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Sommario

Copertina
Frontespizio
Copyright
Dedica
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
Capitolo 44
Capitolo 45
Capitolo 46
Capitolo 47
Capitolo 48
Capitolo 49
Capitolo 50
Capitolo 51
Capitolo 52
Capitolo 53
Epilogo
Ringraziamenti
ISBN: 978-88-347-3364-6
Edizione ebook: maggio 2017
Titolo originale: babylon’s Ashes
© 2016 by Daniel Abraham and Ty Franck
© 2017 by Fanucci Editore
tel. 06.39366384 – email: info@fanucci.it
Indirizzo internet: www.fanucci.it
Indirizzo internet: www.fanucci.it
Proprietà letteraria e artistica riservata
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
A Matt, Hallie e Kenn,
che non ottengono nessun riconoscimento ma rendono tutto possibile.
Prologo
Namono

Le rocce erano cadute tre mesi prima, e adesso Namono poteva di nuovo
vedere un po’ di blu nel cielo. L’impatto a Laghouat – il primo dei tre che
avevano devastato il mondo – aveva scaraventato in aria tanta parte del Sahara
che lei non aveva più visto la luna o le stelle per settimane. Perfino il disco
rossiccio del sole aveva faticato a penetrare le nuvole sporche, cenere e sabbia
erano piovute su Abuja fino ad accumularsi per le strade, tingendo la sua città
dello stesso colore fra il giallo e il grigio del cielo. Mentre aiutava le squadre di
volontari a rimuovere le macerie e a prendersi cura dei feriti, aveva compreso
che la tosse che la squassava e il catarro nero che continuava a sputare erano
causati dal respirare ciò che restava dei morti.
C’erano tremilacinquecento chilometri fra Abuja e il cratere che ora occupava
lo spazio in cui un tempo c’era Laghouat, e tuttavia l’onda d’urto aveva distrutto
le finestre e fatto crollare parecchi edifici. I notiziari avevano parlato di duecento
morti in tutta la città, e di quattromila feriti. Le cliniche erano intasate e
chiedevano a chi non era in immediato pericolo di vita di restare a casa.
La griglia di alimentazione si era degradata in fretta. Non c’era luce per
alimentare i pannelli solari, e l’aria polverosa faceva guastare i parchi eolici più in
fretta di come le squadre di manutenzione riuscivano a intervenire per ripulirli.
Quando finalmente avevano avviato un reattore a fusione, a nord dei cantieri di
Kinshasa, metà della città aveva già trascorso quindici giorni al buio. La
precedenza veniva data alle serre idroponiche, agli ospedali e agli edifici
governativi, e comunque c’erano ancora continui cali di tensione, quasi tutti i
giorni. L’accesso alla rete tramite i terminali palmari era saltuario e inaffidabile, a
volte restavano tagliati fuori dal mondo per giorni di fila. Era prevedibile, disse a
sé stessa, come se in tutto quello ci fosse qualcosa che avrebbe potuto essere
previsto.
E tuttavia adesso, dopo tre mesi, c’era un’apertura in quel vasto cielo coperto.
Mentre il sole rosso scivolava verso ovest, le luci delle città sulla Luna apparvero
verso est, gemme su un campo blu. Certo, era contaminato, sporco, incompleto,
ma era blu. Nono trasse conforto da questo pensiero, mentre camminava.
Il distretto internazionale era recente, da un punto di vista storico, e pochi di
quegli edifici avevano più di cent’anni di vita. La preferenza di una generazione
precedente per vasti viali che passavano in mezzo a labirinti di strette strade
sinuose e per forme architettoniche quasi organiche contrassegnava quei
quartieri. Zuma Rock si ergeva al di sopra del tutto, un permanente punto di
riferimento. La cenere e la polvere potevano striare la pietra, ma non potevano
cambiarla. Quella era la città natale di Nono, il posto dove era cresciuta e dove
aveva riportato la sua piccola famiglia alla fine delle sue avventure. La dimora
della sua tranquilla pensione.
Scoppiò in un’amara risata che si trasformò in un accesso di tosse.
Il centro di soccorso era un furgone parcheggiato al limitare di un parco
pubblico, con il logo di una fattoria idroponica, l’icona di una foglia trilobata,
sulla fiancata. Non apparteneva alle Nazioni Unite, e neppure
all’amministrazione locale. Gli strati della burocrazia erano stati logorati
dall’urgenza della situazione. Sapeva che avrebbe comunque dovuto esserne
grata, perché c’erano posti dove quei furgoni non arrivavano neppure.
Lo strato di polvere e cenere aveva creato una crosta sui pendii delle colline,
un tempo erbosi; qua e là c’erano crepe e solchi irregolari, come le tracce lasciate
da un enorme serpente, che mostravano dove i bambini avevano cercato di
giocare comunque, ma adesso nessuno scivolava lungo quei pendii. C’era
soltanto la coda che si andava formando. Nono si mise in fila. Gli altri che
aspettavano insieme a lei avevano il suo stesso sguardo vuoto, effetto dello
shock e dello sfinimento, della fame e della sete. Il distretto internazionale aveva
vaste comunità norvegesi e vietnamite, ma quale che fosse il colore della pelle o
dei capelli, la cenere e il dolore avevano fatto di tutti loro un’unica tribù.
Il lato del furgone si aprì e la coda si agitò un poco per un senso di
anticipazione: stavano per ricevere un’altra settimana di razioni, non importava
quanto potessero essere scarse. A mano a mano che il suo turno si avvicinava,
Nono avvertì un leggero senso di vergogna al pensiero che per la maggior parte
della sua vita non aveva mai avuto bisogno delle razioni di base. Era stata uno di
quelli che prestavano aiuto agli altri, non una che ne avesse avuto bisogno.
Adesso però ne aveva.
Arrivò in testa alla coda. Aveva già visto altre volte l’uomo che distribuiva i
pacchi: aveva un volto largo e scuro, punteggiato di lentiggini nere. Le chiese il
suo indirizzo e lei lo fornì, poi l’uomo armeggiò per un momento e infine le
porse un pacco avvolto nella plastica bianca, con l’efficienza automatica
derivante dalla pratica. Nono lo prese: era spaventosamente leggero. L’uomo
incontrò il suo sguardo solo quando lei non accennò ad allontanarsi.
«Ho una moglie» disse Namono. «E una figlia.»
Un lampo di pura rabbia, violenta come uno schiaffo, accese gli occhi
dell’uomo. «Se possono far crescere l’avena più in fretta o evocare riso dall’aria,
allora mandale da noi. Altrimenti, stai bloccando la fila.»
Lei sentì le lacrime salire brucianti a colmarle gli occhi.
«Un pacco per famiglia» scattò l’uomo. «Muoviti.»
«Ma...»
«Vai!» gridò lui, schioccando le dita. «C’è gente dietro di te.»
Namono si mosse, e sentì l’uomo borbottarle dietro qualcosa di osceno,
mentre si allontanava. Le sue lacrime non erano fitte, quasi non valeva la pena di
asciugarle, ma bruciavano terribilmente.
Si infilò il pacchetto con le razioni sotto il braccio e non appena gli occhi si
furono ripresi abbastanza da permetterle di vedere, abbassò la testa e si
incamminò verso casa. Non poteva indugiare lì. C’erano altri, più disperati o con
principi meno solidi dei suoi, che si appostavano agli angoli o negli androni e
aspettavano che si presentasse l’occasione di rubare filtri per l’acqua e cibo agli
incauti. Se non avesse camminato con fare deciso, avrebbero potuto scambiarla
per una vittima. Per qualche tempo la sua mente affamata ed esausta si
intrattenne con la fantasia di combattere contro eventuali ladri, come se la
catarsi della violenza potesse portarle qualche misura di pace.
Nel lasciare le loro stanze aveva promesso ad Anna che tornando a casa si
sarebbe fermata dal Vecchio Gino per accertarsi che anche lui arrivasse al
furgone delle razioni, ma quando raggiunse la svolta tirò dritto. La stanchezza le
era già penetrata fin nel midollo, e la prospettiva di sorreggere il vecchio e di
tornare a fare la coda insieme a lui era più di quanto potesse affrontare. Avrebbe
detto di essersene dimenticata, e sarebbe stato quasi vero.
Nel raggiungere la curva che dall’ampio viale portava alla strada residenziale a
fondo cieco dove abitavano, scoprì che le sue fantasie violente si erano
modificate: gli uomini che immaginava di picchiare fino a costringerli a scusarsi
e a implorare il suo perdono non erano ladri, ma il tizio con le lentiggini che
lavorava al furgone. ‘Se possono far crescere l’avena più in fretta.’ Cosa aveva
inteso dire? Aveva forse fatto una battuta sull’usare i loro corpi come
fertilizzante? Aveva osato minacciare la sua famiglia? Chi diavolo credeva di
essere?
No, rispose una voce nella sua mente, nitida come se Anna fosse stata lì per
pronunciare quelle parole. No, era arrabbiato perché voleva fare di più per essere d’aiuto,
e non poteva. Sapere che tutto quello che puoi dare non è abbastanza è di per sé un fardello.
Tutto qui. Perdonalo.
Namono sapeva che avrebbe dovuto, ma non lo fece.
La loro casa era piccola, una mezza dozzina di stanze pressate una contro
l’altra come una manciata di sabbia umida premuta nella mano di un bambino.
Non c’era niente che fosse ben allineato, nessun angolo era perfettamente
squadrato, e questo dava allo spazio la sensazione di essere qualcosa di naturale,
come una grotta o una caverna, piuttosto che qualcosa di costruito. Prima di
aprire la porta si fermò per un momento, per sgombrarsi la mente. Il sole al
tramonto era scivolato dietro Zuma Rock, la sabbia e il fumo nell’aria
mostravano dove ampi raggi di luce fiottavano al di là di essa, dando
l’impressione che la pietra avesse un’aureola. Nel cielo sempre più scuro
spiccava un punto luminoso: Venere. Forse quella sera ci sarebbero state un po’
di stelle. Si aggrappò a quel pensiero come a una barca di salvataggio in alto
mare. Forse ci sarebbero state le stelle.
Dentro, la casa era pulita. I tappeti erano stati sbattuti, i pavimenti di mattoni
spazzati, l’aria profumava di lillà grazie alla candela aromatica che uno dei
parrocchiani di Anna aveva portato loro. Namono si asciugò le ultime lacrime.
Poteva fingere che il rossore degli occhi fosse dovuto all’aria esterna. Anche se
non le avessero davvero creduto, avrebbero potuto fingere di farlo.
«Salve!» chiamò. «C’è nessuno in casa?»
Nami lanciò uno strillo dalla camera da letto sul retro, poi si sentì il rumore dei
suoi piedi nudi sui mattoni mentre si lanciava verso la porta. La loro bambina
non era più tanto piccola, adesso arrivava all’ascella di Nono, o alla spalla di
Anna, aveva perso la gentile rotondità della fanciullezza e in lei cominciava a
fiorire la goffa bellezza da puledro dell’adolescenza. La sua pelle era di poco più
chiara di quella di Nono, i capelli erano altrettanto folti e ricci, ma aveva un
sorriso russo.
«Sei tornata!»
«Certo» rispose Nono.
«Cosa ci hanno dato?»
Namono prese il pacco bianco con le razioni e lo mise nelle mani della figlia,
chinandosi in avanti con un sorriso complice. «Perché non vai a scoprirlo e poi
vieni a dirmelo?»
Nami sorrise e si allontanò di corsa verso la cucina, come se riciclatori per
l’acqua e avena a crescita rapida fossero stati uno splendido regalo. Il suo
entusiasmo era enorme, e in parte era sincero, ma in parte serviva a dimostrare
alle sue madri che stava bene, che non dovevano preoccuparsi per lei. Così tanta
parte della loro forza – tutta la loro forza – derivava dal cercare di proteggersi a
vicenda. Nono non sapeva se questo migliorasse o peggiorasse le cose.
In camera da letto, Anna giaceva sui cuscini; uno spesso volume di Tolstoj,
Guerra e Pace, era posato accanto a lei, con la costa rovinata per essere stato letto
tante volte. La sua carnagione appariva grigiastra, il volto scavato. Nono le
sedette accanto con cautela, posandole una mano sulla pelle esposta della coscia
destra, appena sopra il punto in cui il ginocchio era stato schiacciato. La pelle
non era più calda al tatto e non era tesa come un tamburo. Quelli erano segni
positivi.
«Oggi il cielo era azzurro» le disse. «Stanotte potrebbero esserci le stelle.»
Anna sfoggiò il suo sorriso russo, lo stesso che Nami aveva ereditato dai suoi
geni. «Questo è un bene. Un miglioramento.»
«Dio sa che c’è spazio per qualche miglioramento» rispose Nono, e si pentì
dello scoraggiamento che le traspariva dalla voce nel momento stesso in cui
proferì quelle parole. Cercò di attenuare la cosa prendendo la mano di Anna
nelle sue. «Anche tu hai un aspetto migliore.»
«Niente febbre, oggi» replicò Anna.
«Per niente?»
«Ecco, solo un poco.»
«Ci sono stati molti ospiti?» continuò Nono, cercando di mantenere leggero il
tono della voce. Dopo che Anna era rimasta ferita, i suoi parrocchiani si erano
dati molto da fare, portando doni e offerte di aiuto fino a rendere impossibile ad
Anna di riposare. A quel punto Namono era intervenuta e li aveva mandati via.
Pensava che Anna lo avesse permesso soprattutto perché impediva al suo gregge
di regalare provviste di cui non poteva in realtà privarsi.
«È venuto Amiri» rispose Anna.
«Davvero? E cosa voleva mio cugino?»
«Domani terremo un cerchio di preghiera. Solo una dozzina di persone. Nami
ha aiutato a ripulire la stanza sul davanti per ospitarlo. So che prima avrei
dovuto chiedertelo, ma...»
Anna accennò alla gamba gonfia, come se la sua incapacità di salire sul pulpito
fosse stata la cosa peggiore che le era successa, e forse lo era.
«Se ti senti abbastanza in forze» replicò Namono.
«Mi dispiace.»
«Ti perdono. Di nuovo. Sempre.»
«Sei buona con me, Nono.» Poi, a voce bassa perché Nami non potesse
sentire, Anna aggiunse: «Mentre eri fuori c’è stato un allarme.»
Namono sentì il cuore che le si raggelava. «Dove colpirà?»
«Non lo farà. L’hanno distrutta. Però...»
Il silenzio si protrasse. Però ce n’era stata un’altra. Un’altra roccia scagliata giù
per il pozzo gravitazionale, verso i fragili resti della Terra.
«Non l’ho detto a Nami» continuò Anna, come se proteggere la figlia dalla
paura fosse stato un altro peccato che richiedeva il perdono.
«Va tutto bene» la rassicurò Namono. «Se sarà necessario, lo farò io.»
«Come sta Gino?»
Un ‘mi sono dimenticata’ fluttuò in fondo alla gola di Namono, ma non riuscì
a mentire. Poteva farlo con sé stessa, forse, ma gli occhi limpidi di Anna lo
vietavano. «Ci andrò adesso.»
«È importante» insistette Anna.
«Lo so. È solo che sono così stanca...»
«È per questo che è importante» ribatté Anna. «Quando arriva una crisi, è
naturale unire le forze. In quel momento è facile. È quando le cose si trascinano
per troppo tempo che dobbiamo fare lo sforzo. Dobbiamo accertarci che tutti
vedano che siamo insieme in questa situazione.»
A meno che non fosse arrivata un’altra roccia e la marina non l’avesse
intercettata in tempo. A meno che le serre idroponiche non fossero collassate
sotto lo sforzo a cui erano sottoposte e avessero finito per patire tutti la fame. A
meno che i riciclatori dell’acqua non si fossero guastati o che fosse successo un
migliaio di cose differenti, ciascuna delle quali significava la morte.
Anche allora, però, per Anna non sarebbe stato un fallimento, non finché
fossero stati tutti buoni e gentili uno con l’altro. Se si fossero aiutati a vicenda a
raggiungere la tomba, Anna avrebbe sentito di seguire la sua vocazione, e forse
avrebbe avuto ragione.
«Certamente» annuì Namono. «Volevo soltanto portarvi le provviste, prima.»
Un momento più tardi Nami entrò di corsa, stringendo un riciclatore in
ciascuna mano. «Guardate! Un’altra gloriosa settimana a bere urina e sporca
acqua piovana pulite e riciclate!» disse con un sorriso, e Namono rimase colpita
per la milionesima volta da quale perfetto distillato delle sue madri lei fosse.
Il resto del pacco conteneva dischi di avena pronti per essere cucinati,
pacchetti di qualcosa che una scritta in cinese e in hindi dichiarava essere pollo
alla Stroganoff, e una manciata di pillole. Vitamine per tutti loro, antidolorifici
per Anna. Almeno questo era qualcosa.
Namono sedette accanto ad Anna, tenendole la mano, finché le sue palpebre
non cominciarono ad abbassarsi e le guance assunsero quella morbidezza che
annunciava l’arrivo del sonno. Attraverso la finestra, gli ultimi bagliori del
crepuscolo ardevano rossi e già sfumavano nel grigio. Il corpo di Anna si rilassò
leggermente, la tensione delle spalle si allentò e i solchi sulla fronte si rilassarono.
Anna non si lamentava, ma la sofferenza per la lesione, unita allo stress
derivante dal trovarsi improvvisamente azzoppata, si erano mescolati alla paura
comune a tutti loro. Era un piacere guardare tutto questo dissolversi, anche solo
per un momento. Anna era sempre una donna attraente, ma quando dormiva
era bellissima.
Nono attese che il suo respiro si facesse profondo e regolare prima di alzarsi.
Era quasi alla porta quando Anna parlò con voce inspessita dal sonno.
«Non dimenticarti di Gino.»
«Ci vado adesso» mormorò Nono, e il respiro di Anna tornò a farsi quello
pesante del sonno profondo.
«Posso venire anch’io?» chiese Nami, quando Nono si diresse alla porta. «I
terminali non funzionano di nuovo, e qui non c’è niente da fare.»
Nono soppesò risposte come ‘Là fuori è troppo pericoloso’, oppure ‘Tua
madre potrebbe aver bisogno di te’, ma lo sguardo di sua figlia era troppo
speranzoso. «Sì, ma vai a metterti le scarpe.»
Il tragitto fino a casa di Gino fu una danza nell’ombra. I pannelli solari delle
luci di emergenza avevano incamerato abbastanza luce da far sì che la metà delle
case che oltrepassavano emanassero dall’interno un leggero chiarore. Non era
più di quello di una candela, ma era comunque più di quanto ce ne fosse stato in
precedenza. La città in sé stessa era ancora buia. Niente lampioni, niente luci sui
grattacieli, e solo qualche intenso punto luminoso lungo la struttura sinuosa
dell’arcologia, a sud.
Namono fu assalita dal ricordo improvviso di quando era stata più giovane di
quanto fosse sua figlia in quel momento, diretta sulla Luna per la prima volta.
Ricordò l’assoluta luminosità delle stelle e la nuda bellezza della Via Lattea.
Anche con lo strato di sabbia e di polvere ancora sospeso in alto nell’aria, sopra
di loro, adesso c’erano più stelle di quando l’inquinamento luminoso le aveva
soffocate. Splendeva la luna, una falce d’argento che racchiudeva una ragnatela
d’oro. Prese la figlia per mano.
Le dita della ragazza sembravano così spesse e solide, rispetto a com’erano
state un tempo. Stava crescendo, non era più la loro piccolina. Avevano fatto
così tanti progetti riguardo all’università, e al viaggiare insieme, ma adesso era
tutto svanito. Il mondo in cui avevano creduto di allevarla era scomparso.
Avvertì un senso di colpa, come se ci fosse stato qualcosa che avrebbe potuto
fare per impedire che tutto accadesse, come se in qualche modo esso fosse colpa
sua.
Nell’oscurità sempre più fitta si sentivano delle voci, anche se non tante
quanto un tempo. Prima, nel quartiere c’era stata una certa vita notturna, pub e
artisti di strada, e quella musica dura e sferragliante che era venuta di moda di
recente era risuonata nelle vie come se qualcuno stesse scaricando mattoni.
Adesso la gente andava a dormire quando calava il buio e si svegliava con le
prime luci. Colse l’odore di qualcosa che cuoceva. Era strano come perfino
l’avena bollita potesse dare un senso di conforto. Si augurò che il vecchio Gino
fosse andato al furgone, o che uno dei parrocchiani di Anna ci fosse andato per
lui, altrimenti Anna avrebbe insistito per dargli parte delle loro scorte, e lei le
avrebbe permesso di farlo.
Però non era ancora successo, ed era inutile cercarsi guai prima che
succedessero. Ce n’erano già a sufficienza lungo la strada. Quando arrivarono
alla svolta della strada del Vecchio Gino, la luce solare era ormai del tutto
scomparsa, e l’unico segno della presenza della Zuma Rock era un’area di
oscurità più profonda che si ergeva per migliaia di metri al di sopra della città. Il
suolo stesso saliva verso il cielo come un pugno proteso in un atto di sfida.
«Oh» disse Nami. Non era tanto una parola quanto un sussulto. «L’hai vista?»
«Cosa?» chiese Namono.
«Una stella cadente. Ce n’è un’altra! Guarda!»
Sì, lassù, in mezzo alle stelle tremolanti ma immobili c’era una breve scia di
luce. E poi un’altra. Mentre stavano ferme lì, mano nella mano, ne videro una
mezza dozzina, e Namono riuscì a stento a trattenersi dal tornare indietro, dallo
spingere sua figlia sotto il riparo di una porta, cercando di proteggerla. C’era
stato un allarme, ma quel che restava della marina delle Nazioni Unite aveva
intercettato quella roccia. Le chiazze di fuoco che solcavano la parte alta
dell’atmosfera potevano non essere neppure detriti di quel proiettile. O forse lo
erano.
In ogni caso, un tempo le stelle cadenti erano state qualcosa di bello, di
innocente, ma non lo sarebbero state mai più. Non per lei, o per chiunque altro
sulla Terra. Ogni chiazza di luce era un sussurro di morte, il sibilo di una
pallottola, un promemoria nitido come una voce. Tutto questo può finire, e voi non
potete fermarlo.
Un’altra scia, luminosa come una torcia, fiorì in una silenziosa palla di fuoco
grande quanto l’unghia del suo pollice.
«Quella era grande» commentò Nami.
No, pensò Namono, non lo era.
1
Pa

«Non hai nessun fottuto diritto di fare questo!» urlò il proprietario della
Hornblower, non per la prima volta. «Abbiamo lavorato per procurarci quello che
abbiamo. È nostro.»
«Ne abbiamo già discusso, signore» replicò Michio Pa, capitano della
Connaught. «La vostra nave e il suo carico vengono requisiti per ordine della
Marina Libera.»
«Quella vostra balla della missione di soccorso? Se i cinturiani hanno bisogno
di provviste, che le comprino. Quello che è mio è mio.»
«Ce n’è bisogno. Se aveste cooperato quando vi abbiamo ordinato...»
«Ci avete sparato addosso! Avete danneggiato il cono del reattore.»
«Avete tentato di evitarci. I vostri passeggeri e l’equipaggio...»
«Marina Libera un fottuto accidente! Siete ladri! Siete pirati!»
Alla sinistra di Michio il suo primo ufficiale Evans, che era anche la più
recente aggiunta alla sua famiglia, grugnì come se avesse incassato un pugno.
Quando si girò verso di lui, i suoi occhi azzurri cercarono il suo sguardo e lui
sorrise: denti candidi e un volto troppo avvenente. Era bello, e sapeva di esserlo.
Michio spense il microfono, lasciando che la sfilza di invettive continuasse a
scaturire dalla Hornblower senza ribattere, e rivolse a Evans un cenno per
chiedergli quale fosse il problema.
Evans indicò la consolle con il pollice. «È così infuriato» commentò. «Quel
povero coyo sta protestando come se avessimo ferito i suoi sentimenti.»
«Sii serio» ingiunse Michio, ma lo disse sorridendo.
«Sono serio. Fragé bist.»
«Fragile... tu?»
«Nel mio cuore» ribatté Evans, premendosi il palmo della mano sul torace
scultoreo. «Sono un ragazzino.»
All’altoparlante, intanto, il proprietario della Hornblower era veramente fuori di
sé per la rabbia. A sentire lui, Pa era una ladra e una puttana e il genere di
persona a cui non importava a chi morissero i figli, purché ricevesse il suo
stipendio al giorno di paga. Se fosse stato suo padre, l’avrebbe uccisa, invece di
permetterle di disonorare così la sua famiglia. Evans ridacchiò.
Nonostante tutto, anche Michio scoppiò a ridere. «Lo sapevi che il tuo accento
si fa più marcato quando flirti?» domandò.
«Sì» rispose Evans. «Sono solo un complesso insieme di affettazione e vizio,
però ho distolto la tua mente da lui. Cominciavi a perdere il controllo.»
«E non ho ancora finito di farlo» ribatté lei, riattivando il microfono. «Signore.
Signore! Possiamo almeno convenire sul fatto che sono un pirata che si offre di
rinchiuderla nella sua cabina durante il tragitto fino a Callisto, invece di
scaraventarla nello spazio? Questo le andrebbe bene?»
Alla radio ci fu un momento di sconvolto silenzio, poi un ruggito di furia
incoerente che si trasformò in frasi come ‘bere il tuo fottuto sangue cinturiano’ e
‘ucciderti se ci provi’. Michio sollevò tre dita. Dall’altro lato del ponte di
comando, Oksana Bush agitò una mano in segno di assenso e attivò il controllo
degli armamenti.
La Connaught non era una nave cinturiana, non originariamente. Era stata
costruita dalla Marina della Repubblica Congressuale Marziana ed era
equipaggiata con un ampio assortimento di sistemi esperti tecnici e militari.
Ormai, era in loro possesso da quasi un anno e si erano addestrati a gestirla,
dapprima in segreto. Poi, quando il giorno era giunto, l’avevano spinta nella
mischia. Adesso Michio osservò sul suo monitor la Connaught identificare e
prendere di mira sei punti del cargo nei quali un flusso di fuoco dei CDP o un
missile ben diretto avrebbero spaccato lo scafo. I laser di puntamento si
accesero, colorando alcuni punti della Hornblower, e Michio attese. Adesso il
sorriso di Evans esprimeva una minore dose di certezza: massacrare civili non
era la sua prima scelta. In tutta onestà, non sarebbe stato neppure ciò che
Michio avrebbe scelto, ma la Hornblower non avrebbe attraversato il portale per
raggiungere il pianeta alieno, quale che fosse, che intendevano colonizzare.
Adesso si trattava di negoziare soltanto i termini per decidere in che modo
questo sarebbe successo.
«Vuoi che faccia fuoco, bossmang?» chiese Busch.
«Non ancora» rispose Michio. «Guarda il reattore. Se cercano di accelerare per
andarsene da qui, allora apri il fuoco.»
«Se cercheranno di accelerare con il cono fuori uso, possiamo risparmiare le
munizioni» commentò Busch, in tono di derisione.
«C’è della gente che fa affidamento sul ricevere quel carico.»
«Lo so» ribatté Busch. Un momento più tardi aggiunse: «Hanno ancora il
reattore spento.»
Dalla radio giunsero suoni confusi. Sull’altra nave qualcuno stava gridando, ma
non contro di lei. Poi si sentì un’altra voce, poi parecchie altre che cercavano di
sovrastarsi a vicenda. Risuonò infine uno sparo, il cui rumore giunse affievolito e
tutt’altro che minaccioso attraverso la radio.
Poi risuonò una voce nuova.
«Connaught? Ci siete?»
«Siamo ancora qui» rispose Michio. «Con chi parlo, per favore?»
«Mi chiamo Sergio Plant» rispose la voce. «Facente funzioni di capitano della
Hornblower. Le offro la nostra resa, a patto che non si faccia del male a nessuno,
d’accordo?»
Evans fece un sorriso che esprimeva il comune senso di sollievo e di trionfo.
«Bessa di sentirla, capitano Plant» replicò Michio. «Accetto le vostre condizioni.
Per favore, preparatevi a essere abbordati.»
E chiuse la comunicazione.
Michio era convinta che la storia fosse una lunga serie di sorprese che in
retrospettiva apparivano poi come eventi inevitabili. E quello che era vero per
nazioni e pianeti e vasti stati corporativi, si applicava in misura minore anche al
fato di uomini e donne. Come in cielo così in terra. Com’era per l’APE, la Terra e
la Repubblica Congressuale Marziana, così era per Oksana Busch ed Evans
Garner-Choi e Michio Pa. In effetti, era così per tutte le altre anime che
vivevano e lavoravano sulla Connaught e le altre navi della Marina Libera. Era
soltanto perché lei sedeva dove sedeva, comandava come faceva e portava sulle
spalle il peso di mantenere gli uomini e le donne del suo equipaggio sani e salvi,
e dal lato giusto della storia, che le più piccole storie personali dei membri
dell’equipaggio della Connaught parevano avere più significato.
Per lei, la prima delle molte sorprese che l’avevano portata dove si trovava era
stata diventare parte del braccio militare della Fascia. Essendo una giovane
donna, ci si era aspettati che diventasse un ingegnere di sistema o
un’amministratrice su una delle grandi stazioni, e sarebbe potuto succedere, se la
matematica fosse stata più di suo gradimento. Si era iscritta all’università
superiore perché pensava fosse quello che ci si aspettava che facesse, e aveva
fallito perché non si era mai integrata. Quando i consiglieri le avevano mandato
un messaggio in cui si diceva che era stata espulsa, per lei era stato uno shock. In
retrospettiva, la cosa appariva ovvia, vista attraverso la lente chiarificatrice della
storia.
Si era inserita meglio nell’APE; o quantomeno nel braccio in cui si era arruolata.
Entro il primo mese era apparso chiaro che l’Alleanza dei Pianeti Uniti non era
tanto la burocrazia unificata della rivoluzione quanto una sorta di titolo di
franchising adottato dalle persone della Fascia convinte che una cosa del genere
dovesse esistere. Il Collettivo Voltaire si considerava parte dell’APE, ma lo faceva
anche il gruppo di Fred Johnson con base sulla Stazione di Tycho. Anderson
Dawes agiva come governatore di Ceres sotto l’emblema del cerchio spezzato, e
Zig Ochoa gli si opponeva sotto l’egida di quello stesso simbolo.
Per anni, Michio si era considerata una donna con una carriera militare, ma in
un angolo della sua mente c’era sempre stata la consapevolezza che la catena di
comando era una cosa fragile. C’era stato un tempo in cui questo l’aveva indotta
d’istinto a essere protettiva nei confronti dell’autorità – la sua autorità sui
subordinati e quella che i suoi superiori avevano su di lei, ed era stato questo a
fruttarle il posto di primo ufficiale della Behemoth. Questo l’aveva fatta finire nella
zona lenta quando l’umanità aveva attraversato per la prima volta il portale e
aveva avuto accesso all’impero di milletrecento mondi di cui era erede. Sempre
questo era costato la vita alla sua amante, Sam Rosenberg. A quel punto, la sua
fiducia nelle strutture di comando era diventata un po’ meno assoluta.
Di nuovo, in retrospettiva la cosa appariva ovvia.
Quanto alla seconda sorpresa, non avrebbe saputo dire con esattezza di cosa si
trattasse, se l’essere finita in un matrimonio collettivo o l’essere stata reclutata da
Marco Inaros, o l’aver preso possesso della sua nuova nave, con la sua missione
rivoluzionaria in seno alla Marina Libera. La vita umana aveva più punti di svolta
delle venature di un minerale aurifero, e non tutti i cambiamenti risultavano
ovvi, perfino in retrospettiva.
«Squadra di abbordaggio pronta» avvertì Carmondy, la cui voce suonava
monocorde attraverso il microfono della tuta. «Dobbiamo aprire una breccia?»
Come capo della squadra di assalto, Carmondy apparteneva tecnicamente a
una branca di comando diversa da quella di Michio, ma si era sempre rimesso
alle sue decisioni da quando lui e i suoi soldati erano saliti a bordo. Aveva
vissuto su Marte per alcuni anni, non faceva parte del matrimonio multiplo che
formava il nucleo dell’equipaggio della Connaught, ed era abbastanza
professionale da accettare la sua condizione di outsider. Questa cosa di lui le
piaceva, anche se era quasi l’unica.
«Cerchiamo di essere gentili» replicò Michio. «Se cominciano a spararci
addosso, fai quello che deve essere fatto.»
«Capito» rispose Carmondy, poi cambiò canale.
Adesso entrambe le navi fluttuavano inerti, quindi Michio non poteva rilassarsi
sul sedile a smorzamento. Se avesse potuto, lo avrebbe fatto.
Quando si era diffusa la notizia che la Marina Libera stava assumendo il
controllo del sistema e che il portale dell’anello era chiuso al traffico, la flotta di
navi coloniali diretta verso i nuovi mondi si era trovata di fronte a una scelta. Se
si arrendeva e consegnava le scorte di provviste perché venissero ridistribuite
alle stazioni e navi che più ne avevano bisogno, l’equipaggio poteva conservare
la nave. Se cercava di fuggire perdeva questa possibilità.
La Hornblower, come chissà quante altre, aveva fatto i suoi conti e aveva deciso
che valeva la pena di correre il rischio. Avevano spento il transponder, girato la
nave e accelerato disperatamente, per poco. Poi si erano girati, avevano
accelerato di nuovo, fatto una nuova rotazione e accelerato. Questa era una
strategia chiamata hotaru, che consisteva nel rendersi visibili solo per un
momento per poi occultarsi, nella speranza che la vastità dello spazio offrisse un
nascondiglio sicuro finché la situazione politica non fosse cambiata. Quelle navi
avevano cibo e scorte destinate a durare per anni agli aspiranti coloni, e la vastità
del sistema era tale che se fossero riuscite a non farsi individuare appena entrate,
trovarle in seguito avrebbe potuto essere un lavoro lungo più di una vita.
Le emanazioni dei propulsori della Hornblower erano state individuate dai
sistemi della Marina Libera su Ganimede e su Titano. La cosa che Michio
detestava di più era che l’inseguimento li aveva portati fuori del piano
dell’eclittica: la vasta maggioranza dell’eliosfera solare si estendeva al di sopra e
al di sotto del sottile disco dove i pianeti e la cintura degli asteroidi ruotavano
nelle loro orbite, e Michio aveva una superstiziosa avversione per quelle
sconfinate distese di nulla che, nella sua mente, incombevano al di sopra e al di
sotto della civiltà umana.
Il portale dell’anello e lo spazio irreale al di là di esso potevano essere più
strani – erano più strani –, ma quel disagio nel viaggiare al di fuori dell’eclittica la
tormentava da quando era bambina, faceva parte della sua personale mitologia
ed era foriero di sfortuna.
Regolò il suo monitor in modo che trasmettesse le immagini riprese dalle
videocamere della squadra di abbordaggio e trasmettesse una musica sommessa.
La Hornblower le apparve vista da venti diversi punti prospettici, mentre arpe e
tamburi suonati con le dita cercavano di rilassarla. All’interno della camera di
decompressione c’era un terrestre dalla pelle scura che teneva le braccia allargate.
Una mezza dozzina di videocamere era puntata su di lui, e l’immagine
permetteva di vedere la canna delle armi. Le altre immagini si spostavano di
continuo, cercando eventuali movimenti periferici o provenienti dall’esterno
della nave. L’uomo allungò una mano e usò un appiglio per girarsi, mettendo le
mani dietro la schiena per farsi legare. Quella manovra fu eseguita con una
perizia tale da dare a Michio l’impressione che il capitano Plant, se si trattava di
lui, fosse già stato detenuto in precedenza.
La squadra di abbordaggio avanzò all’interno della nave, e le immagini e
l’attenzione si spostarono lungo i corridoi, in gruppi. Ciò che su uno schermo
appariva come un movimento si trasformava in una figura su un altro. Quando
raggiunsero la cambusa, vi trovarono l’equipaggio della Hornblower, schierato su
varie file, con le braccia protese e pronto ad accettare qualsiasi fato la Connaught
gli avesse riservato. Nonostante le dimensioni minime che le singole
inquadrature dovevano avere per rientrare tutte sul suo monitor, Michio vide lo
strato lucente delle lacrime che si spargeva sul volto dei prigionieri: maschere di
dolore fatte di soluzione salina e tensione di superficie.
«Staranno bene» disse Evans. «Esá? È il nostro lavoro, giusto?»
«Lo so» rispose Michio, lo sguardo fisso sullo schermo.
La squadra di abbordaggio passò attraverso tutti i ponti, assumendone il
controllo, dando prova di una coordinazione che la faceva apparire come un
unico organismo dotato di venti occhi. La consapevolezza di gruppo della
professionalità e dell’addestramento. Il ponte di comando appariva tenuto male.
Un terminale palmare e un bicchiere a bulbo che fluttuavano nell’aria erano stati
risucchiati in una presa dell’aria, e in assenza della spinta gravitazionale che li
coordinasse, i sedili a smorzamento avevano assunto un assortimento di
angolazioni. Nel complesso, le ricordava vecchi video che aveva visto relativi a
naufragi, sulla Terra. La nave coloniale stava annegando nel vuoto senza fine.
Sapeva che Carmondy l’avrebbe chiamata ancor prima che lui lo facesse, e
abbassò il volume della musica. La richiesta di comunicazione giunse come un
delicato segnale sonoro.
«Abbiamo assunto il controllo della nave, capitano» riferì Carmondy. Due dei
suoi uomini lo stavano guardando mentre parlava, quindi Michio vide le sue
labbra e la mascella formare le parole mentre le sentiva. «Nessuna resistenza e
nessun problema.»
«Ufficiale Busch?» disse Michio.
«I loro firewall sono già abbassati» riferì Oksana. «Toda y alles.»
Michio annuì, più rivolta a sé stessa che a Carmondy. «La Connaught ha il
controllo dei sistemi della nave nemica.»
«Disponiamo un perimetro di sorveglianza e mettiamo in sicurezza i
prigionieri. Predisposto controllo automatico.»
«Capito» replicò Michio, poi si rivolse a Evans: «Indietreggiamo quanto basta
per essere al di fuori del raggio d’esplosione, se dovesse saltare fuori che hanno
qualche bomba nucleare nascosta nel silo del grano.»
«Provvedo» annuì Evans.
I propulsori di manovra le fecero cambiare posizione sotto le cinture di
sicurezza, anche se si trattò di meno di un decimo di g perché i propulsori
rimasero in funzione per una manciata di secondi. Prendere cose che altre
persone ritenevano di avere il diritto di conservare per sé era un lavoro
pericoloso. Naturalmente la Connaught avrebbe vegliato sulla squadra di
abbordaggio, controllandone le pulsazioni con dita delicate, e in aggiunta a
questo Carmondy l’avrebbe contattata ogni mezz’ora secondo un vecchio e
collaudato protocollo. Se avesse mancato di contattarla, Michio avrebbe
trasformato la Hornblower in una nuvola di gas roventi a titolo di ammonimento
per la nave successiva, e qualche migliaio di persone su Callisto, Io ed Europa
avrebbero dovuto sperare che altre missioni di sequestro della Marina Libera
avessero un esito migliore.
La Fascia si era finalmente liberata dal giogo dei pianeti interni. Avevano il
possesso della Stazione di Medina, al centro dei portali dell’anello, possedevano
la sola marina funzionante in tutto il sistema solare e avevano la gratitudine di
milioni di cinturiani. A lungo termine, quella era la più grande dichiarazione di
indipendenza e di libertà che la razza umana avesse mai fatto. A breve termine,
era compito suo provvedere a che la vittoria non li facesse morire tutti di fame.
Nel corso dei successivi due giorni, Carmondy e i suoi uomini avrebbero
provveduto a rinchiudere gli aspiranti coloni su ponti messi in sicurezza, dove
avrebbero potuto viaggiare tranquilli fino ad acquisire un’orbita stabile intorno a
Giove, poi avrebbero effettuato un inventario completo di ciò che avevano
conquistato prendendo la Hornblower. Una volta fatto questo, ci sarebbe voluta
ancora una settimana per finire di installare propulsori di recupero, e in quel
tempo la Connaught sarebbe rimasta di guardia, mentre Michio avrebbe avuto ben
poco da fare a parte scrutare il vuoto in cerca di altri profughi.
Non era una cosa a cui guardasse con anticipazione, ed era certa che lo stesso
valesse per gli altri membri del suo matrimonio collettivo. Tuttavia, qualcosa di
più di questa scarsa anticipazione trasparve dalla voce di Oksana quando le si
rivolse.
«Bossmang. Abbiamo una conferma da Ceres.»
«Bene» rispose Michio, con un’inflessione da cui si capiva che aveva colto il
messaggio implicito, quale che fosse. Oksana Busch era sua moglie quasi da
quando il gruppo si era formato, e ciascuna conosceva bene gli stati d’animo
dell’altra.
«Ho anche qualcos’altro. Un messaggio da Lui in persona.»
«Cosa vuole Dawes?» chiese Michio.
«Non Dawes. Il pezzo grosso.»
«Inaros? Fammi sentire.»
«È criptato e destinato solo al capitano» replicò Oksana. «Se vuoi, posso
reindirizzarlo sul terminale della tua cabina...»
«Fammelo sentire, Oksana.»
Marco Inaros apparve sul monitor. A giudicare da come i capelli gli
incorniciavano il volto, doveva essere su Ceres oppure in accelerazione. Lo
sfondo che si scorgeva intorno a lui non era tale da permettere di determinare se
era su una nave oppure in un ufficio. Il suo sorriso era affascinante e gli
illuminava i caldi occhi scuri. Michio sentì i battiti che le acceleravano
leggermente, e disse a sé stessa che si trattava di timore e non di attrazione, e
perlopiù era vero. Inaros però era un bastardo carismatico.
«Capitano Pa» disse Marco. «Sono stato lieto di sapere che hai preso la
Hornblower senza problemi. È un’altra prova della tua abilità. Abbiamo avuto
ragione ad affidarti il comando delle operazioni di sequestro. Le cose sono
andate tanto bene che siamo pronti a passare alle fasi successive del nostro
piano.»
Michio lanciò un’occhiata a Evans e Oksana. Lui si stava tormentando la
barba, e lei si sforzava di non guardare nella sua direzione.
«Vogliamo che porti la Hornblower direttamente a Ceres» continuò Marco.
«Prima di questo, ho indetto una riunione limitata alla cerchia interna: tu, io,
Dawes, Rosenfeld, Sanjrani. Alla Stazione di Ceres.» Il suo sorriso si accentuò.
«Adesso che gestiamo noi il sistema, ci sono alcuni cambiamenti che dovremmo
apportare, no? Secondo la Pella, potrai essere su Ceres fra due settimane. Mi farà
piacere vederti di persona.»
Eseguì con precisione il saluto della Marina Libera che lui stesso aveva
inventato, poi lo schermo si spense e Michio trovò difficoltà a fare chiarezza nel
misto di confusione, angoscia e sollievo da cui si sentiva pervasa. Veder
cambiare la sua missione in quel modo, tanto in fretta e con così poche
spiegazioni, la lasciava spiazzata, e partecipare a una riunione della cerchia
interna continuava a trasmetterle un po’ di quel senso di pericolo che la cosa
aveva emanato prima che la Marina Libera annunciasse la sua esistenza. Anni
passati a muoversi nell’ombra lasciavano abitudini mentali e sensazioni di cui era
difficile liberarsi, anche se avevano vinto. Se non altro, almeno, sarebbero
tornati nel piano dell’eclittica, invece di trovarsi lassù nell’oscurità, dove
succedevano cose pericolose. Brutte cose.
Cose, commentò una piccola voce nella sua testa, come essere convocata per una
riunione inaspettata.
«Due settimane?» chiese.
«È possibile» rispose Busch, quasi prima che avesse finito di parlare. Aveva già
eseguito una simulazione. «Però richiederà un’accelerazione elevata, e non
potremo aspettare la Hornblower.»
«A Carmondy la cosa non piacerà» commentò Pa.
«E cosa può dire?» ribatté Oksana. «L’ordine viene da Lui in persona.»
«Infatti» annuì Michio.
Evans si schiarì la gola. «Allora andiamo?» domandò.
Michio sollevò il pugno. Sì. «Si tratta di Inaros» disse, ponendo fine
all’imminente discussione invocando il suo nome.»
«Bene. Bien» assentì Evans, ma il suo tono di voce diceva qualcosa di diverso.
«C’è qualcosa che non va?» chiese Pa.
«Solo che non è la prima volta che i piani vengono cambiati» ribatté Evans, il
volto aggrottato dalla preoccupazione. Quell’espressione lo rendeva meno
avvenente, ma lui era il suo marito più recente, quindi non glielo fece notare. Gli
uomini avvenenti potevano essere così fragili...
«Continua» disse invece.
«Ecco, c’è stata quella cosa del denaro con Sanjrani. E il primo ministro
marziano ha finito per arrivare salvo sulla Luna quando mezza Marina Libera
stava cercando di farlo fuori. E ho sentito dire che abbiamo cercato di uccidere
sia Fred Johnson sia James Holden, che però sono ancora entrambi vivi e liberi.
Tutto questo mi suscita degli interrogativi.»
«Per esempio, come il fatto che forse Marco non è infallibile quanto sostiene
di essere?» domandò Michio.
Per un momento Evans non rispose, e lei pensò che forse non lo avrebbe
fatto. «Qualcosa del genere» ammise infine. «Ma anche così, pensieri del genere
danno la sensazione che le cose possano farsi difficili, no?»
«Qualcosa del genere» annuì Michio.
2
Filip

Non c’era nessuno che lui odiasse più di James Holden. Holden, il pacificatore
che non portava mai la pace. Holden, il campione della giustizia che non aveva
mai sacrificato niente per la giustizia. James Holden, che se la faceva con i
marziani e i cinturiani – con una cinturiana – e si muoveva per il sistema come se
questo lo rendesse migliore di tutti gli altri. Neutrale e al di sopra delle parti,
mentre i pianeti interni riversavano le risorse dell’umanità sui milletrecento
nuovi pianeti e lasciavano i cinturiani a morire. Che, contro ogni probabilità,
non era morto con la Chetzemoka. Fred Johnson, il terrestre che si era
trasformato in un nativo e aveva cominciato a parlare per conto della Fascia, si
meritava il secondo posto. Il Macellaio della Stazione di Anderson, che si era
fatto una carriera massacrando cinturiani innocenti e l’aveva portata avanti
trattandoli tutti con condiscendenza e pilotandoli lungo un arco che li portava
alla morte culturale e individuale. Per questo, meritava odio e disprezzo.
Tuttavia, non era a causa di Johnston che la madre di Filip era morta, e per
questo era Holden – James pinché Holden – a meritare il primo posto.
Erano passati mesi da quando Filip aveva picchiato contro il portello interno
della camera di decompressione mentre sua madre, con la mente distorta da
troppo tempo vissuto alla presenza di Holden, si lanciava nello spazio insieme a
Cyn. Morti stupide. Inutili. Ed era questo, come diceva a sé stesso, che rendeva
la cosa tanto dolorosa. Non era necessario che lei morisse, e tuttavia aveva scelto
di farlo. Si era fratturato una mano nel tentare di fermarla, ma non era servito a
niente. Naomi Nagata aveva scelto una brutta morte nel vuoto piuttosto che
vivere con quella che era la sua vera gente, e questa era la prova del potere che
Holden aveva avuto su di lei, di quanto profondamente le avesse fatto il lavaggio
del cervello, e di quanto la sua mente fosse stata debole fin dall’inizio.
Non aveva detto a nessuno, sulla Pella, che continuava a sognare di questo
ogni notte: la porta chiusa, la certezza che dall’altra parte ci fosse qualcosa di
prezioso – qualcosa di importante – e il lancinante senso di perdita perché non
riusciva ad aprire quella porta. Se gli altri avessero saputo quanto questo lo
tormentava, lo avrebbero considerato un debole, e suo padre non aveva posto
per uomini che non erano in grado di fare la loro parte. Neppure se si trattava di
suo figlio. Filip aveva preso il suo posto come cinturiano e membro della Marina
Libera dopo aver vissuto su una stazione, da ragazzo. Adesso aveva quasi
diciassette anni, aveva contribuito a distruggere gli oppressori, sulla Terra, e la
sua infanzia apparteneva al passato.
La Stazione di Pallas era una delle più antiche della Fascia. Là c’erano state le
prime miniere e, dopo di esse, le prime raffinerie. Erano poi state erette nuove
strutture, perché quella era la base industriale, e per questo era più facile usare le
vecchie presse e i separatori a rotazione, mai smantellati, come capacità di
riserva. Per abitudine, Pallas non aveva mai avuto una gravità artificiale. Quella
poca che possedeva era quella naturale dovuta alla microgravità della sua massa
– il due percento della gravità terrestre di un g – ed era poco più di una
direzione persistente di fluttuazione. La stazione si muoveva rapida al di sopra e
al di sotto del piano dell’eclittica, quasi stesse cercando di aprirsi a gomitate la
strada fuori del sistema solare. Ceres e Vesta erano più grandi e popolose, ma il
metallo per il rivestimento delle navi e per i reattori, per i ponti delle stazioni e i
container da spedizione, per gli armamenti di cui erano dotate le navi liberate
della Marina Libera e per i proiettili che sparavano proveniva tutto da lì. Se
Ganimede era il granaio della Fascia, Pallas era la sua fucina.
Aveva quindi senso che la Marina Libera passasse di lì nel suo viaggio
ininterrotto in giro per il sistema liberato e che si accertasse di non lasciarsi
indietro nessuna risorsa.
«S’yahaminda, que?» chiese il capitano del porto, fluttuando all’estremità più
ampia della sala riunioni. Era una stanza cinturiana, senza tavoli o sedie e con
un’architettura in cui ben pochi erano i riferimenti all’alto o al basso. Filip
pensava che desse la sensazione di essere a casa, che fosse autentica in un modo
in cui gli spazi progettati dai marziani non avrebbero mai potuto essere.
Lo stesso valeva per il capitano del porto. Il suo corpo era più lungo di quello
di qualcuno che avesse trascorso tutta la sua infanzia anche solo in un ambiente
con una gravità bassa o intermittente. La sua testa era più larga rispetto al corpo
di quella di Filip, di Marco o di Karal, e l’occhio sinistro era latteo e cieco perché
perfino i cocktail di farmaci che rendevano possibile la vita umana in assenza di
gravità non erano stati sufficienti a impedire la morte dei capillari. Era il genere
di uomo che non avrebbe mai potuto tollerare di vivere sulla superficie di un
pianeta anche per un breve periodo di tempo. Costituiva il punto più estremo
dell’arco fisiologico cinturiano, ed era esattamente una di quelle persone per la
cui protezione e rappresentanza esisteva la Marina Libera.
Ed era probabilmente per questo che adesso appariva confuso e tradito.
«È un problema?» replicò Marco, agitando le mani nel gesto equivalente a una
scrollata di spalle. Il modo in cui lo disse fece apparire l’atto di scaricare nel
vuoto il contenuto del magazzino come una banale richiesta di tutti i giorni. Filip
inarcò le sopracciglia per adeguarsi all’incredulità di suo padre, ma Karal si limitò
ad accigliarsi e a tenere una mano sull’arma che portava al fianco.
«Per es esá mindan hoy» disse il capitano.
«So che è tutto, ed è proprio questo il punto» ribatté Marco. «Finché sarà tutto
qui, Pallas sarà un bersaglio per i pianeti interni. Metti tutto quello che hai nei
container, sparali nel vuoto, e soltanto noi conosceremo i loro vettori. Li
rintracceremo e recupereremo quello che ci serve, quando ci serve. Non si tratta
solo di tenerlo fuori della loro portata, ma di dimostrare che i magazzini della
stazione sono vuoti ancor prima che loro pensino di allungare le mani, sì?»
«Per mindan...» cominciò il capitano del porto, sbattendo le palpebre con aria
angosciata.
«Sarai pagato per tutto quanto» garantì Filip. «Con ottimi buoni della Marina
Libera.»
«Già, ottimi» commentò il capitano. «Aber...»
Il moto delle sue palpebre si fece più rapido e lui distolse lo sguardo da Marco,
come se l’ammiraglio della prima vera forza armata dei cinturiani stesse
fluttuando mezzo metro più a sinistra di dove in effetti si trovava. Si umettò le
labbra.
«Aber...?» lo incitò a proseguire Marco, imitando il suo accento.
«Classificatori di rotazione v’reist neue ganga, sì?»
«Se hai bisogno di nuove parti, allora comprale» replicò Marco, la cui voce
assunse una sfumatura minacciosa.
«Aber...» il capitano di porto deglutì a fatica.
«Tu però eri solito comprare dalla Terra,» proseguì Marco «e il nostro denaro
non viene accettato laggiù.»
Il capitano di porto sollevò il pugno in segno di assenso.
Il sorriso di Marco era gentile e aperto. Comprensivo. «Laggiù non accettano
più il denaro di nessuno. Adesso compri nella Fascia. Solo nella Fascia.»
«Nella Fascia non si fabbricano buone componenti» protestò il capitano in
tono lamentoso.
«Fabbrichiamo le componenti migliori che ci siano» dichiarò Marco. «La storia
è andata avanti, amico mio, cerca di tenerti aggiornato. E imballa tutto quello
che c’è qui per l’espulsione nel vuoto, sa sa?»
Il capitano del porto incontrò il suo sguardo e sollevò di nuovo il pugno in un
gesto di assenso. Del resto, non aveva scelta. Il vantaggio di essere al comando
di tutte quelle armi era che per quanto chiedessi le cose con gentilezza, i tuoi
erano comunque sempre ordini. Marco si spinse via, il suo tragitto deviato dalla
gravità estremamente lieve di Pallas, poi fermò il proprio movimento afferrando
un appiglio quando arrivò accanto al capitano del porto e lo abbracciò. Il
capitano non ricambiò l’abbraccio: sembrava un uomo che stesse trattenendo il
respiro e sperando che qualcosa di pericoloso non si accorgesse di lui nel
passargli accanto.
I corridoi e i passaggi che collegavano l’ufficio del capitano del porto ai moli
erano un misto di antico rivestimento in ceramica e quello più nuovo in un
intreccio di silicato di carbonio. Questo rivestimento a intreccio – uno dei primi
materiali nuovi fabbricati dopo l’apparizione della protomolecola – costituiva un
balzo in avanti di alcune generazioni nel campo della chimica fisica ed emanava
una strana luminosità arcobaleno mentre vi fluttuavano accanto, come petrolio
sulla superficie dell’acqua. Si supponeva che fosse più resistente della ceramica e
del titanio, più duro e più flessibile, ma nessuno sapeva come avrebbe retto al
passare del tempo. Tuttavia, se ci si poteva fidare dei rapporti che giungevano
dagli altri mondi, sarebbe probabilmente sopravvissuto di almeno un ordine di
grandezza alle persone che lo avevano fabbricato. Supponendo, naturalmente,
che lo stessero fabbricando nel modo giusto, il che era difficile da sapere.
La navetta della Pella li stava aspettando, con Bastien assicurato al sedile a
smorzamento del pilota.
«Bist bien?» chiese, quando Marco sigillò la camera di pressurizzazione alle loro
spalle.
«Va bene nella misura in cui potevamo sperare che andasse» rispose Marco,
guardandosi intorno nella navetta. C’erano sei sedili, senza contare la postazione
da pilota di Bastien. Karal si stava assicurando a uno di essi, Filip a un altro, ma
Marco fluttuò lentamente fino al ponte della navetta, con i capelli che gli si
adagiavano sulle spalle e sollevò il mento con aria interrogativa.
«Rosenfeld è già andato» rispose Bastien. «È sulla Pella da tre ore.»
«Ma davvero» commentò Marco, con una sfumatura tagliente nella voce che
Filip fu forse il solo a cogliere. Poi prese posto su un sedile e affibbiò le cinture.
«Questo è un bene. Andiamo a raggiungerlo.»
Bastien richiese il permesso di decollo al sistema di controllo portuale, più per
abitudine che perché fosse necessario. Marco era il capitano della Pella,
l’ammiraglio della Marina Libera, e la sua navetta aveva la precedenza su tutto il
resto del traffico. Bastien però eseguì lo stesso la procedura, poi verificò i sigilli e
il controllo ambientale per quella che era forse la decima volta. Per chiunque
fosse cresciuto nella Fascia, controllare aria e acqua, e i sigilli di una nave e delle
tute era automatico come respirare, qualcosa a cui non si pensava neppure, che
succedeva e basta. La gente che non viveva in quel modo tendeva a smettere
presto di dare il proprio contributo al patrimonio genetico comune.
Tutti si sentirono leggermente più pesanti quando la navetta si mise in
movimento, poi gli ammortizzatori dei sedili sibilarono all’unisono quando
Bastien attivò i propulsori di manovra. L’accelerazione non raggiungeva neppure
un quarto di g, e tuttavia arrivarono alla Pella nell’arco di pochi minuti.
Effettuarono il ciclo della camera di pressurizzazione – la stessa in cui Naomi
aveva scelto di morire – poi si ritrovarono a fluttuare nell’aria familiare della
Pella.
Rosenfeld Guoliang li stava aspettando.
Per tutta la vita di Filip fin da quando riusciva a ricordare, la Fascia aveva
significato l’Alleanza dei Pianeti Esterni, e l’APE aveva significato le persone che
per lui avevano maggiore importanza. La sua gente. Era soltanto quando era
cresciuto e avevano cominciato a permettergli di ascoltare quando suo padre
parlava con altri adulti che la sua comprensione dell’APE si era fatta più
profonda, aveva acquisito maggiori sfumature, e la parola che definiva la sua
gente era diventata ‘alleanza’. Non ‘repubblica’, non ‘governo unitario’, non
‘nazione’. Alleanza. L’APE era un vasto assortimento di gruppi diversi che si
formavano, si disgregavano e tornavano a formarsi, tutti tacitamente concordi
sul fatto che, quali che fossero i loro dissensi, erano comunque uniti contro
l’oppressione da parte dei pianeti interni. Sotto la bandiera dell’APE c’erano
alcuni fra i più grandi portabandiera – la Stazione di Tycho, sotto Fred Johnson,
e la Stazione di Ceres controllata da Anderson Dawes, ciascuna con una sua
milizia; c’erano i provocatori ideologici del Collettivo Voltaire, i criminali
dichiarati del Ramo d’Oro, e la non violenta e collaborazionista Maruttuva Kulu.
Per ciascuna di quelle, però, c’erano dozzine, o forse centinaia, di organizzazioni
e associazioni più piccole, di cabale e di società di reciproco interesse. Quello
che le univa era la costante oppressione economica e militare da parte della
Terra e di Marte.
La Marina Libera non era l’APE e non era stata destinata a esserlo. Essa era la
parte più forte del vecchio ordine, forgiata per diventare una forza che non
aveva bisogno di un nemico che la definisse. Era la promessa di un futuro in cui
il giogo del passato non sarebbe stato soltanto rimosso, ma spezzato.
Questo però non significava che era libera dal passato.
Rosenfeld era un uomo esile che riusciva ad avere una postura cadente anche
fluttuando. La sua pelle era scura e stranamente granulosa, gli occhi erano
profondamente infossati, sfoggiava sia il tatuaggio del cerchio spezzato dell’APE
sia quello di una V affilata come un coltello proprio del Collettivo Voltaire,
aveva un sorriso luminoso e spontaneo, ed emanava una sensazione di violenza
a stento contenuta. Ed era anche il motivo per cui il padre di Filip era andato su
Pallas.
«Marco Inaros?» chiese Rosenfeld, spalancando le braccia. «Guarda che cosa
hai fatto, coyo mis!»
Marco si lanciò in avanti nel suo abbraccio e vorticò con lui mentre si
stringevano a vicenda, per poi rallentare quando si separarono. Qualsiasi
diffidenza Marco avesse nutrito nei confronti di Rosenfeld era scomparsa. O
meglio, no, non era scomparsa, ma era stata accantonata dove solo Filip e Karal
potevano percepirla, in modo che il piacere che lui provava per quel
ricongiungimento potesse essere puro.
«Hai un bell’aspetto, vecchio amico» commentò Marco.
«Non è vero,» ribatté Rosenfeld «ma apprezzo la bugia.»
«Dobbiamo trasferire a bordo i tuoi uomini?»
«Già fatto» rispose Rosenfeld. Filip lanciò un’occhiata a Karal, cogliendo il
lieve incurvarsi contrariato della sua bocca. Rosenfeld era un amico, un alleato,
uno della cerchia interna della Marina Libera, ma non avrebbe dovuto poter
portare la sua guardia privata a bordo della nave in assenza di Marco.
Dopotutto, la Pella era l’ammiraglia della Marina Libera, e costituiva una
tentazione. Marco e Rosenfeld allungarono entrambi una mano e rallentarono la
loro rotazione afferrandosi a un appiglio che sporgeva dagli armadietti; poi,
sempre tenendosi sotto braccio, si spinsero nel corridoio e nella nave, seguiti da
Filip e da Karal.
«Dovremo accelerare brutalmente per arrivare a Ceres in tempo per la
riunione» commentò Marco.
«Colpa tua. Avrei potuto prendere la mia nave.»
«Non hai una nave armata.»
«Ho passato tutta la vita sulle navi minerarie...»
Anche se poteva vedere soltanto la nuca di suo padre, Filip intuì dal suo tono
che stava sorridendo.
«Quella è stata tutta la tua vita fino ad ora. Abbiamo cambiato le regole del
gioco e non possiamo permettere che il comando supremo si sposti senza
protezione. Perfino qui, non tutti sono dalla nostra parte. Non ancora.»
Raggiunsero l’ascensore che correva lungo tutta la nave, lo aggirarono e
proseguirono nell’aria a testa in avanti, in direzione dei ponti dell’equipaggio.
Karal si guardò indietro, verso il ponte operativo e quello di volo, come per
accertarsi che nessuna delle guardie di Rosenfeld fosse alle loro spalle.
«È per questo che ho aspettato» ribatté Rosenfeld. «Sono un bravo piccolo
soldato, mé. È un vero peccato che Johnson e Smith siano arrivati sani e salvi
sulla Luna. Ne abbiamo fatto fuori solo uno su tre?»
«La Terra era quella che importava» ribatté Marco. Sárta apparve davanti a loro
e li oltrepassò con un cenno di saluto, fluttuando in direzione del ponte
operativo. «La Terra è sempre stata il bersaglio primario.»
«Ecco, adesso il segretario generale Gao è con i suoi dèi, e spero che sia morta
urlando...» Dopo aver parlato, Rosenfeld mimò l’atto di sputare da un lato.
«Però questa Avasarala che ha preso il suo posto...»
«È una burocrate» disse Marco, mentre si spingevano oltre un angolo e nella
sala mensa. I tavoli e le panche fissati al plancito, l’odore del cibo militare
marziano, i colori che fino a poco tempo prima erano stati la bandiera del
nemico, tutto era in netto contrasto con gli uomini e le donne che occupavano
quello spazio. Erano tutti cinturiani, e tuttavia Filip non faticò a distinguere i
membri della Marina Libera con cui prestava servizio, dalle guardie di Rosenfeld.
Ciò che era uguale a lui da ciò che era diverso. Potevano fingere che la divisione
non esistesse, ma sapevano che non era così. In tutto si trattava di una dozzina
di persone, come se fosse stato un cambio di turno, e c’era un membro
dell’equipaggio della Pella per ogni uomo di Rosenfeld, il che significava che
Karal non era il solo a pensare che un po’ di vigilanza fra amici non fosse una
cosa sbagliata.
Una delle guardie gettò a Rosenfeld un bulbo per bere. Impossibile capire se
conteneva caffè, tè, whisky o acqua. Rosenfeld lo afferrò al volo senza la minima
interruzione della conversazione. «A me sembra una burocrate piena di odio.
Credi di poterla gestire? Niente di personale, coyo, ma il tuo sottovalutare le
donne è il tuo angolo cieco.»
Marco si immobilizzò. Perfino Filip lo notò, e sentì un sapore metallico, come
di rame, inondargli la bocca. Karal emise un sommesso grugnito, e nel guardarlo
Filip notò che aveva la mascella protesa in avanti e i pugni serrati lungo i fianchi.
Rosenfeld si appoggiò alla parete con il volto atteggiato a una maschera di
comprensione e di contrizione. «Forse però questo non è il posto giusto per
dirlo. Scusami se ho toccato un tasto dolente.»
«Niente di male» rispose Marco. «Discuteremo di tutto nel viaggio verso
Ceres.»
«Raduniamo le tribù» commentò Rosenfeld. «Sono impaziente di farlo. La
prossima fase dovrebbe essere interessante.»
«Lo sarà» garantì Marco. «Karal può sistemare te e i tuoi uomini nelle cabine
giuste. Al vostro posto, ci rimarrei. Sarà un’accelerazione molto forte.»
«Lo faremo, ammiraglio.»
Marco si spinse fuori della stanza e fluttuò verso l’officina e l’ingegneria senza
neppure incontrare lo sguardo di Filip.
Filip attese per un momento, non sapendo bene se seguirlo o rimanere
dov’era, se fosse stato congedato o dovesse restare ancora al suo posto.
Rosenfeld sorrise e strizzò una palpebra granulosa prima di girarsi verso i suoi
uomini. Lì era successo qualcosa, Filip poteva percepirlo nell’aria e
nell’atteggiamento di Karal. Era qualcosa di importante, e a giudicare da come si
era comportato suo padre, si sentiva costretto a pensare che fosse qualcosa che
aveva a che fare con lui.
Posò una mano sul polso di Karal. «Cosa è successo?»
«Niente» rispose Karal, ma la menzogna risultò evidente. «Niente di cui
preoccuparsi.»
«Karal?»
Il suo compagno più anziano serrò le labbra e stiracchiò il collo, evitando di
guardarlo.
«Karal, è qualcosa che dovrei chiedere a loro?»
Karal scosse lentamente il capo. No, non doveva chiederlo. Si umettò le
labbra, tornò a scuotere la testa, sospirò e prese a parlare con voce bassa e
calma. «Qualche tempo fa è arrivato un rapporto. Dati di osservazione
provenienti dalla... ah... dalla Chetzemoka. Riguardo al come le navi di Johnson e
di Smith non sono andate distrutte.»
«E?»
«E...» replicò soltanto Karal, una parola densa come il piombo.
Poi continuò a parlare, e fu così che davanti a Rosenfeld e alla sua mezza
dozzina di guardie sogghignanti Filip Inaros apprese che sua madre era ancora
viva. E che sulla Pella lo sapevano tutti tranne lui.
Durante l’accelerazione sognò.
Era in piedi davanti alla stessa porta, come prima. Anche se il suo aspetto
cambiava, era sempre la stessa e lui urlava, la colpiva con le mani, cercava di
entrare. In precedenza c’era stata una sensazione di paura, l’oceanico dolore
della perdita imminente, il terrore. Adesso c’era soltanto umiliazione. L’ira lo
accendeva come un fuoco, e lui spinse per oltrepassare la porta, per entrare nella
camera al di là di essa, non per salvare qualcosa di prezioso ma per porvi fine. Si
svegliò gridando. Il peso di un intero g lo schiacciava contro il gel del sedile. La
Pella mormorava intorno a lui, la vibrazione del reattore e il mormorio dei
riciclatori dell’aria erano come una voce che gli sussurrasse qualcosa, troppo
piano per distinguere le parole. Fu uno sforzo asciugarsi le lacrime. Non erano
lacrime di dolore, per quello avrebbe dovuto essere triste, mentre era soltanto
certo di una cosa.
C’era qualcuno che odiava più di James Holden.
3
Holden

C’era qualcosa da dire a favore di una vita che non prevedesse lunghi
interrogatori. Secondo quello standard, almeno, Holden non aveva vissuto bene
la sua. Quando lui e il resto dell’equipaggio della Rocinante avevano acconsentito
a lasciarsi interrogare, aveva intuito che non si sarebbe trattato soltanto degli
eventi relativi all’attacco contro la Terra da parte della Marina Libera.
Dopotutto, c’era una quantità di cose di cui parlare. L’ingegnere capo della
Stazione di Tycho, che si era scoperto essere una talpa agli ordini di Marco
Inaros, il rapimento e il salvataggio di Monica Stuart. La perdita del campione
della protomolecola, l’attacco che per poco non era costato la vita a Fred
Johnson. E questo solo per quanto riguardava lui direttamente. Naomi e Alex, e
perfino Amos, avrebbero avuto interi volumi con cui contribuire all’esposizione.
Quello che non si era aspettato era che le domande partissero da lì per dilagare
come un gas fino a riempire tutto lo spazio disponibile. Ormai da settimane
stava passando da dodici a sedici ore al giorno a parlare di tutto ciò che
riguardava la sua vita. Il nome e la storia di tutti i suoi otto genitori, il suo
andamento scolastico, la sua carriera navale morta sul nascere, cosa sapeva di
Naomi, di Alex, di Fred Johnson. I suoi rapporti con l’APE, con Dmitri
Havelock, con il detective Miller. Anche dopo averlo riesaminato per ore,
Holden non sapeva ancora bene cosa dire su quest’ultimo punto. Seduto nella
piccola stanza, di fronte agli interrogatori delle Nazioni Unite, fino a quel punto
aveva fatto del suo meglio per sezionare la sua vita ed esporla per loro.
Quel procedimento lo irritava. Le domande si ripetevano e saltavano di palo in
frasca come se i due stessero cercando di coglierlo in flagrante a mentire. Si
infilavano in strani, piccoli vicoli ciechi – come si chiamavano le persone con cui
aveva prestato servizio nella marina? Cosa sapeva di ciascuno di loro? – e ci
rimanevano per un tempo molto più lungo di quanto paresse giustificato. I suoi
due interrogatori principali erano una donna di nome Markov, alta, chiara di
pelle, con un volto lungo e serio, e un uomo basso e grassoccio di nome
Glenndining, con i capelli e la pelle che avevano lo stesso colore marrone. I due
facevano a turno a pressarlo e a costruire un rapporto, ferendolo in modo sottile
per vedere se si sarebbe infuriato e cosa avrebbe detto quando lo avesse fatto,
salvo poi dimostrarsi affettuosi in modo quasi sgradevole.
Gli portavano da mangiare panini flosci e unti, oppure paste fresche
accompagnate dal miglior caffè che avesse mai bevuto. Abbassavano le luci fino
a ottenere un’oscurità quasi completa oppure le alzavano fino a renderle quasi
accecanti. Passeggiavano con la strana andatura saltellante propria della Luna
lungo i corridoi che si stendevano dai moli, oppure rimanevano chiusi in
un’angusta stanza di metallo. Holden aveva la sensazione che tutta la sua storia
personale venisse grattata fino alla buccia, come un lime in un bar di quarta
categoria. Se in lui rimaneva ancora una goccia di succo, in qualche modo
riuscivano a spremerla. Era facile dimenticarsi che questi erano i suoi alleati, che
aveva acconsentito a questo interrogatorio. Più di una volta, mentre era
raggomitolato nella sua cuccetta dopo una lunga giornata, sospeso fra il sonno e
la veglia, si era trovato a formulare nella mente assonnata piani per tirare fuori la
nave da quella prigione e fuggire.
Non era d’aiuto il fatto che nel cielo scuro sopra di loro la Terra stesse
morendo poco per volta. Le stazioni che trasmettevano notizie e che ancora
esistevano si erano trasferite perlopiù sulle stazioni Lagrange e sulla Luna, ma
qualcuna era ancora attiva sulla superficie planetaria. Fra le sessioni di
interrogatorio e le ore di sonno, Holden non aveva molto tempo per guardare i
notiziari, ma i frammenti che riusciva a sentire erano sufficienti. Le infrastrutture
erano sottoposte a uno sforzo eccessivo, l’ecosistema era sconvolto, c’erano
cambiamenti chimici nell’atmosfera e nell’oceano. Sulla Terra sovraffollata
c’erano stati trenta miliardi di persone che dipendevano da una vasta rete di
macchinari perché le nutrisse, idratasse e impedisse loro di annegare nei loro
stessi rifiuti. In base ai calcoli più pessimistici, un terzo di quelle persone era già
morto. Holden aveva visto alcuni secondi di un servizio in cui si discuteva di
come si effettuasse il calcolo dei morti nell’Europa occidentale analizzando i
cambiamenti atmosferici. La quantità di metano e di cadaverina presente nell’aria
permetteva di dedurre quante persone stessero marcendo nelle strade e nelle
città devastate. Quella era la portata del disastro.
Si era sentito colpevole a spegnere il notiziario. Il minimo che poteva fare era
guardare, essere là, mentre l’ecosfera che aveva generato lui, la sua famiglia e
tutti gli altri non molte generazioni prima collassava. La Terra meritava di avere
dei testimoni. Tuttavia, era stanco e spaventato, e anche dopo aver spento il
notiziario non era riuscito a dormire.
Non tutte le notizie erano cattive. Mamma Elise era riuscita a fargli avere un
messaggio in cui si diceva che la fattoria del Montana, per quanto gravemente
danneggiata, era risultata abbastanza autosufficiente da mantenere in vita i suoi
genitori. C’era perfino un po’ di eccedenza con cui erano riusciti a contribuire in
qualche misura alle operazioni di soccorso, a Bozeman. A mano a mano che le
nubi fangose fatte di polvere e cenere si depositavano ad avvelenare gli oceani,
un numero sempre maggiore di voli di soccorso aveva potuto percorrere il
pozzo gravitazionale e risalirlo carico di profughi.
Adesso però le capacità fisiche della Base Luna cominciavano a essere
sottoposte a stress. I riciclatori d’aria erano spinti al limite, per cui ogni respiro
che Holden traeva nelle sale e nei corridoi della stazione sembrava essere appena
uscito dalla bocca di qualcun altro. Giacigli e tende intese a garantire un po’ di
privacy riempivano le aree di ristorazione e gli spazi pubblici. L’equipaggio della
Rocinante aveva rinunciato ai suoi alloggi nella stazione per trasferirsi sulla nave e
lasciare più spazio ai profughi, ma anche per vivere nella sua bolla personale di
aria pulita e acqua bel filtrata. Era un po’ ipocrita fingere che fosse stato un
gesto altruistico. La nave era silenziosa, vuota e familiare. Le sole cose che
impedivano a Holden di sentirsi del tutto a suo agio erano il silenzio del reattore
spento e la presenza spettrale di Clarissa Mao.
«Perché ti inquieta tanto?» domandò Naomi. Si trovavano nella cabina che
condividevano, trattenuti sul letto dalla poca gravità lunare e dal loro stesso
sfinimento.
«Ha ucciso un sacco di persone» rispose Holden, con il sonno che lo privava
della capacità di pensare in modo chiaro. «Non è sufficiente? A me pare che
dovrebbe esserlo.»
La cabina aveva le luci abbassate e il giaciglio a smorzamento racchiudeva i
loro corpi come una culla. Sentiva il respiro di Naomi contro il fianco, caldo,
familiare e ancorante. La voce di lei era permeata della stessa morbidezza
impastata della sua, perché erano entrambi quasi troppo stanchi per riuscire a
dormire. «Quella era una Clarissa diversa.»
«Tutti gli altri ne sembrano sicuri, ma non so bene come ci siamo arrivati.»
«Ecco, credo che Alex abbia ancora qualche dubbio su di lei.»
«Amos non ne ha, e neppure tu.»
Naomi emise un verso. Aveva gli occhi chiusi e anche nella penombra Holden
riusciva a distinguere il colore più scuro delle sue palpebre. Per un momento
pensò che fosse riuscita ad addormentarsi, ma poi lei parlò ancora. «Devo
credere che possa cambiare. Che le persone possano farlo.»
«Tu non eri come lei» ribatté Holden. «Anche quando... anche quando delle
persone sono morte, tu non eri come lei. Non eri un’assassina a sangue freddo.»
«Amos lo è.»
«Vero. Però Amos è Amos. Nella mia testa, è una cosa diversa.»
«Perché?»
«Perché lui è Amos. È come un pitbull. Sai che potrebbe squarciarti la gola, ma
è assolutamente fedele e ti viene solo voglia di abbracciarlo.»
Naomi fece un lento sorriso. Era una cosa che riusciva a fare, una contrazione
di un muscolo della faccia, e Holden si sentì pervadere di speranza, calore e
perfino una sorta di cupo ottimismo, perché l’universo non poteva essere tutto
una merda se in esso c’era una donna come quella. Le appoggiò una mano sul
fianco. «Non ti sei innamorata di me per la mia coerenza etica, vero?»
«Nonostante la tua coerenza etica» ridacchiò lei. E dopo un momento
aggiunse: «Avevi un bel sedere.»
«Avevo? Al passato?»
«Devo accedere di nuovo al sistema» disse lei, cambiando argomento. «Non
lasciare che mi addormenti se prima non ho controllato se ci sono
aggiornamenti.»
«Si tratta delle navi scomparse?» domandò Holden, e lei annuì.
Per quanto duro potesse essere stato il suo interrogatorio, quello di Naomi era
peggiore. Lei aveva sempre parlato poco del suo passato, di come era diventata
la donna che era. Adesso aveva barattato quella privacy in cambio di un’amnistia
totale per l’equipaggio e per sé stessa. I suoi equivalenti di Markov e
Glenndining non la stavano interrogando soltanto riguardo a una carriera fallita
nella marina o ai contratti di lavoro con Fred Johnson. Lei era una finestra che
permetteva di accedere direttamente a Marco Inaros. Era stata la sua amante, era
la madre di suo figlio, un fatto con cui Holden stava ancora cercando di venire a
patti nella sua mente. Era stata tenuta prigioniera sulla sua ammiraglia prima e
dopo che il martello si era abbattuto sulla Terra. Holden sapeva che per quanto
il suo interrogatorio potesse essere duro, quello di Naomi lo era mille volte di
più, e supponeva fosse per questo che si era immersa nel mistero delle navi
scomparse.
Lei era stata la prima fra loro a notare che il numero di navi che era svanito
mentre era in transito attraverso i portali non corrispondeva a quello delle navi
da guerra che erano diventate la Marina Libera. Alcune di esse erano state rubate
da Marco e dai suoi uomini, altre erano svanite senza lasciare traccia. C’erano
due cose che stavano succedendo contemporaneamente, e Holden non poteva
volergliene se Naomi preferiva passare il suo tempo libero focalizzandosi
sull’altra.
Però doveva anche dormire, se non altro perché era convinto che quando lei si
fosse infine addormentata sarebbe riuscito a farlo a sua volta.
«Non prometto niente» rispose.
«D’accordo» annuì Naomi. «Allora svegliami presto, in modo che abbia il
tempo di controllare prima della prossima sessione.»
«Lo prometto.»
Holden rimase disteso al suo fianco nella penombra finché il suo respiro si
fece più profondo e divenne il ritmo regolare e scandito del sonno. Quando si
ritrovò ancora sveglio dopo averla ascoltata per cinque minuti comprese che
non sarebbe riuscito a dormire a sua volta e si alzò. Per un momento lei si fece
silenziosa, sul punto di svegliarsi, prima che il respiro tornasse a farsi profondo.
Holden lasciò la cabina.
Anche i corridoi della Rocinante erano in penombra, con l’illuminazione
regolata per il periodo notturno. Holden si diresse all’ascensore e sentì delle voci
arrivare fino a lui dalla cambusa: quella profonda e affabile di Amos e quella più
sottile e fragile di Clarissa. Si soffermò ad ascoltare, poi risalì la scala che portava
al ponte operativo. La gravità lunare era abbastanza lieve da far apparire sciocco
l’uso dell’ascensore, quindi si tirò su, una mano dopo l’altra, fino ad arrivare a
destinazione. Le luci erano spente, e Alex era rischiarato soltanto dal chiarore
che proveniva dallo schermo.
«Ciao» salutò con voce strascicata, quando Holden si sistemò su un sedile.
«Non riesci a dormire?»
«No, a quanto pare» sospirò Holden. «E tu?»
«Detesto la gravità che c’è qui. Sembra che ci muoviamo troppo lentamente.
Continuo a desiderare di accendere i motori, ma non ci sono motori e non
stiamo andando da nessuna parte. Dovrebbe essere la propulsione a tenermi sul
sedile, e invece è soltanto un grosso pezzo di roccia.» Alex accennò a un
notiziario che stava scorrendo silenzioso sullo schermo. Una donna che
indossava uno hijab di un rosso acceso parlava con aria seria davanti alla
telecamera. Holden la riconobbe come una stimata giornalista marziana, ma non
riuscì a ricordare il suo nome. «Continuano a parlarne. Lo definiscono
ammutinamento e persistono nel parlare di inadempienza ai doveri, di
abbandono del proprio posto e di vendita di equipaggiamento al mercato nero.»
«Non suona molto promettente.»
«Suona meglio di quel che è stato in realtà» ribatté Alex. «È stato un colpo di
Stato, una guerra civile, solo che invece di combattere, un quinto delle forze
militari ha preso armi e bagagli e si è trasferita oltre i portali dell’anello con tutta
la nostra roba. Ecco, con tutta la nostra roba che non ha venduto a questi idioti
della Marina Libera.»
«Si sa qualcosa di dove erano diretti?»
«No» rispose Alex. «Quantomeno, nulla che trapeli dai notiziari.»
La donna con lo hijab – Fatim Wilson, quello era il suo nome – scomparve, ma
la trasmissione continuò con immagini dei moli di attracco vuoti di Marte e poi
di un gruppo di dimostranti che si agitavano e gridavano davanti alla telecamera.
Holden non avrebbe saputo dire per cosa o contro cosa stessero dimostrando, e
per come stavano le cose al momento, non era certo che lo sapessero neppure
loro.
«Se mai torneranno indietro, saranno tutti processati per tradimento» continuò
Alex. «Mi induce a pensare che non avessero in programma di tornare presto a
casa.»
«Quindi, riassumendo,» disse Holden «abbiamo un colpo di mano su Marte. La
Marina Libera che massacra la Terra. I pirati che depredano tutte le navi
coloniali dirette verso l’esterno. La Stazione di Medina che ha interrotto le
comunicazioni. E infine qualcosa, non sappiamo cosa, che divora alcune delle
navi che attraversano i portali.»
Alex aprì la bocca per replicare, ma lo schermo tremolò e trillò: una richiesta
di connessione a priorità elevata.
«Una dannata cosa dopo l’altra,» commentò, accettando la connessione
«quando non è un dannato mucchio di cose che succedono tutte insieme.»
Chrisjen Avasarala apparve sullo schermo. I capelli erano pettinati alla
perfezione, il suo sari era di un verde scintillante come una gemma. Soltanto gli
occhi e la piega della bocca tradivano la sua stanchezza.
«Capitano Holden» disse. «Ho bisogno di incontrare lei e il suo equipaggio.
Immediatamente.»
«Naomi sta dormendo» replicò Holden, senza soffermarsi a pensare. Avasarala
sorrise... non era un’espressione piacevole. «D’accordo, vado a svegliarla.
Arriviamo subito.»
«Grazie, capitano» replicò la facente funzioni di segretario generale della Terra,
e chiuse la comunicazione.
Il silenzio pervase la cabina. «Hai notato che non ha detto niente di osceno o
di offensivo?» chiese Holden.
«Sì, l’ho notato.»
Holden trasse un profondo respiro. «Non lascia presagire niente di buono.»
La sala riunioni era vicina alla superficie della Luna, ed era strutturata come
un’aula scolastica o una chiesa, con un podio nella parte anteriore e file di sedie
disposte davanti a esso, ma adesso il podio era vuoto e una dozzina di sedie era
stata disposta in un cerchio approssimativo. Avasarala sedeva insieme a Fred
Johnson – capo della Stazione di Tycho e un tempo portavoce dell’APE – con il
primo ministro marziano Smith alla sua sinistra e Bobbie Draper alla sua destra.
Tanto Smith quanto Johnson erano in maniche di camicia, e tutti apparivano
stanchi. Holden, Naomi, Alex e Amos sedettero insieme in gruppo di fronte a
loro, lasciando un paio di seggiole vuote a segnare il confine fra i due gruppi su
ambo i lati. Finché non ebbero preso tutti posto, Holden non si rese conto che
Clarissa non era venuta. Non aveva neppure preso in considerazione
l’eventualità di portarsela dietro: quella era una riunione riservata all’equipaggio
della Rocinante, dopotutto, e lei era...
Avasarala digitò qualcosa sul terminale palmare e uno schema apparve nello
spazio al centro del cerchio. La Terra, la Luna e le stazioni Lagrange brillavano
tutte di un colore dorato. Le navi che formavano il blocco che aveva intercettato
e distrutto i successivi attacchi della Marina Libera erano in verde. Un modello
separato mostrava il sistema interno – il Sole, Mercurio, Venere, la Terra, Marte
e le principali stazioni della Fascia, come Ceres e Pallas – più una manciata di
punti rossi sparsi che sembravano una ferita o un’irritazione cutanea.
«Il rosso rappresenta la Marina Libera» spiegò Avasarala. Di persona, la sua
voce suonava rauca, come se avesse tossito. Holden non avrebbe saputo dire se
aveva semplicemente parlato troppo o se aveva respirato i particolari fini lunari,
quella polvere troppo sottile per essere fermata anche dai filtri migliori, che
faceva puzzare di polvere da sparo l’aria della stazione. «Stiamo tracciando i loro
movimenti, e c’è un’anomalia. Questa.»
Toccò il terminale e i due schemi si fusero, uno espandendosi e l’altro
rimpicciolendo, fino a mostrare lo stesso tratto di spazio. Un punto rosso
spiccava lontano dalle stazioni e dai pianeti e fluttuava nel vasto nulla dove le
meccaniche orbitali lo lasciavano prevalentemente isolato. Naomi si protese in
avanti, lottando per mantenere a fuoco lo sguardo. Era troppo stanca.
«Cosa ci fa là fuori?» chiese, con voce abbastanza nitida.
«Individuazione» spiegò Fred. «Ha disattivato il transponder, ma sembra essere
una nave mineraria, l’Azure Dragon, proveniente da Ceres. Il suo equipaggio è
composto da membri radicali dell’APE.»
«Questo significa che forse adesso è con la Marina Libera. Si tratta delle rocce
che ci hanno scagliato contro?» domandò Holden.
«Erano coordinate da quello stronzetto» replicò Avasarala, poi scrollò le spalle
con aria esausta, e aggiunse: «O almeno lo pensiamo. Quello che sappiamo è
questo: finché quei fottuti bastardi possono continuare a scagliarci contro rocce,
siamo bloccati qui. Le nostre navi non osano muoversi, e Marco Inaros può
reclamare per sé quello che diavolo vuole fra i pianeti esterni.»
Smith si protese in avanti e prese la parola in tono calmo e quasi apologetico.
«Se il servizio di intelligence di Chrisjen ha ragione, e questa nave sta guidando
gli attacchi, allora si tratta di un bersaglio di importanza critica nella lotta contro
la Marina Libera. Sapete che il colonnello Johnson, il segretario generale
Avasarala e io abbiamo formato una task force congiunta? Questa sarà la sua
prima operazione sul campo: la cattura o la distruzione dell’Azure Dragon per
ridurre la capacità del nemico di sferrare attacchi contro la Terra, per dare un po’
di dannato respiro alla nostra flotta congiunta.» Era la prima volta che Holden
sentiva il termine ‘flotta congiunta’, e gli piacque come suonava.
E non era il solo ad apprezzarlo.
«Merda» commentò Amos. «E io che mi stavo godendo il fatto di starmene
con il pollice su per il culo, inutile.»
«Se vuoi fare quei giochetti è affar tuo» replicò Avasarala. «Solo tu puoi
riuscirci su un sedile a smorzamento. La Rocinante non fa parte della flotta, quindi
perderla non lascerà un buco nelle nostre difese. Inoltre, mi pare di capire che
avete installato qualche componente aggiuntivo...»
«Un cannone a rotaia montato sulla chiglia» rispose Alex, con un sorriso.
«...che fa pensare al bisogno di compensare un pene molto, molto piccolo, ma
che potrebbe risultare utile. Il comandante della missione ha richiesto voi e la
vostra nave, e in tutta onestà in ogni caso a questo punto nessuno di voi merita
più di uno scappellotto, a parte Miss Nagata, quindi...»
«Un momento» interruppe Holden. «Il comandante della missione? No.»
Avasarala incontrò il suo sguardo e la sua espressione si fece dura come il
granito. «No?»
Holden non sussultò. «La Rocinante non viaggia sotto il comando di nessuno
tranne noi. Capisco che questa è una grossa task force congiunta e che siamo
tutti insieme in questa faccenda, ma la Roci non è soltanto una nave, è la nostra
casa. Se ci volete assoldare, va benissimo. Accetteremo l’incarico e lo porteremo
a termine. Se però volete mettere a bordo un comandante e vi aspettate che
eseguiamo i suoi ordini, allora la risposta è no.»
«Capitano Holden...» cominciò Avasarala.
«Questa non è una trattativa» la interruppe Holden. «È come stanno le cose.»
Tre fra le persone più potenti del sistema solare, i capi delle fazioni centrali che
per generazioni avevano lottato le une contro le altre, si fissarono a vicenda. Le
sopracciglia di Smith salirono in modo marcato e lui si guardò intorno con fare
ansioso. Fred si protese in avanti, squadrando Holden come se lo avesse deluso.
Solo negli occhi di Avasarala c’era un bagliore divertito. Holden lanciò
un’occhiata al suo equipaggio. Naomi aveva le braccia incrociate sul petto, Alex
teneva la testa sollevata e il mento spinto in fuori, e Amos sorrideva come
faceva sempre. Un fronte unito.
Bobbie si schiarì la voce. «Si tratta di me.»
«Come sarebbe?» chiese Holden.
«Si tratta di me» ripeté Bobbie. «Sono il comandante della missione. Se però
davvero non vuoi...»
«Oh» disse Holden. «No. No, questo cambia le cose.»
«Sì» aggiunse Alex, e Naomi rilassò le braccia. Bobbie si rilassò a sua volta.
«Avresti dovuto dircelo subito, Chrissy» commentò Amos.
«Fottiti, Burton. Ci stavo arrivando.»
«Allora, Bobbie, come vuoi procedere?» chiese Holden.
4
Salis

«Aspetta, aspetta, aspetta!» gridò Salis nella radio della tuta. La base del
cannone a rotaia era larga dieci metri, di forma approssimativamente esagonale e
con una massa superiore a quella di una piccola nave. Alle sue parole, una mezza
dozzina di propulsori edili disposti lungo il lato di quella bestia si spensero,
espellendo massa di eiezione nel vuoto. Il misuratore di calibrazione del mech di
Salis scese fino allo zero: il movimento infinitesimale della grande bestia era
cessato. Adesso fluttuavano insieme... l’arma di una grandezza inumana. La
stazione aliena pervasa di un chiarore sommesso, e Salis nel suo mech edile
giallo simile a un ragno.
«A que, coyo?» gli chiese all’orecchio Jakulski, il loro supervisore tecnico.
«Registravo un movimento di deriva» rispose Salis, muovendo il laser di
allineamento sul cannone a rotaia e sull’innesto in cui si sarebbe dovuto inserire.
Era stato un duro lavoro equipaggiare la stazione aliena con tre ampie fasce di
ceramica, intreccio di silicato di carbonio e metallo. Adesso appariva come una
vasta palla azzurra circondata da fasce di gomma, ciascuna ad angolo retto
rispetto alle altre due, e le torrette con i cannoni a rotaia si trovavano nei punti
di incrocio di quelle linee. Era risultato che era impossibile praticare fori nella
stazione aliena, e saldare era altrettanto impossibile perché la superficie non si
fondeva. Avvolgere quella dannata cosa era stata la sola alternativa possibile per
riuscire ad attaccarvi qualcosa.
«Que mas que?» domandò Jakulski.
«Sposta di un minuto e dieci secondi relativo a Z, di meno otto secondi
relativo a Y.»
«Capito» annuì Jakulski. I propulsori edili su tutta la lunghezza del cannone a
rotaia tossicchiarono per un succedersi di impulsi e di contro impulsi.
Tutt’intorno a loro i portali punteggiavano il cielo con poco più di milletrecento
punti luminosi, spogli, vuoti e regolari in modo minaccioso. La Stazione di
Medina stessa era l’unico altro oggetto presente, ed era tanto distante che Salis
avrebbe potuto coprire l’intera struttura – corpo centrale, reattore e centro di
comando – con il pollice proteso. La zona lenta, così continuavano a chiamarla.
Anche se quello strano limite di velocità era stato rimosso, il nome era rimasto,
portando con sé un senso di stranezza e di destino tragico. La maggior parte del
suo lavoro si svolgeva all’interno di Medina. Uscire nel vuoto era una cosa rara,
e adesso che era lì non gli piaceva molto. Continuava a distogliere lo sguardo dal
lavoro per guardare il nero dello spazio, e la sua prima settimana di lavoro si era
quasi conclusa quando infine si era reso conto che stava cercando la Via Lattea,
e che continuava a guardare perché non la trovava.
«Bist bien?» chiese Jakulski.
«Un momento» rispose Salis, tornando a controllare i laser di allineamento.
Fece scorrere lo sguardo per tutta la lunghezza della grande canna mentre il
mech lottava per far combaciare la superficie di quella cosa con il suo alveolo. I
pochi cannoni a rotaia che aveva visto in precedenza erano fatti di titanio e di
ceramica. Questi nuovi materiali che Duarte mandava attraverso il portale di
Laconia erano però roba all’avanguardia. Non si trattava soltanto dell’iridescenza
del rivestimento in silicato di carbonio. Il nucleo di alimentazione che faceva
funzionare i cannoni, e il sistema di caricamento delle munizioni esente da
attrito che li riforniva erano... strani.
Il design era elegante, certo, ma erano soltanto cannoni a rotaia magnetici
alimentati da nuclei a fusione, come quelli di qualsiasi nave, e facevano quello
che dovevano. C’era però qualcosa di strano nel modo in cui erano montati, la
sensazione che non li stessero tanto fabbricando quanto testando. Si trattava di
una sorta di goffaggine e bellezza che lo induceva a pensare più a piante che a
macchine, e non si trattava soltanto dei nuovi materiali utilizzati. Fin da quando
l’anello dei portali si era staccato da Venere c’erano state cose nuove, qua e là. Si
trattava della portata della cosa. E forse anche di qualcos’altro.
Giunse il rapporto dei laser di allineamento.
«Bien» disse Salis. «Porta a casa quel bastardo.»
Jakulski non rispose, ma i propulsori si attivarono. Salis continuò a controllare
in pari misura l’alveolo e il cannone, effettuando una lettura manuale dopo
l’altra. Quello era il genere di cosa che di solito lasciava fare ai sistemi del mech,
ma a volte i nuovi materiali inducevano il laser a fornire falsi errori, ed era
meglio essere sicuri. La stazione era rimasta immobile come la pietra negli anni
trascorsi da quando i portali si erano aperti, ma questo non significava che
attaccarvi un macchinario dannatamente grosso non avrebbe provocato una
reazione.
Ci volle la maggior parte di un turno per connettere quell’enorme cannone, ma
alla fine esso si agganciò al suo posto. La torretta si assestò, assorbì la poca
spinta rimasta e l’alveolo si chiuse intorno al cannone, lasciando nella mente di
Salis l’inquietante immagine di labbra gigantesche che si chiudessero lentamente
intorno a una cannuccia enorme.
«Indietreggio» avvertì Salis.
«Clar à test, tu?»
«Un momento» rispose Salis, spingendosi lontano dalla stazione. Fluttuò nel
vuoto, dove Roberts e Vandercaust aspettavano all’interno dei loro mech. I
propulsori di manovra del mech lo fecero fermare accanto a loro e gli permisero
di voltarsi a osservare il frutto del loro lavoro. Sul canale di gruppo, Roberts
grugnì.
«Vise ca bácter» disse, ed era vero. Con i cannoni montati alla sommità e in
fondo a tutti e tre gli assi, la stazione somigliava un poco a qualcosa visto al
microscopio, magari a un macrovirus. O a uno streptococco minimalista.
«A posto» disse Salis. «Clar à test.»
«Tre, due, uno» contò Jakulski.
Sotto di loro, il cannone a rotaia si spostò nell’alveolo come qualcosa che si
svegliasse dal sonno. Per un momento parve fluttuare come una canna in una
corrente d’aria, poi scattò al suo posto, passando da una posizione alla
successiva troppo in fretta perché lo sguardo di Salis potesse seguirne il
movimento, più in fretta del contrarsi della zampa di un insetto. Esso eseguì
l’intero ciclo, prendendo di mira ciascuno dei portali nel suo campo visivo. Con
la disposizione che avevano scelto, almeno due cannoni sarebbero stati in grado
di prendere di mira ciascun portale, e la maggior parte dei portali ricadeva
nell’arco di tre di essi. Salis aveva visto immagini di vecchie fortificazioni
affacciate sul mare, sulla Terra. Prima di allora non avevano mai avuto senso per
lui – troppo piatte per applicarsi alla sua esperienza personale –, ma questa era la
stessa cosa. Quei cannoni avrebbero protetto per sempre la Stazione di Medina
da navi d’invasione. Sentì una qualche emozione che gli si destava nel petto, che
poteva essere orgoglio, o timore.
«Bien» commentò Jakulski, che pareva quasi sorpreso, come se si fosse
aspettato che il cannone si staccasse e si allontanasse vorticando nel vuoto.
«Ritiratevi prima che proviamo a fare fuoco.»
«Ci ritiriamo» rispose Vandercaust. «Non ci sparare addosso, sa sa?»
«Avvertitemi, se dovessi farlo» rise Jakulski. Per lui era facile, non era lui quello
là fuori. E quei cannoni avrebbero potuto disintegrare perfino Medina. Salis e gli
altri indietreggiarono di cinquanta chilometri, si girarono e decelerarono per altri
cinquanta. L’oscurità era inquietante. Dall’altro lato del portale non era mai così
buio, c’erano sempre il sole e le stelle.
«Fermi e stabili» avvertì Roberts. «Hast du dui identificati come amici?»
«Sì. Se vi sparerà significa che c’è qualcosa che non va. Seleziono i bersagli»
rispose Jakulski, e Salis aumentò l’ingrandimento sul suo mech. La stazione
aliena apparve, raffigurata in falsi colori. A quella distanza poteva vedere solo tre
dei sei cannoni. «Il sistema dei sensori bist bien. Fuoco fra tre, due, uno...»
Ci fu uno sbuffo di vapore che scaturì dalla punta del cannone – gas che
estendeva momentaneamente la lunghezza della canna e dava un po’ più di
velocità al proiettile. Il mech di Salis fu scosso da un tremito quando l’energia
magnetica proveniente dal cannone ne influenzò i sistemi anche a quella
distanza. Non vide i proiettili sparati dal cannone, perché nel tempo che l’aspro
feedback impiegò a passare dalla radio al suo orecchio il proiettile di tungsteno
aveva già attraversato il portale preso di mira. O si era perso nello strano non-
spazio fra i portali. Sul display in falsi colori, un fremito percorse la stazione
aliena, simile a quello che aveva visto in una sfera d’acqua fluttuante quando se
ne toccava un punto. Il fremito scomparve prima ancora di aver percorso la
circonferenza della stazione.
«La que vist?» chiese Jakulski.
«Niente» rispose Salis. «Sembra a posto. Tu?»
«Solo la luminosità della stazione» replicò Jakulski. In tutti i loro test, la sola
reazione che la stazione avesse mai avuto all’essere spinta dal contraccolpo
dovuto all’azione dei cannoni era stata una pioggia di fotoni.
«Niente altro?»
«No.»
«Deriva?»
«Niente deriva.»
Era quello che volevano vedere. I cannoni a rotaia erano abbastanza grandi e
potenti da rendere difficile attivarli anche montati sulla chiglia di un’astronave.
Montati su torrette, come quelli, avrebbero dovuto essere in pari misura un’arma
e un propulsore, spingendosi lontano da ciò a cui stavano sparando tanto in
fretta da rendere difficile recuperarli.
Non sulla stazione.
Qualsiasi cosa gli alieni avessero fatto per eliminare reazioni uguali e opposte,
essa generava soltanto l’energia sufficiente a emanare un po’ di luce, e non
pareva attivare nessuna contromisura. Tuttavia, Salis non era particolarmente
impaziente di tornare indietro per controllare gli alveoli e le basi.
«Avete sentito Casil parlare del perché non si muove quando la spingiamo?»
chiese Vandercaust.
«No» rispose Roberts.
«Ha detto che si muove, ma che lo spazio dell’anello si muove a sua volta, per
cui non possiamo vederlo succedere.»
«Casil è pazzo.»
«Sí ai.»
«Ci rimandi indietro?» chiese Salis, alla radio.
«Un momento» replicò Jakulski, poi continuò: «Bien. Puoi andare. Tieni tus
augen aperti, nel caso che qualcosa non vada.»
‘Nel caso che qualcosa non vada’ significava crepe nell’alloggiamento, perdite
nei serbatoi di fluido, guasti dei reattori o dell’alimentazione delle munizioni.
Significava gli occhi di un antico dio puntati su di loro. O qualcosa di peggio.
«Capito» assentì Salis, controllando i propulsori. «Ci muoviamo.»
I tre mech tornarono a lanciarsi verso la stazione. Medina fluttuava sulla
destra, con il cono di propulsione inattivo e il corpo centrale rotante. Salis spinse
lo sguardo al di là di essa come se stesse cercando un volto familiare, ma le stelle
continuavano a essere assenti.
La sezione interna centrale della Stazione di Medina aveva un sole che ardeva
in linea retta dal centro di comando fino ai ponti della sezione ingegneria. La
luce a spettro completo che ne emanava pioveva sul ricurvo terreno agricolo e
sull’ampio lago incurvato di quella che un tempo era stata una nave destinata a
trasportare una città di mormoni fino alle stelle. Seduto in un bar all’aperto
insieme a Vandercaust e a Roberts, a bere birra e a mangiare cibo secco bianco
che sapeva di formaggio in polvere e di funghi, Salis aveva davanti e dietro di sé
un panorama che si incurvava fino a perdersi nella linea luminosa del sole. Alla
sua sinistra e destra si stendeva in tutta la sua lunghezza il corpo centrale che
ruotava più o meno con la stessa forza di gravità della Luna. La brezza gentile
che gli alitava sulla nuca proveniva come sempre dal senso della rotazione.
Da ragazzo, Salis aveva visto le caverne della Grande Stanza, su Giapeto, e
aveva camminato sotto il falso cielo di Ceres. Il corpo centrale di Medina era
quanto di più simile riuscisse a immaginare a com’era stata la Terra prima
dell’impatto delle rocce: un’atmosfera non controllata sopra di lui e la sottile
crosta e il mantello fra i suoi piedi e il nucleo di pietra fusa. Per quante volte
potesse andarci, continuava ad apparirgli qualcosa di esotico.
«C’è di nuovo qualcuno che vola» commentò Roberts, socchiudendo gli occhi
a causa della luce. Salis sollevò lo sguardo. Lassù, ridotti quasi a delle sagome
dalla luminosità intensa, cinque corpi fluttuavano nell’aria con le braccia e le
gambe allargate. Parevano volare da un punto alle spalle di Salis, descrivendo
una curva davanti a lui come facevano i campi di soia e di mais, ma la verità era
che quei corpi erano stazionari. Circa cinque mesi prima, un idiota adolescente
aveva escogitato come disporre un tracciato temporaneo che potesse accelerare
le persone in direzione contraria alla rotazione fino a uguagliare la rotazione del
corpo centrale e permettere loro di lanciarsi in aria, privi di peso. Fintanto che
nessuno si avvicinava troppo al sole artificiale o non riusciva a uguagliare
l’accelerazione del corpo centrale prima di tornare a terra, si supponeva che la
cosa fosse divertente.
Due scie di vapore si levarono dal ponte della sezione di ingegneria, puntando
verso i cinque, e Salis le indicò. «La sicurezza li ha beccati.»
Vandercaust scosse l’irsuta testa grigia. «Ton muertas.»
«Giovani e stupidi, ma è come diceva quel romano: fihi m’fihi» commentò
Roberts. La sua voce esprimeva più comprensione, ma del resto lei era più vicina
all’età di quei volatori illegali. «Sei nato di pietra e serio, que?»
«Sono nato con il senso del rispetto» replicò Vandercaust. «Le mie stronzate
uccidono soltanto me.»
Roberts scrollò le spalle in segno di resa. Sulle navi, quelle vere, dal lato giusto
dei portali, mantenere al sicuro l’ambiente era sempre la massima priorità. Si
controllava quello che era già stato controllato, si pulivano cose già pulite.
Essere frettolosi e trasandati era un modo rapido per morire, trascinando con sé
la propria famiglia e il proprio equipaggio. Nelle grandi stazioni come Ceres,
Hygeia, Ganimede e adesso anche Medina, c’era qualcosa che dava ai ragazzi il
permesso di essere stupidi. Irresponsabili.
Era la stabilità, pensò Salis. Avere a disposizione uno spazio vasto come quello
del corpo centrale aveva un effetto sul cervello della gente. Lo avvertiva anche
lui: sembrava troppo grande per potersi rompere, e non importava che niente
fosse mai davvero tanto grande e che qualsiasi cosa potesse rompersi. La Terra si
era rotta. Agire come se i rischi non fossero stati tali metteva tutti in pericolo.
Anche così, c’era una parte di lui a cui dispiacque vedere la sicurezza piombare
su quei volatori. Erano ragazzi che si comportavano come tali, niente di più. Da
qualche parte ci sarebbe dovuto essere un posto per quello. I marziani lo
avevano, e anche i terrestri. Erano soltanto i cinturiani che avevano trascorso
troppe generazioni a morire la prima volta che facevano una cazzata per
permettere ai loro figli di giocare ogni tanto.
Socchiuse gli occhi a causa della luminosità intensa. Gli uomini della sicurezza
e i volatori si stavano ora dirigendo verso la superficie, con la scia dei propulsori
delle tute che creava ampie e lente spirali centrate sulla linea luminosa del sole, a
mano a mano che scendevano.
«È un peccato» commentò. Vandercaust grugnì.
«Avete sentito delle docce della sezione F?» chiese Roberts. «Sono bloccate, di
nuovo.»
«Alles progettato per un g intero» disse Vandercaust. «Lo stesso vale per le
fattorie. I campi non drenano come dovrebbero. Se facessimo ruotare il corpo
centrale come volevano fare los mormoni, funzionerebbe tutto.»
Roberts rise. «Tutto sì, ma noi no. Ci ritroveremmo tutti schiacciati.»
«Meglio cambiare il sistema» aggiunse Vandercaust, a bocca piena.
«Se lavoriamo abbastanza, funzionerà» affermò Salis. «Una nave con un tale
esubero di risorse... se non riusciamo a fare le cose nel modo giusto, non ce la
meritiamo.»
Bevve quanto rimaneva della birra e si alzò, sollevando una mano per chiedere
se qualcuno dei suoi compagni voleva un altro giro. Vandercaust assentì, mentre
Roberts rifiutò. Salis attraversò lo sterrato fino al bar, giungendo alla
conclusione che quella era parte dell’incanto: le piante e il falso sole, e la brezza
che sapeva di foglie e di terriccio e di cose che crescevano. Il corpo centrale di
Medina era il solo posto in cui avesse mai vissuto dove poteva camminare sul
terriccio. Non polvere e terra – quelle erano dappertutto –, ma vero terriccio. Salis
non sapeva perché, ma era una sensazione diversa.
Il barista scambiò il suo bulbo vuoto con uno pieno e gliene diede un secondo
per Vandercaust. Quando tornò al tavolo, la conversazione si era spostata dai
volatori alle colonie... non che fosse un grosso cambiamento, passare da alcune
persone che correvano rischi stupidi ad altre che facevano la stessa cosa.
«Aldo dice che sono arrivate altre minacce dal portale di Jerusalem» commentò
Roberts. «Gli rimandiamo il nucleo del loro reattore, oppure verranno a
prenderselo.»
«Rimarranno sorpresi, se lo faranno» commentò Vandercaust, togliendo di
mano a Salis il bulbo pieno. «I cannoni sono montati, e il tempo è scaduto per
alles la.»
«Forse» replicò Roberts, poi tossì e aggiunse: «O forse dovremmo restituirlo,
sì?»
Vandercaust si accigliò. «Perché?»
«Ne hanno bisogno e noi lo abbiamo, tutto qui» replicò Roberts.
Vandercaust accantonò la risposta con un gesto della mano. A chi importa un
accidente di cosa hanno bisogno? Qualcosa nella voce di Roberts attirò però
l’attenzione di Salis, come se lei avesse detto più di quanto esprimevano le
parole. Incontrò i suoi occhi scuri e sollevò il mento con aria interrogativa. Le
parole che stava cercando di dire la indussero a spingere la testa in avanti, come
per annuire.
«Possiamo aiutarli, se vogliamo. Tanto vale farlo, sí no? Non c’è motivo per
non farlo, dal momento che non siamo più quello che eravamo, noi» disse.
Vandercaust si accigliò, ma Roberts continuò: «Ce l’abbiamo fatta. Noi. Oggi.»
«Que fatto que, noi?» domandò in tono rude Vandercaust. Se però colse il suo
tono, Roberts non lasciò che la fermasse. I suoi occhi scintillavano come se
fosse stata sul punto di piangere, e quando riprese a parlare fu come acqua che
scorresse da un tubo rotto, con la voce che fluiva, pulsava e riprendeva a
scorrere.
«Il problema è sempre stato quando avremmo trovato un posto nostro. Ceres,
o Pallas, o le grandi stazioni Lagrange che non sono mai state costruite. Mi tía
parlava di costruire una stazione per tutti i cinturiani alles. Una capitale à te
vuoto. È questa. L’hanno costruita i cinturiani, e sono i cinturiani a viverci. I
cinturiani le hanno dato potere, y a causa dei cannoni che noi abbiamo montato,
sarà nostra per sempre. Oggi abbiamo fatto di questo posto una casa. Non solo
la nostra casa, ma quella di tutti noi. Esá es la nostra patria, adesso. Grazie a noi
tre.»
Le lacrime le colavano lungo le guance, lente a causa della gravità a un sesto di
g, e la gioia che la illuminava da dentro faceva sentire Salis in imbarazzo. Vedere
Roberts in quello stato era come sorprendere qualcuno a urinare – una cosa
intima e sbagliata. Quando però distolse lo sguardo vide il corpo centrale
allargarsi intorno a loro, le piante, il terriccio, la terra sopra di lui che lo guardava
come un cielo.
Si trovava su Medina da quindici mesi, più a lungo di quanto fosse mai stato su
una qualsiasi stazione in tutta la vita. Era venuto perché Marco Inaros e la
Marina Libera avevano bisogno di gente lì, e non aveva pensato a cosa
significasse, aveva solo saputo a livello istintivo che Inaros era più APE dell’APE
stessa, e che questo era ciò che la Marina Libera significava. A quel punto, forse,
cominciava a intravedere cosa c’era dietro a tutto quello. Non guerra per
sempre. Un posto dove vivere.
«Una patria» ripeté, soppesando quella parola come se fosse stata di vetro e
avesse potuto tagliarlo se l’avesse pronunciata con troppa forza. «A causa dei
cannoni a rotaia.»
«Perché qualcosa è nostro,» replicò Roberts «e perché adesso non ce lo
possono portare via.»
Salis avvertì qualcosa nel petto e permise alla sua mente di sondare quella
sensazione. Decise che era orgoglio. Provò a sorridere e rivolse quel sorriso a
Roberts, che lo ricambiò. Lei aveva ragione: quello era il posto, il loro posto.
Qualsiasi altra cosa fosse successa, avrebbero avuto Medina.
Vandercaust scrollò le spalle, bevve un lungo sorso dal bulbo e ruttò. «Besse
per noi» disse. «Ma sapete cosa c’è? Se mai dovessero portarcela via, è fottutamente
certo che non la riavremo mai più.»
5
Pa

«Diffido di tutta questa faccenda» disse Michio Pa.


Josep sbadigliò e si sollevò su un gomito, abbassando lo sguardo su di lei. Era
un bell’uomo, anche se di una bellezza leggermente logorata. Portava i capelli
più lunghi del taglio regolamentare, ma non tanto da arrivargli alle spalle, e il
grigio presente in essi serviva ancora soltanto a mettere in risalto il loro nero
lucido. Il tempo gli aveva segnato la pelle, e i tatuaggi su di essa raccontavano la
storia della sua vita: il cerchio spezzato dell’APE, sul collo, era in seguito stato
coperto in modo da trasformarlo nel pugno levato di un collettivo radicale da
tempo scomparso. Poi c’era l’elaborata croce su una spalla, tatuata in un
momento di fede e conservata dopo che quella fede si era sgretolata. Frasi scritte
sui polsi e lungo il fianco – ‘Basta acqua, la prossima volta fuoco’ e ‘Amare
qualcuno significa vederlo come Dio voleva fosse visto’ – e Ölüm y chuma pas pas
fóvos ricordavano diversi uomini che era stato nella sua vita. Delle sue
incarnazioni. Quello era in parte il motivo per cui Pa si sentiva tanto vicina a lui.
Pur essendo più giovane di Josep di quasi un decennio, anche lei aveva vissuto
attraverso svariate incarnazioni.
«A cosa ti riferisci?» chiese Josep. «Ci sono così tante cose di cui diffidare.»
«Inaros che convoca i clan» rispose Pa, girandosi e avvolgendosi nella coperta
nel farlo. Non era che si sentisse a disagio nuda, ma adesso che il loro
accoppiamento era concluso, era pronta a tornare ai ruoli più formali, o a
qualcosa di più vicino a essi. Josep lo notò e senza fare commenti passò
dall’essere uno dei suoi mariti al ruolo di ingegnere capo. Incrociò le braccia e si
appoggiò alla parete.
«Si tratta dell’incontro o dell’uomo?» domandò.
«Di tutto» replicò lei. «C’è qualcosa che non va.»
«Tu lo dici e io ci credo.»
«Lo so. Questa è la parte in cui mi comporto sempre così. Il coyo al comando
cambia il piano e io comincio ad aspettarmi che si trasformi nel prossimo
Ashford, nel prossimo fottuto Fred Johnson. È il mio solito schema.»
«Sì, ma questo non significa che il tuo schema non corrisponda ai fatti. Cos’hai
in mente?»
Pa si protese in avanti, mordicchiandosi un labbro. Poteva sentire i pensieri
che le si dibattevano in testa come pesci ciechi mentre cercava le parole che
potessero dare loro una forma. Josep attese.
In base ai termini della loro ketubah, il gruppo matrimoniale era composto da
sette persone: lei, Josep, Nadia, Bertold, Laura, Evans e Oksana. Ognuno di loro
aveva conservato il suo cognome, e costituivano l’equipaggio permanente della
Connaught. Gli altri che servivano ai suoi ordini andavano e venivano,
rispettavano il fatto che lei fosse il capitano, che i suoi ordini fossero giusti e che
non mostrasse nessun favoritismo verso i suoi consorti, ma sotto a tutto questo
c’era sempre il tacito accordo che il nucleo della nave era composto dalla sua
famiglia e che nessuna minaccia nei suoi confronti sarebbe stata tollerata. L’idea
di separare la famiglia dall’equipaggio era una cosa propria dei pianeti interni, un
esempio del pregiudizio inconscio che induceva terrestri e marziani a trattare la
vita su una nave come qualcosa di diverso dalla vita reale.
Per loro, le regole cambiavano non appena il portello stagno si chiudeva,
anche se non conoscevano loro stessi abbastanza bene da rendersene conto. Per
i cinturiani non esisteva nessuna divisione. La Dottrina dell’Unica Nave, così
l’aveva sentita chiamare, il concetto che ci fosse un’unica nave che aveva
innumerevoli parti, come un unico corpo aveva innumerevoli cellule. La
Connaught era una di quelle parti, come lo erano tutte le navi messe insieme alla
buona ai suoi ordini: la Panshin, la Solano, la Witch of Endor, la Serrio Mal e una
dozzina di altre. E la sua flotta era soltanto una parte della Marina Libera, un
vasto organismo che trasmetteva le informazioni fra le sue cellule con la
comunicazione a raggio stretto o con la radio, che consumava cibo e carburante,
che forgiava il suo lento destino fra i pianeti come un enorme pesce nel vasto
mare del cielo.
Secondo alcune interpretazioni, perfino le navi dei terrestri e dei marziani
facevano parte di quest’unica nave, ma per lei questo spostava sempre la
conversazione sul tema dei tumori e delle malattie autoimmuni, e la metafora
smetteva di funzionare.
Tuttavia, c’era un motivo se adesso stava pensando a questo.
«Non siamo coordinati» disse, saggiando le parole mentre le pronunciava.
«Quando ti spingi in fuori con un piede, protendi una mano verso un appiglio. È
un solo movimento. Noi non siamo così. Inaros e i militari. Sanjrani e le finanze.
Rosenfeld e la sua produzione e progettazione. Noi. Non siamo ancora la stessa
cosa.»
«Siamo ancora nuovi a cose del genere» osservò Josep. Quelle parole
sarebbero potute essere una confutazione, un modo di spiegare e accantonare il
suo disagio. Venendo da lui, erano un’offerta, qualcosa a cui reagire che
l’aiutasse a schiarirsi le idee.
«Forse» ammise. «Difficile a dirsi. Può darsi che si aspetti che siamo tutti
marionette i cui fili vengono tirati dalla Pella. Lui cambia idea e noi tutti
saltiamo.»
Josep scrollò le spalle. «Ha dato quanto promesso. Navi, carburante,
munizioni, propulsori. La libertà. Ha fatto quello che aveva detto avrebbe fatto.»
Pa sentì la lieve provocazione insita in quelle parole, che era ciò di cui aveva
bisogno.
«Ha fatto quello che sostiene di aver detto, ma nella realtà i risultati non sono
così buoni. Johnson è ancora vivo, e anche Smith. Ganimede è solo diventato
neutrale, stiamo ancora scagliando rocce contro la Terra e nessuno di loro si
arrenderà entro breve tempo. Riesamina tutto quello che aveva promesso e
vedrai che non tutto è sul piatto.»
«I politici lo fanno immer e comunque. Tuttavia, è più di quanto chiunque altro
abbia fatto per la Fascia. Adesso i pianeti interni sono in ginocchio, e con la
Hornblower e altre navi come lei, abbiamo scorte che ci dureranno per anni.
Questa è la nostra parte. Mantenere tutti riforniti di cibo, aria e scorte, dare a
tutti noi la possibilità di far crescere la Fascia senza un piede sul collo.»
Pa sospirò e si grattò un ginocchio, producendo con le unghie contro la pelle
un suono arido come quello della sabbia. Il riciclatore dell’aria ticchettava e
ronzava, il reattore che li premeva entrambi verso il plancito del ponte pulsava.
«Sì» disse.
«Ma?»
«Ma...» ripeté lei, senza aggiungere altro. Il suo disagio non le permetteva di
trovare altre parole che fossero adatte. Forse sarebbero venute con il tempo, o
forse si sarebbe tranquillizzata senza mai averle pronunciate.
Josep spostò il proprio peso e accennò al letto a smorzamento. «Vuoi che
rimanga?»
Pa rifletté sull’offerta. Sarebbe stata una gentilezza rispondere di sì, ma la
verità era che indipendentemente da chi fosse la persona con cui condivideva il
proprio corpo, dormiva meglio da sola. Il sorriso di Josep le segnalò che aveva
colto comunque la sua risposta, e questo era parte di ciò che amava in lui. Venne
avanti, la baciò sulla fronte nel punto in cui i capelli incontravano la pelle, e
procedette a infilarsi la tuta. «Un tè, magari?»
«Non credo» rispose lei.
«Dovresti» insistette Josep. Era più di quanto facesse di solito.
«D’accordo.» Pa si liberò della coperta, si lavò e vestì a sua volta. Quando
entrarono nella cambusa della nave da guerra marziana, si appoggiò contro di
lui... dopotutto, non era presente nessun altro membro dell’equipaggio, solo
Oksana e Laura che stavano finendo di mangiare una ciotola di funghi in salsa.
Solo la famiglia. Josep si diresse verso una panca diversa, e lei gli permise di
prendere posto a una certa distanza dalle loro mogli. Oksana rise di qualcosa e
Laura rispose in tono acido e tagliente, ma lo fece senza cattiveria. Pa non sentì
le parole.
Josep procurò un bulbo di tè per ciascuno di loro e sedettero in silenzio. Pa
sorseggiò la bevanda, e il sapore aspro del tè si mescolò con i postumi del sesso,
finendo per rilassarla senza che lei si fosse resa conto di essere tesa. Quando
sospirò, Josep inarcò le sopracciglia.
«Sì» dichiarò Pa. «Sei molto sveglio. Questo era ciò che volevo.»
Lui accennò un inchino, poi tornò serio. «Ripensando a quello che hai detto,
sull’essere coordinati...»
«Non ti preoccupare» replicò lei, ma Josep continuò lo stesso.
«Sei stata tradita da uomini che avrebbero dovuto essere i tuoi capi. Da
Johnson, quando eravamo con l’APE. Da Ashford sulla Behemoth. Da Okulski con
il sindacato. Siamo diventati indipendenti per questo, giusto? Solo che adesso
non siamo indipendenti. Adesso siamo la Marina Libera, perché Inaros ci ha
convinti a farlo. Non solo te. Noi.»
«Hai ragione. Probabilmente sto reagendo a quello che è già successo. Dovrei
dimenticare tutto.»
«Non dovresti dimenticare di essere stata istruita» ribatté lui. «L’universo ha
passato un sacco di tempo a dirti qualcosa, e adesso stai giudicando in
retrospettiva. Forse tutte quelle altre cose ti stavano preparando a questo.»
Qualcosa si contrasse un po’ di più nel petto di Pa. «Neppure tu ti fidi di lui.»
«Io? Non devi giudicare niente basandoti su di me. Non mi fido neppure di
Dio.»
«Sei assolutamente il peggior mistico mai esistito» commentò Pa, ma lo fece
ridendo.
«Lo so.» Josep scosse il capo. «Sono un triste fallimento come profeta. Però...»
Sollevò un dito. «Io ti conosco, e so che sei il genere di persona a cui piace
fingere di non sapere le cose che sa, in modo che non ci siano attriti. Quindi, se
stai pensando che forse ti sbagli solo perché le cose vadano lisce, farai meglio a
ricontrollare e ad accertarti che tutto sia davvero a posto. Se ha bisogno di un
coltello, l’universo lo crea, e non c’è coltello più affilato di te.»
«E se dovesse risultare che l’universo è soltanto un mucchio di sostanze
chimiche e di energia che sbattono le une contro le altre finché la luce non si
esaurisce?»
«Allora identificare gli schemi è comunque un buon modo per non finire
schiacciati» replicò lui. «Dimmi se Lui corrisponde allo schema. Hai visto più di
quanto abbia fatto io.»
«Ne dubito» rispose Pa, ma gli prese la mano e lui ricambiò la stretta. Dopo un
momento Laura venne a sedersi con loro, seguita da Oksana, e la conversazione
si spostò su argomenti meno pericolosi – tutti i modi in cui la progettazione
marziana era peggiore di quella cinturiana, le ultime notizie relative alla cattura di
un’altra nave coloniale da parte della Witch of Endor, il rapporto di Carmondy
relativo al recupero della Hornblower. Questioni relative alla gestione della
Connaught. Quel piccolo nodo di tensione rimase però installato sotto le costole
di Pa, a ricordarle che qualcosa non andava.
Quando tornò nella sua cabina, lo fece da sola. Si lasciò cadere sul letto a
smorzamento, si tirò la coperta sulla testa e sognò una creatura enorme e fragile
che nuotava nelle correnti dell’oceano profondo, solo che il mondo era fatto di
stelle e l’animale era formato da navi, una delle quali era la sua.
Niente di tanto grande come una rivoluzione può sopravvivere con una sola
spiegazione degli eventi. L’insurrezione della Stazione di Ceres – o la sua caduta,
secondo i pianeti interni – era stato l’evento precursore dell’avvento di Marco
Inaros e della Marina Libera. Guardando in retrospettiva, la morte di una nave
cargo che trasportava acqua sembrava una cosa pateticamente piccola, per aver
scagliato la Terra e Marte uno contro l’altro sia pure per breve tempo, ma era
bastato. Con i tradizionali oppressori della Fascia che per una volta puntavano le
armi uno contro l’altra, l’APE si era fatta avanti e aveva assunto il controllo della
città portuale della fascia degli asteroidi.
Nessuno si era aspettato che la cosa durasse. Presto o tardi, Marte e la Terra si
sarebbero rimessi in piedi e Ceres sarebbe caduta. Anderson Dawes, il
governatore di fatto della stazione, avrebbe perso il potere che si era accaparrato
e sarebbe passato a ordire qualche nuovo piano o avrebbe continuato a vivere
come martire della causa. Ogni spazio autonomo era temporaneo.
Solo che la caduta non si era mai verificata.
Il collasso di Ganimede e l’esposizione del programma relativo alla
protomolecola della Mao-Kwikowski aveva catturato l’attenzione delle grandi
potenze, poi Venere aveva generato le grandi e misteriose strutture che avevano
creato il primo portale, e quando infine la Behemoth aveva accompagnato le forze
congiunte della Terra e di Marte a esplorare il portale e a considerare le vaste e
complesse ripercussioni che avrebbe avuto, Anderson Dawes aveva ormai
intessuto una rete di relazioni. Grandi società sulla Luna e su Marte, le stazioni
Lagrange, la Fascia e le lune di Giove – nessuno di questi posti poteva
permettersi che il commercio cessasse per gli anni che sarebbero stati necessari a
riconquistare il porto. Come la razza umana aveva sempre fatto, fin da prima
che il primo contratto fosse inciso nell’argilla dai sumeri, una situazione
temporanea era perdurata abbastanza a lungo da diventare invisibile.
E quando i portali al di là del portale si erano aperti e un fiume di umanità si
era riversato verso nuovi soli e pianeti, c’erano stati poteri e denaro interessati a
mantenere Ceres com’era. Anderson Dawes aveva saputo quali ruote ungere e
quando venire a compromessi per mantenere ininterrotto il flusso del traffico
nel porto.
Mediante una gestione lunga e attenta, quel grande negoziatore era
sopravvissuto alla sua condizione di ribelle e si era invece trasformato in un
politico. Dawes era diventato rispettabile, e la Stazione di Ceres si era
trasformata nella prima città cinturiana, giusto in tempo perché la cosa non
avesse importanza.
Poi era arrivata la Marina Libera e aveva spinto a calci nelle onde quel castello
di sabbia costruito con tanta cura. Come qualsiasi politico, Dawes aveva valutato
i giocatori e le potenze in gioco, le possibilità e le certezze, e la storia
dell’insurrezione di Ceres, invece di essere un trionfo dell’opportunismo e
dell’abilità politica, era diventata il precursore della Marina Libera. Dawes aveva
abbracciato appieno quella nuova versione di sé stesso e della sua stazione.
Aveva scelto da che parte stare, proprio come aveva fatto lei.
Adesso era sul molo, ad aspettare che lei arrivasse dalla Connaught. La gravità
da rotazione della stazione teneva prigioniera la nave fra le morse che la
bloccavano. Anche se fosse venuta a mancare l’energia, la quantità di moto
avrebbe impedito alle navi di sprofondare nel vuoto, ma a Pa non piaceva
comunque lasciare la sua nave. Lo sentiva come un rischio inutile.
«Michio» la salutò Dawes, prendendole la mano con espressione raggiante. «È
bello vederti in carne e ossa»
«Lo stesso vale per te» rispose lei. Non era vero. Dawes aveva passato troppi
anni alleato intimamente con Fred Johnson perché la puzza si dissolvesse
completamente, ma era un male necessario, e nei giorni buoni probabilmente
aiutava la Fascia più di quanto la compromettesse. Dawes accennò al carrello
elettrico affiancato da due guardie di polizia in armatura leggera.
«Sono in arresto?» chiese Pa, mantenendo un tono leggero e divertito.
Dawes ridacchiò mentre camminavano. «La sicurezza è stata aumentata da
quando sono cadute quelle rocce» rispose. Le guance segnate dall’acne gli si
irrigidirono e lo sguardo gli si incupì. «Su Ceres vivono milioni di persone, e non
tutti sono d’accordo con quello che è successo.»
«Ci sono stati problemi?» domandò Pa, mentre raggiungevano il carrello.
«Ci sono sempre problemi» rispose Dawes, e dopo una breve esitazione,
aggiunse: «Però ce ne sono stati di più.»
Il carrello sobbalzò e imboccò un’ampia rampa che portava all’interno della
stazione. Le ruote leggermente adesive producevano un rumore che era una via
di mezzo fra un sibilo e un crepitio mentre rotolavano lontano dai moli. Pa si
girò a guardare verso l’attracco della Connaught. Forse avrebbe dovuto portare
qualche guardia con sé. Gli uomini di Carmondy erano ancora sulla Hornblower,
ma Bertold e Nadia erano entrambi addestrati per il combattimento. Ma a quel
punto era troppo tardi.
I livelli amministrativi erano i più vicini alla superficie della stazione, dove la
forza di Coriolis si avvertiva di meno. Le vecchie gallerie e i corridoi erano stati
restaurati dopo che l’APE si era impadronita della stazione, ma si avvertiva
ancora un senso di antichità. Dawes portò avanti una conversazione spicciola e
insignificante intesa a metterla a suo agio, e la sua abilità era tale che la cosa
funzionò. Se stavano davvero parlando di quali ristoranti facessero le migliori
salsicce in salsa nera, e di cosa era successo quando un gruppo religioso aveva
prenotato la stessa sala di un festival di musica raï, la situazione non poteva
essere tanto pericolosa. Pa sapeva che era un’illusione, ma l’apprezzò comunque.
Nessuno di loro due menzionò il motivo della loro presenza lì, e il nome di
Inaros non affiorò nel discorso.
La riunione si sarebbe tenuta in un giardino del livello amministrativo. Un
ampio soffitto ad arco riluceva di un chiarore a spettro completo. Piante di
potos rivestivano colonne e pareti, e felci selvatiche allargavano le loro fronde
massicce come aironi sul punto di spiccare il volo. L’aria odorava di nutrimento
idroponico per piante e di vino. Pa sentì la voce acuta e sottile di Sanjrani prima
di svoltare l’angolo. ‘Senza un inventario completo della base fertilizzante su
ogni stazione, una valuta basata sull’azoto sarà sommersa da immissioni illegali.’
Era un’altra variazione del suo tema costante, ed era quasi piacevole sentirlo di
nuovo. Dawes le sfiorò il gomito, indicando un sentiero fra una piccola fontana
e una felce a spirale, poi furono arrivati. Là erano raccolti i cinque capi della
Marina Libera. Nico Sanjrani, che sembrava più un bottegaio di mezza età che il
principale economista del nascente impero. Rosenfeld Guoliang, con la sua pelle
scura e granulosa e il suo sorriso troppo pronto, generale della seconda flotta e
zar industriale. E, seduto su una sedia di canne intrecciate, Marco Inaros, l’uomo
dietro a tutto quello.
La vittoria gli si addiceva. I capelli gli fluivano sulle spalle e il suo corpo aveva
una disinvoltura animalesca. Quando si alzò per accogliere lei e Dawes, Pa
avvertì nel proprio cuore un’eco del suo piacere. Qualsiasi altra cosa fosse,
quell’uomo aveva un fascino che avrebbe potuto estrarre con le blandizie il
veleno dai serpenti. Probabilmente era stato quel dono a metterlo nella
posizione di poter trattare con i marziani per avere le loro navi, le loro
munizioni, tutto il materiale che aveva permesso loro di mettere in atto la
rivoluzione. L’unica altra persona presente era Filip, il figlio di Inaros, un
ragazzo magro dagli occhi folli. Pa fece in modo di non guardarlo troppo
attentamente perché in lui c’era qualcosa che la disturbava, ed era più facile
mantenersi distaccata che avviare una conversazione.
«La brillante Michio Pa!» commentò Marco. «Eccellente! Adesso ci siamo tutti.
I fondatori della nostra nazione.»
«Hai le statistiche relative alle nuove acquisizioni?» chiese Sanjrani, senza
accorgersi, o forse senza curarsi, di intromettersi a rubare la scena a Marco. «Mi
serve un resoconto completo.»
«Carmondy ci sta lavorando» rispose Pa.
«Però mi serve presto.»
«Nico, ragazzo mio,» intervenne Rosenfeld «non essere un cafone. Prima
saluta il capitano Pa.»
Sanjrani lo fissò con aria accigliata, elargì lo stesso tipo di sguardo anche a
Inaros, e infine si volse verso Pa con un breve cenno del capo. «Salve.»
«Adesso che la cerchia interna è tutta qui,» disse Dawes «forse potremo sapere
cosa ci ha riuniti. Non che essere insieme nella stessa stanza non sia di per sé un
piacere, ma...»
Marco sorrise mentre suo figlio, dietro di lui, giocherellava nervosamente con
la fondina della pistola. «Abbiamo infranto la Terra e sconfitto Marte. L’APE di
Johnson è stata smascherata come quella finzione collaborazionista che era.
Abbiamo fatto tutto quello che ci eravamo prefissati. È tempo di iniziare con la
terza fase.»
Tutto quello che ci eravamo prefissati tranne uccidere Smith e Fred Johnson,
pensò Pa, ma non lo disse. Il silenzio degli altri però non era dovuto a quel
dettaglio.
Quando parlò, Dawes badò a mantenere un tono accuratamente leggero e
colloquiale. «Non sapevo avessi in mente una terza fase.»
Il sorriso di Marco avrebbe potuto esprimere piacere, rabbia o soddisfazione.
«Adesso lo sai» rispose.
6
Holden

«Mi sento come se dovessi sussurrare e camminare in punta di piedi»


commentò Holden.
«Siamo in assenza di gravità» gli fece notare Naomi.
«Una punta di piedi metaforica.»
Il ponte operativo era al buio, a parte il chiarore che emanava dai monitor.
Alex dormiva nella sua cabina e aveva lasciato il controllo della situazione a
Holden e a Naomi. L’ultima volta che li aveva visti, Bobbie e Amos stavano
facendo il giro della nave, per controllare tutto tranne le comunicazioni – CPD,
propulsori, il cannone a rotaia montato sulla chiglia, i sistemi ambientali. Da
quando era cominciata la missione, Bobbie era stata attenta a non dare a Holden
la sensazione che stesse assumendo il controllo della nave, ma la sua deferenza
non arrivava al punto di impedirle di riprendere familiarità con ogni centimetro
della Roci prima che ci si trovasse a combattere. Anche se si trattava soltanto di
farsi spiegare in che modo Amos aveva reindirizzato le tubature dell’acqua per la
cambusa, osservarli parlare dava sempre la sensazione di ascoltare una
conversazione che riguardasse le armi, perché era una conversazione seria e
professionale fra due persone che comprendevano di lavorare con
apparecchiature che potevano costare la vita alle altre persone. Questo dava a
Holden la sensazione di essere finora stato un po’ troppo superficiale nelle
questioni che riguardavano la nave.
Quanto a Clarissa... non sapeva dove fosse. Dall’ultima accelerazione l’aveva
solo intravista, come se fosse stata uno spirito che si erano ritrovato a bordo e
che non tollerava di essere visto direttamente. La maggior parte delle cose che
sapeva sul suo conto – che si stava rimettendo in forze, che adesso l’impianto
che si era fatta installare le causava meno nausea, che aveva individuato
l’accoppiatore difettoso che riduceva l’intensità delle luci dell’officina – l’aveva
appresa da altri membri dell’equipaggio. La cosa non gli piaceva, ma almeno non
era costretto a parlarle.
Il piano era semplice. L’Azure Dragon non era una nave da guerra ma una nave
per i rilevamenti geologici. La sua unica protezione era il fatto che lo spazio era
vasto, la nave era piccola e la sua orbita la teneva abbastanza lontana dalla Terra
e dalla Luna da permetterle di raggiungere la Fascia o le lune di Giove con una
forte accelerazione se qualcuno fosse venuto a darle la caccia. Tutti i suoi sistemi
attivi – transponder, radar, ladar, radio – erano spenti per evitare di rivelare la
sua presenza. Non poteva impedire alla luce di riflettersi sullo scafo e non
poteva nascondere le emanazioni di calore, ma poteva navigare nel modo più
quieto possibile. Questo la limitava all’uso dei sensori passivi e delle
comunicazioni a raggio stretto. Era sufficiente a permetterle di coordinare le
rocce scagliate contro la Terra, ma la lasciava comunque mezza cieca.
E questo era ciò su cui Bobbie faceva affidamento.
Avevano tracciato una rotta che li avrebbe portati vicino all’Azure Dragon, poi
avevano organizzato uno spostamento della flotta congiunta che avrebbe
nascosto il bagliore dell’accelerazione. Si trattava di bilanciare la necessità di
raggiungere in fretta il nemico con il non essere in grado di effettuare la classica
inversione e frenata a metà tragitto. Potevano accumulare soltanto la quantità di
velocità che sarebbero stati in grado di smaltire quando fossero stati vicini, poi la
Roci si sarebbe oscurata e avrebbe spento i propulsori, fluttuando alla deriva.
Senza sensori attivi, l’Azure Dragon avrebbe dovuto scorgerla visivamente – un
punto minuscolo nella vastità dello spazio – e identificarla come una minaccia
senza l’ausilio di radar o ladar.
E lo avrebbe fatto, alla fine. Se però tutto fosse andato secondo le intenzioni
di Bobbie, per allora la cosa non avrebbe fatto nessuna differenza.
Era un approccio più lento di come Holden ricordasse di aver mai fatto in
qualsiasi situazione, in tutto il tempo in cui avevano avuto la Roci, e questo lo
rendeva ansioso e impaziente.
Le voci giunsero dall’ascensore. Quella di Bobbie era seria, scandita e
professionale, quella di Amos allegra e cordiale. Fluttuarono su fino al ponte,
prima Bobbie, che si aggrappò a una maniglia per fermarsi, poi Amos che
nell’oltrepassare il ponte lo urtò con la caviglia e annullò il suo movimento
piantando i piedi contro il soffitto e assorbendo la quantità di moto con le
ginocchia, rimanendo a fluttuare a testa in giù. Di solito, la Roci viaggiava a meno
di un g per conservare massa di reazione e per rendere le cose più confortevoli
per Naomi, ma quasi sempre avevano un ‘giù’ ben definito. Stare in assoluta
assenza di gravità era strano.
«Come vanno le cose?» chiese Bobbie.
Holden accennò al suo schermo. «Niente di nuovo. Non sembra si siano
ancora accorti di noi.»
«I loro reattori sono ancora spenti?»
«L’emanazione di calore è costante.»
Bobbie strinse le labbra e annuì. «Questo non durerà ancora per molto.»
«Potremmo aprire il fuoco su di loro» osservò Amos. «Non sta a me decidere,
ma nella mia esperienza di solito chi tira il primo pugno vince.»
«Mostrami una stima della gittata» disse Bobbie. Holden attivò i sensori
passivi. A circa cinque milioni di chilometri da loro, l’Azure Dragon era distante
circa dieci volte di più di quanto la Luna lo era dalla Terra. Probabilmente, il suo
equipaggio non contava più di una dozzina di persone. Nell’infinito cielo stellato
sarebbe stata invisibile a occhio nudo, perché anche se fosse stata in piena
accelerazione, le emanazioni del reattore sarebbero state soltanto un punto di
luce fra miliardi di altri. «Quanto è accurato quel valore?»
«Non lo so con certezza» replicò Holden. «Di norma usiamo il ladar.»
«Dagli un margine per eccesso e per difetto del dieci percento» suggerì Naomi.
«A questa distanza e su questa scala, gli errori di campionatura passiva si
espandono molto in fretta.»
«E con il ladar?» chiese Bobbie.
«Con uno scarto di un metro» rispose Naomi.
«Avete mai pensato a quante munizioni volano in giro là fuori?» commentò
Amos, protendendosi a sfiorare il soffitto con le dita. Quel contatto lo fece
fluttuare in modo quasi impercettibile verso il soffitto e nello stesso tempo lo
fece ruotare di nuovo ad assumere quella che era per convenzione una posizione
diritta. «Pensate a tutti quei proiettili di CPD che non hanno colpito il bersaglio, e
alla maggior parte dei proiettili di cannone magnetico, sia che abbiano
attraversato o meno una nave. Sono tutti là fuori da qualche parte, che viaggiano
alla stessa velocità che avevano quando hanno lasciato la canna.»
«Se spariamo, cercheranno comunque chi è stato» osservò Naomi.
«Forse no» ribatté Amos.
Naomi guardò verso Bobbie. «Presto dovremo cominciare a frenare, altrimenti
li oltrepasseremo.»
«Fra quanto tempo?» domandò Bobbie.
«Tre ore» rispose Naomi. «Se aspetteremo di più a farlo dovremo prendere i
medicinali antiaccelerazione, o rischiare che la gravità prodotta dalla
decelerazione ci faccia scoppiare un sacco di vasi sanguigni che preferiremmo
tenere intatti.»
Bobbie prese a battere la punta del dito medio destro contro quella del pollice
in un ritmo rapido e irregolare. Quando annuì, si rivolse più a sé stessa che a
loro. «Al diavolo. Sono stanca di aspettare. Andrò a svegliare Alex. È ora di farla
finita.»
«Bene, ragazzi e ragazze» disse Alex, con voce strascicata. «Siete tutti pronti e
assicurati ai sedili?»
«Pronto» rispose Holden, sul canale aperto, e ascoltò gli altri fare a loro volta
rapporto, inclusa Clarissa Mao. Era un’illusione data dal senso di anticipazione,
ma Holden ebbe la sensazione che le luci fossero un po’ più intense, come se
dopo settimane all’attracco, la Roci fosse eccitata di fare qualcosa di importante.
«Il reattore è a posto» riferì Amos, dalla sala macchine.
Alex si schiarì la gola. «D’accordo. Siamo pronti a decelerare in dieci... nove...»
«Ci ha visti» interloquì Naomi. «Ricevo attività dei suoi propulsori di
manovra.»
«Bene. Allora... tre, due, uno» disse Alex, e Holden ricadde con violenza
all’indietro sul sedile a smorzamento. Il gel gli si premette tutt’intorno e la nave
vibrò del profondo suono del propulsore mentre riduceva la velocità. Dal punto
di vista dell’Azure Dragon doveva sembrare che fosse apparsa una nuova stella
brillante. Una supernova distante anni luce, oppure qualcosa di meno pericoloso
ma di molto, molto più vicino.
«Ladar attivo» riferì Naomi. «E... li ho agganciati.»
«Il loro reattore è attivo?» domandò Holden, mentre Bobbie diceva: «Dammi il
controllo degli armamenti.»
Naomi rispose a entrambi. «Il reattore si sta attivando. Probabilmente abbiamo
mezzo minuto. Hai il controllo, Bobbie.»
«Holden,» ordinò Bobbie, secca «per favore, suona il campanello. Alex, passa i
comandi di manovra al controllo armamenti.»
«Fatto» rispose Alex.
Holden passò sulla comunicazione a raggio stretto, e la Roci agganciò
immediatamente l’altra nave. «Azure Dragon, questa è la Rocinante. Forse avete
sentito parlare di noi. Ci stiamo avvicinando. Arrendetevi...»
La gravità da decelerazione scomparve e i sedili a smorzamento sibilarono
mentre la nave ruotava su due assi.
«Arrendetevi immediatamente e preparatevi a essere abbordati.»
«Il reattore nemico si sta attivando» avvertì la voce di Naomi, calma e
controllata.
La nave parve inciampare, proiettando Holden e Naomi contro le cinture di
sicurezza, quando il cannone a rotaia montato sulla chiglia spinse l’intera nave
all’indietro in un solido rapporto matematico con la massa del proiettile di
tungsteno da due chili che si muoveva a una misurabile frazione di c. La terza
legge di Newton espressa sotto forma di violenza. Holden sentì lo stomaco che
gli si contraeva mentre cercava di protendersi in avanti. I secondi si
susseguirono, interminabili.
Naomi emise un piccolo verso soddisfatto. «Okay, il loro reattore si sta
disattivando e stanno scaricando il nucleo. Non registriamo azoto nelle
emanazioni, quindi non credo abbiano perso aria.»
«Bel tiro» si complimentò Amos, sul canale aperto.
«Dannazione» commentò Bobbie, mentre la Roci tornava a girarsi. «Tutto
questo mi è mancato maledettamente.»
La gravità da decelerazione ricomparve, schiacciando Holden all’indietro
mentre rallentavano diretti verso la nave scientifica alla deriva. Adesso la
situazione era più dura da sopportare... una pressione di due g che poteva sentire
lungo la mascella e alla base del cranio.
«Rispondete per favore, Azure Dragon, altrimenti spareremo ancora» disse.
«Questo non mi piace» osservò Naomi.
«Hanno cominciato loro» ribatté Alex, dal ponte di pilotaggio, sopra di loro.
«Hanno messo mano a ogni roccia che è stata lanciata.»
Holden non era certo che Naomi si fosse riferita a quello, ma lei non insistette,
quindi forse era lui a sbagliarsi. «Non ricevo risposta, Bobbie» avvertì. «Come ti
vuoi regolare?»
Per tutta risposta, l’ex marine marziano lasciò la postazione del cannoniere,
scendendo una mano dopo l’altra nell’elevata forza di gravità. I muscoli delle sue
braccia erano come cavi tesi e la sua smorfia indicava non solo che quello sforzo
era doloroso, ma anche che in un certo qual modo le piaceva. «Fai sapere loro
che se aprono il fuoco su di noi non avranno sedili a smorzamento nel viaggio
fino alla prigione» disse, passando oltre nel dirigersi alla camera di
pressurizzazione. «Io vado a infilarmi dentro qualcosa di più comodo.»
I sedili a smorzamento si spostarono leggermente quando Alex alterò la loro
traiettoria in modo tale che adesso avrebbero fuso la Azure Dragon con le
emanazioni del loro reattore. Bobbie grugnì e cambiò presa sugli appigli.
«Sai che c’è un ascensore, vero?» commentò Holden.
«Che divertimento c’è a usarlo?» ribatté Bobbie, mentre scompariva dal suo
campo visivo.
Naomi contrastò la forza di gravità per spostarsi in modo che lui potesse
vederla in faccia. Il suo sorriso era complesso... esprimeva disagio, piacere e
qualcosa che somigliava all’inquietudine. «Quindi è così che appare quando si
libera dal guinzaglio.»
Eliminare quanto restava della loro velocità e assumere la stessa orbita del
bersaglio non fu facile. Holden ascoltò con un solo orecchio mentre Alex,
Naomi e Amos coordinavano i sistemi della Roci in modo da affiancarsi all’altra
nave. Di tanto in tanto Bobbie si metteva in contatto, quando non era
impegnata ad assemblare la sua armatura potenziata e a effettuare un controllo
dei suoi sistemi. Tuttavia, la maggior parte dell’attenzione di Holden rimase
concentrata sul nemico. L’Azure Dragon fluttuava in silenzio, e una nuvola
sempre più larga di gas radioattivo che era stata il suo nucleo a fusione si
dissipava lentamente dietro di essa, fino a essere di poco più densa del vuoto
circostante. Non c’era nessun segnale di emergenza. Nessun annuncio di resa o
atto di sfida. Nessuna risposta alle sue domande e ai suoi solleciti. Quel silenzio
era inquietante.
«Non credo che li abbiamo uccisi» disse. «Probabilmente non li abbiamo
uccisi, vero?»
«Non mi sembra probabile,» rispose Naomi «ma immagino che lo scopriremo.
Nel caso peggiore, lo abbiamo fatto e tuttavia questo rende più facile impedire
che le rocce piovano sulla Terra.»
Qualcosa nel suo tono di voce catturò l’attenzione di Holden. Lo sguardo di
lei era fisso sul monitor, ma non sembrava concentrata. La sua mente era a un
milione di chilometri di distanza.
«Stai bene?»
Naomi sbatté le palpebre, scosse il capo come se stesse cercando di schiarirsi
la mente, e sfoggiò un sorriso che era leggermente forzato. «È solo che è strano
essere di nuovo qui fuori, e non posso fare a meno di chiedermi se conosco
qualcuno, su quella nave. Non è qualcosa a cui pensassi molto, prima.»
«Le cose sono cambiate» osservò Holden.
«Sì, di solito eri tu quello che aveva un alto profilo» annuì lei, mentre il suo
sorriso si faceva appena un po’ meno forzato. «Adesso sono io quella su cui tutti
i migliori interrogatori vogliono mettere le mani.»
Alex annunciò che avevano agganciato il portello stagno dell’Azure Dragon e
che stavano eseguendo l’override del suo sistema. Bobbie accusò ricevuta,
rispondendo che era pronta all’abbordaggio. Sarebbe tornata quando il nemico
fosse stato neutralizzato. Suonava tutto molto militare, molto marziano. Nelle
loro voci si avvertiva un’eccitazione che era in parte la loro paura mascherata
con gli abiti della festa, ma solo in parte. Per la prima volta da quando riuscisse a
ricordare, Holden si sorprese a immaginare come tutto quello dovesse suonare
all’orecchio di Naomi: i suoi amici che si preparavano ad attaccare e forse a
uccidere persone che erano cresciute nel suo stesso modo, quel modo che
nessun altro sulla Rocinante avrebbe mai compreso del tutto.
Avevano lavorato su tutti i lati di quel confuso pasticcio in cui l’umanità aveva
trasformato la Fascia e le colonie sparse al di là di essa. Avevano combattuto
contro i pirati per l’APE e agito sotto contratto con la Terra, con Marte e con
attività private che avevano i loro scopi personali. Adesso pensare a Naomi non
solo come a lei stessa, ma anche come al prodotto della vita che aveva vissuto –
la vita che si stava ancora costringendo a rivelargli – cambiava il suo modo di
vedere ogni cosa. Perfino sé stesso.
«Dovevamo fermarli» disse.
Lei si volse a guardarlo con espressione confusa. «Chi? Questi idioti? Certo
che dovevamo.» Un profondo rumore metallico riverberò per la nave quando i
due portelli stagni si agganciarono. Un allarme apparve sullo schermo di Holden,
ma lui lo ignorò. Naomi continuò a fissarlo con la testa inclinata da un lato,
come se lui fosse stato un puzzle che non aveva ancora risolto. «Pensavi che mi
dispiacesse per loro?»
«No» rispose Holden. «O meglio, sì, ma non proprio. Anche tutti quelli che si
trovano su quella nave sono convinti di fare la cosa giusta. Quando scagliano
rocce contro la Terra lo fanno per... per proteggere i bambini su navi che sono
costrette a viaggiare con troppa poca aria o con filtri scadenti, oppure persone
che hanno perso la loro nave perché le Nazioni Unite hanno modificato le leggi
sulle tariffe.»
«Oppure perché pensano sia divertente uccidere la gente» ribatté Naomi. «Non
avvolgerli di un alone romantico solo perché alcune delle giustificazioni che
adducono sono...»
Ci fu un secondo rumore metallico, più profondo del primo. Naomi sgranò gli
occhi nello stesso momento in cui Holden sentì lo stomaco che gli si contraeva.
Era un suono che non prometteva niente di buono.
«Alex, cos’era?»
«Gente, credo che abbiamo un piccolo problema.»
«Io sto bene» avvertì Bobbie, ma il modo in cui lo disse rese evidente che si
trattava di una questione aperta.
Naomi si girò verso il monitor con le labbra strette in una linea sottile. «Che
cosa abbiamo, Alex?»
«Una trappola» rispose Alex. «Sembra una specie di blocco magnetico, dal loro
lato. Ha congelato il funzionamento dei portelli, e Bobbie...»
«Sono bloccata fra il loro portello esterno e il nostro» interloquì Bobbie. «Sto
bene. Adesso mi aprirò un varco a forza e...»
«No» replicò Naomi, mentre l’attenzione di Holden si spostava sull’allarme che
continuava a lampeggiare sul suo monitor. «Se è davvero bloccato, potresti
rompere entrambi i portelli. Aspetta e lasciami vedere cosa possiamo fare per
toglierti di lì.»
«Ehi» intervenne Holden. «Qualcuno sa perché abbiamo appena perso un
sistema di sensori?» Un altro allarme si accese sullo schermo, e un sonoro
campanello d’allarme prese a risuonargli nella testa. «O quel CPD?»
Gli altri rimasero in silenzio per un momento, poi per quelle che parvero ore
ma furono probabilmente cinque o sei secondi si sentirono soltanto il battere
delle dita sui pannelli di controllo e i trilli che accompagnavano le risposte della
Rocinante alle diverse domande. Prima ancora di avere una conferma, Holden fu
certo di quale fosse la risposta. La telecamera esterna spaziava sullo scafo
esterno della Roci, e l’Azure Dragon addossata contro di essa appariva più come
un parassita che come un prigioniero. Poi scorse un tremolio di scintille e
qualcosa di giallo. Spostò l’inquadratura della telecamera e vide tre mech edili,
simili a ragni, accoccolati a metà della fiancata della Roci, che ne stavano
aggredendo lo scafo con le saldatrici.
«Ci stanno smantellando» disse.
Quando Alex parlò, la sua falsa cortesia mascherava la rabbia. «Se vuoi, posso
dare un po’ di gas al reattore. Avvolgerli nelle nostre emanazioni di scarico e
liberarcene...»
«Ripiegheresti i portelli uno contro l’altro,» lo interruppe Holden «e
schiacceresti Bobbie, uccidendola.»
«Già» annuì Alex. «D’accordo, non è una buona idea.»
Holden prese il controllo di un CPD e provò a spostarlo sul suo arco
abbastanza da centrare uno dei mech, ma essi erano troppo vicini alla nave.
Intanto, apparve un altro allarme. Un condotto di alimentazione dava un errore,
segno che stavano scavando più in profondità nello scafo. Fra non molto
avrebbero potuto fare danni molto più seri, e se fossero riusciti ad aprirsi un
varco fino ad arrivare fra i due scafi...
«Cosa succederebbe se Bobbie rompesse il tubo di attracco?» domandò, in
tono secco.
«Nel migliore dei casi, non potremo usarlo finché non lo avremo riparato»
rispose Naomi. «Nel peggiore, è possibile che abbiamo piazzato una trappola
secondaria che ucciderà Bobbie e disperderà la nostra aria.»
«Per me va bene» disse Bobbie. «È un rischio che posso correre. Datemi solo
un secondo per mettermi in posizione...»
«No» la fermò Holden. «No, aspetta. Possiamo trovare una via di uscita senza
che nessuno muoia. Abbiamo tempo.»
Però non ne avevano molto. Una saldatrice tornò ad accendersi. Quando
Amos parlò, la sua voce suonò ‘sbagliata’, troppo fievole e troppo vicina. «Sai,
capitano, abbiamo un altro portello. La baia di carico è proprio qui sotto, vicino
all’officina.»
Holden comprese. La voce di Amos suonava diversa perché indossava già una
tuta e parlava attraverso il microfono del casco.
«Cosa stai pensando di fare, Amos?»
«Niente di troppo sottile. Facciamo un salto fuori, uccidiamo qualche idiota
che ha bisogno di essere ammazzato e rappezziamo lo scafo dopo aver finito
con la prima parte.»
Naomi intercettò lo sguardo di Holden e annuì. Anni passati insieme e una
lista di innumerevoli crisi superate avevano creato fra loro una sorta di telepatia.
Naomi sarebbe rimasta lì e avrebbe tirato fuori Bobbie dalla trappola sana e
salva. Holden sarebbe uscito con Amos per tenere a bada il nemico.
«D’accordo» disse Holden, allungando la mano verso le cinghie del sedile.
«Preparami una tuta. Sto arrivando.»
«Te ne lascerò una,» replicò Amos «ma credo che noi cominceremo a
muoverci senza di te.»
«Un momento... noi?» chiese Holden.
«Stiamo uscendo adesso» rispose Clarissa Mao. «Auguraci buona fortuna.»
7
Clarissa

