Sei sulla pagina 1di 355

Presentazione

Dopo aver conquistato un largo pubblico con lo stile


irrestistibile e la grande capacità comunicativa del suo
Cosa rende felice il tuo cervello (e perché devi fare il
contrario), David DiSalvo ci propone in questo nuovo lavoro
un’analisi attenta di come funziona il pensiero e ci fornisce
trenta ricette pratiche per vivere meglio. Anche questa
volta, infatti, l’autore si basa sulla sua intuizione originale,
il science-help, ovvero quell’insieme di nozioni solidamente
acquisite dalla ricerca scientifica, sulla base delle quali è
effettivamente possibile migliorare se stessi. Non è più
tempo di ricette di self-help prive di fondamento,
ammonisce DiSalvo, né di guru dal curriculum equivoco: le
neuroscienze sono in grado al giorno d’oggi di spiegare
davvero come funziona il cervello, e sulla base di quelle
conoscenze possiamo agire per migliorarci e, in definitiva,
per vivere meglio.
Usando esempi tratti dalla vita di ogni giorno, in ogni
ambito possibile, dalle relazioni sociali alla carriera, dalla
salute fisica allo sviluppo personale, DiSalvo dimostra come
l’enorme capacità adattativa del cervello sia il fattore
cruciale sul quale si può fare leva; un potente strumento
che possiamo tenere sotto controllo per dare una svolta alle
nostre vite. Ormai sappiamo che la mente agisce attraverso
continui cicli di feedback, generati da un cervello che si è
evoluto nel corso di milioni e milioni di anni. Una volta
identificati questi circuiti, siamo in grado di lavorare sulla
«metacognizione», possiamo cioè «pensare il pensiero»,
influenzando così le risposte del nostro cervello. Allo stesso
tempo teorico e pratico, questo libro cambierà il vostro
modo di pensare e, forse, la vostra vita.

David DiSalvo è un apprezzato giornalista, specializzato


in neuroscienze e psicologia, regolarmente ospitato nelle
pagine di «Scientific American Mind», «Psychology Today»,
«Forbes» e diverse altre testate. Tiene due seguitissimi
blog: «Neuronarrative» (su PsychologyToday.com) e
«Neuropsyched» (su Forbes.com). DiSalvo scrive inoltre
per il «Wall Street Journal» e collabora con le reti televisive
cnn e nbc. Per Bollati Boringhieri ha pubblicato Cosa rende
felice il tuo cervello (e perché devi fare il contrario) e Il
cervello in cucina. Science help della buona tavola.
www.bollatiboringhieri.it

www.facebook.com/bollatiboringhierieditore

www.illibraio.it

© 2013 David DiSalvo

Titolo originale
Brain Changer. How Harnessing Your Brain’s Power to Adapt Can Change Your
Life

© 2014 Bollati Boringhieri editore


Torino, corso Vittorio Emanuele II, 86
Gruppo editoriale Mauri Spagnol

ISBN 978-88-339-7357-9

Immagine di copertina: © Anita Ponne / Shutterstock.com

Schema grafico della copertina di Bosio.Associati

Prima edizione digitale ottobre 2014


Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata
Nuovi Saggi Bollati Boringhieri

24
Come cambiare la propria vita

In memoria del mio papà, Louis DiSalvo


Prefazione

Quello che chiamiamo il nostro destino in realtà è il nostro carattere e il


carattere si può cambiare, se si ha il coraggio di analizzare come ci ha formato.
Si può modificare la chimica, a patto che abbiamo il coraggio di isolare gli
elementi.
Anaïs Nin

Della reincarnazione, una volta un antico indù disse che la


vera nobiltà deriva non dall’essere superiore agli altri, ma
dall’essere superiore ai propri vecchi sé. La risposta è:
perché aspettare il prossimo giro? Vogliamo di meglio – in
questa vita, anzi, subito. Le nostre relazioni si stanno
deteriorando; mangiamo troppi dolci; siamo impantanati in
carriere senza futuro. Cerchiamo la via aperta; vogliamo
padroneggiare l’arte della conversazione; vogliamo dire
cose profonde; crediamo che la vita abbia uno scopo, e
crediamo anche nella ricerca della felicità. Più
soddisfazioni, meno delusioni, meno stress: ecco il nostro
obiettivo.
Dove sta il problema? Nel fatto che non abbiamo idea di
come raggiungere questi nobili obiettivi; e la maggior parte
delle filosofie self-help offrono soccorso, non successo – o,
almeno, non un successo duraturo (altrimenti, come
farebbe ad autoalimentarsi incessantemente un’industria
che vale 11 miliardi di dollari?). I nostri obiettivi saranno
anche ben definiti, ma di certo non lo è la strada per
raggiungerli. Tre chili in più, tre chili in meno. Uno scalino
in più nella carriera, due passi indietro nella felicità. Peggio
ancora, la parte di noi che cerca di risolvere i problemi è
essa stessa sfuggente: assertiva un momento prima,
assente un momento dopo. Come possiamo difendere
questo minuscolo frammento di noi che crede di farcela con
le proprie forze dalla maggioranza votata
all’autosabotaggio?
Un caso reale: mentre sto scrivendo mi trovo nel bar di un
centro yoga alla moda di New York. Al tavolo vicino al mio
ci sono due donne. Sono belle, in forma, radiose: persino i
loro capelli risplendono. Si capisce che hanno intrapreso il
sentiero dell’illuminazione. Ma postura ed espressione del
volto le tradiscono. Una delle due sta parlando del suo
ragazzo (viaggia troppo e lei ha scoperto che le ha
mentito). L’amica si sta arrabbiando, è indignata. E avanti e
indietro, le due donne rimasticano in continuazione i vari
scenari, sino allo sfinimento. Di fatto hanno vanificato gli
effetti della seduta di yoga. (E gli studi lo confermano:
quando le amiche parlano troppo di problemi, il loro
cortisolo schizza alle stelle: a livello fisiologico, stanno
rivivendo l’agente stressante ancora e ancora e ancora.)
Dunque, come fermare l’autosabotaggio?
La risposta sta nella comprensione dei meccanismi di
funzionamento cerebrale. Migliorare se stessi attraverso il
pensiero che pensa se stesso è la possibilità intorno a cui si
sviluppa questo libro di David DiSalvo. Nelle pagine che
seguono viene spiegato come fare: bisogna considerare il
nostro cervello come una confluenza di cicli retroattivi.
L’idea di feedback (retroazione) risale alla Rivoluzione
industriale, quando il termine fu coniato per descrivere i
meccanismi di regolazione di macchine complesse (se un
motore a vapore si surriscalda deve iniziare un ciclo di
raffreddamento per mantenere la temperatura). Tuttavia,
l’espressione entrò nella lingua parlata negli anni quaranta
del secolo scorso, quando il matematico Norbert Wiener
l’applicò a tutti i sistemi adattivi: biologici, meccanici,
politici, sociali. Nel suo libro Introduzione alla cibernetica,
lo scienziato scriveva:

Il feedback è la proprietà di modificare il comportamento futuro sulla base


dei risultati ottenuti nel passato. Il feedback può essere quello del semplice
riflesso oppure di livello superiore, nel quale l’esperienza passata non viene
usata solo per regolare movimenti specifici, bensì l’intera condotta generale.

Il feedback è come il karma: quel che si semina si


raccoglie. Ciò include le nostre interazioni con il prossimo,
i nostri dialoghi interiori, e lo scambio fra pensieri consci e
pensieri inconsci. Tali scambi hanno una base chimica:
serotonina, dopamina, glutammato, che a loro volta sono
soggetti a cicli retroattivi continui. Un ciclo dopo l’altro,
senza fine.
Di per sé il feedback non induce l’automiglioramento. (A
chi non è capitato di restare intrappolato in schemi di
pensiero distruttivi? E, come sappiamo da studi recenti,
l’introspezione da sola non funziona, specialmente quando
sfocia nel vizio della ruminazione).
Qui lo scopo è un feedback mirato allo scopo: pensare il
pensiero con l’intento di avere un controllo maggiore
sull’elaborazione dei pensieri. Come? Distaccandoci dai
problemi, apprendendo, correggendoci e, sostanzialmente,
adattandoci. Dato che la chiave è un maggiore controllo
cosciente sui processi cognitivi, ecco la buona notizia:
abbiamo a disposizione strumenti sempre migliori. Studi
sul comportamento, scansioni cerebrali, dosaggi ormonali,
sono tutti strumenti che hanno aiutato i ricercatori a
individuare tecniche che possano cambiare la nostra mente
secondo i nostri desideri. Attingendo dagli studi di
psicologia comportamentale e dalle scienze cognitive,
Come cambiare la propria vita introduce strategie per
stimolare i centri cerebrali della motivazione e della
ricompensa e superare i bias cognitivi. Di fatto, si impara a
riconoscere quali sono i nostri punti giusti e quelli
insensibili. (Questo libro, insieme al precedente di DiSalvo,
Cosa rende felice il tuo cervello (e perché devi fare il
contrario), appartiene a una nuova promettente categoria
coniata dallo stesso autore: il science-help).
Nella seconda parte di Come cambiare la propria vita
troviamo una scelta di tecniche per il cambiamento
cerebrale, tutte avvincenti: fra le altre, come sovrastare il
rumore mentale e coltivare il silenzio interiore, come
sincronizzarsi con i cervelli altrui, come rafforzare il
proprio quoziente di metafora. (Tutte strategie che
richiedono impegno, e alcune più di altre. Ma chi l’ha detto
che cambiare il cervello è una cosa facile?)
A mio avviso, la più utile e la più adatta a ogni scopo fra le
strategie per cambiare il cervello è quella detta pausa
cognitiva (awareness wedge). Essa richiede un momento di
autoanalisi nell’eccitazione del momento, giusto il tempo
necessario a condizionarne in qualche misura le
conseguenze. In quell’attimo o poco più si reindirizzano i
pensieri secondo i metodi specifici descritti da DiSalvo, per
esempio cortocircuitando le risposte di rabbia e mettendo
in discussione gli schemi esistenti. Sembrerebbe una
strategia molto utile, soprattutto in periodi di stress, ansia,
indignazione. Le due donne del centro yoga avrebbero
mantenuto la loro radiosa calma se dopo aver discusso il
problema si fossero fermate per rifocalizzare la propria
energia sulla ricerca di una soluzione. Quella pausa è un
momento di grazia.
La scienza non ha ancora scoperto cosa sia l’«io», se
quell’entità (sempre che di entità unica si tratti…) potrà
mai essere davvero individuata una volta per tutte. («Ci
sono tre cose estremamente dure: l’acciaio, un diamante e
conoscere se stesso», diceva Benjamin Franklin.) DiSalvo,
però, descrive le cose che l’io può fare: processare 40
informazioni al secondo a livello di pensiero cosciente (e 11
milioni nella mente inconscia). Una potenza di elaborazione
stupefacente. Immaginate cosa quel frammento di
autoconsapevolezza potrebbe fare se imparasse meglio a
riflettere sui propri pensieri: quando riuscirà a tirarsi fuori
dai circoli negativi e avviarne di nuovi e decisivi, quando
sarà in grado di adattarsi e farsi nel contempo più flessibile
e più resiliente.
Un ciclo dopo l’altro, all’infinito.

Jena Pincott, saggista scientifica, autrice di Perché gli


uomini preferiscono le bionde? e Do Chocolate Lovers Have
Sweeter Babies?: The Surprising Science of Pregnancy.
Prologo
Ripensar(si)

Non piangere, non odiare, ma comprendere.


Baruch Spinoza

Per buona parte della mattinata Mark aveva avuto dei


giramenti di testa, ma immaginò che fosse qualche virus in
agguato. Era un uomo atletico e di ottima salute che si
ammalava di rado, e non c’era da preoccuparsi per qualche
capogiro. Almeno finché quella sensazione come di vertigini
non si trasformò in qualcosa di totalmente diverso. Nel
primo pomeriggio ormai Mark non riusciva a stare in piedi
senza avere l’immediata sensazione di cadere per terra.
Poco prima delle 15 perse la sensibilità nella gamba destra,
seguita a breve anche dal braccio destro. Dopo di che, in
pratica non fu più capace di muoversi.
La moglie Jessica lo portò di corsa in ospedale, chiamando
subito il fratello di Mark, che lasciò il lavoro anzitempo e
arrivò alla clinica prima di loro. Non capiva cosa potesse
essere: appena il giorno prima lui e Mark avevano cotto
hamburger alla griglia e dato quattro calci a un pallone
(Mark era giocatore-allenatore di una squadra di calcio) e
suo fratello era pieno di energia, come sempre. Cosa
poteva essere successo in nemmeno ventiquattr’ore?
Quando lo vide, il suo sconcerto si trasformò in terrore.
Mark era immobilizzato, a malapena poteva muovere le
labbra per pronunciare una parola e la parte destra del suo
corpo era completamente paralizzata, come intrappolata in
un’invisibile gettata di cemento.
Il medico di turno chiese se Mark avesse lavorato in
presenza di fumi tossici, se avesse incidentalmente ingerito
sostanze velenose, o se potesse essere stato morso da un
serpente o da un ragno. Le rispose furono tutte negative.
Mark aveva dormito un po’ più del solito quella mattina –
cosa non strana, visto che era sabato – e poi le sue attività
si erano limitate alla lettura del giornale e a giocare con il
cane. Erano mesi che non si ammalava, a parte una forte
sinusite che era insorta dopo aver surfato per un’intera
giornata ma che era stata rapidamente soffocata dagli
antibiotici.
Mark fu fatto visitare da un neurologo. La diagnosi iniziale
non fu buona. Il medico disse a Jessica e a suo cognato che
molto probabilmente Mark aveva un tumore al cervello e
che doveva essere trasferito subito in un ospedale più
attrezzato. Neanche mezz’ora dopo Mark era in
un’ambulanza che lo conduceva di corsa in un’altra clinica.
Il neurologo spiegò a Jessica che quell’insieme di sintomi
severi indicava che suo marito avrebbe avuto scarse
possibilità di riprendersi e che doveva prepararsi al peggio.
Nel secondo ospedale Mark fu visitato da altri due
neurologi. Uno conveniva con la diagnosi di tumore, l’altro
aveva dei dubbi. La risonanza magnetica evidenziava
un’anomalia nell’emisfero sinistro del cervello, ma non era
per niente chiaro di quale tipo di anomalia si trattasse.
Poteva essere un tumore, ma anche la lesione causata da
un aneurisma, o magari una lesione di natura
completamente diversa. Su un punto, tuttavia, i due medici
si trovarono d’accordo, ovvero che Mark doveva essere
sottoposto con urgenza a un intervento di neurochirurgia.
La paresi andava peggiorando e potendo solo basarsi sul
dubbio esito di una risonanza, la cosa migliore da fare per
scoprire con esattezza cosa avesse messo al tappeto, senza
alcun preavviso, un uomo di trentatré anni era operare.
Dopo un intervento di cinque ore si evidenziò una causa
che nessuno aveva preso in considerazione: il cervello di
Mark era alle prese con un’aggressiva infezione batterica,
la quale si era estesa tanto rapidamente da interessare già
varie aree cerebrali e causare una serie di dannosi
microictus. Se non fosse stata curata, probabilmente Mark
sarebbe morto nel giro di poche ore. All’uomo fu
somministrato un potente cocktail di antibiotici tramite un
sistema di infusione endovena.
Due giorni dopo l’intervento l’infezione non era diminuita,
ma la situazione migliorò nei giorni seguenti. Dopo una
settimana intera trascorsa nell’immobilità in un letto
d’ospedale con la stanza invasa dai tubi, finalmente il corpo
di Mark cominciava ad avere la meglio sull’infezione. Per
quanto l’emiparesi destra permanesse, il nono giorno – se
assistito – poteva stare seduto a letto.
Per fortuna era di nuovo in grado di parlare, e Mark
riassicurò Jessica e i tanti visitatori che ora stava molto
meglio. Nel giro di qualche giorno fu in grado di stare in
piedi (sempre assistito) e di tenersi in equilibrio spostando
il proprio peso sulla parte sinistra del corpo. Si era ancora
lontani dalla situazione ideale, ma stare in piedi era un
gran risultato e Mark era visibilmente felice di poterlo fare.
Una mattina nella sua stanza d’ospedale Mark si tirò su
dal letto con il braccio sinistro e si mise in piedi senza
assistenza. Jessica quasi non credette ai suoi occhi, ma
conoscendo la determinazione di suo marito sapeva che ce
l’avrebbe messa tutta per riprendersi non appena ne avesse
avuto la minima capacità.
Poi, proprio mentre Mark sembrava imboccare la via della
ripresa, avvenne una cosa inaspettata. Mark ricadde
all’indietro sul letto, ma non perché aveva perso
l’equilibrio: crollò come se gli avessero sparato,
all’improvviso, collassando. Aveva perso conoscenza e
Jessica cercò di svegliarlo, pensando dipendesse dallo
sforzo eccessivo compiuto in uno stato di debolezza. Le
infermiere accorsero nella stanza, controllarono i segni
vitali di Mark e con una lettiga lo trasportarono di corsa in
terapia intensiva. Qualche minuto dopo lo stavano
preparando per un intervento di emergenza: Mark era stato
colpito da un severo attacco cardiaco.
Per la seconda volta Jessica si sentì dire di prepararsi al
peggio. I medici dissero che non era chiaro cosa avesse
provocato l’infarto, ma qualunque fosse il legame con le
sue iniziali condizioni, Mark stava nuovamente
combattendo fra la vita e la morte.
L’intervento al cuore durò sei ore e si concluse nel
migliore dei modi possibili: Mark era vivo. Oltre a non
essersi ripreso ancora del tutto dall’infezione cerebrale, ora
lo attendavano parecchi giorni di recupero. Il percorso, che
sembrava essersi fatto un po’ più agevole, tornava a essere
l’esperienza più dura che Mark avrebbe mai potuto
immaginare appena quindici giorni prima.
Quando finalmente fu dimesso dall’ospedale, settimane
più tardi, per Mark fu difficile capacitarsi di come la sua
vita fosse cambiata in un istante. Se in un tipico sabato
mattina si sarebbe sentito un po’ frastornato, adesso
soffriva di una paralisi parziale ed era sopravvissuto a due
interventi, uno al cervello e l’altro al cuore.
Al di là delle conseguenze fisiche, si trovava ad affrontare
uno spaventoso insieme di ostacoli mentali innescati
dall’improvvisa messa in discussione della vita come
l’aveva conosciuta fino ad allora. Più di una volta si chiese:
«Come posso affrontare tutto questo?». I medici gli dissero
che nella migliore delle ipotesi dopo mesi di fisioterapia
avrebbe recuperato l’uso della parte destra del corpo solo
al 50%, il che significava che una parte importantissima
della sua vita (gli sport e l’attività fisica) sarebbe cambiata
radicalmente. Per tornare in uno stato lontanamente simile
a quello precedente l’infezione lo aspettava un lungo e
faticosissimo recupero. Eppure, con tutto l’impegno che
poteva metterci, Mark sapeva di dover accettare il fatto di
non essere più la persona di un tempo. I suoi sentimenti
andavano da un estremo all’altro, dalla tristezza alla
disperazione, dalla frustrazione alla rabbia.
A tutto questo si aggiungeva una domanda a cui nessun
medico – neppure i migliori epidemiologisti statunitensi
coinvolti nello studio del caso – sapeva rispondere: come
aveva fatto l’infezione a estendersi al punto da colpire, e
così in profondità, il suo cervello? Il caso di Mark era una
vera anomalia. Il tipo di infezione che l’aveva quasi ucciso
in teoria non avrebbe potuto attraversare la barriera
ematoencefalica: eppure, malgrado decine e decine di
ricerche mediche attestassero il contrario, era successo.
Il fatto che la domanda rimanesse aperta accentuava ciò
di cui Mark si stava rendendo sempre più conto: che la
certezza e la stabilità erano invenzioni della fantasia, che
se questo era possibile, allora poteva accadere qualsiasi
cosa. Valutando tutti gli aspetti della situazione, la
prospettiva mentale di Mark era danneggiata almeno
quanto quella fisica.
Nei mesi successivi alla dimissione dall’ospedale,
tornando in un mondo che ora gli sembrava quasi alieno,
Mark attraversò molti periodi difficili. Fu colto da crisi
depressive, e per certi periodi (a volte per giorni e giorni)
non volle uscire di casa o addirittura alzarsi dal divano.
Eppure Mark non gettò la spugna e non se ne restò chiuso
al buio. Fece una cosa importantissima che segnò la
differenza tra lo sprofondare ancora più giù e il riemergere
per superare gli ostacoli. Sfidò se stesso in quell’aspetto
che era il centro di ogni cosa: la sua testa, i suoi pensieri.
Mark uscì allo scoperto da solo e cominciò a guardare con
obiettività al processo mentale distruttivo che stava
prendendo il sopravvento, quindi, come un giornalista che
conduce un’inchiesta sulla propria mente, iniziò a
decostruire i propri pensieri negativi. Rimise in discussione
ogni elemento del proprio processo cognitivo: le congetture
catastrofiche, la fissazione sull’inevitabilità in cui era
caduto, il pensiero negativo che la sua vita non valeva più
nulla se non poteva più essere la persona di prima.
Mark imparò inoltre che più cercava di reprimere i suoi
sentimenti, più questi erompevano sottraendo energia al
lavoro di costruzione che aveva iniziato. E così smise di
cercare di controllare le emozioni, concedendo a se stesso
di provarle e di dargli un nome; mano a mano che lo faceva,
queste perdevano un po’ della loro intensità.
Non c’era niente di chiaro, definito nella sfida affrontata
da Mark. Nella migliore delle ipotesi l’autoanalisi è un
lavoro ingarbugliato, caratterizzato più da battute d’arresto
che da progressi. Ciò che conta è che Mark non si arrese e
continuò a mettersi in discussione per cambiare il proprio
modo di ragionare. Non importa quanto tempo ci sarebbe
voluto, lui non si sarebbe fermato. E non lo ha mai fatto.
La vera conclusione di questa storia vera è che Mark ha
lottato, attraversando successi e fallimenti, per ragionare
diversamente sulla nuova situazione e sui cambiamenti che
avrebbe dovuto accettare per adattarsi a un nuovo genere
di vita. Facendo questo, ha spalancato la porta della mente
alle fatiche future. Si è sforzato di affrontare il recupero
fisico per riacquistare la maggiore funzionalità possibile
della gamba e del braccio, pur essendo il risultato fermo a
quel 50% che avevano preannunciato i medici. Mark e
Jessica sono andati avanti mettendo su famiglia, come
avevano in progetto da sempre, e sono diventati genitori di
una bellissima bambina. Alla fine Mark è tornato a fare
l’allenatore di calcio nella scuola in cui insegnava, e nel
giro di un anno è stato persino in grado di risalire sulla
tavola da surf.1
La maggior parte di noi non dovrà mai superare gli
ostacoli che ha dovuto affrontare Mark. Nella maggioranza
dei casi la nostra vita non conoscerà un’interruzione così
brusca, e pochi di noi saranno costretti a provare cosa
significa adattarsi a un’esistenza drasticamente diversa
rispetto a quella che si viveva appena qualche settimana
prima.
Mark ha vissuto una situazione atipica, ma offre un
esempio da cui tutti noi possiamo imparare: un prospetto di
ciò che serve per superare gli ostacoli che si presentano
non appena si cerca di andare avanti, di ottenere dei
risultati. A volte si tratta di piccoli ostacoli, altre volte ci
appaiono insormontabili. Ma la verità è che si presentano a
tutti noi, e la differenza fra un risultato insoddisfacente e
un risultato appagante è da attribuire a come «ragioniamo
sui nostri pensieri», ovvero dipende da come esercitiamo
quella pratica nota come metacognizione.
Ed è da qui che parte questo libro. La sfida
dell’autoriflessione è un’esperienza che affrontiamo in ogni
periodo della nostra vita; ed è una fortuna vivere in
un’epoca in cui le varie discipline psicologiche e cognitive
iniziano a offrire chiavi di lettura scientificamente valide
per intraprendere questa sfida. Invece del tipico self-help, è
il science-help a fornirci un approccio fondato che ci
consente di porci domande difficili su noi stessi e di
valutare il nostro pensiero più in profondità di quanto fosse
possibile prima.
Gli esiti non saranno sempre di nostro gradimento:
pensare, dopo tutto, è una faccenda caotica. Tuttavia, se
l’obiettivo che ci siamo posti è una cosa che per noi conta
davvero, come Mark ci dimostreremo saggi se andremo
avanti affrontando il caos a testa bassa.
Parte prima
Conoscere
Introduzione
Il cervello che cambia – Il Grande mutamento
di mentalità è iniziato

Le cose non cambiano; siamo noi che cambiamo.


Henry David Thoreau

Insieme a me state per imbarcarvi in una cosa che i


filosofi amano definire «esperimento concettuale». Non
fraintendetemi: non si tratterà di un esercizio filosofico in
senso accademico. Saggiare i confini della retorica e
vagare nei labirinti delle fallacie logiche non ci aiuterà a
raggiungere il nostro scopo. Il nostro è un esperimento
pragmatico, nel senso migliore del termine.
Calandoci nella parte dei curiosi avventurieri – che hanno
sete, una sete forse inestinguibile, di conoscere di più – ci
metteremo al lavoro utilizzando gli strumenti forniti dalla
scienza. Il nostro esperimento non si svolgerà in un
laboratorio, sebbene lungo il percorso consulteremo molti
ricercatori. Insieme scopriremo come funziona, perché
funziona e, soprattutto, cosa succede se si cambia il come
funziona. Ma come funziona cosa? L’oggetto del nostro
sforzo pragmatico non è altro che quella splendida
meraviglia della natura che sta dietro ai nostri occhi e che
si estende attraverso il sistema nervoso. Anzi, quando si
parla del cervello non è un’esagerazione affermare che si
sta parlando del nostro corpo nel suo insieme, dato che
nessuna parte del nostro organismo funziona al di fuori
della sua influenza. E quando si parla della mente, come
vedremo, la definizione si amplia persino di più.
Il «Grande mutamento di mentalità»

Qualche decennio fa due scuole del pensiero scientifico


sulla mente umana cominciarono a integrarsi, e dalla
sintesi delle due discipline è sorta una visione nuova e
profonda che continua ancora oggi a trasformare la nostra
cultura.
Secondo la prima scuola, la scienza cognitiva, l’enfasi si
pone sul comprendere come il cervello umano generi la
coscienza e come il pensiero inneschi le emozioni. L’altra
scuola, la scienza comportamentale, dà rilievo a ciò che il
comportamento umano rivela del funzionamento della
mente e a come l’inculturazione sociale influenzi il
pensiero.
Entrambe le scuole, se non altro nella loro forma
moderna, sono relativamente nuove sulla scena scientifica,
pertanto non sorprende che si siano sviluppate su sentieri
paralleli per diversi anni prima di incrociare i loro percorsi.
Quando ciò è avvenuto, un’abbondanza di conoscenze e
tecnologie fra loro combinate hanno riplasmato la nostra
comprensione della coscienza, del pensiero, delle emozioni,
del comportamento sociale e praticamente di tutto quello
che riguarda cervello e sistema nervoso. Di recente alla
festa si sono aggiunte discipline come la psicologia
evoluzionistica, le neuroscienze sociali e l’economia
comportamentale, allargando ulteriormente le nostre
conoscenze.
Impossibile condensare in un libro, o persino in un intero
scaffale di libri, tutte le cose che sono cambiate da quando
ha avuto inizio questa integrazione; ecco però alcuni punti
salienti:
– Il cervello non è più considerato un organo statico che
smette di modificarsi una volta terminata l’infanzia. Oggi
sappiamo che il cervello continua a cambiare per tutta la
vita; che il cervello è, in un certo senso, «plastico», da cui il
termine oggi invalso di «neuroplasticità».
– Funzioni cerebrali come la memoria e l’apprendimento
non nascono e non si attivano a partire da un’area del
cervello specifica, ma sono distribuite attraverso più aree
cerebrali che si connettono mediante un’incessante sinfonia
di scambi neurochimici.
– I ruoli dei due emisferi, destro e sinistro, del cervello
non sono distinti e scollegati come si pensava prima: essi
sono invece due attori sullo stesso palcoscenico che si
completano a vicenda e i cui ruoli convergono in infiniti
cicli di retroazione.
– La personalità, che un tempo si pensava immodificabile,
si scopre essere assai malleabile, e rigide categorizzazioni
come «introversione» ed «estroversione» non sono quei
compartimenti stagni che si pensava un tempo (in effetti la
maggior parte di noi si trova in una posizione intermedia ed
è pertanto più corretto definire la maggioranza degli esseri
umani come «ambiversi»).
– Gli uomini non sono «attori razionali». A dire il vero,
raramente ci rendiamo conto delle influenze, dei
preconcetti e delle distorsioni che incidono sul nostro modo
di pensare e agire.
– L’inconscio non è il calderone freudiano brulicante di
bisogni, voglie e desideri inappagati, bensì una miscela che
nella sua complessità di «moduli» di elaborazione che
controllano la quasi totalità delle nostre azioni quotidiane
risulta quasi incomprensibile; la coscienza, al confronto,
copre un ambito minuscolo.
– La nostra mente è ciò che il nostro cervello fa, ma anche
ciò che fanno gli altri cervelli. Fra gli umani esiste una
sincronizzazione mentale che si attua secondo modalità che
prima ignoravamo.

Questi brevi esempi offrono solo un assaggio dei tanti


cambiamenti avvenuti in poco tempo. Abbiamo fatto
maggiori progressi nella comprensione del cervello e della
mente negli ultimi trent’anni che nella somma di tutti gli
anni precedenti.
Questo libro vuole rispondere alla domanda: «In che modo
il “Grande mutamento di mentalità”– come lo chiamo io –
interessa tutti noi?».

Voi che intenzione avete?

La maggior parte di noi non legge gli articoli scientifici


delle riviste accademiche per informarsi sulle ultime
scoperte delle neuroscienze. Apparentemente il trantran
quotidiano ci risparmia l’ansia di sapere che cosa una
scuola scientifica sta facendo con chi e in quale luogo. Se
davvero avesse importanza qualcuno ce lo riferirebbe, no?
Be’, importa eccome, e il libro che state leggendo vi
spiegherà perché. Il succo è se beneficerete o no del
Grande mutamento di mentalità: se la vostra vita sarà
arricchita dalle nuove scoperte scientifiche sul cervello, o
se vi lasceranno indifferenti. La via più facile è l’apatia.
Spero di convincervi che il campeggio dell’«apatia
mentale» non è un buon posto dove piantare la propria
tenda. Se lo fate, aspettatevi di subire i condizionamenti
altrui con frequenza sempre crescente. E il motivo è
sorprendentemente semplice: ragioneranno meglio di voi.

Ma prima di entrare nello specifico…

Stabiliamo insieme il tono del nostro viaggio. Per prima


cosa, le cose essenziali: chi sono e perché ho scritto questo
libro?
Innanzi tutto, cosa non sono: non sono uno psichiatra, uno
psicologo, un neuroscienziato, un ricercatore universitario
o un conferenziere. Sono un saggista scientifico con
un’insaziabile curiosità verso le modalità di funzionamento
del cervello umano e una compulsione a comunicare ciò
che apprendo a tutti quelli che sono curiosi come me.
Scrivo di scienza e tecnologia per riviste di varia caratura,
fra le quali «Scientific American Mind», «Forbes»,
«Psychology Today» e «Mental Floss», e per quotidiani
come il «Wall Street Journal». Scrivo regolarmente su un
blog chiamato «The Daily Brain» e sono autore di un libro
intitolato Cosa rende felice il tuo cervello (e perché devi
fare il contrario).
In quel libro (scritto sulle fondamenta del «science-help»,
di cui tratterò più oltre) mi sono focalizzato su un
argomento che in genere va sotto l’espressione «bias
cognitivi». Volevo analizzare i motivi per cui spesso
ragioniamo e agiamo in modi per noi controproducenti, e
cosa c’è nel nostro cervello (che pure è un organo
incredibile) che ci rende tanto difficile allontanarci dal
nostro modo di fare. Il libro parla dei vari bias, delle
distorsioni e delle fissazioni in cui ogni essere umano
incappa in misura più o meno marcata e offre suggerimenti
su come superare tali ostacoli attingendo dalla ricerca
condotta nel campo delle scienze cognitive.
Questo libro non torna su quell’argomento, e non solo
perché è già stato affrontato. Davanti a noi abbiamo una
sfida più grande, più ampia e – oserei dire – più divertente.
Dopo il mio primo libro e la successiva pubblicazione di
innumerevoli articoli sul cervello sono diventato un
incorreggibile ottimista riguardo alla possibilità del
cambiamento. Per contestualizzare questo fatto, dovrei
spiegarvi che per quanto riguarda la maggior parte delle
questioni mi considero uno scettico razionale, e che non è
facile convincermi.
Quando scrivi di scienze e di tecnologia da un po’ di
tempo impari a distinguere l’apparenza della verità
dall’articolo autentico. Purtroppo in giro c’è molta più
apparenza che roba buona. E le persone che tentano di
convincervi che ciò che stanno promuovendo si merita il
vostro tempo (e il vostro denaro) sono più numerose di
quelle che, con onestà, fanno la fatica di cercare una
spiegazione alle cose.
Quando però si tratta degli argomenti esposti in questo
libro sono un ottimista, e credo che il mio ottimismo vada
provato e sperimentato e che dalla prova esca indenne. Ho
la netta sensazione che proseguendo nella lettura anche voi
adotterete la stessa forma mentis, e mi auguro che arrivati
all’ultima pagina sarete pieni di energia e speranza come lo
sono io.
Da dove arriva il mio ottimismo?
Ecco la versione sintetica: oggi conosciamo quali principi
stiano alla base del funzionamento del cervello e della sua
interazione con l’ambiente.
In termini di pensiero e azione le scienze cognitive e
comportamentali ci hanno fornito metodi innovativi per
ragionare sul cervello. Negli ultimi decenni, e in particolare
negli ultimi anni, si sono fatte scoperte incredibili sul
cervello umano – e, per estensione, sulla nostra mente.
Al nucleo di questa scoperta sta il fatto che il cervello
ospita costellazioni di infiniti «cicli di retroazione» che
operano insieme come un motore concettuale che dà
impulso ai nostri pensieri e ai nostri comportamenti.
Avendo una nozione più approfondita dei cicli retroattivi e
delle dinamiche che li influenzano, siamo in grado di capire
come modificare il pensiero e il comportamento – una
prospettiva stimolante sotto ogni aspetto.
E così avete un assaggio del mio ottimismo, una sbirciata
all’interno di una storia che da anni cattura la mia
attenzione e guida la mia passione. Ma nel caso pensaste di
essere incappati in un manuale d’istruzioni per il cervello
(una specie di guida per orologiai sui rapporti di
trasmissione degli ingranaggi e per imparare come si
aggiusta l’ora), lasciate che vi dia qualche altro
chiarimento.
In questo libro tutte le argomentazioni sono corroborate
da una realtà neurochimica. In altre parole, nei nostri
cervelli non accade niente che non sia legato a infiniti
scambi di sostanze chimiche importantissime come
dopamina, serotonina e glutammato, giusto per nominarne
alcune. Per capire davvero come funziona il cervello è
importante capire queste sostanze e il ruolo che hanno. Per
esempio, non si può dire praticamente niente sui motivi che
ci spingono al raggiungimento di un obiettivo se non
parliamo del ruolo essenziale della dopamina in quello che
è stato appropriatamente ribattezzato il «centro della
ricompensa» del nostro cervello.1
Ciò premesso, il tentativo in cui ci stiamo imbarcando
insieme non è un esercizio in anatomia del cervello e
intrecci neurochimici. Porgeremo il nostro omaggio alla
drammaturgia chimica del più grandioso dei nostri organi
senza farne lo spettacolo principale. Là dove sarà
importante capire come interagiscono certe particolari
sostanze chimiche, vi si dedicherà la dovuta attenzione.
Questo, però, non è un manuale di neuroscienze. Ricordate
che questo libro ha uno scopo pragmatico: presentare la
possibilità del cambiamento.
Molti libri del tradizionale genere self-help tentano di
fornire un sistema o una formula per il successo.
Descrivono un problema, forniscono la soluzione e vi dicono
come andare da A a B. La mia esperienza di saggista
scientifico (e, prima ancora, di consulente didattico nella
scuola pubblica) mi immunizza contro l’adesione a formule
per il successo. Io ho una visione diversa del mondo, ed è
per questo che sostengo di scrivere testi di «science-help»
invece che di «self-help». Per capire i problemi e proporre
delle soluzioni il science-help trae soluzioni cognitive dalla
ricerca scientifica.2
Non sono il tipo di persona che grida «Ho la risposta!», e
questo non è quel genere di libro. Come ho detto all’inizio,
insieme stiamo intraprendendo un esperimento
concettuale. Stiamo costruendo la nostra consapevolezza
ed esplorando metodi per trasformare la consapevolezza in
azione.
Nel fare ciò, stiamo cercando la possibilità del
cambiamento, un cambiamento nel quale sono
estremamente fiducioso. Dobbiamo sempre tenere a mente,
però, che la scienza non è fatta di risposte. La scienza è
fatta di domande. Se vogliamo utilizzare gli strumenti della
scienza, allora della scienza dobbiamo anche accettare le
regole, la più importante delle quali è che non ci si prenda
in giro convincendoci di aver colpito nel segno una volta
per tutte.
Ciò significa che non possiamo scoprire verità e, a livello
pratico, sfruttarle nella nostra vita? Certo che no: se fosse
così libri come questo non sarebbero mai stati scritti.
Significa semplicemente che dobbiamo fare attenzione a
non ragionare come si fa in una corte di giustizia,
concludendo che il caso è risolto e che possiamo passare
oltre. Al contrario, credo che dovremmo sperare di
risolvere alcuni elementi del «caso» ma anche aprirne di
nuovi – che, andando avanti, ci avvinceranno quanto e più
dei precedenti.
Ora che abbiamo stabilito il tono del nostro viaggio e
chiarito alcuni aspetti, parliamo un po’ del punto
successivo: l’oggetto della nostra discussione.
Ho fatto un accenno ai cicli retroattivi, che nel proseguo
del libro fungeranno da metafora di base che guiderà il
nostro viaggio. Per specificare meglio:

I CICLI DI REATROAZIONE SONO IL MOTORE DEL CERVELLO ADATTIVO.

Affronteremo anche quella che io considero la dinamica


motrice della mente cosciente. Gli scienziati cognitivisti la
chiamano metacognizione. Nella sua definizione base,
quella che sarà più utile al nostro scopo, la metacognizione
indica il «pensiero che pensa se stesso». Perché è
importante? Perché…

LA METACOGNIZIONE È LA FORZA INTERIORE CHE INFLUENZA IN MANIERA PIÙ POTENTE I


CICLI RETROATTIVI.

Con questi due ampi punti di riferimento sullo sfondo, il


libro è suddiviso in tre parti, ognuna contenente svariate
sottosezioni.
Parte prima. Conoscere Qui attraverseremo le dinamiche
di funzionamento del paesaggio della mente, sia nello
spazio mentale conscio, sia nel vasto universo del processo
cognitivo chiamato inconscio.
Parte seconda. Fare In questa sezione ci muoveremo dalla
conoscenza all’azione. Qui troveremo una selezione di
strumenti concettuali per migliorare le nostre abilità di
pensiero e per catalizzare l’azione.
Parte terza. Ampliare Nella sezione conclusiva passeremo
in rassegna una grande varietà di ottime fonti: saggi e
biografie, romanzi e film – una scelta che mira a sviluppare
ciò che abbiamo esplorato nelle pagine precedenti.

E ora iniziamo la nostra esplorazione, questo esperimento


concettuale pragmatico che affonda le sue radici in un
ottimismo ragionato. Da parte vostra serviranno solo
apertura alle possibilità e disponibilità a lasciarvi ispirare.
1. La metacognizione
L’occhio impassibile della coscienza

Più che dalla mera sopravvivenza, il valore ultimo della vita dipende dalla
consapevolezza e dalla forza della contemplazione.
Aristotele

Cominciamo la nostra discussione con un’illustrazione a


cui ci riferiremo più volte nel corso del libro come a una
sorta di supporto visivo per nozioni che sono centrali
rispetto alla metacognizione, all’adattamento, e alle strade
di interscambio circolare che vi stanno in mezzo. La prima
sosta è proprio all’inizio: definire la metacognizione.

Figura 1.1

Che cos’è la metacognizione?


Le tecniche di problem-solving – come quelle utilizzate in
varie tipologie di terapie cognitivo-comportamentali – si
affidano a uno strumento che solo noi umani possediamo e
che utilizziamo in continuazione (per quanto
intuitivamente, senza strategia e, solitamente, senza
accuratezza), che ne siamo coscienti oppure no. In una
parola, questo strumento serve a facilitare la presa di
distacco rispetto a un problema. Ci permette di
allontanarci, di prendere le distanze dalla questione che ci
assilla, qualunque essa sia, e in questo modo di vedere le
cose da un punto di vista diverso, come non sarebbe
possibile fare restando dentro il problema.1

Figura 1.2
Questo strumento è la metacognizione, la capacità di
riflettere sui propri pensieri. Non tutti ci muoviamo alla
pari quando si tratta di sfruttare efficacemente questo
strumento. Per acquisire delle capacità ci vuole
l’allenamento mentale: un’abilità innata non produce la
padronanza. Tuttavia, una volta appreso a padroneggiarlo,
per gli esseri umani non esiste strumento interiore più
potente per risolvere i problemi, affrontare le sfide e
percorrere i sentieri che conducono al raggiungimento
degli obiettivi.
Ogni volta che riflettiamo sui nostri processi cognitivi e
sulla conoscenza, compiamo un atto di metacognizione.2 In
realtà la maggior parte di noi lo fa dalla mattina alla sera,
anche se in genere lo si fa senza criterio e si tende ad
andare fuori dal seminato, sfociando in una ruminazione
senza fine. Per ottenere il massimo dalla metacognizione ci
si deve allenare a sfruttarne la potenza in maniera mirata e
a sviluppare la disciplina necessaria per restare focalizzati
malgrado le distrazioni. Si tratta di un’impresa ardua, ma
provandoci si ottengono risultati tangibili.
Per precisare meglio quanto scritto sopra: la
metacognizione è lo strumento interno più potente che
possediamo per correggere i nostri pensieri e migliorare gli
esiti del ragionamento.
Tra i metodi con cui si raggiunge questo obiettivo
(argomento di cui discuteremo da qui alla fine del libro)
compaiono:
– Il condizionamento dei cicli retroattivi, il motore dei
nostri cervelli adattivi.
– Affrontare le distorsioni cognitive (i cosiddetti «errori di
ragionamento»).
– Attivare cambiamenti neurochimici a livello cerebrale.

Che cos’è un ciclo retroattivo?

Nelle pagine di questo libro si utilizzerà l’espressione


«ciclo retroattivo» (feedback loop in inglese), che si rivela
di grande importanza per comprendere come funziona la
nostra mente; un’importanza tale, in effetti, che a mio
parere si può sostenere con certezza che i cicli retroattivi
rappresentano il motore del cervello adattivo dell’essere
umano.
Una delle incontestabili verità della natura umana è che
sotto la superficie del tempestoso mare di complessità in
cui navighiamo ogni giorno si possono trovare alcuni
principi direttivi fondamentali che ci dicono molte cose
delle motivazioni dei nostri comportamenti. Nell’ultima
quarantina di anni studi che spaziano in discipline come
psicologia, sociologia, economia, ingegneria, epidemiologia
e management strategico hanno scomposto pezzo per pezzo
i cicli retroattivi convalidandoli come un solido principio
direttivo dotato di potenzialità esplicative in continua
espansione. Quando avremo raggiunto una buona
comprensione del loro funzionamento saremo in grado di
capire che il nostro cervello alberga il più maestoso
fenomeno di cicli di retroazione del pianeta.
I cicli retroattivi si svolgono in quattro fasi, ognuna
collegata inestricabilmente alla successiva.3 Prima di
affrontarle una alla volta in maniera più dettagliata,
riassumiamole così come sono descritte da Thomas Goetz:
1. Evidenza.
2. Rilevanza.
3. Conseguenza.
4. Azione.
La fase dell’evidenza

Ogni ciclo retroattivo inizia dai dati. In senso lato, si può


definire dato qualsiasi informazione che venga osservata,
raccolta, misurata e archiviata, sia che derivi dall’interno o
dall’esterno di un individuo. Osservare come interagiscono
i colleghi in un ufficio, leggere dei numeri su un display
quando si sale su una bilancia o concentrare l’attenzione su
quello strano rumorino proveniente dalla ruota anteriore
destra mentre si guida sono esempi di come si raccolgono
dati.
La fase della rilevanza

Qui passiamo dalla raccolta e archiviazione di dati


all’input dei dati – però non intesi in forma grezza. Perché
in un ciclo retroattivo dei dati siano utili, essi devono
essere significativi. Le informazioni che non «arrivano»
sono trascurate; il dato deve essere rilevante per i bisogni
dell’individuo. Per esempio, osservare come interagiscono i
vostri colleghi cessa di essere raccolta di dati grezzi e
diventa input di informazioni significative quando, magari,
avvertite che integrarvi maggiormente con i vostri
parigrado renderebbe il tempo al lavoro un’esperienza più
piacevole, e forse alla lunga potreste persino ottenere un
avanzamento di carriera. Ecco il «click» emozionale che
mantiene in funzione il ciclo.

Figura 1.3

La fase della conseguenza

Una volta che abbiamo delle informazioni ricche di


significato il ciclo si alimenta. Esso, tuttavia, non
proseguirà se non vi aggiungiamo una nuova dimensione:
dobbiamo sapere cosa farne di quell’informazione. Avete
osservato le modalità di interazione dei vostri colleghi e
avete individuato un motivo emozionalmente rilevante che
fa di questa informazione un dato significativo. Quale
conseguenza deriva dal possedere tale informazione? A
questo punto bisogna stabilire quali saranno le
conseguenze se l’informazione verrà sfruttata o se non se
ne farà nulla. E questo ci conduce all’ultima fase.
La fase dell’azione

Una volta soddisfatti i requisiti di rilevanza e


conseguenza, la sfida che ci attende è agire. Per continuare
con l’esempio dell’ufficio: avete stabilito che se non
riuscirete a integrarvi meglio con i colleghi vi troverete
nella sgradevole condizione di galleggiare alla periferia
della scena sociale aziendale. La conseguenza potrebbe
essere perdere le opportunità di fare network che
probabilmente darebbero una spinta alla vostra carriera. Il
sentiero che vi conduce all’azione è illuminato. È la spinta
decisiva ad andare avanti e prendere delle misure per
migliorare le relazioni con i colleghi in modo da conseguire
lo scopo finale di diventare un elemento regolare e
importante del gruppo.
Una volta che l’azione è avviata, la si valuta e si fanno
nuove osservazioni – nuove evidenze raccolte e calibrate – e
il ciclo retroattivo ricomincia daccapo. Ciclo dopo ciclo, vi
avvicinate sempre di più ai vostri obiettivi.
Alla luce di questa spiegazione multifase è facile capire
perché i cicli retroattivi occupino un posto centrale in
innumerevoli discipline: l’ingegneria, per esempio, che si
affida ai cicli di retroazione per la pianificazione, il
progetto, lo sviluppo e il collaudo di qualunque cosa, dalle
centrali idrauliche alle applicazioni di software complessi.
Nel management strategico si ricorre al feedback per
ideare e proporre business plan e campagne di marketing.
L’epidemiologia si affida ai cicli di retroazione per
sviluppare vaccini e nuovi trattamenti antivirali. L’elenco
degli esempi è infinito.

Figura 1.4

Per ciò che ci interessa in questo libro, ci concentreremo


sull’importanza del ciclo retroattivo nel contesto cognitivo:
rimarremo focalizzati sul cervello. Fatto altrettanto
importante, analizzeremo come i cicli di retroazione
fungano da «motore» del cervello. Andando ancora più
nello specifico, indagheremo su come la simultanea e
incessante azione di cicli retroattivi multipli faccia del
nostro cervello quella incredibile meraviglia che
regolarmente ci fa arrivare in fondo alla giornata,
permettendoci di superare ostacoli, aggirare pericoli,
sempre avanti, verso il raggiungimento dei nostri obiettivi.

Come il cervello «produce» la metacognizione: il ciclo


metacognitivo

La metacognizione non è un semplice concetto teorico, ma


una funzione del cervello umano che ha ampie basi a livello
neuronale.4 Le strutture cerebrali che contribuiscono alla
metacognizione non hanno sede in una zona particolare del
cervello (come avviene per la maggior parte delle nostre
facoltà cerebrali progredite, per esempio la memoria).
Piuttosto, tali strutture comunicano attraverso connessioni
neurali in un network mentale che occupa diverse aree
cerebrali, in particolare quella chiamata corteccia
prefrontale (PFC), la parte del cervello umano di più
recente evoluzione, che sovrintende alle abilità cognitive
superiori e al ragionamento.5 Per rendere più chiaro come
il cervello dia vita alla metacognizione, è utile pensare a un
ciclo retroattivo che incorpori sia le componenti consce che
quelle inconsce della mente.
Il Sistema

Il ciclo inizia da quello che io chiamo «il Sistema», nel


quale ha luogo un grande numero di processi inconsci
attraverso ciò che i neuroscienziati definiscono «moduli».6
Immaginate per un attimo di provare a controllare
consciamente ogni movimento del vostro braccio e della
vostra mano destri, poi quelli della gamba sinistra, e poi
della testa che si piega verso destra, e via dicendo. Grazie
al cielo non dobbiamo «pensarci» ogni volta. Possiamo
decidere di compiere questi movimenti deliberatamente,
ma non dobbiamo pensare a come si compiono: all’interno
del Sistema c’è un modulo di controllo della funzione
motoria che mette in atto tali movimenti in maniera
automatica, senza bisogno di uno sforzo consapevole
diretto. Sarebbe impossibile esercitare un monitoraggio e
un controllo consapevole e costante di questi movimenti
(mantenere l’equilibrio, per esempio), figuriamoci poi
controllare le funzioni vitali e gli organi, come la pressione
sanguigna, i polmoni, il cuore, il sistema nervoso, la
digestione e praticamente quasi tutto ciò che avviene nel
nostro organismo. Sono tutte cose che avvengono
inconsapevolmente all’interno del Sistema, il più complesso
centro di elaborazione che esista sul pianeta. Tuttavia, le
informazioni provenienti dal Sistema possono raggiungere
la consapevolezza cosciente. Parte di queste informazioni si
genera automaticamente (da cui l’espressione «pensieri
automatici», a indicare quei pensieri che «spuntano» nella
coscienza), ma con uno sforzo intenzionale alcune
informazioni possono essere spostate dal Sistema a quello
che io definisco «spazio mentale conscio». E, fino a un
certo punto, possiamo immergerci nella vastità del sistema
modulare per apportare qualche «aggiustamento».
Il teatro mentale
Per comprendere come le informazioni dal Sistema
raggiungano lo spazio mentale conscio, è utile visualizzare
questo processo come se si trattasse di immagini proiettate
su uno schermo. A questo schermo io do il nome di «teatro
mentale». Nel teatro mentale le facoltà che consentono
l’elaborazione cosciente – in primis quelle che risiedono
nella corteccia prefrontale – possono concentrarsi su
particolari stati del Sistema (moduli astratti come le
emozioni sociali, o persino moduli corporei come la
pressione sanguigna, per esempio), che in un secondo
tempo potremmo decidere di influenzare. In altre parole, le
informazioni immagazzinate nel Sistema possono essere
richiamate o in un certo senso «prese in prestito esterno»,
come i libri di una biblioteca, per essere ulteriormente
investigate nel teatro mentale.7
Si prendano, per esempio, certe reazioni socioemozionali.
A volte non si capisce perché le azioni di una persona ci
colpiscano, per esempio, come moralmente ripugnanti (si
sa solo che ci fanno questo effetto). Se però si proiettano
queste associazioni emotive dallo stato del Sistema sullo
schermo del teatro mentale conscio, dopo un po’ di tempo
potremo dare una spiegazione alla nostra reazione e
magari arrivare a comprendere in maniera nuova il proprio
atteggiamento mentale. Per esempio, ci si può rendere
conto che alle basi della nostra indignazione c’è un qualche
confuso ricordo di azioni simili compiute da qualcuno nel
passato. Forse quella persona ci ricorda un cugino che anni
fa aveva fatto il prepotente con noi. Questa presa di
coscienza ripercorre il ciclo all’indietro tornando nel
Sistema e, nel caso di questo esempio, nel modulo che
regola le nostre emozioni sociali. E così, la prossima volta
che la incontreremo, quella persona non farà scattare in
automatico la nostra indignazione.8
A un livello più terra terra, attraverso il ciclo
metacognitivo è possibile influenzare dinamiche concrete
come la pressione del sangue. Una volta che uno stato di
Sistema come la pressione arteriosa è nel teatro della
nostra mente (al quale giunge, in questo caso, attraverso
una tecnologia di feedback come un misuratore di
pressione, il bracciolo gonfiabile che tutti conosciamo
bene), per influenzarla possiamo affidarci a tutta una serie
di mezzi controllati consapevolmente: magari la
meditazione, o altre tecniche di rilassamento. Anche
scegliere di tenerla sotto controllo con una cura
farmacologica è il risultato di una valutazione consapevole.
In questo caso a riflettersi retroattivamente sul Sistema
non è solo una correzione cognitiva, ma anche un agente
chimico che condizionerà il modulo del Sistema preposto al
controllo della pressione arteriosa.
Che un modulo riguardi la sfera emotiva o quella
corporea, influire in maniera cosciente è possibile solo
attraverso l’elaborazione metacognitiva – oppure
praticando il «distacco consapevole» (di cui tratteremo fra
breve) da qualunque cosa si voglia valutare e, magari,
modificare.

