini asurici non sanno né la [via della] azione


né la [via della] astensione dall’attività, né in loro vi è purezza
e neppure una giusta condotta, né verità.

“Gli uomini asurici non sanno”, non conoscono “né la [via


della] attività”, ossia quella che è l’operosità, l’impegnarsi in
16.8 Sedicesimo Adhyåya 623

ciò che deve essere fatto quale mezzo per [conseguire] il fine
umano [per eccellenza], “né la [via della] astensione dall’atti-
vità”, ossia né quella che è l’astensione dall’agire, ovvero da
ciò che non si deve fare in quanto causa di male.
Non soltanto essi non sanno affatto [che cosa sono] l’atti-
vità e l’inattività: “né in loro vi è purezza e neppure una giu-
sta condotta, né verità”. Infatti gli [uomini] asurici sono privi
di purezza, privi di un degno comportamento, ingannatori e
mendaci.
E inoltre,

16.8. Senza verità e privo di fondamento essi descrivono l’u-


niverso, senza un Signore e sorto all’esistenza [solo] dalla unione
reciproca. [Essi dicono] ‘Quale altra [causa potrebbe mai avere
il mondo]? Ha causa [esclusivamente] nel desiderio’.

“Senza verità...”. [Costoro affermano:] ‘come noi, verosi-


milmente, siamo non-reali, così questo intero mondo è non-
reale’ e “privo di fondamento”; il dharma e l’adharma non
sono il suo fondamento, per cui [il mondo] è anche privo di
fondamento. Così “essi”, gli uomini asurici “descrivono l’uni-
verso” e [lo considerano] anche “senza un Signore”. Inoltre,
per questo [mondo per loro] non esiste un Signore che eserci-
ti la funzione di governo in relazione al dharma e all’adha-
rma, per cui affermano che il mondo è privo di un Signore;
per di più [sostengono che] l’intero universo è “sorto all’esi-
stenza [solo] dalla unione reciproca”, cioè sorto all’esistenza
[unicamente] dalla mutua congiunzione del maschio con la
femmina totalmente condizionati dal desiderio.
[Essi dicono:] “Quale altra [causa potrebbe mai avere il
mondo]? Ha causa esclusivamente nel desiderio”: l’avere cau-
sa esclusivamente nel desiderio significa che la [sua] causa è
soltanto il desiderio.
Quale altra potrebbe essere la causa dell’universo?
624 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 16.8

Non esiste nessun’altra causa per l’universo, come [po-


trebbe essere] l’adÿ≤†a, o il dharma e l’adharma, ecc.: la [sua]
causa sta solamente nel desiderio dei viventi. Questa è la con-
cezione propria dei materialisti (lokåyata).

16.9. Appoggiandosi a questa concezione, i sé perduti dal li-


mitato intelletto vengono all’esistenza, agendo prepotentemente
per la distruzione del mondo, [essendo] malefici.

“Appoggiandosi a questa concezione”, basandosi [su di


essa, applicandola], “i sé perduti”, coloro le cui esistenze sono
perdute, cioè coloro per i quali sono svaniti i mezzi per [con-
seguire] i mondi [cioè le condizioni di esistenza] superiori 6,
“dal limitato intelletto...” – sono di limitato intelletto (alpabu-
ddhi) coloro il cui intelletto concerne unicamente gli oggetti
sensibili – “...vengono all’esistenza”, sorgono all’esistenza,
“agendo prepotentemente”, con comportamenti aggressivi,
pervasi dalla violenza, cioè sorgono all’esistenza “per la di-
struzione del mondo” – il riferimento [è alla parola “mondo”]
– “[essendo] malefici”, vale a dire [simili a] nemici per l’uni-
verso7.
Ed essi,

16.10. Abbandonandosi al desiderio insaziabile, pieni di ipo-


crisia, orgoglio e arroganza e adottando, a causa della illusione,
concezioni fallaci, si comportano [nel mondo] spinti da moventi
impuri.

“Abbandonandosi a un desiderio insaziabile”, appoggian-


dosi specificamente alla volizione individuale impossibile a
soddisfarsi, “pieni di ipocrisia, orgoglio e arroganza...” – [l’e-
spressione] ipocrisia, orgoglio e arroganza significa [che in
loro sono presenti] sia l’ipocrisia, che l’orgoglio e anche l’ar-
roganza, e sono pieni di ipocrisia, orgoglio e arroganza coloro
16.12 Sedicesimo Adhyåya 625

che ne sono [pienamente] dotati – “...e adottando”, assumen-


do “a causa della illusione”, per via dell’assenza di discrimina-
zione, “concezioni fallaci”, convinzioni errate, “si comporta-
no” nel mondo “spinti da moventi impuri”: sono spinti da mo-
venti impuri coloro le cui intenzioni sono perverse.
E inoltre,

16.11. Abbracciati a un proponimento smisurato e terminante


[solo] con la [propria] totale dissoluzione, perseguono la mèta
del soddisfacimento delle passioni [intimamente] convinti che
ciò sia tutto.

“Abbracciati a un proponimento smisurato...”: è smisurato


quel proponimento la cui portata non può essere valutata ap-
pieno; dunque, [abbracciati] a un tale [proponimento] smisu-
rato “e terminante [solo] con la [propria] totale distruzione”,
cioè che ha fine [ossia può cessare solo] con la morte, vale a
dire: concependo sempre altri differenti proponimenti, “per-
seguono la mèta del soddisfacimento dei desideri...”, essi am-
biscono, cioè, [solo] a oggetti di desiderio [sensibili], come il
suono e gli altri; dunque perseguono la mèta del soddisfaci-
mento di tali [desideri], “convinti che ciò sia tutto”, intima-
mente convinti così: ‘questo stesso, che è il soddisfacimento
del desiderio, è il supremo fine dell’essere umano’8.

16.12. Tenuti in schiavitù dalle centinaia di legami delle


aspettative, aventi come sommo obiettivo il piacere e l’ira, si
sforzano di ottenere, pur di appagare le brame, accumuli di
beni [anche] in modo illecito.

“Tenuti in schiavitù dalle centinaia di legami delle aspet-


tative”, cioè essendo totalmente costretti dalle centinaia di le-
gacci delle aspettative, laddove i legacci sono le aspettative
stesse, dunque, [costretti] da centinaia di loro, ossia venendo
626 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 16.12

tirati in ogni direzione, “aventi come sommo obiettivo il pia-


cere e l’ira...” – hanno come sommo obiettivo il piacere e l’ira
coloro per i quali il supremo obiettivo, l’ultimo rifugio sono il
piacere e l’ira – “si sforzano di ottenere”, si adoperano per ac-
quisire, “pur di appagare le brame”, cioè al [solo] fine del sod-
disfacimento del desiderio e non per il [compimento del pro-
prio] dharma, “accumuli di beni”, ammassi di ricchezze, “[an-
che] in modo illecito”, vale a dire [perfino] con il derubare il
prossimo. E la loro intenzione è così [descritta]:

16.13. ‘Questo, oggi, io ho ottenuto, questo [altro] oggetto di


desiderio conseguirò [in futuro]; questa ricchezza è [adesso mia]
e anche questa [altra], in seguito, sarà mia;...’

“Questo” bene “oggi”, adesso, “io ho ottenuto, questo” al-


tro “oggetto di desiderio”, [quest’altro] fattore di soddisfazio-
ne interiore9, “conseguirò [in futuro]”, e “questa ricchezza è
[adesso mia] e anche questa [altra], in seguito”, nell’anno ven-
turo, “sarà mia...”: ‘grazie a ciò io sarò reputato ricco’.

16.14. ‘...quel nemico io ho ucciso e anche altri [ne] ucciderò;


io sono il padrone, io sono colui che fruisce del godimento, io
sono perfetto, potente, felice,...’

“...quel nemico”, un tale di nome Devadatta, [ritenuto]


invincibile, “io ho ucciso e anche altri” differenti avversari
“ucciderò”: che cosa potranno mai fare [contro di me] questi
poveretti? In ogni caso non vi è [nessuno] uguale a me.
Perché?
[Perché] “io sono il padrone, io sono colui che fruisce del
godimento, io sono perfetto” sotto tutti gli aspetti, abbondan-
temente dotato di figli, nipoti e discendenti; non soltanto io
sono un uomo, [ma] io sono anche “potente” e “felice...”, men-
tre gli altri [esseri umani] sono degradati a faticare sulla terra.
16.16 Sedicesimo Adhyåya 627

16.15. ‘...sono ricco, sono di nobile nascita: chi altri vi è, pari


a me? Celebrerò sacrifici, elargirò e mi rallegrerò’. Così [parla-
no] coloro che sono variamente illusi dalla ignoranza.

“...sono ricco”, grazie ai beni [di cui dispongo], “sono di


nobile nascita” in quanto venuto all’esistenza da una famiglia
di persone versate nelle Scritture da sette generazioni; anche
per questo non vi è nessuno come me: “chi altri vi è, pari”,
uguale “a me?”. E inoltre “Celebrerò sacrifici”, per cui eclisse-
rò gli altri anche per mezzo dello yoga, “elargirò” [denaro]
agli officianti e agli altri, “e mi rallegrerò”, ne proverò un pia-
cere estremamente intenso.
“Così”, in questo modo [parlano] coloro che sono varia-
mente illusi dalla ignoranza”, quelli che dalla ignoranza sono
illusi in più maniere, in molti modi, avendo pienamente ac-
quisito una condizione priva di discernimento.

16.16. Variamente frastornati dai più disparati pensieri,


completamente avviluppati dalla rete della illusione, total-
mente attaccati ai godimenti dei desideri, cadono in un abisso
immondo.

“Variamente frastornati dai più disparati pensieri”: sono


variamente frastornati dai più disparati pensieri coloro che
sono frastornati in modo vario da molteplici pensieri nelle
maniere enunciate [prima, v. 16.13-15] 10; “completamente av-
viluppati dalla rete della illusione”: l’illusione (moha) è la man-
canza di discriminazione, dunque l’ignoranza; essa è proprio
come una rete, essendo dotata della capacità di avvolgere; da
quella sono completamente avviluppati; “totalmente attaccati
ai godimenti dei desideri”, ossia: essendo interamente spro-
fondati in quegli stessi [godimenti], “cadono”, in virtù dell’im-
puro sedimento [karmico] accumulato grazie a ciò, “in un abis-
so immondo”, quale la Vaitara√ı o altri [luoghi infernali]11.
628 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 16.17

16.17. Pieni di sé, caparbi, pieni di orgoglio da ricchezza e


arroganza, essi sacrificano con riti sacrificali [solo] di nome, in
modo ipocrita, senza [neanche] conformarsi ai precetti [del rito].

“Pieni di sé”, cioè altamente autostimantisi, ossia conside-


rando solamente sé stessi come qualificati da tutte le qualità
[positive], e non [ritenuti così, ossia degni di stima] dai giusti,
“caparbi”, di animo irremovibile, “pieni di orgoglio da ricchez-
za e arroganza”, cioè pieni delle due cose, [che sono] l’orgoglio
dovuto alla ricchezza e l’arroganza, cioè [pieni] sia dell’orgo-
glio della ricchezza che anche di arroganza, “essi sacrificano
con riti sacrificali [solo] di nome”, cioè con sacrifici meramente
nominali, “in modo ipocrita”, ostentando solo esteriormente [il
rispetto per] il dharma, “senza [neanche] conformarsi ai pre-
cetti [del rito]”, trascurando del tutto quello che si deve fare in
base alle prescrizioni ingiunte nelle [varie] sezioni [dei Veda].

16.18. Interamente basati sul senso dell’io, sulla bruta prepo-


tenza, sulla presunzione, sul desiderio e sulla collera, mostrano
avversione a Me [che dimoro] nel loro stesso come nell’altrui
corpo, [comportandosi] come denigratori.

“(Interamente basati) sul senso dell’io...”. Il senso dell’io è


il fattore egoico (ahaækara√a), [tramite il quale] l’io pensa se
stesso come qualificato da virtù, sia esistenti sia non esistenti,
che [in realtà] sono [soltanto] sovrapposte a lui stesso. Il sen-
so dell’io, denominato ‘ignoranza’ (avidyå), è la cosa più dan-
nosa e difficile [da estirpare], la radice di tutti i difetti e quella
di tutte le azioni apportatrici di male. Similmente “...sulla bru-
ta prepotenza”, associata al desiderio e alla passione e dovuta
al [cercare sempre di] sopraffare il prossimo; “sulla presun-
zione”: è detto presunzione questo particolare difetto avente
sede nell’organo interno al cui sorgere si trasgredisce il dha-
rma; “...sul desiderio” concernente la donna, ecc., “(e) sulla
16.20 Sedicesimo Adhyåya 629

collera” che concerne le cose indesiderate. Dunque, [essi sono]


“interamente basati” su questi e altri grandi difetti e, inoltre,
essi “mostrano avversione a Me”, a ÙŸvara (Brahman), a Me
che sono il testimone dei loro pensieri e atti [e che dimoro]
“nel loro stesso come nell’altrui corpo”, dunque sia nel loro
proprio corpo che nel corpo degli altri [esseri], laddove il mo-
strare avversione (pradve≤a) è la trasgressione nei confronti
delle mie direttive [date nella Âruti e nella Smÿti], dunque at-
tuando ciò e “[comportandosi] come denigratori”, nutrendo
sentimenti di acredine nei confronti delle virtù di coloro che
stanno sulla retta via12.

16.19. Costoro, odiatori, crudeli, pessimi tra gli uomini, im-


puri, Io li getto senza interruzione nei mondi divenienti, [li get-
to] soltanto in matrici asuriche.

Tutti “Costoro”, che si contrappongono alla retta via e sono


nemici dei giusti, e sono anche “odiatori” nei Miei confronti,
“crudeli, pessimi tra gli uomini” possedendo [in grande misu-
ra] il difetto della difformità dal dharma, “impuri”, in quanto
autori di atti impuri, “Io li getto”, li scaglio “senza interruzio-
ne”, continuamente, solo “in mondi divenienti” (saæsåra), cioè
nelle vie della peregrinazione esistenziale attraverso moltepli-
ci condizioni infernali, cioè li getto – la connessione con tale
[voce verbale è sottintesa] – “soltanto in matrici asuriche”,
quelle maggiormente caratterizzate da un agire violento, come
[quelle di] tigri, leoni, ecc.

16.20. Entrati in una matrice asurica, gli illusi, di nascita in


nascita, senza mai raggiungere Me, o Kaunteya, procedono ver-
so una condizione [ancora] inferiore a quella [precedente].

“Entrati”, penetrati “in una matrice asurica, gli illusi”, co-


loro che non discriminano, “di nascita in nascita”, cioè nascen-
630 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 16.20

do, in ogni [successiva] rinascita, soltanto in innumerevoli


matrici asuriche, procedendo verso il basso, gli illusi, “senza
mai raggiungere”, senza [mai] trovare “Me”, Bhagavat, “o Kau-
nteya, procedono verso una condizione” ancora “inferiore a
quella [precedente]”, cioè assai più bassa [anche] rispetto a
quella [che è la condizione attuale].
[L’espressione] “senza mai raggiungere Me” significa che
non esiste alcuna incertezza in relazione al [mancato] rag-
giungimento di Me [da parte di tali esseri asurici], per cui il
significato è: senza mai imboccare il sentiero del bene da Me
insegnato13.
[Adesso] viene sinteticamente esposta questa intera natu-
ra asurica triplicemente divisa, all’interno della quale tutta la
variegata natura asurica, benché illimitata [nelle sue forme
particolari], è contenuta, evitando la quale viene evitata [altre-
sì qualsiasi possibilità di cadervi] e che è la radice di ogni male.

Ciò stesso viene espresso [così]:

16.21. Triplice è questa porta dell’abisso, annientatrice del-


l’anima individuata: passione, ira e, similmente, possesso. Per-
ciò si abbandoni questa terna [di qualità negative].

“Triplice”, ha tre aspetti, “questa porta” per il consegui-


mento “dell’abisso, annientatrice dell’anima individuata”, porta
tale che, soltanto varcandola, il sé individuato trova la [sua]
rovina, cioè diviene inadatto per qualunque obiettivo umano.
Per questo viene detta la “porta annientatrice dell’anima indi-
viduata”.
Qual è essa?
[È la terna di] “passione, ira e, similmente, possesso: per-
ciò si abbandoni questa terna [di qualità negative]”. Poiché è
così, ossia, poiché questa porta è annientarice dell’anima indi-
viduata, perciò si abbandoni questa terna di passione, ecc. 14
16.23 Sedicesimo Adhyåya 631

Questo [che segue] è un elogio del distacco [dalla terna di


passione, ecc.]:

16.22. Quegli che si è totalmente affrancato da queste tre


porte delle tenebre, compie il meglio per sé stesso e grazie a ciò
raggiunge la suprema mèta, o Kaunteya.

“Quegli che si è totalmente affrancato da queste tre porte


delle tenebre”, l’uomo che si è del tutto emancipato da queste
stesse tre [qualità negative], quali la passione e le altre, che
sono le porte di accesso al mondo infernale delle tenebre com-
penetrato di sofferenza e illusorietà, “compie...”, cioè realizza...
Che cosa?
“...il meglio per sé stesso”: [egli lo] compie grazie alla rimo-
zione di ciò [stesso], ostacolato dal quale prima non poteva
compiere [il meglio per sé]; “grazie a ciò”, grazie a tale com-
pimento, “raggiunge la suprema mèta, o Kaunteya”, cioè giun-
ge alla liberazione.
La Scrittura è la causa sia della completa esclusione di tut-
ta questa [triplice] condizione asurica sia del compimento della
cosa migliore. Si può effettuare questa duplice [operazione di
eliminare in noi stessi la natura di asura e svelare quella di deva
solo] basandosi sull’autorità scritturale, e non diversamente.
Pertanto,

16.23. Colui [invece] che, disdegnando i precetti delle Scrit-


ture, agisce sotto l’impulso del desiderio, costui non consegue né
la perfezione né la felicità né la mèta suprema.

“Colui [invece] che, disdegnando”, trascurando “i precetti


delle Scritture” denominati prescrizioni e proibizioni e che
sono il mezzo per conoscere ciò che deve essere fatto e ciò
che non deve essere fatto, “agisce sotto l’impulso del deside -
rio”, cioè essendo totalmente soggiogato dal desiderio, “costui
632 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 16.23

non consegue né la perfezione”, cioè l’idoneità nel perseguire


obiettivi di ordine umano, “né”, neanche “la felicità” in questo
mondo, “né”, e nemmeno “la mèta suprema”, eccelsa, quale il
paradiso (svarga) o la liberazione (mok≤a).

16.24. Perciò la Scrittura sia per te la [sola] fonte autorevole


nello stabilire ciò che si deve fare e ciò che non si deve fare:
[soltanto] conoscendo quanto dichiarato nei precetti scritturali
dovresti qui compiere la [tua] azione.

“Perciò la Scrittura sia per te la [sola] fonte autorevole”,


sia per te il [solo] mezzo [valido] di conoscenza “nello stabili-
re ciò che si deve fare e ciò che non si deve fare”, nel decidere
che cosa deve essere fatto e che cosa non deve essere fatto:
“[soltanto] conoscendo quanto dichiarato nei precetti scrittu-
rali...” – il precetto (vidhåna) è la prescrizione (vidhi), e il
precetto scritturale (Ÿåstravidhåna) il precetto espresso dalla
Scrittura in una forma quale: ‘si faccia [così], non si faccia
[così]’; dunque, [solo] prendendo atto di quanto espresso da
tale [precetto scritturale], “...dovresti qui compiere” quella
che è la tua propria “azione”; [la specificazione] ‘qui’ (iha, in
questo mondo) significa: ‘allo scopo di mostrare [a tutti gli es-
seri] l’attitudine che determina la qualificazione ad agire’ [nel
karmayoga].

Nelle Scritture yoga sulla conoscenza del Brahman


appartenenti alla Upani≤ad della sacra Bhagavadgıtå,
questo è il Sedicesimo Capitolo
nel dialogo tra Kÿ≤√a e Arjuna
intitolato:
‘Lo yoga della distinzione delle nature devica e asurica’

*
NOTE al Sedicesimo Adhyåya

1
La triplice natura umana partecipa in varia misura di quelle di
deva, asura e rak≤as e queste, a loro volta, rispecchiano le proprietà dei
gu√a. Così deva, asura e rak≤as sono aspetti o qualità della Prakÿti. La
natura propria dei deva è essenzialmente sattvica, luminosa, pura ed
esprimente equilibrio; i rak≤as – o råk≤asa, lett. ‘ciò o colui da cui
guardarsi’, cioè entità maligna – sono una categoria di asura, compre-
si anche quelli chiamati bh¥ta, che influenzano negativamente gli es-
seri umani distogliendoli dalla retta via: la loro natura propria è essen-
zialmente rajasica, disordinatamente attiva, mancante di equilibrio e a
sua volta destabilizzante e squilibrante; quella degli asura è essenzial-
mente tamasica, quindi oscura, impura e generante condizioni limitate
e asservite. Per i rak≤as cfr. 11.36, 17.2 e 17.4; v. anche nota 17.3. Da
quella devica-sattvica a quella asurica-tamasica si ha una crescente
identificazione con il veicolo individuato. In pratica deva e asura rap-
presentano gli estremi e le loro tendenze condizionano l’essere umano
in ragione del suo grado di maturità spirituale. Le componenti di sattva,
rajas e tamas, che si manifestano nell’azione, dipendono dal karman
accumulato nelle precedenti esistenze e rappresentano una predispo-
sizione sotto forma di impressioni subcoscienti (våsanå), suscettibili di
determinarsi in semi attivi (saæskåra) e quindi di concretarsi nell’agi-
re, pensare ed essere di ciascuno. Per questo vengono descritte come
le ‘radici secondarie’ dell’albero del divenire ciclico (Bha. Gı. 15.2).
2
Secondo Ånandagiri l’intrepidezza è l’assenza di indecisione o
di incertezza nel rispettare le norme scritturali, il coraggio interiore
che allontana il dubbio circa la loro validità e i loro esiti.
3
Le prime tre caratteristiche riguardano solo la qualificazione
(adhikåra) per il jñånayoga, le altre sono comuni sia a quello che al
karmayoga.
634 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

4
Si torni a Bha. Gı. 10.4, 12.13, 13.7 e relativi Commenti.

La propensione per la natura asurica porta inevitabilmente a


5

stati fortemente condizionati attraverso un circolo vizioso di azio-


ne-esperienza-identificazione convergenti verso una condizione fi-
nale totalmente inerte.

I “sé perduti” (na≤†åtmanas) sono i jıva che, a causa del loro


6

alimentare la componente asurica, vedono svanire la possibilità di


recuperare la consapevolezza della propria vera natura di åtman
entrando in condizioni via via più restrittive.

L’universo si riferisce alla intera sfera vitale degli esseri sen-


7

zienti, la cui coscienza può essere risvegliata alla propria vera natu-
ra o deviata verso identificazioni fittizie e imprigionanti. Il ruolo
asurico può influenzare in modo nefasto coloro che si avvicinano a
tali esseri coinvolgendoli per affinità karmica.

Per questa espressione e per quella, analoga, del verso prece-


8

dente, si torni a Bha. Gı. 15.10 e relativo Commento.

Il desiderio è ciò che sospinge ininterrottamente l’individuo


9

ordinario ad agire indirizzandolo verso l’acquisizione, il possesso e


il mantenimento di quanto ottenuto. Ha radice nella ignoranza e si
nutre di illusione. Chi si identifica al veicolo non vede altro fine
nell’esistere.

L’oggetto di desiderio – o meglio, la sua immagine, colorata


10

dalle qualità che gli attribuiamo nella nostra psiche – viene indica-
to (16.13) con il suggestivo termine di manoratha: ‘il carro della
mente’, nel senso di ciò che dirige il pensiero nel suo formarsi e
concretarsi in atto acquisitivo, espressione che nell’impiego con-
venzionale ha assunto il significato di: ‘piacere intimo’, ‘gioia del
cuore’, fonte o causa di soddisfazione interiore, ovviamente per il
senso dell’io.

La Vaitara√ı (Colei che porta oltre) è il fosco, limaccioso e


11

maleolente fiume che separa la terra dei viventi dal regno dei mor-
Sedicesimo Adhyåya 635

ti, e che i defunti devono traversare per raggiungere il mondo di


Yama.
12
Cfr. Bha. Gı. 18.53.
13
Ånandagiri spiega che, poiché la componente asurica è forte-
mente condizionante, l’essere umano dovrebbe impegnarsi nel con-
trollare, circoscrivere e risolvere tali potenzialità nefaste mentre è
coscienzialmente attivo, cioè fin quando dispone ancora di una suf-
ficiente libertà di essere, pensare e agire, dunque prima che esse lo
soggioghino completamente proiettandolo in nascite, o in condizio-
ni esistenziali pressoché prive di autonomia, nelle quali si è in tota-
le dipendenza dall’altrui volontà o dalla situazione contingente: sono
gli stati totalmente passivi degli ‘enti inerti’ cui allude Âa§kara nei
suoi Commentari a proposito del destino di coloro che perseguono
il sentiero del desiderio individualistico e dell’agire identificato.
14
Cfr. Vi. Smÿ. 33.6.

*
Diciassettesimo Adhyåya
(Lo yoga della distinzione della triplice fede)

Arjuna, avendo còlto il seme per una [ulteriore] domanda


dall’affermazione che ha fatto Bhagavat: «Perciò la Scrittura
sia per te la [sola] fonte autorevole...» (Bha. Gı. 16.24), disse:

Arjuna disse:

17.1. Per coloro i quali, [pur] disdegnando la prescrizione


della Scrittura, [tuttavia] sacrificano [essendo] pieni di fede,
qual è, invero, per costoro, o Kÿ≤√a, il sentiero realizzativo [ap-
propriato]: [quello che esprime] il sattva, o, piuttosto, il rajas o
[ancora] il tamas?

“Per coloro”, taluni non specificati, “i quali, [pur] disdegnan-


do”, trascurando del tutto “la prescrizione della Scrittura”, il
precetto della Scrittura, la norma [rituale] contenuta sia nella
Âruti che nella Smÿti, “sacrificano”, rendono adorazione ai deva,
ecc. “pieni di fede”, essendo pervasi dalla fede, [essendo] piena-
mente dotati della convinzione di una esistenza [trascendente]...1
Cioè: coloro i quali, [pur] non tenendo conto di alcuna pre-
scrizione scritturale, sia stabilita dalla Âruti che disposta dalla
Smÿti, [tuttavia] rendono adorazione ai deva, ecc. con grande
pienezza di fede soltanto osservando la condotta dei saggi
esperti, costoro sono così presi in considerazione qui [nel pas-
so]: “Coloro i quali, [pur] disdegnando la prescrizione della
Scrittura, [tuttavia] sacrificano [essendo] pieni di fede...”. In-
638 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 17.1

vece, coloro che, pur essendo a conoscenza di qualunque pre-


scrizione scritturale, ignorandola del tutto rendono adorazio-
ne ai deva, ecc. difformemente dal precetto, costoro non sono
affatto inclusi qui [nel passo]: “disdegnando la prescrizione
della Scrittura, [tuttavia] sacrificano”.
Perché?
[Proprio] per via della specificazione inerente all’essere
‘pieni di fede’ (Ÿraddhayånvita). Infatti, non si può immagina-
re che [questi] sono pieni di fede se, pur conoscendo qualche
Scrittura concernente prescrizioni relative all’adorazione dei
deva, ecc., dopo averla affatto trascurata e in una totale assen-
za di devozione, si impegnano in una [modalità di] adorazio-
ne ai deva, ecc. che obbedisce a tale [assenza di fede, per cui
esprimono una condotta asurica].
Perciò qui sono annoverati soltanto quelli precedentemente
definiti come: “Coloro i quali, [pur] disdegnando la prescrizione
della Scrittura, [tuttavia] sacrificano [essendo] pieni di fede...”.
“...qual è, invero, per costoro, o Kÿ≤√a, il sentiero realizza-
tivo [appropriato]: [quello che esprime] il sattva, o, piuttosto,
il rajas [o, ancora] il tamas?”. Il sentiero realizzativo [di costo-
ro], la [loro naturale] condizione [di devozione] è forse [quella
che concerne] il sattva? O, piuttosto, il rajas? Oppure il tamas?
Quanto detto significa: quella che è la loro adorazione ver-
so i deva, ecc. è forse, essa, di natura sattvica? O, piuttosto,
rajasica? Oppure tamasica?
Ârı Bhagavat [constatando che] questo quesito così speci-
ficatamente generico non può avere una risposta senza opera-
re una separazione [delle varie qualità], disse:

Ârı Bhagavat rispose:

17.2. Triplice è la fede: essa deriva dalla natura propria de-


gli esseri incarnati, [che può essere] sattvica, rajasica e anche
tamasica. Di lei, ascolta.
17.3 Diciassettesimo Adhyåya 639

“Triplice”, di tre aspetti, “è la fede”, la forma di devozione


in merito alla quale tu mi stai chiedendo: “essa deriva dalla na-
tura propria degli esseri incarnati”. Si definisce come ‘natura
propria’ (svabhåva) il seme attivo (saæskåra)2 consistente in
merito, ecc. che si è prodotto lungo le precedenti nascite e di-
viene manifestato al momento della morte; venendo generata
da tale [insieme di semi attivi, la forma di devozione] è [det-
ta] derivante dalla natura propria (svabhåvajå). [Tale devozio-
ne o fede] è “sattvica” quando, concernendo l’adorazione, ecc.
dei deva, si origina dal sattva; è “rajasica” quando, concernen-
do l’adorazione degli Yak≤a e dei Rak≤as, si origina dal rajas; è
“tamasica” quando, concernendo l’adorazione dei Preta e dei
PiŸåca, ecc., si origina dal tamas. In questo senso è triplice.
“Di lei”, della fede che sta per essere descritta, “ascolta”,
intendi.
Quanto alla fede che è così triplice,

17.3. La fede di ciascuno è conforme alla [sua propria] natu-


ra, o Bhårata. È foggiato dalla [sua] fede questo essere umano:
quale è la sua fede, affatto tale egli è.

“La fede di ciascuno” che sia stato generato come essere


vivente “è conforme alla [sua propria] natura”, cioè conforme
all’organo interno accompagnato dai [suoi] peculiari semi at-
tivi, “o Bhårata”.
Obiezione: Se è così, che cosa ne consegue?
Risposta: Si dice: “È foggiato dalla [sua] fede”, è coerente
con la [propria] fede “questo essere umano”, cioè il jıva tra-
smigrante.
Obiezione: In che modo?
Risposta: “...quale è la sua fede...” – [l’espressione] ‘quale è
la sua fede’ (yacchraddha) [significa]: il jıva, del quale quella è
640 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 17.3

la [particolare] fede... – “...affatto tale”, esattamente conforme


alla tale fede, “egli è”, il jıva è. E quindi la devozione [di origi-
ne] sattvica, ecc. può essere inferita da quel segno caratteri-
stico che è la forma di adorazione di deva o altri [enti sovran-
naturali].
[Bhagavat] dice:

17.4. I sattvici onorano i deva, i rajasici gli Yak≤a e i Rak≤as


e gli altri, gli uomini tamasici, onorano i Preta e le schiere dei
Bh¥ta.

“I sattvici”, coloro che sono fondati nella fede [ingenerata


da parte] del sattva, “onorano”, adorano “i deva, i rajasici gli
Yak≤a e i Rak≤as, e gli altri, gli uomini tamasici, onorano i Pre-
ta e le schiere dei Bh¥ta”, come le sette Matÿkå, ecc.3
In ossequio al precetto scritturale, coloro la cui fede è fon-
data nel sattva e gli altri vengono stabiliti [considerando]:
‘[tale è la causa perché] così è l’effetto’. Al riguardo, però, solo
qualcuno tra migliaia ha la fede fondata nel sattva ed è dedito
all’adorazione, ecc. dei deva, mentre la maggior parte degli
esseri viventi fonda la [propria] fede nel rajas o basa la fede
nel tamas.
Perché?

17.5. Gli uomini che si sottopongono alla sofferenza di una


terribile ascesi non imposta dalle Scritture, soggiogati dalla
ipocrisia e dall’egoismo, dotati della forza di desiderio e attac-
camento,...

“Gli uomini che si sottopongono alla sofferenza di una ter-


ribile ascesi”, apportatrice di patimento per sé stessi e [altri
esseri] viventi, “non imposta dalle Scritture” – non imposta
dalle Scritture significa che non è fatta oggetto di comando da
parte delle Scritture – e che “soggiogati dalla ipocrisia e dal-
17.6 Diciassettesimo Adhyåya 641

l’egoismo” – ipocrisia ed egoismo sono sia l’ipocrisia che l’e-


goismo [presi separatamente] – dunque soggiogati da loro due,
“dotati della forza di desiderio e attaccamento...” – desiderio e
attaccamento sono sia il desiderio che anche l’attaccamento;
la forza di desiderio e attaccamento è la forza prodotta da loro,
così [l’espressione] ‘dotati della forza di desiderio e attacca -
mento’ significa: sospinti da quella.

17.6. ...privi di intelligenza, stremano l’insieme degli elementi


su cui si regge il corpo e Me stesso che all’interno del corpo di -
moro: sappi che essi sono di asurici propositi.

“...privi di intelligenza”, privi di discriminazione, “strema-


no”, portano all’esaurimento “l’insieme degli elementi”, cioè
il fascio degli organi, “su cui si regge il corpo e” [quindi] stre-
mano [anche] “Me stesso”, Nåråya√a, “che all’interno del corpo
dimoro”, in quanto sono il testimone dei loro atti e pensieri.
Lo stremare Me consiste proprio nel non applicare la mia di-
rettiva; “...sappi che essi sono di asurici propositi”: sono di
asurici propositi quelli la cui ferma intenzione ha natura asu-
rica. L’ammonimento: ‘sappi che essi...’, ha lo scopo di evitarli
del tutto.
Qui [di seguito] si fornisce una esposizione dei cibi distin-
ti in base alla triplice natura della loro classe come gustosi,
nutrienti, ecc., in funzione del loro apprezzamento da parte
degli uomini sattvici, rajasici e tamasici rispettivamente in
modo che, attraverso il segno caratteristico della propria pre-
ferenza riguardo ai differenti cibi gustosi, nutrienti, ecc., co-
noscendo la loro natura sattvica, rajasica o tamasica si possa,
per esempio, eliminare i cibi caratterizzati dal rajas e dal ta-
mas per assumere [soltanto] quelli contraddistinti dal sattva.
Allo stesso modo qui si mostra anche la triplice natura dei
sacrifici, ecc. attraverso la distinzione delle [loro] qualità come
il sattva, ecc., in modo che, ‘riconoscendo la natura rajasica o
642 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 17.6

tamasica [di alcuni rituali], li si possa escludere del tutto e


porre in atto solo quelli di natura sattvica’. A tale scopo [Bha-
gavat] dice:

17.7 Ma anche il cibo, caro a chiunque, è di tre specie e,


ugualmente, [sono di tre specie] il sacrificio, l’ascesi e la dona-
zione. Di loro, ascolta questa distinzione.

“Ma anche il cibo”, considerato “caro a chiunque” sia un


fruitore, un essere vivente, “è di tre specie e, ugualmente,
[sono di tre specie] il sacrificio”, così “l’ascesi” e [ancora] così
“la donazione. Di loro”, dei cibi, ecc., “ascolta questa distinzio-
ne” quale verrà enunciata.

17.8. I cibi che aumentano vitalità, periodo di vita, vigore


fisico, salute, felicità e senso di soddisfazione, che sono gustosi,
nutrienti, durevoli e gradevoli, sono preferiti dai sattvici.

[L’elenco di] ‘vitalità, periodo di vita, vigore fisico, salute,


felicità e senso di soddisfazione’ comprende [l’insieme di tut-
te quelle cose ognuna presa singolarmente, cioè]: la vitalità, il
periodo di vita, il vigore fisico, la salute, la felicità e il senso di
soddisfazione. [Gli alimenti] che incrementano tali [cose] sono
“I cibi che aumentano vitalità, periodo di vita, vigore fisico,
salute, felicità e senso di soddisfazione”; [oltre a questi, quelli]
“che sono gustosi”, accompagnati da un buon sapore, “nutrien-
ti”, dotati di potere nutritivo, “durevoli”, che permangono a
lungo nel corpo [con il loro effetto nutritivo], “e gradevoli”,
piacevoli all’animo, “sono preferiti dai sattvici”, cioè sono
prediletti da parte del [jıva] sattvico.

17.9. I cibi conditi, amari, salati, troppo brucianti, piccanti,


aspri e pungenti, sono prediletti dal [jıva] rajasico, [tutti cibi]
apportatori di sofferenza, malumore e malesseri.
17.11 Diciassettesimo Adhyåya 643

Qui [nella elencazione]: “...conditi, amari, salati, troppo


brucianti, piccanti, aspri e pungenti”, la parola “troppo” (ati)
deve essere riferita a tutti [i termini] a cominciare da ‘condi-
ti’, così [da avere]: troppo conditi... troppo piccanti... [ecc.];
tali sono “I cibi... prediletti dal [jıva] rajasico, [tutti cibi] ap-
portatori di sofferenza, malumore e malesseri”; [l’espressione:]
“apportatori di sofferenza, malumore e malesseri” significa
che cagionano [tutte e tre le cose, cioè] sia la sofferenza, che
il malumore e anche [vari] malesseri.

17.10. Quello che ha fatto il suo tempo, il cui gusto è svani-


to, putrido e stantìo e anche [quello] avanzato e impuro, è il
nutrimento gradito al [jıva] tamasico.

[L’espressione] “Quello che ha fatto il suo tempo” (yåta-


yåma) [significa] cotto tardivamente, perché la definizione
[concernente] l’assenza di sapore viene pronunciata [dopo]
come: “il cui gusto è svanito”, e [la frase] “il cui gusto è sva-
nito” (gatarasa) significa che ha perso [ogni] sapore; “pu-
trido”, quindi maleolente, “e stantìo”, che cioè viene cotto
dopo essere stato conservato una notte, “e anche [quello]
avanzato”, ossia la rimanenza di un pasto, “e impuro”, ina-
datto per il rito sacrificale; siffatto “è il nutrimento gradito
al [jıva] tamasico”.
Ordunque, si espone il triplice sacrificio.

17.11. Il sacrificio che viene offerto, conformemente ai pre-


cetti [della Scrittura], da coloro che non attendono ricompensa
e hanno la ferma convinzione che sia solo doveroso offrirlo, è
sattvico.

“Il sacrificio che viene offerto, conformemente ai precetti


[della Scrittura] da coloro che non attendono ricompensa”,
quel sacrificio che viene celebrato, nell’osservanza delle diret-
644 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 17.11

tive degli Âåstra, da coloro che non ricercano un frutto [per sé


stessi] “e hanno la ferma convinzione che sia solo doveroso
offrirlo”, ossia che la celebrazione rituale deve essere effettua-
ta solo per la natura propria del sacrificio, [ma] avendo stabi-
lito questo: ‘tramite tale [sacrificio] non si deve realizzare da
parte mia alcun obiettivo di ordine umano’, quel sacrificio “è”
detto “sattvico”.

17.12. Ma quello che viene offerto mirando al frutto oppure


solo per vanagloria, o migliore tra i Bharata, sappi che quel sa-
crificio è rajasico.

“(Ma) quello che viene offerto mirando”, aspirando “al frut-


to oppure solo per vanagloria, o migliore tra i Bharata, sappi
che quel sacrificio è rajasico”.

17.13. Quello contrario ai precetti, in cui non viene distribui-


to cibo, senza mantra, non accompagnato da doni e del tutto
privo di fede, lo considerano un sacrificio tamasico.

“Quello contrario ai precetti”, cioè del tutto opposto a


quanto viene comandato [nelle Scritture], “in cui non viene
distribuito cibo...” – quello in cui non viene distribuito cibo è
quel sacrificio durante il quale non viene elargito, non viene
donato cibo ai bråhma√a: tale [lo ritengono] quello in cui non
viene distribuito cibo – “...senza mantra” – [definiscono] sen-
za mantra [un sacrificio] totalmente carente in relazione ai
mantra sia per quanto riguarda la [loro] declamazione che
per ciò che concerne la correttezza della pronuncia – “non ac-
compagnato da doni”, cioè privo delle donazioni prescritte
[per i sacerdoti officianti], “del tutto privo di fede, lo conside-
rano un sacrificio tamasico”, lo definiscono come compiuto
nel tamas.
Adesso viene esposta la triplice ascesi (tapas).
17.15 Diciassettesimo Adhyåya 645

17.14. Il rispetto reso a deva, due-volte-nati, guru e saggi, la


purezza, la rettitudine, la continenza e l’innocuità; [tutto ciò] è
chiamato: l’ascesi del corpo.

[L’elenco di] ‘deva, due-volte-nati, guru e saggi’ significa:


sia i deva che i due-volte-nati, sia i guru che i saggi; la vene-
razione nei confronti di loro [tutti] è “Il rispetto a deva, due-
volte-nati, guru e saggi”; “la purezza e la rettitudine”, cioè l’in-
tegrità, “la continenza e l’innocuità; [tutto ciò] è chiamato:
l’ascesi del corpo”. [È detta] ‘del corpo’ (Ÿårıra) in quanto si
effettua tramite il corpo, cioè viene compiuta proprio per mez-
zo di tutti quei fattori quali gli effetti (i componenti grossola-
ni del corpo) e gli strumenti organici (i componenti sottili
come le facoltà sensorie) che fanno capo al corpo [quale unità
organica]. Infatti [Bhagavat più avanti] affermerà: «...questi
[elencati] sono i suoi cinque princìpi» (Bha. Gı. 18.15).

17.15. La parola che non produce turbamento, che è verace e


quella che è gradevole e benefica e la stessa pratica di recitazione
delle Scritture, [tutto ciò] è chiamato: l’ascesi consistente nella
parola.

“La parola che non produce turbamento”, che non cagiona


la sofferenza degli esseri viventi, “che è verace e quella che è
gradevole e benefica”: quella gradevole e benefica concerne
[rispettivamente] il [frutto] visibile e l’invisibile. La parola
viene qualificata da proprietà come il non produrre turbamen-
to, ecc., ma il termine “e” (ca) [che va riferito a tutte le pro-
prietà elencate, nel senso di: ‘...quella che non produce turba-
mento, e quella che è verace, e quella che è...’, ecc.] esprime il
significato della [intera] collezione delle proprietà qualifican-
ti. Per esempio, se, in relazione alla parola impiegata per con-
vincere altri, si avesse la mancanza [anche] di una sola, di
due, o di tre tra tutte [le proprietà qualificanti elencate] come
646 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 17.15

la veridicità, la gradevolezza, [ecc., pur mantenendo] l’incapa-


cità di produrre turbamento, essa non è l’ascesi consistente
nella parola; così, la parola verace, qualora sia mancante di una
sola, di due, o di tre tra tutte [le proprietà qualificanti elenca-
te] non può essere l’ascesi consistente nella parola; allo stesso
modo, la parola gradevole, ma mancante di una, di due, o di
tre tra tutte [le proprietà qualificanti], non è l’ascesi consisten-
te nella parola; ugualmente, anche la parola benefica, ma man-
cante di una, di due, o di tre delle altre [proprietà elencate],
non è l’ascesi consustaziata della parola.
Qual è, allora, quella [parola] che è l’ascesi [suddetta]?
È la parola che [allo stesso tempo] è verace, non produce
turbamento, è gradevole e benefica “...e la stessa pratica di re-
citazione delle Scritture”: quella è l’ascesi consistente nella
parola, come [può esserlo, ad esempio, una direttiva espressa
nei termini]: ‘sii pacificato, ragazzo, e pratica lo studio [dei
Veda] e lo yoga: così per te si avrà il meglio’; “[tutto ciò] è
chiamato: l’ascesi consistente nella parola” 4.

17.16. La placidità mentale, la mitezza, il silenzio, il totale


dominio di sé, la completa purezza di intenzione: [tutto] ciò è
chiamato ascesi mentale.

“La placidità mentale”, cioè la perfetta pacificazione della


mente (manas); la placidità (prasåda) è [anche] il portare [la
mente] in uno stato di perfetta chiarezza-trasparenza; “la mi-
tezza” la definiscono come una pacifica disposizione d’animo: è
quello stato dell’organo interno che può essere inferito dai suoi
effetti [esteriori] come la serenità del volto, ecc.; anche “il si-
lenzio”, che consiste [esteriormente] nel completo controllo
della parola, si verifica in quanto preceduto dal completo con-
trollo della mente: così si dice che [anche in relazione a ciò] la
causa è [inferita] dall’effetto, per cui il silenzio è il completo
controllo della mente; “il totale dominio di sé”: il totale domi-
17.18 Diciassettesimo Adhyåya 647

nio di sé (åtmavinigraha) è la generica soppressione della men-


te (manonirodha) in qualsiasi circostanza, pertanto vi è una di-
stinzione in relazione al silenzio quale completo controllo della
mente quando questa ha per oggetto solo la parola; “la comple-
ta purezza di intenzione” (bhåvasaæŸuddhi) è l’assenza di [qual-
siasi] intenzione ingannevole quando si intrattiene una relazio-
ne con il prossimo: “[tutto] ciò è chiamato ascesi mentale”.
[Ora Bhagavat] espone in che modo l’ascesi quale è stata
descritta, cioè quella del corpo, quella della parola e quella
della mente, praticata dagli uomini a seconda della distinzio-
ne [della loro natura con la prevalenza] del sattva e degli altri
[gu√a], diviene triplice.

17.17. Tale ascesi triplice, praticata con somma fede da


uomini che non bramano il frutto e unificati, la considerano
sattvica.

“Tale ascesi”, in corso di disamina, [che è] “triplice”, ha


tre modalità, cioè ha tre sedi [di attuazione: corpo, parola e
mente], “praticata”, cioè posta in atto “con somma”, con una
eccelsa “fede”, con la convinzione della esistenza [trascenden-
te], “da uomini”, da praticanti “che non bramano il frutto”,
esenti dalla brama verso il frutto [dell’agire], “e unificati”, com-
pletamente dediti [a essa], tale ascesi, che è siffatta, i sapien -
ti “la considerano sattvica”, la ritengono effettuata nel [pre-
dominare del] sattva 5.

17.18. L’ascesi finalizzata a [ottenere] rispetto, considerazio-


ne e venerazione e quella stessa che viene fatta con ipocrisia,
essa è qui proclamata rajasica, mutevole e instabile.

Il rispetto (satkåra) è il pubblico encomio [cercato affinché


la gente dica]: ‘questo asceta praticante è un buon bråhma√a’;
dunque, [un’ascesi] finalizzata a questo. La considerazione
648 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 17.18

(måna) è l’onore reso, l’altrui levarsi reverenziale, il saluto ri-


spettoso, ecc.; dunque, [un’ascesi] finalizzata [anche] a ciò. La
venerazione consiste nel lavacro dei piedi, nel venire nutriti,
ecc.; ancora, [un’ascesi] finalizzata a ciò, è “L’ascesi finalizza-
ta a [ottenere] rispetto, considerazione e venerazione e quella
stessa” ascesi “che viene fatta con ipocrisia, essa è qui (in
questo mondo) proclamata”, dichiarata “rajasica”, in quanto
talora “mutevole” e “instabile” a seconda dell’umore6.

17.19. L’ascesi che viene fatta con una concezione errata, per
infliggere torture [a sé stessi] o allo scopo di nuocere al prossi -
mo, quella è dichiarata tamasica.

“L’ascesi che viene fatta con una concezione errata”, con una
convinzione priva di discernimento, “per infliggere torture” a
sé stessi “o allo scopo di nuocere al prossimo”, cioè al fine di
distruggerlo totalmente, “quella” ascesi “è dichiarata tamasica”.
Adesso viene enunciata la natura triplice della donazione.

17.20. Il dono che viene elargito così [ossia concependo l’i -


dea]: ‘è doveroso donare’, a colui che non può contraccambiare,
in un luogo [sacro], nel tempo [appropriato] e a persona degna,
quel dono è ritenuto sattvico.

“Il dono che viene elargito così”, ossia concependo l’idea:


‘è doveroso donare’, a colui che non può contraccambiare”, a
colui che non è in grado di ricambiare, oppure che viene elar-
gito anche a colui che è in grado [di ricambiare] ma senza
fare assegnamento su ciò, “in un luogo” sacro, come ad esem-
pio il Kuruk≤etra, ecc., “nel tempo [appropriato]”, come du-
rante la [fase di] saækrånti, ecc.7, “e a persona degna”, come
qualcuno che sia profondamente competente nei Veda, cono-
scitore dei [loro] sei membri (le scienze ausiliarie dei Veda,
dette vedå§ga), ecc., “quel dono è ritenuto sattvico”.
17.23 Diciassettesimo Adhyåya 649

17.21. Quello, però, [fatto] allo scopo di [ottenere] una ri-


compensa o mirando al frutto e, ancora, che viene elargito a
malincuore, quel dono è ritenuto rajasico.

“Quello, però”, il dono [fatto] nell’intento di [ottenere] una


ricompensa nel tempo, [con l’idea]: ‘certamente costui mi ri-
compenserà’, dunque a questo scopo, “o mirando al frutto”
[con l’idea]: ‘quello (il frutto) di questo dono verrà a me come
adÿ≤†a’, “e, ancora, che viene elargito a malincuore”, cioè ac-
compagnato da riluttanza, “quel dono è ritenuto rajasico”.

17.22. Il dono che viene elargito non a tempo e luogo [oppor-


tuni] e a persone indegne, senza rispetto e con disprezzo, quello
è ritenuto tamasico.

“Il dono (elargito) non a tempo e luogo [opportuni]...”, cioè


non in un tempo [opportuno], [in un momento] non dichiarato
propizio, in quanto privo della qualificazione data dalla saækrå-
nti, ecc., e non in luogo [opportuno], ossia in un luogo non sa-
cro, gremito di estranei, di cose impure, ecc., “e a persone inde-
gne”, come inebetiti, disonesti, ecc., oppure, [elargito] in una
condizione favorevole di luogo, ecc., ma “senza rispetto”, cioè
non accompagnato da una parola amabile, dal lavacro dei piedi,
dall’adorazione, ecc. “e con disprezzo”, mostrando spregio nei
confronti di chi è degno di stima, “quello è dichiarato tamasico”.
[Ora] viene esposta l’istruzione in relazione al perfeziona-
mento di sacrifici, donazioni, ascesi e altre cose a seguire.

17.23. Oæ tatsat: così la triplice designazione del Brahman è


stata tramandata. Tramite quella furono, in antico, ordinati i
Bråhma√a, i Veda e i sacrifici.

“Om, tat, sat: così”, in questo modo “la (triplice) designa-


zione...” – la designazione (nirdeŸa) è ciò tramite cui si desi-
650 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 17.23

gna [qualcosa], ed è definita: ‘la triplice designazione’ – “...del


Brahman è stata tramandata” nel Vedånta, essendo stata [così]
concepita, dai conoscitori del Brahman.
“Tramite quella” triplice designazione “furono, in antico”,
ai primordi [della manifestazione], “ordinati”, compilati “i
Bråhma√a, i Veda e i sacrifici": ciò viene detto onde rendere
elogio alla [triplice] designazione8.

17.24. Perciò, pronunciando: ‘om’, sempre [così] prendono


inizio gli atti di sacrificio, di donazione e di ascesi, enunciati
nei precetti [scritturali] a opera di coloro che proclamano il
Brahman.

“Perciò, pronunciando”, emettendo il suono: “om, sempre


[così]”, comunque [in questo modo] “prendono inizio gli atti
di sacrificio, di donazione e di ascesi”, cioè gli atti aventi na-
tura di sacrificio, ecc., “enunciati nei precetti [scritturali]”, co-
mandati dagli Âåstra, “a opera di coloro che proclamano il Bra-
hman”, cioè di coloro che sono intenti a predicare il Brahman 9.

17.25. [Pronunciando] ‘tat’, gli atti di sacrificio e di ascesi e


gli atti di donazione di vario genere vengono effettuati, senza
anelare al frutto, da coloro che aspirano alla liberazione.

“[Pronunciando] tat”, cioè articolando il suono: tat, quale


nome del Brahman, “gli atti di sacrificio e di ascesi...” – gli atti
di sacrificio e di ascesi sono sia gli atti di sacrificio che gli atti
di ascesi [presi indipendentemente] – “...e gli atti di donazio-
ne di vario genere”, consistenti, per esempio, nel devolvere
terreni, oro, e quant’altro, “vengono effettuati”, vengono com-
piuti, “senza anelare al frutto”, cioè senza ambire al frutto dei
riti sacrificali, ecc., “da coloro che aspirano alla liberazione”,
da quelli che ricercano la liberazione, da coloro che aspirano
intensamente a liberarsi.
17.27 Diciassettesimo Adhyåya 651

L’impiego [separato] dei due termini: om e tat è stato


enunciato. Ordunque si espone l’impiego del termine: sat.

17.26. ‘Sat’: questo [termine] viene pronunciato nel senso


di ‘reale’ e nel senso di ‘bene’; ugualmente, la parola ‘sat’, o
Pårtha, si addice all’azione celebrata quale [termine di] buon
auspicio.

“Sat: questo [termine]”, che è una denominazione per il


Brahman, “viene pronunciato”, viene menzionato “nel senso
di ‘reale’ e nel senso di ‘bene’”. Come [il termine sat viene
impiegato] con il significato di reale (sadbhåva) [anche] per il
non-reale (asat), [per esempio] in relazione alla nascita di un
figlio [la quale è in realtà] non-esistente, così [il termine sat è
impiegato] con il significato di bene (sådhubhåva), cioè in re-
lazione a quella che è una natura benigna o una retta modali-
tà di agire, anche per ciò che non è bene (asådhu) o per quegli
dalla non-retta modalità di agire; e, “ugualmente, la parola sat,
o Pårtha, si addice”, cioè viene pronunciata in relazione “all’a-
zione celebrata quale [termine di] buon auspicio”, come [per]
il matrimonio, ecc.10

17.27. Anche la costanza nel sacrificio, nell’ascesi e nella


donazione è chiamata sat, e lo stesso agire finalizzato a quello
è sat: così stesso viene denominato.

“Anche la costanza” che è “nel sacrificio”, nell’atto sacrifi-


cale, la costanza che è “nell’ascesi” e, ancora, la costanza che
è “nella donazione è chiamata sat” dai saggi, “e lo stesso agire
finalizzato a quello...”, finalizzato a sacrificio, ascesi e dona-
zione – oppure [si può interpretare come] ‘finalizzato a quel-
lo’ la cui terna di denominazioni è in corso di trattazione, [per
cui] questa [espressione]: ‘finalizzato a sacrificio, ascesi e do-
nazione’ significa ‘finalizzato a ÙŸvara’ (offerto al Brahman nel
652 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 17.27

suo aspetto di Signore della manifestazione) – “...è sat: così


stesso viene denominato”.
Questa stessa azione che può consistere in sacrificio, asce-
si, donazione, ecc., per quanto asattvica e imperfetta, anche se
preceduta dalla fede, diviene perfetta, sattvica e perfettamen-
te compiuta pronunciando le tre denominazioni del Brahman11.
E poiché sia in questo caso che in ogni [altra] circostanza
tutto trova compimento tramite l’eccellenza della fede, per-
tanto:

17.28. Ciò che è offerto, ciò che viene donato, l’ascesi prati-
cata e [tutto] ciò che è stato compiuto senza fede viene detto
asat, o Pårtha, e ciò non [porta a nessun frutto] né nell’al di là
né qui.

“Ciò che è offerto”, l’oblazione eseguita “senza fede”, “ciò


che viene donato... senza fede” ai bråhma√a, “l’ascesi pratica-
ta...”, attuata “senza fede” e, ugualmente, “ciò che è stato com-
piuto” affatto “senza fede”, tutto ciò “viene detto: asat”, essen-
do estraneo al sentiero tramite il quale si può conseguire Me,
“o Pårtha”, “e ciò”, per quanto effettuato anche con notevole
impegno, “non” porta a [nessun] frutto “né nell’al di là né”,
neppure ha senso “qui”, essendo [l’agire senza fede] disappro-
vato dagli uomini retti12.

Nelle Scritture yoga sulla conoscenza del Brahman


appartenenti alla Upani≤ad della sacra Bhagavadgıtå,
questo è il Diciassettesimo Capitolo
nel dialogo tra Kÿ≤√a e Arjuna
intitolato:
‘Lo yoga della distinzione della triplice fede’

*
NOTE al Diciassettesimo Adhyåya

1
Nel precedente Capitolo Kÿ≤√a aveva esposto il destino di
quelli che hanno fede nelle Scritture e di quelli che non hanno fede
in loro pur conoscendole sotto il profilo concettuale o formale. Si
tratta rispettivamente di coloro che credono in una esistenza che
trascende la mera corporeità fisica (åstika) e di coloro che non vi
credono (nåstika). Ora Arjuna si interroga sulla via di quegli altri
che, non conoscendo affatto le Scritture o trascurandone i dettami,
posseggono tuttavia la fede nella esistenza trascendente e quindi
nelle attività sacrali ad essa indirizzate.
2
Cioè l’insieme dei semi attivi che accompagnano il jıva nella
sua peregrinazione esistenziale sotto forma di tendenze latenti o
impressioni subliminali (våsanå) unitamente alle facoltà sottili. Per
i saæskåra e le våsanå si torni ai versi: 3.33, 5.13, 5.18, 6.44 e alle
note: 4.34, 5.7 e 6.22.
3
Conformemente alla propria natura, l’essere permeato di sattva
porta venerazione ai deva, gli enti di indole benigna che popolano
le sfere celesti, quello saturo di rajas agli spiriti caratterizzati da
una accentuata volubilità che dimorano nella sfera intermedia, quelli
ottenebrati dal tamas si rivolgono a dèmoni di estrazione oscura e
maligna appartenenti alle sfere inferiori. Tra i deva, sui quali pre-
siede Indra, vi sono, ad esempio i Vasu, ecc.; gli Yak≤a sono dèmoni
potenzialmente maligni facenti capo a Kubera, i Rak≤as dèmoni mal-
vagi sottoposti a Nairÿta (v. nota 16.1). I Preta sono gli spettri dei
defunti che ancora non hanno raggiunto il mondo dei Pitÿ e i Bh¥ta
spiriti di carattere maligno della famiglia degli Yak≤a. Le Måtÿkå
sono i princìpi di genere femminile che affiancano tali entità infere,
talora identificati con le vocali dell’alfabeto (o con tutte le lettere,
come nel Trika Âaiva). In generale tutti questi esseri, quando fatti
654 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

oggetto di adorazione, ricompensano i devoti concedendo loro le


cose desiderate o non nuocendo loro se adeguatamente propiziati.
D’altro canto, onde sussistere nelle loro proprie condizioni e poten-
zialità espressive, devono attingere sostentamento proprio dalle
offerte rese loro dagli esseri umani: tra questi e gli enti sovrasen-
sibili vige una interazione, un reciproco scambio energetico come
fra tutti i piani della manifestazione.
L’ascesi consistente nella parola (vå§mayaæ tapas) è l’austerità
4

in cui il controllo della parola assume il ruolo dominante; analoga-


mente è per quelle di corpo e mente. Corpo, parola e mente di-
ventano sia gli strumenti che le sedi per un’ascesi che procede dal-
l’esterno verso l’interno.

La fede concerne sia la convinzione di una esistenza che oltre-


5

passa i confini della mera veicolarità fisica e delle dimensioni spa-


zio-temporali in cui essa svolge la sua funzione, sia la certezza circa
le cose insegnate dalle Scritture non direttamente esperibili nel pia-
no ordinario, come l’adÿ≤†a, le sfere dei deva, ecc. Gli uomini “unifi-
cati” (yukta) sono quelli totalmente dediti allo yoga nei suoi aspetti
di karman, bhakti e jñåna. Pertanto, caratteristiche come l’equani-
mità (samatå) nella buona e cattiva sorte, l’equilibrio interiore e al-
tre analoghe sono in loro implicitamente presenti.
L’ascesi condotta con ipocrisia (dambha) è quella praticata
6

senza fede e al solo scopo di ostentazione. La specificazione: “qui”


(iha) implica che il frutto dell’ascesi rajasica è limitato a questo pia-
no esistenziale, con cui condivide la natura variabile, effimera e im-
permanente.

Il termine saækrånti designa il “transito” del Sole da una sta-


7

zione all’altra dello Zodiaco. A seconda del periodo dell’anno, tali


fasi sono più o meno adatte per l’una o l’altra cosa.
La “triplice designazione” (trividho nirdeŸa) del Brahman nella
8

forma: oæ tatsat, è un mantra. I tre nomi sono indicazioni (abhi-


dhåna) del Brahman sotto vari aspetti. La sillaba om – argomento di
molte Upani≤ad, in particolare della Må√ƒ¥kya – esprime: a) come
Note al Diciassettesimo Adhyåya 655

‘om sonoro’ i tre stati relativi, sia nella sfera individuale (veglia, so-
gno e sonno profondo) che in quella universale (totalità grossolana,
sottile e causale); b) come ‘om silenzioso’ il loro Sostrato trascenden-
te, assoluto e inqualificato, cioè il Quarto (turıya). Il termine tat de-
signa Ciò che, essendo privo di attributi (nirgu√a), non è esprimibi-
le direttamente ma solo attraverso la negazione (neti neti, v. Bÿ. 2.3.6)
o con un pronome in forma impersonale: Quello (tad). Il termine sat,
come si vedrà, definisce ‘Ciò che è’, dunque l’Essere, il Reale, il Vero
e costituisce la base dell’esistente manifesto (da cui satya, verità). La
designazione completa: oæ tatsat è anche considerata un mahåvåkya.
9
Quelli che proclamano il Brahman sono gli assertori della dot-
trina del Brahman (brahmavådin), che si appoggiano alla Âruti e alla
Smÿti, i seguaci dei Veda-Upani≤ad, i quali predicano il Brahman
quale realtà unica e senza-secondo. Cfr. anche Å. Dha. S¥. 1.4.13.7,
Tai. 1.8.1, Chå. 1.1.8-9, Mai. 6.4, 6.37 e 7.11.
10
Il nome sat non solo definisce in senso diretto ‘ciò che è’, cioè
l’Essere, il reale in assoluto – dunque, il Brahman – ma in senso in-
diretto anche ciò che è non-reale, o che lo è in modo relativo. Alla
nascita di un figlio, per esempio, si dice che questo ‘viene all’esisten-
za’, cioè ‘esiste’, ma, dalla prospettiva della realtà suprema, nulla
viene a essere che già non sia, né, viceversa, alcuna cosa, se è, può
cessar di essere; ciò che nasce e muore è, proprio per questo, non-
esistente; mentre l’Essere-sat non nasce né muore, ma è sempre.
Così, sebbene il termine sat si riferisca primariamente al Brahman,
che è il solo essere-reale, tuttavia può riferirsi in senso secondario
anche a un ente illusorio, ovvero reale solo in senso relativo, qual
è, ad esempio, un figlio. Allo stesso modo, sebbene il termine så-
dhu, che significa il Bene, il Retto per eccellenza, si riferisca anch’es-
so primariamente al Brahman in quanto Summum Bonum, assoluti
Bene-Rettitudine, tuttavia può concernere in senso secondario an-
che l’essere la cui condotta è buona o retta solo limitatamente e in
modo relativo.
L’abbinamento con il triplice mantra, la pronuncia o la pura as-
serzione coscienziale del nome sat, attraverso un processo di trasmu-
tazione e soluzione, porta a perfezione l’atto veicolandone l’inten-
656 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

zione in sfere trascendenti. Tutti gli enti sono aspetti del Brahman
a livello di måyå che tale accorgimento, correttamente adottato,
reinnesta al Principio.

L’atto rituale, ascetico, ecc. carente o imperfetto viene perfe-


11

zionato con la evocazione coscienziale di uno dei tre nomi del Bra-
hman, o pronunciando la triplice denominazione, cioè il mantra:
oæ tatsat.

La fede può aversi anche nell’ignoranza dei precetti scritturali


12

e coloro, che si sono purificati dalle componenti tamasiche e rajasi-


che, possono anch’essi esprimere la propria devozione, permeando-
la di sattva, nel rito, come nella pratica ascetica o in qualsiasi altro
atto, come il nutrirsi, ecc., improntandolo a una integrale visione sa-
crale. Un comportamento imperfetto, asattvico, si rivela infecondo,
persino di ostacolo, dal punto di vista realizzativo: l’intero sentire-
essere deve venire trasmutato attraverso una saturazione sattvica,
anche ricorrendo al mantra: oæ tatsat, per poter fornire una solida
base da cui spiccare il sacro volo verso la diretta e immediata intui-
zione della realtà, la presa di coscienza dell’Essere-sat, quindi ver-
so la liberazione.

*
Diciottesimo Adhyåya
(Lo yoga della liberazione mediante la completa rinuncia)

Dopo aver condensato in questo [Diciassettesimo] Adhyå-


ya il significato di tutta la Scrittura della [Bhagavad] Gıtå
stessa, si procede [ora] a enunciare riassuntivamente il fine
della conoscenza [ivi contenuta]: a tale scopo prende inizio
questo [Diciottesimo] Adhyåya. Si può vedere, infatti, che in
questo Adhyåya risulta esposto il significato di tutti i Capitoli
precedenti.
Invero Arjuna, desiderando conoscere solo la distinzione
tra i significati dei termini: ‘completa rinuncia’ e ‘abbandono’,
disse:

Arjuna disse:

18.1. Della completa rinuncia, o Mahåbåhu, vorrei sapere


l’essenza e [anche quella] dell’abbandono, o Hÿ≤ıkeŸa, [conside-
rati] separatamente, o KeŸini≤¥dana.

“Della completa rinuncia”, cioè del significato del termine


saænyåsa, “o Mahåbåhu, vorrei sapere”, conoscere “l’essen-
za”, dove l’essenza (tattva) è la sua vera natura (bhåva), cioè
così qual essa è, “e [anche quella] dell’abbandono”, cioè del
significato del termine tyåga, “o Hÿ≤ıkeŸa, [considerati] sepa-
ratamente”, tramite una reciproca distinzione, “o KeŸini≤¥dana”
(o Tu, uccisore di KeŸin). KeŸin (Colui dalla criniera) è il nome
di un certo asura che aveva assunto la sembianza di cavallo e
658 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.1

che Bhagavat Våsudeva uccise; per questo [Kÿ≤√a] viene chia-


mato con tale nome da Arjuna.
I due termini: saænyåsa e tyåga sono stati menzionati qui
e là [nel testo], ma i loro [rispettivi] significati non sono ve-
nuti in evidenza nei precedenti Adhyåya. Quindi, ad Arjuna
che aveva formulato la domanda, con lo scopo di fornire un
accertamento esauriente [della questione], Bhagavat rispose:

Ârı Bhagavat rispose:

18.2. I saggi considerano saænyåsa la completa rinuncia


agli atti [rituali] occasionali; i dotti predicano tyåga come l’ab-
bandono del frutto di tutti gli atti [rituali].

“I saggi”, alcuni sapienti, “considerano”, intendono il “saæ-


nyåsa”, cioè il significato del termine saænyåsa, come “la
completa rinuncia”, ossia la completa deposizione “degli atti
[rituali] finalizzati” come l’AŸvamedha e altri simili [compiu-
ti] in funzione di quanto può essere esperito, laddove l’espe-
rienza (anu≤†håna) concerne il [frutto che tramite loro viene]
conseguito1; “l’abbandono del frutto di tutti gli atti [rituali]”,
cioè il completo distacco nei confronti del frutto di tutti gli atti
[rituali] che devono essere celebrati, sia quelli perpetui (ni-
tya) sia quelli occasionali (naimittika), ottenuto in relazione a
sé stessi [quali sacrificanti], “i dotti”, i sapienti lo “predicano”,
[lo] definiscono “tyåga”, cioè il significato del termine tyåga2.
Obiezione: Si deve precisare se il significato è il ‘completo
distacco dai riti finalizzati’ o il ‘completo distacco dai frutti’,
[perché] in qualsiasi caso, trattandosi comunque unicamente
di un ‘completo distacco’, il significato dei due termini: saæ-
nyåsa e tyåga, sembrerebbe essere uno [solo], non come si ha
per parole quali ‘vaso’ e ‘tessuto’, i cui significati costituisco-
no differenti classi [di oggetti]3.
18.3 Diciottesimo Adhyåya 659

Inoltre [i sapienti] dicono che per i riti perpetui e per quelli


occasionali non vi è affatto un frutto: in che senso [allora] si
parla dell’abbandono dei loro frutti? Sarebbe come [asserire]
l’abbandono del figlio da parte di una donna sterile.
Risposta: Questo non è un difetto, perché Bhagavat stabi-
lisce che anche i riti perpetui [e quelli occasionali] posseg-
gono natura fruttifera. Infatti Bhagavat affermerà: «Sgrade-
vole, gradevole e misto: triplice è il frutto dell’azione... ma in
nessuna condizione [viene alcun genere di frutto] ai comple-
ti rinunciatari» (Bha. Gı. 18.12). In effetti, mentre fa vedere
l’assenza di connessione con il frutto delle azioni soltanto
per i completi rinunciatari, Egli mostra [anche] il consegui-
mento del frutto dei riti perpetui da parte di coloro che non
sono completi rinunciatari: «...che viene a coloro che [in
vita] non hanno attuato l’abbandono, dopo essersi dipartiti...»
(Bha. Gı. 18.12).

18.3. È [qualcosa] da abbandonare come fosse un male: così


alcuni avveduti proclamano l’azione, e altri [invece sostengono]
che l’azione di sacrificio, donazione e austerità non si deve ab-
bandonare.

“È [qualcosa] da abbandonare”, deve essere abbandonata


“come fosse un male...”: ‘come fosse un male’ (do≤avad) [cioè
pensando:] ‘questo [atto] produce male’.
Che cosa è ciò [che si deve abbandonare]?
“...l’azione”, affatto integralmente, essendo la causa della
schiavitù. Oppure: come si abbandona la passione, ecc. in
quanto è un male, ugualmente si deve abbandonare [l’azione
nella sua integralità]; “così alcuni avveduti”, i sapienti fondati
nella concezione Såækhya, “proclamano l’azione”, [che deve
essere abbandonata] anche da parte di coloro che sono quali-
ficati per compiere gli atti [rituali prescritti].
660 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.3

“...e”, in merito a ciò stesso, “altri [invece sostengono] che


l’azione di sacrificio, donazione e austerità non si deve abban-
donare”: [qui] si considerano solo coloro che sono qualificati
al compimento dell’azione (cioè adatti per il karmayoga), in
quanto si fa riferimento a loro, mentre non si allude a quelli
che sono fondati nella conoscenza, cioè ai completi rinuncia-
tari che hanno deposto [qualsiasi forma di attività]. [Invece in
questo contesto] non ci si riferisce a coloro che si sono ritirati
dalla qualificazione all’azione, [come si legge nel passo]: «...un
(duplice) sentiero realizzativo fu da Me enunciato in princi-
pio... per i såækhya è [stato enunciato il sentiero] attraverso
lo yoga della conoscenza...» (Bha. Gı. 3.3).
Obiezione: Come in questo contesto riassuntivo della intera
Scrittura, vengono esaminati coloro che sono qualificati [per
il karmayoga], sebbene il [loro] sentiero realizzativo sia stato
prima distinto [da quello dei conoscitori con le parole]: «...per
gli yogin è [stato enunciato il sentiero] attraverso lo yoga del-
l’azione» (Bha. Gı. 3.3), così [qui] devono ritenersi presi in esa-
me anche i såækhya, cioè quelli fondati nel sentiero realizza-
tivo attraverso la conoscenza.
Risposta: No, perché non sarebbe plausibile, per loro, un di-
stacco [dall’azione] che sia dovuto a illusione o a sofferenza. I
såækhya non vedono nell’åtman sofferenze dovute ad affli-
zioni corporee, perché si è mostrato che il desiderio e le altre
[cose] sono [da considerarsi] soltanto come costituenti pro-
prietà del ‘campo’4. Quindi costoro non possono abbandonare
l’azione per paura del dolore dato dalle sofferenze fisiche. Nep-
pure vedono nell’åtman un’attività tramite cui potrebbero ab-
bandonare del tutto l’azione rituale perpetua [ancora] a motivo
della paura [della sofferenza]. Invero, essi compiono una com-
pleta rinuncia [solo] in merito all’azione in quanto [la ricono-
scono come] appartenente ai gu√a [avendo la consapevolezza]:
«...[in realtà io] non faccio proprio nulla...» (Bha. Gı. 5.8). La
18.3 Diciottesimo Adhyåya 661

modalità di completa rinuncia del conoscitore della essenza è


stata enunciata [dal passo]: «Rinunciando completamente nel
pensiero a tutte le azioni...» (Bha. Gı. 5.13) e da altri [simili].
Perciò gli altri, i quali, non essendo conoscitori dell’åtman,
sono qualificati per l’azione [rituale] e per i quali è plausibile
l’abbandono dovuto alla illusione e anche all’apprensione per
la sofferenza fisica, soltanto costoro vengono fatti oggetto di
disapprovazione come coloro che praticano l’abbandono ma
sono di natura tamasica e rajasica; [pertanto] è ai ritualisti,
che non sono conoscitori dell’åtman, che è indirizzato l’elogio
dell’abbandono del frutto delle azioni, anche perché, nell’am-
bito della definizione di colui che ha trasceso i gu√a, il com-
pleto rinunciatario dedito alla [realizzazione della] suprema
realtà è stato specificato nei termini: «...colui che ha completa-
mente abbandonato ogni iniziativa...» (Bha. Gı. 12.16), «...vive
nel silenzio, completamente soddisfatto di qualsiasi cosa, privo
di [attaccamento alla] dimora, dalla mente stabile...» (Bha. Gı.
12.19); mentre, più avanti, [Bhagavat] affermerà: «...che è il
supremo compimento della conoscenza» (Bha. Gı. 18.50). Per-
ciò qui non si intende alludere ai completi rinunciatari (saæ-
nyåsin) che sono stabilmente fondati nella conoscenza [o che
ne perseguono il sentiero realizzativo]. L’abbandono del frut-
to delle azioni viene definito saænyåsa soltanto in virtù del
suo essere di qualità sattvica, in rapporto al [distacco] tamasi-
co, ecc., e non in senso generico come completa rinuncia a
qualsiasi azione.
Obiezione: Potrebbe invece trattarsi della completa rinun-
cia a qualsiasi azione [da parte di chiunque] proprio nel senso
generico, dato che nel passo: «...perché, per il possessore di
corpo, non (è possibile abbandonare le azioni integralmente)»
(Bha. Gı. 18.11), viene menzionata la ragione [di ciò].
Risposta: No, perché la menzione della ragione intende e-
sprimere un elogio. Come [il passo terminante con le parole]:
662 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.3

«...dall’abbandono [si avrà] immediatamente la pace» (Bha.


Gı. 12.12) è soltanto una lode nei confronti del distacco dal
frutto dell’azione, dato che è un precetto indirizzato ad Arju-
na, il quale è un non-conoscitore e non è in grado di persegui-
re i diversi sentieri quali sono stati enunciati [in precedenza],
così anche questo [passo]: «...perché, per il possessore di cor-
po, non (è possibile abbandonare le azioni integralmente)»
(Bha. Gı. 18.11), è una menzione avente lo scopo di rendere
lode al distacco dal frutto dell’azione [in generale]. Quanto a
[ciò che afferma il passo]: «Rinunciando completamente nel
pensiero a tutte le azioni, dimora... non agendo affatto né cau-
sando attività» (Bha. Gı. 5.13), nessuno potrebbe individuare
una negazione di tale asserzione. Perciò questa alternativa
(vikalpa) tra distacco-tyåga e completa rinuncia-saænyåsa
concerne soltanto coloro che sono qualificati per l’azione [ri-
tuale], mentre coloro, i såækhya, i quali hanno la visione del-
la realtà suprema, per loro vi è la qualificazione solamente a
fondarsi nel sentiero della conoscenza, consistente nella com-
pleta rinuncia a qualsiasi azione, e in nessun’altra [cosa]; così
essi non possono contemplare alcuna alternativa, e ciò è stato
dimostrato anche da noi in questa asserzione: «(Colui il quale
lo) realizza come indistruttibile...» (Bha. Gı. 2.21) e all’inizio
del Terzo [Adhyåya].
A tale riguardo, in merito a queste differenti alternative,

18.4. La [mia] ferma convinzione, da me [stesso] ascolta


riguardo a ciò, in merito al distacco, o migliore dei Bharata:
invero l’abbandono, o Puru≤avyåghra (o Uomo-tigre), come
triplice viene decantato.

“La [mia] ferma convinzione, da me [stesso]”, dalla mia


[stessa] espressione, “ascolta”, apprendi “riguardo a ciò, in
merito al distacco”, cioè in merito all’alternativa tra l’abbando-
no e la completa rinuncia come sono stati esposti, “o migliore
18.5 Diciottesimo Adhyåya 663

dei Bharata”, o tu che sei il più rispettabile dei Bharata: “inve-


ro l’abbandono”, quello che è il senso che viene espresso dai
termini tyåga e saænyåsa è, in verità, uno soltanto: [ed è pro-
prio] intendendo ciò [che Bhagavat] ha detto: “invero l’ab-
bandono, o Puru≤avyåghra, come triplice”, come suscettibile
di tre modalità, cioè secondo i tre modi relativi alla natura ta-
masica, ecc., “viene decantato”, viene autenticamente descrit-
to negli Âåstra. Poiché attraverso la differenziazione in tama-
sico, ecc., il significato che viene espresso dai termini tyåga e
saænyåsa si manifesta [come se fosse] triplice per colui che è
qualificato per il compimento dell’azione e non è conoscitore
dell’åtman, ma non per colui che ha realizzato la realtà supre-
ma, così questo significato è difficile da intendere. Perciò, in
merito a esso, nessun altro [all’infuori di Me] è in grado di
esporne l’essenza. Pertanto la ferma convinzione, la divina
determinazione in merito al significato degli Âåstra relativa-
mente alla suprema realtà, ascolta da Me, [in quanto è enun-
ciata direttamente] da parte mia.
Qual è, dunque, questa ferma convinzione?
Quindi [Bhagavat] disse:

18.5. Il sacrificio, la donazione, l’ascesi: [tale] azione non è


[qualcosa] da abbandonare; essa va senz’altro adempiuta. Il sa-
crificio, la donazione e la stessa ascesi sono i purificatori degli
avveduti,...

“Il sacrificio, la donazione, l’ascesi”: tale triplice “azione


non è [qualcosa] da abbandonare”, non deve essere abbando-
nata; “essa va senz’altro adempiuta”, deve essere portata a
compimento.
Perché?
[Perché] “Il sacrificio, la donazione e la stessa ascesi sono
i purificatori”, i fattori di purificazione “degli avveduti”, cioè
di coloro che non mirano ai frutti [dell’agire].
664 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.6

18.6. ...sebbene queste azioni, invero, debbano essere com-


piute avendo abbandonato l’attaccamento e i frutti. Tale è la
mia certezza, o Pårtha, la [mia] suprema opinione.

“...sebbene queste azioni”, cioè il sacrificio, la donazione e


l’ascesi, esposte come purificatori, “debbano essere compiute”,
debbano essere eseguite “avendo abbandonato l’attaccamento”,
l’aderenza nei loro confronti, “e i frutti” di loro, essendosene
cioè completamente distaccati. “Tale è la mia certezza (o Pår-
tha), la” mia “suprema opinione”.
Dopo aver asserito: «La [mia] ferma convinzione, da me
[stesso] ascolta riguardo a ciò...» (Bha. Gı. 18.4), è stata enun-
ciata la ragione [di tale convinzione] come la natura di purifi-
catori [che hanno tali azioni], per cui questa [ulteriore asser-
zione]: “...sebbene queste azioni debbano essere compiute...
(Tal è la mia) ferma convinzione, la [mia] suprema opinione”
costituisce proprio una sintesi del significato della proposizio-
ne iniziata nel passo [citato]. Ora, l’asserzione: “...sebbene que-
ste (azioni...)” non costituisce un nuovo significato [da spiega-
re] dato che è plausibile che il significato [di una espressione]
vada collegato a quanto è in corso di trattazione.
Il senso del termine “sebbene” (api) [fa sì che la frase venga
interpretata come]: ‘...sebbene queste (etånyapi) azioni, che sono
causa di schiavitù per colui che nutre attaccamento [a loro] ed
è alla ricerca del [loro] frutto, debbano essere compiute da co-
lui che aspira intensamente alla liberazione’, mentre non [si
può intendere che] viene detto: “...anche queste (azioni...)”, cioè
in riferimento ad altre azioni [diverse dal sacrificio, ecc.] 5.
Obiezione: Invece altri spiegano [come segue]. Poiché non
vi è frutto per i riti perpetui, non è ragionevole [dire] “avendo
abbandonato l’attaccamento e i frutti”, per cui [l’espressione]
etånyapi significa: ‘anche queste (azioni...)’, intendendo gli
atti finalizzati (kåmyakarman) in quanto differenti dai [riti]
18.7 Diciottesimo Adhyåya 665

perpetui; dunque, ‘anche questi [riti finalizzati] devono essere


compiuti’. Quanto più, allora, dovranno essere [compiuti] il
sacrificio, la donazione e l’ascesi [che possono essere conside-
rati] come [riti] perpetui?
Risposta: Ciò non è esatto, perché qui si è dimostrato, con la
dichiarazione: «Il sacrificio, la donazione e la stessa ascesi sono i
purificatori...», ecc. (Bha. Gı. 18.5), che pure i riti perpetui appor-
tano frutto. Nel dubbio che anche i riti perpetui siano causa di
schiavitù, donde mai potrebbe aversi, per colui che intende ri-
nunciare [a tutto] e che aspira intensamente alla liberazione,
una propensione verso quelli finalizzati? Inoltre è stata espressa
anche una valutazione riduttiva [dell’azione] nei termini: «Di
gran lunga inferiore (allo Yoga della conoscenza...) è... l’azione»
(Bha. Gı. 2.49) ed è stato accertato che i riti finalizzati costitui-
scono [indubbiamente] una causa di schiavitù [nei passi]: «Al-
l’infuori dell’azione [compiuta] in funzione del sacrificio (questo
mondo è vincolato all’azione)» (Bha. Gı. 3.9), «I Veda hanno per
oggetto la triade dei gu√a (ma tu devi essere libero dalle tre qua-
lità...)» (Bha. Gı. 2.45), «I conoscitori dei tre Veda, bevitori del
soma... (adorando Me con sacrifici...)» (Bha. Gı. 9.20), «...al-
l’esaurimento del merito, entrano nel mondo dei mortali» (Bha.
Gı. 9.21); [così il senso da noi spiegato qui va accolto pienamen-
te] anche perché [i passi citati] sono troppo distanti per poter
costituire oggetto di confutazione [in questo contesto]. Dunque
l’affermazione [che comincia con: etånyapi, e che va letta come
abbiamo mostrato]: “...sebbene queste (azioni...)” [e non come:
‘...anche queste (azioni...)’] non si riferisce ai [riti] finalizzati.
Perciò, per colui che aspira intensamente alla liberazione
ma possiede la qualificazione [per l’azione],

18.7. Invero, la completa rinuncia nei confronti dell’azione im-


posta [dalle Scritture] non è accettabile; il completo abbandono
di quella [azione] dovuto alla illusione viene dichiarato tamasico.
666 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.7

“Invero, la completa rinuncia”, il totale distacco “nei con-


fronti dell’azione imposta [dalle Scritture]”, come la [attività
rituale obbligatoria o] perpetua, “non è accettabile”, perché si
intende che costituisce un mezzo di purificazione per il non-
conoscitore; “il completo abbandono di quella” [azione] impo-
sta “dovuto alla illusione”, cioè causato da ignoranza – quello
che è imposto deve essere necessariamente fatto e, se viene
abbandonato, ciò comporta una evidente contraddittorietà –
dunque, un completo distacco causato da illusione “viene di-
chiarato tamasico”, e [infatti] il tamas è illusione.
E inoltre,

18.8. L’azione che [un uomo] dovesse abbandonare per pau-


ra della sofferenza fisica soltanto perché ‘è [fonte di] dolore’,
avendo costui compiuto un abbandono rajasico, [questi stesso]
non otterrà affatto il frutto dell’abbandono.

“L’azione che [un uomo] dovesse abbandonare”, dovesse


tralasciare del tutto “per paura della sofferenza fisica”, per timo-
re del patimento nel corpo, cioè “soltanto perché ‘è [fonte di]
dolore’, avendo costui compiuto un abbandono rajasico”, che
può essere effettuato solo nel [predominare del] rajas, “[questi
stesso] non otterrà affatto il frutto dell’abbandono”, cioè non
potrà affatto ottenere la liberazione quale frutto dell’abbandono
di tutte le azioni [come quando è] preceduto dalla conoscenza.
Qual è, dunque, l’abbandono sattvico?
[Bhagavat lo] dice:

18.9. L’azione imposta che viene compiuta soltanto perché ‘è


da compiersi’, o Arjuna, avendo abbandonato l’attaccamento e
il frutto stesso, tale abbandono è giudicato sattvico.

“L’azione imposta”, perpetua, “che viene compiuta”, ossia


viene effettuata “soltanto perché ‘è da compiersi’”, deve essere
18.9 Diciottesimo Adhyåya 667

compiuta, “o Arjuna, avendo abbandonato l’attaccamento e lo


stesso frutto...”.
Abbiamo detto che questa affermazione, che ha proferito
Bhagavat, circa il possesso di frutto da parte dei riti perpetui
è un mezzo autorevole di conoscenza. Oppure il non-cono-
scitore può immaginare che, sebbene il frutto del rito perpe-
tuo non risulti appreso dalla Âruti, tuttavia il rito perpetuo,
una volta effettuato, produce per lui stesso il frutto che è l’au-
topurificazione o la completa eliminazione dell’errore oppo-
sto (quello dovuto alla mancata esecuzione di tali atti ingiun-
ti). A tale riguardo, [Bhagavat] esclude anche questa possibile
congettura attraverso questa [espressione]: “avendo abbando-
nato... il frutto...”. Quindi, quanto detto [nei termini]: “avendo
abbandonato l’attaccamento e il frutto (stesso)” è [perfetta-
mente] plausibile.
“...tale abbandono”, cioè il completo abbandono dell’attac-
camento e del frutto, “è giudicato sattvico”, lo si considera ef-
fettuato nel [prevalere del gu√a] sattva.
Obiezione: Comunque il completo abbandono dell’azione è
triplice ed è l’argomento trattato come saænyåsa. Al riguardo
è stato esposto l’abbandono tamasico e [quello] rajasico. Per-
ché l’abbandono dell’attaccamento e del frutto viene qui enun-
ciato come terzo? Sarebbe come [dire]: ‘sono arrivati tre brå-
hma√a e, tra loro, due sono conoscitori delle sei [scienze] ausi-
liarie, il terzo è uno k≤atriya’. Tale e quale [è il caso presente].
Risposta: Questo non è un difetto, perché lo scopo [di tale
modalità di esposizione] è rendere lode [ai due tipi di abban-
dono, quello delle sole azioni e quello esteso anche all’attacca-
mento e ai frutti delle azioni] in virtù della [loro] medesima
natura di abbandono. In effetti una medesima natura di abban-
dono vi è sia per la completa rinuncia all’azione che per l’ab-
bandono dell’interesse verso il frutto, [ma] tra questi, attraver-
so una condanna del [solo] abbandono dell’azione per via della
668 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.9

sua natura rajasica o tamasica, viene elogiato l’abbandono del-


l’interesse verso il frutto dell’azione in virtù della sua natura
sattvica [asserendo]: “tale abbandono è giudicato sattvico”.
Invece, quanto a colui che è qualificato [per l’azione ritua-
le], se [costui] compie il rito perpetuo avendo abbandonato
l’attaccamento [all’agire in sé 6] e l’interesse per il frutto [di
tale azione], il suo organo interno7, venendo reso incontami-
nato dall’attaccamento, ecc. verso il frutto [delle azioni] e ve-
nendo perfezionato [proprio] dai riti perpetui, si purifica to-
talmente: esso, una volta che è totalmente purificato e perfet-
tamente pacificato, diviene idoneo per la percezione intuitiva
dell’åtman.
Ora si deve esporre questo: come sia possibile lo stabilirsi
in tale [consapevolezza] per quegli stesso il cui organo inter-
no è stato totalmente purificato dalla esecuzione dei riti per-
petui e il quale è rivolto esclusivamente verso la [realizzazione
della] conoscenza dell’åtman. [A tale scopo Bhagavat] dice:

18.10. Non detesta l’azione infausta né aderisce a quella


fausta, colui che ha praticato l’abbandono, colui che è compe-
netrato di sattva, colui che è dotato di saviezza, colui il cui dub-
bio è stato reciso...

“Non detesta l’azione infausta”, quella finalizzata, che è im-


pura in quanto causa del [permanere nel] divenire ciclico at-
traverso la connessione con il corpo, [pensando] così: ‘che cosa
ne [otterrò]?’, “né aderisce”, cioè non crea attaccamento, affe-
zione “a quella fausta”, a quella pura, al rito perpetuo, [pensan-
do] così: ‘questa [azione] sarà [per me] causa di liberazione’ in
quanto è causa di purificazione del sattva, quindi del sorgere
della conoscenza e della [conseguente] fondatezza in quella.
Chi è, dunque, costui?
È “colui che ha praticato l’abbandono” con l’abbandonare
l’attaccamento e il frutto come è stato esposto in precedenza;
18.10 Diciottesimo Adhyåya 669

proprio tale è colui che ha praticato l’abbandono, quegli, cioè,


che, avendo abbandonato l’attaccamento nei confronti sia
dell’azione che del suo frutto, compie il rito perpetuo: quello è
colui che pratica [rettamente] l’abbandono (tyågin).
Quando è, allora, che costui non detesta l’azione infausta
e non aderisce a quella fausta?
Si dice: “colui che è compenetrato di sattva”, cioè quando
[egli] è compenetrato, è pervaso dal sattva quale causa della
totale conoscenza discriminante tra l’åtman e ciò che non è
l’åtman; cioè quegli che è completamente unificato [all’og-
getto di venerazione che è l’åtman]. Proprio per questo è “co-
lui che è dotato di saviezza”, cioè quegli che è completamente
unificato con la saviezza quale perfetta conoscenza consisten-
te nella consapevolezza dell’åtman: proprio tale è colui che è
dotato di saviezza (medhåvin). Proprio perché è dotato di sa-
viezza, è “colui il cui dubbio è stato reciso...”, colui il cui dub-
bio, prodotto dall’ignoranza, è stato reciso da una convinzio-
ne così: ‘soltanto una condizione stabile di permanenza nella
propria reale natura di åtman è il supremo mezzo per [ottene-
re] il sommo Bene (la liberazione) e nessun’altra cosa’; pro-
prio tale è colui il cui dubbio è stato reciso (chinnasaæŸaya).
L’essere umano che è qualificato [per l’azione], purifican-
dosi gradualmente attraverso la pratica del karmayoga nel
modo descritto, avendo realizzato l’åtman non-agente (ni≤kriya,
privo di attività modificante) come il [proprio] sé esente da
[qualsiasi] modificazione di nascita, ecc., costui, avendo com-
pletamente rinunciato nel pensiero a tutte le azioni e rimanen-
do immobile senza affatto agire né causando attività, ottiene
la stabile fondatezza nella conoscenza definita come ‘assoluta
assenza di attività’ (nai≤karmya, cioè la libertà dall’agire, quin-
di dal divenire che l’azione produce). Questa, esposta da que-
sto Ÿloka, è la valenza del karmayoga descritto in precedenza.
Invece quegli che, [pur] essendo qualificato [per l’azione],
è un essere incarnato in virtù della sua autoidentificazione
670 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.10

con il corpo ed è [pertanto] un non-conoscitore dalla salda


convinzione: ‘io sono l’agente’, dovuta a una [erronea] nozio-
ne della natura dell’åtman come agente, [nozione] che non è
stata respinta, per costui, a causa della incapacità di operare
un completo abbandono dell’azione nella sua integralità, si ha
la qualificazione al solo compimento dell’attività [sacrale e
non] con l’abbandono del frutto dell’azione, ma non con l’ab-
bandono di quella [integralmente]. Per mostrare questo signi-
ficato [Bhagavat] dice:

18.11. ...perché, per il portatore di corpo, non è possibile ab-


bandonare le azioni integralmente; invero, quegli che abbandona
il frutto dell’azione, è chiamato: colui che compie l’abbandono.

“...perché”, per il motivo che “per il portatore di corpo...”:


il portatore di corpo è colui che reca un corpo e viene detto
portatore di corpo (dehabhÿt) colui che si autoidentifica con
tale veicolo fisico; certamente egli non è un [essere] discrimi-
nante, essendo stato escluso dalla proposizione relativa alla
funzione di agente espressa a cominciare dal passo: «(Colui il
quale lo) realizza come indistruttibile...», ecc. (Bha. Gı. 2.21).
Ne consegue che, per tale ‘portatore di corpo’, non-cono-
scitore, “...non è possibile abbandonare le azioni integralmen-
te”, rinunciarvi completamente e senza eccezione.
Perciò, “invero, quegli”, il non-conoscitore, qualificato
[per l’azione], “che”, [pur] celebrando i riti perpetui, “abban-
dona il frutto dell’azione”, cioè rinuncia completamente al
mero interesse verso il frutto dell’azione, “è chiamato: colui
che compie l’abbandono” in senso di elogio, pur essendo
agente.
Perciò, soltanto per il portatore di corpo (l’essere incarna-
to) che abbia realizzato la suprema realtà e che sia pertanto
esente dalla identificazione di sé con il corpo è possibile ope-
rare la completa rinuncia all’azione in modo integrale8.
18.12 Diciottesimo Adhyåya 671

Qual è, ancora, per lui il beneficio, quello che si avrà dalla


completa rinuncia a qualsiasi azione?
Si dice:

18.12. Sgradevole, gradevole e misto: triplice è il frutto del-


l’azione, che viene a coloro che [in vita] non hanno attuato
l’abbandono, dopo essersi dipartiti, ma in nessuna condizione
[viene alcun genere di frutto] ai completi rinunciatari.

“Sgradevole”, consistente [nel rinascere] in una condizione


infernale, animale, ecc., “gradevole”, consistente in una con-
dizione di deva, ecc., “e misto”, cioè una mescolanza di grade-
vole e sgradevole, come quello consistente nella [rinascita in
una] condizione umana: così, “triplice”, avente tre modalità,
“è il frutto dell’azione”, definita sia meritoria che demeritoria,
prodotto dall’ignoranza essendo determinato dall’azione di
molteplici fattori estranei [all’agente].
[Tale frutto è] paragonabile alla suggestione [indotta da
parte] di un illusionista, produce una grande illusione (essen-
do di tale natura) e qui sembra coinvolgere l’intimo åtman; a
causa della [sua] natura inconsistente (phalgutå) [si compren-
de che il frutto in generale] è destinato alla dissoluzione (laya)
e alla scomparsa: tale è la [stessa] definizione di ‘frutto’ (phala).
Questo stesso frutto così definito “viene a coloro che [in
vita] non hanno attuato l’abbandono”, ai non-conoscitori, a
coloro che praticano il karma [-yoga], dunque a coloro che
non sono realmente completi rinunciatari, “dopo essersi di-
partiti”, dopo la morte fisica, “ma in nessuna condizione [viene
alcun genere di frutto] ai completi rinunciatari”, cioè a coloro
che sono realmente completi rinunciatari, agli asceti itineranti
dell’ordine più elevato (paramahaæsaparivråjaka) che sono
stabilmente fondati nella sola conoscenza 9. Infatti la sola fon-
datezza nell’autentica concezione non può sradicare il seme
del divenire ciclico che è l’ignoranza, ecc. Tale è il significato 10.
672 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.12

Quindi la completa rinuncia all’azione nella sua integralità è


possibile solo per colui che ha realizzato la realtà suprema, per-
ché [egli ha riconosciuto che] le attività, i fattori dell’agire e i
frutti sono [solo apparentemente] sovrapposti all’åtman a causa
della ignoranza. Invece, per il non-conoscitore, che considera
le attività, l’agente e i fattori, nonché il [loro] supporto [di at-
tuazione qual è il corpo], ecc., proprio come sé stesso, la com-
pleta rinuncia all’azione nella sua integralità non è possibile.
Ciò stesso [Bhagavat] mostra con i successivi Ÿloka.

18.13. Questi cinque mezzi di effettuazione, o Mahåbåhu,


apprendi da Me, [quali sono] dichiarati nel Såækhya, che è il
fine dell’atto, per l’adempimento di tutte le azioni.

“Questi cinque mezzi di effettuazione”, i fattori determi-


nanti che stanno per essere enunciati, “o Mahåbåhu, apprendi
da Me...”, da parte mia: così [si esprime Bhagavat] allo scopo
di fissare stabilmente l’attenzione [dell’ascoltatore] e per pro-
spettare la sostanziale differenza tra gli oggetti [in questione],
mentre [al tempo stesso] elogia tali mezzi di effettuazione in
virtù del loro dover essere conosciuti [specificando] “nel Såæ-
khya”, laddove [i sapienti] denominano Såækhya (lett. ‘Enu-
merazione’) quella Scrittura nella quale sono enumerate [tut-
te] le categorie che devono essere conosciute. Di quello stesso
[Såækhya ora Bhagavat fornisce anche] la specificazione “che
è il fine dell’atto”: viene detto atto (kÿta) l’agire (karman) [in
generale]; il suo fine (anta) è laddove si ha il [suo] completo
compimento: quello è il ‘fine dell’atto’ (kÿtånta), cioè il coro-
namento dell’azione. Nei passi: «Quale l’utilità di una cister-
na d’acqua...» (Bha. Gı. 2.46), «...tutta l’azione, senza eccezio-
ne, o Pårtha, trova completo compimento nella conoscenza»
(Bha. Gı. 4.33) [Bhagavat] mostra la cessazione di tutte le azio-
ni quando è sorta la conoscenza (cioè la integrale soluzione
dell’impulso stesso ad agire unitamente alla sua causa-avidyå).
18.15 Diciottesimo Adhyåya 673

Quindi “(Questi cinque mezzi di effettuazione...) [quali so-


no] dichiarati”, che vengono recitati “nel Såækhya, che è il
fine dell’atto”, cioè nel Vedånta, ossia in quello il cui scopo è
[impartire] la conoscenza, “per l’adempimento”, al fine del per-
fetto compimento (ni≤patti) “di tutte le azioni”.
Quali sono tali [mezzi di effettuazione]?
Si dice:

18.14. [Essi sono] il supporto [fisico], similmente l’agente


dell’azione, l’organo di vario tipo, le diverse e separate funzioni
[dei soffi vitali] e lo stesso principio divino qui [elencato] come
il quinto.

“[Essi sono] il supporto [fisico]...”; il supporto [fisico] (a-


dhi≤†håna) è il corpo quale sede (åŸraya) della manifestazione
esteriore di desiderio, avversione, piacere, dolore, cognizione,
ecc., “similmente l’agente”, cioè il fruitore (sperimentatore)
caratterizzato dalle sovrapposizioni limitanti, “l’organo”, come
quello contraddistinto dall’udito, ecc., per la percezione del
suono, ecc., “di vario tipo”, cioè quella molteplice modalità
che assomma a dodici [tipi di facoltà] 11, “le diverse e separate
funzioni” che possiedono i soffi vitali quali il prå√a, l’apåna,
ecc., “e lo stesso principio divino”, lo stesso principio divino
quale può essere Åditya, ecc., che conferisce impulso [percet-
tivo, attivo, ecc.] all’occhio e agli altri [organi sostenendoli
nelle loro funzioni], “qui”, in questi quattro [mezzi elencati],
“come il quinto”, come quello che completa i cinque12.

18.15. Qualunque sia l’azione che l’uomo intraprende con


corpo, parola o mente, sia retta che opposta, questi cinque sono
i suoi mezzi.

“Qualunque sia l’azione che l’uomo intraprende con corpo,


parola o mente”, che effettua con questi tre [strumenti], “sia
674 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.15

retta”, conforme al dharma, in accordo con le Scritture, “che


opposta”, contraria al dharma e in disaccordo con le Scritture...
Anche quella stessa [forma di attività] che fa parte della
modalità vitale [di un organismo] come, ad esempio, l’atto di
battere le palpebre, anche essa è compresa dal medesimo rag-
gruppamento di ‘retta e opposta’ perché è un effetto del dha-
rma e dell’adharma precedentemente prodotti.
“...questi cinque”, quali sono stati esposti, “sono i suoi mez-
zi”, i mezzi di effettuazione di quella stessa azione.
Obiezione: Questi, come il supporto e gli altri, sono i [ne-
cessari] fattori determinanti di qualsiasi azione. In che senso
si dice: ‘qualunque sia l’azione che intraprende con corpo, pa-
rola o mente’?
Risposta: Ciò non costituisce una difficoltà. Ogni azione, sia
essa definita ingiunta o proibita, ha un [elemento] prevalente
nella terna di corpo, ecc. Per esempio, il vedere, l’ascoltare, ecc.,
che costituiscono normali espressioni vitali, [possono compier-
si] attraverso la presenza del rispettivo mezzo organico; così
quanto viene attuato attraverso il corpo e gli altri [fattori] vie-
ne espresso in quanto raccolto proprio nella triplice modalità.
Anche al tempo [del godimento] del frutto, [questo] viene
esperito attraverso quei mezzi uno dei quali è il prevalente.
Pertanto la natura di mezzo [dell’azione enunciata] per [ciascu-
no di tutti] i cinque [mezzi elencati] non viene contraddetta.

18.16. Riguardo a ciò, essendo così, colui il quale vede, invero,


l’assoluto åtman come l’agente, essendo di intelletto incompiuto
costui non vede [l’essenza dell’åtman o dell’azione]: è di perversa
intelligenza.

“Riguardo a ciò” (tatra) – [tale espressione] si ricollega a


quanto è oggetto di trattazione – “essendo così”, cioè: l’azione
essendo (sati) effettuata così (evam), ossia attraverso i cinque
18.17 Diciottesimo Adhyåya 675

mezzi quali sono stati esposti. [Tutta la frase che s’inizia con]
“Riguardo a ciò, essendo così...”, si riferisce alla causa della im-
maturità mentale [di colui che considera l’åtman come l’agente].
In rapporto a ciò, in merito a questi [cinque fattori del-
l’azione], il non-conoscitore, “il quale vede, invero, l’assolu-
to”, il puro “åtman come l’agente...” [pensando]: ‘io stesso
sono l’agente dell’azione’ che viene [invece] eseguita da [tali
fattori] immaginati, attraverso l’ignoranza, come non distinti
dall’åtman [stesso]...
Obiezione: Perché [costui vede in questo modo]?
Risposta: “...essendo di intelletto incompiuto”, cioè avendo
l’intelletto non purificato dal Vedånta, dal Maestro, dalla istru-
zione e dalla ragione. Anche quegli che, pur affermando l’åtman
come affatto distinto dal corpo, ecc., vede lo stesso åtman
come agente, anche questi è di intelletto incompiuto (akÿta-
buddhi). Dunque, “...essendo di intelletto incompiuto costui
non vede” l’essenza dell’åtman o dell’azione. Tale è il signifi-
cato. Pertanto “è di perversa intelligenza”; è di perversa intel-
ligenza (durmati) quegli la cui intelligenza, [essendo] riprove-
vole, pervertita e deviata, diviene continuamente la causa
dell’ottenimento di nascita e morte. Costui, pur vedendo, non
vede [veramente]. Ciò è come quando, affetti da diplopia, [si
percepisce] una luna sdoppiata, o come [guardandola] tra nu-
vole in movimento, [si crede] la luna muoversi, oppure come
quegli che, seduto su un carro, [considera] sé stesso in movi-
mento quando sono altri (i portatori) a muoversi.
Chi è, dunque, colui che, di buona intelligenza, vede au-
tenticamente?
Si dice:

18.17. Colui, la natura del quale non è affetta dall’io, la cui


mente non aderisce [ai contenuti], anche se dovesse uccidere
questi mondi (esseri) non ucciderebbe né sarebbe vincolato.
676 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.17

“Colui, la natura”, la mente, la consapevolezza “del quale


non è affetta dall’io”, il cui sé (intelletto) è stato purificato dalle
Scritture, dal Maestro, dalla istruzione e dalla ragione, per cui
non viene a essere definita [da una falsa nozione] così: ‘io
sono l’agente’, [ma dalla certezza]: ‘soltanto questi cinque
[fattori dell’azione], come il supporto [fisico] e gli altri, sono
gli agenti dell’azione, per quanto vengano immaginati inerire
all’åtman per via della ignoranza, ma non io, in quanto io sono
il testimone delle loro attività quale [åtman] assoluto e privo
di attività modificante’, [come afferma il passo]: «...È senza
prå√a, perché, invero, è privo di mente. È [totalmente] limpi-
do perché, invero, è superiore [anche] al sommo indistruttibi-
le» (Mu. 2.1.2); “la cui mente”, cioè l’organo interno [del qua-
le] costituisce una sovrapposizione limitante per l’åtman,
“non aderisce”, non diviene intimamente attaccata [a conte-
nuti quali]: ‘io ho commesso questo, perciò io andrò nell’in-
ferno’; dunque, colui la cui mente non aderisce a questo [ge-
nere di proiezioni], costui è di buona intelligenza (sumati),
egli vede [veramente]; “anche se dovesse uccidere questi mon-
di”, vale a dire tutti questi esseri viventi, “non ucciderebbe”,
non commetterebbe [alcuna] azione di uccisione, “né sarebbe
vincolato”, e neppure verrebbe a essere legato dal frutto di
quell’adharma che [per gli altri] ne è l’effetto.
Obiezione: Tuttavia [quanto asserito]: ‘anche se dovesse
uccidere non ucciderebbe’, è contraddittorio, per quanto ven-
ga proferito a titolo di elogio.
Risposta: Questo non è un difetto, essendo perfettamente
plausibile a seconda che si faccia riferimento alla concezione
ordinaria (laukika) o a quella inerente alla realtà suprema.
[Bhagavat] dice: ‘anche se dovesse uccidere’ (hatvåpi), rife-
rendosi alla ordinaria concezione: ‘io sono l’uccisore’, dovuta
alla nozione di sé come corpo, ecc., mentre, riferendosi alla
concezione relativa alla realtà suprema, quale è stata prospet-
18.17 Diciottesimo Adhyåya 677

tata [in precedenza, dice]: ‘non ucciderebbe né sarebbe vinco-


lato’ (na hanti na nibadhyate). Così entrambe queste [asserzioni]
sono perfettamente ammissibili.
Obiezione: Comunque l’åtman produce certamente attività
associandosi con il supporto e con gli altri [mezzi dell’azione],
come [si desume] dall’impiego del termine ‘assoluto’ [nel
passo]: «...invero, l’assoluto åtman come l’agente...» (Bha. Gı.
18.16).
Risposta: [Anche] questo non è un difetto perché, essendo
la natura dell’åtman priva di [qualsiasi] attività modificante,
non sarebbe ammissibile [da parte dell’åtman stesso l’acqui-
sizione di] una condizione di associazione con il supporto [cor-
poreo] e gli altri [fattori dell’azione]. Infatti, [solo] per ciò che
è suscettibile di modificazione è possibile l’associazione con
altri [enti] tale che, una volta che sia associato [con loro in tal
modo], si abbia [per l’åtman l’acquisizione di] una condizione
di agente. Ma per l’åtman esente da qualsiasi attività modifi-
cante non può esserci associazione con alcunché, per cui, non
essendo associato [a null’altro], non è ragionevole ammettere
[l’acquisizione di] nessuna condizione di agente. Quindi la na-
tura di assolutezza è intrinsecamente propria dell’åtman, per
cui il termine ‘assoluto’ si rivela una mera ripetizione. Inoltre
la natura dell’åtman priva di qualsiasi attività modificante [e
quindi di cambiamento] è ben nota sia nella Âruti che nella
Smÿti e [si evince] anche attraverso la ragione. Innanzitutto
nella stessa [Bhagavad] Gıtå [tale natura] viene presentata in
diversi passi, come: «...questo [åtman] viene detto immodifi-
cabile...» (Bha. Gı. 2.25), ovvero: ‘le azioni sono compiute sol-
tanto dai gu√a’, (Cfr. Bha. Gı. 3.27: «Le azioni sono in ogni
caso impulsate dai gu√a...»), «...sebbene risieda nel corpo;..
non agisce...» (Bha. Gı. 13.31), ecc.; poi anche nella Âruti: «...è
come se pensasse, è come se si muovesse...», ecc. (Bÿ. 4.3.7) e,
così, anche in altri passi. E anche con la ragione [si giunge al
678 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.17

medesimo risultato]: priva di parti (niravayava), indipendente


da altri (aparatantra), senza cambiamento (avikriya) è l’essen-
za dell’åtman, e tale è la strada maestra. Anche ammettendo
che l’åtman possegga una natura dotata di cambiamento, il
cambiamento potrebbe essere solamente il suo proprio, [nel
senso che] le azioni [compiute da parte] del supporto e degli
altri [fattori] non potrebbero [mai] essere [considerate] enti
che rivelano il ruolo di agente dell’åtman. Infatti l’azione
[compiuta da parte] di un dato ente non può essere attribuita
a un altro, dal quale non è stata compiuta. Invero, ciò che vie-
ne attribuito [a un ente] attraverso l’ignoranza, non appartie-
ne [realmente] a quello, come la natura di argento non appar-
tiene alla madreperla, o come la forma concava e l’impurità
percepite dai bambini attraverso l’ignoranza non appartengo-
no [realmente] alla volta celeste. Allo stesso modo, anche l’a-
zione [esplicata da parte] del supporto e degli altri [fattori]
compete [solamente] a loro e non all’åtman.
Perciò quanto detto, ossia che ‘in virtù dell’assenza di sog-
gezione al senso dell’io e di maculazione mentale, il saggio
non uccide né viene vincolato’, è giusto. [Anche nella Bhaga-
vadgıtå] dopo aver posto la premessa nei termini: «...questo
[åtman] non uccide né viene ucciso» (Bha. Gı. 2.19), asserita
poi la natura priva di cambiamento dell’åtman con l’esprimer-
ne la causa nel passo: «Non nasce (né mai muore...)» (Bha. Gı.
2.20) e dopo aver altresì concisamente affermato, all’inizio
della Scrittura, che per il conoscitore viene meno la qualifica-
zione all’attività nel passo: «(Colui il quale lo) realizza come
indistruttibile...» (Bha. Gı. 2.21), avendo dunque trattato l’ar-
gomento esposto qua e là [nel corso della Scrittura, Bhagavat]
trae una sintesi qui onde puntualizzare il significato della [in-
tera] Scrittura [dicendo]: ‘il saggio non uccide né viene vin-
colato’.
E, così essendo, non ammettendo identificazione con la
condizione di possesso del corpo, dovendosi altresì ammette-
18.18 Diciottesimo Adhyåya 679

re la completa rinuncia all’azione prodotta dall’ignoranza nel-


la sua integralità, appare ammissibile secondo ragione anche
che ai completi rinunciatari non viene il triplice frutto dell’a-
zione, cioè [quello definito come] sgradevole, ecc. [quale è
stato descritto in Bha. Gı. 18.12], mentre si rivela inevitabile
quello che è opposto a ciò (ossia che il triplice frutto compete
a coloro che agiscono essendo identificati all’agente). Questo
è il significato della [intera] Scrittura della [Bhagavad] Gıtå
qui riassunto. Questa stessa essenza del significato di tutti i
Veda può essere compresa, investigando [nel giusto modo],
dai sapienti di acuta intelligenza, e qui e là, attraverso la sud-
divisione dei contesti, è stata da noi mostrata in accordo con
le Scritture e la ragione.
Ordunque si enuncia [quello che è] l’impulso [al compi-
mento] delle azioni:

18.18. La conoscenza, il conoscibile, il completo conoscitore:


[questa terna viene detta] il triplice stimolo dell’azione; lo stru-
mento dell’agire, l’oggetto e l’agente: [quest’altra terna viene
detta] il triplice sostegno aggregante dell’azione.

Si definisce “conoscenza” (jñåna) ciò attraverso cui viene


conosciuto qualsiasi oggetto, senza eccezione; così, viene det-
to “conoscibile” (jñeya) anche tutto quello che può essere co-
nosciuto in senso affatto generico; similmente, “il completo
conoscitore” (parijñåtÿ) è il fruitore immaginato attraverso l’i-
gnoranza come caratterizzato dalle sovrapposizioni limitanti.
Questa terna viene detta: “il triplice stimolo dell’azione”, l’im-
pulso attivo, avente tre modalità, di tutte le azioni indistinta-
mente. Infatti qualunque azione, mirante a evitare [qualcosa]
o ad acquisire [qualcos’altro], può essere intrapresa solo quan-
do si verifica la combinazione di questi tre [fattori] quali la
conoscenza e gli altri. Quindi ciò che viene intrapreso attra-
verso i cinque [mezzi di effettuazione dell’azione] quali il sup-
680 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.18

porto e gli altri, viene riunito nei tre fattori quali lo strumento
dell’agire e gli altri, cioè viene a costituire un triplice raggrup-
pamento in base alla distinzione delle [rispettive] sedi come la
parola, la mente e il corpo fisico. Questo, che viene detto lo
“strumento dell’agire”, ossia ciò per mezzo di cui si agisce,
come [per esempio] l’udito, ecc. all’esterno, o come l’intellet-
to, ecc., situato all’interno; [quindi] “l’oggetto” (karman) è ciò
che, essendo sommamente desiderato, deve essere acquisito
in vario modo da parte dell’agente attraverso l’agire; [e infi-
ne] “l’agente” (kartÿ) è colui che, caratterizzato dalle sovrap-
posizioni limitanti, compie effettivamente le azioni; “[questa
altra terna] è il triplice sostegno aggregante”, cioè avente tre
aspetti: il sostegno aggregante (saægraha) è ciò su cui [un ente
composito] si sostiene venendo ivi mantenuto unito, e [anco-
ra] il sostegno aggregante dell’azione è ciò che sostiene uniti-
vamente [i fattori che determinano] l’azione. Infatti l’azione
avviene [solo] nella concomitante presenza di questi tre: per-
ciò questa [terna] è il triplice sostegno aggregante dell’azione.
Dopo di ciò, si procede ora a esporre la triplice distinzione
di azioni, fattori e frutti [ecc.], in base alla distinzione dei gu√a:
sattva, rajas e tamas, perché tutti [quelli] sono consustanziati
dai gu√a. A tal uopo [Bhagavat] dà inizio [al primo Ÿloka di
questa sezione]:

18.19. La conoscenza, l’azione e l’agente: [ciascuno] è ancora


triplice a seconda della distinzione dei gu√a, come si dichiara
nella scienza dei gu√a. Ascolta anche loro così come sono [de-
scritti].

“La conoscenza, l’azione...” – qui [il termine] karman desi-


gna l’attività e non indica un fattore dell’azione né, per im-
piego convenzionale, l’oggetto intensamente desiderato – “e
l’agente”, colui che effettua le attività: “[ciascuno] è ancora
triplice, a seconda della distinzione dei gu√a”, vale a dire in
18.20 Diciottesimo Adhyåya 681

funzione della distinzione tra il sattva e gli altri [gu√a] – [tale


specificazione] ha lo scopo di prospettare l’inesistenza di una
[qualsiasi] altra classe di definizione a eccezione dei gu√a –
“come si dichiara”, come si recita “nella scienza dei gu√a”, cioè
nella Scrittura a opera di Kapila; anche quella Scrittura della
scienza dei gu√a costituisce essa stessa un mezzo autorevole
di conoscenza (pramå√a) in quanto concerne i gu√a e il [loro]
sperimentatore13.
Sebbene essa si discosti dall’argomento che è l’unità asso-
luta del Brahman quale realtà suprema [prospettando una
realtà duplice: Puru≤a-Prakÿti, come sostrato ultimo], tuttavia
[si deve prendere atto che] i seguaci di Kapila sono meticolo-
samente attenti nell’accertamento [della natura] dei gu√a e
delle funzioni dei gu√a. Così viene presentata anche quella
Scrittura in quanto ha lo scopo di rendere elogio all’argomento
che si esporrà. In ciò non vi è contraddizione.
“Ascolta anche loro così come sono [descritti]”, cioè: ap-
prendi la conoscenza e gli altri [fattori elencati], in quanto
determinati [nella loro triplice natura] dalla distinzione dei
gu√a, classificati in base alla loro distinzione, conformemente
alla ragione e in accordo con la Scrittura; vale a dire, fai atten-
zione al significato che sta per essere esposto.
Innanzitutto si enuncia la triplice natura della conoscenza:

18.20. Quella conoscenza, grazie alla quale [egli] scorge una


unica Essenza inalterabile in tutti gli esseri, indivisa nei [corpi]
divisi, sappi che è sattvica.

“Quella conoscenza”, cioè la diretta e autentica percezione


concernente la non-dualità dell’åtman, “grazie alla quale” co-
noscenza, cioè la conoscenza grazie alla quale [egli] “scorge”,
vede “una unica Essenza”, la realtà (vastu) – [qui] il termine
‘essenza’ (bhåva) designa la realtà – vale a dire la realtà unica
dell’åtman, [che è] “inalterabile” in quanto di per sé, cioè in
682 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.20

virtù della propria natura, non cambia [mai], ossia immutabi-


le, “in tutti gli esseri”, cioè negli esseri dall’Immanifesto fino
agli enti inerti, [e percepisce] quella Essenza “indivisa” in cia-
scun corpo, cioè “nei [corpi] divisi”, in quanto quella realtà
dell’åtman non è [mai] divisa, cioè priva di interruzione, al
pari dello spazio, “sappi che è sattvica”.
[Invece] quelle [conoscenze] non autentiche, come le con-
cezioni dualistiche, sono rajasiche e tamasiche e non sono ca-
paci di troncare direttamente il divenire ciclico.

18.21. Invece, quella conoscenza che concepisce in tutti gli


esseri molteplici essenze separate, per via della separazione [de-
gli esseri], sappi che tale conoscenza è rajasica.

“Invece, quella conoscenza che concepisce”, quella cono-


scenza che conosce distintamente, vale a dire quella conoscen-
za attraverso la quale [l’individuo] scorge – dato che per la
conoscenza è impossibile la funzione di agente – “in tutti gli
esseri molteplici essenze separate”, cioè diversi åtman quali
singole modalità, vale a dire caratterizzate da una [reciproca]
distinzione, “per via della separazione”, attraverso la distin-
zione, la natura di differenza [esistente] in relazione a ciascun
corpo, “sappi che tale conoscenza è rajasica”, cioè esplicata
tramite il gu√a rajas.

18.22. Ma quella [conoscenza] che aderisce a un unico effet-


to come se fosse l’intero, priva di una ragione, non avente reale
oggetto e limitata, quella è dichiarata tamasica.

“(Ma) quella” conoscenza “che aderisce a un unico effetto”,


quale il corpo o un simulacro esterno, “come se fosse l’intero”,
come se fosse la totalità, come se concernesse il tutto, [con la
certezza]: ‘proprio questo [corpo] è l’åtman’, o ‘[questo simu-
lacro] è davvero ÙŸvara’, ‘non vi è nulla di superiore a ciò’ –
18.23 Diciottesimo Adhyåya 683

come, ad esempio, per i mendicanti ignudi 14, ‘il jıva dimora


[realmente] all’interno del corpo e del corpo fisico ha la di-
mensione’, mentre [per altri chiaramente idolatri] ‘il Signore
è [davvero] soltanto la pietra o il pezzo di legno, ecc. [della
statuetta]’ – dunque, così attaccata a un unico effetto e “priva
di una ragione”, senza una motivazione, cioè dissennatamen-
te, “non avente reale oggetto”, cioè senza un contenuto così
qual esso è, perché un contenuto reale (tattvårtha) è il conte-
nuto così qual esso è [nella realtà]; per esempio, [una cono -
scenza] avente reale contenuto (tattvårthavat) potrebbe essere:
‘ciò esiste in quanto è conoscibile da costui’; [l’espressione]
non avente reale oggetto (atattvårthavat) significa: non avente
nessun contenuto reale.
Inoltre, essendo affatto priva di una ragione, è anche “li-
mitata”, cioè: essendo di contenuto circoscritto [perché for-
male], e quindi possedendo un frutto limitato, “quella [cono-
scenza] è dichiarata tamasica”. Infatti una simile conoscenza
viene concepita dagli esseri viventi tamasici, cioè non-discri-
minanti.
Dopo di questo, si espone adesso la triplice natura del-
l’azione.

18.23. L’azione che è ingiunta, esente da attaccamento, com-


piuta senza desiderio o avversione da colui che non aspira avi-
damente al frutto, quella viene detta sattvica.

“L’azione che è ingiunta”, la [azione rituale] perpetua, “e-


sente da attaccamento”, scevra di aderenza [al frutto, al mezzo,
ecc. da parte dell’agente], “compiuta senza desiderio o avver-
sione...”: è compiuta con desiderio o con avversione [l’azione]
effettuata congiuntamente con l’attrazione o congiuntamente
con la repulsione [verso l’oggetto], quella opposta a essa è
[detta] ‘compiuta senza desiderio o avversione’ (arågadve≤a-
kÿta); “...da colui che non aspira avidamente al frutto...” (apha-
684 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.23

laprepsu): aspira avidamente al frutto colui che anela intensa-


mente all’esito [del proprio agire], che nutre la sete verso il
[suo] frutto; dunque, “quella” [azione] compiuta da un agente
che non aspira avidamente al frutto, cioè da colui che è oppo-
sto a quello [appena descritto], “viene detta sattvica”.

18.24. Ma l’azione che viene compiuta con notevole impegno


da colui che aspira all’oggetto di desiderio o, ancora, da colui
che è accompagnato dal senso dell’io, tale azione è dichiarata
rajasica.

“Ma l’azione che viene compiuta con notevole impegno”,


che viene portata a compimento attraverso un grande sforzo
da un agente, cioè “da colui che aspira all’oggetto di desiderio”,
vale a dire da colui che aspira al frutto dell’azione, “o (ancora)
da colui che è accompagnato dal senso dell’io...”. [L’espressio-
ne] ‘da colui che è accompagnato dal senso dell’io’ non è in
riferimento alla conoscenza della realtà15.
Che cosa [significa] allora?
Ci si riferisce a colui che è privo di senso dell’io in quanto
è un ordinario conoscitore delle Scritture 16. Infatti, per colui
che è un conoscitore dell’åtman, ed è quindi realmente privo
di senso dell’io, non si ammette né una condizione di aspira-
zione all’oggetto di desiderio né [la espletazione di] una fun-
zione di agente attraverso un notevole impegno. [Se] anche
l’agente dell’azione sattvica non è un conoscitore dell’åtman
ed è contraddistinto dal senso dell’io, quanto più lo saranno,
allora, [gli agenti delle azioni] rajasiche e tamasiche?
Nel piano ordinario si dice che è privo di senso dell’io an-
che il non-conoscitore dell’åtman che [però] sia versato nelle
Scritture, come [nella espressione comune]: ‘questo bråhma√a
non possiede il senso dell’io’. Perciò, è proprio in riferimento
a una distinzione da lui, che è stato detto: “...da colui che è
accompagnato dal senso dell’io”.
18.26 Diciottesimo Adhyåya 685

La parola “ancora” (punas) ha lo scopo di completare la


metrica del påda [nello Ÿloka].
“...quella” azione “è dichiarata rajasica”.

18.25. Quella azione che a causa della illusione viene intra-


presa senza tenerne in conto la conseguenza, la perdita, il danno
e l’umana capacità [di portarla a termine effettivamente] è det-
ta tamasica.

“Quella azione che a causa della illusione”, in assenza di


discriminazione, “viene intrapresa senza tenerne in conto la
conseguenza...”: si dice ‘conseguente’ quella situazione che si
verifica dopo [un dato atto]: essa ne è la conseguenza (anuba-
ndha) [che non viene considerata]; “la perdita”: se nell’azione
che viene compiuta dovesse aversi [per gli altri] una privazio-
ne in merito alle facoltà o una rovina della ricchezza, quella è
la perdita (k≤aya); “il danno”, l’offesa nei confronti degli esse-
ri viventi, “e l’umana capacità [di portarla a termine effetti-
vamente]”, cioè l’impegno umano, la propria capacità così
[espressa]: ‘posso portare a compimento questa azione’; [l’a-
zione intrapresa] così, senza tenerne in conto questi [effetti]
a cominciare dalla conseguenza per finire con l’umana capa-
cità, “è detta tamasica”, cioè effettuata nel [prevalere del gu-
√a] tamas.
Adesso si espone la [triplice] distinzione riguardo all’a-
gente.

18.26. Colui che compiendo un’azione ha deposto l’attacca-


mento, che non si afferma come ‘io’, che è pienamente dotato di
fermezza e forza di volontà, che resta immodificato dal successo
e dall’insuccesso è detto sattvico.

“Colui che compiendo un’azione ha deposto l’attaccamen-


to”: ha deposto l’attaccamento (muktasa§ga) quegli dal quale
686 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.26

l’attaccamento è stato [totalmente] deposto, completamente


abbandonato; “che non si afferma come ‘io’”, che non è incline
a esprimersi come ‘io’; “che è pienamente dotato di fermezza e
di forza di volontà”: la fermezza (dhÿti) è la determinazione
(dhåra√a), mentre la forza di volontà (utsåha) è lo slancio
(udyama); pienamente dotato di fermezza e di forza di volon-
tà [significa] pienamente dotato di entrambe, cioè completa-
mente unito [a loro]; “che resta immodificato dal successo
e dall’insuccesso” dell’azione che viene [da lui] compiuta e
quindi nell’acquisizione e nella mancata acquisizione del [suo]
frutto. [Pertanto] si dice che resta immodificato quegli che è
stimolato all’agire unicamente dall’autorità delle Scritture e
non dall’attrazione verso il frutto [dell’agire]. Quegli, che è
[un agente] siffatto, “è detto sattvico”.

18.27. Colui che compiendo un’azione è passionale, che aspira


avidamente al frutto dell’azione, bramoso, essenziato di catti-
veria, impuro e soggetto alla esaltazione e all’abbattimento, è
biasimato come rajasico.

“Colui che compiendo un’azione è passionale”: è passiona-


le quegli per il quale [l’impulso ad agire] è la passione (råga);
“che aspira avidamente al frutto dell’azione”, che è [vòlto solo]
alla ricerca del frutto dell’agire; “bramoso”, che nutre brama
verso i beni altrui, o che evita di lasciare completamente i pro-
pri beni in luoghi sacri, ecc. [come donazione]; “essenziato di
cattiveria”, che per propria natura reca offesa al prossimo;
“impuro”, privo di purezza sia all’esterno che all’interno; “sog-
getto alla esaltazione e all’abbattimento”: l’esaltazione si ha
all’ottenere il desiderato mentre l’abbattimento si ha all’acqui-
sizione del non-desiderato o alla separazione dal desiderato,
dunque soggetto sia alla esaltazione che all’abbattimento, os-
sia completamente soggiogato dalle due [condizioni]; esalta-
zione e abbattimento si verificheranno in funzione [rispetti-
18.29 Diciottesimo Adhyåya 687

vamente] del successo o del fallimento della sua stessa azione.


Quegli, [l’agente] che è completamente soggiogato dalle due,
“è biasimato come rajasico”.

18.28. Colui che compiendo un’azione è distratto, materiale,


ostinato, falso, malizioso, indolente, depresso e procrastinatore,
è detto tamasico.

“Colui che compiendo un’azione è distratto”, non è com-


pletamente assorto [in essa], “materiale”, cioè di intelletto as-
solutamente non purificato, simile a un bambino; “ostinato”,
cioè che, come un bastone, non si piega davanti a nessuno;
“falso”, ingannatore, che mantiene occulta la [propria] capa-
cità; “malizioso”, intento a portare in disaccordo l’uno con
l’altro; “indolente”, privo dell’attitudine a impegnarsi anche
nelle cose che devono essere fatte; “depresso”, sempre prostra-
to per propria indole; “e procrastinatore”, rimandando per le
lunghe le cose che devono essere fatte [subito], sempre apati-
co per propria natura, che cioè non fa neanche in un mese ciò
che deve essere fatto oggi o domani; quegli, che è [un agente]
siffatto, “è detto tamasico”.

18.29. Ascolta [adesso] la triplice divisione dell’intelletto e


della stessa fermezza, secondo le [loro] qualità, che [da Me ti]
viene annunciata interamente e distintamente, o Dhanañjaya.

“Ascolta [adesso] la triplice divisione dell’intelletto e” la


[triplice] divisione “della stessa fermezza, secondo le [loro]
qualità”, in funzione dei gu√a quali il sattva e gli altri – così è
la presentazione del s¥tra – “che [da Me ti] viene annunciata”,
viene recitata “interamente”, così qual essa è, cioè senza esclu-
dere nulla, “e distintamente”, secondo discriminazione, “o Dha-
nañjaya” (o Conquistatore di ricchezze). Avendo conquistato
(jita) una considerevole ricchezza (dhana), sia umana che divi-
688 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.29

na, nel suo vittorioso corso (digvijaya), per questo egli, Arjuna,
è [chiamato anche] Dhanañjaya.

18.30. O Pårtha, è sattvico quell’intelletto che comprende


[rettamente] l’attività e la non-attività, ciò che si deve fare e ciò
che non si deve fare, paura e assenza di paura, la schiavitù e la
liberazione.

“O Pårtha, è sattvico quell’intelletto che comprende [retta-


mente]”, che riconosce [nella loro vera natura] “l’attività” (pra-
vÿtti), l’azione effettiva che è causa di schiavitù, il sentiero del-
l’azione concernente le direttive scritturali, “e la non-attività”
(nivÿtti), l’astensione dall’azione quale mezzo di liberazione, il
sentiero della completa rinuncia. Poiché vengono espresse nel-
la medesima sentenza relativa alla schiavitù e alla liberazione,
si comprende che l’attività e la non-attività si riferiscono [ri-
spettivamente] ai sentieri dell’azione e della completa rinuncia.
“...quello che si deve fare e quello che non si deve fare”: ciò
che deve essere fatto e ciò che non deve essere fatto in relazio-
ne a quanto viene comandato o proibito nell’ordinario piano
di esperienza o da parte dell’intelletto che segue le Scritture,
dunque: ciò che è produttivo e ciò che non è produttivo.
Di che cosa?
Degli oggetti visibili e non-visibili in relazione a tempo e
luogo, ecc. [opportuni]17.
“...paura e assenza di paura”: la paura indica ciò a causa di
cui si ha timore; l’assenza di paura è ciò grazie a cui non vi è
timore; [così, con i termini] paura e assenza di paura vengono
indicate anche la [fonte della] paura e la [fonte della] assenza
di paura, vale a dire le cause di paura e assenza di paura concer-
nenti il visibile e il non-visibile [frutto delle azioni compiute].
“...la schiavitù” (bandha) unitamente a ciò che la produce
“e la liberazione” (mok≤a), anch’essa unitamente a ciò che la
determina.
18.33 Diciottesimo Adhyåya 689

A tale proposito, la conoscenza [distintiva] è una funzione


dell’intelletto, laddove l’intelletto è caratterizzato dall’avere
[varie] funzioni; anche la fermezza è solo una speciale funzio-
ne dell’intelletto18.

18.31. O Pårtha, è rajasico quell’intelletto attraverso il quale


[l’uomo] intende erroneamente il dharma e l’adharma, ciò che
si deve fare e anche ciò che non si deve fare.

“O Pårtha, è rajasico quell’intelletto attraverso il quale [l’uo-


mo] intende erroneamente”, non correttamente, in ogni caso non
nel modo che è stato determinato [attraverso le Scritture, l’istru-
zione, ecc.], “il dharma”, ciò che è fissato dalle Scritture, “e l’a-
dharma”, quanto è opposto a quello, “ciò che si deve fare e an-
che ciò che non si deve fare”, cioè ‘quello che si deve fare e quel-
lo che non si deve fare’ quali sono stati descritti in precedenza.

18.32. O Pårtha, è tamasico quell’intelletto che, avviluppato


dalle tenebre, pensa l’adharma come dharma [e viceversa] e tutte
le [altre] cose in quanto opposte [a come sono].

“O Pårtha, è tamasico quell’intelletto che”, essendo “avvi-


luppato dalle tenebre, pensa”, conosce “l’adharma”, ossia ciò
che è proibito, “come dharma”, come ciò che è comandato [dal-
le Scritture e viceversa], “e tutte le [altre] cose”, proprio tutte
le categorie del conoscibile “in quanto opposte [a come sono]”,
in modo affatto contrario [alla loro natura].

18.33. La fermezza incrollabile con la quale [il saggio] trat-


tiene le attività di mente, soffi vitali e organi, per mezzo dello
yoga, quella fermezza, o Pårtha, è sattvica.

“La fermezza incrollabile” – [è sottintesa] la connessione


con il [termine: ‘fermezza’ (dhÿti) che nel verso compare an-
690 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.33

che più avanti e in modo] separato – “con la quale [il saggio]


trattiene...”.
Che cosa?
“...le attività di mente, soffi vitali e organi”: [l’insieme di]
‘mente, soffi vitali e organi’ [significa] sia la mente, che i soffi
vitali che gli organi; dunque [con la quale il saggio] trattiene
(dhårayati) – [tale forma verbale parasmaipada] equivale a
dhårayate (la forma åtmanepada che compare nel verso) – tali
loro attività o funzioni dal prendere una direzione che esula
dalle Scritture. Infatti, [proprio e solo] grazie alla fermezza
non avvengono cose che potrebbero deviare dalla strada [in-
dicata da parte] delle Scritture.
“...per mezzo dello yoga”, cioè attraverso la contemplazione
(samådhi); vale a dire per mezzo della [fermezza] incrollabile
corrispondente a una costante contemplazione.
Quanto detto significa: con una fermezza incrollabile, [il
saggio] trattiene, per mezzo dello yoga, le attività di mente,
soffi vitali e organi che possono essere trattenute 19.
“...quella fermezza”, che è stata così definita, “o Pårtha, è
sattvica”.

18.34. Ma quella fermezza con la quale [l’uomo] persegue


dharma, kåma e artha, o Arjuna, bramoso del [loro] frutto in
relazione al [singolo] caso, quella fermezza, o Pårtha, è rajasi-
ca.

“Ma quella fermezza con la quale [l’uomo] persegue” nella


mente (nel pensiero) “dharma, kåma e artha, o Arjuna” – [l’in-
sieme di] dharma, kåma e artha comprende [separatamente]
sia il dharma (dovere religioso), sia il kåma (desiderio acquisi-
tivo) sia l’artha (profitto personale); dunque, [la fermezza) con
la quale [l’uomo] sostiene quelli che sono il dharma, il kåma e
l’artha [ritenendo] che per [loro] natura debbano essere co-
stantemente adempiuti, l’essere umano che è “bramoso del
18.36 Diciottesimo Adhyåya 691

[loro] frutto in relazione al [singolo] caso” di ciascuno di loro,


cioè del dharma, ecc., ossia in rapporto a quella che è l’occa-
sione per sostenere [l’idea di ognuno], “quella” sua “fermezza,
o Pårtha, è rajasica”.

18.35. La fermezza con la quale lo stolto non abbandona


definitivamente il sonno, la paura, la sofferenza, la disperazione
e la stessa eccitazione, quella è considerata tamasica.

“La fermezza con la quale lo stolto”, l’uomo che è di spre-


gevole intelligenza, “non abbandona definitivamente il sonno”,
il torpore, “la paura”, il timore, “la sofferenza, la disperazione”,
l’abbattimento “e la stessa eccitazione...”, tenendo in grande
considerazione la propria eccitazione inerente alla gratifica-
zione sessuale, come se ne fosse inebriato, ma, anzi, sostiene
nella mente [tutti questi stati alterati] promuovendoli affatto
costantemente come [se] dovessero essere esperiti per [loro]
natura; “quella” che è la [fermezza] di un tale [individuo] “è
considerata tamasica”.
[Fin qui] è stata esposta la triplice divisione delle attività e
delle [loro] cause a seconda della distinzione dei gu√a. Dopo
di ciò, si espone adesso la triplice distinzione della felicità che
è il frutto [di tali attività, ecc.].

18.36. Ma adesso ascolta da Me, o ottimo tra i Bharata, la


triplice [espressione della] felicità, nella quale, attraverso la
pratica assidua, [l’individuo] gioisce e giunge alla fine del dolore.

“Ma adesso ascolta da Me”, da parte mia, “o ottimo tra i


Bharata, la triplice [espressione della] felicità”, cioè: fai atten-
zione [a quanto sto per esporti], “nella quale, attraverso la pra-
tica assidua”, cioè attraverso il reiterato esercizio, per mezzo
del continuo immergersi in tale esperienza di felicità, “[l’indi-
viduo] gioisce”, gusta la gioia, “e giunge alla fine del dolore”,
692 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.36

consegue senza dubbio la cessazione della sofferenza, la solu-


zione del disagio.

18.37. Quella che inizialmente è come un veleno e, matura-


tasi, è simile al nettare, quella felicità generata dalla chiarezza
della intuizione dell’åtman è proclamata sattvica.

“Quella” felicità “che inizialmente”, al principio, al suo pri-


mo presentarsi, “è come un veleno”, appare [come se fosse]
consustanziata di sofferenza essendo accompagnata da un
estremo sforzo nel tentativo di porre in atto la conoscenza, il
distacco, la meditazione e la contemplazione, “e, maturatasi”20,
cioè la felicità generata dalla completa maturazione della co-
noscenza, del distacco, ecc., “è simile al nettare, quella felici-
tà...”: l’intuizione dell’åtman è l’intuizione che concerne l’å-
tman (åtmabuddhi), la chiarezza (prasåda) della intuizione
dell’åtman è la totale assenza di maculazione, come è la tra -
sparenza dell’acqua; dunque [la chiarezza] da quella generata
è “...generata dalla chiarezza della intuizione dell’åtman”.
Oppure [l’espressione] ‘intuizione dell’åtman’ è la intuizione
‘avente per oggetto l’åtman’, o, ancora, ‘che ha l’åtman per
sostegno’, ovvero ciò [potrebbe interpretarsi come]: [la felici-
tà] generata dalla eccellenza della chiarezza di tale [intuizione
dell’åtman], pertanto quella [felicità] è sattvica, “è proclama-
ta sattvica” dai conoscitori.

18.38. Quella [che nasce] dal contatto dei sensi con gli og-
getti, la quale inizialmente è simile al nettare e, maturatasi, è
come veleno, quella felicità è menzionata come rajasica.

“Quella” felicità che nasce “dal contatto dei sensi con gli
oggetti, la quale” felicità “inizialmente”, al primo istante, “è
simile al nettare”, identica al nettare, “e, maturatasi, è come
veleno...” – è come veleno perché, a trasformazione completa-
18.40 Diciottesimo Adhyåya 693

ta, cioè al termine della maturazione di tale ripetuto godimen-


to, è causa della perdita di forza, vigore, colorito, consapevo-
lezza, intelligenza, risorse e forza di volontà ed è causa altresì
di adharma, con la caduta in mondi inferi da quello determi-
nata – “...quella felicità è menzionata come rajasica”.

18.39. La felicità che sia all’inizio che in seguito rappresenta


un turbamento per l’åtman [individuato], che sorge da torpore,
indolenza e negligenza, quella è dichiarata tamasica.

“La felicità che sia all’inizio che in seguito”, cioè al tempo


successivo alla cessazione [della esperienza], “rappresenta un
turbamento”, un fattore di turbamento “per l’åtman [indivi-
duato], che sorge da torpore, indolenza e negligenza...” – sorge
da torpore, indolenza e negligenza in quanto si manifesta [ve-
nendo indotta e favorita] da quelli che sono sia il torpore, sia
l’indolenza, che la negligenza – “...quella è dichiarata tamasica”.
Dopo questo, segue adesso un verso che intende riassume-
re il [significato dell’intero] contesto [in atto]:

18.40. Una esistenza tale, che cioè sia libera da questi tre
aspetti qualificati (gu√a), prodotti dalla Prakÿti, non c’è né sulla
terra e nemmeno fra i deva in cielo.

“Una esistenza (sattva) tale, che cioè sia libera da questi


tre aspetti qualificati prodotti dalla Prakÿti”, ossia completa-
mente affrancata dal sattva e dagli altri [gu√a] derivanti dalla
Prakÿti, “non c’è né sulla terra”, fra gli esseri umani, ecc., quale
specie vivente o [anche] altro, ossia come [specie] non-vivente,
“e” una (esistenza) tale... – la connessione con la precedente
[frase è sottintesa] – dunque, una esistenza tale non c’è “...nem-
meno fra i deva in cielo”.
Tutto il divenire ciclico, consistente di azioni, fattori e frut-
ti, consustanziato dei gu√a: sattva, rajas e tamas e completa-
694 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.40

mente immaginato attraverso l’ignoranza, insieme con [questa


che ne è] la radice, è stato esposto come privo di entità [reale],
a cominciare dalla [sua] rappresentazione sotto forma di albe-
ro, nel passo: «Con le radici in alto...», ecc. (Bha. Gı. 15.1). È
stato anche detto: «...[una volta che sia stato] reciso con la te-
nace spada del non-attaccamento, allora deve essere rintraccia-
to quello stato (pervenuti al quale gli esseri non tornano più)»
(Bha. Gı. 15.3-4) e, riguardo a ciò, [si è affermato pure] che, poi-
ché la totalità è consustanziata dei tre gu√a, si potrebbe giun-
gere alla [errata] conclusione secondo cui non è possibile am-
mettere secondo ragione la cessazione della causa del divenire
ciclico.
[Ora, invece] si procede a esporre il modo in cui può
aversi la cessazione di tale [causa]. Deve anche essere tratta
una sintesi dell’intero significato della Scrittura della [Bha-
gavad] Gıtå e [si vuole altresì mostrare] che questo stesso è
il significato di tutti i Veda e della Smÿti che deve essere spe-
rimentato da coloro che intendono raggiungere il fine uma-
no [per eccellenza]: a tale scopo prende inizio la parte che
comincia con: «Per bråhma√a, k≤atriya, viŸa...», ecc. (Bha.
Gı. 18.41).

