Frontespizio
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Dedica
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Interludio
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Interludio
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Interludio
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Interludio
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
Capitolo 44
Interludio
Capitolo 45
Capitolo 46
Capitolo 47
Capitolo 48
Capitolo 49
Capitolo 50
Capitolo 51
Capitolo 52
Capitolo 53
Capitolo 54
Interludio
Capitolo 55
Capitolo 56
Epilogo
Ringraziamenti
ISBN: 978-88-347-3269-4
Edizione ebook: ottobre 2016
Titolo originale: Cibola Burn
© 2014 by Daniel Abraham and Ty Franck
© 2016 by Fanucci Editore
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384 – email: info@fanucci.it
Indirizzo internet: www.fanucci.it
Published in agreement with the author,
c/o BAROR INTERNATIONAL, INC.,
Armonk, New York, U.S.A.
Proprietà letteraria e artistica riservata
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
Questa copia è concessa in uso esclusivo a
A Jay Lake ed Elmore Leonard.
Signori, è stato un piacere conoscervi.
Prologo
Bobbie Draper
Un tempo Basia Merton era stato un uomo gentile. Non il genere di uomo
che fabbricava bombe servendosi di vecchi fusti di lubrificante ed esplosivi
per uso minerario.
Fece rotolare un altro fusto fuori della sua piccola officina e verso uno dei
carrelli elettrici di First Landing. La piccola fila di edifici si stendeva da nord
a sud, e dove terminava l’oscurità della pianura si allargava fino all’orizzonte.
La torcia elettrica che gli pendeva dalla cintura sobbalzava a ogni passo,
proiettando strane ombre in movimento sul terreno polveroso. Piccoli animali
alieni lanciavano i loro richiami fuori del cerchio di luce.
Le notti erano molto buie su Ilus – si rifiutava di chiamarlo Nuova Terra. Il
pianeta aveva tredici minuscole lune a bassa albedo distribuite sulla stessa
orbita in modo tanto coerente da indurre tutti a supporre che fossero
manufatti alieni. Quale che fosse la loro provenienza, erano più asteroidi
catturati dalla gravità del pianeta che vere lune agli occhi di chi era cresciuto
sui satelliti di Giove, che avevano dimensioni planetarie, e non facevano
nulla per intercettare e riflettere la luce del sole di Ilus, una volta che era
tramontato. La fauna notturna locale era composta prevalentemente da piccoli
uccelli e lucertole, o almeno da quelli che i nuovi abitanti umani di Ilus
pensavano essere uccelli e lucertole, considerato che avevano in comune con
i loro omonimi terrestri soltanto i più superficiali tratti esteriori.
Con un grugnito dovuto allo sforzo, Basia issò il fusto sul retro del carrello,
e un secondo più tardi un grugnito identico si levò a qualche metro di
distanza: era una lucertola mimo, attirata dalla curiosità fino al limitare del
cerchio di luce, con i piccoli occhi che scintillavano. La creatura grugnì di
nuovo, dondolando la grossa testa simile a quella di un rospo mentre la sacca
dell’aria sotto il collo si gonfiava e sgonfiava con l’emissione del suono.
Attese per un momento, fissando Basia, e quando lui non rispose si allontanò
strisciando nel buio.
Prelevate alcune cinghie elastiche da una cassetta degli attrezzi, Basia
procedette ad assicurare i fusti sul fondo del carrello. Gli esplosivi non
sarebbero detonati per una semplice caduta, o almeno era quello che
sosteneva Coop, ma a lui non andava di verificarlo di persona.
«Baz» chiamò Lucia. Lui arrossì per l’imbarazzo, come un ragazzino
sorpreso a rubare caramelle. Lucia sapeva quello che stava facendo, non era
mai riuscito a mentirle, ma aveva sperato che rimanesse dentro mentre lui
lavorava. La sua semplice presenza bastava a indurlo a chiedersi se stesse
davvero facendo la cosa giusta. Se era davvero giusta, perché si vergognava
tanto del fatto che Lucia lo vedesse al lavoro?
«Baz» ripeté lei. Non era insistente, e la sua voce non era irosa, ma triste.
«Lucy» rispose, girandosi. Lei era ferma al limitare del cerchio di luce, una
vestaglia bianca avvolta intorno al corpo esile per difendersi dal gelo dell’aria
notturna. Il suo volto era una chiazza scura.
«Felcia sta piangendo» disse. Il suo tono non conteneva nessuna accusa.
«Ha paura per te. Vieni a parlare a tua figlia.»
Basia si girò e strinse di più una cinghia intorno ai fusti, nascondendole il
volto. «Non posso. Stanno arrivando» replicò.
«Chi? Chi sta arrivando?»
«Sai cosa intendo. Se non prendiamo posizione, ci toglieranno tutto quello
che abbiamo creato qui. Ci serve tempo, ed è così che lo otterremo. Senza la
piattaforma di atterraggio dovranno usare le navette più piccole, quindi
elimineremo la piattaforma. Li costringeremo a ricostruirla. Nessuno si farà
male.»
«Se le cose si metteranno male non potremo andarcene» obiettò lei.
«No» convenne Basia, sorpreso dalla violenza che gli traspariva dalla voce.
Si girò e mosse qualche passo, in modo da vedere il volto di lei alla luce.
Stava piangendo. «Non ce ne andremo più. Abbiamo lasciato Ganimede.
Abbiamo lasciato Katoa e siamo fuggiti, e la mia famiglia ha vissuto su una
nave per un anno perché nessuno voleva farli atterrare. Non fuggiremo di
nuovo. Non fuggiremo mai più. Non mi prenderanno altri figli.»
«Katoa manca anche a me,» replicò Lucia «ma non sono state queste
persone a ucciderlo. È stata la guerra.»
«È stata una scelta economica. Hanno fatto una scelta economica, poi
hanno fatto la guerra e si sono presi mio figlio.» E io ho permesso che lo
facessero. Ho preso te, Felcia e Jacek, e ho lasciato là Katoa perché pensavo
che fosse morto. Ma non lo era. Non pronunciò quelle parole, perché erano
troppo dolorose per farlo, ma Lucia le sentì lo stesso.
«Non è stata colpa tua.»
Sì, lo è stata. Quelle parole gli salirono in bocca, ma le ricacciò indietro.
«Queste persone non hanno nessun diritto a Ilus» disse invece, lottando per
dare un tono ragionevole alla propria voce. «Noi siamo arrivati qui per primi.
Abbiamo rivendicato il diritto a vivere su questo pianeta. Non appena
potremo spedire il primo carico di litio e incassare il denaro che frutterà,
potremo assumere degli avvocati sulla Terra e far valere quei diritti. Se però
per allora le grandi società avranno già messo radici qui, tutto questo non
servirà a niente. Ci serve tempo.»
«Se lo farai, ti manderanno in prigione» obiettò Lucia. «Non fare questo a
tutti noi, alla tua famiglia.»
«Lo sto facendo per la mia famiglia» rispose Basia, in tono sommesso. Era
peggio di un urlo. Poi si mise ai comandi e premette sull’acceleratore. Il
carrello si allontanò sobbalzando con un suono lamentoso e lui non si guardò
indietro. Non poteva farlo e vedere Lucy.
«Per la mia famiglia» ripeté.
Si allontanò dalla sua casa e dalla cittadina malandata che avevano
cominciato a chiamare First Landing quando avevano scelto quel sito sulle
mappe dei sensori della Barbapiccola. Nessuno si era preso la briga di
cambiare il nome quando aveva smesso di essere solo un’idea per diventare
un posto effettivo. Guidò verso il centro della cittadina, due file di strutture
prefabbricate, fino a raggiungere l’ampio tratto di strada sterrata che serviva
da via principale e a svoltare verso il sito di atterraggio originale. I profughi
che avevano colonizzato Ilus avevano lasciato la loro nave a bordo di piccole
navette, per cui la sola piattaforma di atterraggio di cui avevano avuto
bisogno era stata un tratto di terreno pianeggiante. Però i tizi della Royal
Charter Energy, i tizi delle società, che avevano una concessione delle
Nazioni Unite che dava loro il pianeta, sarebbero scesi con apparecchiature
pesanti e le loro navette più massicce avrebbero avuto bisogno di una vera e
propria piattaforma di atterraggio. Ne era stata costruita una sugli stessi
campi che la colonia aveva usato come luogo di atterraggio.
Basia trovava la cosa oscena. Invasiva. Il sito del primo atterraggio aveva
un significato speciale, e lui aveva immaginato che un giorno sarebbe
diventato un parco, con al centro un monumento a commemorare il loro
arrivo su quel nuovo mondo. Invece l’RCE aveva costruito una gigantesca e
scintillante mostruosità di metallo proprio sul loro sito. E la cosa peggiore era
che aveva assunto i coloni per il lavoro di costruzione, e un numero
sufficiente di essi aveva trovato l’idea abbastanza buona da prestarsi a farlo.
Dava la sensazione di essere stati cancellati dalla storia.
Quando arrivò alla nuova piattaforma di atterraggio trovò Scotty e Coop ad
aspettarlo. Scotty era seduto sul bordo della piattaforma di metallo, con le
gambe che penzolavano, a fumare la pipa e sputare sul terreno, in mezzo ai
suoi piedi. Una piccola lampada elettrica posata accanto a lui lo avvolgeva in
uno spettrale chiarore verde. Coop era fermo a poca distanza, intento a
guardare il cielo con i denti snudati sul volto sottile. Coop era un cinturiano
della vecchia scuola, e i trattamenti per l’agorafobia erano stati più difficili
per lui che per altri. Continuava a fissare il vuoto per abituarsi, come un
ragazzino che si grattasse via la crosta da una ferita.
Basia fece fermare il carrello accanto al bordo della piattaforma e saltò a
terra per slacciare le cinghie che trattenevano i fusti convertiti in bombe.
«Mi date una mano?» chiese. Ilus era un grande pianeta, con una gravità di
poco superiore a 1g. Anche dopo sei mesi di farmaci per rinforzare i muscoli
e le ossa tutto continuava a sembrare troppo pesante. Il solo pensiero di
sollevare di nuovo i fusti per metterli a terra gli faceva contrarre i muscoli
delle spalle per l’anticipazione dello sfinimento che questo avrebbe prodotto.
Scotty scivolò giù dalla piattaforma e si lasciò cadere a terra con un salto di
un metro e mezzo. Si allontanò dagli occhi gli unti capelli neri e aspirò
un’altra boccata dalla pipa. Basia avvertì l’odore pungente della cannabis che
lui coltivava in casa e mescolava alle foglie di tabacco liofilizzate. Coop
spostò lo sguardo su di loro e per un momento i suoi occhi lottarono per
metterli a fuoco, poi il solito sorriso sottile e crudele gli affiorò sul volto. Era
stato lui a elaborare quel piano.
«Mmm» commentò. «Bello.»
«Non ti ci affezionare» ribatté Basia. «Non rimarranno in circolazione a
lungo.»
Coop emise un verso che imitava il suono di un’esplosione e sorrise.
Insieme, tirarono giù dal carrello i quattro pesanti fusti e li misero in fila
accanto alla piattaforma. Quando arrivarono all’ultimo avevano entrambi il
respiro affannoso per la fatica. Per un momento Basia si appoggiò in silenzio
al carrello mentre Scotty finiva di fumare la pipa e Coop applicava gli
inneschi ai fusti. I detonatori giacevano in fondo al carrello come serpenti a
sonagli addormentati, la luce rossa a LED per il momento era spenta.
La cittadina scintillava nell’oscurità. Le case che si erano costruiti da soli,
aiutandosi a vicenda, brillavano come stelle cadute dal cielo. Al di là di esse
c’erano le rovine di una lunga e bassa struttura aliena, con due torri massicce
che si ergevano sul panorama come un gigantesco termitaio. Tutto il
complesso era un dedalo di passaggi e camere che non potevano essere stati
progettati da un essere umano. Alla luce del giorno quelle rovine
risplendevano dei colori surreali della madreperla, di notte erano soltanto una
chiazza di oscurità più fitta. I pozzi minerari erano al di là di esse, invisibili
tranne che per il chiarore estremamente fioco delle luci di lavoro che si
riflettevano contro le nuvole. A dire il vero, a Basia non piacevano le miniere.
Le rovine erano strane reliquie del passato di quel pianeta vuoto, e come
qualsiasi cosa che fosse inspiegabile senza essere pericolosa, dopo i primi
mesi aveva smesso di registrarne la presenza. Le miniere però avevano una
storia e generavano aspettative. Lui aveva trascorso metà della sua vita in
tunnel di ghiaccio, e le gallerie che si aprivano nel suolo alieno avevano un
odore strano.
Coop emise un verso brusco e scrollò una mano. Non esplose niente, quindi
non era una cosa grave.
«Credi che ci pagheranno per ricostruirla?» chiese Scotty.
Basia imprecò e sputò per terra.
«Non saremmo costretti a farlo se non fosse per le persone che vogliono
succhiare alla tetta dell’RCE» ribatté, mentre faceva rotolare al suo posto
l’ultimo fusto. «Senza questa, non possono atterrare. Tutto quello che
dovevamo fare era non costruirla.»
Scotty rise, esalando una nuvola di fumo. «Sarebbero arrivati comunque,
tanto valeva prendere il denaro. È quello che ha detto la gente.»
«Sono degli idioti» dichiarò Basia.
Scotty annuì, poi usò una mano per spingere una lucertola mimo giù dal
sedile del passeggero del carrello e si sedette, puntellando i piedi sul
cruscotto nel trarre un’altra lunga boccata di fumo dalla pipa. «Dobbiamo
fare in modo di allontanarci, se facciamo saltare questa roba. Quella polvere
esplosiva fa un botto notevole.»
«Ehi, amico» gridò Coop. «È tutto a posto. Facciamo fuori questo posto,
eh?»
Scotty si alzò e fece per dirigersi verso la piattaforma, ma Basia lo fermò e
gli tolse di bocca la pipa, posandola sul cofano del carrello.
«Esplosivi» disse. «Esplodono.»
Scotty scrollò le spalle, ma sembrò mortificato. Quando lo raggiunsero,
Coop stava già adagiando su un fianco il primo fusto. «Questo è un lavoro
bueno. Robusto» disse.
«Grazie» rispose Basia.
Coop si sdraiò con la schiena contro il terreno e Basia si distese accanto a
lui, poi Scotty fece rotolare con delicatezza la prima bomba in mezzo a loro.
Basia si insinuò sotto la piattaforma, infilandosi in mezzo all’intrico di travi
incrociate fino a raggiungere ciascuno dei quattro fusti per attivare e
sincronizzare i detonatori a distanza. Sentì uno stridio elettrico sempre più
forte e provò una momentanea irritazione al pensiero che Scotty si stesse
allontanando con il carrello, ma poi si rese conto che il suono si avvicinava,
invece di allontanarsi.
«Ehi!» chiamò la voce familiare di Peter.
«Que diavolo ci fa qui quel bastardo?» borbottò Coop, passandosi una
mano sulla fronte.
«Vuoi che vada a scoprirlo?» chiese Scotty.
«Basia, vai a vedere cosa vuole Peter» ordinò Coop. «Scotty non si è ancora
sporcato la schiena.»
Basia manovrò in modo da sgusciare fuori da sotto la piattaforma e fece
spazio a Scotty e all’ultima delle quattro bombe. Il carrello di Peter era
parcheggiato accanto al suo; in piedi in mezzo ai due veicoli, spostava di
continuo il peso del corpo da un piede all’altro, come se avesse avuto bisogno
di urinare. Basia aveva la schiena e le braccia che gli dolevano. Voleva solo
che finisse tutto per poter tornare a casa da Lucia, Felcia e Jacek.
«Cosa c’è?» chiese.
«Stanno arrivando» disse Peter, sussurrando come se qualcuno avesse
potuto sentirli.
«Chi sta arrivando?»
«Tutti. Il governatore provvisorio. La squadra di sicurezza della società. Il
personale tecnico e scientifico. Tutti. Questa è una cosa seria. Stanno
sbarcando un intero nuovo governo.»
«Sono notizie vecchie.» Basia scrollò le spalle. «Sono in viaggio da diciotto
mesi. È per questo che siamo qui.»
«No» insistette Peter, muovendosi nervosamente e guardando verso le
stelle. «Stanno arrivando adesso. La Edward Israel ha effettuato la manovra
frenante mezz’ora fa ed è entrata in un’orbita alta.»
Basia sentì salirgli in bocca l’aspro sapore metallico della paura. Sollevò lo
sguardo verso l’oscurità. Un miliardo di stelle sconosciute, che tutti
pensavano essere la stessa galassia, la Via Lattea, solo vista da
un’angolazione diversa. Il suo sguardo continuò a spostarsi, frenetico, finché
non lo individuò. Il movimento era infinitesimale quanto quello della
minuscola lancetta di un orologio analogico, ma era là. La nave si stava
abbassando nell’orbita. La navetta pesante stava per scendere sulla
piattaforma d’atterraggio.
«Volevo chiamarvi via radio, ma Coop ha detto che controllano le onde
radio, e...» continuò Peter, ma Basia stava già tornando di corsa verso la
piattaforma di atterraggio, dove Scotty e Coop stavano giusto emergendo da
sotto le travi. Coop si ripulì i pantaloni dalla polvere e sorrise.
«Abbiamo un problema» disse Basia. «La nave è entrata in orbita. Pare
siano già nell’atmosfera.»
Coop guardò verso il cielo. Il chiarore della torcia gli proiettò un gioco di
ombre sulle guance e negli occhi.
«Uh» fu il suo solo commento.
«Credevo stessi controllando la situazione, che facessi attenzione a dove si
trovavano.»
Coop scrollò le spalle, senza confermare né negare.
«Dobbiamo tirare subito fuori di lì quelle bombe» continuò Basia. Scotty
accennò a inginocchiarsi, ma Coop lo fermò posandogli una mano sulla
spalla.
«Perché?» chiese.
«Se cercano di atterrare adesso potrebbero far esplodere tutto quanto»
replicò Basia.
«Potrebbero» annuì Coop, con un sorriso gentile. «E con questo?»
Basia serrò i pugni. «Stanno venendo giù adesso.»
«Lo vedo,» replicò Coop «ma non ispira un gran senso del dovere. E
comunque la metti, non abbiamo il tempo di tirarle fuori.»
«Possiamo rimuovere gli inneschi e i detonatori» suggerì Basia, chinandosi
per dirigere la luce della torcia sotto la piattaforma.
«Forse potremmo, e forse no» ribatté Coop. «La domanda è se dovremmo
farlo, ed è una domanda stupida.»
«Coop?» disse Scotty, con voce sottile e incerta, ma Coop lo ignorò.
«A me questa sembra un’opportunità» dichiarò.
«Ci sono persone su quella cosa» ribatté Basia, e strisciò sotto la
piattaforma. La parte elettronica della bomba più vicina poggiava contro il
terreno. Premette la spalla dolorante contro il fusto e cominciò a spingere.
«Non c’è abbastanza tempo, amico» avvertì Coop.
«Potrebbe esserci se portassi qui il tuo culo» urlò Basia. L’innesco aderiva
al lato del fusto come una zecca. Basia cercò di insinuare le dita sotto
l’impasto sigillante e di staccarlo.
«Oh, merda» imprecò Scotty, con voce piena di qualcosa che somigliava
troppo allo sbigottimento. «Baz, oh, merda!»
L’innesco si staccò. Basia se lo mise in tasca e cominciò a strisciare verso
la seconda bomba.
«Non c’è tempo» gridò Coop. «Meglio allontanarci e cercare di far saltare
tutto finché loro possono ancora riprendere quota.»
In lontananza, Basia sentì uno dei carrelli che si allontanava: Peter, che si
metteva al sicuro. E al di sotto di quel ronzio percepì un altro suono, il rombo
basso dei motori di frenata. In preda alla disperazione guardò le tre bombe
rimanenti, poi rotolò fuori da sotto la piattaforma. La navetta era enorme nel
cielo nero, tanto vicina che poteva individuare i singoli propulsori.
Non ce l’avrebbe fatta.
«Correte!» urlò. Lui, Scotty e Coop spiccarono la corsa verso il carrello
mentre il rombo della navetta aumentava di volume fino a diventare
assordante. Raggiunto il carrello, Basia afferrò il detonatore. Se fosse riuscito
a far esplodere le bombe in anticipo, la navetta avrebbe ancora potuto
riprendere quota.
«Non farlo!» urlò Coop. «Siamo troppo vicini!»
Basia calò il palmo sul pulsante.
Il terreno parve sollevarsi, colpendolo con violenza, la terra e i sassi che gli
laceravano le mani e la guancia quando infine si arrestò. Quel dolore però era
qualcosa di remoto. Una parte di lui sapeva che poteva essere ferito molto
gravemente, che poteva essere in stato di shock, ma anche questo appariva
una cosa lontana e facile da ignorare. Quello che lo colpiva maggiormente era
il silenzio assoluto: il mondo dei suoni si fermava fuori del suo cranio. Poteva
sentire il proprio respiro, il battito del suo cuore, ma a parte quello tutto il
resto pareva avere il volume azzerato.
Rotolò sulla schiena e fissò il cielo notturno cosparso di stelle. La navetta
pesante saettò sopra di lui, metà dello scafo che si lasciava dietro una scia di
fuoco, mentre il rumore dei motori non era più un rombo basso ma lo stridio
di un animale ferito che avvertì come una vibrazione nel ventre più che
sentirlo fisicamente. La navetta era troppo vicina, l’esplosione troppo potente,
qualche detrito aveva sfortunatamente seguito la traiettoria giusta... non c’era
modo di saperlo. Una parte di Basia sapeva che la situazione era molto brutta,
ma era difficile fare molta attenzione alla cosa.
La navetta scomparve alla vista con uno stridulo lamento di agonia che si
sparse nella valle e giunse fino a lui come un fievole suono acuto che fu
seguito da un silenzio improvviso. Scotty sedeva per terra accanto a lui,
intento a guardare nella direzione in cui era scomparsa la navetta. Basia si
adagiò di nuovo sul terreno.
Quando infine le chiazze luminose, residuo dell’esplosione, scomparvero
dalla sua vista, le stelle apparvero di nuovo. Basia le guardò ammiccare, e si
chiese quale di esse fosse il Sole. Era così lontano. Ma grazie ai portali era
anche vicino. Aveva abbattuto la loro navetta. Adesso sarebbero dovuti
venire. Non gli aveva lasciato scelta.
Fu assalito da un improvviso accesso di tosse. Gli pareva di avere i polmoni
pieni di fluido, e per parecchi minuti continuò a tossire e sputare. Con la tosse
giunse infine il dolore, che lo devastò da testa a piedi.
E con il dolore giunse anche la paura.
2
Elvi
Basia si era offerto volontario per il turno di notte alla miniera. C’erano
meno persone da cui nascondersi, meno cielo aperto che lo rendesse nervoso.
Il lavoro, per quanto sfiancante, era un sollievo. Il fabbricatore che avevano
portato a terra dalla Barbapiccola stava costruendo rotaie e carrelli con la
stessa rapidità con cui loro riuscivano a riempirli con il materiale grezzo. La
sua squadra cercava di rimanere al passo con quella produzione assemblando
il sistema di rotaie che avrebbe trasferito il minerale dal pozzo della miniera
ai setacci e poi ai silos, dove avrebbe aspettato che la navetta della
Barbapiccola lo trasportasse in orbita. Tutto ciò che avevano estratto finora
era stato trasportato a mano, con le carriole. Un sistema di carrelli motorizzati
avrebbe incrementato la produzione di un ordine di grandezza.
Quindi Basia e la sua squadra lavoravano alle rotaie di metallo, tirandole
fuori dal fabbricatore lucide e nuove sotto le aspre luci bianche per poi
caricarle su carretti trainati a mano e trascinarle fino al pozzo della miniera.
Là le scaricavano, sempre a mano, e le saldavano per espandere il sistema di
rotaie in continua crescita. Era quel genere di lavoro manuale che la gente
aveva perlopiù smesso di fare nella loro era meccanizzata, e saldare in un
ambiente dotato di atmosfera era del tutto diverso dal farlo nel vuoto, cosa
che lo stava costringendo a sviluppare una nuova serie di capacità. La
combinazione della sfida mentale e del lavoro fisico lo lasciava esausto. Il
suo intero mondo si riduceva al compito successivo, al dolore alle mani e alla
lontana promessa del sonno. Non c’era tempo per indugiare su altre cose.
Come il fatto di essere un assassino. Come le forze di sicurezza della
società che stavano fiutando il terreno per cercare lui, Coop e gli altri. Come
il senso di colpa che provava ogni volta che Lucia mentiva loro affermando
di non sapere nulla che potesse essere utile.
Più tardi, quando sedeva nella capanna dei lavoranti, con i muscoli che si
contraevano e soffrivano di crampi da sfinimento, e cercava di dormire
nonostante la luce del giorno che fiottava dalle finestre, poteva rivedere
all’infinito l’esplosione della navetta, pensare a cosa avrebbe potuto fare per
disattivare gli esplosivi più in fretta di come aveva fatto, di come avrebbe
potuto atterrare Coop e sottrargli il radiocomando. Se era di umore
particolarmente cattivo, pensava a come niente di tutto quello sarebbe
successo se solo avesse ascoltato la moglie. In quei giorni la sua vergogna era
tale che arrivava a odiarla un po’, e poi odiava sé stesso per il fatto di
biasimarla. Il cuscino che si premeva sugli occhi escludeva la luce del sole,
ma non il ripetersi dell’immagine della navetta che esplodeva, stridendo
come una bestia morente nel precipitare.
Durante la notte, però, mentre lavorava, trovava un po’ di pace.
Così quando Coop apparve sul suo posto di lavoro, addentrandosi nella
galleria della miniera come se non avesse avuto una sola preoccupazione al
mondo, per poco Basia non lo colpì in faccia.
«Ehi, amico» salutò Coop. Basia lasciò cadere il martello e accasciò le
spalle.
«Ehi» rispose.
«Abbiamo un problema» continuò Coop, passandogli con fare cameratesco
un braccio intorno alle spalle. «Mi serve che se ne occupi mi primero.»
Non poteva essere niente di buono. «Che problema?»
Coop lo portò lontano dal punto in cui stavano lavorando, salutando con un
cenno e un sorriso i pochi altri lavoranti del turno di notte a cui passarono
accanto. Sembravano solo due amici che facevano due passi e un po’ di
conversazione. Quando furono fuori della portata di udito degli altri disse:
«Ho visto quella ragazza della RCE andare alle rovine. Ho mandato Jacek a
controllare.»
«Hai mandato Jacek» ripeté Basia. Coop annuì.
«Bravo ragazzo. Affidabile.»
Basia si fermò, liberandosi dal suo braccio. «Non...» Coinvolgere mio figlio
in tutto questo. Prima però che potesse pronunciare quelle parole Coop lo
bloccò con un cenno e continuò a parlare.
«Está importante.» Si fece più vicino e abbassò la voce. «È andata alle
rovine, poi è filata dritta dagli scagnozzi della RCE. Jacek dice che hanno
intenzione di aspettarci là. Di cogliere la resistenza con le mani nel sacco.»
«Allora non ci torniamo più» replicò Basia. Sembrava così semplice. Non
c’era motivo di cedere al panico.
«Sei pazzo, primo? Toda alles sono stati lassù. Ci sono prove indiziarie fin
su per il culo. Se aspettano troppo finiscono per annoiarsi, fanno venire giù
una vera squadra di criminologi per esaminare la scena e siamo tutti fottuti.
Tutti quanti, y veh, a meno che tu non abbia smesso di perdere frammenti di
pelle mentre eri là.»
«Allora che si fa?»
«Andiamo là per primi. Un razzo di segnalazione sugli esplosivi, boom.
Niente più prove.»
«Quando?»
Coop scoppiò a ridere. «Tu cosa credi? Magari un giorno della prossima
settimana? Adesso, coyo. Dobbiamo andare adesso. Il mediatore atterrerà
nell’arco di ore, non di giorni. Non vuoi che veda questo quando scenderà
dalla nave, vero? Tu sei un caposquadra. Puoi prendere uno dei carrelli.
Dobbiamo prendere quella roba e andarcene.» Coop fece schioccare le dita
con impazienza. «Jetzt.»
Coop parlava di cose folli come far saltare le loro scorte di esplosivi con
una tale aria di sicurezza e di certezza che Basia trovò difficile discutere.
Certo, far saltare in aria le rovine aliene era una follia, ma Coop aveva
ragione. Se avessero trovato gli esplosivi e da essi fossero risaliti a lui,
avrebbero scoperto tutto. Non voleva farlo, ma doveva, quindi lo avrebbe
fatto.
«D’accordo» disse, e si diresse verso la postazione di messa in carica dei
carrelli. Ne rimaneva soltanto uno, e siccome l’universo era un posto crudele
e beffardo, era lo stesso che aveva guidato la notte dell’attentato. Aveva
ancora le ammaccature e le bruciature che aveva collezionato quella notte –
bruciature riguardo alle quali tutti nella colonia stavano bene attenti a non
fare domande.
Coop attese con impazienza che lo staccasse dalla carica e lo facesse uscire
in retromarcia dallo stallo, poi saltò a bordo e cominciò a tamburellare un
ritmo veloce sul cruscotto di plastica. «Andiamo andiamo andiamo.»
Basia andò.
A metà strada dalle rovine aliene incontrarono altri quattro membri della
cerchia intima di Coop. Pete e Scotty, e Cate e Ibrahim. Zadie non c’era
perché il suo bambino aveva sviluppato una brutta infezione a un occhio e
ultimamente non si vedeva molto in giro. Cate aveva una sacca di tela che
produsse un tonfo metallico quando la gettò sul retro del carrello, poi i
quattro salirono a bordo anche loro.
«Quella è la roba?» chiese Coop. Cate annuì e calò una manata su un lato
del carrello per segnalare a Basia che poteva rimettersi in movimento. Lui
non chiese cosa fosse la roba in questione. Era troppo tardi per cominciare a
fare domande.
Le rovine apparivano buie e deserte come sempre, ma Coop fece fare a
Basia il giro lungo intorno a esse per arrivarvi dal lato opposto rispetto alla
città. «Giusto per andare sul sicuro» disse.
Quando Cate aprì la sacca, Basia non rimase sorpreso nel vedere che era
piena di armi. La Barbapiccola non era stata una nave da guerra e non
avevano portato con loro una grande scorta di armi nel lasciare Ganimede,
ma quello che avevano era venuto sulla superficie con loro quando avevano
cominciato a costruire First Landing. Pareva che la maggior parte di quelle
armi fosse nella sacca. Cate tirò fuori un fucile a canne mozze e procedette a
caricarlo con grossi proiettili di plastica. Era una donna alta e ossuta, dalla
mascella ampia e un solco fra gli occhi dovuto all’espressione perennemente
accigliata. Aveva un’aria naturale con in mano un fucile, come un soldato.
Quando raccolse a sua volta un’arma, una pistola automatica a canna corta,
Basia si sentì come un bambino che giocasse a travestirsi.
«Ti serve anche questo, killer» avvertì Ibrahim, e gli lanciò uno stretto
oggetto metallico. Basia impiegò parecchi secondi a rendersi conto che era il
caricatore della pistola. Gli ci vollero solo due tentativi per infilarlo nel modo
giusto nell’arma. Far saltare gli esplosivi. Ripulire il sito. Distruggere le
prove. Il piano non era mai stato realmente quello, e da qualche parte dentro
di lui lo aveva sempre saputo.
Mentre il resto del gruppo finiva di preparare le armi, Basia si soffermò a
qualche metro dal carrello, fissando il cielo notturno. Uno di quei punti
luminosi era la scia dei propulsori della Rocinante, la nave su cui viaggiava
Jim Holden. Il mediatore. Quello che si supponeva avrebbe impedito ai
coloni e alla gente della RCE di uccidersi a vicenda. Si chiese quanto fosse
lontano Holden, se sapeva che era già troppo tardi. Era troppo tardi per la
seconda volta. Holden era arrivato troppo tardi anche su Ganimede.
Il figlio di Basia, Katoa, non era stato il solo a essere malato, l’unico il cui
sistema immunitario avesse ceduto sotto il migliaio di diversi agenti
stressanti dovuti al vivere all’esterno di un pozzo gravitazionale. C’era stato
un gruppo di loro che si era rivolto al dottor Strickland, l’uomo che si
supponeva conoscesse le risposte. Katoa, Tonias, Annamarie, e Mei, che era
sopravvissuta. Mei, che James Holden aveva salvato dai laboratori su Io.
Holden c’era anche quando avevano trovato Katoa. Basia non lo aveva mai
incontrato di persona, lo aveva visto sempre e soltanto sui notiziari, ma il
padre di Mei era stato un suo amico e gli aveva mandato un messaggio,
dicendogli cosa era successo, e che lui era con Holden quando avevano
trovato il corpo del ragazzo.
Perché una e non l’altro? Mei di Praxidike, ma non il suo Katoa. Perché
alcune persone morivano e altre vivevano? Dov’era la giustizia, in tutto
questo? Le stelle che stava guardando non avevano nessuna risposta da
dargli.
Per Holden era già troppo tardi per riuscire a fermare ciò che ormai stava
succedendo su Ilus prima ancora che chiunque mettesse piede sul pianeta.
Prima che gli anelli si aprissero. Prima che Venere fiorisse. Se Katoa fosse
stato ancora vivo, lui non sarebbe venuto laggiù, e se anche lo avesse fatto
non sarebbe rimasto.
Era un pensiero strano. Surreale. Basia cercò di immaginare l’uomo che
sarebbe stato in quell’altra linea temporale e non ci riuscì. Abbassò lo
sguardo sull’orribile pistola nera che aveva in mano. Non sarei a questo
punto.
«Si comincia il gioco» disse qualcuno. Basia si volse. Era Coop. «Torna qui
con la testa, coyo.»
«Dui» rispose Basia, e trasse un profondo respiro. L’aria notturna era
fredda e pungente, pervasa di un vago sentore di terra lasciato dalla tempesta
di sabbia del pomeriggio. «Dui.»
«Seguitemi» ordinò Coop, poi si diresse verso le rovine correndo appena.
Cate, Ibrahim, Pete e Scotty lo seguirono stringendo le armi con quello che
probabilmente pensavano essere uno stile militare. Basia tenne invece la
pistola per la canna, timoroso di avvicinare troppo le dita al grilletto.
Entrarono nella massiccia struttura aliena da una delle molte aperture
laterali. Erano finestre? Porte? Non rimaneva più nessun alieno che potesse
dirlo. Dentro, la luce che proveniva dalle loro torce e lampade da lavoro si
riflesse sulle pareti lisce dalle strane angolazioni. Quel materiale sembrava
pietra, era liscio come il vetro e passava dal nero a un rosa chiaro dove la luce
lo colpiva. Basia fece scorrere le dita su di esso.
Coop segnalò loro di fermarsi, poi si abbassò e camminò accucciato fino a
un’apertura nella parete che somigliava a una finestra. Diede un’occhiata al di
là di essa, si abbassò di nuovo e fece cenno al gruppo di raggiungerlo. Basia
si accoccolò là con gli altri.
«Visto?» sussurrò Coop, indicando la stanza accanto, oltre la finestra.
«Sapevo che si sarebbero piazzati lì.»
Cate si sollevò per un istante per guardare, poi si accoccolò di nuovo con un
cenno di assenso. «Ne vedo cinque. Reeve, il capo, e quattro dei suoi
scagnozzi. Hanno armi da fuoco e pistole stordenti. Guardano tutti nella
direzione sbagliata.»
«Troppo facile, capo» sussurrò Scotty, con un sogghigno, e rimosse la
sicura dal suo fucile. Cate aprì la culatta del fucile a canne mozze quanto
bastava per accertarsi che fosse carico. Coop sollevò la sua grossa pistola
automatica e tirò indietro il carrello per inserire un colpo in canna, poi alzò
tre dita con la mano libera e cominciò un silenzioso conto alla rovescia.
Basia guardò ciascuno di loro, uno dopo l’altro. Apparivano arrossati in
volto ed eccitati, tutti tranne Pete, che guardava verso di lui e appariva di un
pallore verdastro nella luce bianca mentre scuoteva la testa avanti e indietro
in un silenzioso gesto di diniego. Basia poteva quasi sentirlo mentre pensava:
Non voglio farlo.
Poi qualcosa scattò nella mente di Basia e il mondo parve mettersi a fuoco
con una sensazione quasi fisica. Aveva seguito Coop come in trance dal
momento in cui si era presentato sul suo posto di lavoro, e stavano per
sparare a un gruppo di uomini della sicurezza della RCE.
«Aspetta» disse. Coop rispose alzandosi in piedi, puntando la pistola nella
stanza accanto e aprendo il fuoco.
La mente di Basia vacillò. Il tempo parve scorrere a balzi irregolari.
Coop che urla oscenità e spara ripetutamente con la pistola nella stanza
accanto. Basia è disteso supino sul pavimento e guarda i bossoli rotolare fuori
dalla pistola di Coop e rimbalzare sul terreno accanto a lui. Sembrano
muoversi così lentamente che lui può leggere il marchio del fabbricante. C’è
scritto: TruFire 7.5mm.
Un altro balzo.
È in piedi accanto a Cate. Non ricorda di essersi alzato. Lei fa fuoco con il
fucile a canne mozze, e il rumore dello sparo nell’ambiente chiuso è
assordante. Si chiede se soffrirà di una perdita permanente dell’udito. Nella
stanza accanto tre uomini e due donne nell’uniforme della sicurezza della RCE
si affannano per mettersi al riparo o estrarre le armi o rispondere al fuoco.
Hanno il panico dipinto sul volto. Nel muoversi gridano qualcosa gli uni agli
altri, ma lui non riconosce nessuna di quelle parole. Uno di loro fa fuoco con
una pistola, e una pallottola si pianta nel muro, accanto a Cate. Un pezzo
della pallottola, o forse una scheggia del muro le fa un piccolo buco in una
guancia. Lei continua a sparare come se la ferita non fosse degna di nota.
