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MAGGIO 2020
Qual è la vostra strategia digitale? Questa banalissima domanda getta spesso nel
panico i CEO di aziende tradizionali. Sono convinti che le tecnologie e i modelli di
business digitali pongano una minaccia mortale al loro modo di operare – e
naturalmente hanno ragione. Ma la pressione che avvertono li spinge frequentemente a
fare mosse ad altissimo rischio che si rivelano quasi sempre avventate.
Da questo punto di vista Veon, un grande fornitore multinazionale di servizi di
telecomunicazioni, è un caso da manuale. Lo sviluppo della sua nuova piattaforma
digitale, introdotta nel 2017, era un progetto colossale che coinvolgeva cento dipendenti
ad Amsterdam e altri cento nella sede di Londra. L’idea era creare un’app mobile in
grado di offrire agli utilizzatori ricche esperienze localizzate e fungere da canale di
vendita per i partner commerciali di Veon (come Mastercard). Il management
considerava il progetto la sua priorità numero uno. Ma dopo un lancio in grande stile,
l’app ha ottenuto un’accoglienza tiepida da parte dei clienti e il tentativo di costruirvi
attorno un nuovo ecosistema è stato abbandonato. L’insuccesso ha prodotto un esodo
di manager, licenziamenti in massa e un riposizionamento strategico che ha relegato le
iniziative digitali a semplici progetti pilota.
Ma Veon ha ancora bisogno di un nuovo modello di business e chiaramente non può
permettersi di fare molti altri investimenti altrettanto ingenti per metterlo a punto.
Non deve nemmeno farlo. Il fatto che una minaccia sia colossale non implica
necessariamente che lo debba essere anche la risposta. Semmai, aziende come Veon
farebbero molto meglio ad adottare un approccio incrementale alla trasformazione nel
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corso del tempo. Anche se devono sempre sapere esattamente dove vogliono andare,
dovrebbero avvicinarsi alla meta cercando costantemente nuove opportunità per
digitalizzare processi problematici che rendono meno fluide le loro attività operative di
base. Quando affronteranno questi progetti, scopriranno quali indicatori usare, quali
assunti rivedere, dove possono introdurre nuovi modelli di business e quali potrebbero
essere i loro nuovi competitor. E man mano che recepiscono queste lezioni, la loro
concezione del panorama competitivo – e gli obiettivi di lungo termine che si danno –
cambieranno inevitabilmente.
C’è già un processo strutturato per facilitare questo approccio strategico che si basa
sull’apprendimento continuo: è il discovery-driven planning (DDP). Uno di noi due, Rita,
l’ha sviluppato insieme a Ian MacMillan negli anni Novanta come metodologia per
l’innovazione di prodotto; il DDP è poi stato incorporato nella strumentazione impiegata
da tutte le “lean start-up” per lanciare iniziative commerciali in un ambiente
contraddistinto da elevata incertezza. Si incentra su un processo a basso costo per
testare rapidamente le assumption su quello che funziona, ottenere nuove informazioni
e minimizzare i rischi.
In questo articolo spiegheremo come una forma adattata di DDP possa aiutare le
aziende consolidate ad affrontare sfide digitali e a sviluppare un nuovo modello di
business attraverso l’apprendimento. Cerchiamo anzitutto di capire un po’ meglio
perché per le aziende tradizionali una trasformazione graduale funziona meglio
dell’approccio “tutto o niente” che caratterizza la dinamica evolutiva di una start-up.
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Di conseguenza, i dirigenti di aziende che sono nate digitali hanno ipotesi di base su
come andrebbero strutturate le transazioni che sono totalmente diverse da quelle degli
executive di aziende tradizionali. Inoltre, poiché le strutture delle aziende digitali si
evolvono in continuazione, i loro manager rivedono frequentemente quelle assumption.
