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INNOVAZIONE

Trasformazione digitale guidata


dalle scoperte
Sviluppate un nuovo modello di business attraverso l’apprendimento.

RITA MCGRATH E RYAN MCMANUS

MAGGIO 2020

Qual è la vostra strategia digitale? Questa banalissima domanda getta spesso nel
panico i CEO di aziende tradizionali. Sono convinti che le tecnologie e i modelli di
business digitali pongano una minaccia mortale al loro modo di operare – e
naturalmente hanno ragione. Ma la pressione che avvertono li spinge frequentemente a
fare mosse ad altissimo rischio che si rivelano quasi sempre avventate.
Da questo punto di vista Veon, un grande fornitore multinazionale di servizi di
telecomunicazioni, è un caso da manuale. Lo sviluppo della sua nuova piattaforma
digitale, introdotta nel 2017, era un progetto colossale che coinvolgeva cento dipendenti
ad Amsterdam e altri cento nella sede di Londra. L’idea era creare un’app mobile in
grado di offrire agli utilizzatori ricche esperienze localizzate e fungere da canale di
vendita per i partner commerciali di Veon (come Mastercard). Il management
considerava il progetto la sua priorità numero uno. Ma dopo un lancio in grande stile,
l’app ha ottenuto un’accoglienza tiepida da parte dei clienti e il tentativo di costruirvi
attorno un nuovo ecosistema è stato abbandonato. L’insuccesso ha prodotto un esodo
di manager, licenziamenti in massa e un riposizionamento strategico che ha relegato le
iniziative digitali a semplici progetti pilota.
Ma Veon ha ancora bisogno di un nuovo modello di business e chiaramente non può
permettersi di fare molti altri investimenti altrettanto ingenti per metterlo a punto.
Non deve nemmeno farlo. Il fatto che una minaccia sia colossale non implica
necessariamente che lo debba essere anche la risposta. Semmai, aziende come Veon
farebbero molto meglio ad adottare un approccio incrementale alla trasformazione nel
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corso del tempo. Anche se devono sempre sapere esattamente dove vogliono andare,
dovrebbero avvicinarsi alla meta cercando costantemente nuove opportunità per
digitalizzare processi problematici che rendono meno fluide le loro attività operative di
base. Quando affronteranno questi progetti, scopriranno quali indicatori usare, quali
assunti rivedere, dove possono introdurre nuovi modelli di business e quali potrebbero
essere i loro nuovi competitor. E man mano che recepiscono queste lezioni, la loro
concezione del panorama competitivo – e gli obiettivi di lungo termine che si danno –
cambieranno inevitabilmente.
C’è già un processo strutturato per facilitare questo approccio strategico che si basa
sull’apprendimento continuo: è il discovery-driven planning (DDP). Uno di noi due, Rita,
l’ha sviluppato insieme a Ian MacMillan negli anni Novanta come metodologia per
l’innovazione di prodotto; il DDP è poi stato incorporato nella strumentazione impiegata
da tutte le “lean start-up” per lanciare iniziative commerciali in un ambiente
contraddistinto da elevata incertezza. Si incentra su un processo a basso costo per
testare rapidamente le assumption su quello che funziona, ottenere nuove informazioni
e minimizzare i rischi.
In questo articolo spiegheremo come una forma adattata di DDP possa aiutare le
aziende consolidate ad affrontare sfide digitali e a sviluppare un nuovo modello di
business attraverso l’apprendimento. Cerchiamo anzitutto di capire un po’ meglio
perché per le aziende tradizionali una trasformazione graduale funziona meglio
dell’approccio “tutto o niente” che caratterizza la dinamica evolutiva di una start-up.

