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CAPITOLO 2

Progettazione di un impianto industriale:


analisi tecnico-economica

2.1 Principali fasi del progetto

L’impianto industriale rappresenta una delle forme di progettazione più complesse.


Esso racchiude al suo interno un insieme di processi tecnologici e organizzativi che
devono interagire tra loro al fine di conseguire l’obiettivo stabilito in un periodo di
tempo più o meno lungo.

Il lavoro di progettazione non si esplica, infatti, solo in relazione alla decisione di


realizzare un nuovo impianto o di ampliarlo, ma anche attraverso decisioni che
avvengono durante l’esercizio stesso. Un impianto è infatti soggetto a continue
modifiche, derivanti da cambiamenti del ciclo produttivo, sostituzione dei
macchinari ecc.

Un progetto rappresenta, secondo la definizione del PMI (Project Management


Institute), “lo sforzo temporaneo intrapreso per sviluppare un prodotto o un servizio
unico”. Pertanto un progetto è temporaneo, nel senso che deve essere beh
collocato nel tempo, con precise date di inizio e fine, ed è unico, nel senso che il
risultato ottenuto da ciascun progetto deve essere unico, ovvero differente da tutti
gli altri prodotti o servizi simili. Questo implica che, data l’unicità del risultato stesso,
un progetto è sempre caratterizzato da aspetti di innovazione.

La progettazione di un impianto si compone di una serie di fasi che si sviluppano in


maniera diversa a seconda della complessità del progetto, della dimensione
dell’impianto e del settore produttivo. In generale si può affermare che le principali
fasi di sviluppo di un impianto industriale sono le seguenti:

— individuazione e scelta dei bisogni da soddisfare;

— individuazione e scelta del grado di soddisfazione;

— scelta tra le varie soluzioni tecnicamente possibili di quella più idonea per il
conseguimento dell’obiettivo prefissato.

Da un punto di vista organizzativo queste fasi si articolano a loro volta in una serie di
sottofasi che prendono in considerazione diversi aspetti.
In particolare, la prima e la seconda fase si propongono di individuare:

— un adeguato programma di produzione;

— i tipi di servizi/prodotti da offrire;

— l’assortimento, la qualità e la quantità dei prodotti in grado di soddisfare le


diverse esigenze del mercato.

La terza fase si propone invece di individuare:

— le migliori procedure per la realizzazione e gestione del sito produttivo;

— le modalità di avviamento delle attività produttive;

— le fonti di approvvigionamento delle risorse finanziarie necessarie per la


realizzazione del programma di investimenti prescelto;

— le risorse produttive (tecniche, organizzative, finanziarie ecc.).

La progettazione di un impianto industriale avviene alla luce di alcuni principi che


sono il risultato dell’esperienza, nonché dell’analisi del pensiero di autori diversi. In
particolare è possibile individuare i seguenti principi:

— principio di sistema: ovvero considerare l’impianto industriale un insieme di


elementi integrati e interagenti, organizzati per il raggiungimento di un obiettivo
comune finale;

— principio dell’antropometrismo: la progettazione deve avvenire considerando il


rapporto uomo-macchina-ambiente, laddove l’uomo deve essere considerato la
variabile privilegiata;

- principio dell’economia e morale: tutti gli impianti si progettano, si realizzano e si


gestiscono con lo scopo di ottimizzare il bilancio economico di esercizio per tutta la
vita prevista dell’impianto. I soli vincoli di cui si deve tenere conto sono quelli dettati
dalle esigenze morali, sociali e giuridiche;

— principio del traffico: tutti gli impianti sono caratterizzati da flussi di materiali,
macchine, uomini, servizi, nonché da informazioni e ordini. Tali flussi devono essere
studiati tenendo presente i fenomeni di intasamento del traffico che possono
verificarsi durante l’esercizio, la variabilità e l’intersezione tra i flussi.

2.2 Studio di fattibilità di un impianto industriale


Le fasi che caratterizzano la realizzazione di un impianto industriale sono: la
progettazione, la realizzazione e l’esercizio.

Questi periodi si sviluppano in modo diverso nel tempo in funzione del tipo di
impianto e della sua grandezza, del fatto che si tratti di progettare ex novo un intero
stabilimento oppure, come è molto più frequente, di progettare nuovi reparti
produttivi o di studiarne modifiche.

Ciascuno di questi periodi comporta la soluzione di problemi diversi, tra i quali


risultano predominanti quelli relativi agli aspetti seguenti:

— tecnologia dei processi;

— servizi richiesti per lo svolgimento dei processi stessi;

— economia.

Mentre la tecnologia dei processi può essere molto diversa a seconda del tipo di
sistema produttivo, i servizi richiesti dai processi medesimi possono presentare
caratteristiche comuni.

Il problema dell’economia costituisce senz’altro il comune denominatore nella


progettazione di un qualsiasi impianto industriale, inoltre è presente in tutte le fasi
della vita di un sistema produttivo. E pertanto necessario sviluppare uno studio
volto ad analizzare, attraverso un insieme di indagini preliminari, finanziarie,
tecniche ed economiche la fattibilità dell’impianto stesso.

Questo tipo di approfondimento, noto come studio di fattibilità, è un insieme di


indagini finanziarie, tecniche ed economiche, che vengono svolte in via preliminare
al fine di offrire al committente un panorama organico della situazione che egli
intende affrontare. Contemporaneamente, sulla base di informazioni i] pii’ possibile
complete e quantitative, tale studio deve consentire al committente di prendere
decisioni con rischio calcolato relativamente alla tipologia di investimento che si
appresta a realizzare, In tal senso lo studio di fattibilità fornisce una stima
dettagliata sui capitali da utilizzare e sui costi operativi per la realizzazione del
progetto di un impianto in termini di: risorse umane, materiali, macchine,
ubicazione dei locali e non da ultimo del tipo di prodotto che si intende sviluppare.
Infatti, come abbiamo avuto modo di osservare nel capitolo precedente, lo scopo
principale dei processi produttivi è quello di trasformare la materia prima in prodotti
finiti, trasferendo a essi un determinato valore aggiunto che tenga conto non solo
dei costi di produzione, ma anche dell’utile del quale l’azienda intende beneficiare.

Lo studio di fattibilità e il progetto di massima di un impianto industriale possono


essere sviluppati e redatti in maniera diversa in funzione del tipo e delle dimensioni
dell’impianto da progettare. In linea generale, esso sarà comunque costituito da una
relazione e da alcuni elaborati grafici che insieme costituiscono il progetto
dell’impianto.

Uno studio di fattibilità inizia con una ricerca e un’analisi di mercato tali da
consentire lo studio tecnico-economico del prodotto, del processo, dei servizi, e

termina con il definire e sviluppare le specifiche ingegneristiche della progettazione


e della realizzazione vera e propria del progetto (Fig 2.1).

Figura 2.1. Schema degli elementi presi in esame per la progettazione degli impianti.

In particolare uno studio di fattibilità di un impianto industriale si articola attraverso


i passi elencati di seguito.

1. Individuazione e studio del prodotto (product design): analisi delle caratteristiche


dei beni o dei servizi da produrre e giustificazione della necessità economica
dell’industria da progettare. La produzione di un particolare bene o di un servizio è
collegata al soddisfacimento dei bisogni di soggetti sociali. In questo senso è
opportuno:
a. analizzare la tipologia dei bisogni da soddisfare. Essi potranno essere bisogni
potenziali, emergenti, consolidati, ovvero appositamente indotti dalla particolare
attività produttiva;

b. individuare i portatori dei suddetti bisogni, specificando il grado di


soddisfacimento che si vuole raggiungere. In questo senso, verificare se il bisogno in
oggetto varia da individuo a individuo, ovvero se si tratta di un “bisogno uniforme”;

e. verificare l’esistenza di altri prodotti o servizi già esistenti realizzati per il


soddisfacimento dei bisogni di cui al punto precedente.

2. Analisi del mercato: con l’analisi di mercato si analizza l’evoluzione subita negli
ultimi anni dal mercato del bene che si vuole produrre, le sue prospettive future,
nonché la distribuzione geografica della domanda, al

fine di giustificare la realizzazione di una nuova unità produttiva. Lo studio si avvale


di ricerche di mercato che si occupano principalmente dell’analisi dei
comportamenti espressi e dei processi decisionali (motivazioni) dei consumatori al
fine di trarre utili informazioni per definire la strategia di marketing. È opportuno
analizzare il settore produttivo nel quale la nuova impresa si inserisce,
evidenziandone le origini, nonché le tendenze, in un orizzonte di previsione. In tal
senso occorre:

— analizzare la composizione del settore, indicando il numero e la tipologia di


aziende che lo compongono (piccole, medie, grandi aziende ecc.). Analizzare le
diverse configurazioni e i diversi aspetti assunti dal settore in oggetto in diversi
ambiti territoriali (per esempio paesi industrializzati o in via di sviluppo, Italia nel suo
complesso, regione, area circoscritta ecc.);

— analizzare le origini storiche del settore, ovvero quando e come sono sorte le
prime imprese, nonché le loro caratteristiche e l’evoluzione nel tempo;

— valutare il grado di difficoltà che l’avvio di una tale attività produttiva comporta.
In questo senso individuare gli eventuali “ostacoli di ingresso” della nuova impresa
nel settore;

— analizzare i dati relativi all’importazione, nonché all’esportazione del prodotto in


questione;
individuare il tasso di crescita della domanda, in relazione sia al mercato
complessivo, sia alla specifica area dì interesse;

— prevedere il verosimile andamento della domanda. In questo senso è opportuno


raccogliere e analizzare i dati relativi all’entità della domanda attuale, nonché il suo
andamento negli ultimi 3-5 anni.

