Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Copertina
Frontespizio
Copyright
Dedica
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
Capitolo 44
Capitolo 45
Capitolo 46
Capitolo 47
Capitolo 48
Capitolo 49
Capitolo 50
Capitolo 51
Capitolo 52
Capitolo 53
Epilogo
Ringraziamenti
ISBN: 978-88-347-3364-6
Edizione ebook: maggio 2017
Titolo originale: babylon’s Ashes
© 2016 by Daniel Abraham and Ty Franck
© 2017 by Fanucci Editore
tel. 06.39366384 – email: info@fanucci.it
Indirizzo internet: www.fanucci.it
Indirizzo internet: www.fanucci.it
Proprietà letteraria e artistica riservata
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
A Matt, Hallie e Kenn,
che non ottengono nessun riconoscimento ma rendono tutto possibile.
Prologo
Namono
Le rocce erano cadute tre mesi prima, e adesso Namono poteva di nuovo
vedere un po’ di blu nel cielo. L’impatto a Laghouat – il primo dei tre che
avevano devastato il mondo – aveva scaraventato in aria tanta parte del Sahara
che lei non aveva più visto la luna o le stelle per settimane. Perfino il disco
rossiccio del sole aveva faticato a penetrare le nuvole sporche, cenere e sabbia
erano piovute su Abuja fino ad accumularsi per le strade, tingendo la sua città
dello stesso colore fra il giallo e il grigio del cielo. Mentre aiutava le squadre di
volontari a rimuovere le macerie e a prendersi cura dei feriti, aveva compreso
che la tosse che la squassava e il catarro nero che continuava a sputare erano
causati dal respirare ciò che restava dei morti.
C’erano tremilacinquecento chilometri fra Abuja e il cratere che ora occupava
lo spazio in cui un tempo c’era Laghouat, e tuttavia l’onda d’urto aveva distrutto
le finestre e fatto crollare parecchi edifici. I notiziari avevano parlato di duecento
morti in tutta la città, e di quattromila feriti. Le cliniche erano intasate e
chiedevano a chi non era in immediato pericolo di vita di restare a casa.
La griglia di alimentazione si era degradata in fretta. Non c’era luce per
alimentare i pannelli solari, e l’aria polverosa faceva guastare i parchi eolici più in
fretta di come le squadre di manutenzione riuscivano a intervenire per ripulirli.
Quando finalmente avevano avviato un reattore a fusione, a nord dei cantieri di
Kinshasa, metà della città aveva già trascorso quindici giorni al buio. La
precedenza veniva data alle serre idroponiche, agli ospedali e agli edifici
governativi, e comunque c’erano ancora continui cali di tensione, quasi tutti i
giorni. L’accesso alla rete tramite i terminali palmari era saltuario e inaffidabile, a
volte restavano tagliati fuori dal mondo per giorni di fila. Era prevedibile, disse a
sé stessa, come se in tutto quello ci fosse qualcosa che avrebbe potuto essere
previsto.
E tuttavia adesso, dopo tre mesi, c’era un’apertura in quel vasto cielo coperto.
Mentre il sole rosso scivolava verso ovest, le luci delle città sulla Luna apparvero
verso est, gemme su un campo blu. Certo, era contaminato, sporco, incompleto,
ma era blu. Nono trasse conforto da questo pensiero, mentre camminava.
Il distretto internazionale era recente, da un punto di vista storico, e pochi di
quegli edifici avevano più di cent’anni di vita. La preferenza di una generazione
precedente per vasti viali che passavano in mezzo a labirinti di strette strade
sinuose e per forme architettoniche quasi organiche contrassegnava quei
quartieri. Zuma Rock si ergeva al di sopra del tutto, un permanente punto di
riferimento. La cenere e la polvere potevano striare la pietra, ma non potevano
cambiarla. Quella era la città natale di Nono, il posto dove era cresciuta e dove
aveva riportato la sua piccola famiglia alla fine delle sue avventure. La dimora
della sua tranquilla pensione.
Scoppiò in un’amara risata che si trasformò in un accesso di tosse.
Il centro di soccorso era un furgone parcheggiato al limitare di un parco
pubblico, con il logo di una fattoria idroponica, l’icona di una foglia trilobata,
sulla fiancata. Non apparteneva alle Nazioni Unite, e neppure
all’amministrazione locale. Gli strati della burocrazia erano stati logorati
dall’urgenza della situazione. Sapeva che avrebbe comunque dovuto esserne
grata, perché c’erano posti dove quei furgoni non arrivavano neppure.
Lo strato di polvere e cenere aveva creato una crosta sui pendii delle colline,
un tempo erbosi; qua e là c’erano crepe e solchi irregolari, come le tracce lasciate
da un enorme serpente, che mostravano dove i bambini avevano cercato di
giocare comunque, ma adesso nessuno scivolava lungo quei pendii. C’era
soltanto la coda che si andava formando. Nono si mise in fila. Gli altri che
aspettavano insieme a lei avevano il suo stesso sguardo vuoto, effetto dello
shock e dello sfinimento, della fame e della sete. Il distretto internazionale aveva
vaste comunità norvegesi e vietnamite, ma quale che fosse il colore della pelle o
dei capelli, la cenere e il dolore avevano fatto di tutti loro un’unica tribù.
Il lato del furgone si aprì e la coda si agitò un poco per un senso di
anticipazione: stavano per ricevere un’altra settimana di razioni, non importava
quanto potessero essere scarse. A mano a mano che il suo turno si avvicinava,
Nono avvertì un leggero senso di vergogna al pensiero che per la maggior parte
della sua vita non aveva mai avuto bisogno delle razioni di base. Era stata uno di
quelli che prestavano aiuto agli altri, non una che ne avesse avuto bisogno.
Adesso però ne aveva.
Arrivò in testa alla coda. Aveva già visto altre volte l’uomo che distribuiva i
pacchi: aveva un volto largo e scuro, punteggiato di lentiggini nere. Le chiese il
suo indirizzo e lei lo fornì, poi l’uomo armeggiò per un momento e infine le
porse un pacco avvolto nella plastica bianca, con l’efficienza automatica
derivante dalla pratica. Nono lo prese: era spaventosamente leggero. L’uomo
incontrò il suo sguardo solo quando lei non accennò ad allontanarsi.
«Ho una moglie» disse Namono. «E una figlia.»
Un lampo di pura rabbia, violenta come uno schiaffo, accese gli occhi
dell’uomo. «Se possono far crescere l’avena più in fretta o evocare riso dall’aria,
allora mandale da noi. Altrimenti, stai bloccando la fila.»
Lei sentì le lacrime salire brucianti a colmarle gli occhi.
«Un pacco per famiglia» scattò l’uomo. «Muoviti.»
«Ma...»
«Vai!» gridò lui, schioccando le dita. «C’è gente dietro di te.»
Namono si mosse, e sentì l’uomo borbottarle dietro qualcosa di osceno,
mentre si allontanava. Le sue lacrime non erano fitte, quasi non valeva la pena di
asciugarle, ma bruciavano terribilmente.
Si infilò il pacchetto con le razioni sotto il braccio e non appena gli occhi si
furono ripresi abbastanza da permetterle di vedere, abbassò la testa e si
incamminò verso casa. Non poteva indugiare lì. C’erano altri, più disperati o con
principi meno solidi dei suoi, che si appostavano agli angoli o negli androni e
aspettavano che si presentasse l’occasione di rubare filtri per l’acqua e cibo agli
incauti. Se non avesse camminato con fare deciso, avrebbero potuto scambiarla
per una vittima. Per qualche tempo la sua mente affamata ed esausta si
intrattenne con la fantasia di combattere contro eventuali ladri, come se la
catarsi della violenza potesse portarle qualche misura di pace.
Nel lasciare le loro stanze aveva promesso ad Anna che tornando a casa si
sarebbe fermata dal Vecchio Gino per accertarsi che anche lui arrivasse al
furgone delle razioni, ma quando raggiunse la svolta tirò dritto. La stanchezza le
era già penetrata fin nel midollo, e la prospettiva di sorreggere il vecchio e di
tornare a fare la coda insieme a lui era più di quanto potesse affrontare. Avrebbe
detto di essersene dimenticata, e sarebbe stato quasi vero.
Nel raggiungere la curva che dall’ampio viale portava alla strada residenziale a
fondo cieco dove abitavano, scoprì che le sue fantasie violente si erano
modificate: gli uomini che immaginava di picchiare fino a costringerli a scusarsi
e a implorare il suo perdono non erano ladri, ma il tizio con le lentiggini che
lavorava al furgone. ‘Se possono far crescere l’avena più in fretta.’ Cosa aveva
inteso dire? Aveva forse fatto una battuta sull’usare i loro corpi come
fertilizzante? Aveva osato minacciare la sua famiglia? Chi diavolo credeva di
essere?
No, rispose una voce nella sua mente, nitida come se Anna fosse stata lì per
pronunciare quelle parole. No, era arrabbiato perché voleva fare di più per essere d’aiuto,
e non poteva. Sapere che tutto quello che puoi dare non è abbastanza è di per sé un fardello.
Tutto qui. Perdonalo.
Namono sapeva che avrebbe dovuto, ma non lo fece.
La loro casa era piccola, una mezza dozzina di stanze pressate una contro
l’altra come una manciata di sabbia umida premuta nella mano di un bambino.
Non c’era niente che fosse ben allineato, nessun angolo era perfettamente
squadrato, e questo dava allo spazio la sensazione di essere qualcosa di naturale,
come una grotta o una caverna, piuttosto che qualcosa di costruito. Prima di
aprire la porta si fermò per un momento, per sgombrarsi la mente. Il sole al
tramonto era scivolato dietro Zuma Rock, la sabbia e il fumo nell’aria
mostravano dove ampi raggi di luce fiottavano al di là di essa, dando
l’impressione che la pietra avesse un’aureola. Nel cielo sempre più scuro
spiccava un punto luminoso: Venere. Forse quella sera ci sarebbero state un po’
di stelle. Si aggrappò a quel pensiero come a una barca di salvataggio in alto
mare. Forse ci sarebbero state le stelle.
Dentro, la casa era pulita. I tappeti erano stati sbattuti, i pavimenti di mattoni
spazzati, l’aria profumava di lillà grazie alla candela aromatica che uno dei
parrocchiani di Anna aveva portato loro. Namono si asciugò le ultime lacrime.
Poteva fingere che il rossore degli occhi fosse dovuto all’aria esterna. Anche se
non le avessero davvero creduto, avrebbero potuto fingere di farlo.
«Salve!» chiamò. «C’è nessuno in casa?»
Nami lanciò uno strillo dalla camera da letto sul retro, poi si sentì il rumore dei
suoi piedi nudi sui mattoni mentre si lanciava verso la porta. La loro bambina
non era più tanto piccola, adesso arrivava all’ascella di Nono, o alla spalla di
Anna, aveva perso la gentile rotondità della fanciullezza e in lei cominciava a
fiorire la goffa bellezza da puledro dell’adolescenza. La sua pelle era di poco più
chiara di quella di Nono, i capelli erano altrettanto folti e ricci, ma aveva un
sorriso russo.
«Sei tornata!»
«Certo» rispose Nono.
«Cosa ci hanno dato?»
Namono prese il pacco bianco con le razioni e lo mise nelle mani della figlia,
chinandosi in avanti con un sorriso complice. «Perché non vai a scoprirlo e poi
vieni a dirmelo?»
Nami sorrise e si allontanò di corsa verso la cucina, come se riciclatori per
l’acqua e avena a crescita rapida fossero stati uno splendido regalo. Il suo
entusiasmo era enorme, e in parte era sincero, ma in parte serviva a dimostrare
alle sue madri che stava bene, che non dovevano preoccuparsi per lei. Così tanta
parte della loro forza – tutta la loro forza – derivava dal cercare di proteggersi a
vicenda. Nono non sapeva se questo migliorasse o peggiorasse le cose.
In camera da letto, Anna giaceva sui cuscini; uno spesso volume di Tolstoj,
Guerra e Pace, era posato accanto a lei, con la costa rovinata per essere stato letto
tante volte. La sua carnagione appariva grigiastra, il volto scavato. Nono le
sedette accanto con cautela, posandole una mano sulla pelle esposta della coscia
destra, appena sopra il punto in cui il ginocchio era stato schiacciato. La pelle
non era più calda al tatto e non era tesa come un tamburo. Quelli erano segni
positivi.
«Oggi il cielo era azzurro» le disse. «Stanotte potrebbero esserci le stelle.»
Anna sfoggiò il suo sorriso russo, lo stesso che Nami aveva ereditato dai suoi
geni. «Questo è un bene. Un miglioramento.»
«Dio sa che c’è spazio per qualche miglioramento» rispose Nono, e si pentì
dello scoraggiamento che le traspariva dalla voce nel momento stesso in cui
proferì quelle parole. Cercò di attenuare la cosa prendendo la mano di Anna
nelle sue. «Anche tu hai un aspetto migliore.»
«Niente febbre, oggi» replicò Anna.
«Per niente?»
«Ecco, solo un poco.»
«Ci sono stati molti ospiti?» continuò Nono, cercando di mantenere leggero il
tono della voce. Dopo che Anna era rimasta ferita, i suoi parrocchiani si erano
dati molto da fare, portando doni e offerte di aiuto fino a rendere impossibile ad
Anna di riposare. A quel punto Namono era intervenuta e li aveva mandati via.
Pensava che Anna lo avesse permesso soprattutto perché impediva al suo gregge
di regalare provviste di cui non poteva in realtà privarsi.
«È venuto Amiri» rispose Anna.
«Davvero? E cosa voleva mio cugino?»
«Domani terremo un cerchio di preghiera. Solo una dozzina di persone. Nami
ha aiutato a ripulire la stanza sul davanti per ospitarlo. So che prima avrei
dovuto chiedertelo, ma...»
Anna accennò alla gamba gonfia, come se la sua incapacità di salire sul pulpito
fosse stata la cosa peggiore che le era successa, e forse lo era.
«Se ti senti abbastanza in forze» replicò Namono.
«Mi dispiace.»
«Ti perdono. Di nuovo. Sempre.»
«Sei buona con me, Nono.» Poi, a voce bassa perché Nami non potesse
sentire, Anna aggiunse: «Mentre eri fuori c’è stato un allarme.»
Namono sentì il cuore che le si raggelava. «Dove colpirà?»
«Non lo farà. L’hanno distrutta. Però...»
Il silenzio si protrasse. Però ce n’era stata un’altra. Un’altra roccia scagliata giù
per il pozzo gravitazionale, verso i fragili resti della Terra.
«Non l’ho detto a Nami» continuò Anna, come se proteggere la figlia dalla
paura fosse stato un altro peccato che richiedeva il perdono.
«Va tutto bene» la rassicurò Namono. «Se sarà necessario, lo farò io.»
«Come sta Gino?»
Un ‘mi sono dimenticata’ fluttuò in fondo alla gola di Namono, ma non riuscì
a mentire. Poteva farlo con sé stessa, forse, ma gli occhi limpidi di Anna lo
vietavano. «Ci andrò adesso.»
«È importante» insistette Anna.
«Lo so. È solo che sono così stanca...»
«È per questo che è importante» ribatté Anna. «Quando arriva una crisi, è
naturale unire le forze. In quel momento è facile. È quando le cose si trascinano
per troppo tempo che dobbiamo fare lo sforzo. Dobbiamo accertarci che tutti
vedano che siamo insieme in questa situazione.»
A meno che non fosse arrivata un’altra roccia e la marina non l’avesse
intercettata in tempo. A meno che le serre idroponiche non fossero collassate
sotto lo sforzo a cui erano sottoposte e avessero finito per patire tutti la fame. A
meno che i riciclatori dell’acqua non si fossero guastati o che fosse successo un
migliaio di cose differenti, ciascuna delle quali significava la morte.
Anche allora, però, per Anna non sarebbe stato un fallimento, non finché
fossero stati tutti buoni e gentili uno con l’altro. Se si fossero aiutati a vicenda a
raggiungere la tomba, Anna avrebbe sentito di seguire la sua vocazione, e forse
avrebbe avuto ragione.
«Certamente» annuì Namono. «Volevo soltanto portarvi le provviste, prima.»
Un momento più tardi Nami entrò di corsa, stringendo un riciclatore in
ciascuna mano. «Guardate! Un’altra gloriosa settimana a bere urina e sporca
acqua piovana pulite e riciclate!» disse con un sorriso, e Namono rimase colpita
per la milionesima volta da quale perfetto distillato delle sue madri lei fosse.
Il resto del pacco conteneva dischi di avena pronti per essere cucinati,
pacchetti di qualcosa che una scritta in cinese e in hindi dichiarava essere pollo
alla Stroganoff, e una manciata di pillole. Vitamine per tutti loro, antidolorifici
per Anna. Almeno questo era qualcosa.
Namono sedette accanto ad Anna, tenendole la mano, finché le sue palpebre
non cominciarono ad abbassarsi e le guance assunsero quella morbidezza che
annunciava l’arrivo del sonno. Attraverso la finestra, gli ultimi bagliori del
crepuscolo ardevano rossi e già sfumavano nel grigio. Il corpo di Anna si rilassò
leggermente, la tensione delle spalle si allentò e i solchi sulla fronte si rilassarono.
Anna non si lamentava, ma la sofferenza per la lesione, unita allo stress
derivante dal trovarsi improvvisamente azzoppata, si erano mescolati alla paura
comune a tutti loro. Era un piacere guardare tutto questo dissolversi, anche solo
per un momento. Anna era sempre una donna attraente, ma quando dormiva
era bellissima.
Nono attese che il suo respiro si facesse profondo e regolare prima di alzarsi.
Era quasi alla porta quando Anna parlò con voce inspessita dal sonno.
«Non dimenticarti di Gino.»
«Ci vado adesso» mormorò Nono, e il respiro di Anna tornò a farsi quello
pesante del sonno profondo.
«Posso venire anch’io?» chiese Nami, quando Nono si diresse alla porta. «I
terminali non funzionano di nuovo, e qui non c’è niente da fare.»
Nono soppesò risposte come ‘Là fuori è troppo pericoloso’, oppure ‘Tua
madre potrebbe aver bisogno di te’, ma lo sguardo di sua figlia era troppo
speranzoso. «Sì, ma vai a metterti le scarpe.»
Il tragitto fino a casa di Gino fu una danza nell’ombra. I pannelli solari delle
luci di emergenza avevano incamerato abbastanza luce da far sì che la metà delle
case che oltrepassavano emanassero dall’interno un leggero chiarore. Non era
più di quello di una candela, ma era comunque più di quanto ce ne fosse stato in
precedenza. La città in sé stessa era ancora buia. Niente lampioni, niente luci sui
grattacieli, e solo qualche intenso punto luminoso lungo la struttura sinuosa
dell’arcologia, a sud.
Namono fu assalita dal ricordo improvviso di quando era stata più giovane di
quanto fosse sua figlia in quel momento, diretta sulla Luna per la prima volta.
Ricordò l’assoluta luminosità delle stelle e la nuda bellezza della Via Lattea.
Anche con lo strato di sabbia e di polvere ancora sospeso in alto nell’aria, sopra
di loro, adesso c’erano più stelle di quando l’inquinamento luminoso le aveva
soffocate. Splendeva la luna, una falce d’argento che racchiudeva una ragnatela
d’oro. Prese la figlia per mano.
Le dita della ragazza sembravano così spesse e solide, rispetto a com’erano
state un tempo. Stava crescendo, non era più la loro piccolina. Avevano fatto
così tanti progetti riguardo all’università, e al viaggiare insieme, ma adesso era
tutto svanito. Il mondo in cui avevano creduto di allevarla era scomparso.
Avvertì un senso di colpa, come se ci fosse stato qualcosa che avrebbe potuto
fare per impedire che tutto accadesse, come se in qualche modo esso fosse colpa
sua.
Nell’oscurità sempre più fitta si sentivano delle voci, anche se non tante
quanto un tempo. Prima, nel quartiere c’era stata una certa vita notturna, pub e
artisti di strada, e quella musica dura e sferragliante che era venuta di moda di
recente era risuonata nelle vie come se qualcuno stesse scaricando mattoni.
Adesso la gente andava a dormire quando calava il buio e si svegliava con le
prime luci. Colse l’odore di qualcosa che cuoceva. Era strano come perfino
l’avena bollita potesse dare un senso di conforto. Si augurò che il vecchio Gino
fosse andato al furgone, o che uno dei parrocchiani di Anna ci fosse andato per
lui, altrimenti Anna avrebbe insistito per dargli parte delle loro scorte, e lei le
avrebbe permesso di farlo.
Però non era ancora successo, ed era inutile cercarsi guai prima che
succedessero. Ce n’erano già a sufficienza lungo la strada. Quando arrivarono
alla svolta della strada del Vecchio Gino, la luce solare era ormai del tutto
scomparsa, e l’unico segno della presenza della Zuma Rock era un’area di
oscurità più profonda che si ergeva per migliaia di metri al di sopra della città. Il
suolo stesso saliva verso il cielo come un pugno proteso in un atto di sfida.
«Oh» disse Nami. Non era tanto una parola quanto un sussulto. «L’hai vista?»
«Cosa?» chiese Namono.
«Una stella cadente. Ce n’è un’altra! Guarda!»
Sì, lassù, in mezzo alle stelle tremolanti ma immobili c’era una breve scia di
luce. E poi un’altra. Mentre stavano ferme lì, mano nella mano, ne videro una
mezza dozzina, e Namono riuscì a stento a trattenersi dal tornare indietro, dallo
spingere sua figlia sotto il riparo di una porta, cercando di proteggerla. C’era
stato un allarme, ma quel che restava della marina delle Nazioni Unite aveva
intercettato quella roccia. Le chiazze di fuoco che solcavano la parte alta
dell’atmosfera potevano non essere neppure detriti di quel proiettile. O forse lo
erano.
In ogni caso, un tempo le stelle cadenti erano state qualcosa di bello, di
innocente, ma non lo sarebbero state mai più. Non per lei, o per chiunque altro
sulla Terra. Ogni chiazza di luce era un sussurro di morte, il sibilo di una
pallottola, un promemoria nitido come una voce. Tutto questo può finire, e voi non
potete fermarlo.
Un’altra scia, luminosa come una torcia, fiorì in una silenziosa palla di fuoco
grande quanto l’unghia del suo pollice.
«Quella era grande» commentò Nami.
No, pensò Namono, non lo era.
1
Pa
«Non hai nessun fottuto diritto di fare questo!» urlò il proprietario della
Hornblower, non per la prima volta. «Abbiamo lavorato per procurarci quello che
abbiamo. È nostro.»
«Ne abbiamo già discusso, signore» replicò Michio Pa, capitano della
Connaught. «La vostra nave e il suo carico vengono requisiti per ordine della
Marina Libera.»
«Quella vostra balla della missione di soccorso? Se i cinturiani hanno bisogno
di provviste, che le comprino. Quello che è mio è mio.»
«Ce n’è bisogno. Se aveste cooperato quando vi abbiamo ordinato...»
«Ci avete sparato addosso! Avete danneggiato il cono del reattore.»
«Avete tentato di evitarci. I vostri passeggeri e l’equipaggio...»
«Marina Libera un fottuto accidente! Siete ladri! Siete pirati!»
Alla sinistra di Michio il suo primo ufficiale Evans, che era anche la più
recente aggiunta alla sua famiglia, grugnì come se avesse incassato un pugno.
Quando si girò verso di lui, i suoi occhi azzurri cercarono il suo sguardo e lui
sorrise: denti candidi e un volto troppo avvenente. Era bello, e sapeva di esserlo.
Michio spense il microfono, lasciando che la sfilza di invettive continuasse a
scaturire dalla Hornblower senza ribattere, e rivolse a Evans un cenno per
chiedergli quale fosse il problema.
Evans indicò la consolle con il pollice. «È così infuriato» commentò. «Quel
povero coyo sta protestando come se avessimo ferito i suoi sentimenti.»
«Sii serio» ingiunse Michio, ma lo disse sorridendo.
«Sono serio. Fragé bist.»
«Fragile... tu?»
«Nel mio cuore» ribatté Evans, premendosi il palmo della mano sul torace
scultoreo. «Sono un ragazzino.»
All’altoparlante, intanto, il proprietario della Hornblower era veramente fuori di
sé per la rabbia. A sentire lui, Pa era una ladra e una puttana e il genere di
persona a cui non importava a chi morissero i figli, purché ricevesse il suo
stipendio al giorno di paga. Se fosse stato suo padre, l’avrebbe uccisa, invece di
permetterle di disonorare così la sua famiglia. Evans ridacchiò.
Nonostante tutto, anche Michio scoppiò a ridere. «Lo sapevi che il tuo accento
si fa più marcato quando flirti?» domandò.
«Sì» rispose Evans. «Sono solo un complesso insieme di affettazione e vizio,
però ho distolto la tua mente da lui. Cominciavi a perdere il controllo.»
«E non ho ancora finito di farlo» ribatté lei, riattivando il microfono. «Signore.
Signore! Possiamo almeno convenire sul fatto che sono un pirata che si offre di
rinchiuderla nella sua cabina durante il tragitto fino a Callisto, invece di
scaraventarla nello spazio? Questo le andrebbe bene?»
Alla radio ci fu un momento di sconvolto silenzio, poi un ruggito di furia
incoerente che si trasformò in frasi come ‘bere il tuo fottuto sangue cinturiano’ e
‘ucciderti se ci provi’. Michio sollevò tre dita. Dall’altro lato del ponte di
comando, Oksana Bush agitò una mano in segno di assenso e attivò il controllo
degli armamenti.
La Connaught non era una nave cinturiana, non originariamente. Era stata
costruita dalla Marina della Repubblica Congressuale Marziana ed era
equipaggiata con un ampio assortimento di sistemi esperti tecnici e militari.
Ormai, era in loro possesso da quasi un anno e si erano addestrati a gestirla,
dapprima in segreto. Poi, quando il giorno era giunto, l’avevano spinta nella
mischia. Adesso Michio osservò sul suo monitor la Connaught identificare e
prendere di mira sei punti del cargo nei quali un flusso di fuoco dei CDP o un
missile ben diretto avrebbero spaccato lo scafo. I laser di puntamento si
accesero, colorando alcuni punti della Hornblower, e Michio attese. Adesso il
sorriso di Evans esprimeva una minore dose di certezza: massacrare civili non
era la sua prima scelta. In tutta onestà, non sarebbe stato neppure ciò che
Michio avrebbe scelto, ma la Hornblower non avrebbe attraversato il portale per
raggiungere il pianeta alieno, quale che fosse, che intendevano colonizzare.
Adesso si trattava di negoziare soltanto i termini per decidere in che modo
questo sarebbe successo.
«Vuoi che faccia fuoco, bossmang?» chiese Busch.
«Non ancora» rispose Michio. «Guarda il reattore. Se cercano di accelerare per
andarsene da qui, allora apri il fuoco.»
«Se cercheranno di accelerare con il cono fuori uso, possiamo risparmiare le
munizioni» commentò Busch, in tono di derisione.
«C’è della gente che fa affidamento sul ricevere quel carico.»
«Lo so» ribatté Busch. Un momento più tardi aggiunse: «Hanno ancora il
reattore spento.»
Dalla radio giunsero suoni confusi. Sull’altra nave qualcuno stava gridando, ma
non contro di lei. Poi si sentì un’altra voce, poi parecchie altre che cercavano di
sovrastarsi a vicenda. Risuonò infine uno sparo, il cui rumore giunse affievolito e
tutt’altro che minaccioso attraverso la radio.
Poi risuonò una voce nuova.
«Connaught? Ci siete?»
«Siamo ancora qui» rispose Michio. «Con chi parlo, per favore?»
«Mi chiamo Sergio Plant» rispose la voce. «Facente funzioni di capitano della
Hornblower. Le offro la nostra resa, a patto che non si faccia del male a nessuno,
d’accordo?»
Evans fece un sorriso che esprimeva il comune senso di sollievo e di trionfo.
«Bessa di sentirla, capitano Plant» replicò Michio. «Accetto le vostre condizioni.
Per favore, preparatevi a essere abbordati.»
E chiuse la comunicazione.
Michio era convinta che la storia fosse una lunga serie di sorprese che in
retrospettiva apparivano poi come eventi inevitabili. E quello che era vero per
nazioni e pianeti e vasti stati corporativi, si applicava in misura minore anche al
fato di uomini e donne. Come in cielo così in terra. Com’era per l’APE, la Terra e
la Repubblica Congressuale Marziana, così era per Oksana Busch ed Evans
Garner-Choi e Michio Pa. In effetti, era così per tutte le altre anime che
vivevano e lavoravano sulla Connaught e le altre navi della Marina Libera. Era
soltanto perché lei sedeva dove sedeva, comandava come faceva e portava sulle
spalle il peso di mantenere gli uomini e le donne del suo equipaggio sani e salvi,
e dal lato giusto della storia, che le più piccole storie personali dei membri
dell’equipaggio della Connaught parevano avere più significato.
Per lei, la prima delle molte sorprese che l’avevano portata dove si trovava era
stata diventare parte del braccio militare della Fascia. Essendo una giovane
donna, ci si era aspettati che diventasse un ingegnere di sistema o
un’amministratrice su una delle grandi stazioni, e sarebbe potuto succedere, se la
matematica fosse stata più di suo gradimento. Si era iscritta all’università
superiore perché pensava fosse quello che ci si aspettava che facesse, e aveva
fallito perché non si era mai integrata. Quando i consiglieri le avevano mandato
un messaggio in cui si diceva che era stata espulsa, per lei era stato uno shock. In
retrospettiva, la cosa appariva ovvia, vista attraverso la lente chiarificatrice della
storia.
Si era inserita meglio nell’APE; o quantomeno nel braccio in cui si era arruolata.
Entro il primo mese era apparso chiaro che l’Alleanza dei Pianeti Uniti non era
tanto la burocrazia unificata della rivoluzione quanto una sorta di titolo di
franchising adottato dalle persone della Fascia convinte che una cosa del genere
dovesse esistere. Il Collettivo Voltaire si considerava parte dell’APE, ma lo faceva
anche il gruppo di Fred Johnson con base sulla Stazione di Tycho. Anderson
Dawes agiva come governatore di Ceres sotto l’emblema del cerchio spezzato, e
Zig Ochoa gli si opponeva sotto l’egida di quello stesso simbolo.
Per anni, Michio si era considerata una donna con una carriera militare, ma in
un angolo della sua mente c’era sempre stata la consapevolezza che la catena di
comando era una cosa fragile. C’era stato un tempo in cui questo l’aveva indotta
d’istinto a essere protettiva nei confronti dell’autorità – la sua autorità sui
subordinati e quella che i suoi superiori avevano su di lei, ed era stato questo a
fruttarle il posto di primo ufficiale della Behemoth. Questo l’aveva fatta finire nella
zona lenta quando l’umanità aveva attraversato per la prima volta il portale e
aveva avuto accesso all’impero di milletrecento mondi di cui era erede. Sempre
questo era costato la vita alla sua amante, Sam Rosenberg. A quel punto, la sua
fiducia nelle strutture di comando era diventata un po’ meno assoluta.
Di nuovo, in retrospettiva la cosa appariva ovvia.
Quanto alla seconda sorpresa, non avrebbe saputo dire con esattezza di cosa si
trattasse, se l’essere finita in un matrimonio collettivo o l’essere stata reclutata da
Marco Inaros, o l’aver preso possesso della sua nuova nave, con la sua missione
rivoluzionaria in seno alla Marina Libera. La vita umana aveva più punti di svolta
delle venature di un minerale aurifero, e non tutti i cambiamenti risultavano
ovvi, perfino in retrospettiva.
«Squadra di abbordaggio pronta» avvertì Carmondy, la cui voce suonava
monocorde attraverso il microfono della tuta. «Dobbiamo aprire una breccia?»
Come capo della squadra di assalto, Carmondy apparteneva tecnicamente a
una branca di comando diversa da quella di Michio, ma si era sempre rimesso
alle sue decisioni da quando lui e i suoi soldati erano saliti a bordo. Aveva
vissuto su Marte per alcuni anni, non faceva parte del matrimonio multiplo che
formava il nucleo dell’equipaggio della Connaught, ed era abbastanza
professionale da accettare la sua condizione di outsider. Questa cosa di lui le
piaceva, anche se era quasi l’unica.
«Cerchiamo di essere gentili» replicò Michio. «Se cominciano a spararci
addosso, fai quello che deve essere fatto.»
«Capito» rispose Carmondy, poi cambiò canale.
Adesso entrambe le navi fluttuavano inerti, quindi Michio non poteva rilassarsi
sul sedile a smorzamento. Se avesse potuto, lo avrebbe fatto.
Quando si era diffusa la notizia che la Marina Libera stava assumendo il
controllo del sistema e che il portale dell’anello era chiuso al traffico, la flotta di
navi coloniali diretta verso i nuovi mondi si era trovata di fronte a una scelta. Se
si arrendeva e consegnava le scorte di provviste perché venissero ridistribuite
alle stazioni e navi che più ne avevano bisogno, l’equipaggio poteva conservare
la nave. Se cercava di fuggire perdeva questa possibilità.
La Hornblower, come chissà quante altre, aveva fatto i suoi conti e aveva deciso
che valeva la pena di correre il rischio. Avevano spento il transponder, girato la
nave e accelerato disperatamente, per poco. Poi si erano girati, avevano
accelerato di nuovo, fatto una nuova rotazione e accelerato. Questa era una
strategia chiamata hotaru, che consisteva nel rendersi visibili solo per un
momento per poi occultarsi, nella speranza che la vastità dello spazio offrisse un
nascondiglio sicuro finché la situazione politica non fosse cambiata. Quelle navi
avevano cibo e scorte destinate a durare per anni agli aspiranti coloni, e la vastità
del sistema era tale che se fossero riuscite a non farsi individuare appena entrate,
trovarle in seguito avrebbe potuto essere un lavoro lungo più di una vita.
Le emanazioni dei propulsori della Hornblower erano state individuate dai
sistemi della Marina Libera su Ganimede e su Titano. La cosa che Michio
detestava di più era che l’inseguimento li aveva portati fuori del piano
dell’eclittica: la vasta maggioranza dell’eliosfera solare si estendeva al di sopra e
al di sotto del sottile disco dove i pianeti e la cintura degli asteroidi ruotavano
nelle loro orbite, e Michio aveva una superstiziosa avversione per quelle
sconfinate distese di nulla che, nella sua mente, incombevano al di sopra e al di
sotto della civiltà umana.
Il portale dell’anello e lo spazio irreale al di là di esso potevano essere più
strani – erano più strani –, ma quel disagio nel viaggiare al di fuori dell’eclittica la
tormentava da quando era bambina, faceva parte della sua personale mitologia
ed era foriero di sfortuna.
Regolò il suo monitor in modo che trasmettesse le immagini riprese dalle
videocamere della squadra di abbordaggio e trasmettesse una musica sommessa.
La Hornblower le apparve vista da venti diversi punti prospettici, mentre arpe e
tamburi suonati con le dita cercavano di rilassarla. All’interno della camera di
decompressione c’era un terrestre dalla pelle scura che teneva le braccia allargate.
Una mezza dozzina di videocamere era puntata su di lui, e l’immagine
permetteva di vedere la canna delle armi. Le altre immagini si spostavano di
continuo, cercando eventuali movimenti periferici o provenienti dall’esterno
della nave. L’uomo allungò una mano e usò un appiglio per girarsi, mettendo le
mani dietro la schiena per farsi legare. Quella manovra fu eseguita con una
perizia tale da dare a Michio l’impressione che il capitano Plant, se si trattava di
lui, fosse già stato detenuto in precedenza.
La squadra di abbordaggio avanzò all’interno della nave, e le immagini e
l’attenzione si spostarono lungo i corridoi, in gruppi. Ciò che su uno schermo
appariva come un movimento si trasformava in una figura su un altro. Quando
raggiunsero la cambusa, vi trovarono l’equipaggio della Hornblower, schierato su
varie file, con le braccia protese e pronto ad accettare qualsiasi fato la Connaught
gli avesse riservato. Nonostante le dimensioni minime che le singole
inquadrature dovevano avere per rientrare tutte sul suo monitor, Michio vide lo
strato lucente delle lacrime che si spargeva sul volto dei prigionieri: maschere di
dolore fatte di soluzione salina e tensione di superficie.
«Staranno bene» disse Evans. «Esá? È il nostro lavoro, giusto?»
«Lo so» rispose Michio, lo sguardo fisso sullo schermo.
La squadra di abbordaggio passò attraverso tutti i ponti, assumendone il
controllo, dando prova di una coordinazione che la faceva apparire come un
unico organismo dotato di venti occhi. La consapevolezza di gruppo della
professionalità e dell’addestramento. Il ponte di comando appariva tenuto male.
Un terminale palmare e un bicchiere a bulbo che fluttuavano nell’aria erano stati
risucchiati in una presa dell’aria, e in assenza della spinta gravitazionale che li
coordinasse, i sedili a smorzamento avevano assunto un assortimento di
angolazioni. Nel complesso, le ricordava vecchi video che aveva visto relativi a
naufragi, sulla Terra. La nave coloniale stava annegando nel vuoto senza fine.
Sapeva che Carmondy l’avrebbe chiamata ancor prima che lui lo facesse, e
abbassò il volume della musica. La richiesta di comunicazione giunse come un
delicato segnale sonoro.
«Abbiamo assunto il controllo della nave, capitano» riferì Carmondy. Due dei
suoi uomini lo stavano guardando mentre parlava, quindi Michio vide le sue
labbra e la mascella formare le parole mentre le sentiva. «Nessuna resistenza e
nessun problema.»
«Ufficiale Busch?» disse Michio.
«I loro firewall sono già abbassati» riferì Oksana. «Toda y alles.»
Michio annuì, più rivolta a sé stessa che a Carmondy. «La Connaught ha il
controllo dei sistemi della nave nemica.»
«Disponiamo un perimetro di sorveglianza e mettiamo in sicurezza i
prigionieri. Predisposto controllo automatico.»
«Capito» replicò Michio, poi si rivolse a Evans: «Indietreggiamo quanto basta
per essere al di fuori del raggio d’esplosione, se dovesse saltare fuori che hanno
qualche bomba nucleare nascosta nel silo del grano.»
«Provvedo» annuì Evans.
I propulsori di manovra le fecero cambiare posizione sotto le cinture di
sicurezza, anche se si trattò di meno di un decimo di g perché i propulsori
rimasero in funzione per una manciata di secondi. Prendere cose che altre
persone ritenevano di avere il diritto di conservare per sé era un lavoro
pericoloso. Naturalmente la Connaught avrebbe vegliato sulla squadra di
abbordaggio, controllandone le pulsazioni con dita delicate, e in aggiunta a
questo Carmondy l’avrebbe contattata ogni mezz’ora secondo un vecchio e
collaudato protocollo. Se avesse mancato di contattarla, Michio avrebbe
trasformato la Hornblower in una nuvola di gas roventi a titolo di ammonimento
per la nave successiva, e qualche migliaio di persone su Callisto, Io ed Europa
avrebbero dovuto sperare che altre missioni di sequestro della Marina Libera
avessero un esito migliore.
La Fascia si era finalmente liberata dal giogo dei pianeti interni. Avevano il
possesso della Stazione di Medina, al centro dei portali dell’anello, possedevano
la sola marina funzionante in tutto il sistema solare e avevano la gratitudine di
milioni di cinturiani. A lungo termine, quella era la più grande dichiarazione di
indipendenza e di libertà che la razza umana avesse mai fatto. A breve termine,
era compito suo provvedere a che la vittoria non li facesse morire tutti di fame.
Nel corso dei successivi due giorni, Carmondy e i suoi uomini avrebbero
provveduto a rinchiudere gli aspiranti coloni su ponti messi in sicurezza, dove
avrebbero potuto viaggiare tranquilli fino ad acquisire un’orbita stabile intorno a
Giove, poi avrebbero effettuato un inventario completo di ciò che avevano
conquistato prendendo la Hornblower. Una volta fatto questo, ci sarebbe voluta
ancora una settimana per finire di installare propulsori di recupero, e in quel
tempo la Connaught sarebbe rimasta di guardia, mentre Michio avrebbe avuto ben
poco da fare a parte scrutare il vuoto in cerca di altri profughi.
Non era una cosa a cui guardasse con anticipazione, ed era certa che lo stesso
valesse per gli altri membri del suo matrimonio collettivo. Tuttavia, qualcosa di
più di questa scarsa anticipazione trasparve dalla voce di Oksana quando le si
rivolse.
«Bossmang. Abbiamo una conferma da Ceres.»
«Bene» rispose Michio, con un’inflessione da cui si capiva che aveva colto il
messaggio implicito, quale che fosse. Oksana Busch era sua moglie quasi da
quando il gruppo si era formato, e ciascuna conosceva bene gli stati d’animo
dell’altra.
«Ho anche qualcos’altro. Un messaggio da Lui in persona.»
«Cosa vuole Dawes?» chiese Michio.
«Non Dawes. Il pezzo grosso.»
«Inaros? Fammi sentire.»
«È criptato e destinato solo al capitano» replicò Oksana. «Se vuoi, posso
reindirizzarlo sul terminale della tua cabina...»
«Fammelo sentire, Oksana.»
Marco Inaros apparve sul monitor. A giudicare da come i capelli gli
incorniciavano il volto, doveva essere su Ceres oppure in accelerazione. Lo
sfondo che si scorgeva intorno a lui non era tale da permettere di determinare se
era su una nave oppure in un ufficio. Il suo sorriso era affascinante e gli
illuminava i caldi occhi scuri. Michio sentì i battiti che le acceleravano
leggermente, e disse a sé stessa che si trattava di timore e non di attrazione, e
perlopiù era vero. Inaros però era un bastardo carismatico.
«Capitano Pa» disse Marco. «Sono stato lieto di sapere che hai preso la
Hornblower senza problemi. È un’altra prova della tua abilità. Abbiamo avuto
ragione ad affidarti il comando delle operazioni di sequestro. Le cose sono
andate tanto bene che siamo pronti a passare alle fasi successive del nostro
piano.»
Michio lanciò un’occhiata a Evans e Oksana. Lui si stava tormentando la
barba, e lei si sforzava di non guardare nella sua direzione.
«Vogliamo che porti la Hornblower direttamente a Ceres» continuò Marco.
«Prima di questo, ho indetto una riunione limitata alla cerchia interna: tu, io,
Dawes, Rosenfeld, Sanjrani. Alla Stazione di Ceres.» Il suo sorriso si accentuò.
«Adesso che gestiamo noi il sistema, ci sono alcuni cambiamenti che dovremmo
apportare, no? Secondo la Pella, potrai essere su Ceres fra due settimane. Mi farà
piacere vederti di persona.»
Eseguì con precisione il saluto della Marina Libera che lui stesso aveva
inventato, poi lo schermo si spense e Michio trovò difficoltà a fare chiarezza nel
misto di confusione, angoscia e sollievo da cui si sentiva pervasa. Veder
cambiare la sua missione in quel modo, tanto in fretta e con così poche
spiegazioni, la lasciava spiazzata, e partecipare a una riunione della cerchia
interna continuava a trasmetterle un po’ di quel senso di pericolo che la cosa
aveva emanato prima che la Marina Libera annunciasse la sua esistenza. Anni
passati a muoversi nell’ombra lasciavano abitudini mentali e sensazioni di cui era
difficile liberarsi, anche se avevano vinto. Se non altro, almeno, sarebbero
tornati nel piano dell’eclittica, invece di trovarsi lassù nell’oscurità, dove
succedevano cose pericolose. Brutte cose.
Cose, commentò una piccola voce nella sua testa, come essere convocata per una
riunione inaspettata.
«Due settimane?» chiese.
«È possibile» rispose Busch, quasi prima che avesse finito di parlare. Aveva già
eseguito una simulazione. «Però richiederà un’accelerazione elevata, e non
potremo aspettare la Hornblower.»
«A Carmondy la cosa non piacerà» commentò Pa.
«E cosa può dire?» ribatté Oksana. «L’ordine viene da Lui in persona.»
«Infatti» annuì Michio.
Evans si schiarì la gola. «Allora andiamo?» domandò.
Michio sollevò il pugno. Sì. «Si tratta di Inaros» disse, ponendo fine
all’imminente discussione invocando il suo nome.»
«Bene. Bien» assentì Evans, ma il suo tono di voce diceva qualcosa di diverso.
«C’è qualcosa che non va?» chiese Pa.
«Solo che non è la prima volta che i piani vengono cambiati» ribatté Evans, il
volto aggrottato dalla preoccupazione. Quell’espressione lo rendeva meno
avvenente, ma lui era il suo marito più recente, quindi non glielo fece notare. Gli
uomini avvenenti potevano essere così fragili...
«Continua» disse invece.
«Ecco, c’è stata quella cosa del denaro con Sanjrani. E il primo ministro
marziano ha finito per arrivare salvo sulla Luna quando mezza Marina Libera
stava cercando di farlo fuori. E ho sentito dire che abbiamo cercato di uccidere
sia Fred Johnson sia James Holden, che però sono ancora entrambi vivi e liberi.
Tutto questo mi suscita degli interrogativi.»
«Per esempio, come il fatto che forse Marco non è infallibile quanto sostiene
di essere?» domandò Michio.
Per un momento Evans non rispose, e lei pensò che forse non lo avrebbe
fatto. «Qualcosa del genere» ammise infine. «Ma anche così, pensieri del genere
danno la sensazione che le cose possano farsi difficili, no?»
«Qualcosa del genere» annuì Michio.
2
Filip
Non c’era nessuno che lui odiasse più di James Holden. Holden, il pacificatore
che non portava mai la pace. Holden, il campione della giustizia che non aveva
mai sacrificato niente per la giustizia. James Holden, che se la faceva con i
marziani e i cinturiani – con una cinturiana – e si muoveva per il sistema come se
questo lo rendesse migliore di tutti gli altri. Neutrale e al di sopra delle parti,
mentre i pianeti interni riversavano le risorse dell’umanità sui milletrecento
nuovi pianeti e lasciavano i cinturiani a morire. Che, contro ogni probabilità,
non era morto con la Chetzemoka. Fred Johnson, il terrestre che si era
trasformato in un nativo e aveva cominciato a parlare per conto della Fascia, si
meritava il secondo posto. Il Macellaio della Stazione di Anderson, che si era
fatto una carriera massacrando cinturiani innocenti e l’aveva portata avanti
trattandoli tutti con condiscendenza e pilotandoli lungo un arco che li portava
alla morte culturale e individuale. Per questo, meritava odio e disprezzo.
Tuttavia, non era a causa di Johnston che la madre di Filip era morta, e per
questo era Holden – James pinché Holden – a meritare il primo posto.
Erano passati mesi da quando Filip aveva picchiato contro il portello interno
della camera di decompressione mentre sua madre, con la mente distorta da
troppo tempo vissuto alla presenza di Holden, si lanciava nello spazio insieme a
Cyn. Morti stupide. Inutili. Ed era questo, come diceva a sé stesso, che rendeva
la cosa tanto dolorosa. Non era necessario che lei morisse, e tuttavia aveva scelto
di farlo. Si era fratturato una mano nel tentare di fermarla, ma non era servito a
niente. Naomi Nagata aveva scelto una brutta morte nel vuoto piuttosto che
vivere con quella che era la sua vera gente, e questa era la prova del potere che
Holden aveva avuto su di lei, di quanto profondamente le avesse fatto il lavaggio
del cervello, e di quanto la sua mente fosse stata debole fin dall’inizio.
Non aveva detto a nessuno, sulla Pella, che continuava a sognare di questo
ogni notte: la porta chiusa, la certezza che dall’altra parte ci fosse qualcosa di
prezioso – qualcosa di importante – e il lancinante senso di perdita perché non
riusciva ad aprire quella porta. Se gli altri avessero saputo quanto questo lo
tormentava, lo avrebbero considerato un debole, e suo padre non aveva posto
per uomini che non erano in grado di fare la loro parte. Neppure se si trattava di
suo figlio. Filip aveva preso il suo posto come cinturiano e membro della Marina
Libera dopo aver vissuto su una stazione, da ragazzo. Adesso aveva quasi
diciassette anni, aveva contribuito a distruggere gli oppressori, sulla Terra, e la
sua infanzia apparteneva al passato.
La Stazione di Pallas era una delle più antiche della Fascia. Là c’erano state le
prime miniere e, dopo di esse, le prime raffinerie. Erano poi state erette nuove
strutture, perché quella era la base industriale, e per questo era più facile usare le
vecchie presse e i separatori a rotazione, mai smantellati, come capacità di
riserva. Per abitudine, Pallas non aveva mai avuto una gravità artificiale. Quella
poca che possedeva era quella naturale dovuta alla microgravità della sua massa
– il due percento della gravità terrestre di un g – ed era poco più di una
direzione persistente di fluttuazione. La stazione si muoveva rapida al di sopra e
al di sotto del piano dell’eclittica, quasi stesse cercando di aprirsi a gomitate la
strada fuori del sistema solare. Ceres e Vesta erano più grandi e popolose, ma il
metallo per il rivestimento delle navi e per i reattori, per i ponti delle stazioni e i
container da spedizione, per gli armamenti di cui erano dotate le navi liberate
della Marina Libera e per i proiettili che sparavano proveniva tutto da lì. Se
Ganimede era il granaio della Fascia, Pallas era la sua fucina.
Aveva quindi senso che la Marina Libera passasse di lì nel suo viaggio
ininterrotto in giro per il sistema liberato e che si accertasse di non lasciarsi
indietro nessuna risorsa.
«S’yahaminda, que?» chiese il capitano del porto, fluttuando all’estremità più
ampia della sala riunioni. Era una stanza cinturiana, senza tavoli o sedie e con
un’architettura in cui ben pochi erano i riferimenti all’alto o al basso. Filip
pensava che desse la sensazione di essere a casa, che fosse autentica in un modo
in cui gli spazi progettati dai marziani non avrebbero mai potuto essere.
Lo stesso valeva per il capitano del porto. Il suo corpo era più lungo di quello
di qualcuno che avesse trascorso tutta la sua infanzia anche solo in un ambiente
con una gravità bassa o intermittente. La sua testa era più larga rispetto al corpo
di quella di Filip, di Marco o di Karal, e l’occhio sinistro era latteo e cieco perché
perfino i cocktail di farmaci che rendevano possibile la vita umana in assenza di
gravità non erano stati sufficienti a impedire la morte dei capillari. Era il genere
di uomo che non avrebbe mai potuto tollerare di vivere sulla superficie di un
pianeta anche per un breve periodo di tempo. Costituiva il punto più estremo
dell’arco fisiologico cinturiano, ed era esattamente una di quelle persone per la
cui protezione e rappresentanza esisteva la Marina Libera.
Ed era probabilmente per questo che adesso appariva confuso e tradito.
«È un problema?» replicò Marco, agitando le mani nel gesto equivalente a una
scrollata di spalle. Il modo in cui lo disse fece apparire l’atto di scaricare nel
vuoto il contenuto del magazzino come una banale richiesta di tutti i giorni. Filip
inarcò le sopracciglia per adeguarsi all’incredulità di suo padre, ma Karal si limitò
ad accigliarsi e a tenere una mano sull’arma che portava al fianco.
«Per es esá mindan hoy» disse il capitano.
«So che è tutto, ed è proprio questo il punto» ribatté Marco. «Finché sarà tutto
qui, Pallas sarà un bersaglio per i pianeti interni. Metti tutto quello che hai nei
container, sparali nel vuoto, e soltanto noi conosceremo i loro vettori. Li
rintracceremo e recupereremo quello che ci serve, quando ci serve. Non si tratta
solo di tenerlo fuori della loro portata, ma di dimostrare che i magazzini della
stazione sono vuoti ancor prima che loro pensino di allungare le mani, sì?»
«Per mindan...» cominciò il capitano del porto, sbattendo le palpebre con aria
angosciata.
«Sarai pagato per tutto quanto» garantì Filip. «Con ottimi buoni della Marina
Libera.»
«Già, ottimi» commentò il capitano. «Aber...»
Il moto delle sue palpebre si fece più rapido e lui distolse lo sguardo da Marco,
come se l’ammiraglio della prima vera forza armata dei cinturiani stesse
fluttuando mezzo metro più a sinistra di dove in effetti si trovava. Si umettò le
labbra.
«Aber...?» lo incitò a proseguire Marco, imitando il suo accento.
«Classificatori di rotazione v’reist neue ganga, sì?»
«Se hai bisogno di nuove parti, allora comprale» replicò Marco, la cui voce
assunse una sfumatura minacciosa.
«Aber...» il capitano di porto deglutì a fatica.
«Tu però eri solito comprare dalla Terra,» proseguì Marco «e il nostro denaro
non viene accettato laggiù.»
Il capitano di porto sollevò il pugno in segno di assenso.
Il sorriso di Marco era gentile e aperto. Comprensivo. «Laggiù non accettano
più il denaro di nessuno. Adesso compri nella Fascia. Solo nella Fascia.»
«Nella Fascia non si fabbricano buone componenti» protestò il capitano in
tono lamentoso.
«Fabbrichiamo le componenti migliori che ci siano» dichiarò Marco. «La storia
è andata avanti, amico mio, cerca di tenerti aggiornato. E imballa tutto quello
che c’è qui per l’espulsione nel vuoto, sa sa?»
Il capitano del porto incontrò il suo sguardo e sollevò di nuovo il pugno in un
gesto di assenso. Del resto, non aveva scelta. Il vantaggio di essere al comando
di tutte quelle armi era che per quanto chiedessi le cose con gentilezza, i tuoi
erano comunque sempre ordini. Marco si spinse via, il suo tragitto deviato dalla
gravità estremamente lieve di Pallas, poi fermò il proprio movimento afferrando
un appiglio quando arrivò accanto al capitano del porto e lo abbracciò. Il
capitano non ricambiò l’abbraccio: sembrava un uomo che stesse trattenendo il
respiro e sperando che qualcosa di pericoloso non si accorgesse di lui nel
passargli accanto.
I corridoi e i passaggi che collegavano l’ufficio del capitano del porto ai moli
erano un misto di antico rivestimento in ceramica e quello più nuovo in un
intreccio di silicato di carbonio. Questo rivestimento a intreccio – uno dei primi
materiali nuovi fabbricati dopo l’apparizione della protomolecola – costituiva un
balzo in avanti di alcune generazioni nel campo della chimica fisica ed emanava
una strana luminosità arcobaleno mentre vi fluttuavano accanto, come petrolio
sulla superficie dell’acqua. Si supponeva che fosse più resistente della ceramica e
del titanio, più duro e più flessibile, ma nessuno sapeva come avrebbe retto al
passare del tempo. Tuttavia, se ci si poteva fidare dei rapporti che giungevano
dagli altri mondi, sarebbe probabilmente sopravvissuto di almeno un ordine di
grandezza alle persone che lo avevano fabbricato. Supponendo, naturalmente,
che lo stessero fabbricando nel modo giusto, il che era difficile da sapere.
La navetta della Pella li stava aspettando, con Bastien assicurato al sedile a
smorzamento del pilota.
«Bist bien?» chiese, quando Marco sigillò la camera di pressurizzazione alle loro
spalle.
«Va bene nella misura in cui potevamo sperare che andasse» rispose Marco,
guardandosi intorno nella navetta. C’erano sei sedili, senza contare la postazione
da pilota di Bastien. Karal si stava assicurando a uno di essi, Filip a un altro, ma
Marco fluttuò lentamente fino al ponte della navetta, con i capelli che gli si
adagiavano sulle spalle e sollevò il mento con aria interrogativa.
«Rosenfeld è già andato» rispose Bastien. «È sulla Pella da tre ore.»
«Ma davvero» commentò Marco, con una sfumatura tagliente nella voce che
Filip fu forse il solo a cogliere. Poi prese posto su un sedile e affibbiò le cinture.
«Questo è un bene. Andiamo a raggiungerlo.»
Bastien richiese il permesso di decollo al sistema di controllo portuale, più per
abitudine che perché fosse necessario. Marco era il capitano della Pella,
l’ammiraglio della Marina Libera, e la sua navetta aveva la precedenza su tutto il
resto del traffico. Bastien però eseguì lo stesso la procedura, poi verificò i sigilli e
il controllo ambientale per quella che era forse la decima volta. Per chiunque
fosse cresciuto nella Fascia, controllare aria e acqua, e i sigilli di una nave e delle
tute era automatico come respirare, qualcosa a cui non si pensava neppure, che
succedeva e basta. La gente che non viveva in quel modo tendeva a smettere
presto di dare il proprio contributo al patrimonio genetico comune.
Tutti si sentirono leggermente più pesanti quando la navetta si mise in
movimento, poi gli ammortizzatori dei sedili sibilarono all’unisono quando
Bastien attivò i propulsori di manovra. L’accelerazione non raggiungeva neppure
un quarto di g, e tuttavia arrivarono alla Pella nell’arco di pochi minuti.
Effettuarono il ciclo della camera di pressurizzazione – la stessa in cui Naomi
aveva scelto di morire – poi si ritrovarono a fluttuare nell’aria familiare della
Pella.
Rosenfeld Guoliang li stava aspettando.
Per tutta la vita di Filip fin da quando riusciva a ricordare, la Fascia aveva
significato l’Alleanza dei Pianeti Esterni, e l’APE aveva significato le persone che
per lui avevano maggiore importanza. La sua gente. Era soltanto quando era
cresciuto e avevano cominciato a permettergli di ascoltare quando suo padre
parlava con altri adulti che la sua comprensione dell’APE si era fatta più
profonda, aveva acquisito maggiori sfumature, e la parola che definiva la sua
gente era diventata ‘alleanza’. Non ‘repubblica’, non ‘governo unitario’, non
‘nazione’. Alleanza. L’APE era un vasto assortimento di gruppi diversi che si
formavano, si disgregavano e tornavano a formarsi, tutti tacitamente concordi
sul fatto che, quali che fossero i loro dissensi, erano comunque uniti contro
l’oppressione da parte dei pianeti interni. Sotto la bandiera dell’APE c’erano
alcuni fra i più grandi portabandiera – la Stazione di Tycho, sotto Fred Johnson,
e la Stazione di Ceres controllata da Anderson Dawes, ciascuna con una sua
milizia; c’erano i provocatori ideologici del Collettivo Voltaire, i criminali
dichiarati del Ramo d’Oro, e la non violenta e collaborazionista Maruttuva Kulu.
Per ciascuna di quelle, però, c’erano dozzine, o forse centinaia, di organizzazioni
e associazioni più piccole, di cabale e di società di reciproco interesse. Quello
che le univa era la costante oppressione economica e militare da parte della
Terra e di Marte.
La Marina Libera non era l’APE e non era stata destinata a esserlo. Essa era la
parte più forte del vecchio ordine, forgiata per diventare una forza che non
aveva bisogno di un nemico che la definisse. Era la promessa di un futuro in cui
il giogo del passato non sarebbe stato soltanto rimosso, ma spezzato.
Questo però non significava che era libera dal passato.
Rosenfeld era un uomo esile che riusciva ad avere una postura cadente anche
fluttuando. La sua pelle era scura e stranamente granulosa, gli occhi erano
profondamente infossati, sfoggiava sia il tatuaggio del cerchio spezzato dell’APE
sia quello di una V affilata come un coltello proprio del Collettivo Voltaire,
aveva un sorriso luminoso e spontaneo, ed emanava una sensazione di violenza
a stento contenuta. Ed era anche il motivo per cui il padre di Filip era andato su
Pallas.
«Marco Inaros?» chiese Rosenfeld, spalancando le braccia. «Guarda che cosa
hai fatto, coyo mis!»
Marco si lanciò in avanti nel suo abbraccio e vorticò con lui mentre si
stringevano a vicenda, per poi rallentare quando si separarono. Qualsiasi
diffidenza Marco avesse nutrito nei confronti di Rosenfeld era scomparsa. O
meglio, no, non era scomparsa, ma era stata accantonata dove solo Filip e Karal
potevano percepirla, in modo che il piacere che lui provava per quel
ricongiungimento potesse essere puro.
«Hai un bell’aspetto, vecchio amico» commentò Marco.
«Non è vero,» ribatté Rosenfeld «ma apprezzo la bugia.»
«Dobbiamo trasferire a bordo i tuoi uomini?»
«Già fatto» rispose Rosenfeld. Filip lanciò un’occhiata a Karal, cogliendo il
lieve incurvarsi contrariato della sua bocca. Rosenfeld era un amico, un alleato,
uno della cerchia interna della Marina Libera, ma non avrebbe dovuto poter
portare la sua guardia privata a bordo della nave in assenza di Marco.
Dopotutto, la Pella era l’ammiraglia della Marina Libera, e costituiva una
tentazione. Marco e Rosenfeld allungarono entrambi una mano e rallentarono la
loro rotazione afferrandosi a un appiglio che sporgeva dagli armadietti; poi,
sempre tenendosi sotto braccio, si spinsero nel corridoio e nella nave, seguiti da
Filip e da Karal.
«Dovremo accelerare brutalmente per arrivare a Ceres in tempo per la
riunione» commentò Marco.
«Colpa tua. Avrei potuto prendere la mia nave.»
«Non hai una nave armata.»
«Ho passato tutta la vita sulle navi minerarie...»
Anche se poteva vedere soltanto la nuca di suo padre, Filip intuì dal suo tono
che stava sorridendo.
«Quella è stata tutta la tua vita fino ad ora. Abbiamo cambiato le regole del
gioco e non possiamo permettere che il comando supremo si sposti senza
protezione. Perfino qui, non tutti sono dalla nostra parte. Non ancora.»
Raggiunsero l’ascensore che correva lungo tutta la nave, lo aggirarono e
proseguirono nell’aria a testa in avanti, in direzione dei ponti dell’equipaggio.
Karal si guardò indietro, verso il ponte operativo e quello di volo, come per
accertarsi che nessuna delle guardie di Rosenfeld fosse alle loro spalle.
«È per questo che ho aspettato» ribatté Rosenfeld. «Sono un bravo piccolo
soldato, mé. È un vero peccato che Johnson e Smith siano arrivati sani e salvi
sulla Luna. Ne abbiamo fatto fuori solo uno su tre?»
«La Terra era quella che importava» ribatté Marco. Sárta apparve davanti a loro
e li oltrepassò con un cenno di saluto, fluttuando in direzione del ponte
operativo. «La Terra è sempre stata il bersaglio primario.»
«Ecco, adesso il segretario generale Gao è con i suoi dèi, e spero che sia morta
urlando...» Dopo aver parlato, Rosenfeld mimò l’atto di sputare da un lato.
«Però questa Avasarala che ha preso il suo posto...»
«È una burocrate» disse Marco, mentre si spingevano oltre un angolo e nella
sala mensa. I tavoli e le panche fissati al plancito, l’odore del cibo militare
marziano, i colori che fino a poco tempo prima erano stati la bandiera del
nemico, tutto era in netto contrasto con gli uomini e le donne che occupavano
quello spazio. Erano tutti cinturiani, e tuttavia Filip non faticò a distinguere i
membri della Marina Libera con cui prestava servizio, dalle guardie di Rosenfeld.
Ciò che era uguale a lui da ciò che era diverso. Potevano fingere che la divisione
non esistesse, ma sapevano che non era così. In tutto si trattava di una dozzina
di persone, come se fosse stato un cambio di turno, e c’era un membro
dell’equipaggio della Pella per ogni uomo di Rosenfeld, il che significava che
Karal non era il solo a pensare che un po’ di vigilanza fra amici non fosse una
cosa sbagliata.
Una delle guardie gettò a Rosenfeld un bulbo per bere. Impossibile capire se
conteneva caffè, tè, whisky o acqua. Rosenfeld lo afferrò al volo senza la minima
interruzione della conversazione. «A me sembra una burocrate piena di odio.
Credi di poterla gestire? Niente di personale, coyo, ma il tuo sottovalutare le
donne è il tuo angolo cieco.»
Marco si immobilizzò. Perfino Filip lo notò, e sentì un sapore metallico, come
di rame, inondargli la bocca. Karal emise un sommesso grugnito, e nel guardarlo
Filip notò che aveva la mascella protesa in avanti e i pugni serrati lungo i fianchi.
Rosenfeld si appoggiò alla parete con il volto atteggiato a una maschera di
comprensione e di contrizione. «Forse però questo non è il posto giusto per
dirlo. Scusami se ho toccato un tasto dolente.»
«Niente di male» rispose Marco. «Discuteremo di tutto nel viaggio verso
Ceres.»
«Raduniamo le tribù» commentò Rosenfeld. «Sono impaziente di farlo. La
prossima fase dovrebbe essere interessante.»
«Lo sarà» garantì Marco. «Karal può sistemare te e i tuoi uomini nelle cabine
giuste. Al vostro posto, ci rimarrei. Sarà un’accelerazione molto forte.»
«Lo faremo, ammiraglio.»
Marco si spinse fuori della stanza e fluttuò verso l’officina e l’ingegneria senza
neppure incontrare lo sguardo di Filip.
Filip attese per un momento, non sapendo bene se seguirlo o rimanere
dov’era, se fosse stato congedato o dovesse restare ancora al suo posto.
Rosenfeld sorrise e strizzò una palpebra granulosa prima di girarsi verso i suoi
uomini. Lì era successo qualcosa, Filip poteva percepirlo nell’aria e
nell’atteggiamento di Karal. Era qualcosa di importante, e a giudicare da come si
era comportato suo padre, si sentiva costretto a pensare che fosse qualcosa che
aveva a che fare con lui.
Posò una mano sul polso di Karal. «Cosa è successo?»
«Niente» rispose Karal, ma la menzogna risultò evidente. «Niente di cui
preoccuparsi.»
«Karal?»
Il suo compagno più anziano serrò le labbra e stiracchiò il collo, evitando di
guardarlo.
«Karal, è qualcosa che dovrei chiedere a loro?»
Karal scosse lentamente il capo. No, non doveva chiederlo. Si umettò le
labbra, tornò a scuotere la testa, sospirò e prese a parlare con voce bassa e
calma. «Qualche tempo fa è arrivato un rapporto. Dati di osservazione
provenienti dalla... ah... dalla Chetzemoka. Riguardo al come le navi di Johnson e
di Smith non sono andate distrutte.»
«E?»
«E...» replicò soltanto Karal, una parola densa come il piombo.
Poi continuò a parlare, e fu così che davanti a Rosenfeld e alla sua mezza
dozzina di guardie sogghignanti Filip Inaros apprese che sua madre era ancora
viva. E che sulla Pella lo sapevano tutti tranne lui.
Durante l’accelerazione sognò.
Era in piedi davanti alla stessa porta, come prima. Anche se il suo aspetto
cambiava, era sempre la stessa e lui urlava, la colpiva con le mani, cercava di
entrare. In precedenza c’era stata una sensazione di paura, l’oceanico dolore
della perdita imminente, il terrore. Adesso c’era soltanto umiliazione. L’ira lo
accendeva come un fuoco, e lui spinse per oltrepassare la porta, per entrare nella
camera al di là di essa, non per salvare qualcosa di prezioso ma per porvi fine. Si
svegliò gridando. Il peso di un intero g lo schiacciava contro il gel del sedile. La
Pella mormorava intorno a lui, la vibrazione del reattore e il mormorio dei
riciclatori dell’aria erano come una voce che gli sussurrasse qualcosa, troppo
piano per distinguere le parole. Fu uno sforzo asciugarsi le lacrime. Non erano
lacrime di dolore, per quello avrebbe dovuto essere triste, mentre era soltanto
certo di una cosa.
C’era qualcuno che odiava più di James Holden.
3
Holden
C’era qualcosa da dire a favore di una vita che non prevedesse lunghi
interrogatori. Secondo quello standard, almeno, Holden non aveva vissuto bene
la sua. Quando lui e il resto dell’equipaggio della Rocinante avevano acconsentito
a lasciarsi interrogare, aveva intuito che non si sarebbe trattato soltanto degli
eventi relativi all’attacco contro la Terra da parte della Marina Libera.
Dopotutto, c’era una quantità di cose di cui parlare. L’ingegnere capo della
Stazione di Tycho, che si era scoperto essere una talpa agli ordini di Marco
Inaros, il rapimento e il salvataggio di Monica Stuart. La perdita del campione
della protomolecola, l’attacco che per poco non era costato la vita a Fred
Johnson. E questo solo per quanto riguardava lui direttamente. Naomi e Alex, e
perfino Amos, avrebbero avuto interi volumi con cui contribuire all’esposizione.
Quello che non si era aspettato era che le domande partissero da lì per dilagare
come un gas fino a riempire tutto lo spazio disponibile. Ormai da settimane
stava passando da dodici a sedici ore al giorno a parlare di tutto ciò che
riguardava la sua vita. Il nome e la storia di tutti i suoi otto genitori, il suo
andamento scolastico, la sua carriera navale morta sul nascere, cosa sapeva di
Naomi, di Alex, di Fred Johnson. I suoi rapporti con l’APE, con Dmitri
Havelock, con il detective Miller. Anche dopo averlo riesaminato per ore,
Holden non sapeva ancora bene cosa dire su quest’ultimo punto. Seduto nella
piccola stanza, di fronte agli interrogatori delle Nazioni Unite, fino a quel punto
aveva fatto del suo meglio per sezionare la sua vita ed esporla per loro.