La metacognizione nel territorio della coscienza


Dunque, abbiamo concentrato la nostra attenzione sul
ciclo retroattivo che abbraccia il raggio d’azione del
Sistema inconscio e il teatro mentale conscio. Ora, però,
dobbiamo fare un passo indietro e allargare la nostra
prospettiva, in quanto focalizzarsi esclusivamente sul ciclo
retroattivo non basta a spiegare fino in fondo la
metacognizione. A questo punto dovremo affrontare un
problema neuroscientifico di estrema complessità: la
modalità di funzionamento della metacognizione nel più
ampio contesto del pensiero cosciente. Per cercare una
soluzione a questo problema, iniziamo con un’illustrazione.
Un tempo i freudiani avrebbero detto che l’inconscio è un
calderone traboccante di emozioni inconsapevoli e scopo
della psicoanalisi era avventurarsi con l’aiuto di una guida
in quello spazio spaventoso e misterioso e ripercorrere le
tracce di quei sentimenti fino alle loro fonti originarie nei
desideri e nelle fantasie dell’infanzia. Oggigiorno, per
distinguerlo dalla nozione freudiana di inconscio, i
cognitivisti parlano di «nuovo inconscio».9 Il nuovo
inconscio non è esente dal caos delle emozioni, dei bisogni,
delle voglie e dei desideri inconsapevoli, ma oggi, dopo
oltre mezzo secolo di intense ricerche, sappiamo che
questa dimensione della mente assomiglia piuttosto a un
enorme processo modulare di elaborazione che a un abisso
psicoemozionale. Secondo le stime più attendibili, la
potenza di elaborazione di questo sistema è di circa 11
milioni di informazioni al secondo.10
Figura 1.5

Le stime sul numero di informazioni che riesce a gestire la


mente cosciente, invece, si attestano sulle 40 al secondo.11
Se suddividessimo il quadro della coscienza in percentuali,
lo spazio mentale conscio non raggiungerebbe nemmeno il
punto percentuale rispetto al totale della magica potenza di
elaborazione del cervello; tutto il resto sta in quella
supermacchina modulare e di incomprensibile potenza che
è il nuovo inconscio.
E qui, però, la discussione si fa spinosa. Sarebbe bello
credere di poter avere accesso diretto a ciò che accade
nell’inconscio e poterlo modificare. Questo, però, è in gran
parte un errore di percezione noto come «illusione
introspettiva».12 L’introspezione (letteralmente «guardarsi
dentro») non è una perdita di tempo, ma non è nemmeno
una chiave magica per accedere all’inconscio. Purtroppo
molti libri di self-help e filosofia new-age vorrebbero
convincerci che la chiave sta proprio nell’introspezione e
che apprendere nuovi (o antichi) metodi di introspezione ci
farà ottenere ciò che vogliamo dalla nostra mente
inconscia, così, a richiesta.
Dal punto di vista del science-help, dobbiamo farci un’idea
più fondata di ciò che si può e non si può ottenere con
l’introspezione o con altre tecniche incentrate
sull’interiorità. Accedere all’inconscio è possibile, ma si
tratta di un accesso limitato, e questo non è poi un fatto
negativo. Nel nostro cervello l’evoluzione ha stabilito un
sistema di inestimabile valore che si definisce
«automatismo» il quale permette a tutti quei moduli
inconsci di cui abbiamo trattato fin qui (insieme a migliaia
di altri) di operare senza un intervento consapevole. La
maggioranza dei pensieri e delle sensazioni che ci giungono
dall’inconscio sono non verbali ed «epistemici»: non sono
certo concreti, ma nemmeno interamente astratti. Fra
questi, le sensazioni di sapere e di aver dimenticato, i
sentimenti di fiducia e di incertezza, e il fenomeno detto
tip-of-the-tongue, «sulla punta della lingua» (per esempio:
«So come si chiama quel gruppo rock, ma il nome non mi
viene… però so di saperlo!»).
Sensazioni e pensieri epistemici filtrano dall’inconscio in
uno spazio chiamato «metacognizione di ordine inferiore»
(vedi parte inferiore del box sulla metacognizione nella
figura 1.5). In questo spazio si ha un primo contatto con i
misteri dell’inconscio, i quali però non hanno ancora
raggiunto il teatro mentale. Ciò accade solo quando il
centro di comando e di controllo (la corteccia prefrontale) li
rilancia nella «metacognizione di ordine superiore» (o
«metarappresentazione cosciente», la sezione superiore del
box sulla metacognizione), la porzione della nostra mente
dove si afferma una certa lucida consapevolezza, nella
quale possiamo distaccarci mentalmente e vedere cosa
stiamo pensando e provando.
Come detto prima, in questo spazio mentale conscio
possiamo elaborare una quarantina di informazioni al
secondo. Si tratta di una goccia rispetto all’oceano
dell’elaborazione inconscia, ma certo non di una capacità di
elaborazione insignificante. Si possono ottenere eccellenti
risultati elaborando 40 informazioni in un secondo, e più
bravi si diventa a sfruttare la metacognizione, più
facilmente si riesce a far leva su tale potenza di
elaborazione. Di fatto stiamo allenando il cervello a
utilizzare il ciclo metacognitivo più spesso e più
efficacemente – ed è in questo che consiste l’essenza della
capacità adattiva del nostro cervello.

La consapevolezza metacognitiva
Ora che abbiamo esposto i principi fondamentali della
metacognizione, passiamo a trattare di una cosa che gli
psicologi chiamano «consapevolezza metacognitiva» e di
come essa si inserisca nell’indagine condotta finora. Per
stabilire il livello di consapevolezza metacognitiva di un
individuo, ovvero quanto siamo consapevoli di stare
esaminando e condizionando in maniera attiva i nostri
pensieri, gli psicologi utilizzano un sistema di valutazione
basato su questionari. Maggiore è la consapevolezza
metacognitiva, minore il ricorso al pilota automatico nei
processi di elaborazione del pensiero.13
In alternativa, si può pensare alla consapevolezza
metacognitiva come all’atto consapevole di inventare
strategie che operino una selezione fra le varie risposte
cognitive disponibili. Un ricercatore ha paragonato la
consapevolezza cognitiva al controllo del volume: più si
riesce ad alzare il volume metacognitivo, più siamo
consapevoli delle possibili risposte cognitive. Di nuovo, tali
strategie cognitive vengono formulate nel teatro mentale;
perciò, per attenerci alla metafora, non stiamo alzando solo
il volume, ma anche la risoluzione dello schermo.
La consapevolezza metacognitiva è costituita da quattro
fattori:14
– Controllo metacognitivo: il livello di controllo
consapevole che si esercita su pensieri ed emozioni nello
spazio mentale conscio.
– Informazione metacognitiva: la quantità e la qualità di
conoscenze che con il ciclo retroattivo si invia allo spazio
mentale conscio.
– Monitoraggio cognitivo: la frequenza e l’efficienza con
cui valutiamo le conoscenze nello spazio mentale conscio.
– Esperienza metacognitiva: ciò che si apprende dalle
conoscenze nello spazio mentale conscio e come tale
esperienza ci mette in grado di padroneggiare ancora
meglio l’intero processo.

Man mano che impariamo a potenziare la nostra


consapevolezza cognitiva e a sfruttarla a nostro vantaggio,
influenziamo sempre di più i cicli di retroazione del nostro
cervello. Diventiamo sempre più consapevoli di come le
nostre esperienze (interiori e non) influenzano il cervello e
si aprono per noi nuove possibilità per mettere a punto tali
condizionamenti e, pertanto, modificare la risposta a livello
cerebrale.
Per dirla in altre parole: più bravi diventiamo a pensare il
nostro pensiero, migliori saranno il nostro adattamento al
cambiamento e la nostra capacità di scegliere le strade che
ci consentono di ottenere risultati migliori nella vita.

Un giornalista nella testa

La metafora che secondo me meglio identifica la


metacognizione è quella del giornalista: un bravo
giornalista, infatti, incarna in sé le principali caratteristiche
di un individuo che sa ottenere il massimo dalla
consapevolezza metacognitiva.
Un bravo giornalista…
– Agisce con rapidità.
– Si affida a fonti attendibili.
– Fa le domande giuste.
– Va dove lo porta lo sviluppo della storia.
– Non sorvola sui fatti scomodi.

(In Parte seconda. Fare troverete altre metafore per la


mente, quelle che io chiamo «le dodici
metarappresentazioni della mente»; per il momento,
tuttavia, ci atterremo a quella del giornalista perché si
applica molto bene al caso della consapevolezza
metacognitiva).
Ecco in quale modo le singole caratteristiche del
giornalista trovano corrispondenza nella consapevolezza
cognitiva.
Figura 1.6

Agire rapidamente

Di rado i giornalisti possono permettersi il lusso di


perdere tempo quando devono decidere come trattare una
vicenda. Per essere tempestivi devono agire con rapidità.
Analogamente, anche la consapevolezza cognitiva richiede
rapidità per fare la differenza. Bisogna essere pronti a
distaccarsi dalla situazione e valutarla sul momento, poiché
– qualunque cosa stia accadendo – probabilmente accade
troppo alla svelta per permetterci di rimandare l’azione.
Scegliere fonti attendibili

La conoscenza è uno strumento, come lo sono la logica e


l’istinto. Se è vero che non ci si può affidare esclusivamente
alla conoscenza (come non ci può affidare unicamente alla
logica o all’istinto), non fare un buon uso della conoscenza
è il lasciapassare per la mediocrità, se non per il totale
insuccesso. Nelle pagine di questo libro sosterrò l’idea che
raccogliendo e applicando chiavi conoscitive tratte da fonti
attendibili otterremo vantaggi a livello metacognitivo.
Le fonti citate e consigliate in questo libro sono
principalmente basate su studi scientifici e sono attinte da
svariate discipline. Un giornalista in gamba ce la mette
tutta e sceglie un approccio interdisciplinare perché, prese
una per una, le discipline possono non offrire sufficienti
informazioni. Il giornalista si pone la missione di
smantellare i tradizionali compartimenti stagni che troppo
spesso impediscono alle discipline di beneficiare l’una delle
scoperte dell’altra: il giornalista è un sintetizzatore
interdisciplinare di conoscenze. Dunque, per potenziare la
nostra consapevolezza cognitiva anche noi dovremmo
affidarci a una pluralità di fonti. Reperire e assimilare
queste fonti è un processo di apprendimento continuo dal
quale otterremo grandi vantaggi se ci abitueremo a farlo
con regolarità.
Porre le giuste domande

Un bravo giornalista cerca di arrivare al sodo con


domande incisive piuttosto che girare intorno al nocciolo
della questione con qualche domandina innocua. Lo stesso
vale se si vuole sfruttare al meglio la consapevolezza
cognitiva. Quando tergiversiamo invece di andare dritto al
sodo della faccenda non ci facciamo certo un favore.
Oltretutto, non abbiamo tempo per badare alle ciance;
teniamo a mente che il tempo non è dalla nostra parte in
questa operazione, perciò procedere con determinazione è
tassativo.
Andare dove conduce la storia

I giornalisti sono detective con una propensione


all’espressione. Quando fanno le domande giuste la storia
potrebbe andare incontro a delle svolte, ed è loro compito
seguirne gli sviluppi. Un giornalista, però, sa anche quando
fermarsi se ha la sensazione di essere condotto verso un
vicolo cieco. A livello cognitivo il corollario è che in ogni
momento avvengono un sacco di cose nella nostra testa:
alcune sono rilevanti rispetto alle domande che ci stiamo
ponendo, altre no. Bisogna allenarsi a individuare ciò che è
pertinente e seguirlo, se si pensa che ci sarà d’aiuto. Va
ignorato, al contrario, tutto ciò che ci sembra una
diversione.
Non sorvolare sui fatti scomodi

Infine, un bravo giornalista in possesso dei fatti non


censura ciò che è scomodo o potenzialmente offensivo. Se
sono fatti importanti, devono far parte della storia. Con la
metacognizione si deve essere disposti a prendere atto di
tutto ciò che si scopre, per quanto doloroso o imbarazzante.
La ricerca interiore, come quella del giornalista, è stata
intrapresa seriamente per arrivare alla verità, una verità
che può essere sgradevole. È una cosa che si deve
accettare.
Forse vi chiederete come fare a compiere tutti questi passi
avendo così poco tempo a disposizione. La risposta è che
sebbene sembrino delle fasi in successione, di fatto vanno
tutte a comporre una singola disciplina. Il giornalista
incarna in sé ciascuna di queste caratteristiche e le mette
in atto tutte insieme. È la stessa cosa per la consapevolezza
metacognitiva: ogni volta che la esercitiamo di proposito,
non ci spostiamo con calma dal punto A al punto B al punto
C, bensì, come un giornalista navigato, ci alleniamo a fare
tutto in simultanea.

Ricapitolando

Abbiamo spiegato cos’è la metacognizione e il ruolo che


essa gioca nel pensiero umano; che cos’è un ciclo di
retroazione e le ragioni che ne fanno un concetto
essenziale quando si parla di mente e di cervello; infine,
come l’attività di un bravo giornalista abbia una precisa
corrispondenza con la consapevolezza metacognitiva.
Qui di seguito, un riepilogo dei punti salienti affrontati nel
capitolo 1:
– Metacognizione significa «pensare il pensiero».
– I cicli retroattivi comprendono quattro elementi
principali: evidenza, rilevanza, conseguenza e azione.
– Il ciclo metacognitivo è il processo con cui
l’informazione inconscia (all’interno del «Sistema») viene
messa in circolo nello spazio mentale conscio (il «teatro
mentale»), dopodiché l’informazione lì modificata ritorna
nel Sistema. A ogni modo, non si deve credere che sia
possibile accedere all’inconscio a nostro piacimento
attraverso l’introspezione; l’erronea convinzione di poterlo
fare viene definita «illusione introspettiva».
– Attraverso il ciclo metacognitivo è possibile avere un
accesso limitato all’inconscio, ma serve ricordare che tale
processo comprende due livelli di metacognizione: una di
ordine inferiore (che riceve pensieri e sensazioni
epistemici) e una di ordine superiore (nella quale possiamo
vedere con un senso di distaccata e limpida consapevolezza
i nostri pensieri e le nostre percezioni).
– La consapevolezza metacognitiva rappresenta il grado di
utilizzo della metacognizione allo scopo di selezionare le
«strategie cognitive» che a loro volta condizioneranno i
nostri pensieri e il nostro comportamento.
– Le norme di comportamento incarnate dal bravo
giornalista si allineano molto bene con quelle necessarie
per un utilizzo massimamente fruttuoso della
consapevolezza metacognitiva.
– Le «fasi procedurali» cui ricorre un giornalista in realtà
non sono affatto delle fasi, ma un continuum di pensiero e
azione; lo stesso vale nella metacognizione.
– Esercitarsi ad ampliare e potenziare la consapevolezza
metacognitiva richiede grande impegno, ma si aumentano
le probabilità di ottenere il massimo possibile dal punto di
vista cognitivo.
2. La mentalizzazione
La mente e i suoi giochi

Prima o poi la mente raggiungerà un livello di conoscenza superiore, anche se


non potrà mai dimostrare come l’ha raggiunto.
Albert Einstein

Abbiamo trattato della metacognizione: che cosa è e come


agisce nella nostra mente il ciclo metacognitivo. Adesso
estenderemo la discussione alle qualità straordinarie del
cervello umano che potenziano il pensiero metacognitivo.
Prima, però, è importante fare una distinzione tra queste
facoltà e le facoltà di autoriflessione delle altre specie. Per
molto tempo gli scienziati cognitivi hanno creduto che solo
gli umani fossero capaci di riuscire in compiti di
autoconsapevolezza anche elementari, come per esempio
riconoscersi allo specchio. Pensate all’autoconsapevolezza
come a uno spettro di abilità che va da task piuttosto
elementari come il riconoscersi allo specchio a
un’estremità e la consapevolezza metacognitiva dall’altra, e
vi sarete fatti una buona idea di cosa stiamo parlando.
Alla fine si è scoperto che le nostre ipotesi erano
sbagliate, perlomeno riguardo al livello di
autoconsapevolezza di alcune specie animali. Sono capaci
di riconoscersi allo specchio non solo gli scimpanzé e gli
altri grandi primati (che non scambiano il proprio riflesso
per un’altra scimmia), ma anche i delfini, gli elefanti, forse i
macachi e la gazza ladra, uccello appartenente alla famiglia
dei corvidi.1
Ciò che gli umani possiedono come prerogativa e che
queste specie non sono in grado di fare è distaccarsi dalla
prospettiva soggettiva ed esaminarsi dall’esterno in una
determinata situazione. Per esempio, uno scimpanzé può
facilmente riconoscersi davanti a uno specchio se,
indicandolo o toccandolo, nota che i gesti avvengono
all’unisono con i suoi movimenti. Come accennavo prima,
questa abilità supera di gran lunga quello di cui pensavamo
capaci i primati appena un paio di decenni fa. Tuttavia,
mentre si riconosce allo specchio lo scimpanzé non può
proiettarsi mentalmente all’esterno dello scenario che sta
vivendo: ovvero, non è in grado di «metacognizzare» a un
livello che esuli dalla situazione presente.
Questa è una cosa che gli esseri umani, invece, fanno in
continuazione, anche senza rendersene conto. Mettiamo,
per esempio, di essere al volante in una giornata di traffico
intenso quando qualcuno all’improvviso ci taglia la strada:
ci riconosciamo immediatamente in tutto ciò che sta
avvenendo nello scenario presente (noi stessi, il traffico, la
persona che ci ha tagliato la strada) e proviamo l’impulso di
reagire attaccandoci al clacson e sbraitando dal finestrino.
Ma l’evoluzione ci ha dotati di uno strumento che può fare
davvero la differenza, perché non siamo spinti a
identificarci solamente con quello che sta accadendo nel
momento: possiamo anche distaccarci mentalmente e
valutare cosa potrebbe accadere a seconda di cosa
scegliamo di pensare e di fare. Prima di attaccarci al
clacson e urlare improperi dal finestrino, mentalmente
facciamo un passo indietro dalla situazione e decidiamo
quali sono le possibili conseguenze del fatto di agire o non
agire. In questo spazio mentale «vediamo» ciò che
potrebbe succedere e decidiamo che non vale la pena
innescare le conseguenze potenzialmente negative di
un’azione aggressiva, e così rinunciamo a pigiare il clacson
e ci mordiamo la lingua. Abbiamo utilizzato in maniera
efficace la coscienza metacognitiva per modificare la
situazione.
Dopo aver letto l’ultimo paragrafo potreste chiedervi:
«Okay, splendido, ma che succede se mi lascio trascinare e
agisco di impulso?». La risposta è che tutti noi possiamo
modificare le conseguenze, anche se certamente siamo più
inclini a reagire dando retta all’elemento più antico del
nostro retaggio evolutivo: il sistema limbico, con la sua
celebre propensione al combattimento o alla fuga.2
Nel corso della nostra indagine ritorneremo sul problema
messo in evidenza dalla domanda appena esposta. Una
consapevolezza metacognitiva ben sviluppata non è affatto
un vaccino contro le reazioni fight-or-flight, ma una risorsa
che la maggior parte di noi non utilizza in maniera
sufficientemente consapevole da comprenderne la potenza.
Il pensiero metacognitivo è la più potente tra le forze
interiori di cui disponiamo per modificare e migliorare gli
esiti della costellazione cerebrale dei cicli di retroazione,
compresi quelli innescati da dosi massicce di adrenalina;
però ci vuole tempo per imparare a usarlo.
E questo per quanto riguarda cosa sappiamo fare, in
termini di autoriflessività, rispetto ai primati e alle gazze.
Ma cos’altro rende tanto speciale la mente umana?

La teoria della mente (ToM)

Con l’espressione teoria della mente (o


«mentalizzazione») ci si riferisce alla capacità unicamente
umana di immaginare le motivazioni e le emozioni che
hanno guidato il comportamento degli altri individui nel
passato e di prevederne gli sviluppi a seconda delle
circostanze presenti e future. Della teoria della mente fa
parte una componente conscia e ragionata, ma molto del
nostro «teorizzare» sui pensieri e i sentimenti altrui
avviene attraverso i processi automatici dell’inconscio.
Gli esseri umani sono l’unica specie animale le cui
relazioni e organizzazione sociale pretendono molto dalla
mentalizzazione, in quanto l’estensione e la complessità
delle nostre società richiedono che si «entri nella testa
degli altri» pressoché in continuazione; insomma, nasciamo
tutti mentalizzatori.
Ma non è assolutamente una cosa abominevole come
sembra. Ogni giorno tutti, animati o no da buone intenzioni,
saltiamo dentro e fuori le teste degli altri per raccogliere e
soppesare dati che ci permettano di capire come i loro
pensieri ne influenzeranno il comportamento. Lo facciamo
con una tale frequenza da poter affermare con certezza che
la nostra mente è – in parte – definita dall’intersezione dei
nostri pensieri con i pensieri degli altri individui.
Figura 2.1

A questo proposito sono di particolare interesse i


contributi dello psicologo e ricercatore Daniel Siegel. Il
lavoro di Siegel, che ha fatto nascere un nuovo campo di
ricerca, la «neurobiologia interpersonale», indica che
quando di parla di «mente» si parla di interrelazioni fra il
nostro cervello, la nostra mente e le menti altrui. In altre
parole, la mente è allo stesso tempo una realtà interiore e
una realtà relazionale. Citando Siegel:
«Come proprietà emergente del corpo e delle relazioni
interpersonali, la mente si crea all’interno di processi
neurofisiologici ed esperienze relazionali. In altre parole, la
mente è un processo che emerge dal sistema nervoso
esteso a tutto l’organismo e dai pattern di comunicazione
che si instaurano nelle nostre relazioni con gli altri».3
Questa è l’essenza di ciò che Siegel chiama «l’emergere
della mente»: una pluralità di processi fondamentali –
collegamenti neurali all’interno dei nostri cervelli e
collegamenti relazionali fra noi e le altre persone – dà vita a
qualcosa di qualitativamente nuovo che non può essere
ridotto alle sue parti: la nostra mente. Pertanto, la mente
umana «emerge» da un continuo scambio interno e
relazionale. Siegel così sottolinea il concetto: «i processi
mentali emergono […] non solo dal cervello all’interno del
cranio […]: la mente è incarnata e relazionale».

Intenzionalità: quando la mente si rispecchia nelle altre


menti

Accanto alla mentalizzazione c’è anche la nozione di


intenzionalità, un altro importante fattore che distingue la
coscienza umana da quella delle altre specie. Si può
considerare l’intenzionalità come il braccio operativo e
cosciente della teoria della mente e si misura in «ordini»
(primo, secondo, terzo e via dicendo).
I soggetti dotati di intenzionalità di primo grado (esseri
umani e animali) hanno la capacità di riflettere su se stessi
riguardo a necessità, bisogni e desideri. Riescono a entrare
nella propria testa. Anche uno scimpanzé che si guarda allo
specchio deve fare un certo lavoro a questo primo livello di
intenzionalità per stabilire che sta guardando se stesso e
non un altro scimpanzé, e che il grappolo d’uva sul
pavimento di fianco all’«altra» scimmia è in realtà accanto
a lui, pronto per essere raccolto e divorato.
L’intenzionalità di secondo grado permette a un soggetto
di formarsi una convinzione riguardo allo stato d’animo di
un altro soggetto.
Al terzo grado di intenzionalità si è in grado di riflettere
su ciò che a parere di una seconda persona pensa una terza
persona.
Salendo ancora, l’intenzionalità di quarto grado permette
a un individuo di ragionare su ciò che una persona pensa
che un’altra persona pensi riguardo a un’altra persona
ancora.
Solamente gli umani sono dotati di un’intenzionalità di
terzo e quarto grado, e in certi casi riescono a raggiungere
persino quella di quinto e sesto grado. Certe complesse
narrazioni letterarie sono possibili solo ricorrendo
all’intenzionalità di quarto grado o superiore.4
Si ritiene che i primati non umani, e forse anche i delfini e
i maiali, siano capaci di utilizzare l’intenzionalità di primo e
forse anche di secondo grado.5

Il ruolo della voce interiore

Un’altra caratteristica peculiare della mente umana è la


«voce interiore». La voce interiore in realtà non è altro che
un modo popolare per riferirsi alla consapevolezza
metacognitiva in azione. Quando esaminiamo ciò che
accade dentro di noi a livello di processi cognitivi,
attribuiamo all’agente esaminatore una «voce».
Ovviamente, la voce è la nostra, ma è proiettata da una
posizione di distacco.6
A tutti è capitato di sentirsi dire «Non farlo!» o «Forza,
approfitta!» dalla propria voce interiore. Come fa questa
voce a giungere alla decisione di imporci di fermarci o di
andare avanti? Essa parla dal «pulpito» metacognitivo
(quel punto di vista di distaccata osservazione di cui
abbiamo parlato fin qui) e «dà voce» alla decisione che
siamo stati noi a prendere.
La domanda è: quanto è «istruita» la nostra voce
interiore? Se riceve informazioni da un processo ben oliato
di consapevolezza metacognitiva, possiamo affermare con
certezza che nella maggior parte dei casi essa costituirà
una fonte attendibile. Se invece la voce interiore è tenuta
alla catena dal puro istinto e manca il distacco fornito dalla
metacognizione, seguendo le sue indicazioni ci potremmo
mettere nei guai.
Per la maggior parte degli umani non è una lezione facile
da assimilare. Nella cultura delle società consumistiche
siamo persuasi a credere che valga la pena inseguire tutto
ciò che «ci fa sentire bene», dove «sentirsi bene» è un
termine alternativo per riferirsi all’istinto. E sebbene certe
volte dare retta all’urgenza degli impulsi produca ottimi
risultati, altre volte gli effetti possono essere catastrofici.
Così come l’evoluzione comanda, i nostri istinti sono
pesantemente condizionati dai predicati della
sopravvivenza e della riproduzione. Ma quando si
trasferiscono quelle stesse pulsioni istintuali in culture
complesse, guidate dalle informazioni, oberate dalla
tecnologia, esse non sono più tanto adatte. Anzi, si può
ragionevolmente sostenere che i nostri istinti, nati su base
evolutiva, sono decisamente fuori posto nei modelli di
civiltà che i nostri cervelli hanno creato.
Ecco perché la metacognizione rappresenta una forza
interiore tanto importante: solo la metacognizione, infatti,
può indirizzare pulsioni istintuali e impressioni epistemiche
in una maniera più consona alle circostanze.
Gli studi scientifici si sono concentrati sul ruolo della voce
interiore nell’instaurarsi dell’abitudine al dialogo interiore,
che è poi una terminologia psicologica per dire che ciò che
ci ripetiamo si trasforma alla fine nella realtà che sentiamo
di vivere. Ammettiamo, per esempio, di essere in cerca di
lavoro e di avere ricevuto diverse lettere di rifiuto: la nostra
voce interiore gioca un ruolo centrale nel modo in cui
elaboriamo questo rifiuto. Se la voce interiore ci ripete che
siamo dei falliti («Guarda, solo no! Non te ne è andata bene
nemmeno una!») finiremo per considerare vano ogni sforzo.
Potremmo definirla una voce interiore «non istruita» o
«impreparata», perché risponde da un pozzo profondo di
emozioni oscure invece che da una distaccata posizione di
consapevolezza metacognitiva. Da quella posizione
probabilmente ci lancerebbe un messaggio del seguente
tenore: «È ragionevole aspettarsi più fallimenti che
successi, ma basta un solo esito positivo e concreto per
cambiare tutto».
Forse nessuno ha descritto il ruolo della voce interiore
meglio del grande imperatore romano e filosofo stoico
Marco Aurelio: «Quali saranno i tuoi pensieri abituali, tale
sarà anche la tua mente: l’anima, infatti, ne rimane
impregnata» (Marco Aurelio, I ricordi, V, 16).

Il puzzle si va componendo: la personalità autonoetica

Nei primi due capitoli abbiamo trattato un aspetto


fondamentale del grafico riassuntivo con cui si apriva il
primo capitolo. Adesso che conosciamo i meccanismi della
metacognizione e della mentalizzazione siamo pronti per il
primo importante «punto di svolta» della nostra indagine:

ATTRAVERSO UN USO EFFICACE DELLA METACOGNIZIONE – POTENZIATA DALLA


MENTALIZZAZIONE – ACQUISIAMO UNA PERSONALITÀ SEMPRE PIÙ «AUTONOETICA»

Il termine «autonoetico» indica il massimo livello


raggiungibile di autoconsapevolezza (utilizzo il termine
«raggiungibile» per sottolineare i limiti dell’accesso
all’inconscio, come spiegato nel capitolo 1; tenete a mente
che la nostra è un’indagine pragmatica: dobbiamo essere in
grado di ottenere dei risultati concreti).
Figura 2.2

Per come la definisco io, la personalità autonoetica ricorre


molto poco al pilota automatico quando si tratta di cose che
può influenzare consapevolmente. Le personalità
autonoetiche comprendono il meccanismo del ciclo
metacognitivo e lo mettono a frutto ogni giorno; sanno
anche come funziona la mentalizzazione e si rendono conto
che la loro mente si interseca continuamente con quelle
degli altri; si rendono conto di non poter controllare il
proprio inconscio, ma attraverso la metacognizione
possono esercitare una certa influenza sui processi
modulari che avvengono nel vasto Sistema inconscio, e che
questa influenza può fare la differenza in termini di risultati
ottenuti nella vita; altro fatto compreso dalle personalità
autonoetiche è che la metacognizione, se ben utilizzata,
permette di diventare più abili nel dirigere e regolare il
flusso e l’elaborazione delle informazioni da e verso la
coscienza.
Studi condotti nell’ultimo decennio dimostrano che
sviluppare l’autonoesi porta chiari benefici.7 Tra questi:
– Livelli superiori di creatività.
– Maggiore capacità di applicare le conoscenze apprese.
– Potenziamento dell’adattabilità nell’approccio ai
problemi.
– Miglioramento delle prestazioni (sul piano lavorativo,
scolastico, ecc.).

Ricapitolando

Riepilogo dei punti salienti del capitolo 2:


– Se un tempo si riteneva che solo gli umani possedessero
un grado seppur marginale di autoconsapevolezza, adesso
sappiamo che primati, delfini ed elefanti possiedono i
principi base dell’autoconsapevolezza, come per esempio la
capacità di riconoscersi allo specchio.
– La teoria della mente, o mentalizzazione, indica quella
facoltà esclusivamente umana di ragionare sul pensiero
degli altri individui sulla base del loro comportamento
passato e presente. Essa rappresenta un’intersezione fra le
menti, ed è questa intersezione che, in parte, definisce «la
mente».
– L’intenzionalità si descrive in livelli, o «ordini», a partire
da quella di primo ordine (autoconsapevolezza nella sua
forma più elementare); quella di secondo ordine indica la
consapevolezza del pensiero di un altro individuo:
l’intenzionalità di terzo ordine indica la consapevolezza del
pensiero di un altro individuo riguardo al pensiero di un
terzo individuo; e così via. Solo gli esseri umani possiedono
un’intenzionalità di terzo ordine o di livello superiore, forse
fino al sesto grado.
– Con l’espressione «voce interiore» ci si riferisce
volgarmente alla consapevolezza metacognitiva in azione.
– Una voce interiore «istruita» è stata abituata a parlare
da una posizione di distacco, mentre una voce interiore
«non istruita» esprime il punto di vista della reazione
emotiva.
– I primi due capitoli ci hanno condotto a una tappa
fondamentale della nostra indagine: la personalità
autonoetica.8
3. L’adattamento pragmatico
Cambiare il pensiero, cambiare la vita

La vita vera si vive nei piccoli cambiamenti.


Lev Tolstoj

L’adattamento pragmatico

All’inizio di questo capitolo ci discosteremo brevemente


dal discorso sulla metacognizione per avventurarci nelle
arene della biologia evolutiva e della sua più giovane
cugina, la psicologia evoluzionistica. A questo punto è
importante fare alcune distinzioni che condizioneranno il
resto della nostra indagine.

Figura 3.1
Figura 3.2

La cosa più importante in assoluto è sviluppare una


comprensione pratica del perché i cicli di retroazione siano
tanto fondamentali per ciò che siamo in quanto specie che
molto deve all’evoluzione biologica e in quanto individui in
perenne lotta con le vicissitudini dell’evoluzione culturale.
Per vostra comodità, a destra trovate un grafico che
illustra le componenti fondamentali del ciclo retroattivo.
Essendo noi umani prodotti dell’evoluzione biologica,
molto probabilmente i cicli di retroazione ci accompagnano
da molto prima che emergessimo sulla scena del mondo
come Homo erectus. La stessa cosa si può affermare di
molti aspetti dell’umanità in questa sua ultima fase di
sviluppo e che si tende a credere assolutamente «moderni»
per origine e applicazioni. Si tratta di un errore
comprensibile: l’utilizzo e lo scopo di molti pensieri e
sentimenti li possiamo vedere solamente in tempo reale – il
nostro tempo.
Si prenda per esempio il dubbio. Quando si pensa al
dubbio, si pensa a quel processo cognitivo che mettiamo in
atto per mettere in discussione la veridicità di un’idea o
un’affermazione. Il dubbio sembrerebbe uno strumento
appannaggio di una specie progredita, una specie capace di
esercitare il pensiero critico e l’autoriflessione. Ma
riavvolgiamo il nastro un momento per vedere come questo
strumento apparentemente moderno si sia sviluppato fino a
diventare un elemento della nostra strumentistica
cerebrale. Precorritori di ciò che chiamiamo dubbio
appaiono lungo i rami dell’albero evolutivo da millenni: se
non li riconosciamo come tali è perché la nostra percezione
pota quei rami in prossimità del qui e ora.1
Il dubbio in una forma ante litteram potrebbe essere stato
quell’improvvisa sensazione che impedì a uno dei primi
ominidi di camminare troppo vicino alla tana di un
mostruoso serpente in agguato sotto un sottile strato di
sabbia. Quell’ominide sarebbe stato in grado di spiegare la
sensazione che lo salvò dalle fauci del rettile? Ovviamente
no, ma il fatto di non poterla spiegare non ha cancellato
l’importanza vitale di quella sensazione per la sua
sopravvivenza.
La stessa cosa si può dire degli elementi del ciclo di
retroazione. Usando altre parole, la ragione per cui ci
affidiamo a un processo che ci fa allontanare dal pericolo e
ci indirizza verso forme di ricompensa affonda le sue radici
in profondità sotto gli strati millenari della sopravvivenza
della specie. Per tutte le cosiddette moderne modalità di
pensiero dobbiamo ringraziare l’evoluzione. Se ognuna di
queste modalità si è mantenuta fin nel presente è proprio
perché ha contribuito alla sopravvivenza e alla prosperità
dei nostri antenati su questo pianeta.
L’altro lato della faccenda riguarda l’universo sociale nel
quale viviamo, un mondo che è il prodotto di ciò che spesso
viene chiamato «evoluzione culturale».2 Per gran parte del
proseguimento della nostra indagine ci muoveremo lungo i
corridoi dell’evoluzione culturale, all’interno dei quali
vedremo che il feedback è non solo stato essenziale per la
nostra sopravvivenza biologica, ma anche indispensabile
per ciò che io definirò «adattamento pragmatico».
L’adattamento che avviene nell’ambito dell’evoluzione
biologica è un processo necessariamente lento, troppo
lento per poterne tenere traccia in tempo reale. Quel
genere di adattamento è dettato dalla selezione naturale
nel corso di centinaia di migliaia di anni, e in certi casi in
un lasso di tempo anche più lungo.
L’adattamento pragmatico, invece, è una forma di
adattamento improntata alle esigenze e alle sfide
dell’evoluzione culturale, che procede a ritmi molto rapidi.
Si considerino, per esempio, i progressi delle tecniche
mediche per la cura del cancro negli ultimi due decenni.
Siamo passati dal trauma di trattamenti approssimativi
come la chemioterapia all’immissione di agenti
anticancerogeni in una particella di microRNA che poi viene
introdotta nel corpo come un missile cruiser lanciato verso
il tumore bersaglio.3 Si tratta di un progresso enorme in un
tempo così breve, e nel prossimo ventennio assisteremo a
progressi ancora più stupefacenti. Oppure si pensi ai
giganteschi passi compiuti nelle comunicazioni grazie ai
social network, agli smartphone e a tutta una serie di
tecnologie che colmano le distanze che prima impedivano
alle persone di interagire. Se tale distanza sta scomparendo
è perché i nostri cervelli hanno escogitato delle tecnologie
che superano i divari fisici fra gli individui in ogni parte del
mondo.
Praticamente tutti i campi o le discipline producono storie
simili, e tutte sono scritte nel contesto del mondo che è
stato creato dai nostri cervelli. Sottolineo questo fatto
perché voglio evidenziare una cosa su cui ritorneremo più
volte: i nostri cervelli sono il prodotto dell’evoluzione
biologica, ma ciò che i nostri cervelli creano genera il
turbine incessante dell’evoluzione culturale. C’è qualcosa
di ironico nel fatto che ci dobbiamo adattare a un mondo
che è stato creato dal più complesso esempio di
adattamento evolutivo esistente sul pianeta, non trovate?
L’adattamento pragmatico concerne il modo in cui
dobbiamo adattare il nostro pensiero e il nostro
comportamento per farci strada nel mondo creato dai
nostri cervelli. È una cosa che facciamo in continuazione,
secondo modalità apparentemente insignificanti come
scegliere tra un caffè normale e un decaffeinato al mattino
e in altri modi che hanno un impatto enorme sulle nostre
esistenze, come decidere dove vivere, quale tipo di attività
lavorativa svolgere, se avere dei figli.
La mia opinione è che la variabile più importante
nell’esercizio dell’adattamento pragmatico sia il feedback.
Giorno dopo giorno prendiamo delle decisioni sulla base
degli esiti dei cicli retroattivi che avvengono nella nostra
mente senza che noi ce ne accorgiamo. Nessuno si ferma a
riflettere su ogni singola fase del ciclo, su come le
informazioni da noi raccolte vengano processate in modo
tale da guidarci verso la prossima mossa. Eppure il ciclo
continua, anche senza il monitoraggio della nostra mente
conscia.
In certe occasioni, tuttavia, osserviamo i cicli di
retroazione con estrema attenzione. Rallentiamo il
processo, fermiamo una fase come se premessimo il tasto
«pausa» e analizziamo tutto quello che succede. Quando
siamo particolarmente preoccupati che una nostra
disattenzione possa avere conseguenze molto negative, la
reazione alla minaccia che scatta spontaneamente nel
nostro cervello fa sì che i livelli di ansia salgano e che la
nostra attenzione venga indirizzata verso ciò che si
percepisce come minaccioso. Questo genere di risposta
viene stimolata anche quando cambiamo lavoro, oppure
quando decidiamo di sposarci o di trasferirci in un’altra
città.
In questi come in infiniti altri casi, adattarsi positivamente
e pragmaticamente alle esigenze della situazione ha buone
probabilità di indurre conseguenze importanti, tali da
cambiarci la vita. A contare più di tutto sono la qualità delle
informazioni su cui si basano i nostri cicli di retroazione,
ma anche il modo in cui facciamo uso di tali informazioni.
Compiere un errore nella fase della conseguenza, per
esempio, ci porterà a scegliere la linea d’azione sbagliata: e
una volta imboccata quella strada e aver dato avvio a una
catena di effetti che scateneranno ulteriori conseguenze,
tornare indietro potrebbe non essere facile.
La posta in gioco non sempre è così alta e la maggior
parte delle volte elaboriamo informazioni per giungere ad
azioni dagli esiti meno rilevanti. Il punto fondamentale,
tuttavia, è che qualunque siano gli esiti, minimi o
importanti, in ogni momento noi umani ci adattiamo alle
sfide, alle esigenze e agli ostacoli. E ci affidiamo al
feedback per adattarci con successo.

Il «rebooting» del cervello adattivo

Prima che le scienze cognitive e comportamentali ci


fornissero una nuova comprensione del cervello umano, si
presumeva che questo organo possedesse una capacità di
cambiamento assai limitata. Numerose scoperte ci hanno
costretti a cambiare idea, e quasi tutte rientrano sotto
l’intestazione della «plasticità cerebrale». Con questa
espressione ci si riferisce in genere a una modificazione a
livello neurochimico, nella fattispecie a modifiche nella
forma e nelle dimensioni delle sinapsi, i punti di
collegamento fra neuroni che permettono il passaggio di
neurotrasmettitori come dopamina, serotonina e
glutammato.4
Non tutte le sinapsi sono «plastiche», ma oggi sappiamo
che diverse regioni cerebrali ospitano neuroni con sinapsi
capaci di regolare verso l’alto o verso il basso la ricezione e
il rilascio di specifici trasmettitori. Un fatto rilevante,
perché apre alla possibilità di allenare il cervello a fare
cose prima ritenute impossibili. Per esempio, gli studi
hanno dimostrato che il cervello può essere abituato a
rimediare alla paralisi di un arto «ricablandosi» in maniera
tale da controllare l’arto attraverso sentieri neurali diversi;
alla fine sfruttando questo fenomeno potrebbe essere
possibile superare la paralisi in più parti del corpo.5
Per quanto ci siamo prefissati in questo libro, stiamo per
distogliere l’obiettivo dall’aspetto neurochimico (sempre
tenendo a mente, però, che esso è alla base di tutto ciò di
cui tratteremo) per concentrarci sulle implicazioni più
pratiche della nostra capacità cerebrale all’adattamento.
Andiamo alla ricerca di conoscenze spendibili nella pratica,
il che ci conduce direttamente a una possibilità di
cambiamento nel nucleo più profondo dell’essere umano.

Eroi dell’adattamento: modifiche della personalità e


benessere dell’individuo
Una delle ultime roccaforti dell’«impossibilità del
cambiamento» a cadere riguarda il fondamento della nostra
identità: la nostra personalità. Proprio negli ultimi dieci
anni le ricerche hanno scoperto non solo che la nostra
personalità è suscettibile di cambiamento, ma che cambiare
il proprio carattere può contribuire all’appagamento
esistenziale e alla felicità più che un cambiamento nella
vita lavorativa, coniugale o un trasferimento.6 Sembra che
il genere di cambiamento che risulta più vitale per il nostro
benessere interiore sia sempre stato trascurato a vantaggio
di fattori ovviamente non-statici, quelli che era più
probabile riuscire a influenzare. La verità, però, è che la
personalità non è mai stata statica. Diversamente dalla
metafora suggerita dal famoso proverbio, il lupo oltre al
pelo può perdere anche il vizio.
Non ci attarderemo troppo a cercar di capire come mai
per così tanto tempo sia stata ignorata la possibilità del
cambiamento della personalità; basti dire che da questo
errore di valutazione deriva un modello generale che ha
dominato le scienze sociali fino a pochissimi anni fa. Più
centrale per la nostra discussione è ciò che adesso
sappiamo sulle modifiche della personalità e come questo si
incastri con la nostra indagine sul feedback e
l’adattamento.
Per prima cosa dovremmo esaminare cosa si intenda con
«personalità». Per definire la personalità gli psicologi
utilizzano cinque categorie di valutazione, spesso chiamate
«i Big Five».7
Inizialmente i Big Five non includevano solo cinque
categorie. Il teorico della personalità che mise in moto il
lavoro sull’identificazione della personalità, Gordon Allport,
partì dall’ipotesi che esistessero 4504 aggettivi utilizzabili
per descrivere gli specifici tratti caratteriali, che poi riunì
in tre categorie fondamentali:
1. I tratti cardinali, quelli che più influenzano
l’atteggiamento mentale e il modo di pensare.
2. I tratti centrali, quelli che influenzano il comportamento
dell’individuo.
3. I tratti secondari, che si manifestano solo in certe
situazioni.
Figura 3.3

Un numero così grande di tratti generava troppa


confusione ed era poco maneggevole per risultare utile alla
maggior parte degli individui, così alla fine un altro teorico,
Raymond Cattell, ricorse a una tecnica statistica per
ridurre l’enorme elenco di Allport a una lista di 171
termini. In seguito restrinse l’elenco a un modello di sedici
fattori di personalità. Successivamente questo modello fu
ulteriormente «scremato» da altri due psicologi studiosi
della personalità, Paul Costa Jr. e Robert McCrae, che lo
restrinsero a cinque categorie chiave, quelle che adesso
conosciamo come «Big Five».8
Un individuo viene valutato in ogni categoria di
personalità attraverso un questionario ottenendo un
punteggio; più elevato è questo punteggio per una
determinata categoria, più quel tratto di personalità è
sviluppato. Per quanto non si tratti di un sistema perfetto, il
test di Costa e McCrae è stato ampiamente convalidato e
fornisce un mezzo diffuso per prevedere come una persona
reagirà a un altro individuo, a un’altra situazione, idea o
oggetto.9
Per esempio, si può prevedere con sicurezza che un
individuo che ottenga un punteggio elevato nella categoria
«Apertura all’esperienza» sarà più ricettivo a idee nuove e
stimolanti rispetto a una persona con punteggio basso. Un
individuo che ha un buon punteggio in «Coscienziosità»
probabilmente dedica più tempo a organizzare le proprie
cose rispetto a un’altra con un punteggio inferiore. Colui
che ottiene un buon risultato in «Estroversione» sarà più
socievole e comunicativo di chi nella stessa categoria
ottenga un basso punteggio.
In passato si credeva che il punteggio di un individuo in
ciascuna categoria fosse immutabile, che questo fosse
fissato una volta per sempre probabilmente già a partire
dai primi anni dell’adolescenza.10 Tuttavia, gli ultimi studi
mostrano che possono avvenire cambiamenti in ogni
categoria e, a seconda dell’ambiente in cui viviamo, grazie
all’adattamento possiamo cambiare senza nemmeno
accorgercene.
Ciò significa che possiamo cambiare radicalmente il
nostro modo di essere? No, perché ognuno di noi
incontrerà vari livelli di resistenza al cambiamento nelle
diverse categorie, e questi influenzeranno il grado di
cambiamento raggiungibile. Inoltre, per motivi che ancora
non comprendiamo fino in fondo, alcuni individui sono più
resistenti al cambiamento rispetto ad altri. Esisteranno
sempre dei parametri individuali, dei tratti particolari che,
qualunque cosa accada, resteranno rappresentativi del
proprio io.
Cambiamento radicale a parte, la maggioranza degli
individui può modificare la propria personalità in modo
significativo, e farlo può apportare maggiori benefici che
sforzarsi di cambiare i fattori esterni. Come avviene la
modifica della personalità? Per mezzo di un meccanismo di
cui abbiamo già parlato e che continueremo a trattare e
che abbiamo chiamato «adattamento pragmatico». Per
prima cosa si individuano quali sono i nostri limiti in
ciascuna categoria di personalità, quindi li si affrontano
mettendo in pratica l’adattamento pragmatico.
In effetti le ricerche hanno dimostrato che la modifica
della personalità è una variabile tanto essenziale
dell’appagamento esistenziale quanto lo sono i fattori
socioeconomici (reddito, occupazione o disoccupazione,
stato civile). Inoltre, ai fini dell’appagamento esistenziale il
cambiamento della personalità conta due volte di più della
somma di tutte le principali variabili demografiche (dove
viviamo, quanti figli abbiamo, ecc.).11
Studi analoghi rivelano che faremmo bene a dedicare più
tempo a riflettere sui Big Five che sulle variabili esterne,
sulle quali non sempre possiamo avere il controllo. Anche
quando siamo noi a controllarle (per esempio, nel caso in
cui si scelga di cambiare casa o città), si tratta di
cambiamenti che non toccano il nucleo del nostro
benessere a meno che non implichino anche la modifica
della personalità. Il problema è che la nostra personalità –
che la si consideri una variabile oppure no – ci segue
sempre, perciò faremmo molto meglio a tenerla in cima ai
nostri pensieri. Vale la pena citare un vecchio adagio:
«Dovunque tu vada, ci sei già».

Due tappe fondamentali sulla strada dell’adattamento:


allostasi e omeostasi

Esistono due termini al contempo complementari e


opposti fra loro che ci dicono moltissimo di come il cervello
umano si adatti a un mondo in continuo cambiamento e che
esercitano un’influenza diretta sul nostro repertorio di
personalità: allostasi e omeostasi. Per prima analizziamo
l’omeostasi.
Figura 3.4

Il termine omeostasi si riferisce alla tendenza di un


sistema a mantenere una condizione di stabilità ed
equilibrio piuttosto che saltare da un estremo all’altro. Il
celebre fisiologo Walter Bradford Cannon coniò il termine
con riferimento ai sistemi fisici – e, come sappiamo, anche
il cervello è un sistema fisico. In effetti il nostro cervello e il
nostro corpo presi nella loro totalità rappresentano un
sistema fisico, e come tale tendono all’omeostasi, ovvero
all’ambiente sicuro della stabilità e dell’equilibrio.12
L’allostasi, in posizione opposta e complementare, è la
necessità da parte di un sistema di adattarsi ai continui
cambiamenti dell’ambiente interno ed esterno allo scopo di
avvicinarsi al santo Graal dell’omeostasi.13
Il cervello umano incarna in sé entrambe le dinamiche. Il
cervello, per esempio, ricerca l’equilibrio omeostatico tra il
sistema nervoso simpatico e il sistema nervoso
parasimpatico – tra lo stato di riposo in cui la
concentrazione è minima e lo stato di stress e allerta, lo
stato del «combatti o fuggi» – ma non si resta mai
esclusivamente in uno stato o nell’altro. Il nostro cervello
aziona uno stato e disattiva l’altro in risposta alle influenze
interne ed esterne. Se restiamo troppo in uno stato o
nell’altro si avranno conseguenze sul piano fisico e
psichico. Un periodo di riposo prolungato potrebbe
contribuire all’insorgere di una depressione; oppure, una
reazione di eccessivo stress a un perenne stato di fight-or-
flight potrebbe generare un forte rialzo della pressione
sanguigna. (Pensate a come reagirebbe la vostra macchina
se provaste a metterla in moto dopo un anno di fermo in
garage, oppure a cosa accadrebbe al motore se lo spingeste
al limite sull’autostrada per ore e ore). A dosi prolungate
nessuno dei due stati è salutare.
Ecco perché, a livello di funzionamento quotidiano, il
nostro cervello è anche allostatico, in costante adattamento
alle sfide, agli ostacoli, ai cambiamenti e alle svolte
provenienti dall’interno e dall’esterno. Un esempio tipico di
adattamento allostatico frequente è il modo in cui gestiamo
ciò che gli psicologi chiamano «errori cognitivi».14

Alle prese con gli errori cognitivi

Uno dei tanti contributi della psicoterapia cognitivo-


comportamentale (o CBT, dall’inglese Cognitive Behavioral
Therapy: una tecnica terapeutica incentrata sulla modifica
delle risposte emotive attraverso la modifica del pensiero)
alla comprensione e alla gestione dei modi in cui
elaboriamo pensieri ed emozioni e ci adattiamo a essi è
stato quello di identificare una serie di «errori cognitivi»
che filtrano le informazioni in maniera errata, qualunque
sia la loro origine. Ogni volta che assecondiamo un errore
cognitivo il nostro cervello interpreta male le informazioni
(l’evidenza) con la conseguenza di produrre una distorsione
nei cicli di retroazione; questa, a sua volta, disturba la
nostra capacità di adattamento.
Ecco alcuni tra i più comuni errori cognitivi:
– Ragionare in termini di «o tutto o niente».
– Generalizzare troppo.
– Sminuire ciò che è positivo.
– Minimizzare i lati negativi.
– Leggere nel pensiero.
– Predire il futuro.
– Ingigantire o minimizzare le cose.
– Ragionamento emozionale.
– Etichettare cose o persone.
– Riportare tutto al piano personale.
– Paragoni errati.
– False aspettative.

Ragionare in termini di «o tutto o niente»: ragionare sulle


cose in maniera assolutistica; tutto è o bianco o nero, le
sfumature di grigio non esistono. «Se in passato una
persona si è comportata in maniera fredda con me, si
comporterà sempre allo stesso modo anche in futuro».
«Non mi accontenterò di qualcosa di meno di una
promozione, e se non la ottengo me ne vado: o la va, o la
spacca».
Generalizzare troppo: Utilizzare la percezione di un certo
aspetto di una cosa o di una persona per applicarla alla
descrizione di ogni cosa o di ogni persona simile. «La gente
che si compra il SUV non ha rispetto dell’ambiente. Tutti
quelli che si fanno un tatuaggio sono per forza dei ribelli».
Sminuire ciò che è positivo: Pensare che se accade
qualcosa di buono è stato un caso o un colpo di fortuna, e
quando invece succede qualcosa di brutto c’era da
aspettarselo. «Se l’esame va bene sarà una botta di fortuna,
se non lo passo è perché non sono abbastanza intelligente».
Minimizzare gli esiti negativi: Pensare che se accade
qualcosa di negativo noi non c’entriamo niente, mentre se
si verifica qualcosa di positivo è grazie alle nostre azioni.
«Tanto lo so che se non ottengo questo lavoro è perché
metto in soggezione la commissione esaminatrice, perché
vogliono qualcuno da poter trattare come uno zerbino».
Leggere nel pensiero: Ritenersi in grado di poter
indovinare con esattezza cosa pensano gli altri senza
averne uno straccio di prova. «Il mio capo si aspetta che gli
chieda un aumento, perciò quando andrò a parlare con lui
di certo sarà già sulla difensiva».
Predire il futuro: Prevedere per ogni situazione il peggiore
degli esiti possibili. «Uscirò con quel ragazzo, anche se
sarà inutile perché so già che tra noi non funzionerà».
Ingigantire o minimizzare le cose: Sopravvalutare o
sottovalutare la realtà di una situazione senza prendere in
considerazione l’evidenza che indica l’esatto opposto. «Se
Stephanie mi rifiuta sarà la prova che non valgo niente, che
non mi merito l’attenzione di nessuno».
Ragionamento emozionale: Dare credito ai sentimenti
negativi senza metterli in discussione e comportarsi di
conseguenza. «Sono arrabbiato, il che vuol dire che la mia
rabbia deve avere una giustificazione».
Etichettare cose o persone: Appiccicare una certa
etichetta a una persona e su questa basare tutte le proprie
considerazioni anche se l’evidenza dimostra il contrario.
«John indossa due orecchini, quindi non posso prenderlo
sul serio».
Riportare tutto al piano personale: Credere che ogni
avvenimento, anche il più insignificante, ci riguardi in
qualche modo. «Oggi al lavoro quando ci siamo incrociate
nell’ingresso Sarah non mi ha sorriso. Deve avercela con
me».
Paragoni errati: Non riuscire a cogliere differenze
importanti tra persone o cose, ovvero comportarsi come se
tali distinzioni non contassero. «Il manager di una grossa
azienda è depresso come quello di qualsiasi altra azienda;
ovunque è la stessa storia».
False aspettative: Non riuscire a cogliere la vera portata,
le corrette variabili o possibilità di un certo obiettivo o
problema. «Se mi laureo troverò un lavoro che mi farà
guadagnare un sacco di soldi. È così che funziona».

Qualche esempio di errore cognitivo che altera i cicli di


retroazione

Poiché dipendono dall’immissione e dall’elaborazione dei


dati, i meccanismi di retroazione possono essere alterati e
distorti dagli errori cognitivi. Un filtro mentale errato
alimentato da un errore cognitivo può alterare tutte le altre
fasi del processo cognitivo.
Per esempio, se si parte dall’idea che o si raggiunge il
proprio obiettivo al 100% o non lo si raggiunge affatto, e
che nessun altro risultato è accettabile, si sarà
esageratamente categorici nello stadio della conseguenza
perché si è già deciso che, a meno di non poter ottenere
tutto quello che si desidera, non c’è ragione di andare
avanti.
Raramente questo è possibile, e partire da un punto di
vista assolutistico ci farà ignorare la possibilità che
ottenere un risultato parziale ora potrebbe metterci nella
posizione di ottenere qualcosa di più in un secondo tempo.
Abbiamo limitato le nostre possibilità per colpa di un errore
cognitivo di cui probabilmente non ci rendiamo nemmeno
conto.
Se si parte dall’errore cognitivo della «lettura del
pensiero», probabilmente si elaboreranno le evidenze da
una prospettiva distorta basata sulla falsa convinzione che
si possa conoscere con assoluta certezza cosa sta pensando
un’altra persona. Se si ragiona sulla base di «false
aspettative», con tutta probabilità si valuterà in maniera
erronea l’evidenza e si sottovaluteranno – o
sopravaluteranno – le risorse necessarie a promuovere
l’azione.
Per sfruttare al meglio il meccanismo del feedback,
faremmo bene a individuare i nostri errori cognitivi e a
frenarci non appena cominciamo a indugiare in uno o più di
essi. L’eccesso di generalizzazione e il ragionamento in
termini assolutistici, per esempio, in genere vanno a
braccetto fra loro.

