D GIORNALE ITALIANO DI
IABETOLOGIA
Supplemento al Vol. 19 N. 2 - 1999 - Spedizione in abb. postale 45% - art. 2 comma 20/B - legge 662/96 - Filiale di Milano
L’educazione terapeutica
del paziente diabetico:
attualità e prospettive
IABETOLOGIA
L’educazione terapeutica
del paziente diabetico:
attualità e prospettive
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SOMMARIO
INTRODUZIONE 1
LETTURA MAGISTRALE
INTRODUZIONE
L’incontro di Villa Erba del novembre 1998 organizzato dalla «Roche Diagnostics» ha
avuto il merito di mettere a confronto e di integrare le conoscenze attuali in tema di
fisiopatologia e di terapia della malattia diabetica con le esperienze di autogestione
e di educazione terapeutica del paziente diabetico.
Gli obiettivi sempre più ambiziosi della terapia del diabete perseguiti da un corretto
stile di vita, da un moderno trattamento farmacologico orale o insulinico e in alcuni
casi da un trapianto di pancreas, non sono raggiungibili se non sono inseriti in un
percorso educativo che coinvolga strettamente il paziente diabetico e il diabetologo.
Il paziente, in altri termini, deve essere consapevole del significato degli obiettivi
terapeutici da raggiungere e deve essere motivato ad accettare un trattamento a
lungo termine, ad autogestire la propria cura e ad assumersi la responsabilità del
proprio stato di salute.
L’educazione terapeutica deve permettere al paziente diabetico di acquisire e
mantenere le capacità che gli consentano di realizzare una gestione ottimale della
propria vita seppur in presenza della malattia diabetica.
Le esperienze educative nel nostro Paese sono state fino a non molti anni fa
patrimonio di singoli diabetologi-educatori e di alcuni Servizi di Diabetologia che
hanno avuto il merito di costituire il «Gruppo di Studio per l’Educazione del
Paziente Diabetico» (GISED) che è divenuto la palestra e il punto di riferimento per
tutta la diabetologia italiana. Negli ultimi anni ci si è resi conto che l’impegno del
diabetologo sul piano educativo non può essere limitato a una ristretta «élite» ma è
indispensabile per giustificare e per rendere efficace il suo intervento terapeutico nei
confronti del paziente diabetico.
L’incontro di Villa Erba ha avuto come obiettivo primario la sensibilizzazione di tanti
giovani diabetologi nei confronti di questo fondamentale aspetto della terapia del
diabete che troppo spesso è ritenuta ancor oggi ovvia o è in gran parte trascurata per
mancanza di tempo o di mezzi a disposizione, ma anche per ignoranza e
impreparazione del medico-diabetologo.
Si è voluto riaffermare l’importanza dell’educazione come momento fondamentale
per la cura e l’autogestione del diabete prospettando le principali tecniche e strategie
pedagogiche, la necessità di avere a disposizione competenze professionali adeguate
e i costi/benefici di tale intervento educativo.
Si sono approfonditi alcuni temi specifici come l’alimentazione, l’ipoglicemia,
l’attività fisica, la gravidanza, la prevenzione del piede diabetico, le tecnologie
informatiche e la formazione degli operatori.
Infine, in una visione moderna e concreta dell’intervento educativo, si è sottolineata
la necessità di valutazione e di verifica del processo educativo, della metodologia
applicata, degli educatori e degli indicativi.
I testi degli interventi, rielaborati o tratti direttamente dall’esposizione degli oratori,
rappresentano la testimonianza della validità e dell’attualità dei temi trattati.
L’incontro di Villa Erba 1998 ha sicuramente contribuito, al di là delle iniziative
istituzionali programmate dalle Società Scientifiche, a diffondere e a promuovere il
linguaggio e l’esperienza educativa che deve rappresentare oggi e ancor più domani
un patrimonio culturale indispensabile per il diabetologo di fine millennio.
Antonio Tiengo
Cattedra di Malattie del Metabolismo - Dipartimento di Medicina Clinica e
Sperimentale - Università di Padova
1 ° C O N G R E S S O R O C H E P A T I E N T C A R E
D GIORNALE ITALIANO DI
IABETOLOGIA
Lettura
magistrale
Education in UKPDS
John Day
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 5
Introduction
For many years there has been uncertainty about the efficacy of treatment in Type 2
diabetes. The University Group Diabetes Program study provided some conflicting
results and in particular uncertainty as to whether indeed Sulphonylurea treatment
might not have adverse effects (1). Furthermore, the role of insulin treatment in Type
2 diabetes has remained uncertain councurrent with the examination of metabolic
abnormalities in «the metabolic syndrome». Questions have been raised about the
possibility that high plasma insulin concentrations might contribute to the very high
risk of macrovascular disease. Some invitro and animal work has suggested a possible
relationship between hyperinsulinaemia and atherogenesis. The UKPDS study was
set up in the late 70’s to determine the most effective treatment in non-insulin
dependent diabetes. The initial protocol was written to examine various aspects of
glucose contorl but subsequently a second protocol was included to include study of
the efficacy of blood pressure control. These studies were terminated in 1997 and the
results reported at the Autumn meeting of the EASD in 1998 (2-5).
FINDINGS
These reveal highly significant reductions in risk of any diabetes end point 24% p
0.0040, and diabetes related death 32% p=0.019, stroke 44% p=0.013, microvascular
disease 37% p=0.0092, heart failure 56% p=0.0043, retinopathy progression 34%
p=0.0038 and deterioration of vision 47% p=0.0036) in those in the intensively
treated group. There were no significant differences between the outcomes in the
ACE or Atenolol treated group.
Examination of blood pressure control in patiens allocated to different glucose
control regimen showed that similar levels were achieved in those treated with
conventional glucose control insulin and Glibenclamide but slightly higher levels
noted in the Chlorpropamide treated group.
Educational implications
Given that the UKPDS has clearly established the benefits of as tight blood sugar and
blood pressure control as possible there are very major implications for our
organisation of care and education for
those with diabetes. It is quite clear that
DIAGNOSIS many if not the majority of patients fail to
achieve the targets that are set for them.
Indeed in the DCCT study for insulin
THERAPY DECISION treated patients <10% achieve the targets
intended and this despite a most intensive
EDUCATION
regimen with enormous professional staff
NEW KNOWLEDGE support (6) Studies in education have, over
SKILLS the last decade or so, revealed that success
PERCEPTIONS in achieving medical targets is very
dependent on effective self-management
or patient empowerment. The behaviours
required of subjects to achieve the
MAINTENANCE
MAINTENANCE necessary targets are complex.They include
SELF MANAGEMENT
NEW
NEW LIFE
LIFE EVENTS
EVENTS
of course strict adherence to modified diet
EDUCATION and therapy presented regular self testing
COMPLICATIONS
COMPLICATIONS
PERCEPTIONS
ATTITUDES
adherence to the therapy prescribed and
attendance at follow up clinics for
supervision. Major behavioural modification
therefore is required.
Referring back to the UKPDS data it is notable that the greatest benefit was
Figure 2
Diabetes care achieved from the dietary advice in the run in period and this was an educational
cycle process. A care cycle can be described whether for insulin or non-insulin treated
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 9
patients summarised in figure 2, in which it can be seen that education or behavioural
change is required on a life-time basis. Many studies have been performed into the
psychosocial aspects of diabetes self-care and have revealed that these may be as, if
not more, important in erms of outcome than the therapies prescribed. Factors
contributing to effective self-management are summarised in Table 2.
BASIC INFORMATION
There can be no doubt that for the patients to adopt the prescribed regimens Table 2
effectively they must have basic information about the illness. Studies have revealed Factors responsible
however that gnerally it is not difficult for people to acquire this information, but for effective
there is considerable gap between those who know what to do and those who self-management
actually put it into practice. However,
unfortunately many people may have
inappropriate information about the Knowledge Feelings of personal control
illness based on the experience of others Self-management skills Emotional adjustment
or media communications and may have Perception of goals Effect of other people
developed myths that must be identified Benefits/barriers Lifestyle
and dispelled.
TARGETS TO BE SET
Although the UKPDS recommends a target HbA1c of 7% this must be regarded as
the ideal. Many investigations reveal that the targets may be perceived by the patient
as unobtainable, whether these are glycaemic or weight end points. There is little
purpose in advising patients of a target which they perceive as quite unobtainable.
The evidence form the UKPDS suggest that any reduction in HbA1c is an advantage.
The steps required to achieve this therefore need to be negotiated with the patient
and agreed. Frost et al have elegantly demonstrated the importance of setting
weight targets which are obtainable. Realistic and achievable goals are essential
therefore (7).
HEALTH BELIEFS
In the list of factors responsible for self-management itemised above the importance
of the perception of the patient about the benefits and barriers to treatment cannot
be overemphasised. In deciding to undertake behavioural change patients make
value judgements about the steps required to achieve such a change. Many might
acknowledge the «risk» of failure but not their personal risk. Denial is common in
perhaps up to 20% of subjects. It is necessary, therefore, to identify patients
perceptions in this regard. Secondly, it is important to determine whether patients
actually perceive their responsability for their own management. Subjects fall into
three groups, those who acknowledge that there is an internal responsibility, those
who feel that it is the responsibility of the medical team to «put things right» and
thirdly those who perceive outcome as a matter of chance. Fortunately, these
perceptions can be incluenced and evidene is now strong that if people can be
encouraged to adopt an internal so called «locus of control» that their satisfaction
with treatment is greatly improved. It should be emphasised that this not only
applies equally to self control of blood pressure as blood sugar control. Professional
carers may have a positive or negative influence on this. Adoption of paternalistic
prescriptive approaches are likely to inhibit rather than encourage.
EMOTIONAL ADJUSTMENT
The emotional adjustment of a patient may be critical in determining their ability to
adopt and maintain new behaviours which will depend on their coping abilities, and
levels of anxiety and depression. Unfortunately complete lack of concern about their
10 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
medical state is not compatible with successful outcome and some degree of anxiety
is essential. Excessive anxity, however, may induce critical inhibition.
SOCIAL ENVIRONMENT
For all those with diabetes the social environment in which they manage their illness
may be more important than the therapy prescribed. This is particularly so in dietary
management. Family members, friends, work colleagues, may have more important
influences on behaviours than the professional advisers. unless such barriers are clearly
identified both by patient and carer successful otucome is unlikely to be achieved.
EDUCATIONAL IMPLICATIONS
INTENTIONS
Educational review and intervention in a
lifelong process. The most common
professional contact is in the consulting
room. This opportunity must be used to
BEHAVIOUR identify those factors operative in any one
individual and attempt to change to
change those that are deleterious. Studies
of professional patient communication
reveal that these are largely based on the
Figure 3 acute model of care with a prescriptive approach from the professional with the
Model of factors locus of control held too closely by the medical team. This process is largely
determining change inhibitory on effective patient empowerment. The studies by Kaplan et al have
in behaviour. shown that when the patient themselves takes more control of the interview or
Adapted from Ajzen
I, Fishbein M educational interview not only their learning but also their outcomes are improved
(12). The process should ensure that the patients learning agenda/needs are
identified and met, that the learner is allowed choice in their learning methods,
strategy and material. Patients very often learn best from others with the same
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 11
illness, hence the value of group interactive processes. To achieve these ends the
professionals’ behaviour also has to change. This is dependent on the same
influences as of the patient, ie their attitudes and beliefs about the efficacy of the
treatment prescribed. Will all those involved in providing care for non-insulin
dependent diabetes agree the targets that are recommended by the UKPDS? If so,
will they be able to provide a system of care which can deliver this. To what extent
will be inhibited by pressures from other colleagues or their own feelings?
Conclusion
The UKPDS has clearly demonstrated that improved glycaemic and blood pressure
control can be effective in reducing the late complications. To achieve these ends,
however, there will not only need to be greater investment in professional time and
facilities but also much closer attention to the behavioural aspects of those with type
2 Diabetes, identifying factors which are facilitating or inhibiting successful change
and persuading patients through negotiation and counselling to attempt to achieve
them.
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1 ° C O N G R E S S O R O C H E P A T I E N T C A R E
D GIORNALE ITALIANO DI
IABETOLOGIA
Obiettivi
della terapia
del diabete
Attualità e prospettive
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1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 23
poter iniziare un trial di prevenzione primaria del diabete di tipo 1 anche in Italia
sulla scia di quanto in corso in Finlandia.
I soggetti senza suscettibilità genetica potranno venire a contatto con i fattori
ambientali, ma non svilupperanno la malattia; quelli invece con suscettibilità
genetica, potranno andare incontro a diversi destini: diventare diabetici oppure
continuare ad essere non diabetici nonostante il rischio genetico. In quest’ultimo
caso, le possibilità sono due, o che il soggetto non sia entrato a contatto con i fattori
ambientali oppure che, malgrado l’esposizione, abbiano operato meccanismi
protettivi. Infatti, nonostante la formazione di autoanticorpi anti-β−cellule, alcuni
soggetti rimangono per molti anni con una
Prevenzione primaria normale tolleranza al glucosio.
Intervento alla nascita in soggetti normali, controllando l’effetto di Avendo quindi a disposizione il marker
possibili fattori eziologici: genetico è possibile, attraverso lo
– virus diabetogeni (enterovirus) screening anticorpale, focalizzare meglio la
– limitazioni/cambiamenti nella dieta (rimozione del latte vaccino popolazione da seguire nel tempo.
nel primo anno di vita e controllo della quantità consumata) In Italia la prevalenza del diabete di tipo 1
è compresa tra lo 0,2 e lo 0,3%:
Prevenzione secondaria impiegando uno screening della po-
Intervento durante la fase pre-diabetica in soggetti con marcatori polazione generale per due anticorpi (anti-
positivi di malattia immunologici/metabolici (anticorpi anti-GAD e IA-2 e anti-GAD) il rischio di malattia è
anti-IA2) impiegando nicotinamide/insulina. del 40%. Con tre anticorpi, includendo
quelli anti-insulari (ICA), la positività nella
Prevenzione terziaria popolazione è dello 0,3%, una percentuale
Intervento alla diagnosi della malattia per proteggere la massa e la sovrapponibile a quella della prevalenza
funzione delle β-cellule residue. della malattia in Italia. La presenza di un
solo anticorpo non è predittiva di diabete
di tipo 1 in quanto è riscontrabile nel 7%
Tabella I della popolazione. Quindi, la combinazione dei marker genetico e immunologico
Prevenzione del
diabete di tipo 1:
(anticorpi anti-GAD e anti-IA-2) apre una nuova prospettiva all’inizio del millennio
definizione che è quella della predizione quindi della prevenzione primaria del diabete di tipo 1.
Una volta identificato un soggetto geneticamente a rischio di diabete di tipo 1 entro
il primo anno di vita, poiché portatore dell’aplotipo HLA di suscettibilità, devono
entrare in gioco uno o più fattori ambientali che mottono in moto il processo
autoimmune che porta alla distruzione delle β-cellule, ipotesi questa che sembra
assai verosimile nella patogenesi del diabete di tipo 1.
Quali sono i fattori ambientali? Diversi virus sono stati implicati come fattori
eziologici del diabete di tipo 1. Tra questi di particolare interesse risultano il virus
della parotite, il citomegalovirus e gli enterovirus. Per quanto riguarda questi ultimi
merita attenzione la famiglia dei Coxsackie B4 dato che è stata dimostrata
un’omologia di sequenza tra la proteina P2-C del Coxsackie virus e la decarbossilasi
dell’acido glutammico (GAD), noto antigene del diabete di tipo 1.
Numerose ricerche epidemiologiche suggeriscono che l’introduzione precoce delle
proteine contenute nel latte vaccino in un soggetto geneticamente suscettibile al
diabete di tipo 1 possa dare inizio al processo autoimmune che porta alla distruzione
delle β-cellule pancreatiche. L’ipotesi da cui si parte è molto semplice. Il neonato
viene esposto al latte vaccino molto precocemente, quest’ultimo ha caratteristiche in
grado di favorire l’induzione dell’autoimmunità. Dalle esperienze condotte in vitro
si sa che quando si vogliono far crescere cloni di cellule nei confronti di un antigene,
questi devono essere continuamente stimolati con lo stesso antigene.
Quindi, se si induce la risposta immunitaria precocemente durante la vita e si
continua a dare il latte nell’infanzia e nell’adolescenza è chiaro che si stimolano quei
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 25
cloni cellulari rivolti verso antigeni del latte vaccino e che cross-reagiscono con
antigeni presenti sulle β-cellule mantenendo la risposta immunitaria specifica.
Sono ben note le differenze del latte vaccino rispetto al latte umano. Mediante
elettroforesi su SDS, si può notare come fondamentale la β-caseina, la β-
lattoglobulina del latte vaccino (non presente nel latte umano) abbiano
caratteristiche profondamente differenti.
Ne consegue che se si induce una risposta immunitaria nei confronti della β-
lattoglobulina o della β-caseina, molti dei cloni linfocitari generatisi, possano cross-
reagire con antigeni espressi dalla β-cellula. Fra questi, basti pensare al trasportatore
del glucosio, il GLUT-3, che presenta un’omologia di 5 aminoacidi con la β-caseina
o alla proteina ABBOS (dell’albumina bovina) con omologia di sequenza con un
antigene espresso sulla β-cellula.
Il nostro gruppo pubblicò su Lancet nel 1996 che la β-caseina del latte vaccino viene
riconosciuta come antigene dai linfociti dei diabetici di tipo 1.
Più di recente è stato dimostrato come la risposta alla β-caseina è elevata anche nei
parenti di primo grado dei diabetici insulino-dipedenti. Ciò è estremamente Tabella II
Omologia
interessante, in quanto suggerisce che quando si ha la suscettibilità genetica a tale molecolare tra
malattia si risponde nei confronti di queste proteine in maniera abnorme, tanto è vero proteine virali e
che ciò non si verifica nei soggetti di controllo non suscettibili al diabete di tipo 1. autoantigeni
A questo punto vorrei sottolineare e discutere quali sono gli argomenti a favore e β-cellulari
contrari all’ipotesi «latte vaccino».
I primi, ben noti dai dati che emergono
dalla letteratura, dimostrano che c’è un Proteine virali Antigeni β-cellulari Evidenze
aumento del rischio di diabete tipo 1 nei Derivato dal Proteina di 38 KDa, Cross-reazione
soggetti che non sono stati allattati al seno citomegalovirus non caratterizzato immunologica
soprattutto quando il latte vaccino viene biochimicamente
introdotto entro i primi tre mesi di vita. Proteina del capside Proteina di 52 KDa, Cross-reazione
Altri dati importanti riguardano i livelli del virus della non caratterizzato immunologica
elevati di anticorpi e, soprattutto da un rosolia biochimicamente
punto di vista patogenetico, il fatto che Aminoacidi 32-47 Aminoacidi 254-270 Grado di identità 47%
alcune proteine del latte hanno omologia della proteina P2-C del GAD65 Grado di similitudine
di sequenza con alcuni antigeni presenti del Coxsackie B virus 71%
nelle β-cellule. Proteina p73 Insulina Cross-reazione
Per quanto riguarda gli argomenti contrari, retrovirale immunologica
alcuni studi epidemiologici non mostrano
che tale rischio sia aumentato; in termini
numerici su 46 studi condotti finora, 38 sono a favore e 8 contro.
La mia posizione è certamente in parte influenzata dal fatto che lavoro su
quest’argomento e che il latte vaccino sia uno dei fattori ambientali coinvolti nella
patogenesi della malattia. Quest’ultimo, può non essere il più importante o il più
antigenico, ma certamente è quello con cui più frequentemente si viene a contatto.