Successivamente si procede con un’analisi del mercato di riferimento in cui si è


ritenuto opportuno inserire l’attività produttiva. In questo senso è utile individuare il
maggiore numero di aziende operanti sul mercato esaminato e per ciascuna di esse
raccogliere informazioni relativamente a:

quanto producono;

— come producono;

— quanto collocano sul mercato;

— qual è il prezzo del prodotto venduto.

A valle di tale analisi è possibile determinare la quota di domanda che non è


soddisfatta dall’offerta, ovvero la quota di mercato che si pensa, verosimilmente, di
potere acquisire.

3. Definizione del volume di produzione: conseguentemente all’analisi di mercato, è


necessario definire il volume di produzione nonché la capacità produttiva
dell’impianto con riferimento alla situazione attuale nonché a fondate previsioni a
breve termine . Per ogni singolo prodotto o tipo di prodotto che si intende
realizzare, è necessario individuare i volumi di produzione previsti per ogni esercizio,
nonché il mixing produttivo.

4. Ubicazione dell’impianto: rappresenta la scelta motivata della più opportuna


località in cui realizzare l’impianto, nonché l’individuazione della zona più adatta in
considerazione dei più importanti fattori ubicazionali. In questo senso è opportuno
valutare i principali collegamenti con i centri più vicini, le principali infrastrutture,
attrezzature collettive e servizi pubblici esistenti, i fattori economici caratterizzanti
la zona, gli eventuali vincoli urbanistici o di altra origine. E inoltre opportuno
considerare la distribuzione del mercato, delle fonti di approvvigionamento e le
relative distanze.
5. Processo produttivo (process design): progettazione del processo produttivo da
impiegare e redazione del relativo diagramma tecnologico adottato. Per ciascuno
dei prodotti/servizi precedentemente individuati, viene indicata la successione delle
operazioni elementari richieste dal processo stesso, ovvero:

— immagazzinamento delle materie prime, di quelle ausiliarie e dei semilavorati;

— controlli di qualità;

—trasporto dei materiali sulla linea di lavorazione;

— trasporto dei materiali da un centro di lavoro a un altro;

— trasformazioni subite da ciascuno dei materiali presso i centri di lavoro


direttamente interessati;

— controllo e ispezione finale;

— confezionamento e imballaggio;

— immagazzinamento e spedizione del prodotto finito.

All’analisi del processo è associato un opportuno diagramma a blocchi relativo alla


qualità e alla quantità che consente di indicare, oltre alla successione delle
operazioni elementari, anche:

— le materie prime, le materie ausiliarie e i semilavorati impiegati;

— i fabbisogni energetici;

— i tempi e i metodi di lavorazione;

— la manodopera richiesta;

— le eventuali lavorazioni affidate all’esterno.

6. Mezzi di esercizio: determinazione dei fabbisogni relativi alla prevista potenzialità


produttiva e scelta dei mezzi di esercizio (tipo e numero di macchine, attrezzature,
apparecchiature di produzione ecc). Per i macchinari è possibile impiegare delle
schede standard, in cui si riportano i dati di targa della macchina, le dimensioni di
ingombro ecc.

7. Layout: determinazione delle varie superfici occorrenti (reparti, magazzini, uffici,


servizi, aree coperte, aree per ampliamento ecc.). Studio generale del layout in
armonia con il prefissato diagramma tecnologico, con le esigenze della lavorazione
(vincoli interni) e degli eventuali vincoli di progettazione (vincoli esterni).
Disposizione ottimale dei mezzi di esercizio.

8. Edifici: scelta del tipo e della struttura degli edifici (costruzioni industriali, civili,
uffici, servizi ecc.).

9. Servizi: definizione di tutti quei servizi o impianti ausiliari necessari al


funzionamento dell’impianto di produzione (impianti elettrici, vapore, acqua,
condizionamento ambientale, servizi antincendio, impianti di depurazione per acqua
e fumi, impianti di stoccaggio e/o smaltimento rifiuti ecc.).

10. Personale: individuazione, per ciascuno dei reparti, dei servizi e degli uffici dello
stabilimento, della qualifica e della consistenza del personale addetto.

11. Preventivo di spesa: in tale fase dello studio di fattibilità si individuano le


strutture edilizie, gli impianti, le apparecchiature, i macchinari, i mezzi di trasporto
necessari per la realizzazione dei processo produttivo. Per ciascuno di essi è
necessario valutare:

— costo di acquisto (importi espressi in €);

— condizioni di pagamento;

— periodo di tempo in cui saranno disponibili.

12. Conto economico preventivo: per ciascun prodotto che si intende realizzare, è
necessario formulare un conto economico preventivo, che consente di esprimere
una prima valutazione circa la convenienza economica delle singole produzioni.

Lo studio di fattibilità viene completato effettuando un calcolo per la


determinazione della redditività dell’investimento, attraverso la determinazione di
un opportuno indice. Se l’indice di convenienza così determinato è ritenuto
soddisfacente per ripagare l’imprenditore dei capitali investiti, nonché del rischio
associato all’attività, allora l’iniziativa può ritenersi “fattibile”. In caso contrario,
l’iniziativa deve ritenersi economicamente non conveniente. Riportiamo di seguito
un dettaglio dei vari fattori che possono essere considerati in uno studio di
fattibilità.
1. Sommario
2. Background e storia del progetto
3. Dimensioni del mercato e capacità dell’impianto
3.1. Studio di Mercato
3.2. Previsione di vendita. Rete di vendita. Marketing
3.3. Programmi di Produzione
3.4. Capacità dell’Impianto
4. Materiali e altri elementi in input
4.1. Input necessari
4.2. Programmi di approvvigionamento
5. Ubicazione dell’impianto
5.1. Localizzazione
5.2. Condizioni locali
5.3. Impatto ambientale
6. Progettazione
6.1. Scelta del processo/tecnologia
6.2. Scelta dell’attrezzatura
6.3. Progettazione di base. soluzioni costruttive
7. Organizzazione dell’impianto e costi di produzione
7.1. Costi di Produzione
7.2. Costi Amministrativi (Overheads)
7.3. Ammortamenti
7.4. Oneri finanziari
7.5. Costi di vendita
7.6. Altri costi
8. Personale: Staff tecnico e gestionale
8.1. Organigramma
8.2. Requisiti caratteristici di ogni posto di lavoro
9. Piano di realizzazione del progetto
9.1. Pianificazione• Acquisto del terreno e operazioni correlate• Acquisizione know-
how • Progettazione • Permessi • Richiesta dei capitolati • Studio dei capitolati •
Appalti • Approvvigionamenti (materiali e attrezzature) • Costruzione •
Commissioning, start-up e collaudi
10. Valutazione finanziaria
10.1. Elementi di Valutazione delle alternative • Periodo di vita utile
dell’investimento • Investimenti • Entrate • Costi operativi • Capitale circolante •
Finanziamenti • Inflazione e aliquote fiscali
10.2. Valutazione• NPV (Net Present Value), • IRR (Internal Rate ofReturns), • TPBP
(Time Pay-Back Period) e altri indici • Sensitivity Analysis & Risk Analysis
11. Stima dei fattori non quantificabili
12. Gestione del rischio
13. Decisione finale
13.1 Conclusioni
13.2 Spettro delle scelte strategiche
13.3 Decisione finale
14. Sistema degli obiettivi di progetto
14.1 Obiettivi
14.2 Paramétri critici
15. Sistema di monitoraggio e controllo
15.1 Raccolta dati
15.2 Periodicità
15.3 Procedure di monitoraggio e controllo
15.4 Processo decisionale
In base alle precedenti considerazioni possiamo concludere che il buon esito e il
successo di un progetto di un impianto industriale si esplicano attraverso l’analisi di
una molteplicità di fattori, che devono essere attentamente considerati prima di
intraprendere l’esecuzione del progetto vero e proprio.

2.3 Contabilità generale e contabilità industriale

Nel paragrafo precedente abbiamo evidenziato come le informazioni contabili


possono essere vantaggiosamente utilizzate per la pianificazione e il controllo di
tutte le attività produttive di un’azienda. Per questo motivo risulta rilevante
identificare e classificare i diversi tipi di contabilità e quindi di costi per analizzare nel
dettaglio le procedure tecnico-amministrative presenti all’interno dell’azienda.
Infatti l’efficace funzionamento di un’azienda necessita fondamentalmente di
informazioni di cui una rilevante quota viene fornita dal sistema contabile che fa
parte del più ampio sistema informativo aziendale. I tipi di contabilità generalmente
sviluppati all’interno di un’azienda sono due: contabilità generale e contabilità
industriale. La contabilità generale CO.GE (Financial Accounting) classifica, registra e
interpreta i movimenti finanziari di gestione e si estrinseca e fornisce alla Direzione’ i
dati per la preparazione del bilancio (stato patrimoniale e conto profitti e perdite).
Essa è finalizzata a fornire informazioni economico-finanziarie sulle attività
dell’azienda all’esterno de1la stessa. Con il termine Direzione (management) si fa
riferimento sia all’insieme di persone responsabili della conduzione aziendale sia alla
funzione di conduzione stessa. La contabilità industriale CO.IN (Managerial
Accounting), invece, classifica, registra e interpreta in modo significativo i costi dei
materiali, del lavoro e le spese generali relative alla fabbricazione e alla vendita di
ogni singolo prodotto. Essa è finalizzata a fornire informazioni all’interno
dell’azienda. Questo tipo di contabilità chiama in causa competenze in maggior
parte tecniche, quindi la sua impostazione e la sua supervisione viene affidata a
ingegneri. In questo senso viene costituito un ufficio apposito, i cui componenti
devono disporre di buone conoscenze sia tecniche sia economiche. Il responsabile di
tale ufficio è comunemente denominato controller. Attraverso l’impiego della
contabilità generale e industriale a fine anno vengono redatti rapporti di
rendicontazione chiamati rapporti finanziari, che hanno lo scopo di informare tutti i
soggetti coinvolti nella gestione dell’azienda (la direzione, gli azionisti, i creditori e il
pubblico). L’Organigramma nella figura seguente consente di comprendere meglio
le relazioni esistenti tra i diversi settori industriali.
La contabilità generale, basata sulle tradizionali teorie economiche e contabili, è
caratterizzata dai seguenti elementi:

— fornisce informazioni all’esterno, o meglio a utenti esterni all’azienda, quali per


esempio azionisti, soci, istituti di credito e in particolar modo al fisco;

— utilizza prospetti in forma standard, essendo destinata all’esterno e dovendo


essere quindi comprensibile a tutti;

— si estrinseca con scritture di bilancio.

