Sei sulla pagina 1di 584

Sommario

Frontespizio
Copyright
Dedica
Prologo
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Capitolo 33
Capitolo 34
Capitolo 35
Capitolo 36
Capitolo 37
Capitolo 38
Capitolo 39
Capitolo 40
Capitolo 41
Capitolo 42
Capitolo 43
Capitolo 44
Capitolo 45
Capitolo 46
Capitolo 47
Capitolo 48
Capitolo 49
Capitolo 50
Capitolo 51
Capitolo 52
Capitolo 53
Capitolo 54
Capitolo 55
Epilogo
Ringraziamenti
ISBN: 978-88-347-2998-4
Edizione ebook: giugno 2015
Titolo originale: Leviathan Wakes
© 2011 by James S. A. Corey
© 2011 by Daniel Abraham and Ty Franck
© 2015 by Fanucci Editore
via delle Fornaci, 66 – 00165 Roma
tel. 06.39366384 – email: info@fanucci.it
Indirizzo internet: www.fanucci.it
Published in agreement with the author,
c/o BAROR INTERNATIONAL, INC.,
Armonk, New York, U.S.A.
Proprietà letteraria e artistica riservata
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: Grafica Effe
Questa copia è concessa in uso esclusivo a
[customer_name] ordine numero: [order_number]
Per Jayné e Kat, che m’incoraggiano
a sognare di navi spaziali a occhi aperti.
Prologo

Julie

La Scopuli era stata presa otto giorni prima, e Julie Mao era
finalmente pronta a farsi sparare.
Le ci erano voluti otto giorni trascorsi rinchiusa in un ripostiglio per
arrivare a quel punto. Durante i primi due era rimasta immobile, certa
che gli uomini in armatura che l’avevano imprigionata lì dicessero sul
serio. Nelle prime ore, la nave su cui era stata portata non era in
accelerazione, per cui lei aveva fluttuato nel ripostiglio, usando
piccoli tocchi delicati per evitare di sbattere sulle pareti o sulla tuta
ambientale con cui condivideva quello spazio angusto. Quando la
nave si era cominciata a muovere e l’accelerazione le aveva
conferito un peso, Julie era rimasta in piedi in silenzio finché non le
erano venuti i crampi alle gambe, poi si era accovacciata in
posizione fetale. Aveva urinato nella sua tuta, senza fare caso a
quella tiepida, fastidiosa umidità o alla puzza, preoccupandosi
soltanto di non scivolare e cadere sulla pozza che aveva lasciato a
terra. Non poteva fare rumore. Le avrebbero sparato.
Il terzo giorno, la sete l’aveva spinta ad agire. Era completamente
circondata dai suoni della nave: il ronzio subsonico dei reattori e
della trasmissione meccanica; il sibilo e il battito costante degli
ammortizzatori idraulici e delle serrature di acciaio dei portelloni
pressurizzati che si aprivano e si chiudevano tra i ponti; il passo
pesante di grossi stivali che avanzavano sulle passerelle di metallo.
Julie aveva atteso finché tutti quei rumori non le fossero sembrati
distanti, poi aveva tirato giù dai ganci la tuta ambientale e l’aveva
adagiata sul pavimento del ripostiglio. Con l’orecchio teso per
cogliere eventuali rumori in avvicinamento, aveva smontato con
cautela la tuta e ne aveva estratto la scorta d’acqua. Era vecchia e
stantia; evidentemente non era stata usata né revisionata da
parecchio tempo. Ma Julie non beveva da giorni e quell’acqua
tiepida e argillosa nella sacca di riserva della tuta le era sembrata la
cosa più buona che avesse mai assaggiato. Imporsi di non mandarla
giù a grandi sorsate per evitare di vomitare le era costato un
notevole sforzo di volontà.
Quando aveva sentito di nuovo il bisogno di urinare, aveva tirato
fuori la sacca collegata al catetere della tuta e si era liberata. Poi si
era seduta sul pavimento – con la tuta imbottita da usare come
cuscino era quasi confortevole – e si era chiesta chi mai potessero
essere i suoi aguzzini: Marina della Coalizione, pirati... o magari
qualcosa di peggio. Di tanto in tanto era riuscita a dormire.
Il quarto giorno l’isolamento, la fame, la noia e il numero sempre
minore di posti in cui depositare i suoi bisogni, l’avevano finalmente
spinta a cercare un contatto con loro. Aveva udito delle grida di
dolore attutite. Da qualche parte, nelle vicinanze, stavano picchiando
o torturando i suoi compagni di equipaggio. Se fosse riuscita ad
attirare l’attenzione dei rapitori, magari l’avrebbero messa insieme
agli altri. Sarebbe stato un bene. Poteva sopportare le percosse. Le
era parso un piccolo prezzo da pagare, pur di poter vedere di nuovo
qualcuno.
Il ripostiglio si trovava accanto al portellone pressurizzato interno.
Durante il volo, quella normalmente non era una zona ad alta
percorrenza, benché Julie non sapesse niente di questa particolare
aeronave. Aveva pensato a cosa dire, a come presentarsi. Quando
finalmente aveva sentito qualcuno venire dalle sue parti, aveva
provato a gridare che voleva uscire da lì. Il rantolo secco che le era
uscito dalla gola l’aveva sorpresa. Aveva deglutito a forza, usando la
lingua per cercare di secernere un po’ di saliva, e aveva provato di
nuovo: un altro debole rantolo.
C’era della gente, appena fuori dalla porta del suo ripostiglio.
Aveva sentito una voce che parlava piano. Julie aveva caricato un
pugno per picchiare sulla porta, poi aveva udito quel che diceva la
voce.
«No. Vi prego, no. Vi prego, non fatelo.»
Dave. Il meccanico della sua nave. Dave, che collezionava brani
dei vecchi cartoni animati e conosceva un milione di barzellette,
stava implorando con voce rotta.
«No. Vi prego, no. Vi prego, non fatelo» aveva detto.
Gli ammortizzatori idraulici e i pistoni della serratura erano scattati
all’apertura del portellone interno. Poi un tonfo carnoso, come di un
corpo che veniva gettato dentro. Altri scatti quando avevano richiuso
il portellone. Un sibilo d’aria in estrazione.
Quando il processo di pressurizzazione del portellone era
terminato, la gente fuori dal suo ripostiglio se n’era andata. Julie
aveva evitato di attirare la loro attenzione.
Avevano ripulito la nave. Essere arrestati dalla marina di uno dei
pianeti interni era uno scenario decisamente indesiderabile, ma
erano stati tutti addestrati nel caso si presentasse quell’evenienza. I
dati sensibili dell’APE erano stati cancellati e sovrascritti con registri di
carico dall’aspetto innocente e bolle di accompagnamento false.
Qualunque informazione troppo sensibile per essere affidata a un
computer, il capitano l’aveva distrutta. Così, quando gli assalitori
erano saliti a bordo, l’equipaggio aveva potuto far finta di niente.
Invano.
Quella gente non era lì né per il carico, né per controllare i
permessi. Gli intrusi avevano fatto irruzione come se fossero stati a
casa loro, e il capitano Darren aveva fatto da zerbino. Tutti gli altri –
Mike, Dave, Wan Li – si erano limitati ad alzare le mani e a lasciarli
fare. I pirati, o schiavisti, o qualunque altra cosa fossero, li avevano
trascinati fuori dal piccolo cargo, che era stata la loro casa, e giù
lungo un tubo di attracco senza nemmeno fargli indossare una tuta
pressurizzata. Il sottile strato di polietilene tereftalato del tubo era
stato l’unica cosa che si frapponeva tra loro e il vuoto. Non avevano
potuto far altro che pregare che non si strappasse: se l’avesse fatto,
addio polmoni.
Anche Julie si era arresa; poi però quei bastardi avevano cercato
di metterle le mani addosso, di strapparle via i vestiti.
Cinque anni di addestramento jiu-jitsu in assetto variabile e loro in
un ambiente ristretto in assenza di gravità: Julie aveva fatto molti
danni. Aveva quasi cominciato a credere di poter avere la meglio,
quando un pugno guantato venuto dal nulla le si era schiantato in
faccia. Da quel momento le cose erano state molto confuse. Poi il
ripostiglio, e quel ‘Se fa un fiato, sparatele’. Quattro giorni passati a
non fare un fiato mentre i suoi amici venivano picchiati da qualche
parte sotto di lei, e poi uno di loro era stato gettato fuori dal
portellone.
Dopo sei giorni, il mondo era diventato silenzioso.
Passando da momenti di veglia a sogni frammentati, Julie era
scivolata in uno stato di semincoscienza mentre il rumore dei passi,
delle voci e dei portelloni pressurizzati, del ronzio subsonico del
reattore e dell’accelerazione si attutivano a poco a poco fino a
svanire del tutto. Quando l’accelerazione era cessata, anche la
gravità era venuta meno, e Julie si era risvegliata da un sogno in cui
sfrecciava con la sua vecchia pinaccia per ritrovarsi invece a
fluttuare a mezz’aria, con i muscoli che protestavano per la tensione
prima di rilassarsi a poco a poco.
Si era avvicinata alla porta e aveva premuto l’orecchio sul metallo
freddo. Si era sentita attraversare da un’ondata di panico, poi aveva
percepito il ronzio basso dei riciclatori d’aria. La nave aveva ancora
energia e ossigeno, ma l’accelerazione era stata interrotta, e non si
udiva nessun rumore di portelloni, di passi o di voci. Forse
l’equipaggio era in riunione. O stava facendo festa su un altro ponte.
O forse ancora erano tutti impegnati in sala macchine, per
aggiustare un guasto grave.
Julie aveva passato un giorno intero a origliare e ad aspettare.
Il settimo giorno aveva terminato l’ultimo sorso d’acqua. In quelle
ventiquattr’ore non aveva udito alcun movimento sulla nave. Aveva
succhiato una targhetta di plastica che aveva strappato dalla tuta
ambientale finché non era riuscita a secernere un po’ di saliva; poi
aveva cominciato a gridare. Aveva urlato fino a perdere la voce.
Non era venuto nessuno.
All’ottavo giorno, era pronta a farsi sparare. Aveva terminato
l’acqua da due giorni e la sua sacca di evacuazione era piena da
quattro. Si mise con le spalle contro la parete di fondo e puntellò le
mani sulle pareti laterali del ripostiglio, poi diede calci alla porta con
entrambe le gambe, più forte che poteva. I crampi lancinanti
provocati dal primo calcio per poco non la fecero svenire. Cominciò
a gridare.
Che stupida, si disse. Era disidratata. Otto giorni senza la benché
minima attività fisica erano più che sufficienti per dare inizio al
processo di atrofia. Avrebbe dovuto almeno fare un po’ di stretching,
prima.
Si massaggiò i muscoli irrigiditi fino a far passare i crampi, poi fece
qualche stiramento, concentrandosi come se si fosse trovata nel
dojo. Quando fu di nuovo sicura di avere il pieno controllo del proprio
corpo, diede un altro calcio. E ancora. E ancora, finché non cominciò
a vedere una luce filtrare dall’esterno del ripostiglio. E ancora, finché
la porta non fu talmente piegata che le tre cerniere e la serratura
erano gli unici punti di contatto con il telaio.
Tirò un ultimo calcio, incurvandola ancora e riuscendo così a
dislocare la serratura dalla controbocchetta e a spalancare la porta.
Julie si precipitò fuori dal ripostiglio con le mani a mezz’aria, pronta
ad apparire minacciosa o terrorizzata, secondo quello che si fosse
rivelato più utile.
Non c’era anima viva sull’intero ponte: la cabina di
pressurizzazione, il ripostiglio per le tute dove aveva passato gli
ultimi otto giorni e una mezza dozzina di altri magazzini...
Completamente vuoti. Prese una chiave a pappagallo magnetica di
dimensioni adatte a spaccare crani da un kit EVA, poi scese sul ponte
di sotto attraverso la scala di servizio. E poi sul ponte ancora
inferiore. Trovò le cabine del personale in perfetto ordine, in stile
quasi militare. La cambusa recava segni di una colluttazione.
L’infermeria era vuota. E nella sala siluri... nessuno. La stazione
radio era deserta, completamente spenta, e sigillata. I pochi sensori
rimasti attivi non mostravano alcun segno della Scopuli. Una nuova
angoscia le annodò lo stomaco. Ponte dopo ponte, sala dopo sala,
non trovò il minimo segno di vita. Doveva essere successo qualcosa.
Una fuga radioattiva. Del veleno nell’aria. Qualcosa che aveva
obbligato a un’evacuazione. Si chiese se sarebbe stata in grado di
manovrare la nave da sola.
Però, se davvero avevano evacuato la nave, lei avrebbe
comunque dovuto sentirli uscire dal portellone...
Raggiunse quello dell’ultimo ponte, che conduceva alla sala
macchine, e si fermò quando non si aprì automaticamente al suo
passaggio. Una luce rossa sul pannello di controllo indicava che la
sala era stata sigillata dall’interno. Pensò di nuovo alla possibilità di
radiazioni o di danni gravi al sistema. Ma se anche fosse stato quello
il caso, perché chiudere la porta dall’interno? E aveva passato un
portellone dopo l’altro: nessuno di quelli aveva presentato allarmi di
alcun tipo. No, non doveva trattarsi di radiazioni, ma di qualcos’altro.
C’era più confusione, lì. Sangue. Attrezzature e cassoni gettati alla
rinfusa. Qualunque cosa fosse successa, era successa lì. Anzi, era
iniziata lì. Ed era finita dietro quella porta sigillata.
Le ci vollero due ore con una fiamma ossidrica e gli arnesi da
scasso presi dall’officina per riuscire a tagliare un accesso attraverso
il portellone. Con gli ammortizzatori idraulici ormai compromessi,
dovette aprirlo a mano. Ne venne fuori una folata d’aria calda e
umida che portava con sé un lezzo da ospedale senza antisettici. Un
odore come di rame, nauseante. Doveva essere la sala delle torture.
I suoi amici dovevano essere lì dentro, pestati a morte o fatti a pezzi.
Julie impugnò la chiave inglese e si preparò a spaccare almeno una
testa prima di farsi ammazzare. Fluttuò giù.
Il ponte meccanico era enorme, con il soffitto a volta come quello di
una cattedrale. Il reattore a fusione nucleare dominava il centro della
sala. Ma c’era qualcosa che non andava. Laddove si era aspettata di
vedere display, scudi termici e monitor, uno strato di qualcosa di
simile a fango sembrava fluire tutto intorno al nucleo del reattore.
Julie fluttuò cautamente in quella direzione, tenendo una mano sulla
scala. Lo strano odore che aveva sentito nell’entrare divenne
soverchiante.
Il fango che si era raccolto attorno al reattore possedeva una
struttura che non aveva mai visto prima di allora. Per tutta la sua
lunghezza correvano dei tubi simili a vene, o canali di ventilazione.
Parti di quella guaina sembravano pulsare. Non era fango.
Era carne.
Un’appendice di quella cosa si mosse verso di lei. Paragonata al
tutto, sembrava essere non più grande di un dito mignolo. Era la
testa del capitano Darren.
«Aiutami» le disse.
1

Holden

Centocinquant’anni prima, quando i disaccordi territoriali tra la


Terra e Marte avevano condotto i due pianeti sull’orlo della guerra, la
Fascia era stata un lontano orizzonte di inestimabili ricchezze
minerarie al di là di ogni ragionevole portata, e i pianeti esterni erano
ben oltre le possibilità perfino dei sogni più irrealistici di qualunque
società. Poi, però, Solomon Epstein aveva costruito il suo piccolo
propulsore a fusione modificato, l’aveva schiaffato a poppa del suo
yacht e l’aveva acceso. Con un buon telescopio, si poteva ancora
vedere la sua nave procedere a una velocità marginalmente inferiore
a quella della luce, diretta verso l’immensità del nulla. Il miglior
funerale, sicuramente il più lungo, della storia dell’umanità.
Fortunatamente, aveva lasciato il progetto nel suo computer di casa.
Il propulsore Epstein non aveva permesso alla specie umana di
raggiungere le stelle, ma le aveva consegnato i pianeti.
Con i suoi tre quarti di chilometro di lunghezza, un quarto di
larghezza e il suo spazio interno perlopiù vuoto, la Canterbury era un
cargo coloniale riattrezzato dalla forma vagamente simile a un
estintore. Un tempo, la nave era stata piena di persone, provviste,
diagrammi, macchinari, bolle ambientali e speranza. E sulla luna di
Saturno ora abitavano qualcosa come venti milioni di persone. La
Canterbury aveva trasportato lì quasi un milione dei loro antenati.
Sulle lune di Giove erano in quarantacinque milioni. Una delle lune di
Urano aveva cinquemila abitanti: era l’avamposto più remoto della
civiltà umana, perlomeno finché i Mormoni non avessero terminato la
costruzione della loro nave generazionale e non si fossero diretti
verso le stelle e la libertà dalle restrizioni alla procreazione.
E poi c’era la Fascia.
Chiedendolo a un reclutatore dell’APE brillo e un po’ espansivo, ci si
poteva sentir dire che nella Fascia c’erano cento milioni di persone.
Un rilevatore di censimento dei pianeti interni avrebbe detto
all’incirca cinquanta. In un verso o nell’altro, la popolazione era
numerosa e abbisognava di molta acqua.
Per cui la Canterbury e le altre decine di navi sorelle della
Pur’n’Kleen Water Company facevano ora avanti e indietro tra i
generosi anelli di Saturno e la Fascia trasportando interi ghiacciai, e
avrebbero continuato a farlo finché non si fossero consumate fino a
diventare rottami inservibili.
Jim Holden lo trovava poetico.
«Holden?»
Lui si voltò verso il ponte dell’hangar. L’ingegnere capo Naomi
Nagata torreggiava su di lui. Era alta quasi due metri, con la sua
massa di capelli ribelli legati in una coda nera e un’espressione a
metà strada tra divertimento e irritazione. Aveva l’abitudine, tipica dei
cinturiani, di fare spallucce con le mani invece che con le spalle.
«Holden, mi stai ascoltando o stai solo fissando fuori dalla
finestra?»
«C’è stato un problema» disse lui. «E siccome sei brava, ma brava
davvero, sei in grado di sistemare la cosa anche se non hai
abbastanza fondi o risorse.»
Naomi scoppiò a ridere.
«Lo sapevo: non mi stavi ascoltando» disse lei.
«Non proprio, no.»
«Be’, la prima parte comunque l’hai azzeccata. Il carrello di
atterraggio del Knight non funzionerà in atmosfera finché non avrò
sistemato quelle perdite. Pensi che sarà un problema?»
«Lo chiederò al vecchio» rispose Holden. «Ma quand’è stata
l’ultima volta che abbiamo usato lo shuttle in atmosfera?»
«Mai, però la normativa ci impone di averne almeno uno in grado
di navigare in essa.»
«Ehi, capo!» Amos Burton, l’assistente terrestre di Naomi, berciò
dall’altra parte della baia d’attracco. Agitò un braccio robusto verso
di loro. Intendeva Naomi. Quella poteva anche essere la nave del
capitano McDowell e Holden poteva anche esserne il
vicecomandante ma, nel mondo di Amos Burton, solo Naomi era ‘il
capo’.
«Che succede?» gridò di rimando Naomi.
«Ho un cavo danneggiato. Puoi venire a tenere ferma questa
stronzetta mentre cerco quello di riserva?»
Naomi fissò Holden con uno sguardo che diceva: ‘Abbiamo finito,
qui?’ Lui le rivolse un saluto militare carico di sarcasmo e lei sbuffò,
scuotendo la testa mentre si allontanava, una figura esile e slanciata
in una lunga tuta da lavoro sporca di grasso.
Holden aveva passato sette anni nella Marina Militare della Terra,
altri cinque a lavorare nello spazio con i civili, e non era mai riuscito
ad abituarsi alle lunghe, sottili e improbabili ossa dei cinturiani.
Un’infanzia trascorsa in gravità aveva modellato per sempre la sua
visione delle cose.
Una volta nell’ascensore centrale, Holden tenne brevemente il dito
sopra il tasto del ponte di navigazione, tentato dalla prospettiva di
incontrare Ade Tukunbo – quel sorriso, la sua voce, il profumo di
patchouli e vaniglia che usava mettersi nei capelli –, poi però
premette il tasto dell’infermeria. Prima il dovere, poi il piacere.
Quando Holden entrò in sala operatoria, Shed Garvey, il medico di
bordo, era chino sul suo tavolo da laboratorio, intento a sbrigliare
con i suoi strumenti il moncone che rimaneva del braccio sinistro di
Cameron Paj. Un mese prima, Paj si era ritrovato con il gomito
schiacciato da un blocco di ghiaccio di trenta tonnellate che si
spostava alla velocità di cinque millimetri al secondo. Non era un
infortunio inconsueto tra quanti facevano il pericoloso lavoro di taglio
e movimentazione di iceberg a gravità zero, e Paj stava affrontando
quella situazione con il fatalismo di un vero professionista. Holden si
sporse da sopra la spalla di Shed per dare un’occhiata mentre il
tecnico tirava via una delle larve mediche dai tessuti necrotici.
«Che si dice?» chiese Holden.
«Direi che sta andando alla grande, signore» disse Paj. «Mi sono
rimasti ancora un po’ di nervi. Shed, qui, mi stava spiegando come
faranno ad agganciarci la protesi.»
«Posto che riusciamo a tenere la necrosi sotto controllo» precisò il
medico «e che facciamo in modo che Paj non guarisca troppo prima
che arriviamo su Ceres. Ho controllato la polizza, e il nostro Paj è
stato con noi abbastanza a lungo da poter richiedere una protesi con
force feedback, sensori di pressione e temperatura, e un software di
calibrazione motoria di precisione. Il top. Sarà praticamente come un
braccio vero. I pianeti interni hanno sviluppato un nuovo biogel che
fa ricrescere l’arto, ma quello non è coperto dalla nostra
assicurazione medica.»
«Fanculo gli interni, e fanculo la loro gelatina magica. Preferisco
avere addosso una buona protesi artificiale costruita nella Fascia
piuttosto che qualunque altra cosa coltivata in laboratorio da quei
bastardi. Probabilmente mi basterebbe indossare il loro braccio da
fighetto per rischiare di trasformarmi in un pezzo di merda» disse
Paj. Poi aggiunse: «Uh, oh... Senza offesa, eh, vicecomandante.»
«Nessuna offesa. Sono contento che ti si possa rimettere a nuovo»
rispose Holden.
«Digli l’altra cosa, doc» disse Paj con un ghigno sornione. Shed
arrossì.
«Ne ho... ehm... Ne ho sentito parlare da altra gente che ha subìto
questo genere d’impianti» iniziò Shed senza incontrare lo sguardo di
Holden. «A quanto pare c’è un periodo, durante l’adattamento alla
protesi, in cui, quando ci si dà piacere da soli, si ha l’impressione
che sia qualcun altro a operare la masturbazione.»
Holden lasciò aleggiare quel commento nell’aria per un istante
mentre le orecchie di Shed avvampavano.
«Buono a sapersi» disse Holden. «E la necrosi?»
«C’è un’infezione in corso» rispose Shed. «Ma le larve la stanno
tenendo sotto controllo e anzi, in un contesto del genere,
l’infiammazione è in realtà una reazione positiva, per cui evitiamo di
curarla del tutto a meno che non cominci a diffondersi.»
«Sarà pronto per il prossimo carico?» chiese Holden.
Per la prima volta, Paj aggrottò la fronte.
«Cazzo, sì. Certo che sarò pronto. Sono sempre pronto. Questa è
la mia vita, signore.»
«Probabilmente sì» disse Shed. «Dipende da come reagisce
all’innesto. Se non sarà a questo giro, magari al prossimo.»
«Fanculo» replicò Paj. «Posso spaccare il ghiaccio con una mano
sola meglio della metà delle femminucce che avete su questa
carretta.»
«Ancora una volta,» disse Holden, trattenendo un sorriso «buono a
sapersi. Procedete.»
Paj sbuffò. Shed estrasse un’altra larva. Holden tornò all’elevatore
e stavolta non esitò.
Il ponte di navigazione della Canterbury era tutt’altro che
impressionante. I grandi schermi a parete intera che Holden aveva
immaginato quando era entrato come volontario in marina
esistevano eccome, ma sulle navi ammiraglie, e anche in quel caso
erano più orpelli di design che strumenti essenziali. Ade sedeva di
fronte a un paio di monitor appena più grandi di un terminale
palmare, con i grafici di efficienza e rendimento del reattore della
Canterbury che si aggiornavano ai margini dello schermo e registri
non elaborati che scorrevano sulla destra man mano che venivano
trasmessi dal sistema. Un paio di grosse cuffie le coprivano le
orecchie, da cui sfuggiva solo il tonfo sordo delle basse frequenze.
Se la Canterbury avesse registrato un’anomalia, il sistema l’avrebbe
avvertita. Se un elemento fosse incappato in un errore, il sistema
l’avrebbe avvertita. Se il capitano McDowell avesse lasciato la
plancia, il sistema l’avrebbe avvertita – cosicché avrebbe potuto
spegnere la musica e farsi trovare indaffarata quando fosse arrivato
da lei. Il suo futile edonismo era soltanto una delle mille cose che la
rendeva attraente agli occhi di Holden. Lui le arrivò alle spalle, le
tolse delicatamente le cuffie dalle orecchie e disse: «Ehi.»
Ade sorrise, picchiettò un dito sullo schermo e si passò le cuffie
attorno al lungo collo slanciato, come fosse un gioiello tecnologico.
«Vicecomandante James Holden» disse con esagerata formalità,
resa ancora più acuta dal suo forte accento nigeriano. «Che cosa
posso fare per lei?»
«Sai, è buffo che tu me lo chieda» rispose lui. «Stavo giusto
pensando a quanto sarebbe piacevole invitare qualcuno nella mia
cabina alla fine del secondo turno. Magari per una cenetta romantica
con la stessa sbobba che servono giù in mensa, per ascoltare un po’
di musica...»
«Bere un po’ di vino» continuò lei. «Infrangere un po’ di protocollo.
È un pensiero carino, ma stasera non ho voglia di sesso.»
«Non stavo parlando di sesso. Un po’ di cibo, di conversazione...»
«Io stavo parlando di sesso» disse lei.
Holden si accovacciò accanto alla sedia. Con la loro velocità di
crociera impostata a un terzo di g, era perfettamente a suo agio. Il
sorriso di Ade si addolcì. Il file di registro mandò uno scampanellio;
lei gli diede un’occhiata, inserì un codice e tornò a voltarsi verso di
lui.
«Ade, tu mi piaci. Voglio dire, mi piace la tua compagnia» disse
Holden. «Non capisco perché non possiamo passare un po’ di
tempo insieme con i vestiti addosso.»
«Holden. Tesoro. Smettila, va bene?»
«Smettere cosa?»
«Smettila di cercare di trasformarmi nella tua ragazza. Sei un tipo a
posto. Hai un bel culo, e a letto ci sai fare. Questo non significa che
siamo fidanzati.»
Holden si dondolò sui talloni, sentendo la propria fronte che si
aggrottava.
«Ade... Perché questa cosa funzioni, per me, dev’essere qualcosa
di più.»
«Ma non lo è» disse lei, prendendogli la mano. «E va bene così.
Sei il vicecomandante qui, mentre io sono solo di passaggio. Un
altro carico, forse due, e poi non ci sarò più.»
«Non è che io sia incatenato a questa nave.»
La risata di Ade tradì affetto e incredulità.
«Da quanto tempo sei sulla Cant?»
«Cinque anni.»
«Non andrai da nessuna parte» disse lei. «Qui sei a tuo agio.»
«A mio agio?» replicò lui. «La Cant è un cargo frigorifero vecchio di
un secolo. Si può trovare di peggio, come lavoro, in campo
aerospaziale, ma bisogna davvero mettercela tutta. Tutti quelli che
stanno qui sono terribilmente sottoqualificati, oppure hanno fatto
qualche madornale cazzata sul loro ultimo posto di lavoro.»
«E tu ti senti a tuo agio qui.» I suoi occhi erano meno gentili, ora.
Ade si morse il labbro, abbassò gli occhi sullo schermo e poi tornò
ad alzarli.
«Questa non me la meritavo» disse lui.
«No, è vero» ammise lei. «Senti, ti ho detto che stasera non ero
dell’umore adatto. Mi sento irritabile. Ho bisogno di una bella notte di
sonno. Domani sarò più gentile.»
«Promesso?»
«Ti preparerò perfino la cena. Scuse accettate?»
Lui si sporse in avanti e premette le labbra sulle sue. Lei gli restituì
il bacio, dapprima con garbo e poi con più calore. Le sue dita gli
accarezzarono il collo per un istante, poi lo spinsero via.
«Ci sai davvero fare con queste cose, anche troppo. Ora dovresti
andare» disse Ade. «Sai, siamo in servizio, e cose così.»
«Okay» rispose lui, senza accennare ad andarsene.
«Jim...» lo richiamò lei, appena prima che il sistema di
comunicazione interna della nave crepitasse.
«Holden, sul ponte» disse il capitano McDowell, con voce piatta e
riecheggiante. Holden replicò con un’oscenità che fece ridere Ade.
Si chinò, le diede un bacio sulla guancia e tornò verso l’ascensore
centrale, augurandosi in silenzio che il capitano McDowell potesse
riempirsi di bubboni e patisse il pubblico ludibrio per quel suo
tempismo inopportuno.
Il ponte era poco più grande degli alloggi di Holden e quanto la
metà della mensa. Fatta eccezione per il monitor del capitano,
vagamente sovradimensionato per via della vista calante di
McDowell e della sua mancanza di fiducia nelle possibilità della
chirurgia correttiva, sarebbe potuto essere il retrobottega di uno
studio contabile. Nell’aria c’era un odore di astringente per le pulizie
e di yerba mate lasciata in infusione troppo a lungo. McDowell si
voltò sulla sua poltrona mentre Holden si avvicinava. Poi il capitano
tornò ad appoggiarsi allo schienale, indicando con un dito la stazione
radio alle proprie spalle.
«Becca!» sbottò McDowell. «Glielo dica.»
Rebecca Byers, l’ufficiale di collegamento in servizio, poteva
essere nata da un incrocio tra uno squalo e un’accetta: occhi neri,
tratti spigolosi, labbra tanto sottili che parevano del tutto inesistenti.
A bordo girava voce che avesse accettato il posto per sfuggire al
processo per l’omicidio del suo ex marito. A Holden, Rebecca stava
simpatica.
«Una richiesta di soccorso» disse lei. «L’abbiamo ricevuta due ore
fa. Ed è appena arrivato il riscontro radar dalla Callisto: il segnale è
autentico.»
«Ah» disse Holden. Poi aggiunse: «Merda. Siamo i più vicini?»
«Siamo l’unica nave nel raggio di qualche milione di chilometri.»
«Be’. Direi che ci tocca» esclamò Holden.
Becca rivolse lo sguardo verso il capitano. McDowell fece
scrocchiare le nocche e fissò il suo monitor. La luce dello schermo
gli conferiva uno strano colorito verdastro.
«È vicino a un asteroide mappato estraneo alla Fascia» disse
McDowell.
«Davvero?» esclamò Holden incredulo. «Cos’è, ci sono andati a
sbattere? Non c’è nient’altro là fuori per milioni e milioni di
chilometri!»
«Magari hanno fatto una sosta perché a qualcuno scappava la
pupù. Tutto quello che sappiamo è che c’è un qualche imbecille
laggiù che ha lanciato un segnale di emergenza, e che noi siamo i
più vicini. Sempre che...»
La legge del sistema solare era inequivocabile. In un ambiente
tanto ostile alla vita come lo spazio, l’aiuto e la buona fede di un
collega umano non erano discrezionali. Il segnale d’emergenza, nel
momento in cui veniva lanciato, obbligava la nave più vicina a
fermarsi e a prestare soccorso. Il che non significava certo che la
legge venisse universalmente rispettata.
La Canterbury era a pieno carico. Più di un milione di tonnellate di
ghiaccio erano state fatte accelerare a poco a poco durante l’ultimo
mese. E, proprio come il piccolo ghiacciaio che aveva schiacciato il
braccio di Paj, sarebbe stato molto difficile farle rallentare. La
tentazione di farsi venire un guasto inspiegabile nel sistema di
comunicazione, di cancellare tutti i registri e di lasciar fare al buon
dio Darwin era sempre presente.
Tuttavia, se fosse stata davvero quella l’intenzione di McDowell,
non avrebbe convocato Holden. Né lo avrebbe dato a intendere in
un ambiente in cui l’equipaggio avrebbe potuto sentirlo. Holden capì
il suo giochino. Il capitano avrebbe fatto la parte di quello che
avrebbe volentieri lasciato perdere se non ci fosse stato lui.
L’equipaggio avrebbe rispettato il capitano per aver mostrato
l’intenzione di non intaccare il profitto della spedizione. E d’altro
canto avrebbe rispettato Holden per aver insistito sulla necessità di
seguire le regole. A prescindere dal risultato, il capitano e Holden
sarebbero comunque stati odiati per ciò che la legge e la mera
decenza umana imponevano loro di fare.
«Dobbiamo fermarci» disse Holden. Poi aggiunse
scherzosamente: «Potrebbe esserci un bel bottino.»
McDowell picchiettò sul suo schermo. La voce di Ade giunse dalla
console, profonda e calda come se fosse stata lì nella sala.
«Capitano?»
«Mi servono i calcoli di arresto del carico» disse lui.
«Signore?»
«Cosa comporterebbe accostarci a CA-2216862?»
«Attracchiamo su un asteroide?»
«Glielo dirò quando avrà eseguito il mio ordine, navigatrice
Tukunbo.»
«Sì, signore» disse lei. Holden udì una serie di ticchettii. «Se
invertiamo la spinta immediatamente e apriamo a manetta per quasi
due giorni, posso fare in modo di arrivare a cinquantamila chilometri,
signore.»
«Definisca ‘apriamo a manetta’» disse McDowell.
«Tutto il personale dovrà restare confinato sulle brande di
sicurezza.»
«Ovvio» sospirò McDowell, grattandosi la barba incolta. «E il
ghiaccio in movimento ci farà soltanto un paio di milioni di danni sullo
scafo, se ci dice bene. Sto diventando troppo vecchio per questa
roba, Holden. Davvero.»
«Sì, signore. Ha ragione da vendere. E mi è sempre piaciuta la sua
poltrona» disse Holden. McDowell lo fulminò con lo sguardo e
rispose con un gesto osceno. Rebecca fece uno sbuffo che
somigliava a una risata. McDowell si voltò verso di lei.
«Segnali al richiedente che stiamo arrivando. E informi Ceres che
saremo in ritardo. Holden, a che punto siamo con il Knight?»
«Non possiamo operare in atmosfera finché non avremo sostituito
alcune parti, ma non dovremmo avere problemi per cinquantamila
chilometri nel vuoto.»
«Ne è certo?»
«Me lo ha confermato Naomi. Il che lo rende certo.»
McDowell si alzò, ergendosi in tutti i suoi due metri e venti, più
magro di un adolescente terrestre. Tra la sua età e il fatto di non
aver mai vissuto in un pozzo gravitazionale, l’imminente
accelerazione sarebbe probabilmente stata un inferno per il vecchio
capitano. Holden sentì un moto di compassione che non avrebbe
mai espresso per non metterlo in imbarazzo.
«Il fatto è questo, Jim» disse McDowell, abbassando la voce per
farsi sentire soltanto da Holden. «Ci viene richiesto di fermarci e di
fare un tentativo, ma non è necessario scapicollarsi, se capisce cosa
intendo.»
«Ormai ci saremo già fermati» disse Holden, e McDowell diede
una pacca in aria con le sue grandi mani da ragno. Uno dei molti
gesti dei cinturiani che si era evoluto fino a essere visibile anche
indossando una tuta ambientale.
«Questo non posso evitarlo» disse il capitano. «Ma se là fuori
dovesse sentire la minima puzza di bruciato, non faccia di nuovo
l’eroe. Pianti baracca e burattini e faccia marcia indietro.»
«Lasciando tutto alla prossima nave in avvicinamento?»
«Riportando a casa la pelle» disse McDowell. «È un ordine. Ha
capito?»
«Capito» rispose Holden.
Mentre il sistema di comunicazione interno prendeva vita e
McDowell cominciava a spiegare la situazione all’equipaggio, Holden
s’immaginò di riuscire a sentire il coro di mugugni che saliva dai
ponti della nave. Andò da Rebecca.
«Allora» disse. «Che cosa abbiamo sulla nave in avaria?»
«Nave da trasporto leggera appartenente al registro marziano. Il
porto di origine sarebbe Eros. Si chiama Scopuli...»
2

Miller

Il detective Miller tornò a sedersi sulla sedia di schiuma con un


sorriso di cortese incoraggiamento mentre si sforzava di dare un
senso alla storia di quella ragazza.
«E poi è stato tutto un bam! La stanza era piena di sgherrilama che
ululavano e sbattevano tibie» disse la ragazza, agitando una mano.
«Sembra come un balletto, solo che Bomie fa una faccia che non ne
sa niente mai e poi mai amen. Hai presente, que?»
Havelock, in piedi accanto alla porta, sbatté le palpebre un paio di
volte. Il viso di quell’uomo tarchiato si velò d’impazienza. Era per
questo che non sarebbe mai diventato ispettore capo. Ed era per
questo che faceva schifo a poker.
Miller invece era molto bravo a poker.
«Assolutamente» disse Miller. La sua voce aveva assunto la
cadenza di un residente di livello interno. Agitò la mano tracciando lo
stesso arco pigro che aveva descritto la ragazza. «Bomie, mica ha
visto. Braccio dimenticato.»
«Cazzo, braccio dimenticato, sì» confermò la ragazza, come se
Miller avesse appena pronunciato un versetto del vangelo. Miller
annuì e la giovane lo imitò per tutta risposta, come se fossero stati
due uccelli intenti in una danza di accoppiamento.
Quel buco in affitto era composto da tre stanze con le pareti crema
a macchie nere: bagno, cucina, salone. Le assi di un soppalco
retrattile che fungeva da letto erano state rotte e riparate tante di
quelle volte che ormai la struttura non si ritraeva più. Così vicino al
centro di rotazione di Ceres, quello non era tanto un danno
provocato dalla gravità quanto da una massa in brusco movimento.
L’aria puzzava di birra, di vecchio lievito proteico e funghi. Cibo
locale, per cui chiunque si fosse sbattuto la ragazza tanto forte da
spaccarle il letto sembrava non avesse pagato abbastanza per la
cena. O magari sì, e la ragazza aveva scelto di spendere i soldi in
eroina, malta o MCK.
Ad ogni modo, quelli erano affari suoi.
«Que segue?» chiese Miller.
«Bomie evacua come perdenza aria» disse la ragazza
ridacchiando. «Testacalda salta, kennis tu?»
«Ken» disse Miller.
«Ora, tutti nuovi sgherrilama. Più in alto. Io sono fuori.»
«E Bomie?»
Gli occhi della ragazza squadrarono lentamente Miller, dalle scarpe
alle ginocchia, fino al cappello pork pie. Miller ridacchiò. Si diede una
lieve spintarella sulla sedia e lasciò che la bassa gravità
assecondasse il suo movimento nell’alzarsi in piedi.
«Lui mostra, e io ho chiesto, que sí?» disse Miller.
«Como no?» rispose la ragazza. ‘Perché no?’
Nei punti in cui non erano coperte di lerciume, le pareti del
corridoio esterno erano bianche. Era largo dieci metri, in leggera
pendenza in entrambe le direzioni. Le luci bianche a LED non
cercavano nemmeno di imitare la luce del sole. Mezzo chilometro
più giù, qualcuno aveva sbattuto sul muro talmente forte che si
vedeva la roccia sotto l’intonaco, e il danno non era ancora stato
riparato. Forse non lo sarebbe stato mai. Quello era uno scavo
profondo, vicinissimo al centro di rotazione. I turisti non ci venivano
mai lì.
Havelock procedeva in testa verso il loro cart, balzando sempre un
po’ troppo in alto a ogni passo. Non saliva spesso ai livelli a bassa
gravità, e si sentiva strano. Miller aveva passato una vita intera su
Ceres e, a dire il vero, a quell’altezza capitava che l’effetto Coriolis
rendesse poco stabile anche lui.
«Allora,» disse Havelock mentre digitava il codice della loro
destinazione «ti sei divertito?»
«Non so di che parli» rispose Miller.
I motori elettrici si destarono con un ronzio e il cart prese ad
avanzare con uno strattone nel tunnel, con le ruote viscose di
schiuma che cigolavano appena.
«A farti la tua bella chiacchierata da esterno di fronte al terrestre...»
spiegò Havelock. «Non sono riuscito a seguire nemmeno la metà di
quel che vi siete detti.»
«Non si è trattato di un caso di gente della Fascia che escludeva il
terrestre» disse Miller. «Piuttosto di gente povera che escludeva il
tipo educato. E in effetti è stato piuttosto divertente, ora che mi ci fai
pensare.»
Havelock scoppiò a ridere. Sapeva tollerare una presa in giro e ci
passava facilmente sopra. Era quello che lo rendeva bravo negli
sport di squadra: calcio, pallacanestro, politica.
Miller non era un granché in quel campo.
Ceres, la città portuale della Fascia e dei pianeti esterni, aveva un
diametro di duecentocinquanta chilometri e decine di migliaia di
chilometri di tunnel costruiti strato dopo strato dopo strato. Farla
girare a 0.3 g aveva richiesto gli sforzi delle menti migliori della
Tycho Manufacturing per mezza generazione, e i suoi ingegneri se
ne gloriavano ancora. Ora Ceres contava più di sei milioni di
residenti stabili, e più o meno un migliaio di navi all’attracco ogni
giorno dell’anno ne aumentava il totale a circa sette milioni.
Platino, ferro e titanio dalla Fascia. Acqua da Saturno, verdure e
carne dalle grandi serre a specchio di Ganimede ed Europa, prodotti
organici dalla Terra e da Marte. Celle energetiche da Io, elio-3 dalle
raffinerie di Rea e Giapeto. Un flusso di benessere e ricchezza mai
uguagliato nella storia dell’umanità attraversava Ceres. E chi dice
commercio, dice criminalità. Chi dice criminalità, dice forze di
sicurezza dedicate a controllarla. Uomini come Miller e Havelock, cui
toccava farsi un giro sui cart elettrici che risalivano per quelle grandi
rampe, con la gravità artificiale della rotazione che si perdeva alle
loro spalle, e interrogare vistose puttane da strapazzo su quel che
era successo la sera in cui Bomie Chatterjee aveva smesso di
raccogliere il pizzo per la Golden Bough Society.
La centrale della Star Helix Security, referente delle forze di
sicurezza e guarnigione militare per la Stazione di Ceres, era situata
al terzo livello della superficie dell’asteroide, si estendeva per due
chilometri quadrati ed era scavata in profondità nella roccia, di modo
che Miller avrebbe potuto risalire cinque livelli dalla sua scrivania
senza nemmeno dover lasciare gli uffici. Havelock riportò il cart al
parcheggio mentre Miller tornava al suo stanzino, scaricava la
registrazione del loro incontro con la ragazza e la ripassava. Era
arrivato a metà del video quando il suo collega gli si avvicinò con
passo pesante alle spalle.
«Scoperto niente?» chiese Havelock.
«Non molto» disse Miller. «Bomie è stato aggredito da un
gruppetto indipendente di delinquenti locali. A volte capita che i pesci
piccoli come lui assoldino gente che faccia finta di aggredirli per
poter recitare la parte dei duri senza paura. È un modo per
accrescere la propria reputazione. È quel che intendeva lei quando
ha parlato di balletto. I tipi che gli stavano addosso erano di quel
genere lì, solo che, invece di fare la parte dell’eroe cazzuto, Bomie
se l’è data a gambe e non è più tornato.»
«E adesso?»
«E adesso niente» disse Miller. «È questo che non capisco.
Qualcuno ha fatto fuori uno scagnozzo della Golden Bough, e non ci
sono state rappresaglie. Voglio dire, va bene che Bomie è un pesce
piccolo, ma...»
«Ma una volta che iniziano a far fuori i pesci piccoli, ai pesci grossi
arriva meno grana» concluse Havelock. «Ma allora perché la Golden
Bough non ha fatto ricorso a un po’ di giustizia sommaria?»
«Questa storia non mi piace» osservò Miller.
Havelock ridacchiò. «Voi cinturiani...» disse. «Una cosa va in modo
strano, ed ecco che vi mettete a pensare che l’intero ecosistema si
stia schiantando. Se la Golden Bough è troppo debole per farsi
rispettare, per noi è un bene. Se per caso non te lo ricordassi, quelli
sono i cattivi.»
«Già. Be’...» riconobbe Miller. «Di’ pure quel che vuoi del crimine
organizzato, ma almeno è organizzato.»
Havelock si sedette sulla piccola sedia di plastica accanto alla
scrivania di Miller e allungò il collo per vedere la registrazione.
«Okay» disse Havelock. «Che diavolo è il ‘braccio dimenticato’?»
«Gergo pugilistico» spiegò Miller. «È il colpo che non vedi
arrivare.»
Il computer emise un trillo e dalle casse uscì la voce del capitano
Shaddid.
«Miller? È lì?»
«Ahia» mormorò Havelock. «Brutte notizie.»
«Come ha detto?» chiese il capitano con voce tagliente. Non
aveva mai superato del tutto il suo pregiudizio sulle origini da interno
di Havelock. Miller alzò una mano per zittire il suo partner.
«Sono qui, capitano. Che cosa posso fare per lei?»
«Venga da me» disse lei.
«Sto arrivando.»
Miller si alzò in piedi e Havelock prese il suo posto sulla poltrona
da ufficio. Non si dissero niente. Sapevano perfettamente che se il
capitano Shaddid avesse voluto vedere anche Havelock li avrebbe
convocati entrambi. Un’altra ragione per cui non sarebbe mai
diventato ispettore capo. Miller lo lasciò da solo con la registrazione,
a rimuginare sui dettagli sensibili alla classe e posizione sociale,
origine e razza. Il lavoro di una vita.
L’ufficio del capitano Shaddid era decorato in maniera delicata e
femminile. Tappezzerie di vero tessuto adornavano le pareti, e il
profumo di caffè e cannella che permeava l’aria proveniva da un
inserto nel suo impianto d’aerazione che costava un decimo di quel
che avrebbe speso se quelle due sostanze fossero state autentiche.
Indossava la sua uniforme con noncuranza, con i capelli sciolti in
aperta violazione del regolamento aziendale. Se a Miller avessero
mai chiesto di descriverla, la definizione di ‘colorazione ingannevole’
avrebbe certamente figurato tra le sue scelte. Lei gli indicò una sedia
col mento, e lui obbedì.
«Cos’avete trovato?» chiese il capitano, ma il suo sguardo era
fisso sul muro alle spalle di Miller. Non si trattava di una domanda a
trabocchetto; stava semplicemente facendo conversazione.
«La Golden Bough sembra attraversare la stessa fase della banda
di Sohiro e della Loca Greiga. Sono ancora attive, ma... distratte. Sì,
si può dire così. Stanno lasciando correre un po’ troppe cose. Hanno
meno scagnozzi sul campo, meno uomini d’azione. Almeno mezza
dozzina d’intermediari sono scomparsi.»
Questo catturò l’attenzione di Shaddid.
«Morti?» chiese lei. «L’APE si sta muovendo?»
Un’azione da parte dell’Alleanza dei Pianeti Esterni era lo
spauracchio costante delle forze di sicurezza di Ceres. Inscrittasi nel
solco tracciato da Al Capone e Hamas, IRA e Marziali Rossi, l’APE era
benvoluta dalla gente che aiutava e temuta da quelli che la
osteggiavano. In parte movimento sociale, in parte aspirante nazione
e in parte rete terroristica, mancava completamente di qualsivoglia
coscienza istituzionale. Il capitano Shaddid poteva avere in antipatia
Havelock perché veniva da un pozzo di gravità, ma comunque
accettava di lavorare con lui. L’APE invece l’avrebbe rinchiuso in una
camera pressurizzata. Gente come Miller non poteva sperare in
niente di meglio che in una pallottola in fronte, e pure di plastica.
Niente che si potesse frammentare nelle tubature.
«Non credo» disse Miller. «Non sento puzza di guerra. È più...
Onestamente, signora, non so cosa diavolo possa essere. I numeri
sono importanti. Il pizzo sta calando, le bische clandestine anche.
Cooper e Hariri hanno chiuso il bordello minorile su al sesto livello e,
da quel che si sa, non ha più riaperto. C’è un po’ più di movimento
da parte degli indipendenti ma, a parte questo, tutto sembra andare
alla grande. C’è puzza di bruciato, ma soltanto quella.»
Lei annuì, ma il suo sguardo era tornato sulla parete. Miller aveva
perso la sua attenzione con la stessa rapidità con cui se l’era
conquistata.
«Be’, metta da parte questi pensieri» disse lei. «Ho qualcosa per le
mani. Un nuovo incarico. Soltanto per lei. Senza Havelock.»
Miller incrociò le braccia.
«Un nuovo incarico» ripeté lentamente lui. «Ovvero?»
«Ovvero la Star Helix Security ha accettato un contratto per la
fornitura di servizi distinti dagli incarichi di sicurezza per Ceres e, in
qualità di caposettore dell’azienda, io lo riassegno a lei.»
«Sono licenziato?» chiese lui.
Il capitano Shaddid assunse un’espressione dolorosamente
infastidita.
«È un incarico addizionale» spiegò. «Manterrà gli incarichi che
ricopre al momento su Ceres. Solo che, in aggiunta... Senta, Miller,
penso che sia un lavoro di merda tanto quanto quello che già svolge.
Non la sto trasferendo dalla centrale e non le sto togliendo l’incarico
principale. Questo è un favore che qualcuno giù sulla Terra sta
facendo a un nostro azionista.»
«Ci mettiamo a fare favori agli azionisti, ora?» chiese Miller.
«Sarà lei a farlo» disse il capitano Shaddid. Ogni delicatezza era
svanita, e con essa il tono provvisoriamente conciliatorio. I suoi occhi
erano scuri come pietra bagnata.
«Bene, allora» disse Miller. «Immagino che sarà così.»
Il capitano Shaddid alzò il terminale palmare. Miller le andò
accanto, solerte, tirò fuori il proprio e accettò la trasmissione dati a
raggio ridotto. Qualunque cosa fosse, Shaddid la stava mantenendo
accuratamente fuori dalla rete condivisa. Un nuovo file intitolato JMAO
apparve sul display.
«Si tratta di un caso di figlia scomparsa» disse il capitano Shaddid.
«Ariadne e Jules-Pierre Mao.»
Quei nomi gli dicevano qualcosa. Miller premette i polpastrelli sullo
schermo del suo palmare.
«Della compagnia mercantile Mao-Kwikowski?»
«Esattamente.»
Miller fece un fischio sommesso.
La Maokwik poteva anche non essere tra le prime dieci aziende
della Fascia, ma di certo era tra le prime cinquanta. In origine era
uno studio legale coinvolto nel clamoroso fallimento delle città
nuvola venusiane. Avevano usato il denaro ricavato da quella
controversia legale durata decenni per diversificare la propria attività
ed espandersi, principalmente nel campo del trasporto
interplanetario. Ora la loro stazione aziendale era indipendente, a
galla tra la Fascia e i pianeti interni, con tutta la regale maestà di un
transatlantico oceanico che solcava gli antichi mari. Il semplice fatto
che Miller sapesse queste cose di loro significava che avevano
abbastanza denaro da potersi permettere di comprare e vendere
uomini come lui a viso aperto.
E lui era appena stato comprato.
«Hanno base su Luna» disse il capitano Shaddid. «Dispongono di
tutti i diritti e i privilegi conferiti dalla cittadinanza terrestre. Ma fanno
un sacco di commercio navale da queste parti.»
«E hanno perso una figlia?»
«La pecora nera della famiglia» disse il capitano. «Durante gli studi
si è fatta invischiare in un’organizzazione chiamata Fondazione
Orizzonte Lontano. Un gruppo di attivismo studentesco.»
«L’avanguardia dell’APE» disse Miller.
«Un gruppo associato» lo corresse Shaddid. Miller la lasciò
continuare, ma una scintilla di curiosità continuava a impensierirlo. Si
chiese da che parte sarebbe stata il capitano Shaddid se l’APE
avesse sferrato il suo attacco. «La famiglia l’aveva imputata a una
semplice fase di ribellione. Hanno altri due figli più grandi per
controllare la maggioranza delle azioni, per cui, se a Julie veniva
voglia di andarsene a zonzo per lo spazio definendosi combattente
per la libertà, per loro non era un gran danno.»
«Adesso però vogliono ritrovarla» disse Miller.
«È così.»
«Che cosa è cambiato?»
«Non gli è parso opportuno condividere questa informazione.»
«Chiaro.»
«Le ultime notizie su di lei riportano che lavorava sulla Stazione di
Tycho ma che aveva un appartamento da queste parti. Ho trovato la
sua partizione in rete e l’ho inquadrata. La password è nei suoi file.»
«Va bene» disse Miller. «Qual è il mio incarico?»
«Trovare Julie Mao, catturarla e rispedirla a casa.»
«Un rapimento, quindi» osservò lui.
«Sì.»
Miller abbassò gli occhi verso il suo terminale palmare, aprendo le
cartelle e scartabellando tra i file senza davvero guardarli. Gli si era
formato uno strano nodo allo stomaco. Aveva lavorato per i servizi di
sicurezza di Ceres per trent’anni, e non aveva cominciato la carriera
facendosi chissà che illusioni. La cosa buffa era che Ceres non
aveva leggi: aveva la polizia. Le sue mani non erano più pulite di
quelle del capitano Shaddid. Capitava che della gente cadesse
inavvertitamente fuori dai portelloni pressurizzati; capitava che delle
prove svanissero dai cassetti. Il punto non era tanto stabilire se
fosse giusto o sbagliato, quanto piuttosto se si trattasse di un atto
giustificato. Passando una vita intera in una bolla di pietra dove il
cibo, l’acqua, perfino l’aria che respiravi ti venivano portati da luoghi
tanto remoti che a malapena si riuscivano a vedere con un
telescopio, una certa flessibilità morale era necessaria. Miller però
non aveva mai dovuto accettare un incarico di rapimento prima di
allora.
«C’è qualche problema, ispettore?» chiese il capitano Shaddid.
«No, signora» rispose lui. «Me ne occupo io.»
«Non ci perda troppo tempo» disse Shaddid.
«Sì, signora. C’è altro?»
Lo sguardo del capitano Shaddid si addolcì, come se stesse
mettendo una maschera. Sorrise.
«Tutto bene con il partner che le ho assegnato?»
«Havelock è a posto» disse Miller. «Averlo intorno fa sì che la
gente mi apprezzi per contrasto. È piacevole.»
L’unico cambiamento percepibile nel sorriso di Shaddid fu quello di
diventare di un pelo più genuino. Non c’era niente di meglio che un
po’ di sano razzismo condiviso per consolidare i legami con il
caposettore. Miller salutò rispettosamente con un cenno della testa e
uscì dalla stanza.
La sua buca era all’ottavo livello, in un tunnel residenziale largo un
centinaio di metri con una striscia di cinquanta metri di parco
scrupolosamente coltivata che correva lungo il centro. Il soffitto a
volta del corridoio principale era illuminato da luci nascoste e dipinto
di un blu che Havelock gli aveva assicurato corrispondere
perfettamente al cielo estivo della Terra. Vivere sulla superficie di un
pianeta, con la massa che ti tirava ogni osso e muscolo, senza
nient’altro che la gravità a trattenere l’aria, sembrava una vera e
propria follia. Il blu però era gradevole.
C’era chi seguiva l’esempio del capitano Shaddid e profumava i
propri ambienti. Non sempre con aromi di caffè e cannella, certo. Il
buco di Havelock profumava di pane appena sfornato. Altri optavano
per essenze floreali o semiferomoni. Candace, l’ex moglie di Miller,
preferiva un profumo chiamato ‘giglio terrestre’, che a lui aveva
sempre fatto venire in mente i livelli di raccolta e riciclo dei rifiuti. In
quel periodo Miller lasciava gli odori vagamente astringenti della
stazione: aria riciclata che era già passata attraverso un milione di
polmoni. E l’acqua del rubinetto era così pura che poteva essere
usata in laboratorio, ma prima era stata piscio, merda, lacrime e
sangue, e lo sarebbe diventata di nuovo. Il ciclo della vita su Ceres
era così limitato che se ne poteva vedere la curva a occhio nudo. A
Miller piaceva così.
Si versò un bicchiere di whisky di muschio, un liquore tipico di
Ceres ricavato da muffe sviluppate in laboratorio, poi si tolse le
scarpe e si accomodò sul letto di schiuma. Riusciva ancora a vedere
lo sguardo di rimprovero di Candace e a sentirla sospirare. Scrollò le
spalle come a scusarsi con il suo ricordo, e tornò a concentrarsi sul
lavoro.
Juliette Andromeda Mao. Diede una letta al suo curriculum
lavorativo e accademico. Era stata un’abile pilota di pinaccia. C’era
una sua foto a diciott’anni con una tuta anti-g su misura e senza
casco: una ragazza carina con una sagoma slanciata da cittadina
lunare e lunghi capelli neri. Sorrideva come se l’universo intero le
avesse appena dato un bacio. Le due righe che accompagnavano
l’immagine dicevano che era arrivata prima in una gara chiamata la
Parrish/Dorn 500K. Miller fece una breve ricerca: si trattava di una
specie di competizione a cui potevano permettersi di partecipare
soltanto i ricconi. La sua pinaccia, la Razorback, aveva battuto il
record precedente e l’aveva mantenuto per due anni consecutivi.
Miller sorseggiò il suo whisky e si chiese che cosa fosse potuto
accadere a una ragazza tanto ricca da possedere un veicolo privato
in grado di portarla fin lì. Tra il competere in costose gare spaziali e
l’essere legata come un salame per venire rispedita a casa in una
capsula, ce ne correva... O forse no.
«Povera piccola riccastra» disse Miller allo schermo. «Immagino
quanto possa essere difficile essere te.»
Richiuse i file e bevve con espressione seria e in silenzio, fissando
il soffitto vuoto sopra di sé. La poltrona su cui soleva sedersi
Candace per chiedergli come fosse andata la giornata era vuota, ma
lui riusciva a vederla lo stesso. Ora che non era più lì per farlo
parlare, era più facile rispettare i propri impulsi. Candace si era
sentita sola. Adesso lo capiva. Se la immaginò che alzava gli occhi
al cielo.
Un’ora dopo, con il sangue rinfrancato dall’alcol, si scaldò una
ciotola di riso vero e fagioli finti – muffe e funghi potevano somigliare
a qualsiasi cosa se prima bevevi abbastanza whisky –, aprì la porta
del suo buco e consumò la cena osservando il traffico che gli
passava pigramente davanti. Il secondo turno stava uscendo dalle
stazioni del tubo. I bambini che abitavano due buchi più avanti, una
ragazzina di otto anni e il fratellino di quattro, andarono incontro al
padre e lo accolsero con abbracci, gridolini, rimproveri e lacrime. Il
cielo blu brillava nella luce riflessa del soffitto, immutabile, statico,
rassicurante. Un passero svolazzò giù per il tunnel, planando in un
modo che Havelock gli aveva detto essere impossibile sulla Terra.
Miller gli gettò un fagiolo finto.
Cercò di pensare alla figlia dei Mao, ma in realtà non gliene
importava un granché. Stava succedendo qualcosa tra le famiglie
del crimine organizzato di Ceres, e la faccenda lo rendeva teso
come una molla.
Quella storia di Julie Mao era soltanto una questione marginale.
3