Quel procedimento lo irritava. Le domande si ripetevano e saltavano di palo in
frasca come se i due stessero cercando di coglierlo in flagrante a mentire. Si
infilavano in strani, piccoli vicoli ciechi – come si chiamavano le persone con cui
aveva prestato servizio nella marina? Cosa sapeva di ciascuno di loro? – e ci
rimanevano per un tempo molto più lungo di quanto paresse giustificato. I suoi
due interrogatori principali erano una donna di nome Markov, alta, chiara di
pelle, con un volto lungo e serio, e un uomo basso e grassoccio di nome
Glenndining, con i capelli e la pelle che avevano lo stesso colore marrone. I due
facevano a turno a pressarlo e a costruire un rapporto, ferendolo in modo sottile
per vedere se si sarebbe infuriato e cosa avrebbe detto quando lo avesse fatto,
salvo poi dimostrarsi affettuosi in modo quasi sgradevole.
Gli portavano da mangiare panini flosci e unti, oppure paste fresche
accompagnate dal miglior caffè che avesse mai bevuto. Abbassavano le luci fino
a ottenere un’oscurità quasi completa oppure le alzavano fino a renderle quasi
accecanti. Passeggiavano con la strana andatura saltellante propria della Luna
lungo i corridoi che si stendevano dai moli, oppure rimanevano chiusi in
un’angusta stanza di metallo. Holden aveva la sensazione che tutta la sua storia
personale venisse grattata fino alla buccia, come un lime in un bar di quarta
categoria. Se in lui rimaneva ancora una goccia di succo, in qualche modo
riuscivano a spremerla. Era facile dimenticarsi che questi erano i suoi alleati, che
aveva acconsentito a questo interrogatorio. Più di una volta, mentre era
raggomitolato nella sua cuccetta dopo una lunga giornata, sospeso fra il sonno e
la veglia, si era trovato a formulare nella mente assonnata piani per tirare fuori la
nave da quella prigione e fuggire.
Non era d’aiuto il fatto che nel cielo scuro sopra di loro la Terra stesse
morendo poco per volta. Le stazioni che trasmettevano notizie e che ancora
esistevano si erano trasferite perlopiù sulle stazioni Lagrange e sulla Luna, ma
qualcuna era ancora attiva sulla superficie planetaria. Fra le sessioni di
interrogatorio e le ore di sonno, Holden non aveva molto tempo per guardare i
notiziari, ma i frammenti che riusciva a sentire erano sufficienti. Le infrastrutture
erano sottoposte a uno sforzo eccessivo, l’ecosistema era sconvolto, c’erano
cambiamenti chimici nell’atmosfera e nell’oceano. Sulla Terra sovraffollata
c’erano stati trenta miliardi di persone che dipendevano da una vasta rete di
macchinari perché le nutrisse, idratasse e impedisse loro di annegare nei loro
stessi rifiuti. In base ai calcoli più pessimistici, un terzo di quelle persone era già
morto. Holden aveva visto alcuni secondi di un servizio in cui si discuteva di
come si effettuasse il calcolo dei morti nell’Europa occidentale analizzando i
cambiamenti atmosferici. La quantità di metano e di cadaverina presente nell’aria
permetteva di dedurre quante persone stessero marcendo nelle strade e nelle
città devastate. Quella era la portata del disastro.
Si era sentito colpevole a spegnere il notiziario. Il minimo che poteva fare era
guardare, essere là, mentre l’ecosfera che aveva generato lui, la sua famiglia e
tutti gli altri non molte generazioni prima collassava. La Terra meritava di avere
dei testimoni. Tuttavia, era stanco e spaventato, e anche dopo aver spento il
notiziario non era riuscito a dormire.
Non tutte le notizie erano cattive. Mamma Elise era riuscita a fargli avere un
messaggio in cui si diceva che la fattoria del Montana, per quanto gravemente
danneggiata, era risultata abbastanza autosufficiente da mantenere in vita i suoi
genitori. C’era perfino un po’ di eccedenza con cui erano riusciti a contribuire in
qualche misura alle operazioni di soccorso, a Bozeman. A mano a mano che le
nubi fangose fatte di polvere e cenere si depositavano ad avvelenare gli oceani,
un numero sempre maggiore di voli di soccorso aveva potuto percorrere il
pozzo gravitazionale e risalirlo carico di profughi.
Adesso però le capacità fisiche della Base Luna cominciavano a essere
sottoposte a stress. I riciclatori d’aria erano spinti al limite, per cui ogni respiro
che Holden traeva nelle sale e nei corridoi della stazione sembrava essere appena
uscito dalla bocca di qualcun altro. Giacigli e tende intese a garantire un po’ di
privacy riempivano le aree di ristorazione e gli spazi pubblici. L’equipaggio della
Rocinante aveva rinunciato ai suoi alloggi nella stazione per trasferirsi sulla nave e
lasciare più spazio ai profughi, ma anche per vivere nella sua bolla personale di
aria pulita e acqua bel filtrata. Era un po’ ipocrita fingere che fosse stato un
gesto altruistico. La nave era silenziosa, vuota e familiare. Le sole cose che
impedivano a Holden di sentirsi del tutto a suo agio erano il silenzio del reattore
spento e la presenza spettrale di Clarissa Mao.
«Perché ti inquieta tanto?» domandò Naomi. Si trovavano nella cabina che
condividevano, trattenuti sul letto dalla poca gravità lunare e dal loro stesso
sfinimento.
«Ha ucciso un sacco di persone» rispose Holden, con il sonno che lo privava
della capacità di pensare in modo chiaro. «Non è sufficiente? A me pare che
dovrebbe esserlo.»
La cabina aveva le luci abbassate e il giaciglio a smorzamento racchiudeva i
loro corpi come una culla. Sentiva il respiro di Naomi contro il fianco, caldo,
familiare e ancorante. La voce di lei era permeata della stessa morbidezza
impastata della sua, perché erano entrambi quasi troppo stanchi per riuscire a
dormire. «Quella era una Clarissa diversa.»
«Tutti gli altri ne sembrano sicuri, ma non so bene come ci siamo arrivati.»
«Ecco, credo che Alex abbia ancora qualche dubbio su di lei.»
«Amos non ne ha, e neppure tu.»
Naomi emise un verso. Aveva gli occhi chiusi e anche nella penombra Holden
riusciva a distinguere il colore più scuro delle sue palpebre. Per un momento
pensò che fosse riuscita ad addormentarsi, ma poi lei parlò ancora. «Devo
credere che possa cambiare. Che le persone possano farlo.»
«Tu non eri come lei» ribatté Holden. «Anche quando... anche quando delle
persone sono morte, tu non eri come lei. Non eri un’assassina a sangue freddo.»
«Amos lo è.»
«Vero. Però Amos è Amos. Nella mia testa, è una cosa diversa.»
«Perché?»
«Perché lui è Amos. È come un pitbull. Sai che potrebbe squarciarti la gola, ma
è assolutamente fedele e ti viene solo voglia di abbracciarlo.»
Naomi fece un lento sorriso. Era una cosa che riusciva a fare, una contrazione
di un muscolo della faccia, e Holden si sentì pervadere di speranza, calore e
perfino una sorta di cupo ottimismo, perché l’universo non poteva essere tutto
una merda se in esso c’era una donna come quella. Le appoggiò una mano sul
fianco. «Non ti sei innamorata di me per la mia coerenza etica, vero?»
«Nonostante la tua coerenza etica» ridacchiò lei. E dopo un momento
aggiunse: «Avevi un bel sedere.»
«Avevo? Al passato?»
«Devo accedere di nuovo al sistema» disse lei, cambiando argomento. «Non
lasciare che mi addormenti se prima non ho controllato se ci sono
aggiornamenti.»
«Si tratta delle navi scomparse?» domandò Holden, e lei annuì.
Per quanto duro potesse essere stato il suo interrogatorio, quello di Naomi era
peggiore. Lei aveva sempre parlato poco del suo passato, di come era diventata
la donna che era. Adesso aveva barattato quella privacy in cambio di un’amnistia
totale per l’equipaggio e per sé stessa. I suoi equivalenti di Markov e
Glenndining non la stavano interrogando soltanto riguardo a una carriera fallita
nella marina o ai contratti di lavoro con Fred Johnson. Lei era una finestra che
permetteva di accedere direttamente a Marco Inaros. Era stata la sua amante, era
la madre di suo figlio, un fatto con cui Holden stava ancora cercando di venire a
patti nella sua mente. Era stata tenuta prigioniera sulla sua ammiraglia prima e
dopo che il martello si era abbattuto sulla Terra. Holden sapeva che per quanto
il suo interrogatorio potesse essere duro, quello di Naomi lo era mille volte di
più, e supponeva fosse per questo che si era immersa nel mistero delle navi
scomparse.
Lei era stata la prima fra loro a notare che il numero di navi che era svanito
mentre era in transito attraverso i portali non corrispondeva a quello delle navi
da guerra che erano diventate la Marina Libera. Alcune di esse erano state rubate
da Marco e dai suoi uomini, altre erano svanite senza lasciare traccia. C’erano
due cose che stavano succedendo contemporaneamente, e Holden non poteva
volergliene se Naomi preferiva passare il suo tempo libero focalizzandosi
sull’altra.
Però doveva anche dormire, se non altro perché era convinto che quando lei si
fosse infine addormentata sarebbe riuscito a farlo a sua volta.
«Non prometto niente» rispose.
«D’accordo» annuì Naomi. «Allora svegliami presto, in modo che abbia il
tempo di controllare prima della prossima sessione.»
«Lo prometto.»
Holden rimase disteso al suo fianco nella penombra finché il suo respiro si
fece più profondo e divenne il ritmo regolare e scandito del sonno. Quando si
ritrovò ancora sveglio dopo averla ascoltata per cinque minuti comprese che
non sarebbe riuscito a dormire a sua volta e si alzò. Per un momento lei si fece
silenziosa, sul punto di svegliarsi, prima che il respiro tornasse a farsi profondo.
Holden lasciò la cabina.
Anche i corridoi della Rocinante erano in penombra, con l’illuminazione
regolata per il periodo notturno. Holden si diresse all’ascensore e sentì delle voci
arrivare fino a lui dalla cambusa: quella profonda e affabile di Amos e quella più
sottile e fragile di Clarissa. Si soffermò ad ascoltare, poi risalì la scala che portava
al ponte operativo. La gravità lunare era abbastanza lieve da far apparire sciocco
l’uso dell’ascensore, quindi si tirò su, una mano dopo l’altra, fino ad arrivare a
destinazione. Le luci erano spente, e Alex era rischiarato soltanto dal chiarore
che proveniva dallo schermo.
«Ciao» salutò con voce strascicata, quando Holden si sistemò su un sedile.
«Non riesci a dormire?»
«No, a quanto pare» sospirò Holden. «E tu?»
«Detesto la gravità che c’è qui. Sembra che ci muoviamo troppo lentamente.
Continuo a desiderare di accendere i motori, ma non ci sono motori e non
stiamo andando da nessuna parte. Dovrebbe essere la propulsione a tenermi sul
sedile, e invece è soltanto un grosso pezzo di roccia.» Alex accennò a un
notiziario che stava scorrendo silenzioso sullo schermo. Una donna che
indossava uno hijab di un rosso acceso parlava con aria seria davanti alla
telecamera. Holden la riconobbe come una stimata giornalista marziana, ma non
riuscì a ricordare il suo nome. «Continuano a parlarne. Lo definiscono
ammutinamento e persistono nel parlare di inadempienza ai doveri, di
abbandono del proprio posto e di vendita di equipaggiamento al mercato nero.»
«Non suona molto promettente.»
«Suona meglio di quel che è stato in realtà» ribatté Alex. «È stato un colpo di
Stato, una guerra civile, solo che invece di combattere, un quinto delle forze
militari ha preso armi e bagagli e si è trasferita oltre i portali dell’anello con tutta
la nostra roba. Ecco, con tutta la nostra roba che non ha venduto a questi idioti
della Marina Libera.»
«Si sa qualcosa di dove erano diretti?»
«No» rispose Alex. «Quantomeno, nulla che trapeli dai notiziari.»
La donna con lo hijab – Fatim Wilson, quello era il suo nome – scomparve, ma
la trasmissione continuò con immagini dei moli di attracco vuoti di Marte e poi
di un gruppo di dimostranti che si agitavano e gridavano davanti alla telecamera.
Holden non avrebbe saputo dire per cosa o contro cosa stessero dimostrando, e
per come stavano le cose al momento, non era certo che lo sapessero neppure
loro.
«Se mai torneranno indietro, saranno tutti processati per tradimento» continuò
Alex. «Mi induce a pensare che non avessero in programma di tornare presto a
casa.»
«Quindi, riassumendo,» disse Holden «abbiamo un colpo di mano su Marte. La
Marina Libera che massacra la Terra. I pirati che depredano tutte le navi
coloniali dirette verso l’esterno. La Stazione di Medina che ha interrotto le
comunicazioni. E infine qualcosa, non sappiamo cosa, che divora alcune delle
navi che attraversano i portali.»
Alex aprì la bocca per replicare, ma lo schermo tremolò e trillò: una richiesta
di connessione a priorità elevata.
«Una dannata cosa dopo l’altra,» commentò, accettando la connessione
«quando non è un dannato mucchio di cose che succedono tutte insieme.»
Chrisjen Avasarala apparve sullo schermo. I capelli erano pettinati alla
perfezione, il suo sari era di un verde scintillante come una gemma. Soltanto gli
occhi e la piega della bocca tradivano la sua stanchezza.
«Capitano Holden» disse. «Ho bisogno di incontrare lei e il suo equipaggio.
Immediatamente.»
«Naomi sta dormendo» replicò Holden, senza soffermarsi a pensare. Avasarala
sorrise... non era un’espressione piacevole. «D’accordo, vado a svegliarla.
Arriviamo subito.»
«Grazie, capitano» replicò la facente funzioni di segretario generale della Terra,
e chiuse la comunicazione.
Il silenzio pervase la cabina. «Hai notato che non ha detto niente di osceno o
di offensivo?» chiese Holden.
«Sì, l’ho notato.»
Holden trasse un profondo respiro. «Non lascia presagire niente di buono.»
La sala riunioni era vicina alla superficie della Luna, ed era strutturata come
un’aula scolastica o una chiesa, con un podio nella parte anteriore e file di sedie
disposte davanti a esso, ma adesso il podio era vuoto e una dozzina di sedie era
stata disposta in un cerchio approssimativo. Avasarala sedeva insieme a Fred
Johnson – capo della Stazione di Tycho e un tempo portavoce dell’APE – con il
primo ministro marziano Smith alla sua sinistra e Bobbie Draper alla sua destra.
Tanto Smith quanto Johnson erano in maniche di camicia, e tutti apparivano
stanchi. Holden, Naomi, Alex e Amos sedettero insieme in gruppo di fronte a
loro, lasciando un paio di seggiole vuote a segnare il confine fra i due gruppi su
ambo i lati. Finché non ebbero preso tutti posto, Holden non si rese conto che
Clarissa non era venuta. Non aveva neppure preso in considerazione
l’eventualità di portarsela dietro: quella era una riunione riservata all’equipaggio
della Rocinante, dopotutto, e lei era...
Avasarala digitò qualcosa sul terminale palmare e uno schema apparve nello
spazio al centro del cerchio. La Terra, la Luna e le stazioni Lagrange brillavano
tutte di un colore dorato. Le navi che formavano il blocco che aveva intercettato
e distrutto i successivi attacchi della Marina Libera erano in verde. Un modello
separato mostrava il sistema interno – il Sole, Mercurio, Venere, la Terra, Marte
e le principali stazioni della Fascia, come Ceres e Pallas – più una manciata di
punti rossi sparsi che sembravano una ferita o un’irritazione cutanea.
«Il rosso rappresenta la Marina Libera» spiegò Avasarala. Di persona, la sua
voce suonava rauca, come se avesse tossito. Holden non avrebbe saputo dire se
aveva semplicemente parlato troppo o se aveva respirato i particolari fini lunari,
quella polvere troppo sottile per essere fermata anche dai filtri migliori, che
faceva puzzare di polvere da sparo l’aria della stazione. «Stiamo tracciando i loro
movimenti, e c’è un’anomalia. Questa.»
Toccò il terminale e i due schemi si fusero, uno espandendosi e l’altro
rimpicciolendo, fino a mostrare lo stesso tratto di spazio. Un punto rosso
spiccava lontano dalle stazioni e dai pianeti e fluttuava nel vasto nulla dove le
meccaniche orbitali lo lasciavano prevalentemente isolato. Naomi si protese in
avanti, lottando per mantenere a fuoco lo sguardo. Era troppo stanca.
«Cosa ci fa là fuori?» chiese, con voce abbastanza nitida.
«Individuazione» spiegò Fred. «Ha disattivato il transponder, ma sembra essere
una nave mineraria, l’Azure Dragon, proveniente da Ceres. Il suo equipaggio è
composto da membri radicali dell’APE.»
«Questo significa che forse adesso è con la Marina Libera. Si tratta delle rocce
che ci hanno scagliato contro?» domandò Holden.
«Erano coordinate da quello stronzetto» replicò Avasarala, poi scrollò le spalle
con aria esausta, e aggiunse: «O almeno lo pensiamo. Quello che sappiamo è
questo: finché quei fottuti bastardi possono continuare a scagliarci contro rocce,
siamo bloccati qui. Le nostre navi non osano muoversi, e Marco Inaros può
reclamare per sé quello che diavolo vuole fra i pianeti esterni.»
Smith si protese in avanti e prese la parola in tono calmo e quasi apologetico.
«Se il servizio di intelligence di Chrisjen ha ragione, e questa nave sta guidando
gli attacchi, allora si tratta di un bersaglio di importanza critica nella lotta contro
la Marina Libera. Sapete che il colonnello Johnson, il segretario generale
Avasarala e io abbiamo formato una task force congiunta? Questa sarà la sua
prima operazione sul campo: la cattura o la distruzione dell’Azure Dragon per
ridurre la capacità del nemico di sferrare attacchi contro la Terra, per dare un po’
di dannato respiro alla nostra flotta congiunta.» Era la prima volta che Holden
sentiva il termine ‘flotta congiunta’, e gli piacque come suonava.
E non era il solo ad apprezzarlo.
«Merda» commentò Amos. «E io che mi stavo godendo il fatto di starmene
con il pollice su per il culo, inutile.»
«Se vuoi fare quei giochetti è affar tuo» replicò Avasarala. «Solo tu puoi
riuscirci su un sedile a smorzamento. La Rocinante non fa parte della flotta, quindi
perderla non lascerà un buco nelle nostre difese. Inoltre, mi pare di capire che
avete installato qualche componente aggiuntivo...»
«Un cannone a rotaia montato sulla chiglia» rispose Alex, con un sorriso.
«...che fa pensare al bisogno di compensare un pene molto, molto piccolo, ma
che potrebbe risultare utile. Il comandante della missione ha richiesto voi e la
vostra nave, e in tutta onestà in ogni caso a questo punto nessuno di voi merita
più di uno scappellotto, a parte Miss Nagata, quindi...»
«Un momento» interruppe Holden. «Il comandante della missione? No.»
Avasarala incontrò il suo sguardo e la sua espressione si fece dura come il
granito. «No?»
Holden non sussultò. «La Rocinante non viaggia sotto il comando di nessuno
tranne noi. Capisco che questa è una grossa task force congiunta e che siamo
tutti insieme in questa faccenda, ma la Roci non è soltanto una nave, è la nostra
casa. Se ci volete assoldare, va benissimo. Accetteremo l’incarico e lo porteremo
a termine. Se però volete mettere a bordo un comandante e vi aspettate che
eseguiamo i suoi ordini, allora la risposta è no.»
«Capitano Holden...» cominciò Avasarala.
«Questa non è una trattativa» la interruppe Holden. «È come stanno le cose.»
Tre fra le persone più potenti del sistema solare, i capi delle fazioni centrali che
per generazioni avevano lottato le une contro le altre, si fissarono a vicenda. Le
sopracciglia di Smith salirono in modo marcato e lui si guardò intorno con fare
ansioso. Fred si protese in avanti, squadrando Holden come se lo avesse deluso.
Solo negli occhi di Avasarala c’era un bagliore divertito. Holden lanciò
un’occhiata al suo equipaggio. Naomi aveva le braccia incrociate sul petto, Alex
teneva la testa sollevata e il mento spinto in fuori, e Amos sorrideva come
faceva sempre. Un fronte unito.
Bobbie si schiarì la voce. «Si tratta di me.»
«Come sarebbe?» chiese Holden.
«Si tratta di me» ripeté Bobbie. «Sono il comandante della missione. Se però
davvero non vuoi...»
«Oh» disse Holden. «No. No, questo cambia le cose.»
«Sì» aggiunse Alex, e Naomi rilassò le braccia. Bobbie si rilassò a sua volta.
«Avresti dovuto dircelo subito, Chrissy» commentò Amos.
«Fottiti, Burton. Ci stavo arrivando.»
«Allora, Bobbie, come vuoi procedere?» chiese Holden.
4
Salis
«Aspetta, aspetta, aspetta!» gridò Salis nella radio della tuta. La base del
cannone a rotaia era larga dieci metri, di forma approssimativamente esagonale e
con una massa superiore a quella di una piccola nave. Alle sue parole, una mezza
dozzina di propulsori edili disposti lungo il lato di quella bestia si spensero,
espellendo massa di eiezione nel vuoto. Il misuratore di calibrazione del mech di
Salis scese fino allo zero: il movimento infinitesimale della grande bestia era
cessato. Adesso fluttuavano insieme... l’arma di una grandezza inumana. La
stazione aliena pervasa di un chiarore sommesso, e Salis nel suo mech edile
giallo simile a un ragno.
«A que, coyo?» gli chiese all’orecchio Jakulski, il loro supervisore tecnico.
«Registravo un movimento di deriva» rispose Salis, muovendo il laser di
allineamento sul cannone a rotaia e sull’innesto in cui si sarebbe dovuto inserire.
Era stato un duro lavoro equipaggiare la stazione aliena con tre ampie fasce di
ceramica, intreccio di silicato di carbonio e metallo. Adesso appariva come una
vasta palla azzurra circondata da fasce di gomma, ciascuna ad angolo retto
rispetto alle altre due, e le torrette con i cannoni a rotaia si trovavano nei punti
di incrocio di quelle linee. Era risultato che era impossibile praticare fori nella
stazione aliena, e saldare era altrettanto impossibile perché la superficie non si
fondeva. Avvolgere quella dannata cosa era stata la sola alternativa possibile per
riuscire ad attaccarvi qualcosa.
«Que mas que?» domandò Jakulski.
«Sposta di un minuto e dieci secondi relativo a Z, di meno otto secondi
relativo a Y.»
«Capito» annuì Jakulski. I propulsori edili su tutta la lunghezza del cannone a
rotaia tossicchiarono per un succedersi di impulsi e di contro impulsi.
Tutt’intorno a loro i portali punteggiavano il cielo con poco più di milletrecento
punti luminosi, spogli, vuoti e regolari in modo minaccioso. La Stazione di
Medina stessa era l’unico altro oggetto presente, ed era tanto distante che Salis
avrebbe potuto coprire l’intera struttura – corpo centrale, reattore e centro di
comando – con il pollice proteso. La zona lenta, così continuavano a chiamarla.
Anche se quello strano limite di velocità era stato rimosso, il nome era rimasto,
portando con sé un senso di stranezza e di destino tragico. La maggior parte del
suo lavoro si svolgeva all’interno di Medina. Uscire nel vuoto era una cosa rara,
e adesso che era lì non gli piaceva molto. Continuava a distogliere lo sguardo dal
lavoro per guardare il nero dello spazio, e la sua prima settimana di lavoro si era
quasi conclusa quando infine si era reso conto che stava cercando la Via Lattea,
e che continuava a guardare perché non la trovava.
«Bist bien?» chiese Jakulski.
«Un momento» rispose Salis, tornando a controllare i laser di allineamento.
Fece scorrere lo sguardo per tutta la lunghezza della grande canna mentre il
mech lottava per far combaciare la superficie di quella cosa con il suo alveolo. I
pochi cannoni a rotaia che aveva visto in precedenza erano fatti di titanio e di
ceramica. Questi nuovi materiali che Duarte mandava attraverso il portale di
Laconia erano però roba all’avanguardia. Non si trattava soltanto dell’iridescenza
del rivestimento in silicato di carbonio. Il nucleo di alimentazione che faceva
funzionare i cannoni, e il sistema di caricamento delle munizioni esente da
attrito che li riforniva erano... strani.
Il design era elegante, certo, ma erano soltanto cannoni a rotaia magnetici
alimentati da nuclei a fusione, come quelli di qualsiasi nave, e facevano quello
che dovevano. C’era però qualcosa di strano nel modo in cui erano montati, la
sensazione che non li stessero tanto fabbricando quanto testando. Si trattava di
una sorta di goffaggine e bellezza che lo induceva a pensare più a piante che a
macchine, e non si trattava soltanto dei nuovi materiali utilizzati. Fin da quando
l’anello dei portali si era staccato da Venere c’erano state cose nuove, qua e là. Si
trattava della portata della cosa. E forse anche di qualcos’altro.
Giunse il rapporto dei laser di allineamento.
«Bien» disse Salis. «Porta a casa quel bastardo.»
Jakulski non rispose, ma i propulsori si attivarono. Salis continuò a controllare
in pari misura l’alveolo e il cannone, effettuando una lettura manuale dopo
l’altra. Quello era il genere di cosa che di solito lasciava fare ai sistemi del mech,
ma a volte i nuovi materiali inducevano il laser a fornire falsi errori, ed era
meglio essere sicuri. La stazione era rimasta immobile come la pietra negli anni
trascorsi da quando i portali si erano aperti, ma questo non significava che
attaccarvi un macchinario dannatamente grosso non avrebbe provocato una
reazione.
Ci volle la maggior parte di un turno per connettere quell’enorme cannone, ma
alla fine esso si agganciò al suo posto. La torretta si assestò, assorbì la poca
spinta rimasta e l’alveolo si chiuse intorno al cannone, lasciando nella mente di
Salis l’inquietante immagine di labbra gigantesche che si chiudessero lentamente
intorno a una cannuccia enorme.
«Indietreggio» avvertì Salis.
«Clar à test, tu?»
«Un momento» rispose Salis, spingendosi lontano dalla stazione. Fluttuò nel
vuoto, dove Roberts e Vandercaust aspettavano all’interno dei loro mech. I
propulsori di manovra del mech lo fecero fermare accanto a loro e gli permisero
di voltarsi a osservare il frutto del loro lavoro. Sul canale di gruppo, Roberts
grugnì.
«Vise ca bácter» disse, ed era vero. Con i cannoni montati alla sommità e in
fondo a tutti e tre gli assi, la stazione somigliava un poco a qualcosa visto al
microscopio, magari a un macrovirus. O a uno streptococco minimalista.
«A posto» disse Salis. «Clar à test.»
«Tre, due, uno» contò Jakulski.
Sotto di loro, il cannone a rotaia si spostò nell’alveolo come qualcosa che si
svegliasse dal sonno. Per un momento parve fluttuare come una canna in una
corrente d’aria, poi scattò al suo posto, passando da una posizione alla
successiva troppo in fretta perché lo sguardo di Salis potesse seguirne il
movimento, più in fretta del contrarsi della zampa di un insetto. Esso eseguì
l’intero ciclo, prendendo di mira ciascuno dei portali nel suo campo visivo. Con
la disposizione che avevano scelto, almeno due cannoni sarebbero stati in grado
di prendere di mira ciascun portale, e la maggior parte dei portali ricadeva
nell’arco di tre di essi. Salis aveva visto immagini di vecchie fortificazioni
affacciate sul mare, sulla Terra. Prima di allora non avevano mai avuto senso per
lui – troppo piatte per applicarsi alla sua esperienza personale –, ma questa era la
stessa cosa. Quei cannoni avrebbero protetto per sempre la Stazione di Medina
da navi d’invasione. Sentì una qualche emozione che gli si destava nel petto, che
poteva essere orgoglio, o timore.
«Bien» commentò Jakulski, che pareva quasi sorpreso, come se si fosse
aspettato che il cannone si staccasse e si allontanasse vorticando nel vuoto.
«Ritiratevi prima che proviamo a fare fuoco.»
«Ci ritiriamo» rispose Vandercaust. «Non ci sparare addosso, sa sa?»
«Avvertitemi, se dovessi farlo» rise Jakulski. Per lui era facile, non era lui quello
là fuori. E quei cannoni avrebbero potuto disintegrare perfino Medina. Salis e gli
altri indietreggiarono di cinquanta chilometri, si girarono e decelerarono per altri
cinquanta. L’oscurità era inquietante. Dall’altro lato del portale non era mai così
buio, c’erano sempre il sole e le stelle.
«Fermi e stabili» avvertì Roberts. «Hast du dui identificati come amici?»
«Sì. Se vi sparerà significa che c’è qualcosa che non va. Seleziono i bersagli»
rispose Jakulski, e Salis aumentò l’ingrandimento sul suo mech. La stazione
aliena apparve, raffigurata in falsi colori. A quella distanza poteva vedere solo tre
dei sei cannoni. «Il sistema dei sensori bist bien. Fuoco fra tre, due, uno...»
Ci fu uno sbuffo di vapore che scaturì dalla punta del cannone – gas che
estendeva momentaneamente la lunghezza della canna e dava un po’ più di
velocità al proiettile. Il mech di Salis fu scosso da un tremito quando l’energia
magnetica proveniente dal cannone ne influenzò i sistemi anche a quella
distanza. Non vide i proiettili sparati dal cannone, perché nel tempo che l’aspro
feedback impiegò a passare dalla radio al suo orecchio il proiettile di tungsteno
aveva già attraversato il portale preso di mira. O si era perso nello strano non-
spazio fra i portali. Sul display in falsi colori, un fremito percorse la stazione
aliena, simile a quello che aveva visto in una sfera d’acqua fluttuante quando se
ne toccava un punto. Il fremito scomparve prima ancora di aver percorso la
circonferenza della stazione.
«La que vist?» chiese Jakulski.
«Niente» rispose Salis. «Sembra a posto. Tu?»
«Solo la luminosità della stazione» replicò Jakulski. In tutti i loro test, la sola
reazione che la stazione avesse mai avuto all’essere spinta dal contraccolpo
dovuto all’azione dei cannoni era stata una pioggia di fotoni.
«Niente altro?»
«No.»
«Deriva?»
«Niente deriva.»
Era quello che volevano vedere. I cannoni a rotaia erano abbastanza grandi e
potenti da rendere difficile attivarli anche montati sulla chiglia di un’astronave.
Montati su torrette, come quelli, avrebbero dovuto essere in pari misura un’arma
e un propulsore, spingendosi lontano da ciò a cui stavano sparando tanto in
fretta da rendere difficile recuperarli.
Non sulla stazione.
Qualsiasi cosa gli alieni avessero fatto per eliminare reazioni uguali e opposte,
essa generava soltanto l’energia sufficiente a emanare un po’ di luce, e non
pareva attivare nessuna contromisura. Tuttavia, Salis non era particolarmente
impaziente di tornare indietro per controllare gli alveoli e le basi.
«Avete sentito Casil parlare del perché non si muove quando la spingiamo?»
chiese Vandercaust.
«No» rispose Roberts.
«Ha detto che si muove, ma che lo spazio dell’anello si muove a sua volta, per
cui non possiamo vederlo succedere.»
«Casil è pazzo.»
«Sí ai.»
«Ci rimandi indietro?» chiese Salis, alla radio.
«Un momento» replicò Jakulski, poi continuò: «Bien. Puoi andare. Tieni tus
augen aperti, nel caso che qualcosa non vada.»
‘Nel caso che qualcosa non vada’ significava crepe nell’alloggiamento, perdite
nei serbatoi di fluido, guasti dei reattori o dell’alimentazione delle munizioni.
Significava gli occhi di un antico dio puntati su di loro. O qualcosa di peggio.
«Capito» assentì Salis, controllando i propulsori. «Ci muoviamo.»
I tre mech tornarono a lanciarsi verso la stazione. Medina fluttuava sulla
destra, con il cono di propulsione inattivo e il corpo centrale rotante. Salis spinse
lo sguardo al di là di essa come se stesse cercando un volto familiare, ma le stelle
continuavano a essere assenti.
La sezione interna centrale della Stazione di Medina aveva un sole che ardeva
in linea retta dal centro di comando fino ai ponti della sezione ingegneria. La
luce a spettro completo che ne emanava pioveva sul ricurvo terreno agricolo e
sull’ampio lago incurvato di quella che un tempo era stata una nave destinata a
trasportare una città di mormoni fino alle stelle. Seduto in un bar all’aperto
insieme a Vandercaust e a Roberts, a bere birra e a mangiare cibo secco bianco
che sapeva di formaggio in polvere e di funghi, Salis aveva davanti e dietro di sé
un panorama che si incurvava fino a perdersi nella linea luminosa del sole. Alla
sua sinistra e destra si stendeva in tutta la sua lunghezza il corpo centrale che
ruotava più o meno con la stessa forza di gravità della Luna. La brezza gentile
che gli alitava sulla nuca proveniva come sempre dal senso della rotazione.
Da ragazzo, Salis aveva visto le caverne della Grande Stanza, su Giapeto, e
aveva camminato sotto il falso cielo di Ceres. Il corpo centrale di Medina era
quanto di più simile riuscisse a immaginare a com’era stata la Terra prima
dell’impatto delle rocce: un’atmosfera non controllata sopra di lui e la sottile
crosta e il mantello fra i suoi piedi e il nucleo di pietra fusa. Per quante volte
potesse andarci, continuava ad apparirgli qualcosa di esotico.
«C’è di nuovo qualcuno che vola» commentò Roberts, socchiudendo gli occhi
a causa della luce. Salis sollevò lo sguardo. Lassù, ridotti quasi a delle sagome
dalla luminosità intensa, cinque corpi fluttuavano nell’aria con le braccia e le
gambe allargate. Parevano volare da un punto alle spalle di Salis, descrivendo
una curva davanti a lui come facevano i campi di soia e di mais, ma la verità era
che quei corpi erano stazionari. Circa cinque mesi prima, un idiota adolescente
aveva escogitato come disporre un tracciato temporaneo che potesse accelerare
le persone in direzione contraria alla rotazione fino a uguagliare la rotazione del
corpo centrale e permettere loro di lanciarsi in aria, privi di peso. Fintanto che
nessuno si avvicinava troppo al sole artificiale o non riusciva a uguagliare
l’accelerazione del corpo centrale prima di tornare a terra, si supponeva che la
cosa fosse divertente.
Due scie di vapore si levarono dal ponte della sezione di ingegneria, puntando
verso i cinque, e Salis le indicò. «La sicurezza li ha beccati.»
Vandercaust scosse l’irsuta testa grigia. «Ton muertas.»
«Giovani e stupidi, ma è come diceva quel romano: fihi m’fihi» commentò
Roberts. La sua voce esprimeva più comprensione, ma del resto lei era più vicina
all’età di quei volatori illegali. «Sei nato di pietra e serio, que?»
«Sono nato con il senso del rispetto» replicò Vandercaust. «Le mie stronzate
uccidono soltanto me.»
Roberts scrollò le spalle in segno di resa. Sulle navi, quelle vere, dal lato giusto
dei portali, mantenere al sicuro l’ambiente era sempre la massima priorità. Si
controllava quello che era già stato controllato, si pulivano cose già pulite.
Essere frettolosi e trasandati era un modo rapido per morire, trascinando con sé
la propria famiglia e il proprio equipaggio. Nelle grandi stazioni come Ceres,
Hygeia, Ganimede e adesso anche Medina, c’era qualcosa che dava ai ragazzi il
permesso di essere stupidi. Irresponsabili.
Era la stabilità, pensò Salis. Avere a disposizione uno spazio vasto come quello
del corpo centrale aveva un effetto sul cervello della gente. Lo avvertiva anche
lui: sembrava troppo grande per potersi rompere, e non importava che niente
fosse mai davvero tanto grande e che qualsiasi cosa potesse rompersi. La Terra si
era rotta. Agire come se i rischi non fossero stati tali metteva tutti in pericolo.
Anche così, c’era una parte di lui a cui dispiacque vedere la sicurezza piombare
su quei volatori. Erano ragazzi che si comportavano come tali, niente di più. Da
qualche parte ci sarebbe dovuto essere un posto per quello. I marziani lo
avevano, e anche i terrestri. Erano soltanto i cinturiani che avevano trascorso
troppe generazioni a morire la prima volta che facevano una cazzata per
permettere ai loro figli di giocare ogni tanto.
Socchiuse gli occhi a causa della luminosità intensa. Gli uomini della sicurezza
e i volatori si stavano ora dirigendo verso la superficie, con la scia dei propulsori
delle tute che creava ampie e lente spirali centrate sulla linea luminosa del sole, a
mano a mano che scendevano.
«È un peccato» commentò. Vandercaust grugnì.
«Avete sentito delle docce della sezione F?» chiese Roberts. «Sono bloccate, di
nuovo.»
«Alles progettato per un g intero» disse Vandercaust. «Lo stesso vale per le
fattorie. I campi non drenano come dovrebbero. Se facessimo ruotare il corpo
centrale come volevano fare los mormoni, funzionerebbe tutto.»
Roberts rise. «Tutto sì, ma noi no. Ci ritroveremmo tutti schiacciati.»
«Meglio cambiare il sistema» aggiunse Vandercaust, a bocca piena.
«Se lavoriamo abbastanza, funzionerà» affermò Salis. «Una nave con un tale
esubero di risorse... se non riusciamo a fare le cose nel modo giusto, non ce la
meritiamo.»
Bevve quanto rimaneva della birra e si alzò, sollevando una mano per chiedere
se qualcuno dei suoi compagni voleva un altro giro. Vandercaust assentì, mentre
Roberts rifiutò. Salis attraversò lo sterrato fino al bar, giungendo alla
conclusione che quella era parte dell’incanto: le piante e il falso sole, e la brezza
che sapeva di foglie e di terriccio e di cose che crescevano. Il corpo centrale di
Medina era il solo posto in cui avesse mai vissuto dove poteva camminare sul
terriccio. Non polvere e terra – quelle erano dappertutto –, ma vero terriccio. Salis
non sapeva perché, ma era una sensazione diversa.
Il barista scambiò il suo bulbo vuoto con uno pieno e gliene diede un secondo
per Vandercaust. Quando tornò al tavolo, la conversazione si era spostata dai
volatori alle colonie... non che fosse un grosso cambiamento, passare da alcune
persone che correvano rischi stupidi ad altre che facevano la stessa cosa.
«Aldo dice che sono arrivate altre minacce dal portale di Jerusalem» commentò
Roberts. «Gli rimandiamo il nucleo del loro reattore, oppure verranno a
prenderselo.»
«Rimarranno sorpresi, se lo faranno» commentò Vandercaust, togliendo di
mano a Salis il bulbo pieno. «I cannoni sono montati, e il tempo è scaduto per
alles la.»
«Forse» replicò Roberts, poi tossì e aggiunse: «O forse dovremmo restituirlo,
sì?»
Vandercaust si accigliò. «Perché?»
«Ne hanno bisogno e noi lo abbiamo, tutto qui» replicò Roberts.
Vandercaust accantonò la risposta con un gesto della mano. A chi importa un
accidente di cosa hanno bisogno? Qualcosa nella voce di Roberts attirò però
l’attenzione di Salis, come se lei avesse detto più di quanto esprimevano le
parole. Incontrò i suoi occhi scuri e sollevò il mento con aria interrogativa. Le
parole che stava cercando di dire la indussero a spingere la testa in avanti, come
per annuire.
«Possiamo aiutarli, se vogliamo. Tanto vale farlo, sí no? Non c’è motivo per
non farlo, dal momento che non siamo più quello che eravamo, noi» disse.
Vandercaust si accigliò, ma Roberts continuò: «Ce l’abbiamo fatta. Noi. Oggi.»
«Que fatto que, noi?» domandò in tono rude Vandercaust. Se però colse il suo
tono, Roberts non lasciò che la fermasse. I suoi occhi scintillavano come se
fosse stata sul punto di piangere, e quando riprese a parlare fu come acqua che
scorresse da un tubo rotto, con la voce che fluiva, pulsava e riprendeva a
scorrere.
«Il problema è sempre stato quando avremmo trovato un posto nostro. Ceres,
o Pallas, o le grandi stazioni Lagrange che non sono mai state costruite. Mi tía
parlava di costruire una stazione per tutti i cinturiani alles. Una capitale à te
vuoto. È questa. L’hanno costruita i cinturiani, e sono i cinturiani a viverci. I
cinturiani le hanno dato potere, y a causa dei cannoni che noi abbiamo montato,
sarà nostra per sempre. Oggi abbiamo fatto di questo posto una casa. Non solo
la nostra casa, ma quella di tutti noi. Esá es la nostra patria, adesso. Grazie a noi
tre.»
Le lacrime le colavano lungo le guance, lente a causa della gravità a un sesto di
g, e la gioia che la illuminava da dentro faceva sentire Salis in imbarazzo. Vedere
Roberts in quello stato era come sorprendere qualcuno a urinare – una cosa
intima e sbagliata. Quando però distolse lo sguardo vide il corpo centrale
allargarsi intorno a loro, le piante, il terriccio, la terra sopra di lui che lo guardava
come un cielo.
Si trovava su Medina da quindici mesi, più a lungo di quanto fosse mai stato su
una qualsiasi stazione in tutta la vita. Era venuto perché Marco Inaros e la
Marina Libera avevano bisogno di gente lì, e non aveva pensato a cosa
significasse, aveva solo saputo a livello istintivo che Inaros era più APE dell’APE
stessa, e che questo era ciò che la Marina Libera significava. A quel punto, forse,
cominciava a intravedere cosa c’era dietro a tutto quello. Non guerra per
sempre. Un posto dove vivere.
«Una patria» ripeté, soppesando quella parola come se fosse stata di vetro e
avesse potuto tagliarlo se l’avesse pronunciata con troppa forza. «A causa dei
cannoni a rotaia.»
«Perché qualcosa è nostro,» replicò Roberts «e perché adesso non ce lo
possono portare via.»
Salis avvertì qualcosa nel petto e permise alla sua mente di sondare quella
sensazione. Decise che era orgoglio. Provò a sorridere e rivolse quel sorriso a
Roberts, che lo ricambiò. Lei aveva ragione: quello era il posto, il loro posto.
Qualsiasi altra cosa fosse successa, avrebbero avuto Medina.
Vandercaust scrollò le spalle, bevve un lungo sorso dal bulbo e ruttò. «Besse
per noi» disse. «Ma sapete cosa c’è? Se mai dovessero portarcela via, è fottutamente
certo che non la riavremo mai più.»
5
Pa
Il rumore arrivava fino alla cambusa: un tonfo profondo, poi una pausa, poi
un altro tonfo. Ogni volta, Holden si sorprendeva a sussultare leggermente.
Naomi e Alex erano seduti là con lui e cercavano di ignorare quei suoni, ma
qualsiasi conversazione avviassero, su qualsiasi argomento – le condizioni della
nave, il successo della loro missione, se cedere al volere del fato e convertire in
prigione una sezione degli alloggi per l’equipaggio – si spegneva sotto l’incalzare
di quei tonfi lenti e ininterrotti.
«Forse le dovrei parlare» opinò Holden. «Credo che dovrei.»
«Non so cosa ti induca a pensarlo» ribatté Alex.
Naomi scrollò le spalle, astenendosi dai commenti. Holden mangiò un ultimo
boccone della finta carne di agnello, si pulì la bocca con il tovagliolo e gettò il
tutto nel riciclatore. Una parte di lui sperava che uno degli altri due lo fermasse.
Non lo fecero.
La palestra della Rocinante tradiva la sua età. Non c’erano due fasce elastiche
che avessero lo stesso colore, i materassini fra il grigio e il verde presentavano
strisce bianche dove il tessuto si era consumato, e l’odore di sudore stantio
permeava l’aria. Bobbie aveva appeso un pesante sacco a un cavo teso fra il
soffitto e il ponte, e la sua tenuta da ginnastica era aderente, grigia e intrisa di
sudore. Aveva i capelli legati e lo sguardo fisso sul sacco, mentre si spostava
sulla punta dei piedi. Quando Holden entrò nella stanza si girò verso sinistra,
imprimendo tutto il suo peso in un calcio rotante. Così da vicino, il tonfo
risultante suonò come qualcosa di pesante che venisse lasciato cadere. Il sistema
registrò un po’ meno di novantacinque chili per centimetro quadrato. Bobbie
saltellò all’indietro, concentrata sul sacco, si spostò sulla destra e scalciò con
l’altra gamba. Il tonfo fu un po’ più sommesso, ma la lettura salì di tre chili. Lei
saltellò all’indietro, cambiò l’assetto. I suoi stinchi apparivano arrossati ed
escoriati.
«Ehi» disse, senza guardarlo. Tonfo. Cambio di assetto.
«Ehi» rispose Holden. «Come stai?»
«Bene.» Tonfo. Cambio di assetto.
«C’è qualcosa di cui vuoi parlare?»
Tonfo. Cambio di assetto. «No.»
«Okay. Bene. Se... ah.» Tonfo. Cambio di assetto. «Se dovessi cambiare idea...»
«Verrò a cercarti.» Tonfo. Cambio di assetto. Tonfo.
«Ottimo» disse Holden, e lasciò la stanza. Bobbie non lo aveva guardato una
sola volta.
Nella cambusa, Naomi aveva un bulbo di caffè pronto che lo aspettava. Le
sedette di fronte mentre Alex scaricava gli ultimi avanzi di cibo nel riciclatore, e
bevve il caffè. I processori della Roci venivano calibrati una volta alla settimana, e
si erano riforniti prima di lasciare la Luna, quindi quasi certamente era la sua
immaginazione a dargli l’impressione che il caffè fosse più amaro del solito. Ci
mise comunque un pizzico di sale, rigirando il bulbo per mescolare.
«Sapevi che non avrebbe funzionato» commentò.
«Me lo aspettavo, non lo sapevo» precisò Naomi.
«Lo sospettavi soltanto?»
«Era un sospetto fondato» rispose lei, quasi in tono di scusa. «Però sarei potuta
rimanere sorpresa.»
«Devi lasciare a Bobbie il suo spazio, capitano» interloquì Alex. «Ne verrà
fuori.»
«Io... io vorrei solo capire cosa la disturba tanto.»
Alex rimase interdetto. «Moriva dalla voglia di combattere contro i cattivi fin
dai fatti di Io. Adesso ne ha avuta una, ed è rimasta chiusa in una scatola mentre
il resto di noi era fuori a sparare.»
«Ma abbiamo vinto.»
«Sì,» convenne Naomi «e lei ci ha guardati farlo mentre cercavamo di capire
come tirarla fuori da una trappola. Quando ci siamo riusciti era tutto finito.»
Holden sorseggiò il caffè. Andava un po’ meglio, ma non fu di aiuto. «Okay,
quello che intendevo dire era che vorrei capire cosa la disturba nella speranza
che ci sia qualcosa che posso fare al riguardo.»
«Lo sappiamo» annuì Naomi. «Siamo consapevoli della difficoltà.»
«C’è qualcuno?» chiese la voce di Amos, che scaturiva dal comunicatore. «Sto
chiamando il ponte operativo da dieci minuti.»
Alex attivò il comunicatore. «Sto andando su adesso.»
«Okay. Credo di aver individuato l’ultima perdita. Fammi sapere cosa vedi tu.»
«Sì» rispose Alex, salutò gli altri due con un cenno e si diresse al ponte
operativo e ai lavori di riparazione in corso. L’equipaggio dell’Azure Dragon non
aveva avuto molto tempo, ma non aveva neppure cercato di fare un lavoro
pulito. Era più facile tagliare in fretta attraverso una porzione di scafo, quando
non ti importava di cosa rompevi mentre lo facevi. Sapere che la nave non era
ancora a posto era per Holden come un prurito che non riusciva a grattare. Una
parte di quella sensazione derivava probabilmente dalla consapevolezza di
quanto sarebbero stati a corto di spazio i cantieri navali della Luna.
Probabilmente i giorni in cui potevano attraccare a Tycho e chiedere alle
squadre di Fred Johnson di rappezzare la nave erano finiti, e la Luna doveva
dare alla marina terrestre la precedenza rispetto a loro.
Non si trattava però soltanto di questo. Era anche la stessa sensazione che lo
aveva spinto a parlare con Bobbie, e prima ancora con Clarissa Mao. Voleva che
le cose fossero a posto, e aveva la crescente sensazione che non lo fossero. Che
non si sarebbero sistemate.
«Cosa mi dici di te?» chiese Naomi, guardandolo da sotto una cascata di capelli
scuri leggermente ricciuti. «Ti va di parlare?»
Holden ridacchiò. «Sì, ma non so cosa dire. Eccoci qui, gli eroi conquistatori,
con alcuni prigionieri e un nucleo dati recuperato, e non sembra abbastanza.»
«Non lo è.»
«Sei sempre confortante.»
«Voglio dire che non ti sbagli. Non sei a disagio e inquieto a causa di tutto
questo perché c’è qualcosa che non va in te. Tutto questo è inquietante e mette a
disagio. Non sei tu a essere sballato, è la situazione.»
«Questo non... sai, in effetti mi fa sentire un po’ meglio.»
«Bene» commentò lei. «Perché ho bisogno di sapere che non si tratta di Marco
e di Filip. Che... che tutto questo non ti rende difficile avermi intorno.»
«No» replicò Holden. «Ne abbiamo discusso.»
«E ne discuteremo ancora dopo tutto questo, ne sono certa. Ma se solo
continuassi a ripeterlo...»
«Ficcherei chiunque esista a testa in avanti fuori da un portello stagno per
tenerti con me. Non si tratta di questo. La sola preoccupazione che ho riguardo
a te e a Marco Inaros è che lui cercherà di nuovo di farti del male.»
«È bello saperlo.»
«Ti amo ancora. Ti amerò sempre.»
Holden stava rispondendo alle domande che pensava lei gli stesse ponendo,
ma Naomi distolse lo sguardo. Il suo sorriso era triste, ma anche reale. «Sempre
è un tempo molto lungo.»
«Sono il capitano di questa nave. Tecnicamente, potrei celebrare ora il nostro
matrimonio.»
Naomi scoppiò a ridere. «Vorresti farlo?»
«Sto bene così. Il matrimonio mi pare un po’ superfluo, e quella tra marito e
moglie sembra una relazione meno interessante e impegnata di quella fra Holden
e Naomi» replicò lui. «Lui non può vincere, lo sai.»
«Certo che può. È Marco a decidere quando vince.»
«No, ci ho riflettuto. La Marina Libera... è insostenibile. Hanno fatto un sacco
di danni, ucciso una quantità di persone, ma in realtà tutto questo riguarda i
portali. Se non fosse stato per tutta quella gente che si è precipitata fuori di essi
per cercare di fondare una nuova colonia, Marte non sarebbe al collasso e i
cinturiani non sarebbero preoccupati di finire emarginati fino a estinguersi.
Nessuna delle cose che hanno dato un appiglio a Marco si sarebbe verificata.
Però i portali non se ne andranno, quindi tutte le pressioni contro cui sta
combattendo gli sopravvivranno. Le persone continueranno a voler raggiungere
i nuovi sistemi e troveranno i modi per farlo, e le colonie che già esistono là
fuori vorranno mantenere i contatti e i commerci con noi, almeno finché non
potranno davvero camminare con le loro gambe, e per questo ci potrebbero
volere generazioni.»
«Credi che lui sia sul lato sbagliato della storia.»
«Lo è» dichiarò Holden.
«E questo cosa dice di persone come me? Sono cresciuta nella Fascia, e non
vorrei mai vivere in fondo a un pozzo gravitazionale. I portali non se ne
andranno, ma neppure i cinturiani. A meno che non vengano scacciati.»
«Cosa intendi dire?»
Naomi scrollò le spalle. «La storia umana ha visto una quantità di genocidi. Se
hai ragione, allora il lungo termine contempla o i portali o i cinturiani. E i
cinturiani... noi siamo esseri umani, siamo fragili, moriamo. I portali? Anche se
potessimo distruggerli, non lo faremmo. C’è troppa terra vergine in ballo.»
Holden abbassò lo sguardo. «D’accordo, questa volta l’ho fatto io.»
Naomi inarcò un sopracciglio con aria interrogativa.
«Sono stato meno confortante di quanto volessi essere» spiegò lui. «Mi
dispiace.»
«È tutto a posto. In ogni caso, non era questo che intendevo quando ho detto
che è Marco a decidere quando vince. Tu non capisci quanto possa essere
sfuggente. Qualsiasi cosa succeda, modificherà le cose in modo che sembri
essere sempre stato il suo piano. Se fosse l’ultima persona rimasta in vita,
direbbe che avevamo bisogno di un’apocalisse, e dichiarerebbe di aver vinto. È
fatto così.»
Anche se agivano per ordine di Chrisjen Avasarala, ci vollero diciassette ore
perché la Rocinante e l’Azure Dragon ottenessero un attracco sulla Luna. Quando
finalmente gliene assegnarono uno, si ritrovarono nei cantieri militari fuori del
complesso di Patsaev, dove atterravano le navi civili di soccorso. I moli erano
affollati di persone in gruppi e file, e alcune avevano lo sguardo fisso e vuoto
delle vittime di una febbre, altre piangevano per lo sfinimento o il sollievo, o per
entrambe le cose. L’aria puzzava di sudore e risultava stantia, anche dove le
prese d’aria creavano una brezza sostenuta.
Il complesso della Stazione Luna – cantieri navali e centri per convention,
hotel e residence, scuole e complessi di uffici e di magazzini – era abbastanza
grande da accogliere cento milioni di corpi, ma le strutture ambientali sarebbero
andate in sovraccarico già con la metà di quel numero, nonostante il vantaggio
della massa e della conduzione della Luna, che assorbivano il calore residuo. Le
stazioni Lagrange avevano un margine inferiore. Holden cercò di fare qualche
calcolo mentale mentre si aprivano un varco fra la calca. Le stime dicevano che
metà della Terra era già morta. Quindici miliardi di persone erano andate, o
stavano morendo tanto in fretta che era impossibile salvarle. Circa due terzi di
quanti erano ancora vivi si trovavano in quella che i notiziari definivano una
situazione di ‘emergenza’. Dieci miliardi di persone che avevano bisogno di cibo,
o di acqua, o di riparo. E al di fuori del pozzo gravitazionale c’era posto sì e no
per un quarto di milione. Un duecentocinquantamillesimo delle persone in stato
di necessità. Non riuscì a credere che la cifra fosse esatta e provò a rifare i conti,
ma ottenne di nuovo lo stesso numero.
E là fuori c’erano mille mondi, appena al di là dei portali. Perlopiù si trattava di
mondi ostili, ma non più ostili della Terra. Non in quel momento. Se ci fosse
stato un modo per teletrasportare quelle persone da Boston, da Lisbona e da
Bangkok, forse si sarebbero salvate. Forse sarebbero sopravvissute per creare
qualcosa di nuovo e di splendido dalle rovine della Terra, e se un sistema non ce
l’avesse fatta, ci sarebbe stato un migliaio di altre possibilità.
Solo che adesso non ce ne sarebbe stata nessuna, perché il trasporto era
troppo difficile, quindi sarebbero morti dov’erano perché non c’era modo di
farli arrivare in un posto migliore abbastanza in fretta perché la cosa facesse la
differenza.
«Stai bene, capitano?» chiese Amos.
«Benone. Perché?»
«Sembra che ti stia preparando a colpire qualcuno.»
«No» rispose Holden. «Non servirebbe.»
«Da questa parte» disse Bobbie.
Le guardie fuori dagli uffici amministrativi portavano piccole armi automatiche
e indossavano un’armatura. Si fecero da parte e permisero a Bobbie di
oltrepassare la grande porta grigia, con tutti gli altri che la seguivano in fila come
tanti anatroccoli. Gli uffici parevano un mondo diverso. Luci a pieno spettro
risplendevano come il sole dei pomeriggi estivi che Holden ricordava. Felci e
edera si agitavano sotto una lieve brezza che proveniva dai riciclatori dell’aria. I
corridoi erano di mezzo metro più larghi di quelli della Rocinante e avevano
un’aria lussuosa. Soltanto il vago odore di polvere da sparo della polvere lunare e
la gravità a un decimo di g indicavano che quella era la Luna. Tutto il resto
sarebbe apparso del tutto naturale negli uffici delle Nazioni Unite dell’Aia.
Bobbie li guidò come se sapesse dove stavano andando, percorrendo un
corridoio, oltrepassando un altro paio di guardie armate e oltrepassando una
porta di vetro smerigliato. La stanza era costruita come un salotto, con poltrone
e divani disposti intorno a bassi tavolini. Otto o dieci persone erano sparse a
coppie o in piccoli gruppi, e per qualche secondo Holden non comprese chi
fossero.
Un tempo lì tutto era stato o bianco o nero, ma l’uso vi aveva lasciato chiazze
di colore. Il cerchio marrone di una macchia di caffè su un cuscino, una striscia
verdastra lungo un lato di una poltrona. Avasarala era in piedi in fondo alla
stanza, avvolta in un sari arancione che splendeva come una torcia, e parlava con
una donna dai capelli bianchi, con la pelle scura e i fianchi stretti. Quando
Avasarala sollevò lo sguardo per sorridergli, la donna si girò, e Holden incespicò.
«Mamma Sophie?» disse. Poi, come se una lente si stesse mettendo a fuoco,
riconobbe tutti gli altri. Gli anni li avevano cambiati tutti, e vederli attraverso
una videocamera o uno schermo non era la stessa cosa. Papà Tom aveva messo
su peso, e Papà Cesar ne aveva perso, ma erano là che gli venivano incontro
mano nella mano. Papà Anton era diventato calvo, e di persona Mamma Elise
appariva più vecchia e fragile che non sullo schermo. E più bassa. Tutti
sembravano più bassi, perché il sistema della fattoria si era trovato su una
scrivania. Lui li aveva guardati per anni dal basso verso l’alto, su quella scrivania,
senza rendersene conto fino a quel momento.
Tutti e otto i suoi genitori gli si strinsero intorno, il loro corpo che premeva
gentilmente contro il suo, le loro braccia che lo circondavano, come avevano
fatto quando era bambino. Holden si ritrovò a piangere, trascinato dal ricordo di
quando era un bambinetto, circondato e protetto dai corpi amorevoli di otto
forti adulti. Adesso era in mezzo a loro, era il più forte del gruppo, scosso
dall’amore, dalla gioia e dalla terribile comprensione che tanto il bambino che lui
era stato, quanto gli uomini e le donne che loro erano un tempo erano
scomparsi e non sarebbero più tornati. Stavano piangendo tutti. Papà Dmitri,
Mamma Tamara, Papà Joseph. E anche i membri della sua nuova famiglia.
Naomi si premeva una mano contro le labbra, come se stesse cercando di
trattenere le parole, o le emozioni. Alex aveva un sorriso ampio come quello dei
genitori di Holden, e gli occhi che luccicavano. Avasarala e Bobbie parevano
compiaciute, come persone che fossero riuscite a organizzare una bella festa a
sorpresa. Stranamente Clarissa Mao, che se ne stava in disparte con il braccio
ferito chiuso in un’ingessatura a pressione, era scossa da singhiozzi a stento
controllati. Amos invece li guardava tutti come se fosse stato l’ultimo a capire il
senso di una barzelletta; alla fine scrollò le spalle e lasciò che andassero avanti
con quella cosa, qualsiasi cosa fosse. Holden avvertì un impeto di affetto nei
suoi confronti.
«Aspettate» disse. «Aspettate. Tutti quanti, voglio che facciate la conoscenza
di... di tutti quanti, immagino. Tutti, lei è Naomi.»
I suoi genitori si girarono verso di lei, e Naomi sgranò leggermente gli occhi
mentre le narici le si dilatavano appena per il panico, anche se probabilmente
Holden fu il solo a notarlo. Ci fu una pausa che lui non si era aspettato, un
momento incespicante in cui la vide attraverso i loro occhi: lì c’era la ragazza
cinturiana che divideva il letto con il loro figlio. L’ex amante dell’uomo che
aveva ucciso il mondo, la rappresentante di tutto quello che era successo. Una di
loro. La cosa durò un istante, poi un altro. Fu vasta come lo spazio fra i mondi.
«Ho sentito molto parlare di te, cara» disse Mamma Elise, avvicinandosi a
Naomi per stringerla in un ampio abbraccio, e gli altri la seguirono, mettendosi
in coda per darle il benvenuto nella famiglia. Però non era stata un’illusione, quel
momento era esistito. Anche adesso che le due famiglie si stavano mescolando,
con Papà Dmitri e Papà Anton che parlavano della nave con Alex, e Mamma
Tamara e Amos che si guardavano a vicenda con una sorta di divertito
sconcerto, Holden avvertì l’esitazione. Se lui lo avesse chiesto l’avrebbero amata,
ma lei non era una della loro razza.
Quasi non si accorse che Bobbie gli era accanto finché lei non parlò. «È così
che fa. Trova un modo per ripagarti.»
E accennò verso il fondo della stanza, dove Avasarala se ne stava da sola a
osservare la scena con un sorriso che non le arrivava allo sguardo. Holden andò
da lei.
«Mi avevano detto che stavano bene» osservò. «Quando ho parlato con loro,
mi hanno detto di non essere in pericolo.»
«E in un certo senso era vero» replicò Avasarala. «I reattori non si erano
ancora guastati e avevano più riserve di cibo della maggior parte degli altri, per
cui avrebbero potuto resistere ancora... un mese? Come faccio a saperlo. Cibi
conservati. Chi si prende più il disturbo di inscatolare il cibo in casa?»
«Ma li avete evacuati.»
«Un’altra settimana, un altro mese, ma non un altro anno. Non sarebbero stati
al sicuro per sempre, e quando si fossero resi conto che erano fottuti, tutti i
posti sarebbero già stati occupati. Li ho segnalati come profughi prioritari. Posso
fare questo genere di cose. Sono il capo.»
«Dove...»
Avasarala scrollò le spalle. «Saranno alloggiati tutti qui o su L-4. Non sarà una
cosa grande come quella che avevano nel Montana, ma saranno insieme. Posso
ottenerlo. Un giorno forse riusciranno a tornare alla loro fattoria, quando tutto
sarà finito. Sono successe cose anche più strane.»
Holden le prese la mano. Era fredda, dura e più forte di quanto si fosse
aspettato. Lei si girò a fissarlo negli occhi per la prima volta da quando era
entrato nella stanza. Adesso il sorriso le si estendeva agli angoli degli occhi.
«Grazie» disse Holden. «Ti sono debitore.»
Il sorriso di Avasarala cambiò, perdendo la formalità, la freddezza e il distacco
che c’erano stati sotto la superficie, e lei ridacchiò.
«Lo so» rispose.
10
Avasarala
Non dormiva più, o almeno dormire non le era d’aiuto. Il letto della sua suite
era spugnoso, ma lei non vi sprofondava nel modo in cui il suo corpo si
aspettava di fare dopo una vita trascorsa con una forza di gravità normale,
quindi esso le sembrava al tempo stesso troppo morbido e troppo duro. Inoltre,
si supponeva che dormire significasse riposare, ma non c’era più riposo.
Chiudeva gli occhi e la sua mente continuava a funzionare incespicando, come
se stesse cadendo dalle scale. Percentuali di mortalità e finestre di
approvvigionamento e riunioni di sicurezza... tutte le cose che riempivano le sue
cosiddette ore di veglia occupavano anche le sue notti. Dormire significava
soltanto che esse perdevano quel poco di coerenza che avevano, ma non dava la
sensazione di dormire, bensì di impazzire e diventare catatonica per una
manciata di ore, salvo poi recuperare la sanità mentale sufficiente a tirare avanti
per altre diciotto o venti ore prima di collassare di nuovo su sé stessa. Era uno
schifo. Ma andava fatto, quindi lo faceva.
Se non altro, aveva una doccia.
«Sembra che Bobbie Draper sia riuscita a impedire a Holden di mandare
all’aria la missione» disse, mentre si asciugava i capelli. La sua suite era pervasa di
un morbido chiarore azzurro, come la promessa di un’alba imminente. Non che
l’alba avesse più quell’aspetto sulla Terra, adesso, ma un tempo era stata così.
«Mi piace quella ragazza, ma mi preoccupo per lei. È rimasta per troppo tempo
seduta dietro una scrivania. Questo non fa per lei.»
Esaminò i sari che aveva nell’armadio, facendo scorrere le dita sul tessuto
mentre ascoltava il suono della pelle contro di esso, poi ne scelse uno di un
verde cangiante come quello del carapace di uno scarafaggio, con un ricamo
dorato lungo i bordi che intercettava la falsa luce del sole e la faceva apparire
allo stesso tempo allegra e potente. E aveva una collana di ambra e giada che vi
si abbinava. Moda. Tutta l’umanità stava morendo nella sua stessa merda e lei
doveva ancora preoccuparsi dell’aspetto che avrebbe avuto durante le riunioni.
Era patetico.
«Gies e Basrat hanno mandato notizie, oggi» disse ad alta voce. «Tutti
pensavano che fossero morti, ma si erano rintanati sotto una montagna delle
Alpi Giulie. Probabilmente non avevano intenzione di tirare fuori la testa finché
tutto non si fosse calmato, ma sai com’è Amanda. Per lei qualcosa non è mai
reale finché qualcuno non sa che lei ha ragione. Non so perché quei due ti
piacessero.»
Si accorse troppo tardi dell’errore commesso, e qualcosa di enorme e
pericoloso si mosse nel suo cuore. Trasse un profondo respiro, si morse un
labbro e riprese ad avvolgersi il sari intorno al corpo.
«Una volta che avremo messo sotto controllo la Marina Libera, dovremo fare
qualcosa riguardo all’emigrazione. Nessuno vorrà rimanere sulla Terra. Per come
procedono le cose, potrei andarmene anch’io. Andarmene in pensione su
qualche oceano alieno dove non sono costretta a sentirmi responsabile del far
andare le onde su e giù. Marte non si rimetterà mai in piedi. Smith? Si fa
coraggio, ma non è un primo ministro, è l’infermiera per malati terminali di una
repubblica. Quando comincio ad avere la sensazione che il mio lavoro sia
sgradevole, mi riprendo bevendo qualcosa con lui.»
Quelle erano tutte cose che aveva già detto in precedenza, in un modo o
nell’altro. C’erano cose nuove ogni giorno... rapporti dalla superficie planetaria,
dai droni di sorveglianza intorno a Venere, dai suoi agenti segreti sotto copertura
su Giapeto, Ceres e Pallas. Con la Marina Libera impegnata a far apparire l’APE
misurata e razionale, Fred Johnson poteva ancora essere utile per entrare in
contatto con quelle zone della Fascia che capivano quanto fosse pericoloso
Marco Inaros e come il danno già fatto potesse trasformarsi in qualcosa di
ancora peggiore. Dio sapeva che Johnson non portava mai buone notizie, ma
per ogni notizia, per ogni irrevocabile scatto dell’orologio, c’erano cose che lei
riusciva a riciclare. Quelle che rivisitava ripetutamente, come se stesse leggendo
un libro preferito. O una poesia. Cose che diceva perché le aveva già dette prima.
«C’è una cosa che mi hai letto una volta. Riguarda i pini nordamericani»
continuò, frugando nel cofanetto dei gioielli per cercare la collana e i braccialetti
d’oro che si intonavano al ricamo. «La ricordi? Tutto quello che rammento è che
finiva con ‘da-dah, da-dah, da-dah, da-dah, e pavimentò la strada per il Paradiso’.
Parlava di come i semi abbiano bisogno di un incendio prima di potersi
diffondere. Ti ho detto che dava l’impressione che il tentativo di una ragazza al
secondo anno di università di rompere con il suo ragazzo violento fosse una
cosa profonda. Quella poesia. Adesso non riesco a togliermela dalla mente, ma
non riesco neppure a ricordarla. È irritante.»
I braccialetti scivolarono al loro posto. La collana le si adagiò con troppa
leggerezza sulle clavicole. Sedette alla toeletta per applicare l’eyeliner e un po’ di
fard omeopatico sulle guance, appena quanto bastava per farla apparire più vitale
di come si sentisse. L’odore del fard le ricordò l’appartamento in Danimarca in
cui aveva vissuto quando era all’università. Dio, la sua mente vagava ovunque,
ultimamente. Quando ebbe finito, si girò verso il terminale palmare. L’indicatore
mostrava che stava ancora registrando. Sorrise alla videocamera.
«Adesso devo indossare una maschera, immergermi di nuovo in tutto quanto.
Non ti hanno ancora trovato, ma ripeto a me stessa che lo faranno. Che se fossi
morto lo saprei. Non lo so, quindi non è vero. Però sta diventando più difficile,
amore, e se non tornerai presto avrò salvato tanti di questi messaggi che passerai
mezzo semestre a rimetterti al passo con me.»
Solo che non ci sarebbero stati semestri, pensò, o corsi di poesia, o nessuna di
quelle cose che avevano caratterizzato la sua vita prima che quelle rocce
cadessero. Poi, come se fosse stato presente, la voce di Arjun dissentì nella sua
mente, mormorando: Ci sarà sempre poesia.
«Ti amo» disse al terminale palmare. «Ti amerò sempre. Anche...» Non lo
aveva mai detto prima. Non si era neppure permessa di pensarlo, ma c’era una
prima volta per tutto. E anche un’ultima volta. «Anche se non sei qui.»
Smise di registrare, riparò i danni che le lacrime avevano arrecato al trucco e
abbassò la testa come un attore che si preparasse a salire sul palcoscenico.
