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1. L’eticità
Ricordo che la filosofia dello Spirito oggettivo si articola in tre sfere, caratterizzate da livelli di
concretezza crescenti e collegate in uno sviluppo dialettico: il diritto, la moralità e l’eticità.
Mentre i rapporti fra diritto e moralità (ossia fra legalità esteriore e libera scelta della coscienza
individuale) sono normalmente indagati dalla filosofia morale (per es. di Kant), la nozione di eticità è
tipicamente hegeliana. Come sempre non è facile indicarne la specificità: segnalo solo qualche aspetto.
Diritto e moralità (usualmente contrapposti come esteriorità e interiorità) sono da Hegel connessi
dialetticamente, cioè sono compresi come i due lati astratti della sostanza concreta, che Hegel chiama
Sittlichkeit, termine che in italiano è tradotto con eticità, dove Sitten corrisponde al latino mores, ad
indicare l’universalità reale, esistente nel tempo, delle istituzioni, tradizioni, regole (i mores appunto) che
costituiscono, come detto sopra, l’elemento sostanziale in cui gli individui realizzano concretamente la
propria libertà.
Una considerazione: tutti noi dalla nascita siamo inseriti in un tessuto di rapporti di tipo spirituale (cioè
non semplicemente fisico), in una situazione di contesto che preesiste a noi, che non dipende da noi ma è
appunto “oggettiva”. Questi rapporti mediano gli aspetti naturali della vita (c’è modo e modo di nascere,
di nutrirsi, di morire ecc. a seconda delle epoche e delle culture in cui ci si trova a vivere) e li inseriscono
in differenti contesti spirituali (forse noi diremmo culturali), che sono la famiglia (dove in modi diversi a
seconda dei tempi la crescita fisica diventa educazione, ossia formazione spirituale), la società civile (il
mondo del lavoro, l’appartenenza a una classe sociale ecc.), infine lo stato (realtà organica che realizza
consapevolmente, attraverso le leggi e l’azione delle classi dirigenti, il Bene che per la moralità
individuale era solo un astratto dovere).
1.1. La famiglia
Solo un accenno. E’ lo spirito etico nella sua immediatezza, contiene il momento naturale (procreazione,
nascita ecc.) della vita dell’individuo, ma con le sue istituzioni (matrimonio, patrimonio familiare e
educazione dei figli) oltrepassa questa dimensione naturale traducendola in rapporti etici (spirituali). Per
esempio l’educazione consiste nel negare l’immediatezza della libertà naturale dei figli, per “elevarli,
dall’immediatezza naturale, in cui essi si trovano originariamente, fino all’autonomia e alla personalità
libera” (Hegel è contrario alla pedagogia del gioco, che “prende l’elemento infantile per qualcosa che
abbia già valore in sé”: l’individuo deve progredire).
3) La “polizia” e le corporazioni
E’ piuttosto fuorviante l’abitudine di tradurre Polizei con “polizia”. In realtà la parola fa riferimento
certamente all’ordine pubblico, che la società garantisce, ma anche a quelle che chiameremmo le
politiche economiche e sociali.
Al riguardo, è particolarmente importante la diagnosi delle contraddizioni del sistema produttivo di
mercato (quello che sarà detto il capitalismo).
Hegel rileva in particolare una contraddizione di fondo, quella fra concentrazione della ricchezza e
aumento della povertà. Egli constata, come abbiamo già visto, che nel moderno sistema produttivo
crescono indefinitamente (una crescita che non ha fine: la “cattiva infinità” dell’intelletto) sia i bisogni sia
la differenziazione del lavoro. In questo modo “si accrescono da un lato, l’accumulazione delle ricchezze
– il profitto che si ricava dall’aumento dei bisogni e del lavoro – e, dall’altro lato, tanto la
singolarizzazione e limitatezza del lavoro particolare, quanto, con ciò, la dipendenza e lo stato di bisogno
della classe legata a questo lavoro.”