Le imprese che vendono direttamente ai consumatori (pensate a Casper nei materassi,
a Harry’s nei sistemi di rasatura e a Warby Parker negli occhiali) sperimentano
costantemente nuove caratteristiche come la spedizione gratuita, l’associazione di
prodotti, i bonus per acquisti addizionali e così via. Queste tattiche non sono
assolutamente disponibili a un’azienda tradizionale che vende tramite distributori. E
siccome tagliano fuori gli intermediari, le imprese digitali possono fare utili con una
dimensione organizzativa molto più ridotta. Una conseguenza primaria di tutto ciò è
che le start-up digitali possono cambiare direzione o invertire la rotta senza distruggere
molto valore. Di solito non sono ad alta intensità di capitale e non hanno organici
particolarmente numerosi. I fondatori di Rooted, per esempio, vendevano inizialmente
piante ai consumatori direttamente dal proprio appartamento e solo in una fase
successiva hanno aperto un magazzino e cominciato ad assumere personale. Per
queste aziende, l’insuccesso è relativamente poco costoso – a meno che non arrivi in
un secondo tempo (o che gli investitori non si adeguino al mantra “crescita a tutti i
costi” che sta distruggendo le fortune di molti dei cosiddetti “unicorni”).
Dipendenti, manager e azionisti di aziende tradizionali, tuttavia, non possono cambiare
direzione senza distruggere valore. Se le loro scommesse digitali falliscono, i lavoratori
perdono il posto e gli asset fisici si devono liquidare a prezzi stracciati. E
diversamente dai venture capitalist che finanziano le start-up, gli investitori di quella
che un tempo era un’azienda sicura potrebbero non avere il cuscinetto di protezione
offerto da investimenti ad alto rendimento per compensare le perdite subite.
Ma anche se le aziende incumbent non possono invertire facilmente la rotta strategica,
la buona notizia è che non sono obbligate a farlo. Pensate a ciò che possono fare le
grandi aziende, diversamente dalle start-up. Le piccole imprese neo-costituite
sfruttano quasi sempre una sola idea. Di solito non sono in grado di sperimentare
contestualmente più versioni della stessa idea, e tantomeno diverse idee alternative.
Una grande azienda, per contro, ha le risorse che le permettono di esplorare una varietà
di idee e può sperimentare più facilmente vari processi e vari approcci operativi, il che
rende più probabile la scoperta di un modello dominante rispetto a quanto non
potrebbe fare una start-up. Ciò le dà anche maggiori probabilità di reagire
efficacemente a una sfida digitale.
Prendete il caso del distributore tedesco di metalli Klöckner. Il suo CEO, Gisbert Rühl,
voleva costruire una piattaforma digitale per l’intero settore – ma non ha sponsorizzato
lo sforzo colossale che occorreva per crearla. Il suo obiettivo, invece, era costruire
gradualmente competenze digitali, sfruttando nel contempo le conoscenze e le
intuizioni di coloro che lavorano nel core business dell’azienda – la commercializzazione
dell’acciaio. Per i primi due anni, Rühl si è concentrato sulla digitalizzazione di processi
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manuali inefficienti; l’azienda ha creato un negozio virtuale, un portale per i contratti,
strumenti per la trasparenza degli ordini e un’app per la gestione dei componenti. Con
questa iniziativa ha appreso abbastanza da creare una piattaforma su cui poteva
interagire senza intoppi con i clienti.
La vicenda di Klöckner mette in luce in altro vantaggio che possiedono le aziende
consolidate, quantomeno nelle fasi iniziali di adozione dei modelli digitali da parte di un
settore. Sono guidate da persone che conoscono già i loro clienti e possono passare al
setaccio ricchi database di transazioni per ricavarne preziose indicazioni. Le start-up
sono guidate spesso da esperti tecnici e tendono a dipendere da una nuova
funzionalità tecnica anziché dall’intero portafoglio di ciò che ricercano i clienti. Se
mettete al lavoro un team di persone che conoscono i clienti, avrete maggiori
probabilità di far rendere il vostro investimento digitale. Ecco perché Klöckner
pretendeva che tutti i progetti si focalizzassero sul tentativo di far comunicare i clienti
più facilmente e più efficientemente con l’azienda. Non è l’unico obiettivo da fissare,
naturalmente. Un’altra azienda potrebbe darsi la priorità di abbreviare il tempo che ci
vuole per rispondere alla richiesta di un cliente. Ma quale che sia l’obiettivo, esso
dovrebbe presentare la tecnologia come un’opportunità per il business, anziché il
business come un’opportunità per la tecnologia.