Sebbene intesi essenzialmente a fornire informazioni economiche e finanziarie a


utenti esterni all’azienda, le scritture e i prospetti di contabilità generale risultano di
grande interesse anche per i responsabili interni della conduzione aziendale. Le
informazioni di contabilità generale sono infatti indispensabili per una corretta
valutazione dei risultati globali di esercizio e della situazione finanziaria dell’azienda
e possono essere utilizzati dal vertice aziendale (per esempio dal consiglio di
amministrazione) per valutare l’efficienza dimostrata dalle funzioni operative.
Inoltre, i dati provenienti dalla contabilità generale sono dati storici. Le scritture di
contabilità generale forniscono quindi un insieme abbastanza limitato di
informazioni. Un’efficace direzione aziendale richiede necessariamente lo sviluppo,
in parallelo, di una contabilità industriale a uso interno, in grado di fornire un quadro
di informazioni più completo sulle attività economiche espletate. La contabilità
industriale, a differenza della contabilità generale, ha una finalità essenzialmente
interna all’azienda e ha lo scopo di determinare il costo dei prodotti, delle
operazioni, delle funzioni e di raffrontare i costi e le spese reali con i budget5 e gli
standard. Essa fornisce inoltre i dati di costo necessari per eseguire i calcoli di
convenienza economica comparata, consentendo alla Direzione di prendere
decisioni avvedute in armonia con le politiche di vendita, i metodi di produzione, le
procedure di acquisto, i piani finanziari e la struttura del capitale. In genere si
considera la contabilità industriale come quel settore della contabilità generale che
informa la Direzione sul costo unitario dei prodotti fabbricati e venduti. Infatti la
contabilità industriale applica gli stessi principi della contabilità generale e fornisce
alla Direzione documentazioni dettagliate, analisi e interpretazioni delle spese
sostenute in connessione con l’andamento delle attività.

La contabilità industriale in particolare ha il compito di:

— determinare i costi e i profitti per un determinato periodo contabile;

— assegnare i valori d’inventano per la determinazione dei costi e dei prezzi e, nello
stesso tempo, controllare le giacenze fisiche;

— aiutare la realizzazione di budget;

— stabilire sistemi e procedure che consentano il controllo e, se possibile, la


riduzione dei costi;

— fornire alla Direzione informazioni sui costi per la risoluzione di problemi di scelta
fra due o più alternative.

Alla luce delle precedenti considerazioni possiamo affermare che un’altra differenza
sostanziale tra contabilità generale e industriale risiede nel fatto che, mentre la
prima ha un’impostazione pressoché identica qualunque sia l’azienda presa in
considerazione, la seconda invece appare in genere differente a seconda
dell’azienda cui essa si riferisce e risulta quindi personalizzata in funzione delle
specifiche necessità dell’azienda che la sviluppa. Inoltre, a differenza della
contabilità generale, la contabilità industriale è concepita e sviluppata in maniera
tale da fornire informazioni dettagliate sia di tipo sia storico sia previsionale. In
definitiva la differenza fondamentale tra i due sistemi contabili consiste nella diversa
destinazione dei dati elaborati: la contabilità generale è basata sulle teorie
economiche tradizionali, mentre la contabilità industriale, è fondata sulle teorie
economiche di scuola nordamericana, le quali indicano come obiettivo di un sistema
contabile la rilevazione e il controllo dell’efficienza di impiego delle risorse aziendali.
Il budget è il piano di attività dell’azienda espresso in termini economici e finanziari.
Esso è uno strumento di gestione che può essere utilizzato sia come sistema di
pianificazione economico-finanziaria, sia come meccanismo di regolamentazione dei
rapporti tra le persone dell’azienda, con lo scopo di orientare i singoli
comportamenti verso obiettivi comuni.

Nella Tabella 2.3 sotto indicata, vengono invece riportate a confronto le principali
caratteristiche dei due sistemi di contabilità, generale e industriale.

Tabella 2.3. Caratteristiche principali della contabilità generale e della contabilità


Industriale.
Contabilità generale Contabilità industriale

Campo d’indagine Rileva tutti i fatti aziendali che Rileva i fatti di gestione connessi
comportano entrate o uscite al processo economico aziendale.
finanziarie. Non considera l’aspetto
finanziario della gestione.

Scopo Determina il risultato complessi- Determina costi e ricavi di


vo dell’attività aziendale e la gestione, cioè i risultati
composizione del capitale dell’attività nelle sue varie fasi.
(attività e passività).

Natura dei dati rilevati Rileva i costi e i ricavi secondo la Rileva i costi e i ricavi secondo la
loro natura. loro destinazione.
Rileva dati analitici, opera una
Rileva dati sintetici, non riclassificazione in costi e ricavi
scomposti nei loro compònenti rilevati dalla contabilità generale.
elementari.

Una procedura di contabilità industriale si articola in:

— pianificazione: in cui sono fissati gli obiettivi da raggiungere. In funzione di questi


vengono preventivati i fabbisogni di risorse economiche e finanziarie;

— rilevazione: rilievo dei dati di interesse;

— controllo e analisi dei dati: confronto tra i dati economici fissati a preventivo con i
dati di esercizio rilevati a consuntivo.
Affinché queste tre fasi possano essere proficuamente applicate, i costi devono
essere raggruppati o classificati in modo che:

— si possano determinare costi unitari significativi;

— se ne possano esaminare e controllare l’andamento e le variazioni;

— si possano eseguire analisi particolari sia sui costi passati sia su quelli futuri.

È pertanto necessario fornire un’appropriata definizione di costo, nonché una


classificazione dei principali costi aziendali.

2.4 Classificazione dei costi industriali

La maggior parte degli economisti concorda nel definire costo “il sacrifico
economico che l’azienda sopporta per lo svolgimento di un’attività, ovvero per
l’acquisizione di un determinato bene o di uno specifico servizio”. Questo concetto
non implica necessariamente un istantaneo esborso in termini di denaro: quando
un’azienda acquisisce una risorsa, dichiara la propria disponibilità a investire denaro
entro una certa data. La precedente definizione di costo è diversa da quella
attribuita alla spesa in sede di contabilità generale, che definisce appunto spesa
“l’esborso di denaro connessa con l’acquisizione di un bene o di un servizio”.
Pertanto il concetto di spesa è strettamente correlato con quello di flusso
monetario. Per chiarire meglio la differenza tra costo e spesa, si consideri l’attività
produttiva di un’azienda manifatturiera che trasforma una determinata materia
prima in un prodotto finito. All’atto del prelievo dal magazzino e dell’utilizzo della
materia prima nel ciclo produttivo, l’azienda sostiene un costo (costo della materia
prima) e non una spesa. Viceversa, all’atto del pagamento al fornitore dell’importo
inerente alle materie prime utilizzate, l’azienda sostiene una spesa e non un costo.
Sebbene esistano molte definizioni dì costo e di spesa, possiamo annoverare tra le
più significative quella di costo come “consumo di una risorsa a fini produttivi” e
quella di spesa come “erogazione monetaria”. In tal senso quindi la spesa è un’uscita
numerica, mentre il costo è un parametro derivato di significato strettamente
contabile. La definizione di costo e quella di spesa adottate nella contabilità
generale sono quindi nettamente diverse tra loro. Invece, ai fini dell’impostazione e
dello sviluppo della contabilità industriale, la distinzione tra i due termini non è così
netta e le due definizioni coincidono. Infatti in contabilità industriale non si fa
riferimento al fatto che una risorsa sia stata o meno pagata, ma solo al fatto che sia
stata o meno utilizzata. Ovviamente l’aspetto economico della gestione aziendale
non riguarda esclusivamente il sostenimento di costi per l’acquisto di fattori
produttivi, ma soprattutto il conseguimento di ricavi per la vendita di beni e la
prestazione di servizi. Tale aspetto è chiaramente preceduto da movimenti di natura
finanziaria: le uscite di denaro misurano costi, mentre le entrate di denaro misurano
ricavi.

Nella Tabella 2.4 si riportano alcuni esempi di costi e di ricavi.

Tabella 2.4. Esempi di costi e di ricavi.

Costi Ricavi

Costi di trasposto merci Ricavi per la vendita di merci

Costi per l’acquisto di merci Ricavi per la prestazione di servizi

Costi per lavoro dipendente Proventi vari

Costi per il godimento di beni di terzi Ricavi finanziari

Costi per l’acquisto di servizi Disinvestimenti di beni strumentali

Costi finanziari (sostenuti per ottenere


finanziamenti di capitale di debito)

Costi fiscali

Un processo produttivo chiama in causa una molteplicità di risorse e richiéde lo


sviluppo di una serie di attività; a ciascuna attività o risorsa è associato un costo.