Un altro balzo.
Una donna della RCE si serra il petto da cui zampilla il sangue. Il suo volto è
pallido e terrorizzato. Lui è ad appena un metro di distanza, in piedi vicino a
Scotty, che le spara di nuovo, questa volta al collo. La donna cade all’indietro
al rallentatore, le mani che si sollevano verso la ferita ma si accasciano prive
di vita prima di raggiungerla, per cui sembra che lei stia scrollando le spalle.
Un altro balzo.
È in piedi da solo in un corridoio. Non sa dove si trovi o come ci sia
arrivato. Sente spari e urla alle sue spalle. Un uomo della sicurezza della RCE
è a pochi metri di distanza, davanti a lui, e impugna una pistola stordente.
L’uomo ha la pelle scura e luminosi occhi verdi dilatati dalla paura. Di colpo
Basia ricorda che il suo nome è Zeb, anche se non riesce a ricordare come
faccia a saperlo. Zeb gli scaglia conto la pistola stordente e allunga la mano
verso l’arma da fuoco che ha in una fondina sul fianco. La pistola stordente
rimbalza contro la testa di Basia, causandogli una lacerazione lunga tre
centimetri che comincia a sanguinare abbondantemente, senza però che lui
senta nulla. Vede Zeb estrarre la pistola, e senza pensare a quello che sta
facendo gli punta contro la propria arma. Rimane sorpreso nel vedere che la
impugna correttamente, per il calcio, con il dito sul grilletto. Non rammenta
di averlo fatto. Preme il grilletto. Non succede niente. Sta per premerlo una
seconda volta quando uno sparo risuona alle sue spalle e Zeb comincia ad
accasciarsi con il sangue che gli zampilla dalla fronte. Basia aspetta il
prossimo blackout.
Però non ci fu nessun balzo temporale. Nessun respiro. Nessuna via di fuga.
«Un buon lavoro» commentò Coop, alle sue spalle. «Per poco quello non ci
è sfuggito.»
Basia si girò lentamente, ancora come in un sogno. Una fuga dalla realtà.
Uno stato dissociativo. L’impulso di sollevare la mano ancora una volta, di
lasciare che la violenza lo trascinasse in avanti di un altro passo e di sparare a
Coop quasi gli fece alzare il braccio. Quasi, ma non lo fece. Zeb si dissanguò
sul pavimento. Il rumore degli spari cessò.
Alle sue spalle, il resto del gruppo gridava e applaudiva con voci allegre ed
eccitate. Basia guardò la sua pistola, ricordando come funzionavano nei video
d’azione. Si inseriva il caricatore con i proiettili nella pistola, ma poi
bisognava caricarne uno in canna. Ricordò Cate che tirava indietro la culatta
del fucile a canne mozze, Coop che faceva scorrere il carrello della sua
pistola automatica. La sua pistola non avrebbe mai sparato, per quante volte
avesse premuto il grilletto.
Zeb smise di sanguinare. Per poco non è successo a me, pensò Basia, ma
per il momento quel pensiero non aveva ancora un contenuto emotivo. Non
aveva peso, era come uno sbuffo di fumo acre che gli attraversasse la mente
per poi svanire.
«Aiutaci a trascinare questi corpi fuori, sul retro, primo» disse Coop,
battendogli una pacca sulla spalla. «Zadie laverà questo posto con agenti
corrosivi ed enzimi digestivi che distruggeranno tutte le tracce, ma non
possono consumare i pezzi più grossi, giusto?»
Basia li aiutò. Impiegarono parecchie ore a seppellire i corpi dei cinque
nella terra compatta alle spalle delle rovine aliene. Coop garantì loro che la
prossima tempesta di sabbia avrebbe cancellato qualsiasi segno che si fosse
scavato in quel punto. La gente della RCE sarebbe semplicemente scomparsa
senza lasciare traccia.
Scotty e Pete trascinarono il resto degli esplosivi fuori delle rovine e lo
caricarono sul carrello, poi tornarono a piedi verso la città insieme a Ibrahim
e a Cate, che portava in spalla la sacca con le armi. La pistola di Basia era di
nuovo dentro di essa senza essere stata usata.
«Dovevamo farlo» disse Coop, dopo che gli altri se ne furono andati. Basia
non riuscì a capire se stesse parlando a lui o a sé stesso, ma annuì comunque.
«Mi hai incastrato. Sapevi che li avresti uccisi e mi hai reso parte della
cosa.»
Coop gli rivolse una scrollata di spalle cinturiana e un crudele sorriso. «Nel
seguirmi lo sapevi, coyo. Forse hai finto che non fosse così, ma lo sapevi.»
«Non si ripeterà mai più» dichiarò Basia. «E se la mia famiglia dovesse
soffrire a causa di questo, ti ucciderò.»
Guidò fino alla miniera, poi tornò a casa a piedi. Il sole stava sorgendo
quando infine entrò barcollando nel piccolo bagno. L’uomo nello specchio
non aveva l’aspetto di un assassino, ma le sue mani erano coperte di sangue.
Cominciò a cercare di lavarlo via.
10
Havelock
Circa cinque ore prima, quando Havelock era a metà del suo turno di dieci
ore, un uomo che indossava un completo arancione e viola tanto orribile da
istigare quasi alla violenza, prese posto su un divano in uno studio video su
Marte. Fluttuando contro le cinghie di sicurezza, Havelock studiò l’uomo.
Allacciare le cinture era ormai diventato per lui un atto naturale, anche se gli
sembrava un po’ sciocco. Lo spazio orbitale intorno a Nuova Terra era
essenzialmente vuoto, e la possibilità di un’accelerazione improvvisa era
quasi inesistente. Sul piccolo monitor inserito nella parete della cabina il
giovane strinse la mano alla conduttrice e sorrise in direzione della
videocamera.
«È passato un po’ di tempo dalla sua ultima visita, Mr Curvelo» disse la
conduttrice. «Grazie per essere tornato.»
«Sono lieto di essere qui, Monica» rispose l’uomo, annuendo come se fosse
stato colto in flagrante a fare qualcosa. «È bello essere tornato.»
«Allora, ho avuto la possibilità di giocare al nuovo gioco, e devo dire che
sembra distaccarsi davvero dal suo lavoro precedente.»
«Sì» rispose l’uomo, laconico, serrando la mascella.
«Ci sono state parecchie controversie» continuò la conduttrice, il cui sorriso
si era fatto un po’ più tagliente. «Ce ne vuole parlare?»
Per Havelock era fisicamente impossibile sprofondare nel sedile a
smorzamento, ma psicologicamente l’impatto fu notevole.
«Senta, Monica,» replicò l’uomo con il completo orribile «quello che
stiamo esplorando qui sono le conseguenze della violenza. Tutti guardano
alla prima parte, e non pensano a come tutto il resto la segua a ruota.»
Il terminale palmare di Havelock trillò. Lui tolse il volume e prese la
chiamata.
«Havelock» disse Murtry. «Ho bisogno che tu risponda al mio posto a una
chiamata.»
La sua voce era così calma e controllata che Havelock si sentì mancare il
respiro. Quello era un suono che annunciava guai, e la sua mente si aggrappò
alla prima paura che affiorò in essa. La Rocinante e Jim Holden, il mediatore
delle Nazioni Unite, erano a circa dieci ore dalla fine della decelerazione.
Erano quasi arrivati. Se qualcosa era andato storto...
«Giù è successo qualcosa» continuò Murtry. «Ho Cassie in linea e ho
bisogno che tu le impedisca di crollare mentre io parlo con il capitano.»
«È una cosa grave?»
«Sì. Prendi la chiamata. Sii quello calmo. Puoi farcela?»
«Certo, capo» rispose Havelock. «Sarò freddo come un giorno di novembre
e morbido come seta della Cina.»
«Bravo.»
L’immagine si congelò per una frazione di secondo, poi sullo schermo del
palmare apparve Cassie. Per un anno e mezzo avevano vissuto sulla stessa
nave, parte della stessa squadra, condividendo familiarità ma non intimità.
Havelock aveva notato in modo vago quando lei aveva cominciato una storia
con Aragão e quando si erano lasciati. Pensava a lei come a un’amica perché
in realtà non pensava molto a lei.
Sullo schermo, la sua pelle aveva un colore cinereo e i suoi occhi erano
arrossati.
«Cassie» disse Havelock, usando il tono di voce confortante che aveva
imparato ad assumere durante quel workshop sulla negoziazione in situazioni
con ostaggi che aveva seguito dopo i tumulti su Ceres. «Ho sentito che le
cose sono un po’ problematiche laggiù.»
La risata di Cassie smosse la videocamera, facendola tremare sullo schermo
come per un terremoto. Distolse lo sguardo, poi tornò a fissarlo.
«Sono scomparsi» disse. Nella pausa che seguì lei spostò lo sguardo come
se stesse cercando qualcosa. Altre parole da dire, forse. «Sono scomparsi.»
«D’accordo» rispose Havelock. Mille diverse domande gli premevano nella
mente, desiderose di essere poste. Cosa era successo? Chi era scomparso?
Cosa era successo? Murtry però non gli aveva chiesto di scoprirlo, e Cassie
non aveva bisogno di essere sottoposta a un interrogatorio. «Murtry sta
parlando con il capitano.»
«Lo so» replicò Cassie. «Avevamo una pista. Abbiamo scoperto un
nascondiglio. Reeve li ha portati là. Io sono rimasta con la testimone.»
«La testimone è là?»
«Adesso dorme» rispose Cassie. «Io sono una consulente di sistemi di
sicurezza, Havelock. Dovrei elaborare gli avvicendamenti di turni ottimali e
costruire la rete di sorveglianza. Non sparo alla gente. Non rientra nel mio
fottuto contratto.»
Havelock sorrise, e Cassie fece altrettanto, anche se una lacrima le colava
dall’angolo di un occhio. Per un momento risero entrambi, l’orrore e la paura
che si trasformavano in qualcosa di simile all’esasperazione. Qualcosa che
era un po’ più sicuro.
«Ho una dannata paura» continuò Cassie. «Se verranno a cercare anche me
non sarò in grado di fermarli. Ho sprangato l’ufficio, ma potrebbero tagliare
un varco nella parete, o far saltare questo posto per aria. Non so perché
abbiamo pensato che fosse una buona idea scendere quaggiù. Dopo che
hanno fatto saltare in aria la navetta avremmo dovuto riportare il nostro culo
su per il pozzo gravitazionale e restare là. Scaricare rocce su di loro dalla
fottuta orbita.»
«Adesso la cosa importante è tenere al sicuro te e la testimone.»
«E come farete?» chiese Cassie. La sua voce esprimeva una sfida, ma di un
genere che desiderava che si rispondesse a essa. Era un non potete e allo
stesso tempo un ditemi che potete.
«Ci stiamo lavorando» rispose Havelock.
«Qui dentro non ho neppure cibo» aggiunse Cassie. «È tutto allo spaccio.
Ucciderei per un panino. Davvero. Ucciderei per averne uno.»
Havelock cercò di ricordare cosa avessero detto al workshop riguardo al
parlare con persone traumatizzate. C’era un elenco di quattro cose,
condensato nell’acronimo BEST per ricordarlo meglio. Lui però non riusciva a
rammentare a cosa corrispondesse ciascuna di quelle lettere.
«Scommetto che adesso sei parecchio spaventata» osservò.
«Sto perdendo il controllo.»
«Già, sembra che sia così, ma in realtà te la stai cavando perché non
peggiori le cose. Questo è l’errore che la gente fa di solito quando va tutto a
rotoli. Iperreagisce, ingigantisce. Vede tutto deformato. Tu ti sei chiusa
dentro e stai parlando con noi. Significa che hai gli istinti giusti per situazioni
come questa.»
«Stai inventando stronzate» lo accusò Cassie. «Sono a un passo dal
diventare catatonica.»
«Continua a restare a un passo e ce la farai. Dico sul serio, stai facendo la
cosa giusta. Resta calma e sistemeremo le cose. So che ti sembra che stia
andando tutto al diavolo, ma te la caverai benissimo.»
«Se non dovessi cavarmela...»
«Lo farai.»
«Ma se non dovessi. Ho detto se, giusto?»
«D’accordo, se» cedette Havelock.
«Fammi un favore. C’è un tizio su Europa, Hihiri Tipene, è un ingegnere
alimentare.»
«Sì.»
«Digli che mi dispiace.»
Crede che morirà, pensò Havelock, e potrebbe avere ragione. Il sapore
intenso e metallico della paura gli inondò la bocca. I locali stavano uccidendo
il personale di sicurezza della RCE, e Cassie era la sola rimasta. Lui non aveva
idea di quale fosse la situazione laggiù. Per quel che ne sapeva potevano
esserci tre tonnellate di esplosivo industriale che stavano per trasformare
Cassie in un ricordo. Sarebbe potuta morire da un momento all’altro e lui
avrebbe potuto essere costretto ad assistere senza poter fare niente.
«Glielo dirai tu stessa» replicò in tono gentile. «E dopo tutto questo non
avrai neppure paura di farlo.»
«Non saprei. Non hai mai incontrato Hihiri. Lo prometti?»
«Certo» assentì Havelock. «Ti coprirò io le spalle.»
Cassie annuì. Un’altra lacrima le colò lungo la guancia. Havelock ebbe la
sensazione di non cavarsela molto bene nell’impedire che lei crollasse.
Sullo schermo apparve una minuscola finestra sovrapposta: l’override di
sicurezza di Murtry.
«Ehi, Cass» disse. «Ho parlato con il capitano Marwick e ti manderemo una
squadra, ma ci vorranno un paio d’ore. Il tuo compito è di tenere la civile al
sicuro.»
La voce di Cassie tremò, ma non si spezzò, quando lei rispose. «Ci sono
quaranta dei nostri sul pianeta e loro sono in duecento. Io sono una persona
sola. Non posso proteggere tutti.»
«Non devi farlo» replicò Murtry. «Ho mandato la notifica dello stato di
emergenza e sto coordinando le squadre scientifiche. Questo è compito mio.
Il tuo è la dottoressa Okoye. Pensa solo a tenerla in vita finché non arriviamo
noi. D’accordo?»
«Sissignore.»
«Benissimo» approvò Murtry. «Due ore. Puoi farcela, Cass.»
«Sissignore.»
«Havelock, abbiamo una riunione di aggiornamento nell’ufficio di
sicurezza. Ci puoi raggiungere?»
«Arrivo» rispose Havelock. Slacciò le cinture, si tirò fuori dal sedile e si
spinse verso il corridoio. La Edward Israel aveva corridoi che erano costruiti
come ottagoni allungati, era il genere di nave su cui avrebbe potuto viaggiare
suo nonno. Le cinghie e gli appigli per i piedi distribuiti lungo le pareti non
avevano direzionalità. Havelock procedette in fretta lungo il corridoio, con il
cervello che gli inviava segnali contrastanti: ora gli diceva che si stava
arrampicando su per un enorme pozzo di acciaio e ceramica, ora che stava
precipitando in quel pozzo per poi – stranamente – strisciare a testa in giù
come se si fosse trovato sulla volta di un canale di scolo. Gli era stato detto
che i cinturiani percepivano istintivamente sé stessi separati da qualsiasi idea
preconcetta di su e giù, ma lo aveva sentito dire soltanto dai cinturiani, e
sempre nel contesto di dimostrare come fossero migliori di lui. Forse era
vero, forse era un’esagerazione. In ogni caso, quando infine si spinse
nell’ufficio della sicurezza aveva un lieve senso di vertigine e sentiva la
mancanza della gravità artificiale prodotta dalla propulsione.
Dieci persone erano aggrappate alle pareti e rivolte tutte nella stessa
direzione. Uomini e donne con struttura del volto e colore della pelle
radicalmente diversi, ma che avevano tutti la stessa espressione. Era una cosa
quasi inquietante. Murtry aveva tirato fuori l’equipaggiamento antisommossa
e l’armatura fra l’azzurro e il grigio, che con l’alto collare a protezione del
collo li faceva sembrare tutti enormi insetti di forma umanoide. Perfino
Murtry indossava quell’equipaggiamento, quindi a quanto pareva sarebbe
sceso anche lui sul pianeta.
«...Che mi rimane» stava dicendo Murtry, dal suo posto sul davanti della
stanza. «E voi siete tutto quello che mi rimane. Non arriverà la cavalleria a
salvarci il culo: noi siamo la cavalleria, e questo significa che non intendo
perdere altri uomini. Noi, qui in questa stanza, siamo la squadra di sicurezza
di tutto questo pianeta. Possiamo farcela, ma non facendo sacrifici. Mentre
siamo laggiù, se vi sentite minacciati fate tutto ciò che sarà necessario per
proteggere voi e la vostra squadra.»
«Signore?»
«Okmi?»
«Questo significa che siamo autorizzati a reagire in modo letale?»
«Significa che siete autorizzati a una reazione letale preventiva» rispose
Murtry, poi attese per un momento che gli altri assimilassero il senso di
quelle parole. Havelock sospirò. Era orribile, ma non c’era alternativa. Se
quello della navetta pesante fosse stato solo un crimine isolato, avrebbero
potuto gestire la cosa come polizia. Però i locali non si erano limitati a quello,
e adesso altra gente della RCE era scomparsa o morta. Quindi ormai la
situazione era più simile a una guerra.
Almeno avevano prima provato con metodi pacifici. Non che i cinturiani
avessero riconosciuto loro il merito di quello sforzo.
«Scendiamo a terra fra venti minuti» annunciò Murtry. «È una discesa
lunga e veloce, e in parte sarà turbolenta. Intendo atterrare a est del campo dei
cinturiani. Smith e Wei sono capisquadra. La nostra priorità immediata è
raggiungere e mettere in sicurezza l’ufficio locale.»
«E la Barbapiccola?» chiese qualcuno.
«Si fotta la Barbapiccola! Che ne è della Rocinante?»
Murtry sollevò una mano con il palmo verso l’esterno.
«Non perdete tempo a preoccuparvi di quello che succede in orbita o a casa.
Quello è affar mio, e me ne occuperò io. Io e Havelock» aggiunse,
rivolgendogli un rapido sorriso. «Avete i vostri ordini e la mia fiducia.
Scendiamo a terra e riportiamo questo casino sotto controllo.»
Il contingente di sicurezza ruppe le righe, con i corpi che si muovevano
nell’aria in un flusso rapido ed efficiente diretto all’hangar delle navette
leggere. Havelock avvertì una fitta di rammarico nel guardare gli altri
avviarsi senza di lui. Ricordò qualcosa della sua infanzia, un ricordo che
affiorò e subito scomparve, riguardo a un bambino zoppo e il Pifferaio di
Hamelin.
Muovendosi controcorrente, Murtry si spostò nell’aria verso di lui.
«Mi fa piacere vederti, Havelock. Dobbiamo parlare per un momento.»
«Sissignore.»
Murtry accennò al suo ufficio privato. Era una stanza minuscola, ancora più
piccola di una cabina alloggio, con un sedile a smorzamento dalle
sospensioni antiquate che dominava l’ambiente. Murtry chiuse la porta alle
loro spalle.
«Ti affido il controllo della nave.»
«Grazie, signore.»
«Al tuo posto, non ringrazierei. Ti sto lasciando in una posizione di merda»
replicò Murtry. «Qui sulla Israel abbiamo un equipaggio composto perlopiù
di teste d’uovo quasi isteriche perché non permettiamo loro di dedicarsi alla
loro scienza, e il capitano sta sostenendo dure battaglie per tenerli quassù.
Adesso che ci sono problemi quegli scienziati non faranno più tanta pressione
per scendere a terra, ma la pressione si deve scaricare da qualche parte. Ti
lascio una squadra ridotta con cui far fronte alla situazione.»
«Ce la caveremo, signore.»
«Sei un brav’uomo. La minaccia maggiore presente nel quadro generale è la
Rocinante. Era una nave da guerra marziana prima di passare all’APE. La
Israel è enorme, ma siamo una nave scientifica. Se la Rocinante dovesse
decidere di abbatterci, ci riuscirà.»
«Ma perché dovrebbe spararci addosso?»
Murtry scrollò le spalle. «Non penso tanto al perché quanto al se. Quindi...
c’è una cosa di cui ho bisogno, e voglio che tu la faccia comunque anche se
manderà all’aria tutti i piani di volo delle navette.»
«Certamente.»
«Noi prenderemo una delle navette leggere per scendere a terra» proseguì
Murtry, parlando lentamente come se stesse riflettendo sul farlo, anche se era
chiaro che non era così. «Voglio che trasformi in un’arma quella che rimarrà
a bordo. Rimuovi tutto quello che può impedire al reattore di andare in
sovraccarico e inserisci un comando di accensione remoto. Escludi tutti i
comandi di navigazione standard e inserisci qualcosa a cui soltanto tu e io
possiamo avere accesso.»
«E anche il capitano Marwick?»
Murtry fece un sorriso enigmatico. «Certo, se vuoi.»
«Mi dia mezza giornata e sarà fatto» disse Havelock.
«Bene.»
«Signore? Contro chi pensa che la useremo? Il campo dei cinturiani?»
«Stiamo soltanto aumentando le nostre possibilità, Havelock. Spero di non
doverla usare» replicò Murtry. «Se però dovessi decidere di farlo, voglio
poterlo fare in fretta.»
«Sarà pronta.»
«Saperlo mi fa sentire meglio» affermò Murtry, e posò una mano sulla
scrivania per spingersi verso la porta.
«Signore?»
Murtry inarcò le sopracciglia e Havelock avvertì un improvviso senso di
imbarazzo che quasi gli impedì di proseguire. Poi però si costrinse a farlo.
«So che è una cosa insignificante, signore, ma quando parlavo con lei,
Cassie ha detto che aveva fame. Le ho promesso che le avrei portato un
panino.»
L’espressione di Murtry rimase impenetrabile come la pietra.
«Mi chiedevo se potesse portarglielo lei, signore.»
«Potrei riuscirci» ribatté Murtry. Havelock non riuscì a stabilire se fosse
divertito o irritato. Forse entrambe le cose.
Havelock fluttuò fino alla sua scrivania. Le celle della guardina erano tutte
vuote. La sua squadra ridotta – i quattro membri della sicurezza con minore
anzianità e un tecnico preso in prestito dalla squadra di manutenzione della
nave – stavano modificando la navetta leggera rimasta. La stavano
trasformando in una bomba. Sui monitor, la navetta in discesa, la Rocinante
in fase di decelerazione finale e i monitor interni della stazione in cui si
trovavano Cassie e la dottoressa Okoye avevano ciascuno una loro finestra.
Havelock le guardava tutte, in attesa della prossima cosa che sarebbe andata
storta. Ogni minuto pareva estendersi all’infinito. Il riciclatore dell’aria
ronzava e ticchettava. Si rosicchiò l’unghia del pollice.
Il trillo del messaggio in arrivo gli strappò un sussulto e dovette posare le
mani sulla consolle per impedirsi di fluttuare via. Aprì la casella dei messaggi
in attesa. Quello nuovo veniva dagli uffici societari della RCE su Luna, e
l’oggetto era: ‘Possibili strategie per ridimensionare il conflitto su Nuova
Terra: chiamare per suggerimenti.’
Da qualche parte vicino ai portali dell’anello i segnali radio si erano
incrociati, onde elettromagnetiche che viaggiavano nel vuoto trasportando
messaggi umani codificati. Avevano coperto in cinque ore la distanza che
aveva richiesto loro un anno e mezzo di viaggio.
Cinque ore, ed erano stati ancora dannatamente troppo lenti.
11
Holden
Il nonno di Elvi si era risposato avanti negli anni. Il nuovo marito era stato
un tedesco con una risata allegra, una barba bianca come la neve e un allegro
cinismo per quanto riguardava l’umanità. Quello che lei ricordava meglio di
nonno Raynard era la prontezza con cui se ne usciva con un epigramma o una
battuta. Ne aveva uno per ogni occasione, e lei trovava che lo facesse
apparire navigato e saggio, in parte perché molto spesso non sapeva bene
cosa volesse dire.
Una cosa che diceva sempre era: ‘Una volta è mai. Due volte è sempre.’
Quando la navetta era precipitata, lei aveva capito – lo avevano capito tutti
– che qualcuno aveva messo dell’esplosivo sotto la piattaforma, ma
l’esperienza che aveva avuto con i coloni cinturiani a cominciare da quella
stessa notte era stata così diversa che quella consapevolezza e il suo impatto
emotivo erano diventati qualcosa di distaccato. Qualcuno fra i cinturiani
aveva fatto una cosa terribile, ma quella persona era senza faccia, anonima,
irreale. La dottoressa Merton che faceva tutto il possibile per salvare e
tranquillizzare i feriti era stata quanto mai reale. Sua figlia Felcia, che si
trovava nel punto più lontano dalla Terra che l’umanità avesse mai raggiunto
ed era attirata di nuovo verso Luna dalle sue ambizioni, era reale. Lo erano
Anson Kottler e sua sorella Kani, che l’avevano aiutata a montare la sua
capanna, e Samish Oe, con quel suo sorriso sciocco. E Carol Chiwewe,
Eirinn Sanchez. Erano stati tutti così gentili che lei aveva archiviato la morte
del governatore come un’anomalia. Qualcosa di tanto raro che non si sarebbe
mai più ripetuto.
Ma la scomparsa di Reeve e della squadra di sicurezza erano un secondo
evento, e adesso il modo in cui Elvi vedeva la colonia, gli scienziati della RCE
e la sua piccola capanna al limitare della pianura era diverso. Perché la
minaccia di violenza aveva cessato di essere un mai. Adesso era un sempre.
«Ha visto niente altro?» chiese Murtry.
«No» rispose Elvi. «Non credo.»
«Dottoressa Okoye, so che questo è stato spiacevole per lei,» insistette il
capo della sicurezza «ma ho bisogno che cerchi di ricordare se ha visto altro
mentre era laggiù. La persona che ha visto tornare indietro. Può dirmi se era
un uomo o una donna?»
Naturalmente, non era così che funzionava la memoria. Imporsi di ricordare
qualcosa, mettersi sotto pressione, aveva molte più probabilità di generare un
falso ricordo e aggiungere dati sbagliati che non di far riaffiorare qualche
dettaglio rivelatore che aveva mancato di menzionare. Pareva scortese
spiegarlo a Murtry, quindi si limitò a scrollare il capo.
«Mi dispiace» disse.
«Va tutto bene» rispose lui, con un tono di voce che lasciava trasparire il
suo forte disappunto. «Se le dovesse venire in mente altro, per favore me lo
riferisca.»
«Lo farò.»
«Si sente bene?»
«Suppongo di sì. Perché?»
«Anche il mediatore delle Nazioni Unite ha chiesto di parlare con lei»
replicò Murtry. «Se non vuole, però, non è costretta a farlo. Dica una sola
parola e gli riferirò di andare al diavolo.»
«No, non mi dispiace» rispose Elvi. James Holden mi vuole parlare?,
pensò. «Devo... voglio dire, c’è qualcosa in particolare che dovrei riferirgli?
Riguardo al lavoro, intendo.»
La verità era che voleva soltanto uscire dagli uffici della sicurezza. La
giornata di trentaquattro ore di Nuova Terra le rendeva difficile valutare con
esattezza quanto tempo vi avesse passato, ma era arrivata da Reeve con il
buio, e quella notte aveva dormito in una delle celle. Era rimasta lì mentre
Murtry e le sue guardie atterravano e mettevano in sicurezza la città, e adesso
era di nuovo mattina. Due giorni, quindi, di Nuova Terra. Forse tre, sulla
Terra. Cosa significasse esattamente il termine ‘giorno’ non era più intuitivo.
«Il capitano Holden ha bisogno di capire con esattezza quanto sia brutta la
nostra situazione qui» spiegò Murtry. «È arrivato con l’idea che qui ci siano
due fazioni, quindi vuole stabilire una specie di differenza. Apprezzerei
moltissimo qualsiasi cosa lei possa fare per aiutarlo a capire che quella non è
una soluzione applicabile.»
«Oh» commentò Elvi. «Sì, certo.»
«Grazie.»
«Posso chiedere una cosa?»
Murtry inarcò le sopracciglia e inclinò la testa verso di lei. Non disse
esplicitamente un sì, signora?, ma lo sottintese con il suo atteggiamento.
«Le mie ricerche sono ancora nella mia capanna» spiegò Elvi. «Stavo
facendo degli studi quando sono venuta a parlare con... quando sono venuta
qui. La mia capanna è off-limits, oppure posso andare a prenderli?»
«Può tornare» dichiarò Murtry. «Sa qual è la sola cosa che non succederà
qui, dottoressa? Non cederemo un solo dannato centimetro di terreno. Chi ha
fatto questo non vincerà.»
«Grazie» disse Elvi.
L’espressione di Murtry si indurì per un momento. Il suo sguardo si fece
piatto nel modo che Elvi associava agli animali da laboratorio che venivano
sacrificati. Sembrava morto.
«Non c’è di che» rispose.
Nel camminare lungo la strada della città, Elvi avvertì una fitta di disagio,
ma meno intensa di quanto si fosse aspettata. Il piccolo assedio di cui era
stata vittima nell’ufficio della sicurezza mentre aspettavano l’arrivo della
squadra di soccorso era stato un’esperienza cupa e spaventosa, ma adesso
facce familiari si erano mescolate a quelle dei locali. Due donne nella tenuta
antisommossa della sicurezza della RCE procedevano lungo la strada in senso
contrario al suo, impugnando con disinvoltura i fucili da assalto. Il solo
vederle la fece sentire più sicura. Ed era arrivato anche Holden. Di certo le
cose non erano ancora andate a posto, ma ci si stavano avvicinando. Stavano
migliorando. Per ora, sarebbe dovuto bastare.
Un’altra guardia era di stanza all’ingresso dell’emporio, un fucile fra le
mani.
«Dottoressa Okoye» salutò, invitandola a entrare con un cenno.
«Mr Smith» salutò a sua volta.
Nelle settimane trascorse da quanto era arrivata a Nuova Terra era stata
molte volte nell’edificio dello spaccio. A parte i piccoli incontri intimi nelle
capanne di ricerca e le riunioni cittadine formali nella sala comune, quello era
il solo posto in cui andare a meno che non fosse diventata religiosa. Vide –
percepì – immediatamente come la presenza di James Holden avesse
cambiato la natura di quel luogo. Prima era stato un luogo comune, pubblico
quanto poteva esserlo un parco municipale, senza nessuna presenza umana
che esercitasse un particolare controllo. Adesso un uomo sedeva a un tavolo
in fondo alla stanza, proprio come fosse stato un cittadino venuto a mangiare
una ciotola di riso e a bere una birra. Se ne stava seduto lì, con i gomiti
appoggiati sul tavolo, a parlare con Fayez, e tuttavia dominava lo spazio
circostante. Lo possedeva. Quello che era appartenuto a tutti era adesso il
dominio indiscusso di James Holden. Elvi sentì lo stomaco che le si
contraeva leggermente e il respiro che le si accelerava per l’ansia.
Aveva visto Holden nei notiziari. All’inizio della guerra fra Marte e la
Fascia, lui era stato l’uomo più importante del sistema solare e la sua
celebrità, pur avendo alti e bassi nel corso degli anni, non era mai svanita.
James Holden era un’icona. Per alcuni, era il trionfo della nave singola sui
governi e le società. Per altri era un agente del caos che scatenava guerre e
minacciava la stabilità in nome della purezza ideologica. Qualsiasi cosa la
gente pensasse delle sue intenzioni, però, era indubbio che fosse importante.
Era l’uomo che aveva salvato la Terra dalla protomolecola, che aveva
abbattuto la Mao-Kwikowski, che aveva stabilito il primo contatto con il
manufatto alieno e aperto i portali che davano accesso a mille mondi diversi.
Visto di persona appariva diverso dalla sua immagine sullo schermo. Il
volto era pur sempre ampio, ma non così tanto. La pelle aveva un calore che
neppure anni trascorsi nell’interno senza sole di un’astronave potevano
cancellare. I capelli castano scuro avevano una spolverata di grigio sulle
tempie, ma i suoi occhi erano dello stesso blu intenso degli zaffiri. Mentre lo
osservava, Holden si sfregò una mano sul mento, annuendo in risposta a
qualcosa che Fayez stava dicendo. Era un gesto inconscio propriamente
maschile che indusse Elvi a pensare a grandi animali – leoni, gorilla, orsi. In
esso non c’era nessun senso di minaccia, solo di potere, e lei si trovò a essere
estremamente consapevole che l’uomo che aveva finora visto solo come
un’immagine su uno schermo esalava le stesse molecole che lei inspirava.
«Si sente bene?»
Elvi sussultò. L’uomo che le aveva fatto quella domanda era enorme,
pallido e muscoloso. La sua testa rasata e il ventre pronunciato lo facevano
apparire come un neonato gigantesco. Le posò una mano sulla spalla come
per sorreggerla.
«Bene?» replicò lei, in tono interrogativo.
«Per un momento ha avuto un’aria strana. È sicura di sentirsi bene?»
«Dovrei incontrare il capitano Holden» disse Elvi, cercando di ritrovare il
controllo. «Mi chiamo Elvi Okoye, e sono della RCE. Sono un’esobiologa
della RCE.»
«Elvi!» chiamò Fayez, segnalandole di avvicinarsi.
Salutato con un cenno l’uomo pallido, Elvi si avvicinò al tavolo a cui erano
seduti Fayez e Holden. Lo sguardo di James Holden era appuntato su di lei.
«Questa è Elvi» la presentò Fayez. «Ci conosciamo dai tempi
dell’università superiore.»
«Come sta?» disse Elvi, con voce che suonò falsa e metallica ai suoi stessi
orecchi. Si schiarì la gola.
«Piacere di conoscerla» replicò Holden, alzandosi in piedi per porgerle la
mano. Elvi la strinse come avrebbe fatto incontrando chiunque altro, e si sentì
molto orgogliosa di sé stessa per quello.
«Siediti» le disse Fayez, tirando indietro una sedia per lei. «Stavo giusto
parlando al capitano del problema delle risorse.»
«Non è ancora un problema, ma lo diventerà» precisò Elvi.
Holden sospirò, intrecciando le dita. «Spero ancora che si possa arrivare a
negoziare una soluzione che sia equa per tutte le parti coinvolte.»
Elvi si accigliò e inclinò il capo da un lato. «Come potrebbe fare?»
Holden inarcò le sopracciglia. Fayez si protese verso Elvi.
«Stavamo parlando di risorse come il litio e il denaro» spiegò, poi tornò a
rivolgersi a Holden. «Lei si riferiva ad acqua e sostanze nutritive. Contesti
diversi.»
«Non c’è abbastanza acqua?» chiese Holden.
«Ce n’è» rispose Elvi, augurandosi che il suo rossore non si notasse. Era
ovvio che stessero parlando delle miniere di litio, avrebbe dovuto saperlo.
«Voglio dire, c’è acqua a sufficienza, e sostanze nutritive, ma in un certo
senso è un problema. Qui siamo nel bel mezzo di una biosfera del tutto
sconosciuta. In questo posto tutto è diverso da ciò con cui siamo abituati ad
avere a che fare. Quello che intendo è che pare che qui la vita sia veramente
bi-chirale.»
«Davvero?» commentò Holden.
«Nessuno sa cosa significa, Elvi» commentò Fayez.
Holden finse cortesemente di non averlo sentito. «Ma gli animali e gli
insetti appaiono tutti... ecco, non appaiono certo familiari, ma hanno gli occhi
e tutto il resto.»
«Sono sottoposti alla stessa pressione selettiva» spiegò Elvi. «Alcune cose
sono semplicemente una buona idea. Sulla Terra, gli occhi si sono evoluti
quattro o cinque volte in modi diversi. Il volo almeno tre volte. La maggior
parte degli animali mette la bocca vicino agli organi sensoriali. Il livello di
somiglianze morfologiche su larga scala, considerate le sottostanti differenze
biochimiche, è ciò che rende tanto incredibile questa opportunità di ricerca. I
dati che sono riuscita a spedire da quando siamo qui sarebbero sufficienti per
alimentare le ricerche per una generazione, e per ora ho appena grattato sotto
la superficie.»
«E il problema delle risorse?» chiese Holden. «Di quali risorse ha
bisogno?»
«Non si tratta di quelle di cui abbiamo bisogno» rispose Elvi. «Si tratta
delle risorse che noi costituiamo. Dal punto di vista dell’ambiente locale, noi
siamo bolle di acqua, ioni e molecole ad alta energia. Non abbiamo
esattamente il sapore che viene gradito da queste parti, ma è solo questione di
tempo prima che qualcosa capisca come sfruttarci.»
«Come un virus?» domandò Holden.
«I virus sono molto più simili a noi di quello che vediamo qui» replicò Elvi.
«Hanno acidi nucleici. RNA. Si sono evoluti con noi. Quando qui qualcosa
capirà come accedere a noi come risorse, probabilmente agirà in un modo
paragonabile all’estrazione mineraria.»
Holden aveva un’espressione sgomenta. «Estrazione mineraria» ripeté.
«Per il momento abbiamo il vantaggio di essere una biosfera più antica. Per
quanto ho potuto vedere, qui le cose non hanno cominciato davvero a
evolversi fino a un periodo fra un miliardo e mezzo e due miliardi di anni fa.
Abbiamo prove molto evidenti che noi abbiamo un vantaggio di almeno un
buon miliardo di anni su queste cose. E alcune delle nostre strategie
potrebbero funzionare contro di loro. Se riusciamo a costruire anticorpi che
contrastino le proteine usate dalla biosfera locale, potremmo riuscire a
combatterla come una qualsiasi infezione.»
«O forse no» commentò Fayez.
«Parte del motivo per cui sono venuta qui, per cui ho acconsentito a questo,
è stato che avremmo fatto le cose nel modo giusto.» Elvi sentì la tensione che
le affiorava nella voce. «Avremmo creato un ambiente sigillato. Una cupola.
Avremmo esplorato il pianeta, imparato da esso e saremmo stati responsabili
di come lo trattavamo. La RCE ha mandato degli scienziati, dei ricercatori. Sa
quanti di noi hanno certificazioni di sostenibilità e conservazione? Cinque
sesti. Cinque sesti.»