Tant’è vero che se valutiamo il consumo di latte vaccino in Italia e l’incidenza di
diabete di tipo 1 (dati publicati su Diabetes Care nel 1993) la regione dove si consuma
più latte è la Sardegna (consumo medio di 90 litri di latte/persona/anno) con la più
alta incidenza di malattia, mentre dove se ne consuma di meno è la Campania
(consumo medio 40 litri di latte persona/anno) con la più bassa incidenza di diabete
di tipo 1 sul territorio nazionale.
Cosa possiamo fare, sul piano pratico, per quanto riguarda la prevenzione primaria?
Un primo studio di prevenzione primaria? Un primo studio di prevenzione primaria
è iniziato in Finlandia lo scorso anno e si basa sulla rimozione di alcune proteine del
latte vaccino; ovviamente ci vorranno 10 anni per capire se l’incidenza di diabete di
tipo 1 sia ridotta grazie a questo tipo di intervento fatto alla nascita. I criteri per essere
26 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
introdotti nello studio sono quelli di avere un parente diabetico di tipo 1. Si tratta di
uno studio prospettivo randomizzato in doppio cieco, dove i neonati che non sono
allattati, vengono randomizzati a due diversi tipi di latte formula, un idrolisato di
proteine e un latte formula comune.
È bene chiarire questo concetto, due sono le forme di idrolisi che vengono eseguite
sul latte formula: un tipo che contiene proteine ad alto peso molecolare da 8 a 40 Kd
che rimangono antigeniche; un altro tipo contenente proteine al di sotto di 8 Kd che
ha un sapore estremamente spiacevole e rappresenta uno dei problemi pratici nel
somministrare questo tipo di alimento a neonati.
Già 5 anni fa quando ancora molti degli
studi riguardo all’antigenicità di alcune
1. Diversità strutturale con la β-caseina umana; proteine del latte non erano stati
2. La β-caseina bovina è probabilmente la frazione del latte vaccino presentati, l’American Academy of
che promuove il diabete di tipo 1 nel topo NOD, noto modello Pediatrics, suggeriva l’eliminazione di
animale di malattia; prodotti di latte commerciale e di prodotti
3. Una risposta immunitaria specifica, sia cellulare che umorale nei che contenevano latte vaccino durante il
confronti della β-caseina bovina è dimostrabile nel 50% dei primo anno di vita in famiglie con una forte
pazienti con diabete di tipo 1 al momento della diagnosi; storia di diabete di tipo 1. La posizione da
4. Una reattività T-cellulare nei confronti della β-caseina bovina è me presa concorda con quella della
riscontrabile nei parenti di primo grado di soggetti con diabete di Comunità Europea. Dopo un convegno a
tipo 1; Barcellona dello scorso settembre, è
5. Omologia di sequenza tra la β-caseina bovina e il trasportatore emerso che la formula ordinaria del latte
del glucosio (GLUT-2) non è raccomandabile per i neonati nati da
mamme con storia familiare per il diabete
di tipo 1.
Tabella III Ecco perché il tipo di alimentazione deve essere valutato seriamente in un soggetto a
β-caseina e rischio di malattia.
latte vaccino Il valore nutrizionale degli idrolisati confrontato con il latte formula, necessita
ovviamente di ulteriori studi: gli idrolisati infatti non hanno un alto potere
nutrizionale e inoltre il sapore non è gradevole. L’alternativa è quella del latte di soia,
ma questo pone dei problemi soprattutto se dato a bambini di sesso maschile a causa
dell’alto contenuto di fitoestrogeni. Per di più gli studi condotti hanno messo in
evidenza come una serie di fattori quali la maturazione dell’epitelio intestinale e
dell’intestino dipenda fondamentalmente dall’uso di proteine ad alto peso
molecolare che possono essere antigeniche.
Quindi bisognerà cercare di identificare un modo per eliminare alcune delle proteine
potenzialmente diabetogene.
In conclusione, quali sono le possibilità che abbiamo oggi per prevenire il diabete di
tipo 1? Il latte con caratteristiche non diabetologiche, o deprivato di alcune
componenti diabetogeniche certamente può essere una possibilità di grande
interesse.
Con questo non voglio dire che bisogna privarsi di un tale alimento, ma certamente
il dato emergente è che anche la quantità di latte consumata possa essere un fattore
promuovente laddove sia già stato innescato il meccanismo autoimmune.
Dunque, se identifichiamo il soggetto a rischio di diabete di tipo 1 attraverso il marker
genetico, è probabile in futuro riuscire a bloccare questo processo di malattia e credo
che la ricerca ormai estremamente avanzata sia in Europa che negli Stati Uniti miri a
questo e possa fornirci a breve termine delle risposte precise.
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 27
Introduzione
Il trapianto di tessuto pancreatico rappresenta una modalità ottimale di trattamento
del diabete mellito insulino-dipendente permettendo di ripristinare un sistema
autoregolato di secrezione insulinica in funzione delle concentrazioni ematiche di
glucosio.
I primi tentativi di sostituzione della secrezione endocrina pancreatica risalgono al
1892 ad opera di Minkowski (1) che innestò frammenti di tessuto pancreatico nel
sottocute di cani resi diabetici prevenendo la comparsa della glicosuria. Nell’uomo il
primo tentativo descritto è quello effettuato da Williams (2) che trapiantò tessuto
pancreatico ovino in un soggetto diabetico chetoacidosico. Questo primo approccio
risultò essere fallimentare ma rappresentò il primo passo che poi permise a Lillehei
(3), nel 1966, di eseguire il primo trapianto combinato di rene e pancreas in un
paziente diabetico-uremico in cui venne così ristabilita l’insulino-indipendenza.
Un’altra opzione terapeutica che nel corso degli ultimi anni è stata sperimentata è il
trapianto di insule del Langerhans; i risultati ottenuti sino ad ora sono incoraggianti
anche se non ancora paragonabili con quanto già accertato per il trapianto di
pancreas in toto (4).
Indicazioni
L’affinamento delle tecniche chirurgiche e dei protocolli immunosoppressivi ha
determinato un aumento progressivo, nel tempo, del numero di trapianti eseguiti e
attualmente si possono identificare tre diverse popolazioni di pazienti che possono
giovare di tale approccio terapeutico: pazienti diabetici uremici candidabili al
trapianto simultaneo di rene e pancreas, pazienti diabetici uremici già sottoposti al
solo trapianto di rene e pazienti diabetici, non uremici, che possono beneficiare del
solo trapianto di pancreas. Per quanto concerne quest’ultima popolazione di
pazienti è ancora oggi in discussione se i benefici ottenuti dall’esecuzione del
trapianto siano sufficienti a giustificare i rischi secondari all’intervento chirurgico e
alla terapia immunosoppressiva. La risposta a tale quesito è difficile, ma non
dobbiamo dimenticare che in alcune situazioni la «malattia diabetica» di per sé è già
una condizione che pone la persona «a rischio» come nel caso delle ipoglicemie
asintomatiche o in quelle condizioni di «non accettazione» della malattia dove il
rifiuto della terapia insulinica può essere considerato come una lenta forma di
suicidio.
I pazienti che attualmente vengono considerati idonei all’inserimento in lista di
trapianto sono soggetti affetti da diabete mellito insulino-dipendente di età
compresa tra i 18 e i 60 anni. L’idoneità a tale procedura terapeutica viene
confermata sulla base di accertamenti clinici e strumentali (bilancio pre-trapianto)
28 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
Tecniche chirurgiche
Il problema più importante dal punto di vista chirurgico per quanto concerne il
trapianto di pancreas è la diversione delle secrezioni esocrine. Tre sono le tecniche
attualmente più utilizzate: la diversione vescicale, la diversione enterica e
l’occlusione dei dotti.
Nel primo caso il pancreas viene prelevato unitamente a un patch duodenale
appartenente allo stesso donatore (6). Tramite tale patch è possibile eseguire una
anastomosi tra duodeno del donatore e vescica del ricevente permettendo
l’eliminazione dei succhi pancreatici in vescica. Tale tecnica presenta un vantaggio
che è quello di poter monitorare la funzione pancreatica, ed eventualmente porre
diagnosi di rigetto, mediante dosaggio delle amilasi urinarie. Le complicanze della
diversione vescicale sono quelle relative alla perdita dei bicarbonati pancreatici con
le urine e l’insorgenza di cistiti chimiche determinate dall’attivazione degli enzimi
pancreatici in vescica. La perdita dei bicarbonati in vescica viene tamponata
mediante l’avvio di una terapia supplementare di bicarbonato di sodio per via orale
allo scopo di prevenire l’insorgenza di un quadro di acidosi. Per quanto concerne le
cistiti chimiche, quando queste si ripetono nel tempo comportando macroematuria,
inducono a porre l’indicazione di modificazione chirurgica della diversione
passando dalla derivazione vescicale alla enterica.
La diversione enterica prevede il confezionamento di una anastomosi tra un’ansa
intestinale e un patch di duodeno prelevato insieme al pancreas (7). Tale tecnica è
spesso gravata da complicanze relative alla anastomosi enterica pur permettendo di
conseguire una condizione più simile a quella fisiologica di secrezione pancreatica
nel lume intestinale. Tra le complicanze citiamo episodi di subocclusione o di
occlusione intestinale e il sanguinamento dalla sede di anastomosi.
L’occlusione dei dotti, mediante l’iniezione intracanalicolare di polimeri sintetici
(neoprene, prolamina, poli-isoprene) (8) consente di ottenere una fibrosi della
componente esocrina pancreatica con preservazione delle isole del Langerhans. Tale
tecnica, oggi non più molto utilizzata, risulta essere metodologicamente più
semplice delle precedenti non prevedendo anastomosi vescicali o enteriche, ma è
penalizzata da un’alta incidenza di fistole pancreatiche. Inoltre la preparazione
dell’organo prevede l’eliminazione della testa del pancreas con la preservenzione del
solo corpo e coda con conseguente riduzione del numero di isole trapiantate.
Nel caso di trapianto simultaneo di rene e pancreas, il rene viene anastomizzato ai
vasi iliaci controlateralmente al pancreas.
Un discorso a parte merita il trapianto di isole del Langerhans che prevede una fase
iniziale, eseguita in laboratorio, di separazione della maggior parte delle isole dalla
componente esocrina del pancreas rispettandone l’integrità anatomica e funzionale.
Il metodo di separazione prevede l’uso di un enzima litico per il connettivo
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 29
perinsulare, la collagenasi, abbinato a una blanda dissociazione meccanica (9).
Una volta ottenuto un preparato di isole soddisfacente (per numero e
caratteristiche morfofunzionali), questi viene iniettato, dopo cateterizzazione di
un vaso di pertinenza del circolo portale, nel fegato. I vantaggi relativi a tale
tecnica sono quelli relativi a una bassissima incidenza di complicanze indotte
dalla manovra di cateterizzazione di vasi soprattutto se confrontata con
l’incidenza delle complicanze chirurgiche del trapianto di pancreas in toto. Un
aspetto peculiare del trapianto di insule è che, in alcuni casi, per ottenere un
preparato adeguato è necessario processare più pancreas provenienti da donatori
diversi. Il trapianto di insule del Langerhans viene attualmente effettuato nel
paziente diabetico uremico o contemporaneamente al trapianto di rene o
successivamente a quest’ultimo.
Immunosoppressione
Figura 1
Prima di prendere in considerazione i risultati ottenuti nei soggetti sottoposti a Sopravvivenza dei
trapianto di pancreas accenniamo brevemente alla terapia immunosoppressiva. pazienti diabetici
In letteratura sono citati protocolli immunosoppressivi diversi nei diversi Centri che uremici in attesa di
si occupano di trapianto anche se i farmaci cardine, per un lungo periodo di tempo, trapianto di rene e
pancreas o già
sono stati il siero antilinfocitario, gli steroidi, l’azatioprina e la ciclosporina. Da pochi sottoposti a trapianto
anni sono disponibili anche altri preparati, tra cui citiamo il micomofetilfenolato e il (KPW: trapianto di
tacrolimus, che permetterebbero di ridurre sensibilmente l’incidenza del rigetto a rene e pancreas in
fronte di minori effetti collaterali. toto; KPS: trapianto
Nel caso di trapianto di insule del Langerhans viene applicato lo stesso protocollo di rene e pancreas
segmentario con
immunosoppressivo del trapianto di pancreas in toto. ostruzione dei dotti;
Per quanto concerne la terapia immunosoppressiva rimangono insoluti due K: trapianto di solo
problemi fondamentali quali il rischio di infezioni, sia batteriche che virali (per rene; WL: lista
esempio il citomegalovirus) e il rischio di neoplasie. d’attesa)
Al momento del trapianto il paziente
viene avviato a terapia profilattica con Istituto San Raffaele - Università degli Studi di Milano
preparati quali il sulfametossazolo- Pazienti
trimetoprim (profilassi contro il P. carinii), %
la nistatina (profilassi contro la candida 100
orale) e il ganciclovir (profilassi contro il 90
citomegalovirus). Il paziente esegue poi,
80 74,6%
dopo il trapianto, accertamenti routinari
volti a diagnosticare e quindi trattare 70
precocemente eventuali infezioni (per 60 68,1%
esempio urinocolture, sierologia per 50
KPW (82) 63,5%
Epstein Barr virus o Herpes virus, 40
antigenemia del citomegalovirus). KPS (25)
30 K (34) 37,4%
Nei soggetti sottoposti a terapia 20 WL (334)
immunosoppressiva è globalmente
10
aumentato il rischio di sviluppare
neoplasia. London (10) riferisce un 0
Anni 1 2 3 4 5 6 7 8
aumento del rischio di sviluppare un
tumore del 14% rispetto alla popolazione
generale dopo 10 anni di trapianto. Tale percentuale giunge al 40% dopo 20 anni. Le
forme neoplastiche più frequenti in questi pazienti sono i linfomi e le sindromi
linfoproliferative, i carcinomi cutanei, il sarcoma di Kaposi, neoplasie epatobiliari e i
carcinomi vulvari.
30 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
Risultati
Dal 1985 sono stati eseguiti, presso l’Istituto scientifico san Raffaele 124, trapianti di
rene e pancreas e 3 trapianti di pancreas successivi a trapianto di rene. Sono stati
inoltre effettuati 31 trapianti di isole del Langerhans.
RISULTATI CLINICI
Se consideriamo la popolazione dei pazienti diabetici uremici, inseriti in lista
d’attesa di trapianto di rene o di rene e pancreas, osserviamo che coloro che
rimangono in dialisi, per difficoltà a reperire donatori compatibili o per ragioni
immunologiche, presentano una sopravvivenza inferiore rispetto a chi viene
trapiantato (fig. 1). La sopravvivenza è inoltre maggiore in chi riceve il doppio
trapianto rispetto a chi riceve il solo rene. Queste osservazioni hanno permesso di
affermare che oggi il trapianto simultaneo di rene e pancreas rappresenta una
procedura salvavita nel paziente diabetico-uremico (11).
Figura 2 La sopravvivenza dei reni è sostanzialmente simile sia in caso di trapianto
Peggioramento degli simultaneo di rene e pancreas che di trapianto di solo rene.
indici relativi alla La sopravvivenza dei pancreas con derivazione vescicale, che è la tecnica in cui
velocità di abbiamo maggior esperienza, è soddisfacente (80% a quattro anni e 68% a 7 anni)
conduzione nervosa
sensitiva e motoria e ciò ci permette di confermare di essere di fronte a una tecnica non solo efficace ma
(NCV Index) nei duratura nel tempo (11).
pazienti (24)
sottoposti a trapianto IMMUNOSOPPRESSIONE
simultaneo di rene e
pancreas dopo
Il nostro gruppo ha eseguito studi per valutare l’impatto della terapia
perdita della immunosoppressiva sui risultati clinici relativi al trapianto di rene o di rene e pancreas.
funzione del Il primo lavoro che citiamo è quello relativo all’incidenza delle neoplasie nei
pancreas trapiantato. riceventi di doppio trapianto di rene e pancreas che risulta essere sovrapponibile a
Vengono riportati
anche i valori relativi
quanto descritto in letteratura (neoplasie de novo 12%) (11).
all’emoglobina Un altro aspetto che abbiamo approfondito è quello relativo alla selezione di
glicata (HbA1c). componenti monoclonali che inizialmente si pensava rappresentasse una
condizione pre-neoplastica (mieloma,
Istituto San Raffaele-Università degli Studi di Milano linfoma). In realtà si osserva che tale
Trapianto di Pancreas selezione si determina, nella maggior
effetti sulle complicazioni a lungo termine parte dei casi, entro il primo anno
POLINEUROPATIA dall’intervento e che tende ad auto-
p=0,04 limitarsi nel tempo con una completa
4 remissione. Probabilmente tale fenomeno
è più da ascriversi a una «efficacia» della
3 terapia immunosoppressiva più che
NCV INDEX
NEFROPATIA
Gli studi a cui si fa riferimento, per quanto riguarda il ruolo del trapianto di pancreas
nel prevenire l’evoluzione della nefropatia diabetica, sono quelli della Dott.ssa Tabella I
Fioretto. Tali studi, eseguiti a Minneapolis nei riceventi diabetici di trapianto di Riduzione
pancreas isolato, hanno concluso che è necessario un lungo periodo di dell’incidenza
dell’ipertensione nei
«normoglicemia», 10 anni, prima di poter osservare una regressione delle lesioni pazienti diabetici
glomerulari secondarie al diabete (15). sottoposti a trapianto
di rene e pancreas o
IPERTENSIONE solo rene. Vengono
riportati anche i
Se confrontiamo pazienti diabetici trapiantati di solo rene con trapiantati di rene e valori relativi
pancreas, tutti ipertesi prima del trapianto, si osserva che a un anno dal trapianto all’emoglobina
l’85% di chi riceve il solo rene rimane iperteso contro il 44% di chi riceve il doppio glicata (HbA1c) e
trapianto (11) (tab. I). all’insulinemia (IRI)
dei due gruppi di
pazienti
RETINOPATIA
Il grado di avanzamento della retinopatia,
al momento del trapianto di rene e Istituto San Raffaele - Università degli Studi di Milano
pancreas, è tale che il conseguimento TRAPIANTO DI PANCREAS
dell’euglicemia non permette di migliorare Effetti sulle complicazioni a lungo termine
danni ormai irreversibili (16) (tab. II). IPERTENSIONE
Pre trapianto 1 anno
TRAPIANTO DI INSULE DEL LANGERHANS IRI 26,0 uU/ml
Mentre nel caso del trapianto di pancreas è Rene 100% 85%*
HbA1c 7,4%
possibile raggiungere l’insulino-indi-
pendenza immediatamente dopo l’in- IRI 15,5 uU/ml
tervento chirurgico, questo non è altret- Rene e pancreas 100% 49%
HbA1c 5,7%
tanto vero per il trapianto di insule. Una
volta iniettate nel fegato, le insule *p 0,007 vs KP
necessitano di un periodo di tempo in cui
si viene a ricreare una sorta di
microambiente ideale che favorisce la secrezione insulinica (per es. ricostituzione di
una adeguata microcircolazione e innervazione). Quando questi processi, non
ancora tutti completamente noti, sono avvenuti, il paziente presenta una graduale
riduzione del fabbisogno insulinico fino al raggiungimento, almeno in alcuni
pazienti, dell’insulino-dipendenza. Un caso che è stato seguito presso il nostro
Centro è stato quello di una donna diabetica, già portatrice di trapianto di rene, in
cui l’insulino-indipendenza è stata raggiunta dopo 6 mesi dal trapianto e mantenuta
per oltre 4 anni sino al decesso della paziente per infarto miocardico. Il riscontro
autoptico ha permesso di identificare la presenza delle insule del Langerhans a
livello epatico, libere da infiltrati linfomonocitari e con una normale distribuzione di
32 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
Tabella II
Andamento della
BIBLIOGRAFIA
retinopatia diabetica
nei pazienti diabetici 1. Von Mering J, Minkowsky O: Diabetes mellitus nach pancreas extirpation. Arch Exp
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1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 35
Introduzione
Lo scopo moderno della terapia insulinica nel diabete mellito di tipo 1 è sia quello
di prevenire la catastrofe metabolica della deficienza insulinica (chetoacidosi), che di
prevenire le complicanze micro- e macro-angiopatiche a lungo termine (1).