Nel momento in cui accettate l’idea che le imprese dovrebbero mirare a disgregare in
modo non disgregante, l’interrogativo strategico si trasforma impercettibilmente da
“Quale nuovo modello di business dovremmo supportare?” nel più sfumato “Come
possiamo sviluppare attraverso l’apprendimento un modello che vada bene per la
nostra azienda?” È qui che entra in gioco il DDP.
Il contesto digitale
Il DDP assomiglia un po’ al reverse engineering. Quando lo usate nello sviluppo
prodotto, prima immaginate l’offerta che volete creare e poi cercate di capire cosa
dovreste modi care per arrivare a quel traguardo. Ma quando lo applicate alle
trasformazioni digitali, l’obiettivo primario è reinventare il modo in cui vendete e
distribuite i prodotti che fabbricate già, oltre a stabilire come creare e fornire nuovo
valore tramite nuove capacità digitali.
Prendete per esempio la generazione di corrente elettrica. Le tecnologie digitali stanno
disgregando questo settore un tempo stabile, come stanno facendo con tanti altri. In
passato, l’energia elettrica veniva generata da una fonte centrale e distribuita su una
rete gestita centralmente. Ma i nuovi progressi hanno permesso di distribuire
dinamicamente l’energia generata da piccoli produttori sparsi su tutto il territorio che
sfruttano più fonti di approvvigionamento. Chi ha pannelli solari sul tetto o pale eoliche
in giardino può rivendere alla rete il surplus di corrente, il che rende più sostenibile
l’investimento effettuato dal nucleo familiare nell’hardware di produzione dell’energia e
riduce la dipendenza generalizzata da enormi centrali alimentate da combustibili fossili.
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Se gli incumbent danno per scontato che il vecchio modello di business porti al
successo, tendono a commettere grossi errori. La scommessa perduta da General
Electric sul costante predominio delle centrali elettriche a combustibili fossili è un
esempio che fa riflettere.
Vediamo cosa significa concretamente applicare un approccio DDP alle trasformazioni
digitali. È un processo in cinque fasi:
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Per migliorare l’esperienza dei dipendenti, Best Buy ha lanciato iniziative focalizzate sul
morale della forza lavoro, come riattivare un apprezzato sconto che era stato abolito e
investire di più in formazione. Per attrarre i clienti, l’azienda ha iniziato a eguagliare i
prezzi di Amazon e di altri operatori dell’e-commerce, il che ha richiesto un grandissimo
sforzo di riprogettazione del magazzino, del software e delle attività logistiche di Best
Buy. Ma potendo uscire dai punti vendita con i prodotti, i clienti potevano evitare
l’attesa e gli inconvenienti (come la sottrazione dei pacchi lasciati davanti alla porta di
casa) che si accompagnavano alla consegna a domicilio di prodotti costosi, ciò dava a
Best Buy un vantaggio competitivo importante. L’azienda ha creato anche un sistema
tramite il quale i clienti potevano ordinare gli articoli online per farseli recapitare a casa
o ritirarli presso il punto vendita. Poiché il 70% degli americani vivono nel raggio di 15
miglia da un Best Buy, questo approccio si è rivelato estremamente efficiente sul piano
dei costi.
Il nuovo modello adottato da Best Buy ha trasformato lo svantaggio dei costosi punti
vendita fisici in un vantaggio. Nei suoi più di mille grandi spazi commerciali, brand come
Apple, Samsung e Microsoft hanno creato “negozi nei negozi”, pagando in buona
sostanza un affitto per esporre le proprie offerte dove i clienti possono vederle e
sperimentarle di persona. Best Buy è un partner neutrale per dei colossi dell’alta
tecnologia che si fanno la guerra; gli arcinemici Amazon e Google vendono entrambi i
loro prodotto nei suoi negozi.
In fine, Best Buy ha investito in un servizio di consulenza a casa tramite il quale
consulenti perfettamente addestrati si recano dai clienti e forniscono loro assistenza
senza vendere alcunché. L’obiettivo è solo quello di stringere rapporti più stretti con i
consumatori. Grazie a tutto questo, Best Buy ha trasformato costantemente la propria
impronta digitale a supporto della strategia.