Durante il secondo anno trascorso in prigione, Clarissa aveva acconsentito a


partecipare a un corso di poesia tenuto dal cappellano della prigione. Non aveva
avuto molta speranza di ricavarne qualcosa, ma si trattava di mezz’ora ogni
settimana in cui poteva sedere in una stanza fra il grigio e il verde, con sedie
d’acciaio fissate al pavimento, in compagnia di una mezza dozzina di altri
detenuti, e fare qualcosa che non fosse guardare canali d’intrattenimento
censurati o dormire.
Era stato un disastro fin dall’inizio.
Fra tutti gli uomini e le donne che si riunivano ogni settimana, soltanto lei e il
cappellano erano stati all’università. Due delle donne erano talmente imbottite di
antipsicotici che erano a stento presenti. Uno degli uomini – un violentatore
seriale che aveva ucciso le figliastre torturandole con uno spray stordente
chimico finché non avevano smesso di respirare – era talmente affascinato dal
Saggio sull’Uomo di Pope che componeva epiche lunghe un’ora in coppie di versi
in rima che non avevano senso. I suoi argomenti preferiti erano l’ingiustizia di
un sistema legale che non prendeva in adeguata considerazione la personalità
dell’individuo e la sua bravura sessuale. Poi c’era un ragazzo dal volto rotondo
che sembrava troppo giovane per aver fatto qualcosa che meritasse di
trascorrere la vita in quel buco, che scriveva sonetti sui giardini e sulla luce del
sole, più dolorosi di tutto il resto anche se per ragioni diverse.
All’inizio il contributo di Clarissa era stato minimo. Aveva provato a comporre
alcuni versi sciolti sulla possibilità di redenzione, ma dietro insistenza del suo
professore di letteratura aveva letto Carlos Pinnani, Anneke Swinehart e HD,
per cui sapeva che il suo lavoro non valeva molto. Cosa ancora peggiore, sapeva
anche perché non era buono: non credeva davvero nella sua tesi. Nelle poche
occasioni in cui aveva preso in considerazione l’idea di passare a un argomento
diverso – padri, rimpianto, dolore – le era parso che non fosse tanto catartico
quanto un nudo resoconto. La sua vita era stata sprecata, e non pareva
importare molto se lo diceva o meno in un pentametro.
Aveva abbandonato il corso a causa degli incubi. Non ne aveva parlato con
nessuno, ma i medici lo sapevano lo stesso. Poteva riuscire a tenere per sé il
contenuto esatto di quei sogni, ma il monitor medico registrava il suo battito
cardiaco e l’attività delle diverse parti del suo cervello. La poesia rendeva quegli
incubi più frequenti e più vividi. Di solito, si trattava di lei che scavava in
qualcosa di repellente – escrementi, oppure carne marcia, o qualcosa del genere
– per cercare di raggiungere qualcuno che era sepolto lì sotto prima che
soffocasse. Quando aveva smesso di seguire i corsi gli incubi si erano di nuovo
diradati, presentandosi più o meno una volta alla settimana invece che ogni
notte.
Questo non voleva dire che il corso non avesse dato i suoi frutti. Tre
settimane dopo che aveva detto al cappellano di non voler più fare parte del suo
piccolo esperimento, si era svegliata nel cuore della notte perfettamente riposata,
lucida e calma, con una frase stampata con chiarezza nella mente come se
l’avesse appena sentita pronunciare. Ho ucciso, ma non sono un’assassina perché un
assassino è un mostro, e i mostri non hanno paura. Non aveva mai pronunciato quelle
parole ad alta voce, non le aveva mai scritte. Esse erano diventate le sue parole
di potere, una preghiera privata, troppo sacra per darle forma, a cui ricorreva
quando ne aveva bisogno.
Ho ucciso, ma non sono un’assassina...
«Stiamo uscendo adesso» disse, sentendosi la bocca arida e appiccicosa, con il
cuore che le sussultava nel petto.
...perché un assassino è un mostro...
«Auguraci buona fortuna.»
...e i mostri non hanno paura. Chiuse la trasmissione, prese il fucile privo di
rinculo e rivolse un cenno di assenso ad Amos. Il suo sorriso, seminascosto dalla
curva del casco, era monellesco e calmo. Il portello esterno della camera di
pressurizzazione si aprì silenziosamente su un abisso pieno di luce stellare.
Amos si aggrappò al bordo del portello, si spinse in avanti e tornò a ritrarsi
nell’eventualità che fuori ci fosse qualcuno appostato e pronto a sparare.
Quando risultò evidente che non c’era nessuno, si afferrò a una maniglia e si
proiettò fuori, ruotando in modo che gli stivali magnetici della tuta entrassero in
contatto con la superficie della nave. Clarissa lo seguì con mosse meno
aggraziate, e meno sicura di sé.
Con il corpo della Rocinante sotto i piedi, si girò a guardare verso il cono del
reattore. Lo scafo della nave era liscio e duro, tempestato qua e là dai massicci
supporti dei CPD, dai gruppi di bocche dei propulsori, dagli occhi neri e profondi
dei sistemi di sensori. Spianò il fucile con il dito vicino al grilletto ma non su di
esso, come le aveva insegnato a fare il marine marziano. Disciplina del grilletto,
la chiamava. Desiderò di essere lei quella intrappolata nel portello, e che Bobbie
Draper potesse essere lì al suo posto.
«Avanziamo, Zuccherino. Tieni d’occhio la posizione alle nostre ore sei.»
«Ricevuto» rispose Clarissa, e cominciò a camminare lentamente all’indietro,
con gli stivali che aderivano allo scafo e se ne staccavano soltanto per aderire di
nuovo. Dava la sensazione che la nave stessa cercasse di impedirle di vorticare
via fra le stelle. Non sbucò nessun nemico mentre si spostavano intorno alla
curva della nave, ma alla sua destra il corpo dell’Azure Dragon divenne visibile
come una balena che emergesse dalle profondità oceaniche. Era così vicina alla
Roci che avrebbe potuto disattivare la presa magnetica degli stivali e saltare su di
essa. La luce del sole che giungeva dal basso proiettava ombre aspre su uno
scafo sfregiato che cominciava a scagliarsi in punti dove troppi anni di radiazioni
dure avevano ridotto il rivestimento a una patina bianca e fragile. Al confronto,
la Roci appariva solida e nuova. Qualcosa emise un bagliore alle sue spalle,
proiettando davanti a lei la sua ombra e quella di Amos. Clarissa trasse un lento
respiro sussultante. Per il momento niente li aveva ancora attaccati.
Erano loro gli assalitori.
«Merda» disse Amos, e immediatamente la voce di Naomi risuonò sul canale
comune.
«Cosa vedi, Amos?»
In un angolo del casco di Clarissa apparve una piccola finestra, l’HUD che
mostrava il tratto di scafo alle sue spalle, dove tre ragni di un giallo carico si
trovavano in mezzo a una nuvola di scintille. Due erano puntellati contro lo
scafo, pronti a tirare indietro una sezione di ceramica e di acciaio, mentre il terzo
la tagliava via.
«D’accordo» disse Naomi. «Così arriveranno fra i due scafi.»
«Non se io e Zuccherino abbiamo qualcosa da dire al riguardo. Giusto,
Zuccherino?»
«Giusto» rispose Clarissa, e si girò per vedere il nemico con i suoi occhi. La
luminosità della torcia per saldature costrinse il suo casco a oscurarsi per
proteggerle gli occhi. I tre mech parvero rimanere com’erano, mentre le stelle
tutt’intorno a loro si spensero. Non rimaneva niente, se non le persone che
volevano fare del male a lei e ad Amos, e l’oscurità.
«Sei pronta?» chiese Amos.
«Ha importanza?»
«Non molta. Vediamo cosa ci riesce di fare prima che si accorgano di noi.»
Clarissa si accoccolò vicino allo scafo, sollevò il fucile e prese la mira. Con
l’ingrandimento attivato, poteva scorgere la forma umana all’interno del mech –
braccia, gambe, testa, il tutto chiuso in una tuta non molto diversa dalla sua.
Posizionò il vivido punto rosso del mirino sul casco, posò il dito sul grilletto e
fece fuoco. Il casco sussultò all’indietro, come per la sorpresa, e i due mech
rimanenti si girarono, puntando verso di loro le zampe di acciaio giallo.
«Muoviti!» gridò Amos, mentre saltava nel cielo nero. Clarissa disattivò gli
stivali magnetici e lo seguì, quasi troppo tardi. Una linea bianca apparve sullo
scafo nel punto in cui lei si era trovata, la pallottola già persa alle loro spalle
prima ancora che la tuta avesse potuto avvertirla del suo arrivo. I propulsori
della tuta entrarono in funzione, spingendola in fuori e spostandola in modo
imprevedibile per evitare la sfilza di proiettili che poteva vedere soltanto come
linee sul suo HUD.
«Tienili occupati, Zuccherino» disse Amos. «Io torno subito.»
Poi saettò via, con un’angolazione che lo portò in avanti e intorno al corpo
dell’Azure Dragon. Clarissa si girò, lasciando che la tuta la spingesse nella
direzione opposta, in modo da mettere l’orizzonte della Rocinante fra sé e i mech.
Il cuore le risuonava negli orecchi come un ticchettio, il suo corpo tremava. Il
punto rosso del mirino trovò il mech con la torcia e lei premette il grilletto,
mancando il bersaglio al primo tiro. Il secondo andò a segno e il mech oscillò
leggermente sotto la spinta inattesa del gas volatile che fuoriusciva. Intanto la
sua tuta emise un segnale di allarme, e lei pensò che fosse un difetto di
funzionamento finché non abbassò lo sguardo sulla gamba e vide il sangue.
L’avevano colpita. Era un punto intellettualmente interessante.
«Rapporto!» Naomi stava gridando. Clarissa avrebbe voluto dire qualcosa, ma i
mech si stavano spostando lungo la Roci verso di lei e tutta la sua attenzione era
rivolta al ritirarsi e al rispondere al fuoco.
«Qui ho una squadra di abbordaggio in attesa di muoversi» riferì Amos.
«Quanti sono?» chiese Naomi.
«Cinque» rispose Amos. E dopo un momento: «Adesso quattro. Ora sono in
tre.»
Le stelle cominciavano a riapparire, ma non sembravano luminose come
prima. Lo scafo risplendeva sotto la luce del sole, che adesso era quasi
direttamente sopra di loro. I mech strisciavano più in fretta verso di lei, come
creature uscite da un incubo. Uno di essi oltrepassò la canna di un CPD e
scomparve.
«Ne ho beccato uno» disse Alex, e Clarissa rise. La sua attenzione però venne
meno per un momento. Si era spinta troppo lontana dallo scafo e doveva
tornare dove aveva copertura. Si tuffò verso la Roci, ma lo fece troppo in fretta.
Colpì lo scafo con i piedi e cercò di rotolare all’impatto come aveva imparato a
fare da ragazza nel seguire un corso di autodifesa. Il suo senso dell’alto e del
basso si offuscò e per un momento si ritrovò a precipitare fra le stelle.
«Come te la cavi, Zuccherino?» chiese Amos, ma lei si stava muovendo in
fretta all’indietro, lontano dal mech rimanente. La morte inaspettata del loro
amico vicino al CPD li aveva rallentati, resi più cauti. Clarissa si spinse
ulteriormente intorno alla Roci, si fermò per prendere la mira e attese che il
nemico apparisse sulla linea di tiro. Aspettare era difficile. Adesso aveva il sole
negli occhi e il casco lottava per impedire che la sua luce la accecasse. La gamba
le doleva, ma non faceva davvero male... si chiese se fosse normale. Poi il mech
apparve nel suo campo visivo e lei fece fuoco, ricacciandolo indietro. Quanti
colpi aveva usato? Doveva essere sull’HUD, da qualche parte, ma non riusciva a
ricordare dove. Sparò di nuovo, e vide un piccolo sei verde trasformarsi in un
cinque. Quindi le rimanevano cinque colpi. Attese, una cacciatrice nel suo punto
di appostamento. Poteva farcela. Il punto rosso sussultò e si sposto. Cercò di
riallinearlo. Poteva farcela...
«Zuccherino!» urlò Amos. «Alle tue ore sei!»
Clarissa si girò di scatto. L’Azure Dragon incombeva dietro di lei, con il sole
alto sopra di loro. Si era spostata all’indietro così tanto che aveva fatto un
cerchio completo. E al di sopra della nave nemica c’erano due forme luminose
che si muovevano in fretta. L’equipaggio della Azure Dragon non sarebbe riuscito
a entrare a forza nella Rocinante, ma avrebbe potuto prendersi una piccola
vendetta a sue spese. Non aveva dove mettersi al coperto, poteva soltanto
restare lì e affrontare quanto restava della squadra di abbordaggio che stava
calando su di lei, oppure lanciarsi contro le armi del mech superstite.
«Amos?» disse.
«Rientra nel portello! Torna dentro!»
Clarissa sollevò il fucile e prese di mira una delle figure in avvicinamento.
Quando fece fuoco esse si spostarono dalla traiettoria del proiettile, e il suo HUD
registrò cose in rapido movimento. Si girò verso il cono del reattore, che
sembrava più lontano di quanto si fosse aspettata, poi i propulsori della tuta
entrarono in funzione e lei si spostò lungo lo scafo, a un metro di distanza da
esso, come un uccello che volasse rasente la superficie di un lago. Qualcosa le
esplose nel braccio, facendola ruotare, e l’HUD le disse quello che sapeva già:
un’altra ferita. La tuta le si stava già contraendo intorno alla spalla per contenere
il più possibile l’emorragia. Alla sua sinistra intravide una chiazza gialla: il mech,
che cavalcava la nuvola delle emanazioni dei suoi propulsori e si faceva più
vicino. Lasciò andare il fucile, che andò alla deriva alle sue spalle. Del resto, con
un solo braccio non poteva puntarlo, e una massa minore significava un po’ più
di velocità.
Il momento era arrivato. Era così che sarebbe morta. Quell’idea le risultava
stranamente consolante. Sarebbe morta lì, sotto miliardi di stelle, nell’eterna luce
del sole, combattendo per i suoi amici. La cosa aveva un che di radioso, una
morte da eroe, non il freddo spegnersi su una dura branda grigia nell’infermeria
della prigione, come si era aspettata che sarebbe successo. Quanto era strano che
quella dovesse darle la sensazione di essere una vittoria. Il tempo parve
rallentare, e si chiese se per caso non avesse attivato per errore i suoi impianti.
Sarebbe stata una cosa sciocca, perché potenziare il suo sistema nervoso non le
sarebbe servito a niente quando tutta la sua velocità derivava dai propulsori. Ma
non si trattava di questo, solo della paura e della certezza di correre incontro alla
morte.
Naomi e Alex le gridavano all’orecchio, e anche Amos, ma non riusciva a dare
un senso alle loro parole. Le venne da pensare – come se stesse vedendo
qualcun altro giungere a quella conclusione – che ad Amos sarebbe potuto
dispiacere che lei non ci fosse più. Avrebbe dovuto dirgli quanto gli era grata per
ogni singolo giorno che le aveva dato fuori da quel buco. Il casco l’avvertì che
doveva cominciare a frenare se non voleva oltrepassare la nave, quindi spense i
propulsori e si girò, più per un senso di obbligo che per un’effettiva speranza di
sopravvivere. Uno dei due abbordatori stava vorticando lontano, fuori controllo,
con le braccia e le gambe che si dibattevano. L’altro era sopra di lei ma le dava le
spalle per fronteggiare un corpo in rapido movimento che doveva essere Amos.
Il mech si stava facendo più vicino. Quando cominciò a frenare, esso parve
scattare verso di lei, un’illusione dovuta alla velocità relativa che però conteneva
abbastanza verità da segnare la sua fine.
Poi, inspiegabilmente, il conducente del mech si accasciò contro le cinture di
sicurezza e le braccia del mech presero ad agitarsi, d’un tratto prive di controllo.
Una di esse si protese verso il basso, sfregiando lo scafo e mandando la grande
macchina gialla a vorticare lontano dalla Rocinante, verso le stelle. Clarissa la fissò
senza capire finché una mano non l’afferrò per la spalla sana e un braccio non le
cinse le spalle. L’altro casco era opacizzato a causa dell’intensa luce solare, e lei
non capì cosa fosse successo finché non sentì la voce alla radio.
«È tutto a posto» disse Holden. «Ti ho presa.»
Amos la svegliò. Il suo volto largo e la testa calva le parvero una sorta di
sogno, ma probabilmente erano solo i medicinali che alteravano le sue
percezioni.
La miscela di ricrescita aveva strani effetti sulla sua mente, anche se non
l’avevano gli anestetici. Potendo scegliere fra il sentirsi intorpidita e stupida o
lucida e sofferente, preferiva la sofferenza. Ampie cinture elastiche la
trattenevano sul lettino dell’infermeria, e il sistema automatico le somministrava
ciò di cui il suo corpo aveva bisogno, dando ogni tanto un segnale di errore
quando rimaneva confuso dalle perdite provenienti dal suo sistema endocrino
modificato. L’omero era fratturato, ma si stava saldando, e il primo proiettile le
aveva scavato un solco lungo dieci centimetri attraverso i muscoli della coscia,
ammaccando l’osso senza però fratturarlo.
«Stai bene, Zuccherino? Ti ho portato qualcosa da mangiare e stavo per
lasciartelo qui, ma tu eri... sembravi...» Amos agitò una mano.
«Sto bene» rispose lei. «Voglio dire, sono un colabrodo ma sto bene.»
Amos sedette su un lato del letto, e solo allora Clarissa si rese conto che i
propulsori erano attivi. Il profumo della crostata di pesche era invitante e
nauseante allo stesso tempo. Slacciò le cinture e si sollevò a sedere facendo leva
sul gomito sano.
«Abbiamo vinto?» chiese.
«Oh, sì, dannazione. Abbiamo due prigionieri e il nucleo dati dell’Azure Dragon.
Hanno cercato di cancellarlo, ma fra Naomi e la Roci riusciremo a ricostruire il
tutto. Bobbie è furibonda per essersi persa tutta l’azione.»
«Magari si rifarà la prossima volta» commentò Clarissa, mentre Holden entrava
nella stanza.
Lui e Amos si scambiarono un cenno del capo, poi il grosso meccanico uscì.
«Probabilmente avremmo dovuto fare prima questa chiacchierata» esordì
Holden.
Il capitano della Roci rimase in piedi accanto al letto, dando l’impressione di
essere incerto se sedersi o meno. Clarissa non avrebbe saputo dire se dipendesse
dal trauma o dai medicinali, ma rimase sorpresa nel notare che Holden non
somigliava all’immagine mentale che aveva di lui. Nella sua mente gli zigomi
erano più alti, la mascella più larga, l’azzurro dei suoi occhi era più gelido.
Quest’uomo appariva... non più vecchio, solo diverso. I capelli erano arruffati,
c’erano linee che si stavano formando intorno agli occhi e agli angoli della
bocca. Non c’erano ancora, ma sarebbero apparse. E le sue tempie erano
spruzzate di grigio. Tuttavia, non era questo a farlo apparire diverso: il James
Holden che era il re della sua mitologia personale era sicuro di sé stesso, mentre
quest’uomo appariva estremamente a disagio.
«D’accordo» rispose, non sapendo che altro dire.
Holden incrociò le braccia. «Io... mmh. Sì, io non mi aspettavo che ti
imbarcassi su questa nave. La cosa mi mette a disagio.»
«Lo so» annuì Clarissa. «Mi dispiace.»
Lui accantonò il commento con un gesto. «Questo mi ha indotto a sorvolare
su questa parte, mentre non avrei dovuto farlo. È colpa mia, d’accordo? So che
tu e Amos avete attraversato a piedi una grossa parte del Nord America dopo
che le rocce sono precipitate, e so che a quel tempo te la sei cavata
egregiamente. E che hai esperienza con le navi.»
Esperienza come terrorista e assassina, pensò, ma non lo disse.
«Il fatto è» continuò «che non sei stata addestrata per questo tipo di azione.
Uscire in assenza di gravità con un fucile in mano è una cosa diversa dal trovarsi
sulla terraferma, o dall’essere un tecnico su una nave. Hai quegli impianti, ma se
li usassi là fuori finiresti per avere un tracollo e soffocare nel tuo stesso vomito,
giusto?»
«È probabile» annuì lei.
«Quindi uscire là fuori in quel modo non è una cosa che dovresti fare. Amos ti
ha presa con sé perché... perché vuole che tu sappia che il tuo posto è qui.»
«Ma non lo è» commentò Clarissa. «È questo che mi stai dicendo.»
«Non ogni posto in cui va Amos, no» ribatté Holden, e incontrò il suo sguardo
per la prima volta. Appariva quasi triste, e Clarissa non riuscì a comprenderne il
motivo. «Però fintanto che sei sulla mia nave, sei parte dell’equipaggio, ed è mio
compito proteggerti. Ho fatto un casino al riguardo. Non uscirai più in battaglia
in una tuta per il vuoto, almeno finché non riterrò che tu sia stata addestrata, e
questo è un ordine. Capito?»
«Capito» rispose Clarissa. Poi, sperimentando quella parola per vedere che
sensazione le dava in bocca, aggiunse: «Capito, signore.»
Lui era stato il suo nemico giurato, il simbolo del suo fallimento. In qualche
modo, era perfino diventato il simbolo della vita che avrebbe potuto avere se
avesse fatto scelte diverse, eppure era soltanto un uomo sulla soglia della mezza
età, che lei conosceva a stento anche se avevano alcuni amici in comune. Holden
provò a sorridere e lei ricambiò quel sorriso. Era così poco. Era qualcosa.
Dopo che Holden se ne fu andato finì di mangiare la crostata, poi chiuse gli
occhi per riposarli e non si rese conto di essersi addormentata finché non giunse
il sogno.
Stava scavando in mezzo a escrementi viscidi e neri come il fango per cercare
di arrivare a qualcuno che era sepolto. Doveva fare in fretta perché l’aria stava
per esaurirsi. Nel sogno poteva avvertire il freddo umido a contatto con le dita, e
il disgusto che le saliva lungo la gola, insieme alla paura e al devastante senso di
perdita derivante dalla consapevolezza che non avrebbe fatto in tempo.
8
Dawes

La prima sessione del summit improvvisato indetto da Marco cominciò


quando arrivò Michio Pa, che appariva cordiale e implacabile in pari misura. La
sua nave aveva attraccato a metà del ciclo diurno, quindi Marco li aveva
trattenuti in riunione solo per poche ore. I tre giorni successivi si rivelarono più
faticosi, con riunioni che duravano ogni giorno più di tredici ore, senza neppure
un’interruzione per i pasti, consumati al tavolo da riunione mentre Marco
esponeva la sua visione di una grande rete di civiltà cinturiana che abbracciava
l’intero sistema.
Stazioni a rotazione libera, fabbriche e fattorie automatizzate, stazioni di
alimentazione posizionate vicino al sole per trasmettere energia alle abitazioni
umane, la rimozione su larga scala di tutte le risorse biologiche dal cadavere della
Terra. Era una visione splendida e grandiosa, con una portata e una profondità
di fronte alle quali perfino il progetto di terraformazione marziano appariva
insignificante, e Marco Inaros presentò ogni cosa con una spietatezza e intensità
che facevano apparire piccole e meschine le obiezioni sollevate dal resto di loro.
Sanjrani chiese di sapere in che modo sarebbe stata addestrata la forza lavoro
necessaria per creare le enormi città nel vuoto, complesse come la struttura di un
fiocco di neve, che Marco immaginava, ma lui accantonò il problema con un
gesto della mano, sostenendo che i cinturiani erano già addestrati per vivere e
costruire nello spazio. Quelle conoscenze erano il loro diritto di nascita, inciso
nelle loro fragili ossa. Pa sollevò il problema di mantenere costante il flusso di
viveri e di medicinali a tutte le stazioni e le navi che già cominciavano a risentire
della perdita delle linee di approvvigionamento provenienti dalla Terra. Marco
convenne che ci sarebbero stati tempi di magra, ma le garantì che i suoi timori
erano più grandi del problema effettivo. Nessuna delle obiezioni da loro
sollevate servì a influenzare le sue decisioni. Gli occhi gli brillavano, la sua voce
era calda come il suono di una viola, la sua energia illimitata. Alla fine delle
riunioni, Dawes tornava al suo alloggio sentendosi stanco fino alle ossa, mentre
Marco prendeva a circolare per i bar, i pub e le sale del sindacato per parlare
direttamente con i cittadini di Ceres. Se pure dormiva, Dawes non aveva idea di
quando lo facesse.
Al quinto giorno fecero una pausa, che diede a tutti la sensazione del collasso
alla fine di una lunga corsa.
L’interpretazione data da Rosenfeld fu di ben poco aiuto.
«Quel coyo è esagitato. Si calmerà.»
«E allora cosa succederà?» chiese Dawes.
L’uomo dalla pelle granulosa scrollò le spalle. Nel suo sorriso c’era ben poca
soddisfazione. «Allora vedremo a che punto siamo. Inaros è un grand’uomo. Per
i nostri scopi, lui è il grand’uomo, e non è un ruolo adatto per una persona del
tutto sana di mente.»
Erano seduti nei giardini del palazzo del governatore, dove l’odore delle piante
e del terriccio si mescolava con quello delle proteine trattate e dei peperoni alla
griglia che Rosenfeld prediligeva per colazione. Dawes si allontanò dal tavolo nel
sorseggiare il suo bulbo di tè caldo al latte. Conosceva Rosenfeld Guoliang da
quasi trent’anni e si fidava di lui, ma non completamente.
«Se stai dicendo che è impazzito, questo è un problema» osservò.
«Non è un problema, è un requisito che si accompagna alla carica» ribatté
Rosenfeld, accantonando quella preoccupazione con un gesto, come se fosse
stata un moscerino. «Ha massacrato miliardi di persone e rimodellato la forma
della civiltà umana. Nessuno può fare una cosa di tale portata e continuare a
vedere sé stesso come del tutto umano. Può essere un dio o un demone, ma non
può tollerare l’idea di essere soltanto un uomo incredibilmente avvenente che
per caso si è ritrovato con la giusta combinazione di carisma e di opportunità.
Questa particolare febbre passerà, smetterà di parlare come se dovessimo
effettuare la prima saldatura la prossima settimana e comincerà a dire che
saranno i nipoti dei nostri nipoti a portare il piano a compimento. Non c’è mai
stato nessuno bravo quanto il nostro Marco a cambiare canzone senza perdere
un colpo. Non ti preoccupare.»
«Difficile non farlo.»
«Bene, allora preoccupati solo un poco.» Rosenfeld staccò un grosso boccone
di proteine e peperoni, abbassando le palpebre granulose fino ad apparire mezzo
addormentato. «Noi siamo tutti qui perché aveva bisogno di noi. A parte Fred
Johnson, io avevo il solo contingente da combattimento abbastanza grande da
causargli problemi. Sanjrani è un idiota, ma ha gestito l’economia artificiale di
Europa tanto bene che tutti lo considerano un genio... e chissà, forse lo è
davvero. Tu controlli la città portuale della cintura. Pa è l’emblema di chi
dissente dall’APE per ragioni morali, quindi costituisce un eccellente Babbo
Natale che ridistribuisca le ricchezze a chi ne ha bisogno e induca i vecchi lealisti
a unirsi a noi. In queste riunioni nessuno è presente per caso. Lui ha messo
insieme questa squadra, e finché manterremo un fronte unito potremo
impedirgli di andare alla deriva galleggiando sulla sua stessa grandiosità.»
«Spero che tu abbia ragione.»
Rosenfeld masticò e sorrise allo stesso tempo. «Lo spero anch’io.»
Anderson Dawes era stato parte dell’APE ancor prima di nascere. Per cercare di
conquistarsi i favori dei padroni societari dell’epoca, i suoi genitori gli avevano
dato il nome di una compagnia mineraria, ma in seguito, il massacro compiuto
da Fred Johnston aveva trasformato quel nome in uno dei più grandi crimini
commessi dalla Terra contro la Fascia. Dawes era stato allevato in modo che
imparasse a vedere la Fascia come la sua casa e la gente che ci viveva – per
quanto diversa, per quanto divisa – come la sua gente. Suo padre era stato un
organizzatore, sua madre un avvocato sindacale. Da loro aveva appreso che tutta
l’umanità era un negoziato ancora prima di imparare a leggere. Da allora, tutto
nella sua vita era stato un’elaborazione dello stesso, semplice tema: spingere con
forza sufficiente a non perdere mai terreno e non lasciarsi mai sfuggire
un’opportunità.
La sua intenzione era sempre stata quella di mettere la Fascia al posto che le
spettava di diritto e di porre fine allo sfruttamento del suo popolo e della sua
ricchezza, e aveva lasciato che fosse l’universo a decidere come, esattamente,
questo sarebbe successo. Aveva lavorato con la Zona di Interesse Condiviso del
Golfo Persiano nella ricostruzione della stazione L-4, e aveva stabilito contatti
all’interno della comunità espatriata lassù. Era diventato una voce in seno all’APE
di Ceres arrivando in anticipo a ogni riunione, ascoltando attentamente prima di
parlare e accertandosi che le persone giuste conoscessero il suo nome.
La violenza era sempre stata una parte dell’ambiente. Quando aveva dovuto
uccidere delle persone, esse erano morte. Quando aveva trovato qualche giovane
tecnico promettente, aveva saputo come reclutarlo. Quando un vecchio nemico
era parso maturo per essere convertito, aveva saputo come spingerlo a farlo.
Aveva portato nell’ovile Fred Johnson, il Macellaio di Anderson, quando tutti gli
davano del pazzo, e poi aveva accettato gli encomi quando aveva assestato un
colpo alle Nazioni Unite riuscendo nell’intento. In seguito, quando era risultato
evidente che Johnson non intendeva collaborare con il nuovo regime, aveva
acconsentito a tagliarlo fuori. Se c’era una cosa che aveva imparato nel vedere la
stazione sua omonima passare da una stazione mineraria cinturiana di moderato
successo al grido di guerra della rivoluzione cinturiana si trattava del fatto che le
situazioni cambiavano e rimanere troppo attaccato al passato ti uccideva.
E così, quando Marco Inaros aveva stretto un accordo con il più nero fra i
mercati neri di Marte per creare il successore dell’Alleanza dei Pianeti Uniti, lui
aveva visto due sole alternative: abbracciare quella nuova realtà o morire con il
passato. Aveva scelto la via per cui optava sempre, e per questo era al tavolo
delle riunioni, a volte anche per tredici ore di fila, mentre Inaros farneticava dei
suoi sogni utopistici. Però era comunque a quel tavolo.
Peraltro, c’era una parte di lui che desiderava che Winston Duarte avesse
scelto di allevare qualcun altro con il suo accordo mefistofelico per gli
armamenti.
Mangiò un altro boccone della colazione, ma i peperoni si erano raffreddati e
afflosciati, e le proteine cominciavano a indurire. Lasciò cadere la forchetta.
«Notizie da Medina?» chiese.
Rosenfeld scrollò le spalle. «Ti riferisci alla stazione o a quello che c’è al di là di
essa?»
«A qualsiasi cosa, in realtà.»
«Alla stazione va tutto bene» rispose Rosenfeld. «Le difese sono al loro posto,
quindi tutto è come dovrebbe essere. Al di là di essa... ecco, nessuno ne ha idea,
sa sa? Duarte sta mantenendo la sua parte dell’accordo, inviando spedizioni di
armi e di equipaggiamenti da Laconia. Quanto alle altre colonie...»
«Ci sono problemi» disse Dawes. Non era una domanda.
Rosenfeld fissò il piatto con aria accigliata, evitando di incontrare il suo
sguardo per la prima volta dall’inizio di quel loro incontro non ufficiale. «La
frontiera è un posto pericoloso. Succedono cose che non accadrebbero se il
posto fosse più civilizzato. Wakefield ha smesso di comunicare. C’è chi dice che
laggiù hanno svegliato qualcosa, ma nessuno ha mandato una nave a controllare.
Chi ne ha il tempo, sì? Qui abbiamo una guerra da portare a termine. Poi
potremo occuparci di guardare all’esterno.»
«E la Barkeith?»
Lo sguardo di Rosenfeld rimase fisso sui peperoni. «La gente di Duarte dice
che stanno indagando. Non ti preoccupare, non danno la colpa a noi.»
Tutto nel suo atteggiamento avvertiva Dawes di non insistere, ed era quasi
pronto a lasciar perdere. Quantomeno, poteva cambiare l’angolazione
dell’attacco. «Com’è che tutte le altre colonie lottano per riuscire a coltivare
abbastanza cibo e non avere le serre idroponiche che collassano, com’è successo
su Welker, mentre Laconia ha già una base manifatturiera?»
«Significa solo che c’è una migliore pianificazione. Più fondi. Quello che non
capisci riguardo a questo pinché marziano, Duarte, è che...»
Il terminale palmare di Dawes emise un segnale di allerta: una richiesta di
connessione con la massima priorità. Quello era il canale che utilizzava per le
emergenze che riguardavano la stazione, riservato al capitano Shaddid. Sollevò
un dito, per chiedere a Rosenfeld di pazientare, e accettò la connessione.
«Cosa succede?» chiese, invece di salutare.
Shaddid era alla scrivania, lo capì dal muro alle sue spalle. «Ho bisogno che tu
venga qui. Uno dei miei uomini è all’ospedale, e i medici dicono che potrebbe
non farcela. Ho sotto custodia chi ha sparato.»
«È un bene che lo abbiate preso.»
«Si chiama Filip Inaros.»
Dawes sentì un groppo che gli si formava nello stomaco. «Arrivo subito.»
Shaddid aveva dato al ragazzo una cella per conto suo, ed era stata saggia a
farlo, perché nel momento stesso in cui entrò nella stazione di sicurezza Dawes
avvertì il senso di shock e la rabbia, come una carica presente nell’atmosfera. Su
Ceres, sparare a un agente di sicurezza era un modo rapido per finire fuori da un
portello stagno, o almeno lo sarebbe stato per la maggior parte delle persone.
«Ho piazzato su di lui un monitor automatico collegato solo al mio sistema»
disse Shaddid. «Nessun altro lo può attivare o disattivare.»
«Perché?» chiese Dawes, sedendo alla sua scrivania. Lei poteva anche essere il
capo della sicurezza, ma lui era il governatore di Ceres.
«Gli altri lo avrebbero spento,» rispose Shaddid «e tu non avresti più rivisto
vivo quello stronzetto. E, detto fra noi, questo sarebbe stato fare un favore
all’universo.»
Sullo schermo, Filip Inaros sedeva addossato al muro della cella, con la testa
inclinata all’indietro e gli occhi chiusi. Era un giovane uomo, o un bambino
vecchio. Mentre Dawes lo osservava, il ragazzo si stiracchiò, si strinse le braccia
intorno al corpo e tornò ad appoggiarsi alla parete senza guardarsi intorno
neppure una volta. Era impossibile capire se si trattava dell’atteggiamento di
qualcuno certo di essere intoccabile o timoroso della possibilità di non essere
tale. Dawes poteva vedere la somiglianza con Marco, ma laddove il padre pareva
emanare fascino e sicurezza, il figlio era tutto rabbia e una vulnerabilità che
indusse Dawes a pensare ad abrasioni e ferite aperte. In altre circostanze avrebbe
potuto dispiacersi per il prigioniero.
«Come è successo?» domandò.
Shaddid digitò qualcosa sul suo terminale palmare e proiettò i dati sullo
schermo. Si vedeva un corridoio fuori da un nightclub, più vicino al centro di
rotazione. Una porta si spalancò e ne uscirono tre persone, tutti cinturiani. Un
uomo e una donna che si accarezzavano a vicenda come se fossero già stati in
privato, e un secondo giovane. Un momento più tardi la porta tornò ad aprirsi e
uscì anche Filip Inaros. Il video era privo di audio, quindi Dawes non poté
sentire quello che Filip aveva gridato dietro alle figure che si allontanavano, ma
solo sapere che aveva detto qualcosa. Il giovane, che era solo, si era girato, e la
coppia si era fermata a guardare. Filip aveva la testa gettata all’indietro, il petto in
fuori. Da generazioni, l’umanità era libera dal pozzo gravitazionale dei pianeti
interni, ma l’atteggiamento di un giovane che aveva voglia di scatenare una rissa
non cambiava mai.
Una nuova figura entrò nell’inquadratura: un uomo che indossava la divisa
della sicurezza e aveva le mani sollevate come a impartire un ordine. Filip si girò
verso di lui, gridando. L’uomo della sicurezza gridò a sua volta e indicò la parete,
ordinando a Filip di addossarvisi. La coppia si allontanò, fingendo di non sapere
niente di quello che stava succedendo, e l’altro giovane, che stava tornando
indietro per accettare lo scontro, indietreggiò lentamente. Non si allontanò, ma
si dimostrò disposto a lasciare che i suoi nemici consumassero le loro energie
uno contro l’altro. Filip si fece spaventosamente immobile, tanto che Dawes
dovette costringersi a non distogliere lo sguardo.
L’uomo della sicurezza abbassò la mano sulla sua arma, e una pistola apparve
in quella di Filip con quella sorta di scatto quasi magico che deriva da centinaia
di ore passate a esercitarsi a estrarre rapidamente. Poi, come parte dello stesso
movimento, ci fu il bagliore della canna.
«Dannazione» commentò Dawes.
«Non c’è niente di poco chiaro» replicò Shaddid. «Ha ricevuto un ordine da un
agente di sicurezza, ha rifiutato e ha sparato all’agente. Se si trattasse di chiunque
altro, in questo momento sarebbe già concime per funghi.»
Dawes si premette il palmo sulla bocca, sfregandola fino a sentirsi le labbra
doloranti. Doveva esserci qualcosa, un modo per rimediare a quella situazione.
«Come sta il tuo uomo?»
Ci fu una pausa prima che Shaddid rispondesse. Sapeva cosa lui le stava
chiedendo in realtà. «Le sue condizioni sono stabili.»
«Non morirà?»
«Non è ancora fuori pericolo» replicò lei. Poi aggiunse: «Non posso fare il mio
lavoro se la gente può sparare alle forze di sicurezza e cavarsela. Capisco che si
tratta di una questione diplomatica, ma con tutto il rispetto, quello è il tuo
lavoro. Il mio è quello di impedire a sei milioni di persone di uccidersi a vicenda
in quantità troppo elevate, ogni giorno.»
Il mio lavoro non è molto diverso, pensò Dawes, ma non era il momento
giusto per dirlo. «Contatta Marco Inaros. È sulla Pella, al molo 65-C» replicò
soltanto. «Digli di raggiungermi qui.»
Alla fine di giornate particolarmente brutte, a volte Dawes si versava un
bicchiere di whisky e passava un po’ di tempo concentrato sul suo bene più
prezioso: un volume stampato di un’opera di Marco Aurelio che era appartenuto
a sua nonna. I Colloqui con sé stesso erano i pensieri privati di una persona con un
potere immenso e terribile – un imperatore che poteva condannare a morte
chiunque volesse, creare una legge semplicemente enunciandola, imporre a
qualsiasi donna di dividere il suo letto. O a qualsiasi uomo, se ne aveva voglia.
Quelle pagine sottili erano piene della lotta privata di Aurelio per essere un
uomo buono nonostante le frustrazioni che il mondo gli causava, e lasciavano
Dawes con un senso non di conforto, ma di consolazione. Per tutta la storia
umana, essere una persona morale e non lasciarsi trascinare nei drammi e nel
cattivo comportamento di altri aveva causato problemi alle persone intelligenti.
Dawes aveva trascorso decenni con quella consapevolezza al di sotto di tutta la
sua filosofia personale. Ovunque c’erano persone cattive, stupidità, avarizia e
orgoglio. E lui doveva navigare in quel mare se doveva mai esserci una speranza
di un posto migliore per i cinturiani. Non che le cose adesso fossero peggiori
che in passato, solo che non erano migliorate.
Aveva il sospetto che quella sera sarebbe stata un buon momento per rileggere
i Colloqui con sé stesso.
Marco entrò nella stazione di sicurezza come se gli fosse appartenuta, tutto
sorrisi e risate, e una pura presenza animalesca che riempiva tutto lo spazio.
Inconsciamente, gli agenti di sicurezza si spostarono lungo il perimetro della
stanza e non incontrarono il suo sguardo. Dawes gli andò incontro per
accompagnarlo nell’ufficio di Shaddid e si ritrovò a stringergli la mano davanti a
tutti. Non era stata sua intenzione farlo.
«Tutto questo è imbarazzante» commentò Marco, come se fosse stato
d’accordo con qualcosa che era già stato detto. «Provvederò a che non si ripeta.»
«Tuo figlio avrebbe potuto uccidere uno dei miei» sottolineò Dawes.
Marco si appoggiò allo schienale della sedia e spalancò le braccia in un gesto
espansivo che pareva inteso a sminuire quello che chiunque altro avrebbe potuto
dire. «C’è stata una lite e la cosa è sfuggita di mano. Dawes, dimmi che non ti è
mai capitato qualcosa del genere.»
«Non mi è mai capitato niente del genere» ribatté Dawes, con voce fredda e
dura, e per la prima volta l’espressione gioviale di Marco si alterò.
«Non ne vorrai fare un problema, vero?» chiese, la voce che gli si abbassava.
«Abbiamo un sacco di lavoro da fare. Lavoro vero. È giunta notizia che la Terra
ha preso l’Azure Dragon. Dobbiamo rivedere la nostra strategia nell’area vicina al
sole.»
Dawes non ne aveva saputo nulla, ed ebbe la sensazione che Marco avesse
tenuto la notizia per sé, pronto a usarla quando avesse voluto cambiare
argomento. Bene, avrebbe scoperto che lui non era tanto facile da mandare fuori
del seminato.
«E lo faremo. Però non è per questo che ti ho chiamato qui.»
Shaddid diede un colpo di tosse, e Marco si girò a fissarla con aria accigliata.
Quando riportò lo sguardo su Dawes, la sua espressione era di nuovo aperta e
allegra, il suo sorriso ampio, ma qualcosa nei suoi occhi fece contrarre lo
stomaco a Dawes.
«D’accordo» disse. «Bien, coyo mis. Perché mi hai chiamato qui?»
«Tuo figlio non può rimanere sulla mia stazione» replicò Dawes. «Se rimarrà lo
dovrò mettere sotto processo e dovrò proteggerlo da chiunque potrebbe farsi
impaziente durante l’attesa.» Fece una pausa. «E dovrò far eseguire la sentenza,
se ce ne sarà una.»
Marco si immobilizzò, un’immagine speculare di suo figlio nel video
dell’aggressione. Dawes fece uno sforzo per non deglutire a fatica.
«Questa sembra una minaccia, Anderson.»
«È una spiegazione. È per questo che devi portare via il ragazzo dalla mia
stazione e non riportarcelo mai più. Ti sto facendo un favore. Con chiunque
altro le cose seguirebbero il loro corso.»
Marco trasse un lungo, lento respiro ed esalò il fiato fra i denti. «Capisco.»
«Ha sparato a un agente di sicurezza. Avrebbe potuto ucciderlo.»
«Abbiamo ucciso un mondo» ribatté Marco, accantonando quelle parole con
un gesto. Poi però parve ricordare qualcosa e annuì, più rivolto a sé stesso che a
Dawes o a Shaddid. «Però apprezzo che tu sia disposto a piegare le leggi per me.
E per lui. Non lascerò che la passi liscia. Lui e io faremo una seria chiacchierata.»
«D’accordo» assentì Dawes. «Il capitano Shaddid lo consegnerà a te. Se vuoi
far venire qualcuno dei tuoi uomini, prima che lo faccia...»
«Non sarà necessario» lo interruppe Marco. Non c’era bisogno di guardie del
corpo. Era convinto che nessun membro della sicurezza avrebbe osato
affrontare Marco Inaros della Marina Libera. E la cosa peggiore era che Dawes
riteneva che avesse ragione. «Domani terremo una riunione, riguardo all’Azure
Dragon e alla Terra. Ai prossimi passi.»
«I prossimi passi» convenne Dawes, alzandosi. «Sappi che questa non è una
cosa temporanea. Filip non può più mettere piede su Ceres.»
Il sorriso di Marco fu inatteso e profondo. I suoi occhi scuri ebbero un
bagliore. «Non ti preoccupare, vecchio amico. Se non lo vuoi qui, lui non ci sarà.
È una promessa.»
9
Holden

Il rumore arrivava fino alla cambusa: un tonfo profondo, poi una pausa, poi
un altro tonfo. Ogni volta, Holden si sorprendeva a sussultare leggermente.
Naomi e Alex erano seduti là con lui e cercavano di ignorare quei suoni, ma
qualsiasi conversazione avviassero, su qualsiasi argomento – le condizioni della
nave, il successo della loro missione, se cedere al volere del fato e convertire in
prigione una sezione degli alloggi per l’equipaggio – si spegneva sotto l’incalzare
di quei tonfi lenti e ininterrotti.
«Forse le dovrei parlare» opinò Holden. «Credo che dovrei.»
«Non so cosa ti induca a pensarlo» ribatté Alex.
Naomi scrollò le spalle, astenendosi dai commenti. Holden mangiò un ultimo
boccone della finta carne di agnello, si pulì la bocca con il tovagliolo e gettò il
tutto nel riciclatore. Una parte di lui sperava che uno degli altri due lo fermasse.
Non lo fecero.
La palestra della Rocinante tradiva la sua età. Non c’erano due fasce elastiche
che avessero lo stesso colore, i materassini fra il grigio e il verde presentavano
strisce bianche dove il tessuto si era consumato, e l’odore di sudore stantio
permeava l’aria. Bobbie aveva appeso un pesante sacco a un cavo teso fra il
soffitto e il ponte, e la sua tenuta da ginnastica era aderente, grigia e intrisa di
sudore. Aveva i capelli legati e lo sguardo fisso sul sacco, mentre si spostava
sulla punta dei piedi. Quando Holden entrò nella stanza si girò verso sinistra,
imprimendo tutto il suo peso in un calcio rotante. Così da vicino, il tonfo
risultante suonò come qualcosa di pesante che venisse lasciato cadere. Il sistema
registrò un po’ meno di novantacinque chili per centimetro quadrato. Bobbie
saltellò all’indietro, concentrata sul sacco, si spostò sulla destra e scalciò con
l’altra gamba. Il tonfo fu un po’ più sommesso, ma la lettura salì di tre chili. Lei
saltellò all’indietro, cambiò l’assetto. I suoi stinchi apparivano arrossati ed
escoriati.
«Ehi» disse, senza guardarlo. Tonfo. Cambio di assetto.
«Ehi» rispose Holden. «Come stai?»
«Bene.» Tonfo. Cambio di assetto.
«C’è qualcosa di cui vuoi parlare?»
Tonfo. Cambio di assetto. «No.»
«Okay. Bene. Se... ah.» Tonfo. Cambio di assetto. «Se dovessi cambiare idea...»
«Verrò a cercarti.» Tonfo. Cambio di assetto. Tonfo.
«Ottimo» disse Holden, e lasciò la stanza. Bobbie non lo aveva guardato una
sola volta.
Nella cambusa, Naomi aveva un bulbo di caffè pronto che lo aspettava. Le
sedette di fronte mentre Alex scaricava gli ultimi avanzi di cibo nel riciclatore, e
bevve il caffè. I processori della Roci venivano calibrati una volta alla settimana, e
si erano riforniti prima di lasciare la Luna, quindi quasi certamente era la sua
immaginazione a dargli l’impressione che il caffè fosse più amaro del solito. Ci
mise comunque un pizzico di sale, rigirando il bulbo per mescolare.
«Sapevi che non avrebbe funzionato» commentò.
«Me lo aspettavo, non lo sapevo» precisò Naomi.
«Lo sospettavi soltanto?»
«Era un sospetto fondato» rispose lei, quasi in tono di scusa. «Però sarei potuta
rimanere sorpresa.»
«Devi lasciare a Bobbie il suo spazio, capitano» interloquì Alex. «Ne verrà
fuori.»
«Io... io vorrei solo capire cosa la disturba tanto.»
Alex rimase interdetto. «Moriva dalla voglia di combattere contro i cattivi fin
dai fatti di Io. Adesso ne ha avuta una, ed è rimasta chiusa in una scatola mentre
il resto di noi era fuori a sparare.»
«Ma abbiamo vinto.»
«Sì,» convenne Naomi «e lei ci ha guardati farlo mentre cercavamo di capire
come tirarla fuori da una trappola. Quando ci siamo riusciti era tutto finito.»
Holden sorseggiò il caffè. Andava un po’ meglio, ma non fu di aiuto. «Okay,
quello che intendevo dire era che vorrei capire cosa la disturba nella speranza
che ci sia qualcosa che posso fare al riguardo.»
«Lo sappiamo» annuì Naomi. «Siamo consapevoli della difficoltà.»
«C’è qualcuno?» chiese la voce di Amos, che scaturiva dal comunicatore. «Sto
chiamando il ponte operativo da dieci minuti.»
Alex attivò il comunicatore. «Sto andando su adesso.»
«Okay. Credo di aver individuato l’ultima perdita. Fammi sapere cosa vedi tu.»
«Sì» rispose Alex, salutò gli altri due con un cenno e si diresse al ponte
operativo e ai lavori di riparazione in corso. L’equipaggio dell’Azure Dragon non
aveva avuto molto tempo, ma non aveva neppure cercato di fare un lavoro
pulito. Era più facile tagliare in fretta attraverso una porzione di scafo, quando
non ti importava di cosa rompevi mentre lo facevi. Sapere che la nave non era
ancora a posto era per Holden come un prurito che non riusciva a grattare. Una
parte di quella sensazione derivava probabilmente dalla consapevolezza di
quanto sarebbero stati a corto di spazio i cantieri navali della Luna.
Probabilmente i giorni in cui potevano attraccare a Tycho e chiedere alle
squadre di Fred Johnson di rappezzare la nave erano finiti, e la Luna doveva
dare alla marina terrestre la precedenza rispetto a loro.
Non si trattava però soltanto di questo. Era anche la stessa sensazione che lo
aveva spinto a parlare con Bobbie, e prima ancora con Clarissa Mao. Voleva che
le cose fossero a posto, e aveva la crescente sensazione che non lo fossero. Che
non si sarebbero sistemate.
«Cosa mi dici di te?» chiese Naomi, guardandolo da sotto una cascata di capelli
scuri leggermente ricciuti. «Ti va di parlare?»
Holden ridacchiò. «Sì, ma non so cosa dire. Eccoci qui, gli eroi conquistatori,
con alcuni prigionieri e un nucleo dati recuperato, e non sembra abbastanza.»
«Non lo è.»
«Sei sempre confortante.»
«Voglio dire che non ti sbagli. Non sei a disagio e inquieto a causa di tutto
questo perché c’è qualcosa che non va in te. Tutto questo è inquietante e mette a
disagio. Non sei tu a essere sballato, è la situazione.»
«Questo non... sai, in effetti mi fa sentire un po’ meglio.»
«Bene» commentò lei. «Perché ho bisogno di sapere che non si tratta di Marco
e di Filip. Che... che tutto questo non ti rende difficile avermi intorno.»
«No» replicò Holden. «Ne abbiamo discusso.»
«E ne discuteremo ancora dopo tutto questo, ne sono certa. Ma se solo
continuassi a ripeterlo...»
«Ficcherei chiunque esista a testa in avanti fuori da un portello stagno per
tenerti con me. Non si tratta di questo. La sola preoccupazione che ho riguardo
a te e a Marco Inaros è che lui cercherà di nuovo di farti del male.»
«È bello saperlo.»
«Ti amo ancora. Ti amerò sempre.»
Holden stava rispondendo alle domande che pensava lei gli stesse ponendo,
ma Naomi distolse lo sguardo. Il suo sorriso era triste, ma anche reale. «Sempre
è un tempo molto lungo.»
«Sono il capitano di questa nave. Tecnicamente, potrei celebrare ora il nostro
matrimonio.»
Naomi scoppiò a ridere. «Vorresti farlo?»
«Sto bene così. Il matrimonio mi pare un po’ superfluo, e quella tra marito e
moglie sembra una relazione meno interessante e impegnata di quella fra Holden
e Naomi» replicò lui. «Lui non può vincere, lo sai.»
«Certo che può. È Marco a decidere quando vince.»
«No, ci ho riflettuto. La Marina Libera... è insostenibile. Hanno fatto un sacco
di danni, ucciso una quantità di persone, ma in realtà tutto questo riguarda i
portali. Se non fosse stato per tutta quella gente che si è precipitata fuori di essi
per cercare di fondare una nuova colonia, Marte non sarebbe al collasso e i
cinturiani non sarebbero preoccupati di finire emarginati fino a estinguersi.
Nessuna delle cose che hanno dato un appiglio a Marco si sarebbe verificata.
Però i portali non se ne andranno, quindi tutte le pressioni contro cui sta
combattendo gli sopravvivranno. Le persone continueranno a voler raggiungere
i nuovi sistemi e troveranno i modi per farlo, e le colonie che già esistono là
fuori vorranno mantenere i contatti e i commerci con noi, almeno finché non
potranno davvero camminare con le loro gambe, e per questo ci potrebbero
volere generazioni.»
«Credi che lui sia sul lato sbagliato della storia.»
«Lo è» dichiarò Holden.
«E questo cosa dice di persone come me? Sono cresciuta nella Fascia, e non
vorrei mai vivere in fondo a un pozzo gravitazionale. I portali non se ne
andranno, ma neppure i cinturiani. A meno che non vengano scacciati.»
«Cosa intendi dire?»
Naomi scrollò le spalle. «La storia umana ha visto una quantità di genocidi. Se
hai ragione, allora il lungo termine contempla o i portali o i cinturiani. E i
cinturiani... noi siamo esseri umani, siamo fragili, moriamo. I portali? Anche se
potessimo distruggerli, non lo faremmo. C’è troppa terra vergine in ballo.»
Holden abbassò lo sguardo. «D’accordo, questa volta l’ho fatto io.»
Naomi inarcò un sopracciglio con aria interrogativa.
«Sono stato meno confortante di quanto volessi essere» spiegò lui. «Mi
dispiace.»
«È tutto a posto. In ogni caso, non era questo che intendevo quando ho detto
che è Marco a decidere quando vince. Tu non capisci quanto possa essere
sfuggente. Qualsiasi cosa succeda, modificherà le cose in modo che sembri
essere sempre stato il suo piano. Se fosse l’ultima persona rimasta in vita,
direbbe che avevamo bisogno di un’apocalisse, e dichiarerebbe di aver vinto. È
fatto così.»
Anche se agivano per ordine di Chrisjen Avasarala, ci vollero diciassette ore
perché la Rocinante e l’Azure Dragon ottenessero un attracco sulla Luna. Quando
finalmente gliene assegnarono uno, si ritrovarono nei cantieri militari fuori del
complesso di Patsaev, dove atterravano le navi civili di soccorso. I moli erano
affollati di persone in gruppi e file, e alcune avevano lo sguardo fisso e vuoto
delle vittime di una febbre, altre piangevano per lo sfinimento o il sollievo, o per
entrambe le cose. L’aria puzzava di sudore e risultava stantia, anche dove le
prese d’aria creavano una brezza sostenuta.
Il complesso della Stazione Luna – cantieri navali e centri per convention,
hotel e residence, scuole e complessi di uffici e di magazzini – era abbastanza
grande da accogliere cento milioni di corpi, ma le strutture ambientali sarebbero
andate in sovraccarico già con la metà di quel numero, nonostante il vantaggio
della massa e della conduzione della Luna, che assorbivano il calore residuo. Le
stazioni Lagrange avevano un margine inferiore. Holden cercò di fare qualche
calcolo mentale mentre si aprivano un varco fra la calca. Le stime dicevano che
metà della Terra era già morta. Quindici miliardi di persone erano andate, o
stavano morendo tanto in fretta che era impossibile salvarle. Circa due terzi di
quanti erano ancora vivi si trovavano in quella che i notiziari definivano una
situazione di ‘emergenza’. Dieci miliardi di persone che avevano bisogno di cibo,
o di acqua, o di riparo. E al di fuori del pozzo gravitazionale c’era posto sì e no
per un quarto di milione. Un duecentocinquantamillesimo delle persone in stato
di necessità. Non riuscì a credere che la cifra fosse esatta e provò a rifare i conti,
ma ottenne di nuovo lo stesso numero.
E là fuori c’erano mille mondi, appena al di là dei portali. Perlopiù si trattava di
mondi ostili, ma non più ostili della Terra. Non in quel momento. Se ci fosse
stato un modo per teletrasportare quelle persone da Boston, da Lisbona e da
Bangkok, forse si sarebbero salvate. Forse sarebbero sopravvissute per creare
qualcosa di nuovo e di splendido dalle rovine della Terra, e se un sistema non ce
l’avesse fatta, ci sarebbe stato un migliaio di altre possibilità.
Solo che adesso non ce ne sarebbe stata nessuna, perché il trasporto era
troppo difficile, quindi sarebbero morti dov’erano perché non c’era modo di
farli arrivare in un posto migliore abbastanza in fretta perché la cosa facesse la
differenza.
«Stai bene, capitano?» chiese Amos.
«Benone. Perché?»
«Sembra che ti stia preparando a colpire qualcuno.»
«No» rispose Holden. «Non servirebbe.»
«Da questa parte» disse Bobbie.
Le guardie fuori dagli uffici amministrativi portavano piccole armi automatiche
e indossavano un’armatura. Si fecero da parte e permisero a Bobbie di
oltrepassare la grande porta grigia, con tutti gli altri che la seguivano in fila come
tanti anatroccoli. Gli uffici parevano un mondo diverso. Luci a pieno spettro
risplendevano come il sole dei pomeriggi estivi che Holden ricordava. Felci e
edera si agitavano sotto una lieve brezza che proveniva dai riciclatori dell’aria. I
corridoi erano di mezzo metro più larghi di quelli della Rocinante e avevano
un’aria lussuosa. Soltanto il vago odore di polvere da sparo della polvere lunare e
la gravità a un decimo di g indicavano che quella era la Luna. Tutto il resto
sarebbe apparso del tutto naturale negli uffici delle Nazioni Unite dell’Aia.
Bobbie li guidò come se sapesse dove stavano andando, percorrendo un
corridoio, oltrepassando un altro paio di guardie armate e oltrepassando una
porta di vetro smerigliato. La stanza era costruita come un salotto, con poltrone
e divani disposti intorno a bassi tavolini. Otto o dieci persone erano sparse a
coppie o in piccoli gruppi, e per qualche secondo Holden non comprese chi
fossero.
Un tempo lì tutto era stato o bianco o nero, ma l’uso vi aveva lasciato chiazze
di colore. Il cerchio marrone di una macchia di caffè su un cuscino, una striscia
verdastra lungo un lato di una poltrona. Avasarala era in piedi in fondo alla
stanza, avvolta in un sari arancione che splendeva come una torcia, e parlava con
una donna dai capelli bianchi, con la pelle scura e i fianchi stretti. Quando
Avasarala sollevò lo sguardo per sorridergli, la donna si girò, e Holden incespicò.
«Mamma Sophie?» disse. Poi, come se una lente si stesse mettendo a fuoco,
riconobbe tutti gli altri. Gli anni li avevano cambiati tutti, e vederli attraverso
una videocamera o uno schermo non era la stessa cosa. Papà Tom aveva messo
su peso, e Papà Cesar ne aveva perso, ma erano là che gli venivano incontro
mano nella mano. Papà Anton era diventato calvo, e di persona Mamma Elise
appariva più vecchia e fragile che non sullo schermo. E più bassa. Tutti
sembravano più bassi, perché il sistema della fattoria si era trovato su una
scrivania. Lui li aveva guardati per anni dal basso verso l’alto, su quella scrivania,
senza rendersene conto fino a quel momento.
Tutti e otto i suoi genitori gli si strinsero intorno, il loro corpo che premeva
gentilmente contro il suo, le loro braccia che lo circondavano, come avevano
fatto quando era bambino. Holden si ritrovò a piangere, trascinato dal ricordo di
quando era un bambinetto, circondato e protetto dai corpi amorevoli di otto
forti adulti. Adesso era in mezzo a loro, era il più forte del gruppo, scosso
dall’amore, dalla gioia e dalla terribile comprensione che tanto il bambino che lui
era stato, quanto gli uomini e le donne che loro erano un tempo erano
scomparsi e non sarebbero più tornati. Stavano piangendo tutti. Papà Dmitri,
Mamma Tamara, Papà Joseph. E anche i membri della sua nuova famiglia.
Naomi si premeva una mano contro le labbra, come se stesse cercando di
trattenere le parole, o le emozioni. Alex aveva un sorriso ampio come quello dei
genitori di Holden, e gli occhi che luccicavano. Avasarala e Bobbie parevano
compiaciute, come persone che fossero riuscite a organizzare una bella festa a
sorpresa. Stranamente Clarissa Mao, che se ne stava in disparte con il braccio
ferito chiuso in un’ingessatura a pressione, era scossa da singhiozzi a stento
controllati. Amos invece li guardava tutti come se fosse stato l’ultimo a capire il
senso di una barzelletta; alla fine scrollò le spalle e lasciò che andassero avanti
con quella cosa, qualsiasi cosa fosse. Holden avvertì un impeto di affetto nei
suoi confronti.
«Aspettate» disse. «Aspettate. Tutti quanti, voglio che facciate la conoscenza
di... di tutti quanti, immagino. Tutti, lei è Naomi.»
I suoi genitori si girarono verso di lei, e Naomi sgranò leggermente gli occhi
mentre le narici le si dilatavano appena per il panico, anche se probabilmente
Holden fu il solo a notarlo. Ci fu una pausa che lui non si era aspettato, un
momento incespicante in cui la vide attraverso i loro occhi: lì c’era la ragazza
cinturiana che divideva il letto con il loro figlio. L’ex amante dell’uomo che
aveva ucciso il mondo, la rappresentante di tutto quello che era successo. Una di
loro. La cosa durò un istante, poi un altro. Fu vasta come lo spazio fra i mondi.
«Ho sentito molto parlare di te, cara» disse Mamma Elise, avvicinandosi a
Naomi per stringerla in un ampio abbraccio, e gli altri la seguirono, mettendosi
in coda per darle il benvenuto nella famiglia. Però non era stata un’illusione, quel
momento era esistito. Anche adesso che le due famiglie si stavano mescolando,
con Papà Dmitri e Papà Anton che parlavano della nave con Alex, e Mamma
Tamara e Amos che si guardavano a vicenda con una sorta di divertito
sconcerto, Holden avvertì l’esitazione. Se lui lo avesse chiesto l’avrebbero amata,
ma lei non era una della loro razza.
Quasi non si accorse che Bobbie gli era accanto finché lei non parlò. «È così
che fa. Trova un modo per ripagarti.»
E accennò verso il fondo della stanza, dove Avasarala se ne stava da sola a
osservare la scena con un sorriso che non le arrivava allo sguardo. Holden andò
da lei.
«Mi avevano detto che stavano bene» osservò. «Quando ho parlato con loro,
mi hanno detto di non essere in pericolo.»
«E in un certo senso era vero» replicò Avasarala. «I reattori non si erano
ancora guastati e avevano più riserve di cibo della maggior parte degli altri, per
cui avrebbero potuto resistere ancora... un mese? Come faccio a saperlo. Cibi
conservati. Chi si prende più il disturbo di inscatolare il cibo in casa?»
«Ma li avete evacuati.»
«Un’altra settimana, un altro mese, ma non un altro anno. Non sarebbero stati
al sicuro per sempre, e quando si fossero resi conto che erano fottuti, tutti i
posti sarebbero già stati occupati. Li ho segnalati come profughi prioritari. Posso
fare questo genere di cose. Sono il capo.»
«Dove...»
Avasarala scrollò le spalle. «Saranno alloggiati tutti qui o su L-4. Non sarà una
cosa grande come quella che avevano nel Montana, ma saranno insieme. Posso
ottenerlo. Un giorno forse riusciranno a tornare alla loro fattoria, quando tutto
sarà finito. Sono successe cose anche più strane.»
Holden le prese la mano. Era fredda, dura e più forte di quanto si fosse
aspettato. Lei si girò a fissarlo negli occhi per la prima volta da quando era
entrato nella stanza. Adesso il sorriso le si estendeva agli angoli degli occhi.
«Grazie» disse Holden. «Ti sono debitore.»
Il sorriso di Avasarala cambiò, perdendo la formalità, la freddezza e il distacco
che c’erano stati sotto la superficie, e lei ridacchiò.
«Lo so» rispose.
10
Avasarala

Non dormiva più, o almeno dormire non le era d’aiuto. Il letto della sua suite
era spugnoso, ma lei non vi sprofondava nel modo in cui il suo corpo si
aspettava di fare dopo una vita trascorsa con una forza di gravità normale,
quindi esso le sembrava al tempo stesso troppo morbido e troppo duro. Inoltre,
si supponeva che dormire significasse riposare, ma non c’era più riposo.
Chiudeva gli occhi e la sua mente continuava a funzionare incespicando, come
se stesse cadendo dalle scale. Percentuali di mortalità e finestre di
approvvigionamento e riunioni di sicurezza... tutte le cose che riempivano le sue
cosiddette ore di veglia occupavano anche le sue notti. Dormire significava
soltanto che esse perdevano quel poco di coerenza che avevano, ma non dava la
sensazione di dormire, bensì di impazzire e diventare catatonica per una
manciata di ore, salvo poi recuperare la sanità mentale sufficiente a tirare avanti
per altre diciotto o venti ore prima di collassare di nuovo su sé stessa. Era uno
schifo. Ma andava fatto, quindi lo faceva.
Se non altro, aveva una doccia.
«Sembra che Bobbie Draper sia riuscita a impedire a Holden di mandare
all’aria la missione» disse, mentre si asciugava i capelli. La sua suite era pervasa di
un morbido chiarore azzurro, come la promessa di un’alba imminente. Non che
l’alba avesse più quell’aspetto sulla Terra, adesso, ma un tempo era stata così.
«Mi piace quella ragazza, ma mi preoccupo per lei. È rimasta per troppo tempo
seduta dietro una scrivania. Questo non fa per lei.»
Esaminò i sari che aveva nell’armadio, facendo scorrere le dita sul tessuto
mentre ascoltava il suono della pelle contro di esso, poi ne scelse uno di un
verde cangiante come quello del carapace di uno scarafaggio, con un ricamo
dorato lungo i bordi che intercettava la falsa luce del sole e la faceva apparire
allo stesso tempo allegra e potente. E aveva una collana di ambra e giada che vi
si abbinava. Moda. Tutta l’umanità stava morendo nella sua stessa merda e lei
doveva ancora preoccuparsi dell’aspetto che avrebbe avuto durante le riunioni.
Era patetico.
«Gies e Basrat hanno mandato notizie, oggi» disse ad alta voce. «Tutti
pensavano che fossero morti, ma si erano rintanati sotto una montagna delle
Alpi Giulie. Probabilmente non avevano intenzione di tirare fuori la testa finché
tutto non si fosse calmato, ma sai com’è Amanda. Per lei qualcosa non è mai
reale finché qualcuno non sa che lei ha ragione. Non so perché quei due ti
piacessero.»
Si accorse troppo tardi dell’errore commesso, e qualcosa di enorme e
pericoloso si mosse nel suo cuore. Trasse un profondo respiro, si morse un
labbro e riprese ad avvolgersi il sari intorno al corpo.
«Una volta che avremo messo sotto controllo la Marina Libera, dovremo fare
qualcosa riguardo all’emigrazione. Nessuno vorrà rimanere sulla Terra. Per come
procedono le cose, potrei andarmene anch’io. Andarmene in pensione su
qualche oceano alieno dove non sono costretta a sentirmi responsabile del far
andare le onde su e giù. Marte non si rimetterà mai in piedi. Smith? Si fa
coraggio, ma non è un primo ministro, è l’infermiera per malati terminali di una
repubblica. Quando comincio ad avere la sensazione che il mio lavoro sia
sgradevole, mi riprendo bevendo qualcosa con lui.»
Quelle erano tutte cose che aveva già detto in precedenza, in un modo o
nell’altro. C’erano cose nuove ogni giorno... rapporti dalla superficie planetaria,
dai droni di sorveglianza intorno a Venere, dai suoi agenti segreti sotto copertura
su Giapeto, Ceres e Pallas. Con la Marina Libera impegnata a far apparire l’APE
misurata e razionale, Fred Johnson poteva ancora essere utile per entrare in
contatto con quelle zone della Fascia che capivano quanto fosse pericoloso
Marco Inaros e come il danno già fatto potesse trasformarsi in qualcosa di
ancora peggiore. Dio sapeva che Johnson non portava mai buone notizie, ma
per ogni notizia, per ogni irrevocabile scatto dell’orologio, c’erano cose che lei
riusciva a riciclare. Quelle che rivisitava ripetutamente, come se stesse leggendo
un libro preferito. O una poesia. Cose che diceva perché le aveva già dette prima.
«C’è una cosa che mi hai letto una volta. Riguarda i pini nordamericani»
continuò, frugando nel cofanetto dei gioielli per cercare la collana e i braccialetti
d’oro che si intonavano al ricamo. «La ricordi? Tutto quello che rammento è che
finiva con ‘da-dah, da-dah, da-dah, da-dah, e pavimentò la strada per il Paradiso’.
Parlava di come i semi abbiano bisogno di un incendio prima di potersi
diffondere. Ti ho detto che dava l’impressione che il tentativo di una ragazza al
secondo anno di università di rompere con il suo ragazzo violento fosse una
cosa profonda. Quella poesia. Adesso non riesco a togliermela dalla mente, ma
non riesco neppure a ricordarla. È irritante.»
I braccialetti scivolarono al loro posto. La collana le si adagiò con troppa
leggerezza sulle clavicole. Sedette alla toeletta per applicare l’eyeliner e un po’ di
fard omeopatico sulle guance, appena quanto bastava per farla apparire più vitale
di come si sentisse. L’odore del fard le ricordò l’appartamento in Danimarca in
cui aveva vissuto quando era all’università. Dio, la sua mente vagava ovunque,
ultimamente. Quando ebbe finito, si girò verso il terminale palmare. L’indicatore
mostrava che stava ancora registrando. Sorrise alla videocamera.
«Adesso devo indossare una maschera, immergermi di nuovo in tutto quanto.
Non ti hanno ancora trovato, ma ripeto a me stessa che lo faranno. Che se fossi
morto lo saprei. Non lo so, quindi non è vero. Però sta diventando più difficile,
amore, e se non tornerai presto avrò salvato tanti di questi messaggi che passerai
mezzo semestre a rimetterti al passo con me.»
Solo che non ci sarebbero stati semestri, pensò, o corsi di poesia, o nessuna di
quelle cose che avevano caratterizzato la sua vita prima che quelle rocce
cadessero. Poi, come se fosse stato presente, la voce di Arjun dissentì nella sua
mente, mormorando: Ci sarà sempre poesia.
«Ti amo» disse al terminale palmare. «Ti amerò sempre. Anche...» Non lo
aveva mai detto prima. Non si era neppure permessa di pensarlo, ma c’era una
prima volta per tutto. E anche un’ultima volta. «Anche se non sei qui.»
Smise di registrare, riparò i danni che le lacrime avevano arrecato al trucco e
abbassò la testa come un attore che si preparasse a salire sul palcoscenico.
Quando la rialzò, i suoi occhi erano più duri. Inviò una richiesta di connessione
a Said e lui rispose immediatamente. La stava aspettando.
«Buongiorno, signora segretario» disse.
«Piantala con le stronzate. Quale nuovo inferno abbiamo di fronte oggi?»
«Fra mezz’ora ha un incontro con Gorman Le, del servizio scientifico. Poi la
colazione con il primo ministro Smith, un’intervista con Karol Stepanov
dell’Eastern Economic Strategic Report, e poi la riunione con il Comitato di Strategia
e Reazione. Durerà fino all’ora di pranzo, signora.»
«Stepanov. È quello che ha ricevuto il premio Cigdem Toker, tre anni fa, per
un servizio su Dashiell Moraga?»
«Io... posso verificare, signora.»
«Fottuta miseria, Said, cerca di tenere il passo. È lui, ne sono sicura. Dovrei
parlare con sua moglie, prima di incontrarlo» disse Avasarala. «C’è spazio per
spostare l’intervista nel pomeriggio?»
«Posso crearlo, signora.»
«Fallo. E accertati che l’incontro con Smith sia una cosa privata. Sono stufa
che ogni fottuta cosa che faccio venga esaminata al microscopio. Se dovesse
venirmi un polipo al culo, lo scoprirei leggendo Le Monde.»
«Se lo dice lei, signora.»
«Lo dico io. Manda il carrello. Togliamoci queste cose dai piedi.»
Gorman Le era un uomo esile con chiari capelli castani spruzzati di bianco e
occhi verde giada che Avasarala intuì essere modificati cosmeticamente. Non lo
aveva conosciuto prima di venire sulla Luna. Quando le rocce erano cadute, era
stato promosso a una carica superiore al suo livello di preparazione, e questo
traspariva dal suo atteggiamento troppo serio e dal modo in cui si schiariva la
gola prima di parlare.
«Le navi che... non sono riuscite a completare la transizione tendevano ad
avere una massa più grande» disse. «L’Oleander-Swift, la Barbatana de Tubarão e la
Harmony seguono tutte quello schema, che però non si adatta alla Casa Azul.»
La presenza del servizio scientifico era sempre stata massiccia sulla Luna. Era
lì che era stato costruito il primo telescopio ad ampio spettro libero dalle
interferenze dell’atmosfera. La prima base lunare permanente era stata divisa
equamente fra presenza militare e ricerca. Le generazioni che erano sorte e
cadute dopo di allora, però, si erano lasciate alle spalle il servizio scientifico della
Luna per spingersi più lontano, nei posti dove c’era azione vera: Ganimede,
Titano, Giapeto. E Phoebe, che Dio li aiutasse tutti. Questo aveva ridotto
l’ufficio del servizio con base sulla Luna a poco più di un insieme di uffici
amministrativi e progetti scientifici a livello scolastico. La sala riunioni in cui si
trovavano era di colore grigio-verde, con schermi a parete opacizzati da anni di
abrasione dovuta ai particolati fini e sedie in finta pelle.
«Quello che le sento dire è che non c’è uno schema costante» commentò
Avasarala.
Gorman Le contrasse la mascella e agitò le mani per la frustrazione. «Ci sono
schemi. Ce ne sono parecchi. Tutte le navi avevano propulsori costruiti in una
finestra temporale di venti mesi. Usavano tutte massa di reazione ricavata da
Saturno. Sono scomparse tutte in periodi di traffico elevato. Avevano tutte la
sequenza ‘quattro-cinque-due-uno’ nella forma estesa del codice di registro. Con
così poco su cui basarmi posso trovare tutti gli schemi che vuole che si adattino
a tutte le navi scomparse. Ma qual è quello che conta davvero? No, questo non
glielo posso dire.»
«C’è qualche nave con la sequenza quattro-cinque-due-uno nel codice di
registro che è riuscita a passare?»
Gorman Le sbuffò leggermente, come un criceto infuriato, poi abbassò lo
sguardo e arrossì. «La Jaquenetta, che risulta provenire da Ganimede. È passata
fra la Oleander-Swift e la Harmony e risulta che sia arrivata a Walton senza
problemi.»
«Bene,» commentò Avasarala, divertita che lui avesse effettivamente
rintracciato quel dato «allora possiamo almeno dire che questo schema è meno
probabile.»
«Sì, signora» rispose Gorman Le. «Signora, se potessimo avere ulteriori dati...
sono certo che la Stazione di Medina ha le registrazioni di volo di tutte queste
navi. Forse di altre. E di quelle che non hanno avuto problemi. Se potessimo...»
«Se avessimo il controllo della Stazione di Medina,» lo interruppe Avasarala
«molte cose sarebbero diverse. I nostri amici marziani ci hanno fatto sapere
qualcosa sul perché la loro flotta ribelle era tanto interessata al portale di
Laconia?»
«Neppure la conferma che quella è la direzione presa dalle navi ammutinate.»
Avasarala si accigliò. «Tengono strette le ginocchia dopo che sono già stati
fottuti. Tipico. Parlerò con Smith. Non possiamo arrivare a Medina, ma
dovremmo riuscire ad accedere a tutti i dati di cui disponiamo.»
«Grazie, signora» replicò Gorman Le, ma lo disse alla sua schiena perché lei se
ne stava già andando.
Il movimento era d’aiuto. La sensazione di fare qualcosa, di fare progressi, di
chiarire i problemi e avvicinarsi alle soluzioni, se ce n’erano, teneva a bada la
disperazione. Per Smith la cosa era più difficile. Era a un mondo di distanza
dalla sua casa e dal suo personale. Sulla Luna non c’erano molte infrastrutture
marziane, e quando non era in riunione o non stava scambiando messaggi con
un ritardo di dodici minuti luce, se ne stava seduto nella sua suite ad ascoltare
notiziari in cui lo si definiva un idiota e un buffone, un uomo la cui
disattenzione aveva permesso che la Marina della Repubblica Congressuale
Marziana venisse venduta a terroristi e pirati. E lui non aveva neppure l’impegno
di gestire la peggiore catastrofe della storia umana che lo aiutasse a distogliere la
mente dall’autocommiserazione.
Le venne incontro alla porta. Vestito con semplici pantaloni color sabbia e una
camicia bianca senza colletto, a maniche rimboccate, avrebbe potuto essere un
venditore o un prelato di basso rango. Il suo sorriso era professionalmente
sincero e caloroso, come lo era sempre. Avasarala entrò nella suite e si guardò
intorno: non c’era neppure la sicurezza. Decisamente, era una riunione privata.
Un punto per Said.
La colazione aspettava in sala da pranzo... uova in camicia e spesse fette di
pane tostato imburrato. Era il genere di cibo semplice e raffinato che lei
immaginava fossero soliti concedersi i reali di tutte le epoche, mentre il popolo
su cui regnavano moriva di fame. Notò anche la bottiglia di vino mezza vuota
per terra vicino al divano, lo schermo a parete sintonizzato su un canale di
intrattenimento che trasmetteva una commedia leggermente osé risalente a tre
anni prima. Shannon Poe e Lakash Hedayat erano nudi e cercavano di coprirsi
con lo stesso telo da spiaggia senza guardarsi o toccarsi a vicenda. Era possibile
che la cosa fosse stata divertente, nel contesto. Smith seguì la direzione del suo
sguardo e spense lo schermo.
«Risate» disse. «Un balsamo, in tempi difficili.»
«Dovrò provare» replicò Avasarala. Smith le trasse indietro la sedia, e lei gli
permise di farlo. «Ci sono alcune cose di cui volevo parlare con lei, ma prima c’è
un’altra cosa. Capisco perché il vostro servizio di intelligence tenga segrete le
informazioni relative a Duarte, ma perché cazzo tenete per voi i dati relativi alle
navi inghiottite dai portali? Vi aspettate di barattarli con qualcosa? Perché se è
così, a meno che si tratti di favori sessuali, non abbiamo un accidente di niente
da barattare.»
«Le uova sono buone» disse Smith.
«Volete uova? Dirò loro di strizzare una gallina. Io voglio i dati relativi alle
navi scomparse.»
Smith sorrise e annuì, come se lei avesse detto qualcosa di moderato e cortese.
Il bianco dell’uovo lasciò cadere gocce dorate mentre se lo portava alla bocca. Il
tuorlo gli macchiò il davanti della camicia, ma lui non parve notarlo.
«Cosa c’è?» chiese Avasarala.
«Io... dovrà sottoporre la questione al mio successore. Oggi sono stato
informato che l’opposizione vuole chiedere un voto di sfiducia. Entro questa
sera non sarò più in carica.»
Avasarala trasse un profondo respiro e lasciò fuoriuscire l’aria attraverso i
denti serrati. Il silenzio fra loro si intensificò finché lei non lo interruppe.
«Cazzo.»
«Sono infuriati, e spaventati. Hanno bisogno di qualcuno da incolpare, e io
sono la scelta più ovvia.»
«Chi intendono eleggere?»
«Sono stati menzionati tanto Olivia Liu quanto Chahaya Nelson, ma si tratterà
di Emily Richards.»
Avasarala masticò un po’ di uovo, ma non ne sentì il sapore. Richards non era
male. Se non altro, era seria. Liu e Nelson, invece, erano troppo fossilizzati su
ciò che Marte era stato e non sarebbero stati pronti per ciò che stava
diventando. Le donne della famiglia Richards erano abili politici. Lo erano
sempre state.
«Mi dispiace» disse. «Questo deve essere un duro colpo per lei.»
«I politici sono giocatori d’azzardo» rispose Smith. «Facciamo del nostro
meglio per piegare le probabilità a nostro favore, ma l’universo fa quello che fa.»
Stronzate, pensò Avasarala. I politici sono il lobo frontale del corpo politico.
L’universo fa quello che fa. I marziani sarebbero stati meglio senza di lui. Non
ancora, però.
«Ha un giorno» sottolineò. «Mi dia quei dati prima che sia troppo tardi.»
«Chrisjen...»
«Cosa possono fare? Licenziarla? Che si fottano... mi dia i dati, in modo che
possa risolvere i problemi. E se dovessero darle troppi problemi, le offrirò
asilo.»
Smith scoppiò a ridere e si appoggiò allo schienale della sedia. Il suo sguardo si
spostò sullo schermo spento, poi tornò a posarsi su di lei. Avasarala si chiese se
quella vicino al divano fosse stata la sua prima bottiglia di vino.
«Lo promette?» chiese, come se fosse uno scherzo. Avasarala sorrise.
Il Comitato di Strategia e Reazione. Gli ammiragli Pycior e Souther. Parris
Kanter dello Sviluppo Umano, all’Aia. Michael Harrow di Aquaculture. Barry Li
e Simon Gutierrez di Trasporti e Tariffe. Non era la squadra ideale che lei
avrebbe scelto, ma il meglio di quello che le rimaneva. Seduti intorno al tavolo di
vetro scuro, apparivano tutti stanchi quanto lei sentiva di essere. Bene. Era
giusto che lo fossero.
«Marte» esordì. «Smith è con il culo per terra ed Emily Richards sta per
prendere il suo posto. La contatterò quanto prima. Non so se sarà più aperta,
ma non partirei dal presupposto che lo sia. Voi cosa avete?»
Li parlò per primo. Lo sfinimento accentuava la sua pronuncia blesa, ma la sua
intelligenza faceva apparire più scintillanti i suoi occhi. «Stiamo mantenendo le
rotte di soccorso in Africa e in Europa. La prossima area su cui ci focalizzeremo
è l’Asia orientale.»
«Là non ci sono stati impatti» osservò Avasarala.
«Ma hanno il più elevato livello di depositi di cenere» ribatté Li. «La mia gente
sta elaborando le rotte e le probabili necessità. Le informazioni da terra sono
frammentarie.»
«La Fascia?» chiese Avasarala.
«La Fascia è la Fascia» rispose Pycior. «C’è un’ampia varietà di reazioni.
Ganimede continua a mantenersi neutrale, ma è saldamente nella sfera di
controllo della Marina Libera. Se potessimo offrire protezione, probabilmente si
dichiarerebbe a nostro favore. L’APE è divisa. La Stazione di Tycho, la Stazione
di Kelso e Rhea sono le sole che abbiano condannato la Marina Libera. Le
stazioni troiane e Giapeto non si dichiarano in nessun modo. Quanto alla
maggior parte del resto della Fascia... è a favore della Marina Libera. Finché i
ribelli continueranno a promettere cibo, materiali e protezione, sarà difficile che
i cinturiani moderati riescano a organizzarsi, sempre supponendo che vogliano
farlo.»
Souther si schiarì la gola e prese la parola, con una voce acuta che lo faceva
sembrare un cantante. «Abbiamo passato al setaccio il registro delle
comunicazioni dell’Azure Dragon. Da essi risulta che in questo momento è in
corso su Ceres una riunione di alto livello della Marina Libera. Inaros e i suoi
quattro capitani.»
«Qual è il motivo della riunione» domandò Avasarala, in tono secco.
«Pare che nessuno lo sappia» rispose Souther. «Comunque non ci sono prove
che indichino la presenza di una seconda nave-pastore. Abbiamo identificato
altre sette grosse rocce attualmente in rotta verso la Terra. Le stiamo tracciando
e siamo pronti a distruggerle.»
Il che significava che le loro navi non erano più vincolate. Avasarala si protese
in avanti, premendosi le dita contro le labbra mentre la sua mente danzava
attraverso il sistema solare. La Stazione di Medina. Rhea che si dichiarava ostile
alla Marina Libera. Il cibo e le scorte di Ganimede. La carestia e la morte sulla
Terra. La marina marziana divisa fra il misterioso Duarte, con la sua Marina
Libera messa insieme al mercato nero, e Smith. E adesso Richards. Le colonie
perdute. L’APE di Fred Johnson e tutte le fazioni che lui non poteva influenzare
o comandare. Le navi coloniali assalite dai pirati della Marina Libera e le stazioni
e gli asteroidi che beneficiavano di quella pirateria. E le navi scomparse. E il
campione di protomolecola rubato.
Una dozzina di possibilità le si agitarono nella mente... ridistribuire alcune
forze alla Stazione di Tycho e infondere coraggio a Ganimede, oppure mettere il
blocco a Pallas e cercare di tagliare le capacità di rifornimento della Marina
Libera, o ancora creare una zona protetta per le navi coloniali là fuori. C’erano
migliaia di strade differenti e non poteva sapere con certezza dove avrebbe
portato una qualsiasi di esse. Una scelta sbagliata avrebbe potuto significare il
collasso di tutto quello che restava.
Però Marco Inaros e i suoi capitani erano insieme nello stesso posto, e adesso
le sue navi erano libere di muoversi.
«La fortuna aiuta gli audaci, giusto?» disse. «Al diavolo. Riprendiamoci Ceres.»
11
Pa

Settant’anni prima che Michio Pa nascesse, la Terra e Marte avevano riscritto


le norme tariffarie relative al minerale grezzo proveniente dalla Fascia, dando
come motivazione il fatto che questo avrebbe incoraggiato la creazione ed
espansione di raffinerie nella Fascia e intorno a Giove e a Saturno. La cosa
avrebbe anche potuto funzionare. A breve termine, aveva significato che
un’ondata di cercatori della Fascia e di minatori di asteroidi che già vivevano
sull’orlo della sopravvivenza era scivolata nell’abisso. Navi erano state messe
sotto sequestro, o erano state gestite illegalmente, o erano state perdute dal
proprietario che non aveva di che pagare la manutenzione e le riparazioni. A
quel tempo, la Terra e Marte avevano camminato mano nella mano, e la sola
alternativa che era parsa dare ai cinturiani una qualche promessa di giustizia era
stata quella di creare una loro forza militare.
Non era mai stata una cosa ufficiale. L’Alleanza dei Pianeti Esterni era
sopravvissuta da allora perché era diffusa e se ne poteva negare l’esistenza. Però
c’erano gli inizi. Si sceglieva una fazione, ci si trovava un posto nella catena di
comando, si costruiva una struttura esile ma resistente che un giorno avrebbe
avuto la forza di imporsi. Quella avrebbe finito per essere la risposta al fatto che
i pianeti interni estendevano il loro potere a zone dove il sole era poco più della
stella più luminosa.
Quando Michio Pa aveva compiuto ventidue anni, Fred Johnson – il Macellaio
della Stazione di Anderson – le era parso come la speranza più luminosa. Era un
terrestre che combatteva per la Fascia, contro il suo stesso, naturale interesse
personale. Questo dava un senso di autenticità a qualcuno che era ancora
giovane e facile da influenzare. Si era cercata una posizione sulla Stazione di
Tycho, si era creata prima alcuni contatti, poi si era impegnata definitivamente,
addestrandosi nella sorta di quasi esercito che Johnson stava mettendo insieme.
Ci aveva lavorato per anni.
A quel tempo era una vera credente. Una piccola moralista ingenua. Ma era
accaduto prima della Behemoth.
Ottenere la carica di primo ufficiale sulla prima vera nave da guerra della
Fascia era stato un sogno divenuto realtà. La nave generazionale non era stata
progettata per la guerra, ma tutto il suo equipaggio era stato addestrato per
quello. O almeno, così si era detta.
Il capitano Ashford aveva il comando e lei era il suo primo ufficiale. E subito
sotto di loro, come capo della sicurezza, c’era l’amico personale di Fred
Johnson, Carlos C de Baca. Bull. Il suo babysitter e l’uomo nella posizione di
intervenire e prendere il suo posto quando avesse commesso il suo primo
errore. Il suo odio nei confronti di Bull era stato intenso e aveva colto ogni
possibile occasione per sminuirlo. Aveva ficcato un cuneo in ogni suo più
piccolo passo falso, allargandolo. La Behemoth si era recata all’anello per
affrontare la Terra e Marte, per dimostrare che la Fascia era una forza con cui
fare i conti. E, come in alto, così in basso, lei aveva fatto del dimostrare a Bull di
essere migliore di lui la sua missione personale.
Ed era stato per questo che aveva sofferto così tanto quando Sam si era
schierata dalla sua parte.
Ne avevano parlato, lei e Sam. Di quanto fosse importante tenere nascosta la
loro storia, non permettere che nessuno – soprattutto fra gli ufficiali – intuisse
quello che c’era fra loro. Sam aveva acconsentito, forse perché era d’accordo, o
forse per placare le sue insicurezze. Poi Bull e Sam avevano fatto casino con la
distribuzione del budget. Le era sembrato il peggior tradimento possibile. Sam –
la sua Sam – che faceva causa comune con un terrestre. Con il terrestre che era
stato mandato da Fred Johnson per tenere d’occhio gli inaffidabili cinturiani.
Quello era stato solo il primo dei suoi molti errori. Michio aveva lasciato che le
sue emozioni le impedissero di vedere la saggezza e l’esperienza che Bull le
aveva offerto finché le cose non erano sfuggite di mano. Nonostante tutte le
perdite seguite alla catastrofe, lei non aveva riconosciuto l’instabilità e la violenza
di Ashford come sintomi di una lesione cerebrale. Non aveva accantonato la sua
fiducia nella catena di comando.
E non aveva fatto la pace con Sam prima che Ashford la uccidesse.
Fred Johnson l’aveva mandata nell’occhio del ciclone perché era una
cinturiana, e lui aveva bisogno di un cinturiano come facciata. Non era stata
pronta, ma era stata una scelta comoda, e a causa di questo delle persone erano
morte.
La Behemoth non aveva mai riattraversato il portale. L’avevano smantellata,
avevano fatto ruotare il corpo centrale e l’avevano ribattezzata Stazione di
Medina. Michio Pa era stata rimandata su Tycho a bordo di una nave marziana.
Dopo che i morti erano stati rimossi, c’era stato spazio extra in abbondanza.
Non appena era arrivata al suo alloggio, aveva dato le dimissioni, senza prima
prendersi neppure il tempo per una doccia. Aveva rinunciato al suo lavoro
ufficiale su Tycho, al suo grado militare nell’APE, a tutto. Fred Johnson le aveva
mandato alcuni messaggi personali, ma lei non ne conosceva il contenuto perché
li aveva cancellati senza ascoltarli.
Poi si era persa, facendo un lavoro dopo l’altro, cercando di tenere per sé gli
incubi e le crisi di pianto. Aveva comandato una nave per una compagnia di
recupero che a volte sconfinava nella pirateria. Aveva sovrinteso a una
cooperativa commerciale che non figurava nei registri doganali, il che costituiva
tecnicamente un atto di contrabbando. Stava dirigendo un complesso di
magazzini di provviste su Rhea per conto di un sindacato che sconfinava nel
crimine e aveva la sua base su Titano, quando Nadia e Bertold l’avevano trovata.
Ci erano voluti sei mesi prima che si rendesse conto di essere innamorata di
loro, e altri quattro per capire cosa significasse il fatto che anche loro l’amavano.
Il giorno in cui avevano preso casa insieme per la prima volta, in un buco
piccolo e poco costoso mezzo chilometro al di sotto della superficie della luna,
era stato uno dei migliori della sua vita.
Gli altri erano arrivati a modo loro. Laura e Oksana insieme. Poi Josep. Ed
Evans. Ogni nuova persona inserita nel matrimonio era stata un’espansione della
sua tribù. La sua gente. Non i politici, non i capi militari, non gli uomini che
amavano gestire il potere. C’era una differenza fra la Fascia e la sua lotta per
esistere nonostante il portale che lei aveva contribuito ad aprire da un lato e le
voci e i corpi della sua famiglia dall’altro.
Il sogno però non era morto. Da qualche parte, in fondo alla sua mente, l’idea
di una marina cinturiana che potesse opporsi alla pari alla Terra e a Marte ed
esigere di essere rispettata, giaceva sopito ma vivo.
E così, quando Marco Inaros si era presentato con la sua proposta, lei lo aveva
ascoltato. Nei circoli cinturiani ci si ricordava ancora di lei come del capitano
che si era fatto avanti nella zona lenta. La gente rispettava il suo nome, e quando
fosse giunto il momento, Inaros avrebbe avuto bisogno di qualcuno che
coordinasse il recupero delle navi coloniali che stava tenendo fuori della zona
lenta e controllasse che le provviste andassero a cinturiani in difficoltà. Prendere
ai ricchi pianeti interni e dare ai poveri della Fascia fino a pareggiare le cose.
Fino a raggiungere l’utopia del vuoto.
Il momento per quello non era però ancora giunto. Per adesso Inaros aveva
bisogno di piccoli favori. Far pervenire merci di contrabbando su Ganimede.
Sovrintendere al trasferimento di un prigioniero. Aiutare a installare una fascia di
ripetitori nascosti al di là di Giove. L’aveva coltivata con una grande visione e
piccoli passi.
E quel ‘coltivata’ poteva essere un eufemismo per ‘sedotta’.
«Quante navi stanno arrivando a Ceres?» chiese Marco, mentre le camminava
accanto. I livelli amministrativi della Stazione di Ceres odoravano di piante vive,
di pavimenti lucidi e di muri che costituivano un vanto. Lei si sentiva un po’
fuori posto lì, ma non così Marco. Lui riusciva a dare l’impressione che qualsiasi
posto dove si trovava fosse il suo habitat naturale.
«Sette» rispose. «La più vicina è l’Alastair Rauch, che sta frenando già da
qualche tempo. Dovrebbe attraccare fra tre giorni. La Hornblower è la più
lontana, ma Carmondy può aumentare l’accelerazione, se abbiamo bisogno che
lo faccia. Sto cercando di far conservare massa di reazione alla flotta.»
«Bene. Questo è un bene» commentò Marco, posandole una mano sulla spalla.
Le sue guardie si fermarono davanti alla porta della sala riunioni e Michio
accennò a oltrepassarle, ma Marco la trattenne. «Le dovremo spostare» disse.
«Spostarle?»
«Indirizzarle verso altri porti o farle passare in oscuramento e lasciarle da parte
per qualche tempo.»
Michio scosse il capo. Non era un rifiuto ma piuttosto il suo corpo che
esprimeva la confusione che provava. Una mezza dozzina di risposte le salì alle
labbra. ‘Hanno tutte bisogno di rifornirsi di carburante da qualche parte.’ E:
‘Abbiamo stazioni che sono a corto di viveri e di fertilizzante e che stanno già
venendo qui a prenderli.’ E: ‘Mi stai prendendo in giro?’
«Perché?» chiese soltanto.
Il sorriso di Marco era caldo e affascinante. Eccitato e luminoso. Michio si
ritrovò a sorridere a sua volta senza sapere il perché.
«La situazione è cambiata» rispose lui, poi la precedette nella sala riunioni. Le
guardie le rivolsero un cenno del capo quando le oltrepassò, e lei si chiese per un
momento dove fosse il figlio di Marco.
Gli altri erano raccolti intorno al tavolo. La parete sulla quale per giorni Marco
aveva delineato la sua visione della Fascia futura era stata sgombrata, e al suo
posto c’era il quadro di un antico guerriero, un uomo dalla pelle scura che
portava una barba e baffi elaborati, un turbante, una lunga veste bianca fermata
da una fusciacca carminia nella quale erano infilate tre spade, mentre lui teneva
un antico fucile nel cavo del braccio.
«Sei in ritardo» osservò Dawes, rivolto a Marco, in tono mite, mentre Michio si
sedeva. Marco li ignorò entrambi.
«Considerate gli afgani» disse. «I signori del Cimitero degli Imperi. Neppure
Alessandro il Grande è riuscito a sottometterli. Ogni grande potenza che ci ha
provato si è fiaccata e ha fallito.»
«Ma avevano un’economia a stento funzionante» obiettò Sanjrani. Rosenfeld
gli toccò un braccio e si portò un dito alle labbra.
Marco prese a camminare avanti e indietro davanti al quadro. «Come ci sono
riusciti? Come ha fatto un popolo sparso e primitivo dal punto di vista
tecnologico a sconfiggere i grandi poteri del mondo, un secolo dopo l’altro?» Si
girò verso gli altri. «Lo sapete?»
Nessuno rispose, ma non ci si aspettava che lo facessero. Quella era
un’esibizione. Il sorriso di Marco si accentuò e lui sollevò una mano.
«A loro importava di cose diverse» disse. «Per il nemico, la guerra riguardava il
territorio. Il possesso. L’occupazione. Per quei geni, consisteva nel controllare
gli spazi che non occupavano. Quando gli eserciti inglesi sono entrati in una città
afgana, pronti a combattere, hanno trovato... niente. Il nemico era scomparso fra
le colline, vivendo in quegli spazi che il nemico non prendeva in considerazione.
Per gli inglesi la città era una cosa da possedere. Per gli afgani non era più sacra
delle colline, del deserto e dei campi.»
«Questo è un po’ romantico, non credi?» commentò Rosenfeld, ma Marco lo
ignorò.
«Queste brave persone erano i cinturiani della loro epoca e del luogo. I nostri
padri spirituali. Ed è giunto per noi il tempo di onorarli. Amici miei, l’Azure
Dragon è stata catturata, come sapevamo che sarebbe successo, prima o poi.
Nella sua sofferenza e ignoranza, la Terra si prepara a colpire.»
«Hai saputo qualcosa?» chiese Dawes, pallido in volto.
«Niente di nuovo» replicò Marco. «Abbiamo sempre saputo che per loro Ceres
era un bersaglio. Sono rimasti in attesa degli eventi dopo che è stata presa
dall’APE, ma il nostro cugino Anderson qui presente è sempre stato attento a
bilanciare il suo potere con le blandizie, e non è mai stato in cima alle loro
preoccupazioni. Fino a ora. La marina delle Nazioni Unite sta abbandonando lo
schieramento per dirigersi su Ceres, ma quando arriverà qui...»
Marco si portò i pugni chiusi alla bocca, soffiò su di essi e allargò le dita. Era
un’illusione, ma Michio ebbe l’impressione di poter quasi vedere le ceneri volare
dalle sue dita.
«Non puoi voler dire...» cominciò Dawes, con voce soffocata.
«Abbiamo già avviato l’evacuazione» lo interruppe Marco. «Tutti i nostri
soldati e materiali saranno lontani dalla stazione prima del loro arrivo.»
«Ci sono sei milioni di persone sulla stazione» gli fece notare Rosenfeld. «Non
credo che possiamo prelevarli tutti.»
«Certo che no» convenne Marco. «Questa è un’azione militare. Prenderemo le
navi militari e le scorte che ci servono, e lasceremo il territorio alla Terra. Non
permetteranno che Ceres muoia di fame. La sola cosa che hanno è la possibilità
di passare per vittime e ottenere compassione dagli stupidi, e se non si
prenderanno cura di Ceres perderanno anche ciò. E noi? Noi saremo nel vuoto
che è la nostra casa naturale, inattaccabili.»
«Ma, la base economica» protestò Sanjrani, in tono quasi lamentoso.
«Non ti preoccupare» rispose Marco. «Tutto quello di cui abbiamo discusso
arriverà, solo che prima dobbiamo lasciare che il nemico sparpagli le sue forze e
collassi. Questo è sempre stato parte del piano.»
Dawes si alzò in piedi. Il suo volto era cinereo, con due vivide chiazze rosse
sulle guance, e le mani gli tremavano. «Si tratta di Filip. Ti stai vendicando di
me?»
«Questo non riguarda Filip Inaros» ribatté Marco, ma l’entusiasmo e
l’eccitazione erano svaniti dalla sua voce. «Questo riguarda Filippo di Macedonia
e imparare le lezioni dalla storia.» Tacque per un lungo, terribile momento, e
Dawes si lasciò ricadere sulla sedia. «Ora, Michio e io abbiamo già discusso del
reindirizzare su altra rotta le navi in arrivo. Parliamo della logistica
dell’evacuazione della stazione, sì?»
Il modo in cui gli abitanti dei pianeti interni abbandonavano la nave non
appena attraccavano in una stazione alimentava un certo tipo di battute fra i
cinturiani. ‘Come fa un cinturiano a scegliere il menu a bordo di una nave?’ ‘Con
il cazzo.’ ‘Come si capisce quando qualcuno dei pianeti interni è rimasto lontano
da un porto troppo a lungo?’ ‘Va fuori per defecare.’ ‘Se dai a un terrestre la
scelta fra il rimanere a bordo e salvare la vita alla sua innamorata o scendere sul
molo e non amare mai più, come ti liberi del cadavere?’ Era questa l’ottica in cui
guardavano a ogni cosa: la nave non era reale, lo era solo il pianeta, o la luna, o
l’asteroide. Non riuscivano a liberarsi dall’idea che la vita contemplasse la
presenza di roccia e di terra. Era questo a renderli più piccoli.
La gente di Michio non era tutta a bordo della Connaught quando lei percorse il
tubo di attracco ed entrò nella camera di pressurizzazione, ma i più erano
presenti, quelli che era più probabile tornassero a bordo per dormire nella loro
cuccetta. Nessuno avrebbe trovato strano che tutto il suo gruppo matrimoniale
fosse lì, e se anche poteva apparire un po’ strano, quantomeno non era
inverosimile.
Mentre scendeva con l’ascensore fu assalita dalla strana sensazione di vedere la
nave per la prima volta. Come se stesse entrando in una nuova stazione, tutto
era nettamente a fuoco, appariva poco familiare... gli indicatori verdi e rossi dei
comandi dell’ascensore, le piccole lettere bianche stampate su ogni pannello per
indicare cosa si trovava dietro di esso e quando era stato installato, il logo della
MRCM ancora visibile sul pavimento nonostante tutti i loro sforzi per rimuoverlo.
Un odore di spaghetti neri saliva dalla cambusa, ma non si fermò perché se
avesse cercato di mangiare in quel momento avrebbe comunque finito per
vomitare.
Erano raccolti nelle cabine riservate alla famiglia. Una delle prime cose che
Bertold aveva fatto quando avevano preso la Connaught era stato rimuovere le
pareti di tre cabine per creare uno spazio più ampio con abbastanza sedili a
smorzamento perché potessero sedere tutti insieme. I progettatori marziani
avevano costruito la nave in modo che le persone potessero stare sole o insieme.
Ci voleva un cinturiano per creare uno spazio dove si potesse stare soli insieme.
Oksana e Laura erano sedute sul plancito, con le arpe che quasi si toccavano
mentre suonavano una vecchia melodia celtica, e la pelle pallida di Oksana
vicino a quella scura di Laura dava l’impressione che fossero qualcosa appena
uscito da una fiaba. Josep oziava su uno dei sedili, aveva richiamato un testo sul
terminale palmare e leggeva, facendo dondolare un piede al ritmo della musica.
Evans sedeva dietro di lui e cercava di non apparire nervoso mentre Nadia, che
somigliava a una discendente del soldato afgano di cui aveva parlato Marco, se
ne stava in piedi dietro a uno degli altri sedili, massaggiando con mano leggera i
capelli neri di Bertold che si andavano diradando.
Michio prese posto sul sedile che avevano lasciato libero per lei e rimase ad
ascoltare fino a quando la melodia si concluse con una serie di ambigui intervalli
di quarta e di quinta. Poi le arpe e il terminale furono posati, e Bertold aprì
l’occhio sano.
«Grazie per essere venuti» disse Michio.
«Sempre» rispose Laura.
«Basta chiedere» aggiunse Josep. «In questo momento sei il nostro capitano o
nostra moglie?»
«Vostra moglie. Io credo... credo che...»
Poi si mise a piangere, chinandosi in avanti con le mani sugli occhi. Il nodo
che aveva dentro era così serrato che il cuore le bloccava la gola. Cercò di
liberarla tossendo, ma il suono scaturì come un singhiozzo. La mano di Laura le
sfiorò un piede, poi il braccio di Bertold le cinse le spalle e lui la strinse a sé.
Sentì Oksana mormorare: «È tutto a posto, piccola, è tutto a posto.» La sua voce
però pareva giungere da mezzo mondo di distanza. Era troppo. Decisamente
troppo.
«L’ho fatto» riuscì a dire infine. «L’ho fatto di nuovo. Ho messo tutti noi sotto
il controllo di Marco, e lui... lui è un altro Ashford. Un altro fottuto Fred
Johnson. Mi sono sforzata di non rifarlo, e ci sono ricascata. E ho trascinato con
me tutti voi. E mi... mi dispiace così tanto.»
La sua famiglia converse su di lei con gentilezza, tutti che la toccavano con una
mano o un braccio, offrendole conforto, comunicandole in silenzio la loro
presenza. Evans pianse con lei senza neppure saperne il perché. Per un po’ il
pianto si intensificò, divenne confuso, poi le cose migliorarono, si fecero più
chiare. Il peggio era passato. Quando infine fu di nuovo sé stessa, Josep si decise
a parlare.
«Raccontaci tutta la storia. Così avrà meno potere.»
«Sta abbandonando Ceres. Porterà via tutta la Marina Libera e lascerà la gente
di qui ai pianeti interni. Avete presente le navi coloniali che abbiamo preso?
Vuole che vadano in oscuramento e si allontanino dall’eclittica per costituire una
scorta per noi, invece di consegnare le provviste.»
«Ah» commentò Nadia. «È un tipo del genere, eh?»
«Cambiare è difficile» affermò Josep. «Ripeti abbastanza a lungo a te stesso che
sei un guerriero e comincerai a crederci. E allora la pace ti sembrerà simile alla
morte. Un annientamento dell’io.»
«È un concetto un po’ astratto, tesoro» gli fece notare Nadia.
Josep sgranò gli occhi, poi fece un sorriso triste. «Per essere più concreti, hai
ragione. Hai sempre ragione.»
«Mi dispiace così tanto» ripeté Michio. «Ho sbagliato di nuovo. Mi sono fidata
di qualcuno. Mi sono messa ai suoi ordini, e... sono stupida. Sono
semplicemente stupida.»
«Eravamo tutti d’accordo» sottolineò Oksana, anche se la sua espressione era
accigliata. «Ci abbiamo creduto tutti.»
«Ci avete creduto perché io vi ho chiesto di farlo» ribatté Michio. «La colpa è
mia.»
«Allora, Michi, qual è la parola magica?» domandò Laura.
Suo malgrado, Michio scoppiò a ridere. Quello era un vecchio scherzo, parte
di ciò che rendeva tale la sua famiglia.
«La parola magica è ooops» rispose. E un momento più tardi ripeté: «Ooops.»
Bertold si prese un momento per soffiarsi rumorosamente il naso e asciugarsi
le ultime lacrime. «D’accordo, adesso cosa facciamo?»
«Non possiamo continuare a lavorare con quel bastardo» affermò Oksana.
Nadia agitò il pugno per annuire. «E non possiamo restare qui ad aspettare i
terrestri.»
Senza volere, tutti quanti guardarono verso di lei. Michio, la loro moglie ma
anche il loro capitano. Lei trasse un lungo respiro tremante. «Avete presente
quella cosa che ci aveva chiesto di fare? Radunare le navi coloniali e distribuire il
cibo e le provviste fra i cinturiani che ne hanno bisogno? È una cosa che ha
ancora bisogno di essere fatta, e noi abbiamo una nave da guerra con cui farla.
Alcune delle altre navi potrebbero vedere le cose nella nostra stessa ottica.
Quindi o ci atteniamo alla missione originale, oppure ci troviamo un posto
tranquillo dove scomparire per parecchio tempo prima che Inaros si renda
conto che ce ne siamo andati.»
La sua famiglia rimase in silenzio per quello che parve un tempo molto lungo,
anche se non furono che pochi respiri, uno dopo l’altro. Bertold si grattò
l’occhio danneggiato. Nadia e Oksana si scambiarono un’occhiata che pareva
significare qualcosa. Laura si schiarì la gola.
«Essere piccoli non significa essere al sicuro. Non ora.»
«Vrai» assentì Bertold. «Io sono a favore del fare quello che avevamo deciso, e
che il resto si fotta. Abbiamo già cambiato schieramento in passato e non ci ha
uccisi.»
«Lo abbiamo fatto?» ribatté Josep. «E staremmo cambiando schieramento
adesso?»
«Sì» confermò Evans.
Josep si girò a fissare Michio dritto negli occhi. L’umorismo e l’amore che gli
trasparivano dal volto erano come il calore che emanasse da un radiatore.
«Abbiamo già combattuto in passato contro l’oppressore e continuiamo a farlo
anche adesso. Abbiamo seguito il tuo cuore allora e continuiamo a farlo ora. Il
fatto che la situazione cambi non significa che sia anche tu a cambiare.»
«Sei dolce» disse Michio, prendendogli la mano.
«Ma anche astratto» rimarcò Nadia, ma l’amore traspariva anche dalla sua
voce.
«Tutto quello che hai fatto,» continuò Josep «ogni errore, ogni perdita, ogni
cicatrice. Tutto questo ti ha portata qui, ti ha permesso di essere pronta ad agire
non appena hai visto il Grand’Uomo per quello che è. Ti ha perfino resa
incapace di non agire. Tutto quanto è stato una preparazione per questo
momento.»
«Sono stronzate, ma ti ringrazio» ribatté Michio.
«Se ha bisogno di un coltello, l’universo ne crea uno» rispose Josep, scrollando
le spalle. «Se ha bisogno di una regina pirata, allora crea Michio Pa.»
12
Holden

Lo schermo a parete nell’atrio pubblico del molo era sintonizzato su un canale


di intrattenimento. Una giovane bellezza mozzafiato con una palpebra coperta
di fard rosso o tatuata di rosso, veniva intervistata da qualcuno che si teneva in
background. La dicitura alla base dello schermo identificava la ragazza come
Zedina Rael, ma Holden non sapeva bene chi fosse. Il volume era attivo, ma
non si capiva niente a causa del chiasso della gente che si muoveva nell’atrio per
andare e venire dai moli, e i sottotitoli erano in hindi. Sullo schermo Rael scosse
il capo e una grossa lacrima le colò lungo la guancia mentre le immagini
mostravano una città in rovina sotto uno sporco cielo marrone. Quindi si
trattava di qualcosa che riguardava la situazione sulla Terra.
Era facile dimenticare che anche i protagonisti dei canali di intrattenimento –
musicisti, attori e celebrità in quanto tali – erano stati influenzati dalla catastrofe
quanto chiunque altro. Sembrava una fetta di realtà che avrebbe dovuto essere
separata dal resto. Rimanere inviolata. Si supponeva che pestilenze, guerre e
disastri non avessero effetto sul mondo artificiale dell’intrattenimento, ma
naturalmente non era così. Qualsiasi cosa avesse fatto per conquistarsi un posto
sullo schermo, Zedina Rael era anche lei un essere umano, e probabilmente
aveva perso qualche persona cara quando le rocce erano precipitate.
Probabilmente ne avrebbe perse altre.
«Capitano Holden?» L’uomo aveva le spalle massicce, capelli neri e un pizzetto
appuntito, appariva esausto e tuttavia di buon umore e teneva in mano un
terminale palmare. La sua uniforme lo identificava come un agente del Controllo
Portuale, e il nome sul distintivo era Bates. «Mi dispiace. Sta aspettando da
molto?»
«No» rispose Holden, stringendo la mano che gli veniva offerta. «Solo qualche
minuto.»
«C’è parecchio da fare» si scusò Bates.
«Non è un problema» replicò Holden, mentre firmava e premeva il pollice
sullo schermo del lettore. Il terminale trillò, un breve suono allegro, come se
fosse stato molto contento che Holden avesse autorizzato la consegna.
«Siete all’attracco H-15?» chiese Bates. «Ve lo farò scaricare immediatamente.
Chi coordina le vostre riparazioni?»
«Abbiamo il nostro responsabile» spiegò Holden. «Naomi Nagata.»
«Giusto. Certo.» L’uomo annuì e scomparve. Sullo schermo, Zedina Rael era
stata sostituita dai lineamenti massicci di Ifrah McCoy. Se non altro, Holden
sapeva chi era. L’invisibile intervistatore disse qualcosa, e una pausa nei rumori
di fondo permise a Holden di sentire la replica di McCoy: ‘Ci deve essere una
risposta. Dobbiamo reagire.’ La frustrazione e il dolore che le trapelavano dalla
voce turbarono Holden, ma non seppe dire se dipendesse dal fatto che era
d’accordo con lei o dalla paura di ciò a cui avrebbe potuto portare quella
reazione. Si avviò verso i moli veri e propri e il lavoro che lo aspettava.
Su una stazione a rotazione come Tycho o le stazioni Lagrange, la nave
sarebbe stata parcheggiata nel vuoto, ma la Luna era qualcosa di completamente
diverso. Il cantiere navale aveva vasti comparti scavati in profondità nel suolo
lunare, con rimorchiatori che guidavano la nave dentro e fuori da essi, sigilli
retrattili, aria. La Rocinante era in verticale, con il cono del reattore orientato
verso il centro della Luna e la punta con i ponti superiori rivolta verso le stelle,
ed era trattenuta da un intreccio di impalcature. Lo spazio a disposizione era
abbastanza ampio da ospitare una nave tre volte più grande, ed era tutto pieno
di aria respirabile.
File di mech edili erano disposte lungo la parete, tranne tre che erano sopra la
Rocinante e strisciavano con gentilezza sulla sua superficie, come ragni su un
corvo. Naomi era dentro uno di essi, Amos in un altro, e il terzo era manovrato
da Sandra Ip, uno dei due ingegneri che Fred Johnson aveva portato con sé
come equipaggio per la Roci nel volo verso la Luna quando il vero equipaggio –
meno Holden – era stato sparpagliato nel vuoto.
Alex e Bobbie erano su una piattaforma sopraelevata e stavano guardando
verso lo scafo della nave. Il danno arrecato dalla Marina Libera era vivido e
nodoso come una cicatrice. Ampi pannelli – le sezioni di scafo che erano appena
state consegnate – stavano salendo lungo la nave e l’impalcatura, guidati da
massicci telecomandi. Alex porse a Holden una cuffia e lui la collegò al terminale
palmare, regolandola sul canale che includeva tutto l’equipaggio.
«Com’è la situazione?» chiese.
«Hanno fatto un lavoretto notevole» rispose Naomi. «Ne sono impressionata.»
«È sempre più facile rompere le cose che non ripararle» ribatté Holden.
«E questo ne è un’altra prova» convenne Naomi, annuendo con il pugno alla
maniera dei cinturiani. «E queste sezioni sostitutive...»
«Ci sono problemi?»
Gli rispose Sandra Ip, e fu un po’ traumatico sentire una voce che non gli era
familiare. «Sono di intreccio di silicato di carbonio. Materiale all’avanguardia, più
leggero e più resistente. Questi arnesi possono deviare un colpo di striscio di un
CPD.» Una nota difensiva nella sua voce avvertì Holden che quella non era la
prima volta che Ip faceva quella conversazione.
«Per ora possono andare» interloquì Naomi. Holden regolò il microfono sul
canale esclusivo della Rocinante, ma continuò ad ascoltare sul canale generale.
«Allora, solo fra noi della famiglia, qual è il problema con i nuovi pannelli?»
«Nessun problema» rispose Naomi. «Sono grandiosi, tutto quello che c’è
scritto sulla confezione. Ma fra cinque anni? O dieci?»
«Non invecchiano bene?» chiese Holden.
«Ecco, il problema è proprio questo» intervenne Alex, in tono strascicato. «Per
ora non c’è materiale di questo tipo che sia vecchio di dieci anni. Dopo la
protomolecola, la scienza dei materiali è schizzata in avanti. Ci sono un sacco di
nuovi giocattoli, i pannelli a intreccio sono soltanto uno di tanti. In teoria,
dovrebbero avere la stessa resistenza di quelli originari, ma in pratica, noi siamo
la cavia. Inoltre, ho fatto una dannata fatica a convincere la Roci che non stavo
installando la massa sbagliata. Questo cambierà il suo modo di comportarsi.»
Holden incrociò le braccia. Sopra di lui, i telecomandi spostarono la nuova
sezione di scafo, adagiandola contro il fianco della Roci. «Siamo certi di volerlo
fare? Possiamo aspettare di avere pannelli normali.»
«Non se vogliamo partire presto per Tycho» ribatté Naomi. «C’è una guerra in
corso.»
«Possiamo rifiutare il contratto» suggerì Holden. «Fred può trovare qualcun
altro che gli dia un passaggio.»
«Non saprei, capitano» obiettò Amos. «Per come stanno le cose, sono
contento che abbiamo un po’ di lavoro. Voglio dire, finché il denaro ha ancora
valore.» Fece una pausa. «Ehi, il denaro ha ancora valore?»
«Lo avrà se vinciamo» rispose Naomi. «In ogni caso, i porti della Marina
Libera non ci avrebbero fornito riparazioni e rifornimento.»
«Giusto» annuì Amos. «Quindi mi piace che abbiamo un lavoro.»
Due mech si spostarono in avanti fino al bordo del nuovo pannello. Le
saldatrici si accesero come piccoli soli, unendo la vecchia tecnologia con la
nuova. In quello c’era qualcosa che non piaceva a Holden, che gli ispirava
diffidenza, ma c’era anche qualcosa di stupefacente. Il materiale stesso di cui
l’intreccio di quei pannelli era fatto non esisteva al tempo della sua nascita, ma
adesso esisteva.
Vaste intelligenze avevano progettato la protomolecola, gli anelli, le strane e
implacabili rovine che coprivano tutti i nuovi mondi. Quelle intelligenze
potevano essersi estinte, ma ora venivano anche incorporate in ciò che l’umanità
conosceva, in quello che poteva fare, nel modo in cui si definiva. Un bambino
nato ora sarebbe cresciuto in un mondo in cui l’intreccio di silicato di carbonio
era comune quanto il titanio o il vetro. Il fatto che si trattasse di una
collaborazione fra l’umanità e i fantasmi di un’enorme intelligenza aliena gli
sarebbe andato bene. Holden era uno dei membri della fortunata generazione a
cavallo del punto di rottura, di quella linea fra il prima e il dopo che adesso
Naomi, Amos e Ip stavano rendendo letterale e tangibile, quindi poteva
permettersi di essere stupito da quanto fosse grandioso. Faceva accapponare la
pelle, ma era grandioso.
«È il futuro» disse. «Tanto vale farci un po’ di pratica.»
Il resto dell’equipaggio temporaneo di Fred Johnson era già a bordo della
Rocinante insieme a Clarissa o stava arrivando dai suoi alloggi sulla Luna, e si
avvertiva nell’aria l’eccitazione per l’azione imminente. Quella era la prima volta
in cui tutti loro – la Terra, Marte e perfino le fazioni meno radicali dell’APE –
avrebbero lavorato insieme per agire direttamente contro la Marina Libera. Il
grosso del lavoro sarebbe stato svolto dalla Terra e da Marte, ma la Rocinante ci
sarebbe stata come osservatore, portando a bordo Fred Johnson, un
rappresentante – per quanto imperfetto – della Fascia. Erano pronti.
Solo che in un certo senso Holden non lo era.
Adesso che i suoi genitori avevano risalito il pozzo gravitazionale, lasciando la
Terra, l’impulso di rimanere loro vicino lo sorprese. Aveva trascorso la maggior
parte della sua vita adulta lontano dal pianeta, e a chiunque glielo avesse chiesto
avrebbe risposto di non sentire la mancanza della Terra, solo di alcune persone,
e forse di qualche posto della sua infanzia, ma che non aveva senso provare
nostalgia per il pianeta in sé stesso. Era solo adesso, dopo che era stato
attaccato, che voleva proteggerlo. Forse era sempre stato così. Si era lasciato alle
spalle la casa della sua infanzia, ma in un angolo della sua mente era rimasto il
presupposto, mai esaminato, che essa ci sarebbe stata ancora. Diversa, magari,
un po’ più vecchia, ma ci sarebbe stata. Solo che adesso non c’era più. Voler
rimanere equivaleva a voler tornare un po’ indietro nel tempo, a quando tutto
non era successo.
Fred Johnson mandò un messaggio. Lui e i tecnici addetti agli armamenti, Sun-
yi Steinberg e Gor Droga, stavano finendo l’ultima riunione. Non appena le
nuove parti dello scafo fossero state saldate al loro posto e i test di pressione
ultimati, sarebbero potuti partire. Se Holden aveva ancora qualche faccenda da
sbrigare sulla Luna, era il momento di occuparsene.
E lui aveva qualche faccenda ancora da sbrigare sulla Luna.
Le saldatrici tornarono ad accendersi, si spensero, si riaccesero. La Rocinante
veniva rimodellata, come lo era stata ripetutamente nel corso degli anni. Piccoli
cambiamenti che si sommavano nel tempo, mentre la nave passava da ciò che
era stata a quello che sarebbe diventata, proprio come tutte le persone che
trasportava.
«Stai bene?» chiese Bobbie.
«Cosa?» fece Holden.
«Stavi sospirando» gli fece notare lei.
«A volte lo fa» interloquì Alex.
«Davvero?» domandò Holden, rendendosi conto nel parlare che Bobbie era
ancora collegata al canale riservato al solo equipaggio della Rocinante. Fu
contento che fosse così. «Non lo sapevo.»
«Non te ne preoccupare» commentò Naomi. «È una cosa carina.»
«Quando pensate di finire, Naomi?» chiese Holden. «Fred sta arrivando.»
«Già» replicò lei, e Holden si disse che probabilmente stava solo immaginando
il timore nella sua voce. «D’accordo.»
Il carrello che li trasportava verso l’area profughi scorreva su rotaie
elettromagnetiche che mantenevano le ruote aderenti al terreno. Il rumore, una
via di mezzo fra un borbottio e un tintinnio, era abbastanza forte da dare a
Holden la sensazione di dover alzare un po’ la voce per poter essere sentito.
«Se è ancora sul libro paga delle Nazioni Unite o di Marte, questo cambierebbe
le cose» disse. «Se vogliamo offrirle un posto permanente a bordo, credo che
dobbiamo stare attenti a come lo facciamo.»
«È in gamba» replicò Naomi. «In realtà si è addestrata proprio per prestare
servizio su una nave come la Roci, il che è più di quanto possa dire chiunque di
noi. Va d’accordo con l’equipaggio. Perché non dovresti volere Bobbie a
bordo?»
Nei corridoi più in profondità l’aria era umida e stantia. I sistemi di controllo
ambientale lavoravano al massimo della loro capacità, e anche al di là di esso.
Alcune persone si spostavano dal tragitto del carrello, e alcune li fissavano
mentre passavano oltre, mentre altre davano l’impressione di non guardare nulla.
L’area profughi puzzava di perdita e di mancanza. Quasi ogni persona che
oltrepassavano era una vita che era stata recisa dalle sue radici. Holden e Naomi
erano quelli fortunati, avevano ancora la loro casa, anche se era cambiata.
«Non si tratta di Bobbie» rispose Holden. «È ovvio che la voglio a bordo. Ma
le condizioni... la paghiamo? Ridistribuiamo le quote di proprietà della Roci in
modo da darle una parte uguale alla nostra? Non sono certo che sia una buona
idea.»
Naomi lo guardò inarcando un sopracciglio. «Perché no?»
«Perché qualsiasi cosa facciamo con Bobbie costituirà un precedente per
quello che faremo con qualsiasi altro membro dell’equipaggio che
aggiungeremo.»
«Ti riferisci a Clarissa.»
«Non voglio dare a Clarissa Mao una quota di proprietà della Roci» dichiarò
Holden. «È solo che... lei è qui e va bene. Continua a non andarmi a genio ma
posso venire a patti con la cosa. Voglio inserire completamente Bobbie
nell’equipaggio, ma semplicemente... non posso. Non posso acconsentire a che
Clarissa finisca per definire la mia nave come la sua casa. C’è una differenza fra il
permetterle di essere a bordo e il fingere che sia come Bobbie. O come te. O
me.»
«Niente perdono?» domandò Naomi, fra il serio e il faceto.
«Parecchio perdono. Carrettate di perdono. Ma anche alcuni limiti.»
Il carrello sobbalzò sulla sinistra, rallentò. Il suono tintinnante si fece più
basso, fino a cessare. Papà Anton li aspettava sulla porta, sorridente, e li salutò
con un cenno mentre scendevano e si avvicinavano con quell’andatura
saltellante e strascicata propria della Luna. Gli alloggi assegnati ai genitori di
Holden erano migliori della media. L’appartamento era angusto e troppo
piccolo, ma era privato, le sue madri e i suoi padri non dovevano condividerlo
con qualcuno che non apparteneva alla famiglia. Nell’aria si sentiva il profumo
del curry giallo di Mamma Tamara. Papà Tom e Papà Cesar erano in piedi sulla
soglia di una delle camere da letto, ciascuno con un braccio intorno alla vita
dell’altro, mentre Papà Dmitri era appoggiato al bracciolo di un vecchio divano,
e Mamma Elise e Mamma Tamara stavano uscendo dalla piccola cucina. Papà
Joseph e Mamma Sophie sedevano sul divano, con una piccola scacchiera
magnetica in mezzo a loro, i pezzi sparpagliati su di essa dalla partita in corso.
Sorridevano tutti, Holden incluso, e nessuno ne aveva davvero voglia.
Era un altro addio. Quando era partito per il suo malaugurato periodo di
ferma nella marina, c’era stato un momento come quello, un commiato che
significava qualcosa di cui non potevano essere sicuri. Forse sarebbe tornato
entro poche settimane, o forse mai. Forse loro sarebbero stati lì sulla Luna, o
sarebbero stati trasferiti su L-4. O sarebbe potuto succedere qualcos’altro. Senza
la fattoria e decenni di inerzia sociale a tenerli insieme, forse si sarebbero
separati. Holden si sentì sommergere da un’improvvisa, oceanica tristezza e
dovette lottare per non darlo a vedere, proteggendo ancora una volta i genitori
dalla sua angoscia, proprio come loro stavano facendo con lui.
Si abbracciarono, prima a uno a uno, poi in gruppo. Mamma Elise trattenne la
mano di Naomi nella sua, chiedendole di prendersi cura del suo bambino, e lei
promise solennemente di fare tutto il possibile. Se quella poteva essere l’ultima
volta in cui lui e i suoi genitori sarebbero stati tutti insieme, Holden fu grato del
fatto che Naomi ne fosse parte, almeno finché non fu il turno di Papà Cesar di
accomiatarsi.
La sua pelle era rugosa come quella di una tartaruga, scura come la terra
rivoltata di fresco, e aveva le lacrime agli occhi nel prendere la mano di Holden.
«Sei stato in gamba, ragazzo. Ci hai resi tutti orgogliosi di te.»
«Grazie» rispose Holden.
«Farai passare l’inferno a quei fottuti smilzi, vero?»
Oltre la sua spalla sinistra, Naomi si irrigidì e il suo sorriso, che era stato
morbido, caldo e divertito, divenne di circostanza. Holden si sentì come se gli
avessero sferrato un pugno nello stomaco, ma Cesar non parve rendersi conto di
aver detto qualcosa di scortese. Holden si trovò intrappolato fra il chiedere a suo
padre di scusarsi e il preservare intatto quell’ultimo momento. Nel parlare con
Mamma Tamara, Naomi prese a giocare coni capelli, tirandoseli sopra gli occhi.
Merda.
«Sai,» cominciò Holden «questo è...»
«Questo è quello che farà» intervenne Naomi. «Potete contare su Jim.»
Lo sguardo di lei era fisso nel suo, scuro e duro. Non rendere le cose più
imbarazzanti di quanto già non siano, era il messaggio che scintillava in essi,
nitido come se lei lo avesse scritto a chiare lettere. Holden sorrise, abbracciò
Papà Cesar un’ultima volta e accennò ad avviarsi verso la porta, il carrello e la
Rocinante. Tutti e otto i suoi genitori si accalcarono fuori della porta per
guardarlo allontanarsi, e lui continuò a sentire la loro presenza sulla soglia anche
dopo che il carrello svoltò l’angolo e si avviò su per la rampa che portava ai
moli. Accanto a lui, Naomi sedeva silenziosa. Holden sospirò.
«D’accordo» disse. «Adesso capisco perché non volevi farlo. Mi dispiace
davvero che...»
«No» lo interruppe Naomi. «Non ne parliamo.»
«Credo di doverti delle scuse.»
Lei si girò per guardarlo negli occhi. «Tuo padre, uno dei tuoi padri, mi deve
delle scuse, ma ho intenzione di far passare la cosa sotto silenzio.»
«D’accordo.» Il carrello sobbalzò sulla destra e un uomo dalla folta barba si
spostò dalla loro traiettoria. «Stavo per prendere le tue parti.»
«Lo so.»
«È solo che... stavo per farlo.»
«Lo so, e allora io sarei diventata il motivo per cui tutto si era fatto strano, e
tutti avrebbero fatto l’impossibile per spiegarmi che rispettavano i cinturiani e
che lui non si era riferito a me. Tu sei il figlio, ti amano, e si amano gli uni gli
altri, quindi indipendentemente da qualsiasi cosa fosse stata detta, sarebbe stata
tutta colpa mia.»
«Sì,» annuì Holden «ma allora io non mi sarei sentito male per l’accaduto, ed è
come mi sento.»
«Una croce che dovrai portare, tesoro» ribatté Naomi, che pareva stanca.
Al molo, l’equipaggio di Fred Johnson stava caricando le ultime scorte
attraverso il portello della baia di carico. I nuovi pannelli di silicato di carbonio
spiccavano come cicatrici sulla fiancata della Roci. Dopo averli scaricati, il
carrello si allontanò borbottando e tintinnando, e Holden si prese un momento
per guardare la nave. Il suo cuore era una cosa complicata.
«Sì?» chiese Naomi.
«Niente» replicò Holden. Dopo un momento, aggiunse: «C’è stato un tempo in
cui pensavo che le cose fossero semplici, o che almeno alcune di esse lo
fossero.»
«Non si riferiva a me. No, dico davvero, perché per lui io sono una persona,
mentre gli smilzi e i cinturiani... loro non sono persone. Avevo alcuni amici sulla
Pella. Veri amici, persone con cui sono cresciuta e di cui mi importava. Persone
che amavo. Loro non sono diversi. Non hanno ucciso delle persone, hanno ucciso
terrestri, marziani. Polverosi. Nanerottoli.»
«Nanerottoli?»
«Sì.»
«Questa non l’avevo ancora sentita.»
Naomi mise la mano nella sua e spostò il proprio corpo contro il suo fino ad
appoggiargli il mento sulla testa. «È considerato offensivo.»
Holden si appoggiò contro di lei quanto più glielo permetteva la scarsa forza di
gravità, avvertendo il calore del corpo di lei contro il suo, il ritmo del suo
respiro.
«Noi non siamo persone» disse. «Siamo le storie che le persone si raccontano a
vicenda riguardo a noi. I cinturiani sono pazzi terroristi. I terrestri sono avidi e
pigri. I marziani sono gli ingranaggi di una grande macchina.»
«Gli uomini sono guerrieri» aggiunse Naomi, poi la voce le si incupì mentre
continuava: «Le donne sono dolci e materne, e restano a casa con i bambini. È
sempre stato così. Noi reagiamo alle storie sulle persone, non a chi esse sono
davvero.»
«E guarda a cosa ci ha portati il farlo» concluse Holden.
13
Prax