La sua voce era salita di tono più di quanto fosse stata sua intenzione, i suoi
gesti si erano fatti più marcati e le sue parole vibravano di indignazione. Gli
occhi di Holden, di un blu irreale, erano fissi su di lei e poteva avvertire che
la ascoltava come se la sua attenzione fosse stata una sorta di emanazione. A
livello intellettuale, sapeva cosa stava succedendo. Era spaventata e ferita, e
si sentiva colpevole per essere stata quella che aveva mandato Reeve e gli
altri incontro al pericolo. Era riuscita a ignorare il tutto, ma adesso stava
affiorando. Stava parlando di biologia e di scienza, ma quello che intendeva
dire era: ‘Mi aiuti. Sta andando tutto per il verso sbagliato e nessuno mi può
aiutare. Nessuno tranne lei.’
«Solo che quando è arrivata qui c’era già una colonia» osservò Holden. La
sua voce era come flanella calda. «E una colonia formata da un mucchio di
persone che hanno un sacco di buone ragioni per diffidare delle società. E dei
governi.»
«Qui sembra tutto calmo» disse Elvi. «Sembra splendido. E lo è. E ci
insegnerà cose che non abbiamo mai neanche sognato prima. Ma lo stiamo
facendo nel modo sbagliato.»
Fayez sospirò. «Ha ragione» disse. «Voglio dire, mi piace parlare del litio,
dei diritti morali e dei problemi legali quanto chiunque altro. Però Elvi non
sbaglia nel dire quanto sia strano questo posto se cominciamo a esaminarlo
con attenzione, e ha un sacco di aspetti molto pericolosi a cui non stiamo
prestando alcuna attenzione perché, come sa, siamo impegnati ad ammazzarci
a vicenda.»
«Ho capito quello che state dicendo» replicò Holden. «Avrò bisogno di
esaminare la cosa. La parte in cui la gente si sta ammazzando a vicenda deve
essere la mia priorità, ma prometto a entrambi di mettere in lista la creazione
di una cupola planetaria chiusa e sicura non appena questa crisi sarà rientrata,
indipendentemente da chi finisca per avere il controllo di tutto.»
«Grazie» disse Elvi.
«La maggior parte degli abitanti di qui è brava gente» aggiunse Fayez. «I
cinturiani? Siamo qui da mesi e giuro che perlopiù queste persone sono solo
poveri bastardi che hanno pensato che ricominciare daccapo fosse una buona
idea. E la Royal Charter è una società molto, molto responsabile. Guardi alla
sua storia e non troverà più corruzione e tangenti di quante ce ne siano in una
comune associazione genitori-insegnanti. Si stanno davvero sforzando di fare
le cose nel modo giusto.»
«Lo so» annuì Holden. «E vorrei che questo rendesse le cose più facili.»
«Capitano?» chiamò l’enorme uomo-neonato.
«Amos?»
«C’è un altro casino di stronzate legali che è appena arrivato dalle Nazioni
Unite per te.»
Holden sospirò. «Ci si aspetta che lo legga?»
«Non vedo come possano costringerti a farlo» ribatté Amos. «Ho solo
pensato che avresti voluto ignorarlo intenzionalmente.»
«Grazie. Più o meno.» Holden tornò a rivolgersi ai due scienziati. «Temo di
dovermi occupare di burocrazia per un po’, ma vi ringrazio moltissimo per
essere venuti. Sentitevi liberi di venire a parlare con me quando volete.»
Fayez si alzò ed Elvi lo imitò mezzo secondo più tardi. Lui strinse la mano
a entrambi, poi si ritirò in una stanza sul retro. Fayez uscì in strada con Elvi, e
Hassan Smith e il suo fucile li salutarono quando gli passarono accanto.
Il sole splendeva nel cielo tinto di azzurro dall’ossigeno. Elvi sapeva che
era un po’ troppo piccolo, che il suo spettro di luce tendeva verso l’arancione,
ma ormai le era familiare, come lo erano le giornate di trentaquattro ore e la
sua piccola capanna. Fayez si incamminò con lei.
«Torni alla tua capanna?» chiese.
«Dovrei» rispose Elvi. «Non ci sono più stata da quando sono andata a
parlare con Reeve. Sono sicura che tutti i miei set di dati sono ultimati. E
probabilmente troverò un mucchio di messaggi infuriati da casa.»
«Sì, è probabile» convenne Fayez. «Quindi stai bene?»
«Oggi sei la terza persona che me lo chiede» ribatté Elvi. «Mi comporto
come se avessi qualcosa che non va?»
«Un poco» confermò Fayez. «Ma hai il diritto di essere sconvolta.»
«Sto bene» garantì Elvi. La mano le formicolava ancora un poco dove
Holden l’aveva stretta nella sua. Si massaggiò la pelle. In fondo alla strada
una ragazza cinturiana camminava in fretta con la testa china e le mani
affondate nelle tasche. Fermi alle sue spalle, Murtry e Chandra Wei la
guardavano con sospetto, il fucile in mano. Il vento che soffiava dalla pianura
sollevava piccoli vortici di polvere negli angoli dei vicoli. Elvi voleva tornare
alla sua capanna e non lo voleva. Voleva risalire sulla Edward Israel e
tornare a casa, eppure non avrebbe lasciato Nuova Terra per tutto l’oro del
mondo. Ricordava di essere stata molto, molto giovane e terribilmente
sconvolta per qualcosa, di aver pianto sulla spalla di sua madre dicendo che
voleva andare a casa, solo che era già a casa quando lo aveva detto. E adesso
voleva la stessa cosa.
«Non lo fare» ammonì Fayez.
«Cosa non devo fare?»
«Innamorarti di Holden.»
«Non so di cosa stai parlando» scattò lei.
«In questo caso, sul serio, non lo fare» ribatté Fayez, con una risata cinica, e
si allontanò.
14
Holden
Coop e Cate erano stati membri dell’APE della vecchia scuola, ai tempi in
cui l’Alleanza dei Pianeti Esterni era solo un’opinione comune sostenuta con
le armi. Avevano fatto carriera insieme in un’epoca in cui anche solo portare
il cerchio spezzato dell’APE sulla manica era un’offesa passibile di arresto, e
avevano imparato il mestiere oltrepassando di soppiatto i posti di blocco della
Coalizione Terra-Marte, mettendo bombe, contrabbandando armi e in
generale agendo da quei terroristi che i pianeti interni li accusavano di essere.
Il solo motivo per cui non erano finiti entrambi in un campo-prigione era che
sotto alcuni punti di vista l’APE aveva vinto. Dopo i fatti di Eros, i pianeti
interni avevano cominciato a trattare l’APE come un vero governo, e molti
combattenti avevano ricevuto l’amnistia di fatto che ne era derivata.
Adesso Cate era soltanto un minatore, come il resto di loro, ma era in grado
di usare parole come vantaggio tattico e dare l’impressione di sapere davvero
di cosa parlava.
«Il terreno e la superiorità numerica sono i nostri vantaggi tattici» disse al
piccolo gruppo riunito nella sua casa. «Siamo però in condizioni di inferiorità
quanto ad armamenti, questo è innegabile. In tutto abbiamo al massimo una
dozzina di armi da fuoco. Possiamo sempre prendere gli esplosivi, ma
l’accordo che Holden ha stretto con la RCE lo rende molto più rischioso.»
«Il fottuto Holden» disse Zadie.
«Presto ci occuperemo di lui» replicò Cate.
Il suo pubblico era composto dalla solita banda. L’infezione all’occhio del
figlio di Zadie era peggiorata e sua moglie adesso rimaneva a casa con lui per
tutto il tempo. Basia aveva l’impressione che Zadie fosse in cerca di qualcuno
da punire per le sofferenze della sua famiglia. Pete, Scotty e Ibrahim erano là
nella loro veste di veterani del loro unico scontro con gli agenti della
sicurezza della RCE, cosa che dava loro un certo ascendente nel gruppo che
avevano messo insieme. C’erano però anche altre persone, altri membri della
colonia che in precedenza potevano essere stati incerti sul modo migliore di
vedersela con la RCE ma erano stati spinti a unirsi alle file dei rivoluzionari
dalle tattiche brutali di Murtry. Dal martirio di Coop.
«Come?» chiese Scotty. «Come ci occuperemo di Holden?»
«Credo che rimuoveremo tutti i nostri problemi con un’unica operazione su
molteplici fronti» rispose Cate. «Murtry e la sua squadra, Holden e il suo
sgherro, tutti in una volta. La chiave per questo tipo di guerra è il denaro.»
«Renderci troppo costosi perché valga la pena di occupare il pianeta» annuì
Ibrahim. Anche lui aveva fatto parte dell’APE.
«Esatto. È stato così che ci siamo scrollati di dosso la gente dei pianeti
interni, nella Fascia. Se non sarà economicamente accettabile occuparci, non
lo faranno. Ognuno di loro che torna a casa in una sacca per cadaveri è un
chiodo in più sulla bara della società.» Cate calò un grosso pugno sull’altra
mano per dare enfasi alle sue parole.
«Non vi seguo. Ucciderli come può aiutarci a ottenere quello che
vogliamo?» chiese Basia. Aveva acconsentito a partecipare nella speranza di
far prevalere le menti più razionali, ma appariva sempre meno probabile
quando più la riunione si prolungava.
«Mandare nuove truppe al fronte comporta un viaggio di diciotto mesi»
rispose Cate. «Questo significa impegnare un trasporto su lunga distanza per
un periodo di oltre tre anni. È una cosa costosa. E durante l’anno e mezzo che
loro impiegheranno ad arrivare qui, noi potremo fortificare la nostra
posizione. Approntare campi sulle colline. Dividerci in gruppi. Per poter
vincere dovranno lanciare un vero e proprio programma militare. La Stazione
di Medina non appoggerà la cosa, anche se dovesse avercela con noi per aver
forzato la mano.»
«Alleanza coercitiva» aggiunse Ibrahim, annuendo.
«Secondo le regole» disse Cate.
Per un momento la stanza si fece silenziosa, mentre tutti riflettevano sulle
sue parole. Il tetto di metallo tintinnava e strideva per la sabbia che il vento
spingeva contro di esso. Le finestre scricchiolavano nel raffreddarsi ora che
era notte. Una dozzina di persone respirava l’aria aliena.
«Loro sono già qui» osservò Basia, schiarendosi la gola per infrangere il
silenzio. «Questo non è esattamente quello che faranno?»
«Chi farà cosa?» chiese Scotty.
«La Rocinante» replicò Basia. «Adesso è in orbita, ed è una nave da guerra,
con armi e missili e chissà che altro. Se uccidiamo Holden potrebbero
bombardarci.»
«Speriamo che lo facciano!» tuonò Cate. «Per dio, speriamolo. Qualche
video di coloni morti, assassinati dalle navi delle Nazioni Unite in orbita qui,
e la guerra per conquistare l’opinione pubblica è vinta.»
Basia annuì come se fosse stato d’accordo. Sono nella squadra sbagliata,
era però ciò che stava pensando.
«Quindi, muoviamo contemporaneamente contro entrambi i gruppi» riprese
Cate, la cui voce aveva assunto le stesse cadenze che di solito aveva Coop.
Era come se lui fosse ancora nella stanza, infestandola con la sua presenza.
«Mantengono due persone di pattuglia in strada in ogni momento, quindi ci
serve una squadra che li segua fino a quando sarà dato il segnale. Una
seconda squadra si occuperà dell’edificio della sicurezza dove si trovano
Murtry e le altre guardie. La terza andrà allo spaccio dove Holden e il suo
compagno sono rintanati per la notte. Pensavo a Scotty e Ibrahim per la prima
squadra. Io guiderò...»
Cate continuò a parlare, esponendo la follia di quegli omicidi multipli come
un enigma da risolvere o un gioco in cui vincere. Coordinò gli attacchi in
modo che si verificassero tutti e tre allo stesso tempo e nessuno potesse dare
l’allarme, usando termini come ‘campo di tiro’ e ‘massima aggressione’
come se avessero significato qualcosa di diverso dall’abbattere a colpi di
fucile una dozzina di uomini e donne mentre la maggior parte di essi
dormiva. Il piccolo gruppo annuì, seguendo le sue direttive. Basia si sentì
stupefatto dalla facilità con cui l’impensabile era diventato una cosa di
routine.
«I miei figli vivono qui» disse, interrompendo Cate.
«Cosa?» chiese lei, mostrandosi sinceramente sconcertata. Era stata a metà
di una frase quando lui era intervenuto. «Io non...»
«Quei corpi di cui mandare le fotografie ai notiziari sono quelli dei nostri
figli» continuò Basia. «Dei miei figli.»
Cate lo fissò, ancora troppo interdetta per cominciare a infuriarsi.
«Como?»
«Volevo venire qui e magari dissuadervi dal fare qualcosa di stupido»
dichiarò Basia, alzandosi e rivolgendosi a tutti i presenti. «Pensavo che forse,
adesso che Coop non c’è più, avremmo potuto mettere fine a tutto questo. Ma
non è più soltanto stupido, non quando potete parlare di amici e familiari
morti come di strumenti da dare in pasto ai media. Questo è malvagio, e io
non voglio avervi parte.»
La stanza si fece di nuovo silenziosa, tranne per il frusciare della sabbia, le
finestre che si raffreddavano e il respiro dei presenti.
«Se cerchi di intralciarci...» cominciò Ibrahim, ma Basia si girò di scatto a
fronteggiarlo.
«Cosa farai?» chiese, facendosi tanto vicino che il suo respiro agitò i peli
della rada barba di Ibrahim. «Cosa farai se cerco di intralciarvi? Non fare le
minacce a metà, macho.»
Ibrahim era più minuto di lui. Abbassò lo sguardo e non replicò. Basia
avvertì un momento di vergognoso sollievo che fosse stato Ibrahim a reagire
alle sue parole, e non Cate. Aveva paura di Cate, non sarebbe mai riuscito a
tenerle testa.
«Dui» disse, indietreggiando verso la porta con un cenno rivolto a tutti i
presenti. «E ora me ne vado.»
Dopo che si fu richiuso la porta alle spalle gli altri presero a parlare in toni
sommessi, ma lui non poté sentire cosa dicevano. La cosa gli diede
comunque un formicolio al collo e si chiese se non si fosse spinto troppo
oltre, se si sarebbero accontentati di uccidere soltanto lui e non anche Lucia.
A metà strada si imbatté in due guardie di sicurezza della RCE di pattuglia.
Erano due donne in armatura pesante, che le faceva apparire massicce e
pericolose. Una di esse, una donna dalla pelle chiara e dai capelli corvini, gli
rivolse un cenno di saluto nell’incrociarlo. In lei tutto era una minaccia –
l’armatura, il grosso fucile d’assalto che impugnava, le granate stordenti e le
manette che le pendevano dalla cintura – e il suo sorriso cordiale parve
assurdamente fuori posto. Basia non poté trattenersi dall’immaginarla mentre
si dissanguava in mezzo alla strada, colpita alla schiena da uno dei suoi
amici.
Lucia lo aspettava sul portico, seduta a gambe incrociate su un grosso
cuscino mentre beveva qualcosa che emanava vapore nell’aria notturna. Non
era tè, perché non ne avevano quasi più. Probabilmente era solo acqua calda
con un po’ di aroma al limone, ma presto avrebbero esaurito anche gli aromi
artificiali a meno che non venisse dato loro il permesso di cominciare a
vendere il minerale.
Basia si lasciò cadere seduto con un tonfo sul duro pavimento di fibra di
carbonio, accanto a lei.
«Allora?» chiese Lucia.
«Non vogliono ascoltare» sospirò Basia. «Parlano di uccidere la gente della
RCE. Tutti quanti. E anche Holden e i suoi.»
Lucia scosse il capo in un gesto di diniego. «E tu?»
«A questo punto, è possibile che stiano parlando di uccidere anche me, ma
non credo che lo faranno finché non metto loro i bastoni fra le ruote. Però
non posso prendere parte a questa cosa, e gliel’ho detto. Mi dispiace di aver
lasciato che le cose arrivassero a questo punto, Lucy. Sono un uomo molto
stupido.»
Lucia gli rivolse un triste sorriso e gli posò una mano sul braccio. «Non
facendo niente ora rimani dalla loro parte.»
Basia si accigliò. L’aria notturna conservava ancora l’odore di terra della
recente tempesta di polvere. Un odore di cimitero. «Non posso fermarli da
solo.»
«Holden è qui per fare questo. È tornato da quello che è andato a fare nel
deserto con la squadra scientifica. Potresti parlare con lui.»
«Lo so» annuì Basia, ammettendo ciò a cui stava già pensando. Il fatto che
fosse necessario non sminuiva la sensazione di tradire i suoi amici. «Lo so.
Lo farò.»
Lucia fece una risata di sollievo. Nel vedere l’espressione perplessa di
Basia lo prese fra le braccia e lo strinse a sé. «Sono così felice di sapere che il
Basia che amo è ancora lì dentro.»
Basia si rilassò nel suo abbraccio, permettendosi per un momento di sentirsi
al sicuro e amato.
«Baz» gli sussurrò all’orecchio Lucia.
Non dire niente che possa rovinare questo momento, pensò lui.
«Felcia partirà con la navetta per andare sulla Barbapiccola. Ora, stanotte.
Le ho dato il permesso.»
Basia si trasse indietro, allontanando da sé Lucia di tutta la lunghezza delle
braccia. «Cosa farà?»
Lucia si accigliò nel guardarlo e gli strinse con forza le braccia. «Lasciala
andare.» C’era un avvertimento nella sua voce.
Basia si liberò e balzò in piedi. Lucia lo chiamò, ma lui stava già correndo
verso il sito di atterraggio.
Il sollievo che provò nel vedere che la navetta era ancora là fu così intenso
che per poco non si accasciò. Uno dei carrelli elettrici della colonia gli passò
accanto e per poco non lo investì nel buio. Il carrello era pieno di minerale,
quindi stavano ancora caricando la navetta. Aveva tempo.
Felcia era ferma a qualche metro dal portello, con una valigia in ciascuna
mano, intenta a chiacchierare con il pilota. Entrambi erano nella chiazza di
luce proiettata dalle lampade da lavoro che circondavano la navetta, e la
bruna pelle olivastra di Felcia pareva risplendere. I capelli le scendevano
intorno alla faccia e lungo la schiena in onde morbide, gli occhi erano
sgranati mentre parlava di un qualcosa che la entusiasmava.
In quel momento sua figlia era così bella che Basia sentì il petto che gli
doleva. Quando lo vide, il volto le si illuminò in un sorriso. Prima che potesse
parlare, Basia la prese fra le braccia e la strinse forte a sé.
«Papà» disse lei, con la preoccupazione che le trapelava dalla voce.
«No, piccola, è tutto a posto» la rassicurò lui, scuotendo il capo contro la
sua guancia. «Non sono venuto per fermarti. Solo... non potevo permetterti di
partire senza salutarti.»
Si sentì la guancia bagnata. Felcia stava piangendo. La prese per le spalle e
la allontanò da sé per guardarla in faccia. La sua bambina, che era ormai
cresciuta ma piangeva ancora fra le sue braccia. Non poté fare a meno di
vedere la bambina di quattro anni che era stata un tempo mentre piangeva
perché era caduta e si era fatta male a un ginocchio.
«Papà,» replicò lei, con voce inspessita dall’emozione «temevo che mi
avresti odiata per aver voluto partire, ma la mamma ha detto...»
«No, piccola, no.» Basia l’abbracciò di nuovo. «Vai, e quando lasceranno
partire la nave, vai su Ceres, diventa un dottore e vivi una vita fantastica.»
«Perché?»
Perché qui la gente vede la tua morte come uno strumento per vincere la
battaglia dell’opinione pubblica. Perché ho perso tutti i figli che sono
disposto a perdere. Perché non posso permettere che tu mi veda quando alla
fine mi arresteranno.
«Perché ti voglio bene, piccola,» rispose invece «e voglio che diventi
qualcosa di incredibile.»
Lei lo abbracciò, e per un momento tutto tornò a essere a posto
nell’universo. Basia la guardò salire a bordo, fermarsi dentro il portello per
salutare e lanciargli un bacio. Guardò caricare il resto del minerale nella stiva
e rimase a guardare mentre la navetta decollava con un ruggito e un’ondata di
calore.
Poi tornò verso la città per andare a cercare Holden.
Holden e Amos sedevano nel piccolo bar dello spaccio. Amos beveva e
osservava tutti quelli che entravano dalla porta, tenendo il bicchiere con la
sinistra e la destra mai lontana dall’arma che aveva alla cintura. Holden
digitava in fretta sul terminale palmare che era posato sul tavolo. Entrambi
apparivano tesi.
Basia si diresse verso di loro con un sorriso e un cenno del capo, badando a
tenere le mani in vista e lontane dal corpo. Amos ricambiò il sorriso. Il cuoio
capelluto del grosso uomo appariva pallido e lucido sotto la luce bianca a LED
dello spaccio. Il gesto con cui si protese in avanti sulla sedia parve del tutto
naturale, senza nulla di minaccioso, ma Basia notò che avvicinò la pistola alla
mano in modo all’apparenza accidentale.
Quello era un genere di dettagli che non avrebbe mai notato prima. Coop e
Cate, e la violenza degli ultimi mesi lo avevano lasciato sul chi vive,
portandolo a vedere potenziale violenza ovunque. Nel guardare Amos, ebbe il
sospetto che i suoi istinti non si sbagliassero.
«Capitano Holden, posso unirmi a voi per un momento?» chiese,
sollevando le mani.
Holden alzò la testa di scatto, sorpreso e spaventato. Basia era sicuro di non
essere lui la fonte di quella paura, e si chiese di cosa si trattasse. Murtry e i
suoi assassini al soldo della società? Oppure Holden aveva appreso da
qualcun altro dell’attacco che veniva pianificato?
«Prego» lo invitò Holden, mente la paura gli svaniva dal volto rapida
com’era apparsa, e indicò una delle sedie vuote. «Cosa posso fare per lei?»
Amos non disse nulla, limitandosi a sfoggiare quel suo vago sorriso. Basia
sedette, accertandosi di tenere le mani in vista sul tavolo. «Capitano, sono
venuto ad avvertirla.»
«Riguardo a cosa?» chiese subito Amos. Holden rimase in silenzio.
«Qui c’è un gruppo, lo stesso che ha attaccato e ucciso la squadra di
sicurezza della RCE, prima del vostro arrivo. Nei prossimi giorni, forse anche
domani notte, vogliono uccidere il resto delle guardie della sicurezza.»
Holden e Amos si scambiarono una rapida occhiata. «Ci aspettavamo
qualcosa del genere» affermò poi Holden. «Però non è questa la cosa
importante...»
Basia non lo lasciò finire. «Vogliono uccidere anche voi.»
Holden si raddrizzò leggermente. Non sembrava tanto infuriato quanto
offeso.
«Me? Perché mai vogliono uccidere anche me?»
«Ritengono che servirà a mandare un messaggio» spiegò Basia, in tono
apologetico. «Inoltre, sono infuriati riguardo al controllo degli esplosivi.»
«Te lo avevo detto» commentò Holden, rivolto ad Amos. «Un buon
compromesso fa incazzare tutti.»
Senza rendersi conto di quello che stava facendo, Basia afferrò la bottiglia
che era sul tavolo e bevve un lungo sorso. Doveva essere qualcosa che
avevano portato con loro, perché era un whisky molto migliore di qualsiasi
cosa si potesse avere alla colonia. Gli scaldò piacevolmente la gola e il
ventre, ma non lo calmò quanto aveva sperato. Spinse di nuovo la bottiglia
verso Amos, ma il grosso uomo lo fermò. «Tienila tu, fratello. Hai l’aria di
averne bisogno.»
«Cosa farete?» chiese Basia a Holden.
«Riguardo all’assassinio? Niente, non ha importanza perché ce ne
andremmo tutti.»
«Ce ne andremo...»
«Stiamo per evacuare il pianeta. Tutti quanti.»
«No» protestò Basia. «Non se ne andrà nessuno. Non possiamo andarcene
ora.» Ho aiutato a uccidere delle persone per restare qui.
«Oh, ce ne andiamo eccome» dichiarò Holden. «Su questo pianeta sta
succedendo qualcosa di molto brutto che non ha niente a che vedere con
cinturiani ostinati o guardie di sicurezza sociopatiche.»
Basia bevve un altro lungo sorso dalla bottiglia. L’alcol cominciava a
lasciarlo leggermente stordito, ma non era meno ansioso di prima. «Non
capisco.»
«Un tempo qui viveva qualcuno» disse Holden, agitando un braccio intorno
a sé. La mente di Basia, intorpidita dall’alcol, impiegò un momento a rendersi
conto che lui non si riferiva allo spaccio. «Forse se ne sono andati, o forse no,
ma si sono lasciati alle spalle un sacco di cose, e alcune si stanno svegliando.
Quindi, prima di finire per essere una versione di Eros con un grande cielo
azzurro, tutti quanti alzeranno i tacchi al più presto.»
Basia annuì senza capire. Amos gli sorrise e precisò: «Le torri e i robot,
amico. Lui parla di quella roba aliena. Pare che parte di essa si stia
svegliando.»
«In questo momento sto mandando un messaggio alla Rocinante perché lo
ritrasmetta al consiglio delle Nazioni Unite e dell’APE» continuò Holden. «Il
mio consiglio è che tutti tornino in orbita il più in fretta possibile. Richiedo
anche di assumere il comando d’emergenza della Israel e della Barbapiccola
per facilitare l’evacuazione.»
«Non succederà» dichiarò Basia, in tono sommesso.
«Non è una cosa facile da ottenere,» ammise Holden «ma so essere
persuasivo, e una volta ottenuto il comando...»
«Non se ne andranno» affermò Basia. «Qui la gente ha già versato sangue
per la terra, è morta per essa. Siamo pronti a ucciderci a vicenda per restare
qui, ed è certo come l’inferno che rimarremo e combatteremo contro qualsiasi
altra cosa voglia mandarci via.»
«A patto che qualcuno sopravviva» osservò Amos.
«Sì, certo» convenne Basia. «A patto che qualcuno sopravviva.»
18
Holden
O magari:
Praticamente ogni dannato cinturiano con cui ho avuto a che fare mi ha trattato come una merda
per la mia provenienza, ma adesso che noi terrestri siamo la maggioranza cerchiamo di rispettare i
loro poveri sentimenti feriti.
Si fermò.
Una volta, su Ceres, lo avevano incaricato di chiudere un club clandestino
situato vicino al centro della stazione, dove la forza di Coriolis era al suo
massimo e la rotazione gravitazionale era minima. Quando era arrivato sul
posto, la combinazione delle luci intense, della musica stridente e del suo
orecchio interno non abituato a quelle condizioni lo aveva ridotto a vomitare
nei corridoi. Una sua immagine mentre era in quello stato era poi finita sulla
bacheca, negli uffici, e lui era stato al gioco perché protestare avrebbe solo
peggiorato le cose. Era un episodio a cui non pensava più da anni.
Se lei fosse il solo terrestre.
«Merda» imprecò, rivolto all’ufficio vuoto, poi cancellò tutto.
È stato sottoposto alla mia attenzione il fatto che alcuni dipendenti e membri di squadre
scientifiche della RCE sono stati fatti oggetto di molestie perché originari dei pianeti esterni. In
queste condizioni di tensione è di importanza critica non confondere i nostri compagni di squadra
con il nemico a causa di caratteristiche dovute alla fisiologia e all’ambiente d’origine. Di
conseguenza, intendo intraprendere le seguenti azioni:
«Me ne pentirò» disse allo schermo, ma dopo che ebbe finito di digitare
l’annuncio, lo ebbe controllato dal punto di vista grammaticale e diramato, si
sentì quasi bene.
20
Elvi
Seduta davanti alla sua capanna con il terminale palmare in mano e l’ormai
familiare luce del sole che le scaldava il collo e la schiena, Elvi aspettava che
i rapporti da Luna finissero di scaricarsi. La comunicazione laser sulla
Edward Israel era il solo contatto con i mondi che aveva conosciuto, ed era
intasata di dati tecnici che fluivano dai gruppi di lavoro sulla superficie
planetaria e dai dati rilevati dai sensori della Israel stessa. Rendersi conto che
nonostante tutte le tragedie, la paura e la morte che devastavano Nuova Terra
la maggior parte dei dati inviati a casa fosse ancora di natura tecnica era una
cosa che faceva riflettere. E la sua connessione così lenta era più di quanto
avessero gli abitanti di First Landing. La Barbapiccola non era neppure in
grado di tenere aperto un canale, e i loro terminali palmari avevano un
funzionamento strettamente locale, una rete che funzionava a corto raggio,
nel campo visivo, sempre ammesso che funzionasse.
La brezza sollevò un vortice di sabbia e tornò a depositarlo con delicatezza.
In alto, le nuvole verdi si sparpagliarono e tornarono a unirsi, intrecciandosi
nel cielo azzurro come alghe che fluttuassero sulla superficie di una polla.
L’aria odorava di calore e di polvere, e di un distante presentimento di
pioggia. I rapporti finirono il download ed Elvi li richiamò a schermo, per poi
passare una lunga ora a leggerli, ad ascoltare i dibattiti e a mettere insieme il
suo punto di vista. Fu più difficile di quanto avrebbe voluto, perché la sua
mente continuava a divagare senza controllo.
Sul pianeta tutto stava cambiando così in fretta, tutto era così diverso da
come si era aspettata, da far sì che anche solo mantenere la concentrazione
fosse difficile. Il viaggio nel deserto, la vista di un meccanismo ancora in
funzione, sia pure a stento, dopo due miliardi di anni erano state esperienze
rivelatrici. Poi la scoperta e l’uccisione dei terroristi annidati fra i coloni
abusivi, che avrebbero dovuto costituire un sollievo, l’avevano lasciata
stranamente turbata. E anche se non ne aveva parlato con nessuno né mai lo
avrebbe fatto, continuava a fare sogni ricorrenti e importuni su James Holden.
Sullo schermo, il rapporto della coordinatrice della ricerca si concluse, ed
Elvi si rese conto di non aver sentito neppure una parola. Con un sospiro, lo
fece partire di nuovo, ma poi tornò a fermarlo prima che la donna che si
trovava nei laboratori della RCE sulla Terra avesse potuto dire una sola parola.
Sollevò lo sguardo verso il cielo, chiedendosi dove fossero la Rocinante, la
Barbapiccola e la Edward Israel, nascoste com’erano dall’azzurro
dell’atmosfera. Uno degli analoghi di piante sul sentiero che portava in città
emise una raffica di suoni simili a un clic che salivano di tono. Era una cosa
su cui intendeva indagare, ma non ne aveva avuto il tempo. Non ancora.
«Dottoressa Okoye» disse la coordinatrice della ricerca, da sessanta UA di
distanza – o mezza galassia, a seconda di come si consideravano le cose. «Ho
appena concluso una riunione con la squadra statistica, e volevo aggiornarla
su come vorremmo procedere per la raccolta dei dati nelle prossime
settimane. Il gruppo su Luna, in particolare, sperava di poter richiedere
ulteriori campioni relativi ai suoi soggetti iniziali, in modo da poter
restringere il campo di errore...»
Elvi ascoltò, concentrandosi e costringendosi a reprimere ogni altro
pensiero e sensazione. Questa volta, arrivò alla fine del rapporto con una lista
di azioni da intraprendere, una chiara sensazione del modo in cui il suo
lavoro stava modificando le risorse e i piani dei laboratori, a casa, e una
mezza dozzina di domande sull’isolamento di minerali che voleva porre a
Fayez. Il protocollo richiedeva che lei registrasse una risposta e la inviasse
immediatamente: le ore che avrebbe impiegato ad arrivare a destinazione
significavano che la sua risposta sarebbe stata disponibile prima delle
riunioni del mattino. Invece, aprì il suo organizer e cominciò a elencare ciò
che doveva fare. Raccogliere campioni di acqua e di terriccio, campioni di tre
diverse specie di analoghi di piante. Un rapporto sul manufatto alieno...
Aveva riflettuto su tutte le possibili cause che potevano aver provocato
l’improvvisa attività del manufatto. Dal momento in cui Holden era giunto lì,
e visto che dopotutto lui era il mediatore incaricato di rendere migliore –
razionale, sensata – la situazione su Nuova Terra, aveva pensato che se fosse
riuscita a fornire un valido motivo a sostegno del fatto che il manufatto non si
era mosso in reazione alla loro presenza, la cosa avrebbe ridotto i problemi
che Holden stava fronteggiando. Sarebbe stata una gentilezza, e un contributo
per aiutarlo a portare la pace.
Di certo non stava soltanto cercando scuse per vederlo di nuovo.
Tornò al suo elenco di cose da fare, poi si interruppe. In fondo scrisse:
‘Lettera di raccomandazione per Felcia Merton.’ Per un lungo momento
rimase seduta a guardare quelle parole, cercando di determinare quali fossero
i suoi sentimenti al riguardo. Cancellò la riga, attese, poi tornò a inserirla.
Entrare in città era come addentrarsi in un altro mondo, uno più duro. Le
strade polverose non erano vuote, ma la gente si teneva più vicina ai muri di
quanto avesse fatto prima. I sorrisi, i cenni del capo, il contatto visivo e i
semplici saluti erano scomparsi. Gli abitanti della città camminavano in
fretta, a testa bassa. Elvi ebbe la tentazione di mettersi davanti a loro,
bloccare loro il passo con il suo corpo e costringerli a prendere atto della sua
presenza.
L’edificio dove era successo tutto si trovava al limitare della città. Il fuoco
aveva fuso ciò che non aveva consumato. Lo scheletro della costruzione era
ancora in piedi, carbonizzato e inclinato, sotto il sole del pomeriggio. Si
soffermò davanti a esso: le ricordava qualcosa, ma non riuscì a mettere bene a
fuoco cosa. Qualcosa di morto. Qualcosa che aveva a che fare con il fuoco.
Oh. Ma certo, il manufatto che bruciava, nel deserto.
Due guardie delle forze di sicurezza della RCE camminavano davanti a lei
nel centro della strada. Non riuscì a distinguere le loro parole, ma il tono della
conversazione era allegro, rilassato e celebrativo. Uno dei due rise. Elvi si
volse, dirigendosi verso di loro. Nell’oltrepassarla, uno dei due sollevò una
mano in un gesto di saluto che lei ricambiò automaticamente. Dall’altra parte
della strada una donna cinturiana – si chiamava Eirinn – si affacciò su una
porta, vide gli uomini della sicurezza ed esitò prima di uscire alla luce del
sole. Elvi la guardò incamminarsi, con la testa un po’ troppo alta, le spalle
spinte un po’ troppo indietro: niente rivelava la paura come lo sforzo di
respingerla. Un tempo, First Landing era appartenuto a quella donna.
Elvi entrò nello spaccio con la speranza di trovare Holden al suo solito
tavolo. La stanza era in penombra, e il suo sguardo impiegò un po’ a
adeguarsi. Invece di Holden, al tavolo c’era Amos Burton, impegnato a
mangiare una ciotola di spaghetti marrone che odoravano di arachidi finte e
di curry. In fondo alla stanza Lucia Merton sedeva in un séparé con qualcuno.
Elvi distolse lo sguardo prima di incontrare quello della dottoressa.
Quando gli si avvicinò, Amos sollevò lo sguardo.
«Mi stavo chiedendo se il capitano Holden... ecco, volevo parlare con lui,
dei manufatti. Quelli nel deserto.»
«È successo qualcosa che li riguarda?»
«Ho alcune teorie che pensavo potessero essere... utili.»
Oh, buon dio, pensò. Sto balbettando come una scolaretta. Per fortuna
Amos non se ne accorse, o almeno finse di non notarlo.
«Il capitano è impegnato a prepararsi a trasferire il prigioniero» spiegò
Amos. «Dovrebbe tornare verso il tramonto.»
«D’accordo, mi va bene» replicò Elvi. «Potrebbe dirgli che l’ho cercato? È
probabile che sia nella mia capanna quando lui tornerà. Può trovarmi lì.»
«Glielo farò sapere.»
«Grazie.»
Elvi si volse per andarsene con i pugni affondati nelle tasche. Si sentiva
umiliata senza essere ben certa del perché. Aveva solo intenzione di offrire
un diverso punto di vista riguardo ai manufatti e all’ecosistema locale. Non
c’era niente di sconveniente o...
«Elvi!»
Con un senso di sgomento che le serrava lo stomaco, Elvi si girò verso il
séparé dove era seduta Lucia Merton. Fayez aveva fatto ruotare la sedia e
agitava la mano per chiamarla. Elvi guardò verso la porta che dava sulla
strada, desiderando che ci fosse un modo cortese per poterla varcare.
«Elvi! Vieni a sederti e bevi qualcosa con noi.»
«Certo» rispose, e tornò verso il retro dello spaccio, rimpiangendo ogni
passo mosso in quella direzione.
La dottoressa Merton appariva pallida, tranne per le borse scure sotto gli
occhi. Elvi si chiese se stesse male, o se si trattasse solo di dolore e
preoccupazione.
«Lucia» la salutò.
«Elvi.»
«Siediti, siediti, siediti» insistette Fayez. «Con te lì in piedi mi sento basso,
e odio sentirmi basso.»
Elvi lisciò il tessuto dei pantaloni e scivolò sulla panca accanto a Fayez, che
aveva un sorriso alticcio e divertito. Lo sguardo che Lucia le lanciò fu quasi
di scusa. ‘Avresti potuto sederti accanto a me’ pareva dire.
«Stavamo parlando di Felcia» spiegò Fayez, poi si rivolse a Lucia. «Elvi è
la persona più intelligente della squadra. Dico sul serio. Lo sa che è stata lei a
scrivere la prima vera ricerca sul calcolo citoplasmatico? Eccola seduta
proprio qui.»
«Felcia mi ha parlato di lei» disse Lucia. «Grazie per essere stata un’amica
per mia figlia.»