Errori cognitivi e pensieri automatici

È difficile individuare e bloccare gli errori cognitivi prima


che facciano danno perché la loro fonte principale – i
pensieri automatici – «traboccano» dal nostro inconscio per
la maggior parte della nostra esistenza. (Ricordate il
termine «epistemico» che ho utilizzato nel capitolo 1? In
una certa misura il fatto che qualcosa filtri dall’inconscio
ha una sua utilità, ma in altri casi si tratta di pensieri
assolutamente negativi ed erronei.) Ciascuno di noi è
soggetto a un certo tipo di errore piuttosto che ad altri, ma
tutti, indistintamente, ogni giorno cadiamo vittime in una
certa misura di pensieri automatici erronei.
Errori cognitivi assecondati per anni producono
l’instaurarsi di schemi neurali a livello cerebrale. Se ci
ritroviamo a imboccare spontaneamente i binari della
lettura del pensiero, dell’etichettatura o del ragionamento
emozionale è perché si tratta di strutture fisiche reali che si
sono sviluppate nel nostro cervello col tempo e ci siamo
abituati a seguirli. Visti in questo modo, gli errori cognitivi
non sono affatto pensieri, bensì azioni abituali verso le
quali sviluppiamo un’assuefazione a causa di un pensiero
automatico fuorviante che si è introdotto nel nostro spazio
mentale e ha catturato la nostra attenzione.15
Figura 3.5

A questo punto è utile riprendere la discussione sulla


metacognizione e l’inconscio affrontata nel capitolo 1, in
particolar modo riguardo alle sensazioni e ai pensieri
epistemici. Prendete nuovamente come riferimento la
figura 3.5 che a questo è dedicata.
Il nostro cervello produce pensieri automatici in
continuazione, negativi o positivi che siano. Il fatto è che
non sappiamo spiegare fino in fondo perché l’inconscio
produca questo brusio di informazioni apparentemente
senza fine, però sappiamo che esso avviene
incessantemente e che la nostra capacità di gestire tali
pensieri è fondamentale per l’adattamento.

Due strumenti utili: l’attenzione e il problem-solving

Sappiamo che non è possibile impedire ai pensieri


automatici di emergere dal nostro subconscio, ma una cosa
possiamo farla: possiamo allenarci a focalizzare in maniera
costruttiva la nostra attenzione. Una mano ci viene offerta
dalla terapia cognitivo-comportamentale, attraverso una
serie di tecniche che servono ad applicare la disciplina del
problem-solving.
Regole di problem-solving suggerite dalla CBT

1. Si deve focalizzare l’attenzione solamente sui problemi


che si possono risolvere invece di lasciarsi invischiare nel
circolo vizioso senza fine di concentrarsi su quei problemi
che sono palesemente fuori dal nostro controllo.
2. Bisogna concentrarsi su un problema alla volta, e farlo
con impegno.
3. Bisogna focalizzarsi sul cambiamento di sé, non sul
desiderio di cambiare gli altri.
4. Bisogna prendere in considerazione la possibilità di non
fare niente.
5. Bisogna ricordarsi che noi siamo altra cosa dai nostri
pensieri.

Quest’ultimo punto è la regola fondamentale che ci guida


attraverso tutte le altre. Il cervello non smetterà mai di
riempire di pensieri il nostro spazio mentale conscio, ma
quei pensieri non definiscono la nostra persona. Sono
l’esito naturale di un cervello normalmente funzionante. Il
vero problema è come gestiamo questi pensieri, ed è qui
che entra in gioco il problem-solving.16
In un certo senso ogni ciclo retroattivo è mirato alla
risoluzione di un problema. Fare una dieta, per esempio,
consiste nel risolvere il problema di perdere i chili in
eccesso (e migliorare il benessere e l’aspetto fisico, ecc.).
Impegnarsi di più nel lavoro riguarda la soluzione del
problema di colmare il divario dalla propria posizione
lavorativa attuale al livello successivo. Migliorare la
comunicazione con il proprio partner ci aiuta a individuare
gli ostacoli che ci impediscono di avere una relazione più
appagante. E via discorrendo.
Oltre a farci rendere conto degli errori cognitivi, le regole
suggerite dalla CBT possono essere utilizzate per tenerci
concentrati sulla loro risoluzione. (Questa non è che una
breve anticipazione degli strumenti di cui tratteremo più a
fondo in Parte seconda. Fare).

Perché sembra che i problemi non vengano mai da soli

«Piove sul bagnato», «Le disgrazie non vengono mai da


sole», o ancora: «Un guaio tira l’altro»: sono tutti modi di
dire popolari che alludono al fatto che quando una cosa va
storta si può star sicuri che presto succederà qualcos’altro
di brutto.
Questi modi di dire esprimono una certa saggezza istintiva
di cui tutti noi, volenti o nolenti, abbiamo esperienza,
sebbene difficilmente sia possibile spiegare perché i guai
sembrano arrivare tutti insieme. Una qualche
comprensione di questa sgradevole realtà ci può venire dai
cicli di retroazione.
Non è detto che i problemi debbano arrivare dall’esterno
tutti in una volta, ma è invece molto probabile che abbiate
vagato in un’area di distorsioni cognitive di difficile
gestione che hanno falsato il vostro modo di vedere ciò che
vi sta accadendo.
Ma ecco una buona notizia: tutto ciò che avete appreso
nella prima parte di questo libro vi consente di mettere in
pratica un salutare distacco da queste distorsioni, e una
volta diventati bravi a fare questo raggiungerete un altro
punto cruciale della nostra indagine: diventerete
«egosimmetrici».

In cerca di un equilibrio
Il termine «egosimmetrico» indica una ragionevole via di
mezzo fra due poli opposti del concetto di sé: egosintonia e
egodistonia. Quando siamo in modalità egosintonica
abbiamo la convinzione che il flusso di pensieri che si
affaccia alla coscienza rappresenti davvero la persona che
siamo (il significato letterale del termine è «in armonia col
sé»).
Quando si agisce in modalità distonica si ha la sensazione
che le ondate di pensieri filtranti dall’inconscio siano in
contrasto (distoniche, non in armonia) con il proprio io. In
questa modalità si ha la tendenza a respingere questi
pensieri – che siano necessità, desideri, impulsi o altro –
come non rappresentativi dell’«io» nel quale ci si riconosce,
o quale vorremmo essere.
Un modo alternativo per rappresentare questi due estremi
è attraverso due semplici affermazioni della voce interiore
proveniente dal pulpito cerebrale:
1. «Sì, questo sono io».
2. «No, questo non sono io».

Nessuno opera esclusivamente in una delle due opposte


modalità. Per esempio, se avete poca esperienza di
presentazioni in pubblico forse di fronte alla sfida di farne
una vi ritroverete sommersi da una valanga di pensieri che
vi persuaderanno che si tratta di una prospettiva
terrificante e che probabilmente proverete un grande
imbarazzo. La paura associata al dover parlare di fronte a
un gruppo di persone scatena una reazione egosintonica. I
pensieri terrorizzanti sono percepiti come veri perché
rappresentano il «vero» voi stesso. In pratica, i pensieri in
sé potrebbero essere totalmente erronei, ma ciò che conta
nei momenti di autovalutazione è come quei pensieri
vengono percepiti: se sembrano veri, e se continuano a
essere predominanti sulla coscienza, il vostro
comportamento si allineerà con essi.
Dall’altro lato, forse vi siete stufati di essere dominati da
pensieri di paura e così quando vi capita l’occasione di fare
una presentazione li affrontate e (all’interno della vostra
mente) li dichiarate incompatibili con la persona che volete
essere. In questo caso la reazione al bombardamento di
pensieri catastrofici è di tipo egodistonico: essi non dicono
la verità riguardo al vostro io ideale, l’io che vi state
sforzando di diventare.
Nell’esempio appena illustrato la maggior parte delle
persone sostiene che il polo giusto è quello egodistonico,
cosa che mi trova d’accordo. La questione centrale,
tuttavia, resta in secondo piano. Se decostruiamo il
processo di valutazione cognitiva che ha spostato i vostri
pensieri verso l’egodistonia vediamo che devono essersi
verificati degli importanti momenti di distacco obiettivo
durante i quali i pensieri negativi filtrati dall’inconscio sono
stati fermati e riconsiderati. È in questo spazio che è
entrata in gioco la metacognizione e che il risultato si è
modificato.
Quando si salta automaticamente verso un polo o l’altro –
poco importa se si tratti di quello egosintonico o di quello
egodistonico – non si sta agendo metacognitivamente, ma
semplicemente per default. Agire per default è sempre la
strada più facile da prendere. Fermarsi, valutare e mettere
in discussione sono pietre di una via molto più impegnativa:
ma è solo imboccandola che possiamo sperare di
raggiungere un equilibrio fra i due estremi. In mancanza di
questo equilibrio i pensieri automatici ci comandano a
bacchetta e, pur di sfuggire alla sensazione di disagio, ci
arrendiamo.
L’«equilibrio» lo si raggiunge con un salutare distacco da
questo tipo di pensieri e stabilendo se stanno davvero
dicendo la verità su di noi. La risposta non si trova né a un
estremo né all’altro, ma nella simmetria fra di essi: lo
spazio metacognitivo.

Il puzzle si va componendo: la personalità egosimmetrica


Figura 3.6

Buona parte di questo capitolo è stata dedicata alla


componente emozionale del paesaggio della nostra mente.
Abbiamo visto che la psicologia cognitiva ha messo a punto
degli utili strumenti per condizionare i nostri stati emotivi
attraverso l’influenza sui processi del pensiero. Nelle
pagine precedenti di questo libro abbiamo presentato il
ruolo della metacognizione come centrale nel
condizionamento dei processi cognitivi (lo si potrebbe
definire uno «strumento di rubricazione», visto che
sovrintende a tutti gli altri), mentre questi a loro volta
esercitano un’influenza diretta sulle conseguenze a livello
emozionale.
Tali discussioni ci conducono a un’altra tappa
fondamentale della nostra indagine: un modo per adattarci
efficacemente alle tante influenze interne ed esterne che ci
bombardano ogni giorno è diventare più egosimmetrici.

LA PERSONALITÀ EGOSIMMETRICA È IN GRADO DI PRENDERE LE


DISTANZE DALLE INFORMAZIONI NEGATIVE ED ERRONEE CHE, SE
ASSECONDATE, COMPROMETTEREBBERO LA CAPACITÀ DELL’IO DI
CONSEGUIRE I PROPRI OBIETTIVI. ESSERE EGOSIMMETRICI NON VUOL
DIRE ESSERE «FREDDI» O IMPASSIBILI, MA PIUTTOSTO SAPER MEGLIO
CONTROLLARE GLI EFFETTI NEGATIVI SULLE NOSTRE CAPACITÀ DI
ADATTARCI E VIVERE BENE.

Ricapitolando

In questo capitolo abbiamo parlato di cicli retroattivi, di


adattamento pragmatico, delle capacità adattive del
cervello e del fatto che modificare la personalità è una
possibilità reale. Ecco il riepilogo dei punti salienti
affrontati nel capitolo 3:
– I cicli di retroazione si compongono di quattro distinte
fasi, ognuna delle quali è legata alla successiva: 1)
Evidenza, 2) Rilevanza, 3) Conseguenza, 4) Azione.
– Ci affidiamo continuamente ai cicli retroattivi, sia per
questioni minime che di grande importanza, sebbene in
genere essi elaborino le informazioni senza che noi ce ne
rendiamo conto.
– Il segreto dell’adattamento pragmatico (corollario
dell’adattamento biologico) è il feedback, dove per
adattamento pragmatico si intende il processo di
adattamento alle sfide, ai pericoli e alle pretese del mondo
creato dal cervello degli umani.
– L’adattamento pragmatico è fondamentale per avere
successo in un mondo che evolve rapidissimamente sotto
l’impulso dell’irrefrenabile forza dell’evoluzione culturale.
– Gli studi condotti sulla plasticità cerebrale dimostrano
che il cervello è molto più adattabile di quanto si ritenesse
un tempo.
– La flessibilità del cervello si manifesta non solo dal
punto di vista neurochimico, ma anche a livello di
personalità: una posizione, questa, a cui appena venti anni
fa non si dava molto credito.
– Per il benessere psicofisico la modifica della personalità
conta più delle variabili socioeconomiche e demografiche.
– Per comprendere la capacità adattiva del cervello è
essenziale avere chiari i due concetti di allostasi e
omeostasi.
– Gli errori cognitivi (che spesso sono il prodotto di
informazioni errate che filtrano dall’inconscio) possono
alterare i cicli di retroazione e ostacolare la nostra capacità
di adattamento.
– Siamo giunti a un altro punto fondamentale della nostra
indagine: la personalità egosimmetrica.
4. Il filo narrativo dell’io
Il potere degli script, il valore della salienza

Ci costruiamo una narrazione che diventa il filo da seguire un giorno dopo


l’altro. Chi perde quel filo va incontro alla disintegrazione della personalità.
Paul Auster

Esaminiamo l’indagine condotta sino qui. Abbiamo parlato


dei cicli retroattivi come motori del nostro cervello adattivo
e abbiamo analizzato con attenzione le quattro fasi del ciclo
di retroazione: evidenza, rilevanza, conseguenza, azione. Ci
siamo focalizzati sui modi di applicazione di queste fasi
nell’ambito cognitivo.
Abbiamo descritto il ruolo svolto dai meccanismi di
feedback nell’adattamento pragmatico, lo strumento che
consente a noi umani di adattarci al flusso e alla pulsazione
dell’evoluzione culturale. Abbiamo detto che l’evoluzione
culturale è il prodotto dei nostri cervelli – i quali, ironia
della sorte, sono a loro volta il prodotto di millenni di
evoluzione biologica, una dinamica molto più lenta rispetto
all’evoluzione culturale. Per un adattamento felice alle
pretese dell’evoluzione culturale dobbiamo poter accedere
al meccanismo di retroazione: è proprio la retroazione la
formula del nostro progresso pragmatico.
Abbiamo dedicato anche alcune pagine alle meraviglie
delle facoltà adattive del cervello, in particolare la capacità
di cambiare aspetti della nostra personalità che un tempo si
ritenevano immodificabili. Oggi sappiamo che il
cambiamento della personalità è un aspetto centrale del
benessere psicofisico dell’essere umano e che conta più di
tutta una serie di fattori esterni, fra i quali lo stato civile, il
lavoro, la scelta della residenza.
Nella nostra analisi della metacognizione, affrontata nelle
prime pagine, abbiamo parlato di una cosa che gli psicologi
chiamano «consapevolezza metacognitiva». Più forte è la
nostra consapevolezza a livello metacognitivo, maggiore
l’influenza che esercitiamo sui nostri pensieri e
comportamenti. Più precisamente, un livello più elevato di
consapevolezza metacognitiva ci fornisce importantissime
opportunità per influenzare la nostra costellazione
cerebrale di cicli retroattivi.
Abbiamo appreso che la metacognizione non è una
nozione meramente teorica, ma una realtà a livello
neuronale, una dimensione fisica del cervello umano. Le
nostre facoltà metacognitive si distinguono
dall’autoconsapevolezza delle altre specie per il fatto che
noi umani siamo capaci di distaccarci mentalmente dalla
situazione immediata e di osservare i nostri pensieri, come
se ci guardassimo dall’esterno. Altri animali, come
scimpanzé ed elefanti, sono in grado di riconoscersi allo
specchio seguendo i propri movimenti e scoprendo che ciò
che hanno di fronte agli occhi in effetti non è un’altra
creatura, ma loro stessi che indicano e toccano il vetro. Gli
animali, però, non hanno la facoltà di distaccarsi da quello
scenario per potersi osservare mentre compiono il processo
cognitivo che li porta a identificarsi nel riflesso. Questo
livello superiore di distacco è, a quanto sappiamo,
prerogativa esclusiva degli umani, ed esso ci fornisce
capacità straordinarie che spesso diamo per scontate.
Abbiamo accennato brevemente al giornalista come
metafora della coscienza metacognitiva, perché tutte le
regole incarnate dal bravo giornalista sono fondamentali
per un efficace utilizzo della metacognizione: 1) agire
rapidamente, 2) affidarsi a fonti attendibili, 3) formulare le
domande giuste, 4) seguire fino in fondo i risvolti della
vicenda, 5) non ignorare i fatti scomodi.
Altro aspetto da noi esaminato è il ruolo della voce
interiore in quanto barometro verbale interiore per la
consapevolezza cognitiva in azione. La questione cruciale,
abbiamo detto, è se la voce interiore parli da un «pulpito»
metacognitivo o se agisca senza il distacco della
metacognizione e sia dettata dall’istinto e dalle emozioni a
briglia sciolta. Abbiamo distinto tra voce interiore
«istruita» e «non istruita», sottolineando come sia
necessario informare la voce interiore se vogliamo che ci
conduca a risultati migliori nella vita.
Tenendo sullo sfondo quella parte della nostra
esplorazione, ora passeremo a parlare di come tutto questo
ci spinga a ricercare il filo che tiene tutto insieme: nel
corso della nostra indagine giungeremo così a un punto
chiamato autonarrazione cosciente.
Ecco di nuovo il grafico riassuntivo visto nel capitolo 1.
Prima di proseguire, giusto per rinfrescare la memoria,
considerate i punti raggiunti nelle pagine precedenti. Nel
capitolo 5, ultimo capitolo della Parte prima, li si tratterà in
maniera più olistica.

Figura 4.1

Il filo narrativo come fulcro dell’identità del sé

L’espressione «filo narrativo» è stata utilizzata – fra gli


altri – da filosofi, psicologi e romanzieri per descrivere in
sostanza la stessa cosa: come teniamo insieme, più o meno
saldamente, i nostri «io» nell’avanzare della nostra
esistenza. L’io scritto fra virgolette è un io plurale: un
numero sempre maggiore di studi, infatti, indica che l’«io»,
o identità soggettiva, che sta nella nostra mente non è
un’entità unitaria e compatta, bensì un complesso di
identità che interagiscono fra loro. A volte l’interazione è
irregolare, incostante, altre volte è sincronica, ma il punto
fondamentale è che l’«io» coeso che abbiamo dentro di noi
è un’utile illusione alimentata dal cervello per il nostro
bene.
Perché, in una prospettiva evoluzionaria, questa illusione
è tanto importante? Senza l’effetto unificante di
un’autonarrazione (ciò che il filosofo Daniel Dennett
chiama «centro di gravità narrativa»)1 saremmo privi di un
meccanismo di centratura al quale tornare mentre
affrontiamo le situazioni e le sfide quotidiane. Usando la
metafora del baseball si può paragonare questo
meccanismo a un base runner che deve «toccare base»
prima di correre verso la base successiva. Il cervello umano
ha sviluppato questo meccanismo di centratura per tenerci
focalizzati sugli obiettivi evolutivi principali: evitare i
pericoli e andare in caccia di ricompense. Anche se in ogni
specifica situazione presentiamo un «io» abbastanza
diverso (per esempio, l’«io» che si mostra in ufficio rispetto
all’«io» che si mostra a una festa), il nostro cervello si
assicura che si vada sempre a «toccare base» in modo da
riguadagnare la centratura narrativa che è il collante delle
nostre personalità.
Quanto sia importante questo meccanismo adattivo ce lo
mostrano gli studi sugli schizofrenici, individui il cui
cervello non riesce a riunire i «fili» narrativi in modo da
riacquistare un senso coeso dell’identità del sé quale la
maggior parte di noi possiede. Nella schizofrenia i «fili»
sventolano in varie direzioni senza trovare il punto centrale
che, imbrigliandoli, li tirerebbe a sé per riunirli in
un’identità soggettiva coerente.
A questo punto forse vi chiederete: «Quale delle due
affermazioni è vera? Siamo un agglomerato di “io” multipli,
oppure siamo un “io” unico caratterizzato da varie modalità
di interazione col mondo?». A costo di apparire un parolaio,
la mia risposta è: «Sì». Le prove più evidenti portate alla
luce dalle scienze cognitive finora indicano che non siamo
un «io» unico (siamo una molteplicità di «io»), ma che il
nostro cervello per ragioni adattive alimenta in noi un
senso di identità unitaria perché esso rappresenta il
sistema più efficace per sopravvivere e prosperare in
questo mondo. La cosa importante da tenere in mente è che
ogni essere umano dotato di un cervello ben funzionante
vive la propria vita sulla base di un filo narrativo che lo fa
restare centrato su se stesso – che gli fa «toccare base» in
continuazione – e che gli permette di non restare inglobato
nel caos degli «io» multipli che tentano di trovare il proprio
posto nel mondo.

L’interiorizzazione dei copioni narrativi

In genere il termine «copione» (script in inglese) fa venire


alla mente la pila di fogli che un attore consulta prima di
recitare le sue battute in scena. In effetti si tratta di una
metafora molto efficace per descrivere una cosa che
chiameremo semplicemente «script esterno» in
contrapposizione ai copioni interiori a cui ognuno di noi fa
continuamente riferimento nella propria mente durante il
processo di elaborazione dei fatti della giornata.
Lo script esterno giunge a noi da fonti di influenza
esterna: datori di lavoro, colleghi, genitori, istituzioni,
confessioni religiose, ecc. Ogni giorno siamo esposti a
questa varietà di copioni, che noi interiorizziamo per una
moltitudine di motivi. Per esempio, interiorizziamo lo script
fornito dal nostro datore di lavoro perché da esso dipende il
mantenimento del nostro impiego. Interiorizziamo lo script
dei nostri parigrado perché abbiamo considerazione del
loro giudizio e non vogliamo minare la nostra reputazione
all’interno del gruppo. Interiorizziamo lo script della nostra
confessione religiosa perché crediamo che attraverso la
chiesa esso giunga a noi da un potere superiore che
desideriamo compiacere.
Lo script esterno contribuisce ai copioni operativi a cui ci
atteniamo continuamente ogni giorno. Essi sono una
combinazione di condizionamenti esterni (in buona parte da
noi già interiorizzati) e predisposizione genetica. Per
esempio, lo script esterno proveniente dal nostro datore di
lavoro forse ci ordinerà di essere più estroversi
nell’interazione con i colleghi e i clienti, ma quello script
deve combinarsi con una nostra propensione innata
all’introversione. Quale dei due copioni prevarrà? Be’,
entrambi e nessuno dei due. Invece di imporre uno dei due
copioni, in maniera pragmatica ci adattiamo alle necessità
della situazione e modifichiamo il nostro modo di fare
geneticamente determinato (quello che gli psicologi
definiscono il nostro «stile naturale»).2 Ovviamente, se si
fallisce nell’adattamento pragmatico è molto probabile che
si fallirà anche nel raggiungimento dell’obiettivo prefissato.
Ciò che fa dello script esterno una «parte mobile» tanto
importante non è il fatto che modifichi automaticamente il
nostro modo di affrontare le esperienze: anche perché, in
effetti, non lo fa quasi mai. Il fatto che il nostro datore di
lavoro ci desideri più estroversi non significa che noi ci
adatteremo pragmaticamente per soddisfare la sua
domanda. Forse lo faremo, ma forse no. Piuttosto,
probabilmente in questo caso il senso più vero
dell’adattamento pragmatico è capire che quel lavoro non
fa per noi. Potrebbe suonare estrema come considerazione,
ma pensate a quante volte ci infiliamo a forza in un copione
che non è adatto a noi. Considerate, per esempio, il caso di
una persona che crede nella sincerità e nella lealtà delle
relazioni ma che lavori in un’organizzazione per cui certi
valori sono solo di facciata. Se ci forziamo ripetutamente di
adattarci a situazioni di questo tipo alla fine i nostri nervi
cederanno. E a parte il costo psichico dell’intera faccenda,
alla fine potremmo perdere comunque il lavoro.
La stessa cosa vale per tutte quelle situazioni di vita in cui
ci troviamo di fronte uno script esterno che contrasti
nettamente con il nostro stile naturale. Ci sforziamo di
interiorizzarlo, ma cercare di farcelo piacere è una fatica,
se non addirittura una tortura.
La maggior parte di noi ce la metterà tutta per farlo
funzionare a ogni costo, talvolta per anni e anni. A chi giova
il nostro sforzo? Magari diremo che se ci teniamo un lavoro
deprimente è perché lo facciamo per il bene della nostra
famiglia: ma quando poi si rientra tardi la sera esausti e
senza più nulla da offrire ai propri cari, siamo sicuri che
questo sia fare il loro interesse? È solo un esempio fra
tanti, ma il punto fondamentale resta sempre lo stesso: a
volte adattarsi pragmaticamente non significa trovare il
modo di combinare un copione esterno al nostro stile
innato: talvolta vuol dire trovarsi un ruolo completamente
diverso che si avvicini molto di più alla persona che siamo e
a ciò che abbiamo da offrire. Ecco perché riconoscere i
copioni esterni è così importante: distinguerli può fornirci
l’impulso per prendere decisioni migliori. Vedere il copione
per quello che è, buono o cattivo che sia, ci mostra in quale
modo è necessario adattarsi per vivere un’esistenza più
appagante.

La salienza narrativa

Nelle neuroscienze il termine «salienza» indica un


qualcosa che si distingue nettamente da ogni altra e che
cattura la nostra attenzione e catalizza la concentrazione.3
La salienza ha un ruolo fondamentale nell’autonarrazione,
perché funge da calamita cognitiva mantenendoci al centro
dell’io.
Ammettiamo, per esempio, di esserci appena trasferiti in
una nuova città e che stiamo appena iniziando a orientarci,
a memorizzare le strade e i principali punti di riferimento,
che stiamo facendo conoscenza con i vicini. In questo
ambiente totalmente nuovo diventeremo forse una persona
totalmente diversa? Un altro modo per porre la domanda è
il seguente: nel caso che in questo nuovo ambiente tutto sia
assolutamente nuovo per noi – assolutamente diverso da
ogni altro luogo in cui abbiamo vissuto –, forse cambieremo
per adeguarci alla novità del posto?
La risposta, naturalmente, è no. Piuttosto, integreremo la
novità del posto in cui viviamo ora all’interno della nostra
preesistente autonarrazione. Che cosa ci permette di fare
questo senza perdere l’orientamento (in senso psicologico,
non spaziale)? Ci ha pensato l’evoluzione per noi. Il nostro
cervello sta già individuando gli aspetti salienti del nuovo
ambiente per integrarli nelle reti neuronali già esistenti. In
altre parole: esiste una potente facoltà sviluppatasi con
l’evoluzione a cui il cervello ricorre per adattarsi e che sta
modificando la nostra autonarrazione in modo tale da non
farle perdere il «filo».4
In questo modo l’identità narrativa di ognuno di noi
cambia in continuazione in maniera sottile o sostanziale. La
narrativa non è mai statica. E, come abbiamo detto nei
capitoli precedenti, il cervello umano non conosce staticità.
Lo stesso vale per la nostra personalità: siamo in un
perenne stato di flusso, per quanto possa risultare
pressoché impercettibile nel brevissimo termine. Voglio
prendermi un momento per ricordarvi che questo è un fatto
molto positivo: non si tratta di una forza da temere, ma da
abbracciare come espressione dello spirito stesso della
nostra umanità.
Torniamo al feedback

Nel primo capitolo abbiamo analizzato i cicli di


retroazione nel loro ruolo di motore del cervello adattivo. A
questo punto è opportuno collegare questa nozione al ruolo
dell’autonarrazione e alla forza della salienza.
Basta pensare alla continua processione di cicli di
retroazione che ha luogo nel cervello – attivi ogni giorno in
ogni singolo momento di veglia – per avere un modello di
autonarrazione. Ci stiamo riferendo alla medesima
dinamica utilizzando però metodi semantici diversi. Perché
è importante farlo? Perché parlare solo in termini di
movimento continuo di cicli di retroazione è un modo
troppo meccanicistico di descrivere una realtà che invece è
multidimensionale e traboccante di sfumature e gradazioni.
Il termine fondamentale, qualunque cornice semantica si
utilizzi, è «adattamento».
Si noti che ricorrere alla metacognizione per influenzare i
feedback cerebrali ha lo scopo di rafforzare una risposta
adattiva a qualunque sfida, ostacolo o obiettivo ci si trovi
ad affrontare o ci si ponga di raggiungere. Va notato inoltre
che la nostra identità narrativa è un flusso in continuo
mutamento che integra al suo interno lo script esterno e la
salienza; e anche questo è un processo adattivo.
Nel corso della nostra indagine siamo giunti al punto in
cui i contesti si sovrappongono fornendoci una più
dettagliata comprensione del nostro argomento. Che si usi
la terminologia meccanicistica dei cicli di retroazione o
quella metaforica dell’autonarrazione, siamo giunti a quello
che i fisici chiamano un «vettore principale».

Il puzzle si va componendo: l’autonarrazione cosciente

Siamo giunti a un’altra tappa fondamentale della nostra


indagine, e questa – rispetto alle altre – è la più semplice da
afferrare, perché tutto ciò che ci ha condotto qui l’ha già
resa lampante.

Figura 4.2

QUANDO SFRUTTIAMO EFFICACEMENTE LA METACOGNIZIONE PER


INFLUENZARE LA CATENA DI RETROAZIONE, INFLUENZIAMO
CONSAPEVOLMENTE LA NOSTRA IDENTITÀ NARRATIVA E FAVORIAMO
UNA MIGLIORE CAPACITÀ DI ADATTAMENTO PRAGMATICO. INVECE DI
CAVALCARE LE ONDE DEL CASO, UTILIZZIAMO IL POTERE ADATTIVO
DEL CERVELLO PER INDIRIZZARE IL NOSTRO PERCORSO VERSO LA
MASSIMA EFFICIENZA DELLE NOSTRE FACOLTÀ. IN UN CERTO SENSO
RISCRIVIAMO NOI LA NOSTRA NARRAZIONE, INVECE DI STARE A
GUARDARE MENTRE VIENE SCRITTA COME SUCCEDE QUANDO
OPERIAMO IN MODALITÀ PILOTA AUTOMATICO.

Ricapitolando

Ecco il riepilogo dei punti salienti del capitolo 4:


– L’espressione «filo narrativo» è stata utilizzata – fra gli
altri – da filosofi, psicologi e romanzieri per descrivere nella
sostanza la medesima cosa: come teniamo insieme i nostri
vari «io» in maniera più o meno coesa durante il nostro
percorso esistenziale.
– Il fatto che ci percepiamo come un «io» e non come un
«noi» è la dimostrazione dell’importanza centrale del filo
narrativo, per quanto ce ne accorgiamo raramente perché
viene estremamente naturale considerarsi un «io».
– Esistono copioni narrativi interiori e copioni narrativi
esterni, che quotidianamente esercitano una grande
influenza su di noi, in genere senza che ne abbiamo
consapevolezza: essi, infatti, agiscono al di sotto della
superficie della coscienza.
– Un ruolo fondamentale nell’autonarrazione è
rappresentato dalla salienza, che agisce come una calamita
cognitiva che mantiene la centratura del nostro «io».
– La narrazione non è mai statica. Il nostro cervello non è
mai statico. La nostra personalità non è immutabile.
Viviamo in un perenne stato di mutamento, anche se da
un’ora all’altra questo può risultare impercettibile.
– Siamo giunti a un’altra tappa fondamentale della nostra
indagine, una tappa assai importante: l’autonarrazione
cosciente.
5. Il paesaggio della mente
Il cerchio si chiude

Quando capita che un’idea o una sensazione allarghi la mente di un uomo,


quella mente non tornerà mai più alle sue dimensioni originali.
Oliver Wendell Holmes Sr.

Concludiamo la prima parte di questo libro da dove


l’avevamo iniziata, con la nostra figura riassuntiva. Ora è il
momento di ispezionare la mappa del paesaggio della
mente che abbiamo appena esplorato, ripercorrendo i passi
compiuti per rafforzare le nostre conoscenze prima di
proseguire. Invece di ripetere in maniera trita,
consideriamo la cosa da un punto di vista leggermente
diverso e facciamo finta di assistere a un’intervista fra un
reporter e un esploratore. Il giornalista vuole sapere il chi,
come e perché dell’esplorazione, e l’esploratore – che ha
appena completato il primo principale tratto del suo viaggio
– è felicissimo di rispondere.
Figura 5.1

Reporter: Allora, inquadriamo un po’ la cosa. Da cosa ha


origine tutto questo?
Esploratore: Abbiamo cominciato dalla vetta, per così
dire… con la metacognizione, che letteralmente significa
«pensare il pensiero».
Reporter: Ha qualcosa a che fare con ciò che intendeva il
filosofo Albert Camus quando affermava: «L’intellettuale è
colui che ha una mente che si osserva»?1
Esploratore: Sì, credo di sì, anche se penso che in questo
caso potremmo sostituire il termine «intellettuale» con
l’espressione «buon pensatore», perché in realtà si avvicina
di più a ciò di cui stiamo parlando. Comprendere la
metacognizione implica imparare a pensare meglio.
Reporter: Potrebbe spiegare meglio il concetto? Voglio
dire, siamo tutti «pensatori», no? Come si fa a «pensare
meglio»? Si tratta forse di diventare più intelligenti?
Esploratore: Se vuole può usare il termine «più
intelligente», ma è troppo restrittivo. Quando dico che
vogliamo diventare più bravi a pensare intendo dire che
vogliamo imparare a sfruttare meglio le nostre facoltà
cerebrali in modo da affrontare in maniera più efficace
problemi, sfide, ostacoli, e tutto ciò che si presenta quando
tentiamo di ottenere qualcosa di utile.
Reporter: Utile, sarebbe a dire?
Esploratore: Per esempio, vivere una vita più appagante.
Reporter: Sta dicendo che fare un uso migliore della
metacognizione è un modo per migliorare il ragionamento,
e che ragionare meglio può garantirci una vita più
appagante?
Esploratore: Esatto. Sì, è proprio quello che intendo.
Anche se, naturalmente, è limitativo riassumere tutto in
una frase.
Reporter: Ovvero?
Esploratore: Be’, una delle variabili principali del processo
è capire quelli che si potrebbero definire «i motori del
cervello adattivo dell’uomo», i cicli di retroazione. Il nostro
cervello funziona come un sistema modulare di
elaborazione e può aiutarci immaginarlo come operante
attraverso una vasta costellazione di catene di retroazione.
Le informazioni (che possiamo chiamare anche «evidenze»)
vengono inglobate e valutate in base alla loro rilevanza. Se
giudicate rilevanti, subiscono una seconda valutazione per
capire le possibili conseguenze dell’agire o non agire in
base a quelle informazioni. Se si decide di agire, ecco che si
ha l’azione.
Reporter: E poi?
Esploratore: E poi gli esiti dell’azione tornano in circolo
nella retroazione come nuove evidenze, e così via.
Reporter: Interessante. Ma qual è la connessione con la
metacognizione?
Esploratore: Ottima domanda! La metacognizione è lo
strumento interiore più potente che abbiamo per
condizionare la catena di retroazione. Per dirlo in altre
parole, il nostro cervello è dotato della notevole capacità di
distaccarsi mentalmente da ciò che si potrebbe definire
l’immediatezza del pensiero; grazie a questa capacità
possiamo esercitare una certa influenza sul processo dei
cicli di retroazione.
Reporter: Intende dire che possiamo ricorrere alla
metacognizione per avere un controllo totale del nostro
cervello?
Esploratore: No, in verità no. Si tratta di un’idea sbagliata
ma molto diffusa che si definisce «illusione introspettiva».
Quello che dico è che si può sfruttare la metacognizione
per rafforzare il nostro controllo consapevole sul pensiero.
Si tratta di una distinzione molto importante perché la
maggior parte dei nostri processi cognitivi non avviene nel
cosiddetto «spazio mentale conscio», bensì in un vasto
Sistema inconscio. Non possiamo cambiare tutto ciò che
vogliamo a nostro piacimento all’interno del Sistema, ma –
che ci si creda o no – questo è un fatto positivo.
Reporter: E perché? Sembrerebbe utile poter controllare
ciò che accade nell’inconscio.
Esploratore: Be’, provi a immaginare di poter spegnere il
modulo dell’elaborazione inconscia che controlla le funzioni
motorie lasciando il controllo di tutto al ragionamento
cosciente. A quel punto dovrebbe controllare in maniera
consapevole ogni movimento muscolare, e addirittura
reagire a ogni segnale del sistema nervoso che le
attraversa il corpo, facendo cose come mantenere in
funzione la pompa cardiaca, i polmoni in movimento, il
sistema digerente in attività. Dovrebbe fare tutte queste
cose in maniera consapevole.
Reporter: Sembra impossibile.
Esploratore: E lo è, in effetti. Ecco perché è assai
preferibile lasciar fare al nostro inconscio. È solo un
esempio fra migliaia possibili. Ogni secondo il nostro
inconscio processa circa 11 milioni di informazioni.
Reporter: Capisco. E lo spazio mentale conscio, invece?
Cosa ci consente di fare?
Esploratore: Si stima che la mente cosciente possa
elaborare 40 stimoli al secondo. Se è vero che appare nulla
in confronto alle capacità dell’inconscio (e, in effetti, lo è),
rappresenta una potenza di elaborazione adeguata a
esercitare una certa influenza sui cicli di retroazione.
Tuttavia, non possiamo pretendere di arrivare e prendere il
controllo della mente inconscia a nostro piacimento.
L’evoluzione non ci ha forniti di una simile facoltà, e per
delle buone ragioni.
Reporter: D’accordo, mi faccia un esempio di una cosa che
possiamo fare consapevolmente.
Esploratore: Be’, il motivo principale che ci spinge a
potenziare la nostra consapevolezza metacognitiva è
agevolare il flusso di informazioni da e per lo spazio
mentale conscio e avere su di esso un maggiore controllo
all’interno di quello spazio.
Facciamo un esempio: ci sentiamo tanto insicuri e non
riusciamo a capire perché. Forse potremmo definirlo un
problema di autostima, e rende molto difficile sia fissarsi
degli obiettivi che raggiungerli. Quasi ogni giorno nella
nostra mente cosciente si affaccia qualche dubbio che
inevitabilmente provoca in noi una reazione emotiva. Siamo
scontenti di noi stessi e peggio ci sentiamo, più aumentano
depressione e sfiducia.
Non ci accorgiamo che a livello cognitivo ci troviamo in
una catena di retroazione negativa che non facciamo che
rafforzare in continuazione. Se non ce ne rendiamo conto è
perché siamo troppo «dentro» al problema. Bisogna
sfruttare quella facoltà cerebrale che ci permette di
prendere le distanze dal problema e analizzare il feedback
cognitivo negativo senza considerare l’emozione che ha
alimentato l’impulso della retroazione. Da questa posizione
è possibile valutare consapevolmente cosa sta succedendo
e, invece di rimuginare sugli aspetti negativi, si può
assumere un ruolo da analista strategico e decidere cosa
deve accadere perché il ciclo di retroazione si modifichi.
Reporter: Molto interessante, ma suona un po’
meccanicistico, no?
Esploratore: In un certo senso lo è, in quanto il nostro
cervello e il nostro corpo sono, per così dire, delle
macchine organiche. Ma si tratta di una metafora per
capire come siamo fatti, non una definizione assoluta ed
effettiva. Un’altra metafora è quella dell’«autonarrazione».
Questo processo si spiega in modo altrettanto semplice
pensando a noi stessi che modifichiamo consapevolmente il
copione «narrativo» che abbiamo in testa riguardo ai nostri
sentimenti di insicurezza. Ma più che le metafore conta la
realtà: la metacognizione è qualcosa che il cervello «fa», e
non un concetto vago o astratto: si tratta di una realtà
neuronale. È una facoltà che tutti gli umani possiedono, e
va bene utilizzare qualunque metafora, purché funzioni.
Reporter: Quando dice funzionare, intende dire che ci
conduca ai risultati desiderati nella vita?
Esploratore: Esatto. È questa l’essenza dell’adattamento
pragmatico. Il nostro cervello è una meraviglia della natura
con capacità adattive incredibili, e per rafforzare la sua
capacità di adattamento ha a disposizione «strumenti»
come la metacognizione. Ogni giorno dobbiamo adattarci
pragmaticamente al mondo (alla società, alla cultura) in cui
viviamo, e ciò che abbiamo scoperto nel corso della nostra
indagine è che possiamo sfruttare il potere adattivo del
cervello per arricchire la nostra vita.
Reporter: E quali sono le tappe fondamentali che ci si
dovrebbe aspettare di raggiungere nel corso di questa
esplorazione? Ci sono dei momenti particolarmente
significativi?
Esploratore: Abbiamo scoperto che quando si capisce
come utilizzare la metacognizione per sfruttare la potenza
adattiva del cervello si verificano alcune cose – le «tappe
fondamentali» di cui lei parla. È plausibile poter assistere a
tre effetti significativi: si diventa più autonoetici, più
egosimmetrici, e più bravi nel praticare l’autonarrazione
cosciente.
Reporter: Mi spiega per favore cosa significano?
Esploratore: Il termine autonoetico significa che si
raggiunge un livello superiore di autoconsapevolezza. Gli
studi dimostrano che rafforzare l’autonoesi porta molti
benefici, come un potenziamento della creatività, una
maggiore abilità nell’applicare le conoscenze apprese e un
rafforzamento dell’adattabilità in quanto a risoluzione dei
problemi.
Col termine egosimmetrico mi riferisco allo sviluppo di
una maggiore capacità di distaccarsi dai pensieri e dalle
sensazioni che confliggono con il raggiungimento degli
obiettivi prefissati, i risultati che si desidera raggiungere
nella vita.
L’espressione autonarrazione cosciente indica il fatto che
si diventa revisori, curatori e autori di quei «copioni» cui ho
accennato prima. Invece di lasciarci guidare da narrative
interiori o esterne, eserciteremo un controllo più
consapevole delle nostre narrazioni.
Reporter: E a quel punto cosa succede?
Esploratore: Succede che diventiamo più bravi ad
adattarci. E gli effetti di un adattamento pragmatico alla
vita consolideranno l’intero processo. Ha mai sentito
l’espressione: «Il successo alimenta il successo»? Be’, con
una leggera modifica sarebbe più esatto affermare che
«L’adattamento genera il successo».
Reporter: Bene gente, ecco quello che volevate!
«L’adattamento genera il successo». Un’ultima domanda: e
ora cosa ha intenzione di fare?
Esploratore: Questa è la domanda più semplice di tutte, e
lei si è già risposto da solo: ho intenzione di fare.
46 La famosa frase di Albert Camus sugli intellettuali è
contenuta in Taccuini (1935-1942), opera pubblicata in
Italia da Bompiani.
Parte seconda
Fare
La scatola del pensiero
30 modi per pensare meglio e catalizzare
l’azione

Non basta sapere, bisogna anche applicare; non è abbastanza volere, bisogna
anche fare.
Johann Wolfgang Goethe

Con questa sezione del libro passiamo dalla teoria alla


pratica, dalla conoscenza all’azione. Sostenere che 30 è un
numero adeguato a inquadrare gli strumenti forniti dalla
scienza per migliorare le nostre facoltà cognitive è come
affermare che il nostro sistema solare sia un mezzo
adeguato per analizzare in ogni dettaglio i misteri
dell’universo. Ciò detto, 30 è comunque un buon inizio, ed è
proprio questo l’obiettivo che mi sono prefissato in questa
sezione: fornire un solido punto di partenza per cambiare il
nostro modo di pensare.
Ho organizzato gli strumenti utilizzati in questa sezione in
quattro categorie tra loro in relazione:

Personali: relativi principalmente agli strumenti


concernenti il nostro mondo interiore, il paesaggio mentale
di ciascun individuo.
Esterni: riguardanti i punti in cui il nostro mondo interiore
si interseca con le realtà esterne; è la zona in cui, per
esempio, attraverso l’esposizione alla cultura si conquista
la consapevolezza.

Relazionali: sono quelli che concernono la nostra realtà


interpersonale: come il nostro pensiero influenza quello
degli altri e viceversa.

Biochimici: incentrato su quegli strumenti che innescano


cambiamenti di tipo biochimico (in particolare le sostanze
neurochimiche) che hanno come effetto quello di
modificare il nostro modo di pensare e di agire.

Dopo la descrizione di ciascuno degli strumenti troverete


un Principio di Cambiamento Cerebrale (abbreviato come
PCC) che riassume i più importanti consigli da seguire.
(Almeno per come li interpreto io: magari voi ne troverete
degli altri… È quello che mi auguro.)

Strumento personale esterno relazionale biochimico


1. Ricorri alle pause
x x
cognitive.
2. Ricorri alla regola aurea
del cambiamento di
x x
abitudini per trasformare il
tuo comportamento.
3. Di fronte a un obiettivo
saggia qual è il tuo grado x x
di convinzione.
4. Mastica chewing gum. x
5. Scrivi il tuo necrologio. x
6. Sii motivato, ma non
x x
troppo.
7. Sii consapevole dei
meccanismi retroattivi che
x x
caratterizzano l’esperienza
emozionale.
8. Sincronizza motivazioni
consce e inconsce
x x
analizzando le forze che
inducono alla disonestà.
9. Cerca l’integrazione
x
consapevole.
10. Osserva
periodicamente una x x
campagna del silenzio.
11. Certe volte non fidarti
x x
delle euristiche di giudizio.
12. Migliora l’autocontrollo x x
con una scarica di
glucosio.
13. Impara a bloccare il
x x
flusso dei pensieri.
14. Crea una
sincronizzazione cerebrale x x x
estemporanea.
15. Non fermarti, continua
x x
a fare qualcosa.
16. Dormi per impedire
che i tuoi circuiti cerebrali x x
si surriscaldino.
17. Fatti valere. x x
18. Dimostra la tua
x x x
resilienza.
19. Valuta le cause di
x
fallimento.
20. Tieni presente la tua
soglia chimica, soprattutto x x
quando di tratta di alcol.
21. Studia le persone che
x x
amano il proprio lavoro.
22. Potenzia il tuo
quoziente di metafora x
(MQ).
23. Aumenta la tua dose di
x x
cultura.
24. Prendi la buona
abitudine di leggere libri
x x
stimolanti e guardare film
«di contenuto».
25. Rifletti bene sulle
conseguenze che il tuo x x x
successo ha sul prossimo.
26. Per migliorare la
performance bisogna
x x x
comprendere i meccanismi
dell’autoregolazione.
27. Per avere una mente x x
sana fai del sano
movimento.
28. Studia le menti dei
pionieri delle scienze x x
metacognitive.
29. Esèrcitati a
sperimentare una x
gravissima perdita.
30. Le dodici
metarappresentazioni della x x
mente.

ì1. Ricorri alle pause cognitive


Cambiando il proprio atteggiamento mentale, gli esseri umani possono
cambiare gli aspetti esterni delle proprie esistenze.
William James

Uno degli strumenti metacognitivi di base che abbiamo a


nostra disposizione è la capacità di fermarci a riflettere
prima di passare alla mossa successiva. Nella letteratura
psicologica, di questa capacità sono state date molte
definizioni. Gli autori di Mindhackers: 60 Tips, Tricks, and
Games to Take Your Mind to the Next Level, Ron e Marty
Hale-Evans, utilizzano l’espressione «pausa semantica» e
distinguono questa facoltà per durata e per profondità. Per
«pausa tattica» indicano una pausa immediata e «di basso
livello», mentre l’espressione «pausa contemplativa» sta a
descrivere un distacco di «alto livello» che permette di
portare in profondità il processo decisionale prima di agire.
A questa capacità talvolta viene dato anche il nome di
«pausa cognitiva», a sottolineare che questa ha luogo nel
nostro spazio mentale conscio. È un tipo di ragionamento
antitetico che a livello cognitivo produce un segnale rosso
lampeggiante di stop che ci ferma prima che passiamo alla
mossa successiva.1
Comunque lo si descriva, questo cuneo cognitivo è di
norma poco sfruttato. Se maggiormente praticato, potrebbe
sia impedire azioni foriere di conseguenze negative, sia
incoraggiare azioni che favoriscano esiti positivi. Citando
Ron e Marty Hale-Evans, esso «fa entrare in gioco la
consapevolezza perché ci dia una scrollata oppure ci calmi
e ci schiarisca le idee». Ammettiamo, per esempio, che
abbiate un’accalorata discussione con un collega e che
mentre ognuno di voi cerca di far valere la propria opinione
vi accorgiate che la tensione sta salendo: nell’immediato
una pausa tattica può fornirvi il poco tempo necessario per
riflettere sul fatto se ciò che state per dire contribuirà
costruttivamente alla discussione o non farà che gettare
benzina sul fuoco. La stessa considerazione si può fare
durante un litigio con il proprio partner: inserire subito un
«fermo» che interrompa la discussione prima di proferire la
prossima raffica di parole potrebbe prevenire un’esplosione
emotiva gratuita e tutte le conseguenze che inevitabilmente
questa si porterebbe dietro.
Il genere di pausa cognitiva a più lungo termine è proprio
ciò che ci vuole quando si riflette sulla prossima
combinazione pensiero-azione nelle decisioni di alto livello,
come comprare una macchina o una casa, sposarsi o
cambiare lavoro. In genere siamo già convinti di farlo prima
di ogni importante decisione, considerata l’enorme quantità
di energia mentale che esse comportano, eppure c’è una
differenza sostanziale fra lo sprecare una grande quantità
di energia mentale e utilizzare le energie applicandole in
maniera deliberata e ben indirizzata su una certa decisione.
Dedicare un mucchio di tempo a riflettere su qualcosa non
ci garantisce che dopo tanto angosciato rimuginare
otterremo buoni risultati. Ricorrere alla pausa cognitiva,
invece, implica che si interrompa il flusso del pensiero, che
si riconsideri il nostro modo di riflettere su una data
situazione e che si reindirizzi l’energia mentale. Questo può
voler dire, per esempio, frazionare la decisione in tante
piccole parti e applicare la nostra riflessione alla gestione
di ogni singola parte in vista del risultato complessivo.
Oppure potrebbe voler dire ripensare alle motivazioni di
base che ci spingono verso un obiettivo che a priori
abbiamo preso per buono.
Per sfruttare la pausa cognitiva in situazioni a breve e
lungo termine ci vuole pratica, soprattutto se ci risulta
difficile mettere in dubbio le nostre motivazioni. È
indispensabile una buona dose di umiltà per fermarsi e
risoppesare il fatto se «averla vinta» in una discussione sia
davvero l’esito più auspicabile. Ci vuole anche la volontà di
affrontare le avversità (e la paura e l’angoscia) che il
fermarsi e il rimettere in discussione le motivazioni che ci
spingono verso un’importante decisione comportano. Ma
potrebbe davvero fare la differenza, nel breve come nel
lungo termine.
Principio di Cambiamento Cerebrale (PCC): Possediamo la
capacità di mettere in pausa le nostre riflessioni per periodi
più o meno lunghi – anche quando siamo sotto intensa
pressione: tale capacità ci fornisce l’impagabile opportunità
di ripensarci bene prima di fare la prossima mossa.
Profonde possono essere le conseguenze di questa facoltà
apparentemente elementare.

2. Ricorri alla regola aurea del cambiamento di abitudini


per trasformare il tuo comportamento
Il successo è l’abilità di passare da un fallimento all’altro senza perdere
l’entusiasmo.
Winston Churchill

Le abitudini sono catene di retroazione che ripetiamo più


e più volte finché un comportamento diventa
inconsapevole. Nel libro di Charles Duhigg La dittatura
delle abitudini, il ciclo di retroazione dell’abitudine si
compone di tre elementi: un segnale, che dà l’avvio al
comportamento; la routine, che è il comportamento
innescato ogni volta dal segnale; la gratificazione, che è ciò
che cerchiamo nel comportamento.2
Per esempio, è possibile analizzare il vizio del fumo in
questo modo: il segnale è lo stress; la routine è accendersi
una sigaretta; la gratificazione è la stimolazione mentale (in
quanto la nicotina è in effetti uno stimolante) che fa da
contrappeso allo stress. L’abitudine di mangiare dolciumi
potrebbe essere considerata nel seguente modo: il segnale
è l’ansia; l’abitudine è mangiarsi una ciambella; la
gratificazione è l’arresto temporaneo dell’ansia scatenato
dal picco di glucosio che entra in circolo.
La «regola aurea del cambiamento di abitudini» (descritta
da Duhigg e ben documentata in anni di studi scientifici) è
che per cambiare un’abitudine bisogna concentrarsi sulla
routine, non sul segnale o sulla gratificazione. Nell’esempio
del fumo, non si può eliminare lo stress (il segnale), né
mettere a tacere il desiderio di una stimolazione mentale
che ci dia sollievo dallo stress (la gratificazione). L’unico
elemento della catena di retroazione modificabile è la
routine. Invece che accendersi una sigaretta, una nuova
routine (per esempio bere caffè) potrebbe fornire la stessa
gratificazione. (La cosa si fa un po’ complicata quando si
tratta di routine chimiche come il fumo, perché la nicotina
provoca dipendenza fisica e psicologica; è però importante
ricordare che la regola aurea potrebbe dover essere messa
in atto più e più volte prima che una nuova routine prenda
il posto di quella vecchia; in altre parole, ci vuole tutto il
tempo che ci vuole, secondo tempistiche che variano da
persona a persona).
E nel caso di routine non chimiche, come buttarsi sul
divano e guardare la televisione per ore dopo una giornata
di lavoro stressante? Anche qui il segnale è lo stress; la
routine è rappresentata da ore di sedentarietà di fronte allo
schermo della TV; la gratificazione è la fuga mentale dallo
stress. In questo caso la flessibilità è maggiore perché sono
parecchie le routine che possono rimpiazzare quella di
guardare la televisione – e forse la nuova non rimpiazzerà
del tutto la vecchia, ma in misura sufficiente a modificare
l’abitudine e ripercuotersi in maniera più positiva. Per
esempio, la nuova routine che sostituisce la vecchia di stare
ore e ore seduto sul divano potrebbe essere fare una
camminata di un’ora e poi dedicare lo stesso tempo alla
televisione.
Qualunque sia l’abitudine (o il vizio), la sostanza è che
possiamo far sì che il succo della faccenda (la routine) sia
riportato nello spazio mentale conscio e cambiato. Per
iniziare comincia da un’abitudine che vorresti cambiare e
provaci finché non funziona. Inoltre tieni a mente che per le
abitudini più ostinate dovrai lottare contro comportamenti
controllati inconsciamente per tutto il tempo che sarà
necessario, ed è impossibile – per chiunque – prevedere a
quanto ammonterà questo tempo. Prova a pensarla in
questo modo: è come se tu calassi il gancio di una gru
all’interno dell’inconscio e volessi pescare una routine che
è attiva in cicli continui di retroazione da un sacco di
tempo, probabilmente da anni. Ridimensiona le tue
aspettative riguardo alla rapidità con cui potrai cambiare la
tua abitudine, ma non arrenderti. Gli studi scientifici al
proposito sono abbastanza categorici: se insisti, ce la farai.

PCC: Capire come funzionano le abitudini aumenta le


nostre capacità di modificarle: non in maniera irrealistica o
assoluta, ma in maniera realistica e pragmatica, così da
ottenere cambiamenti autentici a livello cerebrale ed
esistenziale.