Holden

Dopo quasi due giorni interi passati ad alta gravità, le ginocchia, la


schiena e il collo di Holden erano terribilmente indolenziti. E anche la
testa. Diavolo, anche i piedi. Attraversò il boccaporto di accesso del
Knight proprio mentre Naomi stava risalendo la scala del vano di
carico. Il capomeccanico gli rivolse un sorriso e alzò il pollice.
«Il modulo di recupero è assicurato» disse. «Il reattore si sta
scaldando. Siamo pronti al decollo.»
«Bene.»
«Abbiamo già un pilota?» chiese lei.
«Alex Kamal è di turno oggi, per cui sarà lui a portarci. Avrei quasi
preferito che fosse toccato a Valka. Non è bravo quanto Alex, come
pilota, ma è più silenzioso, e si dà il caso che io abbia un gran mal di
testa.»
«Mi piace Alex. È vivace» disse Naomi.
«Non so cosa significhi ‘vivace’ per te, ma se significa Alex, già mi
sento stanco.»
Holden prese a risalire la scala che portava al ponte di volo e alla
cabina di pilotaggio. Il riflesso di Naomi gli rivolse un sorriso
canzonatorio dalla superficie nera e lucida di un pannello a parete
spento. Holden non riusciva a capacitarsi di come facessero i
cinturiani, solitamente esili come uno stecchino, a riprendersi così in
fretta dall’alta gravità. Si disse che doveva dipendere da decenni di
pratica e dal controllo selettivo delle nascite.
Una volta giunto sul ponte di volo, Holden si sistemò alla console di
comando e il materiale del sedile di sicurezza si adattò senza
rumore al suo corpo. Alla velocità di mezzo g impostata da Ade per
l’avvicinamento al punto prestabilito, la schiuma aderiva
piacevolmente. Holden emise un lieve sospiro di soddisfazione. Gli
interruttori di plastica e metallo, concepiti per resistere a velocità
elevate e a secoli di utilizzo, scattarono seccamente al suo tocco. Il
Knight rispose allineando le spie luminose di tutti i suoi indicatori
diagnostici ed emettendo un ronzio quasi subliminale.
Pochi minuti dopo, Holden si sporse e vide apparire i capelli neri in
via d’estinzione di Alex Kamal, seguiti dal suo viso tondeggiante e
gioviale, di un intenso marrone che perfino tutti quegli anni di vita su
un’aeronave non erano riusciti a sbiadire. Cresciuto su Marte, Alex
aveva una stazza più robusta rispetto ai cinturiani. Paragonato a
Holden era comunque esile, ma ciononostante la sua tuta da volo
era ben tesa sul girovita in continua espansione. Alex aveva militato
nella marina marziana, ma aveva chiaramente abbandonato ogni
velleità di allenamento militare.
«Come te la passi, vicecomandante?» disse con la sua parlata
strascicata. Holden era sempre infastidito da quella cadenza da
selvaggio West che accomunava tutti gli abitanti della Mariner Valley.
Sulla Terra non c’erano più cowboy da più di un secolo, e Marte non
aveva un filo d’erba che non fosse sotto una cupola o un cavallo che
non fosse in uno zoo. La Mariner Valley era stata colonizzata da
indiani, cinesi e da un piccolo contingente di texani. A quanto
pareva, quella pronuncia strascicata era virale. Ora parlavano tutti
così. «Come sta il vecchio ronzino, oggi?»
«Per ora tutto liscio. Abbiamo bisogno di un piano di volo. Ade ci
porterà in stazionamento relativo tra» controllò il conto alla rovescia
«quaranta secondi, per cui datti una mossa. Voglio uscire, fare il
lavoro e riportare la Cant in rotta verso Ceres prima che si cominci
ad arrugginire.»
«Ricevuto» disse Alex, salendo su nella cabina di pilotaggio del
Knight.
Ci fu un fruscio nelle cuffie di Holden, poi la voce di Naomi disse:
«Amos e Shed sono a bordo. Qui sotto siamo tutti a posto.»
«Grazie. Aspettiamo i dettagli del volo da Alex e siamo pronti a
partire.»
L’equipaggio era ridotto al minimo indispensabile: Holden al
comando, Alex in cabina di pilotaggio, Shed nel caso in cui avessero
trovato qualche sopravvissuto da medicare, Naomi e Amos per il
recupero qualora invece non ce ne fossero stati.
Non passò molto prima che Alex lo chiamasse dal cockpit. «Okay,
capo. Ci vorranno più o meno quattro ore volando a teiera. Consumo
di massa totale intorno al trenta percento, ma abbiamo il serbatoio
pieno. Tempo totale di missione: undici ore.»
«Ricevuto. Grazie, Alex» rispose Holden.
‘Volare a teiera’ era un’espressione del gergo navale per indicare
che avrebbero viaggiato sfruttando la spinta dei propulsori di
manovra che usavano vapore surriscaldato come massa di reazione.
Sarebbe stato troppo rischioso usare il razzo a fusione del Knight
così vicino alla Canterbury, e uno spreco per un tragitto così breve. I
razzi erano precedenti ai propulsori a fusione di Epstein, e molto
meno efficienti.
«Chiedo l’autorizzazione a lasciare il granaio» disse Holden,
passando dalla comunicazione interna al collegamento con il ponte
di comando della Canterbury. «Qui Holden. Il Knight è pronto al
decollo.»
«Va bene, Jim. Procedete» disse McDowell. «Ade ci sta portando
in stallo. Fate attenzione là fuori, ragazzi. Quello shuttle costa un
occhio della testa, e ho sempre avuto una specie di cotta per
Naomi.»
«Ricevuto, capitano» rispose Holden. Tornò sulla linea interna e
notificò ad Alex. «Va’ pure. Portaci fuori.»
Holden si appoggiò allo schienale del suo sedile e rimase in
ascolto dei gemiti della Canterbury impegnata nelle ultime manovre
di arresto, con l’acciaio e gli inserti ceramici che stridevano acuti e
sinistri quanto le assi di legno di una nave per l’acqua. O le
articolazioni di un terrestre dopo un g maledettamente elevato. Per
un istante, Holden provò compassione per la nave.
Non si stavano fermando del tutto, ovviamente. Niente, nello
spazio, si fermava mai per davvero; ma si poteva entrare in orbita
sincronizzata con un qualche altro oggetto. In quel caso, si erano
allacciati a CA-2216862 nel suo allegro giro di mille anni attorno al sole.
Ade gli diede l’okay e Holden svuotò l’aria dalla baia di ancoraggio
e spalancò le porte. Alex li sganciò dal molo proiettando piccoli coni
bianchi di vapore surriscaldato.
Si avviarono verso la Scopuli.
CA-2216862 era uno scoglio lungo mezzo chilometro che si era
sganciato dalla Fascia, strattonato via dall’immensa massa
gravitazionale di Giove. Alla fine aveva trovato la propria lenta orbita
attorno al sole nella vasta distesa tra Giove e la Fascia, un territorio
vuoto perfino per gli standard spaziali.
Alla vista della Scopuli dolcemente adagiata sul fianco
dell’asteroide, trattenuta dall’inconsistente forza di gravità della
roccia, Holden si sentì attraversare da un brivido. Se anche si fosse
trovata a navigare alla cieca, con tutta la strumentazione in panne, le
possibilità di colpire per caso un oggetto del genere erano
infinitesimali. Era un blocco stradale largo mezzo chilometro su
un’autostrada del diametro di milioni di chilometri. Non era stato un
incidente a portarla lì. Holden si grattò i peli che gli si erano rizzati
sulla nuca.
«Alex, mantieniti a due chilometri di distanza» ordinò. «Naomi, che
cosa mi puoi dire di quella nave?»
«La configurazione dello scafo combacia con le informazioni di
registro. È proprio la Scopuli. Non ci sono emissioni
elettromagnetiche o a infrarossi; solo quel piccolo segnale di
emergenza. Sembrerebbe che il reattore sia spento. Dev’essere
stato impostato manualmente, e non per via di un guasto, perché
non registro alcuna dispersione radioattiva» disse Naomi.
Holden osservò le immagini che stavano ricevendo dai telescopi
del Knight, accompagnate dalle rilevazioni del laser che sfruttava la
risposta dello scafo della Scopuli. «Che mi dici di quella cosa che
sembra un buco sulla fiancata?»
«Uhm» disse Naomi. «Il lidar dice che è proprio un foro sulla
fiancata.»
Holden si accigliò. «E va bene. Restiamo qui un minuto e
ricontrolliamo la situazione nei paraggi. Che dicono i telescopi,
Naomi?»
«Niente. E la matrice sulla Cant è in grado di individuare un
ragazzino che tira sassi su Luna. Becca dice che non c’è nessuno
nel raggio di venti milioni di chilometri in questo momento» rispose
Naomi.
Holden picchiettò un ritmo complesso sul bracciolo del suo sedile e
si sollevò da sotto le cinture. Sentiva caldo. Allungò un braccio per
puntarsi una delle bocchette di climatizzazione direttamente in
faccia. Sentì la pelle sotto i capelli formicolare per il sudore in
evaporazione. Se là fuori dovesse sentire la minima puzza di
bruciato, non faccia di nuovo l’eroe. Pianti baracca e burattini e
faccia marcia indietro. Questi erano gli ordini. Fissò l’immagine della
Scopuli con un foro sulla fiancata.
«E va bene» disse. «Alex, portaci a un quarto di chilometro e
posizionati lì. Scenderemo con il modulo sulla superficie
dell’asteroide. E, uhm... scalda i razzi e tienili pronti. Se c’è qualcosa
di brutto su quella nave voglio potermela dare a gambe il più in fretta
possibile e allo stesso tempo fondere qualsiasi cosa abbiamo alle
spalle. Ricevuto?»
«Tutto chiaro, capo. Tengo il Knight in modalità ‘a gambe levate’
finché non dirai altrimenti» rispose Alex.
Holden guardò di nuovo verso la console di comando, alla ricerca
della lucina rossa di un qualunque allarme che gli desse un pretesto
per tornare alla Canterbury. Tutte le luci erano di un bel verde
rilassante. Slacciò le cinture e si spinse fuori dal sedile. Si portò
sopra la scala spingendosi contro la parete con un piede e scese a
testa in giù con dei lievi colpetti sui pioli per direzionarsi meglio.
Nella zona dell’equipaggio, Naomi, Amos e Shed erano ancora
assicurati dalle cinture ai loro sedili di sicurezza. Holden afferrò la
scala e si girò in modo da non avere l’equipaggio a testa in giù nel
suo campo visivo. Gli altri cominciarono a slacciarsi le cinture.
«Allora, ecco la situazione: la Scopuli è stata perforata, e qualcuno
l’ha abbandonata vicino a questo scoglio. Dal telescopio non risulta
nessuno nelle vicinanze, per cui potrebbe significare che sia
successo parecchio tempo fa e che se ne siano già andati tutti.
Naomi, tu guiderai il modulo di recupero; noi tre ci legheremo e ci
faremo dare un passaggio fino al rottame. Shed, tu resterai accanto
al modulo, sempre che non troviamo un ferito, il che mi pare
improbabile. Amos e io entreremo nella nave attraverso quel foro e
daremo un’occhiata in giro. Se dovessimo sentire la minima puzza di
bruciato, torneremo dritti al modulo, Naomi ci riporterà sul Knight e
ce la daremo a gambe. Ci sono domande?»
Amos alzò una mano paffuta. «Forse sarebbe meglio andare
armati, vicecomandante. In caso trovassimo, ad esempio, dei pirati
ancora a bordo.»
Holden scoppiò a ridere. «Be’, se ci sono, la loro nave se n’è
andata senza di loro. Se però ti fa sentire più sicuro, fa’ pure: portati
una pistola.»
Se quel meccanico terrestre grande e grosso si fosse portato una
pistola, si sarebbe sentito meglio anche Holden, ma era meglio non
dirlo. E lasciar credere che chi era al comando si sentisse sicuro di
sé.
Holden usò la sua chiave da ufficiale capo per aprire l’armadietto
delle armi e Amos prese un’automatica a grosso calibro che sparava
proiettili semoventi, senza rinculo e progettata per l’impiego a gravità
zero. I fucili di vecchia generazione erano più affidabili ma, in
assenza di gravità, erano anche dei veri e propri propulsori. Una
pistola tradizionale avrebbe impresso sufficiente spinta da generare
una velocità di fuga da un asteroide della taglia di CA-2216862.
L’equipaggio scese nel vano di carico, dove li aspettava la gabbia
aperta a forma di uovo con le zampe da ragno del modulo di Naomi.
Ognuno dei quattro arti meccanici disponeva di un gancio
manipolatore in punta e di una varietà di attrezzi da taglio e da
saldatura integrati. Il paio posteriore poteva agganciarsi allo scafo di
una nave o a una qualunque altra struttura per fare leva, e le due
zampe frontali potevano essere usate per fare riparazioni o tagliare il
materiale di recupero in pezzi più facilmente trasportabili.
«Casco» disse Holden, e si aiutarono l’un l’altro a indossare e ad
allacciare gli elmetti. A turno, ognuno controllò la propria tuta, poi
quella di un compagno. Quando avessero aperto le porte del vano di
carico sarebbe stato troppo tardi per accertarsi che fosse tutto a
posto.
Mentre Naomi saliva sul suo modulo, Amos, Holden e Shed
agganciarono i loro cavi di sicurezza alla gabbia di metallo della
cabina di pilotaggio. Naomi controllò il modulo, poi azionò
l’interruttore per svuotare l’atmosfera del vano di carico e aprire il
portellone. I suoni all’interno della tuta di Holden si ridussero
all’impercettibile sibilo dell’ossigeno e al debole crepitio della radio.
L’ossigeno aveva un vago sapore di medicinale.
Naomi partì per prima, portando il modulo verso la superficie
dell’asteroide grazie alla spinta di piccoli getti di azoto compresso. Il
resto dell’equipaggio la seguì, legato ai cordoni di sicurezza da tre
metri. Mentre volavano, Holden alzò gli occhi verso il Knight: un
grosso blocco grigio a forma di cuneo, con un propulsore a cono
piantato nell’estremità più larga. Come tutto ciò che gli umani
costruivano per viaggiare nello spazio, era stato progettato per
essere efficiente, non certo bello. La cosa aveva sempre indispettito
Holden: perché non poteva esserci un minimo di attenzione per
l’estetica, perfino là fuori?
Il Knight sembrò scivolare via da lui, facendosi sempre più piccolo,
nonostante fosse immobile. L’illusione svanì quando Holden si voltò
per guardare l’asteroide ed ebbe l’impressione di precipitarsi troppo
velocemente verso la sua superficie. Aprì una linea di
comunicazione con Naomi, ma la trovò che canticchiava tra sé e sé
mentre procedevano, il che gli fece capire che non c’era nulla di cui
preoccuparsi (almeno secondo lei). Non disse niente, ma lasciò la
linea aperta per ascoltarla canticchiare.
Da vicino, la Scopuli non sembrava poi messa così male. A parte il
foro aperto sulla fiancata, non riportava altri danni apparenti. Era
chiaro che non si era schiantata sull’asteroide; era semplicemente
stata fatta avvicinare abbastanza da essere gradualmente attratta
dalla microgravità. Mentre si approssimavano, Holden scattò alcune
fotografie con il casco della tuta e le trasmise alla Canterbury.
Naomi arrestò il modulo, restando in sospensione a tre metri sopra
il foro nel fianco della Scopuli. Amos emise un fischio attraverso la
linea aperta delle tute.
«Non è stato un missile a fare questo, vicecomandante. È stata
una carica detonante. Visto com’è piegato il metallo tutto intorno ai
bordi? Quelle sono cariche modellate e applicate direttamente sullo
scafo» disse Amos.
Oltre a essere un ottimo meccanico, Amos era l’addetto all’uso
degli esplosivi di precisione per spaccare gli iceberg galleggianti
intorno a Saturno e trasformarli in masse più maneggevoli. Un altro
buon motivo per portarlo con loro sul Knight.
«Quindi,» disse Holden «i nostri amici della Scopuli, qui, si sono
fermati, hanno permesso che qualcuno salisse sul loro scafo per
posizionare una carica esplosiva e aprirli come una scatoletta,
lasciando uscire tutto l’ossigeno. A qualcuno di voi sembra avere
senso?»
«No» rispose Naomi. «Non ne ha. Vuoi sempre entrare là dentro?»
Se là fuori dovesse sentire la minima puzza di bruciato, non faccia
di nuovo l’eroe. Pianti baracca e burattini e faccia marcia indietro.
Ma che potevano aspettarsi? Era ovvio che la Scopuli non sarebbe
stata in funzione. Era ovvio che qualcosa fosse andato storto. La
puzza di bruciato avrebbe dovuto sentirla se non avessero trovato
niente di strano.
«Amos» disse Holden. «Tieniti pronto con quella pistola, tanto per
stare sicuri. Naomi, riesci ad allargare il foro per farci entrare? E sta’
in guardia: se noti qualcosa di strano, portaci via da qui.»
Naomi avvicinò il modulo, con piccoli getti di azoto poco più
evidenti di un fiato in una notte gelata. La fiamma ossidrica del
modulo avvampò vivida e rovente, poi divenne bianca, poi blu. Le
braccia meccaniche del modulo si dispiegarono in silenzio con un
movimento da insetto e Naomi cominciò a tagliare. Holden e Amos si
posizionarono sulla nave, agganciandosi alla superficie con gli stivali
magnetici. Attraverso i piedi, Holden sentì una vibrazione quando
Naomi tirò via un pezzo di scafo. Un attimo dopo, il cannello si
spense e Naomi cosparse i nuovi bordi del foro con la schiuma di
estinzione del modulo per raffreddarli. Holden diede ad Amos l’okay
con il pollice e si calò con molta cautela nella Scopuli.
La carica esplosiva era stata posizionata quasi esattamente a metà
della nave, aprendo un varco nella cucina di bordo. Quando Holden
si posò al suo interno e gli stivali si fissarono sulla parete della
cambusa, sentì dei pezzi di cibo surgelati scrocchiare sotto le suole.
Non c’erano corpi in vista.
«Vieni dentro, Amos. Ancora nessun segno dell’equipaggio»
comunicò Holden attraverso il microfono della tuta.
Si spostò da una parte e un attimo dopo Amos si calò dall’apertura,
con la pistola nella mano destra e una torcia ad alta intensità nella
sinistra. Il raggio bianchissimo danzò sulle pareti della cambusa
devastata.
«Da che parte andiamo, vicecomandante?» chiese Amos.
Holden si picchiettò la coscia con una mano e rifletté per un
istante. «Sala macchine. Voglio capire perché il reattore non è in
funzione.»
Impegnarono la scala dell’equipaggio, risalendo verso la poppa
della nave. Tutti i portelli pressurizzati tra i ponti erano aperti, il che
era un brutto segno: come impostazione predefinita, avrebbero
dovuto essere chiusi. Tanto più se si era attivato l’allarme di
depressurizzazione. Il fatto che fossero spalancati significava che
non c’erano più ponti in atmosfera all’interno della nave. E questo
voleva dire che non c’erano sopravvissuti. Non era certo una
sorpresa, ma pesava comunque come una sconfitta. Attraversarono
rapidamente gli ambienti della piccola nave, fermandosi per un
momento nell’officina. Tutti i macchinari e le costose attrezzature
erano ancora al loro posto.
«Immagino che non sia stata una rapina» disse Amos.
Holden non replicò chiedendo ‘E allora cos’è stato?’, ma quella
domanda rimase comunque sospesa tra loro.
La sala macchine era pulita e in perfetto ordine, fredda e morta.
Holden attese mentre Amos controllava in giro, passando almeno
dieci minuti a fluttuare intorno al reattore.
«Qualcuno ha attivato le procedure di spegnimento» disse Amos.
«Il reattore non si è guastato per l’esplosione; è stato spento in un
secondo momento. Non ho trovato danni visibili. Non ha senso. Se
sono tutti morti per via dell’attacco, chi è stato a spegnerlo? E se
erano pirati, perché non prendere la nave? È ancora in grado di
volare.»
«E prima di spegnere tutto hanno attraversato la nave e hanno
aperto ogni singolo portellone pressurizzato interno. L’hanno
svuotata di ossigeno. Immagino che volessero assicurarsi che non
potesse rimanerci nascosto nessuno» disse Holden. «E va bene,
andiamo al ponte di volo e vediamo se riusciamo ad accedere al
computer. Magari ci aiuterà a capire che cos’è successo qui.»
Tornarono fluttuando verso prua attraverso la scala dell’equipaggio,
fin sul ponte di volo. Anche quello non presentò danni ed era
completamente vuoto. La mancanza di cadaveri stava cominciando
a preoccupare Holden più di quanto non avrebbe fatto la loro
presenza. Fluttuò verso la console del computer principale e
premette alcuni tasti per controllare se per caso fosse ancora
collegato a un qualche gruppo di continuità. Non lo era.
«Amos, comincia a ritagliare il nucleo. Lo portiamo con noi. Io
controllo le comunicazioni e vedo se riesco a trovare quel segnale di
emergenza.»
Amos venne verso il computer, prese gli attrezzi e li piantò nella
paratia adiacente. Mentre lavorava cominciò a borbottare oscenità in
sequenza. Non era neanche vagamente gradevole quanto il
canticchiare di Naomi, per cui Holden interruppe il collegamento con
Amos mentre si spostava verso la console di contatto. Era spenta,
come tutto il resto della nave. Poi trovò il radiofaro.
Non l’aveva attivato nessuno. Era stato qualcos’altro a richiamare
la loro attenzione. Holden indietreggiò e aggrottò la fronte.
Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa che fosse fuori posto. E
lì, sul ponte sotto la console dell’operatore di contatto, vide una
piccola scatola nera, scollegata da tutto il resto.
Il suo cuore saltò un battito. Chiamò Amos. «Amos, ti sembra una
bomba?»
Lui lo ignorò. Holden ripristinò il contatto radio.
«Amos, ti sembra una bomba?» Indicò la scatola sul pavimento.
Amos lasciò il lavoro al computer e fluttuò verso di lui per dare
un’occhiata; poi, con un movimento repentino che fece balzare il
cuore in gola a Holden, afferrò la scatola e la tirò su dal ponte.
«No. È un trasmettitore. Visto?» Lo alzò di fronte al casco di
Holden. «Ha una batteria legata con un nastro sul fianco. Che ci fa
qui?»
«È il segnale che abbiamo seguito. Cristo. Il radiofaro della nave
non è stato nemmeno mai azionato. Qualcuno ne ha fabbricato uno
fasullo con quel trasmettitore e l’ha collegato a una batteria» disse
piano Holden, continuando a reprimere il panico.
«Perché fare una cosa del genere, vicecomandante? Non ha
davvero senso.»
«Ne avrebbe se emettesse un secondo segnale progettato per
innescarsi non appena venga trovato da qualcuno» disse Holden,
poi accese la linea di comunicazione generale delle tute. «Okay,
ragazzi, abbiamo trovato una roba strana, e ce la diamo a gambe.
Torniamo tutti al Knight, e fate molta attenzione quando...»
La sua radio crepitò sulla linea esterna e la voce di McDowell
riempì il suo casco. «Jim? Abbiamo un problema.»
4

Miller

Miller era arrivato a metà della cena quando il sistema di


comunicazione del suo buco emise un trillo. Diede un’occhiata al
codice mittente: il Blue Frog. Era un bar portuale che serviva quel
milione di abitanti in continuo surplus di Ceres e che era famoso per
essere la replica esatta di un famoso locale terrestre di Mumbai,
tranne che per il fatto che forniva legalmente anche prostitute e
droghe. Miller inforcò un altro boccone di fagioli di muffa e riso
coltivato in vitro e si chiese se fosse il caso di accettare quella
chiamata.
Avrei dovuto prevederlo, pensò.
«Che c’è?» chiese.
Si aprì uno schermo. Hasini, il vicedirettore, era un uomo dalla
pelle scura con gli occhi color del ghiaccio. Il ghigno sul suo viso era
il risultato di un danno al nervo facciale. Miller gli aveva fatto un
favore quando Hasini aveva avuto la malaugurata idea di prendere a
cuore il caso di una prostituta senza licenza. Da allora, l’ispettore del
servizio di sicurezza e il barista del porto avevano cominciato a
scambiarsi favori: i meccanismi economici sommersi e fumosi della
civiltà.
«Il tuo partner è di nuovo qui» disse Hasini sovrastando la
pulsazione ritmica della musica bhangra. «Credo che sia una serata
storta. Devo continuare a servirlo?»
«Sì» rispose Miller. «Fallo contento per, diciamo... Dammi venti
minuti.»
«Non vuole essere contento. Anzi, direi che sta cercando un
motivo per diventare infelice.»
«Fa’ in modo che non lo trovi. Sto arrivando.»
Hasini annuì, sorridendo con il suo ghigno lesionato, e chiuse la
comunicazione. Miller fissò la sua cena consumata per metà, sospirò
e fece scivolare i resti nel tubo di riciclo. Si mise una camicia pulita,
poi esitò. Al Blue Frog faceva sempre troppo caldo per i suoi gusti, e
detestava indossare l’antiproiettile. Alla fine si limitò a infilare una
pistola di plastica compatta nella fondina da caviglia. Non era di
aiuto nell’estrazione rapida ma, se la situazione fosse degenerata a
quel livello, sarebbe comunque stato fottuto.
La Ceres notturna era indistinguibile da quella diurna. Quando la
sua stazione aveva aperto i battenti, avevano compiuto la mossa di
abbassare e aumentare le luci secondo il tradizionale ciclo umano di
ventiquattr’ore, imitando la rotazione terrestre. Quella farsa era
durata quattro mesi prima di essere cassata dall’amministrazione
locale.
Se fosse stato in servizio, Miller avrebbe preso un cart elettrico per
andare giù per gli ampi tunnel fino ai livelli del porto. Era tentato di
farlo pur non essendo in servizio, ma una scaramanzia radicata in lui
glielo impediva. Prendere il cart significava andare in veste di
poliziotto, e in fondo la metro funzionava bene.
Miller si avviò verso la stazione più vicina, controllò i tempi di
percorrenza e si sedette su una bassa panchina di pietra. Un minuto
dopo, giunse un uomo dell’età di Miller con una bambina che non
doveva avere più di tre anni; i due si sedettero in fondo alla
panchina. La bimba parlava veloce, dicendo cose senza senso,
come un rubinetto che perde, e suo padre rispondeva con grugniti e
annuiva nei momenti più o meno appropriati.
Miller e l’uomo si salutarono con un cenno del capo. La bambina
tirò la manica del padre, esigendo la sua completa attenzione. Miller
la osservò: occhi scuri, capelli chiari, pelle liscia. Era già troppo alta
per essere scambiata per una bimba della Terra, con gli arti lunghi
ed esili. La sua pelle aveva il colorito rosaceo dei bambini cinturiani,
effetto collaterale dei cocktail di farmaci che venivano somministrati
loro per assicurarsi che ossa e muscoli crescessero robusti. Miller
vide che il padre notava la sua attenzione. Sorrise e indicò la piccola
con un cenno del capo.
«Quanti anni ha?» chiese.
«Due e mezzo» rispose il padre.
«Una bella età.»
Il padre si strinse nelle spalle ma sorrise.
«Lei ha figli?» chiese.
«No» disse Miller. «Ma ho un divorzio più o meno della stessa
età.»
Ridacchiarono insieme come se fosse stato divertente. Nella
mente di Miller, Candace incrociò le braccia e distolse lo sguardo
sdegnosa. La folata d’aria con un velato odore d’olio e ozono
annunciò l’arrivo del tubo. Miller lasciò salire prima padre e figlia, poi
scelse uno scompartimento separato.
I vagoni del tubo erano cilindrici, costruiti per attraversare i
passaggi evacuati. Non c’erano finestre: l’unica vista sarebbe stata
quella della pietra che sfrecciava ronzando a tre centimetri dalla
carrozza. Al loro posto c’erano grossi schermi che trasmettevano
réclame o approfondimenti sugli scandali politici dei pianeti interni;
alcuni pubblicizzavano la possibilità di giocarsi e perdere una
settimana di stipendio in casinò talmente belli che un’esperienza del
genere non avrebbe potuto far altro che arricchire la vita di chi
avesse abboccato. Miller lasciò che tutti quei colori brillanti e vuoti
danzassero davanti ai suoi occhi senza far caso al contenuto. Era
intento ad analizzare il suo problema, girandolo e rigirandolo nella
propria testa, senza nemmeno cercare una soluzione.
Era un semplice esercizio mentale. Guardare ai fatti, scevri da
giudizi di alcun tipo: Havelock era un terrestre; era di nuovo in un bar
del porto e in cerca di una rissa; era il suo partner. Frase dopo frase,
fatto dopo fatto, risvolto dopo risvolto. Non cercò di metterli in ordine
o di ricavarne una narrazione; quello l’avrebbe fatto dopo. Per il
momento era sufficiente riuscire a togliersi dalla testa i casi del
giorno e prepararsi alla situazione imminente. Quando il tubo
raggiunse la sua fermata, Miller si sentiva in equilibrio. Era come
camminare appoggiando per bene tutto il piede – così aveva
descritto quello stato d’animo quando aveva ancora qualcuno
accanto a cui spiegarlo.
Il Blue Frog era affollato, con il calore da stalla dei corpi che si
aggiungeva alla temperatura simil-Mumbai e all’inquinamento
artificiale dell’aria. Quel posto era pieno di luci che brillavano e
lampeggiavano in modalità da crisi epilettica. I tavoli erano curvi e
ondulati e le luci di sottofondo li facevano sembrare più scuri che
semplicemente neri. La musica si muoveva attraverso l’aria come
una presenza fisica, ogni pulsazione era una piccola botta. Hasini, in
piedi in mezzo a un crocchio di buttafuori gonfi di steroidi e
cameriere svestite, attirò l’attenzione di Miller e indicò il fondo del
locale con un cenno del capo. Miller non rispose nemmeno; si voltò
e si fece largo tra la folla.
I bar portuali erano sempre esplosivi: Miller fece attenzione a non
sbattere contro nessuno, se poteva. Quando non aveva altra scelta,
cercava di andare a sbattere addosso ai cinturiani piuttosto che a
gente dei pianeti interni, a donne piuttosto che a uomini. Il suo viso
era una smorfia di scuse continue.
Havelock era seduto da solo, con una manona avvolta attorno a
una flûte di vetro. Quando Miller gli si sedette accanto, Havelock si
voltò verso di lui, pronto ad attaccar briga, con le narici spalancate e
gli occhi sgranati. Poi fece una faccia sorpresa. Infine comparve
qualcosa di simile a vergogna imbronciata.
«Miller» disse. Nei tunnel fuori da lì sarebbe stato un grido. Ma in
quel posto era a malapena sufficiente ad arrivare fino alla sua sedia.
«Che ci fai qui?»
«Non avevo niente da fare là nel buco» disse Miller. «Ho pensato
di venire qui a cercar guai.»
«Hai scelto la serata giusta» rispose Havelock.
Era vero. Anche nei locali che servivano clienti dei pianeti interni, la
presenza di terrestri o marziani tra i nativi della Fascia superava
raramente la proporzione di uno a dieci. Dando un’occhiata alla folla
intorno a sé, Miller si accorse che gli uomini e le donne più bassi e
robusti degli altri erano quasi un terzo degli avventori.
«È arrivata qualche nave?» domandò.
«Già.»
«MCTM?» chiese. I mezzi della Marina della Coalizione Terra-Marte
passavano spesso da Ceres quando facevano rotta verso Saturno,
Giove e le altre stazioni della Fascia, ma Miller non aveva mai fatto
troppo caso alle relative posizioni dei pianeti per conoscere con
certezza le loro orbite. Havelock scosse la testa.
«Paramilitari corporativi in rotazione da Eros» disse. «Della
Protogen, credo.» Una cameriera si avvicinò a Miller, con i tatuaggi
che le scivolavano sulla pelle e i denti brillanti nella luce delle
lampade UV. Miller accettò la bevanda che gli offrì anche se non
aveva ordinato niente: acqua frizzante.
«Sai,» disse Miller, chinandosi abbastanza vicino per farsi sentire
anche se parlava con tono normale «non importa quanti dei loro culi
riesci a prendere a calci. La cosa non ti renderà comunque più
simpatico a Shaddid.»
Havelock si voltò di scatto per fulminare Miller con lo sguardo, ma
la rabbia bastava a malapena a coprirne l’onta e la sofferenza.
«È la verità» disse Miller.
Havelock si alzò barcollando e si diresse verso l’uscita. Stava
cercando di pestare i piedi ma, tra la gravità di rotazione e la
sbornia, fece male i calcoli. Sembrava che stesse saltellando. Miller,
con il bicchiere ancora in mano, scivolò tra la folla sulla scia di
Havelock, provando a calmare con un sorriso imbarazzato e
un’alzata di spalle le facce offese che il suo partner si lasciava alle
spalle.
I tunnel comuni della zona del porto erano coperti da uno strato di
lerciume e grasso di cui né i pulitori a vapore, né gli astringenti
chimici riuscivano mai a venire del tutto a capo. Havelock uscì dal
locale con le spalle curve, le labbra serrate, emanando rabbia come
fosse calore da un radiatore. Le porte del Blue Frog si richiusero alle
loro spalle, tagliando fuori la musica come se qualcuno avesse
appena azzerato il volume. Il pericolo peggiore era passato.
«Non sono ubriaco» disse Havelock, a voce troppo alta.
«Non ho detto che lo fossi.»
«E tu» riprese Havelock, voltandosi e piantando un dito accusatore
sul petto di Miller. «Tu non sei la mia badante.»
«Anche questo è vero.»
Camminarono affiancati per un quarto di chilometro. I cartelli a LED
li invitavano da ogni parte. Bordelli e poligoni di tiro, caffè e circoli di
poesia, casinò e combattimenti di ogni genere. L’aria puzzava di
piscio e cibo stantio. Havelock cominciò a rallentare il passo e le
spalle iniziarono a scendergli sotto le orecchie.
«Ero nella omicidi a Terrytown» disse Havelock. «Mi sono fatto tre
anni alla buoncostume al livello meno cinque. Hai una minima idea
di come potesse essere? Ci smerciavano i bambini, da lì, e io sono
uno dei tre uomini che ha smantellato tutto. Sono un bravo
poliziotto.»
«Sì, lo sei.»
«Sono dannatamente bravo.»
«Lo sei.»
Superarono un ramen bar. Un albergo a capsule. Un terminale
pubblico su cui si susseguivano le notizie ricevute in tempo reale:
‘Guasto alle comunicazioni affligge Stazione scientifica di Phoebe.’
‘Nuovo gioco di andreas k raggiunge cifra di 6 miliardi di dollari in 4
ore.’ ‘Nessun accordo su Marte per contratto su fornitura di titanio
con la fascia. Gli schermi baluginavano negli occhi di Havelock, ma
lui aveva lo sguardo nel vuoto.
«Sono un poliziotto dannatamente bravo» ripeté. Poi, un momento
dopo: «E allora quale diavolo è il problema?»
«Non è niente di personale» disse Miller. «La gente ti guarda e non
vede Dmitri Havelock, il bravo poliziotto. La gente vede la Terra.»
«Stronzate. Ho passato otto anni sugli orbitali e su Marte prima di
venire qui. Sulla Terra ci avrò lavorato sì e no sei mesi.»
«Terra, Marte... Non sono così diversi» disse Miller.
«Prova a dirlo a un marziano» rispose Havelock con una risata
amara. «Ti prenderebbe a calci nel culo.»
«Non intendevo... Senti, sono sicuro che ci siano un sacco di
differenze. La Terra odia Marte perché ha una flotta migliore. Marte
odia la Terra perché ha una flotta più grande. Può darsi che il calcio
sia meglio a piena gravità; o magari è peggio. Non lo so. Sto soltanto
dicendo che, così lontano dal sole... Alla gente non frega niente. Da
questa distanza si riescono a coprire sia Marte che la Terra con un
polpastrello. E...»
«E io non appartengo a questo posto» aggiunse Havelock.
Le porte del ramen bar alle loro spalle si aprirono e dal locale
uscirono quattro cinturiani in uniforme grigioverde. Uno di loro
esibiva il cerchio spezzato dell’APE sulla manica. Miller si tese, ma i
tizi non vennero verso di loro e Havelock non li notò. C’era mancato
poco.
«Lo so» disse Havelock. «Quando ho firmato il contratto della Star
Helix sapevo che avrei dovuto lavorare sodo per ambientarmi.
Pensavo che sarebbe stato come da ogni altra parte, sai? Quando
arrivi, ti fai mettere sotto per un po’. Poi, quando capiscono che sai
fare buon viso a cattivo gioco, ti trattano come uno della squadra.
Qui però non è così.»
«Non lo è» confermò Miller.
Havelock scosse la testa, sputò a terra e fissò il bicchiere che
aveva in mano.
«Mi sa che abbiamo appena rubato due bicchieri al Blue Frog»
disse Havelock.
«Siamo anche in un corridoio pubblico con dell’alcol non sigillato»
aggiunse Miller. «Be’, quantomeno tu lo sei. La mia è acqua
minerale.»
Havelock ridacchiò, ma in quel verso c’era esasperazione. Quando
parlò di nuovo, la sua voce era colma di tristezza.
«Pensi che io venga quaggiù per fare a botte con gente dei pianeti
interni solo per farmi apprezzare da Shaddid, Ramachandra e tutti gli
altri?»
«Mi è passato per la testa, sì.»
«Be’, ti sbagli» replicò Havelock.
«Va bene» disse Miller. Sapeva che non era così.
Havelock alzò il bicchiere. «Riportiamo questi al locale?» chiese.
«Che ne dici di andare al Distinguished Hyacinth, invece?» ribatté
Miller. «Offro io.»
Il lounge bar del Distinguished Hyacinth era tre livelli più in alto,
abbastanza lontano da mantenere al minimo i frequentatori
provenienti dalla zona portuale. Ed era un bar di sbirri. Più che altro,
di gente della Star Helix Security, ma ai tavoli c’erano anche altri
dipendenti delle agenzie minori – Protogen, Pinkwater, Al Abbiq...
Miller era abbastanza sicuro di essere riuscito a evitare l’ennesima
scenata del suo partner ma, se si fosse sbagliato, tanto valeva
lavare i panni sporchi in famiglia.
L’arredamento era tipicamente cinturiano: tavoli pieghevoli da nave
in vecchio stile e sedie inchiavardate alle pareti e al soffitto, come se
la gravità fosse potuta venir meno da un momento all’altro.
Sansevierie e potos – largamente usate dalla prima generazione per
le loro proprietà di riciclo dell’aria – abbellivano le pareti e alcune
colonne decorative. La musica era a volume abbastanza basso da
poter conversare, e abbastanza alto da far sì che una conversazione
privata rimanesse tale. Il primo proprietario, Javier Liu, era un
ingegnere strutturista di Tycho che era venuto lì per l’avviamento
della rotazione e a cui Ceres era piaciuta tanto da volerci restare.
Adesso era suo nipote a gestire il locale. Javier Terzo era in piedi
dietro il bancone, chiacchierando con mezza squadra della
buoncostume. Miller andò verso un tavolo in fondo al locale,
salutando con un cenno del capo uomini e donne che conosceva.
Mentre al Blue Frog era stato attento e diplomatico, lì scelse di
mostrare una mascolinità più rude. Anche quella era tutta una
facciata.
«Allora...» disse Havelock mentre la figlia di Javier, Kate – la
quarta generazione di gestori del locale – lasciava il tavolo con i
bicchieri del Blue Frog sul suo vassoio. «Che cos’è questa
investigazione supersegreta e privata che ti ha accollato Shaddid? O
il terrestre non lo deve sapere?»
«È questo che ti ha fatto innervosire?» chiese Miller. «Non è
niente. Alcuni azionisti hanno smarrito la figlia e vogliono che io la
rintracci e la spedisca a casa. Una patacca di caso.»
«Sembra più una roba di loro competenza» disse Havelock,
facendo un cenno verso il crocchio di agenti della buoncostume.
«La ragazza non è minorenne» rispose Miller. «È un incarico di
rapimento.»
«E tu te ne intendi di rapimenti?»
Miller si appoggiò allo schienale. Il potos sopra di loro ondeggiò.
Havelock rimase in attesa, e Miller ebbe la sgradevole impressione
di aver perso il controllo della conversazione.
«È il mio lavoro» disse Miller.
«Già, ma qui stiamo parlando di un’adulta, giusto? Non è che non
possa tornare a casa, semmai le venisse voglia di andarci. E invece i
suoi genitori ingaggiano una guardia per riportarla indietro, che lei lo
voglia o meno. Qui non si tratta più di attività di polizia. E nemmeno
di sicurezza della stazione. Queste sono solo famiglie disfunzionali
che muovono le loro guerre di potere.»
A Miller tornò in mente l’esile ragazzina accanto alla pinaccia da
corsa, il suo sorriso felice.
«Te l’ho detto che era una patacca» disse Miller.
Kate Liu tornò al tavolo con una birra locale e un bicchiere di
whisky sul vassoio. Miller le fu grato per quella distrazione. La birra
era sua. Chiara e intensa, con appena una nota di amaro. Un’intera
ecologia fondata su muffe e fermentazione significava anche la
possibilità di produrre ottime birre.
Havelock era intento a girare il whisky nel suo bicchiere. Miller lo
prese come il segno che avesse abbandonato l’idea di sbronzarsi.
Non c’era niente di simile all’essere circondato da gente dell’ufficio
per farti passare la voglia di perdere il controllo.
«Ehi, Miller! Havelock!» disse una voce familiare. Yevgeny Cobb,
della omicidi. Miller gli fece segno di avvicinarsi e la conversazione
virò sulle fanfaronate della omicidi, che aveva appena risolto un caso
particolarmente spinoso. Tre mesi di lavoro passati a cercare di
capire da dove fossero uscite quelle tossine, culminati con la moglie
del morto che riceveva l’intera liquidazione della copertura
assicurativa e una puttana del mercato grigio che veniva deportata di
nuovo su Eros.
A fine serata, Havelock se la rideva della grossa e scambiava
battute con tutti gli altri. Quando qualcuno gli scoccava
un’occhiataccia o una frecciatina, la ignorava sull’onda dell’euforia.
Miller stava andando verso il bancone per un altro giro quando il
suo terminale squillò. E poi, come un’onda che s’increspava nel
locale, ci furono altri cinquanta squilli nella sala. Miller sentì un nodo
allo stomaco mentre tirava fuori il terminale insieme a tutti gli altri
agenti presenti sul posto.
Sullo schermo apparve il capitano Shaddid. Aveva gli occhi torpidi
e colmi d’ira contenuta: l’immagine perfetta di una donna potente
disturbata durante il sonno.
«Signore e signori» disse. «Qualunque cosa stiate facendo,
interrompetela e recatevi immediatamente alle vostre postazioni per
decreto di urgenza. Abbiamo un problema.
«Dieci minuti fa ci è giunto un messaggio in chiaro, firmato, dalla
direzione approssimativa di Saturno. Non abbiamo ancora
confermato la sua autenticità; tuttavia la firma corrisponde alle
informazioni che abbiamo in registro. Ho fatto segretare il video, ma
possiamo dare per scontato che ci sarà qualche stronzo che lo
metterà in rete, e più o meno cinque minuti dopo comincerà a
pioverci addosso un mare di merda. Se avete vicino dei civili,
interrompete la comunicazione in questo medesimo istante. Per il
resto di voi, ecco di che si tratta.»
Shaddid si spostò da un lato, picchiettando con un dito
sull’interfaccia del suo sistema. Lo schermo si fece nero. Un attimo
dopo apparvero il viso e le spalle di un uomo. Indossava una tuta
pressurizzata arancione, senza casco. Era un terrestre, più o meno
sui trent’anni. Colorito pallido, occhi azzurri, capelli corti e scuri.
Ancor prima che costui aprisse la bocca per parlare, Miller individuò i
segni di sconcerto e rabbia nei suoi occhi e nel modo in cui teneva la
testa chinata in avanti.
«Il mio nome» disse l’uomo «è James Holden.»
5