La tua famiglia ha cercato di uccidermi, pensò Elvi. Ogni notte hai diviso il
letto con un uomo che mi voleva morta.
«Non c’è di che» rispose. «È una ragazza che ha molto talento.»
«Sì» annuì Lucia. «E dio sa che ho cercato di dissuaderla dal diventare un
dottore.»
«Sperava che sarebbe rimasta?» chiese Elvi. La sua voce suonò più acuta di
quanto avesse voluto.
«Non questo, no» rise Lucia. «Il fatto che lei stia lasciando il pianeta è la
sola cosa buona successa da quando siamo arrivati. Ho solo paura che voglia
diventare un dottore perché è quello che faccio io. Sarebbe meglio che
trovasse la sua strada.»
«Il viaggio fino a Luna è lungo» osservò Fayez. «Voglio dire, ho seguito
cinque diversi corsi di studio prima di innamorarmi dell’idrogeologia. Volevo
diventare un distillatore. Riuscite a immaginarlo?»
Elvi e Lucia risposero con un sì esattamente nello stesso momento, e
nonostante tutto Elvi sorrise. Lucia si alzò in piedi.
«Devo andare a prendere Jacek» disse.
«Sta bene?» chiese Elvi, d’istinto. Era un’abitudine del galateo. Avrebbe
voluto richiamare indietro la domanda nel momento stesso in cui le parole le
uscirono di bocca. La dottoressa fece un sorriso malinconico.
«Bene quanto ci si può aspettare che stia» rispose. «Suo padre se ne andrà
oggi.»
Portato come prigioniero sulla Rocinante, pensò Elvi, ma non lo disse.
«Qui il suo denaro non ha valore» avvertì Fayez. «Offro io.»
«Grazie, dottor Sarkis.»
«Fayez, mi chiami Fayez. Lo fanno tutti.»
Lucia annuì e si allontanò. Fayez scosse il capo e allungò il braccio dietro le
spalle di Elvi. Lei si spostò sul lato opposto del tavolo.
«Cosa diavolo stai facendo?» chiese.
«Cosa sto facendo io? Credi che sia questo il problema?»
«Sai che suo marito...»
«Io non so un dannato accidente di niente, Elvi, e neppure tu. Ho
abbondanza di interpretazione e molta scarsità di dati, proprio come te.»
«Tu credi... credi che non sia...»
«Penso che quell’edificio fosse pieno di terroristi e che Murtry li abbia
uccisi e ci abbia salvati. Questo è quello che penso, però. Penso anche che
quanto più i locali imparano a conoscermi e a volermi bene, tanto meno sarà
probabile che venga scalpato durante la prossima insurrezione. E... cos’è la
civiltà se non persone che chiacchierano fra loro davanti a una dannata
birra?» ribatté Fayez, poi fece dondolare la testa all’indietro sulle spalle. «Ho
ragione?»
«Hai fottutamente ragione» interloquì Amos. «Questo è certo, di qualsiasi
cosa steste parlando.»
«Esatto» commentò Fayez.
«Sei ubriaco» lo accusò Elvi.
«Sto fraternizzando da un po’» rispose Fayez. «Probabilmente ho bevuto
con un terzo della popolazione di questo buco di merda. Quello che voglio
sapere è dov’è il resto di voi, mentre io cerco di fare la pace.»
Per un momento, Elvi poté vedere anche la sua paura. Si scorgeva
nell’angolo della mascella e nel modo in cui lo sguardo dei suoi occhi
socchiusi deviava verso sinistra per evitare il suo. Fayez, che sapeva ridere di
qualsiasi cosa, per quanto tragica, era spaventato a morte. E perché non
avrebbe dovuto esserlo? Erano a miliardi di chilometri da casa, su un pianeta
che non capivano e nel mezzo di una guerra che aveva causato dei morti da
entrambe le parti. Ed era strano e insieme ovvio che fosse una vittoria della
loro fazione, l’identificazione e uccisione o imprigionamento di quegli
assassini senza nome e senza volto, a suscitare il panico.
Fayez stava aspettando. Aspettava la prossima escalation della violenza. La
prossima reazione. Stava cercando qualsiasi misura di controllo potesse
trovare o sperare o fingere di trovare. Elvi lo comprendeva perché si sentiva
nello stesso modo, solo che non se ne era resa conto finché non aveva visto
qualcun altro in quella condizione.
Fayez fissò il tavolo con aria accigliata, poi sollevò lo sguardo a incontrare
il suo. «Cosa ci fai qui?»
«A quanto pare, sono seduta insieme a te.»
Ad aspettare i prossimi eventi.
21
Basia
«Avanti» disse Holden al vuoto del deserto e all’uomo che non era là. «Ti
fai vedere tutte le volte che non ti voglio intorno, ma quando sono io che
voglio parlarti di qualcosa non succede niente.»
La cosa che era stata Miller non rispose. Holden sospirò, sperò, attese.
Ilus aveva perso parte della sua stranezza. Il cielo senza luna sembrava
ancora troppo buio, ma non più di una notte di luna nuova sulla Terra. Il suo
naso si era abituato agli strani odori del pianeta, che adesso aveva soltanto il
sentore della notte e dei momenti che seguivano la pioggia. Quella crescente
familiarità era insieme confortante e triste. Gli umani si sarebbero sparsi sui
mille mondi della rete dei portali. Si sarebbero insediati in piccole cittadine
come First Landing, poi si sarebbero sparpagliati, avrebbero costruito fattorie,
città e fabbriche, perché era quello che facevano gli umani, e nell’arco di
qualche secolo la maggior parte di quei mondi sarebbe stata molto simile alla
Terra. La frontiera avrebbe ceduto il posto alla civiltà che la seguiva e che
l’avrebbe rimodellata a immagine del loro mondo d’origine.
Holden era cresciuto nel distretto del Montana dell’America settentrionale,
una regione pervasa dalla nostalgia per le frontiere perdute. Esso aveva
resistito all’avanzata dell’urbanizzazione più a lungo della maggior parte
degli altri posti degli ex Stati Uniti. La gente si era aggrappata alle sue
fattorie e ranch anche quando avevano smesso di avere un senso dal punto di
vista economico, e a causa di quello, Holden non poteva fare a meno di
avvertire il fascino di un posto ancora da domare, della romantica idea di
viste che nessuno aveva ancora contemplato, di terreno su cui nessuno ancora
aveva camminato.
Quella nuova frontiera sarebbe sopravvissuta per tutto l’arco della sua vita.
Conquistare e domare oltre un migliaio di pianeti era un lavoro che
richiedeva generazioni, quale che fosse il vantaggio che i padroni della
protomolecola avevano dato loro. In cuor suo, però, Holden sapeva che
sarebbero stati conquistati e domati, e che ci sarebbe stato un migliaio di
Terre coperte da città di vetro e acciaio. Poteva avvertire l’ombra della
perdita del mistero in quel lontano futuro come se fosse stata la sua.
Nel cielo nero senza lune una stella si muoveva troppo in fretta. Era una
delle navi, la Israel o la Barbapiccola, perché la Rocinante era troppo piccola
e scura per riflettere la luce. La gente lassù pensava a quanto fosse
straordinario quello che tutti loro stavano facendo? Aveva il timore che non
lo facessero, che la stranezza fosse già diventata una cosa normale, come gli
odori notturni di Ilus, che la sola cosa che riuscivano a vedere fosse un
conflitto da vincere e un tesoro da raccogliere.
Con un sospiro si volse per tornare in città e si mise a camminare. Amos si
stava certo domandando dove fosse finito. Carol, l’amministratrice della città,
aveva chiesto un incontro dopo cena, quindi avrebbe dovuto rintracciare
anche lei. Una cosa grassa con la forma di un cane e una testa da rospo gli
camminava davanti, producendo un suono come di stivali sulla ghiaia.
Lucertole mimo, così le chiamavano i locali. Avevano una sorta di scaglie
sulla pelle, come le lucertole, ma gli pareva che gli arti non avessero la forma
giusta. Tirò fuori il terminale palmare e lo usò per dirigere un po’ di luce
sulla creatura, che lo fissò sbattendo le palpebre ed emise di nuovo quel
rumore come di ghiaia calpestata.
«Saresti un buon animale domestico, se non vomitassi periodicamente il tuo
stesso stomaco» disse Holden, accoccolandosi per vedere meglio la creatura.
Essa gracchiò di rimando. Quel verso non somigliava certo alle parole da lui
usate, ma era un’imitazione sorprendentemente buona della sua voce e del
suo tono. Si chiese se a quegli animali si potesse insegnare a parlare, come ai
pappagalli.
Il terminale emise un trillo. La lucertola si allontanò, guardandolo da sopra
la spalla e trillando a sua volta.
«Parla Holden.»
«Sì, capitano» disse Alex. «Ho brutte notizie.»
«Cattive nel senso che il gabinetto da assenza di gravità della Rocinante si è
guastato, o nel senso che dovrei guardare il cielo e aspettarmi di veder
arrivare dei missili?»
«Ecco...» cominciò Alex, poi trasse un lungo respiro. Holden guardò verso
il cielo, ma lassù c’erano soltanto stelle.
«Adesso sei riuscito a spaventarmi. Sputa il rospo.»
«Naomi» disse Alex, e Holden sentì il cuore che gli veniva meno. «Era là
fuori a installare sulla navetta il cutout a distanza, e loro stavano facendo una
specie di esercitazione di gruppo sullo scafo della Israel, per cui l’hanno
vista. È stata pura sfortuna.»
«Cosa è successo? Sta bene?» Per favore, che stia bene.
«L’hanno presa, capitano» rispose Alex. Holden sentì il petto che gli si
svuotava.
«Presa. Nel senso che... le hanno sparato?
«Oh! No, l’hanno catturata. È illesa. Il tizio della sicurezza della Israel ha
chiamato proprio per farmi sapere che era illesa. Però l’accusano di
sabotaggio e l’hanno rinchiusa.»
«Merda» imprecò Holden, quando riuscì di nuovo a respirare. Sapeva chi
doveva aver autorizzato la cosa. Murtry. E adesso che aveva in mano una
grossa moneta di scambio, il capo della sicurezza della RCE ci sarebbe andato
giù pesante. «Qualcun altro lo sa?»
«Ecco, Amos ha chiamato qualche minuto fa per parlare con lei...»
Holden non sentì il resto di quello che Alex aveva da dire perché stava già
correndo verso la città. Quanto più correva senza sentire spari, tanto più
cresceva la sua speranza che Amos si fosse reso conto di quanto fosse
delicata la situazione e avesse deciso di aspettare e consultarsi con il suo
capitano prima di agire in qualsiasi modo. Sperava che Amos non fosse già in
contatto radio con la Israel con una pistola puntata alla testa di Murtry, per
esigere che Naomi fosse loro restituita sana e salva.
Aveva ragione a metà.
Quando fece irruzione nell’ufficio di Murtry trovò il capo della sicurezza
premuto contro una parete, con la mano sinistra di Amos intorno al collo e
una pistola contro la fronte. Se non altro nessuno aveva chiamato la Israel per
avanzare richieste, probabilmente perché Amos non aveva una mano libera
per farlo.
Oltre a Murtry e ad Amos nella stanza c’erano altri quattro agenti della
sicurezza con le armi puntate contro la schiena di Amos. «Getta la pistola o
spariamo» ordinò uno di essi, la donna bruna di nome Wei.
«D’accordo» ribatté Amos, con una scrollata di spalle. «Spara pure,
dolcezza. Ti garantisco che porterò con me questo pezzo di merda. A me sta
bene. E a te?» Si protese di più verso Murtry, dando enfasi alla domanda
affondando la canna della pistola contro la sua fronte. La forza della
pressione era tale che un rivoletto di sangue cominciò a scorrere lungo la
faccia del capo della sicurezza.
Murtry sorrise. «Continua ad abbaiare, cane. Sappiamo entrambi che non
morderai. Sparami e lei morirà.»
«Tu non lo saprai.»
«Amos, non lo fare» ordinò Holden.
«Oh, fallo» disse Murtry, le sue parole erano quasi un sussurro.
Holden trattenne il respiro, certo che la prossima cosa che avrebbero sentito
sarebbe stato uno sparo. Amos lo sorprese, non facendo fuoco. Invece, si
protese ancora di più in avanti, fino a toccare con il naso quello di Murtry.
«Io ti ucciderò» promise.
«Quando?» ribatté Murtry.
«Questa è proprio la domanda che dovresti tenere a mente» ritorse Amos,
lasciandolo andare.
Holden riprese a respirare con un sussulto. «Ho la situazione sotto
controllo, Amos» affermò.
Con suo sollievo, il grosso meccanico ripose la pistola nella fondina, ma
non accennò ad andarsene.
«Dico sul serio. Ci penso io. Tu devi tornare all’alloggio e metterti in
contatto con Alex. Procurami un rapporto completo. Io ti raggiungerò fra un
minuto.»
Per un momento, Holden pensò che Amos avrebbe discusso. Il meccanico
lo fissò con il volto arrossato dall’ira e la mascella serrata con tanta forza da
incrinare i denti. «D’accordo» ringhiò infine, e se ne andò. Gli altri quattro
agenti lo tennero sotto tiro finché non fu uscito.
«È stata una mossa intelligente» commentò Murtry. Tirato fuori un
fazzoletto di carta da una scatola sulla scrivania si pulì la fronte dal sangue.
Un brutto livido cominciava a formarsi intorno al taglio causato dalla pistola
di Amos. «C’è mancato poco che il suo ragazzo non uscisse vivo da questa
stanza, mediatore.»
Con sua stessa sorpresa, Holden scoppiò a ridere. «Non ho mai visto Amos
affrontare uno scontro che non avesse intenzione di vincere. Non so cosa
avesse in mente, ma anche se eravate in cinque avrei scommesso su di lui.»
«Prima o poi tutti perdono» osservò Murtry.
«Parole di cui fare tesoro.»
«Ha alle dipendenze un vero assassino, nonostante tutte le critiche ai miei
metodi.»
«C’è una differenza. Amos è disposto a perdere la faccia per proteggere
qualcosa che ama. Il suo bisogno di vincere non è superiore a quello di tenere
in vita i suoi amici. È per questo che non vi somigliate affatto.»
Murtry ne convenne con un cenno e una scrollata di spalle. «Quindi, se non
era qui per salvare il suo uomo, perché è venuto?»
«Continuiamo ad aggravare le cose» replicò Holden. «L’accaduto è stato in
parte colpa mia. Ho chiesto io a Naomi di occuparsi della navetta.»
«Il sabotaggio...» cominciò Murtry.
«Però l’ho fatto come reazione alla scoperta che lei l’ha trasformata in
un’arma. Continuiamo a reagire l’uno alle azioni dell’altro, giustificandoci
come bambini che stiano giocando, con un ‘ha cominciato lui’...»
«Quindi lei sarà il primo a spezzare questo ciclo?»
«Se posso» rispose Holden. «Lei si è spinto troppo oltre, Murtry. Disarmi la
navetta, mi restituisca Naomi, e vediamo di trovare un modo di fermare
questa escalation.»
Il vago sorriso di Murtry si trasformò in un’espressione altrettanto
vagamente aggrondata. Si appoggiò all’indietro contro la scrivania e si
premette di nuovo il fazzoletto contro il taglio sulla fronte, ritraendolo con
una sola macchia carminia. Poi incrociò le braccia con fare disinvolto ma
inamovibile. Holden sapeva che era un’affettazione deliberata che aveva lo
scopo di farlo apparire naturale, ed era insieme colpito e preoccupato
nell’avere di fronte una persona con un simile livello di consapevolezza di sé
e di controllo.
«Ho agito esclusivamente nell’ambito del mio incarico qui» dichiarò
Murtry. «Ho protetto i beni e il personale della RCE.»
«Ha ucciso un mucchio di coloni e rapito il mio vicecomandante» ribatté
Holden, cercando invano di evitare che l’ira gli trapelasse dalla voce.
«Ho ucciso meno coloni abusivi di quanti di noi siano morti per mano loro,
e tutti erano attivamente impegnati a complottare e a portare avanti attacchi
contro i beni e il personale della RCE. Questo, come ho detto, è il mio lavoro.»
«E Naomi...»
«Ho catturato una sabotatrice che sto trattenendo in attesa di indagini.
‘Rapimento’ non è soltanto un termine provocatorio, è anche inesatto.»
«Lei vuole che questa situazione esploda» sospirò Holden. «Attende con
impazienza la prossima occasione di peggiorare ulteriormente le cose, vero?»
Il cipiglio tornò a trasformarsi in un sorriso. Nessuna delle due espressioni
aveva significato, erano soltanto maschere diverse. Holden si chiese che
aspetto avesse l’interno della testa di Murtry e rabbrividì.
«A ogni passo ho fatto soltanto il minimo necessario» dichiarò il capo della
sicurezza, con quel suo inquietante sorriso.
«No» replicò Holden. «Avrebbe potuto andarsene. Aveva la Israel. Dopo il
primo attacco alla navetta avrebbe dovuto riportare la sua gente a bordo e
attendere che si svolgessero le indagini. Se lo avesse fatto, un sacco di gente
sarebbe ancora viva.»
«Oh, no» dichiarò Murtry, scuotendo il capo, poi si raddrizzò e abbandonò
la posa a braccia conserte, ogni movimento lento e deliberato, in modo da
trasmettere una minaccia. «No, quella è la sola cosa che non faremo. Non
cederemo un centimetro di terreno. Questi coloni abusivi possono scagliarsi
contro di noi fino a quando l’ultimo di loro giacerà in pezzi nella polvere, ma
noi non andremo da nessuna parte. Perché anche questo...»
Il suo sorriso si fece più tagliente.
«Anche questo è il mio lavoro.»
Il tragitto dall’ufficio della RCE alla sua stanza nel centro comunitario non
era molto lungo, ma era molto buio. Il tenue bagliore azzurro di Miller non
illuminava niente, ma in qualche modo era stranamente confortante.
«Ehi, vecchio mio» lo salutò Holden.
«Dobbiamo parlare.» Miller sorrise della sua battuta. Ormai faceva battute.
Era quasi come una persona vera, e in qualche modo quello faceva più paura
di quando era stato pazzo.
«Lo so, ma al momento sono impegnato a impedire a questa gente di
uccidersi a vicenda. O di uccidere noi.»
«E come ti vanno le cose?»
«In modo orribile» ammise Holden. «Ho appena perso l’unica vera
minaccia che potevo usare.»
«Sì. Il fatto che Naomi si trovi sulla loro nave elimina la Rocinante come
fattore in gioco. Permetterle di avvicinarsi a quella nave è stato uno stupido
errore.»
«Io non te ne ho mai parlato.»
«Dovrei fingere di non essere nella tua testa» chiese Miller, con una
scrollata di spalle cinturiana. «Lo farò, se ti fa sentire più a tuo agio.»
«Ehi, Miller, cosa sto pensando adesso?» chiese Holden.
«Ti meriti dei punti per la tua creatività, ragazzo. Sarà una cosa difficile da
far funzionare, e meno divertente di quanto ti aspetti.»
«Allora resta fuori.»
Miller smise di camminare e afferrò Holden per un braccio. Ancora una
volta, lui rimase sorpreso da quanto la cosa sembrasse reale. La mano di
Miller era come una morsa di ferro che lo stringesse. Holden cercò di
liberarsi e scoprì che non poteva farlo. E tutto questo era soltanto dovuto a
quello spettro che premeva pulsanti nel suo cervello.
«Non stavo scherzando. Dobbiamo parlare.»
«Sputa il rospo» ribatté Holden, riuscendo infine a ritrarre il braccio quando
Miller allentò la presa.
«Ho bisogno di andare a dare un’occhiata a un punto a nord di qui.»
«Il che significa che hai bisogno che io vada a dare un’occhiata.»
«Sì» confermò Miller, e agitò il pugno nel gesto di assenso cinturiano.
«Questo.»
Suo malgrado, Holden sentì crescere la curiosità. «Di cosa si tratta?»
«A quanto pare, il nostro venire qui ha causato un po’ di agitazione fra i
locali» rispose Miller. «Forse non te ne sei accorto, ma c’è un sacco di roba
avanzata che si sta svegliando su tutto il pianeta.»
«Sì. Volevo parlartene. È opera tua? Sei tu che la controlli?»
«Stai scherzando? Io sono una marionetta di pezza. La protomolecola ha il
braccio infilato su per il mio posteriore tanto in profondità che posso sentire il
sapore delle sue unghie» rise Miller. «Non posso controllare neppure me
stesso.»
«È solo che alcune di quelle cose sembrano pericolose, come quel robot,
per esempio, e tu sei riuscito a disattivare la stazione nella zona lenta.»
«Perché voleva che lo facessi. Puoi ordinare al sole di levarsi, se calcoli
bene i tempi. Non sono io a guidare questo autobus. Cercare di fargli fare
quello che voglio sarebbe come parlare con qualcuno che ha avuto un ictus.»
«D’accordo» annuì Holden. «Dobbiamo lasciare questo pianeta.»
«Prima però c’è questa cosa. Questa non-cosa. Senti, ho una mappa
abbastanza accurata della rete globale. C’è un sacco di roba abbandonata che
si sta risvegliando e segnalando la sua presenza. Tranne in un punto, che è
come una grande sfera di niente.»
Holden scrollò le spalle. «Forse è solo un punto dove non ci sono nodi della
rete.»
«Ragazzo, tutto questo pianeta è un nodo della rete. Non ci dovrebbe essere
nessun posto che sia off-limits per me.»
«Questo cosa significa?»
«Forse è solo un punto che si è davvero guastato in modo definitivo»
replicò Miller. «Sarebbe interessante, ma inutile.»
«E quale sarebbe una cosa utile?»
«Che sia un avanzo di quello che ha ucciso questo posto.»
Per un momento rimasero fermi in silenzio, con il freddo vento notturno di
Ilus che agitava i pantaloni di Holden ma non aveva il minimo effetto sul
detective. Holden sentì un brivido partirgli dalla base della spina dorsale e
salirgli lentamente lungo la schiena. I peli gli si rizzarono sulle braccia.
«Non voglio trovare una cosa del genere» disse.
«Io sì» ribatté Miller, con il suo miglior tentativo di sfoggiare un sorriso
amichevole. «Per quanto mi riguarda, il libero arbitrio ha abbandonato la
conversazione da un pezzo. Però è là che ci sono i veri indizi, e dovresti
venire con me. Alla fine succederà comunque.»
«Perché?»
«Perché i veri mostri non se ne vanno quando chiudi gli occhi. Perché hai
bisogno tanto quanto me di sapere cosa è successo qui.»
L’espressione di Miller era ancora cordiale, ma in essa si scorgeva anche
paura, un terrore che Holden riconobbe, e che condivideva.
«Prima Naomi. Non andrò da nessuna parte finché non l’avremo
recuperata.»
Miller annuì e scomparve in uno spruzzo di scintille azzurre.
Quando tornò al bar, Amos lo stava aspettando, seduto da solo a un tavolo
con una bottiglia mezza vuota di qualcosa che puzzava di antisettico e di
fumo.
«Immagino che tu non lo abbia ucciso, dopotutto» commentò, quando
Holden si sedette.
«Ho la sensazione di camminare su una fune tanto sottile che non riesco
neppure a vederla» replicò Holden, poi scosse il capo quando Amos gli offrì
la bottiglia, e il meccanico bevve un lungo sorso al suo posto.
«Questa storia finirà nel sangue» dichiarò Amos, dopo un momento, con
voce che suonava remota e sognante. «Non c’è modo di evitarlo.»
«Ecco, dal momento che il mio compito è esattamente l’opposto, spero che
ti sbagli.»
«Non mi sbaglio.»
Holden non aveva nessuna valida argomentazione da contrapporre, quindi
chiese invece: «Cosa ha detto Alex?»
«Di mettere insieme una lista di richieste per il capitano della Israel. E di
accertarci che Naomi sia trattata bene finché si trova lì.»
«Cosa offriremo in cambio?»
«Alex non farà saltare la Israel, riducendola in questo istante agli atomi che
la compongono.»
«Spero acconsentano. Ci stiamo mostrando generosi.»
«Tuttavia,» proseguì Amos «lui continua a tenere il cannone magnetico
puntato sul reattore della Israel.»
Holden si passò le mani fra i capelli. «Allora non siamo poi così generosi.»
«Di’ per favore, ma tieni sottomano un proiettile da un chilo di tungsteno
accelerato a una percentuale individuabile di c.»
«Mi pare di averlo già sentito dire» replicò Holden, poi si alzò, sentendosi
di colpo molto stanco. «Vado a letto.»
«Naomi è nella dannata prigione di Murtry e tu puoi dormire?» chiese
Amos, bevendo ancora.
«No, ma posso andare a letto. Poi domani troverò il modo di sottrarre il mio
primo ufficiale alle mani del pazzo della RCE che lo tiene in ostaggio, in modo
da poter andare alla ricerca di frammenti di spaventosi proiettili alieni
conficcati in questo pianeta.
Amos annuì, come se tutto avesse senso. «Allora nel pomeriggio non
abbiamo niente da fare.»
24
Elvi
Era difficile dire cosa esattamente fosse cambiato sulla Edward Israel dopo
che avevano catturato la sabotatrice, ma Havelock poteva avvertirlo nello
spaccio e nella palestra, alla sua scrivania mentre lavorava e nei corridoi
quando incrociava membri dell’equipaggio e personale della RCE. In parte si
trattava del timore dovuto al fatto che qualcuno avesse intrapreso un’azione
diretta contro la nave, e in parte era eccitazione per il fatto che, dopo mesi di
frustrazione in assenza di gravità fosse finalmente successo qualcosa –
qualsiasi cosa – che non era avvenuto sul pianeta. Soprattutto, però, aveva la
sensazione che lo stato d’animo generale, a bordo, fosse ora più chiaro: erano
la Edward Israel, i legittimi esploratori di Nuova Terra, e tutti erano contro di
loro. Non ci si poteva fidare neppure dei mediatori delle Nazioni Unite. E
quindi, stranamente, erano liberi.
Il resto dell’equipaggio della Rocinante non stava facendo nulla per
cambiare la loro opinione.
«Se cercate di lasciare l’orbita,» dichiarò l’uomo sullo schermo
«disabiliteremo la vostra nave.»
L’uomo si chiamava Alex Kamal, ed era il facente funzioni di capitano
della Rocinante. Se le informazioni della RCE erano esatte, era anche il solo
membro dell’equipaggio ancora a bordo della corvetta, e aveva in custodia il
solo terrorista ancora vivo, là sulla nave con lui in attesa di tornare sulla Terra
per essere processato. Havelock incrociò le braccia e scosse il capo mentre la
lista delle minacce si allungava.
«Se scopriremo che è stato fatto del male a Naomi Nagata, disabiliteremo la
vostra nave. Se sarà sottoposta a tortura, la nave sarà disabilitata. Se sarà
uccisa, distruggeremo la vostra nave.»
«Bene, questo è davvero splendido» commentò il capitano Marwick.
«Ricorda che abbiamo parlato di non indurre la gente a voler distruggere la
mia nave?»
«Sono solo parole» ribatté Havelock, mentre Kamal continuava a parlare.
«Abbiamo già inviato la nostra petizione alle Nazioni Unite e alla Royal
Charter Energy, esigendo l’immediata e incondizionata liberazione di Naomi
Nagata. Finché non ci sarà risposta a quella petizione e lei non sarà tornata
sulla Rocinante, consigliamo al personale e ai dipendenti della Edward Israel
e della RCE di fare tutto quello che è in loro potere per evitare un’ulteriore
escalation di questa situazione. Questo messaggio è l’ultima notificazione
verbale prima di intraprendere le azioni sopra elencate. Una copia del
messaggio è stata inclusa nel pacchetto inviato alle Nazioni Unite e al
quartier generale della RCE. Grazie.»
L’uomo stempiato dal volto rotondo guardò per un momento verso la
videocamera, distolse lo sguardo, poi tornò a fissarla prima della fine della
registrazione. Marwick sospirò.
«Non è la più professionale delle produzioni, ma direi che ha chiarito con
efficacia le sue posizioni» osservò.
«Noi sternutiamo e lui spara» commentò Havelock. «Se sembra che stiamo
per sternutire, lui spara. Accertiamoci che l’ingegnere capo non prenda un
raffreddore, altrimenti lui spara. Diamole una coperta e una tazza di latte
caldo, la notte, altrimenti lui spara.»
«Il suo modo di pensare aveva una certa ripetitività, vero?» replicò
Marwick.
Havelock si guardò intorno nella cabina. L’alloggio del capitano era più
piccolo della postazione di sicurezza, ma lui aveva piazzato specchi d’acciaio
lungo le pareti e sul soffitto per farlo apparire grande. Era un’illusione,
naturalmente, ma era quel genere di illusione che poteva fare la differenza fra
la sanità mentale e la follia nell’arco di alcuni anni vissuti in spazi ristretti. Lo
schermo inserito nella parete ebbe un sussulto e passò a un’immagine delle
stelle. Non quella effettiva che c’era all’esterno, ma una del sistema del Sole.
Vedere le vecchie costellazioni era sconcertante.
«Chi ha visto questo?» chiese.
«Lo ha mandato a me e a Murtry» rispose Marwick. «Non so a chi Murtry
lo abbia mostrato, ma io l’ho fatto vedere a lei.»
«D’accordo. Cosa vuole che faccia?»
«Volere? Voglio che rilasci quella signora e la rispedisca a casa dopo una
severa paternale» rispose Marwick. «E dopo voglio riattivare i propulsori
della mia nave, e tornare a casa come prevede il mio contratto. Quello che mi
aspetto, però, è che lei scopra se queste sono soltanto chiacchiere o se la mia
nave si verrà a trovare esposta al fuoco della Rocinante.»
«Hanno la potenza di fuoco necessaria.»
«Ne sono quanto mai consapevole. Ma hanno anche la volontà e
l’esperienza per usarla? Lo chiedo solo perché qui è minacciata la vita del
mio equipaggio, e la cosa mi rende nervoso.»
«Lo capisco» rispose Havelock.
«Ma davvero?»
«Sì. E scoprirò quello che posso. Nel frattempo, però, partiamo dal
presupposto che lui faccia sul serio.»
«Già» annuì Marwick, passandosi una mano fra i capelli, poi sospirò.
«Quando ho firmato per questa missione pensavo che sarebbe stata una
grande avventura. Il primo mondo alieno. Nessuna stazione o navi di
soccorso se le cose fossero andate storte. Un intero sistema pieno zeppo di
cristo solo sa cosa. Invece ho trovato questa merda.»
«Lo stesso vale per me, signore» replicò Havelock.
Imbaldanziti dalla cattura, i suoi miliziani all’acqua di rose avevano
insistito per intraprendere un’azione immediata. Avevano il portello di
emergenza, e la meccanica dell’orbita della Rocinante l’aveva chiaramente
portata abbastanza vicina da poterla raggiungere. ‘Andiamo adesso,’ avevano
suggerito ‘prendiamo la Rocinante quando non se lo aspettano, e questo
metterà fine all’intera commedia’. Havelock si era sentito tentato di farlo, e se
non avesse avuto modo di vedere cosa i cannoni da difesa potevano fare a un
corpo umano, forse avrebbe dato l’autorizzazione a procedere.
Invece avevano tolto l’energia alla tuta della prigioniera e l’avevano
trascinata fino alla Israel prima che soffocasse. Da allora era rimasta nella
cella riservata agli ubriachi, nell’ufficio di Havelock. Con l’equipaggio di
sicurezza ridotto al minimo, aveva dato alla prigioniera l’accesso ai controlli
della privacy, perché non gli restavano in squadra abbastanza donne da
mantenere là una guardia a tempo pieno.
In effetti, quando tornò in ufficio lo trovò vuoto, tranne che per Nagata
nella sua cella. Lei si guardò intorno e lo salutò sollevando appena il mento.
Indossava una tuta rossa usa e getta e i capelli le fluttuavano intorno alla testa
in una nuvola scura. Il protocollo in caso di cattura di un nemico non le
permetteva di avere una fascia per i capelli, un terminale palmare o i suoi
vestiti. Adesso si trovava in quella cella da quasi due giorni. In virtù degli
esercizi di addestramento, Havelock sapeva che a quel punto lui sarebbe
quasi impazzito per la claustrofobia. Lei era passata dall’apparire imbarazzata
al chiudersi in sé stessa. Havelock supponeva che fosse un atteggiamento
tipico dei cinturiani. Dopo aver vissuto ed essere morti senza un cielo per
qualche generazione, gli spazi ristretti non generavano più il terrore atavico di
una sepoltura prematura.
Si spostò verso di lei attraverso la stanza.
«Nagata, ho alcune domande da farle» disse.
«Non ho diritto a un avvocato o a un rappresentante dei sindacati?» ribatté
lei, in un tono da cui era chiaro che quella era almeno in parte una battuta.
«Sì,» annuì Havelock «ma speravo che mi avrebbe aiutato in virtù del suo
spirito gentile e generoso.»
La risata di lei fu breve, tagliente e insincera. Havelock richiamò il file del
video sul suo terminale palmare e lo posizionò appena fuori della maglia
metallica della porta della cella.
«Mi chiamo Alex Kamal e sono il facente funzioni di capitano della
Rocinante. Alla luce dei recenti avvenimenti...»
Havelock lasciò fluttuare il palmare e tornò alla scrivania, assicurandosi al
sedile più per forza d’abitudine che per altro, osservando il volto di Naomi
senza fissarla apertamente. Quella donna era una grande giocatrice di poker,
ed era difficile dire se stesse provando qualcosa nel guardare il suo collega
minacciarli tutti per il suo bene. Quando la registrazione si sbloccò, Havelock
allungò la mano e recuperò il terminale palmare.
«Non vedo perché abbia bisogno di me» dichiarò Naomi. «Ha usato parole
semplici.»
«Lei è davvero divertente. La mia domanda è questa: ha davvero intenzione
di permettere che i suoi compagni si trasformino in criminali e assassini, in
modo da poter rimandare il momento in cui dovrà rispondere dei suoi
crimini?»
Il sorriso di lei avrebbe potuto significare qualsiasi cosa, ma Havelock ebbe
la sensazione di aver toccato un tasto sensibile. O di esserci andato vicino.
«Ho l’impressione che mi stia chiedendo qualcosa, amico, ma non so
esattamente cosa.»
«Dirà alla Rocinante di desistere?» rispose Havelock. «Non le recherà alcun
danno, perché tanto non la lasceremmo andare comunque. E se collaborerà
questo tornerà a suo favore, una volta sulla Terra.»
«Posso farlo, ma non servirà. Lei non ha viaggiato con quegli uomini.
Quando ascolta quel messaggio, lei sente una lista di minacce, giusto?»
«Lei cosa sente?»
«Alex che espone le cose come stanno» spiegò Naomi. «Tutte le cose che le
ha detto? Quelle sono soltanto assiomi, attualmente.»
«Mi dispiace di sentirglielo dire» replicò Havelock. «Comunque, se
registrasse un messaggio per lui, assicurandogli di stare bene e di non essere
stata maltrattata, potrebbe essere d’aiuto.»
Lei cambiò posizione, e le microcorrenti d’aria, unite al costante fluttuare
della microgravità la portarono a ridosso della parete opposta della cella, che
toccò appena per stabilizzarsi.
«Il problema non è Alex» disse. «Mi permetta di parlarle un poco di Jim
Holden.»
«D’accordo» assentì Havelock.
«È un brav’uomo, ma non è frettoloso nell’agire. Al momento, c’è un
dibattito in corso nella sua testa. Da un lato, è stato mandato qui per portare la
pace e vuole farlo. Dall’altro, protegge la sua gente.»
«La sua donna?»
«Il suo equipaggio» precisò Naomi, con una sfumatura tagliente nella voce.
«Ci metterà un poco a decidere di smettere con quello che ha accettato di fare
ed entrare in azione.»
Il terminale palmare di Havelock trillò per ricordargli di riesaminare gli
impegni programmati per la settimana successiva. Anche nel bel mezzo di
una crisi, i compiti secondari connessi al suo incarico richiedevano il loro
tributo. Richiamò a schermo la griglia del calendario.
«Ma lei crede che lo farà» osservò.
«È con Amos» ribatté Naomi, come se quello spiegasse tutto.
«Attaccheranno la nave e mi tireranno fuori.»
Havelock scoppiò a ridere. «Il nostro organico è un po’ ridotto, ma non
vedo come possano aspettarsi di arrivare fino a lei.»
«Parla di un uomo che ha portato via da Ganimede un sacco di gente
quando quella era ancora zona di guerra» ribatté Naomi. «E poi è andato sulla
stazione aliena, a Medina, da solo. E ha distrutto la Agatha King sempre da
solo, quando a bordo c’erano duemila zombie creati dalla protomolecola.
Durante la prima insurrezione su Eros è riuscito ad andarsene combattendo.»
«Precipitandosi là dove gli angeli non osano andare» commentò Havelock.
«E riuscendo a cavarsela. Non so dirle quante volte lui e io ci siamo
scambiati l’ultimo addio, ma torna sempre indietro.»
«Sembra un tipo difficile come compagno» osservò Havelock.
«In effetti lo è» rise Naomi. «Ma ne vale la pena.»
«Perché?»
«Perché fa sempre quello che dice. E se dice che mi tirerà fuori da questa
cella, allora succederà, o lui morirà nel tentativo.»
La sua espressione era calma, il tono pragmatico. Non era vanteria.
Semmai, parve a Havelock che nella sua voce ci fosse una sfumatura di
apprensione, cosa che lo turbò più dell’elenco di minacce del facente funzioni
di capitano.
Chiuse la griglia della pianificazione e fissò il terminale palmare per
qualche secondo. Sulla superficie doveva essere pomeriggio, appena oltre la
metà di una di quelle lunghe giornate di quindici ore.
«Mi scusi» disse alla prigioniera. «Devo fare una chiamata.»