La cosa che più lo aveva sorpreso quando tutto era cambiato era quanto poco
tutto fosse mutato, almeno all’inizio. Fra le ultime fasi della ricostruzione e la
marea crescente dei progetti di ricerca, a volte Prax andava avanti per giorni o
settimane senza guardare i notiziari. Tutto quello che c’era di interessante nella
più vasta sfera dell’umanità gli arrivava all’orecchio tramite le conversazioni degli
altri. Quando aveva sentito che il consiglio di governo avrebbe formulato una
dichiarazione di neutralità, aveva pensato che riguardasse il sequestro e lo
scambio di gas. Non aveva neppure saputo che era in corso una guerra finché
Karvonides non glielo aveva detto.
Ganimede sapeva già troppo riguardo all’essere un campo di battaglia. Il
collasso era troppo recente nella loro memoria collettiva, le cicatrici erano
ancora fresche e dolorose. C’erano ancora corridoi inondati dal ghiaccio che non
erano stati liberati dopo l’ultima esplosione di violenza, prima del portale
dell’anello, prima dell’apertura a milletrecento mondi. Nessuno voleva che
questo succedesse di nuovo, e così Ganimede dichiarava che non gli importava
chi gestisse le cose, a patto che si potesse continuare con la ricerca, prendersi
cura delle persone negli ospedali e andare avanti con la loro vita. Era un
massiccio ‘siamo occupati, risolvetevela voi’ rivolto all’universo in generale.
E poi... il nulla. Nessuno aveva rivendicato il dominio su di loro o li aveva
minacciati. Nessuno aveva scagliato loro delle bombe nucleari, o se lo avevano
fatto esse non avevano centrato il bersaglio e la cosa non era neppure arrivata ai
notiziari. Così tanta parte del cibo di Ganimede era prodotto localmente che
nessuno si preoccupava di poter patire la fame. Prax aveva avuto qualche
preoccupazione riguardo ai fondi per la ricerca, ma dopo le prime volte che
aveva sollevato il problema e se lo era visto accantonare, aveva smesso di
provare a parlarne. I carrelli del cibo della stazione servivano lo stesso miscuglio
di granturco fritto e lo stesso tè amaro. Le riunioni di gestione dei progetti
continuavano ad avere luogo ogni lunedì, prima di pranzo. Le generazioni di
piante, funghi, lieviti e batteri vivevano e morivano e venivano analizzate
proprio come sarebbe successo se nessuno avesse mutilato la Terra. O l’avesse
uccisa.
Quando i cinturiani nella divisa della Marina Libera avevano cominciato ad
apparire agli angoli delle strade, nessuno aveva detto niente. Quando le navi
della Marina Libera avevano iniziato a esigere rifornimenti, i loro buoni erano
stati aggiunti all’elenco di valute approvate e i loro contratti erano stati compilati.
Quando i lealisti che riempivano le bacheche e i feed con dichiarazioni a
supporto della Terra e richieste che il consiglio di governo prendesse una
posizione avevano smesso di farsi sentire, nessuno ne aveva parlato. Tutti lo
capivano implicitamente. A Ganimede era permesso di rimanere neutrale
fintanto che la Marina Libera avesse potuto imporlo. Marco Inaros – di cui Prax
non aveva mai sentito parlare prima che quelle rocce cadessero sulla Terra –
poteva non controllare la base, ma era ampiamente disposto a sfoltire le file di
quanti lo facevano fino a modellare l’organigramma nella forma che più gli
piaceva. Pagate un tributo alla Marina Libera e governatevi da soli. Ribellatevi e
sarete uccisi.
Quindi non era cambiato molto, e al tempo stesso tutto era mutato. La
tensione era presente ogni giorno, in ogni interazione, per quanto banale, e
affiorava nei momenti più strani, come nell’esaminare i dati dei rapporti sui test.
«Al diavolo i test sugli animali» disse Karvonides, il volto teso e iroso. «Lasciali
perdere. Questo è pronto per entrare in produzione.»
Khana incrociò le braccia e la fissò con espressione accigliata. Confuso, Prax
aveva solo i dati a cui rivolgersi, quindi lo fece. Il ceppo 18, sequenza 10, del
lievito mietitore se la stava cavando molto bene. I numeri di produzione – sia
quelli degli zuccheri che delle proteine – erano leggermente al di sopra delle
aspettative. I lipidi erano entro i margini di errore. Era stata una buona coltura,
ma...
Il suo ufficio era spartano e piccolo, la stessa stanza che aveva preso quando
aveva riportato Mei a casa dalla Luna. Il primo ufficio del suo incarico in seno al
Comitato di Ricostruzione. Gli altri membri del comitato erano passati ad
ambienti più grandi, con rivestimenti di bambù e luci a spettro potenziato, ma a
Prax piaceva essere dov’era. Ciò che era familiare gli aveva sempre offerto un
grande conforto. Se Khana e Karvonides avessero lavorato in una qualsiasi altra
sezione, ci sarebbe stato un divano, o almeno qualche sedia morbida su cui
potessero sedersi. Invece, gli sgabelli da laboratorio nell’ufficio di Prax erano gli
stessi che si era procurato il giorno in cui era tornato.
«Io...» cominciò, poi tossì e abbassò lo sguardo. «Io non vedo perché
dovremmo infrangere il protocollo. Mi sembra... mmh...»
«Del tutto irresponsabile?» chiese Khana. «Credo che la frase giusta sia ‘del
tutto irresponsabile’.»
«Quello che è irresponsabile è perdere tempo» ribatté Karvonides. «Due
aggiunte al genoma, cinquanta generazioni di crescita... quindi meno di tre
giorni... e avremo una specie che può battere il cloroplasto nella creazione di
zuccheri dalla luce e si estende quasi fino ai raggi gamma. Più le proteine e i
micronutrienti. Usiamo questo per la schermatura del reattore e potremo
spegnere il riciclatore.»
«Questa è un’iperbole» dichiarò Khana. «E si tratta di tecnologia della
protomolecola. Se pensi...»
«Non lo è! Nell’HY1810 non c’è letteralmente niente che provenga da un
campione alieno. Abbiamo guardato la protomolecola, ci siamo detti ‘Questo
non lo può fare, possiamo riuscirci noi?’, e abbiamo studiato come fare qualcosa
di nostro. Proteine native. DNA nativo. Catalizzatori nativi. Niente che possa
esser fatto risalire a Phoebe o all’anello o che provenga da Ilus o da Rho o da
Nuova Londra ha mai toccato questo lievito.»
«Questo... mmh... questo però non significa che sia sicuro» obiettò Prax. «Il
protocollo dei test su animali...»
«Sicuro?» ripeté Karvonides, spostando l’attenzione su di lui. «In questo
momento su tutta la Terra ci sono persone che muoiono di fame. Quanto sono
al sicuro, loro?»
Oh, pensò Prax, questa non è rabbia, è dolore. Lui capiva il dolore.
Khana si protese in avanti con i pugni serrati, ma prima che potesse parlare
Prax sollevò la mano. Dopotutto, era lui a comandare, e non faceva male
esercitare effettivamente quel potere, di tanto in tanto.
«Continueremo con il protocollo dei test su animali» dichiarò. «È una scienza
migliore.»
«Potremmo salvare delle vite» insistette Karvonides. Adesso la sua voce era più
sommessa. «Basta un messaggio. Ho un’amica nel complesso di Guandong che
sarebbe in grado di duplicare l’HY1810.»
«Non intendo continuare questa conversazione» disse Khana, e si sbatté la
porta alle spalle con tanta forza che la maniglia non scattò e la porta tornò ad
aprirsi da sola, come se qualcuno di invisibile stesse venendo a prendere il suo
posto.
Karvonides rimase seduta con le mani sulla scrivania di Prax. «Dottor Meng,
prima di dire di no voglio che venga con me. Stasera c’è una riunione, solo
poche persone. Ci ascolti. Poi se davvero non ci vorrà aiutare, giuro che non
solleverò più l’argomento.»
I suoi occhi erano tanto scuri che era difficile distinguere l’iride dalla pupilla.
Prax esaminò di nuovo i dati. A modo suo, probabilmente lei aveva ragione.
L’HY1810 non era il primo lievito che fosse stato modificato con il radioplasto, e
l’HY1808 e la maggior parte dell’HY17 erano ormai da mesi in fase di
sperimentazione su animali senza che ci fossero effetti negativi statisticamente
rilevanti. Adesso che la situazione sulla Terra era tanto grave, il rischio che
l’HY1810 avesse effetti negativi era quasi certamente inferiore al pericolo della
morte per fame. Si sentiva lo stomaco stretto per l’ansia. Voleva andarsene.
«È brevettato» sottolineò, sentendo il tono lamentoso nella propria voce,
mentre lo diceva. «Anche se eticamente potessimo diffonderlo, le conseguenze
legali, non solo per noi, ma per i laboratori in generale, sarebbero...»
«Venga a sentire» ripeté Karvonides. «Non dovrà dire niente, non dovrà
neppure parlare.»
Prax grugnì, un piccolo suono sbuffante concentrato dietro il naso, come
quello di un ratto infuriato.
«Ho una figlia» disse.
Il silenzio fra di loro si protrasse per lo spazio di un respiro. Poi di un altro.
Infine: «Certamente, signore. Capisco.»
Karvonides si alzò facendo strisciare lo sgabello sul pavimento. Suonava come
una scusa dozzinale. Prax sentì il bisogno di dire qualcosa che gli si agitava nel
petto, ma non sapeva cosa, e prima che lo appurasse lei se n’era andata. Chiuse
la porta con maggior gentilezza di Khana, ma in modo più definitivo. Prax
rimase lì seduto, grattandosi un braccio anche se non gli prudeva, poi chiuse il
rapporto.
Il resto della giornata fu occupato dal suo lavoro nei laboratori idroponici. Il
suo nuovo progetto era una felce modificata per purificare l’acqua e l’aria. Le
piante erano disposte in lunghe file, con le fronde che oscillavano sotto la brezza
costante e ben regolata. Le foglie, tanto verdi da apparire quasi nere, avevano un
odore familiare e accogliente. I sensori avevano continuato a raccogliere dati fin
dal giorno precedente, e l’esaminarli fu per lui come sedere in compagnia di un
vecchio amico. Le piante erano tanto più facili da gestire rispetto alle persone.
Quando ebbe finito passò di nuovo dal suo ufficio, rispose a una mezza
dozzina di messaggi e riesaminò le riunioni fissate per la mattina successiva.
Erano tutte cose di routine, le stesse che faceva prima che le rocce colpissero la
Terra. Era un rituale.
Quel giorno però prese la misura aggiuntiva di aggiungere un blocco
amministrativo ai dati sull’HY1810. Cercò di non pensare troppo al perché lo
aveva fatto. In un angolo della sua mente si agitava qualcosa di vago riguardo al
poter dimostrare di aver fatto tutto il possibile. Non sapeva bene davanti a chi
immaginasse di doversi difendere, ma la verità era che non voleva pensarci
davvero.
Si sentì nervoso nel raggiungere a piedi la stazione della metropolitana. Le
pareti di piastrelle chiare, il soffitto ad arco sopra la piattaforma, tutto era
proprio com’era stato dalla ricostruzione, e appariva minaccioso solo a causa
delle cose che aveva in mente. Mentre aspettava il suo treno, comprò un
cartoccio di carta incerata pieno di caglio di soia fritto con olio d’oliva e sale. Il
venditore era un terrestre, e Prax notò come tenesse i capelli e la barba lunghi,
facendoli crescere verso l’esterno dal cranio per imitare la testa leggermente più
grande dei veri cinturiani. La sua pelle era scura, quindi i tatuaggi dell’APE che
aveva sulle mani e sul collo non spiccavano quando avrebbero dovuto. Una
colorazione criptica, pensò mentre un campanello annunciava l’arrivo del suo
treno. Probabilmente è una buona idea. Era interessante vedere come l’umanità
adottasse le stesse strategie che si vedevano ovunque in natura. Dopotutto,
erano parte della natura stessa. La tattica della mimetizzazione.
Quando arrivò a casa, Mei era già là. Il suo chiacchiericcio che si mescolava ai
toni leggermente più acuti della voce di Natalia, sovrastandoli, proveniva come
una musica dalla stanza dei giochi. Prax chiuse a chiave la porta alle proprie
spalle e andò in cucina, dove Djuna stava preparando un’insalata per cena e
leggeva qualcosa sul terminale palmare nello stesso tempo. Lei sospese entrambe
le attività per rivolgergli un sorriso di saluto, e Prax le baciò una spalla prima di
prendere una birra dal piccolo frigorifero.
«Non è il mio turno di preparare la cena?» le chiese.
«Hai acconsentito a farlo domani per via della riunione che ho sul tardi...»
cominciò Djuna, poi si interruppe nel vedere la birra che lui aveva in mano. «È
uno di quei giorni?»
«È andato tutto bene» rispose Prax, ma non riuscì a convincere neppure sé
stesso. Una parte di lui pensava che avrebbe dovuto parlarne con Djuna, ma era
una parte egoista. Djuna aveva già i suoi fardelli e il suo lavoro, e comunque non
avrebbe potuto fare niente riguardo a Karvonides o all’HY1810. Se non poteva
risolvere la situazione, era quindi inutile coinvolgerla in quel problema. Inoltre,
se qualcuno glielo avesse chiesto, lei sarebbe stata sincera nel rispondere che non
ne sapeva niente.
Durante la cena parlarono degli aspetti meno pericolosi del lavoro: le piante di
Prax, le biopellicole di Djuna. Mei e Natalia stavano avendo una delle loro
giornate di buona, quando sembravano più amiche che sorellastre, e fecero a
turno a parlare delle cose che erano successe a scuola. David Gutmansdottir era
stato male a causa dei nuovi pasti e aveva dovuto andare in infermeria, e il
compito in classe di matematica era stato ritardato, e tutte e due avevano avuto
lo stesso voto, il che comunque andava bene perché avevano saltato domande
diverse, per cui il signor Seth sapeva che non avevano imbrogliato, e comunque
l’indomani era il Giorno del Vestito Rosso, per cui tutte e due dovevano
accertarsi di scegliere gli abiti giusti prima di andare a letto e...
Prax le ascoltò parlare insieme a briglia sciolta, accatastando soggetti verbi e
complementi oggetto come se stessero correndo in discesa. Natalia aveva la
pelle scura di Djuna, i suoi zigomi alti e il naso largo. Accanto a lei, Mei appariva
pallida e rotonda come le antiche fotografie della Luna. Dopo cena fu il turno di
Mei di riordinare e Prax l’aiutò un poco. La verità era che lei non ne aveva
bisogno, ma gli piaceva la sua compagnia e fra non molto sarebbe stata
abbastanza grande da cominciare a differenziarsi dall’unità familiare. Fu poi l’ora
dei compiti, per tutti, poi del bagno e infine dell’andare a letto. Mei e Natalia
rimasero sveglie a parlare da una camera all’altra finché Djuna non chiuse la
porta di comunicazione. Anche allora le due ragazze continuarono a parlare,
come se dovessero bruciare tutte le energie prima di poter finalmente dormire.
Sdraiato accanto a Djuna, con il braccio che le faceva da cuscino, Prax si
chiese dove fosse Karvonides e se la sua riunione era andata bene. Si domandò
se sperava o meno che fosse così. Forse avrebbe dovuto accettare il suo invito,
anche solo per sapere cosa stava succedendo...
Non si accorse che si stava addormentando finché non fu svegliato dal
campanello della porta. Si sollevò a sedere, disorientato. Djuna lo fissava con
occhi sgranati e spaventati. Il campanello suonò ancora, e il primo pensiero
coerente di Prax fu che avrebbe dovuto andare ad aprire prima che svegliasse le
bambine.
«Non andare» disse Djuna, ma lui stava già attraversando la camera da letto
con passo barcollante. Afferrò la vestaglia, annodandone la cintura mentre
incespicava nella penombra. Il quadrante del sistema indicava che era da poco
passata la mezzanotte. Il campanello trillò ancora, poi ci fu un bussare
sommesso ma profondo, come se si fosse trattato di un grosso pugno che usava
solo una piccola parte della sua forza. Sentì Mei gridare qualcosa, e per lunga
esperienza comprese che era ancora addormentata ma non lo sarebbe rimasta
per molto. I peli gli si rizzarono e la sua pelle d’oca aveva ben poco a che vedere
con la temperatura dell’aria.
«Chi è?» chiese, attraverso il battente chiuso.
«Dottor Praxidike Meng?» replicò la voce soffocata di un uomo.
«Sì» rispose Prax. «Chi è?»
«Sicurezza» replicò la voce. «Per favore, apra la porta.»
Avrebbe voluto chiedere di quale sicurezza si trattasse, se della Stazione di
Ganimede o della Marina Libera, ma ormai era troppo tardi. Se era la sicurezza
della stazione, aprire la porta aveva senso. Se si trattava della Marina Libera, non
aprire non li avrebbe fermati. Le sue azioni successive sarebbero state le stesse in
entrambi i casi.
«Certo» disse, deglutendo a fatica.
I due uomini nel corridoio portavano un’uniforme grigia e blu: era la sicurezza
della stazione. Il sollievo che lo pervase fu la prova di quanta paura avesse avuto.
Di quanta ne avesse sempre, di quei tempi.
«Come posso aiutarvi?» domandò.
L’obitorio aveva l’odore di un laboratorio. Il sentore chimico del sapone di
fenolo aggrediva un po’ le narici e si sentiva il ronzio pulsante dei filtri per l’aria
che lavoravano a pieno ritmo. Insieme alle luci bianche, questo gli ricordava i
suoi anni all’università superiore. Anche allora aveva seguito un corso al
laboratorio di anatomia, ma il cadavere che aveva dissezionato era stato immerso
in liquido conservante. Non era così recente, e le sue condizioni erano migliori.
«L’identificazione è sicura» affermò uno degli agenti della sicurezza. «Le misure
e i marcatori corrispondono, come pure l’ID. Però sa com’è, non ci sono parenti
sulla stazione, e il sindacato ha le sue regole.»
«Davvero?» replicò Prax. Lo aveva chiesto in tutta sincerità, ma quando lo
disse ad alta voce quella parola assunse sfumature che non erano nelle sue
intenzioni. Può un sindacato avere ancora importanza quando non c’è quasi più
neppure un governo? Ci sono ancora delle regole? L’uomo della sicurezza fece
una smorfia.
«È come abbiamo sempre fatto» dichiarò, e Prax colse il tono difensivo della
sua voce. La sfumatura di minaccia, come se lui fosse stato responsabile di tutti i
cambiamenti che stavano subendo.
Karvonides giaceva sul tavolo, coperta da un telo di gomma nera che ne
preservava la modestia. La sua espressione era calma. Le ferite al collo e sul lato
della testa erano brutte e complesse, ma la mancanza di sangue fresco dava
l’illusione che non fossero gravi. Le avevano sparato quattro volte. Si chiese se
gli altri partecipanti all’incontro fossero in altre stanze, su altri tavoli, in attesa di
altri che li identificassero.
«Confermo l’identificazione» disse.
«Grazie» rispose l’altro agente della sicurezza, e gli porse un terminale palmare.
Prax lo prese e premette il palmo sullo schermo. L’apparecchio trillò quando
ebbe finito di registrare, un suono assurdamente allegro in quelle circostanze,
poi Prax restituì il terminale e guardò il volto della donna morta, desideroso di
capire cosa provasse nei suoi confronti. Aveva la sensazione che avrebbe dovuto
piangere, ma non ne sentiva la voglia. Nella sua mente, lei era la prova non di un
crimine, ma di ciò che il mondo era diventato. La sua morte non era l’inizio di
un’indagine, ma la sua conclusione. I dati erano chiari. Cosa succede quando ti
opponi? Vieni abbattuto.
«Possiamo farle qualche domanda sulla defunta, dottor Meng?»
«Certamente.»
«Da quanto tempo la conosceva?»
«Due anni e mezzo.»
«In quale veste?»
«Era una ricercatrice nei miei laboratori. Mmm. Mi dovrò accertare che i suoi
set di dati vengano recuperati... posso annotarmelo? O devo aspettare la fine
dell’interrogatorio?»
«Questo non è un interrogatorio, signore. Proceda pure.»
«Grazie.» Prax tirò fuori il terminale palmare e aggiunse una voce all’elenco
delle cose da fare l’indomani mattina. All’inizio pensò ci fosse qualcosa che non
andava con lo schermo, ma era solo la sua mano che tremava. Rimise in tasca il
terminale. «Grazie» ripeté.
«Ha idea di chi può averle fatto questo? O del perché?»
È stata la Marina Libera a farle questo, pensò Prax. Lo hanno fatto perché
cercava di opporsi a loro, e lei lo stava facendo perché ci sono persone che
soffrono e patiscono la fame e muoiono quando potrebbero non farlo, e lei
aveva il potere di fare la differenza. Lo hanno scoperto e l’hanno uccisa. Come
ucciderebbero me, se rendessi loro le cose difficili.
Guardò gli occhi indagatori dell’uomo della sicurezza. Come ucciderebbero
anche voi, pensò.
«C’è qualcosa che ci può dire al riguardo, signore? Anche un piccolo dettaglio
potrebbe essere d’aiuto.»
«No» rispose Prax. «Non ne ho idea.»
14
Filip

I moli della Stazione di Ceres si stendevano approssimativamente lungo il suo


equatore in un’ampia fascia di titanio, ceramica e acciaio. Il movimento del
pianeta nano rendeva difficile l’attracco, ma una volta che era nella presa delle
morse, una nave aveva il vantaggio di una gravità di 0,3g anche con il reattore
spento. E con il raggio di rotazione tanto grande, la forza di Coriolis avrebbe
dovuto essere trascurabile. La Pella avrebbe dovuto dare la sensazione di essere
in accelerazione moderata, niente di più, eppure qualcosa continuava a
disturbare Filip. La sensazione che ci fosse qualcosa che non andava nella nave,
o in lui.
Due volte era sceso in infermeria, aveva eseguito un controllo diagnostico e
poi cancellato i risultati dopo averli letti. Del resto, non indicavano niente. Forse
era soltanto così abituato a vivere sotto accelerazione che quella sfumatura di
impulso laterale era sufficiente a disturbarlo. O forse era solo il fatto che la nave
era vuota, a parte lui. Una piccola, tormentosa parte della sua mente continuava
a suggerire che la cosa avesse qualcosa a che fare con l’uomo a cui aveva sparato,
ma non aveva senso. Insieme a suo padre, aveva ucciso miliardi di persone.
Sparare a un singolo individuo, che non era neppure morto, per lui non era
nulla. Doveva trattarsi della forza di Coriolis.
Suo padre aveva messo bene in chiaro che il suo universo finiva al portello
stagno. La Pella e tutto ciò che c’era a bordo erano suoi, come sempre, ma la
Stazione di Ceres era peggio del vuoto: giusto o ingiusto che fosse, lui era
bandito a vita dalla stazione, quello era l’accordo a cui Marco era giunto con il
governatore dell’APE, Dawes. Gli altri avrebbero preso parte attiva
all’evacuazione, ma lui avrebbe soltanto potuto guardare, e così si aggirava per i
corridoi, andava su e giù con l’ascensore, dormiva, mangiava, si esercitava e
aspettava mentre appena dall’altro lato del portello tutte le persone che
conosceva meglio spogliavano fino all’osso la Stazione di Ceres. Se avesse
potuto, avrebbe partecipato a quell’operazione. Forse si trattava solo di questo,
forse il fatto di essere stato lasciato a rilassarsi mentre gli altri lavoravano non gli
andava bene. Questa teoria sembrava più probabile della forza di Coriolis. O
dell’uomo a cui aveva sparato.
La verità era che non ricordava molto dell’accaduto. Era stato il giro con una
dozzina circa di uomini della Marina Libera e con alcuni radicali e parassiti locali.
Secondo le vecchie leggi, lui era ancora troppo giovane per entrare nei bar e nei
bordelli, ma era Filip Inaros, e nessuno aveva suggerito che se ne andasse. C’era
stata la musica, e lui aveva ballato con una ragazza del posto, ammirato i suoi
tatuaggi, le aveva offerto da bere. E le aveva anche tenuto testa nel bere, un
bicchiere dopo l’altro. Aveva capito di piacerle. Non importava che la musica
fosse stata troppo alta perché potessero parlare. Lo aveva capito.
Lei però non era stata interessata tanto a lui quanto alla sua storia e al fatto che
fosse il figlio di Marco Inaros. Karal lo aveva avvertito, e anche Marco: alcune
persone si sarebbero sentite attratte da quello che pensavano lui fosse, e doveva
stare attento a ricordare sempre chi era la sua famiglia. Non doveva abboccare
all’amo o lasciarsi sedurre. Adesso era la Marina Libera ad avere il potere, ma su
Ceres c’erano ancora persone fedeli al vecchio sistema.
‘Se non altro, con i nostri nemici conosci la loro posizione’ gli aveva detto suo
padre, quando erano arrivati su Ceres. ‘Non c’è niente di cui devi diffidare più
dei mezzi-cinturiani.’ Marco non lo aveva detto in modo diretto, ma si era
riferito alla madre di Filip e a tutte le persone come lei, cinturiani che si erano
lasciati allontanare dalla Fascia e i condiscendenti terrestri come Fred Johnson
che fingevano di interessarsi a loro. ‘APE moderato’ era un altro modo per dire
‘traditore’, quindi lui ne aveva saputo abbastanza da non fidarsi della ragazza,
neppure mentre bevevano insieme. Aveva bevuto troppo in sua compagnia, e
quando lei se ne era andata senza dirglielo si era sentito iroso e umiliato. Poi era
successo qualcosa che non riusciva a ricostruire, e la polizia di Ceres lo aveva
portato via e aveva chiamato suo padre, e anche questo era stato umiliante.
Non avevano parlato dell’accaduto, non davvero. Marco gli aveva ordinato di
rimanere sulla nave, e lui lo aveva fatto. Forse non ne avrebbero più parlato, o
forse quella conversazione era solo rimandata. Forse il non saperlo era quello
che gli faceva sentire che qualcosa non andava. Non lo sapeva. E detestava il
fatto di non saperlo.
Sedette alla postazione del cannoniere, il cui schermo era collegato al suo
terminale, e prese a passare da un canale a un altro. Un uomo piazzato sotto una
bandiera vecchio stile dell’APE gridava che la Marina Libera era l’ultima e
migliore speranza di libertà per i cinturiani. Un coyo dal volto magro che sedeva
troppo vicino alla sua videocamera parlava in un farsi zoppicante delle
conseguenze della sospensione di scorte biologiche da parte della Terra. Altrove
c’era pornografia spinta in quelli che sembravano un centro per il trattamento
delle acque e l’atrio di un hotel. Su un altro canale trasmettevano una serie di
vecchi film di Sabbu Re, in coppia con Sanjit Sangre, all’epoca in cui lui aveva
ancora l’aspetto di un duro. Rumore. Era tutto soltanto rumore unito a
immagini, e Filip lasciò che gli si riversasse sopra senza notare cosa stava
guardando. Un impressionistico senso di violenza e di vittoria, con lui e suo
padre alla testa di tutto. Eccitazione e ira uniti a tutta la complessità di un
vecchio modo di vivere che si spegneva nell’oscurità.
Quando spense gli altoparlanti la Pella si fece silenziosa, di quel silenzio mai del
tutto totale proprio di una nave. Il reattore era spento, quindi mancavano i bassi
ronzii e le occasionali armonie che costituivano lo sfondo della sua vita normale.
Tuttavia i giunti dei ponti ticchettavano e mormoravano quando le piastre si
riscaldavano o raffreddavano, il riciclatore dell’aria sibilava, sbuffava e tornava a
sibilare. Forse questo era parte di ciò che gli sembrava sbagliato. I rumori di una
nave in movimento erano tanto diversi da quelli di una nave all’attracco che la
sottile musica di sottofondo della sua vita era cambiata, e questo lo rendeva
nervoso. La tensione nel ventre, l’impazienza simile a un prurito nella sua anima
che lo teneva a disagio in qualsiasi posizione fosse, seduto o in piedi, il dolore
alla mascella e lungo le spalle... forse tutto questo era soltanto la naturale
espressione di un uomo abituato a essere in movimento che era costretto alla
passività. Tutto qui. Niente più di questo.
‘Prima di ucciderti, vienimi a cercare’ aveva detto sua madre.
Si alzò, chiuse tutti i canali con un gesto e si diresse con passo spedito verso la
palestra. La cosa buona dell’essere solo era che nessuno stava utilizzando gli
attrezzi. Non si prese il disturbo di riscaldare i muscoli, tirò giù le fasce elastiche,
se le affibbiò e tirò. Assaporò il modo in cui le maniglie gli affondavano nei
palmi, la protesta e lo sforzo dei muscoli, che a ogni piccolo stiramento
ricrescevano più forti. Fra un set e l’altro accese un po’ di musica – un dai-
bhangra rumoroso e aggressivo – solo per fermarsi a spegnerla a metà del set
successivo.
Tutto quello che voleva lo irritava non appena se lo procurava. Si chiese se
avrebbe provato la stessa cosa riguardo a quella ragazza. Se fosse rimasta e
avessero fatto sesso, dopo avrebbe voluto che lei se ne andasse? L’avrebbe
spenta come la musica? Non sapeva cosa ci sarebbe voluto per farlo sentire di
nuovo a posto, ma lasciare la fottuta Ceres non gli avrebbe fatto male di certo.
Le voci gli giunsero per prime, alte, allegre e familiari come la zuppa di pane di
tia Michelle. Karal e Sárta, Ali e Kennet e Josie. L’equipaggio stava tornando a
bordo. Si chiese se suo padre fosse già rientrato, e quale sperava fosse la risposta
a quella domanda.
«Bist bien» disse Ali. «Jeszcze qualche altro secondo.»
Barcollò un poco nell’entrare nella palestra. Aveva i capelli sollevati lungo i lati
della testa, come sempre – suo vero nome era Alex, ma qualcuno aveva
cominciato a chiamarlo Ali a causa di quella pettinatura –, ma in modo un po’
meno curato del solito, i suoi occhi erano rosa per quanto erano iniettati di
sangue e il suo passo era un po’ troppo rilassato e incerto. Portava sotto il
braccio una stropicciata sacca viola.
«Filipito!» esclamò, avanzando con passo pesante. «Stavo bila a ti.»
«E adesso mi hai trovato» rispose Filip. «So geht gut, sì?»
«Sì, sì, sì» disse Ali, senza cogliere il tono tagliente delle sue parole. Si adagiò
sul ponte e guardò con occhi annebbiati Filip che tendeva le fasce tremando per
lo sforzo. «Fatto. Alles complét. Tutti stanno tornando a... al nido. Oppure... no.
Voliamo, sa sa? Voleremo nel grande, grande nulla.»
«Bene» replicò Filip. Effettuò l’ultima trazione del set mantenendo a lungo la
tensione, finché le braccia non gli tremarono, con i muscoli che bruciavano e
venivano meno. Le fasce scattarono all’indietro di qualche centimetro, poi
rallentarono e si ritrassero. Filip serrò i pugni mentre Ali gli porgeva la sacca.
«È tua» disse.
Filip la guardò, poi spostò lo sguardo su Ali che la agitò verso di lui in un
gesto che lo invitava a prenderla. Sembrava plastica, ma al tatto somigliava più a
carta ripiegata. Qualsiasi cosa ci fosse dentro, si spostò, inerte e pesante come un
animale morto.
«Inutile lasciare qualcosa a quei pinché dei pianeti interni» spiegò Ali. «Sono in
corso confische in tutta la stazione: qualsiasi cosa non abbiano fissato al suolo e
la metà di quello che hanno fissato. Solo, dato che tu es lá, ho pensato io a te.
Sì?»
«Un... gilet?» chiese Filip.
«Per te» annuì Ali. «Quella è pelle. Alligát, ed è vera, per di più. Viene dalla
Terra. L’ho presa in un negozio elegante vicino all’alloggio del governatore.
Molto ricco. Solo il meglio per te, sì?»
Filip cedette alla tentazione di annusare il capo di vestiario, avvicinandosi al
naso la pelle squamosa trattata e inspirando. Nella pelle c’era qualcosa di sottile e
di bello... non era un odore dolce o aspro, ma era ricco, basso e profondo. Si
infilò il gilet, assestandoselo sulle spalle umide di sudore, e Ali batté le mani per
la soddisfazione.
«Saa quanto costa esá?» chiese. «Più buoni di quanti tu e io ne vedremmo in
cinque anni. Per quella cosa. Solo per quella. Sarebbe stato qualche pinché di
interno a pavoneggiarsi in giro per la Fascia con quello indosso, giusto per
dimostrare che lui poteva permetterselo e noi no, giusto? Ma adesso siamo la
Marina Libera. Nessuno è migliore di noi. Nessuno.»
Filip sentì un sorriso affiorargli sulle labbra, esitante come una brezza. Si
immaginò entrare adesso in quel bar, indossando il suo gilet di pelle come il più
ricco dei ricchi di un tempo. Ali aveva ragione. Quello era il genere di cosa che
nessun cinturiano si sarebbe mai potuto permettere, un simbolo di tutto ciò con
cui la Terra era stata solita ricordare loro che erano inferiori. Piccoli. Indegni.
Ma chi lo possedeva, adesso?
«Aituma» disse.
«Non c’è di che» rispose Ali, accantonando la sua gratitudine con un gesto.
«L’oggetto per te, la soddisfazione per me. Un buono scambio à alles.»
«Quanto costava a reál?» chiese Filip, in parte per permettere ad Ali di vantarsi
e in parte per potersi vantare lui stesso, più tardi. Ali però si era sdraiato sul
plancito con un braccio sugli occhi.
Scrollò le spalle. «Niente. Tutto. Il negozio è chiuso, e non ci sarà di certo
un’altra spedizione di quei gilet, sì? Esá è l’ultimo gilet di pelle proveniente dalla
Terra. Fine.»
La Marina Libera lasciò Ceres come spore liberate dal corpo di un fungo. I
pennacchi di emanazioni dei reattori si accesero e divamparono, poi tornarono a
spegnersi come immagini che Filip aveva visto delle lucciole terrestri. Sempre
che ci fossero ancora lucciole, sulla Terra.
Anche se ogni nave della Marina Libera portava a bordo un po’ di civili verso
la salvezza, le loro non erano le uniche navi in partenza. Non appena Marco
aveva reso chiare le sue intenzioni, un’ondata di profughi civili si era preparata.
Navi minerarie e scadenti navi da trasporto semillegali si erano riempite tutte
fino alle paratie di persone spinte dal disperato bisogno di lasciare la grande città
della Fascia prima che ricadesse nelle mani della Terra e di Marte. E in mezzo a
tutto questo era apparso il grande pennacchio rotante di acqua e ghiaccio
quando le riserve idriche erano state svuotate e si erano riversate vorticando
fuori della stazione, imitando per un momento i bracci della galassia per poi
fermarsi, assottigliarsi e disperdersi nella vasta oscurità della Fascia. Ghiaccio
perso in mezzo al costante chiarore delle stelle.
Lasciarono i moli in rovina. I reattori furono spenti e sabotati o smantellati. La
griglia di alimentazione e il sistema di tubature furono anch’essi smantellati. Le
griglie difensive furono lasciate con i magazzini aperti e vuoti. Trasmittenti e
sensori furono privati delle parti recuperabili e fusi. I centri medici furono
razziati e svuotati, lasciando solo lo stretto necessario per la cura dei pazienti
ricoverati, perché Marco disse che prendere quelle scorte sarebbe stato crudele.
Dei sei milioni di persone che vivevano su Ceres forse un milione e mezzo
sarebbe riuscito a fuggire prima che arrivasse il nemico. Quanti fossero rimasti si
sarebbero ritrovati dentro un guscio di pietra e titanio a stento capace di
sostentare la vita più di quanto avesse fatto l’asteroide originale.
Se la Terra si fosse fermata lì per ricostruire tutto, ci sarebbero voluti anni per
riportare Ceres a quella che era stata, e questo avrebbe inchiodato i terrestri alla
stazione come insetti su un’asse di legno. Se invece avesse inseguito la Marina
Libera, la Terra si sarebbe trovata a far fuoco su navi che trasportavano
profughi, e se avesse abbandonato la stazione a sé stessa milioni di cinturiani
sarebbero morti sotto la sua responsabilità, spingendo verso il nuovo ordine
chiunque avesse ancora simpatia per il vecchio stato di cose. Qualsiasi cosa la
Terra avesse fatto sarebbe stata una vittoria per la Marina Libera. Non poteva
vincere. Questo era il genio di Marco.
Sulla Pella le cose tornarono in fretta a seguire i vecchi schemi, ma adesso Filip
vedeva le differenze. I vari modi in cui la Stazione di Ceres li aveva cambiati.
Tanto per cominciare, il liquore era migliore. Jamil aveva riempito tutta la sua
cabina di bottiglie in lucide casse di vero legno. Il solo imballaggio sarebbe
costato più denaro di quanto lui ne vedesse in tre anni di lavoro, per non parlare
del whisky che contenevano. Dina era tornata a bordo con una mezza dozzina di
sciarpe decorate a mano che aveva confiscato nella dimora di un terrestre e le
indossava come un uccello orgoglioso del suo piumaggio.
Tutti sfoggiavano gioielli d’oro e diamanti e peridoto, ma la più bella era
l’ambra. Tutte le altre gemme e metalli potevano forse essere estratti nella
Fascia, ma l’ambra aveva bisogno di un albero e di milioni di anni. Era la sola
pietra che parlasse della Terra, e indossarla dimostrava chi erano diventati
meglio di tutti i profumi, le spezie e i gilet di pelle che mai sarebbero esistiti. I
lussi che la Terra e Marte avevano acquisito dissanguando la Fascia
appartenevano ora alla Marina Libera. Erano tornati alla Fascia, com’era giusto.
Sarebbe stato perfetto, tranne che per suo padre.
Nel momento in cui Marco era tornato a bordo insieme a Rosenfeld, Filip si
era ritrovato a evitarli. Dopo i primi giorni vissuti in accelerazione, si era reso
conto che aspettava di essere convocato. Disteso sulla cuccetta, mentre cercava
di dormire, si immaginava sotto lo sguardo di suo padre, mentre gli veniva
richiesto di giustificare quello che aveva fatto su Ceres. Mormorando sotto voce,
in modo che nessuno potesse sentirlo nel passargli accanto, ripassava tutte le
cose che avrebbe detto. Che era stata colpa dell’agente della sicurezza. Che era
stata colpa sua, infuriato com’era per l’umiliazione dovuta alla mancanza di
rispetto da parte di quella ragazza del luogo. Che era stato un incidente. Che era
stata una cosa giustificata. L’immagine di quella ragazza del locale si modificò a
poco a poco nella sua mente fino a diventare qualcosa di simile all’incarnazione
del demonio. In quel suo riesaminare gli eventi in privato, l’agente della
sicurezza divenne un pasticcione e uno stupido, e un probabile simpatizzante dei
pianeti interni.
Quando infine arrivò, il confronto che aveva temuto non fu affatto come se lo
era aspettato. La porta della sua cabina si aprì, a tarda notte, e Marco entrò con
disinvoltura, come se quella fosse stata la sua stanza. Filip si sollevò a sedere,
sbattendo le palpebre nel tentativo di svegliarsi mentre suo padre sedeva ai piedi
del letto. La propulsione esercitava su di lui una gentile pressione, pari a un
quarto di g. Agitò una mano, e il sistema accese la luce.
Marco si protese in avanti con le dita intrecciate. Aveva i capelli raccolti in una
crocchia alta e tirata che gli tendeva la pelle delle tempie, un velo di barba gli
oscurava le guance e gli occhi parevano essersi infossati di qualche millimetro.
Appare pensieroso, pensò Filip. Sapeva che a volte suo padre si ritraeva in sé
stesso, e quello era l’aspetto che assumeva in quei momenti. Sollevò le gambe sul
letto, stringendosi le ginocchia al petto, e attese.
Marco sospirò. Quando parlò, il suo accento era più marcato del solito.
«Le apparenze» disse. «Capisci? Guerra y politica y pace e tutto quello che c’è
in mezzo sono basati solo sulle apparenze.»
«Se lo dici tu.»
«Lasciare Ceres è stata la cosa giusta. Astuta. Una mossa geniale. Lo dicono
tutti. Ma gli interni, quella vecchia cagna sulla Terra e quella nuova su Marte?
Loro la vedranno diversamente. La definiranno una fuga, sì? Una ritirata. Una
vittoria contro la Marina Libera e tutto quello che rappresenta.»
«Non lo sarà.»
«Lo so, ma dovremo farlo vedere. Dare una dimostrazione di potere. Non
posso...» Marco sospirò di nuovo e si appoggiò all’indietro con uno stanco
sorriso. «Non posso dare loro tempo.»
«Non puoi, allora non farlo» disse Filip.
Marco ridacchiò, un suono basso e caldo, e posò la mano sul ginocchio di
Filip. Il suo palmo era ruvido e tiepido. «Ah, Filipito. Mijo. Sei il solo con cui
possa ancora parlare davvero.»
Filip sentì il cuore che gli si gonfiava nel petto, ma non si permise di sorridere
e si limitò ad annuire con l’aria seria di un uomo adulto e di un consigliere
militare. Marco chiuse gli occhi per un momento, appoggiato contro la murata, e
apparve vulnerabile. Era ancora suo padre, ancora il capo della Marina Libera,
ma era anche un uomo stanco che aveva abbassato la guardia. Filip non lo aveva
mai amato così tanto.
«Quindi lo faremo» riprese Marco. «Mostreremo la nostra forza. Lasceremo
che prendano la stazione, e poi dimostreremo loro che non hanno conseguito
nessuna vittoria su di noi. Non è difficile.»
«Non lo è affatto» convenne Filip, mentre Marco si rialzava in piedi e si
avviava alla porta. Era quasi nel corridoio quando Filip parlò ancora: «C’è altro?»
Marco si girò a guardarlo con le sopracciglia sollevate e le labbra contratte. Per
un momento si studiarono a vicenda, mentre Filip sentiva il cuore che gli
martellava: tutte le frasi che si era preparato parevano scomparse sotto lo
sguardo dei morbidi occhi castani del padre.
«No» rispose Marco, e uscì. La porta si richiuse con uno scatto e Filip accasciò
la testa sulle ginocchia. Il suo errore su Ceres era scomparso. Dimenticato. Una
delusione che non avrebbe saputo spiegare contaminava il sollievo che lo
pervadeva, ma era una cosa minima. Aveva quasi ucciso un uomo e andava bene
così. Non ci sarebbero stato conseguenze, era come se fosse stato perdonato.
Qualcuno avrebbe dovuto impedire che accadesse sussurrò sua madre, nella sua
memoria.
Allontanò quel pensiero, spense le luci e attese che arrivasse il sonno.
15
Pa

I pastelli a olio servivano per marcare il plancito durante i lavori di


costruzione, quindi in un certo senso Michio li stava ancora usando per il loro
scopo originario. Quei segni non servivano per un inventario o un’ispezione, e
quello che stava costruendo non era una nave, ma non importava. La parete
della sua cabina recava un lungo segno rettangolare dove di solito teneva una
litografia in cornice, una stampa originale di Tabitha Toeava raffigurante false
strutture coralline. Era parte della sua serie Cento Aspetti di Europa, e se ne stava
nella sua cornice, sopra il sedile a smorzamento, come se la osservasse.
Su un lato della parete, Michio aveva elencato i principali insediamenti dei
pianeti esterni: Ceres, Pallas, Vesta, Giapeto, Ganimede e così via. Alcuni si
trovavano su una luna, altri nei tunnel di asteroidi minerari sfruttati a fondo, e
qualcuno – la Stazione di Tycho, il Complesso Chisazi-Ma, Coldwater, Kelso –
erano stazioni rotanti che fluttuavano libere. Aveva cominciato a scrivere ciò di
cui pensava avessero bisogno: acqua dove non c’era ghiaccio sul posto, elementi
biologici complessi dovunque tranne che su Ganimede, materiali da costruzione,
cibo, medicinali. Quando il testo si era fatto troppo fitto per poterlo leggere, lo
aveva cancellato con il lato del pugno, che era ancora chiazzato di colore.
Nella colonna centrale erano elencate le navi coloniali prese dalla sua flotta: la
Bedyadat Jadida proveniente dalla Luna. La John Galt e la Mark Watney che
venivano da Marte. La Helen R. e la Jacob H. Kanter, sponsorizzate dalla
Congregazione Ner Shalom. La San Pietro, sponsorizzata dalla Corporazione
DeVargas. La Caspian, la Hornblower e la Kingfisher, che operavano sotto bandiera
indipendente. Tutte erano equipaggiate per impiantare insediamenti su pianeti
nuovi e ostili. Alcune trasportavano appena il necessario per un piccolo
insediamento, altre avevano scorte sufficienti per cento persone, per tre anni,
abbastanza da mantenere in piedi la Fascia finché non si fosse resa indipendente
dalla Terra e da Marte. O almeno così sperava.
E sull’altro lato era elencata la sua flotta. La Serrio Mal, capitanata da Susanna
Foyle; la Panshin, agli ordini di Ezio Rodriguez; la Witch of Endor, che aveva come
capitano Carl al-Dujaili, e così via lungo tutta la parete. Accanto a ciascuna era
segnato il suo complemento di truppe d’abbordaggio. Erano tutte sue, e lo
sarebbero state finché non fosse risultato evidente che adesso obbediva soltanto
a sé stessa. Poi... ecco. Ci sarebbe stato un poi.
Strinse il pastello e lo lasciò andare. Lo scatto sommesso che produceva con il
cessare e il riprendere della presa era come il suono di qualcuno che bussasse alla
porta, e con ogni segno che tracciava la paura nel suo cuore si spostava. Non se
ne andava – niente di tanto diretto –, ma invece di sentirsi agitato, nervoso e
ferito, il suo cuore si ripiegava su sé stesso e lasciava che la crosta di una vita di
dolori e di fallimenti si staccasse. Almeno per un po’. Era come la sensazione di
salire su un tapis roulant e trovare il ritmo perfetto, un ritmo che unificava
respiro, corpo e mente, e che fermava il tempo.
Quando aveva cominciato, aveva nutrito una mezza speranza di trovare un
motivo per non poter andare avanti con l’ammutinamento, ma adesso che stava
procedendo quel dubbio era dimenticato. In un qualche momento, durante il
procedimento, era passata dal chiedersi se dovesse farlo al domandarsi come lo
avrebbe fatto. Finché Nadia non parlò, non si accorse neppure della sua
presenza.
«Bertold continua a non permetterti di accedere al sistema?»
Michio sospirò e scosse il capo. «Finché non ci separiamo, vuole che non
figuri niente sui computer. È già pronto ad aggiornare le contromisure locali, ma
sai com’è. Non dobbiamo rivelare niente.»
«Credi che Marco stia monitorando attentamente la nave?»
«No» rispose Michio. Poi: «Non lo so. Forse. Va bene così. A una parte di me
piace lavorare in questo modo. È più... non so. Tattile?»
«Questo lo vedo» commentò Nadia. «Ci stiamo avvicinando.»
«Non voglio più di un secondo luce di ritardo» replicò Michio. «Questa è una
cosa che non posso fare scambiando messaggi. Devo poter parlare.»
«Ci stiamo avvicinando» ripeté Nadia, la voce più bassa di mezza tonalità.
Comprendeva.
Michio strinse il pastello, allentò la presa. «Quanto manca?»
«Entro stanotte» rispose Nadia. Si fece più vicina, studiando la parete e tutto
ciò che vi era scritto. Era di mezza testa più bassa di Michio, e la prima
spruzzata di capelli grigi le chiazzava le tempie. Sospirò fra sé e annuì.
«Stai controllando il mio lavoro?» domandò Michio, con una lieve nota
provocatoria nella voce.
«Sì» annuì Nadia, seria. «Già prima questa era una situazione complicata, e
stiamo per renderla molto più complicata. In momenti come questi, si
controllano i sigilli anche se li si è già controllati.»
Michio sedette sul sedile a smorzamento e lasciò che sua moglie esaminasse
tutto l’elenco delle navi e delle stazioni. Nadia si piantò i pugni sui fianchi ed
emise qualche piccolo verso, che a Michio parve di approvazione. Sarebbe stato
più facile se avesse potuto ricorrere al sistema di bordo per pianificare ogni cosa,
posizionando ogni nave e il suo vettore su una singola interfaccia. Anche con la
parete ridotta a una massa di accurate annotazioni, c’erano altri elenchi, più
lunghi, di informazioni di importanza critica. La nave da guerra sotto il diretto
controllo di Marco. Il contingente di guardie scelte che Rosenfeld teneva di
riserva. Le migliaia di contenitori di provviste provenienti da Pallas, Vesta e
Callisto che erano già stati sparpagliati e affidati alle cure del vuoto. Michi
stiracchiò la schiena, contrastando il terzo di g prodotto dalla frenata in corso, e
sentì un dolore fra le costole.
«Quando ruberemo tutto?» domandò Nadia.
«Quando parlerò con Carmondy» rispose Michio. «Se lo facessimo prima, Lui
potrebbe notarlo, e se lo facessimo dopo potrebbe essere preavvisato.»
«Ah, Carmondy» sospirò Nadia. «Mi preoccupa.»
«Preoccupa anche me» ammise Michio. Nadia volse le spalle alla parete per
osservarla, senza smettere di dare l’impressione di essere alla ricerca di eventuali
errori.
«Cosa ti preoccupa?» domandò.
Michio accennò alla parete. «Tutto questo. Fare quello che sto per fare.»
«Non credi sia giusto?»
«Non so se abbia importanza. Voglio dire, Marco fa quello che pensa sia
giusto. E anche Dawes. E la Terra. Tutti quanti fanno quello che pensano essere
giusto e si dicono di essere persone morali, con la forza per fare quello che è
necessario, per quanto al momento appaia loro terribile. Dietro ogni atrocità
commessa contro di noi c’era qualcuno che pensava che le sue azioni fossero
giustificate. E adesso eccomi qui, una persona morale con la forza per fare
questo. Perché è giustificato.»
«Ah» commentò Nadia. «Non credi che Carmondy si unirà a noi.»
«No. E a quel punto dovrò trattarlo in modo esemplare, in modo che gli altri
mi prendano sul serio.»
«Una regina pirata che lascia in pace i superstiti non vale granché» osservò
Nadia, poi aggiunse: «Ti sbagli su una cosa, però. Non tutte le cose malvagie
sono fatte da persone giuste. Alcune persone le fanno per puro piacere. Però
non è questo ciò che mi disturba.»
Michio sollevò le mani in un gesto interrogativo.
«Si tratta del lavorare con Carmondy» spiegò Nadia. «Non so di cosa si tratti,
ma quell’uomo mi irrita.»
Entrambi i loro terminali trillarono per una richiesta di comunicazione da
parte di Laura sul canale riservato alla famiglia. Nadia segnalò con un cenno a
Michio di accettare la comunicazione e le sedette accanto, in modo che
potessero vedere entrambe lo schermo. Laura era sul ponte di comando, con il
chiarore dello schermo di controllo che le illuminava le guance e le danzava negli
occhi. Su un lato apparvero le icone di tutti gli altri, tranne Nadia.
«Cosa c’è?» chiese Nadia.
«È appena arrivato un feed di notizie» rispose Laura. «Gli interni hanno preso
Ceres e stanno facendo un annuncio.»
Rimasero in silenzio per un momento. Sapere già che sarebbe successo
attenuava il colpo, ma Michio lo sentì comunque come un pugno nel ventre.
«Trasmetti il notiziario» disse.
Laura annuì, si spostò in avanti verso i comandi e la sua immagine scomparve.
Al suo posto apparvero le immagini del notiziario. Le navi della Terra e di Marte
attraccate ai moli di Ceres. Vederle là era disorientante, una sovrapposizione di
due cose che non avrebbero dovuto stare insieme. Anche se sapeva che sarebbe
successo, continuava a sembrarle sbagliato.
«...una stima di quattro milioni e mezzo di persone, con riserve sufficienti a
sostentare la stazione per un massimo di due settimane. Attualmente la flotta
congiunta sta sviluppando strategie di soccorso che includono un razionamento
di emergenza e una richiesta di cibo e acqua ad altre stazioni della Fascia e del
sistema di Giove.»
L’immagine tremolò e si interruppe, un montaggio scadente fatto da un
dilettante. Poi la sua faccia riempì lo schermo. Il fottuto Fred Johnson. Michio
sentì lo stomaco che le si contraeva. Quindi era questo il loro gioco: mandare il
terrestre a parlare per la Fascia. Di nuovo. Il suo sguardo era morbido, profondo
e dolente, i capelli erano tagliati corti e bianchi, un velo di barba spiccava sulle
guance scure. Il testo alla base dello schermo recava scritto: ‘Fred Johnson –
portavoce dell’APE della Tycho Manufacturing.’
Non colonnello Fred Johnson. Non il Macellaio della Stazione di Anderson.
Opportunista. Faccia della Fascia quando era la Terra a gestire la videocamera.
«Michi?»
«Sto bene.»
«La cultura dei pianeti esterni è sempre stata di mutuo supporto» cominciò
Johnson. «Le condizioni sulle navi e sulle stazioni hanno sempre messo alla
prova la competenza e l’ingegnosità umane. Nei molti, molti anni in cui ho
lavorato con l’Alleanza dei Pianeti Esterni, non ho mai visto tradire quest’etica
più di così.»
«Hai ragione» disse Michio. «Non sto bene. Spegnilo.»
Nadia toccò lo schermo e il notiziario scomparve. Michio rimase immobile per
un lungo momento. Non ricordava di aver schiacciato il pastello, ma adesso era
una polpa appiccicosa nella sua mano. Prese un asciugamano dall’armadietto e
cercò di pulirsi le dita. Il sedile a smorzamento si mosse sotto di lei quando
Nadia si sedette, girandosi verso di lei quando ebbe infine ritrovato il controllo.
L’intimità di anni di vita in comune le permise di scorgere una mezza dozzina di
cose nell’espressione di Nadia.
«Lui non è il nostro naturale alleato» disse Michio. «Quella storia del nemico
del mio nemico è mio amico è una stronzata. Ci sono sempre più di due parti.
Fingere che ci sia solo l’una o l’altra è quello che ha permesso a quel figlio di
puttana di avere per tanto tempo così tanto peso all’interno dell’APE.»
«Ne ha ancora» osservò Nadia. «Alcune persone gli daranno ascolto. Ha delle
navi.»
«Procurerò anche a noi delle navi. Non abbiamo bisogno della sua
protezione.»
«Se lo dici tu» commentò Nadia, e con gentilezza aggiunse: «Forse lui ha
bisogno della nostra.»
«È un ragazzo cresciuto. Può badare a sé stesso.»
«Quattro milioni e mezzo di persone sono un sacco di gente, però.»
«La Terra voleva la stazione. Adesso ce l’ha. Buon per loro» ribatté Michio, ma
la sua voce suonò meno sicura ai suoi stessi orecchi. «Possono prendersene
cura.»
«Avranno bisogno di cibo. Di acqua.»
Michio indicò la lista che aveva scribacchiato sulla parete. Aveva le dita scurite
dal pastello. «Anche ogni altra base su quella lista avrà bisogno di cibo e di
acqua. Di medicine. Di massa di reazione. Di materiali da costruzione. Di tutto.
Tutti avranno bisogno di tutto. Non intendo mettere Ceres in cima alla nostra
lista. Hanno chi li aiuta.»
«Sono stati derubati» sottolineò Nadia. «Da noi.»
«Da Marco.»
Nadia sorrise e guardò verso sinistra, come faceva sempre quando era pronta a
chiudere una discussione ma non riteneva di aver perso. Michio però non
poteva lasciar correre. Le parole chiedevano di uscirle di bocca come se le avesse
dette Nadia. Come se avesse provocato una sua reazione.
«Non è solo il fatto che si tratti di Fred Johnson» disse.
«Se Ceres comincerà a patire la fame» replicò Nadia, concludendo la domanda
come se fosse stata un’affermazione.
«Ottimo» ribatté Michio. «Se la Stazione di Ceres comincerà a patire la fame, se
rimarranno senz’acqua, allora aiuterò la gente di Ceres. Non per Fred Johnson,
non per l’APE. Aiuterò la gente che vive lì.»
Nadia annuì, ma continuò a guardare sulla sinistra, fissando lo schermo vuoto
come se su di esso ci fosse ancora un’immagine. Michio arrivò al punto di
guardare lei stessa, ma lo schermo era nero.
«E la Terra?» chiese Nadia.
«Cosa c’entra?»
«Là c’è gente che muore di fame.»
«No» dichiarò Michio. «Non manderò le nostre scorte sulla Terra. Hanno
avuto secoli per aiutarci, e non l’hanno fatto.»
Il sorriso di Nadia si accentuò di un millimetro mentre lei si alzava, le baciava
una guancia e usciva. Un momento più tardi la sua voce giunse dal corridoio
insieme a una risposta di Evans. La vita sulla nave continuava, anche quando
tutto cambiava intorno a essa. Michio tornò a girarsi verso la lista, ma non era
più certa di cosa stesse guardando, e la sua mente continuava a vedere gli occhi
stanchi e gentili di Fred Johnson. Non ho mai visto tradire quest’etica più di così. Si
protese in avanti e si servì dell’unghia del pollice per tracciare una linea pulita
lungo il centro della parola ‘Ceres’. Adesso il grigio della parete spiccava
attraverso il centro delle lettere. Però non la cancellò.
Otto ore più tardi, quando la Connaught arrivò finalmente a un secondo luce
dalla Hornblower, i notiziari si erano unificati nella loro narrativa della riconquista
di Ceres. L’espressione ‘flotta congiunta’ era diventata una sorta di etichetta
generale per l’assortimento di navi terrestri e marziane accalcate là insieme a una
manciata di vascelli cinturiani. Era come tornare ai tempi prima di Eros, quando
l’alleanza fra i pianeti interni era parsa incrollabile. Di certo si avvertiva una certa
nostalgia nei commenti che giungevano dai pianeti interni, ma i rapporti dalla
Terra e da Marte tenevano in prospettiva l’era dorata della mungitura della
Fascia. Erano scoppiati tumulti a Londres Nova, che avevano fatto concludere
precipitosamente una riunione del parlamento marziano, e le notizie migliori
provenienti dalla Terra erano che l’ascesa del numero dei morti era lineare
invece di essere esponenziale, con la speranza che quella crescita si stabilizzasse
una volta che le parti più compromesse del globo avessero concluso la loro
agonia.
Marco non dava segni di vita, anche se Michio supponeva che questo
significava che stava progettando le sue prossime mosse con una parte della sua
cabala che non la includeva. Questo le andava benissimo, perché aveva già fin
troppo a cui pensare.
Aveva già registrato il messaggio per gli altri capitani sotto il suo comando ed
era pronto per essere trasmesso su raggio stretto a un suo ordine; una volta che
fosse stato inviato non si sarebbe più potuto tornare indietro. Niente altro,
neppure parlare con Carmondy, era altrettanto irrevocabile.
Allora perché inviare la richiesta di comunicazione alla Hornblower le diede la
sensazione di uscire da un portello stagno?
Carmondy accettò la richiesta e la sua faccia apparve sullo schermo, insieme a
un’icona indicante che la comunicazione era protetta. Il suo volto era largo e
placido. In un altro uomo, questo avrebbe potuto farlo apparire innocuo, ma
Carmondy aveva già ucciso delle persone su suo ordine, e Michio non si lasciò
ingannare.
«Capitano, mi chiedevo quando avrei avuto tue notizie» disse. «Alles gut, sì?»
«Alles è interessante, se non altro» ribatté Michio, con un sorriso che, con sua
sorpresa, fu quasi del tutto sincero. «Stiamo considerando alcuni cambiamenti al
piano.» Il messaggio raggiunse la Hornblower e tornò indietro. Un secondo in
ciascuna direzione, il che fece apparire ponderata la risposta di Carmondy.
Un’illusione creata dalla distanza e dalla luce.
«Ho saputo di Ceres. Una cosa spiacevole, dannazione.»
«Sì, Ceres» replicò lei. «Ma c’è anche più di Ceres. So che tecnicamente sei
nella catena di comando di Rosenfeld, ma sto per impartire alcuni ordini a te e ai
tuoi uomini e apprezzerei che li eseguiste.»
Un secondo. Due. Carmondy inarcò le sopracciglia. Passò un altro secondo.
«Interessante, sa sa? Dimmi.»
Puoi fare marcia indietro. Non lo hai ancora detto. Nessuno sa niente a parte la tua
famiglia, e loro ti sosterranno se ti tirerai indietro. Se darai di nuovo fiducia a Inaros, o
troverai un altro ‘Lui’ a cui obbedire, dato che questo funziona sempre così bene.
«Intendo mandare la Hornblower su Rhea, liberare i prigionieri e ridistribuire il
carico.»
Un secondo. Due. O questa volta passò meno tempo? Quanto erano vicine
ora le due navi? «Rhea non è nostra.»
«Non è allineata con la Marina Libera, no» convenne Michio. «È per questo
che l’ho scelta.»
Un secondo. No, decisamente adesso lo scambio di messaggi si era fatto più
rapido. Carmondy annuì e si succhiò i denti, un suono acuto e sibilante, mentre
socchiudeva gli occhi. Michio lo guardò comprendere il senso delle sue parole e
attese di vedere come avrebbe reagito.
«Allora è un ammutinamento?»
«Per me non sarebbe il primo» ribatté Michio, con un tono leggero che
contrastava con come si sentiva. «Prenderò tutte le navi ai miei ordini che
vorranno seguirmi. La missione è la stessa. Fornire le navi coloniali e il supporto
che offrono alla Fascia. Niente mandarle alla deriva.»
La pausa che seguì parve durare in eterno. «Niente deriva» ripeté Carmondy, e
scrollò le spalle. «Bien. Vuoi che portiamo là la nave, oppure dobbiamo tornare a
bordo?»
Un allarme prese a trillare in fondo al cervello di Michio. Questo non andava
bene. Scosse il capo. «Ah, Carmondy. Avrebbe potuto essere bellissimo. Verrete
a bordo, tutti quanti, ma manderete prima le armi e le armature, e vi trasferirete
a coppie.»
Una pausa. «Oh, andiamo, capitano, non vedo come questo possa succedere.»
«Ho due alternative,» rispose Michio «ma far venire te e i tuoi a bordo armati e
in armatura perché sono sicura che siate fedeli a me e non a Marco non è una di
esse.»
Altra pausa. E un sorriso che lei non riuscì bene a decifrare. Carmondy si
protese verso la videocamera. Le mani non erano inquadrate, ma Michio
immaginò che fossero intrecciate sul tavolo. Quando parlò, la sua voce era
sempre cordiale, ma il tono era in certa misura più piatto. «Que, allora?»
«Tu e i tuoi passate dalla mia parte e io inoltro le provviste alla Fascia come si
era sempre detto che avremo fatto, oppure distruggo la Hornblower per far capire
ad al-Dujali, a Foyle e agli altri che faccio sul serio.»
Questa volta ci vollero più di due secondi. Più di tre.
Michio mantenne un’espressione calma, anche se il cuore le batteva contro le
costole come se avesse voluto uscirle dal petto.
«Ecco la mia proposta» replicò infine Carmondy. «Io dirigo questa pinché nave
su Pallas. Tu vai per la tua strada, io per la mia. Que succede fra te e Inaros
rimane fra te e Inaros, ma tu e io ci separiamo con onore da entrambe le parti.»
Un ‘sì’ le affiorò sulle labbra, pronto per essere pronunciato. Voleva che
finisse. Detestava il conflitto. Come diavolo aveva finito per viverci dentro?
«No» ribatté. «Imballate armi e armature e mettetele nella camera di
decompressione entro un’ora oppure abborderemo di nuovo la Hornblower. E
questa volta faremo sul serio.» Scrollò le spalle e attese. Questa volta ci volle
circa un secondo. Erano più vicini.
«Ucciderci per dare un esempio?» chiese.
«Uccidervi per non dover uccidere più tardi molte altre persone. Preferirei
essere amata che temuta, ma che vuoi farci. È un mondo decaduto.» Ci fu una
pausa.
«Non puoi impedirmi di rivelare l’accaduto» osservò Carmondy.
Michio sospirò, cambiò canale e mandò il suo messaggio, quello che
cominciava con: ‘Vi siete messi ai miei ordini per fedeltà alla Fascia, e per fedeltà
alla Fascia mi aspetto che vi rimaniate.’
Quindi era fatta. Il suo tempo con Marco Inaros era finito. Michio Pa, un
tempo dell’APE; un tempo della Marina Libera, adesso solo sé stessa e la sua nave
in un universo fin troppo pronto a vederla distrutta. Nonostante tutte le
conseguenze che ora ci sarebbero state, nonostante tutto il dolore e le perdite
che aveva appena invitato a riversarsi sulla sua vita, si sentiva sollevata, come se
si fosse trovata dove ci si aspettava che fosse.
«Lo sanno già» disse. «Ora possiamo passare alla parte in cui ti arrendi, oppure
vuoi insistere perché ti uccida?»
16
Alex

«Sul serio» disse Arnold Mfume, uno dei piloti di riserva di Fred Johnson «hai
usato un cannone a rotaia come propulsore? Per sottrarre una nave a un’orbita che
stava decadendo?»
Alex scrollò le spalle, ma avvertì comunque il calore di un senso di orgoglio
sbocciargli nel petto. «Naomi ha fatto tutti i calcoli» rispose. «Io mi sono
preoccupato soprattutto di fare da babysitter alla Roci mentre eseguiva gli ordini.
Però... ecco, sì.»
«È una fottuta follia.»
«In realtà non avevamo scelta» spiegò Alex. «Abbiamo finito per fare un po’ di
improvvisazione, in un modo o nell’altro.»
Seduta di fronte a lui, Sandra Ip sorrise. Alex non seppe decidere se il modo in
cui continuava a guardarlo negli occhi indicasse quanto era ubriaca, l’inizio di un
invito erotico o un po’ di entrambe le cose. Comunque fosse, si sorprese a
ricambiare il suo sorriso.
«Vorrei esserci stato» disse Mfume.
«Io invece vorrei non essere stato lì» ribatté Alex. «È molto più divertente
adesso che non sta più succedendo. In quel momento, era più una situazione
che rientrava nella categoria dell’oh-merda-moriremo-tutti.»
«Le avventure sono così» interloquì Bobbie, e il pigro sorriso di Ip si spostò su
di lei senza alterarsi di molto. Quindi forse era più ubriaca che altro. «Le
situazioni di merda si trasformano poi in storie interessanti.»
«Ho sentito dire che tu hai affrontato in un corpo a corpo un soldato della
protomolecola» disse Mfume.
«Quella non è neppure una storia interessante» replicò Bobbie. Il suo sorriso
impedì che la situazione si facesse imbarazzante, ma risultò chiaro che
quell’argomento di conversazione era decisamente chiuso. Mfume cambiò
posizione sulla sedia, e Alex vide che era tentato di insistere, di indurre Bobbie
ad aggiungere qualcosa, anche se solo qualche parola.
«Allora, se volete parlare di volare,» intervenne «dovreste sentire di quella volta
in cui Bobbie e io abbiamo cercato di seminare la Marina Libera.»
«Sono sicura che abbiamo già raccontato quella storia» osservò Bobbie.
Alex sbatté le palpebre e abbassò lo sguardo sul proprio bicchiere. Aveva
ragione, aveva già raccontato quella storia, e considerato che erano rimasti tutti lì
seduti a bere, era possibile che Ip non fosse la sola a essere alticcia. «Giusto»
annuì. «In tal caso, se volete parlare di volare, dovreste ordinare di nuovo da
bere.»
Sollevò un braccio e si appoggiò allo schienale della sedia, cercando di attirare
lo sguardo del cameriere.
Il Blue Frog era un bar del porto, e se avesse dovuto tirare a indovinare, Alex
avrebbe detto che aveva visto giorni migliori. I tavoli rotondi si accalcavano
insieme all’interno di strutture più ampie e luminose che definivano i séparé e
contro cui lui e gli altri si appoggiavano. Una delle luci sembrava sporca e il
tavolo era scheggiato. Diversi menu fornivano dettagli sui servizi offerti: cibi,
bevande, prodotti farmaceutici, sesso. Un palcoscenico vuoto prometteva
musica dal vivo, o burlesque, o forse un karaoke, ma più tardi, non ora.
Soprattutto, si trattava dell’odore del posto. Non era sgradevole, né sapeva di
marcio, ma era stanco, come olio usato o sigillante vecchio.
L’equipaggio allargato della Rocinante occupava tre tavoli. Seduto alla destra di
Alex c’era Amos, che sorrideva come un Buddha vagamente minaccioso ed era
insieme a Clarissa Mao, Sun-yi Steinberg e un giovane a torso nudo che Alex
sospettava fosse stato ordinato su un menu. Alla sua sinistra Naomi e Chava
Lombaugh portavano avanti una fitta conversazione, mentre Gor Droga e Zach
Kazantzakis se ne tenevano al di fuori. Gli altri tavoli erano dominati da un
misto di equipaggi terrestri e marziani, il cui taglio di capelli regolamentare e le
uniformi ordinate sembravano fuori posto, quasi rimproverassero l’architettura
per essere quello che era. Qua e là i locali sedevano insieme in gruppetti come se
stessero difendendo una posizione da un assedio. Le occhiate scoccate di
soppiatto dai nativi di Ceres non esprimevano tanto un senso di minaccia
quanto sconcerto. La musica che scaturiva da altoparlanti nascosti rimaneva più
bassa della conversazione, con qualche nota in scala maggiore che creava
un’ambigua onda di suono che non era né festosa né triste.
Il gestore, un uomo dalla pelle scura con freddi occhi azzurri e un permanente
accenno di sogghigno, intercettò lo sguardo di Alex, gli rivolse un cenno di
assenso e gli mandò una cameriera. Il sorriso sul volto della donna sembrava
quasi sincero. Alex ordinò un altro giro per tutto il tavolo, e quando riportò la
sua attenzione sulla conversazione scoprì che l’argomento era cambiato.
«Nel servizio c’erano regole a riguardo» disse Bobbie.
«Ma c’erano anche modi per aggirarle, giusto?» chiese Ip. «Quello che intendo
è... non mi vorrai dire che nella marina marziana sono tutti nubili o celibi.»
Bobbie scrollò le spalle. «Avere una relazione con qualcuno di un grado
superiore o inferiore al tuo nella catena di comando non è uno scherzo.
Congedo con disonore, perdita di tutti i vantaggi e magari del tempo in prigione.
Questo fa passare parecchio la voglia. Io però non ero nella marina. Sono... ero
un marine. Se c’erano un po’ di rapporti incrociati fra i servizi, questo non era
considerato un problema finché non cominciava a interferire con l’efficienza
operativa.»
«Ho sentito dire che mettevano sostanze chimiche nel cibo per diminuire la
libido» commentò Arnold.
Bobbie scrollò le spalle. «Se lo facevano, non ne mettevano abbastanza.»
«E come funziona la cosa sulla Rocinante?» domandò Ip, rivolgendo la sua
piena attenzione su Alex. Quella era decisamente qualcosa di più di una
domanda dettata dall’alcol. «Avete delle regole contro un po’ di squallida
fraternizzazione spicciola?»
Alex ridacchiò, non sapendo bene se cominciava a sentirsi eccitato o a disagio.
«Il capitano e il primo ufficiale stanno insieme praticamente da quando ci siamo
imbarcati. Sarebbe difficile far rispettare quella regola al resto di noi.»
Il sorriso di Ip cambiò. «Tu eri nella marina, vero? Tu e il marine, qui, siete
mai...»
Alex rimpianse di aver ordinato un altro giro, perché pareva che presto
avrebbe avuto bisogno della sua lucidità mentale. «Io e Bobbie? No. Non è mai
successo.»
«In realtà non abbiamo viaggiato insieme così tanto,» aggiunse Bobbie «e
comunque... senza offesa, Alex.»
«Nessuna offesa.»
«Davvero?» insistette Ip, protendendosi in avanti. Premette il ginocchio contro
quello di lui in un modo che era del tutto innocente... a meno che non lo fosse,
nel qual caso era del tutto non innocente. «Non avete mai voluto farlo?»
«Ecco,» rispose Bobbie «c’è stata una notte, su Marte. Credo ci sentissimo
entrambi un po’ soli, e probabilmente me la sarei fatta con lui, se me lo avesse
chiesto.»
«Non lo so» si schermì Alex, d’un tratto accaldato e incapace di guardare
Bobbie negli occhi. «Non puoi dirmi una cosa del genere.»
Ip mantenne la gamba premuta contro la sua e lo guardò inclinando il capo. La
domanda era chiara. ‘È una cosa che stai ancora cercando di chiarire?’ Alex le
sorrise a sua volta. ‘No, in realtà non c’è mai stato niente.’
La voce di Naomi salì di tono, sovrastando il mormorio della conversazione e
la musica. Si stava protendendo in avanti sul tavolo, un dito sollevato
nell’esporre un suo punto di vista a Chava con fare un po’ alticcio. Alex non
riuscì a cogliere le sue parole, ma conosceva i suoi toni di voce abbastanza bene
da sapere che non era arrabbiata. Non davvero, comunque. In quei casi, Naomi
abbassava la voce, non la alzava.
La cameriera riapparve con un vassoio carico di bicchieri e Ip si chinò in
avanti per prendere il suo, poi non tornò ad appoggiarsi all’indietro. Alex sentì
qualcosa rilassarsi in un angolo della sua mente. Era trascorso molto tempo
dall’ultima volta che aveva commesso quel particolare tipo di errore. Pensò che
era ora di rifarlo.
«Scusatemi per un momento» disse. «Devo trovare il bagno.»
«Spicciati a tornare» replicò Ip.
«Contaci.»
Mentre attraversava il locale, oltrepassando il bancone per imboccare il
corridoio sul retro, Alex si sentì come qualcosa uscito da una barzelletta
scadente. I soldati che si accoppiavano dopo la battaglia era forse lo scenario più
vecchio e logoro che ci fosse, ma lo era diventato per un motivo. La tensione
dell’andare in battaglia era diversa da qualsiasi altra sensazione lui avesse mai
provato, e il sollievo quando essa si allentava era profondo e inebriante. Non si
trattava solo di lui o di Ip. Non era neppure solo sesso. Aveva conosciuto
uomini controllati e ordinati come un’immagine da manuale di addestramento
che avevano trascorso le ore successive a un’azione piangendo o vomitando.
C’era stato un pilota – una donna di nome Genet – che soffriva di un’insonnia
cronica che perfino i medicinali potevano solo moderare. Ogni notte si alzava
per un’ora, fra le due e le tre del mattino, tranne che dopo un’azione, perché
allora dormiva come un neonato per tutta la notte. Era la conseguenza
dell’essere un primate con un corpo costruito per la savana del Pleistocene.
Paura e sollievo, desiderio e gioia erano tutti racchiusi nella stessa piccola rete di
nervi, da qualche parte nelle profondità della sua amigdala, e a volte si
toccavano.
Il volo dalla Terra era stato breve e duro, ed era parso durare per sempre. I
sensori a lungo raggio non mostravano minacce attive fra i porti della Luna e la
Fascia, ma per tutto il tragitto un pensiero era rimasto sospeso nell’aria come
fumo: c’erano rocce non individuate che stavano precipitando sulla Terra? Su
Marte? Marco Inaros era tre passi avanti a loro, come sembrava essere sempre?
Perfino Fred Johnson era parso preoccupato, mentre camminava per i corridoi
con le mani intrecciate dietro la schiena. La battaglia di Ceres era imminente. Il
primo scontro della guerra dopo quella prima imboscata. La flotta congiunta
avrebbe scoperto quanto fosse effettivamente duro un mucchio di cinturiani che
pilotavano navi da guerra marziane rubate, e c’erano motivi per aspettarsi che si
rivelassero ossi dannatamente duri da rodere.
Quando nel sondare Ceres con i sensori avevano rilevato i pennacchi dei
reattori, Alex si era sentito il cuore in gola. Una battaglia a lungo raggio. Siluri
lanciati da una distanza estrema su vettori imprevedibili, progettati per
avvicinarsi in fretta e con forza nella speranza di sfuggire ai CPD. Si era chiesto se
Marte fosse mai riuscito a costruire buoni siluri stealth, e se i traditori che
avevano rifornito la Marina Libera avessero venduto loro anche quelli, se
esistevano. Aveva trascorso ore sul sedile a smorzamento a controllare ogni
anomalia rilevata dai sensori della Roci, sia che fosse o meno sopra la soglia di
pericolo. Quando aveva dormito, aveva sognato solo di questo.
Quando poi i dati avevano indicato che le navi della Marina Libera si stavano
allontanando, sparse come semi, anche lui, come ogni pilota della flotta
congiunta, aveva cercato la strategia insita in quella manovra, i cerchi di gravità e
propulsione indicanti dove la battaglia si sarebbe svolta, cosa il nemico aveva in
mente. Ogni volta che non aveva trovato una risposta aveva recepito la cosa
come una minaccia, con la certezza che ci fosse uno schema e che lui non era
semplicemente abbastanza sveglio da vederlo che gli formava un nodo di
tensione alla base del cranio fino a fargli pulsare gli occhi. Il suo solo conforto
era stato che gli equipaggi della marina terrestre e marziana, che vivevano
respirando tattiche di guerra, erano frustrati quanto lui. Quando la trappola della
Marina Libera fosse scattata, sarebbero morti a sorpresa, tutti insieme.
Solo che la cosa aveva continuato a non succedere.
Poi le prime navi – due trasporti di truppe terrestri e uno di Marte – avevano
raggiunto i moli, e Alex aveva trattenuto il respiro. Ceres era la città portuale
della Fascia, ed era là, priva di protezione e invitante come l’esca di una trappola.
Il controllo del traffico aveva dato il permesso di avvicinarsi. La flotta congiunta
aveva attraccato, i soldati si erano riversati sui moli, il momento per la resistenza
era giunto e passato. Erano cominciati ad arrivare i rapporti, molti dei quali
erano indirizzati a Fred Johnson. La Marina Libera se ne era andata, non c’era
resistenza armata e non c’erano soldati, solo una manciata di trappole esplosive,
magazzini e riserve idriche vuoti, e una forza di sicurezza estremamente ridotta e
ansiosa di arrendersi a chiunque fosse stato disposto ad assumere il comando.
La battaglia della Stazione di Ceres non aveva mai avuto luogo. Invece, la
flotta congiunta e i locali sindacati ingegneristici avevano messo insieme un team
di risposta d’emergenza che era tuttora impegnato a riparare alla meglio i sistemi
ambientali e gli impianti di riciclaggio per impedire il collasso della stazione.
Prima che la Rocinante attraccasse, Fred Johnson aveva trascorso tutto il suo
tempo scambiando messaggi su raggio stretto con Avasarala, sulla Luna, e con
chiunque gli rispondeva da Marte, dove il voto di sfiducia contro Smith si era
trasformato in una crisi costituzionale a pieno titolo. Dopo che avevano
attraccato, affiancato da una squadra di sicurezza, Fred era scomparso in un
vortice di incontri con i gruppi locali dell’APE, i sindacati e i pochi resti
traumatizzati del personale amministrativo.
Il resto dell’equipaggio era andato al bar.
All’inizio era stato strano – a pensarci, lo era ancora – guardare la gente della
Stazione di Ceres reagire ai loro nuovi invasori. Tutti quelli che Alex incontrava
parevano essere fatti di un misto di confusione, sollievo, rabbia e di una sorta di
dolore informe che si era diffuso per i corridoi della stazione come un vapore.
Ceres era un porto enorme, da anni indipendente dai pianeti interni, e adesso
forse era stato riconquistato da essi. O forse era stato salvato. Nessuno pareva
sapere se la flotta congiunta fosse il martello vendicatore della Terra o la prova
finale che l’APE di Fred Johnson era una forza politica legittima. O se magari era
successo qualcosa di più grande e strano.
I sorrisi dei nativi di Ceres erano esitanti, e nei loro occhi si leggevano rabbia e
perdita. Anche lì al Blue Frog, dove gli equipaggi erano bene accolti e serviti con
il meglio del poco che rimaneva, la flotta e i nativi si tenevano separati, incerti gli
uni degli altri. Segregati per scelta e dalla storia. Alex si sorprese a pensare alla
cosa come ai cinturiani al banco e gli interni ai tavoli, ma questo non era vero. Ip
e Mfume e tutta la gente di Fred appartenevano all’APE. Perfino le divisioni fra le
persone parevano nuove, e nessuno era ancora del tutto certo di quali tacite
regole andassero applicate.
Nell’emergere dal bagno degli uomini, Alex fu accolto da un muro di suono.
Nei pochi minuti in cui era stato indisposto, qualcuno aveva attivato il karaoke e
stava gridando una versione da ubriaco della versione di Noko Dada di No
Volveré, però senza le parti armoniche. Si fermò all’estremità del bancone e lasciò
scorrere lo sguardo sui tavoli nella speranza di trovare un angolo dove poter
scambiare con tranquillità qualche parola con Sandra Ip, lontano dal palco.
Holden sedeva a un tavolo per conto suo, chino su un boccale bianco e con
un feroce cipiglio sul volto che destò in Alex un senso di ansia. Al suo tavolo,
Bobbie e Ip parlavano fra loro mentre Mfume rideva. Ip guardò verso di lui,
sorrise e batté un colpetto sul sedile, accanto a sé. Alex sollevò un dito per
chiederle di dargli un minuto e si diresse verso Holden.
«Ciao, socio» lo salutò. «Stai tenendo insieme i tuoi pezzi?»
Holden sollevò lo sguardo e si guardò intorno come se fosse stato sorpreso di
trovarsi là. Dopo un momento, rispose: «Sì, no. Sto bene.»
Alex inclinò la testa da un lato. «Pare che tu abbia detto tre cose diverse, una
dopo l’altra.»
«Io... ah. Sì. L’ho fatto, vero? Sto bene.» Accennò con la testa al piccolo
pacchetto dorato che Alex aveva in mano. «Quello cos’è?»
Alex sollevò il pacchetto. Lo aveva preso da un dispenser nel bagno degli
uomini. L’esterno di stagnola recava impressa una testa di drago e qualche
assurdo kanji che non significava niente.
Holden aggrottò la fronte. «Medicine contro la sbornia?»
Alex si sentì arrossire e cercò di nasconderlo dietro un sorriso. «Ecco, stavo
pensando che qui potrei venirmi presto a trovare in un certo tipo di situazione in
cui tutti devono essere in grado di capire a cosa stanno acconsentendo.»
«Sei sempre un gentiluomo» commentò Holden.
«La mia mamma mi ha allevato bene. Però, seriamente, è tutto a posto? Lo
chiedo perché fissi quel caffè come se ti avesse appena insultato.»
Holden abbassò lo sguardo sulla tazza. Verso la conclusione i toni della
canzone si fecero acuti. Gli applausi furono radi e deboli. Holden rigirò la tazza
di caffè sul tavolo, facendo ondeggiare la superficie nera del liquido. La
porcellana strisciò sul piano del tavolo finché non risuonarono gli accordi di un
nuovo pezzo e una voce di donna si lanciò in una cover cinturiana creola di
Cheb Khaled. Quando Holden parlò, la sua voce fu a stento udibile al di sopra
della musica.
«Continuo a pensare a come mio padre ha definito i cinturiani smilzi davanti a
Naomi, e al modo in cui lei l’ha presa.»
«La famiglia può essere difficile da gestire» disse Alex. «Soprattutto quando le
emozioni vengono stimolate.»
«È vero, ma non è quello che...» Holden allargò le mani in un gesto frustrato.
«Ho sempre pensato che se ricevevano tutte le informazioni, le persone
avrebbero fatto la cosa giusta, sai? Non sempre, forse, ma di solito e comunque
più spesso di quando avrebbero scelto di fare la cosa sbagliata.»
«Tutti sono un po’ ingenui, a volte» replicò Alex, e nel momento in cui le
parole gli uscirono di bocca ebbe la sensazione che forse non aveva afferrato del
tutto il punto di Holden. Forse avrebbe dovuto prendere la prima pillola per
tornare sobrio prima di lasciare il bagno degli uomini.
«Mi riferivo ai fatti» continuò Holden, come se non lo avesse sentito affatto.
«Pensavo che se si esponevano i fatti, le persone avrebbero tratto le loro
conclusioni, e siccome i fatti erano veri, lo sarebbe stato anche la maggior parte
di quelle conclusioni. Noi però non funzioniamo in base ai fatti, ci basiamo sulle
storie riguardo alle cose, sulle persone. Naomi mi ha detto che quando le rocce
sono precipitate, la gente sulla nave di Inaros ha applaudito. Che erano
contenti.»
«Già.» Alex fece una pausa, sfregandosi una nocca sul labbro superiore.
«Considera che potrebbero essere tutti un mucchio di stronzi.»
«Non stavano uccidendo persone. Nella loro testa stavano sferrando un colpo
per conquistare la libertà, o l’indipendenza. O per pareggiare i conti per tutti i
bambini cinturiani che ricevevano schifosi ormoni per la crescita. Per tutte le
navi sequestrate perché erano indietro nel pagare le tasse di registrazione. E a
casa è lo stesso. Papà Cesare è un brav’uomo, è gentile e divertente, e per lui i
cinturiani sono tutti della Marina Libera e radicali dell’APE. Se qualcuno
distruggesse Pallas, lui si preoccuperebbe delle conseguenze del calo di capacità
di raffinazione prima di pensare a quanti bambini in età prescolare ci sono sulla
stazione, o chiedersi se al figlio del direttore della stazione piaceva scrivere
poesia. O se far esplodere la stazione ha significato che Annie, al centro di
contabilità di Pallas, non potrà fare la sua grande festa di compleanno.»
«Annie?» chiese Alex.
«L’ho inventata. Chiunque sia, il punto è che io non sbagliavo riguardo al dire
alla gente la verità. Avevo ragione su questo, ma sbagliavo riguardo a quello che
la gente ha bisogno di sapere. E... e forse posso rimediare. Voglio dire, sento che
dovrei almeno provarci.»
«D’accordo» rispose Alex. Era sicuro di aver perso già da un po’ il filo di ciò di
cui stavano parlando, ma se non altro Holden pareva meno cupo. «Questo
significa che stai per fare qualcosa?»
Holden annuì, poi bevve in un solo sorso quanto rimaneva del suo caffè, posò
la tazza sul tavolo e batté una pacca sulla spalla di Alex. «Sì. Grazie.»
«Lieto di essere stato d’aiuto» rispose lui. Poi, rivolto alla schiena di Holden
che si allontanava, aggiunse: «Almeno, credo di esserlo stato.»
Al tavolo, Sandra Ip era passata a bere qualcosa di analcolico. Bobbie e Arnold
stavano confrontando storie sull’arrampicata libera con diversi livelli di forza di
gravità, mentre Naomi e Clarissa Mao erano vicine al palco, pronte a cantare a
loro volta. Ip intravide il pacchetto che Alex aveva in mano, e il suo sorriso fu
una promessa che le cose sarebbero andate davvero molto bene per lui.
Tuttavia, dovette scorgere qualcosa nella sua espressione, o nel suo
atteggiamento mentre si sedeva.
«Tutto bene?» chiese.
Alex scrollò le spalle «Te lo dirò quando lo scoprirò.»
17
Holden

La ragazza era alta circa centonovantadue centimetri e avrebbe torreggiato su


di lui se non fosse stata seduta. Portava i capelli tagliati cortissimi in quella che
Holden suppose essere la moda per le ragazze cinturiane adolescenti, in quel
periodo. Probabilmente c’erano al riguardo centinaia di microfeed che lui non
seguiva. O forse era una ribelle e quel taglio era una sua idea. In ogni caso,
rendeva meno pronunciata la testa leggermente più grossa del normale. La
ragazza sedeva sull’orlo della panca e si guardava intorno nella cambusa della
Rocinante come se stesse rimpiangendo di essere venuta. La donna più anziana
che lei chiamava Tia se ne stava in piedi addossata alla parete, con aria accigliata:
uno chaperon che non era colpito favorevolmente da quello che vedeva.
«Mi ci vuole solo un secondo» disse Holden. Il pacchetto di software che
Monica Stuart gli aveva mandato presupponeva un livello di competenza che lui
non aveva, ed era riuscito in qualche modo a disattivare alcuni comandi di
default della sua intelligenza. La ragazza annuì con aria tesa e si tormentò il sari
con le dita. Holden si augurò che il suo sorriso fosse rassicurante, o almeno
divertente. «Davvero... Ho quasi fatto... aspetta, aspetta, aspetta. Okay. Ci
siamo.»
L’immagine della ragazza apparve sul suo terminale palmare con piccoli
comandi in sovrimpressione per correggere il colore, il suono e qualcosa
indicato come DS/3 che lui non sapeva cosa fosse. Comunque, l’immagine era
buona.
«D’accordo» continuò Holden. «Allora, immagino che chiunque guarderà
questo video saprà già chi sono io. Potresti dirmi il tuo nome?»
«Alis Caspár» rispose la ragazza, in tono piatto. Per come parlava, avrebbe
potuto essere una prigioniera politica. Le cose non stavano ancora andando
bene.
«Splendido» mentì Holden. «E dove vivi?»
«Sulla Stazione di Ceres» replicò lei, e dopo una pausa imbarazzante aggiunse:
«Nel Distretto di Salutorg.»
«E... mmh... cosa fai?»
La ragazza annuì, rilassandosi un poco. «Da quando Ceres si è staccata dal
controllo della Terra, la mia famiglia ha gestito un servizio di coordinamento
finanziario. Convertiamo i buoni di diverse società e governi in valuta
compatibile. La mia famiglia bist gente amante della pace. La pressione che i
pianeti interni hanno esercitato sui cinturiani non è colpa...»
«Permettimi di interromperti per un momento» interloquì Holden. Alis tacque
e abbassò lo sguardo. In qualche modo, Monica dava l’impressione che fare
quelle cose fosse facile, ma Holden cominciava a vedere come in realtà si
trattasse del risultato di anni di esperienza e di pratica, e non di qualcosa in cui ci
si poteva buttare senza una guida. Lui però non aveva tempo per questo, quindi
continuò a testa bassa. «Quando ci siamo incontrati – quattro ore fa – eri nel
corridoio con alcuni amici, giusto?»
Alis sbatté le palpebre, confusa, e guardò verso la Tia. Quella piccola occhiata
incredula costituì il primo comportamento naturale da parte sua da quando era
salita a bordo.
«Era davvero stupefacente» commentò Holden. «Voglio dire, ero lì di
passaggio e vi ho visti, e sono rimasto davvero colpito. Puoi parlarmi di quella
cosa?»
«Dello shin-sin?» chiese Alis.
«È così che la chiami? Quella cosa con le sfere di vetro?»
«Non è vetro» precisò Alis. «È resina.»
«Okay, sì.» Holden continuò a riversare entusiasmo su di lei come acqua su
una spugna, ma esso parve essere assorbito e svanire. Poi però Alis ridacchiò.
Non importava se stava ridendo di lui o con lui. «Potresti rifarlo? Qui?»
Lei rise, coprendosi la bocca con una mano. Per un secondo Holden pensò
che avrebbe interrotto l’intervista, ma poi prese un sacchetto che portava appeso
al fianco e ne tirò fuori quattro sfere trasparenti dai colori vivaci, un po’ più
grandi e morbide delle biglie con cui Holden aveva giocato da bambino. Con
cura, se le sistemò fra le dita, nell’incavo fra la seconda nocca di ogni dito, poi
cominciò un canto acuto e incostante, solo per fermarsi, ridere e scuotere il
capo.
«Non posso farlo» disse. «Non ci riesco.»
«Per favore, provaci. È davvero grandioso.»
«È stupido» protestò lei. «Una cosa per bambini.»
«Io sono... sono molto immaturo.»
Quando la ragazza guardò di nuovo verso la Tia, Holden fece altrettanto. La
donna più anziana aveva la stessa aria minacciosa di prima, ma adesso c’era
anche una luce divertita nei suoi occhi. Alis si rilassò, rise, si assestò e ricominciò
a cantare. Una volta stabilito il ritmo, prese a battere le mani delicatamente,
passando le sfere da una all’altra e dando l’impressione che danzassero
indipendentemente da lei. Di tanto in tanto, il canto aveva un passaggio
sincopato che permetteva a una delle sfere di caderle nel palmo e di essere
lanciata per essere catturata dalle dita dell’altra mano. Quando arrivò alla fine si
fermò, guardò timidamente verso Holden e scosse il capo.
«Viene meglio con due persone» commentò.
«Come un partner?» chiese Holden.
«Dui.» L’occhiata che Alis lanciò alle spalle di Holden fu meno di un batter
d’ala, ma lui comprese cosa significava e il suo cuore esultò. Si girò verso la
chaperon dal volto di pietra, che lo fissò inarcando un sopracciglio.
«Tia... sai farlo?» chiese Holden. «Sai fare lo shin-sin?»
Lei sbuffò con profonda derisione, poi venne avanti e Alis le fece posto a
sedere, consegnandole due delle sfere, che parvero più piccole fra le dita spesse
della Tia. La donna più anziana sollevò il mento, e per un momento Holden vide
con esattezza che aspetto avesse avuto all’età di Alis.
Questa volta il canto fu più complesso, intonato a turno, con i ritmi di una
parte che introducevano e sostenevano quello che succedeva nella voce dell’altra
donna. Le sfere colorate danzavano fra le loro mani mentre congiungevano i
palmi, li incrociavano e ripetevano l’operazione, aggiungendo il battere delle
mani al canto. Nei momenti sincopati, lanciarono le sfere attraverso lo spazio
che le separava e le afferrarono fra le nocche. Alla fine, entrambe le donne
sorridevano, poi la Tia lanciò in alto le sfere una dopo l’altra, tanto in fretta che
furono tutte in aria nello stesso momento, e le prese tutte in una mano. Era un
trucco che non avrebbe mai potuto funzionare con una gravità di un intero g.
Holden batté le mani e la donna più anziana annuì, accettando il suo applauso
come una regina.
«È stupefacente, meraviglioso» dichiarò Holden. «Come imparate a farlo?»
Alis scosse il capo, incredula di fronte a quello strano terrestre e al suo
divertimento infantile. «È soltanto shin-sin» ribatté. Poi sgranò gli occhi e il
sangue le defluì dal volto.
«Mr Holden,» disse Fred Johnson «ha un momento?»
«Sì, certo» rispose Holden. «Stavamo solo... sì. Solo un secondo.»
«Sarò sul ponte operativo.» Fred sorrise e rivolse un cenno del capo alle due
donne cinturiane. «Signore.»
Holden disattivò il software, ringraziò Alis e Tia e le accompagnò al portello e
fin sul molo. Dopo che se ne furono andate, guardò il video che aveva registrato
– la ragazza e la donna che contrapponevano una all’altra la voce e le mani, le
biglie che non erano proprio biglie che si spostavano fra di loro come un terzo
partecipante al gioco. Era proprio il genere di cosa che aveva sperato di trovare.
Compresse il file e lo mandò a Monica Stuart, sulla Stazione di Tycho, come
aveva fatto con gli altri.
Aveva sperato di accumularne molti di più. Aveva intervistato un ricercatore
che lavorava sulla Stazione di Ceres, un autodidatta che si era istruito tramite i
tutorial reperibili in rete, e lo aveva imbottito di birra di qualità finché non si era
rilassato abbastanza da lanciarsi in un’appassionata disquisizione sulla bellezza
dei tardigradi. Poi aveva parlato con una nutrizionista che lavorava nei campi
idroponici, che aveva acconsentito all’intervista solo se avesse potuto spiegare la
situazione della carenza d’acqua su Ceres e che aveva finito per essere la migliore
espressione del dolore e della paura generali che lui avesse sentito. Aveva parlato
con un uomo che si supponeva essere il cinturiano più anziano presente sulla
stazione, che gli aveva raccontato una lunga storia, probabilmente apocrifa,
riguardo al primo bordello dotato di licenza aperto su Ceres.
Questo era tutto, fino a quel momento. Quattro interviste, nessuna molto
lunga. Poteva solo sperare che fosse abbastanza perché Monica ci potesse
lavorare sopra. Lei gli aveva promesso che nell’editing si poteva salvare
parecchio materiale.
I moli non erano affollati come era abituato a vederli, soprattutto dopo la calca
e il caos a stento controllato presenti sulla Luna. Ceres sembrava ferita, ancora
scossa dai colpi subiti. I carrelli e i mech da carico erano inerti, in attesa che
arrivasse una nave carica di provviste o che qualche magazzino della stazione
comunicasse di avere ancora qualcosa di valore da spedire.
Una volta aveva sentito parlare di danni da riperfusione. Quando un arto
veniva pressato fino a interrompere la circolazione, il riprendere del flusso
sanguigno poteva rompere i vasi sanguigni e causare un’emorragia nella matrice
cellulare. Ricordava di aver pensato a quel tempo quanto fosse strano che una
cosa normale, necessaria, che dava la vita potesse causare danno soltanto con il
riprendere il suo normale funzionamento. Adesso Ceres era in quello stesso
stato, ma lui non era in grado di dire se la flotta congiunta fosse il riprendere
della circolazione, o se sarebbe stato necessario il sopraggiungere di qualche altra
inondazione prima che Ceres potesse determinare quanto fossero gravi le ferite
che aveva subìto.
Nel tornare indietro oltrepassò Gor Droga e Amos, che si trovavano nello
spogliatoio per individuare un corto circuito che rallentava il movimento dei
ventilatori dell’aerazione. Clarissa Mao parlava a entrambi dalla sezione
ingegneria. Quello era il genere di problema che una nave con un equipaggio
completo poteva affrontare nei turni di riposo. All’ascensore dovette aspettare
che Chava Lombaugh lo oltrepassasse prima di potervi entrare.
La verità era che anche con la gente di Fred e la sua, la Rocinante non aveva
ancora l’equipaggio completo che era stata destinata a trasportare. Il fatto che la
nave gli apparisse affollata non dipendeva dalla sua progettazione, ma dalle sue
personali abitudini e aspettative. Un equipaggio completo sarebbe stato più
accalcato e compresso, più simile alle condizioni su una normale nave della
marina, e lui lo sapeva, così come sapeva che sotto certi aspetti avere altre
persone a bordo li avrebbe tenuti tutti più al sicuro. La Rocinante era stata
costruita con una quantità di backup ridondanti, e si supponeva che lo stesso
valesse per l’equipaggio, ma le cose non avevano funzionato in quel modo. Un
altro meccanico non sarebbe stato Amos. Un altro pilota non sarebbe stato
Alex. Le persone erano più dei ruoli che svolgevano nell’ambito del
funzionamento della nave, e non erano sostituibili. E quello che valeva per la
Rocinante si estendeva anche al campo più vasto dell’umanità in generale.
L’ascensore si fermò e Fred Johnson sollevò lo sguardo dai comandi della
nave, rivolgendogli un cenno di saluto. Le luci erano smorzate, come piacevano
ad Alex, e il chiarore proveniente dagli schermi faceva apparire la pelle di Fred
più scura di quanto non fosse. Maura Patel sedeva dall’altro lato del ponte, con
una serie di diagnostiche che scorrevano sui comandi della comunicazione, sul
suo schermo, e aveva la cuffia sugli orecchi. Holden si lasciò cadere su un sedile
accanto a Fred e lo fece ruotare in modo da fronteggiarlo.
«Mi volevi?»
«Per un paio di cose. Per il momento intendo installarmi su Ceres. Avasarala
mi riconoscerà come facente funzione di governatore» rispose Fred. «Sto
riscuotendo tutti i favori che mi sono dovuti, da parte di tutti quelli che conosco
che abbiano una qualche influenza in seno all’APE. Li porterò qui.»
«Sembra un invito ad assassinarti.»
«È un rischio necessario. Non so se il mio equipaggio rimarrà qui o tornerà su
Tycho senza di me. Al riguardo aspetto notizie da Drummer. In un modo o
nell’altro, te li toglierò dai piedi.»
«Questo è... voglio dire, d’accordo, però cominciavano a piacermi. Allora, di
cosa vuoi parlare, in realtà?»
Fred annuì una volta, un gesto breve e secco. «Credi che Draper potrà parlare
per conto di Marte?»
Holden scoppiò a ridere. «Per conto di Marte come farebbe un ambasciatore?
Per negoziare con l’APE? Lo chiedo perché sono sicuro che questo dipenda dalle
condizioni su Marte.»
«Potemmo non essere in condizione di aspettare che si rimettano in sesto.
Smith è stato buttato fuori, hanno eletto Richards, ma si è formata una
coalizione di opposizione che vuole anteporre le indagini sui militari rimasti a
ogni altra cosa.»
«Vuoi dire anche al combattere la guerra?»
«Per esempio. Richards e Avasarala ci stanno lavorando, ma io ho bisogno di
avere qui con me una faccia marziana se voglio che questa faccenda della flotta
congiunta non vada in pezzi. Con il mio background, io posso rappresentare il
meglio della Terra agli occhi della Fascia, l’ho fatto per anni e ho costruito una
notevole fiducia, ma a meno di avere qui un rappresentante di Marte, non
riuscirò a mettere sul tavolo niente di nuovo. Soprattutto con la Marina Libera
che vola su navi marziane. Al momento le azioni di Inaros sono molto al rialzo.»
«Sul serio? A me sembra che abbia appena abbandonato il più grande porto
della Fascia.»
Fred scrollò le spalle in modo eloquente. «I suoi apologeti sono bravi nel loro
lavoro, e tutto ricade nell’ombra di quello che lui ha fatto alla Terra. Sorrento-
Gillis, Gao, tutti quanti hanno sottovalutato l’ira della Fascia, e la sua
disperazione. La gente vuole che Inaros sia un eroe, e quindi interpreta come
eroismo quello che lui fa.»
«Anche fuggire?»
«Non si limiterà a fuggire. Non so cosa abbia in mente, ma non intende
ritirarsi. E la Stazione di Ceres... adesso è un elefante bianco. Anche solo
mantenere in funzione i sistemi ambientali non sarà cosa da poco. Potremmo
dover concentrare fisicamente gli abitanti e abbandonare parti della stazione, il
che verrà interpretato da Inaros e dalla sua cabala come la Terra e Marte che
buttano i poveri cinturiani fuori delle loro case.»
Holden si passò una mano fra i capelli. «Sì, è un vero pasticcio.»
«È politica. Ed è per questo che abbiamo bisogno dell’APE. Abbiamo supporto
all’interno della Fascia, ma bisogna coltivarlo. E abbiamo alcune cose che
giocano a nostro favore. Loro si possono definire una marina, ma sono
dilettanti, il genere di soggetti per i quali disciplina è sinonimo di punizione.
Corre voce che ci sia già del dissenso riguardo al comportamento di Marco.
Probabilmente è dovuto alla tattica che ha adottato qui su Ceres. Ancora non
capisco perché Dawes gli abbia permesso di andarsene dalla stazione, ma... ecco,
è chiaro che lo ha fatto. E Avasarala sta tenendo sotto controllo la situazione
sulla Terra. Se le Nazioni Unite si fossero sgretolate come ha fatto il governo
marziano, non so cosa potremmo fare adesso.»
«Questo» ribatté Holden. «Tentare di radunare alcuni alleati, il che è più o
meno quello che farai comunque, solo con minor speranza che possa
funzionare.»
Fred stiracchiò le articolazioni fino a farle scricchiolare, poi si lasciò
sprofondare di nuovo nel gel del sedile, con un sospiro. Le diagnostiche sul
pannello di comunicazioni mandarono un segnale luminoso e Patel fece scorrere
i risultati. Per quanto la riguardava, loro due avrebbero anche potuto non essere
lì.
«Probabilmente hai ragione» disse Fred. «Comunque, sono contento che la
situazione non sia peggiore. Non ancora, almeno.»
«Forse avremo fortuna e Inaros si farà ammazzare senza bisogno di un nostro
intervento.»
«Non basterebbe» ribatté Fred. «La Terra è infranta e lo sarà per generazioni.
Marte potrebbe collassare come non farlo, ma ci sono pur sempre i portali e i
mondi coloniali. Ci sono ancora tutte le pressioni che mantengono la Fascia
sull’orlo della morte per fame, e la rendono sempre meno preziosa. Tornare alle
condizioni preesistenti è impossibile, dobbiamo andare avanti, il che ci riporta a
Draper. Hai lavorato con lei. Può fare questo lavoro?»
«In tutta onestà, credo che la persona più indicata a cui chiederlo sia lei. La
conosciamo tutti, ci piace e io le affiderei la mia nave, mentre non la affiderei a
te. Se pensa di poterlo fare, allora credo che possa davvero.»
«E se non si ritenesse in grado?»
«Allora dovrai rivolgerti ad Avasarala» rispose Holden.
«Conosco già la sua opinione. D’accordo, grazie. E... so che mi pentirò di
averlo chiesto, ma posso sapere cosa facevi con quelle due donne, nella
cambusa?»
Maura Patel cambiò posizione sulla sedia, la prima indicazione che stesse
ascoltando la conversazione.
«Le riprendevo. Quella cosa con le mani e le biglie? È visivamente molto
interessante, e Monica mi ha detto che era il genere di cose che dovevo cercare.
Sto facendo queste interviste, e lei mi aiuta a editarle e a distribuirle.»
«E perché lo fai?»
«È quello che manca in tutto questo» spiegò Holden. «Quello che ha permesso
alle cose di precipitare. Non ci vediamo a vicenda come persone. Perfino i
notiziari parlano sempre di cose strane. Di aberrazioni. Tutti i momenti in cui
non ci sono tumulti su una stazione di cinturiani sono giorni che non fanno
notizia. Deve trattarsi di un’insurrezione o di una protesta, o di un guasto ai
sistemi. Ma il semplice essere qui, vivere una vita normale? Questo non è parte
di ciò che sentono la gente della Terra e di Marte.»
«Quindi tu...» Fred chiuse gli occhi e si serrò l’arco del naso con le dita. «Tu
stai rilasciando altri comunicati stampa non approvati? Ricordi di aver avviato
una guerra in questo modo, una volta?»
«Infatti. In quel caso stavo parlando di un’aberrazione perché pensavo fosse
quello che la gente aveva bisogno di sapere. Però c’è anche bisogno di tutto il
contesto. Com’è essere un’adolescente alla sua prima cotta che vive su Ceres, o
preoccuparsi che tuo padre sta invecchiando, sulla Stazione di Pallas. Quelle
cose che rendono le persone uguali, dappertutto.»
«I cinturiani hanno fatto piovere l’inferno sulla Terra,» disse lentamente Fred
«e tu reagisci cercando di umanizzarli? Sai che ci saranno un mucchio di persone
che ti definiranno un traditore, per questo.»
«Farei la stessa cosa sulla Terra, ma al momento non sono là. Se la gente mi
insulterà, che lo faccia. Sto solo cercando di rendere un po’ più difficile alle
persone di sentirsi a proprio agio nell’uccidersi a vicenda.»
Sullo schermo di Fred apparve un allarme. Lui diede un’occhiata e lo ignorò.
«Sai che se chiunque altro fosse saltato su con l’idea di doversi ficcare nel bel
mezzo di una guerra per cantare canzoni, tenersi per mano e seminare pace per
tutta l’umanità lo definirei un gesto di opportunismo narcisistico. Forse di
megalomania.»
«Ma non si tratta di chiunque altro, quindi le cose fra noi sono a posto?»
Fred sollevò le mani in un gesto che esprimeva in pari misura divertimento e
disperazione. «Ho bisogno di parlare in privato con Draper.»
«Glielo farò sapere» replicò Holden, alzandosi in piedi.
«Posso contattarla io stesso. E, Holden...»
Holden si girò. Nella penombra, gli occhi di Fred erano tanto scuri che l’iride e
la pupilla avevano la stessa tonalità di nero. Appariva vecchio, stanco,
focalizzato. «Sì?» gli chiese.
«La canzone che cantavano quelle due... fai tradurre le parole prima di
trasmetterla. Giusto per andare sul sicuro.»
18
Filip

La Pella si muoveva per abbrivio attraverso il vuoto, un nodo in una rete di


navi scure che si scambiavano comunicazioni su raggio stretto, comparavano
strategie e pianificavano. Era impossibile rendersi invisibili nel senso letterale del
termine. Il nemico avrebbe scandagliato la volta celeste alla ricerca delle navi
della Marina Libera proprio come loro controllavano le emanazioni dei
propulsori provenienti dalla Terra, da Marte e da ogni altra parte del sistema.
L’universo era fatto di miliardi di punti di luce fissa... stelle e galassie che si
stendevano attraverso il tempo e lo spazio, con i loro flussi di fotoni piegati dalla
lente della gravità e spostati dalla velocità di espansione dell’universo. Il chiarore
di un reattore poteva passare inosservato o essere scambiato per un’altra fonte di
luce, o anche essere nascosto da uno degli asteroidi sparsi che popolavano il
sistema come granelli di polvere in una cattedrale.
Non c’era modo di sapere quante delle loro navi gli interni fossero riusciti a
identificare e a tracciare, così come non c’erano certezze che i loro sensori
avessero individuato tutte le navi della cosiddetta flotta congiunta. Le
dimensioni stesse del vuoto erano sufficienti a creare incertezza.
Gli interni erano più facili da trovare, dato che così tante delle loro navi si
erano dirette su Ceres, ma chi poteva dire che non ci fosse qualche cacciatore
sparso, in oscuramento e infuriato, che si aggirava nel vuoto? Marco aveva una
manciata di navi della Marina Libera che agivano in quel modo, o almeno così
aveva detto Karal. Navi che non erano neppure state usate nei primi attacchi,
che seguivano le loro orbite individuali come asteroidi caldi. Cani dormienti che
aspettavano il loro momento. Forse questo era perfino vero, anche se Filip non
lo aveva ancora sentito dire direttamente da suo padre, e gli piaceva pensare che
lui gli dicesse tutto.
Le giornate lunghe e vuote ruotavano strettamente intorno a un’unica
domanda sopraffacente: il contrattacco sarebbe arrivato, quell’attacco che
avrebbe dimostrato come abbandonare Ceres fosse stata una scelta tattica e non
una dimostrazione di debolezza. Più di ogni altra cosa che lo aveva preceduto,
quello sarebbe stato l’evento che avrebbe messo in chiaro come la Marina Libera
fosse imbattibile. Lo aveva detto Marco, e Filip gli credeva. Nella palestra e nella
cambusa, l’equipaggio avanzava supposizioni. La Stazione di Tycho era il cuore
dell’ala collaborazionista dell’APE. Marte aveva sofferto di meno nell’attacco
iniziale e meritava la stessa punizione inflitta alla Terra. La Luna era diventata il
nuovo centro di potere delle Nazioni Unite. Le Stazioni di Kelso e di Rhea
avevano rifiutato la Marina Libera e rivelato la loro vera natura.
Oppure c’erano le operazioni minerarie sparse per tutta la Fascia che
appartenevano a società con base sulla Terra. Erano prede facili e non potevano
essere difese. Oppure avrebbero potuto prendere saldamente possesso di
Ganimede, reclamando per loro e proteggendo la fonte di viveri per la Fascia. Si
parlava perfino di mandare un contingente di recupero attraverso l’anello per
togliere alle colonie cose che non avrebbero mai dovuto essere portate là. O di
installare piattaforme sopra i nuovi pianeti e costringerli a pagare un tributo.
Invertire l’ordine politico e mettere quei bastardi in fondo a tutti i pozzi
gravitazionali, in catene.
Filip si limitava a sorridere e a scrollare le spalle, dando l’impressione di
saperne di più di quanto sapesse in realtà. Marco non aveva rivelato il suo piano
neppure a lui. Non ancora.
Poi arrivò il messaggio.
‘Ti ho sempre rispettato.’ Era così che cominciava Michio Pa, capo delle forze
di requisizione. Filip si ricordava di lei, ma prima di questo momento non si era
formato un’opinione sul suo conto. Era un capo competente, aveva una certa
fama per essere intervenuta quando il capitano della Behemoth era impazzito nella
zona lenta, e piaceva a suo padre perché odiava Fred Johnson e aveva
defezionato da lui, ma anche perché era una graziosa cinturiana, il volto che i
cinturiani avrebbero visto quando le navi coloniali sarebbero state sventrate e i
loro tesori distribuiti. Adesso però fissava una videocamera della sua nave, con i
capelli raccolti e un’espressione seria negli occhi acuti, e non appariva graziosa.
«Ti ho sempre rispettato, signore. Il lavoro che hai fatto per l’indipendenza
della Fascia è stato di importanza critica e sono orgogliosa della parte che ho
avuto in esso. Prima di continuare, voglio mettere bene in chiaro che la mia
fedeltà alla nostra causa è assoluta e salda. Dopo lunga riflessione e una grande
quantità di considerazione, mi rendo conto di non essere d’accordo con il
cambio di piani relativo al sequestro delle navi. Se da un lato capisco
l’importanza strategica del sottrarre quel materiale al nemico, in tutta coscienza
non posso negarlo ai cittadini della Fascia che sono in stato di immediato
bisogno. Per questo motivo, ho deciso di procedere con il piano originale
relativo alle navi sequestrate.
«Tecnicamente, questo è disobbedire a un ordine, ma ho estrema fiducia che
quando avrai riflettuto sul fatto che la condizione di bisogno della nostra gente è
stata ciò che ci ha indotti a formare la Marina Libera, converrai che questo è il
modo migliore di procedere.»
Il messaggio finiva con il saluto della Marina Libera, che Marco aveva creato
come aveva creato ogni altra cosa. Filip fece scorrere di nuovo la registrazione,
guardandola dall’inizio alla fine, consapevole dello sguardo di Marco fisso su di
lui quanto lo era quello della donna sullo schermo. Intorno a loro, la cambusa
era vuota. No, non era semplicemente vuota. Si era svuotata. Con o senza un
ordine, l’equipaggio della Pella aveva evacuato quello spazio, lasciandolo a lui e a
Marco. Se non fosse stato per l’odore di curry che aleggiava nell’aria e le macchie
di caffè sul tavolo, quella sarebbe potuta essere la prima volta che salivano sulla
nave.
Filip non sapeva quante volte suo padre avesse guardato quel messaggio, come
avesse preso la cosa la prima volta che l’aveva visto, o cosa significasse ora la
mite espressione sul suo volto, e quell’incertezza gli contraeva lo stomaco. Nel
mostrargli il messaggio, suo padre lo stava sottoponendo a un test, e lui non
sapeva cosa ci si aspettava che facesse.
Dopo la seconda volta in cui Michio Pa eseguì il saluto, Marco stiracchiò le
spalle, un simbolo fisico dell’imminente passaggio alla seconda parte, quale che
fosse, della loro conversazione.
«È ammutinamento» disse Filip.
«Sì» convenne Marco, con voce ed espressione ragionevoli e calme. «Credi che
abbia ragione?»
Un no salì immediatamente in gola a Filip, ma si fermò lì, perché era una
risposta troppo ovvia. Provò a sondare mentalmente un sì, mentre la pressione
dell’attenzione di suo padre era come calore che emanasse dalla sua figura.
Accantonò anche la seconda alternativa.
«Non ha importanza» rispose lentamente. «Non conta niente che abbia ragione
o torto. Si è staccata dalla tua autorità.»
Marco si protese a battergli un colpetto sulla punta del naso, come era stato
solito fare quando erano soltanto padre e figlio, non comandante e
luogotenente. Il suo sguardo si addolcì, e la sua attenzione si spostò altrove. Filip
avvertì un momentaneo e pungente senso di solitudine.
«Infatti» convenne Marco. «Anche se avesse ragione – non è così, ma
supponiamolo pure – come potrei lasciar correre una cosa del genere? Sarebbe
un invito al caos. Il caos.» Scosse il capo, ridacchiando. L’ira sarebbe stata una
reazione meno spaventosa.
Filip sentì l’incertezza agitarglisi nel ventre. Erano perduti, allora? Stava
andando tutto in pezzi? La visione del sistema sognato da suo padre... città nel
vuoto, la Fascia che fioriva diventando un nuovo genere di umanità, libero
dall’oppressione della Terra e di Marte, con la Marina Libera che manteneva
l’ordine sui mondi... vacillò. Intravide l’aspetto che l’altro futuro avrebbe potuto
avere. Morte, e lotta, e guerra. Il cadavere della Terra e la città fantasma che era
Marte e i frammenti della Marina Libera che si beccavano a vicenda finché non
rimaneva più niente. Era questo che Marco intendeva nel parlare di caos. Filip ne
era certo, e si sentì assalire dalla nausea. Qualcuno avrebbe dovuto impedire che
accadesse. Scosse il capo.
«Un giorno» cominciò Marco, poi non concluse il pensiero e ripeté soltanto:
«Un giorno.»
«Cosa facciamo?» chiese Filip.
Marco agitò le mani nell’equivalente di una scrollata di spalle. «Smettiamo di
fidarci delle donne» rispose, poi spinse un piede contro la parete per lanciarsi
verso la porta. Filip lo guardò afferrare una maniglia e tirarsi avanti lungo il
corridoio, verso la sua cabina, con tutte le domande a cui non aveva risposto che
fluttuavano invisibili dietro di lui.
Rimasto solo, Filip tolse il volume allo schermo e tornò a guardare il
messaggio. Aveva incontrato quella donna, era stato nella stessa stanza con lei,
aveva sentito la sua voce e non l’aveva riconosciuta per la traditrice che era. Per
un agente del caos. Lei salutò, e Filip cercò di scorgere qualche traccia di paura.
O di malizia. Qualcosa di più di un professionista che inviava un messaggio
aspettandosi che non venisse ricevuto bene. Fece scorrere ancora il video. Gli
occhi della donna erano neri e pieni di odio, o si facevano forza per nascondere
il timore. I suoi gesti erano intrisi di disprezzo, oppure controllati, come quelli di
un combattente che si prepari a perdere un incontro.
Scoprì che con un po’ di pratica e di volontà avrebbe potuto vedere in lei
qualsiasi cosa avesse voluto.
Alle sue spalle ci fu un rumore sommesso e Sárta entrò nella stanza a piedi in
avanti, usando un appiglio a parete per i piedi per fermarsi, agganciando la
caviglia e assorbendo la forza d’inerzia con le ginocchia. Il suo sorriso cupo
rispecchiava lo stato d’animo di Filip, e lui provò una rabbia momentanea per il
fatto che lei condividesse il suo stesso stato d’animo. La voce di Karal giunse
dall’ascensore, in toni bassi e misurati. Rosenfeld rispose a voce troppo bassa
per riuscire a distinguere le parole. Allora sapevano che Marco se ne era andato e
l’udienza privata era finita.
Sárta accennò allo schermo con il mento. «Esá es una merda, que?» Era a caccia
di informazioni, cercava di scoprire quello che Marco non aveva ritenuto
opportuno dirle. A lei o a chiunque altro.
«Lui se lo aspettava» disse Filip. Non stava neppure mentendo. Marco poteva
non averlo detto esplicitamente, ma era comunque vero. Si batté un colpetto
sulla tempia. «Sapeva di doverselo aspettare. Andrà tutto bene.»
Altri tre giorni di abbrivio, e Filip comprese di non essere il solo membro
dell’equipaggio della Pella che si sentisse ansioso. Pareva che ogni ora portasse
una nuova serie di richieste di contatto. Messaggi codificati a raggio stretto si
riversavano nella memoria della Pella e rimanevano in attesa di una risposta di
Marco. Come parte della cerchia interna, Rosenfeld interveniva quando poteva e
arrivò al punto di appropriarsi del ponte di comando, facendone una sorta di
ufficio privato. Il centro bellico in absentia, finché Marco non fosse ‘uscito dalla
sua tenda’, qualsiasi cosa questo significasse.
Per Filip, fu tutto un esercitarsi a emanare sicurezza. Suo padre aveva un
piano. Li aveva portati fino a questo punto ed era indubbio che li avrebbe fatti
arrivare fino in fondo. Gli altri erano d’accordo con lui, o almeno parevano
esserlo quando era nella stanza. Si chiedeva però cosa dicessero quando lui era
altrove. Erano stati tutti in battaglia insieme, avevano condiviso le vittorie e le
lunghe pazienti ore di attesa che le loro trappole scattassero, ma questo era
diverso. L’attesa era la stessa, ma non essere certi di cosa stessero aspettando
dava a tutti, perfino a lui, la sensazione che forse non stessero attendendo nulla.
Verso la fine del terzo giorno, Rosenfeld chiese a Filip di raggiungerlo nel
centro di comando. Appariva stanco, ma la sua pelle piena di cisti rendeva
difficile decifrare la sua espressione. Aveva disattivato tutti gli schermi, e il
centro di comando dava la sensazione di essere più piccolo, senza l’illusione di
luce e di profondità che essi generavano. Rosenfeld fluttuava accanto a uno dei
sedili a smorzamento, con il corpo inclinato di qualche grado rispetto alla nave, e
questo lo faceva apparire più alto e vagamente minaccioso.
«Allora, giovane Mastro Inaros,» esordì «a quanto pare abbiamo un problema.»
«Io non lo vedo» ribatté Filip, ma il divertimento che affiorò negli occhi
dell’altro uomo bastò a dimostrare quanto suonassero deboli le sue parole.
Rosenfeld fece finta che lui non avesse parlato.
«Quanto più aspettiamo senza reagire a... vogliamo chiamarli ‘i cambiamenti
della situazione’? Quanto più aspettiamo, tanto più il dubbio comincia a
crescere, sì? Inaros padre è la faccia e la voce della Marina Libera, lo è stato
dall’inizio. Con la sua abilità, sì? Il suo particolare talento. Però...» Rosenfeld
allargò le mani, come a dire ‘però lui non è qui’.
«Ha un piano» dichiarò Filip.
«E noi abbiamo un problema. Non possiamo aspettarlo ancora. Non l’ho
detto a nessuno, la notizia non si è ancora diffusa a bordo, ma il problema è
adesso, non domani. Ora come ora, perfino lo scarto temporale legato alla
velocità della luce potrebbe farci arrivare troppo tardi.»
«Di cosa si tratta?» chiese Filip.
«Della Witch of Endor. È a Pallas. Hai presente tutti quei contenitori di scorte
che abbiamo mandato nel vuoto? Il capitano al-Dujaili ha cominciato a
recuperarlo. Dice di agire per ordine del suo comandante, e non si riferisce a noi.
Quella è la quinta nave passata dalla parte di Pa. Nel frattempo, il Macellaio è su
Ceres, e il suo culo tiene al caldo la poltrona di Dawes. Ha indetto una riunione
dei clan dell’APE. Black Sky, Carlos Walker, perfino l’amministrazione di Rhea
sta considerando di mandare una delegazione. Quando abbiamo spezzato le
catene imposte dalla Terra, la Marina Libera ha fatto una dichiarazione, che
diceva: ‘La rivoluzione è già finita.’ Significava che avevamo vinto. Era
inevitabile. Già successo. Solo che adesso pare non sia così.»
Filip sentì lo stomaco che gli si contraeva. L’ira gli arroventò la gola e gli
spinse in avanti la mascella come un tumore formatosi alla sua base. Non sapeva
con chi fosse infuriato, ma era un’ira profonda e potente. Forse Rosenfeld la
notò, perché la sua voce cambiò, facendosi più morbida.
«Tuo padre è un grand’uomo. I grandi uomini, loro non sono come te e me,
hanno altre esigenze. Ritmi diversi. È questo che li differenzia da noi. A volte,
però, si spingono così lontano nel vuoto che noi li perdiamo di vista, e loro
perdono di vista noi. È qui che entrano in gioco le persone piccole come me, sì?
Manteniamo i motori in funzione, i filtri puliti. Facciamo quello che deve essere
fatto finché il grand’uomo non torna da noi.»
«Sì» disse Filip. L’ira gli stava risalendo lungo il collo, pervadendogli la testa.
«La cosa peggiore che possiamo fare è aspettare» continuò Rosenfeld. «Meglio
puntare tutte le navi nella direzione sbagliata che lasciarle troppo a lungo alla
deriva. Se più tardi cambiamo rotta, se torniamo indietro, tutti penseranno che la
situazione sia cambiata. Accendiamo i reattori, e si saprà che stiamo andando da
qualche parte.»
«Sì» ripeté Filip. «Lo capisco.»
«Quando arriverà il momento di dare ordini, se non lo farà lui ci penserò io.
Per lui, sì, ma io. Non sarebbe male se tu mi stessi accanto, per rendere chiaro a
tutti che agisco per suo conto, che non sono come Pa.»
«Vuoi dare ordini alla marina?»
«Voglio che vengano dati degli ordini» ribatté Rosenfeld. «Non mi importa chi
lo farà, e mi importa a stento di quali siano quegli ordini. Però ce ne devono
essere.»
«Nessuno può farlo, tranne lui» dichiarò Filip. C’era un ronzio nella sua voce,
le mani gli dolevano e non ne comprese il motivo finché non abbassò lo sguardo
e vide di avere i pugni serrati. «Mio padre ha creato la Marina Libera. È lui a
prendere le decisioni.»
«Allora le deve prendere adesso. E non vuole darmi ascolto.»
«Gli parlerò» si offrì Filip. Rosenfeld sollevò una mano in un gesto di
ringraziamento e sbatté le spesse palpebre granulose.
«È fortunato ad avere te» disse. Filip non rispose, si aggrappò a uno degli
appigli, si girò e si lanciò giù per la gola della nave, dove ci sarebbe stato
l’ascensore che andava su e giù se ci fossero stati un alto e un basso a guidarlo.
La sua mente era un groviglio di diverse emozioni. Ira nei confronti di Michio
Pa. Diffidenza verso Rosenfeld. Senso di colpa per qualcosa che non riusciva a
identificare. Paura. Perfino una sorta di disperata eccitazione, una sorta di
piacere che non era piacere. Le pareti del tubo dell’ascensore gli scivolarono
intorno mentre fluttuava quasi impercettibilmente verso babordo. Se arrivo al
ponte dell’equipaggio senza toccare la parete tutto andrà bene. Era un pensiero irrazionale
e tuttavia, quando si afferrò a una maniglia e imboccò il corridoio che portava
all’alloggio di Marco senza dover ancora correggere la propria traiettoria provò
un po’ di sollievo. E quando arrivò alla porta di suo padre esso risultò perfino
giustificato. La paura che aveva avuto dentro, di trovare suo padre annientato
dal tradimento, con gli occhi opachi, la barba lunga, magari perfino in lacrime,
non ebbe nessuna conferma nell’uomo che aprì la porta della cabina. Sì, gli occhi
erano leggermente più cerchiati del solito, e nella stanza si avvertiva un odore di
sudore e di metallo, ma il suo sorriso era luminoso e gli occhi limpidi e
focalizzati.
Filip si sorprese a chiedersi cosa lo avesse tenuto isolato tanto a lungo. Se pure
avvertì una sfumatura di irritazione, essa fu sopraffatta dal senso di calore
derivante dal vedere suo padre di nuovo sulla breccia. Alle spalle di Marco, una
striscia di tessuto che spuntava da uno degli armadietti parlava di un indumento
leggero e femminile. Filip si chiese quale membro dell’equipaggio fosse stato lì a
confortare suo padre, e per quanto tempo.
Marco ascoltò il suo rapporto con gentile attenzione, annuendo con le mani a
ogni punto importante e permettendogli di esporre ogni cosa – Fred Johnson, la
Witch of Endor, la velata minaccia di prendere le redini da parte di Rosenfeld –
senza interromperlo. Mentre parlava, Filip sentì l’ira che si dissolveva e lo
stomaco che gli si rilassava con lo scomparire dell’ansia, e alla fine si asciugò una
lacrima che non aveva niente a che vedere con il dolore ed era esclusivamente di
sollievo. Marco gli posò una mano sulla spalla, una stretta morbida che li univa.
«Ci fermiamo quando è il tempo di farlo e colpiamo quando arriva il
momento» disse.
«Lo so» annuì Filip. «È solo che...» Non sapeva come concludere quel
pensiero, ma suo padre sorrise lo stesso, come se avesse capito.
Agitò poi una mano in direzione del sistema della cabina, inviando a Rosenfeld
una richiesta di connessione. L’uomo dalla pelle granulosa apparve quasi
immediatamente sullo schermo. «Marco,» disse «è bello riaverti fra i viventi.»
«Sono stato nell’aldilà e sono tornato pieno di saggezza» replicò Marco, con
una nota tagliente nella voce. «La mia assenza non ti ha spaventato, vero?»
«No, dato che sei tornato» ribatté Rosenfeld, con una rude risata. «Abbiamo
un piatto pieno, vecchio amico, troppe cose che devono essere fatte.» Filip ebbe
la sensazione che fra i due uomini fosse in corso una seconda conversazione che
non riusciva a decifrare, ma rimase a guardare in silenzio.
«Mai abbastanza presto» commentò Marco. «Mandami i dati di tracciamento di
tutte le navi che sono ancora agli ordini di Pa e avverti le navi di guardia a Pallas
che la Witch of Endor ha disertato. Devono isolare le sue comunicazioni,
distruggerla e mandarci i dati relativi alla battaglia. Nessuna pietà per i traditori.»
Rosenfeld annuì. «E Fred Johnson?»
«Per il Macellaio verrà il suo turno di sanguinare, non temere» ribatté Marco.
«Questa guerra è soltanto all’inizio.»
19
Pa

La Stazione di Giapeto non era sulla luna, ma in orbita intorno a essa. Il


progetto su cui era basata era vecchio: due lunghi bracci che ruotavano in
direzioni opposte supportavano anelli abitativi, con una stazione centrale di
attracco sull’asse. Le luci scintillavano sulla superficie della luna, indicando la
posizione di stazioni automatizzate dove il ghiaccio veniva estratto e spaccato.
Nell’avvicinarsi a Giapeto, c’era un punto in cui la stazione, la luna e la massa
cinta di anelli di Saturno alle sue spalle avevano tutti le stesse dimensioni sullo
schermo. Era un’illusione prospettica.
I moli erano quasi pieni di vecchie navi per il trasporto di acqua, a cui le tariffe
avevano impedito in precedenza di sfruttare la luna. Adesso nessuno imponeva
più l’applicazione di quelle tariffe, e tutte le navi che ne erano in grado stavano
sfruttando quell’opportunità. Rimorchiatori usavano i propulsori di manovra per
sollevarsi dalla superficie o scendere verso di essa. Container da spedizione pieni
di ghiaccio tempestavano lo scafo dei trasporti come una crosta di ghiaccio.
L’amministrazione di Giapeto non si era schierata con Marco e la Marina Libera,
e neppure contro di loro, ma non si stava facendo sfuggire la possibilità di
liberarsi dalle imposizioni della Terra e di Marte. Michio guardò i dati forniti dal
controllo del traffico e cercò di vederli più come un’espressione di libertà che
come un tentativo di arraffare tutto quello che si poteva prendere e di andarsene
finché era ancora possibile.
Il canale delle comunicazioni si attivò per una richiesta da parte del controllo
di Giapeto. Avrebbe potuto lasciare che fosse Oksana a rispondere, ma
l’impazienza ebbe la meglio. «Qui è la Connaught» disse.
«Bien, Connaught. Giapeto bei hier. Stiamo prenotando l’attracco sedici per la
Hornblower. Può attraccare fra mezz’ora, sì?»
«Può andare bene.»
«Abbiamo sentito che tús hai dei prigionieri, sì?»
«Sì. E anche profughi. L’equipaggio originale della Hornblower.»
«Sono infuriati?»
«Non sono contenti,» rispose Michio «ma saranno grati di ritrovarsi in stanze
la cui porta non sia stata saldata. Il vostro ufficiale addetto agli
approvvigionamenti ha detto che potevate occuparvi di loro.»
«Possono stipulare un contratto di lavoro qui o prenotare un passaggio per la
Terra o per Marte. O meglio, i profughi possono etwas. I prigionieri sono un’altra
cosa.»
«Non voglio che si faccia loro del male, ma non li voglio neppure liberi» disse
Michio.
«Ospiti della stazione» replicò la stazione di controllo di Giapeto. «Tutto
segnato. Bene. E... in via non ufficiale, sì? ‘Gato per il carico. Le nostre strutture
idroponiche cominciavano a essere in difficoltà adesso che le spedizioni dalla
Terra si sono interrotte.»
«Siamo lieti di avervi potuti aiutare» rispose Michio, prima di chiudere la
comunicazione.
Ed era vero. C’era qualcosa nel suo petto – una sensazione calda e morbida –
che derivava dalla consapevolezza che quelle persone avrebbero sofferto meno
di quanto avrebbero fatto senza di lei. Aveva trascorso più tempo su Rhea che
non su Giapeto, ma aveva abbastanza esperienza da sapere cosa significava
essere a corto di equipaggiamento per gli impianti idroponici su una stazione
come quella. Quantomeno, le sue scorte avrebbero costituito la differenza fra
incertezza e stabilità, se non addirittura fra la vita e la morte.
Non sarebbe stato così se alla Fascia fosse stato permesso di crescere fino a
diventare indipendente, ma la Terra e Marte avevano tenuto la forza lavoro
legata a un guinzaglio fatto di analoghi di terriccio ed elementi organici
complessi. Adesso, grazie a Marco, la Fascia avrebbe avuto una possibilità di
spingersi verso un futuro sostenibile. A meno che, sempre grazie a Marco, non
fosse morta di fame e collassata nel tentare di farlo.
Non aveva più sentito niente da lui in un senso o nell’altro da quando aveva
contattato le sue navi per annullare gli ordini da lui impartiti. Dichiarazioni di
alleanza le erano giunte da otto delle sue sedici navi, e altre quattro avevano
accettato gli ordini. Soltanto la Ando e la Dagny Taggart le avevano opposto un
secco rifiuto, e anche loro non avevano ancora intrapreso nessuna azione. Tutti
aspettavano che Marco facesse un annuncio, anche lei, e a ogni ora che passava
senza che questo accadesse sembrava sempre più possibile che non lo avrebbe
fatto.
C’erano però altre voci. Oh, ce n’erano parecchie. Un collettivo di navi da
prospezione indipendenti proveniente da Titania aveva bisogno di parti di
ricambio per i propulsori. Una nave da carico che era anche la casa di una
famiglia-equipaggio di venti persone aveva subìto un guasto catastrofico del
sistema di alimentazione del reattore Epstein e stava andando alla deriva. Su
Vesta stavano razionando le proteine alla popolazione finché le scorte di cibo
promesse da Michio non fossero arrivate. In un irrazionale impulso di altruismo,
la Stazione di Kelso aveva mandato un carico di viveri e scorte sulla Terra e
adesso si trovava a corto di acqua e di elio-3 per i reattori.
Secoli di tecnologia e di progresso avevano permesso all’umanità di crearsi un
posto in mezzo al vuoto e alle radiazioni dello spazio, ma niente aveva avuto la
meglio sull’entropia, o sulle ideologie o sugli errori di valutazione. I milioni di
composti complessi di sali e minerali rivestiti di pelle che erano i corpi umani
sparsi per tutta la fascia avevano ancora bisogno di cibo, aria e acqua pulite,
energia e riparo. Di modi per evitare di annegare nei loro stessi escrementi o di
cuocersi nel calore in eccesso. E mediante quegli eventi casuali che erano il
carisma di Marco e il suo idealismo, lei era diventata responsabile di tutto.
Questo però era un inizio. Invece di oltrepassare i portali e di essere perdute
per sempre, le scorte presenti sulla Hornblower avrebbero nutrito Giapeto e dato
alla stazione le riserve necessarie per aiutare altri. La Connaught e le sue navi
consorelle non erano costrette a risolvere ogni problema di distribuzione.
Dovevano solo procurare le scorte, renderle disponibili e lasciare che le forze di
mercato e la natura comunitaria della Fascia facesse il resto.
Sperava che fosse sufficiente.
Alla sua postazione, Oksana scoppiò in una risata che non era tanto di
divertimento quanto di stupita incredulità.
«Que?» chiese Evans.
Oksana scosse il capo. Michio la conosceva da abbastanza tempo da decifrare
quel gesto e il vago senso di vergogna che lo accompagnava. ‘Non mentre io
sono di servizio.’ Mantenere la divisione fra l’essere una famiglia nel tempo
riservato a questo ed essere un equipaggio quando erano in servizio era sempre
stato importante per Oksana. Di solito, era importante anche per Michio, ma fra
l’attesa per l’assegnazione di un attracco e il timore dell’arrivo di notizie relative
a Marco, qualsiasi distrazione era un regalo.
«Cosa c’è, Oksana?» chiese.
«Qualcosa di strano nei feed di notizie che arrivano da Ceres, signore» rispose
lei.
«Ecco, non credo che interromperà qualcosa. Mandalo sullo schermo.»
«Sì, signore» replicò Oksana, e i controlli di Michio scomparvero per essere
sostituiti da un video dall’aria professionale, con una scritta sovrimpressa che
scorreva sul fondo e opzioni di filtraggio lungo un lato. E dallo schermo la
fissava il volto serio e aperto di James Holden. Per un momento, Michio si
ritrovò di nuovo sulla Behemoth, poi tornò al presente. Come l’odore o il sapore
da tempo dimenticato di un cibo mangiato solo nell’infanzia, James Holden
portava con sé un’eco di senso di colpa e paura, un ricordo di violenza.
Mentre Holden parlava si alternarono alcune immagini: un cinturiano
incredibilmente vecchio dagli occhi allegri; due donne – una giovane e una
anziana – che battevano le mani l’una contro l’altra in un qualche gioco come
batbat, pattycake o shin-sin; una donna dall’abbigliamento professionale, scura
di pelle e con un’espressione seria vicina a un serbatoio idroponico tanto lungo
che si incurvava in lontananza insieme al corpo della stazione. Mi chiamo James
Holden, e voglio farvi conoscere alcune delle persone che ho incontrato qui su Ceres. Voglio che
ascoltiate le loro storie, che impariate a conoscerle come i vostri compagni di equipaggio e i vostri
vicini. Spero che porterete con voi qualcosa di queste persone come ora faccio io.
«Cosa cazzo è questo?» chiese Evans, con una risata nella voce. «Guarda i
cinturiani addestrati che danzano per farti divertire?»
«No, quello è Holden» rispose Oksana. «Lui è dell’APE.»
«En serio?»
«Dell’APE di Johnson» precisò Michio. «E lavora anche per la Terra. E per
Marte.»
Sullo schermo, Holden stava porgendo un bulbo di birra all’uomo anziano. Le
guance del cinturiano erano già un po’ arrossate, ma la sua voce non era
impastata. A quei tempi c’erano cinque uomini per ogni donna, sulla stazione. Cinque a
uno.
«Eri sulla stessa nave con lui, sì?» chiese Oksana. «Laggiù nella zona lenta.»
«Per un po’» rispose Michio. «Lui divide anche il letto della madre di Filip
Inaros. Sai quel tizio che Marco non è riuscito a uccidere? È lui.»
«E sta annunciando al Grand’Uomo y alles dove si trova?» esclamò Oksana. «È
coraggioso o è un pazzo?»
«Non sono certa di poter criticare» replicò Michio, appena prima che la paura
la aggredisse. Per una frazione di secondo non ne comprese il motivo, poi
realizzò cosa stava vedendo. Era una cosa nel testo scorrevole alla base dello
schermo, qualcosa che stava per scomparire lateralmente: Witch of Endor. Bloccò
il testo a scorrimento e lo fece tornare indietro. ‘Nave distrutta dalla Marina
Libera identificata come la Witch of Endor.’
Selezionò quel feed e l’immagine cambiò. Sullo schermo principale Holden e il
vecchio cinturiano ridevano di com’era stata la Stazione di Ceres prima che ne
venisse avviata la rotazione, ma non li sentì. Sul suo schermo, l’immagine iper-
reale di un telescopio intelligente mostrava una nave in estrema accelerazione e
scie di fuoco di CPD che parevano incurvarsi mentre la nave accelerava per
sfuggire ai colpi. Dalla forma della curva, intuì che stava accelerando quasi a
dieci g. L’immagine non mostrava da cosa stava fuggendo, e il siluro che era
riuscito a penetrare le sue difese si muoveva troppo velocemente per essere
visibile. La nave si spostò, ruotando per un decimo di secondo. Poi fu avvolta
dalla luce. ‘Non è chiaro’ disse l’annunciatore ‘per quale motivo la Marina Libera
sembri aver attaccato una delle sue navi, ma i rapporti confermano emanazioni
di reattori da parecchie altre posizioni nemiche note, su vettori che non
corrispondono a un attacco contro posizioni della flotta congiunta...’
«Signore?» chiamò Oksana, e Michio si rese conto che doveva aver detto
qualcosa ad alta voce.
Scrutò gli occhi di Oksana, duri e rispettosi, e quelli dolci e allarmati di Evans.
Il suo equipaggio e la sua famiglia.
«Abbiamo la risposta di Marco» disse.
«Un cambiamento del linguaggio è un cambiamento nella consapevolezza, sì»
disse Josep. Come lei, indossava la tuta, ma era assicurato al sedile a
smorzamento. Uno schema complesso mostrava le condizioni del sistema nella
misura in cui lei le conosceva. Le navi fedeli agli interni raccolte intorno alla
Terra, a Marte e a Ceres erano in rosso. La Marina Libera fedele a Marco era in
blu. La sua manciata di pirati e idealisti era in verde. Le stazioni e le navi
indipendenti – Ganimede, Giapeto – figuravano in bianco. E una spolverata
d’oro su tutto quanto mostrava dove Marco aveva seppellito nel vuoto le sue
casse del tesoro.
«La mente è fatta di analogie» continuò Josep, senza aver bisogno che lei
contribuisse alla conversazione. «I cambiamenti nelle epoche si riflettono in
cambiamenti nella struttura. Prima era interno contro esterno, e adesso si sta
trasformando in connesso contro non connesso. Marina Libera. Flotta congiunta. Quelli
che si liberano dalle catene contro quelli che si legano insieme.»
Una battaglia diretta contro Marco, uno a uno, non era plausibile. Lui aveva
troppe navi e gli appelli che Michio aveva rivolto a Rosenfeld e Dawes e
Sanjrani non avevano fruttato nessuna risposta. Peraltro, non erano neppure
stati respinti. Finora, Marco era il solo a definirla una traditrice della causa.
Doveva supporre che gli altri stessero solo seguendo la sua guida.
A breve termine, questo non era d’aiuto.
Tracciò rotte e accelerazioni per le sue navi lungo archi che le tenessero fuori
della portata delle ire della Marina Libera pur permettendo loro di mandare
provviste dove erano maggiormente necessarie. Era come risolvere un
complesso puzzle matematico senza avere nessuna garanzia che esistesse una
soluzione ottimale. Era la ricerca di una risposta che fosse la meno peggio.
«Noi, i più liberi fra i liberi. Disconnessi dai disconnessi» proseguì Josep. «E a
causa di questo stiamo entrando in connessione. Estraniati a causa del nostro
impegno verso la comunità, sì? Lo yang all’interno dello yin, la luce che cresce
all’interno dell’oscurità. Doveva essere così, è la legge dell’universo. Noi siamo la
termodinamica del significato. Shikata ga nai. Così liberi che abbiamo una sola
alternativa, perché è così che è modellata la mente di Dio. Minimi e massimi
avvolti insieme come una curva, come una pelle fatta di interpretazione.»
Michio trasferì il display tattico nei suoi dati personali e allungò una mano
verso un appiglio, girandosi fino a essere di fronte al sedile. Josep la guardava
con un’espressione di gioia infantile, le pupille tanto dilatate che gli occhi
apparivano neri.
«Devo fare qualcosa» gli disse. «Te la caverai senza una babysitter?»
Josep ridacchiò. «Sono un cittadino della mente da prima che tu nascessi,
sposa bambina. Posso nuotare nel vuoto e non morire mai.»
«D’accordo» rispose lei, e pose il blocco alle cinghie del suo sedile, rimovibile
solo con la sua password personale. «Imposterò il sistema perché controlli i tuoi
segni vitali e magari chiederò a Laura di venire a stare qui con te.»
«Dille di portare la scacchiera di go. Gioco meglio quando sono fatto.»
«Glielo dirò» promise Michio. Josep le prese la mano nella sua, stringendole
con gentilezza le dita. Intendeva qualcosa con quel gesto, qualcosa di profondo,
sottile e probabilmente incomprensibile per una mente sobria. Tutto quello che
lei vide fu l’amore presente nel gesto. Abbassò le luci, regolò il sistema perché
suonasse una musica soffusa – arpa e una voce di donna tanto perfetta da
indurla a supporre che fosse artificiale – e lo lasciò solo. Nel dirigersi sul ponte
di comando mandò un messaggio a Laura ed ebbe una risposta. Probabilmente
Josep non aveva bisogno di qualcuno che lo controllasse, ma era meglio andare
sul sicuro. Michio rise di sé stessa nel puntellare la caviglia contro un appiglio
per i piedi. Andava sul sicuro nelle piccole cose, era spericolata in quelle grandi.
Bertold occupava quello che era il suo sedile a smorzamento abituale, con la
musica che filtrava dagli auricolari e i monitor relativi allo stato della nave che
mostravano tutto verde e sereno sul suo schermo. Andava tutto bene, a patto
che non spingesse troppo lontano lo sguardo.
Sollevò lo sguardo nella sua direzione quando lei occupò quella che era di
solito la postazione di Oksana. Trovarsi su una nave progettata da marziani dava
ancora una sensazione strana, perché era stata costruita con una sensibilità che
lei non riusciva a mettere bene a fuoco: militare, rigorosa e diretta. Non poteva
fare a meno di pensare che questo dipendeva dal fatto che i progettatori erano
cresciuti in una gravità costante che li tirava verso il basso, ma forse questo non
era vero, forse era il modo di essere marziano perché Marte era così. Non era
interni contro esterni, ma rigido e precario contro fluente e libero.
«Cosa c’è? Geht gut?» chiese Bertold, mentre lei richiamava a schermo gli
schemi tattici.
«Tutto bene. Josep però ha deciso di farsi, e non sto facendo un lavoro che si
accompagni bene al misticismo indotto alla droga.»
Avvertì una fitta di rammarico non appena pronunciò quelle parole, anche se
sapeva che Bertold non avrebbe preso il suo fare brusco per qualcosa di più di
quello che era. D’altro canto, se la famiglia fosse andata in pezzi mentre tutto il
resto crollava, non sarebbe riuscita a fare quello che doveva. Aveva bisogno
della sua roccia.
Quindi era un bene che l’avesse.
«Ti dispiace se...» chiese Bertold, e lei collegò il proprio schermo con il suo.
Tutte le navi, tutti i loro vettori. La confutazione finale di un confronto uno
contro uno. Lì c’era l’umanità in tutte le sue spaccature e disconnessioni. Tornò
alla sua analisi. Qui c’era un modo per recuperare un quarto delle risorse perdute
rimettendoci solo due delle sue navi. Qui c’era come consegnare un decimo di
quelle risorse, ma non alle persone che più ne avevano bisogno. Qui c’era come
tenere al sicuro le sue navi, ma non fare niente altro.
«Sembra un’ameba che stia partorendo dei gemelli» commentò Bertold. «Sehr
feo.»
«Davvero brutto» annuì Michio, mentre verificava un altro scenario. «Stupido,
uno spreco, e crudele.»
Bertold sospirò. Quando si erano sposati, Michio era stata profondamente
infatuata tanto di lui quanto di Nadia. Da allora, la passione condivisa si era
ammorbidita fino a diventare un’intimità che lei apprezzava più del sesso. Era la
fiducia che le permetteva di dire quello che vedeva, quello che pensava. Che le
permetteva di sentire la dura verità espressa dalla sua stessa voce. «Se vogliamo
riuscire in questa cosa, dovrò compiere azioni che non mi piacciono.»
«Lo sapevamo quando abbiamo cominciato, giusto?»
«Non avevo visto i dettagli.»
«Brutta situazione?»
Per tutta risposta, lei inserì una variabile nello schema tattico e apparvero
nuove opzioni che prima non esistevano: recupero del sessanta percento senza
perdere niente. Rifornire cinque stazioni a massimo rischio di collasso e tenere
Marco lontano da Giapeto. Aprire e possibilmente controllare una rotta fino a
Ganimede, almeno per alcune settimane. Bertold si accigliò mentre cercava di
capire cosa lei avesse fatto e come lo avesse fatto. Quando lo vide, emise un
grugnito.
«Questo è un sogno» disse.
«Non lo è» replicò Michio. «È un accordo, e due nemici disposti a rispettarsi
fintanto che i loro interessi coincidono.»
«Significa esporre la schiena al Macellaio della Stazione di Anderson.»
«Ecco, sì. È proprio questo. Però so cosa è, e non commetterò l’errore di
fidarmi di lui. Ci userà, se potrà farlo, e sarei stupida a non ripagarlo con la stessa
moneta. Se Marco non avesse fatto di noi la sua massima priorità le cose
sarebbero diverse, ma sta accelerando al massimo verso le nostre navi.»
«Orgoglio ferito, sa sa?»
«Tutto quello di cui abbiamo bisogno è un accordo con la flotta congiunta
perché non ci si spari addosso a vicenda, e questo ci aprirà zone dove Marco
non ci potrà seguire. Rifugi sicuri.»
«‘Sicuro’ significa raggomitolati sotto i cannoni di Fred Johnson, aspettando
che lui li punti contro di noi.»
«Lo so» annuì Michio. «E con Johnson quel momento arriverà, ma quando lo
farà noi non saremo più là.»
«Questo è un brutto piano, capitano» osservò Bertold, ma la sua voce era
gentile. Aveva già capito.
«Sì, ma è il miglior brutto piano che ho.»
«Già» sospirò lui.
«Ecco, avremmo potuto fare le cose alla maniera di Marco» commentò
Michio.
«Non credo che avremmo potuto» ribatté Bertold.
«Non lo credo neppure io.»
«Cosa mi dici delle stazioni e delle navi a cui distribuiremo i viveri? Alcune di
loro avranno cannoni, e guardie.»
«Rifiutare gli aiuti finché non acconsentiranno a combattere e morire per noi?»
chiese Michio. «Lasciarli morire di fame se non lo faranno? No. Non dico di no
a questo, ma chiedo, cosa è peggio? Costringere la gente a combattere per noi o
trattare con il fottuto Fred Johnson?»
Bertold si premette una mano sulla fronte. «Quella moneta non ha un terzo
lato?»
«Morire nobilmente?» suggerì Michio.
Bertold rise, poi tornò serio. «Dipende da cosa vorrà il Macellaio.»
«Sì,» annuì Michio «quindi dovremmo chiederglielo.»
«Sì, cazzo» disse Bertold. Lei vide il proprio timore, la rabbia e l’umiliazione
riflessi nei suoi occhi. Sapeva quanto le costasse anche solo considerare
quell’alternativa, e il modo spietato con cui trattava sé stessa, costringendosi ad
accettare quella necessità. «Ti amo. Lo sai. Sempre.»
«Anch’io» rispose lei.
«Non ci è voluto molto prima che dovessimo comprometterci, vero?»
«Scendi dalle nuvole» ribatté Michio, richiamando i comandi delle
comunicazioni per mandare un messaggio su raggio stretto a Ceres.
20
Naomi