Holden

Dieci minuti a due g, e Holden sentiva già l’inizio di un forte mal di


testa. McDowell li aveva richiamati in tutta fretta. La Canterbury
stava facendo riscaldare il suo enorme propulsore. Holden non
aveva nessuna voglia di perdere il treno.
«Jim? Abbiamo un problema.»
«Mi dica.»
«Becca ha trovato qualcosa, ed è sufficientemente strano da farmi
stringere il culo. Togliamo le tende.»
«Alex, quanto manca?» chiese Holden per la terza volta in dieci
minuti.
«Più di un’ora. Vuoi andare a dose?» disse Alex.
‘Andare a dose’ era un’espressione del gergo dei piloti per indicare
un’elevata accelerazione g in grado di far perdere i sensi a un
essere umano in condizioni normali. La ‘dose’ era il cocktail di
farmaci che il sedile del pilota avrebbe iniettato al suo occupante per
mantenerlo cosciente, allerta e, se tutto andava bene, prevenire
l’infarto quando il suo corpo avesse raggiunto il peso equivalente a
cinquecento chili. Holden aveva usato la dose in più occasioni
quando era in marina, e la fase di down era davvero spiacevole.
«No, a meno che non sia indispensabile» disse.
«In che senso, strano?»
«Becca, aprigli il collegamento. Jim, voglio che lei veda quel che
stiamo vedendo noi.»
Holden si mise in bocca un antidolorifico preso dal casco della sua
tuta e ripassò per la quinta volta il segnale inviato dal sensore di
Becca. Quel puntino nello spazio era approssimativamente a
duecentomila chilometri dalla Canterbury. In base a come l’aveva
scansionato la Cant, il display mostrava un’impercettibile
fluttuazione, una macchia grigionera che sviluppava un bordo più
caldo. Era una variazione di temperatura minima, meno di due gradi.
Holden era sbalordito che Becca fosse riuscita a individuarla. Si
appuntò mentalmente di fornirle una brillante valutazione per la sua
prossima promozione.
«E quello da dove arriva?» chiese Holden.
«Non ne ho idea. È soltanto un punto impercettibilmente più caldo
dello sfondo» disse Becca. «Avrei detto che si trattasse di una nube
gassosa, perché non riceviamo alcun ritorno dal radar, ma in quella
zona non dovrebbero essercene. Voglio dire... Da dove dovrebbe
arrivare?»
«Jim, c’è qualche possibilità che la Scopuli abbia fatto fuori la nave
che l’ha fatta fuori? Potrebbe essere una nube di vapore provocata
da una nave distrutta?» chiese McDowell.
«Non credo, signore. La Scopuli è completamente disarmata. Il
foro sulla fiancata è stato provocato da cariche esplosive e non da
missili, per cui credo che non abbiano nemmeno opposto resistenza.
Potrebbe essere il punto in cui la Scopuli ha sfiatato, ma...»
«Ma forse no. Tornate alla base, Jim. Subito.»
«Naomi, cos’è che si scalda a poco a poco e che non dà segnale
di ritorno a radar e lidar quando lo scansioni? Così, a lume di naso»
disse Holden.
«Mmm...» mormorò Naomi, prendendosi un po’ di tempo per
riflettere. «Qualunque cosa assorba l’energia del segnale non
darebbe ritorno. Ma potrebbe scaldarsi nel dissipare l’energia
assorbita.»
Il monitor a infrarossi sulla console dei sensori vicino al sedile di
Holden avvampò come un sole. Alex imprecò sonoramente nella
linea interna.
«L’avete visto anche voi?» disse.
Holden lo ignorò e aprì una linea verso McDowell.
«Capitano, abbiamo appena rilevato un picco massiccio di
infrarossi» disse.
Per qualche lungo secondo non giunse risposta. Quando McDowell
ricomparve in linea, la sua voce era tesa. Holden non l’aveva mai
sentito spaventato.
«Jim, una nave è appena comparsa in quel punto caldo. Sta
irradiando calore come una maledetta bastarda» disse McDowell.
«Da dove diavolo è uscito quell’affare?»
Holden fece per rispondere ma udì la voce di Becca che filtrava
debolmente attraverso il microfono del capitano. «Non ne ho idea,
signore. Ma è più piccola della sua traccia termica. Il radar indica un
mezzo della taglia di una fregata» rispose lei.
«Come ha fatto?» chiese McDowell. «Invisibilità? Teletrasporto
magico attraverso un condotto spazio-temporale?»
«Signore» disse Holden. «Naomi ha suggerito che il calore rilevato
possa essere stato provocato da materiali che assorbono energia.
Materiali mimetici. Il che significa che quella nave si stava
nascondendo di proposito. Il che vuol dire che non ha buone
intenzioni.»
Come per rispondere a quelle parole, sei nuovi oggetti apparvero
sul radar: piccole icone gialle sullo schermo, che passarono
immediatamente all’arancione quando il sistema registrò la loro
accelerazione. Sul ponte della Canterbury, Becca gridò: «Oggetti in
rapido avvicinamento! Abbiamo sei nuovi contatti ad alta velocità in
rotta di collisione!»
«Gesù Cristo in carriola, ma quella nave ci ha appena sparato
contro una salva di missili?!?» sbraitò McDowell. «Stanno cercando
di abbatterci?»
«Sì, signore» disse Becca.
«Quanto manca all’impatto?»
«Poco meno di otto minuti, signore» rispose lei.
McDowell imprecò sottovoce.
«Abbiamo dei pirati, Jim.»
«Che cosa possiamo fare?» disse Holden, cercando di apparire
calmo e professionale.
«Potete chiudere la comunicazione e lasciar lavorare il mio
equipaggio. Siete a un’ora da qui, se non di più. I missili sono a otto
minuti. Passo e chiudo» rispose il capitano, chiudendo il suo canale
di comunicazione e lasciando Holden da solo con il crepitio
elettrostatico della linea vuota.
La linea di comunicazione generale fu invasa dal vociare dei suoi
compagni: Alex che chiedeva di andare a dose e di precedere i
missili fino alla Cant, Naomi che parlava di strategie per sabotarli e
Amos che malediceva la nave mimetica e teorizzava i dubbi natali
del suo equipaggio. Shed fu l’unico a restare in silenzio.
«Chiudete il becco, tutti quanti!» gridò Holden nel suo microfono.
La nave ripiombò in un attonito silenzio. «Alex, trova la maniera più
rapida per arrivare alla Cant senza ammazzarci. Fammi sapere
quando ci sei riuscito. Naomi, imposta una linea a tre vie tra Becca,
te e me. Faremo quel che possiamo per aiutarli. Amos, continua a
imprecare, ma spegni il tuo microfono.»
Attese. I secondi che li dividevano dall’impatto passavano
inesorabili.
«Collegamento attivo» disse Naomi. Holden poteva udire due
diversi sottofondi attraverso la linea di comunicazione.
«Becca, sono Jim. In linea c’è anche Naomi. Dicci che cosa
possiamo fare per esservi d’aiuto. Naomi, stavi parlando di tecniche
di sabotaggio?»
«Sto facendo tutto quel che posso» disse Becca, con voce
sorprendentemente calma. «Ci stanno puntando addosso un mirino
laser. Sto trasmettendo rumore bianco per confonderlo, ma hanno
della roba davvero avanzata, a quanto pare. Se fossimo più vicini di
così, quel puntatore laser ci avrebbe scavato un foro nella carlinga.»
«E che ne dici di un po’ di bianco fisico?» chiese Naomi. «Puoi
sganciare un po’ di neve?»
Mentre Naomi e Becca discutevano, Jim aprì una linea privata con
Ade. «Ehi, sono Jim. Alex sta lavorando su una soluzione per aprire
a manetta, per arrivare lì prima che...»
«Prima che i missili ci trasformino in un mattone volante? Buona
idea. Farsi rapire dai pirati dev’essere un’esperienza imperdibile»
disse Ade. Holden riusciva a sentire la paura nascosta in quel
sarcasmo.
«Ade, ti prego, voglio dirti una cosa...»
«Jim, tu che ne pensi?» chiese Naomi sull’altro canale.
Holden imprecò. Per mascherare la cosa, disse: «Ehm... di cosa?»
«Di usare il Knight per cercare di deviare quei missili» rispose
Naomi.
«Si può fare?» chiese lui.
«Forse. Ma stavi ascoltando?»
«Ah... c’è stata una cosa che mi ha distratto per un secondo.
Riditemi tutto» riconobbe Holden.
«Possiamo tentare di replicare la frequenza di diffusione della luce
emessa dalla Cant e di ritrasmetterla attraverso il nostro sistema di
comunicazione. Può darsi che i missili pensino che il bersaglio siamo
noi» disse Naomi, parlando come se si stesse rivolgendo a un
bambino.
«Così poi faranno saltare in aria noi?»
«Stavo pensando di fuggire mentre attiriamo i missili verso di noi.
Poi, una volta che saremo abbastanza lontani dalla Cant, spegniamo
il sistema di comunicazione e cerchiamo di nasconderci dietro
l’asteroide» disse Naomi.
«Non funzionerà» replicò Holden con un sospiro. «Seguono la
rifrazione del laser per la direzione generale, ma visualizzano anche
il bersaglio acquisito tramite immagine telescopica. Gli basterà
un’occhiata per capire che non siamo noi il loro bersaglio.»
«Potrebbe valere la pena di fare un tentativo.»
«Anche se ci riuscissimo, dei missili progettati per danneggiare la
Cant ci ridurrebbero a una sgommata di grasso nel vuoto.»
«E va bene» rispose Naomi. «Che altro possiamo fare?»
«Niente. Dei tipi molto intelligenti nei laboratori navali hanno già
pensato tutto ciò che noi penseremo nei prossimi otto minuti» disse
Holden. Dirlo ad alta voce significava ammetterlo a sé stesso.
«E allora che stiamo facendo, Jim?» chiese Naomi.
«Sette minuti» scandì Becca, con voce ancora inquietantemente
calma.
«Sbrighiamoci ad arrivare lì. Magari possiamo salvare qualcuno
dopo l’impatto con i missili. Aiutare a contenere il danno» disse
Holden. «Alex, hai fatto i tuoi calcoli?»
«Sì, vicecomandante. Massima accelerazione e rotazione
impostate. Ho angolato la traiettoria di avvicinamento per evitare di
aprire un foro nella Cant con il nostro propulsore. Pronti a ballare?»
rispose Alex.
«Si balla. Naomi, voialtri allacciate le cinture e preparatevi
all’accelerazione» disse Holden, poi aprì una linea verso il capitano
McDowell. «Capitano, stiamo arrivando a tutto gas. Cercate di
sopravvivere, e porteremo il Knight in posizione per prelevarvi o per
darvi una mano a contenere il danno.»
«Ricevuto» rispose McDowell, e chiuse la comunicazione.
Holden aprì una nuova linea con Ade. «Ade, stiamo per andare in
accelerazione elevata, per cui non potrò parlarti, ma lasciami aperta
la linea, okay? Dimmi quello che succede. Che so... canticchia
qualcosa. Sì, anche se canticchi e basta va bene. Ho solo bisogno di
sapere che stai bene.»
«Okay, Jim» disse Ade. Non si mise a canticchiare ma lasciò
aperta la linea di comunicazione. Holden la sentiva respirare.
Alex cominciò il conto alla rovescia sulla linea generale. Holden
verificò le cinture del suo sedile e premette il pulsante che rilasciava
la dose. Una dozzina di aghi gli si piantarono nella schiena
attraverso le membrane della tuta. Sentì il cuore balzargli in petto e
delle fasce di contenimento chimiche gli attanagliarono il cervello. La
colonna vertebrale divenne gelida di colpo, e il suo viso avvampò
come sotto l’effetto di un’ustione radioattiva. Picchiò un pugno sul
bracciolo del sedile. Detestava quella parte, ma quella che doveva
ancora arrivare era peggio. Sulla linea interna, Alex lanciò un grido
estatico mentre le droghe gli entravano in circolazione. Sul ponte
inferiore, anche gli altri si stavano iniettando la dose che avrebbe
impedito loro di collassare ma che li avrebbe tenuti sedati nel
momento più duro.
Alex disse «Uno», e Holden si ritrovò a pesare cinquecento chili. I
nervi ottici stridettero di dolore per il peso insostenibile dei suoi bulbi
oculari. I testicoli gli si schiacciarono sulle cosce. Lui si concentrò
per evitare di ingoiare la lingua. Tutto intorno, lo shuttle gemeva e
scricchiolava. Dal ponte inferiore giunse un tonfo allarmante, ma i
pannelli di controllo non segnalarono problemi. Il propulsore del
Knight era capace di un’accelerazione imponente, ma al prezzo di
un enorme consumo di carburante. Se però fossero riusciti a salvare
la Cant, non avrebbe avuto alcuna importanza.
Oltre il battito violento del sangue nelle tempie, Holden riusciva a
sentire il respiro lieve di Ade e il ticchettio della sua tastiera. Avrebbe
voluto potersi addormentare con quel suono nelle orecchie, ma la
dose bruciava come fuoco nelle sue vene. Era più sveglio di quanto
non fosse mai stato.
«Sì, signore» disse Ade nella linea.
Holden ci mise un istante a rendersi conto che stava parlando con
McDowell. Alzò il volume per sentire quello che stava dicendo il
capitano.
«...principale acceso, a piena potenza.»
«Siamo a pieno carico, signore. Se tentiamo una simile
accelerazione, faremo saltare il propulsore del telaio» replicò Ade.
McDowell doveva averle chiesto di accendere l’Epstein.
«Signorina Tukunbo» disse McDowell. «Abbiamo... quattro minuti.
Se si romperà non sarò io a addebitarglielo sullo stipendio, stia pur
certa.»
«Sì, signore. Accedo al motore principale. Velocità massima
impostata» annunciò Ade, e in sottofondo Holden sentì suonare
l’allarme di accelerazione gravitazionale. Ci fu uno scatto più forte
quando Ade si allacciò le cinture.
«Motore principale in linea fra tre... due... uno... Accensione»
esclamò Ade.
La Canterbury gemette talmente forte che Holden dovette
abbassare il volume della linea. La nave cargo si lamentò e gridò
come una banshee per diversi secondi, poi ci fu uno schianto
devastante. Holden richiamò la schermata di visuale esterna,
lottando contro l’oscuramento della vista indotto dall’accelerazione
esageratamente elevata. La Canterbury era ancora tutta intera.
«Ade, che diavolo era quello?» chiese McDowell, con voce
confusa.
«Il propulsore che spaccava un montante. Il motore principale è
fuori uso, signore» rispose Ade, senza aggiungere ‘proprio come
avevo detto che sarebbe successo’.
«Quanto abbiamo guadagnato?» chiese McDowell.
«Non molto. I missili viaggiano ora a più di quaranta chilometri al
secondo, in costante accelerazione. Siamo rimasti con i propulsori di
manovra» disse Ade.
«Merda» esclamò McDowell.
«Ci colpiranno in pieno, signore» avvertì Ade.
«Jim» disse McDowell, con voce improvvisamente forte e chiara
sulla linea diretta che aveva appena aperto. «Ci beccheranno, e non
c’è modo di evitarlo. Spegni e riaccendi per conferma ricezione.»
Jim spense e riaccese il canale radio.
«Va bene, ora dobbiamo pensare a come fare per sopravvivere
dopo l’impatto. Se stanno cercando di azzopparci prima di abbordare
la nave, faranno fuori il propulsore e il sistema di comunicazione.
Becca ha trasmesso un segnale di SOS continuo non appena sono
partiti i missili, ma vorrei che anche lei continuasse a trasmetterlo se
noi dovessimo fermarci. Se sanno che siete là fuori, saranno meno
propensi a espellerci dal portellone pressurizzato. La presenza di
testimoni, e via dicendo...» disse McDowell.
Jim spinse di nuovo due volte il pulsante della radio.
«Tornate indietro, Jim. Nascondetevi dietro quell’asteroide.
Chiamate aiuto. È un ordine.»
Jim cliccò due volte, poi mandò il segnale di arresto ad Alex.
Tempo un secondo e il gigante che gli si era seduto addosso svanì,
sostituito dall’assenza di gravità. Quella transizione tanto improvvisa
gli avrebbe fatto vomitare l’anima se nelle sue vene non ci fossero
state in circolo le droghe antinausea.
«Che succede?» chiese Alex.
«Cambio di piani» rispose Holden, con i denti che battevano per la
dose residua. «Inviamo una richiesta di aiuto e negozieremo il
rilascio dei prigionieri una volta che i cattivacci saranno a bordo della
Cant. Dirigiti di nuovo verso quell’asteroide, visto che è la copertura
più vicina a disposizione.»
«Ricevuto, capo» disse Alex. Poi, a voce bassa, aggiunse: «Cosa
non darei per un paio di lanciarazzi o un bel cannone
elettromagnetico sulla chiglia.»
«Guarda che ti sento.»
«Svegliamo i bimbi al piano di sotto?»
«Lasciamoli dormire.»
«Ricevuto» disse Alex, e chiuse la linea.
Prima di riprendere l’accelerazione massima, Holden attivò il
segnale di SOS del Knight. La linea con Ade era ancora aperta e, ora
che McDowell era disconnesso, sentiva di nuovo il suo respiro. Alzò
il volume al massimo e si adagiò tra le cinture, nell’attesa di essere
schiacciato. Alex non lo deluse.
«Un minuto» disse Ade, con voce abbastanza forte da essere
distorta dalle cuffie del suo casco. Holden non abbassò il volume.
Lei mantenne una voce ammirevolmente calma mentre eseguiva il
conto alla rovescia dell’impatto.
«Trenta secondi.»
Holden avrebbe disperatamente voluto parlare, dire qualcosa di
confortante, fare ridicole e false dichiarazioni d’amore. Il gigante
seduto sul proprio petto rise delle sue intenzioni con la voce
profonda e ruggente del loro propulsore a fusione.
«Dieci secondi.»
«Si prepari a spegnere il reattore e a fingere di essere azzoppati
dopo l’impatto dei missili. Se non siamo una minaccia, non ci
colpiranno di nuovo» disse McDowell.
«Cinque» scandì Ade.
«Quattro.
«Tre.
«Due.
«Uno.»
La Canterbury sussultò e il monitor sbiancò. Ade trasse un respiro
convulso prima che la comunicazione venisse interrotta. Lo stridio
elettrostatico nelle cuffie per poco non sfondò i timpani a Holden. Lui
abbassò il volume e aprì la linea con Alex.
L’accelerazione diminuì di colpo a due g, più facilmente tollerabili, e
tutti i sensori dello shuttle si accesero in sovraccarico. Una luce
accecante penetrò attraverso l’oblò del piccolo portello
pressurizzato.
«Alex, a rapporto! Cos’è successo?» gridò Holden.
«Mio dio... Erano missili nucleari. Hanno distrutto la Cant» disse
Alex, con voce bassa e attonita.
«Quali sono le sue condizioni? Dammi un rapporto sulla
Canterbury! I miei sensori sono a zero qua sotto. È tutto bianco!»
Ci fu una lunga pausa; poi Alex disse: «Anche i miei sono a zero,
capo. Ma sono in grado di farti rapporto sulle condizioni della Cant.
La vedo da qui.»
«La vedi? Da quaggiù?»
«Già. È una nube di vapore grande quanto il monte Olympus. È
andata, capo. È andata.»
Non può essere, protestò la mente di Holden. Una cosa del genere
non doveva succedere. I pirati non bombardavano le navi cargo con
i missili nucleari. Così ci perdevano tutti. Nessuno ci guadagnava
niente. E se volevi soltanto ammazzare cinquanta persone, era
molto più facile entrare in un ristorante con un fucile automatico.
Aveva voglia di gridarlo, di gridare ad Alex che si sbagliava. Ma
doveva tenere la testa sulle spalle. Ora sono io il vecchio al
comando.
«E va bene. Nuova missione, Alex. Ora siamo testimoni di una
strage. Riportaci a quell’asteroide. Comincerò a compilare un
comunicato. Tu sveglia gli altri. Devono sapere» disse Holden. «Io
intanto riavvio l’impianto dei sensori.»
Holden spense metodicamente tutti i sensori e i loro software,
attese due minuti e poi li rimise in funzione a poco a poco. Aveva le
mani che tremavano. Era nauseato. Aveva come l’impressione che il
suo sistema vitale manovrasse la propria carne da lontano, e non
sapeva quanto di quella sensazione fosse dovuta alla dose e quanto
allo shock.
I sensori si riaccesero. Come qualunque altra nave spaziale, il
Knight era protetto contro le radiazioni. Non si poteva andare da
nessuna parte nelle vicinanze della gigantesca fascia radioattiva di
Giove senza uno scudo. Ma Holden dubitava che i progettisti dello
shuttle avessero avuto in mente una detonazione di mezza dozzina
di testate nucleari nelle vicinanze quando ne avevano determinato le
specifiche. Erano stati fortunati. Il vuoto li aveva protetti dall’impulso
elettromagnetico, ma l’impatto della radiazione avrebbe comunque
potuto friggere tutti i sensori del veicolo.
Una volta ripristinato il sistema, Holden fece una scansione dello
spazio occupato dalla Canterbury. Non rimaneva niente che fosse
più grosso di una palla da softball. Passò alla scansione della nave
che l’aveva distrutta, che procedeva in direzione del sole a un solo,
comodo g di accelerazione. Holden si sentì esplodere il petto di
rabbia.
Non era spaventato. Una collera bestiale gli fece pulsare le vene
sulle tempie e stringere i pugni finché non sentì dolore ai tendini.
Accese l’impianto di comunicazione e orientò il raggio verso la nave
che si ritirava.
«Questo messaggio è rivolto a chiunque abbia ordinato la
distruzione della Canterbury, il cargo frigorifero di marina civile che
avete appena polverizzato. Non ti permetterò di andartene impunito,
brutto assassino figlio di puttana. Non m’interessa quali siano i tuoi
motivi, ma hai appena ucciso cinquanta dei miei amici. Devi sapere
chi erano. Ti sto mandando il nome e la fotografia di ciascuno di
coloro che sono morti su quella nave. Dai una bella occhiata a quello
che hai fatto. Pensaci, mentre mi darò da fare per scoprire chi sei.»
Richiuse il canale di comunicazione vocale, tirò fuori la cartella del
personale della Canterbury e cominciò a trasmettere i fascicoli
dell’equipaggio all’altra nave.
«Che cosa stai facendo?» chiese Naomi direttamente da dietro alle
sue spalle, e non attraverso le cuffie del casco.
Era lì, in piedi e senza casco. Aveva i capelli neri appiccicati sulla
fronte e sul collo dal sudore. Il suo viso era imperscrutabile. Holden
si tolse il casco.
«Sto mostrando loro che la Canterbury era un luogo in cui
vivevano persone reali. Persone con nomi e famiglie» disse, con
voce meno stabile di quanto desiderasse per via della dose. «Se c’è
qualcosa che somiglia a un essere umano al comando di quella
nave, spero che i loro volti lo perseguitino fino al giorno in cui lo
sbatteranno nel riciclatore per omicidio.»
«Non credo che abbiano apprezzato il pensiero» disse Naomi,
indicando il pannello alle sue spalle.
La nave nemica li stava puntando con il mirino laser. Holden
trattenne il fiato. Non ci fu nessun lancio di missili e, dopo qualche
secondo, la nave mimetica spense il laser e i suoi motori
avvamparono mentre si allontanava ad alta velocità. Holden udì
Naomi esalare un tremulo sospiro.
«Quindi la Canterbury è andata?» chiese Naomi.
Holden annuì.
«Porca di quella troia» disse Amos.
Amos e Shed erano insieme davanti alla scala dell’equipaggio. La
faccia di Amos era a chiazze rosse e bianche, e le sue manone si
aprivano e si chiudevano. Shed crollò in ginocchio, sbattendo forte
sul ponte per via dell’accelerazione corrente, a due g. Non pianse. Si
limitò a fissare Holden e a dire: «Immagino che Cameron non avrà
mai il suo braccio, ora.» Poi si prese la testa tra le mani e fu scosso
dai singhiozzi.
«Rallenta, Alex. Non c’è più bisogno di correre, ormai» disse
Holden sulla linea. Lo shuttle rallentò fino ad arrivare a un g.
«E ora che facciamo, capitano?» chiese Naomi, fissandolo
duramente. Sei tu al comando, ora. Agisci di conseguenza.
«Farli saltare in aria sarebbe la mia prima scelta ma, visto che non
abbiamo le armi necessarie... Li seguiremo. Li terremo d’occhio
finché non sapremo dove siano diretti. Dopodiché li
smaschereremo» rispose Holden.
«Cazzo, sì» esclamò Amos ad alta voce.
«Amos» disse Naomi da sopra la spalla. «Porta Shed sul ponte
intermedio e fallo mettere su un sedile. Se serve, dagli qualcosa per
farlo dormire.»
«Detto fatto, capo.» Amos passò un grosso braccio attorno al
torace di Shed e lo accompagnò di sotto.
Quando se ne fu andato, Naomi si voltò verso Holden.
«No, signore. Non inseguiremo quella nave. Chiederemo aiuto, e
poi andremo ovunque quell’aiuto ci dica di andare.»
«Io...» cominciò a dire Holden.
«Sì, sei l’ufficiale in carica. Questo fa di me il vicecomandante, ed è
compito del vicecomandante dire al capitano che si sta comportando
da idiota. E lei si sta comportando da idiota, signore. Hai già cercato
di incitarli a ucciderci con quella tua trasmissione. Ora vuoi anche
metterti a dar loro la caccia? E che farai se si lasciassero
raggiungere? Trasmetterai un altro appello dettato dall’emozione?»
disse Naomi, avvicinandoglisi. «Porterai in salvo i quattro membri
rimasti del tuo equipaggio. E questo è quanto. Quando saremo al
sicuro, potrai andare a fare la tua crociata, con il dovuto rispetto.»
Holden slacciò le cinture del suo sedile e si alzò in piedi. La dose
stava cominciando a esaurire il suo effetto, lasciandogli il corpo
consumato e nauseato. Naomi alzò il mento e non indietreggiò di un
passo.
«Sono felice di vedere che la pensi come me, Naomi» disse. «Va’ a
dare un’occhiata all’equipaggio. McDowell mi ha dato un ultimo
ordine.»
Naomi lo fissò critica; Holden poteva leggerle la diffidenza in viso.
Lui non si difese e si limitò ad aspettare finché lei non smise di
squadrarlo. Naomi gli rivolse un cenno di assenso e ridiscese la
scala fino al ponte intermedio.
Una volta da solo, Holden cominciò a lavorare metodicamente,
assemblando pacchetti di trasmissione che includevano anche tutti i
dati raccolti dai sensori della Canterbury e del Knight. Alex scese giù
dalla cabina di pilotaggio e si lasciò cadere sul sedile accanto a lui.
«Sai, cap, ci ho pensato su» disse. La sua voce era scossa da
fremiti post-dose proprio come quella di Holden.
Holden trattenne l’irritazione per quella interruzione e disse:
«Riguardo a cosa?»
«Riguardo a quella nave mimetica.»
Holden si distolse dal suo lavoro.
«Dimmi tutto.»
«Il fatto è che non conosco alcun pirata che possieda roba del
genere.»
«Va’ avanti.»
«In effetti, l’unica volta che ho visto una tecnologia simile a quella
che hanno impiegato, è stato quando facevo parte della marina
militare» disse Alex. «Lavoravamo su navi con coperture ad
assorbimento energetico e dissipatori interni. Più un’arma strategica
che tattica. Non si può nascondere un propulsore attivo ma, una
volta in posizione e a motori spenti, se immagazzini tutto il calore di
scarico internamente, ti puoi nascondere in maniera efficace.
Aggiungici la copertura ad assorbimento energetico e radar, lidar e
sensori passivi non sono più in grado di rilevarti. Inoltre, è piuttosto
difficile mettere le mani su delle testate nucleari, se non fai parte dei
militari.»
«Stai dicendo che è stata la marina marziana?»
Alex fece un lungo, tremulo sospiro.
«Se ce l’avevamo noi, sai bene che anche i terrestri dovevano
essere al lavoro sulla stessa roba» disse.
I due si fissarono in quello spazio ridotto; le implicazioni di quel che
era appena stato detto pesavano più di un’accelerazione a dieci g.
Holden tirò fuori il trasmettitore a batteria che avevano trovato sulla
Scopuli dalla tasca sulla coscia della sua tuta spaziale. Cominciò a
smontarlo, alla ricerca di un punzone o di un marchio. Alex rimase a
guardarlo, una volta tanto in silenzio. Il trasmettitore era di tipo
generico, poteva provenire dalla sala radio di qualunque nave del
sistema solare. La batteria era un blocco grigio senza segni
particolari. Alex allungò una mano e Holden gliela passò. Alex aprì il
coperchio di plastica grigia e si rigirò tra le mani la pila di metallo.
Senza dire una parola, mostrò il fondo a Holden. Stampigliato sul
metallo nero c’era un numero di serie che cominciava con le lettere
MRCM.
Marina della Repubblica Congressuale Marziana.
La radio era impostata per trasmettere a pieno potenziale. Il
pacchetto dati era pronto a partire. Holden si mise di fronte alla
telecamera, chinandosi un po’ in avanti.
«Il mio nome è James Holden» disse «e la mia nave, la
Canterbury, è stata appena distrutta da una nave da guerra con
tecnologia mimetica, equipaggiata con dotazioni contrassegnate da
quelli che paiono essere numeri seriali marziani. Seguirà un
pacchetto dati.»
6

Miller

Il cart procedeva a tutta velocità attraverso il tunnel, con la sirena


che mascherava il gemito dei motori. Si lasciavano alle spalle civili
curiosi e il profumo di una situazione surriscaldata. Miller si sporse in
avanti sul sedile; avrebbe voluto che quel cart potesse andare ancor
più veloce. Erano a tre livelli, più o meno quattro chilometri, dalla
centrale.
«E va bene» disse Havelock. «Mi dispiace, ma c’è qualcosa che
non mi è chiaro in tutto questo.»
«Cosa?» disse Miller. Quel che intendeva dire era: ‘Cosa diavolo
stai dicendo?’ Havelock lo prese per un: ‘Cosa non ti è chiaro?’
«Qualcuno polverizza un cargo frigorifero a milioni di chilometri da
qui. Perché siamo in massima allerta? Le nostre cisterne dureranno
ancora per mesi senza nemmeno il bisogno di razionare l’acqua. E ci
sono un sacco di altri cargo là fuori. Perché mai dovrebbe essere
considerata una crisi?»
Miller si voltò e squadrò per bene il suo partner. La sua corporatura
bassa e tarchiata. Le ossa spesse per via di un’infanzia trascorsa a
piena gravità. Proprio come quello stronzo del comunicato. Loro non
capivano. Se al posto di questo James Holden ci fosse stato
Havelock, probabilmente avrebbe fatto la stessa stupida,
irresponsabile, immane stronzata. Per un battito di ciglia, non furono
più due agenti della sicurezza. Non furono più partner. Erano
soltanto un cinturiano e un terrestre. Miller distolse lo sguardo prima
che Havelock potesse leggere quel cambiamento nei suoi occhi.
«Hai presente quel coglione di Holden? Quello del comunicato?»
disse Miller. «Ecco. Ha appena dichiarato guerra a Marte da parte
nostra.»
Il cart scartava e ondeggiava bruscamente, mentre il computer
interno ricalcolava la rotta per via di un qualche ingorgo nel flusso
stradale mezzo chilometro più avanti. Havelock si spostò e afferrò la
manopola di sostegno. Imboccarono una rampa verso il livello
successivo e i pedoni civili si spostarono per lasciar loro il passo.
«Tu sei cresciuto in un posto in cui l’acqua sarà pure sporca, ma
viene giù dal cielo» disse Miller. «L’aria sarà inquinata, laggiù, ma
non rischia di disperdersi se i meccanismi dei portelloni sigillati
hanno un guasto. Quassù non è così.»
«Però non eravamo sul cargo. Non abbiamo bisogno del ghiaccio.
E non siamo minacciati» replicò Havelock.
Miller sospirò, strofinandosi gli occhi con i pollici e le nocche finché
un velo di colori alterati non sbocciò nel suo campo visivo.
«Quando ero alla omicidi,» disse Miller «c’era questo tizio, uno
specialista della gestione immobiliare che aveva un contratto su
Luna. Qualcuno l’ha mezzo carbonizzato e l’ha buttato fuori da un
portellone pressurizzato. Uscì fuori che era responsabile della
manutenzione di sessanta buchi su al livello trenta. Brutto quartiere.
E aveva cominciato ad arrotondare un po’ i profitti. Non aveva fatto
sostituire i filtri dell’aria per tre mesi. In tre di quelle unità fu trovata
della muffa. E lo sai che cosa trovammo, dopo aver scoperto
questo?»
«Che cosa?» chiese Havelock.
«Un cazzo di niente, perché smettemmo di investigare. Ci sono
persone che meritano di morire, e quel tipo era una di queste. Il tizio
che rilevò il suo incarico fece pulire tutte le condutture e non mancò
più di cambiare i filtri secondo norma. Ecco come vanno le cose
nella Fascia. Chiunque sia venuto qui e non abbia dato la massima
importanza al sistema ambientale, è morto giovane. Noi, tutti quelli
che sono ancora qui, siamo coloro che hanno fatto attenzione a
queste cose.»
«Efficacia selettiva?» disse Havelock. «Stai davvero difendendo le
teorie dell’efficacia selettiva? Non avrei mai pensato di sentire
questo genere di merdate da uno come te.»
«E cioè?»
«Stronzate da propaganda razzista» rispose Havelock. «La teoria
per cui la differenza ambientale avrebbe cambiato i cinturiani a tal
punto che, invece di essere semplicemente una massa di anoressici
con disturbi ossessivo-compulsivi, non sarebbero più veramente
umani.»
«Non dico questo» replicò Miller, sospettando che fosse
esattamente quello che stava dicendo. «È solo che i cinturiani non
vanno molto per il sottile quando fai lo stronzo con delle risorse
basilari. Quell’acqua era futuro ossigeno, propellente e beni potabili,
per noi. Quando si parla di questa roba, ci manca il senso
dell’umorismo.»
Il cart salì su una rampa di grate metalliche. Il livello inferiore si
staccò sotto di loro. Havelock rimase in silenzio per un po’.
«Questo Holden non ha accusato Marte, ma ha solo detto che
hanno trovato una batteria marziana. Credi davvero che la gente si
metterà a... dichiarare guerra?» disse Havelock. «Solo sulla base
delle foto di una batteria mandate da quel tizio?»
«Il nostro problema non sono quelli che aspetteranno di avere il
quadro completo della situazione.»
Perlomeno non stanotte, pensò. Una volta che tutta la faccenda
sarà pubblica, vedremo con cosa abbiamo a che fare.
La centrale era piena per più di metà, quasi per tre quarti. Gli
uomini della sicurezza se ne stavano in piedi a gruppetti, salutandosi
con un cenno del capo, con gli occhi stretti e la mascella serrata.
Uno della squadra omicidi scoppiò a ridere per qualcosa, in maniera
esagerata, forzata, che sapeva di paura. Miller notò il cambiamento
di Havelock non appena attraversarono l’area comune per andare
alle loro scrivanie. Havelock era stato capace di derubricare la
reazione di Miller a un problema di ipersensibilità del singolo. Quella
era una sala intera, però. Una centrale intera. Quando furono giunti
alle loro postazioni, Havelock aveva gli occhi sgranati.
Il capitano Shaddid fece il suo ingresso nella sala. La faccia
assonnata era sparita. Aveva i capelli tirati all’indietro, l’uniforme
impeccabile e professionale, la voce calma come quella di un
chirurgo in un ospedale di trincea. Salì sulla prima scrivania che
trovò, improvvisando un pulpito.
«Signore e signori» disse. «Avete visto il comunicato. Ci sono
domande?»
«Chi ha lasciato avvicinare quel fottuto terrestre a una stazione
radio?» gridò qualcuno. Miller vide Havelock ridere insieme agli altri,
ma l’ilarità non raggiungeva i suoi occhi. Shaddid fulminò la folla con
lo sguardo e tutti si zittirono.
«La situazione è la seguente» disse. «Sarà impossibile riuscire a
controllare questa informazione. È stata trasmessa ovunque.
Abbiamo già cinque siti della rete interna che l’hanno rilanciata, e
dobbiamo presumere che sia diventata di pubblico dominio a partire
da dieci minuti fa. Il nostro compito, al momento, è quello di
contenere possibili atti di rivolta e di assicurare l’integrità delle
stazioni nella zona del porto. Le stazioni cinquanta e duecentotredici
ci daranno una mano. L’autorità portuale ha rilasciato tutte le navi sul
registro dei pianeti interni. Il che non significa che se ne siano
andate tutte. Devono ancora radunare i propri equipaggi. Ma
significa che se ne andranno tutte.»
«E gli uffici governativi?» chiese Miller, a voce alta per farsi sentire.
«Non è un nostro problema, grazie a dio» rispose Shaddid.
«Hanno la loro infrastruttura. I portelloni antiesplosione sono già stati
chiusi e sigillati. Si sono isolati dal sistema ambientale principale, per
cui non stiamo nemmeno respirando la loro aria in questo
momento.»
«Be’, questo sì che è un sollievo» disse Yevgeny dal gruppo di
investigatori della omicidi.
«E ora le cattive notizie» disse Shaddid. Miller percepì il silenzio
palpabile di centocinquanta sbirri che trattenevano il fiato. «Abbiamo
ottanta agenti schedati dell’APE su questa stazione. Sono tutti
impiegati e regolari, e sapete bene che questo è proprio il genere di
occasione che aspettano. Abbiamo ricevuto ordine dal governatorato
di non procedere ad alcuna cattura preventiva. Nessuno verrà
arrestato finché non sarà imputabile di qualcosa di concreto.»
Un coro di voci adirate si levò in protesta.
«Chi si crede di essere?» gridò qualcuno dal fondo della sala.
Shaddid scattò come uno squalo a quel commento.
«Il governatore è quello che ci ingaggia per mantenere questa
stazione in buon ordine di funzionamento» rispose Shaddid.
«Seguiremo le sue direttive.»
Con la coda dell’occhio, Miller vide Havelock annuire. Si chiese
che cosa ne pensasse, il governatore, della questione
dell’indipendenza della Fascia. Poteva darsi che l’APE non fosse
l’unica ad aspettare un’occasione del genere. Shaddid continuò il
suo discorso, delineando le azioni di sicurezza che erano loro
consentite. Miller l’ascoltò distrattamente, talmente perso nella
riflessione sulle manovre politiche all’opera dietro quella situazione
che per poco non si lasciò sfuggire il momento in cui Shaddid
chiamò il suo nome.
«Miller guiderà la seconda squadra al livello del porto e coprirà i
settori dal tredici al ventiquattro. Kasagawa: squadra tre, dal
venticinque al trentasei, e così via. Sono venti uomini per squadra,
tranne per Miller.»
«Posso cavarmela con diciannove» disse Miller. Poi aggiunse
sottovoce, per Havelock: «A questo giro passi la mano, collega. Far
vedere un terrestre con la pistola là fuori non faciliterebbe le cose.»
«Già» riconobbe Havelock. «Me lo immaginavo.»
«Bene» disse Shaddid. «Sapete tutti cosa fare. Muoversi.»
Miller radunò la sua squadra antisommossa. Erano tutti volti
familiari, uomini e donne con cui aveva lavorato durante i lunghi anni
trascorsi nel servizio d’ordine. Li organizzò mentalmente con
un’efficienza quasi automatica. Brown e Gelbfish avevano entrambi
esperienza nei reparti speciali, per cui avrebbero comandato le ali se
si fosse resa necessaria un’azione di controllo della folla. Aberforth
si era beccata tre richiami per uso eccessivo della forza da quando
sua figlia era stata arrestata per spaccio su Ganimede, per cui
sarebbe stata in seconda linea. Poteva risolvere i suoi problemi di
controllo della rabbia un’altra volta. In tutta la centrale, Miller sentì gli
altri capisquadra impostare le formazioni come stava facendo lui.
«Okay» disse Miller. «Tute.»
Si allontanarono in gruppo, diretti alle piattaforme di
equipaggiamento. Miller restò indietro. Havelock era rimasto
appoggiato alla sua scrivania, a braccia conserte, con gli occhi fissi
nel vuoto. Miller si sentì diviso tra la compassione e l’impazienza.
Era dura far parte della squadra ma non esserne parte allo stesso
tempo. Del resto, che diavolo si aspettava quando aveva accettato
un contratto nella Fascia? Havelock alzò gli occhi e incontrò lo
sguardo di Miller. Si rivolsero un cenno del capo. Miller fu il primo a
voltarsi.
La piattaforma di equipaggiamento era in parte magazzino, in parte
camera blindata, progettata da qualcuno che si era preoccupato più
di risparmiare lo spazio che di rendere l’ambiente funzionale. Le luci,
faretti a LED bianchi incassati nel soffitto, conferivano alle pareti
grigie un aspetto sterile. La nuda pietra riecheggiava a ogni voce e
passo. File di munizioni e armi da fuoco, sacchetti di raccolta prove e
reagenti per esami tossicologici, pezzi e uniformi di ricambio
coprivano le pareti e riempivano la maggior parte dello spazio
interno. L’equipaggiamento antisommossa era in una sala laterale,
chiuso in armadietti d’acciaio grigio con lucchetti elettronici ad alta
sicurezza. Quello standard consisteva invece in uno scudo di
plastica ad alto impatto, manganello elettrico, schinieri, giubbotto e
gambali antiproiettile e un casco con visiera rinforzata; il tutto era
progettato per rendere una manciata di uomini e donne del servizio
d’ordine della centrale una forza intimidatoria, disumana.
Miller inserì il suo codice di accesso. I chiavistelli interni si
sganciarono e gli armadietti si aprirono.
«Be’» disse Miller con tono gioviale. «Che io sia dannato.»
Gli armadietti erano vuoti, come bare grigie i cui cadaveri fossero
scomparsi nel nulla. Sentì una delle altre squadre gridare oltraggiata.
Miller aprì sistematicamente ogni armadietto antisommossa che
riuscì a trovare. Erano tutti vuoti. Shaddid apparve al suo fianco, con
il viso sbiancato per la rabbia.
«Qual è il piano B?» chiese Miller.
Shaddid sputò a terra, poi chiuse gli occhi. Miller vide il movimento
della pupilla sotto la palpebra, come se stesse sognando. Due lunghi
respiri dopo, lei riaprì gli occhi.
«Controllate gli armadietti dei reparti speciali. Lì dovrebbero
esserci abbastanza elementi per equipaggiare due agenti per ogni
squadra.»
«Equipaggiamenti da cecchino?»
«Ha un’idea migliore, ispettore?» disse Shaddid, sottolineando
l’ultima parola.
Miller alzò le mani in segno di resa. L’equipaggiamento
antisommossa era progettato per intimidire e controllare. Quello dei
reparti speciali era pensato invece per uccidere con la maggior
efficienza possibile. Sembrava che il loro mandato fosse appena
cambiato.
In un giorno qualunque, sulla Stazione di Ceres potevano essere
attraccate un migliaio di navi. L’attività, in quel porto, era frenetica:
rallentava raramente e non si fermava mai. Ogni settore poteva
ospitare fino a venti navi, con il relativo andirivieni di personale e di
carichi, di camion di trasporto, mesogru e carrelli elevatori, e la
squadra di Miller era responsabile di venti settori.
L’aria era impregnata del puzzo di liquidi refrigeranti e olio. La
gravità era poco più alta di 0.3 g, e la rotazione della stazione
bastava da sé a conferire a quel posto un senso di oppressione e
pericolo. A Miller non piaceva il porto. Avere il vuoto così vicino ai
piedi lo rendeva nervoso. Superando gli scaricatori e le squadre di
trasporto, non sapeva bene se guardarli in cagnesco o sorridere. Era
lì per far rigare dritta la gente attraverso l’intimidazione e al tempo
stesso per rassicurarla che ogni cosa era sotto controllo. Dopo i
primi tre settori, optò per il sorriso. Era il genere di menzogna che gli
riusciva meglio.
Avevano appena raggiunto l’intersezione tra i settori diciannove e
venti, quando udirono un grido. Miller tirò fuori il terminale palmare
dalla tasca, si connesse alla rete di sorveglianza centrale e si fece
mandare le immagini dal sistema delle telecamere di sicurezza. Gli
ci volle qualche secondo per trovarlo: una folla di cinquanta o
sessanta civili ostruiva quasi l’intera larghezza del tunnel bloccando
il traffico in entrambe le direzioni. Qualcuno brandiva delle armi
sopra la testa. Coltelli, mazze. Almeno due pistole. Pugni alzati al
cielo. E, in mezzo a quella calca, un uomo massiccio e a petto nudo
stava picchiando a morte qualcuno.
«Si va in scena» disse Miller, facendo segno alla sua squadra di
avanzare a passo di corsa.
Era ancora a un centinaio di metri dalla curva che li avrebbe portati
a contatto con quel grumo di violenza umana quando vide l’uomo a
petto nudo sbattere la sua vittima a terra e sferrarle un pestone sul
collo. La testa della malcapitata si torse con un’inclinazione che non
lasciava nessun dubbio sulla sua sorte. Miller fece rallentare la
squadra a passo di marcia rapida. Arrestare l’assassino mentre era
circondato da una folla che lo appoggiava sarebbe stato già
abbastanza difficile senza aggiungerci il fiatone.
Ormai avevano fiutato il sangue. Miller riusciva a percepirlo. La
folla si sarebbe rivoltata. Contro la centrale, contro le navi. Se la
popolazione avesse cominciato ad aggiungersi a quel caos... che
cosa sarebbe potuto succedere? Un livello più su, e a mezzo
chilometro in senso inverso alla rotazione, c’era un bordello che
accettava clienti dei pianeti interni. L’ispettore doganale del settore
ventuno era sposato con una ragazza di Luna, e se n’era vantato
forse una volta di troppo.
C’erano troppi bersagli possibili, pensò Miller mentre faceva segno
ai suoi uomini di allargarsi. Se fossero riusciti a bloccare subito la
situazione, non ci sarebbero stati altri morti.
S’immaginò Candace che incrociava le braccia e gli diceva: Qual è
il piano B?
Il margine esterno della folla sollevò l’allarme ben prima che Miller
potesse raggiungerlo. La massa di corpi e la minaccia cambiarono
direzione. Miller si tirò indietro il cappello. Uomini, donne. Corpi
scuri, pallidi, dorati, e tutti con la stazza esile e affusolata dei
cinturiani, tutti con la bocca spalancata e rabbiosa come un branco
di scimpanzé in guerra.
«Lasci che ne abbatta un paio, signore» disse Gelbfish dal suo
terminale. «Per incutergli un po’ di sano timore in corpo.»
«Ci arriveremo» rispose Miller, sorridendo alla folla inferocita. «Ci
arriveremo.»
Il viso che si era aspettato di vedere era in prima fila. Il tipo a petto
nudo. L’omone, con le mani inzaccherate e il volto schizzato di
sangue. Il cuore della rivolta.
«Quello lì?» chiese Gelbfish, e Miller seppe che un puntino a
infrarossi stava già marcando la fronte del tipo, mentre era
impegnato a guardare in cagnesco Miller e le uniformi alle sue
spalle.
«No» disse Miller. «Quello farebbe soltanto infuriare gli altri.»
«Che facciamo, allora?» chiese Brown.
Era una bella domanda.
«Signore» osservò Gelbfish. «Quel sacco di merda ha un tatuaggio
dell’APE sulla spalla sinistra.»
«Be’,» rispose Miller «se dovete sparargli, cominciate da lì.»
Fece un passo avanti, collegando il terminale al sistema locale e
trasmettendo in segnale prioritario sull’allarme in corso. Quando
parlò, la sua voce rimbombò dagli altoparlanti posti sopra la strada.
«Sono il detective Miller. A meno che non vogliate essere sbattuti
tutti dentro per favoreggiamento nell’omicidio, vi suggerisco di
disperdervi immediatamente.» Togliendo poi il volume al microfono
del suo terminale, si rivolse direttamente al tipo a petto nudo. «Tu
no, ragazzone. Se muovi un muscolo, ti abbattiamo.»
Qualcuno tra la folla scagliò una chiave inglese; il metallo
argentato tracciò un arco per aria, diretto verso la testa di Miller. Lui
riuscì quasi a scansarsi del tutto, ma il manico lo colpì su un
orecchio. La testa gli rimbombò e si sentì il collo umido di sangue.
«Non sparate» gridò Miller. «Non sparate.»
Alcuni uomini tra la folla scoppiarono a ridere, credendo che si
fosse rivolto a loro. Idioti. L’uomo a petto nudo si fece avanti
spavaldo. Gli steroidi gli avevano teso le cosce a tal punto che
doveva camminare a papera. Miller riaccese il microfono del
terminale. Se la folla fosse rimasta a guardarli mentre si
affrontavano, nel frattempo non avrebbe spaccato niente. E la rivolta
non si sarebbe diffusa. Non ancora.
«Allora, amico. Sai soltanto ammazzare a calci gli indifesi, o
possiamo partecipare anche noi al raduno?» chiese Miller. Il tono era
informale, ma le sue parole riecheggiavano dagli altoparlanti del
molo come la voce di Dio.
«’Cazzo blateri, cane della Terra?» ribatté quello.
«Terra?» chiese Miller, sghignazzando. «Ti sembro uno che è
cresciuto in un pozzo di gravità? Sono nato su questa roccia, io.»
«Gli interni ti danno la pappa, puttana» replicò il tipo a petto nudo.
«Tu cane a loro, sei.»
«Dici?»
«Dui, cazzo» replicò il tipo. ‘È così, cazzo.’ Fletté i pettorali. Miller
trattenne il bisogno di farsi una risata.
«Quindi quel povero cristo l’hai ammazzato per il bene della
stazione?» disse Miller. «Per il bene della Fascia? Non fare l’idiota,
ragazzo. Ti stanno prendendo in giro. Vogliono che vi comportiate
come un manipolo di stupidi riottosi, così avranno una scusa per
chiudere questo posto.»
«Schrauben sie sie weibchen» disse l’altro in un tedesco da strada
con una forte inflessione cinturiana, chinandosi in avanti.
E va bene. È la seconda volta che mi dà della puttana, pensò
Miller.
«Sparategli alle ginocchia» disse Miller. Le gambe dell’uomo
esplosero con due schizzi gemelli di sangue, e quello crollò a terra
ululando. Miller oltrepassò il suo corpo che si contorceva per il
dolore e avanzò verso la folla.
«Prendete ordini da questo pendejo?» disse. «Ascoltate me,
sappiamo tutti quello che sta per succedere. Sappiamo che danza
inizia, ora, come pow, giusto? Hanno fottuto tu agua, e conosciamo
tutti la risposta. Fuori dal portellone, no?»
Lesse i loro volti: l’improvvisa paura dei cecchini, poi la confusione.
Li incalzò, senza lasciar loro il tempo di riflettere. Tornò al linguaggio
dei livelli bassi, al linguaggio dell’educazione, dell’autorità.
«Sapete cos’è che vuole Marte? Vuole che voi facciate proprio
questo. Vogliono che questo pezzo di merda qui faccia in modo che
l’universo veda i cinturiani come una masnada di psicopatici che
fanno a pezzi la loro stessa stazione. Vogliono far credere che siamo
proprio come loro. Be’, non lo siamo. Siamo cinturiani, e sappiamo
pulirci il culo da soli.»
Indicò un uomo in prima linea. Non era pompato quanto quello a
petto nudo, ma era grosso comunque. Aveva il cerchio spezzato
dell’APE sul braccio.
«Tu» disse Miller. «Vuoi combattere per la Fascia?»
«Dui» rispose l’uomo.
«Certo che sì. Anche lui voleva farlo» disse Miller, indicando con il
pollice il tipo a petto nudo. «Ora però è storpio, e se ne andrà al
fresco per omicidio. E così ne abbiamo già perso uno. Lo vedi? Ci
stanno mettendo gli uni contro gli altri. Non possiamo lasciarglielo
fare. Ognuno di voi che mi toccherà arrestare, menomare o
ammazzare, sarà un uomo in meno per quando verrà il momento. E
sta arrivando. Ma non è ora. Lo capisci?»
L’uomo dell’APE s’incupì. La folla si allontanò da lui, lasciandolo da
solo. Miller percepì una sorta di corrente che gli andava contro.
Stava cambiando verso.
«Il giorno si avvicina, hombre» disse l’uomo dell’APE. «Tu lo sai da
che parte stai?»
Il tono della sua voce era una minaccia, ma non aveva alcuna
forza. Miller trasse un profondo respiro. Era finita.
«Sempre dalla parte degli angeli» disse. «Perché non ve ne
tornate tutti al lavoro? Lo spettacolo è concluso, qui, e abbiamo tutti
un sacco da fare.»
Ormai priva dello slancio iniziale, la folla si disperse. Dapprima un
paio di persone si staccarono dal margine, e poi l’intero gruppo si
sciolse in un attimo. Cinque minuti dopo l’arrivo di Miller, gli unici
indizi che fosse mai accaduto qualcosa in quel luogo erano il tipo a
petto nudo che gemeva in una pozza del suo sangue, la ferita
sull’orecchio di Miller e il cadavere della donna, al cui pestaggio
avevano assistito cinquanta cittadini modello senza muovere un dito.
Era di bassa statura, e indossava la tuta di volo di una compagnia
mercantile marziana.
Soltanto un cadavere. Un risultato positivo, pensò amaramente
Miller.
Si portò accanto all’uomo a terra. Il tatuaggio dell’APE era
macchiato di sangue. Miller si accovacciò.
«Amico» disse. «Sei in arresto per l’omicidio di quella donna
laggiù, chiunque diavolo sia. Non ti verrà richiesto di sottoporti a
interrogatorio senza la presenza di un avvocato o di un
rappresentante dell’unione e, se ti azzardi anche soltanto a
guardarmi storto, ti faccio eiettare. Ci siamo capiti?»
Dallo sguardo dell’uomo, Miller comprese che si erano capiti.
7

Holden

Holden riusciva a bere un caffè a mezzo g. Più che altro, a star


seduto tenendosene una tazza sotto il naso e lasciando che l’aroma
salisse lentamente verso di lui. A sorseggiarlo piano per non
bruciarsi la lingua. Bere caffè era una delle attività che non si
adattavano bene alla transizione in microgravità, ma a mezzo g si
poteva fare.
Per cui si sedette e cercò con tutte le sue forze di pensare solo al
caffè e alla gravità nel silenzio della piccola cambusa del Knight.
Perfino il loquace Alex era silenzioso. Amos aveva posato la sua
grossa pistola sul tavolo e la contemplava con una fissità
inquietante. Shed dormiva. Naomi era seduta dall’altra parte della
sala, bevendo tè e tenendo d’occhio il pannello a parete accanto a
sé. Aveva eseguito delle operazioni per farlo apparire lì.
Finché teneva la sua mente concentrata sul caffè, Holden non
doveva pensare a Ade, scossa da un ultimo sussulto di paura prima
di trasformarsi in una nube di vapore.
Alex aprì la bocca e vanificò i suoi sforzi.
«Prima o poi dovremo decidere dove andare» disse.
Holden annuì, prese un sorso di caffè e chiuse gli occhi. I suoi
muscoli vibrarono come le corde pizzicate di uno strumento e la
visione periferica si popolò di molteplici puntini luminosi immaginari.
Stava cominciando a risentire dei primi effetti dopo la dose, e
stavolta la fase di down si preannunciava davvero brutta. Avrebbe
voluto godersi quegli ultimi momenti in pace prima che il dolore
entrasse in circolo.
«Alex ha ragione, Jim» disse Naomi. «Non possiamo continuare a
volare in cerchio a mezzo g per sempre.»
Holden non aprì gli occhi. L’oscurità dietro le sue palpebre chiuse
era luminosa, attiva e vagamente nauseante.
«Non aspetteremo per sempre» rispose. «Stiamo aspettando
cinquanta minuti, perché la Stazione di Saturno mi richiami e mi dica
che cosa dobbiamo fare con la loro nave. Il Knight è ancora di
proprietà della P&K. Noi siamo semplici impiegati. Volevate che
chiedessi aiuto, e io l’ho fatto. Ora stiamo aspettando di vedere a
cosa assomiglia, questo aiuto.»
«Allora non sarebbe meglio cominciare a dirigerci verso la
Stazione di Saturno, capo?» chiese Amos, rivolgendo la sua
domanda a Naomi.
Alex sbuffò.
«Non con i motori del Knight. Se anche avessimo abbastanza
carburante per quel viaggio, e non ce l’abbiamo, non ho alcuna
voglia di starmene seduto in questa lattina per i prossimi tre mesi»
disse. «Nah... Se proprio dobbiamo andare da qualche parte, meglio
la Fascia, o Giove. Siamo esattamente alla stessa distanza da
entrambi.»
«Io voto per continuare verso Ceres» propose Naomi. «La P&K ha
degli uffici, laggiù. Non conosciamo nessuno del gruppo di Giove.»
Senza riaprire gli occhi, Holden scosse la testa.
«No, aspettiamo che ci richiamino.»
Naomi emise un verso di esasperazione. Era buffo, pensò Holden,
come si potessero cogliere molte cose dalla voce di una persona,
anche dal più piccolo suono, come un colpo di tosse o un sospiro. O
il sussulto appena prima che morisse.
Holden si tirò a sedere un po’ più dritto e aprì gli occhi. Posò
delicatamente la tazza di caffè sul tavolo, con le mani che
cominciavano a irrigidirsi.
«Non voglio volare verso sud, fino a Ceres, perché è esattamente
la direzione in cui è andata la nave che ha sparato quei missili, e
quel che hai detto sul fatto di non dargli la caccia è del tutto
ragionevole, Naomi. Non voglio andare fino a Giove, perché
abbiamo abbastanza carburante per un viaggio soltanto e, una volta
che imbocchiamo quella direzione, avremo una rotta obbligata. Ce
ne stiamo seduti qui a bere caffè perché ho bisogno di prendere una
decisione, e la P&K ha voce in capitolo in essa. Per cui aspetteremo
una loro risposta, e poi deciderò.»
Holden si alzò piano, con cautela, e cominciò a muoversi verso la
scala dell’equipaggio. «Vado a stendermi per qualche minuto, per far
passare il peggio delle convulsioni. Fatemi sapere se chiamano
quelli della P&K.»
Holden si sparò qualche pillola di sedativo – piccole compresse
amare con un retrogusto simile alla muffa del pane –, ma non riuscì
a dormire. McDowell continuava a posargli una mano sul braccio e lo
chiamava Jim, ancora e ancora. Becca rideva e imprecava come un
marinaio. Cameron si vantava delle sue prodezze sul ghiaccio.
Ade sussultava.
Holden aveva percorso il circuito tra Ceres e Saturno nove volte,
sulla Canterbury. Due viaggi di andata e ritorno all’anno, per quasi
cinque anni. La maggior parte dell’equipaggio era stata lì per tutto il
tempo. Volare sulla Cant poteva essere come raschiare il fondo del
barile, ma significava anche che non c’era un altrove dove andare.
La gente rimaneva e faceva di quella nave la propria casa. Dopo i
continui trasferimenti in seno alla marina militare, Holden aveva
imparato ad apprezzare la stabilità. Anche lui ne aveva fatto la sua
casa. McDowell disse qualcosa che non riuscì a capire. La Cant
gemette come sotto la spinta di una pesante accelerazione.
Ade sorrise e gli fece l’occhiolino.
All’improvviso, il peggior crampo della sua vita gli contrasse
contemporaneamente ogni singolo muscolo del corpo. Holden morse
selvaggiamente il paradenti di gomma e gridò. Il dolore portò con sé
un oblio che era quasi un sollievo. La sua mente si spense,
sopraffatta dai bisogni del corpo. Fortunatamente o meno, i farmaci
cominciarono a fare il loro effetto. I muscoli si distesero. I nervi
smisero di urlare e la coscienza tornò in lui come uno scolaretto
recalcitrante. La mascella protestò dolorosamente quando si tolse il
paradenti. Aveva lasciato il solco dei denti nella gomma.
Nella tenue luce blu della cabina, Holden rifletté sul tipo di uomo
che potesse eseguire l’ordine di distruggere una nave di civili.
Quando era nella marina militare aveva fatto delle cose che
l’avevano tenuto sveglio per diverse notti. Aveva eseguito ordini con
cui era in veemente disaccordo. Ma inquadrare nel mirino una nave
civile con cinquanta persone a bordo e premere il pulsante che
sganciava sei testate nucleari... quello si sarebbe rifiutato di farlo. Se
il suo ufficiale in comando avesse insistito, l’avrebbe dichiarato un
ordine illegale e avrebbe preteso che il vicecomandante prendesse il
controllo della nave e facesse arrestare il capitano. Si sarebbe fatto
sparare, piuttosto che lasciar libera la postazione di tiro.
Però conosceva il tipo di personaggio che avrebbe potuto eseguire
un ordine del genere. Si disse che erano sociopatici e bestie, che
non erano meglio di pirati disposti ad assaltare una nave, smontarne
il propulsore e svuotarla di ossigeno. Che non erano umani.
Ma perfino mentre alimentava il proprio livore, con il conforto
nichilistico di una nebbiosa rabbia medicinale, non riusciva a credere
che fossero solo degli idioti. Quella vocina in fondo alla sua testa
continuava a ripetere: perché? Chi è che ha da guadagnare dalla
distruzione di un cargo frigorifero? Chi è che prende i soldi? C’è
sempre qualcuno che li prende.
Ti troverò. Ti troverò, e porrò fine alla tua esistenza. Prima di farlo,
però, ti lascerò spiegare.
La seconda ondata di medicinali esplose nel suo sistema
circolatorio. Si sentì ardente e molle, con le vene piene di sciroppo.
Appena prima che il sedativo gli facesse perder conoscenza, Ade
sorrise e gli fece l’occhiolino.
E si disperse come polvere nel vento.
Il sistema di comunicazione trillò. La voce di Naomi disse: «Jim, è
arrivata la risposta della P&K. Vuoi che te la mandi laggiù?»
Holden fece fatica a dare un senso a quelle parole. Sbatté le
palpebre. Qualcosa non andava con la sua branda. Con la nave. A
poco a poco, ricordò tutto.
«Jim?»
«No» rispose lui. «Voglio guardarla sul ponte operativo insieme a
voi. Quanto tempo ho dormito?»
«Tre ore» disse lei.
«Cristo. Se la sono presa comoda per risponderci, eh?»
Holden rotolò fuori dal suo sedile e si strofinò le crosticine che gli si
erano formate sugli occhi, appiccicandogli le ciglia. Aveva pianto nel
sonno. Si disse che era per via della dose. Il dolore sordo che
sentiva nel petto erano soltanto cartilagini sotto pressione.
Che diavolo hanno fatto per tre ore, prima di richiamarci?, si
chiese.
Naomi lo aspettava alla postazione radio; sullo schermo di fronte a
lei c’era il viso di un uomo in fermo immagine, a metà parola. Aveva
un’aria familiare.
«Quello non è il direttore operativo.»
«No. È il consigliere legale della P&K della Stazione di Saturno. Ti
ricordi quello che fece quel discorso dopo il casino scoppiato con il
caso dei furtarelli sulla fornitura?» disse Naomi. «‘Rubare a noi è
come rubare a voi stessi’... hai presente? Quello.»
«Un avvocato» osservò Holden con una smorfia. «Deve trattarsi di
brutte notizie, allora.»
Naomi fece ripartire da capo il messaggio. L’avvocato tornò a
muoversi.
«James Holden, qui è Wallace Fitz che le parla, dalla Stazione di
Saturno. Abbiamo ricevuto la sua richiesta di aiuto e il suo rapporto
sull’incidente. Abbiamo anche ricevuto il comunicato in cui accusa
Marte di aver distrutto la Canterbury. È stata una mossa a dir poco
sconsiderata. Mi sono ritrovato in ufficio il rappresentante marziano
della Stazione di Saturno nemmeno cinque minuti dopo la ricezione
del suo comunicato, e l’RCM è decisamente irritata per quella che
considerano essere un’accusa di pirateria infondata rivolta contro il
loro governo.
«Per aiutare a indagare sulla faccenda e a scoprire i veri
responsabili di questo misfatto, se esistono, la Marina della
Repubblica Congressuale Marziana ha inviato una delle sue navi dal
sistema di Giove per venirvi a prendere. Il nome del vascello è la
MRCM Donnager. I suoi ordini da parte della P&K sono i seguenti:
procederete alla massima velocità verso il sistema gioviano;
mostrerete piena collaborazione alle istruzioni impartite dalla MRCM
Donnager o da qualunque altro ufficiale della Marina della
Repubblica Congressuale Marziana. Assisterete l’MRCM nella loro
indagine sulla distruzione della Canterbury. E lei si farà premura di
evitare di rilasciare qualunque altro comunicato tranne che a noi o
alla Donnager.
«Se mancherà di eseguire le istruzioni impartitele dalla compagnia
e dal governo di Marte, il suo contratto con la P&K sarà considerato
risolto, e lei sarà ritenuto illegalmente in possesso di un veicolo
shuttle di proprietà della P&K. In tal caso non esiteremo a perseguirvi
con ogni mezzo legale a nostra disposizione.
«Wallace Fitz, passo e chiudo.»
Holden si accigliò davanti al monitor, poi scosse la testa.
«Non ho mai accusato Marte.»
«In un certo senso, l’hai fatto» rispose Naomi.
«Non ho detto niente che esulasse dai fatti e che non fosse
corroborato dai dati che ho trasmesso; non mi sono permesso
nessuna speculazione su quei fatti.»
«Allora» disse Naomi. «Che cosa facciamo?»
«No e poi no, cazzo» esclamò Amos. «Cazzo, no.»
La cambusa era uno spazio ristretto. In cinque la riempivano
scomodamente. Le pareti di laminato grigio mostravano segni lucidi,
a spirale, nei punti in cui la muffa era cresciuta ed era stata ripulita
con microonde e spugna d’acciaio. Shed era seduto con la schiena
appoggiata alla parete, Naomi sul tavolo. Alex era rimasto nel
corridoio. Amos aveva cominciato a camminare in cerchio in fondo –
due passi veloci, poi una giravolta – prim’ancora che l’avvocato
finisse la sua prima frase.
«Non fa piacere neanche a me. Ma questi sono gli ordini della
sede centrale» disse Holden, indicando lo schermo della cambusa.
«Non avevo intenzione di mettervi nei guai.»
«Non c’è problema, Holden. Continuo a pensare che tu abbia fatto
la cosa giusta» rispose Shed, passandosi una mano tra i capelli
biondi. «Allora, cosa pensate che faranno, con noi, i marziani?»
«Direi che ci spezzeranno le dita a una a una finché Holden non
emetterà un altro fottuto comunicato per dire che non sono stati
loro» rispose Amos. «Che cazzo sta succedendo? Ci hanno
attaccato, e ora noi dovremmo cooperare? Hanno ammazzato il
capitano!»
«Amos» disse Holden.
«Scusa, Holden. Capitano» riprese Amos. «Ma, per la barba di
Cristo, stanno cercando di fotterci, e non nel senso piacevole del
termine. Non vorremo mica fare come ci dicono, vero?»
«Non ho alcuna voglia di scomparire in una qualche nave prigione
marziana» disse Holden. «Per come la vedo io, abbiamo due
possibilità: o facciamo quel che dicono, il che equivale a metterci alla
loro mercé; oppure ci diamo alla fuga, cerchiamo di raggiungere la
Fascia e ci nascondiamo.»
«Io voto per la Fascia» esclamò Naomi, a braccia incrociate. Amos
alzò una mano, assecondando la mozione. Shed alzò esitante la
sua.
Alex scosse la testa.
«Conosco bene la Donnager» disse. «Non è una saltarocce
qualunque. È la nave ammiraglia della flotta di Giove dell’MRCM.
Nave da guerra. Un quarto di milione di tonnellate di brutte notizie.
Avete mai prestato servizio su una nave di quella portata?»
«No. Non sono mai stato su navi più grandi di un
cacciatorpediniere» rispose Holden.
«Io ho prestato servizio sulla Bandon, con la flotta madre. Non
esiste alcun luogo in cui una nave del genere non possa
rintracciarci. Ha quattro motori principali, ognuno dei quali più grande
dell’intero shuttle su cui ci troviamo. È progettata per lunghe tratte ad
alta gravità, con ogni marinaio a bordo dosato fino al midollo. Non
possiamo fuggire, signore, e se anche ci riuscissimo i suoi sensori
sono in grado di individuare una pallina da golf e di colpirla con un
missile dall’altra parte del sistema solare.»
«Ah, fanculo, signore» disse Amos, alzandosi in piedi. «Questi
marziani col cazzo a spillo hanno fatto saltare la Cant! Io dico di
fuggire. Almeno rendiamogli la vita difficile.»
Naomi posò una mano sull’avambraccio di Amos e il grosso
meccanico si zittì, scosse la testa e si sedette. La cambusa rimase in
silenzio. Holden si chiese se McDowell si fosse mai trovato di fronte
a una decisione del genere, e che cosa avrebbe fatto il vecchio.
«Jim, la decisione spetta a te» disse Naomi, ma il suo sguardo era
glaciale. No, invece. Quello che farai sarà portare in salvo i quattro
membri rimasti del tuo equipaggio. E questo è quanto.
Holden annuì e si tamburellò le dita sulle labbra.
«La P&K non è al nostro fianco, stavolta. Probabilmente non
possiamo fuggire, ma non voglio nemmeno scomparire» dichiarò
Holden. Poi aggiunse: «Io dico di andare, ma di non andare in
silenzio. Possiamo sempre disobbedire allo spirito di un ordine...»
Naomi terminò di lavorare sul pannello di comunicazione, con i
capelli che le fluttuavano intorno come una nuvola nera a gravità
zero.
«Okay, Jim. Butto tutti i watt che abbiamo nel sistema di
comunicazione. Lo riceveranno forte e chiaro fino a Titania» disse.
Holden alzò una mano per passarsela tra i capelli madidi di sudore.
L’assenza di gravità li faceva spuntare dritti come un fuso in ogni
direzione. Si richiuse la zip della tuta e premette il pulsante di
registrazione.
«Sono James Holden, precedentemente della Canterbury, ora a
bordo dello shuttle Knight. Intendiamo cooperare per scoprire chi
abbia distrutto la Canterbury e, nel quadro di tale cooperazione,
accettiamo di essere accolti sulla vostra nave, la MRCM Donnager.
Speriamo vivamente che tale cooperazione significhi che non
saremo fatti prigionieri né che ci venga fatto alcun male. Qualunque
azione di questo tipo non farebbe altro che corroborare l’idea che la
Canterbury sia stata distrutta da un vascello marziano. James
Holden, passo e chiudo.»
Holden si appoggiò allo schienale. «Naomi, trasmettilo sulla banda
larga.»
«È uno sporco trucchetto, capo» disse Alex. «Sarà dura sparire,
adesso.»
«Credo fermamente negli ideali di una società trasparente, signor
Kamal» rispose Holden. Alex sorrise cupo, si diede una spinta contro
la paratia e fluttuò giù lungo la passerella. Naomi picchiettò sul
pannello di controllo, con un verso soddisfatto in fondo alla gola.
«Naomi» disse Holden. Lei si voltò con i capelli che ondeggiavano
pigramente, come se stesse affogando. «Se dovesse andar male, ho
bisogno che tu... che tu...»
«Che io ti dia in pasto ai lupi» terminò lei. «Che ti accolli tutte le
colpe per riportare sani e salvi gli altri sulla Stazione di Saturno.»
«Già» disse Holden. «Non fare l’eroina.»
Lei lasciò che quelle parole aleggiassero tra loro finché non ebbero
esaurito tutta la loro ironia.
«Non mi è mai passato per la testa, signore» disse.
«Knight, qui è il capitano Theresa Yao della MRCM Donnager» disse
la donna dall’aspetto severo sullo schermo del pannello di
comunicazione. «Messaggio ricevuto. Astenetevi da ogni ulteriore
comunicazione su banda larga. Il mio navigatore vi farà avere a
breve le coordinate di rotta. Seguite esattamente le sue indicazioni.
Yao, passo e chiudo.»
Alex scoppiò a ridere.
«Mi sa che l’hai fatta incazzare» disse. «Ho le coordinate per la
rotta. Ci recupereranno tra tredici giorni. Così avrà tempo di
rimuginarci perbene.»
«Tredici giorni prima di farmi ammanettare e riempire di chiodi
sotto le unghie» sospirò Holden, appoggiandosi allo schienale del
suo sedile. «Be’, sarà meglio dare inizio al nostro viaggio verso la
prigionia e la tortura. Imposti la rotta secondo le coordinate
trasmesse, signor Kamal.»
«Ricevuto, capi... Uhm» disse Alex.
«C’è qualche problema?»
«Be’, il Knight ha appena effettuato il controllo pre-accelerazione
alla ricerca di possibili oggetti in rotta di collisione» rispose Alex. «E
abbiamo sei oggetti in arrivo dalla Fascia che intercetteranno la
nostra rotta.»
«Dalla Fascia?»
«Contatti ad alta velocità, privi di segnale transponder» rispose
Alex. «Sono velivoli, ma procedono sotto copertura. Ci
intercetteranno due giorni prima della Donnager.»
Holden aprì il suo display. Sei piccole tracce giallo-arancioni, che
passavano al rosso. Massima accelerazione.
«Be’» disse Holden, rivolto allo schermo. «E voi chi diavolo siete?»
8