Attivò i controlli per la privacy, e la rete d’acciaio della gabbia si trasformò
in un’opacità perlacea, poi chiese di aprire una connessione con Murtry e
pochi secondi più tardi il suo capo apparve sullo schermo. Il sole gli aveva
scurito la pelle, e una piccola crosta sulla fronte sembrava quasi un simbolo
di casta. Salutò Havelock con un cenno.
«Cosa posso fare per te?» gli chiese.
«Volevo fare il punto con lei riguardo alla prigioniera» rispose Havelock.
«Coordinare la nostra strategia.»
«Ha visto il piccolo sfogo isterico del pilota, vero?»
«Sa, capo, ricorda tutto quello che ha detto in precedenza, sul fatto che loro
hanno i cannoni più grandi e che se decidono di abbatterci possono farlo?
Tutto questo continua a essere vero.»
In sottofondo si sentì una porta che sbatteva, e Murtry sollevò lo sguardo,
annuì, poi tornò a concentrarsi su Havelock. «Adesso meno che mai questo
costituisce un problema. Con una dei loro a bordo, non spareranno.»
«Non lo faranno?»
«È meno probabile che lo facciano» si corresse Murtry.
«E qual è il piano, quando la RCE ci ordinerà di lasciarla andare?» domandò
Havelock. «Potrebbe valere la pena di lasciarla andare prima che succeda. Ci
permetterà di anticipare la cosa, di riguadagnare un po’ di benevolenza.»
«Siamo da tempo al di là della benevolenza.»
«Non sono certo che abbiamo l’autorità di trattenerla, e se...»
«Sei nella sua cella?»
Havelock rimase interdetto. «Prego?»
«Ti trovi tu nella sua cella?»
«No, signore.»
«Giusto. Quella donna è nella tua cella. Hai tu la cella e la pistola, questo fa
di te lo sceriffo» disse Murtry. «Se all’ufficio centrale non piacerà quello che
stiamo facendo, ci appelleremo contro la sua decisione. Se perderemo
l’appello, manderanno qui qualcuno per un incontro faccia a faccia, ma nel
tempo che impiegherà ad arrivare tutto questo apparirà talmente diverso che
non vale la pena che ci provino. L’ufficio centrale lo sa, Havelock. Quello
che abbiamo qui è una mano molto libera.»
«Sì. D’accordo. Volevo solo verificare con lei.»
«La mia porta è sempre aperta» replicò Murtry, anche se il suo tono
significava forse che Havelock non avrebbe dovuto disturbarlo con altre
stupide idee. La connessione fu chiusa e Havelock fissò la schermata di
default per alcuni secondi prima di richiamare a schermo la griglia. Qualche
istante più tardi disattivò lo schermo di privacy. Naomi fluttuava nella
gabbia, spingendosi da una parete all’altra come una bambina annoiata.
«Il vostro equipaggiamento per la privacy fa schifo» dichiarò.
«Davvero?»
«Davvero.»
«Allora ha sentito tutto?»
«‘Una mano molto libera’» ripeté lei.
«Mi dispiace. Quella conversazione sarebbe dovuta essere fra lui e me.»
«Lo so, ma è filtrata comunque. Sia sincero, potete sentirmi quando urino
qui dentro?»
«Si sente solo che il risucchio a vuoto si attiva» replicò Havelock, sentendo
un vago rossore che gli saliva lungo il collo e un acuto imbarazzo per il fatto
di sentirsi imbarazzato. «È piuttosto rumoroso.»
«Vecchie navi» commentò lei.
Havelock tornò a concentrarsi sulla gestione del suo personale. Arrivò un
rapporto che lamentava un furto dall’armadietto personale di uno dei tecnici
di bordo, e lo reindirizzò alla donna in servizio. Finché le cose rimanevano
calme e l’equipaggio era tutto focalizzato sui pericoli esterni, poteva tenere
insieme tutti i pezzi. In realtà, avere un nemico comune – un sacco di nemici
comuni – era d’aiuto. Naomi cominciò a canticchiare una sommessa melodia
che era quasi riconoscibile. Havelock si concesse di trovarla un po’ di suo
gradimento. Si trattava di quello o di esserne irritati.
«Lui non è stato il solo» disse.
«Prego?» chiese Naomi.
«Lui non è stato il solo a riuscire a lasciare Eros durante il disastro. Il mio
vecchio partner era là e anche lui è riuscito ad andarsene. È poi tornato in
seguito, quando la cosa ha colpito Venere.»
«Un momento. Lei conosceva Miller?»
«Sì» confermò Havelock.
«L’universo è proprio piccolo.»
«Era una delle persone decenti, sei al massimo, che lavoravano sulla
Stazione di Ceres quando era la Star Helix ad avere il contratto. Mi ha
avvertito di lasciare la Protogen prima che implodesse. Mi è dispiaciuto
quando è morto.»
«Sarà lusingato di saperlo.»
«Noi non siamo i cattivi, qui. Non è stata la RCE a cominciare tutto questo.
Ha detto che Holden le piace perché fa sempre quello che dice di avere
intenzione di fare? Noi siamo così. La RCE è quella che ha chiesto il
permesso, approntato un piano ed è venuta qui per fare quello che tutti hanno
convenuto che dovessimo fare.»
«Non la gente di First Landing. Loro non erano d’accordo.»
«No, perché stavano infrangendo le regole che noi invece stavamo
seguendo. Io sto solo... ecco, so quanto tutto questo sia strano e pericoloso,
ma prima che i suoi amici comincino a prendere a cannonate il nostro
reattore, voglio che capisca che non siamo noi i cattivi, qui.»
Mentre parlava la sua voce si era fatta più acuta ed era salita di tono, tanto
che alla fine stava quasi gridando. Premette le mani una contro l’altra e si
morse le labbra.
«È un po’ sotto pressione» osservò lei.
«Alquanto» convenne Havelock.
«Mi lasci uscire, e metterò una buona parola per lei» disse Naomi. «E
impedirò a Holden di fare qualcosa di stupido.»
«Davvero?»
«Gli impedirò di fare un paio di cose particolarmente stupide. E potrebbe
anche escogitare qualcos’altro. È molto astuto da quel punto di vista.»
«Non posso» disse Havelock.
«Lo so.»
La nave passò nell’ombra del pianeta, con i ponti che scricchiolavano e
gemevano per l’adeguarsi delle piastre di espansione al cambiamento di
calore radiante. Havelock avvertì una leggera ondata di vergogna. Lei era la
sua prigioniera e lui era il carceriere. Non avrebbe dovuto aver bisogno della
sua approvazione. Se pensava che lui e la sua gente fossero fascisti uccisori
di bambini e maniaci del potere, la cosa non cambiava in nessun modo ciò
che lui doveva fare. Naomi riprese a canticchiare. Era una canzone diversa,
qualcosa in una chiave minore più lenta. Dopo un po’, lasciò che la sua voce
cedesse il posto al silenzio.
«Loro non sono stati i soli» disse, mentre lui finiva di organizzare i turni di
servizio della settimana. «Sono stati i soli a essere intrappolati dal disastro,
ma il posto era già stato blindato prima di allora. Un gruppo di furfanti che
indossavano armature antisommossa rubate si sono accertati che tutti
facessero quello che veniva loro detto, sparando a quelli che non obbedivano,
mentre si preparavano a quello che stava per succedere. Alcune persone sono
riuscite a sfuggire.»
«Davvero? Chi?»
Naomi scrollò le spalle.
«Io» rispose.
27
Elvi
Elvi sedeva sulla cresta della collina, guardando verso ovest. Alle sue
spalle, la luce del mattino illuminava le ali di migliaia di animali simili a
farfalle. Non li aveva mai visti prima, ma quel giorno riempivano l’aria dal
terreno a venti metri di altezza. Era un vasto stormo di minuscoli animali. O
insetti. O qualsiasi altro nome l’umanità avrebbe finito per assegnare a quel
regno naturale sconosciuto. Al momento, per lei erano farfalle.
Si muovevano insieme come un branco di pesci, indipendenti ma
coordinate. Chiazze di colore – azzurro e argento e carminio e verde –
affioravano su di esse e per un momento parevano formare un disegno prima
di dissolversi nel caos. La colonna che formavano si levava verso l’alto,
assottigliandosi, per poi allargarsi e abbassarsi. La oltrepassarono
rapidamente, e per alcuni secondi lei si venne a trovare all’interno di quel
nugolo, con ali grandi un palmo che la sfioravano delicate con un suono
come di fogli di carta che cadessero e un odore aspro e pulito come quello di
menta che non fosse menta. Sorrise e sollevò le braccia in quella nuvola,
gioendo della bellezza di quel momento. Poi la oltrepassarono e lei li guardò
fluire attraverso l’aria, spostandosi verso sud come se fossero diretti in un
posto specifico.
Si alzò e si stiracchiò, assestando contro il fianco la sacca per la racconta di
campioni. La luce del sole la colpì sulle spalle e sulla base del collo mentre si
avviava attraverso il campo polveroso e lastricato di pietre. Le rovine si
levavano verso nord, con First Landing che non era neppure visibile accanto
a esse, in quanto tutti i manufatti umani erano nascosti dalla curva del pianeta
e dalla forma delle colline. Tutto e tutti, tranne lei.
Qua e là c’erano ancora alcune farfalle, forse morte. O forse a riposo. Si
accoccolò vicino a una di esse. Osservando l’azzurro intenso delle ali, il
colore ramato della carne dove il suo corpo, o quello che pensava essere il
corpo, si ripiegava, articolato come un cardine. Si mise i guanti e sollevò il
minuscolo corpo che non ebbe neppure un fremito. Anche se significava
ottenere meno dati fisiologici, si augurò che la farfalla fosse già morta.
«Mi dispiace, piccola» disse comunque. «È nel nome della scienza.»
La infilò nel reticolo nero, lo sigillò e attivò la sequenza di raccolta. La
serie di aghi per la raccolta di campioni prese a ticchettare e ronzare. Elvi
socchiuse gli occhi nel guardare l’arco biancoazzurro del cielo. Il punto rosso
fluttuava circa quindici gradi al di sopra dell’orizzonte, abbastanza luminoso
da essere visibile attraverso le sottili nuvole verdastre.
Il sacchetto gracchiò, producendo un codice di errore che lei non aveva mai
visto prima. Tirò fuori il terminale palmare e lo collegò al canale di emissione
dati del sacchetto. Il set di dati preliminari era un pasticcio. Elvi avvertì una
profonda fitta gelida di paura. Se il sacchetto si era rotto, ci sarebbero potuti
volere giorni prima che l’unica navetta funzionante potesse portargliene uno
di riserva dalla Israel, e non era neppure sicura di averne uno di riserva nel
suo kit di apparecchiature, o se tutto fosse andato perduto nel disastro della
navetta pesante. La prospettiva di passare anni a raccogliere dati
manualmente e le notti a dissezionare creature come se fosse tornata
all’università inferiore le si parò davanti come uno spettro. Tirò fuori la
farfalla. La sua carcassa appariva quasi com’era stata quando l’aveva messa
dentro. Si sedette a gambe incrociate accanto a essa ed eseguì il sistema
diagnostico del sacchetto, mordendosi un labbro mentre aspettava la
comparsa di qualche altro codice di errore.
La diagnostica non rilevò problemi di sorta. Elvi spostò lo sguardo dal
sacchetto alla farfalla, riportandolo poi sul sacchetto mentre una seconda
ipotesi prendeva forma nella sua mente, raggelante quanto la prima, o forse
anche peggiore. Raccolse la farfalla morta e marciò verso le capanne. Quella
di Fayez era una piccola struttura geodetica verde che lui aveva costruito a
metà del crinale di una collinetta, abbastanza in alto per non essere investita
dallo scorrere dell’acqua nel caso di una tempesta ma al di sotto della cresta
dove sarebbe stata esposta al vento. Lui era seduto su uno sgabello,
appoggiato alla parete della capanna. Indossava un paio di pantaloni da
lavoro in polyfiber, una t-shirt e una vestaglia aperta. Non si radeva da giorni
e il velo di barba lunga sulle guance lo faceva apparire più vecchio.
«Questo non è un animale» gli disse, protendendo la farfalla.
Lui lasciò ricadere lo sgabello su tutte e quattro le gambe. «Anche a me fa
piacere vederti» ribatté.
«Questa non è l’unione di due biomi. Sono tre. Questa cosa – qualsiasi cosa
sia – non ha nessuna delle caratteristiche comuni chimiche o strutturali che ti
aspetteresti di vedere.»
«Lucia Merton ti stava cercando. L’hai vista?»
«Cosa? No. Senti, questa è un’altra macchina. È un’altra cosa come... come
quella» insistette Elvi, indicando la bassa luna rossa.
«D’accordo.»
«E se non si stessero svegliando soltanto perché noi siamo qui? E se fossero
collegati fra loro? Questo complica tutto.»
Fayez si grattò la testa appena sopra l’orecchio sinistro. «Sembri volere
qualcosa, Elvi, ma non so cosa.»
«Come posso dare un qualsiasi senso a questo posto quando esso continua a
cambiare tutte le regole?» protestò lei, con voce che suonò acuta perfino ai
suoi stessi orecchi. Gettò rabbiosamente a terra la farfalla, e immediatamente
desiderò di non averlo fatto. Non che a essa importasse, ma le parve un gesto
crudele. Fayez fece quel suo sorrisetto tagliente.
«Sfondi una porta aperta. Sai cosa ho fatto per tutta la mattina?»
«Hai bevuto?»
«Vorrei che fosse così. Ho esaminato i dati sulla superficie provenienti
dalla Israel. Sul lato opposto del pianeta c’è una catena di isole con quella
che sembra essere una quantità spropositata di attività vulcanica. Però, per
quanto sono in grado di determinare, questo pianeta non ha placche
tettoniche, quindi cosa diavolo sta imitando l’attività vulcanica? Sai a cosa sta
lavorando Michela?»
«No.»
«Nella luce ultravioletta che raggiunge il terreno c’è uno schema che
sembra una sorta di onda portante. Non esiste prima che la luce del sole
colpisca l’esosfera, e nel tempo che impiega ad arrivare qui ha uno schema
complesso e coerente. Michela non ha idea da dove arrivi. Il gruppo di lavoro
di Sudyam ha quelle che pensano possano essere molecole complesse che
incorporano elementi transuranici stabili.»
«Come funziona?»
«Perché pensi che io lo sappia?» ribatté Fayez.
Elvi si posò la mano sulla spalla, lasciando pendere il gomito in posizione
rilassata. Il sudore le colava lungo la schiena.
«Devo...»
«Dirlo a Holden» concluse per lei Fayez. «Lo so.»
«Stavo per dire che devo rivedere i miei dati. Verificare se magari esiste
una struttura comune fra quella...» accennò alla farfalla «e la cosa morta nel
deserto. Forse posso dare un senso alla cosa.»
«Se non ci riesci tu, non può farlo nessuno» affermò Fayez.
Qualcosa nella sua voce catturò l’attenzione di Elvi, che lo studiò con
maggiore attenzione. Il suo volto affilato come quello di una volpe appariva
più morbido intorno agli occhi e alla mascella. La carne intorno agli occhi era
più gonfia del solito. «Ti senti bene?»
Lui scoppiò a ridere e allargò le braccia verso l’orizzonte, indicando l’intero
pianeta, l’intero universo. «Sto benone. Proprio alla grande. Grazie per averlo
chiesto.»
«Mi dispiace. È solo che...»
«Non farlo, Elvi. Non ti dispiacere. Continua soltanto a occuparti di tutto
come sai fare tu. Accumula un altro strato di non-pensiero a tutto il resto e
tira dritto, mia cara, tira dritto. Sono pronto a sostenere qualsiasi cosa che ci
possa mantenere funzionali e sani di mente in un posto come questo. Vado
perfino a pregare con Simon la domenica mattina. È così che mi sono ridotto.
Qualsiasi cosa funzioni per te ha la mia benedizione.»
«Grazie...»
«Afwan» rispose lui, agitando una mano. «Soltanto, prima di seppellirti di
nuovo in mezzo ai tuoi set di dati, vai dalla dottoressa Merton. Sembrava
preoccupata.»
Il bambino seduto sul lettino aveva sei anni. La sua pelle aveva lo stesso
colore marrone scuro di quella di Elvi, ma con una sfumatura cinerea. Non si
trattava di aridità della pelle, ma di qualcosa di più profondo. I suoi occhi
erano iniettati di sangue, come se avesse pianto, e forse lo aveva fatto. Sua
madre era in piedi in un angolo, con le braccia conserte e un’espressione
estremamente arcigna. La voce di Lucia era fredda e calma, ma le spalle
erano contratte dalla tensione.
«Ho notato questa cosa, qui» disse, tirando leggermente in giù con il
polpastrello la pelle del bambino in modo da abbassare la palpebra inferiore e
di esporre la superficie irritata dell’occhio. La chiazza era quasi invisibile a
causa dell’arrossamento, ma era là. Un accenno di verde, molto tenue.
«Ho visto» replicò Elvi, poi sorrise al bambino, che non ricambiò il suo
sorriso. «Allora, Jacob...»
«Jason.»
«Scusami. Jason. Da quanto tempo hai difficoltà a vedere?»
Il bambino scrollò le spalle. «Da subito dopo che gli occhi hanno
ricominciato a farmi male.»
«E vedi tutto... verde?»
Lui annuì. Lucia toccò il braccio di Elvi. Senza parlare, diresse una luce
sull’occhio del bambino. L’iride non ebbe quasi reazioni, ed Elvi intravide
qualcosa nel fluido dietro la cornea, come in un acquario in cattivo stato di
manutenzione. Annuì.
Lucia si raddrizzò e sorrise alla donna. «Aspetta qui con lui, Amanda. Io
torno subito.»
Amanda annuì con un gesto secco. Elvi lasciò che Lucia la accompagnasse
fuori della porta della stanza e lungo un breve corridoio. Fuori si era levato
un vento teso che scuoteva le porte e le finestre della clinica.
«Lui è il solo che abbia visto in questo stato» disse Lucia. «Non c’è niente
di simile nella letteratura medica.»
«Non sembro piacere molto a sua madre» osservò Elvi, cercando di far
suonare la cosa come una battuta.
«Sua moglie è stata uccisa dalla sicurezza della RCE» rispose Lucia.
«Oh. Mi dispiace.»
L’apparecchiatura per i test era in buono stato ma era vecchia, aveva dieci
anni almeno, forse anche quindici. Una lunga cicatrice correva lungo il fondo
dello schermo, dove qualcosa aveva sfregato contro di esso. Elvi non stentava
a credere che avesse fatto il lungo viaggio da Ganimede, devastato dalla
guerra, fino a lì. Quello che la sorprendeva era che funzionasse ancora, ma
quando Lucia inserì il suo codice di accesso lo schermo si illuminò. A modo
suo, il campione era splendido, si ramificava in un elegante colore verde fino
a somigliare a un pittogramma che significasse ‘albero’.
«È cominciato nella matrice extracellulare» spiegò Lucia.
«Un’infiammazione di basso livello, ma niente di più. Speravo che se ne
andasse da sola.»
«Solo che adesso è nell’umor vitreo» osservò Elvi.
«Mi chiedevo...» cominciò Lucia, ma Elvi aveva già preso il terminale
palmare e lo stava sincronizzando con l’apparecchiatura di analisi. Ci vollero
solo pochi secondi per trovare una corrispondenza, ed Elvi esaminò i dati.
«Ci siamo» disse. «La corrispondenza più vicina è data da alcuni
microrganismi acquatici.» Quando Lucia scosse il capo, aggiunse: «Ha notato
che le nuvole sono verdastre? C’è un intero bioma di organismi lassù che
hanno trovato il modo di sfruttare l’umidità e l’esposizione ai raggi
ultravioletti.»
«Come piante? Funghi?»
«Come loro» rispose Elvi. «Non è una cosa a cui abbiamo dedicato la
maggior parte del nostro tempo, ma sembra una nicchia particolarmente
affollata. Ci sono un sacco di specie che si contendono le risorse. La mia
supposizione è che questo piccoletto fosse in una goccia di pioggia che è
caduta nell’occhio di Jason e ha trovato il modo di sopravvivere lì.»
«Ha avuto parecchie infezioni oculari, ma provenivano tutte da organismi
familiari. Crede che questa cosa sia contagiosa?»
«Non credo» rispose Elvi. «Siamo nuovi per lei quanto lei lo è per noi. Si è
evoluta per diffondersi all’aria aperta attraverso il ciclo dell’acqua. Se può
vivere dentro di noi può tollerare il sale. Se gli occhi del bambino erano già
compromessi è probabile che lui fosse vulnerabile, ma a meno che lui non
cominci a lanciare le sue lacrime contro la gente non credo che possa
diffondersi.»
«E che ne sarà della sua vista?»
Elvi si raddrizzò. Lucia la stava guardando con espressione seria, quasi con
rabbia. Elvi sapeva che quella rabbia non era diretta contro di lei, ma contro
la terribile ignoranza contro cui stavano lottando entrambe. «Non lo so.
Sapevamo che qualcosa del genere sarebbe successo presto o tardi, ma non so
cosa possiamo fare al riguardo, tranne dire alla gente di non uscire quando
piove.»
«Questo non lo aiuterà» replicò Lucia. «Può chiedere aiuto ai laboratori
della Terra?»
Cento obiezioni riempirono la mente di Elvi. ‘Non controllo le squadre di
ricerca della RCE’ e ‘Tutte le analisi dei dati vengono pianificate ed eseguite
in anticipo di mesi rispetto a dove siamo ora e Appena questa mattina ho
trovato un altro campione di un terzo bioma’. Invece toccò il terminale
palmare, salvando una copia dei dati dell’apparecchiatura, convertendola nei
formati preferiti dalla RCE e inviandola alla Israel, e da lì all’Anello e poi
sulla Terra.
«Ci proverò» rispose. «Nel frattempo, però, dobbiamo informare la gente di
questo problema. Carol Chiwewe ne è al corrente?»
«Sa che ho dei sospetti e che volevo consultarmi con lei» rispose Lucia.
Elvi annuì, mentre già cercava di pensare al modo migliore di portare il
problema all’attenzione di Murtry. «Bene, allora lei informi la sua gente e io
lo farò con la mia.»
«D’accordo» assentì Lucia, e un momento più tardi aggiunse: «Detesto che
ci debba essere questa divisione. La sua gente e la mia. A scuola, uno dei
miei insegnanti diceva sempre che il contagio è l’unica prova assoluta di
comunità. La gente poteva anche fingere quanto voleva che non ci fossero
drogati, prostitute e bambini non vaccinati, ma quando poi scoppiava
un’epidemia tutto quello che contava era chi stava respirando la tua stessa
aria.»
«Non so dire se lo trovo rassicurante oppure orribile.»
«C’è spazio per entrambe le cose» rispose Lucia. «Questo mi spaventa
quanto qualsiasi altra cosa accaduta finora. Questa piccola... cosa. E se non
riuscissimo a risolvere il problema?»
«Probabilmente possiamo» affermò Elvi. «E poi risolveremo quello
successivo. E quello ancora dopo. È una cosa dura e difficile, ma andrà tutto
bene.»
Lucia inarcò un sopracciglio. «Lo crede davvero?»
«Certo. Perché non dovrei?»
«Non ha proprio paura?»
Elvi si soffermò a riflettere sulla domanda. «Se ne ho, non la sento. Non è
una cosa a cui pensi.»
«Suppongo si debbano prendere tutte le benedizioni che arrivano. Cosa mi
dice della terza fazione?»
Elvi inizialmente non capì di cosa Lucia stesse parlando, poi risentì nella
mente la voce beffarda di Fayez e il cuore le diede un balzo. Detestò quella
sua reazione istintiva, ma questo non la fermò.
«Glielo dirò io» rispose. «Lo dirò a Holden.»
Nello spaccio, Holden sedeva incurvato sul terminale palmare. Si era
rasato, aveva i capelli pettinati, e la camicia era stirata. È bello quando si
ripulisce, commentò una voce in un angolo della mente di Elvi, ma lei la
soffocò.
Una voce di donna, brusca e alterata dalla statica, usciva dal terminale.
«...Strizzare tutte le palle su cui riuscirò a mettere le mani finché qualcuno
comincerà a piangere, ma ci vorrà del tempo. E so che sta pensando di fare
pubblicità alla cosa, perché è un fottuto stupido e pensa sempre a questo. Lei
e la pubblicità siete come un ragazzino di sedici anni e le tette. Non ha altro
per la testa. Quindi, prima che cominci anche solo...»
Amos venne avanti con passo pesante. Il suo sorriso era aperto e cordiale
come sempre, ma Elvi ebbe l’impressione che in esso ci fosse una sfumatura
di tensione. La sua grossa testa calva le faceva sempre venire in mente i
neonati, e dovette trattenersi dal battere un colpetto su di essa.
«Salve» disse Amos. «Mi dispiace, ma il capitano è un po’ occupato.»
«Con chi sta parlando?»
«Le Nazioni Unite» rispose Amos. «Sta cercando di costringere il vostro
capo a lasciar andare il nostro primo ufficiale.»
«Non è il mio capo» precisò Elvi. «Murtry è della sicurezza. Una struttura
organizzativa del tutto diversa.»
«Questa roba societaria non è il mio forte.»
«Ho solo bisogno di...» cominciò Elvi. In quel momento Holden si
raddrizzò e fissò la telecamera del terminale palmare con un sorriso duro
sulle labbra, e lei perse il filo del discorso.
«Mi permetta di essere chiaro» disse, con voce bassa e solida come la
pietra. «Questo è stato un mio ordine. Se la Royal Charter vuole processare
me, quando tornerò indietro, perché ho ordinato al mio equipaggio di mettere
fuori uso una navetta trasformata illegalmente in un’arma, sarò lieto di...»
«Dottoressa?» chiamò Amos.
«Cosa? Mi scusi. No, è solo che ci sono alcune cose di cui pensavo dovesse
essere informato.»
Amos scosse il capo in un gesto che era quasi di dolore. «No. Non
succederà niente finché il primo ufficiale non sarà libero.»
«Però qualcosa sta succedendo» ribatté Elvi. «E non una cosa soltanto.
Oggi ho trovato altri manufatti che si stanno svegliando. Credo che alcuni di
essi siano fatti per passare per animali locali. Se fossimo stati qui per un
tempo sufficiente a creare un catalogo, adesso potremmo dire cosa è cosa, ma
per come stanno le cose tutto sembra nuovo, quindi non lo sappiamo.»
«Quindi alcune lucertole sono sostanza della protomolecola?» chiese Amos.
«Sì. Forse. Non lo sappiamo ancora. E c’è di più, perché il bioma locale
comincia a trovare modi di invaderci, di sfruttare le nostre risorse. La cupola
perimetrale non è mai stata montata, quindi tutta la nostra microfauna si sta
spargendo in giro, e si mescola con l’ecosfera locale, e dato che recuperarla è
impossibile stiamo contaminando tutto, e tutto sta contaminando noi.»
Stava parlando troppo in fretta. Detestava quando si comportava così.
Quando – se – fosse mai tornata sulla Terra avrebbe seguito corsi di
comunicazione, qualcosa che le impedisse di parlare a mitraglia, come una
lattina che rotolasse da una scala.
«Tutto sta accelerando,» disse «e forse è una reazione a noi o a qualcosa
che stiamo facendo. O forse non lo è. So che abbiamo problemi a fare
chiarezza sulla situazione politica e ad andare d’accordo gli uni con gli altri, e
me ne dispiace davvero.» Adesso aveva le lacrime agli occhi. Gesù. Ma
quanti anni aveva? Dodici? «Però dobbiamo prestare attenzione a quello che
sta succedendo perché è davvero molto pericoloso e sta succedendo adesso. E
tutto questo finirà per raggiungere un punto di crisi, e allora accadrà qualcosa
di veramente molto brutto.»
Poi Holden fu lì, con lo sguardo su di lei e la sua voce confortante. Elvi si
asciugò le lacrime con il dorso della mano e nel farlo si chiese se qualche
particella del fungo che aveva invaso Jason si fosse trovato su di esso.
«Ehi, sta bene?» chiese Holden.
«Sì, sto bene. Mi dispiace.»
«Nessun problema» rispose Holden. «Ha detto qualcosa riguardo a una
crisi?»
Elvi annuì.
«D’accordo. Da cosa la possiamo riconoscere?»
«Non lo so» ammise Elvi. «Non lo saprò finché non sarà successo.»
28
Basia
In piedi su una bassa collina che dominava First Landing, Holden cercava
di assaporare la bellezza del pianeta mentre il suo cervello ruminava sulla
mezza dozzina di problemi insolubili che si supponeva lui riuscisse in
qualche modo a risolvere. La recente pioggia aveva inumidito e abbattuto la
solita polvere, e questo faceva apparire la cittadina pulita e ben tenuta.
Pacifica. In alto, il cielo era di uno splendido azzurro tendente all’indaco,
solcato da appena un accenno di nuvole di alta quota. Il suo terminale
palmare indicava che la temperatura era di 22 gradi Celsius, con un lieve
vento che soffiava da nordest con una velocità di quattro nodi. La sola cosa
che avrebbe potuto rendere la situazione migliore sarebbe stata avere Naomi
là con lui, o almeno saperla al sicuro sulla Roci. Questo avrebbe reso tutto
molto migliore.
«Mi mancano i pianeti» disse, chiudendo gli occhi e girandosi verso il sole.
«A me no» replicò Amos. Durante la loro passeggiata pomeridiana era stato
tanto silenzioso che Holden si era quasi dimenticato della sua presenza.
«Non ti manca mai la brezza? Il sole sulla pelle? Una pioggia gentile?»
«Quelle non sono le parti della vita planetaria che si sono impresse nella
mia memoria» ribatté Amos.
«Ti va di parlarne?» chiese Holden.
«No.»
«D’accordo.» Holden non prese il rifiuto del meccanico come una cosa
personale. Per usare le sue stesse parole, Amos aveva un sacco di passato nel
suo passato, non gli piaceva che la gente cercasse di scavare in esso, e
Holden non era tipo da ficcanasare. Sapeva già più di quanto desiderasse
riguardo al modo brutale in cui Amos era stato allevato sulla Terra.
«Suppongo sia meglio tornare indietro» decise, dopo qualche altro
piacevole momento ad assaporare la brezza. «Potrebbe esserci una risposta
della RCE alle mie richieste.»
«Già» sbuffò Amos. «Se i pezzi grossi della RCE hanno mandato una
risposta secondi dopo aver ricevuto il tuo messaggio, la risposta dovrebbe
arrivare più o meno adesso.»
«Non permetterò che i tuoi dati di fatto riguardo a quel lieve ritardo
interferiscano con il mio ottimismo.»
«Non c’è molto che lo faccia.»
Holden rimase in silenzio per un lungo momento. Si umettò le labbra.
«Se rifiuteranno,» disse «e decideranno di permettere che Murtry continui a
trattenerla, dovrò decidere se lei è più importante dell’impedire che le cose in
questo posto degenerino in una guerra aperta.»
«Già»
«Sono sicuro di sapere cosa sceglierò.»
«Già.»
«Ci saranno persone che mi considereranno molto egoista.»
«Questo è vero» convenne Amos. «Ma che si fottano. Loro non sono noi.»
«Questo noi-e-loro è il problema alla base di tutto quello...» cominciò
Holden, ma fu interrotto da un allarme ad alta priorità che proveniva dal suo
terminale palmare. Era il genere di allarme riservato a quando un membro
dell’equipaggio era in pericolo. Naomi, pensò. È successo qualcosa a Naomi.
Amos mosse qualche passo verso di lui, la fronte aggrottata e i pugni
serrati. Stava pensando la stessa cosa. Se era davvero successo qualcosa,
questa volta sarebbe stato impossibile impedirgli di uccidere Murtry.
Probabilmente, Holden non ci avrebbe neppure provato.
«Parla Holden» disse, cercando di mantenere salda la voce.
«Capitano, abbiamo un problema» rispose Alex. La sua voce suonava
tremante, terrorizzata. Holden aveva volato con lui attraverso una mezza
dozzina di battaglie, ma neppure quando il cielo era stato pieno delle scie dei
missili aveva sentito il suo pilota cedere al panico. Di qualsiasi cosa si
trattasse, era grave.
«È ferita?»
«Cosa? Chi? Ti riferisci a Naomi? Naomi sta bene, per quel che ne so»
replicò Alex. «Sei tu a essere nella merda fino al collo, capitano.»
Holden si guardò intorno. First Landing appariva tranquillo. Una nuova
squadra di cinturiani stava salendo sui carrelli che li avrebbe portati alla
miniera. Alcune persone camminavano per strada, andavano per i fatti loro e
le due guardie della RCE di pattuglia chiacchieravano amabilmente con un
locale mentre bevevano una bevanda calda da un termos. La sola cosa
violenta che stesse accadendo nel suo campo visivo era una lucertola mimo
che stava trascinando lentamente verso le fauci un uccello intrappolato nel
suo stomaco rovesciato.
«Ti ascolto» disse.
«Qualcosa è esploso sull’altro lato del pianeta» riprese Alex, parlando tanto
in fretta da incespicare sulle parole, mentre la maggior parte del suo accento
strascicato scompariva. «Ha raso al suolo una catena di isole, laggiù. Voglio
dire che è come se qualcuno avesse lasciato cadere un masso. Il genere di
cosa come quella che ha ucciso i dinosauri. L’onda d’urto sta aggirando il
pianeta in questo momento. Avete sei ore di tempo. Forse.»
L’espressione di Amos era passata da furente a genuinamente sorpresa. Non
era un’espressione che lui avesse spesso, e gli dava un’aria vagamente
infantile.
«Sei ore prima di cosa, Alex?» chiese Holden. «Dammi qualche dettaglio,
per favore.»
«Immagina venti da due o trecento chilometri all’ora, lampi, piogge
torrenziali. Siete abbastanza all’interno da evitare lo tsunami alto tre
chilometri.»
«Il classico pacchetto da ira divina, meno l’annegamento» commentò
Holden, ricorrendo all’umorismo per nascondere la crescente paura. «Quanto
siamo sicuri di tutto questo?»
«Capitano, in questo momento sto vedendo l’altra metà del pianeta andare
letteralmente in pezzi. Questa non è una previsione. Sono mille chilometri di
pianeta fra te e l’apocalisse, una distanza che si va accorciando in fretta.»
«Hai un video da mandarmi?»
«Certo» replicò il pilota. «Hai mutande di ricambio per dopo che lo avrai
visto?»
«Mandalo comunque. Potrei averne bisogno per convincere i locali.
Chiudo.»
«Allora, capitano, qual è il nostro piano?» domandò Amos.
«Non ne ho idea.»
«Lo faccia scorrere di nuovo» disse Murtry, dopo che Holden gli ebbe
mostrato il video apocalittico che Alex aveva registrato usando i telescopi
della Rocinante. Holden, Murtry e Carol Chiwewe erano nella sala cittadina,
con il terminale di Holden sincronizzato con il grande schermo a parete.
Holden obbedì e fece scorrere la registrazione una seconda volta. Di nuovo
la grossa isola scomparve in un lampo di luce e in una colonna di fuoco. Di
nuovo le altre isole svanirono sotto un massiccio muro d’acqua e poi sotto le
sempre più larghe nuvole di cenere e di vapore. Di nuovo l’onda d’urto si
allontanò veloce dal centro dell’esplosione, trascinando con sé onde enormi.
Mentre il video scorreva, Murtry parlò a bassa voce con qualcuno sul
proprio palmare, mentre Carol scuoteva lentamente il capo, come se fosse
stato possibile negare l’evidenza visibile sullo schermo.
Il video finì e Murtry disse: «Questo corrisponde ai nostri dati. Il gruppo di
geoingegneria pensa che si tratti di una reazione a fissione vicino al fondo
dell’oceano.» Holden ebbe un impeto di irritazione per il sottinteso che
avrebbe potuto mentire riguardo a una cosa tanto seria. Ma tenne a freno la
lingua.
«Come una bomba?» chiese Carol.
«O una centrale energetica aliena che si è guastata» replicò Murtry. «È
impossibile avanzare supposizioni.»
«Con quanta rapidità possiamo effettuare un’evacuazione?» continuò Carol,
con voce sorprendentemente salda per qualcuno che aveva appena guardato
negli occhi l’Armageddon.
«Siamo qui per discutere di questo» rispose Holden. «Qual è il piano
migliore per proteggere la colonia? L’evacuazione è un’opzione, ma adesso
ci rimangono poco più di cinque ore.»
«L’evacuazione non funzionerà,» affermò Murtry «almeno non usando la
nostra navetta. Il vento è troppo forte. Dovremmo prendere quota davanti a
quell’onda d’urto, con la turbolenza e la ionizzazione atmosferica che fanno
del loro meglio per sbatterci giù dal cielo. Meglio sopravvivere quaggiù e poi
avere ancora la navetta a disposizione per i soccorsi.»
Holden si accigliò e annuì. «Detesto ammetterlo, ma sono d’accordo. Alex
dice che non può far atterrare la Roci e farla decollare di nuovo prima
dell’impatto, e se tentassimo un’evacuazione, probabilmente ci troveremmo
di fronte a dei tumulti. Come puoi dire a qualcuno che suo figlio non troverà
posto sulla navetta?»
«I tumulti non sarebbero un problema» ribatté Murtry, con una calma
agghiacciante nella voce.
«Come facciamo a proteggere tutti? L’intera colonia?» chiese Holden,
scegliendo di ignorare la provocazione.
«Ci sono le miniere» suggerì Amos, che si teneva vicino a Holden come un
genitore ansioso, una cosa che aveva preso l’abitudine di fare ogni volta che
Murtry era presente.
«No.» Carol scosse il capo. «Sono in una depressione e si allagheranno se
dovesse piovere troppo.»
«Credo si debba partire dal presupposto che qualsiasi cosa potrebbe andare
storta lo farà» suggerì Holden. «Quindi niente fosse e grotte che si possano
riempire d’acqua. Stavo pensando alle rovine.»
Murtry si protese in avanti sulla sedia, accigliandosi. «Cosa le fa pensare
che resisteranno a venti da trecento chilometri all’ora?»