Il primo obiettivo è facile da raggiungere con un rimpiazzo dell’insulina che
prescinde dalle sue modalità di somministrazione (orario, numero di iniezioni al
giorno, ecc.). È ciò che avvenne all’indomani della commercializzazione dell’insulina
da parte del gruppo di Toronto nel 1922, quando un’iniezione di insulina regolare
una o due volte al dì, portò rapidamente a una notevole diminuzione della Figura 1
chetoacidosi. Questo approccio rimane ancora oggi usuale in endocrinologia per il Omeostasi glicemica
in soggetti normali
rimpiazzo di alcune deficienze ormonali, basti pensare alle attuali modalità di (dalla voce
sostituzione dell’ormone tiroideo e del cortisolo. bibliografica 2)
Il secondo obiettivo è più ambizioso, e
richiede la cultura della fisiologia B L D
dell’omeostasi glicemica, della far-
macocinetica delle varie preparazioni di 9.0 160
insulina (compresi i suoi analoghi) e,
soprattutto, tenacia nell’insegnare al 8.0 Plasma 140
paziente le modalità della terapia Glucose
mmol/l
mg/dl
intensiva con la speranza di suscitare in 7.0 120
lui o in lei l’interesse, la determinazione e
la perseveranza a mantenere la quasi- 6.0 100
normoglicemia a lungo termine.
5.0 80
N=8 non-diabetics Mean ±2 SD
480 80
Fisiologia dell’omeostasi 70
400
glicemica Plasma 60
320
Nei soggetti normali la glicemia delle 24 Insulin 50
pmol/l
mU/l
180
mg/dl
La sostituzione dell’insulina umana -30 0 60 120 180 240 300 360 420
regolare con il lispro ha migliorato la Minutes
glicemia a 1, 2 e 3 ore dal pasto, ma ci ha
38 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
mg/dl
“coda” di azione fra la 4a e la 6-7a ora
150
8.0 dall’iniezione, al rimpiazzo del fabbisogno
Lispro 140 di insulina basale. In altre parole, oggi
possiamo capire come l’insulina umana
7.0 130 regolare ad azione rapida, facesse in realtà
due lavori, prevalentemente quello
before after before after before after 03:00 h
BREAKFAST LUNCH SUPPER BED-TIME prandiale, ma in parte anche quello
interprandiale. Sostituendo l’insulina
umana ad azione rapida con il lispro per
Figura 4 un miglior controllo post-prandiale, come si può rimpiazzare il più grande bisogno
Controllo glicemico di insulina basale?
con la miscela La prima possibilità è l’uso del miniinfusore per l’infusione continua s.c. di insulina
lispro+NPH rispetto
a insulina umana
(CSII). Gli studi finora condotti hanno mostrato come il lispro usato con la CSII
regolare e NPH migliora non solo il controllo glicemico post-prandiale, ma anche quello a lungo
(dalla voce termine (HbA1c) (4).
bibliografica 6) La seconda possibilità, la più importante, visto che i pazienti in terapia con CSII sono
una ristretta minoranza, è quella di associare l’insulina NPH al lispro per creare una
“coda” di azione che rimpiazzi il fabbisogno di insulina basale oltre la 3a ora.
Intendiamoci: se in teoria un paziente facesse uno snack ogni 3 ore, allora potrebbe
iniettarsi il lispro a ogni pasto, cioè 5-6 volte al dì e avere un ottimo controllo post-
prandiale. Sul piano pratico, un paziente che abbia 3 pasti, deve associare NPH alla
prima colazione, a pranzo e a cena se quest’ultima precede l’iniezione notturna delle
ore 23-24 di più di 3 ore, altrimenti se la cena viene consumata oltre le ore 20 sarà
sufficiente il lispro da solo.
Ciò significa un uso dell’NPH 3-4 volte al dì. L’NPH non può essere tutta data in una
sola somministrazione perché la sua azione non è piatta, ma a picco, e quindi
sarebbe causa di ipoglicemia notturna e diurna.
Conclusioni
Viviamo un momento di novità di offerta di preparazioni insuliniche che tutte
insieme si affacciano alla ribalta dopo decenni di stasi in questo settore. È
prevedibile che arriveremo presto a trattare il diabete mellito di tipo 1 solo con
analoghi di insulina. Quindi è bene conoscerli e prepararsi culturalmente al loro uso
perché i pazienti ne traggano il massimo beneficio.
Ringraziamenti
Un grazie sincero alle comunità di Capo Sandalo, Becco, La Bobba, e Carloforte tutta, dell’Isola di San
Pietro nel maggio 1999.
BIBLIOGRAFIA
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1 ° C O N G R E S S O R O C H E P A T I E N T C A R E
D GIORNALE ITALIANO DI
IABETOLOGIA
Obiettivi
della terapia
del diabete
Attualità e prospettive
nel diabete tipo 2
Prevenzione primaria
M. Muggeo (Verona)
Nutrizione e prevenzione
del diabete
G. Riccardi (Napoli)
La terapia farmacologica
del diabete di tipo 2
S. Del Prato (Padova)
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 45
PREVENZIONE PRIMARIA
Michele Muggeo
Malattie del Metabolismo, Università di Verona, Ospedale Civile Maggiore
Innanzitutto, bisogna premettere che buon controllo metabolico non vuol dire
soltanto controllo glicemico, ma controllo di tutti i parametri metabolici che
abitualmente si misurano in questi pazienti. Quindi, anche se oggi dobbiamo
concentrare l’attenzione sul problema glicemia, non ci deve sfuggire che negli
obiettivi del controllo del diabete c’è sì il buon compenso glicemico, ma anche la
correzione del sovrappeso e dei vari fattori di rischio associati, quali la dislipidemia,
l’ipertensione e il tabagismo (anche se a questo riguardo mancano ancora le
evidenze di trial d’intervento), oltre all’identificazione precoce delle complicanze.
Sugli obiettivi da raggiungere nel controllo dei parametri metabolici credo non sia
necessario dilungarsi, perché quelli condivisi dalla Società Italiana di Diabetologia e
da tutte le società scientifiche e su cui si impronta la nostra pratica quotidiana di
diabetologi. Brevemente, ricordo come ottimali una glicemia a digiuno tra 100 e 140
mg/dL e una glicemia post-prandiale che non superi i 180 mg/dL, un’emoglobina
glicata tra 6 e 7%, una colesterolemia inferiore a 200 mg/dL, con una variabilità
d’obiettivo a seconda che il paziente abbia o no una patologia cardiovascolare già in
atto, trigliceridemia inferiore a 200 mg/dL, colesterolo HDL superiore a 35 mg/dL
nel maschio e a 40 mg/dL nella femmina.
Lo studio 4S, fatto in Scandinavia su oltre 4400 persone con pregresso infarto,
mostrava un significativo aumento della sopravvivenza con l’intervento
ipolipemizzante e in particolare ipocolesterolemizzante (1). Quello studio, che
raggruppava anche un modesto numero di pazienti diabetici, ha dimostrato
chiaramente che la riduzione del colesterolo sortiva degli effetti più vistosi nei
diabetici rispetto ai non diabetici, evidenziando un aspetto importante: quanto più
alto è il profilo di rischio di una persona, tanto maggiori sono i risultati che
dobbiamo aspettarci da un intervento di correzione dei fattori di rischio. E questa è
la premessa culturale per realizzare quell’intervento multifattoriale nel trattamento
del diabete mellito tipo 2, così come in altre patologie cronico-degenerative. Del
resto, oltre allo studio 4S, altri studi hanno documentato come nei pazienti diabetici,
sia in prevenzione primaria che secondaria, i risultati siano più vistosi di quelli che
si osservano nella popolazione non diabetica.
Venendo al tema più specifico di questa giornata, prima dell’UKPDS ci si
domandava fino a che punto la normalizzazione della glicemia fosse vantaggiosa nel
diabete. Per parecchi anni c’è stata una diatriba tra due diverse correnti di pensiero.
Da una parte, alcuni sostenevano che l’aumento della mortalità cardiovascolare nel
diabete tipo 2 fosse legato essenzialmente al fatto che in questi pazienti i classici
fattori di rischio, quali ipertensione, dislipidemia, sovrappeso, tabagismo, si
concentrano e si esprimono più intensamente e con effetti più deleteri. Al contrario,
l’altra corrente di pensiero sosteneva che l’iperglicemia aggiungesse qualcosa come
fattore di moltiplicazione agli altri fattori di rischio, sostenendo l’utilità di
programmi di intervento per abbassare a lungo termine la glicemia.
Oggi cercherò di affrontare questo problema, riportando risultati che dimostrano,
46 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
3
osservazionali avevano chiaramente detto
che la mortalità per tutte le cause e per
2 cause cardiovascolari era correlata al
> 150
1 grado di iperglicemia? Si può fare un
1
140-150
140
tentativo di interpretazione. Quando si fa
0
la correlazione tra end-points, in questo
)
Hg
>8 130-140
13 caso mortalità dopo 15 anni, e compenso
mm
7-8
glicemico, si utilizza il valore dell’e-
P(
HbA1c 6-7
SB
< 130
1
(%) <6 moglobina glicata media in un periodo di
15 anni. È possibile che questo solo dato
non sia sufficiente a esprimere
l’andamento del diabete in un periodo
Figura 1 abbastanza lungo e che un valore più basso di HbA1c media possa derivare da un
UKPDS succedersi di eventi ipoglicemici che in qualche modo inficiano, o perlomeno
Any diabetes-related
endpoints
diminuiscono il beneficio che si ha dall’abbassamento della glicemia, anche in
termini di mortalità. Per cui si introduce una variabile che non viene colta dal valore
medio dell’emoglobina glicata in un periodo di 15 anni, ma che è dietro, o almeno
non è misurabile con quel parametro.
Allora, io mi domando, come dobbiamo cogliere l’iperglicemia nella nostra pratica
clinica? E la valutazione della media delle glicemie è sufficiente per dire la gravità
della“disglicemia”di quel paziente diabetico? In quale misura l’iperglicemia influisce
sulla sopravvivenza dei pazienti diabetici? La media glicemica o la media di
emoglobina glicata in un periodo più o meno lungo può spiegare tutta la mortalità
correlata al diabete?
Provo a esemplificare il concetto attraverso un esempio. Supponiamo di avere un
paziente che nel corso di 3 anni ha una serie di glicemie. Volendo esprimere in un
numero questo andamento glicemico, la cosa più semplice da fare è la media.
Quindi si teorizza che questa persona durante un periodo di 3 anni sia sempre stata
esposta allo stesso livello glicemico medio. Un’altra cosa che si può fare, e questo
forse è più corretto, è la cosiddetta slope, vedere cioè la tendenza della glicemia nel
tempo (nell’UKPDS si è visto che tendono ad aumentare).
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 49
Un’altra cosa che potrebbe essere utile fare è quella di calcolare il coefficiente di Figura 2
variazione delle glicemie a digiuno nel tempo; quindi avere, oltre alla media, un Kaplan-Meyer
estimates of survival
parametro aggiuntivo che dice quanto labile è la situazione metabolica di quella probability in type 2
persona. diabetic patients
Ora provocatoriamente chiedo: tra un paziente che ha una media glicemica, negli from Verona,
ultimi 3 anni, di 200 mg/dL, con un coefficiente di variazione di 8%, e un paziente grouped in tertiles
che ha 160 mg/dL di valore medio con un coefficiente di variazione di 30%, in according to mean
fasting glucose
termini statistici, qual è messo meglio? Alla luce dell’UKPDS si dovrebbe dire che (panel A) and
quello che ha la media più bassa vive più a lungo. coefficient of
Andiamo a vedere cosa dicono i nostri dati di Verona. Ricordo che a Verona abbiamo variation of fasting
iniziato nell’86 uno studio che ha portato all’identificazione di 7488 pazienti plasma glucose
(panel B) during
diabetici, grazie all’utilizzo di tre fonti: collaborazione tra i medici di base, il Servizio three years (1.1.1984
di Diabetologia e il consumo dei farmaci (7). Dei pazienti individuati, circa il 50% through 31.12.1986)
afferiva al Servizio di Diabetologia ed è stato seguito nel tempo, con una valutazione preceding the
del compenso glicemico ogni 3-4 mesi. Abbiamo fatto un controllo dello stato di mortality follow-up.
sopravvivenza dopo 5 e 10 anni. Al 31.12.96 erano morti 2980 soggetti. Di ciascun The log-rank test
revealed significant
paziente, che avesse un numero adeguato di glicemie a digiuno nel periodo di differences in
tempo compreso tra l’84 e l’86, abbiamo ricavato la media e il coefficiente di survival among
variazione. I pazienti sono stati raggruppati in terzili di media e di coefficiente di tertiles of M-FPG
variazione delle glicemie a digiuno. La figura 2 mostra le curve di sopravvivenza di (p=0,005) and of CV-
Kaplan-Meyer; le persone che sono nel terzile di media glicemica più alta (pannello FPG (p<0,001)
A) morivano circa il 20% in più rispetto ai
pazienti che avevano una glicemia media
più bassa. E questo conferma che quanto Tertiles of mean fasting plasma glucose
1.0
più alta è la glicemia, tanto peggiore è la p=0.005
sopravvivenza. Ma, se queste stesse
persone le analizziamo sotto un altro 0.9
Survival probability
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1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 53
calorico e si esprime ciascun tipo di grassi come percentuale dei grassi totali, il
quadro, inizialmente confuso, inizia a chiarirsi e si può evidenziare che l’uso di grassi
monoinsaturi si associa a minore rischio di diabete rispetto all’uso di grassi saturi.
Occorre quindi tener conto della dieta nel suo complesso imparando a separare gli
effetti di alimenti che a prima vista sembrano simili perché contengono
prevalentemente grassi o prevalentemente carboidrati o proteine.
Ciò è vero anche per gli alimenti ricchi in carboidrati. Infatti diversi studi che hanno
messo in relazione la quantità di carboidrati nella dieta con il rischio di diabete
hanno avuto risultati contrastanti. Tuttavia, se si tiene conto del contenuto in fibre e
dell’indice glicemico, si vede che il rischio di diabete è direttamente proporzionale al
carico glicemico della dieta (quantità di carboidrati × indice glicemico di ciascun
alimento) ed è inversamente proporzionale al contenuto in fibre vegetali della dieta.
Quindi aumentando la quantità di carboidrati a elevato indice glicemico nella dieta
aumenta il rischio di diabete, mentre aumentando il consumo di alimenti ricchi sia
in carboidrati che in fibre vegetali il rischio di diabete si riduce. Pertanto gli individui
che hanno maggior rischio di diabete sono quelli con una dieta ricca in carboidrati e
povera in fibre, mentre quelli a minor rischio sono quelli che utilizzano una dieta
povera in carboidrati ad alto indice glicemico e ricca, invece, di alimenti che
contengono sì carboidrati, ma a basso indice glicemico e/o ricchi in fibre. Sono,
questi, studi di osservazione e quindi non conclusivi. Abbiamo bisogno di studi di
intervento per poter trarre conclusioni definitive; questa osservazione, tuttavia,
richiama l’attenzione su alimenti che sono già consigliati al paziente diabetico per i
loro benefici effetti metabolici (legumi, frutta e ortaggi) e sui quali si apre adesso una
nuova stagione di studi per valutare anche il loro impatto positivo sulla prevenzione
del diabete.
In attesa dei risultati di questi studi l’approccio più ragionevole alla prevenzione del
diabete è quello di consigliare un migliore equilibrio tra calorie ingerite e energia
consumata senza pretendere sacrifici eroici, ma limitandosi a suggerire semplici
misure per essere più attivi (basta anche 1/2 ora di esercizio fisico al dì) e per limitare
il consumo di alimenti ad alta densità energetica (grassi, bevande zuccherate, dolci).
Per quanto attiene alla composizione della dieta è molto verosimile che le abitudini
alimentari valide per una efficace prevenzione delle patologie cardiovascolari e dei
tumori possano essere utili anche per la prevenzione del diabete. Questo consente
un approccio preventivo unitario rivolto alle patologie più frequenti nel mondo
occidentale, in grado di ottimizzare il rapporto benefici/rischi e utile per
implementare da subito misure verosimilmente opportune anche per la prevenzione
del diabete, in attesa di risultati definitivi degli studi di intervento.
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1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 59
La terapia insulinica
Lo UKPDS ha confrontato non solo gli effetti del trattamento intensivo verso quello
convenzionale, ma ha anche ricercato eventuali vantaggi intrinseci alla terapia
insulinica verso quella con sulfoniluree. Il trattamento insulinico ha dei vantaggi
teorici in quanto, se opportunamente impiegato, dovrebbe essere in grado di
controllare anche gli squilibri glicemici più severi. Di certo, la terapia insulinica può
essere, prima o poi, essenziale in molti diabetici di tipo 2. Gli svantaggi sono
62 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
750
smentito un effetto aterogeno del trat-
* tamento cronico con insulina.
500 Lo studio inglese ha, comunque, adottato
un criterio restrittivo nel disegnare la
250
strategia terapeutica con insulina, con-
sistendo questa prevalentemente in una
iniezione serale di insulina-NPH. Questo
0 approccio ben rispondeva agli obiettivi
42
terapeutici predefiniti, cioè un valore
glicemico a digiuno £ 110 mg/dL. Dato
36
Incremental Plasma Insulin
0,15
l’assunzione di alimenti. L’effetto di un
analogo dell’insulina ad azione rapida
0,1 come l’insulina lispro rispetto all’insulina
umana pronta è stato oggetto di una
* recente esperienza del nostro gruppo di
0,05
ricerca (14). L’insulina lispro, rispetto
all’insulina pronta, si caratterizza per una
0 più rapida comparsa in circolo, un picco
più elevato e una emivita più breve,
proponendosi, quindi, come un possibile
Figura 2 mezzo per ripristinare il rapido incremento di insulinemia in corrispondenza dei
Aree incrementali di
glicemia (in alto)
pasti. Sono stati studiati pazienti con diabete di tipo 2 cui venivano somministrati
insulinemia (al 50 g di glucosio per os preceduti da equivalenti dosi (0,075 U/kg di massa magra
centro) e C-peptide corporea) di insulina lispro o pronta. La figura 2 riassume i risultati dello studio che
(in basso) in pazienti ha evidenziato come, a parità di quantità totale di insulina resa disponibile
diabetici di tipo 2 all’organismo, la ricostruzione di una comparsa rapida di insulina in circolo ottenuta
dopo assunzione di
50 g di glucosio per con l’insulina lispro comportasse una riduzione del 40% dell’area incrementale del
os preceduta dalla glucosio e, dato interessante, una riduzione dell’area incrementale del C-peptide, a
somministrazione suggerire un effetto risparmio sulla beta-cellula. Il ricorso a tecniche isotopiche ha
sottocutanea di inoltre permesso di definire come il meccanismo responsabile del miglioramento
0,075 U/kg di massa
corporea magra di della tolleranza glucidica fosse interamente dovuto a una più efficace inibizione
insulina umana della produzione endogena di glucosio. Un altro dato positivo era che, con il
pronta (colonne ripristino di una fase rapida di innalzamento dell’insulinemia, i livelli dell’ormone
vuote) o analogo nelle fasi tardive erano ridotti, a indicare la possibilità che la tolleranza glucidica può
lispro (colonne
piene) (ref. 14) essere migliorata senza incorrere nella iperinsulinemia.
