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Niccolò Machiavelli nasce a Firenze nel 1469 e appartiene ad una famiglia piccolo-borghese, che non
ha mai partecipato alla vita politica di Firenze. Come Ariosto, ricevette una formazione umanistica
parziale: conosceva il latino (nemmeno troppo approfonditamente) ma di certo non il greco. Alla
morte del Magnifico segue la discesa dei francesi di Carlo VIII in Italia e proprio di fronte a questa si
verificò un sovvertimento che portò alla cacciata i Medici. Il figlio del Magnifico, Piero de’ Medici, si
diceva infatti disposto a cedere alcune città alla Francia pur di evitare il suo attacco; questa decisione
fu mal vista dagli aristocratici fiorentini e Piero con la famiglia fu costretto ad allontanarsi. Venne
quindi instaurata la repubblica, che però di fatto manteneva le istituzioni vecchie e a capo della
quale erano stati scelti uomini vicini alla famiglia dei Medici. La repubblica, di stampo cattolico, era
retta dal domenicano Girolamo Savonarola, nativo di Ferrara, la cui sede era il convento di San
Marco a Firenze. Il Savonarola era noto per le sue strane ed estreme prediche, affollatissime, tanto
che a un certo punto dovettero trasferirlo al ben più spazioso Duomo. Viveva in maniera coerente
con i principi cristiani di povertà e castità e veniva riconosciuto come un santo, in un’epoca in cui la
chiesa era molto corrotta. Era però un fanatico, e un fanatico impavido: le sue prediche erano
improntate a far notare la corruzione della Chiesa e in particolare dell’attuale papa Alessandro VI
(uno dei più spregiudicati mai visti) e scrisse un trattato, Sul reggimento di Firenze, in cui spiegava
come la città si sarebbe dovuta salvare. Affermava inoltre che la notte entrava a contatto con un
demone, seguendo l’esempio socratico del δαιμόνιον, il quale a detta sua gli conferiva capacità
profetiche. Per i quattro anni in cui dettò legge a Firenze costrinse la città ad un tenore di vita stretto.
Nel 1598, però, Savonarola viene scomunicato definitivamente per avere accusato il papa di
corruzione. Questi gli lancia un interdetto: finché Savonarola non verrà consegnato alla Chiesa di
Roma, i sacerdoti fiorentini non potranno tenere alcun sacramento, inclusa l’estrema unzione. Per
cui, con il successivo cambio degli assessori a Firenze, viene instaurato un governo ostile al frate e
questi viene condannato prima all’ordalia (pratica giuridica che consisteva nel sottoporre l’accusato
a una prova divina, come camminare sui carboni ardenti) ma poi, per problemi di carattere
meteorologico, fu bruciato sul rogo.
Machiavelli provò a svolgere l’attività politica nell’ultimo periodo della presenza del Savonarola, che
gli si oppose (e anche Machiavelli, dal canto suo, tentò di scrivere un poema celebrativo per i primi
dieci anni della repubblica fiorentina, stilisticamente orribile, in cui definì il Savonarola come una
serpe). Nello stesso anno della morte del frate, comunque, divenne segretario della seconda
cancelleria (1498). A Firenze le cancellerie erano due e trattavano di questioni politiche:
Inoltre, Machiavelli disprezza la Spagna per il suo assolutismo, anche se sostiene che l’Inquisizione
spagnola fosse un legittimo modo di governare. Il suo sistema di governo preferito è la repubblica,
ma ritiene che al periodo storico che lui vive il principato si confaccia maggiormente. Machiavelli è
stato descritto da Croce “lo scienziato della politica”. Tuttavia, in verità non può essere considerato
tale perché non analizza i fatti in maniera oggettiva, ma sulla base di simpatie e antipatie.
Nel 1527 i Medici furono cacciati da Firenze e venne instaurata nuovamente la repubblica.
Machiavelli si propose come candidato alla carica di segretario della repubblica, ma venne respinto
in quanto ritenuto colluso coi Medici e soprattutto con papa Clemente VII. La delusione per
Machiavelli fu insopportabile. Ammalatosi repentinamente, cominciò a peggiorare vistosamente
fino alla morte, sopraggiunta nello stesso anno.
Il Principe
Machiavelli scrive Il Principe mentre è sotto controllo di polizia in un luogo di campagna, per
Francesco Vettori, ambasciatore del papa. Utilizza un termine significativo: “m’ingaglioffo”, cioè
“divento un gaglioffo”, personaggio di poca cultura, rude, perché in campagna così sono le persone
che frequenta. Queste occupazioni non lo soddisfano, e quindi ogni sera viene ospitato nel suo
studio da alcuni personaggi, i libri che studia e da cui cercava di ricavare le vicende di Ciro, Mosè,
Teseo e Romolo, personaggi ricorrenti nel Principe. Dedica l’opera ai Medici, in particolare a
Lorenzino, per ingraziarseli.