L’esatta determinazione dei costi è indispensabile ai fini del calcolo di un parametro


economico molto importante: il valore aggiunto (VA) di un prodotto. Tale parametro
è dato dalla differenza tra il ricavo (R) conseguito dalla vendita del prodotto in
esame e il costo delle materie prime (CMP) impiegate nel processo di produzione:

VA = R - CMP

Si definisce valore aggiunto percentuale (VAF), il rapporto tra il valore aggiunto VA e


il ricavo R realizzato dalla vendita del prodotto in questione:

VAP =(VA/R) *100

Il valore aggiunto percentuale di un prodotto varia in funzione del prodotto di volta


in volta preso in considerazione. Nel caso in cui il VAP assuma valori prossimi al
100%, ciò indica che nella vendita effettuata l’incidenza dei costi delle materie prime
è pressoché nulla, come per esempio avviene nel caso dei servizi. Nel caso in cui
invece il VAP assuma un valore molto basso, questo significa che non viene
effettuata alcuna operazione di trasformazione sulla materia prima. In tal caso
l’attività dell’azienda si configura più come un’attività di tipo commerciale piuttosto
che industriale.

2.4.1 Costi per destinazione

La contabilità generale si limita a operare una suddivisione dei costi in classi


fondamentali in base alla natura del costo stesso. Al manifestarsi di un costo, la
procedura di contabilità generale provvede ad attribuirlo alla classe di competenza,
senza prendere in considerazione la sua destinazione. Essa pertanto non tiene conto
del prodotto o del processo a cui il costo si riferisce.

Nella Tabella 2.4.1 è riportato uno schema di suddivisione dei costi in classi
fondamentali.

Tabella 2.4.1 . Esempio di classificazione dei costi per natura.


Suddivisione dei costi in classi fondamentali e per natura

Acquisto materie prime

Salari operai

Stipendi impiegati tecnici

Mezzi di servizio

Ammortamenti

Spese generali

Royalty

Oneri tributari

In contabilità industriale si considera invece sia la natura sia la destinazione del


costo, definendo il parametro rispetto al quale un costo è sostenuto. In questo
senso il prodotto o l’attività per la quale esso è sostenuto è definito obiettivo o
destinazione di costo (cost objective). Qualsiasi elemento di un sistema produttivo
risulti conveniente porre in correlazione con un costo, può costituire un obiettivo di
costo (per esempio prodotto realizzato, reparto produttivo, linea di prodotti, settore
aziendale ecc.).

2.4.2 Costi diretti e indiretti

La distinzione tra costi diretti e indiretti dipende dall’obiettivo di costo di volta in


volta preso in considerazione, e dalla possibilità di correlare in maniera univoca il
costo all’obiettivo di costo considerato.

In particolare si definisce:

— costo diretto, il costo per il quale esiste una correlazione univoca (legame diretto)
tra l’oggetto o obiettivo di costo e il costo stesso. Le materie prime e la manodopera
diretta costituiscono un esempio di costi diretti del prodotto fabbricato (obiettivo di
costo). L’attribuzione dei costi diretti al singolo obiettivo di costo avviene attraverso
l’impiego di opportuni coefficienti di impiego. Si definisce coefficiente di impiego di
una risorsa la quantità di tale risorsa necessaria per la fabbricazione di una unità di
prodotto. Per esempio, nel caso in cui si desideri determinare il costo della
commessa utilizzando un procedimento per addizione, il costo delle materie prime e
della manodopera diretta è univocamente desumibile dalla “bolla di prelievo dei
materiali”, nonché dalla “bolla di impegno della manodopera”.

— costo indiretto, il costo per il quale non esiste una correlazione univoca (legame
diretto) tra l’oggetto o obiettivo di costo e il costo stesso. Esempi di costi indiretti
sono la manutenzione dei macchinari, la manodopera indiretta, i costi commerciali, i
costi amministrativi e i costi di ammortamento. L’attribuzione dei costi indiretti
all’oggetto o obiettivo di costo avviene attraverso la definizione di opportuni
coefficienti di ripartizione. Per esempio, avendo scelto come obiettivo di costo le
commesse in lavorazione, un possibile criterio è quello di ripartire il costo totale
della manodopera indiretta in maniera proporzionale al numero di ore di
manodopera diretta impegnata per la lavorazione di ogni singola commessa.

La definizione di costo diretto o di costo indiretto ha un significato relativo, in


quanto dipende dall’oggetto o obiettivo di costo di volta in volta considerato.
Pertanto un costo può trasformarsi da diretto in indiretto al variare dell’obiettivo di
costo. Alcuni esempi di costi diretti e indiretti sono riportati nella Tabella 2.4.2
Tabella 2.4.2. Esempi di costi diretti e indiretti.
Obiettivo di costo Costo diretto Costo indiretto

Unità di prodotto fabbricato Materie prime Manodopera diretta Retribuzione responsabile


di linea
Affitto immobili
Ammortamento impianti

Linea di produzione Materie prime Retribuzione Retribuzione amministrativi


responsabile di linea Pubblicità
Ammortamento impianti

Stabilimento Materie prime Oneri finanziari Compensi consiglieri


Ammortamento impianti

2.4.3 Costi fissi e costi variabili

I costi possono essere classificati in fissi e variabili in base alloro andamento al


variare del volume di produzione o di vendita (Q). Ai fini della trattazione, si

assume l’ipotesi semplificativa di fare coincidere i volumi di produzione con quelli di


vendita. Ciò è valido se e solo se tutta la produzione realizzata viene venduta.

Si definisce:

— costò variabile: il costo che varia al variare del volume di produzione o di vendita.
Esempi di costi variabili sono le materie prime e l’energia. Un costo variabile può
essere espresso mediante la seguente relazione:

Cv = bQ

dove:

b è il costo variabile unitario;

Q è il volume di produzione;

Nel diagramma della Figura 2.4.3 si riporta l’andamento dei costi variabili in
funzione del volume di produzione.
Figura 2.4.3 Diagramma dei costi variabili.

— costo fisso: è il costo che non varia al variare del volume di produzione o di
vendita. Un immediato esempio di costi fissi è quello inerente al fitto o al leasing di
un fabbricato; tale costo rimane evidentemente invariato qualunque sia il volume di
vendite conseguito. I costi fissi divengono sempre più importanti nell’esercizio di
un’azienda al crescere del livello di sviluppo industriale, economico e sociale del
contesto in cui l’azienda opera (Fig 2.4.4). Infatti i progressi tecnologici favoriscono
la sostituzione del lavoro manuale con quello svolto dalle macchine. L’acquisizione
di una macchina determina un rateo di ammortamento annuo che rappresenta un
costo fisso per l’azienda. Tale costo sostituisce, anche se parzialmente, il costo
variabile di esercizio costituito dal costo della manodopera diretta.
Figura 2.4.4 . Diagramma dei costi fissi.

I costi fissi possono essere ulteriormente classificati in:

— costi fissi di capacità (capacity cost), che rappresentano i costi fissi che l’azienda
deve sostenere per mantenere un determinato livello di capacità produttiva.

I costi di capacità sono in definitiva quei costi che l’azienda sostiene per procurarsi
risorse produttive generalmente inerenti a lungo termine. Esempi di tali costi sono
le quote di ammortamento, le tasse, i premi assicurativi, la retribuzione dei
manager, dei tecnici e dei capi reparto. Sono costi che vanno comunque sostenuti
indipendentemente dal volume di produzione.

— costi fissi programmati (progammed cost), che sono i costi che l’azienda deve
sostenere per mantenere, se lo ritiene opportuno, alcune specifiche iniziative
aziendali. Esempi di tali costi sono i costi di ricerca e sviluppo, i costi della pubblicità
(televisione, radio, giornale, cartelloni) e i costi di addestramento del personale.

La Tabella 2.4.5 seguente riporta alcuni esempi di costi fissi e di costi variabili.
Tabella 2.4.5 Esempi di costi fissi e di costi variabili.
Voci di costo Variabile Fisso

Materie prime x

Lavorazioni est. x

Ammortamenti ind. x

Affitti x

Trasporti x

Energia x

Manodopera diretta x

x
Manodopera indiretta

Pubblicità x

Manutenzione ordinaria x

Manutenzione straordinaria x

Materiali ausiliari x

x
Costi generali

Riscaldamento x

Provvigioni x

Costi amministrativi e commerciali x

Stipendi x

Vigilanza e pulizie x

È possibile rappresentare graficamente l’andamento dei costi in funzione del volume


di produzione Q.
Nella Figura 2.4.6 sono riportate le rette rappresentative dei costi fissi CF e dei costi
variabili C, nonché il coefficiente angolare b che rappresenta la pendenza della retta
dei costi variabili.

Figura 2.4.6. Rappresentazione dei costi fissi e dei costi variabili.

Indicando con CT i costi totali, somma dei costi variabili (Cv) e dei costi fissi (CF), è
possibile scrivere:

CT=CF+Cv=CF+b.Q
Alla luce delle relazioni sin qui esposte, è possibile determinare analiticamente e
graficamente il costo totale unitario del prodotto.

In particolare, dividendo il costo totale CT per il volume di produzione Q si

ottiene:

2.4.4 Costi semifissi e semivariabili

Alcuni costi contengono componenti sia fisse sia variabili al variare dei volumi di
produzione. I costi di questo tipo sono appunto detti:

— costi semivariabili, ovvero quei costi caratterizzati da alcune componenti fisse,


che ne rappresentano il livello minimo, e altre variabili al variare dei volumi di
produzione (Fig. 2.8). Il Costo Totale CT può sempre essere visto come somma di
una componente fissa CF e una componente variabile C. Il costo di manutenzione e il
costo dell’energia elettrica costituiscono un esempio di costo semivariabile;

Figura 2.8. Diagramma dei costi semivariabili.

— costi semifissi: sono invece quei costi che si mantengono fissi entro intervalli
prestabiliti di produzione (Q). Esempi di tali costi sono la retribuzione dei dirigenti, la
retribuzione degli impiegati ecc. Il grafico di un costo semi- fisso assume il tipico
andamento a “gradino” (Fig. 2.9). Per volumi di produzione Q < Q1 il costo del
personale amministrativo sia per esempio pari a b1. Per Q1 < Q <Q l’incremento dei
costi fissi presenta un tipico andamento a gradino, assumendo un valore pari a b1.
L’altezza di ogni gradino può essere considerata proporzionale al costo per la
retribuzione di uno o più addetti amministrativi.