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 63
Livelli elevati di insulina persistenti nelle fasi post-prandiali contribuiscono tra
l’altro a elevare il rischio di ipoglicemia e di aumento del peso corporeo. E in effetti,
nello UKPDS, il ricorso a sulfoniluree e preparazioni di insulina a lunga durata
hanno comportato un significativo aumento del peso corporeo.
Terapie associate
Le analisi dello UKPDS sono tutte “intention to treat”. In altre parole, la valutazione
comparativa avveniva in funzione della randomizzazione iniziale indipen-
dentemente dal fatto che il singolo paziente venisse mantenuto per l’intero periodo
di osservazione con il farmaco iniziale. Uno dei risultati chiave dello studio inglese è
proprio quello di avere dimostrato come, nell’evolvere della patologia, sempre
maggiore è il numero di soggetti che richiede un trattamento combinato con due e
più farmaci. Il trattamento combinato è, di fatto, una realtà e le linee guida di vari
organismi internazionali hanno tentato di razionalizzarne l’indicazione. Lo UKPDS
ha, peraltro, riportato un risultato che ha suscitato iniziale preoccupazione dato che
l’associazione di metformina e sulfonilurea avrebbe comportato un più elevato
grado di eventi cardiovascolari. Un’analisi più accurata dei dati sembra però indicare
64 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
che questo risultato sia imputabile non tanto a un reale incremento degli eventi nel
gruppo di pazienti in trattamento combinato, quanto in un anomalo numero
limitato di accidenti cardiovascolari nel gruppo di controllo in monoterapia.
In modo più realistico i risultati dello UKPDS indicano che il trattamento combinato
è una tappa quasi obbligata nella storia naturale del diabete di tipo 2. L’importante
è che questo intervento non venga dilazionato, ma piuttosto venga avviato non
appena i limiti di guardia relativi al controllo glicemico vengano superati. Le varie
associazioni possono essere impiegate in modo successivo o alternato e comunque
in modo tale da garantirsi quanto più possibili mezzi per ricondurre entro i limiti di
sicurezza (HbA1c ≤7,0) il controllo glicemico non appena esso tenda a deteriorarsi.
È utile ricordare come lo UKPDS abbia, in quest’ottica, esplorato anche l’efficacia
dell’associazioe alla terapia di base dell’acarbosio, dimostrando la possibilità di
ottenere una riduzione media della HbA1c di 0,5 punti percentuali (18).
Il concetto di trattamento combinato dovrebbe però essere allargato a includere
quello di trattamento complesso o multiplo. Ancora una volta lo UKPDS ha fornito
dati di estrema solidità a sostegno della importanza del trattamento di patologie
frequentemente associate al diabete mellito di tipo 2 (19). La randomizzazione dei
pazienti UKPDS a un trattamento aggressivo (PAO 144/82 mmHg) rispetto a uno
meno aggressivo (PAO 154/87 mmHg) comporti una significativa riduzione del
rischio di micro- e macroagiopatia. Lo studio 4S (20) ha egualmente dimostrato la
potenza, in termini di riduzione della mortalità cardiovascolare, del trattamento con
statine nel paziente diabetico. Nel loro insieme, questi studi indicano come associata
alla terapia ipoglicemizzante debba essere prontamente instaurata una terapia
antipertensiva e ipolipidemizzante.
Conclusioni
La terapia ipoglicemizzante del diabete di tipo 2 continua a sfruttare principi
identificati ormai da oltre mezzo secolo. Nuove conoscenze fisiopatologiche
dovrebbero guidare una terapia moderna, terapia che dovrebbe risultare più
aggressiva con l’introduzione di nuovi farmaci concepiti per correggere in modo più
specifico i meccanismi patogenetici responsabili del disturbo metabolico. In
particolare, la terapia del diabete di tipo 2 potrà correggere il difetto secretorio
dinamico della beta-cellula (ripristino della fase rapida di secrezione), migliorare
ulteriormente la sensibilità all’insulina, ridurre il peso corporeo. Gli sforzi terapeutici
dovranno essere indirizzati verso obiettivi ben definiti (HbA1c ≤7,0) ma con
particolare riguardo al controllo della glicemia in ogni fase della giornata
provvedendo a ridurne quanto più possibile le oscillazioni nel corso della giornata e
tra giorno e giorno. Nell’ottica del mantenimento di un controllo glicemico ottimale
e costante, l’instaurazione di varie forme di terapia associata dovrà essere presa in
considerazione ogni qualvolta i livelli soglia vengano superati, così come
prontamente dovrebbe essere instaurata una terapia insulinica razionale. Ma se
aggressivo dovrà essere l’atteggiamento nei confronti del metabolismo glucidico,
altrettanto pronto ed efficace dovrà essere il trattamento delle patologie associate: in
particolare, ipertensione e dislipidemia.
Ma prima ancora di mettere in atto tutti presidi di cui sopra, fondamentale sarà, nel
futuro, il pronto riconoscimento del disturbo metabolico così da permetterne una
precoce correzione. La lezione viene ancora dallo UKPDS. Al momento
dell’arruolamento, dei pazienti con nuova diagnosi di diabete mellito oltre il 25% già
presentava i segni di una o più complicanze d’organo. Il compito del diabetologo
sarà quindi di diagnosticare precocemente, trattare efficacemente, correggere non la
sola iperglicemia ma l’intera malattia metabolica, che il diabete di tipo 2 è malattia
metabolica più che endocrinologica.
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 65
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1 ° C O N G R E S S O R O C H E P A T I E N T C A R E
D GIORNALE ITALIANO DI
IABETOLOGIA
Autogestione
del diabete
• molto spesso, nel tempo, i sanitari dicono allo stesso paziente le stesse cose,
magari in modo diverso, ma comunque sempre con gli stessi contenuti
• gli interventi terapeutici sono abbastanza limitati
• i sanitari si sentono soli nel proprio lavoro e non sempre riescono a fare quello che
vorrebbero fare.
Cosa comporta questa situazione? Cosa comporta la malattia cronica? Comporta
che, per il paziente, è estremamente difficile mettere in atto la terapia prescritta.
I dati della letteratura indicano che, dopo tre anni dall’inizio della malattia, solo il
34% dei pazienti riesce a seguire correttamente la terapia; solo il 33% dei genitori
riesce a fare correttamente nel tempo la terapia per il reumatismo articolare acuto. I
genitori sono sicuramente motivati, eppure l’aderenza alla terapia prescritta scende.
Quindi ci sono grosse difficoltà tra ciò che viene prescritto dai medici e quello che il
paziente riesce a mettere in atto.
A questo punto è chiaro che qualsiasi tipo di intervento, anche bene organizzato, il
farmaco più sofisticato e costoso, in realtà servono molto poco se il paziente non
riesce poi a gestirsi la malattia.
Gli obiettivi della cura del diabete sono: ottimizzare il controllo metabolico,
prevenire le complicanze, evitare l’ospedalizzazione, mantenere un buon rapporto
medico-paziente, migliorare la qualità della vita.
Sono sicuramente obiettivi condivisi da tutti e misurabili attraverso: l’emoglobina
glicata, la glicemia, la colesterolemia, i trigliceridi, il peso corporeo, la pressione
arteriosa, l’astensione dal fumo.
Nella maggior parte di questi risultati biologici, deve intervenire per forza il paziente:
infatti si possono raggiungere, ma soprattutto mantenere nell’arco degli anni,
soltanto se il paziente viene coinvolto nella autogestione consapevole della malattia.
Il paziente di fronte a questi obiettivi clinici si sente spesso confuso: oculista, medici
di famiglia, diabetologo, dietista, nefrologo, psicologo, dentro e fuori dall’ospedale
danno una serie di informazioni, di suggerimenti, tecnici o di tipo comportamentale,
che spesso creano confusione. Il paziente quindi si trova in difficoltà: “Cosa devo
fare, ma quanto tempo devo perdere, ho problemi di lavoro, ho problemi di scuola,
ma che cosa mi dicono, non capisco cosa mi stanno dicendo”.
struttura è colpa del paziente: non ha la volontà, questo qui viene, mi dice di sì, ma
in realtà non vuol fare quello che gli chiedo di fare. Non è motivato, non si rende
conto che corre il rischio di andare incontro a infarto, ictus e così via; glielo dico
anche e glielo spiego ma questo qui è come se non sentisse niente, non è proprio
motivato, è come se se ne fregasse del tutto. Poi ragiona con lo stomaco. Dalle nostre
parti si dice che “davanti al cuore c’è lo stomaco”e quindi pur di mangiare è disposto
a tutto. Non capisce assolutamente niente, gli parlo, gli spiego, sto lì delle ore, lo
mando anche dalla dietista, lo mando dall’infermiere, lo rivedo io, ma questo qui
non capisce proprio niente.”.
Spesso il paziente diabetico obeso viene messo a dieta con semplici e generici
consigli: mangi di meno, si muova di più e poi “prenda questa dieta, sa leggere, la
segua, provi a pesarsi e vedrà che poi se sta attento davvero perde peso”.
Ma nel momento in cui noi prescriviamo un regime dietetico in questo modo, ci
rendiamo quasi istantaneamente conto che il tempo che abbiamo impiegato col
paziente è tempo perso perché sappiamo quasi per certo che il nostro paziente non
perderà peso o, comunque, se lo perde, lo recupererà rapidamente.
Allora qual è la soluzione per trasferire la nostra prescrizione in comportamenti
corretti del paziente?
Noi agiamo a livello di un approccio biomedico, il medico è formato da conoscenze
biomediche di fisiologia, fisiopatologia, farmacologia e in base a segni e sintomi che
va a rilevare, e in base ai disturbi che il paziente lamenta si pone diagnosi e
trattamento. Quindi in questo modo il medico cura la malattia: è il tipico approccio
che va bene per l’acuto. Il paziente cronico non riesce così a mettere in atto la
prescrizione che noi abbiamo consigliato. Questo perché, accanto ai disturbi
oggettivi che noi possiamo rilevare, esistono una serie di disturbi soggettivi: i
preconcetti, le esperienze che ha avuto il paziente, le attese, le ansie e i timori, che
vanno sicuramente a interferire in modo importante sui comportamenti del nostro
diabetico obeso, e più in generale del paziente cronico.
Occorre quindi aggiungere alla professionalità biomedica una professionalità di tipo
biopsicosociale: non rinunciare a “fare”il medico ma acquisire delle nuove capacità.
Ci troviamo ancora a trattare la malattia e quindi fare un intervento di fondo,
inefficace, un intervento che non permette di curare la patologia, patologia che
evolve comunque pian piano nel tempo, quindi dando un danno al paziente ma
anche determinando uno sperpero o comunque un impiego non corretto delle
risorse disponibili.
L’arma vincente della cura della malattia diabetica diventa così l’educazione
terapeutica: che permette di ottenere una gestione corretta del paziente, non della
malattia, e permette soprattutto di raggiungere quei risultati clinici, che in sintesi
vogliono dire mantenere nel tempo una buona qualità della vita, in assenza di
complicanze croniche della malattia. Quindi, che l’educazione può essere
considerata come una successione di momenti che il paziente può percepire come
una catena di eventi in cui viene informato ad apprendere, si addestra, e poi mette
in pratica quello che ha appreso nella sua vita quotidiana. E una serie di occasioni
anche per esplicitare i timori, le ansie, le paure, e anche gli errori, senza comunque
la paura che i suoi insuccessi o le sue difficoltà possano in qualche modo incrinare il
rapporto con chi lo cura.
E quindi possiamo considerare l’educazione come lo strumento che davvero può
permettere di ottenere una prescrizione efficace: è lo strumento che permette di
abbattere le barriere, che impediscono al paziente di arrivare a un’autogestione
cosciente della malattia.
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 73
La motivazione
La motivazione è la risultante di forze intrinseche ed estrinseche che determinano i
comportamenti.
Le forze intrinseche, legate al paziente, sono caratterizzate dalle modalità interne
più intime, di reazione agli stimoli, agli eventi.
Le forze estrinseche sono le risorse esterne all’individuo che in qualche modo
possono incidere sulle sue scelte e che permettono il cambiamento, l’evoluzione.
Nella relazione medico-paziente sono legate ai comportamenti e agli atteggiamenti
del medico e quindi più semplicemente modificabili.
LA MOTIVAZIONE INTRINSECA
Tre sono le principali teorie che ne identificano le regole:
• le fasi di accettazione della malattia
• le rappresentazioni dei modelli di salute e di malattia
• Il locus of control
Ogni volta che una persona incontra un evento negativo va incontro a un lungo
74 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
processo emotivo che riconosce diverse fasi di accettazione della malattia così
standardizzate:
• Lo shock iniziale è il momento dell’evento, della diagnosi. La paura e l’angoscia
sono i sentimenti dominanti.
• Il rifiuto è il momento dell’incredulità, il distacco e la banalizzazione sono le sole
possibilità di fuga.
• La rivolta è il momento della ricerca del colpevole, il paziente comincia a prendere
coscienza della triste realtà.
• La negoziazione è caratterizzata dalla contrattazione, in genere sul trattamento.
• La depressione è il momento della meditazione. Il paziente si rende conto e prende
coscienza che nulla sarà più come prima e che deve assestarsi su di un nuovo
livello di salute e un nuovo concetto di integrità fisica e di benessere. Questa è una
fase molto delicata che presuppone ogni volta una seria diagnosi differenziale con
un’iniziale depressione psichiatrica concomitante. Il paziente appare triste, isolato,
ripiegato su se stesso, ma comunque attento e più partecipe alle strategie
terapeutiche che gli vengono proposte.
• L’accettazione attiva è il momento dell’equilibrio, dell’azione e della
consapevolezza. Il paziente è pronto ad assumersi e a condividere la responsabilità
della terapia e della sua salute.
Imparare a riconoscere e a gestire queste fasi ci permetterà di essere più incisivi con
i nostri interventi e anche a facilitare e accelerare il percorso del malato.
A volte, però, alcuni pazienti che sembrano collaboranti e motivati sono invece
incappati in quelle forme di pseudo-accettazione di malattia che dobbiamo imparare
a evitare:
• La rassegnazione, il paziente appare totalmente dipendente dal medico e dal suo
giudizio senza opporre la minima discussione. Il medico è convinto di avere la sua
approvazione senza rendersi conto che il paziente è in realtà incapace di
qualunque azione e/o decisione in relazione alla sua salute.
• La negoziazione volontaria, il paziente viene preso da una sorta di delirio di
onnipotenza, è quello che tutto ha capito, che ha soluzioni pronte per ogni tipo di
problema, che ha bisogno non di cure, ma di “consulenze”, che si è costruito un
mondo di tali certezze da non accorgersi di andare avanti senza obiettivi e senza
mete cliniche.
• Il modello ansioso, il paziente accetta qualunque richiesta, non sembra turbato
dall’affrontare qualunque tipo di rinuncia o di cambiamento; in realtà vive uno
stato di profonda sofferenza psichica e l’obiettivo prioritario della sua vita diventa
il riuscire a sedare la propria ansia e la propria paura.
Questo cammino che il paziente deve percorrere per arrivare a una corretta
motivazione riconosce alcune leve o barriere nelle rappresentazioni dei modelli di
salute e malattia. Queste sono le convinzioni legate alle esperienze che precedono un
organico processo di apprendimento che, quando identificate, permettono una
comunicazione più efficace attraverso un linguaggio comune. Identificare
rapidamente questa sfera intima di convincimenti può facilitare il medico a inserirsi
nel cammino di maturazione psicologica che permetterà al malato di integrare la
malattia sino ad accettarla.
Infine, sempre nell’ambito della motivazione intrinseca, dobbiamo tenere conto
della teoria del “locus of control”.
Secondo tale ipotesi ognuno di noi manifesta nei confronti delle difficoltà della vita
degli atteggiamenti e delle reazioni sempre simili e riconducibili a due tipologie
standardizzate:
• Locus of control interno
• Locus of control esterno
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 75
Il primo tipo ha la tendenza a credere che non è mai in prima persona responsabile
degli eventi, di qualunque natura siano, non è mai il “controllore“ della propria vita,
ma al contrario, contro il “fato“ è vano accanirsi.
Il secondo tipo è invece colui che tutto controlla, tutto può modificare, che è artefice
e primo attore del proprio destino.
Queste due diverse capacità di reazione sono la risultante delle nostre esperienze,
delle nostre peculiarità del carattere e diventano modalità espressive della nostra
parte più interiore della personalità e pertanto difficilmente modificabili.
In ogni caso una rapida identificazione del tipo del locus of control dei nostri
pazienti ci permette di sintonizzarci più velocemente, ma anche di formulare
richieste che risultino accettabili e percorribili.
Chiedere ad esempio a un paziente con un locus interno di assumersi
completamente e fin dall’inizio l’assoluta responsabilità del controllo della propria
malattia può risultare altrettanto dannoso che proporre a un paziente con un locus
esterno di affidarsi completamente al giudizio di un medico o alla potenza di un
farmaco.
LA MOTIVAZIONE ESTRINSECA
I fattori che caratterizzano la motivazione estrinseca hanno la peculiarità di essere
modificabili, quindi più facilmente utilizzabili, e sono rappresentati principalmente
da:
• La relazione medico/paziente
• La capacità di integrazione delle richieste del medico nel progetto di vita del
paziente
La relazione del medico con il paziente, quando correttamente gestita, diventa un
atto terapeutico ed è importante averne la consapevolezza e anche conoscere le
regole che ne permettono il salto di qualità:
• L’empatia, cioè basare l’incontro sull’accettazione dell’altro, l’assenza di giudizio,
l’assenza della ricerca del colpevole.
• Il patteggiamento tra i bisogni della malattia e del paziente.
• La gestione positiva dell’errore che vuol dire identificare le possibili situazioni a
rischio, lavorare sul sentimento di frustrazione che si genera dopo uno sbaglio,
proporre soluzioni alternative, identificare obiettivi semplici e accessibili, operare
per la risoluzione dei problemi.
La capacità di integrazione delle richieste del medico nel progetto di vita del paziente cioè
imparare a proporre a ogni paziente un contratto terapeutico, un patto di alleanza
che implichi l’identificazione di obiettivi realizzabili da negoziare con il paziente e
tali da garantirgli un benessere fisico e un’accettabile qualità di vita. Accettare una
malattia significa riorganizzare la propria vita tenendo conto di un handicap
personale: questo processo è doloroso e richiede tempo. Impegnarsi a cercare una
strategia di terapia che preveda diverse tappe di intervento garantisce al paziente la
possibilità di adattarsi e al medico di personalizzare le sue richieste.
Conclusioni
Come abbiamo analizzato e dimostrato, riuscire a motivare il paziente deve
diventare momento fondamentale nella gestione di una patologia cronica, infatti il
medico può davvero controllare la malattia attraverso il paziente, ma solo con la sua
complicità. Purtroppo, però, riuscire a ottenere un paziente motivato è solo l’inizio
di un lungo cammino che lo porterà a fare propria una strategia di cura.