Quando la rialzò, i suoi occhi erano più duri. Inviò una richiesta di connessione
a Said e lui rispose immediatamente. La stava aspettando.
«Buongiorno, signora segretario» disse.
«Piantala con le stronzate. Quale nuovo inferno abbiamo di fronte oggi?»
«Fra mezz’ora ha un incontro con Gorman Le, del servizio scientifico. Poi la
colazione con il primo ministro Smith, un’intervista con Karol Stepanov
dell’Eastern Economic Strategic Report, e poi la riunione con il Comitato di Strategia
e Reazione. Durerà fino all’ora di pranzo, signora.»
«Stepanov. È quello che ha ricevuto il premio Cigdem Toker, tre anni fa, per
un servizio su Dashiell Moraga?»
«Io... posso verificare, signora.»
«Fottuta miseria, Said, cerca di tenere il passo. È lui, ne sono sicura. Dovrei
parlare con sua moglie, prima di incontrarlo» disse Avasarala. «C’è spazio per
spostare l’intervista nel pomeriggio?»
«Posso crearlo, signora.»
«Fallo. E accertati che l’incontro con Smith sia una cosa privata. Sono stufa
che ogni fottuta cosa che faccio venga esaminata al microscopio. Se dovesse
venirmi un polipo al culo, lo scoprirei leggendo Le Monde.»
«Se lo dice lei, signora.»
«Lo dico io. Manda il carrello. Togliamoci queste cose dai piedi.»
Gorman Le era un uomo esile con chiari capelli castani spruzzati di bianco e
occhi verde giada che Avasarala intuì essere modificati cosmeticamente. Non lo
aveva conosciuto prima di venire sulla Luna. Quando le rocce erano cadute, era
stato promosso a una carica superiore al suo livello di preparazione, e questo
traspariva dal suo atteggiamento troppo serio e dal modo in cui si schiariva la
gola prima di parlare.
«Le navi che... non sono riuscite a completare la transizione tendevano ad
avere una massa più grande» disse. «L’Oleander-Swift, la Barbatana de Tubarão e la
Harmony seguono tutte quello schema, che però non si adatta alla Casa Azul.»
La presenza del servizio scientifico era sempre stata massiccia sulla Luna. Era
lì che era stato costruito il primo telescopio ad ampio spettro libero dalle
interferenze dell’atmosfera. La prima base lunare permanente era stata divisa
equamente fra presenza militare e ricerca. Le generazioni che erano sorte e
cadute dopo di allora, però, si erano lasciate alle spalle il servizio scientifico della
Luna per spingersi più lontano, nei posti dove c’era azione vera: Ganimede,
Titano, Giapeto. E Phoebe, che Dio li aiutasse tutti. Questo aveva ridotto
l’ufficio del servizio con base sulla Luna a poco più di un insieme di uffici
amministrativi e progetti scientifici a livello scolastico. La sala riunioni in cui si
trovavano era di colore grigio-verde, con schermi a parete opacizzati da anni di
abrasione dovuta ai particolati fini e sedie in finta pelle.
«Quello che le sento dire è che non c’è uno schema costante» commentò
Avasarala.
Gorman Le contrasse la mascella e agitò le mani per la frustrazione. «Ci sono
schemi. Ce ne sono parecchi. Tutte le navi avevano propulsori costruiti in una
finestra temporale di venti mesi. Usavano tutte massa di reazione ricavata da
Saturno. Sono scomparse tutte in periodi di traffico elevato. Avevano tutte la
sequenza ‘quattro-cinque-due-uno’ nella forma estesa del codice di registro. Con
così poco su cui basarmi posso trovare tutti gli schemi che vuole che si adattino
a tutte le navi scomparse. Ma qual è quello che conta davvero? No, questo non
glielo posso dire.»
«C’è qualche nave con la sequenza quattro-cinque-due-uno nel codice di
registro che è riuscita a passare?»
Gorman Le sbuffò leggermente, come un criceto infuriato, poi abbassò lo
sguardo e arrossì. «La Jaquenetta, che risulta provenire da Ganimede. È passata
fra la Oleander-Swift e la Harmony e risulta che sia arrivata a Walton senza
problemi.»
«Bene,» commentò Avasarala, divertita che lui avesse effettivamente
rintracciato quel dato «allora possiamo almeno dire che questo schema è meno
probabile.»
«Sì, signora» rispose Gorman Le. «Signora, se potessimo avere ulteriori dati...
sono certo che la Stazione di Medina ha le registrazioni di volo di tutte queste
navi. Forse di altre. E di quelle che non hanno avuto problemi. Se potessimo...»
«Se avessimo il controllo della Stazione di Medina,» lo interruppe Avasarala
«molte cose sarebbero diverse. I nostri amici marziani ci hanno fatto sapere
qualcosa sul perché la loro flotta ribelle era tanto interessata al portale di
Laconia?»
«Neppure la conferma che quella è la direzione presa dalle navi ammutinate.»
Avasarala si accigliò. «Tengono strette le ginocchia dopo che sono già stati
fottuti. Tipico. Parlerò con Smith. Non possiamo arrivare a Medina, ma
dovremmo riuscire ad accedere a tutti i dati di cui disponiamo.»
«Grazie, signora» replicò Gorman Le, ma lo disse alla sua schiena perché lei se
ne stava già andando.
Il movimento era d’aiuto. La sensazione di fare qualcosa, di fare progressi, di
chiarire i problemi e avvicinarsi alle soluzioni, se ce n’erano, teneva a bada la
disperazione. Per Smith la cosa era più difficile. Era a un mondo di distanza
dalla sua casa e dal suo personale. Sulla Luna non c’erano molte infrastrutture
marziane, e quando non era in riunione o non stava scambiando messaggi con
un ritardo di dodici minuti luce, se ne stava seduto nella sua suite ad ascoltare
notiziari in cui lo si definiva un idiota e un buffone, un uomo la cui
disattenzione aveva permesso che la Marina della Repubblica Congressuale
Marziana venisse venduta a terroristi e pirati. E lui non aveva neppure l’impegno
di gestire la peggiore catastrofe della storia umana che lo aiutasse a distogliere la
mente dall’autocommiserazione.
Le venne incontro alla porta. Vestito con semplici pantaloni color sabbia e una
camicia bianca senza colletto, a maniche rimboccate, avrebbe potuto essere un
venditore o un prelato di basso rango. Il suo sorriso era professionalmente
sincero e caloroso, come lo era sempre. Avasarala entrò nella suite e si guardò
intorno: non c’era neppure la sicurezza. Decisamente, era una riunione privata.
Un punto per Said.
La colazione aspettava in sala da pranzo... uova in camicia e spesse fette di
pane tostato imburrato. Era il genere di cibo semplice e raffinato che lei
immaginava fossero soliti concedersi i reali di tutte le epoche, mentre il popolo
su cui regnavano moriva di fame. Notò anche la bottiglia di vino mezza vuota
per terra vicino al divano, lo schermo a parete sintonizzato su un canale di
intrattenimento che trasmetteva una commedia leggermente osé risalente a tre
anni prima. Shannon Poe e Lakash Hedayat erano nudi e cercavano di coprirsi
con lo stesso telo da spiaggia senza guardarsi o toccarsi a vicenda. Era possibile
che la cosa fosse stata divertente, nel contesto. Smith seguì la direzione del suo
sguardo e spense lo schermo.
«Risate» disse. «Un balsamo, in tempi difficili.»
«Dovrò provare» replicò Avasarala. Smith le trasse indietro la sedia, e lei gli
permise di farlo. «Ci sono alcune cose di cui volevo parlare con lei, ma prima c’è
un’altra cosa. Capisco perché il vostro servizio di intelligence tenga segrete le
informazioni relative a Duarte, ma perché cazzo tenete per voi i dati relativi alle
navi inghiottite dai portali? Vi aspettate di barattarli con qualcosa? Perché se è
così, a meno che si tratti di favori sessuali, non abbiamo un accidente di niente
da barattare.»
«Le uova sono buone» disse Smith.
«Volete uova? Dirò loro di strizzare una gallina. Io voglio i dati relativi alle
navi scomparse.»
Smith sorrise e annuì, come se lei avesse detto qualcosa di moderato e cortese.
Il bianco dell’uovo lasciò cadere gocce dorate mentre se lo portava alla bocca. Il
tuorlo gli macchiò il davanti della camicia, ma lui non parve notarlo.
«Cosa c’è?» chiese Avasarala.
«Io... dovrà sottoporre la questione al mio successore. Oggi sono stato
informato che l’opposizione vuole chiedere un voto di sfiducia. Entro questa
sera non sarò più in carica.»
Avasarala trasse un profondo respiro e lasciò fuoriuscire l’aria attraverso i
denti serrati. Il silenzio fra loro si intensificò finché lei non lo interruppe.
«Cazzo.»
«Sono infuriati, e spaventati. Hanno bisogno di qualcuno da incolpare, e io
sono la scelta più ovvia.»
«Chi intendono eleggere?»
«Sono stati menzionati tanto Olivia Liu quanto Chahaya Nelson, ma si tratterà
di Emily Richards.»
Avasarala masticò un po’ di uovo, ma non ne sentì il sapore. Richards non era
male. Se non altro, era seria. Liu e Nelson, invece, erano troppo fossilizzati su
ciò che Marte era stato e non sarebbero stati pronti per ciò che stava
diventando. Le donne della famiglia Richards erano abili politici. Lo erano
sempre state.
«Mi dispiace» disse. «Questo deve essere un duro colpo per lei.»
«I politici sono giocatori d’azzardo» rispose Smith. «Facciamo del nostro
meglio per piegare le probabilità a nostro favore, ma l’universo fa quello che fa.»
Stronzate, pensò Avasarala. I politici sono il lobo frontale del corpo politico.
L’universo fa quello che fa. I marziani sarebbero stati meglio senza di lui. Non
ancora, però.
«Ha un giorno» sottolineò. «Mi dia quei dati prima che sia troppo tardi.»
«Chrisjen...»
«Cosa possono fare? Licenziarla? Che si fottano... mi dia i dati, in modo che
possa risolvere i problemi. E se dovessero darle troppi problemi, le offrirò
asilo.»
Smith scoppiò a ridere e si appoggiò allo schienale della sedia. Il suo sguardo si
spostò sullo schermo spento, poi tornò a posarsi su di lei. Avasarala si chiese se
quella vicino al divano fosse stata la sua prima bottiglia di vino.
«Lo promette?» chiese, come se fosse uno scherzo. Avasarala sorrise.
Il Comitato di Strategia e Reazione. Gli ammiragli Pycior e Souther. Parris
Kanter dello Sviluppo Umano, all’Aia. Michael Harrow di Aquaculture. Barry Li
e Simon Gutierrez di Trasporti e Tariffe. Non era la squadra ideale che lei
avrebbe scelto, ma il meglio di quello che le rimaneva. Seduti intorno al tavolo di
vetro scuro, apparivano tutti stanchi quanto lei sentiva di essere. Bene. Era
giusto che lo fossero.
«Marte» esordì. «Smith è con il culo per terra ed Emily Richards sta per
prendere il suo posto. La contatterò quanto prima. Non so se sarà più aperta,
ma non partirei dal presupposto che lo sia. Voi cosa avete?»
Li parlò per primo. Lo sfinimento accentuava la sua pronuncia blesa, ma la sua
intelligenza faceva apparire più scintillanti i suoi occhi. «Stiamo mantenendo le
rotte di soccorso in Africa e in Europa. La prossima area su cui ci focalizzeremo
è l’Asia orientale.»
«Là non ci sono stati impatti» osservò Avasarala.
«Ma hanno il più elevato livello di depositi di cenere» ribatté Li. «La mia gente
sta elaborando le rotte e le probabili necessità. Le informazioni da terra sono
frammentarie.»
«La Fascia?» chiese Avasarala.
«La Fascia è la Fascia» rispose Pycior. «C’è un’ampia varietà di reazioni.
Ganimede continua a mantenersi neutrale, ma è saldamente nella sfera di
controllo della Marina Libera. Se potessimo offrire protezione, probabilmente si
dichiarerebbe a nostro favore. L’APE è divisa. La Stazione di Tycho, la Stazione
di Kelso e Rhea sono le sole che abbiano condannato la Marina Libera. Le
stazioni troiane e Giapeto non si dichiarano in nessun modo. Quanto alla
maggior parte del resto della Fascia... è a favore della Marina Libera. Finché i
ribelli continueranno a promettere cibo, materiali e protezione, sarà difficile che
i cinturiani moderati riescano a organizzarsi, sempre supponendo che vogliano
farlo.»
Souther si schiarì la gola e prese la parola, con una voce acuta che lo faceva
sembrare un cantante. «Abbiamo passato al setaccio il registro delle
comunicazioni dell’Azure Dragon. Da essi risulta che in questo momento è in
corso su Ceres una riunione di alto livello della Marina Libera. Inaros e i suoi
quattro capitani.»
«Qual è il motivo della riunione» domandò Avasarala, in tono secco.
«Pare che nessuno lo sappia» rispose Souther. «Comunque non ci sono prove
che indichino la presenza di una seconda nave-pastore. Abbiamo identificato
altre sette grosse rocce attualmente in rotta verso la Terra. Le stiamo tracciando
e siamo pronti a distruggerle.»
Il che significava che le loro navi non erano più vincolate. Avasarala si protese
in avanti, premendosi le dita contro le labbra mentre la sua mente danzava
attraverso il sistema solare. La Stazione di Medina. Rhea che si dichiarava ostile
alla Marina Libera. Il cibo e le scorte di Ganimede. La carestia e la morte sulla
Terra. La marina marziana divisa fra il misterioso Duarte, con la sua Marina
Libera messa insieme al mercato nero, e Smith. E adesso Richards. Le colonie
perdute. L’APE di Fred Johnson e tutte le fazioni che lui non poteva influenzare
o comandare. Le navi coloniali assalite dai pirati della Marina Libera e le stazioni
e gli asteroidi che beneficiavano di quella pirateria. E le navi scomparse. E il
campione di protomolecola rubato.
Una dozzina di possibilità le si agitarono nella mente... ridistribuire alcune
forze alla Stazione di Tycho e infondere coraggio a Ganimede, oppure mettere il
blocco a Pallas e cercare di tagliare le capacità di rifornimento della Marina
Libera, o ancora creare una zona protetta per le navi coloniali là fuori. C’erano
migliaia di strade differenti e non poteva sapere con certezza dove avrebbe
portato una qualsiasi di esse. Una scelta sbagliata avrebbe potuto significare il
collasso di tutto quello che restava.
Però Marco Inaros e i suoi capitani erano insieme nello stesso posto, e adesso
le sue navi erano libere di muoversi.
«La fortuna aiuta gli audaci, giusto?» disse. «Al diavolo. Riprendiamoci Ceres.»
11
Pa
La cosa che più lo aveva sorpreso quando tutto era cambiato era quanto poco
tutto fosse mutato, almeno all’inizio. Fra le ultime fasi della ricostruzione e la
marea crescente dei progetti di ricerca, a volte Prax andava avanti per giorni o
settimane senza guardare i notiziari. Tutto quello che c’era di interessante nella
più vasta sfera dell’umanità gli arrivava all’orecchio tramite le conversazioni degli
altri. Quando aveva sentito che il consiglio di governo avrebbe formulato una
dichiarazione di neutralità, aveva pensato che riguardasse il sequestro e lo
scambio di gas. Non aveva neppure saputo che era in corso una guerra finché
Karvonides non glielo aveva detto.
Ganimede sapeva già troppo riguardo all’essere un campo di battaglia. Il
collasso era troppo recente nella loro memoria collettiva, le cicatrici erano
ancora fresche e dolorose. C’erano ancora corridoi inondati dal ghiaccio che non
erano stati liberati dopo l’ultima esplosione di violenza, prima del portale
dell’anello, prima dell’apertura a milletrecento mondi. Nessuno voleva che
questo succedesse di nuovo, e così Ganimede dichiarava che non gli importava
chi gestisse le cose, a patto che si potesse continuare con la ricerca, prendersi
cura delle persone negli ospedali e andare avanti con la loro vita. Era un
massiccio ‘siamo occupati, risolvetevela voi’ rivolto all’universo in generale.
E poi... il nulla. Nessuno aveva rivendicato il dominio su di loro o li aveva
minacciati. Nessuno aveva scagliato loro delle bombe nucleari, o se lo avevano
fatto esse non avevano centrato il bersaglio e la cosa non era neppure arrivata ai
notiziari. Così tanta parte del cibo di Ganimede era prodotto localmente che
nessuno si preoccupava di poter patire la fame. Prax aveva avuto qualche
preoccupazione riguardo ai fondi per la ricerca, ma dopo le prime volte che
aveva sollevato il problema e se lo era visto accantonare, aveva smesso di
provare a parlarne. I carrelli del cibo della stazione servivano lo stesso miscuglio
di granturco fritto e lo stesso tè amaro. Le riunioni di gestione dei progetti
continuavano ad avere luogo ogni lunedì, prima di pranzo. Le generazioni di
piante, funghi, lieviti e batteri vivevano e morivano e venivano analizzate
proprio come sarebbe successo se nessuno avesse mutilato la Terra. O l’avesse
uccisa.
Quando i cinturiani nella divisa della Marina Libera avevano cominciato ad
apparire agli angoli delle strade, nessuno aveva detto niente. Quando le navi
della Marina Libera avevano iniziato a esigere rifornimenti, i loro buoni erano
stati aggiunti all’elenco di valute approvate e i loro contratti erano stati compilati.
Quando i lealisti che riempivano le bacheche e i feed con dichiarazioni a
supporto della Terra e richieste che il consiglio di governo prendesse una
posizione avevano smesso di farsi sentire, nessuno ne aveva parlato. Tutti lo
capivano implicitamente. A Ganimede era permesso di rimanere neutrale
fintanto che la Marina Libera avesse potuto imporlo. Marco Inaros – di cui Prax
non aveva mai sentito parlare prima che quelle rocce cadessero sulla Terra –
poteva non controllare la base, ma era ampiamente disposto a sfoltire le file di
quanti lo facevano fino a modellare l’organigramma nella forma che più gli
piaceva. Pagate un tributo alla Marina Libera e governatevi da soli. Ribellatevi e
sarete uccisi.
Quindi non era cambiato molto, e al tempo stesso tutto era mutato. La
tensione era presente ogni giorno, in ogni interazione, per quanto banale, e
affiorava nei momenti più strani, come nell’esaminare i dati dei rapporti sui test.
«Al diavolo i test sugli animali» disse Karvonides, il volto teso e iroso. «Lasciali
perdere. Questo è pronto per entrare in produzione.»
Khana incrociò le braccia e la fissò con espressione accigliata. Confuso, Prax
aveva solo i dati a cui rivolgersi, quindi lo fece. Il ceppo 18, sequenza 10, del
lievito mietitore se la stava cavando molto bene. I numeri di produzione – sia
quelli degli zuccheri che delle proteine – erano leggermente al di sopra delle
aspettative. I lipidi erano entro i margini di errore. Era stata una buona coltura,
ma...
Il suo ufficio era spartano e piccolo, la stessa stanza che aveva preso quando
aveva riportato Mei a casa dalla Luna. Il primo ufficio del suo incarico in seno al
Comitato di Ricostruzione. Gli altri membri del comitato erano passati ad
ambienti più grandi, con rivestimenti di bambù e luci a spettro potenziato, ma a
Prax piaceva essere dov’era. Ciò che era familiare gli aveva sempre offerto un
grande conforto. Se Khana e Karvonides avessero lavorato in una qualsiasi altra
sezione, ci sarebbe stato un divano, o almeno qualche sedia morbida su cui
potessero sedersi. Invece, gli sgabelli da laboratorio nell’ufficio di Prax erano gli
stessi che si era procurato il giorno in cui era tornato.
«Io...» cominciò, poi tossì e abbassò lo sguardo. «Io non vedo perché
dovremmo infrangere il protocollo. Mi sembra... mmh...»
«Del tutto irresponsabile?» chiese Khana. «Credo che la frase giusta sia ‘del
tutto irresponsabile’.»
«Quello che è irresponsabile è perdere tempo» ribatté Karvonides. «Due
aggiunte al genoma, cinquanta generazioni di crescita... quindi meno di tre
giorni... e avremo una specie che può battere il cloroplasto nella creazione di
zuccheri dalla luce e si estende quasi fino ai raggi gamma. Più le proteine e i
micronutrienti. Usiamo questo per la schermatura del reattore e potremo
spegnere il riciclatore.»
«Questa è un’iperbole» dichiarò Khana. «E si tratta di tecnologia della
protomolecola. Se pensi...»
«Non lo è! Nell’HY1810 non c’è letteralmente niente che provenga da un
campione alieno. Abbiamo guardato la protomolecola, ci siamo detti ‘Questo
non lo può fare, possiamo riuscirci noi?’, e abbiamo studiato come fare qualcosa
di nostro. Proteine native. DNA nativo. Catalizzatori nativi. Niente che possa
esser fatto risalire a Phoebe o all’anello o che provenga da Ilus o da Rho o da
Nuova Londra ha mai toccato questo lievito.»
«Questo... mmh... questo però non significa che sia sicuro» obiettò Prax. «Il
protocollo dei test su animali...»
«Sicuro?» ripeté Karvonides, spostando l’attenzione su di lui. «In questo
momento su tutta la Terra ci sono persone che muoiono di fame. Quanto sono
al sicuro, loro?»
Oh, pensò Prax, questa non è rabbia, è dolore. Lui capiva il dolore.
Khana si protese in avanti con i pugni serrati, ma prima che potesse parlare
Prax sollevò la mano. Dopotutto, era lui a comandare, e non faceva male
esercitare effettivamente quel potere, di tanto in tanto.
«Continueremo con il protocollo dei test su animali» dichiarò. «È una scienza
migliore.»
«Potremmo salvare delle vite» insistette Karvonides. Adesso la sua voce era più
sommessa. «Basta un messaggio. Ho un’amica nel complesso di Guandong che
sarebbe in grado di duplicare l’HY1810.»
«Non intendo continuare questa conversazione» disse Khana, e si sbatté la
porta alle spalle con tanta forza che la maniglia non scattò e la porta tornò ad
aprirsi da sola, come se qualcuno di invisibile stesse venendo a prendere il suo
posto.
Karvonides rimase seduta con le mani sulla scrivania di Prax. «Dottor Meng,
prima di dire di no voglio che venga con me. Stasera c’è una riunione, solo
poche persone. Ci ascolti. Poi se davvero non ci vorrà aiutare, giuro che non
solleverò più l’argomento.»
I suoi occhi erano tanto scuri che era difficile distinguere l’iride dalla pupilla.
Prax esaminò di nuovo i dati. A modo suo, probabilmente lei aveva ragione.
L’HY1810 non era il primo lievito che fosse stato modificato con il radioplasto, e
l’HY1808 e la maggior parte dell’HY17 erano ormai da mesi in fase di
sperimentazione su animali senza che ci fossero effetti negativi statisticamente
rilevanti. Adesso che la situazione sulla Terra era tanto grave, il rischio che
l’HY1810 avesse effetti negativi era quasi certamente inferiore al pericolo della
morte per fame. Si sentiva lo stomaco stretto per l’ansia. Voleva andarsene.
«È brevettato» sottolineò, sentendo il tono lamentoso nella propria voce,
mentre lo diceva. «Anche se eticamente potessimo diffonderlo, le conseguenze
legali, non solo per noi, ma per i laboratori in generale, sarebbero...»
«Venga a sentire» ripeté Karvonides. «Non dovrà dire niente, non dovrà
neppure parlare.»
Prax grugnì, un piccolo suono sbuffante concentrato dietro il naso, come
quello di un ratto infuriato.
«Ho una figlia» disse.
Il silenzio fra di loro si protrasse per lo spazio di un respiro. Poi di un altro.
Infine: «Certamente, signore. Capisco.»
Karvonides si alzò facendo strisciare lo sgabello sul pavimento. Suonava come
una scusa dozzinale. Prax sentì il bisogno di dire qualcosa che gli si agitava nel
petto, ma non sapeva cosa, e prima che lo appurasse lei se n’era andata. Chiuse
la porta con maggior gentilezza di Khana, ma in modo più definitivo. Prax
rimase lì seduto, grattandosi un braccio anche se non gli prudeva, poi chiuse il
rapporto.
Il resto della giornata fu occupato dal suo lavoro nei laboratori idroponici. Il
suo nuovo progetto era una felce modificata per purificare l’acqua e l’aria. Le
piante erano disposte in lunghe file, con le fronde che oscillavano sotto la brezza
costante e ben regolata. Le foglie, tanto verdi da apparire quasi nere, avevano un
odore familiare e accogliente. I sensori avevano continuato a raccogliere dati fin
dal giorno precedente, e l’esaminarli fu per lui come sedere in compagnia di un
vecchio amico. Le piante erano tanto più facili da gestire rispetto alle persone.
Quando ebbe finito passò di nuovo dal suo ufficio, rispose a una mezza
dozzina di messaggi e riesaminò le riunioni fissate per la mattina successiva.
Erano tutte cose di routine, le stesse che faceva prima che le rocce colpissero la
Terra. Era un rituale.
Quel giorno però prese la misura aggiuntiva di aggiungere un blocco
amministrativo ai dati sull’HY1810. Cercò di non pensare troppo al perché lo
aveva fatto. In un angolo della sua mente si agitava qualcosa di vago riguardo al
poter dimostrare di aver fatto tutto il possibile. Non sapeva bene davanti a chi
immaginasse di doversi difendere, ma la verità era che non voleva pensarci
davvero.
Si sentì nervoso nel raggiungere a piedi la stazione della metropolitana. Le
pareti di piastrelle chiare, il soffitto ad arco sopra la piattaforma, tutto era
proprio com’era stato dalla ricostruzione, e appariva minaccioso solo a causa
delle cose che aveva in mente. Mentre aspettava il suo treno, comprò un
cartoccio di carta incerata pieno di caglio di soia fritto con olio d’oliva e sale. Il
venditore era un terrestre, e Prax notò come tenesse i capelli e la barba lunghi,
facendoli crescere verso l’esterno dal cranio per imitare la testa leggermente più
grande dei veri cinturiani. La sua pelle era scura, quindi i tatuaggi dell’APE che
aveva sulle mani e sul collo non spiccavano quando avrebbero dovuto. Una
colorazione criptica, pensò mentre un campanello annunciava l’arrivo del suo
treno. Probabilmente è una buona idea. Era interessante vedere come l’umanità
adottasse le stesse strategie che si vedevano ovunque in natura. Dopotutto,
erano parte della natura stessa. La tattica della mimetizzazione.
Quando arrivò a casa, Mei era già là. Il suo chiacchiericcio che si mescolava ai
toni leggermente più acuti della voce di Natalia, sovrastandoli, proveniva come
una musica dalla stanza dei giochi. Prax chiuse a chiave la porta alle proprie
spalle e andò in cucina, dove Djuna stava preparando un’insalata per cena e
leggeva qualcosa sul terminale palmare nello stesso tempo. Lei sospese entrambe
le attività per rivolgergli un sorriso di saluto, e Prax le baciò una spalla prima di
prendere una birra dal piccolo frigorifero.
«Non è il mio turno di preparare la cena?» le chiese.
«Hai acconsentito a farlo domani per via della riunione che ho sul tardi...»
cominciò Djuna, poi si interruppe nel vedere la birra che lui aveva in mano. «È
uno di quei giorni?»
«È andato tutto bene» rispose Prax, ma non riuscì a convincere neppure sé
stesso. Una parte di lui pensava che avrebbe dovuto parlarne con Djuna, ma era
una parte egoista. Djuna aveva già i suoi fardelli e il suo lavoro, e comunque non
avrebbe potuto fare niente riguardo a Karvonides o all’HY1810. Se non poteva
risolvere la situazione, era quindi inutile coinvolgerla in quel problema. Inoltre,
se qualcuno glielo avesse chiesto, lei sarebbe stata sincera nel rispondere che non
ne sapeva niente.
Durante la cena parlarono degli aspetti meno pericolosi del lavoro: le piante di
Prax, le biopellicole di Djuna. Mei e Natalia stavano avendo una delle loro
giornate di buona, quando sembravano più amiche che sorellastre, e fecero a
turno a parlare delle cose che erano successe a scuola. David Gutmansdottir era
stato male a causa dei nuovi pasti e aveva dovuto andare in infermeria, e il
compito in classe di matematica era stato ritardato, e tutte e due avevano avuto
lo stesso voto, il che comunque andava bene perché avevano saltato domande
diverse, per cui il signor Seth sapeva che non avevano imbrogliato, e comunque
l’indomani era il Giorno del Vestito Rosso, per cui tutte e due dovevano
accertarsi di scegliere gli abiti giusti prima di andare a letto e...
Prax le ascoltò parlare insieme a briglia sciolta, accatastando soggetti verbi e
complementi oggetto come se stessero correndo in discesa. Natalia aveva la
pelle scura di Djuna, i suoi zigomi alti e il naso largo. Accanto a lei, Mei appariva
pallida e rotonda come le antiche fotografie della Luna. Dopo cena fu il turno di
Mei di riordinare e Prax l’aiutò un poco. La verità era che lei non ne aveva
bisogno, ma gli piaceva la sua compagnia e fra non molto sarebbe stata
abbastanza grande da cominciare a differenziarsi dall’unità familiare. Fu poi l’ora
dei compiti, per tutti, poi del bagno e infine dell’andare a letto. Mei e Natalia
rimasero sveglie a parlare da una camera all’altra finché Djuna non chiuse la
porta di comunicazione. Anche allora le due ragazze continuarono a parlare,
come se dovessero bruciare tutte le energie prima di poter finalmente dormire.
Sdraiato accanto a Djuna, con il braccio che le faceva da cuscino, Prax si
chiese dove fosse Karvonides e se la sua riunione era andata bene. Si domandò
se sperava o meno che fosse così. Forse avrebbe dovuto accettare il suo invito,
anche solo per sapere cosa stava succedendo...
Non si accorse che si stava addormentando finché non fu svegliato dal
campanello della porta. Si sollevò a sedere, disorientato. Djuna lo fissava con
occhi sgranati e spaventati. Il campanello suonò ancora, e il primo pensiero
coerente di Prax fu che avrebbe dovuto andare ad aprire prima che svegliasse le
bambine.
«Non andare» disse Djuna, ma lui stava già attraversando la camera da letto
con passo barcollante. Afferrò la vestaglia, annodandone la cintura mentre
incespicava nella penombra. Il quadrante del sistema indicava che era da poco
passata la mezzanotte. Il campanello trillò ancora, poi ci fu un bussare
sommesso ma profondo, come se si fosse trattato di un grosso pugno che usava
solo una piccola parte della sua forza. Sentì Mei gridare qualcosa, e per lunga
esperienza comprese che era ancora addormentata ma non lo sarebbe rimasta
per molto. I peli gli si rizzarono e la sua pelle d’oca aveva ben poco a che vedere
con la temperatura dell’aria.
«Chi è?» chiese, attraverso il battente chiuso.
«Dottor Praxidike Meng?» replicò la voce soffocata di un uomo.
«Sì» rispose Prax. «Chi è?»
«Sicurezza» replicò la voce. «Per favore, apra la porta.»
Avrebbe voluto chiedere di quale sicurezza si trattasse, se della Stazione di
Ganimede o della Marina Libera, ma ormai era troppo tardi. Se era la sicurezza
della stazione, aprire la porta aveva senso. Se si trattava della Marina Libera, non
aprire non li avrebbe fermati. Le sue azioni successive sarebbero state le stesse in
entrambi i casi.
«Certo» disse, deglutendo a fatica.
I due uomini nel corridoio portavano un’uniforme grigia e blu: era la sicurezza
della stazione. Il sollievo che lo pervase fu la prova di quanta paura avesse avuto.
Di quanta ne avesse sempre, di quei tempi.
«Come posso aiutarvi?» domandò.
L’obitorio aveva l’odore di un laboratorio. Il sentore chimico del sapone di
fenolo aggrediva un po’ le narici e si sentiva il ronzio pulsante dei filtri per l’aria
che lavoravano a pieno ritmo. Insieme alle luci bianche, questo gli ricordava i
suoi anni all’università superiore. Anche allora aveva seguito un corso al
laboratorio di anatomia, ma il cadavere che aveva dissezionato era stato immerso
in liquido conservante. Non era così recente, e le sue condizioni erano migliori.
«L’identificazione è sicura» affermò uno degli agenti della sicurezza. «Le misure
e i marcatori corrispondono, come pure l’ID. Però sa com’è, non ci sono parenti
sulla stazione, e il sindacato ha le sue regole.»
«Davvero?» replicò Prax. Lo aveva chiesto in tutta sincerità, ma quando lo
disse ad alta voce quella parola assunse sfumature che non erano nelle sue
intenzioni. Può un sindacato avere ancora importanza quando non c’è quasi più
neppure un governo? Ci sono ancora delle regole? L’uomo della sicurezza fece
una smorfia.
«È come abbiamo sempre fatto» dichiarò, e Prax colse il tono difensivo della
sua voce. La sfumatura di minaccia, come se lui fosse stato responsabile di tutti i
cambiamenti che stavano subendo.
Karvonides giaceva sul tavolo, coperta da un telo di gomma nera che ne
preservava la modestia. La sua espressione era calma. Le ferite al collo e sul lato
della testa erano brutte e complesse, ma la mancanza di sangue fresco dava
l’illusione che non fossero gravi. Le avevano sparato quattro volte. Si chiese se
gli altri partecipanti all’incontro fossero in altre stanze, su altri tavoli, in attesa di
altri che li identificassero.
«Confermo l’identificazione» disse.
«Grazie» rispose l’altro agente della sicurezza, e gli porse un terminale palmare.
Prax lo prese e premette il palmo sullo schermo. L’apparecchio trillò quando
ebbe finito di registrare, un suono assurdamente allegro in quelle circostanze,
poi Prax restituì il terminale e guardò il volto della donna morta, desideroso di
capire cosa provasse nei suoi confronti. Aveva la sensazione che avrebbe dovuto
piangere, ma non ne sentiva la voglia. Nella sua mente, lei era la prova non di un
crimine, ma di ciò che il mondo era diventato. La sua morte non era l’inizio di
un’indagine, ma la sua conclusione. I dati erano chiari. Cosa succede quando ti
opponi? Vieni abbattuto.
«Possiamo farle qualche domanda sulla defunta, dottor Meng?»
«Certamente.»
«Da quanto tempo la conosceva?»
«Due anni e mezzo.»
«In quale veste?»
«Era una ricercatrice nei miei laboratori. Mmm. Mi dovrò accertare che i suoi
set di dati vengano recuperati... posso annotarmelo? O devo aspettare la fine
dell’interrogatorio?»
«Questo non è un interrogatorio, signore. Proceda pure.»
«Grazie.» Prax tirò fuori il terminale palmare e aggiunse una voce all’elenco
delle cose da fare l’indomani mattina. All’inizio pensò ci fosse qualcosa che non
andava con lo schermo, ma era solo la sua mano che tremava. Rimise in tasca il
terminale. «Grazie» ripeté.
«Ha idea di chi può averle fatto questo? O del perché?»
È stata la Marina Libera a farle questo, pensò Prax. Lo hanno fatto perché
cercava di opporsi a loro, e lei lo stava facendo perché ci sono persone che
soffrono e patiscono la fame e muoiono quando potrebbero non farlo, e lei
aveva il potere di fare la differenza. Lo hanno scoperto e l’hanno uccisa. Come
ucciderebbero me, se rendessi loro le cose difficili.
Guardò gli occhi indagatori dell’uomo della sicurezza. Come ucciderebbero
anche voi, pensò.
«C’è qualcosa che ci può dire al riguardo, signore? Anche un piccolo dettaglio
potrebbe essere d’aiuto.»
«No» rispose Prax. «Non ne ho idea.»
14
Filip
«Sul serio» disse Arnold Mfume, uno dei piloti di riserva di Fred Johnson «hai
usato un cannone a rotaia come propulsore? Per sottrarre una nave a un’orbita che
stava decadendo?»
Alex scrollò le spalle, ma avvertì comunque il calore di un senso di orgoglio
sbocciargli nel petto. «Naomi ha fatto tutti i calcoli» rispose. «Io mi sono
preoccupato soprattutto di fare da babysitter alla Roci mentre eseguiva gli ordini.
Però... ecco, sì.»
«È una fottuta follia.»
«In realtà non avevamo scelta» spiegò Alex. «Abbiamo finito per fare un po’ di
improvvisazione, in un modo o nell’altro.»
Seduta di fronte a lui, Sandra Ip sorrise. Alex non seppe decidere se il modo in
cui continuava a guardarlo negli occhi indicasse quanto era ubriaca, l’inizio di un
invito erotico o un po’ di entrambe le cose. Comunque fosse, si sorprese a
ricambiare il suo sorriso.
«Vorrei esserci stato» disse Mfume.
«Io invece vorrei non essere stato lì» ribatté Alex. «È molto più divertente
adesso che non sta più succedendo. In quel momento, era più una situazione
che rientrava nella categoria dell’oh-merda-moriremo-tutti.»
«Le avventure sono così» interloquì Bobbie, e il pigro sorriso di Ip si spostò su
di lei senza alterarsi di molto. Quindi forse era più ubriaca che altro. «Le
situazioni di merda si trasformano poi in storie interessanti.»
«Ho sentito dire che tu hai affrontato in un corpo a corpo un soldato della
protomolecola» disse Mfume.
«Quella non è neppure una storia interessante» replicò Bobbie. Il suo sorriso
impedì che la situazione si facesse imbarazzante, ma risultò chiaro che
quell’argomento di conversazione era decisamente chiuso. Mfume cambiò
posizione sulla sedia, e Alex vide che era tentato di insistere, di indurre Bobbie
ad aggiungere qualcosa, anche se solo qualche parola.
«Allora, se volete parlare di volare,» intervenne «dovreste sentire di quella volta
in cui Bobbie e io abbiamo cercato di seminare la Marina Libera.»
«Sono sicura che abbiamo già raccontato quella storia» osservò Bobbie.
Alex sbatté le palpebre e abbassò lo sguardo sul proprio bicchiere. Aveva
ragione, aveva già raccontato quella storia, e considerato che erano rimasti tutti lì
seduti a bere, era possibile che Ip non fosse la sola a essere alticcia. «Giusto»
annuì. «In tal caso, se volete parlare di volare, dovreste ordinare di nuovo da
bere.»
Sollevò un braccio e si appoggiò allo schienale della sedia, cercando di attirare
lo sguardo del cameriere.
Il Blue Frog era un bar del porto, e se avesse dovuto tirare a indovinare, Alex
avrebbe detto che aveva visto giorni migliori. I tavoli rotondi si accalcavano
insieme all’interno di strutture più ampie e luminose che definivano i séparé e
contro cui lui e gli altri si appoggiavano. Una delle luci sembrava sporca e il
tavolo era scheggiato. Diversi menu fornivano dettagli sui servizi offerti: cibi,
bevande, prodotti farmaceutici, sesso. Un palcoscenico vuoto prometteva
musica dal vivo, o burlesque, o forse un karaoke, ma più tardi, non ora.
Soprattutto, si trattava dell’odore del posto. Non era sgradevole, né sapeva di
marcio, ma era stanco, come olio usato o sigillante vecchio.
L’equipaggio allargato della Rocinante occupava tre tavoli. Seduto alla destra di
Alex c’era Amos, che sorrideva come un Buddha vagamente minaccioso ed era
insieme a Clarissa Mao, Sun-yi Steinberg e un giovane a torso nudo che Alex
sospettava fosse stato ordinato su un menu. Alla sua sinistra Naomi e Chava
Lombaugh portavano avanti una fitta conversazione, mentre Gor Droga e Zach
Kazantzakis se ne tenevano al di fuori. Gli altri tavoli erano dominati da un
misto di equipaggi terrestri e marziani, il cui taglio di capelli regolamentare e le
uniformi ordinate sembravano fuori posto, quasi rimproverassero l’architettura
per essere quello che era. Qua e là i locali sedevano insieme in gruppetti come se
stessero difendendo una posizione da un assedio. Le occhiate scoccate di
soppiatto dai nativi di Ceres non esprimevano tanto un senso di minaccia
quanto sconcerto. La musica che scaturiva da altoparlanti nascosti rimaneva più
bassa della conversazione, con qualche nota in scala maggiore che creava
un’ambigua onda di suono che non era né festosa né triste.
Il gestore, un uomo dalla pelle scura con freddi occhi azzurri e un permanente
accenno di sogghigno, intercettò lo sguardo di Alex, gli rivolse un cenno di
assenso e gli mandò una cameriera. Il sorriso sul volto della donna sembrava
quasi sincero. Alex ordinò un altro giro per tutto il tavolo, e quando riportò la
sua attenzione sulla conversazione scoprì che l’argomento era cambiato.
«Nel servizio c’erano regole a riguardo» disse Bobbie.
«Ma c’erano anche modi per aggirarle, giusto?» chiese Ip. «Quello che intendo
è... non mi vorrai dire che nella marina marziana sono tutti nubili o celibi.»
Bobbie scrollò le spalle. «Avere una relazione con qualcuno di un grado
superiore o inferiore al tuo nella catena di comando non è uno scherzo.
Congedo con disonore, perdita di tutti i vantaggi e magari del tempo in prigione.
Questo fa passare parecchio la voglia. Io però non ero nella marina. Sono... ero
un marine. Se c’erano un po’ di rapporti incrociati fra i servizi, questo non era
considerato un problema finché non cominciava a interferire con l’efficienza
operativa.»
«Ho sentito dire che mettevano sostanze chimiche nel cibo per diminuire la
libido» commentò Arnold.
Bobbie scrollò le spalle. «Se lo facevano, non ne mettevano abbastanza.»
«E come funziona la cosa sulla Rocinante?» domandò Ip, rivolgendo la sua
piena attenzione su Alex. Quella era decisamente qualcosa di più di una
domanda dettata dall’alcol. «Avete delle regole contro un po’ di squallida
fraternizzazione spicciola?»
Alex ridacchiò, non sapendo bene se cominciava a sentirsi eccitato o a disagio.
«Il capitano e il primo ufficiale stanno insieme praticamente da quando ci siamo
imbarcati. Sarebbe difficile far rispettare quella regola al resto di noi.»
Il sorriso di Ip cambiò. «Tu eri nella marina, vero? Tu e il marine, qui, siete
mai...»
Alex rimpianse di aver ordinato un altro giro, perché pareva che presto
avrebbe avuto bisogno della sua lucidità mentale. «Io e Bobbie? No. Non è mai
successo.»
«In realtà non abbiamo viaggiato insieme così tanto,» aggiunse Bobbie «e
comunque... senza offesa, Alex.»
«Nessuna offesa.»
«Davvero?» insistette Ip, protendendosi in avanti. Premette il ginocchio contro
quello di lui in un modo che era del tutto innocente... a meno che non lo fosse,
nel qual caso era del tutto non innocente. «Non avete mai voluto farlo?»
«Ecco,» rispose Bobbie «c’è stata una notte, su Marte. Credo ci sentissimo
entrambi un po’ soli, e probabilmente me la sarei fatta con lui, se me lo avesse
chiesto.»
«Non lo so» si schermì Alex, d’un tratto accaldato e incapace di guardare
Bobbie negli occhi. «Non puoi dirmi una cosa del genere.»
Ip mantenne la gamba premuta contro la sua e lo guardò inclinando il capo. La
domanda era chiara. ‘È una cosa che stai ancora cercando di chiarire?’ Alex le
sorrise a sua volta. ‘No, in realtà non c’è mai stato niente.’
La voce di Naomi salì di tono, sovrastando il mormorio della conversazione e
la musica. Si stava protendendo in avanti sul tavolo, un dito sollevato
nell’esporre un suo punto di vista a Chava con fare un po’ alticcio. Alex non
riuscì a cogliere le sue parole, ma conosceva i suoi toni di voce abbastanza bene
da sapere che non era arrabbiata. Non davvero, comunque. In quei casi, Naomi
abbassava la voce, non la alzava.
La cameriera riapparve con un vassoio carico di bicchieri e Ip si chinò in
avanti per prendere il suo, poi non tornò ad appoggiarsi all’indietro. Alex sentì
qualcosa rilassarsi in un angolo della sua mente. Era trascorso molto tempo
dall’ultima volta che aveva commesso quel particolare tipo di errore. Pensò che
era ora di rifarlo.
«Scusatemi per un momento» disse. «Devo trovare il bagno.»
«Spicciati a tornare» replicò Ip.
«Contaci.»
Mentre attraversava il locale, oltrepassando il bancone per imboccare il
corridoio sul retro, Alex si sentì come qualcosa uscito da una barzelletta
scadente. I soldati che si accoppiavano dopo la battaglia era forse lo scenario più
vecchio e logoro che ci fosse, ma lo era diventato per un motivo. La tensione
dell’andare in battaglia era diversa da qualsiasi altra sensazione lui avesse mai
provato, e il sollievo quando essa si allentava era profondo e inebriante. Non si
trattava solo di lui o di Ip. Non era neppure solo sesso. Aveva conosciuto
uomini controllati e ordinati come un’immagine da manuale di addestramento
che avevano trascorso le ore successive a un’azione piangendo o vomitando.
C’era stato un pilota – una donna di nome Genet – che soffriva di un’insonnia
cronica che perfino i medicinali potevano solo moderare. Ogni notte si alzava
per un’ora, fra le due e le tre del mattino, tranne che dopo un’azione, perché
allora dormiva come un neonato per tutta la notte. Era la conseguenza
dell’essere un primate con un corpo costruito per la savana del Pleistocene.
Paura e sollievo, desiderio e gioia erano tutti racchiusi nella stessa piccola rete di
nervi, da qualche parte nelle profondità della sua amigdala, e a volte si
toccavano.
Il volo dalla Terra era stato breve e duro, ed era parso durare per sempre. I
sensori a lungo raggio non mostravano minacce attive fra i porti della Luna e la
Fascia, ma per tutto il tragitto un pensiero era rimasto sospeso nell’aria come
fumo: c’erano rocce non individuate che stavano precipitando sulla Terra? Su
Marte? Marco Inaros era tre passi avanti a loro, come sembrava essere sempre?
Perfino Fred Johnson era parso preoccupato, mentre camminava per i corridoi
con le mani intrecciate dietro la schiena. La battaglia di Ceres era imminente. Il
primo scontro della guerra dopo quella prima imboscata. La flotta congiunta
avrebbe scoperto quanto fosse effettivamente duro un mucchio di cinturiani che
pilotavano navi da guerra marziane rubate, e c’erano motivi per aspettarsi che si
rivelassero ossi dannatamente duri da rodere.
Quando nel sondare Ceres con i sensori avevano rilevato i pennacchi dei
reattori, Alex si era sentito il cuore in gola. Una battaglia a lungo raggio. Siluri
lanciati da una distanza estrema su vettori imprevedibili, progettati per
avvicinarsi in fretta e con forza nella speranza di sfuggire ai CPD. Si era chiesto se
Marte fosse mai riuscito a costruire buoni siluri stealth, e se i traditori che
avevano rifornito la Marina Libera avessero venduto loro anche quelli, se
esistevano. Aveva trascorso ore sul sedile a smorzamento a controllare ogni
anomalia rilevata dai sensori della Roci, sia che fosse o meno sopra la soglia di
pericolo. Quando aveva dormito, aveva sognato solo di questo.
Quando poi i dati avevano indicato che le navi della Marina Libera si stavano
allontanando, sparse come semi, anche lui, come ogni pilota della flotta
congiunta, aveva cercato la strategia insita in quella manovra, i cerchi di gravità e
propulsione indicanti dove la battaglia si sarebbe svolta, cosa il nemico aveva in
mente. Ogni volta che non aveva trovato una risposta aveva recepito la cosa
come una minaccia, con la certezza che ci fosse uno schema e che lui non era
semplicemente abbastanza sveglio da vederlo che gli formava un nodo di
tensione alla base del cranio fino a fargli pulsare gli occhi. Il suo solo conforto
era stato che gli equipaggi della marina terrestre e marziana, che vivevano
respirando tattiche di guerra, erano frustrati quanto lui. Quando la trappola della
Marina Libera fosse scattata, sarebbero morti a sorpresa, tutti insieme.
Solo che la cosa aveva continuato a non succedere.
Poi le prime navi – due trasporti di truppe terrestri e uno di Marte – avevano
raggiunto i moli, e Alex aveva trattenuto il respiro. Ceres era la città portuale
della Fascia, ed era là, priva di protezione e invitante come l’esca di una trappola.
Il controllo del traffico aveva dato il permesso di avvicinarsi. La flotta congiunta
aveva attraccato, i soldati si erano riversati sui moli, il momento per la resistenza
era giunto e passato. Erano cominciati ad arrivare i rapporti, molti dei quali
erano indirizzati a Fred Johnson. La Marina Libera se ne era andata, non c’era
resistenza armata e non c’erano soldati, solo una manciata di trappole esplosive,
magazzini e riserve idriche vuoti, e una forza di sicurezza estremamente ridotta e
ansiosa di arrendersi a chiunque fosse stato disposto ad assumere il comando.
La battaglia della Stazione di Ceres non aveva mai avuto luogo. Invece, la
flotta congiunta e i locali sindacati ingegneristici avevano messo insieme un team
di risposta d’emergenza che era tuttora impegnato a riparare alla meglio i sistemi
ambientali e gli impianti di riciclaggio per impedire il collasso della stazione.
Prima che la Rocinante attraccasse, Fred Johnson aveva trascorso tutto il suo
tempo scambiando messaggi su raggio stretto con Avasarala, sulla Luna, e con
chiunque gli rispondeva da Marte, dove il voto di sfiducia contro Smith si era
trasformato in una crisi costituzionale a pieno titolo. Dopo che avevano
attraccato, affiancato da una squadra di sicurezza, Fred era scomparso in un
vortice di incontri con i gruppi locali dell’APE, i sindacati e i pochi resti
traumatizzati del personale amministrativo.
Il resto dell’equipaggio era andato al bar.
All’inizio era stato strano – a pensarci, lo era ancora – guardare la gente della
Stazione di Ceres reagire ai loro nuovi invasori. Tutti quelli che Alex incontrava
parevano essere fatti di un misto di confusione, sollievo, rabbia e di una sorta di
dolore informe che si era diffuso per i corridoi della stazione come un vapore.
Ceres era un porto enorme, da anni indipendente dai pianeti interni, e adesso
forse era stato riconquistato da essi. O forse era stato salvato. Nessuno pareva
sapere se la flotta congiunta fosse il martello vendicatore della Terra o la prova
finale che l’APE di Fred Johnson era una forza politica legittima. O se magari era
successo qualcosa di più grande e strano.
I sorrisi dei nativi di Ceres erano esitanti, e nei loro occhi si leggevano rabbia e
perdita. Anche lì al Blue Frog, dove gli equipaggi erano bene accolti e serviti con
il meglio del poco che rimaneva, la flotta e i nativi si tenevano separati, incerti gli
uni degli altri. Segregati per scelta e dalla storia. Alex si sorprese a pensare alla
cosa come ai cinturiani al banco e gli interni ai tavoli, ma questo non era vero. Ip
e Mfume e tutta la gente di Fred appartenevano all’APE. Perfino le divisioni fra le
persone parevano nuove, e nessuno era ancora del tutto certo di quali tacite
regole andassero applicate.
Nell’emergere dal bagno degli uomini, Alex fu accolto da un muro di suono.
Nei pochi minuti in cui era stato indisposto, qualcuno aveva attivato il karaoke e
stava gridando una versione da ubriaco della versione di Noko Dada di No
Volveré, però senza le parti armoniche. Si fermò all’estremità del bancone e lasciò
scorrere lo sguardo sui tavoli nella speranza di trovare un angolo dove poter
scambiare con tranquillità qualche parola con Sandra Ip, lontano dal palco.
Holden sedeva a un tavolo per conto suo, chino su un boccale bianco e con
un feroce cipiglio sul volto che destò in Alex un senso di ansia. Al suo tavolo,
Bobbie e Ip parlavano fra loro mentre Mfume rideva. Ip guardò verso di lui,
sorrise e batté un colpetto sul sedile, accanto a sé. Alex sollevò un dito per
chiederle di dargli un minuto e si diresse verso Holden.
«Ciao, socio» lo salutò. «Stai tenendo insieme i tuoi pezzi?»
Holden sollevò lo sguardo e si guardò intorno come se fosse stato sorpreso di
trovarsi là. Dopo un momento, rispose: «Sì, no. Sto bene.»
Alex inclinò la testa da un lato. «Pare che tu abbia detto tre cose diverse, una
dopo l’altra.»
«Io... ah. Sì. L’ho fatto, vero? Sto bene.» Accennò con la testa al piccolo
pacchetto dorato che Alex aveva in mano. «Quello cos’è?»
Alex sollevò il pacchetto. Lo aveva preso da un dispenser nel bagno degli
uomini. L’esterno di stagnola recava impressa una testa di drago e qualche
assurdo kanji che non significava niente.
Holden aggrottò la fronte. «Medicine contro la sbornia?»
Alex si sentì arrossire e cercò di nasconderlo dietro un sorriso. «Ecco, stavo
pensando che qui potrei venirmi presto a trovare in un certo tipo di situazione in
cui tutti devono essere in grado di capire a cosa stanno acconsentendo.»
«Sei sempre un gentiluomo» commentò Holden.
«La mia mamma mi ha allevato bene. Però, seriamente, è tutto a posto? Lo
chiedo perché fissi quel caffè come se ti avesse appena insultato.»
Holden abbassò lo sguardo sulla tazza. Verso la conclusione i toni della
canzone si fecero acuti. Gli applausi furono radi e deboli. Holden rigirò la tazza
di caffè sul tavolo, facendo ondeggiare la superficie nera del liquido. La
porcellana strisciò sul piano del tavolo finché non risuonarono gli accordi di un
nuovo pezzo e una voce di donna si lanciò in una cover cinturiana creola di
Cheb Khaled. Quando Holden parlò, la sua voce fu a stento udibile al di sopra
della musica.
«Continuo a pensare a come mio padre ha definito i cinturiani smilzi davanti a
Naomi, e al modo in cui lei l’ha presa.»
«La famiglia può essere difficile da gestire» disse Alex. «Soprattutto quando le
emozioni vengono stimolate.»
«È vero, ma non è quello che...» Holden allargò le mani in un gesto frustrato.
«Ho sempre pensato che se ricevevano tutte le informazioni, le persone
avrebbero fatto la cosa giusta, sai? Non sempre, forse, ma di solito e comunque
più spesso di quando avrebbero scelto di fare la cosa sbagliata.»
«Tutti sono un po’ ingenui, a volte» replicò Alex, e nel momento in cui le
parole gli uscirono di bocca ebbe la sensazione che forse non aveva afferrato del
tutto il punto di Holden. Forse avrebbe dovuto prendere la prima pillola per
tornare sobrio prima di lasciare il bagno degli uomini.
«Mi riferivo ai fatti» continuò Holden, come se non lo avesse sentito affatto.
«Pensavo che se si esponevano i fatti, le persone avrebbero tratto le loro
conclusioni, e siccome i fatti erano veri, lo sarebbe stato anche la maggior parte
di quelle conclusioni. Noi però non funzioniamo in base ai fatti, ci basiamo sulle
storie riguardo alle cose, sulle persone. Naomi mi ha detto che quando le rocce
sono precipitate, la gente sulla nave di Inaros ha applaudito. Che erano
contenti.»
«Già.» Alex fece una pausa, sfregandosi una nocca sul labbro superiore.
«Considera che potrebbero essere tutti un mucchio di stronzi.»
«Non stavano uccidendo persone. Nella loro testa stavano sferrando un colpo
per conquistare la libertà, o l’indipendenza. O per pareggiare i conti per tutti i
bambini cinturiani che ricevevano schifosi ormoni per la crescita. Per tutte le
navi sequestrate perché erano indietro nel pagare le tasse di registrazione. E a
casa è lo stesso. Papà Cesare è un brav’uomo, è gentile e divertente, e per lui i
cinturiani sono tutti della Marina Libera e radicali dell’APE. Se qualcuno
distruggesse Pallas, lui si preoccuperebbe delle conseguenze del calo di capacità
di raffinazione prima di pensare a quanti bambini in età prescolare ci sono sulla
stazione, o chiedersi se al figlio del direttore della stazione piaceva scrivere
poesia. O se far esplodere la stazione ha significato che Annie, al centro di
contabilità di Pallas, non potrà fare la sua grande festa di compleanno.»
«Annie?» chiese Alex.
«L’ho inventata. Chiunque sia, il punto è che io non sbagliavo riguardo al dire
alla gente la verità. Avevo ragione su questo, ma sbagliavo riguardo a quello che
la gente ha bisogno di sapere. E... e forse posso rimediare. Voglio dire, sento che
dovrei almeno provarci.»
«D’accordo» rispose Alex. Era sicuro di aver perso già da un po’ il filo di ciò di
cui stavano parlando, ma se non altro Holden pareva meno cupo. «Questo
significa che stai per fare qualcosa?»
Holden annuì, poi bevve in un solo sorso quanto rimaneva del suo caffè, posò
la tazza sul tavolo e batté una pacca sulla spalla di Alex. «Sì. Grazie.»
«Lieto di essere stato d’aiuto» rispose lui. Poi, rivolto alla schiena di Holden
che si allontanava, aggiunse: «Almeno, credo di esserlo stato.»
Al tavolo, Sandra Ip era passata a bere qualcosa di analcolico. Bobbie e Arnold
stavano confrontando storie sull’arrampicata libera con diversi livelli di forza di
gravità, mentre Naomi e Clarissa Mao erano vicine al palco, pronte a cantare a
loro volta. Ip intravide il pacchetto che Alex aveva in mano, e il suo sorriso fu
una promessa che le cose sarebbero andate davvero molto bene per lui.
Tuttavia, dovette scorgere qualcosa nella sua espressione, o nel suo
atteggiamento mentre si sedeva.
«Tutto bene?» chiese.
Alex scrollò le spalle «Te lo dirò quando lo scoprirò.»
17
Holden
«Il pericolo è quello di fare il passo più lungo della gamba» disse Bobbie,
chinandosi in avanti sul tavolo in un modo che lo faceva apparire piccolo. «Ci
hanno messi al tappeto e noi abbiamo ottenuto un paio di facili vittorie. La
tentazione di spingerci fin dove possiamo e cercare di spezzarli è forte. Pare che
li abbiamo sbilanciati, ma la verità è che stiamo ancora valutando le dimensioni
delle sue forze, e lui sta studiando cosa facciamo.»
«E cosa stiamo facendo?» chiese Naomi, spingendo verso di lei una ciotola di
uova strapazzate con tofu e salsa piccante.
Bobbie prese un boccone e masticò pensosamente. Seduta di fronte a lei,
Naomi assaggiò il contenuto della sua ciotola. A quanto pareva, Maura Patel
aveva aggiornato il sistema alimentare e adesso la salsa piccante della Roci aveva
un sapore leggermente diverso, che però cominciava a piacerle. C’era qualcosa di
gradevole nelle novità, e anche un senso di nostalgia per quello che era cambiato
che non riguardava solo il cibo, ma si estendeva a tutto.
«Credo non lo sappia nessuno,» continuò Bobbie «ma il mio insegnante di
tattica al centro di addestramento reclute, il sergente Kapoor, era un
entomologo...»
«Il tuo sergente addestratore era un entomologo?»
«Si tratta di Marte» replicò Bobbie, scrollando le spalle. «Lì la cosa non è
strana. In ogni caso, lui parlava di cambiamenti di strategia come se fossero stati
la parte centrale di una metamorfosi. A quanto pare, un bruco crea un bozzolo,
e la cosa successiva che fa è sciogliersi. Si liquefà completamente. Poi tutti i
piccoli pezzi di quello che era un bruco si riuniscono a formare una falena o una
farfalla, o qualcosa. Trova un modo diverso di assemblare gli stessi pezzi e di
creare qualcos’altro.»
«Somiglia alla protomolecola.»
«Uh. Sì, suppongo di sì.» Bobbie mangiò un altro boccone delle sue uova, lo
sguardo fisso sulla parete opposta. Rimase silenziosa tanto a lungo che Naomi si
chiese se avrebbe ripreso a parlare.
«Lui però intendeva qualcosa di tattico?» domandò.
«Sì. Intendeva che rigirare la propria strategia era una cosa del genere. Si entra
in una situazione vedendola in un modo particolare, poi qualcosa cambia. A quel
punto puoi attenerti alle idee che ti eri fatto o considerare tutto quello che hai
con cui lavorare e trovare una forma nuova. Noi siamo alla parte del trovare una
forma nuova. Avasarala è impegnata a cercare di impedire il collasso di quel che
resta dell’ambiente della Terra, ma una volta che esso si sarà stabilizzato
cercherà di catturare Inaros e chiunque altro abbia mai respirato la sua stessa aria
per processarli tutti. Vuole che quanto hanno fatto sia riconosciuto come un
crimine.»
Sandra Ip emerse dall’ascensore, rivolse loro un cenno del capo e prelevò un
bulbo di tè dal distributore.
«Perché credi che voglia farlo?» chiese Naomi. «Voglio dire, perché trattarlo
come un crimine e non come un atto di guerra?»
«Credo sia una dichiarazione di disprezzo. Nel frattempo, però, Marte sta...
non so, credo stia scoprendo che, nonostante tutta la nostra forza, siamo fragili.
Non so bene come ne emergeremo, ma non torneremo mai a essere quelli che
eravamo, non più di quanto lo farà la Terra. E Fred? Cerca di creare un
consenso e delle coalizioni perché è quello che ha continuato a fare per
decenni.»
«Ma tu non credi ci possa riuscire.» Non era una domanda. Ip lasciò la
cambusa e il suono dei suoi passi si allontanò mentre Bobbie rifletteva.
«Credo che mettere insieme la gente sia una buona cosa, che in generale sia
utile, però... probabilmente non ne dovrei parlare. Ci si aspetta che io funga per
lui da rappresentante di Marte. Una sorta di giovane ambasciatrice, o qualcosa
del genere.»
«Lui sta cercando di ricostruire il suo bruco adesso che abbiamo bisogno di
una farfalla» osservò Naomi.
Bobbie sospirò, mangiò un ultimo boccone di uova e gettò la ciotola nel
riciclatore. «Potrei sbagliarmi» disse. «Forse funzionerà.»
«Possiamo sperare che lo faccia.»
Il terminale di Bobbie trillò e lei si accigliò nell’esaminare il messaggio in
arrivo. I suoi movimenti, anche quelli così minimi, trasudavano la forza e il
controllo derivanti dall’addestramento, ma c’era anche qualcosa di più. Un senso
di frustrazione.
«Oh, gioia» commentò in tono asciutto. «Un’altra riunione importante.»
«È il prezzo dell’essere al centro degli eventi.»
«Suppongo di sì» rispose Bobbie, issandosi in piedi. «Tornerò quando potrò.
Grazie per permettermi di dormire a bordo.»
Mentre le passava accanto, Naomi le posò una mano sul braccio, fermandola.
Non sapeva esattamente cosa avrebbe detto finché non parlò. Sapeva soltanto
che era legato alle idee di equipaggio e di famiglia, e al tentativo di non tradire
chi eri davvero. «Ma tu vuoi essere un ambasciatore giovane?»
«Non lo so. Suppongo che sia una cosa che deve essere fatta» replicò Bobbie.
«È dai tempi di Io che sto cercando di reinventare me stessa. Forse da
Ganimede. Mi piaceva davvero lavorare al centro per veterani, ma non mi
manca adesso che ho smesso di farlo, e suppongo che sarà lo stesso per questo.
È una cosa che deve essere fatta. Perché me lo chiedi?»
«Non devi ringraziare nessuno per il fatto di dormire qui. Se la vuoi, quella
cabina è tua.»
Bobbie sbatté le palpebre con un accenno di sorriso triste. Si allontanò di
mezzo passo ma non si girò, il che era un’espressione fisica di esitazione. Naomi
lasciò che il silenzio si prolungasse fra loro. «Apprezzo il pensiero,» replicò
infine Bobbie «ma aggiungere qualcuno a un equipaggio? È un grosso passo, e
non so cosa ne penserebbe Holden.»
«Ne abbiamo parlato. Lui ti considera già parte dell’equipaggio.»
«Però adesso sto facendo l’ambasciatore.»
«Già. Lui pensa che il nostro cannoniere sia l’ambasciatore marziano di Fred.»
Naomi sapeva che stava forzando un po’ la realtà delle cose, ma ne valeva la
pena. Bobbie rimase immobile per una frazione di secondo. Poi per un’altra.
«Non lo sapevo» disse, e senza aggiungere altro si avviò verso l’ascensore, il
portello e la Stazione di Ceres. Naomi la guardò allontanarsi.
Gli incendi a bordo erano pericolosi. Su una nave, c’era una quantità di
processi che potevano portare a superare il punto dell’ossidazione spontanea, e il
trucco consisteva nel sapere quando lasciar circolare l’aria avrebbe avviato la
combustione e quando non lo avrebbe fatto. A volte, parlare con Bobbie era
come posare una mano su un pannello di ceramica per vedere quanto era caldo,
cercare di intuire se un po’ d’aria avrebbe raffreddato quella donna massiccia o
scatenato le fiamme.
Sola nella cambusa, Naomi si dedicò a un po’ di manutenzione: pulire tavoli e
panche, controllare le condizioni dei filtri dell’aria, pulire l’alimentazione del
riciclatore. Avere tante persone a bordo li portava a consumare le scorte di
provviste più in fretta di come fosse abituata a fare. La passione di Gor Droga
per il chai aveva assottigliato le loro scorte di analogo del tè. Sun-yi Steinberg
preferiva una bevanda al limone che consumava gli acidi e le proteine
strutturanti. Clarissa Mao mangiava cibo secco e acqua... cibo da prigione.
Nel controllare i livelli delle scorte, Naomi dovette ricordare a sé stessa che la
Roci trasportava il triplo del suo equipaggio abituale, anche se questo rientrava
ampiamente nelle specifiche e nelle capacità della nave. La Tachi era stata
progettata per due equipaggi di volo completi e cabine piene di marine marziani,
e ribattezzarla non aveva modificato le cose, aveva solo cambiato le sue
aspettative. Comunque, presto avrebbero dovuto rinnovare le scorte di
provviste.
Gli aromi e le spezie che impedivano a tutti di mangiare come Clarissa
sarebbero stati difficili da procurare. Le scorte scarseggiavano su Ceres e sarebbe
stato lo stesso non solo in tutta la Fascia, ma adesso anche sui pianeti interni.
Tutti i complessi organici forniti in precedenza dalla Terra potevano essere
sintetizzati in laboratorio o coltivati nelle serre idroponiche di Ganimede, di
Ceres e di Pallas, o dei resort turistici di Titano. Il problema, come pensò nel
reinstallare l’iniettore della macchina del caffè, era la capacità. Potevano creare
qualsiasi cosa, ma non potevano crearla tutta insieme. L’umanità si sarebbe
dovuta adattare con un minimo di risorse finché non ci fosse stato un modo di
aumentare la produzione, e una quantità di persone che vivevano ai limiti delle
loro possibilità non ce l’avrebbero fatta. Molta gente sarebbe morta sulla Terra,
certo, ma anche sfamare la Fascia non sarebbe stato un problema da poco.
Mentre gettava il vecchio iniettore nel riciclatore, si chiese se Marco avesse
pensato a queste cose, o se i suoi sogni di gloria avessero spazzato via ogni piano
realistico per prendersi cura delle vite che aveva sconvolto. Su questo doveva
tirare a indovinare. Marco era una creatura propensa ai grandi gesti. Le sue storie
riguardavano quel singolo momento critico che cambiava tutto, non i momenti
che venivano dopo. Da qualche parte nel sistema, in quello stesso momento,
Karal, o Ali, oppure – anche solo pensare quel nome era come toccare una piaga
aperta – oppure Filip si stavano occupando sulla Pella dello stesso genere di
manutenzione che lei stava svolgendo sulla Roci. Si chiese quanto tempo
avrebbero impiegato a rendersi conto che le spoglie di guerra non avrebbero
potuto rifornire in eterno le loro navi.
Probabilmente non sarebbe apparso evidente finché non avessero consumato
tutto. I re erano sempre gli ultimi a patire la fame. Questo non valeva solo per la
Fascia, si estendeva a tutta la storia. Le persone che erano state impegnate
soltanto a vivere la loro vita erano quelle che potevano parlare del costo
effettivo della guerra, che lo pagavano per prime. Gli uomini come Marco
potevano orchestrare vaste battaglie, ordinare il saccheggio e la distruzione di
mondi, e non rimanere mai senza caffè.
Quando la cambusa fu in ordine, prese l’ascensore e salì sul ponte di comando.
C’era una nuova analisi delle navi che erano scomparse nell’attraversare i portali.
Non erano nuovi dati, soltanto un riesame di quelli vecchi. Il fascino che
provava per quel fenomeno proveniva da un senso di timore. Aveva attraversato
quei portali, viaggiato nello strano non-spazio che collegava i sistemi solari, e fra
tutti i pericoli che aveva affrontato, quello di svanire silenziosamente non le era
neppure passato per la mente. Ad alcune centinaia di persone – e forse anche a
un numero più elevato – era successo qualcosa. Le menti migliori della Terra e
di Marte, quelle che non erano impegnate a cercare di far fronte al collasso
dell’ambiente e del governo, stavano indagando su quel fenomeno. Lei non
aveva le loro risorse, o lo stesso background di conoscenze su cui basarsi, ma
aveva la sua esperienza personale, e forse avrebbe visto qualcosa che a loro era
sfuggito.