Figura 2.9. Diagramma costi semifissi.


2.4.5 Intervallo operativo (relevant range)

La curva rappresentativa dell’andamento di un generico costo in funzione del


volume di produzione è definita, da un punto di vista analitico, in tutto l’insieme dei
numeri reali non negativi (R > O). A livello aziendale però questo non è vero, in
quanto soltanto un certo intervallo (range) avrà un significato concreto. Tale
intervallo è appunto chiamato intervallo operativo ed è definito come
quell’intervallo entro il quale potrà verosimilmente variare il volume di produzione o
di vendita del sistema in questione. Un costo variabile lo è raramente in maniera
effettivamente lineare con il volume di produzione. Tuttavia all’interno
dell’intervallo operativo l’ipotesi di una correlazione lineare costo-volume risulta
molto spesso verosimile.

Osservando il grafico della Figura 2.10, si evince che l’andamento della funzione
costo-volume può anche essere curvilineo nell’intero insieme di definizione della
funzione; tuttavia all’interno dell’intervallo operativo può essere considerato
lineare. Analogamente un costo semifisso nell’intervallo analitico di definizione può
essere considerato fisso qualora si consideri il suo andamento all’interno
dell’intervallo operativo.

Figura 2.10. Intervallo operativo.

2.4.6 Costo di ammortamento

Ogni bene utilizzato come mezzo di produzione (fabbricati, macchine, attrezzature


ecc.) subisce durante il suo utilizzo una riduzione di valore per vetustà e/o
logoramento, sicché dopo un certo periodo di tempo (durata o vita fisica del bene),
nonostante i normali interventi di manutenzione, esso non è più idoneo alle sue
funzioni e deve essere sostituito. La tecnica che consente il recupero dei costi per
deprezzamento è quella dell’ammortamento. Con il termine ammortamento si
intende quindi il procedimento con il quale si distribuiscono i costi dei beni a utilità
pluriennale acquisiti dall’azienda su più esercizi. Tali beni e servizi vengono
acquistati o prodotti in economia dall’impresa in un determinato esercizio, ma sono
usati in più esercizi. Il costo di ammortamento è un costo che va computato tra i
costi fissi di esercizio. Esso si distingue però dagli altri costi in quanto non costituisce
un esborso finanziario, ma solo una scrittura contabile di bilancio. Il problema che si
pone è la determinazione della quota di ammortamento, che deve essere valutata
nel rispetto delle norme civilistiche nonché dei principi economico-aziendali.

In particolare risulta fondamentale determinare:

— il valore dell’ammortamento;

— la durata dell’ammortamento;

— il metodo di ammortamento.

Valore da ammortizzare

Esso è costituto dal valore iniziale del cespite da ammortizzare, aumentato delle
spese accessorie di installazione, collaudo ecc., nonché delle spese incrementali via
via sostenute. Non si tiene conto dell’IVA, né del contributo erogato dallo Stato o da
altro Ente (circ. 17/5/2000, n. 98/E).

Durata dell’ammortamento

Essa deve essere intesa come vita “utile”, ovvero come periodo di economica
partecipazione dei fattori considerati alle produzioni di impresa. A tale proposito si
consideri che per un determinato bene da ammortizzare è possibile distinguere tra:
vita fisica, tecnologica e commerciale.

Vita fisica

Si riferisce all’efficienza del bene che viene acquistato. La vita fisica è il periodo di
tempo durante il quale la macchina, in normali condizioni di utilizzo e
manutenzione, conserva l’efficienza originaria. Per efficienza si intende la capacità di
fornire con continuità le prestazioni qualitative e quantitative che caratterizzano il
bene al momento dell’acquisto e della messa in esercizio.

Il numero n di anni oltre il quale le spese di manutenzione rendono antieconomico


un bene può essere determinato utilizzando la formula di Eidmann:

2  (C  Vr )
n
m
avendo indicato con:

— C: costo iniziale del macchinario

— Vr: valore residuo

— r: deprezzamento del bene

— m: incremento annuo del costo di manutenzione.

Se si osserva la Figura 2.11 si evince che il costo C decresce nel corso del tempo e
tende a un valore residuo del macchinario (Vr). La curva r rappresenta il valore del
macchinario nel tempo. I costi di manutenzione m crescono con grande rapidità
nella fase di avviamento e messa in regime del macchinario, mentre assumono un
valore costante nella fase di regime. Quando

i costi di manutenzione superano il valore residuo del bene, allora conviene


sostituirlo.

Figura 2.11. Andamento di r, C e m al variare del tempo.


Vita tecnologica

È il periodo di tempo durante il quale la macchina fornisce le prestazioni originarie


con la stessa economicità e competitività per cui è stata acquistata. Quando ciò non
si verifica più, allora si parla di obsolescenza del bene, ovvero invecchiamento
tecnologico. È possibile quindi avere un cespite caratterizzato da una vita fisica non
ancora terminata, ma da una vita tecnologica nulla. In tal caso il bene, superato dal
punto di vista tecnologico, si dice obsoleto.

Vita commerciale

È il periodo di tempo durante il quale si ritiene che il prodotto fabbricato dal


macchinario possa conservare una qualche utilità economica. In questo caso
l’obsolescenza colpisce indirettamente il mezzo di produzione. Si parla di prodotto
démodé, ovvero di prodotto per il quale non c’è più richiesta di mercato.È il caso di
macchinari molto specialistici, caratterizzati da una scarsa elasticità e che realizzano
un solo tipo di prodotto. Quando il prodotto viene colpito da obsolescenza
(prodotto démodé), la macchina, pur non avendo terminato la vita fisica e
tecnologica, risulta essere prova di qualsiasi utilità.

Metodo di ammortamento

È il procedimento mediante il quale si perviene al calcolo delle quote, una volta che
siano determinati il valore da ammortizzare e la durata dell’ammortamento. Le
quote di ammortamento, una per ogni esercizio, costituiscono il fondo di
ammortamento, che rappresenta la somma degli ammortamenti effettuati fino a
quel determinato istante. Per la determinazione delle quote di ammortamento
esistono diversi procedimenti, anche se il criterio più diffuso è quello a quote
costanti. Tale criterio è quello ammesso in Italia dall’Amministrazione finanziaria che
indica, per ciascuna tipologia di impresa, i coefficienti che devono essere utilizzati ai
fini fiscali per l’ammortamento delle immobilizzazioni materiali. Questi coefficienti
sono stati approvati con decreto ministeriale del 31/12/88 e si applicano ai beni il
cui processo di ammortamento è cominciato a partire dal periodo di imposta in
corso all’1/1/1989 (ossia, per i soggetti con periodo di imposta coincidente con
l’anno solare, a decorrere dal 1989). Relativamente ai beni il cui processo di
ammortamento è iniziato prima di tale data, si applicano i coefficienti approvati con
decreto ministeriale del 29/10/74. Le quote di ammortamento sono deducibili “a
partire dal primo periodo di imposta in qualsiasi momento dal quale il bene è stato
utilizzato o avrebbe potuto essere utilizzato. Per le imprese di nuova costituzione
l’inizio dell’ammortamento può essere differito al primo periodo di imposta in cui
sono stati conseguiti i ricavi”. Le modalità di ammortamento fiscale comunemente
utilizzate sono le seguenti:

— ammortamento ordinario: determinato in base alle tabelle ministeriali. I


coefficienti sono ridotti alla metà per il primo esercizio di entrata in funzione dei
bene, sia per beni nuovi sia per quelli usati. La quota di ammortamento del bene
non può essere modificata per effetto di temporanee sospensioni nell’utilizzo del
bene durante l’anno;

— ammortamento integrale: applicabile ad attrezzature minute e beni di costo


unitario inferiore a € 516,46;

ammortamento anticipato: che consente di aumentare fino a i volta il coefficiente


ordinario. Ciò è possibile per l’esercizio di acquisizione e per i due successivi per i
beni nuovi. Nel caso in cui l’azienda acquisisce beni usati,

l’ammortamento anticipato è ammesso nel solo esercizio di entrata in funzione del


bene;

— ammortamento accelerato: è consentito, con onere della prova a carico del


contribuente, nel caso di una più intensa utilizzazione del bene rispetto a quella
normale ammessa per il settore di appartenenza;

— ammortamento ridotto: consente un ammortamento del bene in misura inferiore


a quello ordinario. L’ammortamento può essere ridotto senza limitazione alcuna, in
quanto non esiste più un minimo di deduzione delle quote di ammortamento.

Il metodo a quote costanti è quello più utilizzato, ed è ammesso dal fisco in Italia.

Esso valuta le quote sulla base dei coefficienti fissati con decreto ministeriale del

31/12/88.

In particolare, indicando con V0 il valore iniziale del bene, Vk il valore residuo al


termine del periodo k, A il valore della quota di ammortamento relativa al generico
periodo i, n il numero di anni, si ottiene:

V0  Vk
Ai 
n
Il relativo piano di ammortamento è il seguente:
k
V0  Vk   Ai
i 1

2.4.7 Costo tecnico, industriale, totale e tecnico-economico

I diversi tipi di costo possono essere raggruppati tra loro, dando origine a nuove
figure di costo particolarmente utilizzate in contabilità industriale. In particolare si
possono distinguere i seguenti tipi di costo:

• costo tecnico o costo primo, che comprende tutti gli elementi di costo speciali e,
talvolta, gli oneri accessori a essi strettamente relativi come:

— costo delle materie (principali, secondarie e accessorie) direttamente imputabili


al prodotto (materie dirette);

— costo della manodopera direttamente imputabile al prodotto (manodopera


diretta).