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 77
Per raggiungere questo risultato il paziente dovrà andare incontro a un
apprendimento attivo della propria malattia e quindi dovrà :
• Conoscere
• Imparare a fare
• Modificarsi
Per ottenere tutto ciò il suo medico dovrà imparare a :
• Spiegare
• Ascoltare
• Riformulare
• Verificare l’apprendimento
• Formare
Queste sono le tappe che caratterizzano la pedagogia clinica che questa nuova era
della medicina ci richiede di apprendere e che, forse, ci permetteranno di rispondere
alla domanda:
BIBLIOGRAFIA
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1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 79
BIBLIOGRAFIA
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for health care providers in the field of chronic diseases. WHO-Europe, Copenhagen,
1998
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 83
LE COMPETENZE PROFESSIONALI
NEL PROCESSO EDUCATIVO
Valerio Miselli
Servizio di Diabetologia, Ospedale “C. Magati” di Scandiano, Reggio Emilia
Non c’era nessun problema quando Etzwiler, con grande maestria, descriveva il
problema della multiprofessionalità e della formazione, non c’era nessun problema
negli anni ‘70. Negli anni ‘70 il sistema sanitario era un paziente che si consegnava
passivamente al medico curante: poteva decidere di non curarsi, poteva decidere di
cambiare medico, ma più o meno, anche in Italia fino agli anni ‘70 questa era la
terapia perché si basava soltanto sul modello della malattia acuta.
Poi sono arrivati i gruppi di studio europei - ed è già stata citata l’importanza della
DESG, che ci ha fatto percorrere questa lunga strada - qualcheduno la chiama la
strada piena di rocce e tranelli - siamo partiti da un’educazione che si basava
sull’arte della conoscenza e, via via, siamo arrivati da insegnanti interattivi a tutori.
Io non sono sicuro che in Italia noi abbiamo fatto tutto questo percorso.
La terapia intensiva del diabete richiede la presenza di un team multiprofessionale.
È molto più complicato perché le figure da integrare non sono solo
professionalmente diverse, ma sono anche in ambiti diversi, diversa è la collocazione
fisica, diversa la cultura, diverse sono le competenze storiche di ruolo, personali; le
conflittualità sono dietro l’angolo; se non le sappiamo leggere, codificare, se non è
chiaro chi coordina. se le competenze non sono ben definite, tutte queste persone
non possono lavorare insieme.
Ne abbiamo già discusso ed è anche oggetto del lavoro che è stato fatto presso il
ministero della Sanità per la stesura delle “linee guida”. Abbiamo cercato di tenere
conto delle indicazioni del gruppo europeo sulle ore di educazione necessaria per un
paziente con diabete di tipo 1. All’inizio sono necessarie non meno di 10 ore, poi è
necessario un richiamo dopo circa un anno e poi un altro richiamo per un totale di
altre 6 ore. Anche il diabete tipo 2 richiede un congruo numero di ore di educazione
terapeutica con ampie variazioni. Credo che anche il gruppo di studio
sull’educazione (GISED) non possa prescindere da questi numeri, non possiamo
accettare che nell’approccio al paziente l’educazione non sia considerata un atto
terapeutico integrato con tutti gli altri atti terapeutici. Anche questa separazione
fisica in questo Convegno tra il momento della mattina e quello del pomeriggio, è
una separazione che richiama un vecchio modo di pensare: da una parte ci sono i
farmaci e le metodologie e dall’altra ci sono le persone.
Quando però andiamo a capire che cosa vuol dire in termini di persone un Centro
che assiste circa tremila pazienti, che serve una città di centomila abitanti (una città
media) e guardiamo secondo i bisogni che ho descritto prima, le ore di educazione
necessarie, risulta che in un anno sono quasi seimila. Queste ore, che sembrano
un’enormità, in realtà sono meno di due ore l’anno per ogni paziente, venti minuti
se fa sei controlli all’anno e, come vedete, sono circa 40 minuti per medico, 60
l’infermiere e 20 il dietista: non è nemmeno tanto. Tutto ciò comporterebbe
l’assunzione di quattro figure professionali dedicate interamente all’educazione: ciò
vuol dire che noi non saremo mai in grado di affrontare, partendo da questi numeri,
l’educazione in modo sistematico. Perciò qualsiasi proiezione su “funziona o non
84 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
Inghilterra, dopo l’UKPDS, è una campagna forte per la promozione della salute.
Sfogliando una qualsiasi rivista statunitense, si può notare l’invito al buon controllo
metabolico, l’invito a migliorare le performance glicemiche, l’invito a lavorare in
team. Dovremmo lavorare anche noi a far sì che aumenti la coscienza collettiva di
questo tipo di necessità e non lasciare passare messaggi banalizzanti sull’assoluta
semplicità della cura del diabete.
Se noi volessimo idealizzare la figura dell’educatore, prendendo trasversalmente
medici, infermieri, dietisti e quant’altro così come avviene in altri Paesi, potremmo
dire che l’educatore nel diabete ha un ruolo multidimensionale con i limiti imposti
dai rapporti con altri membri del team che coinvolge il paziente, la famiglia, i sistemi
di supporto e gli altri operatori non specializzati nella cura del diabete. Quindi è un
mondo molto più globale di quello a cui pensiamo.
I criteri di lavoro sono questi: è molto importante la scelta dello strumento, la
documentazione del progetto e del processo educativo, e sempre una valutazione
alla fine.
Propongo tre campi di lavoro; potrebbero essere tre campi di lavoro che coinvolgono
anche il gruppo italiano per l’educazione sul diabete: la qualità dell’assistenza,
l’impegno per il cambiamento e anche l’accreditamento come strumento per andare
verso un cambiamento.
D’altronde qualità in educazione sanitaria è una parola difficile, però vuol dire fare
delle valutazioni; non riusciamo a dare tutto a tutti, quindi non riusciamo a fare tanti
interventi educativi sparsi, dobbiamo usare e privilegiare i metodi rapidi e il cost-
benefit, una parola che già ci tormenta anche troppo.
Vorrei venisse studiato meglio anche quando fare l’intervento perché già ci è stato
detto che nella vita di un paziente ci sono parecchi momenti in cui è più importante
intervenire e i tempi dell’accettazione dell’intervento sono variegati.
Esistono modelli per comprendere la capacità di accettazione del paziente: è inutile
che tentiamo di fare un intervento educativo se può non servire assolutamente a
niente. E allora abbiamo bisogno di trovare degli strumenti per capire chi è
disponibile e chi è aperto al cambiamento; bisogna ricercare modelli rapidi e veloci
che non sono facilmente identificabili dai soli medici.
Per esempio è la tipologia di paziente su cui è urgente fare un intervento educativo:
quelli che sanno già tutto, quelli che sono carenti nella cura dei piedi, quelli che non
vengono agli appuntamenti e così via.
Dobbiamo essere aiutati a trovare le categorie di pazienti che non si presentano più
agli appuntamenti e scoprire perché non vengono più e che cosa si può fare per farli
tornare, visto che Muggeo ci ha dimostrato che quelli che si presentano
regolarmente alle visite sono quelli che presentano alla lunga meno complicanze,
indipendentemente dal tipo di intervento che facciamo.
Questa è una conclusione di una lettera sul numero di novembre ’98 di Diabetes
Care: la terapia intensiva non vuol dire solo tre o quattro iniezioni al giorno, o il
microinfusore, quattro glicemie e l’emoglobina ogni tre mesi, ma anche un
approccio multidisciplinare, frequenti contatti tra paziente e membri del team, un
sistema di supporto del quale spesso ci scordiamo.
Ha funzionato bene solo in alcuni Centri, solo in quelli che avevano queste figure;
se noi non abbiamo queste figure nel nostro team dobbiamo lavorare a fondo perché
almeno la dietista sia presente, almeno l’infermiera professionale sia preparata per
fare questo o altrimenti sinceramente è difficile pensare che quel Centro possa
intensificare la terapia nel tipo 1 e nel tipo 2.
In un articolo comparso sull’American Journal of Managed Care del 1996 si è
dimostrato che un team approach porta l’emoglobina da 12 a 8%, se c’è buona
compliance, da 12 a 9,1% se non c’è compliance indipendentemente dalla terapia
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 87
utilizzata. A ulteriore dimostrazione di quello che si diceva. E quello che non diciamo
mai è che dopo quattro anni dal DCCT c’è stato quasi il 70% di abbandoni (solo
alcuni pazienti, che continuano con l’infusore, e sono fortemente supportati da
alcuni lavori di gruppo, continuano); questo per riluttanza dei pazienti a continuare,
quindi non è vero che la motivazione dura tutta la vita; per mancanza di
consapevolezza, per alcuni atteggiamenti di medici, sono venuti a meno anche i
finanziamenti e a volte anche per mancanza di un team multidisciplinare.
Quali sono le qualità di una persona che entra a far parte di un team educativo?
Possono essere “millanta”, però ho provato a specificarne qualcuna, non importa il
ruolo professionale: la flessibilità, la disponibilità alla formazione in continuo, la
capacità di apprendimento, un adattamento pre-attivo, le motivazioni, una capacità
progettuale strategica, interpretativa, un orientamento al risultato, la qualità e
conoscenze generali, non necessariamente la specializzazione, la disponibilità a
transazioni utilitaristiche a breve termine (e questa è la qualità che è difficile da
acquisire), la capacità di autopromozione - che questo a volte serve tantissimo,
soprattutto quando è il team che va in depressione - e le capacità negoziali che
abbiamo sentito citare da chi mi ha preceduto.
Penso che il ruolo del GISED dovrebbe essere questo; già abbiamo tentato di
lavorare a qualche progetto. Credo che questo Convegno sia utile per capire i
suggerimenti che vengono dalla comunità diabetologica nazionale per il lavoro del
prossimo anno.
Vorrei concludere citando John Day che qualche anno fa ha detto: “Si deve pensare
che ogni contatto umano e professionale ha una valenza educativa per cui tutti quelli
coinvolti nella cura dovrebbero avere una formazione sui processi educativi perché,
in caso contrario, si potrebbe creare un inconsapevole apprendimento scorretto per
difetto”.
BIBLIOGRAFIA
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1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 89
di valutare l’efficacia
Controlli (n=20) di un simile pro-
Base BMI (kg/m2) Glicemia dig. HbA1c (%) Colest. tot. Colest. HDL Trigliceridi gramma nel modi-
(mg/dL) (mg/dL) (mg/dL) (mg/dL) ficare lo stile di vita
6 mesi 32±4,3 170±37 6,5±1,2 230±57 58±15 210±162 e ridurre i fattori di
12 mesi 31,4±3,8* 166±46 5,5±1,4* 230±50 57±13 166±79* rischio modificabili
24 mesi 31,6±4,1 177±51 6,4±1,6 244±62 57±16 206±114
e la fattibilità di un
programma di pre-
31,3±4 189±66 6,6±1,8 218±40 51±12* 192±173
venzione primaria
Casi (n=20) esteso a tutta la po-
6 mesi 32,7±2,8 177±42 7,6±1,3 240±47 52±18 249±132 polazione o a una
12 mesi 32,4±3,2 176±55 6,5±1,7* 240±45 51±15 213±87 popolazione più va-
24 mesi 32±3,3** 173±46 7,3±1,6 254±43 55±16 240±113 sta. Nel programma
32,1±3,3 184±64 6,7±1,6* 242±44 51±14 222±114 sono stati inseriti 20
*p<0,001 vs base; **<0,05 vs base soggetti diabetici ti-
po 2 per braccio. Il
primo braccio rice-
Tabella II veva una educazione strutturata iniziale per un totale di 12 ore e successivamente
Parametri clinici e incontri di gruppo di 3 ore ogni 3-4 mesi; i diabetici di questo gruppo venivano
metabolici. Soggetti avviati ad attività motorie con l’assistenza di una fisioterapista (corsi di 10 ore ogni
diabetici tipo 2 (20
casi vs 20 controlli) 6 mesi) e veniva consigliata attività fisica individuale. Tra gli argomenti educativi ne
prima e dopo un sono stati scelti quattro come obiettivi primari: la conoscenza generale dei fattori di
corso di educazione rischio cardiovascolare, la corretta alimentazione, l’automonitoraggio e la cura del
intensivo piede. Il gruppo di controllo del secondo braccio seguiva il normale follow up am-
bulatoriale. Nella tabella II sono riportati i dati metabolici fino a 24 mesi dei due
gruppi di diabetici. Si può notare come il valore della HbA1c tende a diminuire nei
primi 6 mesi in entrambi i gruppi, (effetto trial), mentre a 24 mesi vi è la tendenza a
risalire verso i valori
di base, anche se nel
Conoscenze (% risposte esatte) gruppo di inter-
Casi (n=20) - Controlli (n=20) vento la differenza è
Base Fine corso Dopo 12 mesi Dopo 24 mesi ancora significativa.
57,7% 86,1 85,3% 80,9% Oltre ai dati bio-
58,6% ** 59,1% 60,9% logici nei due gruppi
Locus of control del diabete sono state valutate
Casi - Controlli le conoscenze e il
locus of control con
Base Personal Medical Situational
appositi questionari.
12 mesi 27,5 12,2 6,2 Per quanto riguarda
24 mesi 25,8 11,2 5,8 le conoscenze il
27,2 11,5 4,8 gruppo di interven-
22,0 10,5 10,9 to ha dimostrato un
22,4 9,6 10,2 aumento delle co-
19,1 14,0 10,5 noscenze che si è
Score massimo: 30 punti mantenuto relativa-
mente stabile nel
tempo grazie anche
Tabella III ai ripetuti rinforzi. Il gruppo di controllo non ha dimostrato invece alcun
Risultati cognitivi e miglioramento malgrado la valutazione sia stata condotta con lo stesso questionario.
sul locus of control Interessante è stata la valutazione del locus of control della malattia per i due gruppi:
di un corso
educativo intensivo nel gruppo di intervento vi è stata una progressiva e significativa internalizzazione
del locus of control mentre è diminuito l’affidamento di responsabilità al personale
sanitario e la percepita responsabilità dell’ambiente sulla propria malattia (tab. III).
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 93
In altre parole è migliorata la capacità di autogestione ed è aumentata la
consapevolezza del proprio ruolo. La nostra valutazione ha infine preso in
considerazione i punti di forza e i punti critici dell’intervento educativo. I punti di
forza per il paziente sono risultati, come già detto, l’internalizzazione del locus of
control, l’acquisizione di corrette abitudini di vita, il miglioramento di alcuni indici
metabolici e clinici. Per il team, elementi di non secondaria importanza, la
multidisciplinarietà, il linguaggio comune, la motivazione e la condivisione degli
obiettivi. I punti critici che abbiamo rilevato sono stati il tempo necessario, la
difficoltà di assicurare una continuità all’intervento, il bisogno di rinnovare
continuamente la motivazione del team e, soprattutto, dei diabetici. Per i diabetici i
punti critici sono stati la frustrazione, la mancanza di risultati visibili o percepibili
immediatamente, il bisogno di motivazione continua, la mancanza di un feed-back
immediato, la difficoltà a mantenere nel tempo le abitudini acquisite. Concludendo Fig. I
Elementi che
quindi sulla fattibilità di un intervento educativo di questo tipo su un numero condizionano la
elevato di diabetici potremmo affermare che esso è possibile se c’è un team fattibilità
educativo formato, motivato e addestrato, se ci sono strutture idonee, se ci sono dell’educazione
strumenti di verifica e valutazione continua, se è possibile assicurare la continuità strutturata
dell’intervento e, soprattutto, se c’è tempo adeguato (fig. 1).
Questi elementi tuttavia non possono rappresentare un
pretesto per non attuare alcun intervento, rappresentano • Team educativo formato
soltanto i punti che devono essere considerati e organizzati • Team educativo motivato
in modo da essere disponibili nella nostra pratica clinica. • Tempo
Tra tutti fondamentale è la continuità dell’intervento e del • Strutture idonee
rapporto tra diabetico e team educativo e di cura. Non si • Strumenti di verifica a valutazione
può curare bene senza educare ma non si può educare • Continuità dell’intervento educativo
senza curare bene. E curare bene conviene e paga.
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Risultati preliminari. XI Congresso Nazionale AMD. Ed Tecomproject, Ferrara, 1997,
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1 ° C O N G R E S S O R O C H E P A T I E N T C A R E
D GIORNALE ITALIANO DI
IABETOLOGIA
Obiettivi
specifici
in campo educativo:
esperienze pratiche
Alimentazione
D. Bruttomesso (Padova)
Ipoglicemia
C. Fanelli (Perugia)
Attività fisica
G. Corigliano (Napoli)
Prevenzione del piede
diabetico
D. Bloise (Roma)
non pervenuto
Gravidanza
A. Lapolla (Padova)
Tecnologie informatiche
G. Vespasiani
(S. Benedetto del Tronto)
Formazione degli
operatori
E. Orsi (Milano)
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 97
IPOGLICEMIA
Carmine G. Fanelli
Dipartimento Medicina Interna Scienze Endocrine e Metaboliche, Università di Perugia
Introduzione
L’ipoglicemia è la complicanza più frequente e grave nella vita dei pazienti diabetici
in terapia insulinica. Di fatto, l’ipoglicemia rappresenta il maggiore ostacolo al
raggiungimento della “quasi-normoglicemia”che, come dimostrato definitivamente
dallo studio prospettico nordamericano DCCT (1), è essenziale per prevenire le
complicanze microvascolari della malattia diabetica. Si stima che, nel corso della sua
vita, un soggetto diabetico in terapia insulinica vada incontro a numerosi episodi di
ipoglicemia lieve. Molti di questi sono riconosciuti e corretti dal paziente stesso.
Purtroppo, altri possono esitare in ipoglicemia grave (condizione in cui il paziente
non è in grado di provvedere da solo alla correzione dell’ipoglicemia e ha bisogno
dell’aiuto di un’altra persona) o addirittura nel coma. Ad esempio, nello studio
DCCT, i pazienti in terapia insulinica intensiva presentavano in media un episodio
di ipoglicemia grave e/o coma ipoglicemico ogni 2-3 anni (1). L’ipoglicemia, quindi,
non solo rappresenta una seria minaccia per la sopravvivenza del paziente, ma può
anche influire negativamente sulla qualità della vita dei pazienti diabetici in
relazione alle attività lavorative e sociali.
Questo sistema è così efficiente che nel soggetto non-diabetico l’ipoglicemia non si
verifica mai, nemmeno durante il digiuno prolungato. Purtroppo, nei pazienti
diabetici di tipo 1 la risposta degli ormoni controregolatori all’ipoglicemia è spesso
compromessa. Infatti, dopo circa 4-5 anni di malattia, la secrezione di glucagone è
praticamente assente, mentre quella di adrenalina non scompare completamente
come quella del glucagone, ma sembra diminuire più gradualmente nel corso degli
anni. Per questo motivo, la ridotta risposta degli ormoni controregolatori
rappresenta il secondo fattore responsabile dell’ipoglicemia nei pazienti diabetici.
Un ulteriore meccanismo di difesa all’ipoglicemia è rappresentato dalla percezione
dei sintomi dell’ipoglicemia. È grazie alla percezione dei sintomi dell’ipoglicemia
che il paziente può correggere (per es. mangiando) l’ipoglicemia all’esordio
prevenendo l’evoluzione verso una forma più severa. È importante, quindi, che i
pazienti conservino una buona percezione dei sintomi dell’ipoglicemia nella sua fase
iniziale, per correggerla tempestivamente e prevenire la neuroglicopenia e
l’ipoglicemia grave. Normalmente sono i sintomi autonomici (cioè, la sudorazione,
la fame, i tremori, il cardiopalmo, l’ansia e l’irritabilità) quelli che allarmano
inizialmente i pazienti. Tuttavia, in certi pazienti, la percezione dei sintomi
dell’ipoglicemia è ridotta o può essere addirittura assente. In molte occasioni, la
sintomatologia compare a valori di glicemia molto bassi, è caratterizzata da
neuroglicopenia, vario grado di disfunzione cerebrale e spesso coma ipoglicemico.