18.41. Per bråhma√a, k≤atriya, viŸa e anche per gli Ÿ¥dra, o


Paraætapa, le [debite] azioni sono ripartite secondo i gu√a che
hanno origine dalla natura propria [di ciascuno].

[L’insieme di] ‘bråhma√a, k≤atriya, viŸa’ designa sia i brå-


hma√a, sia gli k≤atriya, sia i viŸa (vaiŸya); per loro, cioè ‘per i
bråhma√a, per gli k≤atriya, per i vaiŸya e anche per gli Ÿ¥dra...’
– [si ha una menzione separata] ‘(e anche) per gli Ÿ¥dra’: essi
non sono inclusi nel composto [bråhma√a, k≤atriya, ecc.] in
quanto, essendo ‘di una sola nascita’ (cioè non essendo ‘due-
volte-nati’), non hanno la qualificazione per [lo studio e la
pratica rituale concernenti] i Veda – “...o Paraætapa, le [debi-
18.41 Diciottesimo Adhyåya 695

te] azioni sono ripartite”, sono ordinate secondo una suddivi-


sione reciproca21.
In base a che cosa?
“...secondo i gu√a originati dalla natura propria [di cia-
scuno]”. La natura propria (svabhåva) è la Prakÿti di ÙŸvara,
la måyå [del Brahman] consustanziata dei tre gu√a. Essa è
l’origine di quelli che sono i gu√a, cioè essi si originano dalla
natura propria. In base a loro vengono ripartiti gli atti [che
devono essere osservati da parte] dei bråhma√a e degli altri,
come la calma mentale e le altre virtù [della mente], ecc.
Oppure [si dà quest’altra interpretazione]: il gu√a sattva è
l’origine, la causa della natura propria del bråhma√a; simil-
mente, il rajas, con il sattva in subordine, è l’origine della na-
tura propria dello k≤atriya; [ancora] il rajas, [ma] con il ta-
mas in subordine, è l’origine della natura propria del vaiŸya;
infine il tamas, con il rajas in subordine, è l’origine della na-
tura propria dello ٴdra. Infatti si constata che la natura pro-
pria dei quattro [ordini sociali] è [caratterizzata rispettiva-
mente da] perfetta calma interiore, attitudine al comando, at-
tività e limitato acume intellettuale.
O ancora: il seme attivo (saæskåra), prodottosi in altre na-
scite, che si manifesta nella nascita attuale in quanto pronto a
produrre il proprio effetto, è la natura propria (svabhåva) degli
esseri viventi; esso è l’origine di quelli che sono i gu√a e, pari-
menti, questi, i gu√a, sono originati dalla [causa che è la] natu-
ra propria, perché non è ammissibile secondo ragione che il
manifestarsi dei gu√a sia privo di una causa; [così, dire]: ‘la na-
tura propria è la causa’ [implica che] è una causa [secondaria]
distinta dalla causa [primaria o] sostanziale (upådåna)22. Così
le [debite] azioni [relativamente a ciascun ordine sociale], qua-
li la [osservanza della] calma mentale, ecc. sono ripartite in fun-
zione della natura propria [di ciascuno], cioè secondo le qualità
di sattva, rajas e tamas generate dalla Prakÿti in conformità al-
l’effetto proprio [di ciascun gu√a e alle loro combinazioni].
696 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.41

Obiezione: Comunque il [dovuto] operare, come, per i brå-


hma√a, [il porre in atto] la calma mentale, ecc., risulta asse-
gnato dagli Âåstra perché è fissato dalla Scrittura [stessa]. Per-
ché, allora, si dice che [il giusto agire] è ripartito in funzione
delle qualità di sattva, ecc.?
Risposta: Questo non è un difetto: le [debite] azioni, quali
la calma mentale, ecc. risultano assegnate ai bråhma√a e agli
altri soltanto in funzione della specifica qualità [rispettiva-
mente dominante] come il sattva, ecc. e non in maniera indi-
pendente dalle [loro innate] qualità. Così, sebbene tale [debi-
to] agire sia assegnato dalle Scritture, si dice che è ripartito
secondo i gu√a.
Quali sono, dunque, tali atti [dovuti]?
Si dice:

18.42. La calma mentale, l’autodominio, l’austerità, la purez-


za, la tolleranza e la stessa rettitudine, la saggezza, la conoscen-
za distintiva e la fede nella esistenza [trascendente rivelata dal-
le Scritture] sono [l’insieme di qualità che contraddistinguono]
l’agire del [rango] brahma generato dalla [sua] natura propria.

“La calma mentale” e “l’autodominio”, dai significati quali


sono stati spiegati [in Bha. Gı. 9.13-14 e 16.1-2], “l’austerità”,
[specialmente] in riferimento al corpo, ecc., come è stata [già]
enunciata [in Bha. Gı. 17.14-16], “la purezza” è stata spiegata
[anch’essa in Bha. Gı. 14.6], “la tolleranza” è la [capacità di]
sopportazione, “e la stessa rettitudine” cioè la dirittura mora-
le, “la saggezza (jñåna), la conoscenza distintiva (vijñåna)”; “la
fede nella esistenza [trascendente]” (åstikya) è l’attitudine a
credere nella esistenza [che trascende la sfera ordinaria], quin-
di la condizione di profonda fede nei contenuti delle Scritture
tradizionali; [tutte queste] “sono [l’insieme di qualità che
contraddistinguono] l’agire del [rango] brahma”, cioè l’agire
18.44 Diciottesimo Adhyåya 697

che compete al bråhma√a, “generato dalla [sua] natura pro-


pria”. La ‘natura propria’ (svabhåva) [qui] espressa è quella
stessa che è stata enunciata [nel verso precedente]: «...sono
ripartiti secondo i gu√a che hanno origine dalla natura pro-
pria [di ciascuno]» (Bha. Gı. 18.41).

18.43. L’eroismo, l’ardore, la fermezza, l’abilità e anche il


non arrendersi in battaglia, la generosità e l’attitudine alla so-
vranità sono [gli attributi che distinguono] l’agire dello k≤åtra
generato dalla [sua] natura propria.

“L’eroismo” è la natura del valoroso; “l’ardore” è la [sua]


audacia; “la fermezza” è il sostegno: colui che è sostenuto dal-
la fermezza non cade mai nell’abbattimento, in nessuna circo-
stanza; “l’abilità” è il temperamento del valente, la predisposi-
zione a impegnarsi nelle cose da farsi occorse all’improvviso
[con la capacità di operare la giusta scelta] senza confondersi;
“e anche il non arrendersi in battaglia”, cioè il non indietreg-
giare di fronte ai nemici; “la generosità” è l’avere le mani aper-
te nel donare i [propri] beni; “e l’attitudine alla sovranità”,
l’indole del sovrano, cioè l’esprimere il potere dell’autorità su
coloro che devono essere governati; [tutti questi] “sono [gli
attributi che distinguono] l’agire dello k≤åtra”, dove l’agire
dello k≤åtra è l’atto comandato alla classe degli k≤atriya, “ge-
nerato dalla [sua] natura propria”.

18.44. Agricoltura, cura del bestiame, commercio: sono [le


qualità che distinguono] l’agire del vaiŸya generato dalla [sua]
natura propria. Consiste [invece] nel servizio l’operare dello
Ÿ¥dra, anch’esso generato dalla [sua] natura propria.

“Agricoltura, cura del bestiame, commercio”: [il termine


composto] ‘agricoltura, cura del bestiame, commercio’ (kÿ≤i-
gaurak≤yavå√ijya) significa sia l’agricoltura, che la cura del
698 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.44

bestiame e il commercio. La “agricoltura” è [caratterizzata da


atti come] il tracciare solchi nel terreno [con aratri, allo scopo
di seminare, ecc.]; la “cura del bestiame” (gaurak≤ya): il man-
driano è colui che protegge le mucche e la cura del bestiame è
il governo degli animali, tale è il significato; il “commercio” è
l’atto di commerciare, consistente nell’acquisto, nella vendita,
ecc.; [queste] “sono [le qualità che distinguono] l’agire del
vaiŸya” – l’agire del vaiŸya è l’operare inerente alla classe dei
vaiŸya – “generato dalla [sua] natura propria”.
“Consiste [invece] nel servizio l’operare dello Ÿ¥dra, an-
ch’esso generato dalla [sua stessa] natura propria”, dove la
natura propria [dello Ÿ¥dra] è quella di prestare riverente
obbedienza.
Il frutto di questi atti comandati alle [diverse] classi so-
ciali, quando vengono attuati genuinamente e in base alla
[loro stessa] natura propria, è l’ottenimento del cielo (sva-
rga), come [si apprende] da passi della Smÿti come: «Gli ap-
partenenti agli ordini sociali e agli stadi di vita, [ben] fon -
dati nel proprio [dovuto] agire, avendo sperimentato il frut-
to del proprio operato una volta dipartitisi, dopo di ciò, in
base al [karman] residuo, ottengono una [nuova] nascita in
luoghi, classi e famiglie recando meriti, durate di vita, istru-
zione, condotta, ricchezza, felicità e intelligenza [tutti] supe-
riori [a quelli della vita precedente]» (Å. Dha. S¥. 2.2.2.3) e
altri, e anche dalla specifica menzione di un distinto frutto e
mondo (condizione di esistenza) per coloro che [nel loro
operare] rispettano l’appartenenza alle classi sociali e agli
stadi di vita.
Invece, da un’altra causa si ha questo frutto che si va a
esporre23:

18.45. L’uomo interamente dedito al proprio rispettivo ope-


rare coglie la perfezione. Ascolta ciò, ossia come trovi la perfe-
zione, quegli che è assorto nel proprio agire.
18.47 Diciottesimo Adhyåya 699

“L’uomo”, l’essere umano qualificato [per l’azione], “inte-


ramente dedito al proprio rispettivo operare”, differenziato
attraverso le caratteristiche [innate] quali sono state esposte,
cioè avente tale [agire] come sommo obiettivo, stante, dalla
osservanza del proprio dovere, la distruzione delle impurità
del corpo e dei sensi, “coglie la perfezione”, cioè ottiene la
perfezione consistente nella idoneità a stabilirsi nella cono-
scenza.
Obiezione: La perfezione può aversi direttamente soltanto
dalla espletazione del proprio dovere?24
Risposta: No.
Obiezione: In che modo, allora?
Risposta: “Ascolta ciò, ossia come”, in qual modo “trovi la
perfezione, quegli che è assorto nel proprio agire”.

18.46. L’uomo trova la perfezione onorando, mediante la


propria opera, Quello donde si ha il promanare degli esseri e
dal quale tutto questo [universo] è permeato.

“L’uomo”, l’essere umano “trova la perfezione”, consisten-


te nella idoneità a stabilirsi nella conoscenza, soltanto “ono-
rando”, venerando, propiziando, “mediante la propria opera”
quale è stata esposta in relazione a ogni ordine sociale, “Quel-
lo”, il Signore, “donde”, dal quale “si ha il promanare”, il sor-
gere “degli esseri” viventi, ovvero, dal Signore (ÙŸvara, Bra-
hman), cioè dall’Ordinatore interno, dal quale deve procedere
la [stessa] capacità di agire 25, “e dal quale” Signore “tutto que-
sto” universo “è permeato”, è pervaso.
Poiché è così, ne consegue che:

18.47. Migliore è il proprio dovere, [sebbene compiuto in


modo] imperfetto, che il dovere di un altro ben praticato. Com-
700 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.47

piendo il dovere fissato dalla natura propria [l’uomo] non ri-


porta danno.

“Migliore”, maggiormente degno di lode, “è il proprio do-


vere”, il dovere proprio [di ciascuno], “sebbene [compiuto in
modo] imperfetto...” – il termine “sebbene” (api) deve essere
inteso [anche se non compare] – “...che il dovere di un altro
ben praticato”.
[L’espressione] “fissato dalla natura propria” (svabhåva-
niyata) significa: fissato in base alla natura propria [di cia-
scuno], per cui quello stesso enunciato [nella forma]: ‘fissato
dalla natura propria’, equivale a quanto è stato detto [in pre-
cedenza nella forma]: ‘generato dalla natura propria’ (sva-
bhåvaja).
Come un veleno non arreca danno a una [eventuale] larva
che da quel veleno sia stata generata, così “Compiendo il do-
vere fissato dalla natura propria [l’uomo] non riporta danno”,
[non commette] errore.
È stato detto sia che colui che compie il dovere fissato dal-
la natura propria non riporta danno, al pari della larva [nata]
nel veleno, sia che il dovere di un altro è apportatore di paura
e, in relazione a colui che non è conoscitore dell’åtman, che
«...nessuno, neanche per un istante, può mai rimanere senza
produrre azione...» (Bha. Gı. 3.5).
Pertanto,

18.48. Il connaturato agire, o Kaunteya, non deve essere tra-


scurato, per quanto pieno di difetti possa essere, perché tutte le
iniziative sono avviluppate dal difetto come il fuoco [lo è] dal
fumo.

“Il connaturato...”, che è sorto affatto insieme con la [pro-


pria] nascita.
Che cosa [è connaturato]?
18.48 Diciottesimo Adhyåya 701

L’ “...agire, o Kaunteya”, che “non deve essere trascurato,


per quanto pieno di difetti possa essere”, dato che è consu-
stanziato dai tre gu√a, “perché tutte le iniziative...” – le inizia-
tive (åraæbha) sono le attività che si intraprendono, dunque
tutte le azioni, in quanto dal contesto [si comprende che]
quelle che sono [definite come] le attività intraprese rappre-
sentano sia i propri doveri che i doveri altrui – dunque [le de-
bite azioni, connaturate e conformi alla natura propria di cia-
scuno, non devono essere trascurate nonostante che siano ac-
compagnate dal male], perché, per il motivo che tutte loro,
essendo consustanziate dai tre gu√a – qui la natura consu-
stanziata dai tre gu√a è la causa – “...sono avviluppate dal
difetto come il fuoco [lo è] dal fumo” [a esso] connaturato.
Così, anche qualora si sia [intenti] nella effettuazione del do-
vere altrui, trascurando completamente quello che è chiamato
il proprio dovere, cioè l’agire connaturato [a noi stessi], pro-
prio a motivo del difetto [insito nell’azione] non ci si libera;
inoltre il dovere altrui è apportatore di paura e poiché per il
non-conoscitore non è possibile che l’agire venga abbandona-
to integralmente, pertanto non deve essere trascurato. Questo
è il significato26.
Obiezione: [Il proprio dovere, per quanto difettoso] non
deve essere trascurato perché l’azione non può essere abban-
donata integralmente, oppure perché nell’abbandono del-
l’agire connaturato [a sé stessi] si genera il difetto?
Risposta: Che cosa [conseguirebbe] da ciò?
Obiezione: Innanzitutto, se è impossibile abbandonare
[completamente l’azione, in tal caso anche] l’agire connatura-
to non può essere trascurato. In tal caso, in questo modo ri -
sulterebbe stabilito che grazie all’abbandono [compiuto] in
maniera integrale si avrà soltanto merito.
Risposta: In verità è così.
702 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.48

Obiezione: Se però si sostiene che l’abbandono [dell’agire


dovuto, compiuto] in modo integrale, non può essere logica-
mente ammesso, allora il puru≤a sarebbe consustanziato di
eterna attività, come i gu√a del Såækhya? Oppure è la stessa
azione il fattore agente, come gli skandha 27 dei buddhisti che
si distruggono completamente a ogni istante? Anche in questi
due casi l’abbandono dell’azione in modo integrale non è pos-
sibile.
Ma vi è anche una terza ipotesi. Quando agisce, allora
l’ente (il jıva) è agente; quando non agisce, allora quel mede-
simo ente è non-agente. In tal caso, così essendo, è possibile
abbandonare integralmente l’azione. Tuttavia, in questa terza
ipotesi, vi è questa specificazione: l’ente non è in eterno sog-
getto all’attività, e la stessa azione non è il fattore agente.
Di che si tratta, allora?
Ci deve essere una prestabilita sostanza nella quale emer-
ga l’azione [prima] non-esistente, [e nella quale] vada a di-
struggersi quella esistente, mentre tale sostanza rimane pura
[non toccata dall’emergere e dallo sparire dell’azione] e [co-
stantemente] dotata del potere [di rendere manifesta l’azio-
ne]: così affermano i seguaci di Ka√åda 28 (VaiŸe≤ika), [soste-
nendo] anche che quella stessa [sostanza] costituisce il fat -
tore agente.
Qual è il difetto in questa concezione?
Risposta: In verità il difetto è proprio questo: [la teoria ac-
cennata non è accettabile] perché, invero, tale concezione
non è conforme a quanto ha espresso Bhagavat.
Da quale ragione lo si riconosce?
Perché Bhagavat disse: «Del non-essere non vi è venuta
all’esistenza...», ecc. (Bha. Gı. 2.16) mentre, per i seguaci di
Ka√åda, il non-essere (il non-reale) [diviene] esistenza e l’es-
sere (il reale) [diviene] non-esistenza: questa [loro] tesi non è
conforme a quanto ha dichiarato Bhagavat.
18.48 Diciottesimo Adhyåya 703

Obiezione: Si potrebbe obiettare che, sebbene sia in disac-


cordo con quanto ha detto Bhagavat, tuttavia possiede una
sua logica: quale sarebbe, allora, il difetto?
Risposta: Si dice: in verità questa [concezione] è difettosa
perché è in contraddizione con qualsiasi evidenza conoscitiva
(pramå√a).
In che senso?
Innanzitutto, se un [dato] ente, come per esempio un [ag-
gregato] composto da due atomi (dvya√uka) o altro29, fosse in
assoluto affatto non-esistente (non-reale) prima della sua ve-
nuta all’esistenza, quindi, una volta sorto all’esistenza, sia ri-
masto esistente per un certo tempo e, infine, sia tornato in
uno stato di non-esistenza (non-realtà) affatto in assoluto, se
dunque è [stato postulato] in questo modo, [ne consegue che]
ciò che è assolutamente non-esistente nasce come esistente, e
ciò che è assolutamente esistente entra in una condizione di
non-esistenza. In tale [ipotesi] si deve immaginare [non solo]
che una non-esistenza (abhåva), sebbene stia per generarsi
[come esistenza], prima del suo venire all’esistenza è [una
non-esistenza proprio] come le corna di una lepre, ma anche
che [venendo a manifestarsi] essa si genera in dipendenza di
una [triplice] causa, definita come: combinante (samavåyi),
non-combinante (asamavåyi) ed efficiente (nimitta)30. Ma così
[in questa ipotesi] non si può asserire che una non-esistenza
sorge a essere e dipende da una causa, perché ciò non si con-
stata nel caso di [altri] enti non-esistenti [e quindi non-reali],
come le corna di una lepre, ecc. 31 Se vasi o altri [oggetti], con-
sustanziati di esistenza [in quanto oggetto di percezione, ecc.],
vengono [effettivamente] a esistere, [il fatto] che essi vengo-
no all’esistenza in funzione di una certa causa lo si può dimo-
strare unicamente in base alla [loro] manifestazione32.
Inoltre, nel caso che il non-esistente (non-essere) acquisti
una condizione di esistenza (sadbhåva) [cioè di realtà] e che
704 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.48

l’esistente (essere) acquisti una condizione di non-esistenza


(asadbhåva, cioè di non-realtà), nessuno, in nessun caso, po-
trà più riporre fiducia nelle procedure di accertamento fonda-
te sul rapporto tra mezzi cognitivi autorevoli (pramå√a) e ciò
che tramite loro può essere autorevolmente accertato (pra-
meya), perché non sarebbe più legittima una certezza quale: ‘il
reale è [sempre] essere, il non-reale è [sempre] non-essere’33.
E ancora, riguardo al sorgere all’esistenza [degli enti, i
VaiŸe≤ika] asseriscono, che per un [qualsiasi] ente, a comin-
ciare dall’aggregato di due atomi, vi è una relazione sia con la
sua propria causa sia con l’esistenza (sattå) [in questi termini]:
prima della sua venuta all’esistenza è non-reale [e quindi non-
esistente]; dopo, in riferimento all’azione della [sua propria]
causa, diviene reale quando entra in rapporto con le proprie
cause, che sono gli atomi ultimi e l’esistenza, attraverso la
relazione definita ‘concomitanza inseparabile’ (samavåya);
[quindi, una volta] connesso alla causa e all’essere in modo
inseparabile, è reale [esso stesso, quindi esistente] 34. A tale ri-
guardo, però, si deve dire come possa aversi una causa pro -
pria per il non-esistente (e quindi non-reale), o attraverso che
cosa se ne possa avere conoscenza: nessuno, infatti, può con-
cepire, in modo cognitivamente valido, una causa propria per
il figlio di una donna sterile né la sua conoscenza35.
Obiezione: La relazione del non-esistente [con le sue cau-
se] non è concepita così dai VaiŸe≤ika, perché [da parte loro]
si afferma soltanto che gli enti, che cominciano dagli aggre-
gati di due atomi e sono reali, hanno una relazione che è defi-
nita ‘di inseparabilità’ [quindi di intrinseca appartenenza]
con la loro propria causa.
Risposta: No, perché non si ammette la loro natura reale [e
quindi la loro esistenza] prima di tale relazione. I VaiŸe≤ika,
infatti, non ammettono l’esistenza di vasi o altri oggetti ante-
riormente all’azione [produttiva] del vasaio, della bacchetta e
18.48 Diciottesimo Adhyåya 705

della ruota, ecc., né essi sostengono che il vaso e gli altri og-
getti prendono forma direttamente e solo dall’argilla. Quindi,
proprio a una relazione del non-reale [con le cause che lo ren-
derebbero reale] si deve ricorrere come restante [possibilità].
Obiezione: Comunque, sebbene [l’oggetto sia] non-reale
[prima di venire manifestato], una [sua successiva] relazione
definita come di ‘inseparabilità’ non crea contraddizione.
Risposta: No, perché non è dato constatare [questa relazio-
ne] nel caso del figlio di una donna sterile o in altri casi [ana-
loghi]. [Postulando che] per la non-esistenza precedente di
un vaso o altro, ma non per il figlio di una donna sterile, ecc.,
vi sia una relazione con la propria causa, sebbene siano uguali
le [loro] non-esistenze, si dovrebbe spiegare la [presunta] di-
stinzione della [loro] non-esistenza. Ma [riguardo a quello
che sono]: la non-esistenza di un [ente], la non-esistenza di
due, la non-esistenza di tutti [gli enti], la non-esistenza ante-
riore [alla loro manifestazione], la non-esistenza dopo la [loro]
completa distruzione, la non-esistenza reciproca e la non-esi-
stenza in assoluto, nessuno può delineare una distinzione in
base a tali definizioni; inoltre, in assenza di una distinzione,
[non è ammissibile nemmeno l’ipotesi secondo cui da un lato]
soltanto la ‘non-esistenza precedente del vaso’ assume, grazie
al vasaio, ecc., lo stato di ‘esistenza del vaso’, quindi entra in
relazione con l’esistenza denominata ‘parti costituenti’ [del
vaso] e, [una volta che tale non-esistenza è divenuta esistenza
in quanto] connessa [con tali cause] diviene idonea per qual-
siasi [altra] azione modificante, ma non che la non-esistenza
successiva alla distruzione è solamente [quella] del vaso, seb-
bene si tratti [ugualmente] di non-esistenza. Così in nessun
caso si avrà mai che le [diverse] non-esistenze, a cominciare
da quella inerente alla distruzione [di un ente], possano esse-
re in grado di esplicare una qualche relazione [per diventare
esistenze], cioè che solo per la non-esistenza precedente si
706 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.48

abbia la natura capace di dar luogo alla venuta all’esistenza,


ecc. di enti come gli aggregati a cominciare da quelli formati
da due atomi, perché, giustamente, non vi è distinzione nella
natura di non-esistenza, come [non vi è] tra la non-esistenza
in assoluto e quella che segue alla distruzione [di un ente] 36.
Obiezione: Comunque, da parte nostra non si sostiene af-
fatto il mutamento della non-esistenza in esistenza.
Risposta: Allora, in effetti, [da parte vostra si ammette im-
plicitamente] proprio il mutamento della stessa esistenza in
esistenza, il che è come [sostenere] il mutamento del vaso in
vaso, o il mutamento di un tessuto in tessuto. Anche questo è
in contraddizione con l’evidenza, proprio come il mutamento
della non-esistenza in esistenza37.
Anche quella che è la teoria della trasformazione (pari-
√åma) [postulata da parte] del Såækhya, neanch’essa differi-
sce dalla tesi VaiŸe≤ika, per via dell’accordo [tra loro esisten-
te] riguardo al sorgere di proprietà prima non presenti e alla
[loro] completa distruzione. E pure riguardo all’affinità [di
Såækhya e VaiŸe≤ika] circa la manifestazione e la scomparsa
[degli enti, quali sinonimi di venuta all’essere e di distruzio-
ne], vi è, proprio come prima, una contraddizione con l’evi-
denza conoscitiva riguardo all’accertamento di una esistenza
o di una non-esistenza [che siano rispettivamente l’una ante-
riore] in rapporto alla manifestazione e [l’altra posteriore] in
rapporto alla scomparsa [degli enti].
Con ciò, anche questa [tesi Såækhya] secondo cui il sor-
gere, ecc. [degli enti] è [solamente] una particolare condizio-
ne [di trasformazione] della stessa causa, è stata confutata.
Non resta che [la dottrina Vedånta Advaita secondo cui]
l’Essere unico, il quale è la sola Realtà, [ma] viene immagina-
to attraverso l’ignoranza come molteplice e quindi [come se
fosse] caratterizzato da proprietà quali il venire all’esistenza e
il distruggersi completamente, al pari [dei movimenti e dei
18.48 Diciottesimo Adhyåya 707

gesti] di un attore [che sul palcoscenico riveste i ruoli di di-


versi personaggi], e tale concezione è in accordo con quanto
ha asserito Bhagavat in questo verso: «Del non-essere non vi
è venuta all’esistenza...» (Bha. Gı. 2.16), perché la nozione del-
l’essere è invariabile, mentre quella delle altre [cose, quali
azione, attributi, ecc.] è variabile.
Obiezione: Perché, allora, stante l’immodificabilità dell’å-
tman, non può essere ragionevolmente ammesso un abbando-
no dell’azione in modo integrale?
Risposta: Tanto che i gu√a siano reali, quanto che siano
immaginati attraverso l’ignoranza, l’azione è una loro pro-
prietà38; pertanto, essendo [l’azione] soltanto sovrapposta al-
l’åtman attraverso l’ignoranza, è stato detto, in riferimento al
non-conoscitore, che nessuno può abbandonare integralmen-
te l’azione neanche per un istante (Cfr. Bha. Gı. 3.5). Invece il
conoscitore può abbandonare l’azione in tal modo, cioè affat-
to integralmente, in quanto [per lui] l’ignoranza è stata estin-
ta attraverso la conoscenza, dato che non è ammissibile [la
persistenza di] un residuo di ciò che è stato sovrapposto at-
traverso l’ignoranza. Infatti, quando [una affezione visiva
come] la diplopia è stata eliminata, non resta alcun residuo
corrispondente a una doppia [immagine della] luna che sia
stata sovrapposta [a quella singola] a causa di una visione
[prima] affetta da diplopia; e, così essendo, sono pienamente
ammissibili affermazioni come: «(Rinunciando completamen-
te) nel pensiero a tutte le azioni...» (Bha. Gı. 5.13), «L’uomo
interamente dedito al proprio rispettivo operare coglie la per-
fezione» (Bha. Gı. 18.45) e «L’uomo trova la perfezione ono-
rando, mediante la propria opera...» (Bha. Gı. 18.46).
È stato anche detto che la perfezione generata dall’agire
[connaturato ben adempiuto] consiste nella idoneità a fon-
darsi nella conoscenza. Ora si deve esporre, in quanto è frutto
di tale [retto agire], la ‘perfezione dell’assoluta assenza di at-
708 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.48

tività’ (nai≤karmyasiddhi), che consiste nella idoneità al fon-


darsi nella conoscenza39. Così s’inizia il verso [seguente].

18.49. Colui il cui intelletto non è attaccato a nessuna cosa,


il cui sé [inferiore, la mente] è vinto, il cui desiderio è stato di-
sperso, raggiunge, mediante la completa rinuncia, la suprema
perfezione dell’assoluta assenza di attività.

“Colui il cui intelletto non è attaccato...”: ha l’intelletto


non-attaccato (asaktabuddhı) quegli il cui intelletto, cioè l’or-
gano interno, non è attaccato, non aderisce “a nessuna cosa”,
come a quelle cause di attaccamento quali sono i figli, la mo-
glie, ecc.; “il cui sé [inferiore] è stato vinto...”: ha il sé [infe-
riore] vinto (jitåtmå) quegli il cui sé, cioè il cui organo inter-
no è stato soggiogato, ossia posto sotto controllo; “il cui desi-
derio è stato disperso...”: ha il desiderio disperso (vigataspÿha)
quegli dal quale il desiderio, la brama inerente al corpo, alla
vita e ai godimenti è stato disperso. Colui, un siffatto conosci-
tore dell’åtman, dal quale le [cause delle] azioni sono state
dissolte dalla presa di consapevolezza di sé stesso come il Bra-
hman privo di cambiamento, quegli “(raggiunge) la (suprema)
perfezione dell’assoluta assenza di attività”: l’assoluta assenza
di attività (nai≤karmya) è la natura di Quello, [realizzato] in
quanto privo di attività (ni≤karmå), ed essa, tale assoluta as-
senza di attività, è la perfezione (siddhi), cioè la perfezione
dell’assoluta assenza di attività.
Oppure la [parola] perfezione (siddhi) indica il compimen-
to (ni≤patti) dell’assoluta assenza di attività consistente nella
condizione naturale dell’åtman privo di attività modificante40.
[Dunque tale conoscitore] “...mediante la completa rinun-
cia”, ovvero mediante la completa rinuncia a tutte le azioni
preceduta da quella che è l’autentica visione, “raggiunge”,
consegue quella che è “la suprema”, eccelsa “perfezione del-
l’assoluta assenza di attività”, totalmente differente dalla rea-
18.50 Diciottesimo Adhyåya 709

lizzazione generata dall’agire ma avente la natura di una con-


dizione di liberazione immediata (sadyomukti). E [proprio] in
tal senso è stato detto: «Rinunciando completamente nel pen-
siero a qualsiasi azione... non agendo affatto né causando atti-
vità» (Bha. Gı. 5.13).
Ora, dovendosi esporre con quale processo graduale si ve-
rifica la perfezione consistente nell’assoluta assenza di attivi-
tà la cui natura è la fondatezza nella conoscenza dell’åtman
assoluto, per colui che ha ottenuto la perfezione quale è stata
prima definita, cioè quella generata dal compimento del pro-
prio agire [connaturato] come è stato descritto in precedenza,
sotto forma di omaggio reso al Signore, e per il quale è altresì
sorta la conoscenza discriminante concernente l’åtman, [Bha-
gavat] dice:

18.50. Come, colui che ha ottenuto la perfezione, così realiz-


zi il Brahman, ascoltalo da Me affatto in breve, o Kaunteya, che
è il supremo compimento della conoscenza.

“(Come) colui che ha ottenuto la perfezione...”: ha ottenuto,


«onorando, con la propria opera» (Bha. Gı. 18.46) il Signore, la
perfezione generata dalla sua grazia e consistente nella ido-
neità a fondarsi nella conoscenza con [l’ausilio di] corpo e sen-
si. [L’espressione] ‘colui che ha ottenuto la perfezione’ costi-
tuisce una ripetizione che introduce a un ulteriore significato.
Qual è quel [significato] ulteriore, per [spiegare] il quale
si ha tale ripetizione?
Si dice: “Come (colui che...)”, attraverso quella modalità
operativa con la quale [ha ottenuto la perfezione], [modalità]
la cui natura è il fondarsi nella conoscenza, “così realizzi”,
consegua “il Brahman”, cioè il supremo åtman: quel processo
graduale per conseguire la fondatezza nella conoscenza, tu
“ascoltalo”, cioè apprendilo in maniera certa “da Me”, dalla
mia espressione.
710 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.50

In dettaglio?
No, dice [Bhagavat, ma] “affatto in breve”, soltanto conci-
samente, “o Kaunteya”, cioè: ascolta come [costui] consegue
così il Brahman.
Per prospettare quale sia il conseguimento del Brahman
[espresso] con tale [frase: ‘come consegue così il Brahman’,
Bhagavat] dice: “...che è il supremo compimento della cono-
scenza”. Il compimento (ni≤†hå) è il completo coronamento
(paryavasåna), cioè la perfetta conclusione (parisamåpti).
Di che cosa?
[Bhagavat, specificando, aggiunge] “...che è il supremo
[compimento] della conoscenza” del Brahman.
Obiezione: Di quale natura è quella [conoscenza]?
Risposta: Ha la stessa natura della conoscenza dell’åtman.
Obiezione: Di quale natura è tale [conoscenza dell’åtman]?
Risposta: Ha la stessa natura dell’åtman.
Obiezione: Di quale natura è l’åtman?
Risposta: La sua natura è quella che ha espresso Bhagavat,
che può essere compresa dalle sentenze delle Upani≤ad e a cui
si perviene tramite la stessa ragione41.
Obiezione: La conoscenza assume la forma dell’oggetto [co-
nosciuto], ma in nessun caso si sostiene che l’åtman sia un
oggetto di conoscenza o abbia una forma.
Risposta: Invero, dalla Âruti si apprende la natura dell’å-
tman in quanto [simbolicamente] caratterizzata da una forma
[nei passi]: «...rifulgente come il sole...» (Âve. 3.8), «...essen-
ziato di splendore...» (Chå. 3.14.2), «...autoluminoso» (Bÿ. 4.3.9).
Obiezione: No, perché tali sentenze hanno lo scopo di con-
futare il possesso [da parte dell’åtman] di una natura di oscu-
18.50 Diciottesimo Adhyåya 711

rità (tamas): negando che [l’åtman] abbia la forma-natura di


una sostanza o di un attributo, si potrebbe arrivare a conclu-
dere che l’åtman possiede una natura di oscurità [quale as-
senza di connotazioni definibili e percepibili], per cui le sen-
tenze come: «...rifulgente come il sole...» (Âve. 3.8) e le altre
hanno lo scopo di respingere tale [eventuale errata conclusio-
ne]. [Questo si deve ammettere] sia perché una forma viene
specificatamente confutata [nel passo]: «...senza forma...»
(Ka. 1.3.15), sia perché [l’åtman] non costituisce un oggetto
[come si apprende] da passi come: «La Sua natura non è sta-
bilita nella portata della visione, né alcuno Lo vede con gli oc-
chi» (Âve. 4.20), «...senza suono, senza contatto...» (Ka. 1.3.15)
e altri. Perciò non è ragionevole asserire che la conoscenza ha
la forma dell’åtman.
Come può, allora, aversi una conoscenza dell’åtman?
Infatti, qualunque sia l’oggetto, qualunque sia la conoscen-
za, questa assume [sempre] la forma di quello. [Tuttavia] è
stato detto che l’åtman è privo di forma; ora, essendo entram-
bi privi di forma, l’åtman e la conoscenza, come potrebbe mai
compiersi la meditazione su Quello?
Risposta: Non è [così], perché si deve a ragione ammettere
che l’åtman è assolutamente privo di impurità, totalmente
trasparente (puro) ed estremamente sottile; inoltre, poiché si
deve parimenti riconoscere che anche per l’intelletto (buddhi)
vi è un’assoluta assenza di impurità, ecc. come per l’åtman, è
ragionevole che [l’intelletto stesso] possa manifestarsi sotto
forma della consapevolezza dell’åtman; la mente (manas) è [a
sua volta] una manifestazione dell’intelletto, i sensi sono ma-
nifestazione di tale [mente] e, infine, anche il corpo è una ma-
nifestazione dei sensi42. Per questo, da parte delle persone or-
dinarie, si crea una concezione dell’åtman soltanto come il
mero corpo fisico. I seguaci della scuola Lokåyata (materiali-
smo empirico), assertori [del possesso] della consapevolezza
712 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.50

[da parte] del corpo, affermano: ‘il puru≤a è il corpo fisico, ca-
ratterizzato dalla consapevolezza’. Altri ancora sostengono
che la consapevolezza appartiene ai sensi, altri asseriscono
che la consapevolezza è della mente (manas), infine altri so-
stengono che la consapevolezza è propria dell’intelletto (bu-
ddhi). Alcuni, poi, giungono alla conclusione che l’Immanifesto
(avyakta), chiamato anche Indifferenziato (avyåkÿta), che è al
di là anche di quello (dell’intelletto), è uno stato della ignoran-
za (avidyå) che si pone come åtman 43. In tutti questi casi, in-
fatti, dall’intelletto fino al corpo fisico, la causa della erronea
identificazione con l’åtman [di ciascun veicolo] risiede nella
sua condizione di manifestazione della coscienza dell’åtman
e, conseguentemente, la conoscenza avente per oggetto l’å-
tman non deve essere fissata.
Che cosa [si deve fare] allora?
Si deve soltanto operare la cessazione della sovrapposizio-
ne all’åtman di nome, forma, ecc., mentre non si deve creare
[e insegnare] una conoscenza distintiva riguardo alla coscien-
za [propria] dell’åtman dal momento che verrebbe intesa in
maniera non separata da tutte le categorie sovrapposte attra-
verso l’ignoranza. Invero, proprio per questo i buddhisti as-
sertori del Vijñånavåda sono arrivati alla conclusione che non
vi è affatto alcuna realtà a eccezione delle idee (vijñåna) e che
esse non abbisognano di una evidenza conoscitiva [a loro]
esterna [onde essere provate] venendo comprese in quanto
autoconosciute [grazie al loro contenuto di consapevolezza].
Perciò si deve operare unicamente la rimozione di quanto so-
vrapposto al Brahman attraverso l’ignoranza, ma non [com-
piere] uno sforzo mirato a [ottenere] una conoscenza distinti-
va del Brahman, perché [Quello] è assolutamente evidente.
Sebbene [il Brahman] sia assolutamente evidente, facile
da conoscersi, il più vicino [ente a sé stessi] e costituisca l’å-
tman [di ognuno], a coloro il cui intelletto è trascinato via
dalle differenti apparenze di nome e forma immaginati attra-
18.50 Diciottesimo Adhyåya 713

verso l’ignoranza, cioè a coloro che non discriminano, appare


come nient’affatto evidente, difficile da conoscere, assai lon-
tano e come altro [da sé stessi], mentre per coloro, che hanno
ritirato l’intelletto dalle apparenze esteriori e hanno ottenuto
la condizione propizia del Maestro e del sé [inferiore, cioè la
mente]44, non vi è altro [ente] di là da Quello, che sia [come
Quello fonte di] beatitudine, perfettamente evidente, facile a
conoscersi e il più vicino [a loro stessi]. E in tal senso è stato
detto: «...è immediatamente comprensibile, conforme al dha-
rma...», ecc. (Bha. Gı. 9.2).
Obiezione: Ma alcuni, che pensano come eruditi, sostengo-
no questo: l’intelletto non può afferrare la realtà dell’åtman
perché è senza forma; quindi la fondatezza nell’autentica co-
noscenza è difficile da realizzare.
Risposta: In verità è così per coloro che non hanno rece -
pito [l’insegnamento attraverso] una trasmissione tradizio-
nale da parte del Maestro, che non hanno appreso il Vedå-
nta, i cui intelletti sono oltremodo attaccati agli oggetti este-
riori e che non si sono adoperati con solerzia negli autentici
mezzi autorevoli di conoscenza. Viceversa, per coloro che sono
del tutto opposti a quelli, poiché [da parte loro] non si ha per-
cezione di alcun’altra realtà a prescindere dalla coscienza del-
l’åtman, è assolutamente impossibile concepire la nozione
dell’essere (sadbuddhi) riguardo alla [presunta] realtà (vastu)
della dualità inerente al soggetto percipiente e all’oggetto
percepito nel piano empirico, come abbiamo detto [in prece -
denza nei termini]: ‘ciò è proprio così e non diversamente’ 45,
e [come] Bhagavat stesso ha dichiarato [nel passo]: «...quel-
la, nella quale [tutti] gli esseri vegliano, è notte profonda per
il [saggio] silenzioso...» (Bha. Gı. 2.69). Perciò soltanto la
cessazione della consapevolezza delle differenti forme este-
riori è la condizione causale che permette la [presa di co-
scienza della] vera natura dell’åtman, perché l’åtman, per de-
714 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.50

finizione, non è [un ente] non-conosciuto a nessuno e in nes-


sun tempo, né, d’altra parte, può essere raggiunto, perduto o
acquisito. Infatti, qualora tale åtman fosse affatto non-cono-
sciuto, tutti gli atti compiuti a proprio beneficio risultereb-
bero privi di senso, né si può immaginare che essi siano [com-
piuti] a beneficio del corpo, ecc. che è privo di consapevolez-
za, o che il piacere sia finalizzato al piacere e il dolore sia
finalizzato al dolore (cioè che piacere e dolore nelle umane
attività risultino sperimentati solo per loro stessi), perché
qualsiasi attività mira a quel coronamento che è la compren-
sione dell’åtman 46.
Perciò, come non si deve ricorrere a un ulteriore mezzo di
evidenza conoscitiva per definire esattamente il proprio cor-
po, [così] non si deve ricorrere ad alcun altro mezzo di evi -
denza conoscitiva [per la conoscenza] di Quello, essendo l’å-
tman ancora più interiore rispetto a tale [corpo].
Così è stabilito che, per coloro che discriminano, la fonda-
tezza nella conoscenza dell’åtman [ovvero il suo compimento]
è ben evidente.
Anche per quelli per i quali la conoscenza [dell’åtman]
non può essere diretta, perché [l’åtman] è privo di forma,
anche da parte loro si deve prendere atto che, poiché la com-
prensione di ciò che è conoscibile si ha solamente in virtù
della [sua] conoscenza, la conoscenza [stessa] è assoluta-
mente evidente, proprio come il piacere, ecc., dato che non
si può ragionevolmente ammettere [che tale conoscenza sia
essa stessa l’oggetto concernente] il desiderio di conoscere
(jijñåså): se la conoscenza fosse non-conosciuta, diverrebbe
l’oggetto del desiderio di conoscere al pari di un [qualun-
que] oggetto. Come il conoscitore intende pervadere attra-
verso la conoscenza l’oggetto conoscibile, per esempio un
vaso o altro, così intenderebbe raggiungere anche la cono-
scenza, che è ciò che deve essere conosciuto, attraverso una
ulteriore conoscenza, ma ciò non è [così] 47. Quindi la cono-
18.52 Diciottesimo Adhyåya 715

scenza è assolutamente evidente, e anche il conoscitore, pro-


prio per questo, è [a sé stesso] conosciuto. Perciò nessuno
sforzo deve essere compiuto in relazione alla conoscenza [del-
l’åtman]48.
A che pro [dovrebbe essere fatto] allora?
Solo per evitare una [errata] cognizione dell’åtman in ciò
che non è l’åtman. Perciò il compimento della conoscenza
[derivante dalla fondatezza in essa] è ben facile da realizzare.
Ora si enuncia in che modo si attua questo che è il supremo
compimento della conoscenza49:

18.51. Congiunto con un intelletto totalmente purificato e


dominando sé stesso con fermezza, abbandonando gli oggetti
[sensibili] come il suono e gli altri e gettando via attrazione e
avversione,...

“Congiunto con un intelletto” essenziato di determinazione


“totalmente purificato”, privo di [qualsiasi] illusione, cioè es-
sendone perfettamente dotato, “e dominando sé stesso con
fermezza”, operando il soggiogamento dell’aggregato di corpo
e sensi con costanza, cioè mantenendolo [costantemente] sotto
controllo, “abbandonando” quelli che sono “gli oggetti [sensi-
bili] come il suono e gli altri...” – il suono e gli altri sono quel-
li dei quali il suono è [menzionato] all’inizio – vale a dire: ab-
bandonando i piaceri superflui rispetto a ciò, a eccezione
soltanto di quelli che costituiscono un mezzo unicamente per
il sostentamento del corpo nelle sue capacità, “...e gettando
via”, abbandonando completamente [anche] “attrazione e av-
versione” verso quelli [apparentemente] ritenuti alla stregua
di oggetto di sostentamento del corpo; quindi,

18.52. ...dimorando isolato, nutrendosi parcamente, con pa-


rola, corpo e mentale controllati, sempre dedito allo yoga e alla
meditazione, completamente affidatosi al distacco,...
716 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.52

“...dimorando isolato”: dimora isolato quegli la cui attitu-


dine è dimorare in luoghi isolati come foreste, rive di fiumi,
caverne di montagne, ecc.; “nutrendosi parcamente”, con l’a-
bitudine di nutrirsi in maniera frugale. Si ha la menzione del
dimorare isolati e del nutrirsi parcamente in quanto, essendo
causa di acquietamento della mente, sono mezzi per eliminare
difetti come il torpore, ecc.; “con parola, corpo e mentale con-
trollati”: deve avere parola, corpo e mentale controllati l’asceta
(yati) stabilito nella conoscenza, cioè colui del quale, essendo
stabilito nella conoscenza, sia la parola, che il corpo e il men-
tale sono stati controllati (yata), ossia sono completamente
trattenuti sotto controllo.
Così, essendo con tutti gli organi raccolti, [egli deve essere]
“(sempre) dedito allo yoga e alla meditazione”: la meditazione
(dhyåna) è la contemplazione della natura propria dell’åtman
e lo yoga è il rendere [l’attenzione] concentrata in un punto,
cioè nel solo oggetto che è l’åtman. È “sempre dedito allo
yoga e alla meditazione” quegli per il quale la meditazione e
lo yoga devono essere entrambi posti in atto in quanto ogget-
to di [totale ed esclusiva] dedizione. La menzione [del termi-
ne] “sempre” (nityam) ha lo scopo di mostrare che non vi è
altro da fare come, per esempio, [la ripetizione di] mantra,
japa, ecc.; “completamente affidatosi al distacco...”, vale a dire
appoggiandosi sempre e in maniera affatto autentica a una
condizione di indifferenza, di totale assenza di brama verso
gli oggetti sia visibili che invisibili.
E inoltre,

18.53. ...abbandonando totalmente il senso dell’io, la forza,


l’arroganza, il desiderio, l’ira e l’avidità, privo di possessività e
pacificato, è atto a divenire (cioè realizzare) il Brahman.

“(...abbandonando totalmente) il senso dell’io”: il senso


dell’io (ahaækårå) è ciò che produce l’io in relazione al corpo,
18.54 Diciottesimo Adhyåya 717

ai sensi, ecc.; “la forza” è quella energia associata al desiderio,


alla passione, ecc., non un’altra energia, come quella [biologi-
ca] del corpo, ecc., il cui abbandono è impossibile, essendo
connaturata [e necessaria a tali veicoli]; “l’arroganza”: si defi-
nisce arroganza ciò che avviene in seguito e conseguentemente
a una [condizione di] eccitazione ed è causa di trasgressione
del [proprio] dovere, come si apprende dalla Smÿti: «Quegli
che è eccitato diviene arrogante e, divenuto arrogante, tra -
sgredisce il dharma» (Å. Dha. S¥. 1.13.4); e quello che è “il de-
siderio”, cioè la volizione [individuale]; “l’avidità...”: anche
nel completo distacco dai difetti che procedono con i sensi e
la mente, l’avidità può essere mantenuta all’esterno, cioè in
relazione [ai mezzi necessari] al sostentamento del corpo o
come mezzo per la pratica del dharma: e “abbandonando to-
talmente” ciò, ossia distaccandosene completamente, divenen-
do quindi un paramahaæsaparivråjaka 50, “privo di possessivi-
tà”, che ha allontanato l’idea del ‘mio’ anche in relazione alla
mera vita del corpo, e proprio per questo “pacificato”, raccol-
to [in sé stesso], l’asceta che ha estirpato [qualsiasi causa di]
eccitamento e sforzo ed è stabilito nella conoscenza, “è atto a
divenire (cioè realizzare) il Brahman”, cioè diviene capace di
realizzare lo stato che è la natura [stessa] del Brahman.
Attraverso tale processo graduale,

18.54. Divenuto (realizzato) il Brahman, con l’åtman perfet-


tamente pacificato, non soffre né desidera. Identico verso tutti
gli esseri, attinge la suprema devozione in Me.

“Divenuto (realizzato) il Brahman”, cioè attinto [lo stato di


Coscienza non-duale che è] il Brahman, “con l’åtman perfetta-
mente pacificato”, cioè avendo ottenuto la grazia dell’åtman51,
“non soffre...”, – non soffre [più], né si affligge per l’incapa-
cità di [raggiungere] da parte sua qualche obiettivo o per la
[propria] mancanza di qualità – “...né desidera”: questa è la
718 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.54

natura di colui che è divenuto [identico con] il Brahman. Tut-


tavia si replica [il concetto che egli] non soffre né desidera
perché, per il conoscitore del Brahman, non si può ammettere
[alcuna] brama nei confronti dell’oggetto non acquisito. Un’al-
tra lettura è [quella che sostituisce: ‘non desidera’ con] “non
si esalta”.
“Identico verso tutti gli esseri”, in virtù del [naturale atteg-
giamento incline a] rapportare52 a sé stessi [quanto percepito
negli altri], vale a dire che vede in tutti gli esseri un piacere o
un dolore [in modo] affatto identico (come se riguardasse lui
stesso); qui non si intende la percezione di sé in quanto iden-
tico [a tutti gli esseri], perché ciò verrà espresso [nel verso se-
guente]: «Con la devozione Mi riconosce...» (Bha. Gı. 18.55).
Un siffatto [conoscitore] stabilito nella conoscenza “attinge
la suprema devozione in Me”, la più alta devozione in Me, nel
supremo Signore, la devozione consistente nella conoscenza
che è stata definita come la quarta [nel passo]: «Sono ripartite
quadruplicemente le persone che... Mi onorano» (Bha. Gı. 7.16).
Quindi, con [tale devozione] consistente nella conoscen-
za,...

18.55. Con la devozione Mi riconosce come e quale sono in


realtà. Quindi, conoscendo Me nella realtà, immediatamente
entra in Quello (in Me stesso).

“Con la devozione Mi riconosce come” Io [sono] nella va-


sta differenziazione prodotta dalle sovrapposizioni limitanti
“e quale” Io “sono” quando la differenziazione [prodotta da
parte] di tutte le sovrapposizioni limitanti è stata dispersa, cioè
come il supremo Puru≤a simile allo spazio [infinito]; cioè rico-
nosce Quello, ossia Me, “in realtà”, dunque come Non-dualità,
assoluta Coscienza, come unica Essenza, non-nato, non sog-
getto a declino e immortale, senza paura ed esente da estin-
zione (il Brahman nirgu√a).
18.55 Diciottesimo Adhyåya 719

“Quindi, conoscendo Me” così, ossia “nella realtà, imme-


diatamente entra in Quello”, cioè in Me stesso53.
Qui, [dicendo]: “conoscendo... immediatamente entra in
Quello”, non si vuole esprimere che gli atti di ‘conoscenza’ e
della ‘immediata penetrazione’ sono distinti.
Che cosa [si vuole esprimere], allora?
Che è la conoscenza stessa [che si identifica con l’entrare
in Quello], perché non vi è un [suo] frutto differito [nel tempo],
in quanto è stato detto: «Sappi, inoltre, che Io sono il conosci-
tore del campo...» (Bha. Gı. 13.2).
Obiezione: Comunque è contraddittorio quanto asserito, e
cioè che: ‘attraverso quello, che è il supremo compimento della
conoscenza, riconosce Me’.
Risposta: Se [così sostenete], in che senso lo sarebbe?
Obiezione: Si dice: solo quando per il conoscitore si mani-
festa la conoscenza inerente a un certo oggetto, soltanto allora
il conoscitore riconosce quell’oggetto, mentre non deve ricor-
rere a quella funzione-modificazione (vÿtti) della conoscenza
che è il fondarsi nella conoscenza [stessa]. E quindi, ‘non ri-
conosce attraverso la conoscenza, ma attraverso una modifi-
cazione-funzione della conoscenza, cioè riconosce attraverso
la fondatezza nella conoscenza’.
Risposta: Questo non è un difetto: dalla menzione del ter-
mine ni≤†hå, che significa sia ‘fondatezza’ che ‘compimento’,
[si evince] lo stato di coronamento della risolutezza di quella
conoscenza, congiunta con le cause del suo stesso sorgere e
completo maturarsi e liberata dagli impedimenti, come espe-
rienza [quale integrale presa di coscienza] dell’åtman.
Quella condizione della conoscenza della natura di unità
del conoscitore del campo con il supremo åtman, sorta grazie
alla istruzione delle Scritture e del Maestro, con riferimento
alla causa coefficiente, quale la causa del sorgere e del comple-
720 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.55

to maturarsi della conoscenza, come la totale purificazione


dell’intelletto, l’umiltà, ecc. 54, e accompagnata dalla completa
rinuncia a tutte le azioni che legano l’intelletto ai differenti
fattori quali la funzione di agente, ecc., che si ha sotto forma
di risolutezza nella esperienza del proprio åtman, viene defi-
nita: ‘il completo compimento della conoscenza’.
Questo stesso coronamento della conoscenza viene enun-
ciato come la quarta [forma di] devozione, quella suprema
(Bha. Gı. 7.17), in rapporto alle tre [forme di] devozioni come
quella dell’oppresso e le altre [descritte in Bha. Gı. 7.16], che
in maniera affatto immediata rimuove integralmente la nozio-
ne di differenziazione tra il Signore e il conoscitore del campo
(quindi tra il Brahman, o il supremo åtman, e il jıva). Quindi,
l’affermazione secondo cui ‘attraverso tale devozione [supre-
ma], definita [anche] come fondatezza nella conoscenza [o
compimento della conoscenza], riconosce Me’, non comporta
alcuna contraddittorietà. E, a tale proposito, tutta la ben nota
norma della Scrittura, consistente [questa, nella Âruti cioè]
nel Vedånta e nella Smÿti, cioè negli Itihåsa, nei Purå√a [ecc.],
che stabilisce l’astensione dall’agire, si rivela dotata di [tale]
significato [come si evince dai passi]: «...conoscendo... abban-
donando... intraprendono poi vita da mendicanti» (Bÿ. 3.5.1),
«Perciò affermano che la rinuncia eccelle tra queste austerità»
(Tai. Å. 10.63.19), «Che soltanto la rinuncia non sia mai tra-
scurata!» (Tai. Å. 10.62.12), «(I saggi considerano) saænyåsa
la rinuncia agli atti [rituali] (occasionali)...» (Bha. Gı. 18.2),
«Avendo completamente abbandonato i Veda, questo mondo
e l’altro...» (Å. Dha. S¥. 2.23.13), «Abbandona il dharma e
l’adharma!» (Ma. Bhå. 12.329.40) e altri.
Anche qui [nella Bhagavadgıtå] vengono mostrati passi
[simili, come 5.12, ecc.] e non si può dire né che tali passi
sono privi di significato, né che si tratta di asserzioni di con-
ferma [di quanto già espresso], dato che compaiono nei ri-
spettivi contesti [che trattano della completa rinuncia], anche
18.56 Diciottesimo Adhyåya 721

perché la liberazione è lo stabilirsi [e il risolversi] nella pro-


pria natura immodificabile di intimo åtman.
Infatti, per colui che intende raggiungere il mare a oriente
non può esservi la medesima strada che viene seguita, in dire-
zione opposta, da chi vuole raggiungere il mare a occidente,
mentre la fondatezza nella conoscenza consiste nella intensa
applicazione a sostenere un continuo contenuto di consape-
volezza concernente l’intimo åtman; essa sarebbe in contrad-
dizione con l’attività [rituale] che gli venisse associata, come
per lo spostarsi verso il mare d’occidente [per chi voglia giun-
gere a quello a oriente].
I conoscitori dei mezzi autorevoli di conoscenza sono fer-
mamente convinti del fatto che [tra le due cose, conoscenza e
azione rituale] vi è una contraddittorietà pari a quella tra [il
peso di] una montagna e [quello di] un grano di senape. Perciò
è stabilito che la fondatezza nella conoscenza deve essere perse-
guita proprio attraverso la completa rinuncia a qualsiasi azione.
Il frutto del bhaktiyoga [praticato] attraverso l’adorazione
del Signore con la propria opera (Bha. Gı. 18.46), consiste nel-
l’ottenimento della perfezione quale idoneità al fondarsi nella
conoscenza, e la fondatezza nella conoscenza, ottenuta grazie
a quella, ha come coronamento il frutto che è la liberazione.
Adesso quello yoga della devozione al Signore viene elo-
giato nella sezione che riassume il significato della Scrittura
per confermare saldamente il significato [stesso] della Scrittura.

18.56. Per quanto continui sempre a compiere tutte le azioni,


quegli che ha [preso] pieno rifugio in Me, grazie alla mia bene-
volenza consegue la perenne dimora inalterabile.

“Per quanto continui a compiere”, [pur] effettuando “sem-


pre tutte le azioni”, anche quelle proibite, “quegli che ha [pre-
so] pieno rifugio in Me...” – ha [preso] pieno rifugio in Me
(madvyapåŸraya) quegli per il quale il pieno rifugio, la [cui]
722 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.56

intera sede protettiva sono Io, Våsudeva, il Signore, vale a dire


colui del quale tutto il proprio essere è fissato in Me – anch’e-
gli, “...grazie alla mia benevolenza”, cioè in virtù della benevo-
lenza da parte mia, cioè di ÙŸvara, “consegue la perenne”, eter-
na “dimora inalterabile” propria di Vi≤√u (Brahman).
Poiché è così, perciò:

18.57. Rinunciando completamente con l’intelligenza a tutte


le azioni [ponendole] in Me, con Me come supremo, ricorrendo allo
yoga dell’intelletto, sii costantemente con la mente [fissa] in Me.

“Rinunciando completamente con l’intelligenza”, tramite


l’intelletto discriminante, “a tutte le azioni”, aventi [come]
scopo [un frutto] sia visibile che invisibile, “[ponendole] in
Me”, in ÙŸvara (Brahman), secondo la norma espressa nel pas-
so: «Qualunque cosa tu faccia, qualunque cosa tu mangi...»
(Bha. Gı. 9.27), “con Me come supremo...” – ha Me come su-
premo (matpara) quegli, cioè tu, per il quale, cioè per te, Io
sono il supremo, cioè Våsudeva – cioè trovandosi con tutto il
proprio essere fissato in Me, “(ricorrendo) allo yoga dell’intel-
letto...” – lo yoga dell’intelletto (buddhiyoga) è la condizione
in cui l’intelletto è completamente raccolto – dunque, “ricor-
rendo allo yoga dell’intelletto”, cioè senza alcun’altra cosa che
costituisca il [proprio] ricovero protettivo, “sii costantemen-
te”, in ogni circostanza, “con la mente [fissa] in Me”: ha la
mente [fissa] in Me (maccitta) quegli, cioè tu, la cui mente,
cioè la tua, è [sempre fissa] soltanto in Me.

18.58. Con la mente [fissa] in Me, supererai, con il mio favo-


re, ogni difficoltà, ma se, a causa del [tuo] senso dell’io, non
ascolterai, sarai del tutto perduto.

“Con la mente [fissa] in Me, supererai”, oltrepasserai, “con


il mio favore, ogni difficoltà”, tutte quelle cose ardue da vali-
18.61 Diciottesimo Adhyåya 723

care e generate dalla causa [stessa] del divenire ciclico (cioè


dall’ignoranza), “ma se”, se tu, “a causa del [tuo] senso del-
l’io”, [per il quale potresti pensare:] ‘io sono sapiente’, “non
ascolterai”, non afferrerai quanto è stato da Me espresso, di
conseguenza tu “sarai del tutto perduto”, andrai incontro a
totale distruzione. E questo, cioè: ‘io sono indipendente; a che
scopo dovrei fare ciò che ha detto un altro?’, da te non deve
essere [mai] pensato.

18.59. Se, arrendendoti al senso dell’io, pensi: ‘non combat-


terò’, vana è questa tua risoluzione: la Prakÿti [stessa] ti co -
stringerà [a farlo].

“Se”, qualora tu, “arrendendoti al senso dell’io, pensi”, ri-


fletti, operi la decisione: “non combatterò”, non parteciperò
alla battaglia, “vana è questa tua risoluzione”, tale decisione,
perché “la Prakÿti [stessa]”, cioè la [tua] natura propria di k≤a-
triya, “ti costringerà [a farlo]”. E anche perché,

18.60. Costretto dal [tuo] proprio karman, generato dalla


[tua] natura propria [di k≤atriya], o Kaunteya, quello che [ora]
rifiuti di compiere, per via dello smarrimento, lo farai, anche
senza volerlo.

“Costretto”, fermamente legato “dal [tuo] proprio”, intrin-


seco “karman generato dalla [tua] natura propria [di k≤atriya]”
quale quella di valente eroe, ecc. come è stata descritta, “quello”,
l’atto, “che [ora] rifiuti di compiere, per via dello smarrimento”,
per assenza di discriminazione, “lo farai”, tale atto, “(anche)
senza volerlo”, proprio per volere di altri [fattori], perché:

18.61. ÙŸvara risiede nella regione del cuore di ogni essere, o


Arjuna, facendo muovere tutti gli esseri, mediante la måyå,
[come se fossero] montati su una giostra.
724 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.61

“ÙŸvara”, cioè Nåråya√a (Brahman), il cui ruolo è il coman-


do, “risiede”, ha [la propria] esistenza “nella regione del cuo-
re” nella regione che è il cuore “di ogni essere”, di tutti i vi -
venti, “o Arjuna”, o tu, dall’åtman interiore chiaro per natura
propria, cioè: o tu dall’organo interno totalmente purificato,
come si constata nel passo [del Íg Veda]: «Il giorno oscuro
(kÿ≤√a) e il giorno chiaro (arjuna)...» (Í. Ve. 6.9.1).
In che modo Egli risiede in loro?
[Bhagavat lo] dice: “facendo muovere”, causando il movi-
mento di “tutti gli esseri, mediante la måyå”, cioè per mezzo
della [sua stessa capacità di] illusione, come se fossero “mon-
tati su una giostra”, cioè come se fossero stati montati, collo-
cati su una giostra – l’espressione ‘come se fossero’ (iva) deve
essere qui sottintesa – ossia: come statuette umane fatte di le-
gno, ecc. e montate su una giostra. [È sottintesa anche] la
connessione tra [la voce verbale] ‘risiede’ (ti≤†hati) e [l’altra
voce verbale] ‘facendo muovere’ (bhråmayan) [onde leggere:
risiede... facendo muovere...].

18.62. In Quello stesso va’, per [trovare un] ricovero protet-


tivo, con l’intero [tuo] essere, o Bhårata: grazie alla sua benevo-
lenza, conseguirai la suprema pace e la sede perenne.

“In Quello stesso”, in ÙŸvara (Brahman), “va’”, prendi rifu-


gio, “per [trovare un] ricovero protettivo”, un rifugio, onde eli-
minare l’oppressione del divenire ciclico, “con l’intero [tuo] es-
sere”, con tutto te stesso, “o Bhårata”. Quindi, “grazie alla sua
benevolenza”, con la grazia del Signore, “conseguirai la suprema
pace”, la quiete eccelsa, “e la sede perenne”, il supremo, eterno
stato [che è proprio solo] di Me, cioè di Vi≤√u (Brahman).

18.63. Così da Me ti è stata rivelata la conoscenza più segre-


ta del segreto. Dopo aver profondamente riflettuto su questa
nella sua integralità, come desideri, così agisci.
18.65 Diciottesimo Adhyåya 725

“Così”, in questo modo, “da Me”, dal Signore onnisciente,


“ti è stata rivelata”, a te è stata recitata “la conoscenza più se-
greta del segreto”, di ciò che deve essere mantenuto nascosto,
vale a dire assolutamente segreta, misteriosa. “Dopo aver pro-
fondamente riflettuto”, dopo aver condotto una profonda ri-
flessione, un’attenta ponderazione “su questa” scienza quale è
stata esposta, “nella sua integralità”, cioè sull’intero insieme di
argomenti che è stato enunciato, “come desideri, così agisci”.
Ascolta ancora una volta quanto sto per dire:

18.64. Ancora una volta ascolta la mia suprema parola, la


più segreta di tutte. Sei da me fermamente prediletto: quindi
[ti] dichiarerò ciò che è bene per te.

“Ancora una volta”, di nuovo “ascolta la mia suprema pa-


rola”, la mia eccelsa asserzione, “la più segreta di tutte”, quel-
la assolutamente più segreta rispetto a tutti i segreti, l’eccelso
mistero, sebbene [ti] sia già stata esposta più di una volta. Non
[ti] parlerò per paura né per ottenerne una ricompensa.
Perché, allora?
[Perché] “Sei da Me fermamente prediletto”, [mi] sei caro
in modo permanente. Detto questo, “quindi”, per tale motivo,
“[ti] dichiarerò”, [ti] reciterò “ciò che è” il sommo “bene per
te”, il mezzo per conseguire la conoscenza. Esso, invero, è il
bene più grande fra tutti i [tipi di] bene.
Qual è esso?
[Bhagavat lo] dice:

18.65. Sii [sempre] con il pensiero [fisso] in Me, [sempre] a Me


devoto, di Me adoratore e rendi omaggio [sempre e solo] a Me. A
Me certamente verrai: la verità ti dichiarerò [perché] mi sei caro.

“Sii [sempre] con il pensiero [fisso] in Me”, cioè sii [sem-


pre] con la mente [fissa] in Me; sii [sempre] “a Me devoto”,
726 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.65

sii uno che [sempre] ha devozione verso di Me; “di Me adora-


tore”, sii dotato dell’attitudine ad adorarmi; “rendi omaggio
[sempre e solo] a Me”, cioè anche il saluto reverenziale rendilo
soltanto a Me. Perciò, così agendo, cioè in Våsudeva soltanto
avendo completamente fissato la mèta da realizzare, il mezzo
realizzativo e il beneficio, “A Me certamente verrai”, giunge-
rai: “la verità ti dichiarerò”, vale a dire che a te faccio una
promessa di dichiarazione della verità relativamente a questa
cosa, perché “mi sei caro”.
Così, conoscendo la dichiarazione di verità da parte di Bha-
gavat e avendo altresì considerato che il frutto della liberazione
proviene necessariamente dalla devozione al Signore, si deve
divenire quegli per il quale Bhagavat è l’unico ricovero protet-
tivo e il supremo obiettivo. Tale è il significato della sentenza.
Dopo aver riassunto [il significato degli ultimi Capitoli di-
cendo] che il mistero supremo della fondatezza nello yoga
dell’azione è [il riconoscere] la natura del Signore come rico-
vero protettivo, ora, dovendosi esporre l’autentica visione,
quale è fissata nella essenza di tutto il Vedånta, come il frutto
della fondatezza nello yoga dell’azione, [Bhagavat] dice:

18.66. Avendo completamente abbandonato ogni dharma, in


Me, nell’Unico, procedi per trovare rifugio. Io ti libererò da tutti
gli errori: [pertanto] non devi affliggerti [più].

“(Avendo completamente abbandonato) ogni dharma...”:


[l’espressione] ogni dharma si riferisce sia ai dharma [perso-
nali] che a ‘tutti loro’ [in generale]; [dunque: avendo comple-
tamente abbandonato] quelli (cioè tutti i dharma). Qui con il
termine dharma è compreso anche l’adharma, perché si inten-
de esprimere l’assoluta assenza di attività55, come si apprende
dai seguenti e altri passi della Âruti e della Smÿti: «Né colui
che non recede da una condotta indegna...» (Ka. 1.2.24), «Ab-
bandona il dharma e l’adharma...» (Ma. Bhå. 12.329.40), ecc.
18.66 Diciottesimo Adhyåya 727

“Avendo completamente abbandonato ogni dharma”, cioè


avendo completamente rinunciato a qualunque azione, “verso
di Me, nell’Unico”, nel [solo e] medesimo åtman di tutto, nel
Signore indissolubile (Brahman) stabilito in tutti gli esseri,
esente da [condizioni di esistenza quali quelle relative a] vita
embrionale, nascita, invecchiamento e morte [ma con la con-
sapevolezza]: ‘Io stesso [sono Quello]’, così [pensando] “pro-
cedi per trovare rifugio”, vale a dire: sii [sempre] consapevole
del fatto che ‘non vi è altro all’infuori di Me’ (non-dualità).
“Io ti libererò”, te che possiedi una così certa convinzione,
“da tutti gli errori” aventi la natura di legame consistente nel
dharma e nell’adharma, rendendomi manifesto come l’essenza
del [tuo] proprio åtman (svåtmabhåva). È stato anche detto:
«...distruggo (la tenebra generata dall’ignoranza) stabilito nel-
la [loro] meditazione sull’åtman, con la fiamma radiosa della
conoscenza» (Bha. Gı. 10.11). Pertanto “...non devi affliggerti
[più]”, vale a dire: non devi [più] provare sofferenza.
Obiezione: In questa Scrittura della [Bhagavad] Gıtå, si è
dunque accertato che è la conoscenza il mezzo per il [conse-
guimento del] sommo Bene (la liberazione), oppure l’azione o,
ancora, ambedue?
Risposta: Donde [sorge] il dubbio?
Obiezione: I seguenti e altri passi [simili] mostrano che il
conseguimento del sommo Bene si ha dalla sola conoscenza:
«...conoscendo il quale si attinge l’[Essere] immortale» (Bha.
Gı. 13.12), «Quindi, conoscendo Me nella realtà, immediata-
mente entra in Quello» (Bha. Gı. 18.55), ecc.; mentre i seguen-
ti e altri passi [simili] mostrano che l’azione deve necessaria-
mente essere compiuta: «Soltanto per l’agire ti compete la
qualificazione...» (Bha. Gı. 2.47), «(Perciò) tu compi pure l’a-
zione...» (Bha. Gı. 4.15), e così via. Così, dalla istruzione in
base a cui sia la conoscenza che l’azione devono essere poste
728 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.66

in atto, si potrebbe concludere che le due costituiscono il mezzo


per il [conseguimento del] sommo Bene anche qualora siano
combinate: a qualcuno può sorgere tale dubbio.
Risposta: Quale sarebbe, dunque, in merito a ciò, il frutto
di tale investigazione?
Obiezione: L’accertamento definitivo di quello stesso che,
fra tutti questi, è il [vero] mezzo per il [conseguimento del]
Bene. Quindi questo [argomento] è assai vasto e deve essere
investigato.
Risposta: Ma è la sola conoscenza dell’åtman la causa del
[conseguimento del] sommo Bene in quanto, essendo colei
che rimuove i contenuti coscienziali relativi alla differenzia-
zione, trova coronamento nel frutto che è l’assolutezza (kai-
valya). La nozione della differenziazione inerente ad azioni,
fattori e frutti è sempre presente nell’åtman [in quanto vi è
sovrapposta] attraverso l’ignoranza; questa ignoranza è pre-
sente da un tempo senza inizio come: ‘mia è l’azione, io sono
l’agente, farò questa azione per [ottenerne] quel frutto’. La
conoscenza concernente l’åtman, allorché sorge in una forma
così: ‘io sono questo [åtman], assoluto, non-agente, privo [per
natura] di attività [modificante], libero dal frutto [dell’agire],
non vi è alcun altro [ente reale] all’infuori di me’, è colei che
rimuove tale ignoranza, perché rimuove la nozione di diffe-
renziazione che è la causa dell’impegnarsi nell’azione.
Il termine “ma” (tu) [all’inizio di questa Risposta: “Ma è la
sola conoscenza...”] ha lo scopo di respingere [a priori] le [al-
tre] due tesi, per cui il conseguimento del sommo Bene non
può aversi né dalle sole azioni né da conoscenza e azioni com-
binate; dunque, esclude queste due tesi e, poiché il sommo
Bene non è un effetto, non è ragionevole ipotizzare che il mez-
zo [per ottenerlo] possa essere l’azione. Infatti una cosa eter-
na non viene prodotta né dall’azione né dalla conoscenza.
18.66 Diciottesimo Adhyåya 729

Obiezione: Allora anche la sola conoscenza è priva di utilità.


Risposta: No, perché, essendo colei che rimuove l’ignoran-
za, ha come coronamento il frutto dell’assolutezza, che viene
constatato. Che la conoscenza, che è colei che rimuove l’oscu-
rità della ignoranza, abbia come coronamento il frutto dell’as-
solutezza è oggetto di constatazione [per chiunque] al pari
del risultato della luce di una lampada, che allontana l’oscuri-
tà della non-conoscenza concernente una corda o altro, [erro-
neamente percepita] come serpente o altro: infatti, il frutto
della illuminazione trova compimento nell’isolare la corda
dalle immagini di serpente, ecc. che scompaiono [immediata-
mente]; ugualmente è per la conoscenza.
Come non si può a ragione ammettere, riguardo ai fattori
[dell’azione] quali il soggetto agente e gli altri, impegnati nel-
l’atto di tagliare [qualcosa] o in quello di accendere un fuoco
per strofinìo, ecc., [cioè in atti] che danno risultati visibili
[immediatamente], che si impegnino in un’altra azione o che
diano un risultato differente da quei risultati come la perce-
zione, ecc. [rispettivamente] della divisione [di qualcosa] e di
un fuoco [acceso] così non si può a ragione ammettere nem-
meno che tali fattori dell’azione quali il conoscitore e gli altri,
qualora siano impegnati nell’attività che è il fondarsi nella co-
noscenza, che ha un frutto visibile, possano profondersi in
un’altra attività, avente un esito differente dal frutto che è la
[realizzazione della] assolutezza dell’åtman; così, non è legit-
timo sostenere che il fondarsi nella conoscenza possa essere
associato all’azione [rituale].
Obiezione: Si può obiettare che potrebbe esserlo nello stes-
so modo in cui [lo è] l’attività rituale relativa all’Agnihotra,
ecc. con l’atto di mangiare.
Risposta: No, perché, posto che la conoscenza ha come
frutto la [realizzazione della] assolutezza, non è ragionevole
730 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.66

ammettere che [colui che si è fondato nella conoscenza] pos-


sa ricercare [anche] il frutto dell’attività rituale. Infatti, come
cessa di porsi la motivazione per allestire condotte e serbatoi
quando si ha il risultato di trovarsi inondati da ogni parte dal-
l’acqua, [ugualmente] quando la conoscenza avente per frutto
l’assolutezza è stata conseguita, non è legittimamente ammis-
sibile [l’impegnarsi in] una [ulteriore] ricerca relativamente a
un differente frutto o a un’attività che costituisca un mezzo
per [ottenere] quello. Infatti, per colui che è impegnato in una
azione il cui frutto è l’ottenimento di un regno, non è logico
immaginare che si impegni o in una [altra] azione il cui frutto
sia l’ottenimento di un semplice appezzamento di terra, o nel-
la ricerca di tale [azione]. Perciò l’azione non è un mezzo per
il [conseguimento del] sommo Bene, né lo sono la conoscenza
e l’azione combinate, e neppure la conoscenza avente per frut-
to l’assolutezza qualora si presuma che deve essere coadiuvata
dall’azione perché, essendo colei che rimuove l’ignoranza, sa-
rebbe in contraddizione [con l’azione stessa]: infatti l’oscurità
non è colei che rimuove l’oscurità. Quindi il mezzo per il [con-
seguimento del] sommo Bene è proprio la sola conoscenza.
Obiezione: No, sia perché trascurando il rito perpetuo si
incorre nell’errore opposto56, sia perché l’Assoluto è eterno.
Innanzitutto, quanto a questo, cioè al fatto che il conseguimen-
to dell’assolutezza discende dalla sola conoscenza, ciò non è
esatto, perché, nel mancato compimento dei riti perpetui ap-
presi dalla Âruti si incorrerà certamente nell’errore opposto,
consistente nella caduta agli inferi, ecc.
seconda Obiezione: In tal caso, allora, dato che la liberazio-
ne non è dovuta alle azioni rituali, ne consegue proprio l’im-
possibilità della liberazione (anirmok≤a).
prima Obiezione: Questo difetto non sussiste, perché la li-
berazione è eterna. Dalla celebrazione dei riti perpetui si ha il
18.66 Diciottesimo Adhyåya 731

mancato incorrere nell’opposto errore, dalla mancata effet-


tuazione di quello proibito non si può ammettere [la nascita
in] un corpo indesiderabile, e dall’evitare quelli finalizzati
non si può ammettere [la nascita in] un corpo gradito; e all’e-
saurimento della esperienza del frutto dell’azione che ha pro-
dotto il corpo attuale, quando questo corpo è decaduto e non
essendovi una causa in relazione al sorgere di un ulteriore
veicolo fisico, in assenza dell’azione [generata] da parte del-
l’attaccamento, ecc., l’assolutezza sarà proprio la condizione
inerente alla propria natura, cioè l’assolutezza sarà realizzata
senza alcuno sforzo.
seconda Obiezione: Si può ipotizzare il non avvenuto esau-
rimento [del karman] prodottosi in molteplici altre nascite tra-
scorse, il cui frutto è il conseguimento del cielo, dell’inferno,
ecc., perché non è logicamente ammissibile la fruizione di un
effetto che non si è maturato.
prima Obiezione: No, perché si deve riconoscere che l’espe-
rienza dello sforzo e della sofferenza durante la pratica dei riti
perpetui è [proprio] la fruizione di tale frutto. Oppure [si deve
pensare che] i riti perpetui hanno lo scopo di distruggere il
cattivo corso acquisito in precedenza, al pari di una pratica
espiatoria (pråyaŸcitta). Così, essendo state distrutte le azioni
già maturate proprio attraverso l’esperienza [dei loro frutti] e
in assenza di maturazione di [altre] nuove azioni, [si conclude
che] l’assolutezza è realizzata senza [alcuno] sforzo.
Risposta: No, perché dalla Âruti si apprende che non esiste
alcun’altra via per la liberazione a eccezione della conoscen-
za: «Conoscendo Quello soltanto si trascende la morte: non
vi è alcun’altra via che vi conduca» (Âve. 3.8), e ancora dalla
Âruti si ha l’impossibilità della liberazione per il non-cono-
scitore, nello stesso modo in cui è impossibile avvolgere lo
spazio come fosse cuoio. Anche dalla Smÿti [si apprende la
732 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.66

stessa cosa], nel [passo del] Purå√a: «Consegue l’assolutezza


tramite la conoscenza».
[È così] anche perché non si può ragionevolmente conce-
pire la distruzione delle azioni i cui frutti non sono ancora
maturati. [Sempre secondo questo punto di vista] come è pos-
sibile che continuino a esistere i frutti non maturati dei catti-
vi corsi acquisiti in precedenza, così deve essere ugualmente
possibile anche l’esistenza dei frutti non maturati [degli atti]
virtuosi e, dato che non è ammissibile una loro distruzione
senza aver prodotto un altro veicolo fisico, [ne consegue che]
la liberazione stessa sarebbe affatto impossibile57.
Non è ammissibile nemmeno l’estirpazione di dharma e
adharma perché non è ragionevole sostenere che l’estirpazione
di attaccamento, avversione e illusione, che sono le cause del
dharma e dell’adharma, possa aversi in un altro modo che sia
differente dalla conoscenza dell’åtman. Dunque, sia perché la
Âruti afferma che i riti perpetui hanno un frutto di merito, sia
perché anche la Smÿti afferma che “...gli appartenenenti agli
ordini sociali e agli stadi di vita devono fondarsi nel loro pro-
prio karman”, non è ragionevolmente ammissibile una distru-
zione delle azioni [senza la produzione del loro frutto].
Per quanto riguarda ciò che alcuni dicono, ossia che: ‘i riti
perpetui, per via della loro natura dolorosa, sono essi stessi il
frutto degli atti erronei prodottosi in precedenza, mentre per
loro non esiste altro frutto a eccezione della loro [stessa] na-
tura [di sofferenza], sia perché dalla Âruti non si apprende
[un altro frutto], sia perché la loro ingiunzione si limita alla
durata della vita, ecc.’, [la nostra Risposta è] no, perché è im-
possibile che azioni che ancora non hanno cominciato a pro-
durre [effetti] diano un frutto e anche perché non sarebbe
ammissibile una distinzione relativamente al frutto che è la
sofferenza [insita nei riti perpetui].
Quanto è stato [da Voi] detto, cioè che ‘il frutto delle azio-
ni perverse effettuate in nascite precedenti viene esperito
18.66 Diciottesimo Adhyåya 733

come sforzo e sofferenza nella pratica dei riti perpetui’, ciò


non è esatto. Infatti non si può ragionevolmente ammettere
che il frutto di un’azione, la quale [fino] al tempo della morte
non sia ancora maturata per dare un frutto, possa essere espe-
rito in una [diversa] nascita dovuta, questa, al maturarsi di
un’altra azione. Altrimenti, non sarebbe inammissibile che in
una nascita prodotta da azioni come l’Agnihotra, ecc., miranti
alla esperienza del frutto che è il cielo, possa essere sperimen-
tato un esito come l’inferno [dovuto ad atti contrari, proibiti,
ecc.] e anche perché, viceversa, sarebbe inammissibile che
tale cattivo [operato] abbia un frutto la cui natura presenta
una distinzione nella sofferenza [rispetto a quella relativa alla
pratica dei riti perpetui].
Infatti, quando vi sono molti atti demeritori, i cui frutti
sono la condizione strumentale per [sperimentare] il dolore
nei differenti modi possibili, se si immagina che i loro frutti
siano unicamente l’impegno e il disagio [insiti] nella pratica
dei riti perpetui, [si deve concludere anche che] la sofferenza
dovuta alle coppie di opposti, alle malattie, ecc. è priva di una
causa – e ciò non è concepibile – e che l’impegno e il disagio
[insiti] nella pratica dei riti perpetui sono soltanto il frutto del
cattivo operato acquisito in precedenza e non una sofferenza
come, per esempio, quella [provata] nel trasportare pesanti
pietre sulla testa, ecc.
Inoltre questo che viene [da voi] asserito, e cioè che ‘l’im-
pegno e il disagio nella pratica dei riti perpetui è il frutto del
cattivo operato acquisito in precedenza’, è altresì irrilevante
in rapporto all’argomento che si sta trattando.
In che senso?
L’argomento in corso di disamina è questo: invero, la di-
struzione del cattivo [operato] acquisito in precedenza, che
non ha [ancora] prodotto il suo frutto, non può essere ragio-
nevolmente ammessa. Voi dite che il frutto dell’azione che ha
prodotto il suo frutto, e non già di quella che non ha prodotto
734 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.66

il suo frutto, consiste nello sforzo e nella sofferenza [insiti]


nella pratica dei riti perpetui. Ma se voi pensate che proprio
tutto il cattivo operato precedente abbia prodotto il suo frutto,
allora è irragionevole una specificazione secondo cui lo sforzo
e la sofferenza [insiti] nella pratica dei riti perpetui sono il
frutto [del cattivo operato che non ha ancora cominciato a
produrre il suo frutto]. [Da ciò] si avrebbe anche il difetto di
una perdita di utilità delle ingiunzioni concernenti i riti per-
petui, perché si dovrebbe postulare la distruzione [del frutto]
del cattivo operato [effettuato in precedenza] che abbia pro-
dotto il proprio frutto soltanto mediante la sua esperienza.
E inoltre: se la sofferenza fosse il frutto del rito perpetuo
appreso [come oggetto di prescrizione] dalla Âruti, essa viene
constatata [sorgere] proprio dallo sforzo profuso nella pratica
del rito perpetuo, al pari di una fatica fisica, ecc.: non è am-
missibile immaginare che tale [sofferenza] sia [il risultato] di
un’altra [azione]. E, poiché i riti perpetui vengono fissati [dalla
Âruti] nella misura di tutta la durata della vita, ecc. [di un
uomo], non è ragionevole pensare che essi sono il frutto del
cattivo operato acquisito in precedenza come [se fossero] un
atto di espiazione: quando vi è un’azione perversa, a motivo
di essa viene fissato quello che è un atto espiatorio, ma tale
[atto di espiazione] non è il frutto di tale errore. Se la sofferen-
za dell’atto espiatorio fosse il frutto di quello stesso errore
che è il motivo [per cui è stato fissato], ne conseguirebbe il
difetto secondo cui lo sforzo e la sofferenza [insiti] nella pra-
tica dei riti perpetui anche in ragione della durata della vita,
ecc. sarebbero il frutto di quella stessa durata della vita, ecc.
che è il motivo [della loro effettuazione], perché, sia per i [riti]
perpetui che per gli atti espiatori, non vi sarebbe distinzione in
relazione al loro essere prodotti da una data causa [che sarebbe
la medesima per entrambi, cioè lo stato in vita di un uomo].
Ma vi è dell’altro. Poiché lo sforzo e la sofferenza che ac-
compagnano la pratica dell’Agnihotra o di un altro [rito], sia
18.66 Diciottesimo Adhyåya 735

[che venga celebrato come rito] perpetuo (cioè come un do-


vere), che [celebrato come un rito] finalizzato [all’ottenimento
di qualche cosa], sono uguali, e poiché non vi è distinzione in
base a cui [si possa concludere che] solo lo sforzo e la soffe-
renza [insiti] nella pratica dei riti perpetui sono il frutto del
cattivo operato precedente, ma non lo forzo e la sofferenza
[insiti] nella pratica di un [rito] finalizzato, dovrebbe aversi
che anch’essi sono il frutto del cattivo operato precedente. E,
così stando le cose, la concezione, basata su un postulato infe-
renziale, secondo cui, poiché nella Âruti non vi è menzione del
frutto dei [riti] perpetui e poiché non sarebbe altrimenti am-
missibile l’ingiunzione [nei loro riguardi], lo sforzo e la soffe-
renza [insiti] nella pratica dei [riti] perpetui sarebbero il frut-
to del cattivo operato precedente, non è debitamente provata.
È così sia per l’inammissibilità che l’ingiunzione sia [pro-
ferita] in un altro modo, sia per l’inferenza secondo cui il frutto
dei [riti] perpetui è differente dallo sforzo e dalla sofferenza
insiti nella loro pratica, sia, altresì, per la contraddittorietà,
[perché] questo che [da parte vostra] si dice è contraddittorio:
qualora si ammettesse che, per mezzo di un rito perpetuo si
sperimenta, allorché viene celebrato, il frutto di un’azione dif-
ferente [cioè indipendente dal rito stesso], per cui quella stes-
sa esperienza è il frutto del rito perpetuo e che il rito perpetuo
non possiede frutto, [ciò] esprimerebbe una contraddizione.
Inoltre [in tale vostra ipotesi], quando venisse celebrato
l’Agnihotra, ecc. come [rito] finalizzato, tale che con lo stesso
atto rituale risulti celebrato anche l’Agnihotra, ecc. come [rito]
perpetuo, [ne consegue che] il frutto dell’Agnihotra, ecc. [ce-
lebrato come rito] finalizzato verrebbe a esaurirsi proprio at-
traverso lo sforzo e la sofferenza insiti in quello (l’Agnihotra,
ecc. come rito perpetuo), essendo legato a quello. Ora, se il
frutto dell’Agnihotra, ecc. finalizzato fosse affatto altro, come
il cielo, ecc., [allora] anche lo sforzo e la sofferenza insiti nella
sua celebrazione dovrebbero risultare distinti [da quelli relati-
736 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.66

vi al rito perpetuo], ma ciò non avviene, perché contraddireb-


be quanto è constatato. Infatti lo sforzo e la sofferenza insiti
nella pratica del solo [rito] perpetuo non sono visti differenti
dallo sforzo e dalla sofferenza insiti nella pratica di quello fi-
nalizzato.
Vi è [ancora] dell’altro. Un’azione che non sia ingiunta né
proibita [dalla Âruti, ecc.] porta un frutto in quel [medesimo]
tempo [nel quale viene compiuta], ma quella comandata dalle
Scritture o proibita non potrà avere frutto in quel [medesimo]
tempo [nel quale viene compiuta58 perché, se tale azione aves-
se effetto immediato], allora anche [compiendo tale azione]
impetrando un frutto invisibile, sebbene questo possa essere
persino il cielo, ecc., non deve essere profuso alcuno sforzo.
[Ciò sarebbe indotto dal considerare che] l’esaurimento [dei
frutti] degli stessi Agnihotra, ecc. [celebrati come riti] perpe-
tui [avverrebbe] unicamente attraverso lo sforzo e la soffe-
renza [sperimentati] nella celebrazione rituale, [mentre] per
quelli [celebrati come riti] finalizzati consisterebbe in un frut-
to più elevato, come il cielo, ecc., [per quanto] non vi è distin-
zione relativamente alla natura propria dell’atto rituale, e ciò
unicamente in virtù del loro possedere una natura di deside-
rio nei confronti del frutto; invece [in realtà questo Agniho-
tra, ecc. finalizzato] non è superiore [all’altro, a quello cele-
brato come obbligatorio] né nelle fasi complementari né nella
modalità di esecuzione. Perciò non si potrà mai ragionevol-
mente sostenere che i riti perpetui non hanno un frutto invi-
sibile [e quindi differito]. Quindi soltanto la conoscenza è il
mezzo in grado di distruggere integralmente [il frutto] dell’a-
zione pura o impura indotta dall’ignoranza, e non la effettua-
zione del rito perpetuo. Infatti l’ignoranza e il desiderio costi-
tuiscono il seme proprio di qualunque azione 59. E così è stato
provato che l’azione concerne il non-conoscitore mentre la
fondatezza nella conoscenza, preceduta dalla completa rinun-
cia a qualsiasi azione, concerne il conoscitore.
18.66 Diciottesimo Adhyåya 737

[A conferma di questo vi sono i passi]: «...entrambi costo-


ro non conoscono distintamente» (Bha. Gı. 2.19), «Colui il
quale lo realizza come indistruttibile, eterno...» (Bha. Gı. 2.21),
«...per i såækhya è [stato enunciato il sentiero] attraverso lo
yoga della conoscenza, per gli yogin è [stato enunciato il sen-
tiero] attraverso lo yoga dell’azione» (Bha. Gı. 3.3), «(Il cono-
scitore non deve ingenerare la nozione della distinzione nella
mente) degli ignoranti attaccati all’azione...» (Bha. Gı. 3.26),
«Invece... colui che conosce la realtà... (pensando): ‘sono i gu√a
che agiscono sui gu√a’, non aderisce [più alle loro azioni]»
(Bha. Gı. 3.28), «Rinunciando completamente nel pensiero a
tutte le azioni...» (Bha. Gı. 5.13), «Colui che si è unificato, co-
noscitore dell’essenza [di tutto], dovrebbe pensare: ‘[in realtà
io] non faccio proprio nulla...’» (Bha. Gı. 5.8). Per tale motivo
l’ignorante [pensa]: ‘[sono io che] agisco’, ma per quegli «...che
aspira a elevarsi allo yoga si dice che lo strumento [adeguato]
è l’azione; [invece] per quegli stesso che [già] si è elevato allo
yoga si dice che lo strumento [adeguato] è la pace» (Bha. Gı.
6.3), [per cui] anche i non-conoscitori sono illustrati come tre;
«...ma il jñånin è da Me ritenuto l’åtman stesso...» (Bha. Gı.
7.18). [Da parte loro] i ritualisti non-conoscitori «...desiderosi
di godere, ottengono l’andare e il tornare» (Bha. Gı. 9.21), [ma]
coloro che, pensandosi non-differenti [da Me], sono costante-
mente unificati [in Me] e Mi onorano come l’åtman quale è
stato descritto, simile allo spazio, «(A loro...) dono quel con-
tatto con l’intuizione tramite cui essi possono trovare Me»
(Bha. Gı. 10.10).
Da quanto è stato espresso, [sembra che] i ritualisti non-
conoscitori non possano accostarsi [alla realizzazione del Bra-
hman]. In effetti, tali ritualisti, che non sono conoscitori, seb-
bene siano sommamente devoti nel rendere servizio al Signo-
re, si avvalgono dei mezzi [menzionati] in ordine discenden-
te60, l’ultimo [dei quali] è l’abbandono del frutto [delle azioni].
Ma quelli che onorano l’Indefinibile e l’Indistruttibile sono
738 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.66

detti avvalersi di mezzi quali quelli espressi a conclusione del-


l’intero capitolo: «Colui che verso tutti gli esseri è privo di
ostilità...» (Bha. Gı. 12.13), e i loro mezzi di conoscenza sono
stati enunciati nei tre Capitoli che cominciano da quello rela-
tivo al ‘campo’61.
Il triplice frutto dell’agire, [descritto come] sgradevole,
ecc.62, non è per coloro che hanno completamente rinunciato a
qualsiasi azione causata dai cinque fattori come il supporto e
gli altri63, che posseggono la conoscenza della natura di unità
[assoluta] dell’åtman e della sua natura non-agente, che sono
attualmente dediti alla più elevata fondatezza nella conoscenza
e che conoscono la reale essenza di Bhagavat, che sono davve-
ro paramahaæsaparivråjaka e che hanno ottenuto ricovero
protettivo nella unità dell’åtman quale natura propria di Bha-
gavat. Esso [invece] è solo per gli altri, i non-conoscitori dediti
all’azione rituale che non hanno operato la completa rinuncia.
Questa è la distinzione che deve essere fatta in relazione al si-
gnificato espresso dalla Scrittura della [Bhagavad] Gıtå.
Obiezione: Si può obiettare che non è dimostrato che qual-
siasi azione è dovuta all’ignoranza.
Risposta: No [al contrario ciò è ben stabilito], come nel
caso della uccisione di un bråhma√a. Seppure il rito perpetuo
venga appreso dagli Âåstra, esso è riservato solo a colui che è
[ancora] soggetto all’ignoranza. Come l’atto consistente nella
uccisione di un bråhma√a, ecc., che è causa di male, sebbene
venga appreso dagli Âåstra in quanto proibito, concerne colui
che possiede difetti come l’ignoranza, la passionalità, ecc., dato
che, altrimenti, la sua effettuazione sarebbe inammissibile,
così sono anche i [riti] perpetui, occasionali e finalizzati.
Obiezione: Si può osservare che, fin quando si ignora che
l’åtman è distinto dal corpo, è inammissibile l’impegnarsi nei
riti perpetui e negli altri.
18.66 Diciottesimo Adhyåya 739

Risposta: No, perché si constata che [laddove l’ignorante


pensa]: ‘sono io che agisco’, la effettuazione dell’azione, con-
sustanziata di movimento, riguarda ciò che non è l’åtman.
Obiezione: La consapevolezza ‘io’ si ha in senso seconda-
64
rio [solo] in relazione all’aggregato di corpo, ecc., mentre
essa non sarebbe affatto illusoria [in sé stessa, come consape-
volezza].
Risposta: No, perché non si può ammettere tale senso se-
condario anche in relazione ai suoi effetti.
Obiezione: La consapevolezza ‘io’ in relazione all’aggregato
di corpo, ecc. è un concetto figurato (gau√a) in quanto [si
considera il corpo, ecc.] come ‘proprio di sé stessi’, analoga-
mente a quanto avviene in relazione al proprio figlio [quando
al padre viene detto]: ‘invero, sei tu stesso quegli che è chia-
mato [tuo] figlio’, o tale e quale a quando, nella espressione
corrente, [si dice]: ‘questa mucca è la mia stessa vita’. Questo
contenuto di consapevolezza non è affatto illusorio, mentre
una consapevolezza dal contenuto illusorio (mithyåpratyaya)
si ha, per esempio, quando non viene percepita la distinzione
tra un palo e una figura umana65.
Risposta: No: un concetto [espresso in senso] figurato [cor-
rispondente a una consapevolezza dal contenuto illusorio]
non ha un contenuto il cui effetto è [esprimibile in senso] di-
retto (quindi corrispondente a un dato reale); [si ricorre al
senso figurato] perché si vuole esprimere un elogio in relazio-
ne al soggetto, però con l’elisione del termine che esprime il
paragone, come nelle frasi: ‘Devadatta è un leone’ o ‘lo stu-
dente è un fuoco’, laddove, [intendendo che Devadatta] ‘è
come un leone’ e [che lo studente] ‘è come un fuoco’, si vuole
soltanto esprimere un elogio del soggetto, cioè rispettivamen-
te di Devadatta e dello studente, in base alla loro analogia
[l’uno] con il coraggio [del leone], [l’altro] con il colore giallo
740 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.66

ocra [dell’abito], mentre non viene [realmente] né a crearsi


un leone né a crearsi un fuoco, in virtù [della menzione] di
tali concetti espressi in senso figurato.
Al contrario [ognuno] sperimenta il male determinato da
una consapevolezza il cui contenuto è illusorio e, nello stesso
tempo, conosce ciò stesso che è oggetto del concetto figurato:
‘costui, Devadatta, non è [realmente] un leone’, ‘questo stu-
dente non è un fuoco’66.
Così l’atto [che si considera] compiuto dall’åtman quando
è espresso in senso secondario come l’aggregato di corpo, ecc.,
non sarà [da considerarsi] compiuto dall’åtman quale conte-
nuto della consapevolezza ‘io’ in senso diretto. Infatti l’atto
compiuto da coloro che sono figuratamente detti un leone e
un fuoco non sarà compiuto [realmente] da un leone o dal
fuoco, né verrà a prodursi alcun effetto dal coraggio o dal co-
lore giallo di quelli che sono figuratamente espressi come leo-
ne e come fuoco, perché [tali caratteristiche attribuite figura-
tamente] si esauriscono proprio nel senso di elogio. I due che
vengono così esaltati sanno: ‘io non sono un leone’ e ‘io non
sono fuoco’, e ‘il mio agire non è quello del leone o del fuoco’.
Così, un contenuto di consapevolezza quale: ‘l’atto [compiuto
da parte] dell’aggregato è mio in quanto åtman in senso di-
retto’, sarà ancor meno plausibile, né, ancora, [saranno tanto
meno sostenibili contenuti quali] ‘io sono l’agente’, ‘[questa]
è la mia azione’.
Anche a quello che [alcuni] affermano, ossia che ‘l’åtman
compie attività per via di quelle cause dell’agire che sono la
memoria, il desiderio e lo sforzo che gli appartengono intrin-
secamente’, [la nostra risposta è] no, perché essi sono indotti
[ad asserire ciò] da idee dal contenuto illusorio: infatti la me-
moria, il desiderio, lo sforzo, ecc. provengono dai semi attivi
generati come frutto dalle attività di esperienza del gradevole
e dello sgradevole dovute a contenuti illusori. Come in questa
nascita il dharma e l’adharma, insieme con l’esperienza dei
18.66 Diciottesimo Adhyåya 741

loro frutti, sono prodotti dall’attrazione e dall’avversione de-


rivanti dalla identificazione [di sé] con l’aggregato di corpo,
ecc., così è per la nascita precedente e anche per quella suc -
cessiva: ugualmente si deve desumere che il divenire ciclico,
sia passato che futuro, è prodotto da una ignoranza senza ini-
zio. È quindi stabilito che la definitiva soluzione del divenire
ciclico si ha [soltanto] dalla fondatezza nella conoscenza ac-
compagnata dalla completa rinuncia a qualsiasi azione.
Inoltre, poiché l’identificazione [di sé] è consustanziata di
ignoranza e dato che alla sua estinzione non è ammissibile [il
persistere della identificazione con] il corpo, non si può am-
mettere [nemmeno] il [persistere del] divenire ciclico. L’iden-
tificazione dell’åtman con l’aggregato di corpo, ecc. è consu-
stanziata di ignoranza; infatti, nel piano empirico, nessuno,
sapendo: ‘io sono differente da mucche, ecc.’ e ‘le mucche,
ecc. sono differenti da me’, considera tali [animali] come ‘io’.
Mentre, ignorando, cioè in assenza di discriminazione, por-
rà la consapevolezza ‘io’ nell’aggregato di corpo, ecc., come la
[falsa] nozione di una persona nella sagoma di un tronco, non
[è così] conoscendo, cioè in presenza di discriminazione.
Invece, per quanto riguarda [l’espressione comune]: ‘inve-
ro, sei tu stesso quegli che è chiamato [tuo] figlio’, con la con-
sapevolezza ‘io’ [posta figuratamente] nel figlio, tale espres-
sione figurata è dovuta alla [particolare] relazione tra quegli
che viene generato e colui che lo genera, e non si potrà [mai]
avere un effetto reale da un [atto compiuto da parte di ciò che
viene detto] åtman in senso figurato, come per l’atto di man-
giare, ecc. (che non può essere effettuato da altri che da noi
stessi), analogamente a quanto può fare in senso diretto un
leone o il fuoco rispetto al leone o al fuoco espressi figurata-
mente.
Obiezione: Si può obiettare che, data l’autorevolezza delle
prescrizioni aventi per oggetto il [frutto] non-visibile [delle
742 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.66

azioni], ciò che deve essere fatto dall’åtman viene [effettiva-


mente] compiuto da parte del corpo, dei sensi e degli altri
[fattori] che Lo esprimono in senso secondario.
Risposta: No, perché la loro natura di åtman è prodotta
dall’ignoranza, mentre il corpo, i sensi, ecc. non sono conside-
rati [vari] åtman in senso secondario.
Come lo sono, allora?
Essi acquistano la [presunta] natura di åtman solamente
attraverso una consapevolezza dal contenuto illusorio in quan-
to sono non-åtman, perché esistono finché quella [consape-
volezza] esiste e cessano di esistere quando quella cessa di
esistere67. Si constata, infatti, che la consapevolezza ‘io’ è [so-
vrapposta] sull’aggregato di corpo, ecc. da parte di coloro che
non discriminano, come i bambini, fin quando sono nell’igno-
ranza [per cui nutrono nozioni quali]: ‘io sono alto’, ‘io sono
fulvo’, mentre per coloro che, dotati di conoscenza, discrimi-
nano, non esiste un contenuto di consapevolezza ‘io’ in rela-
zione all’aggregato di corpo, ecc., e in quel tempo [essi hanno
la chiara consapevolezza]: ‘io sono altro dall’aggregato di cor-
po, ecc.’. Perciò, poiché cessa di esistere in assenza della con-
sapevolezza illusoria, [l’identificazione di sé con il corpo, ecc.]
è proprio prodotta da quella, e non è [solo una espressione] in
senso figurato.
Infatti un concetto in senso figurato, o il suo impiego come
definizione, può aversi, per Devadatta e un leone, o per lo
studente e il fuoco, [solo] se la distinzione e la similitudine
possono essere apprese singolarmente [in relazione a ciascun
caso], ma non se la similitudine e la distinzione non possono
essere còlte.
Per quanto riguarda ciò che è stato detto, ossia che: ‘data
l’autorevolezza della Âruti [circa il frutto non-visibile, l’atto
inerente viene effettivamente compiuto da parte del corpo,
dei sensi e degli altri fattori che esprimono l’åtman in senso
18.66 Diciottesimo Adhyåya 743

secondario]’, ciò non è [esatto], perché la sua autorevolezza


concerne [specificamente] il [frutto] non-visibile [delle azioni
rituali]. Infatti, quando l’oggetto non viene percepito attra-
verso i mezzi validi di conoscenza, come la percezione diretta
(pratyak≤a) e gli altri68, l’autorità della Âruti si rivela nella re-
lazione tra fini e mezzi, come l’Agnihotra e gli altri [riti sacri-
ficali], e non concerne la percezione diretta, ecc., perché la
[sua] autorevolezza concerne l’oggetto la cui conoscenza non
è evidente. Perciò non si può immaginare che la consapevo-
lezza ‘io’, dovuta a una evidente conoscenza illusoria, posseg-
ga natura figurata quando è riferita all’aggregato di corpo,
ecc. [ma non quando non lo è]. Infatti, per quanto si possa as-
serire, da parte della [stessa] Âruti, che ‘il fuoco è freddo e
oscuro’, [ciò] non avrebbe alcuna autorità. Se [comunque e
realmente la Âruti] affermasse che ‘il fuoco è freddo e oscuro’,
in tal caso si deve immaginare che la Âruti stessa intende espri-
mere un altro significato, perché la [sua] autorevolezza non è
ammissibile in maniera diversa; ma non [si può pensare che
la Âruti] esprima una contraddizione con un’altra fonte auto-
revole (per es. l’esperienza comune) e neppure che sia in con-
traddizione con la propria espressione.
Obiezione: Poiché l’azione è [compiuta da parte] dell’agente
che è soggetto a una consapevolezza illusoria, in assenza del-
l’agente [ovvero della sua funzione attiva quando cessa l’illu-
sione, ovvero quando cessa l’ignoranza che la produce], si po-
trebbe avere la perdita di autorevolezza per la Âruti.
Risposta: No, perché si deve ammettere che essa mantiene
il proprio significato in relazione alla conoscenza del Brahman.
Obiezione: Si potrebbe avere il difetto della perdita di au-
torevolezza anche per la Âruti che tratta delle prescrizioni
concernenti la conoscenza del Brahman al pari della Âruti che
tratta delle prescrizioni inerenti all’azione rituale.
744 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.66

Risposta: No, perché non si può ammettere una consape-


volezza che elimini [la conoscenza del Brahman]. Come la
consapevolezza ‘io’ nell’aggregato di corpo, ecc. viene elimi-
nata quando l’åtman è stato realizzato grazie alla Âruti che
insegna la conoscenza del Brahman, ugualmente, ‘la realiz-
zazione [cioè la presa di coscienza] dell’åtman nel proprio å-
tman’ non può essere eliminata in nessun tempo, da nessuno
e in nessun modo, perché non vi è separazione di tale com-
prensione-realizzazione (avagati) dal suo frutto, come [la
consapevolezza che] il fuoco è caldo e luminoso. E in questo
modo non si ha [nemmeno] la perdita di autorevolezza per
la Âruti che tratta delle prescrizioni concernenti l’azione ri-
tuale; [questo] perché [la Âruti che tratta dell’attività rituale],
sopprimendo l’una dopo l’altra le attività precedenti e gene-
rando quindi attività via via superiori e nuove, intende su-
scitare un’aspirazione rivolta esclusivamente verso l’åtman
interiore.
[In altre parole] sebbene il mezzo sia illusorio, tuttavia
esso è affatto vero in quanto è vero ciò che con esso si inten-
de raggiungere, come [avviene] per le asserzioni di conferma
(arthavåda) quali parti integranti di ingiunzioni [scritturali].
Anche nel piano empirico, quando si deve far bere del latte o
altro a un bambino o a un ubriaco, ecc. [lo si convince] dicen-
do che ciò [gli] farà crescere i capelli, ecc. Oppure si stabilisce
affatto direttamente l’autorevolezza [della Âruti relativa all’a-
zione rituale] nelle altre circostanze, come [è stabilita] l’auto-
revolezza della percezione sensoriale, ecc. dovuta alla identifi-
cazione [di sé] con il corpo prima [della realizzazione] della
conoscenza dell’åtman 69.
Ora, per quanto riguarda ciò che voi pensate, ossia che
‘l’åtman, nonostante sia di per sé non-agente, agisce unica-
mente attraverso la sua sola presenza’, ciò stesso [postulereb-
be] in senso diretto una natura agente per l’åtman. Come è
ben noto [che si dica] che un sovrano combatte, quando com-
18.66 Diciottesimo Adhyåya 745

battono [i suoi uomini], sebbene di per sé non sia impegnato


nella battaglia ma soltanto per la sua presenza, o che ha vinto
o è stato sconfitto, allo stesso modo [si dice che] il comandan-
te di un esercito agisce soltanto con la parola [impartendo gli
ordini]; inoltre, sia per il sovrano che per il comandante del-
l’esercito, si constata una relazione con il frutto dell’azione; o
come l’azione rituale [operata da parte] del sacerdote (ÿtvij) è
[considerata effettuata da parte] del sacrificante (yajamåna),
così l’azione del corpo, ecc. potrebbe essere [considerata come]
effettuata dall’åtman poiché all’åtman (cioè a sé stessi) com-
pete il suo frutto; o, ancora, come si [considera] in senso af-
fatto diretto la funzione agente [espletata da parte] di un pez-
zo di ferro magnetico essendo ciò che fa muovere [altri] pezzi
di ferro pur restando affatto immobile, similmente [secondo
tale ipotesi] sarebbe per l’åtman. Ciò non è esatto, perché ne
conseguirebbe [la tesi contraddittoria secondo cui] ‘ciò che
non agisce ha natura di agente’ (akurvata¢ kårakatvam).
Obiezione: Possono aversi diverse modalità di [espletamen-
to della] funzione agente.
Risposta: No, perché si constata che il sovrano e gli altri
[enti] a seguire [menzionati a titolo di esempio] hanno una na-
tura agente anche in senso diretto. Innanzitutto [si dice che] il
sovrano combatte proprio in quanto agisce di per sé, e la sua
funzione di agente si ha in senso affatto diretto nell’essere co-
lui che ordina ai soldati di combattere e che conferisce loro la
paga; allo stesso modo [si ha la sua funzione agente anche] in
riferimento alla fruizione del frutto, quale può essere la vittoria
o la sconfitta. Così, anche per il sacrificante si ha la funzione di
agente in senso affatto diretto sia nella offerta principale che
nelle [altre] offerte di doni. Da ciò si comprende che quella che
è l’attribuzione in senso figurato della natura di agente a colui
che non è al presente impegnato nell’azione rappresenta una
forma espressiva metaforica (upacåra).
746 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.66

Se la funzione di agente in senso diretto, consistente nel


proprio essere al presente impegnati nell’azione, non fosse
percepita in relazione al sovrano, al sacrificante e agli altri,
allora si dovrebbe ritenere che anche la funzione di agente at-
traverso la sola presenza debba essere quella diretta (cioè reale),
come per un pezzo di ferro magnetico che fa muovere altri
pezzi di ferro, [ma] non è così per il sovrano, per il sacrificante
e per gli altri, [in rapporto ai quali] non viene percepito il loro
essere impegnati nell’azione. Perciò la funzione di agente in
virtù della sola presenza è [da intendersi] soltanto in senso fi-
gurato e, così essendo, deve essere [intesa] in senso figurato
anche la relazione con il suo frutto: da un [agente] figurato non
può essere prodotto un effetto in senso diretto (cioè reale).
Perciò, quanto viene decantato [da alcuni], cioè che ‘l’å-
tman, [pur essendo di per sé] non impegnato al presente nel-
l’azione, diverrebbe l’agente e il fruitore attraverso l’agire del
corpo, ecc.’, è affatto falso.
D’altra parte, tutto [ciò] diviene ammissibile [se lo si rico-
nosce] in quanto dovuto a un errore [cognitivo], così come è
nel sogno e nella suggestione [indotta da un illusionista]. Inol-
tre, sia la funzione di agente che la condizione di fruitore, ecc.
come, altresì, qualsiasi altro male, [tutto ciò] non viene perce-
pito nel sonno profondo, nella contemplazione (samådhi) o in
altri [stati simili], nei quali sono interrotti i flussi [apparente-
mente] continui degli erronei contenuti di consapevolezza re-
lativi all’åtman [apparentemente considerato] come il corpo,
ecc. Perciò questa illusoria peregrinazione nel divenire ciclico
è dovuta soltanto a una consapevolezza dal contenuto falla-
ce70, mentre non è affatto reale. In questo modo è definitiva-
mente stabilito che soltanto dall’autentica conoscenza si ha la
definitiva soluzione [del divenire ciclico].
Dopo aver riassunto in questo Adhyåya l’intero significa-
to della Scrittura della [Bhagavad] Gıtå e avendone fatto un
compendio, sia all’inizio, in dettaglio, che qui, in sintesi, allo
18.67 Diciottesimo Adhyåya 747

scopo di corroborare il senso della Scrittura della [Bhagavad]


Gıtå, adesso [Bhagavat] espone la norma per la trasmissione
tradizionale della Scrittura.

18.67. Questa [Scrittura] che ti [è stata da Me enunciata],


non deve essere esposta mai a colui che non pratica l’austerità,
né a colui che non ha devozione, né a colui che non è obbedien-
te e che Mi contesta.

“Questa” Scrittura “che ti” è stata da Me enunciata per il


tuo bene, cioè per recidere definitivamente il divenire ciclico,
“non deve essere esposta...” – va operata la connessione con
la [voce verbale che nel verso compare] separata – “...a colui
che non pratica l’austerità”, che non si dedica all’ascesi. An-
che “a colui che”, pur praticando l’ascesi, “non ha devozione”,
cioè a colui che è privo di devozione nei riguardi dell’Istrutto-
re, del deva, [ecc.], non deve essere esposta “mai”, in nessuna
circostanza, qualunque essa sia. Pur essendo un devoto e uno
che pratica l’ascesi, neanche a lui deve essere esposta, se co-
stui è uno che non obbedisce 71 “...e che”, ritenendo [Me], Vå-
sudeva, un essere umano ordinario, “Mi contesta” discono-
scendo la Mia natura di ÙŸvara (Brahman) per via della sovrap-
posizione di difetti quali l’autoincensamento e altri, cioè non
Mi rende il dovuto riguardo. Anche questi è inadatto [per la
ricezione della conoscenza espressa nella Bhagadavgıtå], nean-
che a lui [la Scrittura] deve essere esposta 72.
Dalla pertinenza di significato si comprende [invece] che
la Scrittura deve essere esposta a colui che è incline a non
porsi in contrasto con Bhagavat, a colui che pratica l’auste-
rità, al devoto e a colui che obbedisce.
A tale riguardo, dalla constatazione di un’alternativa tra i
due [dove si afferma che la Scrittura deve essere rivelata] ‘o
all’intelligente o a quegli che pratica l’austerità’, [si compren-
de che] deve essere esposta a colui che pratica l’austerità, ob-
748 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.67

bedisce e possiede la devozione, oppure all’intelligente dotato


[anch’egli] di tali [caratteristiche], mentre non dovrebbe essere
rivelata a colui che, seppure pratica l’austerità, è privo della
volontà di ascoltare e della devozione e neppure all’intelligen-
te [che sia privo di tali caratteristiche]. Così non deve essere
rivelata nemmeno a colui che, sebbene sia dotato di tutte le
qualità [elencate], è incline a denigrare il Signore. Essa deve
essere esposta a colui che obbedisce all’Istruttore ed è dotato
di devozione. Questa è la norma che regola la trasmissione
tradizionale della Scrittura.
Adesso [Bhagavat] enuncia il frutto che compete a colui
che attua tale trasmissione tradizionale.

18.68. Colui che questo supremo segreto spiegherà a coloro


che Mi sono devoti, nutrendo una somma devozione verso di
Me, a Me certamente giungerà, senza dubbio.

“Colui che questo supremo segreto” quale è stato enuncia-


to, finalizzato al sommo Bene (la liberazione), [questo] testo
da custodire sommamente, sotto la forma di dialogo tra KeŸa-
va (Kÿ≤√a) e Arjuna, “spiegherà”, esporrà “a coloro che Mi
sono devoti”, a coloro che posseggono devozione in Me, vale
a dire che lo stabilirà sia nel testo [letterale] che nel significa-
to, come Io [ho fatto] nei tuoi confronti...
Dalla ripetuta menzione della “devozione” (bhakti) si com-
prende che soltanto attraverso la mera devozione si diviene com-
petenti in merito alla trasmissione tradizionale della Scrittura.
In che modo [egli la] spiegherà?
Si dice: “...nutrendo una profonda devozione in Me”, vale
a dire nutrendo [una profonda devozione] così: ‘io rendo ser-
vizio a Bhagavat, il supremo Guru, l’Indissolubile’.
Per lui, questo è il frutto: “a Me certamente giungerà”, cioè
viene certamente liberato, “senza dubbio”: in merito a ciò non
si deve concepire alcun dubbio.
18.70 Diciottesimo Adhyåya 749

E inoltre,

18.69. Né vi è, fra gli uomini, alcuno che compia azione a


Me più cara rispetto a lui, né vi sarà un altro, a Me più caro di
lui sulla terra.

“Né vi è, fra gli uomini”, in mezzo agli uomini, “alcuno che


compia azione a Me più cara”, un altro che compia [per Me]
un’azione più cara, che sia per Me oltremodo caro nell’agire,
“rispetto a lui”, di colui che opera la trasmissione tradizionale
della Scrittura, vale a dire che non si trova tra coloro che sono
attualmente esistenti; “né vi sarà un altro”, neanche nel tem-
po [futuro] verrà a esistere un secondo “(a Me) più caro di
lui”, che compia atto più caro [rispetto a lui], “sulla terra”, in
questo mondo.
Anche colui che...

18.70. E [anche] quegli che studierà questo nostro dialogo


conforme al dharma, da tale sacrificio della conoscenza Io sarò
gratificato. Così è il mio intendimento.

“E quegli che studierà”, che reciterà “questo nostro” testo


avente forma di “dialogo conforme al dharma”, non separato
dal dharma [universale], “da tale sacrificio della conoscenza...”
si avrà questo esito [che verrà descritto].
Dei sacrifici come quello [rituale] prescritto in quanto ri-
spondente a una ingiunzione (vidhi), quello consistente nella
preghiera ripetuta (japa), quello consistente nella invocazione
sussurrata (upåæŸu) e quello consistente nella evocazione men-
tale (månasa), il sacrificio della conoscenza (jñånayajña), aven-
do natura di evocazione mentale, è il più qualificato. Quindi,
per mezzo di tale sacrificio della conoscenza si rende elogio
allo studio della Scrittura della [Bhagavad] Gıtå, oppure solo
al frutto di ciò che viene ingiunto, nel senso che per costui si
750 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.70

invera un frutto equivalente al frutto del sacrificio della cono-


scenza avente per oggetto la divinità.
Da tale studio “...Io sarò gratificato”, verrò onorato. “Così
è il mio intendimento”, la mia certa convinzione.
Dunque [Bhagavat espone adesso] questo frutto per colui
che ascolta:

18.71. E anche l’uomo che ascolterà con fede e senza pensieri


malevoli, anch’egli, libero, conseguirà i mondi puri di coloro
che hanno agito meritoriamente.

“E anche l’uomo che ascolterà” questo testo “con fede e


senza pensieri malevoli”, cioè essendo pieno di fede e privo di
qualsiasi pensiero ostile, “anch’egli...” – dal termine “anche”
(api) [si desume che] ancor più ci si riferisce a colui che ha
acquisito la conoscenza [della dottrina inerente] – “...libero”
dall’errore, “conseguirà i mondi puri”, esemplari, “di coloro
che hanno agito meritoriamente”, cioè di coloro che hanno
compiuto [sacrifici come] l’Agnihotra e altri.
[Ora] mosso dal desiderio di discernere se il discepolo
(Arjuna) ha compreso o non ha compreso il significato della
Scrittura, [Bhagavat] pone una domanda; l’intento del richie-
dente è questo: qualora ciò di cui è venuto a conoscenza non
sia stato da lui compreso, glielo farò comprendere anche con
altri mezzi. Così viene mostrato il dovere del Maestro, che con-
siste nel raggiungimento dell’obiettivo da parte del discepolo
[anche] ricorrendo a ulteriori tentativi [da parte del Maestro].

18.72. O Pårtha, questo [discorso] è stato da te ascoltato con


l’intelligenza concentrata? La confusione mentale della non-
conoscenza è [ora] per te perfettamente dissipata, o Dhanañjaya?

“O Pårtha, questo [discorso]”, che Io [ti] ho proferito, “è


stato da te ascoltato con l’intelligenza”, con la mente “concen-
18.73 Diciottesimo Adhyåya 751

trata?”, ovvero: è stato [da te] accertato attraverso un ascolto


senza distrazione?
“La confusione mentale della non-conoscenza”, l’illusione
dovuta all’ignoranza, cioè la condizione di non-discernimento,
l’assenza di discriminazione che è una condizione propria
[dell’essere individuato] “è [ora] per te perfettamente dissipa-
ta, o Dhanañjaya?”: questa [perfetta dissipazione] è l’obietti-
vo di quello che è l’impegno da parte tua nell’ascoltare la
Scrittura e [di quello che è] lo sforzo compiuto da parte mia
nel ruolo di Istruttore.

Arjuna disse:

18.73. Distrutto è lo smarrimento. La memoria è stata recu-


perata attraverso la tua grazia da me, o Indissolubile. [Ordun-
que] sono stabilito, con l’incertezza dissolta. Seguirò la tua pa-
rola.

“Distrutto è lo smarrimento” generato dall’ignoranza, cau-


sa del male nell’intero divenire ciclico, difficile da superare al
pari dell’oceano. “La memoria” concernente la realtà dell’å-
tman “è stata recuperata”, recupero [della consapevolezza della
reale natura dell’åtman] dal quale si ha la totale, perfetta libe-
razione da qualsiasi legame, “attraverso la tua grazia”, in virtù
della tua benevolenza, “da me” che ho preso rifugio nella tua
grazia, “o Indissolubile”.
Attraverso tali domande e risposte circa la distruzione
dell’ottenebramento risulta mostrato con certezza quale sia
davvero il frutto della conoscenza del significato di tutta la
Scrittura [della Bhagavadgıtå], conoscenza dalla quale si ha
la distruzione della illusione-ottenebrante e il recupero della
memoria (consapevolezza) dell’åtman.
Similmente, anche nella Âruti, mostrando che colui che non
è un conoscitore dell’åtman [dice]: ‘soffro’73, si è affermato
752 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara 18.73

che, attraverso la conoscenza dell’åtman si ha la totale, per-


fetta liberazione da tutti i legami, come specificano i mantra:
«Il nodo del cuore è reciso...» (Mu. 2.2.8), «...colà qual turba-
mento, quale afflizione per colui che riconosce l’unità [del-
l’åtman]?» (Ù. 7).
Ordunque “sono stabilito” nel tuo insegnamento “con l’in-
certezza dissolta”, con il dubbio dissipato. “Seguirò la tua pa-
rola”. Io ho raggiunto l’obiettivo in virtù della tua grazia. Il
senso è che da parte mia non vi è più [alcunché] da fare.
L’argomento della Scrittura si è completamente concluso.
Ordunque, onde mostrare la connessione con la narrazio-
ne [iniziale], Sañjaya disse:

Sañjaya disse:

18.74. Così io ho udito questo stupendo dialogo tra Våsudeva


e il mahåtman Pårtha, tale da farmi rizzare i capelli.

“Così”, in questo modo “io ho udito”, ho ascoltato “questo


stupendo dialogo tra Våsudeva (Kÿ≤√a) e il mahåtman Pårtha
(Arjuna)”, quale è stato esposto, che ha suscitato una estrema
meraviglia, “tale da farmi rizzare i capelli”, che mi fece rizzare
i capelli.
E questo stesso [dialogo che ho ascoltato],

18.75. Per grazia di Vyåsa, ho udito questo sommo segreto, il


supremo yoga, direttamente da Kÿ≤√a, Signore dello yoga, men-
tre lo spiegava Egli stesso.

“Per grazia di Vyåsa” 74, dal quale ho ottenuto la visione


divina, “ho udito questo” dialogo che è il “sommo segreto, il
supremo yoga...” – avendo come scopo lo yoga, anche il te-
sto è [denominato] yoga, oppure lo yoga è questo stesso dia-
logo [che ho udito] – “...direttamente da Kÿ≤√a, Signore del-
18.78 Diciottesimo Adhyåya 753

lo yoga, mentre lo spiegava egli stesso” e non per trasmissio-


ne [tramite altri].

18.76. O re, rammentando di continuo questo stupendo, santo


dialogo tra KeŸava e Arjuna, gioisco ogni momento.

“O re” Dhÿtarå≤†ra, “rammentando di continuo”, a ogni


istante, “questo stupendo”, questo “santo...” – in quanto anche
dal [solo] suo ascolto, [anche soltanto] avendo udito [questo
dialogo] si ha la distruzione dell’errore – “...dialogo tra KeŸa-
va e Arjuna, gioisco ogni momento”, ogni singolo istante.

18.77. E rammentando di continuo quella forma oltremodo


stupenda di Hari, grande è il mio stupore, o re, e gioisco ancora
e ripetutamente.

“E rammentando di continuo quella forma oltremodo stu-


penda, cioè la Forma universale 75 di Hari, grande è il mio stu-
pore, o re, e gioisco ancora e ripetutamente”.
Che dire di più?

18.78. Laddove è Kÿ≤√a, il Signore dello yoga, laddove è På-


rtha, l’arciere, ivi è la fortuna, la vittoria, la prosperità e una
permanente giustizia. È la mia convinzione.

“Laddove”, dalla parte nella quale “è Kÿ≤√a, il Signore del-


lo yoga”, cioè il Signore di tutti gli yoga perché da lui si ha lo
svilupparsi del seme di qualsiasi [forma di] yoga, “laddove”,
dalla parte nella quale “è Pårtha, l’arciere”, che imbraccia l’ar-
co [chiamato] Ga√ƒıva, “ivi”, cioè dalla parte dei På√ƒava, “è
la fortuna, la vittoria”; colà stesso è “la prosperità”, la cui spe-
cifica natura è la felicità, cioè una immensa, felice prosperità,
“e una permanente giustizia”, una invariabile equità. Così,
questa “È la mia convinzione”.
754 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

Nelle Scritture yoga sulla conoscenza del Brahman


appartenenti alla Upani≤ad della sacra Bhagavadgıtå,
questo è il Diciottesimo Capitolo
nel dialogo tra Kÿ≤√a e Arjuna
intitolato:
‘Lo yoga della liberazione mediante la completa rinuncia’

Qui finisce la Scrittura della sacra Bhagavadgıtå


corredata dal Commento di Âa§kara

*
NOTE al Diciottesimo Adhyåya

1
Gli atti rituali finalizzati (kåmyakarman) sono i riti celebrati
solo per ottenere come specifici esiti frutti da godere subito e non
compiuti in ossequio a ingiunzioni scritturali.
2
Gli atti rituali perpetui (nityakarman) sono quelli ordinari od
obbligatori, cioè da compiersi sempre, e gli atti rituali occasionali
(naimittikakarman) quelli straordinari, da celebrarsi in particolari
circostanze e a seguito di ingiunzione scritturale.
3
Mentre è evidente per chiunque la differenza tra un vaso e un
tessuto, non lo è quella tra i significati di saænyåsa e tyåga che,
come spiegherà Âa§kara, pur riferendosi alla medesima cosa e in-
tendendo essenzialmente un solo significato ultimo, assumono di-
stinte connotazioni in relazione a colui cui si riferiscono. V. 18.6 e
segg.
4
V. Capitolo Tredicesimo.
5
Âa§kara fa questa precisazione perché il termine api ha il dop-
pio significato di congiunzione coordinativa: anche, e di congiun-
zione concessiva: sebbene. Dunque, le azioni menzionate, cioè il
sacrificio, la donazione e la pratica ascetica, vanno comunque fatte
per quanto possono rappresentare, per i non-conoscitori, altrettan-
te cause di condizionamento.
6
Cioè l’identificazione con il soggetto agente.
7
La mente, considerata nella sua funzione di citta, memoria cri-
stallizzata, è anche il ricettacolo delle våsanå e, quindi, dei saæskåra
che determineranno le future identificazioni e incarnazioni.
756 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

8
Tra i termini dehin (possessore di corpo fisico) e dehabhÿt
(portatore di corpo fisico), come fa notare Âa§kara, vi è una diffe-
renza: il primo designa l’essere corporeo, l’essere incarnato; il se-
condo l’essere incarnato che, identificandosi al proprio corpo, gli
attribuisce realtà. Si tratta, perciò, del conoscitore e del non-cono-
scitore rispettivamente. Cfr. 2.13, 2.14, 2.59; 3.40, 3.42, 5.13, 14.5,
14.7-8, 17.2.
9
La rinuncia al frutto deve essere operata in maniera comple-
ta già in vita, perché altrimenti dopo la dipartita si viene condi -
zionati dalla esperienza del frutto non desiderato ma ugualmente
acquisito.
10
Il solo fondarsi nel sentiero conoscitivo non rimuove le cause
del divenire se non è accompagnato dalla completa rinuncia a qual-
siasi forma di attività identificata: il concetto condiziona, la presa
di coscienza libera. Saænyåsa e jñåna devono integrarsi.
11
I cinque organi di azione, i cinque organi di percezione, la
mente e il senso dell’io.
12
Il principio divino deve essere presente in ogni mezzo di ef-
fettuazione perché questo sia attivo nella sua propria funzione. Ogni
facoltà sensoriale è tradizionalmente sorretta da un deva.
13
Qui si tratta chiaramente del darŸana Såækhya, del quale il
saggio Kapila fu il codificatore.
14
Come taluni jaina o gli Ÿrama√a, particolare categoria di asceti
itineranti adoratori di immagini.
15
Il conoscitore della realtà, avendo realizzato l’åtman, ha risolto
definitivamente il senso dell’io. Non è a questi che il verso allude.
16
Colui che ha appreso le Scritture adegua il proprio comporta-
mento, esteriore e interiore, a una deliberata tacitazione del senso
dell’io – per cui si dice comunemente che ne è privo – mentre, in
effetti, non lo ha risolto in via definitiva.
Note al Diciottesimo Adhyåya 757

17
Cioè i frutti in questa esistenza e quelli nella successiva, noti
come dÿ≤†a e adÿ≤†a. Per la comprensione dell’azione e della non-
azione si torni a 4.18 e relativo Commento.
18
Con questa precisazione Âa§kara sottolinea che la conoscen-
za distintiva è altro dall’intelletto. Qui l’intelletto (buddhi) designa
la mente in generale. La conoscenza distintiva, la cui triplice natura
è stata descritta in 18.20-22, è una particolare modificazione (vÿtti)
della sostanza mentale (citta) tra le varie possibili, dunque uno sta-
to assunto da questa. Le stesse funzioni diversificate dell’organo in-
terno, dalle più grossolane (manas) alle più pure (buddhi), come an-
che le våsanå e i saæskåra, sono cittavÿtti. Dice Patañjali nello Yo-
gas¥tra (1.2), «Lo yoga è la soppressione (nirodha) delle modifica-
zioni mentali». Attraverso tale nirodha, il citta, liberato dalle vÿtti,
si risolve in cit: la pura coscienza dell’åtman.
19
La specificazione “per mezzo dello yoga” significa che, per con-
trollare pienamente tutte quelle attività, la sola fermezza non è suf-
ficiente se non è accompagnata e sostenuta dalla pratica ascetica in
generale e da quella meditativa in particolare.
20
Lett.: “a trasformazione completata” (pari√åme); si tratta di
qualcosa che assume connotazione e qualità diverse con il suo svi-
luppo nel progredire del tempo. In tal senso la trasformazione (pari-
√åma) consiste nella completa maturazione (paripåka) di semi vir-
tuali.
21
I primi tre ordini o classi sociali (var√a): bråhma√a, k≤atriya e
vaiŸya, sono spesso indicati con i nomi impersonali dei rispettivi
ruoli universali: brahman, k≤åtra, viŸa, che definiscono la corrispon-
dente funzione a livello universale. Qui risultano menzionati con
un termine composto: bråhma√ak≤atriyaviŸåm.
22
La causa primaria o causa sostanziale (upådånakåra√a) sa-
rebbe in questo caso la Prakÿti, mentre la natura propria (svabhå-
va), a sua volta causa dei gu√a attraverso i semi attivi (saæskåra)
e le impressioni latenti (våsanå), sarebbe una causa secondaria o
efficiente (nimittakåra√a). Così abbiamo, in successione causale:
758 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

Prakÿti, svabhåva (saæskåra, våsanå), gu√a, karman-kriyå. In ulti-


ma analisi, dalla Prakÿti stessa, secondo tale processo formativo,
si hanno i doveri connaturati a ciascun ordine sociale. È la base
dell’equilibrio di qualsiasi struttura sociale tradizionale. La sua
eventuale carenza o assenza non può che portare a un processo di
disgregazione.
23
L’attenersi alla natura propria, qualificata dai gu√a, è causa di
ottenimento di un frutto di ordine relativo; la “altra causa” (kåra-
√åntara) è qui l’aspirazione alla liberazione, in cui la natura propria
viene trascesa.
24
Secondo Ånandagiri la “perfezione” di cui si chiede è quella
assoluta, cioè la “liberazione” che, ovviamente, non può essere rea-
lizzata attraverso l’azione.
25
La capacità di agire (ce≤†å) deve procedere (syåt) necessaria-
mente da un Ordinatore interno (antaryåmin) perché i veicoli sono
di per sé inerti se non attivati da un impulso vivificatore e coscien-
tizzante che trascende l’intero composto individuale.
26
La paura sorge dalla consapevolezza di aver agito in contra-
sto con il dharma universale. Ogni disarmonia comporta un esito
nefasto inevitabile; quale la natura dell’atto, tale quella del frutto.
27
I Buddhisti della corrente Vijñånavåda denominano skandha i
singoli elementi costitutivi o il fascio da loro composito di cinque
fattori che presi unitamente costituiscono l’entità individuale. Essi
sono: la consapevolezza istantanea (vijñåna), la cognizione (saæ-
jñå), la sensazione o percezione sensoria (vedanå), il seme attivo
(saæskåra) e la forma corporea (r¥pa). La loro esistenza è istanta-
nea, anzi, secondo la dottrina nichilista (Ÿ¥nyavåda), sono consu-
stanziati di non-esistenza.
28
Ka√åda è il codificatore del darŸana VaiŸe≤ika, la “dottrina di-
stintiva” di impronta atomistica che prende in considerazione so-
prattutto le qualità primarie degli enti come derivanti da quelle de-
gli atomi (a√u) di cui sono combinazioni. Si torni alla nota 5.8.
Note al Diciottesimo Adhyåya 759

29
Per il VaiŸe≤ika la realtà ultima è costituita da infiniti atomi
(a√u) di dimensione infinitesima e impercettibili ai sensi. La loro
combinazione o unione forma aggregati che, a partire da quello
composto da due atomi (dvya√uka), costituiscono gli enti sostan-
ziali (dravya) che sono oggetto di percezione, ecc. V. nota 5.8.
30
Per il VaiŸe≤ika la causa combinante (samavåyi) è quella che
induce gli atomi (a√u) a combinarsi l’uno con l’altro producendo
gli enti percepibili: è la causa della venuta all’essere di un ente, con-
siderata anche la sua causa sostanziante o materiale, la quale, una
volta attuata, è associata a una relazione di inseparabilità (samavå-
yasaæbandha). Quella non-combinante o disgregante (asamavåyi)
è quella che induce il processo opposto: è la causa della distruzione
di un ente, considerata anche come causa desostanziante o demate-
rializzante. Quella efficiente (nimitta) è la causa che determina il
formarsi di un ente in presenza delle cause relative alla sostanza e
allo strumento: nella fabbricazione di un vaso l’argilla è la causa
materiale, la ruota quella strumentale e il vasaio quella efficiente.
La produzione del vaso necessita della combinazione delle tre cause.
Nei diversi darŸana le definizioni delle varie tipologie della causa
possono differire leggermente ma il concetto di combinazione cau-
sale e quello di trasformazione, adottati dal VaiŸe≤ika e dal Såæ-
khya, sono analoghi per ogni dottrina.
31
Un ente non-esistente, come le corna di una lepre, non dipen-
de da alcuna causa né per la sua manifestazione né per la sua distru-
zione proprio perché, essendo non-reale, non viene a esistere né ces-
sa di esistere; la sua esistenza, come la sua distruzione, può essere
solo immaginata, ma in tal caso è presente la sola causa sostanzia-
le, che è la fantasia del pensatore. Anche così, però, le corna di le-
pre continuano a non avere esistenza reale. Un ente non-esistente
non ha alcun rapporto con i vari tipi di causa concernenti la venuta
all’essere, ecc. degli enti che esistono anche per un tempo limitato.
32
Il ricorso al rapporto causa-effetto può essere adottato solo in
riferimento a un ente effettivamente manifestato e non riguardo a
ciò che è oggetto di supposizione o fantasia.
760 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

33
Se si ammettesse che il non-esistente possa divenire esistente
e viceversa, tutti i mezzi validi di conoscenza perderebbero la pro-
pria autorevolezza perché non si potrebbe più sostenere che l’esi-
stente continua a esistere sempre e il non-esistente continua a non-
esistere, con la conseguenza che si avrebbe per assurdo la possibilità
di passare dalla esistenza alla non-esistenza in qualsiasi momento e
senza una ragione.
34
La concomitanza inseparabile (samavåya) è la sesta categoria
contemplata nel VaiŸe≤ika, quella per la quale l’ente sostanziale, nato
dalla unione di più atomi, è reale.
35
In sostanza, per il VaiŸe≤ika l’esistenza di un ente corrisponde
invariabilmente alla sua relazione con la causa formata dagli atomi,
sempre esistenti ma invisibili, e con l’esistenza stessa. In assenza di
una tale relazione l’ente è definito non-esistente, in sua presenza
diviene esistente. Resta da spiegare, però, il superamento di tale di-
scontinuità essenziale – dalla non-esistenza alla esistenza – e la stes-
sa causa che determina la relazione dell’ente non-esistente con una
causa esistente.
36
Non si può in nessun modo stabilire un criterio logico per
differenziare le varie specie di non-esistenza. Qualunque sia l’attri-
buto qualificante – esistente in quanto viene definito – esso non
potrà mai entrare in rapporto con un non-esistente. La non-esi-
stenza, a qualunque modalità ci si riferisca, è indistinguibile.
37
Postulare una trasformazione, o l’assunzione di un nuovo stato
(åpatti), implica un cambiamento, ma se da una esistenza si procede
a una esistenza, o da una non-esistenza si passa a una non-esistenza,
oltretutto con le medesime caratteristiche anche formali (il vaso che
resta vaso, ecc.), non c’è più un cambiamento e tale asserto si rivela
privo di ogni valore logico.
38
L’azione comporta una modificazione – i termini che le defi-
niscono (kriyå, vikriyå) hanno una medesima radice (kÿ) – per cui il
cambiamento è insito nella funzione naturale dei gu√a. I gu√a si
originano dalla qualificazione principiale (viŸe≤a) a monte della
Note al Diciottesimo Adhyåya 761

quale giacciono immanifesti, in immobile equilibrio, come mera po-


tenzialità inespressa. Essi sorgono da una sorta di scissione in seno
alle proprietà di natura, per cui acquistano una tensione reciproca
che si accumula nella capacità di agire e si esprime nella effettiva
interazione produttiva del loro moto estrovertente e condizionante.
Viceversa, i gu√a resi inattivi, immobili e in equilibrio reciproco at-
traverso lo yoga, ecc. semplicemente si risolvono scomparendo nel-
l’Essere unitamente ai loro effetti.
39
Il termine nai≤karmyasiddhi designa anche la “realizzazione del-
l’assenza di attività” quale natura dell’åtman, quindi la realizzazione
dell’assolutezza. Il fondarsi nella conoscenza (jñånani≤†hå) ha questo
frutto perché la conoscenza dissolve le cause dell’agire e della identifi-
cazione al relativo; nai≤karmya è allora assoluta libertà dall’agire, dalla
necessità di produrre azione. Colui che si è stabilito nella conoscen-
za compie la soluzione di sé stesso nella Conoscenza (jñånani≤†hå).
Nai≤karmyasiddhi è anche il titolo di un’opera sulla realizzazione a-
dvaita composta da SureŸvara, uno dei discepoli diretti di Âa§kara.
40
Âa§kara precisa che la “perfezione della assoluta assenza di at-
tività” può essere interpretata anche come: la “perfezione che è l’as-
soluta assenza di attività”, dunque lo stato di identità con l’åtman.
41
L’incalzare di domande e risposte mostra che la conoscenza
non può non trovare compimento nella presa di coscienza del-
l’åtman. La sua natura come “privo di attaccamento e immutabile”
viene stabilita sia qui, nella Gıtå (2.20), che in numerosi passi delle
Upani≤ad e può essere desunta anche attraverso la riflessione sui
testi scritturali che Lo descrivono.
42
Il veicolo inferiore è effetto di quello superiore, nel quale può
essere riassorbito. La totalità veicolare e non è compresa nell’å-
tman e non viceversa. Per questo Âa§kara precisa l’ordine di mani-
festazione dei veicoli come sequenza causa-effetto, sequenza che,
nel conoscere ordinario, viene rovesciata.
43
Coloro che nella loro investigazione si fermano alla Causa
prima, al Principio ontologico, all’Essere qualificato, considerano
762 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

åtman l’Immanifesto, l’Indifferenziato cioè la stessa måyå univer-


sale. Costoro non vanno oltre l’Uno con-secondo, non riconoscen-
do che anch’esso è effetto di måyå. Anche ÙŸvara, nella sua accezio-
ne ordinaria quale Signore causale della manifestazione, ha la sua
ragion d’essere nel Brahman.
44
Il prasåda, cioè sia la grazia del guru che l’acquietamento del
mentale.
45
Cfr. Commento di Âa§kara a 7.28. Si torni anche a Bha. Gı. 2.16
e Commento.
46
Qualunque attività ingiunta dalla Âruti è intesa a costituire
un mezzo per la realizzazione dell’åtman, mentre anche l’agire or-
dinario, sebbene finalizzato a un frutto distinto dall’azione in sé,
dall’agente, dai mezzi, ecc., mira alla soddisfazione di sé e quindi è
rivolto all’åtman, per quanto nel modo errato. Cfr. Bra. S¥. 3.4.26-
27.
47
Tale ipotesi comporta una regressione senza fine che per de-
finizione impedirebbe a priori lo stesso conoscere; ma ciò è contra-
rio all’evidenza.
48
Uno sforzo viene compiuto per portare in manifestazione ciò
che prima non è manifesto, ma la conoscenza dell’åtman è sempre
esistente, quindi sempre conosciuta. Nella ipotesi della conoscenza
a sua volta oggetto di conoscenza, si cade inevitabilmente in una
regressione senza fine che, come detto, contraddice ogni evidenza
conoscitiva. Cfr. UpadeŸasåhasrı 2.17.41.
49
La conoscenza trova il suo ‘supremo compimento’ nella realiz-
zazione, quando cioè la cognizione intellettuale si trasmuta in coscien-
za. Allora la buddhi, perfettamente purificata, si risolve in Brahman
e la consapevolezza del Brahman si palesa, per il conoscitore, come
pura evidenza: la consapevolezza di Quello è la sua consapevolezza.
50
Un monaco itinerante, dunque un completo rinunciatario, del
più alto ordine.
Note al Diciottesimo Adhyåya 763

51
Attraverso la chiara, pura, serena e tranquilla natura benigna
del proprio åtman. Il jıva è pura autocoscienza qualificata da conte-
nuti pregressi (våsanå). Una volta che se ne sia discriminata, viene
meno la stessa funzione di accentramento-focalizzazione e, priva di
moto attuale e potenziale, si risolve nell’åtman, cioè si svela åtman.
52
Cfr. Bha. Gı. 6.32.
53
Il jıva perfettamente purificato e pacificato, in cui i gu√a sono
stati riassorbiti, il loro moto estinto e la loro carica annullata, saturo
della completa e suprema devozione (parabhakti), “entra in Quello”
non come un ente che penetra spazialmente in un altro, ma nel sen-
so che, grazie a una espansione che trascende la dimensionalità, va
a immergersi, assorbirsi completamente e risolversi nel Brahman
onnipresente. Âa§kara specifica che “entra in Me stesso” in quanto
la coscienza individuata, infrante le circonferenze limitanti delle
sovrapposizioni fittizie, si risolve identicamente in Quello in quan-
to Coscienza assoluta. In altre parole: ‘entra nell’åtman supremo
attraverso l’åtman individuato’, in virtù della sua natura di Non-
dualità, che soltanto ora si palesa evidente. Come appare chiaro in
molte sue opere, per Âa§kara la coscienza ‘Io’ – di cui l’io psicofi-
siologico è riflesso infinitesimo – si identifica al paramåtman, nel
quale si risolve identicamente quando sono state risolte tutte le
eventuali qualificazioni sovrapposte. Cfr. Pañcıkara√a 6, Må. 12.
54
Cfr. Bha. Gı. 13.7 e segg.
55
Cfr. Bha. Gı. 18.10.
56
L’ “errore opposto” (pratyavåya) è quello che comporta l’atto
di omissione: il non fare ciò che si deve fare.
57
Perché la persistenza di un frutto, sia buono che cattivo, con-
dizionerebbe comunque l’essere legandolo alla sua esperienza.
58
Altrimenti sarebbero superflue sia l’ingiunzione che la proibi-
zione, in quanto l’essere accerterebbe da sé l’effetto buono o cattivo
del proprio agire.
764 Bhagavadgıtå con il Commento di Âa§kara

59
Il dovere connesso al rito perpetuo (nityakarman) e quello ine-
rente all’atto sacrale finalizzato (kåmyakarman) producono frutti
che maturano e vengono sperimentati in un tempo futuro, quindi
in una condizione che, dallo stato attuale di esistenza, non è diret-
tamente percepibile; essi sospingono il jıva nel mondo dei Padri, o
nella sfera della Luna. Dato che determinano una ulteriore esperien-
za, non risolvono gli effetti di un agire in contrasto con il dharma
universale. Solo la realizzazione dell’åtman dissolve ogni frutto, me-
ritorio e demeritorio, e conferisce all’essere la piena libertà di Essere.
60
Elencati in Bha. Gı. 12.6-11.
61
V. Bha. Gı. 13.7-11, 14.22-26 e 15.3-5.
62
V. Bha. Gı. 18.12.
63
V. Bha. Gı. 18.14.
64
Come una nozione espressa in questa forma in senso figurato.
65
La consapevolezza il cui contenuto è illusorio (mithyåpratya-
ya) è una nozione fallace, come la conoscenza di qualcosa difforme-
mente dalla sua natura o con attributi diversi. Cfr. Introduzione di
Âa§kara al Brahmas¥trabhå≤ya.
66
Per esempio nel caso di un orientamento errato; mentre l’uso
del senso figurato presuppone l’esatta nozione dell’oggetto definito.
67
Per colui che non discrimina, il corpo, i sensi, ecc. sono real-
mente l’åtman, e non solo in senso figurato; per lui la convinzione
che tali veicoli sono l’åtman perdura in concomitanza con la sogge-
zione alla illusione.
68
I mezzi validi di conoscenza, o pramå√a, sono: la percezione
sensoriale diretta (pratyak≤a), l’inferenza logica su base evidente
(anumåna), l’induzione analogica su base di comparazione (upamå-
na), l’asserzione scritturale (Ÿabda), il postulato basato su evidenza
(arthåpatti) e l’assenza di percezione (anupalabdhi).
Note al Diciottesimo Adhyåya 765

69
Con il termine: “direttamente” (såk≤åt), si intende: indipenden-
temente dalla Âruti che tratta della conoscenza del Brahman. Per lo
stato di cessazione della identificazione ai veicoli, cfr. UpadeŸaså-
hasrı 2.4.5 e 2.19.227.
70
La “peregrinazione esistenziale” (bhråma) e la “falsa nozione”
(bhrånti) sono espresse da termini provenienti dalla medesima ra-
dice verbale (bhram): vagare, errare.
71
Il termine aŸuŸr¥≤u significa: ‘colui che non vuole ascoltare’,
colui che non presta attenzione alle parole del guru, dunque, per
estensione: colui che non obbedisce alle sue direttive.
72
Cfr Âve. 6.22, Bÿ. 6.3.12, Chå. 3.11.5-6, Mu. 3.2.10-11 e Mai. 6.29.
73
Cfr. Chå. 7.1.3.
74
Qui il nome Vyåsa non indica solo il padre del re, ma, riferen-
dosi a un Ente sovrannaturale, trascende il personaggio storico, ed
esprime simbolicamente la personificazione di una Funzione uni-
versale, quella della Intelligenza cosmica. Letteralmente definisce
Colui che è l’Adattatore, il Compilatore per eccellenza. Per la Tra-
dizione è lo stesso Vi≤√u, l’Essere onnipervadente, che, scendendo
nella manifestazione all’occorrenza, assume tale connotazione. In
questa era (kaliyuga), prossima alla conclusione del ciclo universale
(kalpa), il Vyåsa specifico è Kÿ≤√a-Dvaipåyana, così denominato per
il suo colore scuro (kÿ≤√a) e per il fatto di essere nato in un’isola;
inoltre, essendo vissuto a lungo nel BadarikåŸrama, è detto anche
Bådaråya√a. A tale figura viene fatta risalire, pur nel contrasto di
ere differenti, la stesura dei Veda, del Mahåbhårata e dei Purå√a,
quindi della triplice Testimonianza (prasthånatraya) formata da Upa-
ni≤ad, Brahmas¥tra e Bhagavadgıtå.
75
Si torni all’Undicesimo Adhyåya.