3. Di fronte a un obiettivo saggia qual è il tuo grado di


convinzione
Se uno avanza fiducioso in direzione dei suoi sogni, e si sforza di vivere la
propria vita come l’ha immaginata, incontrerà un successo inatteso in
situazioni normali.
Henry David Thoreau

Il cervello umano è al contempo un grande consumatore


di energia e un sistema a consumo molto ridotto.3 È un
divoratore di energia nel senso che consuma il 20% circa
del glucosio circolante nel sangue di un individuo; consuma
molto poco nel senso che non permette all’organismo di
consumare energia extra senza un buon motivo. In questo
caso per «buon motivo» si intende un obiettivo con
ragionevoli probabilità di successo. Perché il cervello dia il
suo consenso a un maggiore dispendio di energia per il
raggiungimento di qualsivoglia scopo è necessario che
«scatti» qualcosa. Questo qualcosa fa parte del nostro
spazio mentale conscio e si chiama fede.
Nella nostra cultura basata sul cinismo la fede è stata
ridotta a una battuta a effetto, ma i nostri cervelli non ci
trovano nulla di divertente. In effetti, per quanto si possa
sminuire la fede (o chi ce l’ha), essa resta sempre uno degli
strumenti metacognitivi che l’essere umano ha a sua
disposizione, e se la ignoriamo lo facciamo a nostro rischio
e pericolo. Ecco la semplice verità messa in evidenza da
pagine e pagine di studi: finché non ci convinciamo (ovvero
abbiamo fede) di poter fare qualcosa non ci vengono
assegnate le risorse per farlo.
Nel loro libro Maximum Brainpower, Shlomo Breznitz e
Collins Hemingway scrivono che la dinamica della fede
lavora pro e contro di noi, in quanto sia la speranza che la
disperazione sono una forma di fede. La disperazione è la
convinzione che la nostra situazione non possa migliorare,
e quando facciamo nostra questa credenza il cervello
risponde dirottando l’energia dalle azioni che potrebbero
migliorare le circostanze (perché crediamo che non servano
a niente) per investirla in un gorgo ossessivo di brutti
pensieri che alimenta la spirale negativa. La disperazione
genera disperazione, ed è per questo motivo che è
clinicamente riconosciuta come la condizione psicologica
con maggiori probabilità di condurre al suicidio: per quanto
possa sembrare paradossale, per togliersi la vita ci vuole
fede.4
La speranza è la convinzione che la situazione possa
migliorare, e che lo farà in ogni caso, e quando ci crediamo
fino in fondo la risposta del cervello è inondarci di energia
mentale per metterci nella condizione di ottenere il
risultato sperato. Per dirla con le parole di Breznitz e
Hemingway: «Speranza e disperazione sono entrambe
profezie che si autoavverano».
Perciò, quando ripensi agli obiettivi che vuoi darti nella
vita, chiediti: quanto sei convinto di poterli conseguire? Io
definisco questa operazione «saggiare il proprio grado di
convinzione», perché è indispensabile non mentire a se
stessi. Impegnati con determinazione a far entrare la
questione nello spazio mentale conscio e analizzala bene.
Poco importa che tu ci trovi qualcosa di bello, di brutto o di
cattivo: ciò che soprattutto conta è individuare le falle nel
tuo impegno di fede nei confronti di ogni obiettivo. Può
darsi che durante l’operazione sfoltirai la lista, stabilendo
che certi obiettivi semplicemente non valgono la pena di
essere investiti della tua completa fiducia.
Tieni a mente che si tratta di una verifica, di una verifica
autoimposta, certo, ma pur sempre di una verifica, e
magari non sarà il passatempo più piacevole che esista. Ma
ti procurerai l’intera gamma di risorse mentali disponibili
soltanto se ti considererai responsabile di tutto ciò che sei
genuinamente convinto di poter ottenere. Immagina che il
tuo cervello sia un investitore «dal braccino corto»: tu vuoi
persuaderlo a fare un massiccia iniezione di risorse nel tuo
progetto, e l’unico modo per condurlo in porto è ottenere il
suo pieno impegno. Il tuo discorso di imbonimento
all’investitore avverrà in quel palcoscenico che è lo spazio
mentale conscio, e la verifica del tuo grado di convinzione il
modo in cui ti preparerai a formulare il discorso vincente.

PCC: La fede è un modificatore cerebrale fondamentale:


qualunque siano gli obiettivi che ci siamo dati, senza
convinzione il cervello non ci fornirà le risorse necessarie al
loro conseguimento.

4. Mastica chewing gum


Le piccole cose fanno accadere le grandi cose.
John Wooden

Ci credereste mai che mentre siete in fila alla cassa del


supermercato siete solo a poche decine di centimetri di
distanza da un potente catalizzatore neurochimico che
costa meno di una compressa di antidepressivo?
Ma sì, il chewing gum, la magnifica, succulenta gomma da
masticare che tiene attive le nostre mandibole, rappresenta
un improbabile oggetto di studio delle scienze cognitive
che dimostra invece di possedere qualità che nemmeno
William Wrigley Jr., storico magnate americano che fondò le
sue fortune sull’industria della masticata gommosa,
avrebbe mai sospettato.
Sono stati studiati gli effetti benefici della gomma da
masticare sulla memoria, sull’attenzione, sui disturbi
ansiosi, sulla riduzione dell’appetito, sull’umore e
sull’apprendimento. Fra le caratteristiche del chewing gum
che sono state analizzate vi sono, fra le altre, sapore,
densità e consistenza.
Tali studi sono stati ispirati dall’intuizione che la gomma
da masticare potesse aumentare l’afflusso ematico al
cervello, e che questo si esplicasse in altri importanti
effetti. Alcune ricerche, come quella condotta
dall’Università di Cardiff, sono consistite in un’analisi
generale delle varie potenzialità della gomma da masticare
sotto vari aspetti: apprendimento, umore, memoria e
intelligenza. I risultati hanno evidenziato che durante la
masticazione di una gomma si ha un miglioramento sia
dell’attenzione che delle performance intellettive, mentre
nessun effetto significativo si registra sulla memoria.
Altri studi concludono, invece, che il chewing gum sembra
migliorare solamente alcuni aspetti della performance
mnestica, soprattutto la capacità di ricordare parole
nell’immediato o a distanza di tempo, senza averne sugli
altri. Da uno studio particolarmente interessante condotto
nel 2011 è emerso che masticare una gomma prima di
sottoporsi a un test migliora la prestazione, invece
masticarla durante il test non dà miglioramenti
apprezzabili. Forse questo si spiega con il fatto che
masticare un chewing gum potrebbe «scaldare» il cervello,
metterlo in azione, fenomeno per cui alcuni ricercatori
hanno trovato l’espressione «arousal indotto dalla
masticazione». In effetti, masticare una gomma per venti
minuti equivale a un blando esercizio fisico nel senso di
favorire un maggiore afflusso di sangue al cervello. A
quanto pare, continuare a masticare dopo questo periodo di
«warm-up» richiede un eccessivo sforzo per i muscoli del
viso e questo dispendio energetico annulla i benefici fin lì
prodotti.5
Le ricerche hanno inoltre dimostrato che la gomma da
masticare è un efficace antistress, per quanto i motivi di
questo suo effetto ansiolitico non siano per niente chiari.
Da uno studio del 2009, per esempio, è emerso che secondo
i test di laboratorio masticare un chewing gum provocava
un abbassamento dei livelli di cortisolo, sostanza
comunemente definita come l’«ormone dello stress», e una
riduzione generale dell’ansia.6
Inoltre, potrebbe venir dimostrato che gli antidepressivi
prescritti dai medici hanno un concorrente molto più a
buon mercato in questi quadratini avvolti di carta stagnola
che aspettano solo di essere masticati. Uno studio
scientifico condotto a Tokyo suggerisce che masticare a
lungo una gomma attiverebbe una porzione del cervello (la
parte ventrale della corteccia prefrontale) che a sua volta
scatena una serie di effetti che inducono una minore
percezione di sentimenti depressivi. In effetti sembra che
masticare gomme induca una generica soppressione delle
«risposte nocicettive» (espressione del gergo scientifico
che più o meno si potrebbe tradurre come dolore avvertito
a livello cerebrale).7
Certo, le ragioni di questo fenomeno sono ferme al piano
delle ipotesi, ma non si può ignorare che i benefici della
masticazione dei chewing gum sono evidenziati da un gran
numero di studi. Sebbene ancora non si comprenda bene
perché faccia bene al cervello, poche attività sono tanto
semplici, economiche e poco rischiose quanto mettersi in
bocca una cicca e farsi una bella masticata.

PCC: La gomma da masticare è un esempio di «strumento


cambia-cervello» al quale quasi tutti abbiamo accesso e che
tutti possiamo provare. La ricerca scientifica indica che
potrebbe essere il modo più semplice per indurre una
stimolazione neurochimica a livello cerebrale.

5. Scrivi il tuo necrologio


Le parole sono, naturalmente, la più potente droga usata dall’uomo.
Rudyard Kipling

Sebbene di primo acchito possa apparire morboso,


prendersi il tempo per scrivere il proprio necrologio può
rivelarsi un esercizio illuminante. È una forma di «terapia
paradossale» che garantisce più risultati in un colpo solo.
Innanzi tutto ci costringe a guardarci da una prospettiva
distaccata, in quanto ovviamente assumeremo
l’atteggiamento mentale di una persona che legge un
necrologio. Seconda cosa, disloca frammenti di memoria
spostandoli nello spazio mentale conscio. Nel creare il
proprio necrologio si rivisiteranno a livello conscio alcuni di
questi frammenti mnestici, che si scoprirà essere rimasti
sopiti per molto tempo. Terzo punto, questa pratica ci
induce a essere onesti con noi stessi, cosa che
diversamente si ottiene con molta difficoltà: consiste,
difatti, nel comporre l’ultimo documento di sintesi sulla
propria persona. Il colpo di scena è che in questo modo si
metterà in discussione la propria identità narrativa, che poi
è forse l’obiettivo più importante di tutti. Come discusso
nella prima parte del libro, l’autonarrazione è il filo che
tiene insieme i vari elementi della nostra personalità, la
ragione per cui siamo un «io» e non un «noi». Se il cervello
umano ha sviluppato questa capacità è per un buon motivo,
ossia che non siamo in grado di contenere nella coscienza
tutti gli aspetti contraddittori del nostro io senza
frammentarci a livello psichico e perdere il senso del
controllo che ci è indispensabile. Nel momento in cui si
scrive il proprio necrologio la narrazione che si sta vivendo
si volterà indietro a guardarci e da una prospettiva di
consapevolezza noi ci faremo domande su chi siamo stati,
chi siamo, chi vogliamo essere.
Infine, scrivendo il proprio necrologio ci si metterà in
contatto con il censore del nostro esame finale, la prova al
quale nessuno di noi può sottrarsi. Se pensare troppo alla
morte non fa bene, accettare la mortalità è un’esperienza
fondante che rimette gli eventi dell’esistenza nella giusta
prospettiva. Una cosa che sul momento ci appare
insormontabile potrebbe non essere più tanto importante
quando si passerà in rassegna la nostra vita, e forse altri
aspetti della realtà presente verranno alla superficie come
più interessanti e più degni della nostra attenzione.
Per prima cosa decidi quante parole usare: 500, per
esempio. Quindi inizia a «costruire te stesso»,
concentrandoti su ciò che vorresti far sapere agli altri di te.
Ricorda, però, che non sei un pubblicitario, e lo scopo del
tuo esercizio non è ritoccare sistematicamente i tuoi difetti.
Racconta la storia come meglio credi, ma prendi in
considerazione la tua persona nella sua interezza. Se ti sei
sposato quattro volte, questo fa parte della tua storia. Se
hai trascorso un periodo in prigione, questo fa parte della
tua storia. Tieni a mente, però, che questi fatti, così come
quelli che danno di te un quadro positivo, hanno bisogno di
un contesto, ed è il contesto che tu stai fornendo con la tua
descrizione di 500 parole. Scrivi quante versioni vuoi finché
non avrai in mano un’autonarrazione messa su carta che
secondo te rappresenta un breve racconto senza fronzoli
della persona che sei. A questo punto metti da parte il
necrologio e riprendilo in mano ogni qualche mese come un
lavoro in continuo aggiornamento, modificandolo ogni volta
in qualche modo per tenere il passo con la tua identità
narrativa in perenne mutamento. Ti sorprenderà notare
cosa è cambiato nel frattempo: per essere più precisi, ti
sorprenderai di come sarà cambiata la tua prospettiva
soggettiva.

PCC: Scrivere il proprio necrologio in partenza non è


certo divertente, ma una volta che lo avrai scritto ti
renderai subito conto che da quel momento in poi il tuo
personale punto di vista sarà cambiato in maniera
significativa e costruttiva.

6. Sii motivato, ma non troppo


Faceva ogni singola cosa come se non facesse nient’altro.
Charles Dickens

Che ci crediate o no, è possibile esagerare con la


motivazione quando si cerca di conseguire un obiettivo.
Nella maggior parte dei casi la motivazione è un
prerequisito indispensabile per il successo, ma solo fino a
un certo limite, superato il quale comincia a essere
controproducente. Questo fenomeno è stato illustrato
intelligentemente in uno studio intitolato Choking on the
Money, nel quale ai partecipanti veniva offerto del denaro
perché ottenessero dei buoni risultati con il videogioco per
antonomasia, Pacman. I ricercatori distribuirono quantità
variabili di denaro in modo da indurre differenti livelli di
motivazione fra i giocatori, partendo dall’ipotesi che a
ricompensa monetaria maggiore sarebbe corrisposta una
maggiore motivazione al successo (e, paradossalmente, un
più alto costo in caso di fallimento).8
Durante il gioco, il team di ricercatori sottopose i cervelli
dei partecipanti a risonanza magnetica funzionale,
scoprendo che i giocatori che avevano una posta in gioco
più elevata presentavano i massimi livelli di attività nei
centri cerebrali della ricompensa (quell’insieme di aree del
cervello che sono in relazione alla ricerca della
gratificazione, sia in senso materiale – soldi, per esempio –
che di altro genere). Questi giocatori, però, erano anche
quelli che commettevano più errori. Cosa accadeva nel
cervello di quegli individui perché si verificasse un effetto
tanto curioso?
La conclusione è stata che l’attrattiva di vincere un’alta
somma di denaro aveva scatenato un eccessivo afflusso di
dopamina (il neurotrasmettitore della ricompensa) nei
centri cerebrali del piacere. Come spiega Chris Berdik nel
suo libro Mind Over Mind, la dopamina è il segnale di ciò
che Kent Berridge, biopsicologo dell’Università del
Michigan, ha ribattezzato «rilevanza incentivante», la quale
trasforma quelle che sono delle semplici aspettative di
ricompensa nella motivazione per ottenerle. Per riuscire in
qualcosa tutti gli esseri umani hanno bisogno della
dopamina per passare dal desiderare al cercare di
ottenere; i nostri centri cerebrali della ricompensa, però,
possono essere a tal punto sopraffatti da questo nostro
desiderare che la valanga di dopamina finisce per
ostacolare la capacità di valutare e controllare
consapevolmente le nostre azioni. Ed è quello che è
accaduto nei cervelli di quei giocatori di Pacman la cui
posta in gioco era più alta. Fra tutti i partecipanti
all’esperimento, erano stati quelli a commettere più errori
(e a perdere più soldi, che poi era l’esatto contrario di ciò
che auspicavano). Per dirla con le parole di Berdik: «Gli
individui motivati ce la fanno. Quelli troppo motivati, no».9
La soluzione non è facile, ma le ricerche ci dicono che
possediamo la capacità di calibrare verso il basso il centro
della ricompensa prima che la dopamina si riversi nei suoi
circuiti e renda sempre più difficoltoso il controllo dei
risultati. Si tratta di una sfida che si compie a livello
cosciente, perché non conosciamo fino in fondo le
motivazioni che ci spingono al perseguimento di una certa
ricompensa: queste restano in parte inconsce. Se vi suona
strano sentirvi dire che non siamo del tutto consapevoli del
perché vogliamo ottenere un certo obiettivo, benvenuti in
quella bizzarra arena del cervello dove non tutto è come
sembra. La notizia positiva è che possiamo esercitare un
certo controllo a livello consapevole nel perseguimento
degli obiettivi riflettendo sugli elementi del ciclo retroattivo
della ricompensa. Un po’ come comprendiamo che il
motore di una macchina può finire «affogato» dal
carburante, capire i meccanismi della catena di retroazione
della ricompensa aumenta le probabilità di prevenire
l’«ipermotivazione». L’aspetto più critico è il beneficio
percepito che ci aspettiamo dal conseguimento
dell’obiettivo (la ricompensa). In molti casi le aspettative
sono sproporzionate rispetto all’effettivo beneficio – anche
se a prima vista il «reale» beneficio può sembrare non
chiaro. Come facciamo a sapere se ciò che ci aspettiamo
dalla ricompensa rientra più o meno in quella che sarà
l’effettiva ricompensa? Non c’è modo di capirlo con
certezza; tuttavia, il fatto stesso di abbassare le aspettative
con uno sforzo consapevole rallenterà il ciclo. E se alla fine
avremo azzeccato alla virgola i benefici derivati della
ricompensa, tanto meglio per noi!

PCC: La motivazione è indispensabile, ma l’eccesso di


motivazione conduce al fallimento. Cerca di capire quando
dalla motivazione stai scivolando nell’ipermotivazione, e
per ottenere il massimo dalla capacità di successo del tuo
cervello evita di varcare quella soglia. Il fatto che una
medicina presa in modica quantità sia utile non significa
che raddoppiando la dose si raddoppierà anche il risultato;
anzi, è quasi sempre vero il contrario (se non peggio).

7. Sii consapevole dei meccanismi retroattivi che


caratterizzano l’esperienza emozionale
Sono pure tutte quelle emozioni che integrano e danno animo; impura è,
invece, quell’emozione che cattura solo un lato del tuo essere e perciò lo altera.
Rainer Maria Rilke

Come abbiamo fatto per molte altre dinamiche esposte in


questo libro, anche l’esperienza emozionale può essere
analizzata secondo il meccanismo dei cicli di retroazione.
L’esperienza emozionale, a ogni modo, è caratterizzata da
una catena di retroazione assai complessa.
La prima componente è il sentimento di fondo – se si
vuole, il setting emotivo su cui si innestano tutte le
esperienze di tipo emozionale. Gli psicologi David Watson e
Lee Anna Clark parlano di «stream of affect».10 Una
«corrente d’affetto» può essere positiva, negativa o neutra,
e può essere avvertibile o passare inosservata. Magari un
giorno ci svegliamo sentendoci emotivamente «a terra» (la
classica sensazione di essere sceso dal letto col piede
sbagliato), ma senza riuscire a capire esattamente il
perché. Oppure ci sentiamo traboccare di sentimenti
positivi e ottimistici e aperti a nuove esperienze, anche in
questo caso senza uno specifico motivo. Sono due esempi di
corrente affettiva che determina quotidianamente il nostro
sentimento di fondo.
Dalla corrente d’affetto si passa al successivo livello di
intensità emozionale: lo stato d’animo. Dello stato d’animo
si ha una percezione più acuta rispetto agli stati prodotti
dalla corrente d’affetto, e può durare ore, giorni, settimane
o anche più a lungo. Lo stato d’animo di una persona è
tipicamente ciò che più «contagia» gli individui che le
stanno intorno. Se sei ansioso, impaziente, gli altri,
accortisi del tuo umore, forse per un po’ se ne staranno alla
larga da te perché gli trasmetti la tua ansia (a causa di un
altro fenomeno ben conosciuto a livello psicologico, l’effetto
del «contagio emotivo»). Oppure, se sei sempre ottimista,
magari attirerai altre persone che cercano di alimentarsi
del tuo senso di sicurezza.
Lo stato d’animo conduce al livello di massima intensità
dell’esperienza emozionale: l’instaurarsi di un’emozione.
L’emozione non è sinonimo di «esperienza emozionale», ma
piuttosto un evento che si manifesta in risposta a una causa
scatenante. Le cause scatenanti possono essere esterne o
interne all’individuo (per esempio, un forte trauma rivissuto
nella memoria). Esteriormente le emozioni danno vita a una
serie di espressioni facciali e corporee, mentre
interiormente generano sentimenti soggettivi che
preparano le «tendenze all’azione».
Tra le tendenze all’azione compaiono risposte specifiche
come aggressività, disperazione, diffidenza, euforia,
tenerezza, indulgenza, paura. L’attenzione che si presta
all’emozione è dettata dalla sua intensità, e se l’emozione
provata è molto intensa può essere lei a comandarci
psicologicamente. Nel suo libro Your Creative Brain la
psicologa Shelley Carson definisce il totale controllo
dell’emozione sull’individuo emotional hijacking. Esempi di
questo «sequestro o dirottamento emozionale» sono l’ira, il
panico, la disperazione estrema (che a loro volta possono
tradursi in violenza, crollo nervoso e suicidio). A questo
punto la tendenza all’azione si è trasformata in «imperativo
all’azione», e una volta che questo è avvenuto, abbiamo
scarso controllo su un’azione dettata dalle emozioni.11
Se ci rendiamo conto di questi passaggi nella catena di
retroazione dell’esperienza emozionale, possiamo
consapevolmente esercitare un certo controllo molto prima
di raggiungere lo stadio degli imperativi all’azione. Per
esempio, quando ci accorgiamo dell’instaurarsi di un certo
stato d’animo possiamo imporci una pausa e riflettere
perché ci sentiamo giù, euforici o altrimenti. Potremmo
scoprire che in questo stadio siamo pronti a che una causa
scatenante negativa ci spinga in territori emotivamente
molto pericolosi o, viceversa, che ci sentiamo così sicuri di
noi da non avere la garanzia che scatti il segnale di
pericolo. La cosa fondamentale è non evitare l’esperienza
di un’emozione intensa, ma fare di tutto per prevedere con
estrema franchezza dove ci sta conducendo il nostro stato
emotivo.
Non è cosa semplice da farsi, e la letteratura psicologica
pullula di esempi di previsioni emotive andate storte; la
nostra incapacità di formulare perfette previsioni su quello
che succederà a breve, tuttavia, non è un motivo per non
tentare di fare la previsione più accurata possibile. Se nello
stadio dello stato d’animo possiamo reindirizzare i nostri
pensieri, e quindi contribuire a deviare la nostra traiettoria
emotiva, possiamo evitare che a prendere il comando siano
imperativi all’azione irrealistici sia in senso positivo che
negativo. Questo reindirizzamento viene rimandato in
circolo nel meccanismo di retroazione e modifica la nostra
esperienza emozionale in questa circostanza come nelle
esperienze future. Con il tempo e l’esercizio si impara a
esercitare un maggiore controllo sulla propria esperienza
emozionale, senza svuotarla della sua intensità, ma
guidandola meglio che si può per ottenere risultati migliori.

PCC: L’esperienza emozionale non è un processo unico,


ma un continuum di processi di retroazione. Capire come
un processo ne innesca un altro ci permette, al momento
giusto, di adattare la nostra cognizione per modificarne gli
esiti.

8. Sincronizza motivazioni consce e inconsce analizzando


le forze che inducono alla disonestà
Dubitare di tutto o credere a qualsiasi cosa sono entrambe soluzioni comode,
perché eliminano la necessità di riflettere.
Jules Henri Poincaré

Sincronizzare le motivazioni consce con quelle inconsce


rappresenta un elemento importante dell’esercizio del
controllo metacognitivo mirato a ottenere risultati migliori,
ed esistono molti modi per farlo. Uno ce lo offre lo
psicologo ed economista comportale Dan Ariely nel libro
The (Honest) Truth About Dishonesty. Ariel si concentra sul
«lato oscuro della creatività» per gettare luce su quella
tendenza del cervello creativo che ci rende più facile
reinterpretare a nostro vantaggio le informazioni. L’aspetto
paradossale è che questa medesima facoltà ci consente di
immaginare soluzioni innovative a problemi complessi e di
scoprire «nuove strade» per il conseguimento dei nostri
obiettivi.12
Scrive Ariely: «Mettere al lavoro le nostre menti creative
può aiutarci ad avere la botte piena e la moglie ubriaca, e a
creare storie nelle quali noi siamo sempre l’eroe e mai il
cattivo». Il problema è che da un lato immaginiamo risultati
positivi e rispondenti ai nostri desideri, ma dall’altro agisce
su di noi l’influsso del «lato oscuro della creatività», il
quale ci mette – sempre per usare le parole di Ariely – «alle
strette». Per aiutarci a liberarci da queste situazioni di
difficoltà egli ci elenca un riassunto delle forze che danno
forma alla disonestà. Dalla sua ricerca emergerebbe che
sono otto le forze principali a spingerci a comportamenti
disonesti, e agiscono all’interno come all’esterno di noi:
1. Propensione al pensiero razionale
2. Conflitti di interesse
3. La creatività
4. Un episodio di comportamento immorale
5. Sentirsi svuotati, esauriti

Il fatto che altri traggano vantaggio della nostra disonestà


1. Osservare il comportamento disonesto altrui
2. Le culture che offrono esempi di disonestà

A queste Ariely aggiunge quattro fattori che contrastano


la disonestà:
1. Le assunzioni di impegno
2. Le firme
3. I «promemoria» morali
4. La sorveglianza

Infine, cita due fattori che non sembrano avere alcun


effetto percepibile sulla disonestà:
1. La quantità di denaro in gioco (Chi l’avrebbe mai
pensato?)
2. La probabilità di essere scoperti
In questo caso lo strumento metacognitivo non consiste
nel buttare a mare la creatività per evitare il suo «lato
oscuro», ma piuttosto tenere mentalmente conto dei fattori
che secondo la ricerca di Ariely ci predisporranno a un
comportamento disonesto. Il suo libro può essere
considerato come una fiaccola che illumina uno dei tanti
ponti di collegamento fra le nostre motivazioni consce e
inconsce. Forse, per esempio, a livello cosciente non ci
rendiamo conto che sentirci svuotati, con poche energie e
scarse risorse fisiche, ci predispone inconsciamente alla
disonestà. Sapendolo, possiamo valutare la lista di fattori
anti-disonestà proposta da Ariely e magari introdurre nella
nostra vita di tutti i giorni dei promemoria di ordine morale
che facciano da contrappeso alla disonestà. Può trattarsi di
un promemoria in senso proprio, materiale, da inserire in
agenda, oppure un appunto mentale da ripassare
frequentemente.
Il punto più saliente evidenziato da Ariely è che gli esseri
umani mentono a se stessi tanto quanto mentono agli altri,
o persino di più. Il suo saggio è importantissimo per capire
come riconoscere l’autoinganno prima di finirci dentro. Si
tratta di una terapia dolorosa e di uno strumento difficile
da applicare, ma comunque meno complicato che
raccogliere la molteplicità di modelli di disonestà che
nascono quando si ignora l’esistenza di fattori inconsci che
ci predispongono a pensieri e azioni disonesti.

PCC: Una parte dell’esercizio del controllo metacognitivo


consiste nel disvelare le nostre motivazioni inconsce. Non è
un processo semplice, ma attraverso uno strumento per
individuare l’insincerità si può fare luce sulle motivazioni
egoistiche che siamo inclini a ignorare.
9. Cerca l’integrazione consapevole
Cerca la completezza in te stesso e tutte le cose verranno a te.
Lao Tzu

Daniel Siegel è uno psicologo e saggista che ha offerto un


enorme contributo alla comprensione della mente umana
illustrando il concetto di integrazione consapevole (mindful
integration), l’integrazione del flusso mentale di energia e
informazione.13
L’energia è la capacità di compiere un’azione, e può
trattarsi di una cosa elementare come muovere un braccio
oppure di un’azione più complessa come elaborare un
pensiero. Informazione è tutto ciò che sta a rappresentare
altro diverso da sé. Per esempio, un sasso di per sé non è
un’informazione, ma lo è la parola «sasso»: per identificare
l’oggetto materiale corrispondente, la nostra mente deve
riconoscerne e analizzare le lettere (i simboli) del termine
«sasso».
Scrive Siegel: «Sapere che la nostra mente regola il flusso
di energia e di informazione ci permette di cogliere la
realtà di queste due forme di esperienza mentale – e quindi
di agire piuttosto che perderci in esse».
Siegel sostiene che l’integrazione avviene quando capiamo
che questa regolazione di energia e informazione non ha
luogo solamente all’interno del cervello e del sistema
nervoso, ma anche fra la nostra mente e quelle degli altri
individui. In altri termini, l’integrazione è relazionale.
Per dirla in un’altra maniera, la nostra mente non è
soltanto ciò che il nostro cervello sta facendo, ma ciò che il
nostro cervello sta facendo all’interno del contesto
socioculturale nel quale viviamo. La mente è un concetto
relazione, non individuale. Se comprendiamo questo fatto
possiamo capire meglio perché i pensieri degli altri ci
influenzino e ci coinvolgano, e perché e in quale modo noi
influenziamo gli altri. La dinamica relazionale della mente
non è confinata all’interno del cranio e il flusso di energia e
informazioni ha il carattere dell’interazione.

PCC: Nessun uomo è un’isola, nessuna mente è solo un


cervello. Ricorda che gli altri hanno un ruolo nel perenne
emergere della tua mente.

10. Osserva periodicamente una campagna del silenzio


Una volta all’anno è lecito impazzire.
Quinto Orazio Flacco

Il centro di comando del cervello umano, la corteccia


prefrontale, si è evoluto per ascoltare, poiché spesso le
informazioni ci giungono sotto forma di suoni – e non solo
dall’esterno: il rumore che si genera internamente al nostro
cervello può essere sufficiente a impedire la
concentrazione.
Nel libro Words Can Change Your Brain Andrew Newberg
e Mark Robert Waldman consigliano di coltivare il silenzio
interiore così da dedicare tutta la nostra attenzione a
quello che ci stanno dicendo gli altri. «Inconsciamente il
nostro interlocutore capisce quando siamo distratti dal
nostro dialogo interiore, e percependo una mancanza di
interesse da parte nostra prende le distanze».14
In questo caso lo strumento cognitivo è duplice: imparare
a isolarci dal rumore esterno e da quello interiore. Fra i
due il più facile da gestire è il rumore esterno perché
esistono svariati metodi per crearsi una cabina
insonorizzata virtuale, compreso il ricorso alla musica.
Ascoltando con le cuffie una certa playlist di canzoni in
modalità loop si stimola il cervello a entrare in uno stato
caratterizzato da onde cerebrali beta-theta, quello che più
favorisce la calma della contemplazione.15 Si dovrà per lo
più procedere per tentativi, perché si tratta di scoprire
cosa funziona meglio per il singolo individuo. Io ho scoperto
che le canzoni più adatte sono quelle strumentali o con dei
testi abbastanza familiari da non richiedere uno sforzo
mentale extra per essere decifrati. Si avvolgono nella mia
testa come onde, rilassandomi. È una tecnica che trovo
molto utile soprattutto nei locali pubblici. Mi piace
l’atmosfera di socializzazione che regna nei caffè, ma la
cacofonia casuale dei rumori mi distrae troppo dal lavoro, e
così usando il mio smartphone e gli auricolari ascolto in
rotazione determinati brani per ritagliarmi una cabina
insonorizzata virtuale nel bel mezzo di un ambiente dove
fervono i rapporti sociali.
Per coltivare il silenzio interiore si possono provare varie
tecniche, fra cui la meditazione consapevole (anch’essa
parzialmente trattata da Newberg e Walden). Nella mia
esperienza, tuttavia, esiste una relazione simbiotica fra
l’isolamento dal rumore casuale proveniente dall’esterno e
la pratica della creazione del silenzio interiore. «Silenzio»,
in questo caso, non significa «assenza di suoni», ma
piuttosto un’uniformità di suoni che non impegni la mente.
Sperimenta diverse tecniche finché non scopri cosa
funziona meglio per te, dopo di che osserva dei periodi di
«silenzio»: vedrai che alla fine le tue capacità di
concentrazione e attenzione ne trarranno giovamento.

PCC: Creare ogni tanto il silenzio, all’esterno e dentro di


sé, è fondamentale per affinare la concentrazione e
imparare a sapere ascoltare. A volte bisogna isolarsi dal
flusso caotico dei rumori provenienti dall’esterno e dalla
nostra stessa mente se si vuole evitare di esserne
sommersi.

11. Certe volte non fidarti delle euristiche di giudizio


Oggi sei dove ti hanno condotto i tuoi pensieri; domani sarai là dove i tuoi
pensieri ti condurranno.
James Allen

Una delle dinamiche più utili messe in atto dalla mente


inconscia è una cosa che gli scienziati cognitivi chiamano
«automatismo». In poche parole, l’automatismo è la
scorciatoia a cui il cervello umano ricorre per eseguire dei
compiti che altrimenti richiederebbero ragionamenti lunghi
e deliberati. Il nostro cervello decide che, in questi casi, la
cosa più conveniente da fare è agire automaticamente,
mentre agire intenzionalmente potrebbe rivelarsi fatale.
Un classico esempio di come funziona questa dinamica è
quella del «serpente in mezzo alla strada»: immaginiamo di
stare percorrendo a piedi un tranquillo sentiero di
montagna e che a pochi metri da noi si materializzi quello
che a tutti gli effetti sembrerebbero le spire di un serpente.
Automaticamente, senza il minimo accenno di una
decisione a livello conscio, facciamo un balzo all’indietro. A
dire il vero, indietreggiamo prima ancora di avere la
conferma che si tratti effettivamente di un serpente. Dopo
qualche secondo notiamo che il «serpente» non si muove, e
così ci avviciniamo piano piano, con molta cautela. Solo a
quel punto ci rendiamo conto che non è un serpente, bensì
un grosso ramo scuro e contorto.
La scorciatoia a cui il cervello ha fatto ricorso per farci
fare un balzo all’indietro è una euristica di giudizio
evolutivamente preconfigurata – una regola mentale – che
esiste per aiutarci a sopravvivere (o almeno per aumentare
le nostre chance di sopravvivenza). Utilizzandola, il nostro
cervello ci impedisce di avvicinarci troppo e troppo
rapidamente e di ispezionare l’oggetto minaccioso e
potenzialmente letale che abbiamo incontrato sulla nostra
strada.
L’aspetto positivo di questa euristica del giudizio è
lampante: essa potrebbe salvarci la vita. Il rovescio della
medaglia è che essa può essere – e spesso lo è – distorta da
forze di tipo culturale, certe volte tanto spregiudicate da
provocare seri danni. È un fenomeno che da anni sfruttano
i ciarlatani che propinano illusorie panacee. Quando ci
imbattiamo in un prodotto che sostiene di migliorare la
salute rafforzando il sistema immunitario nei confronti di
ogni possibile minaccia virale o batterica, la nostra prima
reazione magari sarà di acquistarlo. Chi non vorrebbe un
simile aiuto per la salute? Lo si compra, senza starci a
pensare. A pensarci bene, ovviamente, salta fuori che
invece è meglio lasciar perdere e tenersi i soldi in tasca:
non è vero niente, un prodotto dalle proprietà simili non
esiste. Virus e batteri prosperano su questo pianeta da
prima che arrivassimo noi umani e continueranno a farlo a
lungo dopo la nostra scomparsa. Non esiste una cura
nemmeno per il comunissimo raffreddore! Le pretese
qualità del prodotto fanno leva sul nostro istintivo desiderio
di essere più sani, il quale a sua volta alimenta l’impulso di
mettere mano al portafoglio.

PCC: Le euristiche di giudizio sono indispensabili per la


sopravvivenza umana, ma possono anche indurci a
prendere delle decisioni sbagliate. Capire quando qualcuno
le sfrutta serve a plasmare il ragionamento e garantisce
migliori risultati nel futuro.

12. Migliora l’autocontrollo con una scarica di glucosio


La mia colpa, il mio fallimento, non sta nelle mie passioni, ma nel fatto che non
riesco a controllarle.
Allen Ginsberg

Se fatichi a tenere in riga l’autocontrollo, tieni a portata di


mano una bottiglia di limonata con del vero zucchero. Non
dovrai necessariamente berla, ma stapparla e buttare giù
un sorso quando hai l’impressione di essere sul punto di
cedere.
È quanto evidenziato da uno studio pubblicato sulla rivista
«Psychological Science».16 Alcuni ricercatori dell’Università
della Georgia (UGA) hanno somministrato dei test
sull’autocontrollo a un gruppo di 51 studenti. Il primo test,
che studi precedenti avevano dimostrato produrre un calo
dell’autocontrollo, consisteva nella tediosa attività di
spuntare tutte le «e» presenti in una pagina di un testo di
statistica. In seguito, i partecipanti furono sottoposti al
cosiddetto test di Stroop, il quale consiste nell’identificare
il colore di varie parole fatte apparire su uno schermo e
corrispondenti al nome di altri colori. L’obiettivo del test di
Stroop è inibire la tendenza dello studente a leggere le
parole (cosa che si fa facilmente) e invece a vedere i colori
(cosa che richiede maggiore sforzo).
Prima di iniziare il test la metà degli studenti si inumidì la
bocca con della limonata addolcita con zucchero, mentre
gli altri con limonata addolcita con sucralosio. Gli studenti
che avevano assaggiato la bevanda contenente zucchero,
invece del dolcificante artificiale, reagivano assai più
velocemente ai colori che alle parole.
Come si spiega questo fatto? Sembra che attraverso il
semplice contatto con la lingua il glucosio contenuto nella
limonata attivi i centri cerebrali della motivazione fornendo
ai partecipanti quella spinta in più necessaria a portare a
termine il compito più difficile.
«In precedenza gli studiosi pensavano che bisognasse
bere del glucosio, immetterlo nel proprio organismo per
ottenere l’energia necessaria a rafforzare l’autocontrollo»
spiega Leonard Martin, professore di psicologia presso la
UGA e coautore della ricerca. «Alla luce di questo
esperimento, pare che il glucosio stimoli le papille linguali
sensibili ai carboidrati semplici: queste inviano un segnale
diretto ai centri motivazionali del cervello dove avviene la
rappresentazione degli obiettivi del sé. Questi segnali
avvisano il corpo di prestare attenzione».
Dal momento che il glucosio è per il cervello la fonte
primaria di energia, si comprende che una rapida dose di
zucchero acuisca l’attenzione. Tuttavia, il parere dei
ricercatori dell’UGA è che lo zucchero faccia molto di più
che fornire un semplice incremento di energia.
«[Lo zucchero] non solo dà un impulso in termini di
energia, ma rafforza il nostro investimento nell’attività che
stiamo svolgendo. Rendendo più chiare le cose che per noi
sono importanti, rende rilevanti quegli obiettivi di interesse
personale», dice Martin.
Alla base dell’affermazione di Martin c’è una teoria detta
del «rafforzamento emozionale»: una certa cosa (lo
zucchero, nel nostro caso) induce un individuo a
concentrarsi sui propri obiettivi invece di agire
automaticamente in base all’impulso di abbandonare
l’esercizio dell’autocontrollo quando si sente esaurito. È il
meccanismo che entra in azione, per esempio, quando ci si
trattiene un’altra mezzora in palestra anche se la
sensazione sarebbe quella di dire basta.
«Pare che il glucosio serva a bloccare una risposta
automatica, come per esempio leggere le parole nel test di
Stroop, e a rimpiazzarla con una risposta diversa, più
difficile, come dire di che colore sono le lettere che
compongono una parola» aggiunge il professore. «Può
rafforzare l’investimento emozionale e gli obiettivi rilevanti
per l’individuo».

PCC: Dopo la gomma da masticare, ecco un altro


strumento alla portata di tutti. Gli studi scientifici indicano
che una dose di glucosio è spesso proprio ciò che serve al
cervello per migliorare le proprie capacità: un sorso di
bibita zuccherina ogni tanto può produrre un vero
cambiamento.

13. Impara a bloccare il flusso dei pensieri


Non si possono risolvere i problemi utilizzando lo stesso tipo di ragionamento
che abbiamo usato quando li abbiamo creati.
Albert Einstein

La capacità di gestire il pensiero cosciente è uno


strumento indispensabile nell’armamentario metacognitivo.
È la disciplina centrale che fa della metacognizione quella
risorsa interiore potente che è. Due strategie sono di
particolare importanza: il blocco del pensiero e il
differimento dei pensieri.
Interrompere il flusso dei pensieri è uno strumento
comportamentale cui si ricorre nella pratica clinica
psicologica per aiutare i pazienti a controllare l’ansia, la
rabbia e la paura cronica. Sebbene esistano vari modi di
applicare questa strategia, io ne promuovo una descritta da
Shelley Carson in Your Creative Brain, per la quale
occorrono qualche foglio di schedario e una penna.17
Sfruttando questa tecnica, nel momento in cui ti accorgerai
di fare certi pensieri ti dirai di smettere tramite il ricorso a
comandi verbali o a immagini mentali. I comandi
potrebbero essere:
«Lascia perdere questo discorso».
«Allontanati mentalmente».
«Questi pensieri non miglioreranno la situazione».
Un’immagine mentale potrebbe essere un cartello di stop
o una mano alzata a indicare l’alt.
Carson suggerisce di scrivere questi comandi su una
scheda e di formularli ogni volta che ti assalgono pensieri
sgraditi. Il suo consiglio è di scrivere in totale sei comandi
(o immagini) per scheda, quattro su un lato e due sull’altro.
Portati dietro la scheda e usala ogni volta che è necessario.
Con il passare del tempo comandi e immagini diventeranno
risposte automatiche ai pensieri negativi, però ci vuole
pazienza prima che la tecnica cominci a funzionare.
Inizialmente potrebbero volerci parecchi minuti ogni volta
che usi un comando o un’immagine; man mano che
acquisirai maggiore controllo i tempi diminuiranno.
In un saggio intitolato Change Your Brain, Change Your
Life, Daniel Amen tratta degli studi scientifici sul giro
cingolato del cervello, il quale ci permette di trasferire la
nostra attenzione da una cosa all’altra, concreta o astratta
che sia.18 Quando il sistema cingolato è compromesso
siamo propensi a rimanere intrappolati in pensieri negativi
e ci risulta difficile cogliere le alternative nelle varie
situazioni. La nostra mente entra in un loop cognitivo
disfunzionale dal quale sembra impossibile uscire.
Secondo Amen la prima mossa per superare la disfunzione
del sistema cingolato è renderci conto che ci siamo
impantanati e distoglierci dal circolo vizioso del pensiero.
Dobbiamo prendere consapevolezza del fatto che ci siamo
infilati in un loop. «Ogni volta che ti accorgi che il tuo
pensiero si avvita su se stesso continuamente, senza
interruzione, cerca di distrarti. Alzati e fai qualcos’altro».

PCC: Imparare a bloccare il circolo dei pensieri è cosa


estremamente ardua, ma gli studi dimostrano che con il
tempo e la perseveranza questo strumento cognitivo può
cambiare il nostro cervello anche in maniera significativa.
Basta dargli tempo e non arrendersi: questo strumento
racchiude in sé l’essenza stessa dell’adattamento.

14. Crea una sincronizzazione cerebrale estemporanea


La vita si restringe o si espande in proporzione al nostro coraggio.
Anaïs Nin

Forse ti sarà capitata una situazione come la seguente:


mentre stai guidando, vedi qualcuno che non riesce a fare
manovra per parcheggiare. Il guidatore è riuscito a infilarsi
nel parcheggio a metà, mentre il sedere dell’automobile
invade pericolosamente la traiettoria delle macchine in
transito. Non appena noti la scena ti immedesimi
nell’automobilista, perché è capitato anche a te. Non c’è
cosa tanto brutta quanto restare impantanati in un
parcheggio problematico.
A questo punto hai una decisione da prendere: o
continuare per la tua strada e lasciare che il malcapitato se
la cavi da solo, o provare a dargli una mano. Scegli di
aiutarlo. Fermi la macchina in una posizione tale da creare
una barriera fra la sua auto e il traffico, una protezione
improvvisata per consentire al guidatore di uscire dal
parcheggio e rifare la manovra. Ovviamente, lui non si
rende conto che stai cercando di aiutarlo; anzi,
probabilmente penserà che ti sei fermato per rinfacciargli
di aver bloccato il traffico, perciò è importante che tu
chiarisca le tue intenzioni. Lascia passare le altre
automobili, poi apri lo sportello e scendi per fargli segno
che stai cercando di dargli una mano. Il tuo collega apre il
finestrino e risponde con un cenno della mano, a indicare
che ha recepito il messaggio. Adesso siete in due ad
affrontare la situazione.
Inevitabilmente la gente inizia a suonare il clacson, a
gridare, a fare gestacci a voi e all’altro automobilista. Ma
non importa. Avendo preso la decisione di aiutare e poi
portandola avanti con l’azione, hai sincronizzato la parte
fiduciosa del tuo cervello con quella dell’altro
automobilista. Sei convinto che valga la pena offrire aiuto a
questa persona, anche a costo di esporti a qualche rischio,
e questa convinzione sta colmando il divario fra voi due.
L’automobilista alla fine sarebbe riuscito a parcheggiare
senza il tuo aiuto? Forse sì, forse no: ma non è questo il
punto. Il punto, evidenziato in questo semplice esempio, è
che ogni volta che si allineano i nostri pensieri e le nostre
azioni con la convinzione che valga la pena dare aiuto a
un’altra persona abbiamo dato il via a un’estemporanea
sincronizzazione cerebrale con quella persona: e facendolo
abbiamo instillato nel suo cervello la percezione che il
successo sia a portata di mano.
L’espressione «passa il favore a qualcun altro» ha in effetti
una forte giustificazione a livello neurobiologico. Quando
vediamo che un’azione positiva per aiutare qualcuno ha un
esito felice, il nostro cervello registra l’avvenimento come
una prova del fatto che anche noi possiamo fare la stessa
cosa. In altre parole, aiutare qualcuno a fare qualcosa si
trasforma in una potenziale «ricompensa» (nel senso
neuroscientifico del termine) e subito cerchiamo occasioni
per ottenerla. Si tratta di un’ottima medicina per il
cervello, perché intorno a una convinzione di tipo
altruistico si costruiscono delle connessioni neurali; il
cervello cresce (nel senso letterale del termine) traendo
linfa dall’esperienza.
Lo strumento descritto qui è di una semplicità
sorprendente: la prossima volta che ti si presenta
l’occasione di creare una sincronizzazione cerebrale
estemporanea non lasciartela sfuggire. Aiutando gli altri,
aiuterai te stesso.

PCC: Per quanto possa essere faticoso farsi avanti in aiuto


di qualcuno, vale la pena farlo, e per più ragioni di quante
inizialmente crediamo, non ultima il potenziamento
cognitivo che ne deriva.
15. Non fermarti, continua a fare qualcosa
Non sono le cose difficili che non ci fanno osare, è il non osare che rende le
cose difficili.
Lucio Anneo Seneca

La sensazione di essere schiacciati dagli eventi è una


risposta di difesa del sistema di allarme che il cervello
possiede al suo interno. Quando si ha la sensazione che
troppe cose stiano succedendo tutte insieme, o che gli
aspetti di un progetto siano troppi perché siano
umanamente gestibili, gli ormoni dello stress entrano in
azione e il cervello mette in allarme il sistema nervoso
comunicandogli che le cose non vanno per niente bene.
Conseguenza frequente di questa trasmissione biochimica è
la paralisi mentale. «Troppo» viene tradotto come «troppo
rischioso» e «troppo pericoloso», e si va incontro a un
blocco dell’intero sistema. Il celebre psicologo Ivan Pavlov
(quello del riflesso condizionato che faceva salivare i cani)
definiva questa tendenza «inibizione transmarginale»: il
punto arrivati al quale, di fronte a ciò che sempre Pavlov
chiamava «ipereccitazione», il nostro sistema nervoso in
pratica va in panne.
Il metodo per rimediare a questa situazione è l’opposto
della nostra inclinazione mentale. Se il desiderio è quello di
cercare qualsiasi cosa ci possa distrarre e staccarci dalla
fonte di energia che ci travolge, un atteggiamento molto
più costruttivo consiste nel modificare il nostro modo di
guardare al problema e cercare nuove alternative per
contrastarlo. La migliore potrebbe essere la meno ovvia:
ricominciare da capo, da un punto qualsiasi. Vorrei mettere
in chiaro che questo non significa raccomandare l’opinabile
virtù del fare le cose a caso; si tratta invece di un solido
cambiamento strategico nel modo di ragionare che serve a
combattere la paralisi mentale.
Altro modo per definire questo strumento è parlare di
disciplina strategica del pensiero. La strategia si compone
fondamentalmente di due possibilità: 1) ciò che scegliamo
di fare e 2) ciò che scegliamo di non fare. Il fatto
sorprendente è che si possono fare entrambe le cose
simultaneamente: si può scegliere di non crogiolarsi nella
posizione in cui ci confina la confluenza di fattori
soverchianti e scegliere di ricominciare da qualche altra
parte. Non importa da dove, basta che sia meno stressante
e ci consenta di esercitare la concentrazione e andare
avanti. Andando avanti si produrrà un risultato – per
quanto minimo – che a sua volta produrrà ulteriori
progressi. Esercita con costanza queste regole di condotta
e in breve ti scoprirai rifocalizzato sul conseguimento
dell’obiettivo che per te più conta, lo stesso che fino a non
molto tempo prima ti risbatteva sulla battigia come un
violento cavallone. Usando il controllo strategico riuscirai a
rialzarti da sotto l’onda e imparerai di nuovo a cavalcarla.
Questa capacità l’hai sempre posseduta, non si è formata
applicando questo strumento, solo che hai dovuto
esercitare una certa disciplina perché funzionasse nel
momento del maggior bisogno.
PCC: Strategia vuol dire scegliere, e ricorrendo alla
disciplina strategica puoi uscire dallo stato di paralisi,
sottrarti alla confluenza di fattori soverchianti e,
recuperata la concentrazione, riposizionarti in un punto
diverso del problema. La cosa che più conta è continuare
ad agire e non lasciare che la sensazione di non farcela
fermi i tuoi progressi, perché in questo caso permetteresti
a quella sensazione di trasformarsi in una debilitante
realtà. Bisogna utilizzare la forza adattiva del cervello per
vedere le cose da un diverso punto di vista e rimetterci
mentalmente a fuoco in modo tale che la nostra energia
fluisca nella direzione degli obiettivi prefissati.

16. Dormi per impedire che i tuoi circuiti cerebrali si


surriscaldino
Mi sveglio per dormire, e il mio risveglio è senza fretta.
Theodore Roethke

Intuitivamente si sa che dormire è importante, e su questa


idea si basa una grande messe di studi sugli effetti della
privazione del sonno sulla salute. Ma con esattezza cosa
accade nel nostro cervello quando non ci riposiamo
abbastanza? I ricercatori hanno affrontato la questione in
uno studio dal quale emerge che con l’aumentare delle ore
di insonnia il cervello si trasforma in un fascio di neuroni
iperattivi. In un certo senso, quando le priviamo delle
necessarie ore di inattività, le nostre zucche si
surriscaldano.
L’équipe di ricercatori, capitanata da Marcello Massimini
dell’Università di Milano, dopo aver indotto una forte
corrente magnetica nei cervelli dei partecipanti tale da
innescare una cascata di risposte elettriche a livello
neuronale, applicando dei nodi elettrici al cuoio capelluto
dei soggetti passò a misurare l’intensità della risposta
elettrica nella corteccia frontale, area del cervello coinvolta
nel processo decisionale ed esecutivo. La procedura fu
portata a termine il giorno prima di sottoporre i soggetti a
una notte di deprivazione del sonno e poi ripetuta il giorno
successivo.
Gli esiti dell’esperimento furono che dopo una notte
insonne le risposte elettriche dei partecipanti erano
significativamente più intense (nel senso di più
disorganizzate e incontrollate) rispetto al giorno prima.
Tale effetto fu corretto da una bella notte di sonno.
Se soffrite di problemi del sonno, eccovi alcune delle
spiegazioni più comuni secondo le ricerche scientifiche
sull’argomento, nonché dei metodi per porvi rimedio.19
Fattori inibitori del sonno

1. La stanza non è sufficientemente buia


Sarebbe bene che nella vostra camera da letto non ci
fossero luci accese, in special modo se emesse da un
televisore o da un qualunque apparecchio elettrico. Quando
di notte gli occhi sono esposti a fonti luminose, il cervello è
indotto ingannevolmente a pensare che sia l’ora di
svegliarsi e così riduce la produzione di melatonina, un
ormone rilasciato dalla ghiandola pineale che causa
sonnolenza e l’abbassamento della temperatura corporea.
Particolarmente fastidiosa è la luce emessa dagli
apparecchi elettronici, perché simile a quella solare.

2. Fare esercizio fisico nelle ore serali


Se si fa esercizio fisico entro tre ore dal momento in cui si
cercherà di prendere sonno si provoca un’iperstimolazione
del metabolismo e un’accelerazione del battito cardiaco che
causeranno irrequietezza e risvegli frequenti durante la
notte. Per dormire meglio cercate di fare ginnastica al
mattino, o al massimo nelle ore pomeridiane.

3. Bere alcol nelle ore serali


Si tende a credere che l’alcol abbia effetti soporiferi, ma
in realtà interferisce con il sonno REM, facendoci sentire più
stanchi al mattino. Sì, forse dopo un bicchiere vi sentirete
prendere dalla sonnolenza, ma sappiate che è un effetto
che dura poco.

4. La temperatura nella stanza è troppo elevata


Durante il sonno corpo e cervello richiedono di abbassare
la propria temperatura, ma una camera troppo calda
ostacolerà il processo di raffreddamento. Una buona idea
può essere tenere un ventilatore nella stanza, perché così
starete al fresco e l’apparecchio produrrà un livello
costante di rumore bianco che vi aiuterà a prendere sonno.
State però attenti a non far scendere troppo la
temperatura, perché anche il freddo disturba il sonno.

5. La caffeina è ancora in circolo


Il periodo medio di dimezzamento per la caffeina è di
cinque ore, il che significa che a dieci ore dall’assunzione
nel nostro corpo circolano ancora tre quarti della prima
dose di caffeina. La maggior parte di noi beve più di una
tazza di caffè, e molte persone bevono caffè nelle ore più
tarde. Se avete intenzione di bere del caffè, fatelo nelle
prime ore della giornata.

6. Guardare che ora è


Sebbene sia difficile non farlo, è bene evitare di
controllare l’ora quando ci si sveglia in piena notte. Anzi, la
cosa migliore da fare è girare la sveglia dall’altra parte in
modo da non poter leggere il display. L’abitudine di
controllare l’ora provoca una taratura sfasata dei ritmi
circadiani, e nel giro di poco tempo vi ritroverete ad aprire
gli occhi ogni notte alle 3:15 esatte.

7. Stare alzati a guardare la tv finché arriva il sonno


È una cattiva idea, e per diverse ragioni. Innanzi tutto,
guardare la televisione stimola l’attività cerebrale, che è
l’esatto contrario di ciò che desiderate se il vostro obiettivo
è dormire saporitamente. In secondo luogo, la luce emessa
dal televisore sta dicendo al vostro cervello di svegliarsi
(vedi sopra al punto 1).

8. Rimuginare sui problemi in piena notte


A tutti capita ogni tanto di svegliarsi in piena notte, e la
prima cosa che ci si presenta in testa è un grosso problema
che ci angustia. La cosa migliore da fare è impedirsi di
pensarci e reindirizzare i propri pensieri su qualcosa di
meno stressante. Se vi lasciate impastoiare dal vortice
dell’ansia resterete svegli più a lungo.

9. Assumere cibi proteici poco prima di andare a letto


La digestione delle proteine richiedere molta energia, il
che tiene in attività l’apparato digerente mentre noi
cerchiamo di addormentarci: pessima combinazione.
Meglio mangiare qualcosa di leggero a base di carboidrati.

10. Fumare prima di coricarsi


I fumatori trovano che fumare sia rilassante, ma si tratta
di un inganno neurochimico. La nicotina, in realtà, è uno
stimolante. Se vi «svampate una bionda» prima di tentare
di prendere sonno, aspettatevi di dover riaprire gli occhi
più volte durante la notte: è come se vi foste bevuti una
tazza di caffè.

PCC: Il sonno è indispensabile per il corretto


funzionamento del cervello, e la privazione del sonno avrà
immancabili ripercussioni sui processi cognitivi. Seguendo i
consigli elencati sopra potrai stare certo di dormire almeno
sei ore per notte.