Questa condizione è nota come “ipoglicemia asintomatica” o “hypoglycemia
unawareness”. Si tratta di una condizione largamente diffusa fra i diabetici in terapia
insulinica. Tuttavia, l’esatta frequenza del fenomeno non è nota. Da una minuziosa
analisi della letteratura, la frequenza stimata è risultata pari al 25%, variando in
rapporto all’eta’ del paziente, alla durata della malattia, alla presenza o meno della
neuropatia autonomica diabetica e alla qualità del controllo glicemico. Da un punto
di vista prettamente clinico, l’ipoglicemia asintomatica è una condizione
estremamente pericolosa in quanto l’ipoglicemia può esordire bruscamente con i
segni e sintomi di una grave disfunzione cerebrale. I pazienti hanno solitamente una
lunga durata del diabete, una storia di episodi di ipoglicemia grave e bassi valori di
HbA1c. Per quanto riguarda la eziologia, l’ipoglicemia asintomatica è indotta dalla
esposizione a ripetuti episodi di ipoglicemia. Il fenomeno è riproducibile
sperimentalmente. Infatti, l’esposizione a brevi episodi di ipoglicemia riduce la
percezione dei sintomi (e la risposta degli ormoni controregolatori) durante una
successiva ipoglicemia indotta il giorno dopo (4). Dal punto di vista clinico è
interessante osservare come ipoglicemie lievi (70-60 mg/dL) siano efficaci quanto
quelle più severe, ad esempio 50-40 mg/dL. La patogenesi non è completamente
conosciuta. Negli animali è stato dimostrato che l’ipoglicemia cronica induce un
aumento del numero dei trasportatori cerebrali del glucosio (GLUT-1 e GLUT-3).
Questi trasportatori sono localizzati a livello endoteliale nella barriera emato-
encefalica (GLUT-1) e neuronale (GLUT-3), non sono regolati dall’insulina,
mediano il trasporto basale di glucosio e hanno una elevata affinità per il glucosio
(ciò è particolarmente vantaggioso per un organo come il cervello estremamente
vulnerabile all’ipoglicemia). La “up-regulation” dei trasportatori del glucosio
consentirebbe al cervello di adattare il metabolismo all’ipoglicemia. In altre parole, il
tessuto cerebrale utilizzerebbe una maggiore percentuale di glucosio disponibile
mantenendo normale il metabolismo anche in presenza di valori subnormali di
glicemia. In assenza di sintomi l’ipoglicemia non verrebbe percepita e corretta dal
paziente. Il rischio di ipoglicemia grave risulterebbe realmente elevato.
Recentemente è stato documentato che l’estrazione cerebrale di glucosio è
aumentata nei pazienti diabetici con ipoglicemia asintomatica (5). Pertanto, è
verosimile che l’adattamento cerebrale all’ipoglicemia, mediato dalla “up-
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 103
regulation” dei trasportatori di glucosio, sia il meccanismo operativo nella
patogenesi dell’ipoglicemia asintomatica nei pazienti diabetici. Inoltre, questa
ipotesi patogenetica ha una notevole rilevanza da un punto di vista clinico e
terapeutico perché suggerisce che l’adattamento cerebrale all’ipoglicemia è un
fenomeno funzionale e, quindi, reversibile. Infatti, la prevenzione scrupolosa
dell’ipoglicemia ripristina (già dopo due settimane) la fisiologica risposta dei sintomi
all’ipoglicemia (6) (fig. 1). La reversibilità della sindrome è stata dimostrata nei
pazienti diabetici con breve e lunga durata del diabete e, recentemente, anche nei
pazienti con neuropatia autonomica (che non è la causa della sindrome come si è Figura 1
Risposta dei sintomi
creduto fino a poco tempo fa). Sorprendentemente, anche la risposta degli ormoni autonomici e
controregolatori, in particolare adrenalina (fig. 2), migliora significativamente dopo neuroglicopenici
prevenzione dell’ipoglicemia indicando che anche la sindrome della ridotta durante ipoglicemia
controregolazione glicemica è parzialmente reversibile. a gradini in soggetti
non-diabetici, e in
un gruppo di
pazienti diabetici
Ipoglicemia asintomatica e soglie glicemiche per con ipoglicemia
asintomatica prima,
le risposte degli ormoni controregolatori, dei sintomi dopo due settimane
e funzioni cognitive e dopo tre mesi di
prevenzione
È possibile identificare in modo obiettivo i pazienti con ipoglicemia asintomatica scrupolosa
mediante la tecnica del clamp iperinsulinemico-ipoglicemico a gradini (6). dell’ipoglicemia.
Utilizzando questa tecnica, in cui l’insulina è infusa a velocità costante mentre il Durante lo studio la
glucosio viene infuso a velocità variabile per produrre livelli successivi di glicemia veniva
progressivamente
ipoglicemia, è possibile determinare le soglie glicemiche delle risposte fisiologiche ridotta da 85 mg/dL
all’ipoglicemia. Nei soggetti non-diabetici è stato documentato che la prima risposta al tempo 0, fino a 45
all’ipoglicemia è rappresentata dalla soppressione della secrezione insulinica (a circa mg/dL al tempo 360
79 mg/dL), segue l’aumento degli ormoni controregolatori adrenalina e glucagone minuti
(a circa 65 mg/dL), la comparsa dei sintomi
dell’ipoglicemia (a circa 56 mg/dL) e l’inizio della
9
disfunzione cerebrale a 50-52 mg/dL. Nei soggetti
AUTONOMIC
diabetici, invece, le soglie glicemiche variano in rapporto al SYMPTOMS
controllo glicemico precedente. Infatti, i pazienti diabetici 6
con ipoglicemia ricorrente hanno le soglie glicemiche per
Score
0
n = 12 non-diabetic n = 8 IDDM
basal
2 weeks
Prevenzione dell’ipoglicemia durante
190
volunteers 3 months terapia insulinica intensiva
PLASMA GLUCAGON
La prevenzione dell’ipoglicemia asintomatica si basa
essenzialmente sulla prevenzione dell’ipoglicemia nei
150
pazienti in terapia insulinica intensiva. Da un punto di vista
pg/ml
BIBILIOGRAFIA
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treatment of diabetes on the development and progression of long-term complications
in inslin-dependent diabetes mellitus. N Engl J Med 329, 977-986, 1993
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type I diabetes mellitus. Diab Nutr Metab 4, 333-349, 1990
3. PE Cryer: Hypoglycemia. Pathophysiology, Diagnosis and Treatment. Published by
Oxford University Press, Inc 1997, p. 37-52
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hypoglycemia in patients with insulin dependent diabetes mellitus. N Engl J Med 333,
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normalizes the glycemic thresholds and magnitude of most neuroendocrine resposnses
to, symptoms of and cognitive function during hypoglycemia in intensively treated
patients with short-term IDDM. Diabetes 42, 1683-1689, 1993
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8. Bolli GB: Prevention and treatment of hypoglycaemia unawareness in type 1 diabetes
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control in type 1 diabetic patients. Diabetes Care 21, 32-37, 1998
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 107
ATTIVITÀ FISICA
Gerardo Corigliano
Associazione Nazionale Italiana Atleti Diabetici (ANIAD)
Io non vi parlerò degli aspetti fisiopatologici che pur sono importanti per definire le
conoscenze che sottendono i programmi educativi; dando per scontato che siano a
tutti note possiamo parlarne in discussione. Non vi parlerò degli aspetti educativi del
binomio attività fisica/diabete di tipo 2 per la brevità del tempo che mi compete e
quindi entro subito in argomento per quanto riguarda diabete insulino-dipendente.
Intanto sgombriamo il campo, chiariamo una cosa, il diabetico insulino-dipendente
non determina una diminuzione quantitativa di attività fisica abituale; quindi l’idea
che molti di noi hanno che il diabetico faccia meno attività fisica è un’idea che
scientificamente è stata dimostrata falsa. Questo è un articolo apparso su Diabetes
Care: soltanto i pazienti portatori di microinfusore, forse per l’ingombro della
malattia, forse per l’instabilità stessa del diabete hanno una diminuzione
quantitativa di attività fisica.
Come la tazzina di caffè della nota pubblicità televisiva che allunga la vita, anche
l’esercizio fisico regolare allunga la vita.
Questo è un lavoro di Moy, fatto a Pittsburgh, è durato circa 20 anni e voi vedete
come, in modo coerente, vi sia un rapporto inversamente proporzionale fra
prevalenza di mortalità e quantità di attività fisica spesa settimanalmente: questi
cinque quintili sono da meno di 500 calorie alla settimana a più di 2500 calorie alla
settimana per attività motorie e sportive. Quindi anche salire le scale, andare al
lavoro a piedi e così via, veniva calcolato in questo lavoro.
Quando programmiamo un’attività fisica, dobbiamo porci sempre il problema del
rapporto rischio-beneficio.
In questa immagine noi vediamo una ipotetica safety-zone, una zona di sicurezza
per un diabetico giovane senza complicanze.
E vedete come a un aumento dell’intensità e della durata dell’attività fisica si
accompagni solo tardivamente un aumento del rapporto rischio-beneficio, del
rischio in qualche modo. Quindi vi è un’ampia zona di sicurezza. Ma se andiamo a
un paziente più avanti negli anni, con delle complicanze microvascolari iniziali,
vedete come si stringe la safety-zone e quanta maggiore prudenza noi dobbiamo
avere nel consigliare, nello scegliere il tipo di attività fisica.Vedete come a un piccolo
incremento della intensità si accompagni un notevole aumento del rapporto rischio-
beneficio.
Nella diapositiva ci sono le raccomandazioni dell’American Diabetes Association
per iniziare un’attività fisica in pazienti affetti da diabete di tipo 1 e tipo 2; cerco di
riassumervela. Per prima cosa: cerca le complicanze, fai un’attenta valutazione delle
complicanze micro e macrovascolari e fai un elettrocardiogramma da sforzo se hai il
diabete di tipo 1 da più di 15 anni, o se sei tipo 1 con più di 30 anni, o tipo 2 con
un’età maggiore di 35 anni. E poi importanti informazioni sul tipo di attività fisica:
deve essere aerobica (e ci ritorneremo), deve essere regolare (due o tre volte la
settimana), la durata non deve essere mai troppo elevata (20-60 minuti), l’intensità
50-70% della VO2 massima. Come si fa, mi direte voi, così nei nostri ambulatori a
trovare la VO2 massima? È semplice, calcolate 220 meno l’età del paziente in anni,
108 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
se ha 20 anni c’è 200, il cento per cento della sua VO2 massima teorica. Se voi
lavorate al 50-70% deve fare un esercizio fisico con una frequenza che vada da 100
a 140. E ancora valuta la spesa energetica e così via.
Le raccomandazioni per evitare problemi sono quelle di effettuare sempre un
corretto riscaldamento e di seguire poi tutte le norme educative sulla prevenzione
delle ipoglicemie e sull’adeguamento dei carboidrati. Norme che non possono
essere standardizzate ma che sono variabili da paziente a paziente, e quindi è
fondamentale che il paziente abbia conoscenza del suo specifico atteggiamento
metabolico in rapporto all’attività fisica, e si vada formando proprio una capacità di
adattamento che sia assolutamente personalizzata.
Allora cominciamo a vedere programmi di educazione per il tipo 1. Qui è ad Atene,
congresso internazionale della International Diabetes Athletics Association,
settembre del ‘98. Io ritengo, diciamo, basandomi sull’esperienza ultradecennale, che
l’educazione per esercizio fisico non possa essere fatta nell’ambulatorio, nello
scorrere continuo delle visite che noi facciamo, ma deve avere un posto privilegiato
e da una decina d’anni noi organizziamo dei corsi di sport allo scopo di insegnare ai
diabetici di tipo 1 ad adattare e personalizzare l’apporto alimentare in carboidrati in
particolare e il fabbisogno insulinico in rapporto all’attività fisica ma non l’attività
fisica in generale, al tipo, alla durata, all’intensità, all’ora del giorno in cui viene fatta.
E, ancora, un obiettivo è quello di formare negli ultimi tempi diabetologi sugli aspetti
fisiopatologici, clinici, psicologici, pratici ed educativi di questo binomio. Sono
aspetti che non vengono spesso trattati nell’ambito degli studi di specializzazione,
che vengono forse più facilmente imparati sul campo. 15-20 partecipanti, omogenei
per tipo di diabete di entrambi i sessi, che abbiano capacità di autogestione, che
abbiano un minimo di allenamento e il sito deve essere evidentemente una località
che abbia nella stessa struttura alloggi, refettori e impianti sportivi. In genere viene
fatto nei pressi di Napoli, al Monte Faito, ma abbiamo fatto delle riunioni anche nel
Veneto e in Sicilia recentemente. Il corso dura 4 giorni e il team deve essere costituito
da un diabetologo, una dietista, un infermiere, come sempre, ma vedete qui un
preparatore atletico perché noi insegniamo non solo come si adatta e come si
gestisce il diabete ma anche come si fa lo sport in rapporto all’essere diabetico.
Un diabetico-guida sportivo può essere di grande ausilio e il diabetologo diventa in
qualche modo discente e docente perché diventa il tutor di alcuni diabetici
partecipanti e nello stesso tempo è discente perché viene lì per imparare.
La didattica è quella dell’insegnamento sul campo, quindi noi facciamo un’attività
fisica che è prevalentemente ludica e per qualche tratto anche agonistica a moderato
livello, mattina e pomeriggio per quattro giorni e nel tardo pomeriggio, in serata,
vengono fatte delle discussioni, si affrontano gli argomenti, partendo sempre
dall’esperienza pratica vissuta da qualcuno quella giornata, in modo tale che si arriva
al generale e partendo dal particolare, dall’ipoglicemia che quel giovane ha avuto in
quel giorno e quindi svisceriamo perché l’ha avuto, quale è stato l’errore
nell’adeguamento insulinico e alimentare, e così via. Un questionario di valutazioni,
delle conoscenze viene somministrato ovviamente per cercare di capire se siamo
riusciti a insegnare qualcosa.
È evidente che il momento dell’autocontrollo è momento fondamentale, esso deve
essere fatto in tutti i momenti possibili, non vissuto masochisticamente come il
modo di pungersi il dito, ma proprio come una volontà precisa di capire per non
sbagliare.
Vedete, un momento di autocontrollo ancora più particolare, e quando parlo di
autocontrollo non mi riferisco solo all’autocontrollo glicemico, ma di tutte quelle
componenti che influiscono sulla glicemia. Qui vedete un paziente che controlla e
spegne il suo microinfusore in previsione di una seduta di esercizio fisico in acqua.
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 109
Il programma educativo prevede nozioni sulla fisiopatologia dello sforzo muscolare,
sull’adattamento dell’insulina, dell’apporto alimentare, siti d’iniezione, timing e, in
particolare, c’è tutto un nuovo filone di valutazione per quanto riguarda i pazienti
che usano analoga lispro perché cambia la cinetica e quindi cambia il timing
desiderato, desiderabile per l’esercizio fisico. Scelta del tipo di attività in rapporto a
eventuali iniziali complicanze.
I vantaggi sono quelli dell’apprendimento facilitato, della sdrammatizzazione del
nostro rapporto, diciamo, pur non rinunciando al ruolo di medico e quindi al ruolo
di diabetologo; noi cerchiamo di empatizzare il nostro rapporto e quindi, in qualche
modo, di averne dei vantaggi nella disponibilità al colloquio e alla collaborazione che
avviene successivamente nella vita quotidiana.
Ancora vantaggi: rilievo immediato dei progressi raggiunti (questi pazienti in quarta
giornata spesso riducono del 40% la dose d’insulina); possibilità di approfondire
argomenti raramente trattati, per esempio scelta della calzature; programmi di
allenamento e così via; alimentazione specifica in preparazione di una gara.
Possibili ricadute pratiche: migliore qualità della vita sicuramente; migliore sicurezza
di sé; probabilmente anche migliore compenso e una accettazione attiva del diabete
può essere la conseguenza di tutto questo stile di vita che fa sentire molto meno un
malato cronico il nostro diabetico.
E queste sono una serie di nozioni “un po’ prendi e porta a casa” che potremo
rivedere, a voi tutti note. Per esempio non fare attività quando la glicemia è molto
alta, ma possiamo discutere di questo.
Alcuni aspetti pratici di tipo organizzativo. Che cosa facciamo proprio
materialmente per organizzare, oltre che far organizzare questi corsi di sport? Vi
presento l’ANIAD. Per chi non la conoscesse è l’associazione nazionale italiana atleti
diabetici, fa parte dell’International Diabetes Athletics Association e riunisce i
diabetici sportivi, atleti in gergo anglosassone, sportivi in generale e medici
diabetologi che sono interessati alla materia.
Molti preparatori sportivi anche sono interessati. Questo è il nostro presidente, Paula
Harper, diabetica insulino-dipendente di Phoenix, Arizona, che è una sportiva di
lunga data.
E questa è letteratura che si fa sull’argomento di tipo educativo. Probabilmente non
molti la conoscono, ma esiste una rivista americana, una spagnola “Sport y vida”,
una di lingua francese “Le défi”, la sfida, poi tedesca, inglese e questa nostra che si
chiama “Sport e Diabete”, questo bollettino che faticosamente ogni 4 mesi cerco di
inviare ai diabetici e ai diabetologi interessati all’argomento.
Una delle nostre finalità è quella di insegnare come si fa una seduta di attività fisica
e questo è importante che voi lo trasferiate ai vostri pazienti. Una corretta seduta per
un diabetico deve prevedere 2 minuti per un check della glicemia, 5 minuti per una
fase di riscaldamento, la sessione di esercizio vera e propria, e poi una fase
defatigante, importante in cui si riduce l’intensità, un fase facoltativa di stretch e un
controllo della glicemia ancora due minuti.
Ancora tre diapositive e ho concluso e queste sono importanti. Per darvi un
messaggio e far sì che voi lo trasferiate ai vostri pazienti: non tutte le attività sono
uguali sul piano metabolico e quindi sul piano dell’effetto che ci si aspetta in termini
di glicemia. Quelle anaerobiche a-lattacide, quelle di brevissima durata e di grande
intensità utilizzano sostanze energetiche diverse dal glucosio, hanno un dispendio
energetico di poche decine di calorie, quindi non hanno alcun effetto sulla glicemia
e hanno un forte impatto sul sistema cardiovascolare. Quindi sono attività che non
sono utili.
Quelle invece anaerobiche lattacide, quelle di durata media, utilizzano
principalmente glicogeno e quindi danno rischio di ipoglicemia, sono poco
110 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
ecologiche perché producono scorie come l’acido lattico e hanno anche un certo
impatto sul sistema cardiovascolare.
Ma allora qual è l’attività che noi dobbiamo raccomandare in termini anche di
educazione, di messaggio educativo? Le attività aeorobiche a-lattacide, cioè quelle
di durata e non di potenza: le corse, lo sci, la marcia, il ciclismo, di scarsa intensità e
di lunga durata. Qui la fonte energetica principale è il glucosio e solo tardivamente
viene utilizzato glicogeno. Il dispendio energetico è di centinaia di calorie, l’effetto
sulla glicemia è una riduzione progressiva e prevedibile, quindi ideale per il diabetico
e vi è poi tutta una serie di effetti positivi che sono legati al metabolismo lipidico, alla
fitness, alla migliore attività recettoriale dell’insulina.