«Il pericolo è quello di fare il passo più lungo della gamba» disse Bobbie,
chinandosi in avanti sul tavolo in un modo che lo faceva apparire piccolo. «Ci
hanno messi al tappeto e noi abbiamo ottenuto un paio di facili vittorie. La
tentazione di spingerci fin dove possiamo e cercare di spezzarli è forte. Pare che
li abbiamo sbilanciati, ma la verità è che stiamo ancora valutando le dimensioni
delle sue forze, e lui sta studiando cosa facciamo.»
«E cosa stiamo facendo?» chiese Naomi, spingendo verso di lei una ciotola di
uova strapazzate con tofu e salsa piccante.
Bobbie prese un boccone e masticò pensosamente. Seduta di fronte a lei,
Naomi assaggiò il contenuto della sua ciotola. A quanto pareva, Maura Patel
aveva aggiornato il sistema alimentare e adesso la salsa piccante della Roci aveva
un sapore leggermente diverso, che però cominciava a piacerle. C’era qualcosa di
gradevole nelle novità, e anche un senso di nostalgia per quello che era cambiato
che non riguardava solo il cibo, ma si estendeva a tutto.
«Credo non lo sappia nessuno,» continuò Bobbie «ma il mio insegnante di
tattica al centro di addestramento reclute, il sergente Kapoor, era un
entomologo...»
«Il tuo sergente addestratore era un entomologo?»
«Si tratta di Marte» replicò Bobbie, scrollando le spalle. «Lì la cosa non è
strana. In ogni caso, lui parlava di cambiamenti di strategia come se fossero stati
la parte centrale di una metamorfosi. A quanto pare, un bruco crea un bozzolo,
e la cosa successiva che fa è sciogliersi. Si liquefà completamente. Poi tutti i
piccoli pezzi di quello che era un bruco si riuniscono a formare una falena o una
farfalla, o qualcosa. Trova un modo diverso di assemblare gli stessi pezzi e di
creare qualcos’altro.»
«Somiglia alla protomolecola.»
«Uh. Sì, suppongo di sì.» Bobbie mangiò un altro boccone delle sue uova, lo
sguardo fisso sulla parete opposta. Rimase silenziosa tanto a lungo che Naomi si
chiese se avrebbe ripreso a parlare.
«Lui però intendeva qualcosa di tattico?» domandò.
«Sì. Intendeva che rigirare la propria strategia era una cosa del genere. Si entra
in una situazione vedendola in un modo particolare, poi qualcosa cambia. A quel
punto puoi attenerti alle idee che ti eri fatto o considerare tutto quello che hai
con cui lavorare e trovare una forma nuova. Noi siamo alla parte del trovare una
forma nuova. Avasarala è impegnata a cercare di impedire il collasso di quel che
resta dell’ambiente della Terra, ma una volta che esso si sarà stabilizzato
cercherà di catturare Inaros e chiunque altro abbia mai respirato la sua stessa aria
per processarli tutti. Vuole che quanto hanno fatto sia riconosciuto come un
crimine.»
Sandra Ip emerse dall’ascensore, rivolse loro un cenno del capo e prelevò un
bulbo di tè dal distributore.
«Perché credi che voglia farlo?» chiese Naomi. «Voglio dire, perché trattarlo
come un crimine e non come un atto di guerra?»
«Credo sia una dichiarazione di disprezzo. Nel frattempo, però, Marte sta...
non so, credo stia scoprendo che, nonostante tutta la nostra forza, siamo fragili.
Non so bene come ne emergeremo, ma non torneremo mai a essere quelli che
eravamo, non più di quanto lo farà la Terra. E Fred? Cerca di creare un
consenso e delle coalizioni perché è quello che ha continuato a fare per
decenni.»
«Ma tu non credi ci possa riuscire.» Non era una domanda. Ip lasciò la
cambusa e il suono dei suoi passi si allontanò mentre Bobbie rifletteva.
«Credo che mettere insieme la gente sia una buona cosa, che in generale sia
utile, però... probabilmente non ne dovrei parlare. Ci si aspetta che io funga per
lui da rappresentante di Marte. Una sorta di giovane ambasciatrice, o qualcosa
del genere.»
«Lui sta cercando di ricostruire il suo bruco adesso che abbiamo bisogno di
una farfalla» osservò Naomi.
Bobbie sospirò, mangiò un ultimo boccone di uova e gettò la ciotola nel
riciclatore. «Potrei sbagliarmi» disse. «Forse funzionerà.»
«Possiamo sperare che lo faccia.»
Il terminale di Bobbie trillò e lei si accigliò nell’esaminare il messaggio in
arrivo. I suoi movimenti, anche quelli così minimi, trasudavano la forza e il
controllo derivanti dall’addestramento, ma c’era anche qualcosa di più. Un senso
di frustrazione.
«Oh, gioia» commentò in tono asciutto. «Un’altra riunione importante.»
«È il prezzo dell’essere al centro degli eventi.»
«Suppongo di sì» rispose Bobbie, issandosi in piedi. «Tornerò quando potrò.
Grazie per permettermi di dormire a bordo.»
Mentre le passava accanto, Naomi le posò una mano sul braccio, fermandola.
Non sapeva esattamente cosa avrebbe detto finché non parlò. Sapeva soltanto
che era legato alle idee di equipaggio e di famiglia, e al tentativo di non tradire
chi eri davvero. «Ma tu vuoi essere un ambasciatore giovane?»
«Non lo so. Suppongo che sia una cosa che deve essere fatta» replicò Bobbie.
«È dai tempi di Io che sto cercando di reinventare me stessa. Forse da
Ganimede. Mi piaceva davvero lavorare al centro per veterani, ma non mi
manca adesso che ho smesso di farlo, e suppongo che sarà lo stesso per questo.
È una cosa che deve essere fatta. Perché me lo chiedi?»
«Non devi ringraziare nessuno per il fatto di dormire qui. Se la vuoi, quella
cabina è tua.»
Bobbie sbatté le palpebre con un accenno di sorriso triste. Si allontanò di
mezzo passo ma non si girò, il che era un’espressione fisica di esitazione. Naomi
lasciò che il silenzio si prolungasse fra loro. «Apprezzo il pensiero,» replicò
infine Bobbie «ma aggiungere qualcuno a un equipaggio? È un grosso passo, e
non so cosa ne penserebbe Holden.»
«Ne abbiamo parlato. Lui ti considera già parte dell’equipaggio.»
«Però adesso sto facendo l’ambasciatore.»
«Già. Lui pensa che il nostro cannoniere sia l’ambasciatore marziano di Fred.»
Naomi sapeva che stava forzando un po’ la realtà delle cose, ma ne valeva la
pena. Bobbie rimase immobile per una frazione di secondo. Poi per un’altra.
«Non lo sapevo» disse, e senza aggiungere altro si avviò verso l’ascensore, il
portello e la Stazione di Ceres. Naomi la guardò allontanarsi.
Gli incendi a bordo erano pericolosi. Su una nave, c’era una quantità di
processi che potevano portare a superare il punto dell’ossidazione spontanea, e il
trucco consisteva nel sapere quando lasciar circolare l’aria avrebbe avviato la
combustione e quando non lo avrebbe fatto. A volte, parlare con Bobbie era
come posare una mano su un pannello di ceramica per vedere quanto era caldo,
cercare di intuire se un po’ d’aria avrebbe raffreddato quella donna massiccia o
scatenato le fiamme.
Sola nella cambusa, Naomi si dedicò a un po’ di manutenzione: pulire tavoli e
panche, controllare le condizioni dei filtri dell’aria, pulire l’alimentazione del
riciclatore. Avere tante persone a bordo li portava a consumare le scorte di
provviste più in fretta di come fosse abituata a fare. La passione di Gor Droga
per il chai aveva assottigliato le loro scorte di analogo del tè. Sun-yi Steinberg
preferiva una bevanda al limone che consumava gli acidi e le proteine
strutturanti. Clarissa Mao mangiava cibo secco e acqua... cibo da prigione.
Nel controllare i livelli delle scorte, Naomi dovette ricordare a sé stessa che la
Roci trasportava il triplo del suo equipaggio abituale, anche se questo rientrava
ampiamente nelle specifiche e nelle capacità della nave. La Tachi era stata
progettata per due equipaggi di volo completi e cabine piene di marine marziani,
e ribattezzarla non aveva modificato le cose, aveva solo cambiato le sue
aspettative. Comunque, presto avrebbero dovuto rinnovare le scorte di
provviste.
Gli aromi e le spezie che impedivano a tutti di mangiare come Clarissa
sarebbero stati difficili da procurare. Le scorte scarseggiavano su Ceres e sarebbe
stato lo stesso non solo in tutta la Fascia, ma adesso anche sui pianeti interni.
Tutti i complessi organici forniti in precedenza dalla Terra potevano essere
sintetizzati in laboratorio o coltivati nelle serre idroponiche di Ganimede, di
Ceres e di Pallas, o dei resort turistici di Titano. Il problema, come pensò nel
reinstallare l’iniettore della macchina del caffè, era la capacità. Potevano creare
qualsiasi cosa, ma non potevano crearla tutta insieme. L’umanità si sarebbe
dovuta adattare con un minimo di risorse finché non ci fosse stato un modo di
aumentare la produzione, e una quantità di persone che vivevano ai limiti delle
loro possibilità non ce l’avrebbero fatta. Molta gente sarebbe morta sulla Terra,
certo, ma anche sfamare la Fascia non sarebbe stato un problema da poco.
Mentre gettava il vecchio iniettore nel riciclatore, si chiese se Marco avesse
pensato a queste cose, o se i suoi sogni di gloria avessero spazzato via ogni piano
realistico per prendersi cura delle vite che aveva sconvolto. Su questo doveva
tirare a indovinare. Marco era una creatura propensa ai grandi gesti. Le sue storie
riguardavano quel singolo momento critico che cambiava tutto, non i momenti
che venivano dopo. Da qualche parte nel sistema, in quello stesso momento,
Karal, o Ali, oppure – anche solo pensare quel nome era come toccare una piaga
aperta – oppure Filip si stavano occupando sulla Pella dello stesso genere di
manutenzione che lei stava svolgendo sulla Roci. Si chiese quanto tempo
avrebbero impiegato a rendersi conto che le spoglie di guerra non avrebbero
potuto rifornire in eterno le loro navi.
Probabilmente non sarebbe apparso evidente finché non avessero consumato
tutto. I re erano sempre gli ultimi a patire la fame. Questo non valeva solo per la
Fascia, si estendeva a tutta la storia. Le persone che erano state impegnate
soltanto a vivere la loro vita erano quelle che potevano parlare del costo
effettivo della guerra, che lo pagavano per prime. Gli uomini come Marco
potevano orchestrare vaste battaglie, ordinare il saccheggio e la distruzione di
mondi, e non rimanere mai senza caffè.
Quando la cambusa fu in ordine, prese l’ascensore e salì sul ponte di comando.
C’era una nuova analisi delle navi che erano scomparse nell’attraversare i portali.
Non erano nuovi dati, soltanto un riesame di quelli vecchi. Il fascino che
provava per quel fenomeno proveniva da un senso di timore. Aveva attraversato
quei portali, viaggiato nello strano non-spazio che collegava i sistemi solari, e fra
tutti i pericoli che aveva affrontato, quello di svanire silenziosamente non le era
neppure passato per la mente. Ad alcune centinaia di persone – e forse anche a
un numero più elevato – era successo qualcosa. Le menti migliori della Terra e
di Marte, quelle che non erano impegnate a cercare di far fronte al collasso
dell’ambiente e del governo, stavano indagando su quel fenomeno. Lei non
aveva le loro risorse, o lo stesso background di conoscenze su cui basarsi, ma
aveva la sua esperienza personale, e forse avrebbe visto qualcosa che a loro era
sfuggito.
E così controllò. Come un detective dilettante, seguì indizi e intuizioni, e come
la maggior parte di quel genere di investigatori non trovò nulla. La nuova
conversazione sui feed era una teoria relativa alla firma del propulsore della Casa
Azul, indicante che probabilmente il reattore era stato configurato male, ma a
parte essere un errore da principiante che trasformava un sacco di energia in
calore residuo, lei non ci vide nulla di pericoloso. Di certo non il motivo per qui
quella o le altre navi potevano essere scomparse.
L’analisi era appena passata a supposizioni relative a un guasto dei sensori
interni della Casa Azul che avrebbe aumentato la pressione nella bottiglia del
reattore – cosa che lei aveva supposto dall’inizio – quando il suo terminale
palmare trillò. Era Bobbie. Accettò la connessione e sullo schermo apparve il
volto di Bobbie. Naomi avvertì un senso di allarme.
«Cosa succede?» le chiese.
Bobbie scosse il capo. Probabilmente con quel gesto voleva allentare la
tensione, ma esso ricordò a Naomi il video di un toro che si preparava a
caricare. «Sai dove sia Holden? Non risponde al comunicatore.»
«Forse sta dormendo. La scorsa notte è rimasto alzato fino a tardi per lavorare
alle riprese di quella trasmissione che sta curando con Monica.»
«Potresti andare a svegliarlo?» chiese Bobbie. La parete alle sue spalle era di
pietra scolpita, con luci a incasso. Naomi ritenne che si trattasse del palazzo del
governatore, e la voce di Fred Johnson, che si sentiva in sottofondo, bassa e
intrisa di irritazione, glielo confermò.
Si alzò, prendendo con sé il terminale. «Vado subito» rispose. «Cosa succede?»
«Non capisco perché sei coinvolto in questa cosa» disse Fred Johnson.
Seduto di fronte a lui alla scrivania, Holden appariva ancora assonnato, con gli
occhi gonfi e i capelli leggermente scomposti dalla cuccetta a smorzamento.
Bobbie sedeva a braccia conserte da un lato, e intervenne prima che Holden
potesse rispondere.
«Conosceva il capitano Pa» disse. «Ha lavorato con lei su Medina, prima che
diventasse Medina.»
«Quando era parte della mia catena di comando» replicò Fred. «Lei non è un
fattore ignoto, era uno dei miei e l’avevo assegnata io a quella nave. Non ho
bisogno che nessuno mi dica chi è o cosa pensa di lei.»
Bobbie si incupì in volto. «Benissimo. Ho fatto venire qui Holden perché ho
pensato che forse a lui avresti dato ascolto.»
Holden sollevò un dito. «In realtà non so cosa sta succedendo» protestò.
«Quindi, sentiamo: cosa sta succedendo?»
«Michio Pa fa parte della cerchia interna di Inaros» spiegò Bobbie. «Pare però
che abbia infine capito che è un grandissimo stronzo, perché ha disertato e ha
cominciato a mandare scorte di viveri a posti che ne hanno bisogno senza
l’autorizzazione della Marina Libera. Adesso Inaros le sta sparando contro e lei
vuole che le diamo una mano.»
«Scorte di viveri?» ripeté Fred, con voce dura come la pietra. «È così che le
chiami?»
«È così che le chiama lei» ritorse Bobbie.
Holden lanciò un’occhiata a Naomi con un’espressione che diceva ‘le cose non
stanno andando bene’.
Naomi rispose con un sorriso. ‘Lo so, chiaro?’
«Michio Pa sta rubando navi coloniali per conto della Marina Libera» disse
Fred. «Anche se non è complice nella distruzione della Terra, ha sulle mani il
sangue di ogni colone ucciso dalla sua pirateria. Quelle non sono scorte di viveri,
sono spoglie di guerra. Una guerra contro di noi.»
«Marco le sta sparando contro?» intervenne Holden, cercando di prendere le
redini della conversazione, ma Fred era concentrato su Bobbie e non intendeva
lasciar perdere.
«Questo è lo scenario migliore in cui potevo sperare, Draper. La coalizione di
Inaros sta andando in pezzi. Si sparano fra loro, e non contro di noi. Se Pa
ridurrà la flotta di Inaros, per noi affrontarlo sarà molto più facile, e ogni nave di
Pa che lui disintegra è una in meno che darà la caccia a gente innocente,
rubandone le proprietà. Per me, per la Terra o per Marte non c’è nessun
vantaggio nel farci coinvolgere, e personalmente sono risentito che tu abbia
chiamato qui i tuoi amici per cercare di costringermi con la forza a pensarla
diversamente.»
«Non sei il solo che abbia un addestramento militare» ritorse Bobbie. «Non sei
il solo che debba soppesare l’eventualità di accogliere alleati problematici o che
abbia esperienza di comando. Però in questa stanza sei il solo che sia fottutamente
in errore.»
Fred si alzò in piedi, e Naomi si schiacciò contro i cuscini della poltrona
quando Bobbie avanzò verso di lui con i pugni serrati e la mascella in fuori. Fred
socchiuse gli occhi.
«Non sono interessato...» cominciò.
«Se vuoi che venga qui, indossi un’uniforme marziana e approvi come una
marionetta tutto quello che dici, hai trovato la ragazza sbagliata» lo interruppe
Bobbie, un po’ parlando e un po’ gridando. «Credi che il tuo magico pigiama
party della coalizione dell’APE interverrà a sistemare le cose? Hai già fallito. Non
vengono più da te. Hai Ceres, hai una flotta e hai me come il tuo dannato
allestimento da vetrina, e non è abbastanza, quindi smettila di comportarti come
se lo fosse!»
Quelle parole colpirono Fred come un pugno. Barcollò leggermente
all’indietro, serrando le labbra. È stato così quando la coalizione di Marco è
andata in pezzi?, si chiese Naomi.
Quando Fred parlò, la sua voce era più sommessa, ma più fredda. «Capisco
perché piaci tanto ad Avasarala.»
«È vero?» chiese Holden, e questa volta finalmente lo sentirono. «L’APE non
verrà?»
«Ci sto mettendo un po’ più di quanto speravo a organizzare le cose, e potrei
dover trovare un posto diverso per la riunione. Un luogo che sia territorio
neutrale.»
«Territorio neutrale» ripeté Holden, con una nota di scetticismo nella voce.
«Alcune di queste persone sono ostili da una vita ai pianeti interni» spiegò
Fred. «La flotta congiunta le rende nervose. Devono avere la sicurezza che noi si
sia concentrati esclusivamente sulla Marina Libera, non su di loro. Tutto qui.»
Fred e Bobbie rimasero in piedi, imbarazzati. Adesso la loro ira era sfumata,
ma entrambi rifiutavano di essere il primo a fare un passo indietro. Naomi tossì,
anche se non ne aveva bisogno, poi si alzò e andò a versarsi un bicchiere
d’acqua. Fu sufficiente. Bobbie si rimise a sedere e Fred la imitò un momento
più tardi. Holden sedeva incurvato sulla sua poltrona. Naomi versò dell’acqua
anche per lui e gliela portò quando tornò a sedersi.
«Questo capitano Pa» riprese Bobbie, rivolgendosi ora direttamente a Holden
«era della cerchia interna. Se potessimo portarla a essere disposta a scambiare
informazioni con la nostra protezione, potrebbe fornirci qualche dato utile per
spezzare Inaros.»
Fred scosse il capo. L’ira era scomparsa dalla sua voce, ma non la
determinazione. «Pa è un cane sciolto. Ha una storia di defezione e di
ammutinamento.»
«L’ultima volta che si è ammutinata, mi ha salvato la vita,» commentò Holden
«e forse ha salvato anche quella di tutti gli umani esistenti. Qui manca un po’ di
contesto.»
«Non viene da noi come alleata e non sta offrendo di sospendere i suoi atti di
pirateria o anche solo di rallentarli. Collaborare con lei significa che saremo
anche noi responsabili di ogni nave che sequestrerà d’ora in poi.» Fred enfatizzò
la fine di quella tirata calando la grossa mano sul piano del tavolo.
«Si offre di fornire provviste a Ceres» obiettò Bobbie.
«Provviste ottenute rubando, e forse uccidendo.»
Fred allargò le mani, ma Holden non lo stava guardando. Naomi sorseggiò
l’acqua. Era fredda, con un pungente sapore di minerali e non allentò il nodo
che aveva in gola. Dovette resistere all’impulso di tirarsi i capelli davanti agli
occhi. Bobbie aveva portato lì Holden come qualcuno che combattesse al suo
fianco, qualcuno che Fred Johnson conosceva e rispettava, ma la marziana non
conosceva Jim bene quanto lei. Perfino la lealtà – perfino l’amore – non lo
avrebbero mai indotto a compromettere quello che era il suo senso di ciò che
era giusto o sbagliato. Si chiese se Bobbie sarebbe rimasta sulla Rocinante, dopo
questo. Si augurava di sì.
Chiunque non avesse conosciuto bene Holden avrebbe ritenuto che apparisse
pensoso, ma Naomi poteva scorgere il dolore nella piega delle labbra e
nell’angolazione delle sopracciglia. Il senso di perdita. Posò il bicchiere e gli
prese la mano. Lui sollevò lo sguardo, come se si stesse ricordando solo ora
della sua presenza, e nel guardarlo negli occhi Naomi immaginò di vedere una
luce spegnersi nelle loro profondità. O meglio, no, non si era spenta. Non era
estinta, era solo avvolta da qualcosa. Un’armatura. O forse rammarico.
«D’accordo» disse. «Come facciamo a metterci in contatto con Pa?»
Naomi rimase interdetta. Anche il volto di Fred esprimeva la stessa sorpresa e
confusione.
«Vuoi cercare di forzarmi la mano?» chiese Fred. «Non lo faremo.»
«Se necessario, puoi rimuovere la tua gente dalla Roci» disse Holden, annuendo
come se stesse acconsentendo a qualcosa. Fred si accigliò in un modo da cui si
capiva che, a suo parere, parlare personalmente con Pa poteva essere soltanto il
secondo peggior piano presente sul tavolo. «Se dovremo farlo da soli, saremo
meno efficaci, ma faremo il possibile.»
«Faremo?» domandò Naomi.
Jim le strinse le dita. «Avremo bisogno di qualcuno come lei» rispose, in tono
così gentile che fu come se qualcuno sussurrasse una canzone d’amore.
Naomi non era certa di cosa intendesse, e questo non la fece sentire meglio.
21
Jakulski

«Favór» disse Shului. «Non ti chiederò nada alles. Però fai questo per me, sa sa?»
Jakulski agitò le mani aperte in un gesto di rifiuto. Kelsey era in bagno, quindi
erano soli nel centro di comando tecnico di Medina. Siccome era posto al di
fuori del corpo centrale, era uno dei pochi posti della stazione sempre privi di
gravità. I sedili erano fissati a quello che sarebbe stato il pavimento, se mai i
reattori della stazione fossero stati riattivati. Angeli vestiti in blu e oro
spingevano delle arcate verso un Dio che, in assenza di gravità, pareva guardarli
in tralice. La sola parte che aveva senso per Jakulski erano le stelle.
Shului era il ritratto della disperazione: la bocca era contorta dalla tensione,
teneva le mani protese dinanzi a sé e aveva lo sguardo implorante. Il grosso
orzaiolo sulla palpebra superiore dell’occhio sinistro sembrava qualcosa tratto
dal Libro di Giobbe.
«Non posso» replicò Jakulski. «Ho promesso alla mia squadra che stanotte
avrei offerto io.»
«Lo farò io al tuo posto. Salderò sus conto, y alles la» insistette Shului. «Favór.»
Era già stato un turno lungo, e la verità era che Jakulski non vedeva l’ora di
sedersi da qualche parte dove ci fossero almeno un po’ di gravità e uno scotch
decente. Inoltre, il cibo secco bianco servito nel caffè frequentato di solito da
Salis e da Vandercaust gli ricordava la sua infanzia. La prospettiva di rimanere
per un altro mezzo turno – e, cosa ancora peggiore, di indossare per mezzo
turno quella pinché uniforme da cerimonia della Marina Libera – per poter
prendere parte alla cerimonia di benvenuto al posto di Shului non lo attirava.
Era però difficile contemplare la disperazione che traspariva dall’espressione
del giovane. Se fosse stato furbo, avrebbe continuato a rifiutare finché Kelsey
non fosse tornato. Sarebbe stato più facile se ci fosse stato qualcun altro
presente. Avrebbe impedito a Shului di umiliarsi tanto. Non posso. Mi dispiace.
E sarebbe finita lì.
«Perché?» domandò. «È soltanto una cerimonia di benvenuto, sì?»
Shului si mostrò imbarazzato e indicò l’occhio infetto. «Rindai sarà presente.
Vedrà questo. Favór, fratello.»
«Che! La stai ancora evitando? Non ti morderà. Parlale.»
«Lo farò, lo farò» garantì Shului. «Ma solo dopo esá bastardo sarà guarito, sì?»
«Bist bien» assentì Jakulski, scuotendo il capo. Poi, con un sospiro, aggiunse:
«Favór.»
Per un momento pensò che Shului lo avrebbe abbracciato, ma per fortuna il
giovane si limitò a prenderlo per le spalle e ad annuire in un modo secco che
probabilmente considerava virile. Essere giovani significava essere senza dignità.
Essere giovani e innamorati era anche peggio. Lui stesso era stato un cucciolo,
un tempo, pieno degli stessi desideri e paure propri di ogni generazione. Il fatto
che maturando li avesse superati non significava che non ricordasse com’era
stato. E, dannazione, quell’occhio impastato di pus era difficile da guardare.
Mandò un messaggio alla squadra tecnica – Vandercaust, Salis e Roberts –
avvisando che gli era stato assegnato un periodo extra di servizio e che se poteva
li avrebbe raggiunti quando avesse finito. Vandercaust rispose con un generico
assenso. Probabilmente era la sola risposta che avrebbe ricevuto da loro, ma
forse sarebbe riuscito a sgusciare via dalla cerimonia abbastanza in fretta da
raggiungere la squadra. Avrebbe coperto Shului e non avrebbe dato alla squadra
tecnica la sensazione di considerarsi superiore a loro. Avrebbe dato un colpo al
cerchio e uno alla botte. Se fosse riuscito a fare tutto, sarebbe stata una notte
stancante, ma alcune notti erano così.
E le persone erano pur sempre persone, non importava dove andasse o cosa
facesse.
Kelsey tornò dal bagno e prese posto sul sedile a smorzamento principale, con
gli angeli che guardavano benevoli in basso da sopra la sua spalla. Quando
Jakulski disse che doveva smontare qualche minuto prima per poter andare nella
sua cabina a cambiarsi, Shului fu pronto a dire che non importava e che avrebbe
pensato lui a tutto.
La transizione dal centro di comando alla sommità della nave al corpo centrale
si effettuava mediante una lunga rampa ricurva che Jakulski percorse su un
carrello le cui ruote aderivano al plancito con qualsiasi g, arrivando fino alla
superficie interna del corpo centrale per poi scendere da lì sotto il falso terreno,
come un cavernicolo che scendesse nel sottosuolo. La sua cabina era in fondo,
verso la sezione di ingegneria. Se avesse saputo che avrebbe dovuto andare ad
accogliere la Proteus e i grandi personaggi provenienti da Laconia si sarebbe
portato dietro l’uniforme di gala all’inizio del turno e avrebbe preso l’ascensore
che correva per tutta la lunghezza della nave, fuori del corpo centrale, ma così
andava quasi altrettanto bene.
Fin dall’inizio, il corpo centrale era stato costruito spazioso, più come una
stazione che una nave, quasi si fosse saputo cosa la struttura era destinata a
diventare. Lunghi corridoi dall’alto soffitto e luci a spettro completo, come
quella che c’era stata sulla Terra prima che Marco scaraventasse una manciata di
montagne nel suo cielo. Imboccò uno dei corridoi diagonali, che curvava verso
la sua cabina sull’ipotenusa della griglia di traffico del corpo centrale, e si
permise di sentirsi un po’ filosofico riguardo a come le luci di Medina erano una
sorta di memoria radicata nella loro specie, un’idea di luminosità sopravvissuta
alla luce che l’aveva ispirata. Come avevano fatto i cinturiani. Luce della Fascia.
Era una bella idea, ma era anche un po’ malinconica, il che a suo parere la
rendeva anche migliore. In tutte le cose belle ci sarebbe dovuto essere appena un
po’ di dolore perché le faceva apparire reali.
La sua cabina era stata costruita per un giovane mormone single che vivesse
solo prima di sposarsi, ma per lui era più che sufficiente. Si tolse la tuta, la gettò
nel riciclatore, si pettinò i capelli e tirò fuori la divisa della Marina Libera, poi
proiettò la propria immagine sullo schermo a parete per vedere che aspetto
aveva. Quel dannato arnese era fottutamente scomodo da indossare, ma
nonostante questo dovette ammettere che gli stava più che bene. Un uomo
distinto, un anziano del suo popolo, ecco cos’era.
Con sua sorpresa, scoprì di avvertire quasi un senso di anticipazione.
Medina era stata in tensione da quando era arrivata la notizia che Pa e le sue
navi avevano disertato, ma era stata poca cosa. Lì tutti erano stati parte dell’APE
prima di appartenere alla Marina Libera, e insieme all’APE erano stati membri del
Collettivo Voltaire, o di Black Sky, o del Ramo d’Oro. O del Sindacato. Fazioni
dentro fazioni dentro fazioni, a volte con gruppi molto diversi che reclamavano
uno stesso nome, questa era una cosa tipica della Fascia quanto il cibo secco
rosso e il whisky di funghi.
Sotto un certo aspetto, quella frattura nella Marina Libera era perfino
confortante, non perché significava che le cose andavano bene, ma perché
stavano andando a rotoli in un modo familiare. Pa cercava di acquisire uno
status superiore, e Marco l’avrebbe rimessa al suo posto. L’umanità funzionava
ancora come aveva sempre fatto. In ogni caso, tutti gli scontri si stavano
verificando all’interno dell’orbita di Giove. Nessuno voleva che si estendessero
fino a raggiungere la zona lenta. Se Duarte si mostrava teso per la situazione era
perché non era originario della Fascia. Qualsiasi cosa lui e i suoi stessero facendo
dal lato opposto del portale di Laconia, prima di andare laggiù erano stati
marziani, e continuavano a esserlo.
Duarte voleva mandare più risorse a Medina? Bene. Voleva insediare dei
consiglieri sulla stazione, accertarsi che tutti i locali venissero addestrati nell’uso
dell’equipaggiamento che stava inviando? Bene. Medina ci guadagnava e tutti
erano contenti. E in aggiunta a tutto questo, la Proteus stava portando lì
l’equipaggiamento, e tutti volevano dare un’occhiata alla Proteus. La prima nave a
entrare dal portale che prima non fosse uscita da esso. Era l’occasione di dare
un’occhiata a ciò che Duarte e la sua gente stavano costruendo laggiù. Se avesse
potuto scegliere, Jakulski avrebbe comunque preferito essere al caffè con la sua
squadra tecnica, bere un po’ troppo e flirtare, ma dato che non sarebbe successo,
avere modo di dare un’occhiata ai nuovi consulenti era una buona seconda
scelta.
La Proteus aveva attraversato il portale in precedenza, quel giorno, abbastanza
veloce da avvicinarsi a Medina per abbrivio senza ricorrere al suo Epstein e
abbastanza lenta da permettere ai suoi propulsori di manovra di metterla in
posizione di attracco, al livello dei ponti della sezione ingegneria. Jakulski aveva
sentito voci secondo cui i marziani stavano limitando al massimo l’uso
dell’Epstein in modo che nessuno potesse dare una buona occhiata alla firma del
loro reattore, ma non capiva che senso avesse. Erano solo paranoia, voci e
superstizione. La Proteus poteva anche essere la prima nave costruita in cantieri
che si trovavano sul lato opposto dell’anello, ma era soltanto una nave. Non era
come se stessero volando sul dorso di un drago.
Il capitano Samuels, che aveva il comando di Medina perché era cugina di
Rosenfeld Guoliang, ma era comunque una buona amministratrice, era vicino al
portello in divisa di gala della Marina Libera. Jon Amash era là a rappresentare la
sicurezza, e Shoshana Rindai, con i capelli ramati raccolti in una treccia e occhi
dello stesso morbido tono marrone della sua pelle, faceva lo stesso per il reparto
sistemi. Shului non aveva torto. Se avesse avuto trent’anni di meno, anche
Jakulski avrebbe fatto un pensierino su quella ragazza.
Samuels lo fissò con aria accigliata, ma questo non significava niente di
particolare. «Sei qui in rappresentanza della sezione tecnica?»
Jakulski sollevò il pugno in segno di assenso e prese posto nella fila di pezzi
grossi, pronto a dimostrare ai Marteños che la Marina Libera aveva la stessa
disciplina di qualunque altra forza militare. Medina era stata destinata a essere
una nave generazionale, e questo traspariva ancora dalla sua struttura. Non
c’erano molte occasioni di accogliere visitatori nel grande nulla fra le stelle,
quindi il portello della sezione ingegneria si apriva su uno spoglio ponte
funzionale con luci da lavoro bianche a LED e una fila di mech edili gialli e
arancione schierati lungo una parete. L’aria odorava di olio per saldatrici usato e
lubrificante al silicio.
Rindai gli lanciò un’occhiata, sollevando il mento in un gesto di saluto. «Perché
Shului non è venuto?» chiese, ma prima che lui potesse escogitare una risposta il
portello si aprì e arrivarono i marziani. Il primo pensiero di Jakulski, rapido
come un riflesso, fu che per essere grandi salvatori avevano un aspetto davvero
insignificante.
Il capitano della Proteus era un uomo dalla pelle scura, con occhi distanziati e
labbra ampie ed espressive. La sua uniforme era marziana, tranne per le
mostrine. Non era più alto di Jakulski, e probabilmente era a suo agio nel
muoversi a zero g. I sei alle sue spalle indossavano tute da civili, ma l’ampiezza
delle spalle e il taglio dei capelli indicava che erano militari tanto quanto il
capitano, indipendentemente dal vestiario. Samuels annuì, ma non salutò. Il coyo
della Proteus agganciò la caviglia a un appiglio inserito nel pavimento e si fermò
con la stessa grazia di un cinturiano.
«Chiedo il permesso di salire a bordo, capitano» disse.
«Siamo lieti di averti qui, capitano Montemayor» replicò Samuels. «Esá sono i
miei capi-dipartimento. Amash, Rindai, Jakulski. Sono qui per aiutarti a costruire
e armare la base di sicurezza.»
Base di sicurezza? Jakulski trasse un lungo respiro. Shului non aveva fatto
menzione di questo. Si chiese se il non voler far vedere a Rindai il suo occhio
infetto non fosse stata una balla e lui avesse soltanto voluto che fosse qualcun
altro a rimanere coinvolto nel progetto. Però era altrettanto probabile che lui
non ne avesse saputo niente...
«Niente affatto, signore» ribatté l’uomo della Proteus... Montemayor, così
Samuels lo aveva chiamato. «Siamo qui per aiutare voi. L’ammiraglio Duarte mi
ha incaricato di assicurarvi in modo specifico che ha la massima fiducia nella
vostra capacità di far fronte a qualsiasi instabilità che possa provenire dal sistema
del Sole. Vogliamo soltanto assistere e supportare i nostri alleati di Medina come
meglio possiamo.»
«Lo apprezziamo» rispose Samuels. Forse Jakulski lo immaginò soltanto, ma
parve rilassarsi un poco, come se si fosse aspettata che quell’incontro risultasse
meno cordiale e fosse sollevata che il coyo marziano avesse esordito mostrandosi
sottomesso. Jakulski guardò verso gli altri sei uomini, chiedendosi con quale di
loro avrebbe lavorato, e a cosa, esattamente.
«Avanti, venite a bere qualcosa» aggiunse Samuels, battendo una pacca sul
braccio di Montemayor come se fossero stati amici. «Poi vi daremo una scorta
che vi accompagni ai vostri alloggi.»
«Si sta ripetendo la situazione di Callisto» disse Roberts.
«Non eri neppure nata quando ci sono stati i problemi su Callisto» ribatté Salis.
«Que ‘si sta ripetendo la situazione di Callisto’?»
Jakulski si appoggiò all’indietro, premuto verso il basso dalla rotazione del
corpo centrale. Da qualche parte, cinque livelli più in basso e un quarto di
chilometro verso poppa, e magari dieci gradi nel senso della rotazione, lo
aspettava la sua cabina con abiti comodi. Dopo che i marziani erano stati accolti,
si era offerto loro da bere e tutto il resto, lui si era affrettato a raggiungere il
caffè, pensando che forse avrebbe ancora trovato lì la squadra tecnica prima che
andasse a casa, e non si era preso il tempo necessario per cambiarsi. Adesso
l’uniforme gli irritava il collo, anche se aveva slacciato i primi bottoni.
La squadra tecnica era stata ancora tutta là, e non si era mossa dal suo arrivo.
Erano piantati sulle loro sedie come se vi avessero messo radici.
«Non è necessario essere presenti per sapere cos’è una guerra per procura»
affermò Roberts. «La mia famiglia è callistiana da tre generazioni e so com’è
stato anche se non ero presente. La Terra ha mandato forze di sicurezza private.
Marte ha mandato consulenti. Tutti erano lì soltanto per aiutare questo
sindacato o quel gruppo commerciale, ma alla fin fine Marte e la Terra stavano
soltanto sacrificando vite cinturiane per non dover rischiare la loro gente.»
Jakulski si era aspettato che il locale fosse vuoto. Il suo turno era finito da un
pezzo, e avrebbe dovuto andare a dormire già da un po’, ma la luce simile a
quella del sole era alta e intensa, e perfino dopo generazioni vissute nel vuoto
una qualche parte atavica del cervello continuava a dirgli che questo significava
che era mezzogiorno. Nel corpo centrale il mezzogiorno era permanente,
sempre e comunque, e con il sovrapporsi di turni che manteneva Medina viva e
funzionante indipendentemente da quello che sosteneva l’orologio, c’erano
persone che venivano lì per fare una colazione anticipata o pranzare in ritardo, o
anche per bere qualcosa nel tornare alla loro cabina. Oppure, come lui e la
squadra tecnica, per passare un po’ di tempo dopo aver lavorato fino a tardi.
Tutto nello stesso orario. Era la tendenza dell’umanità lasciata libera di vivere
secondo orari di sua scelta, invece di essere incatenata al ciclo di ventiquattro ore
proprio della Terra e di Marte. Era tempo cinturiano.
«Forse, se fossero venuti di loro iniziativa» controbatté Salis. «Allora potrei
capirlo. Ma da quanto ho sentito, le cose non stanno così.»
«Da quanto hai sentito?» Roberts scoppiò a ridere. «Non sapevo che avessi
delle videocamere installate nelle stanze dei potenti. Hai informatori all’interno,
tu?»
Salis reagì con un gesto volgare, ma stava sorridendo. Jakulski bevve un sorso
di birra, e rimase sorpreso di scoprire che il bulbo era già quasi vuoto.
«Io ho amici alle comunicazioni» spiegò Salis. «Quello che ho sentito è che è
stato Marco a chiedere a Duarte di venire qui. Non è Laconia che è venuta a
trattarci come marionette di cui tira i fili, ma sono i marziani a danzare alla
musica della Marina Libera.»
«Perché cazzo dovrebbero farlo?» chiese Jakulski. Le sue parole suonavano
come quelle di Roberts, come se avesse voluto provocare Salis, ma la verità era
che era più che disposto a permettere a Salis di convincerlo a essere d’accordo
con lui. Nel suo stato di stanchezza, non riusciva a smettere di pensare a quei sei
consulenti dagli abiti civili e dal fisico militare.
«Per lo stesso motivo per cui cominci a nascondere le tue chip del casinò in un
posto diverso quando il tuo ragazzo si trasferisce altrove» ribatté Salis. «Pensaci
su, d’accordo? Michio Pa era uno dei suoi cinque sottocapi. Un pezzo grosso.
Forse Marco non l’ha informata su Medina, ha gestito la cosa con il solo aiuto di
Rosenfeld, o forse tutti sapevano qualcosa su tutto. Adesso Pa sta facendo la sua
mossa, quindi è una contromossa intelligente cambiare le cose. Lei pensa di
sapere come sono protetti i cannoni a rotaia? Allora lui cambia quella
protezione. È semplice.»
«Oppure, adesso che Marco, Rosenfeld e Dawes sono distratti, Duarte piazza
qui i suoi ‘consulenti’, così quando lo vorrà potrà puntare i cannoni a rotaia
contro Medina e ordinare a tutti noi cosa dobbiamo preparargli per colazione»
replicò Roberts.
Jakulski sollevò una mano, attirò l’attenzione di una cameriera e indicò il bulbo
vuoto. Un’altra birra non avrebbe aumentato il danno già fatto, e comunque
sarebbe finito tutto sul dannato conto di Shului. Meglio approfittarne. Di fronte
a lui, Vandercaust notò la cosa e sollevò a sua volta il bulbo. La cameriera agitò
la mano in segno di assenso e riprese a fare quello che stava facendo. Un uccello
con le ali ampie quanto le dita allargate di Jakulski passò loro accanto, una
svolazzante saetta azzurra che cavalcava la brezza come se si fosse ancora
trovata su un pianeta il cui orizzonte si incurvava verso il basso, invece che
verso l’alto. C’era qualcosa di meraviglioso in uno spazio abbastanza grande da
poterci volare.
«Tu cosa ne dici?» chiese Jakulski, guardando verso Vandercaust.
«Io non dico niente, sa sa?» replicò il tecnico più anziano, grattando
distrattamente il tatuaggio del cerchio spezzato che aveva sul polso. «Bevo.»
Jakulski socchiuse gli occhi e la curiosità si agitò lenta nel suo cervello. Era
troppo stanco, sarebbe dovuto andare a dormire, ma la cameriera stava
arrivando con due bulbi pieni e lui era venuto fin lì per stare con la squadra.
«Allora, qual è l’ipotesi più valida? Duarte muove le sue pedine per controllare
Medina? Marco sta usando Laconia contro Pa? Cos’è che stiamo vedendo
succedere?»
«La mia fottuta migliore ipotesi è che non lo so» replicò Vandercaust, in un
tono cordiale, con un gesto tanto controllato da rendere evidente che era molto
ubriaco. «È una guerra. E le guerre non sono così.»
«Non sono come?» chiese Roberts.
«Non sono storie che parlano di guerre» rispose in tono solenne Vandercaust.
«Le storie sulle guerre vengono dopo. Come quando Qin Shi Huang ha unificato
la Cina, o quando guardi e dici che questo ha portato a questo e poi è finito
tutto. Come è cominciata? La guerra è cominciata quando Marco ha colpito la
Terra? Quando la Terra ha colpito la Stazione di Anderson? E finirà quando la
Terra e Marte saranno morti? Quando i cinturiani avranno una casa? Quando
tutti concorderanno che è finita?»
Roberts levò gli occhi al cielo, ma Salis si protese in avanti, le dita intrecciate
su un ginocchio. Jakulski prese il bulbo pieno che la cameriera gli porgeva e
bevve. La birra era fresca e ricca, ma qualcosa lo indusse a dispiacersi un poco di
essere rimasto lì a berla. Marziani su Medina, Pa che comandava un suo gruppo
e Fred Johnson che si era ripreso Ceres. Sembrava che qualcuno stesse
costruendo la più grande trappola per topi del sistema solare, e lui si trovò a
pensare che forse viveva dentro al formaggio che faceva da esca.
22
Holden

In realtà non era poi passato molto tempo da quando Fred aveva fornito un
equipaggio alla Rocinante per il suo viaggio fino alla Luna, ma era anche passata
una vita. Adesso che l’equipaggio proveniente da Tycho se n’era andato, la nave
sembrava più grande. Più vuota. Era come la fine di un party davvero molto
lungo, con tutti gli ospiti che erano tornati a casa e Holden che non riusciva a
decidere se si sentiva solo o sollevato. Quando fossero ripartiti, questa volta,
avrebbero avuto soltanto un pilota. Un ingegnere. Ancora due meccanici,
supponendo che quello fosse il titolo ufficiale di Clarissa. Dopo aver volato per
tanti anni sulla Roci soltanto con la sua piccola famiglia, era strano sentire la
perdita di quel personale ridondante, ma in un angolo della sua mente c’era
ancora un addestramento radicato che gli ricordava che tutti dovevano essere
rimpiazzabili. Come se tenere a bordo Chava Lombaugh avrebbe davvero reso
tollerabile la perdita di Alex a causa di un proiettile di CDP ben piazzato o di un
ictus durante un’accelerazione a g elevato, o per una qualsiasi delle altre mille
cose che potevano andare storte nello spazio. Come se Sandra Ip avesse mai
potuto prendere il posto di Naomi.
Da un lato, tutto questo era impensabile. Dall’altro, era ragionevole. Alex era
Alex, e nessun altro lo sarebbe mai stato, ma se qualcosa fosse andato storto,
avrebbero comunque avuto bisogno di un pilota. E le possibilità che le cose
andassero storte parevano molto elevate.
La Minsky aveva cominciato la sua vita partendo dalla Luna carica di coloni
finanziati dalla Royal Charter Energy, la stessa compagnia che era sbarcata su
Ilus e Longdune e New Egypt. Se le cose fossero andate secondo i piani, quei
coloni avrebbero attraversato i portali diretti verso un sistema chiamato San
Esteban. Invece, erano stati catturati dalla Serrio Mal, depredati, e adesso stavano
frenando in direzione di Ceres con quello che rimaneva dell’equipaggio e delle
provviste dopo che Michio Pa e i suoi uomini si erano serviti. Cibo e acqua,
materiali idroponici e medicinali, mech edili e apparecchiature scientifiche, e le
persone capaci di usarle. E al suo fianco, in frenata, c’era una nave da guerra
della Marina Libera come scorta. Probabilmente era una di quelle di Pa.
Probabilmente non era una trappola.
Probabilmente Fred non li avrebbe ridotti a una nube di gas radioattivo. Ma
solo probabilmente.
Solo sul ponte di comando, aveva richiamato a schermo il diagramma
dell’inventario della Roci e aveva l’ultimo pezzo editato da Monica che scorreva
sul terminale palmare. L’inventario emise un suono e si aggiornò. Holden
impiegò un secondo a trovare i nuovi dati.
«Alex?»
«Sono qui, capo» replicò la voce di Alex, che arrivava sia dal comunicatore, sia
dalla cabina di pilotaggio.
«Mi confermi che vedi reintegrate le scorte di medicinali del tuo sedile a
smorzamento?»
Trascorse un momento. «Vedo una carica completa di fottuti medicinali
sintetici che è garantito causeranno emicrania e diarrea se usati per più di otto
ore.»
«Sul serio?»
«Avevamo roba migliore di questa sulla Canterbury» rispose Alex.
Holden avvertì una certa preoccupazione. «Perché abbiamo ricevuto questi
medicinali scadenti?»
Naomi rispose come se fosse stata accanto a lui, invece di essere all’interno di
un mech da carico, sul molo. «Perché l’alternativa era quella di caricare gli
iniettori con la morfina, in modo che non ti importasse molto di finire
schiacciato. Sai, c’è in corso una guerra.»
«Infatti» annuì Holden, mentre l’inventario segnalava un altro aggiornamento.
«È giusto che risulti che il carico di colpi per i CDP è all’ottanta percento?»
domandò Amos.
«A me risulta ottantuno punto sette» replicò Holden.
«Davvero? Sono sicuro che quel dato non è giusto.»
«Controllalo» rispose Holden. «Ti avvertirò se nel frattempo la nave dovesse
cambiare idea.»
«Ci stiamo lavorando» assentì Amos.
Quel plurale si riferiva a Clarissa. Era davvero una cosa a cui si sarebbe dovuto
abituare. Si sentiva in colpa per non averlo già fatto, ma non aveva una chiara
idea di come liberarsi dal disagio che lei gli causava. Ancora una volta quel
problema scivolò indietro nella sua lista delle priorità. Chi poteva saperlo, magari
sarebbero morti tutti sotto una grandine di proiettili prima che esso si
ripresentasse e non avrebbe più dovuto preoccuparsene.
Sul suo terminale scorreva la nuova versione editata del suo video più recente.
Quando fosse stato diffuso, sarebbe stato il decimo. La maggior parte di esso era
un’intervista a una coppia di musicisti che aveva incontrato nella parte peggiore
della stazione, due cinturiani che parlavano un dialetto tanto stretto da
costringerlo a usare un programma di traduzione. Le loro voci però erano
musicali e in esse c’era un affetto che trascendeva il linguaggio. Monica aveva
rifatto i sottotitoli, mettendoli nella parte alta dell’immagine in modo che le
parole fossero abbastanza vicine al volto da permettere allo spettatore di vedere
l’espressione dei due mentre parlavano. Parevano nonno e nipote, ma ciascuno
si riferiva all’altro con il termine ‘cugino’.
Li guardò parlare del panorama musicale di Ceres, della differenza fra la
musica dal vivo e le registrazioni, fra quelle che chiamavano esibizioni tényleges e
l’uso del microfono. Non parlavano della Terra o di Marte, dell’APE o della
Marina Libera. Non aveva fatto loro domande al riguardo, e le poche volte in cui
la conversazione era scivolata verso la politica lui l’aveva riportata sulla musica.
Altri due modi per ricordare che non tutti quelli che vivevano fuori da un pozzo
gravitazionale avevano scagliato rocce contro la Terra. Questo video gli piaceva
molto e voleva che venisse approvato per la diffusione prima che lasciassero
l’attracco. Giusto per precauzione, pensò, senza permettere alla mente di
focalizzarsi sul motivo di quella precauzione. Giusto per precauzione.
I primi nove video che aveva diffuso si erano conquistati un po’ di popolarità.
Sapeva che questo era in parte dovuto alla presenza del suo nome. Essere una
celebrità politica minore aveva i suoi lati positivi, e uno di essi era il fatto che il
suo progetto aveva già pronto un pubblico ridotto ma affidabile. La cosa ancora
migliore, però, era che cominciava ad avere degli imitatori, persone che avevano
un loro feed, su Titano, sulla Luna e sulla Terra, e che avevano preso a fare
interviste e a presentare schegge di vita vissuta come quelle trasmesse da lui.
O forse lo avevano sempre fatto ed era lui che li stava copiando. Forse finora
non aveva mai notato l’esistenza di quei video.
«Capitano?» chiamò Amos, e Holden si rese conto che non doveva essere la
prima volta. «Tutto a posto lassù?»
«Sono qui e sto bene. Ero distratto. Cos’hai per me?»
Rispose Clarissa. «Prima uno dei feed non si era azzerato. L’abbiamo
individuato e adesso il conteggio è confermato.»
«Splendido» rispose Holden. Sul suo palmare, il musicista più anziano trasse
un accordo dalla chitarra e quello più giovane rise. Chiuse il file. Non era più in
grado di dire se funzionava oppure no perché il suo cervello non riusciva a
immaginare come sarebbe stato vederlo per la prima volta, se l’umanità che lui
scorgeva in esso sarebbe stata presente agli occhi di qualcuno che si trovava sulla
Terra, su Marte o sulle navi coloniali. O dall’altra parte dei portali.
Sentì arrivare Naomi prima di vederla e si girò a guardarla da sopra la spalla
mentre lei usciva dall’ascensore. La sua tuta mostrava ancora linee di sudore
dove le cinture di sicurezza del mech da carico l’avevano tenuta contro il sedile,
e quando lei si chinò a baciargli la fronte la prese per un braccio. Aveva gli occhi
leggermente iniettati di sangue, come le succedeva quando era stanca. Naomi
abbassò lo sguardo su di lui e accennò una risata.
«Cosa c’è?»
«Sei molto bella» rispose Holden. «Spero di dirtelo abbastanza spesso.»
«Lo fai.»
«Allora spero di non dirtelo tanto spesso da farlo diventare irritante.»
«Non lo fai» replicò lei, sedendo sul sedile a smorzamento accanto al suo e
stendendo il braccio per poter mantenere le dita intrecciate con le sue. «Stai
bene?»
«Mi sento un po’ esausto.»
«Solo un po’?»
«Non ho ancora le allucinazioni.»
Naomi scosse il capo, appena qualche millimetro in ciascuna direzione. «Sai
che non è tua responsabilità sistemare ogni cosa.»
«Salvare l’umanità da sé stessa è un progetto di gruppo, sì» ribatté lui.
«Davvero, tutto quello che sto facendo è tentare di mostrare a tutti sulla Terra,
su Marte e nella Fascia e su Medina e nelle colonie che in realtà siamo ancora
tutti un’unica tribù.»
«In modo da trascendere tutta l’esperienza vissuta umana da prima dell’alba
della storia?»
«E da mantenere ridotta al minimo quella parte in cui ci uccidiamo a vicenda»
aggiunse lui. «Non dovrebbe essere difficile.»
«Almeno sai perché sei stanco.»
Naomi gli strinse le dita, poi le lasciò andare e richiamò a schermo un display
tattico di Ceres e dello spazio circostante. La stazione e la flotta di navi che la
circondava come una nuvola di lucciole blu erano contrassegnate come forze
amiche. La nave coloniale e la sua scorta che erano in fase di rallentamento
erano in giallo... stato sconosciuto ma rilevante. L’incontro era previsto entro
poche ore.
«Una parte di me spera che Fred non ci permetta di andare. Che quando
richiederemo la rimozione degli attracchi ci dicano semplicemente di no e che
rimaniamo bloccati qui» disse Holden.
«Mentre la nave coloniale si gira all’ultimo momento e accelera per colpire il
porto, esplodendo in una sfera di fuoco nucleare» aggiunse Naomi.
Holden tirò fuori il terminale e mandò la propria approvazione a Monica, su
Tycho. Alla velocità della luce, sarebbero comunque passati alcuni minuti prima
che lei la ricevesse. «Messa così, la cosa suona meno invitante.»
Alle loro spalle l’ascensore si mosse, scendendo con un ronzio. La voce di
Alex, che giungeva sempre doppia, dalla cuffia e dal vivo... finì il confronto dei
dati con Amos e Clarissa. Holden ripose il terminale palmare nel compartimento
da g elevato del sedile a smorzamento. Se le cose fossero andate male, non
voleva che cominciasse a schizzare per tutto il ponte di comando.
«Posso chiederti una cosa?» La voce di Naomi era bassa ma intensa.
«Certo.»
«Perché stiamo facendo questo?»
Holden desiderò di avere la mente un po’ più limpida. Dopo un certo punto,
aveva la sensazione che i suoi centri del linguaggio fossero collegati direttamente
alla bocca senza passare per il resto del cervello. «Perché non possiamo far
saltare in aria abbastanza cose da trasformare questa situazione in qualcosa di
buono. Ci servirà qualcosa di più nella nostra cassetta degli attrezzi.»
Bobbie emerse dall’ascensore. In lei c’era qualcosa di strano, ma Holden non
riuscì a individuare cosa. Indossava semplici indumenti neri, ma il suo
portamento li faceva apparire come un’uniforme. Le sue mani erano serrate a
pugno lungo i fianchi, ma non pareva tanto infuriata quanto nervosa, il che non
lasciava presagire niente di buono.
«Ehi» la salutò.
«Signore.»
«Per favore, non mi chiamare così. Sulla nave non lo fa nessuno. È tutto a
posto? Fred vuole qualcosa?»
«Non mi manda Johnson» rispose Bobbie. «Stai per lasciare l’attracco e sono
qui per prendere servizio.»
«Okay» annuì Holden. «Puoi reindirizzare qui il controllo tattico e degli
armamenti oppure occupare il sedile del cannoniere, vicino ad Alex. Scegli
quello che ti fa sentire più a tuo agio.»
Bobbie trasse un profondo respiro, e qualcosa che Holden non comprese le
passò sul volto. «Occuperò il sedile del cannoniere» disse infine, e salì nella
cabina di pilotaggio. Nel guardare le sue caviglie scomparire sempre di più,
Holden aggrottò la fronte al punto da farla dolere un poco.
«Quello è stato... mmh... è stato un momento speciale?» chiese.
«Lo è stato» confermò Naomi.
«Buono o cattivo?»
«Un momento davvero buono.»
«Bene. Merda, mi dispiace essermelo perso» commentò Holden.
«Allora, avete tutti le cinture allacciate?» chiese Alex.
Tutti risposero, a uno a uno. Erano pronti, o almeno lo erano quanto più era
possibile. Holden lasciò sprofondare la testa nel gel del sedile a smorzamento,
richiamando sul suo schermo lo stesso display presente su quello di Naomi.
Attualmente c’era un numero terribilmente elevato di navi che fluttuavano nelle
vicinanze di Ceres. Ascoltò Alex richiedere che venissero rimossi i blocchi di
attracco. Per alcuni lunghi, dolorosi secondi l’autorità del controllo del traffico di
Ceres non rispose. Poi: «Affermativo, Rocinante. Avete l’autorizzazione al
decollo.»
La nave tremò e la gravità da rotazione di Ceres scomparve quando Alex lasciò
che la loro quantità di moto li scagliasse nel vuoto. Sullo schermo, erano un
punto bianco che volava su una traiettoria tangente alla curva massiccia della
stazione. Holden attivò le telecamere esterne e guardò allontanarsi la superficie
del pianeta nano.
«Bene» commentò Naomi. «Pare che Fred non abbia spinto la sua
disapprovazione per questa cosa al punto da impedirci di partire.»
«Già» annuì Holden. «Spero che sappia quello che sta facendo, affidando un
lavoro tanto delicato ad agenti del caos come noi.»
Amos ridacchiò e Holden si rese conto di aver parlato sul canale aperto a tutto
l’equipaggio.
«Puoi essere sicuro che sta improvvisando a mano a mano che le cose
procedono» replicò poi Amos. «In ogni caso, lo scenario peggiore è che finiamo
tutti ammazzati e lui si senta furbo per non aver lasciato la sua gente a bordo
quando è successo. Lui vince, comunque vadano le cose.»
Quando Bobbie parlò, il suo sorriso trasparve dal suo tono, nonostante le
parole: «Nessuno muore durante il suo turno di servizio senza il permesso
dell’ufficiale comandante.»
«Se lo dici tu, Babs» ribatté Amos.
«Tenetevi pronti» avvertì Alex. «Sto per impostare la rotta.»
Di norma, gli spostamenti della nave per opera dei propulsori di manovra
erano quasi subliminali per Holden, una danza sottile di vettori e spinta che era
parte della sua vita da quando aveva lasciato la Terra. Essa lo disturbò solo
perché era tanto stanco, preoccupato e imbottito di caffè. A ogni assestamento,
alto e basso cambiavano un poco, poi si tornava in assenza di gravità. Quando
Alex attivò l’Epstein per alcuni secondi, la Roci cantò, armoniche che vibravano
nella gamma degli ipertoni su e giù lungo lo scafo come la campana di una
chiesa.
«Non esagerare, Alex» avvertì Holden. «Non vogliamo che la nostra frenata
finisca per fondere qualcuno. Almeno, non credo che lo vogliamo.»
«Non è un problema» rispose Alex. «Ci limiteremo a tornare a una buona
velocità passiva finché non saremo proprio accanto a loro. Le emanazioni della
frenata finale non fonderanno nessuno.»
«E tenete in caldo siluri e CDP» aggiunse Holden. «Giusto per precauzione.»
«Provvedo» replicò Bobbie. «Ci stanno puntando con i laser a lungo raggio.»
«Quelli di chi?» chiese Holden, mentre abbandonava le telecamere esterne per
richiamare il quadro tattico. Le navi sparse della flotta. Le difese di superficie di
Ceres. La nave catturata e la sua scorta, in lento avvicinamento.
«Oh» mormorò Naomi, nel far scorrere una lista di rapporti di connessione
troppo lunga per stare tutta nello schermo. «Praticamente tutti.»
«La nave di scorta?»
«Anche loro.»
Sullo schermo le navi in avvicinamento sussultarono e i dati che le
circondavano si aggiornarono quando esse smisero di frenare, comparendo da
dietro nuvole di gas surriscaldati. I sensori della Roci controllarono i contorni e la
firma del calore, dando una conferma quasi istantanea. La nave più grande
corrispondeva alla Minsky – larga, massiccia e goffa, con i satelliti per le
comunicazioni destinati a creare una rete intorno a un pianeta alieno che ne
coprivano i fianchi come verruche. Quella più piccola era una corvetta marziana,
di una generazione più nuova rispetto alla Roci, un po’ più leggera, con uno scafo
aerodinamico per penetrare l’atmosfera e probabilmente dotata di armamenti
simili ai suoi. Il suo transponder non rispondeva.
«Detesto vedere una cosa del genere» disse Alex. «Due buone navi di
costruzione marziana che si affrontano? Non è giusto.»
«Ecco, chi lo sa?» replicò Holden. «Forse siamo dalla stessa parte.»
«Se è uno scontro, cerchiamo di vincerlo» interloquì Bobbie. «Ho il permesso
di puntare il bersaglio?»
«Loro ci hanno puntati?» chiese Holden.
«Non ancora» rispose Naomi.
«Allora aspetta» ordinò Holden. «Non voglio essere il primo a cominciare il
ballo.»
Sul suo schermo apparve una richiesta di comunicazione in arrivo da parte di
Fred Johnson, e per un confuso momento Holden si chiese cosa ci facesse Fred
sulla nave da guerra, poi vide che il raggio stretto proveniva da Ceres. Quando
questa faccenda fosse finita avrebbe davvero avuto bisogno di dormire. Accettò
la connessione e Fred apparve su una finestra separata, su un lato dello schermo.
«Ti sei già pentito?» chiese.
«Solo un poco» rispose Holden. «E tu?»
«Voglio mettere in chiaro una cosa. Se... ho detto se... entrerai in possesso della
nave coloniale, per nessun motivo dovrà arrivare a più di trecentomila chilometri
dai miei moli. Se ci sono persone che hanno bisogno di assistenza medica,
rimarranno a bordo e manderemo loro aiuto. Non scenderà niente da quella
nave finché non l’avremo esaminata, sondata, ricaricata, disinfettata e aspersa di
acqua benedetta da parte del primo prete su cui riuscirò a mettere le mani.
Questa stazione non è Troia.»
«Capito.»
«Il solo motivo per cui ti permetto di fare questo è la possibilità di recuperare
ancora vivi prigionieri della Marina Libera.»
«Questa è la sola ragione?» ribatté Holden. «Quindi restituirai le provviste e la
nave ai proprietari invece di usarle per tenere in vita Ceres?»
Fred ebbe un sorriso caldo e gentile. «Non essere idiota.»
«D’accordo» interloquì Bobbie. «Adesso ci stanno puntando. Ho il permesso
di restituire il favore?»
«Concesso» rispose Holden.
Bobbie disse sottovoce qualcosa che non riuscì a cogliere, ma pareva contenta.
«Stai attento, Holden» ripeté Fred. «Tutto questo non mi piace.»
«Ecco, se è una trappola, potrai rifilare un ‘te l’avevo detto’ agli eventuali
pezzetti che resteranno di noi.»
«Ho trenta navi che si accerteranno di elargirvi un rogo funebre nucleare tanto
grande da essere visibile da Proxima Centauri, fra quattro anni. Sai, se là c’è
qualcuno.»
«Non è confortante» osservò Holden.
«Dovremmo aprire le comunicazioni» avvertì Naomi.
«Fred? Devo fare questa cosa. Ti farò sapere com’è andata quando avremo
finito.»
Fred annuì e chiuse la connessione. Holden deglutì per allentare la tensione
alla gola. «Come siamo messi con la distanza?»
«Siamo a portata effettiva di siluro» rispose Bobbie. «E potremo usare i CDP fra
otto minuti e dieci secondi.»
«Il cannone a rotaia è pronto?»
«Oh, sì, dannazione.»
«D’accordo» decise Holden. «Naomi, apri un canale.»
Un momento più tardi, sul suo schermo apparve una nuova finestra, scura ma
con il bordo giallo di una connessione aperta. Erano tanto vicini che non c’era
praticamente nessun ritardo-luce. Questo di per sé bastava a renderlo nervoso.
«Attenzione, nave non identificata. Parla James Holden, della nave mercantile
indipendente Rocinante. Siamo qui per trasferire il possesso della Minsky. Spero
sia questo che ha portato qui anche voi. Apprezzerei che vi identificaste.»
Lo schermo rimase buio e l’ansia gli scivolò lungo la schiena mentre i secondi
si protraevano senza che arrivasse una risposta. Qualcosa non andava. Senza
muoversi, ripassò mentalmente quello che avrebbe detto ad Alex. ‘Portaci via di
qui. Qualcosa sta per esplodere.’ E quello che avrebbe detto a Bobbie. ‘Per
prima cosa proteggi la Roci. Se puoi, metti fuori uso la nave da guerra.
Distruggila, se necessario.’
Lo schermo tremolò. Per una frazione di secondo apparve una donna
sconosciuta, bionda e con lineamenti affilati, poi l’immagine si spostò
immediatamente su un’altra donna che portava i capelli scuri raccolti e aveva un
accenno di sorriso cinico sulle labbra. Holden si rese conto che stava
trattenendo il fiato ed esalò un respiro.
«Rocinante,» disse la donna «parla Michio Pa della Connaught. È strano rivederti,
capitano Holden.»
23
Pa

La Munroe fu la seconda a morire. Le forze di Marco la sorpresero vicino a un


agglomerato di equipaggiamenti meccanici e scorte di medicinali che erano stati
nascosti nel vuoto. Stando alla ricostruzione dei fatti che Michio riuscì a mettere
insieme, una richiesta di aiuto era giunta da una nave mineraria, la Corvid. Sulla
nave c’erano cinque famiglie e un’epidemia di meningite complessa che li aveva
costretti a mettere i bambini in stato di coma farmacologico. Nel lanciarsi in loro
soccorso, la Munroe era stata intercettata da due corvette della Marina Libera, e
nel fuggire da esse si era imbattuta in altre due. Marco aveva registrato il
capitano – un uomo di mezza età di nome Levi Watts, che Michio aveva
conosciuto a stento prima che venisse messo ai suoi ordini – mentre implorava
per la salvezza del suo equipaggio, prima che la sua nave venisse sopraffatta.
Non era stata una cosa dignitosa, ed era finita nel fuoco. Copie della
registrazione erano state inviate a una dozzina di feed anonimi, con allegato un
elenco di tutte le altre navi che avevano scelto di seguirla.
Il transponder della Corvid intanto era scomparso, e discutere se fosse stata a
sua volta distrutta o fosse stata inventata come esca per l’imboscata non serviva
a niente. In ogni caso il messaggio era lo stesso: nessuno poteva tradire la
Marina Libera, e la Marina Libera era Marco Inaros. Evans e Nadia si erano
presi la responsabilità di rimodellare i protocolli di comunicazione per il resto
della flotta di Michio. Poteva vedere la preoccupazione nei loro occhi e sentirla
nella loro voce. Li amava per questo, ma per adesso quell’amore era distaccato.
Freddo. Non sapeva per quanto tempo la rabbia e il dolore che provava
sarebbero rimasti freddi, ma per il momento un’analisi spietata era la sola forma
di lutto che si poteva permettere.
Forse era questo che preoccupava gli altri.
La Minsky stava volando in oscuramento e fuori dall’eclittica lungo un’orbita
che, nell’arco di parecchi mesi, l’avrebbe portata abbastanza vicina al portale
dell’anello da permetterle di tentare la fuga e di entrare nella zona lenta prima
che una qualsiasi nave della Marina Libera potesse intercettarla. Così, quando
Foyle e la Serrio Mal l’avevano catturata, nel farlo avevano anche salvato la vita a
quanti erano a bordo. Sarebbero passati solo pochi minuti fra l’attraversamento
del portale da parte della nave e la sua distruzione per opera dei cannoni a rotaia
difensivi. Naturalmente i coloni non lo sapevano e Michio non glielo aveva
detto.
Quando aveva saputo che la sua preda sarebbe stata dirottata su Ceres, fra le
braccia del nemico, Foyle si era comunque offerta di scortarla. Michio si era
sentita tentata di permetterglielo, ma sarebbe stata la mossa sbagliata. Contattare
Fred Johnson era stata una sua decisione. Se le cose fossero andate storte,
doveva essere lei ad affrontare la situazione.
Il trasferimento era stato furtivo e rapido – brevi periodi di accelerazione
elevata che avevano portato la Minsky e la Connaught, insieme, su una rotta di
intercettazione con Ceres che le aveva tenute alla larga dalla massa delle forze di
Marco.
Quando l’aveva messa a capo delle attività di sequestro della Marina Libera,
una vita prima, Marco le aveva dato le navi più piccole e leggere. Erano armate,
certo, ma non erano strutturate per combattimenti pesanti. Il suo compito era
quello di essere più veloce degli enormi e massicci trasporti per il ghiaccio, ora
convertiti in navi coloniali, facili da sopraffare. Marco e Rosenfeld, i capi militari
attivi contro i pianeti interni, avevano avuto bisogno delle navi più grandi. Loro
erano il maglio, lei il bisturi.
Adesso avrebbe scoperto se il suo piano per aprire una strada su cui il grande
Marco Inaros non potesse raggiungerla aveva funzionato, o se la sua ribellione
sarebbe stata di breve durata e tragica.
L’universo ha piani per te, disse Josep, nella sua immaginazione. Non saresti potuta
arrivare fin qui, attraverso così tanti pericoli, se non ci fosse stata una ragione per la tua
presenza.
Erano le stesse, splendide stronzate che tutti si dicevano. Che erano speciali.
Che contavano qualcosa. Che a qualche vasta intelligenza dietro i veli della realtà
importava cosa sarebbe successo loro. E in tutto l’arco della storia della specie,
erano tutti morti comunque.
«Attenzione, nave non identificata. Parla James Holden, della nave mercantile
indipendente Rocinante. Siamo qui per trasferire il possesso della Minsky. Spero
sia questo che ha portato qui anche voi. Apprezzerei che vi identificaste.»
«Oh, cazzo» disse Michio.
«Capitano?» chiese Oksana.
James Holden. Probabilmente l’uomo più ambiguo di tutto il sistema. Il
terrestre che lavorava per l’APE di Fred Johnson. Il capo della rivolta contro
Ashford, nella zona lenta. L’uomo che Marco Inaros odiava più di chiunque
altro. Scelto dalla Repubblica Marziana e dalle Nazioni Unite come loro inviato
su Ilus, era la pedina preferita di tutti. Se avesse sognato che sarebbe stata la sua
voce ad accoglierla, Josep lo avrebbe definito un segno. Poteva solo tirare a
indovinare di cosa.
Lo schermo mostrava la Stazione di Ceres, le navi nemiche disposte intorno a
essa come una nuvola di insetti, in attesa di attaccare. Era certa che in tutto il
sistema sensori e telescopi ottici erano puntati su di lei, sulla Minsky e sulla nave
che si stava avvicinando.
Da qualche parte, Marco la vedeva avere l’occasione di aprire il fuoco su James
Holden. Se avesse voluto darle un mezzo per rientrare a far parte della
ribellione, Dio non gliene avrebbe potuto fornire uno migliore. Aveva il laser a
lungo raggio puntato su di lui. Anche se fosse morta, se fossero morti tutti, le
altre navi ai suoi ordini avrebbero avuto la possibilità di rientrare nell’ovile della
Marina Libera. Nessun’altra Witch of Endor. Nessun’altra Munroe.
Non ci sono coincidenze, disse la voce di Josep, nella sua mente. Solo che le
coincidenze esistevano, naturalmente.
«Capitano, quali sono gli ordini?» chiese Oksana.
«Apri la connessione.»
Oksana obbedì, grugnì per un qualche piccolo errore e passò il canale alla
postazione di Michio. Holden fissava ansioso la videocamera. Gli anni erano
stati clementi con lui. Il suo volto aveva un aspetto più rassicurante, e un tocco
di dolore e di umorismo che lui portava bene. Si chiese se gli altri membri del
suo equipaggio fossero ancora con lui sulla Rocinante o se lui avesse lasciato
Naomi Nagata al sicuro da qualche parte, lontano dalla portata di Marco.
«Rocinante, parla Michio Pa della Connaught. È strano rivederti, capitano
Holden.»
Le sue labbra si allargarono in un sorriso giovanile, e con sua sorpresa Michio
si ritrovò a sorridere a sua volta. Non era piacere, ma l’ebbrezza della paura. Il
cuore le batteva contro le costole come se fosse impaziente e cercasse di attirare
la sua attenzione. Potrei ucciderlo. Lui potrebbe uccidere me. L’una o l’altra decisione
sarebbe giustificata. La Rocinante aveva un cannone a rotaia. Sarebbe morta prima di
rendersi conto che lui aveva fatto fuoco. Ma probabilmente Holden non
avrebbe sparato. E probabilmente non lo avrebbe fatto neppure lei.
«Anche per me è strano rivederti, capitano Pa. Sono tempi strani.»
Lei rise, e suonò come la risata di qualcun altro. Evans la guardò con occhi
preoccupati, ma lo ignorò.
«Non ho potuto fare a meno di notare che avete alcune navi che mi puntano
contro le armi» osservò in tono leggero.
«La gente qui è un po’ nervosa» replicò Holden.
«L’aver mandato voi dovrebbe simboleggiare qualcosa?»
«No. Ho solo estratto la pagliuzza più corta.»
Era surreale, parlare con qualcuno dall’altra parte della barricata senza neppure
un accenno di ritardo-luce. Voleva girare la nave e accelerare al massimo, andare
via. Ogni secondo a reattore spento la portava più vicina a Ceres, alla flotta
congiunta e al fottuto Fred Johnson. Ogni punto sul display tattico la rendeva
nervosa. Quelli erano nemici, tanto quanto lo era Marco. Ma se non altro al
momento il nemico del suo nemico si stava comportando gentilmente.
Niente mosse improvvise. Nessuna iniziativa senza preavvisare. Potevano
farcela.
«Siamo pronti a trasferirvi il controllo della Minsky» disse. «I passeggeri sono
tutti a bordo, confinati nei loro alloggi. Vi manderò il manifesto con la specifica
delle scorte che trasporta.»
Holden annuì. «Non esploderà niente mentre facciamo questa cosa, vero? Non
ci sono trappole esplosive? Lo chiedo perché ci sono alcune persone intelligenti
che mi considerano molto stupido a fidarmi di te.»
«Da questo lato sono in molti a dire lo stesso di me. Attualmente, niente di
quello che possiamo dire farà cambiare loro idea. Dovremo provare a fare
questa cosa e vedere che succede.»
La voce di Oksana fendette l’aria come una lama. «Oggetti in rapido
avvicinamento da Ceres! Sei siluri. Cinquanta secondi all’impatto.»
L’aria sfuggì dai polmoni di Michio, scacciata da una paura tanto profonda da
somigliare alla calma. Aprire il fuoco con tutti gli armamenti. Andiamocene da qui.
Qualsiasi cosa avrebbero fatto, doveva dare l’ordine adesso.
Solo che stava guardando Holden, e anche lui appariva sorpreso. Perfino
sconvolto.
Infuriato.
Doveva dare l’ordine, doveva aprire il fuoco. La sua famiglia sarebbe morta. Se
avesse sparato, tutti avrebbero risposto al fuoco. Doveva fuggire. Massima
accelerazione. Fondere tutto quello che c’era alle loro spalle.
Smettila, ingiunse a sé stessa. Se moriremo, moriremo, ma adesso smettila.
Perché Holden era infuriato?
«Holden?» chiese, con un tremito nella voce. «Abbiamo un problema?»
«Cazzo, sì, hai il mio permesso» scattò Holden, e Michio impiegò una frazione
di secondo a capire che non stava parlando con lei.
«La Rocinante sta aprendo il fuoco con i CDP» avvertì Oksana, con voce acuta e
tagliente. La paura risuonava per tutto il ponte.
«Attivazione dei nostri CDP» disse Evans.
«Non farlo» gridò Michio, prima ancora di sapere che lo avrebbe detto. Poi,
nel silenzio sconvolto, continuò: «Tocca quei comandi degli armamenti e ci
ucciderai tutti. Hai capito, Mr Evans? Tutti quelli che ami moriranno, e sarà stata
colpa tua.» Suo marito la guardò con occhi pieni di confusione, le dita che
vibravano, sospese sopra i comandi. La sua espressione non avrebbe potuto
essere più tradita se gli avesse sparato. «Oksana, contro cosa sta facendo fuoco
la Rocinante?»
«No, no, no» intervenne Holden. «Stiamo sparando a loro, non a voi. Non
penserai che noi...»
«Stanno mirando ai missili provenienti da Ceres. Impatto fra... l’hanno fatto,
signore. La Rocinante ha neutralizzato l’attacco.»
Michio annuì, con il sangue che le pulsava nelle vene e le mani che tremavano.
Era consapevole del panico nella sua mente, come un suono di voci in una
stanza vicina, ma non lo avvertiva. Non provava niente.
«Evans» disse. «Abbassa le mani.»
Evans si guardò le dita come se fosse sorpreso di vederle lì, poi le abbassò
lentamente lungo i fianchi. Michio vide la realizzazione affiorargli nello sguardo:
se avesse cominciato a sparare, la flotta nemica avrebbe fatto altrettanto. Forse
non la Rocinante, ma tutti gli altri. Sulla spinta dell’istinto era stato sul punto di
ucciderli tutti. Gemette, come faceva quando stava male o era ubriaco, slacciò le
cinture e si spinse via. Il suo sedile ruotò piano sugli ammortizzatori mentre lui
abbandonava il suo posto. Michio non lo fermò.
Sullo schermo, Holden era chino verso la videocamera. Non era una cosa
marcata, appena quel piccolo incurvarsi inconscio di qualcuno che si protegga il
ventre. Michio si costrinse a rilassare la schiena. Passarono lunghi secondi,
mentre aspettava un altro attacco. Istante su istante, non accadde nulla.
«Bene» disse.
«Già» replicò Holden.
Trascorse un altro momento. Michio sentì un’altra voce alle spalle di Holden.
Naomi Nagata. Le parole in sé non erano chiare, ma il suo tono era tanto
rovente da fondere il metallo. Quindi Holden non l’aveva lasciata in un posto
sicuro. Del resto, era possibile che la sicurezza non esistesse più da nessuna
parte. I primi segni del crollo dei livelli di adrenalina cominciarono ad affiorare
alla periferia della sfera cosciente di Michio: una lieve nausea, una stanchezza
sempre più profonda, tristezza. Ignorò anche questo.
«Stavo dicendo» riprese, con voce più calma di quanto si fosse aspettata «che
abbiamo la Minsky e il suo carico. Siamo pronti a trasferirne a voi il controllo,
poi ci allontaneremo prima che qualcun altro cominci a spararci.
«Non è stato Fred» affermò Holden. «Non so chi abbia sparato quei siluri, ma
lo scopriremo.»
Michio si sentiva le labbra pesanti, solide, come se fossero state scolpite nella
pietra. Non importava chi avesse tirato il grilletto di quell’attacco da Ceres. Se
avessero scavato abbastanza a fondo, sarebbe risultato che dietro c’era Marco
Inaros.
«Lo apprezzo» rispose. «Fateci sapere quando siete pronti per i protocolli di
controllo remoto.»
Ci volle meno di un’ora perché arrivasse la risposta di Marco. Scosse il capo
con aria dolente, fissando la videocamera con i suoi grandi occhi scuri. Il carisma
puro della sua presenza era smorzato dal fatto di essere su schermo, ma non era
estinto. Aveva la prova che la traditrice Michio Pa lavorava di concerto con la
Terra, minando gli sforzi che la Marina Libera faceva per proteggere e ricostruire
la Fascia, dando sfacciatamente aiuto e conforto al nemico. La sua voce vibrava
di indignazione a nome del suo popolo e di disgusto per la sua collaborazione
con il nemico. Non importava che quel ‘nemico’ includesse milioni di cinturiani
che lui si era lasciato alle spalle. Michio si chiese se questo avrebbe avuto
importanza per la gente che lo ascoltava.
Marco includeva immagini della Rocinante che difendeva la Connaught. La prova
finale, se qualcuno ne avesse avuto bisogno, che lei divideva il letto con le
persone che più di tutti volevano veder fallire la Marina Libera e la Fascia.
Michio guardò il video sul ponte di comando, mentre una dozzina di risposte
le si agitava nella mente. Arrivò al punto di registrarne una, ma le parole
sfuggirono al suo controllo, trascinate dalla sua ira, finché la donna che la
guardava dallo schermo parve quasi folle come quella che Marco aveva descritto.
Si allontanarono da Ceres, ma senza fretta. Lo scopo di tutta quella manovra
era di mettersi a portata di tiro degli interni senza essere uccisi. Dimostrare alle
altre navi che le erano ancora fedeli e alla manciata di navi indipendenti che
vedevano una maggiore speranza nella strada da lei seguita che non in quella
scelta da Marco, che era possibile trovare zone di protezione. Nel profondo del
suo essere, quello che voleva fare era fuggire il più in fretta possibile dalla sua
nuova, piccola zona di sicurezza, ma non era quello per cui era venuta lì, non era
ciò per cui aveva rischiato la sua nave, la sua famiglia e la sua vita. Quindi un
terzo di g di accelerazione, poi la deriva per riorientarsi e un’altra accelerazione.
Quanto più si allontanava dalle armi di Fred Johnson, tanto più cercava di
rendere difficile a Marco tracciare la Connaught.
Quando venne nella sua cabina, quella notte, Oksana non lo fece come
ufficiale, ma come sua moglie. Portò una bottiglia di whisky con una punta a
iniezione argentata e due bulbi da cui bere. In un primo momento Michio non
avrebbe voluto compagnia, ma non appena la ebbe ne sentì un bisogno
disperato. Nella sua esperienza, il sesso era come una musica. O un linguaggio.
Poteva esprimere qualsiasi cosa. In questo caso si trattava di rabbia, dolore e
bisogno.
Dopo, assicurate insieme al letto a smorzamento, ascoltò il respiro di Oksana,
profondo e regolare come immaginava dovessero esserlo le onde. Si sentiva il
cuore più fragile e complicato di quanto fosse stato quando si era svegliata,
quella mattina. Stando attenta a non svegliare sua moglie, si protese fino ad
agganciare il terminale palmare con la punta delle dita e richiamò a schermo la
denuncia di Marco. La luce del piccolo schermo riempì la stanza e lei abbassò il
suono fino a ridurlo a un ritmo lontano di dure consonanti. Sentito in quel
modo, c’era uno schema nel modo in cui Marco parlava. Un pulsare che imitava
il battito di un cuore. Prima di allora non se ne era mai accorta.
Passò alle copie memorizzate nella cache dei feed e dei forum comunitari.
Erano pieni di reazioni e di opinioni, di giudizi su di lei e la sua famiglia. Di
dichiarazioni di odio. Di minacce di morte. Niente che non si fosse aspettata.
Quelle erano le persone per nutrire e sostentare le quali stava rischiando tutto, e
siccome si era opposta a Marco per farlo, loro la odiavano. Non tutti, ma molti
di essi. Intensamente.
Era un bene che non lo stesse facendo per acquisire popolarità.
Si accese un allarme. Assestamento dell’orientamento e accelerazione. Collegò
il terminale palmare con i sistemi di controllo della Connaught. Nadia aveva
programmato un assestamento complesso, ruotando su tre assi con
accelerazione variabile, in modo che quando avessero finito solo qualcuno con
sensori molto precisi che li avesse seguiti durante tutta la manovra avrebbe
potuto calcolare con una qualche certezza dove erano diretti. Arrivò il conto alla
rovescia, l’accelerazione premette gentilmente lei e Oksana una contro l’altra e
spostò sotto di loro il letto a smorzamento, ruotandolo in una direzione,
nell’altra e riportandolo indietro. Il rombo profondo dell’Epstein sembrava Dio
che si schiarisse la gola con contrizione.
Oksana sbadigliò, si stiracchiò e posò una mano sulla spalla di Michio.
«Ehi, capitano» disse, con voce impastata dal sonno e dai postumi del sesso.
Michio sospirò, sorrise.
«Navigatore Busch,» replicò, adeguandosi alla formalità scherzosa di Oksana e
intrecciando le dita con le sue «dovresti dormire.»
«Anche tu. Ci riesci?»
«No» ammise Michio. «Se dovesse diventare un problema, userò il medico
automatico. Prenderò qualcosa.»
«Qual è la situazione.»
Per poco, Michio non chiese a quale situazione si riferisse, ma sarebbe stato
solo un modo per non dover pensare troppo. Erano stati lanciati contro di loro
dei siluri a lungo raggio dalle navi e stazioni della Fascia, nella speranza che si
avvicinassero abbastanza silenziosamente e in fretta da avere la meglio sui CDP?
Michio si girò per baciarle la fronte vicino all’attaccatura dei capelli, che
sapevano di muschio e della finta vaniglia che le piaceva. Era un odore
splendido.
«Tutti ci odiano, ma nessuno ci sta ancora sparando» disse.
«Però lo faranno.»
«Lo faranno. Però ci siamo ricavati piccole isole di sicurezza. Adesso che
hanno accettato il nostro tributo possiamo raggiungere Ceres o qualsiasi altra
stazione presa dal fottuto Fred Johnson senza che Marco ci segua. A meno che
non sia pronto per una vera battaglia con gli interni.»
«Nel qual caso non avrà davvero importanza se siamo là oppure no» replicò
Oksana, con le labbra contro la sua clavicola. «E tu? Stai bene?»
La Connaught effettuò una complessa accelerazione a cavatappi. Con il letto che
si spostava da una parte e poi dall’altra, l’universo parve vorticare intorno al
punto fermo dei loro corpi. Michio scrollò le spalle nel buio. «Non lo so. So qual
è il mio progetto. Prendere le cose di cui la Fascia ha bisogno e darle alle
persone che ne hanno più bisogno. Però... nessuno ci ringrazierà per questo.»
«Qualcuno lo farà» ribatté Oksana. Poi, un momento più tardi aggiunse:
«Voglio dire, nessuno che abbia potere.»
«Ma non è questo ciò che stiamo facendo?»
«Facendo?» ripeté Oksana, sfregandosi gli occhi per snebbiarli dal sonno.
«Se nessuno che abbia potere ci ama, allora creiamo il nostro dannato potere.»
24
Prax

La routine del mattino era sempre la stessa. Prax si alzava per primo, andava in
cucina ancora in vestaglia e pantofole e procedeva a fare il tè e la colazione per
la famiglia. Pancake e pancetta per le ragazze, riso rosso e uova per lui e Djuna.
Metteva su un po’ di musica sul sistema, di solito qualcosa di tranquillo e
rilassante, quella che Djuna definiva la sua musica da massaggio. Più o meno
quando il riso era cotto e la pancetta rosolata, sentiva il rumore della doccia di
Djuna e le voci di Mei e di Natalia. Questa particolare mattina le due ragazze
chiacchieravano piacevolmente fra loro. C’erano mattine in cui litigavano e
battibeccavano.
Quando Djuna chiuse l’acqua della doccia, Prax versò sulla griglia la prima
cucchiaiata di pastella per i pancake, con accanto due uova. Impiegarono quasi
lo stesso tempo a cuocere, per cui li poté girare entrambi, uno con ciascuna
mano. Stava facendo l’esibizionista, ma questa era una cosa che faceva sempre
ridere Mei, quando la vedeva. La voce energica di Djuna giunse dal corridoio,
mentre lei ingiungeva alle ragazze di spicciarsi con i loro rituali mattutini –
lavarsi la faccia, pettinarsi, vestirsi. Quando fossero arrivate a tavola, Prax
sarebbe stato il solo non ancora pronto per il lavoro. Le ragazze lo prendevano
in giro, accusandolo di oziare in vestaglia anche se era stato quello che aveva
fatto la maggior parte del lavoro, e lui si fingeva offeso anche se in realtà non lo
era.
Dopo colazione, Djuna portava le ragazze a scuola nell’andare al lavoro,
lasciando Prax solo a lavare i piatti, fare la doccia e prepararsi per andare al
laboratorio. Era qualcosa di cui non avevano mai discusso, solo la forma che
avevano assunto le loro abitudini domestiche. A Prax piaceva che le cose
stessero così, aveva avuto fin troppe avventure nella sua vita, e riusciva a
lavorare di più quando le cose erano prevedibili.
Addolcì il tè con lo stesso sciroppo che aveva sparso sui pancake, dispose sul
tavolo piatti e bicchieri pieni, e si stava sedendo per mangiare il suo riso con le
uova quando arrivò Djuna, sospingendo davanti a sé le ragazze come un
pastore, nella migliore tradizione di tutte le madri nell’arco della storia.
Mei era un po’ più silenziosa del solito, Natalia un po’ più vivace, ma entrambe
ricadevano nei parametri normali. Djuna abbassò la musica mentre mangiavano
e chiacchieravano. Prax non si accorse quando la conversazione si fece
pericolosa.
«Cosa significa ‘resistenza’?» chiese Natalia. Il suo volto era serio, una cosa
vagamente comica in una persona tanto piccola.
«È una misura di come gli elettroni scorrono attraverso qualcosa» rispose Prax.
«Vedi, noi pensiamo alla corrente che scorre nei fili più o meno nello stesso
modo in cui pensiamo all’acqua nei tubi. In realtà è molto più complicato di così
quando si arriva ai livelli quantici, ma è un ottimo modello.»
«E i modelli sono come diamo un senso alle cose» disse Natalia, orgogliosa di
sé stessa per aver ricordato quella frase che lui e Djuna avevano usato con lei e
Mei per così tanto tempo. Prax non pensava che Natalia fosse già abbastanza
grande da capirne il senso, ma un giorno lo avrebbe fatto. E Mei a volte lo
sorprendeva con le sue intuizioni.
«Sì» confermò. «Proprio così. Quindi la resistenza indica con quanta difficoltà
o facilità gli elettroni scorrono dentro qualcosa.»
Natalia aggrottò la fronte. Mei aveva distolto lo sguardo, e Djuna si era
immobilizzata, il che era strano. Prax però si rese conto che le ragazze non
riuscivano a capire, quindi ci riprovò.
«Immagina di avere una grossa cannuccia» disse, dando una dimostrazione con
le mani. «Quando la metti nel succo di frutta, bere è davvero facile. Se però
prendi una cannuccia piccola e sottile, devi usare molta più forza per succhiare
dal bicchiere la stessa quantità di liquido. La cannuccia grossa è qualcosa che ha
poca resistenza, mentre quella piccola ne ha molta.»
Natalia annuì con estrema serietà. Parve a Prax di poterla quasi vedere
risolvere quell’enigma intellettuale. «È una cosa buona o cattiva?»
Prax scoppiò a ridere. «Non è né buona né cattiva. È soltanto parte di com’è
fatto l’universo. Ora, se tu avessi un circuito per il quale ti servisse una resistenza
molto bassa, e non l’avessi, quello non sarebbe un buon circuito, ma solo perché
non farebbe quello che tu vuoi. Se invece avessi qualcosa per cui ti serve una
resistenza elevata, allora quello stesso circuito sarebbe perfetto. Non si tratta di
giusto o sbagliato, ma di come funzionano le cose.»
«È ora di andare» disse Djuna, e la sua voce suonò tagliente, il tono che usava
quando qualcosa la disturbava. Inoltre, avevano ancora quasi quindici minuti
prima di aver davvero bisogno di uscire. Forse ai laboratori di biopellicole stava
succedendo qualcosa che lui ignorava.
Quando se ne furono andate alzò di nuovo il volume della musica, lavò i piatti,
fece la doccia e si vestì per andare al lavoro. Le stanze sembravano strane senza
di loro, e quel tempo in più che aveva da solo gli sembrò vuoto e in qualche
modo di cattivo augurio. Per tutto il tragitto fino alla stazione della
metropolitana si preoccupò che Mei si fosse ricordata di prendere la medicina.
Aveva avuto intenzione di sfruttare il tragitto in metropolitana per leggere i
nuovi set di dati sul lievito mietitore, ma il suo sguardo continuò a distogliersi
dal terminale palmare per sollevarsi sugli schermi che aveva di fronte. Stavano
trasmettendo un notiziario, ma non riusciva a sentire le parole a causa dello
sferragliare del treno e delle voci di altri pendolari. C’erano navi che
combattevano, ma non avrebbe saputo dire dove. La Terra. Giapeto. Pallas.
Ceres. Marte. Nel vuoto fra quei posti, molto lontano da tutto. Ogni cosa era
possibile. L’unica certezza era che non stava accadendo lì, e questo solo perché
non c’erano allarmi che suonavano.
Alla stazione centrale la metà dei passeggeri scese nella camera di
trasferimento, facendo posto a un’altra marea di gente in arrivo, fra cui una
mezza dozzina di uomini nella divisa della Marina Libera. Adesso avevano
cominciato a girare visibilmente armati, e camminavano con fare prepotente.
Due ragazze civili parevano essere in loro compagnia, intente a ridere e a flirtare.
La più grande non dimostrava più di vent’anni. Non era tanto più grande di Mei.
Prax riportò l’attenzione sul notiziario e poi sul suo terminale. Continuò a non
riuscire a concentrarsi su di esso, ma in quegli uomini della Marina Libera c’era
qualcosa che lo faceva sentire più a suo agio con lo sguardo abbassato. Il cuore
gli pompava un po’ più in fretta, si sentiva la schiena rigida. Non aveva fatto
niente di sbagliato, ma la sensazione di essere minacciato e quella di essere in
colpa erano così strettamente collegate che era difficile provare una e non l’altra.
Quando era stato uno studente, all’università inferiore, aveva dovuto seguire
un corso di lettere – letteratura, teatro, arte. Qualcosa che rendesse la sua
istruzione più completa. Aveva scelto filosofia nella speranza che avesse un
certo rigore. Adesso la maggior parte di quell’esperienza era stata dimenticata,
lavata via da decenni di assestamenti della plasticità cerebrale, e quello che
ricordava ancora era frammentario, quasi simile a un sogno. Però mentre se ne
stava seduto lì, affondato il più possibile nel sedile mentre il treno della
metropolitana risaliva verso la superficie, con il suo sferragliare che gli vibrava
lungo la schiena e le risate troppo forti dei soldati che gli risuonavano negli
orecchi, un singolo momento gli riaffiorò vivido nella memoria. Il suo
professore – un uomo in sovrappeso avviato alla calvizie, con una carnagione da
alcolizzato e un’aria intelligente tanto profonda che pareva incurvare lo spazio
intorno a lui – che sollevava una mano e pronunciava una frase: ‘Il terrore del
normale.’ Era quasi certo che fosse stato qualcosa relativo a Heidegger, ma
adesso gli parve di comprendere quel concetto meglio di come avesse fatto
allora.
Era così che erano le cose, adesso. Questo era diventato normale.
Aveva sperato di passare la mattina immerso nelle sue ricerche, ma Khana e
Brice non gli permisero neppure di arrivare al laboratorio prima di affiancarglisi.
«Stavo guardando la partizione aperta, e credo che possa esserci stato un
problema con il trasferimento dei dati» disse Khana. «La directory dei set di dati
conteneva l’Hy18 solo fino alla nona coltura.»
«No, no, lo so» replicò Prax. «Non ho ancora effettuato il trasferimento.
Volevo farlo, ma sono stato distratto.»
Brice emise un piccolo verso contrariato. Prax comprese e non la invidiò. Da
quando Karvonides era morta, Brice si era venuta a trovare nella poco
invidiabile posizione di fare il proprio lavoro e anche quello del supervisore
deceduto. Ogni giorno, Prax aveva avuto intenzione di trasferire i dati critici
nella partizione aperta, e non sapeva neppure lui perché non lo avesse ancora
fatto. Era solo che qualcosa sembrava sempre interferire.
«Capo,» insistette Khana «ci servono i dati più recenti su Hy1810, a meno che
tu non voglia accelerare la nuova coltura.»
«Accelerarla non è possibile» obiettò Prax.
Intanto raggiunsero la porta del laboratorio di Prax. Khana affondò le mani in
tasca, la mascella contratta e lo sguardo fisso su un punto dieci centimetri alla
sinistra di Prax. «Lo so. Però...»
«Lo farò subito» promise Prax. «Dammi mezz’ora.»
Poi entrò nel laboratorio e si chiuse la porta alle spalle. Khana e Brice rimasero
per un momento dall’altro lato del vetro smerigliato, poi si allontanarono. Prax
sedette alla scrivania. Voleva controllare i livelli dell’acqua e prelevare nuovi
campioni dalle serre idroponiche, ed era tentato di fare soltanto quello per
qualche minuto, rimandando il momento di esaminare la partizione di
Karvonides. Però aveva detto che lo avrebbe fatto subito, e loro avevano
davvero bisogno di avviare la sperimentazione sugli animali.
Richiamò a schermo la directory del personale, inserì il suo codice di accesso e
lasciò che il sistema eseguisse il solito controllo biometrico. Poi, con un
profondo sospiro e un crescente senso di timore, entrò nella partizione della
donna morta. Quel lavoro spettava a lui, e non era una cosa che fosse
impaziente di fare.
Due dei set di dati erano in fase di editing, quindi dovette chiudere i file prima
di poterli trasferire. Non era una cosa difficile, ma richiese qualche secondo in
più. Doveva esaminare anche i messaggi, accertarsi che tutto ciò che richiedeva
attenzione venisse inoltrato a Brice o a McConnell. Poteva invece ignorare i
messaggi privati, perché non sentiva il bisogno di ficcanasare e probabilmente
erano cose che non voleva sapere. Però uno dei messaggi conteneva nell’oggetto
il nome di James Holden. ‘NUOVO FEED DI JAMES HOLDEN DA CERES’ diceva.
James Holden, l’uomo che aveva salvato Mei, e lo stesso Prax. E tutti gli altri.
Prax non aveva avuto intenzione di aprire il feed, fu più che altro un riflesso
istintivo. Sembra interessante... cos’è?
Nel feed, proprio come promesso, James Holden fissava la videocamera con
espressione seria. Da un lato, il video pareva una produzione professionale,
senza salti d’immagine o imperfezioni, e i colori avevano l’accurata calibrazione
propria dei notiziari. Quando Holden parlò, la sua voce suonò limpida e nitida
senza picchi di suono. Il suo comportamento aveva però un’imbarazzata
autenticità così familiare e spontanea, era come rivederlo in carne e ossa.
«Parla James Holden, dalla Stazione di Ceres. Oggi stiamo girando il terzo di
questa serie di video e spero proprio che siate impazienti di vederlo. Soprattutto
i miei amici e la mia famiglia, sulla Terra e su Marte. Lo dico tutte le volte, ma
stiamo girando questi video e facendo queste interviste in modo che la gente a
casa possa dare un volto e una voce alle persone reali che ci sono nella Fascia.
E... sì... quindi permettetemi di presentarvi...»
L’immagine si spostò su un’alta ragazza cinturiana seduta nella cambusa della
Rocinante. Prax si protese in avanti. In passato si era seduto esattamente dov’era
lei, durante la parte peggiore della sua vita, e si sentì assalire da un’ondata di
nostalgia – come se stesse rivedendo l’appartamento in cui aveva vissuto nel
frequentare l’università superiore, un posto familiare che un tempo per lui era
stato importante – che si infranse di fronte alla novità costituita da quella
ragazza.
«Alis Caspár.»
«Splendido. E dove vivi?»
«Sulla Stazione di Ceres. Nel Distretto di Salutorg.»
Prax guardò tutto il video. Il gioco dello shin-sin che pareva deliziare e
affascinare il terrestre, il modo in cui la ragazza pareva imbarazzata per lui senza
che Holden paresse accorgersene. La donna più anziana, che chiamavano Tía,
che flirtava con lui. Era... incantevole. Con tutte le notizie di guerra e di morte,
con tutte le immagini di navi che si riducevano a vicenda in frammenti di
metallo e di ceramica, con tutti i sacchi pieni di cadaveri sulla Terra. Il video di
Holden non era niente. Era piacevole. Senza senso. Perfino dolce.
Il video si concluse, e Prax scoprì con sua sorpresa di avere le lacrime agli
occhi. Si asciugò la guancia con una manica, poi rimase sorpreso quando il
messaggio successivo aprì automaticamente il proprio feed. Una donna dal volto
sottile, con la pelle più scura di quella di Djuna ma con gli stessi profondi occhi
nocciola sorrise alla videocamera. L’immagine tremava un poco, e i colori non
erano modulati in modo professionale come quelli del video di Holden.
«Sono Fatima Crehan, e trasmetto per James Holden e tutta la brava gente
della Fascia. Siamo nel campo profughi aperto dal governatore di Arequipa, e
oggi vi voglio presentare una donna la cui causa è quella di far cambiare idea a
tutti, in città, e provvedere a nutrirli.»
Prax rimase a guardare, affascinato. Quando quel feed si concluse, ci fu un
altro video, questo da Shangai, dove un vecchio che portava una kippah
intervistava una banda musicale formata da ragazzi di etnia Han, chiedendo della
loro musica, per poi guardarli suonare in un vicolo, mentre nuvole color fango si
formavano sopra di loro. Prax non riuscì a distogliere lo sguardo.
Bussarono piano alla porta e Brice si sporse all’interno. «Spiacente di
interrompere, signore, ma...»
«No, no, no, va bene. Sto trasferendo i dati proprio ora.» Prax afferrò i
rapporti sui dati di Karvonides – nessuno dei quali adesso era bloccato
dall’editing – e li spostò in una partizione aperta. «Ora dovresti potervi
accedere.»
«Grazie, signore» rispose Brice, poi aggiunse: «Va tutto bene?»
«Sto bene» rispose Prax, asciugandosi di nuovo gli occhi. «Vai pure.»
La donna chiuse la porta. In qualche modo erano passate due ore, e adesso
avrebbe dovuto affrettarsi per riuscire a prelevare i campioni prima di pranzo.
Potremmo salvare delle vite. Basterebbe un messaggio.
Chiuse la partizione della donna morta e vi appose un blocco amministrativo.
Non c’era più tempo per pensare a niente, aveva del lavoro da fare. Per
rimettersi in pari, analizzò i campioni durante l’intervallo del pranzo, buttando
giù qualche boccone di riso e funghi prima della riunione del team
amministrativo. Quando si concluse, era ormai ora di andare a prendere Mei e
Natalia a scuola, ma mandò un messaggio a uno degli altri genitori della sua
cooperativa genitoriale. Le ragazze potevano andare a giocare con gli altri
bambini finché Djuna non fosse tornata a casa. Lui rimase al laboratorio,
controllando i progressi di Brice e di Khana e verificando che quanti avevano
bisogno dei set di dati vi potessero accedere.
Tutto gli dava una strana sensazione di leggerezza, come in un sogno. Era
come se stesse guardando le azioni di qualcun altro. Nel suo ufficio, ricontrollò
l’analisi quotidiana dei campioni, verificando quanta CO2 era dissolta nell’acqua,
quanto azoto, calcio, manganese. Le piante prosperavano, ma finché non
fossero state vagliate tutte le statistiche, non avrebbe saputo cosa stava vedendo.
Andava bene così.
Resistette all’impulso di riaprire la partizione di Karvonides, di trovare altri
feed fatti da Holden o da lui ispirati, perché era una cattiva idea. Invece attese,
lavorò, e continuò a guardare attraverso la porta a vetri. Rimaneva solo Brice, e
la sua postazione di lavoro era in fondo a un lungo corridoio curvo. Chiuse il
terminale, timbrò il cartellino, andò nel bagno degli uomini e attese. Si lavò le
mani. Attese ancora. Con noncuranza, uscì poi nell’area comune del piano,
passando da una delle postazioni di gruppo e aprendone il terminale con un
guest account, accedendo ai set di dati e ai protocolli che il supervisore Praxidike
Meng aveva distrattamente inserito nella partizione aperta senza un set di
permessi. Lo schermo mostrava un logo azzurro pallido, la bandiera di
Ganimede. Mandò copie del materiale a Samuel Jabari e Ingrid Dineyahze, sulla
Terra, e a Gorman Le, sulla Luna. Il solo messaggio di accompagnamento
diceva: ‘PER FAVORE, CONFERMATE QUESTI RISULTATI.’
Spento il terminale, raggiunse i corridoi comuni. Tutto sembrava più luminoso
di quanto sarebbe dovuto essere. Non avrebbe saputo dire se era stanco o
irrequieto, o entrambe le cose.
Si fermò a un banco che vendeva spaghetti, fra la stazione della metropolitana
e casa. Comprò spaghetti, la varietà no-roof per sé e Djuna, quelli al tofu fritto
per le ragazze e... un lusso... vino di riso, oltre a un contenitore rotondo di
ceramica pieno di gelato al tè verde come dessert. Quando arrivò a casa, Natalia
si lamentava perché doveva esercitarsi nelle tabelline e Mei si era chiusa in
camera sua per scambiare messaggi con le amiche che aveva a scuola e guardare
video di intrattenimento di ragazzi tre o quattro anni più grandi di lei. In una
sera diversa avrebbe insistito perché si raccogliessero tutti a tavola per cena, ma
oggi non voleva alterare nulla.
Servì gli spaghetti in ciotole di ceramica riciclabili con un disegno di rametti e
di passeri, ne portò una a Natalia, alla scrivania, un’altra a Mei, che era stesa sul
letto. Appariva così cresciuta, ultimamente. Presto sarebbe stata più alta della sua
spalla. La sua bambina... nessuno si era spettato che sopravvivesse, e adesso...
Quando la baciò sulla testa lei lo guardò in modo interrogativo, ma lui la invitò
con un cenno a riportare lo sguardo sullo schermo su cui c’erano giovani uomini
dall’aria appassionata.
Lui e Djuna sedettero a tavola insieme, quasi come se stessero ancora avendo
un appuntamento. La guardò: la curva della guancia, la piccola cicatrice sulla
nocca sinistra, la piega gentile della clavicola... memorizzò ogni cosa come per
tenerla da parte in previsione di un giorno in cui lei non ci sarebbe stata. O non
ci sarebbe stato lui.
Il riso di vino gli bruciò la bocca. Forse dava sempre quella sensazione –
fresco e bruciante allo stesso tempo – e di solito lui non lo notava. Djuna gli
parlò della sua giornata, della politica d’ufficio e degli intrighi di palazzo della
ditta di biopellicole, e lui incamerò le sue parole come se fossero state una
musica. Appena prima che sparecchiasse e tirasse fuori il gelato, lei si protese a
prendergli la mano.
«Stai bene?» chiese. «Ti comporti in modo strano.»
«Sto bene» rispose.
«Brutta giornata, al lavoro?»
«No, non credo» replicò Prax. «Penso sia stata ottima.»
25
Fred

«James Holden ha appena legalizzato la pirateria» disse Avasarala, dalla Luna,


poi fece una pausa. Aveva le sopracciglia sollevate e annuiva appena, come per
incoraggiare un bambino non troppo intelligente a capirla. «Ha preso una nave
piratata. Da un pirata. E poi l’ha ringraziata per la sua parte del fottuto bottino e
l’ha salutata mentre se ne andava. E tu, il Macellaio della Stazione di Anderson, il
grande, fottuto Qualcosa dell’APE che hai fatto? Te ne sei rimasto lì seduto con il
cazzo in mano e gli hai permesso di farlo. Voglio dire, capisco che Holden è
Holden, ma ti ho permesso di mettere le mani su Ceres perché pensavo che
fossi almeno un fottuto adulto.»
Si trasse indietro dalla videocamera scuotendo il capo, e aprì il guscio di un
pistacchio.
«Avevo una migliore opinione di te, Johnson» disse. «Davvero. La mia vita è
diventata una continua e incessante rivelazione del fatto che non sono stata
abbastanza cinica.»
A questo punto, era chiaro per Johnson che lei stava parlando per il puro
conforto di sentire la propria voce. Controllò i dati del feed. Altri dieci minuti.
In quel tempo Avasarala sarebbe potuta arrivare a parlare di qualcosa di
importante, quindi lasciò scorrere il messaggio mentre attraversava la camera da
letto. Le aspre consonanti e vocali graffianti di Avasarala crearono una sorta di
musica di sottofondo mentre lui tirava fuori dal comodino le medicine serali.
Cinque pillole e un bicchiere d’acqua. Le pillole erano bianche come il gesso e
amare sulla lingua, e anche dopo averle inghiottite continuò a sentirne il
retrogusto.
Lavorare ventiquattro ore al giorno era una cosa per un uomo più giovane di
lui. Poteva ancora essere all’altezza della situazione, ma c’era stato un tempo in
cui la sua determinazione nel lottare contro l’universo sarebbe apparsa come una
lotta alla pari. La sola ira lo avrebbe portato avanti, e magari il tormento della
stanchezza gli avrebbe dato la sensazione di espiare i suoi peccati. Adesso
sopravviveva a caffè e medicinali per la pressione del sangue, e cercava di
impedire al suo organismo di andare ancora più in pezzi. Sembrava meno
romantico.
«Pare che Richards abbia quasi riportato l’ordine in quello che resta del
parlamento marziano,» proseguì Avasarala «quindi possiamo sperare di ottenere
qualcosa da lei. Basterebbe anche solo la rassicurazione che non verrà a pisciare
su tutta la nostra strategia, in modo che sembri di più una cosa sua. Souther
spinge per Rhea o Pallas, a seconda che vogliamo rinforzare le alleanze che già
abbiamo, per quanto sballate possano essere, o negare a Inaros la sua base
manifatturiera. L’ammiraglio Stacey è contrario a tutto questo per timore di
sparpagliare troppo le nostre navi.»
Entrambe le strategie erano sbagliate. Avrebbe dovuto metterlo bene in
chiaro. Avasarala si premette le dita sulla fronte ed emise un breve, violento
sospiro. Per un momento parve più piccola. Vulnerabile. Una cosa strana, in lei.
«Ci sono state altre due rocce. Una aveva un rivestimento che la occultava, ma
l’abbiamo individuata. Questa volta. Ho i sensori di profondità che stanno
vagliando tutti i loro dati alla ricerca di altri proiettili, ma spingere qualcosa su
una rotta di intercettazione costa tanto poco che Inaros potrebbe aver creato
centinaia di queste rocce, distanziandole nell’arco di mesi. Di anni. Fra un secolo
potremmo avere qualcosa che esce dall’eclittica con un biglietto che dice: ‘Un
sentito andate a farvi fottere da parte della Marina Libera.’ Spetterà ai nipoti dei
miei nipoti ripulire infine questa merda.»
«Possiamo sperarlo. Se vinceremo» disse Fred allo schermo. Non che la
registrazione potesse sentirlo. Passò in bagno, e il display cambiò in modo da
seguirlo.
La cosa migliore degli alloggi del governatore era la doccia. Era abbondante
come un temporale e tutto il pavimento era una grata di drenaggio che
funzionava anche a un terzo di g. Fred si spogliò e si lavò via dalla pelle il sudore
e la sporcizia della giornata mentre Avasarala proseguiva fornendo le più recenti
informazioni sulla situazione dei pianeti coloniali (non c’erano dati concreti, ma
era probabile che le cose andassero male), i rapporti sulle navi che erano
scomparse nell’attraversare i portali (c’erano parecchie teorie, e la speranza che
le registrazioni dei voli presenti a Medina sarebbero stati di aiuto, se mai fossero
diventate disponibili), e la situazione sulla Terra (la prevista seconda ondata di
decessi dovuta al collasso delle infrastrutture alimentari, sanitarie e mediche
cominciava a profilarsi).
Dopo essersi asciugato, Fred tirò fuori una camicia e calzoni puliti, spessi
calzini morbidi. Quelli erano i piccoli piaceri della vita. Avasarala continuò a
fornire il suo rapporto, lanciandosi in dettagli non necessari e commenti
collaterali, come se si sentisse sola e non volesse affrontare il vuoto e il silenzio
del suo appartamento sulla Luna. Anche lei, però, non poteva andare avanti in
eterno.
«Aspetterò tue notizie» concluse. «E sono fottutamente seria riguardo a
questo. Non permettere a Holden di creare altre leggi.»
Fred sedette sull’orlo del letto, chiuse gli occhi e si lasciò sprofondare la testa
fra le mani. Era sveglio ormai da trenta ore e gli si prospettava un altro turno di
lavoro. Negoziare con i sindacati, per adeguare alla nuova situazione contratti
vecchi di decenni. Trasferire i cinturiani dai loro buchi e chiudere grandi aree
della stazione per preservare le scorte di cui disponevano. Una parte della sua
mente continuava a trattare la situazione come un’emergenza, una ferita che
doveva essere tamponata finché non arrivassero aiuti. Tre o quattro volte per
turno ricordava che non c’erano aiuti, che le scelte che faceva adesso sarebbero
potute rimanere in vigore per anni. O per sempre.
La tentazione di sdraiarsi, di adagiare la testa sul cuscino e di permettere agli
occhi stanchi e aridi di chiudersi era potente quanto la fame o il sesso lo erano
state quattro decenni prima. Il peso di quell’idea lo tirava verso il basso tanto
quanto lo sfinimento effettivo. Era stupido per chiunque, e ancor più per un
uomo della sua età, spingersi fino a quel limite, e il letto del governatore era
morbido e invitante, le lenzuola fresche e pulite. Se avesse ceduto, però, i suoi
occhi si sarebbero aperti nel momento stesso in cui la testa avesse toccato il
cuscino. L’inquietudine lo avrebbe assalito e avrebbe attorcigliato le lenzuola
intorno alle gambe fino ad arrendersi, dopo una o due ore sprecate in quel
modo. Ancora un turno e sarebbe stato abbastanza esausto da permettere alle
pillole di fare il loro lavoro. Sarebbe sprofondato nel nulla che c’era dietro i suoi
occhi, la sua consapevolezza si sarebbe spenta. Ma il momento non era ancora
arrivato.
La sua prima amante – Diane Redstone, così si chiamava – aveva avuto una
frase per momenti come questo. ‘Bei boschi’ diceva, poi lasciava il loro letto per
andare a lavorare. Fred non aveva capito da dove venisse quel detto se non anni
dopo che si erano separati per l’ultima volta, e adesso che lo sapeva non poteva
fare a meno di provare un’irrazionale antipatia per Robert Frost.
Tirò fuori il terminale palmare, si studiò attraverso i suoi minuscoli occhi e
premette il tasto di registrazione.
«Messaggio ricevuto. Farò quello che posso per tenere sotto controllo la nostra
comune conoscenza, ma sottolineo anche che lui costituisce una risorsa che
saremmo stupidi a sperperare. Nessuno di noi due è nella posizione di fare cose
che sono possibili per Holden e i suoi. A questo proposito, allego un manifesto
del materiale recuperato dalla Minsky. È una nave grossa e ben rifornita. Rientra
nei miei poteri come facente funzione di governatore di Ceres di invocare i
poteri di emergenza e sequestrare le proprietà per il bene comune. Questa non è
la legge di Holden, è la legge e basta. Manderò sulla Terra la nave con un terzo
del suo carico, scortata dalla August Marchant e dalla Bethany Thomas. A bordo c’è
quanto basta per tenere in vita una città di medie dimensioni. È solo una goccia
nel mare, lo so, ma è così che si riempiono i secchi.»
Cercò di pensare a qualcos’altro da dire, e non riuscì a decidere se c’erano
troppe cose o troppo poche. In ogni caso, potevano aspettare. Riesaminò il
messaggio, lo codificò e lo spedì, poi si alzò dal letto. Ci sarebbe stato tempo per
dormire più tardi.
La scorta di sicurezza lo prelevò alla porta e lo seguì ai carrelli nel corridoio
principale. Il suo era rivestito di vetro antiproiettile, e sedere al suo interno gli
dava l’impressione di aver infilato la testa in una vaschetta per i pesci. Tuttavia,
finché non fosse stato certo che Inaros non aveva altri uomini mescolati ai
milioni di legittimi cittadini, era costretto ad adeguarsi, e dato che non avrebbe
mai potuto avere quella certezza pensò che tanto valeva abituarsi alla cosa. Si
avviarono nel corridoio, con un carrello della sicurezza che lo precedeva e un
altro che lo seguiva, lasciando abbastanza spazio da far sì che fosse difficile per
una bomba eliminarli tutti e tre contemporaneamente. Quella era la logica del
campo di battaglia, e adesso tutto era un campo di battaglia.
I cittadini di Ceres fecero loro largo, addossandosi alle pareti del corridoio e
guardandoli passare. Fred aveva la sensazione che si sarebbe dovuto
inginocchiare davanti a loro, o che avrebbe dovuto salutare. Anderson Dawes, il
suo vecchio amico e nemico, aveva gestito quella stazione per anni. Non riusciva
a immaginarlo tollerare questo stato di cose, ma del resto a quel tempo Ceres era
stata un posto diverso.
Il palazzo del governatore era vicino ai moli, in prossimità della superficie della
stazione, dove la forza di gravità da rotazione era al massimo e la forza di
Coriolis si avvertiva meno. La Rocinante aveva un suo attracco allo stesso molo
della Minsky, e quando il carrello di Fred si fermò vicino al molo di carico,
James Holden era già là.
«Mi chiedevo se saresti venuto,» disse, quando Fred scese dal carrello «perché
non ho potuto fare a meno di notare che qualcuno ci ha sparato addosso.»
«Davvero? E io che pensavo che avessero sparato ai pirati.»
Holden chiuse la bocca e il suo volto si incupì un poco. Poi però scrollò le
spalle. «D’accordo, un punto a tuo favore, ma è stata una mossa del cazzo.»
«Non è stata la mia gente a far fuoco» replicò Fred, avanzando verso il portello
della Rocinante. Holden colse il tacito suggerimento e gli si affiancò.
«L’ho intuito dal fatto che le altre navi della flotta non hanno seguito
l’esempio. A proposito, grazie per questo.»
«Non c’è di che» ribatté Fred, mentre entravano nella stiva di carico della nave.
Amos Burton – cordiale e largo di spalle – fermò il mech che stava manovrando
e li lasciò passare con un cenno di saluto. Fred non aveva mai conosciuto di
persona la famigerata Clarissa Mao, ma era impossibile non riconoscere la
ragazza che sgusciò fuori dall’ascensore e nell’officina meccanica. Quella non era
l’alleanza più strana che avesse mai visto, ma ci andava vicino. Fred attese che
anche Holden fosse sull’ascensore, poi regolò i comandi per raggiungere il ponte
dell’equipaggio. Quando furono fuori portata d’udito di chiunque, proseguì: «C’è
qualcosa di cui devo discutere con te.»
«Riguarda il come mai qualcuno ci ha sparato? Lo chiedo perché sono ancora
fissato su questo.»
«Ho una squadra che sta indagando. Sappiamo che sono stati simpatizzanti
della Marina Libera e anche quale magazzino scorte hanno razziato per prendere
le munizioni. E no, non è per questo che sono venuto.»
«Vuoi arrestarmi per aver aiutato un pirata?»
Fred ridacchiò. «Mi è passato per la mente, ma... no.»
«Si tratta di Bobbie? Sai, non sono certo che questa faccenda di fare
l’ambasciatore le vada a genio.»
«Neppure di questo. Sai, sto lavorando all’organizzazione di un summit. Un
incontro di alto livello con i rami dell’APE che non si sono dichiarati per la
Marina Libera.»
«Il pigiama party.»
Fred sussultò. «Vorrei che non lo chiamassi così.»
«Scusami. Mi piace l’immagine visiva. Sei molto serio riguardo all’incontrare i
capi dell’APE.»
L’ascensore si fermò sul ponte dell’equipaggio, Fred ne uscì e si diresse verso
la cabina di Holden. I loro passi sul plancito risuonarono più forti di come lui
ricordasse, ma forse dipendeva solo dal fatto che non c’era più un equipaggio
completo a fornire i rumori di sottofondo della vita umana. Niente
conversazioni, musica, risate. O forse era solo così che appariva a lui.
«Non verranno su Ceres» sospirò. «Non con la flotta qui.»
«Non ti posso però consigliare di mandarla via.»
«No, non sarebbe una buona cosa. Abbiamo concordato per la Stazione di
Tycho, ma solo a patto che non siano presenti navi delle Nazioni Unite o della
MRCM.»
Holden si fermò davanti alla porta della sua cabina e aggrottò la fronte,
un’espressione che lo faceva apparire più giovane di quanto non fosse. «Stiamo
andando nella mia cabina perché ho quel whisky che ti piace, vero?»
«Sì» rispose Fred. Holden rifletté per un momento, poi scrollò le spalle e lo
precedette all’interno. La cabina del capitano era più ampia delle altre presenti
sulla corvetta, ma sembrava più piccola perché in quello spazio c’erano anche
molte delle cose di Naomi Nagata. Holden aprì un armadietto e tirò fuori una
fiasca e due bulbi, riempiendoli mentre parlava.
«Quante sono le probabilità di organizzare un incontro come questo senza che
Marco lo scopra?»
«Scarse» ammise Fred, prendendo il bulbo che Holden gli offriva. «Ma questo
rimarrà valido qualsiasi cosa tentiamo di organizzare. L’APE non è un servizio di
intelligence. Qui fuori tutto si regge sul pettegolezzo e sui rapporti personali.»
«Al contrario dei servizi di intelligence?» commentò Holden, e Fred scoppiò a
ridere.
«D’accordo, somiglia un poco a un servizio di intelligence. Il punto è che,
certo, l’informazione trapelerà, se non nei dettagli quantomeno a grandi linee.
Cercare di tenere il segreto sarebbe solo una continua frustrazione e in realtà
sarebbe controproducente. Se dovessimo camminare in punta di piedi intorno
alla Marina Libera, daremmo l’impressione di averne paura. Vedermi arrivare
senza timore rafforzerà le mie posizioni agli occhi di questa gente. Non è
avventatezza, ma un non mostrarsi intimiditi.»
«Come arrivare a bordo di una nave da guerra» annuì Holden. «Però non dovrà
essere una nave che lavori per la Terra o per Marte. Magari una nave
indipendente che di tanto in tanto abbia lavorato con l’APE. Una che Marco ha
già cercato di far saltare in aria un paio di volte, fallendo.»
Il whisky era davvero molto buono. Ricco e complesso, aromatizzato dalla
stagionatura in una botte di legno di quercia e con un morso piacevole. Fred
restituì il bulbo a Holden e scosse il capo quando lui offrì di riempirglielo
ancora. Holden svuotò il suo bulbo, rifletté per un momento, tornò a riempirlo
e lo svuotò di nuovo.
«Sai,» disse, riponendo bulbi e bottiglia nell’armadietto «Inaros manderà all’aria
questo incontro.»
«È per questo che non ti sto mandando messaggi tramite il sistema di
comunicazione. Non so quanto sia stato compromesso e credo fortemente nella
sicurezza della comunicazione diretta. La verità però è che per quanto possiamo
tenergli nascosti i dettagli, io spero che faccia un tentativo. Non c’è niente come
attaccare in preda all’ira che ti lasci esposto. Inoltre, se si concentrerà su di noi
darà un po’ di fiato a Pa.»
«Credevo fossi contrario a collaborare con lei.»
«Lo sono. È stata una mossa sbagliata e mi aspetto che ne pagheremo il
prezzo, ma adesso che la cosa è fatta dovremmo sfruttarla al massimo. Meglio
essere determinati e sbagliare che permettere loro di vederci esitare.»
Holden si appoggiò alla parete a braccia conserte, accigliato. Fred attese.
«Come finirà tutto questo?» chiese infine.
«Continueremo a cercare di indurlo a commettere un errore e lui farà lo stesso
con noi. Chi fa un casino per ultimo perde, chi lo fa dopo vince. La guerra è
così.»
«Non sono sicuro che la mia domanda si riferisse alla guerra» ribatté Holden.
«No? A cosa, allora?»
«Hai sempre detto che cercavi un posto al tavolo. Come conquistiamo la pace?
Come può finire quella cosa?»
Fred rimase in silenzio per un tempo molto lungo, mentre una sensazione di
lutto gli si formava nel petto, intensa e dolorosa. «In tutta onestà? Non so come
finirà. Non so neppure se finirà. Ho dedicato la vita a questa lotta, prima da una
parte, poi dall’altra, ma adesso che guardo la situazione – quello che è successo
con i portali, quello che è successo alla Terra – non riconosco più tutto questo.
Continuo a farlo perché non so che altro fare.»
Holden trasse un profondo respiro ed esalò il fiato fra i denti. «Quando
dovremmo essere pronti a partire?»
«Ho detto a Drummer che avrei impiegato due settimane a sistemare le cose
qui. Mi piacerebbe partire fra quattro giorni da ora, mentre qualsiasi agente di
Marco che abbia saputo dei nostri progetti sta ancora elaborando i suoi piani.
Costringerli a muoversi prima che siano pronti.»
«D’accordo» assentì Holden. «Ti daremo noi un passaggio.»
«La mia gente si presenterà a rapporto quando ne avrai bisogno. Trovo da solo
la strada dell’uscita» concluse Fred, con un cenno di saluto, e si avviò verso
l’ascensore.
Mentre scendeva, chiuse gli occhi e lasciò che le vibrazioni del meccanismo gli
penetrassero attraverso la pianta dei piedi, su per la schiena dolorante e fino alla
sommità della testa. C’erano ancora così tante cose che andavano fatte prima di
lasciare Ceres. Doveva ancora incontrare l’equipaggio della Minsky, ma aveva
promesso di consultarsi con il vice procuratore generale di Avasarala prima di
farlo, in modo da non obbligare accidentalmente la Terra a qualcosa dicendo la
frase sbagliata. E voleva organizzare turni a rotazione delle pattuglie per almeno
un mese, in modo che la sua assenza inaspettata non scompaginasse niente. E
voleva dormire.
Quando uscì di nuovo dal portello, il suo terminale palmare trillò. Era arrivato
un nuovo messaggio dalla Terra, da Avasarala. Si fermò nell’ampio spazio aperto
dei moli, in mezzo al ruggito dei riciclatori dell’aria e al clangore dei mech di
carico, all’odore di lubrificante e di polvere. La sua squadra di sicurezza stava già
venendo verso di lui, pronta a caricarlo nella sua vasca per pesci. Le segnalò di
restare indietro e avviò il messaggio.
Avasarala era in un corridoio e procedeva con passo spedito ma strascicato
nella microgravità lunare. Appariva stanca quanto lui, ma aveva un sottile sorriso
divertito. Fred non aveva mai conosciuto nessuno che potesse prendere così
allegramente l’essere delusa dall’umanità.
«Ho sottoposto la tua lista al mio coordinatore dei soccorsi» disse... quanto
tempo prima? Otto minuti? Dieci? Una volta riusciva a calcolare a mente lo
sfasamento temporale. «Non gli ha causato un orgasmo di gioia ma potrebbe
volerti portare a bere qualcosa quando sarai in città. Stai attento con lui. Ha le
mani lunghe.»
Qualcuno che non appariva a schermo la interruppe. Lo sguardo di Avasarala
si allontanò per un momento dalla videocamera e lei scosse il capo. «Vuole
anche che gli pulisca il culo? È compito suo prendere decisioni, non chiedere a
me quali decisioni dovrebbe prendere.» Una voce concisa e deferente rispose
con un ‘sì, signora’ o qualcosa del genere, poi Avasarala riprese a camminare.
Fred si sorprese a sorridere. Quando era stata il suo nemico, lei era stata un
buon avversario. Adesso che lavoravano come alleati, gli aspetti sotto cui erano
uguali riuscivano quasi a umanizzarla.
«Dov’ero rimasta? Ah, sì, le cosiddette scorte di soccorso. Ti sto mandando
una lista delle cose che ci servono maggiormente, sulla superficie. Se dovesse
capitarti di passarla a Pa, per favore fallo. A quanto pare, adesso siamo tutti
fottuti pirati.»
26
Filip

La notte prima che la Pella lasciasse la Stazione di Pallas, Rosenfeld organizzò


una cena per Marco e gli altri capitani. La sala era stata un vasto spazio aperto
designato a essere un compartimento edile, ma adesso era stata trasformata in
una sorta di sala del trono a zero g. Una musica sommessa suonava come acqua
corrente dotata di una melodia. Le piattaforme delle vivande erano cariche di
bulbi di ceramica dai colori accesi, come petrolio sull’acqua, pieni di vino e
d’acqua. Lunghi nastri rossi e oro si agitavano sotto la brezza generata dai
riciclatori e grandi striscioni di carta dorata sventolavano e si gonfiavano lungo
le pareti, fra gli appigli per le mani e per i piedi. L’equipaggio della Pella si
mescolava con il personale di gestione di Pallas agli ordini di Rosenfeld, con le
uniformi della Marina Libera che spiccavano marziali in mezzo agli informali
abiti civili dei locali. Giovani uomini e donne in fluenti vesti carminie e blu
fluttuavano nell’aria abbastanza lentamente da servire tapas di pasta di soia e
grano, gamberetti al curry freschi, provenienti dalle vasche, e salsicce all’aglio
fatte di carne vera.
Nessun elemento architettonico suggeriva un su o un giù predeterminati, non
era stata fatta nessuna concessione all’architettura della Terra e di Marte. La
combinazione dell’estetica cinturiana tradizionale con l’eleganza e il lusso fecero
sentire Filip leggermente ebbro ancor prima che cominciasse a bere.
«Non so cosa potresti intendere con ‘purificazione’,» disse suo padre, con una
risata «se non il liberarsi delle parti impure.»
La risatina di risposta di Rosenfeld fu un po’ asciutta. Anche dopo aver
viaggiato con lui per settimane, Filip non era ancora certo di poter decifrare le
sue espressioni. «Stai dicendo che avevi pianificato questo?»
«Lo avevo previsto. Un cambiamento di sistema nel mondo comporta sempre
il rischio che ci siano persone che perdono la prospettiva. Che si lasciano
inebriare dalle possibilità. Pa ha cavalcato l’onda e adesso pensa di poter
controllare le maree. Non sapevo se avrebbe ceduto, ma ero pronto nel caso che
lo avesse fatto.»
Rosenfeld annuì. Dall’altra parte della grande stanza echeggiante due donne
cantarono insieme un paio di battute di una canzone che Filip conosceva, poi
scoppiarono a ridere. Guardò attraverso la distanza che li separava, nella
speranza che una di esse potesse ricambiare il suo sguardo, che una ragazza lo
vedesse fluttuare mentre era in riunione con le grandi menti della Marina Libera.
Nessuna però lo stava osservando.
Quando suo padre riprese a parlare, la sua voce era più bassa. Era ancora
colloquiale, ancora cordiale, ma anche carica di tensione. «Avevo pronti dei piani
per chiunque avesse ceduto. Pa, Sanjrani, Dawes, tu. Quando colpirò di nuovo,
tutti vedranno quanto Pa sia debole, e il supporto di cui gode si consumerà più
in fretta dell’aria di un respiro.»
«Sei sicuro» replicò Rosenfeld, facendo suonare quelle parole come
un’affermazione e insieme come una domanda. Bevve dal suo bulbo, tossì. Filip
guardò suo padre aspettare che l’uomo dalla pelle granulosa completasse il suo
pensiero. Rosenfeld sospirò e annuì. Filip percepì un significato più profondo
che fluttuava appena al di sotto della sua capacità di comprensione, lasciandolo a
dondolare nella sua scia. «È solo che lei sta nutrendo la gente. La massa trova
simpatico questo genere di cosa, sí no?»
«Chiunque può comprare voti con ganga gratuito» commentò Filip.
Rosenfeld girò la testa, come se si fosse accorto di lui solo allora. «Vero, vero.»
«Johnson e la sua flotta raffazzonata sono insediati su Ceres, con gli occhi
sgranati» disse Marco. «Non possono avanzare senza esporsi, non possono
tornare indietro e lasciarci riprendere Ceres. Sono intrappolati, proprio come
avevamo detto che sarebbero stati.»
«Vero» ripeté Rosenfeld, e lasciò un ‘vero, ma...’ sospeso nell’aria, con tutte le
critiche che lo seguivano come i nastri che si agitavano nella brezza. È vero, ma
è passato molto tempo da quando abbiamo lasciato Ceres, e questo ci ha fatti
apparire deboli... È vero, ma uno dei tuoi generali ha disertato e tu non l’hai
riportata sotto controllo... È vero, ma è Fred Johnson a dare ordini dalla dimora
del governatore, su Ceres, e non tu. Filip sentì ognuno di quei punti come un
colpo allo stomaco, ma siccome non erano stati espressi apertamente non poté
controbattere, come non poté farlo neppure suo padre. Rosenfeld prese un altro
drink, accettò da un cameriere di passaggio uno spiedino di carne generata nelle
vasche, e stabilizzò la sua fluttuazione con una mano mentre mangiava. La sua
espressione era mite, ma il suo sguardo rimase fisso su Marco.
«Aspettare il momento perfetto è quello che contraddistingue un grande
stratega» dichiarò Marco. «Per ora, i pianeti esterni sono nostri e vi possiamo
circolare liberamente. Marte, la Terra, la Luna, e perfino Ceres si nascondono
dietro i loro muri mentre noi ci muoviamo attraverso le vaste pianure del vuoto
e ne siamo i padroni. Quanto più si renderanno conto di non contare niente,
tanto più si faranno disperati. Tutto quello che dobbiamo fare è stare pronti a
cogliere l’opportunità che sta per arrivare.»
«Fred Johnson ha già contattato Carlos Walker, Liang Goodfortune e Aimee
Ostman» disse Rosenfeld.
«Che parlino pure con lui» ribatté Marco, mentre una nota tagliente gli
affiorava per la prima volta nella voce. «Che vedano quanto è diventato
insignificante. Conosco i suoi schemi e so cosa intendi dire.»
«Non sto dicendo niente, coyo» replicò Rosenfeld. «Solo che forse stiamo
bevendo troppo.»
«Ti avevo già anticipato che Johnson sarebbe scomparso dalla scacchiera, e lo
farà. Non lo abbiamo eliminato su Tycho, ma lo beccheremo da qualche altra
parte. Lui è la mia balena bianca, e gli darò la caccia fino alla fine dei tempi.»
Rosenfeld abbassò lo sguardo sul suo bulbo, incurvando appena il corpo in un
gesto di sottomissione. Filip sentì la vittoria di suo padre come se fosse la sua.
«Non hai finito di leggere quel libro, vero?» chiese Rosenfeld, in tono mite.
Marco chiamava le navi i tre lupi. Naturalmente, la Pella era il capo branco, con
la Koto e la Shinsakuto inserite in un’orbita lenta per farle da supporto. Mettere le
navi in posizione era la parte difficile, perché l’accordo che aveva stipulato non
aveva incluso vere navi stealth. La cosa più simile che avevano erano normali
navi da guerra ricoperte da uno strato di vernice anti-radar rubata, ma siccome
non erano state progettate per questo e per contenere le emissioni di calore
residuo, la tecnologia marziana era meno efficace.
Nella Fascia però c’erano sempre stati contrabbandieri, pirati e ladri. C’erano
modi per nascondersi, perfino nell’abisso, e navigare senza transponder era
soltanto uno di essi. Avevano lasciato Pallas con un’accelerazione veloce, ore
trascorse schiacciati contro i sedili a smorzamento, con il cocktail di medicinali
che bruciava loro nelle vene mentre venivano comunque spinti sull’orlo della
perdita di conoscenza. Poi si erano mossi per abbrivio. Senza il pennacchio del
reattore a mostrare dove si trovavano, la Pella e le altre due cacciatrici erano
poco più che rocce calde che attraversavano la vastità fra Ceres, nella Fascia
interna, e la Stazione di Tycho, nella sua orbita più profonda. La Koto si
arrischiò a eseguire una frenata per posizionarsi accanto a un asteroide che
figurava sulle carte nautiche, usandone la massa di pietra e ghiaccio per
nascondersi e per spiegare il segnale rilevato dai radar. La Pella e la Shinsakuto
rimasero in abbrivio, su un’orbita che corrispondeva a quella dei detriti sparsi
della cintura degli asteroidi. Niente comunicazioni. I soli messaggi erano
scambiati su raggio stretto. Liberarono un po’ di gas per raffreddare lo scafo
esterno e rendere più complessa la loro firma termica. Il vuoto stesso era loro
amico. Perfino negli angoli più affollati della Fascia, dove gli asteroidi erano più
fitti, ci sarebbe voluto un telescopio per vedere i vicini più prossimi. La Pella era
una calda scheggia di metallo e ceramica in migliaia di miliardi di chilometri
quadrati... meno di un frammento di unghia in un oceano.
Anche se Ceres li avesse visti... e avrebbe potuto farlo, durante le loro lunghe
settimane di caccia silenziosa... non sarebbero stati distinguibili da un migliaio di
altri cercatori privi di licenza, navi di contrabbandieri e navi di proprietà di
famiglie di cinturiani. Johnson e i suoi alleati dei pianeti interni avrebbero
dovuto sapere dove guardare per trovarli, e se pure avessero scovato una nave,
le altre due sarebbero state in attesa.
Mancavano ancora settimane al disperato incontro organizzato da Fred
Johnson per riunire le schegge dell’APE, ma Marco posizionò le sue navi, in
oscuramento, molto prima che Fred fosse costretto a lasciare la sicurezza di
Ceres. «Gli uomini hanno i loro schemi» diceva. E quelli di Fred Johnson erano
una finta seguita dall’uso di forze schiaccianti. Le loro fonti dicevano che la
flotta sarebbe rimasta bloccata a Ceres, e adesso che le forze schiaccianti non
erano più un’alternativa disponibile, tutto quello che rimaneva era dare
indicazioni errate. Quindi loro rimanevano lì a fluttuare, con i sensori passivi
puntati su Ceres e su Tycho come un bambino troppo sveglio che fissasse l’altra
mano di un prestigiatore da strada. Marco sosteneva che avrebbe saputo quando
Fred Johnson fosse andato a presentare la sua supplica ai miseri resti dell’APE
ancora disposti ad ascoltarlo, e una volta che i suoi potenziali alleati lo avessero
visto morire...
Avevano perso Michio Pa, ma Marco poteva sostituirla cento volte. La forza
attirava la gente nello stesso modo della gravità, e a volte anche di più.
Marco aspettava per ore, ogni giorno, assicurato al sedile a smorzamento come
se avessero potuto accelerare con forza da un momento all’altro, con lo sguardo
fisso sui dati dei sensori, e tuttavia riusciva a concludere i suoi turni pieno di
energia, ridendo eccitato. Gioioso. Filip non aveva la resistenza di suo padre. Per
parecchi giorni riuscì a eguagliare la concentrazione e il senso di violenza
imminente di Marco, e anche allora, quando infine andava in palestra, nella
cambusa o nella sua cabina, l’entusiasmo nel suo petto aveva già cominciato a
trasformarsi in qualcosa di più simile all’ansia. O alla rabbia. Non sapeva però
per cosa fosse ansioso, o con chi fosse infuriato.
Quando la Minsky era arrivata a Ceres, affiancata dalla Connaught, Filip era stato
certo che il momento fosse arrivato. Pa era là, la flotta congiunta la guardava
venire avanti lentamente come un gatto che portasse a casa un topo morto come
dono. Filip l’aveva sentita nel sangue... la violenza imminente. La prova grande e
vistosa che la Marina Libera era più forte dei suoi nemici... e non era stato il
solo. Era stato come se tutto l’equipaggio della Pella... Josie e Karal e Bastien e
Jún... avesse trattenuto il fiato nello stesso momento, preparandosi
all’accelerazione e alla battaglia.
Tutti tranne Marco.
Lui era rimasto lo stesso, a fissare i feed di dati dal suo sedile a smorzamento
sul ponte di comando. L’attacco proveniente da Ceres, la difesa della Connaught
da parte della Rocinante, tutto questo era parso passargli sopra come se non fosse
stato nulla. Aveva catturato alcune immagini della consegna della nave, e quando
aveva registrato la sua denuncia delle azioni di Pa, rivelandola come un burattino
degli interni, era parso svegliarsi per un momento, ma solo finché era in corso la
registrazione. Non appena la videocamera si era spenta era sprofondato di
nuovo in sé stesso. Filip aveva tratto conforto dal fatto che quello non era lo
stesso torpore unito a indifferenza che aveva infestato la Pella quando avevano
lasciato Ceres per la prima volta. Marco vegliava come un predatore in agguato,
con la Pella che fluttuava nella sua orbita intorno al sole lontano come se fosse
stata legata alla Stazione di Ceres.
Parecchi giorni dopo la partenza della Connaught, Filip sognò la Terra... solo
che non era la Terra, era un’enorme astronave, strati su strati di impalcature che
si estendevano all’infinito verso il basso. Un grande fuoco ardeva al suo centro e
lui era perso dentro di esso mentre cercava di trovare qualcosa di prezioso che
aveva posseduto e perduto, o che gli era stato nascosto. Era anche inseguito.
C’era qualcosa che lo cercava, per cui passava dall’essere cacciatore all’essere una
preda per poi ridiventare un cacciatore.
Nel sogno, fluttuava in un lungo corridoio ed era infuriato. Gli appigli per le
mani e i piedi gli scivolavano accanto su entrambi i lati, appena fuori della sua
portata e si sentiva un odore intenso di minerali e di calore: era il nucleo di ferro
della Terra, messo a nudo. Il suo cuore ardente. E c’era qualcosa in fondo al
corridoio, in attesa. Sua madre e un esercito dei morti che lui aveva ucciso. Il
tamburellare delle ossa delle loro dita sul plancito era una minaccia e una
promessa. Si svegliò con un grido, afferrando le cinghie del sedile a
smorzamento come se stessero cercando di strangolarlo.
Poi quel suono tamburellante si ripeté e la porta della sua cabina si aprì. Karal
fluttuava nel corridoio con occhi pieni di preoccupazione, e forse di eccitazione.
«Ehi, Filipito» disse. «Bist bien?»
«Ottimamente» rispose Filip. Che ora era? Aveva la sensazione di essersi
svegliato a metà di un ciclo, ma non poteva esserne certo. Ultimamente aveva
dormito così tanto che gli riusciva facile perdere la cognizione del tempo.
Fintanto che non c’era niente da fare se non aspettare, non aveva importanza
come si passassero le ore, ma dormire troppo era come dormire troppo poco, e
lo lasciava confuso e stanco.
«Marco ti vuole. Sul ponte di comando, sì?»
Filip annuì con la mano sinistra mentre usava la destra per slacciare le cinghie.
«Con que?» domandò. «È successo qualcosa?»
L’espressione preoccupata di Karal si trasformò in un sorriso bestiale. «Dui»
rispose. «Ma lascia che te lo mostri Marco, sì?»
Mentre si tirava su lungo il tubo dell’ascensore, Filip sentì il cuore che gli
martellava contro il petto. La sensazione lasciata dal sogno non si era del tutto
dissipata e permeava la solidità della nave, sotto le sue mani. Eccitazione e paura
indossavano una gli abiti dell’altra, parlavano con la stessa voce. Quando
raggiunse il ponte di comando, l’illuminazione era predisposta per la battaglia e i
sedili a smorzamento erano occupati dall’equipaggio: Sárta stava allacciando le
cinture, Ali era già al suo posto. La voce di Bastien giungeva dalla cabina di
pilotaggio e l’aspettativa dell’accelerazione imminente indusse Filip a pensare
che essa fosse sopra di loro. Le parole erano scandite e nitide, l’aria sembrava
più pulita, come se lui stesse vedendo ogni cosa per la prima volta.
Marco allungò una mano e fece ruotare il proprio sedile in modo da girarsi
verso di lui. La luce dello schermo proiettava delle ombre sui suoi occhi. Filip
eseguì il saluto, e Marco allargò le mani.
«L’ora è arrivata, Filip» disse. «Tutta la nostra pazienza e il nostro sacrificio ci
hanno portati qui, a questo singolo istante perfetto.» In momenti come questi,
parlava quasi come un terrestre. Filip annuì, con il cuore che gli accelerava i
battiti. Non sapeva se continuare a guardare suo padre o se sarebbe stato più
giusto girarsi verso gli schermi. Marco rise e lo trasse più vicino a sé, indicando
lo schermo tattico, su cui spiccava un punto luminoso.
Se avesse guardato fuori della nave con occhi meramente umani o attraverso le
videocamere che usavano quello stesso spettro, la distesa delle stelle avrebbe
sopraffatto lo scintillio della nave. Perfino Ceres sarebbe stata poco più di un
frammento di oscurità che nascondeva la luce delle stelle. Sullo schermo, quella
luce di importanza critica appariva più intensa, il suo percorso era segnato.
Lanciò un’occhiata a Marco per chiedere il permesso, lo ricevette sotto forma di
un cenno del capo e rimpicciolì la scala dell’immagine finché l’intero arco della
rotta della nave non risultò chiaro.
Una singola nave, in forte accelerazione da Ceres a Tycho.
«Fred Johnson» disse.
«Più di questo» replicò Marco, e la calma che gli permeava la voce lo fece
sembrare quasi drogato dal piacere. «Guarda la firma del reattore.»
Filip obbedì e sentì il respiro che gli si faceva difficile e poco profondo. Essa
corrispondeva a quella della Rocinante, la nave di James Holden. Di quella
traditrice di sua madre. Il centro nitido, pulito, di tutto quello che odiava, di
tutto quello che dovevano sopraffare. Ed era là, consegnato nelle loro mani
come un regalo.
«Li stavo tracciando. Hanno lasciato l’effettiva portata della protezione di
Ceres. Sono soli nel vuoto, salvo che per la nostra presenza.» Il sorriso di Marco
era beato, ma l’espressione dei suoi occhi scuri era cambiata. Invece di essere
perso nella gratificazione del momento stava guardando Filip. Anzi, non si
limitava a guardarlo, lo vedeva, vedeva dentro di lui.
«Karal» disse. Il grosso uomo si arrestò a metà dell’operazione di allacciare le
cinture del suo sedile. Marco si spostò di un grado. «Mi servi nella sezione
ingegneria. Controllo dei danni, sì?»
Karal scrollò le spalle e slacciò le cinture. Marco riportò lo sguardo su Filip e
indicò il sedile con il mento. È la tua postazione. Occupala. Mentre Karal si
lanciava giù per il tubo dell’ascensore, con i piedi che svanivano per ultimi, Filip
si tirò fino al sedile. Il controllo degli armamenti riempiva lo schermo, siluri e
CDP. La spada della Pella era nelle sue mani.
Il suono dell’allarme parve provenire da una grande distanza: dopo settimane
passate a dormire nel vuoto, la Pella si stava preparando. L’ago bruciò nel
penetrargli nella vena, e il flusso freddo e intenso dei medicinali di uso militare
lo colpì da dentro come se fosse diventato fuoco, consumando tutto quello che
toccava.
Sullo schermo tattico apparvero due nuovi punti. Nuove stelle nell’oscurità
disseminata di stelle, entrambe contrassegnate come amiche: la Koto e la
Shinsakuto che lasciavano il loro nascondiglio e annunciavano l’attacco. Le
sospensioni sibilarono all’unisono quando Bastien li fece girare, con i sedili che
ruotavano di scatto verso il nuovo su, seguendo le richieste dei propulsori di
manovra. Il rombo del reattore si diffuse per la nave, vibrando nelle ossa di
Filip, mentre il gel del sedile gli fluiva lungo i fianchi. Sentendosi come se stesse
guardando qualcun altro in azione, inserì le soluzioni di tiro. Una nave da guerra
contro tre. La Rocinante non poteva fare altro che morire.
«Ci hanno visti!» gridò Bastien. «Ci stanno puntando!»
«Filip» disse Marco.
«Sa sa» rispose Filip. Con un movimento, puntò i CDP verso quel distante
tremolio che era il nemico, pronto a disintegrare qualsiasi siluro in arrivo. La
Pella scattò di nuovo in avanti, con l’accelerazione che si intensificava ancora di
più, e Filip lasciò sprofondare le braccia lungo i fianchi, le dita sui comandi
inseriti nel sedile, mentre lottava per respirare. Cinque g. Sei, e l’accelerazione
aumentava ancora. Adesso i lupi erano in caccia. Il branco stava correndo.
Il campo visivo gli si assottigliò, con le ombre che incombevano lungo i suoi
contorni come i morti del suo sogno. Aveva la strana sensazione che lei fosse
nella stanza, Naomi Nagata, ma quello era solo un caso dovuto al sogno e al
flusso sanguigno alterato dalla gravità elevata. Il sedile a smorzamento trillò, e
una nuova infusione di medicinali lo ravvivò. Si sentiva le labbra intorpidite e
formicolanti, non riusciva più a sollevare la testa dal sedile. Era come se stesse
diventando la nave, o essa stesse diventando lui.
Sentì suo padre cercare di parlare, ma l’accelerazione stava influenzando anche
lui. La Pella gemette, con la sovrastruttura che si assestava e fletteva sotto
l’accelerazione, e un ipertono armonico acuto risuonò nell’aria come un rintocco
di campana.
Sul monitor di Filip apparve un messaggio. Era di suo padre. Il suo capitano. Il
capo della Marina Libera e il liberatore della Fascia.
‘FUOCO A VOLONTÀ.’
27
Bobbie