“Il fatto che una grande massa di individui scenda sotto la misura d’una certa modalità di sussistenza (…)
e quindi il degrado di costoro fino alla perdita del sentimento del diritto, della rettitudine e dell’onore di
sussistere grazie alla propria attività e al proprio lavoro, conducono al generarsi della plebe”. Questo reca
“come contropartita, una maggiore facilità di concentrare in poche mani ricchezze sproporzionate”.
“La povertà è una situazione che lascia agli individui i bisogni della società civile e che, sottraendo loro
allo stesso tempo i mezzi d’acquisto (…) li rende più o meno privi di tutti i vantaggi della società, privi
della capacità di acquistare abilità e cultura in generale, e li priva anche dell’amministrazione della
giustizia, della cura della salute, spesso persino del conforto della religione, ecc”.
Questa diagnosi del pauperismo moderno appare sorprendentemente avanzata, e potrebbe essere
sottoscritta anche da Marx (che fin dalla giovinezza era ottimo conoscitore dell’opera di Hegel).
La società civile, secondo Hegel, è incapace di per sé di risolvere il problema dell’impoverimento:
entrambi i possibili rimedi, in contrasto fra loro (politiche di assistenza pubblica o affidarsi al libero
mercato) hanno conseguenze negative (rispettivamente l’assistenzialismo e la sovrapproduzione). La
verità è che “nonostante l’eccesso di ricchezza, la società civile non è ricca abbastanza, vale a dire: la
società civile non possiede abbastanza per ovviare all’eccesso di povertà e al generarsi della plebe” (Filos.
del diritto, §§ 241, 243, 244, 245).
Infine, nelle corporazioni che organizzano il lavoro industriale (in parte corrispondenti ai nostri
sindacati), è vista la forma di organizzazione sociale e l’”onore” (professionale) del ceto industriale.
1.3. Lo stato
Uno snodo fondamentale della filosofia pratica di Hegel (quella che stiamo esponendo) è il seguente: le
contraddizioni dello sviluppo sociale non possono essere risolte al livello della società civile, in cui si
producono: esse trovano la loro sintesi nello stato, che unifica e fa esistere concretamente i sistemi di
relazioni precedentemente studiati, che solo nello stato hanno il loro fondamento “primo” e il loro fine.
Lo stato per Hegel, con i suoi poteri costituzionali e l’attività del governo, costituisce la più alta
realizzazione della razionalità etica, in un determinato momento storico.
Le espressioni sono come è noto un po’ enfatiche. Ne riportiamo alcune.
“Lo stato è la realtà dell’Idea etica. Esso è lo spirito etico in quanto volontà sostanziale, evidente a sé
stessa, volontà che si pensa e si sa, e che porta a compimento ciò che sa (…) Nell’autocoscienza del
singolo, lo stato ha invece la propria esistenza mediata”. “Lo stato è il Razionale in sé e per sé”.
1) Il diritto interno
Le determinazioni della libertà oggettiva e della volontà razionale consapevole, che costituiscono la
sostanza dello stato, si esprimono nelle leggi. In particolare, l’organizzazione del potere dello stato come
unità è la costituzione.
A questo proposito, la domanda: Chi deve fare la costituzione? è priva si senso. Infatti presupporrebbe
che ci siano individui senza alcuna forma di organizzazione politica, a cui qualcuno “aggiungerebbe” una
costituzione, pensata astrattamente. In realtà una costituzione (intesa nel senso lato di organizzazione
statale) esprime un certo livello di sviluppo raggiunto dallo spirito di un popolo, dalla sua
autocomprensione, e non ne può essere separata. “Ciò che si chiama fare una costituzione non è mai, a
causa di tale inseparabilità, accaduto nella storia (…) una costituzione si è soltanto svolta dallo spirito
(…) ed insieme con lui ha percorso i gradi di formazione e i cambiamenti, necessari in virtù del concetto”
(Enc. § 540). “Di conseguenza, ogni popolo ha la costituzione che gli è adeguata e conveniente”.