Quindi l’attività fisica prolungata, effettuata al di sotto della soglia anaerobica
individuale predeterminata, effettuata in condizioni di controllo metabolico, sembra
essere quella che meglio si adatta alla condizione di diabetico. E, cosa non
trascurabile, essa può essere proseguita fino a 40-50 anni e più: questo è importante
in una prevenzione a lungo termine delle complicanze macrovascolari del diabetico.
Questa è la partenza della maratonina, qui stiamo proprio a Maratona, qui c’è il
fuoco sacro di Atene, appunto nell’ultimo congresso IDAA, ci sono dei diabetici e
alcuni diabetologi.
La conclusione è questa. L’esercizio fisico intrapreso consapevolmente, costringe
all’autocontrollo, se non lo vuoi pagare sulla tua salute, educa alla continua
autovalutazione dell’apporto energetico, abitua il paziente a escogitare soluzioni
terapeutiche in rapporto al mutevole fabbisogno insulinico, quindi è una palestra per
l’autogestione e lo allena a una disciplina di vita.
C’è una immagine finale, vi ho detto che non avrei parlato dei diabetici di tipo 2,
questa è una donna anziana, obesa che si rifiutava ostinatamente di fare anche
qualche centinaio di metri, e John Day vi ha parlato di coinvolgimento anche dei
familiari, adduceva motivi “vado in ipoglicemia”, una volta andando a messa andò
in ipo “non vedo bene, urto contro tanti ostacoli”; l’ultima diapositiva vi mostra uno
strumento che si può anche brevettare “bastone per camminata di anziana
diabetica”che porta un alloggiamento per una bottiglina con coca-cola e un piccolo
clacson per farsi largo nella strada!
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 111
DIABETE E GRAVIDANZA
Annunziata Lapolla
Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche, Cattedra di Malattie del Metabolismo, Università
di Padova
Diabete pregravidico
Possiamo dividere le donne con diabete pregravidico in 2 gruppi: quelle che
pianificano la gravidanza, che sono soprattutto le donne con diabete di tipo 1, e
quelle che non pianificano la gravidanza, che nella maggior parte dei casi sono
donne con diabete di tipo 2.
Nel primo caso deve essere fatta una valutazione basale preconcepimento che deve
112 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
Diabete gravidico
La terza tipologia di paziente che dobbiamo seguire e monitorare, è quella costituita
dalle donne con diabete gestazionale. In questo caso siamo di fronte a donne sane
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 113
che vengono inviate al Servizio Diabetologico per eseguire accertamenti diagnostici
nei confronti del diabete e, nella nostra esperienza, la maggior parte di queste donne
sono inviate dai Consultori Familiari. Tali donne di solito hanno eseguito un
minicarico di glucosio risultato positivo e devono essere sottoposte alla curva da
carico orale di glucosio; le loro conoscenze del diabete perciò sono scarse.
Gli obiettivi educativi che in questo caso perseguiamo devono essere rivolti
innanzitutto a far prendere coscienza alla donna di questa sua nuova condizione.
Deve poi sapere quali sono i parametri da controllare e quali sono gli obiettivi
metabolici da raggiungere; deve sapere che la normoglicemia riduce il rischio di
complicanze sia per lei che per il feto e che per ottenere questo è importante seguire
un piano alimentare corretto. Deve, infine, essere informata che nonostante tutto,
potrebbe aver bisogno della terapia insulinica nel corso della gravidanza.
Anche in questo caso la donna deve essere a conoscenza di quali sono i fattori di
rischio legati al diabete gestazionale e di come li può modificare; deve sapere inoltre
che spesso questo tipo di diabete scompare dopo il parto, ma che c’è un rischio
elevato per lei negli anni successivi alla gravidanza di avere un diabete o alterazioni
della tolleranza ai carboidrati e che per questo motivo è indispensabile che dopo la
gravidanza esegua dei controlli periodici per la valutazione, appunto, della tolleranza
ai carboidrati.
Alla donna bisogna inoltre insegnare a fare l’automonitoraggio, a seguire un corretto
schema di alimentazione, ed eventualmente a iniettarsi l’insulina.
Il team educativo deve assolutamente tenere presente che ha di fronte una donna
che sta affrontando una gravidanza associata a una complicanza totalmente a lei
sconosciuta, per tale motivo deve aiutarla a superare i suoi negativi stati d’animo. E
per questo è indispensabile che la donna sappia che in qualsiasi momento si può
rivolgere al team, cioè all’insieme di quelle persone che si devono occupare di lei
durante tutto il corso della gravidanza.
Infatti, da quanto su esposto, emerge chiaramente che l’approccio alla donna
diabetica gravida non può esser fatto solo dal diabetologo, ma che è indispensabile
il coinvolgimento di un team multidisciplinare. Questo team dovrebbe essere
costituito da un diabetologo, un ginecologo, un infermiere esperto, una ostetrica,
una dietista.
Questo sarebbe sicuramente il team ideale: il nostro team è formato da due
diabetologi, tre infermieri esperti e da una dietista. Quel che mi preme sottolineare
è che, affinché l’approccio educativo possa essere efficace nei confronti della gravida,
i comportamenti del team devono avere un uguale rispetto delle abilità e delle
conoscenze, devono essere tutti in grado di soddisfare i bisogni della paziente,
devono avere spirito collaborativo, devono avere la possibilità di interagire l’uno con
l’altro in modo che alla donna, e questo è importantissimo, vengano date
informazioni uniformi che la aiutino a condurre la gravidanza il più serenamente
possibile.
L’approccio educativo del team deve essere volto ad affrontare tutti gli aspetti relativi
alla gestione della paziente, a capire quale è il grado di accettazione della malattia e
di cooperazione della stessa (tab. II). Per raggiungere tali obiettivi devono essere
coordinati e prestabiliti una serie di incontri tra i componenti del team in modo da
definire obiettivi comuni. Alla paziente deve essere assicurata una disponibilità extra
in modo che essa possa rivolgersi tranquillamente al team in caso sopravvenissero
dubbi e/o problemi particolari.
Questo approccio educativo e di follow-up, risulta di notevole importanza se
vogliamo risolvere almeno in parte alcuni problemi ancora collegati alla gravidanza
come precedentemente discusso. A tal proposito, in un recente articolo pubblicato
su Diabetes Care (21, 1998), Holing e coll. hanno valutato, retrospettivamente,
114 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
Ringraziamenti
Ringrazio i componenti del mio team di approccio educativo alle gravide: Dott.ssa Maria Grazia Dal Frà
- Infermieri Professionali: Rosanna Toniato, Federica Capovilla, Antonella Bortoletto - Dietiste:
Antonella Barison, Paola Barison.
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 115
L’informatica non è di per sé una scienza che risolve i problemi, è una scienza che
può aiutare alla soluzione di alcuni problemi ma, purtroppo, o per fortuna, è una
scienza che mette lo zampino in tutte le varie branche dello scibile.
L’informatica si applica in tantissimi campi tra cui la Sanità; nell’ambito della Sanità
si può applicare alla medicina interna, ai laboratori e... alla diabetologia.
All’interno della diabetologia si può interessare di ciascuna branca - dalla dietetica,
al piede e così via - senza però essere in grado di risolvere completamente ciascuno
di questi aspetti specialistici, ma potendo essere utile in ciascuna di queste.
Il successo di un intervento informatico, qualunque esso sia, si misura soltanto con
un parametro: la diffusione. Cioè quante persone usano quel sistema (quando
parliamo di Windows conosciamo tutti di cosa si parla). Non ci sono parametri di
bellezza, di utilità... la diffusione è l’unica. Soltanto se si riesce a diffondere vuol dire
che quella cosa che si è fatta era utile, che serviva, era necessaria. Se una cosa è utile,
ma non raggiunge un livello di diffusione vuol dire che in fondo non era poi così
utile o che non era realizzato, o assistito bene.
Fatta questa premessa, è importante capire perché ancora oggi, nel mondo della
diabetologia, e nel mondo dell’educazione in modo particolare l’informatica non ha
raggiunto una diffusione consistente; quali sono le possibili ragioni che giustificano
questa difficoltà nella diffusione?
Spesso gli informatici alle nostre richieste ci rispondono: “Si può far tutto, riusciamo
a risolvere qualsiasi problema, basta prendere questa tecnologia e applicarla”.
Nel dire ciò non si rendono conto che l’utilizzazione di tecnologie avanzate (il
riconoscimento vocale, l’analisi delle immagini, rete di PC...) con i pochi e vecchi
computer che abbiamo in ospedale, non sono applicabili nella pratica.
Questo è un primo errore che viene fatto in genere da chi programma e dagli
ingegneri che si interessano dell’argomento.
Ma anche noi medici commettiamo un altro errore che è quello di illuderci che
l’informatica ci possa risolvere completamente un problema clinico organizzativo.
Questo, oltre che essere inutile, perché non è così, è dannoso in quanto dopo che
noi abbiamo maturato questa convinzione, e con tanto entusiasmo andiamo ad
affrontare un problema tramite un software che è bello, è simpatico, si presenta
bene, spesso ci accorgiamo che le nostre aspettative sono mal riposte e quindi dalla
fase di entusiasmo si passa alla fase di disillusione e quindi all’abbandono.
Vediamo ora quali sono i vantaggi che nel campo dell’educazione si possono ottenere
dall’informatica.
▲ L’attrazione per la novità e la presentazione grafica. Se voi mettete un ragazzino di
fronte a un computer, solo per il fatto che si tratta di è un computer, lui è attratto. E
se noi vogliamo far passare un messaggio, la buona disposizione dell’utente può
essere molto utile.
▲ La presentazione grafica è altrettanto importante, non dimentichiamo però che
questo è come incontrare una bellissima donna per strada che senz’altro è un’ottima
presentazione ma poi è molto importante anche parlarci.
116 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
Vediamo ora quali sono state le ultime esperienze informatiche a cui ho avuto la
fortuna di poter collaborare nella realizzazione e sperimentazione.
▲ I giochi tematici per bambini. I bambini sono attratti dai videogiochi. Allora, qual è
il modo migliore per educare un bambino? Sfruttare questa attrazione e trasformarla
in un’opportunità. Sono stati fatti in passato dei giochi educativi utili (Capitan
Novolet e altri software disponibili negli Stati Uniti).
Con il mio gruppo abbiamo potuto sperimentare e contribuire a realizzare un gioco
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 117
sull’alimentazione che ha lo scopo di insegnare la composizione degli alimenti
(Dietisk).
Si tratta di un gioco tipo“Tetris”basato sul concetto di impilare il nome dell’alimento
presentato sulla colonna giusta indicante la sua componente nutrizionale
caratterizzante ( proteine, glicidi, lipidi, fibre e alcol e oligosaccaridi). In questo modo
gli alimenti vengono presentati casualmente, c’è un punteggio, ci sono dei suoni, dei
rumori, si fanno dei punti.
Il gioco diventa sempre più veloce e difficile mettendo alla prova le conoscenza
sull’argomento e presentando il punteggio totalizzato.
I questionari informatizzati
Tutti noi conosciamo, ricordiamo un software di sei, sette anni fa, che era proprio un
questionario dove c’erano delle domande, ma anche i primi approcci educativi erano
questi: una domanda, risposte multiple, il paziente cliccava su una delle risposte, se
la risposta era giusta si passava alla domanda successiva, se la risposta era sbagliata
si tornava a una spiegazione che permettesse di migliorare l’informazione.
Questo sistema tagliava fuori tutti i diabetici con età al di sopra dei 30 anni, diciamo
l’80% dei nostri diabetici. Nonostante tutto ancora oggi i questionari cartacei sono
ancora utilizzati per valutare le conoscenze del diabetico. È però a tutti noto quanto
sia indaginoso e lungo rielaborare i questionari stessi, tanto indaginoso che nella
pratica clinica non vengono utilizzati.
Per questa ragione si è realizzato un programma di lettura automatica dei
questionari cartacei.
Su gentile concessione del Prof. Erle e della Dott.ssa Corradin, abbiamo preso il
questionario da loro realizzato e lo abbiamo stampato “tipo schedina del totocalcio”
dove per rispondere basta annerire nelle apposite aree.
Questo sistema che vantaggio ha?
Il paziente ha a disposizione il mezzo cartaceo, che è quello che normalmente
utilizza, e quindi quella quantità di pazienti che avevamo eliminato per
l’informatizzazione la riprendiamo perché gli diamo un mezzo familiare (la carta).
Però, informatizziamo la lettura. Questo foglio viene messo su uno scanner e in
questo modo facciamo leggere automaticamente decine e decine, di questionari al
computer. Vengono quindi prodotte risposte nelle quali si legge se ci sono risposte
giuste o sbagliate. Per le risposte giuste il programma da una risposta di conferma,
mentre, se ci sono risposte sbagliate, dice: “Guarda che hai sbagliato è questo
l’argomento che devi ristudiare”. Ovviamente questo non basta ma serve per
attivare con l’utente un colloquio specifico.
Il sistema può anche essere utilizzato per fare un follow-up nel tempo. Il paziente
questa volta avrà totalizzato 50 punti sul questionario della dieta, 100 punti su quella
dell’ipoglicemia, 20 punti sul piede: la prossima volta gli faccio rifare il questionario,
vedrò se il mio intervento educativo ha aumentato le conoscenze sul piede o no e
quindi l’educazione potrebbe essere quantizzata un po’ come la glicemia, come il
peso, come l’emoglobina glicosilata.
Il corso interattivo: noi tutti abbiamo esperienza di videocassette educative, di libri
educativi. Esiste un CD (compact disk) realizzato dall’ADA che comprende una serie
di corsi, di lezioni magistrali, di lezioni su un argomento, di esercitazioni. È un corso
interattivo che nasce simile a quello che si era detto del questionario, del rapporto
1:1, domanda e risposta, se giusta si va avanti, altrimenti si torna indietro, ma
realizzato in maniera molto più avanzata e multimediale..
I più moderni approcci dal punto di vista informatico sono i siti Internet informativi.
Il sito Internet informativo è altrettanto importante, un vantaggio che tutti quanti
118 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
L’incidenza del diabete mellito nel soggetto anziano è piuttosto rilevante e, tanto
nella fase post-acuta che in corso di malattie intercorrenti, è molto frequente il
rilievo di una tendenza verso lo scompenso glicemico. Tra i diversi fattori che di
conseguenza devono essere considerati, la dieta è sicuramente uno molto
importante. È pertanto fondamentale che il personale sanitario, che prende in carico
il paziente per la riabilitazione, sia in grado di monitorare e gestire questo
parametro.
Unitamente alla collaborazione con una dietista, sono stati analizzati i bisogni e i
problemi degli operatori dei reparti, nell’ottimizzare questo compito. Tra i bisogni
emergevano le frequenti richieste di modifica del menù per i degenti diabetici
mentre, tra i problemi, rilevati con interviste al personale ed assistendo alla
distribuzione dei pasti, emergevano una mancanza d’informazione corretta (es.: il
paziente diabetico, anche quando normopeso, deve mangiare solo cibi sconditi),
“false credenze“ (es.: l’unica frutta consentita è la mela renetta) e una porzionatura
delle pietanze assolutamente soggettiva.
È stato quindi organizzato un corso di formazione dove gli obiettivi generali erano:
• sensibilizzare il personale sull’importanza dell’alimentazione nel diabete mellito,
• fornire una corretta informazione su nutrienti e “dieta per diabetici”,
• effettuare una corretta porzionatura del cibo durante la dispensa,
gli obiettivi specifici erano:
• informare correttamente su:
- patologia diabetica
- nutrienti
- razioni di scambio
• addestrare correttamente a:
- distribuire le pietanze (cosa?)
- razionalizzare le porzioni (quanto?)
Il target era rappresentato dagli operatori dei reparti (infermieri professionali e
ausiliari socio-assistenziali) e dagli operatori della cucina.
Il mandato dalla Direzione era di formare 100 operatori: dato che il personale
interessato era di circa 300 unità, con un meccanismo a cascata, organizzando degli
incontri di reparto, si contava di far arrivare i messaggi fondamentali a tutti.
La progettazione del corso elaborata dalla dietologa e dalla dietista, prevedeva 10
incontri di 2 ore ciascuno e la realizzazione prevedeva:
• questionario distribuito all’inizio del corso, per valutare il livello di conoscenze;
tempo di compilazione 15 minuti;
• lezione teorica: svolta dalla dietista o dalla dietologa, con proiezione di lucidi;
argomenti trattati: i nutrienti, il contenuto calorico, il concetto di porzione, la dieta
del diabetico; durata 15 minuti;
• parte interattiva: condotta dalla dietista con l’ausilio della lavagna a fogli mobili:
120 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
BIBLIOGRAFIA
European Association for the Study of Diabetes: DESG Teaching Letters, 1997
Erle G, Corradin H: Il diabete e l’educazione. Casa Editrice Ambrosiana, 1997
Orsi E, Musacchio N: Nutrizione clinica e terapia dietetica. McGraw-Hill, 1996
Day LL, Assal JP: Educazione al paziente diabetico. In: Il diabete mellito: Trattato
internazionale. Ed. Mediserve, 1994
1 ° C O N G R E S S O R O C H E P A T I E N T C A R E
D GIORNALE ITALIANO DI
IABETOLOGIA
Valutazione
degli interventi
educativi
Tavola Rotonda
S. Squatrito (Catania)
G. Monesi (Rovigo)
E. Guastamacchia (Bari)
A. Piaggesi (Pisa)
H. Corradin (Vicenza)
A. Corsi (Genova)
M. Trento (Torino)
E. Benaduce (Torino)
non pervenuto
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 123
Come valutare
Ciasun metodo di valutazione presenta dei vantaggi e degli inconvenienti a seconda
del tipo di obiettivo che si vuole verificare, e il contesto nel quale si effettua il
controllo. Bisogna comunque disporre di strumenti di misura che rispondano a certe
qualità affinché i risultati siano significativi.
Caratteristiche principali di uno strumento di misura devono essere:
- validità: grado di precisione con la quale uno strumento misura quello che
vogliamo misurare
- affidabilità: costanza con la quale uno strumento misura una determinata variabile
- obiettività: grado di concordanza tra i giudizi espressi da esaminatori indipendenti
e competenti su ciò che costituisce una risposta corretta
- praticabilità: tempo necessario per la costruzione della prova, la somministrazione
e la valutazione dei risultati
Strumenti di valutazione
Dato il breve tempo a disposizione non potrò parlare di tutti gli strumenti di
valutazione, ma mi soffermerò su quelli più frequentemente utilizzati.
Tra le prove di valutazione delle conoscenze le più usate sono i quiz a scelta multipla
Questi metodi presentano dei vantaggi e degli svantaggi.
Vantaggi:
- verificare un gran numero di conoscenze
- esplorare la capacità di memorizzazione, comprensione e sintesi
- obiettività nella correzione
- automazione della correzione
Svantaggi
- rischio di verificare dettagli insignificanti
- difficoltà nella costruzione
Nella preparazione di questi quiz questi aspetti vengono spesso sottovalutati e per
questo non si attribuisce ad essi la giusta valenza.
Possono essere:
- a scelta libera
- a scelta semplice
- associativi
- di tipo causa-effetto
Per quel che riguarda la valutazione del “saper fare”e delle attitudini, il metodo più
utilizzato e più rispondente alla verifica di tale obiettivo è quello delle “griglie di
valutazione” o “check list”. Questi strumenti consentono di verificare tutte le
componenti di un’azione.