Il caso Best Buy dimostra quanto sia importante essere disposti a ripensare le proprie
assumption su come usare gli asset e su come interagire con i partner. I leader
precedenti dell’azienda non erano stati in grado di trovare un modo per competere sul
prezzo con i rivenditori online. Ma avendo messo in discussione il pensiero
convenzionale, Joly ha spinto l’azienda a re-immaginare i rapporti con i venditori (che
adesso pagano per essere presenti nei punti vendita di Best Buy) e a riprogettare la sua
supply chain in modo che gli asset fisici possano supportare un nuovo modello di
business per competere con i giganti dell’e-commerce.
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Un parametro di successo dei nuovi progetti, ancora oggi, è il ritorno sull’investimento.
Ma il ROI non vi aiuta a capire quale valore crea un progetto per i clienti, quantomeno
non direttamente. Inoltre, per calcolarlo, dovete stimare sia gli investimenti sia i ritorni,
ossia precisamente ciò di cui non avete ancora idea. Quello che dovete fare invece è
identificare dei parametri più strettamente legati ai miglioramenti specifici che vi
aspettate dalle iniziative digitali.
Noi raccogliamo tipicamente tutte queste informazioni in una tabella riassuntiva “from-
to”, che identifica un problema, descrive i benefici che produrrebbe una soluzione e
propone un modo per misurare i progressi ottenuti con quella soluzione. (Per un
esempio, si veda il box “Affrontare gradualmente un grosso cambiamento”). Mentre
lavorate alla soluzione di questi problemi, metterete alla prova e affinerete le vostre
ipotesi di partenza – un passaggio fondamentale del DDP. Potete anche stabilire
quanto avete speso per acquisire nuove indicazioni e quanto vi hanno fatto risparmiare.
Alla fine, potete ritrovarvi con qualcosa di molto simile al calcolo del ROI.
In Klöckner, l’obiettivo di fondo era cambiare il modello di business nella
commercializzazione dell’acciaio, dal mark-up sulle scorte di magazzino a un modello
incentrato sulla fornitura di servizi. All’inizio, le iniziative digitali erano semplici e si
focalizzavano sul miglioramento del processo di gestione degli ordini – sostituendo, per
esempio, l’invio per fax con un portale online. Grazie a ognuna di esse, la performance
dell’azienda su indicatori come la rotazione del magazzino e il numero di fasi
necessarie per evadere un ordine è migliorata. Man mano che l’azienda acquisiva più
conoscenze e più capacità, i suoi progetti diventavano più ambiziosi.
Naturalmente, dovete avere ancora un modo per misurare i progressi compiuti sulla
trasformazione digitale nel suo complesso, e a questo scopo vi suggeriamo un
indicatore che chiamiamo return on time invested (ROTI). Per calcolarlo, basta dividere il
ricavo totale per dollari il numero dei dipendenti. L’idea è che investimenti tecnologici di
successo dovrebbero consentirvi di fare di più con meno persone. Per esempio, noi
abbiamo usato i dati del rapporto annuale 2018 per confrontare Amazon (un’azienda
nata digitale) con Walmart (un’azienda tradizionale). Abbiamo scoperto così che Amazon
aveva un fatturato netto di 232,9 miliardi di dollari e 647.500 dipendenti inclusi i part-
timer. Di conseguenza il suo fatturato per addetto era di 359.671 dollari. Per contro,
Walmart aveva un fatturato netto di 459,8 miliardi di dollari e 2,3 milioni di dipendenti,
con un fatturato pro capite di 215.548 dollari. Dunque, Amazon poteva vantare una
performance per addetto superiore del 67%.
5. Mettete alla prova le vostre assumption: gli insuccessi sono anche occasioni
di apprendimento
Uno degli strumenti più popolari che offre il DDP è la tabella di verifica progressiva
delle ipotesi di partenza. Per crearne una, mettete semplicemente per iscritto i
prossimi traguardi intermedi che dovrà attraversare il vostro progetto, le assumption
da mettere alla prova a ciascun traguardo e se possibile anche il costo atteso di quel
test. Il bello diquesto approccio è che sposta la conversazione da “Avete sbagliato, è
stato un insuccesso” a “Valeva la pena di pagare quel prezzo per imparare quello che
dovevamo imparare?”
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Vediamo ora come ha fatto Buffer, un servizio che permette agli utilizzatori di
scaglionare le promozioni sui social media senza dover prestabilire la tempistica, ha
testato le ipotesi di partenza nella fase di lancio. Joel Gascoigne, cofondatore di Buffer,
ha avuto quell’idea imprenditoriale dalla frustrazione che provava per non riuscire a
twittare più costantemente.