Miller

«Politiche di aggressione a danno della Fascia: ecco ciò su cui la


Terra e Marte basano la propria sopravvivenza. La nostra debolezza
è la loro forza» disse la donna mascherata dallo schermo del
terminale di Miller. Alle sue spalle campeggiava il cerchio spezzato
dell’APE, come se fosse stato dipinto su un foglio. «Non abbiate
paura di loro. Il loro unico potere è la vostra paura.»
«Be’, sì. Quello, e un centinaio di navi da guerra o giù di lì» disse
Havelock.
«Da quel che ho sentito dire,» aggiunse Miller «se batti le mani e
dici di aver fede, non ti possono sparare.»
«Dovremmo provarci, qualche volta.»
«Dobbiamo ribellarci!» continuò la donna, con voce che si faceva
stridula. «Dobbiamo prendere il nostro destino in mano, prima che ci
venga strappato via! Guardate quel che è successo alla
Canterbury!»
Miller richiuse lo schermo e si appoggiò allo schienale della sedia.
La centrale fremeva di attività per il cambio turno, con le voci che si
accavallavano rumorosamente mentre le squadre in rientro
aggiornavano il personale che sarebbe subentrato sul campo. Il
profumo di caffè faceva a gara con il fumo delle sigarette.
«Ce ne saranno una dozzina, come lei» disse Havelock, con un
cenno del capo verso lo schermo ormai spento. «Lei però è la mia
preferita. A volte mi sembra quasi di vederla con la schiuma alla
bocca.»
«Quanti altri file ci sono?» chiese Miller, e il suo partner si strinse
nelle spalle.
«Due, trecento» rispose Havelock, e fece un tiro di sigaretta. Aveva
ricominciato a fumare. «In poche ore ne arriva uno nuovo. Non
provengono tutti dallo stesso posto. A volte trasmettono via radio.
Altre volte i file appaiono sulle partizioni pubbliche. Orlan ha trovato
dei tizi in un bar del porto che distribuivano quei piccoli opuscoli RV
come fossero pamphlet.»
«Li ha arrestati?»
«No» rispose Havelock, come se non fosse niente di che.
Era passata una settimana da quando James Holden, martire
autoproclamato, aveva orgogliosamente annunciato che lui e il suo
equipaggio sarebbero andati a parlare con qualcuno della marina
militare marziana invece di limitarsi a spalare merda a caso e
pericolose insinuazioni su tutti loro. Il video della distruzione della
Canterbury era ovunque, e continuavano a fioccare dibattiti su ogni
singolo frame: se i file di registro che documentavano l’accaduto
fossero perfettamente autentici, o chiaramente manomessi; se i
missili che avevano polverizzato la nave cargo fossero testate
nucleari, o armi di pirateria comune che avevano colpito il propulsore
per errore, o se fosse tutto un artifizio ripreso tale e quale da un
qualche vecchio video di repertorio per insabbiare ciò che aveva
realmente distrutto la Canterbury.
Le rivolte erano durate per tre giorni, a sprazzi, come un fuoco
tanto bizzoso da ravvivarsi ogni volta che trovava nuovo ossigeno.
Gli uffici amministrativi avevano riaperto sotto severa sorveglianza,
ma erano pur sempre aperti. I moli erano in ritardo, ma si stavano
riallineando. Il bastardo a petto nudo a cui Miller aveva fatto sparare
era confinato nell’infermeria penitenziaria della Star Helix, in attesa
di ricevere un nuovo paio di ginocchia, intento a riempire formulari di
protesta contro Miller e a prepararsi ad affrontare il suo processo per
omicidio.
Seicento metri cubi di azoto erano scomparsi da un magazzino nel
settore quindici. Una prostituta abusiva era stata picchiata e
rinchiusa in un’unità d’immagazzinamento; non appena avesse finito
di fornire i dettagli per incastrare i suoi aggressori, sarebbe stata
arrestata. Avevano pizzicato i ragazzini che avevano sfasciato le
telecamere di sorveglianza del livello sedici. In apparenza, tutto era
tornato come prima.
Solo in apparenza.
Quando Miller aveva cominciato a lavorare alla omicidi, una delle
cose che l’aveva colpito era la calma surreale delle famiglie delle
vittime. Persone che avevano appena perso mogli, mariti, figli e
amanti. Persone le cui vite erano appena state marchiate dalla
violenza. La maggior parte delle volte, offrivano da bere agli
investigatori e rispondevano con calma alle loro domande,
preoccupandosi di accoglierli nel modo più cortese possibile. Un
civile inconsapevole dei fatti avrebbe potuto scambiarle per persone
normali. Era soltanto dalla maniera cauta con cui si muovevano, da
quella frazione di secondo di ritardo con cui mettevano a fuoco i loro
occhi, che Miller riusciva a scorgere quanto fosse profondo il danno
subìto.
La Stazione di Ceres si muoveva con cautela. I suoi occhi
impiegavano una frazione di secondo in più per mettere a fuoco. Il
ceto medio – negozianti, manutentori, tecnici informatici – cercava di
evitarlo, nel tubo, alla maniera dei piccoli criminali. Quando Miller era
nei paraggi, ogni conversazione si spegneva. Nella centrale stava
crescendo la sensazione di essere sotto assedio. Un mese prima,
Miller e Havelock, Cobb e Richter e tutti gli altri erano la mano ferma
della legge. Ora erano gli impiegati di un’impresa appaltante con
base sulla Terra.
La differenza era sottile ma profonda. Gli faceva venir voglia di
stare più dritto con la schiena, di mostrare con il proprio corpo che
era un cinturiano. Che apparteneva a quel posto. Gli faceva venir
voglia di riconquistarsi la fiducia della gente; di farla passare liscia a
un gruppo di tizi che distribuivano i loro opuscoli di realtà virtuale
limitandosi a un avvertimento, magari.
Non era un impulso intelligente.
«Che cosa c’è in serbo per noi?» chiese Miller.
«Due furti con scasso che sembrano appartenere alla stessa
mano» rispose Havelock. «Quella lite domestica della settimana
scorsa, di cui dobbiamo ancora chiudere il rapporto. C’è stato un
clamoroso assalto giù al Consorzio Importazioni Nakanesh, ma ho
visto Shaddid che ne parlava con Dyson e Patel, per cui immagino
che sia già stato avocato.»
«Per cui preferiresti...»
Havelock alzò gli occhi e si guardò intorno per nascondere il fatto
che stava distogliendo lo sguardo. Era una cosa che aveva
cominciato a fare sempre più spesso da quando le cose erano
andate in vacca.
«Bisogna davvero chiudere quei rapporti» disse Havelock. «Non
soltanto quello domestico. Ci sono ancora quattro o cinque faldoni
aperti soltanto perché devono ancora essere formalmente chiusi.»
«Già» confermò Miller.
Da quando c’erano state le rivolte, aveva visto come nei locali
servissero sempre tutti gli altri prima di Havelock. Aveva visto come
gli altri poliziotti, da Shaddid in giù, venissero da lui e si
sperticassero a rassicurarlo che lui faceva parte dei buoni, come una
tacita scusa per averlo messo in coppia con un terrestre. E si era
accorto che l’aveva notato anche Havelock.
Gli faceva venir voglia di proteggere quell’uomo, lasciando che
passasse le sue giornate al sicuro tra le scartoffie e il caffè della
centrale di polizia; di aiutarlo a far finta che non fosse odiato per via
della gravità in cui era cresciuto.
Neanche quello era un impulso intelligente.
«E che mi dici del tuo caso patacca?» chiese Havelock.
«Cosa?»
Havelock tirò su un faldone. Il caso Julie Mao. L’incarico di
rapimento. Il caso secondario. Miller annuì e si strofinò gli occhi.
Qualcuno in fondo alla sala gridò. Qualcun altro rise.
«Già... No» rispose Miller. «Non l’ho più toccato.»
Havelock sorrise e glielo porse. Miller accettò il fascicolo e lo aprì.
La diciottenne gli sorrideva dalla fotografia con i suoi denti perfetti.
«Non voglio impastoiarti qui con tutte queste scartoffie da ufficio»
disse Miller.
«Ehi, non sei tu quello che mi ha tenuto fuori da questo caso. L’ha
deciso Shaddid. E comunque... sono soltanto scartoffie. Non hanno
mai ucciso nessuno. Se ti senti in colpa, puoi sempre pagarmi una
birra a fine turno.»
Miller picchiettò sulla cartellina sull’angolo della scrivania,
allineandone il contenuto sulla costina.
«E va bene» disse. «Vado a fare un po’ di ricerca su questa
patacca. Sarò di ritorno per pranzo, scriverò due righe per tenere
buono il capo.»
«Mi trovi qui» replicò Havelock. Poi, mentre Miller si alzava,
aggiunse: «Ehi, senti... Non volevo dire niente finché non ne fossi
stato sicuro, ma non mi va nemmeno che tu lo venga a sapere da
qualcun altro...»
«Hai fatto richiesta di trasferimento?» chiese Miller.
«Già. Ho parlato con alcuni di quegli appaltatori della Protogen che
sono passati da qui. Mi hanno detto che la loro sede di Ganimede è
in cerca di un nuovo ispettore capo. E ho pensato...» Havelock si
strinse nelle spalle.
«È una mossa intelligente» osservò Miller.
«Voglio solo andare in un posto che abbia un cielo, anche se
magari tocca guardarlo attraverso una cupola» disse Havelock, e
tutta la pretesa mascolinità del lavoro di poliziotto non poteva
mascherare la nostalgia che traspariva dalla sua voce.
«Sì, una mossa intelligente» ripeté Miller.
Il buco di Juliette Andromeda Mao era al nono livello di un tunnel a
quattordici piani, vicino al porto. Quella grande V invertita era ampia
quasi mezzo chilometro alla sommità e non più della larghezza
standard di un tubo sul fondo; era il risultato dell’ammodernamento
di una delle dodici camere di massa di reazione, datato negli anni
precedenti al momento in cui all’asteroide era stata conferita la sua
falsa gravità. E ora, migliaia di buchi economici ne punteggiavano le
pareti, a centinaia per livello, sviluppandosi dritti come una canna di
fucile. Dei bambini giocavano sulle strade terrazzate,
schiamazzando e ridendo per un nonnulla. Qualcuno in fondo stava
facendo volare un aquilone nella dolce brezza costante del tunnel, e
quello scintillante diamante di polietilene tereftalato scartava e
sobbalzava inquieto. Miller confrontò il suo terminale con i numeri
segnati sulla parete. 5151-I. Ecco la casa dolce casa di quella povera
ragazzina ricca.
Digitò il codice di override e la porta di un verde sporco si aprì,
lasciandolo entrare.
Il buco proseguiva in profondità nel corpo della stazione. C’erano
tre piccole stanze: uno spazio abitativo generico sul davanti, poi una
stanza da letto appena più larga del letto che conteneva, quindi un
box con doccia, water e lavandino, tutti attaccati tra loro. Era una
conformazione standard. L’aveva già vista mille volte.
Miller rimase lì in piedi per un minuto, senza guardare niente in
particolare, ascoltando il sibilo rassicurante dell’aria in ricircolo
attraverso le condutture. Sospese il giudizio, aspettando che il suo
inconscio si costruisse un’impressione del posto e, per estensione,
della ragazza che abitava lì.
‘Spartano’ era un aggettivo inesatto. Quel posto era semplice,
certo: le uniche decorazioni erano un piccolo acquerello incorniciato
del viso vagamente astratto di una donna sul tavolo della sala
d’ingresso, e un grappolo di placche delle dimensioni di carte da
gioco sopra il letto nella seconda stanza. Un riconoscimento formale
di assegnazione della cintura viola da parte del centro jiu-jitsu di
Ceres a Julie Mao – non Juliette. Un altro che la faceva avanzare a
cintura marrone. Tra l’uno e l’altro passavano due anni. Una scuola
seria, quindi. Miller fece scorrere le dita sullo spazio vuoto dove
sarebbe potuta andare la placca per la nera. Non c’era nessuna
ostentazione – niente stelline da lancio fasulle o spade finte. Solo un
semplice riconoscimento di ciò che Julie Mao aveva fatto. Miller
gliene diede merito.
I cassetti avevano due cambi d’abito; uno di tela pesante e jeans e
un altro di lino blu con una sciarpa di seta. Uno per il lavoro, l’altro
per il divertimento. Era meno di quanto possedesse lui, e non si
poteva certo dire che il suo guardaroba fosse fornito.
Tra i suoi calzini e l’intimo c’era un largo bracciale con il cerchio
spezzato dell’APE. Non era certo una sorpresa, per una ragazza che
aveva voltato le spalle alla ricchezza e ai privilegi per vivere in un
cesso del genere. Il frigo conteneva due contenitori pieni di cibo a
portar via scaduto e una bottiglia di birra locale.
Miller esitò, poi prese la birra. Si sedette al tavolo e attivò il
terminale interno del buco. Proprio come gli aveva assicurato
Shaddid, la partizione di Julie si aprì con la password immessa da
Miller.
Lo sfondo personalizzato era una pinaccia da corsa. L’interfaccia
era stata personalizzata con piccole icone leggibili. Comunicazione,
Svago, Lavoro, Documenti personali. ‘Elegante.’ Era quello,
l’aggettivo giusto. Non spartano, ma elegante.
Scorse rapidamente i file professionali della ragazza, lasciando la
mente libera di farsi un’idea d’insieme, proprio come aveva fatto con
la prima sala. Ci sarebbe stato tempo per un’esplorazione più
rigorosa, e una prima impressione si rivelava solitamente più utile di
un’intera enciclopedia. C’erano dei video di addestramento su
diverse navi da trasporto. Alcuni archivi politici, ma niente di
allarmante. Un volume scansionato di poesie composte da alcuni dei
primi coloni della Fascia.
Miller passò alla corrispondenza personale. Era tenuta in maniera
ordinata e controllata come quella di un vero cinturiano. Tutti i
messaggi in entrata erano filtrati in sottocartelle: Lavoro, Personale,
Trasmissione, Shopping. Miller aprì Trasmissione. Dentro trovò due
o trecento segnalazioni da notiziari, sintesi di gruppi di discussione,
bollettini e annunci. Alcuni erano stati visti, a spizzichi e bocconi, ma
non c’era niente che denotasse una sorta di religiosa osservanza.
Julie era il tipo di donna pronta a sacrificarsi per una causa, ma non
di quelle che si divertivano a leggere testi di propaganda. Miller
cominciò a riempire il suo profilo.
Shopping era una sottocartella piena di messaggi da parte di
semplici negozianti. Alcune ricevute, pubblicità, richieste di beni e
servizi. La cancellazione di una richiesta di accesso a una cerchia di
single della Fascia attirò la sua attenzione. Julie si era iscritta al
servizio di incontri ‘a bassa gravità e senza pressioni’ nel febbraio
dell’anno precedente, e aveva disdetto a giugno senza mai averne
fatto uso.
La cartella Personale era più variegata. Di primo acchito,
sembravano esserci una settantina di sottocartelle ordinate per
nome. Alcune facevano riferimento a delle persone: Sascha Lloyd-
Navarro, Ehren Michaels... Altre erano annotazioni private: Circolo di
Sparring, APE.
Inutili Sensi di Colpa.
«Be’, questa potrebbe essere interessante» disse Miller al buco
vuoto.
Cinquanta messaggi che risalivano fino a cinque anni prima, tutti
segnati come provenienti dalle stazioni mercantili Mao-Kwikowski
della Fascia e di Luna. A differenza delle notizie politiche, quei
messaggi erano stati tutti aperti tranne uno.
Miller prese un sorso di birra e considerò i due messaggi più
recenti. L’ultimo, ancora segnato come non letto, era da parte di
JPM. Jules-Pierre Mao, tirando a indovinare. Quello
immediatamente precedente mostrava tre risposte in bozze,
nessuna delle quali era stata inviata. Era da parte di Ariadne. La
madre.
C’era sempre un elemento di voyeurismo nell’essere investigatore.
Per lui era legale starsene lì, a curiosare nella vita privata di una
donna che non aveva mai nemmeno conosciuto. Faceva parte della
sua legittima attività d’indagine, sapere che si sentiva sola, che le
cose che aveva in bagno erano soltanto sue. Che era orgogliosa.
Nessuno avrebbe avuto niente da ridire, o perlomeno nulla che
potesse avere ripercussioni sul suo lavoro, se avesse letto ogni
singolo messaggio presente sulla sua partizione. Bere la sua birra
era la cosa eticamente più sospetta che avesse fatto dal momento in
cui era entrato.
Eppure esitò comunque qualche istante prima di aprire il penultimo
messaggio.
Lo schermo cambiò. Con un terminale di miglior qualità sarebbe
stato uguale all’effetto dell’inchiostro su carta, ma il sistema di Julie
aveva qualche difficoltà a rendere quelle righe tanto sottili ed
emetteva un tenue bagliore sul lato sinistro. La scrittura era delicata
e ben leggibile, ottenuta con un software calligrafico abbastanza
buono da variare impercettibilmente la forma e le dimensioni delle
lettere, oppure direttamente tracciata a mano.
Tesoro,
spero che tutto stia andando per il meglio. Vorrei tanto che mi scrivessi di
tua spontanea volontà, ogni tanto. Ho l’impressione di dover fare una
richiesta in carta bollata soltanto per sapere come stia mia figlia. So bene
che tutta questa tua avventura riguarda questa faccenda della libertà e
dell’autosufficienza, ma di certo dovrà pur esserci un po’ di spazio per un
minimo di premura filiale...
Volevo avere tue notizie soprattutto perché tuo padre sta di nuovo
attraversando una delle sue fasi di consolidamento, e stavamo pensando
di vendere la Razorback. So che un tempo era importante per te, ma
immagino che abbiamo tutti abbandonato l’idea che tu corra di nuovo.
Ormai è soltanto una spesa, e non c’è più spazio per i sentimentalismi.

Era firmata con due fluide iniziali: AM.


Miller rifletté su quelle parole. In qualche modo, si era aspettato
che i ricatti affettivi dei ricchi fossero vagamente più discreti. Se non
fai come ti diciamo, butteremo il tuo giocattolo. Se non scrivi. Se non
torni a casa. Se non ci ami.
Miller aprì la prima bozza lasciata incompleta.
Madre – se così insisti a chiamarti,
grazie mille per aver gettato un altro po’ di merda sulla mia giornata. Non
riesco a credere che tu possa essere tanto egoista, gretta e crudele. Non
riesco a pensare che tu riesca a dormire la notte, o che abbia mai pensato
che io potessi

<Miller saltò il resto. Il tono sembrava coerente con la premessa.


La seconda bozza era stata scritta due giorni dopo. Passò
direttamente a quella.
Mamma,
mi dispiace che ci siamo tanto allontanate in questi ultimi anni. So che è
stata dura per te e papà. Spero che tu riesca a capire che le decisioni che
ho preso non erano intese a ferirvi.
E, per quanto riguarda la Razorback, vorrei che tu ci ripensassi. È stata la
mia prima nave, e

La lettera s’interrompeva lì. Miller si appoggiò allo schienale della


sedia.
«Sei una ragazzina decisa, insomma» disse a un’immaginaria
Julie, poi aprì l’ultima bozza.
Ariadne,
fa’ quel che devi fare.
Julie

Miller scoppiò a ridere e alzò la bottiglia verso lo schermo in un


brindisi di ammirazione. Avevano saputo colpirla dove faceva più
male, e Julie aveva incassato il colpo. Se mai fosse riuscito ad
acciuffarla e a rispedirla a casa, sarebbe stata una brutta giornata
per entrambi. Anzi, per tutti loro.
Finì la birra, gettò la bottiglia nel tubo di riciclo e aprì l’ultimo
messaggio. Aveva quasi timore di conoscere il destino fatale della
Razorback, ma sapere più cose possibili faceva parte del suo lavoro.
Julie,
non è uno scherzo. Non si tratta di una delle solite crisi isteriche di tua
madre. Ho informazioni certe che la Fascia diventerà presto un luogo
estremamente pericoloso. Qualsiasi siano le nostre divergenze, potremo
sempre risolverle in un secondo momento.
PER IL TUO BENE, TORNA SUBITO A CASA.

Miller si accigliò. Il ricircolo d’aria continuava a ronzare. Fuori, i


bambini del posto schiamazzavano rumorosamente. Picchiettò sullo
schermo, chiudendo l’ultimo messaggio di Inutili Sensi di Colpa, poi
lo riaprì.
Era stato mandato da Luna, due settimane prima che James
Holden e la Canterbury evocassero lo spettro della guerra tra Marte
e la Fascia.
Quel caso secondario si stava facendo interessante.
9

Holden

«Le navi in avvicinamento continuano a non rispondere» disse


Naomi, inserendo una chiave di comando sul pannello di
comunicazione.
«Non mi aspettavo che lo facessero. Ma voglio mostrare alla
Donnager che siamo preoccupati di essere inseguiti. A questo punto
si tratta solo di pararci il culo» disse Holden.
Naomi si scrocchiò la schiena, stiracchiandosi. Holden tirò fuori
una barretta proteica dalla scatola che aveva in grembo e gliela tirò.
«Mangia.»
Naomi aprì la confezione mentre Amos risaliva la scala e si buttava
sul sedile accanto a lei. La sua tuta da lavoro era talmente sporca da
sembrare lucida. Proprio come per gli altri, tre giorni passati nello
spazio ristretto dello shuttle non avevano certo migliorato le sue
condizioni di igiene. Holden alzò una mano e si grattò i capelli unti
con disgusto. Il Knight era troppo piccolo per avere docce, e i
lavandini a gravità zero erano troppo piccoli per poterci infilare la
testa dentro. Amos aveva risolto il problema radendosi
completamente. Ora gli rimaneva soltanto un’aureola di peluria
ispida attorno alla pelata. In qualche modo, i capelli di Naomi erano
rimasti luminosi e quasi per niente unti. Holden si chiese come
facesse.
«Tirami un po’ di crocchette, vicecomandante» disse Amos.
«Capitano» lo corresse Naomi.
Holden tirò anche a lui una barretta proteica. Amos la prese al
volo, poi osservò la lunga confezione con disgusto.
«Porca puttana, capo, darei la mia palla sinistra per del cibo che
non avesse l’aspetto di un cazzo di gomma» disse Amos, poi
picchiettò scherzosamente su Naomi con la barretta, come a fare un
brindisi.
«A che punto siamo con l’acqua?» chiese Holden.
«Be’, ho passato la giornata a strisciare tra le paratie dello scafo.
Ho stretto tutto quello che si poteva stringere e ho spalmato resina
epossidica su tutto ciò su cui non si poteva, per cui direi che non
abbiamo alcuna perdita.»
«Io continuerei comunque a razionare al massimo, Jim» disse
Naomi. «I sistemi di riciclaggio del Knight sono scadenti. Lo shuttle
non è mai stato progettato per riprocessare gli escrementi di cinque
persone per due intere settimane.»
«Posso sopportare di stare a stecchetto. Dovremo solo imparare a
convivere con la puzza gli uni degli altri. Ero preoccupato di sentirmi
dire che non sarebbe minimamente bastata.»
«A tal proposito, me ne vado al mio armadietto a spruzzarmi un
altro po’ di deodorante» disse Amos. «Dopo una giornata intera
passata a strisciare nelle budella della nave, ho paura di non riuscir
nemmeno a dormire, per quanto puzzo.»
Amos buttò giù l’ultimo boccone di cibo e schioccò le labbra con
finta soddisfazione, poi si alzò dal sedile e tornò giù per la scala
dell’equipaggio. Holden diede un morso alla sua barretta. Sapeva di
cartone oliato.
«Che sta combinando Shed?» chiese. «È stato piuttosto
silenzioso, in questi giorni.»
Naomi posò quel che restava della sua barretta sul pannello di
comunicazione, accigliandosi.
«Te ne volevo parlare. Non se la sta cavando bene, Jim. Di tutti
noi, è quello che ha più problemi ad accettare... ciò che è successo.
Tu e Alex siete entrambi uomini della marina militare. Siete stati
addestrati in caso di perdita di compagni di volo. Amos è nel ramo
da talmente tanto tempo che, incredibile a dirsi, questa è la terza
nave che va a farsi benedire mentre è in servizio.»
«E tu sei fatta interamente di ghisa e titanio» aggiunse Holden,
facendo finta di scherzare.
«Non del tutto. All’ottanta, novanta percento massimo» replicò
Naomi con un mezzo sorriso. «Dico sul serio. Credo che dovresti
andarci a parlare.»
«Per dirgli cosa? Non sono uno psicologo. La versione militare di
questo tipo di discorsi tira in ballo il dovere, il sacrificio per l’onore e
la vendetta per i compagni caduti. Non funziona per niente bene
quando i tuoi amici sono stati ammazzati senza alcun motivo
apparente e non c’è sostanzialmente la minima possibilità di poterci
far nulla.»
«Non ho detto che dovevi farlo star meglio. Ho detto che devi
andarci a parlare.»
Holden si alzò dal sedile facendo il saluto militare.
«Sì, signora» rispose. Fece una pausa prima di scendere la scala.
«Grazie ancora, Naomi. Sarei davvero...»
«Lo so. Ora va’ a fare il capitano» disse lei, tornando a occuparsi
del suo pannello e richiamando la schermata operativa dello shuttle.
«Io continuerò a fare ciao con la manina ai nostri vicini.»
Holden trovò Shed nella piccola infermeria del Knight. Più che altro
una sorta di ripostiglio. A parte una brandina rinforzata, i pensili con i
rifornimenti medici e una mezza dozzina di strumenti a parete, c’era
spazio appena per uno sgabello attaccato al pavimento con dei
piedini magnetici. Shed era seduto su di esso.
«Ehi, amico, ti spiace se entro?» chiese Holden. Ho davvero detto
‘Ehi amico’?
Paul si strinse nelle spalle e attivò una schermata d’inventario sul
pannello a parete, aprendo vari cassetti e fissandone il contenuto.
Facendo finta di essere impegnato in qualcosa.
«Senti, Shed. Questa faccenda della Canterbury è stata dura per
tutti, e tu hai...» cominciò a dire Holden. Shed si voltò, tenendo tra le
mani un tubetto bianco.
«Una soluzione di acido acetico al tre percento: mi ero scordato
che ne avessimo, qui. Sulla Cant siamo a corto, e a bordo ho tre
persone affette da condilomi a cui farebbe davvero comodo. Mi
chiedo perché l’abbiano messa sul Knight, davvero» rispose Shed.
«Condilomi?» fu tutto quello che riuscì a replicare Holden.
«Verruche genitali. La soluzione di acido acetico è un trattamento
per qualunque tipo di verruca. Le brucia. Fa un male cane, ma
funziona bene. Non c’è motivo di tenerla qui sullo shuttle.
L’inventario medico è sempre così incasinato...»
Holden aprì la bocca per intervenire, non trovò niente da dire e la
richiuse.
«Abbiamo crema di acido acetico,» continuò Shed, con voce un po’
più stridula «ma niente elemcet per il dolore. Che cosa sarebbe più
sensato avere, su uno shuttle? Se avessimo trovato qualcuno con
un brutto caso di condilomi su quel relitto, saremmo stati a posto. E
se invece avesse avuto qualche osso rotto? Peccato, sei stato
sfortunato. Ti attacchi e tiri forte.»
«Senti, Shed» disse Holden, cercando di inserirsi.
«Ah, e senti questa: nessun acceleratore di coagulazione. Ma
come diavolo è possibile? Ehi, non c’è mica il rischio che durante
una missione di soccorso qualcuno possa, chissà, mettersi a
sanguinare... Farsi venire le bolle sull’attrezzo, sicuro, ma
sanguinare? Certo che no! Voglio dire, abbiamo quattro casi di
sifilide sulla Cant. Una delle infezioni più vecchie che esistano, e
ancora non riusciamo a liberarcene. Io lo dico sempre ai ragazzi: ‘Le
prostitute della Stazione di Saturno si fanno sbattere da tutti gli
spaccaghiaccio del circuito, quindi vedete di mettervelo, il guanto.’
Ma ti pare che mi diano retta? Certo che no. E allora eccoci qui, con
la sifilide e mai abbastanza ciprofloxacina.»
Holden sentì la sua mascella scivolare in avanti. Afferrò il telaio
della porta e si chinò nella saletta.
«Quelli sulla Cant sono tutti morti» disse Holden, pronunciando
ogni parola con forza e brutale chiarezza. «Sono tutti morti. Quegli
antibiotici non servono più a nessuno. E neppure la crema per le
verruche.»
Shed smise di parlare, e si svuotò di tutta l’aria come se avesse
incassato un pugno alla bocca dello stomaco. Richiuse i cassetti del
pensile e spense la schermata di inventario con piccoli movimenti
precisi.
«Lo so» disse piano. «Non sono stupido. Ho solo bisogno di un po’
di tempo.»
«Servirebbe a tutti. Ma siamo incastrati in questa lattina, e ci siamo
insieme. Sarò onesto: sono sceso quaggiù perché Naomi era
preoccupata per te ma, ora che sono qui, mi stai facendo davvero
spaventare. Ma va bene, perché ora il capitano sono io, e fa parte
delle mie mansioni. Però non posso permetterti di far stranire Alex o
Amos. Siamo a dieci giorni dall’essere recuperati da una nave da
guerra marziana, e la cosa mi spaventa già abbastanza senza che il
dottore cominci a dar di matto.»
«Non sono un dottore, sono soltanto un tecnico» rispose Shed, con
voce fioca.
«Sei il nostro dottore, va bene? Per i quattro che sono su questo
shuttle, sei il nostro dottore. Se Alex comincia ad accusare episodi di
stress post-traumatico e ha bisogno di medicine per darsi una
calmata, è da te che verrà. E se ti troverà quaggiù a farneticare di
verruche, si volterà, tornerà su nel cockpit e piloterà come capita.
Hai voglia di piangere? Fallo insieme a noi. Ci sederemo nella
cambusa a ubriacarci e frignare come bambini, ma lo faremo
insieme, al sicuro. Non nasconderti più quaggiù.»
Shed annuì.
«Possiamo farlo?» disse.
«Fare cosa?» chiese Holden.
«Ubriacarci e frignare come bambini.»
«Diavolo, sì. È sul programma ufficiale di stasera. A rapporto in
cambusa alle venti in punto, signor Garvey. E porti una tazza.»
Shed fece per replicare quando si attivò la linea di comunicazione
generale e Naomi disse: «Jim, vieni sul ponte operativo.»
Holden afferrò la spalla di Shed per un istante, poi tornò su.
Una volta in plancia, vide che Naomi aveva di nuovo attivato la
schermata di comunicazione e stava confabulando con Alex. Il pilota
scuoteva la testa e aggrottava la fronte. Sullo schermo brillava una
mappa.
«Che succede?» chiese Holden.
«Stiamo ricevendo un segnale laser diretto, Jim. Ci ha puntato e ha
cominciato a trasmettere appena un paio di minuti fa» rispose
Naomi.
«Dalla Donnager?» La nave da guerra marziana era l’unico
oggetto che poteva pensare fosse all’interno di un perimetro adatto
alla comunicazione laser.
«No. Dalla Fascia» disse Naomi. «E non si tratta di Ceres, né di
Eros, e nemmeno di Pallas. Non proviene da nessuna delle stazioni
più importanti.»
Indicò un puntino sul display.
«Proviene da qui.»
«Ma lì non c’è niente» osservò Holden.
«E invece no. Alex ha già controllato. Si tratta del sito di un grosso
progetto di costruzione su cui sta lavorando la Tycho. Non abbiamo
molti dettagli, ma i ritorni del radar sono piuttosto consistenti.»
«C’è qualcosa là fuori che ha un sistema di comunicazione in
grado di puntarci addosso un puntino laser delle dimensioni del tuo
ano da più di tre UA di distanza» disse Alex.
«Chiaro. Wow, impressionante. E che cosa dice il nostro puntino a
forma di ano?» chiese Holden.
«Non ci crederai mai» rispose Naomi, e attivò il playback.
Un uomo dalla pelle scura e con le ossa del viso pronunciate, da
terrestre, apparve sullo schermo. Aveva i capelli ingrigiti e il collo
nodoso di vecchi muscoli. Sorrise e disse: «Salve, James Holden. Il
mio nome è Fred Johnson.»
Holden premette il tasto pausa.
«Questo tizio ha una faccia conosciuta. Fa’ una ricerca nella banca
dati dello shuttle su quel nome» disse.
Naomi non si mosse; si limitò a fissarlo con uno sguardo incredulo
stampato in viso.
«Che c’è?» chiese lui.
«Quello è Frederick Johnson» rispose lei.
«E...?»
«Il colonnello Frederick Lucius Johnson.»
La pausa che seguì poteva essere durata un secondo o un’ora.
«Cristo» fu tutto ciò che Holden riuscì a replicare.
L’uomo sullo schermo era stato tra gli ufficiali più decorati
dell’esercito delle Nazioni Unite, e aveva finito con l’essere uno dei
suoi fallimenti più imbarazzanti. Per i cinturiani, Johnson era lo
sceriffo di Nottingham terrestre che si era trasformato in Robin Hood.
Per i terrestri, era l’eroe caduto in disgrazia.
Fred Johnson aveva cominciato la sua scalata al successo con
una serie di catture di alto profilo di pirati cinturiani, durante uno di
quei periodi di tensione tra la Terra e Marte che sembravano
riattizzarsi ogni qualche decina d’anni per poi svanire in una nube di
fumo. Ogni volta che le due superpotenze incrociavano le lame, il
crimine all’interno della Fascia aumentava. Il colonnello Johnson,
all’epoca capitano, e la sua piccola squadriglia di tre fregate
missilistiche distrussero una dozzina di navi pirata e due delle loro
basi principali nell’arco di due anni. Per quando la Coalizione aveva
smesso di bisticciare, la pirateria era stata praticamente sgominata
nella Fascia, e il nome di Fred Johnson era sulle labbra di tutti. Fu
promosso e gli venne attribuito il comando della divisione della
Marina della Coalizione incaricata del controllo della Fascia, dove
continuò a distinguersi.
Fino alla Stazione di Anderson.
Si trattava di un piccolo deposito merci dalla parte opposta della
Fascia rispetto al grande porto di Ceres; la maggior parte della
gente, inclusi i cinturiani, non sarebbe stata in grado di situare la
Stazione di Anderson su una mappa. Il suo unico attributo di una
qualche importanza era il fatto di essere uno snodo minore di
distribuzione di acqua e aria in uno dei punti più desolati della
Fascia. Poco meno di un milione di cinturiani ricevevano il loro
ossigeno da Anderson.
Gustav Marconi, un burocrate in carriera della Coalizione, di stanza
su quella stazione, decise di implementare una sovrattassa di
gestione del tre percento sulle merci di passaggio attraverso il suo
scalo, nella speranza di riuscire a incrementare i profitti. Meno del
cinque percento dei cinturiani che si rifornivano d’aria da Anderson
vivevano attaccati a una bombola, per cui sarebbero stati poco meno
di cinquantamila a dover rinunciare all’aria per un totale di un giorno
al mese. E soltanto a una minima percentuale di questi
cinquantamila mancava il margine necessario affinché i loro sistemi
di riciclo riuscissero a sopperire a questo trascurabile inconveniente.
Di questa minima percentuale, soltanto una piccola porzione decise
che il ricorso alle armi sarebbe stata la scelta migliore.
Fu per questo che, del milione di cinturiani coinvolti dalla
sovrattassa, furono soltanto in centosettanta a prendere d’assalto la
stazione e a gettare Marconi fuori da un portellone pressurizzato.
Dopodiché, pretesero che il governo estendesse loro la garanzia che
non sarebbero più state applicate sovrattasse di gestione sul prezzo
dell’aria e dell’acqua che passavano per quello scalo.
La Coalizione inviò il colonnello Johnson.
Durante il Massacro di Anderson, i cinturiani mantennero in
funzione le telecamere, continuando a trasmettere quel che
accadeva lì all’intero sistema solare. Tutti videro i marine della
Coalizione combattere una lunga e sanguinosa battaglia, corridoio
per corridoio, contro uomini che non avevano niente da perdere e
nessun motivo di arrendersi. La Coalizione vinse, com’era scontato,
ma ci vollero tre giorni di massacro in diretta. L’immagine
emblematica di quel video non fu una scena di combattimento, ma
l’ultimo fotogramma ripreso dalle telecamere di circuito prima che il
segnale venisse interrotto: il colonnello Johnson nella sala operativa
della stazione, circondato dai cadaveri straziati dei cinturiani che in
quel punto avevano opposto un’ultima, strenua resistenza, con gli
occhi fissi e inespressivi sulla carneficina e le mani inerti lungo i
fianchi.
Le Nazioni Unite cercarono di far passare sotto silenzio le
dimissioni del colonnello Johnson, ma la sua era una figura di spicco
nel dibattito pubblico. Il video della battaglia aveva dominato la rete
per settimane, scalzato soltanto quando l’ormai ex colonnello aveva
rilasciato una dichiarazione pubblica in cui si scusava per quel
massacro e annunciava che le relazioni tra la Fascia e i pianeti
interni erano insostenibili ed erano destinate a generare tragedie
ancor più gravi.
Dopo quell’episodio, Johnson scomparve. Il suo nome fu quasi
dimenticato, come una nota a margine nella storia dei massacri
umani, fino alla rivolta della colonia di Pallas, quattro anni più tardi.
In questo caso furono i metalmeccanici della raffineria a sbattere
fuori dal portello il governatore della Coalizione. E, invece di una
piccola stazione con centosettanta ribelli, si trattava di un asteroide
maggiore della Fascia, con centocinquantamila occupanti. Quando
la coalizione inviò l’esercito, tutti si aspettavano un bagno di sangue.
Il colonnello Johnson apparve dal nulla e convinse i
metalmeccanici a placarsi; trattò con i comandanti della coalizione e
li persuase a trattenere i soldati finché la stazione non fosse stata
riconsegnata pacificamente. Passò più di un anno a negoziare con il
nuovo governatore della Coalizione per migliorare le condizioni di
lavoro all’interno delle raffinerie. E, di colpo, il Macellaio di Anderson
era diventato di nuovo un eroe e un’icona.
Un’icona che inviava messaggi privati al Knight.
Holden pigiò il tasto di riproduzione, e quel Fred Johnson disse:
«Signor Holden, credo che la stiano incastrando. Mi lasci dire fin
d’ora che la sto contattando in veste di rappresentante ufficiale
dell’Alleanza dei Pianeti Esterni. Non so che cos’abbia sentito in
giro, ma le assicuro che non siamo tutti un branco di cowboy
impazienti di potersi conquistare la libertà a pistolettate. Ho trascorso
gli ultimi dieci anni della mia esistenza a lavorare affinché la vita dei
cinturiani potesse migliorare senza che nessuno si facesse sparare
addosso. Credo a tal punto in questa idea da aver rinunciato alla mia
cittadinanza terrestre nel momento in cui sono giunto qui.
«Le dico questo per farle capire quanto io mi senta coinvolto.
Potrei essere l’uomo meno propenso alla guerra dell’intero sistema
solare, e la mia voce ha un peso significativo in seno al consiglio
dell’APE.
«Avrà forse sentito alcuni comunicati che sembrano già sul piede di
guerra, intenti a reclamar vendetta contro Marte per quel che è
successo alla vostra nave. Ho parlato con ogni capocellula APE di
mia conoscenza, e nessuno di loro ha rivendicato quegli annunci.
«Qualcuno si sta dando molto da fare per dare inizio a una guerra.
Qualora dovesse trattarsi di Marte, a partire dal momento in cui lei
metterà piede sulla loro nave, non avrà più facoltà di dire una sola
parola in pubblico che non le sia stata messa in bocca da strateghi
marziani. Ma non voglio pensare che si tratti effettivamente di Marte.
Non vedo che cosa avrebbero da guadagnare da una guerra. Nutro
quindi una ragionevole speranza che, anche dopo essere stato
raccolto dalla Donnager, lei possa avere una parte in quel che
seguirà.
«Le invio una parola chiave: la prossima volta che trasmetterà un
messaggio pubblico, usi il termine ‘ubiquo’ nella sua prima frase per
indicare di non essere sotto costrizione. Se non la userà, capirò che
invece lo è. Comunque vada, voglio che lei sappia che ha degli
alleati nella Fascia.
«Non so chi o cosa fosse, prima, ma ora la sua voce è importante.
Se vorrà usare questa voce per migliorare le cose, farò tutto ciò che
è in mio potere per aiutarla a ottenere questo risultato. Se tornasse
in libertà, mi contatti all’indirizzo che seguirà. Credo che lei e io
possiamo avere molto di cui parlare.
«Johnson, passo e chiudo.»
L’equipaggio si era accomodato nella cambusa per scolarsi una
bottiglia di surrogato di tequila che Amos aveva trovato chissà dove.
Shed beveva educatamente da una tazzina, cercando di nascondere
una smorfia a ogni sorso. Alex e Amos trincavano come marinai: un
dito abbondante sul fondo della tazza, e giù d’un fiato. Alex aveva
l’abitudine di esclamare «Yeeeha!» dopo ogni shot. Amos invece
usava una parolaccia diversa per ogni sorso. Erano arrivati
all’undicesimo giro, e fino a quel momento era riuscito a non
ripetersi.
Holden fissò Naomi. Lei fece girare la tequila nella sua tazza e gli
restituì lo sguardo. Holden si trovò a chiedersi che sorta di incrocio
genetico avesse generato i suoi lineamenti. C’era di sicuro un po’
d’Africa e di Sudamerica in lei. Il suo cognome suggeriva
ascendenze giapponesi, appena distinguibili, come la linea allungata
degli occhi. Non sarebbe mai stata considerata carina,
convenzionalmente parlando, ma, vista dall’angolazione giusta, era
davvero affascinante.
Cazzo, sono più ubriaco di quel che pensassi.
Per correre ai ripari, disse: «Allora...»
«Allora, il colonnello Johnson ti ha inviato un messaggio. È
diventato un uomo importante, signore» intervenne Naomi.
Amos posò la tazza con esagerata cautela.
«Avevo giusto intenzione di chiedertelo, capitano. Non è che
potremmo accettare la sua offerta di aiuto e dirigerci direttamente
verso la Fascia?» disse. «Non so voi, ma con l’ammiraglia marziana
a prua e quella mezza dozzina di navi ombra a poppa, ho
l’impressione che l’ambiente si stia facendo un tantino sovraffollato.»
Alex sbuffò. «Stai scherzando? Se invertissimo la propulsione ora,
arriveremmo a fermarci praticamente nel momento stesso in cui la
Donnager ci sarebbe addosso. Stanno bruciando pure i mobili per
raggiungerci prima che lo facciano le navi cinturiane. Se cominciamo
a dirigerci verso di loro, la Donnie potrebbe interpretarlo come un
segno che abbiamo cambiato squadra e polverizzarci tutti in un
batter d’occhio.»
«Concordo con il signor Kamal» disse Holden. «Ormai abbiamo
impostato la rotta e andremo fino in fondo. Non ho comunque
intenzione di perdere le informazioni di contatto di Fred. A proposito,
hai già cancellato il suo messaggio, Naomi?»
«Sì, signore. L’ho cancellato dalla memoria dello shuttle con la
spugna d’acciaio. I marziani non sapranno mai che ci ha contattato.»
Holden annuì e aprì un po’ la zip della sua tuta. Con cinque
persone nella cambusa cominciava a far troppo caldo. Naomi inarcò
un sopracciglio alla vista della sua maglietta vecchia di giorni.
Imbarazzato, Holden ritirò su la zip.
«Quelle navi per me non hanno senso, capo» disse Alex. «Mezza
dozzina di veicoli in missione suicida con delle testate nucleari
incollate agli scafi potrebbe scalfire appena un mostro da battaglia
come la Donnie, ma non molto altro. Se attiva il suo sistema di
puntamento difensivo in rete e i cannoni, l’ammiraglia è in grado di
creare una zona di interdizione di mille chilometri tutto intorno a sé.
Potrebbero aver già eliminato quelle sei navi con dei missili, ma
credo che siano confusi quanto noi riguardo alla loro identità.»
«Avranno compreso che non possono raggiungerci prima della
Donnager» rispose Holden. «E non possono competere sul piano
bellico. Non riesco a capire che cos’abbiano in mente.»
Amos divise l’ultimo goccio di tequila tra le tazze di ciascuno di loro
e alzò la sua per un brindisi.
«E allora immagino che lo scopriremo, cazzo.»
10