«Confermo che abbiamo altri quattro oggetti in rapido movimento» disse la


voce di Alex, tesa e calma nello stesso tempo.
«Visti» rispose Bobbie, con la mascella che le doleva per la forza di gravità da
accelerazione. I comandi della sua postazione identificarono i nuovi siluri,
aggiungendoli ai sei già avvistati. Le tre navi che stavano convergendo su di loro
da angolazioni diverse erano state identificate come la Pella, la Shinsakuto e la
Koto. La nave personale di Marco Inaros e due navi da guerra di supporto,
mentre la Roci non aveva niente dietro cui nascondersi se non il pennacchio del
suo reattore. I nemici erano ancora molto lontani milioni di chilometri, e
nessuno dei vettori iniziali li favoriva. La Roci li aveva già oltrepassati. Erano
come un ragazzino su un campo di football, che correva con la palla mentre tre
giocatori avversari si lanciavano per raggiungerlo. Solo che i giocatori avversari
avevano i cannoni.
Quando la Roci avesse raggiunto il punto di equilibrio matematico fra velocità,
massa e distanza che definiva la metà del tragitto, sarebbe stato necessario
compiere una scelta difficile. Avrebbero potuto girare la nave e cominciare a
frenare in direzione di Tycho oppure lasciare che l’inseguimento andasse avanti
a tempo indefinito. Se avessero permesso alla Marina Libera di spaventarli fino a
indurli ad addentrarsi nello spazio vuoto fra basi e stazioni, la caccia si sarebbe
trasformata in una sorta di orribile battaglia di attrito. Si sarebbe trattato di chi
avesse esaurito per primo le munizioni, o la massa di reazione. Considerato
l’aspetto che i sistemi esterni avevano attualmente, avrebbe avuto più senso
frenare in direzione di Tycho e sperare che rinforzi dalla stazione potessero
raggiungerli prima che la Marina Libera li trasformasse in una massa informe di
detriti di metallo e sangue.
Il compito suo e di Alex era quello di accertarsi che sopravvivessero
abbastanza a lungo da dover affrontare quel problema. Bobbie tracciò i siluri.
Con un po’ di fortuna sarebbero stati tutti di modello standard. Per ora, non
avevano ancora assunto la rotta zigzagante delle contromisure difensive.
Quando fossero arrivati a portata effettiva, la Roci avrebbe cominciato a farli a
pezzi con scariche di piccoli proiettili di tungsteno che li avrebbero disintegrati.
Se fossero stati soltanto sei, si sarebbe sentita certa di poterli annientare tutti.
Dieci in una volta rendeva le cose un po’ più complicate, ma fintanto che non
avessero raggiunto il bersaglio tutti nello stesso momento, si sentiva piuttosto
sicura che non li avrebbero sopraffatti.
La voce di Holden le risuonò all’orecchio, ansiosa. «Quanto ci vuole prima che
possiamo cominciare a rispondere al fuoco?»
«Gli oggetti in rapido avvicinamento saranno a portata effettiva di CDP entro
sessantotto minuti» rispose Bobbie. «Abbiamo ricevuto risposta da Ceres? Non
me ne avrei a male se potessero lanciare qualche siluro a lungo raggio contro
questi figli di puttana.»
Le rispose la voce di Fred Johnson, calma e pratica. «Ci sto lavorando adesso.»
«I nostri nuovi amici si stanno avvicinando» avvertì Alex. «Le cose potrebbero
farsi un po’ più scomode.»
«Ricevuto» replicò Holden.
La Rocinante era già a un’accelerazione di tre g, che Bobbie poteva avvertire
nelle articolazioni e negli occhi. Il medicinale scadente che le colava nelle vene le
causava una sorta di emicrania distante e nebulosa, e le generava in bocca un
sapore come di formaldeide. Sul ponte sottostante il resto dell’equipaggio... sia
quello di Holden che quello di Johnson... era pronto per la battaglia, assicurato
ai sedili. Poteva sentire la voce di Sandra Ip uscire dall’auricolare di Alex nel
parlare con lui su un canale privato. Anche Naomi stava parlando con qualcuno,
e la sua voce arrivava dal ponte sottostante.
L’ansia e la paura che le attanagliavano il ventre erano come una canzone
preferita. La logica della tattica e della violenza traspariva dagli schermi, e si
accorse che poteva vedere le cose su di essi come se stesse leggendo il futuro.
Sapeva che se Ceres avesse sparato una raffica di missili o di siluri a lungo
raggio, la Shinsakuto si sarebbe staccata dal gruppo per fermarli. Vedeva come
Alex avrebbe incurvato la rotta della Roci per aggiungere qualche altro secondo
prima dell’impatto dei siluri della Marina Libera. I vettori delle navi nemiche le
sussurravano in un angolo della mente cose che parlavano di temerarietà e
aggressione, e sapeva che su ciascuna delle navi in avvicinamento c’erano altre
persone la cui mente stava effettuando la stessa analisi, arrivando alle sue stesse
conclusioni. Vedendo qualcosa che lei non scorgeva o facendosi sfuggire un
dettaglio che lei aveva notato. Tutto quello che ci voleva era un errore critico, e
sarebbero morti o sarebbero stati catturati. Una svista del nemico avrebbe
permesso loro di fuggire.
E insieme a tutto questo – ai medicinali scadenti, alla paura della battaglia, allo
sforzo disperato per mantenere limpida la mente mentre il sangue cercava di
raccogliersi alla base del cranio – c’era anche qualcos’altro. Un senso di calore, di
essere dov’era il suo posto. La sua squadra contava su di lei e la sua vita
dipendeva dal fatto che tutti loro svolgessero il loro lavoro con efficienza,
professionalità e una competenza priva di esitazioni.
Quando fosse morta, voleva che fosse così. Non in un letto di ospedale come
sua nonna, non in un triste piccolo buco su Marte con una canna di pistola in
bocca o il ventre pieno di pillole, come alcuni casi che aveva visto al rifugio per
veterani. Voleva vincere, proteggere la sua tribù e ridurre il nemico a un impasto
di sangue e di sgomento, e se non avesse potuto farcela, voleva morire
provandoci. Un frammento di qualcosa che aveva sentito una volta le affiorò
nella mente: ‘Affrontando spaventose forze contrarie per proteggere le ossa dei
suoi padri e i templi dei suoi dèi.’ Sì, qualcosa del genere.
«Merda» disse Alex. «Ce ne sono altri sei. Siamo a sedici oggetti in rapido
avvicinamento.»
«Li vedo» rispose Bobbie.
«Perché li stanno distanziando in quel modo?» chiese Holden.
«La Shinsakuto si sta preparando a invertire la rotta e frenare» disse Bobbie.
«Suppongo che Fred abbia convinto Ceres ad aiutarci.»
«Infatti» replicò Fred. «Ho appena avuto conferma.»
«Se vogliamo che i nostri CDP abbiano una possibilità di fare a pezzi quella
roba, devo accelerare» avvertì Alex.
«Siete tutti sui sedili?» chiese Holden. Ci fu un coro di risposte, e nessuno disse
di no. «Di cosa hai bisogno, Alex?»
Alex guardò verso di lei. La postazione del pilota e quella del cannoniere erano
le uniche nella cabina di pilotaggio. Quella progettazione era dovuta al fatto che
se i sistemi avessero cominciato a non funzionare avrebbero potuto comunicare
gridando. Dovevano poter essere in grado di coordinare le loro azioni, perché da
adesso alla fine della battaglia nessun altro avrebbe avuto importanza. Ogni altra
vita a bordo sarebbe diventata parte del carico.
«Sei pronta, sergente?»
«Uccidiamo quegli stronzi» rispose Bobbie.
La Rocinante balzò in avanti, scaraventandola all’indietro con la violenza di un
attacco fisico. Le sue braccia sbatterono contro il gel, le dita conservarono a
stento la capacità di muoversi sui comandi. Le immagini sugli schermi si fecero
indistinte quando i suoi occhi si deformarono al punto da renderle impossibile
rimettere a fuoco la vista. Tese le gambe e le braccia, spingendo di nuovo il
sangue verso il centro del corpo. Il sedile trillò e una nuova dose di medicinali
scadenti le si riversò nella circolazione. Il suo sussulto suonò come quello di
qualcuno che stesse soffocando. Quanti g erano? Otto? Forse anche di più. Era
passato così tanto dall’ultima volta.
Trascorse un tempo infinito, poi un segnale sonoro le disse che la prima
raffica di missili era a tiro dei CDP, e la sua soluzione di individuazione degli
obiettivi si attivò. Alex incurvò la rotta della Roci, costringendo gli assalitori a
spostarsi e le fece guadagnare una frazione di secondo. I CDP si illuminarono, un
simbolo dorato sul suo schermo, e fecero fuoco. Il profondo ticchettio che si
diffuse sul ponte con l’entrata in funzione di ciascuno di essi fu come se lei
stesse suonando una musica. Quattro siluri divamparono immediatamente in
una fiammata, ma gli altri sei si allontanarono dalle scie di metallo, poi
descrissero una spirale che li portò più vicini alla nave. Alex eseguì una brusca
virata, intercettandone uno con il bordo del pennacchio del reattore e
costringendo gli altri cinque a una manovra evasiva. Bobbie ne centrò quattro. Il
quinto schivò, si spostò, si fece più vicino...
Alex cercò di gridare, ma tutto quello che gli uscì di bocca fu poco più di un
flebile stridio. La nave si girò degli altri tre gradi necessari a permettere a un altro
CDP di entrare in gioco e il siluro nemico si disintegrò, precipitando alle loro
spalle in una massa di detriti e fondendosi nel pennacchio.
Un messaggio apparve sullo schermo di Bobbie, proveniente da Alex.
‘CONTRATTACCHIAMO?’
Le due navi stavano puntando sulla Roci, accelerando al massimo per ridurre la
distanza. Bobbie non sapeva se fossero audaci o sconsiderati, e probabilmente
non lo sapevano neppure loro. Era risaputo che le navi piene di cinturiani non
amavano le accelerazioni a g elevati, ma questa era la guerra e si correvano tutti i
rischi necessari. La terza nave, però, si era allontanata, e come era solito dire il
suo vecchio sergente, due punti definivano un’opportunità. Quei bastardi erano
spaventosamente vicini uno all’altro.
‘D’ACORDO’ scrisse in risposta, senza preoccuparsi di correggere l’errore.
Diresse i cinque siluri fra la Pella e la Koto, in una raffica. Adesso le navi della
Marina Libera stavano aprendo il fuoco contro di loro con i CDP, e i proiettili
apparivano sullo schermo come fili di perle. Alex li schivò con facilità. La
distanza era ancora eccessiva per le tattiche di combattimento a distanza
ravvicinata, ma forse i cinturiani non lo sapevano. Oppure intendevano
semplicemente insultarli.
Guardò gli archi del fuoco dei CDP spostarsi per intercettare i suoi siluri mentre
procedevano in una linea astratta che li avrebbe portati fra le due navi. Due di
essi furono distrutti. Poi tre. Quattro. Il quinto però penetrò nello spazio fra le
due navi, dove il software di tracciamento si sarebbe reso conto che il fuoco dei
CDP di una nave lo avrebbe fermato, ma avrebbe anche crivellato di colpi il
vascello amico dall’altro lato. Le due navi si separarono con un sussulto e la Koto
lanciò un siluro che intercettò quello di Bobbie appena pochi secondi prima
dell’impatto.
La manovra aveva fatto guadagnare loro alcuni momenti, ma al prezzo di un
quarto della totalità di siluri disponibili. Non era un gioco che poteva permettersi
di portare avanti quando la posta era tanto alta, ma aveva già pronta la soluzione
di fuoco successiva, che trasmise ad Alex.
Dovette rendergli atto che non le fece domande. In un istante la forza di
gravità svanì e il reattore Epstein della Roci scese a zero. Il sedile di Bobbie si
spostò violentemente di lato quando l’energica rotazione dei propulsori di
manovra li fece girare. Il cannone a rotaia montato sulla chiglia fece sussultare la
nave quando entrò in funzione. Quella era la sola arma a disposizione della Roci
che non fosse un armamento standard per una corvetta marziana. La rotazione
continuò fino a riportarli sulla vecchia rotta, poi un’accelerazione di dieci g la
schiacciò di nuovo sul sedile quando il reattore rientrò in funzione e i
contropropulsori bloccarono la rotazione.
Una rotazione di trecentosessanta gradi con in mezzo un tiro di cannone a
rotaia diretto con precisione non era esattamente una tattica di combattimento
standard delle fregate marziane, ma Bobbie ritenne che il suo vecchio istruttore
di tattiche di combattimento l’avrebbe approvata.
L’improvviso peso schiacciante dell’accelerazione le causò un’ondata di nausea
e il suo cuore perse qualche colpo in una confusione di pressione e dinamica dei
fluidi. Dovette perdere i sensi per un momento, perché non vide la Koto mentre
veniva colpita, solo la nuvola sempre più larga di gas surriscaldati dietro di essa,
dove aveva espulso il nucleo. Anche schiacciata contro il sedile riuscì a sorridere,
e attese di vedere se la Pella sarebbe andata in aiuto della compagna danneggiata.
Non lo fece.
Bobbie inserì una nuova soluzione di tiro, la trasmise ad Alex e ci riprovarono.
Assenza di peso, rotazione, lo scossone del cannone a rotaia e il ritorno della
gravità che li schiacciava sul sedile come un’aggressione fisica. Adesso però la
Pella sapeva cosa aspettarsi, e con le vaste distanze che li separavano anche la
frazione di secondo richiesta per girare la Rocinante fu sufficiente perché il
nemico prevedesse la mossa e schivasse. Bobbie scagliò altri due siluri contro la
Pella, ma vennero distrutti prima di poter causare qualche danno.
La Pella lanciò un’altra raffica di siluri, ma senza la Shinsakuto e la Koto che
potessero intrappolarli, la cosa non preoccupò Bobbie. Pareva che la
complessità della battaglia fosse superata, adesso la cosa sarebbe diventata più
lunga, più semplice e peggiore. Nella sua trachea qualcosa scivolò dove non si
sarebbe dovuto trovare e lei forzò un colpo di tosse, sentendo la testa che le
girava un poco.
Era così che sarebbe finita. Una lunga corsa disperata per vedere chi avrebbe
esaurito prima i proiettili di COD o i siluri, chi aveva alleati abbastanza vicini da
poter complicare la situazione. Ma prima di una qualsiasi di quelle cose ci
sarebbe stata la soglia di frenata, il punto di non ritorno nel quale non avrebbero
avuto abbastanza massa di reazione residua per annullare la spinta che avevano
già applicato al loro vettore. Sarebbero rimasti intrappolati in un’orbita
disperatamente lunga, alla mercé di chiunque fosse venuto a cercarli. Quella era la
sua scadenza.
Lottando per muovere le dita sui controlli, mandò un messaggio a Holden:
‘DISTRAILI.’
La risposta arrivò un momento più tardi: ‘???’
‘DISTRAILI.’
Bobbie attese l’inevitabile chiamata per chiedere chiarimenti, ma rimase
piacevolmente sorpresa quando invece il sistema di comunicazione si attivò: un
raggio stretto, diretto alla Pella. Vide che la connessione veniva accettata. Bene.
Cercò di fare un conto alla rovescia, partendo da cinque, ma si perse da qualche
parte intorno al tre. Trasse un respiro attraverso i denti serrati e doloranti, e
inviò di nuovo la soluzione di fuoco. Assenza di gravità, rotazione, fuoco, nuova
accelerazione che scatenò le proteste della sua colonna vertebrale e fece
raggiungere la soglia dell’oscurità alla sua mente. Non era servito a niente. La
Pella aveva schivato di nuovo.
Doveva esserci un modo. Non poteva lasciare che il nemico li riducesse allo
stremo, non poteva venire di nuovo meno alla sua squadra. Doveva esserci un
modo. Avrebbero potuto far fuoco con una frazione di secondo di anticipo...
ma il fatto che il cannone fosse montato sulla chiglia significava che la Roci
poteva far fuoco soltanto dritto davanti a sé. Una lacrima le uscì a fatica dagli
occhi e sbatté sul gel accanto alla sua testa come una pietra. Erano ancora a otto
g? Studiò la soluzione di fuoco con occhi appannati. Doveva esserci qualcosa,
un altro modo per tracciare una linea retta fra due punti.
Poteva riprovarci, ma la Pella avrebbe schivato, come prima. Il cannone a
rotaia poteva tracciare soltanto linee perfettamente diritte, e adesso che la Pella
sapeva cosa significasse la rotazione, i suoi computer sarebbero stati molto bravi
nel prevedere il punto d’impatto del proiettile e adeguarsi.
Qualcosa. In questo c’era qualcosa. La minuscola, scintillante matrice di
un’idea. La Pella avrebbe schivato come aveva fatto prima.
E come aveva schivato, prima?
Il polso le scricchiolò quando richiamò a schermo la registrazione della
battaglia, facendola scorrere all’indietro un secondo dopo l’altro. Per due volte la
Pella aveva evitato il cannone a rotaia, e in entrambi i casi aveva attivato tutti i
propulsori di manovra di babordo, spostandosi di lato e poi correggendo la rotta
verso tribordo, cosa che l’aveva mantenuta puntata nella stessa direzione. Se
quella era un’abitudine...
Inserì di nuovo la stessa soluzione. Ci fu il momento nauseante della
rotazione, lo scossone del cannone a rotaia, l’impatto contro il sedile. E la Pella
lo fece di nuovo. Schivò nella stessa maniera: era uno schema, e gli schemi erano
fessure nell’armatura, in cui lei poteva piantare un coltello.
Il sapore di formaldeide in bocca era intenso e chimico. Erano fuori portata
dei CDP, ma quella era soltanto una convenzione. I proiettili di CDP non
evaporavano magicamente o rallentavano. Ogni proiettile di tungsteno che non
aveva colpito il bersaglio in battaglia era ancora là fuori nel vuoto, da qualche
parte, che procedeva veloce come nel momento in cui aveva lasciato la canna.
Era solo l’incredibile vastità dello spazio a impedire che ogni nave là fuori
venisse bucherellata a casaccio.
Questa però non era una fottuta cosa a casaccio.
Le dita le dolevano, e anche la testa, ma non importava. Verificò la velocità di
tutto ciò di cui disponeva... i proiettili di CPD viaggiavano a un certo numero di
metri al secondo, i siluri partivano con maggiore lentezza ma seguivano una
marcata curva di accelerazione. Le scariche di cannone a rotaia... controllò di
nuovo quel valore. D’accordo, le scariche di cannone a rotaia erano davvero
veloci.
Era un rompicapo, soltanto un rompicapo. C’era una risposta, e lei poteva
trovarla. Ci sarebbe stata una sola occasione. Inserì la nuova soluzione di tiro
che combinava tutto quanto.
Sei mia, pezzo di merda. Adesso sei mia.
Trasmise la soluzione.
La Rocinante tremò perché la vibrazione dei CDP venne resa ancora più violenta
dall’elevata accelerazione. Sullo schermo, le migliaia di proiettili lanciati a
distruggere siluri inesistenti apparivano come una nuvola d’oro. Erano troppo
imprecisi per centrare la Pella da quella distanza, e comunque non erano nel
posto giusto. Sembrava un errore di tiro, un difetto di funzionamento. Una cosa
trascurabile. Poi vennero lanciati i siluri, tre di essi, che saettarono verso la Pella
in una curva stretta e costituirono il pericolo più ovvio: schegge bianche che
mostravano una tensione interna e un vettore nell’autodirigersi verso il bersaglio,
accelerando in direzione del lato di babordo della Pella. I CDP della nave nemica
aprirono il fuoco, spruzzando proiettili verso i siluri in avvicinamento. Per un
lungo, terribile momento, i pezzi del rompicapo si mossero per prendere il loro
posto.
Non avrebbe funzionato. Avrebbero capito. A lei appariva tanto chiaro che
anche loro avrebbero dovuto accorgersene.
I siluri continuarono la loro corsa verso il fianco della Pella e il fuoco serrato
dei suoi CDP, e la Pella lanciò a sua volta tre siluri. La nuvola d’oro dei proiettili
di CDP di Bobbie era quasi in posizione.
Alex spense il reattore come aveva fatto in precedenza e girò la nave. Il
cannone a rotaia fece fuoco nella frazione di secondo in cui ebbe la Pella a tiro,
facendo scricchiolare la nave con il suo rinculo. Prima che Bobbie potesse
vedere cosa era successo, la Roci completò il suo arco e il reattore tornò in
funzione. E la Pella... ammiraglia della Marina Libera e nave da guerra personale
di Marco Inaros... schivò il colpo di cannone a rotaia proprio come aveva fatto
prima. Nello stesso modo esatto. Spostandosi da un lato e lontano dai siluri che
aveva a babordo.
Venendosi a trovare sulla rotta della nuvola di proiettili di CDP in
avvicinamento.
Era impossibile sapere quanti di essi avessero colpito il bersaglio, ma la Pella
deviò dalla sua rotta con il reattore ancora in piena funzione anche se adesso si
stava girando fino a essere quasi perpendicolare alla direzione della Rocinante.
Alex rallentò, e un’accelerazione di appena tre g diede a Bobbie la sensazione di
essere leggera come un pallone. Controllò le riserve e vide che aveva già usato la
metà dei siluri, quindi usò la metà di quelli rimasti mandandone altri cinque
dietro alla Pella. Essi saettarono uno dopo l’altro in direzione del cono del
reattore della nave ferita. La Pella aveva perso almeno un propulsore sul lato di
tribordo e faticò a manovrare per usare i CDP.
Poi divenne difficile vedere cosa stava succedendo, perché adesso il
pennacchio del reattore della nave nemica era puntato direttamente verso di loro
mentre la Pella si ritirava fuori dall’eclittica e verso le stelle indifferenti. Alex
spense il reattore, lasciandoli in assenza di gravità. Bobbie aveva la nuca bagnata.
Stava sudando, oppure le lacrime che le erano state strappate dagli occhi si erano
raccolte lì. Oppure la pelle le si era spaccata e stava sanguinando. Qualsiasi cosa
fosse, era una sensazione splendida.
Alex la fissava con gli occhi sgranati, scuotendo il capo. Lentamente, le labbra
gli si distesero in un sorriso e cominciò a ridacchiare, poi anche lei fece
altrettanto. Le costole le dolevano, e anche la gola. Quando cercò di muovere il
braccio sinistro, il gomito protestò come se si fosse slogato e fosse stato rimesso
a posto malamente.
«Santa merda» commentò Alex. «E intendo solo santa fottuta merda.»
«Lo so» disse lei.
«È stato grandioso!» Alex lanciò un grido di entusiasmo e sferrò un pugno in
aria. «Ce l’abbiamo fatta! Li abbiamo presi a calci in culo!»
«Sì» annuì Bobbie, chiudendo gli occhi ed esalando un profondo, lento respiro.
Il suo sterno schioccò come un mortaretto e lei ricominciò a ridere. Un suono
sottile e distante raggiunse la sua sfera cosciente. Si rese conto che lo stava
sentendo già da un po’ ma che la sua mente non lo aveva registrato nel fervore
della battaglia. Adesso che lo sentiva, lo riconobbe subito per ciò che era.
Un allarme medico.
28
Holden

Quando aveva lasciato la marina terrestre, Holden se ne era andato con un


congedo con disonore e un senso di sollievo e di ira giustificata. A quel tempo
aveva pensato che la più grande ironia di quel suo fallimento fosse che mentre le
sue possibilità di carriera si erano sensibilmente assottigliate, e la sua posizione
nel mondo si era fatta meno chiara, lui si sentiva più libero. Adesso, in
retrospettiva, quel senso di libertà era stato al secondo posto dopo il sollievo
subliminale e a stento espresso al pensiero che non avrebbe più visto altri
combattimenti fra navi.
Da quando la Rocinante era diventata la sua casa, aveva dato la caccia ai pirati
per conto dell’APE. Combattuto per il possesso di Io. Nella zona lenta. Su Ilus.
Se si fosse rassegnato e fosse rimasto in servizio, sarebbe stato mille volte più al
sicuro, una cosa a cui non aveva mai pensato prima. In tutte le precedenti
battaglie era stato lui a comandare, perché operare per così tanti anni con un
equipaggio ridotto di appena quattro persone faceva dell’azione frenetica la
norma. Adesso fra il suo equipaggio e quello di Fred Johnson c’era qualcuno a
ogni postazione, e perfino un rimpiazzo pronto a prenderne il posto. Anche con
l’accelerazione elevata che lo schiacciava contro il sedile al punto da riuscire a
stento a respirare, c’era in lui il bisogno di fare qualcosa, di prendere il controllo
di un qualche aspetto dell’azione, di avere un effetto.
La verità però era che qualsiasi cosa avesse fatto adesso sarebbe stata di
intralcio a qualcun altro. Guardare la mappa tattica e cercare di non perdere
conoscenza erano letteralmente le uniche cose utili che era in grado di fare.
Perfino chiamare Ceres per chiedere aiuto era stato un lavoro svolto da qualcun
altro, e Fred, che occupava il sedile dall’altro lato del ponte di comando, lo aveva
svolto meglio di come avrebbe potuto fare lui. Quando uno scambiatore di
potenza era saltato ed era subentrato quello di riserva, Amos e Clarissa avevano
segnalato che stavano provvedendo alle riparazioni prima che lui riuscisse a
ricordare come richiamare a schermo il diagramma per il controllo dei danni.
Mfume e Steinberg occupavano le postazioni a mezza nave, Lombaugh e Droga
erano nella sezione ingegneria, due squadre di pilota e cannoniere pronte a
subentrare se la Marina Libera avesse fatto saltare via dalla nave la cabina di
pilotaggio. Quindi rimase a guardare la Shinsakuto allontanarsi per intercettare i
siluri a lungo raggio provenienti da Ceres, poi spostò la sua attenzione sulla Koto
e sulla Pella, la nave di Marco Inaros, mentre esse si lanciavano verso di loro
provenienti dal basso, come squali.
Sul sedile accanto al suo, Naomi aveva il respiro irregolare e affannoso.
Holden desiderava parlarle, chiederle se stava bene, offrirle una qualche forma di
conforto. Cercò di immaginare la sua reazione, probabilmente qualcosa come:
‘Apprezzo che ti preoccupi per me, ma il momento per parlare del mio
benessere emotivo non è durante un combattimento.’ Quello era soltanto un
altro modo in cui poteva cercare di controllare qualcosa, di migliorare qualcosa.
Qualsiasi cosa. Naomi era a meno di un metro da lui, ed era lontana un milione
di chilometri.
Quando il reattore si spense e ci fu una violenta rotazione, comprese che era la
fine. Poi l’accelerazione lo sbatté con violenza contro il sedile. Per qualche
secondo si chiese se fosse davvero successo o se stesse cominciando ad avere le
allucinazioni, ma poi vide la Koto rimanere indietro, sotto di loro. Anche allora,
gli ci vollero alcuni secondi per capire cosa era successo, giusto in tempo perché
la cosa si ripetesse. Sentì Naomi urlare quando si ritrovarono di nuovo tutti
schiacciati contro il sedile.
Avrebbe voluto gridare a Bobbie che doveva smetterla, che c’erano delle
persone a bordo, e che alcune erano cinturiane. E in ogni caso nessuno di loro
era cresciuto in un ambiente con una tale forza di gravità da poter tollerare per
tutto il giorno impatti da otto g, con o senza l’aiuto di quei medicinali di terza
categoria. Però non poteva fare neppure questo, perché se Bobbie stava agendo
in quel modo, probabilmente era giusto farlo. Il meglio che poteva fare era
detestarlo e sopportarlo.
Per tutti questi motivi, quando finalmente arrivò qualcosa che poteva
effettivamente fare si sentì ebbro di sollievo.
‘DISTRAILI.’
Fissò quella parola con occhi offuscati e doloranti. Chi era che Bobbie gli
chiedeva di distrarre? L’equipaggio? Il nemico? Costrinse le dita a muoversi sui
comandi e riuscì a digitare ‘???’ solo con un certo sforzo.
La risposta che ottenne fu la stessa parola di prima. ‘DISTRAILI.’
Rimase a fissarla. Per quanto volesse essere d’aiuto, in realtà non c’era molto
che poteva fare e che la nave non stesse già facendo. Il pacchetto CME stava
diffondendo onde radio di disturbo in direzione della nave inseguitrice, facendo
del suo meglio per rendere ciechi i suoi siluri. Il laser per le comunicazioni
riversava quanta più luce ad alta frequenza possibile nei sensori della Pella. Per
quanto concerneva le distrazioni, la Roci stava già facendo del suo meglio. Si
costrinse a trarre un altro doloroso respiro.
D’altro canto, lui cosa stava facendo? Pensare al laser per le comunicazioni gli
diede un’idea.
Afferrò il comando per le comunicazioni e inviò una richiesta di connessione
su raggio stretto alla Pella. Forse avrebbero pensato che chiedeva loro di
arrendersi, o che voleva essere lui a farlo. A livello intellettuale sapeva che
avrebbe dovuto provare una certa ansia. Quello era Marco Inaros, l’uomo che
aveva distrutto la Terra, che aveva cercato di catturare Naomi e di uccidere lui,
ma fra il dolore causato dall’accelerazione e il battito cardiaco regolato dai
medicinali non provava niente.
Il raggio stretto intercettò un vettore, si soffermò nel negoziare la lunghezza
d’onda e il protocollo dati, poi la connessione venne accettata e Holden si trovò
a guardare Marco Inaros negli occhi. Aveva visto sue immagini, guardato i video
dei suoi comunicati, quindi conosceva il suo volto come poteva conoscere
quello di qualsiasi celebrità di terz’ordine. L’accelerazione gli tirava indietro i
capelli, stendeva la pelle e spingeva le guance all’indietro e verso l’interno, tutte
cose che lo facevano apparire più giovane di quanto non fosse. Holden sperò
che stesse avendo lo stesso effetto su di lui.
Non si era aspettato che la Pella avrebbe frenato abbastanza da rendere
possibile una conversazione, e aveva pensato che qualsiasi cosa avessero fatto
sarebbe stata tramite testo scritto. Adesso che erano uno di fronte all’altro, però,
ritenne che questo potesse bastare. Creava l’illusione che fossero uno vicino
all’altro. Poteva vedere la piccola imperfezione nell’attaccatura dei capelli di
Marco, dove si ripiegava all’indietro sulla tempia destra, e scorgere le vene nei
suoi occhi. Era una cosa che dava una sensazione di intimità ed era quasi
imbarazzante. Immobili com’erano, inoltre, c’era anche la sensazione irreale di
guardarsi allo specchio e vedere qualcun altro riflesso dentro di esso.
Lì davanti a lui, tanto vicino che pareva di poterlo toccare, c’era l’uomo che
aveva assunto il controllo del destino dell’umanità come se si fosse trattato di un
lavoro part-time.
Gli era difficile essere certo di quali emozioni in effetti trasparissero
dall’espressione di Marco Inaros e di quali lui stesse solo immaginando. Un
sogghigno pieno di sfida. Poi confusione. Forse c’erano, o forse era solo quello
che lui si aspettava di vedere. Fu però certo del bagliore maligno che alla fine
apparve negli occhi di Inaros. Lo sforzo che fece per manovrare i comandi fu
chiaramente visibile sul volto di Marco, e Holden si aspettò che arrivasse un
messaggio. Una provocazione, o un’accusa. Si sbagliava.
Marco premette un comando e sullo schermo apparve un altro volto. Più
giovane, di carnagione più scura. Anch’esso schiacciato dall’accelerazione, ma
inconfondibile: Filip Inaros. Il ragazzo non guardava verso di lui, non sembrava
consapevole della sua presenza, quindi a quanto pareva l’immagine di Holden
non appariva sul suo monitor. Marco gli stava solo dando un momento per
guardare il ragazzo.
Holden non aveva idea di cosa ci si aspettasse che vedesse in lui. Forse quella
era soltanto una volgare vanteria mascolina. Adesso lei può anche essere con te, ma io
l’ho avuta per primo. Una cosa del genere pareva al livello di Inaros. O forse voleva
solo mostrargli che il figlio li odiava tanto quanto il padre. Se però guardare
Marco gli aveva dato un senso di imbarazzo, osservare Filip era in realtà
affascinante. Holden non poté fare a meno di cercare tracce di Naomi in quel
volto più giovane e maschile. L’epicanto all’angolo degli occhi. Il taglio delle
guance e la forma delle labbra. Il modo in cui si muoveva gli fece pensare a
Naomi che lottava per reggere un peso.
Quello che lo colpì maggiormente fu quanto apparisse giovane quel ragazzo.
Alla sua età, Holden non aveva ancora lasciato la terra e si svegliava nel ranch
nel Montana, faceva colazione con i suoi numerosi genitori e poi andava a
riparare recinti e a controllare le turbine del parco eolico, pensando di entrare in
marina perché Brenda Kaufmann aveva rotto con lui ed era certo che non
avrebbe mai superato la cosa.
C’erano errori che si facevano perché si era giovani. Tutti ne facevano
qualcuno.
L’accelerazione cessò e il sedile di Holden scattò di nuovo di lato, sobbalzò
quando il cannone a rotaia fece fuoco e tornò a sbattere contro la sua schiena.
Sullo schermo, il ragazzo sgranò gli occhi quando il suo sedile ruotò. Qualcosa
di rumoroso successe sulla Pella. Qualcuno gridò. Echeggiò il suono lamentoso
dell’allarme medico. La connessione a raggio stretto cessò mentre la gravità da
accelerazione sulla Roci diminuiva. Era ancora superiore al solito, ma dopo quel
lungo periodo a otto g la reazione del corpo di Holden fu profonda e viscerale.
Il gemito di Naomi fu in parte di dolore e in parte di sollievo. Sentiva delle
persone gridargli negli orecchi per la gioia e l’entusiasmo. Avvertiva in bocca il
sapore del sangue, e il gomito gli causò una fitta di dolore quando si protese
verso il monitor, passando allo schema tattico senza usare i comandi inseriti nel
sedile. Sentì la voce di Alex, soffocata come se fossero stati entrambi sott’acqua.
«È stato grandioso! Ce l’abbiamo fatta! Li abbiamo presi a calci in culo!»
La Pella si stava allontanando, era ancora ad accelerazione elevata, ma se ne
andava, inseguita da un’ondata di siluri della Rocinante. Senza riflettere, li
disarmò.
Le sue dita esitarono sopra lo schermo, mentre la sua mente smetteva di
funzionare e si riprendeva, alternativamente, come gli succedeva sempre dopo
una lunga accelerazione. Il sangue che ricominciava a irrorargli il cervello
portava con sé strane sensazioni fugaci, e si sentiva la gamba sinistra fredda e
umida come se fosse stato in piedi in un fiume. Avvertiva un odore di capelli
bruciati, e una vaga sensazione di indignazione morale che apparve e svanì
rapida come era sorta. Si premette le mani sugli occhi e tossì, generando una
fitta di dolore alla spina dorsale. Gli risuonavano gli orecchi. Era acufene.
No, non lo era.
«Jim.»
Si girò con uno sforzo, lottando contro il peso innaturale del suo corpo.
Naomi si dibatteva sul suo sedile, lottando invano per sollevarsi in quella gravità
ancora elevata, ed era cinerea in volto. Il panico inondò il cervello ancora mezzo
intontito di Holden. Naomi era ferita. Qualcosa non va. È colpa mia.
«Cosa c’è?» chiese, e la sua voce suonò rauca e catarrosa. «Cosa è successo?»
Bobbie scese dalla cabina di pilotaggio, con i muscoli tesi nello sforzo di
scendere i gradini della scaletta. Naomi spostò lo sguardo da lui a lei e viceversa.
Stava indicando qualcosa e annaspava per riuscire a parlare.
«Fred» disse. «Sta avendo un ictus.»
«Oh» esclamò Holden, ma Bobbie si era già lanciata in avanti, slacciando le
cinghie e sollevando parzialmente Fred dal sedile. Alla loro accelerazione attuale,
il vecchio doveva pesare più di duecento chili e Bobbie quasi si accasciò, ma
riuscì a rimanere in piedi con le braccia intorno alla parte superiore del suo
corpo, mentre cercava di liberarlo dalle cinghie. Holden barcollò fino al
condotto dell’ascensore e gridò verso l’alto: «Alex! Riduci l’accelerazione! Portaci
a un terzo di g!»
«I nemici sono ancora...»
«Se dovessero spararci, escogita qualcosa. Abbiamo un’emergenza.»
La gravità si attenuò di nuovo. La colonna vertebrale di Holden si allungò, gli
parve che le ginocchia gli si gonfiassero. Adesso Bobbie stava trasportando Fred
fra le braccia, era già all’ascensore e stava scendendo verso l’infermeria. Fred
pareva minuscolo, stretto contro di lei, con gli occhi chiusi. Holden si disse che
il suo braccio era intorno alla spalla di Bobbie perché il vecchio si stava
aggrappando a lei, aveva ancora un po’ di forza. Però non sapeva se era vero.
Una cacofonia di voci gli gridava nell’orecchio perché tutti chiedevano cosa
fosse successo, cosa stava succedendo.
«Steinberg!» ordinò in tono aspro. «Sei agli armamenti. Patel, a te le
comunicazioni.» Poi si sfilò la cuffia. L’ascensore stava tornando su e il suo
gentile ronzio, a stento udibile in mezzo ai rumori della nave, era il solo suono
che contasse per lui. Desiderò che si muovesse più in fretta.
Naomi gli posò una mano sulla spalla. «Andrà tutto bene.»
«Davvero?»
Lei scrollò le spalle, impotente. «Non lo so.»
L’ascensore infine arrivò. Entrarono e scesero fino al ponte dell’equipaggio. Se
avesse ripreso il controllo, la Pella sarebbe potuta tornare indietro, e il
combattimento avrebbe potuto ricominciare da un momento all’altro,
sorprendendoli lontani dai sedili a smorzamento. Holden sapeva che avrebbero
dovuto continuare ad accelerare e precipitarsi verso Tycho il più in fretta
possibile. Percorse lo stretto corridoio militare fino all’infermeria: gli sembrava
di essere su una nave diversa. Tutto era esattamente come sempre, ma appariva
nuovo. Sconosciuto.
Fred giaceva sul lettino diagnostico, nudo fino alla cintola. Il medico
automatico era collegato al suo braccio, con gli aghi inseriti nelle vene, e lui
appariva stranamente vulnerabile, come se fosse rimpicciolito fisicamente fra il
momento in cui aveva preso posto sul sedile a smorzamento e quello attuale.
Bobbie era in piedi accanto a lui con le braccia conserte e uno sguardo cupo da
angelo dell’Antico Testamento. Uno che faceva paura, del genere che ti
impediva di entrare in paradiso e sterminava eserciti in una sola notte. Non
sollevò lo sguardo al loro ingresso.
«Quanto è grave?» chiese Holden.
In qualche modo, Bobbie riuscì a trasformare la sua scrollata di spalle in
un’espressione d’ira. «È morto.»
Holden non sapeva come fosse toccato ad Amos e a Clarissa il compito di
preparare il corpo, ma quale che fosse stato il meccanismo usato, risultò essere
una buona scelta. Amos lo spogliò e Clarissa procedette a pulire la pelle di Fred
con un panno bagnato. Holden non era obbligato a restare, non era costretto a
guardare, ma lo fece.
Non parlarono, non ci furono battute. Clarissa pulì il corpo di Fred con
un’intimità fredda e pragmatica, compassionevole ma priva di sentimentalismo.
Amos l’aiutò quando fu necessario spostare il corpo e vestirlo con un’uniforme
pulita, e quando lei dovette sistemare sotto di esso la sacca per cadaveri. Il tutto
richiese meno di un’ora, dall’inizio alla fine. Holden non avrebbe saputo dire se
gli era parso un tempo troppo lungo o troppo breve. Clarissa canticchiò
qualcosa mentre lavorava, una melodia sommessa che Holden non riconobbe
ma che non pareva essere né in chiave maggiore né in chiave minore. Il suo
volto pallido e sottile, e quello massiccio di Amos sembravano un abbinamento
perfetto. Una volta che la sacca fu sigillata, Amos la sollevò senza difficoltà,
perché erano ancora a una gravità appena superiore a un terzo di g.
Clarissa rivolse un cenno del capo a Holden mentre lasciavano l’infermeria.
Aveva la pelle illividita lungo il dietro del collo e sulle braccia, dove il sangue si
era raccolto nel corso dell’accelerazione. «Ci prenderemo cura di lui» disse.
«Era importante» replicò Holden, e non si vergognò quando la voce gli si
incrinò.
Qualcosa attraversò lo sguardo di Clarissa, tristezza, o forse divertimento. «Ho
trascorso un sacco di tempo con i morti. Adesso lui starà bene. Tu vai a
prenderti cura di quelli che sono sopravvissuti.»
Amos gli sorrise amabilmente nel portare fuori la sacca. «Se più tardi sentissi il
bisogno di ubriacarti o di ficcarti in una rissa, fammelo sapere.»
«Sì» rispose Holden. «D’accordo.»
Dopo che se ne furono andati, rimase accanto al lettino medico vuoto. Si era
trovato su di esso più di una volta, come pure Naomi, Alex, Amos. In quella
stanza Amos aveva rigenerato la maggior parte di una mano. Che la morte fosse
arrivata in modo casuale... stupido... sembrava osceno, anche se era abbastanza
prosaico. Capitava che le persone avessero un ictus. Fred era stato più anziano
di un tempo, alle prese con la pressione alta, e si era costretto ad andare avanti
senza dormire. I medicinali dei sedili erano scadenti ed era stata una lunga
battaglia, con una violenta accelerazione. Tutto questo era vero. Aveva tutto
senso. E niente ne aveva.
Gli altri erano ancora alle loro postazioni, ma ormai la notizia si era diffusa. A
un certo punto avrebbe dovuto affrontare gli altri, ma non sapeva cosa dire
all’equipaggio di Fred. ‘Mi dispiace davvero tanto.’ Ma, e dopo?
Sfiorò il materasso con la mano, ascoltò il sibilo della pelle contro la plastica,
che risultò più fredda al tatto di quanto si fosse aspettato. Impiegò un secondo a
rendersi conto che si trattava dell’umidità del panno usato da Clarissa che stava
evaporando. Poi riconobbe il passo di Naomi.
«Ti ricordi quando si è venuto a sapere che lui lavorava con l’APE?» chiese
Holden.
«Sì.»
«È stata la sola cosa di cui parlassero i notiziari per... non lo so, per una
settimana. Tutti dicevano che era un traditore e una vergogna. Discutevano se ci
dovesse o meno essere un’indagine, se lui potesse ancora essere accusato anche
se aveva dato le dimissioni da anni.»
«Quello che ho sentito io era più equivoco» replicò Naomi. Entrò nella stanza
e si appoggiò a uno dei lettini, tirandosi i capelli davanti agli occhi come un velo
nel parlare. Poi si accigliò e li spinse indietro. «La gente che conoscevo
supponeva che lui fosse una talpa, che i terrestri stessero cercando di insinuare
un cavallo di Troia nella nostra organizzazione.»
«A quel tempo era ancora la vostra organizzazione?»
«Sì, lo era.»
Holden si girò e si mise a sedere sul tavolo. Avvertendo il suo peso, il medico
automatico attivò lo schermo di avvio, che si illuminò speranzoso per alcuni
secondi prima di disattivarsi. «Non riesco a ricordare un tempo in cui Fred
Johnson non sia stato una persona importante. È solo che...»
Naomi sospirò e Holden la guardò. Osservò le linee che non c’erano state sul
suo volto quando l’aveva conosciuta, il modo in cui la curva della sua mascella
era cambiata. Era splendida. Era mortale. Non ci voleva pensare.
«Ogni fazione dell’APE che Fred ha potuto costringere, implorare o blandire
perché partecipasse all’incontro ci sta aspettando su Tycho» disse. «E dovremo
annunciare loro che Marco ha vinto.»
«Lui non ha vinto» ribatté Naomi.
«Dovremo riferire che ci hanno teso un’imboscata e Fred è morto, ma che
Marco decisamente non ha vinto.»
Naomi sorrise, poi scoppiò a ridere. Era strano come questo rendesse
l’oscurità più accettabile. Non era meno oscura, solo migliore, anche se
continuava a essere ciò che era. «Va bene, d’accordo, se la metti in questi
termini. Senti, lo scenario peggiore è che non si riesca a portarli dalla nostra
parte. Non sto dicendo che non sarebbe splendido avere una parte maggiore
della Fascia che ci appoggia, ma se non abbiamo modo di indurli a lavorare con
noi, pazienza. Possiamo ancora vincere.»
«Solo la guerra» ribatté lui. «Non la parte che conta.»
29
Avasarala

Gorman Le sbatté le palpebre, si massaggiò gli occhi decisamente troppo verdi


e attese che lei rispondesse.
«E non sai da dove è arrivato» disse Avasarala.
«Ecco, da Ganimede» rispose Gorman. «I dati della trasmissione sono chiari.
Viene decisamente da Ganimede.»
«Ma non sappiamo da chi, su Ganimede.»
«No» confermò lui, annuendo per dire di sì, che lei aveva ragione. Era un
modo fottutamente confuso di esprimersi.
La sala riunioni era una delle sale più piccole della struttura della Nectaris. Le
luci erano fredde, le pareti di ceramica sabbiata che non era più di moda da
trent’anni. Si trattava di un sistema ambientale fisicamente separato, quindi la
sua aria non aveva quell’odore stantio proprio della maggior parte della Luna, di
questi tempi, e se la puzza di polvere da sparo dei particolati fini era presente, lei
ci si era abituata al punto che non era in grado di avvertirla.
Gorman Le sedeva chino in avanti come uno scolaretto, con un bicchiere
d’acqua dimenticato in mano. Indossava lo stesso vestito del giorno precedente,
e di quello prima ancora, tanto che Avasarala cominciava a pensare che lo
tenesse in un ripostiglio e lo indossasse solo quando doveva parlare con lei. La
stanchezza emanava dal suo corpo come se fosse stato un dottore all’ultima ora
di un turno di lavoro di quattro giorni, ma in lui c’era anche qualcos’altro.
Qualcosa che Avasarala non aveva visto di recente. Forse era eccitazione.
Speranza.
Questo era un male. Ultimamente, la speranza era un veleno.
«Quindi il diagramma nel rapporto, o come diavolo lo chiami, potrebbe essere
reale,» disse «oppure potrebbe essere un tentativo di fotterci da parte della
Marina Libera. O potrebbe essere... cosa?»
«Lievito nutrizionale con un radioplasto avanzato. Stiamo studiando come la
protomolecola era in grado di crescere basandosi su un qualche tipo di
radiazione ionizzante.» L’accentuarsi dell’inflessione alla fine della frase la fece
suonare come una domanda, quasi che le stesse chiedendo un permesso invece
di fornire informazioni. «Anche non ionizzanti, ma quella è una cosa molto
semplice. La luce è una radiazione non ionizzante, e le piante la usano da
sempre. Però...»
Avasarala sollevò una mano con il palmo verso l’esterno. La bocca di Le
continuò a muoversi per qualche secondo quando una parte di lui continuò a
parlare mentre il resto si controllava. «Mi interessano molto i dettagli, ma non in
questo momento» disse Avasarala. «Riassuma.»
«Se i dati sono esatti, potremmo nutrire da adesso circa mezzo milione di
persone su questa base. Le prime colture che abbiamo esaminato appaiono
davvero buone. Se però si tratta di qualcosa che non cresce proporzionalmente e
le fattorie collassano, potremmo perdere alcuni giorni per ripulire il tutto.»
«E allora la gente patirebbe la fame.»
Gorman annuì di nuovo, anche se forse quel gesto non significava niente.
«Resettare le colture significherebbe sicuramente non raggiungere alcune mete
produttive.»
Avasarala si protese in avanti, gli tolse il bicchiere di mano e lo fissò negli
occhi. «Allora la gente patirebbe la fame. Qui siamo tutti adulti. Dovrebbe essere
in grado di dirlo.»
«Allora la gente patirebbe la fame.»
Lei annuì e si ritrasse. La cosa terribile era che la sua schiena stava meglio.
Viveva a un decimo di g da tanto tempo che ci si stava abituando. Quando fosse
ridiscesa nel pozzo gravitazionale avrebbe dovuto riacclimatarsi. Quando, non
se. Gorman la fissava con la mascella contratta e le narici dilatate, come un
cavallo in preda al panico. Dovette trattenersi dal battergli un colpetto sulla
testa. Aveva voglia di qualche fottuto pistacchio.
«In cosa ha preso il suo dottorato?» domandò.
«Mmh. Biochimica strutturale.»
«Sa qual è il mio?»
Per cambiare, lui scosse il capo.
«Biochimica non strutturale» disse in tono gentile Avasarala. «Non ho idea se
questa ricetta per un lievito magico sia una bufala o meno, quindi se lei non è in
grado di stabilirlo io sono peggio che fottutamente inutile. Allora, perché siamo
qui?»
«Non so cosa fare.» Gorman Le appariva giovane. Appariva sperduto.
L’impulso di aggredirlo verbalmente lottò con quello di abbracciarlo. Avasarala
chiuse gli occhi... dannazione, era davvero piacevole tenerli chiusi. Quella
mattina aveva avuto una riunione coordinata con le stazioni Lagrange per
discutere dei carichi di profughi, poi si era incontrata con i responsabili della
sicurezza e delle risorse per stabilire linee guida di controllo delle persone che
continuavano ad arrivare dalla Terra. Durante il pranzo erano arrivati i rapporti
di un’insurrezione armata in quello che restava di Sebastopoli, dove la gente
stava cedendo al panico con il ridursi delle scorte di cibo e di acqua. Tutto si
fondeva insieme nella sua mente a creare un lungo, continuo, stanco senso di
urgenza.
Avrebbe voluto infuriarsi con Le, ma forse capiva fin troppo bene il panico
che lo paralizzava, oppure non ne aveva semplicemente più l’energia. «Le
probabilità a favore sono buone?»
«Credo di sì» rispose lui, quasi immediatamente. «I dati appaiono...»
«Allora la implementi. Se non dovesse funzionare, potrà dare la colpa a me.»
«Non era questo che stavo... voglio dire... se funzionasse una produzione su
larga scala, dovremmo davvero considerare di mandare questi dati giù nel
pozzo.» Giù sulla Terra, dove hanno ancora più fame.
Avasarala riaprì gli occhi. Qualcosa in essi indusse Gorman a distogliere lo
sguardo.
«Sì, signora. Provvederò perché sia fatto.»
Avasarala si alzò. L’incontro era concluso. Solo dopo essere uscita, mentre
procedeva sulla pavimentazione grigia in direzione del carrello, pensò che
avrebbe dovuto dare a Le un qualche tipo di incoraggiamento. Un colpetto sulla
spalla. Una parola gentile. Lo aveva rimproverato per abitudine, non perché ne
avesse avuto bisogno. Un tempo era solita essere meglio di così.
Mentre il carrello si metteva in movimento aprì una connessione con Said, che
apparve in una finestra ridotta che lasciava spazio al calendario e alle
annotazioni, un’immagine quasi troppo piccola per distinguere qualcosa di più
della sua faccia a forma di V e dei capelli ricciuti che fluttuavano sopra una
camicia azzurra senza colletto. «Signora?»
«A che punto siamo?»
«C’è un rapporto dell’ammiraglio Pycior riguardo alla situazione su Enceladus
che aspetta di essere esaminato.»
«Si tratta di qualcosa di più del ‘La Marina Libera ha tagliato la corda prima del
nostro arrivo e adesso abbiamo altra gente da nutrire’, oppure ho già afferrato il
senso del rapporto?»
«Il senso è quello. Abbiamo avuto alcune perdite, e la Edward Carr avrà anche
bisogno di parecchie riparazioni.»
Avasarala annuì. Un’altra fottuta battaglia che era come cercare di afferrare
l’acqua con la mano. Il carrello svoltò e imboccò un tunnel di accesso. Due
guardie di sicurezza la salutarono mentre passava, poi il carrello svoltò lungo
un’altra rampa, si inserì nella corsia ad alta velocità che portava ai centri di
governo e amministrativi, ad Aldrin, e svoltò di nuovo, cosa che le permise di
guardare lungo il passaggio fatto di pareti grigie con arcate bianche che si
susseguivano dietro di lei e in alto. L’aria aveva quell’eterna sensazione di essere
viziata, usata, e l’architettura appariva piccola nel contesto, insignificante rispetto
alla vastità della Luna e della Terra. Si aggrappò a essa come a un’àncora di
salvezza. «I rapporti da Ceres dicono che la Rocinante ha subìto un’imboscata ma
si è salvata ed è diretta alla Stazione di Tycho.»
«Piccoli favori» commentò Avasarala.
«Ha in programma un incontro personale, signora.»
Un incontro personale? Per un lungo momento non riuscì a ricordare di cosa
si trattasse, ma mentre la corsia accelerata sobbalzava, inglobava il suo carrello e
avviava la sua corsa accelerata, ricordò che Ashanti aveva chiesto di vederla. In
qualche modo, sua figlia era riuscita a indurre Said a inserirla nel suo calendario
di impegni.
«Annullalo» disse.
«Ne è sicura, signora?»
«Non voglio passare mezz’ora a sentire una ragazza a cui cambiavo i pannolini
farmi la predica su come dovrei prendermi cura di me stessa. Dille che sono
stanca e sto riposando.»
«Sì, signora.»
«C’è qualcosa che vorrebbe dire, Mr Said?»
Said diede un colpo di tosse. «Lei è sua figlia, signora.»
Avasarala sorrise. Quella era la prima volta che Said ribatteva. Forse per lui
c’era ancora speranza. «Ottimo. Dalle il primo appuntamento per cena ancora
disponibile.»
«È fra tre giorni.»
«Tre giorni, allora» concluse Avasarala. La corsia smise di accelerare e la lasciò
a saettare lungo la galleria evacuata alla velocità di chissà quante centinaia di
chilometri all’ora che aveva raggiunto, sufficiente a farle percorrere metà della
superficie della Luna in mezz’ora. Un corpo in movimento rimaneva in
movimento. Era una metafora e una realtà di fatto. Doveva rimanere in
movimento, perché una volta che si fosse fermata non sapeva come avrebbe
fatto a indursi a riprendere a muoversi.
Non riusciva a ricordare quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che
aveva meditato. Un tempo, quando le cose andavano male al lavoro, passava più
tempo seduta, non di meno. Ascoltava il proprio respiro vibrare negli spazi
complessi in fondo alla cavità nasale, era un tutt’uno con il suo corpo in un
modo complesso e connesso che permetteva a tutti i problemi di sedimentare.
Se avesse continuato a farlo, si sarebbe ricordata di incoraggiare Gorman Le, per
esempio. Detestava avanzare ipotesi su quanti altri piccoli errori aveva
commesso senza neppure accorgersene.
Il tunnel ad alta velocità descrisse una curva, spingendola gentilmente contro
lo sportello del carrello. Si disse che fra la guerra e il processo di ripresa c’era
semplicemente troppo da fare. Questa era una cosa esatta, di per sé, ma aveva
trascorso troppi anni a familiarizzarsi con la propria mente per ignorare
completamente il fatto che si stava raccontando un mucchio di balle. La
meditazione aveva lo scopo di poter essere un tutt’uno con sé stessa,
sperimentare più profondamente cosa significava essere Chrisjen Avasarala, e
siccome era sicura che al momento Chrisjen Avasarala era un fagotto di vetro e
dolore, che andasse a farsi fottere. Meditare profondamente, in modo da poter
sperimentare davvero, con chiarezza, il suo sentirsi infuriata e sola e ferita e
inorridita non le pareva una soluzione buona quando un gin tonic e un’altra ora
di lavoro.
Avrebbe potuto dare di matto più tardi, quando le cose fossero state sotto
controllo.
L’alta velocità aveva appena cominciato a rallentare quando il suo terminale
palmare trillò. Said aveva l’aria contrita, ma non al punto da lasciarla in pace.
«Un messaggio prioritario per lei dalla Rocinante, signora.»
«Cosa cazzo vuole Johnson, adesso?»
«Non viene dal colonnello Johnson. Lo manda il capitano Holden.»
Avasarala esitò, mentre Said aspettava nella sua finestra sullo schermo.
«Inoltramelo» decise infine.
Said annuì mentre lei chiudeva la finestra e collegava il terminale allo schermo
del carrello. Qualsiasi cosa stesse succedendo, voleva poterla vedere senza
socchiudere gli occhi. Il messaggio che le arrivò era evidenziato in rosso, e non
appena lo aprì comprese. La morte si leggeva sul volto di Holden come se fosse
stata scritta a chiare lettere. Quando parlò, la sua voce suonò attenta e
controllata. Toni da ospedale. Da funerale.
Holden espose brevemente quello che era successo, senza dettagli inutili. La
Pella aveva guidato l’attacco, ma erano riusciti a respingere la Marina Libera.
Fred Johnson era morto. Poi, quasi stesse avendo a sua volta un ictus, Holden
fissò la videocamera per un lungo momento, guardando Avasarala negli occhi
senza vederla davvero.
«Tutti i gruppi dell’APE che Fred aveva convocato su Tycho sono là in attesa.
Noi siamo in rotta verso la stazione e stiamo per cominciare la decelerazione,
ma non so se dovremmo ancora andare là o se c’è qualcuno che lei vuole
mandare. O per quanto tempo gli altri aspetteranno. Non so che cosa fare.»
Scosse il capo. Appariva giovane. Del resto, Holden appariva sempre giovane,
ma di solito era giovane e impulsivo. Quell’espressione sperduta che aveva nello
sguardo era nuova, ammesso che ci fosse. Forse la vedeva solo perché era quello
che provava nel cuore, nel ventre.
Il messaggio terminò. Il terminale la invitò a inviare una risposta, ma lei rimase
lì seduta tenendolo in mano mentre l’alta velocità cessava e il carrello imboccava
corridoi più familiari. Si guardò le mani, che sembravano appartenere a un’altra
donna, e cercò di singhiozzare, ma la cosa le parve forzata e fasulla, più una
recita che vero cordoglio. Se avesse avuto lei il controllo del carrello avrebbe
potuto mandarlo contro la parete o in un corridoio a caso senza rendersene
conto, ma esso sapeva dove andare e lei non pensò neppure di passare ai
comandi manuali.
Fred Johnson. Il Macellaio della Stazione di Anderson. L’eroe della marina
delle Nazioni Unite e la voce traditrice dell’APE. Lo aveva conosciuto di persona
e per la sua reputazione per decenni. Era stato il suo nemico e oppositore, e a
volte un alleato di cui non si fidava. Quella parte di lei che continuava a pensare
notò quanto fosse strano, quanto fosse poco plausibile, che la sua morte dovesse
essere la goccia che faceva traboccare il suo vaso personale. Aveva perso il suo
mondo. La sua casa. Suo marito. Se avesse conservato una qualsiasi di quelle
cose, forse questo non l’avrebbe distrutta.
Lo sterno le doleva fisicamente, come se ci fosse stato un livido reale e non
soltanto emozioni lasciate troppo a lungo a esercitare pressione sulla carne. Lo
sondò con le dita, tracciando i contorni del dolore come un bambino affascinato
da un insetto morente. Non si accorse che il carrello si era fermato finché Said
non aprì lo sportello.
«Signora?» disse.
Avasarala si alzò in piedi. La forza di gravità lunare non sembrava tanto una
forza della natura quanto un suggerimento, come se avesse potuto contrastarla
con la semplice volontà o con il battito del suo cuore. Notò di nuovo Said, e si
accorse di essersi dimenticata della sua presenza. Lui appariva turbato in un
modo ufficioso e troppo grazioso.
«Per favore, cancella tutti gli impegni» gli disse. «Sarò nelle mie stanze.»
«Ha bisogno di qualcosa, signora? Devo far venire un dottore?»
Avasarala si accigliò, con la sensazione che i muscoli delle sue guance
esistessero in lontananza. Stava guidando il suo corpo come un mech che avesse
un guasto ai comandi. «Di che aiuto potrebbe essere?»
Una volta nelle sue stanze sedette sul divano, con le mani adagiate in grembo,
il palmo verso l’alto come se stesse reggendo qualcosa. La ventola del riciclaggio
dell’aria faceva un piccolo rumore, risonante e tremulo, come vento che passasse
dal collo di una bottiglia. Una musica idiota e insensata. Si chiese se lo avesse
mai notato prima, poi si dimenticò della cosa. Aveva la mente vuota. Si
domandò se stesse per arrivare qualcosa, una piena sopraffacente che l’avrebbe
trascinata via, o se questo era semplicemente ciò che lei era adesso. Una donna
vuota.
Ignorò il bussare alla porta. Chiunque fosse, se ne sarebbe andato. Però non lo
fece. Il battente si aprì di qualche centimetro, poi un altro po’. Pensò che si
trattasse di Said, o di uno degli ammiragli, di qualche funzionario di governo
che, come Gorman Le, veniva a chiederle di portare lei al suo posto il peso della
perdita e dell’incertezza. Ma non era niente di tutto questo.
Kiki non era più una bambina. Sua nipote era ormai una donna fatta, anche se
giovane. La sua pelle aveva la tonalità scura di quella di suo padre, ma gli occhi e
il naso erano quelli di Ashanti, e c’era qualcosa di Arjun nel colore degli occhi.
Per quanto lei si sforzasse di nasconderlo, Kiki non era la sua nipote preferita,
perché aveva sempre l’aria di osservare e giudicare, e questo rendeva difficile
rapportarsi con lei. Kiki si schiarì la gola, e per un lungo momento si guardarono
a vicenda in silenzio.
«Cosa ci fai qui?» chiese Avasarala. La sua intenzione era stata quella di indurre
la ragazza ad andarsene, ma lei non lo fece. Entrò nella stanza e si richiuse la
porta alle spalle.
«La mamma ci è rimasta male che tu abbia di nuovo spostato il nostro
incontro» disse.
Avasarala agitò le mani, con le dita allargate e il palmo verso l’alto.
Esasperazione, senza energia a sostenerla. «Ti ha mandata a farmi la predica?»
«No» rispose Kiki.
«Allora cosa vuoi?»
«Ero preoccupata per te.»
Avasarala sbuffò con derisione. «Perché dovresti preoccuparti per me?
Attualmente sono la persona più potente del sistema.»
«È per questo che mi preoccupo per te.»
Questo non è compito tuo. Quella risposta le vibrò in fondo alla gola, ma non riuscì
a proferirla. Il dolore allo sterno si fece più profondo, penetrando al di là
dell’osso e della cartilagine. La vista le si offuscò per le lacrime che le velavano
gli occhi senza che la forza di gravità fosse sufficiente a farle scendere. Kiki
rimase sulla porta, inespressiva in volto, come una scolara al cospetto del
preside, in attesa di essere rimproverata. Senza parlare, venne avanti strisciando i
piedi nella scarsa gravità, le sedette accanto e le appoggiò la testa in grembo.
«La mamma ti vuole bene» disse. «È solo che non sa come esprimerlo.»
«Non è mai stato compito suo farlo» rispose Avasarala, lisciando con le dita i
capelli della nipote come aveva fatto con sua figlia, quando erano stati tutti più
giovani. In un altro tempo prima che il mondo si frantumasse sotto i loro piedi.
«L’amore è sempre stato compito di tuo nonno. Io lo amavo...» Il respiro le si
bloccò per un momento. «Lo amavo molto.»
«Era un brav’uomo» replicò Kiki.
«Sì» convenne Avasarala, passando le dita fra i capelli della ragazza, seguendo
la linea più chiara del cuoio capelluto.
Passarono i minuti, Kiki cambiò posizione, ma solo di poco. Nonna e nipote
rimasero in silenzio. Le lacrime negli occhi di Avasarala non erano spesse, non
caddero e quando le rimosse sbattendo le palpebre non ne salirono altre a
prendere il loro posto. Studiò la curva dell’orecchio di Kiki come aveva fatto un
tempo con quello di Ashanti, quando sua figlia era una bambinetta. E con quello
di Charnapal, quando era un bambino. Prima che morisse.
«Faccio del mio meglio» disse.
«Lo so.»
«Non è abbastanza.»
«Lo so.»
Una strana pace parve riversarsi su di lei, dentro di lei. Per un momento, fu
come se nella stanza ci fosse Arjun che le recitava qualche perfetto estratto di
una poesia, e non soltanto la nipote che le piaceva di meno che era lì a rendere
testimonianza dei suoi fallimenti. Tutti avevano una loro bellezza e il loro modo
di esprimerla. Le riusciva tanto difficile amare Kiki solo perché erano tanto
simili una all’altra. Del tutto simili, se voleva essere onesta. A volte, questo
rendeva troppo pericoloso amarla. Sapeva cosa le era costato essere sé stessa,
quindi ritrovarsi in Kiki la portava ad avere molta paura per lei. Esalò un
profondo sospiro e toccò la spalla della ragazza.
«Vai a dire a tua madre che mi è saltato un impegno e ceneremo insieme. Dillo
anche a Said.»
«È stato lui a lasciarmi entrare» replicò Kiki, sollevandosi a sedere.
«È un fottuto impiccione e dovrebbe smetterla di ficcare il naso nelle mie
cose» dichiarò Avasarala. «Per questa volta, però, sono contenta che lo abbia
fatto.»
«Quindi non lo punirai?»
«Puoi essere fottutamente certa che lo punirò» ribatté Avasarala. Poi, quasi con
sua sorpresa, baciò la fronte liscia di Kiki. «Solo che questa volta non farò sul
serio. Ora vai. C’è qualcosa che devo fare.»
Si aspettava che il trucco le si fosse rovinato, ma non era così. Un tocco di
eyeliner e una ciocca ribelle di capelli rimessa a posto fu tutto ciò che dovette
fare per apparire di nuovo sé stessa. Richiamò a schermo il messaggio di Holden
e lo lasciò scorrere mentre si ricomponeva davanti alla videocamera del suo
terminale.
Quando giunse la richiesta di inviare una risposta squadrò le spalle, immaginò
di guardare Holden negli occhi e cominciò a registrare.
«Mi dispiace apprendere di Fred. Era un brav’uomo. Non era perfetto, ma chi
lo è? Mi mancherà.
Quello che faremo adesso è semplice. Porta il culo alla Stazione di Tycho e fai
funzionare le cose.»
30
Filip

La Pella arrancava a un terzo di g. Dopo tanto tempo in assenza di gravità,


Filip sentiva perfino quella forza minima nelle ginocchia e nella schiena, o forse
era soltanto ancora ammaccato dalle forze spaventose della battaglia che si erano
lasciati alle spalle.
La battaglia che avevano perso.
Era in piedi nella cambusa, con in mano una ciotola di spaghetti di riso e
funghi di produzione marziana, e cercava un posto per sedersi, ma le panche
erano tutte occupate. La Koto aveva riportato danni peggiori della Pella... un foro
da cannone a rotaia nel reattore e la spaccatura dello scafo da un lato all’altro
della poppa. La maggior parte delle navi su cui Filip aveva vissuto sarebbe
andata distrutta in quello stesso istante, ma la Marina Marziana aveva costruito
quella nave pensando alla battaglia. In una frazione di secondo tanto sottile che
ci si poteva vedere attraverso, la Koto aveva registrato l’impatto e scaricato il
nucleo, lasciando l’equipaggio intrappolato e impotente, con la sola batteria di
riserva a tenerlo in vita.
La Shinsakuto era stata allontanata da loro, braccata dalle navi da
combattimento e dai siluri della flotta congiunta e di Ceres. Se la Rocinante avesse
finito il lavoro con la Pella, l’equipaggio della Koto sarebbe stato ancora là fuori
alla deriva, o forse a quest’ora sarebbe morto quando i riciclatori dell’aria si
fossero infine fermati, lasciando tutti ad annaspare, soffocare e artigliarsi a
vicenda nel panico della morte imminente. Invece erano tutti sulla Pella,
dividendo le cuccette con il suo equipaggio, occupando la cambusa ed evitando
di proposito di incontrare il suo sguardo mentre cercava un posto in mezzo a
loro.
Anche il suo equipaggio era lì, uomini e donne con cui aveva viaggiato da
prima che tutto questo cominciasse. Aaman, Miral, Ali, Karal, Josie. Anche loro
distoglievano lo sguardo tanto quanto gli altri. Solo una metà dei presenti
portava l’uniforme della Marina Libera, perché tanto la gente della Koto quanto
quella della Pella era tornata ai semplici indumenti funzionali che qualsiasi
equipaggio poteva portare, e alcuni di quelli in uniforme avevano arrotolato le
maniche o slacciato il colletto. Consapevole della propria uniforme fresca e
ordinata, chiusa fino al collo, per la prima volta Filip si sentì un po’ sciocco a
indossarla, come un bambino che si mascherasse indossando gli abiti del padre.
Il mormorio della conversazione era un muro che lo escludeva. Esitò. Poteva
sempre portare la ciotola nel suo alloggio. Non lo stavano davvero isolando, era
solo che adesso la nave era così affollata, e tutti erano risentiti per aver perso la
battaglia. Mosse un passo verso il corridoio con l’intenzione di andarsene.
Voleva farlo. Poi si fermò e si guardò alle spalle, nel caso che ci fosse qualche
posto, qualche angolo di panca, che non aveva notato. Un posto per lui.
Incontrò lo sguardo di Miral, che annuì e si spostò per fargli un po’ di spazio
accanto a sé, anche se a Filip parve che sospirasse nel farlo. Non corse come un
ragazzino, ma camminò in fretta, preoccupato che lo spazio potesse scomparire
prima che lo raggiungesse.
Karal era seduto di fronte a Miral, ed entrambi erano pressati fra corpi
sconosciuti. Una donna dalla pelle scura, con una cicatrice che le attraversava il
labbro superiore. Un uomo magro con un tatuaggio sul collo. Una donna più
anziana, con capelli bianchi tagliati corti e un sottile sorriso in tralice. Karal fu il
solo a mostrare di notare la sua presenza, e si limitò a un grugnito e un cenno
del capo.
Quando la donna anziana parlò, fu come se stesse riprendendo il filo di una
conversazione in corso prima che Filip si sedesse, ma lo fece con la studiata
noncuranza di qualcuno che aveva un suo piano. «Con mis coyo sulla Shinsakuto, la
flotta di Ceres rimarrà là per sempre. Una Terra lontano dalla Terra.»
«Per sempre è un tempo molto lungo» osservò Miral, studiando il tavolo come
se lo stesse leggendo. «Possiamo pensare di sapere cosa succederà in uno, due o
tre anni, aber è solo tirare a indovinare.»
«Non puoi vedere il futuro» replicò la donna. «Puoi vedere quello che c’è ora,
però, que no?»
Filip mangiò un boccone di spaghetti troppo salati. Aveva aspettato troppo a
lungo a cominciare a mangiare, ed erano avviati a diventare collosi. La donna
sorrise come se avesse segnato un punto a suo favore e posò i gomiti sul tavolo,
in modo da mostrare il tatuaggio del cerchio spezzato dell’APE che aveva sul
polso. Lo stava quasi sfoggiando.
«Tutto quello che sto dicendo è che forse è ora di cominciare a vincere
qualcosa, eh? Ceres. Enceladus. Pare che las sola balle che ancora prendiamo a calci
siano quelle di Michio Pa, e non facciamo molto neppure quello.»
«Abbiamo sconfitto la Terra» interloquì Filip. Nelle sue intenzioni avrebbe
dovuto essere un commento disinvolto, qualcosa lasciato cadere quasi a caso
nella conversazione. Invece la sua voce suonò acuta e sulla difensiva perfino ai
suoi stessi orecchi. Le parole rimasero là sul tavolo come qualcosa rotto al punto
che non si poteva più aggiustare. Il sorriso della donna anziana era sottile e
sgradevole, o forse era solo lui a pensare che lo fosse. In ogni caso si appoggiò
all’indietro e rimosse i gomiti dal tavolo. Quando si alzò e si allontanò, lo fece
con l’aria di aver chiarito il suo punto, quale che fosse stato.
Karal tossì e scosse il capo. «No te preoccupes, Filipito» disse.
«Perché mi dovrei preoccupare?» domandò Filip, mentre mangiava un altro
boccone di spaghetti.
Karal fece un gesto circolare con la mano a indicare tutto e tutti. «Dopo un
combattimento c’è la storia del combattimento, sì?»
«Sì» replicò Filip. «Bist bien, capisco.»
Miral e Karal si scambiarono un’occhiata che lui finse di non notare. Gli altri
della Koto rimasero in silenzio. «Ehi, coyo,» disse Miral, toccando la spalla di Filip
«finisci di mangiare e vieni ad aiutarmi con qualche riparazione, eh? Sto ancora
cercando di individuare un qualche ganga fra gli scafi.»
Filip allontanò da sé la ciotola con la punta delle dita. «Ho già finito» rispose.
«Andiamo.»
Il colpo che aveva azzoppato la Pella non era stato una cosa sola ma un
agglomerato compatto di proiettili di CDP. Se li avessero colpiti frontalmente
sarebbe stato meglio, perché la sommità della nave, al di sopra della cabina di
pilotaggio e del ponte di comando aveva un’angolazione specifica ed era
rinforzata proprio in previsione di quel genere di impatto. Forse i proiettili
avrebbero staccato una sezione dello scafo e fatto un dannato rumore, ma le
viscere della nave sarebbero rimaste intatte. Per come erano andate le cose
invece, con i proiettili che crivellavano in uno sciame il lato della nave, la
situazione era peggiore. Gli alloggiamenti dei propulsori di manovra della Pella e
dei cannoni CDP, i sistemi di sensori e le antenne esterne avevano tutti riportato
danni. Era stato come se qualcuno avesse usato un raschietto sulle parti esposte
della nave e staccato tutto quello che poteva essere rimosso. Il danno aveva
lasciato un punto cieco nella copertura data dai CDP, ma il siluro che vi era
passato attraverso era risultato difettoso. Se fosse esploso avrebbe potuto
spaccare la nave in due, e quella vecchia cagna nella cambusa avrebbe dovuto
sperare nella misericordia degli interni per impedire alla sua pelle legnosa di
soffocare nella sua stessa aria consumata.
L’impatto del siluro era comunque stato abbastanza violento da aprire una
breccia nello scafo esterno, ed era necessario svolgere il lungo e tedioso lavoro
di individuare ogni singolo frammento che aveva staccato. Lasciare una manciata
di schegge di metallo e di ceramica a rotolare in giro fra i ponti ogni volta che
attivavano i propulsori di manovra significava cercare la morte, quindi Filip e
Miral si misero una tuta, controllarono reciprocamente i sigilli, le bombole e i
respiratori, poi strisciarono nello spazio fra i due scafi. Le navi marziane erano
progettate in modo elegante e ordinato, tutto era etichettato ed erano segnate le
date d’ispezione e di installazione di ricambi. Al bagliore bianco della luce della
sua lampada, Filip esaminò la piastra piegata dello scafo esterno, la lacerazione
irregolare attraverso cui erano visibili le stelle. Il piano galattico splendeva
bianco e oro sullo sfondo nero. Era difficile non fermarsi a contemplarlo.
Era diverso guardare le stelle come tali, e non come punti su uno schermo.
Aveva trascorso tutta la vita sulle navi e sulle stazioni. Vedere miliardi di luci
fisse con i suoi occhi era una cosa che succedeva soltanto quando usciva per una
riparazione o un’operazione, ed era sempre splendido, a volte allarmante. Questa
volta, sembrava quasi una promessa. L’abisso infinito si apriva intorno a loro,
sussurrando che l’universo era più vasto della sua nave, più vasto di tutte le navi
messe insieme. L’umanità poteva piantare la sua bandiera su milletrecento di
quei punti e sarebbe stata soltanto una percentuale di una percentuale di una
percentuale. Questo era l’impero che gli interni stavano combattendo e morendo
per controllare. Altri cento pianeti moltiplicati una dozzina di volte, e questo era
meno di un errore di arrotondamento rispetto a quello che stavano vedendo.
«Ehi, Filipito» chiamò Miral, sul canale privato della tuta. «Vieni qui. Credo di
aver trovato qualcosa.»
«Commé. Un momento.»
Miral era accoccolato accanto a un cavo di alimentazione dei sensori e la sua
luce rischiarava un tratto dello scafo interno. Una corta linea lucida spiccava
dove qualcosa lo aveva graffiato. Miral fece scorrere il guanto su di esso,
creando una chiazza. Quindi era ceramica.
«D’accordo, stronzetto, dove sei andato?» mormorò Filip, facendo scorrere la
luce della lampada lungo il condotto.
«Seguimi» disse Miral, e prese a spostarsi lungo gli appigli.
Quando avessero raggiunto Pallas, sarebbe stato possibile fare un’ispezione
più completa. C’erano strumenti per soffiare azoto e argon in ogni crepa e curva
della nave e rimuovere qualsiasi cosa vi si fosse incastrata, ma era meglio fare
quanta più parte del lavoro possibile prima di arrivare. Inoltre, pensò Filip, non
c’era nessun altro fra i due scafi. Come lavoro, era il più isolato che la Pella
avesse da offrire, e quell’isolamento era una ragione sufficiente per farlo.
Il piccolo sussulto trionfante di Miral attirò l’attenzione di Filip e lo portò
vicino al punto in cui lui era accoccolato. Miral prelevò una pinza dalla cintura,
la usò su una sezione di cavo dove la saldatura aveva lasciato una fessura, poi
sedette all’indietro con un sorriso che Filip riuscì a vedere attraverso la maschera
del casco. La scheggia era grossa come l’unghia di un pollice, irregolare da un
lato, liscia dall’altro.
«È grossa» commentò Filip, con un fischio di apprezzamento.
«Sí no?» replicò Miral. «Lasciare esá bastarda a muoversi in giro è come sparare
una fucilata qui dentro, sì?»
«Una di meno» convenne Filip. «Vediamo quante altre ne troviamo.»
Miral serrò il pugno in segno di assenso, poi si ficcò la scheggia in tasca. «Sai,
quando avevo più o meno la tua età bevevo parecchio. Passavo il mio tempo
con questo coyo che parlava sempre degli scontri in cui era stato coinvolto. Finiva
spesso in una rissa. Credo gli piacesse.»
«Già» annuì Filip, mentre si calava più in basso e faceva scorrere la luce
sull’alloggiamento di un propulsore di manovra. Non sapeva dove Miral volesse
andare a parare.
«Questo coyo sosteneva che quando le cose precipitavano, era sempre perché
l’altro bastardo era in imbarazzo, sa sa? Forse non voleva fare a pugni, ma non
trovava il modo di tirarsene fuori senza che il suo equipaggio lo considerasse un
debole.»
Filip si accigliò dietro la visiera del casco. Miral stava forse parlando di quello
che era successo su Ceres? A volte, la cosa lo disturbava ancora. Non la violenza
in sé stessa, ma un breve riaffiorare dell’umiliazione lasciata dal rendersi conto
che la ragazza con cui stava parlando al bar se ne era andata. Non era una cosa
che voleva rivangare ancora. «Que sa, es» rispose, sperando che fosse sufficiente.
Miral però continuò a parlare. «Sto solo dicendo che quando un uomo sente di
aver perso la faccia dice cose che non pensa davvero. Fa cose che non vuole
davvero fare.»
Io volevo fare tutto quello che ho fatto, pensò Filip, ma non lo disse. Lo
rifarei di nuovo.
Quel pensiero dava però la sensazione dolorosa di toccare un graffio recente, e
quel giorno aveva già fatto una volta la figura di uno stupido ragazzino, quindi
era meglio tenere la bocca chiusa. Risultò che Miral si stava riferendo a tutt’altro.
«Tuo padre è un brav’uomo. Cinturiano fino al midollo, sì? È solo che questo
bastardo, Holden, è una piaga aperta per lui. È stato battuto, succede a alles, una
volta o l’altra, y alles dopo ingigantiscono un po’ le cose. Non è un bene e non è
un male. È solo come sono fatti gli uomini. Non prendertela troppo.»
Filip si fermò. Si girò.
«Non devo prendermela troppo?» ripeté, in tono interrogativo, chiedendo a
Miral di spiegare cosa intendeva.
«Sì» rispose Miral. «Tuo padre non pensa quello che dice.»
Filip puntò la sua luce su Miral, dirigendone il raggio attraverso la sua visiera.
Miral socchiuse gli occhi e sollevò una mano a ripararli.
«E cosa dice?» domandò Filip.
L’alloggio di Marco era più che pulito, immacolato. Le pareti splendevano
sotto la luce, lucidate di fresco. Le chiazze scure che si formavano sempre
accanto agli appigli vicino alla porta, a indicare il passaggio di centinaia di mani,
erano state grattate via. Sul monitor non c’era neppure un granello di polvere.
Un finto aroma di legno di sandalo proveniente dal riciclatore dell’aria non
cancellava del tutto il sentore di disinfettante e fungicida. Perfino le sospensioni
del sedile a smorzamento scintillavano nella luce sommessa.
Suo padre, intento a guardare il monitor, era a sua volta curato con una
perfezione inquietante. I capelli erano puliti e perfettamente a posto. La morbida
barba marrone era regolata tanto bene da sembrare quasi fasulla. L’uniforme
dava l’impressione di non essere mai stata indossata prima, con le pieghe
perfette e inamidate. Le cuciture cadevano alla perfezione, come se con la sua
precisione e forza di volontà lui avesse potuto trascinare il resto della nave a
eguagliare i suoi standard. Come se tutto il controllo che Marco aveva sparso per
il sistema fosse stato concentrato in un solo luogo. Non un atomo nell’aria era
fuori posto.
Rosenfeld era sul monitor. Filip colse le parole ‘altre eventualità’ prima che
Marco fermasse la registrazione e si girasse verso di lui.
«Sì?» chiese. Filip non seppe stabilire cosa ci fosse nella sua voce. Era calma,
certo, ma Marco aveva un migliaio di varietà di calma, e non tutte significavano
che le cose andavano bene. Filip era fin troppo consapevole che in realtà non
avevano più parlato, dopo la battaglia.
«Stavo parlando con Miral» cominciò Filip, incrociando le braccia e
appoggiandosi allo stipite. Suo padre non si mosse, non annuì, non distolse lo
sguardo. I suoi occhi scuri lo fecero sentire esposto e incerto, ma era impossibile
fare marcia indietro, non senza prima fare la domanda. «Sostiene che vai
dicendo che quello che è successo è stato colpa mia.»
«Perché lo è stato.»
Le parole erano semplici, neutre. Non c’era rabbia nella voce, e neppure
derisione o un’accusa. Filip le incassò come un colpo al petto.
«Okay» disse. «Bien.»
«Tu eri il cannoniere, e loro sono fuggiti.» Marco allargò le braccia in una
rapida scrollata dalla precisione chirurgica. «La tua era una domanda? O forse
stai dicendo che è stata colpa mia, per aver pensato che tu fossi in grado di
farcela?»
Filip dovette tentare due volte per riuscire a parlare nonostante la gola
contratta. «Non ho pilotato la nave incontro a quei proiettili, io» disse. «Ero il
cannoniere, non il pilota. E non avevo un cannone a rotaia, sì? Pinché Holden
aveva un cannone a rotaia.»
Suo padre inclinò la testa da un lato. «Ti ho appena detto che hai fallito.
Adesso mi fornisci dei motivi per cui va bene che tu abbia fallito? È così che
funziona?» Adesso Filip riconosceva quel genere di calma.
«No» rispose. E poi: «No, signore.»
«Bene. È già abbastanza spiacevole che tu abbia fatto un casino. Adesso non
cominciare anche a piangerci sopra.»
«Non lo faccio» si schermì Filip, ma aveva le lacrime agli occhi. La vergogna gli
scorreva nel sangue come una droga scadente e lo faceva tremare. «Non piango,
io.»
«Allora riconoscilo, dillo da uomo. Di’: ‘Ho fatto un casino.’»
Non l’ho fatto, pensò Filip, non è stata colpa mia. «Ho fatto un casino.»
«D’accordo» concluse Marco. «Sono occupato. Uscendo chiudi la porta.»
«Sì, d’accordo.»
Mentre Filip si girava, Marco riportò l’attenzione sul monitor. La sua voce
suonò sommessa come un sospiro. «Le lacrime e le giustificazioni sono per le
ragazze, Filip.»
«Scusami» replicò Filip, e si chiuse la porta alle spalle.
Percorse lo stretto corridoio. C’erano voci che arrivavano dall’ascensore e dalla
cambusa. Due equipaggi nello spazio sufficiente per uno, e non tollerava di
trovarsi vicino a nessuno di loro, neppure a Miral. Soprattutto a Miral.
Mi ha usato, pensò. Era come aveva detto Miral. Non avevano conservato il
controllo di Ceres, e poi Pa aveva insultato suo padre disertando. Questa
avrebbe dovuto essere la dimostrazione che non ci si prendeva gioco della
Marina Libera, e i loro tre lupi, insieme, non erano riusciti a fermare la fottuta
Rocinante.
Marco era stato umiliato e la merda fluttuava in senso contrario alla rotazione,
tutto qui. Tuttavia, sentiva un dolore sotto le costole come se avesse incassato
un pugno. La colpa era di suo padre, non sua. E lui non stava piangendo e
dando giustificazioni. Solo che era proprio quello che aveva fatto.
Accese la luce nella sua cabina. Uno dei tecnici dell’ingegneria la usava a turno
con lui e prese a sbattere le palpebre come un gufo a causa della luce.
«Que sa?» disse.
«Sono stanco» ribatté Filip.
«Sii stanco da un’altra parte» protestò il tecnico. «Mi spettano altre due ore.»
Filip appoggiò il piede al sedile a smorzamento e lo fece ruotare. Il tecnico
protese una mano per fermarlo e slacciò le cinghie. «Va bene» disse. «Se sei così
fottutamente stanco, allora dormi.»
Borbottando fra sé prese i vestiti e uscì. Filip sprangò la porta dietro di lui e si
lasciò cadere sul sedile con ancora indosso l’uniforme che puzzava di sudore e di
sigillante per tute da vuoto. Le lacrime cercarono di scorrere, ma le ricacciò
indietro, respinse il dolore in fondo al ventre finché si trasformò in qualcos’altro.
Marco sbagliava. Suo padre si era trovato in imbarazzo perché Holden,
Johnson e Naomi erano sfuggiti loro. Era come diceva Miral. Gli uomini che si
sentivano in imbarazzo dicevano cose che non pensavano. Facevano cose che
non avrebbero fatto se avessero riflettuto con chiarezza.
Filip non aveva fatto un casino. Marco si sbagliava, tutto qui. Questa volta si
era semplicemente sbagliato.
Le parole gli affiorarono nella mente, nitide come se qualcuno le avesse
pronunciate, e anche se non gliele aveva mai sentite dire, risuonarono con la
voce di sua madre. ‘Mi chiedo in che altro abbia sbagliato.’
31
Pa

Eugenia era un posto terribile su cui installare una base operativa, non tanto
un asteroide quanto un complesso mucchio di detriti e ghiaia nera che
viaggiavano insieme. Né l’asteroide stesso né la piccola luna che vi orbitava
intorno avevano mai avuto una forza di gravità che li premesse uno contro
l’altra o calore che li fondesse insieme. Eugenia e altri duniyaret simili non
offrivano niente di solido su cui costruire, non avevano nessuna struttura interna
a cui ancorarsi. Perfino le operazioni minerarie erano difficili, perché i materiali
che componevano l’asteroide si spostavano e separavano troppo in fretta. Se si
fosse costruita una cupola, l’aria sarebbe filtrata via attraverso il terreno su cui
poggiava. Se si fosse cercato di generare gravità da rotazione, il tutto sarebbe
andato in pezzi. La stazione scientifica che la Terra vi aveva costruito tre
generazioni prima e che poi aveva abbandonato era poco più di una rovina fatta
di cemento sigillato e ceramica scrostata. Una città fantasma della Fascia.
I soli aspetti positivi erano che l’asteroide non era già abitato e che la sua
orbita non era troppo lontana da Ceres e dalla discutibile protezione della flotta
congiunta, ma anche quella vicinanza era solo temporanea. Dal momento che il
periodo orbitale di Ceres era di un paio di punti percentuali più veloce di quello
di Eugenia, ogni giorno aumentava un poco la distanza, estendendo la bolla di
sicurezza finché non sarebbe inevitabilmente scoppiata. Per essere giusti, se
avessero continuato a usarlo per sfuggire alla Marina Libera quando Eugenia e
Ceres si fossero spostate sul lato opposto del sole l’una rispetto all’altra,
avrebbero avuto problemi più grandi.
Invece di tentare di costruire sulla superficie dell’asteroide, la piccola flotta di
Michio aveva costruito una sorta di porto fluttuante che orbitava intorno al
corpo principale di Eugenia, formato da container da spedizione saldati fra loro
in modo da creare passaggi, magazzini e camere di pressurizzazione. Un piccolo
reattore era sufficiente a mantenere la circolazione dell’aria e a generare
abbastanza calore da compensare quello perso a causa delle radiazioni. Era
volutamente una soluzione temporanea, economica, facile da mettere insieme e
fatta di materiali tanto standardizzati e onnipresenti che una soluzione scoperta
una volta poteva essere poi applicata in un migliaio di altre situazioni. La
stazione si espandeva dal seme centrale formato da tre o quattro container e si
allargava con collegamenti e rinforzi, creando distanza quando era necessaria e
unendo le cose quando non lo era, simile a un fiocco di neve che aveva il colore
bianco del sigillante deteriorato.
C’erano storie secondo cui i cinturiani più poveri vivevano per anni in stazioni
improvvisate come quella, ma più spesso esse venivano usate come stava
facendo Michio, come magazzini e stazioni di rifornimento. Erano magazzini
fluttuanti dove tasse e tariffe non intaccavano il budget operativo di un cercatore
di minerali, con acqua iperdistillata che dava ai pirati massa di reazione, acqua
potabile e ossigeno. Erano i fratelli maggiori dei mucchi di provviste che la
Marina Libera aveva sparso nel vuoto. Sul monitor di Pa, la struttura sembrava
un’antica creatura marina che stesse ancora sperimentando la struttura a cellule
multiple. Accanto a essa, la Panshin appariva compatta e lucida.
La nave aveva adeguato la sua orbita in modo tanto preciso da sembrare
immobile accanto al portello, come se vi fosse stata collegata. I bagliori delle luci
da lavoro e delle saldatrici tempestavano la superficie della stazione, e le forme
simili a ragni dei mech trasferivano su di essa le provviste prelevate dalla Panshin.
La Connaught aveva spento il reattore Epstein alcune ore prima per evitare di
fondere il portello e anche la Panshin, e si era inserita a sua volta in orbita con
delicatezza, usando i propulsori di manovra. La decelerazione non somigliava
tanto a una spinta gravitazionale quanto al suggerimento che Michio si annidasse
più in profondità nel sedile a smorzamento.
«Ci stanno puntando. Devo accusare ricevuta?» domandò Evans.
Adesso domandava per ogni cosa, perché dopo lo spavento che si era preso
alla Stazione di Ceres la sua sicurezza era andata in pezzi. Era un problema, ma
come molti altri Pa non sapeva come risolverlo. «Per favore, provvedi» rispose.
«Avvisali che sto arrivando.»
«Sì, signore» rispose Evans, girandosi verso il monitor. Michio si stiracchiò,
costringendo il sangue a circolare. Non sapeva perché dovesse sentirsi ansiosa
all’idea di rivedere Ezio Rodriguez. Erano anni che si conoscevano e si
incontravano di tanto in tanto. Era un altro compagno nella continua lotta per
impedire che la Fascia venisse usata e accantonata dagli interni e dai loro alleati.
Adesso però si era schierato dalla sua parte contro la Marina Libera, e questa
sarebbe stata la prima volta che si sarebbe trovata a respirare la sua stessa aria da
quando le sue operazioni di soccorso erano diventate quello che erano diventate.
E cosa si portava a un incontro con un uomo che condivideva le tue idee al
punto da rischiare la sua vita e quella del suo equipaggio? Un biglietto di
ringraziamento?
Michio scoppiò a ridere, e Oksana le lanciò un’occhiata. Michio però scosse il
capo, perché la cosa non sarebbe stata altrettanto divertente, espressa a voce
alta.
«La Panshin accusa ricevuta, signore» avvertì Evans. «Il capitano Rodriguez è al
portello.»
«E il portello sia, allora» rispose Michio, slacciando le cinture. «Oksana, la nave
è tua.»
«Signore» rispose Oksana, ma c’era una sfumatura di delusione in quella
parola. Avrebbe voluto accompagnarla, ma qualcuno doveva tenere d’occhio
Evans, e ultimamente loro due erano diventati più intimi. Magari passare un po’
di tempo solo con Oksana avrebbe riportato Evans a una condizione che gli
permettesse di parlare di quello che lo turbava. Sarebbe stato meglio se
quell’impulso fosse venuto da lui, perché ordinare a qualcuno di mettere a nudo
le proprie paure personali non era una buona tecnica di comando, e per quanto
potesse essere sua moglie, Michio era anche il suo capitano.
La Connaught prese posizione a meno di un chilometro dai portelli della Panshin
e di Eugenia. Oksana stava facendo un po’ l’esibizionista, ma a Michio non
dispiacque, perché questo rese la transizione breve e facile. La tuta per il vuoto
marziana era corazzata ma non potenziata. Ben fatta, come tutto ciò che Marco
si era procurato. Bertold e Nadia la accompagnarono, entrambi armati. Uscirono
dal portello della Connaught e nel vuoto fra le navi, muovendosi lentamente per
non consumare troppo carburante e discutendo di chi avrebbe dovuto cucinare
la cena quella sera, mentre le stelle scivolavano sotto i loro piedi. Michio avvertì
un’inattesa sensazione di felicità. Era stupefacente pensare che c’era gente che
viveva tutta la vita sulla superficie di un pianeta e non sperimentava mai un
momento come quello, la vicinanza dei familiari più intimi e una vastità che
poteva rivaleggiare con il respiro stesso di Dio.
Il portello era inserito a metà di uno dei container, con le pareti che
interrompevano la distesa della galassia, davanti a loro, prima che arrivassero alla
porta. Tutti e tre entrarono insieme. Non appena l’indicatore fu verde, Michio
controllò la tuta per avere conferma che era tutto a posto, poi chiuse il flusso di
ossigeno e aprì i sigilli.
L’aria nella camera di pressurizzazione puzzava di combustibile usato e metallo
surriscaldato. Le percussioni della musica di qualcuno si sentivano meglio del
resto della canzone, facendo pulsare un poco la camera con un costante ritmo
meccanico. Le luci erano tutte a LED, con ombre spigolose che strisciarono
lungo le pareti di ceramica quando si spinsero attraverso i lunghi corridoi.
Bancali magnetici aderivano alle superfici senza fare distinzione fra pareti,
pavimento e soffitto, e vecchi terminali palmari erano stati applicati a ciascuno
di essi per indicare cosa conteneva e da dove proveniva.
Una donna in un mech da trasporto si spostò di lato al loro passaggio, con le
braccia del mech che si ripiegavano contro il corpo come le zampe di un ragno.
La donna salutò in pari misura Michio, Bertold e Nadia, con un’aria da cui si
capiva che non sapeva chi fossero e non le importava. Finché erano tutti dalla
stessa parte, a lei andavano bene.
Trovarono il capitano Rodriguez in uno dei raggi. Nove container aprivano la
bocca in ciascuna delle sei direzioni, cinquantaquattro in tutto, e avrebbero
dovuto essere a pieno carico. A Michio bastò un’occhiata per vedere che non era
così. Ezio Rodriguez era un uomo dal volto sottile, con una barba ben curata
striata di bianco anche se il resto della faccia appariva giovane. Portava i capelli
rasati e la sua tuta, come quella di Michio, era di fattura marziana.
Contrariamente a lei, Rodriguez l’aveva personalizzata con lo stemma
raffigurante una stella che esplodeva sulla schiena, fra le scapole, e il cerchio
spezzato dell’APE disposto come una fascia sul braccio. Intorno a loro, una
mezza dozzina di altre persone erano impegnate a spostare bancali nei container
circostanti, gridando per comunicare nell’aria invece di usare le radio. Le loro
voci destavano echi.
«Capitano Pa» salutò Rodriguez. «Bien avisé. È passato troppo tempo.»
«Capitano» rispose Michio. «La Connaught è venuta a darvi il cambio. È il
nostro turno di costruire e stare di guardia, sa sa?»
«Siete i benvenuti» disse Rodriguez, allargando le braccia. «Non è molto, y non
è neppure niente.»
Ciascuna delle navi della piccola flotta di Michio, da sole o a coppie, aveva
fatto a turno nel costruire e proteggere il porto mentre le altre davano la caccia
ai coloni o recuperavano le provviste sparse nello spazio, schivando le navi di
Marco. La Solano aveva catturato un’altra nave coloniale, la Brilliant Iris,
proveniente dalla Luna, e la stava scortando verso Ceres per pagare il tributo
dovuto a Cesare. In ogni caso, il porto di Eugenia era troppo piccolo per
accogliere una nave di quelle dimensioni. La Serrio Mal, d’altro canto, stava
recuperando i container oscurati lanciati lontano da Pallas e da Ceres. Quelli
erano destinati a Eugenia, e da lì ai posti che più ne avevano bisogno. Portare
provviste su Kelso e Giapeto era la cosa più pericolosa, e Michio se ne occupava
personalmente.
Non andarci affatto sarebbe stato ancora peggio.
«Sembra poca roba, que» osservò.
«Lo sembra perché lo è» replicò Rodriguez. «Il recupero è raro, ultimamente.
Non recuperiamo tanto quanto prima. Ma c’è sempre qualcosa.»
«Abbastanza?»
Rodriguez rise come se lei avesse fatto una battuta. «Però ho qualcosa di
interessante. Qualcosa per te.»
Michio sentì i capelli che le si rizzavano sulla nuca. Questo le dava una brutta
sensazione, ma sorrise ugualmente. «Non avresti dovuto.»
«Un’occasione che non potevo perdere» disse Rodriguez, attivando i
propulsori della tuta per dirigersi verso un corridoio di accesso. «Da questa
parte. Ti faccio vedere.»
Non le disse di lasciare lì Bertold e Nadia, il che era un bene perché non lo
avrebbe fatto. Non sapeva però se sentirsi rassicurata che non avesse cercato di
separarla dalle sue guardie, o spaventata perché non lo aveva fatto.
«Bertold» disse, mentre seguivano il capitano.
«Capito» rispose lui, la mano sul calcio dell’arma come se si fosse posata lì per
caso. Nadia stava facendo lo stesso. Assunsero una formazione protettiva con la
stessa naturalezza con cui avrebbero sbattuto le palpebre. Quando raggiunse le
pareti della camera di pressurizzazione, Rodriguez atterrò con un suono
metallico, attivando gli stivali magnetici e smorzando la quantità di moto con le
ginocchia. La musica che avevano sentito in precedenza era scomparsa.
Rodriguez guardò alle loro spalle, come per accertarsi che nessuno li avesse
seguiti. O forse per verificare che lo avessero fatto.
«Mi stai rendendo nervosa, coyo» disse Michio, nel seguirlo. «C’è qualcosa che
mi vuoi dire?»
«Bon sí, aber non qui» replicò Rodriguez. Adesso il tono leggero era scomparso
dalla sua voce, che era pervasa di una cupa tensione. «Questa è una cosa
contrabbandata sotto il naso dei contrabbandieri.»
«Non mi sento meglio.»
«Lo farai o non lo farai. Venite alles la.»
Il container a cui li condusse aveva un piccolo ufficio costruito nella fiancata,
pezzi di metallo saldati insieme, e con un loro portello stagno. Rodriguez inserì a
mano un codice, e Bertold stiracchiò le braccia, esalando il fiato come un
sollevatore di pesi che si preparasse a sollevare un carico superiore al solito.
«Vi amo» disse Nadia, in tono calmo e colloquiale, come se non lo stesse
dicendo nell’eventualità che quelle fossero le sue ultime parole.
Il portello si aprì e saltò fuori un uomo dal corpo esile, con scuri capelli
ricciuti. «Lei è qui?» chiese. Poi: «Oh, eccoti.»
Uno shock pervaso di sorpresa, l’incertezza se questa fosse una minaccia o
qualcosa di più interessante. «Sanjrani.»
«Nico, Nico, Nico» lo rimproverò Rodriguez, spingendolo di nuovo attraverso
il portello. «Non qui. Non ti ho trasportato di soppiatto attraverso il culo del
nulla per poi sventolarti come una bandiera. Torna dentro, al sicuro.» Una volta
che Sanjrani fu indietreggiato, Rodriguez si girò verso Michio, invitandola con
un gesto a seguirlo. Quando lei esitò, sollevò le braccia a croce ai lati del corpo.
«Non ho armi, io. Esá va male, la dué può spararmi.»
«Può» confermò Bertold, che aveva estratto l’arma ma non la stava puntando.
Non ancora.
«D’accordo» annuì Michio, avanzando con passo pesante, gli stivali magnetici
che la trattenevano contro il pavimento e la lasciavano andare di nuovo a ogni
passo.
Nel piccolo ufficio, Sanjrani sedeva assicurato a uno sgabello davanti a una
sottile scrivania, di fronte alla quale c’era un altro sgabello. Michio non vide
nessuna trappola, ma d’altro caso non seppe dire cosa stesse vedendo. «Cerchi di
cambiare fazione?» chiese.
Sanjrani ebbe un impaziente e profondo colpo di tosse. «Sono qui per dirti
perché stai uccidendo tutti, nella fottuta Fascia. Tu e Marco, tutti e due. Voi due
dovreste essere dalla mia parte.»
«Lui sa che sei qui?»
«Sono forse morto? No, non lo sa. Sono disperato fino a questo punto. Ho
provato a parlare con Rosenfeld, ma lui parla soltanto con Marco, e nessuno sa
dove sia finito Dawes. Non mi vogliono ascoltare.» C’era disperazione nella sua
voce, acuta e sottile come un archetto su una corda di violino.
«D’accordo» annuì Michio, avvicinandosi allo sgabello e passandosi la cintura
di traverso sul grembo. «Io ti ascolto.»
Sanjrani si rilassò e richiamò un diagramma sullo schermo della scrivania, una
complessa serie di curve a cui si sovrapponevano gli assi X e Y. «Abbiamo
avanzato delle supposizioni, quando abbiamo cominciato tutto questo» esordì.
«Abbiamo elaborato dei piani, e credo fossero validi. Però non li abbiamo
seguiti.»
«Dui» commentò Michio.
«La prima cosa che abbiamo fatto» continuò Sanjrani «è stato distruggere la
più grande fonte di ricchezza e di sostanze organiche complesse esistente nel
sistema. La sola fonte di sostanze organiche complesse che funzionano con il
nostro metabolismo. I mondi dall’altro lato dell’anello? Hanno un codice
genetico diverso. Una chimica diversa. Non è qualcosa che possiamo importare e
mangiare. Però andava bene così. Le proiezioni erano chiare. Potevamo
costruire una nuova economia, mettere insieme infrastrutture, creare una rete
sostenibile di microecologie in una matrice cooperativo-competitiva. Basare la
valuta su...»
«Nico» lo interruppe Michio.
«Giusto, giusto. Dovevamo cominciare a costruire non appena fossero
precipitate le rocce.»
«Lo so» annuì lei.
«Non lo sai» ribatté lui, con uno strato di lacrime che gli copriva gli occhi e gli
aderiva alla pelle. «Nessun processo di riciclaggio è perfetto. Tutto si degrada. Le navi
coloniali? Le provviste? Tutte soluzioni provvisorie. Sono la misura di quanto
tempo abbiamo per cominciare a creare di che vivere nella Fascia. Guarda qui.
Questa curva verde è la proiezione della produzione dei nuovi modelli
economici, quelli che non stiamo attuando, sì? E questa...» Indicò una curva
rossa discendente. «Questa è la migliore proiezione di quanto a lungo dureranno
le provviste sequestrate. Il punto di equilibrio è qui. A cinque anni da ora.»
«D’accordo.»
«E questa linea qui è la base di cui avremmo bisogno in quegli anni per tenere
in vita l’attuale popolazione della Fascia.»
«Rimaniamo al di sopra» osservò Michio.
«Ci saremmo rimasti,» precisò Sanjrani «se ci fossimo attenuti al piano. Adesso
siamo qui.»
Spostò la linea verde, e Michio sentì la gola che le si contraeva quando
comprese cosa stava vedendo.
«Adesso stiamo bene,» riprese Sanjrani «e staremo bene per tre anni, forse tre e
mezzo, poi i sistemi di riciclaggio smetteranno di essere in grado di far fronte
alla domanda, e noi non avremo le infrastrutture per tappare le falle. E a quel
punto moriremo di fame. Non solo la Terra. Non solo Marte. Anche la Fascia.
E quando il processo avrà inizio non ci sarà modo di arrestarlo.»
«D’accordo» ripeté Michio. «Come sistemiamo le cose?»
«Non lo so» ammise Sanjrani.
La Panshin ripartì l’indomani, portando con sé Sanjrani e la poca pace mentale
che ancora rimaneva a Michio. Il suo equipaggio faceva il suo lavoro, portando
avanti la costruzione del porto, installando i nuovi cavi. I messaggi arrivavano
alle antenne della Connaught, e alcuni erano per lei. Giapeto aveva bisogno di più
magnesio per alimenti. Un assortimento di navi minerarie aveva consumato i
filtri e aveva bisogno di ricambi. La Marina Libera diffondeva quelle che
chiamava notizie, alcune delle quali riguardavano quanto materiale cinturiano lei
aveva regalato al nemico.
Ogni volta che cercava di dormire, il senso di timore le inondava il cuore.
Quando fossero cominciati i tempi duri, quando si fosse cominciato a patire la
fame la cosa avrebbe funzionato come un cricchetto. Era difficile creare nuove e
lucenti città nel vuoto quando le persone che le progettavano, le costruivano e ci
vivevano stavano morendo per carenza di cibo. Quando stavano morendo
perché lei e Marco erano uno alla gola dell’altro invece di seguire il piano.
Doveva ricordare a sé stessa che non era stata lei a cambiare le cose, che
Marco aveva abbandonato per primo il copione e lei aveva disertato proprio per
questo e stava cercando di essere d’aiuto. Quando chiudeva gli occhi, però,
vedeva quella linea rossa che scendeva verso il nulla e nessuna curva verde
ascendente di risposta. Tre anni, forse tre e mezzo, ma per far funzionare le cose
dovevano cominciare adesso. Avrebbero già dovuto cominciare.
Oppure dovevano elaborare un piano del tutto nuovo, e né lei né Sanjrani
sapevano quale fosse.
Gli altri la evitavano, dandole cibo, acqua e spazio per riflettere. Si svegliava
sola, faceva il suo turno di lavoro, dormiva da sola e non sentiva la mancanza di
compagnia. Quindi rimase sorpresa quando Laura venne a cercarla in palestra.
«C’è un messaggio per te, capitano» disse. Non Michi, ma capitano, quindi non
era lì come sua moglie ma come ufficiale addetto alle comunicazioni per quel
turno di servizio.
Michio lasciò che le fasce elastiche rientrassero negli alloggiamenti e si
tamponò il sudore dalla fronte con un asciugamano. «Di cosa si tratta?»
«Un raggio stretto, reindirizzato attraverso Ceres» rispose Laura. «Viene dalla
Rocinante, in rotta per la Stazione di Tycho, ed è marcato come messaggio da
capitano a capitano.»
Michio prese in considerazione l’eventualità di dire a Laura di attivare il
messaggio, che erano una famiglia e non avevano segreti. Quello però era un
impulso pericoloso, e lo soffocò.
«Lo riceverò nel mio alloggio» disse.
Quando aprì il messaggio, James Holden la guardò dallo schermo. La sua
prima impressione fu che aveva un aspetto orribile. Il secondo pensiero fu che
probabilmente lo aveva anche lei. Gettò l’asciugamano umido di sudore nel
riciclatore. Nessun processo di riciclaggio è perfetto. Ebbe un brivido, ma intanto
Holden aveva cominciato a parlare.
«Capitano Pa» disse. «Spero che questo messaggio ti raggiunga in fretta e che
tutto vada bene con la tua nave e il tuo equipaggio, e... Bene. Come che sia. Mi
trovo in una sorta di strana situazione, e se devo essere onesto, pensavo di
chiederti un favore.»
Cercò di sorridere, ma il suo sguardo appariva tormentato.
«Ti dirò la verità» continuò. «Sono praticamente disperato.»
32
Vandercaust

Quando si furono stancate di prenderlo a calci, le guardie fecero rotolare


Vandercaust nella cella e sigillarono la porta.
Rimase là disteso al buio per qualche tempo... cinque minuti, un’ora. Non più
di questo. Quando si sollevò a sedere, le costole e la schiena gli dolevano, ma
non erano le fitte profonde o quella sensazione di attrito che derivava dalle
fratture. L’unica luce era un singolo LED incassato nella parete di fondo nel
punto in cui incontrava il soffitto, tanto fioca da togliere colore a tutto, per cui le
piccole strisce di sangue sulla sua camicia sembravano nere.
Non avendo un passatempo migliore, fece un lento inventario del proprio
corpo: costole e guancia ammaccate, occhio gonfio, abrasioni ai polsi dove lo
avevano ammanettato. In realtà non era niente di grave, gli era capitato di
peggio, a volte per mano dei suoi stessi amici. E non era neppure la prima volta
che lo arrestavano, neanche la prima volta che veniva arrestato per qualcosa che
non aveva fatto. In precedenza, però, erano sempre stati gli interni a
rinchiuderlo.
Quanto più le cose cambiano, tanto più rimangono le stesse, pensò. Trovò un
punto comodo nell’angolo, dove poteva appoggiare la testa, chiudere gli occhi e
vedere se l’ansia sarebbe stata sufficiente a tenerlo sveglio. In effetti lo era, ma
riuscì a sonnecchiare un poco prima che la porta si sbloccasse e si aprisse.
Entrarono due guardie in armatura, con l’arma al fianco, insieme a un ufficiale
che era anche lui in armatura. Tutti portavano i colori della Marina Libera.
Probabilmente era un buon segno. La gente non si metteva elegante per
commettere un omicidio.
«Emil Jacquard Vandercaust?»
«Aquí» rispose.
L’ufficiale era un ragazzo dal volto massiccio, con una carnagione scura come i
suoi occhi. A modo suo era avvenente, ma troppo giovane per i gusti di
Vandercaust. Era arrivato a un’età in cui nel sesso non contava tanto con chi si
finiva a letto quanto a chi ci si svegliava accanto, e la gamma delle persone che
considerava bambini si era estesa a includere gli uomini all’inizio della trentina. Il
bel ragazzo si accigliò, forse perché ce l’aveva con lui, o forse per il modo in cui
lo avevano trattato. Per un momento il silenzio nella stanza lo indusse a
chiedersi se se ne sarebbero andati di nuovo, sprangando la porta e lasciandolo lì
al buio. Quell’idea lo indusse a realizzare che aveva sete.
«Agua, sì?»
«Commst» rispose il ragazzo. Vandercaust si issò in piedi, con i muscoli offesi
che protestavano, ma non tanto da fermarlo. Le guardie si piazzarono una
davanti e una dietro di lui, e il ragazzo li precedette tutti come in una piccola
parata triste. La stanza in cui lo portarono era più luminosa, più comoda, ma
non di molto. Un basso sgabello di metallo era saldato al plancito ed era tanto
basso che nel sedersi Vandercaust ebbe l’impressione di essere in una scuola per
bambini e che ci si aspettasse che usasse un banco progettato per un ragazzino
di sei anni. Nella sua vita era stato interrogato dalla sicurezza abbastanza spesso
da riconoscere quella piccola umiliazione per la tattica che era. Una guardia gli
portò mezzo bulbo di acqua tiepida, lo guardò mentre beveva e recuperò il
bulbo.
Poi le guardie uscirono, chiudendosi la porta alle spalle, e il ragazzo si avvicinò
a una scrivania, in piedi, abbassando lo sguardo su di lui attraverso uno schermo
fluttuante. Vedere lo schermo da dietro era come vedere qualcuno attraverso
una nebbia luminosa.
Vandercaust attese. Il ragazzo prese dalla tasca una piatta losanga gialla. Una
droga per la concentrazione, o almeno ci si aspettava che Vandercaust la
riconoscesse come tale. Il ragazzo si mise la losanga sotto la lingua, succhiò
pensosamente per un momento, poi rabbrividì.
«Ieri non hai sentito l’allarme da combattimento» disse.
«Sì.»
«Puoi spiegarlo?»
Vandercaust scrollò le spalle. «Ho il sonno profondo quando sono ubriaco.
Non l’ho sentito. Non so cosa è successo prima che fosse tutto finito, sì?»
«Adesso lo sai?»
«Ho sentito delle cose, sì.»
«Allora esaminiamo quello che hai sentito.»
Vandercaust annuì, più rivolto a sé stesso che al ragazzo. Questo era il
momento di scegliere con cura gli appigli. Comunque avessero rigirato le cose,
questo era un momento in cui rischiava di finire nei guai se avesse detto le
parole sbagliate.
«Quello che ho sentito è che si trattava di un mucchio di navi provenienti dalle
colonie. Quattordici, quindici navi, tutte uscite dai portali nello stesso tempo. Ed
erano veloci. Hanno cercato di prendere Medina prima che i cannoni a rotaia li
eliminassero, sì? Solo che non ci sono riusciti. Le difese della stazione hanno
distrutto quello che i cannoni non avevano bucherellato. Alcuni detriti hanno
colpito lo scafo del corpo centrale, aber niente che non possa essere riparato.»
Il ragazzo annuì e prese qualche annotazione nell’aria luminosa, fra loro.
«Quattordici o quindici?»
«Sì.»
Lo sguardo del ragazzo si indurì. «Erano quattordici oppure quindici?»
Vandercaust si accigliò. Nella reazione del ragazzo c’era qualcosa che non gli
piaceva. Se fosse stata una partita a poker, avrebbe atteso di vedere se la mano
del ragazzo era particolarmente buona o cattiva, poi avrebbe passato il resto
della notte a ripulirgli le tasche. Solo che qui non si trattava di carte.
«Ho sentito quattordici o quindici. Una frase. Otto o dieci. Sei o sette. Non ho
sentito un solo numero»
«Da quali portali provenivano?»
«Non lo so.»
«Guardami» ordinò il ragazzo. Vandercaust sollevò lo sguardo sui suoi occhi
marrone chiaro. «Da quali portali sono venuti?»
«No savvy. Non lo so.»
Gli occhi del ragazzo ebbero un fremito, distolsero lo sguardo. Vandercaust si
grattò un braccio anche se non gli prudeva, giusto per fare qualcosa.
«Sono arrivate tutte nello spazio di quindici secondi una dall’altra» disse il
ragazzo. «Ed erano veloci. Qualche idea al riguardo, Mr Vandercaust?»
«Erano coordinate» replicò lui. «Sembra che stessero parlando con alles, sa sa?
Facendo piani.»
Il che... ah, sì... significava che avevano trovato un modo per infrangere la
velocità della luce, piegare il tempo e individuarsi a vicenda nella vastità della
galassia, oppure quelle comunicazioni erano passate attraverso i portali.
Attraverso Medina. Significava che da qualche parte sulla Stazione di Medina
qualcuno lavorava contro la Marina Libera. Aveva capito che non potevano
averlo arrestato solo perché aveva saltato un turno di emergenza, ma adesso gli
era un po’ più chiaro cosa quel ragazzo stava cercando. Vide il ragazzo
osservarlo mentre lo capiva.
«Chi ti ha detto dell’attacco?»
«Ne ho sentito parlare nel mio gruppo di lavoro. Jakulski, Salis, Roberts.
Giusto chiacchiere mentre si beve un caffè, sì?»
Un’altra annotazione. «C’è niente che pensi dovrei sapere sul loro conto?»
Un senso di gelo che non aveva niente a che fare con la temperatura corse
lungo la schiena di Vandercaust e gli fece venire la pelle d’oca. Forse non si
trattava solo del fatto che aveva dormito durante l’allarme. Era stato ubriaco, e
gli ubriachi potevano continuare a dormire qualsiasi cosa succedeva. Ma se non
aveva risposto alla chiamata e si era trovato vicino a qualcuno che aveva
qualcosa da nascondere...
Salis aveva amici alle comunicazioni, se ne vantava di continuo, di come
sapesse cosa succedeva a Duarte e Inaros, e quale genere di minacce e di
suppliche giungevano attraverso i portali. Se qualcuno aveva coordinato un
attacco contro Medina, non era logico che si trovasse alle comunicazioni?
Doveva essere così, ne? E Roberts che parlava di Callisto e delle guerre per
procura, di come forse la gente di Duarte li stava usando contro la Terra e
Marte, di quanto detestava trovarsi intrappolata fra poteri del genere. Lei era
stata la prima, per quanto ne sapeva, a guardare in tralice i consulenti venuti da
Laconia per erigere difese sulla stazione aliena sulla quale si trovavano gli
alloggiamenti dei cannoni a rotaia. Era possibile che lavorasse con le colonie, se
questo significava liberarsi di Laconia e mantenere Medina indipendente. E
Jakulski non era forse stato presente al benvenuto, quando erano arrivati i
consiglieri? Aveva detto che si era trattato di un favore a uno degli altri
supervisori, ma non era possibile che si fosse procurato un’occasione per dare
un’occhiata al nemico?
Su Medina vivevano e lavoravano migliaia di persone, e più o meno tutti erano
cinturiani. Perlopiù erano stati prima membri dell’APE e adesso appartenevano
alla Marina Libera, ma c’erano alcuni che non avevano saputo quello che stava
per succedere. Forse qualcuno aveva ancora sulla terra familiari che stavano
morendo a causa delle rocce. Non sapeva niente della madre di Jakulski, dei
fratelli di Salis, dei vecchi amanti di Roberts. Uno qualsiasi di loro poteva solo
fingere di essere con la Marina Libera mentre desiderava dannatamente essere
una qualsiasi altra cosa.
Il ragazzo inclinò la testa da un lato e succhiò la droga per la concentrazione.
Vandercaust intrecciò le dita ed ebbe una risatina forzata. «È facile vedere come
un coyo possa diventare paranoico.»
«Perché non riesaminiamo tutto questo dall’inizio?» suggerì il ragazzo.
Andò avanti per ore, o almeno così gli parve. Niente terminale palmare, niente
schermi che potesse vedere. Tutto quello che Vandercaust aveva su cui basarsi
erano i ritmi animali del suo corpo. Quanto tempo passava prima che avesse di
nuovo sete. Quando cominciò ad avere sonno. Quando sentì il bisogno di
andare in bagno. Espose al ragazzo tutta la notte precedente l’attacco: dove era
stato, chi era stato presente, cosa aveva bevuto, come era tornato al suo alloggio.
Più e più volte, con il ragazzo che scavava ogni volta che diceva qualcosa in
maniera appena diversa dalla precedente, che lo spingeva a ricordare cose che
non ricordava davvero, e poi lo aggrediva quando esponeva qualche dettaglio in
modo sbagliato. Il ragazzo gli chiese di Roberts, di Salis, di Jakulski. Chiese chi
altri lui conoscesse su Medina, chi conosceva sul lato dell’anello rivolto verso il
Sole. Cosa sapeva di Michio Pa e Susanna Foyle ed Ezio Rodriguez. Quando era
stato sulla Stazione di Tycho, su Ceres, su Rhea, su Ganimede.
Gli mostrarono immagini degli attacchi. Le navi che sbucavano dai portali
tutt’intorno alla grande sfera da essi formata. Le guardò morire come immagini
tattiche, come registrazioni telescopiche di persone reali che morivano davvero.
Poi parlarono ancora, e tornarono a mostrargli tutto quanto. La seconda volta
ebbe la sensazione che ci fosse qualcosa di sottilmente diverso, un qualche
tentativo di coglierlo in fallo in qualche modo, ma non avrebbe saputo dire quali
fossero i cambiamenti.
Era spossante, lo era volutamente. Dopo un po’, smise di tentare di rispondere
in modo sicuro. Ne sapeva abbastanza di interrogatori da capire che questo... per
quanto stancante, aspro e ripetitivo... costituiva soltanto l’estremità più mite
dello spettro. Non aveva motivo di proteggere i suoi amici, a parte quel vago
tribalismo derivante dall’essere nello stesso gruppo di lavoro. Se erano innocenti,
la verità sarebbe stata un’armatura sufficiente, per loro e anche per lui.
Lo riportarono nella sua cella. Niente percosse, questa volta. Solo una brusca
spinta oltre la porta che lo fece cadere e lo mandò a sbattere la guancia contro la
parete con forza sufficiente a lacerarsi la pelle. Dormì per un po’, si svegliò
nell’oscurità e dormì ancora. Al secondo risveglio trovò una ciotola di fagioli e
funghi che raffreddava accanto alla porta. La mangiò comunque. Non aveva
modo di sapere da quanto tempo era lì dentro, per quanto tempo tutto questo
sarebbe durato. Se le cose sarebbero peggiorate.
Quando la porta si riaprì, entrarono cinque persone nell’uniforme della Marina
Libera. Il ragazzo dagli occhi castani non era fra loro, e per un momento questo
rese Vandercaust molto ansioso, come se stesse cercando un amico senza
trovarlo. Il capo del nuovo gruppo, una donna, stava ridendo con uno dei suoi
subordinati mentre controllava il terminale palmare tenendolo accanto alla faccia
di lui senza prestargli molta attenzione e digitava sullo schermo.»
«Dovresti andare, pampaw» disse, uscendo dalla cella. «Sei in ritardo per il tuo
turno.»
Si lasciarono la porta aperta alle spalle, e dopo un momento Vandercaust uscì
dalla cella, lasciò la stazione di sicurezza e si avviò nei larghi corridoi del corpo
centrale, sentendosi come uno straccio usato troppo a lungo. Era certo di
puzzare di sudore stantio e di primate malato. La guardia aveva avuto ragione,
era quasi ora del suo turno, ma tornò comunque al suo buco, fece la doccia, si
rase e indossò abiti puliti, poi passò qualche minuto a esaminare i lividi che
aveva sulla faccia e sui fianchi. In un uomo più giovane avrebbero potuto essere
simboli di resistenza. Lui sembrava soltanto un vecchio che era stato colpito da
un po’ troppi stivali. D’accordo, era in ritardo, ma aveva motivo di esserlo. Era
un piccolo ribelle, lui.
Trovò Salis e Roberts nelle profondità dei corridoi di servizio, impegnati a
controllare il flusso delle fogne per l’impianto di riciclaggio di backup. Lo
sguardo di Roberts si illuminò quando lo vide avvicinarsi, e lei lo circondò con le
braccia.
«Perdid» gli sussurrò all’orecchio. «Stai bene? Eravamo preoccupati.»
«Es dui?» chiese Salis, protendendosi sul tavolo per prendere le noci di soia
aromatizzate al wasabi. «Ti hanno pestato à niente?»
Finito il turno, tutti e tre erano andati al solito bar. La brezza proveniente dal
senso di rotazione era quella di sempre, la sottile linea di sole si stendeva sopra
di loro. Vandercaust spinse la ciotola verso le dita di Salis. «La sicurezza è
polizia, e la polizia è la stessa dappertutto.»
«Tuttavia,» osservò Roberts «perché prenderci la briga di scacciare gli interni
solo per avere un piede cinturiano che ha preso il loro posto sul nostro collo?»
«Non parlerei in quel modo» avvertì Vandercaust. Quella sera stava bevendo
acqua. Sarebbe passato del tempo prima che si ubriacasse di nuovo per bene.
«Questi sono tempi pericolosi.»
«Parlo come voglio» replicò Roberts, ma in tono sommesso. Attivò il terminale
palmare, e Vandercaust vide l’argento e il verde del feed della stazione, gli stessi
colori che aveva avuto prima dell’occupazione da parte della Marina Libera. Si
chiese perché non li avessero cambiati. Forse era un modo per dare un senso di
continuità. Naturalmente, ogni cosa presente sul feed era controllata. Il potere
della Stazione di Medina risiedeva nel fatto che non era parte di nessuno dei
sistemi sui lati opposti dei portali. Il prezzo di questo era che le informazioni
giungevano da una sola fonte. Nel sistema del Sole ci sarebbe stata una quantità
di feed e di subfeed. Alcuni trasmessi, altri lasciati in archivio per essere
esaminati e inoltrati. Era difficile, forse impossibile controllare quello che usciva.
Su Medina, un singolo set di blocchi impediva allo stesso tempo qualsiasi
trasmissione e ricezione priva di autorizzazione.
La cameriera gli portò il gyros che aveva ordinato – funghi e caglio di soia
invece di agnello e manzo. Yogurt al cetriolo. Un rametto di menta. Lo prese
con un piccolo grugnito e un’improvvisa fitta di dolore. Non era il pestaggio
peggiore che avesse mai subìto, ma era ancora dolorante dopo alcuni giorni.
«Perché ti hanno lasciato uscire?» domandò Salis. «Sprecht el la?»
«No, non lo hanno detto,» rispose Vandercaust «come non hanno detto che
non sarebbero tornati. Forse avevano solo bisogno di qualcuno che vi
costringesse a essere in orario.»
Aveva saltato due interi turni ed era tornato a metà del terzo. Tre giorni,
perlopiù trascorsi nell’oscurità della cella di sicurezza. Niente avvocato o
rappresentante sindacale. Avrebbe potuto chiederne uno, avrebbe dovuto farlo
secondo la legge e le usanze, ma aveva avuto la certezza, solida quanto l’acciaio,
che questo gli avrebbe fruttato solo altri lividi, forse perfino un osso rotto. Ne
sapeva abbastanza di storia e sulla natura umana da riconoscere quando le leggi
cessavano di essere tali. Staccò un morso dal panino, poi lo posò mentre
masticava. Dopo sarebbe andato a casa, avrebbe dormito nel suo letto. Suonava
come la promessa del paradiso. Fece scorrere le dita sul cerchio spezzato che
portava tatuato sul polso. Un tempo era stato una dichiarazione di ribellione,
adesso forse lo faceva solo apparire vecchio. Ancora lì a scegliere una fazione
nella lotta della generazione più giovane.
«Sai cosa dice il mio amico alle comunicazioni?» disse Salis. «Hanno trovato un
dump nascosto nel nucleo dei dati e lo hanno isolato. Credo sia quello che hanno
usato per coordinarsi con le colonie. Le conferme sono arrivate da tutti i portali
appena prima dell’attacco. Sai qual è la sola cosa strana? Due navi non sono
passate da questa parte.»
Salis sollevò le sopracciglia fino all’attaccatura dei capelli.
Vandercaust grugnì. «Continuavano a chiedermi quante navi sono passate,
come se volessero un numero preciso.»
«Probabilmente era per vedere se sapevi quante ne erano passate o quante
avrebbero dovuto farlo, sì? Per farti cadere in contraddizione, se eri coinvolto.»
«Io però non avevo niente qui» replicò Vandercaust, battendosi due dita sulla
fronte. «Bon besse per me.»
Salis gli posò una mano sul braccio. Aveva l’aria sofferente, ma non per un
dolore legato ai muscoli o alle articolazioni, come quello di Vandercaust.
«Dovresti permettermi di offrirti un drink, coyo. Hai avuto una settimana di
merda.»
Vandercaust scrollò le spalle. Non sapeva come spiegarsi con Salis o con
Roberts. Erano giovani, non avevano visto le cose che aveva visto lui, fatto
quello che lui aveva fatto. Essere prelevato dalla sicurezza, rinchiuso, percosso,
interrogato. Di per sé, queste cose non lo spaventavano. Lo spaventavano per
quello che rivelavano riguardo a come sarebbero andate le cose, perché
significavano che la Stazione di Medina non era un nuovo inizio nella storia. Era
e sarebbe stata violenta e sanguinosa quanto qualsiasi altro posto su cui
l’umanità avesse piantato la sua bandiera.
Roberts si sollevò a sedere, sgranando gli occhi. «L’hanno presa!»
Salis lasciò ricadere la mano e si girò verso di lei. «Que?»
«La talpa. Il coordinatore. Lo hanno preso.»
Girò verso di loro il terminale. Su di esso si vedevano camminare otto uomini
della sicurezza della stazione, nella divisa della Marina Libera, e in mezzo a loro
un uomo tozzo e ampio di spalle, con i capelli scuri e una barba arruffata.
Vandercaust ebbe l’impressione che avesse un’aria familiare, ma non riuscì a fare
mente locale. Poi l’immagine si spostò sul capitano Samuels, con Jon Amash in
piedi accanto a lei. Il potere politico e il servizio di sicurezza, uno accanto
all’altro, senza luce in mezzo a loro.
Le labbra di Samuels cominciarono a muoversi.
«Alza il volume» disse Salis a Roberts, che armeggiò con il suo terminale, poi
lo mise in mezzo a loro in modo che potessero tutti vedere lo schermo.
«...legami non solo con gli insediamenti che hanno scelto di aggredirci ma
anche con le forze regressive nel sistema del Sole. Sarà interrogato a fondo
prima di essere giustiziato. Anche se dobbiamo tenere gli occhi aperti e stare
all’erta, sulla base di tutto quello che ho visto sono convinta che il rischio di una
minaccia immediata contro la Stazione di Medina sia sotto controllo.»
«Lo giustizieranno» disse Roberts.
Salis scrollò le spalle. «È quello che succede se metti in pericolo la nave. Quei
bastardi delle colonie non erano venuti per giocare a dadi e fare festa.»
«Almeno è finita» commentò Vandercaust.
«È per questo che ti hanno lasciato andare» osservò Roberts, agitando il
terminale. «Lo hanno trovato. Hanno visto che non eri coinvolto.»
Oppure hanno scelto qualcun altro come capro espiatorio. Ho solo avuto la fortuna che non
si trattasse di me. Però non era il genere di cosa che si diceva ad alta voce. Non in
tempi come quelli.
33
Holden

La stanza che usavano come anticamera era più grande della cambusa della
Rocinante. C’erano ampi tavoli con monitor inseriti nel piano, e alti sgabelli di
metallo, la luce era morbida e indiretta, con uno spettro manipolato che gli
ricordava le ore di prima mattina della sua infanzia. Lui non aveva un grado o
un’uniforme. Ma la tuta di bordo gli era parsa inadatta per l’occasione, quindi
aveva optato per una camicia scura senza colletto e pantaloni che richiamavano
la foggia di una divisa militare senza avanzare nessuna rivendicazione specifica.
Naomi, che camminava avanti e indietro lungo la parete vicina alla porta gialla
a due battenti, aveva scelto lo stesso abbigliamento, ma Holden aveva il
crescente sospetto che esso stesse meglio su di lei. Dei tre, quindi, Bobbie era la
sola in uniforme, e anche se aveva rimosso le mostrine, il taglio e la foggia erano
chiaramente quelli del corpo dei marine marziani. In ogni caso, le persone che
avrebbero incontrato, quelle che in quel momento si stavano radunando in
fondo al corridoio, sapevano già chi era.
«Continui a tormentare quella manica» osservò Bobbie. «Ti dà fastidio?»
«La manica? No, quella va benissimo» rispose Holden. «Io do fastidio a me
stesso. Sai quante volte ho svolto questo tipo di lavoro diplomatico? Sono stato
in battaglia, e ho messo insieme feed video, ma entrare lì dentro, guardare un
mucchio di attivisti dell’APE e dire loro perché mi devono dare ascolto? L’ho
fatto esattamente zero volte. Mai.»
«Ilus» interloquì Naomi.
«Vuoi dire quando quel tizio ne ha ucciso un altro in mezzo alla strada e poi ha
bruciato vivo un gruppo di persone?»
Naomi sospirò. «Sì. Allora.»
Bobbie flesse le mani, poi le appoggiò con il palmo contro il display sul tavolo.
Il monitor si accese per un momento, aspettando un comando, poi tornò a
spegnersi quando non ne arrivò nessuno. Dalla soglia giunsero alcune voci
soffocate. Una donna dall’accento cinturiano che chiedeva qualcosa riguardo alle
sedie. Un uomo che rispondeva a voce troppo bassa per distinguere le parole.
«Io sono stata in stanze come questa, in passato» disse Bobbie. «Lavoro politico.
Un sacco di piani diversi e nessuno che dica ad alta voce quello che pensa
davvero.»
«Sì?» la incitò Holden.
«Era uno schifo.»
La Rocinante aveva decelerato verso Tycho più energicamente di quanto fosse
pianificato, consumando la velocità che avevano accumulato nella battaglia e
schiacciandoli tutti contro i sedili con un po’ più forza del solito, come una
malattia, o rammarico. Holden aveva tenuto una piccola cerimonia nella
cambusa durante la quale avevano condiviso tutti qualche ricordo di Fred
Johnson e il loro cordoglio. Gli unici che non avevano parlato erano stati Amos,
che aveva continuato a sfoggiare il suo sorriso cordiale e privo di significato, e
Clarissa, che aveva la fronte aggrottata per la concentrazione come se quello
fosse stato un enigma che cercava di risolvere.
Quando la cosa era finita e si erano dispersi, Holden aveva visto Alex e Sandra
Ip andarsene insieme, ma non aveva avuto il tempo o il morale abbastanza alto
per preoccuparsi della fraternizzazione. Ogni ora che passava li aveva portati
qualche migliaio di chilometri più vicini a Tycho e alla riunione organizzata là, e
lui aveva passato tutto il tempo libero chiuso nella sua cabina a scambiare
messaggi attraverso il vuoto del sistema. Con Michio Pa. Con Drummer su
Tycho. Con un uomo di nome Damian Short, che aveva preso le redini di Ceres.
Ma soprattutto con Chrisjen Avasarala.
In ogni lunga, pesante giornata, aveva scambiato messaggi con la Luna.
Lunghe prediche da parte di Avasarala su come condurre una riunione, come
presentare sé stesso e le sue argomentazioni e, cosa più importante, come
ascoltare quello che gli altri dicevano o non dicevano. Gli aveva mandato dossier
su tutti i più importanti elementi dell’APE che sarebbero stati presenti: Aimee
Ostman, Micah al-Dujaili, Liang Goodfortune, Carlos Walker. Essi contenevano
tutto quello che Avasarala sapeva di loro... chi era la loro famiglia, che cosa
avevano fatto le loro fazioni all’interno dell’APE e cosa lei sospettava che
avessero fatto. La profondità di quel background era sopraffacente, con lealtà di
gruppo che si intrecciavano e separavano, insulti personali che influenzavano
accordi politici, e accordi politici che modellavano i rapporti. E insieme a tutto
questo, Avasarala gli aveva riversato negli orecchi le introspezioni distillate da
un’intera esistenza di vita politica finché lui se ne era sentito tanto ubriaco da
avere quasi la nausea.
La forza per sé stessa è soltanto bullismo, la capitolazione da sola è un invito a farsi fottere.
Sopravvivono solo le strategie mescolate. Tutto è personale, ma questo lo sanno anche loro.
Possono fiutare un atteggiamento compiacente come se fosse una scoreggia. Se li tratterai come
se fossero uno scrigno del tesoro per cui se riuscirai a manovrarli nel modo giusto otterrai la
politica che vuoi, sarai fottuto in partenza. Si faranno un’idea sbagliata di te, quindi sii pronto
a sfruttare la cosa.
Era intenzionato a entrare infine in quella stanza delle riunioni, su Tycho,
avendo una piccola versione semplificata di Avasarala che gli viveva in fondo
alla mente, e gli era parso di svolgere un decennio di lavoro nell’arco di pochi
giorni, perché di questo si era trattato. Era arrivato al punto in cui non riusciva
né a dormire né a stare sveglio, e quando infine avevano raggiunto la Stazione di
Tycho era stato difficile determinare se era più forte la paura o il sollievo.
Era stato strano camminare per l’anello abitativo di Tycho per la prima volta
dopo il loro ritorno. Tutto era assolutamente familiare: la schiuma pallida delle
pareti, l’odore leggermente aspro dell’aria, il suono della musica bhangra che
giungeva da qualche lontana stanza di lavoro... ma adesso tutto significava anche
qualcosa di diverso. Tycho era stata la casa di Fred Johnson, solo che adesso
non lo era più. Holden aveva continuato a essere tormentato dalla sensazione
che mancasse qualcosa, per poi ricordarsi di chi si trattasse.
Drummer aveva vissuto il suo lutto in privato. Quando li aveva scortati nella
stazione, lo aveva fatto come il capo della sicurezza che era stata prima: attenta,
consapevole e pratica. Li aveva incontrati ai moli con un convoglio di carrelli,
ciascuno con un paio di guardie armate, e questo non aveva fatto sentire meglio
Holden.
«Allora, chi comanda adesso?» aveva chiesto, quando si erano fermati vicino
alla paratia che contrassegnava la sezione amministrativa.
«Tecnicamente, Brendon Tycho e un consiglio amministrativo» aveva risposto
Drummer. «Solo che in prevalenza sono sulla Terra o sulla Luna. Non sono mai
stati qui, hanno sempre preferito tenersi le mani pulite. Noi siamo qui, perciò
finché non verrà qualcuno a opporsi, continuiamo a gestire le cose.»
«Noi?»
Drummer aveva annuito e il suo sguardo si era fatto un po’ più duro, Holden
non aveva saputo stabilire se quello che c’era in loro era dolore o rabbia.
«Johnson voleva che tenessi d’occhio questo posto finché non fosse tornato, ed
è quello che intendo fare.»
Avrebbero dovuto esserci quattro persone ad aspettarlo.
Ne trovò cinque.
Riconobbe tutti i volti che Avasarala lo aveva preparato a fronteggiare. Carlos
Walker, ampio di spalle e di viso, ancora più basso di Clarissa, con una strana
aria immota. Aimee Ostman, che sarebbe potuta passare per un’insegnante di
scienze delle medie, ma era responsabile di più attacchi contro bersagli militari
dei pianeti interni di tutti gli altri messi insieme. Liang Goodfortune, che Fred
era riuscito ad attirare a quel tavolo solo offrendogli l’amnistia per sua figlia,
un’ex terrorista dell’APE che era ancora rinchiusa in una prigione della Luna dove
i detenuti erano conosciuti solo in base al numero. Micah al-Dujaili, con il suo
grasso naso da ubriacone solcato di vene rosse, che aveva trascorso metà della
vita a coordinare scuole libere e cliniche mediche in tutta la Fascia, e il cui
fratello era stato il capitano della Witch of Endor quando la Marina Libera l’aveva
distrutta.
La quinta persona aveva i capelli bianchi di un vecchio, le guance butterate e
un sorriso deferente che era quasi di scusa, ma non del tutto. Holden lo
riconobbe, ma non seppe dire dove lo avesse visto. Cercò di mantenere la sua
espressione da poker, ma il quinto uomo attraversò quella maschera senza
neppure dare l’impressione di rendersi conto della sua presenza.
«Anderson Dawes» si presentò. «Non credo che ci siamo mai incontrati di
persona, ma Fred mi ha parlato spesso di lei. E poi, naturalmente, c’è la sua
reputazione...»
Mentre Holden stringeva la mano all’ex governatore della Stazione di Ceres,
nonché membro della cerchia interna di Marco Inaros, la sua mente stava
lavorando a ritmo serrato.
«Ho preferito non annunciare la mia presenza» continuò Dawes. «Tycho è un
posto pericoloso per un uomo nella mia posizione. Facevo affidamento su Fred
perché garantisse per me, dato che abbiamo lavorato insieme per molti anni. Mi
è dispiaciuto sapere cosa gli è successo.»
«È una perdita» replicò Holden. «Fred era un brav’uomo, sentirò la sua
mancanza.»
«Come faremo tutti» replicò Dawes. «Spero non le dispiaccia se sono arrivato
senza farmi annunciare. Aimee mi ha contattato quando ha deciso di venire, e le
ho chiesto di permettermi di accompagnarla.»
Bene, splendido, molta brigata vita beata, pensò Holden, ma la piccola
versione di Avasarala nella sua mente si accigliò. «Mi fa piacere la sua presenza
qui, ma non può partecipare a questa riunione.»
«Posso garantire per lui» intervenne Aimee Ostman.
Holden annuì e cercò di immaginare cosa avrebbe detto Avasarala, ma quella
che gli rispose fu la voce vecchia e quasi dimenticata di Miller. «C’è un modo in
cui facciamo le cose, ma non è questo. Spero non le dispiaccia aspettare fuori,
Mr Dawes. Naomi, potresti controllare che il nostro amico trovi un posto
confortevole dove aspettare?»
Naomi venne avanti e Dawes spostò il proprio peso all’indietro, sorpreso.
Questa è casa tua, disse Avasarala, nella mente di Holden. Se non ti rispettano qui, non
ti rispetteranno da nessuna parte. Dawes raccolse il terminale palmare e una tazza di
ceramica bianca, salutò Holden con un cenno del capo e un sorriso teso, e se ne
andò. Holden prese posto a sedere, grato per la presenza solida e incombente di
Bobbie al suo fianco. Aimee Ostman aveva le labbra pressate in una linea sottile.
Se cercate reciproco rispetto, potete cominciare chiedendo il permesso prima di invitare altre
persone alle mie riunioni segrete. Pareva una cosa scortese da dire ad alta voce.
«Se cercate reciproco rispetto, potete cominciare chiedendo il permesso prima
di invitare altre persone alle mie riunioni segrete.»
Aimee Ostman si schiarì la gola e distolse lo sguardo.
«D’accordo» proseguì Holden. «Questa doveva essere la riunione di Fred
Johnson, ma lui se n’è andato. So che siete venuti tutti qui fidandovi della sua
parola e della sua reputazione, e so che siete tutti preoccupati a causa di Marco
Inaros e della Marina Libera, ma so anche che questa è la prima volta che uno
qualsiasi di voi mi incontra e che posso non riscuotere tutta la vostra fiducia.»
«Sei James Holden» interloquì Liang Goodfortune, in un tono che significava
‘È ovvio che non riscuoti tutta la nostra fiducia’.
«Mi sono preso la libertà di organizzare un’introduzione» riprese Holden,
passando il messaggio dal terminale palmare ai monitor sul tavolo.
Michio Pa apparve su ciascuno di essi, con il ponte della Connaught che
spiccava luminoso alle sue spalle. «Amici» disse. «Come sapete, non molto
tempo fa ero parte della cerchia interna della Marina Libera, e quello che ho
visto ha convinto sia me sia molti di quanti erano ai miei ordini che Marco
Inaros non è il capo di cui la Fascia ha bisogno. Quando la Marina Libera ha
abbandonato il suo intento originale di supportare e ricostruire la Fascia,
impedendo all’industria che le dà di che vivere di spostarsi sui nuovi mondi
coloniali, io sono rimasta fedele a esso. Voi tutti lo sapete. Questo impegno mi è
costato la perdita di alcuni amici, per esso ho rischiato la mia vita e quella delle
persone che più mi stanno a cuore. Presto servizio con i veri eroi della Fascia. Le
mie credenziali sono irreprensibili.»
Bobbie diede di gomito a Holden e accennò con la testa a Micah al-Dujaili,
che aveva gli occhi lucidi di pianto. Holden annuì per indicare che lo aveva
notato anche lui.
«Da quando mi sono staccata dalla Marina Libera, ho lavorato con Fred
Johnson per elaborare un piano completo che garantisse la sicurezza e il
benessere della Fascia.» Pa fece una pausa e trasse un profondo respiro. Holden
si chiese se lo faceva ogni volta che mentiva, o solo quando si trattava di una
balla colossale. «Questa riunione doveva servire a presentarvi quel piano e il
capitano Holden, che ne è parte integrante. Purtroppo, se da un lato è riuscito a
vedere una via per andare avanti, Fred Johnson non è riuscito a completare il
viaggio con noi. Come cittadina dedita a servire la Fascia e la nostra gente, vi
chiedo di ascoltare il capitano Holden e poi di unirvi a noi per un futuro vitale.
Grazie.»
Ogni singola parte di quella dichiarazione era il risultato di un negoziato.
Holden aveva perso il conto del numero di volte in cui avevano mercanteggiato
avanti e indietro, con Pa che chiedeva qualcosa, Avasarala che gli spiegava cosa
in effetti significasse e lui che faceva da ponte fra loro due come un messaggero
ma in realtà imparava qualcosa di più a ogni passo. Pa avrebbe acconsentito a
dire che avevano lavorato all’elaborazione di un piano, ma non a un piano. Era
disposta a dire che Holden ne era parte integrante ma non che ne era la figura
centrale. L’intero procedimento era stato un condensato di tutto ciò che Holden
odiava... fare i pignoli sui dettagli e le sfumature, discutere sulla formulazione di
una frase e sull’ordine in cui le informazioni venivano presentate, mettere
insieme qualcosa che, pur non essendo completamente falso, era modellato in
modo da essere frainteso. La politica al suo livello più politico.
Osservò le quattro facce sedute intorno al tavolo e cercò di valutare se la cosa
aveva funzionato. Aimee Ostman appariva pensosa e acida. Micah al-Dujaili si
stava ricomponendo, commosso dal ricordo del fratello che si era sacrificato per
la causa. Carlos Walker, immobile e silenzioso, indecifrabile come un linguaggio
in un alfabeto sconosciuto. Liang Goodfortune si schiarì la gola e ridacchiò.
Cercheranno di metterti un po’ in imbarazzo per vedere come reagisci. Non tentare di ripagarli
nella stessa moneta o più tardi cercheranno di rincarare la dose per evitare un confronto.
Rimani concentrato sul punto fondamentale. Naomi rientrò e si venne a sedere al suo
fianco.
«Perdere Fred è duro perché è una cosa triste» disse Holden. «Lui era un
amico. Questo però non cambia la situazione. Lui ha elaborato un piano, ed è
mia intenzione seguirlo. Fred ha chiamato ciascuno di voi perché riteneva che
aveste qualcosa da offrire al suo piano e anche qualcosa da guadagnare da esso.»
Gli occhi di Carlos Walker si mossero, come se per la prima volta avesse
sentito qualcosa di interessante, e Holden gli rivolse un cenno del capo che era
un gesto volutamente ambiguo. Poi si girò verso Bobbie, perché ora toccava a
lei prendere la parola.
«In questa cosa ci sarà un aspetto militare» cominciò lei. «Non potremo uscire
da questa situazione senza correre qualche rischio, ma siamo sicuri che le
ricompense siano nettamente superiori.»
«E lo dici come rappresentante di Marte?» chiese Aimee Ostman.
«Il sergente Draper ha lavorato come liaison fra la Terra e Marte in parecchie
occasioni» rispose Holden. «Oggi è qui come membro del mio equipaggio.»
Stranamente, Bobbie parve farsi più tesa in reazione a quelle parole,
controllarsi e sedere più eretta. Quando riprese a parlare, il suo tono era quasi
identico, non era più alto o più duro, ma aveva una nuova intensità. «Ho
esperienza di combattimento. Ho guidato squadre in battaglia. La mia opinione
professionale è che la proposta messa insieme da Fred Johnson è la miglior
speranza di stabilità a lungo termine e di sicurezza per la Fascia.»
«Trovo difficile crederlo» obiettò Aimee Ostman. «A me sembra che il
capitano, qui, si prenda tutte le donne, e che Inaros si prenda tutte le stazioni.»
Micah al-Dujaili controbatté in tono secco prima che Holden potesse
rispondere. «A me sembra che Inaros non sappia conservare il territorio più di
quanto riesca a tenersi le donne.»
«Smettetela con questa stronzata delle ‘donne’» intervenne Carlos Walker. La
sua voce era sorprendente, acuta e musicale, una voce da cantante nella quale
l’accento proprio di un cinturiano era quasi assente. «È una cosa infantile. Lui ha
perso anche Dawes. Ha perso tutti i presenti in questa stanza ancor prima di
cominciare, altrimenti nessuno di noi sarebbe qui. Inaros ha una piaga aperta
dove ci dovrebbe essere il suo cuore, e questo lo sappiamo tutti. Quello che
voglio sentire è come intendete cambiare la dinamica attuale. Ogni volta che vi
siete mossi verso di lui, vi ha costretti a spingervi troppo oltre. Presto la vostra
flotta congiunta si sarà sparpagliata troppo. È per questo che ci volete? Per
usarci come carne da cannone?»
«Non sono ancora pronto a discutere i dettagli» replicò Holden. «Prima ci
sono questioni di sicurezza di cui ci dobbiamo occupare.»
«Perché ci avete fatti venire qui se non è stato per esporci le vostre
intenzioni?» domandò Aimee Ostman.
Liang Goodfortune la ignorò. «Medina» disse. «Intendete puntare su Medina.»
Qualcosa andrà storto. Succede sempre. Vedranno qualcosa che non volevi vedessero.
Piazzeranno una trappola che non sapevi di doverti aspettare. Quelle sono persone intelligenti e
ognuna di loro ha un suo piano personale. Quando succederà... non se, quando... la cosa
peggiore che puoi fare è cedere al panico. La seconda cosa peggiore è farti coinvolgere. Holden
si protese in avanti.
«Mi piacerebbe dare a tutti voi l’opportunità di consultarvi riguardo a quanto si
è detto prima di parlare delle opzioni tattiche» disse. «Ho parlato con il capo
della sicurezza. Se volete restare qui alla stazione siete i benvenuti, oppure potete
tornare alle vostre navi. Sentitevi liberi di discutere fra voi o con chi pensate
possa essere utile. Potete accedere al sistema di comunicazione della stazione
senza essere controllati, ma se preferite usare il sistema di bordo delle vostre
navi, le comunicazioni non saranno registrate o bloccate. Se siete interessati a
farvi coinvolgere in questa cosa, ci troveremo di nuovo qui fra venti ore. A quel
punto sarò pronto a fornire tutti i dettagli, ma mi aspetterò in cambio la vostra
lealtà e il vostro impegno. Se non vi sentite a vostro agio nel dare entrambe le
cose, potete lasciare in tutta sicurezza Tycho in qualsiasi momento di quelle
venti ore.»
«E dopo?» chiese Carlos Walker.
«Dopo si tratterà di un territorio del tutto diverso» rispose Holden. «Da quel
momento faremo le cose in maniera differente.»
Lui, Naomi e Bobbie si alzarono in piedi, e gli altri quattro fecero altrettanto
un momento più tardi. Holden osservò come ciascuno di loro salutò gli altri o
omise di farlo. Quando le porte si chiusero alle spalle dei quattro emissari,
lasciandolo solo con Naomi e con Bobbie, si accasciò sulla sedia.
«Dannazione» disse. «Come riesce lei a fare questo per tutto il giorno, ogni
giorno? Sono stati al massimo una ventina di minuti, dall’inizio alla fine, e sento
già il bisogno di immergere il cervello nella candeggina.»
«Ti ho detto che era uno schifo» replicò Bobbie, protendendosi in avanti sul
tavolo. «Sei certo che sia una buona idea lasciarli circolare liberamente per la
stazione? Non sappiamo con chi parleranno.»
«Non potremmo comunque fermarli,» replicò Naomi «e in questo modo
appare come un gesto di fiducia da parte nostra.»
«Una recita, quindi, e un intrigo di palazzo» sintetizzò Bobbie.
«Solo per ora» replicò Holden. «Solo finché non abboccano. Una volta che si
saranno impegnati potremo passare al nostro piano.»
«Il piano di Johnson» precisò Bobbie. E un momento più tardi chiese: «Allora,
detto fra noi, Fred Johnson aveva davvero un piano?»
«Sono sicuro di sì,» rispose Holden, accasciandosi su sé stesso «ma non so
quale fosse.»
«Allora cos’è questo che stiamo vendendo loro?»
«Diciamo che lo sto inventando io.»
34
Dawes