E così controllò. Come un detective dilettante, seguì indizi e intuizioni, e come
la maggior parte di quel genere di investigatori non trovò nulla. La nuova
conversazione sui feed era una teoria relativa alla firma del propulsore della Casa
Azul, indicante che probabilmente il reattore era stato configurato male, ma a
parte essere un errore da principiante che trasformava un sacco di energia in
calore residuo, lei non ci vide nulla di pericoloso. Di certo non il motivo per qui
quella o le altre navi potevano essere scomparse.
L’analisi era appena passata a supposizioni relative a un guasto dei sensori
interni della Casa Azul che avrebbe aumentato la pressione nella bottiglia del
reattore – cosa che lei aveva supposto dall’inizio – quando il suo terminale
palmare trillò. Era Bobbie. Accettò la connessione e sullo schermo apparve il
volto di Bobbie. Naomi avvertì un senso di allarme.
«Cosa succede?» le chiese.
Bobbie scosse il capo. Probabilmente con quel gesto voleva allentare la
tensione, ma esso ricordò a Naomi il video di un toro che si preparava a
caricare. «Sai dove sia Holden? Non risponde al comunicatore.»
«Forse sta dormendo. La scorsa notte è rimasto alzato fino a tardi per lavorare
alle riprese di quella trasmissione che sta curando con Monica.»
«Potresti andare a svegliarlo?» chiese Bobbie. La parete alle sue spalle era di
pietra scolpita, con luci a incasso. Naomi ritenne che si trattasse del palazzo del
governatore, e la voce di Fred Johnson, che si sentiva in sottofondo, bassa e
intrisa di irritazione, glielo confermò.
Si alzò, prendendo con sé il terminale. «Vado subito» rispose. «Cosa succede?»
«Non capisco perché sei coinvolto in questa cosa» disse Fred Johnson.
Seduto di fronte a lui alla scrivania, Holden appariva ancora assonnato, con gli
occhi gonfi e i capelli leggermente scomposti dalla cuccetta a smorzamento.
Bobbie sedeva a braccia conserte da un lato, e intervenne prima che Holden
potesse rispondere.
«Conosceva il capitano Pa» disse. «Ha lavorato con lei su Medina, prima che
diventasse Medina.»
«Quando era parte della mia catena di comando» replicò Fred. «Lei non è un
fattore ignoto, era uno dei miei e l’avevo assegnata io a quella nave. Non ho
bisogno che nessuno mi dica chi è o cosa pensa di lei.»
Bobbie si incupì in volto. «Benissimo. Ho fatto venire qui Holden perché ho
pensato che forse a lui avresti dato ascolto.»
Holden sollevò un dito. «In realtà non so cosa sta succedendo» protestò.
«Quindi, sentiamo: cosa sta succedendo?»
«Michio Pa fa parte della cerchia interna di Inaros» spiegò Bobbie. «Pare però
che abbia infine capito che è un grandissimo stronzo, perché ha disertato e ha
cominciato a mandare scorte di viveri a posti che ne hanno bisogno senza
l’autorizzazione della Marina Libera. Adesso Inaros le sta sparando contro e lei
vuole che le diamo una mano.»
«Scorte di viveri?» ripeté Fred, con voce dura come la pietra. «È così che le
chiami?»
«È così che le chiama lei» ritorse Bobbie.
Holden lanciò un’occhiata a Naomi con un’espressione che diceva ‘le cose non
stanno andando bene’.
Naomi rispose con un sorriso. ‘Lo so, chiaro?’
«Michio Pa sta rubando navi coloniali per conto della Marina Libera» disse
Fred. «Anche se non è complice nella distruzione della Terra, ha sulle mani il
sangue di ogni colone ucciso dalla sua pirateria. Quelle non sono scorte di viveri,
sono spoglie di guerra. Una guerra contro di noi.»
«Marco le sta sparando contro?» intervenne Holden, cercando di prendere le
redini della conversazione, ma Fred era concentrato su Bobbie e non intendeva
lasciar perdere.
«Questo è lo scenario migliore in cui potevo sperare, Draper. La coalizione di
Inaros sta andando in pezzi. Si sparano fra loro, e non contro di noi. Se Pa
ridurrà la flotta di Inaros, per noi affrontarlo sarà molto più facile, e ogni nave di
Pa che lui disintegra è una in meno che darà la caccia a gente innocente,
rubandone le proprietà. Per me, per la Terra o per Marte non c’è nessun
vantaggio nel farci coinvolgere, e personalmente sono risentito che tu abbia
chiamato qui i tuoi amici per cercare di costringermi con la forza a pensarla
diversamente.»
«Non sei il solo che abbia un addestramento militare» ritorse Bobbie. «Non sei
il solo che debba soppesare l’eventualità di accogliere alleati problematici o che
abbia esperienza di comando. Però in questa stanza sei il solo che sia fottutamente
in errore.»
Fred si alzò in piedi, e Naomi si schiacciò contro i cuscini della poltrona
quando Bobbie avanzò verso di lui con i pugni serrati e la mascella in fuori. Fred
socchiuse gli occhi.
«Non sono interessato...» cominciò.
«Se vuoi che venga qui, indossi un’uniforme marziana e approvi come una
marionetta tutto quello che dici, hai trovato la ragazza sbagliata» lo interruppe
Bobbie, un po’ parlando e un po’ gridando. «Credi che il tuo magico pigiama
party della coalizione dell’APE interverrà a sistemare le cose? Hai già fallito. Non
vengono più da te. Hai Ceres, hai una flotta e hai me come il tuo dannato
allestimento da vetrina, e non è abbastanza, quindi smettila di comportarti come
se lo fosse!»
Quelle parole colpirono Fred come un pugno. Barcollò leggermente
all’indietro, serrando le labbra. È stato così quando la coalizione di Marco è
andata in pezzi?, si chiese Naomi.
Quando Fred parlò, la sua voce era più sommessa, ma più fredda. «Capisco
perché piaci tanto ad Avasarala.»
«È vero?» chiese Holden, e questa volta finalmente lo sentirono. «L’APE non
verrà?»
«Ci sto mettendo un po’ più di quanto speravo a organizzare le cose, e potrei
dover trovare un posto diverso per la riunione. Un luogo che sia territorio
neutrale.»
«Territorio neutrale» ripeté Holden, con una nota di scetticismo nella voce.
«Alcune di queste persone sono ostili da una vita ai pianeti interni» spiegò
Fred. «La flotta congiunta le rende nervose. Devono avere la sicurezza che noi si
sia concentrati esclusivamente sulla Marina Libera, non su di loro. Tutto qui.»
Fred e Bobbie rimasero in piedi, imbarazzati. Adesso la loro ira era sfumata,
ma entrambi rifiutavano di essere il primo a fare un passo indietro. Naomi tossì,
anche se non ne aveva bisogno, poi si alzò e andò a versarsi un bicchiere
d’acqua. Fu sufficiente. Bobbie si rimise a sedere e Fred la imitò un momento
più tardi. Holden sedeva incurvato sulla sua poltrona. Naomi versò dell’acqua
anche per lui e gliela portò quando tornò a sedersi.
«Questo capitano Pa» riprese Bobbie, rivolgendosi ora direttamente a Holden
«era della cerchia interna. Se potessimo portarla a essere disposta a scambiare
informazioni con la nostra protezione, potrebbe fornirci qualche dato utile per
spezzare Inaros.»
Fred scosse il capo. L’ira era scomparsa dalla sua voce, ma non la
determinazione. «Pa è un cane sciolto. Ha una storia di defezione e di
ammutinamento.»
«L’ultima volta che si è ammutinata, mi ha salvato la vita,» commentò Holden
«e forse ha salvato anche quella di tutti gli umani esistenti. Qui manca un po’ di
contesto.»
«Non viene da noi come alleata e non sta offrendo di sospendere i suoi atti di
pirateria o anche solo di rallentarli. Collaborare con lei significa che saremo
anche noi responsabili di ogni nave che sequestrerà d’ora in poi.» Fred enfatizzò
la fine di quella tirata calando la grossa mano sul piano del tavolo.
«Si offre di fornire provviste a Ceres» obiettò Bobbie.
«Provviste ottenute rubando, e forse uccidendo.»
Fred allargò le mani, ma Holden non lo stava guardando. Naomi sorseggiò
l’acqua. Era fredda, con un pungente sapore di minerali e non allentò il nodo
che aveva in gola. Dovette resistere all’impulso di tirarsi i capelli davanti agli
occhi. Bobbie aveva portato lì Holden come qualcuno che combattesse al suo
fianco, qualcuno che Fred Johnson conosceva e rispettava, ma la marziana non
conosceva Jim bene quanto lei. Perfino la lealtà – perfino l’amore – non lo
avrebbero mai indotto a compromettere quello che era il suo senso di ciò che
era giusto o sbagliato. Si chiese se Bobbie sarebbe rimasta sulla Rocinante, dopo
questo. Si augurava di sì.
Chiunque non avesse conosciuto bene Holden avrebbe ritenuto che apparisse
pensoso, ma Naomi poteva scorgere il dolore nella piega delle labbra e
nell’angolazione delle sopracciglia. Il senso di perdita. Posò il bicchiere e gli
prese la mano. Lui sollevò lo sguardo, come se si stesse ricordando solo ora
della sua presenza, e nel guardarlo negli occhi Naomi immaginò di vedere una
luce spegnersi nelle loro profondità. O meglio, no, non si era spenta. Non era
estinta, era solo avvolta da qualcosa. Un’armatura. O forse rammarico.
«D’accordo» disse. «Come facciamo a metterci in contatto con Pa?»
Naomi rimase interdetta. Anche il volto di Fred esprimeva la stessa sorpresa e
confusione.
«Vuoi cercare di forzarmi la mano?» chiese Fred. «Non lo faremo.»
«Se necessario, puoi rimuovere la tua gente dalla Roci» disse Holden, annuendo
come se stesse acconsentendo a qualcosa. Fred si accigliò in un modo da cui si
capiva che, a suo parere, parlare personalmente con Pa poteva essere soltanto il
secondo peggior piano presente sul tavolo. «Se dovremo farlo da soli, saremo
meno efficaci, ma faremo il possibile.»
«Faremo?» domandò Naomi.
Jim le strinse le dita. «Avremo bisogno di qualcuno come lei» rispose, in tono
così gentile che fu come se qualcuno sussurrasse una canzone d’amore.
Naomi non era certa di cosa intendesse, e questo non la fece sentire meglio.
21
Jakulski
«Favór» disse Shului. «Non ti chiederò nada alles. Però fai questo per me, sa sa?»
Jakulski agitò le mani aperte in un gesto di rifiuto. Kelsey era in bagno, quindi
erano soli nel centro di comando tecnico di Medina. Siccome era posto al di
fuori del corpo centrale, era uno dei pochi posti della stazione sempre privi di
gravità. I sedili erano fissati a quello che sarebbe stato il pavimento, se mai i
reattori della stazione fossero stati riattivati. Angeli vestiti in blu e oro
spingevano delle arcate verso un Dio che, in assenza di gravità, pareva guardarli
in tralice. La sola parte che aveva senso per Jakulski erano le stelle.
Shului era il ritratto della disperazione: la bocca era contorta dalla tensione,
teneva le mani protese dinanzi a sé e aveva lo sguardo implorante. Il grosso
orzaiolo sulla palpebra superiore dell’occhio sinistro sembrava qualcosa tratto
dal Libro di Giobbe.
«Non posso» replicò Jakulski. «Ho promesso alla mia squadra che stanotte
avrei offerto io.»
«Lo farò io al tuo posto. Salderò sus conto, y alles la» insistette Shului. «Favór.»
Era già stato un turno lungo, e la verità era che Jakulski non vedeva l’ora di
sedersi da qualche parte dove ci fossero almeno un po’ di gravità e uno scotch
decente. Inoltre, il cibo secco bianco servito nel caffè frequentato di solito da
Salis e da Vandercaust gli ricordava la sua infanzia. La prospettiva di rimanere
per un altro mezzo turno – e, cosa ancora peggiore, di indossare per mezzo
turno quella pinché uniforme da cerimonia della Marina Libera – per poter
prendere parte alla cerimonia di benvenuto al posto di Shului non lo attirava.
Era però difficile contemplare la disperazione che traspariva dall’espressione
del giovane. Se fosse stato furbo, avrebbe continuato a rifiutare finché Kelsey
non fosse tornato. Sarebbe stato più facile se ci fosse stato qualcun altro
presente. Avrebbe impedito a Shului di umiliarsi tanto. Non posso. Mi dispiace.
E sarebbe finita lì.
«Perché?» domandò. «È soltanto una cerimonia di benvenuto, sì?»
Shului si mostrò imbarazzato e indicò l’occhio infetto. «Rindai sarà presente.
Vedrà questo. Favór, fratello.»
«Che! La stai ancora evitando? Non ti morderà. Parlale.»
«Lo farò, lo farò» garantì Shului. «Ma solo dopo esá bastardo sarà guarito, sì?»
«Bist bien» assentì Jakulski, scuotendo il capo. Poi, con un sospiro, aggiunse:
«Favór.»
Per un momento pensò che Shului lo avrebbe abbracciato, ma per fortuna il
giovane si limitò a prenderlo per le spalle e ad annuire in un modo secco che
probabilmente considerava virile. Essere giovani significava essere senza dignità.
Essere giovani e innamorati era anche peggio. Lui stesso era stato un cucciolo,
un tempo, pieno degli stessi desideri e paure propri di ogni generazione. Il fatto
che maturando li avesse superati non significava che non ricordasse com’era
stato. E, dannazione, quell’occhio impastato di pus era difficile da guardare.
Mandò un messaggio alla squadra tecnica – Vandercaust, Salis e Roberts –
avvisando che gli era stato assegnato un periodo extra di servizio e che se poteva
li avrebbe raggiunti quando avesse finito. Vandercaust rispose con un generico
assenso. Probabilmente era la sola risposta che avrebbe ricevuto da loro, ma
forse sarebbe riuscito a sgusciare via dalla cerimonia abbastanza in fretta da
raggiungere la squadra. Avrebbe coperto Shului e non avrebbe dato alla squadra
tecnica la sensazione di considerarsi superiore a loro. Avrebbe dato un colpo al
cerchio e uno alla botte. Se fosse riuscito a fare tutto, sarebbe stata una notte
stancante, ma alcune notti erano così.
E le persone erano pur sempre persone, non importava dove andasse o cosa
facesse.
Kelsey tornò dal bagno e prese posto sul sedile a smorzamento principale, con
gli angeli che guardavano benevoli in basso da sopra la sua spalla. Quando
Jakulski disse che doveva smontare qualche minuto prima per poter andare nella
sua cabina a cambiarsi, Shului fu pronto a dire che non importava e che avrebbe
pensato lui a tutto.
La transizione dal centro di comando alla sommità della nave al corpo centrale
si effettuava mediante una lunga rampa ricurva che Jakulski percorse su un
carrello le cui ruote aderivano al plancito con qualsiasi g, arrivando fino alla
superficie interna del corpo centrale per poi scendere da lì sotto il falso terreno,
come un cavernicolo che scendesse nel sottosuolo. La sua cabina era in fondo,
verso la sezione di ingegneria. Se avesse saputo che avrebbe dovuto andare ad
accogliere la Proteus e i grandi personaggi provenienti da Laconia si sarebbe
portato dietro l’uniforme di gala all’inizio del turno e avrebbe preso l’ascensore
che correva per tutta la lunghezza della nave, fuori del corpo centrale, ma così
andava quasi altrettanto bene.
Fin dall’inizio, il corpo centrale era stato costruito spazioso, più come una
stazione che una nave, quasi si fosse saputo cosa la struttura era destinata a
diventare. Lunghi corridoi dall’alto soffitto e luci a spettro completo, come
quella che c’era stata sulla Terra prima che Marco scaraventasse una manciata di
montagne nel suo cielo. Imboccò uno dei corridoi diagonali, che curvava verso
la sua cabina sull’ipotenusa della griglia di traffico del corpo centrale, e si
permise di sentirsi un po’ filosofico riguardo a come le luci di Medina erano una
sorta di memoria radicata nella loro specie, un’idea di luminosità sopravvissuta
alla luce che l’aveva ispirata. Come avevano fatto i cinturiani. Luce della Fascia.
Era una bella idea, ma era anche un po’ malinconica, il che a suo parere la
rendeva anche migliore. In tutte le cose belle ci sarebbe dovuto essere appena un
po’ di dolore perché le faceva apparire reali.
La sua cabina era stata costruita per un giovane mormone single che vivesse
solo prima di sposarsi, ma per lui era più che sufficiente. Si tolse la tuta, la gettò
nel riciclatore, si pettinò i capelli e tirò fuori la divisa della Marina Libera, poi
proiettò la propria immagine sullo schermo a parete per vedere che aspetto
aveva. Quel dannato arnese era fottutamente scomodo da indossare, ma
nonostante questo dovette ammettere che gli stava più che bene. Un uomo
distinto, un anziano del suo popolo, ecco cos’era.
Con sua sorpresa, scoprì di avvertire quasi un senso di anticipazione.
Medina era stata in tensione da quando era arrivata la notizia che Pa e le sue
navi avevano disertato, ma era stata poca cosa. Lì tutti erano stati parte dell’APE
prima di appartenere alla Marina Libera, e insieme all’APE erano stati membri del
Collettivo Voltaire, o di Black Sky, o del Ramo d’Oro. O del Sindacato. Fazioni
dentro fazioni dentro fazioni, a volte con gruppi molto diversi che reclamavano
uno stesso nome, questa era una cosa tipica della Fascia quanto il cibo secco
rosso e il whisky di funghi.
Sotto un certo aspetto, quella frattura nella Marina Libera era perfino
confortante, non perché significava che le cose andavano bene, ma perché
stavano andando a rotoli in un modo familiare. Pa cercava di acquisire uno
status superiore, e Marco l’avrebbe rimessa al suo posto. L’umanità funzionava
ancora come aveva sempre fatto. In ogni caso, tutti gli scontri si stavano
verificando all’interno dell’orbita di Giove. Nessuno voleva che si estendessero
fino a raggiungere la zona lenta. Se Duarte si mostrava teso per la situazione era
perché non era originario della Fascia. Qualsiasi cosa lui e i suoi stessero facendo
dal lato opposto del portale di Laconia, prima di andare laggiù erano stati
marziani, e continuavano a esserlo.
Duarte voleva mandare più risorse a Medina? Bene. Voleva insediare dei
consiglieri sulla stazione, accertarsi che tutti i locali venissero addestrati nell’uso
dell’equipaggiamento che stava inviando? Bene. Medina ci guadagnava e tutti
erano contenti. E in aggiunta a tutto questo, la Proteus stava portando lì
l’equipaggiamento, e tutti volevano dare un’occhiata alla Proteus. La prima nave a
entrare dal portale che prima non fosse uscita da esso. Era l’occasione di dare
un’occhiata a ciò che Duarte e la sua gente stavano costruendo laggiù. Se avesse
potuto scegliere, Jakulski avrebbe comunque preferito essere al caffè con la sua
squadra tecnica, bere un po’ troppo e flirtare, ma dato che non sarebbe successo,
avere modo di dare un’occhiata ai nuovi consulenti era una buona seconda
scelta.
La Proteus aveva attraversato il portale in precedenza, quel giorno, abbastanza
veloce da avvicinarsi a Medina per abbrivio senza ricorrere al suo Epstein e
abbastanza lenta da permettere ai suoi propulsori di manovra di metterla in
posizione di attracco, al livello dei ponti della sezione ingegneria. Jakulski aveva
sentito voci secondo cui i marziani stavano limitando al massimo l’uso
dell’Epstein in modo che nessuno potesse dare una buona occhiata alla firma del
loro reattore, ma non capiva che senso avesse. Erano solo paranoia, voci e
superstizione. La Proteus poteva anche essere la prima nave costruita in cantieri
che si trovavano sul lato opposto dell’anello, ma era soltanto una nave. Non era
come se stessero volando sul dorso di un drago.
Il capitano Samuels, che aveva il comando di Medina perché era cugina di
Rosenfeld Guoliang, ma era comunque una buona amministratrice, era vicino al
portello in divisa di gala della Marina Libera. Jon Amash era là a rappresentare la
sicurezza, e Shoshana Rindai, con i capelli ramati raccolti in una treccia e occhi
dello stesso morbido tono marrone della sua pelle, faceva lo stesso per il reparto
sistemi. Shului non aveva torto. Se avesse avuto trent’anni di meno, anche
Jakulski avrebbe fatto un pensierino su quella ragazza.
Samuels lo fissò con aria accigliata, ma questo non significava niente di
particolare. «Sei qui in rappresentanza della sezione tecnica?»
Jakulski sollevò il pugno in segno di assenso e prese posto nella fila di pezzi
grossi, pronto a dimostrare ai Marteños che la Marina Libera aveva la stessa
disciplina di qualunque altra forza militare. Medina era stata destinata a essere
una nave generazionale, e questo traspariva ancora dalla sua struttura. Non
c’erano molte occasioni di accogliere visitatori nel grande nulla fra le stelle,
quindi il portello della sezione ingegneria si apriva su uno spoglio ponte
funzionale con luci da lavoro bianche a LED e una fila di mech edili gialli e
arancione schierati lungo una parete. L’aria odorava di olio per saldatrici usato e
lubrificante al silicio.
Rindai gli lanciò un’occhiata, sollevando il mento in un gesto di saluto. «Perché
Shului non è venuto?» chiese, ma prima che lui potesse escogitare una risposta il
portello si aprì e arrivarono i marziani. Il primo pensiero di Jakulski, rapido
come un riflesso, fu che per essere grandi salvatori avevano un aspetto davvero
insignificante.
Il capitano della Proteus era un uomo dalla pelle scura, con occhi distanziati e
labbra ampie ed espressive. La sua uniforme era marziana, tranne per le
mostrine. Non era più alto di Jakulski, e probabilmente era a suo agio nel
muoversi a zero g. I sei alle sue spalle indossavano tute da civili, ma l’ampiezza
delle spalle e il taglio dei capelli indicava che erano militari tanto quanto il
capitano, indipendentemente dal vestiario. Samuels annuì, ma non salutò. Il coyo
della Proteus agganciò la caviglia a un appiglio inserito nel pavimento e si fermò
con la stessa grazia di un cinturiano.
«Chiedo il permesso di salire a bordo, capitano» disse.
«Siamo lieti di averti qui, capitano Montemayor» replicò Samuels. «Esá sono i
miei capi-dipartimento. Amash, Rindai, Jakulski. Sono qui per aiutarti a costruire
e armare la base di sicurezza.»
Base di sicurezza? Jakulski trasse un lungo respiro. Shului non aveva fatto
menzione di questo. Si chiese se il non voler far vedere a Rindai il suo occhio
infetto non fosse stata una balla e lui avesse soltanto voluto che fosse qualcun
altro a rimanere coinvolto nel progetto. Però era altrettanto probabile che lui
non ne avesse saputo niente...
«Niente affatto, signore» ribatté l’uomo della Proteus... Montemayor, così
Samuels lo aveva chiamato. «Siamo qui per aiutare voi. L’ammiraglio Duarte mi
ha incaricato di assicurarvi in modo specifico che ha la massima fiducia nella
vostra capacità di far fronte a qualsiasi instabilità che possa provenire dal sistema
del Sole. Vogliamo soltanto assistere e supportare i nostri alleati di Medina come
meglio possiamo.»
«Lo apprezziamo» rispose Samuels. Forse Jakulski lo immaginò soltanto, ma
parve rilassarsi un poco, come se si fosse aspettata che quell’incontro risultasse
meno cordiale e fosse sollevata che il coyo marziano avesse esordito mostrandosi
sottomesso. Jakulski guardò verso gli altri sei uomini, chiedendosi con quale di
loro avrebbe lavorato, e a cosa, esattamente.
«Avanti, venite a bere qualcosa» aggiunse Samuels, battendo una pacca sul
braccio di Montemayor come se fossero stati amici. «Poi vi daremo una scorta
che vi accompagni ai vostri alloggi.»
«Si sta ripetendo la situazione di Callisto» disse Roberts.
«Non eri neppure nata quando ci sono stati i problemi su Callisto» ribatté Salis.
«Que ‘si sta ripetendo la situazione di Callisto’?»
Jakulski si appoggiò all’indietro, premuto verso il basso dalla rotazione del
corpo centrale. Da qualche parte, cinque livelli più in basso e un quarto di
chilometro verso poppa, e magari dieci gradi nel senso della rotazione, lo
aspettava la sua cabina con abiti comodi. Dopo che i marziani erano stati accolti,
si era offerto loro da bere e tutto il resto, lui si era affrettato a raggiungere il
caffè, pensando che forse avrebbe ancora trovato lì la squadra tecnica prima che
andasse a casa, e non si era preso il tempo necessario per cambiarsi. Adesso
l’uniforme gli irritava il collo, anche se aveva slacciato i primi bottoni.
La squadra tecnica era stata ancora tutta là, e non si era mossa dal suo arrivo.
Erano piantati sulle loro sedie come se vi avessero messo radici.
«Non è necessario essere presenti per sapere cos’è una guerra per procura»
affermò Roberts. «La mia famiglia è callistiana da tre generazioni e so com’è
stato anche se non ero presente. La Terra ha mandato forze di sicurezza private.
Marte ha mandato consulenti. Tutti erano lì soltanto per aiutare questo
sindacato o quel gruppo commerciale, ma alla fin fine Marte e la Terra stavano
soltanto sacrificando vite cinturiane per non dover rischiare la loro gente.»
Jakulski si era aspettato che il locale fosse vuoto. Il suo turno era finito da un
pezzo, e avrebbe dovuto andare a dormire già da un po’, ma la luce simile a
quella del sole era alta e intensa, e perfino dopo generazioni vissute nel vuoto
una qualche parte atavica del cervello continuava a dirgli che questo significava
che era mezzogiorno. Nel corpo centrale il mezzogiorno era permanente,
sempre e comunque, e con il sovrapporsi di turni che manteneva Medina viva e
funzionante indipendentemente da quello che sosteneva l’orologio, c’erano
persone che venivano lì per fare una colazione anticipata o pranzare in ritardo, o
anche per bere qualcosa nel tornare alla loro cabina. Oppure, come lui e la
squadra tecnica, per passare un po’ di tempo dopo aver lavorato fino a tardi.
Tutto nello stesso orario. Era la tendenza dell’umanità lasciata libera di vivere
secondo orari di sua scelta, invece di essere incatenata al ciclo di ventiquattro ore
proprio della Terra e di Marte. Era tempo cinturiano.
«Forse, se fossero venuti di loro iniziativa» controbatté Salis. «Allora potrei
capirlo. Ma da quanto ho sentito, le cose non stanno così.»
«Da quanto hai sentito?» Roberts scoppiò a ridere. «Non sapevo che avessi
delle videocamere installate nelle stanze dei potenti. Hai informatori all’interno,
tu?»
Salis reagì con un gesto volgare, ma stava sorridendo. Jakulski bevve un sorso
di birra, e rimase sorpreso di scoprire che il bulbo era già quasi vuoto.
«Io ho amici alle comunicazioni» spiegò Salis. «Quello che ho sentito è che è
stato Marco a chiedere a Duarte di venire qui. Non è Laconia che è venuta a
trattarci come marionette di cui tira i fili, ma sono i marziani a danzare alla
musica della Marina Libera.»
«Perché cazzo dovrebbero farlo?» chiese Jakulski. Le sue parole suonavano
come quelle di Roberts, come se avesse voluto provocare Salis, ma la verità era
che era più che disposto a permettere a Salis di convincerlo a essere d’accordo
con lui. Nel suo stato di stanchezza, non riusciva a smettere di pensare a quei sei
consulenti dagli abiti civili e dal fisico militare.
«Per lo stesso motivo per cui cominci a nascondere le tue chip del casinò in un
posto diverso quando il tuo ragazzo si trasferisce altrove» ribatté Salis. «Pensaci
su, d’accordo? Michio Pa era uno dei suoi cinque sottocapi. Un pezzo grosso.
Forse Marco non l’ha informata su Medina, ha gestito la cosa con il solo aiuto di
Rosenfeld, o forse tutti sapevano qualcosa su tutto. Adesso Pa sta facendo la sua
mossa, quindi è una contromossa intelligente cambiare le cose. Lei pensa di
sapere come sono protetti i cannoni a rotaia? Allora lui cambia quella
protezione. È semplice.»
«Oppure, adesso che Marco, Rosenfeld e Dawes sono distratti, Duarte piazza
qui i suoi ‘consulenti’, così quando lo vorrà potrà puntare i cannoni a rotaia
contro Medina e ordinare a tutti noi cosa dobbiamo preparargli per colazione»
replicò Roberts.
Jakulski sollevò una mano, attirò l’attenzione di una cameriera e indicò il bulbo
vuoto. Un’altra birra non avrebbe aumentato il danno già fatto, e comunque
sarebbe finito tutto sul dannato conto di Shului. Meglio approfittarne. Di fronte
a lui, Vandercaust notò la cosa e sollevò a sua volta il bulbo. La cameriera agitò
la mano in segno di assenso e riprese a fare quello che stava facendo. Un uccello
con le ali ampie quanto le dita allargate di Jakulski passò loro accanto, una
svolazzante saetta azzurra che cavalcava la brezza come se si fosse ancora
trovata su un pianeta il cui orizzonte si incurvava verso il basso, invece che
verso l’alto. C’era qualcosa di meraviglioso in uno spazio abbastanza grande da
poterci volare.
«Tu cosa ne dici?» chiese Jakulski, guardando verso Vandercaust.
«Io non dico niente, sa sa?» replicò il tecnico più anziano, grattando
distrattamente il tatuaggio del cerchio spezzato che aveva sul polso. «Bevo.»
Jakulski socchiuse gli occhi e la curiosità si agitò lenta nel suo cervello. Era
troppo stanco, sarebbe dovuto andare a dormire, ma la cameriera stava
arrivando con due bulbi pieni e lui era venuto fin lì per stare con la squadra.
«Allora, qual è l’ipotesi più valida? Duarte muove le sue pedine per controllare
Medina? Marco sta usando Laconia contro Pa? Cos’è che stiamo vedendo
succedere?»
«La mia fottuta migliore ipotesi è che non lo so» replicò Vandercaust, in un
tono cordiale, con un gesto tanto controllato da rendere evidente che era molto
ubriaco. «È una guerra. E le guerre non sono così.»
«Non sono come?» chiese Roberts.
«Non sono storie che parlano di guerre» rispose in tono solenne Vandercaust.
«Le storie sulle guerre vengono dopo. Come quando Qin Shi Huang ha unificato
la Cina, o quando guardi e dici che questo ha portato a questo e poi è finito
tutto. Come è cominciata? La guerra è cominciata quando Marco ha colpito la
Terra? Quando la Terra ha colpito la Stazione di Anderson? E finirà quando la
Terra e Marte saranno morti? Quando i cinturiani avranno una casa? Quando
tutti concorderanno che è finita?»
Roberts levò gli occhi al cielo, ma Salis si protese in avanti, le dita intrecciate
su un ginocchio. Jakulski prese il bulbo pieno che la cameriera gli porgeva e
bevve. La birra era fresca e ricca, ma qualcosa lo indusse a dispiacersi un poco di
essere rimasto lì a berla. Marziani su Medina, Pa che comandava un suo gruppo
e Fred Johnson che si era ripreso Ceres. Sembrava che qualcuno stesse
costruendo la più grande trappola per topi del sistema solare, e lui si trovò a
pensare che forse viveva dentro al formaggio che faceva da esca.
22
Holden
In realtà non era poi passato molto tempo da quando Fred aveva fornito un
equipaggio alla Rocinante per il suo viaggio fino alla Luna, ma era anche passata
una vita. Adesso che l’equipaggio proveniente da Tycho se n’era andato, la nave
sembrava più grande. Più vuota. Era come la fine di un party davvero molto
lungo, con tutti gli ospiti che erano tornati a casa e Holden che non riusciva a
decidere se si sentiva solo o sollevato. Quando fossero ripartiti, questa volta,
avrebbero avuto soltanto un pilota. Un ingegnere. Ancora due meccanici,
supponendo che quello fosse il titolo ufficiale di Clarissa. Dopo aver volato per
tanti anni sulla Roci soltanto con la sua piccola famiglia, era strano sentire la
perdita di quel personale ridondante, ma in un angolo della sua mente c’era
ancora un addestramento radicato che gli ricordava che tutti dovevano essere
rimpiazzabili. Come se tenere a bordo Chava Lombaugh avrebbe davvero reso
tollerabile la perdita di Alex a causa di un proiettile di CDP ben piazzato o di un
ictus durante un’accelerazione a g elevato, o per una qualsiasi delle altre mille
cose che potevano andare storte nello spazio. Come se Sandra Ip avesse mai
potuto prendere il posto di Naomi.
Da un lato, tutto questo era impensabile. Dall’altro, era ragionevole. Alex era
Alex, e nessun altro lo sarebbe mai stato, ma se qualcosa fosse andato storto,
avrebbero comunque avuto bisogno di un pilota. E le possibilità che le cose
andassero storte parevano molto elevate.
La Minsky aveva cominciato la sua vita partendo dalla Luna carica di coloni
finanziati dalla Royal Charter Energy, la stessa compagnia che era sbarcata su
Ilus e Longdune e New Egypt. Se le cose fossero andate secondo i piani, quei
coloni avrebbero attraversato i portali diretti verso un sistema chiamato San
Esteban. Invece, erano stati catturati dalla Serrio Mal, depredati, e adesso stavano
frenando in direzione di Ceres con quello che rimaneva dell’equipaggio e delle
provviste dopo che Michio Pa e i suoi uomini si erano serviti. Cibo e acqua,
materiali idroponici e medicinali, mech edili e apparecchiature scientifiche, e le
persone capaci di usarle. E al suo fianco, in frenata, c’era una nave da guerra
della Marina Libera come scorta. Probabilmente era una di quelle di Pa.
Probabilmente non era una trappola.
Probabilmente Fred non li avrebbe ridotti a una nube di gas radioattivo. Ma
solo probabilmente.
Solo sul ponte di comando, aveva richiamato a schermo il diagramma
dell’inventario della Roci e aveva l’ultimo pezzo editato da Monica che scorreva
sul terminale palmare. L’inventario emise un suono e si aggiornò. Holden
impiegò un secondo a trovare i nuovi dati.
«Alex?»
«Sono qui, capo» replicò la voce di Alex, che arrivava sia dal comunicatore, sia
dalla cabina di pilotaggio.
«Mi confermi che vedi reintegrate le scorte di medicinali del tuo sedile a
smorzamento?»
Trascorse un momento. «Vedo una carica completa di fottuti medicinali
sintetici che è garantito causeranno emicrania e diarrea se usati per più di otto
ore.»
«Sul serio?»
«Avevamo roba migliore di questa sulla Canterbury» rispose Alex.
Holden avvertì una certa preoccupazione. «Perché abbiamo ricevuto questi
medicinali scadenti?»
Naomi rispose come se fosse stata accanto a lui, invece di essere all’interno di
un mech da carico, sul molo. «Perché l’alternativa era quella di caricare gli
iniettori con la morfina, in modo che non ti importasse molto di finire
schiacciato. Sai, c’è in corso una guerra.»
«Infatti» annuì Holden, mentre l’inventario segnalava un altro aggiornamento.
«È giusto che risulti che il carico di colpi per i CDP è all’ottanta percento?»
domandò Amos.
«A me risulta ottantuno punto sette» replicò Holden.
«Davvero? Sono sicuro che quel dato non è giusto.»
«Controllalo» rispose Holden. «Ti avvertirò se nel frattempo la nave dovesse
cambiare idea.»
«Ci stiamo lavorando» assentì Amos.
Quel plurale si riferiva a Clarissa. Era davvero una cosa a cui si sarebbe dovuto
abituare. Si sentiva in colpa per non averlo già fatto, ma non aveva una chiara
idea di come liberarsi dal disagio che lei gli causava. Ancora una volta quel
problema scivolò indietro nella sua lista delle priorità. Chi poteva saperlo, magari
sarebbero morti tutti sotto una grandine di proiettili prima che esso si
ripresentasse e non avrebbe più dovuto preoccuparsene.
Sul suo terminale scorreva la nuova versione editata del suo video più recente.
Quando fosse stato diffuso, sarebbe stato il decimo. La maggior parte di esso era
un’intervista a una coppia di musicisti che aveva incontrato nella parte peggiore
della stazione, due cinturiani che parlavano un dialetto tanto stretto da
costringerlo a usare un programma di traduzione. Le loro voci però erano
musicali e in esse c’era un affetto che trascendeva il linguaggio. Monica aveva
rifatto i sottotitoli, mettendoli nella parte alta dell’immagine in modo che le
parole fossero abbastanza vicine al volto da permettere allo spettatore di vedere
l’espressione dei due mentre parlavano. Parevano nonno e nipote, ma ciascuno
si riferiva all’altro con il termine ‘cugino’.
Li guardò parlare del panorama musicale di Ceres, della differenza fra la
musica dal vivo e le registrazioni, fra quelle che chiamavano esibizioni tényleges e
l’uso del microfono. Non parlavano della Terra o di Marte, dell’APE o della
Marina Libera. Non aveva fatto loro domande al riguardo, e le poche volte in cui
la conversazione era scivolata verso la politica lui l’aveva riportata sulla musica.
Altri due modi per ricordare che non tutti quelli che vivevano fuori da un pozzo
gravitazionale avevano scagliato rocce contro la Terra. Questo video gli piaceva
molto e voleva che venisse approvato per la diffusione prima che lasciassero
l’attracco. Giusto per precauzione, pensò, senza permettere alla mente di
focalizzarsi sul motivo di quella precauzione. Giusto per precauzione.
I primi nove video che aveva diffuso si erano conquistati un po’ di popolarità.
Sapeva che questo era in parte dovuto alla presenza del suo nome. Essere una
celebrità politica minore aveva i suoi lati positivi, e uno di essi era il fatto che il
suo progetto aveva già pronto un pubblico ridotto ma affidabile. La cosa ancora
migliore, però, era che cominciava ad avere degli imitatori, persone che avevano
un loro feed, su Titano, sulla Luna e sulla Terra, e che avevano preso a fare
interviste e a presentare schegge di vita vissuta come quelle trasmesse da lui.
O forse lo avevano sempre fatto ed era lui che li stava copiando. Forse finora
non aveva mai notato l’esistenza di quei video.
«Capitano?» chiamò Amos, e Holden si rese conto che non doveva essere la
prima volta. «Tutto a posto lassù?»
«Sono qui e sto bene. Ero distratto. Cos’hai per me?»
Rispose Clarissa. «Prima uno dei feed non si era azzerato. L’abbiamo
individuato e adesso il conteggio è confermato.»
«Splendido» rispose Holden. Sul suo palmare, il musicista più anziano trasse
un accordo dalla chitarra e quello più giovane rise. Chiuse il file. Non era più in
grado di dire se funzionava oppure no perché il suo cervello non riusciva a
immaginare come sarebbe stato vederlo per la prima volta, se l’umanità che lui
scorgeva in esso sarebbe stata presente agli occhi di qualcuno che si trovava sulla
Terra, su Marte o sulle navi coloniali. O dall’altra parte dei portali.
Sentì arrivare Naomi prima di vederla e si girò a guardarla da sopra la spalla
mentre lei usciva dall’ascensore. La sua tuta mostrava ancora linee di sudore
dove le cinture di sicurezza del mech da carico l’avevano tenuta contro il sedile,
e quando lei si chinò a baciargli la fronte la prese per un braccio. Aveva gli occhi
leggermente iniettati di sangue, come le succedeva quando era stanca. Naomi
abbassò lo sguardo su di lui e accennò una risata.
«Cosa c’è?»
«Sei molto bella» rispose Holden. «Spero di dirtelo abbastanza spesso.»
«Lo fai.»
«Allora spero di non dirtelo tanto spesso da farlo diventare irritante.»
«Non lo fai» replicò lei, sedendo sul sedile a smorzamento accanto al suo e
stendendo il braccio per poter mantenere le dita intrecciate con le sue. «Stai
bene?»
«Mi sento un po’ esausto.»
«Solo un po’?»
«Non ho ancora le allucinazioni.»
Naomi scosse il capo, appena qualche millimetro in ciascuna direzione. «Sai
che non è tua responsabilità sistemare ogni cosa.»
«Salvare l’umanità da sé stessa è un progetto di gruppo, sì» ribatté lui.
«Davvero, tutto quello che sto facendo è tentare di mostrare a tutti sulla Terra,
su Marte e nella Fascia e su Medina e nelle colonie che in realtà siamo ancora
tutti un’unica tribù.»
«In modo da trascendere tutta l’esperienza vissuta umana da prima dell’alba
della storia?»
«E da mantenere ridotta al minimo quella parte in cui ci uccidiamo a vicenda»
aggiunse lui. «Non dovrebbe essere difficile.»
«Almeno sai perché sei stanco.»
Naomi gli strinse le dita, poi le lasciò andare e richiamò a schermo un display
tattico di Ceres e dello spazio circostante. La stazione e la flotta di navi che la
circondava come una nuvola di lucciole blu erano contrassegnate come forze
amiche. La nave coloniale e la sua scorta che erano in fase di rallentamento
erano in giallo... stato sconosciuto ma rilevante. L’incontro era previsto entro
poche ore.
«Una parte di me spera che Fred non ci permetta di andare. Che quando
richiederemo la rimozione degli attracchi ci dicano semplicemente di no e che
rimaniamo bloccati qui» disse Holden.
«Mentre la nave coloniale si gira all’ultimo momento e accelera per colpire il
porto, esplodendo in una sfera di fuoco nucleare» aggiunse Naomi.
Holden tirò fuori il terminale e mandò la propria approvazione a Monica, su
Tycho. Alla velocità della luce, sarebbero comunque passati alcuni minuti prima
che lei la ricevesse. «Messa così, la cosa suona meno invitante.»
Alle loro spalle l’ascensore si mosse, scendendo con un ronzio. La voce di
Alex, che giungeva sempre doppia, dalla cuffia e dal vivo... finì il confronto dei
dati con Amos e Clarissa. Holden ripose il terminale palmare nel compartimento
da g elevato del sedile a smorzamento. Se le cose fossero andate male, non
voleva che cominciasse a schizzare per tutto il ponte di comando.
«Posso chiederti una cosa?» La voce di Naomi era bassa ma intensa.
«Certo.»
«Perché stiamo facendo questo?»
Holden desiderò di avere la mente un po’ più limpida. Dopo un certo punto,
aveva la sensazione che i suoi centri del linguaggio fossero collegati direttamente
alla bocca senza passare per il resto del cervello. «Perché non possiamo far
saltare in aria abbastanza cose da trasformare questa situazione in qualcosa di
buono. Ci servirà qualcosa di più nella nostra cassetta degli attrezzi.»
Bobbie emerse dall’ascensore. In lei c’era qualcosa di strano, ma Holden non
riuscì a individuare cosa. Indossava semplici indumenti neri, ma il suo
portamento li faceva apparire come un’uniforme. Le sue mani erano serrate a
pugno lungo i fianchi, ma non pareva tanto infuriata quanto nervosa, il che non
lasciava presagire niente di buono.
«Ehi» la salutò.
«Signore.»
«Per favore, non mi chiamare così. Sulla nave non lo fa nessuno. È tutto a
posto? Fred vuole qualcosa?»
«Non mi manda Johnson» rispose Bobbie. «Stai per lasciare l’attracco e sono
qui per prendere servizio.»
«Okay» annuì Holden. «Puoi reindirizzare qui il controllo tattico e degli
armamenti oppure occupare il sedile del cannoniere, vicino ad Alex. Scegli
quello che ti fa sentire più a tuo agio.»
Bobbie trasse un profondo respiro, e qualcosa che Holden non comprese le
passò sul volto. «Occuperò il sedile del cannoniere» disse infine, e salì nella
cabina di pilotaggio. Nel guardare le sue caviglie scomparire sempre di più,
Holden aggrottò la fronte al punto da farla dolere un poco.
«Quello è stato... mmh... è stato un momento speciale?» chiese.
«Lo è stato» confermò Naomi.
«Buono o cattivo?»
«Un momento davvero buono.»
«Bene. Merda, mi dispiace essermelo perso» commentò Holden.
«Allora, avete tutti le cinture allacciate?» chiese Alex.
Tutti risposero, a uno a uno. Erano pronti, o almeno lo erano quanto più era
possibile. Holden lasciò sprofondare la testa nel gel del sedile a smorzamento,
richiamando sul suo schermo lo stesso display presente su quello di Naomi.
Attualmente c’era un numero terribilmente elevato di navi che fluttuavano nelle
vicinanze di Ceres. Ascoltò Alex richiedere che venissero rimossi i blocchi di
attracco. Per alcuni lunghi, dolorosi secondi l’autorità del controllo del traffico di
Ceres non rispose. Poi: «Affermativo, Rocinante. Avete l’autorizzazione al
decollo.»
La nave tremò e la gravità da rotazione di Ceres scomparve quando Alex lasciò
che la loro quantità di moto li scagliasse nel vuoto. Sullo schermo, erano un
punto bianco che volava su una traiettoria tangente alla curva massiccia della
stazione. Holden attivò le telecamere esterne e guardò allontanarsi la superficie
del pianeta nano.
«Bene» commentò Naomi. «Pare che Fred non abbia spinto la sua
disapprovazione per questa cosa al punto da impedirci di partire.»
«Già» annuì Holden. «Spero che sappia quello che sta facendo, affidando un
lavoro tanto delicato ad agenti del caos come noi.»
Amos ridacchiò e Holden si rese conto di aver parlato sul canale aperto a tutto
l’equipaggio.
«Puoi essere sicuro che sta improvvisando a mano a mano che le cose
procedono» replicò poi Amos. «In ogni caso, lo scenario peggiore è che finiamo
tutti ammazzati e lui si senta furbo per non aver lasciato la sua gente a bordo
quando è successo. Lui vince, comunque vadano le cose.»
Quando Bobbie parlò, il suo sorriso trasparve dal suo tono, nonostante le
parole: «Nessuno muore durante il suo turno di servizio senza il permesso
dell’ufficiale comandante.»
«Se lo dici tu, Babs» ribatté Amos.
«Tenetevi pronti» avvertì Alex. «Sto per impostare la rotta.»
Di norma, gli spostamenti della nave per opera dei propulsori di manovra
erano quasi subliminali per Holden, una danza sottile di vettori e spinta che era
parte della sua vita da quando aveva lasciato la Terra. Essa lo disturbò solo
perché era tanto stanco, preoccupato e imbottito di caffè. A ogni assestamento,
alto e basso cambiavano un poco, poi si tornava in assenza di gravità. Quando
Alex attivò l’Epstein per alcuni secondi, la Roci cantò, armoniche che vibravano
nella gamma degli ipertoni su e giù lungo lo scafo come la campana di una
chiesa.
«Non esagerare, Alex» avvertì Holden. «Non vogliamo che la nostra frenata
finisca per fondere qualcuno. Almeno, non credo che lo vogliamo.»
«Non è un problema» rispose Alex. «Ci limiteremo a tornare a una buona
velocità passiva finché non saremo proprio accanto a loro. Le emanazioni della
frenata finale non fonderanno nessuno.»
«E tenete in caldo siluri e CDP» aggiunse Holden. «Giusto per precauzione.»
«Provvedo» replicò Bobbie. «Ci stanno puntando con i laser a lungo raggio.»
«Quelli di chi?» chiese Holden, mentre abbandonava le telecamere esterne per
richiamare il quadro tattico. Le navi sparse della flotta. Le difese di superficie di
Ceres. La nave catturata e la sua scorta, in lento avvicinamento.
«Oh» mormorò Naomi, nel far scorrere una lista di rapporti di connessione
troppo lunga per stare tutta nello schermo. «Praticamente tutti.»
«La nave di scorta?»
«Anche loro.»
Sullo schermo le navi in avvicinamento sussultarono e i dati che le
circondavano si aggiornarono quando esse smisero di frenare, comparendo da
dietro nuvole di gas surriscaldati. I sensori della Roci controllarono i contorni e la
firma del calore, dando una conferma quasi istantanea. La nave più grande
corrispondeva alla Minsky – larga, massiccia e goffa, con i satelliti per le
comunicazioni destinati a creare una rete intorno a un pianeta alieno che ne
coprivano i fianchi come verruche. Quella più piccola era una corvetta marziana,
di una generazione più nuova rispetto alla Roci, un po’ più leggera, con uno scafo
aerodinamico per penetrare l’atmosfera e probabilmente dotata di armamenti
simili ai suoi. Il suo transponder non rispondeva.
«Detesto vedere una cosa del genere» disse Alex. «Due buone navi di
costruzione marziana che si affrontano? Non è giusto.»
«Ecco, chi lo sa?» replicò Holden. «Forse siamo dalla stessa parte.»
«Se è uno scontro, cerchiamo di vincerlo» interloquì Bobbie. «Ho il permesso
di puntare il bersaglio?»
«Loro ci hanno puntati?» chiese Holden.
«Non ancora» rispose Naomi.
«Allora aspetta» ordinò Holden. «Non voglio essere il primo a cominciare il
ballo.»
Sul suo schermo apparve una richiesta di comunicazione in arrivo da parte di
Fred Johnson, e per un confuso momento Holden si chiese cosa ci facesse Fred
sulla nave da guerra, poi vide che il raggio stretto proveniva da Ceres. Quando
questa faccenda fosse finita avrebbe davvero avuto bisogno di dormire. Accettò
la connessione e Fred apparve su una finestra separata, su un lato dello schermo.
«Ti sei già pentito?» chiese.
«Solo un poco» rispose Holden. «E tu?»
«Voglio mettere in chiaro una cosa. Se... ho detto se... entrerai in possesso della
nave coloniale, per nessun motivo dovrà arrivare a più di trecentomila chilometri
dai miei moli. Se ci sono persone che hanno bisogno di assistenza medica,
rimarranno a bordo e manderemo loro aiuto. Non scenderà niente da quella
nave finché non l’avremo esaminata, sondata, ricaricata, disinfettata e aspersa di
acqua benedetta da parte del primo prete su cui riuscirò a mettere le mani.
Questa stazione non è Troia.»
«Capito.»
«Il solo motivo per cui ti permetto di fare questo è la possibilità di recuperare
ancora vivi prigionieri della Marina Libera.»
«Questa è la sola ragione?» ribatté Holden. «Quindi restituirai le provviste e la
nave ai proprietari invece di usarle per tenere in vita Ceres?»
Fred ebbe un sorriso caldo e gentile. «Non essere idiota.»
«D’accordo» interloquì Bobbie. «Adesso ci stanno puntando. Ho il permesso
di restituire il favore?»
«Concesso» rispose Holden.
Bobbie disse sottovoce qualcosa che non riuscì a cogliere, ma pareva contenta.
«Stai attento, Holden» ripeté Fred. «Tutto questo non mi piace.»
«Ecco, se è una trappola, potrai rifilare un ‘te l’avevo detto’ agli eventuali
pezzetti che resteranno di noi.»
«Ho trenta navi che si accerteranno di elargirvi un rogo funebre nucleare tanto
grande da essere visibile da Proxima Centauri, fra quattro anni. Sai, se là c’è
qualcuno.»
«Non è confortante» osservò Holden.
«Dovremmo aprire le comunicazioni» avvertì Naomi.
«Fred? Devo fare questa cosa. Ti farò sapere com’è andata quando avremo
finito.»
Fred annuì e chiuse la connessione. Holden deglutì per allentare la tensione
alla gola. «Come siamo messi con la distanza?»
«Siamo a portata effettiva di siluro» rispose Bobbie. «E potremo usare i CDP fra
otto minuti e dieci secondi.»
«Il cannone a rotaia è pronto?»
«Oh, sì, dannazione.»
«D’accordo» decise Holden. «Naomi, apri un canale.»
Un momento più tardi, sul suo schermo apparve una nuova finestra, scura ma
con il bordo giallo di una connessione aperta. Erano tanto vicini che non c’era
praticamente nessun ritardo-luce. Questo di per sé bastava a renderlo nervoso.
«Attenzione, nave non identificata. Parla James Holden, della nave mercantile
indipendente Rocinante. Siamo qui per trasferire il possesso della Minsky. Spero
sia questo che ha portato qui anche voi. Apprezzerei che vi identificaste.»
Lo schermo rimase buio e l’ansia gli scivolò lungo la schiena mentre i secondi
si protraevano senza che arrivasse una risposta. Qualcosa non andava. Senza
muoversi, ripassò mentalmente quello che avrebbe detto ad Alex. ‘Portaci via di
qui. Qualcosa sta per esplodere.’ E quello che avrebbe detto a Bobbie. ‘Per
prima cosa proteggi la Roci. Se puoi, metti fuori uso la nave da guerra.
Distruggila, se necessario.’
Lo schermo tremolò. Per una frazione di secondo apparve una donna
sconosciuta, bionda e con lineamenti affilati, poi l’immagine si spostò
immediatamente su un’altra donna che portava i capelli scuri raccolti e aveva un
accenno di sorriso cinico sulle labbra. Holden si rese conto che stava
trattenendo il fiato ed esalò un respiro.
«Rocinante,» disse la donna «parla Michio Pa della Connaught. È strano rivederti,
capitano Holden.»
23
Pa
La routine del mattino era sempre la stessa. Prax si alzava per primo, andava in
cucina ancora in vestaglia e pantofole e procedeva a fare il tè e la colazione per
la famiglia. Pancake e pancetta per le ragazze, riso rosso e uova per lui e Djuna.
Metteva su un po’ di musica sul sistema, di solito qualcosa di tranquillo e
rilassante, quella che Djuna definiva la sua musica da massaggio. Più o meno
quando il riso era cotto e la pancetta rosolata, sentiva il rumore della doccia di
Djuna e le voci di Mei e di Natalia. Questa particolare mattina le due ragazze
chiacchieravano piacevolmente fra loro. C’erano mattine in cui litigavano e
battibeccavano.
Quando Djuna chiuse l’acqua della doccia, Prax versò sulla griglia la prima
cucchiaiata di pastella per i pancake, con accanto due uova. Impiegarono quasi
lo stesso tempo a cuocere, per cui li poté girare entrambi, uno con ciascuna
mano. Stava facendo l’esibizionista, ma questa era una cosa che faceva sempre
ridere Mei, quando la vedeva. La voce energica di Djuna giunse dal corridoio,
mentre lei ingiungeva alle ragazze di spicciarsi con i loro rituali mattutini –
lavarsi la faccia, pettinarsi, vestirsi. Quando fossero arrivate a tavola, Prax
sarebbe stato il solo non ancora pronto per il lavoro. Le ragazze lo prendevano
in giro, accusandolo di oziare in vestaglia anche se era stato quello che aveva
fatto la maggior parte del lavoro, e lui si fingeva offeso anche se in realtà non lo
era.
Dopo colazione, Djuna portava le ragazze a scuola nell’andare al lavoro,
lasciando Prax solo a lavare i piatti, fare la doccia e prepararsi per andare al
laboratorio. Era qualcosa di cui non avevano mai discusso, solo la forma che
avevano assunto le loro abitudini domestiche. A Prax piaceva che le cose
stessero così, aveva avuto fin troppe avventure nella sua vita, e riusciva a
lavorare di più quando le cose erano prevedibili.
Addolcì il tè con lo stesso sciroppo che aveva sparso sui pancake, dispose sul
tavolo piatti e bicchieri pieni, e si stava sedendo per mangiare il suo riso con le
uova quando arrivò Djuna, sospingendo davanti a sé le ragazze come un
pastore, nella migliore tradizione di tutte le madri nell’arco della storia.
Mei era un po’ più silenziosa del solito, Natalia un po’ più vivace, ma entrambe
ricadevano nei parametri normali. Djuna abbassò la musica mentre mangiavano
e chiacchieravano. Prax non si accorse quando la conversazione si fece
pericolosa.
«Cosa significa ‘resistenza’?» chiese Natalia. Il suo volto era serio, una cosa
vagamente comica in una persona tanto piccola.
«È una misura di come gli elettroni scorrono attraverso qualcosa» rispose Prax.
«Vedi, noi pensiamo alla corrente che scorre nei fili più o meno nello stesso
modo in cui pensiamo all’acqua nei tubi. In realtà è molto più complicato di così
quando si arriva ai livelli quantici, ma è un ottimo modello.»
«E i modelli sono come diamo un senso alle cose» disse Natalia, orgogliosa di
sé stessa per aver ricordato quella frase che lui e Djuna avevano usato con lei e
Mei per così tanto tempo. Prax non pensava che Natalia fosse già abbastanza
grande da capirne il senso, ma un giorno lo avrebbe fatto. E Mei a volte lo
sorprendeva con le sue intuizioni.
«Sì» confermò. «Proprio così. Quindi la resistenza indica con quanta difficoltà
o facilità gli elettroni scorrono dentro qualcosa.»
Natalia aggrottò la fronte. Mei aveva distolto lo sguardo, e Djuna si era
immobilizzata, il che era strano. Prax però si rese conto che le ragazze non
riuscivano a capire, quindi ci riprovò.
«Immagina di avere una grossa cannuccia» disse, dando una dimostrazione con
le mani. «Quando la metti nel succo di frutta, bere è davvero facile. Se però
prendi una cannuccia piccola e sottile, devi usare molta più forza per succhiare
dal bicchiere la stessa quantità di liquido. La cannuccia grossa è qualcosa che ha
poca resistenza, mentre quella piccola ne ha molta.»
Natalia annuì con estrema serietà. Parve a Prax di poterla quasi vedere
risolvere quell’enigma intellettuale. «È una cosa buona o cattiva?»
Prax scoppiò a ridere. «Non è né buona né cattiva. È soltanto parte di com’è
fatto l’universo. Ora, se tu avessi un circuito per il quale ti servisse una resistenza
molto bassa, e non l’avessi, quello non sarebbe un buon circuito, ma solo perché
non farebbe quello che tu vuoi. Se invece avessi qualcosa per cui ti serve una
resistenza elevata, allora quello stesso circuito sarebbe perfetto. Non si tratta di
giusto o sbagliato, ma di come funzionano le cose.»
«È ora di andare» disse Djuna, e la sua voce suonò tagliente, il tono che usava
quando qualcosa la disturbava. Inoltre, avevano ancora quasi quindici minuti
prima di aver davvero bisogno di uscire. Forse ai laboratori di biopellicole stava
succedendo qualcosa che lui ignorava.
Quando se ne furono andate alzò di nuovo il volume della musica, lavò i piatti,
fece la doccia e si vestì per andare al lavoro. Le stanze sembravano strane senza
di loro, e quel tempo in più che aveva da solo gli sembrò vuoto e in qualche
modo di cattivo augurio. Per tutto il tragitto fino alla stazione della
metropolitana si preoccupò che Mei si fosse ricordata di prendere la medicina.
Aveva avuto intenzione di sfruttare il tragitto in metropolitana per leggere i
nuovi set di dati sul lievito mietitore, ma il suo sguardo continuò a distogliersi
dal terminale palmare per sollevarsi sugli schermi che aveva di fronte. Stavano
trasmettendo un notiziario, ma non riusciva a sentire le parole a causa dello
sferragliare del treno e delle voci di altri pendolari. C’erano navi che
combattevano, ma non avrebbe saputo dire dove. La Terra. Giapeto. Pallas.
Ceres. Marte. Nel vuoto fra quei posti, molto lontano da tutto. Ogni cosa era
possibile. L’unica certezza era che non stava accadendo lì, e questo solo perché
non c’erano allarmi che suonavano.
Alla stazione centrale la metà dei passeggeri scese nella camera di
trasferimento, facendo posto a un’altra marea di gente in arrivo, fra cui una
mezza dozzina di uomini nella divisa della Marina Libera. Adesso avevano
cominciato a girare visibilmente armati, e camminavano con fare prepotente.
Due ragazze civili parevano essere in loro compagnia, intente a ridere e a flirtare.
La più grande non dimostrava più di vent’anni. Non era tanto più grande di Mei.
Prax riportò l’attenzione sul notiziario e poi sul suo terminale. Continuò a non
riuscire a concentrarsi su di esso, ma in quegli uomini della Marina Libera c’era
qualcosa che lo faceva sentire più a suo agio con lo sguardo abbassato. Il cuore
gli pompava un po’ più in fretta, si sentiva la schiena rigida. Non aveva fatto
niente di sbagliato, ma la sensazione di essere minacciato e quella di essere in
colpa erano così strettamente collegate che era difficile provare una e non l’altra.
Quando era stato uno studente, all’università inferiore, aveva dovuto seguire
un corso di lettere – letteratura, teatro, arte. Qualcosa che rendesse la sua
istruzione più completa. Aveva scelto filosofia nella speranza che avesse un
certo rigore. Adesso la maggior parte di quell’esperienza era stata dimenticata,
lavata via da decenni di assestamenti della plasticità cerebrale, e quello che
ricordava ancora era frammentario, quasi simile a un sogno. Però mentre se ne
stava seduto lì, affondato il più possibile nel sedile mentre il treno della
metropolitana risaliva verso la superficie, con il suo sferragliare che gli vibrava
lungo la schiena e le risate troppo forti dei soldati che gli risuonavano negli
orecchi, un singolo momento gli riaffiorò vivido nella memoria. Il suo
professore – un uomo in sovrappeso avviato alla calvizie, con una carnagione da
alcolizzato e un’aria intelligente tanto profonda che pareva incurvare lo spazio
intorno a lui – che sollevava una mano e pronunciava una frase: ‘Il terrore del
normale.’ Era quasi certo che fosse stato qualcosa relativo a Heidegger, ma
adesso gli parve di comprendere quel concetto meglio di come avesse fatto
allora.
Era così che erano le cose, adesso. Questo era diventato normale.
Aveva sperato di passare la mattina immerso nelle sue ricerche, ma Khana e
Brice non gli permisero neppure di arrivare al laboratorio prima di affiancarglisi.
«Stavo guardando la partizione aperta, e credo che possa esserci stato un
problema con il trasferimento dei dati» disse Khana. «La directory dei set di dati
conteneva l’Hy18 solo fino alla nona coltura.»
«No, no, lo so» replicò Prax. «Non ho ancora effettuato il trasferimento.
Volevo farlo, ma sono stato distratto.»
Brice emise un piccolo verso contrariato. Prax comprese e non la invidiò. Da
quando Karvonides era morta, Brice si era venuta a trovare nella poco
invidiabile posizione di fare il proprio lavoro e anche quello del supervisore
deceduto. Ogni giorno, Prax aveva avuto intenzione di trasferire i dati critici
nella partizione aperta, e non sapeva neppure lui perché non lo avesse ancora
fatto. Era solo che qualcosa sembrava sempre interferire.
«Capo,» insistette Khana «ci servono i dati più recenti su Hy1810, a meno che
tu non voglia accelerare la nuova coltura.»
«Accelerarla non è possibile» obiettò Prax.
Intanto raggiunsero la porta del laboratorio di Prax. Khana affondò le mani in
tasca, la mascella contratta e lo sguardo fisso su un punto dieci centimetri alla
sinistra di Prax. «Lo so. Però...»
«Lo farò subito» promise Prax. «Dammi mezz’ora.»
Poi entrò nel laboratorio e si chiuse la porta alle spalle. Khana e Brice rimasero
per un momento dall’altro lato del vetro smerigliato, poi si allontanarono. Prax
sedette alla scrivania. Voleva controllare i livelli dell’acqua e prelevare nuovi
campioni dalle serre idroponiche, ed era tentato di fare soltanto quello per
qualche minuto, rimandando il momento di esaminare la partizione di
Karvonides. Però aveva detto che lo avrebbe fatto subito, e loro avevano
davvero bisogno di avviare la sperimentazione sugli animali.
Richiamò a schermo la directory del personale, inserì il suo codice di accesso e
lasciò che il sistema eseguisse il solito controllo biometrico. Poi, con un
profondo sospiro e un crescente senso di timore, entrò nella partizione della
donna morta. Quel lavoro spettava a lui, e non era una cosa che fosse
impaziente di fare.
Due dei set di dati erano in fase di editing, quindi dovette chiudere i file prima
di poterli trasferire. Non era una cosa difficile, ma richiese qualche secondo in
più. Doveva esaminare anche i messaggi, accertarsi che tutto ciò che richiedeva
attenzione venisse inoltrato a Brice o a McConnell. Poteva invece ignorare i
messaggi privati, perché non sentiva il bisogno di ficcanasare e probabilmente
erano cose che non voleva sapere. Però uno dei messaggi conteneva nell’oggetto
il nome di James Holden. ‘NUOVO FEED DI JAMES HOLDEN DA CERES’ diceva.
James Holden, l’uomo che aveva salvato Mei, e lo stesso Prax. E tutti gli altri.
Prax non aveva avuto intenzione di aprire il feed, fu più che altro un riflesso
istintivo. Sembra interessante... cos’è?
Nel feed, proprio come promesso, James Holden fissava la videocamera con
espressione seria. Da un lato, il video pareva una produzione professionale,
senza salti d’immagine o imperfezioni, e i colori avevano l’accurata calibrazione
propria dei notiziari. Quando Holden parlò, la sua voce suonò limpida e nitida
senza picchi di suono. Il suo comportamento aveva però un’imbarazzata
autenticità così familiare e spontanea, era come rivederlo in carne e ossa.
«Parla James Holden, dalla Stazione di Ceres. Oggi stiamo girando il terzo di
questa serie di video e spero proprio che siate impazienti di vederlo. Soprattutto
i miei amici e la mia famiglia, sulla Terra e su Marte. Lo dico tutte le volte, ma
stiamo girando questi video e facendo queste interviste in modo che la gente a
casa possa dare un volto e una voce alle persone reali che ci sono nella Fascia.
E... sì... quindi permettetemi di presentarvi...»
L’immagine si spostò su un’alta ragazza cinturiana seduta nella cambusa della
Rocinante. Prax si protese in avanti. In passato si era seduto esattamente dov’era
lei, durante la parte peggiore della sua vita, e si sentì assalire da un’ondata di
nostalgia – come se stesse rivedendo l’appartamento in cui aveva vissuto nel
frequentare l’università superiore, un posto familiare che un tempo per lui era
stato importante – che si infranse di fronte alla novità costituita da quella
ragazza.
«Alis Caspár.»
«Splendido. E dove vivi?»
«Sulla Stazione di Ceres. Nel Distretto di Salutorg.»
Prax guardò tutto il video. Il gioco dello shin-sin che pareva deliziare e
affascinare il terrestre, il modo in cui la ragazza pareva imbarazzata per lui senza
che Holden paresse accorgersene. La donna più anziana, che chiamavano Tía,
che flirtava con lui. Era... incantevole. Con tutte le notizie di guerra e di morte,
con tutte le immagini di navi che si riducevano a vicenda in frammenti di
metallo e di ceramica, con tutti i sacchi pieni di cadaveri sulla Terra. Il video di
Holden non era niente. Era piacevole. Senza senso. Perfino dolce.
Il video si concluse, e Prax scoprì con sua sorpresa di avere le lacrime agli
occhi. Si asciugò la guancia con una manica, poi rimase sorpreso quando il
messaggio successivo aprì automaticamente il proprio feed. Una donna dal volto
sottile, con la pelle più scura di quella di Djuna ma con gli stessi profondi occhi
nocciola sorrise alla videocamera. L’immagine tremava un poco, e i colori non
erano modulati in modo professionale come quelli del video di Holden.
«Sono Fatima Crehan, e trasmetto per James Holden e tutta la brava gente
della Fascia. Siamo nel campo profughi aperto dal governatore di Arequipa, e
oggi vi voglio presentare una donna la cui causa è quella di far cambiare idea a
tutti, in città, e provvedere a nutrirli.»
Prax rimase a guardare, affascinato. Quando quel feed si concluse, ci fu un
altro video, questo da Shangai, dove un vecchio che portava una kippah
intervistava una banda musicale formata da ragazzi di etnia Han, chiedendo della
loro musica, per poi guardarli suonare in un vicolo, mentre nuvole color fango si
formavano sopra di loro. Prax non riuscì a distogliere lo sguardo.
Bussarono piano alla porta e Brice si sporse all’interno. «Spiacente di
interrompere, signore, ma...»
«No, no, no, va bene. Sto trasferendo i dati proprio ora.» Prax afferrò i
rapporti sui dati di Karvonides – nessuno dei quali adesso era bloccato
dall’editing – e li spostò in una partizione aperta. «Ora dovresti potervi
accedere.»
«Grazie, signore» rispose Brice, poi aggiunse: «Va tutto bene?»
«Sto bene» rispose Prax, asciugandosi di nuovo gli occhi. «Vai pure.»
La donna chiuse la porta. In qualche modo erano passate due ore, e adesso
avrebbe dovuto affrettarsi per riuscire a prelevare i campioni prima di pranzo.
Potremmo salvare delle vite. Basterebbe un messaggio.
Chiuse la partizione della donna morta e vi appose un blocco amministrativo.