Miller

Allorché cominciava a irritarsi, il capitano Shaddid si picchiettava il


pollice con la punta del dito medio. Era un rumore minimo, felpato
come il passo di un gatto, ma, da quando Miller aveva decodificato
quella sua abitudine, gli pareva più forte. Per quanto impercettibile,
riusciva a riempire l’ufficio.
«Miller» disse lei, sorridendo come se le venisse dal cuore. «Siamo
tutti nervosi in questi giorni. Abbiamo attraversato momenti davvero
complicati.»
«Sì, signora,» confermò Miller, incassando la testa come un
fullback determinato a farsi largo a forza attraverso la linea di difesa
avversaria «ma credo che la cosa sia sufficientemente importante da
meritare una più attenta...»
«È un favore per un azionista» disse Shaddid. «Suo padre si è
fatto prendere la mano. Non c’è motivo di pensare che intendesse
riferirsi a Marte che faceva saltare in aria la Canterbury. Le tariffe
stanno tornando ad aumentare. C’è stata un’esplosione in una
miniera su una delle Lune Rosse. Eros sta avendo problemi con le
sue produzioni di lievito. Non passa un giorno, nella Fascia, senza
che succeda qualcosa che non possa far stare in pensiero un papà
per il suo prezioso fiorellino.»
«Sì, signora, ma la coincidenza temporale...»
Le dita di Shaddid aumentarono il ritmo. Miller si morse le labbra.
Era una causa persa.
«Non insegua le cospirazioni» disse il capitano. «Abbiamo sul
tavolo un gran numero di crimini che sappiamo essere reali. Politica,
guerre, intrighi segreti dei cattivoni dei pianeti interni che
coinvolgono l’intero sistema per trovare un modo di fotterci... Tutta
roba che non ci riguarda. Lei mi riempia un rapporto in cui dice che
sta facendo del suo meglio, io lo faccio avere ai piani alti, e poi
potremo tornare al nostro lavoro.»
«Sì, signora.»
«C’è altro?»
«No, signora.»
Shaddid annuì e tornò a guardare il suo terminale. Miller riprese il
suo cappello dall’angolo della scrivania e uscì. Uno dei filtri d’aria
della centrale si era guastato durante il fine settimana, e il ricambio
diffondeva per le sale un rassicurante odore di plastica nuova e
ozono. Miller si sedette alla sua scrivania, intrecciando le dita dietro
la testa, e fissò la lampada sopra di lui. Il nodo che gli si era formato
allo stomaco non si era ancora allentato. Una vera seccatura.
«Non è andata bene, vero?» chiese Havelock.
«Poteva andare meglio.»
«Ti ha tolto l’incarico?»
Miller scosse la testa. «No, è ancora mio. Solo, vuole che lo faccia
a cazzo di cane.»
«Poteva andarti peggio. Almeno così alla fine scopri che cos’è
successo. Magari, se ci passi un po’ di tempo sopra dopo l’orario di
lavoro, tanto per far pratica... hai presente?»
«Sì, come no» disse Miller. «Per far pratica.»
Le loro scrivanie erano insolitamente pulite. La sua e quella di
Havelock. La barriera di faldoni che quest’ultimo aveva creato tra sé
e la centrale era stata erosa, e Miller capiva dallo sguardo negli
occhi del suo collega e dal modo in cui muoveva le mani che lo
sbirro che era in lui desiderava tornare a lavorare nei tunnel. Non
sapeva dire se fosse perché voleva dar prova del suo valore prima
del trasferimento, o soltanto per spaccare qualche testa. Ma forse
entrambe le ipotesi erano due modi di dire la stessa cosa.
Cerca solo di non farti ammazzare prima di andartene da qui,
pensò Miller. Poi disse, ad alta voce: «Che abbiamo?»
«Negozio hardware. Settore otto, terzo livello» rispose Havelock.
«Denuncia di estorsione.»
Miller rimase seduto per un momento, considerando la propria
riluttanza come se appartenesse a qualcun altro. Era come se
Shaddid avesse dato un solo boccone di carne fresca a un cane, e
poi l’avesse rimandato a mangiare croccantini. Gli balenò nella
mente la tentazione di snobbare il negozio e, per un istante, quasi
cedette all’impulso. Poi sospirò, riportò i piedi a terra e si alzò.
«E va bene» disse. «Andiamo a rendere sicuro il commercio di
questa stazione.»
«Parole sante» replicò Havelock, controllando la sua pistola. Una
cosa che faceva molto più di frequente in quegli ultimi tempi.
Il negozio in questione era affiliato a una catena di intrattenimento.
Sale bianche e vuote che offrivano allestimenti personalizzati per
ambienti interattivi: simulazioni di battaglie, giochi di esplorazione,
sesso. La voce di una donna ululava da un altoparlante, a metà
strada tra il richiamo di un muezzin e un orgasmo, sostenuta dal
ritmo martellante di una cassa. Metà dei titoli in vendita erano in
hindi con traduzioni in cinese e spagnolo. L’altra metà erano in
inglese con l’hindi come seconda lingua. Il commesso era poco più
che un bambino. Doveva avere sedici, diciassette anni, con una
barbetta nera sparuta che portava come un distintivo d’onore.
«Come posso aiutarvi?» domandò il ragazzo, squadrando
Havelock con sdegno prossimo all’aperto disprezzo. Havelock tirò
fuori il tesserino, facendo in modo che il ragazzino potesse dare una
lunga occhiata alla sua pistola mentre lo faceva.
«Vorremmo parlare con...» Miller diede una scorsa al modulo di
denuncia sul suo terminale. «Asher Kamamatsu. È qui?»
Il gestore era grasso, per essere un cinturiano. Più alto di
Havelock, l’uomo aveva uno strato flaccido attorno alla pancia e
possenti muscoli che guizzavano sulle spalle, le braccia e il collo. Se
Miller stringeva gli occhi, riusciva a vedere il diciassettenne che era
stato sotto gli strati del tempo e della delusione, ed era molto simile
al commesso del bancone. L’ufficio era quasi troppo piccolo per
contenerli tutti e tre ed era pieno zeppo di software pornografico.
«Li avete presi?» chiese il gestore.
«No» rispose Miller. «Stiamo ancora cercando di capire chi siano.»
«Cazzo, ve l’ho già detto! Le telecamere del negozio li hanno
ripresi. Vi ho anche detto il nome.»
Miller guardò il terminale. Il sospettato si chiamava Mateo Judd, un
portuale con precedenti penali del tutto ordinari.
«Pensa che sia solo lui, quindi» disse Miller. «Va bene, allora.
Basterà che andiamo a prelevarlo e che lo sbattiamo in cella. Non
c’è motivo di mettersi a investigare su chi sia il mandante.
Probabilmente non se la prenderà nessuno. Secondo la mia
esperienza con questo genere di estorsioni, gli scagnozzi vengono
sostituiti non appena ne perdono uno. Ma visto che lei è sicuro che il
suo problema sia soltanto questo tizio...»
L’espressione acida sul viso del gestore fece capire a Miller che si
era spiegato a sufficienza. Havelock si appoggiò a una pila di scatole
contrassegnate dalla scritta сиротпивые девушки e sorrise.
«Perché non ci dice che cosa voleva?» chiese Miller.
«L’ho già riferito al poliziotto prima di voi» replicò il gestore.
«Lo dica a me.»
«Voleva venderci una polizza assicurativa privata. Cento al mese,
come quello dell’ultima volta.»
«L’ultima volta?» disse Havelock. «Quindi è già successo?»
«Certo» rispose il gestore. «Tutti pagano qualcosa, sa. È il prezzo
da sborsare per gestire un’attività.»
Miller richiuse il terminale e si accigliò. «Filosofico. Ma se questo è
il prezzo da pagare per gestire un’attività, noi che cosa siamo venuti
a fare?»
«Perché pensavo che voi... voialtri aveste sotto controllo questa
merda. Da quando ho smesso di pagare la Loca, sono riuscito a
guadagnare in maniera dignitosa. Ora però sta ricominciando tutto
come prima.»
«Aspetti un momento» disse Miller. «Mi sta dicendo che la Loca
Greiga ha smesso di chiedere il pizzo?»
«Sicuro. E non soltanto qui. Metà dei tizi che conosco nella Golden
Bough hanno smesso di presentarsi. Avevamo pensato che gli sbirri
ci avessero messo una pezza, una volta tanto. E invece adesso
sono arrivati questi nuovi bastardi, e sembra essere ricominciato
tutto da capo un’altra volta.»
Un formicolio si fece strada fin sul collo di Miller. Alzò gli occhi
verso Havelock, che scosse la testa. Nemmeno lui ne sapeva niente.
La Golden Bough Society, la banda di Sohiro, la Loca Greiga. Tutte
le organizzazioni criminali di Ceres erano cadute preda dello stesso
collasso ecologico, e ora qualcun altro si stava muovendo per
riempire la nicchia che avevano lasciato. Poteva trattarsi di
opportunismo. E poteva essere qualcos’altro. Miller quasi non aveva
voglia di fare le domande successive. Havelock avrebbe pensato
che fosse paranoico.
«Quanto tempo è passato dall’ultima volta che quelli di prima sono
venuti a riscuotere il pizzo?» chiese Miller.
«Non lo so. Parecchio.»
«Prima o dopo che Marte ha disintegrato quel cargo frigorifero?»
Il gestore incrociò le braccia muscolose e strinse le palpebre.
«Prima» disse. «Un mese, o forse due. E questo che c’entra?»
«Sto solo cercando di ricreare con precisione il quadro temporale
degli eventi» spiegò Miller. «Questo nuovo tizio, Mateo. Le ha detto
chi era l’estensore della sua polizza privata?»
«È compito vostro scoprirlo, giusto?»
L’espressione sul viso del gestore si era richiusa a tal punto che
Miller s’immaginò di sentire lo scatto della serratura. Sì, Asher
Kamamatsu sapeva esattamente chi fossero i mandanti
dell’estorsione. Aveva abbastanza palle per lamentarsene, ma non
per puntare il dito.
Interessante.
«Be’, grazie mille per il suo aiuto» disse Miller, alzandosi. «Le
faremo sapere quel che troviamo.»
«Felice di sapervi al lavoro» disse il gestore, rispondendo al
sarcasmo con altro sarcasmo.
Nel tunnel esterno, Miller si fermò. Quel quartiere era al punto di
svolta tra lo sciatto e il rispettabile. Dei segni bianchi mostravano i
punti in cui i graffiti erano stati coperti da una mano di pittura. Uomini
in bicicletta sobbalzavano e ondeggiavano tutto intorno a loro, con le
ruote di schiuma che sussurravano sul selciato di pietra levigata.
Miller riprese a camminare lentamente finché non trovò la
telecamera di sorveglianza. Tirò fuori il terminale, navigò tra i registri
che corrispondevano al codice della telecamera e incrociò il codice
orario con quello dei fermi immagine del negozio. Passò qualche
istante a manipolare la registrazione, facendo muovere avanti e
indietro le persone sullo schermo a velocità accelerata. Alla fine
individuò Mateo che usciva dal negozio. Un ghigno compiaciuto
deformava il viso dell’uomo. Miller mise in pausa la riproduzione e
ingrandì l’immagine. Havelock, che guardava da sopra la sua spalla,
emise un fischio basso.
Il cerchio spezzato dell’APE era perfettamente chiaro sul bracciale
dello scagnozzo – lo stesso tipo di bracciale che aveva trovato nel
buco di Julie Mao.
Che razza di amicizie ti sei fatta, ragazzina?, pensò Miller. Sei
meglio di così. Devi saperlo, che sei meglio di così.
«Ehi, socio» disse ad alta voce. «Credi di poterti occupare del
rapporto da solo? C’è una cosa che vorrei verificare. Potrebbe non
essere saggio averti nei paraggi. Senza offesa.»
Le sopracciglia di Havelock toccarono quasi la linea dei capelli.
«Vuoi andare a interrogare l’APE?»
«Pensavo di andare a scuotere qualche alberello, niente di più»
rispose Miller.
Miller avrebbe pensato che il semplice fatto di essere un agente di
sicurezza in un locale noto per essere frequentato da simpatizzanti
dell’APE sarebbe stato sufficiente a farlo spiccare. In quel caso, metà
dei volti che riusciva a distinguere nella luce fioca del John Rock
Gentlemen’s Club appartenevano a comuni cittadini. Più d’uno era
un impiegato della Star Helix, proprio come lui, quando erano in
servizio. La musica era cinturiana doc: delicate campane tubolari
accompagnate da cetra da tavolo e chitarra, con i testi in mezza
dozzina di lingue. Miller era alla quarta birra, due ore dopo la fine del
turno, e sul punto di rinunciare al suo piano evidentemente
fallimentare, quando un uomo alto e magro venne a sedersi al
bancone accanto a lui. Le sue guance martoriate dall’acne
conferivano un’aria guasta a un viso altrimenti del tutto gioviale. Non
era il primo bracciale dell’APE che Miller vedeva quella sera, ma era
indossato con un’aria di sfida e di autorità. Miller lo salutò con un
cenno del capo.
«Ho sentito dire che sta facendo domande sull’APE» disse l’uomo.
«Le interessa unirsi a noi?»
Miller sorrise e alzò il bicchiere con gesto intenzionalmente
evasivo.
«Se così fosse, dovrei parlare con te?» chiese con tono leggero.
«Potrei essere in grado di aiutarla.»
«Allora forse potresti dirmi anche un paio di altre cosette» replicò
Miller, prendendo il terminale e posandolo sul bancone di finto
bambù con un tonfo secco. Sullo schermo baluginò l’immagine di
Mateo Judd. L’uomo dell’APE si accigliò, girando lo schermo per
guardare meglio.
«Sono un tipo realista, io» disse Miller. «Quando era Chucky Snails
a gestire le estorsioni, non disdegnavo il compito di andare a parlare
con i suoi uomini. E poi feci lo stesso quando la Mano ha rilevato gli
affari, e la Golden Bough Society dopo di loro. Il mio compito non è
quello di impedire alla gente di piegare le regole, ma di mantenere
l’ordine su Ceres. Capisci di che parlo?»
«Mentirei se dicessi di sì» rispose l’uomo butterato. Il suo accento
lo fece sembrare più educato di quanto Miller non si fosse atteso.
«Chi è quest’uomo?»
«Il suo nome è Mateo Judd. Sta mettendo su un racket di
estorsione nel settore otto. Dice di avere l’appoggio dell’APE.»
«La gente dice molte cose, ispettore... Ispettore, giusto? Ma giusto
un attimo fa mi è sembrato di sentirla parlare di realismo.»
«Se l’APE pensa di muoversi nel campo dell’economia sommersa di
Ceres, sarà meglio per tutti se possiamo parlarci a vicenda.
Comunicare.»
L’uomo ridacchiò e spinse via il terminale. Il barista passò loro
davanti, con una domanda negli occhi che non chiedeva se
avessero bisogno di qualcosa. E non era indirizzata a Miller.
«Avevo sentito dire che esisteva un certo livello di corruzione nella
Star Helix» disse l’uomo. «E ammetto di essere impressionato dai
suoi modi così diretti. Cercherò di chiarire la situazione. L’APE non è
un’organizzazione criminale.»
«Ma davvero? Devo essermi sbagliato, allora. Avevo pensato che,
dal modo in cui ammazzate le persone...»
«Sta cercando di prendermi all’amo? Noi ci limitiamo a difenderci
contro chi perpetra atti di terrorismo economico contro la Fascia.
Terrestri, marziani... Ci occupiamo di proteggere i cinturiani» disse
l’uomo. «Perfino lei, detective.»
«Terrorismo economico?» ripeté Miller. «Mi pare un po’
esagerato.»
«Lei crede? I pianeti interni ci vedono come forza lavoro a loro
disposizione. Ci tassano. Dirigono ogni nostra azione. Impongono le
loro leggi e ignorano le nostre, nel nome della stabilità. Soltanto
l’anno scorso hanno raddoppiato le tariffe a Titania. Cinquemila
persone su una palla di ghiaccio in orbita attorno a Nettuno, a mesi
di distanza da qualsiasi altro posto. Il sole per loro non è altro che
una stella un po’ più luminosa delle altre. Crede che siano nella
posizione di ottenere giustizia? I pianeti interni hanno interdetto a
qualunque nave cargo cinturiana di stipulare contratti su Europa. Ci
fanno pagare il doppio per attraccare su Ganimede. E la stazione
scientifica di Phoebe? Non ci è nemmeno permesso di orbitarci
intorno. Non c’è un singolo cinturiano, lì. Qualunque cosa scoprano
laggiù, a noi arriverà soltanto quando decideranno di rivenderci
quella tecnologia, con decenni di ritardo.»
Miller sorseggiò la sua birra e fece un cenno del capo verso il
terminale.
«Quindi non è uno dei vostri?»
«No. Non è dei nostri.»
Miller annuì e si rimise il terminale in tasca. Stranamente, era
propenso a credere a quell’uomo. Non si comportava come un
delinquente. Non aveva la stessa boria; non trasmetteva l’idea di
voler impressionare il mondo con il suo atteggiamento. No.
Quell’uomo era sicuro di sé e divertito, e, sotto sotto, profondamente
stanco. Miller aveva conosciuto soldati così, ma mai criminali.
«Un’altra cosa» disse Miller. «Sto cercando una persona.»
«Un altro caso?»
«Non proprio, no. Juliette Andromeda Mao. Si fa chiamare Julie.»
«Un nome che dovrei conoscere?»
«Fa parte dell’APE» disse Miller scrollando le spalle.
«Lei conosce tutti quelli che fanno parte della Star Helix?» chiese
l’uomo e, quando Miller non rispose, aggiunse: «Siamo molto più
numerosi rispetto al personale della sua azienda.»
«Capisco» disse Miller. «Ma apprezzerei se poteste buttare un
occhio.»
«Non credo che sia nella posizione di potersi aspettare favori.»
«Chiedere non fa male a nessuno.»
L’uomo con il viso butterato ridacchiò e posò una mano sulla spalla
di Miller.
«Non torni più qui, ispettore» disse, e si allontanò tra la folla.
Miller bevve un altro sorso di birra, accigliandosi. In un angolino
della sua mente si agitava la sgradevole sensazione di aver
compiuto un passo falso. Era sicuro che l’APE si fosse mossa su
Ceres, capitalizzando la distruzione del cargo frigorifero e
l’innalzamento dei livelli di rabbia e paura della Fascia nei confronti
dei pianeti interni. Ma come si conciliava tutto questo con il padre di
Julie Mao e con la sua ansia stranamente tempestiva? O con la
scomparsa dalla Stazione di Ceres della solita disponibilità di tipi
sospetti da interrogare? Pensare a quella faccenda era un po’ come
guardare un video sfocato. Se ne percepiva quasi il senso, ma non
del tutto.
«Troppi punti» disse Miller. «Non abbastanza linee.»
«Come dice?» chiese il barista.
«Niente» rispose Miller, spingendo la bottiglia semivuota sul
bancone. «Grazie.»
Una volta tornato nel suo buco, Miller mise su un po’ di musica. I
brani lirici che a Candace piacevano tanto, quando erano giovani e,
se non pieni di aspettative, almeno più gioiosi nel loro fatalismo.
Regolò le luci a media intensità nella speranza che, se fosse riuscito
a rilassarsi anche soltanto per pochi minuti e ad abbandonare quella
sensazione assillante di essersi perso qualche dettaglio importante,
il pezzo mancante sarebbe potuto arrivare da sé.
Si era aspettato di veder comparire Candace nella sua mente,
mentre singhiozzava e lo guardava contrariata come soleva fare in
vita. E invece si ritrovò a parlare con Julie Mao. Nel dormiveglia
alcolico e della stanchezza, se la immaginò mentre sedeva alla
scrivania di Havelock. Aveva l’età sbagliata, più giovane di quel che
sarebbe dovuta essere la Julie reale. Aveva l’età della ragazza che
sorrideva nella foto, la ragazza che aveva gareggiato con la
Razorback e aveva vinto. Ebbe la prontezza di farle delle domande,
e le sue risposte avevano la forza della rivelazione. Ogni cosa aveva
senso, ora. Non soltanto il cambiamento in seno alla Golden Bough
Society e l’incarico di rapimento, ma anche il trasferimento di
Havelock, il cargo frigorifero disintegrato, la vita e il lavoro dello
stesso Miller. Sognò Julie Mao che rideva e si svegliò tardi, con un
gran mal di testa.
Havelock lo stava aspettando alla sua scrivania. La sua larga
faccia schiacciata da terrestre sembrava stranamente aliena, ma
Miller cercò di scuotersi di dosso quell’impressione.
«Hai un aspetto terribile» disse Havelock. «Nottataccia?»
«È solo l’età che avanza. Quello, e la birra scadente» rispose
Miller.
Una tipa della buoncostume gridò rabbiosamente qualcosa a
proposito dei suoi file che erano stati di nuovo bloccati, e un tecnico
informatico si precipitò verso di lei attraversando la centrale come
uno scarafaggio nervoso. Havelock si chinò in avanti, con
espressione cupa.
«Dico sul serio, Miller» disse Havelock. «Siamo ancora colleghi,
e... giuro su dio, credo proprio che tu sia l’unico amico che abbia su
questo pezzo di roccia. Puoi fidarti di me. Se hai bisogno di dirmi
qualcosa, io ci sono.»
«Fantastico» rispose Miller. «Ma non so di cosa stai parlando. Ieri
sera ho fatto un buco nell’acqua.»
«Niente APE?»
«APE, certo. Basta tirare un gatto morto in questa sala, e beccherai
almeno tre simpatizzanti dell’APE. Ma nessuna buona informazione.»
Havelock si appoggiò allo schienale con le labbra serrate e pallide.
La scrollata di spalle di Miller era una domanda a cui il terrestre
rispose con un cenno del capo verso la lavagna. Un nuovo omicidio
era in cima alla lista. Alle tre di mattina, mentre Miller era immerso
nelle sue vaghe conversazioni oniriche, qualcuno aveva aperto il
buco di Mateo Judd e gli aveva scaricato l’intero caricatore di una
pistola a gel balistico dritto nell’occhio sinistro.
«Be’» disse Miller. «Stavolta ho preso un abbaglio.»
«Che abbaglio?» chiese Havelock.
«L’APE non vuole occupare la piazza del crimine organizzato»
rispose Miller. «Sta puntando a quella dei poliziotti.»
11

Holden

La Donnager era brutta.


Holden aveva visto fotografie e video delle antiche flotte militari
terrestri che solcavano gli oceani: perfino nell’età dell’acciaio, c’era
qualcosa di bello in quei vascelli. Lunghi e affusolati, avevano
l’apparenza di oggetti appoggiati nel vento, di creature tenute a
stento alla lenza. La Donnager non possedeva quella grazia. Come
tutte le navi di lungo corso, era costruita secondo la configurazione
‘a torre di uffici’: ogni ponte corrispondeva a un piano della nave, con
scale o elevatori che correvano lungo tutto l’asse, e l’accelerazione
costante a sostituire la forza di gravità.
Ma la Donnager sembrava davvero un palazzo di uffici, vista di
profilo. Squadrata e tozza, con piccole protuberanze bulbose in punti
apparentemente casuali. Lunga quasi cinquecento metri, aveva le
dimensioni di un edificio di centotrenta piani. Alex aveva detto che
pesava duecentocinquantamila tonnellate a secco, ma sembrava
ancor più pesante. Holden si trovò a riflettere, non per la prima volta,
su quanta parte del senso estetico degli esseri umani si fosse
formata in un periodo in cui oggetti dalla sagoma slanciata dovevano
muoversi e scivolare attraverso l’aria. La Donnager non si sarebbe
mai dovuta spostare attraverso qualcosa di più denso di un gas
interstellare, per cui curve e angoli smussati sarebbero stati soltanto
uno spreco di spazio. Il risultato era, in una parola, brutto.
Era anche intimidatorio. Mentre Holden la osservava dal suo sedile
accanto ad Alex, nella cabina di pilotaggio del Knight, la gigantesca
nave da guerra impostò la loro stessa rotta, incombendo sempre più
da vicino e arrivando a dar l’impressione di essersi fermata proprio
sopra lo shuttle. Si aprì una baia d’attracco, squarciando la pancia
piatta e nera della Donnager con un quadrato di tenue luce rossa. Il
Knight mandò un insistente segnale acustico, ricordandogli dei laser
di puntamento che inquadravano il loro scafo. Holden cercò con lo
sguardo i cannoni di difesa ravvicinata puntati contro di lui, ma non
riuscì a individuarli.
Quando Alex parlò, Holden sussultò.
«Ricevuto, Donnager» disse il pilota. «Siamo in blocco d’attracco.
Spengo i motori.»
L’ultima illusione di peso svanì. Entrambe le navi si muovevano ora
a centinaia di chilometri al minuto, ma le loro traiettorie identiche
davano un’impressione di assoluta immobilità.
«Abbiamo il permesso di attraccare, capitano. Lo porto dentro?»
«Mi sembra un po’ tardi per darsela a gambe, signor Kamal» disse
Holden. S’immaginò Alex che faceva un qualche errore che la
Donnager potesse interpretare come una minaccia, e i cannoni di
difesa ravvicinata che gli rovesciavano addosso qualcosa come
duecentomila proiettili di acciaio ricoperti di Teflon.
«Fa’ piano, Alex» gli raccomandò.
«Dicono che una di queste sia in grado di distruggere un pianeta
intero» disse Naomi, in linea. Era in plancia, un ponte più sotto.
«Chiunque potrebbe distruggere un pianeta dall’orbita» replicò
Holden. «Non servono nemmeno le bombe. Basta buttare incudini
giù dal portellone. Ma quest’affare qui sopra potrebbe distruggere...
qualunque cosa, cazzo.»
Si spostarono con piccoli tocchi, azionando cautamente i razzi di
manovra. Holden sapeva che era Alex a guidare lo shuttle verso
l’ammiraglia, ma non riuscì a scrollarsi di dosso l’impressione che
fosse la Donnager a inghiottirli.
Le operazioni di attracco richiesero quasi un’ora. Una volta
all’interno della Donnager, un enorme braccio meccanico afferrò il
Knight e lo posizionò in una zona vuota della piattaforma. Dei ganci
stabilizzarono lo shuttle, e lo scafo del Knight risuonò con un
clangore metallico che fece venire in mente a Holden lo scatto delle
serrature magnetiche di una cella di detenzione.
I marziani azionarono un tubo di sbarco da una parete e lo
collegarono al portellone pressurizzato del Knight.
«Niente pistole, niente coltelli, niente che possa assomigliare
anche lontanamente a un’arma» disse Holden. «Non dovrebbero
esserci problemi per i terminali palmari, ma teneteli spenti lo stesso.
Non si sa mai. Se vi chiedono di consegnarglieli, fatelo senza
protestare. La nostra sopravvivenza potrebbe dipendere dal fatto
che pensano che stiamo collaborando.»
«Già» mugugnò Amos. «Questi stronzi hanno ammazzato
McDowell, ma siamo noi a dover fare i bravi...»
Alex fece per replicare, ma Holden lo interruppe.
«Alex, hai fatto venti missioni in volo con la MRCM. C’è altro che
dovremmo sapere?»
«Quello che hai già detto, capo» rispose Alex. «Sì, signore, no,
signore, e ottemperare all’istante quando viene dato un ordine. I
soldati semplici non daranno problemi, ma gli ufficiali sono addestrati
a non avere nessun senso dell’umorismo.»
Holden squadrò il suo piccolo equipaggio, sperando di non averli
condannati tutti a morte decidendo di portarli lì. Aprì il portellone e
fluttuarono nel breve condotto di attracco a gravità zero. Quando
raggiunsero il portellone pressurizzato in fondo – un composto grigio
liscio e immacolato – si spinsero tutti verso il pavimento. Gli stivali
magnetici si agganciarono alla piattaforma. Il portello si richiuse alle
loro spalle e sibilò per diversi secondi prima di aprirsi su un’ampia
sala con una dozzina di persone ad aspettarli. Holden riconobbe il
capitano Theresa Yao. C’erano diversi altri militari in uniforme da
ufficiale della marina, membri del suo staff; un uomo con indosso
una divisa da recluta che aveva in volto un’espressione di velata
impazienza; e sei marine in assetto da combattimento pesante, tutti
armati con fucili d’assalto. Erano puntati su di lui, per cui Holden alzò
le mani.
«Non siamo armati» disse con un sorriso, cercando di sembrare il
più innocuo possibile.
I fucili non si mossero di un millimetro, ma il capitano Yao fece un
passo avanti.
«Benvenuti a bordo della Donnager» disse. «Primo ufficiale, li
perquisisca.»
L’uomo con l’uniforme da soldato semplice avanzò verso di loro e li
perquisì con fare rapido e professionale. Alzò un pollice verso uno
dei marine. I fucili si abbassarono, e Holden fece del suo meglio per
non tirare un sospiro di sollievo.
«Che succede adesso, capitano?» chiese Holden, mantenendo un
tono leggero.
Yao squadrò criticamente Holden per diversi secondi prima di
rispondergli. Aveva i capelli raccolti in una stretta coda di cavallo, e
le poche ciocche grigie disegnavano linee dritte lungo le sue tempie.
Di persona, Holden vide l’effetto dell’età sulla linea appena
ammorbidita della mascella e agli angoli degli occhi. La sua
espressione rocciosa aveva la stessa tranquilla arroganza che
mostravano tutti i capitani navali che aveva conosciuto. Holden si
chiese che cosa vedesse, guardandolo. Resistette all’urgenza di
sistemarsi i capelli unti.
«Il primo ufficiale Gunderson vi scorterà nelle vostre stanze e vi
farà accomodare» rispose finalmente. «Vi manderò presto qualcuno
a interrogarvi.»
Gunderson cominciò a guidarli verso l’uscita della sala quando Yao
parlò di nuovo, con voce improvvisamente dura.
«Signor Holden, se sa qualcosa sulle sei navi che vi stavano
seguendo, parli adesso» disse. «Un’ora fa abbiamo dato loro un
termine di due ore per cambiare rotta. Finora non l’hanno fatto. Tra
un’ora ordinerò di sganciare i missili. Se sono vostri amici, potrebbe
risparmiar loro una brutta fine.»
Holden scosse la testa con decisione.
«Tutto quello che so è che sono emersi dalla Fascia quando vi
siete messi in marcia per raggiungerci, capitano» disse Holden.
«Non hanno comunicato con noi. L’ipotesi più plausibile è che si tratti
di cittadini preoccupati della Fascia, venuti a vedere che cosa stia
accadendo.»
Yao annuì. Se trovava sconcertante l’idea di avere dei possibili
testimoni, non lo diede a vedere.
«Li porti di sotto, primo ufficiale» disse. Poi si allontanò.
Gunderson emise un fischio basso e si diresse verso una delle due
porte. L’equipaggio di Holden lo seguì fuori, scortato dai marine in
retroguardia. Mentre avanzavano attraverso la Donnager, Holden
diede la sua prima occhiata ravvicinata a una nave ammiraglia
marziana. Non aveva mai prestato servizio su una nave da guerra
della Marina delle Nazioni Unite, e ci aveva messo piede forse tre
volte in sette anni, sempre quand’era all’àncora, e solitamente in
occasione di qualche festa. Ogni centimetro quadrato della
Donnager era appena un filo più perfetto di qualunque veicolo delle
Nazioni Unite su cui aveva prestato servizio. Allora è vero che Marte
sa costruirle meglio di noi.
«Porca puttana, vicecomandante, certo che qui sanno come
lucidare l’argenteria, eh» disse Amos alle sue spalle.
«Quando il tragitto è lungo, la maggior parte dell’equipaggio non ha
molto da fare, Amos» rispose Alex. «Per cui, quando non sei
impegnato a fare altro, ti fanno pulire.»
«Lo vedi? Ecco perché io preferisco lavorare sui mercantili» replicò
Amos. «Pulire i ponti o ubriacarsi e scopare: io so cosa preferisco.»
Mentre si addentravano in un labirinto di corridoi, la nave fu
attraversata da un fremito e la gravità riapparve a poco a poco.
Erano in accelerazione. Holden usò i talloni per toccare i comandi
laterali dei suoi stivali, disattivando i magneti.
Non videro praticamente nessuno, e i pochi che vedevano si
muovevano velocemente e parlavano poco, riservando loro a
malapena un’occhiata di sfuggita. Con sei navi in avvicinamento,
l’intero equipaggio doveva essere alle proprie postazioni. Quando il
capitano Yao aveva detto che avrebbe fatto fuoco di lì a un’ora, nella
sua voce non c’era nemmeno l’ombra di una minaccia. Era un
semplice dato di fatto. Per la maggior parte dei marinai più giovani
della nave doveva trattarsi della prima volta che si trovavano in uno
scenario di combattimento reale – se mai ci si fosse arrivati. Holden
non credeva che ci si sarebbe giunti.
Si chiese che cosa dovesse pensare del fatto che Yao fosse pronta
a spazzar via una manciata di navi della Fascia soltanto perché
viaggiavano in silenzio e a distanza ravvicinata. Certo, non lasciava
pensare che avrebbero esitato a distruggere un cargo frigorifero,
come la Cant, qualora avessero pensato di avere una buona ragione
per farlo.
Gunderson li fece fermare di fronte a un portello con la scritta OQ117
stampata sopra. Strisciò una carta nella serratura e fece loro cenno
di entrare.
«Meglio di quel che mi aspettavo» disse Shed, sembrando
favorevolmente impressionato.
Il compartimento era ampio, per gli standard di una nave. Aveva
sei sedili ad alta accelerazione di gravità e un tavolino con quattro
sedie attaccate al ponte tramite magneti. Una porta aperta in una
delle paratie mostrava uno scomparto più piccolo con un lavandino e
un bagno. Gunderson e il tenente dei marine seguirono l’equipaggio
all’interno.
«Questi saranno i vostri alloggi fintantoché resterete a bordo»
disse il primo ufficiale. «Sulla parete c’è un pannello di
comunicazione. Due uomini del tenente Kelly resteranno di guardia
qui fuori. Fategli sapere se vi serve qualcosa, e ve la faranno
avere.»
«Che ne dice di un po’ di pappa?» disse Amos.
«Vi faremo mandare del cibo. Dovrete rimanere qui fino a nuovo
ordine» rispose Gunderson. «Tenente Kelly, ha qualcosa da
aggiungere?»
Il tenente dei marine li squadrò attentamente.
«I miei uomini resteranno qui fuori a protezione delle vostre
persone, ma reagiranno in maniera spiacevole se doveste causare
qualunque disturbo» disse. «Ricevuto?»
«Forte e chiaro, tenente» rispose Holden. «Non si preoccupi. I miei
sottoposti saranno gli ospiti più accomodanti che abbiate mai avuto.»
Kelly fece un cenno del capo a Holden esprimendo quella che
pareva essere sincera gratitudine. Era un professionista obbligato a
fare un lavoro spiacevole. Holden lo compatì. E poi, conosceva
abbastanza i marine per sapere quanto potessero essere spiacevoli
allorché venivano sfidati.
Gunderson disse: «Può scortare il signor Holden al suo
appuntamento mentre torna indietro, tenente? Vorrei finire di
sistemare queste persone.»
Kelly annuì e prese Holden per un braccio.
«Venga con me, signore» disse.
«Dove mi sta portando, tenente?»
«Il tenente Lopez ha chiesto di incontrarla non appena fosse salito
a bordo. La sto scortando da lui.»
Shed spostò uno sguardo nervoso dal marine a Holden. Naomi
annuì. Si sarebbero rivisti presto, si disse Holden. Pensò perfino che
fosse realmente possibile.
Kelly accompagnò Holden a passo veloce attraverso la nave. Non
teneva più il fucile in resta, ma appeso a tracolla. Doveva aver
deciso che Holden non avrebbe causato problemi, o che avrebbe
potuto abbatterlo facilmente in caso contrario.
«Posso chiedere chi sia questo tenente Lopez?»
«La persona che ha chiesto di vederla» rispose Kelly.
Kelly si fermò di fronte a una semplice porta grigia, bussò una
volta, poi fece entrare Holden all’interno di un piccolo scomparto con
un tavolo e due sedie dall’aria piuttosto scomoda. Un uomo con i
capelli scuri stava impostando un registratore. Fece un gesto vago
della mano in direzione della sedia. Holden si sedette. La sedia era
ancor meno comoda di quanto già non sembrasse.
«Può andare, signor Kelly» disse l’uomo che Holden pensò essere
Lopez. Kelly uscì e richiuse la porta alle sue spalle.
Quando Lopez ebbe finito di sistemare l’aggeggio, si accomodò di
fronte a Holden, dall’altra parte del tavolo, e gli porse la mano.
Holden la strinse.
«Sono il tenente Lopez. Kelly glielo avrà già detto. Lavoro per i
servizi segreti della marina, cosa che quasi certamente non le ha
riferito. Il mio incarico è tutt’altro che segreto, ma addestrano quelle
teste vuote a parlare il meno possibile.»
Lopez si infilò una mano in tasca, tirò fuori un piccolo pacchetto di
pastiglie bianche e se ne mise una in bocca. Non ne offrì a Holden.
Le pupille del tenente si contrassero in due piccoli puntini mentre
succhiava la pastiglia. Droghe di concentrazione. Avrebbe tenuto
d’occhio ogni minimo movimento sul viso di Holden durante
l’interrogatorio. Difficile mentire.
«Primo luogotenente James R. Holden, del Montana» disse. Non
era una domanda.
«Sì, signore» confermò comunque Holden.
«Sette anni di servizio nella Marina delle Nazioni Unite, ultima
assegnazione sul cacciatorpediniere Zhang Fei.»
«Sono io.»
«Il suo fascicolo dice che è stato arrestato per aggressione a un
ufficiale superiore» continuò Lopez. «Piuttosto banale, Holden. Ha
preso a pugni il capitano? Davvero?»
«No. L’ho mancato. Mi sono rotto la mano su una paratia.»
«Com’è successo?»
«Era più rapido di quanto non mi aspettassi» rispose Holden.
«Perché ci ha provato?»
«Proiettavo il mio disprezzo per me stesso su di lui. È stato solo un
caso che alla fine abbia ferito la persona giusta» rispose Holden.
«Sembrerebbe aver riflettuto sull’accaduto, da allora» osservò
Lopez, con le pupille a capocchia di spillo che non si staccavano per
un istante dal volto di Holden. «Terapia?»
«Ho avuto molto tempo per riflettere sulla Canterbury» replicò
Holden.
Lopez ignorò l’ovvio riferimento e disse: «E che cosa ha concluso,
durante tutto questo tempo passato a riflettere?»
«La Coalizione ha calpestato la gente delle zone esterne per più di
un secolo. Non mi piaceva fare lo stivale.»
«Un simpatizzante dell’APE, quindi?» chiese Lopez, senza il minimo
mutamento di espressione.
«No. Non ho cambiato bandiera. Ho soltanto smesso di giocare.
Non ho rinunciato alla mia cittadinanza. Mi piace il Montana. Sono
quassù perché amo volare, e soltanto una vecchia trappola
arrugginita dei cinturiani come la Canterbury è stata disposta ad
assumermi.»
Lopez sorrise per la prima volta. «Lei è un uomo eccessivamente
onesto, signor Holden.»
«Già.»
«Perché ha dichiarato che è stata una nave militare marziana a
distruggere il vostro mercantile?»
«Non l’ho fatto. Ho già spiegato tutto nella trasmissione dati. Gli
aggressori disponevano di una tecnologia ad appannaggio esclusivo
delle flotte dei pianeti interni, e ho personalmente rinvenuto un
elemento appartenente alla MRCM nel trasmettitore che ci ha tratto in
inganno, facendoci fermare.»
«Vorremmo vederlo.»
«Fate con comodo.»
«Il suo fascicolo dice che è l’unico figlio di una famiglia
cooperativa» disse Lopez, comportandosi come se non avessero
mai smesso di parlare del passato di Holden.
«Sì. Cinque padri, tre madri.»
«Tutti questi genitori per un figlio soltanto» osservò Lopez,
scartando lentamente un’altra pastiglia. I marziani dedicavano un
sacco di spazio alle famiglie tradizionali.
«L’agevolazione fiscale per otto adulti con un solo bambino
consentiva loro di possedere ventidue acri di terreno coltivabile. Ci
sono più di trenta miliardi di persone sulla Terra. Ventidue acri sono
come un parco nazionale» disse Holden. «E poi, il miscuglio
genetico è regolare. Sono genitori di nome e di fatto.»
«Come hanno deciso chi l’avrebbe portata in grembo?»
«Madre Elise aveva i fianchi più larghi.»
Lopez si mise la seconda pastiglia in bocca e la succhiò per
qualche istante. Prima che potesse parlare di nuovo, il ponte fu
scosso da un fremito. Il registratore sussultò sul suo braccetto
meccanico.
«Missili?» disse Holden. «Immagino che quelle navi della Fascia
non abbiano cambiato rotta.»
«Lei che ne pensa, signor Holden?»
«Solo che mi sembrate piuttosto propensi a distruggere navi
cinturiane.»
«Lei ci ha messo in una posizione tale per cui non possiamo
permetterci di apparire deboli. Dopo le sue accuse, c’è un sacco di
gente che non ci vede di buon occhio.»
Holden si strinse nelle spalle. Se quell’uomo sperava di suscitare
un senso di colpa o un rimorso in lui, gli avrebbe detto male. Quelle
navi dalla Fascia sapevano a cosa andavano incontro. E non
avevano invertito la rotta. Però c’era comunque qualcosa che non gli
tornava.
«Può darsi che vi odino più della morte» riconobbe Holden. «Ma è
piuttosto difficile trovare aspiranti suicidi a sufficienza per
equipaggiare sei navi. Magari pensano di poter sfuggire ai missili.»
Lopez non si mosse; il suo corpo era innaturalmente immobile, con
le droghe di concentrazione che gli scorrevano nel sangue.
«Noi...» fece per dire Lopez, ma fu interrotto dall’allarme generale.
In quel piccolo scomparto metallico il suono era assordante.
«Cazzo, hanno risposto al fuoco?» chiese Holden.
Lopez si riscosse, come un uomo che si stesse svegliando da un
sogno a occhi aperti. Si alzò e pigiò un tasto sul pannello di
comunicazione accanto alla porta. Un marine arrivò pochi secondi
dopo.
«Scorti il signor Holden nei suoi alloggi» disse Lopez, poi lasciò di
corsa la stanza.
Il marine fece un gesto verso il corridoio con la canna del fucile.
Aveva un’espressione dura in viso.
È sempre tutto rose e fiori finché qualcuno non ti spara addosso,
pensò Holden.
Naomi diede due pacche sul sedile vuoto accanto al suo e sorrise.
«Ti hanno messo delle schegge sotto le unghie?» chiese.
«No. A dire il vero, è stato sorprendentemente umano per essere
uno sgobbone dei servizi navali» rispose Holden. «Ovviamente, si
stava solo scaldando. Voi avete sentito niente delle altre navi?»
Alex disse: «No. Ma quell’allarme significa che all’improvviso
hanno deciso di prenderle sul serio.»
«È una follia» commentò piano Shed. «Andarsene in giro in queste
bolle di metallo a cercare di riempirsi di buchi a vicenda. Avete mai
visto gli effetti di un’esposizione a lungo termine alla
decompressione e al freddo? Ti si spaccano tutti i capillari negli
occhi e nella pelle. I danni al tessuto polmonare possono provocare
una polmonite fulminante seguita da lacerazioni simili a un enfisema.
Sempre che non muori prima, chiaro.»
«Be’, è un pensiero fottutamente incoraggiante, doc. Grazie
davvero» disse Amos.
La nave vibrò all’improvviso con un ritmo irregolare ma ultraveloce.
Alex fissò Holden con gli occhi sgranati.
«Questa è una raffica della difesa ravvicinata. Significa che ci sono
dei razzi in avvicinamento» disse. «Sarà meglio mettersi le cinture,
ragazzi. La nave potrebbe cominciare a fare qualche manovra
brusca.»
Erano già tutti assicurati ai sedili tranne lui. Holden si mise la
cintura.
«Così è uno schifo. L’azione vera sta accadendo a migliaia di
chilometri da qui, e non abbiamo nessuno strumento per dare
un’occhiata» disse Alex. «Non sapremo se qualcosa è riuscito a
intrufolarsi attraverso lo scudo antiaereo finché non aprirà uno
squarcio nel nostro scafo.»
«Cazzo, siete diventati tutti un vero spasso, eh?» disse Amos ad
alta voce.
Shed aveva gli occhi sgranati e il viso troppo pallido. Holden
scosse la testa.
«Non succederà» replicò. «Questo affare è indistruttibile.
Qualunque cosa siano quelle navi, potranno fare un po’ di scena, ma
niente di più.»
«Con tutto il rispetto, capitano,» ribatté Naomi «ma qualunque
cosa siano quelle navi, a quest’ora dovrebbero essere già state
distrutte, e non è così.»
Lontani rumori di combattimento a distanza continuarono a
risuonare nella camera. Il sussulto occasionale di un missile che
veniva sparato. La vibrazione continua dei cannoni di difesa
ravvicinata ad alta intensità. Holden non si rese conto di essersi
addormentato finché non fu risvegliato di soprassalto da un boato
assordante. Amos e Alex si misero a gridare. Shed urlava più forte.
«Che cos’è successo?» gridò Holden al di sopra della confusione.
«Ci hanno colpito, cap!» rispose Alex. «Quello era l’impatto di un
missile!»
All’improvviso, la gravità si dissolse. La Donnager aveva fermato i
motori. O erano stati distrutti.
Amos continuava a gridare «Merda, merda, merda», coprendo tutti
gli altri. Ma almeno Shed aveva smesso di berciare. Fissava con gli
occhi spalancati nel vuoto oltre il sedile, bianco in viso. Holden si
slacciò le cinture e si spinse verso il pannello di comunicazione.
«Jim!» lo chiamò Naomi. «Che cosa stai facendo?»
«Dobbiamo scoprire che cosa stia succedendo» rispose Holden da
sopra la spalla.
Quando raggiunse la paratia accanto al portello, picchiettò sul
pannello di comunicazione. Non ci fu risposta. Premette di nuovo il
tasto di chiamata, poi cominciò a picchiare con il pugno sul portello.
Non venne nessuno.
«Dove sono i nostri maledetti marine?» chiese.
Le luci si affievolirono, poi tornarono normali. Poi di nuovo, e
ancora, in modo cadenzato.
«Queste sono le torrette gauss. Cazzo. È un combattimento a
distanza ravvicinata» esclamò Alex attonito.
In tutta la storia della Coalizione, nessuna ammiraglia aveva mai
ingaggiato un combattimento ravvicinato. E invece eccoli lì, costretti
a impiegare i cannoni grossi, il che significava che la distanza era
sufficientemente ridotta da consentire l’uso di armi non guidate. Si
parlava di centinaia, forse perfino decine di chilometri, e non più di
migliaia. In qualche modo, le navi della Fascia erano riuscite a
sopravvivere al fuoco di sbarramento della Donnager.
«C’è qualcun altro qui che pensa che siamo fottutamente,
disperatamente nella merda?» chiese Amos, con una nota di panico
nella voce.
La Donnager cominciò a risuonare come un gong colpito più e più
volte da un gigantesco martello. Fuoco di risposta.
Il proiettile di gauss che uccise Shed non fece nemmeno un
rumore. Come un trucco di magia, due fori perfettamente circolari
apparvero sulle pareti opposte della stanza, tracciando una linea che
intersecava il sedile di Shed. Un momento prima, il medico era lì con
loro; l’istante successivo, la sua testa era sparita dal pomo di Adamo
in su. La pressione arteriosa pompò il sangue in una nube rossa che
si divise in due fiotti sottili che vorticarono verso i fori nelle pareti
della stanza mentre l’aria veniva risucchiata via.
12

Miller

Miller lavorava nel campo della sicurezza da quarant’anni. La


violenza e la morte erano delle compagne di viaggio abituali, per lui.
Uomini, donne. Animali. Bambini. Una volta aveva tenuto per mano
una donna mentre lei moriva dissanguata. Aveva ucciso due
persone, riusciva ancora a vederle mentre morivano, se chiudeva gli
occhi e ci ripensava. Se qualcuno glielo avesse chiesto, avrebbe
detto che non c’erano più molte cose in grado di scuoterlo.
Ma non aveva mai visto cominciare una guerra.
La sala lounge del Distinguished Hyacinth era nel bel mezzo del
pienone da cambio turno. Uomini e donne in uniformi delle forze
dell’ordine – principalmente della Star Helix, ma anche di qualche
altra compagnia minore – erano impegnati a tracannare i loro liquori
da dopolavoro e a scaricare la tensione, oppure si dirigevano verso il
buffet della colazione in cerca di caffè, funghi ruvidi in salsa di
zucchero e salsicce in cui la carne era presente in proporzione,
forse, di uno a mille. Miller masticò la salsiccia mentre osservava lo
schermo a parete. Uno dei capi delle relazioni esterne della Star
Helix sembrava effettivamente esterno, mentre spiegava con un
atteggiamento che irradiava calma e compostezza come ogni cosa
stesse andando a puttane.
«Le analisi preliminari suggeriscono che l’esplosione sia il risultato
di un tentativo fallito di connettere un ordigno nucleare alla
piattaforma di attracco. Gli ufficiali della marina marziana hanno fatto
riferimento all’incidente come a una ‘presunta azione terroristica’ e si
sono rifiutati di rilasciare ogni ulteriore commento durante lo
svolgimento delle indagini.»
«Eccone un altro» disse Havelock alle sue spalle. «Sai, alla fine
uno di questi stronzi ci azzeccherà.»
Miller si voltò sulla sua sedia, poi fece un cenno del capo verso il
posto libero che aveva accanto. Havelock si accomodò.
«Sarà una giornata interessante» osservò Miller. «Ti stavo giusto
per chiamare.»
«Sì, scusami» disse il suo partner. «Sono rimasto alzato fino a
tardi.»
«Notizie del trasferimento?»
«No» rispose Havelock. «Immagino che le mie scartoffie siano
ferme su qualche scrivania di Olympus. E tu che mi dici? Notizie
della ragazza del tuo progetto speciale?»
«Non ancora» disse Miller. «Senti, il motivo per cui volevo
incontrarti prima di andare in sede... Ho bisogno di prendermi un
paio di giorni, per cercare di seguire alcune piste su Julie. Con tutta
la merda che sta venendo a galla, Shaddid non vuole che mi ci
impegni troppo.»
«Ma tu stai ignorando il suo ordine» ribatté Havelock. Non era una
domanda.
«Ho un presentimento su questo caso.»
«Come posso aiutarti, allora?»
«Ho bisogno che tu mi copra.»
«E come vuoi che faccia una cosa del genere?» chiese Havelock.
«Non è che posso dire in giro che sei malato. Hanno accesso alle
tue cartelle cliniche, come per tutti gli altri.»
«Di’ loro che mi sono ubriacato, che ho bevuto come una spugna»
rispose Miller. «Che è passata Candace. È la mia ex moglie.»
Havelock masticò la sua salsiccia, aggrottando le sopracciglia. Il
terrestre scosse piano la testa; non si trattava di un rifiuto, ma di un
preludio a una domanda. Miller rimase in attesa.
«Mi stai dicendo che preferisci che il capo pensi che non sei al
lavoro perché sei nel pieno di una sbornia per cause sentimentali,
piuttosto che per via del fatto che stai svolgendo un compito che ti
ha assegnato lei stessa? Non ci arrivo.»
Miller si leccò le labbra e si chinò in avanti, posando i gomiti sul
liscio tavolo biancastro. Qualcuno aveva inciso un disegnino sulla
sua superficie. Un cerchio spezzato. Ed erano in un bar di poliziotti.
«Non so bene che cos’è che ho per le mani» disse Miller. «Ci sono
un po’ di elementi che in qualche modo si tengono assieme, ma non
sono ancora sicuro di aver capito di cosa si tratti. Finché non ne
saprò di più, ho bisogno di mantenere un profilo basso. Un tizio che
ha una ricaduta con la sua ex e si consola con la bottiglia per un
paio di giorni... Non rischia di attirare l’attenzione di nessuno.»
Havelock scosse di nuovo il capo, stavolta per l’incredulità. Se
fosse stato un cinturiano avrebbe accompagnato il gesto con le
mani, così sarebbe stato ben visibile nel caso in cui avesse
indossato una tuta pressurizzata. Un altro dei mille piccoli modi in cui
chi non era nativo della Fascia tradiva le proprie origini esotiche.
Sullo schermo a parete passò l’immagine di una donna bionda che
indossava un’uniforme dal taglio severo. Il capo delle relazioni
esterne, intanto, parlava della risposta tattica della marina militare
marziana e dell’ipotesi che dietro quel sensibile incremento di
episodi vandalici si nascondesse la mano dell’APE. Era così che
quell’uomo definiva il farsi sfuggire di mano un reattore a fusione
sovraccarico mentre si tentava di impostare una trappola esplosiva
in grado di distruggere un’intera nave: vandalismo.
«Questa roba non sta in piedi» disse Havelock, e, per un
momento, Miller non seppe se stesse facendo riferimento alle azioni
di guerriglia dei cinturiani, alla reazione marziana o al favore che gli
aveva chiesto. «Dico davvero. Ma dov’è la Terra? Tutti questi casini
che continuano a scoppiare in giro, e da loro non sentiamo
nemmeno una cazzo di parola.»
«E perché dovremmo?» chiese Miller. «Sono Marte e la Fascia a
darsele.»
«Quand’è stata l’ultima volta che la Terra ha lasciato che
accadesse qualcosa di importante senza ficcarcisi in mezzo?»
chiese Havelock, poi sospirò. «E va bene. Sei troppo ubriaco per
presentarti in ufficio. La tua vita sentimentale è un casino. E io sto
cercando di pararti il culo.»
«Soltanto per un paio di giorni.»
«Vedi di tornare prima che qualcuno decida che è l’occasione
perfetta perché una pallottola vagante faccia fuori lo sbirro
terrestre.»
«Va bene» disse Miller, alzandosi dal tavolo. «Tu però sta’ in
campana.»
«Non me lo faccio ripetere due volte» rispose Havelock.
Il centro jiu-jitsu di Ceres era vicino al porto, dove la gravità della
rotazione era più forte. Il buco era un deposito convertito da prima
della grande rotazione. Un cilindro, spianato nel punto in cui era
stato fissato il pavimento, a un terzo di altezza dal basso. Diverse
rastrelliere, piene di vari tipi di bastoni, spade di bambù e pugnali di
plastica morbida da allenamento, erano appese sul soffitto a volta.
La pietra levigata restituiva l’eco degli sforzi di alcuni uomini intenti
ad allenarsi con attrezzi da palestra e il tonfo sordo di una donna in
fondo alla sala che infieriva su un sacco di sabbia. Sul tatami c’erano
tre studenti che parlavano a bassa voce tra loro.
Diverse fotografie riempivano la parete d’ingresso su entrambi i lati
della porta. Soldati in uniforme. Agenti delle forze di sicurezza per
mezza dozzina di agenzie cinturiane. Non c’era molta gente dai
pianeti interni, tranne qualcuno. E poi placche che commemoravano
buoni piazzamenti in occasione di qualche gara. Una pagina
stampata a caratteri piccoli che raccontava la storia di quel posto.
Una ragazza del gruppetto degli studenti mandò un grido e crollò a
terra, trascinando con sé uno dei compagni. Quello rimasto in piedi
l’applaudì e li aiutò entrambi a rialzarsi. Miller esaminò la parete di
fotografie, sperando di trovare Julie.
«Posso aiutarla?»
L’uomo era più basso di lui di mezza spanna e largo probabilmente
il doppio. Questo avrebbe dovuto conferirgli un aspetto da terrestre,
ma tutto in quel tizio gridava Fascia. Indossava un paio di pantaloni
sportivi chiari che facevano sembrare la sua pelle ancor più scura.
Aveva il sorriso curioso e sereno di un predatore ben nutrito. Miller lo
salutò con un cenno del capo.
«Sono l’ispettore Miller» disse. «Faccio parte delle forze dell’ordine
della stazione. Vorrei avere qualche informazione su una delle sue
allieve.»
«Si tratta di un’indagine ufficiale?» chiese l’uomo.
«Già» rispose Miller. «Temo proprio di sì.»
«Avrà un mandato, quindi.»
Miller sorrise. L’uomo contraccambiò.
«Non forniamo informazioni sui nostri studenti senza un mandato»
disse. «Politica del centro.»
«Questo lo rispetto» disse Miller. «No, dico sul serio. È solo che...
alcune parti di questa specifica inchiesta sono forse un po’ più
ufficiali di altre. La ragazza non è nei guai. Non ha fatto niente. Ma
ha una famiglia su Luna che vorrebbe ritrovarla.»
«Un rapimento» disse l’uomo, incrociando le braccia. Il viso sereno
era diventato freddo senza alcun movimento apparente.
«Soltanto la parte ufficiale» disse Miller. «Posso ottenere un
mandato e possiamo fare tutto tramite i canali tradizionali. Ma così
dovrò parlarne con il mio capo. Più lei sa, e meno spazio ho io per
muovermi tra le maglie.»
L’uomo non reagì. La sua immobilità metteva a disagio. Miller si
sforzò di non agitarsi. La donna con il sacco di sabbia in fondo alla
sala eseguì una serie di rapide tecniche in sequenza, lanciando un
grido a ogni colpo.
«Chi?» chiese l’uomo.
«Julie Mao» rispose Miller. Avrebbe potuto dire che era alla ricerca
della madre del Buddha, vista la reazione che era riuscito a
suscitare. «Credo che sia nei guai.»
«A lei cosa importa se è nei guai?»
«A questa domanda non so dare risposta» disse Miller. «Mi
importa e basta. Se lei non ha intenzione di aiutarmi, non lo faccia.»
«E lei andrà a ottenere il suo mandato. E passeremo per canali
ufficiali.»
Miller si tolse il cappello, si passò una mano lunga e affusolata
sulla testa e lo rimise al suo posto.
«Probabilmente no» disse.
«Mi faccia vedere il suo tesserino» chiese l’uomo. Miller tirò fuori il
suo terminale e lasciò che il tizio avesse conferma della sua identità.
Quello gli restituì il terminale e indicò una porticina dietro i sacchi di
sabbia. Miller obbedì.
L’ufficio era angusto: una piccola scrivania in laminato con una
sfera morbida al posto della sedia; due sgabelli che sembravano
essere stati recuperati da un bar; uno schedario con un piccolo
marchingegno che puzzava di ozono e metallo e che era
probabilmente ciò con cui venivano prodotte le placche e i certificati.
«Perché la famiglia la rivuole?» chiese l’uomo, accomodandosi
sulla sfera. Fungeva da sedia, ma richiedeva un equilibrio costante.
Un posto in cui riposarsi senza riposarsi davvero.
«Pensano che sia in pericolo. O, perlomeno, così dicono, e non ho
motivo di non credergli.»
«Che genere di pericolo?»
«Non lo so» rispose Miller. «So che era su questa stazione. So che
è partita con una nave per Tycho. Dopodiché, non ho più niente.»
«La sua famiglia la rivuole sulla loro stazione?»
Quell’uomo sapeva chi fosse la sua famiglia. Miller archiviò quella
informazione senza batter ciglio.
«Non credo» rispose Miller. «L’ultimo messaggio che lei ha ricevuto
da loro è stato reindirizzato attraverso Luna.»
«Dal pozzo di gravità.» Il modo in cui lo disse lo fece sembrare
come fosse una malattia.
«Sto cercando qualcuno che sappia con chi si sia imbarcata.
Qualora fosse in fuga, dov’era diretta e quando prevedeva di
arrivarci. Se è raggiungibile tramite laser.»
«Non so niente di tutto questo» disse l’uomo.
«Conosce qualcuno a cui potrei chiedere?»
Ci fu una pausa.
«Può darsi. Vedrò cosa posso trovare.»
«C’è nient’altro che può dirmi di lei?»
«Ha cominciato a studiare qui cinque anni fa. La prima volta che la
vidi era... arrabbiata. Indisciplinata.»
«Ma è migliorata» osservò Miller. «Cintura marrone, giusto?»
L’uomo inarcò le sopracciglia.
«Sono uno sbirro» disse Miller. «Scopro cose.»
«È migliorata» concesse il suo maestro. «Era stata aggredita.
Subito dopo essere arrivata sulla Fascia. Voleva fare in modo che
non potesse accadere una seconda volta.»
«Aggredita» disse Miller, scandagliando il tono di voce dell’uomo.
«Violentata?»
«Non gliel’ho mai chiesto. Si allenava duramente, anche quando
non era sulla stazione. Si vede quando le persone si lasciano
andare. Tornano più deboli. Lei, mai.»
«Una tipa tosta» osservò Miller. «Buon per lei. Aveva amici?
Persone con cui si allenava?»
«Qualcuno, sì. Nessun amante, che io sappia, visto che sarà la
sua prossima domanda.»
«Questo è strano. Una ragazza così...»
«Così come, ispettore?»
«Così carina» disse Miller. «Capace. Intelligente. Caparbia. Chi
non vorrebbe stare con una così?»
«Può darsi che non abbia incontrato la persona giusta.»
C’era qualcosa, nel modo in cui lo diceva, che sottintendeva un
certo divertimento. Miller si strinse nelle spalle, a disagio.
«Che genere di lavoro faceva?» chiese.
«Cargo leggeri. Non so dirle che tipo di carichi, in particolare.
Avevo l’impressione che andasse ovunque potesse esserci
bisogno.»
«Non aveva una rotta abituale, quindi?»
«Così mi è parso.»
«Su quale nave lavorava? C’era un mercantile in particolare, o su
qualunque cosa le capitasse a tiro? Una compagnia in particolare,
magari?»
«Cercherò di scoprire quel che posso per lei» disse l’uomo.
«Corriere per l’APE?»
«Cercherò di scoprire» ripeté il tizio «quel che posso.»
Quel pomeriggio, nei notiziari non si parlò di altro che di Phoebe.
La stazione scientifica locale, quella su cui i cinturiani non erano
nemmeno autorizzati ad attraccare, era stata colpita. Il rapporto
ufficiale dichiarava che gli occupanti della base erano per metà
morti, e per metà dispersi. Nessuno aveva ancora rivendicato
l’attacco, ma girava voce che un qualche gruppo cinturiano – forse
l’APE, o forse un altro – era finalmente riuscito a perpetrare un atto
‘vandalico’ che includeva una conta dei morti. Miller sedeva nel suo
buco, osservando il notiziario mentre beveva.
Stava andando tutto a puttane. I comunicati pirata dell’APE che
inneggiavano alla guerra. Le azioni di guerriglia in vertiginoso
aumento. Tutto. Sarebbe arrivato un momento in cui Marte non li
avrebbe più ignorati. E, quando Marte avesse deciso di agire, non
avrebbe avuto alcuna importanza se la Terra avesse seguito la
questione. Per la Fascia sarebbe stata la prima vera guerra. La
catastrofe incombeva, e nessuna delle due fazioni sembrava capire
quanto fosse vulnerabile in realtà. E non c’era niente – non una
singola, dannatissima cosa – che lui potesse fare per fermare quella
follia. Non poteva nemmeno rallentarla.
Julie Mao gli sorrideva dalla cornice, con la pinaccia alle sue
spalle. Aggredita, aveva detto quell’uomo. Non c’era niente al
riguardo nel suo fascicolo. Poteva esser stato uno scippo. Oppure
qualcosa di peggio. Miller aveva incontrato molte vittime, e aveva
l’abitudine di dividerle in tre categorie. La prima era quella di chi
faceva finta che non fosse successo niente, o che qualunque cosa
fosse successa non aveva realmente importanza. Si trattava di più
della metà delle persone con cui aveva a che fare. Poi c’erano i
professionisti, quelli che interpretavano il fatto di essere vittime come
una sorta di permesso universale per potersi comportare come
meglio pareva loro. Questi rappresentavano quasi tutto il totale che
restava.
Ma un cinque percento, forse meno, era costituito da coloro che
ingoiavano il rospo, imparavano la lezione e andavano avanti. Le
Julie. Quelli in gamba.
Qualcuno suonò alla sua porta tre ore dopo il termine del proprio
turno ufficiale. Miller si alzò, meno stabile di quanto si aspettasse.
Contò le bottiglie sul tavolo. Ce n’erano più di quante credesse. Esitò
per un istante, incerto se andare prima a rispondere alla porta o
buttare le bottiglie giù per il tubo di riciclo. Il campanello squillò di
nuovo. Andò ad aprire. Anche se era qualcuno della centrale, si
sarebbe comunque aspettato di trovarlo ubriaco. Non c’era
possibilità di deludere nessuno.
Il viso era familiare. Rovinato dall’acne, controllato. Il bracciale
dell’APE, quello del bar. Quello che aveva fatto ammazzare Mateo
Judd.
Lo sbirro.
«‘Sera» salutò Miller.
«Detective Miller» disse l’uomo butterato. «Credo che siamo partiti
con il piede sbagliato. Speravo che potessimo riprovarci.»
«Bene.»
«Posso entrare?»
«Cerco di non portarmi sconosciuti a casa» disse Miller. «Non
conosco nemmeno il suo nome.»
«Anderson Dawes» rispose l’uomo butterato. «Sono il contatto
dell’Alleanza dei Pianeti Esterni su Ceres. Credo che potremmo
aiutarci l’un l’altro. Posso entrare?»
Miller si fece da parte e l’uomo butterato, Dawes, entrò nella sua
casa. Studiò l’ambiente del buco nell’arco di due lunghi respiri, poi si
accomodò come se le bottiglie e la puzza di birra stantia non fossero
niente su cui far commenti. Maledicendosi mentalmente e
desiderando essere in una condizione di sobrietà che al momento gli
mancava, Miller si sedette di fronte a lui.
«Ho bisogno che lei mi faccia un favore» disse Dawes. «Sono
disposto a pagare. Non in denaro, ovviamente. Informazioni.»
«Che cosa vuole?» chiese Miller.
«Smetta di cercare Juliette Mao.»
«Niente da fare.»
«Sto soltanto cercando di mantenere la pace, ispettore» riprese
Dawes. «Dovrebbe ascoltare quel che ho da dirle.»
Miller si sporse in avanti, poggiando i gomiti sul tavolo. Il signor
Sereno Istruttore di jiu-jitsu lavorava per l’APE? Il tempismo della
visita di Dawes sembrava suggerirlo. Miller archiviò quell’ipotesi, ma
non disse niente.
«Mao lavorava per noi» confessò Dawes. «Ma questo doveva
averlo già indovinato.»
«Più o meno. Sa dove si trova?»
«Non lo sappiamo. La stiamo cercando. E dobbiamo essere noi
quelli che la troveranno. Non lei.»
Miller scosse la testa. C’era una replica adatta, la cosa giusta da
dire. Gli ronzava in fondo alla testa, e se non si fosse sentito così
obnubilato...
«Lei è uno di loro, ispettore. Potrà anche aver vissuto tutta la vita
quassù, ma il suo salario è pagato da un’agenzia di un pianeta
interno. No, aspetti. Non la biasimo. Capisco benissimo come stanno
le cose. Loro stavano assumendo e a lei serviva il lavoro. Ma...
siamo in bilico su una bolla, al momento. La Canterbury. Le frange
estremiste della Fascia che inneggiano alla guerra...»
«La Stazione di Phoebe.»
«Sì, incolpano noi anche per quella. Ci aggiunga la figlia prodiga di
una grande azienda di Luna...»
«Lei crede che le sia successo qualcosa.»
«Juliette si trovava sulla Scopuli» disse Dawes. Quando vide che
Miller non mostrava particolari reazioni, aggiunse: «Il cargo che
Marte ha usato come esca quando hanno distrutto la Canterbury.»
Miller ci ragionò su a lungo prima di emettere un fischio basso.
«Non sappiamo che cosa sia successo» proseguì Dawes. «Finché
non lo sapremo, non posso permetterle di andare in giro a rimestare
le acque. Sono già abbastanza torbide così come sono.»
«E quali informazioni mi starebbe offrendo?» chiese Miller.
«Questo era l’accordo, giusto?»
«Le dirò quel che scopriremo. Dopo che l’avremo trovata» rispose
Dawes. Miller ridacchiò e l’uomo dell’APE continuò il suo discorso. «È
un’offerta generosa, considerando chi è lei. Sul libro paga della
Terra. Compagno di squadra di un terrestre. C’è gente propensa a
pensare che sia sufficiente per far di lei un nemico.»
«Non lei, però» disse Miller.
«Credo che abbiamo gli stessi obiettivi fondamentali, lei e io.
Stabilità. Sicurezza. Strani periodi storici portano a strane alleanze.»
«Ho due domande.»
Dawes allargò le braccia, accogliendole.
«Chi è stato a rubare l’attrezzatura antisommossa?» chiese Miller.
«Attrezzatura antisommossa?»
«Prima che venisse distrutta la Canterbury, qualcuno ha rubato il
nostro equipaggiamento antisommossa. Può darsi che sia stato fatto
con l’intenzione di armare dei soldati per il controllo della folla. O
forse qualcuno non voleva che le nostre folle fossero tenute sotto
controllo. Chi è stato? Perché?»
«Non siamo stati noi» rispose Dawes.
«Questa non è una risposta. Provi con questa: che cosa è
successo alla Golden Bough Society?»
Dawes sembrò inespressivo.
«Loca Greiga?» chiese Miller. «Sohiro?»
Dawes aprì la bocca e la richiuse. Miller gettò la sua bottiglia di
birra nel tubo di riciclo.
«Niente di personale, amico» disse. «Ma non posso affermare di
essere favorevolmente impressionato dalle vostre tecniche
investigative. Che cosa vi fa pensare che riuscirete a trovarla?»
«Così non è giusto» replicò Dawes. «Mi dia qualche giorno, e le
porterò le risposte che cerca.»
«Venga da me quando le avrà. Io cercherò di non dare il via a una
guerra senza quartiere mentre le cercherete, ma non ho intenzione
di mollare su Julie. Ora può andare.»
Dawes si alzò in piedi. Sembrava amareggiato.
«Sta commettendo un errore» disse.
«Non sarà il primo che faccio.»
Dopo che l’uomo se ne fu andato, Miller si sedette al suo tavolo.
Era stato stupido. Peggio ancora: era stato indulgente con sé stesso.
Aveva bevuto fino a intorpidire la mente invece di fare il suo lavoro.
Invece di trovare Julie. Ma ora sapeva qualcosa di più. La Scopuli.
La Canterbury. Altre linee tra i puntini.
Tolse di mezzo le bottiglie, si fece una doccia e tirò fuori il
terminale, cercando notizie sulla nave di Julie. Dopo un’ora, un
nuovo pensiero gli balenò nella mente. Una paura che continuava a
crescere ogni volta che ci pensava. Verso mezzanotte chiamò il
buco di Havelock.
Il suo partner impiegò due minuti pieni per rispondere. Quando lo
fece, apparve scarmigliato e con gli occhi intorpiditi dal sonno.
«Miller?»
«Havelock. Hai per caso delle ferie accumulate?»
«Un po’, sì.»
«Congedi per malattia?»
«Certo» rispose Havelock.
«Prendili» disse Miller. «Prendili subito. Vattene dalla stazione, in
qualche posto sicuro se riesci a trovarlo. In qualche posto dove non
cominceranno ad ammazzare terrestri per un nonnulla se le cose
vanno a carte quarantotto.»
«Non capisco. Di che stai parlando?»
«Ho ricevuto una visita di cortesia da un agente dell’APE, stasera.
Ha cercato di farmi mollare il mio incarico di rapimento. Credo...
credo che sia nervoso. Che sia spaventato.»
Havelock rimase in silenzio per un momento mentre le parole
filtravano nella sua mente rallentata dal sonno.
«Cristo» disse poi. «Che cos’è che spaventa l’APE?»
13