17. Fatti valere


Per conoscersi meglio bisogna affermarsi di più.
Albert Camus

Un cervello equilibrato, che non salti da un estremo


all’altro, all’esterno manifesta una certa serie di
caratteristiche. Una di queste è l’assertività. Come molti
altri strumenti per cambiare il cervello, l’assertività è
un’abilità che va appresa. Se è possibile che ad alcuni
venga più naturale che ad altri, è comunque una tendenza
meno naturale rispetto ad altre due inclinazioni
comunemente espresse: aggressività e passività.
Nel libro Managing Your Mind, gli psicologi Gillian Butler
e Tony Hope spiegano che le qualità assertive forniscono un
equilibrio importante sotto tre aspetti:20
1. Equilibrio tra passività e aggressività.
2. Equilibrio tra se stessi e gli altri.
3. Equilibrio tra riflessione e azione.

La chiave di tutto è la parola «equilibrio», perché in tutti i


casi sopra menzionati l’assertività non sostituisce del tutto
l’una o l’altra posizione, bensì le fonde in maniera
proporzionale alla situazione. Per esempio, assertività non
vuol dire riflettere invece di reagire, ma consiste in una via
di mezzo, così che la reazione dell’individuo non sia slegata
dalla riflessione. Non consiste nell’agire nell’esclusivo
interesse della propria persona a spese degli altri, ma nel
raggiungere un compromesso fra il proprio diritto ad avere
sentimenti e opinioni e l’analogo diritto posseduto dagli
altri.
Il problema delle posizioni estreme non equilibrate è che
incoraggiano solo un tipo di comportamento o un unico tipo
di soluzioni ai problemi. Per dirla con le parole di Butler e
Hope: «Sia i despoti che gli zerbini sono dominati dal
controllo: gli uni sentono il bisogno di controllare, gli altri
quello di essere controllati». Gli estremi sono il prodotto di
una rigidità di pensiero e una volta rappresentati nel nostro
comportamento, a loro volta rafforzano la rigidezza.
L’assertività, d’altro canto, genera flessibilità.
«L’atteggiamento assertivo apre diverse strade percorribili
e produce un adattamento più soddisfacente» scrivono
Butler e Hope. Con una forma mentis improntata
all’assertività si è più consapevoli che i nostri bisogni, le
nostre esigenze e i nostri sentimenti non contano né più né
meno di quelli degli altri, ma che sono altrettanto
importanti.
Butler e Hope offrono come modello un utile elenco di
«Diritti assertivi»:
– Io ho il diritto di…
– Dire «Non lo so».
– Dire «No».
– Avere un’opinione ed esprimerla.
– Provare sentimenti ed esprimerli.
– Fare le mie scelte e affrontarne le conseguenze.
– Cambiare idea.
– Scegliere come passare il mio tempo.
– Commettere errori.

In definitiva, questo elenco di «Diritti assertivi» è


l’espressione della libertà di essere se stessi, e serve inoltre
a ricordare che anche gli altri godono della stessa libertà.

PCC: Ragionare in maniera troppo rigida impedisce


l’adattamento; la flessibilità mentale, invece, lo favorisce.
Per sfruttare al meglio le capacità adattive del nostro
cervello dobbiamo trovare il giusto mezzo – come per
esempio un atteggiamento di assertività – apprendendo le
abilità necessarie per evitare gli estremi sia a livello
cognitivo, sia a livello comportamentale.

18. Dimostra la tua resilienza


Le ragioni e la forza di vivere stanno nella conoscenza delle autentiche
condizioni della nostra vita.
Simone de Beauvoir

Nel suo libro La soluzione per la tua testa!, Mark Hyman


fornisce un’ottima descrizione di uno dei fondamentali
strumenti per «cambiare testa» che abbiamo nel nostro
arsenale: la resilienza. «La resilienza è la qualità, difficile
da misurare, di adattarsi al cambiamento, di sapersi
trasformare quando mutano le correnti invece di annegare,
di vedere il bicchiere mezzo pieno, o di sapere come
trasformare il limone in limonata».21
Hyman usa il termine «plasticità» nella stessa accezione
di «resilienza» in quanto la natura del cervello rispecchia la
natura dei nostri pensieri, delle nostre convinzioni e dei
nostri atteggiamenti: «Una personalità severa, rigida,
“dura” si riflette in cellule irrigidite, in dure e rigide
placche nel cervello e in una generale perdita di resilienza
e di abilità di rinnovare, ricordare e riparare».
Lo studio di Hyman ci permette di trarre alcune certezze
sul potere della resilienza e sul perché sia uno degli
strumenti più importanti fra quelli presentati in questa
sezione. Per cominciare, lo stesso adattamento è una forma
in divenire di resilienza. Dire che ci «adattiamo
pragmaticamente» agli alti e bassi dell’esistenza significa,
almeno in parte, che non ci lasciamo sommergere
psicoemotivamente da nessuna sfida, passata, presente o
futura.
A questo punto possiamo aggiungere un termine
complementare: la perseveranza. La resilienza ha bisogno
della perseveranza: la spinta ad andare avanti nonostante
gli ostacoli, a farcela, a passare sopra a qualunque cosa
minacci di fermarci. Non è lo slogan pubblicitario di una
scarpa sportiva: si tratta di una realtà evolutiva che in
misura diversa interessa tutti quanti. E se il vostro
traguardo è conseguire gli obiettivi che vi siete prefissati,
vi riguarda di sicuro.
Nelle culture consumistiche la resilienza perde molto del
suo valore perché ha un ruolo centrale nelle campagne
commerciali che fanno girare messaggi ultrapositivi e
ultraindividualisti. Il nostro cervello si adatta a questi
messaggi, e abbiamo imparato che per lo più non vogliono
dir nulla. Non si diventa più resilienti o più tenaci o più
concentrati indossando la marca di maggior successo di
scarpe da corsa, di magliette sportive aderenti o qualunque
altra roba del genere.
Si diventa più resilienti comprendendo i vantaggi adattivi
della resilienza e comportandosi di conseguenza. Per
esempio, sapere che il nostro cervello risponde bene al
ragionamento flessibile e male alla rigidità di pensiero, ci
mette in condizione di impegnarci per ragionare con
maggiore flessibilità. Questo, a sua volta, ci mostra la
«prova di fattibilità» (per ricorrere al gergo ingegneristico)
nelle conseguenze positive che cominciamo a registrare
nelle nostre vite.

PCC: Ricorda: la flessibilità favorisce il cambiamento


adattivo del cervello. La resilienza è tutta una questione di
flessibilità, e senza di essa è impossibile sfruttare il potere
adattivo del cervello.

19. Valuta le cause di fallimento


La vita sono 440 cavalli vapore in un motore a due cilindri.
Henry Miller

Con questo strumento vi illustrerò dieci motivi che sono


spesso causa di fallimento per gli umani, e voglio che
riflettiate su ognuno di essi e decidiate quali fanno al caso
vostro. La vostra valutazione aprirà nuove possibilità per
cambiare modo di ragionare, per cui non lasciatevi
invischiare dagli ingranaggi del problema; piuttosto,
riflettete su come adattare il vostro pensiero per
affrontarli.22

1. Sei privo di quella componente indispensabile che è la


convinzione
Il cervello umano è una potente macchina per la soluzione
dei problemi e per predire e, come abbiamo già detto,
opera attraverso una moltitudine di cicli di retroazione.
Nella dinamica delle catene retroattive ciò che più conta
sono gli input: ciò che entra nel ciclo dà inizio al processo
analisi-valutazione-azione, che alla fine darà un certo esito.
Ma ecco qua l’inghippo: se alla «navetta degli input» che ci
serve per raggiungere un obiettivo manca quella
componente cruciale ed emozionalmente rilevante che è la
convinzione, è come se il ciclo retroattivo si svuotasse del
carburante fin dall’inizio. In altre parole: perché ti aspetti
di conseguire un bel risultato se tu per primo non sei
convinto di potercela fare?

2. Gli altri ti hanno convinto della «posizione» che ti


compete
Ho sempre pensato che l’idea di «starsene al proprio
posto» fosse una delle più perniciose che l’umanità si sia
mai inventata. L’unica versione che mi piace è quella di
Tennessee Williams: «Una posizione elevata nella vita si
guadagna grazie all’ardimento che ci fa sopravvivere con
eleganza alle cose più spaventose». Adoro Tennessee
Williams! Ma ciò che è ancora più deleterio dell’idea in sé è
che spesso essa ci viene imposta da altre persone, le quali
ci convincono che siamo ciò che siamo e che faremmo
meglio ad accettarlo perché… be’, è quello che sempre
saremo. Veramente? E chi l’ha detto? Vi prego, mostratemi
il capitolo del libro della regola cosmica che dice qual è il
posto prestabilito per ciascuno di noi. Anche questo ci
riporta alle dinamiche dei cicli retroattivi, perché se il
copione della «posizione predestinata» dettata dall’esterno
fa parte dell’input non potremo che attenderci dei risultati
mediocri.
3. Non vuoi essere un «perturbatore»
Negli ultimi anni la parola inglese disrupter, che indica un
elemento o un individuo che porta disordine, scompiglio, ha
assunto una varietà di significati. A leggere i testi più
popolari di psicologia e libri di economia, non capisco bene
se sia una qualità positiva o negativa. Una cosa, però, è
sicura: che l’idea di perturbare qualcosa, di essere l’acqua
che rompe la roccia, spaventa la maggior parte di noi. Il
nostro cervello, essendo sensibile alle minacce, percepisce
lo sconvolgimento dell’ordine come una minaccia.
Perturbare significa che coerenza, stabilità e certezza
possono essere messe da parte per un po’, e questo crea
l’allerta generale nel sistema innato di difesa che
possediamo dentro di noi. Certe volte, tuttavia, bisogna
ignorare gli allarmi e andare dritti per la propria strada. Se
non lo facciamo mai, non sapremo mai cosa sarebbe potuto
succedere.

4. Ti dici: «E se domani morissi?»


È un pensiero che ogni tanto facciamo tutti. Ed è vero,
chiunque di noi potrebbe morire domani… motivo in più
per non sprecare tempo in pensieri del genere ed evitare di
perseguire gli obiettivi che ci siamo prefissati! Alla morte
preferiresti essere ricordato come un esempio di
mediocrità o come una persona che non ha mai smesso di
combattere? E questo ci conduce al prossimo punto…

5. Ti domandi come ti ricorderà la gente


Il problema qui è semplicemente questo: se dovessi morire
domani, la gente ti ricorderà come un individuo che se ne
stava aggrappato al salvagente esistenziale della stabilità?
Ed è questo che davvero vuoi? So per certo che è desiderio
comune a molte persone, perché è un posticino
confortevole da occupare sulla pagina dei necrologi. «Era
una brava persona, un/a buon/a amico/a, un/a buon/a…» Va
benissimo essere buoni e bravi, ma di certo non è come
essere straordinari. Non si può lottare per un grande
obiettivo se si getta l’ancora nella Terra dei Buoni. La mia
opinione è che non c’è niente di male nel chiedersi come si
verrà ricordati, però non bisogna permettere che i pensieri
su ciò che è «buono, gradevole, stabile» condizionino una
catena di retroazione di importanza così vitale. Se glielo
lasci fare, il tuo cervello sarà ben contento di farti il favore
offrendoti un sacco di cose buone e poco più.

6. Pensi di avere un ruolo prestabilito nella vita, e che


potresti incasinare tutto
Anche questo punto tocca l’idea di «posizione
prestabilita» che abbiamo trattato sopra, ma la questione
qui è più profonda. Noi umani siamo propensi a credere in
una cosa che gli psicologi chiamano «forza agente».
Vogliamo convincerci che tutto abbia una spiegazione, e
che ogni cosa abbia un suo motore primo, un agente,
umano o non umano che sia. E quindi pensiamo: E se ci
fosse un motivo perché siamo fatti così? E se fosse stata
una forza agente celeste a deciderlo? Dovremmo
scombinare tutto quanto? Qui l’errore è lampante: l’idea di
agente è un’invenzione a cui il nostro cervello si aggrappa
per gestire le difficoltà nella maniera meno traumatica
possibile. Ed è la prima cosa da riconoscere. La seconda è
che il ruolo che la vita ci riserva ha un vero, unico agente, e
quello siamo noi.

7. La tua carriera sembra solida, ed è una cosa positiva…


no?
Be’, sì, forse è una cosa positiva. La domanda però è: è la
«solidità» ciò che desideri davvero? Magari sì, ed è
magnifico! Se però questa «solidità» significa che non puoi
andare oltre determinati parametri obbligati per
conseguire altre cose che desideri fortemente, allora forse
essa in fondo ti serve a poco. Come nella maggior parte
delle questioni, si tratta di una scelta personale e non
esiste una risposta giusta o sbagliata. Tuttavia, vale la pena
rendersi conto che forse ti stai «solidamente» tagliando
fuori dal raggiungimento di obiettivi più ambiziosi…

8. Hai paura di perdere ciò che hai costruito


Si tratta di un timore assolutamente legittimo, ma che
bisognerebbe prontamente cancellare dalla propria
prospettiva. Il fatto è che si può perdere tutto in un attimo
senza nemmeno averne colpa; e se è così, perché
consentire a quel timore di impedirti di inseguire i tuoi veri
desideri? Qui siamo sullo stesso piano del «domani potrei
essere morto». Sì, è vero: si possono perdere le cose, si può
morire. E allora? Forza, non ti fermare!

9. Pensi: «Forse ho già raggiunto la vetta»


Mi trovo d’accordo con Peter Drucker, il grande
economista scomparso, il quale – parafrasando da un suo
celebre articolo per l’«Harvard Business Review» dal titolo
Managing Oneself, ovvero «Essere manager di se stessi» –
sosteneva che se nella carriera si giunge a un punto da cui
ci sembra di non poter progredire oltre, allora è il momento
di cominciare a focalizzarsi sulla prossima parte della
nostra vita. Anzi, aggiungeva Drucker, bisognerebbe
cominciare a pensarci con molto anticipo. Il succo è:
dimenticati delle vette conquistate e concentrati sugli
obiettivi da raggiungere. Se inizi a usare lo spauracchio
culturale del «non plus ultra» come scusa non ottieni un bel
niente e niente continuerai a ottenere.

10. Sei indeciso su che strada prendere


Di tutte e dieci le idee, per me questa è la più difficile
perché mi affligge pressoché di continuo. Predisporre la
catena di retroazione cerebrale in vista del conseguimento
di un obiettivo è un conto, ma se non ci si focalizza e non si
ha una direzione, alla fine sarà tutta – o quasi – energia
sprecata. Nella mia esperienza mi sono accorto che a volte
bisogna lasciar fluire l’energia per un po’ senza avere
ancora un’idea ben precisa di dove andare a parare, e
vedere se poco a poco mettiamo a fuoco il nostro obiettivo.
Una volta che questo è emerso, allora lo si potrà alimentare
secondo una metodologia più strutturata che consenta di
muoversi nella direzione desiderata.
PCC: Rifletti sui dieci motivi che portano gli esseri umani
al fallimento e scegli qual è quello – o quelli – che più ti
riguarda; dopo di che, regola di conseguenza il tuo
pensiero adattivo.

20. Tieni presente la tua soglia chimica, soprattutto


quando di tratta di alcol
Il potere dell’alcol sull’uomo risiede nella sua abilità di stimolare le facoltà
mistiche della natura umana, normalmente soppresse dalla cruda realtà e dalle
fredde critiche della sobrietà.
William James

Che cosa succede quando la vodka al mirtillo che ti sei


scolato attraversa il tuo sistema circolatorio e raggiunge
quell’organo che sta in mezzo alle tue orecchie? Si sentono
dire molte cose, anche contrastanti, sugli effetti dell’alcol
sul cervello e sull’organismo, in particolar modo che ha un
effetto tranquillante. Ma questo rappresenta solo una parte
della questione. L’alcol è sì una sostanza sedativa, ma funge
anche indirettamente da stimolante e svolge un ruolo anche
in altri fenomeni che forse vi sorprenderanno.
L’effetto diretto dell’alcol sul cervello avviene attraverso
l’alterazione della concentrazione dei neurotrasmettitori, i
messaggeri chimici che comunicano a tutto il corpo i
segnali che controllano i processi cognitivi, il
comportamento e le emozioni. L’alcol agisce sia sui
neurotrasmettitori «eccitatori», sia su quelli «inibitori».
Un esempio di neurotrasmettitore eccitatorio è il
glutammato, che in condizioni normali stimola l’attività e il
metabolismo del cervello. L’alcol inibisce il rilascio del
glutammato, e la conseguenza è un rallentamento delle vie
di comunicazione cerebrali.
Fra i neurotrasmettitori inibitori c’è il GABA (o acido γ-
amminobutirrico), che riduce i livelli energetici e ha un
effetto rilassante. Certi farmaci, come il Valium e lo Xanax
(e altre benzodiazepine) inducono un effetto tranquillante
aumentando la produzione di GABA a livello cerebrale.
L’alcol agisce nello stesso modo, incrementando gli effetti
del GABA. Per inciso, è questo il motivo per cui si deve
evitare di assumere alcol contemporaneamente alle
benzodiazepine: sommandosi gli effetti delle due sostanze,
il battito cardiaco e la respirazione potrebbero rallentare
fino a livelli di pericolo.
Dunque, quanto scritto fin qui spiega gli effetti depressivi
dell’alcol: questa sostanza inibisce il glutammato, che è un
neurotrasmettitore eccitatorio, e stimola il GABA, che è un
neurotrasmettitore inibitorio. Ciò significa che
ragionamenti, parola e movimenti subiscono tutti un
rallentamento, e più si beve più questo effetto è amplificato
(ed ecco spiegato perché gli ubriachi barcollano, cadono
dalle sedie e si muovono tanto goffamente).
Ma ecco il colpo di scena: l’alcol stimola anche il rilascio
della dopamina nel nostro centro cerebrale della
ricompensa. Il «centro della ricompensa» è costituito da
quelle aree cerebrali (in particolare lo striato ventrale) che
sono attivate in pratica da qualsiasi attività piacevole, dallo
stare in compagnia degli amici all’andare in vacanza,
dall’ottenimento di un importante riconoscimento
monetario sul lavoro, al consumo di droghe (come cocaina
e metanfetamina) e alcol.
Aumentando i livelli di dopamina nel cervello, l’alcol ci
inganna, suscitando in noi l’illusione che stiamo benissimo
(o, se si beve per superare qualche difficoltà emotiva,
semplicemente facendoci sentire un po’ meglio di prima).
Di conseguenza si continua a bere per mantenere alti i
livelli di dopamina, anche se nel contempo stiamo
provocando un’alterazione di altre sostanze cerebrali che a
sua volta induce un effetto depressivo.
Da alcuni studi emerge che l’effetto dell’alcol sulla
dopamina è più significativo negli uomini che nelle donne, il
che spiegherebbe perché in media gli uomini bevano più
delle donne. Secondo i dati raccolti dall’indagine
epidemiologica nazionale sull’alcol e i problemi a esso
correlati (NESARC) condotta negli USA nel biennio 2001-
2002, l’alcolismo è un problema più maschile che
femminile: nel corso della propria vita diventa alcolista il
10% per cento degli uomini contro il 3-5% delle donne.23
Col passare del tempo, e aumentando l’assunzione d’alcol,
l’effetto sulla dopamina diminuisce fino praticamente ad
annullarsi; ormai, però, a questo punto il bevitore è
diventato schiavo della sensazione che il rilascio di
dopamina scatena nel centro cerebrale della ricompensa,
anche quando la ricompensa non arriva più. Una volta che
si è instaurato questo bisogno compulsivo di riattivare il
rilascio di dopamina, ecco che ha inizio la dipendenza. Il
tempo necessario perché questa si instauri varia da caso a
caso: alcuni individui sono geneticamente predisposti
all’alcolismo e sviluppano una dipendenza molto in fretta,
per altri può essere una questione di settimane o di mesi.

Qui di seguito ecco un riassunto dei meccanismi con cui


l’alcol agisce sulle varie aree del cervello.

Perché l’alcol fa sentire più disinibiti:


Corteccia cerebrale: è in questa regione che hanno sede i
processi cognitivi e la coscienza, e qui l’alcol deprime i
centri che sovrintendono all’inibizione comportamentale, il
che rende la persona più disinvolta ed estroversa; l’alcol
rallenta l’elaborazione delle informazioni fornite da occhi,
orecchie, bocca e altri organi di senso; inoltre, inibisce i
processi cognitivi, rendendo annebbiati i pensieri.

Perché l’alcol rende goffi:


Cervelletto: l’alcol agisce su questo che è il centro del
movimento e dell’equilibrio, causando quell’andatura
traballante e incerta che è tipica delle persone ubriache.

Perché l’alcol accresce la libido ma peggiora la


performance sessuale:
Ipotalamo e ipofisi: sono gli organi che regolano le
funzioni cerebrali automatiche e la secrezione degli ormoni.
L’alcol inibisce i centri nervosi dell’ipotalamo che
controllano l’eccitazione e la performance sessuale.
Sebbene la libido possa aumentare, l’alcol ha un effetto
negativo sulla performance sessuale.

Perché l’alcol induce sonnolenza:


Midollo: quest’area del sistema nervoso sovrintende a
funzioni automatiche come respirazione, stato di coscienza,
temperatura corporea. L’alcol agisce sul midollo
provocando sonnolenza. Altri effetti possibili sono il
rallentamento della respirazione e l’abbassamento della
temperatura corporea, condizioni potenzialmente letali.

PCC: Come dovrebbe essere chiaro dopo la lettura di


questo paragrafo, l’alcol produce effetti profondi sul
cervello, e di conseguenza anche sui processi cognitivi.
Non sarà una notizia da prima pagina, ma sapere con
esattezza cosa succede quando si alza un po’ troppo il
gomito forse ti farà venire il dubbio prima di prendere in
mano la bottiglia.

21. Studia le persone che amano il proprio lavoro


Una vocazione non realizzata svuota l’intera vita di un uomo del suo colore.
Honoré de Balzac

Certe persone sembrano amare ciò che fanno. Naturale, ci


sono giornate in cui preferirebbero fare qualcos’altro –
come capita a tutti – ma nel complesso sono in tale sintonia
con la loro attività da suscitare l’invidia degli altri. Questo
strumento è dedicato interamente alla disanima di alcuni
motivi per cui questi individui amano il proprio lavoro in
modo da trarne qualche lezione pratica.24

Di rado perdono il gusto della sfida che è stata la loro


motivazione iniziale
È un fatto che mi balza agli occhi ogni volta che mi ritrovo
a parlare con persone che amano sinceramente ciò che
fanno. Malgrado le deviazioni che hanno potuto avere qua e
là nel corso della carriera, sono sempre rimaste fedeli alla
sfida iniziale – a quell’importantissimo carburante della
motivazione – che le ha spinte verso il loro campo di
attività. Naturale, certe volte è più difficile concentrarsi,
perché capita a tutti di restare impaludati in acque torbide,
a volte tanto profonde da persuaderci di essere sul punto di
perdere la bussola. Tuttavia, coloro che amano il proprio
lavoro non perdono mai di vista del tutto la sfida che hanno
intrapreso e la determinazione che li guida; le acque
possono intorbidarsi quanto vogliono, loro lottano per
tirarsi fuori dalla palude e tornare a occuparsi di quella
cosa che li motiva ad alzarsi dal letto la mattina.

Sono in profonda sintonia con ciò che erano «agli albori»


Mi piacerebbe che più persone capissero che se
scavassero a ritroso nella propria storia personale (e
intendo dire molto a ritroso, fino all’infanzia), troverebbero
dei ricordi di fondamentale importanza. La memoria è
sicuramente una strana cosa, e le scienze cognitive ci
dicono che tutti noi, in una certa misura, «confabuliamo»
(cioè, il nostro cervello ricostruisce i ricordi combinando
frammenti di fatti realmente avvenuti con pezzi e bocconi
di realtà immaginate). Se è vero che non possiamo
cambiare il modo in cui il nostro cervello funziona – e non
possiamo cambiare il fatto che la memoria è ricostruzione
–, possiamo però scavare, come minatori, alla ricerca del
ricordo anche più flebile di ciò che un tempo alimentava le
nostre passioni.
Le persone sinceramente innamorate del proprio lavoro lo
hanno fatto – anzi, normalmente lo fanno in continuazione –
e sono ancora in contatto con il bambino che amava
scrivere, o raccontare storie, o immaginare edifici
strabilianti. L’aspetto importante è che l’attività svolta
adesso da queste persone potrebbe non essere (e di solito
non è) una copia esatta di quelle passioni infantili; questi
individui, però, sono riusciti a riversare alcune componenti
di quelle passioni nella professione che si sono scelte. In
effetti, la loro è una condizione davvero invidiabile, perché
possiedono l’energia dei bambini unita alla prospettiva
matura tipica degli adulti.

Ragionano in termini di «portafoglio»


La ricerca psicologica, utilizzando il gergo degli affari, ha
fornito un importante contributo alla comprensione di come
gestire in maniera proficua la perdita e il fallimento: e
riguarda ciò che si ha nel portafoglio personale. Quando si
parla di portafogli azionari, si sta parlando di una cosa che
non è né sempre positiva né sempre negativa: è un insieme
di alti e bassi. Un ciclo al ribasso non distrugge il
portafoglio, anche se forse lo può depotenziare per un certo
periodo. Un ciclo positivo, invece, non trasforma il
portafoglio in un perenne successo, per quanto potrebbe
avvicinarlo un po’ di più a quel traguardo. Un individuo che
ragiona in termini di portafoglio sa che la propria vita
professionale sarà sempre un alternarsi di rialzi e ribassi.
La cosa fondamentale è non deprimersi per gli esiti
negativi e non esaltarsi troppo per i risultati positivi. Segue
il movimento di entrambi, e facendolo si avvicina sempre
più a ciò che desidera. Se vuoi amare ciò che fai, questa
ottica di equilibrio è irrinunciabile.

Non si curano di cosa pensano gli altri


Non vorrei apparire irriverente, ma la verità è che le
persone sinceramente innamorate del proprio mestiere non
permettono agli altri di dissuaderli dal loro interesse. Si
pensi a una persona che da sempre ha desiderato lavorare
in qualche modo con gli animali, magari come
addestratore, come ricercatore o come veterinario – non
importa come, perché è quella la «benzina» della sua
motivazione. Poi un giorno a scuola arriva un counsellor di
quelli «che sanno tutto» che le dice sì, è «bello» sognare di
lavorare con le creature pelose della foresta, ma nella
realtà è da illusi tentare di fondare su questo una vita
professionale. Pensa agli aspetti concreti, pensa alla realtà
ferrea della vita – pensa a tutto tranne che alla passione.
Purtroppo la maggior parte di noi, soprattutto ai tempi
della scuola, non possedeva l’intraprendenza e gli
strumenti necessari per replicare: «Grazie, ma comunque
sia… io scelgo la passione». Chi è uscito da quel vicolo
cieco, chi ha superato il controllo dei signor no, ha molte
più probabilità di amare ciò che fa rispetto a quelli che si
sono lasciati convincere ad adeguarsi a un innaturale
conformismo. Un aspetto positivo, però, c’è: che se anche
un tempo abbiamo seguito i cattivi consigli, in futuro ci
resteranno ancora delle opportunità per tornare al motore
primo delle nostre passioni. Non sarà facile, ma poche cose
che contano si ottengono con facilità. Leggendo la
questione in chiave psicologica, si può dire che le persone
che amano il proprio lavoro sono «autorealizzate» nel senso
più pieno del termine.

Sono campioni dell’avvicendamento programmato


La maggior parte della mia vita adulta l’ho trascorsa
all’interno di aziende, e di questo non ho da lamentarmi;
non mi faccio però scrupolo a dichiararmi un oppositore del
gergo aziendalistico. C’è da dire, tuttavia, che certa
terminologia aziendalistica ha una discreta rilevanza, e fra
queste espressioni c’è il succession planning, o
«avvicendamento programmato»: significa semplicemente
che per ogni persona che esegue a perfetto regime
l’incarico che gli compete ce n’è un’altra che sta facendo
tirocinio per svolgere quel lavoro quando verrà il momento.
E alla fine il momento arriva sempre, perché le situazioni
sono in continua evoluzione: di questo si può sempre star
certi.
Chi ama il proprio lavoro non solo è consapevole di questo
fatto, ma lo accetta senza riserve e ricerca attivamente
altre persone con cui condividere la sua passione, nella
speranza che un giorno anche loro vorranno fare quel
mestiere. Questa gente non lo fa perché sta scritto nel
decalogo aziendale, ma perché ama ciò che fa e la passione
la spinge a condividere con altri le proprie competenze e la
propria perspicacia. E se il potenziale successore non
dimostra entusiasmo per quell’incarico, le persone
innamorate del proprio lavoro ce la mettono tutta per
aiutarlo a capire quale impiego potrebbe alimentare la sua
motivazione: e la ragione è che il successo non può fare a
meno di creare altro successo.

Resteranno… ma sanno che potrebbero andarsene


Perché se ne vanno? Le persone innamorate del proprio
lavoro riconoscono l’importanza dell’organizzazione. Dopo
tutto, sono le organizzazioni a fornire l’infrastruttura che
gli permette di svolgere l’attività che tiene acceso il loro
fuoco. Ma non esiste un’unica organizzazione che detenga
il monopolio della fornitura di quel carburante. Inoltre, chi
ama il proprio lavoro sa che quando una società (o una
ditta, un’associazione no-profit, eccetera) non offre più un
ambiente adeguato allo svolgimento della sua adorata
attività, allora è arrivato il momento di passare ad altro. Mi
verrebbe da dire: «Niente di personale», ma in realtà sì, c’è
molto di personale. Non potrebbe essere più personale di
così. Donare tutto se stesso all’attività che si ama è uno
degli aspetti più personali nella vita di un essere umano.
Spesso la funzionalità dell’infrastruttura e
dell’organizzazione viene rimpiazzata dalla passione, ed è
questo che ne fa una componente tanto essenziale della
nostra identità.

Nessuno li può fermare


Ho perso il conto, dico davvero, di quanti manager ho
visto cercare di distogliere una persona molto motivata dal
perseguimento del suo sogno. Il manager ha un piano, e il
suo subordinato deve svolgere un certo ruolo all’interno di
quel piano, punto. Ma gli individui spinti dalla passione per
ciò che fanno – o che stanno cercando di avvicinarsi a ciò
che amano – si dedicheranno a quel progetto solo per il
tempo necessario a girarci intorno. In altre parole, quando
un manager dice, chiaro e tondo: «Tu nel mio progetto hai
questo ruolo, e se non lo svolgerai ci saranno conseguenze
negative», la persona intelligente di solito si presta, almeno
per un periodo limitato di tempo. Tuttavia, le persone
spinte dalla passione e dalla determinazione a fare ciò che
amano staranno già pensando a come togliersi di torno
quell’impegno per proseguire nel proprio intento. Nessuno
riuscirà a impedirglielo. Provate e vedete cosa succede.
Alla fine a vincere sarà la perseveranza, anche se nel breve
periodo comporterà qualche dispiacere. Amen.

Sono una calamita per le altre persone


Perdonatemi se ricorro a un luogo comune, ma è vero, la
passione vende bene. La gente ama stare vicino alle
persone che fanno ciò che fanno con passione, perché la
passione è un sentimento contagioso. Prendete il caso di un
individuo che ama il proprio lavoro e trasuda passione nel
modo in cui si relaziona alle sfide di ogni giorno. Ora
provate a inserirlo in un gruppo di persone molto meno
risolute, molto meno piene di entusiasmo, e – a dirla tutta –
un po’ confuse sul senso di ciò che stanno facendo.
Alcune di loro saranno probabilmente tanto annoiate che
nessuno riuscirà a cambiare la loro ottica; altre, però,
presteranno attenzione. E quando avranno sentito che
sapore ha, ne vorranno di più; ed ecco che in breve tempo,
anche senza capire con esattezza il perché, l’idea di recarsi
al lavoro comincerà a essere accompagnata da un’insolita
sensazione di euforia. È l’effetto contagioso della passione,
e se ti è capitato di frequentare un luogo di lavoro dove non
ne circolava nemmeno una goccia sai già quanto sembrano
vuote e tristi le giornate. Le persone che amano il proprio
lavoro diffondono quello che gli psicologi chiamano
«contagio psicosociale», e ne bastano poche gocce per far
cambiare in meglio la vita in un ufficio. In questo processo,
chi infetta trova sostegno nell’infettato, ed è l’inizio di un
circolo virtuoso.

Vivono nel presente


Le persone che amano il proprio lavoro non pensano in
maniera miope, ma d’altra parte non sono disposte ad
aspettare troppo per vedere se «le cose cominciano a
quagliare», o qualunque altro eufemismo si voglia utilizzare
per definire un modo di pensare sostanzialmente positivo.
Certo, un po’ di tempo se lo concederanno: se c’è qualcuno
che sa che ci vuole tempo per realizzare il proprio progetto,
queste sono loro. Niente accade senza impegno e senza
pazienza, e con l’aggiunta di altro impegno ancora. Ma se
pensate di poter convincere una persona animata da
sincera passione che prima di agire deve verificarsi tutta
una serie di forze esterne, state sprecando il vostro tempo.
Per questi individui il presente ha un grande valore, perché
può svanire in un battito di ciglia. Ed è questa, alla fine,
una delle lezioni più importanti che queste persone
consegnano al resto di noi.

Non limitano mai i loro principi per prestarsi alle


meschinità della competizione
Parafrasando le celebri parole di Stephen Covey, scrittore
e oratore motivazionale americano, le persone più in gamba
non vedono la torta come composta da un numero limitato
di fette, ma come composta di fette a sufficienza per tutti, e
non si dispiacciono di vedere gli altri che si prendono la
loro porzione. Se non possiamo sottrarci al fatto di vivere in
una civiltà basata sulla competizione – o di essere una
specie competitiva, come quasi l’intera totalità delle specie
su questo pianeta –, corre una bella differenza tra una sana
espressione di competitività e il meschino perseguimento di
fini egoistici. Le persone che amano il proprio lavoro sono
competitive; non avrebbero potuto arrivare dove sono se
non lo fossero state. Però non dedicano il loro tempo e la
loro energia a complotti e sabotaggi; non cercano di
sottrarre a qualcun altro la sua fetta di torta solo perché
ciò implica che ce ne sia una in meno da mangiare. Amare
ciò che si fa – e poco importa quanto si debba essere
competitivi per raggiungere i propri obiettivi – non implica
calpestare gli altri per arrivare al traguardo prefissato. È
una cosa che gli individui di cui stiamo parlando in queste
pagine sanno per intuito, e se vale la pena parlare di loro è
in gran parte proprio per questo motivo.
PCC: Amare ciò che si fa consiste per lo più nel riversare
nel lavoro la determinazione e la passione così da poter
contribuire al massimo delle proprie possibilità.

22. Potenzia il tuo quoziente di metafora (MQ)


Un’idea è uno sforzo di associazione, la cui espressione massima è una bella
metafora.
Robert Frost

Mettiamo, per esempio, di essere impegnati in una


conversazione: stiamo parlando di alcune città che abbiamo
già visitato o che ci piacerebbe visitare, e a un certo punto
ne cito una in cui io non sono mai stato ma voi sì, e me la
descrivete in questi termini: «È un enorme, fetida cloaca
traboccante di immondizia e pullulante di ogni genere di
schifezze». Subito nella mia mente si forma l’immagine di
un lurido bacino di ritenzione ricoperto di schiuma, ricolmo
di rifiuti e infestato di ratti e scarafaggi.
Quanto sia vicina alla realtà la metafora che avete scelto
per descrivere la città in questione resta opinabile, ma nei
pochi minuti della nostra conversazione questo in effetti
non conta. Ciò che conta è che mi avete fornito in chiave
metaforica i primi elementi su cui costruire un’immagine, e
adesso nella mia mente questa immagine viene associata
per schemi alla città. Magari un giorno mi capiterà di
visitarla e concluderò che la metafora da voi usata era
imprecisa, oppure che era azzeccatissima. Ma fino a quel
momento (o finché non avrò a disposizione informazioni che
contraddicano o confermino la vostra descrizione)
l’immagine resterà impressa nella mia mente; anzi, mi
accorgerò che persino dopo sarà difficilissimo cancellarla.
In questo consiste il potere della metafora, un potere
tanto sottile che a malapena ci rendiamo conto dell’impatto
che ha sul nostro modo di pensare. Paul Thibodeau e Lara
Boroditsky, ricercatori presso l’Università di Stanford,
hanno dimostrato quanto può essere forte l’influenza delle
metafore con una serie di cinque esperimenti ideati per
distinguere come si spieghi e quando agisca il potere del
linguaggio metaforico.25 Nel corso del primo esperimento
482 studenti dovettero leggere un articolo sulla criminalità
nella città di Addison, quindi furono invitati a suggerire
delle soluzioni al problema. Nell’articolo la criminalità
veniva descritta come «una belva feroce che depreda la
città», una belva «in agguato nelle vie dei quartieri». Dopo
aver letto questo articolo, il 75% degli studenti propose
soluzioni che implicavano un inasprimento delle pene,
come costruire nuove carceri o addirittura invocare
l’intervento dell’esercito. Solo il 25% suggerì il ricorso a
interventi nel settore del sociale, come un risanamento
dell’economia, una riforma dell’istruzione o un servizio
sanitario più efficiente. Agli studenti fu poi fatto leggere un
secondo articolo, identico in tutto e per tutto al primo;
l’unica differenza era che descriveva il fenomeno della
criminalità come un «virus che ha contagiato la città» e che
«affligge le comunità». Dopo la lettura di questa versione
solamente il 56% dei soggetti suggerì un inasprimento
delle leggi, mentre il 44% propose riforme sociali.
Curiosamente, solo pochissimi di loro si resero conto di
quanto erano stati influenzati dalle due diverse metafore
usate per descrivere la criminalità. Quando Thibodeau e
Boroditsky li invitarono a indicare quali fossero i passaggi
del testo che avevano maggiormente influenzato le loro
decisioni, la stragrande maggioranza menzionò le
statistiche sul crimine e non il tipo di linguaggio. Solo il 3%
individuò il colpevole nelle metafore. Per confermare l’esito
dell’esperimento i ricercatori condussero altri test
utilizzando gli stessi articoli ma scremati delle espressioni
più colorite. Sebbene i termini «belva» o «virus»
comparissero nel testo una volta sola, gli esiti furono
sostanzialmente analoghi a quelli dell’esperimento
precedente.
Gli studiosi si accorsero inoltre che le parole di per sé non
esercitavano un grande impatto se non erano inserite nel
giusto contesto. Quando chiesero ai soggetti di trovare dei
sinonimi per i termini «belva» o «virus» prima di far
leggere loro due articoli identici sulla criminalità, le
soluzioni ai problemi della città suggerite dagli studenti
furono sostanzialmente le stesse. Insomma, le metafore
funzionavano solamente se erano usate per inquadrare la
vicenda. Tuttavia, non producevano alcun effetto di rilievo
se comparivano nella frase conclusiva dell’articolo. A
quanto pare, quando si tratta di potere della metafora, il
contesto conta sopra ogni altra cosa.

PCC: Come mostra questo esempio tratto da una ricerca,


raramente ci rendiamo conto di quanto le metafore
condizionino il nostro pensiero. Facendo più attenzione a
come e quando si ricorre al linguaggio metaforico
accresceremo quello che lo scrittore Daniel Pink definisce il
nostro «MQ» (Metaphorical Quotient, «quoziente di
metafora»).26 Questo ci aiuterà a capire come veniamo
condizionati e come fare per acquisire un maggiore
controllo sui nostri pensieri nonché, potenzialmente, sul
nostro comportamento.

23. Aumenta la tua dose di cultura


L’arte consiste nell’imporre un ordine all’esperienza e il piacere estetico sta nel
riconoscimento di questo ordine.
Alfred North Whitehead

Quello che mi piace degli scienziati norvegesi è che danno


sempre l’impressione di voler tentare di capire cosa ci
rende più soddisfacente la vita. In uno studio pubblicato
sulla rivista «Journal of Epidemiology and Community
Health», un’équipe di ricercatori norvegesi ha seguito un
gruppo di circa 50 000 individui, uomini e donne, per
valutarne il grado di appagamento esistenziale e la
percezione del proprio stato di salute e dei livelli di ansia e
depressione.27
Nel complesso, gli uomini e le donne che partecipavano ad
attività culturali (fra cui suonare uno strumento, dipingere,
andare a teatro, visitare musei) soffrivamo in misura
minore di ansia e di depressione, si dicevano più appagati,
e in generale si sentivano «meglio» rispetto a quelli che
non svolgevano questo tipo di attività.
Quelli che più ne guadagnavano, a ogni modo, erano i
maschi. Ed ecco l’aspetto più singolare: a ricavarne più
benefici in assoluto erano gli uomini interessati alla visione
di proposte culturali (visitare musei e gallerie, per
esempio), in misura addirittura maggiore rispetto agli
uomini che contribuivano in prima persona ad attività di
tipo culturale e creativo.
Per quanto possa sembrare strano, si tratta di un esito
basato su solide prove. Molti studi condotti a partire dai
primi anni novanta del secolo scorso hanno dimostrato che
l’esposizione all’arte ha una forte correlazione con livelli
più bassi di ansia e depressione. (In altre parole: non c’è
bisogno che impariate a suonare il pianoforte, potete
limitarvi ad ascoltare un concerto per ottenerne un effetto
ansiolitico/antidepressivo.) Secondo una ricerca pubblicata
sul «Journal of Neuroscience» i pazienti ricoverati in un
ospedale psichiatrico necessitavano di dosi minori di
farmaci contro l’ansia se venivano fatti assistere con
regolarità a forme d’arte (i risultati sono stati annotati dagli
infermieri che somministravano le medicine: direttamente
alla fonte, per così dire).28
Questi ed altri convincenti risultati confermano l’idea che
l’arte abbia un valore decisamente tangibile per la salute,
oltre alle qualità che tutti ammiriamo e apprezziamo per
motivi più ovvi. Il secondo studio da me citato va anche
oltre, quantificando il risparmio in termini di denaro speso
per le terapie farmacologiche e di ore di lavoro per gli
infermieri con il metodo dell’esposizione all’arte: secondo
le stime, per ogni paziente si risparmierebbero 30 000
dollari all’anno.
Va notato che la ricerca norvegese ha anche evidenziato
che più alta è la dose di cultura, maggiori sono i benefici
che se ne ricavano: come a suggerire che la prossima volta
che andate a teatro, in un museo o in una galleria d’arte,
sarebbe bene respirare profondamente e spararsi una bella
dose di cultura.

PCC: Uomini e donne ottengono benefici da dosi regolari


di cultura, e pare – soprattutto per gli uomini – che al
crescere del «dosaggio» aumentino anche gli effetti
positivi. La strategia qui suggerita è uno strumento che si
può iniziare a sfruttare da subito per condurre una vita più
appagante. Non c’è motivo per aspettare oltre.

24. Prendi la buona abitudine di leggere libri stimolanti e


guardare film «di contenuto»
Un bel libro mi spinge ben oltre la lettura. Presto lo devo posare per
cominciare a vivere secondo i suoi suggerimenti… Ciò che ho iniziato con la
lettura devo portarlo a compimento con l’azione.
Henry David Thoreau

Questo strumento fa da preludio alla Parte terza.


Ampliare. In essa troverete una scelta di opere di narrativa
e pellicole cinematografiche che sviluppano alcuni
argomenti trattati in queste pagine.
Quando si leggono dei romanzi impegnativi o si guardano
dei film di qualità i messaggi si recepiscono più
intensamente, perché non ci entrano nella mente come se
fossero inoculati con una siringa: quei messaggi ci toccano
sia dal punto di vista intellettuale, sia a livello di emozioni.
È utile praticare questo strumento nell’ambito delle
proprie «abitudini», e nel senso migliore del termine. Fa’
che diventi un appuntamento fisso della tua giornata:
soprattutto la lettura, visto che si può leggere durante la
pausa pranzo, prima di andare al lavoro, al ritorno dal
lavoro, prima di dormire, oppure ogni volta che si ha un
ritaglio di tempo.

PCC: Questo è uno strumento da mettere in pratica senza


stare a discutere. Per avere qualche buono spunto iniziale
consulta la Parte terza. Ampliare.

25. Rifletti bene sulle conseguenze che il tuo successo ha


sul prossimo
La felicità non sta nella felicità in sé, ma nella sua ricerca.
Fëdor Dostoevskij

Il punto di intersezione fra grinta e rispetto è molto


importante. Tutti conosciamo esempi di individui tanto
determinati al raggiungimento dei propri obiettivi da non
farsi scrupoli di calpestare il prossimo lungo il tragitto. E si
hanno anche esempi di persone ammodo ma apatiche.
Questo paragrafo suggerisce vari spunti di riflessione sulla
ricerca del successo dall’osservatorio privilegiato di chi
ottiene ciò che desidera e, allo stesso tempo, non si
dimentica del bene degli altri.29

Risoluti ma con moderazione


Gli individui di successo che godono del rispetto altrui
sono dotati di grande tenacia. Non si fanno fermare dagli
ostacoli, o almeno non a lungo, soprattutto perché si sono
allenati mentalmente a cercare altre maniere di
raggiungere ciò che si sono prefissati. Per un individuo
motivato e risoluto non esiste mai un unico modo per
realizzare un obiettivo, e nessuno riuscirà a convincerlo del
contrario. Tuttavia, il genere di persona di cui stiamo
parlando tiene sempre in mente il benessere degli altri, e
se una delle strade alternative implicasse dover fare del
male gratuito a qualcuno, ecco che quella cessa di essere
un’opzione praticabile. Semplicemente non può esserlo, per
una persona ambiziosa ma rispettata, perché questi
individui sanno che esistono altri modi per arrivare dove
vogliono, anche se ci vorrà più tempo.

Impegno costante
Un’altra caratteristica di questa tipologia di individui è
che fanno ciò che dicono di voler fare. Non tirano per le
lunghe un’idea molto elaborata e dopo avervi coinvolto
altre persone danno forfait per dedicarsi a un altro
progetto grandioso che li entusiasma molto più del
precedente. Se non c’è niente di male ad accarezzare più
idee contemporaneamente (assumendo che siano fattibili),
questo genere di persone si impone una regola ambiziosa:
quando si sono impegnate in un progetto sono
assolutamente intenzionate a fare la propria parte, e ce la
mettono tutta perché il proprio obiettivo si realizzi. Certo,
l’insuccesso o circostanze impreviste sono sempre in
agguato, ma si tratta di eccezioni. Il loro principio di
portare a termine gli impegni presi è seguito con costanza
indipendentemente dal fatto che si materializzi qualche
avversità oppure no, e la gente sa che quando collabora con
una persona ambiziosa ma corretta non sta sprecando il
proprio tempo.

Pragmatismo dal volto umano


Gli individui di successo che godono del rispetto di tutti
sono generalmente delle persone pragmatiche, che si
focalizzano su ciò che funziona. Se un certo tipo di
approccio non riesce, l’alternativa è o cercare di capire
come metterlo a punto, o abbandonarlo del tutto e
adottarne uno diverso. La loro attenzione è tutta orientata
verso i risultati. Ma applicare un approccio pragmatico
senza essere consapevoli degli effetti che le modifiche
provocheranno sul prossimo non è comportamento di cui
andare fieri: è crudeltà. L’ambizioso corretto questo lo sa, e
pertanto compensa il focus sui risultati con una
consapevolezza situazionale riguardo agli assestamenti
necessari per gli altri, e con gli altri collabora proprio per
correggere il tiro. Di nuovo, ciò potrebbe significare
allungare un po’ i tempi prima di portare a termine il
progetto, ma questo genere di individuo non antepone i
risultati alla vita delle persone se esiste una qualche
possibilità di trovare un accordo vantaggioso per tutti. E se
questa possibilità non esiste, si prende a cuore di aiutare
gli altri a trovarsi ruoli di ripiego ma comunque proficui.
Fermezza e strategia
Al pari di ogni altro individuo, le persone di successo che
godono della stima altrui possono lasciarsi andare al
pessimismo quando le cose non vanno bene, e come ogni
essere umano è possibile che ogni tanto si lamentino della
situazione «di cacca» in cui si trovano. Una cosa, però non
la fanno: non si crogiolano in quella situazione e non
permettono ai pensieri negativi di autoalimentarsi fino al
punto di insinuarsi nella testa delle persone che hanno
intorno. Al contrario, accolgono la sofferenza, riconoscono
che qualunque ne sia la causa (sul piano lavorativo o
personale) essa è ora parte del loro repertorio di
esperienze, quindi decidono di andare avanti in maniera
strategica. In questo caso, strategia vuol dire una serie di
principi guida su cui basare le azioni da intraprendere per
riprendere il cammino – ma anche decidere cosa non fare.
Strategia vuol dire scegliere, ed entrare nell’abito mentale
strategico per tirarsi fuori da un momento di impasse
implica fare scelte difficili. La gente vede gli individui di
successo come quelli che sono disposti a prendere decisioni
forti, e questo è un onere enorme in qualsiasi tipo di
organizzazione.

Assunzione di responsabilità
Una caratteristica poco ammirevole di tante persone
ambiziose è che sono brave a evitare la responsabilità per
ciò che è andato storto. E se significa passare sul cadavere
di qualcuno, così sia. Meglio a lui che a me. La persona di
successo che si guadagna il rispetto degli altri, invece, vede
le cose diversamente. Per prima cosa, se qualcosa va storto
per colpa di un errore commesso dal gruppo di lavoro, si
accolla le sue responsabilità sia che gli altri membri
seguano il suo esempio sia che se ne lavino le mani.
Perché? Perché i gruppi sono sostanzialmente
organizzazioni strutturate per conseguire determinati
obiettivi, e se questo non avviene è il gruppo (non una
persona specifica) a prendersene la colpa, perché è al
gruppo (e non a una persona specifica) che è stata affidata
la responsabilità della riuscita. Il genere di individuo che
stiamo descrivendo riconosce qual è il proprio ruolo
rispetto al gruppo, e non cerca scuse per essere giudicato
meno responsabile degli altri. Seconda cosa, le persone di
successo che si sanno far rispettare hanno il senso innato
della reciprocità: trattano il prossimo come loro vorrebbero
essere trattate. Il loro modo di incarnare la «regola aurea»
non è legato alla situazione; è un precetto messo in pratica
con coerenza che guida il loro operato in ogni momento.

PCC: Si può essere una personalità orientata al successo


ma al contempo avere considerazione per il bene degli altri.
Tienilo a mente mentre alleni il pensiero adattivo a stabilire
e conseguire obiettivi.

26. Per migliorare la performance bisogna comprendere i


meccanismi dell’autoregolazione
La consapevolezza ci offre la possibilità di operare un cambiamento.
Daniel J. Siegel
La padronanza di una certa abilità è il risultato di una
pratica lenta e protratta nel tempo. Esiste però uno studio
che evidenzia come continuare a fare pratica anche dopo la
completa acquisizione di un’abilità abbia anche un altro
scopo: migliorare l’efficienza cognitiva. La ricerca, condotta
dal professor Alaa Ahmed dello University of Colorado
Boulder, ha analizzato il modo in cui i soggetti partecipanti
apprendevano certi movimenti di estensione e presa con un
braccio robotico. I soggetti presi in esame avevano un
joystick sul braccio e lo manovravano in modo da
controllare un cursore sullo schermo di un computer.
Ciascun soggetto partiva da una posizione prefissata dalla
quale, compiendo movimenti del braccio verso l’interno e
verso l’esterno, doveva raggiungere un certo bersaglio
sullo schermo.30
Durante alcuni movimenti, in corrispondenza di «campi di
forza» prodotti dal braccio stesso, i partecipanti dovevano
esercitare una forza maggiore: mentre manovravano il
cursore in direzione del bersaglio era costretti a spingere
più forte.
I soggetti sottoposti al test eseguirono dapprima una serie
di 200 tentativi senza campo di forza, poi due serie di 250
tentativi ciascuna contrastando il campo di forza.
Concludeva l’esperimento una serie finale di 200 manovre
in assenza di campo di forza. Un metronomo dava il segnale
ai partecipanti perché ogni due secondi muovessero il
cursore verso il bersaglio.
Come previsto, si riscontrò che dopo ripetuti tentativi i
soggetti imparavano a muovere il braccio robotico
contrastando i campi di forza e a raggiungere il bersaglio
con un numero sempre minore di errori; alla fine gli errori
si riducevano quasi allo zero.
Altro risultato previsto e confermato fu che continuare a
esercitarsi anche dopo aver ridotto significativamente il
numero di errori commessi comportava una riduzione
dell’energia muscolare impiegata per portare a termine il
compito.
Il risultato decisivo, a ogni modo, era che una volta
stabilizzatasi l’attività muscolare (ossia, per completare gli
stessi esercizi i muscoli dei partecipanti raggiungevano un
livello di consumo energetico ottimale) continuare a fare
pratica comportava comunque un’ulteriore diminuzione del
consumo energetico. Al termine dell’esperimento il
consumo energetico muscolare dei partecipanti che dopo
aver padroneggiato l’uso del braccio robotico continuavano
a fare pratica si riduceva del 20%. Questo risultato ci dice
qualcosa di nuovo sul modo in cui gli organismi sfruttano la
propria energia. Si ritiene comunemente che il «costo
metabolico» sia il risultato diretto di processi biomeccanici
(attività muscolare); per sviluppare una migliore efficienza
energetica, si allenano i muscoli a realizzare di più con
meno.
Questo studio, tuttavia, suggerisce che nel gioco del
consumo di energia ci sia anche un jolly: una maggiore
efficienza dei processi cognitivi. L’efficienza energetica pare
essere determinata sia dai processi neurali che dalla
biomeccanica. Poiché grazie all’esercizio i processi
cognitivi dei partecipanti al test miglioravano, anche una
volta raggiunta la funzione muscolare ottimale, i soggetti
sprecavano meno energie.

PCC: L’efficienza energetica è il frutto della combinazione


mente-muscoli. I processi cognitivi non sono una cosa che
riguarda solo la testa: da essi può trarre giovamento
persino la performance fisica.