Più complesso è il problema della valutazione delle attitudini, del “saper essere”
perché questa passa attraverso l’osservazione di comportamenti che si assumono
quale espressione del modo di essere:
- puntualità, assiduità
- interesse
- grado di motivazione
- senso di responsabilità
- capacità di relazione
Valutazione dell’insegnamento
Infine, l’ultimo, ma non meno importante aspetto della valutazione, riguarda la
valutazione dell’insegnamento, cioè il giudizio che i discenti esprimono sul nostro
modo di insegnare.
A questo proposito vorrei citare l’affermazione di Cochran (pedagogo americano)
che dice: “un insegnamento deve sempre essere ritenuto inefficace fino a verifica del
contrario”.
La valutazione dell’insegnamento da parte dei discenti deve rappresentare uno degli
obiettivi primari di ogni processo valutativo. Ha lo scopo di:
- controllare l’efficacia dell’insegnamento
- informare i docenti sulla qualità del loro insegnamento al fine di poterlo
migliorare.
Si attua attraverso:
- l’analisi dei risultati delle prove di valutazione
- per identificare insufficienze nelle conoscenze e nel comportamento dei discenti
- per evidenziare errori legati alla formazione che hanno ricevuto
- l’uso di “questionari di opinione”
126 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
L’AMBIENTE EDUCATIVO
Gabriella Monesi
Unità Operativa di Diabetologia e Malattie Metaboliche, Ospedale di Rovigo
“Il che cosa”è il contenuto del messaggio complessivo che viene dato al Servizio, con
l’inserimento dell’intervento educativo tra le priorità del Servizio, e questa
impostazione permea il rapporto con il paziente e non è residuale o marginale
rispetto ai messaggi terapeutici proposti. Il messaggio è importante sia per le cose
dette, ma anche per ciò che non diciamo.
Se noi pensiamo al percorso di un nostro paziente al Servizio (tempi dedicati e
procedure), e ai contenuti dei messaggi che riceve, emerge che l’ambiente è
orientato in senso prevalentemente “metabolico”.
In tale situazione è difficile fare transitare, ad esempio, il messaggio che “il piede è
un problema del diabetico” e non solo la glicemia, e che al piede va posta la stessa
attenzione o un’attenzione prioritaria in presenza di alcune situazioni cliniche. E tale
problema ha cittadinanza specifica al Servizio. Ciò ha una funzione sia di rinforzo
rispetto alle proposte educative, che di riferimento per il paziente e la famiglia.
“A chi?” Il messaggio educativo va portato al paziente tenendo presente anche la
famiglia. Infatti essa può proiettare attitudini sanitarie sia positive che negative sui
suoi membri in caso di insorgenza di una malattia.
Se la famiglia, o membri significativi di essa, ritengono che la malattia è passibile di
un trattamento in grado di determinare un miglioramento, essa stimolerà il membro
malato della famiglia, in maniera tale da influenzare il comportamento sanitario.
È la somma di tutte le interazioni familiari che può condizionare il comportamento
sanitario del membro diabetico della
famiglia.
PROGETTO VERIFICA Al contrario, se il trattamento viene
ritenuto inefficace secondo il modello
Identifico destinatari e caratteristiche culturale-sanitario familiare, l’effetto sul
paziente sarà negativo, indipendente-
Identifico i bisogni dell’utente mente dalla realtà dei fatti in tema di
terapia (3).
Stabilisco le finalità educative La più frequente influenza familiare
negativa nei confronti del diabetico, e
Formulo gli obiettivi specifici
anche quella più correlabile, è rappre-
Individuo le sentata dalla scarsa informazione sani-
risorse taria.
Quindi è determinante il coinvolgimento
della famiglia oltre che del paziente. I
Programmo dettagliatamente percorsi presso il Servizio debbono
contenuti e metodi considerare tempi e risorse dedicati a ciò:
al contatto con la famiglia: all’accoglienza
dei membri della famiglia; ai contenuti dei
Pianifico le tecniche
messaggi; ai tempi dedicati; allo spazio per
di valutazione
accoglierli; agli operatori messi a dispo-
sizione; all’organizzazione di gruppi
Realizzo l’intervento di educativi per i familiari.
educazione alla salute Questo “interlocutore” diventa strategico
per creare e sostenere l’ambiente
educativo.
Verifico i risultati “Con che effetto”: è la verifica del feedback.
Nello schema di comunicazione unidire-
zionale o lineare, emittente → ricevente, si
Tabella I ha una semplice trasmissione di messaggio. Il ricevente ascolta, cerca di capire il
messaggio ricevuto, lo decodifica e fa la traduzione del messaggio.
Anche in questa semplice lettura, la circostanza in cui viene ricevuto il messaggio e
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 129
il contesto in cui si colloca, interagiscono col messaggio e influenzano la scelta dei Tabella II
codici che verranno impiegati per deco-
dificarlo.
Quindi l’ambiente nel quale viene posto il INTERVENTO EDUCATIVO per la prevenzione delle lesioni ai piedi
messaggio educativo ne influenza la
lettura e l’adesione. VERIFICA DELL’INTERVENTO
Va anche in tale ambito sottolineata la
necessità di una continuità educativa e una INDICATORI
coerenza educativa interna, per gli effetti
che tale situazione può avere sul paziente.
Dobbiamo considerare come emittente sia DI PROCESSO DI ESITO
l’operatore sanitario che “l’ambiente” dal Conoscenze Grado di lesione
quale nasce tale messaggio. Ispezione piede Percentuale di recidive
Ma la valutazione dell’effetto comprende Cura delle unghie Numero e tipo di amputazioni
anche la verifica del messaggio di ritorno, Cura igiene dei piedi
il feedback E← →R. Trattamento ipercheratosi
L’attenzione a ciò ci permetterà sia di Utilizzo fonti di calore
valutare l’effetto del messaggio, sia di Uso scarpe e calze idonee
riorganizzare la nostra proposta educativa.
Ed in questo l’emittente e il ricevente si
turnano nel rispettivo ruolo, e ciò trasforma una comunicazione in una relazione
sociale e crea l’ambiente educativo, per il riverbero di comunicazioni e discussioni
interne che ciò sollecita. Ambiente contenitore e suggeritore di questa relazione.
L’ambiente “educativo” va quindi ricercato e identificato nella sua specificità
all’interno e parallelo a ogni progetto educativo. In tale senso la classica procedura
(tab. I) utilizzata per programmare e verificare l’intervento educativo (4) va applicata
anche per “rivisitare”e programmare “l’ambiente”educativo.
Dovremo elaborare degli indicatori di risultato da porre a verifica del nostro
ambiente educativo, indicatori sia di esito che di processo.
Scendendo più al dettaglio, un esempio di tale modo di procedere può essere
applicato per gli interventi educativi per la prevenzione delle lesioni del piede
diabetico.
Da una parte imposteremo la verifica dell’intervento educativo, distinguendo tra
indicatori di processo e di esito. Tabella III
Negli indicatori di esito e di processo dell’intervento educativo, riteniamo che siano
questi i selezionabili (tab. II).
Così come imposteremo la verifica
INTERVENTO EDUCATIVO per la prevenzione delle lesioni ai piedi
dell’ambiente educativo utilizzando
propri indicatori di processo e di esito VERIFICA AMBIENTE EDUCATIVO
(tab. III).
Essi ci permettono di avere una INDICATORI
valutazione di come si svolge e viene
percepito il “percorso” assistenziale del
nostro paziente all’interno del Servizio. DI PROCESSO DI ESITO
In particolare nella valutazione di esito Chi dice Pazienti elegibili (a rischio)
sarà utile verificare se noi conosciamo Che cosa Pazienti invitati
quanti e quali pazienti del nostro A chi Pazienti partecipanti
Servizio sono effettivamente a rischio Con che effetto (il feedback) Familiari presenti (corso e
per lesioni ai piedi; quanti ne abbiamo verifica)
invitati ai corsi educativi; quanti hanno Percentuale di ricadute
accettato l’invito sia al corso che alle Grado lesione
verifiche successive (dopo sei mesi, Amputazioni
130 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
dopo un anno e dopo due); la percentuale delle ricadute di questi pazienti; delle
recidive di lesioni e il grado di lesione e le amputazioni; oltre che il numero dei
familiari che avevano partecipato a questi incontri.
Infatti se è molto discordante il numero di diabetici presenti, rispetto a quelli invitati,
e quelli invitati rispetto a quelli elegibili per evidenti fattori di rischio, ciò pone un
grosso interrogativo sul “chi dice, cosa, a chi”, sulla credibilità del percorso
terapeutico che proponiamo al nostro Servizio, pone la necessità di rivedere il
messaggio educativo che il nostro ambiente propone.
La stessa procedura di ricerca di indicatori specifici dell’ambiente educativo, qui
proposta per l’intervento educativo per la prevenzione delle lesioni ai piedi, va fatta
in parallelo per ogni gruppo educazionale che organizziamo.
Accanto agli indicatori di esito dell’intervento educativo per i diabetici insulino-
dipendenti, o per i ragazzi, o i gruppi educazionali sull’alimentazione nei diabetici
obesi, o per i gruppi dei diabetici insulino-trattati, vanno posti gli indicatori per la
verifica dell’ambiente educativo. E saranno anche qui indicatori di processo e di
esito.
Ciò trasformerà veramente il nostro modello assistenziale per il malato cronico dove
l’ambiente concorre all’educazione terapeutica, che assume così i connotati delineati
dall’OMS: “L’educazione terapeutica del paziente deve permettere al paziente di
acquisire e mantenere le capacità che gli consentono di realizzare una gestione della
propria vita con la malattia. L’educazione terapeutica del paziente è pertanto un
processo continuo, integrato nell’assistenza sanitaria. Essa è centrata sul paziente;
include la consapevolezza strutturata, l’informazione, l’apprendimento
dell’autogestione della cura e il sostegno psicosociale riguardanti la malattia, il
trattamento prescritto, l’assistenza, l’ospedale e gli altri ambienti assistenziali, le
informazioni riguardanti le organizzazioni coinvolte nella cura, il comportamento in
caso di salute e di malattia. Essa è finalizzata ad aiutare i pazienti e le loro famiglie
a comprendere la malattia e il suo trattamento, a cooperare con gli operatori sanitari,
a vivere una vita sana e a mantenere o migliorare la loro qualità di vita”(1).
BIBLIOGRAFIA
1. Report of a Who Working on Therapeutic Patiente Education: Continuing education
programmes for healtheare proveders in the field of prevention of chronic disease. Who-
Euro, Copenhagen, 1998
2. Bettelheim B: Psichiatria non oppressiva. Feltrinelli ed, 1976
3. Braga G: La comunicazione verbale. Angeli, Milano, 1985, p. 67
4. Eweles L, Simnett I: Educazione alla salute: una metodologia operativa. Milano Sorbona
ed, 1990
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 131
Gli aspetti psicologici che si accompagnano al diabete mellito tipo 1 e tipo 2 sono
stati oggetto di numerosi studi, sia in passato che recentemente. Comprendiamo
tutti quale sia l’importanza da parte del diabetologo di avere una conoscenza in
questo campo per i rapporti che egli ha con il paziente diabetico che a sua volta
instaura dei rapporti complessi con la malattia, con il medico stesso e con l'ambiente
familiare e sociale.
Al contrario, rari, pochissimi dati noi abbiamo relativamente a una verifica degli
aspetti psicologici dopo un corso di educazione sanitaria.
In un lavoro del 1997 (Psychological and metabolic improvement after an outpatient
teaching program for functional intensified insulin therapy (FIT) di Langewitz W,
Wossner B, Iseli J, Berger W pubblicato su Diabetes Research and Clinical Practice),
per esempio, uno dei pochi lavori che ho trovato sull’argomento, si sottolinea come
dopo un corso di educazione mirante a migliorare la capacità di autogestione dei
pazienti diabetici, per quanto riguarda l’insulino-terapia intensiva funzionale, ci
fosse un miglioramento sia metabolico sia degli aspetti emotivi quali l’ansia e la
depressione; miglioramenti significativi, a dispetto anche di una qualità della vita
piuttosto sacrificata.
Proprio per la rarità dei dati, ho rispolverato uno studio fatto da noi tempo fa e
pubblicato sul Giornale Italiano di Diabetologia che esaminava 40 soggetti diabetici Figura 1
di tipo 1 di cui 25 maschi e 15 femmine di età media di 19,1±4,1 anni e con una Percentuali di
risposte esatte, prima
durata media di malattia di 5,7±5,2 anni. e dopo il corso, di
A questi pazienti furono somministrati sia dei questionari a scelta multipla (per una tutti i pazienti
valutazione nozionistica) sia delle scale di autovalutazione dell’ansia e della esaminati
depressione di Zung. I risultati furono
piuttosto interessanti. Nel 60% di questi
pazienti, infatti, l’apprendimento risultò 100 prima
soddisfacente per la maggior parte degli P< 0,0001 dopo
argomenti trattati (teoria, pratica iper- 80
glicemia, attività fisica, terapia, igiene del
Risposta esatta %
Alimentazione
Argomenti:
Attività fisica
Iperglicemia
Ipoglicemia
comprendeva 24 pazienti che presentavano
Terapia
Pratica
Igiene
Teoria
un significativo miglioramento delle
Significatività * * n.s.
* * * * n.s. acquisizioni nozionistiche, associato a una
100 significativa riduzione dell’ansia e della
80
depressione. Dai colloqui avuti in seguito da
Risposta esatta %
Il problema della valutazione degli educatori è uno degli aspetti più complessi
dell’intera materia dell’educazione per i pazienti diabetici.
La qualità e l’efficacia degli interventi educativi rivolti ai pazienti dipende infatti in
modo diretto dal livello di formazione degli educatori, che a sua volta comprende
aspetti cognitivi, aspetti prassici, aspetti metodologici e aspetti emotivo-
comportamentali.
Negli Stati Uniti già da tempo sono stati fissati degli standard per definire i requisiti
minimi degli interventi educativi, e la American Diabetes Association (ADA) ha
recentemente rivisto questi standard, che sono stati pubblicati nell’edizione per il
1999 delle “Clinical Practice Recommendations”(1, 2).
Secondo quanto si può leggere al punto 10.1, le caratteristiche di un educatore,
perché possa essere definito tale, sono: essere un operatore sanitario professionista,
e aver cumulato almeno 16 ore di educazione che comprenda una combinazione di
diabete, principi educativi e strategie comportamentali (tab. I).
Tale definizione non entra nel merito di che cosa debba conoscere o saper fare
l’educatore, né del come tali competenze gli siano state trasmesse, e risponde più a Tabella I
esigenze certificative che non scientifiche. Standard dell’ADA
In Europa non vi sono attualmente standard paragonabili, né probabilmente ve ne circa i requisiti di un
saranno, poiché la filosofia è diversa: piuttosto che stabilire pragmaticamente un educatore sul
diabete
livello minimo, la tendenza è piuttosto quella di indiviudare i criteri di valutazione
che possano verificare la capacità e
l’efficacia sia degli interventi educativi sia
degli educatori (3). In Italia il Gruppo Standard 10.1: Program instructors are health care professional
Italiano di Studio per l’Educazione sul with a valid license, registration, or certification and
Diabete (GISED), ha negli anni passati who are Certified Diabetes Educators or have
costituito il punto di riferimento culturale completed at least 16 h of approved continuing
in campo diabetologico sull’educazione e education that includes a combination of diabetes,
ha prodotto, nel corso degli anni, una serie educational principles and behavioural strategies.
di strumenti anche di valutazione, che
riflettevano il mutare delle posizioni
culturali riguardo il ruolo dell’educatore. Tali strumenti possono essere classificati
come strumenti cognitivi, strumenti prassici e strumenti pedagogici (tab. II).
Nei primi anni ’80 fu messo a punto un questionario, successivamente validato su
una vasta popolazione, che investigava gli aspetti cognitivi dell’educazione, e
rappresentò il primo strumento utilizzabile sia per i pazienti che per gli educatori, Tabella II
cui si affiancava ovviamente la verifica diretta. Gli strumenti
Successivamente, soprattutto in relazione agli interventi formativi strutturali per la valutazione
effettuati sia sulle équipe diabetologiche,
che su gruppi di infermieri professionali
diabetologici e non, furono elaborati Strumenti cognitivi Questionari, verifica cognitiva diretta
strumenti volti a verificare gli aspetti Strumenti prassici Checklist valutativa, simulazione
prassici del processo educativo, quelli cioè Strumenti pedagogici Metaplan, Role-Playing, Griglie
relativi all’acquisizione di competenze
134 1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE
BIBLIOGRAFIA
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Education Program. Diabetes Care 18, 100-114, 1995
2. American Diabetes Association (ADA): Clinical Practice Recommendations 1999.
National standards for diabetes self-management education programs and ADA review
criteria. Diabetes Care 22 (suppl 1), S111-S114, 1999
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curriculum for health professional. 3ed printing, AADE, 1992
4. Piaggesi A, Bini L. Castro Lòpez E, Giampietro O, Schipani E, Navalesi R: Knowledge on
diabetes and performance among health professional in non-diabetological department.
Acta Diabetol 30, 25-28, 1993
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service education for health professionals from non-diabetological departments. Acta
Diabetologica 33 (4), 277-283, 1996
6. Lawrance PA, Dowe MC, Perry EK, Strong S, Samsa GP: Accuracy of nurses in
performing capillary blood glucose monitoring. Diabetes Care 12, 298-301, 1989
1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 137
Anche per la valutazione è poco praticabile una cultura burocratica centrata sul
ragionamento obiettivo-risultato, su tecniche che siano fondate solo sulla
misurazione quantitativa degli scarti tra risultati e obiettivi, dato che gli effetti di un
intervento formativo tendono a produrre risultati non riducibili agli obiettivi
predeterminati.
Oggi, in maniera realistica ed efficace, si tende a considerare la valutazione come un
processo di ricerca per ricostruire induttivamente dagli effetti dell’intervento il
sistema di relazioni che gli attori implicati hanno creato, così da comprendere tutta
la ricchezza dei risultati.
Considerazioni conclusive
A mio avviso è importante arrivare presto a una concezione più moderna della
valutazione per non vivere una dicotomia. Infatti si sono avuti progressi notevoli a
livello di progettazione anche per la diffusione sul territorio nazionale di iniziative di
formazione centrate sui nuovi approcci terapeutici al paziente cronico, con la
relazione di aiuto e il Counseling, che stanno portando gli operatori verso le nuove
frontiere dell’empowerment, l’aiuto alla persona ad acquisire capacità di autocontrollo
e autogestione con la consapevolezza che può prendere in carico se stessa.
Occorre dilatare i confini della valutazione anche attraverso la ricerca. Non siamo
macchine ma operatori pensanti, capaci di creare anche nuovi modelli organizzativi
e metodologici; il paziente non può più essere escluso dalla valutazione e dal
processo di crescita culturale.
BIBLIOGRAFIA
Berger G: Mais qu’est qui nous prend à évaluer? Pour 55, 1977
Braga G: Prospettive cibernetiche in sociologia. Rassegna Italiana di Sociologia 4, 1972
Castagna M: Progettare la formazione. Angeli, Milano, 1991
Chesne B: Le vocabulaire de l’évaluation. Pour 55, 1977
Contessa G: La Formazione. Città Studi, Milano, 1993
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lano, 1990
Demetrio D: Micropedagogia. La Nuova Italia, Firenze, 1992
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Lipari D: Progettazione e valutazione nei processi formativi. Edizioni Lavoro, Roma, 1995.
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1° C ONGRESSO R OCHE PATIENT C ARE 141
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