Il costo primo si impiega nella valutazione dei prodotti in corso di lavorazione, in


aderenza al principio per il quale i costi comuni vanno riferiti ai prodotti solo al
termine del ciclo produttivo a essi relativo;

• costo industriale o di fabbricazione, che aggiunge al costo primo le quote dei costi
comuni più strettamente connessi con la fabbricazione (spese generali di
fabbricazione). Tra questi tipi di costo vi sono i costi per energia, ammortamento,
manutenzione, sorveglianza, controllo delle lavorazioni e trasporto interno. Il costo
industriale si utilizza per la valutazione delle rimanenze dei prodotti finiti;

• costo complessivo o totale, che comprende tutte le spese sostenute per


l’ottenimento del prodotto, quindi aggiunge al costo industriale le spese generali di
amministrazione, di distribuzione fino alla vendita nonché gli oneri finanziari;

Costo complessivo

• costo economico tecnico, che aggiunge agli oneri effettivamente sopportati i costi
figurativi, ossia non corrispondenti a spese effettive, come gli interessi sul capitale
investito, i fitti per gli immobili. Questa figura di costo è la più idonea per problemi
di scelta di convenienza economica, poiché consente confronti tra soluzioni che
prevedono impiego di capitale proprio e da prestito, in immobili propri o presi in
fitto e ecc.

2.5 Costo di impianto e costo di esercizio

In base al periodo di riferimento, è possibile distinguere tra: costo cli impianto (o di


primo impianto) e costo di esercizio.

2.5.1 Costo di primo impianto

Per costo di primo impianto o costo di installazione si intende l’ammontare del


capitale8 necessario per dare inizio all’attività. Si precisa che il costo di impianto può
avere per oggetto non solo il sistema impianto nel suo complesso, ma anche un
qualunque subsistema che sia parte di esso o soltanto un componente. La
determinazione del costo di impianto è necessaria in fase di realizzazione di un
nuovo impianto o di ampliamento, trasformazione, ammodernamento di impianti
esistenti. Il costo di impianto si compone a sua volta di due parti: il capitale fisso e il
capitale circolante. Le differenze tra queste sono le seguenti:

capitale fisso è il valore corrispondente alle immobilizzazioni, ovvero beni di uso


durevole utilizzati per la produzione (terreno, costruzioni, macchinari, attrezzature,
materiali, know-how, impianti, brevetti ecc.). Esso deve essere recuperato, con una
opportuna politica di ammortamento, durante gli esercizi futuri;

— capitale circolante sono le disponibilità iniziali di cassa, scorte, crediti verso i


clienti ecc. legati all’inizio della produzione. Esso può essere in teoria recuperato al
termine dell’attività.

Stima del costo di primo impianto

Il costo di un impianto è quindi la somma di tutti gli esborsi sostenuti per


predisporre l’impianto alla produzione. L’analisi può essere effettuata utilizzando
una delle tre seguenti metodologie:

1. valutazione per analogia;

2. valutazione diretta;

3. cifre indice.

Valutazione per analogia


Consiste nel determinare a priori il costo dell’impianto, confrontandolo con uno di
simili caratteristiche già esistente e operativo.

Si consideri un impianto A di costo CA incognito e capacità produttiva PA nota. Si


consideri un secondo impianto B di costo CB noto e capacità produttiva PB nota. Sia il
costo espresso in euro (€) e la capacità produttiva espressa in unità di prodotto
all’anno.

La determinazione del costo CA può avvenire utilizzando la seguente relazione:


X
C A  PA 
  
C B  PB 

dove x è il coefficiente di proporzionalità o di scala (coefficiente di riduzione) che


sperimentalmente è posto pari a 0,6. Per tale motivo la relazione (1) viene anche
definita legge dei sei decimi. Il coefficiente di proporzionalità è stato inizialmente
rilevato per impianti di tipo chimico, ma in realtà, con le opportune accortezze, può
essere esteso anche ad altre tipologie di impianto. In base alla legge dei sei decimi si
deduce che, per i casi in cui essa può ritenersi valida, il costo di impianto varia con
legge meno che proporzionale al variare della capacità produttiva.
Conseguentemente il costo dell’unità di capacità produttiva dell’impianto
diminuisce all’aumentare della capacità (Fig. 2.13).

Tale fenomeno è direttamente collegato a quello delle cosiddette economie di scala.


Secondo questo effetto, al crescere della dimensione degli impianti e dei volumi di
produzione realizzati, diminuisce il costo medio unitario di fabbricazione del
prodotto.
Figura 2.13. Variazione dei costi di impianto al variare della capacità produttiva.

In altre parole, un aumento delle risorse impiegate nel processo produttivo provoca
un aumento più che proporzionale dei risultati. Pertanto, all’aumentare della
dimensione dell’impianto i costi unitari tendono a diminuire. Tale fenomeno appare
giustificato dal fatto che all’aumentare del volume di produzione i costi fissi si
distribuiscono su un maggior numero di unità fabbricate. Si osservi che a ciascuna
configurazione dimensionale di un impianto corrisponde un particolare livello di
marcia ottimale. Nella Figura 2.13 si può infatti osservare il diagramma qualitativo
costi-volumi di produzione per tre diverse dimensioni di un impianto, nonché i tre
corrispondenti livelli ottimali di marcia. In corrispondenza del punto in cui vengono
sfruttate completamente le economie di scala si individua la dimensione minima
efficiente d’impianto. Volendo invece considerare la variazione del costo unitario di
impianto CU (€ /Pezzi realizzati) per unità di capacità produttiva PU (Pezzi
Realizzati/Anno) si ottiene l’andamento rappresentato nella Figura 2.13 in alto a
destra. In questo caso si può osservare che l’andamento del costo unitario di
impianto diminuisce al crescere dell’unità di capacità produttiva. Concludendo,
possiamo osservare che il metodo per analogia presenta l’indubbio vantaggio di
consentire una stima del costo dell’impianto in modo semplice e veloce. Di contro,
risulta essere un metodo “miope”, in quanto confronta costi non attualizzati e
considera tecnologie di produzione che possono risultare obsolete.

Valutazione diretta

Con questo metodo si cerca di determinare il costo di un impianto analizzando tutte


le singole voci di spesa che si presentano generalmente nella realizzazione
dell’impianto stesso. Le voci di spesa che si esaminano riguardano essenzialmente
tutti quegli elementi patrimoniali destinati a essere durevolmente utilizzati in
ambito aziendale e che ritornano in “forma liquida” in tempi medio-lunghi. Tali tipi
di spesa prendono il nome di immobilizzazioni. E possibile distinguere tra
immobilizzazioni materiali e immobilizzazioni immateriali.

Esempi di immobilizzazioni materiali sono riportati di seguito:

— acquisto di terreni (€/m2);

— sistemazione del sedime di un impianto (€/m3);

— opere murarie e assimilate: fabbricati industriali (per esempio, depositi e centrali


di stabilimento), fabbricati civili (uffici, mense, servizi sociali), strade, piazzali,
recinzioni, zone verdi, impiantistica generale (per esempio, fogne e impianto idrico);

— opere infrastrutturali: tali opere si distinguono in generali (per esempio


allacciamenti, strade, reti elettriche e telefoniche, telex, fognatura e acquedotto),
oppure speciali (per esempio, gruppi elettrogeni e scavo di pozzi);

— mezzi produttivi: impianti, macchine, attrezzature, dotazioni (per reparti e per


magazzini), impiantistica ausiliare;

— impianti antinquinamento

— attrezzature e arredi per uffici e servizi: per esempio mobili e macchine per uffici,
arredi, attrezzature e macchine per la mensa, infermeria, spogliatoi;

— automezzi: per esempio automezzi civili, industriali, commerciali.

Esempi di immobilizzazioni immateriali sono invece:

• prestazioni professionali, tra cui: progettazione, direzione dei lavori, consulenze


tecniche, legali e notarili;

• permessi, concessioni, licenze e brevetti;

• oneri vari di impianto: imballi, trasporti, sdoganamenti, montaggi e collaudi;

• oneri di avviamento: addestramento personale, produzione sperimentale.

La valutazione diretta del costo di un impianto è sicuramente più precisa della


valutazione per analogia, che è più rapida ma molto approssimata.
Cifre indice

Quando non si dispone di dati analitici, possono essere utilizzati parametri di tipo
pratico-empirico, che prendono il nome di cifre indice,

Le cifre indice, spesso diagrammate e tabellate, indicano, per una assegnata


potenzialità standard di riferimento, i costi preventivi di installazione e di esercizio.
Per esempio:

— costo di impianto per unità/anno di produzione o per addetto;

— superficie coperta per unità/anno di produzione;

— kW installati per unità/anno di produzione.

2.5.2 Costo di esercizio

Il costo di esercizio è dato dalla somma dei costi che l’azienda deve sostenere in un
determinato periodo di tempo (generalmente un anno) per far funzionare e gestire
correttamente l’impianto produttivo. Esso è costituito dalla somma di:

— costo di produzione (o del servizio reso);

— costo dell’inefficienza del servizio (o del mancato funzionamento).

Il costo di produzione o del servizio reso è dato dalla somma dei costi variabili C (per
esempio materie prime, energia e servizi tecnici come acqua, aria compressa ecc.) e
dei costi fissi CF (per esempio oneri di manutenzione, manodopera, spese di
amministrazione, commerciali ecc.).

Il costo dell’inefficienza del servizio o del mancato funzionamento non corrisponde a


un esborso di denaro, ma al mancato introito derivante dalla mancata o ridotta
produzione conseguente al non efficiente funzionamento dell’impianto.

Il valore dell’utile di un’azienda, ovvero il risultato della gestione operativa, può


essere espresso come differenza tra i ricavi conseguiti dalla vendita dei prodotti e i
costi di produzione.

Pertanto:

U = R - CTOT = R - Cv-CF
Avendo indicato con:
— R i ricavi

— CV i costi variabili

— CF i costi fissi

Se l’impianto non è efficiente, si ha una variazione (diminuzione) dei ricavi R e dei


costi variabili C. Pertanto si può scrivere:

U = (R - ΔR) - CF - (CV- ΔCV)


quindi:

U = R - CF - CV - (ΔR - ΔCV)
dove (ΔR - ΔCV) è il costo dell’inefficienza del servizio.