«Vuole una risposta onesta? Non ho nessun motivo valido di crederlo,»
ribatté Holden «ma sono lì da un tempo molto lungo e sono tutto quello che
abbiamo. Spero che se hanno resistito finora riescano a sopravvivere anche a
quello che sta arrivando.»
«Sempre meglio delle capanne in cui vivete voialtri» aggiunse Amos, con
una massiccia scrollata di spalle. «Posso buttare giù a calci in dieci minuti
qualsiasi edificio di questa città.»
Murtry si appoggiò ancor di più all’indietro sulla sedia, fissando il soffitto
mentre faceva schioccare la lingua. «D’accordo» assentì, dopo alcuni
secondi. «È il piano migliore che abbiamo. Dobbiamo sopravvivere a
quell’onda d’urto iniziale. Quello che seguirà sarà brutto, ma saremo in grado
di aiutare i superstiti a superarlo, quindi faremo a modo suo. Farò muovere i
miei uomini. Meglio far sapere subito la cosa.»
«Carol, trovi quante più persone possibile per diffondere la notizia» disse
Holden. «Si accerti che tutti portino tutta l’acqua e il cibo che possono
ragionevolmente trasportare, ma niente altro. Il pianeta è in fiamme. Non
possiamo perdere tempo a salvare ricordi.»
«Le darò una mano» si offrì Amos.
«Abbiamo le ore contate» ricordò loro Holden, attivando un allarme sul
terminale palmare mentre parlava. «Voglio vedervi tutti in quella struttura
entro quattro ore, non un minuto più tardi.»
«Ci proveremo» rispose Carol.
Per trasferire i coloni ci volle più tempo di quanto Holden avesse sperato.
Ogni persona informata dovette esprimere il proprio shock e la propria
incredulità, poi fu necessario fare una conversazione riguardo alla loro
sorpresa, e dopo un’altra conversazione riguardo a cosa potevano portare con
loro. Alcuni insistettero per portarsi dietro alcuni oggetti personali, ciascuno
certo che il proprio fosse un caso unico. Ogni volta che successe, Holden
ebbe voglia di mettersi a urlare.
Era colpa del cielo azzurro e della brezza gentile. Semplicemente, non
sembrava loro che il disastro fosse reale, non quando potevano guardare il
cielo e non vedere altro che qualche nuvola lanuginosa. Si stavano adeguando
soltanto perché Holden, Carol e Murtry avevano il comando, e si faceva
quello che la gente al comando chiedeva di fare a meno che non ci fosse una
ragione molto forte per rifiutarsi. Holden però poteva vedere l’incredulità nei
loro occhi, percepirla in ogni sciocco ritardo, in ogni protesta.
Dall’altra parte della strada un uomo stringeva un fagotto di vestiti sotto un
braccio mentre si trascinava dietro un grosso contenitore di plastica pieno
d’acqua. Amos lo raggiunse e scambiò con lui alcune parole sorridendo.
L’uomo scosse energicamente il capo e cercò di allontanarsi, ma Amos gli
strappò di mano il fagotto di vestiti e lo lanciò sul tetto di una capanna vicina,
poi prese il contenitore dell’acqua e lo ficcò fra le braccia dell’uomo. Questi
cercò di discutere, ma Amos lo fissò con un vago sorriso e infine l’uomo si
volse e si allontanò, incamminandosi dietro agli altri già diretti verso le
rovine aliene.
«Capitano?» chiamò una voce esitante. Voltandosi, Holden si trovò davanti
Elvi Okoye, che gli sorrideva e portava una grossa sacca appesa a una spalla.
«Salve» le disse. «Cos’ha lì?»
«Coperte. Fayez, Sudyam e io portiamo tutte le coperte che avevamo
all’insediamento. La temperatura calerà di certo in modo significativo una
volta che la nuvola di detriti si allargherà sopra di noi, e le notti si faranno
fredde.»
«Buona idea. Probabilmente dovremmo dire ad altre persone di portare
delle coperte.»
«Ecco...» aggiunse Elvi, sempre con quel suo insicuro accenno di sorriso.
«Volevo chiedere aiuto per il gruppo di scienze chimiche.»
«Aiuto?»
«L’apparecchiatura di analisi chimica è molto pesante, e hanno problemi a
spostarla. Un altro paio di persone renderebbe il lavoro molto più facile.»
Holden scoppiò in una risata incredula. «Non farete nessuna ricerca
scientifica laggiù, Elvi. Dica loro di abbandonare l’apparecchiatura e di
portare invece acqua e cibo.»
«Produce acqua» disse lei.
«Possono portare... Produce cosa?»
«Può sterilizzare e distillare l’acqua» spiegò Elvi, annuendo come se in quel
modo avesse potuto indurlo ad assentire più in fretta. «Potremmo averne
bisogno. Sa, per quanto finiremo l’acqua in bottiglia.»
«Sì» convenne Holden, sentendosi come un idiota.
«Sì» ripeté Elvi con un sorriso speranzoso.
«Amos!» gridò Holden. Quando il grosso uomo lo raggiunse, indicò Elvi e
disse: «Trova qualcuno che vi aiuti, poi seguila. C’è una grossa
apparecchiatura che dobbiamo spostare.»
«Apparecchiatura?» Amos si accigliò. «Cibo e acqua non dovrebbero
essere...»
«Produce acqua» replicarono all’unisono Holden ed Elvi.
«Ricevuto» annuì Amos, e si allontanò in fretta.
Holden notò che il cielo aveva cominciato a oscurarsi in modo appena
percettibile. Il sole era ancora alto, perché mezzogiorno era passato da poco
ed era primo pomeriggio, ma la luce solare iniziava a tendere al rosso e il
mondo si stava oscurando con essa, come se uno splendido tramonto stesse
sopraggiungendo con cinque ore di anticipo. Qualcosa in quel cambiamento
gli generò un brivido lungo la spina dorsale.
«Vada» disse, assestando a Elvi una spinta gentile verso le torri aliene.
«Vada subito. E dica alla sua gente di spicciarsi.»
Lei non discusse, dovette rendergliene atto, e si limitò a spiccare la corsa
verso il complesso di capanne della RCE. Tutt’intorno a lui i coloni si
muovevano più in fretta, discutevano meno e di tanto in tanto scoccavano
occhiate spaventate al cielo.
Holden non era più stato nella struttura aliena da quando era andato a
esaminarla in quanto scena del crimine. Essa aveva lo stesso senso estetico
inquietante e inumano che aveva notato in precedenza, prima su Eros, dopo
l’infezione, e poi sulla Stazione dell’Anello, nel cuore della rete dei portali.
Curve e angoli erano sbagliati in modo sottile e tuttavia stranamente belli.
Cercò di immaginare quale uso i padroni della protomolecola avessero fatto
di quegli edifici, ma non ci riuscì. Non ce la faceva a immaginarli nell’atto di
creare una struttura per installarvi macchinari come in una fabbrica, e
neppure riusciva a vedere quelle costruzioni come abitazioni, piene di arredi e
di oggetti personali. Era come se standosene lì vuote com’erano, esse
continuassero a adempiere alla funzione aliena, quale che fosse, che erano
sempre state destinate a svolgere.
Quello era anche il posto dove Basia Merton e gli altri avevano nascosto gli
esplosivi, e dove avevano ucciso la squadra di sicurezza. I crimini più
sanguinosi che fossero stati commessi sul pianeta erano stati tutti accentrati
proprio nel luogo in cui ora erano tutti diretti.
«Datemi un altro conteggio» disse Carol Chiwewe ai suoi assistenti. «Chi
manca? Scoprite chi manca.»
Aveva continuato a fare il conto delle teste dei coloni da quando era
arrivata, quasi per ultima, ma continuava a ottenere numeri diversi a mano a
mano che sopraggiungevano alla spicciolata i ritardatari o che le persone si
spostavano. Era un compito impossibile, ma Holden provò rispetto per il suo
impiego a garantire che nessuno fosse lasciato indietro.
Il gruppo di scienziati della RCE se ne stava raggomitolato compatto in un
angolo arrotondato della grande stanza centrale dell’edificio, Elvi insieme
agli altri. Parecchi scienziati erano impegnati ad armeggiare con una grossa
macchina, e Holden sperò che la stessero preparando a purificare grandi
quantità di acqua. Con il figlio Jacek a traino, Lucia si spostava per la stanza,
e si fermò a scambiare qualche parola con Elvi. Holden esalò un respiro di
sollievo nel constatare che entrambi ce l’avevano fatta. Sulla Rocinante,
Basia stava probabilmente impazzendo per la preoccupazione, e lui era lieto
di poter riferire che erano quanto più al sicuro possibile.
«Ehi, capitano» chiamò Amos, emergendo da una stanza laterale con un
seguito di parecchi coloni. «Abbiamo un problema.»
«Un altro? Peggiore della tempesta cataclismatica che sta avanzando verso
di noi?»
«Direi che è correlato» replicò Amos. «Abbiamo fatto un conto delle teste e
pare che manchi la famiglia Dahlke.»
«Ne siamo sicuri?»
«Parecchio» replicò Amos, con una scrollata di spalle.
Carol li vide parlare e si fece largo verso di loro attraverso la stanza
affollata. «Siamo sicuri al cento percento» dichiarò. «Clay Dahlke era in città
a fare provviste quando lo abbiamo avvertito, ed è andato a casa a prendere
sua moglie e sua figlia. La loro casa è la più lontana fuori città. Avrei dovuto
mandare qualcuno con lui, ma sono stata tanto stupida...»
«Aveva un sacco di cose da fare» la rassicurò Holden. «Quanto dista da qui
la casa dei Dahlke?»
«Tre chilometri» rispose Amos. «Sto per andare là con questi uomini per
vedere se riusciamo a trovarli.»
«Aspetta un momento» obiettò Holden. «Non sono certo che con il tempo
che ci rimane possiate fare un viaggio di andata e ritorno di sei chilometri
totali, e tantomeno cercare qualcuno.»
«Non intendo lasciare quella ragazzina là fuori, capo.» Amos badò a
mantenere un tono accuratamente neutro, ma Holden avvertì in esso una
vaghissima sfumatura di minaccia.
«D’accordo» si arrese. «Ma lasciami almeno chiamare la Roci per avere un
aggiornamento.»
«Certo» assentì Amos. «Del resto, qualcuno sta ancora cercando un poncho
per la ragazzina.»
Holden lasciò la stanza principale e attraversò la confusione delle camere
più piccole che la circondavano, cercando di trovare l’ingresso. L’edificio
alieno era un labirinto di passaggi e stanze collegati. Mentre camminava, tirò
fuori il terminale palmare. «Alex, sono Holden. Mi senti?»
Il suono che usciva dal terminale era pieno di statica per la massiccia
ionizzazione dell’atmosfera, ma Holden riuscì comunque a sentire la risposta.
«Parla Alex. Che notizie ci sono?»
«Dammi un aggiornamento. Quanto tempo abbiamo ancora?»
«Oh, capo, devi guardare verso ovest.» La paura nella voce di Alex era
udibile anche in mezzo alle forti scariche di statica.
Holden uscì dall’ingresso principale della torre aliena e guardò verso il sole
che tramontava lentamente.
Una cortina nera aleggiava sull’orizzonte a perdita d’occhio, e si muoveva
tanto in fretta che anche da una distanza di dozzine di chilometri dava
l’impressione di scagliarsi verso di lui, una nera altura ribollente solcata da
fulmini. Il terreno sotto i suoi piedi prese a tremare e vibrare, ricordandogli
che il suono viaggiava molto più in fretta attraverso un solido che attraverso
l’aria. La vibrazione che avvertiva era il rumore di tutta quella furia, che
viaggiava attraverso il terreno come avvertimento. Mentre formulava quel
pensiero da ovest giunse un ruggito crescente.
«Come vanno le cose?» Amos era arrivato nell’anticamera e si stava
mettendo in spalla uno zaino leggero. I suoi amici coloni erano raccolti alle
sue spalle, con un misto di paura e di speranza sul volto.
«È troppo tardi, amico» replicò Holden, guardando verso ovest e scuotendo
il capo. «Decisamente troppo tardi.»
Non avrebbe saputo dire se intendeva che era troppo tardi per i Dahlke o
per tutti loro.
30
Elvi
Dopo aver perso il contatto radio con Murtry, Havelock aveva tentato di
dormire. Avrebbe dovuto dormire, considerato che non c’era niente che
potesse fare, non ancora, comunque. Non fino a quando non fosse finito tutto.
Fluttuando nel sedile a smorzamento, con le cinghie che lo tenevano centrato
sullo strato di gel, aveva imposto alla sua consapevolezza di rilassarsi, ma la
sua mente si era rifiutata di riposare. Erano ancora vivi, laggiù? E se quella
fosse stata solo la prima di parecchie esplosioni? E se il pianeta fosse
detonato, distruggendo anche la Israel? Avrebbe dovuto ordinare a Marwick
di spostare la nave in un’orbita più alta? O addirittura di allontanarla dal
pianeta? E se la Barbapiccola avesse tentato di fare lo stesso... che sarebbe
successo? Non era previsto che permettesse loro di lasciare l’orbita con un
pieno carico di litio che apparteneva alla RCE.
Chiuse di nuovo gli occhi, ma si riaprirono non appena smise
coscientemente di imporre loro di restare chiusi. Dopo tre ore si arrese,
slacciò le cinghie e andò nella palestra. I suoi muscoli atrofizzati dall’assenza
di gravità si lamentarono per ogni set di esercizi, mentre guardava sullo
schermo le immagini del pianeta sotto di loro. I contorni di Nuova Terra
erano scomparsi e tutto il pianeta era avvolto da un piatto grigiore uniforme,
con le nuvole che nascondevano la violenza che imperversava sotto di esse.
Dopo il ciclo di esercizi si lavò, indossò un’uniforme pulita e andò in ufficio.
La casella dei messaggi in arrivo era piena di richieste di commenti da parte
di ogni organizzazione mediatica esistente, oltre a parecchie altre che
dubitava esistessero davvero. Inoltrò tutti quei messaggi al quartier generale
della RCE su Luna. Che rispondessero loro, se volevano. A questo punto, ne
sapevano tanto quanto lui.
Verificò se ci fossero comunicazioni in arrivo dal pianeta, ma il segnale non
riusciva a passare. Controllò ancora. E ancora. Il pianeta grigio era silenzioso.
«Qualche notizia?» chiese la prigioniera.
«Niente» rispose Havelock. E un momento più tardi aggiunse: «Mi
dispiace.»
«Anche a me» replicò lei. «Se la caveranno.»
«Lo spero.»
«Lei sta bene?»
Havelock si girò a guardarla. Per essere una sabotatrice ormai in prigione
da giorni, appariva calma e quasi divertita. Si sorprese a ricambiare il suo
sorriso.
«Forse sono un po’ stressato» rispose.
«Già. Mi dispiace.»
«Non è colpa sua» replicò Havelock. «Non è lei a prendere le decisioni
qui.»
«C’è qualcuno che stia prendendo le decisioni qui?» chiese Naomi.
Sentendo un uomo schiarirsi la gola alle sue spalle, Havelock si girò sul
sedile con un sibilo delle sospensioni e guardò verso il portello. L’ingegnere
capo fluttuava sulla soglia, portando sulla manica dell’uniforme la fascia da
braccio della milizia.
«Salve, capo» disse, spingendosi nella stanza. «Mi chiedevo se potessimo
parlare, magari da soli.»
«Può attivare la schermatura per la privacy, se vuole» suggerì Naomi.
«Tanto sentirò lo stesso ogni parola.»
Havelock slacciò le cinghie e si spinse fuori dal sedile. «Torno subito»
disse da sopra la spalla.
«Mi troverà sempre a casa» ribatté Naomi.
Il bar della cambusa era in un momento di calma fra i diversi turni.
L’ingegnere capo prese un’ampolla di caffè per sé e un’altra per Havelock,
poi andarono a fluttuare accanto a un tavolo assicurato al pavimento. Forza
dell’abitudine.
«Abbiamo parlato fra di noi» esordì l’ingegnere capo Koenen.
«Dell’evento.»
«Sì. Anch’io non riesco praticamente a pensare ad altro.»
«Fino a che punto siamo sicuri che sia stato... ecco... naturale?»
«Direi che c’è il cento percento delle probabilità che non lo sia stato»
ribatté Havelock, con una cupa risata. L’espressione dell’ingegnere capo
parve indurirsi, quindi Havelock incalzò: «Forse però questo dipende da cosa
lei intende con ‘naturale’. Cos’è che la preoccupa?»
«Non vorrei sembrare paranoico, è solo che la tempistica mi sembra molto
comoda. Lei, io e i ragazzi becchiamo uno dei mediatori delle Nazioni Unite
con le mani nel sacco. Sbattiamo quella cagna in guardina, e poi questo
enorme disastro si scatena dal nulla, distogliendo da lei l’attenzione
generale.»
Havelock sorseggiò il caffè.
«Cosa sta pensando, capo? Che sia stato provocato?»
«Quegli abusivi sono arrivati qui prima di noi. Non sappiamo se hanno
trovato qualcosa di cui hanno evitato di parlarci. E Holden lavorava per l’APE.
Lavorava per quel fottuto Fred Johnson, giusto? Dannazione, secondo tutte le
fonti che ho sentito se la fa con quella ragazza cinturiana che abbiamo
catturato. La sua fedeltà non va alla Terra. Ed è stato lui che è andato su quel
dannato qualcosa alieno intorno a cui orbita la Stazione di Medina ed è
tornato indietro. Ho seguito alcuni notiziari indipendenti. Ha presente quei
marine marziani che sono entrati là dopo di lui? Da allora stanno succedendo
loro cose dannatamente strane.»
«Strane in che senso?»
Con un bagliore nello sguardo, l’ingegnere capo si chinò in avanti in una
posa di intimità e complicità che era un’abitudine indotta dalla forza di
gravità, e per la mezz’ora successiva sciorinò una mezza dozzina di eventi
strani. Uno dei marine, una donna, era morto di embolia durante
un’accelerazione a gravità elevata prima di poter parlare con suo cugino, che
gestiva un popolare notiziario. Un altro aveva abbandonato il servizio
militare e rifiutava di parlare di quello che era successo. C’erano voci di un
rapporto segreto che suggeriva – pesantemente – che James Holden fosse
stato ucciso sulla stazione e sostituito con un doppelgänger. Considerati tutti
gli altri cambiamenti che la protomolecola poteva apportare a un corpo
umano, era ragionevole pensare che non fosse difficile per essa ricrearne uno.
Quel rapporto però non era mai stato reso pubblico, e le persone che lo
avevano letto erano diventate oggetto di velate campagne mirate a screditarle.
Havelock bevve il suo caffè, ascoltando, annuendo e ponendo di tanto in
tanto qualche domanda, di solito per avere la fonte delle informazioni che
l’ingegnere capo gli stava riferendo. Quando ebbero finito, promise di
indagare al riguardo e tornò alla sua scrivania. Sullo schermo, il pianeta era
ancora coperto di nuvole.
«Va tutto bene?» chiese Naomi.
«Benissimo» garantì Havelock. Un momento più tardi aggiunse: «Solo
persone spaventate che cercano di trovare una versione degli eventi in cui
qualcuno abbia il controllo di tutto.»
Lei ridacchiò. «Sì, anch’io sto facendo lo stesso.»
«Anche lei? Come?»
«Mordendomi le unghie e pregando» rispose Naomi. «Soprattutto
pregando.»
«È religiosa?»
«No.»
«Lei e Holden siete segrete spie aliene che hanno fatto saltare il pianeta
come parte di una cospirazione cinturiana mirata a distrarre i media?»
Naomi scoppiò in una grossa risata. «Oh, era di questo che si trattava? Mi
dispiace proprio, no.»
Anche Havelock ridacchiò, sentendosi peraltro un po’ colpevole nel farlo.
Koenen era uno dei suoi uomini, Naomi Nagata era una sabotatrice e una
nemica. D’altronde, la cosa era un po’ buffa, e lui non aveva nessun altro con
cui parlare.
«Non è poi così male. Le teorie cospiratorie affiorano ogni volta che le
persone hanno la sensazione che l’universo sia troppo dominato dal caso. Che
sia assurdo. Se è tutto un complotto nemico, almeno c’è qualcuno che sta
controllando le cose.»
«I cinturiani.»
«Sì, questa volta.»
«Faranno irruzione qui dentro e mi butteranno fuori del portellone stagno?»
«No, non sono gente del genere» garantì Havelock. «Sono brave persone.»
«Brave persone convinte che io abbia distrutto un pianeta.»
«No, che il suo compagno, che è in realtà un doppelgänger alieno, lo abbia
fatto per impedire che le persone pensassero a lei. Non si preoccupi, non le
accadrà niente. Nessuno pensa davvero che sia in combutta con la
protomolecola. Sono soltanto spaventati.»
Naomi si fece silenziosa. Teneva la punta delle dita premuta contro la
gabbia e canticchiava fra sé una melodia che Havelock non conosceva.
Controllò di nuovo la casella dei messaggi in arrivo. C’era un’altra mezza
dozzina di richieste di commenti. Una nota di un membro della sicurezza per
segnalare che i cinturiani a bordo della Israel avevano cominciato a stare tutti
insieme al bar della cambusa e a esercitarsi insieme in palestra, cosa che
l’uomo che aveva inoltrato il rapporto trovava sospetta. Ad Havelock pareva
piuttosto una tattica difensiva. Avrebbe dovuto pensare a cosa fare al
riguardo, ammesso che fosse il caso di fare qualcosa. Il segnale radio
continuava a non riuscire a raggiungere il pianeta. L’analisi dei sensori IR,
che potevano trapassare la copertura delle nuvole, indicava che First Landing
era stato distrutto dalla tempesta. Havelock spostò la sua attenzione sul
pacchetto dati dei sensori che veniva trasmesso sulla Terra. Forse laggiù
qualcuno sarebbe riuscito a capirci qualcosa. Nei primi notiziari si
cominciava già ad avanzare la supposizione che potesse essersi trattato del
sovraccarico di un nucleo a fusione. Avendo appena sentito come Jim Holden
fosse in realtà un mutaforme alieno, Havelock era però un po’ scettico
riguardo a tutto.
Quando sei ore più tardi il suo terminale palmare si illuminò a causa di una
richiesta in arrivo da parte di Murtry, Havelock sentì un grosso peso
scivolargli via dalle spalle. Aprì la connessione e un’immagine di Murtry,
indistinta e a bassa risoluzione, apparve sullo schermo. L’immagine
continuava a saltare e a distorcersi, ma la qualità dell’audio era buona, a parte
qualche scarica di statica.
«Lieto di vederti, Havelock. Come va la situazione lassù?»
«Niente di cui lamentarsi, signore. Perlopiù abbiamo atteso di avere sue
notizie. Pare che laggiù sia in corso una dannata tempesta.»
«La perdita di vite è stata minima» disse Murtry. «Alcuni abusivi non si
sono presi la briga di mettersi al riparo in tempo, e la piena ha fatto affiorare
dal terreno alcune bestie locali che ti uccidono se le tocchi. Gli abusivi hanno
perso un altro uomo per questo. La nostra gente sta bene. Il campo è
perduto.»
«Il nostro o il loro?»
«Il nostro e il loro. Quaggiù dovranno tutti ripartire da zero.»
«Mi dispiace sentirlo.»
«Perché?»
Havelock sbatté le palpebre e fece un sorriso nervoso. «Perché abbiamo
appena perso tutto.»
«Non abbiamo perso tanto quanto loro, quindi per noi è una vittoria» ribatté
Murtry. «Dobbiamo caricare la navetta con provviste di primo soccorso e
farla scendere quaggiù. Cibo. Acqua pulita. Medicinali. Vestiti caldi. Niente
ripari, però, o al massimo quelle economiche strutture laminate che non
possono resistere per più di una settimana.»
«Ne è sicuro? Posso far mettere insieme alcuni prefabbricati di
emergenza...»
«No. Quaggiù non arriverà niente che somigli a un riparo permanente
finché la nostra gente non sarà la sola a utilizzarlo. E dovremo prendere a
bordo un po’ di quegli abusivi. Può cominciare a mettere insieme qualcosa
che possa ospitare un centinaio di persone? Non è necessario che sia comodo,
ma deve essere un ambiente che possiamo controllare.»
«Porteremo gli abusivi sulla Israel, signore?»
«Li rimuoveremo dal pianeta e li metteremo sotto il nostro controllo»
dichiarò Murtry, con un sorriso. «Sua santità, il papa Holden, pensa di avermi
imposto la cosa con la forza. Quell’uomo è furbo quanto un gatto morto.»
Havelock fu improvvisamente consapevole del fatto che lo schermo di
privacy di Naomi era abbassato e che lei stava sentendo ogni parola di quella
conversazione. Cercò di pensare a un modo che gli permettesse di attivarlo
senza far sapere a Murtry che fino a quel momento si era dimenticato del
protocollo.
«C’è qualche problema, Havelock?»
«Stavo solo pensando a dove li possiamo mettere, signore» rispose
Havelock. «Escogiteremo qualcosa.»
«Bravo. Questo è stato un colpo di fortuna. Se giochiamo bene queste carte
riusciremo a rimuovere tutti gli abusivi dal pianeta, e anche se non ce la
faremo, faranno una dannata difficoltà a sostenere di avere una colonia in
grado di sopravvivere.» Il sorriso di Murtry si era fatto sottile. «Nelle ultime
sessanta ore abbiamo probabilmente fatto più progressi nel risolvere questo
pasticcio di quanti ne avessimo fatti da quando siamo arrivati qui.»
Naomi batté molto piano con le nocche sulla grata della gabbia, che
ticchettò abbastanza sommessamente perché il suono non fosse registrato dal
microfono. Aveva le sopracciglia inarcate in un’espressione interrogativa, ma
non parlò. Havelock rispose con un cenno appena percettibile.
«Che fine ha fatto la squadra di mediazione?» chiese. «Holden e la sua
gente?»
«Holden e Burton stanno bene. Per poco Burton non ci ha rimesso il culo
durante la parte peggiore della tempesta, ma poi se l’è cavata» rispose
Murtry, con una scrollata di spalle e un sorriso. «Non si può avere tutto.»
Havelock sussultò, pensando a quanto dovessero apparire insensibili le
parole di Murtry a qualcuno che non lo conosceva. «Bene, li informi che
metteremo insieme provviste di primo soccorso e le manderemo laggiù non
appena riusciremo ad attraversare la copertura delle nuvole.»
«Niente strutture permanenti.»
«No, signore. Ho capito.»
«Inoltre, quando la navetta tornerà indietro voglio rispedire a bordo alcuni
dei membri della nostra squadra scientifica. Quelli che si stanno ambientando
un po’ troppo bene. Preparerò una lista di evacuazione.»
«Vuole che... ah... che prepari l’altra navetta perché possa tornare a
svolgere un servizio normale?» chiese Havelock, sperando che Murtry non
gli dicesse di mantenere armata la navetta.
Sulla connessione scese il silenzio. «Signore?»
«Sarà necessario farlo, giusto?» disse infine Murtry. «Sì, d’accordo, però si
tenga pronto a rimetterla in gioco non appena finito con l’evacuazione. Non
mi piace cedere i nostri vantaggi per niente.»
«No, signore» assentì Havelock. «Provvederò.»
«Bene.»
La connessione si interruppe. Havelock procedette a richiamare a schermo
il ruolino di servizio e le liste d’inventario. Passò quasi un minuto prima che
si arrischiasse a guardare verso Naomi. Dalla sua espressione pareva che lei
avesse appena mangiato qualcosa di sgradevole.
«Quella è la persona per cui lavora.»
«È il capo della sicurezza» disse Havelock.
«Quell’uomo è un serpente.»
«Si è solo espresso male» protestò Havelock. «Non sapeva che lei poteva
sentirlo.»
«Altrimenti avrebbe forse sibilato in maniera leggermente diversa» ribatté
lei. Un momento più tardi chiese: «Avete a bordo catalizzatori apoptosici
selettivi?»
«Oncocidi? Certo, i medicinali anti-tumorali sono una scorta standard.»
«Le dispiacerebbe mandarne giù un po’ con la navetta?»
«Credo che antibiotici e acqua pulita siano più...»
«Holden ne ha bisogno. Su Eros ha assorbito una grande quantità di
radiazioni. Non è un grosso problema quando abbiamo a disposizione i
medicinali, ma gli spunta un nuovo tumore ogni mese o due, e a meno che
Alex non decida di far scendere a terra la Roci attraverso quella zuppa, è
possibile che lui e Amos rimangano laggiù per un po’.»
Probabilmente avrebbe dovuto dire di no. Lei era una prigioniera, e farle
favori non era parte del suo lavoro. Però la donna non aveva fatto capire a
Murtry che era in ascolto. Avrebbe potuto metterlo in imbarazzo e non lo
aveva fatto.
«Certo, non vedo perché non dovrei» rispose Havelock.
«Riguardo a quella cosa del gatto morto...»
«Sì?»
«Negli ultimi anni sono molte le persone che hanno sottovalutato Jim»
disse Naomi. «Molte di loro non sono più fra noi.»
«È una minaccia?»
«È l’avvertimento di non fare lo stesso errore che sta facendo il suo capo.
Lei mi piace.»
Mettere insieme le provviste di primo soccorso fu semplice. A bordo tutti
stavano solo aspettando la possibilità di fare qualcosa. Cibo, acqua fresca,
coperte di polyfiber e medicinali – inclusa una scatola di oncocidi su cui era
scritto il nome di Holden – riempirono la stiva della navetta fino a lasciare a
stento lo spazio per chiudere il portello. Havelock si sorprese a tenere
d’occhio i sensori in attesa che le nuvole si assottigliassero abbastanza da
rendere visibile quell’unica, fievole luce di First Landing. Era uno shock
ricordare che quelle luci non avrebbero mai più brillato, che erano scomparse.
Havelock non era sceso laggiù, non era mai stato sulla superficie di Nuova
Terra, e tuttavia l’idea che l’unico insediamento umano del pianeta fosse stato
spazzato via lo disturbava.
«Navetta due chiede il permesso di scendere» disse il pilota, con voce lenta
dall’accento strascicato.
«Parla il capitano Marwick. Permesso accordato. Dio vi accompagni.»
Sul suo schermo, Havelock guardò i propulsori della navetta farsi luminosi,
spingendola lontano dalla Israel e verso il basso. Il pericolo era costituito
dalla turbolenza nella parte bassa dell’atmosfera. Nella parte alta l’aria era
talmente rarefatta che se pure ci fossero stati venti violenti la navetta sarebbe
riuscita a ignorarli. Havelock si disse che il vero pericolo sarebbe cominciato
quando avesse raggiunto la coltre di nuvole.
La navetta scese sempre di più, e il suo corpo divenne un punto più chiaro
sullo sfondo grigio scuro delle nubi. I dati che affluivano dai suoi sensori
parevano buoni. La turbolenza era peggiore di quanto Havelock si fosse
aspettato, ma non violenta quanto aveva temuto. Quanto più si fossero
abbassati di quota, però...
Il segnale di trasmissione dati si interruppe e Havelock attivò il video in
tempo per veder svanire il bagliore intenso proveniente dalla navetta. Uno
sbuffo di fumo, qualche chilometro più in alto, mostrava il punto in cui era
esplosa. Lo shock, l’orrore di quella vista fu come un pugno in pieno ventre.
Havelock quasi non notò il tremolare delle luci della Israel, o il suono
lamentoso e incerto dell’impianto di riciclaggio dell’aria che ripartiva.
«Havelock?» chiamò la prigioniera. «Havelock, cosa succede? Qualcosa è
andato storto? Perché tutti i sistemi si stanno riavviando?»
Lui la ignorò, protendendosi verso lo schermo del terminale. La navetta era
morta e stava precipitando verso il suolo lontano di Nuova Terra in centinaia
di pezzi fiammeggianti. Nelle immagini c’era però anche qualcos’altro, una
linea appena visibile che attraversava la nuvola di fumo e detriti nel punto in
cui la navetta era esplosa: qualcosa le aveva sparato. Il suo primo pensiero fu
che fosse stata la Barbapiccola, poi che si fosse trattato della Rocinante.
Attivò il sistema tracciante orbitale per cercare di scoprire in che modo le
navi nemiche fossero entrate in azione, ma la sola cosa che avesse intersecato
la linea nel momento in cui la navetta era esplosa era una della dozzina di
piccole lune di Nuova Terra...
Sentì la bocca che gli si inaridiva, mentre la sua mente registrava per la
prima volta il suono dell’allarme che, ora se ne rendeva conto, era entrato in
funzione già da qualche tempo. Da quando la navetta è esplosa, pensò.
Suppose. Naomi Nagata stava gridando per cercare di attirare la sua
attenzione e indurlo a parlarle. Inviò una richiesta di comunicazione
prioritaria al capitano Marwick. Per cinque lunghi secondi non ci fu risposta.
«È stato il pianeta» disse Havelock. «La navetta è stata colpita da qualcosa
che si trova su una di quelle lune.»
«L’ho visto» rispose Marwick.
«Cosa diavolo era? Un’arma aliena? L’esplosione sul pianeta ha attivato
una specie di griglia di difesa?»
«Non saprei dirlo.»
«Ho bisogno di tutto quello che abbiamo sull’accaduto. Tutti i dati dei
sensori. Ogni cosa. Devono essere mandati sulla Terra e ho bisogno che siano
messi a disposizione di Murtry e della squadra scientifica. Autorizzo
chiunque fra l’equipaggio a prenderne visione. Ricavare qualsiasi
informazione... qualsiasi cosa... è la nostra massima priorità.»
«Potrebbe non essere la massima priorità» ribatté il capitano. «Attualmente
sono piuttosto impegnato, ma non appena avrò un momento libero...»
«Questa non è una richiesta» gridò Havelock.
Quando Marwick riprese a parlare, il suo tono era freddo. «Signore, penso
non si sia ancora accorto che stiamo operando con le batterie di emergenza?»
«Stiamo... stiamo cosa?»
«Operando con le batterie di emergenza. Con l’energia di riserva, si
potrebbe dire.»
Havelock si guardò intorno nel suo ufficio, e fu come vederlo per la prima
volta. La scrivania, l’armadietto delle armi, le celle. Naomi che lo fissava con
un’espressione di allarme a stento contenuta.
«Hanno... hanno sparato anche a noi?»
«Non che io possa vedere. Di certo non ci sono nuovi fori nello scafo.»
«Allora cosa sta succedendo?»
«Il reattore si è spento» rispose Marwick. «E pare non intenda riavviarsi.»
33
Basia
«Ciao, papà» disse Jacek, sullo schermo. La voce del ragazzo quasi vibrava
per la paura e lo sfinimento.
«Ciao, figliolo» rispose Basia, nella registrazione e nella realtà. Jacek
cominciò a parlare delle lumache velenose e dei fulmini e di com’era vivere
nelle rovine aliene, recitando parole di rassicurazione che Basia capiva
provenire da Lucia. Jacek recitò sobriamente tutti i motivi che sua madre gli
aveva fornito per cui le cose sarebbero potute finire bene, esponendole a suo
padre come scusa per risentirle lui stesso. Era la terza volta che Basia
guardava la registrazione della conversazione con il suo ragazzo. Quando
essa finì, richiamò a video la registrazione della sua conversazione con Lucia
e la guardò per la decima volta.
Prese in considerazione la possibilità di chiedere ad Alex di chiamarli di
nuovo, per avere nuove registrazioni, ma si rese conto che era un impulso
egoistico e lo represse.
Jacek era sporco, coperto di fango, stanco. Appariva spaventato e insieme
affascinato nel descrivere l’orrore delle lumache velenose. Le costanti
tempeste di pioggia e fulmini erano esotiche in modo sorprendente per un
bambino che aveva vissuto sempre e solo in gallerie di ghiaccio e nella stiva
di una nave, prima di arrivare su Ilus. Non aveva mai detto apertamente di
desiderare che suo padre fosse lì con lui, ma quel desiderio vibrava nelle sue
parole, e non c’era niente che Basia desiderasse più del poter prendere il suo
bambino per mano e dirgli che aveva ragione a essere spaventato. Che essere
coraggiosi era avere paura ma fare lo stesso ciò che si doveva.
Quando era stato il suo turno, Lucia non era apparsa tanto spaventata
quanto esausta. I suoi sorrisi per lui erano stati sbrigativi e il suo rapporto
vago perché, Basia lo sapeva bene, non aveva da dire niente che potesse
aiutare l’uno o l’altra di loro.
I video di Felcia erano stati gli unici che gli avevano dato pace. Lei era
l’unico membro della sua famiglia a cui sentiva di non essere venuto meno.
Aveva desiderato andare a scuola, e lui era riuscito a reprimere le sue paure, i
suoi bisogni e i fardelli che portava abbastanza a lungo da lasciarla andare.
L’aveva vissuta come una vittoria.
Almeno fino a quel momento.
Ormai vedeva soltanto l’orologio che Alex aveva lasciato in funzione e che
mostrava quanto tempo rimaneva prima che Felcia bruciasse nell’attraversare
il cielo di Ilus.
La simulazione e il timer eseguivano il loro terribile programma sul
pannello alle sue spalle, che lui si sforzava di non guardare mai. Quando
aveva bisogno di usare gli schermi del ponte operativo fluttuava attraverso il
compartimento sforzandosi di non lanciare neppure un’occhiata in quella
direzione. Cercava in ogni modo di dimenticare che quell’orologio esistesse.
E non ci riusciva.
Nel riguardare per la quarta volta la sua più recente conversazione con
Felcia sentì il timer alle sue spalle come una chiazza rovente sulla schiena.
Come lo sguardo di qualcuno che lo fissasse da un capo all’altro di una
stanza affollata. Il gioco divenne vedere quanto a lungo avrebbe resistito
senza guardare. O se sarebbe riuscito a distrarsi abbastanza da dimenticare la
presenza del timer.
Sullo schermo, Felcia gli parlò di come avesse imparato a cambiare i filtri
dell’aria su un mercantile cinturiano. Non era il genere di cose che aveva
dovuto fare nei lunghi mesi in cui la Barbapiccola era stata la loro casa. Le
sue dita aggraziate diedero una dimostrazione di una complessa funzione
necessaria per quel procedimento, che lei faceva apparire facile. Divertente.