Fu un periodo difficile per Firenze perché, tornati i Medici, questi avevano arrestato una serie di
persone, fra cui Machiavelli, con l’accusa di congiura contro lo Stato (il suo nome figurava, al settimo
posto, in un foglio trovato in casa di un dei reali congiurati). Alcuni furono giustiziati, mentre
Machiavelli, come anticipato, fu torturato e poi, graziato da papa Leone X, relegato nel contado.
Ne Il Principe vuole dimostrare come deve governare un principe, su quali basi debba fondarsi il suo
governo. Dichiara che come dalla pianura si vede meglio la montagna, chi è suddito e deve obbedire
capisce meglio se chi lo governa ne è capace o no. Aggiunge anche che è importante rifarsi alla storia
ed è scandaloso che i rinascimentali l’abbiano studiata solo come punto di erudizione; infatti
secondo lui bisogna studiarla per il sapora che questa ha in sé e perché la storia è maestra di vita,
maestra nell’azione pratica. Bisogna fondare una visione della politica basata su una dottrina
specifica della politica intesa come disciplina autonoma, mentre fino a quel momento era stata
intesa come una disciplina a metà strada fra morale e teologia. Il principe può rappresentare il
potere di Dio, ma anche un ottimo modello ideale. Tuttavia per Machiavelli la perfezione a cui il
principe ambisce non è di tipo morale (non importa se sia un tiranno o meno), ma in funzione del
fatto che la sua azione riesca o meno a mantenere e ad accrescere il potere. È indispensabile usare
la violenza, che è una qualità connaturata nell’uomo. Da qui l’espressione “il fine giustifica i mezzi”,
attribuita a due uomini di Chiesa, il cardinale Riario e il frate Timoteo, ne La Mandragola (indice,
questo, di una sprezzante ironia, in quanto questa affermazione nella prospettiva cristiana è eretica
e immorale). L’espressione non compare ne Il Principe, anche se il concetto è ugualmente espresso.
Nella costituzione di un principato nuovo è indispensabile l’uso della forza, esaurendo tutti gli
oppositori nel minor tempo possibile. Non concepisce però l’uso ingiustificato della violenza, bensì
solo se strutturalmente necessaria al raggiungimento dei propri obiettivi. È sbagliato, inoltre, essere
lussuriosi e avidi.
Machiavelli, nel voler fare una trattazione scientifica della storia, individua tre forme di principato:
ereditario, la forma più semplice da mantenere perché basta adattarsi alle innovazioni;
potere nuovo, il più difficile perché in un cambio di regime ci saranno sempre quelli che
hanno perso qualcosa e che quindi saranno ostili;
misto, di una famiglia già nota all’interno dello Stato che prende il comando.
Come accennato prima, Machiavelli nella sua opera fa riferimento a importanti personaggi del
passato (Ciro, Teseo, Romolo, Mosè), cui dovrebbe ispirarsi la figura del principe. Già questa teoria
è criticabile perché:
Prendere questi modelli come paradigmi ai quali il principe moderno deve guardare non ha senso
pratico, perché sono troppo lontani nel tempo e non possono insegnare nulla di effettualmente
valido. Infatti, mettere insieme questi personaggi antichi in una realtà complessa come quella del
‘500, caratterizzata dal protocapitalismo, dalle banche, dalle infrastrutture e dallo sviluppo
economico, è insufficiente perché il quadro politico si è oramai ampiamente modificato. L’idea è
infatti incompleta: insita nell’uomo è l’inclinazione al denaro (soprattutto da parte dei capi di stato),
ma di questo discorso non c’è traccia nell’opera machiavelliana. La concezione che il principe debba
astenersi dalle ricchezze e dalla loro ricerca, implicita nell’omissione del contrario, risulta pertanto
utopistica, moralistica, impossibile.
Machiavelli vuole esprimere il concetto dell’autonomia della politica da ogni altro elemento, ma
ciò non poteva in alcun modo verificarsi. Egli reputa che un principe nuovo, quando prende il potere,
debba fare fuori la classe dirigente dello Stato, indisposta ad accettarlo: per evitare di essere fatto
fuori ogni mezzo è buono e giusto. Tuttavia questo sarebbe praticamente irrealizzabile, perché non
può avere le competenze che glielo permettano e per di più, se eliminasse la classe dirigente, lo
Stato diventerebbe povero. Inoltre, il principe non può al contempo svolgere il compito di capo di
stato, generale dell’esercito e unico e solo imprenditore statale.