Si osservi che non sempre, in corrispondenza dell’interruzione di un’attività


produttiva, si verifica una riduzione dei costi variabili.

Si deve inoltre considerare, in aggiunta alla riduzione dei ricavi per mancata
produzione, anche il costo della perdita di immagine aziendale. Il ritardo nella
consegna dei prodotti richiesti genererà clienti insoddisfatti, e ciò potrebbe
provocare la perdita di una fetta di mercato.

2.6 Diagramma di redditività e analisi CRQ (Costi, Ricavi, Quantità)

L’analisi CRQ (Costi, Ricavi, Quantità) è uno strumento molto utile e semplice per la
progettazione e la gestione di un generico impianto di produzione. Infatti la
conoscenza dell’interdipendenza fra costi, produzione e profitti è di fondamentale
importanza in tutte le decisioni strategiche di un’azienda.

Questo tipo di analisi, detta anche break even analysis, consente la determinazione
del punto di equilibrio (BEP, Break Even Point) tra costi totali e ricavi totali.

Per poter tracciare il diagramma di redditività è necessario introdurre alcune ipotesi


di base, illustrate di seguito.

1. La struttura dei costi industriali rimane invariata nell’intervallo di tempo


considerato. Questo significa che l’andamento dei costi fissi, variabili e semi-
variabili risulta inalterato nell’intervallo di tempo in esame. Affinché tale ipotesi
possa essere ritenuta valida, è necessario che si verifichino alcune condizioni, quali
per esempio che rimanga immutata la struttura organizzativa aziendale e che non
vengano apportate variazioni significative nel ciclo produttivo e nelle politiche
commerciali di vendita.

2. Il prezzo di vendita rimane costante sia nell’intervallo di tempo considerato sia al


variare del volume di vendite (quindi la pendenza p della retta del ricavo rimane
anch’essa costante).

3. Il costo unitario di acquisizione di ciascuna risorsa produttiva (materie prime,


manodopera, energie ecc.) rimane costante nell’ intervallo di tempo considerato.

4. Il mixing produttivo rimane costante nell’intervallo di tempo considerato.

5. Il volume di produzione coincide con il volume di vendita.

L’analisi CRQ può essere condotta sia sui dati storici sia sui dati previsionali,
fornendo così la possibilità di valutare diverse situazioni economiche in cui l’azienda
può trovarsi. Questo tipo di analisi fornisce utili informazioni in sede di valutazione e
di scelta di soluzioni tecniche alternative, in fase sia di progettazione sia di esercizio
di un sistema produttivo.

Rappresentando le rette dei costi e dei ricavi in un piano cartesiano CRQ il punto Q*,
intersezione delle rette dei costi totali C e dei ricavi totali R, è definito Break Even
Point (BEP) ovvero punto di pareggio. In esso i costi e i ricavi assumono lo stesso
valore.

Il diagramma che rappresenta l’andamento dei parametri C,R,Q è noto come


“diagramma di redditività” (Fig. 2.15).
Figura 2.15. Diagramma di redditività.

Si osservi che la pendenza della retta dei ricavi R rappresenta il prezzo unitario di
vendita. Esso è fornito dalla seguente relazione:

Ricordando che l’utile U di una azienda rappresenta la differenza tra i ricavi R


conseguiti dalla vendita dei prodotti e i costi C di produzione, è possibile scrivere:

U = R – CT = p Q – (CF +  Q) = Q (p- ) - CF

In corrispondenza del punto di pareggio, i costi e i ricavi si eguagliano, ossia l’utile è


nullo. Pertanto:

Per U*= 0 ; Q* = Q

Si dimostra facilmente che il valore di Q* in corrispondenza del quale si verifica


l’uguaglianza tra ricavi e costi di produzione è fornito dalla seguente relazione:
CF
Q *

(p  )
In termini grafici, in corrispondenza del valore di produzione Q1, il valore dell’utile U1
è pari alla differenza U1= (R1 — C1) , ovvero corrisponde al segmento compreso tra la
retta dei ricavi e quella dei costi. Si desume quindi che l’utile aumenta al crescere
della produzione, allontanandosi dal punto di pareggio. Il diagramma di redditività,
benché corrispondente a un’analisi statica in quanto relativa a un determinato anno
di funzionamento, può fornire utili informazioni anche in sede di progetto.
L’attendibilità di tali informazioni è dipendente dal grado di approssimazione
raggiunto nell’analisi dei costi e dei ricavi.

La determinazione di Q* è di fondamentale importanza ai fini dell’esatto


dimensionamento del generico impianto. Infatti si può verificare una delle tre
condizioni seguenti:

— p <b: le due rette R e C divergono, pertanto l’uguaglianza tra costi e ricavi non
può essere mai raggiunta. L’utile dell’azienda è negativo e aumenta al crescere della
produzione. Tale situazione è ovviamente da evitare;

— p = b: la retta dei costi è parallela a quella dei ricavi. In questo caso l’utile
dell’azienda è negativo e assume un valore costante pari a CF. Il punto di pareggio si
sposta all’infinito;

— p > b: l’intersezione delle due rette CT ed R si ha nel punto Q.

In base a queste considerazioni è possibile definire la stabilità di un’azienda, valutata


relativamente al rapporto tra il volume di produzione e il punto

Per poter meglio valutare la stabilità di un’azienda è possibile introdurre il margine


di sicurezza k definito mediante il rapporto:

Qt  Q*
k 100
Qt

dove

— Qt rappresenta la produzione totale prevista;

— Q* rappresenta il volume di produzione in corrispondenza del punto di pareggio.


Il margine di sicurezza fornisce una misura della distanza del punto in cui opera
l’impianto rispetto al punto di pareggio Q*. Indica, in altre parole, il grado di rischio
di mercato a cui si espone l’azienda, ovvero la diminuzione delle vendite massime
che l’impresa può subire senza andare in perdita. Tale margine (a parità di livello di
vendite previste, prezzi e risultato economico) dipende dalla composizione della
struttura dei costi e dalla posizione del punto di pareggio.

Il valore del margine di sicurezza k è espresso in forma percentuale e in molti casi


risulta compreso tra il 30 e il 50%, corrispondente cioè a un valore di

Q* = 70-50% di Qt

Se, per esempio, risulta k = 50%, significa che l’impianto può funzionare con un
coefficiente di utilizzazione fino a 0,5 senza che si manifestino perdite. In altre
parole se per ragioni di mercato o per altre condizioni esterne, la produzione
dovesse risultare inferiore alla potenzialità, l’impresa non avrà perdite purché risulti
Q 0,5 La Figura 2.16 mostra il diagramma redditività-margine di sicurezza.

Si considerino due aziende A e B i cui diagrammi di redditività siano quelli riportati


nella Figura 2.17. E possibile desumere quale delle due lavora in condizioni di
maggiore stabilità?
Figura 2.17. Confronto tra due diagrammi di redditività.

Si può affermare che l’azienda A è più stabile rispetto all’azienda B in quanto si


verifica che: Q*A < Q*B
L’azienda A è in grado di conseguire utili (U>O) in corrispondenza di bassi volumi di
produzione, lavorando inoltre con un valore di Qt lontano rispetto al punto di
pareggio. Si può pertanto affermare che l’azienda A è caratterizzata da un elevato
grado di stabilità e da un valore elevato del coefficiente di sicurezza le.

L’azienda B lavora invece con un valore di Qt molto prossimo al punto di pareggio.


Essa pertanto è caratterizzata da un elevato grado di instabilità, nonché da un basso
valore del coefficiente di sicurezza k.

2.7 Possibili andamenti del costo unitario

Alla luce delle relazioni fin qui esaminate, è possibile considerare il diagramma di
redditività in termini di costo totale unitario e ricavo totale unitario. In particolare,
dividendo il costo totale Ct e il ricavo totale Rt per il volume di produzione Qt si
ottiene:
RT p  Q
Ru   p
Q Q
CT CF CV CF   Q CF
CTu       
Q Q Q Q Q Q

Il diagramma della Figura 2.21, riporta l’andamento del costo totale unitario e del
ricavo unitario R in funzione del volume di produzione Q. Il costo totale unitario
varia secondo una legge iperbolica.

Figura 2.21. Andamento del costo unitario.

Tale rappresentazione, tuttavia, è puramente teorica in quanto presuppone un


assetto produttivo elastico capace di adattarsi a qualunque volume di produzione.
Non si considera il fatto che esistono limiti imposti dalla potenzialità dell’impianto
che, in genere, può essere superata solo per periodi limitati di tempo.

Un’eventuale forzatura dell’impianto per tempi lunghi determina un aumento del


costo unitario del prodotto dovuto a un incremento più che proporzionale dei costi
di manodopera, manutenzione ecc., nonché a problemi di carattere organizzativo.

Pertanto il diagramma della Figura 2.21 va modificato e risolto uguale a quello


visibile nella Figura 2.22.
Figura 2.22. Andamento del costo unitario per Q> Qt.

Nella figura è riportato l’andamento dei costi unitari (Cu), ricavi unitari (Ru) funzione
delle quantità di prodotto o volume di produzione (Q).

Dal diagramma si evince che l’utile raggiunge un valore massimo in corrispondenza


del volume di produzione Qt

Per Q > Qt il costo unitario aumenta fino a intersecare nuovamente la retta del
prezzo p. Le ascisse dei due punti di intersezione della retta del prezzo p con la curva
del costo unitario Ctu, sono i punti Q*1 e Q*2.

Il punto Q*1 è detto minimo tecnologico (relativo o assoluto) e rappresenta il


minimo volume di produzione per il quale si ha Rtu = Cu. Al di sotto di questa quantità
non conviene operare in quanto gli utili risultano minori di zero

(U<O).