27. Per avere una mente sana fai del sano movimento
Tutte le idee davvero grandiose vengono concepite camminando.
Friedrich Nietzsche

Io non sono un gran corridore, ma da anni constato gli


innegabili benefici – fisici, ma anche mentali – che i miei
amici amanti della corsa traggono dalla loro attività fisica
quotidiana. Al contempo, sono sempre più gli studi che
indicano che l’esercizio fisico in generale, e correre in
particolare, fa benissimo al cervello. Lo conferma anche
una ricerca condotta dalla Cambridge University e dal
National Institute on Ageing statunitense, uno studio che
mi sembra degno di nota.31
Cosa fa della corsa un eccellente potenziatore cerebrale?
La sua capacità di innescare la neurogenesi, la crescita di
nuove cellule cerebrali. Come ciò accada è ancora un
mistero. Potrebbe dipendere dal fatto che l’esercizio fisico
aumenta il flusso sanguigno, o che limita la produzione
degli ormoni dello stress, come il cortisolo, oppure per un
insieme di ragioni. Quale che sia il meccanismo, correre
potrebbe essere un antidepressivo più efficace di qualsiasi
farmaco.
La depressione è legata a una diminuzione della
neurogenesi ed è possibile che farmaci come gli SSRI, gli
inibitori della ricaptazione della serotonina, fra i quali il
Prozac, stimolino la crescita di nuovi neuroni. Studi recenti
sulla corsa indicano che essa produce gli stessi effetti, ma
addirittura su più larga scala e senza i famigerati effetti
collaterali dei farmaci, come aumento di peso e calo della
libido.
La ricerca condotta a Cambridge ha utilizzato i topi per
dimostrare che correre potenzia i centri cerebrali della
memoria. Il team di neuroscienziati ha sottoposto un
gruppo di ratti a un regime di corsa su una ruota fino a
raggiungere le quindici miglia al giorno. Gli esemplari del
gruppo di controllo si limitavano invece a rosicchiare
carote, girare all’interno delle loro gabbie e fare la cacca
(l’equivalente per i roditori di un tipico impiego d’ufficio
per gli umani).
Periodicamente i due gruppi di topi venivano messi di
fronte allo schermo di un computer sul quale comparivano
due quadratini identici uno di fianco all’altro. Toccando con
il muso il quadrato di sinistra gli animaletti ricevevano
come ricompensa una pallina di zucchero; toccando il
quadrato di destra, invece, non ottenevano alcunché. I ratti
dovevano memorizzare a quali dei due quadrati fosse
associata una ricompensa.
I risultati dell’esperimento furono che il gruppo dei ratti
«corridori» registrava quasi il doppio dei successi nel test
di memoria rispetto al gruppo dei «sedentari». Per rendere
più interessante l’esperimento i ricercatori avvicinarono
sempre di più i due quadrati fino quasi a farli toccare: in
questo modo era più difficile per i topi distinguerli. Man
mano che i due quadrati venivano avvicinati le performance
dei topi sedentari andavano costantemente peggiorando,
mentre i topi corridori continuavano a capire quale fosse il
quadrato giusto. I ricercatori cercarono persino di
ingannare i roditori scambiando i quadrati di fronte ai loro
occhi. I topi corridori continuavano a indicare il quadrato
che assicurava la ricompensa molto più spesso rispetto ai
colleghi sedentari.
Dopo di che i ratti hanno compiuto l’estremo sacrificio in
nome della scienza. Il tessuto cerebrale delle bestiole
mostrava che negli esemplari allenati alla corsa si era
formata ex novo della materia grigia. Nel tessuto del giro
dentato (una porzione dell’ippocampo connessa alla
formazione dei ricordi) furono contate una media di 6000
nuove cellule per millimetro cubo, per un totale di centinaia
di migliaia di cellule nuove di zecca. Non è un caso che il
giro dentato sia una delle poche aree del cervello umano
adulto capace di generare nuovi neuroni.
Da ciò che emerge da questo esperimento e da un elenco
sempre più lungo di altri studi sull’argomento, la corsa e
altre forme di esercizio fisico possono fare per il cervello
cose che forse neppure la moderna farmacologia è in grado
di fare.

PCC: Insomma… muoviti! Farà bene al tuo cervello, e


anche alla tua mente.

28. Studia le menti dei pionieri delle scienze


metacognitive
Una mente che non conosce il dubbio è l’universo della sofferenza.
Byron Katie

Ancora prima dell’avvento delle moderne neuroscienze, i


grandi pensatori ci hanno aiutato a comprendere la potenza
del pensiero efficiente, in particolare della metacognizione.
In questo paragrafo mi limiterò a elencare qualche nome,
con il consiglio di andare a cercare le loro opere in
biblioteca, nei negozi di libri di seconda mano oppure
online. Il valore del loro genio è ancora oggi immutato
rispetto all’epoca in cui le hanno scritte.
– Marco Aurelio
– Aaron Beck
– Ernest Becker
– William James
– Karl Jaspers
– Lewis Mumford
– José Ortega y Gasset
– Bertrand Russell

Ed eccovi qualche parola d’introduzione su uno dei miei


pensatori preferiti di tutti i tempi, che non potrò mai
raccomandare abbastanza:
Marco Aurelio Antonino (121-180 d.C.) fu un grande
condottiero e filosofo stoico le cui parole appaiono veritiere
oggi come lo furono nel corso del suo breve impero
nell’antichità. Fu, fino alla morte, il sedicesimo imperatore
romano ed è considerato l’ultimo dei «cinque buoni
imperatori» di Roma. A lui succedette il figlio Commodo,
principe molto meno illuminato, celebre per i gusti
sanguinari.
Anche se trascorse sui campi di battaglia gran parte dei
suoi anni da imperatore, Marco Aurelio esercitò
un’influenza fortissima sugli studi filosofici con l’istituzione
ad Atene di quattro cattedre di filosofia, ognuna delle quali
dedicata a una delle principali tradizioni del pensiero
antico (scuola platonica, scuola aristotelica, stoicismo ed
epicureismo). L’imperatore teneva un diario personale, che
in seguito fu pubblicato con i titoli alternativi Meditazioni,
Pensieri, Ricordi. Io trovo che i suoi scritti siano ottimo cibo
per la mente, e li leggo spesso. Di seguito vi propongo una
scelta di suoi aforismi: vedete un po’ se il vostro cervello
non trarrà vantaggi dall’elaborazione e dall’applicazione
della semplice ma folgorante saggezza contenuta nelle
parole di Marco Aurelio.
La nostra vita è il risultato dei nostri pensieri.
L’arte di vivere assomiglia più alla lotta che alla danza.
Puoi controllare la tua mente, ma non gli eventi esterni.
Se comprendi questo diventerai più forte.
Quanto più gravi sono le conseguenze dell’ira rispetto alle
sue cause!
Il segreto della vittoria è nell’organizzazione del non
ovvio.
Quali saranno i tuoi pensieri abituali, tale sarà anche la
tua mente: l’anima, infatti, ne rimane impregnata.
Iniziare è essere a metà dell’opera, mentre l’altra metà
resta da fare; inizia anche questa, e avrai terminato.
Non lasciare che la tua mente si concentri su quello che
non hai quanto su quello che hai già.
Per capire la vera natura delle persone devi guardare
dentro le loro teste e analizzare ciò che cercano di ottenere
e ciò che evitano.
Là dove un uomo può vivere, può anche viverci bene.
Di ogni singola cosa chiedi cos’è in sé, qual è la sua
natura. Di che sostanza, di che materiale è fatta?

PCC: Vatti a cercare le opere di queste e di altre grandi


menti, leggile, poi rileggile ancora e fai tua la loro
saggezza: in questo modo vivrai una vita più piena.

29. Esercitati a sperimentare una gravissima perdita


In verità, è nelle tenebre che si scopre la luce; pertanto, è nel dolore che questa
luce ci è più vicina che mai.
Mastro Eckhart

Lo strumento qui suggerito è probabilmente quello che


più assomiglia a Scriviti il tuo necrologio in quanto a
morbosità, ma anche in questo caso non è mia intenzione
deprimere nessuno: anzi, l’esatto contrario.
Cominciamo da una verità fondamentale: tutti gli umani
prima o poi subiscono una perdita e la maggior parte di noi
nel corso vita non potrà sottrarsi ad almeno a una grave
perdita: la morte di un amico, di una persona cara, un
licenziamento, la fine di una carriera – questo ed altro ci
potrà capitare, e qualcosa sicuramente accadrà. E nessuno
di noi sa con esattezza come reagirà fino a quando non ci si
troverà di fronte.
La prima volta che mi sono trovato faccia a faccia con la
perdita è stato il giorno della morte di mio padre. Colpito
da un attacco cardiaco durante la notte, fu ritrovato il
mattino dopo nel suo letto, con un’espressione angosciata
sul volto che non dimenticherò mai, perché ogni solco
intorno ai suoi occhi e alla sua bocca era un segno
inequivocabile di agonia. Quando entrai nella sua stanza e
lo vidi lì sdraiato sul letto mi trovai faccia a faccia con un
dolore che non avevo mai provato prima in vita mia. Avevo
già provato la sensazione orribile di perdere una persona
cara, ma mai una persona a me così vicina, e mai la
disperazione lacerante di ritrovarmi faccia a faccia con la
morte.
Mi avvicinai a mio padre, strinsi la sua mano per l’ultima
volta e dissi la cosa che mi veniva sempre in mente, e che
continua a venirmi in mente ancora oggi, ogni volta che
pensavo a lui: «Era un brav’uomo». Poi uscii dalla stanza,
corsi in garage e mi accucciai in un angolo in preda ai
singhiozzi e ai conati di vomito: reazioni che non avrei mai
potuto neanche lontanamente immaginare, ma che furono
automatiche e irrefrenabili.
Se vi racconto questo non è perché io creda che una
qualche riflessione preventiva sulla perdita possa placare la
vostra reazione emotiva, e non credo nemmeno che
dovrebbe farlo. Da un punto di vista neurobiologico il
nostro dolore ha una spiegazione e non è una buona idea
soffocare l’espressione di simili emozioni. Ritengo però che
prepararsi al lutto inneschi un processo cognitivo che molti
di noi trascurano, o addirittura negano del tutto, perché
avvicinarcisi non è una cosa gradevole.
Il problema è che se ci rifiutiamo di prepararci
mentalmente all’inevitabilità della perdita resteremo
vulnerabili a sofferenze psicologiche forse inaspettate. Una
separazione repentina e definitiva da una persona cara – da
un genitore, dal coniuge, da un amico, da un figlio – ci
cambia profondamente, e se non si è preparati si può
scoprire che la perdita spalanca le porte su spazi oscuri che
a loro volta conducono a corridoi ancora più bui,
apparentemente senza fine, che ci tolgono la speranza.
Dopo l’esperienza di una perdita tragica potreste ritrovarvi
a sprofondare in una spirale che potrebbe condurre al
disorientamento totale.
Ciò non deve accadere, e per quanto brutto possa
sembrare, ricorrere alla metacognizione per immaginare
uno scenario luttuoso nel proprio teatro mentale può
aiutare ad affrontare la perdita reale quando questa si
verificherà. Il tempo da dedicare alla prospettiva del lutto
varia di caso in caso. Che gli dedichiate solo qualche
minuto o un’ora, la cosa importante da tenere presente è
analizzare le varie dimensioni della perdita, dallo shock
iniziale a come affrontare il dolore. Se è impossibile avere
cognizione del lutto prima di sperimentarlo direttamente, è
comunque possibile farsi un’idea dei cambiamenti che
avverranno nella nostra vita.

PCC: Non possiamo sfuggire alla perdita, però possiamo


valutare quali effetti essa avrà su di noi, e analizzando
attentamente uno scenario di sofferenza possiamo
risparmiarci conseguenze peggiori nel momento in cui
saremo colpiti da una disgrazia.

30. Le dodici metarappresentazioni della mente

Come discusso nel capitolo 1, la metacognizione non


opera a un unico livello di consapevolezza, ma attraverso
diversi livelli di coscienza, creando le metarappresentazioni
che attraversano la mente. In questo strumento finale, al
quale dedico più spazio che agli altri, troveremo 12 di
queste metarappresentazioni. Dal punto di vista funzionale
tutte corrispondono alle mansioni esercitate dalla corteccia
prefrontale, mentre metaforicamente parlando
corrispondono a ciò che il neuroscienziato V.S.
Ramachandran chiama «aspetti del sé».
I seguenti paragrafi si basano su una selezione di im-
portantissimi concetti elaborati dai più autorevoli teorici
nel campo della psicologia e delle scienze cognitive e
comportamentali.
Daniel Siegel parla di «nove funzioni prefrontali» (che
descrive anche come le «componenti del benessere
emotivo»), le quali ci guidano alla comprensione delle
funzioni svolte dalla corteccia prefrontale:32

1. Regolazione corporea
2. Comunicazione sintonizzata
3. Equilibrio emotivo
4. Flessibilità di risposta
5. Modulazione della paura
6. Empatia
7. Insight
8. Consapevolezza morale
9. Intuizione

Il neuroscienziato V.S. Ramachandran ci suggerisce i


«sette aspetti del sé» che ci illuminano sulla comprensione
delle dimensioni dell’io all’interno della mente:33

1. Unità
2. Continuità
3. Mente incarnata
4. Privacy
5. Socialità
6. Libero arbitrio
7. Coscienza di sé

Lo psicologo e pedagogista Howard Gardner offre aspetti


delle «cinque chiavi per il futuro» che incarnano altrettante
capacità metacognitive fondamentali:34
1. La mente disciplinare
2. La mente sintetizzante
3. La mente creativa
4. La mente rispettosa
5. La mente etica

L’esperto di pensiero concettuale Edward De Bono ci offre


i «sei cappelli per pensare», dai quali hanno origine a
livello funzionale altrettanti stili di pensiero corrispondenti
a categorie metacognitive:35

1. Bianco: obiettivo
2. Rosso: emotivo
3. Nero: prudente
4. Giallo: positivo
5. Verde: creativo
6. Blu: organizzativo

Il «nonno» della terapia cognitivo-comportamentale,


Aaron Beck, ci ha messo a disposizione i cinque elementi
del «Sistema Interno di Controllo» della mente, che sono
funzioni imprescindibili della metacognizione:36

1. Auto-controllo
2. Auto-stima
3. Auto-valutazione
4. Auto-ammonimenti
5. Auto-istruzioni

Sintetizzando tutti i suggerimenti fin qui riportati in


formule descrittive adeguate, le dodici
metarappresentazioni della mente sono:

1. Il giornalista
Indaga, pone domande difficili e si affida a fonti credibili
per trovare le risposte.

2. L’ingegnere
Progetta e gestisce cicli di retroazione.

3. Il manager
Amministra il centro della ricompensa e dirige i processi
emozionali.
4. Il navigatore
Esplora il perimetro della consapevolezza cosciente;
circumnaviga le barriere inconsce.

5. Il narratore
Scrive la nostra autonarrazione in costante divenire;
gestisce l’immagine di sé.

6. Il simulatore
Sfrutta le rappresentazioni mentali per creare senso.

7. Il consulente
Neutralizza i pensieri automatici problematici; fornisce
sostegno attraverso «la voce interiore» nei processi
decisionali.
8. Il regista
Focalizza e dirige l’attenzione.

9. Il tecnico
Sa utilizzare al meglio le tecnologie di feedback esterno.

10. Il collaboratore
Estende il proprio io nelle relazioni interpersonali; entra
in sinergia con le altre menti.

11. Il guardiano
Protegge l’io dagli abusi di fiducia.
12. Il creatore
Espande l’io fornendogli concreta espressione all’esterno.

Come per ogni schema metaforico, queste descrizioni non


vogliono essere esaustive – ed è impensabile che lo possano
essere. Si tratta piuttosto di modelli compositi costruiti
sulla base di una vasta letteratura che indaga sulla
stupefacente facoltà della mente umana di esercitare quella
che lo psicologo Nicholas Humphrey chiama «sentizione»:
l’attività espressiva privatizzata della mente così com’è
osservata dalla mente.37
Parte terza
Ampliare
La biblioteca della mente

Nell’imparare la mente non si consuma.


Leonardo da Vinci

Questa sezione del mio libro ha, in senso proprio, un finale


aperto. Il mio intento è quello di fornire il primo abbozzo di
una biblioteca multimediale che supporti, rafforzi e ampli le
prime due sezioni: Conoscere e Fare. Lo scopo di questa
sezione è esattamente ciò cui il titolo allude: ampliare i
confini della conoscenza e aprire nuove vie. I limiti
dipendono esclusivamente da quanta voglia avrà il lettore
di investire tempo ed energie in ciò che secondo me è
un’esplorazione edificante che dura una vita e che, oltre a
cambiare il modo di ragionare, cambierà (lo posso
assicurare senza esagerazioni) anche l’esistenza.
Ho suddiviso la sezione in tre categorie:
– Testi di saggistica (alcuni descritti in maniera più
dettagliata, altri forniti sotto forma di bibliografia)
– Romanzi e biografie
– Film

La biblioteca delle grandi opere di saggistica

Dan Ariely, The (Honest) Truth About Dishonesty: How We


Lie to Everyone - Especially Ourselves, Harper, 2012.
Dan Ariely, eccellente studioso e comunicatore, ha scritto
un libro che vi metterà a disagio, ed è bene che sia così.
Con estrema abilità Ariely rompe il velo che celava la
nostra tendenza, conscia e inconscia, all’autoinganno nei
confronti del prossimo ma anche di noi stessi. Uno dei
notevoli insegnamenti che questo libro ci offre è la scarsa
consapevolezza che l’essere umano ha di mentire a se
stesso. Anche se vi sentirete un po’ punti sul vivo, non
perdete l’opportunità di farvi aprire gli occhi da questo
libro. Fidatevi di me.

Benjamin K. Bergen, Louder Than Words: The New


Science of How the Mind Makes Meaning, Basic Books,
2012.
Forse non ve ne eravate accorti, ma da molti anni
nell’ambito delle neuroscienze va avanti un dibattito su
come l’argilla magica che abbiamo in testa determini ciò
che è importante e ciò che non lo è. Per dirla in altro modo,
perché pensiamo che le cose abbiano un significato? Anzi,
che cos’è il significato? Il libro di Bergen apre una nuova
porta verso la comprensione dei meccanismi grazie ai quali
i nostri cervelli creano significato attraverso la
«simulazione incarnata» (espressione intrigante con la
quale ci si riferisce alla capacità cognitiva di simulare il
significato sfruttando il nostro personale magazzino di
esperienze). Perché, in tutta una serie di argomenti, il mio
modo di intendere il senso può essere diverso da quello di
un altro individuo? Presumendo di parlare la stessa lingua,
la distinzione non avviene nei riferimenti esterni,
verbalizzati a cui ricorriamo, ma nelle simulazioni interne
che il nostro cervello crea attivamente e progetta nel
nostro teatro mentale. Dal momento che io rispetto a
un’altra persona costruisco significato disponendo di un
repertorio di esperienze diverso, le nostre simulazioni
potrebbero risultare molto differenti – e da qui hanno
origine anche le differenze nel modo di esprimere
verbalmente il «significato».
Un libro importantissimo sotto ogni rispetto che vi
consiglio caldamente di leggere.

Robert A. Burton, On Being Certain: Believing You Are


Right Even When You’re Not, St. Martin’s Press, 2008.
Robert Burton sostiene in maniera esauriente che spesso,
quando ci ostiniamo pervicacemente su una certa presa di
posizione, non è perché abbiamo ragione, ma perché
sentiamo di aver ragione. Burton ipotizza che le
connessioni neurali tra un pensiero e la sensazione di
essere nel giusto si rafforzino col passare del tempo perché
il cervello interpreta quella sensazione alla stregua di una
ricompensa: più duratura è la ricompensa, più si rafforza la
connessione. Il libro di Burton affronta questo e altri
argomenti correlati con tono allo stesso tempo persuasivo e
informale, senza sorvolare su questioni comprovate dalla
scienza che spesso, però, testi di minor spessore
trascurano.

Robert A. Burton, A Skeptic’s guide to the Mind: What


Neuroscience Can and Cannot Tell Us About Ourselves, St.
Martin’s Press, 2013.
La maggioranza dei neuroscienziati concorda nel ritenere
che dovremmo capire cosa veramente la scienza può e non
può dirci di noi. In anni recenti un fuoco di fila di
pubblicazioni accademiche centrate sull’imaging cerebrale
ha scatenato nei media (e, di conseguenza, nel pubblico)
una frenesia nei confronti di ciò che queste versioni
multicolori e multidimensionali dei nostri cervelli possono
davvero rivelare. Si pone come necessario l’intervento
correttivo di un esperto, e l’intervento correttivo è
rappresentato dal libro di Burton. Robert Burton non è solo
una delle menti più autorevoli nel campo della neurologia,
ma anche un eccezionale comunicatore che possiede
l’istinto del giornalista per la storia giusta. Questo è un
libro che inaugura una tendenza, nonché una lettura
indispensabile per chi voglia conoscere «la vera storia»
della neuroscienza nella sua forma divulgativa.

Gillian Butler e Tony Hope, Managing Your Mind: The


Mental Fitness Guide, Oxford University Press, 2007.
In questo libro estremamente leggibile che si basa sui
rudimenti della terapia cognitivo-comportamentale (CBT),
Butler e Hope ci forniscono un piano per modificare i nostri
pensieri così da ottenere migliori risultati nella vita in una
varietà di campi: nelle relazioni, nella professione, nella
salute fisica, e altri ancora. È un testo che rientra appieno
nel science-help, in quanto offre consigli che affondano
solide radici nella ricerca scientifica interdisciplinare. Altro
aspetto positivo di Managing Your Mind è di essere scritto
in forma di manuale di consultazione: il lettore che voglia
approfondire le proprie conoscenze potrà scegliere una
qualsiasi delle sezioni senza essere costretto a leggersi
l’intero libro.
Rita Carter, Multiplicity: The New Science of Personality,
Identity, and the Self, Little, Brown and Company, 2008.
Perché tutti gli esseri umani pensano a se stessi come a
un «io» individuale quando in realtà ogni giorno ciascuno
incarna molte identità differenti? È l’interrogativo
affrontato da Rita Carter in questo libro, che il sottoscritto
considera il testo di riferimento per la teoria delle
personalità multiple. Carter (bravissima a rendere
comprensibili argomenti di grande complessità) sostiene in
maniera assai persuasiva che ciò che l’essere umano
chiama «sé» non è una cosa sola, anche se tutti agiscono
nell’illusione che sia proprio così.

Mihály Csíkszentmihály, Finding Flow: The Psychology of


Engagement with Everyday Life, Basic Books, 1997.
Pochi testi sono indispensabili quanto lo è Finding Flow
(versione condensata e più accessibile di La corrente della
vita, il capolavoro di Csíkszentmihályi) quando si tratta di
psicologia applicata. Il principio di «corrente», «flusso», è
caratteristica di svariate scuole di pensiero psicologiche,
comprese la terapia cognitivo-comportamentale e alcune
forme di terapia creativa. Lo stesso termine flow, «flusso»,
è parola molto diffusa (come nella frase «Quando scrivo
sono in uno stato di flusso», dove per «stato di flusso» si
intende una condizione in cui la nostra energia è tanto
assorbita nel raggiungimento di un certo obiettivo da farci
perdere la cognizione del tempo). Se non lo avete già letto,
mettete questo libro in cima alla vostra lista.
Antonio Damasio, Il sé viene alla mente. La costruzione
del cervello cosciente, Adelphi, 2012.
Sebbene in molti abbiano tentato di spiegare cos’è, la
coscienza resta l’argomento più ostico delle scienze
cognitive (e probabilmente di tutte le scienze in generale).
Antonio Damasio, uno tra i massimi neuroscienziati al
mondo, contribuisce al dibattito con la sua voce e il suo
prezioso apporto. Una lettura importante per chi voglia
tenersi al passo con le ultime scoperte scientifiche sulla
coscienza.

Edward De Bono, Fai girare la testa: pensare bene per


vivere meglio, Erikson, 2011.
Edward De Bono è un maestro della tattica nel campo dei
metodi per modificare gli schemi mentali. Espressioni
pregnanti come «provocazione mentale» (che da quando è
stato coniato ha conquistato un numero imprecisato di
seminari sul business e l’organizzazione incentrati sul
miglioramento delle strategie di elaborazione di problemi
complessi da parte di individui e gruppi) hanno origine con
De Bono. Uno dei contributi di De Bono che personalmente
apprezzo di più è l’affermazione secondo cui «risolvere un
problema» non è il modo migliore per mettere a frutto il
proprio tempo: la strada da seguire è ripercorrere i
passaggi che hanno condotto al problema e modificarli in
modo tale che il problema cessi di essere un problema.

Daniel C. Dennet, Coscienza: che cos’è, Laterza, 2012.


In uno dei tentativi più esaurienti che sia mai stato scritto
di spiegare i fenomeni della coscienza, il filosofo Daniel
Dennet ci offre intuizioni che hanno fatto da apripista al
superamento del divario fra l’approccio concettuale e
l’approccio neurobiologico alla mente umana. Questo libro
resta un solido riferimento per chiunque sia interessato al
paradosso della coscienza.

Norman Doidge, Il cervello infinito. Alle frontiere della


neuroscienza: storie di persone che hanno cambiato il
proprio cervello, Ponte alle Grazie, 2007.
Norman Doidge è stato uno dei primi divulgatori delle
scoperte nel campo della neuroplasticità, e questo suo
saggio resta uno dei migliori testi disponibili su questo
affascinante argomento. La genialità della scrittura di
Doidge sta nella sua capacità sorprendente e multiforme di
dare significato a concetti neuroscientifici estremamente
complessi. Anche se ogni anno viene pubblicato un numero
esorbitante di testi sulle neuroscienze, quando voglio
leggere un saggio sulla plasticità cerebrale riprendo
sempre in mano questo libro.

Sarah Edelman, Change Your Thinking: Overcome Stress,


Combat Anxiety and Depression, and Improve Your Life
with CBT, Da Capo Press, 2007.
Nessun testo come il libro godibile e ben scritto di
Edelman mi sembra utile come guida pratica e
scientificamente solida alla comprensione della terapia
cognitivo-comportamentale (CBT). Senza perdersi nel
gergo psicologico Edelman ci fornisce la logica che sta alla
base di ciascun step della CBT e, nello stesso tempo,
consigli su come affrontare i risultati attesi. Faccio continui
riferimenti a questo libro.

Howard Gardner, Cinque chiavi per il futuro, Feltrinelli,


2011.
In questo breve saggio Gardner, il padre della teoria delle
intelligenze multiple, si assume l’immane compito di
identificare le abilità cognitive che sono cruciali per chi
voglia essere un leader ora come nel tempo a venire. Una
lettura rapida e incisiva pensata per il mondo del business,
ma che potrebbe tranquillamente essere applicata nella
psicologia e nell’educazione.

Michael S. Gazzaniga, Who’s in Charge? Free Will and the


Science of the Brain, Ecco, 2011.
Che cos’è l’«interprete» nell’emisfero sinistro? Ve lo
svelerà questo libro, scritto da un pioniere della ricerca
split-brain (ovvero condotta su soggetti in cui i due emisferi
cerebrali sono stati separati attraverso la resezione del
corpo calloso. N.d.T.). Tra gli altri interrogativi di rilievo
che Gazzaniga affronta in questo breve saggio scritto in
maniera brillante compare il seguente: «Siamo davvero
dotati del libero arbitrio?». Di tutti i libri che oggi si
scrivono sul tema della coscienza, ogni nuova pubblicazione
di Gazzaniga si può definire – meritatamente – un
appuntamento immancabile. E questo saggio non fa
eccezione.
Kenneth J. Gergen, The Saturated Self: Dilemmas of
Identity in Contemporary Life, Basic Books, 1991.
Gergen è stato uno primi profeti di quella che oggi è nota
come «teoria dei self multipli». Le sue idee sulle nostre
modalità di adattamento a dinamiche socioculturali
multiple attraverso identità diverse sono state confermate
dagli studi successivi condotti nel settore delle scienze
cognitive. Trattandosi di un testo fondamentale in questo
campo e restando una delle migliori letture sull’argomento,
The Saturated Self merita di essere recuperato e letto tutto
di un fiato.

Daniel Gilbert, Stumbling on Happiness, Vintage Books,


2007.
Tra coloro che sanno rendere accessibili al grande
pubblico gli intricati argomenti sollevati dalla ricerca
scientifica più complessa, a mio parere Gilbert è uno dei
più brillanti, anche perché lo fa senza compromettere
l’integrità intellettuale. Il suo libro ha meritamente
raggiunto i massimi livelli tra i testi di divulgazione
psicologica, e dire che vale la pena di essere letto è dire
poco. La premessa da cui parte Gilbert si condensa nella
domanda: «Siete davvero sicuri di sapere cosa vi rende
felici?». Se la vostra risposta è sì, avete un motivo in più
per leggere il suo libro.

Daniel Goleman, Intelligenza sociale, Bur, 2007.


Goleman, progenitore e divulgatore dell’«intelligenza
emotiva», ha aggiunto un’utile dimensione alla sua opera
precedente con questo libro che intreccia la ricerca della
neurosociologia con quelle condotte in altri campi.
Goleman ci spiega come dinamiche psicosociali – fra le
quali il «contagio sociale», il rifiuto, la solitudine, l’invidia e
molte altre forme di condizionamento – plasmino il nostro
ruolo nella società in misura pari o maggiore a ciò che
fanno fattori concreti come reddito, carriera e il luogo in
cui decidiamo di vivere.

Ron e Marty Hale-Evans, Mindhacker: 60 Tips, Tricks, and


Games to Take Your Mind to the Next Level, Wiley, 2011.
Diversamente da altri libri presentati in questa sezione,
Mindhacker non è una carrellata di ciò che si sa o non si sa
su come funziona la mente, bensì una guida pratica e
accessibile per cambiare (ovvero «hackerare») funzioni
cognitive così da ottenere risultati migliori. Non tutti i 60
fra consigli, trucchi e giochi sono applicabili per chiunque,
e certi sono chiaramente più pratici di altri, ma nel
complesso il libro di Ron e Marty Hale-Evans è una guida
eccellente, un comodo strumento di consultazione che
terrete sullo scaffale più basso della vostra libreria per
potergli dare un’occhiata ogni tanto.

Wray Herbert, On Second Thought: Outsmarting Your


Mind’s Hard-wired Habits, Crown Publishing Group, 2010.
Quando ho iniziato la mia attività di scrittore scientifico, il
mio modello per la divulgazione di argomenti psicologici
era Wray Herbert. La sua prosa chiara, non gergale, la sua
attenzione ai dettagli più sottili della ricerca fa di Herbert
uno degli autori imperdibili per chi sia interessato
all’argomento che affronto nel mio libro. On Second
Thought è un’eccellente illustrazione di come le euristiche
condizionino il pensiero umano. Ve lo raccomando
caldamente.

Bruce Hood, The Self Illusion: How The Social Brain


Creates Identity, Oxford University Press, 2012.
Bruce Hood, docente di psicologia dello sviluppo
all’Università di Bristol, schiera una moltitudine di studi
scientifici per sostenere in maniera persuasiva che l’io (per
quanto molto reale nella nostra esperienza) sia di fatto
un’utile illusione resa indispensabile dal cervello che la
crea. Ma, ammette Hood, non è solo il nostro cervello
individuale a creare questa illusione, bensì la rete
intersociale di cervelli che va a costituire buona parte della
nostra esperienza di vita. Si potrebbe dire che il senso di sé
è un progetto di gruppo, dato che si sviluppa appieno solo
entro il contesto sociale e che ha inizio prima ancora che
impariamo a dire una parola. Questo saggio è uno
splendido contributo a una letteratura che indaga sui
motivi per cui nella vita di tutti i giorni l’«io» non è
avvertito come un «noi», sebbene ogni essere umano sia, in
realtà, un personaggio composito che agisce all’interno di
una narrazione intersociale.

Douglas R. Hofstaldter, Anelli nell’io: che cosa c’è al cuore


della coscienza?, Oscar Mondadori, 2010.
Mi imbarazza utilizzare il verbo «amare» in riferimento a
un libro, ma nel caso di Anelli nell’io abbandono volentieri
il mio riserbo. Io amo questo libro. Né testo scientifico, né
testo filosofico, né prosa letteraria, Anelli nell’io è tutte e
tre le cose e anche di più. 400 pagine e passa di puro genio,
questo libro sopravvivrà alla prova del tempo. Come
Introduzione alla filosofia di Jaspers o Il vero credente di
Hoffer, l’opera di Hopfstadter resterà nei piani di studio
accademici per molti anni, continuando ad avvincere le
menti più sagaci. Al di là delle lodi sperticate, questo testo
merita un posto privilegiato nella vostra biblioteca, come
lettura a cui tornare spesso e volentieri.

Pierce J. Howard, The Owner’s Manual for the Brain:


Everyday Applications from Mind-Brain Research, Bard
Press, 2006.
Quando si tratta di panoramiche esaustive sulle scienze
cognitive, pochi testi sono paragonabili a questa
monumentale opera di Pierce J. Howard. Per chi sia in
cerca di un testo che introduttivo ai misteri del cervello,
The Owner’s Manual for the Brain è un’ottima scelta. La
scrittura di Howard è accessibile al grande pubblico e per
spiegare come funziona il cervello si affida alle
dimostrazioni della scienza.

Nicholas Humphrey, Polvere d’anima. La magia della


coscienza, Codice Edizioni, 2013.
Il saggio di Humphrey è un gioiello meno noto che
combina una prosa elegante, quasi poetica, con fatti
scientifici assodati. È un testo che è un’ottima scoperta per
chi voglia andare oltre la comprensione delle conoscenze
che vanno emergendo riguardo alle proprietà della
coscienza e intenda approfondirne le implicanze. Invece di
una versione meccanicistica dell’argomento, Humphrey ci
offre qualcosa che assomiglia a una meditazione filosofica
sulla neuroscienza. Una lettura estremamente godibile.

Christian Jarrett, The Rough Guide to Psychology, Rough


Guides, 2011.
È Christian Jarrett la penna che sta dietro
l’apprezzatissimo British Psychological Society Research
Blog, che utilizza come piattaforma per informare il grande
pubblico sulle ultime scoperte della ricerca psicologica.
Questo libro condensa il meglio della sua produzione e si
propone l’obiettivo di aprire il mondo della psicologia a
quei lettori che forse non avrebbero mai saputo come
accedervi.

Robert Kurzban, Why Everyone (Else) Is a Hypocrite:


Evolution and the Modular Mind, Princeton University
Press, 2011.
Kurzban è uno psicologo evoluzionista dalla scrittura
accattivante. In questo saggio spiega come la mente umana
affronti l’esperienza dell’incoerenza, sostenendo con
argomenti efficaci che tutti siamo soggetti a contraddirci, e
che farlo è fondamentale per i nostri meccanismi di
funzionamento cerebrale.
Ray Kurzweil, Come creare una mente. I segreti del
pensiero umano, Apogeo, 2013.
In questo tentativo di reingegnerizzare il cervello allo
scopo di svelarne i principi di funzionamento Kurzweil
compie un significativo passo in avanti nella presentazione
degli scopi ultimi dell’intelligenza artificiale. A mio parere,
tuttavia, il maggiore contributo dell’autore sta nel narrare
e spiegare in maniera più approfondita una delle principali
funzioni del cervello come macchina per rilevare e
prevedere schemi, una macchina che senza posa valuta e
categorizza gli schemi presenti nel nostro ambiente allo
scopo di facilitare l’adattamento nella vita quotidiana.
Malgrado resti da vedere se gli studi di cui Kurzweil tratta
nel suo libro condurranno davvero allo sviluppo di un
cervello artificiale pienamente funzionante, la sua indagine
sull’argomento merita comunque di essere letta.

Leonard Mlodinow, Subliminal: How Your Unconscious


Mind Rules Your Behavior, Pantheon, 2012.
Una combinazione di conoscenze basate su studi
scientifici e sapiente scrittura fa di ogni libro di Mlodinow
una lettura piacevole, ma forse Subliminal è fra tutti il
migliore. Lungi dall’essere una distaccata introduzione al
problema coscienza-inconscio, questo testo è una
penetrante investigazione sulle scoperte fatte dalle scienze
cognitive riguardo ai condizionamenti inconsci e alle
ragioni che li rendono tanto difficili da identificare e
affrontare, sebbene ogni giorno ci convinciamo di farlo in
maniera efficace. Forse ad oggi non esiste in circolazione
libro migliore per spiegare perché «non sappiamo ciò che
non conosciamo» e perché questa lampante verità sia tanto
importante.

Read Montague, Your Brain Is (Almost) Perfect: How We


Make Decisions, Plume, 2007.
Montague è stato uno dei primi a divulgare i progressi
della scienza cognitiva che gettano luce su cosa avviene nel
nostro cervello quando prendiamo una decisione. Il suo
libro costituisce ancora una pietra miliare per chi si
interessi di scienza dei processi decisionali.

Daniel Nettle, Personality: What Makes You the Way You


Are, Oxford University Press, 2007.
In Personality (probabilmente uno dei migliori saggi brevi
sulla personalità umana che abbia mai letto) Nettle affronta
l’argomento con concisione e ottime argomentazioni. Se vi
interessa sapere qualcosa di più sul perché siete fatti come
siete fatti, questo libro è una rapida ma eccellente lettura
da cui iniziare.

Daniel H. Pink, Drive: la sorprendente verità su ciò che ci


motiva nel lavoro e nella vita, Etas, 2010.
Le comuni discussioni sulla motivazione non hanno niente
a che vedere con l’approccio innovativo che Pink ha verso
l’argomento. Autore del bestseller A Whole New Mind, Pink
è bravissimo nel presentare nuovi punti di vista al lettore
ed espone teorie assolutamente degne di considerazione.
V.S. Ramachandran, L’uomo che credeva di essere morto e
altri casi clinici sul mistero della natura umana, Mondadori,
2012.
Ramchandran appartiene a un gruppo ristretto di
neuroscienziati in grado di comunicare le proprie
conoscenze con la stessa bravura di un giornalista
scientifico. In L’uomo che credeva di essere morto lo
studioso ci fornisce una guida ponderata allo stato attuale
delle neuroscienze e alle sue prospettive future. A questo si
aggiunge qualche accenno «da dietro le quinte» agli studi
da lui condotti in prima persona, i quali hanno contribuito
alla formazione e alla definizione del settore negli ultimi
due decenni. Forse non esiste un libro migliore per capire
le scienze neurocognitive: una lettura da affrontare se si
desidera allargare la sfera delle proprie conoscenze
riguardo ai meccanismi di funzionamento del cervello.

Tom Rath e Jim Harter, Wellbeing: The Five Essential


Elements, Gallup Press, 2010.
La Gallup Organization, il celebre istituto di indagini
demoscopiche americano, ha promosso numerosi studi su
capacità, talento, motivazione e personalità. Ho apprezzato
diversi testi pubblicati dalla Gallup Press, e questo di Tom
Rath e Jim Harter è sicuramente fra quelli che dovreste
leggere se volete sapere cosa ha da dire la ricerca
demoscopica sulle cose che ci fanno sentire appagati e
soddisfatti. Diversamente da molti altri libri dedicati ad
argomenti analoghi, questo si fonda su scoperte ben
documentate.
Bertrand Russell, La conquista della felicità (1930), TEA,
2003.
Bertrand Russell è stato, e continua a essere, uno dei
pensatori occidentali più influenti del ventesimo secolo. In
questo libro abbandona temporaneamente il suo interesse
per la logica e rivolge il suo potentissimo intuito a un
argomento che interessa tutti quanti. Il risultato è, a mio
parere, uno dei libri più avvincenti che sia mai stato scritto
sul tema della felicità.

Daniel J. Siegel, La mente relazionale: neurobiologia


dell’esperienza interpersonale (2a ed.), Raffaello Cortina,
2013.
Non è un’esagerazione definire La mente relazionale un
capolavoro. Traboccante delle intuizioni di uno dei più
autorevoli pensatori in questo campo, questo libro è
un’opera che investiga i temi della mente conscia e
inconscia in maniera molto più esauriente rispetto a
qualsiasi altro testo mi sia capitato di leggere. Siegel è
molto convincente quando sostiene che la nostra mente
coincide solo in parte con l’attività del nostro cervello e del
nostro sistema nervoso: la mente umana è anche il risultato
dell’interazione con le altre menti e con le influenze
esterne. Alcuni, considerata la sua mole, potranno
giudicarlo un testo «accademico», ma io consiglio La mente
relazionale a chiunque sia seriamente intenzionato ad
ampliare le proprie conoscenze in tutti gli aspetti del
sapere che hanno come oggetto la mente.
Daniel J. Siegel, Mindsight: la nuova scienza della
trasformazione personale, Raffaello Cortina, 2011.
In questo testo conciso e di rapida lettura Daniel Siegel
delinea le componenti della «mindsight», suo contributo
agli studi sulla coscienza diventato termine di uso comune
nella psicologia applicata. Diversamente dal suo più
corposo La mente relazionale, in questo volume Siegel
condensa i suoi studi in un testo introduttivo che chiunque
può affrontare e capire. Lo si può enumerare insieme ad
altri testi base come uno dei migliori contributi alla
psicologia applicata.

Jordan Smoller, The Other Side of Normal: How Biology Is


Providing the Clues to Unlock the Secrets of Normal and
Abnormal Behavior, HarperCollins, 2012.
Se, come hanno ipotizzato alcuni saggisti scientifici,
viviamo nel «secolo della biologia», allora il libro di Smoller
verrà ricordato come uno dei testi più importanti a
sostegno di questa ipotesi. Con uno stile arguto e godibile
Smoller esplora il lato «natura» della dicotomia
natura/cultura, e lo fa ricorrendo a strumenti
all’avanguardia nel campo della ricerca biologica. Si può
capire cosa sta per fare una persona soltanto osservandone
il volto? Psicopatici si nasce o si diventa, e quale differenza
fa? Esiste la «personalità vincente» dalla nascita? Smoller
indaga su questi e su una lunga serie di altri interrogativi
in un libro che merita almeno una lettura e molte
consultazioni successive.
Douglas Van Praet, Unconscious Branding: How
Neuroscience Can Empower (and Inspire) Marketing,
Palgrave MacMillan, 2012.
In questo saggio penetrante e suffragato da studi
convincenti che tratta l’impatto delle neuroscienze sul
marketing, Van Praet riesce a informare senza trasformarsi
in un evangelizzatore del «neuromarketing». Il suo
approccio consiste nello spiegare perché siamo giunti a un
punto della storia culturale in cui le scienze cognitive e
comportamentali hanno plasmato i messaggi – nella totalità
delle loro forme me-diate – che condizionano regolarmente
tutti noi. Un’ottima lettura per chi non si intende di
marketing ma vuole capire i condizionamenti che si trova a
subire migliaia di volte al giorno.

Timothy D. Wilson, Strangers to Ourselves: Discovering


the Adaptive Unconscious, The Belknap Press/Harvard
University Press, 2002.
Fra i libri meno noti al pubblico mai dedicati alla mente
umana il migliore potrebbe essere questo di Timothy
Wilson. Riferimenti all’opera di Wilson si possono trovare
nelle note della quasi totalità dei libri che trattano del
paradosso della coscienza. Stranger to Ourselves è, in una
parola, straordinario. In un testo relativamente conciso
l’autore riesce a scomporre i complessi problemi della
coscienza in capitoli accessibili per leggere i quali non
occorre una preparazione specialistica. Una lettura che vi
consiglio dal più profondo del cuore.
Shelley Carson, Your Creative Brain: Seven Steps to
Maximize Imagination, Productivity, and Innovation in Your
Life, Jossey-Bass, 2010.
Ricordo benissimo le due ore di puro godimento quando
per caso mi sono imbattuto in questo magnifico libro di
Shelley Carson: da allora l’ho ripreso in mano più volte
come testo di consultazione che racchiude in sé una
saggezza assai superiore a quella che potrei dedicarle in
questo spazio. Il libro di Carson non è fatto solo per essere
letto, ma per essere messo in pratica, e non sfruttarlo fino
in fondo non gli renderebbe giustizia. Come tutti i grandi
testi di science-help Your Creative Brain fonda i suoi
contenuti su solide basi scientifiche e propone una
struttura per applicare quanto abbiamo appreso. Evitate di
prenderlo in prestito in biblioteca, a meno che non abbiate
alternative, perché non vorrete fare altro che prendere
appunti a margine e segnare le pagine con le orecchie.

La biblioteca delle grandi letture di saggistica: l’elenco


esteso

David Allen, Detto, fatto!, Sperling & Kupfer, 2007.


Roberto Assagioli, Psicosintesi: armonia della vita, Edizioni
Mediterranee, 1971.
Roy F. Baumeister, Escaping the Self: Alcoholism,
Spirituality, Masochism, and Other Flights from the
Burden of Selfhood, Basic Books, 1991.
Aaron T. Beck, Principi di terapia cognitiva: un approccio
nuovo alla cura dei disturbi affettivi, Astrolabio, 1994.
Ernest Becker, Il rifiuto della morte, Edizioni Paoline, 1982.
Susan Blackmore, Coscienza, Codice edizioni, 2007.
Harold Bloom, Come si legge un libro e perché, Bur, 2010.
Daniel Bor, La voracità del cervello: cosa spinge la nostra
coscienza verso un’insaziabile ricerca di significato,
Castelvecchi, 2013.
Edmund J. Bourne, The Anxiety and Phobia Workbook (5a
edizione), New Harbinger Publications, 2011.
Shlomo Breznitz e Collins Hemingway, Maximum
Brainpower: Challenging the Brain for Health and
Wisdom, Ballantine, 2012.
David Brooks, L’animale sociale: alle origini dell’amore,
della personalità e del successo, Codice edizioni, 2012.
Robert Brooks e Sam Goldstein, The Power of Resilience:
Achieving Balance, Confidence, and Personal Strength in
Your Life, McGraw-Hill, 2004.
Norman O. Brown, Love’s Body, University of California
Press, 1990.
David D. Burns, Feeling Good: The New Mood Therapy,
William Morrow & Co., 1980.
Rita Carter, The Human Brain Book, DK Adult, 2009.
Robert B. Cialdini, Le armi della persuasione: come e
perché si finisce col dire sì, Giunti, 2005.
Patricia S. Churchland, Neurobiologia della morale,
Raffaello Cortina, 2012.
Gilles Deleuze e Felix Guattari, L’anti-Edipo: capitalismo e
schizofrenia, Fabbri, 2007.
Frans De Waal, La scimmia e l’arte del sushi: la cultura
nell’uomo e negli altri animali, Garzanti, 2002.
Joe Dispenza, Evolvi il tuo cervello: la scienza della
trasformazione, Macro, 2008.
Avinash K. Dixit e Barry J. Nalebuff, L’arte della strategia,
TEA, 2013.
Alvaro Fernandez e Elkhonon Goldberg, The SharpBrains
Guide to Brain Fitness: 18 Interviews with Scientists,
Practical Advice, and Product Reviews, to Keep Your Brain
Sharp, SharpBrains Inc., 2010.
Piero Ferrucci, Introduzione alla psicosintesi: idee e
strumenti per la crescita personale, Mediterranee 2010.
Carlin Flora, Friendfluence: The Surprising Ways Friends
Make Us Who We Are, Doubleday, 2013.
Julian Ford e Jon Wortmann, Hijacked by Your Brain: How
to Free Yourself When Stress Takes Over, Sourcebooks,
2013.
Robert Fritz, The Path of Least Resistance: Learning to
Become the Creative Force in Your Own Life (edizione
rivista e ampliata), Ballantine, 1989.
Martin Gardner, The Night Is Large: Collected Essays,
1938-1995, St. Martin’s Press, 1996.
Michael J. Gelb, Pensare come Leonardo da Vinci, Il
Saggiatore, 2010.
Elkhonon Goldberg, La sinfonia del cervello, Ponte alle
Grazie, 2010.
Loretta Graziano Breuning, Meet Your Happy Chemicals:
Dopamine, Endorphin, Oxytocin, Serotonin, System
Integrity Press, 2012.
Jonathan Haidt, Felicità: un’ipotesi. Verità moderne e
saggezza antica, Codice edizioni, 2007.
Paul Hammerness e Margaret Moore, Organize Your Mind,
Organize Your Life: Train Your Brain to Get More Done in
Less Time, Harlequin, 2011.
Charles Hampden-Turner, Maps of the Mind: Charts and
Concepts of the Mind and Its Labyrinths, Littlehampton
Book Services, 1981.
Eric Hoffer, Il vero credente: sulla natura del fanatismo di
massa, Castelvecchi, 2013.
Judith Horstman, The Scientific American Day in the Life of
Your Brain, Jossey-Bass, 2009.
Mark Hyman, La soluzione per la tua testa! Cura il tuo
corpo e guarisci il tuo cervello: la soluzione per
sconfiggere la depressione, controllare l’ansia e stimolare
la mente, Bis, 2011.
William James, Pragmatismo, varie edizioni.
William James, William James: Writings 1878-1899:
Psychology: Briefer Course - The Will to Believe - Talks to
Teachers and to Students - Essays, The Library of
America, 1992.
Karl Jaspers, Introduzione alla filosofia, Raffaello Cortina,
2010.
Eric Kandel, L’età dell’inconscio: arte, mente e cervello
dalla grande Vienna ai giorni nostri, Raffaello Cortina,
2012.
Austin Kleon, Ruba come un artista, Vallardi, 2013.
Marc Lewis, Memoirs of an Addicted Brain: A
Neuroscientist Examines His Former Life on Drugs,
PublicAffairs, 2012.
Matthew MacDonald,Your Brain: The Missing Manual,
Pogue Press, 2008.
Maxwell Maltz e Dan S. Kennedy, The New Psycho-
Cybernetics, Prentice-Hall, 2002.
Marco Aurelio, Meditazioni (titoli alternativi: Pensieri,
Ricordi, Colloqui con se stesso), varie edizioni.
Rollo May, The Courage to Create, W.W. Norton &
Company, 1975.
Matthew McKay e David Harp, Neural Path Therapy: How
to Change Your Brain’s Response to Anger, Fear, Pain, and
Desire, New Harbinger Publications, 2005.
Matthew McKay e Patrick Fanning, Self-Esteem: A Proven
Program of Cognitive Techniques for Assessing,
Improving, and Maintaining Your Self-Esteem (3a
edizione), MJF Books, 2003.
Marvin Minsky, The Emotion Machine: Commonsense
Thinking, Artificial Intelligence, and the Future of the
Human Mind, Simon & Schuster, 2006.
Lewis Mumford, The Conduct of Life, Mariner Books, 1960.
John Naisbitt, MindSet, il segreto del futuro: gli
atteggiamenti mentali per prevedere il mondo che verrà,
ETAS, 2008.
Susan Neiman, Moral Clarity: A Guide for Grown-Up
Idealists (ediz. rivista e aggiornata), Princeton University
Press, 2009.
Martin A. Nowak con Roger Highfield, Supercooperatori:
altruismo ed evoluzione: perché abbiamo bisogno l’uno
dell’altro, Codice edizioni, 2012.
Robert Nozick, La vita pensata, Bur, 2004.
Robert Ornstein e Ted Dewan, MindReal: How the Mind
Creates Its Own Virtual Reality, Malor Books, 2008.
Kerry Patterson, Joseph Grenny, Ron McMillan, Al Switzler,
Conversazioni cruciali: strumenti per comunicare in modo
efficace quando più serve, Franco Angeli, 2011.
Jena Pincott, Do Chocolate Lovers Have Sweeter Babies?:
The Surprising Science of Pregnancy, Free Press, 2011.
Daniel H. Pink, A Whole New Mind: Why Right-Brainers
Will Rule the Future, Riverhead, 2005.
Steven Pinker, Come funziona la mente, Mondadori, 2000.
Steven Pinker, Fatti di parole: la natura umana svelata dal
linguaggio, Mondadori, 2009.
Steven Pinker, Tabula rasa: perché non è vero che gli
uomini nascono tutti uguali, Mondadori, 2005.
Marc Prensky, La mente aumentata: dai nativi digitali alla
saggezza digitale, Erickson, 2013.
Ronald Potter-Efron, Healing the Angry Brain: How
Understanding the Way Your Brain, Works Can Help You
Control Anger and Aggression, New Harbinger
Publications, 2012.
John J. Ratey, A User’s Guide to the Brain: Perception,
Attention, and the Four Theaters of the Brain, Pantheon,
2001.
Mark Reinecke, Little Ways to Keep Calm and Carry On:
Twenty Lessons for Managing Worry, Anxiety, and Fear,
New Harbinger Publications, 2010.
Richard Restak, The Naked Brain: How the Emerging
Neurosociety Is Changing How We Live, Work, and Love,
Harmony, 2006.
Richard Rorty, La filosofia dopo la filosofia: contingenza,
ironia e solidarietà, Laterza, 1989.
Arthur Schopenhauer, opere varie, varie edizioni.
Jeffrey M. Schwartz e Sharon Begley, The Mind and the
Brain: Neuroplasticity and the Power of Mental Force,
ReganBooks/HarperCollins, 2002.
Jeffrey M. Schwartz e Rebecca Gladding, You Are Not Your
Brain: The 4-Step Solution for Changing Bad Habits,
Ending Unhealthy Thinking, and Taking Control of Your
Life, Avery, 2011.
Martin E.P. Seligman, Fai fiorire la tua vita: una nuova,
rivoluzionaria visione della felicità e del benessere,
Anteprima, 2012.
Tali Sharot, Ottimisti di natura: perché vediamo il bicchiere
mezzo pieno, Urra, 2012.
June Singer, Boundaries of the Soul: The Practice of Jung’s
Psychology (edizione rivista e aggiornata), Anchor Books,
2004.
Richard Tarnas, The Passion of the Western Mind:
Understanding the Ideas That Have Shaped Our World
View, Harmony, 1991.
Alina Tugend, Better By Mistake: The Unexpected Benefits
of Being Wrong, Riverhead, 2011.
Shankar Vedantam, The Hidden Brain: How Our
Unconscious Minds Elect Presidents, Control Markets,
Wage Wars, and Save Our Lives, Spiegel & Grau, 2010.
Ken Wilber, Sex, Ecology, Spirituality: The Spirit of
Evolution (2a edizione rivista e aggiornata), Shambhala,
2001.
Timothy D. Wilson, Redirect: The Surprising New Science
of Psychological Change, Little, Brown and Company,
2011.
Philip Zimbardo e John Boyd, Il paradosso del tempo: la
nuova psicologia del tempo che cambierà la tua vita,
Oscar Mondadori, 2009.
Romanzi e biografie

Impossibile compilare una sezione intitolata Ampliare


senza includervi una selezione eterogenea di opere di
finzione, biografie e autobiografie, per la semplice ragione
che la corrispondenza emozionale con questo genere di
testi è probabilmente la dinamica che meglio consente a un
lettore (e a uno scrittore) di ampliare il proprio orizzonte.
La parola scritta è stata, e sempre sarà, un mezzo
incredibilmente potente per comunicare una narrazione
avvincente. Volendo definire meglio il mio intento: leggere
questi libri produrrà in voi cambiamenti molto profondi, di
cui vi renderete conto solo quando li avrete sfogliati.
Ribadisco anche qui che ciò che compare in questo elenco
è solo un inizio, un inventario – per quanto bre-ve – di
risorse per espandere la conoscenza attinte al dominio
della fiction, della biografia e del memoir. Ognuno di questi
libri potrà condurvi verso nuovi e svariati percorsi per
cambiare testa – e il mio augurio è che questo avvenga.
Non è che un frammento di un universo narrativo immenso
che può cambiarvi la vita.

Paul Auster, Diario d’inverno, Einaudi, 2012.


Paul Auster, Il libro delle illusioni (romanzo), Einaudi, 2003.
Paul Auster, Uomo nel buio (romanzo), Einaudi, 2008.
Saul Bellow, La resa dei conti (novella), Mondadori, 2000.
J. M. Coetzee, Elizabeth Costello (romanzo), Einaudi, 2003.
Joseph Conrad, Cuore di tenebra (romanzo), varie edizioni.
Douglas Coupland, La vita dopo Dio (racconti), Marco
Tropea, 2000.
Don DeLillo, Mao 2 (romanzo), Einaudi, 2009.
Don DeLillo, Rumore bianco, Einaudi, 2005.
James Dickey, Un tranquillo weekend di paura (romanzo),
Garzanti, 2004.
Apostolos Doxiadis, Christos H. Papadimitriou, Logicomix
(graphic novel), Guanda, 2010.
Umberto Eco, Il nome della rosa (romanzo), Bompiani,
1980.
Steve Erickson, Momenti perduti (romanzo), Bompiani,
2013.
Kahlil Gibran, Il profeta (testo ispirazionale), varie edizioni.
Hermann Hesse, Demian (romanzo), Mondadori, 2011.
Samuel Johnson: The Major Works, Including Rasselas
(saggi, poesia, diari, epistole), a cura di Donald Greene,
Oxford World’s Classics, 2009.
Michael Korda, Another Life: A Memoir of Other People,
Random House, 1999.
John Martin, Run With the Hunted: A Charles Bukowski
Reader (narrativa e poesia), a cura di John Martin,
HarperCollins, 1993.
D.T. Max, Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi: vita
di David Foster Wallace (biografia), Einaudi, 2013.
Cormac McCarthy, Sunset Limited, Einaudi, 2008.
Candice Millard, The River of Doubt: Theodore Roosevelt’s
Darkest Journey (biografia), Doubleday, 2005.
Fábio Moon, Gabriel Bá, Daytripper (graphic novel),
Vertigo, 2011.
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto: Vol. 1, Dalla
parte di Swann, varie edizioni.
Marjane Satrapi, Persepolis: Storia di un’infanzia;
Persepolis 2: Storia di un ritorno (graphic novel), Sperling
& Kupfer, 2004.
Art Spielgelman, Maus, racconto di un sopravvissuto: I, Mio
padre sanguina storia; II, E qui sono cominciati i miei guai
(graphic novel), Einaudi, 2012.
William T. Vollmann, The Atlas (memorie di viaggio), Viking
Penguin, 1996.
David Foster Wallace, Infinite Jest, Einaudi, 2006.
Filmografia

Ognuna delle pellicole qui presentate è stata scelta perché


tratta in maniera efficace un aspetto della coscienza che
sarebbe difficile rendere se la narrazione non fosse
sostenuta da audio e immagini. Per di più, si tratta di film
ben scritti e ben diretti, e nel complesso divertenti (non
preoccupatevi, non ho messo dentro niente di noioso o
troppo intellettuale). Come nel caso della sezione
precedente, questo è solo un inizio: una porta aperta su
un’infinità di altre possibilità.
Ho approfondito i primi dieci titoli dell’elenco per far
capire come mai è stata fatta questa scelta, ma sia nel caso
di quelli descritti che di quelli dell’elenco esteso la cosa
migliore è guardarli, piuttosto che affidarsi alla recensione
mia o di chiunque altro.