*
TESTO SANSCRITO
Ÿrımadbhagavadgıtå

Ÿrımacchaækaråcåryaviracitena
bhå≤yena sahitå

oæ namo våsudevåya |

nåraya√a¢ paro ’vyaktåda√ƒamavyaktasaæbhavam |


a√ƒasyåntastvime lokå¢ saptadvıpå ca modinı ||

Ÿåækaropodghåta¢ |

sa bhagavånsÿ≤†vedaæ jagattasya ca sthitiæ cikır≤urmarıcyådı-


nagre sÿ≤†vå prajåpatınpravÿttilak≤anaæ dharmaæ gråhayåmåsa ve-
doktam | tato ’nyåæŸca sanakasanandanådınutpådya nivÿttilak≤a-
√aæ dharmaæ jñånavairagyalak≤a√aæ gråhayåmåsa | dvividho hi
vedokto dharma¢ pravÿttilak≤a√o nivÿttilak≤a√aŸca jagata¢ sthiti-
kåra√am | prå√inåæ såk≤ådabhyudayani¢Ÿreyasaheturya¢ sa dha-
rmo bråhma√ådyairvar√ibhiråŸramibhiŸca Ÿreyo ’rthibhiranu≤†hıya-
måna¢ | dırghe√a kålenånu≤†håt™√åæ kåmodbhavåddıyamånavive-
kavijñånahetukenådharme√åbhibh¥yamåne dharme pravardha-
måne cådharme jagata¢ sthitiæ paripipålayi≤u¢ sa ådikarthå nårå-
ya√åkhyo vi≤√urbhaumasya brahma√o bråhma√atvasya rak≤a√å-
rthaæ devakyåæ vasudevådaæŸena kÿ≤√a¢ kila saæbabh¥va | brå-
hma√atvasya hi rak≤a√ena rak≤ita¢ syådvaidiko dharmastadadhı-
natvådvar√åŸramabhedånåm || sa ca bhagavåñjñånaiŸvaryaŸakti-
770 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå

balavıryatejobhi¢ sadå saæpannastrigu√åtmikåæ vai≤√avıæ svåæ


måyåæ m¥laprakÿtiæ vaŸıkÿtyåjo ’vyayo bh¥tånåmıŸvaro nityaŸu-
ddhabuddhamuktasvabhåvo ’pi sansvamåyayå dehavåniva jåta iva
ca lokånugrahaæ kurvanlak≤yate | svaprayojanåbhåve ’pi bh¥tånu-
jighÿk≤ayå vaidikaæ dharmadvayamarjunåya Ÿokamohamahoda-
dhau nimagnåyopådedeŸa gu√ådhikairhi gÿhıto ’nu≤†hıyamånaŸca
dharma¢ pracayaæ gami≤yatıti | taæ dharmaæ bhagavatå yathopa-
di≤†aæ vedavyåsa¢ sarvajño bhagavångıtåkhyai¢ saptabhi¢ Ÿloka-
Ÿatairupanibabandha || tadidaæ gıtåŸåstraæ samastavedårthasåra-
saægrahabh¥taæ durvijñeyårtham | tadarthåvi≤kara√åyånekairvi-
vÿtapadapadårtha våkyårthanyåyamapyatyantaviruddhånekårtha-
tvena laukikairgÿhyamå√amupalabhyåhaæ vivekato ’rthanirdhåra-
√årthaæ saæk≤epato vivara√aæ kari≤yåmi || tasyåsya gıtåŸåtrasya
saæk≤epata¢ prayojanaæ paraæ ni¢Ÿreyasaæ sahetukasya saæså-
rasyåtyantoparamalak≤a√am | tacca sarvakarmasaænyåsap¥rvakå-
dåtmajñånani≤†hår¥påddharmådbhavati | tathemameva gıtårthaæ
dharmamuddiŸya bhagavataivoktaæ “sa hi dharma¢ suparyåpto
brahma√a¢ padavedane” ityanugıtåsu (ma. bhå. 14.16.12) | tatraiva
coktam “naiva dharmı na cådharmı na caiva hi ŸubhåŸubhı” (ma.
bhå. 14.19.7) | “ya¢ syådekåsena lınast¥≤√ıæ kiñcidacintayan” (ma.
bhå. 14.19.1) | “jñånaæ saænyåsalak≤a√am” (ma. bhå. 14.43.25) iti
ca || ihåpi cånta uktamarjunåyam “sarvadharmånparityajya måme-
kaæ Ÿara√aæ vraja” (bha. gı. 18.66) iti | abhyudayårtho ’pi ya¢ pra-
vÿttilak≤a√o dharmo var√ånåŸramåæŸcoddiŸya vihita¢ sa devådi-
sthånapråptiheturapi sanıŸvarårpa√abuddhayånu≤†hıyamåna¢ sa-
ttvaŸuddhaye bhavati phalåbhisaædhivarjita¢ | Ÿuddhasattvasya ca
jñånani≤†håyogyatåpråptidvåre√a jñånotpattihetutvena ca ni¢Ÿre-
yasahetutvamapi pratipadyate | tathå cemamevårthamabhisandhå-
ya vak≤yati “brahma√yådhåya karmå√i” (bha. gı. 5.10) “yogena¢ ka-
rma kurvanti sa§gaæ tyaktvåtmaŸuddhaye” (bha. gı. 5.11) iti | i-
maæ dviprakåraæ dharmaæ ni¢Ÿreyasaprayojanaæ paramårthata-
ttvaæ ca våsudevåkhyaæ paraæ brahmåbhidheyabh¥taæ viŸe≤ato
’bhivyañjayadviŸi≤†aprayojanasaæbandhåbhidheyavadgıtåŸåstram |
yatastadarthe samastapuru≤årthasiddhiratastadvivara√e yatna¢ kri-
yate mayå || atra ca dhÿtarå≤†ra uvåca dharmak≤etra ityådi ||

iti Ÿå§karopodghåta¢
atha prathamo ’dhyåya¢

dhÿtarå≤†ra uvåca –

dharmak≤etre kuruk≤etre samavetå yuyutsava¢ |


måmakå¢ på√ƒavåŸcaiva kimakurvata sañjaya || 1.1 ||

sañjaya uvåca –

dÿ≤†vå tu på√ƒavånıkaæ vy¥ƒhaæ duryodhanastadå |


åcåryamupasaægamya råjå vacanamabravıt || 1.2 ||

paŸyaitåæ på√ƒuputrå√åmåcårya mahatıæ cåm¥m |


vy¥ƒhåæ drupadaputre√a tava Ÿi≤ye√a dhımatå || 1.3 ||

atra Ÿ¥rå mahesvåså bhımårjunasamå yudhi |


yuyudhåno virå†aŸca drupadaŸca mahåratha¢ || 1.4 ||

dhÿ≤†aketuŸcekitåna¢ kåŸiråjaŸca vıryavån |


purujitkuntibhojaŸca ŸaibyaŸca narapu§gava¢ || 1.5 ||

yudhåmanyuŸca vikrånta uttamaujaŸca vıryavån |


saubhadro draupadeyåŸca sarva eva mahårathå¢ || 1.6 ||

asmåkaæ tu viŸi≤†å ye tånnibodha dvijottama |


nåyakå mama sainyasya saæjñårthaæ tånbravımi te || 1.7 ||

bhavånbhı≤maŸca kar√aŸca kÿpaŸca samitiñjaya¢ |


aŸvatthåmå vikar√aŸca saumadattirjayadratha¢ || 1.8 ||

anye ca bahava¢ Ÿ¥rå madarthe tyaktajıvitå¢ |


nånåŸastraprakara√å¢ sarve yuddha viŸåradå¢ || 1.9 ||
772 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 1.10

aparyåptaæ tadasmåkaæ balaæ bhı≤måbhirak≤itam |


paryåptaæ tvidamete≤åæ balaæ bhımåbhirak≤itam || 1.10 ||

ayane≤u ca sarve≤u yathåbhågamavasthitå¢ |


bhı≤mamevåbhirak≤antu bhavanta¢ sarva eva hi || 1.11 ||

tasya saæjanayanhar≤aæ kuruvÿddha¢ pitåmaha¢ |


siæhanådaæ vinadyoccai¢ Ÿaækhaæ dadhmau pratåpavån || 1.12 ||

tata¢ ŸaækhåŸca bheryaŸca pa√avånakagomukhå¢ |


sahasaivåbhyahanyanta sa Ÿabdastu mulo ’bhavat || 1.13 ||

tata¢ Ÿvetairhayairukte mahati syandane sthito |


mådhava¢ på√ƒavaŸcaiva divyau Ÿaækhau pradadhmatu¢ || 1.14 ||

påñcajanyaæ hÿ≤ıkeŸo devadattaæ dhanañjaya¢ |


pau√ƒraæ dadhmau mahåŸaækhaæ bhımakarmå vÿkodara¢ || 1.15 ||

anantavijayaæ råjå kuntıputro yudhi≤†hira¢ |


nakula¢ sahadevaŸca sugho≤ama√ipu≤pakau || 1.16 ||

kåŸyaŸca parame≤våsa¢ Ÿikha√ƒı ca mahåratha¢ |


dhÿ≤†adyumno virå†aŸca såtyakiŸcåparåjita¢ || 1.17 ||

drupado draupadeyåŸca sarvaŸa¢ prithivıpate |


saubhadraŸca mahåbåhu¢ saækhåndadhmu¢ pÿthakpÿthak || 1.18 ||

sa gho≤o dhartarå≤†rå√åæ hÿdayåni vyadårayat |


nabhaŸca pÿthivıæ caiva tumulo vyanunådayan || 1.19 ||

atha vyavasthitåndÿ≤†vå dhårtarå≤†rånkapidhvaja¢ |


pravÿtte Ÿastrasaæpåte dhanurudyamya på√ƒava¢ || 1.20 ||

hÿ≤ıkeŸaæ tadå våkyamidamåha mahıpate ||

arjuna uvåca –
1.31 prathamo ’dhyåya¢ 773

senayorubhayormadhye rathaæ sthåpaya me ’cyuta || 1.21 ||

yåvadetånnirık≤e ’haæ yoddhukåmånavasthitån |


karmayå saha yoddhavyamasminra√asamudyame || 1.22 ||

yotsyamånånavek≤e ’haæ ya ete ’tra samågatå¢ |


dhårtarå≤†rasya durbuddheryuddhe priyacikır≤ava¢ || 1.23 ||

sañjaya uvåca –

evamukto hÿ≤ıkeŸo guƒakeŸena bhårata |


senayorubhayormadhye sthåpayitvå rathottamam || 1.24 ||

bhı≤madro√apramukhata¢ sarve≤åæ ca mahık≤itåm |


uvåca pårtha paŸyaitånsamavetånkur¥niti || 1.25 ||

tatråpaŸyatsthitånpårtha¢ pit™natha pitåmahån ||


åcåryånmåtulånbhråt™nputrånpautrånsakhıæstathå || 1.26 ||

ŸvaŸurånsuhÿdaŸcaiva senayorubhayorapi |
tånsamık≤ya sa kaunteya¢ sarvånbandh¥navasthitån || 1.27 ||

kÿpayå parayåvi≤†o vi≤ıdannidamabravıt ||

arjuna uvåca –

dÿ≤†vemaæ svajanaæ kÿ≤√a yuyutsuæ samupasthitam || 1.28 ||

sıdanti mama gåtrå√i mukhaæ ca pariŸu≤yati |


vepathuŸca Ÿarıre me romahar≤aŸca jåyate || 1.29 ||

gå√dıvaæ sraæsate haståttvakcaiva paridahyate |


na ca Ÿaknomyavasthåtuæ bhramatıva ca me mana¢ || 1.30 ||

nimittåni ca paŸyåmi viparıtåni keŸava |


na ca Ÿreyo ’nupaŸyåmi hatvå svajanamåhave || 1.31 ||
774 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 1.32

na kå§k≤e vijayaæ kÿ≤√a na ca råjyaæ sukhåni ca |


kiæ no råjyena govindaæ kiæ bhogairjıvitena vå || 1.32 ||

ye≤åmarthe kå§k≤itaæ no råjyaæ bhogå¢ sukhåni ca |


ta ime ’vasthitå yuddhe prå√åæstyaktvå dhanåni ca || 1.33 ||

åcåryå¢ pitara¢ putråstathaiva ca pitåmahå¢ |


måtulå¢ ŸvaŸurå¢ pautrå¢ Ÿyålå¢ saæbandhinastathå || 1.34 ||

etånna hantumicchåmi ghnato ’pi madhus¥dana |


api trailokya råjyasya heto¢ kiæ nu mahıkÿte || 1.35 ||

nihatya dhårtarå≤†rånna¢ kå¢ prıti¢ syåjjanårdana |


påpamevåŸrayedasmånhatvaitånåtatåyina¢ || 1.36 ||

tasmånnårhå vayaæ hantuæ dhårtarå≤†rånsvabåndhavån |


svajanaæ hi kathaæ hatvå sukhina¢ syåma mådhava || 1.37 ||

yadyapyete na paŸyanti lobhopahatacetasa¢ |


kulak≤ayakÿtaæ do≤aæ mitradrohe ca påtakam || 1.38 ||

kathaæ na jñeyamasmåbhi¢ påpådasmånnivartitum |


kulak≤ayakÿtaæ do≤aæ prapaŸyadbhirjanårdana || 1.39 ||

kulak≤aye pra√aŸyanti kuladharmå¢ sanåtanå¢ |


dharme na≤†e kulaæ kÿtsnamadharmo ’bhibhavatyuta || 1.40 ||

adharmåbhibhavåtkÿ≤√a pradu≤yanti kulastriya¢ |


strı≤u du≤†åsu vår≤√eya jåyate var√asaækara¢ || 1.41 ||

saækaro narakåyaiva kulaghnånåæ kulasya ca |


patanti pitaro hye≤åæ luptapi√ƒodakakriyå¢ || 1.42 ||

do≤airetai¢ kulaghnånåæ var√asaækarakårakai¢ |


utsådyante jåtidharmå¢ kuladharmåŸca ŸåŸvatå¢ || 1.43 ||
1.47 prathamo ’dhyåya¢ 775

utsannakuladharmå√åæ manu≤yå√åæ janårdana |


narake niyataæ våso bhavatıtyanuŸuŸruma || 1.44 ||

aho bata mahatpåpaæ kartuæ vyavasitå vayam |


yadråjyasukhalobhena hantuæ svajanamudyatå¢ || 1.45 ||

yadi måmapratıkåramaŸastraæ Ÿastrapå√aya¢ |


dhårtarå≤†rå ra√e hanyustanme k≤emataraæ bhavet || 1.46 ||

sañjaya uvåca –

evamuktvårjuna¢ saækhye rathopastha upåviŸat |


visÿjya saŸaraæ cåpaæ Ÿokasaævignamånasa¢ || 1. 47 ||

iti Ÿrımadbhagavadgıtås¥pani≤atsu brahmavidyåyåæ


yogaŸåstre Ÿrıkÿ≤√årjunasaævåde
’rjunavi≤ådayogo nåma
prathamo ’dhyåya¢

*
atha dvitıyo ’dhyåya¢

sañjaya uvåca –
taæ tathå kÿpayåvi≤†amaŸrup¥r√åkulek≤a√am |
vi≤ıdantamidaæ våkyamuvåca madhus¥dana¢ || 2.1 ||

Ÿrıbhagavånuvåca –
kutastvå kaŸmalamidaæ vi≤ame samupasthitam |
anåryaju≤†amasvargyamakırtikaramarjuna || 2.2 ||

klaibyaæ må sma gama¢ pårtha naitattvayyupapadyate |


k≤udraæ hÿdayadaurbalyaæ tyaktvotti≤†ha paraætapa || 2.3 ||

arjuna uvåca –

kathaæ bhı≤mamahaæ saækhye dro√aæ ca madhus¥dana |


i≤ubhi¢ pratiyotsyåmi p¥jårhåvaris¥dana || 2.4 ||

gur¥nahatvå hi mahånubhåvåñ-
Ÿreyo bhoktuæ bhaik≤amapıha loke |
hatvårthakåmåæstu gur¥nihaiva
bhuñjıya bhogånrudhirapradigdhån || 2.5 ||

na caitadvidma¢ kataranno garıyo


yadvå jayema yadi vå no jayeyu¢ |
yåneva hatvå na jijıvi≤åmas-
te ’vasthitå¢ pramukhe dhårtarå≤†rå¢ || 2.6 ||

kårpa√yado≤opahatasvabhåva¢
pÿcchami tvåæ dharmasaæm¥ƒhacetå¢ |
778 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 2.7

yacchreya¢ syånniŸcitaæ br¥hi tanme


Ÿi≤yaste ’haæ Ÿådhi måæ tvåæ prapannam || 2.7 ||

na hi prapaŸyåmi mamåpanudyåd-
yacchokamuccho≤a√amindriyå√åm |
avåpya bh¥måvasapatnamÿddhaæ
råjyaæ surå√åmapi cådhipatyam || 2.8 ||

sañjaya uvåca –

evamuktvå hÿsıkeŸaæ guƒåkeŸa¢ paraætapa¢ |


na yotsya iti govindamuktvå t¥≤√ıæ babh¥va ha || 2.9 ||

tamuvåca hÿsıkeŸa¢ prahasanniva bhårata |


senayorubhayormadhye vi≤ıdantamidaæ vaca¢ || 2.10 ||

“dÿ≤†vå tu på√ƒavånıkaæ” (bha. gı. 1.2) ityårabhya “na yotsya i-


ti govindamuktvå t¥≤√ıæ babh¥va ha” (bha. gı. 2.9) ityetadata¢ prå-
√inåæ Ÿokamohådisaæsårabıjabh¥tado≤odbhavakåra√apradarŸanå-
rthatvena vyåkhyeyo grantha¢ | tathå hyarjunena råjyaguruputra-
mitrasuhÿtsvajanasaæbandhibåndhave≤vahame≤åæ mamaita itye-
vaæ bhråntipratyayanimittasnehavicchedådinimittåvåtmana¢ Ÿo-
kamohau pradarŸitau “kathaæ bhı≤mamaham” (bha. gı. 2.4) ityådi-
nå | Ÿokamohåbhyåæ hyabhibh¥tavivekavijñåna¢ svata eva k≤atra-
dharme yuddhe pravÿtto ’pi tasmådyuddhådupararåma paradha-
rmaæ ca bhik≤åjıvanådikaæ kartuæ pravavÿte | tathå ca sarvaprå-
√inåæ Ÿokamohådido≤åvi≤†acetasåæ svabhåvata eva svadharmapa-
rityåga¢ prati≤iddhasevå ca syåt | svadharme pravÿttanåmapi te≤åæ
vå§mana¢kåyådınåæ pravÿtti¢ phalåbhisaædhip¥rvikaiva såhaæ-
kårå ca bhavati | tatraivaæ sati dharmådharmopacayådi≤†åni≤†aja-
nmasukhadu¢khådipråptilak≤a√a¢ saæsåro ’nuparato bhavatıtya-
ta¢ saæsårabıjabh¥tau Ÿokamohau | tayoŸca sarvakarmasaænyåsa-
p¥rvakådåtmajñånånnånyato nivÿttiriti tadupadidik≤u¢ sarvalokå-
nugrahårthamarjunaæ nimittıæ kÿtyå ’’ha bhagavånvåsudevo ’Ÿo-
cyånityådi || atra kecidåhu¢ – sarvakarmasaænyåsap¥rvakådåtma-
jñånani≤†håmåtrådeva kevalåtkaivalyaæ na pråpyata eva kiæ ta-
rhyagnihotrådiŸrautasmårtakarmasahitåjjñånåtkaivalyapråptiriti
2.10 dvitıyo ’dhyåya¢ 779

sarvåsu gıtåsu niŸcito ’rtha iti | jñåpakaæ cåhurasyårthasya “atha


cettvamimaæ dharmyaæ saægråmaæ na kari≤yasi” (bha. gı. 2.33)
“karma√yevådhikåraste” (bha. gı. 2.47) “kuru karma iva tasmå-
ttvam” (bha. gı. 4.15) ityådi | hiæsådiyuktatvådvaidikaæ karmådha-
rmåyetıyamapyåŸå§kå na kåryå | kathaæ k≤åtraæ karma yuddha-
lak≤a√aæ gurubhråtÿputrådihiæsålak≤a√amatyantakr¥ramapi sva-
dharma iti kÿtvå nådharmåya tadakara√e ca “tata¢ svadharmaæ kı-
rtiæ ca hitvå påpamavåpsyasi” (bha. gı. 2.33) iti bruvatå yåvajjıvå-
diŸruticoditånåæ svakarma√åæ paŸvådihiæsålak≤a√ånåæ ca ka-
rma√åæ prågeva nådharmatvamiti suniŸcitamuktaæ bhavati – iti |
tadasat | jñånakarmani≤†hayorvibhågavacanådbuddhidvayåŸraya-
yo¢ “aŸocyån” (bha. gı. 2.11) ityådinå granthena bhagavatå yåvat
“svadharmamapi cåvek≤ya” (bha. gı. 2.31) ityetadantena granthena
yatparamårthåtmatattvanir¥pa√aæ kÿtaæ tatså§khyam | tadvi≤ayå
buddhiråtmano janmådi≤aƒvikriyåbhåvådakartå ’’tmeti prakara√å-
rthanir¥pa√ådyå jåyate så så§khyabuddhi¢ | så ye≤åæ jñåninåmu-
citå bhavati te så§khyå¢ | etasyå buddherjanmana¢ prågåtmano
dehådivyatiriktasya kartÿtvabhoktÿtvådyapek≤o dharmådharmavi-
vekap¥rvako mok≤asådhanånu≤†hånalak≤a√o yoga¢ tadvi≤ayå bu-
ddhiryogabuddhi¢ | så ye≤åæ karmi√åmucitå bhavati te yogina¢ |
tathå ca bhagavatå vibhakte dve buddhı nirdi≤te “e≤å te ’bhihitå
så§khye buddhiryoge tvimåæ Ÿÿ√u” (bha. gı. 2.39) iti | tayoŸca
så§khyabuddhayåŸrayåæ jñånayogena ni≤†håæ så§khyånåæ vi-
bhaktåæ vak≤yati “loke ’smindvividhå ni≤†hå purå proktå mayåna-
gha” (bha. gı. 3.3) iti | tathå ca yogabuddhayåŸrayåæ karmayoge√a
ni≤†håæ vibhaktåæ vak≤yati “karmayoge√a yoginåm” (bha. gı. 3.3)
iti | evaæ så§khyabuddhiæ yogabuddhiæ cåŸritya dve ni≤†he vibha-
kte bhagavataivokte jñånakarma√o¢ kartÿtvåkartÿtvaikatvåneka-
tvabuddhayåŸrayayoryugapadekapuru≤åŸrayatvåsaæbhavaæ pa-
Ÿyatå | yathaitadvibhågavacanaæ tathaiva darŸitaæ Ÿåtapathıye
bråhma√e “etameva pravråjino lokamicchanto bråhma√å¢ pravra-
janti” iti sarvakarmasaænyåsaæ vidhåya tacche≤e√a “kiæ prajayå
kari≤yåmo ye≤åæ no ’yamåtmåyaæ loka¢” (bÿ. 4.4.22) iti | tatraiva
ca “prågdåraparigrahåtpuru≤a åtmå pråkÿto dharmajijñåsottarakå-
laæ lokatrayasådhanaæ putraæ dviprakåraæ ca vittaæ månu≤aæ
daivaæ ca tatra månu≤aæ vittaæ karmar¥paæ pitÿlokapråptisådha-
naæ vidyåæ ca daivaæ vittaæ devalokapråptisådhanaæ so ’kåma-
780 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 2.10

yata” ityavidyåkåmavata eva sarvå√i karmå√i Ÿrotrådıni dårŸitåni |


“tebhyo vyutthåya pravrajanti” iti vyutthånamåtmanameva loka-
micchato ’kåmasya vihitam | tadetadvibhågavacanamanupapa-
nnaæ syådyadi Ÿrautakarmajñånayo¢ samuccayo ’bhipreta¢ syå-
dbhagavata¢ || na cårjunasya praŸna upapanno bhavati “jyåyası ce-
tkarma√aste” (bha. gı. 3.1) ityådi | ekapuru≤ånu≤†heyatvåsaæbha-
vaæ buddhikarma√orbhagavatå p¥rvamanuktaæ kathamarjuno
’Ÿrutaæ buddheŸca karma√o jyåyastvaæ bhagavatyadhyåropaye-
nmÿ≤aiva “jyåyası cetkarma√aste matå buddhi¢” (bha. gı. 3.1) iti ||
kiæ ca yadi buddhikarma√o¢ sarve≤åæ samuccaya ukta¢ syådarju-
nasyåpi sa ukta eveti “etayorekaæ tanme br¥hi suniŸcitam” (bha.
gı. 5.1) iti kathamubhayorupadeŸe satyanyataravi≤aya eva praŸna¢
syåt | na hi pittapraŸamanårthino vaidyena madhuraæ Ÿıtaæ ca
bhoktavyamityupadi≤†e tayoranyataratpittapraŸamanakåra√aæ
br¥hıti praŸna¢ saæbhavati || athårjunasya bhagavaduktavacanå-
rthavivekånavadhåra√animitta¢ praŸna¢ kalpyeta tathåpi bhagava-
tå praŸnånur¥paæ prativacanaæ deyaæ mayå buddhirkarma√o¢
samuccaya ukta¢ kimarthamitthaæ tvaæ bhråntosıti | na tu puna¢
prativacanamananur¥paæ pÿ≤†ådanyadeva dve ni≤†he mayå purå
prokte iti vaktuæ yuktam || nåpi smårtenaiva karma√å buddhe¢
samuccaye ’bhiprete vibhågavacanådi sarvamupapannam | kiæ ca
k≤atriyasya yuddhaæ smårtaæ karma iti jånata¢ “tatkiæ karmå√i
ghore måæ niyojayasi” (bha. gı. 3.1) ityupålaæbho ’nupapanna¢ ||
tasmådgıtåŸåstre ı≤anmåtre√åpi Ÿrautena smårtena vå karma√åtma-
jñånasya samuccayo na kenaciddarŸayituæ Ÿakya¢ | yasya tvajñå-
nådrågådido≤ato vå karma√i pravÿttasya yajñena dånena tapaså vå
viŸuddhasattvasya jñånamutpannaæ paramårthatattvavi≤ayameka-
mevedaæ sarvaæ brahmåkartÿ ceti tasya karma√i karmaprayojane
ca nivÿtte ’pi lokasaægrahårthaæ yatnap¥rvaæ yathå pravÿtti¢ ta-
thaiva | karma√i pravÿttasya yatpravÿttir¥paæ dÿŸyate na tatkarma
yena buddhe¢ samuccaya¢ syådyathå bhagavato våsudevasya k≤a-
tradharmace≤†itaæ na jñånena samuccıyate puru≤årtha siddhaye
tadvattatphalåbhisandhyahaækåråbhåvasya tulyatvådvidu≤a¢ | ta-
ttvavittu nåhaæ karomıti manyate na ca tatphalamabhisandhatte |
yathå ca svargådikåmårthino ’gnihotrådikarmalak≤a√adharmånu-
≤†hånåyåhitågne¢ kåmya evågnihotrådau pravÿttasya såmikÿte vi-
na≤†e ’pi kåme tadevågnihotrådyanuti≤†hato ’pi na tatkåmyamagni-
2.11 dvitıyo ’dhyåya¢ 781

hotrådi bhavati | tathå ca darŸayati bhagavån “kurvannapi na lipya-


te” (bha. gı. 5.7) “na karoti na lipyate” (bha. gı. 13.31) iti tatra ta-
tra || yacca “p¥rvai¢ p¥rvataraæ kÿtam” (bha. gı. 4.15) “karma√aiva
hi saæsiddhimåsthitå janakådaya¢” (bha. gı. 3.20) iti tattu pravi-
bhajya vijñeyaæ | tatkathaæ | yadi tåvatp¥rve janakådaya¢ tattva-
vido ’pi pravÿttakarmå√a¢ syu¢ te lokasaæprahårthaæ “gu√å gu-
√e≤u vartanta” (bha. gı. 3.28) iti jñånena iva saæsiddhimåsthitå¢ |
karmasaænyåse pråpte ’pi karma√å sahaiva saæsiddhimåsthitå na
karma saænyåsaæ kÿtavanta ityartha¢ | atha na te tattvavida¢ | ı-
Ÿvarasamarpitena karma√å sådhanabh¥tena saæsiddhiæ sattvaŸu-
ddhiæ jñånotpattilak≤a√åæ vå saæsiddhimåsthitå janakådaya iti
vyåkhyeyam | etamevårthaæ vak≤yati bhagavån “sattvaŸuddhaye
karma kurvanti” (bha. gı. 5.11) “svakarma√å tamabhyarcya siddhiæ
vindati månava¢” (bha. gı. 18.46) iti | ityuktvå siddhiæ pråptasya ca
punarjñånani≤†håæ vak≤yati “siddhiæ pråpto yathå brahma” (bha.
gı. 18.50) ityådinå || tasmådgıtåŸåstre kevalådeva tattvajñånånmo-
k≤apråptirna karmasamuccitåditi niŸcito ’rtha¢ | yathå cåyamartha-
stathå prakara√aŸo vibhajya tatra tatra darŸayi≤yåma¢ || tatraivaæ
dharmasaæm¥ƒhacetaso mithyåjñånavato mahati Ÿokasågare ni-
magnasyårjunasyånyatråtmajñånåduddhara√amapaŸyanbhagavå-
nvåsudevastata¢ kÿpayårjunamuddidhır≤uråtmajñånåyåvatåraya-
nnåha –

Ÿrıbhagavånuvåca –

aŸocyånanvaŸocastvaæ pråjñavådåæŸca bhå≤ase |


gatås¥nagatås¥æŸca nånuŸocanti pa√ƒitå || 2.11 ||

aŸocyånityådi | na Ÿocyå aŸocyå bhı≤madro√ådaya¢ sadvÿtta-


tvåtparamårthar¥pe√a ca nityatvåttånaŸocyånanvaŸoco ’nuŸocita-
vånasi te mriyante tannimittamahaæ tairvinåbh¥ta¢ kiæ kari≤yåmi
råjyasukhådineti | tvaæ pråjñavådånprajñåvatåæ buddhimatåæ vå-
dåæŸca vacanåni ca bhå≤ase | tadetanmauƒhyaæ på√ƒityaæ ca vi-
ruddhamåtmani darŸayasyunmatta ivetyabhipråya¢ | yasmådgatå-
s¥ngataprå√ånmÿtånagatås¥nagataprå√åñjıvataŸca nånuŸocanti pa-
√ƒitå åtmajñå¢ | pa√ƒå åtmavi≤ayå buddhirye≤åæ te hi pa√ƒitå¢
“på√ƒityaæ nirvidya” (bÿ. 3.5.1) iti Ÿrute¢ | paramårthatastu nityå-
782 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 2.11

naŸocyånanuŸocasyato m¥ƒho ’sıtyabhipråya¢ || kutaste ’Ÿocyå ya-


to nityå¢ | katham –

na tvevåhaæ jåtu nåsaæ na tva neme janådhipå¢ |


na caiva na bhavi≤yåma¢ sarve vayamata¢ param || 2.12 ||

na tviti | na tveva jåtu kadåcidahaæ nåsaæ kiæ tvåsameva | a-


tıte≤u dehotpattivinåŸe≤u gha†ådi≤u viyadiva nitya evåhamåsami-
tyabhipråya¢ | tathå na tvaæ nåsı¢ kiæ tvåsıreva | tathå neme ja-
nådhipå nåsankiæ tvåsanneva | tathå na caiva na bhavi≤yåma¢ kiæ
tu bhavi≤yåma eva sarve vayamato ’småddehavinåŸåtparamuttara-
kåle ’pi | tri≤vapi kåle≤u nityå åtmasvar¥pe√etyartha¢ | dehabhedå-
nuvÿttyå bahuvacanaæ nåtmabhedåbhipråye√a || atra kathamiva
nitya åtmeti dÿ≤†åntamåha –

dehino ’sminyathå dehe kaumåraæ yauvanaæ jarå |


tathå dehåntarapråptirdhırastatra na muhyati || 2.13 ||

dehina iti | deho ’syåstıti dehı tasya dehino dehavata åtmano


’sminvartamåne dehe yathå yena prakåre√a kaumåraæ kumåra-
bhåvo bålyåvasthå yauvanaæ y¥no bhåvo madhyamåvasthå jarå
vayohånirjır√åvasthetyetåstisro ’vasthå anyonyavilak≤a√å¢ | tåsåæ
prathamåvasthånåŸe na nåŸo dvitıyåvasthopajane nopajana åtma-
na¢ | kiæ tarhi | avikriyasyaivaikasya dvitıyatÿtıyåvasthåpråptirå-
tmano dÿ≤†å | tathå tadvadeva dehådanyo deho dehåntaraæ tasya
pråptirdehåntara pråptiravikriyasyaivåtmana ityartha¢ | dhıro dhı-
måæstatraivaæ sati na muhyati na mohamåpadyate || yadyapyå-
tmavinåŸanimitto moho na saæbhavati nityåtmeti vijånatastathåpi
Ÿıto≤√asukhadu¢khapråptinimitto moho laukiko dÿŸyate | sukhavi-
yoganimitto moho du¢khasaæyoganimittaŸca Ÿoka¢ | ityetadarju-
nasya vacanamåŸaækya bhagavånåha –

måtråsparthåstu kaunteya Ÿıto≤√asukhadu¢khadå¢ |


ågamåpåyino ’nityå tåæstitik≤asva bhårata || 2.14 ||

måtråsparthå iti | måtrå åbhirmıyante Ÿabdådaya iti Ÿrotrådını-


ndriyå√i | måtrå√åæ sparŸå¢ Ÿabdådibhi¢ saæyogåste Ÿıto≤√asu-
2.16 dvitıyo ’dhyåya¢ 783

khadu¢khadå¢ Ÿıtamu≤√aæ sukhaæ du¢khaæ ca prayacchantıti |


atha vå spÿŸyanta iti sparŸå vi≤ayå¢ Ÿabdådaya¢ | måtråŸca sparŸå-
Ÿca Ÿıto≤√asukhadu¢khadå¢ | Ÿıtaæ kadåcitsukhaæ kadaciddu¢-
kham | tatho≤√amapyaniyatasvar¥pam | sukhadu¢khe punarniya-
tar¥pe yato na vyabhicarato ’taståbhyåæ pÿthakŸıto≤√ayorgraha-
√am | yasmåtte måtråsparthådaya ågamåpåyina ågamåpåyaŸılå¢
tasmådanityå¢ | ataståñŸıto≤√ådıæstitik≤asva prasahasva | te≤u ha-
r≤aæ vi≤ådaæ vå må kår≤ırityartha¢ || Ÿıto≤√ådınsahata¢ kiæ syådi-
ti Ÿÿ√u –

yaæ hi na vyathayantyete puru≤aæ puru≤ar≤abha |


samadu¢khasukhaæ dhıraæ so ’mÿtatvåya kalpate || 2.15 ||

yaæ hıti | yaæ hi puru≤aæ samadu¢khasukhaæ same du¢kha-


sukhe yasya taæ samadu¢khasukhaæ sukhadu¢khapråptau har≤a-
vi≤ådarahitaæ dhıraæ dhımantaæ na vyathayanti na cålayanti ni-
tyåtmadarŸanådete yathoktå¢ Ÿıto≤√ådaya¢ sa nityåtmadarŸanani-
≤†ho dvandvasahi≤√uramÿtatvåyåmÿtabhåvåya mok≤åyetyartha¢
kalpate samartho bhavati || itaŸca Ÿokamohåvakÿtvå Ÿıto≤√ådisaha-
naæ yuktaæ yasmåt –

nåsato vidyate bhåvo nåbhåvo vidyate sata¢ |


ubhayorapi dÿ≤†o ’ntastvanayostattvadarŸibhi¢ || 2.16 ||

nåsata iti | nåsato ’vidyamånasya Ÿıto≤√ådisakåra√asya na vi-


dyate nåsti bhåvo bhavanamastitå || na hi Ÿıto≤√ådisakåra√aæ pra-
må√airnir¥pyamå√aæ vastusadbhavati | vikåro hi so vikåraŸca
vyabhicarati | yathå gha†ådisaæsthånaæ cak≤u≤å nir¥pyamå√aæ
mÿdvyatireke√ånupalabdherasattathå sarvo vikåra¢ kåra√avyatire-
ke√ånupalabdherasan | janmapradhvaæsåbhyåæ pråg¥rdhvaæ cå-
nupalabdhe¢ kåryasya gha†ådermÿdådikåra√asya ca tatkåra√avya-
tireke√ånupalabdherasattvam | tadasattve sarvåbhåvaprasa§ga iti
cenna sarvatra buddhidvayopalabdhe¢ sadbuddhirasadbuddhiriti |
yadvi≤ayå buddhirna vyabhicarati tatsat | yadvi≤ayå vyabhicarati
tadasaditi sadasadvibhåge buddhitantre sthite sarvatra dve buddhı
sarvairupalabhyete samånådhikara√e | na nılotpalavatsangha†a¢ sa-
npa†a¢ sanhastıti | evaæ sarvatra | tayorbuddhyorgha†ådibuddhi-
784 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 2.16

rvyabhicarati | tathå ca darŸitam | na tu sadbuddhi¢ | tasmådgha†å-


dibuddhivi≤ayo ’sanvyabhicårånna tu sadbuddhivi≤ayo ’vyabhicå-
råt | gha†e vina≤†e gha†abuddhau vyabhicarantyåæ sadbuddhira-
pi vyabhicaratıti cenna pa†ådåviva sadbuddhidarŸanåt | viŸe≤a√avi-
≤ayaiva så sadbuddhi¢ | sadbuddhivadgha†abuddhirapi gha†åntare
dÿŸyata iti cenna pa†ådåvadarŸanåt | sadbuddhirapi na≤†e gha†e na
dÿŸyata iti cenna viŸe≤yåbhåvåt | sadbuddhirviŸe≤a√avi≤ayå satı vi-
Ÿe≤yåbhåve viŸe≤a√ånupapattau kiævi≤ayå syånna tu puna¢ sadbu-
ddhervi≤ayåbhåvådekådhikara√atvaæ gha†ådiviŸe≤yåbhåve na yu-
ktamiti cenna | idamudakamiti marıcyådåvanyataråbhåve ’pi såmå-
nådhikara√yadarŸanåt || tasmåddehåderdvandvasya ca sakåra√asyå-
sato na vidyate bhåva iti | tathå sataŸcåtmano ’bhåvo ’vidyamånatå
na vidyate sarvatråvyabhicårådityavocåma || evamåtmånåtmano¢
sadasatorubhayorapi dÿ≤†a upalabdho ’nto nir√aya¢ satsadevåsada-
sadeveti tvanayoryathoktayostattvadarŸibhi¢ | taditi sarvanåma sa-
rvaæ ca brahma tasya nåma taditi tadbhåvastattvaæ brahma√o yå-
thåtmyaæ taddra≤†uæ Ÿılaæ ye≤åæ te tattvadarŸinastaistattvadarŸi-
bhi¢ | tvamapi tattvadarŸinåæ dÿ≤†imåŸritya Ÿokaæ mohaæ ca hitvå
Ÿıto≤√ådıni niyatåniyatar¥på√i dvandvåni vikåro ’yamasanneva ma-
rıcijalavanmithyåvabhåsata iti manasi niŸcitya titik≤asvetyabhiprå-
ya¢ || kiæ punastadyatsadeva sarvadåstıti ucyate –

avinåŸi tu tadviddhi yena sarvamidaæ tatam |


vinåŸamavyayasyåsya na kaŸcitkartumarhati || 2.17 ||

avinåŸıti | avinåŸi na vina≤†uæ Ÿılamyasyeti | tuŸabdo ’sato vi-


Ÿe≤a√årtha¢ | tadviddhi vijånıhi | kimyena sarvamidaæ jagattataæ
vyåptaæ sadåkhyena brahma√å såkåŸamåkåŸeneva gha†ådaya¢ | vi-
nåŸamadarŸanamabhåvamavyayasya na vyetyupacayåpacayau na
yåtıtyavyayaæ tasyåvyayasya | naitatsadåkhyaæ brahma svena r¥-
pe√a vyeti vyabhicarati niravayavatvåddehådivat | nåpyåtmıyenå-
tmıyåbhåvåt | yåthå devadatto dhanahånyå vyeti na tvevaæ bra-
hma vyeti | ato ’vyayasyåsya brahma√o vinåŸaæ na kaŸcitkartuma-
rhati na kaŸcidåsmånåæ vinåŸayituæ ŸaknotıŸvaro ’pi | åtmå hi bra-
hma svåtmani ca kriyåvirodhåt || kiæ punastadasadyatsvåtmasa-
ttåæ vyabhicaratıti ucyate –
2.19 dvitıyo ’dhyåya¢ 785

antavanta ime dehå nityasyoktå¢ Ÿarıri√a¢ |


anåŸino ’prameyasya tasmådyudhyasva bhårata || 2.18 ||

antavanta iti | antavanto ’nto vinåŸo vidyate ye≤åæ te ’ntava-


nta¢ | yathå mÿgatÿ≤√ikådau sadbuddhiranuvÿttå pramå√anir¥pa-
√ånte vicchidyate sa tasyåntastatheme dehå¢ svapnamåyådehådi-
vaccåntavanto nityasya Ÿarıri√a¢ Ÿarıravato ’nåŸino ’prameyasyå
’tmano ’ntavanta ityuktå vivekibhirityartha¢ | nityasyånåŸina iti na
punaruktaæ nityatvasya dvividhatvålloke nåŸasya ca | yathå deho
bhasmıbh¥to ’darŸanaæ gato na≤†a ucyate | vidyamano ’pi yathå
’nyathå pari√ato vyådhyådiyukto jåto na≤†a ucyate | tatrånåŸino
nityasyeti dvividhenåpi nåŸenåsaæbadho ’syetyartha¢ | anyathå pÿ-
thivyådivadapi nityatvaæ syådåtmana¢ | tanmå bh¥diti nityasyå-
naŸina ityåha | aprameyasya na prameyasya pratyak≤ådipramå√ai-
raparicchedyasyetyartha¢ || nanvågamenåtmå paricchidyate pra-
tyak≤ådinå ca p¥rvam | nåtmana¢ svata¢siddhatvåt | siddhe hyå-
tmani pramåtari pramitso¢ pramå√ånve≤a√å bhavati | na hi p¥rva-
mitthamahamityåtmånamapramåya paŸcåtprameyaparicchedåya
pravartate | na hyåtmå nåma kasyacidaprasiddho bhavati | Ÿåstraæ
tvantyaæ pramå√amataddharmådhyåropa√amåtranivartakatvena
pramå√itvamåtmana¢ pratipadyate | na tvajñåtårthajñåpakatvena |
tathå ca Ÿruti¢ “yatsåk≤ådaparok≤ådbrahma ya åtmå sarvåntara¢”
(bÿ. 3.4.1) iti || yasmådevaæ nityo ’vikriyaŸcåtmå tasmådyudhyasva
yuddhåduparamaæ må kår≤ırityartha¢ | na hyatra yuddhakarta-
vyatå vidhıyate | yuddha pravÿtta eva hyasau Ÿokamohapratiba-
ddhast¥≤√ımåste | ata¢ tasya pratibandhåpanayanamåtraæ bhaga-
vatå kriyate | tasmådyudhyasvetyanuvådamåtraæ na vidhi¢ || Ÿo-
kamohådisaæsårakåra√anivÿttyarthaæ gıtåŸåstraæ na pravartaka-
mityetasyårthasya såk≤ibh¥te ÿcåvåninåya bhagavån | yattu ma-
nyase yuddhe bhı≤mådayo mayå hanyante ’hameva te≤åæ hante-
tye≤å buddhirmÿ≤aiva te | katham –
ya enaæ vetti hantåraæ yaŸcainaæ manyate hatam |
ubhau tau na vijånıto nåyaæ hanti na hanyate || 2.19 ||
ya enamiti | ya enaæ prakÿtaæ dehinaæ vetti jånåti hantåraæ
hananakriyåyå¢ kartåraæ yaŸcainamanyo manyate hataæ dehaha-
786 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 2.19

nanena hato ’hamiti hananakriyåyå¢ karmabh¥taæ tåvubhau na


vijånıto na jñåtavantåvavivekenåtmånam | hantåhaæ hato ’smya-
hamiti dehahananenåtmånamahaæpratyayavi≤ayaæ yau vijånıta-
ståvåtmasvar¥pånabhijñåvityartha¢ | yasmånnåyamåtmå hanti na
hananakriyåyå¢ kartå bhavati na hanyate na ca karma bhavatıtya-
rtho ’vikriyatvåt || kathamavikriya åtmeti dvitıyo mantra¢ –

na jåyate mriyate vå kadåcin-


nåyaæ bh¥två ’bhavitå vå na bh¥ya¢ |
ajo nitya¢ ŸåŸvato ’yaæ purå√o
na hanyate hanyamåne Ÿarıre || 2.20 ||

na jåyata iti | na jåyate notpadyate janilak≤a√å vastuvikriyå


nåtmano vidyata ityartha¢ | na mriyate vå | våŸabdaŸcårthe | na
mriyate cetyantyå vinåŸalak≤a√å vikriyå prati≤idhyate | kadåci-
cchabda¢ sarvavikriyåprati≤edhai¢ saæbadhyate na kadåcijjåyate
na kadåcinmriyata ityevam | yasmådayamåtmå bh¥två bhavanakri-
yåmanubh¥ya paŸcådabhavitå ’bhåvaæ gantå na bh¥ya¢ punasta-
smånna mriyate | yo hi bh¥två na bhavitå sa mriyata ityucyate lo-
ke | våŸabdånnaŸabdåccåyamåtmå ’bh¥två vå bhavitå dehavanna
bh¥ya¢ punastasmånna jåyate | yo hyabh¥två bhavitå sa jåyata i-
tyucyate naivamåtmå ’to na jåyate | yasmådevaæ tasmådajo ya-
smånna mriyate tasmånnityaŸca | yadyapyådyantayorvikriyayo¢
prati≤edhe sarvå vikriyå¢ prati≤iddhå bhavanti tathåpi madhyabhå-
vinınåæ vikriyå√åæ svaŸabdaireva tadarthai¢ prati≤edha¢ kartavya
ityanuktånåmapi yauvanådisamastavikriyå√åæ prati≤edho yathå
syådityåha ŸåŸvata ityådinå | ŸåŸvata ityapak≤ayalak≤a√å vikriyå
prati≤idhyate ŸaŸvadbhava¢ ŸåŸvata¢ | nåpak≤ıyate svar¥pe√a nira-
vayavatvånnåpi gu√ak≤aye√åpak≤ayo nirgu√atvåt | apak≤ayavipa-
rıtåpi vÿddhilak≤a√å vikriyå prati≤idhyate purå√a iti | yo hyavaya-
vågamenopacıyate sa vardhate ’bhinava iti cocyate | ayaæ tvåtmå
niravayatvåtpuråpi nava eveti purå√o na vardhata ityartha¢ | tathå
na hanyate na vipari√amyate hanyamåne vipari√amyamåne ’pi Ÿa-
rıre | hantiratra vipari√åmårtho dra≤†avyo ’punaruktatåyai na vipa-
ri√amata ityartha¢ | asminmantre ≤aƒbhåvavikårå laukikavastuvi-
kriyå ’’tmani prati≤idhyante | sarvaprakåravikriyårahita åtmå iti
våkyårtha¢ | yasmådevaæ tasmåd “ubhau ta na vijånita¢” (bha. gı.
2.21 dvitıyo ’dhyåya¢ 787

2.19) iti p¥rve√a mantre√åsya saæbandha¢ || “ya enaæ vetti hantå-


raæ” (bha. gı. 2.19) ityanena mantre√a hananakriyåyå¢ kartå ka-
rma ca na bhavatıti pratijñåya “na jåyate” (bha. gı. 2.20) ityanenåvi-
kriyatve hetumuktvå pratijñåtårthamupasaæharati –

vedåvinåŸinaæ nityaæ ya enamajamavyayam |


kathaæ sa puru≤a¢ pårtha¢ kaæ ghåtayati hanti kam || 2.21 ||

vedåvinåŸinamiti | veda vijånåtyavinåŸinamantyabhåvavikåra-


hitaæ nityaæ vipari√åmarahitaæ yo vedeti saæbandha¢ | enaæ
p¥rve√a mantre√oktalak≤a√amajaæ janmarahitamavyayamapak≤a-
yarahitaæ kathaæ kena prakåre√a sa vidvånpuru≤o ’dhikÿto hanti
hananakriyåæ karoti kathaæ vå ghåtayati hantåraæ prayojayati |
na kathaæcitkaæciddhanti na kathaæcitkaæcitghatayatıtyubhaya-
tråk≤epa evårtha¢ praŸnårthåsaæbhavåt | hetvarthasyåvikriyatva-
sya ca tulyatvådvidu≤a¢ sarvakarmaprati≤edha eva prakara√årtho
’bhipreto bhagavata¢ || hantestvåk≤epa udåhara√årthatvena kathi-
ta¢ | vidu≤a¢ kaæ karmåsaæbhave hetuviŸe≤aæ paŸyankarmå√yå-
k≤ipati bhagavånkathaæ sa puru≤a iti | nan¥kta evåtmano vikriya-
tvaæ sarvakarmåsaæbhavakåra√aviŸe≤a¢ | satyamukto na tu sa kå-
ra√aviŸe≤o ’nyatvådvidu≤o ’vikriyådåtmana¢ | na hyavikriyaæ sthå-
√uæ viditavata¢ karma saæbhavatıti cenna | vidu≤a åtmatvånna de-
hådisaæghåtasya vidvattå | ata¢ påriŸe≤yådasaæhata åtmå vidvåna-
vikriya iti tasya vidu≤a¢ karmåsaæbhavådåk≤epo yukta¢ kathaæ
sa puru≤a iti | tathå buddhyådyåhÿtasya Ÿabdådyarthasyåvikriya e-
va sanbuddhivÿttyavivekavijñånenåvidyayopalabdhå åtmå kalpyata
evamevåtmånåtmavivekajñånena buddhivÿttyå vidyayå ’satyar¥-
payaiva paramårthato ’vikriya evåtmå vidvånucyate | vidu≤a¢ ka-
rmåsaæbhavavacanådyåni karmå√i Ÿåstre√a vidhıyante tånyavidu-
≤o vihitånıti bhagavato niŸcayo ’vagamyate || nanu vidyåpyavidu≤a
eva vidhıyate viditavidyasya pi≤†ape≤a√avadåvidyåvidhånånartha-
kyåt | tatråvidu≤a¢ karmå√i vidhıyante na vidu≤a iti viŸe≤o nopapa-
dyata iti cenna | anu≤†heyasya bhåvåbhåvavi≤e≤opapatte¢ | agniho-
trådividhyarthajñånottarakålamagnihotrådikarmånekasådhano-
pasaæhårap¥rvakamanu≤†heyaæ kartå ’haæ mama kartavyami-
tyevaæprakårakavijñånavato ’vidu≤o yathånu≤†heyaæ bhavati na
tu tathå na jåyata ityådyåtmasvar¥pavidhyårthajñånottarakålabhå-
788 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 2.21

vi kiñcidanu≤†heyaæ bhavati | kiæ tu nåhaæ kartå nåhaæ bhokte-


tyådyåtmaikatvådivi≤ayajñånådanyannotpadyata itye≤a viŸe≤a upa-
padyate | ya¢ puna¢ kartåhamiti vettyåtmånaæ tasya mamedaæ ka-
rtavyamityavaŸyaæ bhåvinı buddhi¢ syåttadapek≤ayå so ’dhikriya-
ta iti taæ prati karmå√i saæbhavanti | sa cåvidvån “ubhau tau na
vijånıta¢” (bha. gı. 2.19) iti vacanåt | viŸe≤itasya ca vidu≤a¢ karmå-
k≤epavacanåcca kathaæ sa puru≤a iti | tasmådviŸe≤itasyåvikriyå-
tmadarŸino vidu≤o mumuk≤oŸca sarvakarmasaænyåsa evådhikå-
ra¢ | ata eva bhagavånnåråya√a¢ så§khyånvidu≤o ’vidu≤aŸca ka-
rmi√a¢ pravibhajya dve ni≤†he gråhayati – “jñånayogena saæ-
khyånåæ karmayogena yoginåm” (bha. gı. 3.3) iti | tathå ca putrå-
yåha bhagavånvyåsa¢ “dvåvimåvatha panthånau” (ma. Ÿå. 240.6) i-
tyådi | tathå ca kriyåpathaŸcaiva puraståtpaŸcåtsaænyasaŸca iti | e-
tameva vibhågaæ puna¢ punardarŸayi≤yati bhagavånatattvavit “a-
haækåravimuƒhåtmå kartåhamiti manyate” (bha. gı. 3.27) tattvavi-
ttu nåhaæ karomıti | tathå ca “sarvakarmå√i manaså saænyasyå-
ste” (bha. gı. 5.23) ityådi || tatra kecitpå√ƒitaæ manyå vadanti – ja-
nmådi≤aƒbhåvavikriyårahito ’vikriyo ’kartaiko ’hamåtmeti na ka-
syacijjñånamutpadyate yasminsati sarvakarma saænyasa upadiŸya-
te – iti tanna | na jåyata ityådiŸåstropadeŸånarthakya prasa√gåt |
yathå ca ŸåstropadeŸasåmarthyåddharmådharmåstitvavijñånaæ ka-
rtuŸca dehåntarasaæbandhi vijñånaæ cotpadyate tathå Ÿåstråtta-
syaivåtmano ’vikriyatvåkartÿtvaikatvådivijñånaæ kasmånnotpa-
dyata – iti pra≤†avyåste | kara√ågocaratvåditi cenna “manasaivånu-
dra≤†avyaæ” (bÿ. 4.4.19) iti Ÿrute¢ | ŸåstråcåryopadeŸaŸamadamådi-
saæskÿtaæ mana åtmadarŸane kara√am | tathå ca tadadhigamåyå-
numåna ågame ca sati jñånaæ notpadyata iti såhasamåtrametat |
jñånaæ cotpadyamånaæ tadviparıtamajñånamavaŸyaæ bådhata i-
tyabhyupagantavyam | taccåjñånaæ darŸitaæ hantå ’haæ hato ’smı-
ti “ubhau tau na vijånıta” (bha. gı. 2.19) iti | atra cåtmano hanana-
kriyåyå¢ kartÿtvaæ karmatvaæ hetukartÿtvaæ cåjñånakÿtaæ darŸi-
tam | tacca sarvakriyåsvapi samånaæ kartÿtvåderavidyåkÿtatvama-
vikriyatvådåtmana¢ | vikriyåvånhi kartåtmana¢ karmabh¥tama-
nyaæ prayojayati kurviti | tadetadaviŸe≤e√a vidu≤a¢ sarvakriyåsu
kartÿtvaæ hetukartÿtvaæ ca prati≤edhati bhagavånvåsudevo vidu-
≤a¢ karmådhikåråbhåvapradarŸanårthaæ vedåvinåŸinaæ kathaæ sa
puru≤a ityådinå | kva punarvidu≤o ’dhikåra ityetaduktaæ p¥rvame-
2.23 dvitıyo ’dhyåya¢ 789

va “jñånayogena så§khyånåm” (bha. gı. 3.3) iti | tathå ca sarvaka-


rmasaænyåsaæ vak≤yati “sarvakarmå√i manaså” (bha. gı. 5.13) i-
tyådinå || nanu manaseti vacanånna våcikånåæ kåyikånåæ ca saæ-
nyåsa iti cenna | sarvakarmå√ıti viŸe≤itatvåt | månasånåmeva sa-
rvakarma√åmiti cenna | manovyåpårap¥rvakatvådvåkkåyavyapå-
rå√åæ manovyåpåråbhåve tadanupapatte¢ | Ÿåstrıyå√åæ våkkåya-
karma√åæ kåra√åni månaså√i karmå√i varjayitvå ’nyåni sarvaka-
rmå√i manaså saænyasyåsta iti cenna | “naiva kurvanna kårayan”
(bha. gı. 5.13) iti viŸe≤a√åt | sarvakarmasaænyåso ’yaæ bhagavato-
kto mari≤yato na jıvata iti cenna | “navadvåre pure dehı. åste”
(bha. gı. 5.13) iti viŸe≤a√ånupapatte¢ | na hi sarvakarmasaænyåse-
na mÿtasya taddeha åsanaæ saæbhavati | akurvato ’kårayataŸca de-
he saænyasyeti saæbandho na deha åsta iti cenna | sarvatråtmano
’vikriyatvåvadhåra√ådåsanakriyåyåŸcådhikara√åpek≤atvåttadanape-
k≤atvåcca saænyåsasya | saæp¥rvastu nyåsaŸabdastyågårtho na ni-
k≤epårtha¢ || tasmådgıtåŸåstra åtmajñånavata¢ saænyåsa eva adhi-
kåro na karma√i iti tatra tatropari≤†ådåtmajñånaprakara√e darŸayi-
≤yåma¢ || prakÿtaæ tu vak≤yåma¢ | tatråtmano ’vinåŸitvaæ prati-
jñåtaæ tatkimivetyucyate –

våsåæsi jır√åni yathå vihåya


navåni gÿh√åti naro ’parå√i |
tathå Ÿarırå√i vihåya jır√åny-
anyåni saæyåti navåni dehı || 2.22 ||

våsåæsıti | våsåæsi vastrå√i jır√åni durbalatåæ gatåni yathå


loke vihåya parityajya navånyabhinavåni gÿhnåtyupåtte nara¢ pu-
ru≤o ’parå√yanyåni tathå tadvadeva Ÿarırå√i vihåya jır√ånyanyåni
saæyåti saægacchati navåni dehı åtmå puru≤avadavikriya evetya-
rtha¢ || kasmådavikriya evetyåha –

nainaæ chindanti Ÿastrå√i nainaæ dahati påvaka¢ |


na cainaæ kledayantyåpo na Ÿo≤ayati måruta¢ || 2.23 ||

nainaæ chindantıti | enaæ prakÿtaæ dehinaæ na chindanti Ÿa-


strå√i niravayavatvånnåvayavibhågaæ kurvanti Ÿastrå√yasyådıni |
tathå naivaæ dahati påvako ’gnirapi na bhasmı karoti | tathå na
790 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 2.23

cainaæ kledayantyåpa¢ | apåæ hi såvayavasya vastuna årdribhåva-


kara√enåvayavaviŸle≤åpådane såmarthyaæ tanna niravayava åtma-
ni saæbhavati | tathå snehavaddravyaæ snehaŸo≤a√ena nåŸayati vå-
yurenaæ tvåtmånaæ na Ÿo≤ayati måruto ’pi || yata evaæ tasmåt –
acchedyo ’yamadåhyo ’yamakledyo ’Ÿo≤ya eva ca |
nitya¢ sarvagata¢ sthå√uracalo ’yaæ sanåtana¢ || 2.24 ||
acchedyo ’yamiti | yasmådanyonyanåŸahet¥ni bh¥tånyenamå-
tmånaæ nåŸayituæ notsahante tasmånnitya¢ | nityatvåtsarvagata¢ |
sarvagatatvåtsthå√u¢ sthå√uriva sthira ityetat | sthiratvådacalo
’yamåtmå | ata¢ sanåtanaŸciraætano na kåra√åtkutaŸcinni≤panno
’bhinava ityartha¢ || naite≤åæ Ÿlokånåæ paunaruktyaæ codanıyam |
yata ekenaiva Ÿlokenåtmano nityatvamavikriyatvaæ coktaæ “na jå-
yate mriyate vå” (bha. gı. 2.20) ityådinå | tatra yadevåtmavi≤ayaæ
kiñciducyate tadetasmåcchlokårthånnåtiricyate kiñcicchabdata¢ pu-
naruktaæ kiñcidarthata iti | durbodhatvådåtmavastuna¢ puna¢ pu-
na¢ prasa§gamåpådya Ÿabdåntare√a tadeva vastu nir¥payati bhaga-
vånvåsudeva¢ kathaæ nu nåma avyaktaæ tattvaæ saæsåri√åæ bu-
ddhigocaratåmåpannaæ satsaæsåranivÿttaye syåditi || kiæ ca –
avyakto ’yamacintyo ’yamavikåryo ’yamucyate |
tasmådevaæ viditvainaæ nånuŸocitumarhasi || 2.25 ||
avyakto ’yamiti | avyakta¢ sarvakara√åvi≤ayatvånna vyajata i-
tyavyakto ’yamåtmå | ata evåcintyo ’yam | yaddhındriyagocaraæ
vastu taccintåvi≤ayatvamåpadyate ’yaæ tvåtmå ’nindriyagocara-
tvådacintya¢ | ata evåvikåryo ’yam | yathå k≤ıraæ dadhyåtañcanå-
dinå vikåri na tathå yamåtmå | niravayavatvåccåvikriya¢ | na hi ni-
ravayavaæ kiñcidvikriyåtmakaæ dÿ≤†aæ | avikriyatvådavikåryo ’ya-
måtmå ucyate | tasmådevaæ yathoktaprakåre√ainamåtmånaæ vidi-
två tvaæ nånuŸocitumarhasi hantåhame≤åæ mayeme hanyanta iti ||
åtmano ’nityatvamabhyupagamyedamucyate –
atha cainaæ nityajåtaæ nityaæ vå manyase mÿtam |
tathåpi tvaæ mahåbåho naivaæ Ÿocitumarhasi || 2.26 ||
atha cainamiti | atha cetyabhyupagamårtha¢ | enaæ prakÿta-
måtmånaæ nityajåtaæ lokaprasiddhyå pratyanekaŸarırotpattiæ jå-
2.29 dvitıyo ’dhyåya¢ 791

to jåta iti vå manyase tathå pratitattadvinåŸaæ nityaæ vå manyase


mÿtaæ mÿto mÿta iti | tathåpi tathåbhåvinyapyåtmani tvaæ mahå-
baho naivaæ Ÿocitumarhasi janmavato nåŸo nåŸavato janma cetye-
tåvavaŸyaæ bhåvinåviti || tathå ca sati –

jåtasya hi dhruvo mÿtyurdhruvaæ janma mÿtasya ca |


tasmådaparihårye ’rthe na tvaæ Ÿocitumarhasi || 2.27 ||

jåtasyeti | jåtasya hi labdhajanmano dhruvo ’vyabhicårı mÿtyu-


rmara√aæ dhruvaæ janma mÿtasya ca | tasmådaparihåryo ’yaæ ja-
nmamara√alak≤a√o ’rtha¢ | tasminna parihårye ’rthe na tvaæ Ÿoci-
tumarhasi || kåryakara√asaæghåtåtmakånyapi bh¥tånyuddiŸya Ÿo-
ko na yukta¢ kartuæ yata¢ –

avyaktådıni bh¥tåni vyaktamadhyåni bhårata |


avyaktanidhanånyeva tatra kå paridevanå || 2.28 ||

avyaktådınıti | avyaktådınyavyaktamadarŸanamanupalabdhirå-
dire≤åæ bh¥tånåæ putramitrådikåryakara√asaæghåtåtmakånåæ
tånyavyaktådıni bh¥tåni prågutpatte¢ | utpannåni ca prå§maranå-
dvyaktamadhyåni | avyaktanidhanånyeva punaravyaktamadarŸa-
naæ nidhanaæ mara√aæ ye≤åæ tånyavyaktanidhanåni | mara√å-
d¥rdhvamapyavyaktatåmeva pratipadyanta ityartha¢ | tathå co-
ktam “adarŸanådåpatita¢ punaŸcådarŸanaæ gata¢ | nåsau tava na
tasya tvaæ kå paridevanå” (ma. bhå. strı. 2.13) iti | tatra kå paride-
vanå ko vå pralåpo ’dÿ≤†adÿ≤†aprana≤†abhråntibh¥te≤u bh¥te≤vitya-
rtha¢ || durvijñeyo ’yaæ prakÿta åtmå kiæ tvåmevaikamupålabhe
sådhåra√e bhråntinimitte | kathaæ durvijñeyo ’yamåtmetyata åha –

åŸcaryavatpaŸyati kaŸcidenam-
åŸcaryavadvadati tathaiva cånya¢ |
åŸcaryavaccainamanya¢ Ÿÿ√oti
Ÿrutvå ’pyenaæ veda na caiva kaŸcit || 2.29 ||

åŸcaryavaditi | åŸcaryavadåŸcaryamadÿ≤†ap¥rvamadbhutama-
kasmåddÿŸyamånaæ tena tulyamåŸcaryavadåŸcaryamivainamåtmå-
naæ paŸyati kaŸcit | åŸcaryavadenaæ vadati tathaiva cånya¢ | åŸca-
792 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 2.29

ryavaccainamanya¢ Ÿÿ√oti | Ÿrutvå dÿ≤†voktvåpyenamåtmånaæ ve-


da na caiva kaŸcit | athavå yo ’yamåtmånaæ paŸyati sa åŸcaryatulyo
yo vadati yaŸca Ÿÿ√oti so ’nekasahasre≤u kaŸcideva bhavati | ato du-
rbodha åtmetyabhipråya¢ || athedånıæ prakara√årthamupasaæha-
ranbr¥te –

dehı nityamavadhyo ’yaæ dehe sarvasya bhårata |


tasmåtsarvå√i bh¥tåni na tvaæ Ÿocitumarhasi || 2.30 ||

dehıti | dehı Ÿarırı nityaæ sarvadå sarvåvasthåsvavadhyo nira-


vayavatvånnityavåcca tatråvadhyo ’yaæ dehe Ÿarıre sarvasya sa-
rvagatatvåtsthåvarådi≤u sthito ’pi | sarvasya prå√ijåtasya dehe va-
dhyamåne ’pyayaæ dehı na vadhyo yasmåttasmådbhı≤mådıni sa-
rvå√i bh¥tånyuddiŸya na tvaæ Ÿocitumarhasi || iha paramårthata-
ttvåpek≤åyåæ Ÿoko moho vå na saæbhavatıtyuktam | na kevalaæ
paramårthatattvåpek≤åyåmeva kiæ tu –

svadharmamapi cåvek≤ya na vikaæpitumarhasi |


dharmyåddhi yuddhåcchreyo ’nyatk≤atriyasya na vidyate || 2.31 ||

svadharmamiti | svadharmamapi svo dharma¢ k≤atriyasya dha-


rmo yuddhaæ tamapyavek≤ya tvaæ na vikaæpituæ pracalituma-
rhasi dharmyåtk≤atriyasya svabhåvikåddharmådåtmasvåbhavyådi-
tyabhipråya¢ | tacca yuddhaæ pÿthivıjayadvåre√a dharmårthaæ
prajårak≤a√årthaæ ceti dharmådanapetaæ paraæ dharmyam | ta-
småddharmyådyuddhåcchreyo ’nyatk≤atriyasya na vidyate hi ya-
småt || kutaŸca tadyuddhaæ kartavyamityucyate –

yadÿcchayå copapannaæ svargadvåramapåvÿtam |


sukhina¢ k≤atriyå¢ pårtha labhante yuddhamıdÿŸam || 2.32 ||

yadÿcchayeti | yadÿcchayå cåprårthitatayopapannamågataæ sva-


rgadvåramåpåvÿtamudghå†itaæ ya etadıdÿŸaæ yuddhaæ labhante
k≤atriyå he pårtha kiæ na sukhinaste || evaæ kartavyatåpråptamapi –

atha cettvamimaæ dharmyaæ saægråmaæ na kari≤yasi |


tata¢ svadharmaæ kırtiæ ca hitvå påpamavåpsyasi || 2.33 ||
2.37 dvitıyo ’dhyåya¢ 793

atha cediti | atha cettvamimaæ dharmyaæ dharmådanapetaæ


vihitaæ saægråmaæ yuddhaæ na kari≤yasi cettatastadakara√åtsva-
dharmaæ kırtiæ ca mahådevådisamågamanimittåæ hitvå kevalaæ
påpamavåpsyasi || na kevalaæ svadharmakırtiparityåga¢ –

akırtiæ cåpi bh¥tåni kathayi≤yanti te ’vyayåm |


saæbhåvitasya cåkırtirmara√ådatiricyate || 2.34 ||

akırtimiti | akırtiæ cåpi yuddhe bh¥tåni kathayi≤yanti te tavå-


vyayåæ dırghakålåm | dharmåtmå Ÿ¥ra ityevamådibhirgu√ai¢ saæ-
bhåvitasya cåkırtirmara√ådatiricyate | saæbhåvitasya cåkırterva-
raæ mara√amityartha¢ || kiæ ca –

bhayådra√åduparataæ maæsyante tvåæ mahårathå¢ |


ye≤åæ ca tvaæ bahumato bh¥två yåsyasi låghavam || 2.35 ||

bhayåditi | bhayåtkar√ådibhyo ra√ådyuddhåduparataæ nivÿ-


ttaæ maæsyante cintayi≤yanti na kÿpayeti tvåæ mahårathå duryo-
dhanaprabhÿtaya¢ | ye≤åæ ca tvaæ duryodhanådınåæ bahumato
bahubhirgu√airyukta mato bahumato bh¥två punaryåsyasi lågha-
vaæ laghubhåvam || kiæ ca –

avåcyavådåæŸca bah¥nvadi≤yanti tavåhitå¢ |


nindantastava såmarthyaæ tato du¢khataraæ nu kim || 2.36 ||

avåcyavådåniti | avåcyavådånavaktavyavådåæŸca bah¥naneka-


prakårånvadi≤yanti tavåhitå¢ Ÿatravo nindanta¢ kutsayanta¢ tava
tvadıyaæ såmarthyaæ nivåtakavacådiyuddhanimittam | tata¢ ta-
smånnindåpråpterdu¢khåddu¢khataraæ nu kim | tata¢ ka≤†ataraæ
du¢khaæ nåstıtyartha¢ || yuddhe puna¢ kriyamå√e kar√ådibhi¢ –

hato vå pråpsyasi svargaæ jitvå vå bhok≤yase mahım |


tasmådutti≤†ha kaunteya yuddhåya kÿtaniŸcaya¢ || 2.37 ||

hato veti | hato vå pråpsyasi svargaæ hata¢ sansvargaæ prå-


psyasi | jitvå vå kar√ådıñŸ¥rånbhok≤yase mahım | ubhayathåpi ta-
va låbha evetyabhipråya¢ | yata evaæ tasmådutti≤†ha kaunteya yu-
794 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 2.37

ddhåya kÿtaniŸcayo je≤yåmi Ÿatr¥nmari≤yåmi veti niŸcayaæ kÿtve-


tyartha¢ || tatra yuddhaæ svadharma ityevaæ yudhyamånasyopa-
deŸamimaæ Ÿÿ√u –

sukhadu¢khe same kÿtvå låbhålåbhau jayåjayau |


tato yuddhåya yujyasva naivaæ påpamavåpsyasi || 2.38 ||

sukhadu¢khe iti | sukhadu¢khe same tulye kÿtvå rågadve≤åva-


kÿtvetyetat | tathå låbhålåbhau jayåjayau ca samau kÿtvå tato yu-
ddhåya yujyasva | naivaæ yuddhaæ kurvanpåpamavåpsyasıtye≤a
upadeŸa¢ pråsa§gika¢ || Ÿokamohåpanayanåya laukiko nyåya¢
“svadharmamapi cåvek≤ya” (bha. gı. 2.31) ityådyai¢ Ÿlokairukto na
tu tåtparye√a | paramårthadarŸanaæ tviha prakÿtaæ taccoktamupa-
saæhriyata e≤å te ’bhihiteti Ÿåstravi≤ayavibhågapradarŸanåya | iha
hi pradarŸite puna¢ Ÿåstravi≤ayavibhåga upari≤†åt “jñånayogena
så§khyånåæ karmayogena yoginåm” (bha. gı. 3.3) iti ni≤†hådvaya-
vi≤ayaæ Ÿåstraæ sukhaæ pravarti≤yate ŸrotåraŸca vi≤ayavibhågena
sukhaæ grahı≤yantıtyata åha –

e≤å te ’bhihitå så§khye buddhiryoge tvimåæ Ÿÿ√u |


buddhyå yukto yayå pårtha karmabandhaæ prahåsyasi || 2.39 ||

e≤å ta iti | e≤å te tubhyamabhihitoktå så§khye paramårthavastu-


vivekavi≤aye buddhirjñånaæ såk≤åcchokamohådisaæsårahetudo≤a-
nivÿttikåra√am | yoge tu tatpråptyupåye ni¢sa§gatayå dvandvapra-
hå√ap¥rvakamıŸvarårådhanårthe karmayoge karmånu≤†håne samå-
dhiyoge cemåmanantaramevocyamånåæ buddhiæ Ÿÿ√u | tåæ bu-
ddhiæ stauti prarocanårthaæ buddhyå yayå yogavi≤ayayå yukto he
pårtha karmabandhaæ karmaiva dharmådharmåkhyo bandha¢ ka-
rmabandhastaæ prahåsyasıŸvaraprasådanimittajñånapråptyaiva i-
tyabhipråya¢ || kiæ cånyat –

nehåbhikramanåŸo ’sti pratyavåyo na vidyate |


svalpamapyasya dharmasya tråyate mahato bhayåt || 2.40 ||

neheti | neha mok≤amårge karmayoge ’bhikramanåŸo ’bhikra-


ma√amabhikrama¢ pråraæbhastasya nåŸo nåsti yathå kÿ≤yåde¢ |
2.43 dvitıyo ’dhyåya¢ 795

yogavi≤aye pråraæbhasya nånaikåntikaphalatvamityartha¢ | kiæ


ca nåpi cikitsåvatpratyavåyo vidyate bhavati | kiæ tu svalpamapya-
sya dharmasya yogadharmasyånu≤†hitaæ tråyate rak≤ati mahato
bhayåtsaæsårabhayåjanmamara√ådilak≤a√åt || yeyaæ så§khye bu-
ddhiruktå yoge ca vak≤yamå√alak≤a√å så –

vyavasåyåtmikå buddhirekeha kurunandana |


bahuŸåkhå hyanantåŸca buddhayo ’vyavasåyinåm || 2.41 ||
vyavasåyeti | vyavasåyåtmikå niŸcayasvabhåvaikaiva buddhiri-
taraviparıtabuddhiŸåkhåbhedasya bådhikå samyakpramå√ajanita-
tvådiha Ÿreyomårge he kurunandana | yå¢ punaritarå buddhayo
yåsåæ ŸåkhåbhedapracåravaŸådananto ’påro ’nuparata¢ saæsåro
nityapratato vistır√o bhavati | pramå√ajanitavivekabuddhinimitta-
vaŸåccoparatåsvanantabhedabuddhi≤u saæsåro ’pyuparamate | tå
buddhayo bahuŸåkhå bahvya¢ Ÿåkhå yåsåæ tå bahuŸåkhå bahubhe-
då ityetat | pratiŸåkhåbhedena hyanantåŸca buddhaya¢ | ke≤åma-
vyavasåyinåæ pramå√ajanitavivekabuddhirahitånåmityartha¢ ||
ye≤åæ vyavasåyåtmikå buddhirnåsti te –

yåmimåæ pu≤pitåæ våcaæ pravadantyavipaŸcita¢ |


vedavådaratå¢ pårtha nånyadastıti vådina¢ || 2.42 ||
yåmiti | yåmimåæ vak≤yamå√åæ pu≤pitåæ pu≤pitavÿk≤a iva
Ÿobhamånåæ Ÿr¥yamå√arama√ıyåæ våcaæ våkyalak≤a√åæ prava-
danti | ke | avipaŸcito ’lpamedhaso ’vivekina ityartha¢ | vedavåda-
ratå bahvarthavådaphalasådhanaprakåŸake≤u vedavåkye≤u ratå he
pårtha nånyatsvargapaŸvådiphalasådhanebhya¢ karmabhyo ’stıtye-
vaæ vådino vadanaŸılå¢ || te ca –

kåmåtmåna¢ svargaparå janmakarmaphalapradåm |


kriyåviŸe≤abahulåæ bhogaiŸvaryagatiæ prati || 2.43 ||
kåmåtmåna iti | kåmåtmåna¢ kåmasvabhåvå¢ kåmaparå itya-
rtha¢ | svargaparå¢ svarga¢ para¢ puru≤årtho ye≤åæ te svargaparå¢
svargapradhånå¢ | janmakarmaphalapradåæ karma√a¢ phalaæ ka-
rmaphalaæ janmaiva karmaphalaæ janmakarmaphalaæ tatprada-
dåtıti janmakarmaphalapradå tåæ våcaæ pravadantıtyanu≤ajyate |
796 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 2.43

kriyåviŸe≤abahulåæ kriyå√åæ viŸe≤å¢ kriyåviŸe≤åste bahulå ya-


syåæ våci tåæ svargapaŸuputrådyarthå yayå våcå båhulyena pra-
kåŸyante | bhogaiŸvaryagatiæ prati bhogaŸcaiŸvaryaæ ca bhogai-
Ÿvarye tayorgati¢ pråptirbhogaiŸvaryagatiståæ prati sådhanabh¥tå
ye kriyåviŸe≤åstadbahulåæ tåæ våcaæ pravadanto m¥ƒhå¢ saæså-
re parivartanta ityabhipråya¢ || te≤åæ ca –

bhogaiŸvaryaprasaktånåæ tayåpahÿtacetasåm |
vyavasåyåtmikå buddhi¢ samådhau na vidhıyate || 2.44 ||

bhogeti | bhogaiŸvaryaprasaktånåæ bhoga¢ kartavyamaiŸva-


ryaæ ceti bhogaiŸvaryayoreva pra√ayavatåæ tadåtmabh¥tånåæ ta-
yå kriyåviŸe≤abahulayå våcåpahÿtacetasåmåcchåditavivekaprajñå-
nåæ vyavasåyåtmikå såækhye yoge vå yå buddhi¢ så samådhau
samådhıyate ’sminpuru≤opabhogåya sarvamiti samådhiranta¢kara-
√aæ buddhistasminsamådhau na vidhıyate na bhavatıtyartha¢ || ya
evaæ vivekabuddhirahitåste≤åæ kåmåtmanåæ yatphalaæ tadåha –

traigu√yavi≤ayå vedå nistraigu√yo bhavårjuna |


nirdvandvo nityasattvastho niryogak≤ema åtmavån || 2.45 ||

traigu√yeti | traigu√yavi≤ayåstraigu√yaæ saæsåro vi≤aya¢ pra-


kåŸayitavyo ye≤åæ te vedåstraigu√yavi≤ayå¢ | tvaæ tu nistraigu-
√yo bhavårjuna ni≤kåmo bhavetyartha¢ | nirdvandva¢ sukhadu¢-
khahet¥ sapratipak≤au padårthau dvandvaŸabdavåcyau tato nirgato
nirdvandvo bhava | tvaæ nityasattvastha¢ sadåsattvagu√åŸrito bha-
va | tathå niryogak≤emo ’nupåttasyopådånaæ yoga¢ | upåttasya ra-
k≤a√aæ k≤ema¢ | yogak≤emapradhånasya Ÿreyasi pravÿttirdu≤kare-
tyato niryogak≤emo bhava | åtmavånapramattaŸca bhava | e≤a tavo-
padeŸa¢ svadharmamanuti≤†hata¢ || sarve≤u vedokte≤u karmasu yå-
nyuktånyanantåni phalåni tåni nåpek≤yante cetkimarthaæ tånıŸva-
råyetyanu≤†hıyanta ityucyate Ÿÿ√u –

yåvånartha udapåne sarvata¢saæplutodake |


tåvånsarve≤u vede≤u bråhma√asya vijånata¢ || 2.46 ||
2.48 dvitıyo ’dhyåya¢ 797

yåvåniti | yathå loke k¥pataƒågådyanekasminnudapåne pari-


cchinnodake yåvånyåvatparimå√a¢ snånapånådirartha¢ phalaæ
prayojanaæ sa sarvo ’rtha¢ sarvata¢saæplutodake ’pi tåvåneva
saæpadyate tatråntarbhavatıtyartha¢ | evaæ tåvåæståvatparimå√a
eva saæpadyate sarve≤u vede≤u vedokte≤u karmasu yo ’rtho yatka-
rmaphalaæ so ’rtho bråhma√asya saænyåsina¢ paramårthatattvaæ
vijånato yo ’rtho yadvijñånaphalaæ sarvata¢saæplutodakasthånı-
yaæ tasmiæståvåneva saæpadyate tatraivåntarbhavatıtyartha¢ |
“yathå kÿtåya vijitåyådhareyå¢ saæyantyevamenaæ sarvaæ tada-
bhisameti yatkiæ ca prajå¢ sådhu kurvanti yastadveda yatsa veda”
(chå. 4.1.4) iti Ÿrute¢ | “sarvaæ karmåkhilaæ” (bha. gı. 4.33) iti ca
vak≤yati | tasmåtprågjñånani≤†hådhikårapråpte¢ karma√yadhikÿte-
na k¥pataƒågådyarthasthånıyamapi karma kartavyam || tava ca –

karma√yevådhikåraste må phale≤u kadåcana |


må karmaphalaheturbh¥rmå te sa§go ’stvakarma√i || 2.47 ||

karma√ıti | karma√yevådhikåro na jñånani≤†håyåæ te tava | ta-


tra ca karma kurvato må phale≤vadhikåro ’stu karmaphalatÿ≤√å må
bh¥tkadåcana kasyåñcidapyavasthåyåmityartha¢ | yadå karmapha-
le tÿ≤√å te syåttadå karmaphalapråpterhetu¢ syå¢ | evaæ må ka-
rmaphalaheturbh¥¢ | yadå hi karmaphalatÿ≤√åprayukta¢ karma√i
pravartate tadå karmaphalasyaiva janmano heturbhavet | yadi ka-
rmaphalaæ ne≤yate kiæ karma√å du¢khar¥pe√eti må te tava saæ-
go ’stvakarma√yakara√e prıtirmå bh¥t || yadi karmaphalaprayu-
ktena na kartavyaæ karma kathaæ tarhi kartavyamityucyate –

yogastha¢ kuru karmå√i sa§gaæ tyaktvå dhanañjaya |


siddhyasiddhyo¢ samo bh¥två samatvaæ yoga ucyate || 2.48 ||

yogastha iti | yogastha¢ sankuru karmå√i kevalamıŸvarårthaæ


tatråpıŸvaro me tu≤yatviti sa§gaæ tyaktvå dhanaæñjaya | phalatÿ-
≤√埥nyena kriyamå√e karma√i sattvaŸuddhijå jñånapråptilak≤a√å
siddhistadviparyayajå ’siddhistayo¢ siddhyasiddhyorapi samastu-
lyo bh¥två kuru karmå√i | ko ’sau yogo yatrastha¢ kurvityuktam |
idameva tatsiddhyasiddhyo¢ samatvaæ yoga ucyate || yatpuna¢
798 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 2.48

samatvabuddhiyuktamıŸvarårådhanårthaæ karmoktametasmåtka-
rma√a¢ –

d¥re√a hyavaraæ karma buddhiyogåddhanañjaya |


buddhau Ÿara√amanviccha kÿpa√å¢ phalahetava¢ || 2.49 ||

d¥re√eti | d¥re√åtiviprakar≤e√a hyavaraæ nikÿ≤†aæ karma


phalårthinå kriyamå√aæ buddhiyogåtsamatvabuddhiyuktåtkarma-
√o janmamara√ådihetutvåddhanañjaya | yata evaæ tato yogavi≤a-
yåyåæ buddhau tatparipåkajåyåæ vå så§khyabuddhau Ÿara√amå-
Ÿrayamabhayapråptikåra√amanviccha prårthayasva paramårthajñå-
naŸara√o bhavetyartha¢ | yato ’varaæ karma kurvå√å¢ kÿpa√å dı-
nå¢ phalahetava¢ phalatÿ≤√åprayuktå¢ santa¢ “yo vå etadak≤araæ
gårgyaviditvåsmållokåtpraiti sa kÿpa√a¢” (bÿ. 3.8.10) iti Ÿrute¢ || sa-
matvabuddhiyukta¢ sansvadharmamanuti≤†hanyatphalaæ pråpnoti
tacchÿ√u –

buddhiyukto jahåtıha ubhe sukÿta du≤kÿte |


tasmådyogåya yujyasva yoga¢ karmasu kauŸalam || 2.50 ||

buddhıti | buddhiyukta¢ samatvavi≤ayayå buddhyå yukto bu-


ddhiyukto jahåti parityajatıhåsmiælloka ubhe sukÿtadu≤kÿte pu-
√yapåpe sattvaŸuddhijñånapråptidvåre√a yatastasmåtsamatvabu-
ddhiyogåya yujyasva gha†asva | yogo hi karmasu kauŸalaæ svadha-
rmåkhye≤u karmasu vartamånasya yå siddhyasiddhyo¢ samatva-
buddhirıŸvarårpitacetastayå tatkauŸalaæ kuŸalabhåva¢ | taddhi kau-
Ÿalaæ yadbandhanasvabhåvånyapi karmå√i samatvabuddhyå sva-
bhåvånnivartante | tasmåtsamatvabuddhiyukto bhava tvam || ya-
småt –

karmajaæ buddhiyuktå hi phalaæ tyaktvå manı≤i√a¢ |


janmabandhavinirmuktå¢ padaæ gacchantyanåmayam || 2.51 ||

karmajamiti | karmajaæ phalaæ tyaktveti vyavahitena saæba-


ndha¢ | i≤†åni≤†adehapråpti¢ karmajaæ phalaæ karmabhyo jåtam |
buddhiyuktå¢ samatvabuddhiyuktå hi yasmåtphalaæ tyaktvå pari-
tyajya manı≤i√o jñånino bh¥två janmabandhavinirmuktå janmaiva
2.54 dvitıyo ’dhyåya¢ 799

bandho janmabandhastena vinirmuktå jıvanta eva janmabandhavi-


nirmuktå¢ santa¢ padaæ paramaæ vi≤√ormok≤åkhyaæ gacchantya-
nåmayaæ sarvopadravarahitamityartha¢ | athavå “buddhiyogåddha-
naæñjaya” (bha. gı. 2.49) ityårabhya paramårthadarŸanalak≤a√aiva
sarvata¢saæplutodakasthånıyå karmayogajasattvaŸuddhijanitå bu-
ddhirdarŸitå såk≤åtsukÿtadu≤kÿtaprahå√ådihetutvaŸrava√åt || yogå-
nu≤†hånajanitasattvaŸuddhijå buddhi¢ kadå pråpsyata ityucyate –
yadå te mohakalilaæ buddhirvyatitari≤yati |
tadå gantåsi nirvedaæ Ÿrotavyasya Ÿrutasya ca || 2.52 ||
yadeti | yadå yasminkåle te tava mohakalilaæ mohåtmakama-
vivekar¥paæ kålu≤yaæ yenåtmånåtmavivekabodhaæ kalu≤ıkÿtya
vi≤ayaæ pratyanta¢kara√aæ pravartate tattava buddhirvyatitari-
≤yati vyatikrami≤yatyatiŸuddhabhåvamåpatsyata ityartha¢ | tadå
tasminkåle gantåsi pråpsyasi nirvedaæ vairågyaæ Ÿrotavyasya Ÿru-
tasya ca tadå Ÿrotavyaæ Ÿrutaæ ca te ni≤phalaæ pratipadyata itya-
bhipråya¢ || mohakalilåtyayadvåre√a labdhåtmavivekajaprajña¢ ka-
då karmayogajaæ phalaæ paramårthayogamavåpsyasıti cettacchÿ-
√u –

Ÿrutivipratipannå te yadå sthåsyati niŸcalå |


samådhåvacalå buddhistadå yogamavåpsyasi || 2.53 ||
Ÿrutivipratipanneti | Ÿrutivipratipanno ’nekasådhyasådhanasaæ-
bandhaprakåŸanaŸrutibhi¢ Ÿrava√airvipratipannå nånåpratipannå
vik≤iptå satı te tava buddhiryadå yasminkåle sthåsyati sthirıbh¥tå
bhavi≤yati niŸcalå vik≤epacalanavarjitå satı samådhau samådhıyate
cittamasminniti samådhiråtmå tasminnåtmanıtyetat | acalå tatråpi
vikalpavarjitetyetat | buddhiranta¢kara√am | tadå tasminkåle yo-
gamavåpsyasi vivekaprajñåæ samådhiæ pråpsyasi || praŸnabıjaæ
pratilabhya labdhasamådhiprajñasya lak≤a√abubhutsayå arjuna u-
våca –

arjuna uvåca –

sthitaprajñasya kå bhå≤å samådhisthasya keŸava |


sthitadhı¢ kiæ prabhå≤eta kimasıta vrajeta kim || 2.54 ||
800 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 2.54

sthitaprajñasyeti | sthitå prati≤†hitå ’hamasmi paraæ brahmeti


prajñå yasya sa sthitaprajñastasya kå bhå≤å kiæ bhå≤a√aæ vaca-
naæ kathamasau parairbha≤yate samådhisthasya samådhau sthita-
sya he keŸava | sthitadhı¢ sthitaprajña¢ svayaæ vå kiæ prabha≤e-
ta | kimåsıta vrajeta kimåsanaæ vrajanaæ vå tasya kathamitya-
rtha¢ | sthitaprajñasya lak≤a√amanena Ÿlokena pÿcchati || yo hyå-
dita eva saænyasya karmå√i jñånayogani≤†håyåæ pravÿtto yaŸca
karmayoge√a tayo¢ prajahåtıtyårabhyådhyayaparisamåptiparya-
ntaæ sthitaprajñalak≤a√aæ sådhanaæ copadiŸyate | sarvatraiva hya-
dhyåtmaŸåstre kÿtårthalak≤a√åni yåni tånyeva sådhanånyupadiŸya-
nte yatnasådhyatvådyåni yatnasådhyåni sådhanåni lak≤a√åni ca
bhavanti tåni Ÿrıbhagavånuvåca –

Ÿrıbhagavånuvåca –

prajahåti yadå kåmånsarvånpårtha manogatån |


åtmanyevåtmanå tu≤†a¢ sthitaprajñastadocyate || 2.55 ||
prajahåtıti | prajahåti prakar≤e√a jahåti parityajati yadå yasmi-
nkåle sarvånsamastånkåmånicchabhedånhe pårtha manogatånma-
nasi pravi≤†ånhÿdi pravi≤†ån | sarvakåmaparityåge tu≤†ikåra√åbhå-
våccharıradhåra√ånimittaŸe≤e ca satyunmattapramattasyeva pravÿ-
tti¢ pråptetyata ucyate – åtmanyeva pratyagåtmasvar¥pa evåtma-
nå svenaiva båhyalabhanirapek≤astu≤†a¢ paramårthadarŸanåmÿta-
rasalabhenånyasmådalaæpratyayavånsthitaprajña¢ sthitå pratisthi-
tåtmånåtmavivekajå prajñå yasya sa sthitaprajño vidvåæstadocya-
te | tyaktaputravittalokai≤a√a¢ saænyåsyåtmåråma åtmakrıƒa¢ sthi-
taprajña ityartha¢ || kiæ ca –

du¢khe≤vanudvignamanå¢ sukhe≤u vigataspÿha¢ |


vıtarågabhayakrodha¢ sthitadhırmunirucyate || 2.56 ||
du¢khe≤viti | du¢khe≤vådhyåtmikådi≤u pråpte≤u nodvignaæ
na prak≤ubhitaæ du¢khapråptau mano yasya so ’yamanudvigna-
manå¢ | tathå sukhe≤u pråpte≤u vigatå spÿhå tÿ≤√å yasya någniri-
vendhanådyådhane sukhånyanu vivardhate sa vigataspÿha¢ | vıta-
rågabhayakrodho rågaŸca bhayaæ ca krodhaŸca vıtå vigatå yasmå-
2.59 dvitıyo ’dhyåya¢ 801

tsa vıtarågabhayakrodha¢ sthitadhı¢ sthitaprajño muni¢ saænyåsı


tadocyate || kiæ ca –

ya¢ sarvatrånabhisnehastattatpråpya ŸubhåŸubham |


nåbhinandati na dve≤†i tasya prajñå prati≤†hitå || 2.57 ||

ya¢ sarvatreti | yo muni¢ sarvatra dehajıvitådi≤vapyanabhisne-


ho ’bhisnehavarjita¢ tattatpråpya ŸubhåŸubhaæ vå labdhvå nåbhi-
nandati na dve≤†i Ÿubhaæ pråpya na tu≤yati na hÿ≤yatyaŸubhaæ ca
pråpya dve≤†ıtyartha¢ | tasyaiva har≤avi≤ådavarjitasya vivekajå pra-
jñå prati≤†hitå bhavati || kiæ ca –

yadå saæharate cåyaæ k¥rmo ’§gånıva sarvaŸa¢ |


indriyå√ındriyårthebhyastasya prajñå prati≤†hitå || 2.58 ||

yadå saæharata iti | yadå saæharate samyagupasaæharate cå-


yaæ jñånani≤†håyåæ pravÿtto yati¢ k¥rmo ’§gånıva yathå k¥rmo
bhayåtsvånya§gånyupasaæharati sarvaŸa¢ sarvata evaæ jñånani-
≤†ha indriyå√ındriyårthebhya¢ sarvavi≤ayebhya upasaæharate | ta-
sya prajñå prati≤†hitetyuktårthaæ våkyam || tatra vi≤ayånanåhara-
ta åturasyåpındriyå√i k¥rmå§gånıva saæhriyante na tu tadvi≤ayo
råga¢ | sa kathaæ saæhriyata iti ucyate –

vi≤ayå vinivartante niråhårasya dehina¢ |


rasavarjaæ raso ’pyasya paraæ dÿ≤†vå nivartate || 2.59 ||

vi≤ayå iti | yadyapi vi≤ayopalak≤itåni vi≤ayaŸabdavåcyånındri-


yå√yathavå vi≤ayå eva niråhårasyånåhriyamå√avi≤ayasya ka≤†e ta-
pasi sthitasya m¥rkhasyåpi vinivartante dehino dehavato rasava-
rjaæ raso rågo vi≤aye≤u yastaæ varjayitvå | rasaŸabdo råge prasi-
ddha¢ svarasena pravÿtto rasiko rasajña ityådidarŸanåt | so ’pi raso
rañjanar¥pa¢ s¥k≤mo ’sya yate¢ paraæ paramårthatattvaæ bra-
hma dÿ≤†vopalabhyåhameva taditi vartamånasya nivartate nirbıjaæ
vi≤ayavijñånaæ saæpadyata ityartha¢ | nåsati samyagdarŸane rasa-
syoccheda¢ | tasmåtsamyagdarŸanåtmikåyå¢ prajñåyå¢ sthairyaæ
kartavyamityabhipråya¢ || samyagdarŸanalak≤a√aprajñåsthairyaæ
802 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 2.59

cikır≤atådåvindriyå√i svavaŸe sthåpayitavyåni yasmåttadanavasthå-


pane do≤amåha –

yatato hyapi kaunteya puru≤asya vipaŸcita¢ |


indriyå√i pramåthıni haranti prasabhaæ mana¢ || 2.60 ||

yatata iti | yatata¢ prayatnaæ kurvato hi yasmåtkaunteya pu-


ru≤asya vipaŸcito medhåvino ’pıti vyavahitena saæbandha¢ | indri-
yå√i pramåthıni pramathanaŸılåni vi≤ayåbhimukhaæ hi puru≤aæ
vik≤obhayantyåkulıkurvanti | åkulıkÿtya ca haranti prasabhaæ pra-
sahya prakåŸameva paŸyato vivekavijñånayuktaæ mana¢ || yata-
stasmåt –

tåni sarvå√i saæyamya yukta åsıta matpara¢ |


vaŸe hi yasyendriyå√i tasya prajñå prati≤†hitå || 2.61 ||

tånıti | tåni sarvå√i saæyamya saæyamanaæ vaŸıkara√aæ kÿ-


två yukta¢ samåhita¢ sannåsıta matparo ’haæ våsudeva¢ sarvapra-
tyagåtmå paro yasya sa matparo nånyo ’haæ tasmådityåsıtetya-
rtha¢ | evamåsınasya yatervaŸe hi yasyendriyå√i vartante ’bhyåsa-
balåttasya prajñå prati≤†hitå || athedånıæ paråbhavi≤yata¢ sarvåna-
rtham¥lamidamucyate –

dhyåyato vi≤ayånpuæsa¢ sa§gaste≤¥pajåyate |


sa§gåtsañjåyate kåma¢ kåmåtkrodho ’bhijåyate || 2.62 ||

dhyåyata iti | dhyåyataŸcintayato vi≤ayåñchabdådınvi≤ayaviŸe-


≤ånålocayata¢ puæsa¢ puru≤asya sa§ga åsakti¢ prıtiste≤u vi≤aye≤¥-
pajåyate utpadyate | sa§gåtprıte¢ samutpadyate kåmastÿ≤√å | kå-
måtkutaŸcitpratihatåtkrodho ’bhijåyate ||

krodhådbhavati saæmoha¢ saæmohåtsmÿtivibhrama¢ |


smÿtibhraæŸådbuddhinåŸo buddhinåŸåtpra√aŸyati || 2.63 ||

krodhåditi | krodhådbhavati saæmoho ’viveka¢ kåryåkåryavi-


≤aya¢ | kruddho hi saæm¥ƒha¢ sangurumapyåkro≤ati | saæmohå-
tsmÿtivibhrama¢ ŸåstråcåryopadeŸåhitasaæskårajanitåyå¢ smÿte¢
2.66 dvitıyo ’dhyåya¢ 803

syådvibhramo bhraæŸa¢ smÿtyutpattinimittapråptåvanutpatti¢ | ta-


ta¢ smÿtibhraæŸådbuddhinåŸa¢ | buddhernåŸa¢ | kåryåkåryavi≤a-
yavivekåyogyatånta¢kara√asya buddhernåŸa ucyate | buddhinåŸå-
tpra√aŸyati | tåvadeva hi puru≤o yåvadanta¢kara√aæ tadıyaæ kå-
ryåkåryavi≤ayavivekayogyaæ tadayogyatve na≤†a eva puru≤o bha-
vati | ata¢ tasyånta¢kara√asya buddhernåŸåtpra√aŸyati puru≤årthå-
yogyo bhavatıtyartha¢ || sarvånarthasya m¥lamuktaæ vi≤ayåbhi-
dhyånam | athedånıæ mok≤akåra√amidamucyate –

rågadve≤aviyuktaistu vi≤ayånindriyaiŸcaran |
åtmavaŸyairvidheyåtmå prasådamadhigacchati || 2.64 ||

rågadve≤eti | rågadve≤aviyuktai rågaŸca dve≤aŸca rågadve≤au |


tatpura¢sarå hındriyå√åæ pravÿtti¢ svåbhåvikı | tatra yo mumu-
k≤urbhavati sa tåbhyåæ viyuktai¢ Ÿrotrådibhirindriyairvi≤ayånava-
rjanıyåæŸcarannupalabhamåna åtmavaŸyairåtmano vaŸyåni vaŸı-
bh¥tånındriyå√i tairåtmavaŸyairvidheyåtmecchato vidheya åtmå a-
nta¢kara√aæ yasya so ’yaæ prasådamadhigacchati | prasåda¢ pra-
sannatå svåsthyam || prasåde sati kiæ syådityucyate –

prasåde sarvadu¢khånåæ hånirasyopajåyate |


prasannacetaso hyåŸu buddhi¢ paryavati≤†hate || 2.65 ||

prasåde iti | prasåde sarvadu¢khånåmådhyåtmikådınåæ håni-


rvinåŸo ’sya yaterupajåyate | kiæ ca prasannacetasa¢ svasthånta¢-
kara√asya hi yasmådåŸu Ÿıghraæ buddhi¢ paryavati≤†hata åkåŸami-
va pari samantådavati≤†hata åtmasvar¥pe√aiva niŸcalıbhavatıtya-
rtha¢ | evaæ prasannacetaso ’vasthitabuddhe¢ kÿtakÿtyatå yatasta-
smådrågadve≤aviyuktairindriyai¢ Ÿåstråviruddhe≤vavarjanıye≤u yu-
kta¢ samåcarediti våkyårtha¢ || seyaæ prasannatå st¥yate –

nåsti buddhirayuktasya na cåyuktasya bhåvanå |


na cåbhåvayata¢ ŸåntiraŸåntasya kuta¢ sukham || 2.66 ||

nåstıti | nåsti na vidyate na bhavatıtyartha¢ | buddhiråtmasva-


r¥pavi≤ayå ’yuktasyåsamåhitånta¢kara√asya | na cåstyayuktasya
bhåvanå ’’tmajñånåbhiniveŸa¢ | tathå na cåstyabhåvayata åtmajñå-
804 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 2.66

nåbhiniveŸamakurvata¢ ŸåntirupaŸamo ’Ÿåntasya kuta¢ sukham | i-


ndriyå√åæ hi vi≤ayasevåtÿ≤√åto nivÿttiryå tatsukhaæ na vi≤ayavi-
≤ayå tÿ≤√å du¢khameva hi så | na tÿ≤√åyåæ satyåæ sukhasya gandha-
måtramapyupapadyata ityartha¢ || ayuktasya kasmådbuddhirnåstı-
tyucyate –

indriyånåæ hi caratåæ yanmano ’nuvidhıyate |


tadasya harati prajñåæ våyurnåvamivåmbhasi || 2.67 ||

indriyå√åmiti | indriyå√åæ hi yasmåccaratåæ svasvavi≤aye≤u


pravartamånånåæ yanmano ’nuvidhıyate ’nupravartate tadindriya-
vi≤ayavikalpanena pravÿttaæ mano ’sya yaterharati prajñåmåtmå-
nåtmavivekajåæ nåŸayati | katham | våyurnåvamivåmbhasyudake
jigami≤atåæ mårgåduddhÿtyonmårge yathå våyurnåvaæ pravarta-
yatyevamåtmavi≤ayåæ prajñåæ hÿtvå mano vi≤ayavi≤ayåæ karoti ||
“yatato hyapi” (bha. gı. 1.60) ityupanyastasyårthasyånekadhopapa-
ttimuktvå taæ cårthamupapådyopasaæharati –

tasmådyasya mahåbaho nigÿhıtåni sarvaŸa¢ |


indriyå√ındriyårthebhyastasya prajñå prati≤†hitå || 2.68 ||

tasmåditi | indriyå√åæ pravÿttau do≤a upapådito yasmåttasmå-


dyasya yaterhe mahåbåho nigÿhıtåni sarvaŸa¢ sarvaprakårairmåna-
sådibhedairindriyå√ındriyårthebhya¢ Ÿabdådibhya¢ tasya prajñå
prati≤†hitå || yo ’yaæ laukiko vaidikaŸca vyavahåra¢ sa utpannavi-
vekajñånasya sthitaprajñasyåvidyåkåryatvådavidyånivÿttau nivarta-
te | avidyåyåŸca vidyåvirodhånnivÿttirityetamarthaæ sphu†ıkurva-
nnåha –

yå niŸå sarvabh¥tånåæ tasyåæ jågarti saæyamı |


yasyåæ jågrati bh¥tåni så niŸå paŸyato mune¢ || 2.69 ||

yå niŸeti | yå niŸå råtri¢ sarvapadårthånåmavivekakarı tama¢-


svabhåvatvåtsarvabh¥tånåæ sarve≤åæ bh¥tånåm | kiæ tatparamå-
rthatattvaæ sthitaprajñasya vi≤aya¢ | yathå naktañcarå√åmahareva
sadanye≤åæ niŸå bhavati tadvannaktañcarasthånıyånåmajñånåæ sa-
rvabh¥tånåæ niŸeva niŸå paramårthatattvamagocaratvådatadbu-
2.70 dvitıyo ’dhyåya¢ 805

ddhınåm | tasyåæ paramårthatattvalak≤a√åyåmajñånanidråta¢ pra-


buddho jågarti saæyamı saæyamavåñjitendriyo yogıtyartha | ya-
syåæ gråhyagråhakabhedalak≤a√åyåmavidyåniŸåyåæ prasuptånye-
va bh¥tåni jågratıtyucyate yasyåæ niŸåyåæ prasuptå iva svapnadÿ-
Ÿa¢ så niŸå ’vidyår¥patvåtparamårthatattvaæ paŸyato mune¢ || ata¢
karmå√yavidyåvasthåyåmeva codyante na vidyåvasthåyåm | vi-
dyåyåæ hi satyåmudite savitari Ÿårvaramiva tama¢ pra√åŸamupa-
gacchatyavidyå | prågvidyotpatteravidyå pramå√abuddhyå gÿhya-
må√å kriyåkåraphalabhedar¥på satı sarvakarmahetutvaæ pratipa-
dyate | nåpramå√abuddhyå gÿhyamå√åyå¢ karmahetutvopapatti¢ |
pramå√abh¥tena vedena mama coditaæ kartavyaæ karmeti hi ka-
rma√i kartå pravartate nåvidyåmåtramidaæ sarvaæ niŸeveti || ya-
sya punarniŸevåvidyåmatramidaæ sarvaæ bhedajåtamiti jñånaæ
tasyå ’’tmajñasya sarvakarmasaænyåsa evådhikåro na pravÿttau |
tathå ca darŸayi≤yati “tadbuddhayastadåtmana¢” (bha. gı. 5.17) i-
tyådinå jñånani≤†håyåmeva tasyådhikåram | tatråpi pravartakapra-
må√åbhåve pravÿttyanupapattiriti cenna | svåtmavi≤ayatvådåtma-
jñånasya | na hyåtmana¢ svåtmani pravartakapramå√åpek≤atå ’’tma-
tvådeva | tadantatvåcca sarvapramå√ånåæ pramå√atvasya | na hyå-
tmasvar¥pådhigame sati puna¢ pramå√aprameyavyavahåra¢ saæ-
bhavati | pramåtÿtvaæ hyåtmano nivartayatyantyaæ pramå√am |
nivartayadeva cåpramå√ıbhavati svapnakålapramå√åmiva prabo-
dhe | loke ca vastvadhigame pravÿttihetutvådarŸanåtpramå√asya |
tasmånnå ’’tmavida¢ karma√yadhikåra iti siddham || vidu≤astya-
ktai≤a√asya sthitaprajñasya yatereva mok≤apråptirna tvasaænyåsi-
na¢ kåmakåmina ityetamarthaæ dÿ≤†åntena pratipådayi≤yannåha –

åp¥ryamå√amacalaprati≤†haæ
samudramåpa¢ praviŸanti yadvat |
tadvatkåmå yaæ praviŸanti sarve
sa Ÿåntimåpnoti na kåmakåmı || 2.70 ||

åp¥ryeti | åp¥ryamå√amadbhiracalaprati≤†hamacalatayå prati-


≤†hå ’vasthitiryasya tamacalaprati≤†haæ samudramåpa¢ sarvatoga-
tå¢ praviŸanti svåtmasthamavikriyameva santaæ yadvattadvatkå-
må vi≤ayasaænidhåvapi sarvata icchaviŸe≤å yaæ puru≤aæ samu-
dramivåpo ’vikurvanta¢ praviŸanti sarva åtmanyeva pralıyante na
806 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 2.70

svåtmavaŸaæ kurvanti sa Ÿåntiæ mok≤amåpnoti netara¢ kåmakåmı


kåmyanta iti kåmå vi≤ayåstånkåmayituæ Ÿılaæ yasya sa kåmakåmı
naiva pråpnotıtyartha¢ || yasmådevaæ tasmåt –

vihåya kåmånya¢ sarvånpumåæŸcarati nispÿha¢ |


nirmamo nirahaækåra¢ sa Ÿåntimadhigacchati || 2.71 ||

vihåyeti | vihåya parityajya kåmånya¢ saænyåsı pumåæ sa-


rvånaŸe≤ata¢ kartsnyena carati jıvanamåtrace≤†åŸe≤a¢ parya†atıtya-
rtho nispÿha¢ Ÿarırajıvanamåtre ’pi nirgatå spÿhå yasya sa nispÿha¢
sannirmamo mamatvavarjita¢ Ÿarırajıvanamåtråk≤iptaparigrahe ’pi
mamedamityabhiniveŸavarjita¢ nirahaækåro vidyåvattvådanimittå-
tmasaæbhåvanårahita ityartha¢ | sa evaæbh¥ta¢ sthitaprajño bra-
hmavicchåntiæ sarvasaæsåradu¢khoparamalak≤a√åæ nirvå√åkhyå-
madhigacchati pråpnoti brahmabh¥to bhavatıtyartha¢ || sai≤å jñå-
nani≤†hå st¥yate –
e≤å bråhmı sthiti¢ pårtha nainåæ pråpya vimuhyati |
sthitvå ’syåmantakåle ’pi brahmanirvå√amÿcchati || 2.72 ||
e≤å brahmıti | e≤å yathoktå bråhmı brahma√i bhaveyaæ sthiti¢
sarvaæ karma saænyasya brahmar¥pe√aivåvasthånamityetat | he
pårtha nainåæ sthitiæ pråpya labdhvå vimuhyati mohaæ na prå-
pnoti | sthitvå ’syåæ sthitau bråhmyåæ yathoktåyåmantakåle ’pya-
nte vayasyapi brahmanirvå√aæ brahmanivÿttiæ moksamÿcchati ga-
cchati | kimu vaktavyaæ brahmacaryådeva saænyasya yåvajjıvaæ
yo brahma√yevåvati≤†hate sa brahmanirvå√amÿcchatıti ||
iti Ÿrımadbhagavadgıtås¥pani≤atsu brahmavidyåyåæ
yogaŸastre Ÿrıkÿ≤√årjunasaævåde
så§khyayogo nåma
dvitıyo ’dhyåya¢

*
atha tÿtıyo ’dhyåya¢

Ÿåstrasya pravÿttinivÿttivi≤ayabh¥te dve buddhı bhagavatå ni-


rdi≤†e så§khye buddhiryoge buddhiriti ca | tatra “prajahåti yadå kå-
mån” (bha. gı. 2.55) ityårabhyå å ’dhyåyaparisamåpte¢ så§khyabu-
ddhyåŸritånåæ saænyåsaæ kartavyamuktvå te≤åæ tanni≤†hatayai-
va ca kÿtårthatoktå “e≤å bråhmı sthiti¢” (bha. gı. 2.72) iti | arjunåya
ca “karmanyevådhikåraste. må te sa§go ’stvakarma√i” (bha. gı. 2.47)
iti karmaiva kartavyamuktavånyogabuddhimåŸritya na tata eva Ÿre-
ya¢pråptimuktavån | tadetadålak≤ya paryåkulıbh¥tabuddhirarju-
na uvåca | kathaæ bhaktåya Ÿreyo ’rthine yatsåk≤åcchreya¢pråpti
sådhanaæ såækhyabuddhini≤†håæ Ÿråvayitvå måæ karma√i dÿ-
≤†ånekånarthayukte påraæparye√åpyanaikåntikaŸreya¢pråptipha-
le niyuñjyåditi yukta¢ paryåkulıbhåvo ’rjunasya tadanur¥paŸca pra-
Ÿno “jyåyası cet” (bha. gı. 3.1) ityådi¢ | praŸnåpåkara√avåkyaæ ca
bhagavatoktaæ yathoktavibhågavi≤aye Ÿåstre || kecittvarjunasya
praŸnårthamanyathå kalpayitvå tatpratik¥laæ bhagavata¢ prativa-
canaæ var√ayanti | yathå cåtmanå saæbandhagranthe nir¥pitasta-
tpratik¥laæ ceha puna¢ praŸnaprativacanayorarthaæ nir¥payanti |
kathaæ tatra saæbandhagranthe tåvatsarve≤åmåŸrami√åæ jñåna-
karma√o samuccayo gıtåŸåstre nir¥pito ’rtha ityuktaæ punarviŸe≤i-
taæ ca yåvajjıvaæ Ÿruticoditåni karmå√i parityajya kevalådeva jñå-
nånmok≤a¢ pråpyata ityetadekåntenaiva prati≤iddhamiti | iha två-
Ÿramavikalpaæ darŸayatå yåvajjıvaæ Ÿruticoditånåmeva karma√åæ
parityåga ukta¢ | tatkathamıdÿŸaæ viruddhamarthamarjunåya br¥-
yådbhagavån | Ÿrotå vå kathaæ viruddhamarthamavadhårayet || ta-
traitatsyåt – gÿhasthånåmeva Ÿrautakarmaparityågena kevalådeva
jñånånmok≤a¢ prati≤idhyate na tvåŸramåntarå√åmiti | etadapi p¥-
rvottaraviruddhameva | kathaæ sarvåŸrami√åæ jñånakarma√o¢ sa-
muccayo gıtåŸåstre niŸcito ’rtha iti pratijñåyeha kathaæ tadviru-
ddhaæ jñanånmok≤aæ br¥yådåŸramåntarå√åm || atha mataæ Ÿrau-
808 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 3.1

takarmåpek≤ayaitadvacanaæ – kevalådeva jñånåcchrautakarmara-


hitådgÿhasthånåæ mok≤a¢ prati≤idhyata – iti | tatra gÿhasthånåæ
vidyamånamapi smårtaæ karmåvidyamånavadupek≤ya jñånådeva
kevalådityucyata iti | etadapi viruddham | kathaæ gÿhasthasyaiva
smårtakarma√å samuccitåjjñånånmok≤a¢ prati≤idyate na tvåŸramå-
ntarå√åmiti kathaæ vivekibhi¢ Ÿakhyamavadhårayitum | kiæ ca
yadi mok≤asådhanatvena smårtåni karmå√y¥rdhvaretasåæ samu-
ccıyante tathå gÿhasthasyåpı≤yatåæ smårtaireva samuccayo na Ÿrau-
tai¢ || atha Ÿrautai¢ smårtaiŸca gÿhasthasyaiva samuccayo mok≤å-
yordhvaretasåæ tu smårtakarmamåtrasamuccitåjjñånånmok≤a i-
ti | tatraivaæ sati gÿhasthasyåyåsabåhulyacchrautaæ smårtaæ ca
bahudu¢khar¥paæ karma Ÿirasyåropitaæ syåt || atha gÿhasthasyai-
våyåsabåhulyakåra√ånmok≤a¢ syånnåŸramåntarå√åæ Ÿrautanitya-
karmarahitatvåditi | tadapyasat | sarvopani≤atsvitihåsapurå√ayoga-
Ÿåstre≤u ca jñånå§gatvena mumuk≤o¢ sarvakarmasaænyåsavidhå-
nådåŸramavikalpasamuccayavidhånåcca Ÿrutismÿtyo¢ || siddhasta-
rhi sarvåŸrami√åæ jñånakarma√o¢ samuccaya¢ | na mumuk≤o¢
sarvakarmasaænyåsavidhånåt | “putrai≤a√åyåŸca vittai≤a√åyåŸca lo-
kai≤a√åyåŸca vyutthåyåtha bhik≤åcaryaæ caranti” (bÿ. 4.4.22) “ta-
smånnyåsame≤åæ tapasåmatiriktamåhu¢” (nå. 4.79) “nyåsa evåtya-
recayat” (nå. 4.78) iti | “na karma√å na prajayå dhanena tyågenaike
’mÿtatvamånaŸu¢” (kai.12, nå. 12.3) iti ca | “brahmacaryådeva pra-
vrajet” (jå. 8) ityådyå¢ Ÿrutaya¢ | “tyaja dharmamadharmaæ ca u-
bhe satyånÿte tyaja | ubhe satyånÿte tyaktvå yena tyajasi tattyaja”
(ma. bhå. 12.329.80, 12.331.88) “saæsåra eva ni¢såraæ dÿ≤†vå såradi-
dÿk≤ayå | pravrajantyakÿtodvåhå¢ paraæ vairagyamåŸrit墔 iti bÿ-
haspati¢ | “karma√å badhyate janturvidyayå ca vimucyate | tasmå-
tkarma na kurvanti yataya¢ påradarŸina¢” (ma. så. 241.7) iti Ÿukå-
nuŸåsanam | ihåpi “sarvakarmå√i manaså saænyasya” (bha. gı. 5.13)
ityådi || mok≤asya cåkåryatvånmumuk≤o¢ karmånarthakyam | ni-
tyåni pratyavåyaparihårårthamanu≤†heyånıti cennåsaænyåsivi≤a-
yatvåtpratyavåyapråpte¢ | na hi agnikåryådyakara√åtsaænyåsina¢
pratyavåya¢ kalpayituæ Ÿakyo yathå brahmacåri√åmasaænyåsinå-
mapi karmi√åm | na tåvannityånåæ karma√åmabhåvådeva bhåva-
r¥pasya pratyavåyasyotpåtti¢ kalpayituæ Ÿakyå yuktå ca “katha-
masata¢ sajjåyeta” (chå. 6.2.2) ityasata¢ sajjanmåsaæbhavaŸrute¢ |
yadi vihitåkara√ådasaæbhavyamapi pratyavåyaæ br¥yådvedastadå
3.1 t®tıyo ’dhyåya¢ 809

’narthakaro vedo ’pramå√åmityuktaæ syådvihitasya kara√åkara√a-


yordu¢khamåtraphalatvåt | tathå ca kårakaæ Ÿåstraæ na jñåpaka-
mityanupapannårthaæ kalpitaæ syåt | na caitadi≤†am | tasmånna
saænyåsinåæ karmå√i | ato jñånakarma√o¢ samuccayånupapatti¢ |
“jyåyası cetkarma√aste matå buddhi¢” (bha. gı. 3.1) ityarjunasya
praŸnånupapatteŸca || yadi hi bhagavatå dvitıye ’dhyåye jñånaæ
karma ca samuccayena tvayånu≤†heyamityuktaæ syåttato ’rjuna-
sya praŸno ’nupapanno “jyåyası cetkarma√aste matå buddhi¢”
(bha. gı. 3.1) iti | arjunåya cedbuddhikarma√ı tvayånu≤†heye ityu-
kte yå karma√o jyåyası buddhi¢ såpi uktaiveti “tatkiæ karma√i
ghore måæ niyojayasi keŸava” (bha. gı. 3.1) iti upålaæbho vå pra-
Ÿno vå na kathaæcanopapadyate | na cårjunasya iva jyåyası bu-
ddhirnånu≤†heyeti bhagavatoktaæ p¥rvamiti kalpayituæ yuktaæ
yena “jyåyası cet” iti vivekata¢ praŸna syåt || yadi punarekasya pu-
ru≤asya jñånakarma√orvirodhådyugapadanu≤†hånaæ na saæbha-
vatıti bhinnapuru≤ånu≤†heyatvaæ bhagavatå p¥rvamuktaæ syåtta-
to ’yaæ praŸna upapanno “jyåyası cet” (bha. gı. 3.1) ityådi¢ | avive-
kata¢ praŸnakalpanåyåmapi bhinnapuru≤ånu≤†heyatvena jñånaka-
rmani≤†hayorbhagavata¢ prativacanaæ nopapadyate | na cåjñåna-
nimittaæ bhagavatprativacanaæ kalpa√ıyam | asmåcca bhinnapu-
ru≤ånu≤†heyatvena jñånakarmani≤†hayorbhagavata¢ prativacana-
darŸanåjjñånakarma√o¢ samuccayånupapatti¢ | tasmåtkevalådeva
jñånånmok≤a itye≤o ’rtho niŸcito gıtåsu sarvopani≤atsu ca || jñåna-
karma√o “ekaæ vada niŸcitya” (bha. gı. 3.2) iti | caikavi≤ayaiva prå-
rthanå ’nupapannobhayo¢ samuccayasaæbhave | “kuru karmaiva
tasmåttvam” (bha. gı. 4.15) iti ca jñånani≤†håsaæbhavamarjunasyå-
vadhåra√ena darŸayi≤yati ||

arjuna uvåca –

jyåyası cetkarma√aste matå buddhirjanårdana |


tatkiæ karma√i ghore måæ niyojayasi keŸava || 3.1 ||

jyåyası cediti | jyåyası Ÿreyası cedyadi karma√a¢ sakåŸåtte tava


matåbhipretå buddhirjñånaæ he janårdana | yadi buddhikarma√ı
samuccite i≤†e tadekaæ Ÿreya¢sådhanamiti karma√o jyåyası bu-
ddhiriti karma√o ’tiriktakara√aæ buddheranupapannamarjunena
810 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 3.1

kÿtaæ syånna hi tadeva tasmåtphalato ’tiriktaæ syåt | tathå ca ka-


rma√a¢ Ÿreyaskarı bhagavatoktå buddhiraŸreyaskaraæ ca karma
kurviti måæ pratipådayati tatkiæ nu kåra√amiti bhagavata upå-
laæbhamiva kurvaæstatkiæ kasmåtkarma√i ghore kr¥re hiæsåla-
k≤a√e måæ niyojayasi keŸaveti ca yadåha tacca nopapadyate | atha
smårtenaiva karma√å samuccaya¢ sarve≤åæ bhagavatokto ’rjunena
cåvadhåritaŸcet “tatkiæ karma√i ghore måæ niyojayasi” ityådi ka-
thaæ yuktaæ vacanam || kiæ ca –

vyåmiŸre√eva våkyena buddhiæ mohayasıva me |


tadekaæ vada niŸcitya yena Ÿreyo ’hamåpnuyåm || 3.2 ||

vyåmiŸre√eti | vyåmiŸre√eva yadyapi viviktåbhidhåyı bhaga-


våæstathåpi mama mandabuddhervyåmiŸramiva bhagavadvåkyaæ
pratibhåti | tena mama buddhiæ mohayasıva | mama buddhivyå-
mohåpanayåya hi pravÿttastvaæ tu kathaæ mohayasyato bravımi
buddhiæ mohayasıva me mameti | tvaæ tu bhinnakartÿkayorjñåna-
karma√orekapuru≤ånu≤†hånåsaæbhavaæ yadi manyase tatraivaæ
sati tattayorekaæ buddhiæ karma vå idamevårjunasya yogyaæ bu-
ddhiŸaktyavasthånar¥pamiti niŸcitya vada br¥hi yena jñånena ka-
rma√å vånyatare√a Ÿreyo ’hamåpnuyåæ pråpnuyåm | yadi hi ka-
rmani≤†håyåæ gu√abh¥tamapi jñånaæ bhagavatoktaæ syåttatka-
thaæ tayorekaæ vadetyeka vi≤ayaivårjunasya ŸuŸr¥≤å syåt | na hi
bhagavatoktaæ “anyataradeva jñånakarma√orvak≤yåmi naiva dva-
yam” iti yenobhayapråptyasaæbhavamåtmano manyamåna ekameva
prårthayet || praŸnånur¥pameva prativacanaæ Ÿrıbhagavånuvåca –