Lui però era suo padre, e sapeva che era spaventata.
Tick tick tick, l’orologio si muoveva silenzioso alle sue spalle.
Regolò la bocchetta del sistema di riciclaggio dell’aria vicina al pannello in
modo che gli indirizzasse una brezza fresca sulla faccia, poi finì la
registrazione e passò un po’ di tempo a organizzare i suoi file per contenuto e
data. Poi decise che era meglio organizzarli per data e nome, e li riordinò
daccapo.
Tick tick tick, rovente come il sole che batteva su una camicia scura, a
mezzogiorno. Bruciava senza bruciare.
Aprì il file che Alex aveva preparato con l’elenco delle riparazioni e passò
in rassegna la lista. Aveva già spuntato quei lavori che era effettivamente in
grado di fare, e passò qualche tempo a esaminare gli altri, cercando di
decidere se ce ne fosse qualcuno in cui avrebbe potuto essere d’aiuto. Non gli
saltò all’occhio nulla, il che non era sorprendente, dato che era la quinta volta
che esaminava quella lista.
Tick tick tick.
Basia si girò. La prima cosa che notò fu che i percorsi orbitali simulati
apparivano diversi. I cambiamenti erano così minimi che probabilmente non
avrebbe dovuto essere in grado di vederli, ma quelle odiose linee luminose
che descrivevano la morte della sua unica figlia gli si erano incise nel
cervello, era indubbio che fossero diverse. Per qualche ragione, impiegò più
tempo ad accorgersi che anche l’orologio era cambiato.
C’erano tre giorni in meno.
L’ultima volta che lo aveva guardato, appena poche ore prima, esso aveva
indicato poco più di otto giorni, mentre adesso ne rimanevano poco meno di
cinque.
«L’orologio si è rotto» disse, senza rivolgersi a nessuno.
Alex era nella cabina di pilotaggio, dove pareva passare la maggior parte
del tempo. Basia strattonò le cinghie che lo trattenevano sul sedile, lottando
senza successo contro di esse finché non si costrinse a calmarsi e a premere il
pulsante che le sganciava. Poi si spinse verso la scaletta e la risalì.
Alex aveva sullo schermo principale un grafico dall’aria complessa a cui
stava lavorando con tocchi leggeri e un flusso costante di borbottii a mezza
voce.
«Il timer è sbagliato» disse Basia. Se non fosse stato per il fatto che aveva
inesplicabilmente il fiato corto, avrebbe urlato quelle parole.
«Mmm?» Alex passò una mano sul pannello, su cui apparve un grafico
pieno di numeri, nel quale procedette a inserire nuovi dati.
«L’orologio... quel timer orbitale è rotto!»
«Ci sto lavorando proprio ora» replicò Alex. «Non è rotto.»
«Segna che restano cinque giorni!»
«Sì» confermò Alex, poi smise di lavorare e ruotò il sedile in modo da
guardare verso Basia. «Volevo parlartene.»
Basia sentì le forze che gli venivano meno. Se ci fosse stata forza di gravità
si sarebbe accasciato sul pavimento come se le gambe fossero state di
gomma. «Il dato è giusto?»
«Sì» confermò il pilota, cancellando di nuovo i dati sullo schermo alle sue
spalle per tornare al display grafico. «Però non è una cosa inattesa. I calcoli
iniziali sulla durata delle batterie erano destinati a cambiare. Erano dall’inizio
un calcolo approssimativo.»
«Non capisco» protestò Basia, lo stomaco serrato in una morsa. Se
nell’ultimo paio di giorni si fosse preso la briga di mangiare qualcosa,
probabilmente avrebbe vomitato.
«Il primo calcolo era basato sulla distanza orbitale, la massa della nave e
l’aspettativa di durata delle batterie rispetto ai livelli di consumo.» Mentre
parlava, Alex indicò svariati punti del suo grafico, come se quello spiegasse
qualcosa, come se quel grafico avesse un senso. «Il decadimento dell’orbita
non è qualcosa di cui ci si preoccupi quando i reattori sono in funzione. Se lo
volesse, chiunque di noi potrebbe costruire orbite dannatamente permanenti,
ma la Barb ha mandato quella navetta avanti e indietro per caricare il
minerale, quindi ha consumato energia, un po’ a ogni viaggio. E perdonami
se te lo dico, ma è un mucchio di rottami volanti. È più pesante di quanto
dovrebbe essere, e le batterie si stanno esaurendo in fretta. Questo spiega i
nuovi numeri.»
Fluttuando accanto al sedile del cannoniere, Basia guardò quei numeri
odiosi disporsi sullo schermo.
«Lei ha perso tre giorni» disse, quando infine trovò il fiato per parlare. «Tre
giorni.»
«No, non li ha mai avuti» replicò Alex. Le sue parole erano aspre, brutali,
ma il suo volto era triste e gentile. «Non ho dimenticato la mia promessa. Se
la Barb dovesse precipitare, la tua bambina sarà su questa nave quando
succederà.»
«Grazie» rispose Basia.
«Adesso chiamo il capitano ed elaboreremo un piano. Dammi solo un po’
di tempo. Puoi farlo?»
Cinque giorni, pensò Basia. Ho cinque giorni da darti.
«Sì» disse invece.
«D’accordo» replicò Alex, e attese pieno di aspettativa che Basia se ne
andasse. Quando lui non lo fece, scrollò le spalle e si girò per inoltrare la
chiamata sul pannello delle comunicazioni. «Capitano, parla Alex.
Rispondi.»
«Parla Holden» rispose un momento più tardi una voce familiare.
«Ho analizzato i valori aggiornati, come mi avevi chiesto, ed è sicuro che
perderemo prima la Barb.»
«Quanto è grave la situazione?» chiese il capitano. La connessione
sembrava disturbata, e Basia impiegò un momento a capire che si trattava del
rumore della pioggia.
«Meno di cinque giorni prima che entri in contatto con più atmosfera di
quanta ne possa sopportare.»
«Dannazione» imprecò Holden, poi più niente. Il silenzio si protrasse
abbastanza a lungo da indurre Basia a preoccuparsi che avessero perso la
connessione. «In che stato è la Roci?»
«Oh, noi stiamo bene. Quasi tutto è disattivato, tranne le luci e l’aria.
Abbiamo un sacco di tempo.»
«Possiamo aiutarli?»
«Nel senso di rimorchiarli?» domandò Alex, strascicando le parole.
«Qualcosa del genere. Possiamo farlo?»
«Capo,» replicò Alex «agganciare due navi in quel modo è fattibile, ma
farlo in un’orbita bassa non è un problema da poco. Io sono soltanto un
pilota. Sarebbe carino se potessimo riavere... sai... il nostro ingegnere perché
facesse i calcoli.»
«Già, non mi dire» ribatté Holden, che a Basia parve irritato. Quello era un
bene. La rabbia era un bene. Basia si sentì stranamente confortato dall’idea
che qualcun altro, oltre a lui, fosse turbato dalla situazione.
«C’è possibilità di riaverla?» incalzò Alex.
«Lasciami parlare di nuovo con Murtry» disse Holden. «Ti richiamerò al
più presto. Chiudo.»
Alex sospirò, le labbra serrate.
«Parlargli non servirà» disse Basia. «Giusto?»
«Non vedo come possa servire» annuì Alex.
«Il che significa che con ogni probabilità dovremo andare a prenderla da
soli. Sai che ci siamo soltanto noi, tu e io. Tutto qui.»
«Siamo in tre» lo corresse Alex, battendo un colpetto sul pannello. «Non lo
dimenticare. Abbiamo la Roci.»
Basia annuì, attese che lo stomaco gli si contraesse di nuovo e rimase
sorpreso nel sentirsi invece pervadere da un caldo senso di pace. «Cosa devo
fare?»
«Questa è una tuta ALV» disse Alex, indicando l’equipaggiamento
assicurato all’interno di un armadietto aperto. Erano sul ponte dei portelloni
pressurizzati che, a parte i portelloni stessi, conteneva quasi esclusivamente
armadietti e compartimenti di stoccaggio. Il contenuto di quel particolare
armadietto sembrava una tuta completa di gomma con un sacco di cose
attaccate.
«Alveee?»
«A. Elle. Vi. Sta per armatura leggera per il vuoto. Ti permette di muoverti
all’esterno, con una quantità d’aria e una protezione tali da far sì che continui
a respirare e da proteggerti dalla maggior parte delle radiazioni.» Alex tirò
fuori la tuta e la lasciò fluttuare accanto all’armadietto perché Basia potesse
esaminarla. «Autosigillante, in caso di lacerazione, con supporto vitale,
sensori medici e medicinali di base di scorta inseriti.» Tirò fuori una corazza
rossa dall’aspetto metallico. «Questo inoltre ti protegge dall’essere riempito
di buchi prodotti da armi da fuoco di piccolo calibro.»
Mentre Alex tirava fuori ogni pezzo e glielo mostrava, spiegandogliene la
funzione, Basia li esaminò doverosamente e commentò in modo che sperò
essere appropriato. Aveva indossato tute da lavoro per il vuoto quasi per tutta
la sua vita, e ne conosceva bene forma e funzione. Tuttavia gli svariati pezzi
di armatura e tecnologia che trasformavano quella tuta in un’arma da guerra
esulavano dalla sua esperienza. Di certo qualcosa che Alex descrisse come
‘IAN automatico e tracciamento di elementi ostili mediante HUD’ suonava
davvero impressionante e utile, ma lui non aveva idea a cosa potesse servire,
quindi si limitò ad annuire e ad assumere un’aria pensosa nell’esaminare il
casco che Alex gli porgeva.
«Hai mai usato un’arma da fuoco?» chiese Alex, dopo che ebbero tirato
fuori tutta l’armatura dall’armadietto.
«Mai» rispose Basia. Per un momento fu assalito dal fugace quanto vivido
ricordo dell’attacco alla squadra della sicurezza della RCE, delle orribili ferite
prodotte dalle armi da fuoco, e della sorpresa sul volto di quelle persone
mentre morivano. Attese di essere assalito dalla nausea, ma continuò ad
avvertire soltanto calma e calore. «Una volta ne ho presa in mano una. Sono
sicuro di non aver fatto fuoco.»
«Questa,» disse Alex, sollevando una grossa pistola nera «è una pistola
semiautomatica da 7.5mm, caricatore da venticinque proiettili. Arma standard
dell’MCRN, virtualmente a prova di idiota, per cui è quella che intendo darti.»
«Ammesso che io vada» osservò Basia.
«Certo» convenne Alex, con un sorriso. «Non abbiamo un poligono dove
fare pratica, ma puoi provare a fare fuoco a vuoto un po’ di volte per abituarti
a maneggiare l’arma. In tutta onestà, però, se andrai là fuori e avrai bisogno
di essere un tiratore di precisione per potertela cavare, sarai fottuto.»
«Allora perché portarla con me?»
«Perché quando gli punti contro una di queste la gente fa quello che vuoi
tu» ribatté Alex.
«Allora tanto vale che resti scarica» osservò Basia, prendendogli di mano la
pistola e agitandola nell’aria per valutarne il peso.
«Se vuoi...» disse Alex.
«No. Mostrami cosa devo fare, poi carichiamola.» Per Felcia. Posso farlo
per lei.
«D’accordo» assentì Alex, e procedette a fare quello che Basia gli aveva
chiesto.
Holden richiamò parecchie ore più tardi, e quando parlò la sua voce suonò
tesa per l’ira. «Parla Holden. Murtry non intende piegarsi di un centimetro,
quindi che si fotta. Andate a prendere Naomi. Chiudo.»
«Bene» commentò Alex, strascicando quella parola fino a farne un lungo
sospiro. «Credo che abbiamo smesso di essere dei mediatori.»
Basia annuì agitando il pugno, cosa che lo fece ruotare leggermente su sé
stesso. Fluttuavano entrambi sul ponte operativo, con i vari pezzi smontati
della pistola sospesi nell’aria accanto a Basia. Alex aveva insistito
sull’importanza del saper smontare e rimontare l’arma. Basia non aveva idea
del perché fosse tanto importante, ma si era adeguato.
«Adesso che si fa?» chiese.
«Meglio rimontare quella pistola. Poi richiamerò a schermo le specifiche
della Israel e le esamineremo un’ultima volta. Ricorda che le cose vengono
spostate su una nave in attività, per cui non si trovano sempre dove risultano
essere sui progetti originali. Ti conviene scegliere vie d’ingresso e di uscita
diverse, nel caso che qualcuno abbia bloccato il corridoio che intendevi
usare.»
«Ho buona memoria» disse Basia. Sembrava una vanteria, ma era vero. Era
cresciuto in un mondo fatto di corridoi e passaggi e aveva un eccellente senso
dell’orientamento.
«Questo sarà d’aiuto. Adesso ti infiliamo in quella tuta, poi ti scaricherò
fuori» disse Alex, poi fece una pausa. «C’è però un problema di cui non
abbiamo discusso. Ho energia in abbondanza per farti arrivare là, e la Roci
può accertarsi che nessuno ti crei problemi mentre sei nello spazio, però non
posso riportarti dentro.»
Basia lo sorprese scoppiando a ridere.
«C’è qualcosa di divertente?» chiese Alex, inarcando un sopracciglio.
«La cosa divertente è che ti preoccupi dell’unica parte di tutto questo in cui
io saprò effettivamente che cosa sto facendo» rispose Basia. «Sono un
saldatore nel vuoto di classe 3, con tanto di licenza. Io saldo nello spazio.
Trovami una nave in cui non possa entrare aprendomi un varco nello scafo.
Prova a trovarla.»
«D’accordo.» Alex gli assestò una leggera pacca sulla spalla. «Mettiamoci
al lavoro.»
Basia si allontanò fluttuando dalla Rocinante. Invece di una semplice tuta
per il vuoto con scorta d’aria indossava una modernissima armatura leggera
da combattimento di fattura marziana. Invece di camminare sullo scafo di una
nave servendosi degli stivali magnetici, si stava spostando attraverso una
mezza dozzina di chilometri di vuoto grazie a sbuffi calibrati di azoto
compresso. Ilus ruotava sotto i suoi piedi, un mondo grigio e rabbioso,
avvolto nelle tempeste solcate di continuo da fulmini di alta quota. Lucia e
Jacek erano laggiù, sotto tutta quella furia atmosferica, ma non poteva fare
niente per aiutarli, quindi avrebbe aiutato la persona a cui poteva essere utile.
Avrebbe salvato Naomi dalla nave della RCE, e lei avrebbe salvato sua figlia.
In quella logica c’erano un sacco di buchi che evitò accuratamente di
analizzare.
Nell’oscurità, fluttuò più vicino alla massiccia isola di metallo grigio. La
Edward Israel. Il nemico.
«Tutto bene là fuori?» chiese Alex, attraverso il sistema di comunicazione.
I piccoli altoparlanti del casco appiattivano la sua voce, aggiungendo un
rabbioso sibilo di sfondo.
«Benissimo. Tutto è verde.» Alex gli aveva spiegato come far scorrere gli
indicatori di stato del visore a sovraimpressione del casco, e Basia li
controllava doverosamente a intervalli di pochi minuti.
«Allora, sto avanzando ogni sorta di irose richieste per la liberazione di
Naomi» continuò Alex. «Ho la Israel sotto tiro dei laser e sto inondando i
loro sensori di statica, confondendoli con la diffusione ottica. Questo
dovrebbe tenere i loro occhi, o almeno quelli di cui ancora dispongono,
puntati saldamente sulla Roci. Avrai un paio di minuti prima che si rendano
conto che ti stai aprendo un varco nello scafo.»
«Non sembra un tempo molto lungo» osservò Basia.
«Taglia in fretta.»
Alex gli aveva garantito che le batterie della Rocinante avevano energia in
abbondanza, e che azionare i laser o disturbare i segnali radio non avrebbe
causato un consumo eccessivo. Basia però aveva finito per vedere l’energia
come una risorsa preziosa e insostituibile, qualcosa che non aveva mai avuto
bisogno di fare in un’epoca in cui la fusione era un’energia facilmente
accessibile. Quello dava a tutto un senso di permanenza che prima non aveva.
Non era più possibile rifare le cose, o dire che sarebbero state fatte nel modo
giusto la prossima volta.
Controllò la propria rotta verso il portellone di manutenzione al centro dello
scafo della Israel, poi tirò fuori il saldatore, stringendolo fino a farsi
sbiancare le nocche.
La nave si ingrandì fino a occupare la sua visuale in ogni direzione. Il
portellone cessò di essere un minuscolo punto appena più chiaro per
diventare un quadrato grosso come un’unghia e poi una vera porta con
inserita una piccola finestra rotonda. Il pacchetto EVA preprogrammato
espulse una lunga scarica di azoto in quattro coni di vapore e lui si andò a
fermare con delicatezza a un metro di distanza.
Il saldatore si accese con una scarica di intenso fuoco azzurro. «Sto
arrivando» disse Basia, a Naomi e alla gente della RCE che la sorvegliava, e
alla sua bambina distante migliaia di chilometri sulla sua nave morente.
Sto arrivando.
40
Havelock
«Ho disattivato tutto quello che potevo disattivare» disse Marwick, sullo
schermo. «Sensori, luci, intrattenimenti. Ho anche abbassato il
condizionamento dell’aria. Con le batterie nello stato in cui sono abbiamo
poco meno di diciassette giorni, e questo con i collettori solari attivi al
massimo. Meno se cominceranno a cedere. Poi sarà il momento di decidere
se preferiamo soffocare o bruciare.»
Havelock si sfregò gli occhi con pollice e indice, energicamente. Non era
andato in palestra, e cercava di compensare aumentando le dosi di steroidi per
assenza di gravità. Non era un rimedio a lungo termine, ma quanto più ci
pensava, tanto più pareva probabile che non avrebbe avuto bisogno di altro.
Però gli steroidi gli procuravano l’emicrania. Se non fosse stato per Naomi,
non avrebbe dedicato tutto il tempo che aveva fatto all’esercizio fisico. Era
una cosa di cui doveva esserle grato.
Gli sembrava che l’ufficio fosse caldo e afoso, con la temperatura che
continuava a salire. Da bambino, vivendo su un pianeta, aveva sempre
pensato che lo spazio fosse freddo, il che era vero, da un punto di vista
tecnico. E di conseguenza, il più delle volte una nave era un vero
termosifone. Il calore prodotto dai loro corpi e dai sistemi si sarebbe disperso
nel vuoto per anni o perfino decenni, se ne avesse avuto la possibilità. Se lui
avesse trovato il modo di dare loro una possibilità.
«Ne abbiamo fatto parola con l’equipaggio?» chiese.
«Non l’ho informato, ma è difficile tenere segreti i dati, soprattutto quando
hai una nave piena di scienziati e di ingegneri che non hanno niente altro da
fare. Dovremo discutere della possibilità di paracadutarli a terra, almeno
quanti più possibile di loro.»
«In modo che possano morire di fame sul pianeta, sempre che le lune non
sparino loro addosso?»
«In effetti, sì» ribatté Marwick. «Hanno fatto molta strada solo per non
mettere piede sulla superficie. So che più di uno fra loro preferirebbe morire
laggiù.»
Nella sua gabbia, Naomi tossì.
«Parlerò con Murtry» disse Havelock. «Avere un cimitero sul pianeta
potrebbe essere una cosa che gli andrebbe bene, soprattutto se possiamo
seppellirvi più gente dei nostri di quanti siano i coloni.»
Marwick sospirò. Aveva smesso di radersi, e quando si sfregò il mento
produsse un rumore simile a una manciata di sabbia gettata contro una
finestra. «Ci siamo andati vicini, però, vero? Abbiamo fatto tutta la strada fin
qui per rimettere in funzione tutto quel dannato mondo.»
«Abbiamo visto la terra promessa» affermò Havelock. «Cosa mi dice della
Barbapiccola? Qual è la sua situazione?»
«Tale da far sembrare buona la nostra. In poco più di quattro giorni quel
litio diventerà vapore disperso nell’atmosfera.»
«Bene, allora credo che non ci dovremo preoccupare di impedire loro di
trasportarlo fino a un dannato mercato.»
«Il problema sta per risolversi da solo» convenne Marwick. «Per tornare al
punto, però, come facciamo con la sicurezza? Questa gente sta per affrontare
una morte che non può combattere e da cui non può fuggire. Daranno i
numeri se non facciamo qualcosa, e né lei né io abbiamo uomini a sufficienza
per fermarli, se le cose dovessero sfuggire al controllo.»
‘Che importanza avrebbe’ voleva rispondere Havelock. ‘Che si scatenino
pure. Questo non accorcerà il tempo che impiegheremo a impattare con
l’atmosfera neppure di un minuto.’
«Capisco» disse invece. «Ho i codici di intervento di sicurezza.
Programmerò il sistema di automedicazione perché aggiunga un po’ di
tranquillante e di stabilizzante dell’umore, magari anche dell’antidepressivo
nella somministrazione di ciascuno. Non voglio esagerare, però. Ho bisogno
che questa gente sia in grado di pensare, non drogata fino agli occhi.»
«Se è così che vuole gestire la cosa...»
«Non intendo trasformare questa nave in un istituto per malati terminali.
Non ancora.»
La scrollata di spalle del capitano fu eloquente e non lasciò spazio ad altro
da dire. Havelock chiuse la connessione e lo schermo passò all’immagine di
default. La disperazione lo aggredì come un’onda incontrollata. Avevano
fatto tutto nel modo giusto, ma non importava. Sarebbero morti tutti quanti –
tutte le persone che era venuto a proteggere, tutti i suoi compagni di squadra,
la sua prigioniera, lui stesso, tutti. Sarebbero morti e non c’era niente che
potesse fare se non farli sballare con le droghe prima che succedesse.
Non si rese conto che stava per sferrare un pugno allo schermo finché non
l’ebbe fatto. Il pannello si spostò leggermente nella sua sede, ma il suo colpo
non lasciò segni su di esso. Le sospensioni del sedile a smorzamento
sibilarono nell’assorbire il suo movimento. Si era lacerato una nocca. Una
goccia di sangue gli affiorò sulla pelle, crescendo fino a diventare delle
dimensioni di una biglia rossa, con la tensione di superficie che la spostava
lungo la pelle sotto i suoi occhi. Quando si mosse, lasciò sospeso nell’aria
uno spruzzo di gocce che sembravano piccoli pianeti e lune.
«Sa,» commentò Naomi «se guarda a centinaia di persone che muoiono
bruciate come a un problema che si risolve da solo, questa potrebbe essere
una prova ulteriore che è dalla parte sbagliata.»
«Non abbiamo messo noi le bombe» ribatté Havelock. «Sono stati loro.
Hanno cominciato loro.»
«Le importa?»
«A questo punto? Non quanto probabilmente dovrebbe.»
Naomi stava fluttuando vicino alla porta della gabbia. Havelock rimaneva
sempre stupito di fronte alla capacità di un cinturiano di tollerare gli spazi
ristretti. Probabilmente l’evoluzione aveva escluso la claustrofobia dal loro
patrimonio genetico. Si chiese quante generazioni della famiglia di Naomi
avessero vissuto fuori da un pozzo gravitazionale.
«Sta sanguinando» osservò lei.
«Sì. Anche questo non avrà molta importanza.»
«Sa che potrebbe farmi uscire. Sono un ottimo ingegnere, e là fuori ho la
migliore delle navi. Mi lasci tornare sulla Roci e potrei riuscire a trovare un
modo per migliorare le cose.»
«Niente da fare.»
«Eppure credevo che non le importasse» commentò lei, con un sorriso che
le traspariva dalla voce.
«Non so come possa essere tanto calma riguardo a tutto questo.»
«È quello che faccio quando ho paura. E lei dovrebbe proprio lasciarmi
uscire.»
Havelock raccolse il sangue che fluttuava nell’aria. Sulla nocca si era già
formata una crosta. Effettuò il login nel sistema di automedicazione con la
sconvolgente sensazione che quello fosse il primo passo verso la resa. Però
era una cosa che andava fatta. Un equipaggio pieno di persone in preda al
panico non avrebbe migliorato le cose, soprattutto se si considerava che la
cosa più vicina che aveva a un completo complemento di forze di sicurezza
era sul pianeta con Murtry.
I notiziari che gli arrivavano da casa erano pieni di servizi iperbolici
riguardo alla tragedia in corso su Nuova Terra. I dati rilevati dai sensori al
momento dell’esplosione avevano raggiunto alcuni fra i notiziari più
accreditati, ma c’erano in circolazione anche tre o quattro versioni
contraffatte. Peraltro, i dati fasulli non erano molto più impressionanti di
quelli reali. Passò in rassegna una dozzina di commentatori. Alcuni
sembravano infuriati che alla spedizione fosse stato permesso di partire, altri
erano seri e tristi, ma nessuno sembrava pensare che ci fosse la minima
probabilità che qualcuno sopravvivesse. La coda di messaggi in attesa si era
allungata a oltre un migliaio. Gente dei media, gente dell’ufficio della RCE.
Alcune – ma solo alcune – persone che conosceva. Una vecchia amante del
tempo in cui prestava servizio alla Pinkwater. Un cugino che non vedeva da
una quindicina d’anni e che adesso viveva sulla Stazione di Ceres. Un paio di
compagni di classe di quando andava a scuola.
Non c’era niente come morire pubblicamente su un miliardo di schermi che
contribuisse a ristabilire i contatti con la gente. Non avrebbe risposto a
nessuno, neppure ai suoi datori di lavoro, neppure agli amici. Tutto gli dava
la sensazione di essere intrappolato sott’acqua, prossimo ad annegare mentre
guardava in alto verso la superficie con la consapevolezza che non l’avrebbe
mai raggiunta.
Slacciò le cinghie.
«Buona notte, Havelock» disse Naomi.
«Tornerò» replicò lui, lanciandosi attraverso l’ufficio.
Era passato molto tempo dall’ultima volta che era stato di pattuglia, anche
in via informale. Si spostò lungo gli stretti corridoi della Israel, muovendosi
attraverso gli spazi comuni – lo spaccio, la palestra, il laboratorio, il bar. Nei
mesi – anni, ormai – in cui aveva vissuto sulla Israel essa era diventata
invisibile come succedeva a qualsiasi luogo ben noto. Guardarla in quel
momento era come vederla per la prima volta. Era una vecchia nave: la forma
accuratamente simmetrica dei corridoi, il meccanismo a chiave delle porte,
tutto ciò era il genere di cose che aveva visto nelle fotografie dei suoi nonni.
Vedere le persone gli fece più o meno lo stesso effetto. C’era una certa
distanza fra le forze di sicurezza e il resto dell’equipaggio. Se non ci fosse
stata, avrebbe significato che qualcosa era decisamente andato per il verso
storto. Havelock non pensava a sé stesso come a parte dell’equipaggio della
Israel, ma riconobbe ogni volto che oltrepassava. Hosni McArron, capo della
squadra di scienze alimentari. Anita Chang, tecnico dei sistemi. John Deloso,
meccanico. Anche se non avrebbe saputo dire come faceva a conoscerli,
adesso facevano parte del contesto della sua vita.
E sarebbero morti tutti, se non fosse riuscito a impedire che accadesse.
Il ponte di osservazione di prua era una stanza buia. Gli schermi erano stati
costruiti per dare l’illusione di guardare da una finestra la vastità dello spazio,
ma nessuno li usava mai davvero in quel modo. Quando entrò, la stanza era
vuota e gli schermi erano pieni di dati dei sensori, che scorrevano troppo in
fretta per essere letti, di una composizione musicale di un cinturiano dalla
pelle scura che non riconobbe e di una mappa di Nuova Terra a falsi colori.
Niente luci, niente città, nessun segno della piccola presenza umana che
lottava per sopravvivere. Il pianeta che li aveva uccisi tutti.
E tuttavia era splendido.
Il suo terminale palmare vibrò. La connessione in arrivo era in rosso, il che
significava che era un allarme di sicurezza. L’adrenalina gli invase il sangue
e gli fece martellare il petto ancora prima che attivasse la connessione.
Quando vi si inserì, Marwick e Murtry erano già nel pieno di una
conversazione.
«...Molti di loro, e adesso non mi importa di scoprire come» disse Marwick,
quasi urlando. L’espressione di Murtry appariva irosa e sprezzante, ma
Havelock si rese conto che dipendeva solo dal fatto che non guardava verso
la telecamera. Non ci vedeva più.
«Cosa succede?» chiese.
«La Rocinante ci sta prendendo di mira» spiegò Marwick.
Havelock si stava già spingendo fuori del ponte di osservazione,
procedendo in fretta lungo il corridoio. «Hanno fatto delle richieste?»
«Hanno fatto seguito alle minacce» ribatté Marwick, levando in aria le
braccia.
«Questa è un’iperbole» dichiarò Murtry. «Stanno solo colorando lo scafo
della Israel con i loro laser di puntamento. E c’è un pazzo bastardo che sta
aprendo un varco nel portellone di manutenzione nel centro della nave.»
«Ci stanno abbordando?» chiese Havelock, incapace di nascondere la
propria incredulità. «Chi? A che scopo?»
«Attualmente la motivazione non ci interessa» ribatté Murtry. «La nostra
priorità è assicurarci di mantenere la sicurezza della nave.»
Havelock afferrò una maniglia all’intersezione di due corridoi e si spinse
verso il basso a piedi in avanti, in direzione dell’incrocio che lo avrebbe
riportato alla sua scrivania. «Con il dovuto rispetto, signore, sa anche lei che
devono essere qui per la prigioniera. Perché non gliela restituiamo? Tanto la
cosa non avrà importanza.»
Murtry inclinò il capo con un sorriso sottile e crudele. «Stai suggerendo di
liberare la sabotatrice?»
«Comunque siamo già tutti morti» ribatté Havelock. Ecco, lo aveva detto ad
alta voce. Quello che stavano pensando tutti... tutti tranne Murtry.
«Eri forse immortale prima che partissimo?» chiese lui, con voce fredda e
arida quanto il tintinnare di un serpente a sonagli. «Perché sia che tu intenda
morire la prossima settimana o fra sette decenni, questo è comunque il modo
in cui noi facciamo le cose.»
«Sì, signore» disse Havelock. Mentre raggiungeva l’ultima svolta e si
trascinava in basso verso il suo ufficio. «Mi dispiace, signore.»
La connessione trillò quando qualcun altro si unì alla conversazione.
L’ingegnere capo era cupo in volto e infuriato in un modo che destò
l’immediata diffidenza di Havelock.
«Eccomi a rapporto» disse.
«Un momento, cosa ci fa lui qui?» domandò Havelock.
«Ho incluso la sua milizia in questa faccenda» spiegò Murtry, mentre
Havelock entrava nel suo ufficio. «Se dobbiamo respingere un abbordaggio,
avremo bisogno di loro.»
«Gli uomini sono pronti» disse l’ingegnere capo, senza fare una piega.
«Diteci soltanto dov’è che quei figli di buona donna stanno entrando e
saremo là ad affrontarli.»
Oh, dio, pensò Havelock, parla come se fosse in un film. Questa è un’idea
terribile.
«Mr Havelock,» aggiunse Murtry, formale «le chiedo di dare alle forze
della milizia accesso alle scorte di munizioni.»
«Con il dovuto rispetto, signore,» obiettò Havelock «non credo sia una
buona idea. Questa non è un’esercitazione a paintball. Si parla di uno scontro
effettivo. Già il solo rischio di fuoco amico...»
La voce di Murtry si fece calma, fredda e tagliente. «Devo pensare, Mr
Havelock, che lei abbia fatto un lavoro tanto scadente nell’addestrare questi
uomini da ritenere che saremmo più al sicuro respingendo gli assalitori con
proiettili di vernice?»
«No, signore» replicò Havelock. Poi, con sua sorpresa, si trovò ad
aggiungere: «Sostengo però che a questo punto sarebbe prematuro distribuire
munizioni. Credo che dovremmo scoprire qualcosa di più su cosa sta
succedendo prima di ingigantire le cose.»
«Questa è la sua opinione professionale?» chiese Murtry.
«Sì.»
«E se le ordinassi di distribuire le munizioni a questi uomini?»
Naomi era nella sua gabbia, con le dita serrate intorno alla rete metallica,
gli occhi seri e sgranati. Havelock distolse lo sguardo. Il sospiro di Murtry fu
breve e sonoro.
«Bene, non la metterò nella posizione di dover scegliere» disse poi.
«Capo?»
«Sì, signore» rispose l’ingegnere capo.
«Le sto trasmettendo i miei personali codici di sicurezza. Può usarli per
prendere armi e munizioni nell’armeria. Ha capito?»
«Diavolo, sì, signore» replicò l’ingegnere capo. «Apriremo in quei bastardi
tanti buchi che ci si potranno vedere attraverso le stelle.»
«Lo apprezzerei» ribatté Murtry. «Ora, signori, se volete scusarmi...»
La connessione si interruppe.
«Cosa sta succedendo?» chiese Naomi. Ogni nota di calore era scomparsa
dalla sua voce e adesso sembrava davvero spaventata. O forse era infuriata.
Havelock non avrebbe saputo dirlo. Non le rispose. L’armeria era vicino alla
postazione di sicurezza principale, non alla prigione. Anche se si fosse
affrettato non sarebbe riuscito ad arrivarci prima degli altri, e se pure lo
avesse fatto non sapeva cosa avrebbe detto loro.
Aveva una pistola, nell’armadietto. Forse, se si fosse unito a loro sarebbe
ancora riuscito a controllare un poco la situazione.
«Havelock, cosa sta succedendo?»
«Ci hanno abbordati e opporremo resistenza.»
«Si tratta della Barbapiccola?»
«No. È la Rocinante.»
«Allora stanno venendo a prendere me.»
«Suppongo di sì.»
Havelock prelevò un fucile a canna mozza dall’armadietto delle armi.
«Se si tratta di Alex e gli sparate, non vi aiuterò» disse Naomi. «Non
importa cosa succederà dopo, se gli farete del male avremo chiuso. Anche se
dovessi trovare il modo di salvarvi, vi lascerò bruciare.»
Il monitor trillò. Era una richiesta di connessione dal pianeta. Havelock la
accettò immediatamente, e sullo schermo apparve il volto della dottoressa
Okoye, con la fronte aggrottata e gli occhi che si muovevano come se stesse
cercando qualcosa. Nelle sue pupille si vedeva un riflesso verde che fece
accapponare la pelle a Havelock.
«Mr Havelock? È lì?»
«Temo che questo non sia un buon momento, dottoressa.»
«Lei sta coordinando i lanci di scorte. Ho bisogno di vedere se possiamo
avere...»
«È qualcosa per cui ci sono persone che moriranno se non risolviamo la
cosa entro i prossimi cinque minuti?»
«Cinque minuti? No.»
«Allora dovrà aspettare» replicò Havelock, e chiuse la connessione. Il
portellone di manutenzione nel centro della nave era il più vicino alla
prigione. Ci sarebbero state strozzature lungo il percorso nello spogliatoio, al
portellone di decompressione di emergenza e all’intersezione con il corridoio
di manutenzione. Suppose che l’ingegnere capo avrebbe piazzato i suoi
uomini negli ultimi due punti e lasciato perdere lo spogliatoio. Come ultima
precauzione, avrebbe potuto mandare anche un paio di uomini alla prigione.
Su quello però avrebbe incontrato opposizione, perché tutta la squadra
avrebbe voluto prendere parte all’operazione principale. E avrebbero avuto
munizioni vere. Si chiese cosa avrebbe avuto in dotazione il nemico.
Un’armatura potenziata? Forse. Forse...
«Non siamo obbligati a farlo» disse Naomi.
«Non mi piace più di quanto piaccia a lei, ma è quello che sta succedendo.»
«Ne parla come se si trattasse di una questione di fisica. Come se non
comportasse delle scelte, e questo è pazzesco. Sono venuti per me. Mi lasci
andare e se ne andranno anche loro.»
«C’è un modo in cui affrontiamo queste cose» ribatté Havelock, caricando
il fucile con proiettili a espansione non letali.
«Lo ha detto lui, vero? È stato lui.»
«Non so di cosa sta parlando» si schermì Havelock.
«Murtry. Il grande capo. Perché è questo che lei fa, sa? Ascolta quello che
dice lui, poi lo ripete come se fosse una cosa in cui deve davvero credere.
Questo non è il momento di comportarsi così. Questa volta lui sta sbagliando,
e probabilmente è già stato in errore altre volte, prima.»
«Non è lui quello chiuso in cella. Non mi pare che lei abbia molti diritti di
fare la spaccona.»
«Quella è stata pura sfortuna» ribatté Naomi. «Se voi non foste stati là fuori
a fare i vostri giochi di guerra, avrei disattivato la vostra piccola bomba e me
ne sarei andata prima che qualcuno se ne accorgesse.»
«A cosa servirebbe se la lasciassi andare? Non farebbe nessuna differenza.
Le navi precipiteranno. Qui non c’è nessuno che ci possa aiutare. Lei non può
sistemare le cose.»
«Forse no» convenne Naomi. «Però posso morire cercando di essere
d’aiuto, invece di cercare di uccidere altre persone o di guardarle morire.»
Havelock serrò la mascella. Premette il dito sul grilletto e chiuse gli occhi.
Sarebbe stato così facile puntare la canna verso la gabbia e sparare un
proiettile contro la rete per scaraventare Naomi in fondo alla cella.
Solo che non lo avrebbe fatto. Il senso di liberazione gli partì dal petto e gli
si diffuse fino alle dita delle mani e dei piedi in un solo istante. Si spinse
verso di lei e inserì il suo codice sulla tastiera. La gabbia si aprì.
«Venga fuori, allora» disse.
41
Elvi
L’armatura nella guardina era una semplice tuta priva di propulsori fatta di
kevlar e ceramica. Era a prova di vuoto e aveva una scorta d’aria di mezz’ora,
perché gli usi a cui era destinata erano sedare risse fra membri
dell’equipaggio ed effettuare brevi escursioni tattiche all’esterno.