Il vantaggio incrementale delle aziende consolidate


Gli economisti si chiedono da sempre perché esistono le imprese e, a livello più
analitico, quali compiti rientrano tipicamente nel perimetro “istituzionale” di una
determinata azienda. Una linea di pensiero, inaugurata da Ronald Coase negli anni
Trenta, suggerisce che spesso, in certe condizioni, le transazioni di mercato non sono
soddisfacenti per gli individui: quando è difficile o costoso ottenere informazioni
riguardo a ciò che volete acquistare, quando è difficile stringere accordi vantaggiosi
perché le informazioni sono asimmetriche e quando applicare degli accordi è costoso o
problematico. Se si verifica anche una sola di queste tre condizioni, conviene
mantenere le attività coinvolte all’interno dell’azienda.
Fino a qualche tempo fa, i confini tra imprese e mercati erano chiari e relativamente
fissi. Ma le tecnologie digitali hanno cambiato tutto questo rendendo possibile l’uso dei
mercati per svolgere molte attività che un tempo si esercitavano più efficientemente
all’interno delle aziende. Piattaforme come Alibaba e Amazon hanno facilitato
enormemente l’esternalizzazione di funzioni come la selezione dei fornitori, la
negoziazione dei prezzi, l’esecuzione dei contratti, la gestione dei pagamenti e altro
ancora.

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Di conseguenza, i dirigenti di aziende che sono nate digitali hanno ipotesi di base su
come andrebbero strutturate le transazioni che sono totalmente diverse da quelle degli
executive di aziende tradizionali. Inoltre, poiché le strutture delle aziende digitali si
evolvono in continuazione, i loro manager rivedono frequentemente quelle assumption.
Le imprese che vendono direttamente ai consumatori (pensate a Casper nei materassi,
a Harry’s nei sistemi di rasatura e a Warby Parker negli occhiali) sperimentano
costantemente nuove caratteristiche come la spedizione gratuita, l’associazione di
prodotti, i bonus per acquisti addizionali e così via. Queste tattiche non sono
assolutamente disponibili a un’azienda tradizionale che vende tramite distributori. E
siccome tagliano fuori gli intermediari, le imprese digitali possono fare utili con una
dimensione organizzativa molto più ridotta. Una conseguenza primaria di tutto ciò è
che le start-up digitali possono cambiare direzione o invertire la rotta senza distruggere
molto valore. Di solito non sono ad alta intensità di capitale e non hanno organici
particolarmente numerosi. I fondatori di Rooted, per esempio, vendevano inizialmente
piante ai consumatori direttamente dal proprio appartamento e solo in una fase
successiva hanno aperto un magazzino e cominciato ad assumere personale. Per
queste aziende, l’insuccesso è relativamente poco costoso – a meno che non arrivi in
un secondo tempo (o che gli investitori non si adeguino al mantra “crescita a tutti i
costi” che sta distruggendo le fortune di molti dei cosiddetti “unicorni”).
Dipendenti, manager e azionisti di aziende tradizionali, tuttavia, non possono cambiare
direzione senza distruggere valore. Se le loro scommesse digitali falliscono, i lavoratori
perdono il posto e gli asset fisici si devono liquidare a prezzi stracciati. E
diversamente dai venture capitalist che finanziano le start-up, gli investitori di quella
che un tempo era un’azienda sicura potrebbero non avere il cuscinetto di protezione
offerto da investimenti ad alto rendimento per compensare le perdite subite.
Ma anche se le aziende incumbent non possono invertire facilmente la rotta strategica,
la buona notizia è che non sono obbligate a farlo. Pensate a ciò che possono fare le
grandi aziende, diversamente dalle start-up. Le piccole imprese neo-costituite
sfruttano quasi sempre una sola idea. Di solito non sono in grado di sperimentare
contestualmente più versioni della stessa idea, e tantomeno diverse idee alternative.
Una grande azienda, per contro, ha le risorse che le permettono di esplorare una varietà
di idee e può sperimentare più facilmente vari processi e vari approcci operativi, il che
rende più probabile la scoperta di un modello dominante rispetto a quanto non
potrebbe fare una start-up. Ciò le dà anche maggiori probabilità di reagire
efficacemente a una sfida digitale.
Prendete il caso del distributore tedesco di metalli Klöckner. Il suo CEO, Gisbert Rühl,
voleva costruire una piattaforma digitale per l’intero settore – ma non ha sponsorizzato
lo sforzo colossale che occorreva per crearla. Il suo obiettivo, invece, era costruire
gradualmente competenze digitali, sfruttando nel contempo le conoscenze e le
intuizioni di coloro che lavorano nel core business dell’azienda – la commercializzazione
dell’acciaio. Per i primi due anni, Rühl si è concentrato sulla digitalizzazione di processi
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manuali inefficienti; l’azienda ha creato un negozio virtuale, un portale per i contratti,
strumenti per la trasparenza degli ordini e un’app per la gestione dei componenti. Con
questa iniziativa ha appreso abbastanza da creare una piattaforma su cui poteva
interagire senza intoppi con i clienti.
La vicenda di Klöckner mette in luce in altro vantaggio che possiedono le aziende
consolidate, quantomeno nelle fasi iniziali di adozione dei modelli digitali da parte di un
settore. Sono guidate da persone che conoscono già i loro clienti e possono passare al
setaccio ricchi database di transazioni per ricavarne preziose indicazioni. Le start-up
sono guidate spesso da esperti tecnici e tendono a dipendere da una nuova
funzionalità tecnica anziché dall’intero portafoglio di ciò che ricercano i clienti. Se
mettete al lavoro un team di persone che conoscono i clienti, avrete maggiori
probabilità di far rendere il vostro investimento digitale. Ecco perché Klöckner
pretendeva che tutti i progetti si focalizzassero sul tentativo di far comunicare i clienti
più facilmente e più efficientemente con l’azienda. Non è l’unico obiettivo da fissare,
naturalmente. Un’altra azienda potrebbe darsi la priorità di abbreviare il tempo che ci
vuole per rispondere alla richiesta di un cliente. Ma quale che sia l’obiettivo, esso
dovrebbe presentare la tecnologia come un’opportunità per il business, anziché il
business come un’opportunità per la tecnologia.
Nel momento in cui accettate l’idea che le imprese dovrebbero mirare a disgregare in
modo non disgregante, l’interrogativo strategico si trasforma impercettibilmente da
“Quale nuovo modello di business dovremmo supportare?” nel più sfumato “Come
possiamo sviluppare attraverso l’apprendimento un modello che vada bene per la
nostra azienda?” È qui che entra in gioco il DDP.