Non c’era più tempo per pensare a niente, aveva del lavoro da fare. Per
rimettersi in pari, analizzò i campioni durante l’intervallo del pranzo, buttando
giù qualche boccone di riso e funghi prima della riunione del team
amministrativo. Quando si concluse, era ormai ora di andare a prendere Mei e
Natalia a scuola, ma mandò un messaggio a uno degli altri genitori della sua
cooperativa genitoriale. Le ragazze potevano andare a giocare con gli altri
bambini finché Djuna non fosse tornata a casa. Lui rimase al laboratorio,
controllando i progressi di Brice e di Khana e verificando che quanti avevano
bisogno dei set di dati vi potessero accedere.
Tutto gli dava una strana sensazione di leggerezza, come in un sogno. Era
come se stesse guardando le azioni di qualcun altro. Nel suo ufficio, ricontrollò
l’analisi quotidiana dei campioni, verificando quanta CO2 era dissolta nell’acqua,
quanto azoto, calcio, manganese. Le piante prosperavano, ma finché non
fossero state vagliate tutte le statistiche, non avrebbe saputo cosa stava vedendo.
Andava bene così.
Resistette all’impulso di riaprire la partizione di Karvonides, di trovare altri
feed fatti da Holden o da lui ispirati, perché era una cattiva idea. Invece attese,
lavorò, e continuò a guardare attraverso la porta a vetri. Rimaneva solo Brice, e
la sua postazione di lavoro era in fondo a un lungo corridoio curvo. Chiuse il
terminale, timbrò il cartellino, andò nel bagno degli uomini e attese. Si lavò le
mani. Attese ancora. Con noncuranza, uscì poi nell’area comune del piano,
passando da una delle postazioni di gruppo e aprendone il terminale con un
guest account, accedendo ai set di dati e ai protocolli che il supervisore Praxidike
Meng aveva distrattamente inserito nella partizione aperta senza un set di
permessi. Lo schermo mostrava un logo azzurro pallido, la bandiera di
Ganimede. Mandò copie del materiale a Samuel Jabari e Ingrid Dineyahze, sulla
Terra, e a Gorman Le, sulla Luna. Il solo messaggio di accompagnamento
diceva: ‘PER FAVORE, CONFERMATE QUESTI RISULTATI.’
Spento il terminale, raggiunse i corridoi comuni. Tutto sembrava più luminoso
di quanto sarebbe dovuto essere. Non avrebbe saputo dire se era stanco o
irrequieto, o entrambe le cose.
Si fermò a un banco che vendeva spaghetti, fra la stazione della metropolitana
e casa. Comprò spaghetti, la varietà no-roof per sé e Djuna, quelli al tofu fritto
per le ragazze e... un lusso... vino di riso, oltre a un contenitore rotondo di
ceramica pieno di gelato al tè verde come dessert. Quando arrivò a casa, Natalia
si lamentava perché doveva esercitarsi nelle tabelline e Mei si era chiusa in
camera sua per scambiare messaggi con le amiche che aveva a scuola e guardare
video di intrattenimento di ragazzi tre o quattro anni più grandi di lei. In una
sera diversa avrebbe insistito perché si raccogliessero tutti a tavola per cena, ma
oggi non voleva alterare nulla.
Servì gli spaghetti in ciotole di ceramica riciclabili con un disegno di rametti e
di passeri, ne portò una a Natalia, alla scrivania, un’altra a Mei, che era stesa sul
letto. Appariva così cresciuta, ultimamente. Presto sarebbe stata più alta della sua
spalla. La sua bambina... nessuno si era spettato che sopravvivesse, e adesso...
Quando la baciò sulla testa lei lo guardò in modo interrogativo, ma lui la invitò
con un cenno a riportare lo sguardo sullo schermo su cui c’erano giovani uomini
dall’aria appassionata.
Lui e Djuna sedettero a tavola insieme, quasi come se stessero ancora avendo
un appuntamento. La guardò: la curva della guancia, la piccola cicatrice sulla
nocca sinistra, la piega gentile della clavicola... memorizzò ogni cosa come per
tenerla da parte in previsione di un giorno in cui lei non ci sarebbe stata. O non
ci sarebbe stato lui.
Il riso di vino gli bruciò la bocca. Forse dava sempre quella sensazione –
fresco e bruciante allo stesso tempo – e di solito lui non lo notava. Djuna gli
parlò della sua giornata, della politica d’ufficio e degli intrighi di palazzo della
ditta di biopellicole, e lui incamerò le sue parole come se fossero state una
musica. Appena prima che sparecchiasse e tirasse fuori il gelato, lei si protese a
prendergli la mano.
«Stai bene?» chiese. «Ti comporti in modo strano.»
«Sto bene» rispose.
«Brutta giornata, al lavoro?»
«No, non credo» replicò Prax. «Penso sia stata ottima.»
25
Fred
Eugenia era un posto terribile su cui installare una base operativa, non tanto
un asteroide quanto un complesso mucchio di detriti e ghiaia nera che
viaggiavano insieme. Né l’asteroide stesso né la piccola luna che vi orbitava
intorno avevano mai avuto una forza di gravità che li premesse uno contro
l’altra o calore che li fondesse insieme. Eugenia e altri duniyaret simili non
offrivano niente di solido su cui costruire, non avevano nessuna struttura interna
a cui ancorarsi. Perfino le operazioni minerarie erano difficili, perché i materiali
che componevano l’asteroide si spostavano e separavano troppo in fretta. Se si
fosse costruita una cupola, l’aria sarebbe filtrata via attraverso il terreno su cui
poggiava. Se si fosse cercato di generare gravità da rotazione, il tutto sarebbe
andato in pezzi. La stazione scientifica che la Terra vi aveva costruito tre
generazioni prima e che poi aveva abbandonato era poco più di una rovina fatta
di cemento sigillato e ceramica scrostata. Una città fantasma della Fascia.
I soli aspetti positivi erano che l’asteroide non era già abitato e che la sua
orbita non era troppo lontana da Ceres e dalla discutibile protezione della flotta
congiunta, ma anche quella vicinanza era solo temporanea. Dal momento che il
periodo orbitale di Ceres era di un paio di punti percentuali più veloce di quello
di Eugenia, ogni giorno aumentava un poco la distanza, estendendo la bolla di
sicurezza finché non sarebbe inevitabilmente scoppiata. Per essere giusti, se
avessero continuato a usarlo per sfuggire alla Marina Libera quando Eugenia e
Ceres si fossero spostate sul lato opposto del sole l’una rispetto all’altra,
avrebbero avuto problemi più grandi.
Invece di tentare di costruire sulla superficie dell’asteroide, la piccola flotta di
Michio aveva costruito una sorta di porto fluttuante che orbitava intorno al
corpo principale di Eugenia, formato da container da spedizione saldati fra loro
in modo da creare passaggi, magazzini e camere di pressurizzazione. Un piccolo
reattore era sufficiente a mantenere la circolazione dell’aria e a generare
abbastanza calore da compensare quello perso a causa delle radiazioni. Era
volutamente una soluzione temporanea, economica, facile da mettere insieme e
fatta di materiali tanto standardizzati e onnipresenti che una soluzione scoperta
una volta poteva essere poi applicata in un migliaio di altre situazioni. La
stazione si espandeva dal seme centrale formato da tre o quattro container e si
allargava con collegamenti e rinforzi, creando distanza quando era necessaria e
unendo le cose quando non lo era, simile a un fiocco di neve che aveva il colore
bianco del sigillante deteriorato.
C’erano storie secondo cui i cinturiani più poveri vivevano per anni in stazioni
improvvisate come quella, ma più spesso esse venivano usate come stava
facendo Michio, come magazzini e stazioni di rifornimento. Erano magazzini
fluttuanti dove tasse e tariffe non intaccavano il budget operativo di un cercatore
di minerali, con acqua iperdistillata che dava ai pirati massa di reazione, acqua
potabile e ossigeno. Erano i fratelli maggiori dei mucchi di provviste che la
Marina Libera aveva sparso nel vuoto. Sul monitor di Pa, la struttura sembrava
un’antica creatura marina che stesse ancora sperimentando la struttura a cellule
multiple. Accanto a essa, la Panshin appariva compatta e lucida.
La nave aveva adeguato la sua orbita in modo tanto preciso da sembrare
immobile accanto al portello, come se vi fosse stata collegata. I bagliori delle luci
da lavoro e delle saldatrici tempestavano la superficie della stazione, e le forme
simili a ragni dei mech trasferivano su di essa le provviste prelevate dalla Panshin.
La Connaught aveva spento il reattore Epstein alcune ore prima per evitare di
fondere il portello e anche la Panshin, e si era inserita a sua volta in orbita con
delicatezza, usando i propulsori di manovra. La decelerazione non somigliava
tanto a una spinta gravitazionale quanto al suggerimento che Michio si annidasse
più in profondità nel sedile a smorzamento.
«Ci stanno puntando. Devo accusare ricevuta?» domandò Evans.
Adesso domandava per ogni cosa, perché dopo lo spavento che si era preso
alla Stazione di Ceres la sua sicurezza era andata in pezzi. Era un problema, ma
come molti altri Pa non sapeva come risolverlo. «Per favore, provvedi» rispose.
«Avvisali che sto arrivando.»
«Sì, signore» rispose Evans, girandosi verso il monitor. Michio si stiracchiò,
costringendo il sangue a circolare. Non sapeva perché dovesse sentirsi ansiosa
all’idea di rivedere Ezio Rodriguez. Erano anni che si conoscevano e si
incontravano di tanto in tanto. Era un altro compagno nella continua lotta per
impedire che la Fascia venisse usata e accantonata dagli interni e dai loro alleati.
Adesso però si era schierato dalla sua parte contro la Marina Libera, e questa
sarebbe stata la prima volta che si sarebbe trovata a respirare la sua stessa aria da
quando le sue operazioni di soccorso erano diventate quello che erano diventate.
E cosa si portava a un incontro con un uomo che condivideva le tue idee al
punto da rischiare la sua vita e quella del suo equipaggio? Un biglietto di
ringraziamento?
Michio scoppiò a ridere, e Oksana le lanciò un’occhiata. Michio però scosse il
capo, perché la cosa non sarebbe stata altrettanto divertente, espressa a voce
alta.
«La Panshin accusa ricevuta, signore» avvertì Evans. «Il capitano Rodriguez è al
portello.»
«E il portello sia, allora» rispose Michio, slacciando le cinture. «Oksana, la nave
è tua.»
«Signore» rispose Oksana, ma c’era una sfumatura di delusione in quella
parola. Avrebbe voluto accompagnarla, ma qualcuno doveva tenere d’occhio
Evans, e ultimamente loro due erano diventati più intimi. Magari passare un po’
di tempo solo con Oksana avrebbe riportato Evans a una condizione che gli
permettesse di parlare di quello che lo turbava. Sarebbe stato meglio se
quell’impulso fosse venuto da lui, perché ordinare a qualcuno di mettere a nudo
le proprie paure personali non era una buona tecnica di comando, e per quanto
potesse essere sua moglie, Michio era anche il suo capitano.
La Connaught prese posizione a meno di un chilometro dai portelli della Panshin
e di Eugenia. Oksana stava facendo un po’ l’esibizionista, ma a Michio non
dispiacque, perché questo rese la transizione breve e facile. La tuta per il vuoto
marziana era corazzata ma non potenziata. Ben fatta, come tutto ciò che Marco
si era procurato. Bertold e Nadia la accompagnarono, entrambi armati. Uscirono
dal portello della Connaught e nel vuoto fra le navi, muovendosi lentamente per
non consumare troppo carburante e discutendo di chi avrebbe dovuto cucinare
la cena quella sera, mentre le stelle scivolavano sotto i loro piedi. Michio avvertì
un’inattesa sensazione di felicità. Era stupefacente pensare che c’era gente che
viveva tutta la vita sulla superficie di un pianeta e non sperimentava mai un
momento come quello, la vicinanza dei familiari più intimi e una vastità che
poteva rivaleggiare con il respiro stesso di Dio.
Il portello era inserito a metà di uno dei container, con le pareti che
interrompevano la distesa della galassia, davanti a loro, prima che arrivassero alla
porta. Tutti e tre entrarono insieme. Non appena l’indicatore fu verde, Michio
controllò la tuta per avere conferma che era tutto a posto, poi chiuse il flusso di
ossigeno e aprì i sigilli.
L’aria nella camera di pressurizzazione puzzava di combustibile usato e metallo
surriscaldato. Le percussioni della musica di qualcuno si sentivano meglio del
resto della canzone, facendo pulsare un poco la camera con un costante ritmo
meccanico. Le luci erano tutte a LED, con ombre spigolose che strisciarono
lungo le pareti di ceramica quando si spinsero attraverso i lunghi corridoi.
Bancali magnetici aderivano alle superfici senza fare distinzione fra pareti,
pavimento e soffitto, e vecchi terminali palmari erano stati applicati a ciascuno
di essi per indicare cosa conteneva e da dove proveniva.
Una donna in un mech da trasporto si spostò di lato al loro passaggio, con le
braccia del mech che si ripiegavano contro il corpo come le zampe di un ragno.
La donna salutò in pari misura Michio, Bertold e Nadia, con un’aria da cui si
capiva che non sapeva chi fossero e non le importava. Finché erano tutti dalla
stessa parte, a lei andavano bene.
Trovarono il capitano Rodriguez in uno dei raggi. Nove container aprivano la
bocca in ciascuna delle sei direzioni, cinquantaquattro in tutto, e avrebbero
dovuto essere a pieno carico. A Michio bastò un’occhiata per vedere che non era
così. Ezio Rodriguez era un uomo dal volto sottile, con una barba ben curata
striata di bianco anche se il resto della faccia appariva giovane. Portava i capelli
rasati e la sua tuta, come quella di Michio, era di fattura marziana.
Contrariamente a lei, Rodriguez l’aveva personalizzata con lo stemma
raffigurante una stella che esplodeva sulla schiena, fra le scapole, e il cerchio
spezzato dell’APE disposto come una fascia sul braccio. Intorno a loro, una
mezza dozzina di altre persone erano impegnate a spostare bancali nei container
circostanti, gridando per comunicare nell’aria invece di usare le radio. Le loro
voci destavano echi.
«Capitano Pa» salutò Rodriguez. «Bien avisé. È passato troppo tempo.»
«Capitano» rispose Michio. «La Connaught è venuta a darvi il cambio. È il
nostro turno di costruire e stare di guardia, sa sa?»
«Siete i benvenuti» disse Rodriguez, allargando le braccia. «Non è molto, y non
è neppure niente.»
Ciascuna delle navi della piccola flotta di Michio, da sole o a coppie, aveva
fatto a turno nel costruire e proteggere il porto mentre le altre davano la caccia
ai coloni o recuperavano le provviste sparse nello spazio, schivando le navi di
Marco. La Solano aveva catturato un’altra nave coloniale, la Brilliant Iris,
proveniente dalla Luna, e la stava scortando verso Ceres per pagare il tributo
dovuto a Cesare. In ogni caso, il porto di Eugenia era troppo piccolo per
accogliere una nave di quelle dimensioni. La Serrio Mal, d’altro canto, stava
recuperando i container oscurati lanciati lontano da Pallas e da Ceres. Quelli
erano destinati a Eugenia, e da lì ai posti che più ne avevano bisogno. Portare
provviste su Kelso e Giapeto era la cosa più pericolosa, e Michio se ne occupava
personalmente.
Non andarci affatto sarebbe stato ancora peggio.
«Sembra poca roba, que» osservò.
«Lo sembra perché lo è» replicò Rodriguez. «Il recupero è raro, ultimamente.
Non recuperiamo tanto quanto prima. Ma c’è sempre qualcosa.»
«Abbastanza?»
Rodriguez rise come se lei avesse fatto una battuta. «Però ho qualcosa di
interessante. Qualcosa per te.»
Michio sentì i capelli che le si rizzavano sulla nuca. Questo le dava una brutta
sensazione, ma sorrise ugualmente. «Non avresti dovuto.»
«Un’occasione che non potevo perdere» disse Rodriguez, attivando i
propulsori della tuta per dirigersi verso un corridoio di accesso. «Da questa
parte. Ti faccio vedere.»
Non le disse di lasciare lì Bertold e Nadia, il che era un bene perché non lo
avrebbe fatto. Non sapeva però se sentirsi rassicurata che non avesse cercato di
separarla dalle sue guardie, o spaventata perché non lo aveva fatto.
«Bertold» disse, mentre seguivano il capitano.
«Capito» rispose lui, la mano sul calcio dell’arma come se si fosse posata lì per
caso. Nadia stava facendo lo stesso. Assunsero una formazione protettiva con la
stessa naturalezza con cui avrebbero sbattuto le palpebre. Quando raggiunse le
pareti della camera di pressurizzazione, Rodriguez atterrò con un suono
metallico, attivando gli stivali magnetici e smorzando la quantità di moto con le
ginocchia. La musica che avevano sentito in precedenza era scomparsa.
Rodriguez guardò alle loro spalle, come per accertarsi che nessuno li avesse
seguiti. O forse per verificare che lo avessero fatto.
«Mi stai rendendo nervosa, coyo» disse Michio, nel seguirlo. «C’è qualcosa che
mi vuoi dire?»
«Bon sí, aber non qui» replicò Rodriguez. Adesso il tono leggero era scomparso
dalla sua voce, che era pervasa di una cupa tensione. «Questa è una cosa
contrabbandata sotto il naso dei contrabbandieri.»
«Non mi sento meglio.»
«Lo farai o non lo farai. Venite alles la.»
Il container a cui li condusse aveva un piccolo ufficio costruito nella fiancata,
pezzi di metallo saldati insieme, e con un loro portello stagno. Rodriguez inserì a
mano un codice, e Bertold stiracchiò le braccia, esalando il fiato come un
sollevatore di pesi che si preparasse a sollevare un carico superiore al solito.
«Vi amo» disse Nadia, in tono calmo e colloquiale, come se non lo stesse
dicendo nell’eventualità che quelle fossero le sue ultime parole.
Il portello si aprì e saltò fuori un uomo dal corpo esile, con scuri capelli
ricciuti. «Lei è qui?» chiese. Poi: «Oh, eccoti.»
Uno shock pervaso di sorpresa, l’incertezza se questa fosse una minaccia o
qualcosa di più interessante. «Sanjrani.»
«Nico, Nico, Nico» lo rimproverò Rodriguez, spingendolo di nuovo attraverso
il portello. «Non qui. Non ti ho trasportato di soppiatto attraverso il culo del
nulla per poi sventolarti come una bandiera. Torna dentro, al sicuro.» Una volta
che Sanjrani fu indietreggiato, Rodriguez si girò verso Michio, invitandola con
un gesto a seguirlo. Quando lei esitò, sollevò le braccia a croce ai lati del corpo.
«Non ho armi, io. Esá va male, la dué può spararmi.»
«Può» confermò Bertold, che aveva estratto l’arma ma non la stava puntando.
Non ancora.
«D’accordo» annuì Michio, avanzando con passo pesante, gli stivali magnetici
che la trattenevano contro il pavimento e la lasciavano andare di nuovo a ogni
passo.
Nel piccolo ufficio, Sanjrani sedeva assicurato a uno sgabello davanti a una
sottile scrivania, di fronte alla quale c’era un altro sgabello. Michio non vide
nessuna trappola, ma d’altro caso non seppe dire cosa stesse vedendo. «Cerchi di
cambiare fazione?» chiese.
Sanjrani ebbe un impaziente e profondo colpo di tosse. «Sono qui per dirti
perché stai uccidendo tutti, nella fottuta Fascia. Tu e Marco, tutti e due. Voi due
dovreste essere dalla mia parte.»
«Lui sa che sei qui?»
«Sono forse morto? No, non lo sa. Sono disperato fino a questo punto. Ho
provato a parlare con Rosenfeld, ma lui parla soltanto con Marco, e nessuno sa
dove sia finito Dawes. Non mi vogliono ascoltare.» C’era disperazione nella sua
voce, acuta e sottile come un archetto su una corda di violino.
«D’accordo» annuì Michio, avvicinandosi allo sgabello e passandosi la cintura
di traverso sul grembo. «Io ti ascolto.»
Sanjrani si rilassò e richiamò un diagramma sullo schermo della scrivania, una
complessa serie di curve a cui si sovrapponevano gli assi X e Y. «Abbiamo
avanzato delle supposizioni, quando abbiamo cominciato tutto questo» esordì.
«Abbiamo elaborato dei piani, e credo fossero validi. Però non li abbiamo
seguiti.»
«Dui» commentò Michio.
«La prima cosa che abbiamo fatto» continuò Sanjrani «è stato distruggere la
più grande fonte di ricchezza e di sostanze organiche complesse esistente nel
sistema. La sola fonte di sostanze organiche complesse che funzionano con il
nostro metabolismo. I mondi dall’altro lato dell’anello? Hanno un codice
genetico diverso. Una chimica diversa. Non è qualcosa che possiamo importare e
mangiare. Però andava bene così. Le proiezioni erano chiare. Potevamo
costruire una nuova economia, mettere insieme infrastrutture, creare una rete
sostenibile di microecologie in una matrice cooperativo-competitiva. Basare la
valuta su...»
«Nico» lo interruppe Michio.
«Giusto, giusto. Dovevamo cominciare a costruire non appena fossero
precipitate le rocce.»
«Lo so» annuì lei.
«Non lo sai» ribatté lui, con uno strato di lacrime che gli copriva gli occhi e gli
aderiva alla pelle. «Nessun processo di riciclaggio è perfetto. Tutto si degrada. Le navi
coloniali? Le provviste? Tutte soluzioni provvisorie. Sono la misura di quanto
tempo abbiamo per cominciare a creare di che vivere nella Fascia. Guarda qui.
Questa curva verde è la proiezione della produzione dei nuovi modelli
economici, quelli che non stiamo attuando, sì? E questa...» Indicò una curva
rossa discendente. «Questa è la migliore proiezione di quanto a lungo dureranno
le provviste sequestrate. Il punto di equilibrio è qui. A cinque anni da ora.»
«D’accordo.»
«E questa linea qui è la base di cui avremmo bisogno in quegli anni per tenere
in vita l’attuale popolazione della Fascia.»
«Rimaniamo al di sopra» osservò Michio.
«Ci saremmo rimasti,» precisò Sanjrani «se ci fossimo attenuti al piano. Adesso
siamo qui.»
Spostò la linea verde, e Michio sentì la gola che le si contraeva quando
comprese cosa stava vedendo.
«Adesso stiamo bene,» riprese Sanjrani «e staremo bene per tre anni, forse tre e
mezzo, poi i sistemi di riciclaggio smetteranno di essere in grado di far fronte
alla domanda, e noi non avremo le infrastrutture per tappare le falle. E a quel
punto moriremo di fame. Non solo la Terra. Non solo Marte. Anche la Fascia.
E quando il processo avrà inizio non ci sarà modo di arrestarlo.»
«D’accordo» ripeté Michio. «Come sistemiamo le cose?»
«Non lo so» ammise Sanjrani.
La Panshin ripartì l’indomani, portando con sé Sanjrani e la poca pace mentale
che ancora rimaneva a Michio. Il suo equipaggio faceva il suo lavoro, portando
avanti la costruzione del porto, installando i nuovi cavi. I messaggi arrivavano
alle antenne della Connaught, e alcuni erano per lei. Giapeto aveva bisogno di più
magnesio per alimenti. Un assortimento di navi minerarie aveva consumato i
filtri e aveva bisogno di ricambi. La Marina Libera diffondeva quelle che
chiamava notizie, alcune delle quali riguardavano quanto materiale cinturiano lei
aveva regalato al nemico.
Ogni volta che cercava di dormire, il senso di timore le inondava il cuore.
Quando fossero cominciati i tempi duri, quando si fosse cominciato a patire la
fame la cosa avrebbe funzionato come un cricchetto. Era difficile creare nuove e
lucenti città nel vuoto quando le persone che le progettavano, le costruivano e ci
vivevano stavano morendo per carenza di cibo. Quando stavano morendo
perché lei e Marco erano uno alla gola dell’altro invece di seguire il piano.
Doveva ricordare a sé stessa che non era stata lei a cambiare le cose, che
Marco aveva abbandonato per primo il copione e lei aveva disertato proprio per
questo e stava cercando di essere d’aiuto. Quando chiudeva gli occhi, però,
vedeva quella linea rossa che scendeva verso il nulla e nessuna curva verde
ascendente di risposta. Tre anni, forse tre e mezzo, ma per far funzionare le cose
dovevano cominciare adesso. Avrebbero già dovuto cominciare.
Oppure dovevano elaborare un piano del tutto nuovo, e né lei né Sanjrani
sapevano quale fosse.
Gli altri la evitavano, dandole cibo, acqua e spazio per riflettere. Si svegliava
sola, faceva il suo turno di lavoro, dormiva da sola e non sentiva la mancanza di
compagnia. Quindi rimase sorpresa quando Laura venne a cercarla in palestra.
«C’è un messaggio per te, capitano» disse. Non Michi, ma capitano, quindi non
era lì come sua moglie ma come ufficiale addetto alle comunicazioni per quel
turno di servizio.
Michio lasciò che le fasce elastiche rientrassero negli alloggiamenti e si
tamponò il sudore dalla fronte con un asciugamano. «Di cosa si tratta?»
«Un raggio stretto, reindirizzato attraverso Ceres» rispose Laura. «Viene dalla
Rocinante, in rotta per la Stazione di Tycho, ed è marcato come messaggio da
capitano a capitano.»
Michio prese in considerazione l’eventualità di dire a Laura di attivare il
messaggio, che erano una famiglia e non avevano segreti. Quello però era un
impulso pericoloso, e lo soffocò.
«Lo riceverò nel mio alloggio» disse.
Quando aprì il messaggio, James Holden la guardò dallo schermo. La sua
prima impressione fu che aveva un aspetto orribile. Il secondo pensiero fu che
probabilmente lo aveva anche lei. Gettò l’asciugamano umido di sudore nel
riciclatore. Nessun processo di riciclaggio è perfetto. Ebbe un brivido, ma intanto
Holden aveva cominciato a parlare.
«Capitano Pa» disse. «Spero che questo messaggio ti raggiunga in fretta e che
tutto vada bene con la tua nave e il tuo equipaggio, e... Bene. Come che sia. Mi
trovo in una sorta di strana situazione, e se devo essere onesto, pensavo di
chiederti un favore.»
Cercò di sorridere, ma il suo sguardo appariva tormentato.
«Ti dirò la verità» continuò. «Sono praticamente disperato.»
32
Vandercaust
La stanza che usavano come anticamera era più grande della cambusa della
Rocinante. C’erano ampi tavoli con monitor inseriti nel piano, e alti sgabelli di
metallo, la luce era morbida e indiretta, con uno spettro manipolato che gli
ricordava le ore di prima mattina della sua infanzia. Lui non aveva un grado o
un’uniforme. Ma la tuta di bordo gli era parsa inadatta per l’occasione, quindi
aveva optato per una camicia scura senza colletto e pantaloni che richiamavano
la foggia di una divisa militare senza avanzare nessuna rivendicazione specifica.
Naomi, che camminava avanti e indietro lungo la parete vicina alla porta gialla
a due battenti, aveva scelto lo stesso abbigliamento, ma Holden aveva il
crescente sospetto che esso stesse meglio su di lei. Dei tre, quindi, Bobbie era la
sola in uniforme, e anche se aveva rimosso le mostrine, il taglio e la foggia erano
chiaramente quelli del corpo dei marine marziani. In ogni caso, le persone che
avrebbero incontrato, quelle che in quel momento si stavano radunando in
fondo al corridoio, sapevano già chi era.
«Continui a tormentare quella manica» osservò Bobbie. «Ti dà fastidio?»
«La manica? No, quella va benissimo» rispose Holden. «Io do fastidio a me
stesso. Sai quante volte ho svolto questo tipo di lavoro diplomatico? Sono stato
in battaglia, e ho messo insieme feed video, ma entrare lì dentro, guardare un
mucchio di attivisti dell’APE e dire loro perché mi devono dare ascolto? L’ho
fatto esattamente zero volte. Mai.»
«Ilus» interloquì Naomi.
«Vuoi dire quando quel tizio ne ha ucciso un altro in mezzo alla strada e poi ha
bruciato vivo un gruppo di persone?»
Naomi sospirò. «Sì. Allora.»
Bobbie flesse le mani, poi le appoggiò con il palmo contro il display sul tavolo.
Il monitor si accese per un momento, aspettando un comando, poi tornò a
spegnersi quando non ne arrivò nessuno. Dalla soglia giunsero alcune voci
soffocate. Una donna dall’accento cinturiano che chiedeva qualcosa riguardo alle
sedie. Un uomo che rispondeva a voce troppo bassa per distinguere le parole.
«Io sono stata in stanze come questa, in passato» disse Bobbie. «Lavoro politico.
Un sacco di piani diversi e nessuno che dica ad alta voce quello che pensa
davvero.»
«Sì?» la incitò Holden.
«Era uno schifo.»
La Rocinante aveva decelerato verso Tycho più energicamente di quanto fosse
pianificato, consumando la velocità che avevano accumulato nella battaglia e
schiacciandoli tutti contro i sedili con un po’ più forza del solito, come una
malattia, o rammarico. Holden aveva tenuto una piccola cerimonia nella
cambusa durante la quale avevano condiviso tutti qualche ricordo di Fred
Johnson e il loro cordoglio. Gli unici che non avevano parlato erano stati Amos,
che aveva continuato a sfoggiare il suo sorriso cordiale e privo di significato, e
Clarissa, che aveva la fronte aggrottata per la concentrazione come se quello
fosse stato un enigma che cercava di risolvere.
Quando la cosa era finita e si erano dispersi, Holden aveva visto Alex e Sandra
Ip andarsene insieme, ma non aveva avuto il tempo o il morale abbastanza alto
per preoccuparsi della fraternizzazione. Ogni ora che passava li aveva portati
qualche migliaio di chilometri più vicini a Tycho e alla riunione organizzata là, e
lui aveva passato tutto il tempo libero chiuso nella sua cabina a scambiare
messaggi attraverso il vuoto del sistema. Con Michio Pa. Con Drummer su
Tycho. Con un uomo di nome Damian Short, che aveva preso le redini di Ceres.
Ma soprattutto con Chrisjen Avasarala.
In ogni lunga, pesante giornata, aveva scambiato messaggi con la Luna.
Lunghe prediche da parte di Avasarala su come condurre una riunione, come
presentare sé stesso e le sue argomentazioni e, cosa più importante, come
ascoltare quello che gli altri dicevano o non dicevano. Gli aveva mandato dossier
su tutti i più importanti elementi dell’APE che sarebbero stati presenti: Aimee
Ostman, Micah al-Dujaili, Liang Goodfortune, Carlos Walker. Essi contenevano
tutto quello che Avasarala sapeva di loro... chi era la loro famiglia, che cosa
avevano fatto le loro fazioni all’interno dell’APE e cosa lei sospettava che
avessero fatto. La profondità di quel background era sopraffacente, con lealtà di
gruppo che si intrecciavano e separavano, insulti personali che influenzavano
accordi politici, e accordi politici che modellavano i rapporti. E insieme a tutto
questo, Avasarala gli aveva riversato negli orecchi le introspezioni distillate da
un’intera esistenza di vita politica finché lui se ne era sentito tanto ubriaco da
avere quasi la nausea.
La forza per sé stessa è soltanto bullismo, la capitolazione da sola è un invito a farsi fottere.
Sopravvivono solo le strategie mescolate. Tutto è personale, ma questo lo sanno anche loro.
Possono fiutare un atteggiamento compiacente come se fosse una scoreggia. Se li tratterai come
se fossero uno scrigno del tesoro per cui se riuscirai a manovrarli nel modo giusto otterrai la
politica che vuoi, sarai fottuto in partenza. Si faranno un’idea sbagliata di te, quindi sii pronto
a sfruttare la cosa.
Era intenzionato a entrare infine in quella stanza delle riunioni, su Tycho,
avendo una piccola versione semplificata di Avasarala che gli viveva in fondo
alla mente, e gli era parso di svolgere un decennio di lavoro nell’arco di pochi
giorni, perché di questo si era trattato. Era arrivato al punto in cui non riusciva
né a dormire né a stare sveglio, e quando infine avevano raggiunto la Stazione di
Tycho era stato difficile determinare se era più forte la paura o il sollievo.
Era stato strano camminare per l’anello abitativo di Tycho per la prima volta
dopo il loro ritorno. Tutto era assolutamente familiare: la schiuma pallida delle
pareti, l’odore leggermente aspro dell’aria, il suono della musica bhangra che
giungeva da qualche lontana stanza di lavoro... ma adesso tutto significava anche
qualcosa di diverso. Tycho era stata la casa di Fred Johnson, solo che adesso
non lo era più. Holden aveva continuato a essere tormentato dalla sensazione
che mancasse qualcosa, per poi ricordarsi di chi si trattasse.
Drummer aveva vissuto il suo lutto in privato. Quando li aveva scortati nella
stazione, lo aveva fatto come il capo della sicurezza che era stata prima: attenta,
consapevole e pratica. Li aveva incontrati ai moli con un convoglio di carrelli,
ciascuno con un paio di guardie armate, e questo non aveva fatto sentire meglio
Holden.
«Allora, chi comanda adesso?» aveva chiesto, quando si erano fermati vicino
alla paratia che contrassegnava la sezione amministrativa.
«Tecnicamente, Brendon Tycho e un consiglio amministrativo» aveva risposto
Drummer. «Solo che in prevalenza sono sulla Terra o sulla Luna. Non sono mai
stati qui, hanno sempre preferito tenersi le mani pulite. Noi siamo qui, perciò
finché non verrà qualcuno a opporsi, continuiamo a gestire le cose.»
«Noi?»
Drummer aveva annuito e il suo sguardo si era fatto un po’ più duro, Holden
non aveva saputo stabilire se quello che c’era in loro era dolore o rabbia.
«Johnson voleva che tenessi d’occhio questo posto finché non fosse tornato, ed
è quello che intendo fare.»
Avrebbero dovuto esserci quattro persone ad aspettarlo.
Ne trovò cinque.
Riconobbe tutti i volti che Avasarala lo aveva preparato a fronteggiare. Carlos
Walker, ampio di spalle e di viso, ancora più basso di Clarissa, con una strana
aria immota. Aimee Ostman, che sarebbe potuta passare per un’insegnante di
scienze delle medie, ma era responsabile di più attacchi contro bersagli militari
dei pianeti interni di tutti gli altri messi insieme. Liang Goodfortune, che Fred
era riuscito ad attirare a quel tavolo solo offrendogli l’amnistia per sua figlia,
un’ex terrorista dell’APE che era ancora rinchiusa in una prigione della Luna dove
i detenuti erano conosciuti solo in base al numero. Micah al-Dujaili, con il suo
grasso naso da ubriacone solcato di vene rosse, che aveva trascorso metà della
vita a coordinare scuole libere e cliniche mediche in tutta la Fascia, e il cui
fratello era stato il capitano della Witch of Endor quando la Marina Libera l’aveva
distrutta.
La quinta persona aveva i capelli bianchi di un vecchio, le guance butterate e
un sorriso deferente che era quasi di scusa, ma non del tutto. Holden lo
riconobbe, ma non seppe dire dove lo avesse visto. Cercò di mantenere la sua
espressione da poker, ma il quinto uomo attraversò quella maschera senza
neppure dare l’impressione di rendersi conto della sua presenza.
«Anderson Dawes» si presentò. «Non credo che ci siamo mai incontrati di
persona, ma Fred mi ha parlato spesso di lei. E poi, naturalmente, c’è la sua
reputazione...»
Mentre Holden stringeva la mano all’ex governatore della Stazione di Ceres,
nonché membro della cerchia interna di Marco Inaros, la sua mente stava
lavorando a ritmo serrato.
«Ho preferito non annunciare la mia presenza» continuò Dawes. «Tycho è un
posto pericoloso per un uomo nella mia posizione. Facevo affidamento su Fred
perché garantisse per me, dato che abbiamo lavorato insieme per molti anni. Mi
è dispiaciuto sapere cosa gli è successo.»
«È una perdita» replicò Holden. «Fred era un brav’uomo, sentirò la sua
mancanza.»
«Come faremo tutti» replicò Dawes. «Spero non le dispiaccia se sono arrivato
senza farmi annunciare. Aimee mi ha contattato quando ha deciso di venire, e le
ho chiesto di permettermi di accompagnarla.»
Bene, splendido, molta brigata vita beata, pensò Holden, ma la piccola
versione di Avasarala nella sua mente si accigliò. «Mi fa piacere la sua presenza
qui, ma non può partecipare a questa riunione.»
«Posso garantire per lui» intervenne Aimee Ostman.
Holden annuì e cercò di immaginare cosa avrebbe detto Avasarala, ma quella
che gli rispose fu la voce vecchia e quasi dimenticata di Miller. «C’è un modo in
cui facciamo le cose, ma non è questo. Spero non le dispiaccia aspettare fuori,
Mr Dawes. Naomi, potresti controllare che il nostro amico trovi un posto
confortevole dove aspettare?»
Naomi venne avanti e Dawes spostò il proprio peso all’indietro, sorpreso.
Questa è casa tua, disse Avasarala, nella mente di Holden. Se non ti rispettano qui, non
ti rispetteranno da nessuna parte. Dawes raccolse il terminale palmare e una tazza di
ceramica bianca, salutò Holden con un cenno del capo e un sorriso teso, e se ne
andò. Holden prese posto a sedere, grato per la presenza solida e incombente di
Bobbie al suo fianco. Aimee Ostman aveva le labbra pressate in una linea sottile.
Se cercate reciproco rispetto, potete cominciare chiedendo il permesso prima di invitare altre
persone alle mie riunioni segrete. Pareva una cosa scortese da dire ad alta voce.
«Se cercate reciproco rispetto, potete cominciare chiedendo il permesso prima
di invitare altre persone alle mie riunioni segrete.»
Aimee Ostman si schiarì la gola e distolse lo sguardo.
«D’accordo» proseguì Holden. «Questa doveva essere la riunione di Fred
Johnson, ma lui se n’è andato. So che siete venuti tutti qui fidandovi della sua
parola e della sua reputazione, e so che siete tutti preoccupati a causa di Marco
Inaros e della Marina Libera, ma so anche che questa è la prima volta che uno
qualsiasi di voi mi incontra e che posso non riscuotere tutta la vostra fiducia.»
«Sei James Holden» interloquì Liang Goodfortune, in un tono che significava
‘È ovvio che non riscuoti tutta la nostra fiducia’.
«Mi sono preso la libertà di organizzare un’introduzione» riprese Holden,
passando il messaggio dal terminale palmare ai monitor sul tavolo.
Michio Pa apparve su ciascuno di essi, con il ponte della Connaught che
spiccava luminoso alle sue spalle. «Amici» disse. «Come sapete, non molto
tempo fa ero parte della cerchia interna della Marina Libera, e quello che ho
visto ha convinto sia me sia molti di quanti erano ai miei ordini che Marco
Inaros non è il capo di cui la Fascia ha bisogno. Quando la Marina Libera ha
abbandonato il suo intento originale di supportare e ricostruire la Fascia,
impedendo all’industria che le dà di che vivere di spostarsi sui nuovi mondi
coloniali, io sono rimasta fedele a esso. Voi tutti lo sapete. Questo impegno mi è
costato la perdita di alcuni amici, per esso ho rischiato la mia vita e quella delle
persone che più mi stanno a cuore. Presto servizio con i veri eroi della Fascia. Le
mie credenziali sono irreprensibili.»
Bobbie diede di gomito a Holden e accennò con la testa a Micah al-Dujaili,
che aveva gli occhi lucidi di pianto. Holden annuì per indicare che lo aveva
notato anche lui.
«Da quando mi sono staccata dalla Marina Libera, ho lavorato con Fred
Johnson per elaborare un piano completo che garantisse la sicurezza e il
benessere della Fascia.» Pa fece una pausa e trasse un profondo respiro. Holden
si chiese se lo faceva ogni volta che mentiva, o solo quando si trattava di una
balla colossale. «Questa riunione doveva servire a presentarvi quel piano e il
capitano Holden, che ne è parte integrante. Purtroppo, se da un lato è riuscito a
vedere una via per andare avanti, Fred Johnson non è riuscito a completare il
viaggio con noi. Come cittadina dedita a servire la Fascia e la nostra gente, vi
chiedo di ascoltare il capitano Holden e poi di unirvi a noi per un futuro vitale.
Grazie.»
Ogni singola parte di quella dichiarazione era il risultato di un negoziato.
Holden aveva perso il conto del numero di volte in cui avevano mercanteggiato
avanti e indietro, con Pa che chiedeva qualcosa, Avasarala che gli spiegava cosa
in effetti significasse e lui che faceva da ponte fra loro due come un messaggero
ma in realtà imparava qualcosa di più a ogni passo. Pa avrebbe acconsentito a
dire che avevano lavorato all’elaborazione di un piano, ma non a un piano. Era
disposta a dire che Holden ne era parte integrante ma non che ne era la figura
centrale. L’intero procedimento era stato un condensato di tutto ciò che Holden
odiava... fare i pignoli sui dettagli e le sfumature, discutere sulla formulazione di
una frase e sull’ordine in cui le informazioni venivano presentate, mettere
insieme qualcosa che, pur non essendo completamente falso, era modellato in
modo da essere frainteso. La politica al suo livello più politico.
Osservò le quattro facce sedute intorno al tavolo e cercò di valutare se la cosa
aveva funzionato. Aimee Ostman appariva pensosa e acida. Micah al-Dujaili si
stava ricomponendo, commosso dal ricordo del fratello che si era sacrificato per
la causa. Carlos Walker, immobile e silenzioso, indecifrabile come un linguaggio
in un alfabeto sconosciuto. Liang Goodfortune si schiarì la gola e ridacchiò.
Cercheranno di metterti un po’ in imbarazzo per vedere come reagisci. Non tentare di ripagarli
nella stessa moneta o più tardi cercheranno di rincarare la dose per evitare un confronto.
Rimani concentrato sul punto fondamentale. Naomi rientrò e si venne a sedere al suo
fianco.
«Perdere Fred è duro perché è una cosa triste» disse Holden. «Lui era un
amico. Questo però non cambia la situazione. Lui ha elaborato un piano, ed è
mia intenzione seguirlo. Fred ha chiamato ciascuno di voi perché riteneva che
aveste qualcosa da offrire al suo piano e anche qualcosa da guadagnare da esso.»
Gli occhi di Carlos Walker si mossero, come se per la prima volta avesse
sentito qualcosa di interessante, e Holden gli rivolse un cenno del capo che era
un gesto volutamente ambiguo. Poi si girò verso Bobbie, perché ora toccava a
lei prendere la parola.
«In questa cosa ci sarà un aspetto militare» cominciò lei. «Non potremo uscire
da questa situazione senza correre qualche rischio, ma siamo sicuri che le
ricompense siano nettamente superiori.»
«E lo dici come rappresentante di Marte?» chiese Aimee Ostman.
«Il sergente Draper ha lavorato come liaison fra la Terra e Marte in parecchie
occasioni» rispose Holden. «Oggi è qui come membro del mio equipaggio.»
Stranamente, Bobbie parve farsi più tesa in reazione a quelle parole,
controllarsi e sedere più eretta. Quando riprese a parlare, il suo tono era quasi
identico, non era più alto o più duro, ma aveva una nuova intensità. «Ho
esperienza di combattimento. Ho guidato squadre in battaglia. La mia opinione
professionale è che la proposta messa insieme da Fred Johnson è la miglior
speranza di stabilità a lungo termine e di sicurezza per la Fascia.»
«Trovo difficile crederlo» obiettò Aimee Ostman. «A me sembra che il
capitano, qui, si prenda tutte le donne, e che Inaros si prenda tutte le stazioni.»
Micah al-Dujaili controbatté in tono secco prima che Holden potesse
rispondere. «A me sembra che Inaros non sappia conservare il territorio più di
quanto riesca a tenersi le donne.»
«Smettetela con questa stronzata delle ‘donne’» intervenne Carlos Walker. La
sua voce era sorprendente, acuta e musicale, una voce da cantante nella quale
l’accento proprio di un cinturiano era quasi assente. «È una cosa infantile. Lui ha
perso anche Dawes. Ha perso tutti i presenti in questa stanza ancor prima di
cominciare, altrimenti nessuno di noi sarebbe qui. Inaros ha una piaga aperta
dove ci dovrebbe essere il suo cuore, e questo lo sappiamo tutti. Quello che
voglio sentire è come intendete cambiare la dinamica attuale. Ogni volta che vi
siete mossi verso di lui, vi ha costretti a spingervi troppo oltre. Presto la vostra
flotta congiunta si sarà sparpagliata troppo. È per questo che ci volete? Per
usarci come carne da cannone?»
«Non sono ancora pronto a discutere i dettagli» replicò Holden. «Prima ci
sono questioni di sicurezza di cui ci dobbiamo occupare.»
«Perché ci avete fatti venire qui se non è stato per esporci le vostre
intenzioni?» domandò Aimee Ostman.
Liang Goodfortune la ignorò. «Medina» disse. «Intendete puntare su Medina.»
Qualcosa andrà storto. Succede sempre. Vedranno qualcosa che non volevi vedessero.
Piazzeranno una trappola che non sapevi di doverti aspettare. Quelle sono persone intelligenti e
ognuna di loro ha un suo piano personale. Quando succederà... non se, quando... la cosa
peggiore che puoi fare è cedere al panico. La seconda cosa peggiore è farti coinvolgere. Holden
si protese in avanti.
«Mi piacerebbe dare a tutti voi l’opportunità di consultarvi riguardo a quanto si
è detto prima di parlare delle opzioni tattiche» disse. «Ho parlato con il capo
della sicurezza. Se volete restare qui alla stazione siete i benvenuti, oppure potete
tornare alle vostre navi. Sentitevi liberi di discutere fra voi o con chi pensate
possa essere utile. Potete accedere al sistema di comunicazione della stazione
senza essere controllati, ma se preferite usare il sistema di bordo delle vostre
navi, le comunicazioni non saranno registrate o bloccate. Se siete interessati a
farvi coinvolgere in questa cosa, ci troveremo di nuovo qui fra venti ore. A quel
punto sarò pronto a fornire tutti i dettagli, ma mi aspetterò in cambio la vostra
lealtà e il vostro impegno. Se non vi sentite a vostro agio nel dare entrambe le
cose, potete lasciare in tutta sicurezza Tycho in qualsiasi momento di quelle
venti ore.»
«E dopo?» chiese Carlos Walker.
«Dopo si tratterà di un territorio del tutto diverso» rispose Holden. «Da quel
momento faremo le cose in maniera differente.»
Lui, Naomi e Bobbie si alzarono in piedi, e gli altri quattro fecero altrettanto
un momento più tardi. Holden osservò come ciascuno di loro salutò gli altri o
omise di farlo. Quando le porte si chiusero alle spalle dei quattro emissari,
lasciandolo solo con Naomi e con Bobbie, si accasciò sulla sedia.
«Dannazione» disse. «Come riesce lei a fare questo per tutto il giorno, ogni
giorno? Sono stati al massimo una ventina di minuti, dall’inizio alla fine, e sento
già il bisogno di immergere il cervello nella candeggina.»
«Ti ho detto che era uno schifo» replicò Bobbie, protendendosi in avanti sul
tavolo. «Sei certo che sia una buona idea lasciarli circolare liberamente per la
stazione? Non sappiamo con chi parleranno.»
«Non potremmo comunque fermarli,» replicò Naomi «e in questo modo
appare come un gesto di fiducia da parte nostra.»
«Una recita, quindi, e un intrigo di palazzo» sintetizzò Bobbie.
«Solo per ora» replicò Holden. «Solo finché non abboccano. Una volta che si
saranno impegnati potremo passare al nostro piano.»
«Il piano di Johnson» precisò Bobbie. E un momento più tardi chiese: «Allora,
detto fra noi, Fred Johnson aveva davvero un piano?»
«Sono sicuro di sì,» rispose Holden, accasciandosi su sé stesso «ma non so
quale fosse.»
«Allora cos’è questo che stiamo vendendo loro?»
«Diciamo che lo sto inventando io.»
34
Dawes
Il sesso era una di quelle cose in cui il modo in cui la cosa avrebbe dovuto
funzionare e come invece funzionava per lui non sempre combaciavano bene.
Sapeva tutte quelle cose sull’amore e l’affetto, e gli sembrava solo un mucchio di
balle. Capiva perché le inventavano, e capiva anche come la gente ne parlava, ed
era in grado di farlo anche lui, giusto per integrarsi.
Nella pratica, riconosceva che c’era potere nell’essere con un altro corpo
vivente, ed era una cosa che rispettava. La pressione si accumulava nel corso
delle settimane o dei mesi in accelerazione, ed era come una sorta di fame o di
sete, solo che non ti uccideva se la ignoravi. Lui non la contrastava mai. Tanto
per cominciare, farlo era stupido, e comunque non era d’aiuto. Si limitava a
registrare la sensazione e a tenerla d’occhio, ne ammetteva la presenza come
avrebbe fatto con qualsiasi altra cosa potente e pericolosa che condivideva il suo
spazio lavorativo.
Quando poi raggiungevano un porto abbastanza grande da avere un bordello
autorizzato, andava là, non perché fosse sicuro ma piuttosto perché si trattava di
un ambiente di cui conosceva tutti i pericoli, era in grado di individuarli e di non
essere preso di sorpresa. Là faceva quello che andava fatto e in seguito la cosa
non lo disturbava più per qualche tempo.
Forse il meccanismo era diverso per tutti gli altri, ma per lui così funzionava.
Il fatto era che di solito, dopo, riusciva a dormire. A dormire davvero, di un
sonno profondo e senza sogni da cui gli era difficile emergere finché non era del
tutto riposato. Adesso invece perlopiù continuava a fissare il soffitto. L’ultima
ragazza, quella chiamata Maddie, era raggomitolata accanto a lui, con le lenzuola
drappeggiate intorno alle gambe e un braccio sotto al cuscino, e russava
leggermente. Uno dei vantaggi del prendere una stanza per tutta la notte era che
ne assegnavano una tranquilla, sul retro. Maddie era una ragazza che aveva
usato, e da cui era stato usato, altre volte nelle occasioni in cui la Roci era stata su
Tycho, e gli piaceva nella misura in cui gli poteva piacere chiunque non
appartenesse alla sua tribù. Il fatto che si sentisse al sicuro nel dormire accanto a
lui gli generava un senso di calore in un’area dello stomaco che di solito
rimaneva fredda.
Aveva un piccolo spazio fra i denti anteriori e la pelle più pallida che lui avesse
mai visto. Sapeva arrossire a comando, il che era un trucco notevole, e faceva
quella vita da quando era una ragazzina, da prima che fosse venuta su Tycho a
lavorare in modo legale. L’infanzia di Amos nel campo del mercato illegale del
sesso significava che avevano un contesto comune che gli rendeva confortevole
parlare con lei, prima e dopo, e Maddie sapeva che lui non avrebbe provato a
rifilarle quelle stronzate intese a salvarle l’anima, discorsetti come ‘Tu sei meglio
di così’. Nello stesso modo, non avrebbe cominciato a darle della puttana e a
picchiarla per un senso di vergogna, come facevano alcuni clienti. Gli piaceva
fare conversazione spicciola, dopo, e di solito il modo in cui lei russava
leggermente non gli impediva di addormentarsi.
Solo che adesso non era questo a tenerlo sveglio. Sapeva di cosa si trattava.
Si alzò dal letto in silenzio per non svegliarla. L’aveva già pagata e aveva
saldato la stanza per tutta la notte, e siccome non lo avrebbero certo rimborsato
se fosse andato via in anticipo, tanto valeva lasciarla riposare. Raccolse i vestiti e
sgusciò nel corridoio per infilarseli. Un tizio che se ne stava andando passò
mentre lui si infilava la tuta, incontrò fugacemente il suo sguardo con aria
imbarazzata e gli rivolse un breve cenno del capo. Amos rispose con il suo
amabile sorriso e si spostò per permettere al tizio di passare prima di tirare su la
cerniera della tuta e di avviarsi verso i moli.
La Roci aveva trascorso più tempo su Tycho che in qualsiasi altro porto, di
solito per essere rimessa in sesto dopo la cosa più recente che era andata storta.
Non era una casa... nessun posto al di fuori della Roci lo era... ma era un posto
abbastanza familiare da permettergli di percepire le differenze. Si trattava del
modo in cui la gente parlava nei corridoi, del genere di immagini trasmesse dai
notiziari. Aveva visto com’era per un posto subire un cambiamento che sarebbe
rimasto tale. La Terra era stata così. E adesso Tycho. Era come una sorta di
grande onda lenta che era sbucata dal nulla là dove le rocce avevano colpito la
Terra e si stava allargando attraverso ogni posto dove ci fossero esseri umani.
Su Tycho c’erano persone che lo riconobbero a loro volta, anche se non era
come succedeva con Holden, che non poteva più attraversare una stanza senza
che la gente lo fissasse, lo indicasse e lo ricoprisse di attenzioni. Aveva la
sensazione che prima o poi quello sarebbe diventato un problema, ma era una
cosa a cui non sapeva come rimediare. A questo punto, non sapeva più bene
neppure cosa sottintendesse quel comportamento.
Tornato alla nave, si diresse all’officina meccanica e alla sua postazione di
lavoro. La Roci gli disse che Holden era nella cambusa con Babs, che Naomi
stava riposando e che lo Zuccherino era al lavoro, impegnata a sostituire quei
sigilli dei portelli di cui avevano parlato. Annotò sul suo piano di lavoro di
effettuare un controllo quando lei avesse finito, anche se sapeva che sarebbe
stato tutto a posto. Lo Zuccherino era risultata essere una lavoratrice eccellente.
Intelligente, concentrata, pareva le piacesse aggiustare le cose e non si lamentava
mai per le tensioni della vita di bordo. Supponeva che fosse una questione di
prospettiva. Perfino la nave più merdosa doveva essere migliore della migliore
cella della fossa, se non altro perché eri tu a scegliere di stare su di essa.
Si assestò sul sedile, richiamò a schermo i rapporti tecnici e li esaminò come
aveva già fatto in precedenza. Non che si aspettasse di trovare qualcosa di
diverso, voleva solo vedere se avrebbe avuto qualche reazione quando fosse
arrivato alla parte strana. Ci arrivò e studiò i dati per qualche tempo. I siluri che
Bobbie aveva lanciato. Le loro traiettorie. I log di errore. Ed ebbe di nuovo la
stessa reazione. Era un tarlo che lo rodeva.
Spense la postazione di lavoro.
«Ehi» salutò lo Zuccherino, arrivando dalla sezione ingegneria con un
serbatoio per polimeri ARL appeso alla spalla.
«Ehi» rispose Amos. «Come sta procedendo?»
Lei era ancora troppo magra, tanto da nuotare nella taglia più piccola di tuta
standard. Avevano dovuto modificare il codice per convincere la Roci che a
bordo ci fosse qualcuno tanto minuto. Il lavoro però sembrava farle bene alla
salute.
Lei aprì un armadietto di stoccaggio, vi infilò il serbatoio e si lasciò cadere sul
suo sedile. «Ho sostituito i sigilli, ma non mi piace il portello interno della
camera di pressurizzazione della baia di carico. Non dà errore, ma
l’alimentazione ha un problema.»
«Un problema serio? Oppure un problema che rientra nei parametri ma ti
irrita?»
«La seconda che hai detto» replicò lo Zuccherino, e sorrise. Il suo sorriso però
svanì in fretta. «Stai bene?»
Amos sorrise. «Perché me lo chiedi?»
«Perché non stai bene» ribatté lei.
Amos si appoggiò all’indietro e cambiò posizione per stiracchiare il collo. Una
parte di lui voleva parlarle dei siluri, ma non riusciva a immaginare Holden fare
una cosa del genere, e tuttavia in un certo senso era il genere di cosa che lui
avrebbe fatto, per cui si limitò a scrollare le spalle. «Devo parlare di una cosa con
il capitano.»
«Allora siamo di nuovo al piano dello scagliare loro contro delle navi finché
non esauriscono le munizioni» disse Bobbie. La sua voce era nitida e tagliente.
Chiunque non l’avesse conosciuta bene avrebbe potuto pensare che fosse
scocciata, ma Amos era sicuro che si stesse divertendo. Esitò nel corridoio fuori
della cambusa. La verità era che anche se avessero deciso di attaccare Medina,
come se stessero calpestando a morte un nido di serpenti, sarebbero comunque
rimasti in porto per un altro paio di giorni. Ci sarebbe stato tempo più tardi per
fare la sua domanda senza interferire nella pianificazione, ma lui voleva anche
riuscire a dormire in modo decente, quindi entrò lo stesso.
I due erano seduti al tavolo, uno di fronte all’altra, protesi in avanti come due
bambini che stessero sezionando la stessa rana. Lo schermo in mezzo a loro
aveva luci azzurre e dorate. Holden aveva l’aria stanca, ma Amos lo aveva visto
in condizioni peggiori, in altre occasioni. Holden era il tipo d’uomo che si
consumava fino all’osso, se riteneva che fosse la cosa giusta da fare.
«Dovremmo parlare di nuovo con Pa» disse, e intanto sollevò lo sguardo su
Amos e annuì. «Se attacchiamo la stazione, rischiamo di perdere un sacco di
gente.»
Amos si diresse ai dispensatori di cibo. Erano stati riforniti di recente, quindi
aveva un sacco di alternative, ma una parte di lui preferiva quando le opzioni
erano ridotte.
«Questa si chiama guerra per un motivo, signore» sottolineò Bobbie. Anche se
non usò un’enfasi particolare, quel ‘signore’ era una frecciata intesa a ricordargli
che non si trattava più soltanto di loro. «Conosciamo la capacità di fuoco e la
velocità di puntamento. Possiamo fare i calcoli. E se riuscissimo a far sbarcare
anche solo una piccola squadra sulla superficie...»
«La superficie di una stazione aliena di cui non capiamo assolutamente niente
ma su cui abbiamo comunque montato un sacco di artiglieria» commentò
Holden. Bobbie però ignorò l’interruzione.
«...potremmo assumere il controllo di quei cannoni. L’assenza di protezione
sulla stazione è l’opportunità migliore che abbiamo.»
Amos selezionò la ‘zuppa di spaghetti’. Il distributore ronzò e borbottò per
qualche secondo, mentre Holden inarcava le sopracciglia.
«È la migliore opportunità che hai?»
«Guiderò io la squadra» disse Bobbie.
«No. Senti, non ti lascerò ficcare in questa cosa solo perché vuoi combattere.»
«Non essere offensivo. Indicami un’altra persona che preferiresti guidasse
un’incursione su una stazione ostile e batterò in ritirata.»
Holden aprì la bocca per ribattere, ma si immobilizzò, annaspando come un
pesce. Quando infine richiuse la bocca, la sua sola risposta fu scrollare le spalle
in segno di sconfitta.
Amos ridacchiò. Entrambi si girarono a guardarlo mentre una ciotola saltava
fuori dal distributore, fumante e odorosa di sale e di cipolle ricostituite.
«Chiunque riesca a chiudere la bocca al capitano in quel modo merita il titolo di
duro fra i duri» commentò, prendendo un cucchiaio. «Non sono io a comandare,
ma... avere qui Babs e non metterla in prima linea? Si usa una saldatrice per
saldare le cose, e una pistola per sparare. E si usa una Bobbie Draper per fottere
in modo permanente un mucchio di cattivi.»
«L’attrezzo giusto per il lavoro» annuì Bobbie, e suonò come un
ringraziamento.
«Non sei un attrezzo» protestò Holden, poi sospirò. «Però non ti sbagli.
D’accordo. Lascia che mi consulti con Pa e Avasarala e il consiglio dell’APE, o
come lo vogliamo chiamare, nel caso che qualcuno abbia un’idea migliore.»
Amos raccolse una cucchiaiata di spaghetti, la mise in bocca e sorrise mentre
masticava.
«D’accordo» annuì Bobbie. «Ma vuoi un suggerimento? Un’idea decente
adesso è meglio di un piano brillante quando è troppo tardi.»
«Ho capito» annuì Holden.
«Bene» replicò Bobbie. «Come ci regoliamo con questo stronzo, Duarte?
Secondo Avasarala, quale sarà la sua reazione?»
«Sai,» interloquì Amos, con la bocca piena di spaghetti «detesto interrompere,
ma credi che potrei prendere a prestito il capitano per qualche minuto?»
«C’è qualche problema?» chiese Holden, proprio mentre Bobbie rispondeva:
«Certo.»
«Devo solo verificare una cosa» spiegò Amos, sorridendo.
Holden si girò verso Bobbie. «Dovresti riposare un poco. Io invierò le nostre
osservazioni. Se riposiamo abbastanza a lungo, e dopo facciamo anche
colazione, potremmo perfino ottenere qualche risposta per allora.»
«Mi sembra giusto» annuì Bobbie. «Anche tu andrai a dormire, vero?»
«Come un sasso» confermò Holden. «Devo solo finire queste cose, prima.»
Bobbie si alzò e si avviò alla porta, battendo con le nocche un colpetto sulla
spalla di Amos nel passargli accanto. Era un silenzioso ringraziamento per averla
appoggiata. Bobbie gli piaceva, ma non era per questo che si era detto d’accordo
con lei. Quando si deve piantare un chiodo, si usa un fottuto martello. Era
semplicemente la cosa più sensata da fare.
Amos occupò il posto che lei aveva lasciato libero, ma sedette di traverso, con
la schiena contro la parete e una gamba stesa sulla panca. Il suo terminale trillò:
qualche aggiornamento effettuato dallo Zuccherino che mandava a entrambi il
suo segnale che il sistema era a posto. Mentre controllava il messaggio, la Roci lo
avvertì che Alex era tornato a bordo. Disattivò tutte le segnalazioni.
Holden aveva un aspetto orribile. Non era soltanto stanco, non proprio. La sua
pelle si era fatta cerea, e quando questo succedeva gli occhi tendevano come a
infossarsi nelle orbite. Quindi non si trattava di sfinimento, ma di qualcos’altro.
Aveva l’aria di un ragazzino che si fosse appena reso conto di essersi tuffato dal
lato più profondo di una piscina e stesse cercando di decidere se fare una
figuraccia chiedendo aiuto o annegare con un po’ di dignità.
«Tu stai bene?» gli chiese Holden, prima che Amos avesse messo ordine nei
suoi pensieri.
«Io? Certo, capitano. L’ultimo ancora in piedi, quello sono io. Cosa mi dici di
te?»
Holden agitò le mani, accennando alle pareti, al molo e alla stazione al di là di
esso. All’universo. «Sto bene.»
«Già. Allora, lo Zuccherino e io stavamo facendo un po’ di pulizia dopo la
battaglia.»
«Sì?»
«Ho esaminato i dati relativi allo scontro. Sai, le solite cose, per accertarmi che
la Roci stesse facendo tutte le cose che ci aspettiamo che faccia. Non abbiamo
bisogno di ritrovarci con qualcosa schiacciato o ripiegato o chissà che altro. E,
sai, parte di quel controllo prevede una verifica della performance degli
armamenti.»
La mascella di Holden si spostò appena un poco. Non era granché,
probabilmente non gli avrebbe neppure fatto perdere una mano di poker, ma
Amos aveva saputo quando aspettarsi qualcosa del genere. Quella era una cosa
da tenere a mente. Raccolse un’altra cucchiaiata di spaghetti.
«Hai presente quei siluri che Bobbie ha sparato, alla fine?» disse. «Uno ha
centrato in pieno il bersaglio.»
«Non lo sapevo.»
«Okay.»
«Non ho controllato.»
«Li ha colpiti, ma non è esploso» continuò Amos. «Un siluro difettoso è un
problema serio, quindi ho cominciato a indagare sul perché aveva fatto cilecca.»
«Li ho disarmati» disse Holden.
Amos posò la ciotola e abbandonò il cucchiaio dentro di essa.
Il display che Holden e Bobbie stavano guardando cambiò, cercando di intuire
cosa Holden volesse vedere.
«Ma quella era la cosa giusta da fare» commentò Amos. Non la fece suonare
esattamente come una domanda, soltanto come un’affermazione con cui Holden
poteva o meno essere d’accordo. Non voleva dare l’impressione che qualcosa
dipendesse dalla risposta. Holden si passò le mani nei capelli e parve vedere
qualcosa che non era nella stanza, solo che Amos non aveva idea di cosa fosse.
«Mi ha mostrato suo figlio» disse Holden. «Marco mi ha mostrato il figlio di
Naomi. Mi ha fatto vedere che era proprio lì, sulla nave, e... non lo so. Le
somiglia. Non è proprio come lei, ma c’è una somiglianza di famiglia. In quel
momento non potevo portarglielo via. Non potevo ucciderlo.»
«Lo capisco. Lei è una di noi, e ci prendiamo cura della nostra gente» replicò
Amos. «Lo chiedo soltanto perché quelli sono i cattivi che abbiamo intenzione
di affrontare di nuovo. Se non siamo disposti a vincere la lotta, non so bene
cosa ci facciamo sul ring.»
Holden annuì e deglutì a fatica. Il display si arrese e si disattivò, lasciando la
cambusa appena un po’ più buia. «Quello è stato prima che arrivassimo qui.»
«Sì» commentò Amos, in tono cauto. «Decidere chi fa parte della tua tribù si è
fatto di colpo un po’ strano. Se sei diventato il nuovo Fred Johnson, questo
cambierà il significato della tua decisione di non far saltare in aria qualcuno.»
«Infatti» annuì Holden. Lo sgomento nella sua espressione era come il ringhio
dell’accoppiatore di un computer che cominciasse a guastarsi. «Non credo che
agirei in modo diverso, se mi trovassi di nuovo laggiù in quello stesso momento.
Non rimpiango quello che ho fatto, ma so che la prossima volta le cose non
potranno andare di nuovo così.»
«Probabilmente Naomi dovrebbe accettare la cosa.»
«Avevo intenzione di parlargliene,» ammise Holden «ma è possibile che abbia
continuato a rimandare.»
«C’è una cosa che devo chiederti» continuò Amos.
«Spara.»
«Sei la persona giusta per questo lavoro?»
«No,» rispose Holden «ma sono quello a cui è stato assegnato, quindi lo farò.»
Amos attese per qualche momento, per valutare quella risposta.
«D’accordo» disse, e si alzò. La zuppa si era raffreddata al punto che su di essa
si era formata una sottile pellicola, quindi la lasciò cadere nel riciclatore insieme
al cucchiaio. «Sono contento che abbiamo fatto chiarezza. C’è qualcosa che io e
lo Zuccherino dobbiamo inserire nel nostro piano di lavoro? Ho la sensazione
che forse dovremmo dare una controllata alla roba di Bobbie.»
«Sono sicuro che lo ha già fatto lei, qualche centinaio di volte» rispose Holden,
con un sorriso forzato.
«Probabilmente è vero» convenne Amos. «Bene, allora siamo a posto.»
Si avviò alla porta, ma la voce di Holden lo fermò. «Grazie.»
Amos si girò a guardarlo. Holden appariva come incurvato, quasi stesse
proteggendo qualcosa, o come se qualcuno gli avesse sferrato un calcio al petto.
Era buffo come il fatto che tutti gli altri lo vedessero per più grande di come era
lo facesse apparire piccolo nella realtà, quasi ci fosse stata solo una limitata
quantità di cibo da dividere fra loro. «Certo» replicò, non sapendo bene per cosa
lo avesse ringraziato, ma sicuro che quella fosse la risposta giusta. «Senti, se vuoi
posso modificare i permessi, così la prossima volta non potrai disarmare i siluri,
se toglierti di mano la decisione può essere d’aiuto.»
«No» rispose Holden. «Sta benissimo nelle mie mani.»
«Bene così, allora.» Amos uscì.
Nell’officina meccanica, lo Zuccherino stava mettendo via gli attrezzi ed
eseguendo la sequenza di chiusura delle diagnostiche. «Ho testato i nuovi sigilli»
disse.
«Vanno bene?»
«Sono nei limiti di tolleranza» rispose lei, il che probabilmente era quanto più
vicina sarebbe mai andata ad ammettere che andavano bene. «Li controllerò di
nuovo domani, quando la polimerizzazione sarà conclusa.»
«D’accordo.»
Il sistema trillò. Clarissa lesse i dati, diede l’okay e spense il display. «Vai sulla
stazione?»
«No» replicò Amos. Adesso che ci faceva caso, si sentiva il corpo lento e
pesante, come se fosse appena uscito da un bagno caldo nel quale era rimasto
troppo a lungo. Si chiese se Maddie si fosse già svegliata. Se fosse tornato
indietro abbastanza in fretta, forse avrebbe potuto finire là la notte. Però... no.
Lei sarebbe stata di nuovo di turno più o meno quando lui avesse cominciato a
prendere sonno, e allora non sarebbe stato chiaro se fosse tornato per fare di
nuovo sesso, e la cosa sarebbe stata imbarazzante. A meno che... valutò a livello
intellettuale se aveva di nuovo voglia di fare sesso, poi scosse il capo. «No, sono
appena rientrato. Adesso voglio concedermi un po’ di riposo.»
Lo Zuccherino lo guardò inclinando il capo da un lato. «Sei tornato presto.»
«Sì. Non riuscivo a dormire» spiegò lui. «Adesso sì, però.»