Ÿrıbhagavånuvåca –

loke ’smindvividhå ni≤†hå purå proktå mayånagha |


jñånayogena så§khyånåæ karmayoge√a yoginåm || 3.3 ||

loke ’sminniti | loke ’smiñŸåstrårthånu≤†hånadhikÿtånåæ trai-


var√ikånåæ dvividhå dviprakarå ni≤†hå sthitiranu≤†heyatåtparyaæ
purå p¥rvaæ sargådau prajå¢ sÿ≤†vå tåsåmabhyudayani¢Ÿreyasa-
pråptisådhanaæ vedårthasaæpradåyamåvi≤kurvatå proktå mayå
sarvajñeneŸvare√a he anaghåpåpa | tatra kå så dvividhå ni≤†hetyå-
3.4 t®tıyo ’dhyåya¢ 811

ha – jñånayogena jñånameva yogastena saækhyånåmåtmånåtmavi≤a-


yavivekavijñånavatåæ brahmacaryåŸramådeva kÿtasaænyåsånåæ
vedåntavijñånasuniŸcitårthånåæ paramahaæsaparivråjakånåæ bra-
hma√yevåvasthitånåæ ni≤†hå proktå | karmayoge√a karmaiva yoga¢
karmayogastena karmayoge√a yoginåæ karmi√åæ ni≤†hå prokte-
tyartha¢ | yadi caikena puru≤e√aikasmai puru≤årthåya jñånaæ ka-
rma ca samuccityånu≤†heyaæ bhagavate≤†amuktaæ vak≤yamå√aæ
vå gıtåsu vede≤u coktaæ kathamihårjunåyopasannåya priyåya viŸi-
≤†abhinnapuru≤akartÿke eva jñånakarmani≤†he br¥yåt | yadi puno
’rjuno jñånaæ karma ca dvayaæ Ÿrutvå svayamevånu≤†håsyåtya-
nye≤åæ tu bhinnapuru≤ånu≤†heyatåæ vak≤yåmıti mataæ bhagava-
ta¢ kalpyeta tadå rågadve≤avånapramå√abh¥to bhagavånkalpita¢
syåt | taccåyuktam | tasmåtkayåpi yuktyå na samuccayo jñånaka-
rma√o¢ | yadarjunenoktaæ karma√o jyayastvaæ buddhestacca sthi-
tamaniråkara√åt | tasyåŸca jñånani≤†håyå¢ saænyåsinåmevånu≤†he-
yatvaæ bhinnapuru≤ånu≤†heyatvavacanådbhagavata evamevånu-
matamiti gamyate || måæ ca bandhakåra√e karma√yeva niyojaya-
sıti vi≤a√√amanasamarjunaæ karma nårabha ityevaæ manvånamå-
lak≤yåha bhagavån – atha vå jñånakarmani≤†hayo¢ parasparavi-
rodhådekena puru≤e√a yugapadanu≤†håtumaŸakyatve satıtaretarå-
naptayoreva puru≤årthahetutve pråpte karmani≤†håyå jñånani-
≤†håpråptihetutvena puru≤årthahetutvaæ na svåtantrye√a jñånani-
≤†hå tu karmani≤†hopåyalabdhåtmikå satı svåtantrye√a puru≤årtha-
heturanyånapek≤etyetamarthaæ pradarŸayi≤yannåha bhagavån –

na karma√åmanåraæbhånnai≤karmyaæ puru≤o ’Ÿnute |


na ca saænyasanådeva siddhiæ samadhigacchati || 3.4 ||

na karma√åmiti | na karma√åmanåraæbhåtkarma√åæ kriyå-


√åæ yajñådınåmiha janmani janmåntare vånu≤†hitånåmupåttaduri-
tak≤ayahetutvena sattvaŸuddhikåra√åæ tatkåra√atvena ca jñåno-
tpattidvåre√a jñånani≤†håhet¥nåæ “jñånamutpadyate puæsåæ k≤a-
yåtpåpasya karma√a¢ | yathådarŸatalaprakhye paŸyatyåtmånamå-
tmani” (ma. Ÿå. 204.8) ityådismara√ådanåraæbhådananu≤†hånå-
nnai≤karmyaæ ni≤karmabhåvaæ karmaŸ¥nyatåæ jñånayogena ni-
≤†håæ ni≤kriyåtmasvar¥pe√aivåvasthånamiti yåvatpuru≤o nåŸnute
na pråpnotıtyartha¢ || karma√åmanåraæbhånnai≤karmyaæ nåŸnu-
812 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 3.4

ta iti vacanåttadviparyayåtte≤åmåraæbhånnai≤karmyamaŸnuta iti


gamyate | kasmåtpuna¢ kåra√åtkarma√åmåraæbhånnai≤karmyaæ
nåŸnuta iti | ucyate karmåraæbhasyeva nai≤karmyopåyatvåt | na
hyupåyamantare√opeyapråptirasti | karmayogopåyatvaæ ca nai-
≤karmyalak≤a√asya jñånayogasya Ÿrutåviha ca pratipådanåt | Ÿru-
tau tåvatprakÿtasyåtmalokasya vedyasya vedanopåyatvena “tame-
taæ vedånuvacanena bråhma√å vividi≤anti yajñena” (bÿ. 4.4.22) i-
tyådinå karmayogasya jñånayogopåyatvaæ pratipåditam | ihåpi ca
“saænyåsastu mahåbåho du¢khamåptumayogata¢” (bha. gı. 5.6)
“yogina¢ karma kurvanti sa§gaæ tyaktvåtmaŸuddhaye” (bha. gı.
5.11) “yajño dånaæ tapaŸcaiva påvanåni manı≤i√åm” (bha. gı. 18.5)
ityådi pratipådayi≤yati || nanu ca “abhayaæ sarvabh¥tebhyo dattvå
nai≤karmyamåcaret” ityådau kartavyakarmasaænyåsådapi nai≤ka-
rmyapråptiæ darŸayati loke ca karma√åmanåraæbhånnai≤karmya-
miti prasiddhataram | ataŸca nai≤karmyårthina¢ kiæ karmåraæ-
bhe√eti pråptam | ata åha na ca saænyasanådeveti | nåpi saænya-
sanådeva kevalåtkarmaparityågamåtrådeva jñånarahitåtsiddhiæ
nai≤karmyalak≤a√åæ jñånayogena ni≤†håæ samadhigacchati na prå-
pnoti || kasmåtpuna¢ kåra√åtkarmasaænyåsamåtrådeva kevalåjjñå-
narahitåtsiddhiæ nai≤karmyalak≤a√åæ puru≤o nådhigacchatıti he-
tvåkå§k≤åyåmåha –

na hi kaŸcitk≤a√amapi jåtu ti≤†hatyakarmakÿt |


kåryate hyavaŸa¢ karma sarva¢ prakÿtijairgu√ai¢ || 3.5 ||

na hıti | na hi yasmåtk≤a√amapi kålaæ jåtu kadåcitkaŸcitti≤†ha-


tyakarmakÿtsan | kasmåtkåryate hi yasmådavaŸa eva karma sarva¢
prå√ı prakÿtijai¢ prakÿtito jåtai¢ sattvarajastamobhirgu√ai¢ | ajña
iti våkyaŸe≤o yato vak≤yati “gu√airyo na vicålyate” (bha. gı. 14.23)
iti | saækhyånåæ pÿthakkara√ådajñånåmeva hi karmayogo na jñå-
ninåm | jñåninåæ tu gu√airacålyamånånåæ svataŸcalanåbhåvåtka-
rmayogo nopapadyate | tathå ca vyåkhyåtaæ “vedåvinåŸinam”
(bha. gı. 2.21) ityatra || yastvanåtmajñaŸcoditaæ karma nårabhata i-
ti tadasadevetyåha –

karmendriyå√i saæyamya ya åste manaså smaran |


indriyårthånvim¥ƒhåtmå mithyåcåra¢ sa ucyate || 3.6 ||
3.10 t®tıyo ’dhyåya¢ 813

karmendriyå√ıti | karmendriyå√i hastådıni saæyamya saæhÿ-


tya ya åste ti≤†hati manaså smaraæŸcintayannindriyårthånvi≤ayå-
nvim¥ƒhåtmå vim¥ƒhåntakara√o mithyåcaro mÿ≤åcara¢ påpåcåra¢
sa ucyate ||

yastvindriyå√i manaså niyamyårabhate ’rjuna |


karmendriyai¢ karmayogamasakta¢ sa viŸi≤yate || 3.7 ||

yastviti | yastu puna¢ karma√yadhikÿto ’jño buddhındriyå√i


manaså niyamyå ’’rabhate ’rjuna karmendriyairvåkpå√yådibhi¢ |
kimårabhata ityåha karmayogamasakta¢ sanphalåbhisaædhivarji-
ta¢ sa viŸi≤yata itarasmånmithyåcåråt || yata evamata¢ –

niyataæ kuru karma tvaæ karma jyåyo hyakarma√ah |


Ÿarırayåtråpi ca te na prasidhyedakarma√a¢ || 3.8 ||

niyatamiti | niyataæ nityaæ Ÿåstropadi≤†aæ yo yasminkarma-


√yadhikÿta¢ phalåya cåŸrutaæ tanniyataæ karma tatkuru tvaæ he
’rjuna | yata¢ karma jyåyo ’dhikataraæ phalato hi yasmådakarma-
√o ’kara√ådanåraæbhåt | kathaæ Ÿarırayåtrå Ÿarırasthitirapi ca te
tava na prasidhyetprasiddhiæ na gacchedakarma√o ’kara√åt | ato
dÿ≤†a¢ karmåkarma√orviŸe≤o loke || yacca manyase bandhårthatvå-
tkarma na kartavyamiti tadapyasat | katham –

yajñårthåtkarma√o ’nyatra loko ’yaæ karmabandhana¢ |


tadarthaæ karma kaunteya muktasa§ga¢ samåcara || 3.9 ||

yajñårthåditi | “yajño vai vi≤√u¢” (tai. saæ. 1.7.4) iti Ÿruterya-


jña ıŸvarastadarthaæ yatkriyate tadyajñårthaæ karma tasmåtka-
rma√o ’nyatrånyena karma√å loko ’yamadhikÿta¢ karmakÿtkarma-
bandhana¢ karma bandhanaæ yasya so ’yaæ karmabandhano loko
na tu yajñårthåt | atastadarthaæ yajñårthaæ karma kaunteya mu-
ktasa§ga¢ karmaphalasa§gavarjita¢ sansamåcara nirvartaya || ita-
Ÿcådhikÿtena karma kartavyaæ –

sahayajñå¢ prajå¢ sÿ≤†vå purovåca prajåpati¢ |


anena prasavi≤yadhvame≤a vo ’stvi≤†akåmadhuk || 3.10 ||
814 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 3.10

saheti | sahayajñå yajñasahitå¢ prajåstråyo sÿ≤†votpådya purå


p¥rvaæ sargådåvuvåcoktavånprajåpati¢ prajånåæ sra≤†å ’nena ya-
jñena prasavi≤yadhvaæ prasavo vÿddhirutpattistaæ kurudhvam | e-
≤a yajño vo yu≤måkamastu bhavatvi≤†akåmadhugi≤†ånabhipretå-
nkåmånphalaviŸe≤åndogdhıtı≤†akåmadhuk || katham –

devånbhåvayatånena te devå bhåvayantu va¢ |


parasparaæ bhåvayanta¢ Ÿreya¢ paramavåpsyatha || 3.11 ||

devåniti | devånindrådınbhåvayata vardhayatånena yajñena te


devå bhåvayantvåpyåyayantu vÿ≤†yådinå vo yu≤mån | evaæ para-
sparamanyonyaæ bhåvayanta¢ Ÿreya¢ paraæ mok≤alak≤a√aæ jñå-
napråptikrame√åvåpsyatha svargaæ vå paraæ Ÿreyo ’våpsyatha ||
kiæ ca –

i≤†ånbhogånhi vo devå dåsyante yajñabhåvitå¢ |


tairdattånapradåyaibhyo yo bhu§kte stena eva sa¢ || 3.12 ||

i≤†åniti | i≤†ånabhipretånbhogånhi vo yu≤mabhyaæ devå dåsya-


nte vitari≤yanti strıpaŸuputrådınyajñabhåvitå yajñairvardhitåsto≤i-
tå ityartha¢ | tairdevairdattånbhogånapradåyådattvå ånÿ√yamakÿ-
tvetyartha ebhyo devebhyo yo bhu§kte svadehendriyå√yeva tarpa-
yati stena eva taskara eva sa devådisvåpahårı || ye puna¢ –

yajñaŸi≤†åŸinå¢ santo mucyante sarvakilbi≤ai¢ |


bhuñjate te tvaghaæ påpå ye pacantyåtmakåra√åt || 3.13 ||

yajñeti | devayajñådınnirvartya tacchi≤†amaŸanamamÿtåkhya-


maŸituæ Ÿılaæ ye≤åæ te yajñaŸi≤†åŸina¢ santo mucyante sarvakilbi-
≤ai¢ sarvapåpaiŸculyådipañcas¥nåkÿtai¢ pramådakÿtahiæsådijani-
taiŸcånyai¢ | ye tvåtmaæbharayo bhuñjate tvaghaæ påpaæ svaya-
mapi påpå ye pacanti påkaæ nirvartayantyåtmakåra√ådåtmahe-
to¢ || itaŸcådhikÿtena karma kartavyam | jagaccakrapravÿttiheturhi
karma | kathamiti ucyate –

annådbhavanti bh¥tåni parjanyådannasaæbhava¢ |


yajñådbhavati parjanyo yajña¢ karmasamudbhava¢ || 3.14 ||
3.16 t®tıyo ’dhyåya¢ 815

annåditi | annådbhuktållohitareta¢pari√atåtpratyak≤aæ bhava-


nti jåyante bh¥tåni parjanyådvÿ≤†erannasya saæbhavo ’nnasaæ-
bhava¢ | yajñådbhavati parjanya¢ “agnau pråståhuti¢ samyagådi-
tyamupati≤†hate | ådityåjjåyate vÿ≤†irvÿ≤†erannaæ tata¢ praj墔
(ma. 3.76) iti smÿte¢ | yajño ’p¥rvaæ sa ca yajña¢ karmasamudbha-
vo ÿtvigyajamånayoŸca vyåpåra¢ karma tata¢ samudbhavo yasya
yajñasyåp¥rvasya sa yajña¢ karmasamudbhava¢ || tacca evaævi-
dhaæ karma kuto jåtamityåha –

karma brahmodbhavaæ viddhi brahmåk≤arasamudbhavam |


tasmåtsarvagataæ brahma nityaæ yajñe prati≤†hitam || 3.15 ||

karmeti | karma brahmodbhavaæ brahma veda¢ sa udbhava¢


kåra√aæ prakåŸako yasya tatkarma brahmodbhavaæ viddhi jånıhi |
brahma punarvedåkhyamak≤arasamudbhavamak≤araæ brahma pa-
ramåtmå samudbhavo yasya tadak≤arasamudbhavaæ brahma veda
ityartha¢ | yasmåtsåk≤åtparamåtmåkhyådak≤aråtpuru≤ani¢Ÿvåsava-
tsamudbh¥taæ brahma tasmåtsarvårthaprakåŸakatvåtsarvagatam |
sarvagatamapi sannityaæ sadå yajñavidhipradhånatvådyajñe prati-
≤†hitam ||

evaæ pravartitaæ cakraæ nånuvartayatıha ya¢ |


aghåyurindriyåråmo moghaæ pårtha sa jıvati || 3.16 ||

evamiti | evamitthamıŸvare√a vedayajñap¥rvakaæ jagacca-


kraæ pravartitaæ nånuvartayatıha loke ya¢ karma√yadhikÿta¢ sa-
naghåyuraghaæ påpamåyurjıvanaæ yasya so ’ghåyu¢ påpajıvana
iti yåvadindriyåråma indriyairåråma årama√amåkrıƒå vi≤aye≤u ya-
sya sa indriyåråmo moghaæ vÿthå he pårtha sa jıvati || tasmåda-
jñenådhikÿtena kartavyameva karmeti prakara√årtha¢ | prågåtma-
jñånani≤†håyogyatåpråptestådarthyena karmayogånu≤†hånamadhi-
kÿtenånåtmajñena kartavyamevetyetat “na karma√åmanåraæbhåt”
(bha. gı. 3.4) ityata årabhya “Ÿarırayåtråpi ca te na prasidhyedaka-
rma√a¢” (bha. gı. 3.8) ityevamantena pratipådya “yajñårthåtkarma-
√o ’nyatra” (bha. gı. 3.9) ityådinå “moghaæ pårtha sa jıvati” (bha.
gı. 3.16) ityevamantenåpi granthena pråsa§gikamadhikÿtasyånå-
tmavida¢ karmånu≤†håne bahu kåra√amuktaæ tadakara√e ca do≤a-
816 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 3.16

saækırtanaæ kÿtam || evaæ sthite kimevaæ pravartitaæ cakraæ sa-


rve√ånuvartanıyamåhosvitp¥rvoktakarmayogånu≤†hånopåyaprå-
pyåmanåtmavida¢ jñånayogenaiva ni≤†håmåtmavidbhi¢ såækhyai-
ranu≤†heyåmapråptenaivetyevamarthamarjunasya praŸnamåŸaæ-
kya svayameva vå Ÿåstrårthasya vivekapratipattyarthaæ etaæ vai
tadåtmånaæ viditvå nivÿttamithyåjñånå¢ santo bråhma√å mithyå-
jñånavadbhiravaŸyaæ kartavyebhya¢ putrai≤a√ådibhyo vyutthåyå-
tha bhik≤åcaryaæ Ÿarırasthitimåtraprayuktaæ caranti na te≤åmå-
tmajñånani≤†håvyatireke√ånyatkåryamastıtyevaæ Ÿrutyarthamiha
gıtåŸåstre pratipipådayi≤itamåvi≤kurvannåha bhagavån –

yastvåtmaratireva syådåtmatÿptaŸca månava¢ |


åtmanyeva ca saætu≤†astasya kåryaæ na vidyate || 3.17 ||

yastviti | yastu såækhya åtmajñånani≤†ha åtmaratiråtmanyeva


ratirna vi≤aye≤u yasya sa åtmaratireva syådbhavedåtmatÿptaŸcå-
tmanaiva tÿpto nånnarasådinå sa månavo manu≤ya¢ saænyåsyå-
tmanyeva ca saætu≤†a¢ | saæto≤o hi båhyårthalåbhe sarvasya bha-
vati tamanapek≤yåtmanyeva ca saætu≤†a¢ sarvato vıtatÿ≤√a itye-
tat | ya ıdÿŸa åtmavittasya kåryaæ kara√ıyaæ na vidyate nåstıtya-
rtha¢ || kiæ ca –

naiva tasya kÿtenårtho nåkÿteneha kaŸcana |


na cåsya sarvabh¥te≤u kaŸcidarthavyapåŸraya¢ || 3.18 ||

naiveti | naiva tasya paramåtmarate¢ kÿtena karma√å ’rtha¢


prayojanamasti | astu tarhyakÿtenåkara√ena pratyavåyåkhyo ’na-
rtho nåkÿteneha loke kaŸcana kaŸcidapi pratyavåyapråptir¥pa å-
tmahånilak≤a√o vå naivåsti | na cåsya sarvabh¥te≤u brahmådisthå-
varånte≤u bh¥te≤u kaŸcidarthavyapåŸraya¢ prayojananimittakriyå-
sådhyo vyapåŸrayo vyapåŸraya√amålaæbanam | kaæcidbh¥taviŸe-
≤amåŸritya na sådhya¢ kaŸcidartho ’sti yena tadarthå kriyånu≤†he-
yå syåt | na tvametasminsarvata¢saæplutodakasthånıye samyagda-
rŸane vartase || yata evam –

tasmådasakta¢ satataæ kåryaæ karma samåcara |


asakto hyåcarankarma paramåpnoti p¥ru≤ah || 3.19 ||
3.22 t®tıyo ’dhyåya¢ 817

tasmåditi | tasmådasakta¢ sa§gavarjita¢ satataæ sarvadå kå-


ryaæ kartavyaæ nityaæ karma samåcara nirvartaya | asakto hi ya-
småtsamåcarannıŸvarårthaæ karma kurvanparaæ mok≤amåpnoti
p¥ru≤a¢ sattvaŸuddhidvåre√etyartha¢ || yasmåcca –

karma√aiva hi saæsiddhimåsthitå janakådaya¢ |


lokasaægrahamevåpi saæpaŸyankartumarhasi || 3.20 ||

karma√aiveti | karma√aiva hi yasmåtp¥rve k≤atriyå vidvåæsa¢


saæsiddhiæ mok≤aæ gantumåsthitå¢ pravÿttå janakådayo janakå-
Ÿvapatiprabhÿtaya¢ | yadi te pråptasamyagdarŸanåstato lokasaæ-
grahårthaæ prårabdhakarmatvåtkarma√å sahaivåsaænyasyaiva ka-
rma saæsiddhimåsthitå ityartha¢ | athåpråptasamyagdarŸanå jana-
kådayastadå karma√å sattvaŸuddhisådhanabh¥tena krame√a saæsi-
ddhimåsthitå iti vyåkhyeya¢ Ÿloka¢ | atha manyase p¥rvairapi ja-
nakådibhirapyajånadbhireva kartavyaæ karma kÿtaæ tåvatå nåva-
Ÿyamanyena kartavyaæ samyagdarŸanavatå kÿtårtheneti tathåpi
prårabdhakarmåyattastvaæ lokasaægrahamevåpi lokasyonmårga-
pravÿttinivåra√aæ lokasaægrahastamevåpi prayojanaæ saæpaŸya-
nkartumarhasi || lokasaægraha¢ kimarthaæ kartavya ityucyate –

yadyadåcarati Ÿre≤†hastattadevetaro jana¢ |


sa yatpramå√aæ kurute lokastadanuvartate || 3.21 ||

yadyaditi | yadyatkarmåcarati Ÿre≤†ha¢ pradhånastattadeva ka-


rmåcaratıtaro ’nyo janastadanugata¢ | kiæ ca sa Ÿre≤†ho yatpramå-
√aæ kurute laukikaæ vaidikaæ vå lokastadanuvartate tadeva pra-
må√ıkarotıtyartha¢ || yadyatra te lokasaægrahakartavyatåyåæ vi-
pratipattistarhi måæ kiæ na paŸyasi –

na me pårthåsti kartavyaæ tri≤u loke≤u kiñcana |


nånavåptamavåptavyaæ varta eva ca karma√i || 3.22 ||

na me iti | na me mama pårtha nåsti na vidyate kartavyaæ tri-


≤vapi loke≤u kiñcana kiñcidapi | kasmånnånavåptamapråptamavå-
ptavyaæ pråpa√ıyaæ tathåpi varta eva ca karma√yaham ||
818 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 3.23

yadi hyahaæ na varteya jåtu karma√yatandrita¢ |


mama vartmånuvartante manu≤yå¢ pårtha sarvaŸa¢ || 3.23 ||

yadıti | yadi hi punarahaæ na varteya jåtu kadåcitkarma√ya-


tandrito ’nalasa¢ sanmama Ÿre≤†hasya sato vartma mårgamanuva-
rtante manu≤yå he pårtha sarvaŸa¢ sarvaprakårai¢ ||

utsıdeyurime lokå na kuryåæ karma cedaham |


saækarasya ca kartå syåmupahanyåmimå¢ prajåh || 3.24 ||

utsıdeyuriti | utsıdeyurvinaŸyeyurime sarve lokå lokasthitini-


mittasya karma√o ’bhåvånna kuryåæ karma cedaham | kiæ ca
saækarasya ca kartå syåm | tena kåra√enopahanyåmimå¢ prajå¢
prajånåmanugrahåya pravÿtta upahatimupahananaæ kuryåmitya-
rtha¢ | mameŸvarasyånanur¥pamåpadyeta || yadi punarahamiva
tvaæ kÿtårthabuddhiråtmavidanyo vå tasyåpyåtmana¢ kartavyå-
bhåve ’pi parånugraha eva kartavya ityåha –

saktå¢ karma√yavidvåæso yathå kurvanti bhårata |


kuryådvidvåæstathå ’saktaŸcikır≤urlokasaægraham || 3.25 ||

saktå iti | saktå¢ karma√yasya karma√a¢ phalaæ mama bhavi-


≤yatıti kecidavidvåæso yathå kurvanti bhårata kuryådvidvånåtma-
vittathå ’sakta¢ san | tadvatkimarthaæ karoti tacchÿ√u cikır≤u¢ ka-
rtumicchurlokasaægraham || evaæ lokasaægrahaæ cikır≤orna ma-
måtmavida¢ kartavyamastyanyasya vå lokasaægrahaæ muktvå |
tatastasyåtmavida idamupadiŸyate –

na buddhibhedaæ janayedajñånåæ karmasa§ginåm |


jo≤ayetsarvakarmå√i vidvånyukta¢ samåcaran || 3.26 ||

neti | buddherbhedo buddhibhedo mayedaæ kartavyaæ bho-


ktavyaæ cåsya karma√a¢ phalamiti niŸcitar¥påyå buddherbheda-
naæ cålanaæ buddhibhedastaæ na janayennotpådayedajñånåmavi-
vekinåæ karmasa§ginåæ karma√yåsaktånåmåsa§gavatåm | kiæ tu
kuryåjjo≤ayetkårayetsarvakarmå√i vidvånsvayaæ tadevåvidu≤åæ
3.30 t®tıyo ’dhyåya¢ 819

karma yukto ’bhiyukta¢ samåcaran || avidvånajña¢ kathaæ karma-


su sajjata ityåha –

prakÿte¢ kriyamå√åni gu√ai¢ karmå√i sarvaŸa¢ |


ahaækåravim¥ƒhåtmå kartåhamiti manyate || 3.27 ||

prakÿteriti | prakÿte¢ prakÿti¢ pradhånaæ sattvarajastamasåæ


gu√ånåæ såmyåvasthå tasyå¢ prakÿtergu√airvikårai¢ kåryakara-
√ar¥pai¢ kriyamå√åni karmå√i laukikåni Ÿåstrıyå√i ca sarvaŸa¢ sa-
rvaprakårairahaækåravim¥ƒhåtmå kåryakara√asaæghåtåtmapra-
tyayo ’haækårastena vividhaæ nånåvidhaæ m¥ƒha åtmå anta¢ka-
ra√aæ yasya so ’yaæ kåryakara√adharmå kåryakara√åbhimånya-
vidyayå karmå√yåtmani manyamånastattatkarma√åmahaæ karteti
manyate || ya¢ punarvidvån –

tattvavittu mahåbåho gu√akarmavibhågayo¢ |


gu√å gu√e≤u vartanta iti matvå na sajjate || 3.28 ||

tattvaviditi | tattvavittu mahåbåho | kasya tattvavidgu√aka-


rmavibhågayorgu√avibhågasya karmavibhågasya ca tattvaviditya-
rtha¢ | gu√å¢ kara√åtmakå gu√e≤u vi≤ayåtmake≤u vartante nåtme-
ti matvå na sajjate saktiæ na karoti || ye puna¢ –

prakÿtergu√asaæm¥ƒhå¢ sajjante gu√akarmasu |


tånakÿtsnavido mandånkÿtsnavinna vicålayet || 3.29 ||

prakÿteriti | prakÿtergu√ai¢ samya§m¥ƒhå¢ saæmohitå¢ sa-


nta¢ sajjante gu√ånåæ karmasu gu√akarmasu vayaæ karma ku-
rma¢ phalåyeti tånkarmasa§gino ’kÿtsnavida¢ | karmaphalamåtra-
darŸino mandånmandaprajñånkÿtsnavidåtmavitsvayaæ na vicåla-
yedbuddhibhedakara√ameva cålanaæ tanna kuryådityartha¢ || ka-
thaæ puna¢ karma√yadhikÿtenåjñena mumuk≤u√å karma karta-
vyamityucyate –

mayi sarvå√i karmå√i saænyasyådhyåtmacetaså |


niråŸırnirmamo bh¥två yudhyasva vigatajvara¢ || 3.30 ||
820 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 3.30

mayıti | mayi våsudeve parameŸvare sarvajñe sarvåtmani sa-


rvå√i karmå√i saænyasya nik≤ipyådhyåtmacetaså vivekabuddhyå
’haæ karteŸvaråya bhÿtyavatkaromıtyanayå buddhyå | kiñca niråŸı-
styaktåŸırnirmamo mamabhåvaŸca nirgato yasya tava sa tvaæ ni-
rmamo bh¥två yudhyasva vigatajvaro vigatasantåpo vigataŸoka¢
sannityartha¢ || yadetanmama mataæ karma kartavyamiti sapra-
må√amuktaæ tattathå –

ye me matamidaæ nityamanuti≤†hanti månavå¢ |


Ÿraddhåvanto ’nas¥yanto mucyante te ’pi karmabhi¢ || 3.31 ||

ye ma iti | ye me madıyamidaæ mataæ nityamanuti≤†hantya-


nuvartante månavå manu≤yå¢ Ÿraddhåvanta¢ Ÿraddadhånå anas¥-
yanto ’s¥yåæ ca mayi paramagurau våsudeve ’kurvanto mucyante
te ’pyevaæbh¥tå¢ karmabhirdharmådharmåkhyai¢ ||

ye tvetadabhyas¥yanto nånuti≤†hanti me matam |


sarvajñånavim¥ƒhåæ tånviddhi na≤†ånacetasa¢ || 3.32 ||

ye tviti | ye tu tadviparıtå etanmama matamabhyas¥yanto ni-


ndanto nånuti≤†hanti nånuvartante me mataæ sarve≤u jñåne≤u vi-
vidhaæ m¥ƒhåste | sarvajñånavim¥ƒhåæstånviddhi nå≤†ånnåŸaæ
gatånacetaso ’vivekina¢ || kasmåtpuna¢ kåra√åttvadıyaæ mataæ
nånuti≤†hanti paradharmånanuti≤†hanti svadharmaæ ca nånuvarta-
nte tvatpratik¥lå¢ kathaæ na bibhyati tvacchåsanåtikramado≤åt |
tatråha –

sadÿŸaæ ce≤†ate svasyå¢ prakÿterjñånavånapi |


prakÿtiæ yånti bh¥tåni nigraha¢ kiæ kari≤yati || 3.33 ||

sadÿŸamiti | sadÿŸamanur¥paæ ce≤†ate | kasya svasyå¢ svakıyå-


yå¢ prakÿte¢ | prakÿtirnåma p¥rvakÿtadharmådharmådisaæskåro
vartamånajanmådåvabhivyakta¢ så prakÿtistasyå¢ sadÿŸameva sa-
rvo janturjñånavånapi ce≤†ate kiæ punarm¥rkha¢ | tasmåtprakÿtiæ
yåntyanugacchanti bh¥tåni nigraho ni≤edhar¥pa¢ kiæ kari≤yati ma-
ma vånyasya vå || yadi sarvo janturåtmana¢ prakÿtisadÿŸameva ce-
3.36 t®tıyo ’dhyåya¢ 821

≤†ate na ca prakÿtiŸ¥nya¢ kaŸcidasti tata¢ puru≤akårasya vi≤ayånu-


papatte¢ Ÿåstrånarthakyapråptåvidamucyate –

indriyasyendriyasyårthe rågadve≤au vyavasthitau |


tayorna vaŸamågacchettau hyasya paripanthinau || 3.34 ||

indriyasyeti | indriyasyendriyasyårthe sarvendriyå√åmarthe Ÿa-


bdådivi≤aya i≤†e rågo ’ni≤†e dve≤a ityevaæ pratındriyårthaæ råga-
dve≤åvavaŸyaæbhåvinau | tatråyaæ puru≤akårasya Ÿåstrårthasya ca
vi≤aya ucyate | Ÿåstrårthe pravÿtta¢ p¥rvameva rågadve≤ayorvaŸaæ
någacchet | yå hi puru≤asya prakÿti¢ så rågadve≤apura¢saraiva sva-
kårye puru≤aæ pravartayati | tadå svadharmaparityåga¢ paradha-
rmånu≤†hånaæ ca bhavati | yadå punå rågadve≤au tatpratipak≤e√a
niyamayati tadå Ÿåstradÿ≤†ireva puru≤o bhavati na prakÿtivaŸa¢ |
tasmåttayo rågadve≤ayorvaŸaæ någacchet | yatastau hyasya puru-
≤asya paripanthinau Ÿreyomårgasya vighnakartårau taskaråviva pa-
thıtyartha¢ || tatra rågadve≤aprayukto manyate Ÿåstrårthamapya-
nyathå paradharmo ’pi dharmatvådanu≤†heya eveti tadasat –

Ÿreyånsvadharmo vigu√a¢ paradharmåtsvanu≤†hitåt |


svadharme nidhanaæ Ÿreya¢ paradharmo bhayåvaha¢ || 3.35 ||

Ÿreyåniti | ŸreyånpraŸasya tara¢ svo dharma¢ svadharmo vigu-


√o ’pi vigatagu√o ’pyanu≤†hıyamåna¢ paradharmåtsvanu≤†hitåtså-
dgu√yena saæpåditådapi | svadharme sthitasya nidhanaæ mara-
√amapi Ÿreya¢ paradharme sthitasya jıvitåt | kasmåt | paradharmo
bhayåvaho narakådilak≤a√aæ bhayamåvahati yata¢ || yadyapyana-
rtham¥laæ “dhyåyato vi≤ayånpuæsa¢” (bha. gı. 2.62) “rågadve≤au
hyasya paripanthinau” (bha. gı. 3.34) iti coktaæ vik≤iptamanava-
dhårita ca taduktam | tatsaæk≤iptaæ niŸcitaæ cedameveti jñåtumi-
cchannarjuna uvåca jñåte hi tasmiæstaducchedåya yatnaæ kuryå-
miti –

arjuna uvåca –

atha kena prayukto ’yaæ påpaæ carati p¥ru≤a¢ |


anicchannapi vår≤√eya balådiva niyojita¢ || 3.36 ||
822 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 3.36

atheti | atha kena hetubh¥tena prayukta¢ sanråjñeva bhÿtyo


’yaæ påpaæ karma caratyåcarati p¥ru≤a¢ svayamanicchannapi he
vår≤√eya vÿ≤√ikulapras¥ta balådiva niyojito råjñevetyukto dÿ≤†å-
nta¢ || Ÿÿ√u tvaæ taæ vairi√aæ sarvånarthakaraæ yaæ tvaæ pÿ-
cchasıti Ÿrıbhagavånuvåca – “aiŸvaryasya samagrasya dharmasya
yaŸasa¢ Ÿriya¢ | vairagyasyåtha mok≤asya ≤a√√åæ bhaga itı§ganå”
(vi. pu. 6.5.74) | aiŸvaryådi≤a†kaæ yasminvåsudeve nityamapratiba-
ddhatvena såmastyena ca vartate | “utpattiæ pralayaæ caiva bh¥tå-
nåmågatiæ gatim | vetti vidyåmavidyåæ ca sa våcyo bhagavåniti”
(vi. pu. 6.5.78) | utpattyådivi≤ayaæ ca vijñånaæ yasya sa våsudevo
våcyo bhagavåniti ||

Ÿrıbhagavånuvåca –
kåma e≤a krodha e≤a rajogu√asamudbhava¢ |
mahåŸano mahåpåpmå viddhyenamiha vairi√am || 3.37 ||
kåma iti | kåma e≤a sarvalokaŸatruryannimittå sarvånarthaprå-
pti¢ prå√inåm | sa e≤a kåma¢ pratihata¢ kenacitkrodhatvena pari-
√amate | ata¢ krodho ’pye≤a | rajogu√asamudbhavo rajaŸca tadgu-
√aŸca rajogu√a¢ sa samudbhavo yasya sa kåmo rajogu√asamu-
dbhava¢ | rajogu√asya vå samudbhava¢ | kåmo hyudbh¥to raja¢
pravartayanpuru≤aæ pravartayati | tÿ≤√ayå hyahaækårita iti du¢-
khitånåæ raja¢kårye sevådau pravÿttånåæ pralåpa¢ Ÿruyate | ma-
håŸano mahadaŸanamasyeti mahåŸano ’ta eva mahåpåpmå | kåme-
na hi prerito jantu¢ påpaæ karoti | ato viddhyenaæ kåmamiha
saæsåre vairi√am || kathaæ vairıti dÿ≤†åntai¢ pratyåyayati –

dh¥menåvriyate vahniryathådarŸo malena ca |


yatholbenåvÿto garbhastathå tenedamåvÿtam || 3.38 ||
dh¥meneti | dh¥mena sahajenåvriyate vahni¢ prakåŸåtmako
’prakåŸåtmakena yathå vådarŸo malena ca yatholbena ca jaråyu√å
garbhave≤†anenå ’’vÿta åcchådito garbhastathå tenedamåvÿtam ||
kiæ punastadidaæ Ÿabdavåcyaæ yatkåmenåvÿtamityucyate –

åvÿtaæ jñånametena jñånino nityavairi√å |


kåmar¥pe√a kaunteya du≤p¥re√ånalena ca || 3.39 ||
3.42 t®tıyo ’dhyåya¢ 823

åvÿtamiti | åvÿtametena jñånaæ jñånino nityavairi√å | jñånı hi


jånåtyanenåhamanarthe prayukta¢ p¥rvameveti | du¢khı ca bhava-
ti nityameva | ato ’sau jñånino nityavairı na tu m¥rkhasya | sa hi
kåmaæ tÿ≤√åkåle mitramiva paŸyaæstatkårye du¢khe pråpte jånåti
tÿ≤√ayå ’haæ du¢khitvamåpadita iti na p¥rvameva | ato ’sau jñåni-
na eva nityavairı | kiæ r¥pe√a | kåmar¥pe√a kåma icchaiva r¥pa-
masyeti kåmar¥pastena du≤p¥re√a du¢khena p¥ra√amasyeti du-
≤p¥rastenånalena nåsyålaæ paryåptirvidyata ityanalastena ca || ki-
madhi≤†håna¢ puna¢ kåmo jñånasyåvara√atvena vairı sarvasya lo-
kasyetyapek≤åyåmåha | jñåte hi Ÿatroradhi≤†håne sukhena Ÿatruni-
barha√aæ kartuæ Ÿakyata iti –
indriyå√i mano buddhirasyådhi≤†hånamucyate |
etairvimohayatye≤a jñånamåvÿtya dehinam || 3.40 ||
indriyå√ıti | indriyå√i mano buddhiŸcåsya kåmasyådhi≤†håna-
måŸraya ucyate | etairindriyådibhiråŸrayairvimohayati vividhaæ mo-
hayati e≤a kåmo jñånamåvÿtyåcchadya dehinaæ Ÿarıri√am || yata e-
vam –
tasmåttvamindriyå√yådau niyamya bharatar≤abha |
påpmånaæ prajahıhyenaæ jñånavijñånanåŸanam || 3.41 ||
tasmåditi | tasmåttvamindriyå√yådau p¥rvameva niyamya va-
Ÿıkÿtya bharatar≤abha påpmånaæ påpåcåraæ kåmaæ prajahıhi pa-
rityajainaæ prakÿtaæ vairi√aæ jñånavijñånanåŸanaæ jñånaæ Ÿå-
strata åcåryataŸcåtmådınåmavabodha¢ | vijñånaæ viŸe≤atastadanu-
bhava¢ tayorjñånavijñånayo¢ Ÿreya¢pråptihetvornåŸanaæ nåŸaka-
raæ prajahıhyåtmana¢ parityajetyartha¢ || indriyå√yådau niyamya
kåmaæ Ÿatruæ jahıhıtyuktam | tatra kimåŸraya¢ kåmaæ jahyådi-
tyucyate –

indriyå√i parå√yåhurindriyebhya¢ paraæ mana¢ |


manasastu parå buddhiryo buddhe¢ paratastu sa¢ || 3.42 ||

indriyå√ıti | indriyå√i Ÿrotrådini pañca dehaæ sth¥laæ båhyaæ


paricchinnaæ cåpek≤ya sauk≤myåntarasthitatvavyåpitvådyapek≤a-
yå parå√i prakÿ≤†ånyåhu¢ pa√ƒitå¢ | tathendriyebhya¢ paraæ ma-
824 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 3.42

na¢ saækalpavikalpåtmakam | tathå manasastu parå buddhirniŸca-


yåtmikå | tathå ya¢ sarvadÿŸyebhyo buddhyantebhyo ’bhyantaro
yaæ dehinamindriyådibhiråŸrayairyukta¢ kåmo jñånåvara√advåre-
√a mohayatıtyuktam | buddhe¢ paratastu sa¢ sa buddherdra≤†å pa-
ra åtmå || tata¢ kim –

evaæ buddhe¢ paraæ buddhvå saæstabhyåtmånamåtmanå |


jahi Ÿatruæ mahåbaho kåmar¥paæ duråsadam || 3.43 ||

evamiti | evaæ buddhe¢ paramåtmånaæ buddhvå jñåtvå saæ-


stabhya samyakstaæbhanaæ kÿtvå ’’tmånaæ svenaivåtmanå saæ-
skÿtena manaså samyaksamådhåyetyartha¢ | jahyenaæ Ÿatruæ he
mahåbaho kåmar¥paæ duråsadaæ dukhenå ’’sada åsådanaæ prå-
ptiryasya taæ duråsadaæ durvijñeyånekaviŸe≤amiti ||

iti Ÿrımadbhagavadgıtås¥pani≤atsu brahmavidyåyåæ


yogaŸastre Ÿrıkÿ≤√årjunasaævåde
karmayogo nåma
tÿtıyo ’dhyåya¢

*
atha caturtho ’dhyåya¢

yo ’yaæ yogo ’dhyåyadvayenokto jñånani≤†hålak≤a√a¢ sasaæ-


nyåsa¢ karmayogopåyo yasminvedårtha¢ parisamåpta¢ pravÿttila-
k≤a√o nivÿttilak≤a√aŸca gıtåsu ca sarvasvayameva yogo vivak≤ito
bhagavatå | ata¢ parisamåptaæ vedårthaæ manvånastaæ vaæŸaka-
thanena stauti Ÿrıbhagavån –

Ÿrıbhagavånuvåca –

imaæ vivasvate yogaæ proktavånahamavyayam |


vivasvånmanave pråha manurik≤våkave ’bravıt || 4.1 ||

imamiti | imamadhyåyadvayenoktaæ yogaæ vivasvata ådityå-


ya sargådau proktavånahaæ jagatparipålayit™√åæ k≤atriyå√åæ ba-
ladhånåya | tena yogabalena yukta¢ samarthå bhavanti brahma pa-
rirak≤itum | brahmak≤atre paripålite jagatparipålayitumalam | a-
vyayamavyayaphalatvåt | na hyasya yogasya samyagdarŸanani-
≤†hålak≤a√asya mok≤åkhyaæ phalaæ vyeti | sa ca vivasvånmanave
pråha manurik≤våkave svaputråyådiråjåyåbravıt ||

evaæ paraæparåpråptamimaæ råjar≤ayo vidu¢ |


sa kåleneha mahatå yogo na≤†a¢ paraætapa || 4.2 ||

evamiti | evaæ k≤atriyaparaæparåpraptamimaæ råjar≤ayo råjå-


naŸca ta ÿ≤ayaŸca råjar≤ayo vidurimaæ yogam | sa yoga¢ kåleneha
mahatå dırghe√a na≤†o vicchinnasaæpradåya¢ saævÿtto he paraæ-
tapo ’tmano vipak≤abh¥tå¢ parå ityucyante tåñŸauryatejogabhasti-
bhirbhånuriva tåpayatıti paraætapa¢ Ÿatrutåpana ityartha¢ || du-
rbalånajitendriyånpråpya na≤†aæ yogamimamamupalabhya lokaæ
cåpuru≤årthasaæbandhinam –
826 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 4.3

sa evåyaæ mayå te ’dya yoga¢ prokta¢ puråtana¢ |


bhakto ’si me sakhå ceti rahasyaæ hyetaduttamam || 4.3 ||

sa evåyamiti | sa evåyaæ mayå te tubhyamadyedånıæ yoga¢


prokta¢ puråtana¢ | bhakto ’si me sakhå cåsıti | rahasyaæ hi ya-
smådetaduttamaæ yoge jñånamityartha¢ || bhagavatå viprati≤i-
ddhamuktamiti må bh¥tkasyacidbuddhiriti parihårårthaæ codya-
miva kurvannarjuna uvåca –

arjuna uvåca –

aparaæ bhavato janma paraæ janma vivasvata¢ |


kathametadvijånıyåæ tvamådau proktavåniti || 4.4 ||

aparamiti | aparamarvågvasudevagÿhe bhavato janma | paraæ


p¥rvaæ sargådau janmotpattirvivasvata ådityasya | tatkathameta-
dvijånıyåmaviruddhårthatayå yastvamevådau proktavånimaæ yo-
gaæ sa eva tvamidånıæ mahyaæ proktavånasıti || yå våsudeve ’nı-
ŸvaråsarvajñåŸaækå m¥rkhå√åæ tåæ pariharañŸrıbhagavånuvåca
yadartho hyarjunasya praŸna¢ –

Ÿrıbhagavånuvåca –

bah¥ni me vyatıtåni janmåni tava cårjuna |


tånyahaæ veda sarvå√i na tvaæ vettha paraætapa || 4.5 ||

bah¥nıti | bah¥ni me mama vyatıtånyatikråntåni janmåni tava


ca he ’rjuna | tånyahaæ veda jåne sarvå√i na tvaæ vettha na jånı≤e
dharmådharmådipratibaddhajñånaŸaktitvåt | ahaæ punarnityaŸu-
ddhabuddhamuktasvabhåvatvådanåvara√ajñånaŸaktiriti vedåhaæ
he paraætapa || kathaæ tarhi tava nityeŸvarasya dharmådharmå-
bhave ’pi janmetyucyate –

ajo ’pi sannavyayåtmå bh¥tånåmıŸvaro ’pi san |


prakÿtiæ svåmadhi≤†håya saæbhavåmyåtmamåyayå || 4.6 ||
4.10 caturtho ’dhyåya¢ 827

ajo ’pıti | ajo ’pi janmarahito ’pi santathå ’vyayåtmå ’k≤ı√ajñå-


naŸaktisvabhåvo ’pi santathå bh¥tånåæ brahmådistaæbaparyantå-
nåmıŸvara ıŸanaŸılo ’pi sanprakÿtiæ svåæ mama vai≤√avıæ måyåæ
trigu√åtmikåæ yasyå vaŸe sarvaæ jagadvartate yayå mohitaæ sa-
tsvamåtmånaæ våsudevaæ na jånåti tåæ prakÿtiæ svåmadhi≤†håya
vaŸıkritya saæbhavåmi dehavåniva bhavåmi jåta ivåtmamåyayå-
tmano måyayå na paramårthato lokavat || tacca janma kadå kima-
rthaæ cetyucyate –

yadå yadå hi dharmasya glånirbhavati bhårata |


abhyutthånamadharmasya tadå ’’tmånaæ sÿjåmyaham || 4.7 ||

yadeti | yadå yadå hi dharmasya glånirhånirvar√åŸramådila-


k≤a√asya prå√inåmabhyudayani¢Ÿreyasasådhanasya bhavati bhara-
ta ’bhyutthanamudbhavo ’dharmasya tadå tadå ’’tmånaæ sÿjåmya-
haæ måyayå || kimartham –

paritrå√åya sådh¥nåæ vinåŸåya ca du≤kÿtåm |


dharma saæsthåpanårthåya saæbhavåmi yuge yuge || 4.8 ||

paritrå√åyeti | paritrå√åya parirak≤a√åya sådh¥nåæ sanmårga-


sthånåæ vinåŸåya ca du≤kÿtåæ påpakåri√åm | kiæ ca dharmasaæ-
sthåpanårthåya dharmasya samyaksthåpanaæ tadarthaæ saæbha-
våmi yuge yuge pratiyugam || tat –

janma karma ca me divyamevaæ yo vetti tattvata¢ |


tyaktvå dehaæ punarjanma naiti måmeti so ’rjuna || 4.9 ||

janmeti | janma måyår¥paæ karma ca sådhuparitrå√ådi me


mama divyamapråkÿtamaiŸvaramevaæ yathoktaæ yo vetti tattvata-
stattvena yathåvattyaktvå dehamimaæ punarjanma punarutpattiæ
naiti na pråpnoti | måmetyågacchati sa mucyate he ’rjuna || nai≤a
mok≤amårga idånıæ pravÿtta¢ kiæ tarhi p¥rvamapi –

vıtarågabhayakrodhå manmayå måmupåŸritå¢ |


bahavo jñånatapaså p¥tå madbhåvamågatå¢ || 4.10 ||
828 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 4.10

vıtarågeti | vıtarågabhayakrodhå rågaŸca bhayaæ ca krodhaŸca


vıtå vigatå yebhyaste vıtarågabhayakrodhå manmayå brahmavida
ıŸvaråbhedadarŸino måmeva ca parameŸvaramupåŸritå¢ kevalajñå-
nani≤†hå ityartha¢ | bahavo ’neke jñånatapaså jñånameva ca para-
måtmavi≤ayaæ tapastena jñånatapaså p¥tå¢ paråæ Ÿuddhiæ gatå¢
santo madbhåvamıŸvarabhåvaæ mok≤amågatå¢ samanupråptå¢ | i-
tara taponirapek≤ajñånani≤†hå ityasya li§gaæ jñånatapaseti viŸe≤a-
√am || tava tarhi rågadve≤au sta¢ | yena kebhyaŸcidevåtmabhåvaæ
prayacchasi na sarvebhya ityucyate –

ye yathå måæ prapadyante tåæstathaiva bhajåmyaham |


mama vartmånuvartante manu≤yå¢ pårtha sarvaŸa¢ || 4.11 ||

ye yatheti | ye yathå yena prakåre√a yena prayojanena yatpha-


lårthitayå måæ prapadyante tåæstathaiva bhajåmyanugÿh√åmya-
hamityetat | te≤åæ mok≤aæ pratyanarthitvåt | na hyekasya mumu-
k≤utvaæ phalårthitvaæ ca yugapatsaæbhavati | ato ye phalårthina-
stånphalapradånena ye yathoktakåri√astvaphalårthino mumuk≤a-
vaŸca tåñjñana pradånena ye jñånina¢ saænyåsino mumuk≤avaŸca
tånmok≤apradånena tathå årtånårtihara√ena ityevaæ yathå prapa-
dyante ye tåæstathaiva bhajåmıtyartha¢ | na punå rågadve≤animi-
ttaæ mohanimittaæ vå kaæcidbhajåmi | sarvathåpi sarvåvasthasya
mameŸvarasya vartma mårgamanuvartante manu≤yå¢ yatphalå-
rthitayå yasminkarma√yadhikÿtå ye prayatante te manu≤yå atro-
cyante he pårtha sarvaŸa¢ sarvaprakårai¢ || yadi taveŸvarasya rågå-
dido≤åbhåvåtsarvaprå√i≤vanujighÿk≤åyåæ tulyåyåæ sarvaphala-
pradånasamarthe ca tvayi sati “våsudeva¢ sarvam” iti jñånenaiva
mumuk≤ava¢ santa¢ kasmåttvåmeva sarve na pratipadyanta iti Ÿÿ-
√u tatra kåra√am –

kå§k≤anta¢ karma√åæ siddhiæ yajanta iha devatå¢ |


k≤ipraæ hi månu≤e loke siddhirbhavati karmajå || 4.12 ||

kå§k≤anta iti | kå§k≤anto ’bhıpsanta¢ karma√åæ siddhiæ pha-


lani≤pattiæ prårthayanto yajanta ihåsmiælloke devatå indrågnyå-
dyå¢ “atha yo ’nyåæ devatåmupåste ’nyo ’såvanyo ’hamasmıti na
sa veda yathå paŸurevaæ sa devånåm” (bÿ. 1.4.10) iti Ÿrute¢ | te≤åæ
4.14 caturtho ’dhyåya¢ 829

hi bhinnadevatåyåjinåæ phalåkå§k≤i√åæ k≤ipraæ Ÿıghraæ hi ya-


smånmånu≤e loke | månu≤yaloke hi Ÿåstrådhikåra¢ | “k≤ipraæ hi
månu≤e loke” iti viŸe≤a√ådanye≤vapi karmaphalasiddhiæ darŸayati
bhagavån | månu≤e loke var√åŸramådikarmå√ıti viŸe≤a¢ | te≤åæ ca
var√åŸramådyadhikårikarma√åæ phalasiddhi¢ k≤ipraæ bhavati ka-
rmajå karma√o jåtå || månu≤a eva loke var√åŸramådikarmådhikåro
nånye≤u loke≤viti niyama¢ kiæ nimitta ityathavå var√åŸramådipra-
vibhågopetå manu≤yå mama vartmånuvartante sarvaŸa ityuktaæ
kasmåtpuna¢ kåra√ånniyamena tavaiva vartmånuvartante nånya-
sya ityucyate –

cåturvar√yaæ mayå sÿ≤†aæ gu√akarmavibhågaŸa¢ |


tasya kartåramapi måæ viddhyakartåramavyayam || 4.13 ||

cåturvar√yamiti | cåturvar√yaæ catvåra eva var√åŸcåturva-


r√yaæ mayeŸvare√a sÿ≤†amutpåditaæ “bråhma√o ’sya mukhamå-
sıt” (ÿ. 10.90.12) ityådiŸrute¢ | gu√akarmavibhågaŸo gu√avibhågaŸa¢
karmavibhågaŸaŸca | gu√å¢ sattvarajastamåæsi | tatra såttvikasya
sattvapradhånasya bråhma√asya “Ÿamo damastapa¢” (bha. gı. 18.42)
ityådıni karmå√i | sattvopasarjanaraja¢pradhånasya k≤atriyasya Ÿau-
ryateja¢prabhÿtıni karmå√i | tamaupasarjanaraja¢pradhånasya vai-
Ÿyasya kÿ≤yådıni karmå√i | rajaupasarjanatama¢pradhånasya Ÿ¥dra-
sya ŸuŸr¥≤aiva karmetyevaæ gu√akarmavibhågaŸaŸcåturvar√yaæ
mayå sÿ≤†amityartha¢ | taccedaæ cåturvar√yaæ nånye≤u loke≤vato
månu≤e loka iti viŸe≤a√am | hanta tarhi – cåturvar√yasargåde¢ ka-
rma√a¢ kartÿtvåttatphalena yujyase ’to na tvaæ nityamukto nitye-
ŸvaraŸca iti – ucyate | yadyapi måyåsaævyavahåre√a tasya karma-
√a¢ kartåramapi santaæ måæ paramårthato viddhyakartåram | ata
evåvyayamasaæsåri√aæ ca måæ viddhi || ye≤åæ tu karma√åæ ka-
rtåraæ måæ manyase paramårthataste≤åmakartaivåhaæ yata¢ –

na måæ karmå√i limpanti na me karmaphale spÿhå |


iti måæ yo ’bhijånåti karmabhirna sa badhyate || 4.14 ||

na måmiti | na måæ tåni karmå√i limpanti dehådyåraæbha-


katvenåhaækåråbhavåt | na ca te≤åæ karma√åæ phale≤u me mama
spÿhå tÿ≤√å | ye≤åæ tu saæsari√åmahaæ kartetyabhimåna¢ karma-
830 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 4.14

su spÿhå tatphale≤u ca tåni karmå√i limpantıti yuktaæ tadabhåvå-


nna måæ karmå√i limpanti | ityevaæ yo ’nyo ’pi måmåtmatvenå-
bhijånåti nåhaæ kartå na me karmaphale spÿheti sa karmabhirna
badhyate | tasyåpi na dehådyåraæbhakå√i karmå√i bhavantıtya-
rtha¢ || nåhaæ kartå na me karmaphale spÿheti –

evaæ jñåtvå kÿtaæ karma p¥rvairapi mumuk≤ubhi¢ |


kuru karmaiva tasmåttvaæ p¥rvai¢ p¥rvataraæ kÿtaæ || 4.15 ||

evamiti | evaæ jñåtvå kÿtaæ karma p¥rvairapyatikråntairmu-


muk≤ubhi¢ | kuru tena karmaiva tvaæ na t¥≤√ımåsanaæ nåpi saæ-
nyåsa¢ kartavyastasmåttvaæ p¥rvairapyanu≤†hitatvåt | yadyanå-
tmajñastvaæ tadå åtmaŸuddhyarthaæ tattvaviccellokasaægrahå-
rthaæ p¥rvairjanakådibhi¢ p¥rvataraæ kÿtaæ nådhunåtanaæ kÿ-
taæ nirvartitam || tatra karma cetkartavyaæ tvadvacanådeva karo-
myahaæ kiæ viŸe≤itena p¥rvai¢ p¥rvataraæ kÿtamiti | ucyate ya-
smånmahadvai≤amyaæ karma√i | katham –

kiæ karma kimakarmeti kavayo ’pyatra mohitå¢ |


tatte karma pravak≤yåmi yajjñåtvå mok≤yase ’Ÿubhåt || 4.16 ||

kiæ karmeti | kiæ karma kiæ cåkarmeti kavayo medhåvino


’pyatråsminkarmådivi≤aye mohitå mohaæ gatå¢ | tadataste tubhya-
mahaæ karmåkarma ca pravak≤yåmi yajjñåtvå viditvå karmådi
mok≤yase ’Ÿubhåtsaæsåråt || na caitattvayå mantavyaæ – karma
nåma dehådice≤†å lokaprasiddhamakarma nåma tadakriyå t¥≤√ımå-
sanaæ kiæ tatra boddhavyam | iti | kasmåd | ucyate –

karma√o hyapi boddhavyaæ boddhavyaæ ca vikarma√a¢ |


akarma√aŸca boddhavyaæ gahanå karma√o gati¢ || 4.17 ||

karma√a iti | karma√a¢ Ÿåstravihitasya hi yasmådapyasti bo-


ddhavyam | boddhavyaæ cåstyevaæ vikarma√a¢ prati≤iddhasya | ta-
thå ’karma√aŸca t¥≤√ıæbhåvasya boddhavyamastıti tri≤vapyadhyå-
håra¢ kartavya¢ | yasmådgahanå vi≤amå durjñeyå karma√a ityu-
palak≤a√årthaæ karmådınåæ karmåkarmavikarma√åæ gatiryåthå-
4.18 caturtho ’dhyåya¢ 831

tmyaæ tattvamityartha¢ || kiæ punastattvaæ karmåderyadboddha-


vyaæ vak≤yåmıti pratijñåtamucyate –

karma√yakarma ya¢ paŸyedakarma√i ca karma ya¢ |


sa buddhimånmanu≤ye≤u sa yukta¢ kÿtsnakarmakÿt || 4.18 ||

karma√ıti | karma√i kriyata iti karma vyåpåramåtraæ tasmi-


nkarma√yakarma karmåbhåvaæ ya¢ paŸyedakarma√i ca karmå-
bhåve kartÿtantratvåtpravÿttinivÿttyo¢ – vastvapråpyaiva hi sarva
eva kriyåkårakådivyavahåro ’vidyåbh¥måveva – karma ya¢ pasye-
tpaŸyati sa buddhimånmanu≤ye≤u sa yukto yogı ca kÿtsnakarmakÿ-
tsamastakarmakÿcca sa iti st¥yate karmåkarma√oritaretaradarŸı ||
nanu kimidaæ viruddhamucyate karma√yakarma ya¢ paŸyeditya-
karma√i ca karmeti | na hi karmåkarma syådakarma vå karma | ta-
tra viruddhaæ kathaæ paŸyeddra≤†å | na ’karmaiva paramårthata¢
satkarmavadavabhåsate m¥ƒhadÿ≤†erlokasya tathå karmaivåkarma-
vat | tatra yathåbh¥tadarŸanårthamåha bhagavånkarma√yakarma
ya¢ paŸyedityådi | ato na viruddham | buddhimattvådyupapatte-
Ÿca | “boddhavyam” (bha. gı. 4.17) iti ca yathåbh¥tadarŸanamucya-
te | na ca viparıtajñånådaŸubhånmok≤a√aæ syåt “yajjñåtvå mo-
k≤yase ’Ÿubhåt” (bha. gı. 4.16) iti coktam | tasmåtkarmåkarma√ı vi-
paryaye√a gÿhıte prå√ibhistadviparyayagraha√anivÿttyarthaæ bha-
gavato vacanaæ karma√yakarma ya ityådi | na cåtra karmådhika-
ra√amakarmåsti ku√ƒe badarå√ıva | nåpyakarmådhikara√aæ ka-
rmåsti karmåbhåvatvådakarma√a¢ | ato viparıtagÿhıte eva karmå-
karma√ı laukikairyathå mÿgatÿ≤√ikåyåmudakaæ Ÿuktikåyåæ vå ra-
jatam || nanu karmaiva sarve≤åæ na kvacidvyabhicarati | tanna |
nausthasya nåvi gacchantyåæ tattasthe≤vagati≤u nage≤u pratik¥la-
gatidarŸanådd¥re≤u cak≤u≤å ’saænikÿ≤†e≤u gacchatsu gatyabhåva-
darŸanåt | evamihåpyakarma√i karmadarŸanaæ karma√i cåkarma-
darŸanaæ viparıtadarŸanaæ yena tanniråkara√årthamucyate ka-
rma√yakarma ya¢ paŸyedityådi || tadetaduktaprativacanamapyasa-
kÿdatyantaviparıtadarŸanabhåvitatayå momuhyamåno loka¢ Ÿruta-
mapyasakÿttattvaæ vismÿtya mithyåprasa§gamavatåryåvatårya co-
dayatıti puna¢ punaruttaramåha bhagavåndurvijñeyatvaæ cålak≤ya
vastuna¢ | “avyakto ’yamacintyo ’yam” (bha. gı. 2.25) “na jåyate
mriyate” (bha. gı. 2.20) ityådinå åtmani karmåbhåva¢ Ÿrutismÿtiya-
832 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 4.18

nyåyaprasiddha ukto vak≤yamå√aŸca | tasminnåtmani karmåbhåve


’karma√i karmaviparıtadarŸanamatyantanir¥ƒham | yata¢ “kiæ
karma kimakarmeti kavayo ’pyatra mohit墔 (bha. gı. 4.16) | dehå-
dyåŸrayaæ karma åtmanyadhyåropyåhaæ kartå mamaitatkarma
mayåsya karma√a¢ phalaæ bhoktavyamiti ca tathå ’haæ t¥≤√ıæ
bhavåmi yenåhaæ niråyåso ’karmå sukhı syåmiti kåryakara√åŸra-
yaæ vyåpåroparamaæ tatkÿtaæ ca sukhitvamåtmanyadhyåropya
– na karomi kiñcitt¥≤√ıæ sukhamåse – ityabhimanyate loka¢ | ta-
tredaæ lokasya viparıtadarŸanåpanayåyåha bhagavånkarma√yaka-
rma ya¢ paŸyedityådi || atra ca karma karmaiva satkåryakara√åŸra-
yaæ karmarahite ’vikriya åtmani sarvairadhyastaæ yata¢ pa√ƒito
’pyahaæ karomıti manyate | ata åtmasamavetatayå sarvalokaprasi-
ddhe karma√i nadık¥lasthe≤viva vÿk≤e≤u gatipråtilomyenåkarma
karmåbhåvaæ yathåbh¥taæ gatyabhåvamiva vÿk≤e≤u ya¢ paŸyeda-
karma√i ca kåryakara√avyåpåroparame karmavadåtmanyadhyåro-
pite – t¥≤√ımakurvansukhamåse – ityahaækåråbhisaædhihetutvå-
ttasminnakarma√i ca karma ya¢ paŸyet | ya evaæ karmåkarmavi-
bhågajña¢ sa buddhimånpa√ƒito manu≤ye≤u sa yukto yogı kÿtsna-
karmakÿcca so ’Ÿubhånmok≤ita¢ kÿtakÿtyo bhavatıtyartha¢ || ayaæ
Ÿloko ’nyathå vyåkhyåta¢ kaiŸcit | kathaæ | nityånåæ kila karma-
√åmıŸvarårthe ’nu≤†hıyamånånåæ tatphalåbhåvådakarmå√i tånyu-
cyante gau√yå vÿttyå | te≤åæ cåkara√amakarma tacca pratyavåya-
phalatvåtkarmocyate gau√yaiva vÿttyå | tatra nitye karma√yaka-
rma ya¢ paŸyetphalåbhåvådyathå dhenurapi gauragaurityucyate k≤ı-
råkhyaæ phalaæ na prayacchatıti tadvat | tathå nityåkara√e tvaka-
rma√i ca karma ya¢ paŸyennarakådipratyavåyaphalaæ prayaccha-
tıti | naitadyuktaæ vyåkhyånaæ | evaæjñånådaŸubhånmok≤ånu-
papatte¢ “yajjñåtvå mok≤yase ’Ÿubhåt” (bha. gı. 4.16) iti bhaga-
vatoktaæ vacanaæ bådhyeta | katham | nityånåmanu≤†hånådaŸu-
bhåtsyånnåma mok≤a√aæ na tu te≤åæ phalåbhåvajñånåt | na hi ni-
tyånåæ phalåbhåvajñånamaŸubhamuktiphalatvena coditaæ nitya-
karmajñånaæ vå | na ca bhagavataivehoktam | etenåkarma√i ka-
rmadarŸanaæ pratyuktam | na hyakarma√i karmeti darŸanaæ ka-
rtavyatayeha codyate nityasya tu kartavyatåmåtram | na cåkara-
√ånnityasya pratyavåyo bhavatıti vijñånåtkiñcitphalaæ syåt | nå-
pi nityåkara√aæ jñeyatvena coditam | nåpi karmåkarmeti mithyå-
darŸanådaŸubhånmok≤a√aæ buddhimattvaæ yuktatå kÿtsnakarma-
4.19 caturtho ’dhyåya¢ 833

kÿttvådi ca phalamupapadyate stutirvå | mithyåjñånameva hi så-


k≤ådaŸubhar¥pam | kuto ’nyasmådaŸubhånmok≤a√aæ na hi tama-
stamaso nivartakaæ bhavati || nanu karma√i yadakarmadarŸana-
makarma√i vå karmadarŸanaæ na tanmithyåjñånaæ kiæ tarhi gau-
√a phalabhåvåbhåvanimittam | na | karmåkarmavijñånådapi gau-
√åtphalasyåŸrava√åt | nåpi ŸrutahånyaŸrutaparikalpanåyåæ kaŸci-
dviŸe≤a upalabhyate | svaŸabdenåpi Ÿakyaæ vaktuæ | nityakarma-
√åæ phalaæ nåstyakara√åcca te≤åæ narakapåta¢ syåditi | tatra
vyåjena paravyåmohar¥pe√a karma√yakarma ya¢ paŸyedityådinå
kim | tatraivaævyåcak≤å√ena bhagavatoktaæ våkyaæ lokavyåmo-
hårthamiti vyaktaæ kalpitaæ syåt | na caitacchadmar¥pe√a våkye-
na rak≤a√ıyaæ vastu nåpi Ÿabdåntare√a puna¢ punarucyamånaæ
subodhaæ syådityeva vaktuæ yuktam | “karma√yevådhikåraste”
(bha. gı. 2.47) ityatra sphu†atara ukto ’rtho na punarvaktavyo bha-
vati | sarvatra ca praŸastaæ boddhavyaæ ca kartavyameva | na ni-
≤prayojanaæ boddhavyamityucyate | na ca mithyåjñånaæ boddha-
vyaæ bhavati tatpratyupasthåpitaæ vå vastvåbhåsam | nåpi nityå-
nåmakara√ådabhåvåtpratyavåyabhåvotpåtti¢ “nåsato vidyate bhå-
va¢” (bha. gı. 2.16) iti vacanåt “kathamasata¢ sajjåyeta” (chå. 6.2.2)
iti ca darŸitamasata¢ sajjanmaprati≤edhåt | asata¢ sadutpattiæ bru-
vatå ’sadeva sadbhavetsaccåpyasadbhavedityuktaæ syåt | taccåyu-
ktaæ sarvapramå√avirodhåt | na ca ni≤phalaæ vidadhyåtkarma Ÿå-
straæ du¢khasvar¥patvåddu¢khasya ca buddhip¥rvakatayå kårya-
tvånupapatte¢ | tadakara√e ca narakapåtåbhyupagamådanarthåyai-
vobhayathåpi kara√e ’kara√e ca Ÿåstraæ ni≤phalaæ kalpitaæ syåt |
svåbhyupagamavirodhaŸca nityaæ ni≤phalaæ karmetyabhyupaga-
mya mok≤aphalåyeti bruvata¢ | tasmådyathåŸruta evårtha¢ karma-
√yakarma ya ityåde¢ | tathå ca vyåkhyåto ’smabhi¢ Ÿloka¢ || tade-
tatkarma√yakarmådidarŸanaæ st¥yate –

yasya sarve samåraæbhå¢ kåmasaækalpavarjitå¢ |


jñånågnidagdhakarmå√aæ tamåhu¢ pa√ƒitaæ budhå¢ || 4.19 ||

yasyeti | yasya yathoktadarŸina¢ sarve yåvantå samåraæbhå¢


karmå√i samårabhyanta iti samåraæbhå¢ kåmasaækalpavarjitå¢
kåmaistatkåra√aiŸca saækalpairvarjitå mudhaiva ce≤†åmåtrå anu-
≤†hıyante | pravÿttena cellokasaægrahårthaæ nivÿttena cejjıvana-
834 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 4.19

måtrårtham | taæ jñånågnidagdhakarmå√aæ karmådåvakarmådi-


darŸanaæ jñånaæ tadevågnistena jñånågninå dagdhåni ŸubhåŸu-
bhalak≤a√åni karmå√i yasya tamåhu¢ paramårthata¢ pa√ƒitaæ bu-
dhå brahmavida¢ || yastvakarmådidarŸı so ’karmådidarŸanådeva ni-
≤karmå saænyåsı jıvanamåtrårthace≤†a¢ sankarma√i na pravartate
yadyapi prågvivekata¢ pravÿtta¢ | yastu prårabdhakarmå sannutta-
rakålamutpannåtmasamyagdarŸana¢ syåtsa sarvakarma√i prayoja-
namapaŸyansasådhanaæ karma parityajatyeva | sa kutaŸcinnimittå-
tkarmaparityågåsaæbhave sati karma√i tatphale ca sa§garahitatayå
svaprayojanåbhåvållokasaægrahårthaæ p¥rvavatkarma√i pravÿtto
’pi naiva kiñcitkaroti jñånågnidagdhakarmatvåttadıyaæ karmåka-
rmaiva saæpadyate | ityetamarthaæ darŸayi≤yannåha –

tyaktvå karmaphalåsa§gaæ nityatÿpto niråŸraya¢ |


karma√yabhipravÿtto ’pi naiva kiñcitkaroti sa¢ || 4.20 ||
tyaktveti | tyaktvå karmasvabhimånaæ phalåsa§gaæ ca yatho-
ktena jñånena nityatÿpto niråkå§k≤o vi≤aye≤vityartha¢ | niråŸraya
åŸrayarahita¢ | åŸrayo nåma yadåŸritya puru≤årthaæ sisådhayi≤ati |
dÿ≤†ådÿ≤†e≤†aphalasådhanåŸrayarahita ityartha¢ | vidu≤å kriyamå-
√aæ karma paramårthato ’karmaiva tasya ni≤kriyåtmadarŸanasaæ-
pannatvåt | tenaivaæbh¥tena prayojanåbhåvåtsasådhanaæ karma
parityaktavyameveti pråpte tato nirgamåsaæbhavållokasaægraha-
cikır≤ayå Ÿi≤†avigarhanåparijihır≤ayå vå p¥rvavatkarma√yabhipra-
vÿtto ’pi ni≤kriyåtmadarŸanasaæpannatvånnaiva kiñcitkaroti sa¢ ||
ya¢ puna¢ p¥rvoktaviparıta¢ prågeva karmåraæbhådbrahma√i sa-
rvåntare pratyagåtmani ni≤kriye saæjåtåtmadarŸana¢ sa dÿ≤†ådÿ≤†e-
≤†avi≤ayåŸırvivarjitatayå dÿ≤†ådÿ≤†årthe karma√i prayojanamapa-
Ÿyansasådhanaæ karma saænyasya Ÿarırayåtråmåtrace≤†o yatirjñå-
nani≤†ho mucyate | ityetamarthaæ darŸayitumåha –

niråŸıryatacittåtmå tyaktasarvaparigraha¢ |
Ÿårıraæ kevalaæ karma kurvannåpnoti kilbi≤am || 4.21 ||
niråŸıriti | niråŸırnirgatå åŸi≤o yasmåtsa niråŸı¢ | yatacittåtmå
cittamanta¢kara√amåtmå båhya¢ kåryakara√asaæghåtaståvubhå-
vapi yatau saæyatau yena sa yatacittåtmå | tyaktasarvaparigraha-
styakta¢ sarva¢ parigraho yena sa tyaktasarvaparigraha¢ | Ÿårıraæ
4.22 caturtho ’dhyåya¢ 835

Ÿarırasthitimåtraprayojanaæ kevalaæ tatråpyabhimånavarjitaæ ka-


rma kurvannåpnoti na pråpnoti kilbi≤amani≤†ar¥paæ påpaæ dha-
rmaæ ca | dharmo ’pi mumuk≤o¢ kilbi≤ameva bandhåpådakatvåt |
tasmåttåbhyåæ mukto bhavati saæsårånmukto bhavatıtyartha¢ ||
kiæ ca Ÿårıraæ kevalaæ karmetyatra kiæ Ÿarıranirvartyaæ Ÿårıraæ
karmåbhipretamåhosviccharırasthitimåtraprayojanaæ Ÿårıraæ ka-
rmeti | kiæ cåto yadi Ÿarıranirvartyaæ Ÿårıraæ karma yadi vå Ÿa-
rırasthitimåtraprayojanaæ Ÿårıramiti | ucyate – yadå Ÿarıranirva-
rtyaæ karma Ÿårıramabhipretaæ syåttadå dÿ≤†ådÿ≤†aprayojanaæ ka-
rma prati≤iddhamapi Ÿarırena kurvannåproti kilbi≤amiti bruvato vi-
ruddhåbhidhånaæ prasajyeta | Ÿåstrıyaæ ca karma dÿ≤†ådÿ≤†apra-
yojanaæ Ÿarıre√a kurvannåpnoti kilbi≤amityapi bruvato ’pråpta-
prati≤edhaprasa§ga¢ | Ÿårıraæ karma kurvanniti viŸe≤a√åtkevalaŸa-
bdaprayogåcca vå§manasanirvartyaæ karma vidhiprati≤edhavi≤a-
yaæ dharmådharmaŸabdavåcyaæ kurvanpråpnoti kilbi≤amityuktaæ
syåt | tatråpi vå§manasåbhyåæ vihitånu≤†hånapak≤e kilbi≤apråpti-
vacanaæ viruddhamåpadyeta | prati≤iddhasevåpak≤e ’pi bh¥tårthå-
nuvådamåtramanarthakaæ syåt | yadå tu Ÿarırasthitimåtraprayoja-
naæ Ÿårıraæ karmåbhipretaæ bhavettadå dÿ≤†ådÿ≤†aprayojanaæ ka-
rma vidhiprati≤edhagamyaæ Ÿarıravå§manasanirvartyamanyada-
kurvaæstaireva Ÿarırådibhi¢ Ÿarıråsthitimåtraprayojanaæ kevala-
Ÿabdaprayogådahaæ karomıtyabhimånavarjita¢ Ÿarırådice≤†åmåtraæ
lokadÿ≤†yå kurvannåpnoti kilbi≤am | evaæbh¥tasya påpaŸabdavå-
cyakilbi≤apråptyasaæbhavåtkilbi≤aæ saæsåraæ nåpnoti jñånågni-
dagdhasarvakarmatvådapratibandhena mucyata eveti p¥rvoktasa-
myagdarŸanaphalånuvåda evai≤a¢ | evaæ Ÿårıraæ kevalaæ karma i-
tyasyårthasya parigrahe niravadyaæ bhavati || tyaktasarvaparigra-
hasya yaterannåde¢ Ÿarırasthitiheto¢ parigrahasyåbhåvådyåcanådi-
nå Ÿarırasthitau kartavyatåyåæ pråptåyåæ “ayåcitamasaækøptamu-
papannaæ yadÿcchayå” (bau. 21.8.12) ityådinå vacanenånujñåtaæ
yate¢ Ÿarırasthitihetorannåde¢ pråptidvåramåvi≤kurvannåha –

yadÿcchålåbhasaætu≤†o dvandvåtıto vimatsara¢ |


sama¢ siddhåvasiddhau ca kÿtvåpi na nibadhyate || 4.22 ||

yadÿccheti | yadÿcchålåbhasaætu≤†o ’prårthitopanato låbho ya-


dÿcchålåbhastena saætu≤†a¢ saæjåtålaæpratyaya¢ | dvandvåtıto
836 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 4.22

dvandvai¢ Ÿıto≤√ådibhirhanyamåno ’pyavi≤a√√acitto dvandvåtıta


ucyate | vimatsaro vigatamatsaro nirvairabuddhi¢ samastulyo ya-
dÿcchålåbhasya siddhåvasiddhau ca | ya evaæbh¥to yatirannåde¢
Ÿarırasthitihetorlabhålåbhayo¢ samo har≤avi≤ådavarjita¢ karmådå-
vakarmådidarŸı yathåbh¥tåtmadarŸanani≤†ha¢ sañcharırasthitimå-
traprayojane bhik≤å†anådikarma√i Ÿarırådinirvartye “naiva kiñci-
tkaromyahaæ”(bha. gı. 5.8) “gu√å gu√e≤u vartante” (bha. gı. 3.28) i-
tyevaæ sadå saæparicak≤å√a åtmana¢ kartÿtvåbhåvaæ paŸyannai-
va kiñcidbhik≤å†anådikaæ karma karoti | lokavyavahårasåmånya-
darŸanena tu laukikairåropitakartÿtve bhik≤å†anådau karma√i kartå
bhavati | svånubhavena tu Ÿåstrapramå√ådijanitenåkartaiva | sa e-
vaæ parådhyåropitakartÿtva¢ Ÿarırasthitimåtraprayojanaæ bhik≤å-
†anådikaæ karma kÿtvåpi na nibadhyate bandhaheto¢ karma√a¢
sahetukasya jñånågninå dagdhatvådityuktånuvåda evai≤a¢ || “tya-
ktvå karmaphalåsa§gaæ” (bha. gı. 4.20) ityantena Ÿlokena ya¢ prå-
rabdhakarmå sanyadå ni≤kriyabrahmåtmadarŸanasaæpanna¢ syå-
ttadå tasyåtmana¢ kartÿkarma prayojanåbhåvadarŸina¢ karmapari-
tyåge pråpte kutaŸcinnimittåttadasaæbhave sati p¥rvavattasminka-
rma√yabhipravÿttasyåpi “naiva kiñcitkaroti” (bha. gı. 4.20) iti ka-
rmåbhåva¢ pradarŸita¢ | yasyaivaæ karmåbhåvo darŸitastasyaiva –

gatasa§gasya muktasya jñånåvasthitacetasa¢ |


yajñåyåcarata¢ karma samagraæ pravilıyate || 4.23 ||

gatasa§gasyeti | gatasa§gasya sarvato nivÿttåsaktermuktasya


nivÿttadharmådharmådibandhanasya jñånåvasthitacetaso jñåna e-
våvasthitaæ ceto yasya so ’yaæ jñånåvasthitacetåstasya yajñåya
yajñanirvÿttyarthamåcarato nirvartayata¢ karma samagraæ sahå-
gre√a phalena vartata iti samagraæ karma tatsamagraæ pravilıyate
vinaŸyatıtyartha¢ || kasmåtpuna¢ kåra√åtkriyamå√aæ karma sva-
kåryåraæbhamakurvatsamagraæ pravilıyata ityucyate yata¢ –

brahmårpa√aæ brahma havirbrahmågnau brahma√å hutam |


brahmaiva tena gantavyaæ brahmakarmasamådhinå || 4.24 ||

brahmeti | brahmårpa√aæ yena kara√ena brahmaviddhavira-


gnåvarpayati tadbrahmaiveti paŸyati tasyåtmavyatireke√åbhåvaæ
4.24 caturtho ’dhyåya¢ 837

paŸyati yathå Ÿuktikåyåæ rajatåbhåvaæ paŸyati taducyate brahmai-


vårpa√amiti yathå yadrajataæ tacchuktikaiveti | brahmårpa√ami-
tyasamaste pade | yadarpa√abuddhyå gÿhyate loke tadasya bra-
hmavido brahmaivetyartha¢ | brahma havistathå yaddhavirbu-
ddhyå gÿhyamå√aæ tadbrahmaivåsya | tathå brahmågnåviti sama-
staæ padam | agnirapi brahmaiva yatra h¥yate brahma√å kartrå
brahmaiva kartetyartha¢ | yattena hutaæ havanakriyå tadbrahmai-
va | yattena gantavyaæ phalaæ tadapi brahmaiva brahmakarmasa-
mådhinå | brahmaiva karma brahmakarma tasminsamådhiryasya
sa brahmakarmasamådhistena brahmakarmasamådhinå brahmaiva
gantavyam || evaæ lokasaægrahaæ cikır≤u√åpi kriyamå√aæ karma
paramårthato ’karma brahmabuddhyupamÿditatvåt | evaæ sati ni-
vÿttakarma√o ’pi sarvakarmasaænyåsina¢ samyagdarŸanastutya-
rthaæ yajñatvasaæpådanaæ jñånasya sutaråmupapadyate yada-
rpa√ådyadhiyajñe prasiddhaæ tadasyådhyåtmaæ brahmaiva para-
mårthadarŸina iti | anyathå sarvasya brahmatve ’rpa√ådınåmeva
viŸe≤ato brahmatvåbhidhånamanarthakaæ syåt | tasmådbrahmaive-
daæ sarvamityabhijånato vidu≤a¢ karmåbhåva¢ | kårakabuddhya-
bhåvåcca | na hi kårakabuddhirahitaæ yajñåkhyaæ karma dÿ≤†am |
sarvamevågnihotrådikaæ karma ŸabdasamarpitadevatåviŸe≤asaæ-
pradånådikårakabuddhimatkartrabhimånaphalåbhisaædhimacca
dÿ≤†aæ nopamÿditakriyåkårakaphalabhedabuddhimatkartÿtvåbhi-
månaphalåbhisaædhirahitaæ vå | idaæ tu brahmabuddhyupamÿdi-
tårpa√ådikårakakriyåphalabhedabuddhi karma | ato ’karmaiva tat |
tathå ca darŸitaæ “karma√yakarma ya¢ paŸyet” (bha. gı. 4.18) “ka-
rma√yabhipravÿtto ’pi naiva kiñcitkaroti”(bha. gı. 4.20) “gu√å gu-
√e≤u vartante” (bha. gı. 3.28) “naiva kiñcitkaromıti yukto manyeta
tattvavit” (bha. gı. 5.8) ityådibhi¢ | tathå ca darŸayaæstatra tatra
kriyåkåraphalabhedabuddhyupamardaæ karoti | dÿ≤†å ca kåmyå-
gnihotrådau kåmopamardena kåmyågnihotrådihåni¢ | tathå mati-
p¥rvakåmatip¥rvakådınåæ karma√åæ kåryaviŸe≤asyåraæbhaka-
tvaæ dÿ≤†am | tathehåpi brahmabuddhyupamÿditårpa√ådikåraka-
kriyåphalabhedabuddherbåhyace≤†åmåtre√a karmåpi vidu≤o ’ka-
rma saæpadyate | ata uktaæ “samagraæ pravilıyate” (bha. gı. 4.23)
iti || atra kecidåhu¢ – yadbrahma tadarpa√ådıni | brahmaiva kilå-
rpa√ådinå pañcavidhena kårakåtmanå vyavasthitaæ sattadeva ka-
rma karoti | tatra nårpa√ådibuddhirnivartyate kiæ tvarpa√ådi≤u
838 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 4.24

brahmabuddhirådhıyate yathå pratimådau vi≤√vådibuddhirvå nå-


mådau brahmabuddhi¢ – iti || satyamevamapi syådyadi jñånaya-
jñastutyarthaæ prakara√aæ na syåt | atra tu samyagdarŸanaæ jñå-
nayajñaŸabditamanekånyajñaŸabditånkriyåviŸe≤ånupanyasya “Ÿre-
yåndravyamayådyajñåjjñånayajña¢” (bha. gı. 4.33) iti jñånaæ stau-
ti | atra ca samarthamidaæ vacanaæ “brahmårpa√am” ityådi jñåna-
sya yajñatvasaæpådane ’nyathå sarvasya brahmatve ’rpa√ådınå-
meva viŸe≤ato brahmatvåbhidhånamanarthakaæ syåt | ye tvarpa√å-
di≤u pratimåyåæ vi≤√udÿ≤†ivadbrahmadÿ≤†i¢ k≤ipyate nåmådi≤viva
ceti bruvate na te≤åæ brahmavidyokteha vivak≤itå syådarpa√ådivi-
≤ayatvåjjñånasya | na ca dÿ≤†isaæpådanajñånena mok≤aphalaæ prå-
pyate | “brahmaiva tena gantavyam” iti cocyate | viruddhaæ ca sa-
myagdarŸanamantare√a mok≤aphalaæ pråpyata iti | prakÿtaviro-
dhaŸca | samyagdarŸanaæ ca prakÿtaæ “karma√yakarma ya¢ pa-
Ÿyet” (bha. gı. 4.18) ityatrånte ca samyagdarŸanaæ tasyaivopasaæ-
håråt “Ÿreyåndravyamayådyajñåjjñånayajña¢” (bha. gı. 4.33) “jñå-
naæ labdhvå paråæ Ÿåntim” (bha. gı. 4.39) ityådinå samyagdarŸana-
stutimeva kurvanupak≤i√o ’dhyåya¢ | tatråkasmådarpa√ådau bra-
hmadÿ≤†iraprakara√e pratimåyåmiva vi≤√udÿ≤†irucyata ityanupapa-
nnam | tasmådyathåvyåkhyåtårtha evåyaæ Ÿloka¢ || tatrådhunå sa-
myagdarŸanasya yajñatvaæ saæpådya tatstutyarthamanye ’pi ya-
jñå upak≤ipyante –

daivamevåpare yajñaæ yogina¢ paryupåsate |


brahmågnåvapare yajñaæ yajñenaivopajuhvati || 4.25 ||

daivameveti | daivameva devå ijyante yena yajñenåsau daivo


yajñastamevåpare yajñaæ yogina¢ karmi√a¢ paryupåsate kurva-
ntıtyartha¢ | brahmågnau “satyaæ jñånamanantaæ brahma” (tai.
2.1) “vijñånamånandaæ brahma” (bÿ. 3.9.28) “yatsåk≤ådaparok≤å-
dbrahma ya åtmå sarvåntara¢” (bÿ. 3.4.1) ityådi vacanoktamaŸanå-
yådisarvasaæsåra dharmavarjitaæ “neti neti” (bÿ. 4.4.22) iti nirastå-
Ÿe≤aviŸe≤aæ brahma Ÿabdenocyate | brahma ca tadagniŸca sa homå-
dhikara√atvavivak≤ayå brahmågnistasminbrahmågnåvapare ’nye
brahmavido yajñaæ yajñaŸabdavåcya åtmå åtmanåmasu yajñaŸa-
bdasya på†håttamåtmånaæ yajñaæ paramårthata¢ parameva bra-
hma santaæ buddhyådyupådhisaæyuktamadhyastasarvopådhidha-
4.28 caturtho ’dhyåya¢ 839

rmakamåhutir¥paæ yajñenaivåtmanaivoktalak≤a√enopajuhvati pra-


k≤ipanti | sopådhikasyåtmano nirupådhikena parabrahmasvar¥pe-
√aiva yaddarŸanaæ sa tasminhomastaæ kurvanti brahmåtmaikatva-
darŸanani≤†hå¢ saænyåsina ityartha¢ || so ’yaæ samyagdarŸanala-
k≤a√o yajño daivayajñådi≤u yajñe≤¥pak≤ipyate “brahmårpa√am”
(bha. gı. 4.24) ityådiŸlokai¢ prastuta¢ “Ÿreyåndravyamayådyajñå-
jjñånayajña¢ paraætapa” (bha. gı. 4.33) ityådinå stutyartham –

Ÿrotrådınındriyå√yanye saæyamågni≤u juhvati |


Ÿabdådınvi≤ayånanya indriyågni≤u juhvati || 4.26 ||

Ÿrotrådınıti | Ÿrotrådınındriyånyanye yogina¢ saæyamågni≤u |


pratındriyaæ saæyamo bhidyata iti bahuvacanam | saæyamå evå-
gnayaste≤u juhvatındriyasaæyamameva kurvantıtyartha¢ | Ÿabdå-
dınvaŸayånanya indriyågni≤u indriyånyevågnayaste≤vindriyågni≤u
juhvati Ÿrotrådibhiraviruddhavi≤ayagraha√aæ homaæ manyante ||
kiæ ca –

sarvå√ındriyakarmå√i prå√akarmå√i cåpare |


åtmasaæyamayogågnau juhvati jñånadıpite || 4.27 ||

sarvå√ıti | sarvå√ındrıyakarmå√ındriyå√åæ karmå√ındriyaka-


rmå√i tathå prå√akarmå√i prå√o våyurådhyåtmikastatkarmå√yå-
kuñcanaprasåra√ådıni tåni cåpara åtmasaæyamayogågnåvåtmani
saæyama åtmasaæyama¢ sa eva yogågnistasminnåtmasaæyama-
yogågnau juhvati prak≤ipanti jñånadıpite sneheneva pradıpe vive-
kavijñånenojjvalabhåvamåpådite juhvati pravilåpayantıtyartha¢ ||

dravyayajñåstapoyajñå yogayajñåstathåpare |
svådhyåyajñånayajñåŸca yataya¢ saæŸitavratå¢ || 4.28 ||

dravyeti | dravyayajñåstırthe≤u dravyaviniyogaæ yajñabuddhyå


kurvanti ye te dravyayajñå¢ | tapoyajñå¢ tapa¢ yajña¢ ye≤åæ ta-
pasvinåæ te tapoyajñå¢ | yogayajñå¢ prå√åyåmapratyåhårådila-
k≤a√o yogo yajño ye≤åæ te yogayajñå¢ | tathå ’pare svådhyåyajñå-
nayajñåŸca svådhyåyo yathåvidhi ÿgådyabhyåso yajño ye≤åæ te
svådhyåyayajñå¢ | jñånayajñå jñånaæ Ÿastrårthaparijñånaæ yajño
840 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 4.28

ye≤åæ te jñånayajñåŸca | yatayo yatanaŸılå¢ saæŸitavratå¢ samya-


kŸitåni tan¥kritåni tık≤√ıkÿtåni vratåni ye≤åæ te saæŸitavratå¢ ||
kiæ ca –

apåne juhvati prå√aæ prå√e ’pånaæ tathåpare |


prå√åpånagatı ruddhvå prå√åyåmaparåya√å¢ || 4.29 ||

apåna iti | apåne ’pånavÿttau juhvati prak≤ipanti prå√aæ prå-


√avÿttiæ p¥rakåkhyaæ prå√åyåmaæ k¥rvantıtyartha¢ | prå√e ’på-
naæ tathå ’pare juhvati recakåkhyaæ ca prå√åyåmaæ kurvantıtye-
tat | prå√åpånagatı mukhanåsikåbhyåæ våyornirgamanaæ prå√a-
sya gati¢ tadviparyaye√ådhogamanamapånasya gatiste prå√åpåna-
gatı ete ruddhvå nirudhya prå√åyåmaparåya√å¢ prå√åyåmatatpa-
rå¢ kumbhakåkhyaæ prå√åyåmaæ k¥rvantıtyartha¢ || kiæ ca –

apare niyatåhårå¢ prå√ånprå√e≤u juhvati |


sarve ’pyete yajñavido yajñak≤apitakalma≤å¢ || 4.30 ||

apara iti | apare niyatåhårå niyata¢ parimita åhåro ye≤åæ te


niyatåhårå¢ santa¢ prå√ånvåyubhedånprå√e≤veva juhvati | yasya
yasya våyorjaya¢ kriyata itarånvåyubhedåæstasmiæstasmiñjuhva-
ti te tatra pravi≤†å iva bhavanti | sarve ’pyete yajñavido yajñak≤api-
takalma≤å yajñairyathoktai¢ k≤apito nåŸita¢ kalma≤o ye≤åæ te ya-
jñak≤apitakalma≤å¢ || evaæ yathoktånyajñånnirvartya –

yajñaŸi≤†åmÿtabhujo yånti brahma sanåtanam |


nåyaæ loko ’styayajñasya kuto ’nya¢ kurusattama || 4.31 ||

yajñaŸi≤†eti | yajñaŸi≤†åmÿtabhujo yajñånåæ Ÿi≤†aæ yajñaŸi-


≤†aæ ca tadamÿtaæ ca yajñaŸi≤†åmÿtaæ tadbhuñjata iti yajñaŸi≤†å-
mÿtabhuja¢ | yathoktånyajñånkÿtvå tacchi≤†ena kålena yathåvidhi
coditamannåmamÿtåkhyaæ bhuñjata iti yajñaŸi≤†åmÿtabhuja¢ | yå-
nti gacchanti brahma sanåtanaæ ciraætanaæ mumuk≤avaŸcet | kå-
låtikramåpek≤ayeti såmarthyådgamyate | nåyaæ loka¢ sarvaprå√i-
sådhåra√o ’pyasti yathoktånåæ yajñånåmeko ’pi yajño yasya nåsti
so ’yajñastasya | kuto ’nyo viŸi≤†asådhanasådhya¢ kurusattama ||
4.34 caturtho ’dhyåya¢ 841

evaæ bahuvidhå yajñå vitatå brahma√o mukhe |


karmajånviddhi tånsarvånevaæ jñåtvå vimok≤yase || 4.32 ||

evamiti | evaæ yathoktå bahuvidhå bahuprakarå yajñå vitatå


vistır√å brahma√o vedasya mukhe dvåre vedadvåre√åvagamyamå-
nå brahma√o mukhe vitatå ucyante tadyathå – våci hi prå√aæ ju-
huma – ityådaya¢ | karmajånkåyikavåcikamånasakarmodbhavånvi-
ddhi tånsarvånanåtmajånnirvyåparo hyåtmå | ata evaæ jñåtvå vi-
mok≤yase ’Ÿubhåt | na madvyåpårå ime nirvyåpåro ’hamudåsına i-
tyevaæ jñåtvå asmåtsamyagdarŸanånmok≤yase saæsårabandhanå-
dityartha¢ || “brahmårpa√am” (bha. gı. 4.24) ityådiŸlokena samya-
gdarŸanasya yajñatvaæ saæpåditaæ | yajñåŸcåneko ’padi≤†å¢ | tai¢
siddhapuru≤årthaprayojanairjñånaæ st¥yate katham –

Ÿreyåndravyamayådyajñåjjñånayajña¢ paraætapa |
sarvaæ karmåkhilaæ pårtha jñåne parisamåpyate || 4.33 ||

Ÿreyåniti | Ÿreyåndravyamayåddravyasådhanasådhyådyajñåjjñå-
nayajño he paraætapa | dravyamayo hi yajña¢ phalasyåraæbhako
jñånayajño na phalåraæbhako ’ta¢ ŸreyånpraŸasyatara¢ | kathaæ
yata¢ sarvaæ karma samastamakhilamapratibaddhaæ pårtha jñåne
mok≤asådhane sarvata¢saæplutodakasthånıye parisamåpyate anta-
rbhavatıtyartha¢ | “yathå kÿtåya vijitåyådhareyå¢ saæyantyevame-
naæ sarvaæ tadabhisameti yatkiñca prajå¢ sådhu kurvanti yasta-
dveda yatsa veda” (chå. 4.1.4) iti Ÿrute¢ || tadetadviŸi≤†aæ jñånaæ
tarhi kena pråpyata ityucyate –

tadviddhi pra√ipåtena paripraŸnena sevayå |


upadek≤yanti te jñånaæ jñåninastattvadarŸina¢ || 4.34 ||

tadviddhi iti | tadviddhi vijånıhi yena vidhinå pråpyata iti | å-


cåryånabhigamya pra√ipåtena prakar≤ena nıcai¢ patanaæ pra√ipå-
to dırghanamaskårastena | kathaæ bandha¢ kathaæ mok≤a¢ kå vi-
dyå kå cåvidyeti paripraŸnena sevayå guruŸuŸr¥≤ayaivamådinå |
praŸraye√å ’’varjitå åcåryå upadek≤yanti kathayi≤yanti te jñånaæ
yathoktaviŸe≤a√aæ jñånina¢ | jñånavanto ’pi kecidyathåvattattva-
darŸanaŸılå apare na | ato viŸina≤†i tattvadarŸina iti | ye samyagda-
842 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 4.34

rŸinastairupadi≤†aæ jñånaæ kåryak≤amaæ bhavati netaraditi bha-


gavato matam || tathå ca satıdamapi samarthaæ vacanam –

yajjñåtvå na punarmohamevaæ yåsyasi på√ƒava |


yena bh¥tånyaŸe≤e√a drak≤yasyåtmanyatho mayi || 4.35 ||
yaditi | yajñåtvå yajjñånaæ tairupadi≤†amadhigamya pråpya
punarbh¥yo mohamevaæ yathedånıæ mohaæ gato ’si punarevaæ
na yåsyasi he på√ƒava | kiñca yena jñånena bh¥tånyaŸe≤e√a bra-
hmådıni staæbaparyantåni drak≤yasi såk≤ådåtmani pratyagåtmani
matsaæsthånımåni bh¥tåni ityatho ’pi mayi våsudeve parameŸvare
cemånıti k≤etrajñeŸvaraikatvaæ sarvopani≤atprasiddhaæ drak≤ya-
sıtyartha¢ || kiæ caitasya jñånasya måhåtmyam –

api cedasi påpebhya¢ sarvebhya¢ påpakÿttama¢ |


sarvaæ jñånaplavenaiva vÿjinaæ saætari≤yasi || 4.36 ||
apıti | api cedasi påpebhya¢ påpakÿdbhya¢ sarvebhyo ’tiŸayena
påpakÿtpåpakÿttama¢ sarvaæ jñånaplavenaiva jñånameva plavaæ
kÿtvå vÿjinaæ vÿjinår√avaæ påpasamudraæ saætari≤yasi | dharmo
’pıha mumuk≤o¢ påpamucyate || jñånaæ kathaæ nåŸayati påpåmiti
dÿ≤†ånta ucyate –

yathaidhåæsi samiddho ’gnirbhasmasåtkurute ’rjuna |


jñånågni¢ sarvakarmå√i bhasmasåtkurute tathå || 4.37 ||
yatheti | yathaidhåæsi kå≤†håni samiddha¢ samyagiddho dıpto
’gnirbhasmasådbhasmıbhåvaæ kurute he ’rjuna jñånamevågnirjñå-
någni¢ sarvakarmå√i bhasmasåtkurute tathå nirbıjıkarotıtyartha¢ |
na hi såk≤ådeva jñånågni¢ karmå√ındhanavadbhasmıkartuæ Ÿa-
knoti | tasmåtsamyagdarŸanaæ sarvakarma√åæ nirbıjatve kåra√a-
mityabhipråya¢ | såmarthyådyena karma√å Ÿarıramårabdhaæ ta-
tpravÿttaphalatvådupabhogenaiva k≤ıyate | ato yånyapravÿttapha-
låni jñånotpatte¢ pråkkÿtåni jñånasahabhåvıni cåtıtånekajanmakÿ-
tåni ca tånyeva sarvå√i bhasmasåtkurute || yata evamata¢ –

na hi jñånena sadÿŸaæ pavitramiha vidyate |


tatsvayaæ yogasaæsiddha¢ kålenåtmani vindati || 4.38 ||
4.41 caturtho ’dhyåya¢ 843

na hıti | na hi jñånena sadÿŸaæ tulyaæ pavitraæ påvanaæ Ÿu-


ddhikaramiha vidyate | tajjñånaæ svayameva yogasaæsiddho yoge-
na karmayoge√a samådhiyoge√a ca saæsiddha¢ saæskÿto yogyatå-
måpanna¢ sanmumuk≤u¢ kålena mahatå åtmani vindati labhata i-
tyartha¢ || yenaikåntena jñånapråptirbhavati sa upåya upadiŸyate –

Ÿraddhåvåællabhate jñånaæ tatpara¢ saæyatendriya¢ |


jñånaæ labdhvå paråæ Ÿåntimacire√ådhigacchati || 4.39 ||

Ÿraddhåvåniti | ŸraddhåvåñŸraddhålurlabhate jñånam | Ÿraddhå-


lutve ’pi bhavati kaŸcinmandaprasthåno ’ta åha tatparo gur¥påsa-
nådåvabhiyukto jñånalabdhyupåye Ÿraddhåvån | tatparo ’pyajite-
ndriya¢ syådityåta åha saæyatendriya¢ saæyatåni vi≤ayebhyo ni-
vartitåni yasyendriyå√i sa saæyatendriya¢ | ya evaæbh¥ta¢ Ÿra-
ddhåvåæstatpara¢ saæyatendriyaŸca so ’vaŸyaæ jñånaæ labhate |
prå√ipåtådistu båhyo ’naikåntiko ’pi bhavati måyåvitvådisaæbha-
vånna tu tacchraddhåvattvådåvityekåntato jñånalabdhyupåya¢ |
kiæ punarjñånalåbhåtsyådityucyate – jñånaæ labdhvå paråæ mo-
k≤åkhyåæ Ÿåntimuparatimacire√a k≤ipramevådhigacchati | samya-
gdarŸanåtk≤iprameva mok≤o bhavatıti sarvaŸåstranyåyaprasiddha¢
suniŸcito ’rtha¢ || atra saæŸayo na kartavya¢ påpi≤†ho hi saæŸa-
ya¢ | kathaæ | ityucyate –

ajñaŸcåŸraddadhånaŸca saæŸayåtmå vinaŸyati |


nåyaæ loko ’sti na paro na sukhaæ saæŸayåtmana¢ || 4.40 ||

ajñaŸceti | ajñaŸcånåtmajñaŸcåŸraddadhånaŸca guruvåkyaŸåstre-


≤vaviŸvåsavåæŸca saæŸayåtmå ca saæŸayacittaŸca vinaŸyati | ajñå-
Ÿraddadhånau yadyapi vinaŸyatasna tathåpi tathå yathå saæŸayå-
tmå | saæŸayåtmå tu påpi≤†ha¢ sarve≤åm | kathaæ | nåyaæ sådhå-
ra√o ’pi loko ’sti tathå na paro loko na sukhaæ tatråpi saæŸayotpa-
tte¢ saæŸayåtmana¢ saæŸayacittasya | tasmåtsaæŸayo na karta-
vya¢ || kasmåt –

yogasaænyastakarmå√aæ jñånasaædhinnasaæŸayam |
åtmavantaæ na karmå√i nibadhnanti dhanañjaya || 4.41 ||
844 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 4.41

yogeti | yogasaænyastakarmå√aæ paramårthadarŸanalak≤a√e-


na yogena saænyaståni karmå√i yena paramårthadarŸinå dharmå-
dharmåkhyåni taæ yogasaænyastakarmå√am | kathaæ yogasaæ-
nyastakarmetyåha – jñånasaæchinnasaæŸayaæ jñånenåtmeŸvarai-
katvadarŸanalak≤a√ena saæchinna¢ saæŸayo yasya sa jñånasaæ-
chinnasaæŸaya¢ | ya evaæ yogasaænyastakarmå tamåtmavantama-
pramattaæ gu√ace≤†år¥pe√a dÿ≤†åni karmå√i na nibadhnantyani-
≤†ådir¥paæ phalaæ nårabhante he dhanañjaya || yasmåtkarmayo-
gånu≤†hånådaŸuddhik≤ayahetukajñånasaæchinnasaæŸayo na niba-
dhyate || karmabhirjñånågnidagdhakarmatvådeva yasmåcca jñåna-
karmånu≤†hånavi≤aye saæŸayavånvinaŸyati –

tasmådajñånasaæbh¥taæ hÿtsthaæ jñånåsinåtmana¢ |


chittvainaæ saæŸayaæ yogamåti≤†hotti≤†ha bhårata || 4.42 ||

tasmåditi | tasmåtpåpi≤†hamajñånasaæbh¥tamajñånådavivekå-
jjåtaæ hÿtsthaæ hÿdi buddhau sthitaæ jñånåsinå Ÿokamohådido≤a-
haraæ samyagdarŸanaæ jñånaæ tadevåsi¢ khaægastena jñånåsinå
’’tmana¢ svasyå ’’tmavi≤ayatvåtsaæŸayasya | na hi parasya saæŸa-
ya¢ pare√a cchettavyatåæ pråpto yena svasyeti viŸe≤yeta | ata å-
tmavi≤ayo ’pi svasyaiva bhavati | chittvainaæ saæŸayaæ svavinåŸa-
hetubh¥taæ yogaæ samyagdarŸanopåyaæ karmånu≤†hånamåti≤†ha
kurvityartha¢ | utti≤†ha cedånıæ yuddhåya bhårateti ||

iti Ÿrımadbhavadgıtås¥pani≤atsu brahmavidyåyåæ


yogaŸåstre Ÿrıkÿ≤√årjunasaævåde
jñånakarmasaænyåsayogo nåma
caturtho ’dhyåya¢

*
atha pañcamo ’dhyåya¢

“karma√yakarma ya¢ paŸyet” (bha. gı. 4.18) ityårabhya “sa yu-


kta¢ kÿtsnakarmakÿt” (bha. gı. 4.18) “jñånågnidagdhakarmå√am”
(bha. gı. 4.19) “Ÿårıraæ kevalaæ karma kurvan” (bha. gı. 4.21) “ya-
dÿcchålåbhasaætu≤†a¢” (bha. gı. 4.22) “brahmårpa√aæ brahma ha-
vi¢” (bha. gı. 4.24) “karmajånviddhi tånsarvån” (bha. gı. 4.32) “sa-
rvaæ karmåkhilaæ pårtha” (bha. gı. 4.33) “jñånågni¢ sarvakarmå-
√i” (bha. gı. 4.37) “yogasaænyastakarmå√am” (bha. gı. 4.41) ityantai-
rvacanai¢ sarvakarmasaænyåsamavocadbhagavån | “chittvainaæ
saæŸayaæ yogamåti≤†ha” (bha. gı. 4.42) ityanena vacanena yogaæ
ca karmånu≤†hånalak≤anamanuti≤†hetyuktavån | tayorubhayoŸca ka-
rmånu≤†hånakarmasaænyåsayo¢ sthitigativatparasparavirodhåde-
kena saha kartumaŸakyatvåtkålabhedena cånu≤†hånavidhånåbhå-
vådarthådetayoranyatarakartavyatåpråptau satyåæ yatpraŸasyata-
rametayo¢ karmånu≤†hånakarmasaænyåsayostatkartavyaæ neta-
radityevaæ manyamåna¢ praŸasyatarabubhutsayå arjuna uvåca
“saænyåsaæ karma√åæ kÿ≤√a” (bha. gı. 5.1) ityådinå || nanu ca – å-
tmavido jñånayogena ni≤†håæ pratipipådayi≤anp¥rvodåhÿtairvaca-
nairbhagavånsarvakarmasaænyåsamavocanna tvanåtmajñåsya | ata-
Ÿca karmånu≤†hånakarmasaænyåsayorbhinnapuru≤avi≤ayatvådanya-
tarasya praŸasyataratvabubhutsayå ayaæ praŸno ’nupapanna¢ || sa-
tyameva tvadabhipråye√a praŸno nopapadyate pra≤†u¢ svåbhiprå-
ye√a puna¢ praŸno yujyata eveti vadåma¢ | katham | p¥rvodåhÿtai-
rvacanairbhagavatå karmasaænyåsasya kartavyatayå vivak≤itatvå-
tprådhånyamantare√a ca kartåraæ tasya kartavyatvåsaæbhavåda-
nåtmavidapi kartå pak≤e pråpto ’n¥dyata eva na punaråtmavitka-
rtÿkatvameva saænyåsasya vivak≤itam | ityevaæmanvånasyårjuna-
sya karmånu≤†hånakarmasaænyåsayoravidvatpuru≤akartÿkatvama-
pyastıti p¥rvoktena prakåre√a tayo¢ parasparavirodhådanyatara-
sya kartavyatve pråpte praŸasyataraæ ca kartavyaæ netaraditi pra-
846 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 5.1

Ÿasyataravividi≤ayå praŸno nånupapanna¢ | prativacanavåkyårtha-


nir¥pa√enåpi pra≤†urabhipråya evameveti gamyate | katham | “saæ-
nyåsakarmayogau ni¢Ÿreyasakarau tayostu karmayogo viŸi≤yate”
(bha. gı. 5.2) iti prativacanaæ | etannir¥pyaæ – kimanenåtmavitka-
rtÿkayo¢ saænyåsakarmayogayorni¢Ÿreyasakaratvaæ prayojana-
muktvå tayoreva kutaŸcidviŸe≤åtkarmasaænyåsåtkarmayogasya vi-
Ÿi≤†atvamucyate | åhosvidanåtmavitkartÿkayo¢ saænyåsakarmayo-
gayostadubhayamucyata iti | kiæ cåta¢ | yadyåtmavitkartÿkayo¢
karmasaænyåsakarmayogayorni¢Ÿreyasakaratvaæ tayostu karma-
saænyåsåtkarmayogasya viŸi≤†atvamucyate yadi vå ’nåtmavitkartÿ-
kayo¢ saænyåsakarmayogayostadubhayamucyata iti | atrocyate –
åtmavitkartÿkayo¢ saænyåsakarmayogayorasaæbhavåttayorni¢Ÿre-
yasakaratvavacanaæ tadıyåcca karmasaænyåsåtkarmayogasya vi-
Ÿi≤†atvåbhidhånamityetadubhayamanupapannam | yadyanåtmavi-
da¢ karmasaænyåsastatpratik¥laŸca karmånu≤†hånalak≤a√a¢ ka-
rmayoga¢ saæbhavetåæ tadå tayorni¢Ÿreyasakaratvokti¢ karma-
yogasya ca karmasaænyåsådviŸi≤†atvåbhidhånamityetadubhayamu-
papadyeta | åtmavidastu saænyåsakarmayogayorasaæbhavåttayo-
rni¢Ÿreyasakaratvåbhidhånaæ karmasaænyåsåcca karmayogo viŸi-
≤yata iti cånupapannam || atråha – kimåtmavida¢ saænyåsakarma-
yogayorubhayorapyasaæbhava åhosvidanyatarasyåsaæbhavo ya-
då cånyatarasyåsaæbhavastadå kiæ karmasaænyåsasyåta karma-
yogasyetyasaæbhave kåra√aæ ca vaktavyamiti || atrocyate – åtma-
vido nivÿttamithyåjñånatvådviparyayajñånam¥lasya karmayoga-
syåsaæbhava¢ syåt | janmådisarvavikriyårahitatvena ni≤kriyamå-
tmånamåtmatvena yo vetti tasyåtmavida¢ samyagdarŸanenåpåsta-
mithyåjñånasya ni≤kriyåtmasvar¥påvasthånalak≤a√aæ sarvakarma-
saænyåsamuktvå tadviparıtasya mithyåjñånam¥lakartÿtvåbhimå-
napura¢sarasya sakriyåtmasvar¥påvasthånar¥pasya karmayoga-
syeha Ÿåstre tatra tatråtmasvar¥panir¥pa√apradeŸe≤u samyagjñå-
namithyåjñånatatkåryavirodhådabhåva¢ pratipådyate yasmåtta-
smådåtmavido nivÿttamithyajñånasya viparyayajñånam¥la¢ ka-
rmayogo na saæbhavatıti yuktamuktaæ syåt || ke≤u ke≤u punarå-
tmasvar¥panir¥pa√apradeŸe≤våtmavida¢ karmåbhåva¢ pratipådyate
ityatrocyate – “avinåŸi tu tadviddhi” (bha. gı. 2.17) iti prakÿtya “ya
enaæ vetti hantåram” (bha. gı. 2.19) “vedåvinåŸinaæ nityaæ” (bha.
gı. 2.21) ityådau tatra tatrå ’’tmavida¢ karmåbhåva ucyate || nanu
5.1 pañcamo ’dhyåya¢ 847

ca – karmayogo ’pyåtmasvar¥panir¥pa√apradeŸe≤u tatra tatra pra-


tipådyata eva tadyathå “tasmådyudhyasva bhårata” (bha. gı. 1.18)
“svadharmamapi cåvek≤ya” (bha. gı. 2.31) “karma√yevådhikåraste”
(bha. gı. 2.47) ityådåvataŸca kathamåtmavida¢ karmayogasyåsaæ-
bhava¢ syåditi | atrocyate – samyagjñånamithyåjñånatatkåryavi-
rodhåt “jñånayogenasåækhyånåm” (bha. gı. 3.3) ityanena såækhyå-
nåmåtmatattvavidåmanåtmavitkartÿkakarmayogani≤†håto ni≤kriyå-
tmasvar¥påvasthånalak≤a√åyå jñånayogani≤†håyå¢ pÿthakkara√å-
tkÿtakÿtyatvenåtmavida¢ prayojanåntaråbhåvåt “tasya kåryaæ na
vidyate” (bha. gı. 3.17) iti kartavyåntaråbhåvavacanåcca “na karma-
√åmanåraæbhåt” (bha. gı. 3.4) “saænyåsastu mahåbåho du¢khamå-
ptumayogata¢” (bha. gı. 5.6) ityådinå cåtmajñånå§gatvena karma-
yogasya vidhånåt “yogåruƒhasya tasyaiva Ÿama¢ kåra√amucyate”
(bha. gı. 6.3) ityanena cottpannasamyagdarŸanasya karmayogåbhå-
vavacanåt | “Ÿårıraæ kevalaæ karma kurvannåpnoti kilbi≤am” (bha.
gı. 4.21) iti ca Ÿarırasthitikåra√åtiriktasya karma√o vivåra√åt “naiva
kiñcitkaromıti yukto manyeta tattvavit” (bha. gı. 5.8) ityanena ca
Ÿarırasthitimåtraprayukte≤vapi darŸanaŸrava√ådikarmasvåtmayå-
thåtmyavida¢ karomıti pratyayasya samåhitacetastayå sadå | aka-
rtavyatvopadeŸådåtmatattvavida¢ samyagdarŸanaviruddho mithyå-
jñånahetuka¢ karmayoga¢ svapne ’pi na saæbhåvayituæ Ÿakyate
yasmåttasmådanåtmavitkartÿkayoreva saænyåsakarmayogayorni¢-
Ÿreyasakaratvavacanam | tadıyåcca karmasaænyåsåtp¥rvoktåtmavi-
tkartÿkasarvakarmasaænyåsavilak≤a√åtsatyeva kartÿtvavijñåne ka-
rmaikadeŸavi≤ayådyamaniyamådisahitatvena ca duranu≤†heyatvå-
tsukaratvena ca karmayogasya viŸi≤†atvåbhidhånamityevaæ prati-
vacanavåkyårthanir¥pa√enåpi p¥rvokta¢ pra≤†urabhipråyo niŸcı-
yata iti sthitam || “jyåyası cetkarmanaste” (bha. gı. 3.1) ityatra jñå-
nakarma√o¢ sahåsaæbhave “yacchreya etayostanme br¥hi” (bha.
gı. 5.1) ityevaæ pÿ≤†o ’rjuna bhagavånsåækhyånåæ saænyåsinåæ
jñånayogena ni≤†hå puna¢ karmayoge√a yoginåæ ni≤†hå prokteti
nir√ayaæ cakåra | “na ca saænyåsanådeva kevalåtsiddhiæ sama-
dhigacchati” (bha. gı. 3.4) iti vacanåjjñånasahitasya siddhisådhana-
tvami≤†aæ karmayogasya ca vidhånåt | jñånarahitasya saænyåsa¢
Ÿreyånkiæ vå karmayoga¢ ŸreyånityetayorviŸe≤abubhutsayå –

arjuna uvåca –
848 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 5.1

saænyåsaæ karma√åæ kÿ≤√a punaryogaæ ca Ÿaæsasi |


yacchreya etayorekaæ tanme br¥hi suniŸcitam || 5.1 ||
saænyåsamiti | saænyåsaæ parityågaæ karma√åæ Ÿåstrıyå√å-
manu≤†heyaviŸe≤å√åæ Ÿaæsasi praŸaæsasi kathayasıtyetat | puna-
ryogaæ ca te≤åmevånu≤†hånamavaŸyakartavyaæ Ÿaæsasyato me ka-
taracchreya iti saæŸaya¢ kiæ karmånu≤†hånaæ Ÿreya¢ kiæ vå ta-
ddhånamiti | praŸasyataraæ cånu≤†heyam | ataŸca yacchreya¢ pra-
Ÿasyatarametayo¢ karmasaænyåsakarmayogayo¢ yadanu≤†hånå-
cchreyo ’våptirmama syåditi manyase tadekamanyataratsahaikapu-
ru≤ånu≤†heyatvåsaæbhavånme br¥hi suniŸcitamabhipretaæ tave-
ti || svåbhipråyamåcak≤å√o nir√ayåya Ÿrı bhagavånuvåca –

Ÿrıbhagavånuvåca –

saænyåsa¢ karmayogaŸca ni¢Ÿreyasakaråvubhau |


tayostu karmasaænyåsåtkarmayogo viŸi≤yate || 5.2 ||
saænyåsa iti | saænyåsa¢ karma√åæ parityåga¢ karmayogaŸca
te≤åmanu≤†hånaæ tåvubhåvapi ni¢Ÿreyasakarau ni¢Ÿreyasaæ mo-
k≤aæ kurvåte jñånotpattihetutvena | ubhåvyadyapi ni¢Ÿreyasaka-
rau tathåpi tayostu ni¢Ÿreyasahetvo¢ karmasaænyåsåtkevalåtka-
rmayogo viŸi≤yata iti karmayogaæ stauti || kasmådityåha –

jñeya¢ sa nityasaænyåsı yo na dve≤†i na kå§k≤ati |


nirdvandvo hi mahåbåho sukhaæ bandhåtpramucyate || 5.3 ||
jñeya iti | jñeyo jñåtavya¢ sa karmayogı nityasaænyåsıti yo na
dve≤†i kiñcinna kå§k≤ati du¢khasukhe tatsådhane ca | evaævidho
ya¢ karma√i vartamåno ’pi sa nityasaænyåsıti jñåtavya ityartha¢ |
nirdvandvo dvandvavarjito hi yasmånmahåbåho sukhaæ bandhå-
danåyåsena pramucyate || saænyåsakarmayogayorbhinnapuru≤å-
nu≤†heyayorviruddhayo¢ phale ’pi virodho yukto na t¥bhayorni¢-
Ÿreyasakaratvameveti pråpta idamucyate –

såækhyayogau pÿthagbålå¢ pravadanti na pa√ƒitå¢ |


ekamapyåsthita¢ samyagubhayorvindate phalam || 5.4 ||
5.6 pañcamo ’dhyåya¢ 849

såækhyayogåviti | såækhyayogau pÿthagviruddhabhinnapha-


lau bålå¢ pravadanti na pa√ƒitå¢ | pa√ƒitåstu jñånina ekaæ phala-
maviruddhamicchanti | kathamekamapi såækhyayogayo¢ samyagå-
sthita¢ samyaganu≤†hitavånityartha ubhayorvindate phalamubha-
yostadeva hi ni¢Ÿreyasaæ phalamato na phale virodho ’sti | nanu
saænyåsakarmayogaŸabdena prastutya såækhyayogayo¢ phalaika-
tvaæ kathamihåprakÿtaæ bravıti | nai≤a do≤o yadyapyarjunena saæ-
nyåsaæ karmayogaæ ca kevalamabhipretya praŸna¢ kÿto bhaga-
våæstu tadaparityågenaiva svåbhipretaæ ca viŸe≤aæ saæyojya Ÿa-
bdåntaravåcyatayå prativacanaæ dadau såækhyayogåviti | tåveva
saænyåsakarmayogau jñånatadupåyasamabuddhitvådisaæyuktau
såækhyayogaŸabdavåcyåviti bhagavato matam | ato nåprakÿtapra-
kriyeti || ekasyåpi samyaganu≤†hånåtkathamubhayo¢ phalaæ vi-
ndata ityucyate –

yatsåækhyai¢ pråpyate sthånaæ tadyogairapi gamyate |


ekaæ såækhyaæ ca yogaæ ca ya¢ paŸyati sa paŸyati || 5.5 ||

yaditi | yatsåækhyairjñånani≤†hai¢ saænyåsibhi¢ pråpyate sthå-


naæ mok≤åkhya tadyogairapi jñånapråptyupåyatveneŸvare sama-
rpya karmå√yåtmana¢ phalamanabhisandhåyånuti≤†hånti ye te yo-
gå¢ yogina¢ tairapi paramårthajñånasaænyåsapråptidvåre√a ga-
myata ityabhipråya¢ | ata ekaæ såækhyaæ ca yogaæ ca ya¢ paŸya-
ti phalaikatvåtsa paŸyati samyakpaŸyatıtyartha¢ || evaæ tarhi yo-
gåtsaænyåsa eva viŸi≤yate | kathaæ tarhıdamuktam “tayostu ka-
rmasaænyåsåtkarmayogo viŸi≤yate” (bha. gı. 5.2) iti | Ÿÿ√u tatra kå-
ra√am | tvayå pÿ≤†aæ kevalaæ karmasaænyåsaæ karmayogaæ cå-
bhipretya tayoranyatara¢ ka¢ Ÿreyåniti | tadanur¥paæ prativaca-
naæ mayoktaæ karmasaænyåsåtkarmayogo viŸi≤yata iti jñånama-
napek≤ya | jñånåpek≤astu saænyåsa¢ såækhyamiti mayåbhipre-
ta¢ | paramårthayogaŸca sa eva | yastu karmayogo vaidika¢ sa ca
tådarthyådyoga¢ saænyåsa iti copacaryate | kathaæ tådarthyami-
tyucyate –

saænyåsastu mahåbåho du¢khamåptumayogata¢ |


yogayukto munirbrahma nacireÌdhigacchati || 5.6 ||
850 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 5.6

saænyåsa iti | saænyåsastu påramårthiko he mahåbåho du¢-


khamåptuæ pråptumåyogato yogena vinå | yogayukto vaidikena
karmayoge√eŸvarasamarpitar¥pe√a phalanirapek≤ena yukto muni-
rmananådıŸvarasvar¥pasya munirbrahma paramåtmajñånalak≤ana-
tvåtprakÿta¢ saænyåso brahmocyate “nyåsa iti brahmå brahmå hi
para¢” (nå. 78) iti Ÿrute¢ | brahma paramårthasaænyåsaæ paramå-
tmajñånani≤†hålak≤a√aæ nacire√a k≤ipramevådhigacchati pråpno-
tyato mayoktam “karmayogo viŸi≤yata” (bha. gı. 5.2) iti || yadå pu-
narayaæ samyagdarŸanapråptyupåyatvena –

yogayukto viŸuddhåtmå vijitåtmå jitendriya¢ |


sarvabh¥tåtmabh¥tåtmå kurvannapi na lipyate || 5.7 ||

yogayukto iti | yogena yukto yogayukto viŸuddhåtmå viŸuddha-


sattvo vijitåtmå vijitadeho jitendriyaŸca sarvabh¥tåtmabh¥tåtmå
sarve≤åæ brahmådınåæ staæbaparyantånåæ bh¥tånåmåtma bh¥ta
åtmå pratyakcetano yasya sa sarvabh¥tåtmabh¥tåtmå samyagda-
rsıtyartha¢ | sa tatraivaæ vartamåno lokasaægrahåya karma ku-
rvannapi na lipyate na karmabhirbadhyata ityartha¢ || na cåsau pa-
ramårthata¢ karotıtyata¢ –

naiva kiñcitkaromıti yukto manyeta tattvavit |


paŸyañŸÿ√vanspÿŸaæjaghrannaŸnangacchansvapanŸvasan || 5.8 ||

pralapanvisÿjangÿhnannunmi≤annimi≤annapi |
indriyå√ındriyårthe≤u vartanta iti dhårayan || 5.9 ||

naiveti | naiva kiñcitkaromıti yukta¢ samåhita¢ sanmanyeta ci-


ntayettattvavidåtmano yåthåtmyaæ tattvaæ vettıti tattvavitpara-
mårthadarŸıtyartha¢ || kadå kathaæ vå tattvamavadhårayanmanye-
tetyucyate paŸyanniti | manyeteti p¥rve√a saæbandha¢ | yasyai-
vaæ tattvavida¢ sarvakåryakara√ace≤†åsu karmasvakarmaiva pa-
Ÿyata¢ samyagdarŸinastasya sarvakarmasaænyåsa evådhikåra¢ ka-
rma√o ’bhåvadarŸanåt | na hi mÿgatÿ≤√ikåyåmudakabuddhyå pånå-
ya pravÿtta udakåbhåvajñåne ’pi tatraiva pånaprayojanåya prava-
rtate || yastu punaratattvavitpravÿttaŸca karmayoge –
5.13 pañcamo ’dhyåya¢ 851

brahma√yådhåya karmå√i sa§gaæ tyaktvå karoti ya¢ |


lipyate na sa påpena padmapatramivåmbhaså || 5.10 ||

brahma√ıti | brahma√ıŸvara ådhåya nik≤ipya tadarthaæ karo-


mıti bhÿtya iva svåmyarthaæ sarvå√i karmå√i mok≤e ’pi phale sa-
§gaæ tyaktvå karoti ya¢ sarvakarmå√i | lipyate na sa påpena na
saæbadhyate padmapatramivåmbhasodakena | kevalaæ sattvaŸu-
ddhimåtraphalameva tasya karma√a¢ syåt || yasmåt –

kåyena manaså buddhyå kevalairindriyairapi |


yogina¢ karma kurvanti sa§gaæ tyaktvåtmaŸuddhaye || 5.11 ||

kåyeneti | kåyena dehena manaså buddhyå ca kevalairmama-


tvavarjitairıŸvaråyaiva karma karomi na mama phalåya iti mama-
tvabuddhiŸ¥nyairindriyairapi | kevalaŸabda¢ kåyådibhirapi pratye-
kaæ saæbadhyate | sarvavyåpåre≤u mamatåvarjanåya | yogina¢ ka-
rmi√a¢ karma kurvanti sa§gaæ tyaktvå phalavi≤ayamåtmaŸuddha-
ye sattvaŸuddhaya ityartha¢ | tasmåttatraiva tavådhikåra iti kuru
karmaiva || yasmåcca –

yukta¢ karmaphalaæ tyaktvå Ÿåntimåpnoti nai≤†hikım |


ayukta¢ kåmakåre√a phale sakto nibadhyate || 5.12 ||

yukto iti | yukta ıŸvaråya karmå√i karomi na mama phalåye-


tyevaæ samåhita¢ sankarmaphalaæ tyaktvå parityajya Ÿåntiæ mo-
k≤åkhyåmåpnoti nai≤†hikıæ ni≤†håyåæ bhavåæ sattvaŸuddhijñåna-
pråptisarvakarmasaænyåsajñånani≤†håkrame√eti våkyaŸe≤a¢ | ya-
stu punarayukto ’samåhita¢ kåmakåre√a kara√aæ kåra¢ kåmasya
kåra¢ kåmakårastena kåmakåre√a kåmapreritatayetyartha¢ | ma-
ma phalåyedaæ karomi karmetyevaæ phale sakto nibadhyate ’ta-
stvaæ yukto bhavetyartha¢ || yastu paramårthadarŸı sa¢ –

sarvakarmå√i manaså saænyasyåste sukhaæ vaŸı |


navadvåre pure dehı naiva kurvanna kårayan || 5.13 ||

sarvakarmå√ıti | sarvå√i karmå√i sarvakarmå√i saænyasya pa-


rityajya nityaæ naimittikaæ kåmyaæ prati≤iddhaæ ca tåni sarvå√i
852 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 5.13

karmå√i manaså vivekabuddhyå karmådavakarmasaædarŸanena


saætyajyetyartha åste ti≤†hati sukham | tyaktavå§mana¢kåyace≤†o
niråyåsa¢ prasannacitta åtmano ’nyatra nivÿttasarvabåhyaprayoja-
na iti sukhamåsta ityucyate | vaŸı jitendriya ityartha¢ | kva katha-
måsta ityåha navadvåre pure | sapta Ÿır≤a√yånyåtmana upalabdhi-
dvårå√yarvågdve m¥trapurı≤avisargårthe tairdvårairnavadvåraæ
puramucyate Ÿarıraæ puramiva puramåtmaikasvåmikaæ tadartha-
prayojanaiŸcendriyamanobuddhivi≤ayairanekaphalavijñånasyotpå-
dakai¢ paurairivådhi≤†hitam | tasminnavadvåre pure dehı sarvaæ
karma saænyasyåste | kiæ viŸe≤a√ena | sarvo hi dehı saænyåsya-
saænyåsı vå deha evåste | tatrånarthakaæ viŸe≤a√amiti | ucyate ya-
stvajño dehı dehendriyasaæghåtamåtråtmadarŸı sa sarvo “gehe
bh¥måvåsane våse” iti manyate | na hi dehamåtråtmadarŸino geha
iva deha åsa iti pratyaya¢ saæbhavati | dehådisaæghåtavyatiriktå-
tmadarŸinastu “deha åse” iti pratyaya upapadyate | parakarma√åæ
ca parasminnåtmanyavidyayå ’dhyåropitånåæ vidyayå vivekajñå-
nena manaså saænyåsa upapadyate | utpannavivekajñånasya sa-
rvakarmasaænyåsino ’pi geha iva deha eva navadvåre pura åsanaæ
prårabdhaphalakarmasaæskåraŸe≤ånuvÿttyå deha eva viŸe≤avijñå-
notpatte¢ | deha evåsta ityastyeva viŸe≤a√aphalaæ vidvadavidva-
tpratyayabhedåpek≤atvåt || yadyapi kåryakara√akarmå√yavidyayå-
tmanyadhyåropitåni “saænyåsyåsta” ityuktaæ tathåpyåtmasama-
våyi tu kartÿtvaæ kårayitÿtvaæ ca syådityåŸa§kyåha naiva kurva-
nsvayaæ na ca kåryakara√åni kårayankriyåsu pravartayan | kiæ
yattatkartÿtvaæ kårayitÿtvaæ ca dehina¢ svåtmasamavåyi satsaæ-
nyåsånna saæbhavati | yathå gacchato gatirgamanavyåpårapari-
tyåge na syåttadvat | kiæ vå svata evåtmano nåstıti | atrocyate nå-
styåtmana¢ svata¢ kartÿtvaæ kårayitÿtvaæ ca | uktaæ hi – “avikå-
ryo ’yamucyate” (bha. gı. 2.25) “Ÿarırastho ’pi kaunteya na karoti na
lipyate” (bha. gı. 13.31) iti | “dhyåyatıva lelåyatıva” (bÿ. 4.3.7) iti ca
Ÿrute¢ || kiæ ca –

na kartÿtvaæ na karmå√i lokasya sÿjati prabhu¢ |


na karmaphalasaæyogaæ svabhåvastu pravartate || 5.14 ||

na kartÿtvamiti | na kartÿtvaæ svata¢ kurviti nåpi karmå√i ra-


thagha†apråsådådınıpsitatamåni lokasya sÿjatyutpådayati prabhu-
5.17 pañcamo ’dhyåya¢ 853

råtmå | nåpi rathådi kÿtavatastatphalena saæyogaæ na karmapha-


lasaæyogam | yadi kiñcidapi svato na karoti na kårayati ca dehı ka-
starhi kurvankårayaæŸca pravartata ityucyate svabhåvastu svo
bhåva¢ svabhåvo ’vidyålak≤a√å prakÿtirmåyå pravartate “daivı hi”
(bha. gı. 7.14) ityådinå vak≤yamå√å || paramårthatastu –

nådatte kasyacitpåpaæ na caiva sukÿtaæ vibhu¢ |


ajñånenåvÿtaæ jñånaæ tena muhyanti jantava¢ || 5.15 ||

nådatte iti | nådatte na ca gÿh√åti bhaktasyåpi kasyacitpåpaæ


na caivådatte sukÿtaæ bhaktai¢ prayuktaæ vibhu¢ | kimarthaæ ta-
rhi bhaktai¢ p¥jådilak≤a√aæ yågadånahomådikaæ ca sukÿtaæ pra-
yujyata ityåhåjñånenåvÿtaæ jñånaæ vivekavijñånaæ tena muhya-
nti “karomi kårayåmi bhok≤ye bhojayåmi” ityevaæ mohaæ gaccha-
ntyavivekina¢ saæsåri√o jantava¢ ||

jñånena tu tadajñånaæ ye≤åæ nåŸitamåtmana¢ |


te≤åmådityavañjñånaæ prakåŸayati tatparam || 5.16 ||

jñåneneti | jñånena tu yenåjñånenåvÿtå muhyanti jantavasta-


dajñånaæ ye≤åæ jant¥nåæ vivekajñånenåtmavi≤aye√a nåŸitamå-
tmano bhavati | te≤åmådityavadyathåditya¢ samastaæ r¥pajåtama-
vabhåsayati tadvajjñånaæ jñeyaæ vastu sarvaæ prakåŸayati tatpa-
raæ paramårthatattvam || yatparaæ jñånaæ prakåŸitaæ –

tadbuddhayastadåtmånastanni≤†håstatparåya√å¢ |
gacchantyapunaråvÿttiæ jñånanirdh¥takalma≤å¢ || 5.17 ||

tadbuddhaya iti | tasminbrahmå√i gatå buddhirye≤åæ te tadbu-


ddhaya¢ | tadåtmånastadeva paraæ brahmåtmå ye≤åæ te tadåtmå-
na¢ | tanni≤†hå ni≤†håbhiniveŸaståtparyaæ sarvå√i karmå√i saæ-
nyasya tasminbrahma√yevåvasthånaæ ye≤åæ te tanni≤†hå¢ | tatpa-
råya√åŸca tadeva paramayanaæ parå gatirye≤åæ bhavati te tatparå-
ya√å¢ kevalåtmarataya ityartha¢ | ye≤åæ jñånena nåŸitamåtmano
’jñånaæ te gacchantyevaæ vidhå apunaråvÿttimapunardehasaæba-
ndhaæ jñånanirdh¥takalma≤å yathoktena jñånena nirdh¥to nåŸita¢
kalma≤a¢ påpådisaæsårakåra√ado≤o ye≤åæ te jñånanirdh¥takalma-
854 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 5.17

≤å yataya ityartha¢ || ye≤åæ jñånena nåŸitamåtmano ’jñånaæ te


pa√ƒitå¢ kathaæ tattvaæ paŸyantıtyucyate –

vidyåvinayasaæpanne bråhma√e gavi hastini |


Ÿuni caiva Ÿvapåke ca pa√ƒitå¢ samadarŸina¢ || 5.18 ||

vidyeti | vidyåvinayasaæpanne vidyå ca vinayaŸca vidyåvina-


yau vinaya upaŸamaståbhyåæ vidyåvinayåbhyåæ saæpanno vidyå-
vinayasaæpanno vidvånvinıtaŸca yo bråhma√astasminbråhma√e
gavi hastini Ÿuni caiva Ÿvapåke ca pa√ƒitå¢ samadarŸina¢ | vidyåvi-
nayasaæpanna uttamasaæskåravati bråhma√e såttvike | madhya-
måyåæ ca råjasyåæ gavi saæskårahınåyåmatyantameva kevalatå-
mase hastyådau ca sattvådigu√aistajjaiŸca saæskåraistathå råjasai-
stathå tåmasaiŸca saæskårairatyantamevåspÿ≤†aæ samamekamavi-
kriyaæ brahma dra≤†uæ Ÿılaæ ye≤åæ te pa√ƒitå¢ samadarŸina¢ ||
nanvabhojyånnaste do≤avanta¢ “samåsamåbhyåæ vi≤amasame p¥-
jåta¢” iti (gau. dha. s¥. 17.20) smÿte¢ | na te do≤avanta¢ | katham –

ihaiva tairjita¢ sargo ye≤åæ såmye sthitaæ mana¢ |


nirdo≤aæ hi samaæ brahma tasmådbrahma√i te sthitå¢ || 5.19 ||

ihaiveti | ihaiva jıvadbhireva tai¢ samadarŸibhi¢ pa√ƒitairjito


vaŸıkÿta¢ sargo janma ye≤åæ såmye sarvabh¥te≤u brahma√i sama-
bhåve sthitaæ niŸcalıbh¥taæ mano ’nta¢kara√am | nirdo≤aæ ya-
dyapi do≤avatsu Ÿvapåkådi≤u m¥ƒhaistaddo≤airdo≤avadiva vibhå-
vyate tathåpi taddo≤airaspÿ≤†amiti | nirdo≤aæ do≤avarjitaæ hi ya-
smånnåpi svagu√abhedabhinnaæ nirgu√atvåccaitanyasya | vak≤ya-
ti ca bhagavånicchådınåæ k≤etradharmatvaæ “anåditvånnirgu√a-
tvåt” (bha. gı. 13.31) iti ca | nåpyantyå viŸe≤å åtmano bhedakå¢ sa-
nti pratiŸarıraæ te≤åæ sattve pramå√ånupapatte¢ | ata¢ samaæ
brahmaikaæ ca | tasmådbrahma√yeva te sthitå¢ | tasmånna do≤a-
gandhamåtramapi tånspÿŸati dehådisaæghåtåtmadarŸanåbhimånå-
bhåvåtte≤åm | dehådisaæghåtåtmadarŸanåbhimånavadvi≤ayaæ tu ta-
ts¥traæ “samåsamåbhyåæ vi≤amasame p¥jåta” (gau. dha. s¥. 17.20)
iti p¥jåvi≤ayatvaviŸe≤a√åt | dÿŸyate hi brahmavit≤aƒa§gaviccaturve-
daviditi p¥jådånådau gu√aviŸe≤asaæbandha¢ kåra√aæ | brahma tu
sarvagu√ado≤asaæbandhavarjitamityato brahma√i te sthitå iti yu-
5.22 pañcamo ’dhyåya¢ 855

ktam | karmavi≤ayaæ ca “samåsamåbhyåm” (gau. dha. s¥. 17.20) i-


tyådi | idaæ tu sarvakarmasaænyåsavi≤ayaæ prastutaæ “sarvaka-
rmå√i manaså” (bha. gı. 5.13) ityårabhya å ’dhyåyaparisamåpte¢ ||
yasmånnirdo≤aæ samaæ brahma åtmå tasmåt –

na prahÿ≤yetpriyaæ pråpya nodvijetpråpya cåpriyam |


sthirabuddhirasaæm¥ƒho brahmavidbrahma√i sthita¢ || 5.20 ||

na prahÿ≤yediti | na prahÿ≤yetprahar≤aæ na kuryåtpriyami≤†aæ


pråpya labdhvå | nodvijetpråpya cåpriyamani≤†aæ labdhvå | deha-
måtråtmadarŸinåæ hi priyåpriyapråptı har≤avi≤ådau kurvåte na ke-
valåtmadarŸina¢ tasya priyåpriyapråptyasaæbhavåt | kiæ ca sarva-
bh¥te≤veka¢ samo nirdo≤a åtmeti sthirå nirvicikitså buddhiryasya
sa sthirabuddhirasaæm¥ƒha¢ saæmohavarjitaŸca syådyathoktabra-
hmavidbrahma√i sthito ’karmakÿtsarvakarmasaænyåsıtyartha¢ ||
kiæ ca brahma√i sthita¢ –

båhyasparŸe≤vasaktåtmå vindatyåtmani yatsukham |


sa brahmayogayuktåtmå sukhamak≤ayamaŸnute || 5.21 ||

båhyeti | båhyasparŸe≤u båhyaŸca te sparŸåŸca båhyasparŸå¢


spÿŸyanta iti sparŸå¢ Ÿabdådayo vi≤ayåste≤u båhyasparŸe≤u | asakta
åtmå ’nta¢kara√aæ yasya so ’yamasaktåtmå vi≤aye≤u prıtivarjita¢
saævindati labhata åtmani yatsukhaæ tadvindatıtyetat | sa brahma-
yogayuktåtmå brahma√i yoga¢ samådhirbrahmayogastena brahma-
yoge√a yukta¢ samåhito ’sminvyåpÿta åtmå ’nta¢kara√aæ yasya sa
brahmayogayuktåtmå | sukhamak≤ayamaŸnute vyåpnoti | tasmå-
dbåhyavi≤ayaprıte¢ k≤a√ikåyå indriyå√i nivartayedåtmanyak≤aya-
sukhårthıtyartha¢ || itaŸca nivartayet –

ye hi saæsparŸajå bhogå du¢khayonaya eva te |


ådyantavanta¢ kaunteya na te≤u ramate budha¢ || 5.22 ||

ye hıti | ye hi yasmåtsaæsparŸajå vi≤ayendriyasaæsparŸebhyo


jåtå bhogå bhuktayo du¢khayonaya eva te ’vidyåkÿtatvåt | dÿŸyante
hyadhyåtmikådıni du¢khåni tannimittånyeva | yatheha loke tathå
paraloke ’pıti gamyata evaŸabdåt | na saæsåre sukhasya gandhamå-
856 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 5.22

tramapyastıti buddhvå vi≤ayamÿgatÿ≤√ikåyå indriyå√i nivartayet |


na kevalaæ du¢khayonaya evå ’’dyantavantaŸca | ådirvi≤ayendri-
yasaæyogo bhogånåmantaŸca tadviyoga eva | ata ådyantavanto ’ni-
tyå madhyak≤a√abhåvitvådityartha¢ | kaunteya na te≤u bhoge≤u
ramate budho vivekyavagataparamårthatattva¢ | atyantam¥ƒhåna-
meva hi vi≤aye≤u ratirdÿŸyate yathå paŸuprabhÿtınåm || ayaæ ca Ÿre-
yomårgapratipak≤ı ka≤†atamo do≤a¢ sarvånarthapråptiheturdurni-
våraŸceti tatparihåre yatnådhikyaæ kartavyamityåha bhagavån –

Ÿaknotıhaiva ya¢ soƒhuæ pråkŸarıravimok≤a√åt |


kåmakrodhodbhavaæ vegaæ sa yukta¢ sa sukhı nara¢ || 5.23 ||

Ÿaknotıti | Ÿaknotyutsahata ihaiva jıvanneva ya¢ soƒhuæ pra-


sahituæ pråkp¥rvaæ Ÿarıravimok≤a√ådå mara√ådityartha¢ | mara-
√asımåkara√aæ jıvato ’vaŸyaæbhåvı hi kåmakrodhodbhavo vego
’nantanimittavånhi sa iti | yåvanmara√aæ tåvanna visraæbha√ıya
ityartha¢ | kåma indriyagocarapråpta i≤†e vi≤aye Ÿruyamå√e sma-
ryamå√e vå ’nubh¥te sukhahetau yå gardhistÿ≤√å sa kåma¢ | kro-
dhaŸcåtmana pratik¥le≤u du¢khahetu≤u dÿŸyamåne≤u Ÿr¥yamå√e≤u
smaryamå√e≤u vå yo dve≤a¢ sa krodha¢ | tau kåmakrodhåvudbha-
vo yasya vegasya sa kåmakrodhodbhavo vega¢ | romåñcanaprahÿ-
≤†anetravadanådili§go ’nta¢kara√aprak≤obhar¥pa¢ kåmodbhavo ve-
ga¢ | gåtraprakaæpaprasvedasaæda≤†au≤†hapu†araktanetrådili§ga¢
krodhodbhavo vega¢ | taæ kåmakrodhodbhavaæ vegaæ ya utsaha-
te prasahate soƒhuæ prasahituæ sa yukto yogı sukhı ceha loke na-
ra¢ || kathaæbh¥taŸca brahma√i sthito brahma pråpnotıtyåha bha-
gavån –

yo ’nta¢sukho ’ntaråråmastathåntarjyotireva ya¢ |


sa yogı brahma√irvå√aæ brahmabh¥to ’dhigacchati || 5.24 ||

ya iti | yo ’nta¢sukho ’ntaråtmani sukhaæ yasya so ’nta¢su-


khastathå ’ntarevåtmanyåråma årama√aæ krıƒå yasya so ’ntarårå-
mastathaivåntarevå ’’tmanyeva jyoti¢ prakåŸo yasya so ’ntarjyoti-
reva | ya ıdÿŸa¢ sa yogı brahmanirvå√aæ brahma√i nirvÿtiæ mo-
k≤amiha jıvanneva brahmabh¥ta¢ sannadhigacchati pråpnoti || kiæ
ca –
5.28 pañcamo ’dhyåya¢ 857

labhante brahmanirvå√amÿ≤aya¢ k≤ı√akalma≤å¢ |


chinnadvaidhå yatåtmåna¢ sarvabh¥tahite ratå¢ || 5.25 ||

labhanta iti | labhante brahmanirvå√aæ mok≤amÿ≤aya¢ samya-


gdarŸina¢ saænyåsina¢ k≤ı√akalma≤å nirdo≤åŸchinnadvaidhåŸchi-
nnasaæŸayå yatåtmåna¢ saæyatendriyå¢ sarvabh¥tahite ratå¢ sa-
rve≤åæ bh¥tånåæ hita ånuk¥lye ratå ahiæsakå ityartha¢ || kiæ ca –

kåmakrodhaviyuktånåæ yatınåæ yatacetasåm |


abhito brahmanirvå√aæ vartate viditåtmanåm || 5.26 ||

kåmeti | kåmakrodhaviyuktånåæ kåmaŸca krodhaŸca kåmakro-


dhau tåbhyåæ viyuktånåæ yatınåæ saænyåsınåæ yatacetasåæ saæ-
yatånta¢kara√ånåmabhita ubhayato jıvatåæ mÿtånåæ ca brahmani-
rvå√aæ mok≤o vartate viditåtmanåæ vidito jñåta åtmå ye≤åæ te vi-
ditåtmånaste≤åæ viditåtmanåæ samyagdarŸinåmityartha¢ || sa-
myagdarŸanani≤†hånåæ saænyåsinåæ sadyomuktiruktå | karmayo-
gaŸceŸvarårpitasarvabhåveneŸvare brahma√yådhåya kriyamå√a¢ sa-
ttvaŸuddhijñånapråptisarvakarmasaænyåsakrame√a mok≤åyeti bha-
gavånpade pade ’bravıdvak≤yati ca | athedånıæ dhyånayogaæ sa-
myagdarŸanasyåntara§gaæ vistare√a vak≤yåmıti tasya s¥trasthånı-
yåñŸlokånupadiŸati sma –

sparŸånkÿtvå bahirbåhyåæŸcak≤uŸcaivåntare bhruvo¢ |


prå√åpånau samau kÿtvå nåsåbhyantaracåri√au || 5.27 ||

yatendriyamanobuddhirmunirmok≤aparåya√a¢ |
vigatecchåbhayakrodho ya¢ sadå mukta eva sa¢ || 5.28 ||

sparŸåniti | ŸparŸåñchabdådınkÿtvå bahirbåhyånŸrotrådidvåre-


√åntarbuddhau praveŸitå¢ Ÿabdådayo vi≤ayåstånacintayata¢ Ÿabdå-
dayo båhyå bahireva kÿtå bhavanti | tånevaæ bahi¢ kÿtvå cak≤u-
Ÿcaivåntare bhruvo¢ kÿtvetyanu≤ajyate | tathå prå√åpånau nåså-
bhyantaracåri√au samau kÿtvå | yatendriyamanobuddhiryatåni saæ-
yatånındriyå√i mano buddhiŸca yasya sa yatendriyamanobuddhi-
rmananånmuni¢ saænyåsı mok≤aparåya√a evaæ dehasaæsthåno
mok≤aparåya√o mok≤a eva paramayanaæ parå gatiryasya so ’yaæ
858 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 5.28

mok≤aparåya√o munirbhavet | vigatecchåbhayakrodha icchå ca bha-


yaæ ca krodhaŸcecchåbhayakrodhåste vigatå yasmåtsa vigatecchå-
bhayakrodha¢ | ya evaæ vartate sadå saænyåsı mukta eva sa na ta-
sya mok≤o ’nya¢ kartavyo ’sti || evaæ samåhitacittena kiæ vijñeya-
mityucyate –

bhoktåraæ yajñatapasåæ sarvalokamaheŸvaram |


suhÿdaæ sarvabh¥tånåæ jñåtvå måæ Ÿåntimÿcchati || 5.29 ||

bhoktåramiti | bhoktåraæ yajñatapasåæ yajñånåæ tapasåæ ca


kartÿr¥pe√a devatår¥pe√a ca sarvalokamaheŸvaraæ sarve≤åæ lokå-
nåæ mahåntamıŸvaraæ suhÿdaæ sarvabh¥tånåæ sarvaprå√inåæ
pratyupakåranirapek≤atayopakåri√aæ sarvabh¥tånåæ hÿdayeŸayaæ
sarvakarmaphalådhyak≤aæ sarvapratyayasåk≤i√aæ måæ nåråya-
√aæ jñåtvå Ÿåntiæ sarvasaæsåroparatimÿcchatipråpnoti ||

iti Ÿrımadbhagavadgıtås¥pani≤atsu brahmavidyåyåæ


yogaŸåstre Ÿrıkÿ≤√årjunasaævåde
saænyåsayogo nåma
pañcamo ’dhyåya¢

*
atha ≤a≤†ho ’dhyåya¢

atıtånantarådhyåyånte dhyånayogasya samyagdarŸanaæ pra-


tyantara§gasya s¥trabh¥tå¢ Ÿlokå¢ “sparŸånkÿtvå bahi¢” (bha. gı.
5.27) ityådaya upadi≤†å¢ | te≤åæ vÿttisthånıyo ’yaæ ≤a≤†ho ’dhyåya
årabhyate | tatra dhyånayogasya bahira§gaæ karmeti yåvaddhyå-
nayogåroha√åsamarthaståvadgÿhasthenådhikÿtena kartavyaæ ka-
rma ityata¢ tatstauti || nanu kimarthaæ dhyånayogåroha√asımåka-
ra√aæ yåvatå ’’nu≤†heyameva vihitaæ karma yåvajjıvam | na | “å-
ruruk≤ormuneryogaæ karma kåra√amucyate” (bha. gı. 6.3) iti viŸe-
≤a√ådår¥ƒhasya ca Ÿamenaiva saæbandhakara√åt | åruruk≤orår¥-
ƒhasya ca Ÿama¢ karma cobhayaæ kartavyatvenåbhipretaæ cetsyå-
ttadå ’’ruruk≤orår¥ƒhasya ceti Ÿamakarmavi≤ayabhedena viŸe≤a-
√aæ vibhågakara√aæ cånarthakaæ syåt || tatråŸrami√åæ kaŸcidyo-
gamåruruk≤urbhavatyår¥ƒhaŸca kaŸcidanye nåruruk≤avo na cår¥-
ƒhå¢ tånapek≤ya “åruruk≤o¢” ceti viŸe≤a√aæ vibhågakara√aæ co-
papadyata eveti cet | na | “tasyaiva” iti vacanåt | punaryogagraha-
√åcca “yogår¥ƒhasya” iti | ya åsıtp¥rvaæ yogamåruruk≤ustasyaivå-
r¥ƒhasya Ÿama eva kartavya¢ kåra√aæ yogaphalaæ pratyucyata
iti | ato na yåvajjıvaæ kartavyatvapråpti¢ kasyacidapi karma√a¢ |
yogavibhra≤†avacanåcca gÿhasthasya cetkarmi√o yogo vihita¢ ≤a-
≤†he ’dhyåye sa yogavibhra≤†o ’pi karmagatiæ karmaphalaæ prå-
pnotıti tasya nåŸåŸaækå ’nupapannå syåt | avaŸyaæ hi kÿtaæ karma
kåmyaæ nityaæ vå – mok≤asya nityatvådanårabhyatve – svaæ pha-
lamårabhata eva | nityasya ca karma√o vedapramå√åvabuddhatvå-
tphalena bhavitavyamityavocåmånyathå vedasyånarthakyaprasaæ-
gåditi | na ca karma√i satyubhayavibhra≤†avacanamarthavatkarma-
√o vibhraæŸakåra√ånupapatte¢ | karma kÿtamıŸvare saænyasyetya-
ta¢ kartari karma phalaæ nårabhata iti cet | na | ıŸvare saænyåsa-
syådhikataraphalahetutvopapatte¢ | mok≤åyaiveti cetsvakarma√åæ
kÿtånåmıŸvare nyåso mok≤åyaiva na phalåntaråya yogasahita¢ |
860 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 6.1

yogåcca vibhra≤†a ityatastaæ prati nåŸåŸaækå yuktaiveti cet | na |


“ekåkı yatacittåtmå niråŸıraparigraha¢” (bha. gı. 6.10) “brahmacåri-
vrate sthita¢” (bha. gı. 6.14) iti karmasaænyåsavidhånåt | na cåtra
dhyånakåle strısahåyatvåŸa§kå yenaikåkitvaæ vidhıyate | na ca gÿ-
hasthasya “niråŸıraparigraha” ityådivacanamanuk¥lam | ubhayavi-
bhra≤†apraŸnånupapatteŸca || anåŸrita ityanena karmi√a eva saæ-
nyåsitvaæ yogitvaæ coktaæ prati≤iddhaæ ca niragnerakriyasya ca
saænyåsitvaæ yogitvaæ ceti cet | na | dhyånayogaæ prati bahira§ga-
sya sata¢ karma√a¢ phalåkå§k≤åsaænyåsastutiparatvåt | na keva-
laæ niragnirakriya eva saænyåsı yogı ca | kiæ tarhi karmyapi ka-
rmaphalåsa§gaæ saænyasya karmayogamanuti≤†hansattvaŸuddhya-
rthaæ “sa saænyåsı ca yogı ca” bhavatıti st¥yate | na caikena vå-
kyena karmaphalåsa§gasaænyåsastutiŸcaturthåŸramaprati≤edhaŸco-
papadyate | na ca prasiddhaæ niragnerakriyasya paramårthasaæ-
nyåsina¢ Ÿrutismÿtipurå√etihåsayogoŸåstre≤u vihitaæ saænyå-
sitvaæ yogitvaæ ca prati≤edhati bhagavån | svavacanavirodhåcca |
“sarvakarmå√i manaså saænyasya . naiva kurvanna kårayanåste”
(bha. gı. 5.13) “maunı saætu≤†o yena kenacidaniketa¢ sthiramati¢”
(bha. gı. 12.19) “vihåya kåmånya¢ sarvånpumåæŸcarati nispÿha¢”
(bha. gı. 2.71) “sarvåraæbhaparityågı” (bha. gı. 12.16) iti ca tatra ta-
tra bhagavatå svavacanåni darŸitåni tairvirudhyeta caturthåŸrama-
prati≤edha¢ | tasmånmuneryogamåruruk≤o¢ pratipannagårhasthya-
syågnihotrådikarma phalanirapek≤amanu≤†hıyamånaæ dhyånayo-
gåroha√asådhanatvaæ sattvaŸuddhidvåre√a pratipadyata iti “sa saæ-
nyåsı ca yogı ca” iti st¥yate –