Il contesto digitale
Il DDP assomiglia un po’ al reverse engineering. Quando lo usate nello sviluppo
prodotto, prima immaginate l’offerta che volete creare e poi cercate di capire cosa
dovreste modi care per arrivare a quel traguardo. Ma quando lo applicate alle
trasformazioni digitali, l’obiettivo primario è reinventare il modo in cui vendete e
distribuite i prodotti che fabbricate già, oltre a stabilire come creare e fornire nuovo
valore tramite nuove capacità digitali.
Prendete per esempio la generazione di corrente elettrica. Le tecnologie digitali stanno
disgregando questo settore un tempo stabile, come stanno facendo con tanti altri. In
passato, l’energia elettrica veniva generata da una fonte centrale e distribuita su una
rete gestita centralmente. Ma i nuovi progressi hanno permesso di distribuire
dinamicamente l’energia generata da piccoli produttori sparsi su tutto il territorio che
sfruttano più fonti di approvvigionamento. Chi ha pannelli solari sul tetto o pale eoliche
in giardino può rivendere alla rete il surplus di corrente, il che rende più sostenibile
l’investimento effettuato dal nucleo familiare nell’hardware di produzione dell’energia e
riduce la dipendenza generalizzata da enormi centrali alimentate da combustibili fossili.
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Se gli incumbent danno per scontato che il vecchio modello di business porti al
successo, tendono a commettere grossi errori. La scommessa perduta da General
Electric sul costante predominio delle centrali elettriche a combustibili fossili è un
esempio che fa riflettere.
Vediamo cosa significa concretamente applicare un approccio DDP alle trasformazioni
digitali. È un processo in cinque fasi:

1. Definite l’esperienza operativa: non basta investire nel digitale


Prima di investire in una linea di codifica, stabilite esattamente cosa non funziona nella
vostra operatività. Dove avete bisogno di effettuare frequenti riaggiustamenti o dovete
bloccare inaspettatamente un processo per acquisire maggiori informazioni o
coinvolgere un’altra persona? Probabilmente queste sono aree che si possono
migliorare con la digitalizzazione. Poi chiedetevi come riprogettare le vostre operations
in modo che la tecnologia aggiunga valore, rendendo offerte e processi migliori, più
rapidi, meno costosi o più facilmente accessibili.
La catena di distribuzione al dettaglio Best Buy è un incumbent che ha saputo
riconfigurare la propria operatività commerciale creando vantaggi competitivi che i
player puramente digitali non erano in grado di riprodurre. Nel 2010, Amazon ha lanciato
la sua app di comparazione dei prezzi, uno dei tanti strumenti che consentivano agli
acquirenti di esaminare i prodotti in un negozio fisico ma di ordinare gli stessi articoli in
un discount virtuale. Denominata “showrooming”, quella nuova pratica minacciava di
togliere linfa vitale alle catene di distribuzione al dettaglio, che non erano in grado di
offrire prezzi competitivi dovendo pagare l’affitto dei locali, il personale e le scorte di
magazzino. Era una delle ragioni per cui Best Buy ha perso 1,7 miliardi di dollari in un
solo trimestre del 2012.
Hubert Joly, il CEO assunto per ristrutturare l’azienda, ha incentrato la propria strategia
(e il suo modello di business) sulla soluzione di due problemi: vendite comparabili
negative e margini operativi in calo. A questo scopo, ha concepito un’azienda in grado
di combinare l’elemento umano, l’elemento digitale e l’elemento fisico con modalità
che i player online avrebbero fatto fatica a emulare. Si è domandato per prima cosa che
tipodi esperienza avrebbe potuto fornire Best Buy, e soprattutto, si è preoccupato di
stabilire dove non aveva sfruttato le tecnologie digitali per creare quella esperienza.
È nato così il progetto Renew Blue di Best Buy, che aveva cinque componenti:
un’esperienza più soddisfacente per i clienti; un cambiamento nelle partnership con i
venditori; investimenti in iniziative ecologiche e sociali; l’esperienza dei dipendenti; e un
ritorno per gli investitori. Sono stati prefissati target finanziari ed esperimenti per
ciascuna componente.