36
Filip
Riparare la propria nave era ciò che significava essere un cinturiano. I terrestri
vivevano mangiando quello che distribuiva il governo e scopando fino a
intorpidirsi mentre sfruttavano la Fascia. I marziani sacrificavano loro stessi e
chiunque altro su cui riuscivano a mettere le mani per realizzare il sogno di
trasformare Marte in una nuova Terra, anche se odiavano quella vecchia. E i
cinturiani? Riparavano le loro navi. Estraevano minerali dagli asteroidi e dalle
lune del sistema. Costringevano ogni pezzo di materiale a funzionare per più
tempo di quello previsto dalla sua progettazione. Sfruttavano la loro intelligenza
e ingegnosità e l’affidamento gli uni sugli altri per prosperare nel vuoto, come
una manciata di fiori che sbocciasse in un deserto di una vastità inimmaginabile.
Mettere mano alla Pella era naturale e giusto come inspirare dopo aver espirato.
Filip detestava il non aver voglia di farlo.
Nei primi giorni si era trattato di semplice lavoro in assenza di gravità, e anche
allora si era sentito addosso lo sguardo degli altri, aveva sentito le conversazioni
che si interrompevano quando lui arrivava a portata di udito. Josie e Sárta,
mentre saldavano qualcosa nello spazio fra gli scafi avevano commentato sui
pericoli del nepotismo senza sapere che lui era sulla loro frequenza, e avevano
finto di non aver detto niente quando era arrivato. Nella cambusa, i notiziari
dalla Terra devastata erano i suoi migliori compagni. Suo padre non lo aveva
mandato a chiamare né aveva ridotto le sue mansioni, mentre entrambe le cose
sarebbero state meglio di quel limbo senza nome. Se fosse stato punito, almeno
avrebbe potuto attingere un po’ di orgoglio dall’aver subìto un torto. Invece, si
svegliava per il suo turno, andava a dare una mano alle riparazioni e desiderava
di poter essere altrove.
Fu solo quando risultò evidente che i propulsori danneggiati avrebbero avuto
bisogno di un nuovo alloggiamento che si diressero verso un cantiere navale. In
un’altra vita, sarebbero andati su Ceres o su Tycho, ma i cantieri di seconda
scelta erano comunque validi. Rhea. Pallas. Vesta. Non usarono però nessuno di
essi. Quando arrivarono gli ordini di suo padre, essi li indirizzarono verso
Callisto.
Arrivò una nuova scorta con i cannoni spianati, per tenere la Pella al sicuro dai
siluri e dagli attacchi delle navi nemiche. Anche se probabilmente la Terra, Marte
e l’APE di Fred Johnson avevano tutti lo sguardo appuntato sulla Pella, nessuno
di loro si lasciò attirare lontano dalle sue basi e flotte. Loro erano una preda
ambita, ma non al punto che valesse la pena di correre dei rischi per catturarla.
Disteso sul sedile a smorzamento a guardare feed di bande di neo-taarab
provenienti da Europa e una mezza dozzina di scadenti commedie sexy perché
Sylvie Kai vi lavorava, Filip fantasticò sul fatto che magari ci sarebbe stato un
attacco. Magari da parte di una piccola flotta guidata dalla Rocinante. Il fottuto
James Holden e quella sgualdrina traditrice di sua madre che, al comando, gli
scaricavano contro il cannone a rotaia e i siluri. A volte, quella fantasticheria si
concludeva con la Pella che ne usciva ancora più malconcia per colpa di qualcun
altro e tutti vedevano quanto fosse difficile vincere una battaglia. A volte finiva
con loro che distruggevano la Rocinante, riducendola a una nube di gas luminoso
e di schegge di metallo. E a volte immaginava che venissero sconfitti e
morissero. E i due punti di luce gemelli presenti in quell’ultimo, più cupo sogno
a occhi aperti combaciavano come una morsa d’attracco e il suo alloggiamento:
la cosa avrebbe posto fine ai lavori alla nave e inoltre non avrebbero mai
raggiunto Callisto.
Il cantiere navale superstite su Callisto si trovava sul lato rivolto in
permanenza lontano da Giove. I suoi riflettori proiettavano lunghe ombre
permanenti sul paesaggio della luna e sulle rovine del cantiere navale gemello,
una base marziana che avevano distrutto anni prima, in una delle prime azioni
della Marina Libera, la prima di cui Filip avesse avuto il comando. La polvere e i
particolati fini sollevati dalle attività umane ricadevano lentamente, su Callisto,
creando l’illusione di una nebbia anche se non c’era acqua e soltanto
un’atmosfera estremamente rarefatta. Guardò la manciata di riflettori sulla
superficie della luna farsi sempre più grande a mano a mano che si avvicinavano,
bianchi, luminosi e distribuiti a casaccio come se una manciata di stelle fosse
stata afferrata e scagliata nella polvere. Quando la Pella si adagiò a punta in
avanti nell’attracco per le riparazioni, il rumore dei fermi che scattavano risultò
profondo come un pugno. Filip slacciò le cinghie e si diresse verso il portello più
in fretta che poteva.
Josie era là, con i lunghi capelli brizzolati raccolti lontano dal volto stretto.
Josie, che aveva preso parte con lui alla scorreria su Callisto, che era stato ai suoi
ordini, inarcò le sopracciglia quando lui avviò il ciclo di apertura del portello.
«Non indossi tués uniforme» osservò, con una sfumatura di sogghigno nella
voce.
«Non sono in servizio.»
«Hai il permesso di sbarcare, tu?»
«Nessuno ha detto di no» ribatté Filip, detestando il tono petulante che la sua
voce aveva ai suoi stessi orecchi. Lo sguardo di Josie si indurì, ma lui si limitò ad
allontanarsi. I livelli di pressione erano uguali, o quasi. Quando il portello
esterno della Pella si aprì ci fu ancora un piccolo schiocco, quanto bastava a
permettere a Filip di avvertire il cambiamento da un posto a un altro, ma non
tanto da fargli dolere gli orecchi. Una squadra di sicurezza era in attesa sul molo,
in un’armatura leggera che mostrava una chiazza raschiata sulla spalla e sul petto,
dove era ancora possibile intravedere come un’ombra il logo della Pinkwater.
Filip salutò con un cenno delle mani e avanzò, timoroso che gli dicessero di
fermarsi e insieme sperando che lo facessero.
Non era mai stato su Callisto prima della scorreria. Non l’aveva mai vista
prima di ordinare l’attacco, non sapeva che aspetto avesse avuto prima, ed era in
grado di vedere che la metà sopravvissuta mostrava ancora le cicatrici
dell’accaduto. Oltrepassando il molo per addentrarsi nel distretto commerciale
notò quali pareti erano state sostituite. Qua e là un tratto di plancito aveva un
colore leggermente diverso, il sigillante non era invecchiato quanto quello che lo
circondava. Piccoli segni, che forse non avrebbe neppure notato se non avesse
saputo cosa cercare.
L’attacco era stato giustificato, però. Lo avevano fatto per rubare ai marziani la
vernice che confondeva i radar, in modo da rendere difficile vedere le rocce che
avrebbero scagliato contro la Terra. Era stato parte della guerra, e comunque lui
non aveva cercato di fare loro del male, si erano solo trovati proprio accanto al
nemico. Colpa loro, non sua.
Alcune voci intessevano un ricco mormorio mutevole lungo l’ampio e alto
corridoio principale. Un carrello suonò per avvertire la gente di spostarsi. Le
squadre di lavoro in tuta grigia portavano al braccio la fascia della Marina Libera
e avevano il cerchio spezzato dell’APE tatuato sul polso. L’aria puzzava di urina e
di freddo. Filip si trovò un posto a ridosso di una parete, appoggiò le spalle
contro di essa e rimase a guardare come se stesse aspettando qualcosa. Qualcuno
che lo vedesse, si fermasse e gli puntasse contro un dito accusatore. ‘Tu sei
quello che ha cercato di distruggere i cantieri! Quello che ha rotto i nostri sigilli!
Sai quanti di noi sono morti?’
Attese che succedesse qualcosa, ma nessuno lo notò. Non era uno di loro, era
solo un ragazzo appoggiato alla parete.
Il bar in cui si ritrovò era all’estremità più lontana dei cantieri, vicino alle
gallerie che scendevano nei quartieri ai livelli più profondi e alla linea a transito
veloce per l’osservatorio gioviano che si trovava sul lato opposto della luna.
Seduti ai tavoli di polimeri pressati non c’erano soltanto manovali dei cantieri,
c’erano anche ragazze in abiti dai colori vivaci che provenivano dai sottostanti
livelli residenziali. Persone più anziane dall’aria arruffata tipica degli accademici
erano chine sul terminale palmare e su una birra. Aveva saputo in modo vago
che su Callisto c’era una buona università superiore, qualcosa associato con gli
istituti tecnici su Marte, ma in qualche modo la sua mente non aveva mai
abbinato quell’informazione al posto che era stato incaricato di attaccare.
Sedette in disparte a un tavolo di un rosa acceso al cui centro c’era una ciotola
in cui cresceva erba vera. Da lì poteva vedere gli enormi schermi a parete su cui i
notiziari scorrevano borbottando fra loro come ubriachi irosi, oppure poteva
guardare quelle ragazze allegre come fringuelli parlare fra loro e riuscire a non
guardare mai nella sua direzione. Ordinò spaghetti neri in salsa di arachidi e una
birra dal display incassato nel tavolo e pagò con un buono della Marina Libera.
Per un lungo momento pensò che il tavolo lo avrebbe rifiutato... se avesse detto
che il suo denaro non andava bene, quello sarebbe stato il momento in cui le
ragazze si sarebbero girate a guardarlo... ma esso trillò gradevolmente,
accettando l’ordinazione, e proiettò un timer con un conto alla rovescia per
indicargli quando essa sarebbe arrivata. Dodici minuti. Quindi lui guardò i
notiziari per dodici minuti. La Terra dominava ancora, perfino nella sua
sofferenza. C’erano immagini di devastazione, alternate a commentatori dall’aria
seria che fissavano la videocamera oppure intervistavano altre persone, a volte
serie come leccapiedi e a volte urlanti come se l’altro coyo si fosse appena fatto la
loro fidanzata. Le ragazze ignoravano lo schermo, ma lo sguardo di Filip
continuava a tornare su di esso: una strada coperta di uno strato di cenere tanto
spesso che la donna che la stava pulendo usava una vecchia pala da neve. Un
orso nero emaciato che barcollava prima in una direzione e poi in un’altra, in
preda allo sgomento e alla confusione. Un qualche funzionario del mezzo morto
governo terrestre che contemplava uno stadio pieno di sacche di cadaveri.
Arrivarono la birra e gli spaghetti, e lui cominciò a mangiare senza quasi
accorgersene. Guardò il susseguirsi di immagini, masticò, inghiottì, bevve. Era
come se il suo corpo fosse stato una nave, e tutto il suo equipaggio stesse
lavorando senza rivolgersi la parola.
L’orgoglio per la devastazione inflitta c’era ancora. Tutti quei morti erano
dovuti a lui. Le città annegate nella cenere, i laghi e gli oceani anneriti, i
grattacieli che bruciavano come torce perché non c’erano più le infrastrutture
necessarie a spegnere l’incendio. Quelli erano i templi e i bastioni del nemico del
suo popolo, ridotti a polvere e rovine, grazie a lui. La scorreria da lui guidata qui,
in questo cantiere, lo aveva reso possibile.
E adesso eccolo lì, con la fine e l’inizio, una vista attraverso l’altro come due
lastre di plastica sovrapposte. Come se avessero appiattito il tempo. Era ancora
una vittoria, ed era sua, ma adesso c’era forse un leggero retrogusto, come nel
latte che stesse per andare a male.
Dillo da uomo. Di’: ‘Ho combinato un casino.’ Solo che non lo aveva fatto. L’errore
non era stato suo.
Le ragazze si alzarono tutte insieme, toccandosi le mani a vicenda, ridendo,
baciandosi sulle guance, poi si sparpagliarono. Le guardò uscire con una sorta di
desiderio desolato, e fu così che vide entrare Karal. Il vecchio cinturiano
avrebbe potuto essere un conducente di mech, o un tecnico o un saldatore. I
capelli bianchi e radi erano tagliati molto corti. Le spalle, le mani e le guance
mostravano le cicatrici di una vita. Si fermò per un momento a guardarsi intorno
con l’aria di non pensare molto a quello che vedeva, poi puntò con passo
pesante verso il suo tavolo e gli si sedette di fronte come se avessero pianificato
di incontrarsi lì.
«Ehi» disse, dopo un momento di imbarazzo.
«Ti ha mandato lui?» chiese Filip.
«Non mi manda nessuno, aber se savvy dovevo venire.»
Filip rigirò gli spaghetti. La ciotola non era neanche mezza vuota, ma il suo
appetito era già svanito. La lenta rabbia che gli rimescolava i visceri pareva
occupare tutto lo spazio che sarebbe dovuto spettare al cibo. «Non serve. Solido
come la pietra, io, e due volte più duro.»
Suonava come una vanteria. O come un’accusa. Filip non sapeva neppure
bene che senso volesse dare a quelle parole, ma non questo. Piantò la forchetta
nel miscuglio di spaghetti e salsa e spinse la ciotola verso il bordo del tavolo
perché il cameriere la portasse via, ma conservò la birra.
«Non sto dicendo niente, io» replicò Karal. «Però c’è stato un tempo in cui
avevo la tua età. È passato parecchio, ma lo ricordo. Io y mis papá alle volte
litigavamo. Lui si faceva e io mi ubriacavo, e a volte passavamo tutta la giornata
a urlarci contro per decidere chi era lo stronzo più idiota. Capitava che volasse
qualche pugno. Una volta ho tirato fuori il coltello.» Karal ridacchiò. «Mi ha
fatto il culo quadro per quello. Sto dicendo che padri e figli litigano. Ma tu e il
tuo... è diverso, sì?»
«Se lo dici tu» replicò Filip.
«Tuo padre non è soltanto tuo padre. È Marco Inaros, capo della Marina
Libera. Un grand’uomo. Ha così tante cose sulle spalle. Così tante cose a cui
pensare, di cui preoccuparsi, da pianificare, e non è come se tu y la poteste
chiarire le cose a pugni come il resto di noi.»
«Non si tratta di questo» disse Filip.
«No? Bist bien. Allora di cosa si tratta?» chiese Karal, con voce sommessa, calda
e gentile.
L’ira nello stomaco di Filip si stava agitando, instabile come la crosta di una
ferita infetta. La rabbia e il senso di ciò che era giusto cominciavano a sembrare
meno autentici, come un involto legato intorno a qualcosa che non era nessuna
delle due cose, che era ancora peggiore. Filip serrò le mani a pugno con tanta
forza da farle dolere, ma perse l’appiglio su quella sensazione. La rabbia... no,
non era neppure rabbia, l’irascibilità... scivolò di lato e un oceanico senso di colpa
salì dentro di lui come una piena. Era una cosa troppo grande, troppo pura,
troppo dolorosa perfino per avere un singolo evento su cui focalizzarsi.
Non rimpiangeva di aver lasciato la nave senza permesso o di aver mancato la
Rocinante con i suoi tiri o di aver distrutto la Terra o ferito Callisto. Era qualcosa
di ancora più grande. Il rammarico era l’universo. Il senso di colpa era più
grande del sole e delle stelle e dello spazio fra di essi. Qualsiasi cosa fosse, era
tutta colpa sua e del suo fallimento. Era qualcosa di più dell’aver fatto qualcosa di
male. Come il fossile di un antico animale era carne che era stata sostituita dalla
pietra, chi Filip era stato un tempo aveva mantenuto la sua forma ma era stato
sostituito da un puro e crescente senso di perdita.
«Mi sento... sbagliato» disse, annaspando alla ricerca delle parole per descrivere
qualcosa tanto più grande del linguaggio. «Mi sento... mi sento come...»
«Cazzo» sussurrò Karal in tono tagliente, lo sguardo fisso alle spalle di Filip,
catturato da qualcosa nei notiziari. Filip si girò, inclinando il collo per vedere lo
schermo. Fred Johnson li guardava dalla parete, gli occhi scuri calmi e seri, e una
scritta in sovrimpressione sotto di lui diceva ‘Confermato il decesso dopo
attacco della Marina Libera’. Quando si girò, Karal aveva già tirato fuori il
terminale palmare e stava vagliando i diversi feed di notizie con la massima
rapidità permessa dalle sue dita deformate. Filip attese, poi tirò fuori il suo
terminale. Trovare la notizia non fu difficile perché era su tutti i feed, sia dei
cinturiani che dei pianeti interni. Fonti del Tycho Manufacturing Collective, sulla
Terra, confermavano la morte di Frederick Lucius Johnson, ex ufficiale della
marina delle Nazioni Unite e da tempo attivista politico, organizzatore
comunitario e portavoce dell’Alleanza dei Pianeti Esterni. Era morto in
conseguenza delle ferite riportate durante un’imboscata da parte di forze della
Marina Libera...
Filip lesse tutto quanto, consapevole che c’era qualcosa che non riusciva a
capire. Si trattò soltanto di una marea di parole e di immagini, disconnessi dalla
sua vita, finché Karal, seduto di fronte a lui e sorridente, non parlò.
«Gratulacje, Filipito. Immagino che tu lo abbia beccato, dopotutto.»
Sulla Pella, stavano suonando musica sul sistema di bordo, una vivida
mescolanza di tamburi e chitarra, con le voci ululanti degli uomini che si
levavano a festeggiare. Sárta, fra i primi a vedere Filip quando arrivò lungo il
corridoio, proveniente dal portello, lo prese fra le braccia e gli premette la
guancia contro la propria, lasciandolo con l’imbarazzante consapevolezza del
contatto dei suoi seni. Quando lo baciò... brevemente, ma sulle labbra... la sua
bocca sapeva di liquore ordinario.
La cambusa era affollata come per una festa. Pareva che tutto l’equipaggio si
fosse raccolto davanti ai notiziari che annunciavano la morte del Macellaio della
Stazione di Anderson, e il calore di tanti corpi rendeva la stanza soffocante. Suo
padre era in mezzo a loro, sorrideva nel pavoneggiarsi e batteva pacche sulle
spalle come lo sposo a un matrimonio particolarmente fortunato. Non c’era più
traccia di cupezza e di minaccia nella sua espressione, e quando scorse Filip
dall’altro lato della stanza affollata si portò entrambe le mani davanti al cuore nel
doppio pugno simbolo di festosità.
Filip si rese conto che quella era la prima, vera vittoria dall’attacco iniziale
contro la Terra. Marco aveva sostenuto di riportare un successo dopo l’altro, ma
si era sempre trattato di ritirate e scaramucce, o dell’imporre la disciplina
uccidendo ammutinati come quelli della Witch of Endor. Dal momento in cui
avevano lasciato Ceres, la Marina Libera aveva avuto bisogno di un successo
concreto e inequivocabile, e questo lo era. Non c’era da meravigliarsi che perfino
chi era ancora sobrio apparisse ubriaco per l’entusiasmo.
Nel feed di notizie ci fu un cambiamento e al suo posto apparve il logo della
Marina Libera, mentre il chiasso nella stanza saliva ancora di tono quando
ciascuno dei presenti ingiunse agli altri di tacere. Qualcuno spense la musica e la
sostituì con l’audio del feed. Quando Marco apparve sullo schermo, più
dignitoso e simile a uno statista dell’uomo sorridente nella stanza, la sua voce
risuonò per tutta la Pella.
«Fred Johnson sosteneva di parlare per conto delle stesse persone che
opprimeva. Aveva cominciato la sua carriera massacrando cinturiani, poi aveva
finto di essere la nostra voce. I suoi anni come rappresentante dell’APE sono stati
caratterizzati da suppliche di essere compiacenti, di pazientare, e dal costante
rinvio della liberazione della Fascia. Il suo fato sarà quello di tutti coloro che si
oppongono a noi. La Marina Libera difenderà e proteggerà la Fascia da tutti i
nemici interni ed esterni, adesso e per sempre.»
Il discorso continuava, ma l’equipaggio prese ad applaudire in modo tanto
stentoreo che Filip non riuscì a sentirlo. Marco sollevò le braccia, non per
chiedere silenzio, ma per crogiolarsi in quel chiasso. Il suo sguardo scintillante
individuò di nuovo Filip, e quando parlò lui poté leggere le parole sulle sue
labbra: ‘Ce l’abbiamo fatta.’
Noi, pensò Filip, mentre Aaman gli andava a sbattere contro e gli metteva in
mano un bulbo pieno di qualcosa di alcolico. Noi ce l’abbiamo fatta. Quando si
trattava di un errore, era solo mio. Ora che è diventata una vittoria, è nostra.
Si sentì immobilizzarsi nel centro di quella tempesta gioiosa. Un frammento di
un ricordo gli affiorò nella mente, intenso e ricco di significato come l’immagine
di un sogno, ma non riuscì a individuarne la fonte. Pensò potesse trattarsi di
qualche film che aveva visto, di un qualche dramma in cui una donna
incredibilmente bella aveva guardato verso la telecamera e, con una voce fatta di
fumo e di forza, aveva detto: «Ha messo sangue anche sulle mie mani. Pensava
avrebbe reso più facile controllarmi.»
37
Alex
Avasarala urlò.
Il respiro le sfuggì lacerante dalla gola, escoriando la carne al suo passaggio, e
sentì in bocca il sapore della bile mentre le gambe tremavano, dolevano e
bruciavano nel tentare di respingere di un altro centimetro la piastra d’acciaio.
«Avanti» la incoraggiò Pieter. «Puoi farcela.»
Lei urlò di nuovo e la piastra si allontanò. Adesso le sue gambe erano quasi
diritte. Le costò uno sforzo resistere all’impulso di dare una spinta decisa,
irrigidendo le ginocchia. Una cosa del genere avrebbe potuto slogarle le
articolazioni, ma almeno avrebbe finito.
«Così sono undici» disse Pieter. «Arriviamo a dodici. Ancora una.»
«Vai a fottere tua madre.»
«Avanti, ancora una ripetizione. Sono qui io ad aiutarti.»
«Sei uno stronzo e nessuno ti ama» annaspò Avasarala, abbassando la testa. La
cosa peggiore era la nausea. Il giorno in cui lavorava alle gambe significava
sempre avere la nausea. A Pieter non importava, ma era pagato perché non gli
importasse.
«Fra dodici giorni dovrai scendere nel pozzo gravitazionale» ribatté lui. «Se
vuoi che il leader della Terra, la speranza e la luce della civiltà venga portata fuori
dalla navetta su una sedia a rotelle, puoi fermarti. Se vuoi che ne esca davanti alle
telecamere come una valchiria tornata dall’aldilà e pronta a combattere, arriverai
a dodici.»
«Sadico stronzo.»
«Sei tu quella che è rimasta indietro con il programma delle esercitazioni.»
«Ero impegnata a salvare la nostra fottuta specie.»
«Salvare l’umanità non previene la perdita di densità ossea o l’atrofia
muscolare,» ribatté lui «e tu stai temporeggiando. Ancora una volta.»
«Ti odio così tanto» dichiarò lei, lasciando che le ginocchia si piegassero in
modo da portare più vicina a sé la piastra d’acciaio. Voleva piangere, vomitare
sulle belle scarpe bianche da ginnastica di Pieter, essere impegnata a fare
qualcos’altro, qualsiasi altra cosa.
«Lo so, tesoro, ma puoi farcela» insistette Pieter. «Avanti.»
Avasarala urlò e spinse lontano da sé la piastra d’acciaio.
Dopo, rimase seduta sulla panca di finto legno dello spogliatoio con la testa fra
le mani finché l’idea di muoversi smise di causarle disgusto. Quando infine si
alzò in piedi, la donna vestita di grigio che vide nello specchio le parve poco
familiare. Non era esattamente una sconosciuta, ma di certo non era lei. Tanto
per cominciare era più magra, con chiazze di sudore alle ascelle e sotto i seni. I
capelli bianchi non le ricadevano sulle spalle ma fluttuavano verso l’esterno
perché la scarsa gravità lunare era troppo debole per tirarli verso il basso. La
donna nello specchio squadrò Avasarala da testa a piedi con scuri occhi critici.
«Altro che una fottuta valchiria» commentò, prima di dirigersi alla doccia. «Ma
dovrai essere sufficiente.»
La buona notizia era che Marte era finalmente uscito dalla sua crisi
costituzionale e aveva fatto la cosa più ovvia, nominando Emily Richards come
primo ministro. No, questo non era giusto. C’erano altre cose che andavano
bene, oltre a questa. Adesso i disordini a Parigi erano sotto controllo, e le cellule
razziste in Colombia erano state identificate e isolate senza che ci fossero altri
assassinii. San Pietroburgo aveva risolto il problema del riciclaggio dell’acqua,
almeno per il momento. Il misterioso lievito di Gorman Le stava facendo tutto
quello che era indicato sull’etichetta, con un aumento delle scorte generali di
cibo per i superstiti, e i reattori del Cairo e di Seul erano rientrati in funzione,
per cui era possibile utilizzarli. C’erano meno morti, almeno per adesso. Era
impossibile fare previsioni per la prossima settimana, e sarebbe sempre stato
così.
Tuttavia, le cattive notizie erano sempre superiori a quelle buone. La seconda
ondata di decessi non accennava ancora a rallentare, e le infrastrutture mediche
erano sature. Migliaia di persone morivano ogni settimana per problemi che
anche solo un anno prima sarebbero stati curati e risolti facilmente. La violenza
per accaparrarsi le risorse non accennava a cessare, c’erano razzie di vigilantes a
Boston e a Mumbai, rapporti di interi corpi di polizia che si erano messi in
proprio e avevano cominciato ad accumulare e tenere per sé i generi di prima
necessità mandati a Denver e a Phoenix. Gli oceani erano intasati di cenere. La
miscela di polvere e detriti non si stava depositando con la rapidità suggerita dai
modelli e di conseguenza le piante e il microbioma, che necessitavano di luce per
nutrirsi, stavano morendo. Se non ci fossero stati così tanti fottuti esseri umani a
sottoporre a stress la rete nutrizionale nel corso degli ultimi secoli, il sistema
avrebbe potuto essere più robusto, o forse no. Non avevano una seconda Terra
da usare come termine di paragone. La storia in sé stessa era un enorme studio
di n=1, irriproducibile. Era questo che rendeva tanto difficile imparare da essa.
Dopo la doccia indossò un sari verde lime, poi si sistemò i capelli e il trucco.
Cominciava a sentirsi un po’ meglio. Era uno schema che aveva già notato.
L’esercizio fisico in sé stessa la lasciava in uno stato pietoso, ma dopo che si era
ripresa, il resto della giornata pareva andare un po’ meglio. Se si trattava solo di
un effetto placebo, era sufficiente. Era pronta a prendere tutto il possibile, anche
se si trattava solo di trucchi della mente.
Quando fu quasi pronta ad affrontare il resto della giornata, aprì una
comunicazione solo audio con Said. «Come siamo messi?» chiese, invece di
salutare.
«Il gruppo di sicurezza proveniente da Marte sta finendo di mangiare» rispose
Said, senza battere ciglio. «Saranno nella sala conferenze fra mezz’ora. Sarà
presente anche l’ammiraglio Souther, se avrà bisogno di lui.»
«Va sempre bene avere nella stanza un pene in uniforme» commentò
Avasarala, in tono acido. «Dio sa che altrimenti potrebbero non prendermi sul
serio.»
«Se lo dice lei, signora.»
«Era una battuta.»
«Se lo dice lei, signora. C’è anche un rapporto dalla Stazione di Ceres.
L’ammiraglio Cohen ha confermato che la Giambattista è in viaggio, proprio
come aveva promesso Aimee Ostman.»
Avasarala si accostò un orecchino di perle all’orecchio sinistro, esaminando
l’effetto. Carino, e discreto. Però non si intonavano al sari.
«Prego, signora?» La voce di Said suonava confusa.
«Non ho detto niente.»
«Lei... ah... ha ringhiato.»
«Davvero? Probabilmente era solo un commento su quanto sono contenta che
adesso dobbiamo fidarci del fottuto APE. Ignoralo e continua.»
«Questo è tutto quello che ha in programma per oggi» replicò Said, quasi in
tono di scusa. «Mi aveva chiesto di tenere libero il pomeriggio, nel caso che la
riunione di sicurezza si fosse prolungata.»
«Infatti» convenne lei, provando un paio di orecchini di acquamarina a lobo
che andavano molto meglio. «Notizie dall’Aia?»
«Dicono che il suo ufficio sarà pronto e il personale necessario al suo posto.
Le operazioni per riportare la sede di governo sul pianeta procedono come da
programma.»
Le parve di cogliere un certo orgoglio nella voce di Said. Bene. Doveva essere
orgoglioso. Tutti loro dovevano esserlo. La Terra poteva anche essere un
mucchio di cadaveri e di merda, ma era il loro mucchio di cadaveri e di merda, e
lei era stanca di guardarlo dalla Luna.»
«Era ora, cazzo» disse. «D’accordo. Riferisci a Souther che sto arrivando, e
portami un tramezzino o qualcosa del genere.»
«Che genere di tramezzino gradirebbe? Posso portarle...»
«No, di’ a Souther di farlo» ordinò lei. «Penserà che è divertente.»
La sala conferenze era la camera più sicura di tutto il sistema solare, ma non lo
dava a vedere. Era abbastanza piccola perché sei persone potessero sedere
comodamente, tendaggi rossi alle pareti nascondevano i riciclatori dell’aria e i
riscaldatori, e il tavolo ampio e scuro era più basso appena di quei pochi
centimetri necessari a dare più spazio al display olografico. Non che qualcuno
usasse mai quei display olografici, che erano un’ostentazione ma non erano
funzionali. L’attaché militare marziano non era lì per essere lasciato a bocca
aperta dal design grafico, e per questo andava a genio ad Avasarala.
L’attaché, Rhodes Chen, sedeva da un lato del tavolo, fra il segretario e
l’assistente. Anche Souther era già presente quando lei arrivò: appoggiato allo
schienale della sedia, stava ridendo insieme a Rhodes. Un piccolo piatto di
metallo la aspettava vicino al suo posto... pane bianco e cetrioli. Quando la vide,
Chen si alzò in piedi, imitato da tutti gli altri, ma Avasarala gli fece cenno di
rimettersi comodo.
«Grazie per essere venuto» disse. «Volevo essere certa che i nostri alleati su
Marte fossero completamente aggiornati sulla situazione che concerne la Marina
Libera.»
«Il primo ministro Richards esprime il suo rammarico per non essere presente»
replicò Chen, rimettendosi a sedere. «La situazione è ancora instabile e lei non si
sentiva a suo agio a essere fisicamente assente dal palazzo del governo.»
«Lo capisco» annuì Avasarala. «E come sta sua moglie, Michaela? Si sente
meglio?»
Chen rimase interdetto. «Ecco... sì. Sì, sta molto meglio, grazie.»
Avasarala si girò verso Souther. «La moglie dell’ammiraglio Chen ha
frequentato la scuola cooperativa con mia figlia Ashanti, quando erano ragazze»
spiegò. Non che Chen ricordasse quel dettaglio o lo avesse perfino mai saputo.
A essere onesti, le ragazze non erano state particolarmente amiche, ma si
sfruttavano tutte le carte che l’universo ti offriva. Prese il tramezzino, ne staccò
un boccone e lo rimise sul piatto per dare a Chen il tempo di nascondere il suo
disagio.
«Intendo chiedere al suo personale di andarsene» continuò Avasarala.
«Sono persone fidate» disse Chen, pur annuendo come se fosse stato
d’accordo.
«Non per me» ribatté Avasarala. «Non faremo loro del male, ma non possono
rimanere.»
Chen sospirò. Educatamente, il suo segretario e l’assistente raccolsero le loro
cose, salutarono con un cenno Souther e Avasarala e uscirono. Souther abbassò
il capo, aspettando che il sistema riferisse se si erano lasciati qualcosa alle spalle.
Sarebbe stato triste arrivare a quel punto per poi ritrovarsi con una microspia
nella stanza. Un momento più tardi scosse il capo.
«Bene» disse Avasarala. «Allora vogliamo cominciare?»
Chen non obiettò, e Souther richiamò a schermo uno schema del sistema
solare nel suo stato attuale, con il sole e il portale dell’anello come asse
principale e i pianeti e le lune, le stazioni e gli asteroidi, sparpagliati dove le leggi
della meccanica orbitale li avevano posizionati. Come accadeva con ogni mappa
tattica su quella scala, le proporzioni avevano sofferto un poco a favore della
visibilità. La realtà era che tutti i figli dell’umanità vivevano su pietre sparpagliate
e più piccole di granelli di polvere sulla superficie dell’oceano, un dato di fatto
nascosto da grafici e dalle liste evidenziate di nomi e vettori di navi. Se la mappa
fosse corrisposta al territorio non ci sarebbe stato niente da vedere. Perfino la
Terra, con i suoi miliardi di persone sofferenti, sarebbe stata meno di un pixel.
La Marina Libera spiccava in giallo, la flotta congiunta in rosso, le navi ribelli
di Michio Pa e i loro nuovi cosiddetti alleati dell’APE in oro. Era una cosa rozza e
brutta. Souther creò un indicatore e attirò l’attenzione dei presenti sul portale
dell’anello, al confine del sistema.
«Il nostro bersaglio è la Stazione di Medina» disse, in quella sua strana voce
acuta e musicale. «Ci sono parecchi motivi per questo, ma la cosa d’importanza
critica è che costituisce una strozzatura sulla rotta per raggiungere i sistemi
coloniali, incluso quello di Laconia, dove pare che si sia installato l’ex ufficiale
della marina marziana Winston Duarte. Chiunque sia in possesso di Medina e
delle sue difese controlla i portali dell’anello e il traffico che li attraversa. La sua
conquista riaprirà per noi il commercio e il passaggio delle navi coloniali, e
taglierà le linee di approvvigionamento che uniscono Inaros al suo alleato.»
Chen si protese in avanti, con i gomiti sul tavolo e gli occhi illuminati dal
riflesso del display. Non aveva avuto nessuna reazione nel sentir nominare
Duarte: aveva una buona faccia da poker, e comunque si era aspettato di sentirlo
nominare. Richards non stava tentando di negare il ruolo della Marina Marziana
in questo disastro, il che era un bene. Avasarala mangiò un altro boccone del
tramezzino e desiderò di aver pensato a portarsi dietro qualche pistacchio.
Subito dopo il sollevamento pesi non aveva molto appetito, ma quando esso
riaffiorava diventava famelica.
«Fino a questo momento, il metodo operativo di Inaros ha fatto affidamento
sulla ritirata strategica» continuò Souther. «Sul depredare e abbandonare il
territorio piuttosto che cercare di conservarlo, abbandonando alla flotta
congiunta le popolazioni che si è lasciato alle spalle. Questo ha giocato a suo
favore, nel senso che siamo stati riluttanti a sparpagliare troppo le nostre forze
difensive, e la Marina Libera ha potuto portare avanti scorrerie e attacchi favoriti
dall’opportunità contro le forze della Terra e di Marte, come pure contro i
dissenzienti presenti fra le loro file.»
«I pirati» disse Chen.
«I pirati» convenne Avasarala. Inutile menare per l’aia quel particolare cane.
«Noi riteniamo che quella strategia fallirà con Medina» disse Souther. «La sua
importanza è eccessiva perché possano abbandonarla. Se poi ci sbagliassimo, e la
Marina Libera l’abbandonasse... ecco, avremo tutti i vantaggi che speriamo di
ottenere e lui farà la figura del buffone.»
«Non l’abbandonerà» affermò Avasarala.
«Cosa mi dite dei cannoni a rotaia?» chiese Chen. Era una mossa interessante,
che dimostrava come Marte fosse già al corrente di quell’artiglieria difensiva.
Avasarala non sapeva bene cosa intendesse ottenere dimostrandole che loro
sapevano. Souther le lanciò un’occhiata e lei annuì. Inutile fingere di essere
all’oscuro.
«Le nostre migliori informazioni al riguardo vengono dai disertori della Marina
Libera. Il capitano Pa, della Connaught, faceva un tempo parte della cerchia
interna di Inaros. A quanto ci è dato di capire, i cannoni a rotaia sono stati
installati sulla stazione aliena come prima linea di difesa per Medina. La stazione
vera e propria dispone anche di CDP e di una scorta di siluri lasciata da Duarte,
ma i cannoni a rotaia sono piazzati per la difesa e per distruggere qualsiasi nave
non autorizzata che attraversi i portali.»
«Questo sembra essere un problema» osservò Chen. «Come pensate di
superarlo?»
«Manderemo un casino di navi attraverso quei portali» rispose Avasarala,
mentre Souther passava dal quadro tattico a un’immagine della Giambattista. Non
era una bella nave: larga, squadrata e goffa.
«Questo è un mercantile per il trasporto dell’acqua convertito e con un
equipaggio che appartiene alla fazione Ostman-Jasinzki dell’Alleanza dei Pianeti
Esterni» spiegò Souther. «È stato caricato con poco meno di quattromila piccoli
vascelli. Capsule da penetrazione, piccoli trasporti, navette minerarie. Una
mescolanza diabolica. La definiamo il nostro rospo del Suriname, ma la nave
figura sui registri come la Giambattista.»
«Quella cosa contiene quattromila reattori?» chiese Chen.
«No» rispose Souther. «La maggior parte dei motori sono razzi chimici o
propulsori a gas compresso. Molti sono poco più che propulsori per tute
ambientali saldati su una scatola d’acciaio, e questo è parte del motivo per cui
vengono trasportarti fino ai confini dell’anello prima di essere usati. Non sono
navi a lungo raggio. Se dovessi azzardare un’ipotesi, direi che la maggior parte di
esse si troverebbe in difficoltà anche solo ad affrontare il tragitto dal portale a
Medina, perfino nelle migliori circostanze. Ci sono anche parecchie migliaia di
siluri con un assortimento di testate miste, ma in genere a bassa potenza.»
«Quindi sono ferraglia» riassunse Chen. «Carne da cannone.»
«Non metteremo della gente su tutte quante» interloquì Avasarala. «Neppure
l’APE è tanto suicida.»
«Una piccola percentuale... le navi migliori...» riprese Souther «trasporterà una
squadra d’attacco a terra, la cui missione sarà quella di prendere il controllo, non
di Medina ma delle postazioni dei cannoni a rotaia. Una volta che saranno sotto
il nostro controllo, ci aspettiamo che la Stazione di Medina capitoli. Dal
momento che i cannoni a rotaia erano destinati a difendere Medina da oltre
milletrecento portali, mentre noi ci focalizzeremo soltanto su quelli del Sole e di
Laconia, abbiamo motivo di aspettarci una posizione difensiva relativamente
forte, che potremo rinforzare non solo dal Sole ma anche con le navi coloniali
che sono già passate e sono disposte in grado di venire in nostro aiuto.»
«D’accordo» commentò Chen.
«Sembri scettico» osservò Avasarala.
«Senza offesa, signora, ma sto guardando tutto questo, e non mi quadra»
ribatté Chen. «Se Inaros stava tentando di indurre la flotta a estendersi troppo...
a sparpagliare eccessivamente le nostre forze... allora questa incursione oltre i
confini del sistema sembra proprio lo scenario che lui sta sognando. A meno che
non intendiate mandare la Giambattista senza scorta, nel qual caso tanto vale che
non la mandiate affatto.»
«La scorta sarà una corvetta marziana recuperata, che dispone di un suo
cannone a rotaia montato sulla chiglia» disse Souther. «La Rocinante è già su una
rotta di intercettazione. È partita dalla Stazione di Tycho, quindi è già nelle
vicinanze, relativamente parlando.»
«Ci sono anche dei vantaggi nell’avere quella particolare risorsa su Medina
quando la prenderemo» aggiunse Avasarala.
La risata di Chen suonò sottile e disperata. Avasarala distese la gamba destra,
sentendo una fitta di dolore. Al mattino sarebbe stato anche peggio. Sollevare
pesi era una tesi a sfavore dell’esistenza di un Dio benevolo, come se fossero
state necessarie altre prove.
«Perché prendersi il disturbo, allora?» domandò Chen. «Una singola nave di
scorta e un trasporto per l’acqua diretti verso la postazione strategica più
sensibile del sistema? Non voglio essere scortese, ma devo pensare che le
persone su quelle navi non vi siano molto simpatiche. Avranno l’intera Marina
Libera che darà loro la caccia e le trasformerà in metallo fuso prima che arrivino
a un milione di chilometri dall’anello.»
«Questo rimane da vedersi» ribatté Souther.
Se fosse stato un cane, in quel momento Chen avrebbe rizzato gli orecchi.
Avasarala glielo lesse in faccia e nella tensione delle spalle. «È per questo che
abbiamo bisogno di parlare. In privato e in sicurezza. Mr Chen, ho bisogno della
rassicurazione che il marcio nel cuore della vostra marina sia stato
completamente estirpato. Mi fido della capacità di Emily Richards di prendersi
cura del suo interesse e di quello di Marte, in quest’ordine, e quanto a lei ho
indagato a fondo sul suo background.»
«Lei ha... cosa?»
Avasarala protese le mani, con i palmi rivolti uno verso l’altro a circa un metro
di distanza. «Ho un rapporto alto così su di lei. Conosco ogni foruncolo che ha
avuto dallo sviluppo in poi. Tutto. Cose degne di lode, cose vergognose, cose
insignificanti. Tutto. Ho violato la sua privacy in modi che non può
immaginare.»
Chen sbiancò in volto, poi arrossì. «Ecco...» disse.
«Non potrebbe importarmi meno di tutta quella roba» continuò Avasarala. «La
sola cosa che mi importava era accertare se lei avesse o meno la puzza di Duarte
sulle dita. Non ce l’ha, ed è per questo che si trova in questa stanza, perché mi
fido che lei riferisca tutto questo a Richards, e a nessun altro. E ho bisogno di
sapere se lei si fida di Marte.»
Il silenzio nella stanza si fece profondo. Chen si premette le dita sulle labbra.
«Perché questo? Ho la sensazione che lei stia avanzando una sorta di richiesta.
In tal caso, dovrebbe essere molto chiara ed esplicita.»
«Voglio che Richards istruisca quel che resta della Marina Marziana... le navi
della flotta congiunta e anche quelle che avete di riserva... in modo che si
coordinino strettamente con la Terra, l’APE e anche la fottuta flotta pirata.»
«Per fare cosa?»
«Mettere in piedi una campagna diversiva» interloquì Souther.
Avasarala gli segnalò di farsi da parte e si protese verso Chen con un sorriso
sulle labbra. «Inaros non inseguirà la Giambattista e la Rocinante perché verrà
distratto dalla più grande e aggressiva azione di flotta della storia che gli spingerà
le balle a calci su per la gola. Quando capirà le nostre intenzioni effettive sarà
troppo tardi perché possa fare qualsiasi cosa tranne reggersi il cazzo e piangere.
Però ho bisogno di sapere che voi ci state.»
Chen sbatté le palpebre, e il suo riserbo si incrinò leggermente.
«Ecco,» rispose «se la mette in questi termini...»
39
Naomi
Più tempo passava, più diventava evidente quanto poco significato avesse la
neutralità ufficiale di Ganimede. Le navi all’attracco e in orbita intorno alla luna
erano sempre più quelle della Marina Libera e sempre meno di qualsiasi altra
bandiera. Soldati in uniforme della Marina Libera apparivano sempre più spesso
nelle stazioni della metropolitana, nei grandi mercati, nelle sale e nei corridoi
pubblici, dapprima con l’apparente disinvoltura di regolari cittadini, poi in
gruppi più numerosi e dal comportamento più aggressivo. Poi con un’armatura
che avrebbe permesso loro di sparare senza rischi a chiunque avessero
incontrato.
Djuna aveva smesso di lasciargli guardare i notiziari locali durante la colazione,
nei weekend. Troppe storie di corpi trovati in deplorevoli condizioni. Troppa
gente scomparsa, troppe accuse di spionaggio, troppi modi in cui l’apparato di
sicurezza ancora ufficiale ricordava ai cittadini che la Pinkwater era una società
priva di affiliazioni e senza un colore politico, che aveva a cuore soltanto la
sicurezza e il benessere dei cittadini di Ganimede. Era il genere di cose che la
gente diceva perché non erano vere.
Per Prax, le notizie ufficiali e i soldati armati non erano la cosa che lo turbava
di più. C’erano cose più piccole che lo colpivano. Il modo in cui le ragazze non
protestavano più per l’essere costrette in casa dal coprifuoco. Le conversazioni
utopistiche che Djuna avviava riguardo all’accettare un lavoro altrove,
all’emigrare da Ganimede, concludendole però senza arrivare a una conclusione.
Quelle piccole cose avevano più peso. Sì, una cerchia di dissidenti era stata
uccisa. Sì, c’era gente che scompariva, ma a parte Karvonides, quella non era
gente che lui conoscesse. E i cambiamenti nella stazione erano anche
cambiamenti nella sua famiglia. Anche lui stava cambiando.
Andava avanti con il suo lavoro perché non c’era niente altro da fare. Le cose
non sarebbero migliorate se si fosse nascosto nel suo letto, e l’apparenza di
normalità era a volte buona quanto la realtà. Di conseguenza, al mattino andava
alle riunioni, e nel pomeriggio lavorava alle sue piante. Alcune colture avevano
dovuto essere rifatte. Ricerca e sviluppo non erano una priorità quanto lo era
generare cibo per rifornire le navi da guerra. Prax riteneva che fosse una politica
miope. Caso mai, sconvolgimenti come questo erano una tesi a favore
dell’aumento della ricerca, soprattutto con il lavoro sul radioplasto che Khana e
Brice avevano sottoposto ad approvazione. Di tanto in tanto cercava di sollevare
di nuovo la questione, ed era arrivato al punto di chiedere se c’era un contatto
all’interno della Marina Libera con cui i laboratori potevano parlare della cosa,
ma nessuno si era mostrato entusiasta del suggerimento. Quindi quella era
un’altra cosa che l’occupazione aveva cancellato.
Sotto a tutto questo, la paura di quello che aveva fatto inviando i dati sulla
Terra gravava su di lui. Fu quasi un sollievo quando infine arrivarono le forze di
sicurezza.
Si trovava nel laboratorio idroponico, verso metà pomeriggio. File di piante
dalle foglie nere si levavano dalle vasche verso le luci. Le radici che emergevano
dal sottostante gel acquoso erano pallide come la neve. Prax stava passando da
una pianta all’altra, con le mani avvolte dai guanti azzurri di gomma sintetica e
controllava con delicatezza ciascuna foglia, alla ricerca di venature gialle e
arancioni dove il radioplasto stava morendo. Finché quell’uomo non chiamò il
suo nome, il pomeriggio stava andando decisamente bene.
«Il dottor Meng?»
C’erano quattro persone, tutti uomini. Due indossavano una semplice
uniforme con il logo della Pinkwater sulla spalla e sul petto, gli altri due
appartenevano alla Marina Libera. Prax sentì il cuore martellargli contro il petto
per la scarica di adrenalina, ma cercò di non tradire più di un lieve disagio.
Chiunque si sarebbe mostrato un po’ in ansia se la Marina Libera fosse venuta a
cercarlo, anche un innocente. Pensò che andasse bene così.
«Posso esservi utile?»
«Deve venire con noi, subito» disse il più alto dei due uomini della Marina
Libera.
«Non posso» replicò Prax, accennando alle piante che non aveva ancora
controllato, come se quella fosse stata una spiegazione sufficiente.
Gli uomini si fecero più vicini, circondandolo. Erano tutti armati, avevano
manette e bombolette di spray costrittivo.
«Deve venire con noi, subito» ripeté quello più alto.
«Ho... ho bisogno del mio rappresentante sindacale?» chiese Prax, ma non
rimase sorpreso quando il più basso dei due uomini della Marina Libera gli
assestò una spinta alla base della schiena. Potrei fuggire, pensò. Non servirebbe,
ma potrei farlo.
Lo scortarono fuori attraversando l’ufficio principale. Quando incrociarono
Brice, nel corridoio, lei distolse lo sguardo, fingendo di non vederli. La scrivania
della reception era vuota, perché tutti erano improvvisamente andati in bagno o
a fare una pausa per il caffè nello stesso momento. Nessuna delle persone con
cui lavorava lo avrebbe visto andare via. Era così, con questa rapidità, che il
giusto tipo di potere era in grado di far scomparire qualcuno. Nell’uscire dalla
porta principale per quella che doveva supporre essere l’ultima volta recepì la
cosa come una rivelazione. Nel guardare i notiziari si era chiesto come così tante
persone potessero scomparire su una stazione con persone e videocamere
ovunque. Adesso lo sapeva.
Tutto quello che dovevano fare era rendere la cosa troppo pericolosa perché
gli altri rimanessero a guardare.
Lo caricarono su un carrello e si allontanarono lungo il corridoio principale,
giù per la rampa di scambio meridionale e in un corridoio di cemento ben
illuminato. Fu assalito dal ricordo improvviso, viscerale, di aver atteso proprio là
quando gli specchi erano caduti, quando la sopravvivenza della Stazione di
Ganimede era stata in forse. Aveva atteso in fila proprio lì, nel tentativo di
trovare Mei. Adesso sarebbe toccato a lei chiedersi che ne fosse stato di lui.
Simmetria.
Negli uffici della Pinkwater lo condussero in una stanza piccola e fredda, con
le pareti e il pavimento verdi. Tutto puzzava di prodotti industriali per la pulizia,
del genere che si usava per rimuovere sangue e saliva. Roba contro i rischi
biologici. Una sedia era fissata al pavimento davanti a un economico tavolo di
plastica. Punti neri disseminati lungo le pareti si spostarono verso di lui come gli
occhi di un ragno: non erano videocamere, ma gli stessi array a frequenza
multipla che usava in laboratorio, tanto sensibili da rilevare il suo battito
cardiaco partendo dai cambiamenti sulla sua pelle e da tracciare il sudore su ogni
parte del suo corpo. Li aveva usati abbondantemente nel corso degli esperimenti
condotti durante l’anno sui germogli di soia, e vederli lì gli parve quasi un
tradimento.
Il più alto dei due uomini della Marina Libera entrò nella stanza insieme a una
donna dalla pelle scura che indossava l’uniforme della Pinkwater. Prax sollevò lo
sguardo. Nel corso di notti intrise di sudore aveva immaginato questo momento
così tante volte che adesso che si stava verificando era quasi curioso di vedere
fino a che punto sarebbe corrisposto alle sue aspettative. Lo avrebbero
percosso? Minacciato di usargli violenza? Avrebbero minacciato Mei e Djuna e
Natalia? Aveva sentito dire che a volte costringevano i prigionieri ad assuefarsi
alla droga e poi minacciavano di non fornirgliela più e di lasciare che l’astinenza
facesse il suo lavoro.
«Dottor Meng» cominciò l’uomo alto, sedendogli di fronte. Prendevano
droghe per la concentrazione? Prax ne aveva sentito parlare, ma non sapeva
come funzionavano. «Lei era il supervisore di Quiana Karvonides? Dai
documenti risulta che ha identificato il suo corpo.»
«Sì» confermò Prax. C’era un modo di uscire con la finzione da quella
situazione? Gli avrebbero creduto se avesse negato tutto il negabile? Oppure si
sarebbe tradito? Tutti quei neri occhi meccanici erano puntati su di lui, come
pure gli occhi castano chiaro dell’uomo. Solo la donna della Pinkwater guardava
il suo terminale palmare. «L’ho fatto. Karvonides non aveva parenti sulla
stazione, credo, ma non ne sono sicuro. C’è qualcosa che non va?»
«È esatto dire che lavorava a un lievito brevettato?»
«Quello è uno dei progetti che abbiamo in corso» annuì Prax. Si stava
mostrando troppo ansioso. Avrebbero capito.
«Lei lavorava in particolare a quel lievito?»
Prax aveva la bocca arida e il freddo della stanza sembrava salirgli su per le
gambe fino alla base della spina dorsale. Cosa aveva fatto? Perché non aveva
tenuto la testa bassa? Ma no, questo non era giusto. Aveva delle ragioni per ogni
cosa che faceva, e aveva saputo che c’erano dei rischi. Essere lì, in quella stanza,
era uno di essi, anche se non aveva saputo di quale stanza in particolare si
sarebbe trattato. Si chiese se ci fossero altre persone che lo osservavano, o se gli
occhi di ragno erano collegati a un qualche tipo di software che lo analizzava e
forniva loro le risposte.
«Dottor Meng?»
«Sì, chiedo scusa. Sì, lavorava al lievito mietitore. È un organismo... mmh... che
raccoglie una gamma molto ampia di radiazioni elettromagnetiche, nello stesso
modo in cui le piante usano la luce. È un prodotto ottenuto con l’ingegneria
inversa dai dati sulla protomolecola. Permette al lievito di generare i suoi
zuccheri dal radioplasto e poi... mmh... il suo sistema innato può convertire
quegli zuccheri in nutrienti di complessità più elevata.»
I due si scambiarono un’occhiata, ma lui non riuscì a determinarne il
significato. Come avrebbe fatto Mei senza di lui? Adesso era più grande, quasi
adolescente, e presto avrebbe cominciato comunque a staccarsi dall’unità
familiare. Forse non era poi un momento tanto brutto per perderlo. Avrebbero
messo il suo corpo nel riciclatore? Non poteva pensarci. Non adesso.
«Cosa ci può dire dell’HY180?» domandò la donna, e Prax ebbe la sensazione
che gli stesse guardando attraverso, che vedesse le sue ossa e la forma dei suoi
vasi sanguigni. Non si era mai sentito tanto messo a nudo. Cercò di appoggiarsi
allo schienale della sedia, di dondolarsi un poco avanti e indietro, ma ottenne
solo un lieve stridere delle viti. Sulle pareti c’erano graffi e strisciate che finora
non aveva notato. Erano stati ricoperti dalla vernice, certo, ma erano presenti.
Non voleva pensare a cosa li aveva prodotti.
«È la decima variazione ottenuta usando il protocollo diciotto» rispose. «È
brevettata. Non ne dovrei parlare. Mi dispiace.»
«Perché ha prelevato i dati dell’HY180 dalla partizione di Karvonides?»
Ecco qui. Sapevano. Trasse un profondo respiro, e poté sentire il fiato che gli
tremava nella gola. Non avrebbero avuto bisogno di droghe per la
concentrazione o di computer psichici, lui era decifrabile come un libro aperto.
Quello di poter evitare il peggio era stato soltanto un sogno, e tutto quello che
rimaneva era guardare lo svolgersi degli eventi. Avverti un irragionevole residuo
di speranza. Doveva esserci un modo. Doveva tornare a casa, altrimenti chi
avrebbe cucinato i pancake per le ragazze?
«Li ho rimossi su richiesta di alcuni degli altri ingegneri che lavorano al
progetto. Con il decesso di Karvonides, avevano bisogno di accedere ai dati
della coltura, altrimenti non sarebbe stato possibile procedere oltre. Quindi sì, li
ho messi in una partizione a cui loro potessero accedere.»
«Ha esaminato i permessi su quella partizione?»
«L’informazione era brevettata» replicò Prax, aggrappandosi a quell’idea come
all’ultimo frammento fradicio di una nave che era affondata sotto di lui, ma la
spiegazione suonò debole ai suoi stessi orecchi.
L’uomo si protese in avanti. «I dati sono stati mandati sulla Terra. Abbiamo
isolato i dati di tracciamento, e il messaggio è partito dalla partizione in cui lei li
aveva messi.»
Menzogne e dinieghi gli ribollirono nella mente. Chiunque poteva avere accesso a
quei dati. Sono stato superficiale, forse poco attento alla sicurezza. Tutto qui. Non ho fatto
niente di male.
Con l’occhio della mente rivide Karvonides, le ferite che aveva al collo e alla
testa. Sì, poteva rinnegarla di nuovo, ma non avrebbe fatto nessuna differenza.
Loro sapevano già, o avevano comunque un’idea abbastanza precisa. Avrebbero
fatto pressione, lo avrebbero torturato, e avrebbe ceduto. Qualsiasi cosa avesse
detto ora non avrebbe avuto importanza: era morto. Niente più pancake. Niente
più serate passate a indurre le ragazze a fare i compiti o domeniche mattina a
svegliarsi tardi accanto a Djuna. Qualcun altro si sarebbe incaricato delle sue
ricerche. Tutto quello che amava e per cui aveva vissuto era perduto.
Con sua sorpresa, non provò tanto paura quanto una sorta di terribile senso di
libertà. Adesso poteva dire quello che voleva, inclusa la verità.
«Quello che dovete capire» affermò, mentre un coraggio irrazionale e
intossicante gli sbocciava nel cuore «è che gli equilibri biologici non sono mai
semplici. Mai.»
«Equilibri?» ripeté l’uomo.
«Sì. Esatto. Tutti pensano che sia semplice. Arriva una nuova specie invasiva,
che è avvantaggiata ed elimina la concorrenza, giusto? Questa è la storia, ma ha
anche un’altra parte. L’ambiente locale resiste sempre... sempre. Sì, sì, magari lo fa
malamente, magari senza una chiara idea di come tenere testa alla novità. Non
dico che sia perfetto, quello che sto dicendo è che questa cosa esiste. Anche
quando una specie invasiva prende il sopravvento, anche quando vince, esiste un
processo di controbilanciamento che deve sopraffare per trionfare. E...» L’uomo
alto si era accigliato, e il suo disagio indusse Prax a parlare più in fretta, a dire
tutto quello che aveva nel cuore prima che il martello si abbattesse su di lui. «E il
processo di opposizione è talmente radicato nei sistemi viventi che non può mai
essere assente. Per quanto la nuova specie possa essere ben progettata, per
quanto immensi sembrino essere i suoi vantaggi, il rigetto ci sarà sempre. Se un
impulso innato viene sopraffatto, ne spunta un altro. Capite? Gli organismi
conspecifici vengono surclassati? Bene, le microecologie batteriche e virali
reagiranno, si adatteranno, e si tratterà di livelli micronutrienti, di salinità e di
luce. Il fatto è... il fatto è che anche quando la specie nuova vince, anche quando
occupa ogni possibile nicchia, quella lotta in sé stessa cambia ciò che è. Anche
quando spazza via o sottomette completamente l’ambiente locale, viene
cambiata dalla reazione. Anche quando i precedenti organismi sono costretti
all’estinzione, questo si lascia dietro dei segni. Quello che è non può mai, mai
essere completamente cancellato.»
Prax si appoggiò allo schienale della sedia, il mento alto, il respiro profondo e
rapido, le narici dilatate. Potete uccidermi, potete cancellare il mio nome dalla storia, ma
non potrete mai cancellare il segno che ho lasciato. Mi sono opposto a voi, e anche quando mi
ucciderete non potete disfare quello che ho fatto.
Il cipiglio dell’uomo si accentuò. «Stiamo ancora parlando del lievito?» chiese.
«Sì» rispose Prax. «Certo che stiamo parlando del lievito.»
«D’accordo» replicò l’uomo. «Tutto questo è interessante, ma quello che
abbiamo bisogno di sapere è chi aveva accesso a quella partizione.»
«Cosa?»
«La partizione in cui ha messo i dati» interloquì la donna della Pinkwater. «Chi
si sarebbe potuto collegare a essi da lì?»
«Chiunque avesse accesso alle postazioni di lavoro del gruppo di ricerca avrebbe
potuto farlo» rispose Prax. «Questo cosa c’entra?»
Il terminale dell’uomo trillò e lui lo tirò fuori di tasca. La luce rossa di un
allarme diede quasi l’impressione che stesse arrossendo, ma quando ripose il
terminale il suo volto era impallidito.
«Devo andare» disse. «Finisci tu qui, sì?» La sua voce era tesa, e Prax ebbe
l’impressione che stesse tremando. Avrebbe quasi voluto richiamarlo e insistere
perché finissero. Quella era una cosa importante, era il suo martirio per la causa
della libertà e della scienza, l’inquisitore non poteva semplicemente andarsene
nel bel mezzo dell’interrogatorio. Quando la porta si chiuse si girò verso la
donna, ma lei stava ancora guardando il terminale, sul quale scorreva un
notiziario relativo alla guerra.
Emise un fischio sommesso, sgranando gli occhi. Quando sollevò lo sguardo
su di lui, parve sorpresa di vederlo.
«I dati sul lievito» le ricordò Prax.
«Dottor Meng, deve stare più attento. Non deve più fare una cosa del genere.»
«Fare cosa?»
Il sorriso impaziente della donna non arrivò ai suoi occhi. «Non può mettere
in una partizione aperta dati che potrebbero aiutare il nemico. So che è materiale
brevettato, ma qualcuno ha trasmesso i dati, e adesso abbiamo in corso
un’indagine per scoprire di chi si è trattato.»
«Ma... no, lei non capisce.»
«Dottor Meng,» scattò la donna «so che non le piace che noi le si venga a dire
come gestire il suo laboratorio, ma questi sono tempi delicati. Le chiedo di dare
una lunga e attenta occhiata allo stato della sicurezza nel suo laboratorio, in
modo che la prossima volta non si debba avere una conversazione meno
piacevole. Ha capito?»
«Sì. Certamente.»
«D’accordo» concluse la donna, con l’aria di aver avuto la meglio in una
discussione. «Può andare.»
Prax non seppe cosa fare. Per un momento rimase seduto in silenzio,
aspettando chiarimenti che non sapeva come chiedere. La donna controllò il
terminale, poi riportò lo sguardo su di lui con aria irritata.
«Dottor Meng? Per ora abbiamo finito. Se avremo altre domande, sapremo
dove trovarla.»
«Devo andarmene?»
«Sì» rispose lei.
E lui lo fece. Percorrere a piedi i corridoi e prendere un carrello pubblico fu
come muoversi in sogno. Si sentiva lo stomaco vuoto, ma non aveva fame, nel
suo ventre c’era una sorta di enorme bolla dove qualcosa... dolore, disperazione,
speranza, paura... avrebbe dovuto trovarsi. Noleggiò un carrello che lo portò alla
stazione della metropolitana. L’intero incidente era stato tanto breve che il suo
turno non era neppure finito, ma lo sarebbe stato nel tempo che avrebbe
impiegato a tornare al laboratorio, per cui andò direttamente a casa.
I notiziari sulla metropolitana erano pieni dell’azione militare, quale che fosse,
che la donna della sicurezza stava guardando sul suo terminale palmare. Cercò di
dare un senso alla cosa, ma le parole parevano perdere significato nel transitare
dallo schermo ai suoi sensi. Si sorprese a fissare con occhi vuoti un giovane che
gli sedeva di fronte e dovette fare uno sforzo cosciente per distogliere lo
sguardo. Tutto quello a cui riusciva a pensare era quella donna dalla pelle scura
mentre gli diceva che poteva andare.
Al suo arrivo trovò Djuna già a casa, seduta sul divano con la testa fra le mani,
gli occhi arrossati e le guance chiazzate dal pianto. Quando si fermò nel
corridoio, all’altezza della cucina, e sollevò la mano in un gesto di saluto, lei lo
fissò per un momento, poi scattò in piedi, gli corse incontro e lo abbracciò. Per
un lungo momento lui ricambiò l’abbraccio e rimasero lì fermi nel loro
appartamento, che aveva creduto di non rivedere mai più.
«Leslie mi ha mandato un messaggio» spiegò Djuna, con la voce ancora
arrochita dal pianto. «Ha detto che erano venuti a prenderti in ufficio, che quelli
della sicurezza ti avevano portato via. Stavo cercando di trovare un avvocato
disposto a parlarmi. Ho mandato le ragazze da Dorian perché non sapevo cosa
dire loro.»
«È tutto a posto» la rassicurò Prax. «È tutto a posto.»
Djuna si trasse indietro, scrutando i suoi occhi come se in essi ci fosse stato
scritto qualcosa. «Cosa è successo?»
«Ho confessato» rispose Prax. «Ho detto loro... ho detto loro tutto. E poi mi
hanno lasciato andare.»
«Hanno fatto... cosa?»
«Hanno detto che non dovevo rifarlo e che potevo andarmene» confermò lui.
«Non è stata la reazione che mi aspettavo.»
41
Pa
«Son coyo, son tod!» gridò dallo schermo Micah al-Dujaili. «Tu e tutti i suoi ti-ti
soldat! Sono qui per te, Inaros. Per quello che tu hai fatto alla mia famiglia!»
Marco tolse il volume alla trasmissione. Da qualche parte nelle vicinanze,
qualcun altro la stava guardando. La filippica di al-Dujaili continuò a echeggiare
in lontananza mentre la Pella si sollevava da Callisto, con una mezza dozzina di
navi schierate dietro di lei. «Abbiamo agganciato il bersaglio?»
Josie sollevò la mano in segno di conferma, lo sguardo fisso sul monitor.
Erano a un’accelerazione di un solo g, ma Marco sentiva già un principio di mal
di testa alla base del cranio. Non importava, dopotutto era solo un po’ di dolore
e avrebbe avuto tutto il tempo di prendere qualcosa per eliminarlo quando i suoi
nemici avessero smesso di consumare aria. Intorno a lui, il ponte di comando
della Pella era teso e pronto. Josie agli armamenti, Karal alle comunicazioni,
Miral che borbottava nella cuffia parlando con qualcuno giù nella sezione di
ingegneria. Erano lupi. Una banda di predatori pronti a colpire. Al-Dujaili gridò
qualcosa riguardo alla vendetta, all’aver tradito la Fascia in nome della gloria.
«Allora chiudiamo la bocca a questo coglione» ordinò con indifferenza Marco.
«Fuoco con tutto quello che abbiamo.»
L’avvertimento aveva raggiunto il sistema di Giove in tempo per metterlo in
guardia. La terra, Marte, la traditrice Michio Pa, Holden. Naomi. Tutti i suoi
nemici avevano acceso le torce, brandito i forconi e si erano messi in marcia.
Marco non ne era sorpreso. Aveva saputo che doveva tenerli d’occhio, ed era
pronto per quando fossero venuti. Certo, non si era aspettato che arrivassero
contemporaneamente da ogni direzione come avevano fatto. La flotta congiunta
era arrivata da Ceres, era risalita dalla Terra e da Marte. Aveva accelerato al
massimo e colto di sorpresa alcune delle forze più vicine della Marina Libera.
Però lo spazio e le distanze erano i suoi alleati naturali. Ci voleva tempo per
percorrere il mezzo miliardo di chilometri che li separavano da Marte, e il
sistema di Giove era terra dei cinturiani. E i cinturiani significavano Marina
Libera, qualsiasi cosa volessero fingere cuccioli uggiolanti come Micah al-Dujaili
e Aimee Ostman. Quando gli alleati terrestri fossero arrivati al fianco di al-
Dujaili, lui sarebbe stato un cadavere e tutte le sue navi avrebbero fluttuato
morte al suo fianco.
«Faccio fuoco» annunciò Josie.
La Pella risuonò dei meccanismi dei siluri e dei CDP, le cui vibrazioni
percorsero lo scafo e fecero vibrare l’intera nave come una campana di guerra.
Marco poté assaporare quel suono... ghiaccio e rame. Era splendido.
«Ehi, capitano» avvertì Karal. «Messaggi in arrivo. Le altre navi que savvy se
devono aprire il fuoco anche loro.»
«Sì» ordinò Marco. «Ordina a tutte di aprire il fuoco.»
«Anche quelle che kommt de Ganimede? Non sono ancora a portata di tiro.»
Marco si girò a fissare Karal e il dolore al cervello si intensificò di un grado.
Conosceva Karal da decenni, si fidava di lui, ma adesso gli pareva di cogliere un
dubbio nella sua voce. Più che un dubbio. Insolenza.
«Tutte. Aprano il fuoco. Che al-Dujaili consumi le sue munizioni
disintegrando siluri nello spazio. Chiuderà quella sua bocca farfugliante.»
«Dui» rispose Karal, e si girò verso la postazione di comunicazione, parlando
in tono troppo basso e urgente perché Marco si prendesse la briga di ascoltare.
Stava succedendo dappertutto. Vesta. Pallas. Titano. La Stazione di Hygeia. I
Cantieri di Thisbe. Europa. Bersagli grandi e piccoli. Il nemico lo stava
attaccando convinto di spazzare via la Marina Libera come un’onda. E, sì,
c’erano danni. Pallas era sotto blocco. Vesta era caduta. Le sole forze da
combattimento dirette verso Titano potevano costituire il più grosso
contingente nella storia, e lui non poteva dire quanto sarebbe stata decisiva la
sua vittoria laggiù. Quasi non importava, però. La cosa importante era che li
aveva spinti all’azione, li aveva indotti a muoversi sulla spinta dell’ira e della
paura. Quella era la ricetta per lo spingersi troppo oltre. Dopo le caute reazioni
da tartaruga che aveva ricevuto finora dalla Terra e da Marte, questo era un
sollievo.
Che venissero pure. Che conseguissero le loro piccole vittorie. La Marina
Libera avrebbe conservato il possesso di quello che poteva, si sarebbe
sparpagliata nel vuoto dove era più saggio farlo e sarebbe tornata indietro per
schiacciare i bersagli indifesi lasciati indietro. Quello era l’errore che aveva
saputo avrebbero fatto. Con tutti i loro secoli di dominio, i pianeti interni
sognavano ancora di poter combattere una guerra e vincere. Marco sapeva che
non era così. La guerra non era mai vinta o persa. Finora... fino a quando non
era arrivato lui... la Terra e Marte avevano creduto di essere in pace perché la
violenza si era riversata tutta sulla Fascia e non contro di loro. Colpa loro, della
loro miopia. Avevano avuto la loro era di vittoria, ma adesso era finita, e questo
parossismo, questo piano di battaglia che sembrava una crisi epilettica,
prometteva che ne sarebbero arrivati mille altri uguali.