Holden

Holden rimase pietrificato a fissare il sangue che pompava dal


collo di Shed e che veniva aspirato come fumo da una ventola di
scarico. I rumori del combattimento cominciarono a scemare mentre
l’aria veniva risucchiata fuori dalla stanza. Le sue orecchie
cominciarono a pulsare e poi a far male come se qualcuno ci avesse
piantato uno spillone. Mentre lottava con le cinture di sicurezza,
lanciò un’occhiata ad Alex. Il pilota stava gridando qualcosa ma, in
quell’aria rarefatta, la sua voce non risuonava. Naomi e Amos erano
già fuori dai sedili, si erano dati una spinta con i piedi e stavano
fluttuando rapidi verso i due fori. Amos aveva un vassoio in una
mano. Naomi, un raccoglitore bianco ad anelli. Holden li fissò per
quel mezzo secondo che gli ci volle per capire che cosa stessero
tentando di fare. Il mondo si restrinse intorno a lui, la sua visione
periferica si riempì di bagliori e oscurità.
Quando riuscì a liberarsi, Amos e Naomi avevano già coperto i fori
con i loro tappi improvvisati. La stanza era invasa dal sibilo acuto
dell’aria che cercava di forzare una via di fuga attraverso quei
blocchi imperfetti. Holden si sentì tornare la vista mentre la
pressione atmosferica riprendeva a salire. Respirava a fatica,
annaspando. Gli sembrò che qualcuno stesse tirando di nuovo su la
manopola del volume, e le grida di aiuto di Naomi divennero udibili.
«Jim, apri l’armadietto di emergenza!» gridò.
Gli stava indicando un piccolo pannello rosso e giallo sulla paratia
accanto al suo sedile. Gli anni di addestramento a bordo di una nave
si fecero largo attraverso l’anossia e la depressurizzazione, e Holden
strappò il sigillo sull’armadietto e aprì lo sportello. All’interno c’erano
un kit di pronto soccorso marchiato con l’antico simbolo della croce
rossa, una mezza dozzina di maschere a ossigeno e una busta
sigillata di dischi di plastica rigida insieme a una pistola a caldo. Il kit
di sigillatura di emergenza. Lo afferrò.
«Solo la pistola» gli gridò Naomi. Non sapeva se la sua voce
suonava distante per via dell’aria rarefatta o perché l’abbassamento
di pressione gli aveva perforato i timpani.
Holden tirò fuori la pistola dalla busta di rattoppi e gliela lanciò.
Naomi fece passare una striscia di colla sigillante istantanea intorno
al bordo del suo raccoglitore ad anelli. Poi tirò la pistola ad Amos,
che la raccolse con un gesto abile della mano e sigillò anche il suo
vassoio da portata. Il fischio s’interruppe, sostituito dal sibilo del
sistema atmosferico interno che faticava a riportare la pressione a
un livello normale. Quindici secondi.
Tutti guardarono verso Shed. Senza il vuoto, il sangue si riversava
in una sfera rossa che galleggiava appena sopra il suo collo, come
un macabro sostituto animato della testa.
«Cristo santo, capo» disse Amos, distogliendo lo sguardo da Shed
e spostandolo su Naomi. Fece schioccare i denti con un ticchettio
udibile e scosse la testa. «Che cosa...»
«Proiettili gauss» rispose Alex. «Quelle navi hanno dei cannoni a
rotaia.»
«Navi della Fascia con cannoni a rotaia?» chiese Amos. «Si sono
per caso costruiti una fottuta flotta militare senza che nessuno mi
dicesse niente?»
«Jim, il corridoio esterno e la cabina dall’altra parte sono entrambi
privi di atmosfera» disse Naomi. «La nave è compromessa.»
Holden fece per rispondere, poi diede un’occhiata al raccoglitore
che Naomi aveva incollato sulla falla. La copertina bianca recava
una scritta in lettere nere che dicevano ‘MRCM-Procedure di
emergenza’. Dovette ricacciarsi in gola una risata che sarebbe
sicuramente diventata nervosa e inarrestabile.
«Jim» disse Naomi, con voce preoccupata.
«Sto bene, Naomi» replicò Holden, poi fece un respiro profondo.
«Quanto tempo reggeranno quelle toppe?»
Naomi fece spallucce con le mani, poi cominciò a raccogliersi i
capelli sulla nuca e a legarli con un elastico rosso.
«Più a lungo di quanto non durerà l’aria. Se tutto intorno a noi c’è
vuoto, significa che in questo momento lo scompartimento è rifornito
dalle bombole di emergenza. Niente ricircolo. Non so quanto duri per
ogni stanza, ma non dovrebbe essere più di un paio d’ore.»
«Ti fa venir voglia di aver messo quelle cazzo di tute, eh?» disse
Amos.
«Non avrebbe fatto alcuna differenza» rispose Alex. «Se fossimo
sbarcati con indosso le tute ambientali, ce le avrebbero tolte.»
«Almeno potevamo provarci» ribatté Amos.
«Be’, se vuoi prenderti la briga di tornare indietro nel tempo e fare
tutto da capo, fa’ pure, socio.»
Naomi intervenne seccamente con un «Ehi», poi però nient’altro.
Nessuno stava parlando di Shed. Si stavano sforzando di non
guardare il cadavere. Holden si schiarì la gola per attirare
l’attenzione di tutti, poi fluttuò verso il sedile del compagno morto,
portando con sé i loro sguardi. Si fermò lì per un momento,
permettendo a tutti di dare un’ultima occhiata al corpo decapitato,
dopodiché tirò fuori una coperta dal cassetto sotto il sedile e la fissò
sul corpo di Shed con l’aiuto delle cinture.
«Shed è stato ucciso. Siamo in una situazione di massimo
pericolo. Litigare non ci aiuterà ad allungare le nostre vite» disse
Holden, guardando uno per uno i membri del suo equipaggio. «Che
cosa possiamo fare?»
Nessuno disse niente. Holden si voltò di nuovo verso Naomi.
«Naomi, che cosa potrebbe aiutarci a restare in vita un po’ più a
lungo e che potremmo fare ora?» chiese.
«Vedrò se riesco a trovare le bombole d’emergenza. La stanza è
pensata per sei occupanti, noi siamo solo in... siamo solo in quattro.
Forse potrei riuscire a rallentare il flusso e a prolungarlo di un po’.»
«Bene. Grazie. Alex?»
«Se c’è qualcun altro oltre a noi, staranno cercando i sopravvissuti.
Comincerò a picchiare contro la paratia. Nel vuoto non si sentirà ma,
se ci sono altre cabine con dell’aria, il suono viaggerà attraverso il
metallo.»
«Un buon piano. Mi rifiuto di credere che siamo gli unici rimasti su
questa nave» disse Holden, poi si voltò verso Amos. «Amos?»
«Fatemi dare un’occhiata a quel pannello di comunicazione. Forse
potrei riuscire ad accedere alla plancia o al controllo dei danni, o...
cazzo, a qualcosa» rispose Amos.
«Grazie. Mi farebbe molto piacere riuscire a segnalare che siamo
ancora qui» disse Holden.
Ognuno si mise al lavoro mentre Holden fluttuava in aria accanto a
Shed. Naomi cominciò a tirar via i pannelli di accesso dalle paratie.
Alex, con le mani appoggiate a un sedile per far leva, si sdraiò sul
ponte e cominciò a scalciare contro la paratia con gli stivali. La
stanza vibrava appena a ogni calcio. Amos tirò fuori dalla tasca un
attrezzo multiplo e cominciò a smontare il pannello di
comunicazione.
Quando Holden fu sicuro che fossero tutti impegnati, posò una
mano sulla spalla di Shed, poco sotto la macchia rossa che si stava
allargando sulla coperta.
«Mi dispiace» sussurrò al corpo. Sentì un bruciore agli occhi e se li
premette con il retro dei pollici.
L’unità di comunicazione era stata estratta dalla paratia e
penzolava appesa ai suoi fili quando ronzò una volta, con forza.
Amos guaì e si spinse via con tanta veemenza da catapultarsi
attraverso la stanza. Holden lo afferrò al volo e si slogò la spalla
cercando di arrestare lo slancio di quei centoventi chili di meccanico
terrestre. Il pannello ronzò di nuovo. Holden lasciò andare Amos e
fluttuò verso la paratia. Un LED giallo baluginava accanto al pulsante
bianco dell’unità. Holden lo premette. Il pannello si animò con la
voce del tenente Kelly.
«Scansatevi dal portello, stiamo per entrare» disse.
«Aggrappatevi a qualcosa!» gridò Holden all’equipaggio, poi afferrò
la cinghia di un sedile e se l’avvolse attorno alla mano e
all’avambraccio.
Quando il portellone si aprì, Holden si aspettava che tutta l’aria
fosse risucchiata all’esterno. Invece, ci fu uno schianto assordante e
la pressione sembrò calare appena per un secondo. Fuori, nel
corridoio, spessi fogli di plastica erano stati sigillati tra le pareti,
creando una zona pressurizzata su misura. Le pareti della nuova
sala si piegarono pericolosamente all’infuori per via della pressione
atmosferica, ma ressero. All’interno di quella zona franca, il tenente
Kelly e tre dei suoi marine indossavano pesanti armature
pressurizzate ed erano carichi di armi a sufficienza per combattere
diverse guerre minori.
I marine entrarono rapidamente nella stanza, imbracciando le armi,
e sigillarono il portello alle loro spalle. Uno di loro gettò un grosso
sacco verso Holden.
«Cinque tute pressurizzate. Indossatele» disse Kelly. I suoi occhi si
spostarono verso la coperta imbevuta di sangue che copriva Shed,
poi alle due toppe improvvisate. «Avete subìto perdite?»
«Il nostro medico, Shed Garvey» rispose Holden.
«Già. Ma che cazzo succede?» chiese Amos quasi gridando. «Chi
è che se ne sta là fuori a rompere il culo a cannonate alla vostra
bella nave?»
Naomi e Alex non dissero niente e cominciarono a tirar fuori le tute
dalla borsa e a porgerle ai compagni.
«Non lo so» rispose Kelly. «Ma stiamo abbandonando la nave. Ho
ricevuto l’ordine di portarvi in salvo su una scialuppa. Abbiamo meno
di dieci minuti per raggiungere la piattaforma di attracco, salire su
una nave di salvataggio e allontanarci dalla zona dello scontro. Fate
in fretta.»
Holden indossò la tuta, e le implicazioni di quell’evacuazione gli
balenarono nella mente.
«La nave sta andando in pezzi, tenente?» chiese.
«Non ancora. Ma siamo stati abbordati.»
«E allora perché ce ne andiamo?»
«Stiamo perdendo.»
Kelly non batté il piede con impazienza mentre aspettava che si
infilassero le tute pressurizzate; Holden immaginò che fosse soltanto
perché i marine avevano gli stivali magnetici già attivi. Non appena
tutti ebbero segnalato di essere pronti, Kelly eseguì un rapido
controllo radio su ogni tuta, poi uscì nel corridoio. Con otto persone
al suo interno, quattro delle quali in armatura pesante, la piccola
cabina pressurizzata era decisamente affollata. Kelly tirò fuori un
coltello da guerra da un fodero che portava sul petto e dilaniò la
barriera di plastica con un unico, rapido movimento. Il portello alle
loro spalle si richiuse di scatto e l’aria nel corridoio svanì mentre i
fogli di plastica finivano di strapparsi senza produrre alcun rumore.
Kelly partì di corsa lungo il corridoio, con l’equipaggio che si sforzava
di rimanere al passo con lui.
«Ci spostiamo a tutta velocità verso il gruppo di ascensori della
chiglia» disse Kelly attraverso il collegamento radio. «Sono sigillati
per via dell’allarme, ma posso aprire le porte di uno di essi e
galleggeremo lungo la tromba fino alla piattaforma di attracco.
Dovremo fare tutto di corsa. Se doveste vedere degli assalitori, non
vi fermate. Continuate a muovervi, sempre. Ci occuperemo noi di
eventuali presenze ostili. Ricevuto?»
«Ricevuto, tenente» annaspò Holden. «Ma perché abbordare voi?»
«Il centro informazioni di comando» disse Alex. «È come il sacro
Graal. Codici, schieramenti, nuclei computerizzati, strategie.
Impossessarsi del CIC di un’ammiraglia è il sogno erotico di ogni
stratega.»
«Basta chiacchiere» disse Kelly. Holden lo ignorò.
«Questo significa che faranno saltare in aria il nucleo, piuttosto che
lasciarlo in mano nemica, dico bene?»
«Già» rispose Alex. «Procedura standard in caso di abbordaggio. I
marine devono mantenere il controllo di plancia, CIC e sala
macchine. Qualora uno dei tre venisse perso, gli altri due innescano
l’esplosione, e la nave diventa come una stella per qualche
secondo.»
«Procedura standard» ringhiò Kelly. «Quelli sono miei amici.»
«Desolato, tenente» replicò Alex. «Ho prestato servizio sulla
Bandon. Non intendevo prenderla alla leggera.»
Svoltarono l’angolo e il blocco di ascensori fu presto in vista. Tutti e
otto erano chiusi e sigillati. I portelloni ad alta pressurizzazione si
erano chiusi quando la nave era stata forata.
«Gomez, attiva il bypass» disse Kelly. «Mole, Dookie, tenete
d’occhio i corridoi.»
Due marine si allargarono a ventaglio, controllando i corridoi
attraverso il mirino. Il terzo si avvicinò a una delle porte degli
ascensori e cominciò ad armeggiare con i controlli. Holden segnalò
al suo equipaggio di addossarsi alla parete, fuori da possibili linee di
tiro. Di tanto in tanto, il ponte vibrava lievemente sotto i suoi piedi.
Era improbabile che le navi nemiche avessero continuato a sparare
con i propri assalitori all’interno. Doveva trattarsi di armi da
incursione e di esplosivi leggeri. Mentre se ne stavano lì,
nell’assoluto silenzio del vuoto, gli eventi si velarono di una
sensazione surreale e distante. Holden si rese conto che la sua
mente non stava funzionando come avrebbe dovuto. Era una
reazione al trauma. La distruzione della Canterbury, le morti di Ade e
McDowell. E ora qualcuno aveva ammazzato Shed mentre se ne
stava legato al suo sedile. Era troppo; non riusciva ad accettarlo.
Sentì la scena intorno a sé farsi sempre più distante.
Holden guardò verso Naomi, Alex e Amos. Il suo equipaggio. Loro
gli restituirono lo sguardo, con i volti sbiancati e spettrali nella luce
verde dei monitor dei loro caschi. Gomez alzò un pugno in segno di
vittoria mentre il portello pressurizzato esterno dell’ascensore si
apriva, rivelando le porte dell’ascensore. Kelly fece un gesto ai suoi
uomini di copertura.
Quello di nome Mole si voltò e cominciò a tornare verso
l’ascensore, quando la sua faccia si disintegrò in un’esplosione di
frammenti di vetro rinforzato e sangue. La sua corazza e la paratia
del corridoio alle sue spalle furono investite da un centinaio di
piccole detonazioni e riccioli di fumo. Il suo corpo sobbalzò come
quello di una marionetta, inchiodato al pavimento dagli stivali
magnetici.
La sensazione d’irrealtà che attanagliava Holden fu spazzata via
dall’adrenalina. La raffica di colpi che aveva investito la parete e il
corpo di Mole consisteva di proiettili esplosivi ad alta intensità,
sparati da un’arma a ripetizione. La linea di comunicazione si riempì
delle grida dei marine e dell’equipaggio di Holden. Alla sua sinistra,
Gomez spalancò le porte dell’ascensore grazie alla forza accresciuta
dall’armatura potenziata, rivelando il condotto vuoto alle loro spalle.
«Dentro!» gridò Kelly. «Tutti dentro!»
Holden rimase indietro, spingendo dentro Naomi, poi Alex. L’ultimo
marine, quello che Kelly aveva chiamato Dookie, scaricò il fucile
automatico verso un bersaglio dietro l’angolo, che Holden non
riusciva a vedere. Quando esaurì i proiettili, il marine posò un
ginocchio a terra ed espulse il caricatore con un unico gesto fluido.
Ne estrasse uno di riserva dal pettorale della corazza e lo piantò
nella sua arma più rapidamente di quanto Holden non riuscisse a
seguire con lo sguardo. Il marine riprese a sparare meno di due
secondi dopo aver esaurito il primo caricatore.
Naomi gridò a Holden di entrare nel condotto dell’ascensore, poi
una mano simile a una morsa d’acciaio lo afferrò per una spalla, lo
tirò via dalla presa magnetica dei suoi stivali sul pavimento e lo
scaraventò attraverso le porte dell’ascensore.
«Si faccia ammazzare quando non sono io a fare da baby-sitter»
abbaiò il tenente Kelly.
Si spinsero contro le pareti del condotto e fluttuarono giù per il
lungo tunnel, verso poppa. Holden continuava a guardarsi alle
spalle, verso la porta aperta che si allontanava sempre di più.
«Dookie non ci sta seguendo» disse.
«Ci sta coprendo la via di fuga» replicò Kelly.
«Sarà meglio che ce la caviamo, allora» aggiunse Gomez. «Che il
suo gesto sia valso a qualcosa.»
Kelly, in testa al gruppo, afferrò un piolo sulla parete del condotto e
si fermò di colpo. Tutti gli altri lo imitarono.
«Questa è la nostra uscita. Gomez, va’ a dare un’occhiata» disse
Kelly. «Holden, ecco il piano: prenderemo una delle corvette dalla
piattaforma di attracco.»
A Holden parve sensato. Le corvette erano fregate leggere; navi
scorta, le più piccole a essere equipaggiate con un propulsore
Epstein. Sarebbe stata sufficientemente veloce da poter viaggiare
ovunque nel sistema e far mangiare la polvere alla maggior parte
delle minacce possibili. Ricopriva anche il ruolo secondario di
torpediniera, per cui aveva le sue difese. Holden annuì nel suo
casco verso Kelly, poi gli fece segno di proseguire. Kelly aspettò
finché Gomez non ebbe finito di aprire le porte dell’ascensore e fu
giunto sulla piattaforma.
«Okay. Ho la chiave e il codice di attivazione per farci salire a
bordo della nave e avviarla. Andrò dritto alla corvetta, per cui statemi
attaccati alle chiappe. Accertatevi di aver disattivato i magneti degli
stivali. Ci spingeremo contro il muro e fluttueremo in linea retta, per
cui prendete bene la mira o perderete il treno. Ci siamo tutti?»
Tutti risposero affermativamente.
«Magnifico. Gomez, com’è la situazione là fuori?»
«Abbiamo un problema, tenente. C’è una mezza dozzina di
assalitori a tener d’occhio i mezzi nell’hangar. Armature potenziate,
assetto di manovra a zero g, e artiglieria pesante. Sembrano
impazienti di dar battaglia» sussurrò Gomez in risposta. La gente
tendeva sempre a sussurrare, quando si nascondeva. Avvolto
com’era dalla sua tuta pressurizzata e circondato dal vuoto, Gomez
avrebbe anche potuto accendere un fuoco d’artificio dentro la sua
corazza e nessuno l’avrebbe sentito, eppure sussurrava.
«Ci dirigeremo dritti verso la nave, aprendoci un varco con le armi»
disse Kelly. «Gomez, porto fuori i civili tra dieci secondi. Tu ci coprirai
le spalle. Una volta attaccata battaglia, mantieniti in continuo
movimento. Cerca di fargli credere che sei un piccolo plotone.»
«Mi sta dando del piccolo, signore?» replicò Gomez. «Sei stronzi
morti in arrivo.»
Holden, Amos, Alex e Naomi seguirono Kelly fuori dal condotto
dell’ascensore, uscendo sulla piattaforma di attracco e fermandosi
dietro un cumulo di casse color verde militare. Holden sbirciò da
sopra e individuò subito gli assalitori. Erano in due gruppi da tre
unità, vicino al Knight; uno sopra lo shuttle, e l’altro sul ponte sotto di
esso. Avevano una corazza semplice, completamente nera. Holden
non aveva mai visto quel modello prima di allora.
Kelly li indicò e guardò Holden. Lui annuì. Poi il tenente indicò una
fregata nera e tozza dall’altra parte dell’hangar, a venticinque metri
di distanza, a metà strada tra loro e il Knight. Aprì la mano sinistra e
cominciò a contare da cinque richiudendo le dita. Quando arrivò a
due, la sala s’illuminò di lampi come una discoteca con la luce
stroboscopica: Gomez aveva aperto il fuoco da un punto a dieci
metri da loro. La prima raffica colpì due degli assalitori sopra il
Knight e li mandò a gambe all’aria. Un istante dopo, una seconda
raffica fu sparata da cinque metri di distanza rispetto al punto da cui
Holden aveva visto partire la prima. Avrebbe potuto giurare che si
trattasse di due uomini diversi.
Kelly ripiegò l’ultimo dito della mano, puntò i piedi contro la parete
e si spinse verso la corvetta. Holden aspettò che Alex, Amos e
Naomi lo imitassero, poi partì per ultimo. Quando si mise in
movimento, Gomez stava già aprendo il fuoco da un’altra posizione.
Uno degli assalitori puntò un’arma imponente verso i lampi dei suoi
spari. Gomez e la cassa dietro cui si era riparato saltarono in
un’esplosione di fuoco e schegge.
Erano arrivati a metà percorso verso la nave, e Holden stava
cominciando a pensare che avrebbero potuto farcela, quando una
striscia di fumo attraversò la sala e intercettò Kelly; il tenente si
disgregò in un lampo di luce.
14

Miller

La Xinglong era andata incontro a una stupida morte. Dopo, tutti


seppero che si trattava di una delle migliaia di piccole navi
prospettrici che saltavano di asteroide in asteroide. La Fascia ne era
piena: cinque o sei famiglie che avevano racimolato abbastanza da
potersi permettere una caparra e mettere in piedi l’attività. Quando
era successo il fatto, erano indietro di tre rate, e la loro banca, la
Consolidated Holdings and Investments, aveva messo un’ipoteca
sulla nave. Motivo per cui, secondo quanto si diceva in giro, avevano
disattivato il transponder di bordo. Erano solo poveri cristi con una
vecchia carriola come casa che cercavano di continuare a volare.
Se c’era un’immagine che illustrava bene il sogno di ogni
cinturiano, quella era la Xinglong.
La Scipio Africanus, un cacciatorpediniere di classe pattugliatore,
sarebbe dovuta tornare verso Marte alla fine del suo ciclo di due
anni lungo la Fascia. Entrambe le navi si erano dirette verso un
corpo cometario catturato a poche centinaia di migliaia di chilometri
da Chirone per rifornire le proprie cisterne.
Quando la nave prospettrice era entrata nel suo raggio di portata,
la Scipio aveva avvistato un mezzo non identificato muoversi a
velocità sostenuta, diretto più o meno verso di essa. I notiziari
marziani avevano riportato che la Scipio aveva ripetutamente
cercato di avvertire la nave in avvicinamento. I comunicati pirata
dell’APE avevano invece sostenuto che si trattava di una menzogna,
che nessuna stazione radio della Fascia aveva ricevuto un simile
segnale. Tutti erano concordi su un fatto: la Scipio aveva aperto il
fuoco con i suoi cannoni di sbarramento difensivo e aveva ridotto la
nave in avvicinamento a un ammasso rovente di scorie.
La reazione era stata prevedibile come in fisica elementare. I
marziani avevano inviato un altro paio di dozzine di navi per aiutare
a ‘mantenere l’ordine’. I portavoce più infervorati dell’APE avevano
invocato con veemenza la guerra di reazione, e trovavano sempre
minor disaccordo tra i siti indipendenti e le tendenze popolari della
Fascia. Il grande, implacabile orologio della guerra avvicinava le
lancette di un altro scatto verso lo scontro totale.
E qualcuno, su Ceres, aveva torturato per otto o nove ore un
cittadino marziano di nome Enrique Dos Santos, inchiodandone poi i
resti a un muro accanto agli impianti di riciclo dell’acqua del settore
undici. L’avevano identificato grazie al terminale che era stato
lasciato a terra accanto alla fede dell’uomo e a un portafogli in finta
pelle con i suoi dati di accesso al credito e trentamila nuovi yen
europei. Il cadavere del marziano era stato affisso al muro con un
unico scalpello da prospettore a carica singola. Cinque ore dopo, i
riciclatori d’aria facevano ancora fatica a eliminare quell’odore acre.
La squadra forense aveva raccolto i campioni di cui aveva bisogno.
Erano pronti a tirare giù quel povero cristo.
Miller era sempre stato sorpreso dall’impressione di pace che
trasmetteva la gente morta. Per quanto le circostanze del decesso
potessero essere tremende, la calma indolente che emergeva alla
fine sembrava come una sorta di sonno. Si chiese se, quando fosse
arrivato il suo turno, anche lui avrebbe sentito quel rilassamento
finale.
«Telecamere di sorveglianza?» disse.
«Erano fuori uso da tre giorni» rispose la sua nuova partner.
«Spaccate da un branco di ragazzini.»
Octavia Muss veniva dal reparto reati contro la persona, prima che
la Star Helix suddividesse i crimini violenti in specialità distinte. Da
quel momento in poi, era stata nel reparto violenze sessuali. Poi un
paio di mesi in quello per i reati contro l’infanzia. La sua anima
doveva essere stata spremuta fino a diventare trasparente, sempre
che ne avesse ancora una. Nei suoi occhi non si leggeva mai niente
di più che una tiepida indifferenza.
«Sappiamo quali ragazzini?»
«Alcuni teppisti dei livelli superiori» rispose lei. «Sono stati
ammoniti, multati, e poi rilasciati allo stato brado.»
«Dovremmo riacciuffarli tutti» disse Miller. «Sarebbe interessante
sapere se qualcuno li abbia pagati per far fuori proprio queste
telecamere.»
«Scommetterei che non è andata così.»
«E allora, chiunque sia stato doveva sapere che queste telecamere
erano state distrutte.»
«Qualcuno della squadra di manutenzione?»
«O un poliziotto.»
Muss schioccò le labbra e si strinse nelle spalle. I suoi erano
cinturiani di terza generazione. Aveva una famiglia imbarcata su una
nave, proprio come quella che la Scipio aveva distrutto. Quel quadro
di carne, ossa e cartilagini che pendeva loro davanti non era niente
di nuovo per lei. Lasciavi cadere un martello in accelerazione, e
quello si schiantava a terra. Il tuo governo massacrava sei famiglie di
prospettori di etnia cinese, e qualcuno ti inchiodava alla roccia viva
di Ceres con uno scalpello in titanio da un metro. Stessa cosa.
«Ci saranno conseguenze» disse Miller, intendendo: ‘Questo non è
un cadavere, è un manifesto. È una chiamata alle armi.’
«Non ce ne saranno» rispose Muss, come per dire: ‘La guerra è
già arrivata, con o senza manifesto.’
«Già» disse Miller. «Hai ragione. Non ce ne sono.»
«Ti occupi tu dei parenti? Io vado a dare un’occhiata alle
registrazioni periferiche. Non gli hanno bruciato le dita qui nel
corridoio, per cui hanno dovuto trasportarlo qua da un’altra parte.»
«Va bene» disse Miller. «Posso spedire un modello di lettera di
condoglianze. Moglie?»
«Non lo so» rispose lei. «Non ho controllato.»
Tornato in centrale, Miller si sedette alla scrivania, da solo. Muss
ne aveva già una due stanzini più in là, che aveva personalizzato
alla sua maniera. La scrivania di Havelock era vuota. L’avevano
pulita due volte, come se il servizio di manutenzione avesse voluto
lavar via la puzza della Terra da quella bella sedia cinturiana. Miller
tirò fuori il fascicolo della vittima e trovò il parente più stretto: Jun-
Yee Dos Santos; lavorava su Ganimede. Sposati da sei anni. Niente
figli. Be’, perlomeno c’era qualcosa di cui rallegrarsi. Se dovevi
morire, era meglio non lasciar tracce.
Una volta trovato il modello della lettera, inserì il nome della nuova
vedova e il suo indirizzo. ‘Gentile signora Dos Santos, sono dolente
di doverle comunicare bla bla bla. Suo – scorse nel menu – marito
era un membro rispettato della comunità di Ceres, e le assicuro che
faremo tutto il possibile per assicurarci che il suo assassino, o
assassini, debbano rispondere delle loro azioni. Distinti saluti...’
Era inumano. Era impersonale, freddo e vacuo come il vuoto. Il
troncone di carne morta in quel corridoio era stato un uomo reale,
con le sue passioni e le sue paure, come chiunque altro. Miller
avrebbe voluto chiedersi che cosa rivelava, di lui, il fatto che potesse
ignorare la cosa tanto facilmente, ma la verità era che lo sapeva già.
Inviò il messaggio e cercò di non rimuginare sul dolore che stava per
causare.
La lavagna era piena zeppa di casi. La conta degli incidenti era il
doppio di quello che sarebbe dovuta essere normalmente. Ecco
com’è, pensò. Niente rivolte. Nessuna azione militare buco per buco,
o marine per i corridoi. Soltanto un sacco di omicidi irrisolti.
Poi si corresse: ecco com’è, per ora.
La cosa non rendeva più facile quel che avrebbe fatto ora.
Shaddid era nel suo ufficio.
«Che cosa posso fare per lei?» chiese.
«Ho bisogno di inoltrare una richiesta per le trascrizioni di alcuni
interrogatori» rispose lui. «Ma è una faccenda un po’ irregolare. Ho
pensato che fosse meglio farla passare attraverso il suo ufficio.»
Shaddid si appoggiò allo schienale della sedia.
«Ci darò un’occhiata» disse. «Che cosa stiamo cercando di
ottenere?»
Miller annuì, come se facendo segno di sì avesse potuto
convincere lei a fare lo stesso.
«Jim Holden. Il terrestre della Canterbury. Credo che in questo
momento quelli di Marte stiano interrogando il suo equipaggio, e ho
bisogno di richiedere la trascrizione di quelle conversazioni.»
«Ha un caso che ha dei nessi con la Canterbury?»
«Sì» rispose Miller. «Pare proprio di sì.»
«Mi dica» disse lei. «Mi dica di che si tratta.»
«È quell’incarico secondario. Julie Mao. Ho fatto delle ricerche...»
«Ho visto il suo rapporto.»
«Quindi sa che è affiliata all’APE. Da quel che ho scoperto, pare che
lavorasse su una nave cargo che faceva da corriere per
l’organizzazione.»
«Ha le prove di quanto afferma?»
«È stato un tipo dell’APE a confermarmelo.»
«A verbale?»
«No» precisò Miller. «Una conversazione informale.»
«E in che modo questo avrebbe a che fare con la faccenda della
marina militare marziana che fa fuori la Canterbury?»
«Julie Mao era sulla Scopuli» spiegò Miller. «La nave usata come
esca per attirare la Canterbury. Il fatto è che, dai comunicati
trasmessi da Holden, parrebbe che il mercantile sia stato ritrovato
senza equipaggio e con un segnalatore della marina marziana al suo
interno.»
«E lei crede che in tutto questo possa esserci qualcosa che le sarà
d’aiuto?»
«Non lo saprò finché non potrò verificarlo io stesso» disse Miller.
«Ma se Julie non era su quella nave cargo, qualcuno deve averla
portata via da lì.»
Il sorriso di Shaddid non le raggiunse gli occhi.
«Quindi lei vorrebbe chiedere alla marina militare marziana di
riferirci cortesemente che cosa hanno saputo da Holden.»
«Se ha visto qualcosa sulla nave, qualcosa che possa darci
un’idea di quel che è capitato a Julie e al resto de...»
«Non mi pare che abbia riflettuto a fondo sulla questione, Miller»
replicò Shaddid. «La marina militare marziana ha distrutto la
Canterbury. L’hanno fatto per provocare una reazione da parte della
Fascia, procurandosi così una scusa per imporsi con la forza e
toglierci la sovranità. L’unico motivo per cui stanno ‘interrogando’ i
sopravvissuti, è per evitare che qualcun altro arrivi a quei poveri
cristi. Holden e il suo equipaggio sono morti, oppure in questo stesso
momento gli specialisti marziani gli staranno friggendo il cervello.»
«Non possiamo esserne certi...»
«E quand’anche riuscissi a ottenere un rapporto completo di quello
che ha detto dopo ogni unghia che gli veniva strappata dalle dita,
non le servirebbe a un bel niente, Miller. La marina militare marziana
non indagherà sulla Scopuli. Sanno già perfettamente che cosa è
accaduto al suo equipaggio. Sono stati loro a mettere l’esca.»
«Questa è la posizione ufficiale della Star Helix?» chiese Miller. Le
parole gli uscirono di bocca prima che si rendesse conto di aver fatto
un errore. Il viso di Shaddid si rabbuiò come se qualcuno avesse
spento la luce. Ora che le aveva pronunciate, Miller capiva la
minaccia implicita nelle sue parole.
«Mi sono limitata a sottolineare il problema della non attendibilità
della fonte» rispose Shaddid. «Non si va da un sospettato per
chiedergli dove indagare, dico bene? E il ritrovamento di Juliette
Mao non è la sua assoluta priorità.»
«Non dico che lo sia» disse Miller, imbarazzato per il tono difensivo
che sentiva nella sua stessa voce.
«Abbiamo una lavagna piena di casi, là fuori, che sta continuando
a riempirsi. Le nostre priorità sono la sicurezza e il mantenimento
dell’ordine. Se ciò in cui è impegnato non è in stretta correlazione
con queste direttive, ha di meglio da fare.»
«Questa guerra...»
«Non è compito nostro. Il nostro compito è Ceres. Mi faccia avere
un rapporto definitivo su Juliette Mao. Lo inoltrerò agli interessati.
Abbiamo fatto quel che si poteva fare.»
«Non credo che...»
«Io sì» disse Shaddid. «Abbiamo fatto quel che si poteva fare. Ora
la smetta di piagnucolare, porti il culo fuori da qui e si metta ad
acciuffare i cattivi, detective.»
«Sì, capitano» rispose Miller.
Quando tornò alla sua scrivania, trovò Muss seduta ad aspettarlo,
con in mano una tazza di quel che doveva essere tè forte o caffè
allungato. Lei fece un cenno del capo verso il monitor sul tavolo.
Sullo schermo tre cinturiani, due uomini e una donna, uscivano dal
portone di un magazzino, trascinandosi dietro un sacco di plastica
arancione da spedizionieri. Miller inarcò le sopracciglia.
«Impiegati di una compagnia indipendente di forniture di gas.
Azoto, ossigeno. Atmosfere base. Niente di insolito. A quanto pare
tenevano quel povero cristo in uno dei depositi della compagnia. Ho
mandato i ragazzi della scientifica sul posto per verificare se
riusciamo a trovare delle tracce di sangue per conferma.»
«Ottimo lavoro» disse Miller.
Muss si strinse nelle spalle. Ordinaria amministrazione, sembrava
voler dire.
«Dove sono i sospetti, ora?» chiese Miller.
«Sono partiti ieri» rispose lei. «I registri di volo li danno in viaggio
verso Io.»
«Io?»
«Una centrale della Coalizione Terra-Marte» rispose Muss. «Vuoi
scommettere due spicci sul fatto che sbarchino davvero lì?»
«Come no» replicò Miller. «Cinquanta che non ci saranno.»
Muss, incredibilmente, scoppiò a ridere.
«Li ho segnalati» disse poi. «Ovunque atterrino, le agenzie locali
saranno già informate e avranno un numero di tracciamento per la
faccenda Dos Santos.»
«Caso chiuso, quindi» commentò Miller.
«Un’altra spunta sul tabellone dei buoni» concordò Muss.
Il resto della giornata fu frenetico. Tre aggressioni, due delle quali a
sfondo apertamente politico, e una domestica. Muss e Miller
riuscirono a togliere questi casi dalla lavagna prima della fine del
turno. L’indomani ce ne sarebbero stati altri.
Dopo aver timbrato l’uscita, Miller si fermò a un carretto ristorante
vicino a una delle stazioni del tubo per comprare una ciotola di riso e
proteine integrate che somigliavano vagamente a un pollo teriyaki.
Tutto intorno a lui, nel tubo, i cittadini normali di Ceres leggevano i
loro notiziari e ascoltavano musica. Due ragazzi, più avanti nel
vagone, si chinavano l’uno verso l’altra, sussurrando tra loro e
ridacchiando. Potevano avere sedici anni. Diciassette. Miller vide il
polso del ragazzo strisciare sotto la maglietta della ragazza. Lei non
protestò. Un’anziana signora seduta di fronte a Miller si era
addormentata, con la testa che dondolava sulla parete del vagone,
russando quasi delicatamente.
Era per questa gente che faceva il suo dovere, si disse Miller.
Gente normale, che viveva esistenze modeste in una bolla di roccia
circondata dal vuoto assoluto. Se avessero permesso che la
situazione degenerasse in una zona di rivolta, che l’ordine si
disgregasse, tutte quelle vite sarebbero state dilaniate, come un
gattino in un tritacarne. Far sì che non succedesse niente del genere
era compito suo, di Muss e perfino di Shaddid.
E allora, disse una vocina in un angolo della sua testa, perché non
dovrebbe essere compito tuo impedire che Marte sganci una testata
nucleare e spacchi Ceres come un guscio d’uovo? Qual è la
minaccia peggiore, per quel tipo seduto laggiù? Qualche puttana che
se ne va in giro senza licenza, o che la Fascia entri in guerra contro
Marte?
Che problemi poteva creare, scoprire quel che era successo alla
Scopuli?
Naturalmente, Miller sapeva già la risposta. Non poteva capire
quanto fosse realmente pericolosa la verità finché non l’avesse
scoperta; il che, già di per sé, era un buon motivo per continuare a
indagare.
L’uomo dell’APE, Anderson Dawes, era seduto su una sedia
pieghevole di stoffa di fronte al buco di Miller, intento a leggere un
libro. Era un libro vero, con pagine di carta velo e rilegato in quella
che poteva essere autentica pelle. Miller ne aveva già visti in foto;
l’idea di tutto quel peso per un singolo mega di dati gli parve
terribilmente decadente.
«Detective.»
«Signor Dawes.»
«Speravo di poter scambiare due parole con lei.»
Mentre entravano insieme, Miller fu felice di aver dato una pulita in
giro. Tutte le bottiglie di birra erano finite nel tubo di riciclo. I tavoli e
le cassettiere erano stati spolverati. I cuscini sulle sedie erano stati
rammendati o sostituiti. Mentre Dawes si accomodava su una sedia,
Miller si rese conto di aver sistemato la casa proprio nell’attesa di
quell’incontro. Non l’aveva capito fino a quel momento.
Dawes posò il libro di fronte a sé, frugò nella tasca del suo
giacchetto e fece scorrere sul tavolo un sottile cd video di colore
nero. Miller lo raccolse.
«Che cosa ci troverò dentro?» chiese.
«Niente che non possa verificare nei registri» rispose Dawes.
«Qualcosa di contraffatto?»
«Sì» rispose Dawes. Il suo ghigno non faceva niente per migliorare
il suo aspetto. «Non da noi, però. Mi aveva chiesto delle attrezzature
antisommossa della polizia. Una tale sergente Pauline Trikoloski ha
firmato perché fossero trasferite all’unità ventitré dei reparti speciali.»
«Unità ventitré dei reparti speciali?»
«Già» confermò Dawes. «Non esiste. Né esiste Trikoloski.
L’equipaggiamento è stato imballato, registrato e portato a un molo.
All’epoca dei fatti, il mercantile attraccato lì risultava appartenere alla
Corporaçao do Gato Preto.»
«Il Gatto Nero?»
«Li conosce?»
«Fanno import-export, come tutti gli altri» disse Miller stringendosi
nelle spalle. «Li abbiamo indagati come possibile copertura per la
Loca Greiga. Non li abbiamo mai incastrati, però.»
«Avevate ragione.»
«Che prove ha?»
«Fornire prove non è compito mio» disse Dawes. «Ma questo
potrebbe interessarla: i registri di attracco automatizzati della nave,
quando ha lasciato questo porto e quando è sbarcata su Ganimede.
All’arrivo era più leggera di tre tonnellate, senza nemmeno contare il
consumo di massa propellente. E il tempo di transito è più lungo di
quanto non indichino le proiezioni meccaniche orbitali.»
«Hanno incontrato qualcuno» dedusse Miller. «E hanno trasferito le
attrezzature su un’altra nave.»
«Ecco le risposte che cercava» confermò Dawes. «Entrambe le
risposte. L’equipaggiamento antisommossa è stato prelevato dalla
centrale dal crimine organizzato. Non ci sono registri che lo
confermino, ma mi pare che sia plausibile supporre che abbiano
inviato anche il personale necessario all’impiego di quel materiale.»
«Dove?»
Dawes alzò le mani. Miller annuì. Erano fuori dalla stazione. Caso
chiuso. Un altro punto per i buoni.
Maledizione.
«Ho mantenuto la mia parte del nostro accordo» disse Dawes. «Lei
mi ha chiesto delle informazioni, io gliele ho fornite. Ora: manterrà la
sua parte dell’impegno?»
«Smettere di indagare su Juliette Andromeda Mao» disse Miller.
Non era una domanda, e Dawes non fece nemmeno finta che lo
fosse. Miller si appoggiò allo schienale della sua sedia.
Juliette Andromeda Mao. Ricca ereditiera del sistema interno
trasformatasi in corriere dell’APE. Pilota di pinaccia. Cintura marrone,
a caccia della nera.
«Bah, al diavolo. Va bene» disse. «Tanto non l’avrei comunque
rispedita a casa dai suoi, se l’avessi trovata.»
«No?»
Miller mosse le mani in un gesto che significava ‘Certo che no’.
«È una ragazza in gamba» disse Miller. «Come si sentirebbe se
fosse adulto e vaccinato e la mammina potesse ancora tirarla per un
orecchio fino a casa? Questo incarico era una patacca fin
dall’inizio.»
Dawes sorrise di nuovo. Fu più convincente del primo tentativo.
«Sono contento di sentirglielo dire, ispettore. E non dimenticherò il
resto del nostro accordo. Quando la troveremo, glielo farò senz’altro
sapere. Ha la mia parola.»
«Apprezzo il suo gesto» rispose Miller.
Ci fu un istante di silenzio. Miller non seppe decifrare se fosse un
silenzio amichevole o d’imbarazzo. Forse c’era spazio per entrambe
le cose. Dawes si alzò e gli tese la mano. Miller la strinse. Dawes se
ne andò. Due sbirri che lavoravano per fazioni diverse. Poteva darsi
che avessero qualcosa in comune.
Questo non significava che Miller si sentisse in colpa per aver
mentito a quell’uomo.
Digitò il codice criptato sul suo terminale, si collegò al sistema di
comunicazione e cominciò a parlare nella telecamera.»
«Noi non ci conosciamo, signore, ma spero che troverà qualche
minuto del suo tempo per darmi una mano. Sono l’ispettore Miller,
della Star Helix Security. Sono di stanza su Ceres, e ho ricevuto
l’incarico di rintracciare sua figlia. Avrei un paio di domande da
farle.»
15