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Per migliorare l’esperienza dei dipendenti, Best Buy ha lanciato iniziative focalizzate sul
morale della forza lavoro, come riattivare un apprezzato sconto che era stato abolito e
investire di più in formazione. Per attrarre i clienti, l’azienda ha iniziato a eguagliare i
prezzi di Amazon e di altri operatori dell’e-commerce, il che ha richiesto un grandissimo
sforzo di riprogettazione del magazzino, del software e delle attività logistiche di Best
Buy. Ma potendo uscire dai punti vendita con i prodotti, i clienti potevano evitare
l’attesa e gli inconvenienti (come la sottrazione dei pacchi lasciati davanti alla porta di
casa) che si accompagnavano alla consegna a domicilio di prodotti costosi, ciò dava a
Best Buy un vantaggio competitivo importante. L’azienda ha creato anche un sistema
tramite il quale i clienti potevano ordinare gli articoli online per farseli recapitare a casa
o ritirarli presso il punto vendita. Poiché il 70% degli americani vivono nel raggio di 15
miglia da un Best Buy, questo approccio si è rivelato estremamente efficiente sul piano
dei costi.
Il nuovo modello adottato da Best Buy ha trasformato lo svantaggio dei costosi punti
vendita fisici in un vantaggio. Nei suoi più di mille grandi spazi commerciali, brand come
Apple, Samsung e Microsoft hanno creato “negozi nei negozi”, pagando in buona
sostanza un affitto per esporre le proprie offerte dove i clienti possono vederle e
sperimentarle di persona. Best Buy è un partner neutrale per dei colossi dell’alta
tecnologia che si fanno la guerra; gli arcinemici Amazon e Google vendono entrambi i
loro prodotto nei suoi negozi.
In fine, Best Buy ha investito in un servizio di consulenza a casa tramite il quale
consulenti perfettamente addestrati si recano dai clienti e forniscono loro assistenza
senza vendere alcunché. L’obiettivo è solo quello di stringere rapporti più stretti con i
consumatori. Grazie a tutto questo, Best Buy ha trasformato costantemente la propria
impronta digitale a supporto della strategia.
Il caso Best Buy dimostra quanto sia importante essere disposti a ripensare le proprie
assumption su come usare gli asset e su come interagire con i partner. I leader
precedenti dell’azienda non erano stati in grado di trovare un modo per competere sul
prezzo con i rivenditori online. Ma avendo messo in discussione il pensiero
convenzionale, Joly ha spinto l’azienda a re-immaginare i rapporti con i venditori (che
adesso pagano per essere presenti nei punti vendita di Best Buy) e a riprogettare la sua
supply chain in modo che gli asset fisici possano supportare un nuovo modello di
business per competere con i giganti dell’e-commerce.

2. Concentratevi su problemi specifici: identificate risultati e parametri


dirilevazione dei progressi compiuti.
L’interrogativo da porsi prima di avviare qualunque strategia di trasformazione digitale
è: “Come possiamo usare dati e capacità digitali in modo da creare nuovo valore per i
nostri clienti?” Il processo DDP traduce quella sfida in chiari obiettivi di progetto.

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Un parametro di successo dei nuovi progetti, ancora oggi, è il ritorno sull’investimento.
Ma il ROI non vi aiuta a capire quale valore crea un progetto per i clienti, quantomeno
non direttamente. Inoltre, per calcolarlo, dovete stimare sia gli investimenti sia i ritorni,
ossia precisamente ciò di cui non avete ancora idea. Quello che dovete fare invece è
identificare dei parametri più strettamente legati ai miglioramenti specifici che vi
aspettate dalle iniziative digitali.
Noi raccogliamo tipicamente tutte queste informazioni in una tabella riassuntiva “from-
to”, che identifica un problema, descrive i benefici che produrrebbe una soluzione e
propone un modo per misurare i progressi ottenuti con quella soluzione. (Per un
esempio, si veda il box “Affrontare gradualmente un grosso cambiamento”). Mentre
lavorate alla soluzione di questi problemi, metterete alla prova e affinerete le vostre
ipotesi di partenza – un passaggio fondamentale del DDP. Potete anche stabilire
quanto avete speso per acquisire nuove indicazioni e quanto vi hanno fatto risparmiare.
Alla fine, potete ritrovarvi con qualcosa di molto simile al calcolo del ROI.
In Klöckner, l’obiettivo di fondo era cambiare il modello di business nella
commercializzazione dell’acciaio, dal mark-up sulle scorte di magazzino a un modello
incentrato sulla fornitura di servizi. All’inizio, le iniziative digitali erano semplici e si
focalizzavano sul miglioramento del processo di gestione degli ordini – sostituendo, per
esempio, l’invio per fax con un portale online. Grazie a ognuna di esse, la performance
dell’azienda su indicatori come la rotazione del magazzino e il numero di fasi
necessarie per evadere un ordine è migliorata. Man mano che l’azienda acquisiva più
conoscenze e più capacità, i suoi progetti diventavano più ambiziosi.
Naturalmente, dovete avere ancora un modo per misurare i progressi compiuti sulla
trasformazione digitale nel suo complesso, e a questo scopo vi suggeriamo un
indicatore che chiamiamo return on time invested (ROTI). Per calcolarlo, basta dividere il
ricavo totale per dollari il numero dei dipendenti. L’idea è che investimenti tecnologici di
successo dovrebbero consentirvi di fare di più con meno persone. Per esempio, noi
abbiamo usato i dati del rapporto annuale 2018 per confrontare Amazon (un’azienda
nata digitale) con Walmart (un’azienda tradizionale). Abbiamo scoperto così che Amazon
aveva un fatturato netto di 232,9 miliardi di dollari e 647.500 dipendenti inclusi i part-
timer. Di conseguenza il suo fatturato per addetto era di 359.671 dollari. Per contro,
Walmart aveva un fatturato netto di 459,8 miliardi di dollari e 2,3 milioni di dipendenti,
con un fatturato pro capite di 215.548 dollari. Dunque, Amazon poteva vantare una
performance per addetto superiore del 67%.