La Fascia avrebbe incassato i colpi, ma non lo avrebbe mai più fatto
passivamente, e questa era la sua vittoria.»
«La prima ondata è distrutta» avvertì Josie. «Hanno disintegrato tutti i nostri
siluri e non abbiamo colpito niente. Provo ancora?»
«No» rispose Marco. «Aspettiamo. Induciamoli a credere che ci possano
contenere, poi li schiacceremo.»
«Bien» assentì Josie. Karal borbottò qualcosa nella cuffia delle comunicazioni,
trasmettendo l’ordine. Senza le armi in funzione, la nave comunque non era
silenziosa, lo sembrava soltanto. Marco stiracchiò il collo, ruotandolo per
cercare di attenuarne la tensione, ma tutto in lui si protendeva verso al-Dujaili.
Aveva già ucciso Fred Johnson con le sue mani, e adesso tutte le fazioni dell’APE
che erano state tanto stupide da seguire un terrestre avrebbero visto che sorta di
raccolto avevano seminato.
Richiamò a schermo il display tattico. Le otto navi nemiche guidate dalla
Tongarsuk di al-Dujaili erano abbastanza sparpagliate da rendere impossibile
centrarne due con lo stesso siluro, ma abbastanza vicine da appoggiarsi a
vicenda con il fuoco dei CDP. Nonostante il suo velenoso farfugliare, al-Dujaili
non aveva perso il controllo abbastanza da dimenticare il buon senso.
La Pella e le altre sei navi della Marina Libera provenienti dai cantieri navali di
Callisto avevano una formazione meno compatta e su una superficie più ampia.
Per il momento erano numericamente inferiori, ma con dieci altre navi della
Marina Libera in rapida accelerazione da Ganimede non lo sarebbero state a
lungo. Marco sorrise.
«Scendiamo a un quarto di g» disse. «Avvertite le navi provenienti da
Ganimede di coordinare la frenata e di stare attente. Se il nemico aspetterà,
saremo più numerosi di lui. Se dovesse attaccare adesso, stiamo pronti a girarci,
a fargli abbandonare la formazione.»
«Bien» assentì Josie. «Aber... stanno aprendo il fuoco.»
«Vai!» gridò Marco, usando la forza di volontà sulla Pella come se fosse stata
una parte del suo corpo, come se avesse potuto piegarne la rotta con la pura
forza delle sue intenzioni.
«A un quarto di g?» strillò Karal. Con un grido inarticolato, Marco afferrò i
comandi di pilotaggio. Sotto le sue mani, la Pella saettò in avanti, schiacciandolo
contro il sedile. Lo scafo scricchiolò e gemette, ma lui vide Josie inserire una
scelta di bersagli, sentì il grande e glorioso rombo delle armi, guardò gli archi del
fuoco dei CDP, ancora troppo lontani per costituire una vera minaccia, ma
abbastanza vicini da disturbare il nemico, e poi la raffica di siluri. E anche quelle
provenienti dalle altre navi del suo gruppo. E in lontananza, ma sempre più
vicino, un agglomerato spesso come una fune... le tracce dei siluri delle navi
provenienti da Ganimede. E tutto convergeva sul nemico. Fuoco e metallo e
sangue. Era come la gioia. Come una musica.
Incurvò la rotta della Pella, attivando i propulsori al cento percento o
disattivandoli, sentendo la gloriosa torsione della deviazione nel suo sangue, e la
pressione dolorosa del sedile a smorzamento che cercava di contenerlo.
Qualcuno gridò, ma Marco ormai non ascoltava. Questa era la battaglia. Era
gloria e vittoria e potere.
Suonò un allarme di prossimità, e i CDP della Pella si spostarono
automaticamente, disintegrando un siluro nemico che si era perso nella nuvola di
fuoco convergente. Marco rise. Le altre sue navi avevano seguito il suo esempio,
puntando contro la Tongarsuk. Una delle navi di al-Dujaili commise un errore di
valutazione e incassò nella fiancata un siluro delle navi di Ganimede,
accartocciandosi e perdendo aria. Una delle navi di Marco perse un propulsore a
causa di un siluro e tre dei nemici superstiti coordinarono il tiro per abbatterla
con il fuoco dei CPD, come leoni che calassero su una gazzella azzoppata. Anche
in quel momento di perdita e di rabbia, Marco continuò ad avvertire la gioia del
combattimento.
Era uno scontro brutto, brutale, diretto. Adesso il momento delle soluzioni
astute e delle trappole eleganti era passato, questo era un fare a pugni faccia a
faccia finché qualcuno non cadeva a terra, era l’impulso che aveva spinto
l’umanità sul campo di battaglia armata di pietre e di pezzi di legno,
percuotendosi a vicenda nel sangue finché non rimaneva in piedi una parte
soltanto. E quella parte era Marco. La Marina Libera, e che tutto il resto si
fottesse.
La Tongarsuk morì per ultima, danzando intorno agli archi di fuoco dei CDP
mentre al-Dujaili urlava parole di sfida e oscenità alla radio. Poi tacque. La
Tongarsuk perse energia, andò alla deriva ed esplose, creando un suo minuscolo
sole. Marco ricadde sul sedile a smorzamento, consapevole della pressione che la
gravità esercitava su di lui per la prima volta da un tempo che non sapeva
quantificare. Il display tattico mostrava che due navi nemiche erano in fuga.
Non si era accorto di quando se ne erano andate, ma non era stata una cosa
recente, perché erano già fuori della sua portata di tiro effettiva e diventavano
sempre più veloci a ogni istante. Sorrise, e registrò il sapore del sangue sulle
labbra. Si era morso l’interno della guancia, ma non ricordava neppure questo.
La sua consapevolezza parve dilatarsi lentamente a includere non soltanto il
suo monitor, il sedile e il suo stesso corpo. C’era un allarme che suonava da
qualche parte, si sentiva odore di fumo e quello più intenso della schiuma
antincendio. Senza che se ne accorgesse il mal di testa era aumentato fino a
diventare una sgradevole pulsazione e gli sembrava che gli avessero piegato
all’indietro la punta delle dita, che solo adesso stava tornando nella posizione
normale. Si guardò intorno. Josie, Miral e Karal lo stavano guardando tutti.
Sollevò il pugno.
«Vittoria» disse, e tossì.
La vittoria però aveva un prezzo. Due delle navi di rinforzo da Ganimede
erano distrutte, l’equipaggio morto e le navi stesse poco più che scarti di metallo.
Tre delle navi provenienti dai cantieri di Callisto avrebbero avuto bisogno di
riparazioni. La Pella aveva subìto un guasto del riciclatore dell’aria che era
seccante ma di poco conto, giusto quanto bastava per costringerli ad atterrare di
nuovo per qualche giorno nei cantieri navali mentre effettuavano le riparazioni e
testavano il sistema. I leccapiedi di Johnson dell’APE avevano subìto di peggio,
avevano avuto maggiori perdite, ma quello non era il genere di successo che
Marco poteva permettersi di continuare a conseguire.
E per aggiungere la beffa al danno, adesso Nico Sanjrani gli stava facendo la
predica.
«Tutto questo deve cessare» disse dallo schermo il piccolo economista. «Il
danno alle infrastrutture sta peggiorando, e quanto più la curva discendente si
accentua, tanto più diventerà difficile... quasi impossibile... farla risalire.»
Nell’ufficio che aveva espropriato su Callisto a uso e consumo della Marina
Libera, Marco si appoggiò allo schienale della sedia e chiuse gli occhi. Il
messaggio era stato fortemente codificato, il suo percorso e la provenienza
originale nascosti sotto strati di matematica. Quello che sapeva per certo era che
Sanjrani era abbastanza lontano da far sì che il ritardo dovuto alla distanza luce e
i limiti delle sue apparecchiature gli impedissero di avere una conversazione in
tempo reale. E di questo era profondamente grato.
«Posso mandarti di nuovo le analisi» proseguì Sanjrani, in tono lamentoso.
«Questa situazione però sta rendendo le cose peggiori di quanto indichino le
cifre. Peggiori. Qualsiasi cosa ci voglia per fermarla, devi farla subito. Se non
cominciamo al più presto a costruire un’economia di scambio separata... e con
presto intendo che avremmo dovuto farlo settimane, mesi fa... potremmo dover
reimpostare l’intero progetto. Potremmo non riuscire affatto a staccarci dal
copione scritto dai pianeti interni, e allora potremo essere politicamente
indipendenti quanto vogliamo, ma saremo sempre vincolati dalle catene
economiche dei pianeti interni, che erano ciò a cui stavamo cercando di sfuggire
fin dall’inizio.»
Sanjrani appariva stanco, stressato. La sua pelle aveva un colore cinereo e gli
occhi sembravano infossati. Considerato che era imbucato da qualche parte, al
sicuro dalla battaglia, tutto questo appariva decisamente istrionico. Marco
interruppe il messaggio... la registrazione durava altri venti minuti... e compose la
sua risposta, che non fu molto lunga.
«Nico» disse con gentilezza. «Mi dai troppo credito. Nessuno di noi ha il
potere di controllare le atrocità commesse per fermarci dalla Terra, da Marte e
dai loro malaccorti alleati all’interno della Fascia. Noi possiamo solo aggrapparci
ai nostri principi e ai nostri sogni. Con il tempo, prevarremo in modo assoluto.
Quando gli interni deporranno le armi e lasceranno in pace la Fascia, avremo il
potere di porre fine a tutto questo. Fino ad allora, la nostra sola alternativa è
quella di difenderci o di lasciare che il nostro popolo muoia. Non accetto
compromessi al riguardo e so che non lo fai neppure tu.»
Fatto. Trenta secondi per rispondere a trenta minuti di sproloqui allarmistici.
Questa era efficienza. Spedì il messaggio lungo la sua contorta traiettoria,
controllò i notiziari – la battaglia intorno a Titano entrava nel suo secondo
giorno, con perdite pesanti da entrambe le parti, ed era ancora troppo presto per
sapere se aveva vinto o perso – e i rapporti sui lavori alle sue navi – la Pella era
pronta alla partenza, ma non avrebbe avuto una scorta decente per altri tre
giorni –, poi si alzò pesantemente e si diresse alla sala riunioni.
Qualsiasi cosa fosse stata in precedenza... officina d’ingegneria, edificio della
sicurezza, magazzino... adesso la stanza ospitava il consiglio di guerra della
Marina Libera. Karal, Ali, Filip, Sárta dalla Pella. Il capitano Lister dalla Coin
Silver, il Capitano Chou della Lina. Sedevano tutti su bianche sedie imbottite, con
l’uniforme che dava al tutto un’aria formale. Al suo ingresso si alzarono e
salutarono. Tutti tranne Filip, che lo accolse con un cenno del capo, da figlio a
genitore.
«Grazie per essere venuti» esordì Marco. «Abbiamo piani da elaborare. Questo
assalto non deve rimanere senza risposta. Dobbiamo organizzare una
controffensiva e dimostrare agli interni che non siamo intimiditi. Mostrare la
nostra forza.»
Nella stanza si diffuse un mormorio di assenso, senza che nessuno parlasse
abbastanza ad alta voce da essere sentito per non rischiare di apparire fuori
luogo.
Nessuno tranne, con sua sorpresa, Filip.
«Un’altra?» chiese suo figlio. «L’ultimo grande gesto non è andato così bene,
que?»
Marco si raggelò. L’ira nella voce di Filip... più che ira, il disprezzo... era come
uno schiaffo. Nella stanza tutti gli altri si fecero silenziosi e immobili.
«Hai qualcosa da dire, Filipito?» domandò Marco, con voce bassa, calma e
ricca di minaccia. Filip però scelse di non sentirla.
«Sì, qualcosa. Abbiamo già fatto questa conversazione, sì? Ce ne siamo andati
da Ceres e abbiamo detto che ci serviva un piano per mostrare forza.
Contrattaccare. Costringerli a continuare a temerci. Lo abbiamo fatto prima, e
adesso lo facciamo di nuovo.» Filip era arrossato in volto e aveva il respiro veloce
e affannoso come se avesse corso per arrivare lì. «Solo che l’ultima volta non era
esá coyos la, vero? Erano Dawes e Rosenfeld e Sanjrani. E Pa, sì? La cerchia
interna. Il cuore della Marina Libera. Parte del piano.»
«Sei stanco, Filip» disse Marco. «Dovresti riposare.»
«In che cosa questo è diverso dall’ultima volta che lo hai detto?» insistette
Filip. «Spiegamelo.»
L’ira salì nel petto di Marco, riempiendogli la testa di fumi e di calore. Poteva
fiutarla come un incendio chimico.
«Voglio saperlo, io» continuò Filip, con un tremito nella voce. «Questo piano
che abbiamo. E l’ultimo piano prima di questo. E quello prima ancora. Qual è il
vero piano? C’è? O stiamo solo fallendo e fingiamo di volerlo fare?»
Marco sorrise. Quando si mosse verso suo figlio, Filip si preparò a essere
colpito: mascella rigida, pugni serrati. Marco gli arruffò i capelli.
«I ragazzi, eh?» commentò, rivolto agli altri. «I ragazzi e i loro capricci.
Capitano Chou, posso sentire il tuo rapporto?»
Chou si schiarì la voce. «Abbiamo alcuni bersagli che potrebbero fare al caso
nostro» rispose, tirando fuori il terminale palmare per inoltrare un file di dati
sullo schermo a parete. «Dipende da come si incastra nella strategia più
generale.»
Filip impallidì e protese in fuori la mascella. Chou continuò a parlare,
indicando lo schermo mentre elencava piani e suggerimenti. Marco tenne lo
sguardo fisso su suo figlio e permise agli altri di fingere che non stesse
succedendo niente, a parte la riunione. Se ti comporti da bambino, sarai trattato da
bambino. Mettimi in imbarazzo e io farò lo stesso con te.
Filip deglutì, si volse e lasciò la stanza con le spalle squadrate e la testa alta.
Mentre la porta si richiudeva, Marco rise a voce alta quanto bastava per essere
certo che Filip lo avesse sentito.
Poi si girò verso lo schermo a parete. «Non hai elencato Tycho» osservò.
«Perché?»
Chou guardò la lista, poi riportò lo sguardo su Marco. «Vuoi prendere Tycho?»
«Perché no?» replicò Marco. «Stiamo combattendo queste battaglie perché gli
interni ci mettono uno contro l’altro, ci inducono con l’inganno a uccidere la
nostra gente. Aimee Ostman, Carlos Walker, loro dovrebbero essere dalla nostra
parte, e lo sarebbero, se non fossero ancora impantanati in un passato che è del
tutto andato. Sì?»
«Se lo dici tu» replicò Chou, annuendo con aria cupa.
«Tycho è sempre stata un gioiello della Fascia, una fonte di orgoglio per noi e
un simbolo del nostro successo. Per questo Fred Johnson si è installato lì per
tanti anni. E adesso c’è un altro terrestre che pensa di essere il salvatore della
povera Fascia retrograda. Perché dovremmo permettere a James Holden di
tenere qualcosa che non è mai stato suo?» Marco sorrise e lasciò che le sillabe gli
colassero dalla bocca. «La Stazione di Tycho. Raduniamo tutte le navi possibili e
andiamo là prima che gli interni possano riunire le forze. Siamo più veloci di
loro. Più intelligenti. E quando raggiungeremo Tycho, li vedremo insorgere per
accoglierci e gettare Holden fuori dal portello stagno. Ve lo garantisco.»
Lister si schiarì la gola. «Però la Rocinante non è a Tycho.»
Marco si accigliò, e una piccola fitta di confusione e di risentimento gli punse il
cuore. «Cosa?»
«Los dué navi che abbiamo mandato all’inseguimento del trasporto per ghiaccio
di Ostman? La Giambattista? Niente transponder, ma si sono avvicinate
abbastanza da registrare la firma del reattore della nave di scorta. Esá es la
Rocinante.»
La stanza si fece silenziosa. Marco sentì qualcosa strisciargli su per la nuca. Per
tutti questi anni aveva controllato senza farsi notare dove fosse Naomi, cosa
stava facendo, e adesso lei e il suo amante erano sgusciati via senza che lui lo
sapesse. Dava la sensazione di una trappola. Una trappola.
«La Rocinante» disse, scandendo con cura ogni parola «fa da scorta al vecchio e
malconcio trasporto per il ghiaccio di Ostman?»
«Così sembra» confermò Lister.
C’era qualcosa che non andava nella miscela dell’aria. Marco non riusciva a
inspirare abbastanza ossigeno. Il cuore gli martellava, il suo respiro si era fatto
più accelerato.
«Dove stanno andando?»
43
Holden
Aveva saputo che stava per arrivare. Ancora prima che riuscissero a ottenere
informazioni specifiche da Jakulski aveva saputo che qualcosa stava arrivando.
Era una sensazione che affiorava come un brutto sogno da cui non riuscisse a
liberarsi, una premonizione o forse soltanto quel genere di paura generata
dall’avere qualcosa di importante e dal riuscire a immaginare in modo fin troppo
chiaro come sarebbe stato perderlo. Sapere che la guerra stava arrivando a
Medina fu quasi un sollievo. Se non altro, adesso sapeva a grandi linee di cosa
avere paura.
La paura aveva fatto apparire enormi i piccoli cambiamenti. Quando Jakulski
aveva notificato loro che il programma di lavoro sarebbe cambiato, Roberts non
aveva potuto fare a meno di interpretare ciascuna modifica come se fosse stata
una carta dei tarocchi. L’individuazione della perdita di segnale all’interno del
corpo centrale era stata rimandata di un mese, quindi forse il capitano Samuels
non la considerava una cosa importante per una difesa contro l’invasione.
L’aggiornamento della provvista d’acqua a bassa gravità era stato spostato in
avanti, quindi forse volevano poter disporre di una capacità maggiore nel caso
che i sistemi ambientali fossero stati danneggiati. Avevano trascorso un’intera
giornata a installare laser per le comunicazioni in esubero, in modo da poter
avere sempre un collegamento su raggio stretto con Montemayor e il resto dei
consiglieri inviati da Duarte e le guardie sulla stazione aliena. Tutto quello che
riusciva a inserire nel concetto di fortificare la stazione in previsione della
violenza imminente diventava un’altra prova che la sua paura era giustificata, e a
ogni nuova prova che trovava le riusciva più facile vederne altre come prove
ulteriori.
E non era soltanto lei. Gli altri membri del suo gruppo di lavoro provavano lo
stesso timore. Adesso Jakulski era spesso assente, non li sovrintendeva affatto se
non per dire loro cosa fare a inizio turno e chiedere se lo avevano fatto quando
il turno finiva. Quando usciva con loro, a fine turno, se ne andava presto senza
fornire giustificazioni a parte il fatto di avere ‘cose da fare’. Salis beveva di più, si
presentava per il turno affetto da postumi di sbornia e iroso, e poi non voleva
tornare al suo alloggio quando la giornata finiva. Vandercaust... ecco, fin da quel
falso allarme riguardo alla talpa, Vandercaust era un uomo più piccolo. Non nel
corpo, ma nel modo in cui viveva. Era cauto, disponibile, e chiuso in sé stesso
come una lumaca nel guscio. Una volta, subito dopo che avevano saputo del
trasporto per il ghiaccio che stava puntando veloce verso il portale del Sole, si
erano trovati al bar quando una giovane coya, ubriaca persa, aveva cominciato a
gridare che i pianeti coloniali non meritavano aiuto o attenzione. Se non gli va di
essere trattati così, non avrebbero dovuto farlo con noi. Sono soltanto come i marziani, solo che
non hanno le palle per farsi valere. Tornate fra cinque generazioni, e forse per allora saremo
quasi pari. Vandercaust aveva finito la sua ordinazione in fretta e se ne era andato
senza neppure salutare. Adesso qualsiasi cosa che avesse a che fare con la
politica lo metteva in tensione, anche se era qualcosa su cui erano tutti
d’accordo.
E tuttavia Roberts aveva scoperto di aver ancora bisogno di compagnia.
Quando le fughe di notizie e le voci erano arrivate a un livello tale che il
capitano Samuels aveva dovuto fare un annuncio – ‘Navi nemiche associate a
fazioni dell’APE esterne alla Marina Libera stanno inviando una grossa nave da
carico con una scorta. Non conosciamo le loro intenzioni. La Marina Libera ha
inviato alcune navi da combattimento come appoggio per Medina, ma con
combattimenti tanto intensi in corso in tutto il sistema, si tratta di un
contingente minimo’ – lei si era sentita quasi sollevata. Almeno, adesso ne
potevano parlare apertamente senza mettere nelle grane Jakulski.
Quando il nemico era arrivato sul lato esterno dell’anello, in avvicinamento,
tutta l’attività su Medina era cessata. C’erano programmi e liste e rapporti di
lavoro, ma c’erano anche nemici alle porte. Jakulski non si era fatto vedere per
dare loro gli ordini quotidiani, e perfino quella libertà era parsa minacciosa. Si
erano trasferiti in un bar dove gli schermi a parete erano regolati su un notiziario
locale della sicurezza... le ultimissime notizie sull’assedio di Medina mentre era in
corso.
C’erano diagrammi indicanti la posizione delle navi nemiche e dei difensori
della Marina Libera, un’analisi di chi erano Aimee Ostman e Carlos Walker e del
perché non si erano uniti alla Marina Libera. Una conferma che la nave di scorta
era la Rocinante del capitano Holden. Birra. Tofu secco con polvere di wasabi. Il
cameratismo della folla. Sembrava quasi un raduno per guardare una partita di
football, solo che la loro casa era il campo e la sconfitta avrebbe significato la
morte per qualcosa di più della sola gente della stazione: l’autonomia e la libertà
che la Marina Libera aveva promesso erano in equilibrio precario su una
capocchia di spillo.
«Li hanno presi?» chiese Salis, con voce affannosa. «Li abbiamo uccisi?»
Roberts si protese attraverso il tavolo, afferrandogli la mano e stringendola
forte mentre aspettavano un aggiornamento del notiziario, che arrivassero
notizie fresche. Non c’era niente di romantico in quel gesto, neppure un invito
sessuale, era solo che non c’era un modo migliore per esprimere la paura e la
speranza e un ‘oh, santa merda’, tutto nello stesso momento. Nel locale almeno
tre dozzine di persone... forse di più... fissavano le immagini spesse e confuse
che filtravano attraverso il portale. Se non fosse stata un’immagine dal vivo,
sarebbe stato possibile ripulirla fin quasi a impedire che si notasse la stranezza
prodotta dal portale, ma vederla irregolare e distorta adesso era meglio che
vederla nitida più tardi.
Ci fu un bagliore e la Rocinante risplendette come un incendio. L’intera stanza
trattenne il fiato. Attese. Quando però la luce svanì, la nave nemica era ancora là.
Salis ringhiò qualcosa di osceno e le lasciò andare la mano. Sul video, le navi
della Marina Libera erano già scomparse, trasportate lontano nel vuoto dalla loro
stessa premura di raggiungere la Giambattista e la Rocinante prima che arrivassero
al portale. Per quel che era servito.
«Es bien, es bien, sì?» disse Vandercaust. «Ha incassato un colpo, li hanno
ammaccati. Li hanno costretti ad accelerare le cose, hanno impedito che
procedessero con calma, con cautela.»
«Non sai cos’hanno su quella nave» ribatté Roberts. «Potrebbe essere qualsiasi
cosa.»
Vandercaust annuì, prese un pezzo di tofu fra le dita e il pollice e lo schiacciò
fino a spezzarlo. «Qualsiasi cosa sia, la crivelleremo di colpi dei cannoni a rotaia
fino a ridurla in polvere.» Protese il pollice sporco di polvere verde come se
stesse dimostrando il concetto. Roberts annuì, un movimento tanto teso e
rapido che fu quasi un dondolarsi avanti e indietro.
«Dui» rispose, desiderosa di crederci. Aveva bisogno di crederci. Sullo
schermo, la massa incombente del trasporto per il ghiaccio appariva ferma
dall’altro lato del portale, e spostata da un lato, dove i cannoni a rotaia non
potevano spararle contro. Quindi sapevano delle difese, e si stavano tenendo
bassi. Questo era un peccato.
«Cosa stanno facendo?» chiese Salis, senza aspettarsi una risposta. Sullo
schermo, un centinaio di nuove, deboli stelle tremolanti e incostanti apparve
intorno al trasporto. Poi il numero salì a un migliaio. Poi raddoppiò. Roberts
sentì una parte di sé stessa che si ritraeva, perché lo shock la induceva a
prendere le distanze da sé stessa.
«Mé scopar» sussurrò. «Quelli sono pennacchi di reattore?»
I punti di luce scattarono, muovendosi tutti contemporaneamente, uno sciame
di vespe luminose che vorticavano, curvavano e attraversavano il portale
dell’anello, addentrandosi nel loro spazio. Nel suo spazio. Qua e là, una luce
tremolò e morì, una sola che tremava e moriva in mezzo a migliaia, ma la
maggior parte delle altre continuò a fluire in avanti, mentre i sistemi di volo
prendevano atto della situazione... la loro posizione, quella della stazione aliena,
di Medina, dei portali.
C’erano spazi sicuri nei quali i cannoni a rotaia non avrebbero sparato. Non
dietro un riparo, perché a parte la stessa Medina nella zona lenta non c’era
niente dietro cui nascondersi, ma qualsiasi nave nemica che fosse riuscita a
mettersi fra la canna di un cannone a rotaia e l’anello di un portale o la stessa
Medina sarebbe stata al sicuro. Se non altro, lo sarebbe stata finché i CDP e i
siluri della Stazione di Medina non avessero potuto raggiungerla. Come schegge
di ferro che mostrassero un campo magnetico, lo sciame puntò verso linee
definite dalla geometria e dalla tattica. O almeno lo fece la maggior parte di esso.
Alcune non ci riuscirono e rimasero a vorticare impotenti nel vuoto, senza più
costituire una minaccia. E le altre...
«Quegli oggetti in rapido movimento non sono navi» disse Salis. «Quelli sono
siluri...»
Il terminale palmare di Roberts trasmise un allarme nello stesso momento di
quello di Vandercaust e di Salis. Lei fu la prima a tirare fuori di tasca il suo: lo
schermo era bordato di rosso: allarme da combattimento. Accusò ricevuta,
indicando la sua posizione. L’avevano assegnata a una squadra di controllo danni
operativa nel vuoto, mentre Jakulski e gli altri pezzi grossi della sezione tecnica
aspettavano di vedere dove sarebbe stato necessario inviarla. Dove si sarebbero
verificati i danni. Era peggio di un incarico difficile, perché il sangue le sfrigolava
per il bisogno di fuggire o combattere, e non c’era dove andare. Se avesse potuto
correre a occupare una postazione, almeno avrebbe potuto fingere di fare
qualcosa, di poter avere un effetto sull’onda di distruzione che stava volando
verso di lei.
«Ah!» esclamò Vandercaust. «Ci siamo!»
Sullo schermo, i cannoni a rotaia aprirono il fuoco. All’inizio, fu solo
movimento, con le canne... le sue canne, quelle che lei aveva montato nei loro
alloggiamenti... che vibravano. Poi il notiziario si sovrappose alla traiettoria dei
colpi, linee luminose che svanivano con la rapidità con cui erano apparse, e a
ogni tremolio uno dei nemici morì. Roberts sentì la mascella che cominciava a
dolerle per quanto era serrata, ma non riuscì a rilassarla. Salis grugnì con
espressione sgomenta.
«Que?» chiese Roberts.
«Vorrei che non lo stessero facendo, tutto qui» rispose lui.
«Facendo cosa?»
Lui accennò con il mento allo schermo a parete. «Mandare quelle attraverso i
portali, là dove vanno a finire.»
Roberts sapeva cosa intendeva. Il nulla senza stelle... che non era neppure
spazio... dall’altro lato dei portali era inquietante, se ci si soffermava a pensarci
troppo. Materia ed energia potevano essere convertite una nell’altra, ma non
distrutte, quindi quando qualcosa che si spingeva oltre il limitare della zona lenta
sembrava svanire, doveva andare da qualche parte o essere trasformata in
qualcosa, ma nessuno sapeva cosa.
«Non abbiamo alternativa» disse. «Esá coyos ci costringono a farlo.»
«Già. È solo che...»
Si susseguirono minuti lunghi e terribili. Roberts scivolò in uno stato che era in
parte panico e in parte trance. Sul video, le linee lampeggiavano. Un altro
nemico morto. Un altro proiettile di tungsteno che accelerava fino a lasciare la
realtà per l’oscurità ancora più strana dello spazio. Adesso che la vedeva con gli
occhi di Salis, essa rendeva nervosa anche lei. Era facile dimenticarsi della
profonda stranezza che li circondava. Vivevano là, era la loro casa, quindi era
ovvio che dovessero difenderla, ma quello in cui vivevano era anche un mistero.
«Ma a che velocità stanno andando?» commentò Vandercaust, con voce piena di
meraviglia. Passò il terminale palmare dallo schermo di allerta a un programma
di tracciamento, inserendovi i dati in streaming. «Esá non possono avere un
equipaggio a bordo. Se ci fosse sarebbe ridotto in gelatina, nonostante i
medicinali.»
Medina tremò, una vibrazione lieve ma inconfondibile. La prima nave nemica
era a portata di tiro. Sullo schermo al tremolio dei cannoni a rotaia si unirono gli
archi più ampi e lenti dei CDP, i punti luminosi dei siluri di Medina. Roberts si
sorprese a borbottare imprecazioni come se fossero state una preghiera, senza
sapere da quanto tempo lo stesse facendo. Lo scintillio dei pennacchi dei reattori
nemici cominciò a inspessirsi e a fondersi in un’unica asta luminosa che tracciava
una linea fra la stazione aliena e Medina.
«Si stanno mettendo in mezzo a noi» disse. «Devono fermarli, si stanno
mettendo in mezzo a noi. Arriveranno qui. Ci abborderanno.»
«Nessuno di loro ci abborderà» ribatté Vandercaust. «No es navi, quelle. Sono
solo pugni, con un motore che li spinga. Arieti.»
«Continuiamo a eliminarli» aggiunse Salis. «Guarda, i cannoni a rotaia
continuano a sparare.»
Era vero. I tiri erano accurati, pericolosi. Scivolavano oltre il corpo centrale di
Medina, tanto vicini che a Roberts parve di poterli sentir sibilare mentre la
oltrepassavano, ma i nemici continuavano a morire, esplodendo in nuvole di
detriti e di vapore. L’ondata di siluri nemici era già scomparsa, trasformata in
detriti e cattive intenzioni, e le navi, per quanto sempre più vicine, calavano di
numero a ogni minuto.
«Stiamo incassando dei colpi» avvertì Vandercaust, fissando con aria cupa il
terminale palmare.
Roberts tirò fuori il suo terminale. C’era una perdita di pressione lungo gli
strati più esterni del corpo centrale. Non dovunque, ma sparpagliata. Un
corridoio qui, un magazzino là. Una cisterna d’acqua era stata forata e riversava
all’esterno un vortice di nebbia e ghiaccio mentre il corpo centrale continuava la
rotazione. I mormoni avevano costruito le parti esterne del corpo centrale
rendendole spesse per proteggerle dalle radiazioni dello spazio, quindi nessuno
stava morendo. Non ancora.
«Come fanno a colpirci?»
«Sono i rottami» spiegò Salis. «I detriti dei siluri. Non è niente.»
Poteva anche essere vero che si trattava solo di detriti, ma non era niente.
Mentre guardava, arrivò un altro allarme e un altro assegnamento. La sua
squadra non era ancora stata chiamata in servizio, e pensò che non lo sarebbe
stata finché il bombardamento non fosse cessato o non fosse stato colpito
qualcosa di tanto importante da giustificare che tutti e tre mettessero a rischio la
loro vita. Intorno a loro, gli altri applaudirono, e nel sollevare lo sguardo
Roberts vide una sfera che si andava allargando in mezzo allo sciame sempre più
ridotto. Ne avevano centrato uno grosso, e la detonazione era stata abbastanza
violenta da investire alcune delle navi vicine.
Adesso le migliaia di vespe erano di meno, forse due o trecento, e diminuivano
a ogni momento che passava. Quelle che rimanevano puntavano veloci verso
Medina, schivavano gli archi dei CDP, fuggivano dai siluri, finivano per scivolare
fuori del corridoio di sicurezza ed essere fatte a pezzi dai cannoni a rotaia.
Mentre le luci scintillanti scomparivano nel nero, Roberts sentì qualcosa che le si
formava nel ventre e nella gola. La risata le sfuggì sommessa, ma calda e intensa
come il pianto, e crebbe fino a diventare qualcosa di profondo.
Erano venuti per prendere Medina, e stavano fallendo. Sì, la stazione stava
incassando dei colpi. Sì, avrebbero riportato dei danni, ma non sarebbero caduti.
Adesso Medina apparteneva alla Marina Libera e sarebbe rimasta parte di essa
per sempre. Anche Salis sorrideva, e tutt’intorno a loro gli applausi
cominciavano a levarsi a ogni colpo di cannone a rotaia che centrava un altro
invasore. Fra tutti, solo Vandercaust appariva incerto.
«Que sa?» gli chiese Roberts. «Visé come se stessi cercando di grattarti il culo
con un gomito.»
Vandercaust scosse il capo. I cannoni a rotaia scintillarono di nuovo e un’altra
luce si spense.
«Continuano ad andare alla deriva, loro» disse. «Visé. Sono nell’ombra, sì? La
stazione è abbastanza lontana da far sì che i cannoni a rotaia possano inquadrare
contemporaneamente loro e noi. Eppure... vanno alla deriva. Si mettono dove i
cannoni li possono centrare. Perché lo stanno facendo?»
«Che importa, fintanto che muoiono?» ribatté Salis, che continuava a sorridere.
«Forse vogliono essere uccisi» suggerì Roberts. Lo aveva inteso come uno
scherzo.
Le parole però rimasero sospese là, fluttuando sopra il tavolo come fumo che
si raccogliesse mentre le sorti della battaglia stavano per cambiare. Roberts
riportò l’attenzione sullo schermo, mentre la sua gioia e il suo sollievo svanivano
come se non fossero mai esistiti. Un senso di gelo le pervase i polmoni e il
cuore, una paura del tutto diversa dalla tensione e dall’ansia generati dall’attacco.
Un’altra nave che avrebbe potuto essere distrutta dai CDP o dai siluri di Medina
fu invece centrata dai cannoni a rotaia.
«Cosa sto guardando, Vandercaust?» chiese, con voce dura ma tremante.
Vandercaust non rispose e si incurvò invece sul suo terminale palmare,
lavorando furiosamente su di esso con le sue spesse dita da operaio.
Un’altra nave distrutta. E un’altra. Adesso rimanevano meno di cento nemici,
e si stavano sparpagliando come un fiore che sbocciasse, senza neppure più
tentare di mantenere la rotta su Medina. Tutt’intorno, la stanza esplose in grida e
festeggiamenti. Al di sopra di quella cacofonia, lei sentì a stento Vandercaust
dire: «Merda!»
Gli pose la domanda con le mani, e lui le porse il terminale. L’inizio della
battaglia aveva già l’aspetto di qualcosa uscito dalla storia. Le migliaia di
pennacchi che si riversavano attraverso i portali e la maggior parte di essi... quasi
tutti... che puntavano dritti su Medina.
Quasi tutti. Alcuni però avevano fallito, con il reattore che annaspava, i
propulsori di manovra che lampeggiavano e li scaraventavano in una rozza
capriola vorticante. Ricordava di aver visto quelle navi e di averle ignorate. I
nemici erano così tanti, così ammassati, che fra quelle migliaia alcuni avevano
avuto problemi di funzionamento. Aveva significato solo una manciata in meno
di cui doversi preoccupare.
Vandercaust però aveva evidenziato una di quelle navi. Essa brillava azzurra
sul suo schermo mentre la battaglia procedeva e i cannoni a rotaia puntavano i
siluri che minacciavano Medina. I colpi partivano, i nemici morivano. Non così
però quel piccolo punto verde affetto da difetti di funzionamento, che andava
alla deriva, rotolando, morto.
Finché non smise di farlo.
Quando il suo reattore tornò in funzione, esso non puntò verso Medina o si
ritirò verso il portale del Sole, ma saettò verso la sfera aliena, quel manufatto
pervaso di un lieve chiarore azzurrino che si trovava al centro della zona lenta, e
su cui erano installati tutti i loro cannoni. Adesso Roberts stava tremando
talmente che il punto verde pareva danzare sulla sua mano, lasciandosi dietro
tracce luminose, una sobbalzante immagine residua di come erano stati
ingannati. Migliaia di imbarcazioni e di siluri che solcavano il vuoto come
evocati da un prestigiatore avevano avuto il solo scopo di attirare l’attenzione. E
aveva funzionato, dannazione.
Roberts restituì il terminale e tirò fuori il suo, inviando a Jakulski una richiesta
di connessione d’emergenza. A ogni secondo in cui lui tardò a rispondere, le
parve che un’altra zolla di terra cadesse sulla sua bara. Quando infine apparve,
era negli uffici amministrativi, fuori del corpo centrale, e in assenza di gravità. Il
suo sorriso soddisfatto indicava che perfino il capitano Samuels non aveva
ancora capito cosa era successo.
«Que hast, Roberts?» chiese, e per un momento lei non riuscì a parlare. Il
desiderio di essere nel mondo in cui si trovavano Jakulski e tutti gli altri che
l’attorniavano – quel mondo in cui avevano vinto – le creava un nodo alla gola
che non permetteva alle parole di passare.
Poi ci riuscirono.
«Contatta su raggio stretto Mondragon» disse.
«Chi?»
«No. Merda. Montemayor, o comunque si chiami quel coyo. La gente di Duarte.
Avvertilo. Avvertili tutti.»
Jakulski aggrottò la fronte e si protese maggiormente verso la videocamera,
anche se dove si trovava non c’era forza gravitazionale a cui resistere. «No savvy
me» disse.
«I jodidas della flotta congiunta sono appena sbarcati sull’altra stazione. Il loro
bersaglio non è mai stato Medina. Sono qui per i cannoni a rotaia.»
45
Bobbie
La luce del sole era abbastanza intensa da infondere nella caligine arancione la
luminosità crepuscolare che aveva verso metà giornata. Una chiazza luminosa
mostrava la sua posizione. Saturno si trovava sul lato opposto dell’atmosfera di
Titano, insieme ai detriti che erano stati oltre cento navi. Michio ricordava un
momento in cui, nel caos della battaglia, aveva visto Saturno sullo schermo. Era
stato così vicino da permetterle di distinguere la complessità dei suoi anelli. Lo
rammentava, ma era come se non fosse successo. I suoi ricordi della violenza del
combattimento erano sporadici.
Il centro turistico era incredibile. La cupola si levava di cinquanta metri al di
sopra del terreno, un insieme di titanio e vetro rinforzato da cui l’edera pendeva
come in un giardino pensile. Le terrazze si levavano in curve studiate per creare
panorami mozzafiato da quel cielo caliginoso e anonimo. C’erano fringuelli che
volavano qua e là, chiazze di colore artificiali ed estranee all’ambiente della luna
quanto lo era lei stessa. Quanto lo erano tutti. Da dove sedeva, Michio poteva
abbassare lo sguardo su piscine e cortili di falsi mattoni decorati da felci, dove
ripari d’emergenza in lucido alluminio erano montati accanto a lussuosi angoli
bar. I feriti dormivano sulle chaise longue e le sedie a sdraio perché i letti
d’ospedale erano tutti occupati.
I centri turistici sotto la cupola erano stati costruiti decenni prima per le
persone facoltose della Terra e di Marte, un posto dove i capitani della finanza e
dell’industria potessero riposare mentre lavoravano alla costruzione di
insediamenti sulle lune di Saturno e al trasporto del ghiaccio prelevato dai suoi
anelli. Un sito esotico dove i turisti potevano recarsi per fingere di sperimentare
la vita sui pianeti esterni senza mai dover fare davvero quell’esperienza.
Da quanto erano stati costruiti, quei centri avevano lavorato bene, e non solo
con gli interni. Per i cinturiani, essi erano quanto di più simile alla vita sulla Terra
potevano mai sperimentare. Aria aperta. Una vera atmosfera da guardare, se non
da respirare. Cibi e liquori importati dalla Terra e da Marte. Così, quello era
diventato una sorta di punto di mezzo... un rifugio per i terrestri nei pianeti
esterni e una versione della Terra di cui i cinturiani potevano godere. Forse
quello che in realtà avevano da condividere era la mancanza di autenticità.
Lei non ci era mai stata prima, e se avesse potuto fare a modo suo non ci
sarebbe più tornata.
Dietro di lei, un rumore di passi risuonò sulla terrazza. Si girò, sussultò e
continuò il movimento nonostante il dolore. Se stava immobile, adesso le ustioni
alla schiena le causavano solo prurito, ma nonostante quello che avevano detto
tutti i dottori, aveva paura che se non avesse continuato a sottoporre a tensione
le ferite, le cicatrici le avrebbero fatto perdere la capacità di muoversi.
Il sorriso di Nadia era stanco ma reale. Aveva in una mano bende pulite e un
tubetto di crema, mentre nell’altra stringeva un terminale palmare. Michio fece
una smorfia, poi ebbe una risata triste.
«È di nuovo ora?» chiese.
«Queste sono le gioie della vita» replicò Nadia. «Però ti ho portato qualcosa
che ti distragga la mente.»
«Qualcosa di buono?»
«No» replicò Nadia, sedendo alle sue spalle. «La terrestre ti vuole parlare di
nuovo.»
Michio si tolse la veste da ospedale di carta e si chinò in avanti, poi Nadia le
porse il terminale e procedette a esaminare i contorni della falsa pelle che
copriva le ferite. I nervi che le permettevano di registrare un tocco lieve erano
coperti da una fasciatura viva; quelli che registravano dolore erano terribilmente
sensibili: era come essere intorpidita e scuoiata viva nello stesso tempo. Michio
serrò i denti e attese. Quando ebbe completato l’ispezione, lungo la sua schiena
e giù per il fianco e il braccio sinistro, Nadia sospirò.
«Ha un buon aspetto?» domandò Michio.
«Ha un aspetto terribile, ma sta guarendo bene. C’è crescita basale ovunque.»
«Bene» commentò Michio. «Ringraziamo Dio per i piccoli favori.»
Nadia emise un lieve verso inarticolato che non era né di assenso né di
dissenso. Michio sentì uno scricchiolio sommesso quando lei aprì il tubetto di
unguento medicato, poi prese il terminale e aprì la coda dei messaggi in attesa.
Quello nuovo dalla Terra era segnalato come di importanza critica. Chrisjen
Avasarala. Il capo della Terra e il più grande nemico che Michio Pa avesse mai
avuto. Eppure, eccole lì.
«Abbiamo fatto le cose nel modo sbagliato» disse.
«Cosa?» chiese Nadia.
Michio sollevò il terminale palmare perché lo vedesse. «Lavoriamo con la
gente contro cui eravamo soliti combattere.»
«Combatteremo di nuovo contro di loro più tardi» replicò Nadia, come se
stesse promettendo un dolce a una bambina, ma solo se prima avesse mangiato
il suo pasto. «Sei pronta?»
Michio annuì, e Nadia procedette a spalmare la prima ditata di unguento. Il
dolore era intenso, come se fosse stata di nuovo in fiamme. Michio attivò il
messaggio e cercò di concentrarsi su di esso.
Apparve l’immagine della vecchia, seduta a una scrivania. Quella non era la
prima volta che riceveva un messaggio direttamente da lei, o dal nuovo primo
ministro di Marte, ma più spesso era stata contattata da generali e funzionari.
Parevano ricordarsi di lei solo quando stavano chiedendo qualcosa di veramente
grosso, e questo le dava la sensazione di essere la persona meno importante
seduta al loro tavolo.
«Capitano Pa» cominciò Avasarala, e se nel suo tono c’era una sfumatura di
disprezzo, questo era solo prevedibile. Nadia si spostò più in basso lungo la sua
schiena e altre ondate di dolore divamparono proprio mentre la prima
cominciava a svanire. «La situazione su Medina è precipitata. Holden e le forze
dell’APE sono riusciti a prendere la stazione, ma hanno ritenuto opportuno
annientare i cannoni a rotaia che la difendevano, il che li lascia privi di difese. La
Marina Libera ha raccolto quelle che sembrano essere tutte le navi funzionanti
che le sono rimaste... quindici in tutto... e si sta dirigendo a tutta velocità verso il
portale. La buona notizia è che Inaros si è praticamente ritirato da ogni altro
porto e base del sistema. Quella cattiva, naturalmente, è che riprenderà Medina,
le sue linee di rifornimento da Laconia verranno ripristinate e si troverà in una
posizione difendibile. Tutto questo, naturalmente, a meno che troviamo il modo
di fermarlo.»
Avasarala trasse un profondo respiro, abbassò lo sguardo, e quando tornò a
sollevarlo qualcosa era cambiato sul suo volto. Appariva più stanca? Più vecchia?
Più determinata?
«Mi dispiace immensamente per la sua perdita. È un dolore che condivido
perché anch’io ho perso mio marito in questa guerra. Non riesco a immaginare
quanto debba essere devastante perderne due. Non le chiederei questo se non
fosse di importanza critica, ma se ha delle navi, o influenza su qualsiasi fazione
che ci possa aiutare a fermare o rallentare Inaros prima che raggiunga il portale,
abbiamo immediato bisogno del suo aiuto.
«Non le posso offrire niente che ripaghi il sacrificio che ha già fatto, ma spero
che percorrerà quest’ultimo chilometro con me, e che possiamo porre fine a
questa cosa insieme. Per favore, mi risponda al più presto possibile. La Marina
Libera è già in movimento.»
Il messaggio finì e il terminale tornò a mostrare la coda di quelli in attesa.
Nadia procedette a lavorare lungo il suo fianco, e Michio sussultò.
«Ho quasi finito» disse Nadia.»
«Questa è la seconda volta che uno dei nostri nemici mi chiama perché lo tiri
fuori dal fuoco.»
«Possiamo farlo di nuovo?»
«Tutto quello che abbiamo fatto, l’altra volta, è stato bruciarci nel provarci.»
Nell’andare là, aveva saputo che ci sarebbe stato un prezzo da pagare per aver
lasciato indietro la Panshin. Titano era la più grande delle lune di Saturno, e la
Marina Libera aveva là la sua presenza più massiccia al di fuori del sistema di
Giove, minacciando Enceladus, Rhea, Giapeto, Tethys. I trasporti di ghiaccio
negli anelli. Controllava quello spazio senza occuparlo.
La Connaught e la Serrio Mal erano arrivate nel senso della rotazione, emergendo
dall’eclittica per calare sulle navi della Marina Libera da un’angolazione inattesa.
Non avevano viaggiato in fretta quanto Michio aveva sperato, non c’era stata la
possibilità di aggiungere massa di reazione e lei aveva avuto l’angosciante timore
che avrebbero finito per perdere lo scontro vicino a Titano senza poi riuscire a
ritirarsi. Là c’erano state quindici navi della Marina Libera. Durante la maggior
parte della sua vita, quello non sarebbe stato considerato un numero elevato, ma
adesso che c’era stata tanta guerra e che così tante persone avevano diretto le
loro navi attraverso i portali e verso nuovi sistemi, esso era diventato notevole.
Era più delle nove navi che la flotta congiunta aveva scagliato loro contro.
D’altronde, lo scopo di tutti quegli attacchi non era quello di vincere, ma di
distrarre l’attenzione di Marco dalle due navi dirette verso Medina.
La Marina della Repubblica Congressuale Marziana si era schierata in prima
linea, impegnando il nemico e cercando di costringere le navi della Marina
Libera ad abbandonare la posizione, nella speranza che il suo attacco sul fianco
arrivasse inatteso. Ricordava che Oksana aveva richiamato a schermo il display
tattico: quindici navi nemiche, nove alleate. Oksana aveva scherzato sul fatto che
probabilmente tutte le navi coinvolte nello scontro erano state costruite nello
stesso cantiere. Evans aveva riso, poi era tornato serio e aveva avvertito che
qualcuno li stava puntando.
Da quel punto, i ricordi di Michio diventavano meno affidabili. Aveva
riesaminato i diari di bordo. La battaglia non le si era rivoltata contro tanto
presto, ma quando era arrivato, il colpo era stato come una scarica di doppietta
che avesse centrato la sua vita. Aveva aperto un foro massiccio, ma i proiettili
vaganti avevano viaggiato avanti e indietro nel tempo, aprendo buchi più piccoli
nella sua esperienza. Ricordava di aver dato l’ordine di ritirarsi e Josep avvertire
che avevano perso il nucleo, ma non il colpo che le aveva fatto decidere di
fuggire. Rammentava l’odore del suo vestiario e dei capelli che bruciavano, ma i
lunghi, terribili momenti fra l’identificazione del siluro che aveva spezzato la
schiena alla Connaught e l’impatto effettivo erano scomparsi dalla sua memoria.
Quello che sapeva grazie ai diari di bordo era che la Serrio Mal e la Connaught
avevano fatto fuoco nel cuore della formazione della Marina Libera, attirando il
fuoco nemico e costringendo le navi avversarie a sparpagliarsi in modo da creare
corridoi e angoli ciechi nei quali i CPD del nemico non si rinforzassero a vicenda.
Essendo più vicine, le navi marziane avevano scatenato raffiche massicce di
siluri che erano riusciti a mettere fuori gioco due navi della Marina Libera. Non
sapeva se il siluro che aveva centrato il suo reattore fosse giunto dalla Marina
Libera o fosse stato un siluro vagante della MRCM, ma di certo un siluro nemico
era riuscito a superare le loro difese e a cancellare ore di vita dalla sua
consapevolezza.
Aveva la netta impressione di un uomo dalle spalle ampie, con la testa rasata e
la pelle scura, che le diceva che avrebbe fatto cessare il dolore, ma che lei doveva
posare il coltello, però non riusciva a determinare quando questo fosse successo.
Ricordava in modo vivido l’essersi svegliata in una stanza di ospedale, e poi di
essersi risvegliata di nuovo senza nessuna consapevolezza dell’essersi
addormentata fra quei due momenti.
L’inizio di quello che considerava come il ‘dopo’ era stato quando aveva
ripreso conoscenza e aveva trovato Bertold seduto accanto al letto, che le
massaggiava i piedi e cantava sottovoce un sommesso lamento funebre. Per
prima cosa aveva chiesto di Laura, cosa che in retrospettiva la induceva a
pensare di aver saputo che c’era qualcosa che non andava al suo riguardo.
Bertold le aveva detto che era rimasta ferita ed era in coma farmacologico
perché dovevano rigenerarle parte del fegato e un rene. Laura però era la moglie
della regina pirata, e i dottori promettevano che con il tempo si sarebbe rimessa.
Poi le aveva detto di Evans e di Oksana, e avevano pianto insieme finché non
si era addormentata.
Gli alloggi che erano stati assegnati a questa nuova versione più piccola della
sua famiglia erano splendidi: tre camere con ampi letti morbidi, abbastanza simili
a giacigli a smorzamento da essere comodi, eppure diversi quanto bastava per
farli apparire un lusso. Una postazione alimentare con una scelta di alternative
più ristretta di quella che avevano avuto sulla Connaught e cromature più lucide.
Quella che il centro turistico chiamava la ‘fossa della conversazione’, che
appariva come un lungo divano ricurvo incassato nel pavimento. Lucernari nella
cupola che fornivano luce naturale. Una vasca da bagno abbastanza grande per
due persone. E Bertold, Nadia e Josep erano i soli che condividevano il tutto
con lei. Ogni cosa appariva troppo grande e insieme troppo piccola.
Attese che l’unguento le fosse penetrato in profondità nella nuova pelle
artificiale, poi si rimise quella che chiamava la sua ‘uniforme da capitano’ e che
in realtà non era niente di più di una camicia formale e una giacca dal vago taglio
militare. Si infilò pantaloni e stivali, anche se non sarebbero apparsi nel
messaggio che avrebbe inviato in risposta. Si sentiva ancora la mente intontita
dagli antidolorifici e non capiva bene perché essere tanto formale riguardo al
messaggio le apparisse così importante finché non si sedette, non inquadrò la
propria immagine e non cominciò a registrare.
Le appariva importante perché era una resa.
«Signora segretario generale, mi dispiace molto dire che non ho aiuto da dare.
Le navi al mio comando sono morte, danneggiate o sparpagliate tanto lontano
dal portale dell’anello che non potrebbero raggiungere la Pella senza uccidere
tutto l’equipaggio prima di raggiungerla.»
La sua immagine sullo schermo aveva l’aria stanca. Bertold le aveva tagliato i
capelli tanto corti che le aree bruciate non si notavano. Non le piaceva l’aspetto
che le dava. Un’ondata di cordoglio la travolse, come adesso le capitava spesso,
come le sarebbe successo a intervalli per il resto della sua vita.
«La ringrazio per le sue parole gentili riguardo alle nostre perdite. Loro
conoscevano i rischi quando abbiamo accettato questo lavoro, erano pronti a
morire per la Fascia. Vorrei che non lo avessero fatto. Vorrei che fossero qui
con me.
«Vorrei aver potuto fare di più.»
Non c’era altro da dire, quindi inviò il messaggio. Poi, come se stesse
tormentando una ferita infetta, richiamò a schermo un rapporto tattico. L’intero
sistema si allargò davanti ai suoi occhi. La Panshin era ancora viva, come pure
una manciata di altre navi. La nakliye vicino a Eugenia. E laggiù lungo un vettore
che dal sistema di Giove puntava verso il portale, la Pella e quanto restava della
Marina Libera. Altri due punti più piccoli erano su una rotta di intercettazione,
ma quando controllò la loro rotta risultò chiaro che quelle navi erano tutte
impegnate nella stessa missione. Marco e i suoi fedeli si sarebbero riversati oltre
il portale insieme, una forza inarrestabile. Se le difese dei cannoni a rotaia
fossero state ancora attive ci sarebbe stato un combattimento infernale. Senza di
esse, sarebbe stata una strage.
Stazione dopo stazione, nave dopo nave, esaminò tutto il sistema. Era
l’equivalente della griglia che aveva disegnato con un pastello in una qualche
altra vita, su una nave che adesso era un mucchio di rottami e di tristi ricordi.
Tutte le cose di cui la gente aveva bisogno. Filtri. Scorte idroponiche. Ingranaggi
per i riciclatori. Centrifughe per raffinare i minerali. Centrifughe per analizzare
l’acqua. Per lavorare con il sangue.
Si chiese se ci fossero ancora navi coloniali nascoste là fuori nel vuoto, che in
oscuramento guardavano con orrore l’umanità farsi a pezzi a vicenda. Ricordò la
Dottrina dell’Unica Nave, di aver pensato a tutte le navi della Fascia come a
cellule di un unico essere. Adesso non riusciva a vedere le cose in quel modo.
Nel migliore dei casi erano tutti disperati batteri che fluttuavano in un mare
vuoto a cui non importava se vivevano e che non notava quando morivano.
E se Sanjrani aveva ragione, un collasso ancora peggiore era imminente.
La porta del corridoio comune si aprì ed entrò Josep. Nadia lo baciò
nell’avviarsi a letto. Adesso quelli erano i loro turni. Uno dei due stava con
Laura, uno con lei e uno dormiva. Un ciclo di dolore condiviso. Josep andò alla
postazione alimentare, aprì un pannello di cui lei non aveva notato l’esistenza e
si versò un bicchiere di whisky prima di venire a sedersi nella fossa, di fronte a
lei.
«Skol» disse, sollevando il bicchiere, il cui bordo gli ticchettò contro i denti
mentre beveva. Per un momento rimasero seduti lì in silenzio.
«Ooops» disse Michio.
Josep inarcò un sopracciglio. «La parola magica.»
«È stata colpa mia» dichiarò lei, asciugandosi gli occhi con il polsino della
camicia. «Ho fatto quello che faccio sempre, e ho trascinato tutti noi in un
inferno.»
Josep aveva gli occhi infossati e il suo sfinimento traspariva dal colore della
pelle e dalla curva delle sue spalle. «Non seguo il tuo ragionamento.»
«Trovo qualcuno, ripongo la mia fiducia in lui e vado dove mi guida. E poi
tutto l’oro si trasforma in merda. Johnston e Ashford e Inaros. E adesso
Holden. Non so come ho fatto a non vederlo arrivare, ma con lui ci sono
cascata di nuovo. E adesso...»
«Adesso» convenne Josep.
«E la cosa stupida» continuò lei, con la voce che le saliva leggermente di tono,
facendosi sottile e tagliente come il suono di un violino «è che guardo tutto
questo. Guardo tutto quello che stavo cercando di fare, e non si è realizzato
niente. Volevo creare la Fascia per i cinturiani, e non ci sarà. Volevo costruire un
posto dove potessimo vivere, che potessimo definire nostro, e non c’è. Non c’è
neppure il modo di costruirlo. Adesso non ricordo neppure perché pensavo di
dover essere dalla parte di Holden. Riaprire i portali? Liberare il flusso delle navi
coloniali? Accertarsi che nessuna delle persone di cui mi importava
sopravvivesse?»
Josep annuì con espressione pensosa e remota. «Cosa significherebbe se tu lo
avessi sognato?» chiese.
«Sognato cosa?» domandò Michio, cambiando posizione finché la schiena le
fece male, e poi continuando a farlo.
«Questo» rispose lui. «Di aver combattuto per Inaros, e poi per Holden. Di
aver perso persone che per te erano preziose ed essere finita in un posto
lussuoso a essere curata.»
«Non significherebbe un accidente.»
Josep grugnì. «Potrebbe essere una profezia.»
«Potrebbe essere che all’universo non importa un accidente di noi, o di
qualsiasi cosa facciamo e che le tue stronzate mistiche sono solo un modo in cui
fingiamo che non sia così.»
«Anche questo sarebbe possibile» ammise lui, con un’equanimità che la fece
vergognare di quello che aveva detto. Josep bevve un altro sorso di whisky, poi
posò il bicchiere sul pavimento e si sdraiò nella curva del divano con la testa
appoggiata sul suo grembo. Il suo sorriso era caldo, bello, e pieno di un
umorismo e di una gentilezza che le fecero dolere il cuore.
«Non abbiamo seguito Holden, noi. Opporsi a Marco ha messo Holden
accanto a te, sì, ma non sei mai stata sua. Non abbiamo combattuto contro
Marco per via di Holden, lo abbiamo fatto perché Marco ha detto di essere il
campione di cui la Fascia aveva bisogno e poi è risultato che non lo era.»
«Già» annuì lei, accarezzandogli i capelli.
Lui chiuse gli occhi, sfinito. «Aber, dannazione, abbiamo ancora bisogno di un
campione.»
49
Naomi
«Non è un set di dati enorme» disse Naomi, girandosi nel raggiungere il fondo
della stanza per tornare verso di lui. «Voglio dire, è il più grande che abbiamo.
Là fuori non c’è altro che possiamo procurarci.»
«Questo è un problema?» chiese Holden.
Lei si fermò a fissarlo con le mani tese e allargate in un gesto universale che
significava ‘certo che è un problema’. «Potrebbe non progredire con un rapporto
costante. Potrebbero esserci altre variabili che in questi casi non sono entrate in
gioco. Se mi chiedessi di costruire un motore basandomi su dati del genere, non
lo farei. Merda, altro che un motore, non mi fiderei di costruire una scala,
basandomi su questo. Solo che...»
Ricominciò a camminare avanti e indietro, rosicchiandosi l’unghia del pollice.
Quale che fosse l’obiezione che sollevava, nella sua mente l’aveva già
oltrepassata. Holden incrociò le braccia e attese. La conosceva abbastanza bene
da capire quando aveva bisogno di un po’ di spazio mentale. Abbassò lo sguardo
sui grafici che spiccavano sullo schermo. Gli ricordavano quelli di un monitor
cardiaco, solo che le forme delle curve erano molto diverse. Era piuttosto sicuro
che in un elettrocardiogramma il picco iniziale tornasse sotto la linea di base,
mentre in questo caso c’era una rapida ascesa, poi un lento tornare verso il
basso.
Nessun altro era ancora venuto nella stazione di sicurezza. Probabilmente
erano ancora a fare colazione nella cambusa della Rocinante, o forse si erano
fermati a uno di quei piccoli chioschi sui moli dove i locali accettavano ancora i
loro buoni.
Naomi gli si fermò accanto, fissando a sua volta lo schermo. Le sue labbra
sussultarono come se stesse parlando con sé stessa, portando avanti un’agitata
conversazione che nessun altro era autorizzato a sentire, neppure lui. Scosse il
capo, dissentendo con sé stessa. Era parsa più calma, quando lo aveva chiamato
inizialmente, ma quanto più ne parlavano, tanto più si era fatta agitata e
addirittura spaventata.
Pareva che cominciasse a sperare.
«Quindi questa cosa è qualcosa che possiamo usare?»
«Non so cosa sia. Quanto al meccanismo, non ne ho idea. Tutto quello che
abbiamo è questo schema, ma appare così costante.»
Holden fece un altro tentativo. «Questo schema costante è una cosa che
possiamo usare? Specificatamente, qui c’è qualcosa che forse potrebbe darci una
terza alternativa in quel ‘rimanere qui a essere massacrati piuttosto che scappare
attraverso uno dei portali ed essere massacrati’ di cui parlavamo?»
Lei trasse un lungo e profondo respiro, poi esalò lentamente il fiato fra i denti.
Holden sperava che ridesse, ma non lo fece. Sedette di nuovo alla postazione di
lavoro e richiamò a schermo una complessa equazione che lui non era in grado
di comprendere.
«Credo» disse «che potremmo simulare un intervallo di traffico elevato.
Caricare sulla Giambattista tutti i rottami che siamo in grado di saldarle sopra,
sovraccaricare un poco il reattore in modo che generi più energia. Poi, quando la
manderemo attraverso un portale...» Batté un colpetto sulla curva che saliva per
poi decadere. «Ecco, dovremmo ottenere una di queste. Non sarà grande, però.
Perfino una nave enorme è soltanto una nave...»
«E cosa sarebbe una di queste?»
«È un ostacolo. Qualcosa contro cui le navi della Marina Libera potrebbero
andare a sbattere. Se le loro navi hanno abbastanza massa ed energia da far sì
che questa linea incroci la curva prima di svanire... credo che si fermerebbero.»
«Intendi che finirebbero dove vanno tutte le altre navi divorate?»
Naomi annuì. «Potremmo caricare massa aggiuntiva sulla Giambattista.
Abbiamo ancora quelle navette d’attacco e alcune hanno ancora propellente nei
reattori. Se le facessimo passare nello stesso momento potremmo intensificare
un poco la curva. E quasi certamente Marco farà passare tutte le sue navi nello
stesso momento, il che ci potrebbe aiutare. Però non conosco il meccanismo...»
«Ehi, sai cos’è una costante di Planck?» chiese Holden.
«Sei virgola sei due sei e qualcosa moltiplicato dieci alla meno trentaquattro
chili al metro quadrato per secondo?»
«Certo, perché no?» ribatté Holden, sollevando un dito. «Ma sai perché è quel
valore e non sei virgola sette, qualsiasi altra cosa fosse il resto?»
Naomi scosse il capo.
«E non lo sa nessun altro. Eppure la chiamano scienza. La maggior parte di
quello che sappiamo non è il perché le cose sono quello che sono. Ci limitiamo a
capire quanto basta di come funzionano da poter prevedere la prossima cosa che
succederà, ed è quello che hai fatto tu. Hai abbastanza per una previsione. E se
tu pensi di avere ragione, allora lo penso anch’io, quindi facciamolo.»
Naomi scosse il capo, ma non era una risposta diretta a lui. «Un’enorme n
corrisponde a uno studio in cui la nostra ipotesi nulla è che veniamo tutti
ammazzati.»
«Non necessariamente» obiettò Holden. «Loro hanno solo quindici navi
contro la nostra. Potremmo ancora farli fuori. Noi abbiamo Bobbie e Amos.»
Questa volta Naomi scoppiò a ridere. Holden infilò il braccio sotto il suo e lei
gli si appoggiò contro. «Se non dovesse funzionare, non saremo più fottuti di
quanto lo siamo adesso» disse.
«Probabilmente no» convenne Holden. «Voglio dire, una strana, morta
tecnologia aliena con effetti che non comprendiamo spazza via intere navi senza
lasciare una traccia e senza una spiegazione. Probabilmente è una cosa con cui
non è pericoloso giocare, giusto?»
La Pella e le sue quattordici navi da guerra – tutto quello che rimaneva della
Marina Libera – si avvicinavano sempre più al portale, erano già oltre il punto di
metà tragitto e in fase di frenata. Giorni prima, Avasarala aveva mandato un
elenco delle tattiche che stava usando per cercare di fermarle, e lo aveva fatto
con una pesantezza che indicava come sapesse che erano tutte balle ancor prima
di decidersi a dirlo esplicitamente. Aveva concluso con: ‘Farò tutto quello che
posso, ma potreste dovervi accontentare di essere vendicati. Mi dispiace.’
Holden si chiese cosa avrebbe pensato della scoperta fatta da Naomi e del suo
piano.
Holden avvertiva lo scandire di ogni ora che passava, sapendo che Inaros e i
suoi soldati erano un po’ più vicini. Era come avere qualcuno che lo spingesse
da dietro, costringendolo ad affrettarsi. Sarebbe quasi stato più facile se fosse
stata una questione di ore e di giorni. Almeno sarebbe già finita.
In un primo momento, il capitano della Giambattista fraintese le loro
intenzioni, pensando che la sua nave sarebbe stata divorata da quel qualcosa che
facevano i portali. Naomi dovette spiegargli quattro volte che se tutto fosse
andato bene la Giambattista sarebbe soltanto passata in un altro sistema, avrebbe
atteso lì senza fare niente per qualche giorno e sarebbe tornata indietro, illesa.
Una volta che lo ebbe convinto che lui e il suo equipaggio avrebbero evitato la
battaglia anche se il piano fosse fallito, le sue obiezioni si dissolsero.
Naomi coordinò ogni cosa... il caricamento delle navette nella stiva, il rimettere
a punto il reattore in modo che tanto la bottiglia quanto la reazione operassero
quasi al limite massimo della loro capacità. Portò con sé Amos e Clarissa per
caricare la griglia interna di alimentazione della Giambattista in modo che tutto
fosse sull’orlo del sovraccarico senza superarlo. Questo ricordò a Holden
quando Papà Tom gli aveva parlato degli orsi che era solito vedere da giovane.
Se un orso bruno si avventurava nel ranch, la cosa più sicura da fare era slacciare
la giacca e sollevare le braccia sopra la testa, gridare e fare rumore. Se si trattava
di un grizzly, la sola cosa da fare era allontanarsi il più possibile senza fare
rumore. In questo caso, però, la sensazione era che stessero facendo chiasso
davanti a un grizzly nella speranza che divorasse qualcun altro.
Mentre Naomi proseguiva con i preparativi, lui cercò di rendersi utile.
C’era una quantità di messaggi arretrati che provenivano dai mondi coloniali.
Rapporti sulla situazione, minacce e suppliche. Faceva riflettere il rendersi conto
di quanti fossero i pianeti su cui l’umanità si era già sparsa. Quanti semi avessero
piantato su un terreno sconosciuto. Adesso che Naomi aveva mandato il suo
flusso di informazioni, molte colonie cominciavano a capire perché erano
rimaste tagliate fuori. Soltanto ora venivano a sapere di quello che era successo
alla Terra e al suo sistema solare, e i messaggi di risposta inondavano i buffer
delle comunicazioni di rabbia e dolore, minacce di vendetta e offerte di aiuto.
Quei messaggi erano i più difficili da ascoltare. Nuove colonie che cercavano
ancora di imporsi a ecosistemi locali tanto esotici che riuscivano a stento a
riconoscerli come forme di vita, isolate, esauste, a volte al limite delle risorse. E
quello che volevano era aiutare. Holden ascoltava la loro voce, leggeva lo
sgomento nei loro occhi, e non poteva fare a meno di amarli un poco.
Nelle migliori condizioni, disastri e pestilenze generavano questo effetto. Non
era una verità universale, ci sarebbero sempre stati accaparratori e strozzini,
persone che chiudevano la porta in faccia ai profughi e li lasciavano a morire di
fame e di freddo. Però c’era anche l’impulso di aiutare, di portare il fardello
insieme, anche se significava avere meno per sé stessi. L’umanità era arrivata
tanto lontano arrancando in mezzo a una caligine di guerra, malattia, violenza e
genocidio. La storia era intrisa di sangue, ma conteneva anche collaborazione,
gentilezza, generosità, matrimoni misti. Una cosa era legata all’altra, lui dovette
trarre conforto da questo, dalla sensazione che per quanto terribili potessero
essere gli errori dell’umanità, negli esseri umani c’era ancora qualcosa per cui
valeva la pena di ammirarli.
Fece quello che poteva per rispondere ai messaggi più pressanti, per offrire
tutta la speranza possibile. Per far sentire, per quanto brevemente, la voce della
Stazione di Medina. Coordinare un invio di provviste a tutte le colonie era più di
quanto potesse fare. Sarebbe stato un lavoro a tempo pieno per uno staff di
almeno una dozzina di persone, e lui era un uomo solo con una radio. Tuttavia,
anche solo vedere di cosa c’era bisogno, affondare i piedi nel compito oceanico
di essere il perno fisico su cui ruotavano mille diversi sistemi solari, gli diede un
segreto senso di speranza per il futuro.
Aveva avuto ragione. Là c’era una nicchia.