Barcelona (Id., 1994), di Whit Stillman (regia e


sceneggiatura).
Ho incluso questa pellicola perché i dialoghi sono scritti
intenzionalmente in modo da esporre il pensiero consciente
a un livello che è impossibile descrivere: il film va visto. Lo
stesso regista-sceneggiatore ha girato una pellicola
intitolata The Last Days of Disco dove l’approccio ai
dialoghi è il medesimo e il risultato, anche in questo caso,
decisamente gradevole.

Factotum (Id., 2005), di Bent Hamer.


Basato sul romanzo dello scrittore cult Bukowski, il film
segue il protagonista attraverso i meandri di confusione e
disperazione – o all’inizio così appaiono – che poi in qualche
modo lo condurranno alla scoperta di sé e
all’autorealizzazione. La ciliegina sulla torta è
rappresentata dal flusso di coscienza che un’ottima
scrittura sa rendere in maniera eccellente.

La formula (The Spanish Prisoner, 1997), di David Mamet


(regia e sceneggiatura).
Nessuno è davvero la persona che sembra? Mentre il
protagonista si avventura in un labirinto di inganni e
illusioni – venendo lentamente a compromesso con il ruolo
che lui stesso ricopre in un angoscioso gioco di potere –,
assistiamo, attraverso un intreccio ingarbugliato in cui
domina la suspense, al completo capovolgimento di una
coscienza.

The Grey (Id., 2011), di Joe Carnahan.


Il protagonista del film ha dei flashback che fanno da
ponte tra lo spazio mentale conscio e quello inconscio e che
sono riprodotti sullo schermo in maniera brillante. Inoltre
noi spettatori attraversiamo insieme a lui una violenta lotta
per la sopravvivenza che mette in discussione in ogni
aspetto le sue reali motivazioni alla vita: il protagonista
stesso le ignora, finché poi emergono dalla sua coscienza
nello svilupparsi della vicenda.

Insider – Dietro la verità (The Insider, 1999), di Michael


Mann.
Un film che è un’illustrazione splendidamente accurata
del paesaggio mentale di un uomo impegnato ad affrontare
le conseguenze di una scelta che gli stravolge la vita al
punto da fargli perdere anche la famiglia e la carriera.

Il ladro di orchidee (Adaptation, 2002), di Spike Jones.


Storia che narra di una narrazione narrata: non è una
descrizione molto appropriata per questa ottima pellicola,
ma guardandola capirete cosa intendo dire. La coscienza
emerge in primo piano attraverso un intreccio circolare di
sottonarrazioni. Difficile immaginare una resa migliore di
quanto fatto in questo film.

Salton Sea – Incubi e menzogne (The Salton Sea, 2002), di


D. J. Caruso.
Sprofondato in uno sdoppiamento di personalità (una delle
quali gli serve per portare a termine una dolorosa
vendetta), alla fine il protagonista perde ogni punto di
contatto con il vero sé e, acquistata una consapevolezza
delle proprie possibilità mai posseduta prima, ricomincia
una nuova vita.

Il petroliere (There Will Be Blood, 2007), di Paul Thomas


Anderson.
Ho scelto questo capolavoro per via di ciò che non dice,
perché per scoprire quali siano le motivazioni del
protagonista, al di là dell’ovvia gratificazione materiale di
diventare un grande magnate del petrolio, lo spettatore è
costretto a calarsi nella sua mente.
Lo scafandro e la farfalla (The Diving Bell and the
Butterfly, 2007), di Julian Schnabel.
Quando un personaggio pubblico di enorme successo
perde la facoltà di parlare e di muoversi, mantenendo solo
quella di sbattere le palpebre dell’occhio sinistro, siamo
proiettati in un mondo cosciente prigioniero del silenzio e
compiamo insieme al protagonista un viaggio alla scoperta
di modi nuovi per interagire con il mondo che è rimasto
fuori.

Vanilla Sky (Id., 2001), di Cameron Crowe.


«Il subconscio è molto potente». Eccome se lo è. Che cosa
fareste se aveste la possibilità di ricostruire la vostra vita,
pezzettino dopo pezzettino, come la volevate vivere fin
dall’inizio? Forse avrete la risposta in testa, ma prima di
darla vi dovreste porre un’altra domanda: il vostro
inconscio vi permetterebbe di far scorrere il nastro come
piacerebbe a voi? Questo film è una combinazione di
possibili risposte a entrambe le domande, in una
rappresentazione che ha dello sbalorditivo.

Filmografia estesa

127 ore (127 Hours, 2010), di Danny Boyle.


A History of Violence (Id., 2005), di David Cronenberg.
Le ali della libertà (The Shawshank Redemption, 1994), di
Frank Darabont.
American Beauty (Id., 1999), di Sam Mendes.
The Big Kahuna (Id., 2000), di John Swanbeck.
Brazil (Id., 1985), di Terry Gilliam.
Creature del cielo (Heavenly Creatures, 1994), di Peter
Jackson.
L’esercito delle dodici scimmie (12 Monkeys, 1995), di Terry
Gilliam.
Eyes Wide Shut (Id., 1999), di Stanley Kubrick.
Fight Club (Id., 1999), di David Fincher.
Fronte del porto (On the Waterfront, 1954), di Elia Kazan.
Kumaré (Id., 2011), di Vikram Gandhi.
La leggenda del re pescatore (The Fisher King, 1991), di
Terry Gilliam.
Lost in Translation (Id., 2003), di Sofia Coppola.
Mare dentro (Mar adentro, 2005), di Alejandro Amenábar.
Noi siamo infinito (The Perks of Being a Wallflower, 2012),
di Stephen Chbosky.
Il paziente inglese (The English Patient, 1996), di Anthony
Minghella.
Pontypool – Zitto… o muori (Pontypool, 2009), di Bruce
McDonald.
Qualcosa è cambiato (Id., 1997), di James L. Brooks.
Quarto potere (Citizen Kane, 1941), di Orson Welles.
Ragazze interrotte (Girl Interrupted, 1999), di James
Mangold.
Se mi lasci ti cancello (Eternal Sunshine of the Spotless
Mind, 2004), di Michel Gondry.
I soliti sospetti (The Usual Suspects, 1995), di Bryan
Singer.
Taxi Driver (Id., 1976), di Martin Scorsese.
The Life of David Gale (Id., 2003), di Alan Parker.
The Others (Id., 2001), di Alejandro Amenábar.
The Reader – A voce alta (The Reader, 2009), di Stephen
Daldry.
Up (Id., 2009), di Pete Docter, Bob Peterson.
Warrior (Id., 2011), di Gavin O’Connor.
Will Hunting – Genio ribelle (Good Will Hunting, 1997), di
Gus Van Sant.
Glossario

Non è che io sia così intelligente; è solo che mi fermo a riflettere sui problemi
più a lungo.
Albert Einstein

Le definizioni proposte in questa sezione, oltre ad


approfondire la terminologia utilizzata nelle pagine di
questo libro, forniscono anche nuove «tracce» per chi sia
interessato a proseguire nella propria indagine acquisendo
maggiori informazioni sulla metacognizione e numerosi
concetti, personaggi, teorie e cose che con essa hanno
attinenza. Potete considerare questo glossario come un
punto di partenza per imparare un mucchio di cose nuove.
ABILITÀ COGNITIVE SUPERIORILe abilità cognitive superiori
comprendono l’apprendimento di facoltà complesse di
giudizio come il ragionamento critico e il problem-solving.
ADATTAMENTO PRAGMATICO La sfida quotidiana del cervello
per adattarsi sia ai cambiamenti organici interni sia a quelli
provenienti dal mondo esterno, compresi i contesti
socioculturali in cui l’individuo vive (vedi anche allostasi).
ALLOSTASI Tendenza di un sistema al cambiamento in
risposta a modificazioni, allo scopo di raggiungere e
mantenere una condizione di equilibrio (vedi omeostasi). Il
cervello umano è allostatico nel senso che deve
continuamente adattarsi a modificazioni interne ed esterne
per difendere, ristabilire e persino rafforzare il proprio
equilibrio.
ANOESIA, ANOETICO Rappresenta la forma più bassa di
coscienza, limitata alla sola dimensione spazio-temporale
del presente. Una formica, per esempio, risponde agli
stimoli nel momento presente e non è in grado di riflettere
su se stessa (coscienza autonoetica) o di far riferimento a
una rappresentazione interiore generata da uno stimolo
(coscienza noetica): le sue reazioni sono dettate dall’istinto,
senza l’apporto di alcuna forma di riflessione interiore o
cosciente.
ATTENZIONE Capacità di focalizzare i sensi su una specifica
fonte di stimoli. Il cervello umano è in grado di concentrare
appieno l’attenzione solamente su uno stimolo alla volta.
Focalizzarsi su varie fonti di stimolo contemporaneamente
è una forma di attenzione alterata che aumenta la
propensione all’errore, a meno che una di queste fonti non
sia un’attività routinaria (per esempio, guidare e masticare
una gomma allo stesso tempo).
AUTOEFFICACIA Termine generalmente associato allo
psicologo Albert Bandura con il quale ci si riferisce alla
fiducia di un individuo nelle proprie capacità di riuscire in
determinate situazioni. La percezione individuale
dell’autoefficacia può svolgere un ruolo capitale nelle
modalità di approccio agli obiettivi, ai compiti e alle sfide. Il
concetto di autoefficacia è al centro del sociocognitivismo
di Bandura, teoria che pone l’accento sul ruolo
dell’apprendimento osservativo e dell’esperienza sociale
nello sviluppo della personalità. Secondo la visione di
Bandura, le persone dotate di un’alta percezione
dell’autoefficacia (ossia quegli individui che sono convinti
di poter conseguire buoni risultati) sono più propense a
considerare un compito arduo una cosa che va dominata
invece che da evitare.
AUTOMATISMO «Scorciatoia» utilizzata dalla mente inconscia
per consentire l’azione senza dover ricorrere a una lunga
elaborazione mentale. Un esempio di automatismo è quello
che detta la nostra reazione di fronte al «serpente in mezzo
alla strada»: quando ci troviamo davanti agli occhi una cosa
che ricorda nella forma un serpente indietreggiamo di
scatto in maniera automatica, prima ancora di guardare
meglio e accorgerci che si tratta di un pezzo di fune. Non
dobbiamo riflettere su come agire nell’immediato, perché la
nostra prima reazione è scatenata inconsciamente sulla
base di uno schema che il cervello identifica nell’ambiente
in cui ci muoviamo.
AUTONOESI, AUTONOETICO La forma più elevata di coscienza;
l’incarnazione stessa dell’autoriflessività e
dell’autocoscienza.
CONSAPEVOLEZZA ENTEROCETTIVA Consapevolezza delle
funzioni corporee interne al nostro organismo.
L’«enterocettore» è un recettore nervoso specializzato
capace di ricevere e reagire a stimoli che hanno origine
internamente all’organismo (vedi anche propriocezione e
esterocezione).
CONSAPEVOLEZZA METACOGNITIVAGrado più alto di capacità
metacognitiva raggiunto da un individuo. Più elevata è la
consapevolezza metacognitiva, con maggiore efficacia ci si
può distaccare dai processi cognitivi consci e valutarli
prima di passare al ragionamento o allo step
comportamentale successivo.
CORTECCIA INSULARE Chiamata anche lobo dell’insula o
semplicemente insula, è l’area cerebrale situata in
profondità tra il lobo temporale e il lobo frontale.
CORTECCIA PREFRONTALE Regione cerebrale situata nella
parte anteriore della corteccia frontale. È implicata nella
pianificazione e in altre forme di facoltà cognitive
complesse, compresa la metacognizione.
CHUNKING Il processo con il quale il cervello crea ricordi
accessibili estraendo specifiche informazioni da dati casuali
e raggruppando questi ultimi in insiemi significativi. Ogni
singola unità di informazione o memoria è detta «chunk».
DENSITÀ DI ATTENZIONe La quantità e la qualità di attenzione
che si riserva a un particolare circuito cerebrale. Per
esempio, una volta concentrati l’attenzione e l’interesse, il
cervello inizierà ad «accendere» neuroni secondo nuovi
pattern. Se la concentrazione viene mantenuta nel tempo,
lo schema di connessione neuronale (il «circuito») si
modificherà formando un nuovo pattern permanente.
DISTORSIONI COGNITIVEIn psicologia cognitiva le distorsioni
cognitive sono pensieri esagerati e irrazionali. Al processo
con cui si acquisisce l’abitudine di bloccare tali pensieri si
dà il nome di «ristrutturazione cognitiva».
EFFETTO ZENONE QUANTISTICO Espressione nata nell’ambito
della fisica dei quanti (e coniata da George Sudarshan e
Baidyanath Misra dell’Università del Texas nel 1977) che in
seguito è stata ampliata e applicata anche alle
neuroscienze. Lo psichiatra Jeffrey M. Schwartz ne offre
una sua sintetica definizione: «L’effetto Zenone quantistico
applicato al campo delle neuroscienze afferma che l’atto
mentale di concentrare l’attenzione può impegnare i
circuiti cerebrali associati con l’oggetto su cui si concentra
l’attenzione (per esempio, il dolore in contrapposizione al
sollievo dal dolore). Concentrare l’attenzione
sull’esperienza mentale sostiene la condizione cerebrale
che insorge insieme all’esperienza stessa. Ciò significa che
se si concentra l’attenzione su un’esperienza, l’insieme di
circuiti cerebrali con cui quell’esperienza è connessa
rimarrà in uno stato di stabilità dinamica».
EGODISTONIA, EGODISTONICO Condizione in cui si ha
l’impressione che i nostri pensieri automatici non siano in
sintonia con la percezione che abbiamo di noi stessi.
EGOSIMMETRIA, EGOSIMMETRICO Condizione per cui di fronte
ai pensieri automatici non si assume per difetto una
posizione egosintonica o egodistonica, ma si cerca piuttosto
un sano distacco da questi pensieri aprendo la possibilità a
una modifica delle proprie tipiche reazioni di default al
presentarsi di questi.
EGOSINTONIA, Stato mentale nel quale si
EGOSINTONICO
giudica che i pensieri automatici siano in armonia con il
proprio Io.
EPISTEMICO Inerente alle sensazioni associate all’esperienza
di cercare di risolvere un compito cognitivo. Ne sono
esempi la sensazione di sapere e di aver dimenticato, la
sensazione di sicurezza o di insicurezza e il fenomeno detto
«tip of the tongue».
ESTEROCEZIONE Il modo di percepire il mondo esterno al
proprio corpo (contrapposto a propriocezione e
enterocezione).
GANGLI DELLA BASEGruppo di nuclei situati alla base del
proencefalo preposti principalmente alla selezione e alla
mediazione dei movimenti.
GIUDIZIO DEL GRADO DI APPRENDIMENTO (O JOL) Uno dei due
giudizi della consapevolezza metacognitiva (l’altro è la
sensazione di sapere, o FoK) che determina se un individuo
possa migliorare la sua capacità di apprendere nuove
informazioni tramite l’esercizio della metacognizione. Gli
studi dimostrano che è sufficiente dare un giudizio positivo
sul fatto che l’informazione sia stata appresa per avere un
effettivo miglioramento dell’apprendimento.
ILLUSIONE INTROSPETTIVA Illusione consistente nel credere di
aver compreso perfettamente una dinamica avente luogo
nella mente inconscia. Per definizione possiamo conoscere
solo ciò che affiora alla coscienza o che avviene all’interno
della mente consapevole. In altri termini, l’introspezione è
limitata allo spazio mentale conscio.
IMMAGINE DI SÉ Concezione che un individuo ha di sé. Essa
include un giudizio sulle proprie qualità e la stima della
propria persona.
INTENZIONALITÀ Essa è la facoltà della mente di
rappresentare – o attribuire un significato – a cose,
proprietà o situazioni; in particolare l’atteggiamento
mentale degli altri individui. I «gradi di intenzionalità» si
riferiscono alla nostra capacità di metterci nei panni
mentali di un’altra persona. Al primo grado, l’intenzione è
la capacità di riflettere sui propri pensieri (mindset); al
secondo grado è la capacità di assumere la prospettiva
mentale altrui; il terzo grado dell’intenzionalità è la
capacità di assumere il punto di vista di qualcuno che si
mette nei panni mentali di qualcun altro; al quarto grado di
intenzionalità si pone la capacità di assumere
l’atteggiamento mentale di un individuo che sta assumendo
la prospettiva mentale di un altro individuo che a sua volta
si immedesima nel pensiero di un altro individuo ancora. E
così via. Si ritiene che solo gli umani siano in grado di agire
al terzo grado o superiore di intenzionalità (forse fino al
sesto). Gli altri primati sembrano capaci di raggiungere il
primo e il secondo livello.
INTERPRETE NELL’EMISFERO SINISTRO Espressione coniata dal
neuroscienziato Michael Gazzaniga per riferirsi alle
spiegazioni che l’emisfero sinistro del cervello, attraverso
l’armonizzazione delle nuove informazioni con quelle già
possedute, produce allo scopo di interpretare il mondo.
L’«interprete» cerca di razionalizzare, elaborare e
generalizzare le nuove informazioni che riceve in modo da
creare una relazione fra passato e presente.
IPSUNDRUM Termine coniato dallo psicologo Nicholas
Humphrey per riferirsi all’oggetto creato dalla mente
quando questa produce un’immagine ipotetica in reazione a
una stimolazione sensoriale di origine sconosciuta.
L’immagine ipotetica è un «ipsundrum».
LEGGE DI HEBB Questa legge, che prende il nome dallo
psicologo Donald O. Hebb, descrive le basi della
neuroplasticità: «I neuroni che si accendono insieme si
connettono fra loro». La teoria di Hebb è centrale per la
comprensione dei meccanismi con cui il cervello umano
apprende nuove informazioni e forma i ricordi.
MESENCEFALO È l’area dell’encefalo compresa fra il
proencefalo e il tronco encefalico: è coinvolto nel controllo
delle funzioni motorie come i movimenti oculari e il
movimento del corpo, nonché della loro integrazione con i
segnali sensoriali della vista e dell’udito. In esso si trovano
i gangli della base.
METACOGNIZIONE Termine che letteralmente si può tradurre
come il pensiero che pensa se stesso, e con il quale ci si
riferisce a quella facoltà tipicamente umana di riflettere sui
processi cognitivi da una prospettiva di distacco mentale.
Tale facoltà ha origine nella corteccia prefrontale, la parte
del cervello umano di più recente evoluzione e che funge
da centrale suprema di controllo per il pensiero cosciente
di livello superiore.
METACOGNIZIONE DICHIARATIVA La metacognizione incentrata
su fatti e concetti concreti, in contrapposizione a idee
teoriche o astratte.
METAPHOR QUOTIENT O MQ («QUOZIENTE DI

METAFORA»)Espressione coniata da Daniel Pink con


riferimento alla propensione di un individuo a comprendere
e creare metafore.
METARAPPRESENTAZIONE Abilità di visualizzazione delle
rappresentazioni mentali. Talvolta è associata ad altre
espressioni come «teoria della mente» e «teatro mentale».
MINDFULNESS Concetto centrale della terapia dialettico-
comportamentale (DBT) che aiuta l’individuo a osservare,
valutare e tollerare meglio i propri stati emozionali. Ha una
stretta correlazione con la metacognizione, tanto che in
certi casi i due termini sono utilizzati come
interscambiabili.
MINDSIGHT Per usare le parole dell’ideatore del termine,
Daniel Siegel: «La mindsight è ciò che ci permette di
focalizzare l’attenzione nulla natura del mondo interiore. È
l’abilità di focalizzare il pensiero consapevole su noi stessi,
sui nostri pensieri e i nostri sentimenti, e la capacità di
entrare nel mondo interiore di un altro individuo (…) È ciò
che ci consente di comprendere noi stessi e di provare
empatia per gli altri».
NEOTENIA Permanenza di caratteristiche tipiche delle forme
giovanili negli esemplari adulti di una specie. Negli esseri
umani, per esempio, la neotenia si manifesta nella
permanenza nell’età adulta di una testa relativamente
grossa e della glabrezza tipica dei giovani primati.
NEUROFEEDBACK Informazioni in tempo reale sulle funzioni
neurali che teoricamente possono essere utilizzate nel
training di neurofeedback per permettere alle persone di
modificare i propri pensieri e le conseguenze sul piano
comportamentale. È simile al biofeedback, che applica lo
stesso principio al complesso delle funzioni dell’organismo.
Per esempio, quando la mattina si sale sulla bilancia si sta
ricevendo una forma di biofeedback riguardante il nostro
corpo. Sottoponendosi a una risonanza magnetica
funzionale al cervello, dall’immagine del cervello che ne
risulta una persona riceve informazioni riguardo a
determinate funzioni neurali e su come queste potrebbero
essere in relazione con azioni mentali o stati emotivi.
NEURONI SPECCHIO Particolare classe di neuroni che si
attivano sia quando una persona compie un atto motorio,
sia quando un individuo ne osserva un altro che compie un
atto motorio simile o identico. Per esempio, quando una
persona osserva un altro individuo piangere, i neuroni
specchio rispondono stimolando la sensazione di tristezza.
Si ritiene che i neuroni specchio siano una componente
fondamentale dell’empatia negli umani e nei primati.
NEUROPLASTICITÀ (O PLASTICITÀ NEURALE, PLASTICITÀ SINAPTICA)

L’insieme delle possibilità che il cervello ha di modificarsi in


relazione a ciò che facciamo e che proviamo. Il concetto di
neuroplasticità è legato all’idea che per tutto il corso della
vita si possa cambiare il nostro modo di pensare e le nostre
abilità corrispondenti.
NOESI, NOETICA Forma intermedia di coscienza nella quale i
giudizi sono formati in riferimento a rappresentazioni
interiori (per esempio, la vista di un orso fa scattare un
giudizio interiore precedentemente appreso secondo cui gli
orsi sono pericolosi).
NUOVO INCONSCIO Espressione utilizzata per distinguere
l’«inconscio» del gergo scientifico odierno da quello
descritto da Freud. La definizione di inconscio elaborata
dal grande viennese è radicalmente differente dalla
definizione generalmente usata nelle neuroscienze al
giorno d’oggi. E sebbene abbia fornito contributi utili agli
studi in questo campo, il concetto freudiano di inconscio
non è più considerato esatto alla luce delle numerose
ricerche condotte negli ultimi cinquant’anni.
OMEOSTASI Stato di equilibrio interno in un sistema. Il
cervello umano si è evoluto per mirare all’omeostasi
piuttosto che a condizioni estreme come per esempio un
eccesso o un’insufficienza di stimoli stressori.
PENSIERI AUTOMATICI Pensieri che originano dall’inconscio
senza alcuna stimolazione conscia.
PERCEZIONE Coscienza o nozione di una fonte di input
sensoriale (vedi sensazione). La percezione è un’abilità
soggettiva perché la percezione della sorgente di stimoli
sensoriali può differire da un individuo all’altro. Per
esempio, se due persone che camminano in un bosco
sentono il rumore di una grossa pietra che urta un albero
vicino, una delle due può percepire la causa del rumore
come un evento naturale (una pietra che rotola giù dal
fianco di una collina), mentre l’altra potrebbe percepirla
come intenzionale (per esempio un bigfoot che lancia una
pietra per minacciare i viandanti).
PROENCEFALO Parte maggiore dell’encefalo, che include il
cervello, il talamo e l’ipotalamo.
PROPRIOCEZIONE Percezione della posizione relativa
occupata dalle parti del corpo in relazione fra loro e della
forza impiegata nel movimento (contrapposta a
esterocezione e consapevolezza enterocettiva).
RESTAURO FONEMICO Fenomeno percettivo per cui, in certe
condizioni, il cervello può avere un’allucinazione riguardo
alcuni suoni mancanti da un segnale vocale (in certi casi
fino al punto di avere la sensazione di udirli chiaramente).
Il fenomeno avviene quando i fonemi mancanti in un
segnale uditivo sono sostituiti da rumore bianco, il che
induce l’integrazione dei fonemi assenti da parte del
cervello. L’effetto può essere talmente intenso che gli
ascoltatori non si accorgono nemmeno della mancanza di
alcuni fonemi. Il fenomeno si osserva comunemente nelle
conversazioni che avvengono in un sottofondo rumoroso nel
quale è difficile riuscire a cogliere ogni fonema pronunciato
dall’interlocutore. L’intensità del fenomeno può dipendere
da vari fattori, fra i quali l’età e il genere di appartenenza.
SCIENCE-HELP Filone della saggistica incentrato su conoscenze
applicabili basate su scoperte scientifiche solide fatte da
ricercatori e studiosi in una serie di ambiti, fra i quali
psicologia, neuroscienze, economia, ecologia,
comunicazioni, business management, marketing,
discipline umanistiche e molti altri ancora.
SCRIPT In psicologia con il termine script ci si riferisce a
cose apprese che sono diventate «automatiche»
influenzando pensieri e comportamenti senza che vi sia
deliberazione consapevole (ovvero, si tratta di nozioni
interiorizzate che scorrono nella mente come uno script, un
copione).
SENSAZIONE Prodotto degli eventi biochimici e neurologici
di ordine inferiore che ha origine quando uno stimolo
agisce sulle cellule recettoriali di un organo di senso. È lo
stato psicologico che precede la percezione.
SENSAZIONE DI SAPERE (o FOK, da ) Una delle due
feeling of knowing

stime principali della consapevolezza metacognitiva (l’altra


è il giudizio del grado di apprendimento, judgement of
learning o JoL) che stabilisce fino a che punto un individuo
ha la sensazione di poter richiamare una certa cosa dalla
memoria quando questa gli viene descritta o indicata in
qualche modo. Essa non misura l’effettiva capacità di
rievocare il ricordo, ma la sensazione di poterlo fare. Per
esempio, si chiede a una persona di nominare una
particolare città celebre per il suo intricato sistema di
canali e lei dice che «sente di conoscere» la risposta:
sensazione che viene confermata una volta che le si indica
Venezia su una cartina. Un esempio di FoK è rappresentato
dal fenomeno «sulla punta della lingua» (in inglese tip-of-
tongue, da cui la sigla ToT).
SENTIZIONE Termine coniato dallo psicologo Nicholas
Humphrey e riferito a sensazioni che sono monitorate dalla
mente dell’individuo. Quando si vede un semaforo rosso,
per esempio, la risposta interiorizzata al rosso delle luci
produce una sensazione interna all’organismo. La mente
monitora in continuazione tali sensazioni, e la sentizione
coincide con questa attività di monitoraggio.
SIMULAZIONE INCARNATA Teoria che tenta di spiegare cosa
accade nel cervello attraverso i neuroni specchio quando
un individuo osserva l’attività di un altro individuo (vedi
neuroni specchio). Le azioni della persona osservata viene
«incarnata» nella mente dell’individuo che osserva: in altre
parole, nel cervello si crea una mappa neuronale che
rispecchia la mappa neuronale responsabile delle azioni
dell’altro individuo.
SISTEMA DI ATTIVAZIONE RETICOLARE (o SAR) Area del cervello
che funge da interruttore a due posizioni tra la corteccia
cerebrale e il sistema limbico. Quando la corteccia
cerebrale è in piena attività (impegnata nella creazione,
nella pianificazione, nella risoluzione di problemi), il SAR
riduce o spegne l’attività del sistema limbico (risposta allo
stress, fight-or-flight), mentre quando il cervello è in
condizione di estremo stress il sistema di attivazione
reticolare mette a riposo la corteccia cerebrale.
SISTEMA IMMUNITARIO DELLA PSICHE Metafora utilizzata per la
resilienza della mente umana. In teoria il «sistema
immunitario della psiche» ci protegge dalle conseguenze
più nefaste che il trauma e altri eventi negativi sul piano
emotivo portano con sé.
TEORIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE (o CBT, da cognitive behavioral

) Pratica basata sulla modifica del nostro modo di


theory

pensare in relazione alle componenti dell’ambiente


circostante (stress, relazioni interpersonali, vincoli
temporali, cause di dipendenza ecc.) così da modificare la
nostra risposta emotiva. Principale pioniere della scuola di
pensiero della CBT è stato lo psicologo Aaron Beck.
TEORIA CULTURALE DELLE EMOZIONI Approccio teorico secondo
cui la consapevolezza emozionale di un individuo dipende
in parte dal contesto culturale in cui egli è cresciuto e vive.
TEORIA DEI PROCESSI OPPOSTI In psicologia i processi opposti
sono reazioni emozionali che si compensano a vicenda.
Dopo un intenso piacere, per esempio, secondo la teoria dei
processi opposti l’individuo andrà incontro a una fase di
astinenza (come avviene nelle dipendenza da droghe o
alcol). In questa accezione la teoria dei processi opposti è
per lo più associata all’opera dello psicologo Richard
Solomon.
TEORIA DELLA DETEZIONE DEL SEGNALE Si riferisce all’abilità di
percepire uno stimolo, o alla probabilità di poterlo fare, in
proporzione all’intensità dello stimolo stesso (per esempio,
l’intensità di un rumore) e al proprio stato fisico e
psicologico (per esempio, il nostro grado di allerta).
TEORIA DELLA MENTE (o TOM) Ramo delle scienze cognitive
che indaga sulla capacità umana di attribuire degli stati
mentali ad altri individui e su come spieghiamo e
prevediamo le loro azioni sulla base degli stati a loro
attribuiti. Si tratta di abilità che la quasi totalità del genere
umano possiede a partire dalla prima infanzia. Talvolta ci si
riferisce alla teoria della mente in associazione con le
espressioni «metarappresentazione» e «teatro mentale».
TEORIA DEL LIVELLO DI ADATTAMENTO (SET-POINT THEORY OF HAPPINESS)

Teoria secondo cui ognuno di noi possiede un misuratore


interno che stabilisce il nostro livello di felicità rispetto agli
altri. Per alcuni il livello fisiologico può essere molto
elevato, per alcuni basso, mentre per la maggior parte delle
persone si situa in un punto intermedio. Secondo la teoria
del livello di adattamento, a ogni periodo di picco estremo
in termini di felicità o infelicità segue una fase in cui
ciascuno di noi ritorna al suo consueto «punto chiave» (che
è regolato internamente).
TERAPIA DIALETTICO-COMPORTAMENTALE (O DBT, DA DIALECTICAL

BEHAVIORAL THERAPY) Tipo di terapia che mette l’accento sulla


centralità del concetto di «mindfulness» (termine talvolta
usato come sinonimo di metacognizione). Nel gergo della
DBT la mindfulness aiuta gli individui ad accettare e
sopportare emozioni disturbanti suscitate da situazioni di
difficoltà o dal tentativo di abbandonare abitudini
inveterate e/o comportamenti autolesivi.
TIP-OF-TONGUE (o «SULLA PUNTA DELLA LINGUA») Incapacità di
ricordare una parola, accompagnata dalla sensazione che il
suo «ripescaggio» dalla memoria sia imminente. Questa
condizione rientra nel campo delle «sensazioni
epistemiche» ed è un esempio di «sensazione di sapere».
VALORE DI SOPRAVVIVENZA Insieme dei vantaggi derivanti a un
organismo dal possedere certi attributi e/o comportamenti
che ne aumentano le probabilità di sopravvivenza e di
riproduzione (per esempio negli umani i processi coscienti
di alto grado e l’abilità metacognitiva possiedono un valore
di sopravvivenza molto elevato).
VISIONE CIECA (BLINDSIGHT) Capacità di rispondere a stimoli
visivi senza avere un’esperienza visiva cosciente. Si verifica
in conseguenza di certe forme di danno cerebrale.
Appendici
Appendice 1
Che cos’è il science-help?

Dopo la pubblicazione del mio libro Cosa rende felice il


tuo cervello (e perché devi fare il contrario) spesso mi è
stato chiesto di approfondire il significato di un’espressione
che ho utilizzato nell’introduzione e nel capitolo di
chiusura: «science-help».
Ho utilizzato quel termine per distinguere due diversi
approcci di scrittura alla saggistica sulla mente e sul
comportamento umano. Il termine «approccio» è
determinante, perché in realtà non mi interessa classificare
i libri per generi. Basta fare un giro nel settore
«manualistica self-help» di qualsiasi libreria per capire
subito che non si tratta di un genere per niente omogeneo:
si troveranno libri scritti da oratori motivazionali accanto a
libri di terapeuti di coppia; scurrili manuali introduttivi su
come diventare un «artista del rimorchio» di fianco a stoici
libri di istruzioni su come interrompere un rapporto di
codipendenza. È difficile identificare il criterio di
organizzazione del reparto che, perlomeno nelle librerie più
grandi, è di solito molto esteso.
E il termine «science-help» non è una linea di
demarcazione netta fra libri buoni e libri cattivi. Il settore
self-help è un potpourri espansibile, all’interno del quale
trovano posto libri superficiali e libri profondi. Tre miei
esempi preferiti per illustrarvi il mio punto di vista sono
altrettanti libri che ho scoperto nella sezione self-help e che
considero fra i testi migliori presenti nella mia personale
biblio- teca: Stumbling on Happiness di Dan Gilbert,
Felicità: un’ipotesi di Jonathan Haidt e Finding Flow di
Mihály Csíkszentmihály.
Posso capire perché questi libri si trovino in mezzo alla
manualistica self-help, ma potrei anche protestare che
dovrebbero stare nel settore psicologia. In definitiva, non
importa. La cosa che conta è che la gente li trovi e li legga:
il modo in cui sono categorizzati è molto meno importante
dell’effetto che producono sulla vita delle persone. E
sebbene non possa considerarli testi tipici da self-help, se
non altro illustrano una componente di quel genere di
manualistica – e questa è una ragione sufficiente per essere
cauti prima di fare critiche generalizzate.
Quello che voglio comunicare con il termine science-help
è che molti di noi scrivono libri su una vasta gamma di
argomenti inerenti la psicologia e le scienze cognitive che
sono applicabili anche nella vita di tutti i giorni. Per
passare dalla scienza all’applicazione bisogna lavorare
parecchio. Nel mio caso, io ho passato tre anni a leggere e
scrivere degli ultimi studi condotti nel campo della
psicologia, della scienza comportamentale e della
neuroscienza, e per rendere produttivo tutto questo
materiale ho parlato con gli esponenti più autorevoli di
quelle e di altre discipline. E prima ancora sono rimasto
immerso negli studi di scienze sociali per oltre quindici
anni semplicemente perché era la mia passione, anche se
una prima bozza di manoscritto non aveva ancora
raggiunto la concretezza di un sogno a occhi aperti.
Il science-help è definito in primo luogo dalla scienza.
Ottenere dalla scienza lezioni applicabili alla realtà
quotidiana è – e dovrebbe essere – una procedura da
condursi con prudenza. Bisogna stare attenti a ciò che si
afferma, perché molto spesso le lezioni che offriamo si
fondano su delle correlazioni. Nella maggioranza dei casi si
tratta di correlazioni forti, ma una volta messe per iscritto
non dovrebbero trasformarsi magicamente in causalità
assolute. Se il nostro approccio è mettere la scienza
davanti a tutto non pretenderemo di fornire conclusioni
«blindate», quanto piuttosto dei suggerimenti ricavati da
scoperte credibili che sono il risultato di ricerche condotte
secondo tutti i santi crismi.
Noi umani abbiamo un’esagerata propensione ad aderire a
sistemi che consentano di vivere meglio, a programmi per il
successo e la felicità. Il tipico self-help ha fornito, per molti
anni, una tribuna per libri che promuovevano quei sistemi e
quei programmi, e sicuramente ha arrecato maggiori
benefici agli autori che non ai lettori.
Il science-help fa un passo indietro da quell’arena e si
domanda: «Qual è il vero motivo per cui scriviamo questi
libri?». Se la risposta è che vogliamo che i lettori traggano
benefici a lungo termine dalle conoscenze che vi trovano –
e non semplicemente che si sentano bene con se stessi
durante la lettura di un testo furbetto sul self-
empowerment – allora spetta agli autori accollarsi la fatica
di vivere la scienza prima di buttar giù una sola parola.
Di recente qualcuno mi ha chiesto se a mio parere il
science-help non dovrebbe diventare un nuovo settore delle
librerie. È un’idea intrigante, e non credo che ci sarebbero
problemi a trovare titoli per popolarne da subito gli scaffali.
Comunque sia, che questo accada oppure no, io credo che il
risultato più importante sia che i lettori accolgano la mia
distinzione e che giudichino i libri secondo il loro genere di
appartenenza.
Personalmente, io ritengo che di manuali di segreti e di
sistemi ne abbiamo avuti abbastanza e che si potrebbe
ricorrere ad analisi più razionali basate sulla ricerca
scientifica seria. Il primo approccio va promettendo ai
quattro venti qualcosa che non potrà mai fornire; il secondo
non fa promesse, ma offre un assaggio delle nuove scoperte
sui processi cognitivi e sul comportamento dell’essere
umano che alla distanza potrebbero davvero esserci
d’aiuto. Ecco, in sintesi, che cos’è il science-help.84
84 Una versione di questo mio intervento è apparsa per la
prima volta su «Psychology Today Online» il 7 febbraio
2012:
http://www.psychologytoday.com/blog/neuronarrative/
201202/what-is-science-help.
Appendice 2
Perché abbiamo bisogno del pragmatismo della
scienza

Da quando scrivo di scienza per svariate pubblicazioni,


certe volte mi trovo coinvolto in discussioni riguardo il
ruolo della scienza nella ricerca della «verità».
Un’argomentazione che viene a galla negli scambi di
opinione più accalorati è che la scienza sia una disciplina
sopravvalutata, una divinità laica assunta per difetto da
coloro che hanno un’opinione pericolosamente esagerata
delle potenzialità umane.
Tale argomentazione ha due origini che sotto molti aspetti
sono antitetiche. La prima, nonché la più ovvia, è la
posizione teistica. Secondo questo punto di vista la scienza
è diventata un falso surrogato di Dio: la «fede» nella
scienza è un inconsistente sostituto della fede in una
potenza superiore. Se fin dal principio il creatore ha posto
limiti al genere umano, cosa ci fa pensare di poter aspirare
al trono grazie alle banali capacità di spiegazione offerte
dalla scienza? È come voler arrampicarsi sulla torre di
Babele per scagliare frecce contro il cielo. Questa
devozione alla scienza non è solo un atto di superbia: è un
affronto all’Onnipotente. Il culto della ragione ci rende
ciechi.
L’altra attinge, dal punto di vista filosofico, all’estremo
opposto: l’ateismo postmoderno. Alla luce di questa visione
filosofica, come nella visione teistica, l’umanità ha
rimpiazzato Dio con la scienza, ma poiché Dio non è mai
esistito la Scienza (con la «S» maiuscola) è un simulacro
vuoto come quello di cui ha preso il posto. In un certo senso
questa posizione è persino più critica nei confronti della
scienza di quanto non lo sia il teismo, in quanto dipinge
un’umanità che ingenuamente privilegia una disciplina su
tutte le altre nello sforzo di salvare l’intera umanità da ciò
che è chiaramente inevitabile. La scienza ci ha forse salvati
dalle guerre, da annosi conflitti religiosi, dalle malattie e
dalle calamità? La scienza non può respingere i barbari al
confine più di quanto non possa curare un banale
raffreddore, e prova dei suoi fallimenti è il fatto che siamo
sopravvissuti per miracolo al secolo più sanguinoso della
storia.
Entrambe le posizioni prendono di mira lo stesso
avversario, che io chiamerò la posizione rigida della
scienza, altrimenti nota comunemente come «scientismo».
Secondo questo punto di vista tutto è o bianco o nero: se
non è la scienza la disciplina suprema per scoprire la verità
e mostrare la via per un futuro migliore, allora non esistono
alternative. La scienza pretende rispetto da noi perché
soltanto la scienza è in grado di condurci dove vogliamo e
dobbiamo andare. Si distingue da tutte le altre possibili
strade verso la conoscenza perché quelle sono tutte
corrotte da una componente più o meno marcata di
soggettivismi e preconcetti. Solamente la via empirica della
scienza può condurre alla verità oggettiva.
Prima di passare a parlare dell’alternativa, voglio
sottolineare che io, personalmente, non conosco nessuno
che persista esclusivamente in questa posizione scientista,
e (a parte qualche eccezione) mi capita raramente di
leggere libri fondati su simili istanze. Nel complesso è poco
più che un’argomentazione fittizia, una caratterizzazione
che non ha più fondamento di quella di un ateo che dipinga
tutti i cristiani come dei fondamentalisti antiscientifici.
L’alternativa a questa argomentazione fittizia è quello che
io chiamo la posizione pragmatica della scienza (non voglio
utilizzare il termine «morbida» perché implica significati
che qui non sono pertinenti). La posizione pragmatica, per
come la definisco io, considera la scienza uno dei migliori
strumenti a nostra disposizione per capire qual è il nostro
posto nel mondo e quale il posto del nostro mondo
nell’universo. Sempre che le verità si possano scoprire, la
scienza è uno dei metodi più efficaci per scoprirle. Non è,
però, l’unico. Un altro metodo è la logica, come lo sono –
tanto per citarne alcuni – l’indagine filosofica e le discipline
umanistiche. Sono tutti strumenti che, sfruttati al meglio,
possono ampliare le conoscenze, migliorare la
comprensione e aiutarci a capire come fare per lasciare il
mondo in condizioni migliori di come l’abbiamo trovato.
La posizione pragmatica non rivendica un privilegio
«oggettivo» né per la scienza né per gli scientisti di
qualsiasi sorta. Parafrasando il filosofo pragmatista Richard
Rorty (che a sua volta riprendeva un concetto di Daniel
Dennett), non esiste nessun «gancio pendente dal cielo»
che ci possa liberare magicamente dalle nostre rispettive
prospettive conducendoci nella posizione esclusiva di
vedere le cose «come davvero sono». La propensione
umana al preconcetto ci impregna fino al midollo e per
quanti sforzi noi facciamo per assumere una prospettiva
differente continueremo a vedere il mondo sempre
attraverso i nostri occhi.
Ed è proprio per questo che abbiamo bisogno di quello
strumento chiamato scienza. Da soli non si può spostare un
macigno, ma con gli strumenti giusti la sfida cessa di
essere inimmaginabile e diventa possibile. La scienza è uno
degli strumenti migliori che abbiamo per andare oltre le
nostre limitate capacità. Non è affatto uno strumento privo
di difetti e non può aggiustare tutti gli errori che assediano
il nostro cervello. Tuttavia, quando lo si confronta con tutta
un’altra serie di metodiche di indagine, resta uno dei
migliori di cui disponiamo.
Per rispondere a quelli che se la prendono con
l’inconsistente spauracchio della posizione rigida, ci si
potrebbe domandare dove saremmo se la scienza non
facesse parte del nostro strumentario. Per ogni malattia
che ancora ci affligge, per esempio, ce n’è un’altra che è
stata curata o resa meno debilitante grazie all’assiduo
impegno degli scienziati a migliorare le condizioni di vita
dell’essere umano. Un altro esempio: per ogni specie che
ha subito l’estinzione per colpa dell’uomo, altre sono state
salvate grazie a chi si è dedicato a capire meglio il mondo
della natura e l’impatto delle nostre azioni.
Potrei fare centinaia, se non addirittura migliaia di altri
esempi, ma il punto rimane sempre quello: non possiamo
sbarazzarci dei problemi che vivere su questo pianeta
comporta, ma avere a disposizione uno strumento come la
scienza ci dà l’opportunità di affrontarne molti, alcuni dei
quali ci porterebbero sicuramente alla distruzione.
Prendersela con lo spauracchio dello scientismo genera
clamori e rabbia, ma quando si tratta di fornire alternative
concrete al ruolo esplicativo ed edificante della scienza di
fatto non fornisce nemmeno uno straccio di indicazione. Se
il soprannaturalismo o il postmodernismo fossero uno
strumento affidabile per aumentare le nostre conoscenze e
migliorare il nostro destino avremmo tutte le ragioni del
mondo per considerarli al pari, o persino superiori, alla
scienza: la verità, però, è che non lo sono. Anzi,
l’assolutismo endemico in entrambi gli approcci li
trasforma in altrettanti cul-de-sac filosofici.
La scienza, al contrario, è una strada aperta. Non è l’unica
strada, ma senza di essa non andremmo molto lontano.
Anzi, forse saremmo già senza una via d’uscita.1
Appendice 3
Sulle sfide della comunicazione scientifica
(ovvero: Perché scienziati e giornalisti non
sempre sanno giocare insieme)

Qualche mese fa in un blog mi sono imbattuto nel post di


uno scienziato dal solido curriculum: il succo
dell’intervento riguardava la sua ultima intervista rilasciata
a un giornalista. Le sue parole erano state travisate in
maniera tanto vergognosa nell’articolo poi pubblicato che
si trovava nella condizione di porre un limite: non si
sarebbe prestato mai più ad alimentare il ciarpame della
divulgazione scientifica. Era infuriato, e ne aveva tutti i
motivi: non solo l’articolo si ripercuoteva negativamente su
di lui, ma in quella porcheria che era l’articolo finale
andava perso anche il cuore della ricerca che lui aveva
tentato di illustrare.
Lo sgradevole aneddoto tocca un dibattito che sta covando
da tempo nei circoli scientifici e giornalistici, anche se di
recente è emerso alla superficie nei blog, su Twitter e in
infuocati post di Facebook. E se in un certo senso il
dibattito non avrà mai fine (perché sì, insomma, questi
dibattiti non finiscono mai), questo in particolare dovrebbe
inquietare non solo gli interlocutori direttamente coinvolti.
Le conoscenze scientifiche nella loro forma divulgativa
sono influenzate da questo dibattito – nel bene e nel male –
e se pensate che informare ed educare il pubblico sia
importante allora saprete già che i rischi connessi non sono
di piccola portata.
Ho avuto modo di parlare con persone schierate sui due
opposti schieramenti della discussione. Se un numero
limitato di scienziati denigra l’intera categoria dei
giornalisti, è giusto dire che la maggior parte di loro sono
scettici nei confronti della stampa, mentre i giornalisti,
volenti o nolenti, sono abituati a essere considerati con
sospetto dagli scienziati.
I giornalisti ascrivono lo scetticismo degli scienziati alla
personalità tipica degli individui portati per le discipline
tecniche. Come mi disse una volta un ingegnere con una
predilezione a insistere su dettagli di poco conto: «Vedi,
non continuerei a correggerti se tu non continuassi a
commettere errori». Ciò descrive, in poche parole, la
presunta personalità tecnicoscientifica – almeno secondo il
punto di vista di molti rappresentanti del mondo del
giornalismo.
Se la questione fosse tanto semplice, potremmo liquidarla
come una pittoresca gara di pernacchie tra professionisti.
Ma non lo è. In essa sono in gioco faccende più complesse
che tipologie di personalità e i toni usati. La più grossa e, a
mio parere, la più scabrosa è la mancanza di fiducia.
Gli scienziati diffidano dei giornalisti perché il mercato
popolare dell’informazione può condizionare (e ciò accade
molto spesso) il modo in cui le storie vengono raccontate.
Questo è particolarmente vero ora che gli alfieri del
giornalismo tradizionale stanno cedendo il passo
all’incontrollata frammentazione delle notizie online. Molti
giornalisti sono stati costretti a diventare mercenari su una
piazza dove resistono pochi imperi disposti ad assumerne i
servizi a tempo pieno. Le pressioni che ostacolano la
sopravvivenza all’interno di questo mercato sono
fortissime, e le tempistiche ristrette con cui si deve
produrre un’enorme quantità di testo in una settimana sono
poco flessibili.
Tuttavia, già prima della nascita di questo tipo di mercato
i tradizionali veicoli informativi stavano mostrando i segni
di uno scivolamento verso la verifica approssimativa dei
fatti e la sconnessione delle notizie sensazionali dalla
qualità dei contenuti. E i giornalisti, vedendo i primi
frammenti staccarsi da muri fin lì giudicati incrollabili,
subivano pressioni insostenibili a produrre pur di non
perdere il lavoro.
Gli scienziati, in quanto fonti dei giornalisti risucchiati dal
vortice, si sono fatti sempre più timorosi che la credibilità
delle loro scoperte venga diluita e resa inconsistente allo
scopo di catturare l’attenzione dei lettori. Rendere le
notizie più «appetitose» spesso significa sorvolare su
distinzioni fondamentali, come quella classica tra causa e
correlazione (anche quando è al suo top, la correlazione
non riesce mai ad avere lo stesso appeal della causalità).
Inoltre, l’ambiguità che circonda molte scoperte
scientifiche non viene resa bene nel messaggio divulgativo.
Se in una ricerca un dato risulta niente affatto chiaro,
nell’articolo che parla di quello studio il dato si trasforma
magicamente in «A + B = C». Si potrebbero anche
menzionare i timori dei ricercatori riguardo a
un’applicazione su vasta scala delle loro scoperte, ma
prima che il lettore ci possa arrivare l’effetto c’è già stato.
Dall’altro lato, molti giornalisti scientifici si risentono del
fatto che tali critiche siano rivolte ingiustamente all’intera
categoria professionale. Per quelli di noi che si dedicano
soprattutto agli argomenti di scienza, «fare bene le cose»
non è un esercizio accademico, ma un desiderio vivissimo
che nasce dalla passione per ciò su cui abbiamo scelto di
scrivere. Uno scrittore che si rispetti non si sognerà mai di
non trattare con la cura che merita il soggetto su cui ha
scelto di lavorare.
Il che, ovviamente, non vuol dire che tutti i giornalisti
scientifici facciano sempre bene il loro lavoro. Tuttavia,
quelli con cui io mi trovo spesso a parlare ammettono
questo fatto, e il loro sdegno è pari a quello degli scienziati.
Il rovescio della medaglia è che alcuni scienziati non sono
esenti dal vizio di enfatizzare a dismisura le proprie
scoperte per guadagnarsi qualche rigo in più. La tempesta
perfetta ha luogo quando uno scienziato con questa
tendenza incontra un giornalista avventato; ed ecco che
dopo poco salta fuori la storia che i vaccini causano
l’autismo, giusto per fare un esempio.
Per molto tempo la replica di parecchi giornalisti agli
scienziati è stata che senza di loro le ricerche degli
scienziati non sarebbero mai andate oltre la cerchia
ristretta dei lettori delle riviste scientifiche. Questo adesso
non è più così vero, in quanto molti membri della comunità
scientifica sono emersi come brillanti comunicatori dotati
dei mezzi per raggiungere da soli pubblici più ampi. Nel
mondo dei blog se ne trovano molti, come anche in alcune
delle riviste di «buona» scienza che potete trovare sugli
scaffali della libreria di quartiere.
Per fortuna si può arrivare anche a una posizione
intermedia fra i due estremi. Alcuni scienziati e alcuni
giornalisti hanno scelto di (come diceva Reagan) «fidarsi,
ma verificare», e secondo me si tratta del risultato più
salutare che si possa auspicare per questo dibattito. Gli
scienziati hanno tutto il diritto di preoccuparsi di come il
loro lavoro viene presentato al mondo, e se hanno deciso di
concedere la loro fiducia a un giornalista che tratti bene
l’argomento, anche il giornalista dovrebbe essere disposto
a ricambiare mettendocela tutta per raccontare la storia in
maniera avvincente ma senza infiorettature troppo
azzardate. Ciò significa controllare e ricontrollare i fatti e
assicurarsi che le riserve dello scienziato vengano
rispettate.
Perché l’accordo funzioni entrambe le parti in causa
devono fare il loro dovere. E quando l’accordo funziona
davvero, il risultato è un ottimo articolo basato su fatti
assodati. Per farvi un’idea di cosa può succedere quando la
buona scienza incontra la buona scrittura non avete che da
leggervi i libri di Carl Zimmer, Jena Pincott, Wray Herbert,
Rebecca Skloot e David Dobbs – solo per fare qualche
nome.
Se siamo disposti a dare un po’ di fiducia e a collaborare
per cercare di raggiungere l’obiettivo comune (comunicare
al pubblico in maniera attenta e profonda importanti
scoperte scientifiche), allora il parco giochi della scienza
cesserà di essere un luogo pieno di insidie.1
Appendice 4
Omaggio all’antesignano del cambiamento
cerebrale: William James

Se è difficile identificare un unico nome fra le grandi


menti che hanno contribuito alle nostre conoscenze odierne
sul cervello adattivo, questa sezione è un omaggio a uno
dei primi e più originali pensatori grazie al quale questi
studi hanno avuto inizio, e molto tempo prima che le
neuroscienze cominciassero a fornire prove a sostegno
delle sue affermazioni.

Figura A4.1

William James si merita fino in fondo la qualifica di


«anticipatore dei tempi». Prima che la ricerca
neuroscientifica fornisse una base empirica a concetti come
quello di «automatismo», James già ne trattava nei suoi
scritti. Le sue stupefacenti intuizioni riguardo ai motivi che
ci fanno ragionare come ragioniamo e comportare come ci
comportiamo non sono mai state superate e hanno pochi
paragoni in qualsiasi campo. Inoltre, James è colui che ha
tenuto a battesimo il pragmatismo, fondamento filosofico di
questo e altri libri incentrati sull’uso di prove scientifiche
come guida per la ricerca di «ciò che funziona».
Di seguito vi offro un elenco delle opere di James perché
possiate approfondire le vostre ricerche su questo
pensatore e fare esperienza in prima persona del suo
genio… sempre che non l’abbiate già fatto.

Opere di William James


Antologie e raccolte (in lingua inglese)

Frederick H. Burkhardt (a cura di), The Works of William


James, Harvard University Press, Cambridge and London,
1975.
William James: Writings 1878-1899, The Library of
America, New York, 1992.
William James: Writings 1902-1910, The Library of
America, New York, 1987.
Volumi singoli

Essays in Philosophy, Harvard University Press, Cambridge


and London, 1978.
The Meaning of Truth (1909) [trad. it. Il significato della
verità: una prosecuzione di pragmatismo, Aragno, Torino,
2010].
A Pluralistic Universe (1909) [trad. it. Un universo
pluralistico: conferenze Hibbert al Manchester College
sulla situazione filosofica attuale, Marietti, Torino, 1973].
Pragmatism (1907) [trad. it. Pragmatismo, Aragno, Torino,
2007].
The Principles of Psychology (1890), [trad. it. Principi di
psicologia, Principato, Milano, 1965].
Some Problems of Philosophy (1911).
Talks to Teachers on Psychology; and to Students on Some
of Life’s Ideals (1899).
The Varieties of Religious Experience (1902) [trad. it. Le
varie forme dell’esperienza religiosa: uno studio sulla
natura umana, Morcelliana, Brescia, 1998].
The Will to Believe and Other Essays in Popular Philosophy
(1897) [trad. it. La volontà di credere, Principato, Milano-
Messina, 1970].
Saggi di particolare interesse

Philosophical Conceptions and Practical Results, 1898.