Probabilmente c’era un’altra dozzina di tute come quella alla postazione di
sicurezza principale, e Havelock poteva soltanto sperare che agli ingegneri
non venisse in mente di usarle. Quando la indossò, essa gli spinse verso l’alto
i pantaloni, appallottolando scomodamente la stoffa verso l’inguine.
Havelock si passò intorno alla spalla la cinghia del fucile a canne mozze e si
contorse, usando entrambe le mani per rimettere a posto i pantaloni.
«Le risate non sono d’aiuto» commentò.
«Non stavo ridendo» replicò Naomi, ma subito dopo scoppiò a ridere.
Havelock prelevò da un armadietto una manciata di manette usa e getta e un
paio di Taser, uno a piena carica e uno a tre ottavi. Prese mentalmente nota di
controllare in seguito le batterie di tutte le armi, poi ricordò che
probabilmente non ci sarebbe stato un più tardi, non per lui, almeno. Forse
poteva lasciare un messaggio a Wei, o qualcosa del genere. Pensò di
chiamare Marwick per avvertirlo che le cose si stavano facendo complicate,
di fare affidamento sulla sua decenza e sui suoi istinti.
Non lo chiamò.
Naomi fluttuava dietro di lui, distesa, con le dita delle mani e dei piedi
allargate nell’aria e la tuta di carta che scricchiolava a ogni movimento.
Havelock lasciò scorrere lo sguardo per il suo ufficio un’ultima volta: era
strano, sapere che probabilmente non lo avrebbe rivisto, e che se lo avesse
fatto sarebbe stato dall’interno della cella.
Se questo fosse successo, però, sarebbe stato perché avevano trovato il
modo di non precipitare e bruciare nell’atmosfera, quindi le probabilità al
riguardo erano molto scarse e non intendeva preoccuparsene.
«È il primo ammutinamento?» chiese Naomi.
«Sì. In realtà non è qualcosa che io abbia la tendenza a fare.»
«Diventa più facile, con il tempo» commentò lei, poi protese una mano e
Havelock la guardò con aria confusa. «Posso avere uno di quelli?»
«No» replicò lui, e intanto sintonizzò l’unità di comunicazione della tuta sul
canale utilizzato di default dal gruppo di addestramento. Non si sentiva nulla,
il che era strano. Provò sulle altre frequenze.
«No?»
«Senta, la farò uscire di qui, ma questo non significa che mi senta a mio
agio nel darle un’arma e voltarle le spalle.»
«Ha dei limiti relazionali davvero interessanti» commentò Naomi.
«Al momento sto cercando di fare chiarezza su alcune cose.»
Il primo miliziano volò troppo in fretta attraverso la porta, pieno di
adrenalina e non abituato ad avere in mano una pistola vera. Il secondo lo
seguì da presso, a piedi in avanti. Havelock sentì lo stomaco che gli si
contraeva: entrambi impugnavano una pistola e portavano la fascia intorno al
braccio. Dietro di lui, Naomi trasse un profondo respiro.
«Signori,» disse Havelock, con un cenno del capo «posso esservi utile?»
«Cosa diavolo pensa di fare?» chiese il primo dei due, mentre cercava di
puntare la pistola e di puntellarsi contro la parete nello stesso tempo.
«Trasferisco la prigioniera» rispose Havelock, con un tono di voce a metà
fra il disprezzo e l’incredulità. «Che altro dovrei fare?»
«Il capo non ci ha detto niente di un trasferimento» obiettò il secondo
uomo.
«L’ingegnere capo Koenen non è il capo della sicurezza di questa nave. Io
sono il capo, e voialtri mi state aiutando. Non mi fraintendete, lo apprezzo,
ma tenete a mente che sono io che comando, chiaro? Cosa diavolo ci fate qui
voi due?»
I due si scambiarono un’occhiata. «Il capo ci ha detto di venire a
sorvegliare la prigioniera.»
Naomi sorrise e assunse un atteggiamento contegnoso e mite. Riusciva a
fingere piuttosto bene.
«Un buon piano» approvò Havelock. «È qui che verranno. Voi due
prendete posizione qua dentro, nel caso che riescano a passare. Una volta che
avrò sistemato la prigioniera dove non potranno trovarla verrò a darvi
manforte.»
«Sì, signore» assentì il secondo uomo, eseguendo un saluto scattante con la
stessa mano con cui impugnava la pistola. Havelock sussultò. Quei tizi non
erano pronti per usare armi cariche. Spianò il fucile e lo agitò leggermente.
«Miss Nagata,» disse «se vuole essere così gentile da muoversi...»
«Sì, signore» rispose lei, con fare sottomesso, e si spinse verso la porta.
Havelock la seguì, ma poi si afferrò allo stipite della porta e si girò.
«Chiedete a chiunque passi da quella porta di identificarsi, prima di
cominciare a sparare, chiaro? Non voglio che qualcuno si faccia male per
errore.»
«Lo faremo, signore» replicò il primo uomo, e il secondo annuì. Havelock
avrebbe potuto scommettere la metà del suo salario sul fatto che avevano
avuto intenzione di aprire il fuoco su chiunque si fosse affacciato alla porta.
Naomi lo aspettava appena più avanti lungo il corridoio. Havelock rimise la
sicura al fucile e lasciò che gli pendesse dalla spalla. Tutti i corridoi della
Israel erano stretti, ma in quel punto lo erano ancora di più, perché lo spazio
si riduceva progressivamente a mano a mano che ci si avvicinava all’esterno.
Il tessuto e l’imbottitura lungo le pareti attutiva i suoni della nave, mentre i
codici numerici stampati su di esso indicavano quali condotti e sistemi tecnici
erano inseriti nelle paratie sottostanti, il modello del pannello e la data di
sostituzione. Lo scopo della schiuma d’imbottitura e del tessuto era di
garantire una maggiore sicurezza nel caso di una collisione o di
un’accelerazione imprevista, ma in quel momento fece venire in mente a
Havelock una cella imbottita.
«Se succede qualcosa, non torni lì dentro senza di me» disse, annuendo da
sopra la spalla.
«Non avevo intenzione di farlo.»
Procedettero lungo il corridoio, con Havelock che avanzava per primo e
segnalava a tratti a Naomi di seguirlo. Lei non si muoveva con l’istinto tattico
di qualcuno che avesse ricevuto un addestramento, ma era intelligente e
silenziosa, e capì subito cosa doveva fare. Inoltre, aveva i movimenti
aggraziati di un cinturiano in assenza di gravità. Se avesse potuto addestrare
per qualche settimana una squadra di persone come lei, avrebbe potuto
distribuire armi vere. Arrivati alla parete che precedeva l’intersezione con il
corridoio della manutenzione, sollevò una mano e indicò il sottile bordo di
ceramica della paratia.
«Resti qui,» sussurrò «e non si faccia vedere.»
Naomi sollevò il pugno in segno di assenso. Havelock riprese ad avanzare.
All’intersezione, altri due membri della squadra erano piazzati in quella che
probabilmente pensavano essere una posizione coperta. Uno dei due era
piazzato bene, l’altro teneva la mano troppo protesa in avanti. Se avesse
cercato di spingersi lontano dalla paratia avrebbe prodotto una rotazione
inversa che lo avrebbe portato a rivolgere le spalle allo scontro. Era una cosa
di cui avevano parlato.
«Signori» disse Havelock, scivolando un po’ più avanti. «Walters e...
Honneker, giusto?»
«Sì, signore» confermò Honneker.
«Qual è la situazione?»
«Il capo ha richiesto il silenzio radio, per non avvertire il nemico di quello
che stiamo facendo. Abbiamo Boyd e Mfume al portello della camera di
decompressione. Il capo ha con sé Salvatore e Kemp. Stanno avanzando per
stanare i cattivi.»
«Chi abbiamo all’esterno?»
«All’esterno?» Honneker scosse il capo, non riuscendo a capire.
«Il capo ha fatto indossare una tuta a qualcuno, spedendolo fuori dagli altri
portelloni?»
«Ehi, è una buona idea» commentò Honneker. «Dovremmo farlo.»
«Quindi non è già stato fatto» insistette Havelock.
«No, signore, non credo.»
«D’accordo» cominciò Havelock, e in quel momento il suono secco di
alcuni spari echeggiò lungo il corridoio. I due ingegneri si girarono per
guardare. Honneker si diede una spinta un po’ troppo energica e si lanciò nel
corridoio, dove chiunque fosse sopraggiunto dalla direzione opposta avrebbe
potuto sparargli mentre si dibatteva. La radio entrò in funzione vicino
all’orecchio di Havelock. La voce dell’ingegnere capo era eccitata come
quella di un bambino a una festa di compleanno.
«Contatto effettuato! Contatto effettuato! Il nemico si è rifugiato nel bagno
vicino al magazzino secondario. Lo teniamo inchiodato lì.»
Ci fu una raffica di spari, che risuonò attraverso la radio un momento prima
che il suono potesse spostarsi attraverso l’aria della nave. Koenen gridò a
qualcuno di ritirarsi, poi si rese conto che la radio era ancora accesa e la
spense. Havelock agganciò una caviglia intorno a un appiglio, poi si sporse
verso Honneker e lo tirò indietro con gentilezza.
«Cosa facciamo?» chiese Walters, mentre Honneker si aggrappava a un
appiglio. «Dobbiamo andare avanti? Potremmo prendere qualche tuta e
passare dall’esterno, come ha detto lei.»
Scuotendo il capo, Havelock tirò fuori il Taser a piena carica, che era
pronto a far fuoco. L’altro ci avrebbe messo mezzo secondo a essere pronto
al tiro perché aveva una carica ridotta. I due uomini lo fissavano, in attesa che
li guidasse.
«Dovreste guardare entrambi verso il corridoio» suggerì loro, indicando con
il mento verso l’intersezione. Quando si girarono, sparò a entrambi alle
spalle: i loro corpi si inarcarono, ebbero un brivido e si fecero immobili.
Havelock tolse loro le armi e disattivò la radio delle tute, poi li ammanettò
l’uno all’altro ed entrambi a uno degli appigli.
«Via libera» disse da sopra la spalla, con voce calma ma alta abbastanza da
essere udibile. Naomi si spostò in avanti, passando da un lato all’altro del
corridoio in modo da non essere mai a più di una frazione di secondo da
qualcosa di solido che poteva usare per cambiare direzione. Aveva buoni
istinti.
«Quattro di meno» commentò. «È lei che è molto in gamba in queste cose,
o loro sono delle schiappe?»
«Insegnare può non essere il mio forte» replicò Havelock. «E abbiamo dalla
nostra l’elemento della sorpresa.»
«Suppongo di sì» convenne Naomi, anche se lo scetticismo le traspariva
chiaro dalla voce. «Come si sente?»
Di riflesso, Havelock accennò a rispondere che si sentiva bene, ma poi
esitò. Aveva appena attaccato e messo fuori combattimento due dei suoi
uomini, che stavano operando in base a ordini espliciti e diretti del suo
ufficiale superiore. Aveva tradito la fiducia di uomini con cui aveva viaggiato
per anni a beneficio di una sabotatrice cinturiana. E tutti loro erano a pochi
giorni di distanza dalla morte. E forse, stranamente, era proprio quell’ultimo
fatto che rendeva accettabile tutto il resto. Era un uomo morto, erano tutti
morti, quindi in un certo senso quello che faceva in quel momento non aveva
importanza. Era libero di seguire la sua coscienza, dovunque essa lo portasse.
Quello era lo scenario che costituiva l’incubo di qualsiasi agente della
sicurezza. Di fronte alla morte, perché non ci sarebbero dovuti essere
tumulti? Perché non uccisioni, furti e violenze? Se non c’erano conseguenze,
o se le conseguenze erano uguali per tutti, allora qualsiasi cosa diventava
possibile. Il suo compito era quello di aspettarsi il peggio dall’umanità, sé
stesso incluso, e adesso eccolo lì ad aiutare nella fuga una prigioniera
legalmente arrestata perché la morte che lei gli offriva gli piaceva più del
sepolcro di plastica e ceramica che Murtry voleva erigere su un pianeta
vuoto. Non gli importava un accidente di Nuova Terra, o Ilus, o comunque si
chiamasse quella sgradevole palla di fango sotto di loro. Gli importava delle
persone, di quelle sulla Israel, e sulla Barbapiccola, e sulla superficie. Gli
importava di tutti. Rivendicare diritti che la società avrebbe potuto usare per
proteggere i suoi interessi dopo che tutti loro fossero morti non era
abbastanza.
«Mi sento stranamente in pace riguardo a tutto questo» rispose.
«Probabilmente è un buon segno» replicò lei, mentre si scatenava una
nuova raffica di spari. Havelock le segnalò di restare dov’era e si spinse in
avanti.
Tutti i principali corridoi della Israel erano dotati di portelloni a chiusura
ermetica: spessi cerchi di metallo con duri sigilli polimerici. Per la maggior
parte del tempo erano soltanto sporgenze della parete, più grandi di quanto
non lo fossero in navi più giovani di due generazioni, ed era facile ignorarli,
ma se qualcosa avesse aperto un buco nella nave quei portelloni si sarebbero
chiusi con la rapidità e l’assenza di moralità di una ghigliottina. E se
qualcuno fosse rimasto intrappolato, la sua perdita sarebbe stata più
accettabile di quella dell’aria. Havelock aveva visto video di addestramento
riguardo a portelli che mancavano di funzionare, e da allora quei meccanismi
gli avevano lasciato un certo nervosismo. Un uomo si teneva premuto contro
la parete e adocchiava ansiosamente il corridoio, davanti a sé. Havelock si
schiarì la gola e l’uomo si girò di scatto con la pistola spianata.
«Mfume» disse Havelock, sollevando le mani. «Dov’è Boyd?»
«È andato avanti» rispose Mfume, indicando con la pistola, senza però
abbassarla. «Il capo è sotto tiro. Mi ha detto di restare qui, e io l’ho fatto,
ma...»
«Va tutto bene» replicò Havelock, mentre veniva avanti evitando di
incontrare lo sguardo dell’uomo. Invece, continuò a fissare il corridoio nel
tentativo di spostare su di esso l’attenzione di Mfume. Quella pistola
sollevata gli generava un formicolio al torace. «Hai fatto la cosa giusta.»
La radio si attivò con un crepitio e ne uscì la voce dell’ingegnere capo, che
pareva avere il fiato corto. «Abbiamo bloccato quel bastardo. Ha beccato
Salvatore, ma non è una cosa grave. Ho bisogno che veniate tutti quassù. Lo
attaccheremo in massa.»
«Probabilmente non è una buona idea» osservò Havelock, nel canale aperto.
«Non c’è problema» ribatté l’ingegnere capo. «Possiamo beccarlo.»
«Ma non senza riportare perdite che non sono necessarie» insistette
Havelock. «È in armatura?»
«Sì, ma sono piuttosto sicuro di averlo colpito una volta» intervenne
un’altra voce, che aveva lo stesso tono acuto e teso di un ragazzino alla sua
prima battuta di caccia, che pensasse di aver colpito un cervo.
«Datemi tutti la vostra posizione» ordinò Koenen.
«Jones e io siamo alla prigione, capo. Qui è tutto tranquillo.»
«La prigioniera non vi crea problemi?»
«L’ho trasferita altrove» disse Havelock. «Sta bene dov’è. Adesso ho
bisogno che vi ritiriate. Dobbiamo fare le cose secondo le regole.»
Un’altra mezza dozzina di spari risuonò nell’aria. Mfume sussultò in
reazione a ciascuno di essi, e non parve accorgersi di quando Havelock spinse
con gentilezza la canna della sua pistola fino a puntarla contro la parete.
«Non possiamo» replicò Koenen. «Se allentiamo la pressione questo figlio
di puttana cinturiano ci sfuggirà. Dobbiamo finire questa cosa. Honneker!
Walters! Tirate fuori le palle e venite a prua, ragazzi. Abbatteremo questo
pezzo di merda.»
Il silenzio radio risultò inquietante.
«Walters?» chiamò l’ingegnere capo.
Havelock afferrò il polso di Mfume e impresse una torsione, puntellando
una gamba contro la parete per fare leva. Mfume lanciò un grido, ma allentò
la presa sulla pistola quanto bastava perché Havelock potesse fargliela cadere
di mano. Il metallo nero vorticò giù per il corridoio mentre Mfume gridava e
cercava di liberarsi. Havelock modificò la presa, tirando in fuori e verso il
basso in modo da allontanarlo dalla parete contro cui si era ancorato.
L’ingegnere gridò ancora, e Havelock gli sparò una scarica di Taser nella
schiena. Mfume rimbalzò contro la parete opposta, afflosciato come una
marionetta, mentre Havelock si sganciava dalla schiena il fucile e si spostava
in modo da incastrare un ginocchio contro il bordo del portellone e l’altro
piede in un appiglio, più indietro.
«Nagata!» gridò. «Stiamo per avere compagnia.»
In fondo al corridoio l’ingegnere capo sfrecciò oltre l’angolo e andò a
sbattere contro il muro, facendo fuoco all’impazzata con la pistola.
«Cessate il fuoco!» avvertì Havelock. «C’è uno dei vostri che fluttua allo
scoperto. Cessate il fuoco!»
«Fottiti!» urlò Koenen, e Havelock premette il grilletto del fucile. Il
proiettile di plastica colpì l’ingegnere capo al fianco e lo fece vorticare su sé
stesso. Havelock lo centrò alla schiena con il secondo colpo proprio mentre
altri tre ingegneri si catapultavano oltre l’angolo in massa. Havelock centrò
una volta ciascuno di loro, poi si spostò sull’altro lato del portello e si spinse
in avanti, riponendo il fucile per impugnare i Taser. Quello parzialmente
scarico era ormai esaurito, quindi lo lasciò cadere. Uno degli uomini
sanguinava, e una goccia di sangue grande quanto un’unghia fluttuava
nell’aria. Tutti e quattro annaspavano per il dolore, due avevano lasciato
cadere le armi e gli altri due – l’uomo che sanguinava e Koenen –
sembravano addirittura inconsapevoli della sua presenza. Havelock usò il
Taser sul primo degli altri due, poi afferrò quello che sanguinava, Salvatore.
«Tu, Kemp» disse, rivolto all’altro uomo.
«Mi ha sparato.»
«Con un proiettile di plastica. È stato l’altro tizio a centrare Salvatore con
una pallottola. Devi portarlo in infermeria.»
«Sei un traditore!» urlò l’ingegnere capo, e Havelock lo mise a tacere con
una scarica di Taser prima di tornare a rivolgersi a Kemp.
«Ora ti tolgo la pistola e ti affido Salvatore. Devi aiutarlo ad arrivare in
infermeria. Hai capito?»
«Sì, signore» rispose Kemp, poi guardò oltre la spalla di Havelock e
accennò un saluto: «Signora...»
«È tutto sotto controllo?» chiese Naomi.
«Non azzarderei tanto ottimismo» replicò Havelock, mettendo la mano di
Kemp sul braccio di Salvatore e dando a entrambi una piccola spinta lungo il
corridoio. «Sono sicuro che i due che erano alla prigione stanno venendo
qui.»
«Allora ce ne dovremmo andare.»
«Era quello che pensavo.»
Il breve tratto di corridoio fra l’angolo e il portellone conteneva una porta
sigillata che dava accesso a un magazzino secondario, un pannello di accesso
ai condotti di alimentazione inseriti nella parete e l’ingresso allo spogliatoio
annesso al portellone di manutenzione. Lo spazio era stretto e limitato, la
stoffa sulle pareti era crivellata di pallottole, una delle quali aveva trapassato
la parete e colpito una tubatura idraulica, per cui adesso il fluido idraulico di
sicurezza si stava polimerizzando nell’aria in un centinaio di piccoli punti
verdi che diventavano lentamente bianchi. Probabilmente la perdita originale
era già stata sigillata da un grumo di quella sostanza. Il gabinetto aveva le
solite dimensioni standard, il che significava che era tanto piccolo che
prendere posto sul sedile del gabinetto a vuoto comportava premere la
schiena contro una parete e le ginocchia contro l’altra. Non offriva di certo
una grande copertura, e per di più la stretta porta era aperta. Una dozzina di
fori di pallottola sfregiava le pareti e la soglia.
«Okay» disse Havelock, e subito una pistola si protese dal bagno, facendo
fuoco alla cieca nel corridoio. Havelock spinse Naomi dietro di sé, gridando:
«Fermo! Fermo! Ho Nagata qui con me!»
«Stai indietro, dannazione!» urlò di rimando una voce maschile, dal bagno.
Suonava quasi familiare, ma Havelock non riuscì a riconoscerla. «Altrimenti
giuro su dio che sparo.»
«L’ho notato» gridò di rimando Havelock.
«È tutto a posto, Basia» intervenne Naomi. «Sono io.»
La voce tacque. Havelock si spostò lentamente in avanti, pronto a reagire se
la pistola fosse riapparsa, ma essa non lo fece. L’uomo che fluttuava nel
bagno indossava un’armatura militare di fattura marziana vecchia di almeno
dieci anni, aveva i capelli scuri spruzzati di grigio alle tempie e brandiva una
torcia per saldare in una mano, la pistola nell’altra. I suoi occhi erano dilatati,
la pelle cinerea, e un solco lungo l’armatura indicava dove una pallottola dei
miliziani gli era rimbalzata sul costato. Havelock sollevò la mano sinistra con
il palmo verso l’esterno, ma continuò a impugnare saldamente il Taser con la
destra.
«Okay,» ripeté «è tutto a posto. Qui siamo tutti dalla stessa parte.»
«E tu chi diavolo sei?» ribatté l’uomo. «Sei il tizio della sicurezza, quello
che l’ha rinchiusa.»
«Lo ero» rispose Havelock.
Naomi gli posò le mani sulle spalle e si tirò verso di lui fino a riuscire a
vedere l’altro uomo.
«Ce ne stiamo andando» disse. «Vuoi venire con noi?»
43
Basia
Havelock non era ancora convinto che Naomi Nagata fosse il miglior
ingegnere di tutto il sistema, ma dopo averla vista al lavoro dovette
riconoscere che probabilmente non ce n’era uno migliore. Se pure sulla Israel
c’erano persone che avevano più diplomi e specializzazioni di lei, Naomi
dava dei punti a tutto quanto a pura, dannata determinazione.
«D’accordo, non possiamo aspettare oltre» disse al muscoloso uomo calvo
sullo schermo. «Quando torna riferiscigli come stanno le cose quassù.»
«Sono sicuro che il capitano si fida della tua capacità di giudizio» replicò
Amos. «Comunque sì, glielo dirò. Niente altro che devo riferire?»
«Digli che ha circa un miliardo di messaggi da parte di Fred e di Avasarala»
interloquì la voce di Alex, arrivando attraverso il canale di comunicazione e
anche attraverso il portello che dava nella cabina di pilotaggio. «Parlano di
costruire un propulsore di massa, di mandarci scorte di provviste.»
«Davvero?» commentò Amos. «E quanto tempo ci metteranno ad
arrivare?»
«Sette mesi» rispose Naomi. «Al massimo, saremo morti da soli tre di quei
mesi.»
«Ragazzi, cercate di non divertirvi troppo senza di me» replicò Amos, con
un sorriso.
«Non c’è pericolo» rispose Naomi, e chiuse la comunicazione.
«Sei certa che questa sia una buona idea?» chiese Havelock.
«No» replicò Naomi, tirandosi più vicina alla consolle di comando. «Come
vanno le cose là fuori, Basia?»
Il canale di comunicazione si attivò e la voce del cinturiano sibilò nel ponte
operativo, dove il suono riverberò senza dare nessuna sensazione di
spaziosità. Come un sussurro in una bara. «Qui ci siamo quasi. Questo è un
vero pasticcio.»
«Allora è un bene che abbiamo un saldatore in gamba» ribatté lei. «Tienimi
aggiornata.»
Gli schermi del ponte operativo mostravano l’operazione in corso in tutti i
suoi stadi: quello che erano riusciti a fare fino a quel momento, quello che
ancora speravano di fare. E il timer con il conto alla rovescia, indicante le ore
rimanenti prima che la Barbapiccola entrasse in attrito con l’esosfera di Ilus e
si trasformasse da un insieme di ceramica e metallo in rapido movimento in
un fuoco d’artificio.
Non si trattava più di giorni, ma di ore.
Il cavo in sé stesso aveva l’aspetto di due reti connesse da un singolo filo
sottile come un capello. Lungo tutto il ventre della Rocinante, una dozzina di
supporti in acciaio e ceramica fornivano un’ampia base, e le linee nere si
incontravano all’altezza di un resistente giunto in ceramica, qualche centinaio
di metri verso l’esterno. Sotto di loro, la Barbapiccola aveva già quasi tutti i
supporti corrispondenti installati al loro posto. Una volta che il cinturiano
avesse finito di installarli, la corvetta marziana avrebbe usato l’energia delle
proprie batterie per trascinare la nave cinturiana e il suo carico di litio in
un’orbita più stabile. La complessità della situazione dava a Havelock un
lieve senso di vertigine. Mentre osservava lo schermo che mostrava la
superficie della Barbapiccola, l’immagine tremolò e la luce indicante uno dei
supporti da rossa si fece verde.
«D’accordo» disse Naomi, nel canale di comunicazione aperto. «Quello ci
dà un segnale verde costante. Passa al prossimo.»
«Sì, dammi ancora un minuto, qui» rispose la voce compressa di Basia.
«C’è una giuntura che non mi piace. Voglio...» Lasciò in sospeso la frase. La
luce tornò rossa, poi si fece di nuovo verde. «Okay, ci siamo. Passo oltre.»
«Stai attento» avvertì Alex. «Tieni la torcia per saldare spenta quando ti
sposti. Questi cavi hanno un’enorme forza tensile ma fanno schifo quanto a
resistenza al calore.»
«Ho già fatto prima queste cose» ribatté Basia.
«Socio,» ritorse Alex «non credo che nessuno abbia mai fatto questo, prima
d’ora.»
I cavi di traino erano del modello standard a filamento, del genere che si
usava per recuperare marine marziani. Usarli per trainare un’astronave era
come usare filo da cucito per tirare una palla da bowling: era possibile, se si
avevano abbastanza abilità e pazienza, ma era facilissimo che le cose
andassero storte. Naomi aveva trascorso tre lunghe ore annidata nel suo
sedile a smorzamento prima di decidere che la cosa fosse fattibile, e anche
allora Havelock aveva avuto la sensazione che si fosse indotta a crederlo
perché sapeva che non esisteva nessun’altra alternativa.
Havelock aveva trascorso quel tempo vedendosi rifiutare ogni richiesta di
connessione con il terminale di Murtry e riflettendo sul fatto che si era
appena licenziato in modo spettacolare. Era strano che la cosa gli pesasse così
tanto. Era a diciotto mesi di viaggio da casa, probabilmente a pochi giorni dal
morire, e tuttavia la sua mente continuava a tornare al disagevole senso di
sorpresa che provava nel constatare di aver receduto in quel modo dal proprio
contratto di lavoro. Era una cosa che non aveva mai fatto prima, e dal
momento che era andato con Naomi, non sapeva neppure bene quale fosse la
sua posizione legale. Supponeva di essere a metà strada fra un ex dipendente
e il complice di una cospirazione criminale. Due posizioni talmente
distanziate fra loro che non sapeva come valutarle. Se a casa lui era davvero
diventato il volto di quanto succedeva su Nuova Terra, tutti si sarebbero
sentiti confusi almeno quanto lui.
La verità era che nessuno degli standard della legge societaria o
dell’autorità governativa sembrava applicabile laggiù. Poteva seguire i
notiziari, leggere le lettere e perfino scambiare video registrati con l’ufficio
centrale della RCE, ma quelle erano soltanto parole e immagini. I modelli
basati sull’esperienza acquisita nello spazio umano – anche in quello meno
civilizzato della Fascia – lì non funzionavano.
Soprattutto, però, provava sollievo. Era estremamente consapevole di
quanto fosse sconveniente, nel contesto generale, ma non poteva negare di
sentirsi sollevato, e non provava nessun rammarico per le scelte fatte, tranne
forse per aver accettato quel lavoro. Tutta la tragedia e la sofferenza di Ilus
sarebbero state soltanto una cosa triste e inquietante se viste su uno schermo
di un bar della Stazione di Ceres. Lì dove si trovava, la paura aveva cessato di
essere un’emozione per diventare l’ambiente stesso.
L’indicatore dell’ultimo supporto si fece verde.
«D’accordo» disse Naomi. «Da qui sembra che sia tutto a posto. Com’è la
situazione là fuori, Basia?»
«Brutta come la merda, ma solida.»
«La tua scorta d’aria?»
«Sono a posto» replicò Basia. «Ho pensato che farei meglio a rimanere qui,
perché se qualcosa dovesse cedere potrei ripararlo.»
«No» ribatté Naomi. «Se la cosa dovesse fallire, quei cavi si spezzeranno
tanto in fretta da tagliarti a metà. Torna all’ovile.»
Lo sbuffo violento di Basia fu più eloquente di qualsiasi parola, ma il
piccolo punto giallo procedette a spostarsi dalla superficie della Barbapiccola
e attraverso il vuoto che la separava dalla Rocinante. Havelock la tenne
d’occhio con le dita strettamente intrecciate fra loro.
«Alex,» disse Naomi «puoi controllare il meccanismo di rilascio?»
«Funziona» rispose la voce di Alex, giungendo tanto attraverso il canale
che dalla cabina di pilotaggio. «Se dovessimo cominciare a deformarci
potremo sganciarci.»
«D’accordo» assentì Naomi. Poi, più sommessamente, fra sé, ripeté:
«D’accordo.»
«Se questo non dovesse funzionare,» osservò Alex, attraverso il portello fra
ponte operativo e cabina di pilotaggio «il nostro Basia vedrà morire bruciata
la sua bambina. Gli avevo promesso che non sarebbe successo.»
«Lo so» annuì Naomi. Havelock aveva sperato di sentirle dire che non
sarebbe successo.
Basia impiegò diciotto minuti a tornare alla Roci, e altri cinque per uscire
dal portellone pressurizzato, e Naomi trascorse la maggior parte di quel
tempo alla radio, in contatto con il capitano e l’ingegnere della Barbapiccola.
Metà della conversazione si svolse nel gergo dei cinturiani – ji-ral sabe sa e
richtig ane-nobu – che sarebbe potuto essere un linguaggio in codice per quel
che lui ne capiva. Havelock richiese di nuovo una connessione al terminale
palmare di Murtry e ricevette l’ennesimo rifiuto. Si chiese se avrebbe dovuto
scrivere un comunicato stampa o una lettera di dimissioni da inviare alla
società.
«Tutto a posto» disse Basia, entrando sul ponte operativo, la faccia ancora
coperta da un sottile strato acquoso di sudore. «Sono qui.»
Il timer che indicava il tempo mancante all’impatto della Barbapiccola con
l’atmosfera era sceso al di sotto dell’ora. Per Havelock era difficile ricordare
che l’immobilità del ponte era soltanto un’illusione. Le velocità e le forze
presenti ad altitudini orbitali erano tali da uccidere un essere umano già solo
con un errore di arrotondamento di calcolo. A quelle velocità, l’attrito causato
da aria troppo rarefatta per poterla respirare avrebbe fatto prendere fuoco alla
nave.
«Allacciate le cinture» ordinò Naomi, indicando i sedili a smorzamento.
Poi, alla radio, aggiunse: «Rocinante bei here. Dangsin-eun jumbiga?»
«Pronti con son immer, sa sa?»
Naomi sorrise. «Conto alla rovescia avviato» replicò. «Dieci. Nove. Otto...»
Al quattro, i monitor sulle consolle cominciarono a cambiare colore,
mappando le due navi, i cavi e i motori in falsi colori psichedelici. Basia
stava borbottando sottovoce qualcosa che suonava come una preghiera.
Naomi arrivò a uno.
La Rocinante gemette. Il suono risultò profondo come quello di un gong,
ma al contrario di esso non svanì. Invece, gli ipertoni parvero intensificarsi,
stratificandosi uno sull’altro. Sui monitor i cavi scintillarono, con le forze
interne che correvano veloci lungo quella ragnatela di linee nei toni del
carminio, dell’arancione e dell’argento.
«Andiamo, piccola» disse Naomi, battendo un colpetto sulla consolle che
aveva davanti. «Ce la puoi fare. Ce la puoi fare.»
«Quassù ci stiamo avvicinando di parecchio al limite di tolleranza» avvertì
Alex.
«Capisco. Mantieni il movimento costante e delicato.»
La Rocinante stridette, un urlo acuto e graffiante come di metallo lacerato.
Havelock afferrò i lati del sedile a smorzamento e serrò le mani fino a farsele
dolere.
«Alex?» chiese Naomi.
«Stiamo soltanto attraversando una finestra di risonanza. Niente di cui
preoccuparsi.»
«Mi fido della tua parola» replicò Naomi.
«Puoi sempre farlo» rispose Alex, e Havelock percepì il sorriso che non
poteva vedere. «Io sono il pilota.»
Basia sussultò. Havelock si volse, ma gli ci vollero alcuni secondi per
vedere a cosa il cinturiano stesse reagendo. Il timer per il conto alla rovescia
– il timer della morte – era cambiato. Indicava che la Barbapiccola sarebbe
bruciata di lì a tre ore e quindici minuti. Quattro ore e quarantatré minuti. Sei
ore e sei minuti. Stava funzionando. Nell’osservare il timer, Havelock vide
espandersi il periodo di vita rimasto a tutti gli occupanti della nave sotto di
lui, ed ebbe voglia di gridare. Stava funzionando. Non aveva nessun logico
diritto di farlo, ma stava funzionando.
Il suono dell’allarme sovrastò ogni altro rumore. Naomi tornò a
concentrarsi sulla sua consolle.
«Cos’è che vedo, primo ufficiale?» chiese Alex. La percezione del sorriso
era scomparsa. «Perché vedo una macchia?»
«Controllo» gridò Naomi, senza prendersi il disturbo di usare la radio.
Havelock sintonizzò la sua consolle sui dati dei sensori. Il nuovo punto si
stava avvicinando dall’orizzonte, saettando sopra di loro nel suo arco al di
sopra della coltre di nubi di Ilus.
«Dov’è la Israel?» gridò.
«Nascosta alla vista» rispose Naomi. «Dovremmo incrociarci fra un’ora.
Quella è...»
«È la navetta.»
Il timer della morte segnava diciassette ore e dieci minuti.
«La navetta che avete trasformato in un fottuto siluro?» chiese Basia. La
sua voce suonava sorprendentemente calma.
«Sì» confermò Havelock. «Però l’esplosivo era costituito da un
sovraccarico del reattore, e adesso non ci sono reattori funzionanti, quindi...»
«Quindi è spinta dalle batterie. Però questo comporta ancora una dannata
quantità di energia cinetica» osservò Naomi.
«Ci colpirà?» chiese Havelock, e si sentì stupido non appena le parole gli
furono uscite di bocca. Era ovvio che li avrebbe colpiti.
«Alex?» chiamò Naomi. «Dammi qualche alternativa.»
«I CDP sono allineati, primo ufficiale» replicò Alex. «Tutto quello che devo
fare è dare un po’ di energia proveniente dalle batterie, regolarli
sull’automatico, e i cannoni difensivi di prua trasformeranno quella cosa in
metallo fuso prima che si avvicini.»
Venti ore e diciotto minuti.
«Dai energia ai CDP» ordinò Naomi. «Attento ai cavi.»
«Chiedo scusa» replicò Alex. «Sto cercando di fare un po’ troppe cose in
una volta. Energia ai CDP.»
Non funzionerà, pensò Havelock. Stiamo dimenticando qualcosa.
Il punto rosso si fece più vicino. La Israel stessa apparve oltre l’orizzonte,
anche se il contatto visivo era tuttora impedito dalla curva dell’atmosfera. La
navetta correva verso di loro. L’attivarsi dei cannoni difensivi di prua fu poco
più di una breve vibrazione in mezzo alla sopraffacente tensione derivante
dall’issare verso l’alto la Barbapiccola. Se non avesse saputo cosa aspettarsi,
Havelock non l’avrebbe neppure notato. Il punto rosso scomparve, poi tornò
ad apparire.
«Oh» disse Alex. «Uh.»
«Alex?» gridò Naomi. «Cosa succede? Perché non l’abbiamo abbattuta?»
«Oh, l’abbiamo centrata eccome» rispose Alex. «Abbiamo fatto in pezzi
quella merda, ma questo è il momento in cui di norma eseguiremmo manovre
evasive per evitare i detriti, giusto? Questo al momento non è possibile.»
«Non capisco» disse Havelock. Poi comprese. Prima che i cannoni di prua
la colpissero, la navetta era stata un grosso pezzo di metallo. Adesso era quasi
certamente un gran numero di pezzi di metallo relativamente piccoli, che
avevano ancora più o meno la stessa massa e si muovevano quasi alla stessa
velocità. Avevano solo barattato l’essere colpiti da un proiettile delle
dimensioni di una navetta con l’impatto di una massa di frammenti di
proiettile equivalente a quella della navetta.
Naomi si premette una mano sulle labbra. «Quanto tempo prima che...»
La nave tremò. Per un secondo Havelock pensò che i cannoni fossero
entrati di nuovo in funzione. Qualcosa sibilava, e il suo sedile a smorzamento
aveva un bordo affilato che non ricordava esserci stato. Il timer della morte si
era spento. Una crescente massa di sangue intorno al suo gomito fu il primo
segno concreto che era stato ferito, ma non appena lo vide fu investito anche
da un’ondata di dolore.
«Il ponte operativo ha una falla!» gridò Naomi alla radio.
«La cabina di pilotaggio è sigillata» rispose Alex. «Io sono a posto.»
«Sono ferito» disse Havelock, mentre cercava di muovere il braccio
sanguinante. I muscoli funzionavano ancora. Qualsiasi cosa lo avesse colpito,
detriti della navetta o frammenti del sedile a smorzamento, non gli aveva
paralizzato l’arto. I