Non ci fu camera ardente o omaggio alla salma. Fred Johnson, il Macellaio


della Stazione di Anderson, aveva chiesto che il suo corpo venisse riciclato nel
sistema della Stazione di Tycho. Acqua che era stata il suo sangue probabilmente
usciva già dai rubinetti in tutta la stazione. Il calcio delle sue ossa sarebbe
rientrato nel ciclo alimentare nelle vasche idroponiche. I lipidi e le proteine più
complessi avrebbero impiegato più tempo a diventare humus per le fattorie di
funghi. Fred Johnson, come tutti i morti prima di lui, si era suddiviso nelle sue
componenti, sparpagliato ed era rientrato nel mondo, cambiato e irriconoscibile.
Invece, alcune sue immagini stampate erano appese sulla parete della cappella.
Un suo ritratto come colonnello in servizio sulla Terra. Una sua immagine di
uomo più maturo, dai lineamenti ancora forti ma con un senso di stanchezza
che gli affiorava nello sguardo. E una che lo ritraeva come un ragazzino
assurdamente giovane... di non più di dieci anni... con un libro in una mano e
l’altra che si agitava in un saluto, con un enorme sorriso infantile sul volto. Gli
orecchi erano i suoi, la spaziatura fra gli occhi era quella giusta, ma Dawes
dovette comunque sforzarsi per credere che quel bambino felice nel crescere
fosse diventato l’uomo complesso che aveva conosciuto, considerato un amico e
tradito.
La commemorazione era allestita in una piccola cappella, così aggressivamente
neutra rispetto a tutte le confessioni che era difficile determinare in cosa fosse
diversa da una sala d’aspetto. Invece di icone religiose c’erano sobrie forme
astratte. Un cerchio d’oro, un quadrato verde bosco. Simboli volutamente vuoti
destinati volutamente a occupare il posto in cui ci sarebbe potuto essere
qualcosa di significativo. Il logo della Tycho Manufacturing, fuori nel corridoio,
aveva più significato di quei simboli.
I banchi erano di bambù trattato in modo da somigliare a un qualche tipo di
legno... frassino, o quercia o pino. Dawes aveva visto soltanto immagini di alberi
vivi e non avrebbe saputo distinguerli uno dall’altro, ma quel dettaglio dava un
po’ di spazio a un senso di solennità. Tuttavia, non si sedette. Camminò davanti
alle immagini di Fred Johnson, guardando occhi che non ricambiavano il suo
sguardo. Quel qualcosa che avvertiva nel petto, e che gli rendeva difficile
respirare, dava l’impressione di essere spesso e complicato.
«Avevo pronto un discorso» disse. La sua voce echeggiò un poco, con il vuoto
che le dava profondità. «Lo avevo ripassato bene. Ti sarebbe piaciuto. Era tutto
sulla natura della politica e il fatto che la cosa migliore dell’umanità è la nostra
capacità di cambiare per adeguarci all’ambiente. Noi siamo il modo in cui
l’universo si rimodella coscientemente. L’inevitabilità del fallimento e la gloria di
risollevarci dopo di esso.» Ebbe una risatina che suonava come un singhiozzo.
«Quello che intendevo davvero è che mi dispiace. Non mi dispiace soltanto di
aver appoggiato il cavallo sbagliato. Mi dispiace anche di quello, ma soprattutto
mi dispiace di averti compromesso nel farlo.»
Fece una pausa, come se Fred avesse potuto rispondere poi scosse il capo.
«Credo che il discorso avrebbe funzionato. Tu e io abbiamo tanta storia alle
spalle. Sembra strano. Un tempo sono stato il tuo mentore. Ecco... piedi
d’argilla. Sai com’è. Comunque, credo davvero che tu avresti visto il valore di
avermi di nuovo con te. Ma questo coglione di Holden? Hai scelto un momento
di merda per morire, amico mio.»
La porta si aprì ed entrò una giovane donna che indossava una tuta della
Stazione di Tycho sporca d’olio e un hijab verde scuro. Gli rivolse un cenno del
capo e prese posto su un banco, a testa china. Dawes indietreggiò dalle immagini
del morto. C’era altro che avrebbe voluto dire. A quanto pareva, ci sarebbe
sempre stato altro.
Sedette dal lato opposto della navata rispetto alla donna, intrecciò le mani in
grembo e chinò il capo. C’era una profonda mondanità nel dolore condiviso,
una serie di regole rigide come qualsiasi etichetta umana, ed esse non gli
permettevano di portare avanti la sua conversazione unilaterale. Non ad alta
voce, in ogni caso.
La Marina Libera avrebbe potuto essere... sarebbe dovuta essere... un
momento glorioso per la cintura. Inaros aveva creato per loro dal nulla un
esercito completo. A quel tempo, Dawes si era detto che i difetti di Inaros come
animale politico non erano un problema, erano addirittura un’opportunità.
Come membro della cerchia interna della Marina Libera, lui avrebbe potuto
esercitare la sua influenza, essere un creatore di re. Il costo era elevato, sì, ma le
ricompense erano incredibili. Una Fascia indipendente, liberata dai pianeti
interni. La minaccia della rete dei portali sotto controllo. Certo, Inaros era un
pavone che si faceva strada nella vita con il carisma e la violenza. Certo,
Rosenfeld aveva sempre avuto addosso un certo sentore di zolfo. Però Sanjrani
era intelligente e Pa era abile e devota alla causa. E se pure avesse detto di no,
tutto sarebbe comunque andato avanti senza di lui.
Questo era ciò che si era detto, come aveva giustificato tutto. La cosa migliore
sarebbe stata che qualcun altro, e non Inaros, si procurasse le navi. La seconda
migliore alternativa era che la cerchia ristretta dei consiglieri che lo avrebbero
controllato includesse anche lui. E qual era la terza?
Dopo l’abbandono di Ceres, per un po’ lui aveva continuato a recitare il ruolo
di statista anziano, anche quando la ribellione di Pa aveva reso impossibile
fingere che le cose proseguissero nel modo giusto. Quando Aimee Ostman lo
aveva trovato e gli aveva detto che Fred Johnson stava organizzando una
riunione su Tycho, quella gli era parsa un’opportunità per trattare la pace, se non
fra la terra e la Marina Libera, almeno con quel che rimaneva dell’APE. Era stato
il modo perfetto di sfruttare il suo rapporto con Fred per ottenere un posto al
tavolo.
Entrò un’altra donna che si andò a sedere accanto a quella con lo hijab. Due
uomini arrivarono insieme e presero posto in fondo. Era vicino il cambio di
turno, e la gente sarebbe passata a rendere omaggio al defunto nell’andare al
lavoro o nel tornare da esso. Dawes avvertì un senso di risentimento per il fatto
che interrompessero il suo momento di solitudine nella cappella. Era una cosa
irrazionale, e lo sapeva.
In ogni caso, Fred Johnson aveva reso chiari i suoi desideri, anche se non
aveva avuto intenzione di farlo, e lui gli doveva ancora qualcosa.
«È una fottuta stronzata, ecco cos’è» dichiarò Aimee Ostman. «James pinché
Holden può fottersi.»
Dawes sorseggiò il suo espresso e annuì. La prima mossa di Holden era stata
quella di umiliare Aimee, per ragioni che lui comprendeva. Tuttavia, per lei era
dura cominciare perdendo la faccia.
«Perdonalo» disse. «Io l’ho fatto, e dovresti anche tu.»
«Perché?»
Aimee Ostman si accigliò e si grattò il mento. Il suo alloggio sulla stazione era
ampio e lussuoso. Una parete era occupata interamente a uno schermo collegato
a una videocamera esterna, con una risoluzione tanto elevata che l’immagine
non era distinguibile da una finestra aperta sullo spazio. Il divano era di un
immacolato color crema, l’aria profumava di molecole volatili che imitavano il
sandalo e la vaniglia. Dawes accennò a tutto quanto con la sua tazzina.
«Guarda tutto questo» suggerì. «Una stanza degna di un ambasciatore. Di un
presidente.»
«E allora?»
«E allora lui l’ha data a te» replicò Dawes, bevendo un altro sorso. «L’idea era
quella di onorarti. L’appartamento migliore della stazione.»
«Ti ha sputato in faccia» sottolineò Aimee Ostman, puntandogli contro l’indice
e il medio come fossero stati la canna di una pistola. «Ti ha buttato fuori.»
Dawes scoppiò a ridere e scrollò le spalle, invitandola a fare altrettanto. Era
una cosa che gli rodeva l’anima, ma andava fatta. «Mi sono presentato senza
essere annunciato. È stato scortese da parte mia. Holden aveva pieno diritto di
agire così. Tu come ti saresti sentita se avessi portato lui nella stanza privata
dell’Apex senza prima avvertirti?»
Lei si accigliò, spostando lo sguardo in basso e verso sinistra. «Avrebbe dovuto
essere più cortese.»
«Forse, ma questo è un ruolo nuovo per lui.»
Aimee gli sedette di fronte e incrociò le braccia. Le nubi nel suo sguardo non
erano scomparse, e Dawes non si era aspettato che lo fossero. Però non erano
più neppure spesse nubi temporalesche. «Forse» concesse con riluttanza. «Però
non intendo rimanere. Non dopo questo.»
«Dovresti ripensarci» consigliò Dawes. «Se viene da Fred Johnson, il piano
sarà solido, e per te sarà meglio farne parte che restarne fuori.»
Lei grugnì, ma c’era un accenno di sorriso agli angoli della sua bocca. Quella
freccia era andata a segno. Dawes esercitò ancora un po’ di pressione per
sfruttare il vantaggio acquisito.
«Ci deve essere un adulto in quella stanza» disse. «Holden è un cucciolo, lo
sappiamo entrambi. Abbiamo bisogno di te là per impedirgli di mandare tutto
all’aria.»
«Holden è l’uomo più esperto del sistema» disse Dawes. «È stato su Medina.
L’ha oltrepassata ed è stato nelle colonie. Ha lasciato la Stazione di Eros prima
che si svegliasse. Ha combattuto per noi contro i pirati e ha svolto missioni
diplomatiche per nostro conto. La sua nave ha attraccato alla Stazione di Tycho
più che in qualsiasi altro posto dal giorno in cui l’ha rubata a Marte. Holden
lavora da anni con l’APE.»
«C’è APE e APE» ribatté Liang Goodfortune, svoltando a sinistra lungo il
corridoio in modo tale che Dawes dovette correre per mantenere il passo.
La Stazione di Tycho non aveva la stessa ampiezza e profondità di Ceres. Qui
tutti avevano un lavoro o vi potevano accedere. I bordelli avevano tutti una
licenza, le medicine provenivano tutte da un dispensario, il gioco d’azzardo era
tutto tassato. La stazione era però anche la casa di persone che vivevano
ribellandosi in modo quieto ai pianeti interni, e questo significava che anche qui
esisteva una sorta di mondo di mezzo. Quella era gente che lavorava per una
società terrestre ma che era fedele innanzitutto alla Fascia, quindi c’erano club
dove la musica aveva versi gridati nel dialetto dei cinturiani, dove cibi e bevande
non avevano origine in una qualche fattoria sotto un sole nudo, dove i giochi
erano shastash e Golgo invece di poker e biliardo. Liang Goodfortune si
integrava in tutto questo come se non se ne fosse mai andato.
«Lo era anche l’APE di Johnson» osservò Dawes. «Lui era un buon alleato.»
«Era utile, per essere un terrestre» replicò Liang Goodfortune. «Il che non è
dire molto. E Holden è esattamente lo stesso, un altro terrestre intorno a cui
raccoglierci? Non sei così ingenuo, Anderson. Holden ha lavorato per Johnson e
per la Terra.»
«Nell’interesse della Fascia» sottolineò Dawes. «La marina delle Nazioni Unite
lo ha buttato fuori prima che tutto questo cominciasse. Ha fatto la sua carriera
su un mercantile che trasportava acqua perché non riusciva a tollerare di essere
parte della Terra imperialista. Un coyo non può cambiare il posto dove è nato e
cresciuto, ma lui ha vissuto in assenza di gravità. La sua donna è una di noi.»
«Secondo te è fedele alla Fascia perché divide il letto con Naomi Nagata? O
non pensi forse che lei è infedele alla Fascia perché sta con un nanerottolo?
Questa è una lama a doppio taglio.»
«Holden sta portando avanti da solo una campagna di propaganda a favore
della Fascia» sottolineò Dawes, alzando la voce per farsi sentire al di sopra della
musica e del chiasso del night club.
«Il suo feed di antropologia dilettantesca? È una stronzata offensiva y
condiscendente» ribatté Liang Goodfortune.
«È dettata da buone intenzioni, ed è più di quanto abbia fatto altra gente nella
sua posizione. Holden è un uomo d’azione.»
Entrarono nella sala principale, dove le luci vorticavano intorno al bar e la
musica pulsava abbastanza forte da comprimergli i polmoni. Dawes dovette
protendersi fin quasi a sfiorare con le labbra l’orecchio di Goodfortune. «Credo
che né tu né io potremo trovare nel sistema qualcuno meglio preparato a
opporsi a Inaros. Puoi unirti alla sua causa oppure presentarti alla Marina Libera
con il cappello in mano e dichiararti pronto ad accettare gli avanzi della sua
tavola. Però fallo presto, perché sono pronto a scommettere tutto quello che ho
sul fatto che prima che tutto questo sia finito James Holden distruggerà Marco
Inaros, a costo di fargli guerra da solo.»
«Non può farcela da solo» disse Dawes, allargando le mani.
La Desiderata di Bhagavathi era la nave di Carlos Walker da trent’anni e
rispecchiava in ogni dettaglio il suo particolare senso estetico. Il rivestimento
antischeggiatura delle pareti era grigio, ma trattato in modo da intercettare la
luce in curve lisce che salivano e scendevano come le dune di un vasto deserto o
la pelle non proprio identificabile di corpi nudi. I sedili a smorzamento sul ponte
di comando non erano di un pratico colore grigio, ma di un bronzo scolpito che
non aveva niente a che vedere con il metallo e la ceramica di cui erano fatti. La
musica usciva dagli altoparlanti, tanto sommessa che avrebbe potuto essere
frutto della sua immaginazione: arpa e flauto e un tamburo secco e sibilante.
Quella non sembrava tanto una nave pirata quanto un tempio, e forse era un po’
di entrambi.
«Quella non è una discussione che dovrei fare con lui» replicò Carlos Walker,
porgendogli un bulbo per bere. Il whisky che inondò la bocca di Dawes quando
lo sorseggiò aveva un sapore ricco, profondo e complicato. Carlos Walker
sorrise, guardandolo mentre lo assaporava. «Sono venuto per rispetto nei
confronti di Johnson, ed è per questo che intendo rimanere, ma quel rispetto
non si estende al morire per svolgere incarichi per conto di Holden. Hai detto tu
stesso che Medina è troppo ben difesa.»
«Ho detto che è ben difesa» precisò Dawes.
«I cannoni a rotaia distruggeranno qualsiasi nave che attraversi il portale.»
«Forse,» convenne Dawes «però tieni a mente che questo è il piano di Fred
Johnson, e che Fred aveva accesso a Michio Pa, e a tutto quello che lei sa
riguardo alle difese della stazione.»
Carlos Walker esitò, anche se in lui questo si esprimeva soltanto con una pausa
di silenzio leggermente più lunga. Poi scosse il capo. «C’è un rischio a lasciare
che Marco Inaros e la Marina Libera si sfiniscano da soli, e c’è pericolo
nell’affrontarli, ma una sola delle due cose richiede che mandi la mia nave
incontro al fuoco dei cannoni a rotaia. Non posso acconsentire a farlo.»
«Non tutte le battaglie si vincono sul campo» osservò Dawes. «Rispetto la tua
cautela, ma Holden non ti ha chiesto di essere l’avanguardia. Non ti ha neppure
chiesto di attraversare il portale dell’anello. Non partire dal presupposto che lui
pretenda eroismo e sacrificio. Conosco la sua reputazione, ma nessuno
sopravvive alle cose a cui lui è sopravvissuto senza avere una profonda capacità
di gentilezza e di lungimiranza. E soprattutto di strategia. A volte Holden si
presenta come un inetto, è vero, ma è un pensatore. Quello che sta facendo
viene tutto dalla sua mente.»
«Credi che lui non sia infuriato?» domandò Dawes. «Holden è qui per avere
vendetta, tanto quanto te. È un uomo che agisce d’istinto, con il cuore, prima
che la ragione si metta di mezzo.»
Erano soli nella cappella, tranne per le immagini di Fred Johnson. Sembrava
sbagliato portare discorsi di violenza e di vendetta perfino in un luogo di culto
blando e neutro come quello, ma il cordoglio si presentava sotto ogni sorta di
vesti, e quello era cominciato come un lento momento di rispetto per i morti.
Micah al-Dujaili era chino in avanti, con le braccia appoggiate sullo schienale del
banco davanti al suo. Aveva gli occhi iniettati di sangue.
«Carl mi ha parlato» raccontò. «Ha detto che non poteva rimanere passivo
mentre la Fascia pativa la fame. E Inaros lo ha ucciso per questo.»
«Ha cercato di uccidere anche la moglie di Holden» osservò Dawes. Sapeva
che non era del tutto vero, ma quello era un momento che richiedeva ampie
pennellate. «Non perché fosse una minaccia, o avesse una qualche sorta di
valore strategico, ma solo perché lo aveva messo in imbarazzo e poteva
ucciderla.»
«Inaros non è quello che pensavo che fosse. Tutti continuano a definirlo un
eroe. Guardano la Terra, poi guardano Marte, e applaudono. Applaudono
ancora.»
«Alcuni lo fanno ancora» convenne Dawes. Era vero. In tutto il sistema quelli
che amavano Inaros erano tanti quanti quelli che gli avevano volto le spalle, o
forse erano anche di più. «Non si tratta di lui, però, ma dell’idea che hanno di
lui. L’uomo che ha difeso la Fascia. Solo che quell’uomo non è ancora apparso.
Pensano solo che lo abbia fatto.»
«Questo Holden gli farà del male?»
«Ogni volta che Holden respira, Marco Inaros soffre» ribatté Dawes, e quella
frase probabilmente si avvicinava alla verità quanto qualsiasi altra cosa che aveva
detto negli ultimi due giorni.
Micah annuì, poi si alzò in piedi, barcollando nel suo stato di ubriachezza, e
gettò le braccia intorno al collo di Dawes, un abbraccio che si prolungò fino a
farlo sentire a disagio. Cominciava a domandarsi se l’altro uomo stesse per
perdere i sensi quando Micah si trasse indietro, eseguì uno scattante saluto
dell’APE e uscì dalla cappella asciugandosi gli occhi con il lato interno del polso.
Dawes si rimise a sedere.
Era a metà di un turno e per lui era quasi mezzanotte. Le tre immagini di Fred
Johnson decoravano ancora la parete frontale: il bambino, l’adulto e l’uomo che,
del tutto inconsapevolmente, era alla fine di ogni sua lotta. Fred Johnson
com’era stato. Il modo in cui lui lo ricordava meglio era legato e furente, la
prima volta che si erano incontrati, e quel bagliore deluso nei suoi occhi quando
si era reso conto che Dawes non lo avrebbe ucciso.
Avevano combattuto dannatamente insieme, uno contro l’altro e fianco a
fianco, e poi di nuovo uno contro l’altro. Uno scontro di imperi, anche se lui
non era più sicuro di quali fossero quegli imperi. Tutto quello che avevano fatto
li aveva portati a quel punto, uno morto e l’altro che viveva una vita che a stento
riconosceva e comprendeva.
L’umanità non era cambiata, ma la sua vita sì. La venalità e la nobiltà, la
crudeltà e la grazia erano ancora tutte là, erano solo i particolari che lui sentiva
scivolargli via di sotto i piedi. Tutto quello per cui aveva lottato sembrava
appartenere a un uomo diverso in un tempo differente. Ecco, era nella natura di
quando si passava il testimone, e non c’era nulla per cui rattristarsi. Però era
triste.
«Ecco, adesso ce l’hai» disse all’aria vuota. «L’ultimo hurrah del creatore di re.
Spero dannatamente che sapessi quello che facevi, e che James Holden sia
quello che tu pensavi potesse essere.»
Quasi un’ora più tardi la porta si aprì ed entrò un giovane. Fitti riccioli scuri,
occhi caldi e ben distanziati, baffi sottili. Dawes lo salutò con un cenno e l’uomo
ricambiò. Per un momento rimasero entrambi in silenzio.
«Perdón» disse poi l’uomo. «Non voglio mettere fretta. È solo che adesso
dovrei tirare giù queste immagini. È... è programmato così.»
Dawes annuì e gli segnalò che poteva procedere. All’inizio l’uomo avanzò con
esitazione, poi arrivò a un punto in cui il lavoro era soltanto lavoro. Il caporale
venne rimosso per primo, poi il capo dell’APE. Il ragazzino con il libro e il
sorriso fu l’ultimo.
C’era stato un momento in cui quel ragazzino aveva salutato la macchina
fotografica, decenni prima, senza sapere che quello era anche il suo ultimo gesto.
Adesso il ragazzino e il Macellaio erano entrambi scomparsi. L’uomo tirò giù
l’immagine, l’arrotolò con le altre e le infilò in un tubo di economica plastica
verde.
Nell’uscire si fermò. «Sta bene? Ha bisogno di qualcosa?»
«Sto bene» garantì Dawes. «Rimarrò qui ancora per un po’, se non è un
problema.»
35
Amos

Il sesso era una di quelle cose in cui il modo in cui la cosa avrebbe dovuto
funzionare e come invece funzionava per lui non sempre combaciavano bene.
Sapeva tutte quelle cose sull’amore e l’affetto, e gli sembrava solo un mucchio di
balle. Capiva perché le inventavano, e capiva anche come la gente ne parlava, ed
era in grado di farlo anche lui, giusto per integrarsi.
Nella pratica, riconosceva che c’era potere nell’essere con un altro corpo
vivente, ed era una cosa che rispettava. La pressione si accumulava nel corso
delle settimane o dei mesi in accelerazione, ed era come una sorta di fame o di
sete, solo che non ti uccideva se la ignoravi. Lui non la contrastava mai. Tanto
per cominciare, farlo era stupido, e comunque non era d’aiuto. Si limitava a
registrare la sensazione e a tenerla d’occhio, ne ammetteva la presenza come
avrebbe fatto con qualsiasi altra cosa potente e pericolosa che condivideva il suo
spazio lavorativo.
Quando poi raggiungevano un porto abbastanza grande da avere un bordello
autorizzato, andava là, non perché fosse sicuro ma piuttosto perché si trattava di
un ambiente di cui conosceva tutti i pericoli, era in grado di individuarli e di non
essere preso di sorpresa. Là faceva quello che andava fatto e in seguito la cosa
non lo disturbava più per qualche tempo.
Forse il meccanismo era diverso per tutti gli altri, ma per lui così funzionava.
Il fatto era che di solito, dopo, riusciva a dormire. A dormire davvero, di un
sonno profondo e senza sogni da cui gli era difficile emergere finché non era del
tutto riposato. Adesso invece perlopiù continuava a fissare il soffitto. L’ultima
ragazza, quella chiamata Maddie, era raggomitolata accanto a lui, con le lenzuola
drappeggiate intorno alle gambe e un braccio sotto al cuscino, e russava
leggermente. Uno dei vantaggi del prendere una stanza per tutta la notte era che
ne assegnavano una tranquilla, sul retro. Maddie era una ragazza che aveva
usato, e da cui era stato usato, altre volte nelle occasioni in cui la Roci era stata su
Tycho, e gli piaceva nella misura in cui gli poteva piacere chiunque non
appartenesse alla sua tribù. Il fatto che si sentisse al sicuro nel dormire accanto a
lui gli generava un senso di calore in un’area dello stomaco che di solito
rimaneva fredda.
Aveva un piccolo spazio fra i denti anteriori e la pelle più pallida che lui avesse
mai visto. Sapeva arrossire a comando, il che era un trucco notevole, e faceva
quella vita da quando era una ragazzina, da prima che fosse venuta su Tycho a
lavorare in modo legale. L’infanzia di Amos nel campo del mercato illegale del
sesso significava che avevano un contesto comune che gli rendeva confortevole
parlare con lei, prima e dopo, e Maddie sapeva che lui non avrebbe provato a
rifilarle quelle stronzate intese a salvarle l’anima, discorsetti come ‘Tu sei meglio
di così’. Nello stesso modo, non avrebbe cominciato a darle della puttana e a
picchiarla per un senso di vergogna, come facevano alcuni clienti. Gli piaceva
fare conversazione spicciola, dopo, e di solito il modo in cui lei russava
leggermente non gli impediva di addormentarsi.
Solo che adesso non era questo a tenerlo sveglio. Sapeva di cosa si trattava.
Si alzò dal letto in silenzio per non svegliarla. L’aveva già pagata e aveva
saldato la stanza per tutta la notte, e siccome non lo avrebbero certo rimborsato
se fosse andato via in anticipo, tanto valeva lasciarla riposare. Raccolse i vestiti e
sgusciò nel corridoio per infilarseli. Un tizio che se ne stava andando passò
mentre lui si infilava la tuta, incontrò fugacemente il suo sguardo con aria
imbarazzata e gli rivolse un breve cenno del capo. Amos rispose con il suo
amabile sorriso e si spostò per permettere al tizio di passare prima di tirare su la
cerniera della tuta e di avviarsi verso i moli.
La Roci aveva trascorso più tempo su Tycho che in qualsiasi altro porto, di
solito per essere rimessa in sesto dopo la cosa più recente che era andata storta.
Non era una casa... nessun posto al di fuori della Roci lo era... ma era un posto
abbastanza familiare da permettergli di percepire le differenze. Si trattava del
modo in cui la gente parlava nei corridoi, del genere di immagini trasmesse dai
notiziari. Aveva visto com’era per un posto subire un cambiamento che sarebbe
rimasto tale. La Terra era stata così. E adesso Tycho. Era come una sorta di
grande onda lenta che era sbucata dal nulla là dove le rocce avevano colpito la
Terra e si stava allargando attraverso ogni posto dove ci fossero esseri umani.
Su Tycho c’erano persone che lo riconobbero a loro volta, anche se non era
come succedeva con Holden, che non poteva più attraversare una stanza senza
che la gente lo fissasse, lo indicasse e lo ricoprisse di attenzioni. Aveva la
sensazione che prima o poi quello sarebbe diventato un problema, ma era una
cosa a cui non sapeva come rimediare. A questo punto, non sapeva più bene
neppure cosa sottintendesse quel comportamento.
Tornato alla nave, si diresse all’officina meccanica e alla sua postazione di
lavoro. La Roci gli disse che Holden era nella cambusa con Babs, che Naomi
stava riposando e che lo Zuccherino era al lavoro, impegnata a sostituire quei
sigilli dei portelli di cui avevano parlato. Annotò sul suo piano di lavoro di
effettuare un controllo quando lei avesse finito, anche se sapeva che sarebbe
stato tutto a posto. Lo Zuccherino era risultata essere una lavoratrice eccellente.
Intelligente, concentrata, pareva le piacesse aggiustare le cose e non si lamentava
mai per le tensioni della vita di bordo. Supponeva che fosse una questione di
prospettiva. Perfino la nave più merdosa doveva essere migliore della migliore
cella della fossa, se non altro perché eri tu a scegliere di stare su di essa.
Si assestò sul sedile, richiamò a schermo i rapporti tecnici e li esaminò come
aveva già fatto in precedenza. Non che si aspettasse di trovare qualcosa di
diverso, voleva solo vedere se avrebbe avuto qualche reazione quando fosse
arrivato alla parte strana. Ci arrivò e studiò i dati per qualche tempo. I siluri che
Bobbie aveva lanciato. Le loro traiettorie. I log di errore. Ed ebbe di nuovo la
stessa reazione. Era un tarlo che lo rodeva.
Spense la postazione di lavoro.
«Ehi» salutò lo Zuccherino, arrivando dalla sezione ingegneria con un
serbatoio per polimeri ARL appeso alla spalla.
«Ehi» rispose Amos. «Come sta procedendo?»
Lei era ancora troppo magra, tanto da nuotare nella taglia più piccola di tuta
standard. Avevano dovuto modificare il codice per convincere la Roci che a
bordo ci fosse qualcuno tanto minuto. Il lavoro però sembrava farle bene alla
salute.
Lei aprì un armadietto di stoccaggio, vi infilò il serbatoio e si lasciò cadere sul
suo sedile. «Ho sostituito i sigilli, ma non mi piace il portello interno della
camera di pressurizzazione della baia di carico. Non dà errore, ma
l’alimentazione ha un problema.»
«Un problema serio? Oppure un problema che rientra nei parametri ma ti
irrita?»
«La seconda che hai detto» replicò lo Zuccherino, e sorrise. Il suo sorriso però
svanì in fretta. «Stai bene?»
Amos sorrise. «Perché me lo chiedi?»
«Perché non stai bene» ribatté lei.
Amos si appoggiò all’indietro e cambiò posizione per stiracchiare il collo. Una
parte di lui voleva parlarle dei siluri, ma non riusciva a immaginare Holden fare
una cosa del genere, e tuttavia in un certo senso era il genere di cosa che lui
avrebbe fatto, per cui si limitò a scrollare le spalle. «Devo parlare di una cosa con
il capitano.»
«Allora siamo di nuovo al piano dello scagliare loro contro delle navi finché
non esauriscono le munizioni» disse Bobbie. La sua voce era nitida e tagliente.
Chiunque non l’avesse conosciuta bene avrebbe potuto pensare che fosse
scocciata, ma Amos era sicuro che si stesse divertendo. Esitò nel corridoio fuori
della cambusa. La verità era che anche se avessero deciso di attaccare Medina,
come se stessero calpestando a morte un nido di serpenti, sarebbero comunque
rimasti in porto per un altro paio di giorni. Ci sarebbe stato tempo più tardi per
fare la sua domanda senza interferire nella pianificazione, ma lui voleva anche
riuscire a dormire in modo decente, quindi entrò lo stesso.
I due erano seduti al tavolo, uno di fronte all’altra, protesi in avanti come due
bambini che stessero sezionando la stessa rana. Lo schermo in mezzo a loro
aveva luci azzurre e dorate. Holden aveva l’aria stanca, ma Amos lo aveva visto
in condizioni peggiori, in altre occasioni. Holden era il tipo d’uomo che si
consumava fino all’osso, se riteneva che fosse la cosa giusta da fare.
«Dovremmo parlare di nuovo con Pa» disse, e intanto sollevò lo sguardo su
Amos e annuì. «Se attacchiamo la stazione, rischiamo di perdere un sacco di
gente.»
Amos si diresse ai dispensatori di cibo. Erano stati riforniti di recente, quindi
aveva un sacco di alternative, ma una parte di lui preferiva quando le opzioni
erano ridotte.
«Questa si chiama guerra per un motivo, signore» sottolineò Bobbie. Anche se
non usò un’enfasi particolare, quel ‘signore’ era una frecciata intesa a ricordargli
che non si trattava più soltanto di loro. «Conosciamo la capacità di fuoco e la
velocità di puntamento. Possiamo fare i calcoli. E se riuscissimo a far sbarcare
anche solo una piccola squadra sulla superficie...»
«La superficie di una stazione aliena di cui non capiamo assolutamente niente
ma su cui abbiamo comunque montato un sacco di artiglieria» commentò
Holden. Bobbie però ignorò l’interruzione.
«...potremmo assumere il controllo di quei cannoni. L’assenza di protezione
sulla stazione è l’opportunità migliore che abbiamo.»
Amos selezionò la ‘zuppa di spaghetti’. Il distributore ronzò e borbottò per
qualche secondo, mentre Holden inarcava le sopracciglia.
«È la migliore opportunità che hai?»
«Guiderò io la squadra» disse Bobbie.
«No. Senti, non ti lascerò ficcare in questa cosa solo perché vuoi combattere.»
«Non essere offensivo. Indicami un’altra persona che preferiresti guidasse
un’incursione su una stazione ostile e batterò in ritirata.»
Holden aprì la bocca per ribattere, ma si immobilizzò, annaspando come un
pesce. Quando infine richiuse la bocca, la sua sola risposta fu scrollare le spalle
in segno di sconfitta.
Amos ridacchiò. Entrambi si girarono a guardarlo mentre una ciotola saltava
fuori dal distributore, fumante e odorosa di sale e di cipolle ricostituite.
«Chiunque riesca a chiudere la bocca al capitano in quel modo merita il titolo di
duro fra i duri» commentò, prendendo un cucchiaio. «Non sono io a comandare,
ma... avere qui Babs e non metterla in prima linea? Si usa una saldatrice per
saldare le cose, e una pistola per sparare. E si usa una Bobbie Draper per fottere
in modo permanente un mucchio di cattivi.»
«L’attrezzo giusto per il lavoro» annuì Bobbie, e suonò come un
ringraziamento.
«Non sei un attrezzo» protestò Holden, poi sospirò. «Però non ti sbagli.
D’accordo. Lascia che mi consulti con Pa e Avasarala e il consiglio dell’APE, o
come lo vogliamo chiamare, nel caso che qualcuno abbia un’idea migliore.»
Amos raccolse una cucchiaiata di spaghetti, la mise in bocca e sorrise mentre
masticava.
«D’accordo» annuì Bobbie. «Ma vuoi un suggerimento? Un’idea decente
adesso è meglio di un piano brillante quando è troppo tardi.»
«Ho capito» annuì Holden.
«Bene» replicò Bobbie. «Come ci regoliamo con questo stronzo, Duarte?
Secondo Avasarala, quale sarà la sua reazione?»
«Sai,» interloquì Amos, con la bocca piena di spaghetti «detesto interrompere,
ma credi che potrei prendere a prestito il capitano per qualche minuto?»
«C’è qualche problema?» chiese Holden, proprio mentre Bobbie rispondeva:
«Certo.»
«Devo solo verificare una cosa» spiegò Amos, sorridendo.
Holden si girò verso Bobbie. «Dovresti riposare un poco. Io invierò le nostre
osservazioni. Se riposiamo abbastanza a lungo, e dopo facciamo anche
colazione, potremmo perfino ottenere qualche risposta per allora.»
«Mi sembra giusto» annuì Bobbie. «Anche tu andrai a dormire, vero?»
«Come un sasso» confermò Holden. «Devo solo finire queste cose, prima.»
Bobbie si alzò e si avviò alla porta, battendo con le nocche un colpetto sulla
spalla di Amos nel passargli accanto. Era un silenzioso ringraziamento per averla
appoggiata. Bobbie gli piaceva, ma non era per questo che si era detto d’accordo
con lei. Quando si deve piantare un chiodo, si usa un fottuto martello. Era
semplicemente la cosa più sensata da fare.
Amos occupò il posto che lei aveva lasciato libero, ma sedette di traverso, con
la schiena contro la parete e una gamba stesa sulla panca. Il suo terminale trillò:
qualche aggiornamento effettuato dallo Zuccherino che mandava a entrambi il
suo segnale che il sistema era a posto. Mentre controllava il messaggio, la Roci lo
avvertì che Alex era tornato a bordo. Disattivò tutte le segnalazioni.
Holden aveva un aspetto orribile. Non era soltanto stanco, non proprio. La sua
pelle si era fatta cerea, e quando questo succedeva gli occhi tendevano come a
infossarsi nelle orbite. Quindi non si trattava di sfinimento, ma di qualcos’altro.
Aveva l’aria di un ragazzino che si fosse appena reso conto di essersi tuffato dal
lato più profondo di una piscina e stesse cercando di decidere se fare una
figuraccia chiedendo aiuto o annegare con un po’ di dignità.
«Tu stai bene?» gli chiese Holden, prima che Amos avesse messo ordine nei
suoi pensieri.
«Io? Certo, capitano. L’ultimo ancora in piedi, quello sono io. Cosa mi dici di
te?»
Holden agitò le mani, accennando alle pareti, al molo e alla stazione al di là di
esso. All’universo. «Sto bene.»
«Già. Allora, lo Zuccherino e io stavamo facendo un po’ di pulizia dopo la
battaglia.»
«Sì?»
«Ho esaminato i dati relativi allo scontro. Sai, le solite cose, per accertarmi che
la Roci stesse facendo tutte le cose che ci aspettiamo che faccia. Non abbiamo
bisogno di ritrovarci con qualcosa schiacciato o ripiegato o chissà che altro. E,
sai, parte di quel controllo prevede una verifica della performance degli
armamenti.»
La mascella di Holden si spostò appena un poco. Non era granché,
probabilmente non gli avrebbe neppure fatto perdere una mano di poker, ma
Amos aveva saputo quando aspettarsi qualcosa del genere. Quella era una cosa
da tenere a mente. Raccolse un’altra cucchiaiata di spaghetti.
«Hai presente quei siluri che Bobbie ha sparato, alla fine?» disse. «Uno ha
centrato in pieno il bersaglio.»
«Non lo sapevo.»
«Okay.»
«Non ho controllato.»
«Li ha colpiti, ma non è esploso» continuò Amos. «Un siluro difettoso è un
problema serio, quindi ho cominciato a indagare sul perché aveva fatto cilecca.»
«Li ho disarmati» disse Holden.
Amos posò la ciotola e abbandonò il cucchiaio dentro di essa.
Il display che Holden e Bobbie stavano guardando cambiò, cercando di intuire
cosa Holden volesse vedere.
«Ma quella era la cosa giusta da fare» commentò Amos. Non la fece suonare
esattamente come una domanda, soltanto come un’affermazione con cui Holden
poteva o meno essere d’accordo. Non voleva dare l’impressione che qualcosa
dipendesse dalla risposta. Holden si passò le mani nei capelli e parve vedere
qualcosa che non era nella stanza, solo che Amos non aveva idea di cosa fosse.
«Mi ha mostrato suo figlio» disse Holden. «Marco mi ha mostrato il figlio di
Naomi. Mi ha fatto vedere che era proprio lì, sulla nave, e... non lo so. Le
somiglia. Non è proprio come lei, ma c’è una somiglianza di famiglia. In quel
momento non potevo portarglielo via. Non potevo ucciderlo.»
«Lo capisco. Lei è una di noi, e ci prendiamo cura della nostra gente» replicò
Amos. «Lo chiedo soltanto perché quelli sono i cattivi che abbiamo intenzione
di affrontare di nuovo. Se non siamo disposti a vincere la lotta, non so bene
cosa ci facciamo sul ring.»
Holden annuì e deglutì a fatica. Il display si arrese e si disattivò, lasciando la
cambusa appena un po’ più buia. «Quello è stato prima che arrivassimo qui.»
«Sì» commentò Amos, in tono cauto. «Decidere chi fa parte della tua tribù si è
fatto di colpo un po’ strano. Se sei diventato il nuovo Fred Johnson, questo
cambierà il significato della tua decisione di non far saltare in aria qualcuno.»
«Infatti» annuì Holden. Lo sgomento nella sua espressione era come il ringhio
dell’accoppiatore di un computer che cominciasse a guastarsi. «Non credo che
agirei in modo diverso, se mi trovassi di nuovo laggiù in quello stesso momento.
Non rimpiango quello che ho fatto, ma so che la prossima volta le cose non
potranno andare di nuovo così.»
«Probabilmente Naomi dovrebbe accettare la cosa.»
«Avevo intenzione di parlargliene,» ammise Holden «ma è possibile che abbia
continuato a rimandare.»
«C’è una cosa che devo chiederti» continuò Amos.
«Spara.»
«Sei la persona giusta per questo lavoro?»
«No,» rispose Holden «ma sono quello a cui è stato assegnato, quindi lo farò.»
Amos attese per qualche momento, per valutare quella risposta.
«D’accordo» disse, e si alzò. La zuppa si era raffreddata al punto che su di essa
si era formata una sottile pellicola, quindi la lasciò cadere nel riciclatore insieme
al cucchiaio. «Sono contento che abbiamo fatto chiarezza. C’è qualcosa che io e
lo Zuccherino dobbiamo inserire nel nostro piano di lavoro? Ho la sensazione
che forse dovremmo dare una controllata alla roba di Bobbie.»
«Sono sicuro che lo ha già fatto lei, qualche centinaio di volte» rispose Holden,
con un sorriso forzato.
«Probabilmente è vero» convenne Amos. «Bene, allora siamo a posto.»
Si avviò alla porta, ma la voce di Holden lo fermò. «Grazie.»
Amos si girò a guardarlo. Holden appariva come incurvato, quasi stesse
proteggendo qualcosa, o come se qualcuno gli avesse sferrato un calcio al petto.
Era buffo come il fatto che tutti gli altri lo vedessero per più grande di come era
lo facesse apparire piccolo nella realtà, quasi ci fosse stata solo una limitata
quantità di cibo da dividere fra loro. «Certo» replicò, non sapendo bene per cosa
lo avesse ringraziato, ma sicuro che quella fosse la risposta giusta. «Senti, se vuoi
posso modificare i permessi, così la prossima volta non potrai disarmare i siluri,
se toglierti di mano la decisione può essere d’aiuto.»
«No» rispose Holden. «Sta benissimo nelle mie mani.»
«Bene così, allora.» Amos uscì.
Nell’officina meccanica, lo Zuccherino stava mettendo via gli attrezzi ed
eseguendo la sequenza di chiusura delle diagnostiche. «Ho testato i nuovi sigilli»
disse.
«Vanno bene?»
«Sono nei limiti di tolleranza» rispose lei, il che probabilmente era quanto più
vicina sarebbe mai andata ad ammettere che andavano bene. «Li controllerò di
nuovo domani, quando la polimerizzazione sarà conclusa.»
«D’accordo.»
Il sistema trillò. Clarissa lesse i dati, diede l’okay e spense il display. «Vai sulla
stazione?»
«No» replicò Amos. Adesso che ci faceva caso, si sentiva il corpo lento e
pesante, come se fosse appena uscito da un bagno caldo nel quale era rimasto
troppo a lungo. Si chiese se Maddie si fosse già svegliata. Se fosse tornato
indietro abbastanza in fretta, forse avrebbe potuto finire là la notte. Però... no.
Lei sarebbe stata di nuovo di turno più o meno quando lui avesse cominciato a
prendere sonno, e allora non sarebbe stato chiaro se fosse tornato per fare di
nuovo sesso, e la cosa sarebbe stata imbarazzante. A meno che... valutò a livello
intellettuale se aveva di nuovo voglia di fare sesso, poi scosse il capo. «No, sono
appena rientrato. Adesso voglio concedermi un po’ di riposo.»
Lo Zuccherino lo guardò inclinando il capo da un lato. «Sei tornato presto.»
«Sì. Non riuscivo a dormire» spiegò lui. «Adesso sì, però.»
36
Filip

Riparare la propria nave era ciò che significava essere un cinturiano. I terrestri
vivevano mangiando quello che distribuiva il governo e scopando fino a
intorpidirsi mentre sfruttavano la Fascia. I marziani sacrificavano loro stessi e
chiunque altro su cui riuscivano a mettere le mani per realizzare il sogno di
trasformare Marte in una nuova Terra, anche se odiavano quella vecchia. E i
cinturiani? Riparavano le loro navi. Estraevano minerali dagli asteroidi e dalle
lune del sistema. Costringevano ogni pezzo di materiale a funzionare per più
tempo di quello previsto dalla sua progettazione. Sfruttavano la loro intelligenza
e ingegnosità e l’affidamento gli uni sugli altri per prosperare nel vuoto, come
una manciata di fiori che sbocciasse in un deserto di una vastità inimmaginabile.
Mettere mano alla Pella era naturale e giusto come inspirare dopo aver espirato.
Filip detestava il non aver voglia di farlo.
Nei primi giorni si era trattato di semplice lavoro in assenza di gravità, e anche
allora si era sentito addosso lo sguardo degli altri, aveva sentito le conversazioni
che si interrompevano quando lui arrivava a portata di udito. Josie e Sárta,
mentre saldavano qualcosa nello spazio fra gli scafi avevano commentato sui
pericoli del nepotismo senza sapere che lui era sulla loro frequenza, e avevano
finto di non aver detto niente quando era arrivato. Nella cambusa, i notiziari
dalla Terra devastata erano i suoi migliori compagni. Suo padre non lo aveva
mandato a chiamare né aveva ridotto le sue mansioni, mentre entrambe le cose
sarebbero state meglio di quel limbo senza nome. Se fosse stato punito, almeno
avrebbe potuto attingere un po’ di orgoglio dall’aver subìto un torto. Invece, si
svegliava per il suo turno, andava a dare una mano alle riparazioni e desiderava
di poter essere altrove.
Fu solo quando risultò evidente che i propulsori danneggiati avrebbero avuto
bisogno di un nuovo alloggiamento che si diressero verso un cantiere navale. In
un’altra vita, sarebbero andati su Ceres o su Tycho, ma i cantieri di seconda
scelta erano comunque validi. Rhea. Pallas. Vesta. Non usarono però nessuno di
essi. Quando arrivarono gli ordini di suo padre, essi li indirizzarono verso
Callisto.
Arrivò una nuova scorta con i cannoni spianati, per tenere la Pella al sicuro dai
siluri e dagli attacchi delle navi nemiche. Anche se probabilmente la Terra, Marte
e l’APE di Fred Johnson avevano tutti lo sguardo appuntato sulla Pella, nessuno
di loro si lasciò attirare lontano dalle sue basi e flotte. Loro erano una preda
ambita, ma non al punto che valesse la pena di correre dei rischi per catturarla.
Disteso sul sedile a smorzamento a guardare feed di bande di neo-taarab
provenienti da Europa e una mezza dozzina di scadenti commedie sexy perché
Sylvie Kai vi lavorava, Filip fantasticò sul fatto che magari ci sarebbe stato un
attacco. Magari da parte di una piccola flotta guidata dalla Rocinante. Il fottuto
James Holden e quella sgualdrina traditrice di sua madre che, al comando, gli
scaricavano contro il cannone a rotaia e i siluri. A volte, quella fantasticheria si
concludeva con la Pella che ne usciva ancora più malconcia per colpa di qualcun
altro e tutti vedevano quanto fosse difficile vincere una battaglia. A volte finiva
con loro che distruggevano la Rocinante, riducendola a una nube di gas luminoso
e di schegge di metallo. E a volte immaginava che venissero sconfitti e
morissero. E i due punti di luce gemelli presenti in quell’ultimo, più cupo sogno
a occhi aperti combaciavano come una morsa d’attracco e il suo alloggiamento:
la cosa avrebbe posto fine ai lavori alla nave e inoltre non avrebbero mai
raggiunto Callisto.
Il cantiere navale superstite su Callisto si trovava sul lato rivolto in
permanenza lontano da Giove. I suoi riflettori proiettavano lunghe ombre
permanenti sul paesaggio della luna e sulle rovine del cantiere navale gemello,
una base marziana che avevano distrutto anni prima, in una delle prime azioni
della Marina Libera, la prima di cui Filip avesse avuto il comando. La polvere e i
particolati fini sollevati dalle attività umane ricadevano lentamente, su Callisto,
creando l’illusione di una nebbia anche se non c’era acqua e soltanto
un’atmosfera estremamente rarefatta. Guardò la manciata di riflettori sulla
superficie della luna farsi sempre più grande a mano a mano che si avvicinavano,
bianchi, luminosi e distribuiti a casaccio come se una manciata di stelle fosse
stata afferrata e scagliata nella polvere. Quando la Pella si adagiò a punta in
avanti nell’attracco per le riparazioni, il rumore dei fermi che scattavano risultò
profondo come un pugno. Filip slacciò le cinghie e si diresse verso il portello più
in fretta che poteva.
Josie era là, con i lunghi capelli brizzolati raccolti lontano dal volto stretto.
Josie, che aveva preso parte con lui alla scorreria su Callisto, che era stato ai suoi
ordini, inarcò le sopracciglia quando lui avviò il ciclo di apertura del portello.
«Non indossi tués uniforme» osservò, con una sfumatura di sogghigno nella
voce.
«Non sono in servizio.»
«Hai il permesso di sbarcare, tu?»
«Nessuno ha detto di no» ribatté Filip, detestando il tono petulante che la sua
voce aveva ai suoi stessi orecchi. Lo sguardo di Josie si indurì, ma lui si limitò ad
allontanarsi. I livelli di pressione erano uguali, o quasi. Quando il portello
esterno della Pella si aprì ci fu ancora un piccolo schiocco, quanto bastava a
permettere a Filip di avvertire il cambiamento da un posto a un altro, ma non
tanto da fargli dolere gli orecchi. Una squadra di sicurezza era in attesa sul molo,
in un’armatura leggera che mostrava una chiazza raschiata sulla spalla e sul petto,
dove era ancora possibile intravedere come un’ombra il logo della Pinkwater.
Filip salutò con un cenno delle mani e avanzò, timoroso che gli dicessero di
fermarsi e insieme sperando che lo facessero.
Non era mai stato su Callisto prima della scorreria. Non l’aveva mai vista
prima di ordinare l’attacco, non sapeva che aspetto avesse avuto prima, ed era in
grado di vedere che la metà sopravvissuta mostrava ancora le cicatrici
dell’accaduto. Oltrepassando il molo per addentrarsi nel distretto commerciale
notò quali pareti erano state sostituite. Qua e là un tratto di plancito aveva un
colore leggermente diverso, il sigillante non era invecchiato quanto quello che lo
circondava. Piccoli segni, che forse non avrebbe neppure notato se non avesse
saputo cosa cercare.
L’attacco era stato giustificato, però. Lo avevano fatto per rubare ai marziani la
vernice che confondeva i radar, in modo da rendere difficile vedere le rocce che
avrebbero scagliato contro la Terra. Era stato parte della guerra, e comunque lui
non aveva cercato di fare loro del male, si erano solo trovati proprio accanto al
nemico. Colpa loro, non sua.
Alcune voci intessevano un ricco mormorio mutevole lungo l’ampio e alto
corridoio principale. Un carrello suonò per avvertire la gente di spostarsi. Le
squadre di lavoro in tuta grigia portavano al braccio la fascia della Marina Libera
e avevano il cerchio spezzato dell’APE tatuato sul polso. L’aria puzzava di urina e
di freddo. Filip si trovò un posto a ridosso di una parete, appoggiò le spalle
contro di essa e rimase a guardare come se stesse aspettando qualcosa. Qualcuno
che lo vedesse, si fermasse e gli puntasse contro un dito accusatore. ‘Tu sei
quello che ha cercato di distruggere i cantieri! Quello che ha rotto i nostri sigilli!
Sai quanti di noi sono morti?’
Attese che succedesse qualcosa, ma nessuno lo notò. Non era uno di loro, era
solo un ragazzo appoggiato alla parete.
Il bar in cui si ritrovò era all’estremità più lontana dei cantieri, vicino alle
gallerie che scendevano nei quartieri ai livelli più profondi e alla linea a transito
veloce per l’osservatorio gioviano che si trovava sul lato opposto della luna.
Seduti ai tavoli di polimeri pressati non c’erano soltanto manovali dei cantieri,
c’erano anche ragazze in abiti dai colori vivaci che provenivano dai sottostanti
livelli residenziali. Persone più anziane dall’aria arruffata tipica degli accademici
erano chine sul terminale palmare e su una birra. Aveva saputo in modo vago
che su Callisto c’era una buona università superiore, qualcosa associato con gli
istituti tecnici su Marte, ma in qualche modo la sua mente non aveva mai
abbinato quell’informazione al posto che era stato incaricato di attaccare.
Sedette in disparte a un tavolo di un rosa acceso al cui centro c’era una ciotola
in cui cresceva erba vera. Da lì poteva vedere gli enormi schermi a parete su cui i
notiziari scorrevano borbottando fra loro come ubriachi irosi, oppure poteva
guardare quelle ragazze allegre come fringuelli parlare fra loro e riuscire a non
guardare mai nella sua direzione. Ordinò spaghetti neri in salsa di arachidi e una
birra dal display incassato nel tavolo e pagò con un buono della Marina Libera.
Per un lungo momento pensò che il tavolo lo avrebbe rifiutato... se avesse detto
che il suo denaro non andava bene, quello sarebbe stato il momento in cui le
ragazze si sarebbero girate a guardarlo... ma esso trillò gradevolmente,
accettando l’ordinazione, e proiettò un timer con un conto alla rovescia per
indicargli quando essa sarebbe arrivata. Dodici minuti. Quindi lui guardò i
notiziari per dodici minuti. La Terra dominava ancora, perfino nella sua
sofferenza. C’erano immagini di devastazione, alternate a commentatori dall’aria
seria che fissavano la videocamera oppure intervistavano altre persone, a volte
serie come leccapiedi e a volte urlanti come se l’altro coyo si fosse appena fatto la
loro fidanzata. Le ragazze ignoravano lo schermo, ma lo sguardo di Filip
continuava a tornare su di esso: una strada coperta di uno strato di cenere tanto
spesso che la donna che la stava pulendo usava una vecchia pala da neve. Un
orso nero emaciato che barcollava prima in una direzione e poi in un’altra, in
preda allo sgomento e alla confusione. Un qualche funzionario del mezzo morto
governo terrestre che contemplava uno stadio pieno di sacche di cadaveri.
Arrivarono la birra e gli spaghetti, e lui cominciò a mangiare senza quasi
accorgersene. Guardò il susseguirsi di immagini, masticò, inghiottì, bevve. Era
come se il suo corpo fosse stato una nave, e tutto il suo equipaggio stesse
lavorando senza rivolgersi la parola.
L’orgoglio per la devastazione inflitta c’era ancora. Tutti quei morti erano
dovuti a lui. Le città annegate nella cenere, i laghi e gli oceani anneriti, i
grattacieli che bruciavano come torce perché non c’erano più le infrastrutture
necessarie a spegnere l’incendio. Quelli erano i templi e i bastioni del nemico del
suo popolo, ridotti a polvere e rovine, grazie a lui. La scorreria da lui guidata qui,
in questo cantiere, lo aveva reso possibile.
E adesso eccolo lì, con la fine e l’inizio, una vista attraverso l’altro come due
lastre di plastica sovrapposte. Come se avessero appiattito il tempo. Era ancora
una vittoria, ed era sua, ma adesso c’era forse un leggero retrogusto, come nel
latte che stesse per andare a male.
Dillo da uomo. Di’: ‘Ho combinato un casino.’ Solo che non lo aveva fatto. L’errore
non era stato suo.
Le ragazze si alzarono tutte insieme, toccandosi le mani a vicenda, ridendo,
baciandosi sulle guance, poi si sparpagliarono. Le guardò uscire con una sorta di
desiderio desolato, e fu così che vide entrare Karal. Il vecchio cinturiano
avrebbe potuto essere un conducente di mech, o un tecnico o un saldatore. I
capelli bianchi e radi erano tagliati molto corti. Le spalle, le mani e le guance
mostravano le cicatrici di una vita. Si fermò per un momento a guardarsi intorno
con l’aria di non pensare molto a quello che vedeva, poi puntò con passo
pesante verso il suo tavolo e gli si sedette di fronte come se avessero pianificato
di incontrarsi lì.
«Ehi» disse, dopo un momento di imbarazzo.
«Ti ha mandato lui?» chiese Filip.
«Non mi manda nessuno, aber se savvy dovevo venire.»
Filip rigirò gli spaghetti. La ciotola non era neanche mezza vuota, ma il suo
appetito era già svanito. La lenta rabbia che gli rimescolava i visceri pareva
occupare tutto lo spazio che sarebbe dovuto spettare al cibo. «Non serve. Solido
come la pietra, io, e due volte più duro.»
Suonava come una vanteria. O come un’accusa. Filip non sapeva neppure
bene che senso volesse dare a quelle parole, ma non questo. Piantò la forchetta
nel miscuglio di spaghetti e salsa e spinse la ciotola verso il bordo del tavolo
perché il cameriere la portasse via, ma conservò la birra.
«Non sto dicendo niente, io» replicò Karal. «Però c’è stato un tempo in cui
avevo la tua età. È passato parecchio, ma lo ricordo. Io y mis papá alle volte
litigavamo. Lui si faceva e io mi ubriacavo, e a volte passavamo tutta la giornata
a urlarci contro per decidere chi era lo stronzo più idiota. Capitava che volasse
qualche pugno. Una volta ho tirato fuori il coltello.» Karal ridacchiò. «Mi ha
fatto il culo quadro per quello. Sto dicendo che padri e figli litigano. Ma tu e il
tuo... è diverso, sì?»
«Se lo dici tu» replicò Filip.
«Tuo padre non è soltanto tuo padre. È Marco Inaros, capo della Marina
Libera. Un grand’uomo. Ha così tante cose sulle spalle. Così tante cose a cui
pensare, di cui preoccuparsi, da pianificare, e non è come se tu y la poteste
chiarire le cose a pugni come il resto di noi.»
«Non si tratta di questo» disse Filip.
«No? Bist bien. Allora di cosa si tratta?» chiese Karal, con voce sommessa, calda
e gentile.
L’ira nello stomaco di Filip si stava agitando, instabile come la crosta di una
ferita infetta. La rabbia e il senso di ciò che era giusto cominciavano a sembrare
meno autentici, come un involto legato intorno a qualcosa che non era nessuna
delle due cose, che era ancora peggiore. Filip serrò le mani a pugno con tanta
forza da farle dolere, ma perse l’appiglio su quella sensazione. La rabbia... no,
non era neppure rabbia, l’irascibilità... scivolò di lato e un oceanico senso di colpa
salì dentro di lui come una piena. Era una cosa troppo grande, troppo pura,
troppo dolorosa perfino per avere un singolo evento su cui focalizzarsi.
Non rimpiangeva di aver lasciato la nave senza permesso o di aver mancato la
Rocinante con i suoi tiri o di aver distrutto la Terra o ferito Callisto. Era qualcosa
di ancora più grande. Il rammarico era l’universo. Il senso di colpa era più
grande del sole e delle stelle e dello spazio fra di essi. Qualsiasi cosa fosse, era
tutta colpa sua e del suo fallimento. Era qualcosa di più dell’aver fatto qualcosa di
male. Come il fossile di un antico animale era carne che era stata sostituita dalla
pietra, chi Filip era stato un tempo aveva mantenuto la sua forma ma era stato
sostituito da un puro e crescente senso di perdita.
«Mi sento... sbagliato» disse, annaspando alla ricerca delle parole per descrivere
qualcosa tanto più grande del linguaggio. «Mi sento... mi sento come...»
«Cazzo» sussurrò Karal in tono tagliente, lo sguardo fisso alle spalle di Filip,
catturato da qualcosa nei notiziari. Filip si girò, inclinando il collo per vedere lo
schermo. Fred Johnson li guardava dalla parete, gli occhi scuri calmi e seri, e una
scritta in sovrimpressione sotto di lui diceva ‘Confermato il decesso dopo
attacco della Marina Libera’. Quando si girò, Karal aveva già tirato fuori il
terminale palmare e stava vagliando i diversi feed di notizie con la massima
rapidità permessa dalle sue dita deformate. Filip attese, poi tirò fuori il suo
terminale. Trovare la notizia non fu difficile perché era su tutti i feed, sia dei
cinturiani che dei pianeti interni. Fonti del Tycho Manufacturing Collective, sulla
Terra, confermavano la morte di Frederick Lucius Johnson, ex ufficiale della
marina delle Nazioni Unite e da tempo attivista politico, organizzatore
comunitario e portavoce dell’Alleanza dei Pianeti Esterni. Era morto in
conseguenza delle ferite riportate durante un’imboscata da parte di forze della
Marina Libera...
Filip lesse tutto quanto, consapevole che c’era qualcosa che non riusciva a
capire. Si trattò soltanto di una marea di parole e di immagini, disconnessi dalla
sua vita, finché Karal, seduto di fronte a lui e sorridente, non parlò.
«Gratulacje, Filipito. Immagino che tu lo abbia beccato, dopotutto.»
Sulla Pella, stavano suonando musica sul sistema di bordo, una vivida
mescolanza di tamburi e chitarra, con le voci ululanti degli uomini che si
levavano a festeggiare. Sárta, fra i primi a vedere Filip quando arrivò lungo il
corridoio, proveniente dal portello, lo prese fra le braccia e gli premette la
guancia contro la propria, lasciandolo con l’imbarazzante consapevolezza del
contatto dei suoi seni. Quando lo baciò... brevemente, ma sulle labbra... la sua
bocca sapeva di liquore ordinario.
La cambusa era affollata come per una festa. Pareva che tutto l’equipaggio si
fosse raccolto davanti ai notiziari che annunciavano la morte del Macellaio della
Stazione di Anderson, e il calore di tanti corpi rendeva la stanza soffocante. Suo
padre era in mezzo a loro, sorrideva nel pavoneggiarsi e batteva pacche sulle
spalle come lo sposo a un matrimonio particolarmente fortunato. Non c’era più
traccia di cupezza e di minaccia nella sua espressione, e quando scorse Filip
dall’altro lato della stanza affollata si portò entrambe le mani davanti al cuore nel
doppio pugno simbolo di festosità.
Filip si rese conto che quella era la prima, vera vittoria dall’attacco iniziale
contro la Terra. Marco aveva sostenuto di riportare un successo dopo l’altro, ma
si era sempre trattato di ritirate e scaramucce, o dell’imporre la disciplina
uccidendo ammutinati come quelli della Witch of Endor. Dal momento in cui
avevano lasciato Ceres, la Marina Libera aveva avuto bisogno di un successo
concreto e inequivocabile, e questo lo era. Non c’era da meravigliarsi che perfino
chi era ancora sobrio apparisse ubriaco per l’entusiasmo.
Nel feed di notizie ci fu un cambiamento e al suo posto apparve il logo della
Marina Libera, mentre il chiasso nella stanza saliva ancora di tono quando
ciascuno dei presenti ingiunse agli altri di tacere. Qualcuno spense la musica e la
sostituì con l’audio del feed. Quando Marco apparve sullo schermo, più
dignitoso e simile a uno statista dell’uomo sorridente nella stanza, la sua voce
risuonò per tutta la Pella.
«Fred Johnson sosteneva di parlare per conto delle stesse persone che
opprimeva. Aveva cominciato la sua carriera massacrando cinturiani, poi aveva
finto di essere la nostra voce. I suoi anni come rappresentante dell’APE sono stati
caratterizzati da suppliche di essere compiacenti, di pazientare, e dal costante
rinvio della liberazione della Fascia. Il suo fato sarà quello di tutti coloro che si
oppongono a noi. La Marina Libera difenderà e proteggerà la Fascia da tutti i
nemici interni ed esterni, adesso e per sempre.»
Il discorso continuava, ma l’equipaggio prese ad applaudire in modo tanto
stentoreo che Filip non riuscì a sentirlo. Marco sollevò le braccia, non per
chiedere silenzio, ma per crogiolarsi in quel chiasso. Il suo sguardo scintillante
individuò di nuovo Filip, e quando parlò lui poté leggere le parole sulle sue
labbra: ‘Ce l’abbiamo fatta.’
Noi, pensò Filip, mentre Aaman gli andava a sbattere contro e gli metteva in
mano un bulbo pieno di qualcosa di alcolico. Noi ce l’abbiamo fatta. Quando si
trattava di un errore, era solo mio. Ora che è diventata una vittoria, è nostra.
Si sentì immobilizzarsi nel centro di quella tempesta gioiosa. Un frammento di
un ricordo gli affiorò nella mente, intenso e ricco di significato come l’immagine
di un sogno, ma non riuscì a individuarne la fonte. Pensò potesse trattarsi di
qualche film che aveva visto, di un qualche dramma in cui una donna
incredibilmente bella aveva guardato verso la telecamera e, con una voce fatta di
fumo e di forza, aveva detto: «Ha messo sangue anche sulle mie mani. Pensava
avrebbe reso più facile controllarmi.»
37
Alex

«Buongiorno, raggio di sole» disse Sandra Ip.


Alex sbatté le palpebre, chiuse gli occhi, tornò ad aprire solo il sinistro, di una
fessura. Era stato nel bel mezzo di un sogno nel quale il succo di mela era finito
nei condotti del liquido refrigerante di una nave che era allo stesso tempo la
Rocinante e la prima nave su cui aveva prestato servizio, quando era nella Marina
Marziana, e la sensazione di dover aggiustare qualcosa permaneva anche se i
dettagli cominciavano già a svanire. Nuda, Sandra gli sorrise e lui smise di
cercare di trattenere il sogno.
«Ciao anche a te, cucciola» ringhiò. La notte di sonno aveva reso rauca e
profonda la sua voce. Stiracchiò le braccia verso l’alto, premendo i palmi contro
la testata del letto di lei in modo da estendere la tensione all’area fra le scapole.
Le dita dei suoi piedi spuntarono fuori della coperta, e lei le pizzicò
scherzosamente nel dirigersi verso la doccia. Alex sollevò la testa per guardarla
allontanarsi, e lei si girò per osservarlo mentre lo faceva.
«Dove stai andando?» chiese Alex, in parte perché voleva saperlo, e in parte
per tenerla nella stanza ancora per qualche secondo.
«Oggi ho un turno sulla Jammy Rakshasa» rispose lei. «Drummer si sta
accertando che tutti questi pezzi grossi dell’APE abbiano la sensazione che ci
prendiamo cura di loro.»
«Jammy Rakshasa» ripeté Alex, riadagiando la testa. «Uno strano nome per una
nave.»
«Credo sia una sorta di scherzo comprensibile solo per la gente di
Goodfortune. Però è una bella nave.» La sua voce echeggiava un poco,
provenendo dal bagno. «La nave più strana su cui abbia mai lavorato si chiamava
Inverted Loop. Un minatore di ghiaia l’aveva ricavata da uno yacht di lusso che
aveva recuperato. Il capitano aveva la fissa degli spazi aperti, quindi avevano
rimosso tutte le pareti e paratie non strutturali.»
Alex si accigliò nel guardare il soffitto. «Sul serio?»
«Quando quella nave era in accelerazione, potevi far cadere un cuscinetto nella
cabina di pilotaggio e sentirlo colpire tutti i ponti, fino al reattore. Era come
volare in un pallone pieno di bastoni.»
«Non è una cosa giusta.»
«Il capitano era un tizio che si chiamava Yeats Pratkanis. Aveva qualche
problema, ma l’equipaggio lo amava. Non hai idea delle cose stupide che la
gente fa per un capitano quando è davvero decisa a non vedere quanto è fuori di
testa.»
«Suppongo sia vero.»
Il rumore dell’acqua che schizzava contro il metallo annunciò che la doccia era
in funzione, ma dal suono Alex riuscì a capire che il corpo di lei non era ancora
sotto il getto. Quando guardò di nuovo la trovò sulla soglia, con le braccia
sollevate ad appoggiarsi contro lo stipite. Era di poco più giovane di lui, e gli
anni si vedevano sul suo corpo. Le ombre argentee delle smagliature visibili sul
ventre e sui seni. Il tatuaggio sbiadito di una cascata sul lato della gamba sinistra.
Una cicatrice irregolare che le arricciava la pelle del braccio destro. La sua non
era la bellezza della gioventù, ma quella dell’esperienza, proprio come la sua, ma
Alex riusciva ancora a vedere la ragazza che era stata nel modo in cui inarcava le
sopracciglia e spostava il peso del corpo su un fianco.
«Ti va di fare una doccia, raggio di sole?» gli chiese, con falsa innocenza.
«Sì, dannazione» rispose Alex, sollevandosi dal letto. «Sì che mi va.»
Da quella prima notte su Ceres, lui e Sandra avevano preso l’abitudine di
passare insieme in questo modo una parte delle loro ore libere. Quando si erano
trovati sulla Roci avevano diviso quel tempo fra la cabina di Alex e quella di lei,
mentre qui su Tycho l’alloggio di Sandra era diventato la scelta di default. Lei
aveva vissuto sulla stazione abbastanza a lungo perché l’anzianità e le regole
sindacali le permettessero di avere due stanze, un bagno privato e un letto che
era molto più comodo per due persone del cercare di stare in due sulla stessa
cuccetta a smorzamento.
In un primo momento, Alex era stato sorpreso e un po’ guardingo di fronte a
quella storia fra loro. La sessualità di Sandra era gioiosa e libera da freni, mentre
lui aveva impiegato un po’ di tempo a liberarsi dalla ruggine e ad adeguarsi.
Aveva avuto qualche amante prima di sposarsi, una... cosa vergognosa... mentre
lo era, e un paio successivamente, ma la piena e deliziata attenzione di una
donna non era qualcosa che si fosse mai aspettato di avere di nuovo. Una volta
che si era convinto che la cosa stava succedendo davvero, però, vi si era lanciato
con l’entusiasmo di un sedicenne.
Dopo la doccia si asciugarono a vicenda e lui l’aiutò a spalmarsi una lozione
sulla schiena nei punti che non riusciva a raggiungere e probabilmente anche in
alcuni a cui poteva arrivare. Poi Sandra si mise l’uniforme, si raccolse i capelli, e
infine si lavò i denti mentre Alex tornava a letto.
«Per te un’altra giornata di ozio?» chiese Sandra.
«Sono un pilota che non ha dove andare» replicò Alex, stendendo le braccia in
un gesto che pareva dire ‘non è colpa mia’, e lei scoppiò a ridere.
«È per questo che non sono un pilota» dichiarò. «Gli ingegneri hanno sempre
qualcosa da fare.»
«Devi imparare a rilassarti.»
«Ecco,» ribatté lei, con voce bassa e ronfante che era flirtante e nello stesso
tempo un ridere di quel flirtare «continua a darmi l’esempio e forse comincerò a
farlo anch’io.»
«Magari alla fine del tuo turno potremmo ordinare qualcosa da mangiare qui.»
«Affare fatto» accettò lei, poi controllò l’ora sul terminale palmare e grugnì.
«D’accordo, devo correre.»
«Chiuderò io a chiave quando me ne andrò» la rassicurò Alex.
«Dormirai per tutto il giorno nel mio letto come un leone.»
«Anche questo è possibile.»
Sandra lo baciò prima di andarsene. Dopo che la porta si chiuse, Alex si lasciò
sprofondare sui cuscini, rimase così per un lungo momento, poi si alzò e
recuperò i vestiti dal pavimento. L’alloggio di Sandra era comodo e accogliente
in un modo a cui non era abituato. Il piumone ripiegato ai piedi del letto era
azzurro, con un merletto lungo i bordi, e Sandra aveva appeso dei tendaggi agli
angoli della stanza per ammorbidire gli spigoli e smorzare la luce. Sulla scrivania
c’era un piccolo vaso con una composizione di rose fatte seccare. Quando era lì,
l’odore pungente di profumo gli penetrava nei vestiti, cosicché quando ore più
tardi si trovava ad attraversare una corrente d’aria quell’odore gli richiamava alla
mente lei in maniera improvvisa e viscerale. Le donne con cui aveva vissuto
negli ultimi anni... Naomi, Bobbie, e adesso perfino Clarissa Mao... non erano
portate per la morbidezza e i fronzoli, per i cuscini morbidi e l’acqua di rose.
Avere intorno quel particolare tipo di femminilità era abbastanza familiare da
essere confortevole e abbastanza esotico da fare di questo tempo, questo
momento, questa relazione qualcosa interamente suo. E a quanto pareva, una
parte di lui voleva qualcosa di interamente suo.
O forse, rifletté nell’infilarsi gli stessi calzini del giorno precedente, non si
trattava neppure di questo. Forse era solo il fatto di sapere quante cose la guerra
poteva portare via a tutti loro, e Sandra Ip era l’occasione per riempire una
qualche cisterna del cuore e del corpo per la quale non ci sarebbe stato tempo
più tardi, un posto fatto di gentilezza, affetto e piacere che era come l’occhio di
un uragano. Si augurò che lei provasse le stesse cose per lui, che tanto lui quanto
Sandra stessero accumulando bei ricordi come protezione contro la storia che
stava per svilupparsi intorno a loro.
Sulla Rocinante stava diventando sempre più difficile ricacciare indietro un
senso di paura. I giorni trascorsi da quando erano arrivati su Tycho erano stati
per Holden un continuo succedersi di incontri. Quando non duellava
verbalmente con Carlos Walker in merito a quante provviste e appoggio l’APE
poteva fornire, Holden scambiava lunghi messaggi registrati con Michio Pa
riguardo alla velocità di fuoco dei cannoni a rotaia che la Marina Libera aveva
nella zona lenta, e quando non stava facendo rapporto ad Avasarala o
ricevendone uno da lei, lui, Naomi e Bobbie confrontavano mappe posizionali
del sistema con Aimee Ostman e Micah al-Dujaili. Holden non sembrava mai
perdere il controllo e pareva non riposare mai. Ogni volta che Alex lo vedeva,
lui sorrideva ed era cordiale e allegro. Se non avesse trascorso anni con lui, Alex
avrebbe potuto lasciarsi ingannare e pensare che le cose stessero andando bene.
Ma l’uomo che partecipava alle riunioni, si aggirava per i corridoi della
Rocinante o sui moli fuori di essa, o sedeva chino sul terminale palmare in
funzione, in realtà non era affatto James Holden. Era come se lui fosse
diventato un attore, e il suo ruolo fosse quello di James Holden. La superficie
era ciò che aveva bisogno di essere in quel momento, e quello non era l’uomo
che lui conosceva. Alex poteva percepire il vuoto ululante fatto di disperazione
dietro ogni parola che diceva.
Questo si notava anche negli altri. Naomi si era fatta più silenziosa e
concentrata, come se fosse stata sempre nel bel mezzo del risolvere un problema
impossibile. Perfino Amos pareva teso, anche se la causa di quella tensione era
tanto sottile che Alex non poteva neppure essere certo che essa ci fosse.
Potevano essere soltanto le sue paure personali, proiettate su quella lavagna
vuota che era Amos. E se Bobbie e Clarissa sembravano immuni da tutto
questo, ciò dipendeva dal fatto che erano elementi relativamente nuovi a bordo,
non conoscevano ancora abbastanza bene l’atmosfera e i ritmi della Rocinante da
sentire quando c’era una lieve stonatura.
E ogni storia relativa alla Marina Libera... un’altra nave catturata o distrutta,
un’altra spia terrestre catturata e giustiziata su Pallas, o Ganimede o la Stazione
di Hall, un’altra roccia intercettata prima che potesse colpire la Terra... era un
altro giro di vite. La flotta congiunta avrebbe dovuto fare qualcosa, e presto.
Raggiunse il piccolo ristorante vicino al corridoio principale. Luci intense, con
uno spettro un po’ più rosso di quello del sole, musica sincopata di arpa e
dulcimer che ultimamente pareva essere di moda, alti sgabelli intorno a un
bancone da bar di ceramica bianca. Un piatto di qualcosa che somigliava molto
al pollo in vindaloo era migliore di quanto avesse qualsiasi diritto di essere.
Sandra gli aveva fatto scoprire quel posto la prima notte che aveva trascorso su
Tycho, e da allora era diventato un cliente regolare.
Il terminale palmare emise il trillo di una richiesta di connessione e Alex
accettò con il pollice. Sullo schermo apparve Holden. Poteva essere la luce fioca
sul ponte di comando o quella azzurrina del monitor di fronte al quale era
seduto il capitano, ma la sua pelle appariva cerea, gli occhi spenti ed esausti.
«Ehi» salutò Holden. «Non sto interrompendo qualcosa, vero?»
«Grazie per averlo chiesto» replicò Alex, forse un po’ troppo calorosamente.
Ultimamente, quando parlava con Holden sentiva il bisogno di infondere più
energia nella conversazione, come se avesse potuto infondergli salute essendo
così dannatamente allegro con lui. «Sto finendo di fare colazione. Cosa c’è?»
«Um» disse Holden, e sbatté le palpebre. Per un momento parve sorpreso,
come se quello che stava per dire gli suonasse un po’ inverosimile. «Stiamo
cercando di essere pronti a partire in circa trenta ore. Clarissa e Amos sono nel
mezzo del loro turno di riposo, ma ho indetto una riunione di tutto l’equipaggio
fra quattro ore, in modo di essere certi che sia tutto in ordine.»
Il modo in cui lo disse lo fece suonare come se si stesse scusando. Alex sentì
l’impatto di quelle parole come una bevanda gelata in uno stomaco vuoto. «Ci
sarò» rispose.
«Siamo a posto?»
«Capitano,» replicò Alex «questa è la Roci. Mi sono accertato che fossimo
riforniti e pronti non appena le morse di attracco sono scattate. Potremmo
partire fra cinque minuti ed essere a posto.»
Il sorriso di Holden indicò che aveva capito tutto quello che Alex aveva
sottinteso. «Comunque è sempre meglio riunire tutti per un controllo.»
«Niente da ridire» annuì Alex. «Quattro ore?»
«Quattro e qualcosa» rispose Holden. «Se Amos dovesse dormire più a lungo,
intendo permettergli di farlo.»
«Allora ci vediamo a bordo» disse Alex, e chiusero la connessione. Mangiò un
altro boccone di vindaloo, che non pareva più altrettanto buono. Infilò ciotola e
forchetta nel riciclatore, si alzò e aspettò qualche secondo per rimandare il
momento di andare a cercare Sandra.
Poi andò a cercarla.
Nonostante il suo nome, la Jammy Rakshasa era una nave dall’aspetto comune.
Ampia sul davanti, squadrata, con i CDP e i propulsori sparsi sullo scafo in un
modo casuale che parlava di generazioni di uso e modifiche, con la struttura che
cresceva e cambiava, lasciando i manufatti delle precedenti incarnazioni, come
una casa modificata da un inquilino dopo l’altro finché si perdeva traccia
dell’architettura originale. Una nave cinturiana. Se non fosse stato per l’elevata
presenza di forze di sicurezza, sia sul molo che fluttuanti intorno alla nave
stessa, si sarebbe chiesto se si trattava della nave giusta.
Attese fuori del portello di servizio, tenendosi alla parete con una mano
mentre fluttuava. Vide Sandra prima che lei lo individuasse. Un gruppo di
ingegneri e di tecnici meccanici in tuta ambientale fluttuava davanti a uno
schermo a parete, con quattro diverse conversazioni che andavano avanti fra
tutti e sette. I suoi capelli erano raccolti in una coda di cavallo che si agitò come
una bandiera quando Sandra scrollò con impazienza la testa in risposta a quello
che l’uomo accanto a lei aveva detto. Poi lanciò un’occhiata in direzione di Alex
ed ebbe un sussulto di sorpresa. Lui vide il sorriso affiorare sulle sue labbra, lo
vide spegnersi. Finì la discussione e si spinse via dal gruppo, fluttuando nell’aria
verso di lui. Quando arrivò ad aggrapparsi a una maniglia per arrestarsi, la
consapevolezza era già affiorata nei suoi occhi.
«Allora, hai ricevuto ordini?» chiese.
«Sì.»
L’espressione di lei si addolcì e il suo sguardo seguì le curve del suo volto. Alex
la guardò, memorizzando la forma dei suoi occhi, la bocca, la piccola cicatrice
sulla tempia, il neo insinuato quasi dietro l’orecchio. Tutti i dettagli del suo
corpo. Una brutta abitudine in un angolo della sua testa gli suggerì tutte le cose
sbagliate da dire: ‘Potresti partire con noi, e Posso dare le dimissioni e restare qui
con te, e Tornerò, se mi aspetterai.’ Tutte cose che l’avrebbero fatta sentire
meglio in quel preciso momento ma in seguito avrebbero distrutto la sua fiducia
in lui. Tutte cose che aveva detto alle donne che aveva amato in passato, anche
allora senza intenderle sul serio. Lei rise con gentilezza come se lo avesse sentito
pensare.
«Non ho mai cercato un marito» disse. «Ho avuto dei mariti, e non sono mai
quello che si suppone che siano.»
«In ogni caso, i miei precedenti dicono che sono un pessimo marito» replicò
Alex.
«Sono lieta che tu sia mio amico» affermò Sandra. «Come amico sei
splendido.»
«E tu sei una splendida amante» rispose Alex.
«Sì, anche tu. Allora, fra quanto?»
«Il capitano ha indetto una riunione fra...» Alex controllò l’ora. «Fra poco più
di tre ore. Dice che partiremo in meno di trenta.»
«Sai per dove?»
«Immagino che me lo dirà quando arriverò là» replicò Alex. Le prese la mano
guantata e lei gli strinse con gentilezza le dita, poi le lasciò andare.
«Ho una pausa per il pranzo fra circa un’ora e mezza» disse. Erano parole
noncuranti, pronunciate con attenzione, come se avesse potuto romperle se
avesse stretto troppo i denti. «Potrei anticipare un poco. Vuoi incontrarmi a casa
mia? Giusto per ravvivare le cose un’ultima volta, prima che tu vada?»
Alex le posò la mano sulla guancia e lei puntellò una gamba contro lo scafo
per potersi premere contro il suo palmo. Quanti milioni di volte altre persone
avevano avuto quella stessa conversazione, in passato? Quante guerre avevano
fatto incontrare due persone per un momento, salvo poi separarle? Doveva
esserci una tradizione al riguardo, una storia segreta di vulnerabilità e mancanza,
e di tutte le cose che il sesso prometteva e manteneva solo occasionalmente.
Erano soltanto un’altra coppia in mezzo a tutte le innumerevoli altre. Questa
volta faceva male solo perché si trattava di loro.
«Sì» assentì. «Mi piacerebbe.»
La cambusa della Rocinante odorava di caffè e di sciroppo al gusto di acero.
Quando Alex arrivò, Naomi si spostò per fargli posto sulla panca. Amos le
sedeva accanto dall’altro lato, con lo sguardo fisso nel nulla mentre raccoglieva
con due dita le uova strapazzate da una ciotola. Aveva ancora gli occhi gonfi di
sonno, ma a parte questo pareva ben sveglio. Clarissa era in piedi sulla soglia,
incerta ma presente. Alex pensò di prendersi qualcosa da mangiare, ma non
aveva fame, e sarebbe servito soltanto ad avere qualcosa da fare con le mani.
La conversazione fra Bobbie e Holden echeggiò lungo il condotto
dell’ascensore mentre si avvicinavano, le voci dure, competenti e pratiche. Forse
perfino un po’ eccitate. Nell’aria c’era un’anticipazione che non dava la
sensazione di essere gioia, ma che non era neppure molto diversa da essa.
La malinconia che serrava il petto e la gola di Alex si attenuò un poco quando
entrarono e Bobbie prese posto sulla panca di fronte alla sua mentre Holden
puntava dritto verso il caffè. Quando aveva lasciato l’alloggio di Sandra per
venire lì, si era portato dietro un senso di perdita che avvertiva ancora e che
avrebbe continuato a sentire forse per giorni, settimane, forse per sempre, ma
non con altrettanta intensità. Qui c’era la sua gente, il suo equipaggio, la sua
nave. La parte più dolorosa del commiato era già superata, e l’aspetto più dolce
sarebbe rimasto. C’era un senso di piacere anche nel tornare a casa.
Holden bevve un sorso di caffè, tossì, ne bevve un altro. Clarissa entrò e si
mise a sedere alle spalle di Amos come se avesse potuto nascondersi dietro di
lui. Mentre Holden si avvicinava, a testa china, con espressione distratta, Bobbie
si protese a battere un colpetto sul polso di Alex.
«Stai bene?»
«Benissimo» rispose Alex. «Ho già detto i miei addii.»
Bobbie annuì una volta. Holden sedette di fronte a tutti loro, di traverso sulla
panca. Aveva i capelli arruffati, lo sguardo concentrato su qualcosa che lui
soltanto poteva vedere. L’attenzione di tutti... di Naomi, di Amos, quella dello
stesso Alex... si appuntò su di lui, mentre un’antica anticipazione a stento
familiare si agitava nel petto di Alex, come un frammento dell’inizio dell’anno
scolastico, ricordato dall’infanzia.
«Allora, capitano,» disse «qual è il piano?»
38
Avasarala

Avasarala urlò.
Il respiro le sfuggì lacerante dalla gola, escoriando la carne al suo passaggio, e
sentì in bocca il sapore della bile mentre le gambe tremavano, dolevano e
bruciavano nel tentare di respingere di un altro centimetro la piastra d’acciaio.
«Avanti» la incoraggiò Pieter. «Puoi farcela.»
Lei urlò di nuovo e la piastra si allontanò. Adesso le sue gambe erano quasi
diritte. Le costò uno sforzo resistere all’impulso di dare una spinta decisa,
irrigidendo le ginocchia. Una cosa del genere avrebbe potuto slogarle le
articolazioni, ma almeno avrebbe finito.
«Così sono undici» disse Pieter. «Arriviamo a dodici. Ancora una.»
«Vai a fottere tua madre.»
«Avanti, ancora una ripetizione. Sono qui io ad aiutarti.»
«Sei uno stronzo e nessuno ti ama» annaspò Avasarala, abbassando la testa. La
cosa peggiore era la nausea. Il giorno in cui lavorava alle gambe significava
sempre avere la nausea. A Pieter non importava, ma era pagato perché non gli
importasse.
«Fra dodici giorni dovrai scendere nel pozzo gravitazionale» ribatté lui. «Se
vuoi che il leader della Terra, la speranza e la luce della civiltà venga portata fuori
dalla navetta su una sedia a rotelle, puoi fermarti. Se vuoi che ne esca davanti alle
telecamere come una valchiria tornata dall’aldilà e pronta a combattere, arriverai
a dodici.»
«Sadico stronzo.»
«Sei tu quella che è rimasta indietro con il programma delle esercitazioni.»
«Ero impegnata a salvare la nostra fottuta specie.»
«Salvare l’umanità non previene la perdita di densità ossea o l’atrofia
muscolare,» ribatté lui «e tu stai temporeggiando. Ancora una volta.»
«Ti odio così tanto» dichiarò lei, lasciando che le ginocchia si piegassero in
modo da portare più vicina a sé la piastra d’acciaio. Voleva piangere, vomitare
sulle belle scarpe bianche da ginnastica di Pieter, essere impegnata a fare
qualcos’altro, qualsiasi altra cosa.
«Lo so, tesoro, ma puoi farcela» insistette Pieter. «Avanti.»
Avasarala urlò e spinse lontano da sé la piastra d’acciaio.
Dopo, rimase seduta sulla panca di finto legno dello spogliatoio con la testa fra
le mani finché l’idea di muoversi smise di causarle disgusto. Quando infine si
alzò in piedi, la donna vestita di grigio che vide nello specchio le parve poco
familiare. Non era esattamente una sconosciuta, ma di certo non era lei. Tanto
per cominciare era più magra, con chiazze di sudore alle ascelle e sotto i seni. I
capelli bianchi non le ricadevano sulle spalle ma fluttuavano verso l’esterno
perché la scarsa gravità lunare era troppo debole per tirarli verso il basso. La
donna nello specchio squadrò Avasarala da testa a piedi con scuri occhi critici.
«Altro che una fottuta valchiria» commentò, prima di dirigersi alla doccia. «Ma
dovrai essere sufficiente.»
La buona notizia era che Marte era finalmente uscito dalla sua crisi
costituzionale e aveva fatto la cosa più ovvia, nominando Emily Richards come
primo ministro. No, questo non era giusto. C’erano altre cose che andavano
bene, oltre a questa. Adesso i disordini a Parigi erano sotto controllo, e le cellule
razziste in Colombia erano state identificate e isolate senza che ci fossero altri
assassinii. San Pietroburgo aveva risolto il problema del riciclaggio dell’acqua,
almeno per il momento. Il misterioso lievito di Gorman Le stava facendo tutto
quello che era indicato sull’etichetta, con un aumento delle scorte generali di
cibo per i superstiti, e i reattori del Cairo e di Seul erano rientrati in funzione,
per cui era possibile utilizzarli. C’erano meno morti, almeno per adesso. Era
impossibile fare previsioni per la prossima settimana, e sarebbe sempre stato
così.
Tuttavia, le cattive notizie erano sempre superiori a quelle buone. La seconda
ondata di decessi non accennava ancora a rallentare, e le infrastrutture mediche
erano sature. Migliaia di persone morivano ogni settimana per problemi che
anche solo un anno prima sarebbero stati curati e risolti facilmente. La violenza
per accaparrarsi le risorse non accennava a cessare, c’erano razzie di vigilantes a
Boston e a Mumbai, rapporti di interi corpi di polizia che si erano messi in
proprio e avevano cominciato ad accumulare e tenere per sé i generi di prima
necessità mandati a Denver e a Phoenix. Gli oceani erano intasati di cenere. La
miscela di polvere e detriti non si stava depositando con la rapidità suggerita dai
modelli e di conseguenza le piante e il microbioma, che necessitavano di luce per
nutrirsi, stavano morendo. Se non ci fossero stati così tanti fottuti esseri umani a
sottoporre a stress la rete nutrizionale nel corso degli ultimi secoli, il sistema
avrebbe potuto essere più robusto, o forse no. Non avevano una seconda Terra
da usare come termine di paragone. La storia in sé stessa era un enorme studio
di n=1, irriproducibile. Era questo che rendeva tanto difficile imparare da essa.
Dopo la doccia indossò un sari verde lime, poi si sistemò i capelli e il trucco.
Cominciava a sentirsi un po’ meglio. Era uno schema che aveva già notato.
L’esercizio fisico in sé stessa la lasciava in uno stato pietoso, ma dopo che si era
ripresa, il resto della giornata pareva andare un po’ meglio. Se si trattava solo di
un effetto placebo, era sufficiente. Era pronta a prendere tutto il possibile, anche
se si trattava solo di trucchi della mente.
Quando fu quasi pronta ad affrontare il resto della giornata, aprì una
comunicazione solo audio con Said. «Come siamo messi?» chiese, invece di
salutare.
«Il gruppo di sicurezza proveniente da Marte sta finendo di mangiare» rispose
Said, senza battere ciglio. «Saranno nella sala conferenze fra mezz’ora. Sarà
presente anche l’ammiraglio Souther, se avrà bisogno di lui.»
«Va sempre bene avere nella stanza un pene in uniforme» commentò
Avasarala, in tono acido. «Dio sa che altrimenti potrebbero non prendermi sul
serio.»
«Se lo dice lei, signora.»
«Era una battuta.»
«Se lo dice lei, signora. C’è anche un rapporto dalla Stazione di Ceres.
L’ammiraglio Cohen ha confermato che la Giambattista è in viaggio, proprio
come aveva promesso Aimee Ostman.»
Avasarala si accostò un orecchino di perle all’orecchio sinistro, esaminando
l’effetto. Carino, e discreto. Però non si intonavano al sari.
«Prego, signora?» La voce di Said suonava confusa.
«Non ho detto niente.»
«Lei... ah... ha ringhiato.»
«Davvero? Probabilmente era solo un commento su quanto sono contenta che
adesso dobbiamo fidarci del fottuto APE. Ignoralo e continua.»
«Questo è tutto quello che ha in programma per oggi» replicò Said, quasi in
tono di scusa. «Mi aveva chiesto di tenere libero il pomeriggio, nel caso che la
riunione di sicurezza si fosse prolungata.»
«Infatti» convenne lei, provando un paio di orecchini di acquamarina a lobo
che andavano molto meglio. «Notizie dall’Aia?»
«Dicono che il suo ufficio sarà pronto e il personale necessario al suo posto.
Le operazioni per riportare la sede di governo sul pianeta procedono come da
programma.»
Le parve di cogliere un certo orgoglio nella voce di Said. Bene. Doveva essere
orgoglioso. Tutti loro dovevano esserlo. La Terra poteva anche essere un
mucchio di cadaveri e di merda, ma era il loro mucchio di cadaveri e di merda, e
lei era stanca di guardarlo dalla Luna.»
«Era ora, cazzo» disse. «D’accordo. Riferisci a Souther che sto arrivando, e
portami un tramezzino o qualcosa del genere.»
«Che genere di tramezzino gradirebbe? Posso portarle...»
«No, di’ a Souther di farlo» ordinò lei. «Penserà che è divertente.»
La sala conferenze era la camera più sicura di tutto il sistema solare, ma non lo
dava a vedere. Era abbastanza piccola perché sei persone potessero sedere
comodamente, tendaggi rossi alle pareti nascondevano i riciclatori dell’aria e i
riscaldatori, e il tavolo ampio e scuro era più basso appena di quei pochi
centimetri necessari a dare più spazio al display olografico. Non che qualcuno
usasse mai quei display olografici, che erano un’ostentazione ma non erano
funzionali. L’attaché militare marziano non era lì per essere lasciato a bocca
aperta dal design grafico, e per questo andava a genio ad Avasarala.
L’attaché, Rhodes Chen, sedeva da un lato del tavolo, fra il segretario e
l’assistente. Anche Souther era già presente quando lei arrivò: appoggiato allo
schienale della sedia, stava ridendo insieme a Rhodes. Un piccolo piatto di
metallo la aspettava vicino al suo posto... pane bianco e cetrioli. Quando la vide,
Chen si alzò in piedi, imitato da tutti gli altri, ma Avasarala gli fece cenno di
rimettersi comodo.
«Grazie per essere venuto» disse. «Volevo essere certa che i nostri alleati su
Marte fossero completamente aggiornati sulla situazione che concerne la Marina
Libera.»
«Il primo ministro Richards esprime il suo rammarico per non essere presente»
replicò Chen, rimettendosi a sedere. «La situazione è ancora instabile e lei non si
sentiva a suo agio a essere fisicamente assente dal palazzo del governo.»
«Lo capisco» annuì Avasarala. «E come sta sua moglie, Michaela? Si sente
meglio?»
Chen rimase interdetto. «Ecco... sì. Sì, sta molto meglio, grazie.»
Avasarala si girò verso Souther. «La moglie dell’ammiraglio Chen ha
frequentato la scuola cooperativa con mia figlia Ashanti, quando erano ragazze»
spiegò. Non che Chen ricordasse quel dettaglio o lo avesse perfino mai saputo.
A essere onesti, le ragazze non erano state particolarmente amiche, ma si
sfruttavano tutte le carte che l’universo ti offriva. Prese il tramezzino, ne staccò
un boccone e lo rimise sul piatto per dare a Chen il tempo di nascondere il suo
disagio.
«Intendo chiedere al suo personale di andarsene» continuò Avasarala.
«Sono persone fidate» disse Chen, pur annuendo come se fosse stato
d’accordo.
«Non per me» ribatté Avasarala. «Non faremo loro del male, ma non possono
rimanere.»
Chen sospirò. Educatamente, il suo segretario e l’assistente raccolsero le loro
cose, salutarono con un cenno Souther e Avasarala e uscirono. Souther abbassò
il capo, aspettando che il sistema riferisse se si erano lasciati qualcosa alle spalle.
Sarebbe stato triste arrivare a quel punto per poi ritrovarsi con una microspia
nella stanza. Un momento più tardi scosse il capo.
«Bene» disse Avasarala. «Allora vogliamo cominciare?»
Chen non obiettò, e Souther richiamò a schermo uno schema del sistema
solare nel suo stato attuale, con il sole e il portale dell’anello come asse
principale e i pianeti e le lune, le stazioni e gli asteroidi, sparpagliati dove le leggi
della meccanica orbitale li avevano posizionati. Come accadeva con ogni mappa
tattica su quella scala, le proporzioni avevano sofferto un poco a favore della
visibilità. La realtà era che tutti i figli dell’umanità vivevano su pietre sparpagliate
e più piccole di granelli di polvere sulla superficie dell’oceano, un dato di fatto
nascosto da grafici e dalle liste evidenziate di nomi e vettori di navi. Se la mappa
fosse corrisposta al territorio non ci sarebbe stato niente da vedere. Perfino la
Terra, con i suoi miliardi di persone sofferenti, sarebbe stata meno di un pixel.
La Marina Libera spiccava in giallo, la flotta congiunta in rosso, le navi ribelli
di Michio Pa e i loro nuovi cosiddetti alleati dell’APE in oro. Era una cosa rozza e
brutta. Souther creò un indicatore e attirò l’attenzione dei presenti sul portale
dell’anello, al confine del sistema.
«Il nostro bersaglio è la Stazione di Medina» disse, in quella sua strana voce
acuta e musicale. «Ci sono parecchi motivi per questo, ma la cosa d’importanza
critica è che costituisce una strozzatura sulla rotta per raggiungere i sistemi
coloniali, incluso quello di Laconia, dove pare che si sia installato l’ex ufficiale
della marina marziana Winston Duarte. Chiunque sia in possesso di Medina e
delle sue difese controlla i portali dell’anello e il traffico che li attraversa. La sua
conquista riaprirà per noi il commercio e il passaggio delle navi coloniali, e
taglierà le linee di approvvigionamento che uniscono Inaros al suo alleato.»
Chen si protese in avanti, con i gomiti sul tavolo e gli occhi illuminati dal
riflesso del display. Non aveva avuto nessuna reazione nel sentir nominare
Duarte: aveva una buona faccia da poker, e comunque si era aspettato di sentirlo
nominare. Richards non stava tentando di negare il ruolo della Marina Marziana
in questo disastro, il che era un bene. Avasarala mangiò un altro boccone del
tramezzino e desiderò di aver pensato a portarsi dietro qualche pistacchio.
Subito dopo il sollevamento pesi non aveva molto appetito, ma quando esso
riaffiorava diventava famelica.
«Fino a questo momento, il metodo operativo di Inaros ha fatto affidamento
sulla ritirata strategica» continuò Souther. «Sul depredare e abbandonare il
territorio piuttosto che cercare di conservarlo, abbandonando alla flotta
congiunta le popolazioni che si è lasciato alle spalle. Questo ha giocato a suo
favore, nel senso che siamo stati riluttanti a sparpagliare troppo le nostre forze
difensive, e la Marina Libera ha potuto portare avanti scorrerie e attacchi favoriti
dall’opportunità contro le forze della Terra e di Marte, come pure contro i
dissenzienti presenti fra le loro file.»
«I pirati» disse Chen.
«I pirati» convenne Avasarala. Inutile menare per l’aia quel particolare cane.
«Noi riteniamo che quella strategia fallirà con Medina» disse Souther. «La sua
importanza è eccessiva perché possano abbandonarla. Se poi ci sbagliassimo, e la
Marina Libera l’abbandonasse... ecco, avremo tutti i vantaggi che speriamo di
ottenere e lui farà la figura del buffone.»
«Non l’abbandonerà» affermò Avasarala.
«Cosa mi dite dei cannoni a rotaia?» chiese Chen. Era una mossa interessante,
che dimostrava come Marte fosse già al corrente di quell’artiglieria difensiva.
Avasarala non sapeva bene cosa intendesse ottenere dimostrandole che loro
sapevano. Souther le lanciò un’occhiata e lei annuì. Inutile fingere di essere
all’oscuro.
«Le nostre migliori informazioni al riguardo vengono dai disertori della Marina
Libera. Il capitano Pa, della Connaught, faceva un tempo parte della cerchia
interna di Inaros. A quanto ci è dato di capire, i cannoni a rotaia sono stati
installati sulla stazione aliena come prima linea di difesa per Medina. La stazione
vera e propria dispone anche di CDP e di una scorta di siluri lasciata da Duarte,
ma i cannoni a rotaia sono piazzati per la difesa e per distruggere qualsiasi nave
non autorizzata che attraversi i portali.»
«Questo sembra essere un problema» osservò Chen. «Come pensate di
superarlo?»
«Manderemo un casino di navi attraverso quei portali» rispose Avasarala,
mentre Souther passava dal quadro tattico a un’immagine della Giambattista. Non
era una bella nave: larga, squadrata e goffa.
«Questo è un mercantile per il trasporto dell’acqua convertito e con un
equipaggio che appartiene alla fazione Ostman-Jasinzki dell’Alleanza dei Pianeti
Esterni» spiegò Souther. «È stato caricato con poco meno di quattromila piccoli
vascelli. Capsule da penetrazione, piccoli trasporti, navette minerarie. Una
mescolanza diabolica. La definiamo il nostro rospo del Suriname, ma la nave
figura sui registri come la Giambattista.»
«Quella cosa contiene quattromila reattori?» chiese Chen.
«No» rispose Souther. «La maggior parte dei motori sono razzi chimici o
propulsori a gas compresso. Molti sono poco più che propulsori per tute
ambientali saldati su una scatola d’acciaio, e questo è parte del motivo per cui
vengono trasportarti fino ai confini dell’anello prima di essere usati. Non sono
navi a lungo raggio. Se dovessi azzardare un’ipotesi, direi che la maggior parte di
esse si troverebbe in difficoltà anche solo ad affrontare il tragitto dal portale a
Medina, perfino nelle migliori circostanze. Ci sono anche parecchie migliaia di
siluri con un assortimento di testate miste, ma in genere a bassa potenza.»
«Quindi sono ferraglia» riassunse Chen. «Carne da cannone.»
«Non metteremo della gente su tutte quante» interloquì Avasarala. «Neppure
l’APE è tanto suicida.»
«Una piccola percentuale... le navi migliori...» riprese Souther «trasporterà una
squadra d’attacco a terra, la cui missione sarà quella di prendere il controllo, non
di Medina ma delle postazioni dei cannoni a rotaia. Una volta che saranno sotto
il nostro controllo, ci aspettiamo che la Stazione di Medina capitoli. Dal
momento che i cannoni a rotaia erano destinati a difendere Medina da oltre
milletrecento portali, mentre noi ci focalizzeremo soltanto su quelli del Sole e di
Laconia, abbiamo motivo di aspettarci una posizione difensiva relativamente
forte, che potremo rinforzare non solo dal Sole ma anche con le navi coloniali
che sono già passate e sono disposte in grado di venire in nostro aiuto.»
«D’accordo» commentò Chen.
«Sembri scettico» osservò Avasarala.
«Senza offesa, signora, ma sto guardando tutto questo, e non mi quadra»
ribatté Chen. «Se Inaros stava tentando di indurre la flotta a estendersi troppo...
a sparpagliare eccessivamente le nostre forze... allora questa incursione oltre i
confini del sistema sembra proprio lo scenario che lui sta sognando. A meno che
non intendiate mandare la Giambattista senza scorta, nel qual caso tanto vale che
non la mandiate affatto.»
«La scorta sarà una corvetta marziana recuperata, che dispone di un suo
cannone a rotaia montato sulla chiglia» disse Souther. «La Rocinante è già su una
rotta di intercettazione. È partita dalla Stazione di Tycho, quindi è già nelle
vicinanze, relativamente parlando.»
«Ci sono anche dei vantaggi nell’avere quella particolare risorsa su Medina
quando la prenderemo» aggiunse Avasarala.
La risata di Chen suonò sottile e disperata. Avasarala distese la gamba destra,
sentendo una fitta di dolore. Al mattino sarebbe stato anche peggio. Sollevare
pesi era una tesi a sfavore dell’esistenza di un Dio benevolo, come se fossero
state necessarie altre prove.
«Perché prendersi il disturbo, allora?» domandò Chen. «Una singola nave di
scorta e un trasporto per l’acqua diretti verso la postazione strategica più
sensibile del sistema? Non voglio essere scortese, ma devo pensare che le
persone su quelle navi non vi siano molto simpatiche. Avranno l’intera Marina
Libera che darà loro la caccia e le trasformerà in metallo fuso prima che arrivino
a un milione di chilometri dall’anello.»
«Questo rimane da vedersi» ribatté Souther.
Se fosse stato un cane, in quel momento Chen avrebbe rizzato gli orecchi.
Avasarala glielo lesse in faccia e nella tensione delle spalle. «È per questo che
abbiamo bisogno di parlare. In privato e in sicurezza. Mr Chen, ho bisogno della
rassicurazione che il marcio nel cuore della vostra marina sia stato
completamente estirpato. Mi fido della capacità di Emily Richards di prendersi
cura del suo interesse e di quello di Marte, in quest’ordine, e quanto a lei ho
indagato a fondo sul suo background.»
«Lei ha... cosa?»
Avasarala protese le mani, con i palmi rivolti uno verso l’altro a circa un metro
di distanza. «Ho un rapporto alto così su di lei. Conosco ogni foruncolo che ha
avuto dallo sviluppo in poi. Tutto. Cose degne di lode, cose vergognose, cose
insignificanti. Tutto. Ho violato la sua privacy in modi che non può
immaginare.»
Chen sbiancò in volto, poi arrossì. «Ecco...» disse.
«Non potrebbe importarmi meno di tutta quella roba» continuò Avasarala. «La
sola cosa che mi importava era accertare se lei avesse o meno la puzza di Duarte
sulle dita. Non ce l’ha, ed è per questo che si trova in questa stanza, perché mi
fido che lei riferisca tutto questo a Richards, e a nessun altro. E ho bisogno di
sapere se lei si fida di Marte.»
Il silenzio nella stanza si fece profondo. Chen si premette le dita sulle labbra.
«Perché questo? Ho la sensazione che lei stia avanzando una sorta di richiesta.
In tal caso, dovrebbe essere molto chiara ed esplicita.»
«Voglio che Richards istruisca quel che resta della Marina Marziana... le navi
della flotta congiunta e anche quelle che avete di riserva... in modo che si
coordinino strettamente con la Terra, l’APE e anche la fottuta flotta pirata.»
«Per fare cosa?»
«Mettere in piedi una campagna diversiva» interloquì Souther.
Avasarala gli segnalò di farsi da parte e si protese verso Chen con un sorriso
sulle labbra. «Inaros non inseguirà la Giambattista e la Rocinante perché verrà
distratto dalla più grande e aggressiva azione di flotta della storia che gli spingerà
le balle a calci su per la gola. Quando capirà le nostre intenzioni effettive sarà
troppo tardi perché possa fare qualsiasi cosa tranne reggersi il cazzo e piangere.
Però ho bisogno di sapere che voi ci state.»
Chen sbatté le palpebre, e il suo riserbo si incrinò leggermente.
«Ecco,» rispose «se la mette in questi termini...»
39
Naomi

La Rocinante era in viaggio, ma non stava puntando direttamente verso il


portale dell’anello perché sarebbe stata una mossa troppo ovvia. L’intenzione era
di effettuare il rendez-vous con la Giambattista in un’orbita ambigua che rendesse
poco chiaro a qualsiasi osservatore se le due navi intendevano effettuare una
lunga accelerazione in direzione di Saturno, puntare verso la stazione scientifica
su Nettuno o dirigersi verso il portale. Che Marco rimanesse nel dubbio per un
po’, e si trovasse in posizione quando la distrazione avrebbe cominciato a
distogliere la sua attenzione. Supponendo, naturalmente, che stesse controllando
dove era diretta la Roci.
Naomi supponeva che lui lo stesse facendo. Supponeva che lo facessero tutti,
perché capiva quanto i suoi vecchi amici adesso la odiassero.
Anche in questo momento di relativa calma, Holden trascorreva turni di dieci
o dodici ore alla postazione delle comunicazioni. Quando non trasmetteva o
riceveva messaggi guardava i feed di notizie. La presenza della Marina Libera
stava aumentando su Ganimede e su Titano. La flotta congiunta si stava
dividendo in contingenti separati per poter mandare navi a protezione di Tycho.
Voci irose giungevano da Pallas a denunciare i traditori che erano in collusione
con i pianeti interni, il che non includeva più soltanto Michio Pa e la sua flotta
pirata, ma anche le fazioni dell’APE che Fred Johnson aveva riunito. Era così che
Jim cercava di avere controllo su qualcosa che non poteva realmente controllare.
I messaggi che guardava e inviava erano per lui una sorta di preghiera, anche se
non avrebbe mai espresso la cosa in quei termini, era qualcosa che portava pace
e l’illusione che ciò in cui erano coinvolti non fosse enormemente più vasto della
volontà, delle speranze e delle intenzioni individuali.
Così, anche se la cosa le scuoteva il sistema nervoso, gli permise di continuare
a farlo. Si abituò ad addormentarsi ascoltando le voci musicali dei notiziari
terrestri e a svegliarsi sentendo nella sua cabina i toni duri di Avasarala e di
Michio Pa.
«Accenderemo i motori dopo aver visto che la flotta congiunta è entrata in
azione» disse Pa, la sua voce distante e soffocata che si insinuava nella mente
mezza addormentata di Naomi. Suonava tanto stanca da destare in lei il
desiderio di rimettersi a dormire per solidarietà. «Capisco che non è una
decisione popolare, ma non mi va che la mia gente sia il verme infilzato nell’amo
lanciato dalla Terra.»
«Questa è una cosa che non ho mai capito» commentò Naomi. Holden spense
lo schermo del terminale palmare e si fece scivolare la cuffia intorno al collo con
espressione colpevole. Naomi cambiò posizione, e il letto a smorzamento oscillò
sotto di loro come una delle amache su cui aveva dormito da ragazzina. «In che
modo c’entrano i vermi-amo nel prendere i pesci?»
«Non vermi-amo» spiegò Jim. «Solo vermi, quelli che ci sono nel terreno.
Oppure insetti. Grilli. Si mettono su un gancio di metallo con un uncino a
un’estremità, lo si lega a una fune molto sottile e si getta il tutto in un fiume o in
un lago, sperando che un pesce mangi il verme e che tu lo possa poi tirare fuori
dall’acqua grazie all’uncino impigliato nella bocca.»
«Sembra inefficiente e di una crudeltà inutile.»
«In effetti in certa misura lo è.»
«Ne senti la mancanza?»
«Dell’atto di pescare? No. Dello stare sulla riva di un lago o su una barca
mentre sorge il sole? Un poco.»
Questa era l’altra cosa che lui faceva. Ricordare di essere stato un ragazzo sulla
Terra, parlarne come se lei avesse avuto esperienze simili alle sue. Come se
potesse capire per il solo fatto che lo amava. Lei fingeva di capire, ma cambiava
anche argomento non appena possibile.
«Per quanto tempo ho dormito?»
«Mancano ancora sei ore prima che siamo abbastanza vicini da cominciare
l’attracco» disse Jim, rispondendo alla sua vera domanda senza dover fare
controlli. «Bobbie è giù nell’officina meccanica con Clarissa e Amos, a fare
qualche controllo dell’ultimo minuto alla sua armatura da combattimento. Ho la
sensazione che intenda indossarla e tenerla addosso finché non sarà su Medina.»
«Per lei deve essere strano guidare combattenti dell’APE.»
Jim si adagiò sul gel del letto a smorzamento, con un braccio piegato dietro la
testa, e Naomi gli posò la mano sul petto, appena sotto la clavicola. La sua pelle
era calda, e nell’ombra lui appariva vulnerabile. Sperduto.
«Ti ha detto qualcosa al riguardo?» chiese.
«No, stavo solo pensando alla cosa. Ha trascorso tanta parte della sua vita con
i cinturiani come nemici, e adesso andrà su una nave dell’APE piena di soldati
dell’APE. Noi non siamo la sua gente, o almeno non lo eravamo prima d’ora.»
Jim annuì, le strinse la mano, poi scivolò via da sotto di essa. Naomi rimase in
silenzio per quasi un minuto, guardandolo mentre si vestiva.
«Cosa c’è?» chiese.
«Niente.»
«Jim» disse lei. Poi, con gentilezza ripeté: «Cosa c’è?»
Quando lui emise quel suo piccolo, sonoro sospiro di resa comprese che aveva
smesso di cercare di proteggerla, di qualsiasi cosa si trattasse. Si infilò la
canottiera e si appoggiò alla parete.
«C’è una cosa di cui ti volevo parlare. Riguarda l’imboscata nella quale è morto
Fred.»
«Continua.»
Lui lo fece. Le parlò di quando aveva contattato la Pella, cercando di distrarre
Marco, dell’aver visto Filip e disarmato i siluri. Le raccontò ogni cosa con la
contrizione di un bambino che confessasse di aver mangiato l’ultimo pezzo di
un dolce. Anche quando lei alzò l’intensità delle luci della cabina e cominciò a
sua volta a vestirsi, non incontrò il suo sguardo. Parlò di come Amos gli avesse
chiesto spiegazioni sull’accaduto, si fosse offerto di escluderlo dal controllo dei
siluri e di come lui avesse rifiutato. Il suo silenzio fu il solo segno che avesse
finito.
Naomi rimase immobile per un momento, guardando le proprie emozioni
come se fossero state oggetti sparpagliati da una curva improvvisa. Orrore
all’idea della morte di Filip. Ira nei confronti di Marco per aver messo in
pericolo il loro figlio. Senso di colpa, non solo per Filip ma anche per Jim, per la
posizione in cui lo aveva messo e i compromessi che di riflesso lui aveva fatto
per lei. Quelle erano tutte cose che aveva saputo di doversi aspettare, ma c’era
anche un senso di insofferenza. Non proprio nei confronti di Jim, o di sé stessa,
o di Filip, ma della necessità di piangere qualcosa che aveva già pianto tante altre
volte in precedenza.
«Grazie» disse, sentendosi il cuore pesante. «Per esserti preso a cuore la cosa.
Per aver cercato di proteggermi. Però ho perso Filip, non ho potuto salvarlo
quando era un bambino, e non ho potuto salvarlo adesso che è essenzialmente
un uomo. Sono due volte, e due volte equivalgono a sempre. Non posso
smettere di sperare che esca sano e salvo da tutto questo, ma se si deve salvare,
deve farlo da sé.»
Rimosse una lacrima traditrice. Jim mosse un mezzo passo verso di lei.
«Dovrà farlo da sé» ribadì, con voce leggermente più dura, per impedirgli di
toccarla o di dire qualcosa di dolce e consolatorio. «Come chiunque altro.»
Quando entrò chiaramente nel loro campo visivo, la Giambattista risultò non
essere una bella nave. Più lunga di quanto non fosse stata la Canterbury, ai suoi
tempi, era più larga nel centro, con una ventina di enormi celle di stoccaggio
aperte al vuoto, nelle quali aveva immagazzinato il ghiaccio ricavato dagli anelli
di Saturno o sottratto alle comete o a qualsiasi altra fonte presente nel sistema.
Fra le piattaforme di lavoro illuminate dai riflettori, le rimesse esterne per i
mech, i propulsori di manovra e le schiere di sensori e di antenne, c’erano così
tante fonti di attrito che anche l’atmosfera più rarefatta avrebbe ridotto la nave a
brandelli. Però non c’erano tubi per i siluri. Niente CDP. C’erano migliaia di
minuscoli vascelli riposti nell’enorme nave, e niente di più di un accattivante
sorriso e di una pistola a proteggerle.
Sul ponte di comando, Bobbie posò una mano sulla spalla di Naomi e l’altra su
quella di Jim. «Ancora niente attacchi d’ansia?»
«Sto bene» rispose Naomi, nello stesso momento in cui Jim diceva: «Sì.»
Bobbie scoppiò in una calda risatina. Era felice come Naomi non l’aveva mai
vista da quando era tornata sulla nave. Camminava per il ponte, con gli stivali
magnetici che aderivano con un ticchettio a ogni contatto e sgancio. La cosa
rendeva Naomi nervosa. Se fosse successo qualcosa che avesse costretto la Roci
a muoversi in modo improvviso, gli stivali avrebbero aderito al ponte e spezzato
gli stinchi a Bobbie, oppure si sarebbero sganciati e l’avrebbero lasciata a
rimbalzare contro le pareti della nave. Non che quel pericolo fosse reale. Come
Jim, probabilmente anche lei stava avendo un attacco d’ansia. Un poco, almeno.
Osservò la linea di frenata della Giambattista. I motori principali erano spenti, il
pennacchio si andava raffreddando e allontanando dalla nave mentre essa
procedeva di abbrivio verso di loro. Seimila chilometri. Cinquemila e tre quarti.
Cinquemila e mezzo.
«Bene,» avvertì Alex, attraverso il comunicatore di bordo «tenetevi forte, tutti
quanti. Manovriamo per l’attracco.»
Con suo sollievo, Naomi sentì Bobbie assicurarsi sul sedile accanto al suo
mentre Amos e Clarissa annunciavano di essere a loro volta al sicuro.
«Puoi bussare?» chiese Jim.
Naomi aprì una connessione a raggio stretto. Attese un lungo momento, poi si
venne a trovare faccia a faccia con un uomo la cui barba brizzolata lo faceva
apparire come un’illustrazione uscita da una storia per bambini su lupi in veste
umana.
«Que sa, Giambattista» disse. «Rocinante, wir. Va es gut alles la?»
Il lupo sorrise. «Bist bien, sera Nagata suer. Dateci la vostra guerriera e
prendiamo a calci questi coglioni à l’envers a pukis.»
Naomi rise, non tanto per la volgarità dell’immagine quanto per la
soddisfazione con cui aveva parlato il vecchio. «Bien. Preparatevi all’attracco.»
Chiuse la connessione e chiamò Alex. «Abbiamo il permesso di attraccare.»
Alle loro spalle, Bobbie stava canticchiando una melodia che Naomi non
riconobbe, ma che era sincopata, vivace, perfino scherzosa. La Roci sobbalzò e i
sedili a smorzamento si spostarono tutti di qualche grado per compensare. Le
due navi erano in un’orbita quasi identica. Restava ancora qualche metro di
deriva, che venne annullato dai propulsori, manovrati con cura da Alex.
«Conosceva il tuo nome» osservò Jim.
«Non sei il solo che venga riconosciuto dalla gente» replicò Naomi, mentre il
tubo di attracco si estendeva dalla Roci e si agganciava al portello esterno della
Giambattista. Così da vicino, il mercantile era immenso rispetto alla corvetta, che
era come una mosca vicino a un cavallo. A quel punto Naomi infine registrò la
portata di quello che stavano per tentare, e questo le tolse il respiro. Quelle due
navi erano una piccola forza furtiva, che poteva passare facilmente inosservata
in un sistema devastato dalla violenza. Minuscola, così speravano tutti, al punto
da essere insignificante. E tuttavia era comunque enorme.
«Verremo ancora sballottati?» chiese Bobbie. «Lo domando perché altrimenti
andrei a vestirmi per salire a bordo.»
«Indosserai l’armatura potenziata solo per percorrere il tubo di attracco?»
chiese Alex.
«Sai com’è» replicò Bobbie. «Non si ha mai una seconda opportunità di
generare una prima impressione.»
«Grandioso» commentò Alex.
«Ti raggiungo al portello» disse Amos.
Naomi guardò verso Jim, notando che si era accigliato. «Vuoi ripetere, Amos?»
«Sì» rispose Amos, e Naomi colse il sorriso che gli traspariva dalla voce. «Ho
pensato di passare di là insieme a Bobbie. Questi tizi dell’APE adesso sono i
nostri migliori amici e tutto il resto, ma noi siamo ancora noi e loro sono ancora
loro. Qualcuno dovrebbe guardare le spalle a Bobbie mentre è là fuori in mezzo
agli inglesi. Inoltre, sono bravo quanto chiunque altro di loro a rompere teste.»
«Potremmo aver bisogno di te sulla Roci, grand’uomo» osservò Jim, in tono
leggero. «Con tutta questa faccenda dell’andare in battaglia, mi piacerebbe avere
il mio meccanico a portata di mano.»
Bobbie si avviò giù per il condotto dell’ascensore, tirandosi una mano dopo
l’altra, con i piedi fluttuanti che scomparvero per ultimi.
«Questo è gentile, ma non hai bisogno di me, capitano» ribatté Amos. «Lo
Zuccherino, qui, conosce la nave bene quanto me, e può fare qualsiasi cosa di
cui tu abbia bisogno.»
Jim grugnì e Naomi protese la mano, afferrando il bordo del suo sedile e
ruotandolo fino a quando furono uno di fronte all’altro. Jim colse il messaggio
che traspariva dalla sua espressione. «Ricevuto, Amos» disse. «Bobbie? Accertati
di riportare indietro abbastanza di lui da permetterci di rigenerare i pezzi
mancanti.»
«Ricevuto. Sarà fatto» rispose Bobbie. La sua voce suonava vicina ed
echeggiante, segno che aveva già indosso il casco. Naomi avrebbe voluto essere
rassicurata dalla gioia che Bobbie traeva dalla violenza imminente, ma non ci
riusciva. Tutto quello che poteva fare era resistere e sopportare, e vedere cosa
sarebbe successo. Se non altro, era qualcosa in cui aveva esperienza.
Nell’ora successiva Bobbie e Amos ispezionarono i loro nuovi alleati... i
rapporti della nave e i diari di bordo delle navette che trasportava, i combattenti
dell’APE che avrebbero guidato all’attacco... mentre Naomi catalogava ogni cosa,
guardando attraverso la videocamera del casco di Bobbie. Rastrelliere di armi e
casse di munizioni. L’assortimento di vascelli e di soldati. Le valutazioni di
Bobbie erano calme, razionali, professionali, e alimentavano il timore che
cresceva nello stomaco di Naomi.
La sua mente vagò un poco nei momenti più lenti. La violenza umana come
una sorta di frattale... simile a sé stessa su tutte le scale, dalle risse da bar a una
guerra estesa a tutto il sistema. Il crescendo degli insulti e del perdere la faccia
che si gonfiava nel corso di una serata o di un secolo. Lo spintonarsi a vicenda
senza che nessuna delle due parti fosse certa di voler intensificare la violenza o
sapesse come tirarsi indietro. Tutto questo era la storia dei pianeti interni e della
Fascia fin dall’inizio. Poi Marco aveva sferrato il suo colpo basso e fatto
barcollare l’intero sistema. Da allora era stato un succedersi di finte e di
valutazioni, di esplosioni di violenza che non volevano tanto porre fine a
qualcosa quanto trovare la posizione giusta, sondare l’avversario.
Da quando le rocce erano cadute sulla Terra, tutto era stato una preparazione
per questo: un contrattacco fatto sul serio e senza riserve, con ciascuna parte che
sperava di sferrare un colpo che l’altra non vedesse arrivare, inferto con un
braccio dimenticato. Forse era nel loro sangue e nelle loro ossa, un retaggio
umano comune, lo schema che adesso stavano esportando fra le stelle. Era
un’idea che la faceva sentire stanca.
«Bene, non è quello che avrei scelto, ma è meglio di quanto sperassi» disse
Bobbie, dal suo nuovo, angusto alloggio a bordo della Giambattista. In
sottofondo, Naomi sentì la voce di Amos, che rideva insieme ad altre persone.
Si inseriva nel nuovo gruppo. No, questo non era esatto. Induceva il nuovo
gruppo a pensare che si fosse inserito in esso. Naomi aveva la terribile
sensazione che non sarebbe tornato sulla Rocinante, una di quelle premonizioni
senza fondamento che derivavano dall’ansia e dall’impazienza.
«Vuoi controllare più a fondo le navette?» chiese.
«No» rispose Bobbie. «Posso farlo lungo la strada. Premi il grilletto. Avviamo
quest’apocalisse.»
«D’accordo» assentì Naomi. «Tieniti al sicuro»
«Buona caccia. Noi diciamo ‘buona caccia’.»
«Buona caccia, allora.»
Quelle parole erano estremamente inadeguate. Naomi chiuse la connessione,
slacciò le cinghie e si puntellò contro gli appigli a parete, stiracchiando le braccia
e le gambe, rilassando la schiena. Quando ebbe finito si rese conto che era la
stessa routine che eseguiva prima di esercitarsi in palestra. La preparazione a un
grande sforzo fisico.
Scese nella cambusa, dove Alex, Jim e Clarissa stavano mangiando insieme.
Tutti sollevarono lo sguardo su di lei quando fluttuò nella stanza. «Bobbie dice
che possiamo procedere.»
«Bene, merda ed evviva» commentò Alex.
Jim tirò fuori di tasca il terminale palmare e digitò una serie di comandi,
includendone uno con una doppia password, poi premette un pulsante.
«D’accordo, ho mandato il segnale» annunciò. «Non appena l’attacco avrà
inizio punteremo verso l’anello, sperando che nessuno si accorga di noi.»
Rimasero tutti in silenzio per un momento. Naomi aveva la sensazione che ci
sarebbe dovuta essere una fanfara di qualche tipo, gong e trombe che
annunciassero l’avvento della morte e della distruzione. Invece, c’erano solo la
cambusa, loro quattro, il rumore dei riciclatori dell’aria e l’odore di pollo.
«Sembra una notte di merda per dormire» disse. «Sarò di sopra a guardare i
notiziari.» Jim non replicò. Aveva gli occhi infossati dallo sfinimento e da
qualche altra cosa. Non era paura, ma qualcosa di peggio: rassegnazione. Naomi
si diede una spinta, si puntellò accanto a lui e posò una mano sulla sua. Lui riuscì
a sorridere. «Porterò da bere e qualche snack, poi potremo guardare l’inizio dei
fuochi d’artificio.»
«Non saprei» replicò Jim.
«Non è rimuginare, se lo facciamo tutti insieme, capo» commentò Alex. Poi si
rivolse a Naomi e disse: «Io ci sto.»
«Anch’io» disse Clarissa, e non aggiunse ‘se sono invitata’. Sullo sfondo della
guerra era una sfumatura davvero piccola, e Naomi fu lieta di riuscire a vederla.
«Sì» assentì Jim. «D’accordo.»
Ci vollero ore. I pennacchi dei reattori apparvero in tutto il sistema. Intorno a
Ceres, a Marte e a Tycho, la flotta congiunta si lanciò lontano dalle sue posizioni
difensive per addentrarsi nella Fascia. La manciata di navi della flotta pirata di
Michio Pa si unì alle altre, e così pure quelle dell’APE. Quando anche l’ultima di
esse riferì di essere in accelerazione, le navi della Marina Libera cominciavano a
reagire. La Rocinante tracciò vettori e gruppi in movimento. Fili di luce che si
aggrovigliavano nel vuoto fra stazioni e pianeti. Schieramenti di battaglia. I
notiziari cominciarono a susseguirsi... i civili, il governo, le società e i sindacati si
stavano tutti rendendo conto che succedeva qualcosa e si affrettavano a cercare
di capire cosa potesse essere.
Fu appena dopo la mezzanotte, tempo di bordo, che la Roci diede l’allarme.
«Cos’abbiamo, Alex?» chiese Jim.
«Cattive notizie. Vedo un paio di navi da attacco rapido che puntano su di noi
provenienti da Ganimede.»
«Ecco, addio non essere notati. Quanto tempo, prima che ci raggiungano?»
domandò Jim, ma Naomi aveva già interrogato il sistema.
«Cinque giorni, se vogliono solo darci un’occhiata e tornare indietro» rispose.
«Dodici se cercheranno di adeguarsi alla nostra orbita mentre siamo in
accelerazione.»
«Possiamo distruggerle?» chiese Clarissa.
«Se si trattasse solo di noi, potremmo» rispose Alex. «Il problema è che stiamo
proteggendo questa vacca. Se però acceleriamo abbastanza, potremmo arrivare
all’anello prima che ci raggiungano.»
«Lo capiremo lungo la strada» disse Jim. «Attualmente dobbiamo far accelerare
la Giambattista più che può, e permettere comunque a Bobbie di effettuare le sue
ispezioni.»
«Nessun piano sopravvive al contatto con il nemico» osservò Alex, slacciando
le cinghie e tirandosi su verso la cabina di pilotaggio. «Vado a scaldare il
motore.»
«Avverto i nostri amici di fare altrettanto» replicò Holden, prendendo il
controllo delle comunicazioni. Sul monitor di Naomi, le migliaia di fili sottili
come capelli contrassegnavano dov’erano in corso le battaglie e dove ci si
aspettava che si scatenassero. D’impulso, rimosse il display d’attacco, lasciando
solo i pennacchi dei reattori, sparsi per tutto il sistema, e poi aggiungendo la
distesa delle stelle.
Era il più assurdo attacco coordinato che si fosse mai visto, centinaia di navi
su almeno quattro fronti. Dozzine di stazioni, milioni di vite.
Fra le stelle, non spiccava in nessun modo.
40
Prax

Più tempo passava, più diventava evidente quanto poco significato avesse la
neutralità ufficiale di Ganimede. Le navi all’attracco e in orbita intorno alla luna
erano sempre più quelle della Marina Libera e sempre meno di qualsiasi altra
bandiera. Soldati in uniforme della Marina Libera apparivano sempre più spesso
nelle stazioni della metropolitana, nei grandi mercati, nelle sale e nei corridoi
pubblici, dapprima con l’apparente disinvoltura di regolari cittadini, poi in
gruppi più numerosi e dal comportamento più aggressivo. Poi con un’armatura
che avrebbe permesso loro di sparare senza rischi a chiunque avessero
incontrato.
Djuna aveva smesso di lasciargli guardare i notiziari locali durante la colazione,
nei weekend. Troppe storie di corpi trovati in deplorevoli condizioni. Troppa
gente scomparsa, troppe accuse di spionaggio, troppi modi in cui l’apparato di
sicurezza ancora ufficiale ricordava ai cittadini che la Pinkwater era una società
priva di affiliazioni e senza un colore politico, che aveva a cuore soltanto la
sicurezza e il benessere dei cittadini di Ganimede. Era il genere di cose che la
gente diceva perché non erano vere.
Per Prax, le notizie ufficiali e i soldati armati non erano la cosa che lo turbava
di più. C’erano cose più piccole che lo colpivano. Il modo in cui le ragazze non
protestavano più per l’essere costrette in casa dal coprifuoco. Le conversazioni
utopistiche che Djuna avviava riguardo all’accettare un lavoro altrove,
all’emigrare da Ganimede, concludendole però senza arrivare a una conclusione.
Quelle piccole cose avevano più peso. Sì, una cerchia di dissidenti era stata
uccisa. Sì, c’era gente che scompariva, ma a parte Karvonides, quella non era
gente che lui conoscesse. E i cambiamenti nella stazione erano anche
cambiamenti nella sua famiglia. Anche lui stava cambiando.
Andava avanti con il suo lavoro perché non c’era niente altro da fare. Le cose
non sarebbero migliorate se si fosse nascosto nel suo letto, e l’apparenza di
normalità era a volte buona quanto la realtà. Di conseguenza, al mattino andava
alle riunioni, e nel pomeriggio lavorava alle sue piante. Alcune colture avevano
dovuto essere rifatte. Ricerca e sviluppo non erano una priorità quanto lo era
generare cibo per rifornire le navi da guerra. Prax riteneva che fosse una politica
miope. Caso mai, sconvolgimenti come questo erano una tesi a favore
dell’aumento della ricerca, soprattutto con il lavoro sul radioplasto che Khana e
Brice avevano sottoposto ad approvazione. Di tanto in tanto cercava di sollevare
di nuovo la questione, ed era arrivato al punto di chiedere se c’era un contatto
all’interno della Marina Libera con cui i laboratori potevano parlare della cosa,
ma nessuno si era mostrato entusiasta del suggerimento. Quindi quella era
un’altra cosa che l’occupazione aveva cancellato.
Sotto a tutto questo, la paura di quello che aveva fatto inviando i dati sulla
Terra gravava su di lui. Fu quasi un sollievo quando infine arrivarono le forze di
sicurezza.
Si trovava nel laboratorio idroponico, verso metà pomeriggio. File di piante
dalle foglie nere si levavano dalle vasche verso le luci. Le radici che emergevano
dal sottostante gel acquoso erano pallide come la neve. Prax stava passando da
una pianta all’altra, con le mani avvolte dai guanti azzurri di gomma sintetica e
controllava con delicatezza ciascuna foglia, alla ricerca di venature gialle e
arancioni dove il radioplasto stava morendo. Finché quell’uomo non chiamò il
suo nome, il pomeriggio stava andando decisamente bene.
«Il dottor Meng?»
C’erano quattro persone, tutti uomini. Due indossavano una semplice
uniforme con il logo della Pinkwater sulla spalla e sul petto, gli altri due
appartenevano alla Marina Libera. Prax sentì il cuore martellargli contro il petto
per la scarica di adrenalina, ma cercò di non tradire più di un lieve disagio.
Chiunque si sarebbe mostrato un po’ in ansia se la Marina Libera fosse venuta a
cercarlo, anche un innocente. Pensò che andasse bene così.
«Posso esservi utile?»
«Deve venire con noi, subito» disse il più alto dei due uomini della Marina
Libera.
«Non posso» replicò Prax, accennando alle piante che non aveva ancora
controllato, come se quella fosse stata una spiegazione sufficiente.
Gli uomini si fecero più vicini, circondandolo. Erano tutti armati, avevano
manette e bombolette di spray costrittivo.
«Deve venire con noi, subito» ripeté quello più alto.
«Ho... ho bisogno del mio rappresentante sindacale?» chiese Prax, ma non
rimase sorpreso quando il più basso dei due uomini della Marina Libera gli
assestò una spinta alla base della schiena. Potrei fuggire, pensò. Non servirebbe,
ma potrei farlo.
Lo scortarono fuori attraversando l’ufficio principale. Quando incrociarono
Brice, nel corridoio, lei distolse lo sguardo, fingendo di non vederli. La scrivania
della reception era vuota, perché tutti erano improvvisamente andati in bagno o
a fare una pausa per il caffè nello stesso momento. Nessuna delle persone con
cui lavorava lo avrebbe visto andare via. Era così, con questa rapidità, che il
giusto tipo di potere era in grado di far scomparire qualcuno. Nell’uscire dalla
porta principale per quella che doveva supporre essere l’ultima volta recepì la
cosa come una rivelazione. Nel guardare i notiziari si era chiesto come così tante
persone potessero scomparire su una stazione con persone e videocamere
ovunque. Adesso lo sapeva.
Tutto quello che dovevano fare era rendere la cosa troppo pericolosa perché
gli altri rimanessero a guardare.
Lo caricarono su un carrello e si allontanarono lungo il corridoio principale,
giù per la rampa di scambio meridionale e in un corridoio di cemento ben
illuminato. Fu assalito dal ricordo improvviso, viscerale, di aver atteso proprio là
quando gli specchi erano caduti, quando la sopravvivenza della Stazione di
Ganimede era stata in forse. Aveva atteso in fila proprio lì, nel tentativo di
trovare Mei. Adesso sarebbe toccato a lei chiedersi che ne fosse stato di lui.
Simmetria.
Negli uffici della Pinkwater lo condussero in una stanza piccola e fredda, con
le pareti e il pavimento verdi. Tutto puzzava di prodotti industriali per la pulizia,
del genere che si usava per rimuovere sangue e saliva. Roba contro i rischi
biologici. Una sedia era fissata al pavimento davanti a un economico tavolo di
plastica. Punti neri disseminati lungo le pareti si spostarono verso di lui come gli
occhi di un ragno: non erano videocamere, ma gli stessi array a frequenza
multipla che usava in laboratorio, tanto sensibili da rilevare il suo battito
cardiaco partendo dai cambiamenti sulla sua pelle e da tracciare il sudore su ogni
parte del suo corpo. Li aveva usati abbondantemente nel corso degli esperimenti
condotti durante l’anno sui germogli di soia, e vederli lì gli parve quasi un
tradimento.
Il più alto dei due uomini della Marina Libera entrò nella stanza insieme a una
donna dalla pelle scura che indossava l’uniforme della Pinkwater. Prax sollevò lo
sguardo. Nel corso di notti intrise di sudore aveva immaginato questo momento
così tante volte che adesso che si stava verificando era quasi curioso di vedere
fino a che punto sarebbe corrisposto alle sue aspettative. Lo avrebbero
percosso? Minacciato di usargli violenza? Avrebbero minacciato Mei e Djuna e
Natalia? Aveva sentito dire che a volte costringevano i prigionieri ad assuefarsi
alla droga e poi minacciavano di non fornirgliela più e di lasciare che l’astinenza
facesse il suo lavoro.
«Dottor Meng» cominciò l’uomo alto, sedendogli di fronte. Prendevano
droghe per la concentrazione? Prax ne aveva sentito parlare, ma non sapeva
come funzionavano. «Lei era il supervisore di Quiana Karvonides? Dai
documenti risulta che ha identificato il suo corpo.»
«Sì» confermò Prax. C’era un modo di uscire con la finzione da quella
situazione? Gli avrebbero creduto se avesse negato tutto il negabile? Oppure si
sarebbe tradito? Tutti quei neri occhi meccanici erano puntati su di lui, come
pure gli occhi castano chiaro dell’uomo. Solo la donna della Pinkwater guardava
il suo terminale palmare. «L’ho fatto. Karvonides non aveva parenti sulla
stazione, credo, ma non ne sono sicuro. C’è qualcosa che non va?»
«È esatto dire che lavorava a un lievito brevettato?»
«Quello è uno dei progetti che abbiamo in corso» annuì Prax. Si stava
mostrando troppo ansioso. Avrebbero capito.
«Lei lavorava in particolare a quel lievito?»
Prax aveva la bocca arida e il freddo della stanza sembrava salirgli su per le
gambe fino alla base della spina dorsale. Cosa aveva fatto? Perché non aveva
tenuto la testa bassa? Ma no, questo non era giusto. Aveva delle ragioni per ogni
cosa che faceva, e aveva saputo che c’erano dei rischi. Essere lì, in quella stanza,
era uno di essi, anche se non aveva saputo di quale stanza in particolare si
sarebbe trattato. Si chiese se ci fossero altre persone che lo osservavano, o se gli
occhi di ragno erano collegati a un qualche tipo di software che lo analizzava e
forniva loro le risposte.
«Dottor Meng?»
«Sì, chiedo scusa. Sì, lavorava al lievito mietitore. È un organismo... mmh... che
raccoglie una gamma molto ampia di radiazioni elettromagnetiche, nello stesso
modo in cui le piante usano la luce. È un prodotto ottenuto con l’ingegneria
inversa dai dati sulla protomolecola. Permette al lievito di generare i suoi
zuccheri dal radioplasto e poi... mmh... il suo sistema innato può convertire
quegli zuccheri in nutrienti di complessità più elevata.»
I due si scambiarono un’occhiata, ma lui non riuscì a determinarne il
significato. Come avrebbe fatto Mei senza di lui? Adesso era più grande, quasi
adolescente, e presto avrebbe cominciato comunque a staccarsi dall’unità
familiare. Forse non era poi un momento tanto brutto per perderlo. Avrebbero
messo il suo corpo nel riciclatore? Non poteva pensarci. Non adesso.
«Cosa ci può dire dell’HY180?» domandò la donna, e Prax ebbe la sensazione
che gli stesse guardando attraverso, che vedesse le sue ossa e la forma dei suoi
vasi sanguigni. Non si era mai sentito tanto messo a nudo. Cercò di appoggiarsi
allo schienale della sedia, di dondolarsi un poco avanti e indietro, ma ottenne
solo un lieve stridere delle viti. Sulle pareti c’erano graffi e strisciate che finora
non aveva notato. Erano stati ricoperti dalla vernice, certo, ma erano presenti.
Non voleva pensare a cosa li aveva prodotti.
«È la decima variazione ottenuta usando il protocollo diciotto» rispose. «È
brevettata. Non ne dovrei parlare. Mi dispiace.»
«Perché ha prelevato i dati dell’HY180 dalla partizione di Karvonides?»
Ecco qui. Sapevano. Trasse un profondo respiro, e poté sentire il fiato che gli
tremava nella gola. Non avrebbero avuto bisogno di droghe per la
concentrazione o di computer psichici, lui era decifrabile come un libro aperto.
Quello di poter evitare il peggio era stato soltanto un sogno, e tutto quello che
rimaneva era guardare lo svolgersi degli eventi. Avverti un irragionevole residuo
di speranza. Doveva esserci un modo. Doveva tornare a casa, altrimenti chi
avrebbe cucinato i pancake per le ragazze?
«Li ho rimossi su richiesta di alcuni degli altri ingegneri che lavorano al
progetto. Con il decesso di Karvonides, avevano bisogno di accedere ai dati
della coltura, altrimenti non sarebbe stato possibile procedere oltre. Quindi sì, li
ho messi in una partizione a cui loro potessero accedere.»
«Ha esaminato i permessi su quella partizione?»
«L’informazione era brevettata» replicò Prax, aggrappandosi a quell’idea come
all’ultimo frammento fradicio di una nave che era affondata sotto di lui, ma la
spiegazione suonò debole ai suoi stessi orecchi.
L’uomo si protese in avanti. «I dati sono stati mandati sulla Terra. Abbiamo
isolato i dati di tracciamento, e il messaggio è partito dalla partizione in cui lei li
aveva messi.»
Menzogne e dinieghi gli ribollirono nella mente. Chiunque poteva avere accesso a
quei dati. Sono stato superficiale, forse poco attento alla sicurezza. Tutto qui. Non ho fatto
niente di male.
Con l’occhio della mente rivide Karvonides, le ferite che aveva al collo e alla
testa. Sì, poteva rinnegarla di nuovo, ma non avrebbe fatto nessuna differenza.
Loro sapevano già, o avevano comunque un’idea abbastanza precisa. Avrebbero
fatto pressione, lo avrebbero torturato, e avrebbe ceduto. Qualsiasi cosa avesse
detto ora non avrebbe avuto importanza: era morto. Niente più pancake. Niente
più serate passate a indurre le ragazze a fare i compiti o domeniche mattina a
svegliarsi tardi accanto a Djuna. Qualcun altro si sarebbe incaricato delle sue
ricerche. Tutto quello che amava e per cui aveva vissuto era perduto.
Con sua sorpresa, non provò tanto paura quanto una sorta di terribile senso di
libertà. Adesso poteva dire quello che voleva, inclusa la verità.
«Quello che dovete capire» affermò, mentre un coraggio irrazionale e
intossicante gli sbocciava nel cuore «è che gli equilibri biologici non sono mai
semplici. Mai.»
«Equilibri?» ripeté l’uomo.
«Sì. Esatto. Tutti pensano che sia semplice. Arriva una nuova specie invasiva,
che è avvantaggiata ed elimina la concorrenza, giusto? Questa è la storia, ma ha
anche un’altra parte. L’ambiente locale resiste sempre... sempre. Sì, sì, magari lo fa
malamente, magari senza una chiara idea di come tenere testa alla novità. Non
dico che sia perfetto, quello che sto dicendo è che questa cosa esiste. Anche
quando una specie invasiva prende il sopravvento, anche quando vince, esiste un
processo di controbilanciamento che deve sopraffare per trionfare. E...» L’uomo
alto si era accigliato, e il suo disagio indusse Prax a parlare più in fretta, a dire
tutto quello che aveva nel cuore prima che il martello si abbattesse su di lui. «E il
processo di opposizione è talmente radicato nei sistemi viventi che non può mai
essere assente. Per quanto la nuova specie possa essere ben progettata, per
quanto immensi sembrino essere i suoi vantaggi, il rigetto ci sarà sempre. Se un
impulso innato viene sopraffatto, ne spunta un altro. Capite? Gli organismi
conspecifici vengono surclassati? Bene, le microecologie batteriche e virali
reagiranno, si adatteranno, e si tratterà di livelli micronutrienti, di salinità e di
luce. Il fatto è... il fatto è che anche quando la specie nuova vince, anche quando
occupa ogni possibile nicchia, quella lotta in sé stessa cambia ciò che è. Anche
quando spazza via o sottomette completamente l’ambiente locale, viene
cambiata dalla reazione. Anche quando i precedenti organismi sono costretti
all’estinzione, questo si lascia dietro dei segni. Quello che è non può mai, mai
essere completamente cancellato.»
Prax si appoggiò allo schienale della sedia, il mento alto, il respiro profondo e
rapido, le narici dilatate. Potete uccidermi, potete cancellare il mio nome dalla storia, ma
non potrete mai cancellare il segno che ho lasciato. Mi sono opposto a voi, e anche quando mi
ucciderete non potete disfare quello che ho fatto.
Il cipiglio dell’uomo si accentuò. «Stiamo ancora parlando del lievito?» chiese.
«Sì» rispose Prax. «Certo che stiamo parlando del lievito.»
«D’accordo» replicò l’uomo. «Tutto questo è interessante, ma quello che
abbiamo bisogno di sapere è chi aveva accesso a quella partizione.»
«Cosa?»
«La partizione in cui ha messo i dati» interloquì la donna della Pinkwater. «Chi
si sarebbe potuto collegare a essi da lì?»
«Chiunque avesse accesso alle postazioni di lavoro del gruppo di ricerca avrebbe
potuto farlo» rispose Prax. «Questo cosa c’entra?»
Il terminale dell’uomo trillò e lui lo tirò fuori di tasca. La luce rossa di un
allarme diede quasi l’impressione che stesse arrossendo, ma quando ripose il
terminale il suo volto era impallidito.
«Devo andare» disse. «Finisci tu qui, sì?» La sua voce era tesa, e Prax ebbe
l’impressione che stesse tremando. Avrebbe quasi voluto richiamarlo e insistere
perché finissero. Quella era una cosa importante, era il suo martirio per la causa
della libertà e della scienza, l’inquisitore non poteva semplicemente andarsene
nel bel mezzo dell’interrogatorio. Quando la porta si chiuse si girò verso la
donna, ma lei stava ancora guardando il terminale, sul quale scorreva un
notiziario relativo alla guerra.
Emise un fischio sommesso, sgranando gli occhi. Quando sollevò lo sguardo
su di lui, parve sorpresa di vederlo.
«I dati sul lievito» le ricordò Prax.
«Dottor Meng, deve stare più attento. Non deve più fare una cosa del genere.»
«Fare cosa?»
Il sorriso impaziente della donna non arrivò ai suoi occhi. «Non può mettere
in una partizione aperta dati che potrebbero aiutare il nemico. So che è materiale
brevettato, ma qualcuno ha trasmesso i dati, e adesso abbiamo in corso
un’indagine per scoprire di chi si è trattato.»
«Ma... no, lei non capisce.»
«Dottor Meng,» scattò la donna «so che non le piace che noi le si venga a dire
come gestire il suo laboratorio, ma questi sono tempi delicati. Le chiedo di dare
una lunga e attenta occhiata allo stato della sicurezza nel suo laboratorio, in
modo che la prossima volta non si debba avere una conversazione meno
piacevole. Ha capito?»
«Sì. Certamente.»
«D’accordo» concluse la donna, con l’aria di aver avuto la meglio in una
discussione. «Può andare.»
Prax non seppe cosa fare. Per un momento rimase seduto in silenzio,
aspettando chiarimenti che non sapeva come chiedere. La donna controllò il
terminale, poi riportò lo sguardo su di lui con aria irritata.
«Dottor Meng? Per ora abbiamo finito. Se avremo altre domande, sapremo
dove trovarla.»
«Devo andarmene?»
«Sì» rispose lei.
E lui lo fece. Percorrere a piedi i corridoi e prendere un carrello pubblico fu
come muoversi in sogno. Si sentiva lo stomaco vuoto, ma non aveva fame, nel
suo ventre c’era una sorta di enorme bolla dove qualcosa... dolore, disperazione,
speranza, paura... avrebbe dovuto trovarsi. Noleggiò un carrello che lo portò alla
stazione della metropolitana. L’intero incidente era stato tanto breve che il suo
turno non era neppure finito, ma lo sarebbe stato nel tempo che avrebbe
impiegato a tornare al laboratorio, per cui andò direttamente a casa.
I notiziari sulla metropolitana erano pieni dell’azione militare, quale che fosse,
che la donna della sicurezza stava guardando sul suo terminale palmare. Cercò di
dare un senso alla cosa, ma le parole parevano perdere significato nel transitare
dallo schermo ai suoi sensi. Si sorprese a fissare con occhi vuoti un giovane che
gli sedeva di fronte e dovette fare uno sforzo cosciente per distogliere lo
sguardo. Tutto quello a cui riusciva a pensare era quella donna dalla pelle scura
mentre gli diceva che poteva andare.
Al suo arrivo trovò Djuna già a casa, seduta sul divano con la testa fra le mani,
gli occhi arrossati e le guance chiazzate dal pianto. Quando si fermò nel
corridoio, all’altezza della cucina, e sollevò la mano in un gesto di saluto, lei lo
fissò per un momento, poi scattò in piedi, gli corse incontro e lo abbracciò. Per
un lungo momento lui ricambiò l’abbraccio e rimasero lì fermi nel loro
appartamento, che aveva creduto di non rivedere mai più.
«Leslie mi ha mandato un messaggio» spiegò Djuna, con la voce ancora
arrochita dal pianto. «Ha detto che erano venuti a prenderti in ufficio, che quelli
della sicurezza ti avevano portato via. Stavo cercando di trovare un avvocato
disposto a parlarmi. Ho mandato le ragazze da Dorian perché non sapevo cosa
dire loro.»
«È tutto a posto» la rassicurò Prax. «È tutto a posto.»
Djuna si trasse indietro, scrutando i suoi occhi come se in essi ci fosse stato
scritto qualcosa. «Cosa è successo?»
«Ho confessato» rispose Prax. «Ho detto loro... ho detto loro tutto. E poi mi
hanno lasciato andare.»
«Hanno fatto... cosa?»
«Hanno detto che non dovevo rifarlo e che potevo andarmene» confermò lui.
«Non è stata la reazione che mi aspettavo.»
41
Pa