Il punto Q*2 è detto massimo tecnologico ( relativo o assoluto) e rappresenta il


massimo volume di produzione per il quale si ha UU= 0. Per volumi di produzione
maggiori di Q*2 l’utile assume valori negativi. I punti Q*1 e Q*2 si definiscono relativi
se fanno riferimento all’assetto produttivo ipotizzato. Si definiscono assoluti se
invece fanno riferimento a tutte le possibili tipologie di impianto.
Si osservi che nel caso in cui la pendenza della retta dei ricavi (p) coincide con la
pendenza della retta dei costi variabili (b), il diagramma di redditività è del tipo
mostrato nella Figura 2.23.

La curva del costo unitario può assumere andamenti diversi rispetto a quello visibile
nella figura.

2.8 Margine di contribuzione

e margine lordo (MAC e MAL)

Il margine di contribuzione (MAC) rappresenta la parte dei ricavi di vendita che


consegue l’impresa a copertura dei costi fissi.

Il MAC è per definizione la differenza tra ricavi e costi variabili calcolata in


corrispondenza di un determinato volume di produzione:

MAC = R - Cv

Esplicitando i ricavi R e i costi variabili C è possibile scrivere:

Dividendo per il volume di produzione Q si ottiene:


La differenza tra il prezzo unitario di vendita e il costo variabile unitario rap—
presenta quindi il margine di contribuzione unitario.

Pertanto si può anche scrivere che:

Nella Figura 2.25 è rappresentato l’andamento dei costi totali Ct, dei ricavi R e

dei costi variabili Cv. L’area tratteggiata contenuta fra la retta dei ricavi R e

quella dei costi variabili Cv rappresenta il margine di contribuzione.

Figura 2.25. Rappresentazione del MAC.

Si vuole precisare che con il termine “margine” si indica in genere una differenza, in
questo caso la differenza tra i ricavi e i costi variabili relativi al singolo prodotto; il
termine “contribuzione” indica invece il contributo che il singolo prodotto dà per la
copertura dei costi fissi aziendali; il termine “unitario” sta a significare che è riferito
all’unità di prodotto. Il margine unitario di contribuzione non rappresenta un utile
per l’azienda. Esso diventa un utile unitario dopo che sono stati recuperati i costi
variabili, ovvero dopo il punto di pareggio Q*. Nella determinazione del MAC non si
tiene conto della natura dei costi (spese amministrative, costi di fabbricazione, spese
commerciali ecc.), ma solo della dipendenza (fissa o variabile) di questi dalla
produzione realizzata. Il MAC varia linearmente con i ricavi conseguiti.
Considerando gli utili U di un’azienda, è possibile rappresentare graficamente
l’andamento della retta degli utili in un piano (U,Q). Ricordando che l’espressione
dell’utile è:

esplicitando i ricavi e i costi variabili in funzione dei prezzi di vendita nonché dei
costi variabili unitari si ottiene:

Ricordando la definizione di margine di contribuzione unitario si può scrivere:

Tale espressione è l’equazione di una retta con coefficiente angolare pari a MACU, e
il cui valore interseca con l’asse delle y è pari a —CF. La rappresentazione di tale
retta è visibile nella Figura 2.26.

Figura 2.26. Rappresentazione grafica del margine di contribuzione in relazione agli


utili

Il termine (p — b) indica quindi la rapidità con cui cresce l’utile U. Pertanto al


crescere del margine di contribuzione unitario aumenta la pendenza della retta.
Nel diagramma di redditività, invece, l’apertura della forbice, costituita dalla retta
dei ricavi R e dalla retta dei costi totali CT, aumenta all’aumentare del margine di
contribuzione. Lo sviluppo dell’analisi CRQ può essere effettuato grazie a una
riclassificazione delle singole voci del conto economico rispetto alla forma
convenzionale. Tale riclassificazione è finalizzata a mettere maggiormente in
evidenza la differenza tra i costi fissi e quelli variabili. In questo caso si dice che i
costi sono suddivisi per andamento. Nella sua forma convenzionale, ovvero quella
comunemente riportata nel bilancio aziendale per tutti gli usi esterni, il conto
economico presenta i costi suddivisi per natura. In questo caso si definisce Margine
Lordo (MAL) la differenza tra i ricavi e i costi di fabbricazione del prodotto venduto.
Analiticamente, è dato dalla seguente relazione:

I costi di fabbricazione sono tutti quei costi legati alla trasformazione della materia
prima in prodotto finito. Un esempio di prospetto sul MAL è visibile nella Tabella
2.12.

Tabella 2.12. Esempio prospetto sul MAL.

2.9 Calcolo del punto di pareggio in termini monetari

Si ricorda che il punto di pareggio è quel volume di produzione Q* in corrispondenza


del quale è nullo l’utile U. Pertanto si può scrivere:
Esprimendo il volume di produzione in unità monetarie, il margine di contribuzione
può essere espresso come una frazione K del ricavo.

Ove

Ricordando l’espressione dell’utile U, il margine può anche essere espresso come:

Ma nel punto di pareggio Q*, essendo U = O , si avrà: MAC = CF

Ovvero è possibile scrivere: K x R = CF

Risolvendo tale equazione nell’incognita R si ottiene:

2.10 Diagramma di redditività in presenza dì due o più prodotti

Nella maggior parte dei casi la produzione di un’azienda non è concentrata su un


unico articolo, ma è diversificata su articoli diversi. Si prenda in considerazione
l’ipotesi di un’azienda che produce due beni X1 e X2, caratterizzati dal costo variabile
unitario rispettivamente pari a b1 e b2, e costi fissi di struttura pari a CF totali. Se i
prezzi di vendita risultano rispettivamente uguali a p1 e p2, la condizione di pareggio
può porsi uguale a:

quindi:

Tale espressione non è altro che la somma dei margini di contribuzione di ogni
prodotto al netto dei costi fissi.
Pertanto:
CFtotali p  2
Q1   Q2 2
p1  1 p1  1
Tale espressione rappresenta l’equazione di una retta da isoprofitto nullo. In
particolare (Fig. 2.27):
CFtotali
Q1 
( p1  b1 )

CFtotali
Q2 
( p2  b2 )

Figura 2.27. Diagramma di redditività in presenza di due o più prodotti.

A parità di prezzi e costi variabili unitari, le rette con isoprofitto positivo avranno la
stessa pendenza ma si troveranno a destra della retta con isoprofitto nullo.
Analogamente, le rette con isoprofitto negativo si troveranno a sinistra.

Nel caso in cui l’azienda realizza più di due prodotti, risulta impossibile ripetere
l’analisi precedente. In tal caso sono valide le seguenti ipotesi:

— i costi fissi sono riferiti a tutto il mix di produzione;


— i ricavi da considerare sono quelli totali;

— i costi variabili possono invece essere suddivisi tra i singoli prodotti.

Si consideri pertanto un’azienda che produce n prodotti nelle quantità:

Q1, Q2, Q3,………………………..Qn

I costi variabili unitari siano:

b1,b2,b3,……………………….bn

Mentre i prezzi di vendita saranno:

p1,p2,p3,…………………pn

L’utile dell’azienda può essere espresso mediante la relazione:


n n
U   pi  Qi   bi  Qi  CFtotale
i 1 i 1

Volendo esprimere l’utile in funzione del ricavo totale dell’azienda, occorrerà fare
altrettanto per i costi variabili. Pertanto, dividendo il valore del costovariabile totale
per il ricavo totale, si ottiene il valore del costo variabile totale per unità di ricavo
totale ovvero per euro di fatturato. Quindi:

b Q i i n n
btotale  i 1
n b Q i i  btotale   pi  Qi
 p Q
i 1
i i i 1 i 1

Pertanto l’espressione dell’utile risulta essere:

n
U  (1  btotale)   pi  Qi  CFtotale
i 1
Nel punto di pareggio l’utile risulta essere pari a zero. Pertanto è possibile scrivere:

n
U  (1  btotale)   pi  Qi  CFtotale  0
i 1

Pertanto, avendo indicato con:

n
R *
totale   pi  Qi
i 1

Si desume che:

CFtotale
*
Rtotale 
(1  btotale)
Pertanto, nel caso di più prodotti, il ricavo di pareggio R*totale è pari al rapporto tra i
costi fissi totali e il margine di contribuzione per unità di fatturato (1 — btotale)

2.11 Determinazione del volume ottimale di produzione

Si consideri un’azienda che lavora in regime di concorrenza perfetta, ovvero con


prezzo p di mercato costante e prefissato.
Figura 2.28. Determinazione del volume ottimale di produzione. Rappresentazione
del costo marginale.

Si consideri il diagramma di redditività della Figura 2.28, con:

Per determinare il volume ottimale di produzione si ricorre al metodo dell’analisi


marginale. Si consideri la funzione di costo totale di produzione:

Per determinare se i profitti aumentano o meno, occorre verificare se la produzione


di un’unità addizionale fa crescere i costi di più o di meno del prezzo. Si dimostra che
l’utile è massimo quando la variazione di costi corrispondenti all’aggiunta di un’unità
di prodotto è pari al ricavo aggiunto che si ottiene dalla sua vendita, ovvero quando
costo marginale = ricavo marginale.

In termini analitici il volume ottimale di produzione è da ricercare nel punto in cui U


= Umax

Pertanto:

Da cui si desume

Il livello più vantaggioso di produzione è quello per cui il costo marginale di


produzione risulta essere uguale al prezzo di mercato.

Graficamente, poiché al crescere delle dimensioni dell’impianto, per effetto delle


diseconomie di scala, i costi totali aumentano in maniera più che proporzionale, il
volume ottimale è quello per cui la pendenza della tangente alla curva dei costi
(costo marginale) è uguale alla pendenza della retta dei ricavi (prezzo unitario).

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