Ÿrıbhagavånuvåca –

anåŸrita¢ karmaphalaæ kåryaæ karma karoti ya¢ |


sa saænyåsı ca yogı ca na niragnirna cåkriya¢ || 6.1 ||

anåŸriteti | anåŸrito nåŸrito ’to ’nåŸrita¢ | kiæ karmaphalaæ ka-


rma√a¢ phalaæ karmaphalaæ yattadanåŸrita¢ karmaphalatÿ≤√åra-
hita ityartha¢ | yo hi karmaphalatÿ≤√åvånsa karmaphalamåŸrito
bhavatyayaæ tu tadviparıto ’nåŸrita¢ karmaphalam | evaæbh¥ta¢
sankåryaæ kartavyaæ nityaæ kåmyaviparıtamagnihotrådikaæ ka-
rma karoti nirvartayati ya¢ kaŸcidıdÿŸa¢ karmı sa karmıntarebhyo
6.2 ≤a≤†ho ’dhyåya¢ 861

viŸi≤yata ityevamarthamåha sa saænyåsı ca yogı ceti | saænyåsa¢


pårityåga¢ sa yasyåsti sa saænyåsı ca yogı ca yogaŸcittasamådhå-
naæ sa yasyåsti sa yogı cetyevaægu√asaæpanno ’yaæ mantavyo
na kevalaæ niragnirakriya eva saænyåsı yogı ceti mantavya¢ | ni-
rgatå agnaya¢ karmå§gabh¥tå yasmåtsa niragnirakriyaŸcånågniså-
dhanåpyavidyamånå¢ kriyåstapodånådikå yasyåsåvakriya¢ || nanu
ca niragnerakriyasyaiva ŸrutismÿtiyogaŸåstre≤u saænyåsitvaæ yo-
gitvaæ ca prasiddham | kathamiha sågne¢ sakriyasya ca saænyåsi-
tvaæ yogitvaæ cåprasiddhamucyata iti | nai≤a do≤a¢ | kayåcidgu-
√avÿttyobhayasya saæpipådayi≤itatvåt | tatkathaæ karmaphala-
saækalpasaænyåsåtsaænyåsitvaæ yogå§gatvena ca karmånu≤†hå-
nåtkarmaphalasaækalpasya ca cittavik≤epaheto¢ parityågådyogi-
tvaæ ceti gau√amubhayaæ na punarmukhyaæ saænyåsitvaæ yogi-
tvaæ cåbhipretamityetamarthaæ darŸayitumåha –

yaæ saænyåsamiti pråhuryogaæ taæ viddhi på√ƒava |


na hyasaænyastasaækalpo yogı bhavati kaŸcana || 6.2 ||

yamiti | yaæ sarvakarmatatphalaparityågalak≤a√aæ paramå-


rthasaænyåsaæ saænyåsamiti pråhu¢ Ÿrutismÿtivido yogaæ karmå-
nu≤†hånalak≤a√aæ taæ paramårthasaænyåsaæ viddhi jånıhi he på-
√ƒava | karmayogasya pravÿttilak≤a√asya tadviparıtena nivÿttilak≤a-
√ena paramårthasaænyåsena kıdÿŸaæ såmånyama§gıkÿtya tadbhå-
va ucyata ityapek≤åyåmidamucyate – asti hi paramårtha saænyå-
sena sådÿŸyaæ kartÿdvårakaæ karmayogasya | yo hi paramårtha-
saænyåsı sa tyaktasarvakarmasådhanatayå sarvakarmatatphalavi-
≤ayaæ saækalpaæ pravÿttihetukåmakåra√aæ saænyasyati | ayama-
pi karmayogı karma kurvå√a eva phalavi≤ayaæ saækalpaæ saæ-
nyasyatıtyetamarthaæ darŸayi≤yannåha – na hi yasmådasaænyåsta-
saækalpo ’saænyasto ’parityakta¢ phalavi≤aya¢ saækalpo ’bhisaæ-
dhiryena so ’saænyastasaækalpa¢ kaŸcana kaŸcidapi karmı yogı sa-
mådhånavånbhavati na saæbhavatıtyartha¢ | phalasaækalpasya ci-
ttavik≤epahetutvåt | tasmådya¢ kaŸcana karmı saænyastaphalasaæka-
lpo bhavetsa yogı samådhånavånavik≤iptacitto bhaveccittavik≤epa-
heto¢ phalasaækalpasya saænyastatvådityabhipråya¢ | evaæ pa-
ramårthasaænyåsakarmayogayo¢ kartÿdvårakaæ saænyåsasåmå-
nyamapek≤ya “yaæ saænyåsamiti pråhuryogaæ taæ viddhi på√ƒa-
862 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 6.2

va” iti karmayogasya stutyarthaæ saænyåsatvamuktam | dhyåna-


yogasya phalanirapek≤a¢ karmayogo bahira§gaæ sådhanamiti taæ
saænyåsatvena stutvå ’dhunå karmayogasya dhyånayogasådha-
natvaæ darŸayati –

åruruk≤ormuneryogaæ karma kåra√amucyate |


yogår¥ƒhasya tasyaiva Ÿama¢ kåra√amucyate || 6.3 ||
åruruk≤oriti | åruruk≤oråroƒhumicchato ’når¥ƒhasya dhyåna-
yoge ’vasthåtumaŸaktasyaivetyartha¢ | kasya tasyå ’’ruruk≤ormu-
ne¢ karmaphalasaænyåsina ityartha¢ | kimaruruk≤o¢ | yogam | ka-
rma kåra√aæ sådhanamucyate | yogår¥ƒhasya punastasyaiva Ÿama
upaŸama¢ sarvakarmabhyo nivÿtti¢ kåra√aæ yogår¥ƒhasya sådha-
namucyata ityartha¢ | yåvadyåvatkarmabhya uparamate tåvattåva-
nniråyåsasya jitendriyasya cittaæ samådhıyate | tathå sati sa jha†iti
yogår¥ƒho bhavati | tathå coktaæ vyåsena – “naitådÿŸaæ bråhma√a-
syåsti vittaæ yathaikatå samatå satyatå ca | Ÿılaæ sthitirda√ƒanidhå-
namårjavaæ tatastataŸcoparama¢ kriyåbhya¢” (ma. bhå. 12.175.37)
iti || athedånıæ sadå yogår¥ƒho bhavatıtyucyate –

yadå hi nendriyårthe≤u na karmasvanu≤ajyate |


sarvasaækalpasaænyåsı yogår¥ƒhastadocyate || 6.4 ||
yadeti | yadå samådhıyamånacitto yogı hi indriyårthe≤vindri-
yå√åmarthå¢ Ÿabdådayaste≤vindriyårthe≤u karmasu ca nityanaimi-
ttikakåmyaprati≤iddhe≤u prayojanåbhåvabuddhyå nånu≤ajyate ’nu-
≤a§gaæ kartavyatåbuddhiæ na karotıtyartha¢ | sarvasaækalpasaæ-
nyåsı sarvånsaækalpånihåmutrårtha kåmahet¥nsaænyåsituæ Ÿı-
lamasyeti sarvasaækalpasaænyåsı yogår¥ƒha¢ pråptayoga ityeta-
ttadå tasminkåla ucyate | sarvasaækalpasaænyåsıti vacanåtsarvåæ-
Ÿca kåmånsarvå√i ca karmå√i saænyasyedityartha¢ | saækalpam¥-
lå hi sarve kåmå¢ – “saækalpam¥la¢ kåmo vai yajñå¢ saækalpa-
saæbhav墔 (ma. 2.3) “kåma jånåmi te m¥laæ saækalpåtkila jåya-
se | na tvåæ saækalpayi≤yåmi tena me na bhavi≤yasi” (ma. bhå. 12.
177.25) ityådismÿte¢ | sarvakåmaparityåge ca sarvakarmasaænyåsa¢
siddho bhavati “sa yathåkåmo bhavati tatkraturbhavati yatkratu-
rbhavati tatkarma kurute” (bÿ. 4.4.5) ityådiŸrutibhyo “yadyaddhi ku-
6.7 ≤a≤†ho ’dhyåya¢ 863

rute jantu¢ karma tattatkåmasya ce≤†itam” (ma. 2.4) ityådismÿti-


bhyaŸca | nyåyåcca – na hi sarvasaækalpasaænyåse kaŸcitsaæpadi-
tumapi Ÿakta¢ | tasmåtsarvasaækalpasaænyåsıti vacanåtsarvånkå-
månsarvå√i karmå√i ca tyåjayati bhagavån || yadaivaæ yogår¥ƒha-
stadå tenåtmå uddhÿto bhavati saæsårådanarthajåtåt | ata¢ –

uddharedåtmanå ’’tmånaæ nåtmånamavasådayet |


åtmaiva hyåtmano bandhuråtmaiva ripuråtmana¢ || 6.5 ||

uddharediti | uddharetsaæsårasågare nimagnamåtmanå ’’tmå-


naæ tata ud¥rdhvaæ hareduddharedyogåruƒhatåmåpådayeditya-
rtha¢ | nåtmånamavasådayennådho nayennådho gamayet | åtmaiva
hi yasmådåtmano bandhu¢ | na hyanya¢ kaŸcidbandhurya¢ saæså-
ramuktaye bhavati | bandhurapi tåvanmok≤aæ prati pratik¥la eva
snehådibandhanåyatanatvåt | tasmådyuktamavadhåra√amåtmaiva
hyåtmano bandhuriti | åtmaiva ripu¢ Ÿatru¢ | yo ’nyo ’pakårı bå-
hya¢ Ÿatru¢ so ’pyåtmaprayukta eveti yuktam evåvadhåra√amå-
tmaiva ripuråtmana iti || åtmaiva bandhuråtmaiva ripuråtmana i-
tyuktam | tatra kiæ lak≤a√a åtmå åtmano bandhu¢ kiæ lak≤a√o vå
åtmå åtmano ripurityucyate –

bandhuråtmåtmanastasya yenåtmaivåtmanå jita¢ |


anåtmanastu Ÿatrutve vartetåtmaiva Ÿatruvat || 6.6 ||

bandhuriti | bandhuråtmåtmanastasya tasyåtmana¢ sa åtmå ba-


ndhuryenåtmanåtmaiva jita¢ | åtmå kåryakara√asaæghåto yena va-
Ÿıkÿto jitendriya ityartha¢ | anåtmanastvajitåtmanastu Ÿatrutve Ÿatru-
bhåve vartetåtmaiva Ÿatruvadyathå ’nåtmå Ÿatruråtmano ’pakårı ta-
thåtmano ’pakåre vartetetyartha¢ ||

jitåtmana¢ praŸåntasya paramåtmå samåhita¢ |


Ÿıto≤√asukhadu¢khe≤u tathå månåpamånayo¢ || 6.7 ||

jitåtmana iti | jitåtmana¢ kåryakara√asaæghåta åtmå jito yena


sa jitåtmå tasya jitåtmana¢ praŸåntasya prasannånta¢kara√asya sa-
ta¢ saænyåsina¢ paramåtmå samåhita¢ såk≤ådåtmabhåvena vartata
864 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 6.7

ityartha¢ | kiæ ca Ÿıto≤√asukhadu¢khe≤u tathå måne ’pamåne ca må-


nåpamånayo¢ p¥jåparibhavayo¢ sama¢ syåt ||

jñånavijñånatÿptåtmå k¥†astho vijitendriya¢ |


yukta ityucyate yogı samalo≤†åŸmakåñcana¢ || 6.8 ||

jñåneti | jñånavijñånatÿptåtmå jñånaæ Ÿåstroktapadårthånåæ


parijñånam | vijñåna tu Ÿåstrato jñåtånåæ tathaiva svånubhavaka-
ra√aæ tåbhyåæ jñånavijñånabhyåæ tÿpta¢ saæjåtålaæpratyaya å-
tmå ’nta¢kara√aæ yasya sa jñånavijñånatÿptåtmå | k¥†astho ’pra-
kaæpyo bhavatıtyartha¢ | vijitendriyaŸca | ya ıdÿŸo yukta¢ samåhi-
ta iti sa ucyate kathyate yogı | sa samalo≤†åŸmakañcano lo≤†åŸma-
kåñcanåni samåni yasya sa samalo≤†åŸmakåñcana¢ || kiæ ca –

suhÿnmitråryudåsınamadhyasthadve≤yabandhu≤u |
sådhu≤vapi ca påpe≤u samabuddhirviŸi≤yate || 6.9 ||

suhÿditi | suhÿdityådiŸlokårdhamekaæ padam | suhÿditi pratyu-


pakåramanapek≤yopakartå mitraæ snehavånari¢ Ÿatrurudåsıno na
kasyacitpak≤aæ bhajate madhyastho yo viruddhayorubhayorhitai≤ı
dve≤ya åtmano ’priyo bandhu¢ saæbandhı | ityete≤u sådhu≤u Ÿåstrå-
nuvarti≤vapi ca påpe≤u prati≤iddhakåri≤u sarve≤vete≤u samabuddhi¢
“ka¢ kiæ karmå” ityavyåpÿtabuddhirityartha¢ | viŸi≤yate vimucya-
ta iti vå på†håntaram | yogår¥ƒhånåæ sarve≤åmayamuttama itya-
rtha¢ || ata evamuttamaphalapråptaye –

yogı yuñjıta satatamåtmånaæ rahasi sthita¢ |


ekåkı yatacittåtmå niraŸıraparigraha¢ || 6.10 ||

yogıti | yogı dhyåyı yuñjıta samådadhyåtsatataæ sarvadåtmåna-


manta¢kara√aæ rahasyekånte giriguhådau sthita¢ sannekåkyasahå-
ya¢ | rahasi sthita ekåkı ceti viŸe≤a√åtsaænyåsaæ kÿtvetyartha¢ |
yatacittåtmå cittamanta¢kara√amåtmå dehaŸca saæyatau yasya sa
yatacittåtmå niråŸırvıtatÿ≤√o ’parigrahaŸca parigraharahitaŸca itya-
rtha¢ | saænyåsitve ’pi tyaktasarvaparigraha¢ sanyuñjıtetyartha¢ ||
athedånıæ yogaæ yuñjata åsanåhåravihårådınåæ yogasådhanatve-
na niyamo vaktavya¢ pråptayogasya lak≤a√aæ tatphalådi cetyata
årabhyate | tatråsanameva tåvatprathamamucyate –
6.14 ≤a≤†ho ’dhyåya¢ 865

Ÿucau deŸe prati≤†håpya sthiramåsanamåtmana¢ |


nåtyucchritaæ nåtinıcaæ cailåjinakuŸottaram || 6.11 ||

Ÿucau iti | Ÿucau Ÿuddhe vivikte svabhåvata¢ saæskårato vå deŸe


sthåne prati≤†håpya sthiramacalamåtmana åsanaæ nåtyucchritaæ
nåtıvocchritaæ nåpyatinıcaæ tacca cailåjinakuŸottaraæ cailamaji-
naæ kuŸåŸcottare yasminnåsane tadåsanaæ cailåjinakuŸottaram |
på†hakramådviparıto ’tra kramaŸcailådınåm || prati≤†håpya kim –

tatraikågraæ mana¢ kÿtvå yatacittendriyakriya¢ |


upaviŸyåsane yuñjyådyogamåtmaviŸuddhaye || 6.12 ||

tatreti | tatra tasminnåsana upaviŸya yogaæ yuñjyåt | kathaæ sa-


rvavi≤ayebhya upasaæhÿtyaikågraæ mana¢ kÿtvå yatacittendriya-
kriya¢ cittaæ cendriyå√i ca cittendriyå√i te≤åæ kriyå¢ saæyatå ya-
sya sa yatacittendriyakriya¢ | sa kimarthaæ yogaæ yuñjyådityåhå
’’tmaviŸuddhaye ’nta¢kara√asya viŸuddhyarthamityetat || båhya-
måsanamuktamadhunå Ÿarıradhåra√aæ kathamityucyate –

samaæ kåyaŸirogrıvaæ dhårayannacalaæ sthira¢ |


saæprek≤ya nåsikågraæ svaæ diŸaŸcånavalokayan || 6.13 ||

samamiti | samaæ kåyaŸirogrıvaæ kåyaŸca ŸiraŸca grıvå ca kå-


yaŸirogrıvaæ tatsamaæ dhårayannacalaæ ca | samaæ dhårayata-
Ÿcalanaæ saæbhavatyato viŸina≤†yacalamiti | sthira¢ sthiro bh¥tve-
tyartha¢ | svaæ nåsikågraæ saæprek≤ya samyakprek≤a√aæ darŸa-
naæ kÿtveveti | ivaŸabdo lupto dra≤†avya¢ | na hi svanåsikågra-
saæprek≤a√amiha vidhitsitam | kiæ tarhi | cak≤u≤ordÿ≤†isaænipå-
ta¢ | sa cånta¢kara√amådhånåpek≤o vivak≤ita¢ | svanåsikågra-
saæprek≤a√ameva cedvivak≤itaæ manastatraiva samådhıyeta nå-
tmani | åtmani hi manasa¢ samådhånaæ vak≤yati “åtmasaæsthaæ
mana¢ kÿtvå” (bha. gı. 6.25) iti | tasmådivaŸabdalopenåk≤√ordÿ≤†i-
saænipåta eva saæprek≤yetyucyate | diŸaŸcånavalokayandiŸåæ cå-
valokanamantaråkurvannityetat || kiæ ca –

praŸåntåtmå vigatabhırbrahmacårivrate sthita¢ |


mana¢ saæyamya maccitto yukta åsıta matpara¢ || 6.14 ||
866 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 6.14

praŸånteti | praŸantåtmå prakar≤e√a Ÿånta åtmå ’nta¢kara√aæ


yasya so ’yaæ praŸåntåtmå | vigatabhırvigatabhayo brahmacårivra-
te sthito brahmacåri√o vrataæ brahmacaryaæ guruŸuŸr¥≤åbhik≤å-
bhuktyådi tasminsthitastadanu≤†håtå bhavedityartha¢ | kiæ ca ma-
na¢ saæyamya manaso vÿttırupasaæhÿtyetyetanmaccitto mayi pa-
rameŸvare cittaæ yasya so ’yaæ maccitto yukta¢ samåhita¢ sannå-
sıtopaviŸet | matparo ’haæ paro yasya so ’yaæ matpara¢ | bhavati
kaŸcidrågı strıcitto na tu striyameva paratvena gÿh√åti | kiæ tarhi |
råjånaæ mahådevaæ vå | ayaæ tu maccitto matparaŸca || athedå-
nıæ yogaphalamucyate –

yuñjannevaæ sadåtmånaæ yogı niyatamånasa¢ |


Ÿåntiæ nirvå√aparamåæ matsaæsthåmadhigacchati || 6.15 ||

yuñjanniti | yuñjansamådhånaæ kurvannevaæ yathoktena vi-


dhånena sadåtmånaæ yogı niyatamånaso niyataæ saæyataæ mano
yasya so ’yaæ niyatamånasa¢ Ÿåntimuparatiæ nirvå√aparamåæ ni-
rvå√aæ mok≤astatparamå ni≤†hå yasyå¢ Ÿånte¢ så nirvå√aparamå
tåæ nirvå√aparamåæ matsaæsthåæ madadhınåmadhigacchati prå-
pnoti || idånıæ yogina åhårådiniyama ucyate –

nåtyaŸnatastu yogo ’sti na caikåntamanaŸnata¢ |


na cåtisvapnaŸılasya jågrato naiva cårjuna || 6.16 ||

neti | nåtyaŸnata åtmasaæmitamannaparimå√amatıtyåŸnato ’tya-


Ÿnato na yogo ’sti | na caikåntamanaŸnato yogo ’sti | “yadu ha vå å-
tmasaæmitamannaæ tadavati tanna hinasti yadbh¥yo hinasti tadya-
tkanıyo ’nnaæ na tadavati” (Ÿa. brå.) iti Ÿrute¢ | tasmådyogı nåtma-
saæmitådannådadhikaæ ny¥naæ vå ’Ÿnıyåt | athavå yogino yogaŸå-
stre paripa†hitådannaparimå√ådatimåtramaŸnato yogo nåsti | uktaæ
hi – “ardhaæ savyañjanånnasya tÿtıyamudakasya ca | våyo¢ saæca-
ra√årthaæ tu caturthamavaŸe≤ayet” (yo. Ÿå.) ityådi parimå√am | ta-
thå na cåtisvapnaŸılasya yogo bhavati naiva cåtimåtraæ jågrato yo-
go bhavati cårjuna || kathaæ punaryogo bhavatıtyucyate –

yuktåhåravihårasya yuktace≤†asya karmasu |


yuktasvapnåvabodhasya yogo bhavati du¢khahå || 6.17 ||
6.20 ≤a≤†ho ’dhyåya¢ 867

yukteti | yuktåhåravihårasyå ’’hÿyata ityåhåro ’nnaæ vihara-


√aæ vihåra¢ pådakrama¢ tau yuktau niyataparimå√au yasya sa yu-
ktåhåravihåra¢ tasya tathå yuktace≤†asya yuktå niyatå ce≤†å yasya
karmasu tasya tathå yuktasvapnåvabodhasya yuktau svapnaŸcåva-
bodhaŸca tau niyatakålau yasya tasya | yuktåhåraviharasya yukta-
ce≤†asya karmasu yuktasvapnåvabodhasya yogino yogo bhavati du
¢khahå du¢khåni sarvå√i håntıti du¢khahå sarvasaæsåradu¢kha-
ka≤yakÿdyogo bhavatıtyartha¢ || athådhunå kadå yukto bhavatı-
tyucyate –

yadå viniyataæ cittamåtmanyevåvati≤†hate |


ni¢spÿha¢ sarvakåmebhyo yukta ityucyate tadå || 6.18 ||

yadeti | yadå viniyataæ viŸe≤e√a niyataæ saæyatamekågratå-


måpannaæ cittaæ hitvå båhyårthacintåmåtmanyeva kevale ’vati-
≤†hate svåtmani sthitiæ labhata ityartha¢ | ni¢spÿha¢ sarvakåme-
bhyo nirgatå dÿ≤†ådÿ≤†avi≤ayebhya¢ spÿhå tÿ≤√å yasya yogina¢ sa
yukta¢ samåhita ityucyate tadå tasminkåle || tasya yogina¢ samå-
hitaæ yaccittaæ tasyopamocyate –

yathå dıpo nivåtastho ne§gate sopamå smÿtå |


yogino yatacittasya yuñjato yogamåtmana¢ || 6.19 ||

yatheti | yathå dıpa¢ pradıpo nivåtastho nivåte våtavarjite deŸe


sthito ne§gate na calati sopamå upamıyate ’nayetyupamå yogajñai-
ŸcittapracåradarŸibhi¢ smÿtå cintitå | yogino yatacittasya saæyatå-
nta¢kara√asya yuñjato yogamanuti≤†hata åtmana¢ samådhimanu-
ti≤†hata ityartha¢ || evaæ yogåbhyåsabalådekågrıbh¥taæ nivåtapra-
dıpakalpaæ sat –

yatroparamate cittaæ niruddhaæ yogasevayå |


yatra caivåtmanåtmånaæ paŸyannåtmani tu≤yati || 6.20 ||

yatreti | yatra yasminkåla uparamate cittamuparatiæ gacchati


niruddhaæ sarvato ’nivåritapracåraæ yogasevayå yoganu≤†hånena
yatra caiva yasmiæŸca kåla åtmanå samådhipariŸuddhenånta¢kara-
868 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 6.20

√enåtmånaæ paraæ caitanyaæ jyoti¢svar¥paæ paŸyannupalabha-


måna¢ sva evåtmani tu≤yati tu≤†iæ bhajate || kiæ ca –

sukhamåtyantikaæ yattadbuddhigråhyamatındriyam |
vetti yatra na caivåyaæ sthitaŸcalati tattvata¢ || 6.21 ||

sukheti | sukhamåtyantikamatyantameva bhavatıtyåtyantika-


manantamityartha¢ | yattadbuddhigråhyaæ buddhyaivendriyanira-
pek≤ayå gÿhyata iti buddhigråhyamatındriyamindriyagocaråtıtama-
vi≤ayajanitamityartha¢ | vetti tadıdÿŸaæ sukhamanubhavati yatra ya-
sminkåle na caivåyaæ vidvånåtmasvar¥pe sthitastasmånnaiva cala-
ti tattvatastattvasvar¥pånna pracyavata ityartha¢ || kiæ ca –

yaæ labdhvå cåparaæ låbhaæ manyate nådhikaæ tata¢ |


yasminsthito na du¢khena guru√åpi vicålyate || 6.22 ||

yamiti | yaæ labdhvå yamåtmalåbhaæ labdhvå pråpya cåpa-


ramanyallåbhaæ labhåntaraæ tato ’dhikamastıti na manyate na ci-
ntayati | kiæ ca yasminnåtmatattve sthito du¢khena Ÿastranipåtådi-
lak≤a√ena guru√å mahatåpi na vicålyate || “yatroparamate” (bha.
gı. 6.20) ityådyårabhya yåvadbhirviŸe≤a√airviŸi≤†a åtmåvasthåviŸe≤o
yoga ukta¢ –

taæ vidyåddu¢khasaæyogaviyogaæ yogasaæjñitam |


sa niŸcayena yoktavyo yogo ’nirvi√√a cetaså || 6.23 ||

tamiti | taæ vidyådvijånıyåddu¢khasaæyogaviyogaæ du¢khai¢


saæyogo du¢khasaæyogastena viyogo du¢khasaæyogaviyogastaæ
du¢khasaæyogaviyogaæ yoga ityeva saæjñitaæ viparıtalak≤a√ena
vidyådvijånıyådityartha¢ | yogaphalamupasaæhÿtya punaranvå-
raæbhe√a yogasya kartavyatocyate niŸcayånirvedayoryogasådhåna-
tvavidhånårtham | sa yathoktaphalo yogo niŸcayenådhyavasåyena
yoktavyo ’nirvi√√acetaså na nirvi√√amanirvi√√aæ kiæ tat | cetaste-
na nirvedarahitena cetaså cittenetyartha¢ || kiæ ca –

saækalpa prabhavånkåmåæstyaktvå sarvånaŸe≤ata¢ |


manasaivendriyagråmaæ viniyamya samantata¢ || 6.24 ||
6.27 ≤a≤†ho ’dhyåya¢ 869

saækalpeti | saækalpaprabhavånsaækalpa¢ prabhavo ye≤åæ kå-


månåæ te saækalpaprabhavå¢ kåmåståæstyaktvå parityajya sarvå-
naŸe≤ato nirlepena | kiæ ca manasaiva vivekayuktenendriyagråma-
mindriyasamudåyaæ viniyamya niyamanaæ kÿtvå samantata¢ sa-
mantåt ||

Ÿanai¢ Ÿanairuparamedbuddhyå dhÿtigÿhıtayå |


åtmasaæsthaæ mana¢ kÿtvå na kiñcidapi cintayet || 6.25 ||

Ÿanairiti | Ÿanai¢ Ÿanairna sahasoparameduparatiæ kuryåt | ka-


yå | buddhyå | kiæ viŸi≤†ayå | dhÿtigÿhıtayå dhÿtyå dhairye√a gÿhı-
tayå dhÿtigÿhıtayå dhairye√a yuktayetyartha¢ | åtmasaæsthamå-
tmani saæsthitaæ “åtmaiva sarvaæ na tato ’nyatkiñcidasti” ityeva-
måtmasaæsthaæ mana¢ kÿtvå na kiñcidapi cintayet | e≤a yogasya
paramo vidhi¢ || tatraivamåtmasaæsthaæ mana¢ kartuæ pravÿtto
yogı –

yato yato niŸcarati manaŸcañcalamasthiram |


tatastato niyamyaitadåtmanyeva vaŸaæ nayet || 6.26 ||

yata iti | yato yato yasmådyasmånnimittåcchabdåderniŸcarati


nirgacchati svabhåvado≤ånmanaŸcañcalamatyarthaæ calamata evå-
sthiraæ tatastatastasmåttasmåcchabdådernimittånniyamya tattanni-
mittaæ yåthåtmyanir¥pa√enåbhåsıkÿtya vairågyabhåvanayå caita-
nmana åtmanyeva vaŸaæ nayedåtmavaŸyatåmåpådayet | evaæ yo-
gåbhyåsabalådyogina åtmanyeva praŸåmyati mana¢ ||

praŸåntamanasaæ hyenaæ yoginaæ sukhamuttamam |


upaiti Ÿåntarajasaæ brahmabh¥tamakalma≤am || 6.27 ||

praŸånteti | praŸåntamanasaæ prakar≤e√a Ÿåntaæ mano yasya


sa praŸåntamanåstaæ praŸåntamanasaæ hyenaæ yoginaæ sukha-
muttamaæ niratiŸayamupaityupagacchati | Ÿåntarajasaæ prak≤ı√a-
mohådikleŸarajasamityartha¢ | brahmabh¥taæ jıvanmuktaæ bra-
hmaiva sarvamityevaæniŸcayavantaæ brahmabh¥tamakalma≤ama-
dharmådivarjitam ||
870 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 6.28

yuñjannevaæ sadåtmånaæ yogı vigatakalma≤a¢ |


sukhena brahmasaæsparŸamatyantaæ sukhamaŸnute || 6.28 ||

yuñjanniti | yuñjannevaæ yathoktena krame√a yogı yogånta-


råyavarjita¢ sadå sarvadå ’’tmånaæ vigatakalma≤o vigatapåpa¢ su-
khenånåyåsena brahmasaæsparŸaæ brahma√å pare√a saæsparŸo
yasya tadbrahmasaæsparŸaæ sukhamatyantamantamatıtya vartata
ityatyantamutkÿ≤†aæ niratiŸayamaŸnute vyåpnoti || idånıæ yoga-
sya yatphalaæ brahmaikatvadarŸanaæ sarvasaæsåravicchedakåra-
√aæ tatpradarŸyate –

sarvabh¥tasthamåtmånaæ sarvabh¥tåni cåtmani |


ık≤ate yogayuktåtmå sarvatra samadarŸana¢ || 6.29 ||

sarveti | sarvabh¥tasthaæ sarve≤u bh¥te≤u sthitaæ svamåtmå-


naæ sarvabh¥tåni cåtmani brahmådıni staæbaparyantåni ca sarva-
bh¥tånyåtmanyekatåæ gatånık≤ate paŸyati yogayuktåtmå samåhi-
tånta¢kara√a¢ sarvatra samadarŸana¢ sarve≤u brahmådisthåvarå-
nte≤u vi≤ame≤u sarvabh¥te≤u samaæ nirviŸe≤aæ brahmåtmaikatva-
vi≤ayaæ darŸanaæ jñånaæ yasya sa sarvatrasamadarŸana¢ || eta-
syåtmaikatvadarŸanasya phalamucyate –

yo måæ paŸyati sarvatra sarvaæ ca mayi paŸyati |


tasyåhaæ na pra√aŸyåmi sa ca me na pra√aŸyati || 6.30 ||

ya iti | yo måæ paŸyati våsudevaæ sarvasyåtmånaæ sarvatra


sarve≤u bh¥te≤u sarvaæ ca brahmådibh¥tajåtaæ mayi sarvåtmani
paŸyati tasyaivamåtmaikatvadarŸino ’hamıŸvaro na pra√aŸyåmi na
parok≤atåæ gami≤yåmi | sa ca me na pra√aŸyati sa ca vidvånmama
våsudevasya na pra√aŸyati na parok≤o bhavati | tasya ca mama cai-
kåtmakatvåtsvåtmå hi nåmåtmana¢ priya eva bhavati yasmåccåha-
meva sarvåtmaikatvadarŸı || ityetatp¥rvaŸlokårthaæ samyagdarŸa-
naman¥dya tatphalaæ mok≤o ’bhidhıyate –

sarvabh¥tasthitaæ yo måæ bhajatyekatvamåsthita¢ |


sarvathå vartamåno ’pi sa yogı mayi vartate || 6.31 ||
6.34 ≤a≤†ho ’dhyåya¢ 871

sarvatheti | sarvathå sarvaprakårairvartamåno ’pi samyagdarŸı


yogı mayi vai≤√ave parame pade vartate nityamukta eva sa na mo-
k≤aæ prati kenacitpratibadhyata ityartha¢ || kiæ cånyat –

åtmaupamyena sarvatra samaæ paŸyati yo ’rjuna |


sukhaæ vå yadi vå du¢khaæ sa yogı paramo mata¢ || 6.32 ||

åtmaupamyeneti | åtmaupamyenåtmå svayamevopamıyate ’na-


yå ityupamå tasyå upamåyå bhåva aupamyaæ tenåtmaupamyena
sarvatra sarvabh¥te≤u samaæ tulyaæ paŸyati yo ’rjuna sa ca kiæ
samaæ paŸyatıtyucyate – yathå mama sukhami≤†aæ tathå sarva-
prå√inåæ sukhamanuk¥lam | våŸabdaŸcårthe | yadi vå yacca du¢-
khaæ mama pratik¥lamani≤†aæ yathå tathå sarvaprå√inåæ du¢-
khamani≤†aæ pratik¥lamityevamåtmaupamyena | sukhadu¢khe a-
nuk¥lapratik¥le tulyatayå sarvabh¥te≤u samaæ paŸyati | na kasya-
citpratik¥lamåcaratyahiæsaka ityartha¢ | ya evamahiæsaka¢ samya-
gdarŸanani≤†ha¢ sa yogı parama utkÿ≤†o mato ’bhipreta¢ sarvayogi-
nåæ madhye || etasya yathoktasya samyagdarŸanalak≤a√asya yo-
gasya du¢khasaæpådyatåmålak≤ya ŸuŸr¥≤urdhruvaæ tatpråptyupå-
yamarjuna uvåca –

arjuna uvåva –

yo ’yaæ yogastvayå prokta¢ såmyena madhus¥dana |


etasyåhaæ na paŸyåmi cañcalatvåtsthitiæ sthiråm || 6.33 ||

yo ’yamiti | yo ’yaæ yogastvayå prokta¢ såmyena samatvena


he madhus¥dana etasya yogasyåhaæ na paŸyami nopalabhe cañca-
latvånmanasa¢ | kiæ sthiråmacalåæ sthitim || prasiddhametat –

cañcalaæ hi mana¢ kÿ≤√a pramåthi balavaddÿƒham |


tasyåhaæ nigrahaæ manye våyoriva sudu≤karam || 6.34 ||

cañcalamiti | cañcalaæ hi mana¢ kÿ≤√eti | kÿ≤atervilekhanå-


rthasya r¥paæ bhaktajanapåpådido≤åkar≤a√åtkÿ≤√a¢ tasya saæbu-
ddhi¢ | he kÿ≤√a hi yasmånmana¢ cañcalaæ na kevalamatyarthaæ
872 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 6.34

cañcalaæ pramåthi ca pramathanaŸılaæ pramathnåti Ÿarıramindri-


yå√i ca vik≤ipatsatparavaŸıkaroti | kiæ ca balavatprabalaæ na ke-
nacinniyantuæ Ÿakyaæ durnivåratvåt | kiæ ca dÿƒhaæ tantunåga-
vadacchedyam | tasyaivaæbh¥tasya manaso ’haæ nigrahaæ niro-
dhaæ manye våyoriva | yathå våyordu≤karo nigrahastato ’pi mana-
so du≤karaæ manya ityabhipråya¢ || Ÿrıbhagavånuvåcaivametadya-
thå bravı≤i –
Ÿrıbhagavånuvåca –
asaæŸayaæ mahåbåho mano durnigrahaæ calam |
abhyåsena tu kaunteya vairågye√a ca gÿhyate || 6.35 ||
asaæŸayamiti | asaæŸayaæ nåsti saæŸayo mano durnigrahaæ
calamityatra he mahåbåho | kiæ tvabhyåsena tvabhyåso nåma citta-
bh¥mau kasyåñcitsamånapratyayåvÿttiŸcittasya | vairågye√a vairå-
myaæ nåma dÿ≤†ådÿ≤†e≤†abhoge≤u do≤adarŸanåbhyåsådvaitÿ≤√yam |
tena ca vairågye√a gÿhyate vik≤epar¥pa¢ pracåraŸcittasyaivaæ ta-
nmano gÿhyate nigÿhyate nirudhyata ityartha¢ || ya¢ punarasaæ-
yatåtmå tena –
asaæyatåtmanå yogo du≤pråpa iti me mati¢ |
vaŸyåtmanå tu yatatå Ÿakyo ’våptumupåyata¢ || 6.36 ||
asaæyatåtmaneti | asaæyatåtmanå ’bhyåsavairågyåbhyåmasaæ-
yata åtmå ’nta¢kara√aæ yasya so ’yamasaæyatåtmå tenåsaæyatå-
tmanå yogo du≤pråpo du¢khena pråpyata iti me mati¢ | yastu pu-
narvaŸyåtmå ’bhyåsavairågyåbhyåæ vaŸyatvamåpådita åtmå mano
yasya so ’yaæ vaŸyåtmå tena vaŸyåtmanå tu yatatå bh¥yo ’pi pra-
yatnaæ kurvatå Ÿakyo ’våptuæ yoga upåyato yathoktådupåyåt ||
tatra yogåbhyåså§gıkara√enehalokaparalokapråptinimittåni karmå-
√i saænyaståni yogasiddhiphalaæ ca mok≤asådhanaæ samyagda-
rŸanaæ na pråptamiti | yogı yogamårgånmara√akåle calitacitta iti
tasya nåŸamåŸa§kya arjuna uvåca –
arjuna uvåca –
ayati¢ Ÿraddhayopeto yogåccalitamånasa¢ |
apråpya yogasaæsiddhiæ kåæ gatiæ kÿ≤√a gacchati || 6.37 ||
6.41 ≤a≤†ho ’dhyåya¢ 873

ayatiriti | ayatiraprayatnavånyogamårge Ÿraddhayå åstikyabu-


ddhyå copeto ’ntakåle ca yogåccalitaæ månasaæ mano yasya sa ca-
litamånaso bhra≤†asmÿti¢ so ’pråpya yogasaæsiddhiæ yogaphalaæ
samyagdarŸanaæ kåæ gatiæ he kÿ≤√a gacchati ||
kaccinnobhayavibhra≤†aŸchinnåbhramiva naŸyati |
aprati≤†ho mahåbåho vim¥ƒho brahma√a¢ pathi || 6.38 ||
kacciditi | kaccitkiæ nobhayavibhra≤†ha¢ karmamårgådyogama-
rgåcca vibhra≤†a¢ saæŸchinnåbhramiva naŸyati kiæ vå na naŸya-
tyaprati≤†ho niråŸrayo he mahåbåho vim¥ƒha¢ sanbrahmana¢ pa-
thi brahmapråptimårge ||
etanme saæŸayaæ kÿ≤√a cchettumarhasyaŸe≤ata¢ |
tvadanya¢ saæŸayasyåsya cchettå na hyupapadyate || 6.39 ||
etaditi | etanme mama saæŸayaæ kÿ≤√a cchettumapanetumarha-
syaŸe≤ata¢ | tvadanyastvatto ’nya ÿ≤irdevo vå cchettå saæŸayasyåsya
na hi yasmådupapadyate na saæbhavatyatastvameva cchettumarha-
sıtyartha¢ ||

Ÿrıbhagavånuvåca –

pårtha naiveha nåmutra vinåŸastasya vidyate |


na hi kalyå√akÿtkaŸciddurgatiæ tåta gacchati || 6.40 ||

pårtheti | he pårtha naiveha loke nåmutra parasminvå loke vi-


naŸastasya vidyate nåsti | nåŸo nåma p¥rvasmåddhınajanmapråpti¢
sa yogabhra≤†asya nåsti | na hi yasmåtkalyå√akÿcchubhakÿtkaŸci-
ddurgatiæ kutsitåæ gatiæ he tåta tanotyåtmånaæ putrar¥pe√eti pi-
tå tåta ucyate | pitaiva putra iti putro ’pi tåta ucyate | Ÿi≤yo ’pi pu-
tra ucyate | yato na gacchati || kiæ tvasya bhavati –

pråpya pu√yakÿtåæ lokånu≤itvå ŸåŸvatı¢ samå¢ |


Ÿucınåæ Ÿrımatåæ gehe yogabhra≤†o ’bhijåyate || 6.41 ||

pråpyeti | yogamårge pravÿtta¢ saænyåsı såmarthyåtpråpya ga-


två pu√yakÿtåmaŸvamedhådiyåjinåæ lokåntatra co≤itvå våsamanu-
874 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 6.41

bh¥ya ŸåŸvatırnityå¢ samå¢ saævatsaråntadbhogak≤aye Ÿucınåæ ya-


thoktakåri√åæ Ÿrımatåæ vibh¥timatåæ gehe gÿhe yogabhrå≤†o ’bhi-
jåyate ||

athavå yoginåmeva kule bhavati dhımatåm |


etaddhi durlabhataraæ loke janma yadıdÿŸam || 6.42 ||

atheti | athavå Ÿrımatåæ kulådanyasminyoginåmeva daridrå-


√åæ kule bhavati jåyate dhımatåæ buddhimatåm | etaddhi janma
yaddaridrå√åæ yoginåæ kule | durlabhataraæ du¢khalabhyataraæ
p¥rvamapek≤ya loke janma yadıdÿŸaæ yathoktaviŸe≤a√e kule || ya-
småt –

tatra taæ buddhisaæyogaæ labhate paurvadehikam |


yatate ca tato bh¥ya¢ saæsiddhau kurunandana || 6.43 ||

tatreti | tatra yoginåæ kule taæ buddhisaæyogaæ buddhyå saæ-


yogaæ buddhisaæyogaæ labhate paurvadehikaæ p¥rvasmindehe
bhavaæ paurvadehikam | yatate ca prayatnaæ karoti ca tatasta-
småtp¥rvakÿtåtsaæskårådbh¥yo bahutaraæ saæsiddhau saæsiddhi-
nimittaæ he kurunandana || kathaæ p¥rvadehabuddhisaæyoga iti
taducyate –

p¥rvåbhyåsena tenaiva hriyate hyavaŸo ’pi sa¢ |


jijñåsurapi yogasya Ÿabdabrahmåtivartate || 6.44 ||

p¥rvåbhyåsena | ya¢ p¥rvajanmani kÿto ’bhyåsa¢ sa p¥rvåbhyå-


sastenaiva balavatå hriyate saæsiddhau hi yasmådavaŸo ’pi sa yo-
gabhra≤†a¢ | na kÿtaæ cedyogåbhyåsajåtsaæskårådbalavattarama-
dharmådilak≤a√aæ karma tadå yogåbhyåsajanitena saæskåre√a hÿ-
yate | adharmaŸcedbalavattara¢ kÿtastena yogajo ’pi saæskåro ’bhi-
bh¥yata eva | tatk≤aye tu yogaja¢ saæskåra¢ svayameva kåryamå-
rabhate na dırghakålasthasyåpi vinåŸastasyåstıtyartha¢ | ato jijñå-
surapi yogasya svar¥paæ jñåtumicchannapi yogamårge pravÿtta¢
saænyåsı yogabhra≤†a¢ såmarthyåtso ’pi Ÿabdabrahma vedoktaka-
rmånu≤†hånaphalamativartate ’tikråmatyapåkari≤yati kimuta bu-
6.47 ≤a≤†ho ’dhyåya¢ 875

ddhvå yo yogaæ tanni≤†ho ’bhyåsaæ kuryåt || kutaŸca yogitvaæ


Ÿreya iti –
prayatnådyatamånastu yogı saæŸuddhakilbi≤a¢ |
anekajanmasaæsiddhastato yåti paråæ gatim || 6.45 ||
prayatnåditi | prayatnådyatamåno ’dhikaæ yatamåna ityartha¢ |
tatra yogı vidvånsaæŸuddhakilbi≤o viŸuddhakilbi≤a¢ saæŸuddhapå-
po ’nekajanmasaæsiddho ’neke≤u janmasu kiñcitkiñcitsaæskårajå-
tamupacitya tenopacitenånekajanmakÿtena saæsiddho ’nekajanma-
saæsiddhastato labdhasamyagdarŸana¢ sanyåti paråæ prakÿ≤†åæ
gatim || yasmådevaæ tasmåt –
tapasvibhyo ’dhiko yogı jñånibhyo ’pi mato ’dhika¢ |
karmibhyåŸcådhiko yogı tasmådyogı bhavårjuna || 6.46 ||
tapasvibhya iti | tapasvibhyo ’dhiko yogı jñånibhyo ’pi jñåna-
matra Ÿåstrårthapå√ƒityaæ tadvadbhyo ’pi mato jñåto ’dhika¢ Ÿre-
≤†ha iti | karmibhyo ’gnihotrådi karma tadvadbhyo ’dhiko yogı viŸi-
≤†o yasmåttasmådyogı bhavårjuna ||
yoginåmapi sarve≤åæ madgatenåntaråtmanå |
Ÿraddhåvånbhajate yo måæ sa me yuktatamo mata¢ || 6.47 ||
yoginåmiti | yoginåmapi sarve≤åæ rudrådityådidhyånaparå√åæ
madhye madgatena mayi våsudeve samåhitenåntaråtmanånta¢ka-
ra√ena ŸraddhåvåñŸraddadhåna¢ sanbhajate sevate yo måæ sa me
mama yuktatamo ’tiŸayena yukto mato ’bhipreta iti ||
iti Ÿrımadbhagavadgıtås¥pani≤atsu brahmavidyåyåæ
yogaŸåstre Ÿrıkÿ≤√årjunasaævåde
dhyånayogo nåma
≤a≤†ho ’dhyåya¢

*
atha saptamo ’dhyåya¢

“yoginåmapi sarve≤åæ madgatenåntaråtmanå | Ÿraddhåvånbha-


jate yo måæ sa me yuktatamo mata¢” (bha. gı. 6.47) iti praŸnabıja-
mupanyasya svayamevedÿŸaæ madıyaæ tattvamevaæ madgatånta-
råtmå syådityetadvivak≤u¢ Ÿrıbhagavånuvåca –

Ÿrıbhagavånuvåca –

mayyåsaktamanå¢ pårtha yogaæ yuñjanmadåŸraya¢ |


asaæŸayaæ samagraæ måmyathå jñåsyasi tacchÿ√u || 7.1 ||

mayyåsaktamanå iti | mayi vak≤yamå√aviŸe≤a√e parameŸvare


åsaktaæ mano yasya sa mayyåsaktamanå¢ he pårtha yogaæ yuñja-
nmana¢samådhånaæ kurvanmadåŸrayo ’hameva parameŸvara åŸra-
yo yasya sa madåŸraya¢ | yo hi kaŸcitpuru≤årthena kenacidarthı bha-
vati sa tatsådhanaæ karmågnihotrådi tapo dånaæ vå kiñcidåŸra-
yaæ pratipadyate ’yaæ tu yogı måmevåŸrayaæ pratipadyate hitvå-
nyatsådhanåntaraæ mayyevåsaktamanå bhavati | yastvaæ evaæ-
bh¥ta¢ sannasaæŸayaæ samagraæ samastaæ vibh¥tibalaŸaktyai-
Ÿvaryådigu√åsaæpannaæ måæ yathå yena prakåre√a jñåsyasi saæ-
Ÿayamantare√aivameva bhagavåniti tacchÿ√¥cyamånaæ mayå ||
tacca madvi≤ayam –

jñånaæ te ’haæ savijñånamidaæ vak≤yåmyaŸe≤ata¢ |


yajjñåtvå neha bh¥yo ’nyajjñåtavyamavaŸi≤yate || 7.2 ||

jñånamiti | jñånaæ te tubhyamahaæ savijñånaæ vijñånasahi-


taæ svånubhavayuktamidaæ vak≤yåmi kathayi≤yåmyaŸe≤ata¢ kå-
rtsnyena | tajjñånaæ vivak≤itaæ stauti Ÿroturabhimukhıkara√åya –
yajjñåtvå yajjñånaæ jñåtvå neha bh¥ya¢ punaranyajjñåtavyaæ pu-
878 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 7.2

ru≤årthasådhanamavaŸi≤yate nåvaŸi≤†aæ bhavati | iti mattattvajño


ya¢ sa sarvajño bhavatıtyartha¢ | ato viŸi≤†aphalatvåddurlabhaæ
jñånam || kathamityucyate –

manu≤yå√åæ sahasre≤u kaŸcidyatati siddhaye |


yatatåmapi siddhånåæ kaŸcinmåæ vetti tattvata¢ || 7.3 ||

manu≤yå√åmiti | manu≤yå√åæ madhye sahasre≤vaneke≤u ka-


Ÿcidyatati prayatnaæ karoti siddhaye siddhyartham | te≤åæ yatatå-
mapi siddhånåæ siddhå eva hi te ye mok≤åya yatante te≤åæ kaŸci-
deva måæ vetti tattvato yathåvat || Ÿrotåraæ prarocanenåbhimu-
khıkÿtyåha –

bh¥miråpo ’nalo våyu¢ khaæ mano buddhireva ca |


ahaækåra itıyaæ me bhinnå prakÿtira≤†adhå || 7.4 ||

bh¥miriti | bh¥miriti pÿthivıtanmåtramucyate na sth¥lå “bhi-


nnå prakÿtira≤†adhå” iti vacanåt | tathå ’bådayo ’pi tanmåtrå√yevo-
cyante | åpo ’nalo våyu¢ kham | mana iti manasa¢ kåra√amahaæ-
kåro gÿhyate | buddhirityahaækårakåra√aæ mahattattvam | ahaæ-
kåra ityavidyåsaæyuktamavyaktam | yathå vi≤asaæyuktamannaæ
vi≤amityucyata evamahaækåra våsanåvadavyaktaæ m¥lakåra√a-
mahaækåra ityucyate pravartakatvådahaækårasya | ahaækåra eva
hi sarvasya pravÿttibıjaæ dÿ≤†aæ loke | itıyaæ yathoktå prakÿtirme
mamaiŸvarı måyå Ÿaktira≤†adhå bhinnå bhedamågatå ||

apareyamitastvanyåæ prakÿtiæ viddhi me paråm |


jıvabh¥tåæ mahåbåho yayedaæ dhåryate jagat || 7.5 ||

apareti | aparå na parå nikÿ≤†å ’Ÿuddhå ’narthakarı saæsåraba-


ndhanåtmikeyam | ito ’syå yathoktåyåstvanyåæ viŸuddhåæ prakÿ-
tiæ mamåtmabh¥tåæ viddhi me paråæ prakÿ≤†åæ jıvabh¥tåæ k≤e-
trajñalak≤a√åæ prå√adhåra√animittabh¥tåæ he mahåbåho yayå pra-
kÿtyedaæ dhåryate jagadanta¢pravi≤†ayå ||

etadyonıni bh¥tåni sarvå√ıtyupadhåraya |


ahaæ kÿtsnasya jagata¢ prabhava¢ pralayastathå || 7.6 ||
7.9 saptamo ’dhyåya¢ 879

etaditi | etadyonınyete paråpare k≤etrak≤etrajñalak≤a√e prakÿtı


yoni¢ ye≤åæ bh¥tånåæ tånyetadyonınibh¥tåni sarvå√ıtyevamupa-
dhåraya jånıhi | yasmånmama prakÿtı yoni¢ kåra√aæ sarvabh¥tå-
nåmato ’haæ kÿtsnasya samastasya jagata¢ prabhava uttpatti¢ pra-
layo vinåŸastathå | prakÿtidvayadvåre√åhaæ sarvajña ıŸvaro jaga-
ta¢ kåra√amityartha¢ || yatastasmåt –

matta¢ parataraæ nånyatkiñcidasti dhanañjaya |


mayi sarvamidaæ protaæ s¥tre ma√iga√å iva || 7.7 ||

matta iti | matta¢ parameŸvaråtparataramanyatkåra√åntaraæ


kiñcinnåsti na vidyate ’hameva jagatkåra√amityartha¢ he dha-
nañjaya | yasmådevaæ tasmånmayi parameŸvare sarvå√i bh¥tåni
sarvamidaæ jagatprotamanusy¥tamanugatamanuviddhaæ grathita-
mityartho dırghatantu≤u pa†avats¥tre ca ma√iga√å iva || kena kena
dharme√a viŸi≤†e tvayi sarvamidaæ protamityucyate –

raso ’hamapsu kaunteya prabhåsmi ŸaŸis¥ryayo¢ |


pra√ava¢ sarvavede≤u Ÿabda¢ khe pauru≤aæ nÿ≤u || 7.8 ||

rasa iti | raso ’hamapåæ ya¢ såra¢ sa rasastasminrasabh¥te ma-


yyåpa¢ protå ityartha¢ | evaæ sarvatra yathå ’hamapsu rasa evaæ
prabhåsmi ŸaŸis¥ryayo¢ | pra√ava oækåra¢ sarvavede≤u tasminpra-
√avabh¥te mayi sarve vedå¢ protå¢ | tathå khe åkåŸe Ÿabda¢ såra-
bh¥ta¢ tasminmayi khaæ protam | tathå pauru≤aæ puru≤asya bhå-
vo pauru≤aæ yata¢ puæbuddhirnÿ≤u tasminmayi puru≤å¢ protå¢ ||

pu√yo gandha¢ pÿthivyåæ ca tejaŸcåsmi vibhåvasau |


jıvanaæ sarvabh¥te≤u tapaŸcåsmi tapasvi≤u || 7.9 ||

punya iti | pu√ya¢ surabhirgandha¢ pÿthivyåæ cåhaæ tasmi-


nmayi gandhabh¥te pÿthivı protå | pu√yatvaæ gandhasya svabhå-
vata eva pÿthivyåæ darŸitamabådi≤u rasåde¢ pu√yatvopalak≤a√å-
rtham | apu√yatvaæ tu gandhådınåmavidyådharmådyapek≤aæ saæ-
såri√åæ bh¥taviŸe≤asaæsarganimittaæ bhavati | tejaŸca dıptiŸcåsmi
vibhåvasåvagnau | tathå jıvanaæ sarvabh¥te≤u yena jıvanti sarvå√i
880 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 7.9

bh¥tåni tajjıvanam | tapaŸcåsmi tapasvi≤u tasmiæstapasi mayi ta-


pasvina¢ protå¢ ||

bıjaæ måæ sarvabh¥tånåæ viddhi pårtha sanåtanam |


buddhirbuddhimatåmasmi tejastejasvinåmaham || 7.10 ||
bıjamiti | bıjaæ prarohakåra√aæ måæ viddhi sarvabh¥tånåæ he
pårtha sanåtanaæ cirantanam | kiæ ca buddhirvivekaŸaktiranta¢-
kara√asya buddhimatåæ vivekaŸaktimatåmasmi teja¢ prågalbhyaæ
tadvatåæ tejasvinåmaham ||

balaæ balavatåæ cåhaæ kåmarågavivarjitam |


dharmåviruddho bh¥te≤u kåmo ’smi bharatar≤abha || 7.11 ||
balamiti | balaæ såmarthyamojo balavatåmaham | tacca balaæ
kåmarågavivarjitaæ kåmaŸca rågaŸca kåmarågau | kåma tÿ≤√å ’saæ-
nikÿ≤†e≤u vi≤aye≤u rågo rañjanå pråpte≤u vi≤aye≤u tåbhyåæ kåma-
rågåbhyåæ vivarjitaæ dehådidhåra√amåtrårthaæ balaæ sattvama-
hamasmi na tu yatsaæsåri√åæ tÿ≤√årågakåra√am | kiæ ca dharmå-
viruddho dharme√a Ÿåstrårthenåviruddho ya¢ prå√i≤u bh¥te≤u kå-
mo yathå dehadhåra√amåtrådyartho ’Ÿanapånåvi≤aya¢ sa kåmo ’smi
he bharatar≤abha || kiæ ca –

ye caiva såttvikå bhåvå råjasåståmasåŸca ye |


matta eveti tånviddhi na tvahaæ te≤u te mayi || 7.12 ||
ya iti | ye caiva såttvikå¢ sattvanirvÿttå bhåvå¢ padårthå råjaså
rajonirvÿttå¢ tåmasåstamonirvÿttåŸca ye kecitprå√inåæ svakarma-
vaŸåjjåyante bhåvå¢ tånmatta eva jåyamånånityevaæ viddhi sarvå-
nsamaståneva | yadyapi te matto jåyante tathåpi na tvahaæ te≤u ta-
dadhınastadvaŸo yathå saæsåri√a¢ te punarmayi madvaŸå mada-
dhınå¢ || evaæbh¥tamapi parameŸvaraæ nityaŸuddhabuddhamu-
ktasvabhåvaæ sarvabh¥tåtmånaæ nirgu√aæ saæsårado≤abıjapra-
dåhakara√aæ måæ nåbhijånåti jagadityanukroŸaæ darŸayati bha-
gavån | tacca kiæ nimittaæ jagato ’jñånam ityucyate –

tribhirgu√amayairbhåvairebhi¢ sarvamidaæ jagat |


mohitaæ nåbhijånåti måmebhya¢ paramavyayam || 7.13 ||
7.16 saptamo ’dhyåya¢ 881

tribhiriti | tribhirgu√amayairgu√avikårai rågadve≤amohådipra-


kårairbhåvai¢ padårthairebhiryathoktai¢ sarvamidaæ prå√ijåtaæ
jaganmohitamavivekitåmåpåditaæ sannåbhijånåti måmebhyo ya-
thoktebhyo gu√ebhya¢ paraæ vyatiriktaæ vilak≤a√aæ cåvyayaæ
vyayarahitaæ janmådisarvabhåvavikåravarjjitamityartha¢ || ka-
thaæ punardaivımetåæ trigu√åtmikåæ vai≤√avıæ måyåmatikråma-
tıtyucyate –

daivı hye≤å gu√amayı mama måyå duratyayå |


måmeva ye prapadyante måyametåæ taranti te || 7.14 ||

daivıti | daivı devasya mameŸvarasya vi≤√o¢ svabh¥tå hi ya-


småde≤å yathoktå gu√amayı mama måyå duratyayå dukhenåtyayo
’tikrama√aæ yasyå¢ så duratyayå | tatraivaæ sati sarvadharmånpa-
rityajya måmeva måyåvinaæ svåtmabh¥taæ sarvåtmanå ye prapa-
dyante te måyåmetåæ sarvabh¥tamohinıæ tarantyatikramanti saæ-
sårabandhanånmucyanta ityartha¢ || yadi tvåæ prapannå måyåme-
tåæ taranti kasmåttvåmeva sarve na prapadyanta ityucyate –

na måæ du≤kÿtino m¥ƒhå¢ prapadyante narådhamå¢ |


måyayåpahÿtajñånå åsuraæ bhåvamåŸritå¢ || 7.15 ||

na måmiti | na måæ parameŸvaraæ nåråya√aæ du≤kÿtina¢ på-


pakåri√o m¥ƒhå¢ prapadyante narådhamå narå√åæ madhye ’dha-
må nikÿ≤†å¢ | te ca måyayåpahÿtajñånå¢ saæmu≤itajñånå åsuraæ
bhåvaæ hiæsånÿtådilak≤a√amåŸritå¢ || ye punarnarottamå¢ pu√ya-
karmå√a¢ –

caturvidhå bhajante måæ janå¢ sukÿtino ’rjuna |


årto jijñåsurarthårthı jñånı ca bharatar≤abha || 7.16 ||

caturvidhå iti | caturvidhåŸcatu¢prakårå bhajante sevante måæ


janå¢ sukÿtina¢ pu√yakarmå√o he ’rjuna | årta årtiparigÿhıtastaska-
ravyåghrarogådinåbhibh¥ta åpanno jijñåsurbhagavattattvaæ jñåtu-
micchati yo ’rthårthı dhanakåmo jñånı vi≤√ostattvavicca he bhara-
tar≤abha ||
882 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 7.17

te≤åæ jñånı nityayukta ekabhaktirviŸi≤yate |


priyo hi jñånino ’tyarthamahaæ sa ca mama priya¢ || 7.17 ||

te≤åmiti | te≤åæ catur√åæ madhye jñånı tattvavittattvavitvå-


nnityayukto bhavatyekabhaktiŸcånyasya bhajanıyåsyådarŸanådata¢
sa ekabhaktirviŸi≤yate viŸe≤amådhikyamåpadyate ’tiricyata itya-
rtha¢ | priyo hi yasmådahamatmå jñånino ’tastasyåhamatyarthaæ
priya¢ | prasiddhaæ hi loka åtmå priyo bhavatıti | tasmåjjñånina å-
tmatvådvåsudeva¢ priyo bhavatıtyartha¢ | sa ca jñånı mama våsu-
devasyåtmaiveti mamåtyarthaæ priya¢ || na tarhyårtådayastrayo
våsudevasya priyå¢ | na | kiæ tarhi –

udårå¢ sarva evaite jñånı tvåtmaiva me matam |


åsthita¢ sa hi yuktåtmå måmevånuttamåæ gatim || 7.18 ||

udårå iti | udårå utkÿ≤†å¢ sarva evaite trayo ’pi mama priyå e-
vetyartha¢ | na hi kaŸcinmadbhakto mama våsudevasyåpriyo bha-
vati | jñånı tvatyarthaæ priyo bhavatıti viŸe≤a¢ | tatkasmådityata å-
ha jñånı tvåtmaiva nånyo matta iti me mama mataæ niŸcaya¢ | å-
sthita åroƒhuæ pravÿtta¢ sa jñånı hi yasmådahameva bhagavånvå-
sudevo nånyo ’smıtyevaæ yuktåtmå samåhitacitta¢ sanmåmeva pa-
raæ brahma gantavyamanuttamåæ gatiæ gantuæ pravÿtta itya-
rtha¢ || jñånı punarapi st¥yate –

bah¥nåæ janmanåmante jñånavånmåæ prapadyate |


våsudeva¢ sarvamiti sa mahåtmå sudurlabha¢ || 7.19 ||

bah¥nåmiti | bah¥nåæ janmanåæ jñånårthasaæskåråŸrayå√å-


mante samåptau jñånavånpråptaparipåkajñåno måæ våsudevaæ pra-
tyagåtmånaæ pratyak≤ata¢ prapadyate | katham | våsudeva¢ sarva-
miti | ya evaæ sarvåtmånaæ måæ nåråya√aæ pratipadyate sa ma-
håtmå na tatsamo ’nyo ’styådhıko vå | ata¢ sudurlabho “manu≤yå-
√åæ sahasre≤u” (bha. gı. 7.3) ityuktam || åtmaiva sarvo våsudeva i-
tyevamapratipattau kåra√amucyate –

kåmaistaistairhÿtajñånå¢ prapadyante ’nyadevatå¢ |


taæ taæ niyamamåsthåya prakÿtyå niyatå¢ svayå || 7.20 ||
7.23 saptamo ’dhyåya¢ 883

kåmairiti | kåmaistaistai¢ putrapaŸusvargådivi≤ayairhÿtajñånå


’pahÿtavivekavijñånå¢ prapadyante ’nyadevatå¢ pråpnuvanti våsu-
devådåtmano ’nyå devatå¢ | taæ taæ niyamaæ devatårådhane pra-
siddho yo yo niyamastaæ tamåsthåyåŸritya prakÿtyå svabhåvena ja-
nmåntarårjitasaæskåraviŸe≤e√a niyatå niyamitå¢ svayå åtmıyayå ||
te≤åæ ca kåminåm –

yo yo yåæ yåæ tanuæ bhakta¢ Ÿraddhayårcitumicchati |


tasya tasyåcalåæ Ÿraddhåæ tåmeva vidadhåmyaham || 7.21 ||

yo ya iti | yo ya¢ kåmı yåæ yåæ devatåtanuæ Ÿraddhayå saæ-


yukto bhaktaŸca sannarcituæ p¥jayitumicchati | tasya tasya kåmi-
no ’calåæ Ÿraddhåæ tåmeva vidadhåmi sthirıkaromi || yayaiva p¥-
rvaæ pravÿtta¢ svabhåvato yo yåæ devatåtanuæ Ÿraddhayå ’rcitu-
micchati –

sa tayå Ÿraddhayå yuktastasyårådhanamıhate |


labhate ca tata¢ kåmånmayaiva vihitånhi tån || 7.22 ||

sa tayeti | sa tayå madvihitayå Ÿraddhayå yukta¢ saæstasyå de-


vatåtanvårådhanamårådhanamıhate ce≤†ate | labhate ca tatastasyå
årådhitåyå devatåtanvå¢ kåmånıpsitånmayaiva parameŸvare√a sa-
rvajñena karmaphalavibhågajñatayå vihitånnirmitåæstånhi yasmå-
tte bhagavatå vihitå¢ kåmåstasmåttånavaŸyaæ labhata ityartha¢ |
hitåniti padacchede hitatvaæ kåmånåmupacaritaæ kalpyaæ na hi
kåmå hitå¢ kasyacit || yasmådantavatsådhanavyåpårå avivekina¢
kåminaŸca te ’ta¢ –

antavattu phalaæ te≤åæ tadbhavatyalpamedhasåm |


devåndevayajo yånti madbhaktå yånti måmapi || 7.23 ||

antavaditi | antavadvinåŸi tu phalaæ te≤åæ tadbhavatyalpame-


dhasåmalpaprajñånåm | devåndevayajo yånti devånyajanta iti deva-
yaja¢ te devånyånti | madbhaktå yånti måmapi | evaæ samåne ’pyå-
yåse måmeva na prapadyante ’nantaphalåyåho khalu ka≤†aæ varta-
nta ityanukroŸaæ darŸayati bhagavån || kiæ nimittaæ måmeva na
prapadyanta ityucyate –
884 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 7.24

avyaktaæ vyaktimåpannaæ manyante måmabuddhaya¢ |


paraæ bhåvamajånanto mamåvyayamanuttamam || 7.24 ||
avyaktamiti | avyaktamaprakåŸaæ vyaktimåpannaæ prakåŸaæ
gatamidånıæ manyante måæ nityaprasiddhamıŸvaramapi santama-
buddhayo ’vivekina¢ paraæ bhåvaæ paramåtmasvar¥pamajånanto
’vivekino mamåvyayaæ vyayarahitamanuttamaæ niratiŸayaæ ma-
dıyaæ bhåvamajånanto manyanta ityartha¢ || tadıyamajñånaæ kiæ
nimittamityucyate –
nåhaæ prakåŸa¢ sarvasya yogamåyåsamåvÿta¢ |
m¥ƒho ’yaæ nåbhijånåti loko måmajamavyayam || 7.25 ||
nåhamiti | nåhaæ prakåŸa¢ sarvasya lokasya ke≤åñcideva ma-
dbhaktånåæ prakåŸo ’hamityabhipråya¢ | yogamåyåsamåvÿto yogo
gu√ånåæ yuktirgha†anaæ saiva måyå yogamåyå tayå yogamåyayå
samåvÿta¢ saæchanna ityartha¢ | ata eva m¥ƒho loko ’yaæ nåbhi-
jånåti måmajamavyayam | yayå yogamåyayå samåvÿtaæ måæ loko
nåbhijånåti nåsau yogamåyå madıyå satı mameŸvarasya måyåvino
jñånaæ pratibadhnåti yathånyasyåpi måyåvino måyå jñånaæ ta-
dvat || yata evamata¢ –

vedåhaæ samatıtåni vartamånåni cårjuna |


bhavi≤yå√i ca bh¥tåni måæ tu veda na kaŸcana || 7.26 ||

vedeti | ahaæ tu veda jåne samatıtåni samatikråntåni bh¥tåni


vartamånåni cårjuna bhavi≤yå√i ca bh¥tåni vedåhaæ måæ tu veda
na kaŸcana madbhaktaæ macchara√amekaæ muktvå | mattattvave-
danåbhåvådeva na måæ bhajate || kena punarmattattvavedanapra-
tibandhena pratibaddhåni santi jåyamånåni sarvabh¥tåni måæ na
vidantıtyapek≤åyåmidamåha –

icchådve≤asamutthena dvandvamohena bhårata |


sarvabh¥tåni saæmohaæ sarge yånti paraætapa || 7.27 ||

iccheti | icchådve≤asamutthenecchå ca dve≤aŸcecchådve≤au tå-


bhyåæ samutti≤†hatıtıcchådve≤asamutthastenecchådve≤asamutthe-
na | keneti viŸe≤åpek≤åyåmidamåha dvandvamohena dvandvanimi-
7.29 saptamo ’dhyåya¢ 885

tto moho dvandvamoha¢ tena | tåvevecchådve≤au Ÿıto≤√avatpara-


sparaviruddhau sukhadu¢khataddhetuvi≤ayau yathåkålaæ sarva-
bh¥tau saæbadhyamånau dvandvaŸabdenåbhidhıyete | tatra yade-
cchådve≤au sukhadu¢khataddhetusaæpråptyå labdhåtmakau bhava-
tastadå tau sarvabh¥tånåæ prajñåyå¢ svavaŸåpådanadvåre√a para-
mårthåtmatattvavi≤ayajñånotpattipratibandhakåra√aæ mohaæ jana-
yata¢ | na hıcchådve≤ado≤avaŸıkÿtacittasya yathåbh¥tårthavi≤ayajñå-
namutpadyate bahirapi | kimu vaktavyaæ tåbhyåmåvi≤†abuddhe¢
saæm¥ƒhasya pratyagåtmani bahupratibandhe jñånaæ notpadya-
ta iti | atastenecchådve≤asamutthena dvandvamohena bhårata bha-
ratånvayaja sarvabh¥tåni saæmohitåni santi saæmohaæ saæm¥-
ƒhatåæ sarge janmani | utpattikåla ityetat | yånti gacchanti he pa-
raætapa | mohavaŸånyeva sarvabh¥tåni jåyamånåni jåyanta itya-
bhipråya¢ | yata evamatastena dvandvamohena pratibaddhaprajñå-
nåni sarvabh¥tåni saæmohitåni måmåtmabh¥taæ na jånantyata e-
våtmabhåvena måæ na bhajante || ke punaranena dvandvamohena
nirmuktå¢ santastvåæ viditvå yathåŸåstramåtmabhåvena bhajanta
ityapek≤itamarthaæ darŸayitumucyate –

ye≤åæ tvantagataæ påpaæ janånåæ pu√yakarma√åm |


te dvandvamohanirmuktå bhajante måæ dÿƒhavratå¢ || 7.28 ||

ye≤åmiti | ye≤åæ tu punarantagataæ samåptapråyaæ k≤ı√aæ


påpaæ janånåæ pu√yakarma√åæ punyaæ karma ye≤åæ sattvaŸu-
ddhikåra√aæ vidyate te pu√yakarmå√aste≤åæ pu√yakarma√åæ te
dvandvamohanirmuktå yathoktena dvandvamohena nirmuktå bha-
jante måæ paramåtmånaæ dÿƒhavratå¢ | evameva paramårthata-
ttvaæ nånyathetyevaæ sarvaparityågavratena niŸcitavijñånå dÿƒha-
vratå ucyante || te kiæ arthaæ bhajante ityucyate –

jaråmara√amok≤åya måmåŸritya yatanti ye |


te brahma tadvidu¢ kÿtsnamadhyåtmaæ karma cåkhilam || 7.29 ||

jareti | jaråmara√amok≤åya jaråmara√ayormok≤årthaæ måæ pa-


rameŸvaramåŸritya matsamåhitacittå¢ santo yatanti prayatante ye te
yadbrahma paraæ tadvidu¢ kÿtsnaæ samastamadhyåtmaæ pratya-
gåtmavi≤ayaæ vastu tadvidu¢ karma cåkhilaæ samastaæ vidu¢ ||
886 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 7.30

sådhibh¥tådhidaivaæ måæ sådhiyajñaæ ca ye vidu¢ |


prayå√akåle ’pi ca måæ te viduryuktacetasa¢ || 7.30 ||

sådhıti | sådhibh¥tådhidaivamadhibh¥taæ cådhidaivaæ cådhi-


bh¥tådhidaivaæ sahådhibh¥tådhidaivena vartata iti sådhibh¥tådhi-
daivaæ ca måæ ye vidu¢ sådhiyajñaæ ca sahådhiyajñena sådhiya-
jñaæ ye vidu¢ prayå√akåle mara√akåle ’pi ca måæ te viduryukta-
cetasa¢ samåhitacittå iti ||

iti srımadbhagavadgıtås¥pani≤atsubrahmavidyåyåæ
yogaŸåstre Ÿrıkÿ≤√årjunasaævåde
jñånavijñånayogo nåma
saptamo ’dhyåya¢

*
athå≤†amo ’dhyåya¢

“te brahma tadvidu¢ kÿtsnam” (bha. gı. 7.29) ityadinå bhagava-


tårjunasya praŸnabıjånyupadi≤†åni | atastatpraŸnårthamarjuna uvå-
ca –

arjuna uvåca –

kiæ tadbrahma kimadhyåtmaæ kiæ karma puru≤ottama |


adhibh¥taæ ca kiæ proktamadhidaivaæ kimucyate || 8.1 ||

adhiyajña¢ kathaæ ko ’tra dehe ’sminmadhus¥dana |


prayå√akåle ca kathaæ jñeyo ’si niyatåtmabhi¢ || 8.2 ||

e≤åæ praŸnånåæ yathåkramaæ nir√ayåya Ÿrıbhagavånuvåca –

srıbhagavånuvåca –

ak≤araæ brahma paramaæ svabhåvo ’dhyåtmamucyate |


bh¥tabhåvodbhavakaro visarga¢ karmasaæjñita¢ || 8.3 ||

ak≤aramiti | ak≤araæ na k≤aratıtyak≤araæ paramåtmå “etasya


vå ’k≤arasya praŸåsane gårgi” (bÿ. 3.8.9) iti Ÿrute¢ | oækårasya ca
“omityekåk≤araæ brahma” (bha. gı. 8.13) iti pare√a viŸe≤a√ådagra-
ha√am | paramamiti ca niratiŸaye brahma√yak≤ara upapannataraæ
viŸe≤a√am | tasyaiva parasya brahma√a¢ pratidehaæ pratyagåtma-
bhåva¢ svabhåva¢ svo bhåvo ’dhyåtmamucyate | åtmånaæ deha-
madhikÿtya pratyagåtmatayå pravÿttaæ paramårthabrahmåvaså-
naæ vastu svabhåvo ’dhyåtmamucyate ’dhyåtmaŸabdenåbhidhıya-
te | bh¥tabhåvodbhavakaro bh¥tånåæ bhåvo bh¥tabhåvastasyo-
dbhavo bh¥tabhåvodbhavastaæ karotıti bh¥tabhåvodbhavakaro bh¥-
888 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 8.3

tavast¥tpattikara ityartha¢ | visargo visarjanaæ devatoddeŸena ca-


rupuroƒåŸåderdravyasya parityåga¢ sa e≤a visargalak≤a√o yajña¢
karmasaæjñita karmaŸabdita ityetat | etasmåddhi bıjabh¥tådvÿ≤†yå-
dikrame√a sthåvaraja§gamåni bh¥tånyudbhavanti ||

adhibh¥taæ k≤aro bhåva¢ puru≤aŸcådhidaivatam |


adhiyajño ’hamevåtra dehe dehabhÿtåæ vara || 8.4 ||
adhibh¥tamiti | adhibh¥taæ prå√ijåtamadhikÿtya bhavatıti | ko
’sau k≤ara¢ k≤aratıti k≤aro vinåŸı bhåvo yaktiæcijjanimadvastvitya-
rtha¢ | puru≤a¢ p¥r√amanena sarvamiti puri Ÿayanådvå puru≤a ådi-
tyåntargato hira√yagarbha¢ sarvaprå√ikara√ånåmanugråhaka¢ so
’dhidaivatam | adhiyajña¢ sarvayajñåbhimåninı vi≤√våkhyå devatå
“yajño vai vi≤√u¢” (tai. saæ. 1.7.4) iti Ÿrute¢ | sa hi vi≤√urahamevå-
tråsmindehe | yo yajñastasyåhamadhiyajña¢ yajño hi dehanirva-
rtyatvena dehasamavåyıti dehådhikara√o bhavati dehabhÿtåæ va-
ra ||

antakåle ca måmeva smaranmuktvå kalevaram |


ya¢ prayåti sa madbhåvaæ yåti nåstyatra saæŸaya¢ || 8.5 ||
antakåla iti | antakåle ca mara√akåle måmeva parameŸvaraæ vi-
≤√uæ smaranmuktvå parityajya kalevaraæ Ÿarıraæ ya¢ prayåti ga-
cchati sa madbhåvaæ vai≤√avaæ tattvaæ yåti | nåsti na vidyate ’trå-
sminnarthe saæŸayo yåti vå na veti || na madvi≤aya evåyaæ niya-
ma¢ kiæ tarhi –

yaæ yaæ våpi smaranbhåvaæ tyajatyante kalevaram |


taæ tamevaiti kaunteya sadå tadbhåvabhåvita¢ || 8.6 ||
yamiti | yaæ yaæ våpi yaæ yaæ bhåvaæ devatåviŸe≤aæ sma-
raæŸcintayaæstyajati parityajatyante ’ntakåle prå√aviyogakåle ka-
levaraæ Ÿarıraæ taæ tameva smÿtaæ bhåvamevaiti nånyaæ kaunte-
ya sadå sarvadå tadbhåvabhåvitastasminbhåvastadbhåva¢ sa bhå-
vita¢ smaryamå√atayåbhyasto yena sa tadbhåvabhåvita¢ san || ya-
smådevamantyå bhåvanå dehåntarapråptau kåra√am –
8.9 a≤†amo ’dhyåya¢ 889

tasmåtsarve≤u kåle≤u måmanusmara yudhya ca |


mayyarpitamanobuddhirmåmevai≤yasyasaæŸaya¢ || 8.7 ||

tasmåditi | tasmåtsarve≤u kåle≤u måmanusmara yathaŸåstraæ


yudhya ca yuddhaæ ca svadharmaæ kuru | mayi våsudeve ’rpite
manobuddhı yasya tava sa tvaæ mayyarpitamanobuddhi¢ sanmå-
meva yathåsmÿtame≤yasyågåmi≤yasyasaæŸayo na saæŸayo ’tra vi-
dyate || kiæ ca –

abhyåsayogayuktena cetaså nånyagåminå |


paramaæ puru≤aæ divyaæ yåti pårthånucintayan || 8.8 ||

abhyåseti | abhyåsayogayuktena mayi cittasamarpa√avi≤aya-


bh¥ta ekasmiæstulyapratyayåvÿttilak≤a√o vilak≤a√apratyayånanta-
rito ’bhyåsa¢ sa cåbhyåso yogastena yuktaæ tatraiva vyåpÿtaæ yo-
ginaŸcetastena cetaså nånyagåminå nånyatra vi≤ayåntare gantuæ Ÿı-
lamasyeti nånyagåmi tena nånyagåminå paramaæ niratiŸayaæ pu-
ru≤aæ divyaæ divi s¥ryama√ƒale bhavaæ yåti gacchati he pårthå-
nucintayañŸåstråcaryopadeŸamanudhyåyannityetat || kiæ viŸi≤†aæ
ca puru≤aæ yåtıtyucyate –

kaviæ purå√am anuŸåsitåram


a√ora√ıyåæsamanusmaredya¢ |
sarvasya dhåtåramacintyar¥pam
ådityavar√aæ tamasa¢ paraståt || 8.9 ||

kavimiti | kaviæ kråntadarŸinaæ sarvajñaæ purå√aæ ciranta-


namanuŸåsitåraæ sarvasya jagata¢ praŸåsitårama√o¢ s¥k≤måda-
pya√ıyåæsaæ s¥k≤amataramanusmaredanucintayedya¢ kaŸcitsarva-
sya karmaphalajåtasya dhåtåraæ vidhåtåraæ vicitratayå prå√ibhyo
vibhåktåramacintyar¥paæ nåsya r¥paæ niyataæ vidyamånamapi
kenaciccintayituæ Ÿakyata ityacintyar¥pastamådityavar√amåditya-
syeva nityacaitanyaprakåŸo var√o yasya tasmådådityavar√aæ tama-
sa¢ parastådajñånalak≤a√ånmohåndhakåråtparaæ tamanucintaya-
ntyåtıti p¥rve√a saæbandha¢ || kiæ ca –
890 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 8.10

prayå√akåle manaså ’calena


bhaktyå yukto yogabalena caiva |
bhruvormadhye prå√amåveŸya samyak-
sa taæ paraæ puru≤amupaiti divyam || 8.10 ||

prayå√eti | prayå√akåle mara√akåle manaså ’calena calanava-


rjitena bhaktyå yukto bhajanaæ bhaktistayå yukto yogabalena cai-
va yogasya balaæ yogabalaæ samådhijasaæskårapracayajanitacitta-
sthairyalak≤a√aæ yogabalaæ tena ca yukta ityartha¢ | p¥rvaæ hÿ-
dyapu√ƒarıke vaŸıkÿtya cittaæ tata urdhvagåminyå nåƒyå bh¥mija-
yakramena bhruvormadhye prå√amaveŸya sthåpayitvå samyagapra-
matta¢ sansa evaæ vidvånyogı “kaviæ purå√aæ” (bha. gı. 8.9) ityå-
di lak≤a√aæ taæ paraæ puru≤amupaiti pratipadyate divyaæ dyo-
tanåtmakam || punarapi vak≤yamå√enopåyena pratipitsitasya bra-
hma√o vedavidvadanådiviŸe≤a√aviŸe≤yasyåbhidhånaæ karoti bha-
gavån –

yadak≤araæ vedavido vadanti


viŸanti yadyatayo vıtarågå¢ |
yadicchanto brahmacaryaæ caranti
tatte padaæ saægrahe√a pravåk≤ye || 8.11 ||

yaditi | yadak≤araæ na k≤aratıtyak≤aramavinåŸı vedavido vedå-


rthajñå vadanti “tadvå etadak≤araæ gårgı bråhma√å abhivadanti”
(bÿ 3.8.8) iti Ÿrute¢ sarvaviŸe≤anivartakatvenåbhivadanti “asth¥la-
mana√u” (bÿ. 3.8.8) ityådi | kiæ ca viŸånti praviŸanti samyagdarŸa-
napråptau satyåæ yadyatayo yatanaŸılå¢ saænyåsino vıtarågå vıto
vigato rågo yebhyaste vıtarågå¢ | yaccåk≤aramicchanto – jñåtumiti
våkyaŸe≤a¢ – brahmacaryaæ gurau carantyåcaranti tatte padaæ ta-
dak≤aråkhyaæ padaæ padanıyaæ te tubhyaæ saægrahe√a saægra-
ha¢ saæk≤epastena saæk≤epe√a pravåk≤ye kathayi≤yåmi || “sa yo
ha vai tadbhagavanmanu≤ye≤u pråya√åntamoækåramabhidhyåyıta
katamaæ våva sa tena lokaæ jayatıti | tasmai sa hovåcaitadvai sa-
tyakåma paraæ cåparaæ ca brahma yadoækåra¢” (pra. 5.1-2) ityu-
pakramya “ya¢ punaretaæ trimåtre√omityetenaivåk≤are√a paraæ
puru≤amabhidhyåyıta sa såmabhirunnıyate somalokam” (pra. 5.4) i-
tyådinå vacanena “anyatra dharmådanyatrådharmåt” (ka. 2.14) iti
8.14 a≤†amo ’dhyåya¢ 891

copakramya “sarve vedå yatpadamåmananti tapåæsi ca yadvada-


nti | yadicchanto brahmacaryaæ caranti tatte padaæ saægrahe√a
bravımyomityetat” (ka. 2.15) ityådibhiŸca vacanai¢ parasya brahma-
√o våcakar¥pe√a pratimåvatpratıkar¥pe√a vå parabrahmapratipa-
ttisådhanatvena mandamadhyamabuddhınåæ vivak≤itasyauækåra-
syopåsanaæ kålantare muktiphalamuktaæ yattadevehåpi “kaviæ pu-
rå√amanuŸåsitåram” (bha. gı. 8.9) “yadak≤araæ vedavido vadanti”
(bha. gı. 8.11) iti copanyastasya parasya brahma√a¢ p¥rvoktar¥pe-
√a pratipattyupåyabh¥tasyauækårasya kålåntaramuktiphalamupå-
sanaæ yogadhåra√åsahitaæ vaktavyaæ prasaktånuprasaktaæ ca
yatkiñcidityevamartha uttaro grantha årabhyate –

sarvadvårå√i saæyamya mano hÿdi nirudhya ca |


m¥rdhnyådhåyåtmana¢ prå√amåsthito yogadhåra√åm || 8.12 ||

sarveti | sarvadvårå√i sarvå√i ca tåni dvårå√i ca sarvadvårå-


√yupalabdhau tåni sarvå√i saæyamya saæyamanaæ kÿtvå mano hÿ-
di hÿdayaæpu√ƒarıke nirudhya nirodhaæ kÿtvå ni≤pracåramåpå-
dya tatra vaŸıkritena manaså hÿdayåd¥rdhvagåminyå nåƒyordhva-
måruhya m¥rdhnyådhåyåtmåna¢ prå√amåsthita¢ pravÿtto yogadhå-
ra√åæ dhårayitum || tatraiva ca dhårayan –

omityekåk≤araæ brahma vyåharanmåmanusmaran |


ya¢ prayåti tyajandehaæ sa yåti paramåæ gatim || 8.13 ||

omiti | omityekåk≤araæ brahma brahma√o ’bhidhånabh¥ta-


moækåraæ vyåharannuccårayaæstadarthabh¥taæ måmıŸvarama-
nusmarannanucintayanya¢ prayåti mriyate sa tyajanparityajande-
haæ Ÿarıraæ | tyajandehamiti prayå√aviŸe≤a√årthaæ dehatyågena
prayå√amåtmano na svar¥panåŸenetyartha¢ | sa evaæ tyajanyåti
gacchati paramåæ prakÿ≤†åæ gatim || kiæ ca –

ananyacetå¢ satataæ yo måæ smarati nityaŸa¢ |


tasyåhaæ sulabha¢ pårtha nityayuktasya yogina¢ || 8.14 ||

ananyacetå iti | ananyacetå nånyavi≤aye ceto yasya so ’yama-


nanyacetå | yogı satataæ sarvadå yo måæ parameŸvaraæ smarati
892 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 8.14

nityaŸa¢ | satatamiti nairantaryamucyate nityaŸa iti dırghakålatva-


mucyate | na ≤a√måsaæ saævatsaraæ vå | kiæ tarhi yåvajjıvaæ nai-
rantarye√a yo måæ smaratıtyartha¢ | tasya yogino ’haæ sulabha¢
sukhena labhya¢ he pårtha nityayuktasya sadå samåhitacittasya yo-
gina¢ | yata evamato ’nanyacetå¢ sanmayi sadå samåhito bhavet ||
tava saulabhyena kiæ syådityucyate Ÿÿ√u tanmama saulabhyena ya-
dbhavati –

måmupetya punarjanma dukhålayamaŸåŸvatam |


nåpnuvanti mahåtmåna¢ saæsiddhiæ paramåæ gatå¢ || 8.15 ||

måmiti | måmupetya måmıŸvaramupetya madbhåvamåpadya pu-


narjanma punarutpattiæ nåpnuvanti na pråpnuvanti | kiæ viŸi≤†aæ
punarjanma na pråpnuvantıti tadviŸe≤a√amåha du¢khålayaæ du¢-
khånåmådhyåtmikådınåmålayamåŸrayamålıyante tasmindu¢khånı-
ti dukhålayaæ janma | na kevalaæ du¢khålayamaŸåŸvatamanava-
sthitasvar¥paæ ca | nåpnuvantıdÿŸaæ punarjanma mahåtmano ya-
taya¢ saæsiddhiæ mok≤åkhyåæ paramåæ prakÿ≤†åæ gatå¢ prå-
ptå¢ | ye punarmåæ na pråpnuvanti te punaråvartante || kiæ puna-
stvatto ’nyatpråptå¢ punaråvartanta ityucyate –

å brahmabhuvanållokå¢ punaråvartino ’rjuna |


måmupetya tu kaunteya punarjanma na vidyate || 8.16 ||

å brahmeti | å brahmabhuvanådbhavantyasminbh¥tånıti bhu-


vanaæ brahmaloka ityartha¢ | å brahmabhuvanåtsaha brahmabhu-
vanena lokå¢ sarve punaråvartina¢ punaråvartanasvabhåvå he ’rju-
na | måmekamupetya tu kaunteya punarjanma punarutpattirna vi-
dyate || brahmalokasahitå lokå¢ kasmåtpunaråvartina¢ kålapari-
cchinnatvåt | katham –

sahasrayugaparyantamaharyadbrahma√o vidu¢ |
råtriæ yugasahasråntåæ te ’horåtravido janå¢ || 8.17 ||

sahasreti | sahasrayugaparyantaæ sahasrå√i yugåni paryanta¢


paryavasånaæ yasyåhastadaha¢ sahasrayugaparyantaæ brahma-
√a¢ prajåpaterviråjo vidu¢ | råtrimapi yugasahasråntåmaha¢pari-
8.20 a≤†amo ’dhyåya¢ 893

må√åmeva | ke vidurityåha te ’horåtravida¢ kålasaækhyåvido janå


ityartha¢ | yata evaæ kålaparicchinnåste ’ta¢ punaråvartino lo-
kå¢ || prajåpaterahani yadbhavati råtrau ca taducyate –

avyaktådvyaktaya¢ sarvå¢ prabhavantyaharågame |


råtryågame pralıyante tatraivåvyaktasaæjñake || 8.18 ||

avyaktåditi | avyaktådavyaktaæ prajåpate¢ svåpåvasthå tasmå-


davyaktådvyaktayo vyajyanta iti vyaktaya¢ sthåvaraja§gamalak≤a-
√å¢ sarvå¢ prajå¢ prabhavantyabhivyajyante ’hnå ’’gamo ’haråga-
mastasminnaharågame kåle brahma√a¢ prabodhakåle | tathå råtryå-
game brahma√a¢ svåpakåle pralıyante sarvå vyaktayastatraiva p¥-
rvokte ’vyaktasaæjñake || akÿtåbhyågamakÿtavipra√åŸado≤aparihå-
rårthaæ bandhamok≤aŸåstrapravÿttisåphalyapradarŸanårthamavidyå-
dikleŸam¥lakarmåŸayavaŸåccåvaŸo bh¥tagråmo bh¥två bh¥två pra-
lıyata ityata¢ saæsåre vairågyapradarŸanårthaæ cedamåha –

bh¥tagråma¢ sa evåyaæ bh¥två bh¥två pralıyate |


råtryågame ’vaŸa¢ pårtha prabhavatyaharågame || 8.19 ||

bh¥tagråma¢ | bh¥tagråmo bh¥tasamudåya¢ sthåvaraja§gama-


lak≤a√o ya¢ p¥rvasminkalpa åsıtsa evåyaæ nånyo bh¥två bh¥två
aharågame pralıyate puna¢ punå råtryågame ’hna k≤aye ’vaŸo ’sva-
tantra eva he pårtha prabhavati jåyate åvaŸa evåharågame || yadu-
panyastamak≤araæ tasya pråptyupåyo nirdi≤†a “omityekåk≤araæ
brahma” (bha. gı. 8.13) ityådinå | athedånımak≤arasyaiva svar¥pa-
nirdidik≤ayedamucyate ’nena yogamårge√edaæ gantavyamiti –

parastasmåttu bhåvo ’nyo ’vyakto ’vyaktåtsanåtana¢ |


ya¢ sa sarve≤u bh¥te≤u naŸyatsu na vinaŸyati || 8.20 ||

para iti | paro vyatirikto bhinna¢ | kutastasmåtp¥rvoktåt | tu-


Ÿabdo ’k≤arasya vivak≤itasyåvyaktådvailak≤a√yaviŸe≤a√årtha¢ | bhå-
vo ’k≤aråkhyaæ paraæ brahma | vyaktiriktatve satyapi sålak≤a√ya-
prasa§go ’stıti tadvinivÿttyarthamåha ’nya iti | anyo vilak≤a√a¢ sa
cåvyakto ’nindriyagocara¢ | parastasmådityuktaæ kasmåtpuna¢
para¢ | p¥rvoktådbh¥tagråmabıjabh¥tådavidyålak≤a√ådavyaktåda-
894 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 8.20

nyo vilak≤a√o bhåva ityabhipråya¢ | sanåtanaŸcirantana¢ ya¢ sa


bhåva¢ sarve≤u bh¥te≤u brahmådi≤u naŸyatsu na vinaŸyati ||

avyakto ’k≤ara ityuktastamåhu¢ paramåæ gatim |


yaæ pråpya na nivartante taddhåma paramaæ mama || 8.21 ||
avyakta iti | yo ’såvavyakto ’k≤ara ityuktastamevåk≤arasaæjña-
kamavyaktaæ bhåvamåhu¢ paramåæ prakÿ≤†åæ gatim | yaæ bhå-
vaæ pråpya gatvå na nivartante saæsåråya taddhåma sthånaæ pa-
ramaæ prakÿ≤†aæ mama vi≤√o¢ paramaæ padamityartha¢ || talla-
bdherupåyocyate –

puru≤a¢ sa para¢ pårtha bhaktyå labhyastvananyayå |


yasyånta¢sthåni bh¥tåni yena sarvamidaæ tatam || 8.22 ||
puru≤a iti | puru≤a¢ puri Ÿayanåtp¥r√atvådvå sa para¢ pårtha
paro niratiŸayo yasmåtpuru≤ånna paraæ kiñcit | sa bhaktyå labhya-
stu jñånalak≤a√ayånanyayåtmavi≤ayayå | yasya puru≤asyånta¢-
sthåni madhyasthåni bh¥tåni kåryabh¥tåni | kåryaæ hi kåra√asyå-
ntarvarti bhavati | yena puru≤e√a sarvamidaæ jagattataæ vyåpta-
måkaŸeneva gha†ådi || prakÿtånåæ yoginåæ pra√avåveŸitabrahma-
buddhınåæ kålåntaramuktibhåjåæ brahmapratipattaya uttaro må-
rgo vaktavya iti “yatra kåla” ityådi vivak≤itårthasamarpa√årthamu-
cyate | åvÿttimårgopanyåsa itaramårgastutyartha¢ –

yatra kåle tvanåvÿttimåvÿttiæ caiva yogina¢ |


prayåtå yånti taæ kålaæ vak≤yåmi bharatar≤abha || 8.23 ||
yatreti | yatra kåle prayåtå iti vyavahitena saæbandha¢ | yatra
yasminkåle tvanåvÿttimapunarjanma åvÿttiæ tadviparıtåæ caiva |
yogina iti yogina¢ karmi√aŸcocyante | karmi√astu gu√ata¢ “karma-
yoge√a yoginåm” (bha. gı. 3.3) iti viŸe≤a√ådyogina¢ | yatra kåle
prayåtå mÿtå yogino ’nåvÿttiæ yånti yatra kåle ca prayåtå åvÿttiæ
yånti taæ kålaæ vak≤yåmi bharatar≤abha || taæ kålamåha –

agnirjyotiraha¢ Ÿukla¢ ≤a√måså uttaråya√am |


tatra prayåtå gacchanti brahma brahmavido janå¢ || 8.24 ||
8.27 a≤†amo ’dhyåya¢ 895

agniriti | agni¢ kålåbhimåninı devatå | tathå jyotirapi devataiva


kålåbhimåninı | athavå agnijyotı≤ı yathåŸrute eva devate | bh¥yaså
tu nirdeŸo “yatra kåle” “taæ kålaæ” ityåmrava√avat | tathå ’harde-
vatå ’harabhimåninı Ÿukla¢ Ÿuklapak≤adevatå ≤a√måså uttaråya-
naæ tatråpi devataiva mårgabh¥teti sthito ’nyatråyaæ nyåya¢ | ta-
tra tasminmårge prayåtå mÿtå gacchanti brahma brahmavido bra-
hmopåsakå brahmopåsanaparå janå¢ | krame√eti våkyaŸe≤a¢ | na
hi sadyomuktibhåjåæ samyagdarŸanani≤†hånåæ gatiragatirvå kva-
cidasti “na tasya prå√å utkråmanti” (bÿ. 4.4.6) iti srute¢ | brahma-
saælınaprå√å eva te brahmamayå brahmabh¥tå eva te ||

dh¥mo råtristathå kÿ≤√a¢ ≤a√måså dak≤i√åyanam |


tatra cåndramasaæ jyotiryogı pråpya nivartate || 8.25 ||

dh¥ma iti | dh¥mo råtrirdh¥måbhimåninı råtryabhimåninı ca


devatå | tathå kÿ≤√a¢ kÿ≤√apak≤adevatå | ≤a√måså dak≤i√åyanamiti
ca p¥rvavaddevataiva | tatra candramasi bhavaæ cåndramasaæ jyo-
ti¢ phalami≤†ådikårı yogı karmı pråpya bhuktvå tatk≤ayådiha pu-
na¢ nivartate ||

Ÿuklakÿ≤√e gatı hyete jagata¢ ŸåŸvate mate |


ekayå yåtyanåvÿttimanyayåvartate puna¢ || 8.26 ||

Ÿukleti | Ÿuklakÿ≤√e Ÿuklå ca kÿ≤√å Ÿuklakÿ≤√e | jñånaprakåŸa-


katvåcchuklå tadabhåvåtkÿ≤√å | ete Ÿuklakÿ≤√e hi gatı jagata itya-
dhikÿtånåæ jñånakarma√orna jagata¢ sarvasyaivaite gatı saæbha-
vata¢ | ŸåŸvate nitye saæsårasya nityatvånmate ’bhiprete | tatraika-
yå Ÿuklayå yåtyanåvÿttimanyayetarayå ’’vartate punarbh¥ya¢ ||

naite sÿtı pårtha jånanyogı muhyati kaŸcana |


tasmåtsarve≤u kåle≤u yogayukto bhavårjuna || 8.27 ||

naita iti | naite yathokte sÿtı mårgau pårtha jånansaæsåråyai-


kå | anyå mok≤åya ceti yogı na muhyati kaŸcana kaŸcidapi | tasmå-
tsarve≤u kåle≤u yogayukta¢ samåhito bhavårjuna || Ÿÿ√u tasya yo-
gasya måhåtmyam –
896 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 8.28

vede≤u yajñe≤u tapa¢su caiva


dåne≤u yatpu√yaphalaæ pradi≤†am |
atyetitatsarvamidaæ viditvå
yogı paraæ sthånamupaiti cådyam || 8.28 ||

vede≤viti | vede≤u samyagadhıte≤u yajñe≤u ca sådgu√yenånu-


≤†hite≤u tapa¢su ca sutapte≤u dåne≤u ca samyagdatte≤vete≤u yatpu-
nyaphalaæ pradi≤†aæ Ÿåstre√åtyetyatıtya gacchati tatsarvaæ pha-
lajåtamidaæ viditvå saptapraŸnanir√ayadvåre√oktamarthaæ samya-
gavadhåryånu≤†håya yogı paraæ prakÿ≤†amaiŸvaraæ sthånamupai-
ti ca pratipadyata ådyamådau bhavaæ kåra√aæ brahmetyartha¢ ||

iti Ÿrımadbhagavadgıtås¥pani≤atsu brahmavidyåyåæ


yogaŸåstre Ÿrıkÿ≤√årjunasaævåde
brahmåk≤aranirdeŸo nåma
a≤†amo ’dhyåya¢

*
atha navamo ’dhyåya¢

a≤†ame nåƒıdvåre√a dhåra√åyoga¢ sagu√a ukta¢ | tasya ca pha-


lamagnyarcirådikrame√a kålåntare brahmapråptilak≤a√amevånåvÿ-
ttir¥paæ nirdi≤†am | tatrånenaiva prakåre√a mok≤apråptiphalama-
dhigamyate nånyatheti tadåŸaækåvyåvivartayi≤ayå Ÿrıbhagavånu-
våca –

Ÿrıbhagavånuvåca –

idaæ tu te guhyatamaæ pravak≤yåmyanas¥yave |


jñånaæ vijñånasahitaæ yajjñatvå mok≤yase ’Ÿubhåt || 9.1 ||

idamiti | idaæ brahmajñånaæ vak≤yamå√amuktaæ ca p¥rve-


≤vadhyåye≤u tadbuddhausaænidhıkÿtyedamityåha | tuŸabdo viŸe≤a-
nirdhåra√årtha¢ | idameva tu samyagjñånaæ såk≤ånmok≤apråpti-
sådhanaæ “våsudeva¢ sarvamiti” (bha. gı. 7.19) “åtmaivedaæ sa-
rvam” (chå. 7.25.2) “ekamevådvitıyam” (chå. 6.2.1) ityådiŸrutismÿti-
bhya¢ | “atha te ye ’nyathåto viduranyaråjånaste k≤ayyalokå bha-
vanti” (chå. 7.25) ityådiŸrutibhyaŸca | te tubhyaæ guhyatamaæ go-
pyatamaæ pravak≤yåmi kathayi≤yåmyanas¥yave ’s¥yårahitåya |
kiæ tat | jñånam | kiæ viŸi≤†am | vijñånasahitamanubhavayuktam |
yajjñånaæ jñåtvå pråpya mok≤yase ’Ÿubhåtsaæsårabandhanåt || ta-
cca –

råjavidyå råjaguhyaæ pavitramidamuttamam |


pratyak≤åvagamaæ dharmyaæ susukhaæ kartumavyayam || 9.2 ||

råjavidyeti | råjavidyå vidyånåæ råjå dıptyatiŸayavattvåt | dı-


pyate hıyamatiŸayena brahmavidyå sarvavidyånåm | tathå råjagu-
hyaæ guhyånåæ råjå | pavitraæ påvanamidamuttamaæ sarve≤åæ
898 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 9.2

påvanånåæ Ÿuddhikåra√aæ brahmajñånamutkÿ≤†atamam | aneka-


janmasahasrasaæcitamapi dharmådharmådi sam¥laæ karma k≤a-
√amåtrådeva bhasmıkaroti yato ’ta¢ kiæ tasya påvanatvaæ vakta-
vyam | kiæ ca pratyak≤åvagamaæ pratyak≤e√a sukhåderivåvagamo
yasya tatpratyak≤åvagamam | anekagu√avato ’pi dharmaviruddha-
tvaæ dÿ≤†aæ na tathåtmajñånaæ dharmavirodhi | kiæ tu dha-
rmyaæ dharmådanapetam | evamapi syåddu¢khasaæpådyamityata
åha susukhaæ kartuæ yathå ratnavivekavijñånam | tatrålpåyåsånå-
manye≤åæ karma√åæ sukhasaæpådyånåmalpaphalatvaæ du≤karå-
√åæ ca mahåphalatvami≤†amiti | idaæ tu sukhasaæpådyatvåtphala-
k≤ayådvyetıti pråptamata åhåvyayamiti | nåsya phalata¢ karmava-
dvyayo ’stıtyavyayam | ata¢ Ÿraddheyamåtmajñånam || ye puna¢ –

aŸraddadhånå¢ puru≤å dharmasyåsya paraætapa |


apråpya måæ nivartante mÿtyusaæsåravartmani || 9.3 ||

aŸraddadhånå iti | aŸraddadhånå¢ Ÿraddhåvirahitå åtmajñånasya


dharmasyåsya svar¥pe tatphale ca nåstikå¢ påpakåri√o ’surå√åmu-
pani≤adaæ dehamåtråtmadarŸanameva pratipannå asutÿpa¢ påpå
puru≤å aŸraddadhånå¢ paraætapåpråpya måæ parameŸvaraæ ma-
tpråptau naivåŸaæketimatpråptimårgabhedabhaktimåtramapyaprå-
pyetyartha¢ | nivartante niŸcayena vartante | kva | mÿtyusaæsåra-
vartmani mÿtyuyukta¢ saæsåro mÿtyusaæsårastasya vartma nara-
katiryagådipråptimårgastasminneva vartanta ityartha¢ || stutyå a-
rjunamabhimukhıkÿtyåha –

mayå tatamidaæ sarvaæ jagadavyaktam¥rtinå |


matsthåni sarvabh¥tåni na cåhaæ te≤vavasthita¢ || 9.4 ||

mayeti | mayå mama ya¢ paro bhåvastena tataæ vyåptaæ sa-


rvamidaæ jagadavyaktam¥rtinå na vyaktå m¥rti¢ svar¥paæ yasya
mama so ’hamavyaktam¥rtistena mayå ’vyaktam¥rtinå | kara√ågo-
carasvar¥pe√etyartha¢ | tasminmayyavyaktam¥rtau sthitåni ma-
tsthåni sarvabh¥tåni brahmådıni staæbaparyantåni | na hi niråtma-
kaæ kiæcidbh¥taæ vyavahåråyåvakalpate | ato matsthåni mayåtma-
nåtmavattvena sthitånyato mayi sthıtånıtyucyante | te≤åæ bh¥tå-
nåmahamevåtmetyataste≤u sthita iti m¥ƒhabuddhınåmavabhåsate
9.8 navamo ’dhyåya¢ 899

’to bravımi na cåhaæ te≤u bh¥te≤vavasthito m¥rtavatsaæŸle≤åbhå-


venåkåŸasyåpyantaratamo hyaham | na hyasaæsargi vastu kvacidå-
dheyabhåvenåvasthitaæ bhavati || ata evåsaæsargitvånmama –

na ca matsthåni bh¥tåni paŸya me yogamaiŸvaram |


bh¥tabhÿnna ca bh¥tastho mamåtmå bh¥tabhåvana¢ || 9.5 ||
na ceti | na ca matsthåni bh¥tåni brahmådıni | paŸya me yo-
gaæ yuktiæ gha†anaæ mamaiŸvaramıŸvarasyaimamaiŸvaraæ yoga-
måtmano yåthåtmyamityartha¢ | tathå ca Ÿrutirasaæsargitvådasa-
§gatåæ darŸayati “asa§go na hi sajyate” (bÿ. 3.9.28) iti | idaæ cåŸca-
ryamanyatpaŸya bh¥tabhÿdasa§go ’pi sanbh¥tåni bibharti | na ca
bh¥tastho | yathoktena nyåyena darŸitatvådbh¥tasthatvånupapa-
tte¢ | kathaæ punarucyate ’sau mamåtmeti | vibhajya dehådisaæ-
ghåtaæ tasminnahaækåramadhyåropya lokabuddhimanusaranvya-
padiŸati mamåtmeti na punaråtmana åtmånya iti lokavadajånan |
tathå bh¥tabhåvano bh¥tåni bhåvayatyutpådayati vardhayatıti vå
bh¥tabhåvana¢ || yathoktena Ÿlokadvayenoktamarthaæ dÿ≤†ånte-
nopapådayannåha –

yathå ’’kåŸasthito nityaæ våyu¢ sarvatrago mahån |


tathå sarvå√i bh¥tåni matsthånıtyupadhåraya || 9.6 ||
yatheti | yathå loka åkåŸåsthita åkåŸe sthito nityaæ sadå våyu¢
sarvatra gacchatıti sarvatrago mahånparimå√ata¢ | tathåkåŸavatsa-
rvagate mayyasaæŸle≤e√aiva sthitånıtyevamupadhåraya vijånıhi ||
evaæ våyuråkåŸa iva mayi sarvabh¥tåni sthitikåle tåni –

sarvabh¥tåni kaunteya prakÿtiæ yånti måmikåm |


kalpak≤aye punaståni kalpådau visÿjåmyaham || 9.7 ||
sarveti | sarvabh¥tåni kaunteya prakÿtiæ trigu√åtmikåmapa-
råæ nikÿ≤†åæ yånti måmikåæ madıyåæ kalpak≤aye pralayakåle |
punarbh¥yaståni bh¥tånyutpattikåle kalpådau visÿjåmyutpådayå-
myahaæ p¥rvavat || evamavidyålak≤a√åm –

prakÿtiæ svåmava≤†abhya visÿjåmi puna¢ puna¢ |


bh¥tagråmamimaæ kÿtsnamavaŸaæ prakÿtervaŸåt || 9.8 ||
900 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 9.8

prakÿtimiti | prakÿtiæ svåæ svıyåmava≤†abhya vaŸıkÿtya visÿjå-


mi puna¢ puna¢ prakÿtito jåtaæ bh¥tagråmaæ bh¥tasamudåyami-
maæ vartamånaæ kÿtsnaæ samagramavaŸamasvatantramavidyådi-
do≤ai¢ paravaŸıkÿtaæ prakÿtervaŸåtsvabhåvavaŸåt || tarhi tasya te
parameŸvarasya bh¥tagråmamimaæ vi≤amaæ vidadhatastannimittå-
bhyåæ dharmådharmåbhyåæ saæbandha¢ syåditi | idamåha bha-
gavån –

na ca måæ tåni karmå√i nibadhnanti dhanañjaya |


udåsınavadåsınamasaktaæ te≤u karmasu || 9.9 ||

na ceti | na ca måmıŸvaraæ tåni bh¥tagråmasya vi≤amasargani-


mittåni karmå√i nibadhnanti dhanañjaya | tatra karma√åmasaæba-
ndhitve kåra√amåha | udåsınavadåsınaæ yathodåsına upek≤aka¢
kaŸcittadvadåsınam | åtmano ’vikriyatvådasaktaæ phalåsa§garahita-
mabhimånavarjitamahaæ karomıti te≤u karmasu | ato ’nyasyåpi ka-
rtÿtvåbhimånåbhåva¢ phalåsa§gåbhåvaŸcåbandhakåra√am | anyathå
karmabhirbadhyate m¥ƒha¢ koŸakåravadityabhipråya¢ || tatra “bh¥-
tagråmaimaæ visÿjåmi” (bha. gı. 9.8) “udåsınavadåsınam” (bha. gı.
9.9) iti ca viruddhamucyata iti tatparihårårthamåha –

mayådhyak≤e√a prakÿti¢ s¥yate sacaråcaram |


hetunånena kaunteya jagadviparivartate || 9.10 ||

mayeti | mayå sarvato dÿŸimåtre√a svar¥pe√åvikriyåtmanådhya-


k≤e√a mama måyå trigu√åtmikå ’vidyålak≤a√å prakÿti¢ s¥yata u-
tpådayati sacaråcaraæ jagat | tathå ca mantravar√a¢ “eko deva¢ sa-
rvabh¥te≤u g¥ƒha¢ sarvavyåpı sarvabh¥tåntaråtmå | karmådhya-
k≤a¢ sarvabh¥tådhivåsa¢ såk≤ı cetå kevalo nirgu√åŸca” (Ÿve. 6.11) i-
ti | hetunå nimittenånenådhyak≤atvena kaunteya jagatsacaråcaraæ
vyaktåvyaktåtmakaæ viparivartate sarvåvasthåsu | dÿŸikarmatvå-
pattinimittå hi jagata¢ sarvå pravÿtti¢ – ahamidaæ bhok≤ye paŸyå-
mıdaæ Ÿÿ√omıdaæ sukhamanubhavåmi du¢khamanubhavåmyeta-
darthamidaæ kari≤ya idaæ jñåsyåmıtyådyå avagatini≤†hå ’vaga-
tyavasånaiva | “yo ’syådhyak≤a¢ parame vyoman” (ÿ. 10.129.7) ityå-
dayaŸca mantrå etamarthaæ darŸayanti | tataŸcaikasya devasya sa-
rvådhyak≤abh¥tacaitanyamåtrasya paramårthata¢ sarvabhogånabhi-
9.13 navamo ’dhyåya¢ 901

saæbandhino ’nyasya cetanåntarasyåbhåve bhokturanyasyåbhåvå-


tkiæ nimitteyaæ sÿ≤†irityatra praŸnaprativacane ’nupapanne “ko a-
ddhå veda ka iha pravocatkuta åjåtå kuta iyaæ visÿ≤†i¢” (ÿ. 10.129.6)
ityådimantravar√ebhya¢ | darŸitaæ ca bhagavatå “ajñånenåvÿtaæ
jñånaæ tena muhyanti jantava¢” (bha. gı. 5.15) iti || evaæ måæ ni-
tyaŸuddhabuddhamuktasvabhåvaæ sarvajñaæ sarvajant¥nåmåtmå-
namapi santam –

avajånanti måæ m¥ƒhå månu≤ıæ tanumåŸritam |


paraæ bhåvamajånanto mama bh¥tamaheŸvaram || 9.11 ||

avajånantıti | avajånantyavajñåæ paribhavaæ kurvanti måæ


m¥ƒhå ’vivekino månu≤ıæ manu≤yasaæbandhinıæ tanuæ dehamå-
Ÿritam | manu≤yadehena vyavaharantamityetat | paraæ prakÿ≤†aæ
bhåvaæ paramåtmatattvamåkåŸakalpamåkåŸådapyantaratamamajå-
nanto mama bh¥tamaheŸvaraæ sarvabh¥tånåæ mahåntamıŸvaraæ
svamåtmånam | tataŸca tasya mamåvajñånabhåvanenåhatå varåkå-
ste || katham –

moghåŸå moghakarmå√o moghajñånå vicetaså¢ |


råk≤asımåsurıæ caiva prakÿtiæ mohinıæ Ÿritå¢ || 9.12 ||

moghåŸå iti | moghåŸå vÿthå åŸå åŸi≤o ye≤åæ te moghåŸå¢ | ta-


thå moghakarmå√o yåni cågnihotrådıni tairanu≤†hıyamånåni karmå-
√i tåni ca te≤åæ bhagavatparibhavåtsvåtmabh¥tasyåvajñånånmoghå-
nyeva ni≤phalåni karmå√i bhavantıti moghakarmå√a¢ | tathå mo-
ghajñånå ni≤phalajñånå jñånamapi te≤åæ ni≤phalameva syåt | vi-
cetaso vigatavivekåŸca te bhavantıtyabhipråya¢ | kiæ ca te bhava-
nti råk≤asıæ rak≤asåæ prakÿtiæ svabhåvamåsurımasurå√åæ ca pra-
kÿtiæ mohinıæ mohakårıæ dehåtmavådinıæ Ÿritå åŸritå¢ chinddhi
bhinddhi piba svåda parasvamapahara ityevaævadanaŸılå¢ kr¥raka-
rmå√o bhavantıtyartha¢ | “asuryå nåma te lok墔 (ı. 3) iti Ÿrute¢ |
ye puna¢ Ÿraddadhånå¢ bhagavadbhaktilak≤a√e mok≤amårge pra-
vÿttå¢ –

mahåtmånastu måæ pårtha daivıæ prakÿtimåŸritå¢ |


bhajantyananyamanaso jñåtvå bh¥tådimavyayam || 9.13 ||
902 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 9.13

mahåtmåna iti | mahåtmånastvak≤udracittå måmıŸvaraæ på-


rtha daivıæ devånåæ prakÿtiæ ŸamadamadayåŸraddhådilak≤a√åmå-
Ÿritå¢ santo bhajanti sevante ’nanyamanaso ’nanyacittå jñåtvå bh¥-
tådiæ bh¥tånåæ viyadådınåæ prå√inåæ ca ådiæ kåra√amavya-
yam || katham –
satataæ kırtayanto måæ yatantaŸca dÿƒhavratå¢ |
namasyantaŸca måæ bhaktyå nityayuktå upåsate || 9.14 ||
satatamiti | satataæ sarvadå bhagavantaæ brahmasvar¥paæ
måæ kırtayanto yatantaŸcendriyopasaæhåraŸamadamadayåhiæså-
dilak≤a√åirdharmai¢ prayatantaŸca dÿƒhavratå dÿƒhaæ sthiramacå-
lyaæ vrataæ ye≤åæ te dÿƒhavratå namasyantaŸca måæ hÿdayeŸaya-
måtmånaæ bhaktyå nityayuktå¢ santa upåsate sevante || te kena
kena prakåre√opåsata ityucyate –

jñånayajñena cåpyanye yajanto måmupåsate |


ekatvena pÿthaktvena bahudhå viŸvatomukham || 9.15 ||
jñånayajñeneti | jñånayajñena jñånameva bhagavadvi≤ayaæ ya-
jñastena jñånayajñena yajanta¢ p¥jayanto måmıŸvaraæ cåpyanye
’nyåmupåsanåæ parityajyopåsate | tacca jñånaæ ekatvena ekatva-
meva paraæ brahma iti paramårthadarŸanena yajanta upåsate | ke-
cicca pÿthaktvenådityacandrådibhedena sa eva bhagavånvi≤√urava-
sthita ityupåsate | kecidbahudhåvasthita¢ sa eva bhagavånsarvato-
mukho viŸvar¥pa iti taæ viŸvar¥paæ sarvatomukhaæ bahudhå ba-
huprakåre√opåsate || yadi bahubhi¢ prakårairupåsate kathaæ två-
mevopåsata ityata åha –

ahaæ kraturahaæ yajña¢ svadhåhamahamau≤adham |


mantro ’hamahamevåjyamahamagnirahaæ hutam || 9.16 ||

ahamiti | ahaæ kratu¢ Ÿrautakarmabhedo ’hameva | ahaæ ya-


jña¢ smårta¢ | kiæ ca svadhå annamahaæ pitÿbhyo yaddıyate | aha-
mau≤adhaæ sarvaprå√ibhiryadadyate tadau≤adhaŸabdavåcyaæ vrıhi-
yavådisådhåra√am | athavå svadheti sarvaprå√isådhåra√amannam |
au≤adhamiti vyådhyupaŸamårthaæ bhe≤ajam | mantro ’haæ yena
pitÿbhyo devatåbhyaŸca havirdıyate | ahamevåjyaæ haviŸca | aha-
9.20 navamo ’dhyåya¢ 903

magni¢ | yasminh¥yate havi¢ so ’gniraham | ahaæ hutaæ havana-


karma ca || kiæ ca –

pitåhamasya jagato måtå dhåtå pitåmaha¢ |


vedyaæ pavitramoækåro ÿksåma yajureva ca || 9.17 ||

piteti | pitå janayitåhamasya jagato måtå janayitrı dhåtå karma-


phalasya prå√ibhyo vidhåtå | pitåmaha¢ pitu¢ pitå vedyaæ vedita-
vyaæ pavitraæ påvacanmoækåro ÿksåma yajureva ca || kiæ ca –

gatirbhartå prabhu¢ såk≤ı nivåsa¢ Ÿara√aæ suhÿt |


prabhava¢ pralaya¢ sthånaæ nidhånaæ bıjamavyayam || 9.18 ||

gatiriti | gati¢ karmaphalam | bhartå po≤†å | prabhu¢ svåmı | så-


k≤ı prå√inåæ kÿtåkÿtasya | nivåso yasminprå√ino nivasanti | Ÿara√a-
mårtånåæ prapannånåmårtihara¢ | suhÿtpratyupakårånapek≤a¢ sa-
nnupakårı prabhava utpattirjagata¢ pralaya¢ pralıyate ’sminniti |
tathå sthånaæ ti≤†hatyasminniti | nidhånaæ nik≤epa¢ kålåntaropa-
bhogyaæ prå√inåm | bıjaæ prarohakåra√amavyayaæ yåvatsaæsåra-
bhåvitvådavyayam | na hyabıjaæ kiæcitprarohati | nityaæ ca pra-
rohadarŸanådbıjasaætatirna vyetıti gamyate || kiæ ca –

tapåmyahamahaæ var≤aæ nigÿh√åmyutsÿjåmi ca |


amÿtaæ caiva mÿtyuŸca sadasaccåhamarjuna || 9.19 ||

tapåmıti | tapåmyahamådityo bh¥två kaiŸcidraŸmibhirulba√ai¢ |


ahaæ var≤aæ kaiŸcidraŸmibhirutsÿjåmi | utsÿjya punarnigÿh√åmi kai-
ŸcidraŸmibhira≤†åbhirmåsai¢ punarutsÿjåmi pråvÿ≤i | amÿtaæ cai-
va devånåæ mÿtyuŸca martyånåm | sadyasya yatsaæbandhitayå vi-
dyamånaæ tat | tadviparıtamasaccaivåhamarjuna | na punaratyanta-
mevåsadbhagavånsvayaæ kåryakåra√e vå sadasatı || ye p¥rvoktai-
rnivÿttiprakårairekatvapÿthaktvådivijñånairyajñairmåæ p¥jayanta
upåsate jñånavidaste yathåvijñånaæ måmeva pråpnuvanti | ye pu-
narajñå¢ kåmakåmå¢ –

traividyå måæ somapå¢ p¥tapåpå


yajñairi≤†vå svargatiæ prårthayante ||
904 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 9.20

te pu√yamåsådya surendralokam-
aŸnanti divyåndivi devabhogån || 9.20 ||
traividyeti | traividyå ÿgyaju¢såmavido måæ vasvådidevar¥pi-
√aæ somapå¢ somaæ pibantıti somapå¢ | tenaiva somapånena p¥ta-
påpå¢ Ÿuddhakilbi≤å yajñairagni≤†omådibhiri≤†vå p¥jayitvå svarga-
tiæ svargagamanaæ svareva gati¢ svargatiståæ prårthayante | te
ca pu√yaæ pu√yaphalamåsådya saæpråpya surendralokaæ Ÿatakra-
to¢ sthånamaŸnanti bhuñjate divyåndivi bhavånaprakÿtåndevabho-
gåndevånåæ bhogån ||

te taæ bhuktvå svargalokaæ viŸålaæ


k≤ı√e pu√ye martyalokaæ viŸanti |
evaæ trayidharmamanuprapannå
gatågataæ kåmakåmå labhante || 9.21 ||
te tamiti | te taæ bhuktvå svargalokaæ viŸålaæ vistır√aæ k≤ı√e
pu√ye martyalokamimaæ viŸantyåviŸanti | evaæ yathoktena prakå-
re√a trayidharmaæ kevalaæ vaidikakarmånuprapannå gatågataæ
gataæ cågataæ ca gatågataæ gamanågamanaæ kåmakåmå¢ kå-
månkåmayanta iti kåmakåmå labhante gatågatameva | na tu svåta-
ntryaæ kvacillabhanta ityartha¢ || ye punarni≤kåmå¢ samyagdarŸi-
na¢ –
ananyåŸcintayanto måæ ye janå¢ paryupåsate |
te≤åæ nityåbhiyuktånåæ yogak≤emaæ vahåmyaham || 9.22 ||
ananyå iti | ananyå apÿthagbh¥tå¢ paraæ devaæ nåråya√amå-
tmatvena gatå¢ santaŸcintayanto måæ ye janå¢ saænyåsina¢ pa-
ryupåsate | te≤åæ paramårthadarŸinåæ nityåbhiyuktånåæ satatå-
bhiyoginåæ yogak≤emaæ yogo ’pråptasya pråpa√aæ k≤emastadra-
k≤a√aæ tadubhayaæ vahåmi pråpayåmyaham | “jñånı tvåtmaiva
me matam” (bha. gı. 7.18) “sa ca mama priya¢” (bha. gı. 7.17) yasmå-
ttasmåtte mamåtmabh¥tå¢ priyåŸceti || nanvanye≤åmapi bhaktå-
nåæ yogak≤emaæ vahatyeva bhagavån | satyaæ vahatyeva | kiæ
tvayaæ viŸe≤a¢ | anye ye bhaktåste åtmårthaæ svayamapi yogak≤e-
mamıhante | ananyadarŸinastu na åtmårthaæ yogak≤emamıhante |
na hi te jıvite mara√e vå åtmano gÿddhiæ kurvanti | kevalameva bha-
9.26 navamo ’dhyåya¢ 905

gavacchara√åste | ato bhagavåneva te≤åæ yogak≤emaæ vahatıti ||


nanvanyå api devatåstvameva cettadbhaktåŸca tvåmeva yajante |
satyamevam –

ye ’pyanyadevatåbhaktå yajante Ÿraddhayånvitå¢ |


te ’pi måmeva kaunteya yajantyavidhip¥rvakam || 9.23 ||
ya iti | ye ’pyanyadevatåbhaktå anyåsu devatåsu bhaktå anya-
devatåbhaktå¢ santo yajante p¥jayanti Ÿraddhayå ’stikyabuddhyå
’nvitå anugatå¢ | te ’pi måmeva kaunteya yajantyavidhip¥rvakama-
vidhirajñånaæ tatp¥rvakamajñånap¥rvakaæ yajanta ityartha¢ || ka-
småtte ’vidhip¥rvakaæ yajanta ityucyate | yasmåt –

ahaæ hi sarvayajñånåæ bhoktå ca prabhureva ca |


na tu måmabhijånanti tattvenåtaŸcyavanti te || 9.24 ||
ahamiti | ahaæ hi sarvayajñånåæ Ÿrautånåæ smårtånåæ ca sa-
rve≤åæ yajñånåæ devatåtmatvena bhoktå ca prabhureva ca | ma-
tsvåmiko hi yajño “adhiyajño ’hamevåtra” (bha. gı. 8.4) iti hyuktam |
tathå na tu måmabhijånanti tattvena yathåvat | ataŸcåvidhip¥rva-
kami≤†vå yågaphalåccyavanti pracyavante te || ye ’pyanyadevatå-
bhaktimattvenåvidhip¥rvakaæ yajante te≤åmapi yågaphalamava-
Ÿyaæbhåvi | katham –
yånti devavratå devånpit™nyånti pitÿvratå¢ |
bh¥tåni yånti bh¥tejyå yånti madyåjino ’pi måm || 9.25 ||
yåntıti | yånti gacchanti devavratå deve≤u vrataæ niyamo bha-
ktiŸca ye≤åæ te devavratå devånyånti | pit™nagni≤våttådınyånti pi-
tÿvratå¢ Ÿraddhådikriyåparå¢ pitÿbhaktå¢ | bh¥tåni vinåyakamåtÿ-
ga√acaturbhaginyådıni yånti bh¥tejyå bh¥tånåæ p¥jakå¢ | yånti
madyåjino madyajanaŸılå vai≤√avå måmeva | samåne ’pyåyåse må-
meva na bhajante ’jñånåt | tena te ’lpaphalabhåjo bhavantıtyartha¢ ||
na kevalaæ madbhaktånåmanåvÿttilak≤a√amanantaphalaæ sukhå-
rådhanaŸcåham | katham –

patraæ pu≤paæ phalaæ toyaæ yo me bhaktyå prayacchati |


tadahaæ bhaktyopahÿtamaŸnåmi prayatåtmana¢ || 9.26 ||
906 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 9.26

patramiti | patraæ pu≤paæ phalaæ toyamudakaæ yo me ma-


hyaæ bhaktyå prayacchati tadahaæ patrådi bhaktyopahÿtaæ bha-
ktip¥rvakaæ pråpitaæ bhaktyupahÿtamaŸnåmi gÿh√åmi prayatå-
tmana¢ Ÿuddhabuddhe¢ || yata evamata¢ –

yatkaro≤i yadaŸnåsi yajjuho≤i dadåsi yat |


yattapasyasi kaunteya tatkuru≤va madarpa√am || 9.27 ||

yaditi | yatkaro≤i svata¢ pråptaæ yadaŸnåsi yacca juho≤i hava-


naæ nirvartayasi Ÿrautaæ smårtaæ vå | yaddadåsi prayacchasi brå-
hma√ådibhyo hira√yånnåjyådi | yattapasyasi tapaŸcarasi kaunteya
tatkuru≤va madarpa√aæ matsamarpa√am || evaækurvatastava ya-
dbhavati tacchÿ√u –

ŸubhåŸubhaphalairevaæ mok≤yase karmabandhanai¢ |


saænyåsayogayuktåtmå vimukto måmupai≤yasi || 9.28 ||

Ÿubheti | ŸubhåŸubhaphalai¢ ŸubhåŸubhe i≤†åni≤†aphale ye≤åæ


tåni ŸubhåŸubhaphalåni karmå√i tai¢ ŸubhåŸubhaphalai¢ karmaba-
ndhanai¢ karmå√yeva bandhanåni karmabandhanåni tai¢ karma-
bandhanairevaæ madarpa√aæ kurvanmok≤yase | so ’yaæ saænyå-
sayogo nåma saænyåsaŸcåsau matsamarpa√atayå karmatvådyoga-
Ÿcåsåviti | tena saænyåsayogena yukta åtmå anta¢kara√aæ yasya
tava sa tvåæ saænyåsayogayuktåtmå sanvimukta¢ karmabandha-
nairjıvanneva patite cåsmiñŸarıre måmupai≤yasyågami≤yasi || råga-
dve≤avåæstarhi bhagavånyato bhaktånanugÿh√åti netaråniti | ta-
nna –

samo ’haæ sarvabh¥te≤u na me dve≤yo ’sti na priya¢ |


ye bhajanti tu måæ bhaktyå mayi te te≤u cåpyaham || 9.29 ||
sama iti | samastulyo ’haæ sarvabh¥te≤u | na me dve≤yo ’sti na
priya¢ | agnivadahaæ d¥rasthånåæ yathågni¢ Ÿıtaæ nåpanayati sa-
mıpamupasarpatåmapanayati tathåhaæ bhaktånanugÿh√åmi neta-
rån | ye bhajanti tu måmıŸvaraæ bhaktyå mayi te svabhåvata eva
na mama råganimittaæ vartante | te≤u cåpyahaæ svabhåvata eva
9.33 navamo ’dhyåya¢ 907

varte netare≤u | naitåvatå te≤u dve≤o mama || Ÿÿ√u madbhaktermå-


håtmyam –

api cetsuduråcåro bhajate måmananyabhåk |


sådhureva sa mantavya¢ samyagvyavasito hi sa¢ || 9.30 ||
apıti | api cedyadyapi suduråcåra¢ su≤†hu duråcåro ’tıva kutsi-
tåcåro ’pi bhajate måmananyabhågananyabhakti¢ sansådhureva sa-
myagvÿtta eva sa mantavyo jñåtavya¢ samyagyathåvadvyavasito
hi so yasmåtsådhuniŸcaya¢ sa¢ || utsÿjya ca båhyåæ duråcåratåma-
nta¢samyagvyavasåyasåmarthyåt –

k≤ipraæ bhavati dharmåtmå ŸaŸvacchåntiæ nigacchati |


kaunteya pratijånıhi na me bhakta¢ pra√aŸyati || 9.31 ||
k≤ipramiti | k≤ipraæ Ÿıghraæ bhavati dharmåtmå dharmacitta
eva ŸaŸvannityaæ Ÿåntiæ copaŸamaæ nigacchati pråpnoti | Ÿÿ√u pa-
ramårthaæ kaunteya pratijånıhi niŸcitåæ pratijñåæ kuru | na me
mama bhakto mayi samarpitåntaråtmå madbhakto na pra√asyatı-
ti || kiæ ca –

måæ hi pårtha vyapåŸritya ye ’pi syu¢ påpayonaya¢ |


striyo vaiŸyåstathå Ÿ¥dråste ’pi yånti paråæ gatim || 9.32 ||
måæ hıti | måæ hi yasmåtpårtha vyapåŸritya måmåŸrayatvena
gÿhıtvå ye ’pi syurbhaveyu¢ påpayonaya¢ påpå yonirye≤åæ te på-
payonaya¢ påpajanmåna¢ | ke ta ityåha striyo vaiŸyåstathå Ÿ¥drå-
ste ’pi yånti gacchanti paråæ prakÿ≤†åæ gatim ||

kiæ punarbråhma√å¢ pu√yå bhaktå råjar≤ayastathå |


anityamasukhaæ lokamimaæ pråpya bhajasva måm || 9.33 ||
kiæ punariti | kiæ punarbråhma√å¢ pu√yå¢ pu√yayonayo bha-
ktå råjar≤aya¢ tathå råjånaŸca te ÿ≤ayaŸceti råjar≤aya¢ | yata eva-
mato ’nityaæ k≤a√abha§guramasukhaæ ca sukhavarjitamimaæ lo-
kaæ manu≤yalokaæ pråpya puru≤årthasådhanaæ durlabhaæ ma-
nu≤yatvaæ labdhvå bhajasva sevasva måm || katham –
908 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 9.34

manmanå bhava madbhakto madyåjı måæ namaskuru |


måmevai≤yasi yuktvaivamåtmånaæ matparåya√a¢ || 9.34 ||

manmanå iti | mayi våsudeve mano yasya tava sa tvaæ ma-


nmanå bhava | tathå madbhakto bhava | madyåjı madyajanaŸılo
bhava | måmeva ca namaskuru | måmeveŸvarame≤yasyågami≤yasi
yuktvå samådhåya cittam | evamåtmånamahaæ hi sarve≤åæ bh¥tå-
nåmåtmå parå ca gati¢ paramayanaæ taæ måmevaæbh¥tame≤yası-
tyatıtena saæbandha¢ matparåya√a¢ sannityartha¢ ||

iti Ÿrımadbhagavadgıtås¥pani≤atsu brahmavidyåyåæ


yogaŸåstre Ÿrıkÿ≤√årjunasaævåde
råjavidyåråjaguhyayogo nåma
navamo ’dhyåya¢

*
atha daŸamo ’dhyåya¢

saptame ’dhyåye bhagavatastattvaæ vibh¥tayaŸca prakåŸitå


navame ca | athedånıæ ye≤u ye≤u bhåve≤u cintyo bhagavåæste bhå-
vå vaktavyå¢ | tattvaæ ca bhagavato vaktavyamuktamapi durvijñe-
yatvåt | ityata¢ Ÿrıbhagavånuvåca –

Ÿrıbhagavånuvåca –

bh¥ya eva mahåbåho Ÿÿ√u me paramaæ vaca¢ |


yatte ’haæ prıyamå√åya vak≤yåmi hitakåmyayå || 10.1 ||
bh¥ya iti | bh¥ya eva bh¥ya punarhe mahåbåho Ÿÿ√u me madı-
yaæ paramaæ prakÿ≤†aæ niratiŸayavastuna¢ prakåŸakaæ vaco vå-
kyaæ yatparamaæ te tubhyaæ prıyamå√åya madvacanåtprıyase tva-
matıvåmÿtamiva pibaæstato vak≤yåmi hitakåmyayå hitecchayå ||
kimarthamahaæ vak≤yåmıtyata åha –

na me vidu¢ suraga√å¢ prabhavaæ na mahar≤aya¢ |


ahamådirhi devånåæ mahar≤ı√åæ ca sarvaŸa¢ || 10.2 ||
na ma iti | na me vidurna jånånti suraga√å brahmådaya¢ | kiæ
te na vidu¢ | mama prabhavaæ prabhåvaæ prabhuŸaktyatiŸayam | a-
thavå prabhavaæ prabhavanamutpattim | nåpi mahar≤ayo bhÿgvå-
dayo vidu¢ | kasmåtte na vidurityucyate | ahamådi¢ kåra√aæ hi ya-
småddevånåæ mahar≤ı√åæ ca sarvaŸa¢ sarvaprakårai¢ || kiæ ca –

yo måmajamanådiæ ca vetti lokamaheŸvaram |


asaæm¥ƒha¢ sa martye≤u sarvapåpai¢ pramucyate || 10.3 ||

ya iti | yo måmajamanådiæ ca | yasmådahamådirdevånåæ ma-


har≤ı√åæ ca na mamånya ådirvidyate ’to ’hamajo ’nådiŸca | anådi-
910 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 10.3

tvamajatve hetu¢ | taæ måmajamanådiæ ca yo vetti vijånåti loka-


maheŸvaraæ lokånåæ mahåntamıŸvaraæ turıyamajñånatatkåryava-
rjitamasaæm¥ƒha¢ saæmohavarjita¢ sa martye≤u manu≤ye≤u sa-
rvapåpai¢ sarvai¢ påpairmatip¥rvåmatip¥rvakÿtai¢ pramucyate pra-
mok≤yate || itaŸcåhaæ maheŸvaro lokånåm –

buddhirjñånamasaæmoha¢ k≤amå satyaæ dama¢ Ÿama¢ |


sukhaæ du¢khaæ bhavo ’bhåvo bhayaæ cåbhayameva ca || 10.4 ||

buddhiriti | buddhiranta¢kara√asya s¥k≤mådyarthåvabodhana-


såmarthyam | tadvantaæ buddhimåniti hi vadanti | jñånamåtmådi-
padårthånåmavabodha¢ | asaæmoha¢ pratyutpanne≤u boddhavye-
≤u vivekap¥rvikå pravÿtti¢ | k≤amå åkru≤†asya tåƒitasya vå avikÿta-
cittatå | satyaæ yathådÿ≤†asya yathåŸrutasya cå ’’tmånubhavasya pa-
rabuddhisaækråntaye tathaivoccåryamå√å våksatyamucyate | da-
mo båhyendriyopaŸama¢ Ÿamo ’nta¢kara√asyopaŸama¢ | sukhamå-
hlåda¢ | du¢khaæ saætåpa¢ | bhava udbhava¢ | abhåvastadvipa-
ryaya¢ | bhayaæ ca tråsa¢ | abhayameva ca tadviparıtam ||

ahiæså samatå tu≤†istapo dånaæ yaŸo ’yaŸa¢ |


bhavanti bhåvå bh¥tånåæ matta eva pÿthagvidhå¢ || 10.5 ||

ahiæseti | ahiæså ’pıƒå prå√ınåm | samatå samacittatå | tu≤†i¢


saæto≤a¢ paryåptabuddhirlåbhe≤u | tapa indriyasaæyamap¥rva-
kaæ Ÿarırapıƒanam | dånaæ yathåŸåktiæ saævibhåga¢ | yaŸo dha-
rmanimittå kırti¢ | ayaŸastvadharmanimittå ’kırti¢ | bhavanti bhå-
vå yathoktå buddhyådayo bh¥tånåæ prå√inåæ matta eveŸvaråtpÿ-
thagvidhå¢ nånåvidhå¢ svakarmånur¥pe√a || kiæ ca –

mahar≤aya¢ sapta p¥rve catvåro manavastathå |


madbhåvå månaså jåtå ye≤åæ loka imå¢ prajå¢ || 10.6 ||

mahar≤aya iti | mahar≤aya¢ sapta bhÿgvådaya¢ p¥rve ’tıtakåla-


saæbandhina¢ | catvåro manavastathå såvar√å iti prasiddhå¢ | te
ca madbhåvå madgatabhåvanå vai≤√avena såmarthyenopetå¢ | må-
naså manasaivotpåditå mayå jåtå utpannå¢ | ye≤åæ man¥nåæ ma-
har≤ı√åæ ca sÿ≤†iloka imå¢ sthåvaraja§gamalak≤a√å¢ prajå¢ ||
10.10 da©amo ’dhyåya¢ 911

etåæ vibh¥tiæ yogaæ ca mama yo vetti tattvata¢ |


so ’vikaæpena yogena yujyate nåtra saæŸaya¢ || 10.7 ||
etåmiti | etåæ yathoktåæ vibh¥tiæ viståraæ yogaæ ca yukti¢
cå ’’tmano gha†anam | athavå yogaiŸvaryasåmarthyaæ sarvajña-
tvaæ yogajaæ yoga ucyate | mama madıyaæ yogaæ yo vetti tattva-
tastattvena yathåvadityetatso ’vikaæpenåpracalitena yogena sa-
myagdarŸanasthairyalak≤a√ena yujyate saæbadhyate nåtra saæŸa-
yo nåsminnarthe saæŸayo ’sti || kıdÿŸenåvikaæpena yogena yujyata
ityucyate –

ahaæ sarvasya prabhavo matta¢ sarvaæ pravartate |


iti matvå bhajante måæ budhå bhåvasamanvitå¢ || 10.8 ||
ahamiti | ahaæ paraæ brahma våsudevåkhyaæ sarvasya jaga-
ta¢ prabhava utpatti¢ | matta eva sthitinåŸakriyåphalopabhogalak≤a-
√aæ vikriyår¥paæ sarvaæ jagatpravartate | ityevaæ matvå bhaja-
nte sevante måæ budhå ’vagataparamårthatattvå¢ | bhåvasamanvi-
tå bhåvo bhåvanå paramårthatattvåbhiniveŸastena samanvitå¢ saæ-
yuktå ityartha¢ || kiæ ca –

maccittå madgataprå√å bodhayanta¢ parasparam |


kathayantaŸca måæ nityaæ tu≤yanti ca ramanti ca || 10.9 ||
maccittå iti | maccittå mayi cittaæ ye≤åæ te maccittå¢ | madga-
taprå√å måæ gatå¢ pråptåŸcak≤urådaya¢ prå√å ye≤åæ te madgata-
prå√å | mayyupasaæhÿtakara√å ityartha¢ | athavå madgataprå√å ma-
dgatajıvanå ityetat | bodhayanto ’vagamayanta¢ parasparamanyo-
nyaæ kathayantaŸca jñånabalavıryådidharmairviŸi≤†aæ måæ tu≤ya-
nti ca parito≤amupayånti ca ramanti ca ratiæ ca pråpnuvanti priya-
saægatyeva || ye yathoktai¢ prakårairbhajante måæ bhaktå¢ sa-
nta¢ –

te≤åæ satatayuktånåæ bhajatåæ prıtip¥rvakam |


dadåmi buddhiyogaæ taæ yena måmupayånti te || 10.10 ||

te≤åmiti | te≤åæ satatayuktånåæ nityåbhiyuktånåæ nivÿttasa-


rvabåhyai≤a√ånåæ bhajatåæ sevamånånåæ kimarthitvådinå kåra-
912 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 10.10