«Oggetti in rapido avvicinamento» disse Evans. «Cinque... un momento...


sette.»
«Da dove vengono?» chiese Michio, anche se era già certa della risposta. Gli
attacchi in tutta la Fascia avevano già distolto le navi da combattimento della
Marina Libera da altri conflitti, assottigliando le difese di Pallas. Doveva
renderne atto a Holden: non aveva cercato di usare lei e le sue navi come spugne
per assorbire i proiettili.
«Dalla Stazione di Pallas» confermò Evans. «Nessuno ci spara dallo spazio.»
«Li ho sotto tiro dei CDP» disse Laura. «Ho il permesso di fare fuoco?»
«Ce l’hai» replicò Michio. «Oksana, manovre evasive a volontà. Mostriamo a
questi fottuti bastardi che sappiamo ballare.»
«Sì, capitano» assentì Oksana, a denti stretti per la concentrazione e la gioia.
Un momento più tardi la Connaught sobbalzò e si spostò. Attraverso il sistema
Josep lanciò un inarticolato grido di guerra.
I Quattro Cavalieri, così Foyle chiamava la Connaught, la Serrio Mal, la Panshin e
la Solano, le quattro navi con maggior esperienza nella flotta ribelle di Pa. Esse si
lanciarono contro la Stazione di Pallas da quattro diverse direzioni,
assottigliando il più possibile le difese locali. Se ci fosse stato il tempo, forse
Marco avrebbe prelevato tutte le risorse anche da Pallas, sabotato l’infrastruttura
manifatturiera e abbandonato a loro stessi tutti quelli che non fossero riusciti a
fuggire, costringendo Pa a soccorrerli o a lasciare che morissero di fame per
colpa sua.
Ma questo presupponeva che la Marina Libera avesse dove rifugiarsi.
«Due andati» annunciò Laura. «Cinque da abbattere.»
«Meglio prima che dopo» ribatté Michio.
Con il metallo e la ceramica che stridevano e scricchiolavano per la tensione, la
Connaught si girò e accelerò, poi spense il reattore e rimase alla deriva, girandosi
per dare ai CDP un più ampio campo di fuoco. Le armi di Laura ronzarono,
facendo vibrare la nave ed eliminando altri tre siluri della stazione mentre la
Connaught procedeva rapida verso di essi, offrendo il fianco. La superficie
dell’asteroide scintillava davanti a loro, il suo bersaglio, il nemico e la dimora di
decine di migliaia di persone per aiutare e proteggere le quali lei aveva
accantonato la propria carriera e la propria sicurezza.
«Se puoi, evita che i proiettili colpiscano la stazione.»
«Faccio del mio meglio, capitano» replicò Laura, ma il sottinteso era chiaro...
se si deve arrivare a scegliere fra noi e loro, è meglio che tocchi a loro. Michio
non poteva dissentire.
«La Panshin è sotto il fuoco nemico» avvertì Evans. «Anche la Serrio Mal.»
«La Solano?» chiese Michio.
La Solano aveva subìto la maggiore quantità di danni nelle scorrerie e
scaramucce sostenute dopo che si erano staccati da Marco. Abbastanza da essere
stata scelta come nave sacrificabile e svuotata dell’equipaggio e di tutto il
materiale utile. Essa era il punto cardine del suo piano di battaglia. Tre navi per
distrarre e disarmare Pallas al punto che se pure avessero riempito la Solano di
buchi non avrebbero potuto ridurla a un campo di detriti tanto sottile da evitare
di danneggiare i moli di attracco.
«È ancora abbastanza lontana da non essere sotto tiro» rispose Oksana.
«Altri quattro andati» annunciò Laura. «L’ultimo è un po’ una rogna... preso!»
«Capitano,» interloquì Oksana «dobbiamo riprendere a frenare se non
vogliamo arrivare troppo vicini alla stazione.»
«Provvedete» rispose Michio. «Mi occupo io delle comunicazioni.»
«Ricevuto» rispose Evans. «Ho un’altra ondata di siluri in arrivo, e siamo quasi
a portata effettiva di CDP.»
Michio si preparò a trasmettere. Tanto vicino alla stazione, non ci sarebbe
stato ritardo luce e chiunque fosse in ascolto l’avrebbe sentita praticamente nel
momento stesso in cui parlava. Dopo aver trascorso tanto tempo a distanze che
comportavano un elevato ritardo nelle trasmissioni, la cosa sembrava strana. Si
guardò nella videocamera mentre Oksana girava la nave e iniziava la
decelerazione, poi cominciò a trasmettere.
«Parla il capitano Michio Pa, della Connaught. A tutti i cittadini della Stazione di
Pallas. Siate avvertiti che siamo qui per rimuovere il falso governo della Marina
Libera e restituire il controllo della stazione ai suoi cittadini. Evacuate
immediatamente i moli. Ripeto, evacuate immediatamente i livelli dei moli per la
vostra stessa sicurezza. Ci rivolgiamo all’amministrazione della Marina Libera,
richiedendo una resa immediata e incondizionata. Se non riceveremo conferma
entro quindici minuti sarà troppo tardi per salvare i moli e i cantieri navali. Per la
vostra sicurezza, evacuateli all’istante.»
Lo schermo per le comunicazioni produsse un messaggio di errore. Stavano
bloccando il segnale. Lo potenziò quanto più le permetteva la trasmittente della
Connaught e mise il messaggio in loop. Non aveva molte speranze per una
conclusione pacifica della battaglia, ma almeno ci aveva provato.
La nave sobbalzò di nuovo e accelerò violentemente, schiacciandola contro il
sedile. Laura urlò un’imprecazione, ma la nave non esplose. Di qualsiasi cosa si
fosse trattato, l’avevano schivata.
«La Panshin è stata colpita» riferì Evans. «CDP. Però sembra che vada tutto
bene. La Solano non ha ancora raggiunto l’indice di minaccia di Pallas.» Fece una
pausa, ricontrollò il monitor, poi aggiunse: «Sta funzionando.»
«Grazie» rispose Michio. «Cominciamo a eliminare i loro CDP.»
«Ci sto già lavorando» replicò Laura. «Fintanto che posso impedire a questi
siluri di volare su per il nostro...» Lasciò a mezzo la frase, concentrata, e Michio
non la disturbò.
Questo non era quello che voleva, non lo aveva mai voluto. Aveva cominciato
tutto questo fottuto procedimento ormai fallito perché il sogno di una Fascia per
i cinturiani, di una vita che non dipendesse dall’essere usati e sfruttati dalle
grandi potenze del sistema, aveva significato qualcosa. E adesso era lì a
combattere al fianco della Terra e di Marte. Contro i cinturiani.
Tre anni, quello era il tempo che Sanjrani aveva dato loro. Tre anni e mezzo al
massimo. Poi ci sarebbe stata la carestia. E lei stava per distruggere i moli di un
grande porto perché James Holden potesse aprire di nuovo la strada ai mondi
coloniali e lasciarli tutti indietro. Questo era ciò che aveva acconsentito a fare.
Era la sua parte nel fermare Marco e nel cercare di salvare la Fascia, anche se si
sarebbe trattato della Fascia a tre anni da adesso.
Ogni passo lungo quella strada aveva avuto senso, solo che l’aveva fatto finire
qui. Tutti quelli con cui si era alleata, per tutta la vita, erano partiti dando
l’impressione di essere buoni, competenti e leali, e si erano rivelati tutti una
delusione. E adesso lei stava per fare lo stesso. Aveva cambiato fazione così
tante volte che non sapeva più chi era.
Se adesso avesse cambiato il piano, se si fosse tirata indietro...
Hai combattuto l’oppressore in passato e continui a combatterlo anche adesso. Hai seguito il
tuo cuore allora e continui a seguirlo anche adesso. La situazione cambia, ma non significa che
debba cambiare anche tu.
Al diavolo.
«Evans» chiamò. «Qual è la situazione della Solano?»
«È in rotta, capitano.»
«Ne abbiamo il controllo?»
Evans la guardò con occhi sgranati e incerti. Occhi da panico. «Sì, ho la
telemetria.»
«Rallentala» ordinò Michio, attivando la comunicazione a raggio stretto con la
Panshin e la Serrio Mal. «Dacci più tempo per distruggere le difese.»
Il capitano Foyle accettò la connessione per prima, imitata un momento più
tardi da Rodriguez. Su finestre diverse dello schermo, apparivano come
immagini al negativo uno dell’altra. Lui pallido di pelle, lei scura, ma con lo
stesso fisico esile e i capelli cortissimi. Le immagini tremavano sotto tensioni
diverse mentre la Panshin e la Serrio Mal eseguivano le rispettive manovre evasive.
«Abbiamo un cambiamento di piani» disse Michio. «La Solano non speronerà la
stazione. La parcheggeremo con il posteriore verso i portelli, a distanza di
sicurezza, e accenderemo l’Epstein per fondere chiunque cerchi di uscire. Un
blocco.»
Gli occhi di Foyle sarebbero potuti essere di ferro battuto, per quanto la loro
espressione cambiò. Sarebbe stata una temibile avversaria a un tavolo di poker.
«Con que?» chiese Rodriguez, serrando le labbra. «È tardi per à diffe il piano.»
«Meglio tardi che troppo tardi» ribatté Michio. «I cinturiani di Pallas non sono
il nemico e non intendo renderli tali. Ho bisogno di passaggi lenti da parte di
tutti e due per distruggere ogni CDP, ogni cannone e installazione lancia siluri.
Poi toccherà ai sensori. Ho bisogno che la stazione sia cieca e privata degli
artigli.»
Per un momento nessuno dei due capitani parlò. Michio poteva sentire nella
sua stessa voce tutte le loro obiezioni. Stava triplicando il rischio della missione,
consumando una quantità di munizioni più elevata di un intero ordine di
grandezza... sia siluri che cariche per i CDP... rispetto al consumo richiesto dal
semplice sacrificio di una nave. Metteva in pericolo tutti loro... i comandanti, le
loro navi e le loro famiglie... per preservare una stazione che stava facendo del
suo meglio per distruggerli tutti.
«Ho bisogno che vi fidiate di me» disse. Uno schiocco sonoro annunciò che
un proiettile vagante di CDP aveva forato la Connaught. Oksana gridò qualcosa
riguardo al sigillare il ponte, ma Michio non distolse lo sguardo dallo schermo.
Che vedessero che anche lei correva i suoi rischi.
«Dui» assentì Foyle, in quella sua voce roca che faceva pensare a whisky e
sigari. «Tu ordini, bossmang, e noi eseguiamo.»
Rodriguez scosse il capo, borbottando qualcosa di osceno, poi guardò nella
videocamera con occhi stanchi. «Va bene.»
Michio chiuse la connessione. Quando verificò la situazione sul pannello di
controllo degli armamenti, Laura lo aveva già aggiornato. Sullo schermo, ogni
arma presente sulla stazione era contrassegnata in rosso come bersaglio da
distruggere. Non così i moli, però. Evans aveva lasciato il sedile e stava versando
sigillante sul buco dove il proiettile di CDP aveva attraversato gli scafi. Esso
aveva attraversato il ponte di comando, passando a forse un metro dalla sua
testa. Sarebbe potuta morire. Uno qualsiasi dei suoi sarebbe potuto morire.
Saperlo era come essere contemporaneamente due persone diverse. Una era
inorridita all’idea che il proiettile avrebbe potuto colpire Laura, Evans o Oksana.
L’altra stava già accantonando l’accaduto con una scrollata di spalle. Questo era
il loro lavoro, era la scelta che aveva fatto ed era quella giusta.
Per due lunghe ore la Connaught schivò, manovrò e riversò proiettili sulla
superficie di Pallas. Quello che in origine era stato un attacco rapido e deciso si
trasformò in un lungo scontro sanguinoso fatto più di resistenza e abbondanza
di scorte che di tattiche astute. La Panshin e la Serrio Mal si adeguarono a lei nello
sferrare colpo su colpo, martellate su un’incudine. Le apparecchiature che
bloccavano le comunicazioni erano installate troppo in profondità nella pietra
perché perfino i siluri le potessero raggiungere, e ogni volta che la curva
dell’asteroide la privava della linea visiva con le altre navi, Michio aveva paura
che succedesse qualcosa, che non le avrebbe riviste. Una volta, la Panshin emerse
da quel lungo passaggio con una vivida cicatrice e una sezione dello scafo
ripiegata verso l’esterno.
Lentamente, un angolo morto apparve intorno ai moli. Parti dello spazio che
dava accesso a Pallas e che era stato difeso non lo erano più. Evans portò avanti
la Solano un chilometro dopo l’altro, poi un metro dopo l’altro, fino a metterla
nell’orbita di Pallas, tenuta stazionaria solo da qualche spinta occasionale dei
propulsori di manovra.
«Troveranno un modo per distruggerla, signore» osservò Oksana. «Potrebbero
metterci giorni oppure ore, ma non è un blocco che può reggere a lungo.»
«Dammi una linea visiva con la Panshin, Oksana.»
«Sì, signore.»
Quando apparve di nuovo sullo schermo, Rodriguez sorrideva. Quello, se non
altro, era un buon segno.
«Come sta la tua nave, capitano Rodriguez?» chiese Michio, sorridendo a sua
volta, nonostante tutto.
«Esá piegata, rotta, fottuta, sottosopra e lontana da casa» rispose Ezio,
ridendo. «Ho un paio di uomini in infermeria e uno all’obitorio, ma ce l’abbiamo
fatta, que sí? Abbiamo strappato i denti a un’intera stazione, e anche la metà dei
suoi occhi, il che significa che son los campioni.»
«Credo che lo siamo» replicò Michio. «Ho bisogno che tu resti a guardia di
tutto questo. Portati abbastanza indietro da essere fuori gittata di qualsiasi cosa
Pallas riesca a mettere insieme e prendi il controllo della Solano.»
«Devo fare la babysitter?» chiese Rodriguez.
«Hai lo scafo rivoltato in fuori come la custodia di un preservativo, Ezio. Non
intendo farti combattere intorno a Titano.»
Lui parve deluso, che fosse benedetto per questo. «Bist bien» disse.
«Manterremo il controllo qui. Però tu e Foyle prendete i siluri che ci rimangono,
sì? Rifornitevi. Qualsiasi cosa ci sia da fare, ci potremo riuscire con i CDP e il mio
affascinante sorriso.»
«Non rifiuterò questa offerta» disse Michio.
«Que tu il grilletto?» volle sapere Rodriguez. «Quando devo accendere il
reattore e fondere quei bastardi?»
«Quando sarai certo di fondere la Marina Libera e non persone qualsiasi. Perdi
la nave prima di fare del male ai civili. Uccidere la gente perché è d’intralcio è
una stronzata dei pianeti interni. Una stronzata della Marina Libera. Noi siamo
migliori di così.»
«Hai dannatamente ragione» rispose Rodriguez, e chiuse la comunicazione.
Quando salutò, le sue dita erano sporche di sangue.
Michio puntò una richiesta di connessione su raggio stretto verso una delle
postazioni di comunicazione meno danneggiate. Non sapeva se sarebbe servito a
qualcosa. Anche ammesso che l’apparecchiatura riuscisse ancora a funzionare in
qualche modo, non c’era ragione per cui la sua richiesta dovesse essere accettata.
Ma lo fu.
Sul suo monitor apparve una familiare faccia scura e granulosa. Da quello che
poteva vedere alle sue spalle si trovava in un ufficio ben arredato, vivacemente
illuminato e probabilmente abbastanza in profondità nelle viscere della stazione
che non avrebbe potuto raggiungerlo neppure con bombe nucleari o con un
reattore mandato a massa e a schiantarsi sulla stazione.
«Capitano Pa» disse. «Sembri passare da una decisione di merda all’altra.»
«Rosenfeld» rispose lei.
«Quando ti sei staccata da Inaros, l’ho capito. L’ho perfino rispettato. Sono
rimasto deluso quando ti sei rivolta a Fred Johnson. Ma questo? Fare il burattino
per Chrisjen Avasarala ed Emily Richards. E Holden?» scosse il capo. «Ti è
successo qualcosa, Michio. Sei cambiata.»
«È cambiato il contesto, io sono sempre la stessa» ribatté Michio. «Ecco cosa
succederà adesso. Ho un reattore Epstein funzionante e acceso puntato contro i
moli. Se vedo attività su di essi, li fondo. Se vedo una navetta o una nave
decollare dalla superficie, le sparo contro e poi fondo i moli. Se vedo qualcosa
che sembri un tentativo di sabotaggio della Solano, fondo i moli. Se una nave
della Marina Libera arriva nel raggio di centomila chilometri da Pallas, fondo i
moli. Ti ritroverai a essere governatore di una vecchia stazione devastata che
non può spedire niente né essere rifornita.
«Ne prendo nota» commentò Rosenfeld, in tono asciutto.
Pareva non ci fosse altro da aggiungere, ma lei non chiuse la connessione, non
ancora. Poi: «Usa questa cosa.»
«Prego?»
«Tu sei un animale politico. Usa questa opportunità. Ti sto fornendo una scusa
per uscire dalla lotta. Puoi dire a Marco che ti ho inchiodato e non starai
neppure mentendo. Anche ammesso che riuscisse a sconfiggerci tutti, sai che
non può governare il sistema. E quanto al tuo piano...»
«Il mio piano? Quale piano?»
«Quello in cui sei l’uomo dietro le quinte, il vero potere mentre Marco è la
faccia pubblica. Non funzionerà. Lui è incontrollabile, ed è a stento prevedibile.
Non ti biasimo, anch’io ho fatto lo stesso errore, ho visto in lui quello che
volevo vedere. Però mi sbagliavo, e ti sbagli anche tu.» Il volto di Rosenfeld era
immobile e indecifrabile. Michio annuì. «Conosci la parola magica?»
«No» replicò lui, con voce piena di disprezzo. «Quale parola magica?»
«Ooops. Dovresti dire ooops, Rosenfeld. Ammettere che hai fatto un errore. Vedi
quella nave che ho piazzato con il culo puntato contro di te? È la tua possibilità
di rimediare al fatto di aver scelto la fazione sbagliata.»
«Vuoi che ti ringrazi per questo?»
«Voglio che ti accerti che le persone di quella stazione abbiano cibo e acqua, e
che le tieni al sicuro finché non sarà tutto finito.»
«E quando sarà finito?»
«Non lo so» rispose Michio, e chiuse la comunicazione.
Per un lungo momento riposò sul sedile, trattenuta al suo posto dalle cinghie e
dalla familiarità delle voci e dei suoni che la circondavano. Le doleva la mascella
per averla tenuta serrata. Aveva un livido sulla clavicola e non ricordava neppure
quale manovra poteva averla causata. Chiuse gli occhi e lasciò che tutto le si
riversasse addosso. Laura che attraverso la cuffia parlava con Bertold di quanti
colpi per CDP erano loro rimasti. Oksana ed Evans che ridevano per niente,
scaricando la tensione e festeggiando in modo quieto il fatto che... a un qualche
livello, in qualche misura... avevano vinto. L’odore della saldatrice portatile che
bruciava via il sigillante d’emergenza e chiudeva i fori nello scafo. La sua casa. La
sua gente. Si riempì i polmoni di tutto questo.
Lo schermo delle comunicazioni ciangottò, annunciando una richiesta dalla
Serrio Mal. L’accettò, e il volto di Susanna Foyle apparve sul monitor.
«Capitano Pa» disse.
«Capitano Foyle.»
«Rodriguez mi ha detto che dopotutto non porteremo tre navi su Titano.»
«Esatto.»
«In questa missione abbiamo consumato un sacco di munizioni che non erano
previste» osservò Foyle.
«Anche questo è vero» convenne Pa.
«Saremo inferiori di numero e per armamenti.» Non era un’accusa, soltanto
un’osservazione.
«Laggiù non saremo le uniche navi» replicò Pa. «Avremo supporto.»
Per la prima volta il volto di Foyle si degnò di assumere un’espressione.
«Nanerottoli e polverosi. Nessuno su cui possiamo fare affidamento.»
«Siamo in questa situazione tutti insieme» ribatté Pa. Foyle reagì con una breve
risata, simile a un colpo di tosse.
«Fintanto che tu vai per prima, noi ti seguiremo. Non siamo arrivati fin qui
scegliendo la via più facile. Abbiamo rappezzato i danni e bendato le ferite.
Quando sarai pronta a muovere, lo saremo anche noi.»
«Grazie.»
Foyle annuì e chiuse la comunicazione. Pa richiamò a schermo una mappa
tattica dell’intero sistema, su cui erano contrassegnati tutti i combattimenti in
corso. C’era un gruppo di aggiornamenti da Vesta, dove era in corso un
inseguimento fra navi della Marina Libera e una dozzina di navi da guerra della
Marina Marziana, mentre Marco cercava di descrivere un cerchio per puntare
verso Marte stesso. La forza di guardia lasciata su Ceres stava tracciando quattro
navi della Marina Libera. Le difese orbitali della Terra erano in massima allerta,
con la maggior parte delle navi di pattuglia lontane dalle postazioni per prendere
parte all’attacco. Era la somma di tutta l’umanità presente nel sistema solare
intenta a una spettacolare esibizione di violenza. E al limite dello schermo, quasi
fuori di esso, quasi dimenticate, la Giambattista e la Rocinante stavano già
decelerando verso il portale dell’anello, con due navi da attacco veloce che
acceleravano al massimo per intercettarle.
Buona fortuna, bastardo, pensò, posando la mano sul minuscolo puntino
dorato che contrassegnava la Rocinante. Non mi far pentire di essermi fidata di te.
Poi, sul sistema di comunicazione della nave, disse: «Tutte le postazioni a
rapporto. C’è un altro combattimento che ci aspetta. Non vogliamo arrivare in
ritardo.»
42
Marco

«Son coyo, son tod!» gridò dallo schermo Micah al-Dujaili. «Tu e tutti i suoi ti-ti
soldat! Sono qui per te, Inaros. Per quello che tu hai fatto alla mia famiglia!»
Marco tolse il volume alla trasmissione. Da qualche parte nelle vicinanze,
qualcun altro la stava guardando. La filippica di al-Dujaili continuò a echeggiare
in lontananza mentre la Pella si sollevava da Callisto, con una mezza dozzina di
navi schierate dietro di lei. «Abbiamo agganciato il bersaglio?»
Josie sollevò la mano in segno di conferma, lo sguardo fisso sul monitor.
Erano a un’accelerazione di un solo g, ma Marco sentiva già un principio di mal
di testa alla base del cranio. Non importava, dopotutto era solo un po’ di dolore
e avrebbe avuto tutto il tempo di prendere qualcosa per eliminarlo quando i suoi
nemici avessero smesso di consumare aria. Intorno a lui, il ponte di comando
della Pella era teso e pronto. Josie agli armamenti, Karal alle comunicazioni,
Miral che borbottava nella cuffia parlando con qualcuno giù nella sezione di
ingegneria. Erano lupi. Una banda di predatori pronti a colpire. Al-Dujaili gridò
qualcosa riguardo alla vendetta, all’aver tradito la Fascia in nome della gloria.
«Allora chiudiamo la bocca a questo coglione» ordinò con indifferenza Marco.
«Fuoco con tutto quello che abbiamo.»
L’avvertimento aveva raggiunto il sistema di Giove in tempo per metterlo in
guardia. La terra, Marte, la traditrice Michio Pa, Holden. Naomi. Tutti i suoi
nemici avevano acceso le torce, brandito i forconi e si erano messi in marcia.
Marco non ne era sorpreso. Aveva saputo che doveva tenerli d’occhio, ed era
pronto per quando fossero venuti. Certo, non si era aspettato che arrivassero
contemporaneamente da ogni direzione come avevano fatto. La flotta congiunta
era arrivata da Ceres, era risalita dalla Terra e da Marte. Aveva accelerato al
massimo e colto di sorpresa alcune delle forze più vicine della Marina Libera.
Però lo spazio e le distanze erano i suoi alleati naturali. Ci voleva tempo per
percorrere il mezzo miliardo di chilometri che li separavano da Marte, e il
sistema di Giove era terra dei cinturiani. E i cinturiani significavano Marina
Libera, qualsiasi cosa volessero fingere cuccioli uggiolanti come Micah al-Dujaili
e Aimee Ostman. Quando gli alleati terrestri fossero arrivati al fianco di al-
Dujaili, lui sarebbe stato un cadavere e tutte le sue navi avrebbero fluttuato
morte al suo fianco.
«Faccio fuoco» annunciò Josie.
La Pella risuonò dei meccanismi dei siluri e dei CDP, le cui vibrazioni
percorsero lo scafo e fecero vibrare l’intera nave come una campana di guerra.
Marco poté assaporare quel suono... ghiaccio e rame. Era splendido.
«Ehi, capitano» avvertì Karal. «Messaggi in arrivo. Le altre navi que savvy se
devono aprire il fuoco anche loro.»
«Sì» ordinò Marco. «Ordina a tutte di aprire il fuoco.»
«Anche quelle che kommt de Ganimede? Non sono ancora a portata di tiro.»
Marco si girò a fissare Karal e il dolore al cervello si intensificò di un grado.
Conosceva Karal da decenni, si fidava di lui, ma adesso gli pareva di cogliere un
dubbio nella sua voce. Più che un dubbio. Insolenza.
«Tutte. Aprano il fuoco. Che al-Dujaili consumi le sue munizioni
disintegrando siluri nello spazio. Chiuderà quella sua bocca farfugliante.»
«Dui» rispose Karal, e si girò verso la postazione di comunicazione, parlando
in tono troppo basso e urgente perché Marco si prendesse la briga di ascoltare.
Stava succedendo dappertutto. Vesta. Pallas. Titano. La Stazione di Hygeia. I
Cantieri di Thisbe. Europa. Bersagli grandi e piccoli. Il nemico lo stava
attaccando convinto di spazzare via la Marina Libera come un’onda. E, sì,
c’erano danni. Pallas era sotto blocco. Vesta era caduta. Le sole forze da
combattimento dirette verso Titano potevano costituire il più grosso
contingente nella storia, e lui non poteva dire quanto sarebbe stata decisiva la
sua vittoria laggiù. Quasi non importava, però. La cosa importante era che li
aveva spinti all’azione, li aveva indotti a muoversi sulla spinta dell’ira e della
paura. Quella era la ricetta per lo spingersi troppo oltre. Dopo le caute reazioni
da tartaruga che aveva ricevuto finora dalla Terra e da Marte, questo era un
sollievo.
Che venissero pure. Che conseguissero le loro piccole vittorie. La Marina
Libera avrebbe conservato il possesso di quello che poteva, si sarebbe
sparpagliata nel vuoto dove era più saggio farlo e sarebbe tornata indietro per
schiacciare i bersagli indifesi lasciati indietro. Quello era l’errore che aveva
saputo avrebbero fatto. Con tutti i loro secoli di dominio, i pianeti interni
sognavano ancora di poter combattere una guerra e vincere. Marco sapeva che
non era così. La guerra non era mai vinta o persa. Finora... fino a quando non
era arrivato lui... la Terra e Marte avevano creduto di essere in pace perché la
violenza si era riversata tutta sulla Fascia e non contro di loro. Colpa loro, della
loro miopia. Avevano avuto la loro era di vittoria, ma adesso era finita, e questo
parossismo, questo piano di battaglia che sembrava una crisi epilettica,
prometteva che ne sarebbero arrivati mille altri uguali.
La Fascia avrebbe incassato i colpi, ma non lo avrebbe mai più fatto
passivamente, e questa era la sua vittoria.»
«La prima ondata è distrutta» avvertì Josie. «Hanno disintegrato tutti i nostri
siluri e non abbiamo colpito niente. Provo ancora?»
«No» rispose Marco. «Aspettiamo. Induciamoli a credere che ci possano
contenere, poi li schiacceremo.»
«Bien» assentì Josie. Karal borbottò qualcosa nella cuffia delle comunicazioni,
trasmettendo l’ordine. Senza le armi in funzione, la nave comunque non era
silenziosa, lo sembrava soltanto. Marco stiracchiò il collo, ruotandolo per
cercare di attenuarne la tensione, ma tutto in lui si protendeva verso al-Dujaili.
Aveva già ucciso Fred Johnson con le sue mani, e adesso tutte le fazioni dell’APE
che erano state tanto stupide da seguire un terrestre avrebbero visto che sorta di
raccolto avevano seminato.
Richiamò a schermo il display tattico. Le otto navi nemiche guidate dalla
Tongarsuk di al-Dujaili erano abbastanza sparpagliate da rendere impossibile
centrarne due con lo stesso siluro, ma abbastanza vicine da appoggiarsi a
vicenda con il fuoco dei CDP. Nonostante il suo velenoso farfugliare, al-Dujaili
non aveva perso il controllo abbastanza da dimenticare il buon senso.
La Pella e le altre sei navi della Marina Libera provenienti dai cantieri navali di
Callisto avevano una formazione meno compatta e su una superficie più ampia.
Per il momento erano numericamente inferiori, ma con dieci altre navi della
Marina Libera in rapida accelerazione da Ganimede non lo sarebbero state a
lungo. Marco sorrise.
«Scendiamo a un quarto di g» disse. «Avvertite le navi provenienti da
Ganimede di coordinare la frenata e di stare attente. Se il nemico aspetterà,
saremo più numerosi di lui. Se dovesse attaccare adesso, stiamo pronti a girarci,
a fargli abbandonare la formazione.»
«Bien» assentì Josie. «Aber... stanno aprendo il fuoco.»
«Vai!» gridò Marco, usando la forza di volontà sulla Pella come se fosse stata
una parte del suo corpo, come se avesse potuto piegarne la rotta con la pura
forza delle sue intenzioni.
«A un quarto di g?» strillò Karal. Con un grido inarticolato, Marco afferrò i
comandi di pilotaggio. Sotto le sue mani, la Pella saettò in avanti, schiacciandolo
contro il sedile. Lo scafo scricchiolò e gemette, ma lui vide Josie inserire una
scelta di bersagli, sentì il grande e glorioso rombo delle armi, guardò gli archi del
fuoco dei CDP, ancora troppo lontani per costituire una vera minaccia, ma
abbastanza vicini da disturbare il nemico, e poi la raffica di siluri. E anche quelle
provenienti dalle altre navi del suo gruppo. E in lontananza, ma sempre più
vicino, un agglomerato spesso come una fune... le tracce dei siluri delle navi
provenienti da Ganimede. E tutto convergeva sul nemico. Fuoco e metallo e
sangue. Era come la gioia. Come una musica.
Incurvò la rotta della Pella, attivando i propulsori al cento percento o
disattivandoli, sentendo la gloriosa torsione della deviazione nel suo sangue, e la
pressione dolorosa del sedile a smorzamento che cercava di contenerlo.
Qualcuno gridò, ma Marco ormai non ascoltava. Questa era la battaglia. Era
gloria e vittoria e potere.
Suonò un allarme di prossimità, e i CDP della Pella si spostarono
automaticamente, disintegrando un siluro nemico che si era perso nella nuvola di
fuoco convergente. Marco rise. Le altre sue navi avevano seguito il suo esempio,
puntando contro la Tongarsuk. Una delle navi di al-Dujaili commise un errore di
valutazione e incassò nella fiancata un siluro delle navi di Ganimede,
accartocciandosi e perdendo aria. Una delle navi di Marco perse un propulsore a
causa di un siluro e tre dei nemici superstiti coordinarono il tiro per abbatterla
con il fuoco dei CPD, come leoni che calassero su una gazzella azzoppata. Anche
in quel momento di perdita e di rabbia, Marco continuò ad avvertire la gioia del
combattimento.
Era uno scontro brutto, brutale, diretto. Adesso il momento delle soluzioni
astute e delle trappole eleganti era passato, questo era un fare a pugni faccia a
faccia finché qualcuno non cadeva a terra, era l’impulso che aveva spinto
l’umanità sul campo di battaglia armata di pietre e di pezzi di legno,
percuotendosi a vicenda nel sangue finché non rimaneva in piedi una parte
soltanto. E quella parte era Marco. La Marina Libera, e che tutto il resto si
fottesse.
La Tongarsuk morì per ultima, danzando intorno agli archi di fuoco dei CDP
mentre al-Dujaili urlava parole di sfida e oscenità alla radio. Poi tacque. La
Tongarsuk perse energia, andò alla deriva ed esplose, creando un suo minuscolo
sole. Marco ricadde sul sedile a smorzamento, consapevole della pressione che la
gravità esercitava su di lui per la prima volta da un tempo che non sapeva
quantificare. Il display tattico mostrava che due navi nemiche erano in fuga.
Non si era accorto di quando se ne erano andate, ma non era stata una cosa
recente, perché erano già fuori della sua portata di tiro effettiva e diventavano
sempre più veloci a ogni istante. Sorrise, e registrò il sapore del sangue sulle
labbra. Si era morso l’interno della guancia, ma non ricordava neppure questo.
La sua consapevolezza parve dilatarsi lentamente a includere non soltanto il
suo monitor, il sedile e il suo stesso corpo. C’era un allarme che suonava da
qualche parte, si sentiva odore di fumo e quello più intenso della schiuma
antincendio. Senza che se ne accorgesse il mal di testa era aumentato fino a
diventare una sgradevole pulsazione e gli sembrava che gli avessero piegato
all’indietro la punta delle dita, che solo adesso stava tornando nella posizione
normale. Si guardò intorno. Josie, Miral e Karal lo stavano guardando tutti.
Sollevò il pugno.
«Vittoria» disse, e tossì.
La vittoria però aveva un prezzo. Due delle navi di rinforzo da Ganimede
erano distrutte, l’equipaggio morto e le navi stesse poco più che scarti di metallo.
Tre delle navi provenienti dai cantieri di Callisto avrebbero avuto bisogno di
riparazioni. La Pella aveva subìto un guasto del riciclatore dell’aria che era
seccante ma di poco conto, giusto quanto bastava per costringerli ad atterrare di
nuovo per qualche giorno nei cantieri navali mentre effettuavano le riparazioni e
testavano il sistema. I leccapiedi di Johnson dell’APE avevano subìto di peggio,
avevano avuto maggiori perdite, ma quello non era il genere di successo che
Marco poteva permettersi di continuare a conseguire.
E per aggiungere la beffa al danno, adesso Nico Sanjrani gli stava facendo la
predica.
«Tutto questo deve cessare» disse dallo schermo il piccolo economista. «Il
danno alle infrastrutture sta peggiorando, e quanto più la curva discendente si
accentua, tanto più diventerà difficile... quasi impossibile... farla risalire.»
Nell’ufficio che aveva espropriato su Callisto a uso e consumo della Marina
Libera, Marco si appoggiò allo schienale della sedia e chiuse gli occhi. Il
messaggio era stato fortemente codificato, il suo percorso e la provenienza
originale nascosti sotto strati di matematica. Quello che sapeva per certo era che
Sanjrani era abbastanza lontano da far sì che il ritardo dovuto alla distanza luce e
i limiti delle sue apparecchiature gli impedissero di avere una conversazione in
tempo reale. E di questo era profondamente grato.
«Posso mandarti di nuovo le analisi» proseguì Sanjrani, in tono lamentoso.
«Questa situazione però sta rendendo le cose peggiori di quanto indichino le
cifre. Peggiori. Qualsiasi cosa ci voglia per fermarla, devi farla subito. Se non
cominciamo al più presto a costruire un’economia di scambio separata... e con
presto intendo che avremmo dovuto farlo settimane, mesi fa... potremmo dover
reimpostare l’intero progetto. Potremmo non riuscire affatto a staccarci dal
copione scritto dai pianeti interni, e allora potremo essere politicamente
indipendenti quanto vogliamo, ma saremo sempre vincolati dalle catene
economiche dei pianeti interni, che erano ciò a cui stavamo cercando di sfuggire
fin dall’inizio.»
Sanjrani appariva stanco, stressato. La sua pelle aveva un colore cinereo e gli
occhi sembravano infossati. Considerato che era imbucato da qualche parte, al
sicuro dalla battaglia, tutto questo appariva decisamente istrionico. Marco
interruppe il messaggio... la registrazione durava altri venti minuti... e compose la
sua risposta, che non fu molto lunga.
«Nico» disse con gentilezza. «Mi dai troppo credito. Nessuno di noi ha il
potere di controllare le atrocità commesse per fermarci dalla Terra, da Marte e
dai loro malaccorti alleati all’interno della Fascia. Noi possiamo solo aggrapparci
ai nostri principi e ai nostri sogni. Con il tempo, prevarremo in modo assoluto.
Quando gli interni deporranno le armi e lasceranno in pace la Fascia, avremo il
potere di porre fine a tutto questo. Fino ad allora, la nostra sola alternativa è
quella di difenderci o di lasciare che il nostro popolo muoia. Non accetto
compromessi al riguardo e so che non lo fai neppure tu.»
Fatto. Trenta secondi per rispondere a trenta minuti di sproloqui allarmistici.
Questa era efficienza. Spedì il messaggio lungo la sua contorta traiettoria,
controllò i notiziari – la battaglia intorno a Titano entrava nel suo secondo
giorno, con perdite pesanti da entrambe le parti, ed era ancora troppo presto per
sapere se aveva vinto o perso – e i rapporti sui lavori alle sue navi – la Pella era
pronta alla partenza, ma non avrebbe avuto una scorta decente per altri tre
giorni –, poi si alzò pesantemente e si diresse alla sala riunioni.
Qualsiasi cosa fosse stata in precedenza... officina d’ingegneria, edificio della
sicurezza, magazzino... adesso la stanza ospitava il consiglio di guerra della
Marina Libera. Karal, Ali, Filip, Sárta dalla Pella. Il capitano Lister dalla Coin
Silver, il Capitano Chou della Lina. Sedevano tutti su bianche sedie imbottite, con
l’uniforme che dava al tutto un’aria formale. Al suo ingresso si alzarono e
salutarono. Tutti tranne Filip, che lo accolse con un cenno del capo, da figlio a
genitore.
«Grazie per essere venuti» esordì Marco. «Abbiamo piani da elaborare. Questo
assalto non deve rimanere senza risposta. Dobbiamo organizzare una
controffensiva e dimostrare agli interni che non siamo intimiditi. Mostrare la
nostra forza.»
Nella stanza si diffuse un mormorio di assenso, senza che nessuno parlasse
abbastanza ad alta voce da essere sentito per non rischiare di apparire fuori
luogo.
Nessuno tranne, con sua sorpresa, Filip.
«Un’altra?» chiese suo figlio. «L’ultimo grande gesto non è andato così bene,
que?»
Marco si raggelò. L’ira nella voce di Filip... più che ira, il disprezzo... era come
uno schiaffo. Nella stanza tutti gli altri si fecero silenziosi e immobili.
«Hai qualcosa da dire, Filipito?» domandò Marco, con voce bassa, calma e
ricca di minaccia. Filip però scelse di non sentirla.
«Sì, qualcosa. Abbiamo già fatto questa conversazione, sì? Ce ne siamo andati
da Ceres e abbiamo detto che ci serviva un piano per mostrare forza.
Contrattaccare. Costringerli a continuare a temerci. Lo abbiamo fatto prima, e
adesso lo facciamo di nuovo.» Filip era arrossato in volto e aveva il respiro veloce
e affannoso come se avesse corso per arrivare lì. «Solo che l’ultima volta non era
esá coyos la, vero? Erano Dawes e Rosenfeld e Sanjrani. E Pa, sì? La cerchia
interna. Il cuore della Marina Libera. Parte del piano.»
«Sei stanco, Filip» disse Marco. «Dovresti riposare.»
«In che cosa questo è diverso dall’ultima volta che lo hai detto?» insistette
Filip. «Spiegamelo.»
L’ira salì nel petto di Marco, riempiendogli la testa di fumi e di calore. Poteva
fiutarla come un incendio chimico.
«Voglio saperlo, io» continuò Filip, con un tremito nella voce. «Questo piano
che abbiamo. E l’ultimo piano prima di questo. E quello prima ancora. Qual è il
vero piano? C’è? O stiamo solo fallendo e fingiamo di volerlo fare?»
Marco sorrise. Quando si mosse verso suo figlio, Filip si preparò a essere
colpito: mascella rigida, pugni serrati. Marco gli arruffò i capelli.
«I ragazzi, eh?» commentò, rivolto agli altri. «I ragazzi e i loro capricci.
Capitano Chou, posso sentire il tuo rapporto?»
Chou si schiarì la voce. «Abbiamo alcuni bersagli che potrebbero fare al caso
nostro» rispose, tirando fuori il terminale palmare per inoltrare un file di dati
sullo schermo a parete. «Dipende da come si incastra nella strategia più
generale.»
Filip impallidì e protese in fuori la mascella. Chou continuò a parlare,
indicando lo schermo mentre elencava piani e suggerimenti. Marco tenne lo
sguardo fisso su suo figlio e permise agli altri di fingere che non stesse
succedendo niente, a parte la riunione. Se ti comporti da bambino, sarai trattato da
bambino. Mettimi in imbarazzo e io farò lo stesso con te.
Filip deglutì, si volse e lasciò la stanza con le spalle squadrate e la testa alta.
Mentre la porta si richiudeva, Marco rise a voce alta quanto bastava per essere
certo che Filip lo avesse sentito.
Poi si girò verso lo schermo a parete. «Non hai elencato Tycho» osservò.
«Perché?»
Chou guardò la lista, poi riportò lo sguardo su Marco. «Vuoi prendere Tycho?»
«Perché no?» replicò Marco. «Stiamo combattendo queste battaglie perché gli
interni ci mettono uno contro l’altro, ci inducono con l’inganno a uccidere la
nostra gente. Aimee Ostman, Carlos Walker, loro dovrebbero essere dalla nostra
parte, e lo sarebbero, se non fossero ancora impantanati in un passato che è del
tutto andato. Sì?»
«Se lo dici tu» replicò Chou, annuendo con aria cupa.
«Tycho è sempre stata un gioiello della Fascia, una fonte di orgoglio per noi e
un simbolo del nostro successo. Per questo Fred Johnson si è installato lì per
tanti anni. E adesso c’è un altro terrestre che pensa di essere il salvatore della
povera Fascia retrograda. Perché dovremmo permettere a James Holden di
tenere qualcosa che non è mai stato suo?» Marco sorrise e lasciò che le sillabe gli
colassero dalla bocca. «La Stazione di Tycho. Raduniamo tutte le navi possibili e
andiamo là prima che gli interni possano riunire le forze. Siamo più veloci di
loro. Più intelligenti. E quando raggiungeremo Tycho, li vedremo insorgere per
accoglierci e gettare Holden fuori dal portello stagno. Ve lo garantisco.»
Lister si schiarì la gola. «Però la Rocinante non è a Tycho.»
Marco si accigliò, e una piccola fitta di confusione e di risentimento gli punse il
cuore. «Cosa?»
«Los dué navi che abbiamo mandato all’inseguimento del trasporto per ghiaccio
di Ostman? La Giambattista? Niente transponder, ma si sono avvicinate
abbastanza da registrare la firma del reattore della nave di scorta. Esá es la
Rocinante.»
La stanza si fece silenziosa. Marco sentì qualcosa strisciargli su per la nuca. Per
tutti questi anni aveva controllato senza farsi notare dove fosse Naomi, cosa
stava facendo, e adesso lei e il suo amante erano sgusciati via senza che lui lo
sapesse. Dava la sensazione di una trappola. Una trappola.
«La Rocinante» disse, scandendo con cura ogni parola «fa da scorta al vecchio e
malconcio trasporto per il ghiaccio di Ostman?»
«Così sembra» confermò Lister.
C’era qualcosa che non andava nella miscela dell’aria. Marco non riusciva a
inspirare abbastanza ossigeno. Il cuore gli martellava, il suo respiro si era fatto
più accelerato.
«Dove stanno andando?»
43
Holden

L’inerzia era un problema. La locazione era un altro.


La Giambattista era una nave enorme ed era difficile farle prendere velocità e
anche rallentarla: una prova concreta dello svantaggio della massa e della prima
legge di Newton. Essa stava già frenando in direzione del portale dell’anello,
espellendo energia e massa di reazione per portarsi in un’orbita corrispondente
al portale. Fra quei due punti fermi... dove stava andando e con quanta rapidità
stava perdendo quantità di moto per arrivarci... le navi da attacco rapido
sapevano, con un ristretto margine di possibilità, dove si sarebbero trovate e
quando ci sarebbero arrivate.
I calcoli di Holden si basavano su elementi ignoti. Quanti g poteva sopportare
la Giambattista durante una frenata intensa? Quante delle navi più piccole che
trasportava nel ventre avrebbero ceduto alla tensione? Le fredde equazioni di
velocità, trasferimento di energia e movimento relativo potevano tracciare curve
idealizzate per descrivere un numero imprecisato di scenari, ma l’esperienza
aggiungeva un permanente e indelebile ‘a meno che non accada qualcosa di
imprevisto e allora chi diavolo sa cosa succederà’.
«Azzarda l’ipotesi più probabile, Alex» disse Holden. «Cosa stiamo
guardando?»
Alex si passò una mano fra i capelli che si andavano diradando ed emise
sottovoce uno sbuffo pieno di tensione. La cambusa odorava di camomilla e
cannella, ma Naomi e Clarissa erano entrambe a mani vuote. La decelerazione
della Roci era di circa un g e mezzo, per adeguarsi a quella della Giambattista, e
questo dava a Holden la sensazione di essere stanco anche se non lo era.
«Se fossi in loro,» rispose Alex «pianificherei di oltrepassarci. Calcolerei la mia
frenata in modo da passare appena prima che quel grosso bastardo là fuori
arrivasse all’anello, e terrei unite le due navi perché durante il passaggio ci
sarebbe l’opportunità di un attacco. Scaricherei un casino di siluri che
sfruttassero la mia velocità per potenziare la loro e spererei che un bel po’ di essi
centrasse il bersaglio. Una volta passato oltre, i miei siluri dovrebbero lottare
contro la mia velocità invece di sfruttarla, quindi probabilmente conserverei le
munizioni fino ad aver esaurito quello che resta della mia velocità. Poi tornerei
indietro per dare il colpo di grazia a qualsiasi cosa che fosse sopravvissuta al
primo passaggio.»
«Sembra plausibile» commentò Naomi. «E cosa faresti, al nostro posto?»
«Arriverei all’anello il più in fretta possibile» rispose Alex, più prontamente,
questa volta. «Li costringerei ad affrettarsi per raggiungerci, in modo che la curva
per tornare indietro richiedesse quanto più tempo possibile. Poi userei quella
finestra temporale, quale che fosse, per far passare Bobbie e il suo contingente
oltre il portale, lascerei che prendesse i cannoni a rotaia e poi porterei il nostro
culo nella zona lenta, in modo che lei potesse disintegrare quei bastardi quando
tornassero indietro.»
«Non sarà gradevole cercare di tenere in vita la Giambattista, quando
torneranno» osservò Clarissa. «Loro sono in due, noi uno solo, e quella nave è
un grosso bersaglio.»
«D’accordo» disse Holden. «Cosa mi dite del pennacchio dei loro reattori? Se
stanno frenando verso di noi, quanto è grande la minaccia che costituiscono?»
Alex scosse il capo. «Alle velocità di cui stiamo parlando, se finiamo nel loro
pennacchio ci ritroveremo loro in grembo.»
La voce di Clarissa suonò calma e sommessa. «E se fosse una missione
suicida?»
Alex si fece serio in volto. «Bene, ah, allora... sì, sarebbe una fregatura.»
«Se dovessimo danneggiare la Giambattista con una frenata troppo forte,»
interloquì Naomi «potremo comunque organizzare gli attacchi da qui. Stiamo già
scaricando la prima ondata che attraverserà il portale, e non c’è ragione per non
lanciare da qui anche la seconda. L’equipaggio di base della Giambattista non può
essere molto più numeroso di quello che aveva la Canterbury e potremo
prenderlo a bordo della Roci, se necessario.»
«A meno che i danni, quali che siano, non interferiscano con lo scaricare le
navette» obiettò Clarissa. In quel caso, quando le navi nemiche torneranno
indietro Naomi e io ci ritroveremo là fuori munite di saldatrice per cercare di
tirare fuori la roba di Bobbie e avremo tutti quanti una brutta giornata.» Era
strano sentire le frasi tipiche di Amos pronunciate dalla sua voce. Però forse non
lo era poi tanto, considerato che quei due avevano trascorso un sacco di tempo
insieme.
Holden sfregò il palmo sulla fredda superficie del tavolo. Il peso di quel
momento gli gravava sulle spalle. «Parlerò con Bobbie e Amos. Loro sono là, e
potranno esporre la nostra teoria. Interrompere la decelerazione adesso, restare
alla deriva fino all’ultimo minuto, poi accendere al massimo il reattore per
frenare. Costringerli a inseguirci.»
«Convincere i cinturiani sarà difficile» osservò Naomi. «La mia gente non ama
la gravità elevata.»
«L’alternativa dell’essere colpiti dai siluri è un’argomentazione convincente,
però.»
«Sì» convenne Naomi, scrollando le spalle.
Da quel momento, le ore si fecero interminabili. Dormire sarebbe stata una
buona idea, ma non era possibile. Holden andò nella palestra, usando le fasce
elastiche finché l’indolenzimento non lo distrasse dalle navi che stavano
puntando su di loro. Non appena si fermò, però, tutto tornò ad affiorargli nella
mente. Si chiese se il nemico avrebbe preso di mira la Giambattista perché era il
bersaglio più grande, o la Rocinante perché costituiva la minaccia maggiore. Se il
piano per prendere Medina avrebbe funzionato. Se avrebbe funzionato in
tempo. Cosa avrebbe fatto la Marina Libera se esso avesse funzionato, o se fosse
fallito.
Se avessero vinto, riaprendo il passaggio per raggiungere i mondi coloniali,
questo cosa avrebbe significato per i cinturiani, per la Terra, per Marte? Quale
forma avrebbe assunto la storia umana se la Marina Libera li avesse sconfitti?
L’anticipazione si trasformò in ansia e paura, poi in impazienza, e infine tornò a
essere anticipazione. Di solito la Roci era comoda come una vecchia camicia, ma
sotto la minaccia dei cannoni in avvicinamento, lui si sentiva rinchiuso.
Claustrofobico. Non riusciva a dimenticare, come faceva di solito, che erano una
bolla di aria e di metallo in un vuoto di una vastità inimmaginabile.
Naomi lo trovò nella loro cabina, dopo la palestra. Aveva i capelli legati
lontano dal volto e i suoi occhi erano calmi e seri.
«Ti stavo cercando» disse.
Lui agitò la mano con un po’ di vivacità. «Presente.»
«Stai bene?»
«Non lo so. Sì?» Holden protese le mani in un gesto impotente. «Non so
perché sto avendo tanta difficoltà con questa cosa. Non è la prima guerra a cui
ho dato inizio.»
La risata di Naomi suonò calda e triste. Si lanciò attraverso la stanza e si
afferrò a una maniglia in un punto da cui poteva guardare il monitor da sopra la
sua spalla. Esso mostrava le due navi nemiche in avvicinamento, la Giambattista e
la Roci, un campo in rosso dove avrebbe avuto inizio la frenata e una linea bianca
dove la Roci pensava che sarebbe giunto l’attacco. Il primo attacco. Violenza
ridotta a un disegno grafico essenziale e ben presentato.
«Non hai cominciato tu tutto questo» disse. «È stato Marco.»
«Forse» replicò Holden. «O forse è stato Duarte. O la protomolecola. O la
Terra e Marte nel corso dell’ultimo paio di secoli, fregandosene della Fascia.
Non lo so più. Ho la sensazione di sapere quello che dovrò fare nei prossimi...
non so, cinque minuti? Magari dieci? Al di là di questo si fa tutto confuso.»
«Questo è sufficiente» ribatté Naomi. «Fintanto che riesci sempre a vedere il
prossimo passo, puoi percorrere tutta la strada.»
Gli posò la mano sulla spalla, un palmo caldo contro la sua pelle, e Holden
intrecciò le dita con quelle di lei, puntellandosi quando Naomi si tirò in basso,
accanto a lui. Era una manovra semplice che avevano eseguito un milione di
volte, in passato. La lunga pratica dell’intimità banale.
«Continuo a chiedermi se questo era inevitabile» disse Holden. «Ci sono così
tante cose che avremmo potuto fare in modo diverso. Forse avremmo potuto
impedire che accadesse.»
«Con quel noi intendi tu e io, oppure l’umanità?»
«Stavo pensando all’umanità, ma anche a te e me. Se tu avessi ucciso Marco
quando eravate ragazzi insieme. Se io non avessi perso il controllo e non mi
fossi fatto buttare fuori dalla marina. Se... non lo so. Se una qualsiasi delle cose
che ci hanno portati a questo punto non fosse successa, è possibile che niente di
tutto questo si starebbe verificando?»
«Non vedo come sarebbe possibile.»
Sullo schermo, le due navi nemiche si fecero più vicine mentre loro si
spostavano... non altrettanto in fretta... verso il campo rosso della frenata. «Io
però continuo a pensare che lo sarebbe stato» replicò Holden. «Se non si
trattasse di me o di te o di Amos o di Alex, se non si trattasse della Roci, ci
sarebbe qualcuno o qualcos’altro. La Fascia non è stata fottuta per colpa tua o
mia. Qualsiasi cosa abbia creato la protomolecola, non ce l’ha scagliata contro
per via di qualcosa che abbiamo fatto.»
«A quel tempo ci ha visti come se fossimo stati singole cellule.»
«Giusto. I dettagli sarebbero diversi, ma la... la forma del tutto sarebbe la
stessa.»
«Questo è il problema con le cose che non puoi fare due volte» osservò
Naomi. «Non puoi mai sapere come sarebbe andata se si fosse fatto nell’altro
modo.»
«No. Però puoi dire che se non si fa qualcosa in modo diverso, la cosa
succederà di nuovo. E di nuovo. E di nuovo, continuerà a ripetersi finché
qualcosa non cambia il gioco.»
«Come la protomolecola?»
«Non ha cambiato niente» affermò Holden. «Eccoci qui, a fare ancora le stesse
cose che facevamo prima. Abbiamo un campo di battaglia più grande, alcune
delle fazioni hanno cambiato schieramento, ma è tutta la stessa merda che
abbiamo continuato a fare da quando il primo uomo ha appuntito un sasso.»
Naomi si tirò più vicina e gli appoggiò la testa contro la spalla. Probabilmente
la gente faceva anche questo dalla notte dei tempi, anche se non in assenza di
gravità.
«Sei cambiato» osservò. «L’uomo che ho conosciuto sulla Canterbury non
avrebbe detto che era qualcosa che ci riguardava tutti, che quello che ognuno
faceva aveva importanza.»
«Ecco, da allora ho avuto davvero un sacco di gente che mi sparava contro.»
«E sei maturato alquanto. Va bene così. L’ho fatto anch’io, lo stiamo ancora
facendo entrambi. Non è qualcosa che puoi fermare, non finché non sei morto.»
«Mmm» commentò Holden. Poi: «Quindi devo supporre che questo genere di
cosa non ti disturba?»
«La natura della storia? No, non lo fa.»
«Perché no?»
Holden sentì Naomi scrollare le spalle contro il suo corpo, un gesto familiare
come se lo avesse fatto lui stesso. «So cosa devo affrontare adesso. Ho due navi
da attacco che mi stanno strisciando su per il posteriore, pronte a uccidere sia
me sia tutta la gente che amo di più nella mia vita. E se ci riusciranno, il mio ex
ragazzo potrebbe benissimo far regredire tutta la civiltà umana del sistema a un
nuovo secolo buio.»
«Sì. Quel tizio è uno stronzo.»
«Già.»
Lo guardarono arrivare, sapevano che sarebbe arrivato, ma questo non lo rese
meno spaventoso quando infine giunse.
Alex posizionò la Roci appena più avanti del muso della Giambattista,
abbastanza lontano da non fonderla con le emanazioni del loro reattore, ma
vicina quanto bastava a riuscire forse a fermare i siluri nemici prima che la
colpissero. I due pennacchi in avvicinamento erano come stelle... fissi e costanti.
Holden ricordò quando da bambino, nel Montana, aveva imparato ad afferrare
una palla da baseball, il modo in cui essa sembrava fluttuare, quasi immobile,
mentre puntava dritta verso di lui. Questa era la stessa cosa.
«Situazione?» chiese.
«Sessantatré secondi all’effettiva portata di tiro» riferì Naomi. «La Roci li tiene
d’occhio.»
Holden esalò il fiato. Il capitano della Giambattista insisteva che la sua nave non
avrebbe potuto sopportare più di tre g e mezzo, quindi quella era la velocità di
frenata che stavano tenendo. Il nemico stava rallentando a poco più di otto g,
ma procedeva ancora tanto in fretta che sarebbe stato a portata di tiro solo per
una frazione di secondo.
«Quaranta» disse Naomi, e tossì, un suono doloroso che rese Holden
consapevole del peso che sentiva alla gola. Forse avrebbero dovuto usare i
medicinali somministrati dai sedili, dopotutto. Ormai, alle loro spalle il portale
dell’anello doveva essere visibile a occhio nudo: anche un telescopio a bassa
potenza avrebbe mostrato lo strano non materiale organico della sua struttura,
che si muoveva ma era stazionario. I segnali filtravano attraverso i mille
chilometri circa del suo diametro, distorti come onde dell’oceano viste da sotto...
onde radio, luce, tutto lo spettro elettromagnetico, però distorto e reso strano. E
al di là di esso i cannoni a rotaia erano in attesa, pronti a ucciderli tutti.
«Comincio a pensare che forse non è un grande piano» disse.
«Cinque secondi. Quattro...»
Holden si aggrappò al sedile. Non che questo potesse essere d’aiuto, ma non
riuscì a impedirsi di farlo. Sulle videocamere esterne il pennacchio dei reattori
nemici divenne sempre più largo, spesso, luminoso. Poi in un battito di ciglia,
più veloci dell’aggiornamento dell’immagine, scomparvero e la Rocinante
sobbalzò violentemente intorno a lui, mandandolo a sbattere contro il sedile a
smorzamento come se fosse caduto da una scala. La nave risuonò come un
gong, in modo assordante. Per un istante pervaso di confusione pensò che
fossero stati sballottati dalla scia del nemico, che si sarebbero rovesciati.
Poi la Roci si stabilizzò. C’era un allarme che suonava, aspro ed esigente.
«Cosa succede?» gridò Holden.
«Non lo so» gridò di rimando Clarissa. «Non ho avuto più tempo di te per
vedere tutto questo. Solo che... d’accordo, pare che abbiamo incassato un paio di
proiettili di CDP oppure... no, aspetta. Questo non ha senso.»
L’allarme si spense e il silenzio parve ancora più minaccioso. Forse quella
scossa non erano stati i propulsori di manovra della Roci che li spostavano dalla
traiettoria nemica. Erano stati colpiti e forse stavano perdendo nel vuoto la loro
aria di riserva.
«‘Non ha senso’ non promette bene, Clarissa» disse, cercando di mascherare il
panico con un tono allegro. «Sarebbe davvero gradevole sentire qualcosa che
non mi desse l’impressione che stiamo per morire.»
«Ecco, siamo un po’ ammaccati» replicò Clarissa. «Credevo fossero i CDP, ma...
no, abbiamo distrutto un siluro che era abbastanza vicino da far sì che siano stati
raggiunti da alcuni detriti.»
«Hanno lanciato quattro siluri contro di noi e due contro la Giambattista» riferì
Naomi, da dietro di lui. «Li abbiamo centrati tutti, ma entrambe le navi hanno
riportato qualche danno. Sto aspettando un rapporto preciso da Amos.»
In quell’istante, pensò Holden. Quel momento di tremore era stato un’intera
battaglia, troppo rapida perché la mente umana potesse seguirne lo svolgersi.
Non sapeva se fosse stupefacente o terrificante. Forse un po’ di entrambe le
cose.
«Però non stiamo morendo» disse.
«Non più in fretta del solito» replicò Clarissa. «Devo sostituire alcuni sensori e
tappare un paio di buchi sullo scafo esterno quando ne avremo la possibilità.»
«Alex?» chiamò Holden. «Come vanno le cose lassù?»
«Mi sanguina il naso» rispose Alex. Sembrava indignato, come se il naso che
sanguina fosse qualcosa che succedeva solo quando si era bambini, e adesso
offendesse la sua dignità.
«Mi dispiace, ma pensavo più alle navi che stavano cercando di ucciderci.»
«Oh, giusto» rispose Alex, tirando su con il naso per fermare il sangue. «Come
ho detto, quella prima finestra si è chiusa. Qualsiasi cosa ci scaglino contro
adesso, potremo intercettarla facilmente. E non sembra che stiano alterando di
molto la frenata.»
«Questo quanto tempo ci dà?»
Alex tirò di nuovo su con il naso. «Arriveremo in un punto accanto al portale
in poco meno di un’ora. Se i nostri piccoli amici eseguiranno una frenata in linea
retta per tornare da noi e non cambieranno la loro velocità di frenata attuale
avremo sei ore e mezza. Un po’ di più se descriveranno una curva per arrivarci
addosso da direzioni diverse.»
«Qual è il tempo massimo?»
«Otto ore» rispose Alex. «Nello scenario più favorevole dovremo far passare
quel portale a tutta la nostra gente e metterla sotto la protezione dei nostri nuovi
e lucenti cannoni a rotaia entro otto ore. Sette sarebbe un termine più realistico.
Sei vorrebbe dire che non abbiamo dovuto affannarci.»
«Amos riferisce che sono stati sballottati un poco ma hanno perso soltanto un
po’ del rivestimento dei ponti di stoccaggio e circa una mezza dozzina di
navette» riferì Naomi. «Bobbie la definisce una vittoria e si stanno affrettando
per mettere in movimento la prima ondata.»
Fra la pressione di tre g e mezza e la violenza della difesa della Roci, Holden
aveva la mascella e la schiena doloranti. Non riusciva a immaginare quanto tutto
questo dovesse essere sgradevole per Naomi e per i cinturiani sulla Giambattista,
inclusa la squadra della prima ondata di attacco che Bobbie stava per guidare giù
per la gola del nemico. Una prima ondata per prendere i cannoni a rotaia, poi
una seconda per occupare Medina. Per allora, forse avrebbe saputo cosa fare
dopo.
Se non avesse funzionato, avrebbero cercato di tenere in vita la Giambattista e i
soldati dell’APE ancora su di essa abbastanza a lungo da elaborare qualche altro
piano.
Il portale dell’anello si fece più largo sui telescopi, incombendo sempre più
grande fino a essere tanto vicino da far apparire minuscole le navi. Mille
chilometri da un lato all’altro, e al di là di esso lo strano non-posto della zona
lenta, gli altri portali e le rovine di un impero galattico di milletrecento mondi
che l’umanità aspirava a recuperare. Naomi aveva ragione, non importava se
fossero i servitori di un qualche movimento storico più grande o meri individui,
vite scollegate che subivano le conseguenze delle loro scelte. Questo non
cambiava ciò che dovevano fare.
La Giambattista raggiunse un minimo nella loro curva vettoriale e spense il
reattore. Qualche secondo più tardi la Roci fece lo stesso, ma a quel punto i lati
della nave gigantesca si stavano già aprendo. Sotto la luce delle stelle le migliaia
di piccoli vascelli da quattro soldi sembravano spore sparse al vento da un fungo
scuro, visibili più per la luce stellare che bloccavano che per la loro forma o
colore. Così da vicino, il portale dell’anello le faceva apparire minuscole. Holden
non poteva impedirsi di vederlo come un enorme occhio latteo che fissasse
ciecamente un sole che era poco più della stella più brillante fra miliardi di altre.
Sul suo monitor giunse una richiesta di connessione. Era di Bobbie Draper.
Holden la accettò e il volto di lei apparve sul suo schermo. La sua armatura
potenziata faceva apparire piccola la testa libera dal casco. Le voci alle sue spalle
parlavano in gergo cinturiano, così in fretta che lui non riusciva a distinguere le
parole.
«La prima ondata è pronta ad andare» annunciò Bobbie. «Abbiamo il permesso
di iniziare l’azione?»
«Concesso» rispose Holden. «Però, Bobbie? Davvero, vedi di non morire là
fuori.»
«Nessuno vive in eterno, signore,» replicò Bobbie «ma fintantoché questo non
compromette la missione, cercherò di sopravvivere a essa.»
«Grazie.»
Dapprima a uno a uno, poi in gruppetti irregolari, i piccoli e deboli razzi
chimici cominciarono ad accendersi. Anche presi tutti insieme, non avevano la
potenza del reattore della Roci, ma non ne avevano bisogno. La loro intera vita
era limitata allo spazio fra il portale dell’anello e la stazione nel centro della zona
lenta, e per la maggior parte di esse sarebbe stata ancora più breve. E solo una di
esse trasportava Bobbie, Amos e la squadra di attacco. Mentre Holden le
osservava, le navette si spostarono come uno stormo di storni, divennero una
singola forma che si muoveva su un immaginario vento tattico e accelerarono
verso il portale.
E poi lo attraversarono.
44
Roberts

Aveva saputo che stava per arrivare. Ancora prima che riuscissero a ottenere
informazioni specifiche da Jakulski aveva saputo che qualcosa stava arrivando.
Era una sensazione che affiorava come un brutto sogno da cui non riuscisse a
liberarsi, una premonizione o forse soltanto quel genere di paura generata
dall’avere qualcosa di importante e dal riuscire a immaginare in modo fin troppo
chiaro come sarebbe stato perderlo. Sapere che la guerra stava arrivando a
Medina fu quasi un sollievo. Se non altro, adesso sapeva a grandi linee di cosa
avere paura.
La paura aveva fatto apparire enormi i piccoli cambiamenti. Quando Jakulski
aveva notificato loro che il programma di lavoro sarebbe cambiato, Roberts non
aveva potuto fare a meno di interpretare ciascuna modifica come se fosse stata
una carta dei tarocchi. L’individuazione della perdita di segnale all’interno del
corpo centrale era stata rimandata di un mese, quindi forse il capitano Samuels
non la considerava una cosa importante per una difesa contro l’invasione.
L’aggiornamento della provvista d’acqua a bassa gravità era stato spostato in
avanti, quindi forse volevano poter disporre di una capacità maggiore nel caso
che i sistemi ambientali fossero stati danneggiati. Avevano trascorso un’intera
giornata a installare laser per le comunicazioni in esubero, in modo da poter
avere sempre un collegamento su raggio stretto con Montemayor e il resto dei
consiglieri inviati da Duarte e le guardie sulla stazione aliena. Tutto quello che
riusciva a inserire nel concetto di fortificare la stazione in previsione della
violenza imminente diventava un’altra prova che la sua paura era giustificata, e a
ogni nuova prova che trovava le riusciva più facile vederne altre come prove
ulteriori.
E non era soltanto lei. Gli altri membri del suo gruppo di lavoro provavano lo
stesso timore. Adesso Jakulski era spesso assente, non li sovrintendeva affatto se
non per dire loro cosa fare a inizio turno e chiedere se lo avevano fatto quando
il turno finiva. Quando usciva con loro, a fine turno, se ne andava presto senza
fornire giustificazioni a parte il fatto di avere ‘cose da fare’. Salis beveva di più, si
presentava per il turno affetto da postumi di sbornia e iroso, e poi non voleva
tornare al suo alloggio quando la giornata finiva. Vandercaust... ecco, fin da quel
falso allarme riguardo alla talpa, Vandercaust era un uomo più piccolo. Non nel
corpo, ma nel modo in cui viveva. Era cauto, disponibile, e chiuso in sé stesso
come una lumaca nel guscio. Una volta, subito dopo che avevano saputo del
trasporto per il ghiaccio che stava puntando veloce verso il portale del Sole, si
erano trovati al bar quando una giovane coya, ubriaca persa, aveva cominciato a
gridare che i pianeti coloniali non meritavano aiuto o attenzione. Se non gli va di
essere trattati così, non avrebbero dovuto farlo con noi. Sono soltanto come i marziani, solo che
non hanno le palle per farsi valere. Tornate fra cinque generazioni, e forse per allora saremo
quasi pari. Vandercaust aveva finito la sua ordinazione in fretta e se ne era andato
senza neppure salutare. Adesso qualsiasi cosa che avesse a che fare con la
politica lo metteva in tensione, anche se era qualcosa su cui erano tutti
d’accordo.
E tuttavia Roberts aveva scoperto di aver ancora bisogno di compagnia.
Quando le fughe di notizie e le voci erano arrivate a un livello tale che il
capitano Samuels aveva dovuto fare un annuncio – ‘Navi nemiche associate a
fazioni dell’APE esterne alla Marina Libera stanno inviando una grossa nave da
carico con una scorta. Non conosciamo le loro intenzioni. La Marina Libera ha
inviato alcune navi da combattimento come appoggio per Medina, ma con
combattimenti tanto intensi in corso in tutto il sistema, si tratta di un
contingente minimo’ – lei si era sentita quasi sollevata. Almeno, adesso ne
potevano parlare apertamente senza mettere nelle grane Jakulski.
Quando il nemico era arrivato sul lato esterno dell’anello, in avvicinamento,
tutta l’attività su Medina era cessata. C’erano programmi e liste e rapporti di
lavoro, ma c’erano anche nemici alle porte. Jakulski non si era fatto vedere per
dare loro gli ordini quotidiani, e perfino quella libertà era parsa minacciosa. Si
erano trasferiti in un bar dove gli schermi a parete erano regolati su un notiziario
locale della sicurezza... le ultimissime notizie sull’assedio di Medina mentre era in
corso.
C’erano diagrammi indicanti la posizione delle navi nemiche e dei difensori
della Marina Libera, un’analisi di chi erano Aimee Ostman e Carlos Walker e del
perché non si erano uniti alla Marina Libera. Una conferma che la nave di scorta
era la Rocinante del capitano Holden. Birra. Tofu secco con polvere di wasabi. Il
cameratismo della folla. Sembrava quasi un raduno per guardare una partita di
football, solo che la loro casa era il campo e la sconfitta avrebbe significato la
morte per qualcosa di più della sola gente della stazione: l’autonomia e la libertà
che la Marina Libera aveva promesso erano in equilibrio precario su una
capocchia di spillo.
«Li hanno presi?» chiese Salis, con voce affannosa. «Li abbiamo uccisi?»
Roberts si protese attraverso il tavolo, afferrandogli la mano e stringendola
forte mentre aspettavano un aggiornamento del notiziario, che arrivassero
notizie fresche. Non c’era niente di romantico in quel gesto, neppure un invito
sessuale, era solo che non c’era un modo migliore per esprimere la paura e la
speranza e un ‘oh, santa merda’, tutto nello stesso momento. Nel locale almeno
tre dozzine di persone... forse di più... fissavano le immagini spesse e confuse
che filtravano attraverso il portale. Se non fosse stata un’immagine dal vivo,
sarebbe stato possibile ripulirla fin quasi a impedire che si notasse la stranezza
prodotta dal portale, ma vederla irregolare e distorta adesso era meglio che
vederla nitida più tardi.
Ci fu un bagliore e la Rocinante risplendette come un incendio. L’intera stanza
trattenne il fiato. Attese. Quando però la luce svanì, la nave nemica era ancora là.
Salis ringhiò qualcosa di osceno e le lasciò andare la mano. Sul video, le navi
della Marina Libera erano già scomparse, trasportate lontano nel vuoto dalla loro
stessa premura di raggiungere la Giambattista e la Rocinante prima che arrivassero
al portale. Per quel che era servito.
«Es bien, es bien, sì?» disse Vandercaust. «Ha incassato un colpo, li hanno
ammaccati. Li hanno costretti ad accelerare le cose, hanno impedito che
procedessero con calma, con cautela.»
«Non sai cos’hanno su quella nave» ribatté Roberts. «Potrebbe essere qualsiasi
cosa.»
Vandercaust annuì, prese un pezzo di tofu fra le dita e il pollice e lo schiacciò
fino a spezzarlo. «Qualsiasi cosa sia, la crivelleremo di colpi dei cannoni a rotaia
fino a ridurla in polvere.» Protese il pollice sporco di polvere verde come se
stesse dimostrando il concetto. Roberts annuì, un movimento tanto teso e
rapido che fu quasi un dondolarsi avanti e indietro.
«Dui» rispose, desiderosa di crederci. Aveva bisogno di crederci. Sullo
schermo, la massa incombente del trasporto per il ghiaccio appariva ferma
dall’altro lato del portale, e spostata da un lato, dove i cannoni a rotaia non
potevano spararle contro. Quindi sapevano delle difese, e si stavano tenendo
bassi. Questo era un peccato.
«Cosa stanno facendo?» chiese Salis, senza aspettarsi una risposta. Sullo
schermo, un centinaio di nuove, deboli stelle tremolanti e incostanti apparve
intorno al trasporto. Poi il numero salì a un migliaio. Poi raddoppiò. Roberts
sentì una parte di sé stessa che si ritraeva, perché lo shock la induceva a
prendere le distanze da sé stessa.
«Mé scopar» sussurrò. «Quelli sono pennacchi di reattore?»
I punti di luce scattarono, muovendosi tutti contemporaneamente, uno sciame
di vespe luminose che vorticavano, curvavano e attraversavano il portale
dell’anello, addentrandosi nel loro spazio. Nel suo spazio. Qua e là, una luce
tremolò e morì, una sola che tremava e moriva in mezzo a migliaia, ma la
maggior parte delle altre continuò a fluire in avanti, mentre i sistemi di volo
prendevano atto della situazione... la loro posizione, quella della stazione aliena,
di Medina, dei portali.
C’erano spazi sicuri nei quali i cannoni a rotaia non avrebbero sparato. Non
dietro un riparo, perché a parte la stessa Medina nella zona lenta non c’era
niente dietro cui nascondersi, ma qualsiasi nave nemica che fosse riuscita a
mettersi fra la canna di un cannone a rotaia e l’anello di un portale o la stessa
Medina sarebbe stata al sicuro. Se non altro, lo sarebbe stata finché i CDP e i
siluri della Stazione di Medina non avessero potuto raggiungerla. Come schegge
di ferro che mostrassero un campo magnetico, lo sciame puntò verso linee
definite dalla geometria e dalla tattica. O almeno lo fece la maggior parte di esso.
Alcune non ci riuscirono e rimasero a vorticare impotenti nel vuoto, senza più
costituire una minaccia. E le altre...
«Quegli oggetti in rapido movimento non sono navi» disse Salis. «Quelli sono
siluri...»
Il terminale palmare di Roberts trasmise un allarme nello stesso momento di
quello di Vandercaust e di Salis. Lei fu la prima a tirare fuori di tasca il suo: lo
schermo era bordato di rosso: allarme da combattimento. Accusò ricevuta,
indicando la sua posizione. L’avevano assegnata a una squadra di controllo danni
operativa nel vuoto, mentre Jakulski e gli altri pezzi grossi della sezione tecnica
aspettavano di vedere dove sarebbe stato necessario inviarla. Dove si sarebbero
verificati i danni. Era peggio di un incarico difficile, perché il sangue le sfrigolava
per il bisogno di fuggire o combattere, e non c’era dove andare. Se avesse potuto
correre a occupare una postazione, almeno avrebbe potuto fingere di fare
qualcosa, di poter avere un effetto sull’onda di distruzione che stava volando
verso di lei.
«Ah!» esclamò Vandercaust. «Ci siamo!»
Sullo schermo, i cannoni a rotaia aprirono il fuoco. All’inizio, fu solo
movimento, con le canne... le sue canne, quelle che lei aveva montato nei loro
alloggiamenti... che vibravano. Poi il notiziario si sovrappose alla traiettoria dei
colpi, linee luminose che svanivano con la rapidità con cui erano apparse, e a
ogni tremolio uno dei nemici morì. Roberts sentì la mascella che cominciava a
dolerle per quanto era serrata, ma non riuscì a rilassarla. Salis grugnì con
espressione sgomenta.
«Que?» chiese Roberts.
«Vorrei che non lo stessero facendo, tutto qui» rispose lui.
«Facendo cosa?»
Lui accennò con il mento allo schermo a parete. «Mandare quelle attraverso i
portali, là dove vanno a finire.»
Roberts sapeva cosa intendeva. Il nulla senza stelle... che non era neppure
spazio... dall’altro lato dei portali era inquietante, se ci si soffermava a pensarci
troppo. Materia ed energia potevano essere convertite una nell’altra, ma non
distrutte, quindi quando qualcosa che si spingeva oltre il limitare della zona lenta
sembrava svanire, doveva andare da qualche parte o essere trasformata in
qualcosa, ma nessuno sapeva cosa.
«Non abbiamo alternativa» disse. «Esá coyos ci costringono a farlo.»
«Già. È solo che...»
Si susseguirono minuti lunghi e terribili. Roberts scivolò in uno stato che era in
parte panico e in parte trance. Sul video, le linee lampeggiavano. Un altro
nemico morto. Un altro proiettile di tungsteno che accelerava fino a lasciare la
realtà per l’oscurità ancora più strana dello spazio. Adesso che la vedeva con gli
occhi di Salis, essa rendeva nervosa anche lei. Era facile dimenticarsi della
profonda stranezza che li circondava. Vivevano là, era la loro casa, quindi era
ovvio che dovessero difenderla, ma quello in cui vivevano era anche un mistero.
«Ma a che velocità stanno andando?» commentò Vandercaust, con voce piena di
meraviglia. Passò il terminale palmare dallo schermo di allerta a un programma
di tracciamento, inserendovi i dati in streaming. «Esá non possono avere un
equipaggio a bordo. Se ci fosse sarebbe ridotto in gelatina, nonostante i
medicinali.»
Medina tremò, una vibrazione lieve ma inconfondibile. La prima nave nemica
era a portata di tiro. Sullo schermo al tremolio dei cannoni a rotaia si unirono gli
archi più ampi e lenti dei CDP, i punti luminosi dei siluri di Medina. Roberts si
sorprese a borbottare imprecazioni come se fossero state una preghiera, senza
sapere da quanto tempo lo stesse facendo. Lo scintillio dei pennacchi dei reattori
nemici cominciò a inspessirsi e a fondersi in un’unica asta luminosa che tracciava
una linea fra la stazione aliena e Medina.
«Si stanno mettendo in mezzo a noi» disse. «Devono fermarli, si stanno
mettendo in mezzo a noi. Arriveranno qui. Ci abborderanno.»
«Nessuno di loro ci abborderà» ribatté Vandercaust. «No es navi, quelle. Sono
solo pugni, con un motore che li spinga. Arieti.»
«Continuiamo a eliminarli» aggiunse Salis. «Guarda, i cannoni a rotaia
continuano a sparare.»
Era vero. I tiri erano accurati, pericolosi. Scivolavano oltre il corpo centrale di
Medina, tanto vicini che a Roberts parve di poterli sentir sibilare mentre la
oltrepassavano, ma i nemici continuavano a morire, esplodendo in nuvole di
detriti e di vapore. L’ondata di siluri nemici era già scomparsa, trasformata in
detriti e cattive intenzioni, e le navi, per quanto sempre più vicine, calavano di
numero a ogni minuto.
«Stiamo incassando dei colpi» avvertì Vandercaust, fissando con aria cupa il
terminale palmare.
Roberts tirò fuori il suo terminale. C’era una perdita di pressione lungo gli
strati più esterni del corpo centrale. Non dovunque, ma sparpagliata. Un
corridoio qui, un magazzino là. Una cisterna d’acqua era stata forata e riversava
all’esterno un vortice di nebbia e ghiaccio mentre il corpo centrale continuava la
rotazione. I mormoni avevano costruito le parti esterne del corpo centrale
rendendole spesse per proteggerle dalle radiazioni dello spazio, quindi nessuno
stava morendo. Non ancora.
«Come fanno a colpirci?»
«Sono i rottami» spiegò Salis. «I detriti dei siluri. Non è niente.»
Poteva anche essere vero che si trattava solo di detriti, ma non era niente.
Mentre guardava, arrivò un altro allarme e un altro assegnamento. La sua
squadra non era ancora stata chiamata in servizio, e pensò che non lo sarebbe
stata finché il bombardamento non fosse cessato o non fosse stato colpito
qualcosa di tanto importante da giustificare che tutti e tre mettessero a rischio la
loro vita. Intorno a loro, gli altri applaudirono, e nel sollevare lo sguardo
Roberts vide una sfera che si andava allargando in mezzo allo sciame sempre più
ridotto. Ne avevano centrato uno grosso, e la detonazione era stata abbastanza
violenta da investire alcune delle navi vicine.
Adesso le migliaia di vespe erano di meno, forse due o trecento, e diminuivano
a ogni momento che passava. Quelle che rimanevano puntavano veloci verso
Medina, schivavano gli archi dei CDP, fuggivano dai siluri, finivano per scivolare
fuori del corridoio di sicurezza ed essere fatte a pezzi dai cannoni a rotaia.
Mentre le luci scintillanti scomparivano nel nero, Roberts sentì qualcosa che le si
formava nel ventre e nella gola. La risata le sfuggì sommessa, ma calda e intensa
come il pianto, e crebbe fino a diventare qualcosa di profondo.
Erano venuti per prendere Medina, e stavano fallendo. Sì, la stazione stava
incassando dei colpi. Sì, avrebbero riportato dei danni, ma non sarebbero caduti.
Adesso Medina apparteneva alla Marina Libera e sarebbe rimasta parte di essa
per sempre. Anche Salis sorrideva, e tutt’intorno a loro gli applausi
cominciavano a levarsi a ogni colpo di cannone a rotaia che centrava un altro
invasore. Fra tutti, solo Vandercaust appariva incerto.
«Que sa?» gli chiese Roberts. «Visé come se stessi cercando di grattarti il culo
con un gomito.»
Vandercaust scosse il capo. I cannoni a rotaia scintillarono di nuovo e un’altra
luce si spense.
«Continuano ad andare alla deriva, loro» disse. «Visé. Sono nell’ombra, sì? La
stazione è abbastanza lontana da far sì che i cannoni a rotaia possano inquadrare
contemporaneamente loro e noi. Eppure... vanno alla deriva. Si mettono dove i
cannoni li possono centrare. Perché lo stanno facendo?»
«Che importa, fintanto che muoiono?» ribatté Salis, che continuava a sorridere.
«Forse vogliono essere uccisi» suggerì Roberts. Lo aveva inteso come uno
scherzo.
Le parole però rimasero sospese là, fluttuando sopra il tavolo come fumo che
si raccogliesse mentre le sorti della battaglia stavano per cambiare. Roberts
riportò l’attenzione sullo schermo, mentre la sua gioia e il suo sollievo svanivano
come se non fossero mai esistiti. Un senso di gelo le pervase i polmoni e il
cuore, una paura del tutto diversa dalla tensione e dall’ansia generati dall’attacco.
Un’altra nave che avrebbe potuto essere distrutta dai CDP o dai siluri di Medina
fu invece centrata dai cannoni a rotaia.
«Cosa sto guardando, Vandercaust?» chiese, con voce dura ma tremante.
Vandercaust non rispose e si incurvò invece sul suo terminale palmare,
lavorando furiosamente su di esso con le sue spesse dita da operaio.
Un’altra nave distrutta. E un’altra. Adesso rimanevano meno di cento nemici,
e si stavano sparpagliando come un fiore che sbocciasse, senza neppure più
tentare di mantenere la rotta su Medina. Tutt’intorno, la stanza esplose in grida e
festeggiamenti. Al di sopra di quella cacofonia, lei sentì a stento Vandercaust
dire: «Merda!»
Gli pose la domanda con le mani, e lui le porse il terminale. L’inizio della
battaglia aveva già l’aspetto di qualcosa uscito dalla storia. Le migliaia di
pennacchi che si riversavano attraverso i portali e la maggior parte di essi... quasi
tutti... che puntavano dritti su Medina.
Quasi tutti. Alcuni però avevano fallito, con il reattore che annaspava, i
propulsori di manovra che lampeggiavano e li scaraventavano in una rozza
capriola vorticante. Ricordava di aver visto quelle navi e di averle ignorate. I
nemici erano così tanti, così ammassati, che fra quelle migliaia alcuni avevano
avuto problemi di funzionamento. Aveva significato solo una manciata in meno
di cui doversi preoccupare.
Vandercaust però aveva evidenziato una di quelle navi. Essa brillava azzurra
sul suo schermo mentre la battaglia procedeva e i cannoni a rotaia puntavano i
siluri che minacciavano Medina. I colpi partivano, i nemici morivano. Non così
però quel piccolo punto verde affetto da difetti di funzionamento, che andava
alla deriva, rotolando, morto.
Finché non smise di farlo.
Quando il suo reattore tornò in funzione, esso non puntò verso Medina o si
ritirò verso il portale del Sole, ma saettò verso la sfera aliena, quel manufatto
pervaso di un lieve chiarore azzurrino che si trovava al centro della zona lenta, e
su cui erano installati tutti i loro cannoni. Adesso Roberts stava tremando
talmente che il punto verde pareva danzare sulla sua mano, lasciandosi dietro
tracce luminose, una sobbalzante immagine residua di come erano stati
ingannati. Migliaia di imbarcazioni e di siluri che solcavano il vuoto come
evocati da un prestigiatore avevano avuto il solo scopo di attirare l’attenzione. E
aveva funzionato, dannazione.
Roberts restituì il terminale e tirò fuori il suo, inviando a Jakulski una richiesta
di connessione d’emergenza. A ogni secondo in cui lui tardò a rispondere, le
parve che un’altra zolla di terra cadesse sulla sua bara. Quando infine apparve,
era negli uffici amministrativi, fuori del corpo centrale, e in assenza di gravità. Il
suo sorriso soddisfatto indicava che perfino il capitano Samuels non aveva
ancora capito cosa era successo.
«Que hast, Roberts?» chiese, e per un momento lei non riuscì a parlare. Il
desiderio di essere nel mondo in cui si trovavano Jakulski e tutti gli altri che
l’attorniavano – quel mondo in cui avevano vinto – le creava un nodo alla gola
che non permetteva alle parole di passare.
Poi ci riuscirono.
«Contatta su raggio stretto Mondragon» disse.
«Chi?»
«No. Merda. Montemayor, o comunque si chiami quel coyo. La gente di Duarte.
Avvertilo. Avvertili tutti.»
Jakulski aggrottò la fronte e si protese maggiormente verso la videocamera,
anche se dove si trovava non c’era forza gravitazionale a cui resistere. «No savvy
me» disse.
«I jodidas della flotta congiunta sono appena sbarcati sull’altra stazione. Il loro
bersaglio non è mai stato Medina. Sono qui per i cannoni a rotaia.»
45
Bobbie

«Rimpiangi di essere venuto?» chiese Bobbie, gridando per sovrastare il


rumore della loro navetta.
Di fronte a lei, Amos scrollò le spalle. «No» gridò di rimando. «È un bene che
il capitano e lo Zuccherino abbiano un po’ di tempo per stare insieme. Li aiuta
ad abituarsi uno all’altra. Inoltre, questo è divertente.»
«Solo se vinciamo.»
«Quello è più divertente del perdere» convenne Amos, e lei scoppiò a ridere.
La navetta faceva schifo.
Un tempo era stato un container, e neppure uno vero, costruito secondo gli
standard che permettevano a un mech o a un molo automatizzato di gestirlo
insieme a migliaia di altri con le stesse dimensioni, gli stessi agganci e le stesse
porte. Questo era stato un container improvvisato, messo insieme nella Fascia
usando in parti uguali rottami e ingegnosità. Il secondo scafo era stato aggiunto
in seguito, e le saldature agli angoli erano ancora nuove. I sedili a smorzamento
non erano veri sedili, soltanto spessi strati di gel incollati alle pareti e dotati di
cinghie simili all’attrezzatura da scalata che servivano a trattenere i loro corpi su
di essi. A questo si aggiungeva che non avevano sensori attivi, stavano rotolando
alla deriva, la dozzina di uomini e donne che erano con loro non avevano un
addestramento degno di questo nome e probabilmente più della metà di loro era
stata coinvolta in qualche cospirazione contro Marte e la Terra in un passato
non troppo lontano, le loro armi erano vecchie e l’armatura un assortimento
proveniente da una mezza dozzina di fonti diverse. E poi, naturalmente, c’era il
fatto che se i cannoni a rotaia nemici si fossero accorti di loro, il primo
avvertimento che avrebbero avuto della cosa sarebbe stato che sarebbero morti
tutti. Bobbie avrebbe dovuto essere in preda al panico.
Invece si sentiva come se si fosse appena immersa in un bagno caldo. Il
chiacchiericcio ansioso dei soldati poteva anche essere in quella miscela
poliglotta propria della Fascia, e lei poteva riuscire a capirne solo la metà, ma
sapeva cosa stavano dicendo. I medicinali contro la nausea impedivano che il
complesso vorticare della navetta si facesse ancora più spiacevole, e il loro
amaro retrogusto riaffiorava come il ricordo di una casa in cui avesse vissuto da
giovane. Una ricca di piacevoli ricordi e di posti familiari. La Rocinante le piaceva
quanto qualsiasi altro posto in cui fosse stata, dopo Ganimede, e il suo
equipaggio era fatto di brave persone, che adesso erano perfino diventate sue
amiche, in un modo strano. I soldati che la circondavano non erano suoi amici e
non lo sarebbero mai stati. Erano il suo commando, e anche se era solo una
cosa momentanea, sentiva che quello era esattamente il posto a cui apparteneva.
Gli altoparlanti della tuta ciangottarono. Le comunicazioni erano il solo rischio
attivo che aveva deciso valesse la pena correre. Adesso era arrivato il momento
di scoprire se era stata una buona decisione. Accettò la connessione con un
movimento del mento.
Ci fu una scarica di statica, seguita da uno strano suono flautato, come di
vento che soffiasse nel collo di una bottiglia, poi altra statica, e infine la voce
ansiosa di Holden. «Bobbie? Come va lì?»
«Va tutto bene» rispose, poi controllò le videocamere esterne per accertarsi
che fosse vero. Il bagliore azzurro della stazione aliena saliva dal fondo del suo
campo visivo e si incurvava verso sinistra. Una scintillante distesa stellata fatta di
razzi. Una vista fugace della Stazione di Medina, che appariva più piccola di una
lattina di birra. I dati di prossimità mostravano un doppio conto alla rovescia:
uno per il momento in cui sarebbero passati all’interno dell’arco del cannone a
rotaia, l’altro per quanto avrebbero sbattuto contro la stazione vera e propria.
Entrambi scorrevano rapidi. «Saremo sulla superficie fra... tre minuti.»
«Le truppe sono pronte?»
Bobbie ridacchiò e aprì anche il canale di gruppo. «Ehi. Voialtri furfanti siete
pronti a fare questo?»
Il grido entusiasta provocato dalla domanda mise a dura prova il microfono.
Bobbie tornò alla connessione singola con la Rocinante.
«Una buona risposta» commentò Holden, ma la sua voce suonò tesa. Ci fu di
nuovo il suono flautato. Era la distorsione causata dall’anello. Bobbie non aveva
provato niente nell’attraversarlo. Nessuna discontinuità, o un senso di vertigine,
ma esso riusciva a incasinare i sensori e le comunicazioni.
«La missione procede come stabilito, signore» disse. «Assumeremo il controllo
dei cannoni e vi faremo arrivare qui.»
«Alex dice che il vettore delle navi da attacco ha superato lo zero. Stanno
tornando verso di noi.»
«Faremo in fretta» promise Bobbie.
«Lo so» replicò Holden. «Scusami. Buona caccia.»
«Grazie» rispose Bobbie, poi la connessione si interruppe e l’indicatore del
comunicatore si spostò sul rosso. Lei passò di nuovo alle videocamere esterne e
attivò una correzione dell’immagine. Da questo lato essa era stabile, e il rotolare
della navetta traspariva soltanto nei tre angoli ciechi irregolari che passavano
come pipistrelli da cartone animato. Adesso le navette usate come diversivo
erano di meno, ma ce n’erano ancora, e si erano avvicinate abbastanza da far sì
che la presenza della stazione bloccasse tutti i cannoni a rotaia tranne due.
Finché quei due non avessero deciso che loro erano altrettanto interessanti
quanto i siluri e le navette da sbarco vuote lanciate verso Medina, sarebbe
andato tutto bene. Solo che...
Catturò l’immagine, la ingrandì. Là, alla base dell’alloggiamento del cannone
più vicino, a una dozzina di metri dalla canna massiccia puntata verso il cielo,
c’era una bassa struttura grigia, rotonda come una moneta e con una pendenza
tale da far sì che qualsiasi fosse stata l’angolazione con cui i detriti o le emissioni
di gas l’avessero colpita, questo l’avrebbe solo premuta più saldamente al suo
posto. Era un tipo di struttura che conosceva come le sue tasche. Attese
l’affiorare della paura, ma tutto ciò che avvertì fu una cupa determinazione.
«Amos!» gridò, inoltrandogli una copia dell’immagine. «Dài un’occhiata a
questo.»
Il grosso uomo abbassò lo sguardo sul suo terminale palmare. «Uh»
commentò. «Bene, questo complica le cose.»
Bobbie aprì il canale di gruppo.
«Nuova informazione. È possibile che i dati a nostra disposizione, secondo cui
i cannoni a rotaia non erano sorvegliati, non fossero esatti. Sto vedendo un
bunker per le truppe del tipo usato dalla MRCM. Se ce n’è uno, ce ne possono
essere altri.»
Ci fu un coro di esclamazioni allarmate e di contrarietà. Bobbie azionò i
controlli delle comunicazioni, disattivando tutti i microfoni tranne il suo.
«Niente piagnistei. Sapevamo che esisteva questa possibilità. Se non volete
partecipare all’azione, sentitevi liberi di andarvene adesso, altrimenti controllate i
sigilli della tuta e le armi, e state pronti a combattere non appena toccheremo la
superficie. Il nostro compito è assumere il controllo di quei cannoni.
Riattivò i microfoni in tempo per sentire un coro stanco di ‘sì, signore’, e la
voce di una donna che le dava della cagna. Se ci fosse stato il tempo per
impartire una lezione di disciplina, lei non avrebbe ignorato la cosa, ma quello
era un ambiente a stress elevato, e i soldati dell’APE non erano marine. Avrebbe
lavorato con quello che aveva a disposizione.
Seguendo il suo stesso consiglio controllò le armi. Il fucile Gatling montato sul
braccio registrava un caricatore pieno, duemila colpi di un misto di proiettili per
perforare armature e altamente esplosivi. Un lanciarazzi a uso singolo era
agganciato sulla schiena e gestito dal laser di puntamento della tuta. L’armatura
potenziata era a piena carica. Non dubitava di essere la cosa più pericolosa che ci
fosse sulla loro piccola navetta di sbarco, il che significava che si sarebbe messa
in prima linea.
La navetta la informò che erano passati sotto l’arco di puntamento del
cannone a rotaia e il computer avviò i propulsori di manovra perché fermassero
il loro vorticare, poi accese il reattore principale. La frenata la premette con
forza contro il gel. La vista cominciò a offuscarlesi e dovette ricordare a sé stessa
di tendere le gambe e le braccia per costringere il sangue a scorrerle dai muscoli
al cervello. La chiamavano ancora la zona lenta, ma adesso là l’unico effettivo
limite di velocità era il non farsi schiacciare a morte dall’energia necessaria per
fermarsi.
La navetta colpì con forza la superficie, rimbalzò e la colpì di nuovo. Prima
che smettesse di scivolare, Bobbie aveva già slacciato le cinghie e premuto il
pulsante che faceva staccare completamente il portello dalla navetta. Comunque
fossero andate le cose, non l’avrebbero comunque usata per andarsene, del
resto. Fuori il panorama era surreale come qualcosa uscito da un sogno. Una
pianura di un azzurro più puro di quello di un cielo terrestre, amorfa e luminosa.
Essa proiettava ombre sulla navetta, sulle sue spalle. Tutti avevano le gambe
luminose, fino all’inguine, mentre il volto e le spalle erano nell’ombra.
Una spessa fascia di metallo e ceramica alta quasi un metro si stendeva davanti
a lei come un basso muro, scomparendo oltre l’orizzonte troppo vicino. Il
cannone a rotaia, la cui base era nascosta dalla curva della stazione, si levava
verso un inquietante cielo privo di stelle. Poteva sentire le pulsazioni che
generava facendo fuoco sotto forma di statica nella radio, avvertirle come un
cambiamento nella pressione dell’aria o l’insorgere di un malessere.
Aveva visto riprese video della zona lenta, ma non era stata preparata alla
propria ribellione puramente animalesca alla sua stranezza. Anche negli spazi
architettonici più elaborati che aveva visto... la cattedrale di Epping su Marte,
l’edificio delle Nazioni Unite sulla Terra... c’era sempre un senso di natura. La
stazione e i portali al di là di essa non erano così. Erano come una nave, ma di
una vastità impensabile, ed era quella combinazione di dimensioni e artificialità
che le faceva rizzare i capelli sulla nuca.
Adesso però non c’era tempo per queste cose.
«Non abbiamo copertura» avvertì. «Sparpagliatevi, rendete difficile a quei
bastardi di beccarci tutti. Avanti! Andate!»
Si lanciarono in avanti in una linea irregolare, con i propulsori delle tute che
erano più che sufficienti a sfidare la gravità a stento percettibile dell’inquietante
sfera azzurra. Era una buona tattica quella di muoversi in una linea frastagliata e
difficile da prevedere, anche se questo derivava più da una mancanza di
disciplina che da un piano. Davanti a loro, una linea scura spiccava
sull’orizzonte: un secondo muro che correva verso il primo e convergeva con
esso all’altezza del cannone a rotaia. Appena oltre ci doveva essere la bassa bolla
del bunker. Bobbie poteva sperare che non avessero notato il loro atterraggio,
che sarebbe riuscita a far arrivare i suoi ingegneri alla base del cannone a rotaia
in modo da penetrare nel suo sistema di controllo prima che il nemico si
accorgesse della loro presenza...
«Attenzione!» avvertì Amos.
Il fuoco nemico cominciò quando erano ancora a venti metri dall’angolo
formato dalla convergenza dei due muri. Truppe marziane che indossavano
quella che pareva essere un’armatura leggera erano accoccolate dietro il muro e
lo usavano come copertura nel prenderli di mira. Bobbie si sentì assalire dallo
scoraggiamento. Il nemico sapeva della sua presenza ed era in posizione.
Sarebbero stati uccisi prima che riuscissero a raggiungere i muri e la base del
cannone a rotaia.
«Indietreggiate» ordinò, secca, poi sparò qualche centinaio di colpi lungo la
sommità del muro. Le facce che sbirciavano sopra di esso scomparvero: alcuni
difensori erano morti, altri si erano messi al riparo, ma era ancora impossibile
determinare quanti. I soldati dell’APE però obbedirono al suo ordine. Nessuno
cercò di rimanere indietro e di fare l’eroe. La sola copertura di cui poteva essere
sicura era la curva stessa della stazione. Le pallottole le fischiavano intorno.
Erano bloccati lì, con l’azzurro che mostrava striature gialle, luminose come
scintille, che poi svanivano lentamente nell’azzurro. Il cannone a rotaia era
ancora in funzione.
Non appena la curva della stazione ebbe nascosto il muro più lontano, Bobbie
si fermò vicino alla navetta in cui erano atterrati e fluttuò verso l’alto fino a
riuscire a vedere soltanto la sommità estrema del muro al di sopra della curva
dell’orizzonte. Usò lo zoom per potenziare l’immagine e regolò la lente su falsi
colori a contrasto elevato che facessero spiccare come un neon qualsiasi
movimento. Ben presto una forma si mosse. Qualcuno che si era imbaldanzito
abbastanza da sollevare la testa per dare una rapida occhiata. Prese la mira e fece
fuoco. La testa scomparve: l’uomo era morto o si era abbassato? Impossibile
dirlo, con quel dannato muro di metallo di mezzo. La curva della stazione la
proteggeva, ma proteggeva anche loro. Gli altri marziani. Quelli che era certa
avessero tradito il loro mondo e armato la Marina Libera. Era poi così tanto,
chiedere che uno di loro si facesse incauto e si avvicinasse?
Amos seguì il suo esempio senza bisogno che gli dicesse niente, e gli altri lo
seguirono tirandosi avanti fino a portarsi dietro di lei, dove i colpi nemici non li
potevano raggiungere, per poi strisciare in avanti. La curva d’acciaio che il
nemico aveva steso intorno alla stazione era più larga di quanto fosse spessa...
almeno otto metri... e c’era spazio in abbondanza su cui sdraiarsi. Potevano
avanzare e costringere il nemico a indietreggiare un centimetro dopo l’altro, a
meno che non fossero stati loro a essere respinti. A meno che i marziani
traditori non avessero una navetta che poteva portarsi sopra di loro e annientarli
tutti.
Usando il mento per cercare di mantenere lo sguardo fisso davanti a sé, cercò
di aprire una connessione con la Rocinante. Adesso la statica pareva più intensa, e
ticchettava con lo stesso ritmo del fuoco del cannone a rotaia. Poi però ci fu
quello strano suono flautato e la voce di Holden giunse dall’altro lato, come se
lo stesse vedendo attraverso un velo.
«Come vanno le cose lì, Bobbie?» chiese.
«È una merda» rispose lei. «Abbiamo incontrato resistenza armata in una
posizione fortificata.»
«D’accordo. Quanto ti ci vorrà per sopraffarli? Lo chiedo solo perché ci
aspettiamo che quelle navi d’attacco veloce tornino qui in poco meno di due ore,
e sarebbe davvero grandioso se non fossimo più qui, quando lo faranno.»
«Sarà una cosa difficile, signore» replicò Bobbie. I lampi degli spari le dissero
che sul fronte nemico qualcuno aveva provato a sparare, ma quando sollevò lo
sguardo il tiratore era già scomparso. «In effetti, un po’ di supporto aereo ci
farebbe comodo.»
«Non so come possiamo farlo» disse Holden.
Naomi intervenne sul canale. «Abbiamo perso praticamente tutta la flotta
diversiva. Qualsiasi cosa ancora in volo verrebbe ridotta in briciole prima di
arrivare da te.»
«Capisco» rispose Bobbie. «A questo punto, sono aperta ai suggerimenti.»
Amos agitò la mano e indicò in avanti, verso la colonna girevole del cannone a
rotaia. Bobbie attivò una connessione privata con lui.
«Che ne dici di puntare alla fonte di alimentazione?» disse Amos. «Questi
cannoni a rotaia usano un sacco di energia per sparare e ancora di più per
raffreddarsi, e hanno sparato ininterrottamente da quando abbiamo attraversato
il portale. Devono avere da qualche parte un reattore a fusione che fornisce
l’energia, magari qualcosa recuperato da una nave.»
«Dove potrei trovarlo?» domandò Bobbie.
«Se dipendesse da me, io lo avrei piazzato proprio sotto quello di quei
surrogati di cazzi che aveva meno probabilità di essere colpito. Oppure ciascuno
potrebbe avere il suo.»
Bobbie ricontattò la Rocinante.
«Cosa succede?» domandò Holden. «Amos sta bene?»
«Abbiamo un piano. Farò rapporto più tardi» rispose Bobbie, e chiuse la
comunicazione, poi segnalò ai suoi soldati di avanzare e passò sul canale di
gruppo. «Mantenete questa posizione. Tenete concentrati qui il loro sguardo e la
loro attenzione.»
«Sa sa» rispose uno di loro, Bobbie non avrebbe saputo dire chi. «Per quanto
tempo dobbiamo farlo?»
«Finché non torno» ribatté lei. O per il resto della nostra vita, aggiunse dentro
di sé mentre tornava verso la loro navetta.
Il portello era stato staccato di netto dall’esplosione di apertura e lo scafo era
accartocciato dove aveva sbattuto contro la stazione, ma lei non aveva bisogno
che la navetta fosse bella, aveva solo bisogno che volasse, ed era ancora in grado
di farlo, almeno per un po’. Quando decollò dalla superficie della stazione alcuni
dei nemici le spararono contro, una cosa del tutto inutile con armi normali. Lo
scafo poteva essere ferraglia ordinaria, ma era una ferraglia ordinaria destinata a
sopravvivere agli impatti delle micrometeore. Il ruggito del motore era soltanto
una vibrazione nella sua tuta. Si stava lasciando alle spalle i suoi uomini, e farlo
era un po’ come morire, ma era la mossa giusta e non c’era tempo per esitare.
La curva della stazione era così stretta che dovette faticare per rimanere vicina
alla superficie. Adesso i cannoni a rotaia sapevano della sua presenza, e se avesse
tirato su la testa gliel’avrebbero staccata. Attivò tutti i sensori mentre si
muoveva, facendo il giro della stazione più in fretta che poteva. Avevano
disposto intorno a essa tre fasce che sembravano cinture intorno a una palla da
basket, con un cannone a rotaia posizionato a ogni intersezione delle fasce
d’acciaio, per cui non era difficile trovarli. Ciascuno di essi irradiava calore con la
massima rapidità, facendo andare fuori scala i sensori IR in un modo che non
aveva mai visto prima. Uno di essi, però, quello opposto al portale del Sole,
sembrava un po’ più rovente. Se c’era un solo reattore principale, pensare che
fosse lì era l’ipotesi più valida. Impostò la rotta della navetta, escluse la
disattivazione da prossimità, e non appena sentì che essa cominciava a scendere
per la sua ultima accelerazione suicida, slacciò le cinture e si lanciò verso il
portello aperto.
Se quello fosse stato un vero reattore, il pennacchio l’avrebbe uccisa. Invece,
ogni allarme da temperatura della tuta scattò nello stesso momento, la visiera del
casco si opacizzò e saltò un sigillo sul braccio, risucchiandole dolorosamente la
pelle intorno al gomito finché il sigillo secondario non si gonfiò e la compresse.
Per un terrificante secondo andò alla deriva al di sopra della stazione, cieca e
vulnerabile, e quando ricominciò a vederci tutto quello che riuscì a scorgere fu la
bolla bianca del bunker nemico, insieme ai bagliori degli spari. Diresse sul
bunker il laser da puntamento e lanciò il razzo che portava sulla schiena mentre
nello stesso tempo attivava i propulsori della tuta per tornare verso la superficie
con la massima rapidità che essi le conferivano. Colpì la stazione con più forza
di quanto fosse stata sua intenzione, un impatto che le scosse i denti abbastanza
da farle sentire in bocca il sapore del sangue. Ci fu un vivido lampo di luce
quando il razzo esplose, ma esso fu subito sopraffatto dal secondo bagliore
prodotto dall’impatto della navetta contro il reattore del cannone a rotaia.
La visiera si opacizzò nuovamente, ma invece del nero assoluto che aveva
raggiunto fra le fiamme del pennacchio del reattore, si tinse di un marrone
chiazzato. Un allarme a forma di trifoglio rosso apparve sul monitor delle
radiazioni, ma ciò che alimentò in lei un puro panico animalesco fu il vento.
Un’onda sottile e fischiante di gas la oltrepassò con violenza, spingendola
lontano dalla superficie.
Quando la visiera si schiarì, pochi secondi più tardi, una nuvola luminosa si
andava allargando da un punto appena oltre l’orizzonte, una nebulosa che si
scuriva lentamente. Adesso la superficie della stazione non era più azzurra, ma di
un intenso verde acido.
Oh, pensò, mentre la stazione passava dal verde al bianco, al nero e poi di
nuovo al verde. È possibile che questa sia stata davvero una pessima idea.
Alla sua destra e alla sua sinistra le fasce d’acciaio intorno alla stazione avevano
qualcosa che non andava. All’inizio non seppe dire di cosa si trattasse, ma poi
vide lo spazio fra l’acciaio e la superficie, come un anello troppo largo per il dito
su cui era. Attivò i sensori magnetici e IR, ma entrambi si erano bruciati
nell’onda seguita al guasto del reattore. Intanto il colore della stazione stava
tornando lentamente all’azzurro, e lei aveva l’irrazionale sensazione che essa
fosse consapevole della sua presenza, che l’aveva irritata e aveva attirato la sua
attenzione. Usò i propulsori della tuta e la microgravità per tornare verso la
superficie, quasi aspettandosi che essa l’afferrasse e la trascinasse all’interno per
infliggerle una qualche punizione, ma non lo fece.
La radio era abbastanza robusta da funzionare ancora. «Parla il sergente
Draper» disse. «Il cannone a rotaia spara ancora?»
«Cosa cazzo hai fatto?» urlò una voce maschile, acuta e spaventata. Bobbie
disattivò tutti i microfoni.
«È quello che sto chiedendo, soldato» ribatté, poi passò sul canale privato.
«Amos?»
«Non so cosa hai fatto, Babs, ma ha mandato tutto a puttane nel migliore dei
modi. Il cannone a rotaia sembra non essere più alimentato, i pochi stronzi
rimasti si stanno ritirando verso stronziville e credo che queste bande di metallo
a cui tutto è attaccato si stiano muovendo un poco.»
«Sì, è possibile che le abbia fatte staccare.»
«Notevole» commentò Amos. «Ehi, senti, devo andare a sparare a qualcuno.»
«Nessun problema» replicò Bobbie, poi aprì la connessione con la Rocinante.
«Okay, voialtri siete ancora lì?»
«I cattivi sono ormai davvero molto, molto vicini» rispose Holden. «Dimmi
che hai buone notizie.»
«Ho buone notizie» replicò Bobbie. «Potete attraversare l’anello. In effetti, se
poteste venire qui e darci un po’ di appoggio aereo lo apprezzeremmo molto.»
Ci furono urla d’entusiasmo generali, rese strane e inquietanti dall’interferenza
dell’anello. Era la sua immaginazione, oppure adesso il rumore era più forte?
«Li hai presi?» chiese Holden, e Bobbie riuscì a visualizzare il suo sorriso. «Hai
preso i cannoni? Li controlliamo?»
I sensori della tuta mostrarono che il muro d’acciaio più vicino a lei
cominciava a spostarsi. Appena pochi centimetri, ma c’era senza dubbio un
movimento. Era rotto. Era tutto rotto. I cannoni a rotaia non avrebbero difeso
nessuno nell’immediato futuro.
«No,» replicò «ma almeno adesso non li può più controllare nessuno.»
46
Holden

«Sai cosa mi piacerebbe?» gridò Alex, dalla cabina di pilotaggio.


«Potercene andare via da qui?» gridò di rimando Holden.
«Potercene andare via da qui. Se andiamo avanti così, ci ritroveremo seduti qui
con le brache intorno alle caviglie quando i cattivi torneranno» replicò Alex. «C’è
un motivo se non chiamano quelle cose navi d’attacco lento.»
Anche se occupava il sedile accanto a quello di Holden, Naomi si servì della
cuffia per comunicare, quindi almeno lei non si mise a gridare. «La Giambattista è
una grossa nave, Alex. Tu sei abituato male dal fatto che non hai più dovuto
pilotare un bue come quello per anni.»
«Merda» ribatté Alex. «Avrei potuto far girare la Canterbury nella metà del
tempo che ci sta impiegando questa cosa.»
Naomi sospirò, il massimo che era disposta a fare per indicare che era
d’accordo con loro. «Ecco, eri bravo nel tuo lavoro.»
Sullo schermo, la Giambattista scivolò lentamente di lato verso il portale
dell’anello. Il danno causato dal primo passaggio delle navi d’attacco aveva in
qualche modo sbilanciato i propulsori di manovra, per cui pilotarla consisteva in
buona parte nel far ruotare la nave e aspettare che i propulsori funzionanti la
mettessero nella posizione giusta per attivare il reattore. I pennacchi delle navi
d’attacco di ritorno erano già visibili e fra non molto i siluri avrebbero
ricominciato ad arrivare, a meno che la Marina Libera non scegliesse l’approccio
dell’aspettare fino a vedere il bianco degli occhi dell’avversario. Le navi nemiche
si erano separate e stavano tornando verso di loro distanti quasi cento gradi una
dall’altra. La cosa era meno brutta di quanto sarebbe potuta essere, perché se si
fossero prese il tempo di sferrare l’attacco da direzioni opposte sarebbe stato
quasi impossibile difendere la Giambattista con la Roci. Impostare i vettori e
mettersi in posizione avrebbe però consumato abbastanza tempo da permettere
alla Giambattista di oltrepassare il portale prima del loro arrivo. Tutti loro
sembravano costretti a trovare un punto fra minimo e massimo in una curva
complessa di inerzia, accelerazione e un sacco di morti.
Il reattore principale della Giambattista si accese, generando un pennacchio tale
da far apparire piccola la nave al confronto, e Alex gongolò.
«Era ora» commentò Naomi. «Adeguo la nostra rotta alla loro. Attraverseremo
il portale in venti minuti.»
Holden aprì una connessione con Bobbie. I secondi si protrassero, abbastanza
lunghi da fargli nascere un senso di tensione nello stomaco. La connessione si
attivò, cadde e si ristabilì proprio mentre Naomi diceva: «Una delle due sta
accelerando per attraversare il portale con noi.» Le avrebbe risposto fra un
momento.
«Pensiamo di attraversare il portale in venti minuti. Voi come siete messi?»
La strana interferenza del portale rese la voce di Bobbie spessa e inquietante.
Aveva il respiro affannoso, tanto che finché non parlò Holden la immaginò
colpita al ventre e fluttuante nel vuoto, o alla deriva sulla superficie della
stazione aliena. Stava per passare sul canale di Amos quando infine Bobbie
rispose.
«Amos mantiene la posizione contro il nemico» disse. «Io li ho quasi raggiunti.
La tuta è rimasta a corto di massa propellente, quindi sto tornando indietro a
piedi con gli stivali magnetici.»
«Stai tornando indietro di corsa verso il combattimento?»
«Ecco, diciamo che striscio rapidamente i piedi,» replicò Bobbie, fra un ansito
e l’altro «però va bene così. Hanno installato. Una grande strada di metallo.
Arriva dritta fino a loro.»
«D’accordo. Vi forniremo un po’ di appoggio non appena possibile. Cercate
solo di non farvi ammazzare prima del nostro arrivo.»
«Non faccio promesse, signore» replicò Bobbie, e dal suo tono Holden
sarebbe stato pronto a giurare che sorrise nel dirlo. Ci fu una scarica di statica e
la connessione si interruppe.
«Okay, cosa abbiamo?» chiese Holden.
«Entrambe ci stanno sparando contro» rispose Naomi.
«Sembri calma al riguardo.»
Lei lo guardò. Il suo sorriso fu improvviso e luminoso, e gli fece dolere un
poco il cuore. «È solo un tentativo disperato dell’ultimo minuto. Non è neppure
un vero attacco quanto un’opportunità di farci mandare tutto al diavolo.»
«D’accordo, quindi non ce ne preoccupiamo. Di cosa siamo preoccupati?»
Naomi gli passò sul monitor l’analisi dei reattori dei loro inseguitori. La più
vicina delle due navi aveva alterato la sua rotta, e la proiezione della sua curva la
poneva attraverso l’anello e nella zona lenta cinque minuti dopo che la Roci e la
Giambattista avessero effettuato il passaggio. E non stava frenando. Era una vera
seccatura.
«Abbiamo un piano per far fronte alla cosa?»
Alex rispose dal sistema di comunicazione di bordo. «Io dico di sparargli.» Un
momento più tardi Clarissa aggiunse: «Sono d’accordo.»
Holden annuì fra sé. Sentire la sua voce gli dava ancora una strana sensazione,
e forse lo avrebbe sempre fatto.
«D’accordo, inseriamo una soluzione di puntamento.»
«L’ho fatto mentre parlavi con Bobbie» rispose Naomi.
I CDP ciangottarono per un momento, poi tacquero. Stavano ripulendo il
risultato degli attacchi dell’ultimo minuto. Holden si sfregò le mani sulle cosce,
tamburellò con le dita, una mano contro l’altra, poi richiamò a schermo il
quadro tattico per vedere l’anello e la stazione aliena, Medina e le navi d’attacco
veloce.
«Avremo di che difendere tutto se entrambe le navi ci seguiranno, giusto?»
«Stai zitto» disse Naomi.
Visto attraverso le videocamere esterne, l’anello sembrava cancellare le stelle
mentre lo attraversavano. Alex effettuò una frenata breve e intensa, girando il
muso della nave verso il portale e il sempre più ristretto cerchio di stelle al di là
di esso. La Giambattista si girò, accelerò, si girò di nuovo e i suoi portelli residui si
aprirono. Minuscoli pennacchi luminosi sciamarono fuori, più piccoli di
altrettante lucciole se paragonati all’ampio pennacchio luminoso del reattore
Epstein del trasporto. Holden guardò una manciata di essi, poi una dozzina, poi
un centinaio riversarsi in direzione di Medina. L’APE veniva a finire il lavoro. Le
navette di sbarco rimaste si sparsero per offrire un bersaglio largo e confuso. A
quella distanza i CDP di Medina erano inutili e la Roci avrebbe probabilmente
potuto distruggere qualsiasi siluro avesse lanciato. Anche se avessero fatto
fuoco, comunque, avrebbero ucciso solo una manciata di soldati, dietro i quali ci
sarebbe stato ancora un esercito.
Cercò di aprire un raggio stretto per comunicare con la nave d’attacco in
arrivo, ma l’interferenza dell’anello era eccessiva, quindi passò sulla banda larga.
«Attenzione, nave d’attacco in avvicinamento» disse. Naomi lo guardò con una
domanda negli occhi, ma senza preoccupazione. Si fidava di lui. «Parla James
Holden, della Rocinante. Per favore, sospendete l’avvicinamento. Non siamo
obbligati a fare le cose in questo modo.»
Attese. Il display tattico era più vuoto di quanto lo fosse stato. Tutto quello
che sapevano di quello che stava succedendo nel sistema solare era quello che
filtrava attraverso il portale. La nave della Marina Libera non rispose e si lanciò
verso di loro.
«Quello lì non sta pensando con chiarezza, capo» gridò Amos, dall’alto. «Cosa
vuoi che faccia?»
«Dai loro una possibilità» rispose Holden.
«E se non la colgono?»
«Vorrà dire che non l’hanno colta» replicò Holden.
L’anello si fece sempre più piccolo a mano a mano che si allontanavano da
esso, come se guardassero verso il cerchio di un pozzo trovandosi giù nell’acqua.
La nave d’attacco stava frenando al massimo in direzione dell’anello. Proprio
mentre la prima nave della seconda ondata emersa dalla Giambattista stava per
raggiungere Medina e la stazione aliena, la nave attraversò l’anello, lanciò una
mezza dozzina di siluri ed esplose come una stella per il danno alla bottiglia
magnetica del propulsore quando Alex fece fuoco contro di essa con il cannone
a rotaia della Roci. Holden guardò in silenzio la nube di gas in espansione che era
stata una nave piena di uomini e donne allargarsi e cominciare a dissolversi.
Cercò di provare un qualche senso di vittoria per l’accaduto, ma esso gli parve
soprattutto assurdo. La zona lenta, i portali, perfino le mere navi umane che li
avevano portati così lontano erano tutti miracoli. L’universo era pieno di misteri,
di bellezza e di meraviglia, e tutto quello che loro riuscivano a fare era questo:
inseguirsi a vicenda, affrontarsi e vedere chi era più veloce a sparare.
Tutto nella zona lenta – la Giambattista, la sua nuvola di navette d’assalto, la
Stazione di Medina, la Rocinante – parve immobilizzarsi per un momento. Poi
una richiesta di connessione da parte di Bobbie riscosse Holden, che la accettò.
«Qui siamo al sicuro» disse Bobbie, che aveva ancora il respiro affannoso. «Il
nemico si è arreso.»
«Li avete presi vivi?»
«Alcuni di loro» replicò Amos.
«Hanno continuato a combattere come dannati anche dopo che la situazione si
è fatta disperata» spiegò Bobbie. «Anche noi abbiamo avuto alcune perdite.»
«Mi dispiace» disse Holden, e rimase un po’ sorpreso nel notare quanto fosse
vero, e non soltanto qualcosa che si diceva in momenti come questi. «Vorrei ci
fosse stato un altro modo.»
«Sì, signore» convenne Bobbie. «Sto andando a sovrintendere al trasferimento
dei prigionieri su un trasporto. Però c’è qualcosa che devi sapere.»
«Sì?»
«Questi che abbiamo qui non sono uomini della Marina Libera. Le persone
che difendevano i cannoni a rotaia erano marziani.»
Holden si prese il tempo di assimilare la notizia. «Quelli del colpo di mano?
Gli uomini di Duarte?»
«Non parlano, ma suppongo di sì. Questo potrebbe essere importante.»
«Provvedi che siano tenuti al sicuro e trattati bene» disse Holden.
«Sto già provvedendo» rispose Bobbie, e chiuse la comunicazione.
Holden collegò il monitor alle videocamere esterne e spostò la visuale fino a
inquadrare la Giambattista, la stazione aliena e... tanto lontana da sembrare poco
più di una scheggia di metallo, invisibile se la Roci non potenziava l’immagine... la
Stazione di Medina. Portandosi una mano alla bocca attivò i contrassegni
identificativi di tutte le navi di sbarco, guardò il display svanire sotto la nuvola di
testo verde pallido, poi tornò a disattivarli e fissò l’oscurità. Si sentiva gli occhi
granulosi. Era come se tutta l’ansia e la tensione che aveva accumulato durante
l’accelerazione attraverso l’anello fossero collassate, trasformandosi in
qualcos’altro.
«Stai bene?» chiese Naomi.
«Stavo pensando a Fred» rispose Holden. «Questo è quello che lui faceva.
Guidava eserciti. Conquistava stazioni. Questo è com’era la sua vita.»
«Questo è ciò che si era lasciato alle spalle» replicò Naomi «quando ha deciso
di cominciare a cercare di indurre la gente a discutere delle cose invece di
spararsi.»
«Bene, vediamo come funziona» disse Holden. Attivò la videocamera, si
esaminò sullo schermo e si passò le dita fra i capelli fino ad avere un aspetto un
po’ migliore. Era ancora logorato, ancora stanco, ma andava meglio. Regolò il
sistema sulla trasmissione a banda larga.
«Stazione di Medina, parla James Holden della Rocinante. Siamo qui per togliere
alla Marina Libera l’amministrazione della stazione, della zona lenta e dei portali.
Se proprio lo volete, possiamo passare un po’ di tempo a sparare ai vostri CDP e
ai vostri siluri finché non funzioneranno più, e poi far attraccare tutte queste
navette. Abbiamo un sacco di gente armata, e suppongo l’abbiate anche voi.
Potremmo continuare a ucciderci a vicenda per un bel po’, ma preferirei davvero
fare questa cosa senza perdere nessun altro. Arrendetevi, deponete le armi e vi
prometto un trattamento umano per i comandanti della Marina Libera e
qualsiasi altro prigioniero.»
Cercò di pensare a qualcos’altro da dire. Qualcosa di più. Un discorso
profondo sul fatto che in fin dei conti appartenevano tutti alla stessa specie e
che potevano liberarsi del peso della storia, se lo avessero voluto. Potevano
unirsi e creare qualcosa di nuovo, e tutto quello che sarebbe stato necessario per
riuscirci sarebbe stato solo decidersi a farlo. Però tutte le parole a cui riusciva a
pensare suonavano false e poco convincenti nella sua mente, quindi troncò il
messaggio e attese di vedere cosa sarebbe successo.
Naomi lasciò il sedile a smorzamento e fluttuò fino all’ascensore, scendendo,
poi tornò qualche minuto più tardi con un bulbo di tè, riprendendo posto sul
sedile. Attesero. Holden sapeva che se fosse passato altro tempo avrebbe dovuto
sferrare l’attacco, perché quelle navette non erano costruite per molto di più del
trasferirsi da una nave a un’altra, e fra non molto avrebbero cominciato a
rimanere a corto di aria e di carburante. Però forse qualche altro minuto...
Arrivò la risposta. Un segnale radio in chiaro, non criptato, aperto quanto lo
era stato la sua richiesta di resa. Una donna nella divisa della Marina Libera
fluttuava in una stanza molto familiare. Le immagini religiose sulla parete alle
sue spalle erano come simboli di un sogno ricorrente di violenza, sangue e
perdita.
Solo che forse questa volta le cose sarebbero state diverse.
«Capitano Holden, sono il capitano Christina Huang Samuels della Marina
Libera. Accetto le condizioni di resa, a patto che garantiate la sicurezza della mia
gente e un trattamento umano. Ci riserviamo di registrare e trasmettere la vostra
azione di abbordaggio per assicurarci che tutta l’umanità sia testimone del vostro
comportamento. Lo faccio per necessità e lealtà verso la mia gente. La Marina
Libera è il braccio militare del popolo della Fascia e non sacrificherò la vita della
mia gente o dei civili della Stazione di Medina quando non ne può derivare
nessun vantaggio. Personalmente, però, mi opporrò ora e per sempre alla
tirannia dei pianeti interni e al loro sfruttamento e lento genocidio del mio
popolo.»
La donna rivolse un saluto alla videocamera e il messaggio si concluse. Holden
sospirò e avviò a sua volta una trasmissione.
«Direi che va bene» replicò. «Arriviamo subito.» E chiuse la trasmissione.
«Sul serio?» commentò Alex, dall’alto. «‘Direi che va bene, arriviamo subito’?»
«È possibile che io faccia schifo in questo lavoro» gridò di rimando Holden.
La voce che scaturì dal comunicatore di bordo fu quella di Clarissa. «Io l’ho
trovata una risposta carina.»
La caduta della Stazione di Medina fu un’operazione lunga venti ore, da
quando le prime navette dell’APE attraccarono a quando l’ultimo membro della
Marina Libera venne rinchiuso in una cella. La prigione di Medina non era
neppure lontanamente adeguata alla necessità, quindi venne riservata agli alti
funzionari – lo staff di comando, i capi dipartimento, gli ufficiali e agenti della
sicurezza. Gli altri – perlopiù tecnici e addetti alla manutenzione – furono
confinati nei loro alloggi con la serratura bloccata dal sistema della stazione... e
cioè, alla fin fine... da Holden, che non poté fare a meno di avere l’impressione
di aver appena spedito mille persone nella loro stanza a riflettere davvero su
quello che avevano fatto.
Organizzò la sua postazione di comando nell’ufficio della sicurezza, nel corpo
centrale. La gravità di rotazione non era tanto elevata da disturbare Naomi e
c’era qualcosa di riposante nell’essere in grado di collassare su una sedia mentre
si guardavano i notiziari dalla Terra. Bobbie Draper, che adesso fungeva da capo
della sicurezza di Medina, era comodamente seduta alla sua scrivania, con le
gambe sul suo piano e le mani dietro la testa, rilassata come non l’aveva più vista
da quando lei e Amos erano tornati a bordo della Rocinante. Aveva una manica
arrotolata, e una vivida ustione coperta da una vescica con la forma di un sigillo
da tuta per il vuoto le circondava il gomito. Lei se la massaggiava gentilmente,
l’accarezzava. La sua reazione alla violenza aveva qualcosa di postcoitale che era
inquietante. Alex e Amos erano nella stanza accanto, dove Naomi era intenta a
passare al setaccio i registri della stazione insieme a un ingegnere dell’APE di
nome Costas, discutendo di qualcosa che aveva a che fare con lo yogurt e i
fagioli neri. Solo Clarissa non era scesa sulla stazione, e Holden non le aveva
chiesto il perché. I ricordi che aveva della Behemoth erano già abbastanza
sgradevoli e non riusciva a immaginare quali fossero i suoi.
Nei notiziari, l’Aia appariva come una malconcia versione color seppia di sé
stessa. Il cielo al di sopra dell’edificio delle Nazioni Unite era bianco di caligine,
ma non era scuro. Avasarala era lì, e il suo sari di un arancione acceso appariva
come una bandiera di vittoria.
«La liberazione di Medina significa più della liberazione di una stazione da una
tirannia violenta» disse, arrivando al punto culminante di un discorso lungo
mezz’ora. «Significa la riapertura della pista verso le colonie e tutti i monti che la
Marina Libera ha cercato di isolare. Significa ricollegarsi alla forza motoria della
storia, ed è la prova che lo spirito dell’umanità non si piegherà mai alla paura e
alla crudeltà. E sì, dato che vi siete comportati tutti tanto bene, risponderò ad
alcune domante. Takeshi?»
Un magro reporter che indossava un completo grigio si alzò in piedi, un’esile
canna fra le file dei suoi colleghi.
«Merda» commentò Alex, dalla soglia. «Ci sono reporter anche da altre parti
oppure se li è accaparrati tutti?»
«Sssh» ingiunse Bobbie.
«Signora segretario generale, ha detto che l’attacco alla Terra non è stato un
atto di guerra ma un colpo sferrato da una cospirazione criminosa. Adesso che
avete catturato dei prigionieri, come saranno trattati?»
«I cospiratori saranno portati sulla Luna e presentati ai loro avvocati» rispose
Avasarala. «La prossima do...»
«Solo quelli di Medina? O anche quelli di Pallas e di Europa? Questo non
appesantirà il sistema giudiziario?» incalzò l’uomo in grigio.
Avasarala sfoggiò un dolce sorriso. «Oh, quel tizio è fottuto» commentò
Bobbie.
«Oh, sì» convenne Holden.
«Ci vorrà del tempo per processare tutti» ribatté Avasarala. «Però parte della
colpa per il ritardo è della Marina Libera stessa. Se volevano un processo più
veloce non avrebbero dovuto radere al suolo così tanti tribunali. La prossima
domanda. Lindsey?»
«Non dovrebbe sfruttare tanto la situazione» osservò Bobbie, mentre una
donna bionda si alzava al posto dell’uomo in grigio e domandava qualcosa sulla
ricostruzione e il ruolo dell’APE. «Le si ritorcerà contro.»
«È la più grande vittoria inequivocabile che abbiamo avuto contro Inaros»
replicò Holden. «Lui ha spogliato tutto il resto fino all’osso, abbandonandolo,
oppure ci ha costretti ad avanzare come lumache per disarmare le sue trappole.
Perfino quella battaglia intorno a Titano pare ci sia costata tanto quanto
abbiamo guadagnato. La Terra ha bisogno di una vittoria. Marte ne ha bisogno.
Sono solo lieto che sia stata una vittoria in cui c’erano anche cinturiani che
combattevano dalla nostra parte.»
«Se lei gonfia troppo la cosa, però, sarà ancora peggio quando perderemo di
nuovo Medina.»
Holden si girò a guardare Bobbie.
«Perché pensi che la perderemo?»
«Perché ho dovuto distruggere i cannoni a rotaia» rispose Bobbie. «Conservare
il controllo di questo posto presupponeva che potessimo impadronirci delle difese,
ma non lo abbiamo fatto. Le abbiamo guastate. Se riusciremo a far arrivare qui
una dozzina di navi con cannoni come quello della Roci, o magari un paio di navi
da guerra di classe Donnager, potremo tenere la stazione. Questo però significa
farle arrivare qui, e dobbiamo presumere che Inaros stia caricando ogni granata
e proiettile di riserva su tutte le navi che ha per venire a prenderci a calci in culo.
E questo sempre che il suo mecenate, al di là del portale di Laconia, non stia già
mandando a spazzarci via le navi della MRCM che ha rubato.»
Il nodo allo stomaco di Holden, che si era leggermente allentato da quando era
sbarcato su Medina, tornò a serrarsi. «Oh» disse. «Allora, abbiamo un piano per
far fronte alla cosa?»
«Combattere come dannati e sperare che i cattivi perdano così tanto tempo a
ucciderci che non possano finire di ricostruire le difese prima che le navi
mandate da Avasarala e da Richards arrivino qui.»
«Ah.»
«Siamo stati fottuti nel momento in cui ho fatto saltare quel reattore, ma
questo non toglie nulla alla dignità essenziale della situazione. E questa è una
bella collina.»
«Una cosa?»
Bobbie lo guardò, sorpresa che non avesse riconosciuto quella citazione. «Una
bella collina su cui morire.»
47
Filip

«Com’è stato?» chiese Filip, cercando di parlare in modo disinvolto.