3. Identi cate i vostri concorrenti: usate criteri di valutazione estensivi


I confini tra i settori sono diventati così labili che i codici di classificazione standard
(SIC)sono ormai pressoché inutili. È già una ragione per cui gli approcci tradizionali alla
definizione della strategia, che si basavano su confini relativamente rigidi,
stanno mettendo fuori strada gli incumbent.
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Noi suggeriamo invece ai leader di vedere l’ambito competitivo non come un mercato in
cui player simili offrono prodotti e servizi in concorrenza tra loro, ma come una “arena”
nell’accezione del termine che usano gli strateghi. L’arena viene definita da un bisogno
dei clienti, quello che Clay Christensen ha definito “il lavoro da svolgere”. È un concetto
che risale a Ted Levitt, che raccomandava alle compagnie ferroviarie di considerarsi
aziende di trasporto in competizioni con compagnie aeree, linee di autobus, camion e
persino automobili. Se i passeggeri delle ferrovie formano un mercato, gli utilizzatori dei
mezzi di trasporto formano un’arena.
Le aziende native digitali più avvedute ragionano in questo modo. Per esempio, Netflix
ha detto molto chiaramente che non intende competere solo con la televisione o con il
cinema sul tempo degli spettatori. Intende competere con tutte le possibili forme di
utilizzo del tempo libero alternative alla visione di contenuti in streaming. Considera
naturalmente suoi rivali le aziende tradizionali dei media, ma per il suo gruppo dirigente
l’arena competitiva si estende anche alle riviste, ai libri, ai podcast e agli eventi sportivi.
In questa fase del processo, dovete tornare indietro e stabilire se i risultati e i parametri
di successo che avete definito nelle fasi uno e due sono ragionevoli, tenuto conto
dell’arena in cui competete. Il vostro business specifico sta cedendo per esempio
fatturato ad altri competitor della stessa arena, o tiene ancora bene? Netflix ha molto
spazio per raggiungere i suoi obiettivi di crescita, perché le ore totali di fruizione dei
video sono in costante aumento e una grossa parte di esse sono dedicate ai video in
streaming.