Il principe, poi, deve sembrare una persona virtuosa, la cui virtù è la capacità di tenere il potere.
L’etica del principe è stare sopra le leggi mentre quella del cittadino è stare sotto. Machiavelli
individua nella Chiesa un grosso problema per l’Italia, la quale non può essere forte se divisa.
per Locke, Machiavelli voleva rappresentare la negatività del potere scagliandosi contro di
esso, ma in realtà – si ripete – sono solo insegnamenti finalizzati al mantenimento del potere;
da Hobbes in poi, cioè con l’affermazione dell’assolutismo, le teorie di Machiavelli vengono
perfezionate.
Un capitolo importante è quello in cui si parla di bestialità politica: l’uomo deve sapere usare e la
bestialità e la ragionevolezza. Infatti Achille, altro esempio di perfezione machiavellica, è stato
educato da Chirone che è un centauro, ovvero uomo razionale e cavallo bestiale. Il principe deve
essere a un leone (forza) e volpe (astuzia), deve sapere cioè usare la violenza al momento giusto.
L’uomo non cambia mai, i suoi desideri sono sempre gli stessi. Il principe può non perdere mai il
potere. Al contrario di quello pensa Machiavelli, però, la storia – e con lei l’uomo – non è immutabile
perché ci sono sempre scontri che fanno sì che anche le ambizioni al potere si modifichino di
generazione in generazione, Nel capitolo finale de Il Principe, Machiavelli in un atteggiamento
celebrativo si rivolge al casato dei Medici auspicando che questi possano raggiungere l’unità
nazionale di cui aveva trattato all’inizio. Nel fare ciò prende a modello la canzone di Petrarca Italia
mia, per convincere gli Stati maggiori ad unirsi in funzione anti-straniera, e per raggiungere questo
obiettivo è fondamentale un accordo con la Chiesa romana.
Il Principe ha avuto parecchia fortuna, perché banalmente dice cose vere: riporta alla nostra mente
la brutalità del potere, mostra come la gestione di esso possa facilmente tramutarsi in violenza. Il
problema nasce nel momento in cui gli insegnamenti di Machiavelli vengono applicati, in quanto
propongono un modello impraticabile di governo.
La Mandragola
Machiavelli scrive infine La Mandragola, una commedia considerata il capolavoro teatrale del
Cinquecento. L’opera prende il nome da un veleno che si diceva potesse indurre effetti paradisiaci.
È la storia di un anziano impotente di nome messer Nicia che ha sposato una bella ragazza, Lucrezia,
con cui non può avere figli. Di questa ragazza si è invaghito un giovane parassita, Callimaco, che per
conquistarla si fa aiutare da Ligurio, il deus ex machina che propriamente organizza l’inganno, e fra
Timoteo, che intercede presso Lucrezia. Quest’ultimo consiglia a Lucrezia di intrattenere una
relazione extraconiugale, perché Dio vuole che si mettano al mondo figli. Finge di scegliere a caso
un barbone dalla strada (ossia proprio Callimaco) che berrà la mandragola prima di unirsi con
Lucrezia e dunque morirà subito dopo. Siccome però la donna ne trae piacere e Callimaco
ovviamente non muore, egli diventa il suo amante. L’interpretazione della Mandragola è
controversa: è una commedia amara, tragica per certi aspetti, che mette in luce la considerazione
che Machiavelli nutriva nei confronti della società fiorentina dell’epoca, inetta e vergognosamente
corrotta. C’è chi ha equiparato Lucrezia alla figura del principe, in quanto è vittima di un gioco che,
grazie alla sua virtù, riesce a sfruttare a suo vantaggio.
Il finale è lieto per tutti. Fra Timoteo riceve il suo lauto compenso, Messer Nicia è contento della
paternità della moglie, Lucrezia si ritrova ad avere un’amante focoso, Callimaco soddisfa i suoi
desideri con la donna che più desidera al mondo e l’amico Ligurio gode per aver avuto un’idea
geniale e per aver attuato la beffa ai danni di Nicia. Perfino la madre di Lucrezia, Sostrata, è contenta
dell’arrivo di un nipote; non importa se si sia perpetrato un inganno, tutti sono contenti di aver
raggiunto i propri obiettivi, seppur a scapito della verità. Tutti i personaggi hanno violato le regole
morali, sono al tempo stesso vittime e carnefici, ma ora tutti sono soddisfatti. L’opera si conclude
con tutti i personaggi che si radunano in chiesa per celebrare il lieto evento. Il capolavoro
di Machiavelli è caratterizzato da un prologo e da cinque atti.
I temi fondamentali dell’opera sono quello del fine personale, dell’inganno e della fertilità.