La ragazza si chiamava Marta. Aveva un volto ampio, con una serie di nei
sparsi lungo la linea della mascella come se fosse stata schizzata da qualcosa, e i
suoi capelli erano più chiari del colore della pelle. Fra tutte le persone nel locale,
sembrava quella più disposta ad avere pazienza con il tizio nuovo. Quando il
karaoke era stato in funzione, gli aveva offerto il microfono, anche se lui non lo
aveva accettato, e quando il club si era fatto affollato gli aveva permesso di
sedersi all’estremità del suo tavolo. Non con lei, ma neppure non non con lei.
Era cresciuta su Callisto, vi era nata. Aveva lavorato per uno dei magazzini che
effettuavano controlli di conformità. Aveva circa un anno più di lui, e ne aveva
avuti sedici quando era successo.
Marta socchiuse gli occhi e inclinò la testa da un lato. «Com’è stato l’attacco?
Perché lo vuoi sapere?»
«È una cosa che mi sono chiesto» replicò Filip, scrollando le spalle. Il locale
era abbastanza buio da impedirle di vederlo arrossire, probabilmente. «Ne ho
sentito parlare da quando sono arrivato.»
Marta scosse il capo e distolse lo sguardo. Qualcuno spintonò Filip nel tornare
verso il bar. Lui stava per scusarsi, stava cercando le parole per farlo, quando
Marta parlò.
«Era aine giorno, sì? Al mattino mi sono svegliata come sempre, mi sono
vestita per andare a scuola. Mia madre ha preparato hash e caffè per colazione.
Giusto eine giorno, proprio come gli otra. Stavo parlando con alcuni amici nella
sala comune e tutto si è messo a tremare, sì? Solo una volta. Solo un poco, ma lo
abbiamo sentito tutti. Lo abbiamo chiesto gli uni agli altri: tutti lo avevano
avvertito. Poi l’insegnante è entrato in tutta rapiutamine e ha detto che dovevano
andare nei rifugi perché stava succedendo qualcosa à los cantieri marziani.
Abbiamo pensato che fosse esploso il reattore. Sapevamo che era una cosa
grave. Eravamo appena entrati quando è arrivato l’impatto successivo, ed è stato
peggiore. Di molto.»
«Però tutti gli attacchi sono stati contro il cantiere marziano» osservò Filip.
«Stesso asteroide» ribatté Marta, con una scrollata di spalle e una risata. «Non è
che puoi dare un calcio a metà di una palla. Comunque, suonavano gli allarmi y
tutti piangevano. E poi, quando ci hanno permesso di uscire, era scomparso. Il
cantiere marziano era delenda, e anche metà del nostro. Era... no sé.
Semplicemente tutto prima e poi tutto dopo.»
«Ma a te non è successo niente» osservò Filip.
Marta scosse il capo, appena un poco. «Mia madre è morta» rispose in un tono
leggero che suonava fasullo. «Il rifugio in cui era ha ceduto.»
Filip sentì quelle parole come un impatto contro lo sterno. «Mi dispiace.»
«Hanno detto che è stata una cosa veloce. Non se ne deve neppure essere
accorta.»
«Sì» commentò. Il suo terminale palmare trillò per la quarta volta in un’ora.
«Sei certo che non vuoi rispondere a quelle chiamate?» chiese Marta. «La tua
ragazza è decisa a parlare con te.»
«No, va bene così» replicò lui. Poi aggiunse: «Anch’io sono senza madre.»
«Cosa è successo alla tua.»
«Ha rotto con mio padre quando ero piccolo. Papà ha sempre detto di avermi
nascosto perché lei era pazza, ma non so se è vero. L’ho incontrata per la prima
volta qualche mese fa, ma poi se n’è andata di nuovo.»
«Ti è sembrato che fosse pazza?»
«Sì» rispose Filip. Poi si corresse: «No. Sembrava che non volesse essere lì.»
«Una cosa dura.»
«Mi ha detto che il solo diritto che hai riguardo alla vita di chiunque altro è
quello di andartene.»
Marta scoppiò in una risata incredula. «Che genere di cagna dice una cosa del
genere a suo figlio?»
L’ingresso del club era costruito come una camera di pressurizzazione, con
una porta esterna e una interna alle due estremità di un corto corridoio, al fine di
escludere la luminosità del corridoio esterno. Filip si chiese se avrebbe dovuto
dire di più alla ragazza. Ho creduto di vederla uccidersi, solo che è saltato fuori che non è
morta. Che se ne stava solo andando di nuovo. Era vero, ma non sarebbe suonato
com’era stato davvero. C’erano cose di cui potevi parlare soltanto con persone
che erano state presenti. Il terminale palmare trillò di nuovo.
Qualcuno lo spintonò, con forza, tanto che il suo sgabello si inclinò e lui si
dovette aggrappare al bancone per non cadere. Marta strillò e si alzò. «Berman!»
gridò, nel farlo. «Que sa?»
Filip si girò lentamente. L’uomo che lo aveva spinto aveva un paio d’anni più
di lui e indossava una tuta verde scuro, con il logo di una ditta di spedizioni sulla
manica. Aveva il mento proteso, il petto in fuori e le braccia tirate indietro: tutto
in lui diceva che era pronto alla violenza, tranne il fatto che non lo stava
colpendo.
«Que nammen?» domandò il nuovo arrivato.
«Filip» rispose lui. Era consapevole della massa della pistola che aveva in tasca,
che pareva chiamarlo. Con calma, lentamente, abbassò una mano sul calcio.
Intanto Marta si interpose a forza fra di loro, con le braccia allargate. Stava
gridando che Berman – che doveva essere il tizio con il mento sporgente – era
fuori di testa. Che era uno stupido. Lei stava solo parlando con questo coyo, e
Berman era fuori di testa e geloso. Berman intanto continuò a spostare la testa
per fissare Filip, che sentì la propria ira ribollire come il fumo generato da un
incendio. Voleva estrarre la pistola, puntarla giusto per il tempo sufficiente a far
sapere a quel coyo cosa stava per succedere, poi premere il grilletto e sentire il
rinculo lungo il polso. Lui era Filip Inaros, e aveva ucciso miliardi di persone.
Aveva ucciso la madre di Marta.
«È tutto a posto» disse, alzandosi. «È un malinteso. Niente di male, sa sa?»
«È meglio che te la batti, pinché stronzo» gridò Berman in direzione della sua
schiena, poi Marta riprese a gridare e Berman le inveì contro, e intanto Filip
passò attraverso la finta camera di pressurizzazione, uscendo nel corridoio
comune al di là di essa. Lì c’era molta luce. L’odore di liquore e di fumo stantio
gli rimase intorno per qualche secondo prima che la brezza gentile dei riciclatori
lo dissipasse. Si mise a camminare senza avere idea di dove stesse andando, solo
perché aveva bisogno di qualcosa che gli permettesse di muoversi, che facesse
placare un poco la bestia che gli scorreva nel sangue, qualsiasi cosa fosse.
Callisto gli fluì intorno mentre si muoveva. Pallidi corridoi più ampi di quelli
della maggior parte delle stazioni e delle navi su cui era stato, con le pareti curve
che avevano uno schema ad alveare che gli ricordava un pallone da football.
Banchi di riscaldatori creavano un irregolare rumore ticchettante nel risplendere
sul soffitto, irradiando calore sulla sommità della sua testa nello stesso modo in
cui il gelo del corpo della luna filtrava dai pavimenti. La gente camminava o si
spostava con biciclette o carrelli. Si chiese quante di quelle persone avessero
perso qualche familiare nell’attacco contro Callisto. Nella storia che aveva
raccontato a sé stesso riguardo all’attacco, quelli che erano morti erano stati tutti
polverosi, soldati il cui lavoro consisteva nel tenere la testa della Fascia
sott’acqua finché non fosse annegata. E in quella storia suo padre era il capo che
avrebbe unito la Fascia per guidarla contro tutto quello che era deciso a
distruggere il loro futuro e a cancellare il loro passato.
E lo pensava ancora. Ci credeva, anche se dubitava. Era come se nel suo
mondo privato tutto si fosse sdoppiato. C’era una Callisto che era stata il
bersaglio del suo raid, della sua vittoria di importanza critica che aveva portato al
bombardamento della Terra e alla liberazione della Fascia. E c’era l’altra Callisto
nella quale si stava aggirando adesso, dove persone normali avevano perso
madri, figli, mariti e amici in un disastro. Quei due posti erano talmente diversi
da non essere collegati, come due navi che avessero lo stesso nome ma una
struttura e uno scopo diversi.
E adesso aveva due padri. Uno era quello che guidava la lotta contro gli interni
e che lui amava come le piante amano la luce, e l’altro era quello che distorceva
tutto ciò che andava storto e ne dava la colpa a chiunque tranne che a sé stesso.
La Marina Libera era la prima vera speranza che la Fascia avesse mai avuto, e
stava andando in pezzi. Cambiava generali e capi più in fretta di come si
sostituivano i filtri dell’aria. Quelle due versioni non potevano esistere entrambe,
e lui non riusciva ad abbandonare l’una o l’altra.
Il terminale palmare trillò di nuovo. Lo tirò fuori di tasca. La richiesta di
connessione proveniva da Karal e dalla Pella. Era la dodicesima chiamata. Filip
l’accettò.
«Filipito!» esclamò Karal. «Dove diavolo sei stato, coyo?» Era sul ponte di
comando e indossava l’uniforme, aveva perfino il colletto allacciato, cosa che di
solito trascurava di fare, ma questo non lo faceva apparire come un militare, solo
come sé stesso con indosso un costume.
«In giro.»
«In giro» ripeté Karal, scuotendo il capo. «Devi tornare sulla nave. E devi farlo
adesso.»
«Perché?»
Karal si protese verso lo schermo come se stesse per sussurrare un segreto.
«L’analisi della battaglia è trapelata da Medina, sì? I cannoni a rotaia sono
disattivati. Medina è sorvegliata da una sola nave. Una sola, ed è...»
«La Rocinante» disse Filip.
«Sí no?» Marco sta mettendo insieme ogni nave che abbia più di mezzo scafo.
Riprenderemo Medina come se stessimo estinguendo un incendio.»
«Sì» commentò Filip.
«Ci procureremo nuovi medicinali antigravità, rabboccheremo la massa di
reazione e ci muoveremo. Ci incontreremo con il resto della marina lungo la
strada. Tuo padre, però, non l’ho mai visto come...»
Una voce trapelò dal terminale palmare, distogliendo di scatto l’attenzione di
Karal da Filip. «Lo hai trovato?»
«Que no?» replicò Karal, ma non parlava con Filip.
L’immagine cambiò, passando da una videocamera a un’altra. Un sedile a
smorzamento vuoto, con una vaga ombra lungo un lato. L’ombra ricadde
all’indietro, acquistò risoluzione, divenne suo padre. Filip si preparò agli insulti,
al disprezzo. A tutta la condiscendenza che aveva subìto di recente. Dillo come un
uomo. Di’: ‘Ho combinato un casino.’ Lo stomaco gli si contrasse.
Marco gli rivolse un sorriso raggiante, gli occhi luminosi.
«Hai sentito? Karal te lo ha detto?»
«Di Medina, e della nave che c’è là.» Per qualche motivo che non sapeva
spiegare, a Filip non andava di pronunciare ad alta voce il nome della Rocinante.
Sentiva che avrebbe portato sfortuna.
«Questo è il nostro momento, Filipito. Tutto ha combaciato alla perfezione.
Abbiamo continuato a morderli e a scomparire nell’ombra fino a farli impazzire.
Si sono spinti lontano dalle loro difese e adesso possiamo piombare su di loro
come un martello.»
Loro. Non si riferiva alla Terra e a Marte, e neppure ai governi dei pianeti
interni. Che lui ne fosse consapevole o meno, Filip era certo... più di quanto lo
fosse mai stato riguardo a qualcosa... che loro erano James Holden e Naomi
Nagata.
«Questo è un bene, allora» commentò.
«Un bene?» rise suo padre. «Ci siamo, questa è l’opportunità che stavamo
aspettando, è come li spezzeremo. Tutti quegli stronzi sleali dell’APE che
trottavano dovunque Fred Johnson li guidasse... Pa e Ostman e Walker... tutti
quanti si sono uniti a Holden, e noi glielo toglieremo proprio come abbiamo
ucciso Johnson. Li puniremo per la loro slealtà.»
Filip avvertì un lieve brivido di eccitazione. L’idea della vittoria – clamorosa,
trionfante e definitiva – era inebriante. La gioia di suo padre lo sollevò, promise
di lavare via tutta la sua rabbia e i suoi dubbi. C’era però un altro Filip, più
piccolo e meno emotivo, che contemplò con disgusto il crescere di
quell’entusiasmo.
Adesso il piano era attirare Naomi e il suo amante a Medina per ucciderli.
Soprattutto, quello era sempre stato il piano. Aver ucciso Fred Johnson ne era
stato parte, e anche l’abbandonare Ceres. I massicci attacchi coordinati della
flotta congiunta erano stati il suo abboccare alla brillante strategia con cui suo
padre voleva attirarla allo scoperto.
E se questo fosse fallito, se qualcosa fosse andato storto, anche questo
avrebbe sempre fatto parte del piano. I nuovi generali di suo padre sarebbero
cambiati, diventando migliori a ogni epurazione, e quando le cose sarebbero
arrivate a un disastro tale che non c’era modo di fingere che fosse una vittoria, la
colpa sarebbe stata di qualcun altro. Forse di Filip.
«Sarà la corsa più veloce che abbiamo mai fatto, ma ne varrà la pena» stava
dicendo Marco. «Ci darà ricompense più grandi di qualsiasi altra cosa
precedente. Però non c’è tempo da perdere. Partiremo entro un’ora. Tutti gli
uomini. Tutte le navi, tutti. Fonderemo il fottuto anello con le emanazioni della
nostra frenata, e ridurremo Holden in cenere.»
Marco batté le mani, deliziato alla prospettiva. Filip sorrise e annuì.
«Partiremo non appena ci saremo approvvigionati» aggiunse Marco, ora
leggermente più serio. «Rientra a bordo entro mezz’ora, sì?»
«D’accordo» rispose Filip.
Dallo schermo, Marco lo fissò negli occhi. Nella sua espressione c’era qualcosa
di morbido, una sorta di piacere sensuale che era quasi indistinguibile dall’amore.
«Questa sarà una cosa gloriosa» disse. «Verrà ricordata per sempre.»
E come un attore che avesse pronunciato la battuta conclusiva, chiuse la
comunicazione.
Sollevare lo sguardo dal terminale palmare fu come emergere da un sogno. Era
appena stato altrove, con qualcuno, e adesso era di nuovo lì, in quel corridoio.
Se si fosse girato, sarebbe potuto tornare nel locale in cui era stato. Gli pareva
strano, in un modo che non riusciva a spiegare, che il glorioso piano di battaglia
di suo padre e un comune corridoio dei cantieri navali di Callisto potessero
coesistere nello stesso universo, forse perché in un certo senso non lo facevano.
I moli non erano lontani. C’era una stazione della metropolitana che avrebbe
potuto farlo arrivare là in cinque minuti, ma mezz’ora era più di quanto gli
servisse per percorrere quella distanza a piedi. Ripose in tasca il terminale ed
esso prese a urtare la pistola, con un ticchettio appena udibile, a ogni passo che
faceva.
La transizione dai corridoi residenziali all’area dei moli era resa evidente da un
migliaio di piccoli segnali. Qui non c’erano ragazze adolescenti e un numero
maggiore delle persone che circolava per le intersezioni indossava una tuta e una
cintura per gli attrezzi. L’aria aveva un odore diverso: anche se usavano gli stessi
filtri, l’aria dei moli avrebbe sempre avuto un odore di saldatura, olio sintetico e
freddo. Aveva ancora venti minuti.
L’atrio che separava i cantieri militari da quelli civili aveva la forma di
un’enorme Y. Qualcuno, nella stazione, aveva deciso che sarebbe stata una
buona idea piazzare al punto di convergenza dei passaggi una statua raffigurante
qualcosa che sembrava una sorta di grande e astratto Minotauro fatto di acciaio
satinato. Subito al di sopra di quella strana opera d’arte, uno schermo elencava
gli attracchi e le navi presenti a ciascuno di essi. Sul lato militare c’erano sette
navi della Marina Libera, un trasporto terrestre che avevano catturato quando
avevano occupato la stazione e tre moli vuoti. Per un paio di secondi cercò la
parola PELLA come se fosse stata un’opera d’arte sgradevole quanto il
sottostante incrocio fra un uomo e un toro. Sul lato civile c’era quasi una
dozzina di navi. Cercatori, minatori, navi da trasporto. Una nave per il soccorso
medico d’emergenza. Supponeva che ce ne sarebbero state di più se non fosse
stato per la guerra.
Contro la parete, un altro schermo mostrava il tasso di cambio per cinquanta o
sessanta diversi tipi di buoni... societari, governativi, cooperativi, basati su merci.
Un piccolo ratto grigio corse lungo il pavimento, sotto lo schermo, e sgusciò in
un buco che Filip non aveva neppure notato, quasi stesse scomparendo
nell’ombra. Il suo terminale palmare trillò, ma lo ignorò. I moli erano proprio lì,
davanti a lui.
Più in giù lungo il corridoio, in direzione dei moli della sezione civile, c’era
un’area di attesa con sei file di scomode sedie di ceramica rivolte le une verso le
altre e riciclatori di un acceso colore arancione in fondo a esse, disposti a file
alterne. Un vecchio che indossava un cappotto di ecopelle e pantaloni sporchi
guardava con occhi vuoti nella sua direzione, guardandolo senza vederlo
davvero. Una fila di sporchi chioschetti era incassata in una parete, c’era un
banchetto che vendeva spaghetti, con accanto un terminale pubblico, due uffici
dei sindacati, agenzie di assunzione e immobiliari. Guardò tutto questo con lo
stesso senso di distacco che aveva avvertito nel guardare lo schermo che
elencava i moli.
Il terminale palmare trillò ancora. Lo tirò fuori senza guardarlo, lo passò nella
mano sinistra e tirò fuori anche la pistola. Adesso lo sguardo del vecchio si era
fatto meno vacuo, e lui lo osservò mentre si dirigeva verso le sedie e infilava nel
riciclatore la pistola, seguita dal terminale palmare. Filip rivolse un cenno del
capo al vecchio, che dopo un lungo momento lo ricambiò.
Il bancone del chiosco dell’agenzia di assunzione mostrava ampi segni di
usura, con il metallo segnato da milioni di gomiti stanchi, il vetro a prova di
proiettile aveva delle infossature minuscole come stelle, e l’interno puzzava
vagamente di urina. La donna dietro il bancone portava i capelli grigi tagliati
cortissimi. Filip si avvicinò e appoggiò i gomiti sul piano del bancone.
«Ho bisogno di lavorare» disse, sentendosi come se fosse stato qualcun altro a
parlare.
La donna sollevò per un momento lo sguardo su di lui, poi tornò ad
abbassarlo. «Cosa sai fare?»
«Manutenzione ambientale. Riparazione di macchinari.»
«Tutti e due, oppure l’uno o l’altro.»
«Qualsiasi cosa, ho solo bisogno di lavorare.»
Il bancone si illuminò, mostrando una tastiera virtuale e un modulo. Filip lo
guardò con un senso di avvilimento.
«Inserisci la tua ID lavorativa» disse la donna.
«Non ho un’ID lavorativa.»
Questa volta i suoi occhi lo fissarono un po’ più a lungo. «Esenzione
sindacale?»
«Non sono in un sindacato.»
«Niente ID, niente esonero. Sei fottuto, ragazzo.»
C’era ancora tempo. Poteva correre, poteva raggiungere la Pella prima che
partisse. Suo padre lo avrebbe aspettato. Sarebbero andati a Medina e avrebbero
riconquistato la Fascia per i cinturiani e sarebbe stato glorioso. Il cuore gli
accelerò i battiti, ma lui posò le mani sul bordo del bancone e lo strinse, come
per costringersi a restare dov’era.
«Per favore, ho bisogno di lavorare.»
«Io gestisco un’attività pulita, ragazzo.»
«Per favore.»
La donna non sollevò lo sguardo. Filip non si mosse. Poi l’angolo destro della
bocca della donna si sollevò verso l’altro come se fosse stato in qualche modo
indipendente dal resto della faccia. Il modulo sul bancone venne sostituito da
uno più corto. ‘PRÉNOM. NOM DE FAMILIE. RÉSIDENCE. ÂGE. COORDONNÉES.’
«Vedrò cosa riesco a fare» disse la donna, senza sollevare lo sguardo.
Filip posò il dito sulla parola ‘COORDONNÉES’. «Non ho un terminale palmare.»
«Puoi tornare domani» replicò la donna, come se quello fosse stato un
problema piuttosto comune.
‘PRÉNOM: FILIP.’
‘NOM DE FAMILIE:’
«Stai bene, ragazzo?» Quegli occhi duri erano fissi su di lui. Filip annuì.
‘NOM DE FAMILIE: NAGATA.’
48
Pa

La luce del sole era abbastanza intensa da infondere nella caligine arancione la
luminosità crepuscolare che aveva verso metà giornata. Una chiazza luminosa
mostrava la sua posizione. Saturno si trovava sul lato opposto dell’atmosfera di
Titano, insieme ai detriti che erano stati oltre cento navi. Michio ricordava un
momento in cui, nel caos della battaglia, aveva visto Saturno sullo schermo. Era
stato così vicino da permetterle di distinguere la complessità dei suoi anelli. Lo
rammentava, ma era come se non fosse successo. I suoi ricordi della violenza del
combattimento erano sporadici.
Il centro turistico era incredibile. La cupola si levava di cinquanta metri al di
sopra del terreno, un insieme di titanio e vetro rinforzato da cui l’edera pendeva
come in un giardino pensile. Le terrazze si levavano in curve studiate per creare
panorami mozzafiato da quel cielo caliginoso e anonimo. C’erano fringuelli che
volavano qua e là, chiazze di colore artificiali ed estranee all’ambiente della luna
quanto lo era lei stessa. Quanto lo erano tutti. Da dove sedeva, Michio poteva
abbassare lo sguardo su piscine e cortili di falsi mattoni decorati da felci, dove
ripari d’emergenza in lucido alluminio erano montati accanto a lussuosi angoli
bar. I feriti dormivano sulle chaise longue e le sedie a sdraio perché i letti
d’ospedale erano tutti occupati.
I centri turistici sotto la cupola erano stati costruiti decenni prima per le
persone facoltose della Terra e di Marte, un posto dove i capitani della finanza e
dell’industria potessero riposare mentre lavoravano alla costruzione di
insediamenti sulle lune di Saturno e al trasporto del ghiaccio prelevato dai suoi
anelli. Un sito esotico dove i turisti potevano recarsi per fingere di sperimentare
la vita sui pianeti esterni senza mai dover fare davvero quell’esperienza.
Da quanto erano stati costruiti, quei centri avevano lavorato bene, e non solo
con gli interni. Per i cinturiani, essi erano quanto di più simile alla vita sulla Terra
potevano mai sperimentare. Aria aperta. Una vera atmosfera da guardare, se non
da respirare. Cibi e liquori importati dalla Terra e da Marte. Così, quello era
diventato una sorta di punto di mezzo... un rifugio per i terrestri nei pianeti
esterni e una versione della Terra di cui i cinturiani potevano godere. Forse
quello che in realtà avevano da condividere era la mancanza di autenticità.
Lei non ci era mai stata prima, e se avesse potuto fare a modo suo non ci
sarebbe più tornata.
Dietro di lei, un rumore di passi risuonò sulla terrazza. Si girò, sussultò e
continuò il movimento nonostante il dolore. Se stava immobile, adesso le ustioni
alla schiena le causavano solo prurito, ma nonostante quello che avevano detto
tutti i dottori, aveva paura che se non avesse continuato a sottoporre a tensione
le ferite, le cicatrici le avrebbero fatto perdere la capacità di muoversi.
Il sorriso di Nadia era stanco ma reale. Aveva in una mano bende pulite e un
tubetto di crema, mentre nell’altra stringeva un terminale palmare. Michio fece
una smorfia, poi ebbe una risata triste.
«È di nuovo ora?» chiese.
«Queste sono le gioie della vita» replicò Nadia. «Però ti ho portato qualcosa
che ti distragga la mente.»
«Qualcosa di buono?»
«No» replicò Nadia, sedendo alle sue spalle. «La terrestre ti vuole parlare di
nuovo.»
Michio si tolse la veste da ospedale di carta e si chinò in avanti, poi Nadia le
porse il terminale e procedette a esaminare i contorni della falsa pelle che
copriva le ferite. I nervi che le permettevano di registrare un tocco lieve erano
coperti da una fasciatura viva; quelli che registravano dolore erano terribilmente
sensibili: era come essere intorpidita e scuoiata viva nello stesso tempo. Michio
serrò i denti e attese. Quando ebbe completato l’ispezione, lungo la sua schiena
e giù per il fianco e il braccio sinistro, Nadia sospirò.
«Ha un buon aspetto?» domandò Michio.
«Ha un aspetto terribile, ma sta guarendo bene. C’è crescita basale ovunque.»
«Bene» commentò Michio. «Ringraziamo Dio per i piccoli favori.»
Nadia emise un lieve verso inarticolato che non era né di assenso né di
dissenso. Michio sentì uno scricchiolio sommesso quando lei aprì il tubetto di
unguento medicato, poi prese il terminale e aprì la coda dei messaggi in attesa.
Quello nuovo dalla Terra era segnalato come di importanza critica. Chrisjen
Avasarala. Il capo della Terra e il più grande nemico che Michio Pa avesse mai
avuto. Eppure, eccole lì.
«Abbiamo fatto le cose nel modo sbagliato» disse.
«Cosa?» chiese Nadia.
Michio sollevò il terminale palmare perché lo vedesse. «Lavoriamo con la
gente contro cui eravamo soliti combattere.»
«Combatteremo di nuovo contro di loro più tardi» replicò Nadia, come se
stesse promettendo un dolce a una bambina, ma solo se prima avesse mangiato
il suo pasto. «Sei pronta?»
Michio annuì, e Nadia procedette a spalmare la prima ditata di unguento. Il
dolore era intenso, come se fosse stata di nuovo in fiamme. Michio attivò il
messaggio e cercò di concentrarsi su di esso.
Apparve l’immagine della vecchia, seduta a una scrivania. Quella non era la
prima volta che riceveva un messaggio direttamente da lei, o dal nuovo primo
ministro di Marte, ma più spesso era stata contattata da generali e funzionari.
Parevano ricordarsi di lei solo quando stavano chiedendo qualcosa di veramente
grosso, e questo le dava la sensazione di essere la persona meno importante
seduta al loro tavolo.
«Capitano Pa» cominciò Avasarala, e se nel suo tono c’era una sfumatura di
disprezzo, questo era solo prevedibile. Nadia si spostò più in basso lungo la sua
schiena e altre ondate di dolore divamparono proprio mentre la prima
cominciava a svanire. «La situazione su Medina è precipitata. Holden e le forze
dell’APE sono riusciti a prendere la stazione, ma hanno ritenuto opportuno
annientare i cannoni a rotaia che la difendevano, il che li lascia privi di difese. La
Marina Libera ha raccolto quelle che sembrano essere tutte le navi funzionanti
che le sono rimaste... quindici in tutto... e si sta dirigendo a tutta velocità verso il
portale. La buona notizia è che Inaros si è praticamente ritirato da ogni altro
porto e base del sistema. Quella cattiva, naturalmente, è che riprenderà Medina,
le sue linee di rifornimento da Laconia verranno ripristinate e si troverà in una
posizione difendibile. Tutto questo, naturalmente, a meno che troviamo il modo
di fermarlo.»
Avasarala trasse un profondo respiro, abbassò lo sguardo, e quando tornò a
sollevarlo qualcosa era cambiato sul suo volto. Appariva più stanca? Più vecchia?
Più determinata?
«Mi dispiace immensamente per la sua perdita. È un dolore che condivido
perché anch’io ho perso mio marito in questa guerra. Non riesco a immaginare
quanto debba essere devastante perderne due. Non le chiederei questo se non
fosse di importanza critica, ma se ha delle navi, o influenza su qualsiasi fazione
che ci possa aiutare a fermare o rallentare Inaros prima che raggiunga il portale,
abbiamo immediato bisogno del suo aiuto.
«Non le posso offrire niente che ripaghi il sacrificio che ha già fatto, ma spero
che percorrerà quest’ultimo chilometro con me, e che possiamo porre fine a
questa cosa insieme. Per favore, mi risponda al più presto possibile. La Marina
Libera è già in movimento.»
Il messaggio finì e il terminale tornò a mostrare la coda di quelli in attesa.
Nadia procedette a lavorare lungo il suo fianco, e Michio sussultò.
«Ho quasi finito» disse Nadia.»
«Questa è la seconda volta che uno dei nostri nemici mi chiama perché lo tiri
fuori dal fuoco.»
«Possiamo farlo di nuovo?»
«Tutto quello che abbiamo fatto, l’altra volta, è stato bruciarci nel provarci.»
Nell’andare là, aveva saputo che ci sarebbe stato un prezzo da pagare per aver
lasciato indietro la Panshin. Titano era la più grande delle lune di Saturno, e la
Marina Libera aveva là la sua presenza più massiccia al di fuori del sistema di
Giove, minacciando Enceladus, Rhea, Giapeto, Tethys. I trasporti di ghiaccio
negli anelli. Controllava quello spazio senza occuparlo.
La Connaught e la Serrio Mal erano arrivate nel senso della rotazione, emergendo
dall’eclittica per calare sulle navi della Marina Libera da un’angolazione inattesa.
Non avevano viaggiato in fretta quanto Michio aveva sperato, non c’era stata la
possibilità di aggiungere massa di reazione e lei aveva avuto l’angosciante timore
che avrebbero finito per perdere lo scontro vicino a Titano senza poi riuscire a
ritirarsi. Là c’erano state quindici navi della Marina Libera. Durante la maggior
parte della sua vita, quello non sarebbe stato considerato un numero elevato, ma
adesso che c’era stata tanta guerra e che così tante persone avevano diretto le
loro navi attraverso i portali e verso nuovi sistemi, esso era diventato notevole.
Era più delle nove navi che la flotta congiunta aveva scagliato loro contro.
D’altronde, lo scopo di tutti quegli attacchi non era quello di vincere, ma di
distrarre l’attenzione di Marco dalle due navi dirette verso Medina.
La Marina della Repubblica Congressuale Marziana si era schierata in prima
linea, impegnando il nemico e cercando di costringere le navi della Marina
Libera ad abbandonare la posizione, nella speranza che il suo attacco sul fianco
arrivasse inatteso. Ricordava che Oksana aveva richiamato a schermo il display
tattico: quindici navi nemiche, nove alleate. Oksana aveva scherzato sul fatto che
probabilmente tutte le navi coinvolte nello scontro erano state costruite nello
stesso cantiere. Evans aveva riso, poi era tornato serio e aveva avvertito che
qualcuno li stava puntando.
Da quel punto, i ricordi di Michio diventavano meno affidabili. Aveva
riesaminato i diari di bordo. La battaglia non le si era rivoltata contro tanto
presto, ma quando era arrivato, il colpo era stato come una scarica di doppietta
che avesse centrato la sua vita. Aveva aperto un foro massiccio, ma i proiettili
vaganti avevano viaggiato avanti e indietro nel tempo, aprendo buchi più piccoli
nella sua esperienza. Ricordava di aver dato l’ordine di ritirarsi e Josep avvertire
che avevano perso il nucleo, ma non il colpo che le aveva fatto decidere di
fuggire. Rammentava l’odore del suo vestiario e dei capelli che bruciavano, ma i
lunghi, terribili momenti fra l’identificazione del siluro che aveva spezzato la
schiena alla Connaught e l’impatto effettivo erano scomparsi dalla sua memoria.
Quello che sapeva grazie ai diari di bordo era che la Serrio Mal e la Connaught
avevano fatto fuoco nel cuore della formazione della Marina Libera, attirando il
fuoco nemico e costringendo le navi avversarie a sparpagliarsi in modo da creare
corridoi e angoli ciechi nei quali i CPD del nemico non si rinforzassero a vicenda.
Essendo più vicine, le navi marziane avevano scatenato raffiche massicce di
siluri che erano riusciti a mettere fuori gioco due navi della Marina Libera. Non
sapeva se il siluro che aveva centrato il suo reattore fosse giunto dalla Marina
Libera o fosse stato un siluro vagante della MRCM, ma di certo un siluro nemico
era riuscito a superare le loro difese e a cancellare ore di vita dalla sua
consapevolezza.
Aveva la netta impressione di un uomo dalle spalle ampie, con la testa rasata e
la pelle scura, che le diceva che avrebbe fatto cessare il dolore, ma che lei doveva
posare il coltello, però non riusciva a determinare quando questo fosse successo.
Ricordava in modo vivido l’essersi svegliata in una stanza di ospedale, e poi di
essersi risvegliata di nuovo senza nessuna consapevolezza dell’essersi
addormentata fra quei due momenti.
L’inizio di quello che considerava come il ‘dopo’ era stato quando aveva
ripreso conoscenza e aveva trovato Bertold seduto accanto al letto, che le
massaggiava i piedi e cantava sottovoce un sommesso lamento funebre. Per
prima cosa aveva chiesto di Laura, cosa che in retrospettiva la induceva a
pensare di aver saputo che c’era qualcosa che non andava al suo riguardo.
Bertold le aveva detto che era rimasta ferita ed era in coma farmacologico
perché dovevano rigenerarle parte del fegato e un rene. Laura però era la moglie
della regina pirata, e i dottori promettevano che con il tempo si sarebbe rimessa.
Poi le aveva detto di Evans e di Oksana, e avevano pianto insieme finché non
si era addormentata.
Gli alloggi che erano stati assegnati a questa nuova versione più piccola della
sua famiglia erano splendidi: tre camere con ampi letti morbidi, abbastanza simili
a giacigli a smorzamento da essere comodi, eppure diversi quanto bastava per
farli apparire un lusso. Una postazione alimentare con una scelta di alternative
più ristretta di quella che avevano avuto sulla Connaught e cromature più lucide.
Quella che il centro turistico chiamava la ‘fossa della conversazione’, che
appariva come un lungo divano ricurvo incassato nel pavimento. Lucernari nella
cupola che fornivano luce naturale. Una vasca da bagno abbastanza grande per
due persone. E Bertold, Nadia e Josep erano i soli che condividevano il tutto
con lei. Ogni cosa appariva troppo grande e insieme troppo piccola.
Attese che l’unguento le fosse penetrato in profondità nella nuova pelle
artificiale, poi si rimise quella che chiamava la sua ‘uniforme da capitano’ e che
in realtà non era niente di più di una camicia formale e una giacca dal vago taglio
militare. Si infilò pantaloni e stivali, anche se non sarebbero apparsi nel
messaggio che avrebbe inviato in risposta. Si sentiva ancora la mente intontita
dagli antidolorifici e non capiva bene perché essere tanto formale riguardo al
messaggio le apparisse così importante finché non si sedette, non inquadrò la
propria immagine e non cominciò a registrare.
Le appariva importante perché era una resa.
«Signora segretario generale, mi dispiace molto dire che non ho aiuto da dare.
Le navi al mio comando sono morte, danneggiate o sparpagliate tanto lontano
dal portale dell’anello che non potrebbero raggiungere la Pella senza uccidere
tutto l’equipaggio prima di raggiungerla.»
La sua immagine sullo schermo aveva l’aria stanca. Bertold le aveva tagliato i
capelli tanto corti che le aree bruciate non si notavano. Non le piaceva l’aspetto
che le dava. Un’ondata di cordoglio la travolse, come adesso le capitava spesso,
come le sarebbe successo a intervalli per il resto della sua vita.
«La ringrazio per le sue parole gentili riguardo alle nostre perdite. Loro
conoscevano i rischi quando abbiamo accettato questo lavoro, erano pronti a
morire per la Fascia. Vorrei che non lo avessero fatto. Vorrei che fossero qui
con me.
«Vorrei aver potuto fare di più.»
Non c’era altro da dire, quindi inviò il messaggio. Poi, come se stesse
tormentando una ferita infetta, richiamò a schermo un rapporto tattico. L’intero
sistema si allargò davanti ai suoi occhi. La Panshin era ancora viva, come pure
una manciata di altre navi. La nakliye vicino a Eugenia. E laggiù lungo un vettore
che dal sistema di Giove puntava verso il portale, la Pella e quanto restava della
Marina Libera. Altri due punti più piccoli erano su una rotta di intercettazione,
ma quando controllò la loro rotta risultò chiaro che quelle navi erano tutte
impegnate nella stessa missione. Marco e i suoi fedeli si sarebbero riversati oltre
il portale insieme, una forza inarrestabile. Se le difese dei cannoni a rotaia
fossero state ancora attive ci sarebbe stato un combattimento infernale. Senza di
esse, sarebbe stata una strage.
Stazione dopo stazione, nave dopo nave, esaminò tutto il sistema. Era
l’equivalente della griglia che aveva disegnato con un pastello in una qualche
altra vita, su una nave che adesso era un mucchio di rottami e di tristi ricordi.
Tutte le cose di cui la gente aveva bisogno. Filtri. Scorte idroponiche. Ingranaggi
per i riciclatori. Centrifughe per raffinare i minerali. Centrifughe per analizzare
l’acqua. Per lavorare con il sangue.
Si chiese se ci fossero ancora navi coloniali nascoste là fuori nel vuoto, che in
oscuramento guardavano con orrore l’umanità farsi a pezzi a vicenda. Ricordò la
Dottrina dell’Unica Nave, di aver pensato a tutte le navi della Fascia come a
cellule di un unico essere. Adesso non riusciva a vedere le cose in quel modo.
Nel migliore dei casi erano tutti disperati batteri che fluttuavano in un mare
vuoto a cui non importava se vivevano e che non notava quando morivano.
E se Sanjrani aveva ragione, un collasso ancora peggiore era imminente.
La porta del corridoio comune si aprì ed entrò Josep. Nadia lo baciò
nell’avviarsi a letto. Adesso quelli erano i loro turni. Uno dei due stava con
Laura, uno con lei e uno dormiva. Un ciclo di dolore condiviso. Josep andò alla
postazione alimentare, aprì un pannello di cui lei non aveva notato l’esistenza e
si versò un bicchiere di whisky prima di venire a sedersi nella fossa, di fronte a
lei.
«Skol» disse, sollevando il bicchiere, il cui bordo gli ticchettò contro i denti
mentre beveva. Per un momento rimasero seduti lì in silenzio.
«Ooops» disse Michio.
Josep inarcò un sopracciglio. «La parola magica.»
«È stata colpa mia» dichiarò lei, asciugandosi gli occhi con il polsino della
camicia. «Ho fatto quello che faccio sempre, e ho trascinato tutti noi in un
inferno.»
Josep aveva gli occhi infossati e il suo sfinimento traspariva dal colore della
pelle e dalla curva delle sue spalle. «Non seguo il tuo ragionamento.»
«Trovo qualcuno, ripongo la mia fiducia in lui e vado dove mi guida. E poi
tutto l’oro si trasforma in merda. Johnston e Ashford e Inaros. E adesso
Holden. Non so come ho fatto a non vederlo arrivare, ma con lui ci sono
cascata di nuovo. E adesso...»
«Adesso» convenne Josep.
«E la cosa stupida» continuò lei, con la voce che le saliva leggermente di tono,
facendosi sottile e tagliente come il suono di un violino «è che guardo tutto
questo. Guardo tutto quello che stavo cercando di fare, e non si è realizzato
niente. Volevo creare la Fascia per i cinturiani, e non ci sarà. Volevo costruire un
posto dove potessimo vivere, che potessimo definire nostro, e non c’è. Non c’è
neppure il modo di costruirlo. Adesso non ricordo neppure perché pensavo di
dover essere dalla parte di Holden. Riaprire i portali? Liberare il flusso delle navi
coloniali? Accertarsi che nessuna delle persone di cui mi importava
sopravvivesse?»
Josep annuì con espressione pensosa e remota. «Cosa significherebbe se tu lo
avessi sognato?» chiese.
«Sognato cosa?» domandò Michio, cambiando posizione finché la schiena le
fece male, e poi continuando a farlo.
«Questo» rispose lui. «Di aver combattuto per Inaros, e poi per Holden. Di
aver perso persone che per te erano preziose ed essere finita in un posto
lussuoso a essere curata.»
«Non significherebbe un accidente.»
Josep grugnì. «Potrebbe essere una profezia.»
«Potrebbe essere che all’universo non importa un accidente di noi, o di
qualsiasi cosa facciamo e che le tue stronzate mistiche sono solo un modo in cui
fingiamo che non sia così.»
«Anche questo sarebbe possibile» ammise lui, con un’equanimità che la fece
vergognare di quello che aveva detto. Josep bevve un altro sorso di whisky, poi
posò il bicchiere sul pavimento e si sdraiò nella curva del divano con la testa
appoggiata sul suo grembo. Il suo sorriso era caldo, bello, e pieno di un
umorismo e di una gentilezza che le fecero dolere il cuore.
«Non abbiamo seguito Holden, noi. Opporsi a Marco ha messo Holden
accanto a te, sì, ma non sei mai stata sua. Non abbiamo combattuto contro
Marco per via di Holden, lo abbiamo fatto perché Marco ha detto di essere il
campione di cui la Fascia aveva bisogno e poi è risultato che non lo era.»
«Già» annuì lei, accarezzandogli i capelli.
Lui chiuse gli occhi, sfinito. «Aber, dannazione, abbiamo ancora bisogno di un
campione.»
49
Naomi

I registri di sistema di Medina erano enormi, più grandi di quanto Naomi si


fosse aspettata, e la cosa peggiore era che non erano organizzati molto bene. In
un certo senso, quello era un manufatto della storia. Il progetto fisico era stato
destinato a essere una nave generazionale che viaggiava attraverso l’oceano
ancora ignoto dello spazio interstellare, ma i sistemi logici erano un prodotto
della ristrutturazione militare effettuata da Fred Johnson, che li aveva riutilizzati
quando la nave era passata dall’essere una nave da battaglia al diventare una città
permanente nello spazio. I vecchi sistemi di sicurezza non erano stati violati tutti
quando la Marina Libera aveva assunto il controllo della stazione, quindi c’erano
ancora registrazioni parziali qua e là, sparse dai tentativi da parte di una serie di
ingegneri di imporre la loro volontà a un sistema già complesso.
Come le città della Terra, dove ogni èra aveva edificato sulle strutture di quella
precedente, i sistemi di Medina erano modellati da forze da tempo dimenticate.
Il modo di pensare che aveva portato a ciascuna decisione si era perduto in un
groviglio di gerarchie di database e di strutture di riferimento complesse.
Trovare qualcosa di interessante era facile, perché a un certo livello tutto era
interessante. Trovare una particolare informazione – e sapere se era la versione
più recente o completa dei dati – era estremamente difficile.
Naomi usava il suo ufficio nella stazione di sicurezza come se fosse stato la
cella di un monaco medievale, lasciandolo solo per tornare sulla Rocinante a
dormire, e rientrandovi quando si svegliava. Invece di copiare antichi testi con
penna e inchiostro, frugava nel set di dati, curiosava nei file di sistema, chiedeva
a Medina di trovare cose e sorvegliava l’operazione per vedere dove non andava
a cercare. Copiava o estraeva qualsiasi cosa pareva potesse essere utile, e poi la
rimandava indietro. Inviò sulla Terra e su Marte rapporti di lavoro dei giorni
vissuti sotto il controllo della Marina Libera, documenti di sbarco che
delineavano il flusso di approvvigionamenti da e a Laconia, rapporti di incidenti
stilati dai sistemi medici, i registri delle comunicazioni del controllo del traffico
relativi alle navi che erano andate e venute. Prese qualsiasi cosa potesse essere
utile e la trasmise sulla Terra e sulla Luna, su Marte e su Ceres alla velocità della
luce.
Questo teneva a bada la paura. Non in modo perfetto, ma soltanto la morte vi
avrebbe posto fine in modo perfetto. Per quanto si distraesse, c’era un timer che
ticchettava in un angolo della sua mente, scandendo i giorni e le ore prima che
Marco e le sue navi arrivassero. C’erano altri problemi, altri rischi... i fedeli della
Marina Libera ancora sulla stazione, il segnale che avvertiva di non avvicinarsi
che era la sola cosa che giungesse dal portale di Laconia... ma niente di tutto
questo avrebbe più avuto importanza una volta che Marco fosse arrivato. Tutto
questo la spingeva a fare il suo lavoro in fretta, con efficienza. Quando fosse
successa la prossima cosa... e non voleva guardare dritta negli occhi la natura di
quella cosa... voleva avere la consapevolezza di aver fatto il suo lavoro.
E tuttavia a volte faceva una pausa. Trovò un diario personale, annidato fra i
rapporti ambientali come una rivista pornografica nascosta sotto un materasso.
Annotazioni su annotazioni delle lotte private di un giovane uomo con i suoi
desideri, le sue ambizioni, il suo sentirsi tradito. Un’altra volta, stava cercando di
recuperare tutto il possibile da una partizione mezza cancellata quando si era
imbattuta in un breve video di una bambina di circa quattro anni che saltava giù
da un letto, da qualche parte nella stazione, e atterrava su un mucchio di cuscini
per poi scoppiare a ridere. Nell’esaminare i registri del controllo del traffico
ascoltò le voci disperate di uomini e donne dei sistemi sul lato opposto dei
portali dell’anello che esigevano e chiedevano e supplicavano di avere le
provviste che ritenevano spettassero loro, che volevano e di cui a volte avevano
bisogno per sopravvivere.
Era la prima volta che comprendeva davvero la portata della distruzione
causata da Marco, tutte le vite che aveva traumatizzato e troncato, tutti i progetti
che aveva infranto. Per la maggior parte del tempo era una cosa troppo vasta
perché la sua mente potesse visualizzarla, ma piccoli squarci come questi
rendevano il tutto comprensibile. Era terribile, triste, la faceva infuriare, ma era
comprensibile.
E influenzava alcune delle sue decisioni.
«Um» commentò Jim, nell’attraversare la porta del suo ufficio. «Dimmi, tesoro,
era tua intenzione inviare i feed di dati attraverso tutti i portali dell’anello? Lo
chiedo perché ho notato che hai cominciato a mandare tutto a tutti.»
«Era mia intenzione» rispose Naomi, spingendo indietro i capelli dagli occhi. Il
suo secondo turno si avviava al termine, la schiena le doleva un poco per essere
rimasta seduta troppo a lungo nella stessa posizione e aveva gli occhi aridi e
irritati. «Non so cosa sarà utile o a chi lo sarà, e dal momento che non pare che
resteremo su Medina abbastanza a lungo da passare al vaglio tutto, ho pensato di
mandare delle copie ovunque. Dare ad altre persone la possibilità di trovare
quello che a me sta sfuggendo.»
«Questo è... ah.»
«Lo so» annuì Naomi. «È possibile che abbia passato troppo tempo con te.
Comincio a pensare come te. Beh, ecco, come eri solito pensare, comunque.»
«Penso ancora in quel modo» disse Jim, trascinando una sedia dietro la sua e
sedendosi. Le appoggiò la testa su una spalla, e quando parlò lei poté avvertire la
vibrazione della sua gola contro la pelle. «Mi preoccupo maggiormente che
questo possa causare qualcosa di imprevisto, di terribile e di enorme, e che io ne
sia responsabile, ma la penso ancora in questo modo.»
«Una fiducia incrollabile nell’umanità.»
«È vero» rispose lui, scuotendo la testa, o magari strusciandosi un poco contro
di lei. «Nonostante tutte le prove contrarie, continuo a pensare che gli stronzi
siano casi isolati.»
Naomi appoggiò la testa contro di lui, traendo un po’ di piacere dalla sua
semplice presenza. Holden aveva un odore particolare, debole, complesso e
gradevole come terriccio per vasi. Non pensava se ne sarebbe mai stancata. E di
recente non si era fatto la barba. Un principio irregolare di barba le solleticava
l’orecchio come la lingua di un gatto. Sul monitor, la trasmissione dei dati
progredì di un altro dieci percento. Da qualche parte, nell’ufficio, Bobbie stava
parlando, la sua voce risuonava forte e familiare. I riciclatori dell’aria
ticchettavano e mormoravano, generando una lieve brezza che sapeva di plastica
e di polvere.
Non voleva porre quella domanda, ma non poteva neppure tenerla per sé.
«Notizie da casa?»
Lo sentì irrigidirsi. Si raddrizzò sulla sedia e la parte della sua pelle nel punto in
cui si era appoggiato risultò più fredda, senza di lui. Naomi girò la sedia in modo
da poterlo guardare. Il suo volto aveva quella mitezza artificiale che significava
che stava cercando di minimizzare qualcosa, come se trattandola con
noncuranza avesse potuto diminuirne l’impatto. Aveva visto tutte le sue
espressioni così tante volte da sapere cosa significavano, qualsiasi cosa lui
dicesse.
«La Marina Libera sta arrivando. Ancora non ci sono segni di attività da
Laconia, ma Avasarala sta tracciando quindici navi che convergono sul portale.
Perlopiù provengono dalle lune di Giove.»
«C’è qualche possibilità che passino una alla volta, in modo da permettere ad
Alex e a Bobbie di abbatterle?» chiese, con finta ingenuità. Funzionò come
aveva sperato che facesse. Jim scoppiò a ridere.
«Sono sicuro che passeranno come una squadra di rugby. Se potessimo
rimettere in funzione un paio di cannoni a rotaia della stazione, penso che
avremmo una possibilità di farcela. E ci servirebbero altri proiettili per loro. A
quanto pare, abbattere un paio di migliaia di bersagli consuma le scorte di
proiettili.»
«Abbiamo un piano?»
«Un paio» rispose Jim.
«Ce n’è uno buono?»
«Oh, no. Affatto. Sono terribili, cambia solo il genere di terribile.»
Il feed di dati trillò. Aveva terminato l’invio e aspettava che Naomi
selezionasse qualcos’altro. Altri messaggi, altre bottiglie. «D’accordo, come sono
questi piani?»
«Il solito. Combattere o fuggire. Abbiamo la Roci e le navette che ancora
funzionano da usare come mezzi di abbordaggio. Un’alternativa è quella di
riempirle di soldati, posizionarle lungo il contorno del portale e cercare di far
arrivare i nostri uomini sulle navi della Marina Libera. Non importerà che
abbiano dieci volte più siluri di noi se si combatterà corridoio per corridoio. La
Roci e le difese di Medina spareranno contro le navi di cui non riusciremo a
prendere il controllo. Sarà una massiccia sagra del proiettile, con la speranza che
noi se ne esca vincitori.»
«Le possibilità che funzioni?»
«Scarse, spaventosamente scarse. Un piano stupido a ogni livello. È molto più
probabile che tutte le navette vengano trasformate in schegge di metallo dai CDP
di Marco prima di poter anche solo cominciare l’abbordaggio. E anche se
riuscissero ad abbordarle, quelle navi avranno un equipaggio completo con cui
combattere contro i nostri uomini.»
«E la fuga?»
«Rifornire la Roci, scegliere un portale e tagliare la corda prima che i cattivi si
facciano vedere.»
«E lasciare Medina?»
«Medina, la Giambattista, tutto. Semplicemente girarci e correre come dannati.
Lasciare che la Marina Libera si annidi nella zona lenta e sperare che la prossima
ondata di navi inviata dalla flotta congiunta possa riprendere tutto e questa volta
riuscire a conservarlo.»
«Dov’è la Pella?»
Jim sospirò. «Oh, è alla testa del branco.»
Naomi tornò a girarsi verso lo schermo. «Allora resteremo qui.»
«Non ho ancora deciso» disse Holden.
«No, perché non ti sei ancora convinto a farlo» replicò lei. «Sai che se ce ne
andremo Marco ci seguirà. Forse, se fossimo su una nave diversa, o se lui fosse
un uomo diverso, le cose non andrebbero in quel modo. Abbiamo la scelta fra il
combattere qui, con qualche alleato e scorte insufficienti, o combattere dall’altra
parte di un portale, avendo ancora di meno a disposizione. Quella è la sola
differenza.»
«Io... ecco...» Jim trasse un profondo respiro, esalò il fiato. «Merda.»
«Quanti detriti dell’ondata di esche possiamo raccogliere?»
«Qualsiasi cosa che non sia andata alla deriva oltre i portali» rispose Holden.
«Stavi pensando di mettere il tutto appena oltre l’ingresso del portale del Sole e
sperare che la Marina Libera ci vada a sbattere contro?»
«Il portale non è poi tanto grande» disse Naomi.
«Tre quarti di un milione di chilometri quadrati» replicò Holden. «E quindici
navi che lo attraversano. Anche se trasformassimo in sabbia tutti i rottami,
sarebbe più probabile che la Marina Libera li mancasse senza neppure accorgersi
della loro presenza.»
«Lo so,» annuì Naomi «ma forse saremo tanto fortunati da beccarne una, e
sarà una di meno da dover affrontare. Se non sfruttiamo anche le soluzioni
improbabili allora ci arrendiamo, perché le soluzioni improbabili sono tutto
quello che ci rimane. E anche se dovessimo perdere...»
«Non sto pensando di...»
«Anche se dovessimo perdere» ripeté Naomi «quello che conta è come lo facciamo.
Non ti eri prefisso di diventare il simbolo di niente, lo so, è solo una cosa che è
successa. Però è successa, e tu l’hai usata. Tutti quei video che hai prodotto,
cercando di mostrare a tutti che gli abitanti di Ceres erano soltanto persone...»
«Quelli non riguardavano me» protestò Jim. Ma il senso di colpa nella sua voce
disse che non ci credeva davvero.
«Quello eri tu che usavi il famoso capitano James Holden per costringere la
gente a vedere quello che avevi bisogno che vedesse. Non te ne vergognare, era
la cosa giusta da fare. Ma tutte le persone là fuori che hanno visto quei video,
che ne hanno creato una loro versione ed espanso il progetto di cercare di
ricordare gli uni agli altri che la guerra non è soltanto navi e siluri e schieramenti
di battaglia? Se...» Adesso aveva la gola contratta, le parole faticavano a uscire.
«Se moriremo, dovremmo almeno fare in modo che questo abbia altrettanto
significato quanto i tuoi video.»
«Non so quanta importanza abbiano avuto» protestò Jim. «Hanno avuto
qualche effetto?»
«Non puoi saperlo» replicò Naomi. «Lo hanno fatto oppure no. Non li hai
prodotti perché qualcuno potesse mandarti un messaggio riguardo a quanto sei
importante e influente. Hai cercato di cambiare alcune menti, di ispirare alcune
azioni. Anche se non avesse funzionato, provarci è stata una buona cosa, e forse
ha funzionato. Forse quei video hanno salvato qualcuno, e se lo hanno fatto,
questo è più importante dell’accertarti di venirlo a sapere.»
Jim si ritrasse in sé stesso. Quella maschera di sé stesso che aveva sul volto da
quando erano arrivati a Tycho scivolò un poco, e Naomi scorse la disperazione
sotto di essa.
«Non sarei dovuto venire qui» disse.
«Hai accettato questo incarico perché era rischioso» rispose lei. «Perché era
una cosa che andava fatta, e tu non chiedi alla gente di fare cose che non faresti
tu stesso, proprio come quando sei andato sull’Agatha King. Tu non cambi, Jim, e
io lo sapevo nel venire qui. Lo sapevamo tutti. Abbiamo pensato che ce
l’avremmo fatta, ma sapevamo che potevamo sbagliarci. Ci siamo sbagliati e
adesso dobbiamo fare bene anche l’altra parte del lavoro.»
«Farci ammazzare. L’altra parte è farci ammazzare.»
«Lo so» annuì lei.
Rimasero in silenzio, loro due soli. La voce di Bobbie, distante quanto le stelle,
si trasformò per un momento in una risata.
«Quei video erano solo stupidi, piccoli progetti artistici» disse Jim. «Morire non
è un progetto artistico.»
«Forse dovrebbe esserlo.»
Lui chinò il capo, e Naomi posò la mano su di esso, sentendo ogni singolo
capello contro la punta delle dita. Le lacrime che aveva agli occhi non
bruciavano, scorrevano gentili, come l’acqua di una sorgente. Era impossibile
dirgli tutto. Il senso di colpa che provava per averli trascinati nell’orbita di
Marco, la certezza che aveva in fondo al cuore che se solo avesse visto per
tempo cosa era Marco Inaros nessuno di loro si sarebbe trovato in questa
posizione. Se lo avesse detto, però, Jim si sarebbe sentito in dovere di
confortarla, di essere forte per lei. Si sarebbe chiuso di nuovo in sé stesso. O
forse no. Non in sé stesso. In James Holden. Lei preferiva Jim. Un lungo
respiro. Un altro. Un altro. La quieta intimità di un momento perfetto.
«Ehi» disse Bobbie, entrando nella stanza. «Uno di voi ha... uh. Scusate.»
«No» replicò Jim, asciugandosi gli occhi con il dorso della mano. «Cosa c’è?»
Bobbie sollevò il terminale palmare. «Uno di voi sa se abbiamo mandato sulla
Luna i rapporti relativi alle navi mancanti? Avasarala dice che i suoi scienziati
sono davvero impazienti di riceverli.»
Naomi trasse un lungo respiro tremante, poi sorrise. Il momento perfetto era
finito, si tornava al lavoro. «Provvedo subito.»
«D’accordo» replicò Bobbie, indietreggiando fuori della stanza. «Scusatemi se
ho... sapete cosa intendo.»
«Hai già mangiato?» le chiese Jim, alzandosi. «Non credo di aver più mangiato
niente da colazione.»
«Intendevo farlo dopo aver finito qui.»
«Voi due potreste portarmi una ciotola di qualcosa?» chiese Naomi, girandosi
di nuovo verso il monitor.
Il messaggio di INVIO ULTIMATO si era arreso e adesso il monitor mostrava il
prompt del file-system. Passò in rassegna i registri del traffico mentre Jim e
Bobbie contattavano la Roci. Le loro voci... di Jim, Amos, Alex e Bobbie... si
mescolarono in una breve conversazione riguardo a cibo e birra, chi voleva
mangiare insieme e chi voleva starsene per conto suo. Dovette costringersi a
concentrarsi perché la struttura del registro era un disastro, con un manager di
sistema che faceva le cose in un modo e il successivo che le faceva in un altro.
Le ci volle quasi un’ora per essere certa di aver raccolto i dati di tutte le volte
in cui qualche nave era scomparsa. Alcuni erano dati che aveva già inviato sulla
Luna, ma ce n’erano altri che non aveva ancora inoltrato. Erano svanite quasi
due dozzine di navi, incluse – a quanto pareva – una delle navi marziane rubate
diretta verso Laconia. Navi provenienti dalle colonie, e anche una delle navi da
trasporto che consegnavano scorte alla Marina Libera. Tutte le fazioni avevano
perso qualcosa.
Il che era interessante.
Preparò il pacchetto di dati da inviare sulla Luna, e questa volta lo codificò.
Mentre lo mandava, però, riesaminò la sua copia. Le navi scomparse tendevano
a essere fra le più grandi, ma non era sempre così, e parevano svanire nei
momenti di traffico più elevato...
Alex le portò una ciotola di spaghetti e funghi, insieme a una bottiglia della
birra prodotta su Medina. Mentre mangiava, si sentì certa di averlo ringraziato,
ma non poteva esserne sicura. C’era una correlazione se collegava i periodi di
traffico elevato agli incidenti... no, questo era sbagliato. Guardava la cosa dalla
prospettiva sbagliata. Non avevano soltanto bisogno di guardare quando le cose
erano successe, ma anche a tutte le volte in cui Medina aveva visto condizioni
simili... traffico elevato, navi con una grande massa, reattori non a punto... e
niente era andato storto. Prese l’intera partizione dei dati di volo e cominciò a
trasmettere anche quella alla Luna, ma non riuscì a smettere di pensarci.
La schiena le doleva, gli occhi le facevano male, ma in realtà non se ne
accorgeva. Qui c’era un set di dati basato sui periodi di traffico elevato con e
senza le misteriose sparizioni. Qui c’era un set di dati che mappava l’emissione
di energia e la massa delle navi scomparse e cercava di far combaciare quella
curva con quella di navi che erano passate sane e salve. Apparve l’annuncio che
l’invio del set di dati criptati alla Luna era completato, e le parve che ci avesse
messo incredibilmente poco finché non controllò da quanto tempo era seduta lì.
Cinque variabili... massa precedente, energia precedente, massa della nave,
energia della nave, tempo. Non era una soluzione legata a un singolo punto, ma
a una serie. Un sistema in movimento fatto di curve, che salivano con la massa e
l’energia precedenti, scendevano con il tempo. E laddove la curva della massa e
dell’energia delle altre navi l’incrociava, avvenivano le sparizioni. Era come se il
traffico attraverso i portali creasse una scia, e quando qualcosa di abbastanza
grande e dotato di energia la toccava, quel qualcosa svaniva.
Con mani tremanti tirò fuori di tasca il terminale palmare. Non sapeva se si
trattava di emozione o di sfinimento, o se era passato tanto tempo da quando
aveva mangiato gli spaghetti con i funghi che aveva bisogno di mangiare di
nuovo. Jim accennò la connessione quasi all’istante.
«Ehi,» disse «stai bene? La scorsa notte non sei venuta a dormire.»
«No» rispose Naomi, intendendo che non era tornata a bordo per dormire, e
non che non stesse bene. Accantonò con un gesto l’imprecisione della sua
risposta. «Credo di avere qualcosa di interessante. Mi serve qualcuno che la
esamini al mio posto per avere la certezza che non sia un’allucinazione dovuta
allo sfinimento.»
«Arrivo subito. Devo portare qualcun altro? Che genere di cosa ‘interessante’
stai guardando?»
«Riguarda le navi scomparse.»
Sullo schermo, Jim inarcò le sopracciglia e sgranò leggermente gli occhi. «Sai
cosa le sta divorando?»
Naomi sbatté le palpebre. Aveva sul monitor due equazioni, cinque variabili.
Anni di registri del traffico a cui attingere. Tutto combaciava alla perfezione, e di
certo dalla Luna sarebbero stati in grado di confermarlo.
Ma... sai cosa le sta divorando?
«No» rispose. «So qualcosa di meglio.»
50
Holden

«Non è un set di dati enorme» disse Naomi, girandosi nel raggiungere il fondo
della stanza per tornare verso di lui. «Voglio dire, è il più grande che abbiamo.
Là fuori non c’è altro che possiamo procurarci.»
«Questo è un problema?» chiese Holden.
Lei si fermò a fissarlo con le mani tese e allargate in un gesto universale che
significava ‘certo che è un problema’. «Potrebbe non progredire con un rapporto
costante. Potrebbero esserci altre variabili che in questi casi non sono entrate in
gioco. Se mi chiedessi di costruire un motore basandomi su dati del genere, non
lo farei. Merda, altro che un motore, non mi fiderei di costruire una scala,
basandomi su questo. Solo che...»
Ricominciò a camminare avanti e indietro, rosicchiandosi l’unghia del pollice.
Quale che fosse l’obiezione che sollevava, nella sua mente l’aveva già
oltrepassata. Holden incrociò le braccia e attese. La conosceva abbastanza bene
da capire quando aveva bisogno di un po’ di spazio mentale. Abbassò lo sguardo
sui grafici che spiccavano sullo schermo. Gli ricordavano quelli di un monitor
cardiaco, solo che le forme delle curve erano molto diverse. Era piuttosto sicuro
che in un elettrocardiogramma il picco iniziale tornasse sotto la linea di base,
mentre in questo caso c’era una rapida ascesa, poi un lento tornare verso il
basso.
Nessun altro era ancora venuto nella stazione di sicurezza. Probabilmente
erano ancora a fare colazione nella cambusa della Rocinante, o forse si erano
fermati a uno di quei piccoli chioschi sui moli dove i locali accettavano ancora i
loro buoni.
Naomi gli si fermò accanto, fissando a sua volta lo schermo. Le sue labbra
sussultarono come se stesse parlando con sé stessa, portando avanti un’agitata
conversazione che nessun altro era autorizzato a sentire, neppure lui. Scosse il
capo, dissentendo con sé stessa. Era parsa più calma, quando lo aveva chiamato
inizialmente, ma quanto più ne parlavano, tanto più si era fatta agitata e
addirittura spaventata.
Pareva che cominciasse a sperare.
«Quindi questa cosa è qualcosa che possiamo usare?»
«Non so cosa sia. Quanto al meccanismo, non ne ho idea. Tutto quello che
abbiamo è questo schema, ma appare così costante.»
Holden fece un altro tentativo. «Questo schema costante è una cosa che
possiamo usare? Specificatamente, qui c’è qualcosa che forse potrebbe darci una
terza alternativa in quel ‘rimanere qui a essere massacrati piuttosto che scappare
attraverso uno dei portali ed essere massacrati’ di cui parlavamo?»
Lei trasse un lungo e profondo respiro, poi esalò lentamente il fiato fra i denti.
Holden sperava che ridesse, ma non lo fece. Sedette di nuovo alla postazione di
lavoro e richiamò a schermo una complessa equazione che lui non era in grado
di comprendere.
«Credo» disse «che potremmo simulare un intervallo di traffico elevato.
Caricare sulla Giambattista tutti i rottami che siamo in grado di saldarle sopra,
sovraccaricare un poco il reattore in modo che generi più energia. Poi, quando la
manderemo attraverso un portale...» Batté un colpetto sulla curva che saliva per
poi decadere. «Ecco, dovremmo ottenere una di queste. Non sarà grande, però.
Perfino una nave enorme è soltanto una nave...»
«E cosa sarebbe una di queste?»
«È un ostacolo. Qualcosa contro cui le navi della Marina Libera potrebbero
andare a sbattere. Se le loro navi hanno abbastanza massa ed energia da far sì
che questa linea incroci la curva prima di svanire... credo che si fermerebbero.»
«Intendi che finirebbero dove vanno tutte le altre navi divorate?»
Naomi annuì. «Potremmo caricare massa aggiuntiva sulla Giambattista.
Abbiamo ancora quelle navette d’attacco e alcune hanno ancora propellente nei
reattori. Se le facessimo passare nello stesso momento potremmo intensificare
un poco la curva. E quasi certamente Marco farà passare tutte le sue navi nello
stesso momento, il che ci potrebbe aiutare. Però non conosco il meccanismo...»
«Ehi, sai cos’è una costante di Planck?» chiese Holden.
«Sei virgola sei due sei e qualcosa moltiplicato dieci alla meno trentaquattro
chili al metro quadrato per secondo?»
«Certo, perché no?» ribatté Holden, sollevando un dito. «Ma sai perché è quel
valore e non sei virgola sette, qualsiasi altra cosa fosse il resto?»
Naomi scosse il capo.
«E non lo sa nessun altro. Eppure la chiamano scienza. La maggior parte di
quello che sappiamo non è il perché le cose sono quello che sono. Ci limitiamo a
capire quanto basta di come funzionano da poter prevedere la prossima cosa che
succederà, ed è quello che hai fatto tu. Hai abbastanza per una previsione. E se
tu pensi di avere ragione, allora lo penso anch’io, quindi facciamolo.»
Naomi scosse il capo, ma non era una risposta diretta a lui. «Un’enorme n
corrisponde a uno studio in cui la nostra ipotesi nulla è che veniamo tutti
ammazzati.»
«Non necessariamente» obiettò Holden. «Loro hanno solo quindici navi
contro la nostra. Potremmo ancora farli fuori. Noi abbiamo Bobbie e Amos.»
Questa volta Naomi scoppiò a ridere. Holden infilò il braccio sotto il suo e lei
gli si appoggiò contro. «Se non dovesse funzionare, non saremo più fottuti di
quanto lo siamo adesso» disse.
«Probabilmente no» convenne Holden. «Voglio dire, una strana, morta
tecnologia aliena con effetti che non comprendiamo spazza via intere navi senza
lasciare una traccia e senza una spiegazione. Probabilmente è una cosa con cui
non è pericoloso giocare, giusto?»
La Pella e le sue quattordici navi da guerra – tutto quello che rimaneva della
Marina Libera – si avvicinavano sempre più al portale, erano già oltre il punto di
metà tragitto e in fase di frenata. Giorni prima, Avasarala aveva mandato un
elenco delle tattiche che stava usando per cercare di fermarle, e lo aveva fatto
con una pesantezza che indicava come sapesse che erano tutte balle ancor prima
di decidersi a dirlo esplicitamente. Aveva concluso con: ‘Farò tutto quello che
posso, ma potreste dovervi accontentare di essere vendicati. Mi dispiace.’
Holden si chiese cosa avrebbe pensato della scoperta fatta da Naomi e del suo
piano.
Holden avvertiva lo scandire di ogni ora che passava, sapendo che Inaros e i
suoi soldati erano un po’ più vicini. Era come avere qualcuno che lo spingesse
da dietro, costringendolo ad affrettarsi. Sarebbe quasi stato più facile se fosse
stata una questione di ore e di giorni. Almeno sarebbe già finita.
In un primo momento, il capitano della Giambattista fraintese le loro
intenzioni, pensando che la sua nave sarebbe stata divorata da quel qualcosa che
facevano i portali. Naomi dovette spiegargli quattro volte che se tutto fosse
andato bene la Giambattista sarebbe soltanto passata in un altro sistema, avrebbe
atteso lì senza fare niente per qualche giorno e sarebbe tornata indietro, illesa.
Una volta che lo ebbe convinto che lui e il suo equipaggio avrebbero evitato la
battaglia anche se il piano fosse fallito, le sue obiezioni si dissolsero.
Naomi coordinò ogni cosa... il caricamento delle navette nella stiva, il rimettere
a punto il reattore in modo che tanto la bottiglia quanto la reazione operassero
quasi al limite massimo della loro capacità. Portò con sé Amos e Clarissa per
caricare la griglia interna di alimentazione della Giambattista in modo che tutto
fosse sull’orlo del sovraccarico senza superarlo. Questo ricordò a Holden
quando Papà Tom gli aveva parlato degli orsi che era solito vedere da giovane.
Se un orso bruno si avventurava nel ranch, la cosa più sicura da fare era slacciare
la giacca e sollevare le braccia sopra la testa, gridare e fare rumore. Se si trattava
di un grizzly, la sola cosa da fare era allontanarsi il più possibile senza fare
rumore. In questo caso, però, la sensazione era che stessero facendo chiasso
davanti a un grizzly nella speranza che divorasse qualcun altro.
Mentre Naomi proseguiva con i preparativi, lui cercò di rendersi utile.
C’era una quantità di messaggi arretrati che provenivano dai mondi coloniali.
Rapporti sulla situazione, minacce e suppliche. Faceva riflettere il rendersi conto
di quanti fossero i pianeti su cui l’umanità si era già sparsa. Quanti semi avessero
piantato su un terreno sconosciuto. Adesso che Naomi aveva mandato il suo
flusso di informazioni, molte colonie cominciavano a capire perché erano
rimaste tagliate fuori. Soltanto ora venivano a sapere di quello che era successo
alla Terra e al suo sistema solare, e i messaggi di risposta inondavano i buffer
delle comunicazioni di rabbia e dolore, minacce di vendetta e offerte di aiuto.
Quei messaggi erano i più difficili da ascoltare. Nuove colonie che cercavano
ancora di imporsi a ecosistemi locali tanto esotici che riuscivano a stento a
riconoscerli come forme di vita, isolate, esauste, a volte al limite delle risorse. E
quello che volevano era aiutare. Holden ascoltava la loro voce, leggeva lo
sgomento nei loro occhi, e non poteva fare a meno di amarli un poco.
Nelle migliori condizioni, disastri e pestilenze generavano questo effetto. Non
era una verità universale, ci sarebbero sempre stati accaparratori e strozzini,
persone che chiudevano la porta in faccia ai profughi e li lasciavano a morire di
fame e di freddo. Però c’era anche l’impulso di aiutare, di portare il fardello
insieme, anche se significava avere meno per sé stessi. L’umanità era arrivata
tanto lontano arrancando in mezzo a una caligine di guerra, malattia, violenza e
genocidio. La storia era intrisa di sangue, ma conteneva anche collaborazione,
gentilezza, generosità, matrimoni misti. Una cosa era legata all’altra, lui dovette
trarre conforto da questo, dalla sensazione che per quanto terribili potessero
essere gli errori dell’umanità, negli esseri umani c’era ancora qualcosa per cui
valeva la pena di ammirarli.
Fece quello che poteva per rispondere ai messaggi più pressanti, per offrire
tutta la speranza possibile. Per far sentire, per quanto brevemente, la voce della
Stazione di Medina. Coordinare un invio di provviste a tutte le colonie era più di
quanto potesse fare. Sarebbe stato un lavoro a tempo pieno per uno staff di
almeno una dozzina di persone, e lui era un uomo solo con una radio. Tuttavia,
anche solo vedere di cosa c’era bisogno, affondare i piedi nel compito oceanico
di essere il perno fisico su cui ruotavano mille diversi sistemi solari, gli diede un
segreto senso di speranza per il futuro.
Aveva avuto ragione. Là c’era una nicchia.
A patto che il piano funzionasse. A patto che non morissero tutti. A patto che
una qualsiasi di un milione di cose a cui non aveva ancora pensato non entrasse
in gioco distruggendo tutto quello che stava ancora cercando e per cui
pianificava. C’era sempre il braccio dimenticato, la cosa che non vedevi arrivare.
Poteva sperare che si trattasse della cosa che anche Marco Inaros non avrebbe
visto arrivare.
«Allora, quanto è lunga questa finestra, o scia, o quello che è ciò che miriamo a
ottenere?» chiese Amos.
Il tempo era quasi esaurito. Adesso la domanda era con quanta velocità
volevano che Inaros passasse attraverso il portale. Se avesse interrotto la frenata
e fosse arrivato in fretta questo avrebbe alterato la tempistica. Se avesse
attraversato il portale di Arcadia troppo tardi, la Giambattista sarebbe stata la
nave che sarebbe svanita in fretta e in silenzio. Se fosse passata troppo presto, la
curva di Naomi sarebbe già decaduta fino a svanire e la Marina Libera sarebbe
entrata senza problemi nella zona lenta.
Erano tornati sulla Rocinante. Alex e Bobbie erano nella cabina di pilotaggio,
pronti a combattere se si fosse arrivati a questo. Holden e Naomi erano
assicurati ai sedili sul ponte di comando. Amos fluttuava loro accanto ed era lì
più che altro per tenere loro compagnia. Non erano ancora alle postazioni di
battaglia. Se si fosse arrivati alla battaglia, quella era probabilmente l’ultima volta
che vedeva Amos in carne e ossa. Holden cercò di non pensarci.
«Saranno forse cinque minuti» rispose Naomi. «Questo dipenderà in parte
dalla massa e dall’energia delle navi che porteranno da questa parte. Se saremo
fortunati, il tempo potrebbe estendersi a un massimo di... dieci minuti?»
«Non è molto» osservò Amos, con un amabile sorriso. Posò una mano sulla
scaletta che portava alla cabina di pilotaggio per impedirsi di fluttuare via. «Tutto
a posto, lassù?»
«Tutto a meraviglia» rispose Alex.
«Se il trucco di Naomi non dovesse funzionare, pensi che possiamo farli
fuori?» chiese Amos.
«Tutti probabilmente no» replicò Bobbie. «Alcuni sicuramente.»
Clarissa emerse dall’ascensore con un pallido sorriso sulle labbra. Adesso
aveva trascorso abbastanza tempo in assenza di gravità da muoversi con
naturalezza, passando da un appiglio all’altro lungo la parete come se fosse stata
una cinturiana per nascita. Quando raggiunse Holden gli porse un bulbo
proveniente dalla cambusa.
«Hai detto di non essere riuscito a dormire» spiegò. «Ho pensato che avresti
voluto un po’ di caffè.»
Holden accettò il bulbo e il sorriso di Clarissa si accentuò leggermente. Il
bulbo era caldo contro la sua mano, e probabilmente il caffè non era avvelenato.
Era improbabile che lei facesse ancora quel genere di cose. Holden si fece
coraggio prima di bere un sorso.
La stazione di Medina era nelle mani dei combattenti dell’APE provenienti dalla
Giambattista, anche se questo non sarebbe servito a molto. Per la maggior parte, i
suoi CDP e lanciasiluri avevano esaurito le munizioni nel difendersi da Holden, e
quel che restava era abbondante quanto un errore di arrotondamento rispetto a
quello di cui avrebbero avuto bisogno per respingere Inaros. La Roci aspettava
quasi alle spalle della stazione azzurra nel centro della zona lenta. Se avesse
puntato su di essa le videocamere di bordo, Holden avrebbe visto le rovine dei
cannoni a rotaia come se si fosse trovato sopra di essi.
«Arriva qualcosa da Laconia?» domandò.
«Non abbiamo un ripetitore sul lato opposto di quel portale, ma dando una
sbirciatina dal buco della serratura? Niente» rispose Naomi. «Nessun segnale.
Nessun segno di reattori in avvicinamento.»
La Roci emise un segnale di allerta. Holden verificò di cosa si trattava.
«Abbiamo qualcosa, capitano?» chiese Amos.
«Le navi in avvicinamento hanno alterato un poco la frenata. Passeranno in
velocità.»
«E in anticipo» aggiunse Naomi. La sua voce pareva quella di qualcuno che
parlasse in preda alla sofferenza. Il timer per il conto alla rovescia della Roci si
adeguò, calcolando che il nemico avrebbe oltrepassato il portale fra venti minuti.
Holden lavò via con il caffè di Clarissa il nodo che gli serrava la gola.
Clarissa si spinse fino al sedile di Naomi, il volto affilato contratto in
un’espressione accigliata. Naomi sollevò lo sguardo su di lei e si asciugò gli
occhi. Una lacrima fluttuò nell’aria e si diresse verso la bocca del riciclatore.
«Mi riprenderò» disse Naomi. «È solo che mio figlio è su una di quelle navi.»
Un velo di lacrime apparve anche negli occhi di Clarissa, che le posò una mano
sul braccio. «Lo so» rispose. «Se hai bisogno di me, sai dove trovarmi.»
«È tutto a posto, Zuccherino» intervenne Amos. «Io e il capitano ne abbiamo
parlato. Va bene così.» E sollevò con aria allegra il pollice in direzione di
Holden.
Il conto alla rovescia continuò a scorrere, Holden trasse un lungo, lento
respiro e aprì un canale di comunicazione con la Giambattista.
«D’accordo» disse. «Parla il capitano Holden della Rocinante. Per favore, avviate
ora l’accelerazione di passaggio. Dovete attraversare il portale fra...» Controllò il
timer. «Fra diciotto minuti.»
«Tchuss, røvul!» replicò il capitano della Giambattista. «Lo è stato, sí no?»
La connessione si interruppe. Sullo schermo, la Giambattista riferì l’avvio di
un’accelerazione rapida e Holden modificò l’immagine per vederla. Una singola
stella luminosa nel buio, un pennacchio di reattore più grande del trasporto per
il ghiaccio che lo produceva. Volle credere che ci fosse qualcosa di strano nel
colore della luce, come se tutte le regolazioni fatte da Naomi per elevare i livelli
di energia fossero visibili, ma era solo uno scherzo giocatogli dalla mente. Sullo
schermo apparve un nuovo conto alla rovescia. Il momento del previsto
passaggio della Giambattista attraverso il portale di Arcadia passò da diciassette a
sedici minuti. A meno che non alterasse la rotta, la Marina Libera avrebbe
varcato il portale del Sole fra diciannove minuti. Diciotto.
Aveva lo stomaco contratto. Trasse un respiro tremante e bevve un altro sorso
di caffè, poi aprì una seconda finestra e puntò i sensori verso il portale del Sole.
Da dove si trovavano, la Marina Libera non sarebbe stata visibile, non ancora.
L’angolazione era tale da nasconderla.
«Il cannone a rotaia è pronto, nel caso dovessero passare?»
«Sì, signore» rispose prontamente Bobbie.
«Bene, sarà meglio che io e lo Zuccherino andiamo a prendere posto sui sedili.
Giusto per precauzione, sai com’è.»
Clarissa sfiorò la spalla di Naomi un’ultima volta, poi si girò e si lanciò per
seguire Amos giù per il condotto dell’ascensore e verso la sezione ingegneria.
Holden bevve un ultimo, lungo sorso di caffè, poi mise via il bulbo. Voleva che
quella cosa finisse. Voleva che quel momento durasse in eterno, nel caso fosse
l’ultimo che aveva con Naomi. E con Alex e Amos. E Bobbie. Dannazione,
perfino con Clarissa. Con la Rocinante. Non si poteva passare in un posto come
la Roci tutto il tempo che vi aveva trascorso lui e non esserne cambiati. Non
vederla diventare la propria casa.
Quando Naomi si schiarì la gola, pensò che stesse per parlargli.
«Giambattista» disse. «Qui è la Rocinante. La vostra griglia di alimentazione non
mi appare al di sopra della norma.»
«Perdona» rispose una voce di donna. «Provvediamo subito.»
«Grazie, Giambattista» replicò Naomi, e chiuse la comunicazione. Sorrise a
Holden. L’orrore della situazione traspariva solo da una linea all’angolo della sua
bocca, ma vederlo gli fece dolere il cuore. «Dilettanti. Verrebbe da pensare che
non abbiano mai fatto prima questa cosa.»
Holden rise, e Naomi si unì alla sua risata. I timer continuarono a ticchettare.
Quello della Giambattista arrivò allo zero. La luminosità del suo pennacchio
scomparve, nascosta dalla curva del portale di Arcadia e dalla profonda
stranezza che caratterizzava spazio e distanza laggiù. Dove c’era stato il timer,
Naomi richiamò a schermo un display di un modello matematico che aveva
costruito. Il picco del passaggio della Giambattista cominciava già a decadere.
La linea scese verso il basso mentre, accanto a essa, il timer che scandiva
l’arrivo di Marco si riduceva a una questione di secondi. Nella cabina di
pilotaggio Bobbie disse qualcosa e Alex rispose, ma Holden non riuscì a
distinguere le parole. Il respiro di Naomi suonava rapido e poco profondo.
Desiderava protendersi verso di lei, prenderle la mano, ma questo avrebbe
significato distogliere lo sguardo dal monitor, quindi non poteva farlo.
Ci fu un tremolio nel portale del Sole. Holden aumentò l’ingrandimento finché
quel portale riempì il suo schermo. La strana struttura quasi biologica dell’anello
stesso parve spostarsi e contorcersi. Un’illusione della luce. I pennacchi dei
reattori delle navi della Marina Libera erano così ravvicinati da dare
l’impressione che una singola, enorme fiammata fosse apparsa al limitare del
portale, puntando verso il suo centro.
«Vuoi che provi a sparare loro contro?» chiese Bobbie. «A questo punto
probabilmente il cannone a rotaia potrebbe raggiungerli.»
«No» disse Naomi, prima che Holden potesse rispondere. «Non so che effetto
potrebbe avere adesso mandare della massa attraverso il portale.»
Sul modello apparve una linea, in basso sulla scala di grandezza. Si muoveva
verso la curva che andava affievolendosi. Il portale dell’anello si illuminò per la
frenata congiunta delle navi nemiche, fino ad apparire come l’immagine in
negativo di un occhio, con la sclera nera e punteggiata di stelle e un’iride rovente
e di un bianco intenso. Il timer raggiunse lo zero. Le luci si fecero più intense.
51
Marco

Marco aveva la mascella dolorante, il petto gli faceva male, le vertebre erano
sul punto di slogarsi senza mai arrivare a superarlo. L’accelerazione a g elevati lo
flagellava e lui accoglieva con piacere il dolore. La pressione e il disagio erano il
prezzo pagato dal suo corpo. Stavano rallentando nell’avvicinarsi al bersaglio. Il
nucleo della Marina Libera avrebbe raggiunto Medina senza incontrare
opposizione, e non c’era letteralmente nessuno che li potesse fermare.
Con una spinta umana – un ottavo, un decimo di g – e passando un po’ di
tempo muovendosi per abbrivio in assenza di gravità per conservare massa, il
viaggio fino all’anello avrebbe richiesto mesi, ma lui non aveva quei mesi. Tutto
dipendeva dal raggiungere Medina prima che le forze sparse della flotta
congiunta lo potessero raggiungere. Sì, questo significava spingere le navi di cui
disponeva al limite della loro capacità. Sì, avrebbe significato requisire parte delle
scorte che avevano su Medina per fornire il carburante per il suo ritorno nel
sistema, e la gente di Medina si sarebbe dovuta adattare con un po’ meno finché
non fosse riuscito a stabilizzare la situazione quanto bastava per permettere un
rinnovo delle scorte.
Questo era un tempo di guerra. I giorni in cui andare a caccia di cibo,
accantonare risorse e stare al sicuro erano finiti. La pace era un tempo per
l’efficienza. La guerra era un tempo che richiedeva potere, e se questo significava
spingere i suoi combattenti al limite delle loro capacità, allora era così che
avrebbe ottenuto la vittoria. Quelli che conservavano la maggior parte delle loro
riserve per il domani erano anche quelli che avevano meno probabilità di
arrivare a vederlo. Se il prezzo erano lunghi giorni di costante disagio e di
sofferenza, lo avrebbe pagato e ne avrebbe assaporato la gloria, perché alla fine
c’era la rinascita. Un liberarsi di tutti i piccoli errori, una purificazione, e la sede
della sua vittoria finale, permanente. Che sarebbe giunta presto.
Il suo errore, adesso lo vedeva, era stato di aver pensato troppo in piccolo.
Aveva concepito la rivoluzione rappresentata dalla Marina Libera come un
equilibrarsi dei piatti di una bilancia. Gli interni avevano preso e preso e preso
alla Fascia, e quando non ne avevano più avuto bisogno l’avevano scaricata ed
erano volati verso nuovi giocattoli più lucenti. La sua intenzione era stata di
raddrizzare quella situazione. Che fossero gli interni a trovarsi nel bisogno e la
Fascia a trovare la sua indipendenza e la sua forza. Era stata l’ira a mantenere la
sua visuale troppo ristretta. Un’ira giusta, appropriata, ma lo aveva comunque
accecato.
Medina era la chiave, lo era sempre stata, ma solo ora vedeva di cosa essa fosse
la chiave. Era stata sua intenzione chiudere i portali e costringere i pianeti interni
ad affrontare le conseguenze di generazioni di ingiustizia. Visto adesso,
sembrava quasi un gesto dettato dalla nostalgia, un dare ascolto alle precedenti
generazioni. Non era orgoglioso di ammetterlo, ma aveva commesso il classico
errore di cercare di combattere l’ultima guerra sul campo di battaglia successivo.
Il potere di Medina non era che poteva arrestare il flusso di denaro e di materiali
dai nuovi mondi, era che poteva controllarlo.
Il destino della Fascia non era intorno a Giove e a Saturno, o almeno non era
soltanto lì. In ognuno dei milletrecento sistemi a cui i portali davano accesso
c’erano pianeti vulnerabili quanto la Terra. La Fascia stessa si sarebbe estesa a
tutti i sistemi, avrebbe fluttuato come un re al di sopra dei mondi a essa soggetti.
Se avesse dovuto rifare tutto daccapo, avrebbe scagliato tre volte più rocce
contro la Terra, distrutto Marte e portato le sue navi e la sua gente sui mondi
coloniali dove non c’erano residui di flotte da congiungere. Con la sola Medina e
le quindici navi a sua disposizione poteva esercitare potere su tutti i mondi
esistenti. Era tutta una questione di posizione, audacia e volontà.
Doveva trovare il modo di convincere Duarte a dargli qualche altra nave, ma
finora la promessa di lasciare Laconia indisturbata gli aveva fruttato tutto quello
di cui aveva avuto bisogno, per cui non pensava che un’altra piccola richiesta
sarebbe stata troppo, considerato quanto aveva già sacrificato. E se poi Duarte
avesse obiettato...
La Pella tremò quando il reattore attraversò una qualche frequenza di
risonanza. Di norma, quando succedeva non si trovavano in accelerazione
elevata. Era strano come qualcosa che non era più di un tintinnio a un terzo di g
potesse suonare come un’apocalisse imminente a due g e due terzi. Digitò un
messaggio per Josie, giù nella sezione ingegneria: ‘MANTIENICI TUTTI INTERI.’
Qualche secondo più tardi Josie rispose con qualcosa di osceno, e Marco
ridacchiò nonostante la pressione alla gola.
Si erano concessi l’ultimo momento di respiro prima della battaglia alcune ore
prima, riducendo la decelerazione a tre quarti di g per quindici minuti per
permettere a tutti di mangiare e di andare in bagno. Una pausa più lunga avrebbe
significato accelerare maggiormente adesso, ed erano già al limite della
tolleranza, ma i vantaggi di un’inattesa marcia forzata erano sparsi fra tutti i
grandi strateghi militari della storia. La Terra e Marte potevano soltanto
guardare, con gli occhi incollati ai telescopi, e gemere. La Terra e Marte, e anche
Medina.
E su Medina c’erano Naomi e quel suo inetto, fottuto amichetto terrestre,
James Holden, che aveva seguito le orme di Fred Johnson come
condiscendente, altezzoso eroe della povera Fascia impotente. Quando fosse
morto, la storia di una Fascia che doveva essere salvata da autocompiaciuti
terrestri che si fingevano di mente aperta si sarebbe dissanguata con lui e se ne
sarebbero liberati. E Naomi...
Non sapeva ancora cosa fare con Naomi. Lei era un dilemma. Forte dove
sarebbe dovuta essere debole e debole dove sarebbe dovuta essere forte. Era
come se fosse nata rovesciata. Eppure in lei c’era qualcosa. Perfino dopo tutti
quegli anni, in lei c’era qualcosa che chiedeva di essere domato. Adesso gli era
sfuggita due volte. Qualsiasi cosa fosse successa, non ce ne sarebbe stata una
terza. E quando l’avesse avuta in pugno Filip sarebbe tornato di sua iniziativa.
Quella non era una cosa di cui valesse la pena di preoccuparsi.
Quando Filip non si era presentato alla partenza da Callisto non ne era stato
sorpreso. Il ragazzo si era comportato in modo strano per settimane. Era una
cosa normale, era perfino arrivata in ritardo, in realtà. Marco aveva messo alla
prova l’autorità di Rokku quando era stato molto più giovane di quanto Filip lo
fosse adesso. Rokku gli aveva detto quando presentarsi per la partenza e lui era
arrivato di proposito in ritardo, in modo da trovare il molo ormai vuoto. Aveva
dovuto cavarsela da solo sulla Stazione di Pallas per parecchi mesi prima che la
nave di Rokku tornasse. Il capitano lo aveva incontrato sul molo e lo aveva
pestato fino a farlo sanguinare in una dozzina di punti, ma lo aveva ripreso a
bordo. Se Filip aveva bisogno della stessa esperienza, la cosa andava benissimo.
Non che lui lo avrebbe pestato. Meglio ridere un poco e arruffargli i capelli.
L’umiliazione era sempre meglio della violenza. Percuotere un uomo, perfino
picchiarlo a morte, era quantomeno una prova che lo prendevi sul serio, come
uomo. Tuttavia, ripensandoci, Filip aveva cominciato a ribellarsi da quando
aveva sparato a quel coyo della sicurezza, su Ceres. Dio, quanto gli doleva la
mascella.
Spostò le dita e richiamò a schermo il timer. Adesso il portale dell’anello era a
pochi minuti di distanza. La Pella perdeva quantità di moto a ogni secondo,
accertandosi che quando avessero attraversato il portale non sarebbero volati
incontro a una trappola. Holden sarebbe stato in attesa, pronto a vedere il fuoco
dei pennacchi dei reattori. Non erano ancora abbastanza vicini perché questo
costituisse un problema: anche se Holden avesse azionato adesso il cannone a
rotaia la Pella avrebbe potuto reagire in tempo e schivare. Questo però non
sarebbe durato ancora per molto. Il suo cuore compresso prese a battere più in
fretta, la bocca dolente si contrasse in un lieve sorriso.
Il disagio era la dimora del guerriero, adesso come sempre. Se lo ripeté mentre
abbracciava quello stato di cose, lo accettava. E tuttavia, sarebbe stato contento
quando questa parte si fosse conclusa.
Digitò ordini per l’intero contingente, raggruppando le navi abbastanza vicine
perché i pennacchi si sovrapponessero, usando quella vasta nube di energia
come una copertura dietro cui nascondersi. Fra questo e l’interferenza che il
portale causava nei sensori, Holden avrebbe praticamente sparato alla cieca. O
quantomeno potevano sperare che fosse così. L’ipotesi peggiore era che Holden
riuscisse a distruggere due o tre delle sue navi prima che oltrepassassero il
portale, ma una volta che fossero stati abbastanza vicini da poter prendere di
mira la Rocinante, non ci sarebbe voluto niente per azzopparla. Non l’avrebbero
distrutta, a meno di essere sfortunati. Aggiungere la famosa nave di James
Holden alla nuova Marina Libera era un’opportunità troppo buona per
lasciarsela sfuggire. Era questo che mancava a Sanjrani, a Dawes... a tutti gli altri:
la leadership richiedeva un chiaro senso delle apparenze. Dello stile.
Quindici minuti. In quel momento, miliardi di persone lo stavano guardando.
Con la velocità a cui potevano viaggiare i fotoni, la Pella e le sue quattordici navi
da combattimento sarebbero apparse su ogni notiziario, su ogni terminale
palmare, su ogni monitor del sistema. Era a quindici minuti dal momento
cardine della storia. Quattordici.
Controllò il loro vettore comune. Entrando in territorio nemico era di
importanza critica che non fossero tanto vicini da far sì che un colpo fortunato
di Holden potesse danneggiare più di una nave, ma neppure arrivassero alla
spicciolata, dandogli il tempo di sparare più colpi. Pareva che fossero schierati
bene. Sarebbe andato tutto bene.
Desiderò di aver pensato a registrare un messaggio da trasmettere. Era il
momento perfetto, anche migliore della sua iniziale chiamata alle armi. Pensò a
tutti i cinturiani del sistema... quelli schierati con la Marina Libera e quelli troppo
vigliacchi o in errore, e perfino a quei frammenti traditori dell’APE che insieme a
Pa avevano preso le armi contro il loro stesso interesse. Doveva credere che
provassero tutti un senso di orgoglio. Prima di lui erano stati schiavi in tutto
tranne che nel nome, e adesso erano una forza pari, o anche superiore, a quella
degli stati più potenti che l’umanità avesse mai concepito. Come potevano non
provare meraviglia di fronte a tutto questo? Come potevano non gioirne?
Adesso il portale era abbastanza vicino da poterlo vedere senza
ingrandimento. Ampio quanto la Stazione di Ceres e tuttavia minuscolo nella
vasta oscurità là fuori, dove perfino il sole non era altro che una stella
stranamente brillante. Le sue navi avrebbero cominciato le manovre evasive non
appena si fossero avvicinate, cambiando posto nella formazione come le tre
carte sul tavolo di un baro, sui moli. Controllò di nuovo i vettori e digitò un
iroso ordine a una delle navi, che stava restando indietro. A poco a poco il
portale si fece più grande. Accentuò l’ingrandimento e aggiunse una falsa luce. Il
materiale di cui il portale stesso era fatto continuava a sfidare le menti migliori
dell’umanità. Lui non lo vedeva davvero, naturalmente, l’immagine sul monitor
era filtrata attraverso la luminosità dei pennacchi. La verità era che stava
cadendo all’indietro verso il portale, con la faccia rivolta verso il debole sole
privo di importanza. Il sedile a smorzamento lo avviluppava come se stesse
riposando nel palmo stesso di Dio.
Sul monitor apparve un messaggio di Karal: ‘TUTTI I SISTEMI RISPONDONO
BENE. BOA CAÇADA.’
Digitò una risposta, non solo per Karal, ma per tutto l’equipaggio della Pella.
‘BUONA CACCIA.’
Mancavano cinque minuti all’attraversamento del portale e all’inizio della
battaglia per il possesso di Medina. Quella breve, violenta battaglia decisiva che
avrebbe ridefinito cosa era la Marina Libera. Desiderò che avanzassero più in
fretta, esercitando pressione con la mente contro la bruta natura della fisica.
Fiutando la vittoria, sentendola nel sangue. I minuti scivolarono come ore e
insieme passarono troppo in fretta. Due minuti. Uno.
Un altro messaggio di Karal. ‘WIR HAT POSSIBILE.’
Accanto c’era un maggiore ingrandimento del portale, filtrato attraverso i
sistemi di bordo. C’era un minuscolo punto azzurro che doveva essere la
stazione con i cannoni a rotaia, e accanto a essa, quasi troppo piccola per
vederla, una scheggia di oscurità meno intensa che sarebbe potuta essere una
nave a reattore spento. La Rocinante.
Marco sentì la sua intera consapevolezza concentrarsi su quel puntino grigio.
Naomi. Quel puntino era Naomi. Era uscita dal sistema solare per allontanarsi
da lui, e adesso lui era qui. Nella mente poteva vedere il suo volto, l’espressione
vuota che aveva quando cercava di non provare nulla. Sorridere gli causava
dolore, il corpo gli faceva male, ma era disposto ad accettare tutto. Solo che...
Il suo monitor aveva qualcosa che non andava. In un primo momento pensò
che l’immagine si fosse fatta sgranata, la risoluzione meno precisa, ma non si
trattava di questo. Le dimensioni erano le stesse, solo che poteva vedere le parti
di cui era fatto il monitor. Non stava vedendo la Rocinante, vedeva i fotoni fluire
da una lastra di plastica sollecitata elettricamente. Le catene di polimeri
rilucevano scure, luminose, di nuovo scure. Era come vedere il corpo di una
donna in un dipinto dall’altro lato di una stanza e poi, senza preavviso, scorgere
solo le pennellate di cui il quadro era fatto. Naomi non era da nessuna parte, in
esso.
Gridò e poté avvertire le onde di pressione che gli emanavano dalla gola. Le
nubi di molecole che formavano le sue dita sbatterono contro quelle che erano il
pannello di controllo. Voleva digitare che facessero fuoco, che uccidessero
finché ne avevano ancora la possibilità, ma non riusciva a distinguere le lettere
negli schizzi di fotoni che scaturivano dallo schermo. C’erano troppi dettagli.
Perse la cognizione di dove cominciava l’aria e dove finiva il sedile a
smorzamento. Il confine fra il suo corpo e l’ambiente si fece indistinto. Fin da
quando era troppo giovane per ricordare di averlo imparato, aveva saputo che
gli atomi erano fatti più di spazio che di materia, e che ai livelli più bassi le cose
che componevano gli atomi potevano rimbalzare dentro e fuori dall’esistenza,
ma non lo aveva mai visto prima. Non era mai stato tanto consapevole di essere
un vapore di energia. La vibrazione di una corda di chitarra che non esisteva.
Qualcosa di scuro e improvviso si mosse attraverso la nuvola, verso di lui.
Sulla Rocinante, il portale dell’anello si illuminò per le frenate del nemico fino ad
apparire come l’immagine in negativo di un occhio, con la sclera nera e
punteggiata di stelle e un’iride rovente e di un bianco intenso. Il timer raggiunse
lo zero. Le luci si fecero più intense, poi tremolarono e si spensero.
Holden controllò i sensori. Dove pochi secondi prima c’erano quindici navi da
guerra in frenata adesso c’era soltanto il nulla.
«Uh» commentò Amos, sul sistema di comunicazione di bordo. «Questo è
super inquietante.»
52
Pa

«Ed eccoci di nuovo qui» commentò Michio, nello sbarcare sui moli della
Stazione di Ceres.
«Già» commentò Josep, che le camminava accanto.
Quando era partita da lì, si stava ribellando contro una ribellione. Adesso, sia
che qualcuno lo ammettesse o meno, era tornata per implorare le potenze della
Terra e di Marte di darle la libertà. Aveva la sensazione che i moli stessi
avrebbero dovuto essere cambiati. Essere più vecchi e logori, come lo era la sua
anima. Tuttavia la musica metallica prodotta dai mech e dagli attrezzi a motore e
il borbottare delle voci erano gli stessi di prima. L’odore di lubrificanti al
carbonio e di ozono era ancora intenso.
Un nuovo strato di vernice faceva perfino apparire la vecchia stazione più
giovane e luminosa, più piena di speranza di quando ne era partita. I cartelli
erano stati sostituiti. I corridoi e gli ascensori erano gli stessi, ma le scritte erano
in nuovi caratteri puliti e vividi, e in una mezza dozzina di alfabeti. Sapeva che
questo era stato fatto a beneficio dei coloni e dei profughi che fuggivano dalla
Terra, ma il fatto che fra tutte le lingue presenti nessuna fosse quella creola dei
cinturiani pareva un’offesa mirata. La Terra gestiva di nuovo Ceres, come aveva
fatto prima di Eros, e stava trasformando la stazione in una versione da parco a
tema di sé stessa. La presenza delle guardie era più che altro cerimoniale, ma
Michio era pronta a scommettere che le loro armi erano cariche. Era un lavoro
imbarazzante, accogliere qualcuno che era in pari misura un alleato e un nemico.
Non le invidiava.
Adesso erano passati sei mesi dalla straordinaria morte di Marco Inaros e dei
grandi resti della Marina Libera. Ci era voluto mezzo anno giusto per riunire i
giocatori rimasti perché parlassero fra loro, e Michio si chiese quanto ci sarebbe
voluto perché si facesse qualcosa che importava davvero, e cosa sarebbe
successo quando il tempo si fosse esaurito per tutti. Le pareva di avere una
minuscola versione di Nico Sanjrani in un angolo della testa che faceva un conto
alla rovescia delle ore che mancavano al momento in cui la Fascia... no, tutta
l’umanità... avrebbe avuto bisogno di fattorie, centri medici, miniere e centri di
lavorazione che non avevano costruito perché erano troppo impegnati a
combattere. Alcune notti questo la teneva sveglia. Alcune notti erano altre le
cose che le impedivano di dormire.
Quasi si aspettava di essere accompagnata allo stesso alloggio che Marco
Inaros le aveva assegnato l’ultima volta che era stata lì per mettere insieme un
piano a vantaggio della Fascia, ma anche se si trattava della stessa sezione della
stazione, quelle particolari stanze erano diverse. La loro scorta finì il suo lavoro
di accoglienza, garantì loro che se avessero avuto bisogno di qualsiasi cosa
qualcuno del servizio di ospitalità sarebbe venuto ad aiutarli, poi si inchinò e
uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Michio si adagiò sul divano della stanza
principale dell’appartamento mentre Josep esaminava ciascuna camera,
valutandola e cercando apparecchiature di sorveglianza che certamente erano
presenti e che, altrettanto certamente, erano state installate in modo troppo
professionale per essere individuate.
Nadia, Bertold e Laura si erano imbarcati sulla nuova nave – un mercantile
convertito che era stato prestato loro da uno dei cugini di Bertold finché
avessero trovato il modo di pagarne le spese. Dopo l’aerodinamicità e la potenza
della Connaught, quella nave appariva fragile e scadente, ma la sua famiglia era su
di essa, quindi era la sua casa nello stesso modo in cui il divano su cui aveva
posato la guancia era un arredo di seta grezza in una cella di prigione.
Josep scoppiò in una dura risata, poi tornò nella stanza principale con in mano
un rettangolo di qualcosa color crema, che le porse. Non era carta, ma un
cartoncino pesante liscio al tatto, e le parole scritte su di esso erano stilate in una
calligrafia nitida e precisa.
Capitano Pa,
grazie per essere venuta alla conferenza e per il suo coraggio nelle lotte che noi tutti
abbiamo sostenuto insieme. Con buona fede e collaborazione forgeremo la strada che
ancora ci aspetta.
Era firmato da Chrisjen Avasarala. Michio sollevò lo sguardo su Josep
aggrottando la fronte.
«En serio? Questo non sembra neppure il suo stile.»
«Lo so» rispose lui. «E vieni a vedere! C’è perfino un cestino di frutta.»
Le guerre cominciano con l’ira, finiscono nello sfinimento.
In seguito alla battaglia combattuta in tutto il sistema e al suo inquietante
seguito, al portale, i partigiani della Marina Libera avevano provato un
sopraffacente senso di ingiustizia. Era come se la scomparsa della Pella e del suo
contingente di navi fosse stata un brutto fallo in una partita di football e loro
stessero cercando un arbitro con cui prendersela. Poi in tutte le stazioni – Pallas,
Ganimede, Ceres, Tycho e dozzine di altre – aveva cominciato a diffondersi
lentamente la realizzazione che la guerra era finita. E che avevano perso. Su
Pallas, un gruppo aveva dichiarato di essere la Nuova Marina Libera e aveva
fatto scoppiare alcune bombe quando la flotta congiunta era venuta a prendere il
controllo della stazione. Il Sistema di Giove... Callisto, Europa, Ganimede e
tutte le altre basi minori... era stato il terreno dove la Marina Libera era più forte,
e quello meno toccato dai combattimenti. Qualche sacca di resistenza in
quell’area significava che la violenza si sarebbe protratta per qualche altra
settimana, o qualche mese, ma non c’erano dubbi sul suo esito.
Lo spettro del portale di Laconia e di Wiston Duarte aleggiava su Marte più
che su chiunque altro. L’identità marziana – orgogliosi ingranaggi della gloriosa
macchina della terraformazione – non si conciliava con colpi di mano militari e
defezioni di massa. Marte voleva delle risposte e Laconia continuava a ignorare
alla grande tutti loro. La sola comunicazione giunta dopo la morte della Marina
Libera era una dichiarazione trasmessa in loop su banda larga attraverso il
portale. Una voce d’uomo, che aveva le inflessioni di uno speaker dei notiziari,
diceva: Laconia è soggetta alla sua stessa autorità sovrana. Questo messaggio
serve ad avvertire che qualsiasi nave attraversi il portale di Laconia violerà tale
autorità e le sarà negato di procedere oltre. Laconia è soggetta alla sua stessa
autorità sovrana...
Quel messaggio aveva causato un’infinità di dibattiti in seno al parlamento
marziano, mentre la Terra aveva inviato nella zona lenta due delle tre navi da
guerra che le erano rimaste e le aveva parcheggiate, con i loro vecchi ma efficaci
cannoni a rotaia e i loro siluri nucleari, ai confini del portale di Laconia, pronte a
ridurre in gas e rottami qualsiasi cosa ne fosse uscito. Avasarala la definiva una
politica di contenimento, e Michio supponeva che fosse la cosa più sensata da
fare. La Terra non era in condizione di sostenere un’altra guerra.
Quando Rosenfeld Guoliang salì sul banco degli imputati, all’Aia, nel corso del
primo processo di alto profilo per l’assassinio di miliardi di persone sulla Terra,
il vasto e complesso zeitgeist umano era pronto a considerare chiusa tutta la
faccenda. Ci sarebbero stati altri processi. Anderson Dawes era stato catturato e
Nico Sanjrani si era costituito su Tycho. Dell’originale cerchia interna di Inaros,
Michio Pa era la sola a non essere in cella o morta, ed era a un cocktail party.
Il centro riunioni all’interno del palazzo del governatore era costruito su tre
livelli uniti da scale e decorati da un sacco di piante. Persone in uniforme e
abbigliamento formale sostavano a coppie, in piccoli gruppi o sole, con in mano
il terminale palmare, mentre i servitori distribuivano vassoi di drink e di
antipasti. Se si desiderava qualcosa di specifico – fosse cibo o bevande o
probabilmente perfino un nuovo paio di scarpe – bastava chiedere. Era il
massimo del lusso, la più alta cerchia di potere e influenza.
Questa era la cosa vera, qualcosa che Marco Inaros era soltanto riuscito a
scimmiottare. I pavimenti di pietra erano lucidi, le colonne erano fatte di roccia
sedimentaria a strisce portata fin lì dalla Terra come una sorta di sfoggio. Siamo
tanto ricchi che non usiamo neppure la nostra pietra locale. Prima non se ne era mai
accorta, e non sapeva se la cosa la divertisse, la facesse infuriare o la rattristasse.
«Michio» disse una voce di donna. «Eccola qui. Come sta Laura?»
Una donna anziana che indossava un sari arancione la prese per un gomito e la
pilotò per almeno tre passi prima che lei si rendesse conto che si trattava di
Avasarala. La vecchia terrestre appariva diversa, di persona. Era più piccola, la
sua pelle era più scura e i capelli bianchi coprivano una parte maggiore della
faccia.
«Sta molto meglio» rispose Michio. «È tornata a bordo.»
«Con Nadia e Bertold? E Josep è rimasto nel vostro alloggio? Basta che
sappiano che sono i benvenuti. Dannazione, questo palazzo è un esemplare
architettonico orribile, vero?» commentò Avasarala. «Ho notato che guardava le
colonne.»
«Infatti» annuì Michio.
Avasarala si protese verso di lei, con gli occhi scintillanti come quelli di una
scolaretta. «Sono fasulle. La roccia? L’hanno fatta con una centrifuga e sabbia
colorata. Conoscevo il costruttore, e anche lui era fasullo, però era carino. Dio ci
salvi dagli uomini di bell’aspetto.»
Michio rimase sorpresa di ritrovarsi a ridere. Quella vecchia era affascinante.
Sapeva che quella dimostrazione di ospitalità era solo questo, una dimostrazione,
e tuttavia funzionava, perché ora si sentiva più a suo agio. Presto sarebbe venuto
il momento in cui lei si sarebbe dovuta presentare davanti a quella donna e
chiedere l’amnistia, chiedere a quella terrestre di lasciar andare liberi lei e la sua
famiglia senza che rispondessero dei crimini di Marco. Questo momento dava
l’impressione che forse la risposta sarebbe stata un sì, e la speranza era una cosa
terribile. Non voleva provarla, e tuttavia era lì.
Non sapeva che avrebbe parlato finché non lo fece. «Mi dispiace» disse, e
quello che intendeva era ‘Mi dispiace di non aver fermato l’attacco che ha ucciso
suo marito’. E ‘Mi dispiace di non aver visto prima Inaros per quello che era’. E
ancora ‘Se potessi vivere la mia vita a ritroso e tentare di nuovo, farei tutto in
modo diverso’.
Avasarala fece una pausa, fissandola intensamente negli occhi, e fu come
vedere qualcuno attraverso una maschera. La profondità che scorse la sorprese.
Quando Avasarala rispose, fu come se avesse colto ogni sfumatura sottintesa.
«La politica è l’arte del possibile, capitano Pa. Quando si gioca al nostro livello,
i risentimenti costano vite.»
Dall’altro lato di uno stretto cortile James Holden si volse e si affrettò a
raggiungerle. Lui, se non altro, era alto come lo ricordava, anche se appariva un
po’ più vecchio di quando avevano combattuto contro Ashford, sulla Behemoth,
in quelli che nessuno avrebbe potuto immaginare sarebbero diventati i bei
vecchi tempi. Vide sul suo volto sorpresa e piacere quando la riconobbe.
«Capitano Holden» lo salutò Pa. «Vederti continua a sembrare strano.»
«Vero?» commentò lui, con un sorriso giovanile che pareva del tutto
spontaneo, poi si rivolse ad Avasarala. «Posso avere un minuto? C’è una cosa di
cui voglio parlarti.»
Avasarala strinse il braccio di Michio, poi lo lasciò andare. «Mi perdoni» disse.
«Holden non riesce a trovarsi il cazzo con entrambe le mani se non c’è qualcuno
che gli indica dov’è.»
Entrambi si allontanarono insieme, le teste ravvicinate nel parlare. Dietro una
macchia d’edera, Michio scorse una donna alta e scura di pelle, che si inclinava
leggermente in avanti nel ridere insieme al primo ministro marziano. Naomi
Nagata. Appariva... normale? Anonima. Michio la conosceva da prima, e tuttavia
forse non l’avrebbe riconosciuta se si fossero incrociate in un corridoio comune
o avessero preso insieme la metropolitana. Quella però era la donna che Marco
aveva rapito prima del suo attacco contro la Terra, per poterla vedere
contemplare il suo potere. La donna che gli aveva volto le spalle quando
entrambi erano poco più che ragazzi. Non avrebbe mai saputo quanta parte
della decisione di Marco di portare i resti della flotta della Marina Libera a
Medina fosse stata dettata da fredde esigenze tattiche e quanta parte fosse dipesa
dal fatto che Naomi Nagata era là. Era una cosa tanto piccola e meschina, e lei
non aveva difficoltà a crederci. Quando si gioca al nostro livello, i risentimenti costano
vite.
Carlos Walker attraversò con disinvoltura un’arcata, intercettò il suo sguardo e
sorrise. Michio aveva conosciuto prevalentemente la sua reputazione, ai tempi in
cui aveva fatto parte dell’APE del fottuto Fred Johnson. Carlos Walker, con i suoi
modi da playboy e la sua strana vena religiosa di cui nessuno pareva essere in
grado di determinare la sincerità. Walker prelevò due flûte di champagne da un
vassoio e si diresse verso di lei.
«Hai l’aria pensosa, capitano Pa.»
«Davvero?» ribatté lei, accettando il bicchiere. «Ecco, allora suppongo sia così.
E tu? Come ci si sente a essere il rappresentante non eletto della Fascia?»
Walker sorrise. «Potrei farti la stessa domanda.»
Michio rise. «Io non rappresento nessuno, solo me stessa.»
«Davvero? Allora cosa ci fai qui?»
Michio sbatté le palpebre, interdetta, e non seppe come replicare.
Poco meno di un’ora più tardi il morbido rintocco di una campanella e un
discreto affrettarsi di assistenti personali e aiutanti di campo annunciò l’inizio
della riunione vera e propria. Pa si lasciò trascinare dagli altri con un crescente
senso di sfasamento. La sala riunioni era più piccola di quanto si aspettasse, e
disposta in un triangolo approssimativo. Avasarala, un uomo dal volto sottile in
giacca formale e altri due che indossavano un’uniforme militare sedevano in un
angolo. Il primo ministro marziano Emily Richards sedeva in un altro con una
mezza dozzina di persone abbigliate in modo formale che le si agitava intorno
come se fossero state falene e lei una fiamma viva. E nel terzo angolo c’erano
Carlos Walker, Naomi Nagata, James Holden e la stessa Michio.
Una seconda fila di sedie era occupata da persone di cui lei ignorava il ruolo.
Senatori, uomini d’affari, banchieri, soldati. Si rese conto che se avesse avuto
una bomba probabilmente avrebbe potuto danneggiare seriamente quel che
restava dei principali governi dell’umanità uccidendo i presenti in quella singola
stanza.
«Bene» esordì Avasarala, con voce sonora come un allarme. «Mi piacerebbe
cominciare ringraziando di nuovo tutti voi per essere qui. Non amo queste
stronzate, ma le premesse sono buone e abbiamo alcune cose da discutere. Ho
una proposta...» Si interruppe per digitare un ordine sul suo terminale palmare, e
quello di Michio trillò in risposta, come fece quello di tutti i presenti. «Una
proposta che riguarda l’architettura con cui cercare di toglierci dalla merda. È
uno studio preliminare, ma dobbiamo cominciare da qualche parte.»
Michio aprì il documento. Era lungo oltre mille pagine, con le prime dieci
costituite da un indice dei contenuti molto fitto, con annotazioni e sottosezioni
per ogni capitolo. Si sentì assalire da un lieve senso di vertigine.
«Il quadro generale è questo» continuò Avasarala. «Abbiamo una lista di
problemi lunga quanto le nostre braccia, ma il capitano Holden qui presente
pensa che potremmo escogitare un modo per usare alcuni di essi per risolverne
altri. Capitano?»
Accanto a Michio, Holden si alzò in piedi, parve rendersi conto che nessun
altro si sarebbe alzato per parlare, poi scrollò le spalle e affrontò di petto la
situazione. «Il fatto è che la Marina Libera non aveva torto. Con l’apertura di
tutti i nuovi sistemi, la nicchia economica che i cinturiani hanno occupato è
destinata a scomparire. Ci sono così tante riserve su quei pianeti, dove non
dobbiamo importare la nostra aria o generare noi la forza di gravità, che la
Fascia si troverà a essere surclassata. E, senza offesa, finora il piano è stato, in
diverse versioni, quello dell’’essere voi è una fregatura’.
«Nella Fascia c’è una significativa popolazione che non sarà in grado di
trasferirsi in fondo a un pozzo gravitazionale e che verrà semplicemente
dimenticata. Lasciata a morire a poco a poco. E dal momento che questo non è
affatto diverso da come i cinturiani sono stati trattati in passato, è stato facile per
Inaros trovare sostegno politico.»
«Non direi che sia stata la sola cosa che lo ha aiutato» commentò il primo
ministro Richards. «Avere un bel po’ delle mie navi gli ha dato una mano.»
Nella stanza si diffuse una risata.
«Il fatto è» riprese Holden «che abbiamo cominciato ad andare là fuori nel
modo sbagliato. C’è un problema di traffico che non conoscevamo. Nelle
condizioni sbagliate non è sicuro attraversare i portali, cosa che abbiamo
scoperto perché una quantità di navi sono scomparse. Se il piano è soltanto
quello che chiunque vuole attraversare i portali può farlo quando vuole, altre
navi spariranno. Ci deve essere qualcuno che regola la cosa, e grazie a Naomi
Nagata adesso conosciamo il limite di carico della rete dei portali.»
Holden fece una pausa e si guardò intorno, quasi si aspettasse un applauso
prima di proseguire.
«Quindi questi sono due problemi. Nessuna nicchia per la Fascia e il bisogno
di controllare il traffico che attraversa i portali. Ora aggiungiamo a questo il fatto
che la Terra, Marte... tutti noi, in realtà... hanno subìto negli ultimi anni danni tali
che le nostre infrastrutture non sono in grado di supportarci. Abbiamo forse un
anno o due di tempo per trovare modi per produrre cibo, acqua potabile e aria
pulita, cose di cui avremo tutti bisogno. Probabilmente, non potremo farlo nel
nostro sistema solare, a meno che una quantità di altre persone non muoia. Ci
serve un modo rapido ed efficiente per commerciare con i mondi coloniali e
ottenere materie prime. È per questo che propongo la creazione di un sindacato
indipendente con il solo compito specifico di coordinare le spedizioni attraverso
i portali. La maggior parte delle persone che vogliono vivere su un pianeta lo
farà, ma la Fascia ha un’enorme popolazione di persone che sono
specificatamente adatte a vivere al di fuori di un pozzo gravitazionale. Trasferire
in sicurezza persone e provviste fra i sistemi solari è una nuova nicchia
economica, e una che ha bisogno di essere occupata in fretta e in modo
efficiente. Nella proposta, l’ho definita la corporazione spaziale, ma non ho
sposato questo nome.»
Un uomo dai capelli grigi che sedeva due file più indietro rispetto a Emily
Richards si schiarì la gola e prese la parola. «Propone di trasformare l’intera
popolazione della Fascia in un’unica società di trasporti?»
«Sì, in una rete di navi, stazioni di supporto e altri servizi necessari a trasferire
persone e merci fra i portali» rispose Holden. «Tenete a mente che abbiamo
milletrecentosettantatré sistemi solari da gestire. Ci sarà un sacco di lavoro.
Ecco, in realtà sono milletrecentosettantadue, a causa di Laconia.»
«E cosa propone di fare riguardo a Laconia?» chiese una donna, alle spalle di
Avasarala.
«Non lo so» ammise Holden. «Ho cominciato solo da questo.»
Avasarala gli segnalò di rimettersi a sedere, e lui lo fece con riluttanza. Naomi
si protese a mormorargli qualcosa all’orecchio, e Holden annuì.
«La struttura proposta per il sindacato è decisamente standard» disse
Avasarala. «Sovranità limitata in cambio di input normativi da parte dei
principali corpi governativi, e cioè da Emily e da chiunque eleggeranno quando
io lascerò questa carica.»
«Sovranità limitata?» ripeté Carlos.
«Limitata» ribadì Avasarala. «Non mi chiedere di darla via al primo
appuntamento, Walker. Non sono quel genere di ragazza. Naturalmente il
sindacato avrà bisogno del supporto della Fascia, e il suo primo presidente dovrà
affrontare un lavoro enorme, ma pensiamo di essere tutti d’accordo sul fatto che
qui abbiamo un’opportunità unica. Qualcuno ben noto fra i cinturiani e sui
pianeti interni.»
Holden annuì e Michio guardò verso di lui. Occhi scintillanti ed espressione
decisa.
«Qualcuno» continuò Avasarala «al di sopra di fazioni e politica, o
quantomeno separato da esse. Degno di fiducia, con una morale messa
ampiamente alla prova e una lunga storia dell’aver fatto la cosa giusta anche
quando era impopolare.»
Holden sorrise e annuì fra sé. Appariva così compiaciuto. Michio non era
venuta a una riunione, quella era un’unzione in piena regola. D’un tratto, si sentì
del tutto avvilita. Probabilmente questo avrebbe migliorato le sue possibilità di
ottenere un’amnistia, ma...
«È per questo» concluse Avasarala «che dobbiamo arruolare a forza James
Holden.»
Holden strillò come se lo avessero morso. «Cosa? Un momento. No, è tutto
sbagliato. È un’idea orribile.»
Avasarala si accigliò. «Allora...»
«Sentite» disse Holden, alzandosi di nuovo. «Il problema è proprio questo.
Questo è ciò che continuiamo a fare. Imporre leggi e capi ai cinturiani piuttosto
che permettere loro di sceglierseli da soli.»
Per la stanza si diffuse un borbottio, ma Holden continuò a parlare.
«Se posso, vorrei usare questo momento per nominare qualcun altro al mio
posto. Qualcuno che possiede tutte le qualità che la signora segretario Avasarala
ha appena elencato e altre ancora. Qualcuno che ha onore, integrità e capacità di
comando, e che ha il vantaggio aggiuntivo di appartenere alla comunità di cui
sarebbe a capo.»
In qualche modo – Michio non sapeva bene come fosse successo – Holden
indicò verso di lei.
«Io nominerei Michio Pa.»
53
Naomi

Il Blue Frog era chiuso per restauri, quindi una volta concluse le riunioni guidò
il carrello fino a un pub due livelli più in su e un po’ più spostato nel senso della
rotazione. L’insegna accanto alla porta era una lastra di acciaio dozzinale con le
parole ‘COOPERATIVA QUATTORDICI’ saldate a mano su di essa. Naomi non
sapeva se ci fosse una storia dietro quel nome o se fosse solo un nuovo stile nel
dare un nome ai locali. Dall’altro lato della porta l’arredo aveva un aspetto molto
meno industriale. I tavoli erano realizzati nei vividi colori primari e le pareti
erano coperte da fili di cavi intrecciati, legati e avvolti in modo da sembrare
vecchi quadri di cascate. Un basso palco con le attrezzature per il karaoke
ronzava e vibrava per conto suo, in attesa di qualcuno che rompesse il ghiaccio.
Il locale poteva contenere fino a cento persone, ma contando lei e Jim ce
n’erano meno di venti. D’altro canto, non era ora di punta, e questo rendeva
difficile dare un giudizio.
L’equipaggio era già là, e a giudicare dalle bottiglie vuote che il cameriere stava
portando via era arrivato da un po’. Mentre si dirigevano verso di loro Jim si
rilassò. I quattro li accolsero con un piccolo applauso e fecero posto per altre
due sedie intorno al tavolo.
«Cosa è successo?» chiese Bobbie. «Avreste dovuto essere qui ore fa.»
«Avasarala mi è saltata addosso» disse Jim, e il sorriso vuoto e amabile di
Amos si accentuò leggermente. Jim scoppiò a ridere e scosse il capo. «No, voglio
dire che ha cercato di farmi nominare capo della corporazione spaziale.»
«Sai che quel nome non attecchirà, vero?» commentò Alex.
«Un momento, ha fatto... cosa?» esclamò Bobbie.
Jim allargò le mani in un gesto impotente. «Ha presentato la proposta e io ho
tenuto il mio discorsetto al riguardo, e poi boom. Davanti a tutti, lei ha detto che
dovevo essere io quello che avrebbe aiutato a mettere insieme il tutto. Il primo
presidente del sindacato. Probabilmente ci sono volute le prime due ore solo per
convincerla che non lo avrei fatto.»
«Perché non hai accettato la carica?» domandò Clarissa, che appariva
sinceramente confusa.
«Perché poi avrei dovuto fare quel lavoro» rispose Jim, agitando una mano per
richiamare il cameriere.
«Però ha senso che lei voglia qualcuno di cui possa controllare le mosse»
osservò Alex.
«Avasarala non pensa di poter controllare Holden» ribatté Bobbie. «Ma pensa
anche che non possa farlo nessun altro. Potrebbe semplicemente volere al
comando un terrestre, almeno come leader di facciata, perché darebbe al
sindacato la sensazione di essere nella sua cerchia di influenza. Fred Johnson era
APE fino al midollo, ma era un terrestre, una cosa di cui non si è mai liberato del
tutto.»
Il cameriere arrivò e prese l’ordinazione di Jim. Naomi si protese in modo da
aggirarlo e da poter vedere Bobbie mentre parlava.
«Il punto era proprio quello» disse. «Se la cosa deve funzionare, la Fascia ha
bisogno di sapere che è qualcosa di suo e non un altro mucchio di avanzi che gli
interni le elargiscono.» Il cameriere allungò la mano verso di lei, fermandosi
appena prima che le sue dita le toccassero la spalla. «La vostra birra migliore,
quale che sia» ordinò Naomi, e l’uomo si allontanò con un cenno di assenso
mentre lei tornava a rivolgersi agli altri. «In ogni caso, abbiamo buttato Michio
Pa sotto l’autobus.»
«Lei è perfetta» spiegò Holden. «Conosce tutti i giocatori presenti nella Fascia,
non ha paura di lavorare con la Terra e con Marte, ed è letteralmente l’ex
comandante della Stazione di Medina. Ammetto che lo è stata prima che
diventasse una stazione, ma ha un’effettiva familiarità con la nave. E poi
guardate il lavoro che ha svolto da quando ha rotto i rapporti con Inaros.
Coordinazione e distribuzione. Esattamente il genere di lavoro di cui stiamo
parlando.»
«Ecco,» commentò Alex «solo che questa volta ci sarà meno pirateria. Voglio
dire, supponendo che accetti.»
«Ha accettato l’incarico?» chiese Bobbie.
«Ci sta arrivando» rispose Naomi. «È stata una lunga riunione.»
«Che ne sarà di noi?» domandò Clarissa. Nella sua voce si avvertiva la paura.
Un senso di vuoto. «Cosa facciamo adesso?»
«Entriamo nel sindacato» rispose Jim. «Voglio dire, dobbiamo mettere la cosa
ai voti, qui in famiglia, ma sembra strano spingere per dare una nuova forma alle
colonie e poi non farne parte. E pare ci sia un sacco di lavoro per una buona
nave. E noi abbiamo una buona nave.»
Lo sguardo di Clarissa si spostò per un momento su Naomi, poi si distolse con
un sorriso quasi invisibile. Jim non aveva capito il senso effettivo della sua
domanda. ‘Adesso che la guerra è finita, ho ancora un posto qui con voi?’ E non
sapeva di aver risposto di sì. Aveva una genialità per presupporre le cose che la
induceva a fidarsi di lui. Naomi le porse un tovagliolo perché non fosse costretta
ad asciugarsi gli occhi con una manica.
«A me sembra che dovremmo puntare a fare da scorta alle navi coloniali»
suggerì Alex «e ad accertarci che i minerali o quello che la colonia ha da
commerciare arrivino dove sono diretti.»
«Ci sarà anche molto commercio all’interno del sistema» aggiunse Amos. «Non
siamo obbligati a oltrepassare i portali.»
«Già,» ribatté Alex «ma là fuori ci sono più pianeti di quanti riuscirò a vederne
in tutta la mia vita. Mi piacerebbe dare un’occhiata a qualcuno di essi.»
Il cameriere tornò con il gin tonic per Jim e la birra per Naomi. Quando lei
cercò di pagare risultò che il conto era già azzerato. Il cameriere le sorrise e
scosse il capo. «Offre la casa» disse. Naomi gli rivolse un cenno di
ringraziamento. Jim stava già bevendo.
Bobbie era la sola che pareva silenziosa, le mani chiuse intorno a un bicchiere.
Alex e Amos stavano raccontando a Clarissa storie relative a Nuova Terra e a
come fosse raggiungere i nuovi mondi. Jim beveva e di tanto in tanto
interloquiva, mentre il pensiero della riunione politica cominciava a sbiadire e le
sue spalle si abbassavano a mano a mano che si rilassava. Bobbie però tenne per
sé i suoi pensieri finché Naomi, dopo aver finito la seconda birra, la prese per
mano e la trasse in disparte.
«Stai bene?» le chiese.
«Sì» rispose Bobbie, in un tono che però significava no. «È solo... in realtà
questo segna la fine del progetto di terraformazione, vero? Voglio dire, lo
sapevo, ma... Non so. Cercare di far arrivare qui tutti noi sani e salvi ha
contribuito a distrarmi, ma questo accordo che stanno mettendo insieme è la
forma che le cose avranno d’ora in poi.»
«Sì» annuì Naomi. «E saranno diverse.»
«Per tutta la mia vita, cambiare Marte, farne un ecosistema capace di
sopravvivere... è sempre stata una cosa reale. Sentir parlare delle regole e delle
leggi e dei sistemi per cui questo non tornerà mai più... non so. Mi fa realizzare
che è davvero finita.»
«Probabilmente sì» confermò Naomi, ma Bobbie continuò come se non
l’avesse sentita, come se stesse dicendo qualcosa ad alta voce per la prima volta,
scoprendo i propri pensieri nel sentirli espressi dalla sua stessa voce.
«Inaros e tutti gli altri della Marina Libera, loro non stavano combattendo per i
diritti dei cinturiani o un riconoscimento politico. Combattevano per riavere il
passato, perché le cose tornassero a essere quelle che erano sempre state. Certo,
con loro al comando, forse, ma... la Terra non sarà più la casa dell’umanità.
Marte non sarà più Marte, non come lo conoscevo. E adesso perfino i cinturiani
non saranno cinturiani, diventeranno... cosa? Magnati delle spedizioni? Non ne
ho idea.»
«Nessuno ce l’ha» replicò Naomi, per indurla a continuare. La grossa marziana
non pareva neppure consapevole che stessero parlando. «Però lo scopriremo.»
«In quel mondo, non so più chi sono.»
«Neppure io. Nessuno di noi lo sa, però so che ho la mia nave, e con essa la
mia piccola famiglia.»
«Già. Questo sembra un buon piano.»
«Bene» disse Naomi, e le mise in mano un microfono. «Scegliamo una
canzone.»
Il pub si riempì maggiormente al cambio di turno, ma per una volta nessuno
parve notare molto Jim o il resto di loro. Perfino quando Naomi ottenne una
vera ovazione per quella che, in retrospettiva, doveva essere una versione molto
mal riuscita di ‘Apart Together’ di Devi Anderson, nessuno parve rendersi conto
che l’equipaggio della Rocinante fosse qualcosa di più di sei persone che
condividevano lo stesso tavolo. Era piacevole sapere che a volte poteva ancora
succedere. Entro la fine della serata perfino Clarissa salì una volta sul palco.
Risultò che aveva una bella voce, e quando ebbe finito di cantare un ragazzo
locale con un tatuaggio del Loca Griega cercò di abbordarla finché Bobbie non
gli fece capire gentilmente che era inutile provarci.
Presero la metropolitana per tornare ai moli, riempiendo da soli quasi mezza
carrozza, ancora un po’ alticci, parlando a voce troppo alta, ridendo per i
nonnulla. L’accento della Valle Mariner di Alex si accentuò e Bobbie gli fece il
verso, pungolandolo finché entrambi non suonarono come parodie di loro
stessi. Jim, il meno coinvolto nell’ilarità generale pur essendone in qualche modo
il centro, se ne stette appoggiato alla parete vibrante della carrozza, con le mani
dietro la testa e gli occhi semichiusi. Naomi non comprese davvero a cosa lei,
Jim e tutti gli altri stessero reagendo finché non arrivarono alla nave. Vedere la
Rocinante agganciata dagli ormeggi di attracco fu come cadere in un paio di
braccia familiari. Erano tutti euforici perché lo era Jim, e lui era euforico perché
per una volta aveva evitato di essere responsabile del futuro dell’intera razza
umana.
Era una cosa che sembrava giusto festeggiare.
Una volta a bordo, il gruppo si trasferì tutto insieme nella cambusa perché non
era ancora pronto a concludere la giornata. Clarissa si preparò un po’ di tè, ma
nessuno bevve altri alcolici. Tutti e sei rimasero semplicemente lì a oziare in una
cambusa progettata per servire molte più persone. Alex, seduto con la schiena
addossata alla parete, raccontò una storia su quando era al campo di
addestramento, sull’Olympus Mons, e la madre di una delle altre reclute era
venuta a lamentarsi che il sergente addestratore era troppo duro con suo figlio.
Questo indusse Bobbie a parlare di una volta in cui lei e la sua squadra avevano
sofferto tutti di avvelenamento da cibo a causa dello stesso pasto, ma il giorno
dopo si erano costretti a vicenda a prendere comunque parte all’addestramento e
poi avevano passato la giornata a vomitare nel casco. Risero tutti insieme,
condividendo parti della loro vita come non avevano mai fatto prima di venire lì.
Prima che la Rocinante diventasse la loro casa.
Dopo un po’, senza che il flusso della conversazione accennasse a rallentare,
Alex preparò per tutti pollo in salsa di arachidi e distribuì le ciotole mentre
Clarissa raccontava una storia sorprendentemente buffa riguardo all’aver preso
parte a un laboratorio di scrittura, in prigione. Naomi mangiò il pollo con una
forchetta, appoggiandosi a Jim nel farlo. La salsa non era come la facevano i
cinturiani, ma era abbastanza buona.
Sentì Jim avvicinarsi al limite della sua resistenza. Lui non disse nulla, ma
Naomi lo comprese dal suono del suo respiro e dal modo inconscio con cui si
tamburellava sulla gamba, come un bambino che cercasse di stare sveglio. Lei
stessa si sentiva esausta. Era stata una lunga giornata, e la posta in gioco era stata
elevata. Il piacevole senso di stordimento rimasto dalla permanenza nel pub
cominciava a svanire e una profonda stanchezza le pervadeva le articolazioni,
facendola sentire intontita. Non voleva però neppure che quel momento finisse,
nessuno dei momenti che aveva con quella gente, in quel posto, anche se prima
o poi dovevano finire. No, non anche se. Perché.
Perché prima o poi dovevano finire. Niente durava in eterno. Né la pace, né la
guerra. Niente.
Si alzò per prima, prendendo la propria ciotola, quella di Jim e anche quella di
Bobbie, che aveva finito di mangiare, e inserendole nel riciclatore. Si stiracchiò,
sbadigliò, poi porse la mano a Jim, che colse il suggerimento. Alex, che stava
parlando di un’esibizione musicale che aveva visto su Titano ai tempi in cui era
ancora in servizio, augurò loro la buonanotte con un cenno del capo. Naomi
pilotò Jim fino all’ascensore e poi alla loro cabina, accompagnati da qualche
risata che a tratti filtrava fino a loro, sempre più fievole e lontana ma non
assente. Non ancora.
Jim si lasciò cadere sul letto a smorzamento come una marionetta a cui
avessero tagliato i fili, si coprì gli occhi con un braccio e gemette. Sotto la luce,
sembrava di nuovo giovane. L’accenno di barba sul collo e sul lato di una
guancia era sottile e a chiazze, come se stesse crescendo per la prima volta.
Naomi ricordava il tempo in cui la prospettiva di Jim e del suo corpo era stata
per lei potente come una droga, tanto potente da spingerla a correre il rischio di
mettersi con lui. Jim non si era reso conto di che genere di balzo quello fosse
stato per lei, e probabilmente continuava a non saperlo neppure adesso. Certe
cose rimanevano segrete anche dopo essere state dette. Lui gemette di nuovo,
spostò il braccio e sollevò lo sguardo su di lei con un sorriso che esprimeva in
parti uguali gioia e sfinimento. Sfinimento per quello che avevano passato, gioia
perché era finito. E perché erano entrambi lì.
«Credi che Pa accetterà l’incarico?» domandò, in tono quasi malinconico.
«Alla fine lo farà» rispose Naomi. Un momento più tardi chiese: «Da quanto
tempo lo pianificavi?»
«L’idea del sindacato, o di Pa in particolare?»
«Pa.»
Jim scrollò le spalle. «È apparso piuttosto chiaro fin dall’inizio che avere un
terrestre a capo del sindacato non avrebbe funzionato. Pensavo che Fred
sarebbe riuscito a trovare qualcuno, quindi credo di aver cominciato a prendere
lei in considerazione più o meno allora, quantomeno in modo cosciente. Era
perfetta. Ha rotto i rapporti con la Marina Libera per poter aiutare la Fascia, una
cosa che nessun altro ha fatto, almeno non apertamente, e ha vinto ogni
combattimento in cui ha impegnato la sua gente. Credo che quelli che devono
prenderla sul serio lo faranno.»
Naomi sedette sul bordo del letto, che si spostò con il cambiamento del centro
del loro peso combinato, facendo scivolare Jim più vicino a lei di qualche
centimetro. Lui protese un braccio in un gesto di invito e Naomi si sistemò
contro di esso. «Credi che la cosa le piacerà?»
«Non lo so. Io la detesterei, ma forse è abbastanza diversa da me da trovare
qualcosa che renda accettabile il procedimento. La cosa importante è che credo
che sia una cosa che sarà brava a fare. Sfrutta i suoi punti di forza. Quantomeno,
non conosco nessuno che possa farlo meglio di lei.»
«Spero che tu abbia ragione» commentò Naomi. «Pensi davvero che tu non
avresti potuto farlo?»
«Io non sono mai stato un’alternativa possibile. C’è troppa storia. Forse un
terrestre potrà ricoprire quella carica fra due o tre generazioni, quando le cose
saranno state diverse per un po’.»
Naomi rise e spostò la testa per appoggiarla accanto alla sua. «Ma per allora
sarà successo qualcos’altro.»
«Sì, questo è vero» convenne Holden. «A breve termine, però, credo davvero
che lei sia la più adatta a quel lavoro. Sono solo contento che fosse qui. La mia
seconda scelta per quell’incarico saresti stata tu.»
Naomi si sollevò a sedere, fissandolo negli occhi per vedere se stava
scherzando. Molto, molto lontano, Amos rise abbastanza forte da far sì che gli
echi arrivassero fino a lei. L’espressione di Jim era una via di mezzo fra la
contrizione e il divertimento.
Dio, aveva detto sul serio.
«Tu avresti potuto farcela» continuò Holden. «Sei intelligente, sei una
cinturiana, la tua opposizione alla Marina Libera è buona quanto quella di Pa, se
non migliore. Hai una storia passata che non avrebbe creato problemi alla Terra
e a Marte e abbastanza contatti con la Fascia da renderti un candidato plausibile
agli occhi dei cinturiani.»
«Sai che non lo avrei fatto, vero?»
«No» replicò Jim, con una nota quasi di dolore nella voce. «So che non avresti
voluto farlo. So che lo avresti detestato. Ma se fosse stato necessario lo avresti
fatto. Se non ci fosse stato nessun altro. Troppe persone avrebbero avuto
bisogno di te perché tu potessi voltare loro le spalle.»
Naomi tornò a sdraiarsi e valutò l’idea, poi rabbrividì.
«Lo so, va bene?» aggiunse Jim. «E tu come stai?»
Naomi prese la mano del braccio su cui era sdraiata e se la passò intorno con
gentilezza come se fosse stata una coperta. Jim le aveva fatto quella domanda a
intervalli di pochi giorni, da quando la guerra era finita. Come stava? Suonava
come una domanda innocente, ma aveva un peso notevole. Aveva ucciso il suo
antico amante, i suoi vecchi amici. Desiderava con un desiderio intenso come
una sete divorante che ci fosse stato il modo di salvare suo figlio. Jim non le
chiedeva se stava bene, le chiedeva quanto stava male, e non c’era una risposta
valida per questo. ‘Porterò dentro di me questo senso di colpa e questa tristezza
per il resto della mia vita’ era vero quanto ‘Ho perso mio figlio anni fa’. La
confortava il fatto di essere ancora viva. Che lo era Jim. E Amos e Alex. Bobbie
e Clarissa.
Lei era un mostro nella stessa misura in cui lo erano Clarissa e Amos, era
qualcuno che aveva trovato un modo per salvare la piccola famiglia che si era
scelta quando tutto sembrava perduto. Le due cose non si bilanciavano, ma
coesistevano. Dolore e sollievo. Tristezza e soddisfazione. Il male e la
redenzione potevano trovare posto insieme nel suo cuore, convivere senza che
nessuno dei due prendesse il sopravvento sull’altro.
E Jim lo sapeva. Non le faceva quella domanda perché avesse bisogno di una
risposta ma perché aveva bisogno di farle sapere che per lui la risposta aveva
importanza. Tutto qui.
«Sto bene» replicò, come faceva sempre. Jim allungò l’altra mano per abbassare
le luci e Naomi chiuse gli occhi. Si sentivano molto a loro agio in quel modo.
Dal suo respiro, capiva che Jim non stava ancora dormendo, che stava pensando
a qualcosa.
Si costrinse a restare sveglia, appena un poco, aspettando. Piccoli brandelli di
sogno danzarono al limitare della sua mente e di tanto in tanto perse il contatto
con il suo corpo.
«Credi che dovremmo andare nelle colonie?» chiese infine Jim. «A me pare che
dovremmo. Voglio dire, siamo stati su Ilus. E se potessimo aprire una sorta di
pista? Renderla normale? Forse questo renderebbe più facile per Pa indurre un
maggior numero di navi cinturiane a correre il rischio.»
«Forse» rispose lei.
«L’altra cosa che potremmo fare sarebbe rimanere qui. C’è una grande quantità
di lavoro che sarà necessario svolgere anche qui. Ricostruire, rinforzare Medina
per quando Duarte tornerà, perché sai che qualsiasi cosa stia facendo finirà per
essere un problema, prima o poi. Non so dove dovremmo andare adesso.»
Naomi annuì. Jim rotolò più vicino a lei. Il calore del suo corpo e l’odore della
sua pelle erano consolanti.
«Rimaniamocene qui per un minuto» gli rispose.
Epilogo
Anna

Come con l’astronomia, la difficoltà di riconoscere il movimento della terra


risiedeva nell’abbandonare la sensazione immediata della sua fissità e del moto
dei pianeti, così nella storia la difficoltà di riconoscere l’assoggettamento della
personalità alle leggi dello spazio, del tempo e della causa risiedeva nel rinunciare
alla sensazione diretta dell’indipendenza della propria personalità. Come
nell’astronomia, tuttavia, il nuovo modo di vedere diceva ‘È vero che noi non
avvertiamo il movimento della terra, ma ammettendone l’immobilità arriviamo
all’assurdo, mentre ammettendone il movimento (che non percepiamo)
arriviamo ad alcune leggi’, così nella storia il nuovo punto di vista affermava: ‘È
vero che non siamo consapevoli della nostra dipendenza, ma ammettendo il
nostro libero arbitrio arriviamo all’assurdo, mentre ammettendo la nostra
dipendenza dal mondo esterno, dal tempo e dalla causa arriviamo ad alcune
leggi.’
Nel primo caso è necessario rinunciare alla consapevolezza di un’immobilità
irreale nello spazio e riconoscere un movimento che non è percepibile; nel
secondo è necessario rinunciare a una libertà che non esiste e riconoscere una
dipendenza di cui non siamo consapevoli.
Anna assaporò quel momento, poi chiuse la finestra di testo ed emise lo stesso
piccolo suono che pronunciava sempre quando finiva il libro. Amava la Bibbia e
si sentiva confortata ed esaltata da quello che vi trovava, ma Tolstoj occupava
un incontrastato secondo posto.
L’etimologia accettata della parola religione derivava dal termine religere, che
significava ‘legare insieme’, ma Cicerone aveva detto che la sua radice effettiva
era relegere, cioè ‘rileggere’. La verità era che le piacevano entrambe le risposte.
Ciò che univa la gente in un senso di amore e di comunità e l’impulso a tornare
a libri amati non erano poi tanto diversi per lei. Entrambi la facevano sentire più
calma, rinnovata. Nono sosteneva che questo significava che era insieme
un’estroversa e un’introversa, e in realtà Anna non aveva modo di controbattere
al riguardo.
Ufficialmente, la nave era la Abdel Rahman Badawi, gestita dalla Trachtman
Corporation della Luna, ma a bordo tutti la chiamavano Abbey. La storia
complessa della nave era scritta nelle sue ossa. I corridoi avevano forme diverse
a seconda dello stile in voga quando erano stati aggiunti o di quale fosse la nave
di recupero da cui erano stati rimossi. L’aria aveva sempre un odore di plastica
nuova che proveniva dai riciclatori. La spinta gravitazionale era mantenuta a un
tenue decimo di g per conservare massa. I ponti di carico, che adesso erano
molto al di sotto rispetto a lei, erano alti come cattedrali e pieni di tutte le cose
di cui la nuova colonia su Eudoxia avrebbe avuto bisogno... ripari, cibo,
riciclatori, due piccoli reattori a fusione e una quantità di materiali biologici e
agricoli. Su Eudoxia c’erano già altri due insediamenti e con una popolazione di
quasi mille persone esso era uno dei più popolosi fra i mondi coloniali.
Con l’arrivo della Abbey, quella popolazione sarebbe triplicata, e Anna, Nono e
Nami ne avrebbero fatto parte. La probabilità era che avrebbero vissuto il resto
della loro vita cercando di trovare un modo per coltivare cibo commestibile,
imparando a conoscere il loro nuovo, grande e problematico Eden e, si sperava,
costruendo gli spazi e le istituzioni che avrebbero modellato per sempre la
presenza dell’umanità su quel mondo. La prima università, il primo ospedale, la
prima cattedrale. Tutte cose che aleggiavano appena fuori del campo della realtà,
aspettando che Anna e gli altri coloni le realizzassero.
Non era il genere di pensionamento che Anna si era aspettata o in cui aveva
sperato. Alcune notti era assalita dal timore, non tanto per sé stessa quanto per
sua figlia. Aveva sempre pensato che Nami sarebbe cresciuta ad Abuja con i suoi
cugini, sarebbe andata all’università a San Pietroburgo o a Mosca, e adesso si
sentiva malinconica, sapendo che probabilmente Nami non avrebbe mai
sperimentato la vita in un vasto ambiente urbano, che lei e Nono non sarebbero
invecchiate insieme nella piccola casa vicino alla Zuma Rock, che quando fosse
morta le sue ceneri sarebbero state sparse su acque sconosciute. Adesso però
Abuja aveva anche qualche migliaio di bocche in meno da nutrire. Non era
niente, in confronto ai miliardi di persone che rimanevano sulla Terra, tranne
per il fatto che tutti insieme, abbastanza ‘niente’ come quello, avrebbero potuto
ammontare a qualcosa.
La sua cabina era più piccola della loro casa, con due minuscole camere da
letto, una piccola area diurna con un trasandato schermo a parete e appena
abbastanza spazio per riporre le loro cose personali. Ce n’erano venti come
quella nel loro corridoio, con un bagno in comune a un’estremità e una
caffetteria all’altra. Sul ponte c’erano quattro corridoi come quello e la nave
aveva dieci ponti. Al momento, Nono era nella cambusa del terzo ponte, a
cantare con un quartetto di bluegrass. Il più giovane dei musicisti... un uomo
esile dai capelli rossi di nome Jacques Harbinger... aveva usato quasi tutto lo
spazio personale che gli spettava per un vero dulcimer a percussione. Nami
sarebbe presto tornata dalla scuola sul ponte otto, dove Kerr Ackerman stava
usando i corsi di bordo per insegnare ai circa duecento bambini biologia e
tecniche di sopravvivenza modellate su Eudoxia. Quando entrambe fossero
rientrate e avessero cenato tutte insieme nella loro cambusa, Anna sarebbe
andata alla riunione dell’Associazione Umanistica sul ponte due, dove si era già
conquistata il ruolo di opposizione a George e Tanya Li, la giovane coppia di
atei che gestiva l’associazione. Non si ingannava inducendosi a credere che
qualcuno potesse cambiare le idee di qualcun altro, ma il viaggio era lungo e una
buona discussione filosofica serviva a passare piacevolmente il tempo. Poi
sarebbe tornata a casa per lavorare al suo sermone della settimana successiva.
Pur non rammentando dove, ricordava di aver letto qualcosa sulla vita
nell’antica Grecia, ad Atene e Corinto e Tebe, un mondo dove la casa di ognuno
non era il suo castello ma la sua stanza del dormitorio. Era spossante, ma anche
esaltante. Poteva già vedere la forma iniziale della comunità che avrebbero finito
per diventare, e gli sforzi che stava facendo adesso avrebbero avuto il loro
effetto su quello che sarebbe successo quando avessero raggiunto il nuovo
pianeta. Le decisioni che avrebbero preso nel costruire la loro municipalità
sarebbero state il seme per la città che sarebbe un giorno potuta sorgere da essa.
Qualche centinaio di anni, e il lavoro che lei adesso stava facendo per rendere il
suo gruppo gentile, considerato, posato, avrebbe potuto modellare un intero
mondo.
Tutto questo non valeva un po’ di fatica?
Sentì la voce di Nami prima che la porta si aprisse, seria e sonora come
diventava quando lei era focalizzata su qualcosa. Nami non parlava spesso fra sé,
quindi Anna suppose che qualcuno della scuola l’avesse accompagnata, e
quando la porta si aprì risultò che aveva avuto ragione.
Nami entrò nella piccola stanza comune praticamente trascinandosi dietro un
ragazzo arabo dall’aria cupa che sussultò un poco nel vedere Anna. Lei sorrise
senza mostrare i denti e senza incontrare direttamente il suo sguardo, e non si
mosse. Nell’ultimo anno aveva imparato sul come comportarsi con gente
traumatizzata più di quanto avesse mai sperato di conoscere, ed era giunta a
comprendere che perlopiù gli esseri umani erano animali domestici, come cani e
gatti, che rispondevano malamente alle minacce e bene a una fiducia costruita
con gentilezza. Non era una cosa da scienziati, ma era facile dimenticarsene.
«Lui è Saladin» disse Nami. «Abbiamo un progetto di gruppo.»
«Piacere di conoscerti, Saladin» lo salutò Anna. «Sono lieta che tu sia qui.»
Il ragazzo annuì una volta e distolse lo sguardo. Anna dovette resistere
all’impulso di indurlo ad aprirsi, di chiedergli dove viveva, chi erano i suoi
genitori, se gli piacevano i corsi. Era sempre impaziente di aiutare la gente,
anche quando essa non era pronta a lasciarsi aiutare. Forse soprattutto in quel
caso.
Chiacchierando riguardo alla teoria del grande uomo e agli arpionismi
tecnologici e al tempo di trasporto come se stesse cercando di portare avanti la
conversazione per entrambi, Nami andò nella sua stanza e ne emerse con il suo
tablet scolastico. Anna inarcò un sopracciglio. «Quello è rimasto qui per tutto il
giorno?»
«L’ho dimenticato» rispose in tono leggero Nami, poi aggiunse: «Ciao,
mamma.» E marciò fuori dalla porta.
Saladin esitò, come se fosse sorpreso di essere stato lasciato solo con un
adulto. Anna lo guardò con attenzione, ma non in modo diretto e lui salutò con
un cenno e imboccò la porta per seguire Nami. Anna attese un momento, poi
un altro e infine, pur sapendo che era una cattiva idea, si avvicinò di soppiatto
alla porta chiusa e sbirciò fuori. Nami e Saladin stavano camminando lungo lo
stretto corridoio della nave, stringendosi per poter rimanere fianco a fianco. La
mano destra di lui era in quella sinistra di lei, e per quanto Anna era in grado di
determinare Nami stava ancora parlando animatamente, quale che fosse
l’argomento, con Saladin che l’ascoltava rapito.
«Allora, qual è il tuo progetto di gruppo?» chiese Anna.
Quella sera la cena era a base di fagioli speziati e riso che somigliavano
davvero molto a quelli veri. Nono era stanca dopo le prove di canto e Anna si
aspettava che l’incontro dell’Associazione Umanistica fosse intenso e un po’
faticoso, per cui avevano tutte riportato il cibo nelle loro stanze invece di
rimanere nella cambusa. Nami sedeva a gambe incrociate, con la schiena contro
la porta, mentre Anna e Nono occupavano due delle sedie a scomparsa che si
estraevano dalla parete. La stanza era tanto piccola che anche se sedevano ai due
lati opposti le loro ginocchia quasi si toccavano. Avrebbero vissuto sulla Abbey
per quasi un anno, tanto che quando fossero infine arrivati su Eudoxia
avrebbero potuto aver dimenticato come ci si sentisse in uno spazio aperto.
«Si tratta di storia» rispose Nami.
«Un argomento vasto» osservò Anna. «Una parte particolare della storia?»
Nono le lanciò un’occhiata di sottecchi, segno che forse non si stava
mostrando disinvolta e noncurante quanto credeva di essere, ma Nami non
parve notare nulla.
«No, tutta quanta. Non parliamo di quello che è successo nella storia, ma di
ciò che la storia è. Quindi, sai...» Agitò il cucchiaio in un gesto circolare. «La
domanda è se la cosa importante riguardo alla storia siano le persone che hanno
fatto le cose, o se le stesse cose di base sarebbero successe anche se loro non
fossero vissute, perché altre persone le avrebbero fatte. È come la matematica.»
«La matematica?» ripeté Anna.
«Certo» ribadì Nami. «Due persone diverse hanno inventato il calcolo nello
stesso momento, quindi forse è lo stesso per tutto. Forse non importa chi
comanda, in una guerra, perché le cose che l’hanno fatta succedere non sono
stati i capi. Si è trattato di quanto denaro aveva la gente, o di quanto la sua terra
era adatta a produrre cibo, o qualche altra cosa. Questa è la sezione che sto
scrivendo io, mentre Saladin scrive della teoria del grande uomo, che però è
vecchia, perché parla soltanto di uomini.»
«Ah» commentò Anna, sussultando interiormente per quanto si sentiva
trasparente. «Saladin sta facendo questo?»
«Si tratta dell’idea che senza Cesare non ci sarebbe mai stato un Impero
Romano, o che senza Gesù non ci sarebbe stata la cristianità.»
«Difficile obiettare su questo» osservò Nono.
«È un corso di storia, non parliamo della parte religiosa. E Liliana sta
svolgendo la sezione sull’arpionismo tecnologico, dove la cosa che cambia è la
nostra comprensione di come fare cose come medicine e bombe nucleari e
reattori Epstein, e tutto il resto della storia è ciclico. Le stesse cose continuano a
ripetersi, ma sembrano diverse solo perché abbiamo strumenti differenti.» Nami
si accigliò. «Questa è una cosa che ancora non capisco, ma comunque non è la
mia sezione.»
«E tu cosa pensi?» domandò Anna.
Nami scosse il capo e raccolse l’ultima cucchiaiata di quasi-fagioli. «È stupido
spezzettare le cose in quel modo» rispose, con la bocca piena. «Come se fosse
una cosa oppure un’altra. Non è mai così. Succede sempre che c’è qualcuno che
fa quello che fa... sai, conquista l’Europa o decide che è una grande idea rivestire
gli acquedotti di piombo, o capisce come coordinare le frequenze radio. Non hai
mai una cosa senza l’altra. È la natura contrapposta alla crescita. Quando mai
vedi una cosa senza l’altra?»
«Una valida osservazione» convenne Anna. «Come funziona il progetto?»
Nami levò gli occhi al cielo. Oh, Dio, erano arrivati all’età degli occhi levati al
cielo. Le pareva solo ieri il tempo in cui la sua bambina non mostrava traccia di
disprezzo. «Non è così.»
«Non è così cosa?»
«Mamma, Saladin non è il mio ragazzo. I suoi genitori sono morti al Cairo e lui
è qui con sua zia e suo zio. Ha davvero bisogno di amici, e comunque piace a
Liliana, quindi anche se mi interessasse non ci proverei. Dobbiamo stare attenti.
Passeremo insieme tutta la vita, quindi dobbiamo essere molto gentili. Non è
che possiamo cambiare scuola se combiniamo un pasticcio.»
«Oh» osservò Anna. «Quella è una cosa di cui parlate a scuola?»
Nami levò di nuovo gli occhi al cielo. Due volte in una notte. «Sei stata tu,
mamma. Sei tu che continui a ripeterlo.»
«Suppongo di sì.»
Quando ebbero finito di mangiare, Nami riportò nella cambusa tutte le ciotole,
i cucchiai e i bulbi per bere, un riflesso del modo in cui era solita sparecchiare
dopo cena, a casa. Quando quella era stata la loro casa. Poi uscì per andare a
studiare con Liliana e, per quanto ne sapeva Anna, anche con Saladin. Fu poi il
turno di Nono di rimanere sola nella stanza quando Anna si avviò verso
l’ascensore e il ponte due per la riunione dell’Associazione Umanistica, toccando
con le mani entrambe le pareti del corridoio come per bilanciarsi. È necessario
rinunciare a una libertà che non esiste, pensò, e riconoscere una dipendenza di
cui non siamo consapevoli. E in qualche misura era vero.
Era però anche un errore perdere di vista tutte le vite individuali e le scelte e i
lampi di pura e semplice fortuna che avevano portato l’umanità tanto lontano.
Pensò che forse era meglio considerare la storia come una grande
improvvisazione, l’elaborazione di un qualche immenso pensiero lungo
generazioni. O un sogno a occhi aperti.
Naturalmente, il problema dell’idea della natura contrapposta alla crescita era
che poneva una scelta fra determinismi. Quella era una cosa che Nami sembrava
comprendere in modo quasi istintivo, ma Anna dovette ricordarla a sé stessa.
Forse la storia era fatta nello stesso modo. Teorie riguardo a come le cose erano
dovute succedere nel modo in cui avevano fatto solo perché, in retrospettiva, si
erano verificate in quel modo.
Tomás Myers, un uomo basso e tozzo che indossava una formale camicia
bianca, le tenne aperta la porta dell’ascensore, e lei accelerò il passo per non
sembrare un’ingrata. La cabina sobbalzò un poco nel salire.
«Vai alla riunione dell’Associazione Umanistica?» chiese lui.
«Di nuovo sulla breccia» sorrise Anna.
Mentre salivano, sentì le prime idee del sermone di quella settimana che
cominciavano a incastrarsi una con l’altra. Pensò che si sarebbe basato sull’idea
di Tolstoj di una dipendenza invisibile e sulla scelta che tutti loro avevano fatto
di imbarcarsi sulla Abbey, e di come Nami aveva detto ‘trascorreremo insieme
tutta la vita, quindi dobbiamo essere davvero gentili’.
Era vero. L’Abbey ed Eudoxia erano abbastanza piccole da rendere impossibile
ignorarlo, ma anche in mezzo ai miliardi di persone della Terra tutti
trascorrevano la loro vita insieme. Dovevano essere gentili. E comprensivi. E
attenti. Questo era stato vero nelle profondità della storia e al culmine del potere
della Terra, e avrebbe continuato a esserlo adesso che si stavano sparpagliando
verso oltre un migliaio di nuovi soli.
Forse, se avessero trovato un modo per essere gentili, le stelle sarebbero state
meglio nell’avere a che fare con loro.
Ringraziamenti

Se da un lato la creazione di qualsiasi libro è un atto meno solitario di quanto sembri,


gli ultimi anni hanno visto un enorme aumento delle persone coinvolte nell’Expanse in
tutte le sue incarnazioni, inclusa questa. Questo libro non esisterebbe senza il duro lavoro
e la dedizione di Danny e Heather Baror, Will Hinton, Tim Holman, Anne Clarke, Ellen
Wright, Alex Lencicki, e tutto il brillante staff della Orbit. Un ringraziamento speciale è
dovuto anche a Carrie Vaughn per il suo servizio come beta reader e al gruppo del
Sakeriver: Tom, Sake Mike, Non-Sake Mike, Jim-me, Porter, Scott, Raja, Jeff, Mark, Dan,
Joe, ed Erik Slaine, che ha messo tutto in moto.
La squadra di supporto dell’Expanse si è anche allargata fino a includere lo staff
dell’Alcon Entertainment e della Syfy, nonché il cast e l’equipaggio di The Expanse. I
nostri ringraziamenti e la nostra gratitudine vanno in particolare a Hallie Lambert, Matt
Rasmussen, e Kenn Fisher.
Un grazie particolare anche a Leo Tolstoj, ai traduttori Louise e Aylmer Maude e al
Progetto Gutenberg per le letture da cui trae conforto il pastore Anna.
Come sempre, niente di tutto questo sarebbe mai successo senza il sostegno e la
compagnia di Jayné, Kat e Scarlet.

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