4. Cercate delle piattaforme: non dimenticatevi delle implicazioni per


l’ecosistema
Nell’economia digitale, tentare di diventare un intermediario tramite il quale altri
acquistano e vendono prodotti è una strategia estremamente diffusa. È un modello di
business attraente, perché nel momento in cui le due parti che si incontrano in un
mercato vanno su una piattaforma, non hanno più nessun interesse a spostarsi su
un’altra. Ciò si deve in parte agli effetti network, in base ai quali il valore della
piattaforma aumenta per ognuno dei partecipanti man mano che aumenta il numero
dei suoi utilizzatori. Airbnb, per esempio, si rafforza ulteriormente quanto più lo usano
locatori e locatari temporanei, e ha sempre fatto di tutto per assicurarsi la fedeltà sia
degli uni sia degli altri.
La piattaforma è attraente anche perché ha meno bisogno di capitale. Per gestire un
albergo tradizionale servono un immobile, stanze da tenere pulite e in ordine, sistemi di
prenotazione, personale e così via. Airbnb, per contro, sfrutta un ecosistema di
proprietari di case per mettere a disposizione tutte queste cose, e le attività che
controlla direttamente sono solo mettere in relazione ospiti e ospitanti e garantire le
transazioni – attività che si svolgono interamente sul cloud e quindi sono scalabili
all’infinito.
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Per capire se esiste un’opportunità sulla piattaforma, noi usiamo uno strumento che
definiamo catena di consumo del cliente (presentata per la prima volta su HBR nel
1997). L’idea è semplice: quando tentano di fare certi lavori, i clienti passano attraverso
una serie di esperienze che partono dalla consapevolezza di un bisogno, a cui subentra
il tentativo di soddisfare quel bisogno per poi arrivare alla conclusione di un servizio o
alla fine della vita utile di un prodotto.
Potrebbe sembrare una cattiva notizia per le organizzazioni tradizionali che però hanno
un asso nella manica: danno lavoro a tante persone che hanno una profonda expertise
tecnica o conoscono i problemi dei clienti. Quelle capacità possono fornire loro un
vantaggio competitivo nell’identificazione di opportunità come quelle offerte dalle
piattaforme, e nella costruzione di ecosistemi. In Klöckner, Rühl si è reso conto che nel
momento in cui ci fosse stata trasparenza sui prezzi – e molto meno attrito – nel
commercio dei metalli, il vantaggio competitivo sarebbe andato ai fornitori in grado di
offrire soluzioni e servizi superiori.
L’azienda ha combinato le nuove modalità di azione sulle piattaforme (co-creando per
esempio nuove forme di collaborazione con i clienti) della propria divisione digitale
con la profonda expertise della sua forza lavoro (mettiamo, nella produzione al laser in
3-D)per sviluppare offerte a più alto valore aggiunto per i clienti.
Mettere in piedi una piattaforma popolare non è facile per le grandi imprese. Il
panorama competitivo è pieno di piattaforme ambiziose che sono fallite pur avendo in
apparenza tutte le componenti giuste. L’iniziativa Predix di General Electric, che
avrebbe dovuto essere nelle intenzioni dell’azienda l’Internet delle cose a livello
industriale, è un esempio illuminante. Invece di guidare la digitalizzazione di servizi che i
clienti avrebbero dovuto apprezzare, Predix ha finito per servire principalmente – e in
gran numero - unità interne di GE. Inoltre, facendo parte di GE Digital, l’iniziativa aveva
anche la responsabilità di un conto economico, il che la orientava forzatamente verso
clienti che nel frattempo potevano pagare delle fatture. Ed è andata a regime
decisamente troppo presto, anziché trovare prima il contesto giusto per l’utilizzo delle
sue capacità e poi perseguire una crescita graduale.

5. Mettete alla prova le vostre assumption: gli insuccessi sono anche occasioni
di apprendimento
Uno degli strumenti più popolari che offre il DDP è la tabella di verifica progressiva
delle ipotesi di partenza. Per crearne una, mettete semplicemente per iscritto i
prossimi traguardi intermedi che dovrà attraversare il vostro progetto, le assumption
da mettere alla prova a ciascun traguardo e se possibile anche il costo atteso di quel
test. Il bello diquesto approccio è che sposta la conversazione da “Avete sbagliato, è
stato un insuccesso” a “Valeva la pena di pagare quel prezzo per imparare quello che
dovevamo imparare?”