Contenuto in Pragmatism.
Remarks on Spencer’s Definition of Mind as
Correspondence, pubblicato per la prima volta in «Journal
of Speculative Philosophy», 1878. Contenuto in Essays in
Philosophy.
Epistolari

The Correspondence of William James (a cura di Ignas K.


Skrupskelis e Elizabeth M. Berkeley), 12 voll., University
Press of Virginia, Charlottesville and London, 1992.
The Letters of William James (a cura del figlio Henry
James), Atlantic Monthly Press, Boston, 1920.
Selected Letters of William and Henry James, University
Press of Virginia, Charlottesville and London, 1997.
Postfazione

David DiSalvo è un saggista scientifico che abita la


turbinosa intersezione cerebrale fra scienza e cultura e
ogni settimana pubblica una testimonianza in prima
persona delle realtà in evoluzione della vita umana su
questo pianeta. Come cambiare la propria vita è il seguito
del suo primo libro, Cosa rende felice il tuo cervello (e
perché devi fare il contrario), e funge da ponte letterario
fra un vecchio mondo di oscure soluzioni in salsa self-help
ai problemi della vita e il nuovo universo del science-help,
espressione coniata proprio da DiSalvo nel suo saggio
d’esordio.
In Cosa rende felice il tuo cervello DiSalvo ci offriva solide
prove scientifiche a sostegno di un’intrigante ipotesi: il
cervello umano, così è programmato dal naturale processo
di evoluzione, fa sì che di fronte alle situazioni più
impegnative della vita gli individui si lascino confondere e
ingannare da soluzioni poco efficaci o errate. La cosa ancor
peggiore è che in ambito sociale una collettiva ignoranza di
questi nostri limiti mentali (accelerati dall’innovazione
tecnologica e dal progresso) ha condotto a un
assembramento casuale di consuetudini culturali governate
da regole e vincoli che per essere osservati richiedono da
parte dell’individuo uno sforzo superiore a quello che il
cervello è in grado di gestire. In sintesi, il tomo I
dell’indagine condotta da DiSalvo tratta il problema che il
cervello umano si trova ad affrontare quando entra in
contatto con gli stimoli culturali, e l’autore fornisce al
lettore un’interpretazione evoluzionistica dei dati scientifici
che convergono tutti verso una verità incontestabile: la
qualità della vita umana – e la conseguente ricerca della
felicità nel più ampio contesto della società – trova un serio
intralcio in un cervello preimpostato secondo processi
biochimici prestabiliti.
Ma ecco che nelle pagine di Come cambiare la propria
vita DiSalvo offre una possibile soluzione a questo
rompicapo evolutivo. Ci presenta concetti nuovi come
«metacognizione», «autonarrazione cosciente» e
«adattamento pragmatico» per accendere in noi la
speranza che il cervello umano (per quanto predisposto
biologicamente a disseminare trappole esplosive) sia una
macchina magnifica capace di eludere le insidie che è essa
stessa a creare. Avvalorando la sua argomentazione con
una messe di dati raccolti dagli studi scientifici più attuali,
DiSalvo riesce a convincerci che il cervello è capace di
riconoscere le proprie fissazioni e i propri trabocchetti. Nel
contempo, l’autore analizza strato dopo strato intricati
schemi relativi a sistemi interconnessi di stimolazione
culturale che esercitano un’influenza diretta su casi
osservabili di comportamento autodistruttivo. Come
racconta un lettore riportando il commento della figlia
esperta di computer che ha finito di leggere un estratto da
Cosa rende felice il tuo cervello: «Questo qua ci spiega
come hackerare i nostri sottoprogrammi!».
C’è però un «ma» singolare e preoccupante nella visione
ottimistica di DiSalvo riguardo la nostra capacità di
prevalere sulla circuiteria cerebrale biologicamente
programmata e la sua propensione all’autolesionismo. La
sua unica riserva si riferisce all’umanissima consapevolezza
che gli individui devono mettere in atto delle misure dirette
per contrastare la propria predilezione e propensione
cognitivo-comportamentale all’inazione.
In questo senso, DiSalvo di fatto non esclude la possibilità
che la maggioranza degli esseri umani viva impantanata
nella propria inerzia, vittima di una naturale
predisposizione a prendere la via più facile, a proprio
rischio e pericolo.
Come osservava mezzo secolo fa Walter Lippmann:

Va benissimo voler essere padroni di sé. Ma è cosa difficile, e solo una


manciata di eroi, di santi e di geni sono stati padroni di se stessi per un
tratto della vita. La maggior parte degli uomini, dopo un piccolo assaggio di
libertà, hanno preferito affidarsi all’autorità, con le consolanti rassicurazioni
e il risparmio di fatica che essa comporta.

Cautele e ammonimenti a parte, in questo libro evidente è


l’ottimismo di DiSalvo, la cui soluzione, per quanto affidata
alla scienza dura, suona vera anche alle ambizioni poetiche
del cuore umano. Conoscere. Fare. Ampliare. L’autore
esorta il suo lettore ad agire – secondo un’azione informata
– per realizzare qualunque passione sia giustificabile da un
individuo ragionevole in un determinato contesto culturale.
Per apprezzare la personale adesione di DiSalvo a questa
«soluzione» basta solo osservarlo nel suo ambiente
naturale: ogni giorno che Dio comanda potete trovarlo nella
sua caffetteria all’angolo preferita, dove, requisiti tavoli e
sedie di vimini, li ricopre di libri e di cataste di articoli
scientifici contenenti, come dice lui, «tematiche in
espansione» per il suo prossimo libro, articolo o intervento
sui blog.
«Nella scia del postmodernismo» mi dice al telefono
mentre sorseggia il suo caffè sepolto in mezzo a cataste di
tematiche, «non è ancora chiaro quali siano in effetti i
costituenti di una cultura. Questo, però, non dovrebbe
impedirci di adattarci pragmaticamente per far fronte alle
sue domande». Quando gli chiedo chi è che crea la cultura,
lui riflette un attimo e poi risponde: «Mi sembra evidente:
gli uomini d’azione».
Mentre continuo a incalzarlo perché spieghi meglio il suo
punto di vista sull’importanza dell’azione, DiSalvo allude al
profondo significato del saggio di Friedrich Nietzsche
sull’utilità e il danno della storia contenuto nella raccolta
Considerazioni inattuali. In questo volume meno noto della
sua produzione, il filosofo tedesco ricorre a una geniale
formula magica di Johann Wolfgang Goethe per criticare
severamente coloro che pur imparando le dure lezioni della
storia non si impegnano fattivamente in prima persona allo
scopo di produrre un effetto positivo sulla cultura. «Detesto
tutto ciò che m’istruisce soltanto, senza ampliare ed
accrescere immediatamente la mia attività», scrive
Nietzsche.
E dopo la citazione prosegue:

Con queste parole di Goethe (…) può cominciare la nostra considerazione


sul valore e il non-valore della storia. In essa si vuole dimostrare, infatti,
perché si debba detestare seriamente, secondo le parole di Goethe,
un’istruzione che non vivifichi, un sapere in cui l’attività si indebolisca, la
storia come un prezioso superfluo e un lusso della conoscenza – per la
ragione, cioè, che fa difetto in tutto ciò il più necessario e perché il superfluo
è nemico del necessario.

Incarnando il concetto nietzschiano di vitalità, David


DiSalvo se ne sta seduto tranquillo nel suo caffè all’angolo,
come una bomba a orologeria, animato dallo stesso spirito
audace del filosofo tedesco, vivendo dentro di sé la verità
insita in ogni parola dei propri libri e dei propri articoli,
persino nel momento stesso in cui li scrive. In bilico
sull’inebriante bordo dell’abisso del dubbio, al pari di
migliaia di suoi lettori anche DiSalvo è tormentato da un
coro di catene di retroazione trasmesse per via neuronale
che la biochimica produce all’ingresso del suo personale
muro dell’indecisione. In questo senso, DiSalvo è un
guerriero intellettuale che combatte per il bene dei suoi
lettori, mettendo in pratica ciò che va predicando.
Sotto questo punto di vista, DiSalvo è la quintessenza
dell’«adattatore pragmatico» – anche se di certo non è il
primo al mondo – e, prima di mettere per iscritto le sue
affermazioni, si premura di corroborarle facendo un buon
uso delle più recenti scoperte della ricerca scientifica. Ma è
anche un poeta empatico con il dono di una prosa che
costringe il lettore di fronte a una scelta, un po’ nello stile
del Giovane Holden di Salinger, senza però mai predicare il
verbo rivelato su nessun argomento. Per esempio, un
neologismo come «adattamento pragmatico» non è
semplicemente un concetto astratto che l’autore tira fuori
dal suo ampio vocabolario. DiSalvo accompagna il termine
con lo specchio crepato della propria volontà autoriflessa
per superare gli ostacoli cerebrali presenti nella sua vita
turbolenta. Se ha coniato quell’espressione è solo perché
lui è quell’espressione – o, per essere più precisi: lui sta
diventando quell’espressione.
Un altro dei modi di dire preferiti di DiSalvo è focalizzarsi
in avanti, e ogni volta che lo usa in una banale
conversazione mi rammento del consiglio che mi dette
quindici anni fa (durante una crisi di cui ero io il
responsabile), di convertirmi alla strategia. Avendo dato
retta allora al suo consiglio, oggi mi ricordo quanto fu
importante sentirmi dire quelle parole per trovare la forza
di farlo davvero. Di riflesso, il ricordo di quel suo
ammonimento di tanti anni fa dona all’accademico che c’è
in me un profondo senso di sicurezza se penso come la
scienza esalti la semplicità di quel suo modo talvolta
apparentemente prosaico e banale di esporre le cose.
«Abbiamo utilizzato in maniera efficace la consapevolezza
metacognitiva per modificare la situazione» scrive –
correttamente – nel secondo capitolo di Come cambiare la
propria vita. Questa volta, invece, quindici anni dopo
avermi indotto per la prima volta a passare all’azione
metacognitiva (convertirmi alla strategia), l’invito di
DiSalvo a focalizzarsi in avanti su schemi autoimposti di
conoscenza, azione e ampliamento è supportato da dati
scientifici reali. E tutto questo sottintende che, almeno
marginalmente, anche lui sia responsabile degli esiti
positivi del mio «cambiamento cerebrale». Perciò, non
posso sottrarmi a quello che è il logico svelamento finale,
ossia che anche l’autore svolge un ruolo nella redenzione
del lettore, qualunque cosa si intenda per redenzione.
«Quando di parla di “mente” si parla di interrelazioni fra il
nostro cervello, la nostra mente e le menti altrui» scrive
DiSalvo.
E, citando Siegel, aggiunge: «Come proprietà emergente
del corpo e delle relazioni interpersonali, la mente si crea
all’interno di processi neurofisiologici ed esperienze
relazionali. In altre parole, la mente è un processo che
emerge dal sistema nervoso esteso a tutto l’organismo e dai
pattern di comunicazione che si instaurano nelle nostre
relazioni con gli altri».
In definitiva, bisogna concludere che o DiSalvo si sta
nascondendo molto abilmente dietro il velo retorico del
«science-help», il termine da lui coniato che ruota intorno a
una innovativa sintesi di approcci contemporanei alla teoria
della mente (e persino io mi lascio incantare dalle sue
intenzioni dionisiache – anzi, forse sono il re dei creduloni),
o il suo suggerimento che «il sé non è l’io» ma in realtà «il
sé è un noi» è effettivamente avvalorato dai dati scientifici,
e ciò richiede che io ponga fine al mio personale culto
dell’intenzionalità narcisistica e mi connetta davvero con
gli altri esseri umani in un processo collettivo di
costruzione della cultura basato su intenzioni condivise.
Questo spiegherebbe perché in una recente telefonata
DiSalvo mi abbia confessato di avere bisogno dei suoi
lettori quanto spera che loro abbiano bisogno di lui.
Sorprendentemente, l’osservazione di DiSalvo secondo cui
gli elementi centrali dello sviluppo evolutivo del cervello
umano non sono stati selezionati né per il multitasking né
per l’isolamento sociale indica che decidere di spendere dei
bei periodi di tempo focalizzandomi sugli interessi del
prossimo potrebbe in effetti farmi bene – e senza violare
l’ordine naturale delle cose: e questo è un insegnamento
formidabile da trovare in un libro.
Infine, è questo atteggiamento coraggioso da parte
dell’autore – questa spartana volontà di agire sulla base di
conoscenze, avvenga quel che avvenga – che fa di Come
cambiare la propria vita il giusto corollario di Cosa rende
felice il tuo cervello. Non resta altro che fare un pochino di
spazio sul mio scaffale per un terzo volume della trilogia
disalviana che definisca come appare un «cervello
cambiato» nel contesto sociale, e che cosa ci si può
aspettare di ottenere in un contesto globale in divenire
fatto di tanti esempi locali di disintegrazione culturale.
Magari DiSalvo si persuaderà a combattere una volta di
più le divinità dell’autosabotaggio biochimicamente indotto
per il bene dei suoi lettori, e a spiegarci come ci si sente a
essere l’unico cervello superstite in un mondo che è oltre la
cultura.
Donald Wilson Bush, Los Angeles
Ringraziamenti

Scrivere un libro come Come cambiare la propria vita


rappresenta un intenso sforzo di cooperazione che non
sarebbe possibile senza la dedizione con cui ricercatori di
tutto il mondo analizzano una materia complessa come il
pensiero e il comportamento dell’uomo. L’elenco dei
ricercatori presso università, laboratori privati ed enti
pubblici da cui ho tratto le informazioni che popolano
queste pagine sarebbe troppo lungo, ma durante la lettura
dei capitoli e delle note vedrete citati uno dopo l’altro i loro
nomi. Io considero questo libro una galleria di mattoni che
conduce a nuove conoscenze sui meccanismi di
funzionamento della mente umana, dove ogni mattone
rappresenta il contributo di un ricercatore che ha lavorato
senza requie per affrontare questioni cruciali in grado di
allargare l’orizzonte della nostra consapevolezza.
Vorrei fare un ringraziamento speciale a Jena Pincott, che
è stata tanto generosa da scrivere la prefazione. È una
delle rappresentanti più brillanti del giornalismo scientifico
ed è un vero onore che siano le sue parole ad aprire il mio
libro. Un ringraziamento speciale se lo merita decisamente
anche Donald Wilson Bush, mio amico e collaboratore da
oltre 20 anni, il quale ha curato le illustrazioni del libro e
ha scritto la postfazione. Per vastità di conoscenze e
versatilità di competenze può essere considerato un vero
eclettico, capace di cogliere e tradurre visivamente
complesse tematiche tecniche, nonché in grado come
poche altre persone abbia incontrato in vita mia di trovare
le parole per spiegare tematiche difficili.
Fra le altre persone che mi hanno aiutato durante la
stesura del libro c’è il mio amico John Shade Vick, il cui
solido punto di vista mi ha aiutato a restare ancorato ai
fatti concreti, e Bob Vandervoort, che in ogni passaggio è
stato un punto fermo come amico e come sostenitore.
La mia gratitudine va anche alla mia agente, Jill Marsal,
leale sostenitrice e alleata: senza di lei non farei quello che
faccio. Grazie inoltre alle redazioni di «Forbes» e
«Psychology Today», con le quali ho avuto il piacere di
lavorare negli ultimi anni, nell’augurio di continuare la
collaborazione per molti anni ancora.
Un ringraziamento va poi a tutte le persone di BenBella
Books, editore di questo libro. Lavorare con la loro squadra
è un vero piacere e sono felicissimo di collaborare con un
gruppo di professionisti così esperti, intelligenti e
simpatici.
Tanto, tantissimo amore va ai miei bambini, Devin, Collin
e Kayla: non esiste ragione migliore di loro per cercare di
ottenere qualcosa nella vita. Non trovo le parole per dirvi
quanto vi amo.
Infine, dedico un grazie a mio padre, Louis DiSalvo, a cui
questo libro è dedicato e che troppo presto ha lasciato
questo mondo. È stato lui a insegnarmi a pensare in
maniera critica e da lui ho imparato che spesso le risposte
facili, per quanto allettanti possano apparire, non sono le
risposte giuste. I suoi amici lo chiamavano «Lucky Lou»
perché aveva fama di eccellente giocatore di poker, ma la
verità è che la sua intelligenza era sempre molto in anticipo
rispetto alla sua fortuna. Era un brav’uomo e un magnifico
pensatore. Questo libro è per te, papà.
Note

Prologo
1 Sebbene la storia qui raccontata sia vera, i nomi sono di
fantasia. Ho assistito in prima persona alla vicenda, in
quanto è capitata a degli amici intimi che generosamente
mi hanno concesso il permesso di riportarla nel mio libro.
Introduzione
1 Marc Lewis, Memoirs of an Addicted Brain, PublicAffairs,
New York, 2012, p. 66.
2 David DiSalvo, Cosa rende felice il tuo cervello (e perché
devi fare il contrario), Bollati Boringhieri, Torino, 2013, p.
19.
1. La metacognizione
1 Robert J. Marzano, Dimensions of Thinking: a Framework
for Curriculum and Instruction, National Education
Association, Washington DC, 1988, p. 278.
2 Ibid.

3 Ringrazio Thomas Goetz che nel suo articolo Harnessing


the Power of Feedback Loops, apparso su «Wired» nel
giugno 2011, ha fornito un’eccellente spiegazione di come
agiscono i cicli retroattivi in una varietà di discipline,
nonché la migliore terminologia per descrivere gli elementi
di un ciclo di retroazione (evidenza, rilevanza,
conseguenza, azione) in cui io mi sia imbattuto durante le
mie ricerche. L’articolo è stato consultato online
all’indirizzo
http://www.wired.com/magazine/2011/06/ff_feedbacklo
op/.
4 Stephen M. Fleming, Raymond J. Dolan, The Neural Basis
of Metacognitive Ability, «Philosophical Transactions of the
Royal Society B: Biological Sciences», CCCLXVII, 2012, pp.
1338-49.
5 Ibid.

6 Robert Kurzban, Why Everyone Else Is a Hypocrite:


Evolution and the Modular Mind, Princeton University
Press, Princeton, 2011, pp. 35-37.
7 Nel suo libro A User’s Guide to the Brain (Pantheon
Books, New York, 2001, p. 341) il dottor John J. Ratey
descrive i «quattro teatri del cervello», da cui io derivo
l’espressione «teatro mentale». Sebbene io e Ratey
utilizziamo una terminologia simile in contesti alquanto
differenti, va riconosciuta a lui l’invenzione di una metafora
molto utile per rappresentare la mente.
8 In Felicità: un’ipotesi. Verità moderne e saggezza antica
(Codice edizioni, Torino, 2007), Jonathan Haidt propone
esempi di «dilemmi morali» che inducono persone
ragionevoli a indugiare senza riuscire bene a capire che
cosa li indispone. In particolare, Haidt cita l’esempio di un
fratello e di una sorella che decidono di praticare sesso
protetto: la maggior parte degli individui reagisce con
disgusto, ma dal momento che non esiste alcuna
ripercussione esterna sugli altri a parte le due persone
coinvolte nell’atto, non è semplice spiegare perché l’idea
susciti una tale riprovazione morale. Secondo Haidt
«sentiamo» l’indignazione anche se questo sentimento non
ha una spiegazione logica.
9 Leonard Mlodinow, Subliminal: How Your Unconscious
Mind Rules Your Behavior, Pantheon, New York, 2012, p.
17.
10 Timothy Wilson, Strangers to Ourselves: Discovering the
Adaptive Unconscious, The Belknap Press of Harvard
University Press, Cambridge, 2002, pp. 24-27.
11 Ibid.
12 Fleming e Dolan cit.

13 James M. Haynie, Cognitive Adaptability: The Role of


Metacognition and Feedback in Entrepreneurial Decision
Policies, tesi di dottorato, University of Colorado at
Boulder, 2005, pp. 237-65.
14 Ibid.
2. La mentalizzazione
1 Cfr. Michael Gazzaniga, Human: ciò che ci rende unici,
Raffaello Cortina, Milano, 2009.
2 Pierce J. Howard, The Owner’s Manual for the Brain, 3a
edizione, Bard Press, Austin, 2006, p. 47.
3 David J. Siegel, La mente relazionale. Neurobiologia
dell’esperienza interpersonale, Raffaello Cortina, Milano,
2013, pp. 3-5.
4 Leonard Mlodinow, Subliminal: How Your Unconscious
Mind Rules Your Behavior cit., pp. 87-88.
5 Ibid.

6 Nel libro Self-Esteem (New Harbinger Publications,


Oakland, 2000) i due autori Matthew McKay e Patrick
Fanning descrivono con dovizia di particolari varie tipologie
di voce interiore e come essa condizioni il nostro
comportamento. Per un’analisi più approfondita
sull’argomento vi rimando alla lettura del loro libro.
7 Janet Metcalfe e Lisa K. Son, Anoetic, Noetic and
Autonoetic Metacognition, in «Foundations of
Metacognition», a cura di Michael J. Beran, Johannes L.
Brandl, Josef Perner e Joëlle Proust, Oxford University
Press, New York, 2012, pp. 289-301.
8 Nel capitolo 9 del suo libro Finding Flow: The Psychology
of Engagement with Everyday Life (Basic Books, New York,
1997), Mihály Csíkszentmihályi introduce la «personalità
autotelica», che lui descrive come un individuo che si
dedica a un’attività per il piacere di farlo, avendo come
obiettivo principale l’attività stessa. Sebbene il concetto di
Csíkszentmihályi differisca significativamente da quello che
io chiamo «personalità autonoetica», vale certamente la
pena di consultare il suo libro per scoprire nuovi punti di
vista riguardo a una personalità che sta operando ai
massimi livelli di autoconsapevolezza e che investe se
stessa nel raggiungimento di obiettivi non solo allo scopo di
conseguirli, ma anche per ottenere il massimo possibile
dall’esperienza necessaria a conseguirli.
3. L’adattamento pragmatico
1 A chi voglia approfondire il tema dell’evoluzione di
analoghe risposte emozionali nell’essere umano consiglio i
libri del neuroscienziato Antonio Damasio, in particolare Il
sé viene alla mente: la costruzione del cervello cosciente,
Adelphi, Milano, 2012.
2 Per un’esauriente trattazione dell’«evoluzione culturale»
si può consultare la Stanford Encyclopedia of Philosophy:
http://plato.stanford.edu/entries/evolution-cultural/.
3 Le informazioni sulla nanotecnologia dell’RNA sono tratte
da varie interviste raccolte nel 2012 per un white paper
confidenziale presso la facoltà di ricerca della School of
Medicine dell’Università di San Diego.
4 Cfr. Norman Doidge, Il cervello infinito. Alle frontiere
della neuroscienza: storie di persone che hanno cambiato il
proprio cervello, Ponte alle Grazie, Milano, 2007.
5 Moheb Costandi, Researchers Watch Brain Rewire Itself
After Stroke, «Neurophilosophy» (blog), 2 luglio 2008,
http://neurophilosophy.wordpress.com/2008/07/02/res
earchers_watch_brain_rewire/.
6 Christopher J. Boyce, Alex M. Wood, Nattavudh
Powdthavee, Is Personality Fixed? Personality Changes as
Much as «Variable» Economic Factors and More Strongly
Predicts Changes in Life Satisfaction, «Social Indicators
Research», CXI, 1, pp. 287-305, 2013.
7 Ibid.

8 Ibid.

9 Daniel Nettle, Personality: What Makes You the Way You


Are, Oxford University, New York Press, 2007, pp. 9-10, 29.
10 Ibid.

11 Boyce, Wood e Powdthavee, Is Personality Fixed? cit., p.


33.
12 Walter Bradford Cannon, La saggezza del corpo,
Bompiani, Milano, 1956, p. 10.
13 Si veda la definizione di allostasi in Parte terza.
Ampliare - Glossario.
14 Per un’ampia trattazione degli errori cognitivi, consiglio:
Davis Burns, Feeling Good: The New Mood Therapy,
Harper, New York, ristampa 2008, pp. 32-43.
15 Jeffrey M. Schwartz e Rebecca Gladding, You Are Not
Your Brain: The 4-Step Solution for Changing Bad Habits,
Ending Unhealthy Thinking, and Taking Control of Your
Life, Avery Trade, New York, 2012, pp. 201-02.
16 Gillian Butler e Tony Hope, Managing Your Mind: The
Mental Fitness Guide, Oxford University Press, New York,
2007, pp. 68-70.
4. Il filo narrativo dell’io
1 Daniel Dennett, The Self as a Center of Narrative Gravity,
in «Self and Consciousness: Multiple Perspectives» (a cura
di Frank S. Kessel, Pamela M. Cole, Dale L. Johnson, Milton
D. Hakel), Psychology Press, New York, 1992, pp. 103-15.
2 La terminologia «stile naturale» e «stile adattivo» ricorre
con frequenza in alcuni test di personalità, in particolar
modo nel DISC-Index.
3 Un’ottima definizione di «salienza» nel gergo psicologico
è reperibile nel sito Blackwell Reference Online:
http://www.blackwellreference.com/public/tocnode?
query=salience&widen=1&result_number=1&from=s
earch&id=g9780631202899_chunk_g9780631202899
21_ss1-1&type=std&fuzzy=0&slop=1; DOI:
10.1111/b.9780631202899.1996.x.
4 Per un’ottima disanima sull’autonarrazione e sul potere
terapeutico della narrazione vi consiglio il libro di Timothy
Wilson Redirect: The Surprising New Science of
Psychological Change (Little Brown, New York, 2011).
5. Il paesaggio della mente
1 La famosa frase di Albert Camus sugli intellettuali è
contenuta in Taccuini (1935-1942), opera pubblicata in
Italia da Bompiani.
La scatola del pensiero
1 Ron e Marty-Hale Evans, Mindhacker: 60 Tips, Tricks,
and Games to Take Your Mind to the Next Level, Wiley,
New York, 2011, pp. 340-50.
2 Charles Duhigg, La dittatura delle abitudini, Corbaccio,
Milano, 2012, pp. 102-03.
3 Pierre J. Magistretti, Luc Pellerin, Jean-Luc Martin, Brain
Energy Metabolism: An Integrated Cellular Perspective, in
«Psychopharmacology: The Fourth Generation of
Progress», American College of Neuropsychopharmacology,
Brentwood, 1995, pp. 657-70.
4 Shlomo Breznitz, Collins Hemingway, Maximum
Brainpower: Challenging the Brain for Health and Wisdom,
Ballantine Books, New York, 2012, pp. 157-66.
5 Cfr. Live Science: http://www.livescience.com/5406-
chewing-gum-touted-diet-strategy.html.
6 A. Scholey, C. Haskell, B. Robertson, D. Kennedy, A.
Milne, M. Wetherell Chewing gum alleviates negative mood
and reduces cortisol during acute laboratory psychological
stress, «Physiological Behavior» 97, 2009, pp. 304-12.
7 K. Kamiya, M. Fumoto, H. Kikuchi, T. Sekiyama, Y. Mohri-
Lkuzawa, M. Umino, H. Arita, Prolonged gum chewing
evokes activation of the ventral part of prefrontal cortex
and suppression of nociceptive responses: involvement of
the serotonergic system, «Journal of Medical and Dental
Sciences» 57, 2010, pp. 35-43.
8 Chris Berdik, Mind Over Mind: The Surprising Power of
Expectations, Current Hardcover, 2012, pp. 66-68.
9 Ibid.

10 Gli studi condotti da David Watson e Lee Anna Clark


sono illustrati in Your Creative Brain: Seven Steps to
Maximize Imagination, Productivity, and Innovation in Your
Life di Shelley Carson, Harvard Health Publications /
Jossey-Bass, 2010, pp. 208-10.
11 Carson, Your Creative Brain cit., p. 209.

12 Dan Ariely, The (Honest) Truth About Dishonesty,


HarperCollins, New York, 2012, p. 245.
13 Daniel J. Siegel, La mente relazionale: neurobiologia
dell’esperienza interpersonale, Raffaello Cortina, Milano,
2013, pp. 1-44.
14 Andrew Newberg e Mark Robert Waldman, Words Can
Change Your Brain: 12 Conversation Strategies to Build
Trust, Resolve Conflict, and Increase Intimacy, Hudson
Street Press, New York, 2012, pp. 128-36.
15 A chi voglia approfondire nel dettaglio il tema del
biofeedback delle onde cerebrali, consiglio il libro di Jim
Robbins: A Symphony in the Brain: The Evolution of the
New Brain Wave Biofeedback, edizione rivista e ampliata,
Grove Press, New York, 2008.
16 Matthew A. Sanders et al., The Gargle Effect: Rinsing
the Mouth with Glucose Enhances Self-Control,
«Psychological Science» XXIII, 2012, pp. 1470-72.
17 Carson, Your Creative Brain cit., pp. 171-73.

18 Daniel Amen, Change Your Brain, Change Your Life,


Three Rivers Press, New York, 1998, pp. 150-71.
19 I suggerimenti per dormire meglio sono tratti da un mio
articolo scritto per «Forbes Magazine Online»:
http://www.forbes.com/sites/daviddisalvo/2012/10/11/1
0-reasons-why-you-cant-sleep-and-how-to-fixthem/.
20 Gillian Butler e Tony Hope, Managing Your Mind cit., pp.
129-33.
21 Mark Hyman, La soluzione per la tua testa! Cura il tuo
corpo e guarisci il tuo cervello: La soluzione per
sconfiggere la depressione, controllare l’ansia e stimolare
la mente, Bis, Cesena, 2011, p. 297.
22 Le informazioni presentate in questa sezione sono in
parte tratte da un mio articolo pubblicato su «Forbes
Magazine Online»:
http://www.forbes.com/sites/daviddisalvo/2012/08/07/t
he-10-reasons-why-we-fail/.
23 Si confrontino i dati offerti dall’Health Center della
Università del Connecticut:
http://today.uconn.edu/blog/2013/04/alcohol-research-
center-battles-addiction-with-science/.
24 Le informazioni presentate in questa sezione sono in
parte tratte da un mio articolo pubblicato su «Forbes
Magazine Online»:
http://www.forbes.com/sites/daviddisalvo/2012/08/28/1
0-reasons-why-some-people-love-what-they-do/.
25 L’esempio qui riportato è un adattamento dal mio libro
precedente, Cosa rende felice il tuo cervello (e perché devi
fare il contrario), Bollati Boringhieri, Torino, 2013, pp. 174-
76. Paul Thibodeau e Lera Boroditsky, Metaphors We Think
With: The Role of Metaphor in Reasoning in «PLoS.ONE» 6,
2010, rivista consultabile online.
26 Daniel Pink, A Whole New Brain: Why Right-Brainers
Will Rule the Future, Riverhead Books, New York, 2005, pp.
139 e 152.
27 Koenraad Cuypers et al., Patterns of receptive and
creative cultural activities and their association with
perceived health, anxiety, depression and satisfaction with
life among adults: the HUNT study, Norway, «Journal of
Epidemiology and Community Health» CXXXIII, maggio
2011, pp. 66-71.
28 Helen J. Huang, Rodger Kram, Alaa Ahmed, Reduction of
Metabolic Cost during Motor Learning of Arm Reaching
Dynamics, «The Journal of Neuroscience» XXXII, 2012, pp.
2182-90.
29 Le informazioni presentate in questa sezione sono in
parte tratte da un mio articolo pubblicato su «Forbes
Magazine Online»:
http://www.forbes.com/sites/daviddisalvo/2012/06/21/t
he-five-hallmarks-of-respected-achievers/.
30 Si veda quanto riportato dal Dipartimento di Psicologia
Integrativa della University of Colorado Boulder:
http://www.colorado.edu/news/releases/2012/02/09/per
form-less-effort-practice-beyond-perfection-says-new-
cu-study/.
31 Informazioni tratte da un mio articolo scritto per
«Psychology Today Online»:
http://www.psychologytoday.com/blog/neuronarrative/
201009/why-running-is-incredible-medicine-your-
brain/.
32 Daniel J. Siegel, Mindsight: la nuova scienza della
trasformazione personale, Raffaello Cortina, Milano, 2011,
pp. 36-40.
33 V.S. Ramachandran, L’uomo che credeva di essere morto
e altri casi clinici sul mistero della natura umana,
Mondadori, Milano, 2012, pp. 250-55.
34 Howard Gardner, Cinque chiavi per il futuro, Feltrinelli,
Milano, 2011, pp. 1-10.
35 Edward De Bono, Sei cappelli per pensare, Rizzoli,
Milano, 1991, pp. 5-36.
36 Aaron T. Beck, Arthur Freeman et. al., Terapia cognitiva
dei disturbi di personalità, Mediserve, Milano-Firenze-
Napoli, 1993, p. 34.
37 Nicholas Humphrey, Polvere d’anima. La magia della
coscienza, Codice Edizioni, Torino, 2013, p. 53.
Appendice 2
1 Una versione di questo testo è apparsa per la prima volta
su «Psychology Today Online» il 21 agosto 2011:
http://www.forbes.com/sites/daviddisalvo/2011/08/21/
why-we-need-pragmatic-science-and-why-the-
alternatives-are-dead-ends/.
Appendice 3
1 Una versione di questo testo è apparsa per la prima volta
su «Forbes Magazine Online» l’8 agosto 2011:
http://www.forbes.com/sites/daviddisalvo/2011/08/08/
why-scientists-and-journalists-dont-always-play-well-
together/.
Indice analitico

abilità cognitive superiori


abitudini
abusi di fiducia
adattamento
e allostasi
evolutivo
pragmatico, vedi anchecicli retroattivi
adattatore pragmatico
adrenalina
aggressività
Ahmed, Alaa
aiutare il prossimo
alcolismo
alcol e soglie chimiche
Allen, James
allostasi
Allport, Gordon
altruistica, convinzione
ambiversi
amicalità
anoesia, anoetico, vedi anche istinto
ansia, vedi anche paura
antidepressivi
apertura
appagamento esistenziale
argomentazione fittizia
Aristotele
arte
metodo dell’esposizione all’–
aspetti del sé
assertività
diritti assertivi
qualità assertive
attenzione
attori razionali
Auster, Paul
autoanalisi
autoconsapevolezza
autodistruttivi, comportamenti
autoefficacia
automatismo
automiglioramento
autonarrazione, vedi anche identità narrativa
autonoesi, autonetico
autoregolazione e performance
autoriflessione, autoriflessività
autosabotaggio
avvicendamento programmato

Balzac, Honoré de
Beck, Aaron, vedi anche terapia cognitivo-comportamentale (CBT)
Becker, Ernest
benessere
benzodiazepine
Berdik, Chris
«Big Five» (fattori di personalità)
biomeccanica
blog, interventi sui
Boroditsky, Lera
brutti pensieri

caffeina
calamita cognitiva
cambiamento, resistenza al –
Cambridge University, studio scientifico della –
campagne commerciali
Camus, Albert
Cannon, Walter Bradford
caos degli «io» multipli
Cattell, Raymond
CBT, vedi terapia cognitivo-comportamentale (CBT)
centri dell’inibizione del comportamento
cervelletto
cervello, vedi anche cervello adattivo
– preimpostato secondo processi biochimici prestabiliti
corteccia cerebrale
chimica del –
giro cingolato
dimensioni dell’«io» all’interno della mente
proencefalo
corteccia frontale
ipotalamo
corteccia insulare
sistema di allarme interno
emisfero sinistro
midollo
mesencefalo
sistema modulare di elaborazione
corteccia prefrontale
centro della ricompensa
dolore avvertito a livello cerebrale
emisfero destro
scansioni cerebrali
cervello adattivo, vedi anche cervello
cicli retroattivi come motori del –
grandi pensatori e il –
la flessibilità favorisce il –
rebooting
Change Your Brain, Change Your Life (Amen)
chemioterapia
chewing gum, masticazione
Choking on the Money (esperimento)
chunking
Churchill, Winston
ciarlatani
cibi proteici
cicli retroattivi, vedi anche adattamento pragmatico
abitudine
cervello adattivo e –
– dell’abitudine
come «motori del cervello adattivo»
errori cognitivi come causa di distorsione dei –
esperienza emozionale
evoluzione biologica e –
fase dell’azione
fase della conseguenza
fase della rilevanza
fase dell’evidenza
metacognizione e –
retroazione cognitiva negativa
Clark, Lee Anna (psicologa)
cocaina
collaboratore, il
comandi verbali
competizione, civiltà basata sulla
comportamento sociale
confessioni religiose
connessioni neurali
conoscenze apprese
conformismo
consapevole/cosciente
autonarrazione
controllo consapevole del pensiero
distacco consapevole
mente cosciente
metarappresentazione cosciente
pensiero cosciente
ragionamento cosciente
sincronizzare motivazioni consce e motivazioni inconsce
spazio mentale conscio
consapevolezza enterocettiva
conscienziosità
conseguenze negative
Considerazioni inattuali (Nietzsche)
consulente, il
consumo energetico
contagio emotivo
copioni narrativi0
copioni operativi
corrente di affetto
corsa, correre
corteccia
– cerebrale
– frontale
– prefrontale
cortisolo
Cosa rende felice il tuo cervello (e perché devi fare il contrario) (DiSalvo)
Costa, Jr., Paul (teorico della personalità)
counselor scolastico
Covey, Stephen
creatività
crollo nervoso
culto dell’intenzionalità narcisistica
cultura
dosi regolari di –
partecipazione ad attività culturali

Daily Brain, The, (blog)


DBT, vedi terapia dialettico-comportamentale (DBT),
De Beauvoir, Simone
De Bono, Edward
decisioni di alto livello
delfini
Dennett, Daniel
depressione, vedi anche serotonina
desideri e fantasie infantili
detezione del segnale, teoria della
dialogo interiore
Dickens, Charles9
dieta
dinamica motrice della mente cosciente
Dio
dipendenze
disciplina strategica del pensiero
disonestà, forze/fattori che inducono alla –
disperazione
distacco
distorsioni cognitive, vedi anche errori cognitivi
La dittatura delle abitudini (Duhigg)
Dobbs, David
dolore avvertito a livello cerebrale
dopamina
dosaggi ormonali
Dostoevskij, Fëdor
«Dovunque tu vada, ci sei già»
Drucker, Peter
dubbio

«E se domani morissi?»
eccesso di generalizzazione
eccitazione sessuale
Eckhart, Mastro
economia comportamentale
effetto unificante dell’autonarrazione
effetto Zenone quantistico
egodistonia, egodistonico
egoistici, fini
egosimmetria
egosintonia, egosintonico
Einstein, Albert
elefanti
emisfero cerebrale sinistro
emisfero destro del cervello
encefalo
epidemiologia
epistemico
errori cognitivi, vedi anche Beck, Aaron; terapia cognitivo-comportamentale
(CBT)
errori di ragionamento, vedi errori cognitivi
esercizio fisico
esiti negativi
esperienza emozionale
esperimento concettuale
esploratore
esplosione emotiva
esterni (strumenti)
esterocezione
estinzione delle specie causata dall’uomo
estroversione
euristiche di giudizio
evoluzione
adattamento evolutivo
albero evolutivo
biologia evolutiva
istinti nati su base evolutiva
psicologia evoluzionistica
sviluppo evolutivo del cervello umano
evoluzione biologica
evoluzione culturale

Facebook, post su
false aspettative
fede
convinzione altruistica, vedi anche convinzione
forza agente celeste
feedback cognitivo negativo
felicità, ricerca della
fermezza e strategia
fight-or-flight, reazione
film, vedi anche biblioteca della mente
filmografia
guardare – di contenuto
Finding Flow (Csíkszentmihályi)
flessibilità mentale
fMRI, vedi risonanza magnetica funzionale (fMRI)
FoK, vedi sensazione di sapere (FoK)
fonemico, fenomeno di restauro –
forza, campo di –
Freud, Sigmund
Frost, Robert
fumo
vizio del –
funzioni motorie

GABA
gangli della base
Gardner, Howard (psicologo)
gazze ladre
Ginsberg, Allen
giornalista,
bravo –
fasi procedurali del –
– nella testa
– scientifico
il – (metarappresentazione della mente)
Il giovane Holden (Salinger)
giro dentato
giudizio del grado di apprendimento (JoL)
glucosio, effetti del – sull’autocontrollo
glutammato
Goethe, Johann Wolfgang
guardiano, il

The Happiness Hypothesis (Haidt)


Hebb, legge di
Herbert, Wray
Holmes Sr., Oliver Wendell
Homo erectus
The (Honest) Truth About Dishonesty (Ariely)
Humphrey, Nicholas

identità narrativa
identità soggettiva
illusione introspettiva
immagine di sé
immagini mentali
imperativo all’azione
inazione
inconscio
barriere dell’–
mente inconscia
pensieri inconsci
secondo Freud
Sistema, il
inculturazione sociale
indignazione
influenze esterne
ingegnere, l’
ingigantire e minimizzare
inibitori della ricaptazione della serotonina, vedi SSRI, farmaci
inibizione transmarginale
insula, vedi corteccia insulare
integrazione consapevole, ricerca dell’–
intenzionalità
definizione
di primo grado
di secondo grado
di terzo grado
di quarto grado
di quinto grado
di sesto grado
intenzioni dionisiache
Introduzione alla cibernetica (Wiener)
introspezione
ipereccitazione
ipermotivazione
ipofisi
ipotalamo
ipsundrum
isolamento sociale
istinto

James, William
Jaspers, Karl
JoL, vedi giudizio del grado di apprendimento (JoL)
«Journal of Epidemiology and Community Health»

karma
Katie, Byron
Kipling, Rudyard

Lao Tzu
Leonardo da Vinci
lettura del pensiero
libido
calo della –
limiti mentali
Lippmann, Walter
livello superiore di distacco
logica
lutto
maiali
manager, il
Managing Your Mind (Butler e Hope)
Marco Aurelio Antonino (filosofo stoico)
Massimini, Marcello
masticazione, arousal indotto dalla
Maximum Brainpower (Breznitz e Hemmingway)
Matin, Leondard
McCrae, Robert (teorico della personalità)
meditazione
meditazione consapevole
Meditazioni (Marco Aurelio Antonino)
melatonina
memoria
confabulazione
mentalizzazione
mente, vedi anche controllo del cervello attraverso i movimenti del corpo
combinazione mente-muscoli
dodici metarappresentazioni della –
monitorata dalla –
mutamento di mentalità
mesencefalo
metacognitivo
abilità/facoltà –
azione –
categorie –
ciclo –
consapevolezza –
controllo –
esperienza –
informazione –
monitoraggio –
processi –
pulpito –
spazio –
metacognizione
che cos’è la –?
cicli retroattivi e –
come strumento interiore più potente
definizione
di livello inferiore
di livello superiore
e coscienza
funzioni imprescindibili della –
potenza adattiva del cervello e –
metacognizione dichiarativa
metafora, potere della
metanfetamina
metarappresentazione
– cosciente
dodici metarappresentazioni della mente
microictus
microRNA
midollo
Mind Over Mind (Berdick e Berridge)
mindfulness
Mindhacker (Hale-Evans)
minimizzare i lati negativi
mindsight
modulo di controllo della funzione motoria
momento presente
morte
motivazione e ipermotivazione
MQ, vedi quoziente di metafora (MQ)
multitasking
Mumford, Lewis
museo

narrative esterne
narratore, il
National Epidemiologic Survey on Alcohol and Related Conditions (NESARC)
navigatore, il
necrologio, scrivere il proprio
neotenia
NESARC, v. National Epidemiologic Survey on Alcohol and Related Conditions
(NESARC)
network mentale
neurobiologia interpersonale
neurobiologico, approccio
neurochirurgia
neurofeedback
neurofisiologici, processi
neurogenesi
neuroni specchio
neuroplasticità, vedi anche plasticità cerebrale
neuroscienze sociali
neuroscienziati
neurotrasmettitori
neurotrasmettitori «inibitori»
nevroticità
new-age, libri di filosofia
Nietzsche, Friedrich
Nin, Anaïs
noesi
nuovo inconscio

omeostasi
santo graal dell’–
opportunità di fare network
Orazio (poeta latino)
Ortega y Gasset, José

paragoni errati
parasimpatico, sistema nervoso
passione
paura, vedi anche ansia
modulazione della –
pensieri di –
pausa cognitiva
pausa contemplativa
pausa semantica
Pavlov, Ivan
PCC, vedi Principio di Cambiamento Cerebrale
pensiero, vedi anche ragionamento
abilità cognitive superiori
bloccare il flusso dei pensieri
controllo consapevole del –
disciplina strategica del –
distorsioni cognitive
sei cappelli del –
maggiore efficienza dei processi cognitivi
moderne modalità di –
– negativo
rigidità di –
strategie cognitive
pensare il – (vedi anche metacognizione)
pensiero cosciente di livello superiore
pensiero critico
percezione
perdita, vedi anche lutto
performance sessuale
perseveranza
personalità
16 fattori di –
autonoetica
Big Five, categorie di –
cambiamento di –
repertorio di –
tratti cardinali della –
tratti centrali della –
tratti secondari della –
perturbatore
peso, aumento di
pilota automatico
Pincott, Jena
pineale, ghiandola
Pink, Daniel
plasticità, vedi anche neuroplasticità
plasticità cerebrale, vedi anche neuroplasticità
Poincaré, Jules Henri
posizione predestinata
postmodernismo
potere adattivo
pragmatismo della scienza
predire il futuro
presente, vivere nel
pressione sanguigna
primati (scimmie)
Principio di Cambiamento Cerebrale (PPC)
problem-solving, tecniche di
processi neurali
processi opposti, teoria dei
processo analisi-valutazione-azione
processo di valutazione cognitiva
processo mentale distruttivo
proencefalo
profezie che si autoavverano
propriocezione
prospettiva distaccata
prospettiva soggettiva
Prozac
psicologia comportamentale
«Psychological Science» (rivista)

quoziente di metafora (MQ)

ragionamento, vedi anche pensiero


– in termini di tutto o niente
– antitetico
distorsioni cognitive
– flessibile
ragionamento antitetico
ragionamento emozionale
Ramachandran, V.S. (neuroscienziato)
rappresentazioni mentali
reazione di stress eccessivo
regista, il
regola aurea del cambiamento di abitudini
reincarnazione
relazionali, strumenti
repertorio di esperienze
reporter
resilienza
responsabilità, assunzione di
reticolare, sistema di attivazione (SAR)
ricompensa, centro della
riconoscersi allo specchio
riforme sociali
rilevanza incentivante
Rilke, Rainer Maria
riproduzione
risonanza magnetica funzionale (fMRI)
risposte cognitive
risposte nocicettive
Roethke, Theodore
Rorty, Richard (filosofo)
ruminazione notturna sui problemi
rumore interiore
ruolo prestabilito nella vita
Russell, Bertrand

saggezza istintiva
salienza
SAR, vedi reticolare, sistema di attivazione
scambi neurochimici
scambi relazionali
scena sociale aziendale
schizofrenia, schizofrenici
science-help, vedi anche self-help
scientismo
scienza
cognitiva
comportamentale
comunicazione scientifica
comunità scientifica
divulgazione scientifica
e barbari
giornalisti scientifici
i cristiani e la –
parco giochi della –
posizione pragmatica della –
pragmatismo della –
riviste di –
ruolo esplicativo e edificante della –
scimpanzé
script
confessioni religiose
definizione
dei parigrado
del datore di lavoro
esterno
script esterni
selezione naturale
self-help, vedi anche science-help
come genere
filosofie
reparto di librerie
soluzioni ai problemi della vita
Seneca, Lucio Anneo
sensazione
sensazione di sapere (FoK)
sensazioni non verbali
sentimenti di insicurezza
sentimenti negativi
sentimenti repressi
sentizione
serotonina, vedi anche depressione
set-point theory of happiness. Vedi teoria del livello di adattamento
Siegel, Daniel (psicologo)
silenzio interiore
simulatore, il
simulazione incarnata
sinapsi
sinonimi
sistema limbico
situazioni di vita
Sistema, il
sistema immunitario della psiche
Sistema inconscio
sistema nervoso parasimpatico
Skloot, Rebecca
smartphone
social network
sofferenze psicologiche
software
La soluzione per la tua testa! (Hyman)
sonno
contro il surriscaldamento dei circuiti cerebrali
deprivazione del –
inibitori del –
soprannaturalismo
sopravvivenza, valore di –
sopravvivenza biologica
spazio mentale
speranza
Spinoza, Baruch
SSRI, farmaci
stato d’animo
stato di salute
stile naturale0
stimolazione mentale
stimoli culturali
storia personale
stress
ormoni dello –
Stroop, test di
Stumbling on Happiness (Gilbert)
successo, effetti sul prossimo del –
successo, personalità orientata al –
sucralosio
suicidio
supermacchina modulare

tecnico, il
tecnologie di feedback esterno
teoria del livello di adattamento
teoria della mente
terapia cognitivo-comportamentale (CBT)
Beck, Aaron
regole di problem-solving
terapia dialettico-comportamentale (DBT)
terapia paradossale
terapie cognitive
terapie comportamentali
Thibodeau, Paul
Thoreau, Henry David
«tip-of-tongue»
Tolstoj, Lev
ToM, vedi teoria della mente (ToM)
tranquillante
tratti cardinali
tratti centrali
tratti secondari
trauma rivissuto
TV, abitudine di guardare la

ultraindividualisti, messaggi

voce interiore, vedi anche istinto


istruita e non istruita
sostegno della – nei processi decisionali
volontà di affrontare le avversità

Watson, David (psicologo)


Wiener, Norbert
Whitehead, Alfred North
Wooden, John
Words Can Change Your Brain (Newberg e Waldman)

yoga, centro
Your Creative Brain (Carson)

Zimmer, Carl

zucchero e rafforzamento dell’autocontrollo


Indice

Prefazione

Prologo. Ripensar(si)

Come cambiare la propria vita


Parte prima. Conoscere
Introduzione
Il cervello che cambia – Il Grande mutamento di mentalità
è iniziato
Il «Grande mutamento di mentalità»
Voi che intenzione avete?
Ma prima di entrare nello specifico…

1. La metacognizione
Che cos’è la metacognizione?
Che cos’è un ciclo retroattivo?
La fase dell’evidenza
La fase della rilevanza
La fase della conseguenza
La fase dell’azione
Come il cervello «produce» la metacognizione: il ciclo metacognitivo
Il Sistema
Il teatro mentale
La metacognizione nel territorio della coscienza
La consapevolezza metacognitiva
Un giornalista nella testa
Agire rapidamente
Scegliere fonti attendibili
Porre le giuste domande
Andare dove conduce la storia
Non sorvolare sui fatti scomodi
Ricapitolando

2. La mentalizzazione
La teoria della mente (ToM)
Intenzionalità: quando la mente si rispecchia nelle altre menti
Il ruolo della voce interiore
Il puzzle si va componendo: la personalità autonoetica
Ricapitolando

3. L’adattamento pragmatico
L’adattamento pragmatico
Il «rebooting» del cervello adattivo
Eroi dell’adattamento: modifiche della personalità e benessere dell’individuo
Due tappe fondamentali sulla strada dell’adattamento: allostasi e omeostasi
Alle prese con gli errori cognitivi
Qualche esempio di errore cognitivo che altera i cicli di retroazione
Errori cognitivi e pensieri automatici
Due strumenti utili: l’attenzione e il problem-solving
Regole di problem-solving suggerite dalla CBT
Perché sembra che i problemi non vengano mai da soli
In cerca di un equilibrio
Il puzzle si va componendo: la personalità egosimmetrica
Ricapitolando

4. Il filo narrativo dell’io


Il filo narrativo come fulcro dell’identità del sé
L’interiorizzazione dei copioni narrativi
La salienza narrativa
Torniamo al feedback
Il puzzle si va componendo: l’autonarrazione cosciente
Ricapitolando

5. Il paesaggio della mente

Parte seconda. Fare


La scatola del pensiero
1. Ricorri alle pause cognitive
2. Ricorri alla regola aurea del cambiamento di abitudini per trasformare il
tuo comportamento
3. Di fronte a un obiettivo saggia qual è il tuo grado di convinzione
4. Mastica chewing gum
5. Scrivi il tuo necrologio
6. Sii motivato, ma non troppo
7. Sii consapevole dei meccanismi retroattivi che caratterizzano l’esperienza
emozionale
8. Sincronizza motivazioni consce e inconsce analizzando le forze che
inducono alla disonestà
9. Cerca l’integrazione consapevole
10. Osserva periodicamente una campagna del silenzio
11. Certe volte non fidarti delle euristiche di giudizio
12. Migliora l’autocontrollo con una scarica di glucosio
13. Impara a bloccare il flusso dei pensieri
14. Crea una sincronizzazione cerebrale estemporanea
15. Non fermarti, continua a fare qualcosa
16. Dormi per impedire che i tuoi circuiti cerebrali si surriscaldino
Fattori inibitori del sonno
17. Fatti valere
18. Dimostra la tua resilienza
19. Valuta le cause di fallimento
20. Tieni presente la tua soglia chimica, soprattutto quando di tratta di alcol
21. Studia le persone che amano il proprio lavoro
22. Potenzia il tuo quoziente di metafora (MQ)
23. Aumenta la tua dose di cultura
24. Prendi la buona abitudine di leggere libri stimolanti e guardare film «di
contenuto»
25. Rifletti bene sulle conseguenze che il tuo successo ha sul prossimo
26. Per migliorare la performance bisogna comprendere i meccanismi
dell’autoregolazione
27. Per avere una mente sana fai del sano movimento
28. Studia le menti dei pionieri delle scienze metacognitive
29. Esercitati a sperimentare una gravissima perdita
30. Le dodici metarappresentazioni della mente

Parte terza. Ampliare


La biblioteca della mente
La biblioteca delle grandi opere di saggistica
La biblioteca delle grandi letture di saggistica: l’elenco esteso
Romanzi e biografie
Filmografia
Filmografia estesa
Appendici
1. Che cos’è il science-help?
2. Perché abbiamo bisogno del pragmatismo della scienza
3. Sulle sfide della comunicazione scientifica
4. Omaggio all’antesignano del cambiamento cerebrale:
William James
Opere di William James
Volumi singoli
Saggi di particolare interesse
Epistolari

Postfazione
Ringraziamenti
Note
Prologo
Introduzione
1. La metacognizione
2. La mentalizzazione
3. L’adattamento pragmatico
4. Il filo narrativo dell’io
5. Il paesaggio della mente
La scatola del pensiero
Appendice 2
Appendice 3

Indice analitico
www.illibraio.it

Il sito di chi ama leggere

Ti è piaciuto questo libro?


Vuoi scoprire nuovi autori?

Vieni a trovarci su IlLibraio.it, dove potrai:


scoprire le novità editoriali e sfogliare le prime pagine in
anteprima
seguire i generi letterari che preferisci
accedere a contenuti gratuiti: racconti, articoli, interviste e
approfondimenti
leggere la trama dei libri, conoscere i dietro le quinte dei casi
editoriali, guardare i booktrailer
iscriverti alla nostra newsletter settimanale
unirti a migliaia di appassionati lettori sui nostri account
facebook, twitter, google+

« La vita di un libro non finisce con l’ultima pagina »

Potrebbero piacerti anche