Secondo il pensiero machiavelliano, anche la falsità ha un senso: se il fine è positivo, qualunque
mezzo per ottenerlo è accettabile, perfino l’inganno. Quindi l’inganno è perfino più forte sia
dell’intelligenza che della stessa religione, secondo la filosofia dello stesso scrittore. La religione è
ridotta unicamente a ipocrisia: serve allo stesso prete Timoteo come un cinico paravento dietro cui
ripararsi per badare meglio ai propri affari. L’opera rappresenta in assoluto una potente satira
contro la corruzione della società italiana dell’epoca, ironizzando in modo tagliente su quel mondo
che ai suoi occhi appare fatiscente. Fu messa in scena in occasione delle nozze di Lorenzo de’ Medici,
duca di Urbino, nipote del Magnifico.
Francesco Guicciardini
Francesco Guicciardini nasce a Firenze nel 1483 da una famiglia nobile, attiva politicamente nella
stessa città La famiglia di Guicciardini, per lignaggio e potenza, da tempo si era occupata di questioni
politiche a Firenze. Questo segna un distacco con Machiavelli, che pure era amico di Guicciardini (i
due intrattenevano una relazione epistolare) e gli consigliava come svolgere la sua mansione di
ambasciatore. Altre sue cariche erano:
ambasciatore pontificio e governatore della Romagna, territorio sotto l'influenza papale;
plenipotenziario dello Stato della Chiesa.(aveva cioè pieni poteri soprattutto nell’ambito
della politica estera).
In questo periodo abbiamo due papi – Leone X e Clemente VII –, e Guicciardini collabora con
entrambi, anche se è dal secondo che riceve gli incarichi più importanti. Quando, nel 1525,
Machiavelli scrive le Istorie fiorentine, commissionate e pagate dal papa in persona, il papa
intrattiene con lui un dialogo politico e, sulla base di quest’opera, scaturisce il desiderio di fondare
una Lega santa in funzione antispagnola (la lega di Cognac). Il papa, che apprezza particolarmente
l’idea, scrive a Guicciardini di ascoltare i consigli del Machiavelli, il che incrementa la stima tra loro,
benché i due abbiano posizioni storiografiche completamente diverse (il vero storico dell'epoca è il
Guicciardini, che davvero tiene conto del susseguirsi cronologico degli eventi e dei fondamentali
rapporti causa-effetto). Dopo il violento sacco di Roma (di cui Guicciardini ci dà ampia testimonianza
nelle Storie d'Italia) cui prendono parte anche truppe spagnole cattoliche, uno dei capri espiatori è
proprio Guicciardini, il quale viene deprivato delle sue cariche. Tuttavia riesce ad assumere degli
incarichi nella repubblica che era stata fondata nella 1527 dei fiorentini ribelli che avevano cacciato
i Medici (sarebbe caduta nel 1530). Sembra però che in questa mansione non si comportò bene.
Viene infatti accusato di furto e, con una bella faccia tosta, scrive due orazioni di stile classico e
suasorio su queste vicende:
– Cambiando un solo particolare, lo scenario storico muta del tutto a sua volta, dunque è
improponibile l’atteggiamento didascalico della “storia maestra di vita” se non per linee
molto generali, perché comunque non offre una valida chiave di lettura dei fatti.
– Poi, al contrario di Machiavelli che riteneva che il contrasto fra patrizi e plebei stesse alla
base della grandezza di Roma, Guicciardini era convinto che questo contrasto era stato solo
una pericolosa spina nel fianco che mise a repentaglio la stessa storia di Roma.
Altra opera del fiorentino sono i Ricordi, un'opera privata di carattere idealistico e personale
(sarebbe stata pubblicata postuma). Con "ricordo" si intende però non solo il ricordo storico, ma
anche il far ricordare. Ne risulta un catalogo di ammonimenti in forma privata, che l’autore intende
lasciare ai posteri. Si tratta infatti di un susseguirsi di fatti e argomenti trattati in maniera personale
e soggettiva. Ad esempio Guicciardini, nella diatriba fra cattolici e luterani, rivela di essere dalla
parte dei luterani, ma di non poter dirlo ai quattro venti per il proprio particulare. Guicciardini
utilizza questo importante termine in due accezioni:
interesse personale, per cui non poteva dire di essere ostile alla Chiesa perché questo
avrebbe significato correre grandi rischi;
discernimento e specificità dei fatti storici.
Francesco de Santis scriverà un saggio moralistico (L'uomo del Guicciardini) in cui distrugge
Guicciardini e le sue idee. Egli avrebbe rappresentato, nel contesto storico-culturale di alto livello
del '500, il compromesso e la corruzione. Dalla pubblicazione di questo saggio, la critica si scaglia su
Guicciardini e ne svaluta turpemente l'opera tutta.