Holden

Holden tentò di aggrapparsi a Naomi. Cercò di orientarsi mentre


annaspavano entrambi attraverso la baia d’attracco, senza niente
contro cui potersi spingere o che potesse fermare il loro volo. Erano
nel bel mezzo della sala, senza alcuna copertura.
L’esplosione aveva scaraventato Kelly cinque metri più in là, di
fianco a una cassa da carico; fluttuava lì, con uno stivale magnetico
attaccato al lato del container e l’altro che tirava verso il pavimento.
Amos era stato abbattuto e giaceva a terra con la gamba piegata in
un angolo impossibile. Alex era accovacciato accanto a lui.
Holden tese il collo, guardando verso gli aggressori. Quello con il
lanciagranate, che aveva colpito Kelly, li stava inquadrando nel
mirino per abbatterli. Siamo morti, pensò Holden. Naomi fece un
gestaccio osceno.
L’uomo con il lanciagranate sobbalzò e si disintegrò in uno spruzzo
di sangue e piccole detonazioni.
«Dirigetevi alla nave!» gridò Gomez sulla linea radio. La sua voce
era roca e stridula, a metà strada tra un grido di dolore e l’estasi
della battaglia.
Holden tirò fuori il cavo di sicurezza della tuta di Naomi.
«Che cosa stai...?» cominciò a domandare lei.
«Fidati di me» disse Holden. Poi le puntò i piedi sullo stomaco e si
diede una spinta, con forza. Andò a sbattere contro il ponte mentre
lei schizzava verso il soffitto. Holden attivò i magneti degli stivali e
tirò il cavo di sicurezza per riportare Naomi verso di lui.
La sala continuava a essere illuminata dai lampi continui delle
semiautomatiche. Holden disse «Sta’ giù», e corse più velocemente
che poteva con i suoi stivali magnetici verso Alex e Amos. Il
meccanico muoveva debolmente gli arti, quindi era ancora vivo.
Holden si accorse che aveva tuttora il cavo di Naomi in mano, e lo
agganciò a un moschettone sulla sua tuta. Mai più separati.
Poi sollevò Amos dal ponte e controllò l’inerzia del corpo. Il
meccanico grugnì e borbottò un’oscenità. Holden attaccò alla tuta
anche il cavo di Amos. Era pronto a trasportare il suo intero
equipaggio, se necessario. Senza dire una parola, Alex agganciò il
proprio cavo di sicurezza a Holden e alzò il pollice, stremato.
«È un vero... voglio dire, che cazzo!» esclamò Alex.
«Già» disse Holden.
«Jim» lo chiamò Naomi. «Guarda!»
Holden seguì il suo sguardo. Kelly stava zoppicando verso di loro.
La sua corazza era visibilmente danneggiata sul fianco sinistro del
torace, e un fluido idraulico gocciolava dalla sua tuta lasciando dietro
di lui una scia di gocce. Però il tenente si stava muovendo, diretto
alla fregata.
«Okay» disse Holden. «Andiamo.»
Si mossero tutti e cinque verso la nave, mentre l’aria tutto intorno a
loro era piena di detriti galleggianti provenienti dalle casse andate
distrutte nel conflitto a fuoco. Holden sentì qualcosa pungergli il
braccio, e il display della sua tuta lo informò che aveva sigillato una
piccola lacerazione. Sentì un liquido caldo colargli lungo il bicipite.
Gomez gridava come un matto nel canale radio mentre correva
dall’altra parte della piattaforma, sparando all’impazzata. Il fuoco di
risposta era continuo. Holden vide il marine che veniva colpito più e
più volte, con piccole esplosioni e sbuffi laceranti che si
ripercuotevano sulla sua tuta, finché non parve impossibile che
dentro potesse ancora esserci una creatura vivente. Ma Gomez
continuò ad attirare l’attenzione del nemico, e Holden e il resto
dell’equipaggio riuscirono a zoppicare fino alla relativa copertura del
portello pressurizzato della corvetta.
Kelly tirò fuori una piccola carta metallica da una tasca della
corazza. La strisciò e aprì il portello esterno, e Holden spinse dentro
il corpo fluttuante di Amos. Naomi, Alex e il marine ferito li seguirono,
guardandosi l’un l’altro increduli e sconvolti mentre il portello
pressurizzava l’ambiente e le porte interne venivano aperte.
«Non riesco a credere che...» disse Alex; poi la sua voce si
spense.
«Ne parleremo dopo» abbaiò Kelly. «Alex Kamal, hai prestato
servizio sulle navi dell’MRCM. Sai far volare questo affare?»
«Certo, tenente» rispose Alex, poi si raddrizzò tutt’a un tratto.
«Perché proprio io?»
«Perché l’altro nostro pilota si sta facendo ammazzare. Prendi
questa» disse Kelly, porgendogli la carta metallica. «Voialtri,
allacciatevi le cinture. Abbiamo perso un sacco di tempo.»
Da vicino, il danno alla corazza di Kelly era ancor più evidente.
Doveva aver riportato ferite gravi al torace. E non tutto il liquido che
fuoriusciva dalla tuta era fluido idraulico. C’era anche del sangue.
«Lasci che l’aiuti» disse Holden, allungando una mano verso di lui.
«Non mi tocchi» scattò Kelly, con una rabbia che colse Holden di
sorpresa. «Si allacci la cintura e chiuda quella cazzo di bocca.
Subito.»
Holden non discusse. Sganciò i cavi di sicurezza dalla sua tuta e
aiutò Naomi a spostare Amos verso il sedile e ad assicurarlo con le
cinture. Kelly era rimasto sul ponte superiore, ma la sua voce
continuava ad arrivare nel canale di comunicazione.
«Signor Kamal, siamo pronti alla partenza?» chiese.
«Sì, tenente. Il reattore era già caldo quando siamo arrivati.»
«La Tachi era in standby d’emergenza. È per questo che l’abbiamo
scelta. Ora via. Non appena saremo fuori dall’hangar, a tutta
velocità.»
«Ricevuto» disse Alex.
La gravità tornò a piccole dosi e in direzioni sempre diverse mentre
il pilota faceva alzare la nave dal ponte e la girava verso
l’imboccatura dell’hangar. Holden finì di allacciarsi le cinture e
controllò che Naomi e Amos fossero a posto. Il meccanico gemeva e
si aggrappava al bordo del sedile con la forza della disperazione.
«Sei ancora dei nostri, Amos?» disse Holden.
«Cazzo, sto una crema, capitano.»
«Oh, merda. Vedo Gomez!» disse Alex, in linea. «È a terra. Ah,
brutti bastardi! Gli stanno sparando mentre è a terra! Figlio di
puttana!»
La nave smise di avanzare, e Alex disse piano: «Prendi questa,
stronzo.»
La nave vibrò per una frazione di secondo, poi ripartì verso il
portellone di uscita.
«Cannoni di difesa ravvicinata?» chiese Holden.
«Un po’ di giustizia sommaria» rispose Alex con un grugnito.
Holden provò a immaginare gli effetti che diverse centinaia di
proiettili di acciaio al tungsteno ricoperti in teflon sparati a cinquemila
metri al secondo potessero produrre su un corpo umano, quando
Alex accelerò fino alla massima potenza e un branco di elefanti gli si
tuffò a volo d’angelo sul petto.
Holden si risvegliò a gravità zero. Si sentiva gli occhi e i testicoli
doloranti, il che significava che avevano viaggiato ad alta velocità
per parecchio tempo. Il terminale a parete che aveva accanto diceva
che era passata quasi mezz’ora. Naomi si muoveva sul suo sedile,
ma Amos era privo di sensi, e un fiotto di sangue stava fuoriuscendo
da un foro nella sua tuta con una velocità allarmante.
«Naomi, controlla Amos» gracchiò Holden, con la gola dolorante
per lo sforzo. «Alex, rapporto.»
«La Donnie è saltata in aria alle nostre spalle, capitano. Mi sa che i
marine non hanno retto. È andata» disse Alex a voce bassa.
«E le sei navi che ci hanno attaccato?»
«Non ho visto alcun segno della loro presenza dopo l’esplosione.
Immagino che ormai siano carbonella.»
Holden annuì tra sé e sé. Giustizia sommaria, eccome. Abbordare
una nave era una delle manovre più rischiose in combattimento
navale. Di fatto, era una gara tra gli assalitori che si precipitavano
verso la sala motori e la volontà collettiva di quelli che avevano il dito
sul pulsante dell’autodistruzione. A Holden era bastata un’occhiata al
capitano Yao per capire chi avrebbe perso quella gara.
Eppure... qualcuno aveva giudicato che quel rischio valeva la pena
di essere corso.
Holden si slacciò le cinture e fluttuò verso Amos. Naomi aveva
aperto un kit di pronto soccorso ed era intenta a tagliare la tuta del
meccanico con un paio di grosse forbici. Lo spuntone della tibia
spezzata di Amos aveva perforato i tessuti quando la tuta gli era
stata spinta contro a dodici g.
Quando ebbe finito di tagliar via la tuta, Naomi impallidì di fronte
alla massa di sangue rappreso e carne viva che era diventata la
gamba di Amos.
«Che cosa facciamo?» chiese Holden.
Naomi dapprima lo fissò, poi abbaiò una risata sguaiata.
«Non ne ho idea» rispose.
«Ma tu...» cominciò a dire Holden. Lei lo interruppe di netto.
«Se fosse fatto di metallo, gli darei qualche martellatina per
raddrizzarlo, e poi salderei tutto al posto giusto» disse.
«Io...»
«Ma non è fatto con i pezzi di una nave,» continuò lei, con la voce
che diventava quasi un grido «per cui perché chiedi a me cosa
fare?»
Holden alzò le mani cercando di calmarla.
«Okay, ho capito. Per il momento cerchiamo di fermare
l’emorragia, va bene?»
«Se Alex si fa ammazzare, verrai a chiedermi anche di pilotare la
nave?»
Holden fece per rispondere, poi si fermò. Naomi aveva ragione.
Tutte le volte che non sapeva cosa fare, delegava a lei. L’aveva fatto
per anni. Naomi era intelligente, capace, solitamente imperturbabile.
Era diventata la sua stampella, ma anche lei aveva subìto lo stesso
trauma che aveva subìto lui. Se non avesse cominciato a fare più
attenzione, rischiava di spezzarla, e doveva assolutamente evitare
una cosa del genere.
«Hai ragione. Ad Amos ci penso io» disse. «Tu va’ su e controlla
Kelly. Sarò da voi tra pochi minuti.»
Naomi continuò a fissarlo finché il suo respiro non tornò regolare,
poi disse semplicemente «Okay», e si diresse verso la scala di
servizio.
Holden spruzzò l’acceleratore di coagulazione sulla gamba di
Amos e poi l’avvolse in una garza presa dal kit di pronto soccorso.
Quindi richiamò il database della nave sul terminale a parete e fece
una ricerca sulle fratture esposte. Era intento a leggere i risultati con
crescente sgomento, quando Naomi lo chiamò.
«Kelly è morto» disse, con voce priva di emozione.
Holden sentì un vuoto allo stomaco e si concesse tre respiri per
cancellare il panico dalla voce.
«Ricevuto. Avrò bisogno del tuo aiuto per sistemare quest’osso.
Torna giù. Alex? Dammi un’accelerazione di mezzo g mentre ci
occupiamo di Amos.»
«Abbiamo una direzione in particolare, capitano?» chiese Alex.
«Non m’interessa. Tu dammi mezzo g e resta fuori dalla
comunicazione radio finché non ti faccio segno.»
Naomi scese giù dalla scala mentre la gravità cominciava a farsi
sentire.
«Sembrerebbe che tutte le costole del fianco sinistro di Kelly
fossero rotte» disse. «L’accelerazione deve avergli perforato gli
organi interni.»
«Doveva sapere che sarebbe successo» osservò Holden.
«Già.»
Era facile prendere in giro i marine alle loro spalle. Quando Holden
era in marina, prendere per i fondelli quelle teste vuote era naturale
come imprecare. Ma quattro marine erano morti per trarlo in salvo
dalla Donnager, e tre di loro l’avevano fatto sapendo a cosa
sarebbero andati incontro. Holden si ripromise di non farsi mai più
beffe dei marine.
«Dobbiamo raddrizzare la tibia prima di immobilizzarla. Tienilo
fermo, mentre tiro il piede. Fammi sapere quand’è che l’osso sarà
rientrato e allineato.»
Naomi fece per protestare.
«Lo so che non sei un dottore. Tira a indovinare» disse Holden.
Era una delle cose più orribili che lui avesse mai fatto. Amos si era
svegliato gridando durante la procedura. Holden aveva dovuto fare
due tentativi, perché la prima volta le ossa non si erano allineate
correttamente e, quando aveva lasciato la presa, lo spuntone della
tibia si era di nuovo spinto fuori dalla lacerazione con un fiotto di
sangue. Per fortuna, Amos era svenuto un’altra volta ed erano
riusciti a fare il secondo tentativo senza le sue urla. Sembrava aver
funzionato. Holden spruzzò sulla ferita antisettici e coagulanti.
Richiuse la lacerazione con dei punti e ci mise sopra una fasciatura
che stimolava la crescita dei tessuti, poi finì il lavoro con un gesso
gassoso a presa rapida e un cerotto antibiotico sulla coscia del
meccanico.
A lavoro finito, crollò sul ponte e si abbandonò ai tremori del dopo
accelerazione. Naomi si rimise sul suo sedile e prese a singhiozzare.
Era la prima volta che Holden la vedeva piangere.
Holden, Alex e Naomi fluttuavano in un vago triangolo attorno al
sedile su cui giaceva il corpo del tenente Kelly. Sul ponte inferiore,
Amos dormiva, pesantemente sedato. La Tachi vagava nello spazio
senza seguire alcuna direzione in particolare. Per la prima volta
dopo tanto tempo, non avevano nessuno alle calcagna.
Holden sapeva che gli altri due stavano aspettando lui.
Attendevano di sentirsi dire come li avrebbe salvati. Lo guardavano
pieni di aspettative. Cercò di apparire calmo e riflessivo. Dentro,
però, era in preda al panico. Non aveva idea di dove andare. E
nessuna idea di cosa fare. Da quando avevano trovato la Scopuli,
qualsiasi posto che sarebbe dovuto essere sicuro si era trasformato
in una trappola mortale. La Canterbury, la Donnager. Holden aveva
paura di andare ovunque, e che qualunque posto sarebbe saltato in
aria pochi istanti dopo il loro arrivo.
Fate qualcosa, aveva detto un mentore di un decennio prima ai
suoi giovani sottoufficiali. Non deve necessariamente essere la
scelta giusta, ma deve essere qualcosa.
«Qualcuno indagherà sulle sorti della Donnager» disse Holden.
«Delle navi marziane si staranno precipitando sul posto mentre
siamo qui a parlarne. Sapranno già che la Tachi è riuscita a salvarsi,
visto che il transponder starà sventolando la nostra sopravvivenza
sotto il naso di mezzo sistema solare.»
«Non è così» replicò Alex.
«Si spieghi, signor Kamal.»
«Questo è un cacciatorpediniere. Credete che vogliano farsi
intercettare da un segnale transponder durante una scorreria contro
un’ammiraglia nemica? Nah... C’è un comodo interruttore, su nel
cockpit, che dice Transponder disattivato. L’ho spento prima di
partire. Siamo soltanto uno dei tanti milioni di oggetti in movimento
nello spazio.»
Holden rimase in silenzio per due lunghi respiri.
«Alex, questa potrebbe essere la cosa migliore che sia mai stata
fatta nella storia dell’universo» osservò.
«Ma non possiamo atterrare, Jim» disse Naomi. «Tanto per
cominciare, nessun porto lascerà avvicinare una nave priva di
segnale transponder e, in secondo luogo, non appena ci vedranno, il
fatto che siamo una nave marziana sarà piuttosto difficile da
nascondere.»
«Già, questo è il rovescio della medaglia» concordò Alex.
«Fred Johnson» disse Holden «ci ha lasciato un indirizzo di rete
presso cui contattarlo. Sto pensando che l’APE potrebbe essere
l’unico gruppo disposto a farci atterrare con la nostra nave marziana
rubata.»
«Non è rubata» precisò Alex. «È stato un salvataggio legittimo.»
«Sì, certo. Tu dillo all’MRCM, se ci ritrovano, però intanto vediamo di
fare in modo che non ci riescano.»
«Quindi ce ne stiamo qui ad aspettare finché il colonnello Johnson
non ci risponde?» chiese Alex.
«No. Io me ne starò qui ad aspettare. Voi due preparerete il
tenente Kelly per il funerale. Alex, tu hai prestato servizio nell’MRCM.
Conosci la procedura. Fallo con tutti gli onori e annotalo nel registro.
È morto per portarci in salvo da quella nave, e gli concederemo tutto
il rispetto che gli è dovuto. Non appena atterreremo, ovunque sia,
trasmetteremo il registro al comando dell’MRCM, così potranno farlo in
via ufficiale.»
Alex annuì. «Lo faremo come si deve, signore.»
Fred Johnson rispose così rapidamente al suo messaggio che
Holden si chiese se per caso non fosse stato seduto al terminale ad
aspettarlo. La risposta di Johnson conteneva soltanto delle
coordinate e le parole ‘raggio diretto’. Holden puntò il sistema laser
verso la località indicata, la stessa da cui Fred aveva inviato il suo
primo messaggio, poi accese il microfono e disse: «Fred?»
Le coordinate ricevute erano a più di undici minuti luce di distanza.
Holden si preparò ad attendere ventidue minuti per avere una
risposta. Tanto per tenersi occupato, comunicò la direzione alla
cabina di pilotaggio e disse ad Alex di volare alla velocità di un g in
quella direzione, non appena avessero finito con il tenente Kelly.
Venti minuti più tardi ci fu un’accelerazione e Naomi risalì la scala.
Si era tolta la sua tuta pressurizzata e ne indossava una marziana
da volo, rossa, che era trenta centimetri troppo corta e tre volte
troppo larga in vita. Il suo viso e i suoi capelli sembravano puliti.
«Questa nave ha un bagno con la doccia. Possiamo tenerla?»
disse.
«Com’è andata?»
«Ci siamo occupati di lui. C’è una stiva di proporzioni decenti, giù
vicino alla sala motori. L’abbiamo messo lì finché non troveremo un
modo per rimandarlo a casa. Ho spento l’adattatore ambientale, là
sotto, così resterà preservato.»
Naomi allungò una mano e lasciò cadere un cubetto in grembo a
Holden.
«Era in una tasca sotto la sua corazza» disse.
Holden prese l’oggetto. Sembrava una specie di dispositivo di
immagazzinamento dati.
«Riesci a scoprire che cosa c’è sopra?» chiese lui.
«Certo. Dammi un po’ di tempo.»
«E Amos?»
«La pressione arteriosa è stabile» disse Naomi. «Non può essere
che un bene.»
La console di comunicazione emise un trillo, e Holden avviò la
riproduzione.
«Jim, le notizie sulla Donnager hanno appena cominciato a
circolare in rete. Ammetto di essere estremamente sorpreso di
sentirla» disse la voce di Fred. «Che cosa posso fare per voi?»
Holden ci rifletté un momento mentre preparava la sua risposta. Il
sospetto di Fred era palpabile, ma aveva dato a Holden una parola
chiave da usare proprio per quel motivo.
«Fred, mentre i nostri nemici sono diventati ubiqui, la nostra lista di
alleati si sta riducendo volta per volta. A dire il vero, lei è l’unico che
abbiamo. Mi trovo in una corvetta ruba...»
Alex si schiarì la gola.
«Una corvetta di salvataggio dell’MRCM» riprese Holden. «Ho
bisogno di un modo per nascondere questo fatto. Ho la necessità di
poter andare in un luogo dove non mi spareranno soltanto per
essermi presentato. Mi aiuti a farlo.»
La risposta giunse dopo mezz’ora.
«Ho allegato un file di dati su un canale parallelo» rispose Fred.
«Vi troverete il vostro nuovo codice transponder e le direttive per
installarlo correttamente. Il nuovo codice funzionerà con tutti i
registri. È legittimo. Ci sono anche delle coordinate che vi
guideranno a un porto sicuro. Ci incontreremo lì. Abbiamo molto di
cui parlare.»
«Un nuovo codice transponder?» chiese Naomi. «Come fa l’APE a
ottenere nuovi codici transponder?»
«Manomettendo i protocolli di sicurezza della Coalizione Terra-
Marte, o grazie a una talpa nell’ufficio registri» rispose Holden.
«Comunque sia, mi sa che siamo entrati nel giro grosso.»
16

Miller

Miller guardò il notiziario da Marte insieme al resto della stazione. Il


pulpito era ammantato di nero, il che non era un buon segno. La
stella e le trenta strisce della Repubblica Congressuale Marziana
apparvero sullo sfondo non una, ma ben otto volte. Il che era un
segno ancor peggiore.
«Non può essere accaduto senza un’attenta pianificazione» disse il
presidente marziano. «Le informazioni che hanno cercato di sottrarre
avrebbero compromesso la sicurezza della flotta marziana in
maniera profonda e vitale. Hanno fallito, ma al prezzo di
duemilaottantasei vite marziane. Si tratta di un’aggressione che la
Fascia stava preparando da anni, se non di più.»
La Fascia, notò Miller. Non l’APE. La Fascia.
«Nella settimana seguente il primo attacco, abbiamo assistito a
non meno di trenta incursioni nel raggio di sicurezza di navi e basi
marziane, tra cui la Stazione di Pallas. Se dovessimo perdere quelle
raffinerie, l’economia di Marte potrebbe patire un danno irreversibile.
Di fronte all’evidenza di una guerriglia armata e organizzata, non ci
rimane altra scelta che imporre un cordone militare sulle stazioni,
sulle basi e sulle navi della Fascia. Il Congresso ha comunicato i
nuovi ordini a tutti gli elementi navali al momento non attivamente
impegnati in missioni per conto della Coalizione, e speriamo
vivamente che i nostri fratelli e sorelle della Terra approveranno
manovre congiunte della Coalizione con la massima urgenza.
«Il nuovo mandato della marina militare marziana avrà lo scopo di
garantire la sicurezza di tutti i cittadini onesti, di smantellare le
infrastrutture del male che in questo stesso istante si annidano nella
Fascia, e di portare i responsabili di questi attacchi di fronte alla
giustizia. Sono felice di poter comunicare che le nostre prime azioni
hanno conseguito la distruzione di diciotto navi da guerra illegali e...»
Miller spense il notiziario. Era fatta. La guerra segreta era ormai di
pubblico dominio. Papà Mao aveva ragione a voler far tornare Julie,
ma ormai era troppo tardi. La sua cara figliola avrebbe dovuto
correre qualche rischio, proprio come tutti gli altri.
Come minimo, questo significava coprifuoco e monitoraggio del
personale in tutta la Stazione di Ceres. Ufficialmente, la stazione era
neutrale. Non apparteneva all’APE, né ad altri. E la Star Helix era
un’agenzia terrestre, senza nessun vincolo contrattuale o di trattato
con Marte. Nella migliore delle ipotesi, Marte e l’APE avrebbero
tenuto Ceres fuori dai loro scontri. Nel peggiore dei casi, ci
sarebbero state altre rivolte. Altre morti.
No, non era così. Nel peggiore dei casi, Marte o l’APE sganceranno
una manciata di testate nucleari o un asteroide sulla stazione, tanto
per compiere un gesto simbolico. O magari faranno saltare in aria il
reattore a fusione di una nave all’àncora. Se le cose fossero sfuggite
di mano, il risultato sarebbero stati sei o sette milioni di morti e la fine
di tutto ciò che Miller aveva sempre conosciuto.
Strano come sembrasse quasi un sollievo.
Miller lo sapeva da settimane. Tutti sapevano. Ma non era
successo, per cui ogni discussione, ogni battuta, ogni interazione
fortuita, cenno semianonimo e occasione di conversazione casuale
sul tubo erano sembrati come un’evasione. Miller non poteva
contrastare il cancro della guerra né rallentarne la diffusione, ma
almeno poteva ammettere che tutto ciò stava accadendo. Si
stiracchiò, mangiò l’ultimo boccone di caglio fungino, scolò i resti di
qualcosa di non completamente dissimile dal caffè, e si preparò a
mantenere la pace in tempo di guerra.
Muss lo accolse con un vago cenno del capo quando arrivò alla
centrale. La lavagna era piena di casi: crimini da investigare,
documentare e archiviare. Erano il doppio del giorno prima.
«Nottataccia» disse Miller.
«Poteva essere peggio» replicò Muss.
«Ah, sì?»
«La Star Helix poteva essere un’agenzia di Marte. Fintantoché la
Terra resterà neutrale, non ci toccherà fare la parte della Gestapo.»
«E quanto tempo ancora pensi che durerà?»
«Che ore sono?» chiese lei, ironica. «Ma sai che ti dico? Quando
ci si arriverà, ricordami di fare una visita su verso il nucleo. C’era
questo tizio, quando ero nella squadra antistupro, che non siamo
mai riusciti a incastrare...»
«Perché aspettare?» chiese Miller. «Potremmo andare su,
piantargli una pallottola in fronte e tornare prima di pranzo.»
«Già, ma sai com’è» disse lei. «Cerco di rimanere professionale. E
comunque, se facessimo una cosa del genere, poi ci toccherebbe
indagare, e sulla lavagna non c’è più spazio.»
Miller si sedette alla scrivania. Erano solo chiacchiere da bar. Il tipo
di umorismo cinico e scorretto che veniva naturale quando avevi le
giornate piene di prostitute minorenni e droghe velenose. Eppure,
nella centrale c’era tensione. La percepiva dal modo in cui i suoi
colleghi ridevano, dal loro portamento. C’erano più fondine in vista
del solito, come se mostrando le proprie armi potessero sentirsi al
sicuro.
«Credi che sia stata l’APE?» chiese Muss. Aveva abbassato la
voce.
«A far fuori la Donnager, dici? E chi altro potrebbe essere stato?
Senza contare il fatto che hanno rivendicato l’attacco.»
«Alcuni di loro, sì. Da quanto ho sentito, c’è più di un’APE. Quelli
della vecchia guardia pare che non c’entrino un cazzo di niente con
tutta questa storia. Se la stanno facendo addosso, cercando di
rintracciare l’origine dei comunicati pirata che rivendicano le azioni di
guerriglia.»
«A che pro?» chiese Miller. «Anche se riuscissero a smantellare
ogni trasmettitore che quegli sbruffoni hanno nella Fascia, ormai non
cambierebbe una virgola.»
«Se ci fosse una scissione all’interno dell’APE, però...» Muss fissò
la lavagna.
Se ci fosse stata una scissione all’interno dell’APE, la lavagna
com’era in quel momento sarebbe stata ben poca cosa. Miller aveva
già vissuto due guerre nel mondo del crimine organizzato. La prima,
quando la Loca Greiga aveva detronizzato e distrutto gli Aryan
Flyers, e la seconda quando la Golden Bough si era divisa. L’APE era
più grossa, più cattiva e più professionale di qualunque di queste
bande criminali. Nella Fascia sarebbe scoppiata una guerra civile.
«Potrebbe non succedere» disse Miller.
Shaddid uscì dal suo ufficio, percorrendo con lo sguardo l’interno
della centrale. Il brusio delle conversazioni si attenuò. Shaddid
incrociò lo sguardo di Miller. Gli rivolse un gesto secco, intendendo
dirgli: ‘Venga nel mio ufficio.’
«Beccato» disse Muss.
Nell’ufficio, Anderson Dawes sedeva a suo agio su una delle
poltrone. Miller sentì il suo corpo sussultare mentre la sua mente
archiviava quell’informazione. Marte e la Fascia in aperto conflitto
armato. Il rappresentante dell’APE su Ceres seduto accanto al
capitano delle forze di sicurezza.
Ecco come stanno le cose, allora, pensò.
«Lei sta lavorando sul caso Mao» disse Shaddid mentre si sedeva.
Miller non era stato invitato a fare altrettanto, per cui si limitò a
rimanere in piedi con le mani dietro la schiena.
«Me l’ha assegnato lei stessa» replicò.
«E le ho detto che non era una priorità» disse lei.
«Ho dissentito» ribatté Miller.
Dawes sorrise. Era un’espressione sorprendentemente calorosa,
soprattutto in confronto a quella di Shaddid.
«Ispettore Miller» disse Dawes. «Lei non capisce la situazione in
cui ci troviamo. Siamo in equilibrio su una pentola a pressione, e lei
sta continuando a prenderla a picconate. Deve smettere.»
«Le tolgo il caso Mao» disse Shaddid. «Ha capito bene? La sto
ufficialmente rimuovendo dall’indagine, con effetto immediato. Se lei
dovesse persistere nell’indagine, la sanzionerò per aver lavorato al
di fuori del suo perimetro professionale e per appropriazione indebita
di risorse della Star Helix. Desidero che mi restituisca qualsiasi
materiale in suo possesso e che cancelli dalla sua partizione
qualsiasi documento faccia riferimento al caso in questione. E lo farà
prima della fine di questo turno.»
Miller sentì un capogiro, ma mantenne il viso impassibile. Gli
stavano portando via Julie. Non glielo avrebbe permesso. Quello era
poco ma sicuro. Ma non era il problema principale.
«Ho delle domande in sospeso...» cominciò a dire.
«No, non ne ha» replicò Shaddid. «La sua letterina ai genitori della
ragazza è stata un’infrazione al protocollo. Qualunque contatto con
gli azionisti deve passare tramite me.»
«Mi sta forse dicendo che non è stata inviata?» disse Miller.
Sottintendendo: ‘Mi ha fatto spiare.’
«Non è stata inviata» rispose Shaddid. Come a voler dire: ‘Sì, è
così. Crede forse di poterci fare qualcosa?’
Non c’era niente che potesse fare.
«E le trascrizioni dell’interrogatorio di James Holden?» chiese
Miller. «Sono per caso uscite prima che...»
Prima che la Donnager venisse distrutta, portando con sé gli unici
testimoni della Scopuli e facendo sprofondare l’intero sistema in una
guerra totale? Miller sapeva che la sua domanda sembrava più un
guaito che altro. La mascella di Shaddid si tese. Non sarebbe stato
sorpreso di udire i suoi denti che si spaccavano. Fu Dawes a
rompere il silenzio.
«Credo che possiamo renderle la cosa meno amara» disse.
«Detective, se ho ben capito, lei crede che stiamo insabbiando il
caso. Non è così. Ma non è interesse di nessuno che sia la Star
Helix a trovare le risposte che lei sta cercando. Ci pensi. Lei sarà
anche un cinturiano, ma lavora per un’agenzia terrestre. In questo
momento, la Terra è l’unica potenza in gioco a non essersi ancora
schierata. L’unica che può ancora negoziare con tutte le parti in
causa.»
«E allora perché non dovrebbero voler conoscere la verità?»
chiese Miller.
«Non è questo il punto» rispose Dawes. «Il punto è che la Star
Helix e la Terra non possono apparire come coinvolte, in un modo o
nell’altro. È necessario che le loro mani restino pulite. E questo caso
la porterebbe a uscire dal suo contratto. Juliette Mao non si trova su
Ceres, e può darsi che ci sia stato un tempo in cui lei, detective,
sarebbe potuto saltare su una nave diretta in qualunque posto
l’avesse trovata per porre un freno al rapimento. All’estradizione.
All’estrazione. O comunque voglia chiamarlo. Ma quel tempo è
passato. La Star Helix è Ceres, parte di Ganimede e qualche
dozzina di asteroidi deposito. Se uscisse da questo perimetro, si
avventurerebbe in territorio nemico.»
«Ma l’APE lo fa» disse Miller.
«Abbiamo le risorse per farlo come si deve» replicò Dawes
annuendo. «Mao è dei nostri. La Scopuli era dei nostri.»
«E la Scopuli era l’esca che ha portato alla distruzione della
Canterbury» replicò Miller. «E la Canterbury era l’esca che ha
portato alla distruzione della Donnager. Per cui, per quale motivo
dovremmo sentirci più tranquilli lasciando che siate gli unici a
investigare su una faccenda che potreste aver provocato voi
stessi?»
«Lei pensa che siamo stati noi a bombardare la Canterbury?»
chiese Dawes. «L’APE, con le sue avanzatissime navi da guerra
marziane?»
«La Donnager è stata attirata dove poteva essere attaccata.
Finché rimaneva con la flotta, non poteva venir abbordata.»
Dawes sembrò amareggiato.
«Questo è complottismo, signor Miller» disse. «Se disponessimo di
navi mimetiche marziane, non staremmo perdendo.»
«Vi è bastato quel che avevate per far fuori la Donnager con sei
navi soltanto.»
«No. Non è così. La nostra versione dell’assalto alla Donnager
sarebbe un mucchio di cargo prospettori, carichi di testate nucleari,
lanciati in missione suicida. Abbiamo molte, molte risorse. Quel che
è successo alla Donnager non è farina del nostro sacco.»
Il silenzio era interrotto soltanto dal ronzio del sistema di riciclo
dell’aria. Miller incrociò le braccia.
«Ma... non capisco» disse. «Se non è stata l’APE, allora chi?»
«Questo possono dircelo Juliette Mao e l’equipaggio della Scopuli»
rispose Shaddid. «È la posta in gioco, Miller. Trovare chi, perché e, a
dio piacendo, come fare per fermare tutto ciò.»
«E non volete che vengano ritrovati?» disse Miller.
«Non voglio che sia lei a farlo» rispose Dawes. «Non quando altri
possono farlo meglio.»
Miller scosse la testa. Si stava spingendo troppo in là, e lo sapeva.
D’altra parte, a volte spingersi oltre poteva portare a qualche
risposta.
«Non la bevo» disse.
«Non c’è bisogno che lei la beva» replicò Shaddid. «Questa non è
una negoziazione. Non l’abbiamo convocata per chiederle un fottuto
favore. Io sono il suo capo. Il mio è un ordine. Riconosce queste
parole? Un. Ordine.»
«Abbiamo Holden» disse Dawes.
«Cosa?» chiese Miller nello stesso istante in cui Shaddid diceva:
«Di questo non si doveva parlare.»
Dawes alzò un braccio per farle segno, nell’idioma fisico dei
cinturiani, di tacere. Con grande sorpresa di Miller, Shaddid fece
come le diceva l’uomo dell’APE.
«Abbiamo Holden. Lui e il suo equipaggio non sono morti e si
trovano ora, o a breve lo saranno, sotto la custodia dell’APE. Capisce
quel che intendo, ispettore? Comprende il mio ragionamento? Posso
svolgere questa indagine perché ho le risorse necessarie per farlo.
Lei, invece, non è stato neanche in grado di scoprire quel che è
successo alle vostre attrezzature antisommossa.»
Fu come uno schiaffo. Miller si guardò le scarpe. Aveva infranto la
sua promessa di abbandonare il caso, e Dawes non glielo aveva
ancora rinfacciato. Doveva dargliene credito. Per di più, se James
Holden era realmente nelle mani di Dawes, Miller non aveva alcuna
possibilità di accedere all’interrogatorio.
Quando Shaddid parlò, la sua voce fu sorprendentemente gentile.
«Ieri ci sono stati tre omicidi. Otto magazzini sono stati svaligiati,
probabilmente dallo stesso gruppo. Abbiamo sei persone nei reparti
ospedalieri della stazione con il sistema nervoso in poltiglia per via di
una partita difettosa di pseudoeroina fatta in casa. L’intera stazione
ha i nervi a fior di pelle» disse. «Lei può rendersi davvero utile, là
fuori, Miller. Vada ad acciuffare i cattivi.»
«Sicuro, capitano» rispose Miller. «Ci può scommettere.»
Muss lo stava aspettando, appoggiata alla sua scrivania. Aveva le
braccia incrociate e lo stesso sguardo annoiato di quando avevano
avuto sotto gli occhi il cadavere di Dos Santos inchiodato alla parete
del corridoio.
«Ti ha rotto il culo?» gli chiese.
«Già.»
«Vedrai che guarirà. Dagli tempo. Intanto ho rimediato per noi uno
degli omicidi: un contabile associato della Naobi-Shears a cui hanno
fatto saltare il cervello fuori da un locale. Mi è sembrato divertente.»
Miller tirò fuori il palmare ed esaminò le linee generali del caso.
Non ne aveva alcuna voglia.
«Ehi, Muss» disse. «Ho una domanda da farti.»
«Spara.»
«Metti che hai per le mani un caso che non vuoi che venga risolto.
Che cosa faresti?»
La sua nuova partner si accigliò, inclinò la testa, poi si strinse nelle
spalle.
«Lo assegnerei a un pollo» rispose. «C’era un tipo, quando ero nel
reparto violenze contro i minori... Se sapevamo che il sospettato era
uno dei nostri informatori, gli mollavamo sempre il caso. Nessuno dei
nostri infiltrati ha mai avuto un problema.»
«Già» disse Miller.
«Per dirla tutta, se ho bisogno di assegnare un partner di merda a
qualcuno, farei la stessa cosa» continuò Muss. «Hai presente, no?
Uno con cui non vuole lavorare nessuno, tipo con l’alitosi o un
carattere di merda, e che però è necessario integrare in coppia.
Sceglierei quello che magari un tempo era bravo, poi però ha
divorziato e ha cominciato ad alzare troppo il gomito. Quello che
pensa di essere ancora un asso della centrale, che si comporta
come tale. Solo che le sue statistiche non sono migliori di quelle
degli altri. Sceglierei un tipo così, e gli assegnerei i casi di merda. I
partner di merda.»
Miller chiuse gli occhi. Sentiva un grumo allo stomaco.
«Tu che cosa hai combinato?» chiese.
«Per farmi assegnare a te?» ribatté Muss. «Uno dei superiori ci ha
provato con me, e io l’ho mandato in bianco.»
«Quindi ora sei impantanata con me.»
«Direi proprio di sì. Andiamo, Miller. Non sei uno stupido» disse
Muss. «Dovevi saperlo.»
Doveva saperlo che era lo zimbello dell’intera centrale. Quello che
un tempo era un asso. Quello che aveva perso il tocco.
No, in effetti non lo sapeva. Aprì gli occhi. Muss non sembrava né
felice né triste, compiaciuta del suo dolore o particolarmente
dispiaciuta per lui. Per lei era soltanto lavoro. I morti, i feriti, i
mutilati... non gliene importava niente. Era così che superava le sue
giornate.
«Forse non avresti dovuto respingerlo» disse Miller.
«Bah, in fondo non sei così male» rispose Muss. «E poi, quello
aveva i peli sulla schiena. Detesto i peli sulla schiena.»
«Mi fa piacere sentirlo» disse Miller. «Andiamo a fare un po’ di
giustizia.»
«Sei ubriaco» disse lo stronzo.
«Sono uno sbirro» rispose Miller, puntando il dito in aria. «Non fare
lo stronzo con me.»
«Lo so che sei uno sbirro. Vieni nel mio locale da tre anni. Sono io,
Hasini. E tu sei ubriaco, amico mio. Ubriaco fradicio.
Pericolosamente ubriaco.»
Miller si guardò intorno. In effetti era al Blue Frog. Non ricordava di
essere venuto fin laggiù, eppure eccolo lì. E lo stronzo era davvero
Hasini.
«Io...» cominciò Miller, poi perse il filo.
«Andiamo» disse Hasini, passandogli un braccio sotto l’ascella.
«Non è così lontano. Ti riporto a casa.»
«Che ore sono?» chiese Miller.
«Tardi.»
Quella parola aveva un senso profondo. Tardi. Era tardi. Ogni
possibilità che aveva di sistemare le cose era ormai passata. Il
sistema era in guerra, e nessuno sapeva bene perché. Miller
avrebbe compiuto cinquant’anni a giugno. Era tardi. Tardi per
ricominciare da capo. Tardi per rendersi conto di quanti anni avesse
passato a percorrere la strada sbagliata. Hasini lo accompagnò
verso un cart elettrico che il bar aveva comprato per occasioni come
quelle. Dalla cucina giunse una zaffata di grasso bollente.
«Aspetta» disse Miller.
«Devi vomitare?» chiese Hasini.
Miller ci pensò per un istante. No, era troppo tardi per vomitare.
Barcollò in avanti. Hasini lo fece accomodare nel cart e accese i
motori. Con un ronzio, i due si immisero nel corridoio. Le luci sopra
di loro erano attenuate. Il cart vibrava mentre superavano un incrocio
dopo l’altro. O forse no. Forse era soltanto una sua impressione.
«Pensavo di essere bravo» disse. «Sai, per tutto questo tempo,
pensavo di essere almeno bravo.»
«Te la cavi alla grande» rispose Hasini. «È solo che hai un lavoro
di merda.»
«Che ero bravo a fare.»
«Te la cavi alla grande» ripeté Hasini, come se dirlo potesse
renderlo vero.
Miller si sdraiò sul sedile posteriore del cart. L’arcata della ruota in
plastica rigida gli premeva sul fianco. Faceva male, ma muoversi
sarebbe stato troppo faticoso. Pensare era troppo faticoso. Aveva
superato quella giornata, con Muss al fianco. Aveva consegnato i
dati e i materiali raccolti su Julie. Non aveva niente per cui valesse la
pena di tornare al suo buco, e nessun altro posto in cui recarsi.
Le luci andavano e venivano dal suo campo visivo. Si chiese se
guardare le stelle fosse così. Non aveva mai osservato il cielo. Quel
pensiero gli ispirava una certa vertigine. Una sensazione di terrore
dell’infinito che era quasi piacevole.
«C’è qualcuno che può occuparsi di te?» domandò Hasini quando
raggiunsero il buco di Miller.
«Starò bene. Ho soltanto... avuto una brutta giornata.»
«Julie» disse Hasini, annuendo.
«Come fai a sapere di Julie?» chiese Miller.
«Non hai fatto che parlarne per tutta la sera» rispose Hasini. «È la
ragazza di cui ti sei innamorato, giusto?»
Accigliandosi, Miller lasciò una mano posata sul cart. Julie. Aveva
parlato di Julie. Era quello il problema. Non il suo lavoro. Non la sua
reputazione. Gli avevano portato via Julie. Il caso speciale. Quello
più importante di tutti.
«Sei innamorato di lei, no?» chiese Hasini.
«Già, più o meno» rispose Miller, mentre una sorta di rivelazione si
faceva largo tra i fumi dell’alcol. «Credo di sì.»
«Mi dispiace per te» disse Hasini.
17

Holden

La cambusa della Tachi comprendeva una cucina completa e un


tavolo con dodici posti a sedere. Aveva anche una macchina per il
caffè in grado di preparare quaranta tazze in meno di cinque minuti,
che la nave fosse a zero g o in accelerazione a cinque g. Holden
rese grazie agli eccessivi finanziamenti per le spese militari e
premette il tasto di mescita. Dovette trattenersi dall’accarezzare il
coperchio di acciaio inox mentre la macchina emetteva un dolce
ronzio di liquido filtrato.
L’aroma del caffè cominciò a riempire l’aria, entrando in
competizione con la fragranza di pane in cottura di quel che Alex
aveva appena messo in forno. Amos zoppicava intorno al tavolo con
il suo gesso nuovo di zecca, apparecchiando con piatti di plastica e
posate di vero, autentico metallo. Naomi era intenta a mescolare
qualcosa in una ciotola, che restituiva il profumo di aglio
dell’hummus. Osservando il suo equipaggio impegnato in quelle
faccende domestiche, Holden provò una sensazione di pace e
sicurezza tale da procurargli le vertigini.
Erano in fuga da settimane ormai, inseguiti per tutto il tempo da
questa o da quell’altra nave misteriosa. Per la prima volta, da
quando la Canterbury era stata distrutta, nessuno sapeva dove
fossero. Nessuno pretendeva nulla da loro. Per quanto riguardava il
sistema solare, non erano altro che una manciata di vittime insieme
a diverse altre migliaia presenti sulla Donnager. L’immagine fulminea
della testa di Shed che svaniva come un macabro gioco di prestigio
gli ricordò che almeno un membro del suo equipaggio era davvero
una vittima. Ma, ciononostante, era talmente bello sentirsi di nuovo
padrone del proprio destino che perfino il rimpianto non poteva
rovinargli del tutto quella sensazione.
Il timer squillò e Alex tirò fuori un vassoio su cui riposava una
pagnotta sottile e piatta. Cominciò a tagliarla a fette, sulle quali
Naomi spalmò una pasta che sembrava proprio hummus. Amos le
dispose nei piatti sul tavolo. Holden versò il caffè appena fatto in
alcune tazze che avevano il nome della nave stampato sul bordo. Le
passò agli altri. Ci fu un momento di imbarazzo quando tutti rimasero
a fissare il tavolo perfettamente apparecchiato, immobili, come se
avessero paura di poter distruggere la perfezione di quella scena.
Amos risolse la situazione esclamando «Sono affamato come un
cazzo di orso», sedendosi poi al tavolo con un tonfo sordo.
«Qualcuno mi passa il pepe?»
Per diversi minuti, nessuno parlò; si limitarono a mangiare. Holden
assaggiò un boccone di pane piatto e hummus, e fu stordito da quei
sapori così forti, dopo settimane di barrette proteiche completamente
insipide. Poi si ritrovò a ficcarsi in bocca il cibo così in fretta da far
avvampare le ghiandole salivari di squisita agonia. Si guardò intorno,
imbarazzato, ma anche gli altri si erano buttati sul cibo come lui, per
cui abbandonò ogni remora e si concentrò sul suo piatto. Quando
ebbe raccolto anche le ultime briciole, si appoggiò allo schienale con
un sospiro, sperando di riuscire a far durare quella soddisfazione il
più a lungo possibile. Alex bevve il suo caffè a occhi chiusi. Amos
spazzolò gli ultimi resti dell’hummus direttamente dalla ciotola con il
suo cucchiaio. Naomi, da dietro le palpebre socchiuse, rivolse a
Holden un’occhiata assonnata che a lui parve tutt’a un tratto
terribilmente sensuale. Holden respinse quel pensiero e alzò la sua
tazza.
«Ai marine di Kelly. Eroi, dal primo all’ultimo. Possano riposare in
pace» disse.
«Ai marine» riecheggiarono gli altri attorno al tavolo, poi fecero
tintinnare le tazze e bevvero.
Alex alzò la sua e disse: «A Shed.»
«Sì, a Shed, e agli stronzi che l’hanno ammazzato e che ora
bruciano all’inferno» esclamò Amos a voce bassa. «Proprio accanto
al bastardo che ha fatto fuori la Cant.»
L’umore della tavolata si fece cupo. Holden sentì quel momento di
pace scivolare via, silenzioso com’era venuto.
«Allora» disse. «Che mi dite della nuova nave? Alex?»
«È una bellezza, capitano. L’ho fatta andare a dodici g per quasi
mezz’ora da quando abbiamo lasciato la Donnie, e ha continuato a
fare le fusa come un gattino per tutto il tempo. Il sedile di pilotaggio è
anche comodo.»
Holden annuì.
«Amos? Hai già avuto modo di dare un’occhiata in sala
macchine?» chiese.
«Sì. Pulita come uno specchio. Sarà un posto davvero noioso per
un patito del grasso come me» rispose il meccanico.
«Non sarebbe male un po’ di noia» replicò Holden. «Naomi, tu che
ne pensi?»
Lei sorrise. «La adoro. Ha le più belle docce che abbia mai visto su
una nave di queste dimensioni. E in più, c’è anche un’infermeria
davvero incredibile, con tanto di sistema computerizzato esperto,
che sa come rimettere in sesto i marine feriti. Sarebbe stato meglio
trovarla prima di sistemare Amos per conto nostro.»
Amos si picchiettò sul gesso con una nocca.
«Avete fatto un ottimo lavoro, capo.»
Holden osservò il suo equipaggio pulito e profumato e si passò una
mano tra i capelli; per la prima volta da settimane, non la ritirò unta e
oleosa.
«Già. Una bella doccia e non doversi prender la briga di rimettere a
posto eventuali gambe rotte mi sembrano ottime cose. Nient’altro?»
Naomi inclinò il capo all’indietro e i suoi occhi si mossero come se
stesse rileggendo una qualche lista che aveva in testa.
«Abbiamo una cisterna piena d’acqua, gli iniettori hanno
abbastanza carburante in pellet da alimentare i reattori per altri
trent’anni e la cambusa è completamente rifornita. Dovrai passare
sul mio cadavere, se hai intenzione di restituirla alla marina militare.
Già la amo.»
«È proprio una barchetta birichina» disse Holden con un sorriso.
«Hai avuto modo di dare un’occhiata alle armi?»
«Due cannoni e venti missili a lungo raggio con testate al plasma
ad alta intensità» rispose Naomi. «O almeno così dicono le etichette.
Li caricano dall’esterno, per cui non posso verificarlo di persona
senza uscire sullo scafo.»
«Il pannello armamenti dichiara la stessa cosa, capitano» disse
Alex. «E tutto il sistema di difesa ravvicinata è completamente
carico. Be’, a parte...»
A parte le raffiche che hai sparato addosso agli uomini che hanno
ucciso Gomez.
«Ah... E, capitano, quando abbiamo portato Kelly nella stiva, ho
trovato una grossa cassa con la scritta PAM su un fianco. Secondo
l’etichetta, significa ‘Pacchetto di Assalto Mobile’. A quanto pare, è
gergo militare per indicare una grossa scatola di fucili» spiegò
Naomi.
«Già» confermò Alex. «Equipaggiamento completo per otto
marine.»
«E va bene» disse Holden. «Allora, con gli Epstein di qualità
militare ne abbiamo di strada da fare. E, se avete ragione sulle
condizioni degli armamenti, direi che abbiamo anche le nostre belle
difese. La domanda successiva è: che cosa ci facciamo? Io sarei
incline ad accettare l’offerta di asilo del colonnello Johnson. Voi che
ne pensate?»
«Io ci sto, capitano» rispose Amos. «Ho sempre creduto che i
cinturiani fossero trattati ingiustamente. Immagino di poter fare il
rivoluzionario per un po’.»
«Senti il fardello dell’uomo terrestre, Amos?» chiese Naomi con un
ghigno.
«E questo che cazzo vorrebbe dire?»
«Niente, ti stavo solo prendendo un po’ in giro» rispose lei. «Lo so
che ti schieri con la nostra gente solo perché vuoi rubarci le nostre
donne.»
Amos le restituì il sorriso, stando al gioco.
«Be’, le vostre signorine hanno quelle belle gambe lunghe...»
osservò.
«Va bene, basta così» disse Holden, alzando una mano. «Allora,
siamo a due voti a favore di Fred. Qualcun altro?»
Naomi alzò la mano.
«Voto per Fred» disse.
«Alex? Tu che ne pensi?» chiese Holden.
Il pilota marziano si appoggiò allo schienale e si grattò la testa.
«Non ho alcun posto in cui andare, per cui immagino che resterò
con voi» rispose. «Ma spero che non diventi un’altra occasione per
farci mettere i piedi in testa.»
«Non lo diventerà» assicurò Holden. «Ho una nave armata di
cannoni, ora, e la prossima volta che a qualcuno verrà voglia di
darmi ordini, ho tutta l’intenzione di usarli.»
Dopo cena, Holden fece un lungo, lento giro della sua nuova nave.
Aprì ogni porta, sbirciò in ogni armadio, accese ogni pannello e lesse
ogni etichetta. Rimase in piedi nella sala macchine, vicino al reattore
a fusione, con gli occhi chiusi, abituandosi alla sua vibrazione quasi
subliminale. Se qualcosa fosse andata storta, voleva sentirlo nelle
ossa prima ancora di essere avvertito da qualsiasi allarme. Si prese
del tempo per toccare ogni singolo attrezzo nell’officina ben rifornita,
poi risalì sul ponte dell’equipaggio, si aggirò per le cabine del
personale finché non ne trovò una che gli andasse a genio e ne
disfece il letto per indicare che l’aveva occupata. Trovò alcune tute
pressurizzate che sembravano essere della sua misura, poi le
spostò nell’armadio dei suoi nuovi alloggi. Fece una seconda doccia
e lasciò che l’acqua calda massaggiasse le contratture sulla schiena
che si portava appresso da tre settimane. Mentre tornava verso la
sua cabina, accarezzò le pareti della nave, percependo sotto la
punta delle dita la cedevole fodera di schiuma ritardante antincendio
e la rete antifrattura che ricoprivano la paratia d’acciaio corazzato.
Quando arrivò ai suoi alloggi, trovò Alex e Amos intenti a sistemarsi
nelle proprie cabine.
«Che cabina ha scelto Naomi?» chiese.
Amos si strinse nelle spalle. «È ancora su, in plancia. Starà
trafficando con qualcosa.»
Holden decise di rinviare il sonno per un po’ e salì con l’ascensore
di chiglia – abbiamo un ascensore! – sul ponte operativo. Naomi era
seduta sul pavimento, con un pannello di paratia aperto di fronte e
centinaia di minuscole parti meccaniche e cavi ordinati con
precisione tutto intorno. Fissava qualcosa all’interno dello scomparto
aperto.
«Ehi, Naomi, dovresti riposare un po’. Che cosa stai facendo?»
Lei, con un gesto vago, indicò lo scomparto.
«Transponder» disse.
Holden le si avvicinò e si sedette sul pavimento accanto a lei.
«Che cosa posso fare per aiutarti?»
Naomi gli porse il suo palmare; sullo schermo c’erano le istruzioni
di Fred per cambiare il segnale del transponder.
«È tutto pronto. Ho collegato la console alla porta dati del
transponder, come ha detto di fare. Ho impostato il software del
computer di bordo per eseguire la sovrascrittura che ha descritto. Il
nuovo codice transponder e i dati di registro della nave sono pronti a
essere inseriti. Ho immesso il nuovo nome. È stato Fred a
sceglierlo?»
«No, sono stato io.»
«Ah. Va bene, allora. Però...» La sua voce si spense, e fece di
nuovo un gesto vago verso il transponder.
«Qual è il problema?» chiese Holden.
«Jim, questi affari sono concepiti per non essere manomessi. La
versione civile di questo marchingegno si fonde in una massa di
silicone, se pensa di esserlo stata. Chissà qual è la versione militare
del dispositivo di sicurezza... Magari lasciar cadere il magnete nel
reattore, trasformandoci tutti in una supernova?»
Naomi si voltò per guardarlo.
«Ho impostato ogni cosa ed è tutto pronto, ma non credo che
dovremmo attivare il procedimento» disse. «Non sappiamo quali
potrebbero essere le conseguenze.»
Holden si alzò in piedi e andò verso la console. Un programma che
Naomi aveva nominato Trans01 era in attesa di essere eseguito.
Esitò per un istante, poi premette il pulsante di avvio. La nave non si
disintegrò.
«Suppongo che in fondo Fred ci voglia vivi» disse.
Naomi si stese a terra lasciando uscire un lungo respiro rumoroso.
«Ecco, questo è il motivo per cui non potrò mai avere il comando»
spiegò.
«Non ti piace prendere decisioni difficili avendo a disposizione
soltanto informazioni incomplete?»
«Più che altro, non soffro di irresponsabili tendenze suicide»
rispose lei, e cominciò a rimettere a posto lo scomparto del
transponder.
Holden attivò il sistema di comunicazione a parete. «Be’, ciurma,
benvenuti a bordo della nave trasporto gas Rocinante.»
«Ma che significa questo nome?» chiese Naomi dopo che Holden
ebbe rilasciato il pulsante.
«Vuol dire che dobbiamo andare a cercarci qualche mulino a
vento» rispose Holden dirigendosi verso l’ascensore.
La Tycho Manufacturing and Engineering Concern era stata una
delle prime grosse multinazionali a spostarsi sulla Fascia. Durante il
primo periodo di espansione, i suoi ingegneri e una flotta di navi
avevano catturato una piccola cometa e l’avevano posizionata su
un’orbita stabile come punto di approvvigionamento d’acqua,
decenni prima che navi come la Canterbury cominciassero a
trasportare ghiaccio prelevato dalle quasi illimitate risorse degli anelli
di Saturno. Era stata l’impresa ingegneristica su larga scala più
complessa e difficoltosa che l’umanità avesse mai affrontato, fino a
quella successiva.
Come replica di quel primo successo, la Tycho aveva costruito i
giganteschi motori a reazione impiantati nel corpo di Ceres ed Eros,
e aveva impiegato più di un decennio per impostare la rotazione
degli asteroidi. Erano stati fatti a pezzi per creare una rete di città
galleggianti ad alta atmosfera al di sopra di Venere, prima che i diritti
di sviluppo precipitassero in un labirinto di cause legali che si
trascinavano ormai da più di settant’anni. Si era parlato di ascensori
spaziali per Marte e la Terra, ma non se ne era ancora fatto niente.
Se c’era da compiere un lavoro ingegneristico impossibile nella
Fascia, e te lo potevi permettere, ingaggiavi la Tycho.
La Stazione di Tycho, il quartier generale della compagnia sulla
Fascia, era una gigantesca stazione ad anello costruita attorno a
una sfera di mezzo chilometro di diametro, con più di
sessantacinque milioni di metri cubi di spazio di produzione e
immagazzinamento al suo interno. I due anelli abitativi in rotazione
inversa che circondavano la sfera potevano ospitare fino a
quindicimila lavoratori con le loro famiglie al seguito. La cima della
sfera di produzione era ornata da una mezza dozzina di giganteschi
waldo da costruzione che davano l’impressione di poter spezzare in
due un cargo pesante. Sul fondo della sfera emergeva una
protuberanza bulbosa di cinquanta metri di diametro che ospitava un
reattore a fusione e un sistema di propulsori di classe ammiraglia,
rendendo così la Stazione di Tycho la più grande piattaforma di
costruzione mobile del sistema solare. Ogni settore che componeva i
suoi giganteschi anelli era costruito su un sistema basculante che
permetteva ai compartimenti di orientarsi secondo l’accelerazione di
gravità quando gli anelli smettevano di ruotare e la stazione si
dirigeva verso un differente sito di lavoro.
Holden sapeva tutto questo, eppure la prima impressione lo fece
comunque rimanere senza fiato. Non si trattava soltanto della taglia.
Era l’idea che quattro generazioni delle persone più intelligenti
dell’intero sistema solare avessero vissuto e lavorato lì dentro,
contribuendo a trascinare il resto dell’umanità verso i pianeti esterni
quasi soltanto con la propria indomita forza di volontà.
«Somiglia a un grosso insetto» osservò Amos.
Holden fece per protestare, ma in effetti sembrava davvero una
sorta di ragno gigantesco: un grasso corpo bulboso, e tutte le zampe
che spuntavano da sopra la testa.
«Lascia perdere la stazione. Guarda quel mostro laggiù» disse
Alex.
Il vascello che stavano costruendo faceva sembrare piccola la
stazione. Il lidar disse a Holden che la nave era poco più lunga di
due chilometri per mezzo chilometro di larghezza. Tondeggiante e
tozza, sembrava quasi una cicca di sigaretta fatta d’acciaio. Le travi
delle impalcature ne lasciavano esposti i compartimenti interni e le
parti meccaniche nei vari stadi della costruzione, ma i motori
parevano completati e a prua la chiglia era già stata assemblata.
Sulle paratie esterne era stato dipinto a grandi lettere bianche il
nome Nauvoo.
«E quindi i mormoni hanno intenzione di guidare quell’affare fin su
Tau Ceti, eh?» chiese Amos, facendo seguire un lungo fischio.
«Hanno le palle, quei bastardi. Non hanno nessuna garanzia di
trovare un pianeta che valga qualcosa, alla fine di un viaggio di
cento anni.»
«Sembrano piuttosto sicuri di quel che fanno» replicò Holden. «E
non accumuli tutti i soldi necessari a costruire una nave del genere
se sei stupido. Per quanto mi riguarda, non posso che augurar loro
buona fortuna.»
«Erediteranno le stelle» disse Naomi. «Come si può non
invidiarli?»
«I loro bisnipoti erediteranno forse una stella, sempre che invece
non crepino tutti di fame ritrovandosi a orbitare attorno a un pezzo di
roccia inutilizzabile» ribatté Amos. «Non ci vedo niente di epico o
grandioso.»
Indicò l’impressionante sistema di comunicazione che sporgeva dal
fianco della Nauvoo.
«Scommettiamo che è stato quello a trasmettere il nostro
messaggio a buco di culo?» disse.
Alex annuì. «Se vuoi inviare messaggi privati a casa da un paio di
anni luce di distanza, serve un raggio bello potente. Probabilmente
hanno abbassato il volume al minimo per evitare di perforarci lo
scafo.»
Holden si alzò dal sedile del copilota e si spinse oltre Amos.
«Alex, vedi se ci lasciano atterrare.»
L’atterraggio fu sorprendentemente facile. La torre di controllo della
stazione li indirizzò verso una piattaforma di attracco sul fianco della
sfera e rimase in linea, guidandoli passo dopo passo, finché Alex
non ebbe agganciato il tubo di attracco al portellone pressurizzato
della corvetta. La torre di controllo non sollevò alcuna obiezione
riguardo al fatto che disponessero di un armamentario
eccessivamente nutrito per essere una nave cargo e che non
avessero una cisterna per il trasporto di gas compresso. Li fece
attraccare, dopodiché augurò loro una piacevole giornata.
Holden indossò la sua tuta atmosferica e fece una rapida
ricognizione nella stiva prima di raggiungere gli altri davanti al
portellone pressurizzato interno della Rocinante con un grosso
borsone di tela.
«Indossate le vostre tute. Da questo momento, sarà una procedura
operativa standard ogni volta che andremo in un posto nuovo. E
prendete una di queste» disse, tirando fuori dalla borsa pistole e
caricatori. «Potete nasconderle in una tasca o nella vostra borsa, se
volete, ma io indosserò apertamente la mia.»
Naomi si accigliò.
«Mi pare un po’... aggressivo, non trovi?»
«Sono stanco di farmi mettere i piedi in testa» rispose Holden. «La
Roci è un buon punto di partenza verso l’indipendenza, e ho
intenzione di portarne un pezzettino con me. Prendilo come una
sorta di portafortuna.»
«Cazzo, sì» esclamò Amos, e assicurò una delle pistole alle
cinghie esterne della coscia.
Alex mise la sua nella tasca della tuta. Naomi arricciò il naso e si
rifiutò di prendere l’ultima pistola. Holden la rimise nella borsa di tela,
guidò il suo equipaggio nella camera di pressurizzazione della
Rocinante e procedette all’apertura dei portelli. Dall’altra parte trovò
ad attenderli un uomo più anziano di lui, con la pelle scura e una
corporatura robusta. Mentre sbarcavano, sorrise loro.
«Benvenuti sulla Stazione di Tycho» disse il Macellaio di Anderson.
«Chiamatemi pure Fred.»
18