La forma costituzionale presa in considerazione come la più idonea all’esercizio razionale della sovranità
nel mondo moderno è un tipo di monarchia in cui si compenetrino tre poteri: del principe, dell’assemblea
rappresentativa e del governo, esprimenti ciascuno un lato del concetto: l’individualità dello stato (il
principe), la particolarità degli interessi presenti nella società (rappresentati dalle assemblee dei ceti) e
l’universalità del bene comune (di spettanza del governo, nella varietà delle sue attività e funzioni,
includenti in parte quella giudiziaria e quella legislativa).
2) Il diritto esterno
In questa sezione (e nella parte immediatamente precedente: “La sovranità verso l’esterno”) Hegel
esamina la questione dibattuta fin dall’epoca illuminista del diritto internazionale e delle relazioni fra gli
stati.
Ricordiamo che Kant aveva affrontato questo tema in un famoso scritto, Per la pace perpetua (1795), in
cui formulava un progetto di ampio respiro, che è detto cosmopolitico e oggi appare “europeista”, di pace
e collaborazione fra gli stati europei per l’uscita dal ciclo di guerre prima dinastiche e poi rivoluzionarie
che si erano susseguite nel settecento. Il progetto kantiano si basa in particolare su alcuni articoli: 1) gli
stati europei devono darsi delle costituzioni repubblicane basate sul contratto fra cittadini e stato, che
garantiscano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini; 2) gli stati, per non danneggiarsi reciprocamente,
devono costituire una federazione di popoli “in cui ciascuno possa essere assicurato del suo diritto”; 3)
ogni straniero ha il diritto di visita , ossia il diritto a non essere trattato ostilmente quando si reca in un
altro stato, in virtù del diritto al possesso comune della superficie della Terra.
Hegel differisce da questa visione sotto molti aspetti.
- Ogni stato è un’individualità e come tale, di fronte agli altri è autonomo, come un individuo di fronte
ad altri individui e “questa autonomia è la prima libertà e il supremo onore di un popolo”. La relazione
fra gli stati appare dunque come la relazione di un Altro a un Altro, ossia come una relazione negativa, in
cui consiste l’esistenza propria dello stato. In altre parole, nessun popolo rinuncia alla propria sovranità e
indipendenza, neanche per entrare in federazione con altri.
- Nei confronti dello stato come sostanza etica e della sua sussistenza, “l’interesse e il diritto dei singoli
sono posti come un momento dileguante”. Il riconoscimento di questo rapporto con lo stato costituisce “il
dovere sostanziale dei singoli: il dovere di conservare questa individualità sostanziale (l’indipendenza e
sovranità dello stato) mediante l’esposizione al pericolo e il sacrificio della loro proprietà e della loro
vita”.
- Questo passaggio prelude alla giustificazione speculativa della guerra. “E’ necessario che il finito (la
proprietà e la vita) venga posto come qualcosa di accidentale, perché è questo il concetto del finito (…)
Ora la guerra è una situazione nella quale la vanità delle cose e dei beni temporali – vanità che negli altri
casi suole essere un modo di dire edificante – diventa una cosa seria”. Mediante la guerra “la salute etica
dei popoli viene mantenuta nella sua indifferenza contro il consolidarsi delle determinatezze finite, e
come il movimento dei venti preserva il mare dalla putredine cui sarebbe ridotto da una bonaccia
duratura, così la guerra preserva i popoli dalla putredine cui sarebbero ridotti da una pace duratura o
addirittura perpetua”. Considerazione eraclitea (oltre che anti-kantiana), un po’ fastidiosa per la nostra
sensibilità. Poi, si capisce, questo vale in generale: “le guerre reali hanno bisogno di una giustificazione
ulteriore” (Op. cit. §§ 321-324).