√ena netyåha prıtip¥rvakaæ prıti¢ snehastatp¥rvakaæ måæ bhaja-


tåmityartha¢ | dadåmi prayacchåmi buddhiyogaæ buddhi¢ samya-
gdarŸanaæ mattattvavi≤ayaæ tena yogo buddhiyogastaæ buddhiyo-
gaæ yena buddhiyogena samyagdarŸanalak≤a√ena måæ parameŸva-
ramåtmabh¥tamåtmatvenopayånti pratipadyante | ke | te ye macci-
ttatvådiprakårairmåæ bhajante || kimarthaæ kasya vå tvatpråpti-
pratibandhahetornåŸakaæ buddhiyogaæ te≤åæ tvadbhaktånåæ da-
dåsıtyapek≤åyåmåha –
te≤åmevånukaæpårthamahamajñånajaæ tama¢ |
nåŸayåmyåtmabhåvastho jñånadıpena bhåsvatå || 10.11 ||
te≤åmiti | te≤åmeva kathaæ nu nåma Ÿreya¢ syådityanukaæpå-
rthe dayåhetorahamajñånajamavivekato jåtaæ mithyåpratyayalak≤a-
√aæ mohåndhakåraæ tamo nåŸayåmi | åtmabhåvastha åtmano bhå-
vo ’nta¢kara√åŸayastasminneva sthita¢ san | jñånadıpena viveka-
pratyayar¥pe√a bhaktiprasådasnehåbhi≤iktena madbhåvanåbhinive-
Ÿavåteritena brahmacaryådisådhanasaæskåravatprajñåvartinå vira-
ktånta¢kara√ådhåre√a vi≤ayavyåvÿtticittarågadve≤åkalu≤itanivåtå-
pavarakasthena nityapravÿttaikågryadhyånajanitasamyagdarŸana-
bhåsvatå jñånadıpenetyartha¢ || yathoktåæ bhagavato vibh¥tiæ yo-
gaæ ca Ÿrutvå arjuna uvåca –

arjuna uvåca –
paraæ brahma paraæ dhåma pavitraæ paramaæ bhavån |
puru≤aæ ŸåŸvataæ divyamådidevamajaæ vibhum || 10.12 |
paramiti | paraæ brahma paramåtmå paraæ dhåma paraæ te-
ja¢ pavitraæ påvanaæ paramaæ prakÿ≤†aæ bhavån | puru≤aæ Ÿå-
Ÿvataæ nityaæ divyaæ divi bhavamådidevaæ sarvadevånåmådau
bhavamådidevamajaæ vibhuæ vibhavanaŸılam || ıdÿŸåm –

åhustvåmÿ≤aya¢ sarve devar≤irnåradastathå |


asito devalo vyåsa¢ svayaæ caiva bravı≤i me || 10.13 ||

åhuriti | åhu¢ kathayanti tvåmÿ≤ayo vasi≤†hådaya¢ sarve | de-


var≤irnårada¢ tathå ’sito devalo ’pyevamevåha vyåsaŸca svayaæ cai-
va tvaæ ca bravı≤i me ||
10.18 da©amo ’dhyåya¢ 913

sarvametadÿtaæ manye yanmåæ vadasi keŸava |


na hi te bhagavanvyaktiæ vidurdevå na dånavå¢ || 10.14 ||

sarvamiti | sarvametadyathoktamÿ≤ibhistvayå caitadÿtaæ satya-


meva manye yanmåæ prati vadasi bhå≤ase he keŸava | na hi te tava
bhagavanvyaktiæ prabhavaæ vidurna devå na dånavå¢ || yata-
stvaæ devådınåmådirata¢ –

svayamevåtmanåtmånaæ vettha tvaæ puru≤ottama |


bh¥tabhåvana bh¥teŸa devadeva jagatpate || 10.15 ||

svayamiti | svayamevåtmanåtmånaæ vettha jånåsi tvaæ nirati-


ŸayajñånaiŸvaryabalådiŸaktimantamıŸvaraæ puru≤ottama | bh¥tåni
bhåvayatıti bh¥tabhåvana¢ he bh¥tabhåvana bh¥teŸa bh¥tånåmıŸi-
ta¢ he devadeva jagatpate ||

vaktumarhasyaŸe≤e√a divyå hyåtmavibh¥taya¢ |


yåbhirvibh¥tibhirlokånimåæstvaæ vyåpya ti≤†hasi || 10.16 ||

vaktumiti | vaktuæ kathayitumarhasyaŸe≤e√a divyå hyåtmavi-


bh¥taya¢ | åtmano vibh¥tayo yå¢ tå vaktumarhasi | yåbhirvibh¥ti-
bhiråtmano måhåtmyavistårairimåællokåæstvaæ vyåpya ti≤†hasi ||

kathaæ vidyåmahaæ yogiæstvåæ sadå paricintayan |


ke≤u ke≤u ca bhåve≤u cintyo ’si bhagavanmayå || 10.17 ||

kathamiti | kathaæ vidyåæ vijånıyåmahaæ he yogiæstvåæ sa-


då paricintayan | ke≤u ke≤u ca bhåve≤u vastu≤u cintyo ’si dhyeyo
’si bhagavanmayå ||

vistare√åtmano yogaæ vibh¥tiæ ca janårdana |


bh¥ya¢ kathaya tÿptirhi Ÿÿ√vato nåsti me ’mÿtam || 10.18 ||

vistare√eti | vistare√åtmano yogaæ yogaiŸvaryaŸaktiviŸe≤aæ vi-


bh¥tiæ ca vistaraæ dhyeyapadårthånåæ he janårdana | ardaterga-
tikarma√o r¥pam | asurå√åæ devapratipak≤abh¥tånåæ janånåæ
narakådigamayatÿtvåjjanårdana¢ | abhyudayani¢Ÿreyasapuru≤årtha-
914 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 10.18

prayojanaæ sarvairjanairyåcyata iti vå | bh¥ya¢ p¥rvamuktamapi


kathaya tÿpti¢ parito≤o hi yasmånnåsti me mama Ÿÿ√vatastvanmu-
khani¢sÿtavåkyåmÿtam ||

Ÿrıbhagavånuvåca –

hanta te kathayi≤yåmi divyå hyåtmavibh¥taya¢ |


prådhånyata¢ kuruŸre≤†ha nåstyanto vistarasya me || 10.19 ||

hanta iti | håntedånıæ te tava divyå divi bhavå åtmavibh¥taya


åtmano mama vibh¥tayo yåstå¢ kathayi≤yåmıtyetat | prådhånyato
yatra yatra pradhånå yå yå vibh¥tiståæ tåæ pradhånåæ prådhå-
nyata¢ kathayi≤yåmyahaæ kuruŸre≤†ha | aŸe≤atastu var≤aŸatenåpi
na Ÿakyå vaktuæ yato nåstyanto vistarasya me mama vibh¥tınåmi-
tyartha¢ || tatra prathamameva tåvacchÿ√u –

ahamåtmå guƒåkeŸa sarvabh¥tåŸayasthita¢ |


ahamådiŸca madhyaæ ca bh¥tånåmanta eva ca || 10.20 ||

ahamiti | ahamåtmå pratyagåtmå guƒåkeŸa guƒåkå nidrå tasyå


ıŸo guƒåkeŸa jitanidra ityartha¢ | ghanakeŸa iti vå | sarvabh¥tåŸaya-
sthita¢ sarve≤åæ bh¥tånåmåŸayo antarhÿdi sthito ’hamåtmå pratya-
gåtmå nityaæ dhyeya¢ | tadaŸaktena cottare≤u bhåve≤u cintyo ’haæ
yasmådahamevådirbh¥tånåæ kåra√aæ tathå madhyaæ ca sthitira-
nta¢ pralayaŸca || evaæ ca dhyeyo ’ham –

ådityånåmahaæ vi≤√urjyoti≤åæ raviraæŸumån |


marıcirmarutåmasmi nak≤atrå√åmahaæ ŸaŸı || 10.21 ||

ådityånåmiti | ådityånåæ dvådaŸånåæ vi≤√urnåmådityo ’ham |


jyoti≤åæ ravi¢ prakåŸåyit™√åmaæŸumånraŸmimån | marıcirnåma
marutåæ maruddevatåbhedånåmasmi | nak≤atrå√åmahaæ ŸaŸı ca-
ndramå¢ ||

vedånåæ såmavedo ’smi devånåmasmi våsava¢ |


indriyå√åæ manaŸcåsmi bh¥tånåmasmi cetanå || 10.22 ||
10.26 da©amo ’dhyåya¢ 915

devånåmiti | devånåæ madhye såmadevo ’smi | devånåæ ru-


drådityådinåæ våsava indro ’smi | indriyå√åmekådaŸånåæ cak≤urå-
dınåæ manaŸcåsmi saækalpavikalpåtmakaæ manaŸcåsmi | bh¥tånå-
masmi cetanå kåryakara√asaæghåte nityåbhivyaktå buddhivÿttiŸce-
tanå ||

rudrå√åæ Ÿa§karaŸcåsmi vitteŸo yak≤arak≤asåm |


vas¥nåæ påvakaŸcåsmi meru¢ Ÿikhari√åmaham || 10.23 ||
rudrå√åmiti | rudrå√åmekådaŸånåæ Ÿa§karaŸcåsmi | vitteŸa¢ ku-
bero yak≤arak≤asåæ yak≤å√åæ rak≤åsåæ ca | vas¥nåma≤†ånåæ på-
vakaŸcåsmyagni¢ | meru¢ Ÿikhari√åæ Ÿikharavatåmaham ||

purodhasåæ ca mukhyaæ måæ viddhi pårtha bÿhaspatim |


senånınåmahaæ skanda¢ sarasåmasmi sågara¢ || 10.24 ||
purodhasåmiti | purodhasåæ ca råjapurohitånåæ ca mukhyaæ
pradhånaæ måæ viddhi janıhi he pårtha bÿhaspatim | sa hi indra-
syeti mukhya¢ syåtpurodhå¢ | senånınåæ senåpatınåmahaæ ska-
ndo devasenåpati¢ | sarasåæ yåni devakhåtåni saråæsi te≤åæ sara-
såæ sågaro ’smi bhavåmi ||

mahar≤ı√åæ bhÿgurahaæ giråmasmyekamak≤aram |


yajñånåæ japayajño ’smi sthåvarå√åæ himålaya¢ || 10.25 ||
mahar≤ı√åmiti | mahar≤ı√åæ bhÿguraham | giråæ våcåæ pada-
lak≤a√ånåmekamak≤aramoækåro ’smi | yajñånåæ japayajño ’smi |
sthåvarå√åæ sthitimatåæ himålaya¢ ||

aŸvattha¢ sarvavÿk≤å√åæ devar≤ı√åæ ca nårada¢ |


gandharvå√åæ citraratha¢ siddhånåæ kapilo muni¢ || 10.26 ||

aŸvattha iti | aŸvattha¢ sarvavÿk≤å√åæ devar≤ı√åæ ca nårado


devå eva santa ÿ≤itvaæ pråptå mantradarŸitvåtte devar≤ayaste≤åæ
nårado ’smi | gandharvå√åæ citraratho nåma gandharvo ’smi | si-
ddhånåæ janmanaiva dharmajñånavairågyaiŸvaryåtiŸayaæ pråptå-
nåæ kapilo muni¢ ||
916 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 10.27

uccai¢ŸravasamaŸvånåæ viddhi måmamÿtodbhavam |


airåvataæ gajendrå√åæ narå√åæ ca narådhipam || 10.27 ||

uccairiti | uccai¢ŸravasamaŸvånåmuccai¢Ÿravå nåmåŸvaråjastaæ


måæ viddhi vijånıhyamÿtodbhavamamÿtanimittamathanodbhavam |
airåvatamiråvatyå ’patyaæ gajendrå√åæ hastıŸvarå√åæ taæ måæ
viddhıtyanuvartate | narå√åæ ca manu≤yå√åæ ca narådhipaæ råjå-
naæ måæ viddhi jånıhi ||

åyudhånåmahaæ vajraæ dhen¥nåmasmi kåmadhuk |


prajanaŸcåsmi kandarpa¢ sarpå√åmasmi våsuki¢ || 10.28 ||

åyudhånåmiti | åyudhånåmahaæ vajraæ dadhıcyasthisaæbha-


vam | dhen¥nåæ dogdhrı√åmasmi kåmadhuk | vasi≤†hasya sarva-
kåmånåæ dogdhrı såmånyå vå kåmadhuk | prajana¢ prajanayitå-
smi kandarpa¢ kåma¢ sarpå√åæ sarpabhedånåmasmi våsuki¢ sa-
rparåja¢ ||

anantaŸcåsmi någånåæ varu√o yådasåmaham |


pit™√åmaryamå cåsmi yama¢ saæyamatåmaham || 10.29 ||

ananta iti | anantaŸcåsmi någånåæ någaviŸe≤å√åæ någaråjaŸcå-


smi | varu√o yådasåmahamabdevatånåæ råjåham | pit™√åmaryamå
nåma pitÿråjaŸcåsmi | yama¢ saæyamatåæ saæyamanaæ kurvatå-
maham ||

prahlådaŸcåsmi daityånåæ kåla¢ kalayatåmaham |


mÿgå√åæ ca mÿgendro ’haæ vainateyaŸca pak≤i√åm || 10.30 ||

prahlåda iti | prahlådo nåma cåsmi daityånåæ ditivaæŸyånåm |


kåla¢ kalayatåæ kalanaæ ga√anaæ kurvatåmaham | mÿgå√åæ ca
mÿgendra¢ siæho vyåghro vå ’ham | vainateyaŸca garutmånvinatå-
suta¢ pak≤i√åæ patatri√åm ||

pavana¢ pavatåmasmi råma¢ Ÿastrabhÿtåmaham |


i≤å√åæ makaraŸcåsmi srotasåmasmi jåhnuvı || 10.31 ||
10.35 da©amo ’dhyåya¢ 917

pavana iti | pavano våyu¢ pavanåæ påvayit™√åmasmi | råma¢


Ÿastrabhÿtåmahaæ Ÿastrå√åæ dhårayit™√åæ dåŸarathı råmo ’ham |
i≤å√åæ matsyådınåæ makaro nåma jåtiviŸe≤o ’ham | srotasåæ sra-
vantınåmasmi jåhnuvı ga§gå ||
sargå√åmådirantaŸca madhyaæ caivåhamarjuna |
adhyåtmavidyå vidyånåæ våda¢ pravadatåmaham || 10.32 ||

sargå√åmiti | sargå√åæ sÿ≤†ınåmådirantaŸca madhyaæ caivåha-


mutpattisthitilayå ’hamarjuna | bh¥tånåæ jıvådhi≤†hitånåmevådi-
rantaŸcetyådyuktamupakrame | iha tu sarvasyaiva sargamåtrasyeti
viŸe≤a¢ | adhyåtmavidyå vidyånåæ mok≤årthatvåtpradhånamasmi |
vådo ’rthanir√ayahetutvåtpravadatåæ pradhånaæ | ata¢ so ’hama-
smi | pravaktÿdvåre√a vadanabhedånåmeva vådajalpavita√ƒånåmi-
ha graha√aæ pravadatåmiti ||
ak≤arå√åmakåro ’smi dvandva¢ såmåsikasya ca |
ahamevåk≤aya¢ kålo dhåtåhaæ viŸvatomukha¢ || 10.33 ||
ak≤arå√åmiti | ak≤arå√åæ var√ånåmakåro var√o ’smi | dva-
ndva¢ samåso ’smi såmåsikasya ca samåsasam¥hasya | kiæ cåha-
mevåk≤ayo ’k≤ı√a¢ kåla¢ prasiddha¢ k≤a√ådyåkhya¢ | athavå para-
meŸvara¢ kålasyåpi kålo ’smi | dhåtåhaæ karmaphalasya vidhåtå
sarvajagato viŸvatomukha¢ sarvatomukha¢ ||

mÿtyu¢ sarvaharaŸcåhamudbhavaŸca bhavi≤yatåm |


kırti¢ Ÿrırvåkca nårı√åæ smÿtirmedhå dhÿti¢ k≤amå || 10.34 ||
mÿtyuriti | mÿtyurdvividho dhanådihara¢ prå√aharaŸca tatra
ya¢ prå√ahara¢ sa sarvahara ucyate | so ’smıtyartha¢ | athavå para
ıŸvara¢ pralaye sarvahara√åtsarvahara¢ so ’ham | udbhava utkar≤o
’bhyudayastatpråptihetuŸcåham | ke≤åm | bhavi≤yatåæ bhåvikalyå-
√ånåmutkar≤apråptiyogyånåmityartha¢ | kırti¢ Ÿrırvåkca nårı√åæ
smÿtirmedhå dhÿti¢ k≤ametyetå uttamå¢ strı√åmasmi | yåsåmåbhå-
samåtrasaæbandhenåpi loka¢ kÿtårthamåtmånaæ manyate ||

bhÿhatsåmå tathå såmnåæ gåyatrı chandasåmaham |


måsånåæ mårgaŸır≤o ’hamÿt¥nåæ kusumåkara¢ || 10.35 ||
918 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 10.35

bhÿhatsåmeti | bhÿhatsåma tathå såmnåæ pradhånamasmi | gå-


yatrı chandasåmahaæ gåyatryådicchandoviŸi≤†ånåmÿcåæ gåyatryÿ-
gahamasmıtyartha¢ | måsånåæ mårgaŸır≤o ’ham | ÿt¥nåæ kusumå-
karo vasanta¢ ||

dy¥taæ chalayatåmasmi tejastejasvinåmaham |


jayo ’smi vyavasåyo ’smi sattvaæ sattvavatåmaham || 10.36 ||

dy¥tamiti | dy¥tamak≤adevanådilak≤a√aæ chalayatåæ chalasya


kart™√åmasmi | tejastejasvinåmaham | jayo ’smi jet™√åæ vyavasåyo
’smi vyavasåyinåæ sattvaæ sattvavatåæ såttvikånåmaham ||

vÿ≤√ınåæ våsudevo ’smi på√ƒavånåæ dhanañjaya¢ |


munınåmapyahaæ vyåsa¢ kavınåmuŸanå kavi¢ || 10.37 ||

vÿ≤√ınåmiti | vÿ≤√ınåæ yådavånåæ våsudevo ’smyayamevå-


haæ tvatsakhå på√ƒavånåæ dhanañjayastvameva | munınåæ ma-
nanaŸılånåæ sarvapadårthajñåninåmapyahaæ vyåsa¢ | kavınåæ
kråntadarŸinåmuŸanå kavirasmi ||

da√ƒo damayatåmasmi nıtirasmi jigı≤atåm |


maunaæ caivåsmi guhyånåæ jñånaæ jñånavatåmaham || 10.38 ||

da√ƒa iti | da√ƒo damayatåæ damayit™√åmasmyadåntånåæ da-


makåra√am | nıtirasmi jigı≤atåm | maunaæ caivåsmi guhyånåæ go-
pyånåæ jñånaæ jñånavatåmaham ||

yaccåpi sarvabh¥tånåæ bıjaæ tadahamarjuna |


na tadasti vinå yatsyånmayå bh¥taæ caråcaram || 10.39 ||

yaccåpıti | yaccåpi sarvabh¥tånåæ bıjaæ prarohakåra√aæ tada-


hamarjuna | prakara√opasaæhårårthaæ vibh¥tisaæk≤epamåha na
tadasti bh¥taæ caråcaraæ caramacaraæ vå mayå vinå yatsyådbha-
vet | mayåpakÿ≤†aæ parityaktaæ niråtmakaæ Ÿ¥nyaæ hi tatsyåt |
ato madåtmakaæ sarvamityartha¢ ||
10.42 da©amo ’dhyåya¢ 919

nånto ’sti mama divyånåæ vibh¥tınåæ paraætapa |


e≤a t¥ddeŸata¢ prokto vibh¥tervistaro mayå || 10.40 ||
nånto ’stıti | nånto ’sti mama divyånåæ vibh¥tınåæ vistarå√åæ
paraætapa | na hıŸvarasya sarvåtmano divyånåæ vibh¥tınåmiyattå
Ÿaktyå vaktuæ jñåtuæ vå kenacit | e≤a t¥ddeŸata ekadeŸena prokto
vibh¥tervistaro mayå ||
yadvadvibh¥timatsattvaæ Ÿrımad¥rjitameva vå |
tattadevåvagaccha tvaæ mama tejo ’æŸasaæbhavam || 10.41 ||
yadvaditi | yadvalloke vibh¥timadvibh¥tiyuktaæ sattvaæ vastu
Ÿrımad¥rjitameva vå Ÿrırlak≤mıstayå sahitamutsåhopetaæ vå tatta-
devåvagaccha tvaæ jånıhi mameŸvarasya tejo ’æŸasaæbhavaæ teja-
so ’æŸa ekadeŸa¢ saæbhavo yasya tattejo ’æŸasaæbhavamityavaga-
ccha tvam ||
athavå bahunaitena kiæ jñåtena tavårjuna |
vi≤†abhyåhamidaæ kÿtsnamekåæŸena sthito jagat || 10.42 ||
athaveti | athavå bahunaitenaivamådinå kiæ jñåtena tavårjuna
syåtsåvaŸe≤e√a | aŸe≤astvamimamucyamånamarthaæ Ÿÿ√u – vi≤†a-
bhya viŸe≤ata¢ staæbhanaæ dÿƒhaæ kÿtvedaæ kÿtsnaæ jagadekåæŸe-
naikåvayavenaikapådena sarvabh¥tasvar¥pe√etyetat | tathå ca ma-
ntravar√a¢ “pådo ’sya viŸvå bh¥tåni” (ÿ. 10.10.6) iti | sthito ’hamiti ||

iti Ÿrımadbhagavadgıtås¥pani≤atsu brahmavidyåyåæ


yogaŸåstre Ÿrıkÿ≤√årjunasaævåde
vibh¥tiyogo nåma
daŸamo ’dhyåya¢

*
athaikådaŸo ’dhyåya¢

bhagavato vibh¥taya uktå¢ | tatra ca “vi≤†abhyåhamidaæ kÿ-


tsnamekåæŸena sthito jagat” (bha. gı. 10.42) iti bhagavatåbhihitaæ
Ÿrutvå yajjagadåtmar¥pamådyamaiŸvaraæ tatsåk≤åtkartumicchanna-
rjuna uvåca –

arjuna uvåca –

madanugrahåya paramaæ guhyamadhyåtmasaæjñitam |


yattvayoktaæ vacastena moho ’yaæ vigato mama || 11.1 ||

maditi | madanugrahåya mamånugrahårthaæ paramaæ nirati-


Ÿayaæ guhyaæ gopyamadhyåtmasaæjñitamåtmånåtmavivekavi≤a-
yaæ yattvayoktaæ vaco våkyaæ tena te vacaså moho ’yaæ vigato
mamåvivekabuddhirapagatetyartha¢ || kiæ ca –

bhavåpyayau hi bh¥tånåæ Ÿrutau vistaraŸo mayå |


tvatta¢ kamalapattråk≤a måhåtmyamapi cåvyayam || 11.2 ||

bhaveti | bhava utpattirapyaya¢ pralaya¢ tau bhavåpyayau hi


bh¥tånåæ Ÿrutau vistaraŸo mayå | na saæk≤epata¢ | tvattastvatsa-
kåŸåtkamalapattråk≤a kamalasya pattraæ kamalapattraæ tadvada-
k≤i√ı yasya tava sa tvaæ kamalapattråk≤o he kamalapattråk≤a må-
håtmyamapi cåvyayamak≤ayaæ Ÿrutamityanuvartate ||

evametadyathåttha tvamåtmånaæ parameŸvara |


dra≤†umicchåmi te r¥pamaiŸvaraæ puru≤ottama || 11.3 ||

evamiti | evametannånyathå yathå yena prakåre√å ’’ttha ka-


thayasi tvamåtmånaæ parameŸvara | tathåpi dra≤†umicchåmi te ta-
922 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 11.3

va jñånaiŸvaryaŸaktibalavıryatejobhi¢ saæpannamaiŸvaraæ vai≤√a-


vaæ r¥paæ puru≤ottama ||

manyase yadi tacchakyaæ mayå dra≤†umiti prabho |


yogeŸvara tato me tvaæ darŸayåtmånamavyayam || 11.4 ||

manyasa iti | manyase cintayasi yadi mayårjunena taccha-


kyaæ dra≤†umiti prabho svåminyogeŸvara yogino yogåste≤åmıŸva-
ro yogeŸvaro he yogeŸvara | yasmådahamatıvårthı dra≤†uæ tatasta-
smånme madarthaæ darŸaya tvamåtmånamavyayam || evaæ codito
’rjunena Ÿrıbhagavånuvåca –

Ÿrıbhagavånuvåca –

paŸya me pårtha r¥på√i ŸataŸo ’tha sahasraŸa¢ |


nånåvidhåni divyåni nånåvar√åkÿtıni ca || 11.5 ||

paŸyeti | paŸya me pårtha r¥på√i ŸataŸo ’tha sahasraŸo ’nekaŸa


ityartha¢ | tåni ca nånåvidhånyanekaprakårå√i divi bhavåni divyå-
nyapråkÿtåni nånåvar√åkÿtıni ca nånå vilak≤a√å nılapıtådiprakårå
var√åstathå ’’kÿtayo ’vayavasaæsthånaviŸe≤å ye≤åæ r¥på√åæ tåni
nånåvar√åkÿtıni ca ||

paŸyådityånvas¥nrudrånaŸvinau marutastathå |
bah¥nyadÿ≤†ap¥rvå√i paŸyåŸcaryå√i bhårata || 11.6 ||

paŸyådityåniti | paŸyådityåndvådaŸa vas¥na≤†au rudrånekådaŸo


’Ÿvinau dvau maruta¢ sapta sapta ga√å ye tån | tathå ca bah¥nya-
nyånyadÿ≤†ap¥rvå√i manu≤yaloke tvayå tvatto ’nyena vå kenaci-
tpaŸyåŸcaryå√yadbhutåni bhårata || na kevalametåvadeva –

ihaikasthaæ jagatkÿtsnaæ paŸyådya sacaråcaram |


mama dehe guƒåkeŸa yaccånyaddra≤†umicchasi || 11.7 ||

iheti | ihaikasthamekasminneva sthitaæ jagatkÿtsnaæ sama-


staæ paŸyådyedånıæ sacaråcaraæ saha care√åcare√å ca vartate |
mama dehe guƒåkeŸa | yaccånyajjayaparåjayådi yacchaækase “ya-
11.11 ekåda©o ’dhyåya¢ 923

dvå jayame yadi vå no jayeyu¢” (bha. gı. 2.6) iti yadavoca¢ | tadapi
dra≤†uæ yadıcchasi || kiæ tu –

na tu måæ Ÿakyase dra≤†umanenaiva svacak≤u≤å |


divyaæ dadåmi te cak≤u¢ paŸya me yogamaiŸvaram || 11.8 ||
na tviti | na tu måæ viŸvar¥padharaæ Ÿakyase dra≤†umanenai-
va pråkÿtena svacak≤u≤å svakıyena cak≤u≤å | yena tu Ÿakyase dra-
≤†uæ divyena taddivyaæ dadåmi te tubhyaæ cak≤u¢ | tena paŸya
me yogamaiŸvaramıŸvarasya mamaiŸvaraæ yogaæ yogaŸaktyatiŸa-
yamityartha¢ ||

sañjaya uvåca –

evamuktvå tato råjanmahåyogeŸvaro hari¢ |


darŸayåmåsa pårthåya paramaæ r¥pamaiŸvaram || 11.9 ||
evamiti | evaæ yathoktaprakåre√oktvå tato ’nantaraæ råja-
ndhÿtarå≤†ra mahåyogeŸvaro mahåæŸcåsau yogeŸvarasya harirnå-
råya√o darŸayåmåsa darŸitavånpårthåya pÿthåsutåya paramaæ r¥-
paæ viŸvar¥pamaiŸvaram ||

anekavaktranayanamanekådbhutadarŸanam |
anekadivyåbhara√aæ divyånekodyatåyudham || 11.10 ||
aneketi | anekavaktranayanamanekåni vaktrå√i nayanåni ca
yasminr¥pe tadanekavaktranayanam | anekådbhutadarŸanamane-
kånyadbhutåni vismåpakåni darŸanåni yasminr¥pe tadanekådbhu-
tadarŸanam | tathånekadivyåbhara√amanekåni divyånyåbhara√åni ya-
smiæstadanekadivyåbhara√am | tathå divyånekodyatåyudhaæ di-
vyånyanekånyasyådınyudyatånyåyudhåni yasmiæstaddivyåneko-
dyatåyudhaæ “darŸayåmåsa” iti p¥rve√a saæbandha¢ || kiæ ca –

divyamålyåæbaradharaæ divyagandhånulepanam |
sarvåŸcaryamayaæ devamanantaæ viŸvatomukham || 11.11 ||

divyeti | divyamålyåæbaradharaæ divyåni målyåni pu≤på-


√yaæbarå√i vastrå√i ca dhriyante yeneŸvare√a taæ divyamålyåæ-
924 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 11.11

baradharam | divyagandhånulepanaæ divyaæ gandhånulepanaæ


yasya taæ divyagandhånulepanam | sarvåŸcaryamayaæ sarvåŸca-
ryapråyaæ devamanantaæ nåsyånto ’stıtyanantastaæ viŸvatomu-
khaæ sarvatomukhaæ sarvabh¥tåtmabh¥tatvåt | taæ darŸayåmåså-
rjuno dadarŸeti vå ’dhyåhriyate || yå punarbhagavato viŸvar¥pasya
bhåstasyopamocyate –

divi s¥ryasahasrasya bhavedyugapadutthitå |


yadi bhå¢ sadÿŸı så syådbhåsastasya mahåtmana¢ || 11.12 ||

divıti | divyantarik≤e tÿtıyasyåæ vå divi s¥ryå√åæ sahasraæ


s¥ryasahasraæ tasya yugapadutthitasya s¥ryasahasrasya yå yuga-
padutthitå bhå¢ | så yadi sadÿŸı syåttasya mahåtmano viŸvar¥pa-
syaiva bhåsa¢ | yadi vå na syåttata¢ viŸvar¥pasyaiva bhå ’tiricyata
ityartha¢ || kiæ ca –

tatraikasthaæ jagatkÿtsnaæ pravibhaktamanekadhå |


apaŸyaddevadevasya Ÿarıre på√ƒavastadå || 11.13 ||

tatreti | tatra tasminviŸvar¥pa ekasminsthitamekasthaæ jaga-


tkÿtsnaæ pravibhaktamanekadhå devapitÿmanu≤yådibhedairapaŸya-
ddÿ≤†avåndevadevasya hare¢ Ÿarıre på√ƒavo ’rjunastadå ||

tata¢ sa vismayåvi≤†o hÿ≤†aromå dhanañjaya¢ |


pra√amya Ÿiraså devaæ kÿtåñjalirabhå≤ata || 11.14 ||

tata iti | tatastaæ dÿ≤†vå sa vismayenåvi≤†o vismayåvi≤†o hÿ≤†å-


ni romå√i yasya so ’yaæ hÿ≤†aromå cåbhavaddhanaæñjaya¢ | pra-
√amya prakar≤e√a namanaæ kÿtvå prahvıbh¥ta¢ sañŸiraså devaæ
viŸvar¥padharaæ kÿtåñjalirnamaskårårthaæ saæpu†ıkÿtaharasta¢ sa-
nnabhå≤atoktavån || kathaæ yattvayå darŸitaæ viŸvar¥paæ tada-
haæ paŸyåmıti | svånubhavamåvi≤kurvan | arjuna uvåca –

arjuna uvåca –

paŸyåmi devåæstava deva dehe


sarvåæstathå bh¥taviŸe≤asa§ghån |
11.17 ekåda©o ’dhyåya¢ 925

brahmå√amıŸaæ kamalåsanasthaæ
ÿ≤ıæŸca sarvånuragåæŸca divyån || 11.15 ||

paŸyåmıti | paŸyåmyupalabhe he deva tava dehe devånsarvån |


tathå bh¥taviŸe≤asa§ghånbh¥taviŸe≤å√åæ sthåvaraja§gamånåæ nå-
nåsaæsthånaviŸe≤å√åæ sa§ghå bh¥taviŸe≤asa§ghåstån | kiæ ca bra-
hmå√aæ caturmukhamıŸamıŸitåraæ prajånåæ kamalåsanasthåæ pÿ-
thivıpadmamadhye merukar√ikåsanasthamityartha¢ | ÿ≤ıæŸca va-
si≤†hådınsarvånanuragåæŸca våsukiprabhÿtındivyåndivi bhavån ||

anekabåh¥daravaktranetraæ
paŸyåmi två sarvato ’nantar¥pam |
nåntaæ na madhyaæ na punastavådiæ
paŸyåmi viŸveŸvara viŸvar¥pa || 11.16 ||

aneketi | anekabåh¥daravaktranetramaneke båhava udarå√i va-


ktrå√i netrå√i ca yasya tava sa tvamanekabåh¥daravaktranetrasta-
manekabåh¥daravaktranetraæ paŸyåmi två tvåæ sarvata¢ sarvatrå-
nantar¥pamanantåni r¥på√yasyetyanantar¥pastamanantar¥pam |
nåntamanto ’vasånaæ na madhyaæ madhyaæ nåma dvayo¢ ko†yo-
rantaraæ na punastavådiæ tava devasya nåntaæ paŸyåmi na ma-
dhyaæ paŸyåmi na punarådiæ paŸyåmi he viŸveŸvara he viŸvar¥pa ||
kiæ ca –

kirı†inaæ gadinaæ cakri√aæ ca


tejoråæŸiæ sarvato dıptimantam |
paŸyåmi tvåæ durnirık≤yaæ samantåd-
dıptånalårkadyutimaprameyam || 11.17 ||

kirı†inamiti | kirı†inaæ kirı†aæ nåma Ÿirobh¥≤a√aviŸe≤astadya-


syåsti sa kirı†iæ taæ kirı†inam | tathå gadinaæ gadå ’sya vidyata iti
gadı taæ gadinam | tathå cakri√aæ cakramasyåstıti cakrı taæ ca-
kri√aæ ca | tejoråæŸiæ teja¢puñjaæ sarvato dıptimantaæ sarvato
dıptirasyåstıti sarvato dıptimåæstaæ sarvadıptimantaæ paŸyåmi
tvåæ durnirık≤yaæ du¢khena nirık≤yo durnirık≤yastaæ durnirı-
k≤yaæ samantåtsamantata¢ sarvatra | dıptånalårkadyutimanalaŸcå-
rkaŸcånalårkau dıptåvanalårkau dıptånalarkau tayordıptånalårka-
926 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 11.17

yordyutiriva dyutistejo yasya tava sa tvaæ dıptånalarkadyutistaæ


tvåæ dıptånalårkadyutim | aprameyaæ na prameyamaŸakyapari-
cchedamityartha¢ || ita eva te yogaŸaktidarŸanådanuminomi –

tvamak≤araæ paramaæ veditavyaæ


tvamasya viŸvasya paraæ nidhånam |
tvamavyaya¢ ŸåŸvatadharmagoptå
sanåtanastvaæ puru≤o mato me || 11.18 ||

tvamiti | tvamak≤araæ na rak≤atıti paramaæ brahma vedita-


vyaæ jñåtavyaæ mumuk≤ubhi¢ | tvamasya viŸvasya jagata¢ pa-
raæ prakÿ≤†aæ nidhånaæ nidhıyate ’sminniti nidhånaæ para åŸra-
ya ityartha¢ | kiæ ca tvamavyayo na tava vyayo vidyate ityavya-
ya¢ | ŸåŸvatadharmagoptå ŸaŸvadbhava¢ ŸåŸvato nityo dharmasta-
sya goptå ŸåŸvatadharmagoptå | sanåtanaŸcirantanastvaæ puru≤a¢
paro mato ’bhipreto me mama || kiæ ca –

anådimadhyåntamanantavıryam-
anantabåhuæ ŸaŸis¥ryanetram |
paŸyåmi tvåæ dıptahutåŸavaktraæ
svatejaså viŸvamidaæ tapantam || 11.19 ||

anådıti | anådimadhyåntamådiŸca madhyaæ cåntaŸca na vidya-


te yasya so ’yamanådimadhyantastaæ tvåmanådimadhyåntam | a-
nantavıryaæ na tava vıryasyånto ’stıtyanantavıryastaæ tvåmana-
ntavıryam | tathånantabåhumanantå båhavo yasya tava sa tvama-
nantabåhu¢ taæ tvåmanantabåhum | ŸaŸis¥ryanetraæ ŸaŸis¥ryau ne-
tre yasya tava sa tvaæ ŸaŸis¥ryanetrastaæ tvåæ ŸaŸis¥ryanetraæ
candrådityanayanaæ paŸyåmi tvåæ dıptahutåŸavaktraæ dıptaŸcå-
sau hutåŸaŸca sa vaktraæ yasya tava sa tvaæ dıptahutåŸavaktraæ
tvåæ dıptahutåŸavaktram | svatejaså viŸvamidaæ samastaæ tapa-
ntaæ tåpayantam ||

dyåvåpÿthivyoridamantaraæ hi
vyåptaæ tvayaikena diŸaŸca sarvå¢ |
dÿ≤†vådbhutaæ r¥pamidaæ tavograæ
lokatrayaæ pravyathitaæ mahåtman || 11.20 ||
11.23 ekåda©o ’dhyåya¢ 927

dyåvåpÿthivyoriti | dyåvåpÿthivyoridamantaraæ hyantarik≤aæ


vyåptaæ tvayaikena viŸvar¥padhare√a diŸaŸca sarvå vyåptå¢ | dÿ-
≤†volapabhyådbhutaæ vismåpakaæ r¥pamidaæ tavograæ kr¥raæ
lokånåæ trayaæ lokatrayaæ pravyathitaæ bhıtaæ pracalitaæ vå he
mahåtmannak≤udrasvabhåva || athådhunå purå “yadvå jayema ya-
di vå no jayeyu¢” (bha. gı. 2.6) ityarjunasya ya¢ saæŸaya åsıttani-
r√ayåya på√ƒavajayamaikåntikaæ darŸayåmıti pravÿtto bhagavån |
taæ paŸyannåha – kiæ ca –

amı hi två surasa§ghå viŸanti


kecidbhıtå¢ pråñjalayo gÿ√anti |
svastıtyuktvå mahar≤isiddhasa§ghå
stuvanti tvåæ stutibhi¢ pu≤kalåbhi¢ || 11.21 ||

amıti | amı hi yudhyamånå yoddhårastvå tvåæ surasa§ghå ye


’tra bh¥bhåråvatåråyåvatır√å vastvådidevasa§ghå manu≤yasaæ-
sthånåstvåæ viŸanti praviŸanto dÿŸyante | tatra kecidbhıtå¢ pråñja-
laya¢ santo gÿ√anti stuvanti tvåmanye palåyane ’pyaŸaktå¢ sa-
nta¢ | yuddhe pratyupasthite utpåtådinimittånyupalak≤ya svastya-
stu jagata ityuktvå mahar≤isiddhasa§ghå mahar≤ı√åæ siddhånåæ
ca sa§ghå¢ stuvanti tvåæ stutibhi¢ pu≤kalåbhi¢ saæp¥r√åbhi¢ ||
kiæ cånyat –

rudrådityå vasavo ye ca sådhyå


viŸve ’Ÿvinau marutaŸco≤mapåŸca |
gandharvayak≤åsurasiddhasa§ghå
vık≤ante tvåæ vismitåŸcaiva sarve || 11.22 ||

rudrådityå iti | rudrådityå vasavo ye ca sådhyå rudrådayo ga√å


viŸvedevå aŸvinau ca devau marutaŸco≤mapåŸca pitaro gandharvaya-
k≤åsurasiddhasa§ghå gandharvå håhåh¥h¥prabhÿtayo yak≤å¢ kube-
raprabhÿtaya asurå virocanaprabhÿtaya¢ siddhå¢ kapilådaya¢ te-
≤åæ sa§ghå gandharvayak≤åsurasiddhasa§ghå te vık≤ante paŸyanti
tvåæ vismitå vismayamåpannå¢ santaste eva sarve || yasmåt –

r¥paæ mahatte bahuvaktranetraæ


mahåbåho bahubåh¥rupådam |
928 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 11.23

bah¥daraæ bahudaæ≤†råkarålaæ
dÿ≤†vå lokå¢ pravyathitåstathåham || 11.23 ||

r¥pamiti | r¥paæ mahadatipramå√aæ te tava bahuvaktrane-


traæ bah¥ni vaktrå√i mukhåni netrå√i cak≤¥æ≤i ca yasmiæstadr¥-
paæ bahuvaktranetraæ he mahåbåho bahubåh¥rupådaæ bahavo bå-
hava urava¢ pådåŸca yasminr¥pe tadbahubåh¥rupådam | kiæ ca ba-
h¥daraæ bah¥nyudarå√i yasminniti bah¥daram | bahudaæ≤†råka-
rålaæ bahvıbhirdaæ≤†råbhi¢ karålaæ vikÿtaæ tadbahudaæ≤†råkarå-
laæ dÿ≤†vå r¥pamıdÿŸaæ lokå laukikå¢ prå√ina¢ pravyathitå¢ pra-
calitå bhayena tathåhamapi || tatredaæ kåra√am –

nabha¢spÿŸaæ dıptamanekavar√aæ
vyåttånanaæ dıptaviŸålanetram |
dÿ≤†vå hi tvåæ pravyathitåntaråtmå
dhÿtiæ na vindåmi Ÿamaæ ca vi≤√o || 11.24 ||

nabha¢spÿŸamiti | nabha¢spÿŸaæ dyusparŸamityartha¢ | dıptaæ


prajvalitam | anekavar√amaneke var√å bhayaækarå nånåsaæsthånå
yasmiæstvayi taæ tvåmanekavar√am | vyåttånanaæ vyåttåni vivÿ-
tånyånanåni mukhåni yasmiæstvayi taæ tvåæ vyåttånanam | dıpta-
viŸålanetraæ dıptåni prajvalitåni viŸålåni vistır√åni netrå√i yasmiæ-
stvayi taæ tvåæ dıptaviŸalanetraæ dÿ≤†vå hi tvåæ pravyathitåntarå-
tmå pravyathita¢ prabhıto ’ntaråtmå mano yasya mama so ’haæ
pravyathitåntaråtmå sandhÿtirdhairyaæ na vindåmi na labhe Ÿamaæ
copaŸamanaæ manastu≤†iæ he vi≤√o || kasmåt –

daæ≤†råkarålåni ca te mukhåni
dÿ≤†vaiva kålånalasaænibhåni |
diŸo na jåne na labhe ca Ÿarma
prasıda deveŸa jagannivåsa || 11.25 ||

daæ≤†råkarålånıti | daæ≤†råkarålåni daæ≤†råbhi¢ karålåni vikÿ-


tåni te tava mukhåni dÿ≤†vaivopalabhya kålånasaænibhåni pralaya-
kåle lokånåæ dåhako ’gni¢ kålånalastatsadÿŸåni kålånalasaænibhå-
ni mukhåni dÿ≤†vetyetat | diŸa¢ p¥rvåparavivekena na jåne di§m¥-
ƒho jåto ’smi | ato na labhe ca nopalabhe ca Ÿarma sukham | ata¢
11.28 ekåda©o ’dhyåya¢ 929

prasıda prasanno bhava he deveŸa jagannivåsa || yebhyo mama pa-


råjayåŸa§kå yå åsıtså cåpagatå yata¢ –

amı ca tvåæ dhÿtarå≤†rasya putrå¢


sarve sahaivåvanipålasa§ghai¢ |
bhı≤mo dro√a¢ s¥taputrastathåsau
sahåsmadıyairapi yodhamukhyai¢ || 11.26 ||

amı iti | amı ca tvåæ dhÿtarå≤†rasya putrå duryodhanaprabhÿ-


taya¢ “tvaramå√å viŸanti” iti vyavahitena saæbandha¢ | sarve sa-
haiva sahitå avanipålasaæghairavaniæ pÿthivıæ pålayantıtyavani-
pålåste≤åæ sa§ghai¢ | kiæ ca bhı≤mo dro√a¢ s¥taputra¢ kar√asta-
thåsau sahåsmadıyairapi dhÿ≤†adyumnaprabhÿtibhiryodhamukhyai-
ryodhånåæ mukhyai¢ pradhånai¢ saha || kiæ ca –

vaktrå√i te tvaramå√å viŸanti


daæ≤†råkarålåni bhayånakåni |
kecidvilagnå daŸanåntare≤u
saædÿŸyante c¥r√itairuttamå§gai¢ || 11.27 ||

vaktrå√ıti | vaktrå√i mukhåni te tava tvaramå√åstvaråyuktå¢


santo viŸanti | kiæ viŸi≤†åni mukhåni | daæ≤†råkarålåni bhayånakå-
ni bhayaækarå√i | kiæ ca kecinmukhåni pravi≤†ånåæ madhye vila-
gnå daŸanåntare≤u måæsamiva bhak≤itaæ saædÿŸyanta upalabhya-
nte c¥r√itaiŸc¥r√ıkÿtairuttamå§gai¢ Ÿirobhi¢ || kathaæ praviŸanti
mukhånıtyåha –

yathå nadınåæ bahavo ’æbuvegå¢


samudramevåbhimukhå dravanti |
tathå tavåmı naralokavırå
viŸanti vaktrå√yabhivijvalanti || 11.28 ||

yatheti | yathå nadınåæ sravantınåæ bahavo ’neke ’æb¥nåæ


vegå aæbuvegåstvaråviŸe≤å¢ samudramevåbhimukhå¢ pratimukhå
dravanti praviŸanti tathå tadvattavåmı bhı≤mådayo naralokavırå ma-
nu≤yaloke Ÿ¥rå viŸanti vaktrå√yabhivijvalanti prakåŸamånåni || te
kimarthaæ praviŸanti kathaæ cetyåha –
930 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 11.29

yathå pradıptaæ jvalanaæ pata§gå


viŸanti nåŸåya samÿddhavegå¢ |
tathaiva nåŸåya viŸanti lokås-
tavåpi vaktrå√i samÿddhavegå¢ || 11.29 ||

yatheti | yathå pradıptaæ jvalanamagniæ pata§gå¢ pak≤i√o vi-


Ÿanti nåŸåya vinåŸåya samÿddhavegå¢ samÿddha udbh¥to vego gati-
rye≤åæ te samÿddhavegå¢ | tathaiva nåŸåya viŸanti lokå¢ prå√ina-
stavåpi vaktrå√i samÿddhavegå¢ || tvaæ puna¢ –

lelihyase grasamåna¢ samantål-


lokånsamagrånvadanairjvaladbhi¢ |
tejobhirap¥rya jagatsamagraæ
bhåsastavogrå¢ pratapanti vi≤√o || 11.30 ||

lelihyasa iti | lelihyasa åsvådaya grasamåno ’nta¢ praveŸayansa-


mantåtsamantato lokånsamagrånsamastånvadanairvaktrairjvaladbhi-
rdıpyamånaistejobhirap¥rya saævyåpya jagatsamagraæ sahågre√a
samastamityetat | kiæ ca bhåso dıptayastavogrå¢ kr¥rå¢ pratapanti
pratåpaæ kurvanti he vi≤√o vyåpanaŸila || yata evamugrasvabhåvo
’ta¢ –

åkhyåhi me ko bhavånugrar¥po
namo ’stu te devavara prasıda |
vijñåtumicchåmi bhavantamådyaæ
na hi prajånåmi tava pravÿttim || 11.31 ||

åkhyåhıti | åkhyåhi kathaya me mahyaæ ko bhavånugrar¥pa¢


kr¥råkåra¢ | namo ’stu te tubhyaæ he devavara devånåæ pradhåna
prasıda prasådaæ kuru | vijñåtuæ viŸe≤e√a jñåtumicchåmi bhava-
ntamådyamådau bhavamådyaæ | na hi yasmåtprajånåmi tava tva-
dıyåæ pravÿttiæ ce≤†åm || Ÿrıbhagavånuvåca –

Ÿrıbhagavånuvåca –

kålo ’smi lokak≤ayakÿtpravÿddho


lokånsamåhartumiha pravÿtta¢ |
11.34 ekåda©o ’dhyåya¢ 931

ÿte ’pi två na bhavi≤yanti sarve


ye ’vasthitå¢ pratyanıke≤u yodhå¢ || 11.32 ||

kålo ’smıti | kålo ’smi lokak≤ayakÿllokånåæ k≤ayaæ karotıti lo-


kak≤ayakÿtpravÿddho vÿddhiæ gata¢ yadarthaæ pravÿddhastacchÿ-
√u | lokånsamåhartuæ saæhartumihåsminkåle pravÿtta¢ | ÿte ’pi
vinåpi två tvåæ na bhavi≤yanti bhı≤madro√akar√aprabhÿtaya¢ sa-
rve | yebhyastavåŸa§kå ye ’vasthitå¢ pratyanıke≤vanıkamanıkaæ
prati pratyanıke≤u pratipak≤abh¥te≤vanıke≤u yodhå yoddhåra¢ ||
yasmådevam –

tasmåttvamutti≤†ha yaŸo labhasva


jitvå Ÿatr¥nbhu§k≤va råjyaæ samÿddham |
mayaivaite nihatå¢ p¥rvameva
nimittamåtraæ bhava savyasåcin || 11.33 ||

tasmåditi | tasmåttvamutti≤†ha bhı≤madro√aprabhÿtayo ’tirathå


’jeyå devairapyarjunena jitå iti yaŸo labhasva | kevalaæ pu√yairhi
tatpråpyate | jitvå Ÿatr¥nduryodhanaprabhÿtınbhu§k≤va råjyaæ sa-
mÿddhamasapatnamaka√†akam | mayaivaite nihatå niŸcayena hatå¢
prå√airviyojitå¢ p¥rvameva | nimittamåtraæ bhava tvaæ he savya-
såcinsavyena våmenåpi hastena Ÿarå√åæ k≤eptå savyasåcıtyucyate
’rjuna¢ ||

dro√aæ ca bhı≤maæ ca jayadrathaæ ca


kar√aæ tathånyånapi yodhavırån |
mayå hatåæstvaæ jahi må vyathi≤†hå
yudhyasva jetåsi ra√e sapatnån || 11.34 ||

dro√aæ ceti | dro√aæ ca ye≤u ye≤u yodhe≤varjunasyåŸa§kå tåæ-


stånvyapadiŸati bhagavån | mayå hatånıti | tatra dro√abhı≤mådayo¢
tåvatprasiddhamåŸa§kåkåra√am | dro√o dhanurvedåcåryo | divyå-
strasaæpanna åtmanaŸca viŸe≤ato gururgari≤†ha¢ | bhı≤ma¢ svaccha-
ndamÿtyurdivyåstrasaæpannaŸca paraŸuråme√a dvandvayuddha-
magamanna ca paråjita¢ | tathå jayadratho yasya pitå tapaŸcarati
mama putrasya Ÿiro bh¥mau påtayi≤yati yastasyåpi Ÿira¢ pati≤yatı-
ti | kar√o ’pi våsavadattayå Ÿaktyå tvamoghayå saæpanna¢ s¥rya-
932 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 11.34

putra¢ kånıno yato ’tastannåmnaiva nirdeŸa¢ | mayå hatåæstvaæ


jahi nimittamåtre√a | må vyathi≤†håstebhyo bhayaæ må kår≤ı¢ | yu-
dhyasva jetåsi duryodhanaprabhÿtınra√e yuddhe sapatnåñŸatr¥n ||

sañjaya uvåca –

etacchrutvå vacanaæ keŸavasya


kÿtåñjalirvepamåna¢ kirı†ı |
namaskÿtvå bh¥ya evåha kÿ≤√aæ
sagadgadaæ bhıtabhıta¢ pra√amya || 11.35 ||

etacchrutveti | etacchrutvå vacanaæ keŸavasya p¥rvoktaæ kÿ-


tåñjali¢ sanvepamåna¢ kaæpamåna¢ kirı†ı namaskÿtvå bh¥ya¢ pu-
narevåhoktavånkÿ≤√aæ sagadgadaæ bhayåvi≤†asya du¢khåbhidhå-
tåtsnehåvi≤†asya ca har≤odbhavådaŸrup¥r√anetratve sati Ÿle≤ma√å
ka√†håvarodha¢ tataŸca våco ’på†avaæ mandaŸabdasya yatsa ga-
dgadastena saha vartata iti sagadgadaæ vacanam | åheti vacanakri-
yåviŸe≤a√ametat | bhıtabhıta¢ puna¢ punarbhayåvi≤†acetå¢ sanpra-
√amya prahvo bh¥två | åheti vyavahitena saæbandha¢ | atråvasare
sañjayavacanaæ såbhipråyam | katham | dro√ådi≤varjunena niha-
te≤vajeye≤u catur≤u niråŸrayo duryodhano nihata eveti matvå dhÿ-
tarå≤†ro jayaæ prati niråŸa¢ sansaædhiæ kari≤yati tata¢ Ÿåntiru-
bhaye≤åæ bhavi≤yatıti | tadapi nåŸrau≤ıddhÿtarå≤†ro bhavitavyava-
Ÿåt ||
arjuna uvåca –

sthåne hÿŸıkeŸa tava prakırtyå


jagatprahÿ≤yatyanurajyate ca |
rak≤åæsi bhıtåni diŸo dravanti
sarve namasyanti ca siddhasa§ghå¢ || 11.36 ||
sthåna iti | sthåne yuktam | kiæ tat | tava prakırtyå tvanmåhå-
tmyakırtanena Ÿrutena he hÿ≤ıkeŸa yajjagatprahÿ≤yati prahar≤amu-
paiti tatsthåne yuktamityartha¢ | athavå vi≤ayaviŸe≤a√aæ sthåna
iti | yukto har≤ådivi≤ayo bhagavånyata ıŸvara¢ sarvåtmå sarvabh¥-
tasuhÿcceti | tathånurajyate ’nurågaæ copaiti | tacca vi≤aya iti vyå-
11.39 ekåda©o ’dhyåya¢ 933

khyeyam | kiæ ca rak≤åæsi bhıtåni bhayåvi≤†åni diŸo dravanti ga-


cchanti tacca sthåne vi≤aye | sarve namasyanti namaskurvanti ca
siddhasa§ghå¢ siddhånåæ samudåyå¢ kapilådınåæ tacca sthåne ||
bhagavato har≤ådivi≤ayatve hetuæ darŸayati –
kasmåcca te na nameranmahåtman-
garıyase brahma√o ’pyådikartre |
ananta deveŸa jagannivåsa
tvamak≤araæ sadasattatparaæ yat || 11.37 ||
kasmåcceti | kasmåcca hetoste tubhyaæ na nameranna nama-
skuryurhe mahåtmangarıyase gurutaråya | yato brahma√o hira√ya-
garbhasyåpyådikartå kåra√amatastasmådådikartre | kathamete na
namaskuryu¢ | ato har≤ådınåæ namaskårasya ca sthånaæ tvama-
rho vi≤aya ityartha¢ | he ’nanta deveŸa he jagannivåsa tvamak≤a-
raæ tatparaæ yadvedånte≤u Ÿr¥yate | kiæ tat | sadasaditi | sadvi-
dyamånamasacca yatra nåstıti buddhi¢ | te upadhånabh¥te sadasatı
yasyåk≤arasya yaddvåre√a sadasatıtyupacaryate | paramårthatastu
sadasato¢ paraæ tadak≤araæ yadak≤araæ vedavido vadanti tattva-
meva nånyadityabhipråya¢ || punarapi stauti –
tvamådideva¢ puru≤a¢ purå√as-
tvamasya viŸvasya paraæ nidhånam |
vettåsi vedyaæ ca paraæ ca dhåma
tvayå tataæ viŸvamanantar¥pa || 11.38 ||
tvamiti | tvamådidevo jagata¢ sra≤†ÿtvåt | puru≤a¢ puri Ÿayanåt
purå√aŸcirantana¢ tvamevåsya viŸvasya paraæ prakÿ≤†aæ nidhå-
naæ nidhıyate ’smiñjagatsarvaæ mahåpralayådåviti | kiæ ca vettå-
si veditåsi sarvasyaiva vedyajåtasya | yacca vedyaæ vedanårhaæ
taccåsi | paraæ ca dhåma paramaæ padaæ vai≤√avam | tvayå ta-
taæ vyåptaæ viŸvaæ samastaæ he ’nantar¥pa anto na vidyate tava
r¥på√åm || kiæ ca –
våyuryamo ’gnirvaru√a¢ ŸaŸå§ka¢
prajåpatistvaæ prapitåmahaŸca |
namo namaste ’stu sahasrakÿtva¢
punaŸca bh¥yo ’pi namo namaste || 11.39 ||
934 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 11.39

våyuriti | våyustvaæ yamaŸcågnirvaru√o ’påæpati¢ ŸaŸå§kaŸca-


ndramå¢ prajåpatistvaæ kaŸyapådi¢ prapitåmahaŸca pitåmahasyåpi
pitå prapitåmaho | brahma√o ’pi pitetyartha¢ | namo namaste tu-
bhyamastu sahasrakÿtva¢ | punaŸca bh¥yo ’pi namo namaste bahu-
Ÿo namaskårakriyåbhyåsåvÿttiga√anaæ kÿtvasucocyate | punaŸca
bh¥yo ’pıti | ŸraddhåbhaktyatiŸayådaparito≤amåtmano darŸayati ||
tathå –

nama¢ purastådatha pÿ≤†hataste


namo ’stu te sarvata eva sarva |
anantavıryåmitavikramastvaæ
sarvaæ samåpno≤i tato ’si sarva¢ || 11.40 ||

nama iti | nama¢ puraståtp¥rvasyåæ diŸi tubhyamatha pÿ≤†ha-


taste pÿ≤†hato ’pi ca te | namo ’stu te sarvata eva sarvåsu dik≤u sa-
rvatra sthitåya he sarva anantavıryåmitavikramo ’nantaæ vırya-
masyåmito vikramo ’sya | vıryaæ såmarthyaæ vikrama¢ paråkra-
ma¢ | vıryavånapi kaŸcicchatruvadhådivi≤aye na puråkramate ma-
ndaparåkramo vå | tvaæ tvanantavıryo ’mitavikramaŸcetyanantavı-
ryåmitavikrama¢ | sarvaæ samastaæ jagatsamåpno≤i samyageke-
nåtmanå vyåpno≤i yatastatastasmådasi bhavasi sarvastvaæ tvayå
vinåbh¥taæ na kiæcidastıtyartha¢ || yato ’haæ tvanmåhåtmyåpari-
jñånåparåddho ’ta¢ –

sakheti matvå prasabhaæ yaduktaæ


he kÿ≤√a he yådava he sakheti |
ajånatå mahimånaæ tavedaæ
mayå pramådåtpra√ayena våpi || 11.41 ||

sakheti | sakhå samånavayå iti matvå jñåtvåæ viparıtabuddhyå


prasabhamabhibh¥ya prasahya yaduktaæ he kÿ≤√a he yådava he
sakheti cåjånatå ’jñåninå m¥ƒhena kimajånatetyåha mahimånaæ
måhåtmyaæ tavedamıŸvarasya viŸvar¥pam | tavedaæ mahimåna-
majånateti vaiyadhikara√yena saæbandha¢ | tavemamiti på†ho ya-
dyasti tadå såmånådhikara√yameva | mayå pramådådvik≤iptacitta-
tayå pra√ayena våpi pra√ayo nåma snehanimitto visraæbha¢ tenå-
pi kåra√ena yaduktavånasmi ||
11.44 ekåda©o ’dhyåya¢ 935

yaccåvahåsårthamasatkÿto ’si
vihåraŸayyåsanabhojane≤u |
eko ’thavåpyacyuta tatsamak≤aæ
tatk≤åmaye tvåmahamaprameyam || 11.42 ||

yacceti | yaccåvahåsårthaæ parihåsaprayojanåyåsatkÿta¢ pari-


bh¥to ’si bhavasi | kva | vihåraŸayyåsanabhojane≤u vihara√aæ vihå-
ra¢ pådavyåyåma¢ Ÿayanaæ Ÿayyå ’’sanamåsthåyikå bhojanamada-
namityete≤u vihåraŸayyåsanabhojane≤veka¢ parok≤a¢ sannasatkÿto
’si paribh¥to ’si | athavåpi he ’cyuta tatsamak≤aæ tacchabda¢ kri-
yåviŸe≤a√årtha¢ pratyak≤aæ svåsatkÿto ’si tatsarvamaparådhajåtaæ
k≤åmaye k≤amåæ kåraye tvåmahamaprameyaæ pramå√åtıtam || ya-
tastvam –

pitåsi lokasya caråcarasya


tvamasya p¥jyaŸca gururgarıyån |
na tvatsamo ’styabhyadhika¢ kuto ’nyo
lokatraye ’pyapratimaprabhåva || 11.43 ||

pitåsıti | pitåsi janayitåsi lokasya prå√ijåtasya caråcarasya sthå-


varaja§gamasya | na kevalaæ tvamasya jagata¢ pitå | p¥jyaŸca p¥-
jårho yato gururgarıyångurutara¢ | kasmådgurutarastvamityåha na
ca tvatsamastvattulyo ’nyo ’sti | na hıŸvaradvayaæ saæbhavatyane-
keŸvaratve vyavahårånupapatte¢ | tvatsama eva tåvadanyo na saæ-
bhavati | kuta evånyo ’bhyadhika¢ syåt | lokatraye ’pi sarvasmin |
apratimaprabhåva pratimıyate yayå så pratimå | na vidyate pratimå
yasya tava prabhåvasya sa tvamapratimaprabhåva¢ | he ’pratima-
prabhåva niratiŸayaprabhåvetyartha¢ || yata evam –

tasmåtpra√amya pra√idhåya kåyaæ


prasådaye tvåmahamıŸamıƒyam |
piteva putrasya sakheva sakhyu¢
priya¢ priyåyårhasi deva soƒhum || 11.44 ||

tasmåditi | tasmåtpra√amya namaskÿtya pra√idhåya prakar≤e-


√a nıcairdhÿtvå kåyaæ Ÿarıraæ prasådaye prasådaæ kåraye tvåma-
hamıŸamıŸitåraæ ıƒyaæ stutyam | tvaæ puna¢ putrasyåparådhaæ
936 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 11.44

pitå yathå k≤amate | sarvaæ sakheva ca sakhyuraparådham | yathå


vå priya¢ priyåyå aparådhaæ k≤amate | evamarhasi he deva so-
ƒhuæ prasahituæ k≤antumityartha¢ ||

adÿ≤†ap¥rvaæ hÿ≤ito ’smi dÿ≤†vå


bhayena ca pravyathitaæ mano me |
tadeva me darŸaya deva r¥paæ
prasıdaæ deveŸa jagannivåsa || 11.45 ||

adÿ≤†ap¥rvamiti | adÿ≤†ap¥rvaæ na kadåcidapi dÿ≤†åp¥rvami-


daæ viŸvar¥paæ tava mayånyairvå tadahaæ dÿ≤†vå hÿ≤ito ’smi |
bhayena ca pravyathitaæ mano me | atastadeva me mama darŸaya
he deva r¥paæ yanmatsakham | prasıda deveŸa jagannivåsa jagato
nivåso jagannivåso he jagannivåsa ||

kirı†inaæ gadinaæ cakrahastam-


icchåmi tvåæ dra≤†umahaæ tathaiva |
tenaiva r¥pe√a caturbhujena
sahasrabåho bhava viŸvam¥rte || 11.46 ||

kirı†inamiti | kirı†inaæ kirı†avantaæ tathå gadinaæ gadåvantaæ


cakrahastamicchåmi tvåæ prårthaye tvåæ dra≤†umahaæ tathaiva
p¥rvavadityartha¢ | yata evaæ tasmåttenaiva r¥pe√a vasudevapu-
trar¥pe√a caturbhujena sahasrabåho vårtamånikena viŸvar¥pe√a
bhava viŸvam¥rte | upasaæhÿtya viŸvar¥paæ tenaiva r¥pe√a bha-
vetyartha¢ || arjunaæ bhıtamupalabhyopasaæhÿtya viŸvar¥paæ pri-
yåvacanenåŸvasayañŸrıbhagavånuvåca –

Ÿrıbhagavånuvåca –

mayå prasannena tavårjunedaæ


r¥paæ paraæ darŸitamåtmayogåt |
tejomayaæ viŸvamanantamådyaæ
yanme tvadanyena na dÿ≤†ap¥rvam || 11.47 ||

mayeti | mayå prasannena prasådo nåma tvayyanugrahabuddhi-


stadvatå prasannena mayå tava he ’rjuna | idaæ paraæ r¥paæ vi-
11.50 ekåda©o ’dhyåya¢ 937

Ÿvar¥paæ darŸitamåtmayogådåtmana aiŸvaryasya såmarthyåt | te-


jomayaæ teja¢pråyaæ viŸvaæ samastamanantamantarahitamådau
bhavanådyaæ yadr¥paæ me mama tvadanyena tvatto ’nyena kena-
cinna dÿ≤†ap¥rvam || åtmano mama r¥padarŸanena kÿtårtha eva
tvaæ saævÿtta iti tatstauti –

na vedayajñådhyayanairna dånair-
na ca kriyåbhirna tapobhirugrai¢ |
evaær¥pa¢ Ÿakya ahaæ nÿloke
dra≤†uæ tvadanyena kurupravıra || 11.48 ||

na vedeti | na vedayajñådhyayanai¢ catur√åmapi vedånåma-


dhyayanairyathåvadyajñådhyayanaiŸca | vedådhyayanaireva yajñå-
dhyayanasya siddhatvåtpÿthagyajñådhyayanagraha√aæ yajñavi-
jñånopalak≤a√årthaæ | tathå na dånaistulåpuru≤ådibhirna ca kriyå-
bhiragnihotrådibhi¢ Ÿrautådibhi¢ | nåpi tapobhirugraiŸcåndråya√å-
dibhirugrairghorai¢ | evaær¥po yathådarŸitaæ viŸvar¥paæ yasya so
’hamevaær¥po na Ÿakyo ’haæ nÿloke manu≤yaloke dra≤†uæ tvada-
nyena tvatto ’nyena kurupravıra ||

må te vyathå må ca vim¥ƒhabhåvo
dÿ≤†vå r¥paæ ghoramıdÿ§mamedam |
vyapetabhı¢ prıtamanå¢ punastvaæ
tadeva me r¥pamidaæ prapaŸya || 11.49 ||

må te vyatheti | må te vyathå må bh¥tte bhayaæ må ca vim¥-


ƒhabhåvo vim¥ƒhacittatå dÿ≤†vopalabhya r¥paæ ghoramıdÿgyathå-
darŸitaæ mamedam | vyapetabhırvigatabhaya¢ prıtamanåŸca sanpu-
narbh¥yastvaæ tadeva caturbhujaæ r¥paæ Ÿa§khacakragadådha-
raæ tave≤†aæ r¥pamidaæ prapaŸya ||

sañjaya uvåca –

ityarjunaæ våsudevastathoktvå
svakaæ r¥paæ darŸayåmåsa bh¥ya¢ |
åŸvåsayåmåsa ca bhıtamenaæ
bh¥två puna¢ saumyavapurmahåtmå || 11.50 ||
938 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 11.50

ityarjunamiti | ityevamarjunaæ våsudevastathåbh¥taæ vacana-


muktvå svakaæ vasudevagÿhe jåtaæ r¥paæ darŸayåmåsa darŸitavå-
nbh¥ya¢ puna¢ | åŸvåsayåmåsa ca åŸvåsitavåæŸca bhıtamenaæ bh¥-
två puna¢ saumyavapu¢ prasannadeho mahåtmå ||

arjuna uvåca –

dÿ≤†vedaæ månu≤aæ r¥paæ tava saumyaæ janårdana |


idånımasmi saævÿtta¢ sacetå¢ prakÿtiæ gata¢ || 11.51 ||

dÿ≤†vedamiti | dÿ≤†vedaæ månu≤aæ r¥paæ matsakhaæ prasa-


nnaæ tava saumyaæ janårdanedånımadhunåsmi saævÿtta¢ saæjåta¢ |
kim | sacetå¢ prasannacitta¢ prakÿtiæ svabhåvaæ gataŸcåsmi ||

Ÿrıbhagavånuvåca –

sudurdarŸamidaæ r¥paæ dÿ≤†avånasi yanmama |


devå apyasya r¥pasya nityaæ darŸanakåæk≤i√a¢ || 11.52 ||

sudurdarŸamiti | sudurdarŸaæ su≤†hu du¢khena darŸanamasyeti


sudurdarŸamidaæ r¥paæ dÿ≤†avånasi yanmama | devå apyasya ma-
ma r¥pasya nityaæ sarvadå darŸanakåæk≤i√a¢ | darŸanepsavo ’pi
tvamiva dÿ≤†avanto na drak≤yanti cetyabhipråya¢ || kasmåt –

nåhaæ vedairna tapaså na dånena na cejyayå |


Ÿakya evaævidho dra≤†uæ dÿ≤†avånasi måæ yathå || 11.53 ||

nåhamiti | nåhaæ vedairÿgyaju¢såmåtharvavedaiŸcaturbhira-


pi na tapasogre√a cåndråya√amådinå na dånena gobh¥hira√yådinå
na cejyayå yajñena p¥jayå vå Ÿakya evaævidho yathådarŸitaprakåro
dra≤†uæ dÿ≤†avånasi måæ yathå tvam || kathaæ puna ityucyate –

bhaktyå tvananyayå Ÿakya ahamevaævidho ’rjuna |


jñåtuæ dra≤†uæ ca tattvena prave≤†uæ ca paraætapa || 11.54 ||

bhaktyeti | bhaktyå tu kiæ viŸi≤†ayetyåha – ananyayå ’pÿtha-


gbh¥tayå | bhagavato ’nyatra pÿtha§na kadåcidapi yå bhavati så
11.55 ekåda©o ’dhyåya¢ 939

tvananyå bhakti¢ | sarvairapi kara√airvåsudevådanyannopalabhya-


te yayå så ’nanyå bhaktistayå bhaktyå Ÿakyo ’hamevaævidho viŸva-
r¥paprakåro he ’rjuna jnåtuæ Ÿåstrato na kevalaæ jñåtuæ Ÿåstrato
dra≤†uæ ca såk≤åtkartuæ tattvena tattvata¢ prave≤†uæ ca mok≤aæ
ca gantuæ paraætapa || adhunå sarvasya gıtåŸåstrasya sårabh¥to
’rtho ni¢Ÿreyasårtho ’nu≤†heyatvena samuccityocyate –

matkarmakÿnmatparamo madbhakta¢ sa§gavarjita¢ |


nirvaira¢ sarvabh¥te≤u ya¢ sa måmeti på√ƒava || 11.55 ||

matkarmeti | matkarmakÿnmadarthaæ karma matkarma tatka-


rotıti matkarmakÿt | matparama¢ karoti bhÿtya¢ svåmikarma na
tvåtmana¢ paramå pretya gantavyå gatiriti svåminaæ pratipadya-
te | ayaæ tu matkarmakÿnmåmeva paramåæ gatiæ pratipadyata iti
matparama¢ | ahaæ parama¢ parå gatiryasya so ’yaæ matpara-
ma¢ tathå madbhakto måmeva sarvaprakårai¢ sarvåtmanå sarvo-
tsåhena bhajata iti madbhakta¢ | sa§gavarjito dhanaputramitraka-
latrasaæbandhavarjita¢ sa§gavarjita¢ sa§ga¢ prıti¢ snehastadvarji-
to nirvairo nirgatavaira¢ sarvabh¥te≤u Ÿatrubhavarahita åtmano
’tyantåpakårapravÿtte≤viti | ya ıdÿŸo madbhakta¢ sa måmeti | aha-
meva tasya parå gatirnånyå gati¢ kåcidbhavati | ayaæ tavopadeŸa
i≤†o mayopadi≤†o he på√ƒaveti ||

iti Ÿrımadbhagavadgıtås¥pani≤atsu brahmavidyåyåæ


yogaŸåstre Ÿrıkÿ≤√årjunasaævåde
viŸvar¥padarŸanaæ nåma
ekådaŸo ’dhyåya¢

*
atha dvådaŸo ’dhyåya¢

dvitıyaprabhÿti≤u vibh¥tyante≤vadhyåye≤u paramåtmano bra-


hma√o ’k≤arasya vidhvastasarvopådhiviŸe≤asyopåsanamuktaæ sa-
rvayogaiŸvaryasarvajñånaŸaktimatsarvopådherıŸvarasya tava copå-
sanaæ tatra tatroktam | viŸvar¥pådhyåye tvaiŸvaramådyaæ samasta-
jagadåtmar¥paæ viŸvar¥paæ tvadıyaæ darŸitamupåsanårthameva
tvayå | tacca darŸayitvoktavånasi “matkarmakÿt” (bha. gı. 11.55) ityå-
di | ato ’hamanayorubhayo¢ pak≤ayorviŸi≤†atarabubhutsayå tvåæ pÿ-
cchåmıtyarjuna uvåca –

arjuna uvåca –
evaæ satatayuktå ye bhaktåstvåæ paryupåsate |
ye cåpyak≤aramavyaktaæ te≤åæ ke yogavittamå¢ || 12.1 ||
evamiti | evamityatıtånantaraŸlokenoktamarthaæ paråmÿŸati
“matkarmakÿt” ityådinå | evaæ satatayuktå nairantarye√a bhagava-
tkarmådau yathokte ’rthe samåhitå¢ santa¢ pravÿttå ityartha¢ | ye
bhaktå ’nanyaŸara√å¢ santastvåæ yathådarŸitaæ viŸvar¥paæ paryu-
påsate dhyåyanti | ye cånye ’pi tyaktasarvai≤a√å¢ saænyastasarva-
karmå√o yathåviŸe≤itaæ brahmåk≤araæ nirastasarvopådhitvåda-
vyaktamakara√agocaram | yadi loke kara√agocaraæ tadvyaktamu-
cyate ’ñjerdhåtostatkarmakatvåt | idaæ tvak≤araæ tadviparıtaæ Ÿi-
≤†aiŸcocyamånairviŸe≤a√airviŸi≤†aæ tadye cåpi paryupåsate te≤å-
mubhaye≤åæ madhye ke yogavittamå¢ ke ’tiŸayena yogavida itya-
rtha¢ ||

Ÿrıbhagavånuvåca –

ye tvak≤aropåsakå¢ samyagdarŸino nivÿttai≤a√åste tåvatti≤†ha-


ntu tånpratiyadvaktavyaæ tadupari≤†ådvak≤yåma¢ | ye tvitare –
942 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 12.2

mayyåveŸya mano ye måæ nityayuktå upåsate |


Ÿraddhayå parayopetåste me yuktatamå matå¢ || 12.2 ||

mayıti | mayi viŸvar¥pe parameŸvara åveŸya samådhåya mano


ye bhaktå¢ santo måæ sarvayogaŸcara√åmadhıŸvaraæ sarvajñaæ vi-
muktarågådikleŸatimiradÿ≤†aæ nityayuktå atıtånantarådhyåyåntokta-
Ÿlokårthanyåyena satatayuktå¢ santa upåsate Ÿraddhayå parayå pra-
kÿ≤†ayopetå¢ te me mama matå abhipretå yuktatamå iti | nairanta-
rye√a hi te maccittatayå ahoråtramativåhayanti | ato yuktaæ tånpra-
ti yuktatamå iti vaktum || kimitare yuktatamå na bhavanti | na |
kiæ tu tånprati yadvaktavyaæ tacchÿ√u –

ye tvak≤aramanirdeŸyamavyaktaæ paryupåsate |
sarvatragamacintyaæ ca k¥†asthamacalaæ dhruvam || 12.3 ||

ye tviti | ye tvak≤aramanirdeŸyamavyaktatvådaŸabdagocaramiti
na nirde≤†umaŸakyate ’to ’nirdeŸyamavyaktaæ na kenåpi pramå√e-
na vyajyata ityavyaktaæ paryupåsate pari samantådupåsate | upåsa-
naæ nåma yathåŸåstramupåsyasyårthasya vi≤ayıkara√ena såmıpya-
mupagamya tailadhåråvatsamånapratyayapravåhe√a dırghakålaæ
yadåsanaæ tadupåsanamåcak≤ate | ak≤arasya viŸe≤a√amåhopåsyasya
sarvatragaæ vyomavadvyåpyacintyaæ cåvyaktatvådacintyam | ya-
ddhi kara√agocaraæ tanmanasåpi cintyam | tadviparıtatvådacintya-
mak≤araæ k¥†asthaæ dÿŸyamånagu√amantardo≤aæ vastu k¥†am |
k¥†ar¥paæ k¥†asåk≤yamityådau k¥†aŸabda¢ prasiddho loke | tathå
cåvidyådyanekasaæsårabıjamantardo≤avanmåyåvyåkÿtådiŸabdavå-
cyatayå “måyåæ tu prakÿtiæ vidyånmåyinaæ tu maheŸvaram” (Ÿve.
4.10) “mama måyå duratyayå” (bha. gı. 7.14) ityådau prasiddhaæ ya-
ttatk¥†aæ tasmink¥†e sthitaæ k¥†asthaæ tadadhyak≤atayå | athavå
råŸıriva sthitaæ k¥†astham | ata evåcalam | yasmådacalaæ tasmå-
ddhruvaæ nityamityartha¢ ||

saæniyamyendriyagråmaæ sarvatra samabuddhaya¢ |


te pråpnuvanti måmeva sarvabh¥tahite ratå¢ || 12.4 ||

saæniyamyeti | saæniyamya samya§niyamyopasaæhÿtyendri-


yagråmamindriyasamudåyaæ sarvatra sarvasminkåle samabuddha-
12.7 dvåda©o ’dhyåya¢ 943

ya¢ samå tulyå buddhirye≤åmi≤†åni≤†apråptau te samabuddhaya¢ |


te ye evaævidhåste pråpnuvanti måmeva sarvabh¥tahite ratå¢ | na
te≤åæ vaktavyaæ kiæcinmåæ te pråpnuvantıti | “jñånı tvåtmaiva
me matam” (bha. gı. 7.18) iti hyuktam | na hi bhagavatsvar¥på√åæ
satåæ yuktatamatvamayuktatamatvaæ ca våcyam || kiæ tu –

kleŸo ’dhikataraste≤åmavyaktåsaktacetasåm |
avyaktå hi gatirdu¢khaæ dehavadbhiravåpyate || 12.5 ||

kleŸeti | kleŸo ’dhikataro yadyapi matkarmådiparå√åæ kleŸo ’dhi-


ka eva kleŸo ’dhikatarastvak≤aråtmanåæ paramåtmadarŸinåæ dehå-
bhimånaparityåganimitta¢ | avyaktåsaktacetasåmavyakte åsaktaæ
ceto ye≤åæ te ’vyaktåsaktacetasaste≤åmavyaktåsaktacetasåm | avya-
ktå hi yasmådyå gatirak≤aråtmikå du¢khaæ så dehavadbhirdehåbhi-
månavadbhiravåpyate ’ta¢ kleŸo ’dhikatara¢ | ak≤aropåsakånåæ ya-
dvartanaæ tadupari≤†ådvak≤yåma¢ ||

ye tu sarvå√i karmå√i mayi saænyasya matparå¢ |


ananyenaiva yogena måæ dhyåyanta upåsate || 12.6 ||

ye tviti | ye tu sarvå√i karmå√i mayıŸvare saænyasya matpa-


rå ahaæ paro ye≤åæ te matparå¢ santo ’nanyenaivåvidyamånama-
nyadålaæbanaæ viŸvar¥paæ devamåtmånaæ muktvå yasya so ’na-
nyastenånanyenaiva | kena | yogena samådhinå måæ dhyåyanta-
Ÿcintayanta upåsate || te≤åæ kim –

te≤åmahaæ samuddhartå mÿtyusaæsårasågaråt |


bhavåmi na ciråtpårtha mayyåveŸitacetasåm || 12.7 ||

te≤åmiti | te≤åæ madupåsanaikaparå√åmahamıŸvara¢ samuddha-


rtå | kuta ityåha | mÿtyusaæsårasågaråt | mÿtyuyukta¢ saæsåro mÿ-
tyusaæsåra¢ sa eva sågara iva sågaro dustaratvåttasmånmÿtyusaæ-
sårasågarådahaæ samuddhartå bhavåmi na ciråt | kiæ tarhi | k≤i-
prameva he pårtha | mayyåveŸitacetasåæ mayi viŸvar¥pe åveŸitaæ
samåhitaæ praveŸitaæ ceto ye≤åæ te mayyåveŸitacetasa¢ || te≤å-
myata evaæ tasmåt –
944 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 12.8

mayyeva mana ådhatsva mayi buddhiæ niveŸaya |


nivasi≤yasi mayyeva ata ¥rdhvaæ na saæŸaya¢ || 12.8 ||

mayyeveti | mayyeva viŸvar¥pe ıŸvare mana¢ saækalpavikalpå-


tmakamådhatsva sthåpaya | mayyevådhyavasåyaæ kurvatıæ bu-
ddhimådhatsva niveŸaya | tataste kiæ syåditi | Ÿÿ√u | nivasi≤yasi ni-
vatsyasi niŸcayena madåtmanå mayi nivåsaæ kari≤yasyevåta¢ Ÿarı-
rapåtåd¥rdhvam | na saæŸaya¢ saæŸayo ’tra na kartavya¢ ||

atha cittaæ samådhåtuæ na Ÿakno≤i mayi sthiram |


abhyåsayogena tato måmicchåptuæ dhanañjaya || 12.9 ||

atheti | athaivaæ yathåvocaæ tathå mayi cittaæ samådhåtuæ


sthåpayituæ sthiramacalaæ na Ÿakno≤i cettata¢ paŸcådabhyåsayo-
gena | cittasyaikasminnålaæbane sarvata¢ samåhÿtya puna¢ pu-
na¢ sthåpanamabhyåsa¢ | tatp¥rvako yoga¢ samådhånalak≤a√aste-
nåbhyåsayogena måæ viŸvar¥pamiccha prårthayasva åptuæ prå-
ptuæ he dhanañjaya ||

abhyåse ’pyasamartho ’si matkarmaparamo bhava |


madarthamapi karmå√i kurvansiddhimavåpsyasi || 12.10 ||
abhyåse ’pıti | abhyåse ’pyasamartho ’syaŸakto ’si tarhi matka-
rmaparamo bhava madarthaæ matkarma tatparamo matkarmapa-
rama¢ matkarmapradhåna ityartha¢ | abhyåsena vinå madarthama-
pi karmå√i kevalaæ kurvansiddhiæ sattvaŸuddhiyogajñånapråpti-
dvåre√åvåpsyasi ||
athaitadapyaŸakto ’si kartuæ madyogamåŸrita¢ |
sarvakarmaphalatyågaæ tata¢ kuru yatåtmavån || 12.11 ||
athaitaditi | atha punaretadapi yaduktaæ matkarmaparama-
tvaæ tatkartumaŸakto ’si madyogamåŸrito mayi kriyamå√åni karmå-
√i saænyasya yatkara√aæ te≤åmanu≤†hånaæ sa madyoga¢ | tamå-
Ÿrita¢ sansarvakarmaphalatyågaæ sarve≤åæ karmå√åæ phalasaæ-
nyåsaæ sarvakarmaphalatyågaæ tato ’nantaraæ kuru yatåtmavå-
nsaæyatacitta¢ sannityartha¢ || idånıæ sarvakarmaphalatyågaæ
stauti –
12.12 dvåda©o ’dhyåya¢ 945

Ÿreyo hi jñånamabhyåsåjjñånåddhyånaæ viŸi≤yate |


dhyånåtkarmaphalatyågastyågåcchåntiranantaram || 12.12 ||

Ÿreya iti | Ÿreyo hi praŸasyataraæ jñånam | kasmåt | vivekap¥-


rvakådabhyåsåt | tasmådapi jñånåjjñånap¥rvakaæ dhyånaæ viŸi≤ya-
te | jñånavato dhyånådapi karmaphalatyågo viŸi≤yata ityanu≤ajya-
te | evaæ karmaphalatyågåtp¥rvaviŸe≤a√avata¢ ŸåntirupaŸama¢
sahetukasya saæsårasyånantarameva syånna tu kålåntaramapek≤a-
te || ajñasya karma√i pravÿttasya p¥rvopadi≤†opåyånu≤†hånåŸaktau
sarvakarmå√åæ phalatyåga¢ Ÿreya¢sådhanamupadi≤†aæ na pratha-
mameva | ataŸca Ÿreyo hi jñånamabhyåsådityuttarottaraviŸi≤†atvopa-
deŸena sarvakarmaphalatyåga¢ st¥yate saæpannasådhanånu≤†hånå-
Ÿaktåvanu≤†heyatvena Ÿrutatvåt | kena sådharmye√a stutitvam | “ya-
då sarve pramucyante” (ka. 6.14) iti sarvakåmaprahå√ådamÿtatva-
muktam | tatprasiddham | kåmåŸca sarve Ÿrautasmårtakarmå√åæ
phalåni | tattyåge ca vidu≤o dhyånani≤†hasyånantaraiva Ÿåntiriti sa-
rvakåmatyågasåmånyamajñakarmaphalatyågasyåstıti tatsåmånyå-
tsarvakarmaphalatyågastutiriyaæ prarocanårthå | yathågastyena
bråhma√ena samudrapıta iti idånıætanå api bråhma√å bråhma√a-
tvasåmånyåtst¥yante | evaæ karmaphalatyågåtkarmayogasya Ÿre-
ya¢sådhanatvamabhihitam || atra cå ’’tmeŸvarabhedamåŸritya viŸva-
r¥pe ıŸvare ceta¢samådhånalak≤a√o yoga ukta¢ | ıŸvarårthaæ ka-
rmånu≤†hånådi ca | “athaitadapyaŸakto ’si” (bha. gı. 12.11) ityajñå-
nakåryas¥canånnåbhedadarŸino ’k≤aropåsakasya karmayoga upa-
padyata iti darŸayati | tathå karmayogino ’k≤aropåsanånupapattiæ
darŸayati bhagavån “te pråpnuvanti måmeva” (bha. gı. 12.4) itya-
k≤aropåsakånåæ kaivalyapråptau svåtantryamuktvetyetare≤åæ på-
ratantryådıŸvarådhınatvaæ darŸitavån “te≤åmahaæ samuddhartå”
(bha. gı. 12.7) iti | yadi hıŸvarasyåtmabh¥tåste matå abhedadarŸita-
tvådak≤arar¥på eva ta iti samuddhara√akarmavacanaæ tånpratya-
peŸalaæ syåt | yasmåccårjunasyåtyantameva hitai≤ı bhagavåæstasya
samyagdarŸanånanvitaæ karmayogaæ bhedadÿ≤†imantamevopadi-
Ÿati | na cåtmånamıŸvaraæ pramå√ato buddhvå kasyacidgu√abhå-
vaæ vigami≤ati kaŸcidvirodhåt | tasmådak≤aropåsakånåæ samya-
gdarŸanani≤†hånåæ saænyåsinåæ tyaktasarvai≤a√ånåæ “adve≤†å sa-
rvabh¥tånåm” ityådidharmap¥gaæ såk≤ådamÿtatvakåra√aæ vak≤yå-
mıti pravartate –
946 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 12.13

adve≤†å sarvabh¥tånåæ maitra¢ karu√a eva ca |


nirmamo nirahaækåra¢ samadu¢khasukha¢ k≤amı || 12.13 ||
adve≤†eti | adve≤†å sarvabh¥tånåæ na dve≤†å åtmano du¢kha-
hetumapi na kiæciddve≤†i | sarvå√i bh¥tånyåtmavena hi paŸyati |
maitro mitrabhåvo maitrı mitratayå vartata iti maitra¢ | karu√a eva
ca karu√å kÿpå du¢khite≤u dayå tadvånkaru√a¢ | sarvabh¥tåbha-
yaprada¢ saænyåsıtyartha¢ | nirmamo mamapratyayavarjita¢ | ni-
rahaækåro nirgatåhaæpratyaya¢ | samadu¢khasukha¢ same du¢-
khasukhe dve≤arågayorapravartake yasya sa samadu¢khasukha¢ |
k≤amı k≤amåvånåkru≤†o ’bhihato vå ’vikriya evåste ||

saætu≤†a¢ satataæ yogı yatåtmå dÿƒhaniŸcaya¢ |


mayyarpitamanobuddhiryo madbhakta¢ sa me priya¢ || 12.14 ||
saætu≤†a iti | saætu≤†a¢ satataæ nityaæ dehasthitikåra√asya la-
bhe ’låbhe cotpannålaæpratyaya¢ | tathå gu√avallåbhe viparyaye ca
saætu≤†a¢ | satataæ yogı samåhitacitta¢ | yatåtmå saæyatasvabhå-
va¢ | dÿƒhaniŸcayo dÿƒha¢ sthiro niŸcayo ’dhyavasåyo yasyåtmata-
ttvavi≤aye sa dÿƒhaniŸcaya¢ | mayyarpitamanobuddhi¢ saækalpa-
vikalpåtmakaæ mana¢ | adhyavasåyalak≤a√å buddhi¢ | te mayyevå-
rpite sthåpite yasya saænyåsina¢ sa mayyarpitamanobuddhi¢ | ya
ıdÿŸo madbhakta¢ sa me priya¢ | “priyo hi jñånino ’tyarthamahaæ
sa ca mama priya¢” (bha. gı. 7.17) iti saptame ’dhyåye s¥citaæ tadi-
ha prapañcyate ||

yasmånnodvijate loko lokånnodvijate ca ya¢ |


har≤åmar≤abhayodvegairmukto ya¢ sa ca me priya¢ || 12.15 ||
yasmåditi | yasmåtsaænyåsino nodvijate nodvegaæ gacchati na
saætapyate na saæk≤ubhyati loka¢ | tathå lokånnodvijate ca ya¢ |
har≤åmar≤abhayodvegai¢ har≤aŸcåmar≤aŸca bhayaæ codvegaŸca tai-
rhar≤åmar≤abhayodvegairmukta¢ | har≤a¢ priyalåbhe ’nta¢kara√å-
syotkar≤o romåñcanåŸrupåtådili§ga¢ | amar≤o ’sahi≤√utå | bhayaæ
tråsa¢ | udvega udvignatå tairmukto ya¢ sa ca me priya¢ ||

anapek≤a¢ Ÿucirdak≤a udåsıno gatavyatha¢ |


sarvåraæbhaparityågı yo madbhakta¢ sa me priya¢ || 12.16 ||
12.19 dvåda©o ’dhyåya¢ 947

anapek≤a iti | dehendriyavi≤ayasaæbandhådi≤vapek≤åvi≤aye≤va-


napek≤o ni¢spÿha¢ | Ÿuci¢ båhyenåbhyantare√a ca Ÿaucena saæpa-
nna¢ | dak≤a pratyutpanne≤u kårye≤u sadyo yathåvatpratipattuæ sa-
martha¢ | udåsıno na kasyacinmitråde¢ pak≤aæ bhajate ya¢ sa u-
dåsıno yati¢ | gatavyatho gatabhaya¢ | sarvåraæbhaparityågı | åra-
bhyanta ityåraæbhå ihåmutraphalabhogårthåni kåmahet¥ni karmå-
√i sarvåraæbhå¢ tånparityaktuæ Ÿılamasyeti sarvåraæbhaparityågı
yo madbhakta¢ sa me priyeti || kiæ ca –

yo na hÿ≤yati na dve≤†i na Ÿocati na kå§k≤ati |


ŸubhåŸubhaparityågı bhaktimånya¢ sa me priya¢ || 12.17 ||

ya iti | yo na hÿ≤yatı≤†apråptau na dve≤†yani≤†apråptau na Ÿoca-


ti priyaviyoge na cåpråptaæ ka§k≤ati ŸubhåŸubhe karmå√ı paritya-
ktuæ Ÿılamasyeti Ÿ¥bh埥bhaparityågı bhaktimånya¢ sa me priya¢ ||

sama¢ Ÿatrau ca mitre ca tathå månåpamånayo¢ |


Ÿıto≤√asukhadu¢khe≤u sama¢ sa§gavivarjita¢ || 12.18 ||

sama iti | sama¢ Ÿatrau ca mitre ca tathå månåpamånayo¢ p¥-


jåparibhavayo¢ Ÿıto≤√asukhadu¢khe≤u sama¢ sarvatra ca sa§gava-
rjita¢ || kiæ ca –

tulyanindåstutirmaunı saætu≤†o yena kenacit |


aniketa¢ sthiramatirbhaktimånme priyo nara¢ || 12.19 ||

tulyeti | tulyanindåstutirnindå ca stutiŸca nindåstutı te tulye ya-


sya sa tulyanindåstuti¢ | maunı maunavåæsaæyatavåk | saætu≤†o
yena kenaciccharırasthitihetumåtre√a | tathå coktam – “yena kena-
cidåcchanno yena kenacidåŸita¢ | yatra kvacana Ÿåyı syåttaæ devå
bråhma√aæ vidu¢” (ma. bhå. Ÿå. 245.12) iti kiæ cåniketo niketa å-
Ÿrayo nivåso niyato na vidyate yasya so ’niketo “någåre” ityådismÿ-
tyantaråt | sthiramati¢ sthirå paramårthavi≤ayå matiryasya sa sthi-
ramati¢ | bhaktimånme priya¢ nara¢ || “adve≤†å sarvabh¥tånåm”
(bha. gı. 12.13) ityådinå ’k≤aropåsakånåæ nivÿttasarve≤å√åæ saæ-
nyåsinåæ paramårthajñånani≤†hånåæ dharmajåtaæ prakråntamu-
pasaæhriyate –
948 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 12.20

ye tu dharmyåmÿtamidaæ yathoktaæ paryupåsate |


Ÿraddadhånå matparamå bhaktåste ’tıva me priyå¢ || 12.20 ||

ye tviti | ye tu saænyåsino dharmyåmÿtaæ dharmådanapetaæ


dharmyaæ ca tadamÿtaæ ca tadamÿtatvahetutvådidaæ yathoktaæ
“adve≤†å sarvabh¥tånåm” (bha. gı. 12.13) ityådinå paryupåsate ’nu-
ti≤†hanti Ÿraddadhånå¢ santo matparamå yathokto ’hamak≤aråtmå
paramo niratiŸayå gatirye≤åæ te matparama¢ | madbhaktåŸcotta-
måæ paramårthajñånalak≤a√åæ bhaktimåŸritå¢ te ’tıva me priyå¢ |
“priyo hi jñånino ’tyartham” (bha. gı. 7.17) iti yats¥citaæ tadvyå-
khyåyehopasaæhÿtaæ “bhaktåste ’tıva me priy墔 iti | yasmåddha-
rmyåmÿtamidaæ yathoktamanuti≤†hanbhagavato vi≤√o¢ parameŸva-
rasyåtıva priyo bhavati | tasmådidaæ dharmyåmÿtaæ mumuk≤u√å
yatnato ’nu≤†heyaæ vi≤√o¢ priyaæ paraæ dhåma jigami≤u√eti vå-
kyårtha¢ ||

iti Ÿrımadbhagavadgıtås¥pani≤atsu brahmavidyåyåæ


yogaŸåstre Ÿrıkÿ≤√årjunasaævåde
bhaktiyogo nåma
dvådaŸo ’dhyåya¢

*
atha trayodaŸo ’dhyåya¢

saptame ’dhyåye s¥cite dve prakÿtı ıŸvarasya | trigu√åtmikå


’≤†adhå bhinnå ’parå saæsårahetutvåt | parå cånyå jıvabh¥tå k≤e-
trajñalak≤a√eŸvaråtmikå | yåbhyåæ prakÿtibhyåmıŸvaro jagadutpa-
ttisthitilayahetutvaæ pratipadyate | tatra k≤etrak≤etrajñalak≤a√a-
prakÿtidvayanir¥pa√advåre√a tadvata ıŸvarasya tattvanirdhåra√å-
rthaæ k≤etrådhyåya årabhyate | atıtånantarådhyåye ca “adve≤†å sa-
rvabh¥tånåm” (bha. gı. 12.13) ityådinå yåvadadhyåyaparisamåpti¢
tåvattattvajñåninåæ saænyåsinåæ ni≤†hå yathå te vartanta ityeta-
duktam | kena punaste tattvajñånena yuktå yathoktadharmåcara√å-
dbhagavata¢ priyå bhavantıtyevamarthaŸcåyamadhyåya årabhya-
te | prakÿtiŸca trigu√åtmikå sarvakåryakara√avi≤ayåkåre√a pari√a-
tå bhogåpavargårthakartavyatayå dehendriyådyåkåre√a saæhanya-
te | so ’yaæ saæghåta idaæ Ÿarıram | tadetadbhagavånuvåca –

Ÿrıbhagavånuvåca –

idaæ Ÿarıraæ kaunteya k≤etramityabhidhıyate |


etadyo vetti taæ pråhu¢ k≤etrajña iti tadvida¢ || 13.1 ||

idamiti | idamiti sarvanåmnoktaæ viŸina≤†i Ÿarıramiti | he kau-


nteya k≤atatrå√åtk≤ayåtk≤ara√åtk≤etravadvå ’sminkarmaphalani≤pa-
tte¢ k≤etramiti | itiŸabda evaæŸabdapadårthaka¢ | k≤etramityeva-
mabhidhıyate kathyate | etaccharıraæ k≤etraæ yo vetti vijånåtyå-
pådatalamastakaæ jñånena svåbhåvikenaupadeŸikena vå vedanena
vi≤ayıkaroti vibhågaŸa¢ taæ veditaraæ pråhu¢ kathayanti k≤etra-
jña iti | itiŸabda evaæŸabdapadårthaka eva p¥rvavat | k≤etrajña i-
tyevamåhu¢ | ke tadvida¢ tau k≤etrak≤etrajñau ye vidanti te tadvi-
da¢ || evaæ k≤etrak≤etrajñåvuktau | kimetåvanmåtre√a jñånena jñå-
tavyåviti | netyucyate –
950 bhagavadgıtå Ÿå√karabhå≤yopetå 13.2

k≤etrajñaæ cåpi måæ viddhi sarvak≤etre≤u bhårata |


k≤etrak≤etrajñayorjñånaæ yattajjñånaæ mataæ mama || 13.2 ||

k≤etrajñamiti | k≤etrajñaæ yathoktalak≤a√aæ cåpi måæ para-


meŸvaramasaæsåri√aæ viddhi jånıhi | sarvak≤etre≤u ya¢ k≤etrajño
brahmådistaæbaparyantånekak≤etropådhipravibhakta¢ | taæ nira-
stasarvopådhibhedaæ sadasadådiŸabdapratyayågocaraæ viddhıtya-
bhipråya¢ | he bhårata yasmåtk≤etrak≤etrajñeŸvarayåthåtmyavyati-
reke√a na jñånagocaramanyadavaŸi≤†amasti | tasmåtk≤etrak≤etra-
jñayorjñeyabh¥tayoryajjñånaæ yena jñånena vi≤ayıkriyete tajjñå-
naæ samyagjñånamiti matamabhipråyo mameŸvarasya vi≤√o¢ ||
nanu sarvak≤etre≤veka eveŸvaro nånyastadvyatirikto vidyate cet |
tata ıŸvarasya saæsåritvaæ pråptam | ıŸvaravyatireke√a vå saæsåri-
√o ’nyasyåbhåvåtsaæsåråbhåvaprasa§ga¢ | taccobhayamani≤†aæ ba-
ndhamok≤ataddhetuŸåstrånarthakyaprasa§gåt | pratyak≤ådipramå-
√avirodhåt | pratyak≤e√a tåvatsukhadu¢khataddhetulak≤a√a¢ saæ-
såra upalabhyate | jagadvaicitryopalabdheŸca dharmådharmanimi-
tta¢ saæsåro ’numıyate | sarvametadanupapannamåtmeŸvaraika-
tve || na jñånåjñånayoranyatvenopapatte¢ | “d¥ramete viparıte vi-
≤¥cı avidyå yå ca vidyeti jñåtå” (ka. 1.2.4) | tathå ca tayorvidyåvi-
dyåvi≤ayayo¢ phalabhedo ’pi viruddho nirdi≤†a¢ “ŸreyaŸca preya-
Ÿca” (ka. 1.2.2) iti | vidyåvi≤aya¢ Ÿreya¢ preyastvavidyåkåryamiti |
tathå ca vyåsa¢ “dvåvimåvatha panthånau” (ma. bhå. Ÿå. 240.6) i-
tyådi | “imau dvåveva panthånau” ityådi ca | iha ca dve ni≤†he u-
kte | avidyå ca saha kårye√a håtavyeti Ÿrutismÿtinyåyebhyo ’vaga-
myate | Ÿrutayaståvat – “iha cedavedıdatha satyamasti na cedihåve-
dınmahatı vina≤†i¢” (ke. 2.5) “tamevaæ vidvånamÿta iha bhavati
nånya¢ panthå vidyate ’yanåya” (Ÿve. 3.8) “vidvånna bibheti kuta-
Ÿcana” (tai. 2.9.1) | avidu≤astu – “atha tasya bhayaæ bhavati” (tai.
2.7.1) “avidyåyåmantare vartamånå¢ “(ka. 2.5) “brahma veda bra-
hmaiva bhavati” (mu. 3.2.9) “anyo ’såvanyo ’hamasmıti na sa veda
yathå paŸurevaæ sa devånåm” (bÿ. 1.4.10) | åtmavidya¢ “sa idaæ sa-
rvaæ bhavati” (bÿ. 1.4.10) “yadå carmavat” (Ÿve. 6.20) ityådyå¢ sa-
hasra¢ | smÿtayaŸca – “ajñånenåvÿtaæ jñånaæ tena muhyanti ja-
ntava¢” (bha. gı. 5.15) “ihaiva tairjita¢ sargo ye≤åæ såmye sthitaæ
mana¢” (bha. gı. 5.19) “samaæ paŸyanhi sarvatra” (bha. gı. 13.28) i-
13.2 trayoda©o ’dhyåya¢ 951

tyådyå¢ | nyåyataŸca – “sarpånkuŸågrå√i tathodapånaæ jñåtvå ma-


nu≤yå¢ parivarjayanti | ajñånatastatra patanti kecijjñånaæ phalaæ
paŸya yathåviŸi≤†am” (ma. bhå. 12.201.16) | tathå ca dehådi≤våtma-
buddhiravidvånrågadve≤ådiprayukto dharmådharmånu≤†hånakÿjjå-
yate mriyate cetyavagamyate | dehådivyatiriktåtmadarŸino råga-
dve≤ådiprahå√åpek≤adharmådharmapravÿttyupaŸamånmucyanta |
iti na kenacitpratyåkhyåtuæ Ÿakyaæ nyåyata¢ | tatraivaæ sati k≤e-
trajñasyeŸvarasyaiva sato ’vidyåkÿtopådhibhedata¢ saæsåritvamiva
bhavati | yathå dehådyåtmatvamåtmana¢ | sarvajant¥nåæ hi prasi-
ddho dehådi≤vanåtmasvåtmabhåvo niŸcito ’vidyåkÿta¢ | yathå sthå-
√au puru≤aniŸcaya¢ | na caitåvatå puru≤adharma¢ sthå√orbhavati
sthå√udharmo vå puru≤asya | tathå na caitanyadharmo dehasya de-
hadharmo vå cetanasya | sukhadu¢khamohåtmakatvådiråtmano na
yukto ’vidyåkÿtatvåviŸe≤åjjaråmÿtyuvat | nåtulyatvåditi cet | sthå-
√upuru≤au jñeyåveva santau jñåtrå ’nyonyasminnadhyaståvidya-
yå | dehåtmanostu jñeyajñåtrorevetaretarådhyåsa iti na samo dÿ-
≤†ånta¢ | ato dehadharmo jñeyo ’pi jñåturåtmano bhavatıti cet |
na | acaitanyådiprasaægåt | yadi hi jñeyasya dehåde¢ k≤etrasya
dharmå¢ sukhadu¢khamohecchådayo jñåturbhavanti tarhi jñeya-
sya k≤etrasya dharmå¢ kecanåtmanåtmano bhavantyavidyådhyåro-
pitå jaråmara√ådayastu na bhavantıti viŸe≤aheturvaktavya¢ | na
bhavantıtyastyanumånamavidyådhyåropitatvåjjarådivaditi heya-
tvådupådeyatvåccetyådi | tatraivaæ sati kartÿtvabhoktÿtvalak≤a-
√a¢ saæsåro jñeyastho jñåtaryavidyayå ’dhyaropita iti na tena jñå-
tu¢ kiæciddu≤yati | yathå bålairadhyåropitenåkåŸasya talamalava-
ttvådinå || evaæ ca sati sarvak≤etre≤vapi sato bhagavata¢ k≤etra-
jñasyeŸvarasya saæsåritvagandhamåtramapi nåŸa§kyam | na hi kva-
cidapi loke ’vidyådhyastena dharme√a kasyacidupakåro ’pakåro vå
dÿ≤†a¢ || yatt¥ktam – na samo dÿ≤†ånta iti | tadasat | katham | avi-
dyådhyåsamåtraæ hi dÿ≤†åntadår≤†åntikayo¢ sådharmyaæ vivak≤i-
tam | tanna vyabhicarati | yattu jñåtari vyabhicaratıti manyase ta-
syåpyanaikåntikatvaæ darŸitaæ jarådibhi¢ || avidyåvattvåtk≤etra-
jñasya saæsåritvamiti cenna | avidyåyåståmasatvåt | tåmaso hi pra-
tyaya åvara√åtmakatvådavidyå viparıtagråhaka¢ saæŸayopasthåpa-
ko vå ’graha√åtmako vå | vivekaprakåŸabhåve tadabhåvåt | tåmaso
cåvara√åtmako timirådido≤e satyagraha√åderevåvidyåtrayasyopa-
labdhe¢ || atråha – evaæ tarhi jñåtÿdharmo ’vidyå | na | kara√e ca-
952 bhagavadgıtå Ÿå√karabhå≤yopetå 13.2

k≤u≤i taimirikatvådido≤opalabdhe¢ | yattu manyase jñåtÿdharmo


’vidyå tadeva cåvidyådharmavattvaæ k≤etrajñasya saæsåritvam |
tatra yaduktaæ ıŸvara eva k≤etrajño na saæsårıtyetadayuktamiti |
tanna | yathå kara√e cak≤u≤i viparıtagråhakådido≤asya darŸanåt |
na viparıtådigraha√aæ tannimitto vå taimirikatvådido≤o grahıtu¢ |
cak≤u≤a¢ saæskåre√a timire ’panıte | grahıturadarŸanånna grahıtu-
rdharmo yathå tathå sarvatraivågraha√aviparıtasaæŸayapratyayå-
stannimittå¢ kara√asyaiva kasyacidbhavitumarhati | na jñåtu¢ k≤e-
trajñasya | saævedyatvåcca te≤åæ pradıpaprakåŸavanna jñåtÿdha-
rmatvam | saævedyatvådeva svåtmavyatiriktasaævedyatvam | sa-
rvakara√aviyoge ca kaivalye sarvavådibhiravidyådido≤avattvåna-
bhyupagamåt | åtmano yadi k≤etrajñasyågnyu≤√avatsvo dharma-
stato na kadåcidapi tena viyoga¢ syåt | avikriyasya ca vyomavatsa-
rvagatasyåm¥rtasyåtmana¢ kenacitsaæyogaviyogånupapatte¢ | si-
ddhaæ k≤etrajñasya nityamevåk≤aratvam | “anåditvånnirgu√atvåt”
(bha. gı. 13.31) ityådıŸvaravacanåcca || nanvevaæ sati saæsårasaæ-
såritvåbhåve Ÿåstrånarthakyådido≤a¢ syåditi cet | na | sarvairabhyu-
pagatatvåt | sarvairhyåtmavådibhirabhyupagato do≤o naikena pari-
hartavyo bhavati | kathamabhyupagata iti | muktåtmanåæ hi saæ-
sårasaæsåritvavyavahåråbhåva¢ sarvairevåtmavådibhiri≤yate | na
ca te≤åæ Ÿåstrånarthakyådido≤apråptirabhyupagatå | tathå na¢ k≤e-
trajñånåmıŸvaraikatve sati Ÿåstrånarthakyaæ bhavatu | avidyåvi-
≤aye cårthavattvam | yathå dvaitinåæ sarve≤åæ bandhåvasthåyå-
meva Ÿåstrådyarthavattvaæ na muktåvasthåyåmevam || nanvå-
tmano bandhamuktåvasthe paramårthata eva vastubh¥te dvaiti-
nåæ sarve≤åm | ato heyopådeyatatsådhanasadbhåve Ÿåstrådyartha-
vattvaæ syåt | advaitinåæ puna¢ dvaitasyåparamårthatvådvidyåkÿ-
tatvådbandhåvasthåyåŸcåtmano ’paramårthatve nirvi≤ayatvåcchå-
strådyånarthakyamiti cennå ’’tmano ’vasthåbhedånupapatte¢ | ya-
di tåvadåtmano bandhamuktåvasthe yugapatsyåtåæ krame√a vå |
yugapattåvadvirodhånna saæbhavata¢ sthitigatı ivaikasmin | kra-
mabhåvitve ca nirnimittatve ’nirmok≤aprasa§ga¢ | anyanimittatve
ca svato ’bhåvådaparamårthatvaprasa§ga¢ | tathå ca satyupagama-
håni¢ | kiæ ca bandhamuktåvasthayo¢ paurvåparyanir¥pa√åyåæ
bandhåvasthå p¥rvaæ prakalpyå anådimatyantavatı ca | tacca pra-
må√aviruddham | tathå mok≤åvasthå ådimatyanantå ca pramå√avi-
ruddhaivåbhyupagamyate | na cåvasthåvato ’vasthåntaraæ gaccha-
13.2 trayoda©o ’dhyåya¢ 953

to nityatvamupapådayituæ Ÿakyam | athånityatvado≤aparihåråya


bandhamuktåvasthåbhedo na kalpyate | ato dvaitinåmapi Ÿåstråna-
rthakyådido≤o ’parihårya eva | iti samånatvånnådvaitavådinå pari-
hartavyo do≤a¢ || na ca Ÿåstrånarthakyaæ yathåprasiddhåvidvatpu-
ru≤avi≤ayatvåcchåstrasya | avidu≤åæ hi phalahetvoranåtmanoråtma-
darŸanaæ na vidu≤åm | vidu≤åæ hi phalahetubhyåmåtmano ’nya-
tvadarŸane sati tayorahamityåtmadarŸanånupapatte¢ | na hyatya-
ntam¥ƒha unmattådirapi jalågnyoŸchåyåprakåŸayorvaikåtmyaæ pa-
Ÿyati | kimuta vivekı | tasmånna vidhiprati≤edhaŸåstraæ tåvatpha-
lahetubhyåmåtmano ’nyatvadarŸino bhavati | na hi devadatta tva-
midaæ kurviti kasmiæŸcitkarma√i niyukte | vi≤√umitro ’haæ niyu-
kta iti tatrastho niyogaæ Ÿÿ√vannapi pratipadyate | viyogavi≤aya-
vivekågraha√ått¥papadyate pratipatti¢ tathå phalahetvorapi || na-
nu pråkÿtasaæbandhåpek≤ayå yuktaiva pratipatti¢ Ÿåstrårthavi≤a-
yå phalahetubhyåmanyåtmavi≤ayadarŸane ’pi satı≤†aphalahetau pra-
vartito ’smi | ani≤†aphalahetoŸca nivartito ’smıti | syathå pitÿputrå-
dınåmitaretaråtmånyatvadarŸane satyapyanyonyaniyogaprati≤edhå-
rthapratipatti¢ | na | vyatiriktåtmadarŸanapratipatte¢ prågeva pha-
lahetvoråtmåbhimånasya siddhatvåt | pratipannaniyogaprati≤edhå-
rtho hi phalahetubhyåmåtmano ’nyatvaæ pratipadyate na p¥rvam |
tasmådvidhiprati≤edhaŸåstramavidvadvi≤ayamiti siddham || nanu
svargakåmo yajeta kalañjaæ na bhak≤ayedityådåvåtmavyatireka-
darŸinåmapravÿttau | kevaladehådyåtmadÿ≤†ınåæ ca | ata¢ kartura-
bhåvåcchåstrånarthakyamiti cenna yathåprasiddhita eva pravÿttini-
vÿttyupapatte¢ | ıŸvarak≤etrajñaikatvadarŸı brahmavittåvanna prava-
rtate | tathå nairåtmyavådyapi nåsti paraloka iti na pravartate | ya-
thåprasiddhitastu vidhiprati≤edhaŸåstraŸrava√ånyathånupapattyå ’nu-
mitåtmåstitva åtmaviŸe≤ånåbhijña¢ karmaphalasaæjåtatÿ≤√a¢ Ÿra-
ddadhånatayå ca pravartata iti sarve≤åæ na¢ pratyak≤am | ato na
Ÿåstrånarthakyam || vivekinåmapravÿttidarŸanåttadanugåminåma-
pravÿttau Ÿåstrånarthakyamiti cenna kasyacideva vivekopapatte¢ |
aneke≤u hi prå√i≤u kaŸcideva vivekı syådyathedånım | na ca viveki-
namanuvartante m¥ƒhå rågådido≤atantratvåtpravÿtte¢ | abhicara-
√ådau ca pravÿttidarŸanåt | svåbhåvyåcca pravÿtte¢ “svabhåvastu
pravartate” (bha. gı. 5.14) iti hyuktam || tasmådavidyåmåtraæ saæ-
såro yathådÿ≤†avi≤aya eva | na k≤etrajñasya kevalasyåvidyå tatkå-
ryaæ ca | na ca mithyåjñånaæ paramårthavastu d¥≤ayituæ sama-
954 bhagavadgıtå Ÿå√karabhå≤yopetå 13.2

rtham | na hy¥≤aradeŸaæ snehena paækıkartuæ Ÿaknoti marıcyu-


dakam | tathå ’vidyå k≤etrajñasya na kiæcitkartuæ Ÿaknoti | ataŸce-
damuktam – “k≤etrajñaæ cåpi måæ viddhi” (bha. gı. 13.2) “ajñåne-
nåvÿtaæ jñånam” (bha. gı. 5.15) iti ca || atha kimidaæ saæsåri√ami-
våhamevaæ mamaivedamiti pa√ƒitånåmapi | Ÿÿ√u | idaæ tatpå√ƒi-
tyaæ yatk≤etre evåtmadarŸanam | yadi puna¢ k≤etrajñamavikri-
yaæ paŸyeyu¢ tato na bhogaæ karma vå ’’kå§k≤eyurmama syåditi |
vikriyaiva bhogakarma√ı | athaivaæ sati phalårthitvådavidvånpra-
vartate | vidu≤a¢ punaravikriyåtmadarŸina¢ phalårthitvåbhåvåtpra-
vÿttyanupapattau kåryakara√asaæghåtavyåpåroparame nivÿttiru-
pacaryate || idaæ cånyatpå√ƒityaæ ke≤åæcidastu k≤etrajña ıŸvara
eva | k≤etraæ cånyatk≤etrajñasyaiva vi≤aya¢ | ahaæ tu saæsårı su-
khı du¢khı ca | saæsåroparamaŸca mama kartavya¢ k≤etrak≤etra-
jñavijñånena dhyånena ceŸvaraæ k≤etrajñaæ såk≤åtkÿtvå tatsva-
r¥påvasthåneneti | yaŸcaivaæ budhyate yaŸca bodhayati nåsau k≤e-
trajña iti | evaæ manvåno ya¢ sa pa√ƒitåpasada¢ | saæsåramok≤a-
yo¢ Ÿåstrasya cårthavattvaæ karomıti | åtmahå svayaæ m¥ƒho
’nyåæŸca vyåmohayati Ÿåstrårthasaæpradåyarahitatvåcchrutahåni-
maŸrutakalpanåæ ca kurvan | tasmådasaæpradåyavitsarvåŸåstravi-
dapi m¥rkhavadivopek≤a√ıya¢ || yatt¥ktam – ıŸvarasya k≤etrajñai-
katve saæsåritvaæ pråpnoti k≤etrajñånåæ ceŸvaraikatvesaæsåri√o
’bhåvåtsaæsåråbhåvaprasa§ga iti | etau do≤au pratyuktau – vidyå-
vidyayorvailak≤a√yåbhyupagamåditi | katham | avidyåparikalpita-
do≤e√a tadvi≤ayaæ vastu påramårthikaæ na du≤yatıti | tathå ca dÿ-
≤†ånto darŸito – marıcyaæbhaså ¥≤aradeŸo na paækıkriyata iti | saæ-
såri√o ’bhåvåtsaæsåråbhåvaprasa§gado≤o ’pi saæsårasaæsåri√ora-
vidyåkalpitatvopapattyå pratyukta¢ || nanvavidyåvattvameva k≤e-
trajñasya saæsåritvado≤a¢ | tatkÿtaæ ca du¢khitvådi pratyak≤amu-
palabhyata iti cet | na | jñeyasya k≤etradharmatvåt | jñåtu¢ k≤etra-
jñasya tatkÿtado≤ånupapatte¢ | yåvatkiæcitk≤etrajñasya do≤ajåtama-
vidyamånamåsaæjayasi tasya jñeyatvopapatte¢ k≤etradharmatva-
meva na k≤etrajñadharmatvam | na ca tena k≤etrajño du≤yati jñe-
yena jñåtu¢ saæsargånupapatte¢ | yadi hi saæsarga¢ syåjjñeyatva-
meva nopapadyeta | yadyåtmano dharmo ’vidyåvattvaæ du¢khita-
tvådi ca kathaæ bho¢ pratyak≤amupalabhyate | kathaæ vå k≤etra-
jñadharma¢ | jñeyaæ ca sarvaæ k≤etraæ jñåtaiva k≤etrajña ityava-
dhårite “avidyådu¢khitatvåde¢ k≤etrajñaviŸe≤a√atvaæ k≤etrajña-
13.2 trayoda©o ’dhyåya¢ 955

dharmatvaæ tasya ca pratyak≤opalabhyatvam” iti viruddhamucya-


te ’vidyåmåtråva≤†aæbhåtkevalam || atråha så ’vidyå kasyeti | ya-
sya dÿŸyate tasyaiva | kasya dÿŸyata iti | atrocyate – avidyå kasya
dÿŸyata iti praŸno nirarthaka¢ | katham | dÿŸyate cedavidyå tadva-
ntamapi paŸyasi | na ca tadvatyupalabhyamåne så kasyeti praŸno
yukta¢ | na hi gomatyupalabhyamåne gåva¢ kasyeti praŸno ’rtha-
vånbhavet | nanu vi≤amo dÿ≤†ånta¢ | gavåæ tadvataŸca pratyak≤a-
tvåtsaæbandho ’pi pratyak≤a iti praŸno nirarthaka¢ | na tathå ’vi-
dyå tadvåæŸca pratyak≤au yata¢ praŸno nirarthaka¢ syåt | apratya-
k≤e√åvidyåvatå ’vidyåsaæbandhe jñåte | kiæ tava syåt | avidyåyå a-
narthahetutvåtparihartavyå syåt | yasyåvidyå sa tåæ parihari≤yati |
nanu mamaivåvidyå | jånåsi tarhyavidyåæ tadvantaæ cåtmånam |
jånåmi na tu pratyak≤e√a | anumånena cejjånåsi kathaæ saæbandha-
graha√am | na hi tava jñåturjñeyabh¥tayå ’vidyayå tatkåle saæba-
ndho grahıtuæ Ÿåkyate ’vidyåyåvi≤ayatveniva jñåturupayuktatvåt |
na ca jñåturavidyåyåŸca saæbandhasya yo grahıtå jñånaæ cånya-
ttadvi≤ayaæ saæbhavatyanavasthåpråpte¢ | yadi jñåtråpi jñeyasaæ-
bandho jñåyate ’nyo jñåtå kalpya¢ syåttasyåpyanya¢ tasyåpyanya
ityanavasthå ’parihåryå | yadi punaravidyå jñeyå ’nyadvå jñeyaæ
jñeyameva | tathå jñåtå ’pi jñataiva | na jñeyaæ bhavati | yadå cai-
vamavidyådu¢khitvådyairna jñåtu¢k≤etrajñasya kiæciddu≤yati ||
nanvayameva do≤o yaddo≤avatk≤etravijñåtÿtvam | na ca vijñånasva-
r¥pasyaivåvikriyasya vijñåtÿtvopacåråt | yatho≤√atåmåtre√ågne¢ ta-
ptikriyopacårastadvat | yathåtra bhagavatå kriyåkårakaphalåtma-
tvåbhåva åtmani svata eva darŸito ’vidyådhyåropita eva kriyåkåra-
kådyåtmanyupacaryate | tathå tatra tatra “ya enaæ vetti hantåram”
(bha. gı. 2.19) “prakÿte¢ kriyamå√åni gu√ai¢ karmå√i sarvaŸa¢”
(bha. gı. 3.27) “nådatte kasyacitpåpam” (bha. gı. 5.15) ityådiprakara-
√e≤u darŸita¢ | tathaiva ca vyåkhyåtamasmabhi¢ | uttare≤u ca pra-
kara√e≤u darŸayi≤yåma¢ || hanta tarhyåtmani kriyåkårakaphalå-
tmatåyå¢ svato ’bhåve ’vidyayå cådhyåropitatve karmå√yavidva-
tkartavyånyeva na vidu≤åmiti pråptam | satyamevaæ pråptam | e-
tadeva ca “na hi dehabhÿtå Ÿakyam” (bha. gı. 18.11) ityatra darŸayi-
≤yåma¢ | sarvaŸåstrårthopasaæhåraprakara√e ca “samåsenaiva kau-
nteya ni≤†hå jñånasya yåparå” (bha. gı. 18.50) ityatra viŸe≤ato darŸa-
yi≤yåma¢ | alamiha bahuprapañcenetyupasaæhriyate || “idaæ Ÿarı-
ram” ityådiŸlokopadi≤†asya k≤etrådhyåyårthasya saægrahaŸloko ’ya-
956 bhagavadgıtå Ÿå√karabhå≤yopetå 13.2

mupanyasyate “tatk≤etraæ yacca” ityådi vyåcikhyåsitasya hyartha-


sya saægrahopanyaso nyåyya iti –

tatk≤etraæ yacca yådÿkca yadvikåri yataŸca yat |


sa ca yo yatprabhåvaŸca tatsamåsena me Ÿÿ√u || 13.3 ||
taditi | yannirdi≤†amidaæ Ÿarıramiti tacchabdena paråmÿŸati |
yaccedaæ nirdi≤†aæ k≤etraæ tadyådÿgyådÿŸaæ svakıyairdharmai¢ |
caŸabda¢ samuccayårtha¢ | yadvikåri yo vikåro yasya tadyadvikåri
yato yasmåcca yatkåryamutpadyata iti våkyaŸe≤a¢ | sa ca ya¢ k≤e-
trajño nirdi≤†a¢ sa yatprabhåvo ye prabhåvå upådhikÿtå¢ Ÿaktayo
yasya sa yatprabhåvaŸca | tatk≤etrak≤etrajñayoryåthåtmyaæ yathå-
viŸe≤itaæ samåsena saæk≤epe√a me mama våkyata¢ Ÿÿ√u Ÿrutvå ’va-
dhårayetyartha¢ || tatk≤etrak≤etrajñayåthåtmyaæ vivak≤itaæ stau-
ti Ÿrotÿbuddhiprarocanårtham –