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Vediamo ora come ha fatto Buffer, un servizio che permette agli utilizzatori di
scaglionare le promozioni sui social media senza dover prestabilire la tempistica, ha
testato le ipotesi di partenza nella fase di lancio. Joel Gascoigne, cofondatore di Buffer,
ha avuto quell’idea imprenditoriale dalla frustrazione che provava per non riuscire a
twittare più costantemente.
La prima ipotesi di lavoro che voleva testare era il livello di percezione del problema.
Così ha costruito un sito semplicissimo, di due sole pagine web. Il messaggio della
prima pagina era “Tweet More Consistently with Buffer”. Se gli utenti ci cliccavano
sopra, si ritrovavano nella seconda pagina. Sotto il titolo “Hello,You’ve Caught Us Before
We’re Ready” c’era uno spazio in cui potevano digitare il proprio indirizzo e-mail se
erano interessati alla soluzione proposta da Buffer. La maggior parte dei visitatori non
loerano, ma alcuni sì. Perciò Gascoigne ha inserito una terza pagina tra le altre due per
mettere alla prova varie opzioni di pricing.
Poi ha dovuto stabilire quanto renderla complessa e a quanti social media applicarla.
Alla fine, ha deciso di lasciarla estremamente semplice e di supportare inizialmente solo
Twitter. Nel 2018, Buffer aveva oltre 1,4 milioni di social account connessi alle sue app.
Molte grandi aziende hanno adottato un approccio analogo di sperimentazione
finalizzata all’apprendimento. Parecchi nuovi servizi facilitano la sperimentazione – per
esempio Alpha, i cui abbonati lo usano per ottenere dai potenziali clienti un feedback
veloce sui prodotti prima di prendere decisioni costose o irreversibili. In WellMatch, una
business unit di Aetna, la sperimentazione ha contribuito a risolvere dissensi sulle
decisioni in tema di progettazione dei prodotti e della comunicazione. Come spiega
Etugo Nwokah, l’ex chief product officer, un’area di dissenso riguardava il sito web: tutti i
gruppi della B.U. volevano fare apparire i propri contenuti sulla pagina di accesso. La
landing page sperimentale era così ridondante da confondere i consumatori. L’azienda
ha dovuto rimettersi a tavolino per riprogettarla da capo – ma l’ha potuto fare a un
costo molto più basso e con molto meno rischio che se quella pagina di accesso fosse
stata lanciata realmente.

Il risultato
La trasformazione digitale è complessa e richiede nuovi approcci alla strategia. Partire
in grande, spendere tanto e dare per scontato di avere tutte le informazioni vuol dire
quasi certamente scatenare gli anticorpi aziendali – dall’avversione al rischio al
risentimento verso il vostro progetto, alla banale resistenza al cambiamento.
Un approccio guidato dalle scoperte consente ai leader di superare le barriere che
ostacolano più comunemente la trasformazione digitale. Partendo in piccolo,
spendendo poco in un portafoglio continuativo di esperimenti e imparando molto,
potete procurarvi sostenitori iniziali e utilizzatori iniziali. Agendo rapidamente e
dimostrando un chiaro impatto sugli indicatori di performance finanziaria, potete poi
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legittimare lo sviluppo di una strategia digitale tramite l’apprendimento. Potete usare i
vostri progetti di digitalizzazione anche per avviare una trasformazione organizzativa.
Man mano che si abitueranno alle comunicazioni e alle attività orizzontali che vengono
facilitate dalle tecnologie digitali, le persone adotteranno anche nuove modalità di
lavoro.
Le aziende tradizionali hanno dei grossi vantaggi sui nuovi competitor: clienti che
pagano, risorse finanziarie, dati sulla clientela e sul mercato, e una maggior disponibilità
di talenti. Ma i CEO dovranno infondere agilità e innovazione nelle proprie organizzazioni
e comunicare le nuove modalità del pensiero digitale minimizzando nel contempo la
disgregazione dei business in essere. Un approccio guidato dalle scoperte permette di
affrontare queste sfide.

Rita McGrath, storica docente della Columbia Business School, è uno dei maggiori
esperti mondiali di strategia in ambienti incerti e instabili. Il suo ultimo libro è Seeing
Around Corners (2019). Ryan McManus è il CEO di Techtonic.io e un’autorità globale
sull’applicazione della tecnologia digitale ai modelli di business, alla trasformazione e
agli ecosistemi. Fa parte di numerosi consigli di amministrazione e tiene conferenze alla
Columbia Business School.

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