La prima ipotesi di lavoro che voleva testare era il livello di percezione del problema.
Così ha costruito un sito semplicissimo, di due sole pagine web. Il messaggio della
prima pagina era “Tweet More Consistently with Buffer”. Se gli utenti ci cliccavano
sopra, si ritrovavano nella seconda pagina. Sotto il titolo “Hello,You’ve Caught Us Before
We’re Ready” c’era uno spazio in cui potevano digitare il proprio indirizzo e-mail se
erano interessati alla soluzione proposta da Buffer. La maggior parte dei visitatori non
loerano, ma alcuni sì. Perciò Gascoigne ha inserito una terza pagina tra le altre due per
mettere alla prova varie opzioni di pricing.
Poi ha dovuto stabilire quanto renderla complessa e a quanti social media applicarla.
Alla fine, ha deciso di lasciarla estremamente semplice e di supportare inizialmente solo
Twitter. Nel 2018, Buffer aveva oltre 1,4 milioni di social account connessi alle sue app.
Molte grandi aziende hanno adottato un approccio analogo di sperimentazione
finalizzata all’apprendimento. Parecchi nuovi servizi facilitano la sperimentazione – per
esempio Alpha, i cui abbonati lo usano per ottenere dai potenziali clienti un feedback
veloce sui prodotti prima di prendere decisioni costose o irreversibili. In WellMatch, una
business unit di Aetna, la sperimentazione ha contribuito a risolvere dissensi sulle
decisioni in tema di progettazione dei prodotti e della comunicazione. Come spiega
Etugo Nwokah, l’ex chief product officer, un’area di dissenso riguardava il sito web: tutti i
gruppi della B.U. volevano fare apparire i propri contenuti sulla pagina di accesso. La
landing page sperimentale era così ridondante da confondere i consumatori. L’azienda
ha dovuto rimettersi a tavolino per riprogettarla da capo – ma l’ha potuto fare a un
costo molto più basso e con molto meno rischio che se quella pagina di accesso fosse
stata lanciata realmente.
Il risultato
La trasformazione digitale è complessa e richiede nuovi approcci alla strategia. Partire
in grande, spendere tanto e dare per scontato di avere tutte le informazioni vuol dire
quasi certamente scatenare gli anticorpi aziendali – dall’avversione al rischio al
risentimento verso il vostro progetto, alla banale resistenza al cambiamento.
Un approccio guidato dalle scoperte consente ai leader di superare le barriere che
ostacolano più comunemente la trasformazione digitale. Partendo in piccolo,
spendendo poco in un portafoglio continuativo di esperimenti e imparando molto,
potete procurarvi sostenitori iniziali e utilizzatori iniziali. Agendo rapidamente e
dimostrando un chiaro impatto sugli indicatori di performance finanziaria, potete poi
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legittimare lo sviluppo di una strategia digitale tramite l’apprendimento. Potete usare i
vostri progetti di digitalizzazione anche per avviare una trasformazione organizzativa.
Man mano che si abitueranno alle comunicazioni e alle attività orizzontali che vengono
facilitate dalle tecnologie digitali, le persone adotteranno anche nuove modalità di
lavoro.
Le aziende tradizionali hanno dei grossi vantaggi sui nuovi competitor: clienti che
pagano, risorse finanziarie, dati sulla clientela e sul mercato, e una maggior disponibilità
di talenti. Ma i CEO dovranno infondere agilità e innovazione nelle proprie organizzazioni
e comunicare le nuove modalità del pensiero digitale minimizzando nel contempo la
disgregazione dei business in essere. Un approccio guidato dalle scoperte permette di
affrontare queste sfide.
Rita McGrath, storica docente della Columbia Business School, è uno dei maggiori
esperti mondiali di strategia in ambienti incerti e instabili. Il suo ultimo libro è Seeing
Around Corners (2019). Ryan McManus è il CEO di Techtonic.io e un’autorità globale
sull’applicazione della tecnologia digitale ai modelli di business, alla trasformazione e
agli ecosistemi. Fa parte di numerosi consigli di amministrazione e tiene conferenze alla
Columbia Business School.
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