ÿ≤ibhirbahudhå gıtaæ chandobhirvividhai¢ pÿthak |


brahmas¥trapadaiŸcaiva hetumadbhirviniŸcitai¢ || 13.4 ||
ÿ≤bhiriti | ÿ≤ibhirvasi≤†hådibhirbahudhå bahuprakåraæ gıtaæ ka-
thitam | chandobhiŸchandåæsyrgådıni taiŸchandobhirvividhairnå-
nåprakårai¢ pÿthagvivekato gıtam | kiæ ca brahmas¥trapadaiŸca bra-
hma√a¢ s¥cakåni våkyåni brahmas¥trå√i tai¢ padyate gamyate jñå-
yate brahmeti tåni padånyucyante | taireva ca k≤etrak≤etrajñayoryå-
thåtmyaæ gıtamityanuvartate | “åtmetyevopåsıta” ityådibhirbra-
hmas¥trapadairåtmå jñåyate | hetumadbhiryuktiyuktairviniŸcitai-
rni¢saæŸayar¥pairniŸcitapratyayotpådakairityartha¢ || stutyå ’bhi-
mukhıbh¥tåyårjunåyå ’’ha bhagavån –

mahåbh¥tånyahaækåro buddhiravyaktameva ca |
indriyå√i daŸaikaæ ca pañca cendriyagocarå¢ || 13.5 ||
mahåbh¥tånıti | mahåbh¥tåni mahånti ca tåni sarvavikåravyå-
pakatvådbh¥tåni ca s¥k≤må√i | sth¥låni tvindriyagocaraŸabdenåbhi-
dhåyi≤yante | ahaækåro mahåbh¥takåra√amahaæpratyayalak≤a-
√a¢ | ahaækårakåra√aæ buddhiradhyavasåyalak≤a√å | tatkåra√ama-
vyaktameva ca na vyaktamavyaktamavyåkÿtamıŸvaraŸakti¢ “mama
måyå duratyayå” (bha. gı. 7.14) ityuktam | evaŸabda¢ prakÿtyava-
13.7 trayoda©o ’dhyåya¢ 957

dhåra√årtha¢ | etåvatyevå≤†adhå bhinnå prakÿti¢ | caŸabdo bheda-


samuccayårtha¢ | indriyå√i daŸa Ÿrotrådıni pañca buddhyutpådaka-
tvådbuddhındriyå√i våkpå√yådıni pañca karmanirvartakatvåtkarme-
ndriyå√i tåni daŸa | ekaæ ca | kiæ tat | mana ekådaŸaæ saækalpå-
dyåtmakam | pañca cendriyagocarå¢ Ÿabdådayo vi≤ayå¢ | tånyetå-
ni såækhyåŸcaturviæŸatitattvånyåcak≤ate || athedånımåtmagu√å
iti yånåcak≤ate vaiŸe≤ikåste ’pi k≤etradharmå eva na tu k≤etrajña-
syetyåha bhagavån –

icchå dve≤a sukhaæ du¢khaæ saæghåtaŸcetanå dhÿti¢ |


etatk≤etraæ samåsena savikåramudåhÿtam || 13.6 ||

iccheti | icchå yajjåtıyaæ sukhahetumarthamupalabdhavånp¥-


rvaæ punastajjåtıyamupalabhamånastamådåtumicchati sukhahetu-
riti | seyamicchå ’nta¢kara√adharmo jñeyatvåtk≤etram | tathå dve-
≤o yajjåtıyamarthaæ du¢khahetutvenånubh¥tavånpunastajjåtıya-
marthamupalabhamånastaæ dve≤†i | so ’yaæ dve≤o jñeyatvåtk≤e-
trameva | tathå sukhamanuk¥laæ prasannasattvåtmakaæ jñeyatvå-
tk≤etrameva | du¢khaæ pratik¥låtmakaæ jñeyatvåttadapi k≤etram |
saæghåto dehendriyå√åæ saæhati¢ | tasyåmabhivyaktå ’nta¢kara-
√avÿtti¢ tapta iva lohapi√ƒe ’gniråtmacaitanyåbhåsarasaviddhå ce-
tanå så ca k≤etraæ jñeyatvåt | dhÿtiryayå ’vasådapråptåni dehe-
ndriyå√i dhriyante så ca jñeyatvåtk≤etram | sarvånta¢kara√adha-
rmopalak≤a√årthamicchådigraha√am | yata uktamupasaæharati –
etatk≤etraæ samåsena savikåraæ saha vikåre√a mahadådinodåhÿta-
muktam || yasya k≤etrabhedajåtasya saæhati¢ “idaæ Ÿarıraæ k≤e-
tram” ityuktaæ tatk≤etraæ vyåkhyåtaæ mahåbh¥tådibhedabhinnaæ
dhÿtyantam | k≤etrajño vak≤yamå√aviŸe≤a√o yasya saprabhåvasya
k≤etrajñasya parijñånådamÿtatvaæ bhavati taæ “jñeyaæ yattatpra-
vak≤yåmi” (bha. gı. 13.12) ityådinå saviŸe≤a√aæ svayameva vak≤ya-
ti bhagavån | adhunå tu tajjñånasådhanaga√amamånitvådilak≤a√aæ
yasminsati tajjñeyavijñåne yogyo ’dhikÿto bhavati | yatpara¢ saæ-
nyåsı jñånani≤†ha ucyate | tamamånitvådiga√aæ jñånasådhanatvå-
jjñånaŸabdavåcyaæ vidadhåti bhagavån –

amånitvamadaæbhitvamahiæså k≤åntirarjavam |
åcåryopåsanaæ Ÿaucaæ sthairyamåtmavinigraha¢ || 13.7 ||
958 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 13.7

amånitvamiti | amånitvaæ månino bhåvo månitvamåtmana¢


Ÿlåghanam || tadabhåvo ’månitvam | adaæbhitvaæ svadharmapra-
ka†ıkara√aæ daæbhitvam | tadabhåvo ’daæbhitvam | ahiæså ’hiæ-
sanaæ prå√inåmapıƒanam | k≤ånti¢ paråparådhapråptåvavikriyå |
årjavamÿjubhåvo ’vakratvam | åcåryopåsanaæ mok≤asådhanopade-
≤†uråcåryasya ŸuŸr¥≤ådiprayoge√a sevanam | Ÿaucaæ kåyamalå-
nåæ mÿjjalåbhyåæ prak≤ålanam | ataŸca manasa¢ pratipak≤abhåva-
nayå rågådimalånåmapanayanaæ Ÿaucam | sthairyaæ sthirabhåvo
mok≤amårga eva kÿtådhyavasåyatvam | åtmavinigraha åtmano ’pa-
kårakasyå ’’tmaŸabdavåcyasya kåryakara√asaæghåtasya vinigra-
ha¢ svabhåvena sarvata¢ pravÿttasya sanmårga eva nirodha åtma-
vinigraha¢ || kiæ ca –
indriyårthe≤u vairågyamanahaækåra eva ca |
janmamÿtyujaråvyådhidu¢khado≤ånudarŸanam || 13.8 ||
indriyårthe≤viti | indriyårthe≤u Ÿabdådi≤u dÿ≤†ådÿ≤†e≤u bhoge≤u
virågabhåvo vairågyamanahaækåro ’haækåråbhåva eva ca | janma-
mÿtyujaråvyådhidu¢khado≤ånudarŸanaæ janma ca mÿtyuŸca jarå ca
vyådhayaŸca du¢khåni ca te≤u janmådidu¢khånte≤u pratyekaæ do-
≤ånudarŸanam | janmani garbhåvåsayonidvårani¢sara√aæ do≤a¢ ta-
syånudarŸanamålocanam | tathå mÿtyau do≤ånudarŸanam | tathå ja-
råyåæ prajñåŸaktitejonirodhado≤ånudarŸanaæ paribh¥tatå ceti | ta-
thå vyådhi≤u Ÿirorogådi≤u do≤ånudarŸanam | tathå du¢khe≤vadhyå-
tmådhibh¥tådhidaivanimitte≤u | athavå du¢khånyeva do≤o du¢kha-
do≤astasya janmådi≤u p¥rvavadanudarŸanaæ du¢khaæ janma du¢-
khaæ mÿtyurdu¢khaæ jarå du¢khaæ vyådhaya¢ | du¢khanimitta-
tvåjjanmådayo du¢kham | na puna¢ svar¥pe√aiva du¢khamiti | e-
vaæ janmådi≤u du¢khado≤ånudarŸanåddehendriyavi≤ayabhoge≤u vai-
rågyamupajåyate | tata¢ pratyagåtmani pravÿtti¢ kara√ånåtmada-
rŸanåya | evaæ jñånahetutvåjjñånamucyate janmådidu¢khado≤ånu-
darŸanam || kiæ ca –
asaktiranabhi≤va§ga¢ putradåragÿhådi≤u |
nityaæ ca samacittatvami≤†åni≤†opapatti≤u || 13.9 ||

asaktiriti | asakti¢ sakti¢ sa§ganimitte≤u vi≤aye≤u prıtimåtraæ


tadabhåvo ’sakti¢ | anabhi≤va§go ’bhi≤va§gåbhåva¢ | abhi≤va§go
13.11 trayoda©o ’dhyåya¢ 959

nåma åsaktiviŸe≤a evånanyåtmabhåvanålak≤a√a¢ yathå ’nyasminsu-


khini du¢khini vå “ahameva sukhı du¢khı ca” jıvati mÿte vå “aha-
meva jıvåmi mari≤yåmi ca” iti | kvetyåha – putradåragÿhådi≤u | pu-
tre≤u dåre≤u gÿhe≤vådigraha√ådanye≤vapyatytante≤†e≤u dåsavargå-
di≤u | taccobhayaæ jñånårthatvåjjñånamucyate | nityaæ ca samaci-
ttatvaæ tulyacittatå | kva | i≤†åni≤†opapatti≤vi≤†ånåmani≤†ånåæ co-
papattaya¢ saæpråptaya¢ tåsvi≤†åni≤†opapatti≤u nityameva tulyaci-
ttatå | i≤†opapatti≤u na hÿ≤yati na kalpyati cåni≤†opapatti≤u | taccai-
tannityaæ samacittatvaæ jñånam || kiæ ca –

mayi cånanyayogena bhaktiravyabhicåri√ı |


viviktadeŸasevitvamaratirjanasaæsadi || 13.10 ||

mayıti | mayi ceŸvare ’nanyayogenåpÿthaksamådhinå nånyo bha-


gavato våsudevåtparo ’styata¢ sa eva no gatirityevaæ niŸcitå ’vya-
bhicåri√ı buddhirananyayoga¢ tena bhajanaæ bhaktirna vyabhica-
ra√aŸılå ’vyabhicåri√ı | så ca jñånam | viviktadeŸasevitvaæ vivikta¢
svabhåvata¢ saæskåre√a vå ’Ÿucyådibhi¢ sarpavyåghrådibhiŸca ra-
hito ’ra√yanadıpulinadevagÿhådibhirvivikto deŸa¢ taæ sevituæ Ÿı-
lamasyeti viviktadeŸasevı tadbhåvo viviktadeŸasevitvam | vivikte≤u
hi deŸe≤u cittaæ prasıdati yatastata åtmådibhåvanå vivikta upajåya-
te || ato viviktadeŸasevitvaæ jñånamucyate | aratirarama√aæ jana-
saæsadi janånåæ pråkÿtånåæ saæskåraŸ¥nyånåmavinıtånåæ saæ-
satsamavåyo janasaæsat | na saæskåravatåæ vinıtånåæ saæsat | ta-
syå jñånopakåratvåt | ata¢ pråkÿtajanasaæsadyaratirjñånårthatvå-
jjñånam || kiæ ca –

adhyåtmajñånanityatvaæ tattvajñånårthadarŸanam |
etajjñånamiti proktamajñånaæ yadato ’nyathå || 13.11 ||

adhyåtmeti | adhyatmajñånanityatvamåtmådivi≤ayaæ jñånama-


dhyåtmajñanaæ tasminnityabhåvo nityatvam | amånitvådınåæ jñå-
nasådhanånåæ bhåvanåparipåkanimittaæ tattvajñånaæ tasyårtho
mok≤a¢ saæsåroparama¢ tasyålocanaæ tattvajñånårthadarŸanam |
tattvajñånaphalålocane hi tatsådhanånu≤†håne pravÿtti¢ syåditi | e-
tadamånitvåditattvajñånårthadarŸanamantamuktaæ jñånamiti pro-
ktaæ jñånårthatvåt | ajñånaæ yadato ’smådyathoktådanyathå vipa-
960 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 13.11

ryaye√a | månitvaæ daæbitvaæ hiæså ’k≤åntiranårjavamityådya-


jñånaæ vijñeyaæ parihara√åya saæsårapravÿttikåra√atvåditi || ya-
thoktena jñånena jñåtavyaæ kimityåkå§k≤åyåmåha “jñeyaæ ya-
ttat” ityådi | nanu yamå niyamåŸcåmånitvådaya¢ | na tairjñeyaæ jñå-
yate | na hyamånitvådi kasyacidvastuna¢ paricchedakaæ dÿ≤†am |
sarvatraiva ca yadvi≤ayaæ jñånaæ tadeva tasya jñeyasya paricche-
dakaæ dÿŸyate | na hyanyavi≤aye√a jñånenånyadupalabhyate | ya-
thå gha†avi≤aye√a jñånenågni¢ | nai≤a do≤o | jñånanimittatvåjjñå-
namucyata iti hyavocåma | jñånasahakårikåra√atvåcca –

jñeyaæ yattatpravak≤yåmi yajjñåtvå ’mÿtamaŸnute |


anådimatparaæ brahma na sattannåsaducyate || 13.12 ||

jñeyamiti | jñeyaæ jñåtavyaæ yattatpravak≤yåmi prakar≤e√a


yathåvadvak≤yåmi | kiæ phalaæ taditi prarocanena Ÿroturabhimu-
khıkara√åyåha yajjñeyaæ jñåtvå ’mÿtamamÿtatvamaŸnute na puna-
rmriyata ityartha¢ | anådimadådirasyåstıtyådimannå ’’dimadanådi-
mat | kiæ tatparaæ niratiŸayaæ brahma jñeyamiti prakÿtam || atra
kecit “anådi matparam” iti padaæ chindanti | bahuvrıhi√okte ’rthe
madupa ånarthakyamani≤†aæ syåditi | arthaviŸe≤aæ ca darŸayanti –
ahaæ våsudevåkhyå parå Ÿakti¢ yasya tanmatparamiti | satyameva-
mapunaruktaæ syådarthaŸcetsaæbhavati | na tvartha¢ saæbhava-
ti | brahma√a¢ sarvaviŸe≤aprati≤edhenaiva vijijñåpayi≤itatvåt | na sa-
ttannåsaducyata iti | viŸi≤†aŸaktimattvapradarŸanaæ viŸe≤aprati≤e-
dhaŸceti viprati≤iddham | tasmånmatupo bahuvrıhi√å samånårtha-
tve ’pi prayoga¢ Ÿlokap¥ra√årtha¢ || amÿtatvaphalaæ jñeyaæ ma-
yocyata iti prarocanenåbhimukhıkÿtyåha – na sattajjñeyamucyata
iti nåpyasattaducyate || nanu mahatå parikarabandhena ka√†hara-
ve√oddhu≤ya “jñeyaæ pravak≤yåmi” iti | ananur¥pamuktam “na
sattannåsaducyate” iti | na | anur¥pamevoktam | katham | sarvåsu
hyupani≤atsu jñeyaæ brahma “neti neti” “asth¥lamana√u” ityådivi-
Ÿe≤aprati≤edhenaiva nirdiŸyate na “idaæ tat” iti våco ’gocaratvåt ||
nanu na tadasti yadvastvastiŸabdena nocyate | athåstiŸabdena no-
cyate | nåsti tajjñeyam | viprati≤iddhaæ ca “jñeyaæ tat” “astiŸabde-
na nocyate” iti ca | na tåvannåsti nåstibuddhyavi≤ayatvåt || nanu
sarvå buddhayo ’stinåstibuddhyanugatå eva | tatraivaæ sati jñeya-
mapyastibuddhyanugatapratyayavi≤ayaæ vå syåt | nåstibuddhyanu-
13.13 trayoda©o ’dhyåya¢ 961

gatapratyayavi≤ayaæ vå syåt | na | atındriyatvenobhayabuddhyanu-


gatapratyayåvi≤ayatvåt | yaddhındriyagamyaæ vastu gha†ådikaæ ta-
dastibuddhyanugatapratyayavi≤ayaæ vå syåt | nåstibuddhyanuga-
tapratyayavi≤ayaæ vå syåt | idaæ tu jñeyamatındriyatvena Ÿabdaika-
pramå√agamyatvånna gha†ådivadubhayabuddhyanugatapratyaya-
vi≤ayamityato “na sattannåsat” ityucyate || yatt¥ktam – viruddha-
mucyate “jñeyaæ tat” “na sattannåsaducyate” iti na viruddham | “a-
nyadeva tadviditådatho ’viditådadhi” (ke. 1.3) iti Ÿrute¢ | Ÿrutirapi
viruddhårtheti cet | yathå yajñåya Ÿålåmårabhya “yadyasmu≤miæ-
lloke ’sti vå na veti” ityevamiti cet | na | viditåviditåbhyåmanyatva-
ŸruteravaŸyavijñeyårthapratipådanaparatvåt “yadyamu≤min” ityådi
tu vidhiŸe≤o ’rthavåda¢ | upapatteŸca sadasadådiŸabdairbrahma no-
cyata iti sarvo hi Ÿabdo ’rthaprakåŸanåya prayukta¢ | Ÿr¥yamå√aŸca
Ÿrotÿbhi¢ | jåtikriyågu√asaæbandhadvåre√a saæketagraha√asavya-
pek≤o ’rthaæ pratyåyayati | nånyathå ’dÿ≤†atvåt | tadyathå gaura-
Ÿva iti vå jåtita¢ pacati pa†hatıti vå kriyåta¢ Ÿukla¢ kÿ≤√a iti vå gu-
√ata¢ | dhanı gomåniti vå saæbandhata¢ | na tu brahma jåtimadato
na sadådiŸabdavåcyam | nåpi gu√avadyena gu√aŸabdenocyeta ni-
rgu√atvåt | nåpi kriyåŸabdavåcyaæ ni≤kriyatvåt “ni≤kalaæ ni≤kri-
yaæ Ÿåntam” (Ÿve. 6.19) iti Ÿrute¢ | na ca saæbandhı ekatvåt | adva-
yatvådavi≤ayatvådåtmatvåcca na kenacicchabdenocyata iti yuktaæ
“yato våco nivartante” (tai. 2.9) ityådiŸrutibhyaŸca || sacchabdapra-
tyayåvi≤ayatvådasattvåŸaækåyåæ jñeyasya sarvaprå√ikara√opådhi-
dvåre√a tadastitvaæ pratipådayaæstadåŸaækånivÿttyarthamåha –

sarvata¢ på√ipådaæ tatsarvato ’k≤iŸiromukham |


sarvata¢ Ÿrutimalloke sarvamåvÿtya ti≤†hati || 13.13 ||

sarvata iti | sarvata¢på√ipådaæ sarvata¢ på√aya¢ pådåŸcåsyeti


sarvata¢på√ipådaæ tajjñeyam | sarvaprå√ikara√opådhibhi¢ k≤etra-
jñåstitvaæ vibhåvyate | k≤etrajñaŸca k≤etropådhita ucyate | k≤etraæ
ca på√ipådådibhiranekadhå bhinnam | k≤etropådhibhedakÿtaæ vi-
Ÿe≤ajåtaæ mithyaiva k≤etrajñasyeti tadapanayena jñeyatvamuktaæ
“na sattannåsaducyate” iti | upådhikÿtaæ mithyår¥pamapyastitvå-
dhigamåya jñeyadharmavatparikalpyocyate sarvata¢på√ipådami-
tyådi | tathå hi saæpradåyavidåæ vacanam – “adhyåropåpavådå-
bhyåæ ni≤prapañcaæ prapañcyate” iti | sarvatra sarvadehåvayava-
962 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 13.13

tvena gamyamånå¢ på√ipådådayo jñeyaŸaktisadbhåvanimittasva-


kåryeti jñeyasadbhåve li§gåni jñeyasyetyupacårata ucyante | tathå
vyåkhyeyamanyat | sarvata¢på√ipådaæ tajjñeyam | sarvatok≤iŸiro-
mukhaæ sarvato ’k≤ı√i Ÿiråæ≤i mukhåni ca yasya tatsarvato ’k≤iŸi-
romukham | sarvata¢Ÿrutimacchruti¢ Ÿrava√endriyaæ tadyasya ta-
cchrutimalloke prå√inikåye sarvamåvÿtya saævyåpya ti≤†hati sthi-
tiæ labhate || upådhibh¥tapå√ipådådındriyådhyåropa√åjjñeyasya
tadvattåŸaækå må bh¥dityevamartha¢ Ÿlokåraæbha¢ –
sarvendriyagu√åbhåsaæ sarvendriyavivarjitam |
asaktaæ sarvabhÿccaiva nirgu√a gu√abhoktÿ ca || 13.14 ||
sarvendriyeti | sarvendriyagu√åbhåsaæ sarvå√i ca tånındriyå√i
Ÿrotrådıni buddhındriyakarmendriyåkhyånyanta¢kara√e ca buddhi-
manası jñeyopådhitvasya tulyatvåt | sarvendriyagraha√ena gÿhya-
nte | api cånta¢kara√opådhidvare√aiva Ÿrotrådınåmapyupådhitva-
mityato ’nta¢kara√abahi≤kara√opådhibh¥tai¢ sarvendriyagu√ai-
radhyavasåyasaækalpaŸrava√avacanådibhiravabhåsata iti sarvendri-
yagu√åbhåsaæ sarvendriyavyåpårairvyåpÿtamiva tajjñeyamitya-
rtha¢ “dhyåyatıva lelåyatıva” (bÿ. 4.3.7) iti Ÿrute¢ | kasmåtpuna¢
kåra√ånna vyåpÿtameveti gÿhyata ityata åha – sarvendriyavivarji-
taæ sarvakara√arahitamityartha¢ | ato na kara√avyåpårairvyåpÿ-
taæ tajjñeyam | yastvayaæ mantra¢ – “apå√ipådo javano grahitå
paŸyatyacak≤u¢ sa Ÿÿ√otyakar√a¢” (Ÿve. 3.19) ityådi¢ | sa sarvendri-
yopådhigu√ånugu√yabhajanaŸaktimattajjñeyamityevaæpradarŸa-
nårtho | na tu såk≤ådeva javanådikriyåvattvapradarŸanårtha¢ | “a-
ndho ma√imavindat” ityådimantrårthavattasya mantrasyårtha¢ ya-
småtsarvakara√avarjitaæ jñeyaæ tasmådasaktaæ sarvasaæŸle≤ava-
rjitam | yadyapyevaæ tathåpi sarvabhÿccaiva | sadåspadaæ hi sa-
rvaæ sarvatra sadbuddhyanugamåt | na hi mÿgatÿ≤√ikådayo ’pi ni-
råspadå bhavanti | ata¢ sarvabhÿtsarvaæ bibhartıti | syådidaæ cå-
nyajjñeyasya sattvådhigamadvåraæ nirgu√aæ sattvarajastamåæsi
gu√åstairvarjitaæ tajjñeyaæ tathåpi gu√abhoktÿ ca gu√ånåæ sattva-
rajastamasåæ Ÿabdådidvåre√a sukhadu¢khamohåkårapari√atånåæ
bhoktÿ copalabdhÿ ca tajjñeyamityartha¢ || kiæ ca –
bahirantaŸca bh¥tånåmacaraæ carameva ca |
s¥k≤matvåttadavijñeyaæ d¥rasthaæ cåntike ca tat || 13.15 ||
13.17 trayoda©o ’dhyåya¢ 963

bahiriti | bahistvakparyantaæ dehamåtmatvenåvidyåkalpita-


mapek≤ya tamevåvadhiæ kÿtvå bahirucyate | tathå pratyagåtmåna-
mapek≤ya dehamevåvadhiæ kÿtvå ’ntarucyate | bahirantaŸcetyukte
madhye ’bhåve pråpte idamucyate ’caraæ carameva ca yaccaråca-
raæ dehåbhåsamapi tadeva jñeyaæ yathå rajjusarpåbhåsa¢ | ya-
dyacaraæ carameva ca syådvyavahåravi≤ayaæ sarvaæ jñeyaæ ki-
marthamidamiti sarvairna vijñeyamiti | ucyate – satyaæ sarvåbhå-
saæ tattathåpi vyomavats¥k≤mam | ata¢ s¥k≤matvåtsvena r¥pe√a
tajjñeyamapyavijñeyamavidu≤åm | vidu≤åæ tu “åtmaivedaæ sa-
rvam” “brahmaivedaæ sarvam” ityådipramå√ato nityaæ vijñåtam |
avijñåtatayå d¥rasthaæ var≤asahasrako†yåpyavidu≤åmapråpyatvåt |
antike ca tadåtmatvådvidu≤åm || kiæ ca –

avibhaktaæ ca bh¥te≤u vibhaktamiva ca sthitam |


bh¥tabhartÿ ca tajjñeyaæ grasi≤√u prabhavi≤√u ca || 13.16 ||

avibhaktamiti | avibhaktaæ ca pratidehaæ vyomavattadekam |


bh¥te≤u sarvaprå√i≤u vibhaktamiva ca sthitaæ dehe≤veva vibhåvya-
månatvåt | bh¥tabhartÿ ca bh¥tåni bibhartıti tajjñeyaæ bh¥tabha-
rtÿ ca sthitikåle | pralayakåle grasi≤√u grasanaŸıla | utpattikåle pra-
bhavi≤√u ca prabhavanaŸılaæ yathå rajjvådi¢ sarpådermithyåkalpi-
tasya || kiæ ca sarvatra vidyamånamapi sannopalabhyate cet | jñe-
yaæ tamastarhi | na | kiæ tarhi –

jyoti≤åmapi tajjyotistamasa¢ paramucyate |


jñånaæ jñeyaæ jñånagamya hÿdi sarvasya vi≤†hitam || 13.17 ||

jyoti≤åmiti | jyoti≤åmådityådınåmapi tajjñeyaæ jyoti¢ | åtma-


caitanyajyoti≤å | iddhåni hyådityådıni jyotıæ≤i dıpyante “yena s¥-
ryastapati tejaseddha¢” (tai. brå. 3.12.9) “tasya bhåså sarvamidaæ
vibhåti” (Ÿve. 6.14) ityådiŸrutibhya¢ | smÿteŸcehaiva “yadådityaga-
taæ teja¢” (bha. gı. 15.12) ityåde¢ | tamaso ’jñånåtparamaspÿ≤†a-
mucyate | jñånåderdu¢saæpådanabuddhyå pråptåvasådasyottaæ-
bhanårthamåha jnånamamånitvådi | jñeyaæ “jñeyaæ yattatprava-
k≤yåmi” ityådinoktam | jñånagamyaæ jñeyameva jñåtaæ sajjñåna-
phalamiti jñånagamyamucyate | jñåyamånaæ tu jñeyam | tadeta-
ttrayamapi hÿdi buddhau sarvasya prå√ijåtasya vi≤†hitaæ viŸe≤e√a
964 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 13.17

sthitam | tatraiva hi trayaæ vibhåvyate || yathoktårthopasaæhårå-


rtho ’yaæ Ÿloka årabhyate –

iti k≤etraæ tathå jñånaæ jñeyaæ coktaæ samåsata¢ |


madbhakta etadvijñåya madbhåvayopapadyate || 13.18 ||

iti k≤etramiti | ityevaæ k≤etraæ mahåbh¥tådi dhÿtyantaæ ta-


thå jñånamamånitvådi tattvajñånårthadarŸanaparyantaæ jñeyaæ ca
“jñeyaæ yattat” ityådi “tamasa¢ paramucyate” ityevamantamuktaæ
samåsata¢ saæk≤epata¢ | etåvånsarvo hi vedårtho gıtårthaŸcopasaæ-
hÿtyokta¢ | asminsamyagdarŸane ko ’dhikriyata ityucyate – madbha-
kto mayıŸvare sarvajñe paramagurau våsudeve samarpitasarvåtma-
bhåvo yatpaŸyati Ÿÿ√oti spÿŸati vå sarvameva bhagavånvåsudeva i-
tyevaægrahåvi≤†abuddhirmadbhakta¢ sa etadyathoktaæ samyagda-
rŸanaæ vijñåya madbhåvåya mama bhåvo madbhåva¢ paramåtma-
bhåvastasmai madbhåvåyopapadyate mok≤aæ gacchati || tatra sa-
ptame ıŸvarasya dve prakÿtı upanyaste paråpare k≤etrak≤etrajñala-
k≤a√e | “etadyonıni bh¥tåni” (bha. gı. 7.6) iti coktam | k≤etrak≤etra-
jñaprakÿtidvayayonitvaæ kathaæ bh¥tånåmityayamartho ’dhuno-
cyate –

prakÿtiæ puru≤aæ caiva viddhyanådı ubhåvapi |


vikåråæŸca gu√åæŸcaiva viddhi prakÿtisaæbhavån || 13.19 ||

prakÿtimiti | prakÿtiæ puru≤aæ caiveŸvarasya prakÿtı tau pra-


kÿtipuru≤åvubhåvapyanådı viddhi | na vidyate ådiryayoståvanådı |
nityeŸvaratvådıŸvarasya tatprakÿtyorapi yuktaæ nityatvena bhavi-
tum | prakÿtidvayavattvameva hıŸvarasyeŸvaratvam | yåbhyåæ pra-
kÿtibhyåmıŸvaro jagadutpattisthitipralayahetu¢ te dve anådı satyau
saæsårasya kåra√am || nå ’’dyanådıti tatpuru≤asamåsaæ kecidva-
r√ayanti | tena hi kileŸvarasya kåra√atvaæ sidhyati | yadi puna¢
prakÿtipuru≤åveva nityau syåtåæ tatkÿtameva jaganneŸvarasya ja-
gata¢ kartÿtvam | tadasat | pråkprakÿtipuru≤ayorutpatterıŸitavyå-
bhåvådıŸvarasyånıŸvaratvaprasa§gåt | saæsårasya nirnimittatve ’ni-
rmok≤aprasa§gåcchåstrånarthakyaprasa§gådbandhamok≤åbhåva-
prasa§gåcca | nityatve punarıŸvarasya prakÿtyo¢ sarvametadupapa-
nnaæ bhavet | katham | vikåråæŸca gu√åæŸcaiva vak≤yamå√ånvi-
13.20 trayoda©o ’dhyåya¢ 965

kårånbuddhyådidehendriyåntångu√åæŸca sukhadu¢khamohapra-
tyayåkårapari√atånviddhi jånıhi prakÿtisaæbhavånprakÿtirıŸvarasya
vikårakåra√aŸaktistrigu√åtmikå måyå så saæbhavo ye≤åæ vikårå-
√åæ gu√ånåæ ca tånvikårångu√åæŸca viddhi prakÿtisaæbhavånpra-
kÿtipari√åmån || ke punaste vikårå gu√åŸca prakÿtisaæbhavå¢ –

kåryakara√akartÿtve hetu¢ prakÿtirucyate |


puru≤a¢ sukhadu¢khånåæ bhoktÿtve heturucyate || 13.20 ||

kåryeti | kåryakara√akartÿtve kåryaæ Ÿarıraæ kara√åni tatsthå-


ni trayodaŸa | dehasyåraæbhakå√i bh¥tåni pañca vi≤ayåŸca prakÿti-
saæbhavå vikårå¢ p¥rvoktå iha kåryagraha√ena gÿhyante | gu√å-
Ÿca prakÿtisaæbhavå¢ sukhadu¢khamohåtmakå¢ kara√åŸrayatvåtka-
ra√agraha√ena gÿhyante | te≤åæ kåryakara√ånåæ kartÿtvamutpåda-
katvaæ yattatkåryakara√akartÿtvaæ tasminkåryakara√akartÿtve he-
tu¢ kåra√amåraæbhakatvena prakÿtirucyate | evaæ kåryakåra√aka-
rtÿtvena saæsårasya kåra√aæ prakÿti¢ | kåryakåra√akartÿtva itya-
sminnapi på†he kåryaæ yadyasya pari√åmastattasya kåryaæ vikå-
ro vikåri kåra√aæ tayorvikåravikåri√o¢ kåryakåra√ayo¢ kartÿtva i-
ti | athavå ≤oƒaŸa vikårå¢ kåryaæ sapta prakÿtivikÿtaya¢ kåra√aæ
tånyeva kåryakåra√ånyucyante | te≤åæ kartÿtve hetu¢ prakÿtiru-
cyate åraæbhakatvenaiva | puru≤aŸca saæsårasya kåra√aæ yathå
syåttaducyate – puru≤o jıva¢ k≤etrajño bhokteti paryåya¢ | sukha-
du¢khånåæ bhogyånåæ bhoktÿtva upalabdhÿtve heturucyate || ka-
thaæ punaranena kåryakara√akartÿtvena sukhadu¢khabhoktÿtve-
na ca prakÿtipuru≤ayo¢ saæsårakåra√atvamucyata iti | atrocyate |
kåryakara√asukhadu¢khar¥pe√a hetuphalåtmanå prakÿte¢ pari-
√åmåbhåve puru≤asya ca cetanasyåsati tadupalabdhÿtve | kuta¢ saæ-
såra¢ syåt | yadå puna¢ kåryakara√asukhadu¢khar¥pe√a hetupha-
låtmanå pari√atayå prakÿtyå bhogyayå puru≤asya tadviparıtasya
bhoktÿtvenåvidyår¥pa¢ saæyoga¢ syåttadå saæsåra¢ syåditi | ato
yatprakÿtipuru≤ayo¢ kåryakara√akartÿtvena sukhadu¢khabhoktÿ-
tvena ca saæsårakåra√atvamuktaæ tadyuktam | ka¢ punarayaæ
saæsåro nåma | sukhadu¢khasaæbhoga¢ saæsåra¢ puru≤asya ca
sukhadu¢khånåæ saæbhoktÿtvaæ saæsåritvamiti || yatpuru≤asya
sukhadu¢khånåæ bhoktÿtvaæ saæsåritvamityuktaæ tasya tatkiæ-
nimittamityucyate –
966 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 13.21

puru≤a¢ prakÿtistho hi bhu§kte prakÿtijångu√ån |


kåra√aæ gu√asa§go ’sya sadasadyonijanmasu || 13.21 ||

puru≤a iti | puru≤o bhoktå prakÿtistha¢ prakÿtåvavidyålak≤a√å-


yåæ kåryakara√ar¥pe√a pari√atåyåæ sthitaæ prakÿtistha¢ | prakÿ-
timåtmatvena gata ityetat | hi yasmåttasmådbhu§kta upalabhata i-
tyartha¢ | prakÿtijånprakÿtito jåtånsukhadu¢khamohåkåråbhivya-
ktångu√ånsukhı du¢khı m¥ƒha¢ pa√ƒito ’hamityevam | satyåma-
pyavidyåyåæ sukhadu¢khamohe≤u gu√e≤u bhujyamåne≤u ya¢ sa-
§ga åtmabhåva¢ | saæsårasya ca pradhånaæ kåra√aæ janmana¢
“sa yathåkåmo bhavati tatkraturbhavati” (bÿ. 4.4.5) ityådiŸrute¢ | ta-
detadåha – kåra√aæ heturgu√asaægo gu√e≤u saægo ’sya puru≤a-
sya bhoktu¢ | sadasadyonijanmasu satyaŸcåsatyaŸca yonaya¢ sada-
sadyonayaståsu sadasadyoni≤u janmåni sadasadyonijanmåni te≤u sa-
dasadyonijanmasu vi≤ayabh¥te≤u kåra√aæ gu√asa§ga¢ | athavå sa-
dasadyonijanmasvasya saæsårasya kåra√aæ gu√asa§ga iti saæså-
rapadamadhyåhåryam | sadyonayo devådiyonaya¢ | asadyonaya¢ pa-
Ÿvådiyonaya¢ | såmarthyåtsadasadyonayo manu≤yayonayo ’pyavi-
ruddhå dra≤†avyå¢ || etaduktaæ bhavati – prakÿtisthatvåkhyå ’vi-
dyå gu√e≤u ca sa§ga¢ kåma¢ saæsårasya kåra√amiti | tacca pariva-
rjanåyocyate | asya ca nivÿttikåra√aæ jñånavairågye sasaænyåse
gıtåŸåstre prasiddham | tacca jñånaæ purastådupanyastaæ k≤etra-
k≤etrajñavi≤ayaæ “yajjñåtvå ’mÿtamaŸnute” (bha. gı. 13.12) iti |
uktaæ cånyåpohenåtaddharmådhyårope√a ca || tasyaiva puna¢ så-
k≤ånnirdeŸa¢ kriyate –

upadra≤†ånumantå ca bhartå bhoktå maheŸvara¢ |


paramåtmeti cåpyukto dehe ’sminpuru≤a¢ para¢ || 13.22 ||

upadra≤†eti | upadra≤†å samıpastha¢ sandra≤†å svayamavyå-


pÿta¢ | yathårtvigyajamåne≤u yajñakarmavyåpÿte≤u ta†astho ’nyo
’vyåpÿto yajñavidyåkuŸala ÿtvigyajamånavyåpåragu√ado≤å√åmı-
k≤itå tadvatkåryakara√avyåpåre≤vavyåpÿto ’nyo tadvilak≤a√aste-
≤åæ kåryakara√ånåæ savyåpårå√åæ såmıpyena dra≤†opadra≤†å | a-
thavå dehacak≤urmanobuddhyåtmåno dra≤†åra¢ | te≤åæ båhyo dra-
≤†å deha¢ tata årabhyåntaratamaŸca pratyaksamıpe åtmå dra≤†å |
yata¢ paro ’ntaratamo nåsti dra≤†å so ’tiŸayasåmıpyena dra≤†ÿtvå-
13.23 trayoda©o ’dhyåya¢ 967

dupadra≤†å syåt | yajñopadra≤†ÿvadvå sarvavi≤ayıkara√ådupadra-


≤†å | anumantå cånumodanamanumananaæ kurvatsu tatkriyåsu pa-
rito≤a¢ tatkartå ’numantå ca | athavå ’numantå kåryakara√apravÿ-
tti≤u svayamapravÿtto ’pi pravÿtta iva tadanuk¥lo vibhåvyate tenå-
numantå | athavå pravÿttånsvavyåpåre≤u tatsåk≤ibh¥ta¢ kadåcida-
pi na nivårayatıtyanumantå | bhartå bhara√aæ nåma dehendriya-
manobuddhınåæ saæhatånåæ caitanyåtmapårårthyena nimittabh¥-
tena caitanyåbhåsånåæ yatsvar¥padhåra√aæ taccaitanyåtmakÿta-
meveti bhartå åtmetyucyate | bhoktå ’gnyu≤√avannityacaitanya-
svar¥pe√a buddhe¢ sukhadu¢khamohåtmakå¢ pratyayå¢ sarvavi-
≤ayavi≤ayåŸcaitanyåtmagrastå iva jåyamånå vibhaktå vibhåvyanta
iti bhoktå åtmå ucyate | maheŸvara¢ sarvåtmatvåtsvatantratvåcca
mahånıŸvaraŸceti maheŸvara¢ | paramåtmå dehådınåæ buddhyantå-
nåæ pratyagåtmatvena kalpitånåmavidyayå parama upadra≤†ÿtvå-
dilak≤a√a åtmeti paramåtmå | so ’ta¢ paramåtmå ityanena Ÿabdena
cåpyukta¢ kathita¢ Ÿrutau | kvåsåvasmindehe puru≤a¢ paro ’vya-
ktåt | “uttama¢ puru≤astvanya¢ paramåtmetyudåhÿta¢” (bha. gı.
15.17) iti yo vak≤yamå√a¢ “k≤etrajñaæ cåpi måæ viddhi” (bha. gı.
13.2) ityupanyasto vyåkhyåyopasaæhÿtaŸca || tametaæ yathoktala-
k≤a√amåtmånam –

ya evaæ vetti puru≤aæ prakÿtiæ ca gu√ai¢ saha |


sarvathå vartamåno ’pi na sa bh¥yo ’bhijåyate || 13.23 ||

ya evamiti | ya evaæ yathoktaprakåre√a vetti puru≤aæ såk≤å-


dahamiti prakÿtiæ ca yathoktåmavidyålak≤a√åæ gu√ai¢ svavikå-
rai¢ saha nivartitåmabhåvamåpåditåæ vidyayå sarvathå sarvapra-
kåre√a vartamåno ’pi sa bh¥ya¢ puna¢ patite ’sminvidvaccharıre
dehåntaråya nåbhijåyate notpadyate dehåntaraæ na gÿh√åtıtya-
rtha¢ | apiŸabdåtkimu vaktavyaæ svavÿttastho na jåyate ityabhi-
pråya¢ || nanu yadyapi jñånotpattyanantaraæ punarjanmåbhåva u-
kta¢ | tathåpi prågjñånotpatte¢ kÿtånåæ karma√åmuttarakålabhå-
vinåæ ca yåni cåtikråntånekajanmakÿtåni te≤åæ ca phalamadattvå
nåŸo na yukta iti | syustrı√i janmåni kÿtavipra√åŸo na hi yukta iti |
yathå phale pravÿttånåmårabdhajanmånåæ karmå√åm | na ca ka-
rmå√åæ viŸe≤o ’vagamyate | tasmåttriprakårå√yapi karmå√i trı√i ja-
nmånyårabheransaæhatåni vå sarvå√yekaæ janmårabheran | anya-
968 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 13.23

thå kÿtavinåŸe sati sarvatrånåŸvåsaprasa§ga¢ Ÿåstrånarthakyaæ ca


syåt | ityata idamayuktamuktaæ “na sa bh¥yo ’bhijåjate” iti | “k≤ı-
yante cåsya karmå√i” (mu. 2.2.8) “brahma veda brahmaiva bhavati”
(mu. 3.2.9) “tasya tåvadeva ciram” (chå. 6.14.2) “ı≤ıkåt¥lavatsarva-
karmå√i prad¥yante” (chå. 5.24.3) ityådiŸrutiŸatebhya ukto vidu≤a¢
sarvakarmadåha¢ | ihåpi cokto “yathaidhåæsi” (bha. gı. 4.37) ityå-
dinå sarvakarmadåha¢ vak≤yati ca | upapatteŸcåvidyåkåmakleŸabı-
janimittåni hi karmå√i janmåntarå§kuramårabhate | ihåpi ca så-
haækåråbhisaædhıni karmå√i phalåraæbhakå√i netarå√ıti tatra ta-
tra bhagavatoktam | “bıjånyagnyupadagdhåni na rohanti yathå pu-
na¢ | jñånadagdhaistathå kleŸairnåtmå saæpadyate puna¢” (ma.
bhå. 12.111.17, va. 199.107) iti ca | astu tåvajjñånotpattyuttarakåla-
kÿtånåæ karmå√åæ jñånena dåho jñånasahabhåvitvåt | na tviha ja-
nmani jñånotpatte¢ pråkkÿtånåæ karmå√åmatıtajanmakÿtånåæ ca
dåho yukta¢ | na | “sarvakarmå√i” ityaviŸe≤a√åt | jñanottarakåla-
bhåvinåmeva sarvakarmå√åmiti cet | na | saækoce kåra√ånupapa-
tte¢ | yatt¥ktam – yathå vartamånajanmåraæbhakå√i karmå√i na
k≤ıyante phaladånåya pravÿttånyeva satyapi jñane tathå ’nårabdha-
phalånåmapi karmå√åæ k≤ayo na yukta iti | tadasat | katham | te-
≤åæ mukte≤uvatpravÿttaphalatvåt | yathå p¥rvaæ lak≤yavedhåya
mukta i≤urdhanu≤o lak≤yavedhottarakålamapyårabdhavegak≤ayå-
tpatanenaiva nivartataivaæ Ÿarıråraæbhakaæ karma Ÿarırasthiti-
prayojane nivÿtte ’pyå saæskåravegak≤ayåtp¥rvavadvartataiva | ya-
thå sa eve≤u¢ pravÿttinimittånårabdhavegastvamukto dhanu≤i pra-
yukto ’pyupasaæhriyate tathå ’nårabdhaphålåni karmå√i svåŸraya-
sthånyeva jñånena nirbıjıkriyanta iti | patite ’sminvidvaccharıre
“na sa bh¥yo ’bhijåyate” iti yuktamevoktamiti siddham || atråtma-
darŸane upåyavikalpeme dhyånådaya ucyante –

dhyånenåtmani paŸyanti kecidåtmånamåtmanå |


anye såækhyena yogena karmayogena cåpare || 13.24 ||

dhyåneneti | dhyånena dhyånaæ nåma Ÿabdådibhyo vi≤aye-


bhya¢ Ÿrotrådıni kara√åni manasyupasaæhriyata manaŸca pratya-
kcetayitaryekågratayå yaccintanaæ taddhyånam | tathå dhyåyatıva
bako dhyåyatıva pÿthivı dhyåyatıva parvatå ityupamopådånåttaila-
dhåråvatsaætato ’vicchinnapratyayo dhyånaæ tena dhyånenåtma-
13.26 trayoda©o ’dhyåya¢ 969

ni buddhau paŸyantyåtmånaæ pratyakcetanamåtmanå svenaiva pra-


tyakcetanena dhyånasaæskÿtenånta¢kara√ena kecidyogina¢ | anye
såækhyena yogena såækhyaæ nåma – ime sattvarajastamåæsi gu-
√å mayå dÿŸyå ’haæ tebhyo ’nyastadvyåpårasåk≤ibh¥to nityo gu√a-
vilak≤a√a åtmå – iti cintanaæ e≤a såækhyo yoga¢ | tena “paŸyantyå-
tmånamåtmanå” iti vartate | karmayoge√a karmaiva yoga ıŸvarårpa-
√abuddhyå ’nu≤†hıyamånaæ gha†anar¥paæ yogårthatvådyoga ucya-
te gu√ata¢ tena sattvaŸuddhijñånotpattidvåre√a cåpare ||

anye tvevamajånanta¢ Ÿrutvånyebhya upåsate |


te ’pi cåtitarantyeva mÿtyuæ Ÿrutiparåya√å¢ || 13.25 ||

anye tviti | anye tve≤u vikalpe≤vanyatame√åpyevaæ yathokta-


måtmånamajånanto ’nyebhya åcåryebhya¢ Ÿrutvedameva cintayata
ityuktvopåsate Ÿraddadhånå¢ santaŸcintayanti | te ’pi cåtitarantye-
våtikråmantyeva mÿtyuæ mÿtyuyuktaæ saæsåramityetat | Ÿrutipa-
råya√å¢ Ÿruti¢ Ÿrava√aæ paramayanaæ gamanaæ mok≤amårgapra-
vÿttau paraæ sådhanaæ ye≤åæ te Ÿrutiparåya√å¢ kevalaparopadeŸa-
pramå√å¢ svayaæ vivekarahitå ityabhipråya¢ | kimu vaktavyaæ pra-
må√aæ prati svatantrå vivekino mÿtyumatitarantıtyabhipråya¢ ||
k≤etrajñeŸvaraikatvavi≤ayaæ jñånaæ mok≤asådhanaæ “yajjñåtvåmÿ-
tamaŸnute” (bha. gı. 13.12) ityuktam | tatkasmådhetoriti | taddhetu-
pradarŸanårthaæ Ÿloka årabhyate –

yåvatsaæjåyate kiæcitsattvaæ sthåvaraja§gamam |


k≤etrak≤etrajñasaæyogåttadviddhi bharatar≤abha || 13.26 ||

yåvaditi | yåvadyatkiæcitsaæjåyate samutpadyate sattvaæ va-


stu | kimaviŸe≤e√a netyåha sthåvaraja§gamaæ sthåvaraæ ja§ga-
maæ ca k≤etrak≤etrajñasaæyogåttajjåyata ityevaæ viddhi jånıhi he
bharatar≤abha || ka¢ punarayaæ k≤etrak≤etrajñayo¢ saæyogo ’bhi-
preta¢ | na tåvadrajjveva ghå†asyåvayavasaæŸle≤advåraka¢ saæba-
ndhaviŸe≤a¢ saæyoga¢ k≤etre√a k≤etrajñasya saæbhavatyåkåŸava-
nniravayavatvåt | nåpi samavåyalak≤a√a¢ tantupa†ayoriva k≤etra-
k≤etrajñayoritaretarakåryakåra√abhåvånabhyupagamådityucyate |
k≤etrak≤etrajñayorvi≤ayavi≤ayi√orbhinnasvabhåvayoritaretarata-
ddharmådhyåsalak≤a√a¢ saæyoga¢ k≤etrak≤etrajñasvar¥pavivekå-
970 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 13.26

bhåvanibandhano rajjuŸuktikådınåæ tadvivekajñånåbhåvådadhyå-


ropitasarparajatådisaæyogavat | so ’yamadhyåsasvar¥pa¢ k≤etra-
k≤etrajñasaæyogo mithyåjñånalak≤a√a¢ | yathåŸåstraæ k≤etrak≤e-
trajñalak≤a√abhedaparijñånap¥rvakaæ prågdarŸitar¥påtk≤etrånmu-
ñjådive≤ıkåæ yathoktalak≤a√aæ k≤etrajñaæ pravibhajya “na satta-
nåsaducyate” (bha. gı. 13.12) ityanena nirastasarvopådhiviŸe≤aæ jñe-
yaæ brahma svar¥pe√a ya¢ paŸyati k≤etraæ ca måyånirmitahasti-
svapnadÿ≤†avastugandharvanagarådivadasadeva sadivåvabhåsata
ityevaæ niŸcitavijñåno ya¢ | tasya yathoktasamyagdarŸanavirodhå-
dapagacchati mithyåjñånam | tasya janmahetorapagamåd “ya e-
vaæ vetti puru≤aæ prakÿtiæ ca gu√ai¢ saha” (bha. gı. 13.23) ityane-
na vidvånbh¥yo nåbhijåyata iti yaduktaæ tadupapannamuktam ||
“na sa bh¥yo ’bhijåyate” (bha. gı. 13.23) iti samyagdarŸanaphalama-
vidyådisaæsårabıjanivÿttidvåre√a janmåbhåva ukta¢ | janmakåra-
√aæ cåvidyånimittaka¢ k≤etrak≤etrajñasaæyoga ukta¢ | atastasyå
avidyåyå nivartakaæ samyagdarŸanamuktamapi puna¢ Ÿabdåntare-
√ocyate –

samaæ sarve≤u bh¥te≤u ti≤†hantaæ parameŸvaram |


vinaŸyatsvavinaŸyantaæ ya¢ paŸyati sa paŸyati || 13.27 ||

samamiti | samaæ nirviŸe≤aæ ti≤†hantaæ sthitiæ kurvantam |


kva | sarve≤u bh¥te≤u brahmådisthåvarånte≤u prå√i≤u | kam | para-
meŸvaraæ dehendriyamanobuddhyavyaktåtmano ’pek≤ya parame-
Ÿvara¢ taæ sarve≤u bh¥te≤u samaæ ti≤†hantam | tåni viŸina≤†i vina-
Ÿyatsviti | taæ ca parameŸvaramavinaŸyantamiti | bh¥tånåæ para-
meŸvarasya cåtyantavailak≤a√yapradarŸanårtham | katham | sarve-
≤åæ hi bhåvavikårå√åæ janilak≤a√o m¥laæ janmottarabhåvino ’nye
sarve bhåvavikårå vinåŸåntå¢ | vinåŸåtparo na kaŸcidasti bhåvavi-
kåro bhåvåbhåvåt | sati hi dharmi√i dharmå bhavanti | ato ’tyanta-
bhåvavikåråbhåvånuvådena p¥rvabhåvina¢ sarve bhåvavikårå¢ pra-
ti≤iddhå bhavanti saha kåryai¢ | tasmåtsarvabh¥tairvailak≤a√yama-
tyantameva parameŸvarasya siddhaæ nirviŸe≤atvamekatvaæ ca | ya
evaæ yathoktaæ parameŸvaraæ paŸyati sa paŸyati || nanu sarvo ’pi
loka¢ paŸyati kiæ viŸe≤a√eneti | satyaæ paŸyati | kiæ tu viparıtaæ
paŸyati | ato viŸina≤†i sa eva paŸyatıti | yathå timiradÿ≤†iranekaæ ca-
ndraæ paŸyati tamapek≤yaikacandradarŸı viŸi≤yate sa eva paŸyatıti |
13.29 trayoda©o ’dhyåya¢ 971

tathaivehåpyekamavibhaktaæ yathoktamåtmånaæ ya¢ paŸyati sa


vibhaktånekåtmaviparıtadarŸibhyo viŸi≤yate sa eva paŸyatıti | itare
paŸyanto ’pi na paŸyanti viparıtadarŸitvådanekacandradarŸivaditya-
rtha¢ || yathoktasya samyagdarŸanasya phalavacanena stuti¢ ka-
rtavyeti Ÿloka årabhyate –

samaæ paŸyanhi sarvatra samavasthitamıŸvaram |


na hinastyåtmanåtmånaæ tato yåti paråæ gatim || 13.28 ||

samamiti | samaæ paŸyannupalabhyamåno hi yasmåtsarvatra


sarvabh¥te≤u samavasthitaæ tulyatayå ’vasthitamıŸvaramatıtånata-
raŸlokoktalak≤a√amityartha¢ | samaæ paŸyankim | na hinasti hiæ-
såæ na karotyåtmanå svenaiva svamåtmånam | tatastadahiæsanå-
dyåti paråæ prakÿ≤†åæ gatiæ mok≤åkhyåm || nanu naiva kaŸcitprå-
√ı svayaæ svamåtmånaæ hinasti | kathamucyate ’pråptaæ “na hi-
nasti” iti | yathå na “na pÿthivyåmagniŸcetavyo nåntarik≤e” ityådi |
nai≤a do≤a¢ | ajñånåmåtmatiraskara√opapatte¢ | sarvo hyajño ’tya-
ntaprasiddhaæ såk≤ådaparok≤ådåtmånaæ tiraskÿtyånåtmånamåtma-
tvena parigÿhya tamapi dharmådharmau kÿtvopåttamåtmånaæ ha-
två ’nyamåtmånamupådatte | navaæ taæ caivaæ hatvå ’nyamevaæ
tamapi hatvå ’nyamityevamupåttamupåttamåtmånaæ hantıtyåtma-
hå sarvo ’jña¢ | yastu paramårthåtmå ’såvapi sarvadå ’vidyayå hata
iva vidyamånaphalåbhåvåditi sarva åtmahana evåvidvåæsa¢ | ya-
stvitara yathoktåtmadarŸı sa ubhayathåpyåtmanåtmånaæ na hina-
sti na hanti | tato yåti paråæ gatiæ yathoktaæ phalaæ tasya bhava-
tityartha¢ || sarvabh¥tasthamıŸvaraæ samaæ paŸyanna hinastyå-
tmanåtmånamityuktaæ tadanupapannaæ svagu√akarmavailak≤a-
√yabhedabhinne≤våtmasvityetadåŸa§kyåha –

prakÿtyaiva ca karmå√i kriyamå√åni sarvaŸa¢ |


ya¢ paŸyati tathåtmånamakartåraæ sa paŸyati || 13.29 ||

prakÿtyeti | prakÿtyå prakÿtirbhagavato måyå trigu√åtmikå “må-


yåæ tu prakÿtiæ vidyåt” (Ÿve. 4.10) iti mantravar√åttayå prakÿtyai-
va ca nånyena mahådådikåryakåra√åkårapari√atayå karmå√i vå-
§mana¢kåyårabhyå√i kriyamå√åni nirvartyamånåni sarvaŸa¢ sarva-
prakårairya¢ paŸyatyupalabhate tathåtmånaæ k≤etrajñamakartå-
972 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 13.29

raæ sarvopådhivivarjitaæ sa paŸyati sa paramårthadarŸıtyabhiprå-


ya¢ | nirgu√asyåkarturnirviŸe≤asyåkåŸasyeva bhede pramå√ånupa-
pattirityartha¢ || punarapi tadeva samyagdarŸanaæ Ÿåbdåntare√a
prapañcayati –
yadå bh¥tapÿthagbhåvamekasthamanupaŸyati |
tata eva ca viståraæ brahma saæpadyate tadå || 13.30 ||
yadeti | yadå yasminkåle bh¥tapÿthagbhåvaæ bh¥tånåæ pÿtha-
gbhåvaæ pÿthaktvamekasthamekasminnåtmani sthitamekasthama-
nupaŸyati ŸåstråcåryopadeŸamanvåtmånaæ pratyak≤atvena paŸya-
tyåtmaivedaæ sarvamiti | tata eva ca tasmådeva ca viståramutpa-
ttiæ vikåsaæ “åtmata¢ prå√a åtmata åŸå åtmata¢ smara åtmata å-
kåŸa åtmatasteja åtmata åpa åtmata åvirbhåvatirobhåvåvåtmato
’nnam” ityevamådiprakårairviståraæ yadå paŸyati brahma saæpa-
dyate brahmaiva bhavati tadå tasminkåla ityartha¢ || ekasyåtma-
na¢ sarvadehåtmatve taddo≤asaæbandhe pråpta idamucyate –
anåditvånnirgu√atvåtparamåtmåyamavyaya¢ |
Ÿarırastho ’pi kaunteya na karoti na lipyate || 13.31 ||
anåditvåditi | anåditvådanåderbhåvo ’nåditvam | ådi¢ kåra√aæ
tadyasya nåsti tadanådi | yaddhyådimattatsvenåtmanå vyeti | ayaæ
tvanåditvånniravayava iti kÿtvå na vyeti | tathå nirgu√atvåt | sagu-
√o hi gu√avyayådvyeti | ayaæ tu nirgu√atvånna vyetıti paramåtmå-
yamavyayo nåsya vyayo vidyata ityavyaya¢ | yata evamata¢ Ÿarı-
rastho ’pi Ÿarıre≤våtmana upalabdhirbhavatıti | Ÿarırastha ucyate ta-
thåpi na karoti tadakara√ådeva tatphalena na lipyate | yo hi kartå
sa karmaphalena lipyate | ayaæ tvakartå ’to na phalena lipyata i-
tyartha¢ || ka¢ punardehe≤u karoti lipyate ca | yadi tåvadanya¢ pa-
ramåtmano dehı karoti lipyate ca tata idamanupapannamuktaæ k≤e-
trajñeŸvaraikatvaæ “k≤etrajñaæ cåpi måæ viddhi” (bha. gı. 13.2) i-
tyådi | atha nåstıŸvarådanyo dehı | ka¢ karoti lipyate ceti våcyaæ
paro vå nåstıti sarvathå durvijñeyaæ durvåcyaæ ceti bhagavatpro-
ktamaupani≤adaæ darŸanaæ parityaktaæ vaiŸe≤ikai¢ såækhyårha-
tabauddhaiŸca | tatråyaæ parihåro bhagavatå svenaivokta¢ “svabhå-
vatastu pravartate” (bha. gı. 5.14) iti | avidyåmåtrasvabhåvo hi ka-
roti lipyata iti vyavahåro bhavati | na tu paramårthata ekasminpa-
13.34 trayoda©o ’dhyåya¢ 973

ramåtmani tadasti | ata etasminparamårthasåækhyadarŸane sthitå-


nåæ jñånani≤†hånåæ paramahaæsaparivråjakånåæ tiraskÿtåvidyå-
vyavahårå√åæ karmådhikåro nåstıti tatra tatra darŸitaæ bhagava-
tå || kimiva na karoti na lipyata ityatra dÿ≤†åntamåha –
yathå sarvagataæ sauk≤myådåkåŸaæ nopalipyate |
sarvatråvasthito dehe tathåtmå nopalipyate || 13.32 ||
yatheti | yathå sarvagataæ vyåpyapi satsauk≤myåts¥k≤mabhå-
vådåkåŸaæ khaæ nopalipyate na saæbadhyate sarvatråvasthito de-
he tathåtmå nopalipyate || kiæ ca –
yathå prakåŸayatyeka¢ kÿtsnaæ lokamimaæ ravi¢ |
k≤etraæ k≤etrı tathå kÿtsnaæ prakåŸayati bhårata || 13.33 ||
yatheti | yathå prakåŸayatyavabhåsayatyeka¢ kÿ†snaæ lokami-
maæ ravi¢ savitå ’’ditya¢ tathå tadvanmahåbh¥tådirdhÿtyantaæ
k≤etrameka¢ sanprakåŸayati | ka¢ | k≤etrı paramåtmetyartha¢ | ra-
vidÿ≤†ånto ’tråtmana ubhayårtho ’pi bhavati ravivatsarvak≤etre≤ve-
ka åtmå ’lepakaŸceti || samastådhyåyårthopasaæhårårtho ’yaæ Ÿlo-
ka¢ –
k≤etrak≤etrajñayorevamantaraæ jñånacak≤u≤å |
bh¥taprakÿtimok≤aæ ca ye viduryånti te param || 13.34 ||
k≤etrak≤etrajñeti | k≤etrak≤etrajñayoryathåvyåkhyåtayorevaæ
yathåpradarŸitaprakåre√åntaramitaretaravailak≤a√yaviŸe≤aæ jñå-
nacak≤u≤å ŸåstråcåryaprasådopadeŸajanitamåtmapratyayikaæ jñå-
naæ cak≤u¢ tena jñånacak≤u≤å bh¥taprakÿtimok≤aæ ca bh¥tånåæ
prakÿtiravidyålak≤a√å ’vyaktåkhyå tasyå bh¥taprakÿtermok≤a√ama-
bhåvagamanaæ ca ye vidurvijånanti yånti gacchanti te paraæ para-
mårthatattvaæ brahma na punardehamådadata ityartha¢ ||

iti Ÿrımadbhagavadgıtås¥pani≤atsu brahmavidyåyåæ


yogaŸåstre Ÿrıkÿ≤√årjunasaævåde
k≤etrak≤etrajñayogo nåma
trayodaŸo ’dhyåya¢

*
atha caturdaŸo ’dhyåya¢

sarvamutpadyamånaæ k≤etrak≤etrajñasaæyogådutpadyata i-
tyuktam | tatkathamiti tatpradarŸanårthaæ “paraæ bh¥ya¢” ityådira-
dhyåya årabhyate | athaveŸvaraparatantrayo¢ k≤etrak≤etrajñayorja-
gatkåra√atvaæ na tu såækhyånåmiva svatantrayorityevamartham |
prakÿtisthatvaæ gu√e≤u ca sa§ga¢ saæsårakåra√amityuktam | ka-
smingu√e kathaæ sa§ga¢ ke vå gu√å¢ kathaæ vå te badhnantıti |
gu√ebhyaŸca mok≤a√aæ kathaæ syåt | muktasya ca lak≤a√aæ va-
ktavyamityevamarthaæ ca bhagavånuvåca –

Ÿrıbhagavånuvåca –
paraæ bh¥ya¢ pravak≤yåmi jñånånåæ jñånamuttamam |
yajjñåtvå munaya¢ sarve paråæ siddhimito gatå¢ || 14.1 ||
paraæ bh¥ya iti | paraæ jñånamiti vyavahitena saæbandha¢ |
bh¥ya puna¢ p¥rve≤u sarve≤vadhyåye≤vasakÿduktamapi pravak≤yå-
mi | tacca paraæ paravastuvi≤ayatvåt | kiæ tat | jñånaæ sarve≤åæ
jñånånåmuttamamuttamaphalatvåt | jñånånåmiti nåmånitvådınåm |
kiæ tarhi | yajñådijñeyavastuvi≤ayå√åmiti | tåni na mok≤åyedaæ tu
mok≤åyeti parottamaŸabdåbhyåæ stauti Ÿrotÿbuddhirucyutpådanå-
rtham | yajjñåtvå yajjñånaæ jñåtvå pråpya munaya¢ saænyåsino
mananaŸılå¢ sarve paråæ siddhiæ mok≤åkhyåmito ’småddehaba-
ndhanåd¥rdhvaæ gatå¢ pråptå¢ || asyåŸca siddheraikåntikatvaæ da-
rŸayati –

idaæ jñånamupåŸritya mama sådharmyamågatå¢ |


sarge ’pi nopajåyante pralaye na vyathanti ca || 14.2 ||

idamiti | idaæ jñånaæ yathoktamupåŸritya jñånasådhanamanu-


≤†håyetyetanmama parameŸvarasya sådharmyaæ matsvar¥patåmå-
976 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 14.2

gatå¢ pråptå ityartha¢ | na tu samånadharmatå sådharmyaæ k≤etra-


jñeŸvarayorbhedånabhyupagamådgıtåŸåstre | phalavådaŸcåyaæ stu-
tyarthamucyate | sarge ’pi sÿ≤†i kale ’pi nopajayante notpadyante |
pralaye brahma√o ’pi vinåŸakåle na vyathanti ca vyathåæ nåpa-
dyante na cyavantıtyartha¢ || k≤etrak≤etrajñasaæyoga ıdÿŸo bh¥ta-
kåra√amityåha –

mama yonirmahadbrahma tasmingarbhaæ dadhåmyaham |


saæbhava¢ sarvabh¥tånåæ tato bhavati bhårata || 14.3 ||

mameti | mama svabh¥tå madıyå måyå trigu√åtmikå prakÿti-


ryoni¢ sarvabh¥tånåæ kåra√am | sarvakåryebhyo mahattvådbha-
ra√åcca svavikårå√åæ mahadbrahmeti yonireva viŸi≤yate | tasmi-
nmahati brahma√i yonau garbhaæ hira√yagarbhasya janmano bı-
jaæ sarvabh¥tajanmakåra√aæ bıjaæ dadhåmi nik≤ipåmi k≤etrak≤e-
trajñaprakÿtidvayaŸåktimånıŸvaro ’ham | avidyåkåmakarmopådhi-
svar¥pånuvidhåyinaæ k≤etrajñaæ k≤etre√a saæyojayåmıtyartha¢ |
saæbhava utpatti¢ sarvabh¥tånåæ hira√yagarbhotpattidvåre√a ta-
tastasmådgarbhådhånådbhavati he bhårata ||

sarvayoni≤u kaunteya m¥rtaya¢ saæbhavanti yå¢ |


tåsåæ brahma mahadyonirahaæ bıjaprada¢ pitå || 14.4 ||

sarvayoni≤viti | devapitÿmanu≤yapaŸumÿgådisarvayoni≤u kau-


nteya m¥rtayo dehasaæsthånalak≤a√å m¥rchitå§gåvayavå m¥rta-
ya¢ saæbhavanti yå¢ tåsåæ m¥rtınåæ brahma mahatsarvåvasthaæ
yoni¢ kåra√amahamıŸvaro bıjaprado garbhådhånasya kartå pitå ||
ke gu√å¢ kathaæ badhnantıtyucyate –

sattvaæ rajastama iti gu√å¢ prakÿtisaæbhavå¢ |


nibandhanti mahåbåho dehe dehinamavyayam || 14.5 ||

sattvamiti | sattvaæ rajastama ityevaænåmåno gu√å iti påri-


bhå≤ika¢ Ÿåbdo na r¥pådivaddravyåŸritå gu√å¢ | na ca gu√agu√i-
noranyatvamatra vivak≤itam | tasmådgu√å iva nityaparatantrå¢ k≤e-
trajñaæ pratyavidyåtmakatvåtk≤etrajñaæ nibadhnantıva | tasmå-
tpadıkÿtyåtmånaæ pratilabhanta iti | nibadhnantıtyucyate | te ca
14.8 caturda©o ’dhyåya¢ 977

prakÿtisaæbhavå bhagavanmåyåsaæbhavå nibadhnantıva he ma-


håbåho mahåntau samarthataråvåjånupralaæbau båh¥ yasya sa ma-
håbåhu¢ he mahåbåho dehe Ÿarıre dehinaæ dehavantamavyayama-
vyayatvaæ coktaæ “anåditvåt” (bha. gı. 13.31) ityådi Ÿlokena | nanu
“dehı na lipyate” (bha. gı. 13.31) ityuktaæ tatkathamiha “nibadhna-
nti” ityanyathocyate parihÿtamasmåbhirivaŸabdena nibadhnantı-
veti || tatra sattvådınåæ sattvasyaiva tåvallak≤a√amucyate –

tatra sattvaæ nirmalatvåtprakåŸakamanåmayam |


sukhasa§gena badhnåti jñånasa§gena cånagha || 14.6 ||

tatra sattvamiti | nirmalatvåtspha†ikama√iriva prakåŸakamanå-


mayaæ nirupadravaæ sattvaæ tannibadhnåti | kathaæ sukhasa§ge-
na sukhyahamiti vi≤ayabh¥tasya sukhasya vi≤ayi√yåtmani saæŸle-
≤åpådanaæ mÿ≤aiva sukhe saæjanamiti | sai≤å ’vidyå | na hi vi≤aya-
dharmo vi≤ayi√o bhavati | icchådi ca dhÿtyantaæ k≤etrasyaiva vi≤a-
yasya dharma ityuktaæ bhagavatå | ato ’vidyayaiva svakıyadha-
rmabh¥tasya vi≤ayavi≤ayyavivekalak≤a√ayå ’svåtmabh¥te sukhe
saæjayatıva | åsaktamiva karotyasa§gaæ saktamiva karotyasukhi-
naæ sukhinamiva | tathå jñånasa§gena ca | jñånamiti sukhasåhaca-
ryåtk≤etrasyaiva vi≤ayasyånta¢kara√asya dharmo nåtmana åtma-
dharmatve sa§gånupapatterbandhånupapatteŸca | sukhe iva jñå-
nådau sa§go mantavyo he ’naghåvyasana ||

rajo rågåtmakaæ viddhi tÿ≤√å ’’sa§gasamudbhavam |


tannibadhnåti kaunteya karmasa§gena dehinam || 14.7 ||

raja iti | rajo rågåtmakaæ rañjanådrågo gairikådivadrågåtma-


kaæ viddhi jånıhi | tÿ≤√åsa§gasamudbhavaæ tÿ≤√å ’pråptåbhilå≤a¢
åsa§ga¢ pråpte vi≤aye manasa¢ prıtilak≤a√a¢ saæŸle≤a¢ | tÿ≤√å ’’sa-
§gayo¢ samudbhavaæ tÿ≤√å ’’sa§gasamudbhavam | tannibadhnå-
ti tadrajo nibadhnåti kaunteya karmasa§gena dÿ≤†ådÿ≤†årthe≤u ka-
rmasu sañjanaæ tatparatå karmasa§ga¢ | tena nibadhnåti rajo de-
hinam ||

tamastvajñånajaæ viddhi mohanaæ sarvadehinåm |


pramådålasyanidråbhistannibadhnåti bhårata || 14.8 ||
978 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 14.8

tamastviti | tamastÿtıyo gu√o ’jñånajamajñånåjjåtamajñånajaæ


viddhi mohanaæ mohakaramavivekakaraæ sarvadehinåæ sarve-
≤åæ dehavatåm | pramådålasyanidråbhi¢ pramådaŸcå ’’lasyaæ ca
nidrå ca pramådålasyanidrå¢ tåbhi¢ pramådålasyanidråbhi¢ tatta-
mo nibadhnåti bhårata || punargu√ånåæ vyåpåra¢ saæk≤epata u-
cyate –

sattvaæ sukhe saæjayati raja¢ karma√i bhårata |


jñånamåvÿtya tu tama¢ pramåde saæjayatyuta || 14.9 ||

sattvamiti | sattvaæ sukhe saæjayati raja¢ karma√i he bhårata


saæjayatıtyanuvartate | jñånaæ sattvakÿtaæ vivekamåvÿtyåcchå-
dya tu tama¢ svenå ’’vara√åtmanå pramåde saæjayatyuta pramådo
nåma pråptakartavyåkara√am || uktaæ kåryaæ kadå kurvanti gu-
√å ityucyate –

rajastamaŸcåbhibh¥ya sattvaæ bhavati bhårata |


raja¢ sattvaæ tamaŸcaiva tama¢ sattvaæ rajastathå || 14.10 ||

rajastama iti | rajastamaŸcobhåvapyabhibh¥ya sattvaæ bhava-


tyudbhavati vardhate yadå tadå labdhåtmakaæ sattvaæ svakåryaæ
jñånasukhådyårabhate he bhårata | tathå rajogu√a¢ sattvaæ tama-
Ÿcaivobhåvapyabhibh¥ya vardhate yadå tadå karma kÿ≤yådi svakå-
ryamårabhate | tamaåkhyo gu√a¢ sattvaæ rajaŸcobhåvapyabhibh¥-
ya tathaiva vardhate yadå tadå jñånåvara√ådi svakåryamårabhate ||
yadå yo gu√a udbh¥to bhavati tadå tasya kiæ li§gamityucyate –

sarvadvåre≤u dehe ’sminprakåŸa upajåyate |


jñånaæ yadå tadå vidyådvivÿddhaæ sattvamityuta || 14.11 ||

sarvadvåre≤viti | sarvadvåre≤våtmana upalabdhidvårå√i Ÿrotrå-


dıni sarvå√i kara√åni te≤u sarvadvåre≤vanta¢kara√asya buddhervÿ-
tti¢ prakåŸo dehe ’sminnupajåyate | tadeva jñånam | yadaivaæ pra-
kåŸo jñånåkhya upajåyate tadå jñånaprakåŸena li§gena vidyådvivÿ-
ddhamudbh¥taæ sattvamityutåpi || rajasa udbh¥tasyedaæ cihnam –

lobha¢ pravÿttiråraæbha¢ karma√åmaŸama¢ spÿhå |


rajasyetåni jåyante vivÿddhe bharatar≤abha || 14.12 ||
14.16 caturda©o ’dhyåya¢ 979

lobha iti | lobha¢ paradravyåditså pravÿtti¢ pravartanaæ såmå-


nyace≤†å ’’raæbha¢ | kasya | karma√åm | aŸamo ’nupaŸama¢ har≤a-
rågådipravÿtti¢ spÿhå sarvasåmånyavastuvi≤ayå tÿ≤√å | rajasi gu√e
vivÿddhe etåni li§gåni jåyante he bharatar≤abha ||

aprakåŸo ’pravÿttiŸca pramådo moha eva ca |


tamasyetåni jåyante vivÿddhe kurunandana || 14.13 ||

aprakåŸa iti | aprakåŸo ’viveko | atyantamapravÿttiŸca pravÿttya-


bhåva¢ tatkåryaæ pramådo moha eva cåviveko m¥ƒhatetyartha¢ |
tamasi gu√e vivÿddhe etåni li§gåni jåyante he kurunandana || ma-
ra√advåre√åpi yatphalaæ pråpyate tadapi sa§garågahetukaæ sa-
rvaæ gau√ameveti darŸayannåha –

yadå sattve pravÿddhe tu pralayaæ yåti dehabhÿt |


tadottamavidåæ lokånamalånpratipadyate || 14.14 ||

yadeti | yadå sattve pravÿddha udbh¥te tu pralayaæ mara√aæ


yåti pratipadyate dehabhÿdåtmå tadottamavidåæ mahadåditattvavi-
dåmityetat | lokånamalånmalarahitånpratipadyate pråpnotıtyetat ||

rajasi pralayaæ gatvå karmasa§gi≤u jåyate |


tathå pralınastamasi m¥ƒhayoni≤u jåyate || 14.15 ||

rajasıti | rajasi gu√e vivÿddhe pralayaæ mara√aæ gatvå pråpya


karmasa§gi≤u karmåsaktiyukte≤u manu≤ye≤u jåyate | tathå tadva-
deva pralıno mÿtastamasi vivÿddhe m¥ƒhayoni≤u paŸvådiyoni≤u jå-
yate || atıtaŸlokårthasyaiva saæk≤epa ucyate –

karma√a¢ sukÿtasyåhu¢ såttvikaæ nirmalaæ phalam |


rajasastu phalaæ du¢khamajñånaæ tamasa¢ phalam || 14.16 ||

karma√a iti | karma√a¢ sukÿtasya såttvikasyetyartha¢ | åhu¢ Ÿi-


≤†å¢ såttvikameva nirmalaæ phalamiti | rajasastu phalaæ du¢khaæ
råjasasya karma√a ityartha¢ | karmådhikåråtphalamapi du¢khame-
va kåra√ånur¥pyådråjasameva | tathå ’jñånaæ tamasaståmasasya
karma√o ’dharmasya p¥rvavat || kiæ ca gu√ebhyo bhavati –
980 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 14.17

sattvåtsaæjåyate jñånaæ rajaso lobha eva ca |


pramådamohau tamaso bhavato ’jñånameva ca || 14.17 ||

sattvåditi | sattvållabdhåtmakåtsaæjåyate samutpadyate jñånaæ


rajaso lobha eva ca | pramådamohau cobhau tamaso bhavata¢ | a-
jñånameva ca bhavati || kiæ ca –

¥rdhvaæ gacchanti sattvasthå madhye ti≤†hanti råjaså¢ |


jaghanyagu√avÿttasthå adho gacchanti tåmaså¢ || 14.18 ||

¥rdhvamiti | ¥rdhvaæ gacchanti devalokådi≤¥tpadyante sattva-


sthå¢ sattvagu√avÿttasthå¢ | madhye ti≤†hanti manu≤ye≤¥tpadya-
nte råjaså¢ | jaghanyagu√avÿttasthå jaghanyaŸcåsau gu√aŸca jagha-
nyagu√astama¢ tasya vÿttaæ nidrålasyådi tasminsthitå jaghanya-
gu√avÿttasthå m¥ƒhå adho gacchanti paŸvådi≤¥tpadyante tåma-
så¢ || puru≤asya prakÿtisthatvar¥pe√a mithyåjñånena yuktasya bho-
gye≤u gu√esu sukhadu¢khamohåtmake≤u – sukhı du¢khı m¥ƒho
’hamasmi – ityevaæ r¥po ya¢ sa§ga¢ tatkåra√aæ puru≤asya sada-
sadyonijanmapråptilak≤a√asya saæsårasyeti samåsena p¥rvådhyå-
ye yaduktaæ tadiha “sattva rajastama iti gu√å¢ prakÿtisaæbhav墔
(bha. gı. 14.5) ityata årabhya gu√asvar¥paæ gu√avÿttaæ svavÿttena
ca gu√ånåæ bandhakatvaæ gu√avÿttinibaddhasya ca puru≤asya yå
gatirityetatsarvaæ mithyåjñånam¥laæ bandhakåra√aæ vistare√o-
ktvå ’dhunå samyagdarŸanånmok≤o vaktavya ityata åha bhagavån –

nånyaæ gu√ebhya¢ kartåraæ yadå dra≤†ånupaŸyati |


gu√ebhyaŸca paraæ vetti madbhåvaæ so ’dhigacchati || 14.19 ||

nånyamiti | nånyaæ kåryakara√avi≤ayåkårapari√atebhyo gu√e-


bhya¢ kartåramanyaæ yadå dra≤†å vidvånsannånupaŸyati gu√å eva
sarvåvasthå¢ sarvakarma√åæ kartåra ityevaæ paŸyati | gu√ebhya-
Ÿca paraæ gu√avyåpårasåk≤ibh¥taæ vetti | madbhåvaæ mama bhå-
vaæ sa dra≤†å ’dhigacchati || kathamadhigacchatıtyucyate –

gu√ånetånatıtya trındehı dehasamudbhavån |


janmamÿtyujarådu¢khairvimukto ’mÿtamaŸnute || 14.20 ||
14.22 caturda©o ’dhyåya¢ 981

gu√åniti | gu√ånetånyathoktånatıtya jıvannevåtikramya måyo-


pådhibh¥tåntrındehı dehasamudbhavåndehotpattibıjabh¥tånjanma-
mÿtyujarådu¢khairjanma ca mÿtyuŸca jarå ca du¢khåni ca janma-
mÿtyujarådu¢khåni tairjıvanneva vimukta¢ sanvidvånamÿtamaŸnu-
te | evaæ madbhåvamadhigacchatıtyartha¢ || jıvanneva gu√ånatı-
tyåmÿtamaŸnuta iti praŸnabıjaæ pratilabhya arjuna uvåca –

arjuna uvåca –

kairli§gaistrıngu√ånetånatıto bhavati prabho |


kimåcåra¢ kathaæ caitåæstrıngu√ånativartate || 14.21 ||

kairli§gairiti | kairli§gaiŸcihnai¢ trınetånvyåkhyåtångu√ånatı-


to ’tikrånto bhavati prabho | kimåcåra¢ ko ’syåcåra iti kimåcåra¢ |
kathaæ kena ca prakåre√a etåntrıngu√ånativartate ’tıtya vartate ||
gu√åtıtasya lak≤a√aæ gu√åtıtatvopåyaæ cårjunena pÿ≤†o ’smiñŸlo-
ke praŸnadvayårthaæ prativacanaæ bhagavånuvåca –

Ÿrıbhagavånuvåca –

yattåvatkairli§gairyukto gu√åtıto bhavatıti tacchÿ√u –

prakåŸaæ ca pravÿttiæ ca mohameva ca på√ƒava |


na dve≤†i saæpravÿttåni na nivÿttåni kå§k≤ati || 14.22 ||

prakåŸamiti | prakåŸaæ ca sattvakåryaæ pravÿttiæ ca raja¢kå-


ryaæ mohameva ca tama¢kåryamityetåni na dve≤†i saæpravÿttåni
samyagvi≤ayabhåvenodbh¥tåni | mama tåmasa¢ pratyayo jåtaste-
nåhaæ m¥ƒha¢ tathå råjası pravÿttirmamotpannå du¢khåtmikå te-
nåhaæ rajaså pravartita¢ pracalita¢ svar¥påt | ka≤†aæ mama varta-
te yo ’yaæ matsvar¥påvasthånådbhraæŸa¢ tathå såttviko gu√a¢ pra-
kåŸåtmå måæ vivekitvamåpådayansukhe ca saæjayanbadhnåtıti tå-
ni dve≤†yasamyagdarŸitvena | tadevaæ gu√åtıto na dve≤†i saæpra-
vÿttåni | yathå ca såttvikådipuru≤a¢ sattvådikåryå√yåtmånaæ prati
prakåŸya nivÿttåni kå§k≤ati na tathå gu√åtıto nivÿttåni kå§k≤atıtya-
rtha¢ | etanna parapratyak≤aæ li§gam | kiæ tarhi | svåtmapratya-
k≤atvådåtmavi≤ayamevaitallak≤a√am | na hi svåtmavi≤ayaæ dve≤a-
982 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 14.22

måkåæk≤åæ vå para¢ paŸyati || athedånıæ “gu√åtıta¢ kimåcåra¢” i-


ti praŸnasya prativacanamåha –
udåsınavadåsıno gu√airyo na vicålyate |
gu√å vartanta ityeva yo ’vati≤†hati ne§gate || 14.23 ||
udåsınavaditi | udåsınavadyathodåsıno na kasyacitpak≤aæ bha-
jate | tathåyaæ gu√åtıtatvopåyamårge ’vasthita åsına åtmavidgu-
√airya¢ saænyåsı na vicålyate vivekadarŸanåvasthåta¢ | tadeta-
tsphu†ıkaroti – gu√å¢ kåryakara√avi≤ayåkårapari√atå anyonyasmi-
nvartanta iti yo ’vati≤†hati | chandobha§gabhayåtparasmaipadapra-
yoga¢ | yo ’nuti≤†hatıti vå på†håntaram | ne§gate na calati svar¥på-
vastha eva bhavatıtyartha¢ || kiæ ca –
samadu¢khasukha¢ svastha¢ samalo≤†åŸmakåñcana¢ |
tulyapriyåpriyo dhırastulyanindåtmasaæstuti¢ || 14.24 ||
samadu¢kheti | samadu¢khasukha¢ same du¢khasukhe yasya
sa samadu¢khasukha¢ | svastha¢ sve åtmani sthita¢ prasanna¢ |
samalo≤†åŸmakåñcano lo≤†aæ cåŸmå ca kåñcanaæ ca samåni yasya
sa samalo≤†åŸmakåñcana¢ | tulyapriyåpriya¢ priyaæ cåpriyaæ ca
priyåpriye tulye same yasya so ’yaæ tulyapriyåpriya¢ | dhıro dhı-
mån | tulyanindåtmasaæstuti¢ nindå cå ’’tmasaæstutiŸca nindåtma-
saæstutı tulye nindåtmasaæstutı yasya yate¢ sa tulyanindåtmasaæ-
stuti¢ || kiæ ca –
månåpamånayostulyastulyo mitråripak≤ayo¢ |
sarvåraæbhaparityågı gu√åtıta¢ sa ucyate || 14.25 ||
måneti | månåpamånayostulya¢ samo nirvikåra¢ tulyo mitråri-
pak≤ayoryadyapyudåsınå bhavanti kecitsvåbhipråye√a tathåpi pa-
råbhipråye√a mitråripak≤ayoriva bhavantıti tulyo mitråripak≤ayori-
tyåha | sarvåraæbhaparityågı dÿ≤†ådÿ≤†årthåni karmå√yårabhyanta
ityåraæbhå¢ sarvånåraæbhånparityaktuæ Ÿılamasyeti sarvåraæbha-
parityågı | dehadhåra√amåtranimittavyatireke√a sarvakarmapari-
tyågıtyartha¢ | gu√åtıta¢ sa ucyate || “udåsınavat” ityådi “gu√åtı-
ta¢ sa ucyate” ityetadantamuktaæ yåvadyatnasådhyaæ tåvatsaæ-
nyåsino ’nu≤†heyaæ gu√åtıtatvasådhanaæ mumuk≤o¢ sthirıbh¥taæ
tu svasaævedyaæ sadgu√åtıtasya yaterlak≤a√aæ bhavatıti | adhu-
14.27 caturda©o ’dhyåya¢ 983

nå “kathaæ ca trıngu√ånativartante” (bha. gı. 14.21) iti praŸnasya


prativacanamåha –
måæ ca yo ’vyabhicåre√a bhaktiyogena sevate |
sa gu√ånsamatıtyaitånbrahmabh¥yåya kalpate || 14.26 ||
måmiti | måæ ceŸvaraæ nåråya√aæ sarvabh¥tahÿdayåŸritaæ yo
yati¢ karmı vå ’vyabhicåre√a na kadåcidyo vyabhicarati bhaktiyo-
gena bhajanaæ bhakti¢ saiva yogastena bhaktiyogena sevate sa gu-
√ånsamatıtyaitånyathoktånbrahmabh¥yåya bhavana bh¥yo brahma-
bh¥yåya brahmabhavanåya mok≤åya kalpate samartho bhavatıtya-
rtha¢ || kuta etadityucyate –
brahma√o hi prati≤†håhamamÿtasyåvyayasya ca |
ŸåŸvatasya ca dharmasya sukhasyaikåntikasya ca || 14.27 ||
brahma√a iti | brahma√a¢ paramåtmano hi yasmåtprati≤†hå-
haæ pratiti≤†hatyasminniti prati≤†hå ’haæ pratyagåtmå | kıdÿŸåsya
brahma√a¢ | amÿtasyåvinaŸino ’vyayasyåvikåri√a¢ ŸåŸvatasya ca ni-
tyasya dharmasya dharmajñånasya jñånayogadharmapråpyasya su-
khasyå ’’nandar¥pasyaikåntikasyåvyabhicåri√o ’mÿtådisvabhåva-
sya paramånandar¥pasya paramåtmana¢ pratyagåtmå prati≤†hå sa-
myagjñånena paramåtmatayå niŸcıyate | tadetat “brahmabh¥yåya
kalpate” (bha. gı. 14.26) ityuktam | yayå ceŸvaraŸaktyå bhaktånu-
grahådiprayojanåya brahma prati≤†hate pravartate så Ÿaktirbra-
hmaivåhaæ ŸaktiŸaktimatorananyatvådityabhipråya¢ | athavå bra-
hmaŸabdavåcyatvåtsavikalpakaæ brahma tasya brahma√o nirvika-
lpako ’hameva nånya¢ prati≤†hå åŸraya¢ | kiæ viŸi≤†asyåmÿtasyå-
mara√adharmakasya avyayasya vyayarahitasya | kiæ ca ŸåŸvatasya
ca nityasya dharmasya jñånani≤†hålak≤a√asya sukhasya tajjanita-
syaikåntikasyaikåntaniyatasya ca “prati≤†håham” iti vartate ||
iti Ÿrımadbhagavadgıtås¥pani≤atsu brahmavidyåyåæ
yogaŸåstre Ÿrıkÿ≤√årjunasaævåde
gu√atrayavibhågayogo nåma
caturdaŸo ’dhyåya¢

*
atha pañcadaŸo ’dhyåya¢

yasmånmadadhınaæ karmi√åæ karmaphalaæ jñåninåæ ca jnå-


naphalamato bhaktiyogena måæ ye sevante te matprasådåjjñåna-
pråptikrame√a gu√åtıtå mok≤aæ gacchanti | kimu vaktavyamåtma-
nastattvameva samyagvijånanta ityato bhagavånarjunenåpÿ≤†o ’pyå-
tmanastattvaæ vivak≤uruvåca – ¥rdhvam¥lamityådinå | tatra tåva-
dvÿk≤ar¥pakakalpanayå vairågyaheto¢ saæsårasvar¥paæ var√ayati |
viraktasya hi saæsårådbhagavattattvajñåne ’dhikåro nånyasyeti –

Ÿrıbhagavånuvåca –

¥rdhvam¥lamadha¢ŸåkhamaŸvatthaæ pråhuravyayam |
chandåæsi yasya par√åni yastaæ veda sa vedavit || 15.1 ||

¥rdhvam¥lamiti | ¥rdhvam¥laæ kålata¢ s¥k≤matvåtkåra√atvå-


nnityatvånmahattvåccordhvamucyate brahmåvyaktaæ måyåŸakti-
mattanm¥lamasyeti so ’yaæ saæsåravÿk≤a ¥rdhvam¥la¢ | ŸruteŸca
– “¥rdhvam¥lo ’våkŸåkha e≤o ’Ÿvattha¢ sanåtana¢” (ka. 2.3.1) iti | pu-
rå√e ca – “avyaktam¥laprabhavastasyaivånugrahocchrita¢ | buddhi-
skandhamayaŸcaivendriyåntarako†ara¢ || mahåbh¥taviŸåkhaŸca vi-
≤ayai¢ patravåæstathå | dharmådharmasupu≤paŸca sukhadu¢kha-
phalodaya¢ || åjıvya¢ sarvabh¥tånåæ brahmavÿk≤a¢ sanåtana¢ |
etadbrahmavanaæ caiva brahmåcarati nityaŸa¢ || etacchittvå ca bhi-
två ca jñånena paramåsinå | tataŸcåtmaratiæ pråpya tasmånnåva-
rtate puna¢” (ma. bhå. 14.47.12-15) ityådi | tam¥rdhvam¥laæ saæså-
raæ måyåmayaæ vÿk≤amadha¢Ÿåkhaæ mahadahaækåratanmåtrå-
daya¢ Ÿåkhå ivåsyådho bhavantıti so ’yamadha¢Ÿåkhastamadha¢-
Ÿåkhaæ na Ÿvo ’pi sthåtå ityaŸvatthastaæ k≤a√åpradhvaæsinama-
Ÿvatthaæ pråhu¢ kathayantyavyayaæ saæsåramåyåyå anådikåla-
pravÿttatvåtso ’yaæ saæsåravÿk≤o ’vyayo ’nådyantadehådisaætånå-
986 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 15.1

Ÿrayo hi suprasiddha¢ tamavyayam | tasyaiva saæsåravÿk≤asyeda-


manyadviŸe≤a√aæ chandåæsi yasya par√åni chandåæsi chådanå-
dÿgyaju¢såmalak≤a√åni yasya saæsåravÿk≤asya par√åni par√ånı-
va | yathå vÿk≤asya parirak≤a√årthåni par√åni tathå vedå¢ saæsåra-
vÿk≤aparirak≤a√årthå dharmådharmataddhetuphalapradarŸanårtha-
tvåt | yathåvyåkhyåtaæ saæsåravÿk≤aæ sam¥laæ yastaæ veda sa
vedavidvedårthavidityartha¢ | nahi sam¥låtsaæsåravÿk≤ådasmåjjñe-
yo ’nyo ’√umåtro ’pyavaŸi≤†o ’styata¢ sarvajña¢ sarvavedårthavidi-
ti sam¥lasaæsåravÿk≤ajñånaæ stauti || tasyaitasya saæsåravÿk≤asyå-
parå ’vayavakalpanocyate –
adhaŸcordhvaæ prasÿtåstasya Ÿåkhå
gu√apravÿddhå vi≤ayapravålå¢ |
adhaŸca m¥lånyanusaætatåni
karmånubandhıni manu≤yaloke || 15.2 ||
adhaŸceti | adho manu≤yådibhyo yåvatsthåvaram¥rdhvaæ ca yå-
vadbråhma√a¢ viŸvasÿjo dhåma ityetadantaæ yathåkarma yathå-
Ÿrutaæ jñånakarmaphalåni tasya vÿk≤asya Ÿåkhå iva Ÿåkhå¢ prasÿ-
tå¢ pragatå gu√apravÿddhå gu√ai¢ sattvarajastamobhi¢ pravÿ-
ddhå¢ sth¥lıkÿtå upådånabh¥tai¢ | vi≤ayapravålå vi≤ayå¢ Ÿabdåda-
ya¢ pravålå iva dehådikarmaphalebhya¢ Ÿåkhåbhyo ’§kurıbhava-
ntıva | tena vi≤ayapravålå¢ Ÿåkhå¢ | saæsåravÿk≤asya paramam¥la-
mupådånaæ kåra√aæ p¥rvamuktam | athedånıæ karmaphalajani-
tarågadve≤ådivåsanå m¥lånıva dharmådharmapravÿttikåra√ånya-
våntarabhåvıni tånyadhaŸca dehådyapek≤ayå m¥lånyanusaætatå-
nyanupravi≤†åni karmånubandhıni karma dharmådharmalak≤a√a-
manubandha¢ paŸcådbhåvı | ye≤åmudbh¥timan¥dbhavati tåni ka-
rmånubandhıni manu≤yaloke viŸe≤ata¢ | atra hi manu≤yå√åæ ka-
rmådhikåra¢ prasiddha¢ || yastvayaæ var√ita¢ saæsåravÿk≤a¢ –
na r¥pamasyeha yathopalabhyate
nånto na cådirna ca saæprati≤†hå |
aŸvatthamenaæ suvir¥ƒham¥lam-
asa§gaŸastre√a dÿƒhena cchittvå || 15.3 ||

na r¥pamiti | na r¥pamasyeha yathopavar√itaæ tathå naivopa-


labhyate | svapnamarıcyudakamåyågandharvanagarasamatvåddÿ-
15.5 pañcada©o ’dhyåya¢ 987

≤†ana≤†asvar¥po hi sa ityata eva nånto na paryanto ni≤†hå parisa-


måptirvå vidyate | tathå na cådi¢ | ita årabhyåyaæ pravÿtta iti na
kenacidgamyate | na ca saæprati≤†hå sthitirmadhyamasya na kenaci-
dupalabhyate | aŸvatthamenaæ yathoktaæ suvir¥ƒham¥laæ su≤†hu
vir¥ƒhåni virohaæ gatåni sadÿƒhåni m¥låni yasya tamenaæ suvi-
r¥ƒham¥lam | asa§gaŸastre√åsa§ga¢ putravittalokai≤a√ådibhyo vyu-
tthånaæ tenåsa§gaŸastre√a dÿƒhena paramåtmåbhimukhyaniŸcaya-
dÿƒhıkÿtena puna¢punarvivekåbhyåsåŸmaniŸitena cchittvå saæsåra-
vÿk≤aæ sabıjamuddhÿtya ||
tata¢ padaæ tatparimårgitavyaæ
yasmingatå na nivartanti bh¥ya¢ |
tameva cådyaæ puru≤aæ prapadye
yata¢ pravÿtti¢ prasÿtå purå√ı || 15.4 ||

tata iti | tata¢ paŸcåtpadaæ vai≤√avaæ tatparimårgitavyaæ pari-


mårga√amanve≤a√aæ jñåtavyamityartha¢ | yasminpade gatå¢ pra-
vi≤†å na nivartanti nåvartante bh¥ya¢ puna¢ saæsåråya | kathaæ
parimårgitavyamityåha – tameva ca ya¢ padaŸabdenokta ådyamå-
dau bhavaæ puru≤aæ prapadya ityevaæ parimårgitavyaæ tacchara-
√atayetyartha¢ | ko ’sau puru≤a ityucyate yato yasmåtpuru≤åtsaæ-
såramåyåvÿk≤apravÿtti¢ prasÿtå ni¢sÿtå | aindrajålikådiva måyå pu-
rå√ı cirantanı || kathaæbh¥tåstatpadaæ gacchantıtyucyate –
nirmånamohå jitasa§gado≤å
adhyåtmanityå vinivÿttakåmå¢ |
dvandvairvimuktå¢ sukhadu¢khasaæjñair-
gacchantyam¥ƒhå¢ padamavyayaæ tat || 15.5 ||
nirmånamohå iti | nirmånamohå månaŸca mohaŸca månamo-
hau tau nirgatau yebhyaste nirmånamohå månamohavarjitå¢ | jita-
sa§gado≤å¢ sa§ga eva do≤a¢ sa§gado≤o jita¢ sa§gado≤o yaiste jita-
sa§gado≤å¢ | adhyåtmanityå¢ paramåtmasvar¥pålocananityåsta-
tparå¢ | vinivÿttakåmå viŸe≤ato nirlepena nivÿttå¢ kåmå ye≤åæ te
vinivÿttakåmå | yataya¢ saænyåsino dvandvai¢ priyåpriyådibhirvi-
muktå¢ sukhadu¢khasaæjñai¢ parityaktå gacchantyam¥ƒhå moha-
varjitå¢ padamavyayaæ tadyathoktam || tadeva padaæ punarviŸi-
≤yate –
988 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 15.6

na tadbhåsayate s¥ryo na ŸaŸa§ko na påvaka¢ |


yadgatvå na nivartante taddhåma paramaæ mama || 15.6 ||

na taditi | taddhåmeti vyavahitena dhåmnå saæbadhyate | ta-


ddhåma tejor¥paæ padaæ na bhåsayate s¥rya åditya¢ sarvåvabhå-
sanaŸaktimatve ’pi sati | tathå na ŸaŸa§kå candro na påvako någni-
rapi | yaddhåma vai≤√avaæ padaæ gatvå pråpya na nivartante ya-
cca s¥ryådirna bhåsayate taddhåma padaæ paramaæ mama vi-
≤√o¢ || yadgatvå na nivartanta ityuktam | nanu sarvå hi gatiråga-
tiyantå “saæyogå viprayogånt墔 iti hi prasiddham | kathamucyate
taddhåmagatånåæ nåsti nivÿttiriti | Ÿÿ√u tatra kåra√am –

mamaivåæŸo jıvaloke jıvabh¥ta¢ sanåtana¢ |


mana¢≤a≤†hånındriyå√i prakÿtisthåni kar≤ati || 15.7 ||

mameti | mamaiva paramåtmana¢ nåråya√asyåæŸo bhågo ’va-


yava ekadeŸa ityanarthåntaraæ jıvaloke jıvånåæ loke saæsåre jıva-
bh¥to kartå bhokteti prasiddha¢ sanåtana¢ cirantana¢ | yathå jala-
s¥ryaka¢ s¥ryåæŸo jalanimittåpåye s¥ryameva gatvå na nivartate
tenaivåtmanå saægacchatyevameva | yathå vå gha†ådyupådhipari-
cchinno gha†ådyåkåŸa¢ san gha†ådinimittåpåya åkåŸaæ pråpya na
nivartate | ata upapannamuktam “yadgatvå na nivartante” (bha. gı.
15.6) iti | nanu niravayavasya paramåtmana¢ kuto ’vayava ekadeŸo
’æŸa iti | såvayavatve ca vinåŸaprasaægo ’vayavavibhågåt | nai≤a do-
≤o ’vidyåkÿtopådhiparicchinna ekadeŸo ’æŸa iva kalpito yata¢ | da-
rŸitaŸcåyamartha¢ k≤etrådhyåye vistaraŸa¢ | sa ca jıvo madaæŸa-
tvena kalpita¢ kathaæ saæsaratyutkråmati cetyucyate – mana¢≤a-
≤†hånındriyå√i Ÿrotrådıni prakÿtisthåni svasthåne kar√aŸa≤kulyådau
prakÿtau sthitåni kar≤atyåkar≤ati || kasminkåle –

Ÿarıraæ yadavåpnoti yaccåpyutkråmatıŸvara¢ |


gÿhıtvaitåni saæyåti våyurgandhånivåŸayåt || 15.8 ||

Ÿarıramiti | yaccåpi yadå cåpyutkråmati ıŸvaro dehådisaæghå-


tasvåmı jıva¢ tadå kar≤atıti Ÿlokasya dvitıyapådo ’rthavaŸåtpråtha-
myena saæbadhyate | yadå ca p¥rvasmåcchariråccharıråntaramavå-
pnoti tadå gÿhıtvaitåni mana¢≤a≤†hånındriyå√i saæyåti samyagyåti
15.11 pañcada©o ’dhyåya¢ 989

gacchati | kimivetyåha våyu¢ pavano gandhånivåŸåyatpu≤påde¢ ||


kåni punastånıti –

Ÿrotraæ cak≤u¢ sparŸanaæ ca rasanaæ ghrå√ameva ca |


adhi≤†håya manaŸcåyaæ vi≤ayånupasevate || 15.9 ||

Ÿrotramiti | Ÿrotraæ cak≤u¢ sparŸanaæ ca tvagindriyaæ rasa-


naæ ghrå√ameva ca manaŸca ≤a≤†haæ pratyekamindriye√a sahå-
dhi≤†håya dehastho vi≤ayåñŸabdådınupasevate || evaæ dehagataæ
dehåt –

utkråmantaæ sthitaæ våpi bhuñjånaæ vå gu√ånvitam |


vim¥ƒhå nånupaŸyanti paŸyanti jñånacak≤u≤a¢ || 15.10 ||

utkråmantamiti | utkråmantaæ dehaæ p¥rvopåttaæ parityåja-


ntaæ sthitaæ våpi dehe ti≤†hantaæ bhuñjånaæ vå ŸabdådıæŸcopa-
labhamånaæ gu√ånvitaæ sukhadu¢khamohådyairgu√airanvitama-
nugataæ saæyuktamityartha¢ | evaæbh¥tamapyenamatyantadarŸa-
nagocarapråptaæ vim¥ƒhå dÿ≤†ådÿ≤†avi≤ayabhogabalåkÿ≤†acetasta-
yå anekadhå m¥ƒhå nånupaŸyanti | aho ka≤†aæ vartata ityanukro-
Ÿati ca bhagavån | ye puna¢ pramå√ajanitajñånacak≤u≤a¢ ta enaæ
paŸyanti jñånacak≤u≤o viviktadÿ≤†aya ityartha¢ ||

yatanto yoginaŸcainaæ paŸyantyåtmanyavasthitam |


yatanto ’pyakÿtåtmåno nainaæ paŸyantyacetasa¢ || 15.11 ||

yatanta iti | yatanta¢ prayatnaæ kurvanto yoginaŸca samåhita-


cittå enaæ prakÿtamåtmånaæ paŸyantyayamahamasmıtyupalabha-
nta åtmani svasyåæ buddhåvavasthitam | yatanto ’pi Ÿåstrådipra-
må√ai¢ | akÿtåtmåno ’saæskÿtåtmånastapasendriyajayena ca duŸca-
ritådanuparatå aŸåntadarpå¢ prayatnaæ kurvanto ’pi nainaæ paŸya-
ntyacetaso ’vivekina¢ || yatpadaæ sarvasyåvabhåsakamapyagnyå-
dityådikaæ jyotirnåvabhåsayate yatpråptåŸca mumuk≤ava¢ puna¢
saæsåråbhimukhå na nivartante | yasya ca padasyopådhibhedama-
nuvidhıyamånå jıvå – gha†åkåŸådaya ivåkåŸåsya – aæŸå¢ tasya pa-
dasya sarvåtmatvaæ sarvavyavahåråspadatvaæ ca vivak≤uŸcatu-
rbhi¢ Ÿlokairvibh¥tisaæk≤epamåha bhagavån –
990 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 15.12

yadådityagataæ tejo jagadbhåsayate ’khilam |


yaccandramasi yaccågnau tattejo viddhi måmakam || 15.12 ||

yadådityeti | yadådityagatamådityåŸrayam | kim | tatejo dıpti¢


prakåŸo jagadbhåsayate prakåŸayatyakhilaæ samastaæ yaccandra-
masi ŸaŸabhÿti tejo ’vabhåsakaæ vartate | yaccågnau hutavahe ta-
tejo viddhi vijånıhi måmakaæ madıyaæ mama vi≤√ostajjyoti¢ | a-
thavå ’’dityagataæ tejaŸcaitanyåtmakaæ jyoti¢ | yaccandramasi ya-
ccågnau vartate tatejo viddhi måmakaæ madıyaæ mama vi≤√osta-
jjyoti¢ || nanu sthåvare≤u ja§game≤u ca tatsamånaæ caitanyåtma-
kaæ jyoti¢ | tatra kathamidaæ viŸe≤a√aæ yadådityagatamityådi |
nai≤a do≤a¢ | satvådhikyådåvistaratvopapate¢ | ådityådi≤u hi sa-
tvamatyantaprakåŸamatyantabhåsvaramatastatraivå ’’vistaraæ jyo-
tiriti tadviŸe≤yate | na tu tatraiva tadadhikamiti | yathå hi loke tulye
’pi mukhasaæsthåne na kå≤†hakuƒyådau mukhamåvirbhavati | å-
darŸådau tu svacche svacchatare ca tåratamyenåvirbhåvati tadvat ||
kiæ ca –

gåmåviŸya ca bh¥tåni dhårayåmyahamojaså |


pu≤√åmi cau≤adhı¢ sarvå¢ somo bh¥två rasåtmaka¢ || 15.13 ||

gåmiti | gåæ pÿthivımåviŸya praviŸya dhårayåmi bh¥tåni jaga-


dahamojaså balena yadbalaæ kåmarågavivarjitamaiŸvaraæ r¥paæ
jagadvidhåra√åya pÿthivyåmåvi≤†aæ yena gurvı pÿthivı nådha¢ pa-
tati na vidıryate ca | tathå ca mantravar√a¢ – “yena dyaurugrå pÿ-
thivı ca dÿƒhå” (tai. saæ. 4.1.8) iti “sa dadhåra pÿthivım” (tai. saæ.
4.1.8) ityådiŸca | ato gåmåviŸya ca bh¥tåni caråcarå√i dhårayåmıti
yuktamuktam | kiæ ca pÿthivyåæ jåtå o≤adhı¢ sarvå vrıhiyavådyå¢
pu≤√åmi pu≤†imatı¢ rasasvådumatıŸca karomi somo bh¥två raså-
tmaka¢ soma¢ sanrasåtmako rasasvabhåva¢ | sarvarasånåmåkåra¢
soma¢ sa hi sarvå o≤adhı¢ svåtmarasånupraveŸayanpu≤√åti || kiæ
ca –
ahaæ vaiŸvånaro bh¥två prå√inåæ dehamåŸrita¢ |
prå√åpånasamåyukta¢ pacåmyannaæ caturvidham || 15.14 ||
ahamiti | ahameva vaiŸvånara udarastho ’gnirbh¥två “ayama-
gnirvaiŸvånaro yo ’yamanta¢ puru≤e yenedamannaæ pacyate” (bÿ.
15.16 pañcada©o ’dhyåya¢ 991

5.9.1) ityådiŸrutervaiŸvånara¢ sanprå√inåæ prå√avatåæ dehamåŸri-


ta¢ pravi≤†a¢ prå√åpånasamåyukta¢ prå√åpånåbhyåæ samåyukta¢
saæyukta¢ pacåmi paktiæ karomyannamaŸanaæ caturvidhaæ ca-
tu≤prakåraæ bhojyaæ bhak≤yaæ co≤yaæ lehyaæ ca | bhoktå vai-
Ÿvånaro ’gnirbhojyamannaæ soma¢ tadetadubhayamagnı≤omau sa-
rvamiti paŸyato ’nnado≤alepo na bhavati || kiæ ca –

sarvasya cåhaæ hÿdi saænivi≤†o


matta¢ smÿtirjñånamapohanaæ ca |
vedaiŸca sarvairahameva vedyo
vedåntakÿdvedavideva cåham || 15.15 ||

sarvasyeti | sarvasya prå√ijåtasyåhamåtmå sanhÿdi buddhau


saænivi≤†a¢ | ato matta åtmana¢ sarvaprå√inåæ smÿtirjñånaæ ta-
dapohanamapagamanaæ ca | ye≤åæ yathå pu√yakarma√åæ pu√ya-
karmånurodhena jñånasmÿtı bhavata¢ | tathå påpakarma√åæ påpa-
karmånurodhena smÿtijñånayorapohanaæ cåpåyanamapagamanaæ
ca | vedaiŸca sarvairahameva paramåtmå vedyo veditavya¢ | vedå-
ntakÿdvedåntårthasaæpradåyakÿdityartha¢ | vedavidvedårthavideva
cåham || bhagavata ıŸvarasya nåråya√åkhyasya vibh¥tisaæk≤epa u-
kto viŸi≤†opådhikÿto “yadådityagatam” (bha. gı. 15.12) ityådinå | a-
thådhunå tasyaiva k≤aråk≤aropådhipravibhaktatayå nirupådhika-
sya kevalasya svar¥panirdidhårayi≤ayottare Ÿlokå årabhyante | ta-
tra sarvamevåtıtånågatådhyåyårthajåtaæ tridhå råŸıkÿtyåha –

dvåvimau puru≤au loke k≤araŸcåk≤ara eva ca |


k≤ara¢ sarvå√i bh¥tåni k¥†astho ’k≤ara ucyate || 15.16 ||

dvåvimåviti | dvåvimau pÿthagråŸıkÿtau puru≤åvityucyete loke


saæsåre | k≤araŸca k≤aratıti k≤aro vinåŸıti eko råŸi¢ | apara¢ puru≤o
’k≤arastadviparıto | bhagavato måyåŸakti¢ k≤aråkhyasya puru≤a-
syotpattibıjamanekasaæsårijantukåmakarmådisaæskåråŸrayo ’k≤a-
ra¢ puru≤a ucyate | kau tau puru≤åvityåha svayameva bhagavån –
k≤ara¢ sarvå√i bh¥tåni samastaæ vikårajåtamityartha¢ | k¥†astha¢
k¥†o råŸı råŸiriva sthita¢ | athavå k¥†o måyå vañcanå jihmatå ku†ila-
teti paryåyå¢ | anekamåyåvañcanådiprakåre√a sthita¢ k¥†astha¢ |
saæsårabıjånantyånnak≤aratıtyak≤ara ucyate || åbhyåæ k≤aråk≤arå-
992 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 15.16

bhyåmanyo vilak≤a√a¢ k≤aråk≤aropådhidvayado≤e√åspÿ≤†o nitya-


Ÿuddhabuddhamuktasvabhåva¢ –

uttama¢ puru≤astvanya¢ paramåtmetyudåhÿta¢ |


yo lokatrayamåviŸya bibhartyavyaya ıŸvara¢ || 15.17 ||

uttama iti | uttama utkÿ≤†atama¢ puru≤astvanyo ’tyantavilak≤a-


√a åbhyåæ paramåtmeti | paramaŸcåsau dehådyavidyåkÿtåtmabhya¢ |
åtmå ca sarvabh¥tånåæ pratyakcetana ityata paramåtmetyudåhÿta
ukto vedånte≤u | sa eva viŸe≤yate yo lokatrayaæ bh¥rbhuva¢svarå-
khyaæ svakıyayå caitanyabalaŸaktyå ’’viŸya praviŸya bibharti sva-
r¥pasadbhåvamåtre√a bibharti dhårayatyavyayo nåsya vyayo vidya-
ta ityavyaya¢ | ka¢ | ıŸvara¢ sarvajño nåråya√åkhya ıŸanaŸıla¢ || ya-
thåvyåkhyåtasyeŸvarasya puru≤ottama ityetannåma prasiddham |
tasya nåmanirvacanaprasiddhyå ’rthavattvaæ nåmno darŸayannira-
tiŸayo ’hamıŸvara ityåtmånaæ darŸayati bhagavån –

yasmåtk≤aramatıto ’hamak≤arådapi cottama¢ |


ato ’smi loke vede ca prathita¢ puru≤ottama¢ || 15.18 ||
yasmåditi | yasmåtk≤aramatıto ’haæ saæsåramåyåvÿk≤amaŸva-
tthåkhyamatikrånto ’hamak≤arådapi saæsåramåyåvÿk≤abıjabh¥tåda-
pi cottama utkÿ≤†atama ¥rdhvatamo vå ’ta¢ tåbhyåæ k≤aråk≤arå-
bhyåmuttamatvådasmi loke vede ca prathita¢ prakhyåta¢ | puru≤o-
ttama ityevaæ måæ bhaktajanå vidu¢ | kavaya¢ kåvyådi≤u cedaæ
nåma nibadhnanti | puru≤ottama ityanenåbhidhånenåbhigÿ√anti ||
athedånıæ yathåniruktamåtmånaæ yo veda tasyedaæ phalamucya-
te –
yo måmevamasaæm¥ƒho jånåti puru≤ottamam |
sa sarvavidbhajati måæ sarvabhåvena bhårata || 15.19 ||
ya iti | yo måmıŸvaraæ yathoktaviŸe≤a√amevaæ yathoktena pra-
kåre√åsaæm¥ƒha¢ saæmohavarjita¢ saæjånåtyayamahamasmıti pu-
ru≤ottamaæ sa sarvavitsarvåtmanå sarvaæ vettıti sarvajña¢ sarva-
bh¥tasthaæ bhajati måæ sarvabhåvena sarvåtmatayå he bhårata ||
asminnadhyåye bhagavattattvajñånaæ mok≤aphalamuktvå ’thedå-
nıæ tatstauti –
15.20 pañcada©o ’dhyåya¢ 993

iti guhyatamaæ Ÿåstramidamuktaæ mayå ’nagha |


etadbuddhvå buddhimånsyåtkÿtakÿtyaŸca bhårata || 15.20 ||

itıti | ityetadguhyatamaæ gopyatamamatyantarahasyamitye-


tat | kiæ tat | Ÿåstram | yadyapi gıtåkhyaæ samastaæ Ÿåstramucya-
te tathåpyayamevådhyåya iha Ÿåstramityucyate stutyarthaæ praka-
ra√åt | sarvo hi gıtåŸåstrårtho ’sminnadhyåye samåsenokto na ke-
valaæ gıtåŸåstrårtha eva | kiæ tu sarvaŸca vedårtha iha parisamå-
pta¢ | “yastaæ veda sa vedavit” (bha. gı. 15.1) “vedaiŸca sarvairaha-
meva vedya¢” (bha. gı. 15.15) iti coktam | idamuktaæ kathitaæ ma-
yå he ’naghåpåpa | etacchåstraæ yathådarŸitårthaæ buddhvå bu-
ddhimånsyådbhavennånyathå kÿtakÿtyaŸca bhårata kÿtaæ kÿtyaæ
kartavyaæ yena sa kÿtakÿtyo viŸi≤†ajanmapras¥tena bråhma√ena
yatkartavyaæ tatsarvaæ bhagavattattve vidite kÿtaæ bhaveditya-
rtha¢ | na cånyathå kartavyaæ parisamåpyate kasyacidityabhiprå-
ya¢ | “sarvaæ karmåkhilaæ pårtha jñåne parisamåpyate” (bha. gı.
4.33) iti coktam | “etaddhi janmasåphalyaæ bråhma√asya viŸe≤ata¢
pråpyaitatkÿtakÿtyo hi dvijo bhavati nånyathå” (ma. 12.93) iti ca må-
navaæ vacanam | yata etatparamårthatattvaæ matta¢ Ÿrutavåna-
syata¢ kÿtårthastvaæ bhårateti ||

iti Ÿrımadbhagavadgıtås¥pani≤atsu brahmavidyåyåæ


yogaŸåstre Ÿrıkÿ≤√årjunasaævåde
puru≤ottamayogo nåma
pañcadaŸo ’dhyåya¢

*
atha ≤oƒaŸo ’dhyåya¢

daivyåsurı råk≤ası ceti prå√inåæ prakÿtayo navame ’dhyåye s¥-


citå¢ | tåsåæ viståre√a pradarŸanåya “abhayaæ sattvasaæŸuddhi¢”
ityådiradhyåya årabhyate | tatra saæsåramok≤åya daivı prakÿti¢ |
nibandhåyåsurı råk≤ası ceti daivyå ådånåya pradarŸanaæ kriyate |
itarayo¢ parivarjanåya ca –

Ÿrıbhagavånuvåca –
abhayaæ sattvasaæŸuddhirjñånayogavyavasthiti¢ |
dånaæ damaŸca yajñaŸca svådhyåyastapa årjavam || 16.1 ||
abhayamiti | abhayamabhırutå | sattvasaæŸuddhi¢ sattvasyå-
nta¢kara√asya saæŸuddhi¢ saævyavahåre≤u paravañcanamåyånÿ-
tådiparivarjanaæ Ÿuddhasattvabhåvena vyavahåra ityartha jñåna-
yogavyavasthiti¢ jñånaæ Ÿåstrata åcåryataŸcå ’’tmådipadårthånå-
mavagamo ’vagatånåmindriyådyupasaæhåre√aikågratayå svåtma-
saævedyatåpådanaæ yoga¢ | tayorjñånayogayorvyavasthitirvya-
vasthånaæ tanni≤†hatå | e≤å pradhånå daivı såttvikı saæpat | yatra
ca ye≤åmadhikÿtånåæ yå prakÿti¢ saæbhavati | såttvikı socyate | då-
naæ yathåŸakti saævibhågo ’nnådınåæ | damaŸca båhyakara√ånå-
mupaŸama¢ | anta¢kara√asyopaŸamaæ Ÿåntiæ vak≤yati | yajñaŸca
Ÿrauto ’gnihotrådi¢ | smårtaŸca devayajñådi¢ | svådhyåya ÿgvedå-
dyadhyayanamadÿ≤†artham | tapo vak≤yamå√aæ Ÿårırådi | årjava-
mÿjutvaæ sarvadå || kiæ ca –

ahiæså satyamakrodhastyåga¢ ŸåntirapaiŸunam |


dayå bh¥te≤valoluptvaæ mårdavaæ hrıracåpalam || 16.2 ||
ahiæseti | ahiæså ahiæsanaæ prå√inåæ pıƒåvarjanaæ satya-
mapriyånÿtavarjitaæ yathåbh¥tårthavacanam | akrodha¢ parairå-
996 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 16.2

kru≤asyåbhihatasya vå pråptasya krodhasyopaŸamanaæ tyåga¢ saæ-


nyåsa¢ p¥rvaæ dånasyoktatvåt | Ÿåntiranta¢kara√asyopaŸama¢ | a-
paiŸunamapiŸunatå | parasmaipararandhrapraka†ıkara√aæ paiŸu-
naæ tadabhåvo ’paiŸunam | dayå kÿpå bh¥te≤u du¢khite≤u | alolu-
ptvamindriyå√åæ vi≤ayasaænidhåvavikriyå | mårdavaæ mÿdutå
’krauryam | hrırlajjå | acåpalamasati prayojane våkpå√ipådådınå-
mavyåpårayitÿtvam || kiñca –

teja¢ k≤amå dhÿti¢ Ÿaucamadroho nåtimånitå |


bhavanti saæpadaæ daivımabhijåtasya bhårata || 16.3 ||

teja iti | teja¢ prågalbyaæ na tvaggatå dıpti¢ | k≤amå ’kru≤†a-


sya tåƒitasya vå ’ntarvikriyånutpatti¢ | utpannåyåæ vikriyåyåmu-
paŸamanamakrodha ityavocåma | itthaæ k≤amåyå ’krodhasya ca vi-
Ÿe≤a¢ | dhÿtirdehendriye≤vavasådaæ pråpte≤u tasya prati≤edhako
’nta¢kara√avÿttiviŸe≤o yenottaæbhitåni kara√åni dehaŸcanåvasıda-
nti | Ÿaucaæ dvividhaæ mÿjjalakÿtaæ båhyamåbhyantaraæ ca ma-
nobuddhyornairmalyaæ måyårågådikålu≤yåbhåva¢ | evaæ dvivi-
dhaæ Ÿaucam | adroha¢ parijaghaæsåbhåvo ’hiæsanam | nåtimåni-
tå ’tyarthaæ måno ’timåna¢ sa yasya vidyate so ’timånı | tadbhåvo
’timånitå | tadabhåvo nåtimånitå ’’tmåna¢ p¥jyatåtiŸayabhåvanå-
bhåva ityartha¢ | bhavantyabhayådınyetadantåni saæpadamabhijå-
tasya | kiæ viŸi≤†åæ saæpadam | daivıæ devånåæ yå saæpattåma-
bhilak≤ya jåtasya devavibh¥tyarhasya bhåvikalyå√asyetyartho he
bharata || athedånımåsurı saæpaducyate –

daæbho darpo ’timånaŸca krodha¢ påru≤yameva ca |


ajñånaæ cåbhijåtasya pårthaæ saæpadamåsurım || 16.4 ||

daæbha iti | daæbho dharmadhvajitvam | darpo vidyadhana-


svajanådinimitta utseka¢ | atimåna¢ p¥rvokta¢ | krodhaŸca | påru-
≤yameva ca paru≤avacanam – yathå kå√aæ cak≤u≤mån | vir¥paæ
r¥pavån | hınåbhijanamuttamåbhijana ityådi | ajñånaæ cåviveka-
jñånaæ kartavyåkartavyådivi≤ayamithyåpratyaya¢ | abhijåtasya på-
rtha | kimabhijåtasyetyåha – saæpadamåsurımasurå√åæ saæpadå-
surı tamabhijåtasyetyartha¢ || anayo¢ saæpado¢ kåryamucyate –
16.7 ≤oƒa©o ’dhyåya¢ 997

daivı saæpadvimok≤åya nibandhåyåsurı matå |


må Ÿuca¢ saæpadaæ daivımabhijåto ’si på√ƒava || 16.5 ||
daivıti | daivı saæpadyå så vimok≤åya saæsårabandhanåt | ni-
bandhåya niyato bandho nibandha¢ tadarthamåsurı saæpanmatå-
bhipretå | tathå råk≤ası ca | tatraivamukte ’rjunasyåntargataæ bhå-
vaæ “kimahamasurasaæpadyukta¢ kiæ vå daivasaæpadyukta¢” i-
tyevamålocanår¥pamålak≤yåha bhagavån – må Ÿuca¢ Ÿokaæ må kå-
r≤ı¢ | saæpadaæ daivımabhijåto ’syabhilak≤ya jåto ’si | bhåvikalyå-
√astvamasıtyartho he på√ƒava ||

dvau bh¥tasargau loke ’smindaiva åsura eva ca |


daivo vistaraŸa¢ prokta åsuraæ pårtha me Ÿÿ√u || 16.6 ||
dvåviti | dvau dvisaækhyåkau bh¥tasargau bh¥tånåæ manu≤yå-
√åæ sargau sÿ≤†ı bh¥tasargau sÿjyete iti sargau bh¥tånyeva sÿjya-
månåni daivåsurasaæpaddvayayuktåni dvau bh¥tasargåvityucyate
“dvayå ha vaipråjåpatyå devåŸcåsuråŸca” (bÿ. 1.3.1) iti Ÿrute¢ | loke
’sminsaæsåre ityartha¢ sarve≤åæ dvaividhyopapatte¢ | kau tau bh¥-
tasargåvityucyate | prakÿtåveva daiva åsura eva ca | uktayoreva pu-
naranuvåde prayojanamåha daivo bh¥tasarga¢ “abhayaæ sattva-
saæŸuddhi¢” (bha. gı. 16.1) ityådinå vistaraŸo viståraprakårai¢ pro-
kta¢ kathita¢ | na tvåsuro vistaraŸa¢ | atastatparivarjanårthamåsu-
raæ pårtha me mama vacanåducyamånaæ vistaraŸa¢ Ÿÿ√vavadhå-
raya || å ’dhyayaparisamåpteråsurı saæpatprå√iviŸe≤a√atvena pra-
darŸyate pratyak≤åkara√ena ca Ÿakyate tasyå¢ parivarjanaæ kartu-
miti –

pravÿttiæ ca nivÿttiæ ca janå na viduråsurå¢ |


na Ÿaucaæ nåpi cåcåro na satyaæ te≤u vidyate || 16.7 ||
pravÿttimiti | pravÿttiæ ca pravartanaæ yasminpuru≤årthaså-
dhane kartavye pravÿttiståm | nivÿttiæ caitadviparıtåæ yasmådana-
rthahetornivartitavyaæ så nivÿttiståæ ca | janå åsurå na vidurna jå-
nanti | na kevalaæ pravÿttinivÿttı eva te na vidu¢ | na Ÿaucaæ nåpi
cåcåro na satyaæ te≤u vidyate | aŸaucå anåcårå måyåvino ’nÿtavå-
dino hyåsurå¢ || kiñca –
998 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 16.8

asatyamaprati≤†haæ te jagadåhuranıŸvaram |
aparasparasaæbh¥taæ kimanyatkåmahaitukam || 16.8 ||

asatyamiti | asatyaæ yathå vayamanÿtapråyåstathedaæ jagatsa-


rvamasatyam | aprati≤†haæ ca nåsya dharmådharmau prati≤†hå ato
’prati≤†haæ ca | iti te åsurå janå jagadåhu¢ | anıŸvaraæ na ca dha-
rmådharmasavyapek≤ako ’sya ŸåsiteŸvaro vidyate ityato ’nıŸvaraæ
jagadåhu¢ | kiñcåparasparasaæbh¥taæ kåmaprayuktayo¢ strıpuru-
≤ayoranyonyasaæyogåjjagatsarvaæ saæbh¥tam | kimanyatkåma-
haitukaæ kåmahetukameva kåmahaitukam | kimanyajjagata¢ kå-
ra√am | na kiñcidadÿ≤†aæ dharmådharmådi kåra√åntaraæ vidyate
jagata¢ kåma eva prå√inåæ kåra√amiti lokåyatikadÿ≤†iriyam ||

etåæ dÿ≤†imava≤†abhya na≤†åtmano ’lpabuddhaya¢ |


prabhavantyugrakarmå√a¢ k≤ayåya jagato ’hitå¢ || 16.9 ||

etåmiti | etåæ dÿ≤†imava≤†abhyåŸritya na≤†åtmåno na≤†asvabhå-


vå vibhra≤†aparalokasådhanå alpabuddhayo vi≤ayavi≤ayå alpaiva bu-
ddhirye≤åæ te ’lpabuddhaya¢ prabhavantyudbhavantyugrakarmå-
√a¢ kr¥rakarmå√o hiæsåtmakå¢ | k≤ayåya jagata¢ prabhavantıti
saæbandha¢ | jagato ’hitå¢ Ÿatrava ityartha¢ || te ca –

kåmamåŸritya du≤p¥raæ daæbhamånamadånvitå¢ |


mohådgÿhıtvå ’sadgråhånpravartante ’Ÿucivratå¢ || 16.10 ||

kåmamiti | kåmåmicchåviŸe≤amåŸrityåva≤†abhya du≤p¥ramaŸa-


kyap¥ra√aæ daæbhamånamadånvitå daæbhaŸca månaŸca madaŸca
daæbhamånamadåstairanvitå daæbhamånamadanvitå mohådavive-
kato gÿhıtvopådåyåsadgråhånaŸubhaniŸcayånpravartante loka ’Ÿu-
civratå aŸucıni vratåni ye≤åæ te ’Ÿucivratå¢ || kiñca –

cintåmaparimeyåæ ca pralayåntåmupåŸritå¢ |
kåmopabhogaparamå etåvaditi niŸcitå¢ || 16.11 ||

cintåmiti | cintåmaparimeyåæ ca na parimåtuæ Ÿakyate yasyå-


Ÿcintåyå iyattå så ’parimeyå tåmaparimeyåæ pralayåntå mara√åntå-
mupåŸritå¢ | sadå cintåparå ityartha¢ | kåmopabhogaparamå¢ kå-
16.15 ≤oƒa©o ’dhyåya¢ 999

myanta iti kåmå vi≤ayå¢ Ÿabdådayastadupabhogaparamå¢ | ayame-


va parama¢ puru≤årtho ya¢ kåmopabhoga ityevaæniŸcitåtmåna¢ |
etåvaditi niŸcitå¢ ||

åŸåpåŸaŸatairbaddhå¢ kåmakrodhaparåya√å¢ |
ıhante kåmabhogårthamanyåyenårthasaæcayån || 16.12 ||

åŸåpåŸeti | åŸåpåŸaŸatairåŸå eva påŸåstacchatairåŸåpåŸaŸatairba-


ddhå niyantritå¢ santa¢ sarvata åkÿ≤yamå√å¢ | kåmakrodhaparå-
ya√å¢ kåmakrodhau paramayanaæ para åŸrayo ye≤åæ te kåmakro-
dhaparåya√å¢ | ıhante ce≤†ante kåmabhogårthaæ kåmabhogaprayo-
janåya na dharmårtham | arthasaæcayånarthapracayånanyåyena pa-
rasvåpahara√ådinetyartha¢ || ıdÿŸaŸca te≤åmabhipråya¢ –

idamadya mayå labdhamidaæ pråpsye manoratham |


idamastıdamapi me bhavi≤yati punardhanam || 16.13 ||

idamiti | idaæ dravyamadyedånıæ mayå labdham | idamanya-


tpråpsye manorathaæ manastu≤†ikaram | idaæ cåstıdamapi me bha-
vi≤yatyågåmini saævatsare punardhanaæ tenåhaæ dhanı vikhyåto
bhavi≤yåmıti ||

asau mayå hata¢ Ÿatrurhani≤ye cåparånapi |


ıŸvaro ’hamahaæ bhogı siddho ’haæ balavånsukhı || 16.14 ||

asau mayeti | asau devadattanåmå mayå hato durjaya¢ Ÿatru¢ |


hani≤ye cåparånanyånvaråkånapi kimete kari≤yanti tapasvina¢ | sa-
rvathåpi nåsti mattulya¢ | katham | ıŸvaro ’hamahaæ bhogı | sarva-
prakåre√a ca siddho ’haæ saæpanna¢ putrai¢ pautrairnaptÿbhi¢ |
na kevalaæ månu≤o ’haæ balavånsukhı cåhameva | anye tu bh¥mi-
bhåråyåvatır√å¢ ||

åƒhyo ’bhijanavånasmi ko ’nyo ’sti sadÿŸo mayå |


yak≤ye dåsyåmi modi≤ya ityajñånavimohitå¢ || 16.15 ||

åƒhya iti | åƒhyo dhanena | abhijanavånsaptapuru≤aæ Ÿrotriya-


tvådi saæpanna¢ | tenåpi na mama tulyo ’sti kaŸcit | ko ’nyo ’sti sa-
1000 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 16.15

dÿŸåstulyo mayå | kiñca yak≤ye yogenåpyanyånabhibhavi≤yåmi da-


syåmi na†ådibhyo | modi≤ye har≤aæ cåtiŸayaæ pråp≤yåmi | ityeva-
majñånavimohitå ’jñånena vimohitå vividhamavivekabhåvamåpa-
nnå¢ ||
anekacittavibhråntå mohajålasamåvÿtå¢ |
prasaktå¢ kåmabhoge≤u patanti narake ’Ÿucau || 16.16 ||
aneketi | anekacittavibhråntå uktaprakårairanekaiŸcittairvivi-
dhaæ bhråntå anekacittavibhråntå | mohajålasamåvÿtå moho ’vive-
ko ’jñånaæ tadeva jålamivå ’’vara√åtmakatvåttena samåvÿtå¢ | pra-
saktå¢ kåmabhoge≤u tatraiva ni≤a√√å¢ santa tenopacitakalma≤å¢
patanti narake ’Ÿucau vaitara√yådau ||
åtmasaæbhåvitå¢ stabdhå dhanamånamadånvitå¢ |
yajante nåmayajñaiste daæbhenåvidhip¥rvakam || 16.17 ||

åtmeti | åtmasaæbhåvitå¢ sarvagu√aviŸi≤†atayå åtmanaiva saæ-


bhåvitå åtmasaæbhåvitå na sådhubhi¢ | stabdhå apra√atåtmåno |
dhanamånamadånvitå dhananimitto måno madaŸca tåbhyåæ dha-
namånamadåbhyåmanvitå¢ | yajante nåmayajñairnåmamåtrairya-
jñaiste daæbhena dharmadhvajitayå avidhip¥rvakaæ vidhivihitå-
§getikartavyatårahitam ||

ahaækåraæ balaæ darpaæ kåmaæ krodhaæ ca saæŸritå¢ |


måmåtmaparadehe≤u pradvi≤anto ’bhyas¥yakå¢ || 16.18 ||

ahamiti | ahaækåramahaækara√amahaækåro | vidyamånairavi-


dyamånaiŸca gu√airåtmanyadhyåropitai¢ viŸi≤†amåtmånamahami-
ti | manyate so ’haækåro ’vidyåkhya¢ ka≤†atama¢ | sarvado≤å√åæ
m¥laæ sarvånarthapravÿttınåæ ca tam | tathå balaæ paråbhibhava-
nimittaæ kåmarågånvitam | darpaæ darpo nåma yasyodbhave dha-
rmamatikråmati so ’yamanta¢kara√åŸrayo do≤aviŸe≤a¢ | kåmaæ
stryådivi≤ayam | krodhamani≤†avi≤ayam | etånanyåæŸca mahato do-
≤ånsaæŸritå¢ | kiñca te måmıŸvaramåtmaparadehe≤u svadehe para-
dehe≤u ca tadbuddhikarmasåk≤ibh¥taæ måæ pradvi≤anto | ma-
cchåsanåtivartitvaæ pradve≤astaæ kurvanto ’bhyas¥yakå¢ sanmå-
rgasthånåæ gu√e≤vasahamånå¢ ||
16.22 ≤oƒa©o ’dhyåya¢ 1001

tånahaæ dvi≤ata¢ kr¥rånsaæsåre≤u narådhamån |


k≤ipåmyajasramaŸubhånåsurı≤veva yoni≤u || 16.19 ||

tånahamiti | tånahaæ sarvånsanmårgapratipak≤abh¥tånsådhu-


dve≤i√o dvi≤ataŸca måæ kr¥rånsaæsåre≤vevånekanarakasaæsara√a-
mårge≤u narådhamånadharmado≤avattvåtk≤ipåmi prak≤ipåmyaja-
sraæ santatamaŸubhånaŸubhakarmakåri√a åsurı≤veva kr¥råkarma-
pråyåsu vyåghrasiæhådiyoni≤u k≤ipåmıtyanena saæbandha¢ ||

åsurıæ yonimåpannå m¥ƒhå janmani janmani |


måmapråpyaiva kaunteya tato yåntyadhamåæ gatim || 16.20 ||

åsurımiti | åsurıæ yonimåpannå¢ pratipannå m¥ƒhå avivekina


janmani janmani pratijanma tamobahulåsveva yoni≤u jåyamånå a-
dho gacchanto m¥ƒhå måmıŸvaramapråpyånåsådyaiva he kaunte-
ya | tatastasmådapi yåntyadhamåæ nikÿ≤†atamåæ gatim | måma-
pråpyaiveti na matpråptau kåcidapyåŸaækåsti | ato macchi≤†aså-
dhumårgamapråpyetyartha¢ || sarvasyå åsuryå¢ saæpada¢ saæ-
k≤epo ’yamucyate | yasmiæstrividhe sarva åsurasaæpadbhedo ’na-
nto ’pyantarbhavati | yatparihåre√a parihÿtaŸca bhavati | yanm¥-
laæ sarvasyånarthasya | tadetaducyate –

trividhaæ narakasyedaæ dvåraæ nåŸanamåtmana¢ |


kåma¢ krodhastathå lobhastasmådetattrayaæ tyajet || 16.21 ||

trividhamiti | trividhaæ triprakåraæ narakasya pråptåvidaæ


dvåraæ nåŸanamåtmana¢ yaddvåraæ praviŸanneva naŸyatyåtmå |
kasmaicitpuru≤årthåya yogyo na bhavatıtyetat | ata ucyate dvåraæ
nåŸanamåtmana iti | kiæ tat | kåma¢ krodhastathå lobha¢ | tasmå-
detattrayaæ tyajet | yata etaddvåraæ nåŸanamåtmanastasmåtkåmå-
ditrayametattyajet || tyågastutiriyam –

etairvimukta¢ kaunteya tamodvåraistribhirnara¢ |


åcaratyåtmana¢ Ÿreyastatå yåti paråæ gatim || 16.22 ||

etairiti | etairvimukta¢ kaunteya tamodvåraistamaso narakasya


du¢khamohåtmakasya dvårå√i kåmådayastairetaistribhirvimukto
1002 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 16.22

nara åcaratyanuti≤†hati | kim | åtmana¢ Ÿreya¢ | yatpratibaddha¢


p¥rvaæ nåcacåra tadapagamådåcarati | tatastadåcara√ådyåti paråæ
gatiæ mok≤amapıti || sarvasyaitasyå ’’surasaæpatparivarjanasya Ÿre-
yaåcara√asya ca Ÿåstraæ kåra√am | Ÿåstrapramå√ådubhayaæ Ÿa-
kyaæ kartuæ nånyathå | ata¢ –

ya¢ Ÿåstravidhimutsÿjya vartate kåmakårata¢ |


na sa siddhimavåpnoti na sukhaæ na paråæ gatim || 16.23 ||

ya iti | ya¢ Ÿåstravidhiæ kartavyåkartavyajñånakåra√aæ vidhi-


prati≤edhåkhyamutsÿjya tyaktvå vartate kåmakårata¢ kåmaprayu-
kta¢ san | na sa siddhiæ puru≤årthayogyatåmavåpnoti | nåpyasmiæ-
lloke sukhaæ nåpi paråæ prakr≤†åæ gatiæ svargaæ mok≤aæ ca ||

tasmåcchåstraæ pramå√aæ te kåryåkåryavyavasthitau |


jñåtvå Ÿåstravidhånoktaæ karma kartumihårhasi || 16.24 ||

tasmåditi | tasmåcchåstraæ pramå√aæ jñånasådhanaæ te tava


kåryåkåryavyavasthitau kartavyåkartavyavyavasthåyåm | ato jñå-
två buddhvå Ÿåstravidhånoktam | vidhirvidhånaæ Ÿåstre√a vidhå-
naæ Ÿåstravidhånaæ kuryånna kuryådityevaælak≤a√aæ tenoktaæ
svakarma yattatkartumihårhasi | iheti karmådhikårabh¥mipradarŸa-
nårthamiti ||

iti Ÿrımadbhagavadgıtås¥pani≤atsu brahmavidyåyåæ


yogaŸåstre Ÿrıkÿ≤√årjunasaævåde
daivåsurasaæpadvibhågayogo nåma
≤oƒaŸo ’dhyåya¢

*
atha saptadaŸo ’dhyåya¢

“tasmåcchåstraæ pramå√aæ te” (bha. gı. 16.24) iti bhagavadvå-


kyållabdhapraŸnabıjo ’rjuna uvåca –
arjuna uvåca –
ye Ÿåstravidhimutsÿjya yajante Ÿraddhayånvitå¢ |
te≤åæ ni≤†hå tu kå kÿ≤√a sattvamåho rajastama¢ || 17.1 ||
ya iti | ye kecidaviŸe≤itå¢ Ÿåstravidhiæ Ÿåstravidhånaæ Ÿruti-
smÿtiŸåstracodanåmutsÿjya parityajya yajante devådınp¥jayanti Ÿra-
ddhayånvitå¢ Ÿraddhayå åstikyabuddhyå anvitå¢ saæyuktå¢ santa¢ |
Ÿrutilak≤a√aæ smÿtilak≤a√aæ vå kiñcicchåstravidhimapaŸyanto vÿ-
ddhavyavahåradarŸanådeva Ÿraddadhånatayå ye devådınp¥jayanti
ta iha “ye Ÿåstravidhimutsÿjya yajante Ÿraddhayånvit墔 ityevaæ gÿ-
hyante | ye puna¢ kiñcicchåstravidhimupalabhamånå eva tamutsÿ-
jyåyathåvidhi devådınp¥jayanti ta iha “Ÿåstravidhimutsÿjya yaja-
nte” iti na parigÿhyante | kasmåt | ŸraddhayånvitatvaviŸe≤a√åt | de-
vådip¥javidhiparaæ kiñcicchåstraæ paŸyanta eva tadutsÿjyåŸradda-
dhånatayå tadvihitåyåæ devådip¥jåyåæ Ÿraddhayå anvitå¢ prava-
rtanta iti na Ÿakyaæ kalpayituæ yasmåt | tasmåtp¥rvoktå eva “ye
Ÿåstravidhimutsÿjya yajante Ÿraddhayånvit墔 ityatra gÿhyate | te-
≤åmevaæbh¥tånåæ ni≤†hå tu kå kÿ≤√a sattvamåho rajastama¢ | kiæ
sattvaæ ni≤†hå ’vasthånam | åhosvidraja¢ | atha vå tama iti | etadu-
ktaæ bhavati – yå te≤åæ devådivi≤ayå p¥jå | så kiæ såttvikı | åho-
svidråjası uta tåmasıti || såmånyaviŸe≤o ’yaæ praŸno nåpravibhajya
prativacanamarhatıti Ÿribhagavånuvåca –
Ÿrıbhagavånuvåca –
trividhå bhavati Ÿraddhå dehinåæ så svabhåvajå |
såttvikı råjası caiva tåması ceti tåæ Ÿÿ√u || 17.2 ||
1004 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 17.2

trividheti | trividhå triprakårå bhavati Ÿraddhå | yasyåæ ni≤†hå-


yåæ tvaæ pÿcchasi | dehinåæ så svabhåvajå | janmåntarakÿto dha-
rmådisaæskåro mara√akåle ’bhivyakta¢ svabhåva ucyate | tato jå-
tå svabhåvajå | såttvikı sattvanirvÿttå devap¥jådivi≤ayå | råjası rajo-
nirvÿttå yak≤arak≤a¢p¥javi≤ayå | tåması tamonirvÿttå pretapiŸåcådi-
vi≤ayå | evaæ trividhå | tåmucyamånåæ Ÿraddhåæ Ÿÿ√vavadhåraya ||
saivaæ trividhå bhavati –

sattvånur¥på sarvasya Ÿraddhå bhavati bhårata |


Ÿraddhåmayo ’yaæ puru≤o yo yacchraddha¢ sa eva sa¢ || 17.3 ||

sattvånur¥peti | sattvånur¥på viŸi≤†asaæskåropetånta¢kara√å-


nur¥på sarvasya prå√ijåtasya Ÿraddhå bhavati bhårata | yadyevaæ
tata¢ kiæ syådityucyate | Ÿraddhåmaya¢ Ÿraddhåpråyo ’yaæ puru-
≤a¢ saæsårı jıva | katham | yo yacchraddho yå Ÿraddhå yasya jıva-
sya sa yacchraddha¢ sa eva tacchraddhånur¥pa eva sa jıva¢ || tata-
Ÿca kårye√a li§gena devådip¥jayå sattvådini≤†hå ’numeyetyåha –

yajante såttvikå devånyak≤arak≤åæsi råjaså¢ |


pretånbh¥taga√åæŸcånye yajante tåmaså janå¢ || 17.4 ||

yajanta iti | yajante p¥jayanti såttvikå¢ sattvani≤†hå devån | ya-


k≤arak≤asåæsi råjaså¢ | pretånbh¥taga√åæŸca saptamåtÿkådıæŸcå-
nye yajante tåmaså janå¢ || evaæ kåryeti nir√ıtå¢ sattvådini≤†hå¢ Ÿå-
stravidhyutsarge | tatra kaŸcideva sahasre≤u devap¥jådipara¢ sattva-
ni≤†ho bhavati | båhulyena tu rajoni≤†håstamoni≤†håŸcaiva prå√ino
bhavati | katham –

aŸåstravihitaæ ghoraæ tapyante ye tapo janå¢ |


daæbhåhaækårasaæyuktå¢ kåmarågabalånvitå¢ || 17.5 ||

aŸåstravihitamiti | aŸåstravihitaæ na ŸåstravihitamaŸåstravihi-


taæ ghoraæ pıƒåkaraæ prå√inåmåtmanaŸca tapastapyante nirvarta-
yanti ye janåste ca daæbhåhaækårasaæyuktå daæbhaŸcåhaækåra-
Ÿca daæbhåhaækårau tåbhyåæ saæyuktå daæbhåhaækårasaæyu-
ktå¢ | kåmarågabalånvitå¢ kåmaŸca rågaŸca kåmarågau tatkÿtaæ ba-
laæ kåmarågabalaæ tenånvitå¢ kåmarågabalanvitå¢ ||
17.9 saptada©o ’dhyåya¢ 1005

karŸayanta¢ Ÿarırasthaæ bh¥tagråmamacetasa¢ |


måæ caivånta¢Ÿarırasthaæ tånviddhyåsuraniŸcayån || 17.6 ||
karŸayanta iti | karŸayanta¢ kÿŸıkurvanta¢ Ÿarırasthaæ bh¥ta-
gråmaæ kara√asamudåyamacetaso ’vivekino måæ caiva tatkarma-
buddhisåk≤ibh¥tamanta¢Ÿarırasthaæ nåråya√aæ karŸayanta¢ | ma-
danuŸåsanåkara√ameva matkarŸanam | tånviddhyåsuraniŸcayånå-
suro niŸcayo ye≤åæ ta åsuraniŸcayå¢ tånparihara√årthaæ viddhıtyu-
padeŸa¢ || åhårå√åæ ca rasyasnigdhådivargatrayar¥pe√a bhinnå-
nåæ yathåkramaæ såttvikaråjasatåmasapuru≤apriyatvadarŸanamiha
kriyate rasyasnigdhådi≤våhåraviŸe≤e≤våtmana¢ prıtyatireke√a li§ge-
na såttvikatvaæ råjasatvaæ tåmasatvaæ ca buddhvå rajastamoli§gå-
nåmåhårå√åæ parivarjanårthaæ sattvali§gånåæ copådånårtham |
tathå yajñådınåmapi sattvådigu√abhedena trividhatvapratipådana-
miha “råjasatåmasånbuddhvå kathaæ nu nåma parityajet | såttvikå-
nevånuti≤†het” ityevamarthamåha –
åhårastvapi sarvasya trividho bhavati priya¢ |
yajñåstapastathå dånaæ te≤åæ bhedamimaæ Ÿÿ√u || 17.7 ||
åhåra iti | åhårastvapi sarvasya bhoktu¢ prå√ina¢ trividho bha-
vati priya dÿ≤†a¢ | tathå yajña¢ tathå tapa¢ | tathå dånam | te≤åmå-
hårådınåæ bhedamimaæ vak≤yamå√aæ Ÿÿ√u ||

åyu¢sattvabalårogyasukhaprıtivivardhanå¢ |
rasyå¢ snigdhå¢ sthirå¢ hÿdyå åhårå¢ såttvikapriyå¢ || 17.8 ||

åyuriti | åyuŸca sattvaæ ca balaæ cå ’’rogyaæ ca sukhaæ ca prı-


tiŸcå ’’yu¢sattvabalårogyasukhaprıtaya¢ tåsåæ vivardhanå åyu¢sa-
ttvabalårogyasukhaprıtivivardhanå¢ | te ca rasyå rasyopetå¢ snigdhå¢
snehavanta¢ sthiråŸcirakålasthåyino dehe | hÿdyå hÿdayapriyå | å-
hårå¢ såttvikapriyå¢ såttvikasye≤†å¢ ||

ka†vamlalava√åtyu≤√atık≤√ar¥k≤avidåhina¢ |
åhårå råjasasye≤†å du¢khaŸokåmayapradå¢ || 17.9 ||

ka†viti | ka†vamlalava√åtyu≤√atık≤√ar¥k≤avidåhina ityatråtiŸa-


bda¢ ka†vådi≤u sarvatra yojyo ’tika†uratitık≤√a ityevam | te cå ’’hå-
1006 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 17.9

rå råjasye≤†å | du¢khaŸokåmayapradå du¢khaæ ca Ÿokaæ cå ’’ma-


yaæ ca prayacchantıti du¢khaŸokåmayapradå¢ ||

yåtayåmaæ gatarasaæ p¥ti paryu≤itaæ ca yat |


ucchi≤†amapi cåmedhyaæ bhojanaæ tåmasapriyam || 17.10 ||
yåtayåmamiti | yåtayåmaæ mandapakvaæ nirvıryasya gatara-
saŸabdenoktatvåt | gatarasaæ rasaviyuktaæ p¥ti durgandhaæ paryu-
≤itaæ ca pakvaæ sadråtryantaritaæ ca yat | ucchi≤†amapi ca bhu-
ktaŸi≤†amapi | amedhyamayajñårhaæ | bhojanamıdÿŸåæ tåmasapri-
yam || athedånıæ yajñastrividha ucyate –

aphalåkå§k≤ibhiryajño vidhidÿ≤†o ya ijyate |


ya≤†avyameveti mana¢ samådhåya sa såttvika¢ || 17.11 ||
aphaleti | aphalåkå§k≤ibhiraphalårthibhiryajño vidhidÿ≤†a¢ Ÿå-
stracodanådÿ≤†o yo yajña ijyate nirvartyate | ya≤†avyameveti yajña-
svar¥panirvartanameva kåryamiti mana¢ samådhåya | nånena pu-
ru≤årtho mama kartavya ityevaæ niŸcitya | sa såttviko yajña ucyate ||

abhisandhåya tu phalaæ daæbhårthamapi caiva yat |


ijyate bharataŸre≤†ha taæ yajñaæ viddhi råjasam || 17.12 ||

abhisandhåyeti | abhisandhåyoddiŸya phalaæ daæbhårthamapi


caiva yadijyate | bharataŸre≤†ha taæ yajñaæ viddhi råjasam ||
vidhihınamasÿ≤†ånnaæ mantrahınamadak≤i√am |
Ÿraddhåvirahitaæ yajñaæ tåmasaæ paricak≤ate || 17.13 ||

vidhihınamiti | vidhihınaæ yathåcoditaviparıtam | asÿ≤†ånnaæ


bråhma√ebhyo na sÿ≤†aæ na dattamannaæ yasminyajñe so ’sÿ≤†å-
nnastamasÿ≤†ånnam | mantrahınaæ mantrata¢ svarato var√ato vå
viyuktaæ mantrahınam | adak≤i√amuktadak≤i√årahitam | Ÿraddhå-
virahitaæ yajñaæ tåmasaæ paricak≤ate tamonirvÿttaæ kathaya-
nti || athedånıæ tapastrividhaæ ucyate –

devadvijagurupråjñap¥janaæ Ÿaucamårjavam |
brahmacaryamahiæså ca Ÿårıraæ tapa ucyate || 17.14 ||
17.16 saptada©o ’dhyåya¢ 1007

deveti | devåŸca dvijåŸca guravaŸca pråjñåŸca devadvijaguruprå-


jñå¢ te≤åæ p¥janaæ devadvijagurupråjñap¥janaæ Ÿaucamårjavamÿ-
jutvaæ brahmacaryamahiæså ca Ÿarıranirvartya Ÿårıraæ Ÿarırapra-
dhånai¢ sarvaireva kåryakara√ai¢ kartrådibhi¢ sådhyaæ Ÿårıraæ ta-
pa ucyate | “pañcaite tasya hetava¢” (bha. gı. 18.15) iti hi vak≤yati ||

anudvegakaraæ våkyaæ satyaæ priyahitaæ ca yat |


svådhyåyåbhyasanaæ caiva vå§mayaæ tapa ucyate || 17.15 ||

anudvegeti | anudvegakaraæ prå√inåmadu¢khakaraæ våkyaæ


satyaæ priyahitaæ ca yatpriyahite dÿ≤†ådÿ≤†årthe | anudvegakara-
tvådibhirdharmairvåkyaæ viŸe≤yate | viŸe≤a√adharmasamuccayå-
rtha¢ caŸabda¢ | parapratyayårthaæ prayuktasya våkyasya satya-
priyahitånudvegakaratvånåmanyatamena dvåbhya tribhirvå hina-
tå syådyadi | na tadvå§mayaæ tapa¢ | tathå satyavåkyasyetare≤å-
manyatamena dvåbhyåæ tribhirvå vihinatåyåæ na vå§mayatapa-
stvam | tathå priyavåkyasyåpıtare≤åmanyatamena dvåbhyåæ tribhi-
rvå vihınasya na vå§mayastapastvam | tathå hitavåkyasyåpıtare≤å-
manyatamena dvåbhyåæ tribhirvå vihınasya na vå§mayastapa-
stvam | kiæ punastattapa¢ | yatsatyaæ våkyamanudvegakaraæ pri-
yaæ hitaæ ca | tattapo vå§mayam | yathå “Ÿånto bhava vatsa svå-
dhyåyaæ yogaæ cånuti≤†ha | tathå te Ÿreyo bhavi≤yati” iti | svådhyå-
yåbhyasanaæ caiva yathåvidhi vå§mayaæ tapa ucyate ||

mana¢prasåda¢ saumyatvaæ maunamåtmavinigraha¢ |


bhåvasaæŸuddhirityetattapo månasamucyate || 17.16 ||

mana iti | mana¢prasådo manasa¢ praŸånti¢ | svacchatåpåda-


naæ prasåda¢ | saumyatvaæ yatsaumanasyamåhurmukhådipraså-
dådikåryonneyå ’nta¢kara√asya vÿtti¢ | maunaæ våkyasaæyamo ’pi
mana¢saæyamap¥rvako bhavatıti kårye√a kåra√amucyate mana¢-
saæyamo maunamiti | åtmavinigraho manonirodha¢ sarvata¢ så-
månyar¥pa åtmavinigråho | vågvi≤ayasyaiva manasa¢ saæyamo
maunamiti viŸe≤a¢ | bhåvasaæŸuddhi¢ parairvyavahårakåle ’måyå-
vitvaæ bhåvasaæŸuddhi¢ | ityetattapo månasamucyate || yathoktaæ
kåyikaæ våcikaæ månasaæ ca tapastaptaæ narai¢ sattvådibhedena
kathaæ trividhaæ bhavatıtyucyate –
1008 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 17.17