A patto che il piano funzionasse. A patto che non morissero tutti. A patto che
una qualsiasi di un milione di cose a cui non aveva ancora pensato non entrasse
in gioco distruggendo tutto quello che stava ancora cercando e per cui
pianificava. C’era sempre il braccio dimenticato, la cosa che non vedevi arrivare.
Poteva sperare che si trattasse della cosa che anche Marco Inaros non avrebbe
visto arrivare.
«Allora, quanto è lunga questa finestra, o scia, o quello che è ciò che miriamo a
ottenere?» chiese Amos.
Il tempo era quasi esaurito. Adesso la domanda era con quanta velocità
volevano che Inaros passasse attraverso il portale. Se avesse interrotto la frenata
e fosse arrivato in fretta questo avrebbe alterato la tempistica. Se avesse
attraversato il portale di Arcadia troppo tardi, la Giambattista sarebbe stata la
nave che sarebbe svanita in fretta e in silenzio. Se fosse passata troppo presto, la
curva di Naomi sarebbe già decaduta fino a svanire e la Marina Libera sarebbe
entrata senza problemi nella zona lenta.
Erano tornati sulla Rocinante. Alex e Bobbie erano nella cabina di pilotaggio,
pronti a combattere se si fosse arrivati a questo. Holden e Naomi erano
assicurati ai sedili sul ponte di comando. Amos fluttuava loro accanto ed era lì
più che altro per tenere loro compagnia. Non erano ancora alle postazioni di
battaglia. Se si fosse arrivati alla battaglia, quella era probabilmente l’ultima volta
che vedeva Amos in carne e ossa. Holden cercò di non pensarci.
«Saranno forse cinque minuti» rispose Naomi. «Questo dipenderà in parte
dalla massa e dall’energia delle navi che porteranno da questa parte. Se saremo
fortunati, il tempo potrebbe estendersi a un massimo di... dieci minuti?»
«Non è molto» osservò Amos, con un amabile sorriso. Posò una mano sulla
scaletta che portava alla cabina di pilotaggio per impedirsi di fluttuare via. «Tutto
a posto, lassù?»
«Tutto a meraviglia» rispose Alex.
«Se il trucco di Naomi non dovesse funzionare, pensi che possiamo farli
fuori?» chiese Amos.
«Tutti probabilmente no» replicò Bobbie. «Alcuni sicuramente.»
Clarissa emerse dall’ascensore con un pallido sorriso sulle labbra. Adesso
aveva trascorso abbastanza tempo in assenza di gravità da muoversi con
naturalezza, passando da un appiglio all’altro lungo la parete come se fosse stata
una cinturiana per nascita. Quando raggiunse Holden gli porse un bulbo
proveniente dalla cambusa.
«Hai detto di non essere riuscito a dormire» spiegò. «Ho pensato che avresti
voluto un po’ di caffè.»
Holden accettò il bulbo e il sorriso di Clarissa si accentuò leggermente. Il
bulbo era caldo contro la sua mano, e probabilmente il caffè non era avvelenato.
Era improbabile che lei facesse ancora quel genere di cose. Holden si fece
coraggio prima di bere un sorso.
La stazione di Medina era nelle mani dei combattenti dell’APE provenienti dalla
Giambattista, anche se questo non sarebbe servito a molto. Per la maggior parte, i
suoi CDP e lanciasiluri avevano esaurito le munizioni nel difendersi da Holden, e
quel che restava era abbondante quanto un errore di arrotondamento rispetto a
quello di cui avrebbero avuto bisogno per respingere Inaros. La Roci aspettava
quasi alle spalle della stazione azzurra nel centro della zona lenta. Se avesse
puntato su di essa le videocamere di bordo, Holden avrebbe visto le rovine dei
cannoni a rotaia come se si fosse trovato sopra di essi.
«Arriva qualcosa da Laconia?» domandò.
«Non abbiamo un ripetitore sul lato opposto di quel portale, ma dando una
sbirciatina dal buco della serratura? Niente» rispose Naomi. «Nessun segnale.
Nessun segno di reattori in avvicinamento.»
La Roci emise un segnale di allerta. Holden verificò di cosa si trattava.
«Abbiamo qualcosa, capitano?» chiese Amos.
«Le navi in avvicinamento hanno alterato un poco la frenata. Passeranno in
velocità.»
«E in anticipo» aggiunse Naomi. La sua voce pareva quella di qualcuno che
parlasse in preda alla sofferenza. Il timer per il conto alla rovescia della Roci si
adeguò, calcolando che il nemico avrebbe oltrepassato il portale fra venti minuti.
Holden lavò via con il caffè di Clarissa il nodo che gli serrava la gola.
Clarissa si spinse fino al sedile di Naomi, il volto affilato contratto in
un’espressione accigliata. Naomi sollevò lo sguardo su di lei e si asciugò gli
occhi. Una lacrima fluttuò nell’aria e si diresse verso la bocca del riciclatore.
«Mi riprenderò» disse Naomi. «È solo che mio figlio è su una di quelle navi.»
Un velo di lacrime apparve anche negli occhi di Clarissa, che le posò una mano
sul braccio. «Lo so» rispose. «Se hai bisogno di me, sai dove trovarmi.»
«È tutto a posto, Zuccherino» intervenne Amos. «Io e il capitano ne abbiamo
parlato. Va bene così.» E sollevò con aria allegra il pollice in direzione di
Holden.
Il conto alla rovescia continuò a scorrere, Holden trasse un lungo, lento
respiro e aprì un canale di comunicazione con la Giambattista.
«D’accordo» disse. «Parla il capitano Holden della Rocinante. Per favore, avviate
ora l’accelerazione di passaggio. Dovete attraversare il portale fra...» Controllò il
timer. «Fra diciotto minuti.»
«Tchuss, røvul!» replicò il capitano della Giambattista. «Lo è stato, sí no?»
La connessione si interruppe. Sullo schermo, la Giambattista riferì l’avvio di
un’accelerazione rapida e Holden modificò l’immagine per vederla. Una singola
stella luminosa nel buio, un pennacchio di reattore più grande del trasporto per
il ghiaccio che lo produceva. Volle credere che ci fosse qualcosa di strano nel
colore della luce, come se tutte le regolazioni fatte da Naomi per elevare i livelli
di energia fossero visibili, ma era solo uno scherzo giocatogli dalla mente. Sullo
schermo apparve un nuovo conto alla rovescia. Il momento del previsto
passaggio della Giambattista attraverso il portale di Arcadia passò da diciassette a
sedici minuti. A meno che non alterasse la rotta, la Marina Libera avrebbe
varcato il portale del Sole fra diciannove minuti. Diciotto.
Aveva lo stomaco contratto. Trasse un respiro tremante e bevve un altro sorso
di caffè, poi aprì una seconda finestra e puntò i sensori verso il portale del Sole.
Da dove si trovavano, la Marina Libera non sarebbe stata visibile, non ancora.
L’angolazione era tale da nasconderla.
«Il cannone a rotaia è pronto, nel caso dovessero passare?»
«Sì, signore» rispose prontamente Bobbie.
«Bene, sarà meglio che io e lo Zuccherino andiamo a prendere posto sui sedili.
Giusto per precauzione, sai com’è.»
Clarissa sfiorò la spalla di Naomi un’ultima volta, poi si girò e si lanciò per
seguire Amos giù per il condotto dell’ascensore e verso la sezione ingegneria.
Holden bevve un ultimo, lungo sorso di caffè, poi mise via il bulbo. Voleva che
quella cosa finisse. Voleva che quel momento durasse in eterno, nel caso fosse
l’ultimo che aveva con Naomi. E con Alex e Amos. E Bobbie. Dannazione,
perfino con Clarissa. Con la Rocinante. Non si poteva passare in un posto come
la Roci tutto il tempo che vi aveva trascorso lui e non esserne cambiati. Non
vederla diventare la propria casa.
Quando Naomi si schiarì la gola, pensò che stesse per parlargli.
«Giambattista» disse. «Qui è la Rocinante. La vostra griglia di alimentazione non
mi appare al di sopra della norma.»
«Perdona» rispose una voce di donna. «Provvediamo subito.»
«Grazie, Giambattista» replicò Naomi, e chiuse la comunicazione. Sorrise a
Holden. L’orrore della situazione traspariva solo da una linea all’angolo della sua
bocca, ma vederlo gli fece dolere il cuore. «Dilettanti. Verrebbe da pensare che
non abbiano mai fatto prima questa cosa.»
Holden rise, e Naomi si unì alla sua risata. I timer continuarono a ticchettare.
Quello della Giambattista arrivò allo zero. La luminosità del suo pennacchio
scomparve, nascosta dalla curva del portale di Arcadia e dalla profonda
stranezza che caratterizzava spazio e distanza laggiù. Dove c’era stato il timer,
Naomi richiamò a schermo un display di un modello matematico che aveva
costruito. Il picco del passaggio della Giambattista cominciava già a decadere.
La linea scese verso il basso mentre, accanto a essa, il timer che scandiva
l’arrivo di Marco si riduceva a una questione di secondi. Nella cabina di
pilotaggio Bobbie disse qualcosa e Alex rispose, ma Holden non riuscì a
distinguere le parole. Il respiro di Naomi suonava rapido e poco profondo.
Desiderava protendersi verso di lei, prenderle la mano, ma questo avrebbe
significato distogliere lo sguardo dal monitor, quindi non poteva farlo.
Ci fu un tremolio nel portale del Sole. Holden aumentò l’ingrandimento finché
quel portale riempì il suo schermo. La strana struttura quasi biologica dell’anello
stesso parve spostarsi e contorcersi. Un’illusione della luce. I pennacchi dei
reattori delle navi della Marina Libera erano così ravvicinati da dare
l’impressione che una singola, enorme fiammata fosse apparsa al limitare del
portale, puntando verso il suo centro.
«Vuoi che provi a sparare loro contro?» chiese Bobbie. «A questo punto
probabilmente il cannone a rotaia potrebbe raggiungerli.»
«No» disse Naomi, prima che Holden potesse rispondere. «Non so che effetto
potrebbe avere adesso mandare della massa attraverso il portale.»
Sul modello apparve una linea, in basso sulla scala di grandezza. Si muoveva
verso la curva che andava affievolendosi. Il portale dell’anello si illuminò per la
frenata congiunta delle navi nemiche, fino ad apparire come l’immagine in
negativo di un occhio, con la sclera nera e punteggiata di stelle e un’iride rovente
e di un bianco intenso. Il timer raggiunse lo zero. Le luci si fecero più intense.
51
Marco
Marco aveva la mascella dolorante, il petto gli faceva male, le vertebre erano
sul punto di slogarsi senza mai arrivare a superarlo. L’accelerazione a g elevati lo
flagellava e lui accoglieva con piacere il dolore. La pressione e il disagio erano il
prezzo pagato dal suo corpo. Stavano rallentando nell’avvicinarsi al bersaglio. Il
nucleo della Marina Libera avrebbe raggiunto Medina senza incontrare
opposizione, e non c’era letteralmente nessuno che li potesse fermare.
Con una spinta umana – un ottavo, un decimo di g – e passando un po’ di
tempo muovendosi per abbrivio in assenza di gravità per conservare massa, il
viaggio fino all’anello avrebbe richiesto mesi, ma lui non aveva quei mesi. Tutto
dipendeva dal raggiungere Medina prima che le forze sparse della flotta
congiunta lo potessero raggiungere. Sì, questo significava spingere le navi di cui
disponeva al limite della loro capacità. Sì, avrebbe significato requisire parte delle
scorte che avevano su Medina per fornire il carburante per il suo ritorno nel
sistema, e la gente di Medina si sarebbe dovuta adattare con un po’ meno finché
non fosse riuscito a stabilizzare la situazione quanto bastava per permettere un
rinnovo delle scorte.
Questo era un tempo di guerra. I giorni in cui andare a caccia di cibo,
accantonare risorse e stare al sicuro erano finiti. La pace era un tempo per
l’efficienza. La guerra era un tempo che richiedeva potere, e se questo significava
spingere i suoi combattenti al limite delle loro capacità, allora era così che
avrebbe ottenuto la vittoria. Quelli che conservavano la maggior parte delle loro
riserve per il domani erano anche quelli che avevano meno probabilità di
arrivare a vederlo. Se il prezzo erano lunghi giorni di costante disagio e di
sofferenza, lo avrebbe pagato e ne avrebbe assaporato la gloria, perché alla fine
c’era la rinascita. Un liberarsi di tutti i piccoli errori, una purificazione, e la sede
della sua vittoria finale, permanente. Che sarebbe giunta presto.
Il suo errore, adesso lo vedeva, era stato di aver pensato troppo in piccolo.
Aveva concepito la rivoluzione rappresentata dalla Marina Libera come un
equilibrarsi dei piatti di una bilancia. Gli interni avevano preso e preso e preso
alla Fascia, e quando non ne avevano più avuto bisogno l’avevano scaricata ed
erano volati verso nuovi giocattoli più lucenti. La sua intenzione era stata di
raddrizzare quella situazione. Che fossero gli interni a trovarsi nel bisogno e la
Fascia a trovare la sua indipendenza e la sua forza. Era stata l’ira a mantenere la
sua visuale troppo ristretta. Un’ira giusta, appropriata, ma lo aveva comunque
accecato.
Medina era la chiave, lo era sempre stata, ma solo ora vedeva di cosa essa fosse
la chiave. Era stata sua intenzione chiudere i portali e costringere i pianeti interni
ad affrontare le conseguenze di generazioni di ingiustizia. Visto adesso,
sembrava quasi un gesto dettato dalla nostalgia, un dare ascolto alle precedenti
generazioni. Non era orgoglioso di ammetterlo, ma aveva commesso il classico
errore di cercare di combattere l’ultima guerra sul campo di battaglia successivo.
Il potere di Medina non era che poteva arrestare il flusso di denaro e di materiali
dai nuovi mondi, era che poteva controllarlo.
Il destino della Fascia non era intorno a Giove e a Saturno, o almeno non era
soltanto lì. In ognuno dei milletrecento sistemi a cui i portali davano accesso
c’erano pianeti vulnerabili quanto la Terra. La Fascia stessa si sarebbe estesa a
tutti i sistemi, avrebbe fluttuato come un re al di sopra dei mondi a essa soggetti.
Se avesse dovuto rifare tutto daccapo, avrebbe scagliato tre volte più rocce
contro la Terra, distrutto Marte e portato le sue navi e la sua gente sui mondi
coloniali dove non c’erano residui di flotte da congiungere. Con la sola Medina e
le quindici navi a sua disposizione poteva esercitare potere su tutti i mondi
esistenti. Era tutta una questione di posizione, audacia e volontà.
Doveva trovare il modo di convincere Duarte a dargli qualche altra nave, ma
finora la promessa di lasciare Laconia indisturbata gli aveva fruttato tutto quello
di cui aveva avuto bisogno, per cui non pensava che un’altra piccola richiesta
sarebbe stata troppo, considerato quanto aveva già sacrificato. E se poi Duarte
avesse obiettato...
La Pella tremò quando il reattore attraversò una qualche frequenza di
risonanza. Di norma, quando succedeva non si trovavano in accelerazione
elevata. Era strano come qualcosa che non era più di un tintinnio a un terzo di g
potesse suonare come un’apocalisse imminente a due g e due terzi. Digitò un
messaggio per Josie, giù nella sezione ingegneria: ‘MANTIENICI TUTTI INTERI.’
Qualche secondo più tardi Josie rispose con qualcosa di osceno, e Marco
ridacchiò nonostante la pressione alla gola.
Si erano concessi l’ultimo momento di respiro prima della battaglia alcune ore
prima, riducendo la decelerazione a tre quarti di g per quindici minuti per
permettere a tutti di mangiare e di andare in bagno. Una pausa più lunga avrebbe
significato accelerare maggiormente adesso, ed erano già al limite della
tolleranza, ma i vantaggi di un’inattesa marcia forzata erano sparsi fra tutti i
grandi strateghi militari della storia. La Terra e Marte potevano soltanto
guardare, con gli occhi incollati ai telescopi, e gemere. La Terra e Marte, e anche
Medina.
E su Medina c’erano Naomi e quel suo inetto, fottuto amichetto terrestre,
James Holden, che aveva seguito le orme di Fred Johnson come
condiscendente, altezzoso eroe della povera Fascia impotente. Quando fosse
morto, la storia di una Fascia che doveva essere salvata da autocompiaciuti
terrestri che si fingevano di mente aperta si sarebbe dissanguata con lui e se ne
sarebbero liberati. E Naomi...
Non sapeva ancora cosa fare con Naomi. Lei era un dilemma. Forte dove
sarebbe dovuta essere debole e debole dove sarebbe dovuta essere forte. Era
come se fosse nata rovesciata. Eppure in lei c’era qualcosa. Perfino dopo tutti
quegli anni, in lei c’era qualcosa che chiedeva di essere domato. Adesso gli era
sfuggita due volte. Qualsiasi cosa fosse successa, non ce ne sarebbe stata una
terza. E quando l’avesse avuta in pugno Filip sarebbe tornato di sua iniziativa.
Quella non era una cosa di cui valesse la pena di preoccuparsi.
Quando Filip non si era presentato alla partenza da Callisto non ne era stato
sorpreso. Il ragazzo si era comportato in modo strano per settimane. Era una
cosa normale, era perfino arrivata in ritardo, in realtà. Marco aveva messo alla
prova l’autorità di Rokku quando era stato molto più giovane di quanto Filip lo
fosse adesso. Rokku gli aveva detto quando presentarsi per la partenza e lui era
arrivato di proposito in ritardo, in modo da trovare il molo ormai vuoto. Aveva
dovuto cavarsela da solo sulla Stazione di Pallas per parecchi mesi prima che la
nave di Rokku tornasse. Il capitano lo aveva incontrato sul molo e lo aveva
pestato fino a farlo sanguinare in una dozzina di punti, ma lo aveva ripreso a
bordo. Se Filip aveva bisogno della stessa esperienza, la cosa andava benissimo.
Non che lui lo avrebbe pestato. Meglio ridere un poco e arruffargli i capelli.
L’umiliazione era sempre meglio della violenza. Percuotere un uomo, perfino
picchiarlo a morte, era quantomeno una prova che lo prendevi sul serio, come
uomo. Tuttavia, ripensandoci, Filip aveva cominciato a ribellarsi da quando
aveva sparato a quel coyo della sicurezza, su Ceres. Dio, quanto gli doleva la
mascella.
Spostò le dita e richiamò a schermo il timer. Adesso il portale dell’anello era a
pochi minuti di distanza. La Pella perdeva quantità di moto a ogni secondo,
accertandosi che quando avessero attraversato il portale non sarebbero volati
incontro a una trappola. Holden sarebbe stato in attesa, pronto a vedere il fuoco
dei pennacchi dei reattori. Non erano ancora abbastanza vicini perché questo
costituisse un problema: anche se Holden avesse azionato adesso il cannone a
rotaia la Pella avrebbe potuto reagire in tempo e schivare. Questo però non
sarebbe durato ancora per molto. Il suo cuore compresso prese a battere più in
fretta, la bocca dolente si contrasse in un lieve sorriso.
Il disagio era la dimora del guerriero, adesso come sempre. Se lo ripeté mentre
abbracciava quello stato di cose, lo accettava. E tuttavia, sarebbe stato contento
quando questa parte si fosse conclusa.
Digitò ordini per l’intero contingente, raggruppando le navi abbastanza vicine
perché i pennacchi si sovrapponessero, usando quella vasta nube di energia
come una copertura dietro cui nascondersi. Fra questo e l’interferenza che il
portale causava nei sensori, Holden avrebbe praticamente sparato alla cieca. O
quantomeno potevano sperare che fosse così. L’ipotesi peggiore era che Holden
riuscisse a distruggere due o tre delle sue navi prima che oltrepassassero il
portale, ma una volta che fossero stati abbastanza vicini da poter prendere di
mira la Rocinante, non ci sarebbe voluto niente per azzopparla. Non l’avrebbero
distrutta, a meno di essere sfortunati. Aggiungere la famosa nave di James
Holden alla nuova Marina Libera era un’opportunità troppo buona per
lasciarsela sfuggire. Era questo che mancava a Sanjrani, a Dawes... a tutti gli altri:
la leadership richiedeva un chiaro senso delle apparenze. Dello stile.
Quindici minuti. In quel momento, miliardi di persone lo stavano guardando.
Con la velocità a cui potevano viaggiare i fotoni, la Pella e le sue quattordici navi
da combattimento sarebbero apparse su ogni notiziario, su ogni terminale
palmare, su ogni monitor del sistema. Era a quindici minuti dal momento
cardine della storia. Quattordici.
Controllò il loro vettore comune. Entrando in territorio nemico era di
importanza critica che non fossero tanto vicini da far sì che un colpo fortunato
di Holden potesse danneggiare più di una nave, ma neppure arrivassero alla
spicciolata, dandogli il tempo di sparare più colpi. Pareva che fossero schierati
bene. Sarebbe andato tutto bene.
Desiderò di aver pensato a registrare un messaggio da trasmettere. Era il
momento perfetto, anche migliore della sua iniziale chiamata alle armi. Pensò a
tutti i cinturiani del sistema... quelli schierati con la Marina Libera e quelli troppo
vigliacchi o in errore, e perfino a quei frammenti traditori dell’APE che insieme a
Pa avevano preso le armi contro il loro stesso interesse. Doveva credere che
provassero tutti un senso di orgoglio. Prima di lui erano stati schiavi in tutto
tranne che nel nome, e adesso erano una forza pari, o anche superiore, a quella
degli stati più potenti che l’umanità avesse mai concepito. Come potevano non
provare meraviglia di fronte a tutto questo? Come potevano non gioirne?
Adesso il portale era abbastanza vicino da poterlo vedere senza
ingrandimento. Ampio quanto la Stazione di Ceres e tuttavia minuscolo nella
vasta oscurità là fuori, dove perfino il sole non era altro che una stella
stranamente brillante. Le sue navi avrebbero cominciato le manovre evasive non
appena si fossero avvicinate, cambiando posto nella formazione come le tre
carte sul tavolo di un baro, sui moli. Controllò di nuovo i vettori e digitò un
iroso ordine a una delle navi, che stava restando indietro. A poco a poco il
portale si fece più grande. Accentuò l’ingrandimento e aggiunse una falsa luce. Il
materiale di cui il portale stesso era fatto continuava a sfidare le menti migliori
dell’umanità. Lui non lo vedeva davvero, naturalmente, l’immagine sul monitor
era filtrata attraverso la luminosità dei pennacchi. La verità era che stava
cadendo all’indietro verso il portale, con la faccia rivolta verso il debole sole
privo di importanza. Il sedile a smorzamento lo avviluppava come se stesse
riposando nel palmo stesso di Dio.
Sul monitor apparve un messaggio di Karal: ‘TUTTI I SISTEMI RISPONDONO
BENE. BOA CAÇADA.’
Digitò una risposta, non solo per Karal, ma per tutto l’equipaggio della Pella.
‘BUONA CACCIA.’
Mancavano cinque minuti all’attraversamento del portale e all’inizio della
battaglia per il possesso di Medina. Quella breve, violenta battaglia decisiva che
avrebbe ridefinito cosa era la Marina Libera. Desiderò che avanzassero più in
fretta, esercitando pressione con la mente contro la bruta natura della fisica.
Fiutando la vittoria, sentendola nel sangue. I minuti scivolarono come ore e
insieme passarono troppo in fretta. Due minuti. Uno.
Un altro messaggio di Karal. ‘WIR HAT POSSIBILE.’
Accanto c’era un maggiore ingrandimento del portale, filtrato attraverso i
sistemi di bordo. C’era un minuscolo punto azzurro che doveva essere la
stazione con i cannoni a rotaia, e accanto a essa, quasi troppo piccola per
vederla, una scheggia di oscurità meno intensa che sarebbe potuta essere una
nave a reattore spento. La Rocinante.
Marco sentì la sua intera consapevolezza concentrarsi su quel puntino grigio.
Naomi. Quel puntino era Naomi. Era uscita dal sistema solare per allontanarsi
da lui, e adesso lui era qui. Nella mente poteva vedere il suo volto, l’espressione
vuota che aveva quando cercava di non provare nulla. Sorridere gli causava
dolore, il corpo gli faceva male, ma era disposto ad accettare tutto. Solo che...
Il suo monitor aveva qualcosa che non andava. In un primo momento pensò
che l’immagine si fosse fatta sgranata, la risoluzione meno precisa, ma non si
trattava di questo. Le dimensioni erano le stesse, solo che poteva vedere le parti
di cui era fatto il monitor. Non stava vedendo la Rocinante, vedeva i fotoni fluire
da una lastra di plastica sollecitata elettricamente. Le catene di polimeri
rilucevano scure, luminose, di nuovo scure. Era come vedere il corpo di una
donna in un dipinto dall’altro lato di una stanza e poi, senza preavviso, scorgere
solo le pennellate di cui il quadro era fatto. Naomi non era da nessuna parte, in
esso.
Gridò e poté avvertire le onde di pressione che gli emanavano dalla gola. Le
nubi di molecole che formavano le sue dita sbatterono contro quelle che erano il
pannello di controllo. Voleva digitare che facessero fuoco, che uccidessero
finché ne avevano ancora la possibilità, ma non riusciva a distinguere le lettere
negli schizzi di fotoni che scaturivano dallo schermo. C’erano troppi dettagli.
Perse la cognizione di dove cominciava l’aria e dove finiva il sedile a
smorzamento. Il confine fra il suo corpo e l’ambiente si fece indistinto. Fin da
quando era troppo giovane per ricordare di averlo imparato, aveva saputo che
gli atomi erano fatti più di spazio che di materia, e che ai livelli più bassi le cose
che componevano gli atomi potevano rimbalzare dentro e fuori dall’esistenza,
ma non lo aveva mai visto prima. Non era mai stato tanto consapevole di essere
un vapore di energia. La vibrazione di una corda di chitarra che non esisteva.
Qualcosa di scuro e improvviso si mosse attraverso la nuvola, verso di lui.
Sulla Rocinante, il portale dell’anello si illuminò per le frenate del nemico fino ad
apparire come l’immagine in negativo di un occhio, con la sclera nera e
punteggiata di stelle e un’iride rovente e di un bianco intenso. Il timer raggiunse
lo zero. Le luci si fecero più intense, poi tremolarono e si spensero.
Holden controllò i sensori. Dove pochi secondi prima c’erano quindici navi da
guerra in frenata adesso c’era soltanto il nulla.
«Uh» commentò Amos, sul sistema di comunicazione di bordo. «Questo è
super inquietante.»
52
Pa
«Ed eccoci di nuovo qui» commentò Michio, nello sbarcare sui moli della
Stazione di Ceres.
«Già» commentò Josep, che le camminava accanto.
Quando era partita da lì, si stava ribellando contro una ribellione. Adesso, sia
che qualcuno lo ammettesse o meno, era tornata per implorare le potenze della
Terra e di Marte di darle la libertà. Aveva la sensazione che i moli stessi
avrebbero dovuto essere cambiati. Essere più vecchi e logori, come lo era la sua
anima. Tuttavia la musica metallica prodotta dai mech e dagli attrezzi a motore e
il borbottare delle voci erano gli stessi di prima. L’odore di lubrificanti al
carbonio e di ozono era ancora intenso.
Un nuovo strato di vernice faceva perfino apparire la vecchia stazione più
giovane e luminosa, più piena di speranza di quando ne era partita. I cartelli
erano stati sostituiti. I corridoi e gli ascensori erano gli stessi, ma le scritte erano
in nuovi caratteri puliti e vividi, e in una mezza dozzina di alfabeti. Sapeva che
questo era stato fatto a beneficio dei coloni e dei profughi che fuggivano dalla
Terra, ma il fatto che fra tutte le lingue presenti nessuna fosse quella creola dei
cinturiani pareva un’offesa mirata. La Terra gestiva di nuovo Ceres, come aveva
fatto prima di Eros, e stava trasformando la stazione in una versione da parco a
tema di sé stessa. La presenza delle guardie era più che altro cerimoniale, ma
Michio era pronta a scommettere che le loro armi erano cariche. Era un lavoro
imbarazzante, accogliere qualcuno che era in pari misura un alleato e un nemico.
Non le invidiava.
Adesso erano passati sei mesi dalla straordinaria morte di Marco Inaros e dei
grandi resti della Marina Libera. Ci era voluto mezzo anno giusto per riunire i
giocatori rimasti perché parlassero fra loro, e Michio si chiese quanto ci sarebbe
voluto perché si facesse qualcosa che importava davvero, e cosa sarebbe
successo quando il tempo si fosse esaurito per tutti. Le pareva di avere una
minuscola versione di Nico Sanjrani in un angolo della testa che faceva un conto
alla rovescia delle ore che mancavano al momento in cui la Fascia... no, tutta
l’umanità... avrebbe avuto bisogno di fattorie, centri medici, miniere e centri di
lavorazione che non avevano costruito perché erano troppo impegnati a
combattere. Alcune notti questo la teneva sveglia. Alcune notti erano altre le
cose che le impedivano di dormire.
Quasi si aspettava di essere accompagnata allo stesso alloggio che Marco
Inaros le aveva assegnato l’ultima volta che era stata lì per mettere insieme un
piano a vantaggio della Fascia, ma anche se si trattava della stessa sezione della
stazione, quelle particolari stanze erano diverse. La loro scorta finì il suo lavoro
di accoglienza, garantì loro che se avessero avuto bisogno di qualsiasi cosa
qualcuno del servizio di ospitalità sarebbe venuto ad aiutarli, poi si inchinò e
uscì, chiudendosi la porta alle spalle. Michio si adagiò sul divano della stanza
principale dell’appartamento mentre Josep esaminava ciascuna camera,
valutandola e cercando apparecchiature di sorveglianza che certamente erano
presenti e che, altrettanto certamente, erano state installate in modo troppo
professionale per essere individuate.
Nadia, Bertold e Laura si erano imbarcati sulla nuova nave – un mercantile
convertito che era stato prestato loro da uno dei cugini di Bertold finché
avessero trovato il modo di pagarne le spese. Dopo l’aerodinamicità e la potenza
della Connaught, quella nave appariva fragile e scadente, ma la sua famiglia era su
di essa, quindi era la sua casa nello stesso modo in cui il divano su cui aveva
posato la guancia era un arredo di seta grezza in una cella di prigione.
Josep scoppiò in una dura risata, poi tornò nella stanza principale con in mano
un rettangolo di qualcosa color crema, che le porse. Non era carta, ma un
cartoncino pesante liscio al tatto, e le parole scritte su di esso erano stilate in una
calligrafia nitida e precisa.
Capitano Pa,
grazie per essere venuta alla conferenza e per il suo coraggio nelle lotte che noi tutti
abbiamo sostenuto insieme. Con buona fede e collaborazione forgeremo la strada che
ancora ci aspetta.
Era firmato da Chrisjen Avasarala. Michio sollevò lo sguardo su Josep
aggrottando la fronte.
«En serio? Questo non sembra neppure il suo stile.»
«Lo so» rispose lui. «E vieni a vedere! C’è perfino un cestino di frutta.»
Le guerre cominciano con l’ira, finiscono nello sfinimento.
In seguito alla battaglia combattuta in tutto il sistema e al suo inquietante
seguito, al portale, i partigiani della Marina Libera avevano provato un
sopraffacente senso di ingiustizia. Era come se la scomparsa della Pella e del suo
contingente di navi fosse stata un brutto fallo in una partita di football e loro
stessero cercando un arbitro con cui prendersela. Poi in tutte le stazioni – Pallas,
Ganimede, Ceres, Tycho e dozzine di altre – aveva cominciato a diffondersi
lentamente la realizzazione che la guerra era finita. E che avevano perso. Su
Pallas, un gruppo aveva dichiarato di essere la Nuova Marina Libera e aveva
fatto scoppiare alcune bombe quando la flotta congiunta era venuta a prendere il
controllo della stazione. Il Sistema di Giove... Callisto, Europa, Ganimede e
tutte le altre basi minori... era stato il terreno dove la Marina Libera era più forte,
e quello meno toccato dai combattimenti. Qualche sacca di resistenza in
quell’area significava che la violenza si sarebbe protratta per qualche altra
settimana, o qualche mese, ma non c’erano dubbi sul suo esito.
Lo spettro del portale di Laconia e di Wiston Duarte aleggiava su Marte più
che su chiunque altro. L’identità marziana – orgogliosi ingranaggi della gloriosa
macchina della terraformazione – non si conciliava con colpi di mano militari e
defezioni di massa. Marte voleva delle risposte e Laconia continuava a ignorare
alla grande tutti loro. La sola comunicazione giunta dopo la morte della Marina
Libera era una dichiarazione trasmessa in loop su banda larga attraverso il
portale. Una voce d’uomo, che aveva le inflessioni di uno speaker dei notiziari,
diceva: Laconia è soggetta alla sua stessa autorità sovrana. Questo messaggio
serve ad avvertire che qualsiasi nave attraversi il portale di Laconia violerà tale
autorità e le sarà negato di procedere oltre. Laconia è soggetta alla sua stessa
autorità sovrana...
Quel messaggio aveva causato un’infinità di dibattiti in seno al parlamento
marziano, mentre la Terra aveva inviato nella zona lenta due delle tre navi da
guerra che le erano rimaste e le aveva parcheggiate, con i loro vecchi ma efficaci
cannoni a rotaia e i loro siluri nucleari, ai confini del portale di Laconia, pronte a
ridurre in gas e rottami qualsiasi cosa ne fosse uscito. Avasarala la definiva una
politica di contenimento, e Michio supponeva che fosse la cosa più sensata da
fare. La Terra non era in condizione di sostenere un’altra guerra.
Quando Rosenfeld Guoliang salì sul banco degli imputati, all’Aia, nel corso del
primo processo di alto profilo per l’assassinio di miliardi di persone sulla Terra,
il vasto e complesso zeitgeist umano era pronto a considerare chiusa tutta la
faccenda. Ci sarebbero stati altri processi. Anderson Dawes era stato catturato e
Nico Sanjrani si era costituito su Tycho. Dell’originale cerchia interna di Inaros,
Michio Pa era la sola a non essere in cella o morta, ed era a un cocktail party.
Il centro riunioni all’interno del palazzo del governatore era costruito su tre
livelli uniti da scale e decorati da un sacco di piante. Persone in uniforme e
abbigliamento formale sostavano a coppie, in piccoli gruppi o sole, con in mano
il terminale palmare, mentre i servitori distribuivano vassoi di drink e di
antipasti. Se si desiderava qualcosa di specifico – fosse cibo o bevande o
probabilmente perfino un nuovo paio di scarpe – bastava chiedere. Era il
massimo del lusso, la più alta cerchia di potere e influenza.
Questa era la cosa vera, qualcosa che Marco Inaros era soltanto riuscito a
scimmiottare. I pavimenti di pietra erano lucidi, le colonne erano fatte di roccia
sedimentaria a strisce portata fin lì dalla Terra come una sorta di sfoggio. Siamo
tanto ricchi che non usiamo neppure la nostra pietra locale. Prima non se ne era mai
accorta, e non sapeva se la cosa la divertisse, la facesse infuriare o la rattristasse.
«Michio» disse una voce di donna. «Eccola qui. Come sta Laura?»
Una donna anziana che indossava un sari arancione la prese per un gomito e la
pilotò per almeno tre passi prima che lei si rendesse conto che si trattava di
Avasarala. La vecchia terrestre appariva diversa, di persona. Era più piccola, la
sua pelle era più scura e i capelli bianchi coprivano una parte maggiore della
faccia.
«Sta molto meglio» rispose Michio. «È tornata a bordo.»
«Con Nadia e Bertold? E Josep è rimasto nel vostro alloggio? Basta che
sappiano che sono i benvenuti. Dannazione, questo palazzo è un esemplare
architettonico orribile, vero?» commentò Avasarala. «Ho notato che guardava le
colonne.»
«Infatti» annuì Michio.
Avasarala si protese verso di lei, con gli occhi scintillanti come quelli di una
scolaretta. «Sono fasulle. La roccia? L’hanno fatta con una centrifuga e sabbia
colorata. Conoscevo il costruttore, e anche lui era fasullo, però era carino. Dio ci
salvi dagli uomini di bell’aspetto.»
Michio rimase sorpresa di ritrovarsi a ridere. Quella vecchia era affascinante.
Sapeva che quella dimostrazione di ospitalità era solo questo, una dimostrazione,
e tuttavia funzionava, perché ora si sentiva più a suo agio. Presto sarebbe venuto
il momento in cui lei si sarebbe dovuta presentare davanti a quella donna e
chiedere l’amnistia, chiedere a quella terrestre di lasciar andare liberi lei e la sua
famiglia senza che rispondessero dei crimini di Marco. Questo momento dava
l’impressione che forse la risposta sarebbe stata un sì, e la speranza era una cosa
terribile. Non voleva provarla, e tuttavia era lì.
Non sapeva che avrebbe parlato finché non lo fece. «Mi dispiace» disse, e
quello che intendeva era ‘Mi dispiace di non aver fermato l’attacco che ha ucciso
suo marito’. E ‘Mi dispiace di non aver visto prima Inaros per quello che era’. E
ancora ‘Se potessi vivere la mia vita a ritroso e tentare di nuovo, farei tutto in
modo diverso’.
Avasarala fece una pausa, fissandola intensamente negli occhi, e fu come
vedere qualcuno attraverso una maschera. La profondità che scorse la sorprese.
Quando Avasarala rispose, fu come se avesse colto ogni sfumatura sottintesa.
«La politica è l’arte del possibile, capitano Pa. Quando si gioca al nostro livello,
i risentimenti costano vite.»
Dall’altro lato di uno stretto cortile James Holden si volse e si affrettò a
raggiungerle. Lui, se non altro, era alto come lo ricordava, anche se appariva un
po’ più vecchio di quando avevano combattuto contro Ashford, sulla Behemoth,
in quelli che nessuno avrebbe potuto immaginare sarebbero diventati i bei
vecchi tempi. Vide sul suo volto sorpresa e piacere quando la riconobbe.
«Capitano Holden» lo salutò Pa. «Vederti continua a sembrare strano.»
«Vero?» commentò lui, con un sorriso giovanile che pareva del tutto
spontaneo, poi si rivolse ad Avasarala. «Posso avere un minuto? C’è una cosa di
cui voglio parlarti.»
Avasarala strinse il braccio di Michio, poi lo lasciò andare. «Mi perdoni» disse.
«Holden non riesce a trovarsi il cazzo con entrambe le mani se non c’è qualcuno
che gli indica dov’è.»
Entrambi si allontanarono insieme, le teste ravvicinate nel parlare. Dietro una
macchia d’edera, Michio scorse una donna alta e scura di pelle, che si inclinava
leggermente in avanti nel ridere insieme al primo ministro marziano. Naomi
Nagata. Appariva... normale? Anonima. Michio la conosceva da prima, e tuttavia
forse non l’avrebbe riconosciuta se si fossero incrociate in un corridoio comune
o avessero preso insieme la metropolitana. Quella però era la donna che Marco
aveva rapito prima del suo attacco contro la Terra, per poterla vedere
contemplare il suo potere. La donna che gli aveva volto le spalle quando
entrambi erano poco più che ragazzi. Non avrebbe mai saputo quanta parte
della decisione di Marco di portare i resti della flotta della Marina Libera a
Medina fosse stata dettata da fredde esigenze tattiche e quanta parte fosse dipesa
dal fatto che Naomi Nagata era là. Era una cosa tanto piccola e meschina, e lei
non aveva difficoltà a crederci. Quando si gioca al nostro livello, i risentimenti costano
vite.
Carlos Walker attraversò con disinvoltura un’arcata, intercettò il suo sguardo e
sorrise. Michio aveva conosciuto prevalentemente la sua reputazione, ai tempi in
cui aveva fatto parte dell’APE del fottuto Fred Johnson. Carlos Walker, con i suoi
modi da playboy e la sua strana vena religiosa di cui nessuno pareva essere in
grado di determinare la sincerità. Walker prelevò due flûte di champagne da un
vassoio e si diresse verso di lei.
«Hai l’aria pensosa, capitano Pa.»
«Davvero?» ribatté lei, accettando il bicchiere. «Ecco, allora suppongo sia così.
E tu? Come ci si sente a essere il rappresentante non eletto della Fascia?»
Walker sorrise. «Potrei farti la stessa domanda.»
Michio rise. «Io non rappresento nessuno, solo me stessa.»
«Davvero? Allora cosa ci fai qui?»
Michio sbatté le palpebre, interdetta, e non seppe come replicare.
Poco meno di un’ora più tardi il morbido rintocco di una campanella e un
discreto affrettarsi di assistenti personali e aiutanti di campo annunciò l’inizio
della riunione vera e propria. Pa si lasciò trascinare dagli altri con un crescente
senso di sfasamento. La sala riunioni era più piccola di quanto si aspettasse, e
disposta in un triangolo approssimativo. Avasarala, un uomo dal volto sottile in
giacca formale e altri due che indossavano un’uniforme militare sedevano in un
angolo. Il primo ministro marziano Emily Richards sedeva in un altro con una
mezza dozzina di persone abbigliate in modo formale che le si agitava intorno
come se fossero state falene e lei una fiamma viva. E nel terzo angolo c’erano
Carlos Walker, Naomi Nagata, James Holden e la stessa Michio.
Una seconda fila di sedie era occupata da persone di cui lei ignorava il ruolo.
Senatori, uomini d’affari, banchieri, soldati. Si rese conto che se avesse avuto
una bomba probabilmente avrebbe potuto danneggiare seriamente quel che
restava dei principali governi dell’umanità uccidendo i presenti in quella singola
stanza.
«Bene» esordì Avasarala, con voce sonora come un allarme. «Mi piacerebbe
cominciare ringraziando di nuovo tutti voi per essere qui. Non amo queste
stronzate, ma le premesse sono buone e abbiamo alcune cose da discutere. Ho
una proposta...» Si interruppe per digitare un ordine sul suo terminale palmare, e
quello di Michio trillò in risposta, come fece quello di tutti i presenti. «Una
proposta che riguarda l’architettura con cui cercare di toglierci dalla merda. È
uno studio preliminare, ma dobbiamo cominciare da qualche parte.»
Michio aprì il documento. Era lungo oltre mille pagine, con le prime dieci
costituite da un indice dei contenuti molto fitto, con annotazioni e sottosezioni
per ogni capitolo. Si sentì assalire da un lieve senso di vertigine.
«Il quadro generale è questo» continuò Avasarala. «Abbiamo una lista di
problemi lunga quanto le nostre braccia, ma il capitano Holden qui presente
pensa che potremmo escogitare un modo per usare alcuni di essi per risolverne
altri. Capitano?»
Accanto a Michio, Holden si alzò in piedi, parve rendersi conto che nessun
altro si sarebbe alzato per parlare, poi scrollò le spalle e affrontò di petto la
situazione. «Il fatto è che la Marina Libera non aveva torto. Con l’apertura di
tutti i nuovi sistemi, la nicchia economica che i cinturiani hanno occupato è
destinata a scomparire. Ci sono così tante riserve su quei pianeti, dove non
dobbiamo importare la nostra aria o generare noi la forza di gravità, che la
Fascia si troverà a essere surclassata. E, senza offesa, finora il piano è stato, in
diverse versioni, quello dell’’essere voi è una fregatura’.
«Nella Fascia c’è una significativa popolazione che non sarà in grado di
trasferirsi in fondo a un pozzo gravitazionale e che verrà semplicemente
dimenticata. Lasciata a morire a poco a poco. E dal momento che questo non è
affatto diverso da come i cinturiani sono stati trattati in passato, è stato facile per
Inaros trovare sostegno politico.»
«Non direi che sia stata la sola cosa che lo ha aiutato» commentò il primo
ministro Richards. «Avere un bel po’ delle mie navi gli ha dato una mano.»
Nella stanza si diffuse una risata.
«Il fatto è» riprese Holden «che abbiamo cominciato ad andare là fuori nel
modo sbagliato. C’è un problema di traffico che non conoscevamo. Nelle
condizioni sbagliate non è sicuro attraversare i portali, cosa che abbiamo
scoperto perché una quantità di navi sono scomparse. Se il piano è soltanto
quello che chiunque vuole attraversare i portali può farlo quando vuole, altre
navi spariranno. Ci deve essere qualcuno che regola la cosa, e grazie a Naomi
Nagata adesso conosciamo il limite di carico della rete dei portali.»
Holden fece una pausa e si guardò intorno, quasi si aspettasse un applauso
prima di proseguire.
«Quindi questi sono due problemi. Nessuna nicchia per la Fascia e il bisogno
di controllare il traffico che attraversa i portali. Ora aggiungiamo a questo il fatto
che la Terra, Marte... tutti noi, in realtà... hanno subìto negli ultimi anni danni tali
che le nostre infrastrutture non sono in grado di supportarci. Abbiamo forse un
anno o due di tempo per trovare modi per produrre cibo, acqua potabile e aria
pulita, cose di cui avremo tutti bisogno. Probabilmente, non potremo farlo nel
nostro sistema solare, a meno che una quantità di altre persone non muoia. Ci
serve un modo rapido ed efficiente per commerciare con i mondi coloniali e
ottenere materie prime. È per questo che propongo la creazione di un sindacato
indipendente con il solo compito specifico di coordinare le spedizioni attraverso
i portali. La maggior parte delle persone che vogliono vivere su un pianeta lo
farà, ma la Fascia ha un’enorme popolazione di persone che sono
specificatamente adatte a vivere al di fuori di un pozzo gravitazionale. Trasferire
in sicurezza persone e provviste fra i sistemi solari è una nuova nicchia
economica, e una che ha bisogno di essere occupata in fretta e in modo
efficiente. Nella proposta, l’ho definita la corporazione spaziale, ma non ho
sposato questo nome.»
Un uomo dai capelli grigi che sedeva due file più indietro rispetto a Emily
Richards si schiarì la gola e prese la parola. «Propone di trasformare l’intera
popolazione della Fascia in un’unica società di trasporti?»
«Sì, in una rete di navi, stazioni di supporto e altri servizi necessari a trasferire
persone e merci fra i portali» rispose Holden. «Tenete a mente che abbiamo
milletrecentosettantatré sistemi solari da gestire. Ci sarà un sacco di lavoro.
Ecco, in realtà sono milletrecentosettantadue, a causa di Laconia.»
«E cosa propone di fare riguardo a Laconia?» chiese una donna, alle spalle di
Avasarala.
«Non lo so» ammise Holden. «Ho cominciato solo da questo.»
Avasarala gli segnalò di rimettersi a sedere, e lui lo fece con riluttanza. Naomi
si protese a mormorargli qualcosa all’orecchio, e Holden annuì.
«La struttura proposta per il sindacato è decisamente standard» disse
Avasarala. «Sovranità limitata in cambio di input normativi da parte dei
principali corpi governativi, e cioè da Emily e da chiunque eleggeranno quando
io lascerò questa carica.»
«Sovranità limitata?» ripeté Carlos.
«Limitata» ribadì Avasarala. «Non mi chiedere di darla via al primo
appuntamento, Walker. Non sono quel genere di ragazza. Naturalmente il
sindacato avrà bisogno del supporto della Fascia, e il suo primo presidente dovrà
affrontare un lavoro enorme, ma pensiamo di essere tutti d’accordo sul fatto che
qui abbiamo un’opportunità unica. Qualcuno ben noto fra i cinturiani e sui
pianeti interni.»
Holden annuì e Michio guardò verso di lui. Occhi scintillanti ed espressione
decisa.
«Qualcuno» continuò Avasarala «al di sopra di fazioni e politica, o
quantomeno separato da esse. Degno di fiducia, con una morale messa
ampiamente alla prova e una lunga storia dell’aver fatto la cosa giusta anche
quando era impopolare.»
Holden sorrise e annuì fra sé. Appariva così compiaciuto. Michio non era
venuta a una riunione, quella era un’unzione in piena regola. D’un tratto, si sentì
del tutto avvilita. Probabilmente questo avrebbe migliorato le sue possibilità di
ottenere un’amnistia, ma...
«È per questo» concluse Avasarala «che dobbiamo arruolare a forza James
Holden.»
Holden strillò come se lo avessero morso. «Cosa? Un momento. No, è tutto
sbagliato. È un’idea orribile.»
Avasarala si accigliò. «Allora...»
«Sentite» disse Holden, alzandosi di nuovo. «Il problema è proprio questo.
Questo è ciò che continuiamo a fare. Imporre leggi e capi ai cinturiani piuttosto
che permettere loro di sceglierseli da soli.»
Per la stanza si diffuse un borbottio, ma Holden continuò a parlare.
«Se posso, vorrei usare questo momento per nominare qualcun altro al mio
posto. Qualcuno che possiede tutte le qualità che la signora segretario Avasarala
ha appena elencato e altre ancora. Qualcuno che ha onore, integrità e capacità di
comando, e che ha il vantaggio aggiuntivo di appartenere alla comunità di cui
sarebbe a capo.»
In qualche modo – Michio non sapeva bene come fosse successo – Holden
indicò verso di lei.
«Io nominerei Michio Pa.»
53
Naomi
Il Blue Frog era chiuso per restauri, quindi una volta concluse le riunioni guidò
il carrello fino a un pub due livelli più in su e un po’ più spostato nel senso della
rotazione. L’insegna accanto alla porta era una lastra di acciaio dozzinale con le
parole ‘COOPERATIVA QUATTORDICI’ saldate a mano su di essa. Naomi non
sapeva se ci fosse una storia dietro quel nome o se fosse solo un nuovo stile nel
dare un nome ai locali. Dall’altro lato della porta l’arredo aveva un aspetto molto
meno industriale. I tavoli erano realizzati nei vividi colori primari e le pareti
erano coperte da fili di cavi intrecciati, legati e avvolti in modo da sembrare
vecchi quadri di cascate. Un basso palco con le attrezzature per il karaoke
ronzava e vibrava per conto suo, in attesa di qualcuno che rompesse il ghiaccio.
Il locale poteva contenere fino a cento persone, ma contando lei e Jim ce
n’erano meno di venti. D’altro canto, non era ora di punta, e questo rendeva
difficile dare un giudizio.
L’equipaggio era già là, e a giudicare dalle bottiglie vuote che il cameriere stava
portando via era arrivato da un po’. Mentre si dirigevano verso di loro Jim si
rilassò. I quattro li accolsero con un piccolo applauso e fecero posto per altre
due sedie intorno al tavolo.
«Cosa è successo?» chiese Bobbie. «Avreste dovuto essere qui ore fa.»
«Avasarala mi è saltata addosso» disse Jim, e il sorriso vuoto e amabile di
Amos si accentuò leggermente. Jim scoppiò a ridere e scosse il capo. «No, voglio
dire che ha cercato di farmi nominare capo della corporazione spaziale.»
«Sai che quel nome non attecchirà, vero?» commentò Alex.
«Un momento, ha fatto... cosa?» esclamò Bobbie.
Jim allargò le mani in un gesto impotente. «Ha presentato la proposta e io ho
tenuto il mio discorsetto al riguardo, e poi boom. Davanti a tutti, lei ha detto che
dovevo essere io quello che avrebbe aiutato a mettere insieme il tutto. Il primo
presidente del sindacato. Probabilmente ci sono volute le prime due ore solo per
convincerla che non lo avrei fatto.»
«Perché non hai accettato la carica?» domandò Clarissa, che appariva
sinceramente confusa.
«Perché poi avrei dovuto fare quel lavoro» rispose Jim, agitando una mano per
richiamare il cameriere.
«Però ha senso che lei voglia qualcuno di cui possa controllare le mosse»
osservò Alex.
«Avasarala non pensa di poter controllare Holden» ribatté Bobbie. «Ma pensa
anche che non possa farlo nessun altro. Potrebbe semplicemente volere al
comando un terrestre, almeno come leader di facciata, perché darebbe al
sindacato la sensazione di essere nella sua cerchia di influenza. Fred Johnson era
APE fino al midollo, ma era un terrestre, una cosa di cui non si è mai liberato del
tutto.»
Il cameriere arrivò e prese l’ordinazione di Jim. Naomi si protese in modo da
aggirarlo e da poter vedere Bobbie mentre parlava.
«Il punto era proprio quello» disse. «Se la cosa deve funzionare, la Fascia ha
bisogno di sapere che è qualcosa di suo e non un altro mucchio di avanzi che gli
interni le elargiscono.» Il cameriere allungò la mano verso di lei, fermandosi
appena prima che le sue dita le toccassero la spalla. «La vostra birra migliore,
quale che sia» ordinò Naomi, e l’uomo si allontanò con un cenno di assenso
mentre lei tornava a rivolgersi agli altri. «In ogni caso, abbiamo buttato Michio
Pa sotto l’autobus.»
«Lei è perfetta» spiegò Holden. «Conosce tutti i giocatori presenti nella Fascia,
non ha paura di lavorare con la Terra e con Marte, ed è letteralmente l’ex
comandante della Stazione di Medina. Ammetto che lo è stata prima che
diventasse una stazione, ma ha un’effettiva familiarità con la nave. E poi
guardate il lavoro che ha svolto da quando ha rotto i rapporti con Inaros.
Coordinazione e distribuzione. Esattamente il genere di lavoro di cui stiamo
parlando.»
«Ecco,» commentò Alex «solo che questa volta ci sarà meno pirateria. Voglio
dire, supponendo che accetti.»
«Ha accettato l’incarico?» chiese Bobbie.
«Ci sta arrivando» rispose Naomi. «È stata una lunga riunione.»
«Che ne sarà di noi?» domandò Clarissa. Nella sua voce si avvertiva la paura.
Un senso di vuoto. «Cosa facciamo adesso?»
«Entriamo nel sindacato» rispose Jim. «Voglio dire, dobbiamo mettere la cosa
ai voti, qui in famiglia, ma sembra strano spingere per dare una nuova forma alle
colonie e poi non farne parte. E pare ci sia un sacco di lavoro per una buona
nave. E noi abbiamo una buona nave.»
Lo sguardo di Clarissa si spostò per un momento su Naomi, poi si distolse con
un sorriso quasi invisibile. Jim non aveva capito il senso effettivo della sua
domanda. ‘Adesso che la guerra è finita, ho ancora un posto qui con voi?’ E non
sapeva di aver risposto di sì. Aveva una genialità per presupporre le cose che la
induceva a fidarsi di lui. Naomi le porse un tovagliolo perché non fosse costretta
ad asciugarsi gli occhi con una manica.
«A me sembra che dovremmo puntare a fare da scorta alle navi coloniali»
suggerì Alex «e ad accertarci che i minerali o quello che la colonia ha da
commerciare arrivino dove sono diretti.»
«Ci sarà anche molto commercio all’interno del sistema» aggiunse Amos. «Non
siamo obbligati a oltrepassare i portali.»
«Già,» ribatté Alex «ma là fuori ci sono più pianeti di quanti riuscirò a vederne
in tutta la mia vita. Mi piacerebbe dare un’occhiata a qualcuno di essi.»
Il cameriere tornò con il gin tonic per Jim e la birra per Naomi. Quando lei
cercò di pagare risultò che il conto era già azzerato. Il cameriere le sorrise e
scosse il capo. «Offre la casa» disse. Naomi gli rivolse un cenno di
ringraziamento. Jim stava già bevendo.
Bobbie era la sola che pareva silenziosa, le mani chiuse intorno a un bicchiere.
Alex e Amos stavano raccontando a Clarissa storie relative a Nuova Terra e a
come fosse raggiungere i nuovi mondi. Jim beveva e di tanto in tanto
interloquiva, mentre il pensiero della riunione politica cominciava a sbiadire e le
sue spalle si abbassavano a mano a mano che si rilassava. Bobbie però tenne per
sé i suoi pensieri finché Naomi, dopo aver finito la seconda birra, la prese per
mano e la trasse in disparte.
«Stai bene?» le chiese.
«Sì» rispose Bobbie, in un tono che però significava no. «È solo... in realtà
questo segna la fine del progetto di terraformazione, vero? Voglio dire, lo
sapevo, ma... Non so. Cercare di far arrivare qui tutti noi sani e salvi ha
contribuito a distrarmi, ma questo accordo che stanno mettendo insieme è la
forma che le cose avranno d’ora in poi.»
«Sì» annuì Naomi. «E saranno diverse.»
«Per tutta la mia vita, cambiare Marte, farne un ecosistema capace di
sopravvivere... è sempre stata una cosa reale. Sentir parlare delle regole e delle
leggi e dei sistemi per cui questo non tornerà mai più... non so. Mi fa realizzare
che è davvero finita.»
«Probabilmente sì» confermò Naomi, ma Bobbie continuò come se non
l’avesse sentita, come se stesse dicendo qualcosa ad alta voce per la prima volta,
scoprendo i propri pensieri nel sentirli espressi dalla sua stessa voce.
«Inaros e tutti gli altri della Marina Libera, loro non stavano combattendo per i
diritti dei cinturiani o un riconoscimento politico. Combattevano per riavere il
passato, perché le cose tornassero a essere quelle che erano sempre state. Certo,
con loro al comando, forse, ma... la Terra non sarà più la casa dell’umanità.
Marte non sarà più Marte, non come lo conoscevo. E adesso perfino i cinturiani
non saranno cinturiani, diventeranno... cosa? Magnati delle spedizioni? Non ne
ho idea.»
«Nessuno ce l’ha» replicò Naomi, per indurla a continuare. La grossa marziana
non pareva neppure consapevole che stessero parlando. «Però lo scopriremo.»
«In quel mondo, non so più chi sono.»
«Neppure io. Nessuno di noi lo sa, però so che ho la mia nave, e con essa la
mia piccola famiglia.»
«Già. Questo sembra un buon piano.»
«Bene» disse Naomi, e le mise in mano un microfono. «Scegliamo una
canzone.»
Il pub si riempì maggiormente al cambio di turno, ma per una volta nessuno
parve notare molto Jim o il resto di loro. Perfino quando Naomi ottenne una
vera ovazione per quella che, in retrospettiva, doveva essere una versione molto
mal riuscita di ‘Apart Together’ di Devi Anderson, nessuno parve rendersi conto
che l’equipaggio della Rocinante fosse qualcosa di più di sei persone che
condividevano lo stesso tavolo. Era piacevole sapere che a volte poteva ancora
succedere. Entro la fine della serata perfino Clarissa salì una volta sul palco.
Risultò che aveva una bella voce, e quando ebbe finito di cantare un ragazzo
locale con un tatuaggio del Loca Griega cercò di abbordarla finché Bobbie non
gli fece capire gentilmente che era inutile provarci.
Presero la metropolitana per tornare ai moli, riempiendo da soli quasi mezza
carrozza, ancora un po’ alticci, parlando a voce troppo alta, ridendo per i
nonnulla. L’accento della Valle Mariner di Alex si accentuò e Bobbie gli fece il
verso, pungolandolo finché entrambi non suonarono come parodie di loro
stessi. Jim, il meno coinvolto nell’ilarità generale pur essendone in qualche modo
il centro, se ne stette appoggiato alla parete vibrante della carrozza, con le mani
dietro la testa e gli occhi semichiusi. Naomi non comprese davvero a cosa lei,
Jim e tutti gli altri stessero reagendo finché non arrivarono alla nave. Vedere la
Rocinante agganciata dagli ormeggi di attracco fu come cadere in un paio di
braccia familiari. Erano tutti euforici perché lo era Jim, e lui era euforico perché
per una volta aveva evitato di essere responsabile del futuro dell’intera razza
umana.
Era una cosa che sembrava giusto festeggiare.
Una volta a bordo, il gruppo si trasferì tutto insieme nella cambusa perché non
era ancora pronto a concludere la giornata. Clarissa si preparò un po’ di tè, ma
nessuno bevve altri alcolici. Tutti e sei rimasero semplicemente lì a oziare in una
cambusa progettata per servire molte più persone. Alex, seduto con la schiena
addossata alla parete, raccontò una storia su quando era al campo di
addestramento, sull’Olympus Mons, e la madre di una delle altre reclute era
venuta a lamentarsi che il sergente addestratore era troppo duro con suo figlio.
Questo indusse Bobbie a parlare di una volta in cui lei e la sua squadra avevano
sofferto tutti di avvelenamento da cibo a causa dello stesso pasto, ma il giorno
dopo si erano costretti a vicenda a prendere comunque parte all’addestramento e
poi avevano passato la giornata a vomitare nel casco. Risero tutti insieme,
condividendo parti della loro vita come non avevano mai fatto prima di venire lì.
Prima che la Rocinante diventasse la loro casa.
Dopo un po’, senza che il flusso della conversazione accennasse a rallentare,
Alex preparò per tutti pollo in salsa di arachidi e distribuì le ciotole mentre
Clarissa raccontava una storia sorprendentemente buffa riguardo all’aver preso
parte a un laboratorio di scrittura, in prigione. Naomi mangiò il pollo con una
forchetta, appoggiandosi a Jim nel farlo. La salsa non era come la facevano i
cinturiani, ma era abbastanza buona.
Sentì Jim avvicinarsi al limite della sua resistenza. Lui non disse nulla, ma
Naomi lo comprese dal suono del suo respiro e dal modo inconscio con cui si
tamburellava sulla gamba, come un bambino che cercasse di stare sveglio. Lei
stessa si sentiva esausta. Era stata una lunga giornata, e la posta in gioco era stata
elevata. Il piacevole senso di stordimento rimasto dalla permanenza nel pub
cominciava a svanire e una profonda stanchezza le pervadeva le articolazioni,
facendola sentire intontita. Non voleva però neppure che quel momento finisse,
nessuno dei momenti che aveva con quella gente, in quel posto, anche se prima
o poi dovevano finire. No, non anche se. Perché.
Perché prima o poi dovevano finire. Niente durava in eterno. Né la pace, né la
guerra. Niente.
Si alzò per prima, prendendo la propria ciotola, quella di Jim e anche quella di
Bobbie, che aveva finito di mangiare, e inserendole nel riciclatore. Si stiracchiò,
sbadigliò, poi porse la mano a Jim, che colse il suggerimento. Alex, che stava
parlando di un’esibizione musicale che aveva visto su Titano ai tempi in cui era
ancora in servizio, augurò loro la buonanotte con un cenno del capo. Naomi
pilotò Jim fino all’ascensore e poi alla loro cabina, accompagnati da qualche
risata che a tratti filtrava fino a loro, sempre più fievole e lontana ma non
assente. Non ancora.
Jim si lasciò cadere sul letto a smorzamento come una marionetta a cui
avessero tagliato i fili, si coprì gli occhi con un braccio e gemette. Sotto la luce,
sembrava di nuovo giovane. L’accenno di barba sul collo e sul lato di una
guancia era sottile e a chiazze, come se stesse crescendo per la prima volta.
Naomi ricordava il tempo in cui la prospettiva di Jim e del suo corpo era stata
per lei potente come una droga, tanto potente da spingerla a correre il rischio di
mettersi con lui. Jim non si era reso conto di che genere di balzo quello fosse
stato per lei, e probabilmente continuava a non saperlo neppure adesso. Certe
cose rimanevano segrete anche dopo essere state dette. Lui gemette di nuovo,
spostò il braccio e sollevò lo sguardo su di lei con un sorriso che esprimeva in
parti uguali gioia e sfinimento. Sfinimento per quello che avevano passato, gioia
perché era finito. E perché erano entrambi lì.
«Credi che Pa accetterà l’incarico?» domandò, in tono quasi malinconico.
«Alla fine lo farà» rispose Naomi. Un momento più tardi chiese: «Da quanto
tempo lo pianificavi?»
«L’idea del sindacato, o di Pa in particolare?»
«Pa.»
Jim scrollò le spalle. «È apparso piuttosto chiaro fin dall’inizio che avere un
terrestre a capo del sindacato non avrebbe funzionato. Pensavo che Fred
sarebbe riuscito a trovare qualcuno, quindi credo di aver cominciato a prendere
lei in considerazione più o meno allora, quantomeno in modo cosciente. Era
perfetta. Ha rotto i rapporti con la Marina Libera per poter aiutare la Fascia, una
cosa che nessun altro ha fatto, almeno non apertamente, e ha vinto ogni
combattimento in cui ha impegnato la sua gente. Credo che quelli che devono
prenderla sul serio lo faranno.»
Naomi sedette sul bordo del letto, che si spostò con il cambiamento del centro
del loro peso combinato, facendo scivolare Jim più vicino a lei di qualche
centimetro. Lui protese un braccio in un gesto di invito e Naomi si sistemò
contro di esso. «Credi che la cosa le piacerà?»
«Non lo so. Io la detesterei, ma forse è abbastanza diversa da me da trovare
qualcosa che renda accettabile il procedimento. La cosa importante è che credo
che sia una cosa che sarà brava a fare. Sfrutta i suoi punti di forza. Quantomeno,
non conosco nessuno che possa farlo meglio di lei.»
«Spero che tu abbia ragione» commentò Naomi. «Pensi davvero che tu non
avresti potuto farlo?»
«Io non sono mai stato un’alternativa possibile. C’è troppa storia. Forse un
terrestre potrà ricoprire quella carica fra due o tre generazioni, quando le cose
saranno state diverse per un po’.»
Naomi rise e spostò la testa per appoggiarla accanto alla sua. «Ma per allora
sarà successo qualcos’altro.»
«Sì, questo è vero» convenne Holden. «A breve termine, però, credo davvero
che lei sia la più adatta a quel lavoro. Sono solo contento che fosse qui. La mia
seconda scelta per quell’incarico saresti stata tu.»
Naomi si sollevò a sedere, fissandolo negli occhi per vedere se stava
scherzando. Molto, molto lontano, Amos rise abbastanza forte da far sì che gli
echi arrivassero fino a lei. L’espressione di Jim era una via di mezzo fra la
contrizione e il divertimento.
Dio, aveva detto sul serio.
«Tu avresti potuto farcela» continuò Holden. «Sei intelligente, sei una
cinturiana, la tua opposizione alla Marina Libera è buona quanto quella di Pa, se
non migliore. Hai una storia passata che non avrebbe creato problemi alla Terra
e a Marte e abbastanza contatti con la Fascia da renderti un candidato plausibile
agli occhi dei cinturiani.»
«Sai che non lo avrei fatto, vero?»
«No» replicò Jim, con una nota quasi di dolore nella voce. «So che non avresti
voluto farlo. So che lo avresti detestato. Ma se fosse stato necessario lo avresti
fatto. Se non ci fosse stato nessun altro. Troppe persone avrebbero avuto
bisogno di te perché tu potessi voltare loro le spalle.»
Naomi tornò a sdraiarsi e valutò l’idea, poi rabbrividì.
«Lo so, va bene?» aggiunse Jim. «E tu come stai?»
Naomi prese la mano del braccio su cui era sdraiata e se la passò intorno con
gentilezza come se fosse stata una coperta. Jim le aveva fatto quella domanda a
intervalli di pochi giorni, da quando la guerra era finita. Come stava? Suonava
come una domanda innocente, ma aveva un peso notevole. Aveva ucciso il suo
antico amante, i suoi vecchi amici. Desiderava con un desiderio intenso come
una sete divorante che ci fosse stato il modo di salvare suo figlio. Jim non le
chiedeva se stava bene, le chiedeva quanto stava male, e non c’era una risposta
valida per questo. ‘Porterò dentro di me questo senso di colpa e questa tristezza
per il resto della mia vita’ era vero quanto ‘Ho perso mio figlio anni fa’. La
confortava il fatto di essere ancora viva. Che lo era Jim. E Amos e Alex. Bobbie
e Clarissa.
Lei era un mostro nella stessa misura in cui lo erano Clarissa e Amos, era
qualcuno che aveva trovato un modo per salvare la piccola famiglia che si era
scelta quando tutto sembrava perduto. Le due cose non si bilanciavano, ma
coesistevano. Dolore e sollievo. Tristezza e soddisfazione. Il male e la
redenzione potevano trovare posto insieme nel suo cuore, convivere senza che
nessuno dei due prendesse il sopravvento sull’altro.
E Jim lo sapeva. Non le faceva quella domanda perché avesse bisogno di una
risposta ma perché aveva bisogno di farle sapere che per lui la risposta aveva
importanza. Tutto qui.
«Sto bene» replicò, come faceva sempre. Jim allungò l’altra mano per abbassare
le luci e Naomi chiuse gli occhi. Si sentivano molto a loro agio in quel modo.
Dal suo respiro, capiva che Jim non stava ancora dormendo, che stava pensando
a qualcosa.
Si costrinse a restare sveglia, appena un poco, aspettando. Piccoli brandelli di
sogno danzarono al limitare della sua mente e di tanto in tanto perse il contatto
con il suo corpo.
«Credi che dovremmo andare nelle colonie?» chiese infine Jim. «A me pare che
dovremmo. Voglio dire, siamo stati su Ilus. E se potessimo aprire una sorta di
pista? Renderla normale? Forse questo renderebbe più facile per Pa indurre un
maggior numero di navi cinturiane a correre il rischio.»
«Forse» rispose lei.
«L’altra cosa che potremmo fare sarebbe rimanere qui. C’è una grande quantità
di lavoro che sarà necessario svolgere anche qui. Ricostruire, rinforzare Medina
per quando Duarte tornerà, perché sai che qualsiasi cosa stia facendo finirà per
essere un problema, prima o poi. Non so dove dovremmo andare adesso.»
Naomi annuì. Jim rotolò più vicino a lei. Il calore del suo corpo e l’odore della
sua pelle erano consolanti.
«Rimaniamocene qui per un minuto» gli rispose.
Epilogo
Anna