Ÿraddhayå parayå taptaæ tapastattrividhaæ narai¢ |


aphalåkå§k≤ibhiryuktai¢ såttvikaæ paricak≤ate || 17.17 ||
Ÿraddhayeti | Ÿraddhayå ’’stikabuddhyå parayå prakÿ≤†ayå ta-
ptamanu≤†hitaæ tapastatprakÿtaæ trividhaæ triprakåraæ tryadhi-
≤†hånaæ narairanu≤†håtribhiraphalåkå§k≤ibhi¢ phalåkå§k≤årahitai¢
yuktai¢ samåhitai¢ yadıdÿŸaæ tapastatsåttvikaæ sattvanirvÿttaæ pa-
ricak≤ate kathayanti Ÿi≤†å¢ ||

satkåramånap¥jårthaæ tapo daæbhena caiva yat |


kriyate tadiha proktaæ råjasaæ calamadhruvam || 17.18 ||
satkåreti | satkåra¢ sådhukåra¢ | sådhurayaæ tapasvı bråhma-
√a ityevamartham | måno månanaæ pratyutthånåbhivådanådistada-
rtham | p¥jå pådaprak≤alanåŸayitÿtvådistadarthaæ ca tapa¢ satkåra-
månap¥jårtham | daæbhena caiva yatkriyate tapastadiha proktaæ
kathitaæ råjasaæ calaæ kådåcitkaphalatvenådhruvam ||

m¥ƒhagråhe√åtmano yatpıƒayå kriyate tapa¢ |


parasyotsådanårthaæ vå tattåmasamudåhÿtam || 17.19 ||

m¥ƒheti | m¥ƒhagråhe√åvivekaniŸcayenåtmana¢ pıƒayå yatkri-


yate tapa¢ parasyotsådanårthaæ vinåŸårthaæ vå tattåmasaæ tapa
udåhÿtam || idånıæ dånatraividhyamucyate –

dåtavyamiti yaddånaæ dıyate ’nupakåri√e |


deŸe kåle ca påtre ca taddånaæ såttvikaæ smÿtam || 17.20 ||
dåtavyamiti | dåtavyamityevaæ mana¢ kÿtvå yaddånaæ dıyate
’nupakåri√e pratyupakåråsamarthåya | samarthåyåpi nirapek≤aæ dı-
yate | deŸe pu√ye kuruk≤etrådau | kåle saækråntyådau | påtre ca ≤a-
ƒa§gavidvedapåraga ityådau | taddånaæ såttvikaæ smÿtam ||

yattu pratyupakårårthaæ phalamuddiŸya vå puna¢ |


dıyate ca parikli≤†aæ taddånaæ råjasaæ smÿtam || 17.21 ||

yattviti | yattu dånaæ pratyupakårårthe kåle tvayaæ måæ pra-


tyupakari≤yatıtyevamartham | phalaæ våsya dånasya me bhavi≤ya-
17.25 saptada©o ’dhyåya¢ 1009

tyadr≤†amiti | taduddiŸya punardıyate ca parikli≤†aæ khedasaæyu-


ktaæ taddånaæ råjasaæ smÿtam ||

adeŸakåle yaddånamapåtrebhyaŸca dıyate |


asatkÿtamavajñåtaæ tattåmasamudåhÿtam || 17.22 ||

adeŸeti | adeŸakåla adeŸa apu√ye deŸe mlecchåŸucyådisaækır√e |


akåle pu√yahetutvenåprakhyåte saækråntyådiviŸe≤arahite | apåtre-
bhyaŸca m¥rkhataskarådibhyo | deŸådisaæpattau vå ’satkÿtaæ pri-
yavacanapådaprak≤alanam¥jådirahitamavajñåtaæ påtraparibhava-
yuktaæ ca yaddånaæ tattåmasamudåhÿtam || yajñadånatapa¢pra-
bhÿtınåæ sådgu√yakara√åyåyamupadeŸa ucyate –

oæ tatsaditi nirdeŸo brahma√astrividha¢ smÿta¢ |


bråhma√åstena vedåŸca yajñåŸca vihitå¢ purå || 17.23 ||

omiti | oæ tatsadityevaænirdeŸo | nirdiŸyate ’neneti nirdeŸa¢ |


trividho nåmanirdeŸo brahma√a¢ smÿtaŸcintito vedånte≤u brahma-
vidbhi¢ | bråhma√åstena nirdeŸena trividhena vedåŸca yajñåŸca vi-
hitå nirmitå¢ purå p¥rvamiti nirdeŸåstutyarthamucyate ||

tasmådomityudåhÿtya yajñadånatapa¢kriyå¢ |
pravartante vidhånoktå¢ satataæ brahmavådinåm || 17.24 ||

tasmåditi | tasmådomityudåhÿtyoccårya yajñadånatapa¢kriyå


yajñådisvar¥på¢ kriyå¢ pravartante vidhånoktå¢ Ÿåstracoditå¢ sa-
tataæ sarvadå brahmavådinåæ brahmavadanaŸılånåm ||

tadityanabhisandhåya phalaæ yajñatapa¢kriyå¢ |


dånakriyåŸca vividhå¢ kriyante mok≤akå§k≤ibhi¢ || 17.25 ||

taditi | tadityanabhisandhåya taditi brahmåbhidhånamuccåryå-


nabhisandhåya ca yajñådikarma√a¢ phalaæ yajñatapa¢kriyå ya-
jñakriyåŸca tapa¢kriyåŸca yajñatapa¢kriyå dånakriyåŸca vividhå¢
k≤etrahira√yapradånådilak≤a√å¢ kriyante nirvartyante mok≤akå-
§k≤ibhirmok≤årthibhirmumuk≤ubhi¢ || oæ tacchabdayorviniyoga u-
kta¢ | athedånıæ sacchabdasya viniyoga¢ kathyate –
1010 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 17.26

sadbhåve sådhubhåve ca sadityetatprayujyate |


praŸaste karma√i tathå sacchabda¢ pårtha yujyate || 17.26 ||

sadbhåva iti | sadbhåve ’sata¢ sadbhåve yathå ’vidyamånasya


putrasya janmani | tathå sådhubhåve cåsadvÿttasyåsådho¢ sadvÿ-
ttatå sådhubhåvastasminsådhubhåve ca sadityetadabhidhånaæ bra-
hma√a¢ prayujyate ’bhidhıyate | praŸaste karma√i vivåhådau ca ta-
thå sacchabda¢ pårtha yujyate prayujyata ityetat ||

yajñe tapasi dåne ca sthiti¢ saditi cocyate |


karma caiva tadarthıyaæ sadityevåbhidhıyate || 17.27 ||

yajña iti | yajñe yajñakarma√i yå sthiti¢ | tapasi ca yå sthiti¢ |


dåne ca yå sthiti¢ | så ca sadityucyate vidvadbhi¢ | karma caiva ta-
darthıyaæ yajñadånatapo ’rthıyamathavå yasyåbhidhånatrayaæ pra-
kÿtaæ tadarthıyaæ yajnadånatapo ’rthıyamıŸvarårthıyamityetat |
sadityevåbhidhıyate | tadetadyajñadånatapaådikarmåsåttvikaæ vi-
gu√amapi Ÿraddhåp¥rvakaæ brahma√o ’bhidhånatrayaprayoge√a sa-
gu√aæ såttvikaæ saæpåditaæ bhavati || tatra ca sarvatra Ÿraddhå-
pradhånatayå sarvaæ saæpådyate yasmåttasmåt –

aŸraddhayå hutaæ dattaæ tapastaptaæ kÿtaæ ca yat |


asadityucyate pårtha na ca tatpretya no iha || 17.28 ||

aŸraddhayeti | aŸraddhayå hutaæ havanaæ kÿtam | aŸraddhayå


dattaæ ca bråhma√ebhya¢ | aŸraddhayå tapastaptamanu≤†hitam | ta-
thå ’Ÿraddhayaiva kÿtaæ yatstutinamaskårådi | tatsarvamasadityu-
cyate | matpråptisådhanamårgabåhyatvåtpårtha | na ca tadbahvåyå-
samapi pretya phalåya | no apıhårthaæ sådhubhirninditatvåditi ||

iti Ÿrımadbhagavadgıtås¥pani≤atsu brahmavidyåyåæ


yogaŸåstre Ÿrıkÿ≤√årjunasaævåde
Ÿraddhåtrayavibhågayogo nåma
saptadaŸo ’dhyåya¢

*
athå≤†ådaŸo ’dhyåya¢

sarvasyaiva gıtåŸåstrasyårtho ’sminnadhyåya upasaæhÿtya sa-


rvaŸca vedårtho vaktavya ityevamartho ’yamadhyåya årabhyate |
sarve≤u hyatıte≤vadhyåye≤¥kto ’rtho ’sminnadhyåye ’vagamyate |
arjunastu saænyåsatyågaŸåbdårthayoreva viŸe≤abubhutsuruvåca –

arjuna uvåca –

saænyåsasya mahåbåho tattvamicchåmi veditum |


tyågasya ca hÿ≤ıkeŸa pÿthakkeŸini≤¥dana || 18.1 ||

saænyåsasyeti | saænyåsasya saænyåsaŸåbdårthasyetyetat | he


mahåbåho tattvaæ tasya bhåvastattvaæ yåthåtmyamityetat | icchå-
mi vedituæ jñåtum | tyågasya ca tyågaŸåbdårthasyetyetat | hÿ≤ıkeŸa
pÿthagitaretaravibhågata¢ keŸini≤¥dana keŸinåmå hayacchadmå ka-
Ÿcidasurastaæ ni≤¥ditavånbhagavånvåsudevastena tannåmnå saæ-
bodhyate ’rjunena || saænyåsatyågaŸabdau tatra tatra nirdi≤†au na
nirlu†hitårthau p¥rve≤vadhyåye≤u | ato ’rjunåya pÿ≤†avate tanni-
r√ayåya bhagavånuvåca –

Ÿrıbhagavånuvåca –

kåmyånåæ karma√åæ nyåsaæ saænyåsaæ kavayo vidu¢ |


sarvakarmaphalatyågaæ pråhustyågaæ vicak≤a√å¢ || 18.2 ||

kåmyånåmiti | kåmyånåmaŸvamedhådınåæ karma√åæ nyåsaæ


parityågam | saænyåsaæ saænyåsaŸabdårtham | anu≤†heyatvena prå-
ptasyånu≤†hånam | kavaya¢ pa√ƒitå¢ kecidvidurvijånanti | nitya-
naimittikånåmanu≤†hıyamånånåæ sarvakarma√åmåtmasaæbandhi-
tayå pråptasya phalasya parityåga¢ sarvakarmaphalatyåga¢ taæ
1012 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.2

pråhu¢ kathayanti tyågaæ tyågaŸabdårthaæ vicak≤a√å¢ pa√ƒitå¢ |


yadi kåmyakarmaparityåga¢ phalaparityågo vå ’rtho vaktavya¢ |
sarvathå parityågamåtraæ saænyåsatyågaŸabdayoreko ’rtha¢ syå-
nna gha†apa†aŸabdåviva jåtyantarabh¥tårthau || nanu nityanaimitti-
kånåæ karma√åæ phalameva nåstıtyåhu¢ | kathamucyate te≤åæ pha-
latyåga¢ | yathå vandhyåyå¢ putratyåga¢ | nai≤a do≤a¢ | nityånåma-
pi karma√åæ bhagavatå phalavattvasye≤†atvåt | vak≤yati hi bhaga-
vån “ani≤†ami≤†aæ miŸraæ ca” iti | “na tu saænyåsinåm” (bha. gı.
18.12) iti ca | saænyåsinåmeva hi kevalaæ karmaphalåsaæbandhaæ
darŸayannasaænyåsinåæ nityakarmaphalapråptim “bhavatyatyågi-
nåæ pretya” (bha. gı. 18.12) iti darŸayati ||

tyåjyaæ do≤avadityeke karma pråhurmanı≤i√a¢ |


yajñadånatapa¢karma na tyåjyamiti cåpare || 18.3 ||

tyåjyaæ do≤eti | tyåjyaæ tyaktavyaæ do≤avaddo≤o ’syåstıti do-


≤avat | kiæ tat | karma bandhahetutvåtsarvameva | athavå do≤o ya-
thå rågådistyajyate tathå tyåjyamityeke karma pråhurmanı≤i√a¢
pa√ƒitå¢ så§khyådidÿ≤†imåŸritå¢ | adhikÿtånåæ karmi√åmapıti | ta-
traiva yajñadånatapa¢karma na tyåjyamiti cåpare || karmi√a evådhi-
kÿtå¢ tånapek≤yaite vikalpå | na tu jñånani≤†hånvyutthåyina¢ saæ-
nyåsino ’pek≤ya | “jñånayogena så§khyånåæ ni≤†hå mayå purå pro-
ktå” (bha. gı. 3.3) iti karmådhikårådapoddhÿtå ye | na tånprati cintå ||
nanu “karmayogena yoginåm” (bha. gı. 3.3) ityadhikÿtå¢ p¥rvaæ vi-
bhaktani≤†hå apıha sarvåŸåstropasaæhåraprakara√e yathå vicårya-
nte | tathå så§khyå api jñånani≤†hå vicåryantåmiti || na | te≤åæ mo-
hadu¢khanimittatyågånupapatte¢ | na kåyakleŸanimittåni du¢khå-
ni så§khyå åtmani paŸyanti | icchådınåæ k≤etradharmatvenaiva da-
rŸitatvåt | ataste na kåyakleŸadu¢khabhayåtkarma parityajanti | nå-
pi te karmå√yåtmani paŸyanti yena niyataæ karma mohåtparitya-
jeyu¢ | gu√ånåæ karma “naiva kiñcitkaromi” (bha. gı. 5.8) iti hi te
saænyasyanti | “sarvakarmå√i manaså saænyasya” (bha. gı. 5.13) i-
tyådibhirhi tattvavida¢ saænyåsaprakåra ukta¢ | tasmådye ’nye ’dhi-
kÿtå¢ karma√yanåtmavido ye≤åæ ca mohanimitta¢ tyåga¢ saæbha-
vati kåyakleŸabhayåcca | ta eva tåmasåstyågino råjasåŸceti nindya-
nte karmi√åmanåtmajñånåæ karmaphalatyågastutyartham | “sa-
18.5 a≤†åda©o ’dhyåya¢ 1013

rvåraæbhaparityågı” (bha. gı. 12.16) | “måunı santu≤†o yena kenaci-


daniketa¢ sthiramati¢” (bha. gı. 12.19) iti gu√åtıtalak≤a√e ca para-
mårthasaænyåsino viŸe≤itatvåt | vak≤yati ca “jñånasya yå parå ni-
≤†hå” (bha. gı. 18.50) iti | tasmåjjñånani≤†hå¢ saænyåsino neha vi-
vak≤itå¢ | karmaphalatyåga eva såttvikatvena gu√ena tåmasatvå-
dyapek≤ayå saænyåsa ucyate | na mukhya¢ sarvakarmasaænyå-
sa¢ || sarvakarmasaænyåsåsaæbhåve ca “na hi dehabhÿtå” (bha. gı.
18.11) iti hetuvacanånmukhya eveti cet | na | hetuvacanasya stutya-
rthatvåt | yathå “tyågåcchåntiranantaram” (bha. gı. 12.12) iti karma-
phalatyågastutireva yathoktånekapak≤ånu≤†hånåŸaktimantamarju-
namajñaæ prati vidhånåt | tathedamapi “na hi dehabhÿtå Ÿakyam”
(bha. gı. 18.11) iti karmaphalatyågastutyarthaæ vacanam | na “sa-
rvakarmå√i manaså saænyasya naiva kurvanna kårayavannåste”
(bha. gı. 5.13) ityasya pak≤asyåpavåda¢ kenaciddarŸayituæ Ÿakya¢ |
tasmåtkarma√yadhikÿtånpratyevai≤a saænyåsatyågavikalpa¢ | ye
tu paramårthadarŸina¢ så§khyå¢ | te≤åæ jñånani≤†håyåmeva sa-
rvakarmasaænyåsalak≤a√åyåmadhikåro nånyatra | iti na te vikalpå-
rhå¢ | taccopapåditamasmåbhi¢ “vedåvinåŸinam” (bha. gı. 2.12) i-
tyasminpradeŸe | tÿtıyådauca || tatraite≤u vikalpabhede≤u –

niŸcayaæ Ÿÿ√u me tatra tyåge bharatasattama |


tyågo hi puru≤avyåghra trividha¢ saæprakırtita¢ || 18.4 ||

niŸcayamiti | niŸcayaæ Ÿÿ√vavadhåraya me mama vacanåt | ta-


tra tyåge tyågasaænyåsavikalpe yathådarŸite bharatasattama bhara-
tånåæ sådhutama | tyågo hi tyågasaænyåsaŸabdavåcyo hi yo ’rtha¢
sa eka evetyabhipretyåha tyågo hıti | puru≤avyåghra | trividha¢ tri-
prakåraståmasådiprakårai¢ | saæprakırtita¢ Ÿåstre≤u samyakkathi-
ta¢ yasmåttåmasådibhedena tyågasaænyåsaŸabdavåcyo ’rtho ’dhi-
kÿtasya karmi√o ’nåtmajñasya trividha¢ saæbhavati | na paramå-
rthadarŸina¢ | ityayamartho durjñåna¢ | tasmådatra tattvaæ nå-
nyo vaktuæ samartha¢ | tasmånniŸcayaæ paramårthaŸåstrårthavi-
≤ayamadhyavasåyamaiŸvaraæ me matta¢ Ÿÿ√u || ka¢ punarasau ni-
Ÿcaya ityata åha –
yajño dånaæ tapa¢ karma na tyåjyaæ kåryameva tat |
yajño dånaæ tapaŸcaiva påvanåni manı≤i√åm || 18.5 ||
1014 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.5

yajña iti | yajño dånaæ tapa ityetattrividhaæ karma na tyå-


jyaæ na tyaktavyaæ | kåryaæ kara√ıyameva tat | kasmåt | yajño
dånaæ tapaŸcaiva påvanåni viŸuddhikarå√i manı≤i√åæ phalånabhi-
sandhınåmityetat ||

etånyapi tu karmå√i sa§gaæ tyaktvå phalåni ca |


kartavyånıti me pårtha niŸcitaæ matamuttamam || 18.6 ||

etånyapıti | etånyapi tu karmå√i yajñadånatapåæsi påvanånyu-


ktåni sa§gamasaktiæ te≤u tyaktvå | phalåni ca te≤åæ parityajya ka-
rtavyånıtyanu≤†heyånıti me mama niŸcitaæ matamuttamam || “ni-
Ÿcayaæ Ÿÿ√u me tatra” (bha. gı. 18.4) iti pratijñåya | påvanatvaæ ca
hetumuktvå “etånyapi karmå√i kartavyåni” ityetat “niŸcitaæ mata-
muttamam” iti pratijñåtårthopasaæhåra eva nåp¥rvårthaæ vaca-
nam “etånyapi” iti prakÿtasaænikÿ≤†årthatvopapatte¢ | såsa§gasya
phalårthino bandhahetava etånyapi karmå√i mumuk≤o¢ kartavyå-
nıtyapiŸabdasyartha¢ | na tvanyåni karmå√yapek≤ya “etånyapi” i-
tyucyate || anye tu var√ayanti – nityånåæ karma√åæ phalåbhåvåt
“sa§gaæ tyaktvå phalåni ca” iti nopapadyate | ata¢ “etånyapi” iti
yåni kåmyåni karmå√i nityebhyo ’nyåni | etånyapi kartavyåni | ki-
muta yajñadånatapåæsi nityånıti | tadasat | nityånåmapi karma√å-
miha phalavattvasyopapåditatvåt “yajño dånaæ tapaŸcaiva påvanå-
ni” (bha. gı. 18.5) ityådivacanena | nityånyapi karmå√i bandhahetu-
tvåŸaækayå jihåsormumuk≤o¢ kuta¢ kåmye≤u prasa§ga¢ | “d¥re√a
hyavaraæ karma” (bha. gı. 2.49) iti ca ninditatvåt | “yajñårthåtka-
rma√o ’nyatra” (bha. gı. 3.9) iti ca kåmyakarma√åæ bandhahetu-
tvasya niŸcitatvåt | “traigu√yavi≤ayå ved墔 (bha. gı. 2.45) | “traivi-
dyå måæ somap墔 (bha. gı. 9.20) | “k≤ı√e pu√ye martyalokaæ vi-
Ÿanti” (bha. gı. 9.21) iti ca d¥ravyavahitatvåcca | na kåmye≤u “etå-
nyapi” iti vyapadeŸa¢ || tasmådajñasyådhikÿtasya mumuk≤o¢ –

niyatasya tu saænyåsa¢ karma√o nopapadyate |


mohåttasya parityågaståmasa¢ parikırtita¢ || 18.7 ||

niyatasyeti | niyatasya tu nityasya saænyåsa¢ parityåga¢ ka-


rma√o nopapadyate | ajñasya påvanatvasye≤†atvåt | mohådajñånå-
ttasya niyatasya parityåga¢ – niyataæ cåvaŸyaæ kartavyaæ tyajya-
18.9 a≤†åda©o ’dhyåya¢ 1015

te ceti viprati≤iddham | ato mohanimitta¢ parityåga¢ – tåmasa¢ pa-


rikırtito mohaŸca tama iti || kiñca –

du¢khamityeva yatkarma kåyakleŸabhayåttyajet |


sa kÿtvå råjasaæ tyågaæ naiva tyågaphalaæ labhet || 18.8 ||

du¢khamiti | du¢khamityeva yatkarma kåyakleŸabhayåccharıra-


du¢khabhayåttyajetparityajet | sa kÿtvå råjasaæ rajonirvartyaæ tyå-
gaæ naiva tyågaphalaæ jñånap¥rvakasya sarvakarmatyågasya pha-
laæ mok≤åkhyaæ na labhennaiva labheta || ka¢ puna¢ såttvikastyå-
ga ityåha –

kåryamityeva yatkarma niyataæ kriyate ’rjuna |


sa§gaæ tyaktvå phalaæ caiva sa tyåga¢ såttviko mata¢ || 18.9 ||

kåryamiti | kåryaæ kartavyamityeva yatkarma niyataæ nityaæ


kriyate nirvartyate he ’rjuna | sa§gaæ tyaktvå phalaæ caiva | eta-
nnityånåæ karma√åæ phalavattve bhagavadvacanaæ pramå√ama-
vocåma | athavå yadyapi phalaæ na Ÿr¥yate nityasya karma√a¢ |
tathåpi nityaæ karma kÿtamåtmasaæskåraæ pratyavåyaparihåraæ
vå phalaæ kårotyåtmana iti kalpayatyevåjña¢ | tatra tåmapi kalpa-
nåæ nivårayati “phalaæ tyaktvå” ityanena | ata¢ sådh¥ktam “sa-
§gaæ tyaktvå phalaæ ca” iti | sa tyågo nityakarmasu sa§gaphala-
parityåga¢ såttvika¢ sattvanirvÿtto mato ’bhimata¢ || nanu karma-
parityågastrividha¢ saænyåsa iti ca prakÿta¢ | tatra tåmaso råjasa-
Ÿcoktastyåga¢ | kathamiha sa§gaphalatyågastÿtıyatvenocyate | ya-
thå trayo bråhma√å ågatå¢ | tatra ≤aƒa§gavidau dvau | k≤atriyastÿ-
tıya iti tadvat | nai≤a do≤a¢ | tyågasåmånyena stutyarthatvåt | asti
hi karmasaænyåsasya phalåbhisaædhityågasya ca tyågatvasåmå-
nyam | tatra råjasatåmasatvena karmatyåganindayå karmaphalåbhi-
saædhityåga¢ såttvikatvena st¥yate “sa tyåga¢ såttviko mata¢” i-
ti || yastvadhikÿta¢ sa§gaæ tyaktvå phalåbhisaædhiæ ca nityaæ ka-
rma karoti | tasya phalarågådinå ’kalu≤ıkriyamå√amanta¢kara√aæ
nityaiŸca karmabhi¢ saæskriyamå√aæ viŸudhyati | tadviŸuddhaæ pra-
sannamåtmålocanak≤amaæ bhavati | tasyaiva nityakarmånu≤†håne-
na viŸuddhånta¢kara√åsya åtmajñånåbhimukhasya krame√a yathå
tanni≤†hå syåttadvaktavyamityåha –
1016 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.10

na dve≤†yakuŸalaæ karma kuŸale nånu≤ajyate |


tyågı sattvasamåvi≤†o medhåvı cchinnasaæŸaya¢ || 18.10 ||

na dve≤†ıti | na dve≤†yakuŸalamaŸobhanaæ kåmyaæ karma | Ÿa-


rıråraæbhadvåre√asaæsårakåra√am | “kimanena” ityevam | kuŸale
Ÿobhane nitye karma√i sattvaŸuddhijñånotpattitanni≤†håhetutvena
“mok≤akåra√amidam” ityevaæ nånu≤ajyate ’nu≤a§gaæ prıtiæ na ka-
rotıtyetat | ka¢ punarasau | tyågı p¥rvoktena sa§gaphalatyågena ta-
dvåæstyågı | ya¢ karma√i sa§gaæ tyaktvå tatphalaæ ca nityaka-
rmånu≤†håyı sa tyågı | kadå punarasåvakuŸalaæ karma na dve≤†i |
kuŸale ca nånu≤ajyata iti | ucyate – sattvasamåvi≤†o yadå sattvenå
’’tmånåtmavivekavijñånahetunå samåvi≤†a¢ saævyåpta¢ | saæyu-
kta ityetat | ata eva ca medhåvı medhayå åtmajñånalak≤a√ayå pra-
jñayå saæyukta¢ tadvånmedhåvı | medhåvitvådeva cchinnasaæŸa-
yaŸchinno ’vidyåkÿta¢ saæŸayo yasya “åtmasvar¥påvasthånameva
paraæ ni¢Ÿreyasasådhanaæ nånyatkiñcit” ityevaæ niŸcayena cchi-
nnasaæŸaya¢ || yo ’dhikÿta¢ puru≤a¢ p¥rvoktena prakåre√a karma-
yogånu≤†hånena krame√a saæskÿtåtmå san | janmådivikriyårahita-
tvena ni≤kriyamåtmånamåtmatvena saæbuddha¢ | sa sarvakarmå√i
manaså saænyasya naiva kurvanna kårayannåsıno nai≤karmyala-
k≤a√åæ jñånani≤†håmaŸnuta ityetatp¥rvoktasya karmayogasya pra-
yojanamanena Ÿlokenoktam || ya¢ punaradhikÿta¢ sandehåtmåbhi-
månitvena dehabhÿdajño ’bådhitåtmakartÿtvavijñånatayå ’haæ ka-
rteti niŸcitabuddhi¢ tasyåŸe≤akarmaparityågasyåŸakyatvåtkarmapha-
latyågena coditakarmånu≤†håna evådhikaroti | na tattyågena itye-
tamarthaæ darŸayitumåha –

na hi dehabhÿtå Ÿakyaæ tyaktuæ karmå√yaŸe≤ata¢ |


yastu karmaphalatyågı sa tyågıtyabhidhıyate || 18.11 ||

na hıti | na hi yasmåddehabhÿtå | dehaæ bibhartıti dehabhÿt |


dehåtmåbhimånavåndehabhÿducyate | na hi vivekı | sa hi “vedåvi-
nåŸinam” (bha. gı. 2.21) ityådinå kartÿtvådhikårånnivartita¢ | ata-
stena dehabhÿtå ’jñena na Ÿakyaæ tyaktuæ saænyåsituæ karma-
√yaŸe≤ato ni¢Ÿe≤e√a | tasmådyastvajño ’dhikÿto nityåni karmå√i ku-
rvankarmaphalatyågı karmaphalåbhisaædhimåtrasaænyåsı sa tyå-
gıtyabhidhıyate karmyapi sanniti stutyabhipråye√a | tasmåtpara-
18.13 a≤†åda©o ’dhyåya¢ 1017

mårthadarŸinaiva dehabhÿtå dehåtmabhåvarahitenåŸe≤akarmasaæ-


nyåsa¢ Ÿakyate kartum || kiæ punastatprayojanaæ yatsarvakarma-
saænyåsåtsyådityucyate –

ani≤†ami≤†aæ miŸraæ ca trividhaæ karma√a¢ phalam |


bhavatyatyåginåæ pretya na tu saænyåsinåæ kvacit || 18.12 ||

ani≤†amiti | ani≤†aæ narakatiryagådilak≤a√am | i≤†aæ devådila-


k≤a√am | miŸrami≤†åni≤†asaæyuktaæ manu≤yalak≤a√aæ ca | evaæ
trividhaæ triprakåraæ karma√o dharmådharmalak≤a√asya phalaæ
båhyånekakårakavyåpårani≤pannaæ sadavidyåkÿtamindrajålamå-
yopamaæ mahåmohakaraæ pratyagåtmopasarpıha – phalgutayå la-
yamadarŸanaæ gacchatıti phalanirvacanam – tadetadevaælak≤a√aæ
phalaæ bhavatyatyåginåmajñånåæ karmi√åmaparamårthasaænyå-
sinåæ pretya Ÿarırapåtåd¥rdhvam | na tu saænyåsinåæ paramårtha-
saænyåsinåæ paramahaæsaparivråjakånåæ kevalajñånani≤†hånåæ
kvacit | na hi kevalasamyagdarŸanani≤†hå ’vidyådisaæsårabıjaæ no-
nm¥layati kadåcidityartha¢ | ata¢ paramårthadarŸina¢ evåŸe≤aka-
rmasaænyåsitvaæ saæbhavati | avidyådhyåropitatvådåtmani kri-
yåkårakaphalånåm | na tvajñasyådhi≤†hånådıni kriyåkartÿkårakå-
√yåtmatvenaiva paŸyato ’Ÿe≤akarmasaænyåsa¢ saæbhavati || tade-
taduttarai¢ ŸlokairdarŸayati –

pañcaitåni mahåbåho kåra√åni nibodha me |


så§khye kÿtånte proktåni siddhaye sarvakarma√åm || 18.13 ||

pañceti | pañcaitåni vak≤yamå√åni he mahåbåho kåra√åni ni-


rvartakåni | nibodha me mametyuttaratra ceta¢samådhånårtham |
vastuvai≤amyapradarŸanårthaæ ca | tåni ca kåra√åni jñåtavyatayå
stauti – så§khye jñåtavyå¢ padårthå¢ saækhyåyante yasmiñchå-
stre tatså§khyaæ vadanta¢ | kÿtånta iti tasyaiva viŸe≤a√am | kÿta-
miti karmocyate | tasya anta¢ parisamåptiryatra sa kÿtånta¢ | ka-
rmånta ityetat | “yåvånartha udapåne” (bha. gı. 2.46) | “sarvaæ ka-
rmåkhilaæ pårtha jñåne parisamåpyate” (bha. gı. 4.33) ityåtmajñå-
ne saæjåte sarvakarma√åæ nivÿttiæ darŸayati | atastasminnåtma-
jñånårthe så§khye kÿtånte vedånte proktåni kathitåni siddhaye ni-
≤pattyarthaæ sarvakarma√åm || kåni tånıtyucyate –
1018 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.14

adhi≤†hånaæ tathå kartå kara√aæ ca pÿthagvidham |


vividhåŸca pÿthakce≤†å daivaæ caivåtra pañcamam || 18.14 ||

adhi≤†hånamiti | adhi≤†hånamicchådve≤asukhadu¢khajñånådı-
nåmabhivyakteråŸrayo ’dhi≤†hånaæ Ÿarıram | tathå kartå upådhila-
k≤a√o bhoktå | kara√aæ ca Ÿrotrådikaæ Ÿabdådyupalabdhaye pÿtha-
gvidhaæ nånåprakåraæ taddvådaŸasaækhyam | vividhåŸca pÿtha-
kce≤†å våyavıyå¢ prå√åpånådyå¢ | daivaæ caiva daivameva cåtrai-
te≤u catur≤u pañcamaæ pañcånåæ p¥ra√amådityådi cak≤urådyanu-
gråhakam ||

Ÿarıravå§manobhiryatkarma prårabhate nara¢ |


nyåyyaæ vå viparıtaæ vå pañcaite tasya hetava¢ || 18.15 ||

Ÿarıreti | Ÿarıravå§manobhiryatkarma tribhiretai¢ prårabhate ni-


rvartayati naro nyåyyaæ vå dharmyaæ Ÿåstrıyaæ viparıtaæ vå ’Ÿå-
strıyamadharmyam | yaccåpi nimi≤itace≤†itådi jıvanahetu¢ tadapi
p¥rvakÿtadharmådharmayoreva kåryamiti nyåyyaviparıtayoreva gra-
ha√ena gÿhıtam | pañcaite yathoktåstasya sarvasyaiva karma√o he-
tava¢ kåra√åni || nanvetånyadhi≤†hånådıni sarvakarma√åæ nirva-
rtakåni | kathamucyate “Ÿarıravå§manobhi¢ yatkarma prårabhate”
iti | nai≤a do≤a¢ | vidhiprati≤edhalak≤a√aæ sarvaæ karma Ÿarırådi-
trayapradhånam | tada§gatayå darŸanaŸrava√ådi ca jıvanalak≤a√aæ
tridhaiva råŸıkÿtamucyate Ÿarırådibhirårabhyata iti | phalakåle ’pi
tatpradhånai¢ sådhanairbhujyata iti pañcånåmeva hetutvaæ na vi-
rudhyate ||

tatraivaæ sati kartåramåtmånaæ kevalaæ tu ya¢ |


paŸyatyakÿtabuddhitvånna sa paŸyati durmati¢ || 18.16 ||

tatreti | tatreti prakÿtena saæbadhyate | evaæ sati | evaæ ya-


thoktai¢ pañcabhirhetubhirnirvartye sati karma√i | tatraivaæ satıti
durmatitvasya hetutvena saæbadhyate | tatra ete≤våtmånanyatve-
nåvidyayå parikalpitai¢ kriyamå√åsya karma√o ’hameva karteti ka-
rtåramåtmånaæ kevalaæ Ÿuddhaæ tu ya¢ paŸyatyavidvån | kasmåt |
vedåntåcåryopadeŸanyåyairakÿtabuddhitvådasaæskÿtabuddhitvåt |
yo ’pi dehådivyatiriktåtmavådyåtmånameva kevalaæ kartåraæ pa-
18.17 a≤†åda©o ’dhyåya¢ 1019

Ÿyati | asåvapyakÿtabuddhi¢ | ato ’kÿtabudhitvånna sa paŸyatyåtma-


nastattvaæ karma√o vetyartha¢ | ata durmati¢ kutsitå viparıtå du-
≤†å ’jasraæ jananamara√apratipattihetubh¥tå matirasyeti durmati¢ |
sa paŸyannapi na paŸyati | yathå taimirike ’nekaæ candram | yathå
vå ’bhre≤u dhåvatsu candraæ dhåvantam | yathå vå våhana upavi≤†o
’nye≤u dhåvatsvåtmånaæ dhåvantam || ka¢ puna¢ sumatirya¢ sa-
myakpaŸyatıtyucyate –

yasya nåhaækÿto bhåvo buddhiryasya na lipyate |


hatvåpi sa imåællokånna hanti na nibadhyate || 18.17 ||

yasyeti | yasya ŸåstråcåryopadeŸanyåyasaæskÿtåtmano na bha-


vatyahaækÿto ’haæ kartetyevaælak≤a√o bhåvo bhåvanå pratyaya¢
– ete eva pañcådhi≤†hånådayo ’vidyayå åtmani kalpitå¢ sarvaka-
rma√åæ kartåro | nåhaæ | ahaæ tu tadvyåpårå√åæ såk≤ibh¥ta¢ |
“aprå√o hyamanå¢ Ÿubhro ’k≤aråtparata¢ para¢” (mu. 2.1.2) kevalo
’vikriya ityevaæ paŸyatıtyetat | buddhiranta¢kara√aæ yasyåtmana
upådhibh¥tå na lipyate nånuŸåyinı bhavati – idamahamakar≤aæ te-
nåhaæ narakaæ gami≤yåmıtyevaæ yasya buddhirna lipyate – sa su-
mati¢ | sa paŸyati | hatvåpi sa imåællokånsarvånimånprå√ina itya-
rtha¢ | na hanti hananakriyåæ na karoti | na nibadhyate nåpi tatkå-
rye√ådharmaphalena saæbadhyate || nanu hatvåpi na hantıti vipra-
ti≤iddhamucyate yadyapi stuti¢ | nai≤a do≤a¢ | laukikapåramårthi-
kadÿ≤†yapek≤ayå tadupapatte¢ | dehådyåtmabuddhyå hantåhamiti
laukikıæ dÿ≤†imåŸritya hatvåpıtyåha | yathådarŸitåæ påramårthi-
kıæ dÿ≤†imåŸritya “na hanti na nibadhyate” iti | etadubhayamupa-
padyata evam || nanvadhi≤†hånådibhi¢ saæbh¥ya karotyevåtmå |
“kartåramåtmånaæ kevalaæ tu” (bha. gı. 18.16) iti kevalaŸabdapra-
yogåt | nai≤a do≤a¢ | åtmano ’vikriyåsvabhåvatve ’dhi≤†hånådibhi¢
saæhatatvånupapatte¢ | vikriyåvato hyanyai¢ saæhananaæ saæ-
bhavati | saæhatya vå kartÿtvaæ syåt | na tvavikriyasyåtmana¢ ke-
nacitsaæhananamastıti na saæbh¥ya kartÿtvamupapadyate | ata¢
kevalatvamåtmana¢ svåbhåvikamiti kevalaŸabdo ’nuvådamåtram |
avikriyatvaæ cåtmana¢ Ÿrutismÿtinyåyaprasiddham | “avikåryo ’ya-
mucyate” (bha. gı. 2.25) | “gu√aireva karmå√i kriyante” (bha. gı.
3.27) | “Ÿarırastho ’pi na karoti” (bha. gı. 13.31) ityådyasakÿdupapå-
ditaæ gıtåsveva tåvat | Ÿruti≤u ca “dhyåyatıva lelåyatıva” (bÿ. 4.3.7)
1020 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.17

ityevamådyåsu | nyåyataŸca | niravayavamaparatantramavikriyamå-


tmatattvamiti råjamårga¢ | vikriyåvattvåbhyupagame ’pyåtmana¢
svakıyaiva vikriyå svasya bhavitumarhati | nådhi≤†hånådınåæ ka-
rmå√yåtmakartÿkå√i syu¢ | nahi parasya karma pare√åkÿtamågantu-
marhati | yattvavidyayå gamitaæ na tattasya | yathå rajatatvaæ na
Ÿuktikåyå¢ | yathå vå talamalinatvaæ balairgamitamavidyayå nå-
kåŸasya | tathådhi≤†hånådivikriyåpi te≤åmeva nåtmana¢ | tasmå-
dyuktamuktamahaækÿtatvabuddhilepåbhåvådvidvånna hanti na ni-
badhyata iti | “nåyaæ hanti na hanyate” (bha. gı. 2.19) iti pratijñåya
“na jåyate” (bha. gı. 2.20) ityådihetuvacanenåvikriyatvamåtmana u-
ktvå | “vedåvinåŸinam” (bha. gı. 2.21) iti vidu≤a¢ karmådhikåranivÿ-
ttiæ Ÿåstrådau saæk≤epata uktvå | madhye prasåritåæ ca tatra tatra
prasa§gaæ kÿtvehopasaæharati Ÿåstrårthapiƒıkara√åya vidvånna ha-
nti na nibadhyata iti | evaæ ca sati dehabhÿtvåbhimånånupapattå-
vavidyåkÿtåŸe≤akarmasaænyåsopapatte¢ saænyåsinåmani≤†ådi tri-
vidhaæ karma√a¢ phalaæ na bhavatıtyupapannam | tadviparyayå-
ccetare≤åæ bhavatıtyetaccåparihåryamitye≤a gıtåŸåstrårtha upasaæ-
hÿta¢ | sa e≤a sarvavedårthasåro nipu√amatibhi¢ pa√ƒitairvicårya
pratipattavya iti tatra tatra prakara√avibhågena darŸito ’småbhi¢
Ÿåstranyåyånusåre√a || athedånıæ karma√åæ pravartakamucyate –

jñånaæ jñeyaæ parijñåtå trividhå karmacodanå |


kara√aæ karma karteti trividha¢ karmasaægraha¢ || 18.18 ||

jñånamiti | jñånaæ jñåyate ’neneti sarvavi≤ayamaviŸe≤e√ocya-


te | tathå jñeyaæ jñåtavyam | tadapi såmånyenaiva sarvamucyate |
tathå parijñåtå upådhilak≤a√o ’vidyåkalpito bhoktå | ityetattraya-
maviŸe≤e√a sarvakarma√åæ pravartikå trividhå triprakarå karma
codanå | jñånådınåæ hi trayå√åæ saænipåte hånopådånådiprayoja-
na¢ sarvakarmåraæbha¢ syåt | tata¢ pañcabhiradhi≤†hånådibhirå-
rabdhaæ vå§mana¢kåyåŸrayabhedena tridhå råŸıbh¥taæ tri≤u kara-
√ådi≤u saægÿhyate ityetaducyate – kara√aæ kriyate ’neneti båhyaæ
Ÿrotrådi | anta¢sthaæ buddhyådi | karma ıpsitatamaæ kartu¢ kriya-
yå vyåpyamånaæ kartå kara√ånåæ vyåpårayitå upådhilak≤a√a iti
trividhastriprakåra¢ karmasaægraha¢ | saægÿhyate ’sminniti saæ-
graha¢ karma√a¢ saægraha¢ karmasaægraha¢ | karma e≤u hi tri≤u
samavaiti tenåyaæ trividha¢ karmasaægraha¢ || athedånıæ kriyå-
18.21 a≤†åda©o ’dhyåya¢ 1021

kårakaphalånåæ sarve≤åæ gu√åtmakatvåtsattvarajastamogu√abhe-


datastrividho bhedo vaktavya ityårabhyate –

jñånaæ karma ca kartå ca tridhaiva gu√abhedata¢ |


procyate gu√asaækhyåne yathåvacchÿ√u tånyapi || 18.19 ||

jñånamiti | jñånaæ karma ca karma kriyå | na kårakaæ påribhå-


≤ikamıpsitatamaæ karma | kartå ca nirvartaka¢ kriyå√åæ tridhai-
va | avadhåra√aæ gu√avyatiriktajåtyantaråbhåvapradarŸanårthaæ
gu√abhedata¢ sattvådibhedenetyartha¢ | procyate kathyate gu√a-
saækhyåne kåpile Ÿåstre tadapi gu√asaækhyånaæ Ÿåstraæ gu√a-
bhoktÿvi≤aye pramå√ameva | paramårthabrahmaikatvavi≤aye ya-
dyapi virudhyate | tathåpi te hi kåpilå gu√agau√avyåpåranir¥pa√e
’bhiyuktå iti tacchåstramapi vak≤yamå√årthastutyarthatvenopadı-
yata iti na virodha¢ | yathåvadyathånyåyaæ yathåŸåstraæ Ÿÿ√u tå-
nyapi jñånådıni tadbhedajåtåni gu√abhedakÿtåni Ÿÿ√u | vak≤yamå-
√e ’rthe mana¢samådhiæ kurvityartha¢ || jñånasya tu tåvattrividha-
tvamucyate –

sarvabh¥te≤u yenaikaæ bhåvamavyayamık≤ate |


avibhaktaæ vibhakte≤u tajjñånaæ viddhi såttvikam || 18.20 ||

sarvabh¥te≤viti | sarvabh¥te≤vavyaktådisthåvarånte≤u bh¥te≤u


yena jñånenaikaæ bhåvaæ vastu bhåvaŸabdo vastuvåcyekamåtma-
vastvityartha¢ | avyayaæ na vyeti svåtmanå svadharme√a vå k¥†a-
sthamityartha¢ | ık≤ate paŸyati yena jñånena | taæ ca bhåvamavi-
bhaktaæ pratidehaæ vibhakte≤u na vibhaktaæ tadåtmavastu | vyo-
mavannirantaramityartha¢ | tajjñånaæ såk≤åtsamyagdarŸanama-
dvaitåtmavi≤ayaæ såttvikaæ viddhıti || yåni dvaitadarŸanåni tånya-
samyagbh¥tåni råjasåni tåmasåni ceti na såk≤åtsaæsårocchittaye
bhavanti –

pÿthaktvena tu yajjñånaæ nånåbhåvånpÿthagvidhån |


vetti sarve≤u bh¥te≤u tajjñånaæ viddhi råjasam || 18.21 ||

pÿthaktveneti | pÿthaktvena tu bhedena pratiŸarıramanyatvena


yajjñånaæ nånåbhåvånbhinnånåtmana¢ pÿthagvidhånpÿthakprakå-
1022 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.21

rånbhinnalak≤a√ånityartha¢ | vetti vijånåtıti yajjñånaæ sarve≤u bh¥-


te≤u | jñånasya kartÿtvåsaæbhavådyena jñånena vettıtyartha¢ | ta-
jjñånaæ viddhi råjasaæ rajogu√anirvÿttam ||

yattu kÿtsnavadekasminkårye saktamahaitukam |


atattvårthavadalpaæ ca tattåmasamudåhÿtam || 18.22 ||

yattviti | yajjñånaæ kÿtsnavatsamastavatsarvavi≤ayamivaika-


sminkårye dehe bahirvå pratimådau saktam “etåvånevåtmeŸvaro
vå nåta¢ paramasti” iti | yathå nagnak≤apa√akådınåæ Ÿarıråntarva-
rtı dehaparimå√o jıva ıŸvaro vå på≤a√ådårvådimåtram | ityevame-
kasminkårye saktamahaitukaæ hetuvarjitaæ niryuktikam | atattvå-
rthavadayathåbh¥tårthavadyathåbh¥to ’rthastattvårtha¢ | so ’sya
jñeyabh¥to ’stıti tattvårthavat | na tattvårthavadatattvårthavat | a-
hetukatvådevålpaæ ca | alpavi≤ayatvådalpaphalatvådvå | tattåmasa-
mudåhÿtam | tåmasånåæ hi prå√inåmavivekinåmıdÿŸaæ jñånaæ dÿ-
Ÿyate || athedånıæ karma√astraividhyamucyate –

niyataæ sa§garahitamarågadve≤ata¢kÿtam |
aphalaprepsunå karma yattatsåttvikamucyate || 18.23 ||

niyatamiti | niyataæ nityaæ sa§garahitamåsaktivarjitamaråga-


dve≤ata¢kÿtaæ rågaprayuktena dve≤aprayuktena ca kÿtaæ rågadve-
≤ata¢kÿtaæ tadviparıtamarågadve≤ata¢kÿtam | aphalaprepsunå pha-
laæ prepsatıti phalaprepsu¢ phalatÿ≤√a¢ tadviparıtenåphalaprepsu-
nå kartrå kÿtaæ karma yattatsåttvikamucyate –

yattu kåmepsunå karma såhaækåre√a vå puna¢ |


kriyate bahulåyåsaæ tadråjasamudåhÿtam || 18.24 ||

yattviti | yattu kåmepsunå karmaphalaprepsunetyartha¢ | ka-


rma såhaækåre√a vå såhaækåre√eti na tattvajñånåpek≤ayå | kiæ ta-
rhi laukikaŸrotriyanirahaækåråpek≤ayå | yo hi paramårthanirahaæ-
kåra åtmavinna tasya kåmepsutvabahulåyåsakartÿtvapråptirasti | så-
ttvikasyåpi karma√o ’nåtmavitsåhaækåra¢ kartå | kimuta råjasatå-
masayo¢ | loke ’nåtmavidapi Ÿrotriyo nirahaækåra ucyate nirahaæ-
kåro ’yaæ bråhma√a iti | tasmådatadapek≤ayaiva såhaækåre√a vå i-
18.28 a≤†åda©o ’dhyåya¢ 1023

tyuktam | puna¢Ÿabda¢ pådap¥ra√årtha¢ | kriyate bahulåyåsaæ ka-


rtrå mahatå åyåsena nirvartyate tatkarma råjasamudåhÿtam ||
anubandhaæ k≤ayaæ hiæsåmanapek≤ya ca pauru≤am |
mohådårabhyate karma yattattåmasamucyate || 18.25 ||
anubandhamiti | anubandhaæ paŸcådbhåvi yadvastu so ’nuba-
ndha ucyate taæ cånubandham | k≤ayaæ yasminkarma√i kriyamå-
√e Ÿaktik≤ayo ’rthak≤ayo vå syåttaæ k≤ayam | hiæsåæ prå√ipıƒåæ
cånapek≤ya ca pauru≤aæ puru≤akåraæ Ÿaknomıdaæ karma samåpa-
yitumityevamåtmasåmarthyam | ityetånyanubandhådınyanapek≤ya
pauru≤åntåni mohådavivekato årabhyate karma yattattåmasaæ ta-
monirvÿttamucyate || idånıæ kartÿbheda ucyate –

muktasa§go ’nahaævådı dhÿtyutsåhasamanvita¢ |


siddhyasiddhyornirvikåra¢ kartå såttvika ucyate || 18.26 ||
mukteti | muktasa§go mukta¢ parityakta¢ sa§go yena sa mu-
ktasa§ga¢ | anahaævådı nåhaævadanaŸılo | dhÿtyutsåhasamanvito
dhÿtirdhåra√amutsåha udyamaståbhyåæ samanvita¢ saæyukto dhÿ-
tyutsåhasamanvita¢ | siddhyasiddhyo¢ kriyamå√asya karma√a¢ pha-
lasiddhåvasiddhau ca siddhyasiddhyornirvikåra¢ | kevalaæ Ÿåstra-
pramå√ena prayukto na phalarågådinå ya¢ sa nirvikåra ucyate |
evaæbh¥ta¢ kartå ya¢ sa såttvika ucyate ||

rågı karmaphalaprepsurlubdho hiæsåtmako ’Ÿuci¢ |


har≤aŸokånvita¢ kartå råjasa¢ parikırtita¢ || 18.27 ||

rågıti | rågı rågo ’syåstıti rågı | karmaphalaprepsu¢ karmapha-


lårthı | lubdha¢ paradravye≤u saæjåtatÿ≤√a¢ tırthådau svadravyåpa-
rityågı vå | hiæsåtmaka¢ parapıƒåkarasvabhåva¢ | aŸucirbåhyånta¢-
Ÿaucavarjita¢ | har≤aŸokånvita i≤†åpråptau har≤o ’ni≤†apråptåni≤†a-
viyoge ca Ÿokaståbhyåæ har≤aŸokåbhyåmanvita¢ saæyukta¢ ta-
syaiva ca karma√a¢ saæpattivipattibhyåæ har≤aŸokausyåtåæ tå-
bhyåæ saæyukto ya¢ kartå sa råjasa¢ parikırtita¢ ||

ayukta¢ pråkÿta¢ stabdha¢ Ÿa†ho naikÿtiko ’lasa¢ |


vi≤ådı dırghas¥trı ca kartå tåmasa ucyate || 18.28 ||
1024 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.28

ayukta iti | ayukto ’samåhita¢ | pråkÿto ’tyantåsaæskÿtabuddhi-


rbålasama¢ | stabdho da√ƒavanna namati kasyacit | Ÿa†ho måyåvı
Ÿaktig¥hanakårı | naikÿtika¢ paravibhedanapara¢ | alaso ’pravÿttiŸı-
la¢ kartavye≤vapi | vi≤ådı sarvadåvasannasvabhåvo | dırghas¥trı ca
kartavyånåæ dırghaprasåre√a sarvadå mandasvabhåva¢ | yadadya
Ÿvo kartavyaæ tanmåsenåpi na karoti | yaŸcaivaæbh¥ta¢ sa kartå
tåmasa ucyate ||

buddherbhedaæ dhÿteŸcaiva gu√atastrividhaæ Ÿÿ√u |


procyamånamaŸe≤e√a pÿthaktvena dhanañjaya || 18.29 ||

buddherbhedamiti | buddherbhedaæ dhÿteŸcaiva bhedaæ gu√a-


ta¢ sattvådigu√atastrividhaæ Ÿÿ√viti s¥tropanyåsa¢ | procyamånaæ
kathyamånamaŸe≤e√a niravaŸe≤ato yathåvatpÿthaktvena vivekato
dhanañjaya | digvijaye månu≤aæ daivaæ ca prabh¥taæ dhanaæ ji-
tavåntenåsaudhanañjayo ’rjuna¢ ||

pravrttiæ ca nivÿttiæ ca kåryåkårye bhayåbhaye |


bandhaæ mok≤aæ ca yå vetti buddhi¢ så pårtha såttvikı || 18.30 ||

pravÿttiæ ceti | pravÿttiæ ca pravÿtti¢ pravartanaæ bandhahe-


tu¢ karmamårga¢ Ÿåstravihitavi≤aya¢ | nivÿttiæ ca nivÿttirmok≤a-
hetu¢ saænyåsamårga¢ | bandhamok≤asamånavåkyatvåtpravÿttini-
vÿttı karmasaænyåsamårgåvityavagamyate | kåryåkårye vihitaprati-
≤iddhe laukike vå Ÿåstrabuddhe¢ kartavyåkartavye kara√åkara√e i-
tyetat | kasya | deŸakålådyapek≤ayå dÿ≤†ådÿ≤†årthånåæ karma√åm |
bhayåbhaye bibhetyasmåditi bhayam | na bhayamabhayaæ bhayaæ
cåbhayaæ ca bhayåbhaye | dÿ≤†ådÿ≤†avi≤ayayorbhayåbhayayo¢ kå-
ra√e ityartha¢ | bandhaæ sahetukaæ mok≤aæ ca sahetukaæ yå ve-
tti vijånåti buddhi¢ | så pårtha såttvikı | tatra jñånaæ buddhervÿtti¢ |
buddhistu vÿttimatı | dhÿtirapi vÿttiviŸe≤a eva buddhe¢ ||

yayå dharmamadharmaæ ca kåryaæ cåkåryameva ca |


ayathåvatprajånåti buddhi¢ så pårtha råjası || 18.31 ||

yayeti | yayå dharmaæ Ÿåstracoditam | adharmaæ ca tatprati≤i-


ddham | kåryaæ cåkåryameva ca p¥rvokte eva kåryåkårye | ayathå-
18.35 a≤†åda©o ’dhyåya¢ 1025

vanna yathåvatsarvato nir√ayena na prajånåti | buddhi¢ så pårtha


råjası ||

adharmaæ dharmamiti yå manyate tamasåvÿtå |


sarvårthånviparıtåæŸca buddhi¢ så pårtha tåması || 18.32 ||

adharmamiti | adharmaæ prati≤iddhaæ dharmaæ vihitamiti yå


manyate jånåti tamaså åvÿtå satı | sarvårthånsarvåneva jñeyapadå-
rthånviparitåæŸca viparıtåneva vijånåti | buddhi¢ så pårtha tåması ||

dhÿtyå yayå dhårayate mana¢prå√endriyåkriyå¢ |


yogenåvyabhicåri√yå dhÿti¢ så pårtha såttvikı || 18.33 ||

dhÿtyeti | dhÿtyå yayå | avyabhicåri√yeti vyavahitena saæba-


ndha¢ | dhårayate | kim | mana¢prå√endriyakriyå¢ manaŸca prå√å-
Ÿcendriyå√i ca mana¢prå√endriyå√i te≤åæ kriyåŸce≤†å¢ | tå ucchå-
stramårgapravÿtterdhårayate dhårayati | dhÿtyå hi dhåryamå√å u-
cchåstramårgavi≤ayå na bhavanti | yogena samådhinå | avyabhicå-
ri√yå nityasamådhyanugatayetyartha¢ | etaduktaæ bhavati – avya-
bhicåri√yå dhÿtyå mana¢prå√endriyakriyå dhåryamå√å yogena dhå-
rayatıti | yå evaælak≤a√å dhÿti¢ så pårtha såttvikı ||

yayå tu dharmakåmårthåndhÿtyå dhårayate ’rjuna |


prasa§gena phalåkå§k≤ı dhÿti¢ så pårtha råjası || 18.34 ||

yayeti | yayå tu dharmakåmårthåndharmaŸca kåmåŸcårthaŸca


dharmakåmårthaståndharmakåmårthåndhÿtyå yayå dhårayate ma-
nasi nityakartavyar¥pånavadhårayati he ’rjuna | prasa§gena yasya
yasya dharmåderdhåra√aprasa§gastena prasa§gena phalåkå§k≤ı ca
bhavati ya¢ puru≤a¢ tasya dhÿtiryå pårtha råjası ||

yayå svapnaæ bhayaæ Ÿokaæ vi≤ådaæ madameva ca |


na vimuñcati durmedhå dhÿti¢ så tåması matå || 18.35 ||

yayeti | yayå svapnaæ nidråæ bhayaæ tråsaæ Ÿokaæ vi≤ådaæ


vi≤a√√åtåæ madaæ vi≤ayasevåmåtmano bahu manyamåno matta i-
va madameva ca manasi nityameva kartavyar¥patayå kurvanna vi-
1026 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.35

muñcati dhårayatyeva durmedhå¢ kutsitamedhå¢ puru≤o ya¢ | ta-


sya dhÿtiryå så tåması matå || gu√abhedena kriyå√åæ kåra√ånåæ
ca trividho bheda ukta¢ | athedånıæ phalasya sukhasya trividho
bheda ucyate –

sukhaæ tvidånıæ trividhaæ Ÿÿ√u me bharatar≤abha |


abhyåsådramate yatra du¢khåntaæ ca nigacchati || 18.36 ||

sukhamiti | sukhaæ tvidånıæ trividhaæ Ÿÿ√u | samådhånaæ ku-


rvityetat | me mama bharatar≤abha | abhyåsåtparicayådåvÿtte¢ ra-
mate ratiæ pratipadyate yatra yasminsukhånubhave du¢khåntaæ
ca du¢khåvasånaæ du¢khopaŸamaæ ca nigacchati niŸcayena prå-
pnoti ||

yattadagre vi≤amiva pari√åme ’mÿtopamam |


tatsukhaæ såttvikaæ proktamåtmabuddhiprasådajam || 18.37 ||

yaditi | yattatsukhamagre p¥rvaæ prathamasaænipåte jñåna-


vairågyadhyånasamådhyåraæbhe ’tyantåyåsap¥rvakatvådvi≤amiva
du¢khåtmakaæ bhavati | pari√åme jñånavairågyådiparipåkajaæ su-
khamamÿtopamam | tatsukhaæ såttvikaæ proktaæ vidvadbhi¢ | å-
tmano buddhiråtmabuddhi¢ | åtmabuddhe¢ prasådo nairmalyaæ sa-
lilasyeva svacchatå | tato jåtamåtmabuddhiprasådajam | åtmavi≤a-
yå vå ’’tmåvalaæbanå vå buddhiråtmabuddhi¢ | tatprasådapraka-
r≤ådvå jåtamityetat | tasmåtsåttvikaæ tat ||

vi≤ayendriyasaæyogådyattadagre ’mÿtopamam |
pari√åme vi≤amiva tatsukhaæ råjasaæ smÿtam || 18.38 ||

vi≤ayeti | vi≤ayendriyasaæyogåjjåyate yatsukhaæ tatsukhama-


gre prathamak≤a√e ’mÿtopamamamÿtasamam | pari√åme vi≤amiva |
balavıryar¥pajñåmedhådhanotsåhahånihetutvådadharmatajjanita-
narakådihetutvåcca pari√åme tadupabhogapari√åmånte vi≤amiva |
tatsukhaæ råjasaæ smÿtam ||

yadagre cånubandhe ca sukhaæ mohanamåtmana¢ |


nidrålasyapramådotthaæ tattåmasamudåhÿtam || 18.39 ||
18.41 a≤†åda©o ’dhyåya¢ 1027

yadagre ceti | yadagre cånubandhe cåvasånottarakåle sukhaæ


mohanaæ mohakaramåtmano nidrålasyapramådotthaæ nidrå cå ’’la-
syaæ ca pramådaŸca tebhya¢ samutti≤†hati nidrålasyapramådottham |
tattåmasamudåhÿtam || athedånıæ prakara√opasaæhårårtha¢ Ÿloka
årabhyate –

na tadasti pÿthivyåæ vå divi deve≤u vå puna¢ |


sattvaæ prakÿtijairmuktaæ yadebhi¢ syåttribhirgu√ai¢ || 18.40 ||

neti | na tadasti tannåsti pÿthivyåæ vå manu≤yådi≤u sattvaæ


prå√ijåtamanyadvå ’prå√i | divi deve≤u vå puna¢ sattvam | prakÿti-
jai¢ prakÿtito jåtairebhistribhirgu√ai¢ sattvådibhirmuktaæ paritya-
ktaæ yatsyåt | na tadastıti p¥rve√a saæbandha¢ || sarva¢ saæså-
ra¢ kriyåkårakaphalalak≤a√a¢ sattvarajastamogu√atmako ’vidyåpa-
rikalpita¢ sam¥le ’nartha ukta¢ | vÿk≤ar¥pakalpanayå ca “¥rdhva-
m¥lam” (bha. gı. 15.1) ityådinå | “taæ cåsa§gaŸåstre√a dÿƒhena chi-
ttvå tata¢ padaæ tatparimårgitavyam” (bha. gı. 15.3-4) iti coktam |
tatra ca sarvasya trigu√åtmakatvåtsaæsårakåra√anivÿttyanupapa-
ttau pråptåyåm | yathå tannivÿtti¢ syåttathå vaktavyam | sarvaŸca
gıtåŸåstrårtha upasaæhartavya¢ | etåvåneva ca sarvavedasmÿtya-
rtha¢ puru≤årthamicchadbhiranu≤†heya ityevamartha bråhma√a-
k≤atriyaviŸåmityådyårabhyate –

bråhma√ak≤atriyaviŸåæ Ÿ¥drå√åæ ca paraætapa |


karmå√i pravibhaktåni svabhåvaprabhavairgu√ai¢ || 18.41 ||

bråhma√eti | bråhma√åŸca k≤atriyåŸca viŸåŸca bråhma√ak≤atri-


yaviŸa¢ te≤åæ bråhma√ak≤atriyaviŸåæ Ÿ¥drå√åæ ca – Ÿ¥drå√åma-
samåsakara√amekajåtitve sati vedånadhikåråt – he paraætapa | ka-
rmå√i pravibhaktånıtaretaravibhågena vyavasthåpitåni | kena | sva-
bhåvaprabhavagu√ai¢ | svabhåva ıŸvarasya prakÿtistrigu√åtmikå må-
yå så prabhavo ye≤åæ gu√ånåæ te svabhåvaprabhavå¢ tai¢ Ÿamå-
dıni karmå√i pravibhaktåni bråhma√ådınåm | athavå bråhma√a-
svabhåvasya sattvagu√a¢ prabhava¢ kåra√am | tathå k≤atriyasva-
bhåvasya sattvopasarjanaæ raja¢ prabhava¢ | vaiŸyasvabhåvasya
tamaupasarjanaæ raja¢ prabhava¢ | Ÿ¥drasvabhåvasya rajaupasa-
rjanaæ tama¢ prabhava¢ | praŸåntyaiŸvaryehåm¥ƒhatåsvabhåvada-
1028 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.41

rŸanåccatur√åm | athavå janmåntarakÿtasaæskåra¢ prå√inåæ va-


rtamånajanmani svakåryåbhimukhatvenåbhivyakta¢ svabhåva¢ sa
prabhavo ye≤åæ gu√ånåæ te svabhåvaprabhavå gu√å¢ | gu√aprå-
durbhåvasya ni≤kåra√atvånupapatte¢ | svabhåva¢ kåra√amiti ca kå-
ra√aviŸe≤opådånam | evaæ svabhåvaprabhavai¢ prakÿtibhavai¢ sa-
ttvarajastamobhirgu√ai¢ svakåryånur¥pe√a Ÿamådıni karmå√i pra-
vibhaktåni || nanu Ÿåstrapravibhaktåni Ÿåstre√a vihitåni bråhmådı-
nåæ Ÿamådıni karmå√i | kathamucyate sattvådigu√apravibhaktå-
nıti | nai≤a do≤a¢ | Ÿåstre√åpi bråhma√ådınåæ sattvådigu√aviŸe≤å-
pek≤ayaiva Ÿamådıni karmå√i pravibhaktåni | na gu√ånapek≤ayå |
iti Ÿåstrapravibhaktånyapi karmå√i gu√apravibhaktånıtyucyate ||
kåni punaståni karmå√ıtyucyate –

Ÿamo damastapa¢ Ÿaucaæ k≤åntirårjavameva ca |


jñånaæ vijñånamåstikyaæ brahmakarma svabhåvajam || 18.42 ||

Ÿama iti | Ÿamo damaŸca yathåvyåkhyåtårthau | tapo yathoktaæ


Ÿårırådi | Ÿaucaæ vyåkhyåtam | k≤ånti¢ k≤amå | årjavamÿjutaiva ca |
jñånaæ vijñånam | åstikyamåstikabhåva¢ Ÿraddadhånatå ’’gamårthe-
≤u | brahmakarma bråhma√ajåte¢ karma svabhåvajam | yaduktaæ
svabhåvaprabhavairgu√ai¢ pravibhaktånıti tadevoktaæ svabhåva-
jamiti ||

Ÿauryaæ tejo dhÿtirdåk≤yaæ yuddhe cåpyapalåyanam |


dånamıŸvarabhåvaŸca k≤åtraæ karma svabhåvajam || 18.43 ||

Ÿauryamiti | Ÿauryaæ Ÿ¥rasya bhåva¢ | teja¢ prågalbhyam | dhÿ-


tirdhåra√am | sarvåvasthåsvanavasådo bhavati yayå dhÿtyottaæ-
bhitasya | dåk≤yaæ dak≤asya bhåva¢ | sahaså pratyutpanne≤u kårye-
≤vavyamohena pravÿtti¢ | yuddhe cåpyapyalåyanamaparå§mukhı-
bhåva¢ Ÿatrubhya¢ | dånaæ deyadravye≤u muktahastatå | ıŸvara-
bhåvaŸceŸvarasya bhåva¢ prabhuŸaktipraka†ıkara√amıŸitavyånpra-
ti | k≤åtraæ karma k≤atriyajåtervihitaæ karma k≤åtraæ karma sva-
bhåvajam ||

kÿ≤igaurak≤yavå√ijyaæ vaiŸyakarma svabhåvajam |


paricaryåtmakaæ karma Ÿ¥drasyåpi svabhåvajam || 18.44 ||
18.47 a≤†åda©o ’dhyåya¢ 1029

kÿ≤ıti | kÿ≤igaurak≤yavå√ijyaæ kÿ≤iŸca gaurak≤yaæ ca vå√i-


jyaæ ca kÿ≤igaurak≤yavå√ijyam | kÿ≤irbh¥mervilekhanam | gaura-
k≤yaæ gå rak≤atıti gorak≤astadbhåvo gaurak≤yaæ påŸupåtyamitya-
rtha¢ | vå√ijyaæ va√ikkarma krayavikrayådilak≤a√am | vaiŸyaka-
rma vaiŸyajåte¢ karma vaiŸyakarma svabhåvajam | paricaryåtma-
kaæ ŸuŸr¥≤åsvabhåvaæ karma Ÿ¥drasyåpi svabhåvajam || ete≤åæ
jåtivihitånåæ karma√åæ samyaganu≤†hitånåæ svargapråpti¢ pha-
laæ svabhåvata¢ | “var√å åŸramåŸca svakarmani≤†hå¢ pretya ka-
rmaphalamanubh¥ya tata¢ Ÿe≤e√a viŸi≤†adeŸajåtikuladharmåyu¢Ÿru-
tavÿttavittasukhamedhaso janma pratipadyante” (å. dha. s¥. 2.2.2.3)
ityådismÿtibhya¢ | purå√e ca var√inåmåŸrami√åæ ca lokaphalabhe-
daviŸe≤asmara√åt | kåra√åntaråttvidaæ vak≤yamå√aæ phalam –

sve sve karma√yabhirata¢ saæsiddhiæ labhate nara¢ |


svakarmanirata¢ siddhiæ yathå vindati tacchÿ√u || 18.45 ||

sve sva iti | sve sve yathoktalak≤a√abhede karma√yabhiratasta-


tpara¢ saæsiddhiæ svakarmånu≤†hånådaŸuddhik≤aye sati kårye-
ndriyå√åæ jñånani≤†håyogyatålak≤a√åæ saæsiddhiæ labhate prå-
pnoti naro ’dhikÿta¢ puru≤a¢ | kiæ svakarmånu≤†hånata eva såk≤å-
tsaæsiddhi¢ | na | kathaæ tarhi | svakarmanirata¢ siddhiæ yathå ye-
na prakåre√a vindati tacchÿ√u ||

yata¢ pravÿttirbh¥tånåæ yena sarvamidaæ tatam |


svakarma√å tamabhyarcya siddhiæ vindati månava¢ || 18.46 ||

yata iti | yato yasmåtpravÿttirutpattiŸce≤†å vå yasmådantaryå-


mi√a ıŸvarådbh¥tånåæ prå√inåæ syådyeneŸvare√a sarvamidaæ ja-
gattataæ vyåptam | svakarma√å p¥rvoktena prativar√aæ tamıŸva-
ramabhyarcya p¥jayitvå ’’rådhya kevalaæ jñånani≤†håyogyatåla-
k≤a√åæ siddhiæ vindati månavo manu≤ya¢ || yata evamata¢ –

Ÿreyånsvadharmo vigu√a¢ paradharmåtsvanu≤†hitåt |


svabhåvaniyataæ karma kurvannåpnoti kilbi≤am || 18.47 ||

Ÿreyåniti | ŸreyånpraŸasyatara¢ svo dharma¢ svadharma¢ | vi-


gu√o ’pıtyapiŸabdo dra≤†avya¢ | paradharmåtsvanu≤†hitåt | svabhå-
1030 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.47

vaniyataæ svabhåvena niyatam | yaduktaæ svabhåvajamiti tadevo-


ktaæ svabhåvaniyatamiti | yathå vi≤ajåtasya kÿmervi≤aæ na do≤a-
karam | tathå svabhåvaniyataæ karma kurvannåpnoti kilbi≤aæ på-
pam || svabhåvaniyataæ karma kurvå√o vi≤aja iva kÿmi¢ kilbi≤aæ
nåpnotıtyuktam | paradharmaŸca bhayåvaha iti | anåtmajñaŸca “na
hi kaŸcitk≤a√amapyakarmakÿtti≤†hati” (bha. gı. 3.5) iti | ata¢ –

sahajaæ karma kaunteya sado≤amapi na tyajet |


sarvåraæbhå hi do≤e√a dh¥menågnirivåvÿtå¢ || 18.48 ||

sahajamiti | sahajaæ saha janmanaivotpannam | kiæ tat | karma


kaunteya sado≤amapi trigu√åtmakatvånna tyajet | sarvåraæbhå ’’ra-
bhyanta ityåraæbhå¢ | sarvakarmå√ıtyetatprakara√åt | ye kecidå-
raæbhå¢ | svadharmå¢ paradharmåŸca te sarve hi yasmåt – trigu-
√åtmakatvamatra hetu¢ – trigu√åtmakatvådado≤e√a dh¥mena sa-
hajenågnirivåvÿtå¢ | sahajasya karma√a¢ svadharmåkhyasya pari-
tyågena paradhårmånu≤†håne ’pi do≤ånnaiva mucyate | bhayåvaha-
Ÿca paradharma¢ | na ca Ÿakyate ’Ÿe≤atastyaktamajñena karma ya-
ta¢ tasmånna tyajedityartha¢ || kimaŸe≤atastyaktumaŸakyaæ ka-
rmeti na tyajet | kiæ vå sahajasya karma√astyåge do≤o bhavatıti | ki-
ñcåta¢ | yadi tåvadaŸe≤atastyaktumaŸakyamiti na tyåjyaæ sahajaæ
karma | evaæ tarhyaŸe≤atastyåge gu√a eva syåditi siddhaæ bhavati |
satyamevam | aŸe≤atastyåga eva nopapadyata iti cet | kiæ nityapra-
calitåtmaka¢ puru≤o yathå så§khyanåæ gu√å¢ | kiæ vå kriyaiva
kårakaæ yathå bauddhånåæ skandhå¢ k≤a√apradhvaæsina¢ | u-
bhayathåpi karma√o ’Ÿe≤atastyågo na saæbhavati | atha tÿtıyo ’pi pa-
k≤a¢ – yadå karoti tadå sakriyaæ vastu | yadå na karoti tadå ni≤kri-
yaæ vastu tadeva | tatraivaæ sati Ÿakyaæ karmåŸe≤atastyaktum | a-
yaæ tvasmiæstÿtıye pak≤e viŸe≤a¢ – na nityapracalitaæ vastu | nåpi
kriyaiva kårakam | kiæ tarhi | vyavasthite dravye ’vidyamånå kri-
yotpadyate | vidyamånå ca vinaŸyati | Ÿuddhaæ taddravyaæ Ÿakti-
madavati≤†hata ityevamåhu¢ kå√ådåstadeva ca kårakamiti | asmi-
npak≤e ko do≤a iti | ayameva tu do≤a¢ – yatastvabhågavataæ mata-
midam | kathaæ jnåyate | yata åha bhagavån “nåsato vidyate bhå-
va¢” (bha. gı. 2.16) ityådi | kå√ådånåæ hyasato bhåva¢ | sataŸcå-
bhåva¢ | itıdaæ matamabhågavatam | abhågavatatve ’pi nyåyava-
ccetko do≤a iti cet | ucyate | do≤avattvidaæ sarvapramå√avirodhåt |
18.48 a≤†åda©o ’dhyåya¢ 1031

katham | yadi tåvaddvya√ukådi dravyaæ prågutpatteratyantame-


våsat | utpannaæ ca sthitaæ kiñcitkålaæ punaratyantamevåsattva-
måpadyate | tathå ca satyasadeva sajjåyate sadevåsattvamåpadya-
te | abhåvo bhåvo bhavati | bhåvaŸcåbhåvo bhavati | tatråbhåvo jå-
yamåna¢ prågutpatte¢ ŸaŸavi≤å√akalpa¢ samavåyyasamavåyinimi-
ttåkhyaæ kåra√amapek≤ya jåyata iti | na caivamabhåva utpadyate
kåra√aæ cåpek≤ata iti Ÿakyaæ vaktum | asatåæ ŸaŸavi≤å√ådınåma-
darŸanåt | bhåvåtmakaŸcedgha†ådaya utpadyamånå¢ | kiñcidabhi-
vyaktimåtre kåra√amapek≤yotpadyanta iti Ÿakyaæ pratipattum | ki-
ñcåsataŸca sadbhåve sataŸcåsadbhåve na kvacitpramå√aprameyavya-
vahåre≤u viŸvåsa¢ kasyacitsyåt | satsadevåsadasadevetiniŸcayånupa-
patte¢ || kiñcotpadyata iti dvya√ukåderdravyasya svakåra√asattå-
saæbandhamåhu¢ | prågutpatteŸcåsat | paŸcåtkåra√avyåpåramape-
k≤ya svakåra√ai¢ paramå√ubhi¢ sattayå ca samavåyalak≤a√ena saæ-
bandhena saæbadhyate | saæbaddhaæ satkåra√asamavetaæ sadbha-
vati | tatra vaktavyaæ kathamasata¢ svaæ kåra√aæ bhavetsaæbo-
dho vå kenacitsyåt | nahi vandhyåputrasya svaæ kåra√aæ saæbo-
dho vå kenacitpramå√ata¢ kalpayituæ Ÿakyate || nanu naivaæ vai-
Ÿe≤ikairabhåvasya saæbandha¢ kalpyate | dvya√ukådınåæ hi dra-
vyå√åæ svakåra√ena samavåyalak≤a√a¢ saæbandha¢ satåmevocya-
ta iti | na | saæbandhåtpråksattvånabhyupagamåt | nahi vaiŸe≤ikai¢
kulålada√ƒacakrådivyåpåråtpråggha†ådınåmastitvami≤yate | na ca
mÿda eva ghå†ådyåkårapråptimicchanti | tataŸcåsata eva saæba-
ndha¢ påriŸe≤yådi≤†o bhavati || nanvasato ’pi samavåyalak≤a√a¢ saæ-
bandho na viruddha¢ | na | vandhyaputrådınåmadarŸanåt | gha†å-
dereva prågabhåvasya svakåra√asaæbandho bhavati na vandhyå-
putråde¢ | abhåvasya tulyatve ’pıti viŸe≤o ’bhåvasya vaktavya¢ | e-
kasyåbhåvo | dvayorabhåva¢ | sarvasyåbhåva¢ | prågabhåva¢ pra-
dhvaæsåbhåva¢ itaretaråbhåva¢ | atyantåbhåva iti lak≤a√ato na ke-
nacidviŸe≤o darŸayituæ Ÿakya¢ | asati ca viŸe≤e gha†asya prågabhå-
va eva kulålådibhirgha†abhåvamåpadyate | saæbadhyate ca bhåve-
na kapålåkhyena | saæbaddhaŸca sarvavyavahårayogyaŸca bhavati |
na tu gha†asyaiva pradhvaæsåbhåvo ’bhåvatve satyapi | iti pra-
dhvaæsådyabhåvånåæ na kvacidvyavahårayogyatvam | prågabhå-
vasyaiva dvya√ukådidravyåkhyasyotpattyådivyavahårårhatvami-
tyetat samañjasamabhåvatvåviŸe≤ådatyantapradhvaæsåbhåvayo-
riva || nanu naivåsmåbhi¢ prågabhåvasya bhåvåpattirucyate | bhå-
1032 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.48

vasyaiva hi tarhi bhåvåpatti¢ | yathå gha†asya pa†asya gha†åpatti¢ |


vå pa†åpatti¢ | etadapyabhåvasya bhåvåpattivadeva pramå√aviru-
ddham | så§khyasyåpi ya¢ pari√åmapak≤a¢ so ’pyap¥rvadharmo-
tpattivinåŸå§gıkara√ådvaiŸe≤ikapak≤ånna viŸi≤yate | abhivyaktiti-
robhåvå§gıkara√e ’pyabhivyaktitirobhåvayorvidyamånatvåvidya-
månatvanir¥pa√e p¥rvavadeva pramå√avirodha¢ | etena kåra√å-
syaiva saæsthånamutpattyådıtyetadapi pratyuktam || påriŸe≤yåtsa-
dekameva vastvavidyayotpattivinåŸådidharmairna†avadanekadhå
vikalpyata iti | idaæ bhågavataæ matamuktam “nåsato vidyate bhå-
va¢” (bha. gı. 2.16) ityasmiñŸloke | satpratyayasyåvyabhicårådvya-
bhicåråccetare≤åmiti || kathaæ tarhyåtmano ’vikriyatve ’Ÿe≤ata¢ ka-
rma√astyågo nopapadyata iti | yadi vastubh¥tå gu√å | yadi vå ’vi-
dyåkalpitå¢ | taddharma¢ karma | tadåtmanyavidyådhyåropitame-
vetyavidvån “na hi kaŸcitk≤a√amapyaŸe≤atastyaktuæ Ÿaknoti” (bha.
gı. 3.5) ityuktam | vidvåæstu punarvidyayå ’vidyåyåæ nivÿttåyåæ
ŸaknotıtyevåŸe≤ata¢ karma parityaktumavidyådhyåropitasya Ÿe≤å-
nupapatte¢ | na hi taimirikadÿ≤†yådhyåropitasya dvicandrådestimi-
råpagame Ÿe≤o ’vati≤†hate | evaæ ca satıdaæ vacanamupapannaæ
“sarvakarmå√i manaså” (bha. gı. 5.13) ityådi | “sve sve karma√ya-
bhirata¢ saæsiddhiæ labhate nara¢” (bha. gı. 18.45) | “svakarma√å
tamabhyarcya siddhiæ vindati månava¢” (bha. gı. 18.46) iti ca || ya
ca karmajå siddhiruktå jñånani≤†håyogyatålak≤a√å | tasyå¢ phala-
bh¥tå nai≤karmyasiddhirjñånani≤†hålak≤a√å ca vaktavyeti Ÿloka å-
rabhyate –

asaktabuddhı¢ sarvatra jitåtmå vigataspÿha¢ |


nai≤karmyasiddhiæ paramåæ saænyåsenådhigacchati || 18.49 ||

asaktabuddhiriti | asaktabuddhirasaktå sa§garahitå buddhira-


nta¢kara√aæ yasya so ’saktabuddhi¢ sarvatra putradårådi≤våsakti-
nimitte≤u | jitåtmå jito vaŸıkÿta åtmå ’nta¢kara√aæ yasya sa jitå-
tmå | vigataspÿha vigatå spÿhå tÿ≤√å dehajıvitabhoge≤u yasmåtsa vi-
gataspÿha¢ | sa evaæbh¥ta åtmajña¢ sa nai≤karmyasiddhiæ nirga-
tåni karmå√i yasmånni≤kriyabrahmåtmasaæbodhåtsa ni≤karmå ta-
sya bhåvo nai≤karmyaæ nai≤karmyaæ ca tatsiddhiŸca så nai≤ka-
rmyasiddhi¢ | nai≤karmyasya vå ni≤kriyåtmar¥påvasthånalak≤a-
√asya siddhirni≤patti¢ | tåæ nai≤karmyasiddhiæ paramåæ prakÿ-
18.50 a≤†åda©o ’dhyåya¢ 1033

≤†åæ karmajasiddhivilak≤a√åæ sadyomuktyavasthånar¥påæ saæ-


nyåsena samyagdarŸanena tatp¥rvake√a vå sarvakarmasaænyåse-
na | adhigacchati pråpnoti | tathå coktaæ “sarvakarmå√i manaså
saænyasya naiva kurvanna kårayannåste” (bha. gı. 5.13) iti || p¥-
rvoktena svakarmånu≤†håneneŸvaråbhyarcanar¥pe√a janitåæ prå-
guktalak≤a√åæ siddhiæ pråptasyotpannåtmavivekajñånasya keva-
låtmajñånani≤†hår¥på nai≤karmyalak≤a√å siddhiryena krame√a bha-
vati tadvaktavyamityåha –

siddhiæ pråpto yathå brahma tathåpnoti nibodha me |


samåsenaiva kaunteya ni≤†hå jñånasya yå parå || 18.50 ||

siddhimiti | siddhiæ pråpta¢ svakarma√eŸvaraæ samabhyarcya


tatprasådajåæ kåryendriyå√åæ jñånani≤†håyogyatålak≤a√å siddhiæ
pråpta¢ | siddhiæ pråpta iti tadanuvåda uttarårtha¢ | kiæ tadutta-
raæ yadartho ’nuvåda ityucyate | yathå yena prakåre√a jñånani≤†hå-
r¥pe√a brahma paramåtmånamåpnoti tathå taæ prakåraæ jñåna-
ni≤†håpråptikramaæ me mama vacanånnibodha tvaæ niŸcayenåva-
dhårayetyetat | kiæ vistare√a | netyåha | samåsenaiva saæk≤epe-
√aiva he kaunteya yathå brahma pråpnoti tathå nibodheti | anena
yå pratijñåtå brahmapråptiståmidantayå darŸayitumåha ni≤†hå jñå-
nasya yå pareti | ni≤†hå paryavasånaæ parisamåptirityetat | kasya |
brahmajñånasya yå parå | kıdÿŸı så yådÿŸamåtmajñånam | kıdÿktat |
yådÿŸa åtmå | kıdÿŸo ’sau | yådÿŸo bhagavatokta upani≤advåkyaiŸca
nyåyataŸca || nanu vi≤ayåkåraæ jñånaæ na vi≤ayo nåpyåkåravånå-
tme≤yate kvacit | nanvådityavar√aæ bhår¥pa¢ svayaæjyoti¢ | ityå-
kåravattvamåtmana¢ Ÿr¥yate | na tamor¥patvaprati≤edhårthatvåtte-
≤åæ våkyånåm | dravyagu√ådyåkåraprati≤edhe åtmanastamor¥pa-
tve pråpte tatprati≤edhårthåni “ådityavar√am” (Ÿve. 3.8) ityådivå-
kyåni | “ar¥pam” (ka. 3.15) iti ca viŸe≤ato r¥paprati≤edhåt | avi≤aya-
tvåcca “na sandÿŸo ti≤†hati r¥pamasya na cak≤u≤å paŸyati kaŸcanai-
nam” (Ÿve. 4.20) | “aŸabdamasparŸam” (ka. 3.15) ityådyai¢ | tasmådå-
tmåkåraæ jñånamityanupapannam || kathaæ tarhyåtmano jñånam |
sarvaæ hi yadvi≤ayaæ yajjñånaæ tattadåkåraæ bhavati | niråkåra-
Ÿcåtmetyuktam | jñånåtmanoŸcobhayorniråkåratve kathaæ tadbhå-
vanåni≤†heti | na | atyantanirmalatvåtisvacchatvåtis¥k≤matvopapa-
tteråtmana¢ | buddheŸcå ’’tmavannairmalyådyupapatteråtmacaita-
1034 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.50

nyåkårabhåsatvopapatti¢ | buddhyåbhåsaæ mana¢ | tadåbhåsånındri-


yå√i | indriyåbhåsaŸca deha¢ | ato laukikairdehamåtre evåtmadÿ≤†i¢
kriyate || dehacaitanyavådinaŸca lokåyatikå¢ “caitanyaviŸi≤†a¢ kå-
ya¢ puru≤a¢” ityåhu¢ | tathå ’nye indriyacaitanyavådina¢ | anye ma-
naŸcaitanyavådina¢ | anye buddhicaitanyavådina¢ | tato ’pyåntara-
mavyaktamavyåkÿtåkhyamavidyåvasthamåtmatvena pratipannå¢
kecit | sarvatra hi buddhyådidehånte åtmacaitanyåbhåsatå ’’tma-
bhråntikåra√amityataŸcå ’’tmavi≤ayaæ jñånaæ na vidhåtavyam |
kiæ tarhi | nåmar¥pådyanåtmådhyaropa√anivÿttireva kåryå nåtma-
caitanyavijñånaæ kåryam | avidyådhyåropitasarvapadårthakairavi-
Ÿi≤†atayå dÿŸyamånatvåditi | ata eva hi vijñånavådino bauddhå vi-
jñånavyatireke√a vastveva nåstıti pratipannå¢ | pramå√åntaranira-
pek≤atåæ ca svasaæviditatvåbhyupagamena | tasmådavidyådhyå-
ropitaniråkara√amåtraæ brahma√i kartavyam | na tu brahmavi-
jñåne yatno ’tyantaprasiddhatvåt | avidyåkalpitanåmar¥paviŸe≤å-
kåråpahÿtabuddhınåmatyantaprasiddhaæ suvijñeyamåsannatara-
måtmabh¥tamapi | aprasiddhaæ durvijñeyamatid¥ramanyadiva ca
pratibhåtyavivekinåm | båhyåkåranivÿttabuddhınåæ tu labdhagu-
rvåtmaprasådånåæ nåta¢paraæ sukhaæ suprasiddhaæ suvijñeyaæ
svåsannataramasti | tathå coktam “pratyak≤åvagamaæ dharmyam”
(bha. gı. 9.2) ityådi || kecittu pa√ƒitaæmanyå – niråkåratvådåtma-
vastu nopaiti buddhirato du¢sådhyå samyagjñånani≤†hå – ityåhu¢ |
satyam | evaæ gurusaæpradåyarahitånåmaŸrutavedåntånåmatya-
ntabahirvi≤ayåsaktabuddhınåæ samyakpramå√e≤vakÿtaŸramå√åm |
tadviparıtånåæ tu laukikagråhyagråhakadvaitavastuni sadbuddhi-
rnitaråæ du¢saæpadyå åtmacaitanyavyatireke√a vastvantarasyånu-
palabdhe¢ | yathå ca “etadevameva nånyathå” ityavocåma | uktaæ
ca bhagavatå – “yasyåæ jågrati bh¥tåni så niŸå paŸyato mune¢”
(bha. gı. 2.69) iti | tasmådbåhyåkårabhedabuddhinivÿttirevå ’’tma-
svar¥påvalaæbanakåra√am | na hyåtmå nåma kasyacitkadåcidapra-
siddha¢ pråpyo heya upådeyo vå | aprasiddhe hi tasminnåtmani svå-
rthå¢ sarvå¢ pravÿttaya¢ vyarthå¢ prasajyeran | na ca dehådyace-
tanårthatvaæ Ÿakyaæ kalpayitum | na ca sukhårthaæ sukhaæ du¢-
khårthaæ vå du¢kham | åtmåvagatyavasånårthatvåcca sarvavyava-
hårasya | tasmådyathå svadehasya paricchedåya na pramå√åntarå-
pek≤å | tato ’pyåtmano ’ntaratamatvåttadavagatiæ prati na pramå-
√åntaråpek≤å | ityåtmajñånani≤†hå vivekinåæ suprasiddhå iti si-
18.53 a≤†åda©o ’dhyåya¢ 1035

ddham || ye≤åmapi niråkåraæ jñånamapratyak≤am | te≤åmapi jñå-


navaŸenaiva jñeyåvagatiriti jñånamatyantaæ prasiddhaæ sukhådi-
vadevetyabhyupagantavyam | jijñåsånupapatteŸca – aprasiddhaæ
cejjñånaæ jñeyavajjijñåsyeta | yathå jñeyaæ gha†ådilak≤a√aæ jñå-
nena jñåtå vyåptumicchati tathå jñånamapi jñånåntare√a jñåtavya-
måptumicchet | na caitadasti | ato ’tyantaprasiddhaæ jñånam | jñå-
tåpyata eva prasiddha iti | tasmåjjñåne yatno na kartavya¢ | kiæ tva-
nåtmanyåtmabuddhinivÿttåveva | tasmåjjñånani≤†hå susaæpadyå ||
seyaæ jñånasya parå ni≤†hocyate kathaæ kåryeti –
buddhyå viŸuddhayå yukto dhÿtyåtmånaæ niyamya ca |
Ÿabdådınvi≤ayåæstyaktvå rågadve≤au vyudasya ca || 18.51 ||
buddhyeti | buddhyå ’dhyavasåtmikayå viŸuddhayå måyårahi-
tayå yukta¢ saæpanno | dhÿtyå dhairye√åtmånaæ kåryakara√asaæ-
ghåtaæ niyamya ca niyamanaæ kÿtvå vaŸıkÿtya | Ÿabdådıñchabda
ådirye≤åæ te Ÿabdådayastånvi≤ayåæstyaktvå | såmarthyåccharıra-
sthitimåtrahetubh¥tånkevalånmuktvå tato ’dhikånsukhårthåæstya-
ktvetyartha¢ | Ÿarırasthityarthatvena pråpte≤u rågadve≤au vyuda-
sya parityajya ca || tata¢ –

viviktasevı laghvåŸı yatavåkkåyamånasa¢ |


dhyånayogaparo nityaæ vairågyaæ samupåŸrita¢ || 18.52 ||
vivikteti | viviktasevı ara√yanadıpulinagiriguhådınviviktånde-
Ÿånsevituæ Ÿılamasyeti viviktasevı | laghvåŸı laghvaŸanaŸıla¢ | vivi-
ktasevålaghvaŸanayornidrådido≤anivartakatvena cittaprasådahetu-
tvådgraha√am | yatavåkkåyamånaso våkca kåyaŸca månasaæ ca ya-
tåni saæyatåni yasya jñånani≤†hasya sa jñånani≤†ho yatiryatavå-
kkåyamånasa¢ syåt | evamuparatasarvakara√a¢ sandhyånayogapa-
ro dhyånamåtmasvar¥pacintanaæ yoga åtmavi≤aya evaikågrıkara-
√aæ tau dhyånayogau paratvena kartavyau yasya sa dhyånayoga-
para¢ nityam | nityagraha√aæ mantrajapådyanyakartavyåbhåva-
pradarŸanårtham | vairågyaæ virågabhåvo dÿ≤†ådÿ≤†e≤u vi≤aye≤u vai-
tÿ≤√yam | samupåŸrita¢ samyagupåŸrito nityamevetyartha¢ || kiñca –

ahaækåraæ balaæ darpaæ kåmaæ krodhaæ parigraham |


vimucya nirmama¢ Ÿånto brahmabh¥yåya kalpate || 18.53 ||
1036 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.53

ahaækåramiti | ahaækåramahaækara√amahaækåro dehendri-


yådi≤u | taæ balaæ såmarthyaæ kamarågådiyuktam | netaraccharı-
rådisåmarthyaæ svåbhåvikatvena tattyågasyåŸakyatvåt | darpaæ da-
rpo nåma har≤åntarabhåvı dharmåtikramahetu¢ “hÿ≤†o dÿpyati dÿ-
pto dharmamatikråmati” (å. dha. s¥. 1.13.4) iti smara√åt | taæ ca kå-
mamiccham | krodhaæ dve≤am | parigrahamindriyamanogatado≤a-
parityåge ’pi Ÿarıradhåra√aprasa§gena dharmånu≤†hånanimittena
vå båhya¢ parigraha¢ pråpta¢ | taæ ca vimucya parityajya parama-
haæsaparivråjako bh¥två dehajıvanamåtre ’pi nirgatamamabhåvo
nirmamo ’ta eva Ÿånta uparata¢ | ya¢ saæhÿtahar≤åyåso yatirjñå-
nani≤†ho brahmabh¥yåya brahmabhavanåya kalpate samartho bha-
vati || anena krame√a –

brahmabh¥ta¢ prasannåtmå na Ÿocati na kå§k≤ati |


sama¢ sarve≤u bh¥te≤u madbhaktiæ labhate paråm || 18.54 ||

brahmabh¥ta iti | brahmabh¥to brahmåpta¢ prasannåtmå la-


bdhådhyåtmaprasådo na Ÿocati | kiñcidarthavaikalyamåtmano vai-
gu√yaæ voddiŸya na Ÿocati na santapyate | na kå§k≤ati | brahma-
bh¥tasyåyaæ svabhåvo ’n¥dyate na Ÿocati na kå§k≤atıti | na hya-
pråptavi≤ayåkå§k≤å brahmavida upapadyate | na hÿ≤yatıti vå på-
†håntaram | sama¢ sarve≤u bh¥te≤våtmaupamyena sarve≤u bh¥te≤u
sukhaæ du¢khaæ vå samameva paŸyatıtyartha¢ nåtmasamadarŸa-
namiha tasya vak≤yamå√atvåt “bhaktyå måmabhijånåti” (bha. gı.
18.55) iti | evaæbh¥to jñånani≤†ho | madbhaktiæ mayi parameŸvare
bhaktim | bhajanaæ paråmuttamåæ jñånalak≤a√åæ caturthıæ la-
bhate “caturvidhå bhajante måm” (bha. gı. 7.16) iti hyuktam || tato
jñånalak≤a√ayå –

bhaktyå måmabhijånåti yåvånyaŸcåsmi tattvata¢ |


tato måæ tattvato jñåtvå viŸate tadanantaram || 18.55 ||

bhaktyeti | bhaktyå måmabhijånåti yåvånahamupådhikÿtavista-


rabheda¢ | yaŸcåhamasmi vidhvastasarvopådhibheda uttamapuru≤å
’’kåŸakalpa¢ | taæ måmadvaitaæ caitanyamåtraikarasamajamajara-
mamaramabhayamanidhanaæ tattvato ’bhijånåti | tato måmevaæ
tattvato jñåtvå viŸate tadanantaraæ måmeva | nåtra jñånånantara-
18.55 a≤†åda©o ’dhyåya¢ 1037

praveŸakriye bhinne vivak≤ite jñåtvå viŸate tadanantaramiti | kiæ


tarhi | phalåntaråbhåvåjjñånamåtrameva | “k≤etrajñaæ cåpi måæ vi-
ddhi” (bha. gı. 13.2) ityuktatvåt || nanu viruddhamidamuktam “jñå-
nasya yå parå ni≤†hå tayå måmabhijånåti” iti | kathaæ viruddhami-
ti ceducyate – yadaiva yasminvi≤aye jñånamutpadyate jñatu¢ | ta-
daiva taæ vi≤ayamabhijånåti jñåteti na jñånani≤†håæ jñånavÿttila-
k≤a√åmapek≤ata iti | ataŸca jñånena nåbhijånåti jñånavÿttyå tu jñå-
nani≤†hayåbhijånåtıti | nai≤a do≤a¢ | jñånasya svåtmotpattiparipå-
kahetuyuktasya pratipak≤avihınasya yadåtmånubhavaniŸcayåvaså-
natvaæ tasya ni≤thåŸabdåbhilåpåcchåstråcåryopadeŸena jñånotpa-
ttiparipåkahetuæ sahakårikåra√aæ buddhiviŸuddhyådyamånitvå-
di cåpek≤ya janitasya k≤etrajñaparamåtmaikatvajñånasya kartÿtvå-
dikårakabhedabuddhinibandhanasarvakarmasaænyåsasahitasya
svåtmånubhavaniŸcayar¥pe√a yadavasthånaæ så parå jñånani≤†he-
tyucyate | seyaæ jñånani≤†hå årtådibhaktitrayåpek≤ayå parå catu-
rthıæ bhaktirityuktå | tayå parayå bhaktyå bhagavantaæ tattvato
’bhijånåti | yadanantarameva ıŸvarak≤etrajñabhedabuddhiraŸe≤ato
nivartate | ato jñånani≤†hålak≤a√ayå bhaktyå måmabhijånåtıti va-
canaæ na virudhyate | atra ca sarvaæ nivÿttividhåyi Ÿåstraæ vedå-
ntetihåsapurå√asmÿtilak≤a√aæ nyåyaprasiddhamarthavadbhavati |
“viditvå vyutthåyåtha bhik≤åcaya caranti” (bÿ. 3.5.1) | “tasmånnyåsa-
me≤åæ tapasåmatiriktamåhu¢” (tai. å. 10.63.19) | “nyåsa evåtyareca-
yåt” (tai. å. 10.62.12) iti | “saænyåsa¢ karma√åæ nyåsa¢” (bha. gı.
18.2) | “vedånimaæ ca lokamamuæ ca parityajya” | “tyaja dharma-
madharmaæ ca” (ma. bhå. 12.329.40) ityådi | iha ca pradarŸitåni vå-
kyåni | na ca te≤åæ våkyånåmånarthakyaæ yuktam | na cårthavå-
datvaæ svaprakara√asthatvåt | pratyagåtmavikriyasvar¥pani≤†ha-
tvåcca mok≤asya | na hi p¥rvasamudraæ jigami≤o¢ pratilomyena
pratyaksamudrajigami≤u√å samånamårgatvaæ saæbhavati | pra-
tyagåtmavi≤ayapratyayasantånakara√åbhiniveŸaŸca jñånani≤†hå |
så ca pratyaksamudragamanavatkarma√å sahabhåvitvena virudhya-
te | parvatasar≤apayorivåntaravånvirodha¢ pramå√avidåæ niŸcita¢ |
tasmåtsarvakarmasaænyåsenaiva jñånani≤†hå kåryeti siddham ||
svakarma√å bhagavato ’bhyarcanabhaktiyogasya siddhipråpti¢ pha-
laæ jñånani≤†håyogyatå | yannimittå jñånani≤†hå mok≤aphalåvaså-
nå | sa bhagavadbhaktiyogo ’dhunå st¥yate Ÿåstrårthopasaæhåra-
prakara√e ŸåstrårthaniŸcayadårƒhyåya –
1038 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.56

sarvakarmå√yapi sadå kurvå√o madvyapåŸraya¢ |


matprasådådavåpnoti ŸåŸvataæ padamavyayam || 18.56 ||

sarvakarmå√ıti | sarvakarmå√i prati≤iddhånyapi sadå kurvå√o


’nuti≤†hanmadvyapåŸrayo ’haæ våsudeva ıŸvaro vyapåŸrayo vyapå-
Ÿraya√aæ yasya sa madvyapåŸrayo mayyarpitasarvåtmabhåva itya-
rtha¢ | so ’pi matprasådånmameŸvarasya prasådådavåpnoti ŸåŸva-
taæ nityaæ vai≤√avaæ padamavyayam || yasmådevaæ tasmåt –

cetaså sarvakarmå√i mayi saænyasya matpara¢ |


buddhiyogamapåŸritya maccitta¢ satataæ bhava || 18.57 ||

cetaseti | cetaså vivekabuddhyå sarvakarmå√i dÿ≤†ådÿ≤†årthåni


mayıŸvare saænyasya “yatkaroti yadaŸnåsi” (bha. gı. 9.27) ityukta-
nyåyena | matparo ’haæ våsudeva¢ paro yasya tava sa tvaæ ma-
tparo mayyarpitasarvåtmabhåva¢ sanbuddhiyogaæ samåhitabuddhi-
tvaæ buddhiyogastaæ buddhiyogamapåŸrityåpåŸrayo ’nanyaŸara√a-
tvaæ maccitto mayyeva cittaæ yasya tava sa tvaæ maccitta¢ sata-
taæ sarvadå bhava ||

maccitta¢ sarvadurgå√i matprasådåttari≤yasi |


atha cettvamahaækårånna Ÿro≤yasi vinaæk≤yasi || 18.58 ||

maccitta iti | maccitta¢ sarvadurgå√i sarvå√i dustarå√i saæså-


rahetujåtåni matprasådåttari≤yasyatikrami≤yasi | atha cedyadi tvaæ
maduktamahaækåråtpå√ƒito ’hamiti na Ÿro≤yasi na grahı≤yasi | ta-
tastvaæ vinaæk≤yasi vinåŸaæ gami≤yasi || idaæ ca tvayå na manta-
vyaæ svatantro ’haæ kimarthaæ paroktaæ kari≤yåmıti –

yadahaækåramåŸÿtya na yotsya iti manyase |


mithyai≤a vyavasåyaste prakÿtistvåæ niyok≤yati || 18.59 ||

yadahaækåramiti | yadi cettvamahaækåramåŸritya na yotsya i-


ti na yuddhaæ kari≤yåmıti manyase cintayasi niŸcayaæ karo≤i mi-
thyai≤a vyavasåyo niŸcayaste tava | yasmåtprakÿti¢ k≤atriyasvabhå-
vastvåæ niyok≤yati || yasmåcca –
18.63 a≤†åda©o ’dhyåya¢ 1039

svabhåvajena kaunteya nibaddha¢ svena karma√å |


kartuæ necchasi yanmohåtkari≤yasyavaŸo ’pi tat || 18.60 ||

svabhåvajeneti | svabhåvajena Ÿauryådinå yathoktena kaunte-


ya nibaddho niŸcayena baddha¢ svenåtmıyena karma√å kartuæ ne-
cchasi yatkarma | mohådavivekata¢ kari≤yasyavaŸo paravaŸa eva
tatkarma || yasmåt –

ıŸvara¢ sarvabh¥tånåæ hÿddeŸe ’rjuna ti≤†hati |


bhråmayansarvabh¥tåni yantrår¥ƒhåni måyayå || 18.61 ||

ıŸvara iti | ıŸvara ıŸanaŸılo nåråya√a¢ sarvabh¥tånåæ sarvaprå-


√inåæ hÿddeŸe hÿdayadeŸe ’rjuna Ÿuklåntaråtmasvabhåvo viŸuddhå-
nta¢kara√a¢ | “ahaŸca kÿ≤√amahararjunaæ ca” iti darŸanåt – ti≤†ha-
ti sthitiæ labhate | te≤u sa kathaæ ti≤†hatıtyåha bhråmayanbhrama-
√aæ kårayansarvabh¥tåni yantrår¥ƒhåni yantrå√yår¥ƒhånyadhi-
≤†hitånıva – itıvaŸabdo ’tra dra≤†avya¢ | yathå dårukÿtapuru≤ådıni
yantrår¥ƒhåni | måyayå cchadmanå bhråmayaæsti≤†hatıti saæba-
ndha¢ ||

tameva Ÿara√aæ gaccha sarvabhåvena bhårata |


tatprasådåtparåæ Ÿåntiæ sthånaæ pråpsyasi ŸåŸvatam || 18.62 ||

tameveti | tameveŸvaraæ Ÿara√amåŸrayaæ saæsårårtihara√å-


rthaæ gacchå ’’Ÿraya sarvabhåvena sarvåtmanå he bhårata | tata-
statprasådådıŸvarånugrahåtparåæ prakÿ≤†åæ Ÿåntimuparatiæ sthå-
naæ ca mama vi≤√o¢ paramaæ padaæ pråpsyasi ŸåŸvataæ nityam ||

iti te jñånamåkhyåtaæ guhyådguhyataraæ mayå |


vimÿŸyaitadaŸe≤e√a yathecchasi tathå kuru || 18.63 ||

itıti | ityetatte tubhyaæ jñånamåkhyåtaæ kathitaæ guhyådgo-


pyådguhyataramatiŸayena guhyaæ rahasyamityartha¢ | mayå sa-
rvajñeneŸvare√a vimÿŸya vimarŸanamålocanaæ kÿtvaitadyathoktaæ
ŸåstramaŸe≤e√a samastaæ yathoktaæ cårthajåtaæ yathecchasi tathå
kuru || bh¥yo ’pi mayocyamånaæ Ÿÿ√u –
1040 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.64

sarvaguhyatamaæ bh¥ya¢ Ÿÿ√u me paramaæ vaca¢ |


i≤†o ’si me dÿƒhamiti tato vak≤yåmi te hitam || 18.64 ||

sarvaguhyatamamiti | sarvaguhyatamaæ sarvaguhyebhyo ’tya-


ntaguhyatamamatyantarahasyamuktamapyasakÿdbh¥ya¢ puna¢ Ÿÿ-
√u me mama paramaæ prakÿ≤†aæ vaco våkyam | na bhayånnåpya-
rthakåra√ådvå vak≤yåmi | kiæ tarhi | i≤†a¢ priyo ’si me mama dÿ-
ƒhamavyabhicåre√eti kÿtvå tatastena kåra√ena vak≤yåmi kathayi-
≤yåmi te hitaæ paraæ jñånapråptisådhanam | taddhi sarvahitånåæ
hitatamam || kiæ tadityåha –

manmanå bhava madbhakto madyåjı måæ namaskuru |


måmevai≤yasi satyaæ te pratijåne priyo ’si me || 18.65 ||

manmanå iti | manmanå bhava maccitto bhava | madbhakto


bhava madbhajano bhava | madyåjı madyajanaŸılo bhava | måæ na-
maskuru namaskåramapi mamaiva kuru | tatraivaæ vartamåne vå-
sudeve eva samarpitasådhyasådhanaprayojano måmevai≤yasyåga-
mi≤yasi | satyaæ te tava pratijåne satyåæ pratijñåæ karomyetasmi-
nvastunıtyartha¢ | yata¢ priyo ’si me | evaæ bhagavata¢ satyapra-
tijñatvaæ buddhvå bhagavadbhakteravaŸyaæbhåvi mok≤aphalama-
vadhårya bhagavacchara√aikaparåya√o bhavediti våkyårtha¢ || ka-
rmayogani≤†håyå¢ paramarahasyamıŸvaraŸara√atåmupasaæhÿtya |
athedånıæ karmayogani≤†håphalaæ samyagdarŸanaæ sarvavedå-
ntasåravihitaæ vaktavyamityåha –

sarvadharmånparityajya måmekaæ Ÿara√aæ vraja |


ahaæ två sarvapåpebhyo mok≤ayi≤yåmi må Ÿuca¢ || 18.66 ||

sarvadharmåniti | sarvadharmånsarve ca te dharmåŸca sarva-


dharmåstån | dharmaŸabdenåtrådharmo ’pi gÿhyate | nai≤karmya-
sya vivak≤itatvåt | “nåvirato duŸcaritåt” (ka. 2.24) | “tyaja dharma-
madharmaæ ca” (ma. bhå. 12.329.40) ityådiŸrutismÿtibhya¢ | sarva-
dharmånparityajya saænyasya sarvakarmå√ıtyetat | måmekaæ sa-
rvåtmånaæ samaæ sarvabh¥tasthamıŸvaramacyutaæ garbhajanma-
jaråmara√avivarjitamahameva ityevaæ Ÿara√aæ vraja | na matto
’nyadastıtyavadhårayetyartha¢ | ahaæ två tvåmevaæniŸcitabuddhiæ
18.66 a≤†åda©o ’dhyåya¢ 1041

sarvapåpebhya¢ sarvadharmådharmabandhanar¥pebhyo mok≤ayi-


≤yåmi svåtmabhåvaprakåŸıkara√ena | uktaæ ca “nåŸayåmyåtmabhå-
vastho jñånadıpena bhåsvatå” (bha. gı. 10.11) iti | ato må Ÿuca¢ Ÿo-
kaæ må kår≤ırityartha¢ || asmingıtåŸåstre paramani¢Ÿreyasasådha-
naæ niŸcitaæ kiæ jñånam | karma vå | åhosvidubhayamiti | kuta¢
saæŸaya¢ “yajjñåtvå ’mÿtamaŸnute” (bha. gı. 13.12) | “tato måæ ma-
ttvato jñåtvå viŸate tadanantaram” (bha. gı. 18.55) ityådıni våkyåni
kevalåjjñånånni¢Ÿreyasapråptiæ darŸayanti | “karma√yevådhikåra-
ste” (bha. gı. 2.47) | “kuru karmaiva” (bha. gı. 4.15) ityevamådıni ka-
rma√åmavaŸyakartavyatåæ darŸayanti | evaæ jñånakarma√o¢ ka-
rtavyatopadeŸåtsamuccitayorapi ni¢Ÿreyasahetutvaæ syåditi bha-
vetsaæŸaya¢ kasyacit | kiæ punaratra mımåæsåphalam | nanveta-
devai≤åmanyatamasya paramani¢Ÿreyasasådhanatvåvadhåra√am |
ato vistır√ataraæ mımåæsyametat || åtmajñånasya tu kevalasya ni
¢Ÿreyasahetutvaæ bhedapratyayanivartakatvena kaivalyaphalåva-
såyitvåt | kriyåkårakaphalabhedabuddhiravidyayåtmani nityapravÿ-
ttå – mama karmåhaæ kartåmu≤maiphalåyedaæ karma kari≤yåmı-
tıyamavidyå ’nådikålapravÿttå | asyå avidyåyå nivartakamayama-
hamasmi kevalo ’kartå ’kriyo ’phalo | na matto ’nyo ’sti kaŸciditye-
vaær¥pamåtmavi≤ayaæ jñånamutpadyamånam | karmapravÿttihe-
tubh¥tåyå bhedabuddhernivartakatvåt | tuŸabda¢ pak≤advayavyå-
vÿttyartho – na kevalebhya¢ karmabhyo na ca jñånakarmabhyåæ
samuccitåbhyåæ ni¢Ÿreyasapråptiriti pak≤advayaæ nivartayati | a-
kåryatvåcca ni¢Ÿreyasasya karmasådhanatvånupapatti¢ | na hi ni-
tyaæ vastu karma√å jñånena vå kriyate | kevalajñånamapyanartha-
kaæ tarhi | na | avidyånivartakatve sati dÿ≤†akaivalyaphalåvasåna-
tvåt | avidyåtamonivartakasya jñånasya dÿ≤†aæ kaivalyaphalåva-
sånatvam | rajjvådivi≤aye sarpådyajñånatamonivartakapradıpapra-
kåŸaphalavat | vinivÿttasarpådivikalparajjukaivalyåvasånaæ hi pra-
kåŸaphalam | tathå jñånam | dÿ≤†årthånåæ ca cchidikriyågnimantha-
nådınåæ vyåpÿtakartrådikårakå√åæ dvaidhıbhåvågnidarŸanådipha-
lådanyaphale karmåntare vå vyåpårånupapattiryathå tathå dÿ≤†å-
rthåyåæ jñånani≤†håkriyåyåæ vyåpÿtasya jñåtrådikårakasyå ’’tma-
kaivalyaphalådanyaphale karmåntare pravÿttiranupapanneti na jñå-
nani≤†hå karmasahitopapadyate | bhujyagnihotrådikriyåvatsyåditi
cet | na | kaivalyaphale jñåne kriyåphalårthitvånupapatte¢ | kaiva-
lyaphale hi jñåne pråpte | sarvata¢saæplutodake phale k¥pata†ågå-
1042 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.66

dikriyåphalårthitvåbhåvavat | phalåntare tatsådhanabh¥tåyåæ vå


kriyåyåmarthitvånupapatti¢ | na hi råjyapråptiphale karma√i vyå-
pÿtasya k≤etramåtrapråptiphale vyåpåropapattistadvi≤ayaæ vå ’rthi-
tvam | tasmånna karma√o ’sti ni¢Ÿreyasasådhanatvam | na ca jñå-
nakarma√o¢ samuccitayo¢ | nåpi jñånasya kaivalyaphalasya karma-
såhåyyåpek≤å ’vidyånivartakatvena virodhåt | na hi tamastamaso
nivartakam | ata¢ kevalameva jñånaæ ni¢Ÿreyasasådhanamiti | na |
nityåkara√e pratyavåyapråpte¢ | kevalasya ca nityatvåt | yattåva-
tkevalajñånåtkaivalyapråptirityetat | tadasat | yato nityånåæ karmå-
√åæ Ÿrutyuktånåmakara√e pratyavåyo narakådipråptilak≤a√a¢ syåt |
nanvevaæ tarhi karmabhyo mok≤o nåstıtyanirmok≤a eva | nai≤a do-
≤a¢ | nityatvånmok≤asya | nityånåæ karma√åmanu≤†hånåtpratyavå-
yasyåpråpti¢ | prati≤iddhasya cåkara√ådani≤†aŸarırånupapatti¢ | kå-
myånåæ ca varjanådi≤aŸarırånupapatti¢ | vartamånaŸarıråraæbha-
kasya ca karma√a¢ phalopabhogak≤aye patite ’smiñcharıre dehå-
ntarotpattau ca kåra√åbhåvådåtmano rågådınåæ cåkara√åtsvar¥-
påvasthånameva kaivalyamityayatnasiddhaæ kaivalyamiti | atikrå-
ntånekajanmåntarakÿtasya svarganarakådipråptiphalasyånårabdha-
kåryasyopabhogånupapatte¢ k≤ayåbhåva iti cet | na | nityakarmå-
nu≤†hånåyåsadu¢khopabhogasya tatphalopabhogatvopapatte¢ | prå-
yaŸcittavadvå p¥rvopåttaduritak≤ayårthatvånnityakarma√åm | åra-
bdhånåæ ca karma√åmupabhogenaiva k≤ı√åtvådap¥rvå√åæ ca ka-
rma√åmanåraæbhe ’yatnasiddhaæ kaivalyamiti | na | “tameva vidi-
tvåtimÿtyumeti nånya¢ panthå vidyate ’yanåya” (Ÿve. 3.8) iti vidyå-
yå ’nya¢ panthå mok≤åya na vidyata iti Ÿrute¢ carmavadåkåŸave-
≤†anåsaæbhavavadavidu≤o mok≤åsaæbhavaŸrute¢ “jñånåtkaivalya-
måpnoti” iti ca purå√a smÿte¢ | anårabdhaphalånåæ karma√åæ k≤a-
yånupapatteŸca | yathå p¥rvopåttånåæ duritånåmanårabdhaphalå-
nåæ saæbhava¢ | tathå pu√yånåmapyanårabdhaphalånåæ syåtsaæ-
bhava¢ | te≤åæ ca dehåntaramakÿtvå k≤ayånupapattau mok≤ånu-
papatti¢ | dharmådharmahet¥nåæ ca rågadve≤amohånåmanyatrå-
tmajñånåducchedånupapatte¢ dharmådharmocchedånupapatti¢ | ni-
tyånåæ ca karma√åæ pu√yaphalatvaŸrute¢ “var√å åŸramåŸca sva-
karmani≤†hå” ityadismÿteŸca karmak≤ayånupapatti¢ || ye tvåhu¢ ni-
tyåni karmå√i du¢khar¥patvåtp¥rvakÿtaduritakarma√åæ phalame-
va | na tu te≤åæ svar¥pavyatireke√ånyatphalamasti | aŸrutatvåt | jı-
vanådinimitte ca vidhånåditi | na | apravÿttånåæ karma√åæ phala-
18.66 a≤†åda©o ’dhyåya¢ 1043

dånåsaæbhavåt | du¢khaphalaviŸe≤ånupapattiŸca syåt | yaduktaæ


p¥rvajanmakÿtaduritånåæ karma√åæ phalaæ nityakarmånu≤†hå-
nåyåsadu¢khaæ bhujyata iti | tadasat | na hi mara√akåle phaladå-
nåyånaækurıbh¥tasya karma√a¢ phalamanyakarmårabdhe janma-
nyupabhujyata ityupapatti¢ | anyathå svargaphalopabhogåyågni-
hotrådikarmårabdhe janmani narakaphalopabhogånupapattirna
syåt | tasya duritasya du¢khaviŸe≤aphalatvånupapatteŸca | aneke≤u
hi durite≤u saæbhavatsu bhinnadu¢khasådhanaphale≤u nityakarmå-
nu≤†hånåyåsadu¢khamåtraphale≤u kalpyamåne≤u dvandvarogådi-
bådhanaæ nirnimittaæ na hi Ÿakyate kalpayitum | nityakarmånu-
≤†hånåyåsadu¢khameva p¥rvakÿtaduritaphalaæ na Ÿiraså på≤å√a-
vahanådidu¢khamiti | aprakÿtaæ cedamucyate – nityakarmånu≤†hå-
nåyåsadu¢khaæ p¥rvakÿtaduritakarmaphalamiti | katham | apras¥-
taphalasya hi p¥rvakÿtaduritasya k≤ayo nopapadyata iti prakÿtam |
tatra pras¥taphalasya karma√a¢ phalaæ nityakarmånu≤†hånåyå-
sadu¢khamåha bhavån | nåpras¥taphalasyeti | atha sarvameva p¥-
rvakÿtaæ duritaæ pras¥taphalameveti manyate bhavån | tato nitya-
karmånu≤†hånåyåsadu¢khameva phalamiti viŸe≤a√amayuktam |
nityakarmavidhyånarthakyaprasa§gaŸca | upabhogenaiva pras¥ta-
phalasya duritakarma√a¢ k≤ayopapatte¢ | kiñca | Ÿrutasya nitya-
sya karma√o du¢khaæ cetphalam | nityakarmånu≤†hånåyåsådeva
taddÿŸyate vyåyåmådivat | tadanyasyetikalpanånupapatti¢ | jıvanå-
dinimitte ca vidhånånnityånåæ karma√åæ pråyaŸcittavatp¥rvakÿ-
taduritaphalatvånupapatti¢ | yasminpåpakarma√i nimitte yadvihi-
taæ pråyaŸcittaæ na tu tasya påpasya tatphalam | atha tasyaiva på-
pasya nimittasya pråyaŸcittadu¢khaæ phalam | jıvanådinimitte ’pi
nityakarmånu≤†hånåyåsadu¢khaæ jıvanådinimittasyaiva phalaæ
prasajyeta | nityapråyaŸcittayornaimittikatvåviŸe≤åt | kiñcånyat | ni-
tyasya kåmyasya cågnihotråderanu≤†hånåyåsadu¢khasya tulyatvå-
nnityånu≤†hånåyåsadu¢khameva p¥rvakÿtaduritasya phalam | na
tu kåmyånu≤†hånåyåsadu¢khamiti viŸe≤o nåstıti tadapi p¥rvakÿta-
duritaphalaæ prasajyeta | tathå ca sati nityånåæ phalåŸrava√åtta-
dvidhånånyathånupapatteŸca nityånu≤†hånåyåsadu¢khaæ p¥rvakÿ-
taduritaphalamityarthåpattikalpanå cånupapannå | evaæ vidhånå-
nyathånupapatteranu≤†hånåyåsadu¢khavyatiriktaphalatvånumånå-
cca nityånåm | virodhåcca | viruddhaæ cedamucyate – nityakarma-
√å ’nu≤†hıyamånenånyathå karma√a¢ phalaæ bhujyata ityabhyupa-
1044 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.66

gamyamåne sa evopabhogo nityasya karma√a¢ phalamiti | nitya-


sya karma√a¢ phalåbhåva iti ca viruddhamucyate | kiñca kåmyå-
gnihotrådåvanu≤†hıyamåne nityamapyagnyhotråditantre√aivånu-
≤†hitaæ bhavatıti tadåyåsadu¢khenaiva kåmyågnihotrådiphalamu-
pak≤ı√aæ syåttattantratvåt | atha kåmyågnihotrådiphalamanyade-
va svargådi | tadanu≤†hånåyåsadu¢khamapi bhinnaæ prasajyeta | na
ca tadasti dÿ≤†avirodhåt | na hi kåmyånu≤†hånåyåsadu¢khåtkevala-
nityånu≤†hånåyåsadu¢khaæ bhinnaæ dÿŸyate | kiñcånyat | avihita-
maprati≤iddhaæ ca karma tatkålaphalam | na tu Ÿåstracoditaæ pra-
ti≤iddhaæ vå tatkålaphalaæ bhavet | tadå svargådi≤vapyadÿ≤†apha-
låŸåsanenodyamo na syåt | agnihotrådınåmeva karmasvar¥påviŸe≤e
’nu≤†hånåyåsadu¢khamåtre√opak≤ayo nityånåm | svargådimahå-
phalatvaæ kåmyånåm | a§getikartavyatådyådhikye tvasati | phala-
kåmitvamåtre√eti | tasmånna nityånåæ karma√åmadÿ≤†åphalåbhå-
va¢ kadåcidapyupapadyate | ataŸcåvidyåp¥rvakasya karma√o vidyai-
va ŸubhasyåŸubhasya vå k≤ayakåra√amaŸe≤ato | na nityakarmånu-
≤†hånam | avidyåkåmabıjaæ hi sarvameva karma | tathå copapådi-
tamavidvadvi≤ayaæ karma | vidvadvi≤ayå ca sarvakarmasaænyåsa-
p¥rvikå jñånani≤†hå | “ubhau tau na vijånıta¢” (bha. gı. 2.19) | “vedå-
vinåŸinaæ nityam” (bha. gı. 2.21) | “jñånayogena så§khyånåæ ka-
rmayogena yoginåm” (bha. gı. 3.3) | “ajñånåæ karmasa§ginåm” (bha.
gı. 3.26) | “tattvavittu gu√å gu√e≤u vartanta iti matvå na sajyate”
(bha. gı. 3.28) | “sarvakarmå√i manaså saænyasyåste” (bha. gı. 5.13) |
“naiva kiñcitkaromıti yukto manyeta tattvavit” (bha. gı. 5.8) | arthå-
dajña¢ karomıti | “åruruk≤o¢ karma kåra√amår¥ƒhasya yogastha-
sya Ÿama eva kåra√am” (bha. gı. 6.3) | udårå¢ trayo ’pyajñå¢ | “jñå-
nı tvåtmaiva me matam” (bha. gı. 7.18) | ajñå¢ karmi√o “gatåga-
taæ kåmakåmå labhante” (bha. gı. 9.21) | ananyåŸcintayanto måæ
nityayuktå yathoktamåtmånamåkåŸakalpamupåsate | “dadåmi bu-
ddhiyogaæ taæ yena måmupayånti te” (bha. gı. 10.10) | arthånna
karmi√o ’jñå upayånti | bhagavatkarmakåri√o ye yuktatamå api
karmi√o ’jñå¢ | ta uttarottarahınaphalatyågåvasånasådhanå¢ | a-
nirdeŸyåk≤aropåsakåstu “adve≤†å sarvabh¥tånåm” (bha. gı. 12.13) i-
ti | ådhyåyaparisamåptiruktasådhanå¢ k≤etrådhyåyådyadhyåyatra-
yoktajñånasådhanåŸca | adhi≤†hånådipañcahetukasarvakarmasaæ-
nyåsinåmåtmaikatvåkartÿtvajñånavatåæ parasyåæ jñånani≤†håyåæ
vartamånånåæ bhagavattattvavidåmani≤†ådikarmaphalatrayaæ pa-
18.66 a≤†åda©o ’dhyåya¢ 1045

ramahaæsaparivråjakånåmeva labdhabhagavatsvar¥påtmaikatva-
Ÿara√ånåæ na bhavati | bhavatyevånye≤åmajñånåæ karmi√åmasaæ-
nyåsinåmitye≤a gıtåŸåstroktasya kartavyårthasya vibhåga¢ || avi-
dyåp¥rvakatvaæ sarvasya karma√o ’siddhamiti cet | na | brahmaha-
tyådivat | yadyapi Ÿåstråvagataæ nityaæ karma | tathåpyavidyåvata
eva bhavati | yathå prati≤edhaŸåstråvagatamapi brahmahatyådila-
k≤a√aæ karmånarthakåra√amavidyåkåmådido≤avato bhavati | a-
nyathå pravÿttyanupapatte¢ | tathå nityanaimittikakåmyånyapıti |
dehavyatiriktåtmanyajñåte pravÿttirnityådikarmasvanupapanneti
cet | na | calanåtmakasya karma√o ’nåtmakartÿtvasya “ahaæ karo-
mi” iti pravÿttidarŸanåt | dehådisaæghåte ’haæpratyayo gau√o | na
mithyå iti cet | na | tatkårye≤viti gau√atvopapatte¢ | åtmıyo dehå-
disaæghåte ’haæpratyayo gau√o | yathåtmıye putre åtmå vaiputra-
nåmåsıti | loke cåpi mama prå√a evåyaæ gauriti tadvat | naivåyaæ
mithyåpratyaya¢ | mithyåpratyayastu sthå√upuru≤ayoragÿhyamå-
√åviŸe≤ayo¢ | na gau√apratyayasya mukhyakåryårthatvamadhika-
ra√astutyarthatvålluptopamåŸabdena | yathå siæha devadatto ’gni-
rmå√avaka iti siæha ivågniriva krauryapai§galyådisåmånyavattvå-
ddevadattamå√avakådhikara√astutyarthameva | na tu siæhakårya-
magnikåryaæ vå gau√aŸabdapratyayanimittaæ kiñcitsådhyate | mi-
thyåpratyayakåryaæ tvanarthamanubhavatıti | gau√apratyayavi≤a-
yaæ ca jånåti | nai≤a siæho devadatta¢ syånnåyamagnirmå√avaka
iti | tathå gau√ena dehådisaæghåtenåtmanå kÿtaæ karma na mu-
khyenåhaæpratyayavi≤aye√åtmanå kÿtaæ syåt | na hi gau√asiæhå-
gnibhyåæ kÿtaæ karma mukhyasiæhågnibhyåæ kÿtaæ syåt | na ca
kraurye√a pai§galyena vå mukhyasiæhågnyo¢ kåryaæ kiñcitkri-
yate | stutyarthatvenopak≤ı√atvåt | st¥yamånau ca jånıto nåhaæ siæ-
ho nåhamagniriti | na siæhasya karma mamågneŸceti | tathå na saæ-
ghåtasya karma mama mukhyasyåtmana iti pratyayo yuktatara¢
syåt | na punarahaæ kartå mama karmeti | yaccåhuråtmıyai¢ smÿ-
tıcchåprayatnai¢ karmahetubhiråtmå karma karotıti | na | te≤åæ
mithyåpratyayap¥rvakatvånmithyåpratyayanimitte≤†åni≤†ånubh¥-
takriyåphalajanitasaæskårap¥rvakå hi smÿtıcchåprayatnådaya¢ |
yathåsmiñjanmani dehådisaæghåtåbhimånarågadve≤ådikÿtau dha-
rmådharmau tatphalånubhavaŸca | tathåtıte ’tıtatare ’pi janmanıtya-
nådiravidyåkÿta¢ saæsåro ’tıto ’någataŸcånumeya¢ | tataŸca sarvaka-
rmasaænyåsasahitajñånani≤†hayå ’’tyantika¢ saæsåroparama iti si-
1046 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.66

ddham | avidyåtmakatvåcca dehåbhimånasya | tannivÿttau dehånu-


papatte¢ saæsårånupapatti¢ | dehådisaæghåte åtmåbhimåno ’vidyå-
tmaka¢ | na hi loke gavådibhyo ’nyo ’haæ mattaŸcånye gavådaya i-
ti jånaæstånahamiti manyate kaŸciti | ajånaæstu sthå√au puru≤avi-
jñånavadavivekato dehådisaæghåte kuryådahamiti pratyayam | na
vivekato jånan | yastvåtmå vaiputranåmåsıti putre ’haæpratyaya¢ |
sa tu janyajanakasaæbandhanimitto gau√a¢ | gau√ena cåtmanå bho-
janådivatparamårthakåryaæ na Ÿakyate kartum | gau√asiæhågni-
bhyåæ mukhyasiæhågnikåryavat || adÿ≤†avi≤ayacodanåpråmå√yå-
dåtmakartavyaæ gau√airdehendriyåtmabhi¢ kriyate ca iti cet | na |
avidyåkÿtåtmakatvåtte≤åm | na ca gau√å åtmano dehendriyådaya¢ |
kiæ tarhi | mithyåpratyayenaivånåtmåna¢ santa åtmatvamåpådya-
nte | tadbhåve bhåvåttadabhåve cåbhåvåt | avivekinåæ hyajñåna-
kåle bålånåæ dÿŸyate dırgho ’haæ gauro ’hamiti dehådisaæghåte
’haæpratyaya¢ | na tu vivekinåæ anyo ’haæ dehådisaæghåtådijñå-
vatåæ tatkåle dehådisaæghåte ’haæpratyayo bhavati | tasmånmi-
thyåpratyayåbhåve ’bhåvåttatkÿta eva | na gau√a¢ | pÿthaggÿhya-
må√aviŸe≤asåmånyayorhi siæhadevadattayoragnimå√avakayorvå
gau√a¢ pratyaya¢ Ÿabdaprayogo vå syåt | någÿhyamå√asåmånya-
viŸe≤ayo¢ | yatt¥ktaæ Ÿrutipråmå√yåditi | tanna | tatpråmå√yasyå-
dÿ≤†avi≤ayatvåt | pratyak≤ådipramå√ånupalabdhe hi vi≤aye ’gniho-
trådisådhyasådhanasaæbandhe Ÿrute¢ pråmå√yam | na pratyak≤å-
divi≤aye | adÿ≤†adarŸanårthavi≤ayatvåtpråmå√asya | tasmånna dÿ≤†a-
mithyåjñånanimittasyåhaæpratyayasya dehådisaæghåte gau√atvaæ
kalpayituæ Ÿakyam | na hi ŸrutiŸatamapi Ÿıto ’gniraprakåŸo veti bru-
vatpråmå√yamupaiti | yadi br¥yåcchıto ’gniraprakåŸo veti | tathå-
pyarthåntaraæ Ÿrutervivak≤itaæ kalpyam | pråmå√yånyathånupa-
patte¢ | na tu pramå√åntaraviruddhaæ svavacanaviruddhaæ vå |
karma√o mithyåpratyayavatkartÿkatvåtkarturabhåve Ÿruteraprå-
må√yamiti cet | na | brahmavidyåyåmarthavattvopapatte¢ || karma-
vidhiŸrutivadbrahmavidyåvidhiŸruterapyapråmå√yaprasa§ga iti cet |
na | bådhakapratyayånupapatte¢ | yathå brahmavidyåvidhiŸrutyå
’’tmanyavagate dehådisaæghåte ’haæpratyayo bådhyate | tathåtma-
nyevåtmåvagatirna kadåcitkenacitkathaæcidapi bådhituæ Ÿakyå |
phalåvyatirekådavagate¢ | yathågniru≤√a¢ prakåŸaŸceti | na caivaæ
karmavidhiŸruterapråmå√yam | p¥rvap¥rvapravÿttinirodhenottaro-
ttaråp¥rvapravÿttijananasya pratyagåtmåbhimukhyena pravÿttyu-
18.67 a≤†åda©o ’dhyåya¢ 1047

tpådanårthatvåt | mithyåtve ’pyupåyasyopeyasatyatayå satyatvame-


va syåt | yathå ’rthavådånåæ vidhiŸe≤å√åm | loke ’pi bålonmattådı-
nåæ payaådau påyayitavye c¥ƒåvardhanådivacanam | prakårånta-
rasthånåæ ca såk≤ådeva vå pråmå√yasiddhi¢ | prågåtmajñånådde-
håbhimånanimittapratyak≤ådipråmå√yavat | yattu manyase – sva-
yamavyåpriyamå√o ’pyåtmå sannidhimåtre√a karoti | tadeva ca
mukhyaæ kartÿtvamåtmana¢ | yathå råjå yudhyamåne≤u yudhyata
iti prasiddhe svayamayudhyamåno ’pi sannidhånådeva jita¢ paråji-
taŸceti | tathå senåpatirvåcaiva karoti | kriyåphalasaæbandhaŸca rå-
jna¢ senåpateŸca dÿ≤†a¢ | yathå ÿtvikkarma yajamånasya | tathå de-
hådınåæ karmå ’’tmakÿtaæ syåtphalasyåtmagåmitvåt | yathå vå
bhråmakasya lohabhråmayitÿtvådavyåpÿtasyaiva mukhyameva ka-
rtÿtvaæ tathå cåtmana iti | tadasat | akurvata¢ kårakatvaprasa§-
gåt | kårakamanekaprakåramiti cet | na | råjaprabhÿtınåæ mukhya-
syåpi kartÿtvasya darŸanåt | råjå tåvatsvavyåpåre√åpi yudhyate |
yodhånåæ ca yodhayitÿtve dhanadåne ca mukhyameva kartÿtvam |
tathå jayaparåjayaphalopabhoge | tathå yajamånasyåpi pradhåna-
tyåge dak≤ı√ådåne ca mukhyameva kartÿtvam | tasmådavyåpÿtasya
kartÿtvopacåro ya¢ sa gau√a ityavagamyate | yadi mukhyaæ kartÿ-
tvaæ svavyåpåralak≤a√aæ nopalabhyate råjayajamånaprabhÿtınåæ
tadå sannidhimåtre√åpi kartÿtvaæ mukhyaæ parikalpyeta | yathå
bhråmakasya lohabhrama√ena | na tathå råjayajamånådınåæ sva-
vyåpåro nopalabhyate | tasmåtsannidhimåtre√a kartÿtvaæ gau√a-
meva | tathå ca sati tatphalasaæbandho ’pi gau√a eva syåt | na gau-
√ena mukhyaæ kåryaæ nirvartyate | tasmådasadevaitadgıyate de-
hådınåæ vyåpåre√åvyåpÿta åtmå kartå bhoktå ca syåditi | bhrånti-
nimittaæ tu sarvamupapadyate | yathå svapne | måyåyåæ caivam |
na ca dehådyåtmapratyayabhråntisantånavicchede≤u su≤uptisamå-
dhyådi≤u kartÿtvabhoktÿtvådyanarthamupalabhyate | tasmådbhrå-
ntipratyayanimitta evåyaæ saæsårabhramo | na tu paramårtha | iti
samyagdarŸanådatyantamevoparama iti siddham || sarvagıtåŸåstrå-
rthamupasaæhÿtyåsminnadhyåye | viŸe≤ataŸcånte | iha Ÿåstrårtha-
dårƒhyåya saæk≤epata upasaæhåraæ kÿtvå | athedånıæ Ÿåstrasaæ-
pradåyavidhjimåha –

idaæ te nåtapaskåya nåbhaktåya kadåcana |


na cåŸuŸr¥≤ave våcyaæ na ca måæ yo ’bhyas¥yati || 18.67 ||
1048 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.67

idamiti | idaæ Ÿåstraæ te tava hitåya mayoktaæ saæsåravicchi-


ttaye ’tapaskåya taporahitåya na våcyamiti vyavahitena saæbadhya-
te | tapasvine ’bhyabhaktåya gurudevabhaktirahitåya kadåcana ka-
syåñcidapyavasthåyåæ na våcyam | bhaktastapasvyapi sannaŸuŸr¥-
≤uryo bhavati tasmå api na våcyam | na ca yo måæ våsudevaæ prå-
kÿtaæ manu≤yaæ matvåbhyas¥yatyåtmapraŸåæsådido≤ådhyåropa-
√ena mameŸvaratvamajånanna sahate | asåvapyayogya¢ | tasmå api
na våcyam | bhagavatyanas¥yåyuktåya tapasvine bhaktåya ŸuŸr¥-
≤ave ca våcyaæ Ÿåstramiti såmarthyådgamyate | tatra medhåvine ta-
pasvine vetyanayorvikalpadarŸanåcchuŸr¥≤åbhaktiyuktåya tapasvi-
ne tadyuktåya medhåvine vå våcyam | ŸuŸr¥≤åbhaktiviyuktåya na
tapasvine nåpi medhåvine våcyam | bhagavatyas¥yåyuktåya sama-
stagu√avate ’pi na våcyam | guruŸuŸr¥≤åbhaktimate ca våcyamitye-
≤a¢ Ÿåstrasaæpradåyavidhi¢ || saæpradåyasya kartu¢ phalamidånı-
måha –

ya imaæ paramaæ guhyaæ madbhakte≤vabhidhåsyati |


bhaktiæ mayi paråæ kÿtvå måmevai≤yatyasaæŸaya¢ || 18.68 ||

ya imamiti | ya imaæ yathoktaæ paramaæ ni¢Ÿreyasårthaæ ke-


Ÿavårjunayo¢ saævådar¥paæ granthaæ guhyaæ gopyatamaæ ma-
dbhakte≤u mayi bhaktimatsvabhidhåsyati vak≤yati | granthato ’rtha-
taŸca sthåpayi≤yatıtyartha¢ yathå tvayi mayå | bhakte¢ punargra-
ha√ådbhaktimåtre√a kevalena Ÿåstrasaæpradåne påtraæ bhavatıti
gamyate | kathamabhidhåsyatıtyucyate bhaktiæ mayi paråæ kÿtvå
bhagavata¢ paramaguroracyutasya ŸuŸr¥≤å mayå kriyata ityevaæ
kÿtvetyartha¢ | tasyedaæ phalaæ måmevai≤yati mucyata evåsaæŸa-
yo ’tra saæŸayo na kartavya¢ || kiñca –

na ca tasmånmanu≤ye≤u kaŸcinme priyakÿttama¢ |


bhavitå na ca me tasmådanya¢ priyataro bhuvi || 18.69 ||

na ceti | na ca tasmåcchåstrasaæpradåyakÿto manu≤ye≤u ma-


nu≤yå√åæ mådhye kaŸcinme mama priyakÿttamo ’tiŸayena priyakÿ-
ttamo ’nya¢ priyakÿttama¢ | nåstyevetyartho vartamåne≤u | na ca
bhavitå bhavi≤yatyapi kåle tasmåddvitıyo ’nya¢ priyataro priyakÿ-
ttaro bhuvi loke ’smin || yo ’pi –
18.73 a≤†åda©o ’dhyåya¢ 1049

adhye≤yate ca ya imaæ dharmyaæ saævådamåvayo¢ |


jñånayajñena tenåhami≤†a¢ syåmiti me mati¢ || 18.70 ||

adhye≤yata iti | adhye≤yate ca pa†hi≤yati ya imaæ dharmyaæ


dharmådanapetaæ saævådar¥paæ granthamåvayo¢ | tenedaæ kÿ-
taæ syåt – jñånayajñena vidhijapopåæŸumånasånåæ yajñånåæ jñå-
nayajño månasatvådviŸi≤†atama ityatastena jñånayajñena gıtåŸå-
strasyådhyayanaæ st¥yate | phalavidhireva vå | devatådivi≤ayajñå-
nayajñaphalatulyamasya phalaæ bhavatıti | tenådhyayanenåhami-
≤†a¢ p¥jita¢ syåæ bhaveyamiti me mamamatirniŸcaya¢ || atha Ÿro-
turidaæ phalam –

Ÿraddhåvånanas¥yaŸca Ÿÿ√uyådapi yo nara¢ |


so ’pi mukta¢ Ÿubhåællokånpråpnuyåtpu√yakarma√åm || 18.71 ||

Ÿraddhåvåniti | ŸraddhåvåñŸraddadhåno ’nas¥yaŸcås¥yåvarjita¢


sannimaæ granthaæ Ÿÿ√uyådapi yo naro ’piŸabdåtkimutårthajñå-
navånso ’pi påpånmukta¢ ŸubhånpraŸaståællokånpråpnuyåtpu√ya-
karma√åmagnihotrådikarmavatåm || Ÿi≤yasya Ÿåstrårthagraha√å-
graha√avivekabubhutsayå pÿcchati | tadagraha√e jñåte punargrå-
hayi≤yåmyupåyåntare√åpıti pra≤†urabhipråya¢ | yatnåntaraæ cå-
sthåya Ÿi≤yasya kÿtårthatå kartavyetyåcåryadharma¢ pradarŸito bha-
vati –

kaccidetacchrutaæ pårtha tvayaikågre√a cetaså |


kaccidajñånasaæmoha¢ pra√a≤†aste dhanañjaya || 18.72 ||

kacciditi | kaccitkimetanmayoktaæ Ÿrutaæ Ÿrava√enåvadhåri-


taæ pårtha | tvayaikågre√a cetaså cittena | kiæ vå ’pramådata¢ | ka-
ccidajñånasaæmoho ’jñånanimitta¢ saæmoho ’viviktabhåvo ’vive-
ka¢ svåbhåvika¢ kiæ pra√a≤†a¢ | yadartho ’yaæ ŸåstraŸrava√åyåsa-
stava | mama copade≤†ÿtvåyåsa¢ pravÿtta¢ | te tava dhanañjaya ||

arjuna uvåca –

na≤†o moha¢ smÿtirlabdhå tvatprasådånmayåcyuta |


sthito ’smi gatasaædeha¢ kari≤ye vacanaæ tava || 18.73 ||
1050 bhagavadgıtå ©å√karabhå≤yopetå 18.73

na≤†a iti | na≤†o moho ’jñånaja¢ samastasaæsårånarthahetu¢ så-


gara iva dustara¢ | smÿtiŸcåtmatattvavi≤ayå labdhå | yasyå låbhåtsa-
rvagranthınåæ vipramok≤a¢ | tvatprasådåttava prasådånmayå tva-
tprasådamåŸritenåcyuta | anena mohanåŸapraŸnaprativacanena sa-
rvaŸåstrårthajñånaphalametåvadeveti niŸcitaæ darŸitaæ bhavati |
yato jñånånmohanåŸa åtmasmÿtilabhaŸceti | tathå ca Ÿrutåvanåtma-
vicchocåmıtyupanyasyå ’’tmajñånena sarvagranthınåæ vipramo-
k≤a ukta¢ | “bhidyate hÿdayagranthi¢” (mu. 2.2.8) | “tatra ko moha¢
ka¢ Ÿoka ekatvamanupaŸyata¢” (ı. 7) iti ca mantravar√a¢ | athedå-
nıæ tvacchåsane sthito ’smi gatasaædeho muktasaæŸaya¢ | kari≤ye
vacanaæ tavåhaæ tvatprasådåtkÿtårtho | na me kartavyamastıtya-
bhipråya¢ || parisamåpta¢ Ÿåstrårtho ’thedånıæ kathåsaæbandha-
pradarŸanårthaæ sañjaya uvåca –

sañjaya uvåca –

ityahaæ våsudevasya pårthasya ca mahåtmana¢ |


saævådamimamaŸrau≤amadbhutaæ romahar≤a√am || 18.74 ||

ityahamiti | ityevamahaæ våsudevasya pårthasya ca mahåtma-


na¢ saævådamimaæ yathoktamaŸrau≤aæ Ÿrutavånasmyadbhutama-
tyantavismayakaraæ romahar≤a√aæ romåñcakaram || taæ cemam –

vyåsaprasådåcchrutavånimaæ guhyatamaæ param |


yogaæ yogeŸvaråtkÿ≤√åtsåk≤åtkathayata¢ svayam || 18.75 ||

vyåseti | vyåsaprasådåttato divyacak≤urlabhåcchrutavånimaæ


saævådaæ guhyatamaæ paraæ yogam | yogårthatvådgrantho ’pi
yoga¢ | saævådamimaæ yogameva vå yogeŸvaråtkÿ≤√åtsåk≤åtka-
thayata¢ svayaæ na paraæparayå ||

råjansaæsmÿtya saæsmÿtya saævådamimamadbhutam |


keŸavårjunayo¢ pu√yaæ hÿ≤yåmi ca muhurmuhu¢ || 18.76 ||

råjanniti | he råjandhÿtarå≤†ra saæsmÿtya saæsmÿtya saævåda-


mimamadbhutaæ keŸavårjunayo¢ pu√yamimaæ Ÿrava√ådapi påpa-
haraæ Ÿrutvå hÿ≤yåmi ca muhurmuhu¢ pratik≤a√am ||
18.78 a≤†åda©o ’dhyåya¢ 1051

tacca saæsmÿtya saæsmÿtya r¥pamatyadbhutaæ hare¢ |


vismayo me mahånråjanhÿ≤yåmi ca puna¢ puna¢ || 18.77 ||

tacceti | tacca saæsmÿtya saæsmÿtya r¥pamatyadbhutaæ hare-


rviŸvar¥paæ vismayo me mahånhe råjan | hÿ≤yåmi ca puna¢ pu-
na¢ || kiæ bahunå –

yatra yogeŸvara¢ kÿ≤√o yatra pårtho dhanurdhara¢ |


tatra Ÿrırvijayo bh¥tirdhruvå nıtirmatirmama || 18.78 ||

yatreti | yatra yasminpak≤e yogeŸvara¢ sarvayogånåmıŸvara¢


tatprabhavatvåtsarvayogabıjasya kÿ≤√o yatra pårtho yasminpak≤e
dhanurdharo gå√ƒıvadhanvå | tatra Ÿrıstasminpå√ƒavånåæ pak≤e
Ÿrırvijaya¢ tatraiva bh¥ti¢ Ÿriyo viŸe≤o viståro bh¥tirdhruvå ’vya-
bhicåri√ı nıtirnaya ityevaæ matirmameti ||

iti Ÿrımadbhagavadgıtås¥pani≤atsu brahmavidyåyåæ


yogaŸåstre Ÿrıkÿ≤√årjunasaævåde
mok≤asaænyåsayogo nåma
a≤†ådaŸo ’dhyåya¢

iti ŸrımadbhagavadgıtåŸåstraæ samåptam ||


iti ŸrımadbhagavadgıtåŸå§karabhå≤yaæ samåptam ||

*
Finito di stampare nel mese di dicembre 2015 da NUOVA ARTI GRAFICHE
Via delle Scienze, 14 - 02015 S. Rufina di Cittaducale (RI)

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