Miller

La notizia della distruzione della Donnager colpì Ceres come un


maglio che percuoteva un gong. I notiziari furono sommersi da
immagini telescopiche ad alto impatto della battaglia, la maggior
parte delle quali, se non tutte, contraffatte. Sulla Fascia
cominciarono a circolare voci su una possibile flotta segreta dell’APE.
Gli equipaggi delle sei navi che avevano abbattuto l’ammiraglia
marziana furono salutati come eroi e martiri. Slogan come
‘L’abbiamo fatto una volta e possiamo farlo ancora’ e ‘Sgancia
qualche roccia’ cominciarono ad apparire anche in contesti
apparentemente del tutto innocui.
La Canterbury aveva spazzato via la noncuranza della Fascia, ma
la Donnager aveva fatto qualcosa di ancor peggiore. Aveva portato
via la paura. I cinturiani avevano trovato un’improvvisa, decisiva e
inattesa vittoria. Ora tutto sembrava possibile, e si erano ritrovati
sedotti dalla speranza.
Miller ne sarebbe stato più spaventato se fosse stato sobrio.
La sveglia suonava da dieci minuti. Rimanendo ad ascoltarlo
abbastanza a lungo, quello stridulo ronzio si arricchiva di frequenze
subsoniche e di sovratoni; un tono in crescendo costante, con un
tremolio percussivo in sottofondo, e perfino una musica dolce
nascosta dallo squillo. Illusioni. Allucinazioni acustiche. La voce del
turbine.
Sul comodino, dove di solito teneva una brocca d’acqua, c’era una
bottiglia di bourbon sintetico fungino della sera prima. Ne erano
rimaste un paio di dita sul fondo. Miller osservò pensoso il color
caramello del liquido e s’immaginò di averne il sapore sulla lingua.
La cosa migliore di quando perdevi le tue illusioni, pensò, era che
smettevi di avere pretese. Tutti gli anni in cui si era convinto di
essere rispettato, di essere bravo nel suo campo, e che tutti i suoi
sacrifici erano stati fatti per un buon motivo, si erano dissolti e
l’avevano lasciato con la chiara, limpida consapevolezza di essere
un alcolista funzionale che aveva allontanato tutto ciò che aveva di
buono nella vita per far spazio all’anestetico. Shaddid pensava che
fosse un incapace. Muss riteneva che lui fosse il prezzo che le
toccava pagare per non essere andata a letto con qualcuno che non
le piaceva. L’unico che poteva aver avuto un minimo di rispetto per
lui era Havelock, un terrestre. Si sentiva in pace, in qualche modo.
Poteva smettere di sforzarsi di mantenere le apparenze. Se fosse
rimasto nel letto ad ascoltare il ronzio della sveglia, non avrebbe
fatto altro che ciò che ci si aspettava da lui. Non c’era vergogna, in
questo.
Eppure, aveva ancora del lavoro da sbrigare. Allungò una mano e
spense l’allarme. Appena prima che si interrompesse, in sottofondo
Miller udì una voce, dolce ma insistente. Una voce femminile. Non
capì che cosa stesse dicendo. Ma comunque, visto che era tutto
nella sua testa, avrebbe avuto modo di riascoltarla più avanti.
Si alzò a fatica dal letto, buttò giù qualche antidolorifico e una
soluzione reidratante, barcollò fino alla doccia e consumò una
razione quotidiana e mezza di acqua calda restandosene lì sotto, in
piedi, a fissarsi le gambe che si arrossavano. Indossò i suoi ultimi
vestiti puliti. La colazione fu una barretta di lievito pressato e succo
d’uva artificiale. Tolse la bottiglia dal comodino e la buttò nel tubo di
riciclo senza scolarla, giusto per provare a sé stesso che era ancora
in grado di farlo.
Muss lo attendeva alla sua scrivania. Alzò lo sguardo quando lui si
sedette.
«Sto ancora aspettando i risultati del laboratorio per quello stupro,
su al diciottesimo» disse lei. «Avevano promesso di farceli avere per
pranzo.»
«Vedremo» rispose Miller.
«Ho una possibile testimone. Una ragazza che era con la vittima
quella sera. Nella deposizione spontanea dice di essersene andata
prima del fatto, ma le immagini delle telecamere di sicurezza non
corroborano la sua versione dei fatti.»
«Vuoi che partecipi all’interrogatorio?» chiese Miller.
«Non ancora. Se mi serve un po’ di teatrino, ti faccio chiamare.»
«Come vuoi.»
Miller non la guardò nemmeno mentre si allontanava. Dopo un
lungo momento passato a guardare nel vuoto, aprì il suo hard disk,
diede un’occhiata a quello che rimaneva da fare e cominciò a
ripulirlo.
Mentre ci lavorava, la sua mente ripassò per la milionesima volta
l’interminabile, umiliante discussione con Shaddid e Dawes.
‘Abbiamo Holden’ aveva detto. ‘Lei, invece, non è neanche in grado
di scoprire quel che è successo alle vostre attrezzature
antisommossa.’ Miller tornava incessantemente su quelle parole,
come una lingua che preme sullo spazio vuoto di un dente
mancante. Dicevano il vero. Ancora e ancora.
Eppure, poteva essere una menzogna. Poteva essere una storia
messa in piedi con l’unico scopo di sminuirlo. Dopotutto, non c’erano
prove che Holden e il suo equipaggio fossero realmente
sopravvissuti. Che prove potevano esserci? La Donnager era
andata, e insieme a essa tutti i suoi registri di bordo. Sarebbe stato
necessario che una nave si salvasse; una scialuppa, o una delle
navi scorta marziane. Era impossibile che una nave fosse riuscita a
fuggire senza diventare all’istante l’oggetto delle attenzioni particolari
di ogni notiziario e comunicato pirata trasmesso da allora in poi. Non
si poteva far passare sotto silenzio una cosa del genere.
O forse sì. Solo che non sarebbe stato semplice. Strinse gli occhi,
fissando il vuoto della centrale. Dunque... come fare per mascherare
una nave sopravvissuta?
Miller tirò fuori un calcolatore di rotte economico che aveva
comprato cinque anni prima, in occasione di un caso di
contrabbando che aveva richiesto una verifica dei tempi di transito, e
inserì la data e la posizione in cui si era trovata la Donnager quando
era stata distrutta. Qualunque veicolo privo di propulsione Epstein
sarebbe comunque rimasto nei paraggi, e le navi da guerra
marziane l’avrebbero già raccolto o ridotto a un cumulo di radiazioni
di fondo. Quindi, se davvero Dawes non gli aveva propinato un
mucchio di stronzate, significava che avevano un reattore Epstein.
Fece un paio di calcoli rapidi. Con un buon motore, si sarebbe potuti
arrivare fino a Ceres in poco meno di un mese. Tre settimane, forse.
Fissò i dati per quasi dieci minuti ma il passo successivo non gli si
presentò in mente, per cui si allontanò, prese un caffè e tirò fuori
l’interrogatorio che lui e Muss avevano condotto su un impiegato del
personale di terra cinturiano. Il viso dell’uomo era lungo, cadaverico
e vagamente crudele. L’apparecchio di registrazione non l’aveva
messo a fuoco correttamente, per cui l’immagine saltava in
continuazione. Muss aveva chiesto a quel tizio che cosa avesse
visto e Miller si chinò in avanti per leggere la trascrizione delle
risposte, controllando che non ci fossero parole non riconosciute dal
software. Trenta secondi dopo, lo scaricatore disse ‘puttana’ e il
trascrittore segnò ‘su tana’. Miller lo corresse, ma intanto la sua
mente continuava a essere in subbuglio.
Ogni giorno a Ceres dovevano arrivare tra le otto e le novecento
navi. Mille, per buona misura. Con un paio di giorni di tolleranza
prima e dopo il tempo stimato di tre settimane, il totale si aggirava su
quattromila navi al massimo. Una rottura di palle, certo, ma non
impossibile. Ganimede sarebbe stata un’altra gatta da pelare. Con i
suoi impianti agricoli, anche lì giungevano centinaia di carichi al
giorno. Ma comunque non sarebbe arrivato a raddoppiare la mole di
lavoro. E poi Eros. Tycho. Pallas. Quante navi attraccavano su
Pallas ogni giorno?
Si era perso quasi due minuti della registrazione. Ricominciò da
capo, stavolta costringendosi a prestare attenzione. Mezz’ora dopo
si arrese.
I dieci porti più trafficati in cui sarebbe potuta attraccare una nave
con propulsore Epstein partendo dal punto in cui era esplosa la
Donnager, con due giorni di tolleranza sulla stima della data di
arrivo, dovevano registrare un totale di ventottomila voci di attracco.
Ma si poteva scendere a diciassettemila se si escludevano le
stazioni e i porti esplicitamente gestiti dalle forze militari di Marte e le
stazioni di ricerca i cui abitanti erano tutti o quasi provenienti dai
pianeti interni. E quanto tempo gli avrebbe richiesto controllare uno a
uno tutti i registri di attracco, supponendo per un momento che fosse
tanto stupido da farlo davvero? All’incirca centodiciotto giorni, se non
avesse né mangiato né dormito. Lavorando soltanto dieci ore al
giorno, senza fare nient’altro, avrebbe potuto farcela in meno di un
anno. Poco meno di un anno.
Anzi, no. C’erano altri modi di restringere il campo di ricerca. A lui
interessavano soltanto le navi con propulsore Epstein. La maggior
parte del traffico portuale sarebbe stata locale: navi con propulsori a
razzo, condotte da prospettori e corrieri a corto raggio. Gli aspetti
economici del volo spaziale facevano sì che le navi adatte ai voli di
lungo corso fossero relativamente poche e di grandi dimensioni. Per
cui, tagliando via tre quarti del totale, tenendosi larghi, tornava più o
meno intorno alle quattromila voci di registro. Si trattava pur sempre
di centinaia di ore di lavoro, ma, se fosse riuscito a individuare un
qualche ulteriore filtro che avesse potuto inquadrare meglio i
probabili sospetti... Per esempio, la nave non poteva aver compilato
un piano di volo prima che la Donnager venisse disintegrata.
L’interfaccia di richiesta dei registri portuali era obsoleta, scomoda
e leggermente diversa su Eros rispetto a Ganimede, a Pallas e così
via. Miller associò le richieste d’informazione a sette casi diversi, tra
cui un’indagine di un mese prima che l’aveva visto partecipare
soltanto in veste di consulente. I registri portuali erano pubblici e
accessibili, per cui non aveva particolare bisogno di far leva sulla
sua posizione di ispettore per nascondere le proprie azioni. Con un
po’ di fortuna, Shaddid non doveva tenerlo sotto controllo per quel
che riguardava indagini di basso profilo concernenti i pubblici registri.
E, anche se l’avesse fatto, Miller avrebbe ricevuto i risultati prima
che lei potesse fermarlo.
Non si poteva conoscere la propria fortuna se non si provvedeva a
tentarla, prima. E poi, lui non aveva molto da perdere.
Quando sul suo terminale si aprì la connessione con il laboratorio
di analisi, per poco non sussultò per la sorpresa. Il tecnico era una
donna dai capelli grigi con un viso innaturalmente giovane.
«Miller? Muss è lì con te?»
«No» rispose Miller. «Ha un interrogatorio.»
Era piuttosto sicuro che gli avesse detto così. L’esperta della
scientifica si strinse nelle spalle.
«Be’, il suo sistema non risponde. Volevo dirvi che abbiamo una
corrispondenza per lo stupro che ci avete mandato. Non è stato il
fidanzato. È stato il suo capo.»
Miller annuì. «Avete fatto richiesta per il mandato?» chiese.
«Sì» rispose lei. «È allegata al file.»
Miller la estrasse: ‘Star Heliz per conto della Stazione di Ceres
autorizza e richiede la detenzione di Immanuel Corvus Dowd in
attesa di giudizio per il reato CCS-4949231.’ La firma digitale del giudice
era in verde. Miller sentì un lento sorriso nascergli sulle labbra.
«Grazie» disse.
Mentre usciva dalla centrale, un tipo della buoncostume gli chiese
dove fosse diretto. Miller disse a pranzo.
L’Arranha Accountancy Group aveva i suoi uffici nella parte bene
del quartiere governativo del settore sette. Non era un territorio
familiare per Miller, ma il mandato valeva in tutta la stazione. Miller
andò dalla segretaria al desk d’ingresso, una bella cinturiana con un
motivo di stelle a decorare la sua giacchetta, e spiegò che aveva
bisogno di parlare con Immanuel Corvus Dowd. La pelle scura della
segretaria acquisì una tonalità cerea. Miller fece un passo indietro,
senza bloccare l’uscita ma restando vicino.
Venti minuti più tardi, un uomo di età avanzata vestito
elegantemente attraversò il portone d’ingresso, si fermò di fronte a
Miller e lo squadrò dall’alto in basso.
«Ispettore Miller?» chiese l’uomo.
«Lei sarà l’avvocato di Dowd» disse Miller con tono gioviale.
«È così, e vorrei...»
«Ascolti» lo interruppe Miller. «La faccenda è urgente.»
L’ufficio era pulito e sobrio, con pareti azzurre che si illuminavano
dall’interno. Dowd era seduto alla sua scrivania. Era
sufficientemente giovane da sembrare ancora arrogante, ma anche
abbastanza vecchio da apparire spaventato. Miller lo salutò con un
cenno del capo.
«Lei è Immanuel Corvus Dowd?» chiese.
«Prima che dica altro, ispettore,» disse l’avvocato «il mio cliente è
impegnato in negoziazioni di altissimo profilo. Tra i suoi clienti si
contano alcuni dei nomi più influenti impegnati nello sforzo bellico.
Prima di muovere qualsiasi accusa, è bene che sappia che posso e
che non esiterò a far controllare ogni sua procedura, e che, se
troverò anche soltanto il minimo errore, la inchioderò alle sue
responsabilità.»
«Signor Dowd» disse Miller. «Quel che sto per farle è letteralmente
l’unico momento positivo di tutta la mia giornata. Se volesse usarmi
la cortesia di resistere all’arresto, le sarei davvero grato.»
«Harry?» disse Dowd, guardando verso il suo avvocato. La sua
voce sembrò vagamente incrinata.
L’avvocato scosse la testa.
Una volta tornato al cart della polizia, Miller rimase lì fermo a lungo.
Dowd, ammanettato sul sedile posteriore, dove tutti i passanti
potevano vederlo, non disse una parola. Miller tirò fuori il suo
palmare e annotò l’ora dell’arresto, le obiezioni dell’avvocato e
qualche altra osservazione secondaria. Una giovane donna vestita
con un abito formale di lino color crema esitò sulla porta della
società. Miller non la riconobbe; non era coinvolta in un caso di
stupro, o perlomeno non in quello su cui lui stava lavorando. Sul viso
aveva la serena impassibilità di una combattente. Miller si voltò
allungando il collo verso Dowd, umiliato e con lo sguardo basso. La
donna spostò gli occhi su Miller e annuì una volta, come a dire:
‘Grazie.’
Lui le restituì il cenno, a intendere: ‘Sto solo facendo il mio lavoro.’
La donna tornò dentro.
Due ore dopo, Miller finì di compilare i formulari e fece portare
Dowd in cella.
Tre ore e mezzo dopo gli arrivò il primo dei registri di attracco
richiesti.
Cinque ore dopo, cadde il governo di Ceres.
Nonostante fosse piena, la centrale era silenziosa. Ispettori e
assistenti, agenti sul campo e colletti bianchi di ogni livello, erano
tutti radunati di fronte a Shaddid. Lei era in piedi sul suo podio, con i
capelli legati stretti sulla nuca. Indossava la sua uniforme della Star
Helix, ma le insegne erano state rimosse. Aveva la voce incerta.
«Ormai l’avrete già saputo tutti, ma, a partire da questo istante, è
ufficiale: le Nazioni Unite, in risposta a una richiesta da parte di
Marte, stanno ritirando la loro supervisione e... protezione nei
confronti della stazione di Ceres. Si tratta di una transizione pacifica.
Non è un colpo di Stato. Ripeto: non è un colpo di Stato. È la Terra a
scegliere di ritirarsi, non siamo noi che la costringiamo a farlo.»
«Questa è una stronzata, capitano» gridò qualcuno. Shaddid alzò
una mano.
«Ci sono molte voci infondate in giro» disse. «Non voglio sentire
niente di tutto questo, qui. Il governatore darà l’annuncio formale
all’inizio del nuovo turno, e per allora avremo maggiori dettagli.
Finché non ci verrà comunicato il contrario, il contratto con la Star
Helix è ancora valido. Stanno formando un governo provvisorio con
membri scelti dalle aziende locali e i rappresentanti delle unioni
sindacali. Siamo ancora la legge, su Ceres, e mi aspetto che vi
comportiate in maniera appropriata. Sarete tutti qui per i vostri turni.
Continuerete a essere puntuali. Agirete in maniera professionale e
nel quadro normativo delle pratiche standard di mantenimento
dell’ordine.»
Miller lanciò un’occhiata a Muss. I capelli della sua collega erano
ancora arruffati dal cuscino. Si stava facendo tardi per entrambi.
Chi pagherà la Star Helix?, si chiese Miller. Quali leggi stiamo
facendo rispettare? Che cosa sa, la Terra, che fa sì che allontanarsi
dal più grande porto commerciale della Fascia sia considerata una
mossa intelligente?
Chi negozierà il vostro trattato di pace, ora?
Muss, vedendo lo sguardo di Miller, sorrise.
«Mi sa che siamo alla frutta» disse lui.
«Era nell’aria» concordò Muss. «Sarà meglio che vada. Ho una
commissione da fare.»
«Su al nucleo?»
Muss non rispose. Non ce n’era bisogno. Ceres non aveva leggi.
Aveva la polizia. Miller tornò al suo buco. La stazione ronzava; la
pietra sotto di lui vibrava per gli innumerevoli ganci di attracco e
nuclei di reazione, tubi riciclatori e pneumatici. Quella roccia era
viva, e Miller aveva dimenticato i piccoli segni che lo provavano. Ci
abitavano sei milioni di persone, che ne respiravano l’aria. Meno che
in una città terrestre di media ampiezza. Si chiese se fossero
sacrificabili.
Che la situazione fosse arrivata a un punto tale che i pianeti interni
sarebbero stati disposti a perdere una delle maggiori stazioni della
Fascia? Sembrava come se la Terra stesse abbandonando Ceres.
L’APE avrebbe dovuto prendere le redini, volente o nolente. Il vuoto di
potere era troppo grande. Dopodiché, Marte l’avrebbe definito un
colpo di Stato. E poi... Poi che cosa sarebbe successo? Avrebbero
messo l’embargo e l’avrebbero sottoposta a legge marziale? Quella
era l’ipotesi migliore. L’avrebbero ridotta in polvere con delle testate
nucleari? Non riusciva a credere nemmeno a quello. C’erano troppi
soldi in ballo. Anche soltanto con le tasse di attracco si poteva dare
l’impulso a una piccola economia nazionale. E Shaddid e Dawes,
per quanto odiasse pensarlo, avevano ragione. Ceres sotto contratto
con la Terra era stata la loro speranza migliore per ottenere una
pace negoziata. C’era forse qualcuno, sulla Terra, che non voleva
quella pace? Qualcuno o qualcosa di abbastanza potente da
smuovere la glaciale burocrazia delle Nazioni Unite affinché si
mettesse in azione?
«Che cos’è questa storia, Julie?» disse da solo, ad alta voce. «Che
cos’hai visto, là fuori, che giustifichi questa guerra tra Marte e la
Fascia?»
La stazione continuò a ronzare tra sé e sé; un suono calmo e
costante, troppo basso perché Miller riuscisse a sentire le voci che si
portava dentro.
Muss non si presentò al lavoro la mattina seguente; Miller trovò un
messaggio sul suo terminale, in cui lo avvisava che sarebbe arrivata
tardi. ‘Pulizia’ era stata la sua unica spiegazione.
In apparenza, niente era cambiato nella centrale. Le stesse
persone, che venivano nello stesso posto, per fare le stesse cose.
Anzi no, non era vero. L’energia era alle stelle. Le persone
sorridevano, ridevano, facevano scherzi. Era un entusiasmo forzato,
panico compresso sotto una fragile maschera di normalità. Non
sarebbe durato.
Loro erano tutto ciò che separava Ceres dall’anarchia. Erano la
legge, e la responsabilità di fare la differenza tra la sopravvivenza di
sei milioni di cittadini e le azioni di un qualche bastardo fuori di testa
che si metteva ad aprire tutti i portelloni pressurizzati della stazione o
ad avvelenare i riciclatori riposava sulle spalle di trentamila persone.
Gente come lui. Forse si sarebbe dovuto unire agli altri,
riscuotendosi per l’occasione come il resto dei suoi colleghi. La
verità era che si sentiva stanco al solo pensiero.
Shaddid gli passò accanto con passo deciso e gli diede una pacca
sulla spalla. Miller sospirò, si alzò dalla sedia e la seguì. Dawes era
di nuovo nel suo ufficio, con la faccia scossa di chi non aveva
dormito abbastanza. Miller lo salutò con un cenno del capo. Shaddid
incrociò le braccia, con uno sguardo più docile e meno accusatorio
di quanto non fosse abituato a vederle in viso.
«Non sarà facile» disse lei. «Siamo di fronte alla sfida più dura che
abbiamo mai affrontato finora. Ho bisogno di una squadra di cui
possa fidarmi ciecamente. Queste sono circostanze straordinarie. Lo
capisce, vero?»
«Sì» rispose Miller. «Ho capito. Smetterò di bere, mi darò una
regolata.»
«Miller. Lei non è una cattiva persona, in fondo. C’è stato un tempo
in cui era un ottimo poliziotto. Ma non mi fido di lei, e non abbiamo
tempo per ricominciare tutto da capo» disse Shaddid, con voce più
gentile di quanto non avesse mai sentito. «Lei è licenziato.»
19

Holden

Fred era da solo, con la mano tesa e un sorriso caloroso e aperto


sull’ampio volto. Alle sue spalle non c’era nessuna guardia armata di
fucili di assalto. Holden strinse la mano di Fred e poi scoppiò a
ridere. Fred sorrise e parve confuso, ma lasciò che Holden
trattenesse la sua mano, aspettando che gli spiegasse che cosa ci
fosse di così divertente.
«La prego di scusarmi, ma non ha idea di quanto possa essere
piacevole tutto questo» disse Holden. «Questa è letteralmente la
prima volta in un mese che riesco a scendere da una nave senza
che mi esploda alle spalle.»
Fred rise con lui, una risata onesta che sembrava provenire dalla
pancia.
Dopo un momento, il colonnello disse: «Siete al sicuro, qui. Siamo
la stazione più protetta di tutti i pianeti esterni.»
«Perché siete dell’APE?» chiese Holden.
Fred scosse la testa.
«No. Finanziamo le campagne elettorali sulla Terra e su Marte con
cifre che farebbero arrossire un Hilton» disse. «Se qualcuno
dovesse farci saltare in aria, metà assemblea delle Nazioni Unite e
l’intero Congresso di Marte chiederebbero a gran voce la sua testa.
È questo il problema, con i politici: i tuoi nemici sono spesso tuoi
alleati. E viceversa.»
Fred indicò una porta alle sue spalle e invitò tutti quanti a seguirlo.
Il percorso fu breve ma, giunti a metà strada, la gravità ricomparve e
mutò in maniera disorientante. Holden incespicò. Fred apparve
imbarazzato.
«Mi dispiace. Avrei dovuto avvertirvi. L’hub centrale è in assenza di
gravità. Spostarsi nella gravità rotazionale dell’anello può essere
disagevole, le prime volte.»
«Tutto bene» disse Holden. Poteva darsi che si fosse soltanto
immaginato il sorriso fugace di Naomi.
Un istante più tardi, le porte dell’ascensore si aprirono su un ampio
corridoio con il pavimento di moquette e le pareti color verde pallido.
Aveva l’odore rassicurante di riciclatori d’aria e colla da parati fresca.
Holden non sarebbe stato sorpreso di scoprire che diffondevano un
profumo di ‘nuova stazione spaziale’ nell’aria. Le porte che aprivano
sul corridoio erano fatte di finto legno, distinguibile dal vero soltanto
perché nessuno poteva avere così tanti soldi. Di tutto il suo
equipaggio, Holden era quasi sicuramente l’unico a esser cresciuto
in una casa con mobili e infissi di legno vero. Amos era cresciuto a
Baltimora. Non vedevano un albero da più di un secolo, da quelle
parti.
Holden si tolse il casco e si voltò per dire ai suoi di fare altrettanto,
ma trovò che l’avevano preceduto. Amos si guardò intorno nel
corridoio e fece un fischio.
«Bella baracca, Fred» disse.
«Seguitemi, vi mostro la vostra sistemazione» replicò Fred,
guidandoli lungo il corridoio. Parlò mentre avanzavano. «La Stazione
di Tycho ha subìto un certo numero di ristrutturazioni negli ultimi
cento anni, come potrete immaginare, ma la sostanza non è
cambiata poi molto. Era un progetto strutturale brillante fin dall’inizio;
Malthus Tycho era un genio dell’ingegneria. È suo nipote Bredon a
gestire la compagnia, ora. Al momento non è presente sulla
stazione. È sceso nel pozzo, su Luna, per negoziare il prossimo
ingaggio.»
«Mi sembra che abbiate già il vostro bel da fare, con quel mostro
parcheggiato là fuori. Senza contare, be’... una guerra in corso»
disse Holden.
Incrociarono un gruppo di individui con indosso tute di vari colori,
che discutevano animatamente tra loro. Il corridoio era talmente
ampio che nessuno dovette farsi da parte. Fred li salutò con un
gesto mentre li superavano.
«È appena finito il primo turno, per cui siamo in un orario di punta»
spiegò. «A dire il vero, è tempo di procacciarsi nuovi contratti. La
Nauvoo è quasi completa. Tra sei mesi imbarcheranno i loro coloni.
Bisogna sempre fare in modo di avere il progetto successivo in coda.
La Tycho costa undici milioni di dollari alle Nazioni Unite al giorno,
che si guadagni o meno. Sono un bel po’ di spese da coprire. E la
guerra... be’, speriamo che sia soltanto temporanea.»
«Mettervi ad accogliere dei rifugiati non aiuterà la vostra
posizione» osservò Holden.
Fred si limitò a ridere e a dire: «Quattro persone in più non
dovrebbero impoverire più di tanto le nostre risorse.»
Holden si fermò, obbligando gli altri alle sue spalle a fare lo stesso.
Fred se ne accorse solo qualche passo dopo, e si voltò con
un’espressione confusa in volto.
«Sta sviando il discorso» disse Holden. «A parte una nave da
guerra marziana da un paio di miliardi di dollari rubata, non abbiamo
niente di valore. Tutti pensano che siamo morti. Qualunque accesso
ai nostri conti rovinerebbe tale copertura, e non credo di vivere in un
universo in cui arriva il Daddy Warbucks di turno a sistemare tutto
quanto solo per bontà d’animo. Per cui o ci dice chiaro e tondo il
motivo per cui si è preso il rischio di darci asilo, o ce ne torniamo
sulla nostra nave e vediamo com’è la vita da pirati.»
«Ci chiameranno il Flagello della marina mercantile marziana»
ringhiò Amos alle sue spalle. Sembrava apprezzare quella
prospettiva.
Fred alzò le mani. C’era durezza nel suo sguardo, ma anche un
certo divertito rispetto.
«Nessun colpo gobbo, avete la mia parola» disse. «Siete armati, e
il personale di sicurezza della stazione vi permetterà di portare con
voi le vostre pistole ovunque lo riteniate opportuno. Questo dovrebbe
già bastarvi a rassicurarvi sul fatto che non ho intenzione di giocare
sporco. Ma permettetemi di mostrarvi i vostri alloggi prima di
continuare a discutere di questa faccenda, va bene?»
Holden non si mosse. Un altro gruppo di lavoratori di ritorno dal
turno avanzava lungo il corridoio e guardò la scena con curiosità.
Qualcuno di loro disse: «Tutto a posto, Fred?»
Lui annuì e li salutò con un cenno impaziente. «Usciamo almeno
dal corridoio.»
«Non disferemo le valigie finché non avremo delle risposte» replicò
Holden.
«Va bene. Ci siamo quasi» disse Fred, e riprese a guidarli con
passo appena più veloce. Si fermò di fronte a una rientranza nella
parete, che ospitava due porte. Dopo averne aperta una strisciando
una carta, Fred li condusse in uno spazioso alloggio residenziale con
un ampio salone e molti posti a sedere.
«Il bagno è quella porta laggiù, sulla sinistra. La stanza da letto è
quella sulla destra. C’è un piccolo angolo cucina da quella parte»
disse Fred, indicando ogni cosa mentre parlava.
Holden si accomodò su una grossa poltrona marrone in pelle
sintetica e spinse indietro lo schienale. In una tasca del bracciolo
c’era un telecomando. Immaginò che fosse quello
dell’impressionante schermo che occupava quasi un’intera parete.
Naomi e Amos si sedettero su un divano coordinato alla poltrona, e
Alex si stravaccò su un amorino color crema che creava un
gradevole contrasto con gli altri mobili.
«Comodi?» chiese Fred, prendendo per sé una delle sei sedie
della zona pranzo e sistemandosi di fronte a Holden.
«Non c’è male» rispose Holden, sulla difensiva. «La mia nave ha
un’ottima macchina del caffè.»
«Immagino che una mazzetta non funzionerebbe, allora. Ad ogni
modo, siete tutti comodi? Abbiamo predisposto due alloggi per voi,
entrambi con questa disposizione, anche se l’altra suite ha due
stanze. Non ero sicuro della... ehm, sistemazione notturna...» Fred
lasciò sospesa la frase, a disagio.
«Non ti preoccupare, capo, puoi dormire nel mio letto» disse Amos,
facendo l’occhiolino a Naomi.
Naomi sorrise appena.
«E va bene, Fred, ci siamo tolti dal corridoio. Ora risponda alle
domande del capitano.»
Fred annuì, poi si alzò e si schiarì la gola. Sembrò ripassare
mentalmente qualcosa. Quando parlò, la facciata di amabile
conversatore era svanita. Nella sua voce c’era una cupa autorità.
«La guerra tra Marte e la Fascia è un suicidio. Quand’anche ogni
scialuppa della Fascia fosse armata, non saremmo comunque
all’altezza di competere con la marina militare marziana. Potremmo
abbattere qualche nave facendo ricorso a sotterfugi e missioni
suicide. Loro potrebbero sentirsi obbligati a sganciare una testata
nucleare su una delle nostre stazioni per gonfiare i muscoli. Tuttavia,
noi potremmo legare razzi chimici a un paio di centinaia di asteroidi
grandi quanto un letto a castello e far piovere l’Armageddon sulle
cupole delle città marziane.»
Fred fece una pausa, come se stesse cercando le parole giuste,
poi tornò a sedersi.
«Tutti quelli che inneggiano alla guerra fanno finta di ignorarlo. È
l’elefante nella stanza. Chiunque non viva su una nave spaziale è
strutturalmente vulnerabile. Tycho, Eros, Pallas, Ceres... Le stazioni
non possono evitare i missili. D’altra parte, con tutti i cittadini della
fazione nemica in fondo a quei grossi pozzi di gravità, noi non
dovremmo nemmeno preoccuparci di prendere la mira. Einstein
aveva ragione. La prossima guerra la combatteremo con le pietre.
La Fascia però dispone di pietre in grado di trasformare l’intera
superficie di Marte in un oceano di morte.
«Fino a ora tutti si stanno comportando bene, limitandosi a sparare
alle navi. Come dei veri gentiluomini. Prima o poi, però, una fazione
o l’altra sarà costretta a intraprendere contromisure disperate.»
Holden si chinò in avanti. La superficie liscia della sua tuta
ambientale produsse un verso imbarazzante contro la pelle della
poltrona. Nessuno rise.
«Siamo d’accordo. E che cos’ha a che fare tutto questo con noi?»
chiese.
«Si è già sparso troppo sangue» rispose Fred.
Shed.
Holden fece una smorfia al ricordo del medico, ma non disse
niente.
«La Canterbury» continuò Fred. «La Donnager. La gente non
dimenticherà queste due navi, né quelle migliaia di vite innocenti.»
«Mi sembra che abbia appena eliminato le uniche due opzioni
possibili, capo» disse Alex. «Niente guerra, niente pace.»
«C’è una terza alternativa. Una società civilizzata ha un altro
possibile modo di gestire questo genere di problematiche» replicò
Fred. «Un processo criminale.»
Lo sbuffo di Amos risuonò per la stanza. Holden dovette sforzarsi
di non sorridere.
«Dice sul serio?» chiese Amos. «E come cazzo si fa a mettere una
fottuta nave mimetica marziana sotto processo? Chiediamo a tutte le
navi mimetiche della flotta dove si trovavano quella sera, e poi
facciamo un controllo incrociato degli alibi?»
Fred alzò una mano.
«Smettetela di pensare alla distruzione della Canterbury come se
fosse un atto di guerra» disse. «Si è trattato di un crimine. Al
momento hanno tutti reagito in maniera eccessiva ma, una volta che
la situazione sarà ben chiara, le cose si calmeranno. Entrambi gli
schieramenti vedranno dove porta questa strada e cercheranno
un’altra via d’uscita. Esiste uno spiraglio in cui gli elementi più sani
possono indagare sugli eventi, negoziare una giurisdizione e
attribuire la colpa dell’accaduto a un individuo o a un gruppo
d’individui, su cui entrambe le parti possono dirsi d’accordo. Un
processo. È l’unica soluzione che non implichi milioni di morti e il
collasso dell’intera infrastruttura umana.»
Holden si strinse nelle spalle, un gesto impercettibile all’interno
della sua pesante tuta ambientale.
«Un processo, quindi. Lei continua a non rispondere alla mia
domanda.»
Fred indicò Holden, poi ognuno dei membri del suo equipaggio.
«Voi siete gli assi nella manica. Voi quattro siete gli unici testimoni
oculari della distruzione di entrambe le navi. Quando si giungerà al
processo, avrò bisogno di voi e delle vostre deposizioni. Ho già una
certa influenza grazie ai miei contatti politici, ma voi potete garantirmi
l’accesso al tavolo. Negozieremo un nuovo insieme di trattati tra la
Fascia e i pianeti interni. In pochi mesi potremmo raggiungere un
risultato che sognavo di ottenere con decenni di lavoro.»
«Dunque lei vorrebbe usare il nostro peso come testimoni per
crearsi un varco di accesso al processo e far assumere a questi
trattati la fisionomia che ritiene migliore» disse Holden.
«È così. E sono disposto a garantirvi protezione, asilo e libera
circolazione sulla mia stazione per tutto il tempo che servirà.»
Holden fece un lungo respiro profondo, si alzò e cominciò ad aprire
la zip della sua tuta.
«E va bene. Mi pare un discorso sufficientemente arrivista da poter
essere credibile» disse. «Vediamo di sistemarci.»
Naomi cantava davanti allo schermo del karaoke. Al solo pensiero,
Holden si sentiva girare la testa. Naomi. Karaoke. Anche prendendo
in considerazione quel che era accaduto loro durante quell’ultimo
mese, Naomi sul palco con un microfono in una mano e una specie
di Martini fucsia nell’altra, intenta a gridare un rabbioso inno punk
cinturiano dei Moldy Filters, era la cosa più strana che avesse mai
visto. Lei finì di cantare tra applausi sparsi e qualche fischio, poi
barcollò giù dal palco e crollò sul divanetto di fronte a lui.
Alzò il drink, rovesciandone una buona metà sul tavolo, poi scolò
tutto d’un fiato quel che rimaneva nel bicchiere.
«Che ne pensi?» chiese Naomi, facendo segno al barista di
portare un altro bicchiere.
«Terribile» disse Holden.
«Dài, sul serio.»
«Sul serio? Una delle esecuzioni più atroci di uno dei pezzi più
terribili che abbia mai sentito.»
Naomi scosse la testa, facendogli una linguaccia esasperata. I suoi
capelli scuri le ricaddero sul viso e, quando il barista le portò un altro
Martini dal colore improbabile, intralciarono ogni suo tentativo di
bere. Alla fine si afferrò i capelli e se li alzò in un ciuffo sopra la testa
mentre beveva.
«Non capisci» disse. «Deve essere atroce. È tutto qui il senso.»
«In tal caso, è stata l’interpretazione più riuscita che abbia mai
sentito» rispose Holden.
«Proprio così.» Naomi si guardò intorno. «Dove sono Amos e
Alex?»
«Amos ha trovato quella che sono certo fosse la prostituta più
costosa che abbia mai visto. Alex sta giocando a freccette sul retro.
Ha fatto qualche commento sulla superiorità dei giocatori di freccette
marziani. Suppongo che lo uccideranno e lo scaricheranno fuori da
un portellone.»
Sul palco c’era un altro cantante, che si dava arie da crooner
intonando una sorta di power ballad vietnamita. Naomi guardò il tizio
per un po’, sorseggiando il suo drink, poi disse: «Forse dovremmo
andare a salvarlo.»
«Quale dei due?»
«Alex. Perché Amos dovrebbe essere salvato?»
«Perché sono piuttosto sicuro che abbia detto alla costosa
prostituta di mettere tutto sul conto di Fred.»
«Organizziamo una missione di soccorso, allora; possiamo salvarli
entrambi» disse Naomi, e poi si scolò il resto del cocktail. «Ho
bisogno di altra benzina, però.»
Fece per chiedere di nuovo al barista, ma Holden si allungò, le
afferrò la mano e la trattenne sul tavolo.
«Forse sarebbe meglio prendere una boccata d’aria, invece»
disse.
Una vampata di rabbia tanto intensa quanto breve le illuminò il
volto, e Naomi tirò bruscamente via la mano.
«Prendila tu, una boccata d’aria. Mi hanno appena tolto via da
sotto i piedi due navi di fila, ho perso un mucchio di amici, e ho
passato tre settimane di volo a far niente fino a qui. Per cui no: mi
farò un altro bicchiere, e poi canterò un altro pezzo. Il pubblico mi
adora» disse Naomi.
«Che ne è della missione di soccorso?»
«Una causa persa. Amos si farà ammazzare dalle puttane spaziali,
ma almeno morirà così come ha vissuto.»
Naomi si alzò dal tavolo, afferrò il Martini sul bancone e si diresse
verso il palco del karaoke. Holden la guardò mentre si allontanava,
poi scolò lo scotch che si era rigirato tra le mani durante le ultime
due ore e si alzò.
Per un momento, ebbe una visione di loro due che tornavano
barcollando in camera, insieme, e che finivano a letto. La mattina
dopo si sarebbe odiato per aver approfittato di lei, ma l’avrebbe fatto
comunque. Naomi lo guardava dal palco, e Holden si rese conto che
la stava fissando. Le rivolse un cenno della mano, poi uscì dalla
porta in compagnia soltanto di fantasmi: Ade, il capitano McDowell,
Gomez, Kelly e Shed...
La suite era comoda, spaziosa e deprimente. Riuscì a rimanere
sdraiato sul letto per meno di cinque minuti prima di alzarsi e di
uscire dall’alloggio. Percorse il corridoio per mezz’ora, incrociando le
grandi intersezioni che portavano verso le altre parti dell’anello.
Trovò un negozio di elettronica, una caffetteria e quello che, a una
più attenta ispezione, si era rivelato essere un bordello terribilmente
costoso. Declinò il videomenu di servizi che la commessa
all’ingresso gli aveva offerto e uscì di nuovo, chiedendosi se Amos
fosse da qualche parte lì dentro.
Era a metà di un corridoio che non aveva visitato prima, quando fu
superato da un gruppetto di ragazze. Dai loro visi sembravano non
avere più di quattordici anni, ma erano già alte quanto lui. Mentre le
oltrepassava, loro si zittirono, poi scoppiarono a ridere quando
furono oltre e si affrettarono ad allontanarsi. Tycho era una città, e
all’improvviso Holden si sentì un vero straniero, che non sapeva
cosa fare e dove andare.
Quando alzò gli occhi dopo aver vagabondato per un po’, non fu
sorpreso di constatare che era arrivato all’ascensore che portava
alla piattaforma di attracco. Premette il pulsante e salì nella cabina,
ricordandosi appena in tempo di attivare i magneti degli stivali per
evitare di andare a gambe all’aria quando la gravità ruotò da un lato
prima di svanire del tutto.
Anche se era entrato in possesso di quella nave da appena tre
settimane, salire di nuovo a bordo della Rocinante fu come tornare a
casa. Con qualche tocco delicato sulla scala di chiglia, Holden si
diresse su fin nel cockpit. Si sistemò sul sedile del copilota, allacciò
le cinture e chiuse gli occhi.
La nave era silenziosa. Con il reattore spento e senza nessuno a
bordo, ogni cosa era perfettamente immobile. Il tubo di attracco
flessibile che connetteva la Roci alla stazione trasmetteva
pochissime vibrazioni alla nave. Holden poté chiudere gli occhi,
lasciarsi fluttuare sotto le cinture e disconnettersi da tutto ciò che
aveva intorno.
Sarebbe potuto essere un momento di pace, sennonché, ogni volta
che chiudeva gli occhi in quell’ultimo mese, gli estremi residui di luce
che svanivano dietro le sue palpebre avevano sempre assunto la
forma di Ade che gli faceva l’occhiolino e si disintegrava come
polvere al vento. La voce in fondo alla sua testa era quella di
McDowell, che si dannava per salvare la nave fino all’ultimo
secondo. Si chiese se sarebbe stato così per il resto della sua vita,
se sarebbero tornati a tormentarlo ogni volta che avesse trovato un
momento di pace.
Gli vennero in mente i veterani durante i suoi giorni di servizio nella
marina militare: uomini stagionati che riuscivano a dormire della
grossa mentre appena due metri più in là i loro compagni giocavano
una rumorosa partita a poker o guardavano i video con il volume al
massimo. All’epoca aveva immaginato che si trattasse
semplicemente di un comportamento che si poteva apprendere nel
tempo, e che il corpo finiva per adattarsi per poter recuperare quanto
bastava in un ambiente che non concedeva mai davvero un
momento di riposo. Ora si chiese se quei veterani non lo
preferissero, quel baccano di sottofondo. Come un modo per tener
lontani i loro compagni morti. Probabilmente quando tornavano a
casa, dopo vent’anni di servizio, non riuscivano più a dormire.
Holden aprì gli occhi e fissò la piccola spia verde sulla console del
pilota.
Era l’unica luce della stanza e non illuminava un bel niente. Ma il
suo lento spegnersi e accendersi era confortante, in un certo senso.
Come un cuore silenzioso della nave.
Holden si disse che Fred aveva ragione, che un processo era la
cosa giusta in cui sperare. Ma voleva comunque inquadrare quella
nave mimetica nel mirino dei cannoni di Alex. Avrebbe voluto che
quell’equipaggio sconosciuto vivesse quel terrificante momento in
cui tutte le contromisure sono ormai fallite, i missili sono a pochi
secondi dall’impatto, e non si può fare assolutamente niente per
fermarli.
Avrebbe voluto che provassero quell’ultimo sussulto di paura,
come quello che aveva sentito attraverso il microfono di Ade.
Per un po’, sostituì i fantasmi nella sua testa con pensieri di
violenta vendetta. Quando smisero di funzionare, fluttuò giù verso il
ponte del personale, si allacciò al suo sedile e cercò di dormire. La
Rocinante gli cantò una ninnananna di riciclatori e silenzio.
20

Miller

Miller era seduto al tavolo di un bar all’aperto, con il tunnel che si


apriva ampio sopra di lui. Nelle aiuole pubbliche l’erba cresceva alta
e pallida, e il soffitto brillava di un bianco pancromatico. La Stazione
di Ceres cominciava ad andare alla deriva. Le meccaniche orbitali e
l’inerzia la mantenevano fisicamente al proprio posto di sempre, ma
la sua storia era cambiata. I sistemi di difesa erano gli stessi. La
resistenza a trazione dei portelloni di sicurezza del porto era
immutata. Tutto ciò che avevano perso era l’effimero scudo
rappresentato dallo status politico, ed era stato come perdere tutto.
Miller si chinò in avanti e sorseggiò il suo caffè.
Alcuni ragazzi giocavano sulle aiuole. Li vide come dei ragazzini,
anche se gli venne in mente che, a quell’età, lui si considerava un
adulto. Quindici, sedici anni. Indossavano dei bracciali dell’APE. I
ragazzi discutevano a voce alta, rabbiosa, di tirannia e libertà. Le
ragazze li guardavano pavoneggiarsi di fronte a loro. L’antica storia
del mondo animale era sempre la stessa, che fosse su uno scoglio
in rotazione circondato dal vuoto assoluto o nelle minuscole riserve
di scimpanzé sulla Terra. Perfino lì, sulla Fascia, la gioventù ti dava
l’illusione di essere invulnerabile, immortale, un’incrollabile
convinzione che, per te soltanto, le cose sarebbero state diverse;
che le leggi della fisica ti avrebbero graziato, che i missili non ti
avrebbero mai colpito, che l’aria non sarebbe mai venuta a mancare
di punto in bianco. Magari agli altri poteva capitare, alle navi da
combattimento raffazzonate dell’APE, ai cargo cisterna, ai caccia
d’assalto marziani, alla Scopuli, alla Canterbury, alla Donnager e alle
centinaia di navi che erano state distrutte nelle piccole azioni di
guerriglia da quando il sistema si era trasformato in un campo di
battaglia. Agli altri, ma non a te. E quando la gioventù era
abbastanza fortunata da sopravvivere al proprio ottimismo, tutto ciò
che era rimasto a Miller era una vaga paura, una certa invidia e una
soverchiante percezione della fragilità della vita. Ma aveva ancora
tre mesi di salario anticipato sul suo conto e un sacco di tempo
libero. E il caffè non era malaccio.
«Desidera ordinare qualcos’altro, signore?» chiese il cameriere.
Non sembrava più grande degli altri ragazzi sull’aiuola. Miller scosse
la testa. Erano passati cinque giorni da quando la Star Helix gli
aveva revocato il contratto. Il governatore di Ceres si era eclissato,
portato in salvo da un cargo prima che la notizia trapelasse.
L’Alleanza dei Pianeti Esterni aveva annunciato l’inclusione di Ceres
tra i territori gestiti ufficialmente dall’APE, e nessuno aveva obiettato.
Miller aveva passato il primo giorno da disoccupato in stato di
ubriachezza, ma la sua sbornia aveva avuto uno strano sapore di
pro forma. Si era rifugiato nella bottiglia perché era familiare, perché
era la cosa che si faceva quando perdevi la carriera che ti definiva
come individuo.
Il secondo giorno l’aveva impiegato per superare la sbornia. Il terzo
aveva cominciato ad annoiarsi. Su tutta la stazione, le forze di
sicurezza erano impegnate nel tipo di azione dimostrativa che si era
aspettato di vedere: mantenimento preventivo dell’ordine. Le poche
manifestazioni politiche e proteste erano state stroncate
rapidamente e duramente, e ai cittadini di Ceres non era importato
poi molto. Avevano gli occhi incollati sui loro schermi, sulla guerra.
Un po’ di gente del posto con la testa spaccata che veniva gettata in
carcere senza giusta causa era al di sotto della soglia di attenzione
pubblica. E, in tutto questo, Miller non aveva alcuna responsabilità
personale.
Il quarto giorno aveva controllato il suo terminale, scoprendo di
aver ricevuto l’ottanta percento dei registri di attracco per cui aveva
fatto richiesta prima che Shaddid gli bloccasse l’accesso. Erano più
di mille documenti, e uno qualunque di essi poteva essere l’unica
pista rimanente per arrivare a Julie Mao. Per il momento, non si
aveva notizia di missili nucleari marziani in viaggio per distruggere
Ceres. Nessuna intimazione alla resa. Nessun esercito d’invasione.
La situazione poteva precipitare da un istante all’altro ma, finché non
l’avesse fatto, Miller avrebbe bevuto caffè e analizzato i registri delle
navi, al ritmo di uno ogni quindici minuti. Aveva calcolato che, se
quella di Holden fosse stata l’ultima nave di tutti quei registri,
l’avrebbe trovato in sei settimane.
L’Adrianopole, una prospettrice di terza generazione, era attraccata
a Pallas nella finestra temporale incriminata. Miller controllò il
formulario di registrazione, di nuovo frustrato nel constatare quante
poche informazioni contenesse in confronto ai database di
sicurezza. La nave era di proprietà di Strego Anthony Abramowitz.
Aveva otto segnalazioni per manutenzione insufficiente, ed era stata
bandita da Eros e da Ceres in quanto ritenuta un pericolo per
l’incolumità del porto. Sulla carta si trattava di un idiota con un
incidente in lista d’attesa, ma il piano di volo sembrava legittimo, e lo
storico della nave era sufficientemente datato da non puzzare di
contraffatto. Miller cancellò il file.
La Badass Motherfucker: una nave cargo che triangolava tra Luna,
Ganimede e la Fascia. Di proprietà della MYOFB Corporation di Luna.
Un controllo sul database pubblico di Ganimede rivelò che aveva
lasciato il porto nell’orario previsto e che non si era presa il disturbo
di riempire un piano di volo. Miller picchiettò sullo schermo con
un’unghia. Non era certo il modo migliore per passare inosservati.
Chiunque avesse avuto un minimo di autorità in materia avrebbe
rintracciato e multato quella nave anche soltanto per il piacere di
farlo. Miller cancellò il file.
Il suo terminale emise un trillo. Un messaggio in entrata. Miller lo
aprì. Una delle ragazze sul prato lanciò un grido e le altre
scoppiarono a ridere. Un passero le sorvolò, con le ali che
frusciavano nella brezza costante del riciclatore.
Havelock aveva un aspetto migliore di quando era su Ceres.
Sembrava più felice. Non aveva più gli occhi cerchiati di nero e la
forma del suo viso si era vagamente ammorbidita, come se il
bisogno di dar prova di sé sulla Fascia gli avesse deformato le ossa
e ora stesse tornando invece alla sua fisionomia naturale.
«Miller!» disse il video. «Ho saputo che la Terra ha tagliato fuori
Ceres appena prima di ricevere il tuo messaggio. Che sfortuna. Mi
dispiace che Shaddid ti abbia licenziato. Detto tra noi, quella donna
non è che un’idiota presuntuosa. Dalle voci che corrono, pare che la
Terra stia facendo tutto quello che può per tenersi fuori da questa
guerra, il che include la cessione di qualunque stazione suscettibile
di costituire oggetto di contesa. Sai com’è... quando da un lato hai
un pitbull e dall’altro un rottweiler, la prima cosa che fai è mollare la
bistecca.»
Miller ridacchiò.
«Ho firmato un contratto con la Protogen, una grossa compagnia di
servizi di sicurezza per privati e cazzate del genere. Vista la paga
però vale la pena di sopportare le loro manie di grandezza. Il
contratto dovrebbe riguardare Ganimede ma, con lo schifo che sta
uscendo fuori in queste settimane, chissà come andrà a finire? È
saltato fuori che la Protogen ha una base di addestramento sulla
Fascia. Non ne avevo mai sentito parlare, ma pare che sia una
scuola niente male. So che stanno continuando ad assumere, e
sarei felice di spendere una buona parola per te. Basta che tu me lo
dica e io vado a parlare con il responsabile del reclutamento, così ti
tiriamo fuori da quel dannato scoglio.»
Havelock sorrise.
«Abbi cura di te, collega» disse il terrestre. «Ci sentiamo presto.»
Protogen. Pinkwater. Al Abbiq. Piccole forze di sicurezza aziendali
che le grandi compagnie transorbitali usavano come eserciti privati e
mercenari da assoldare secondo necessità. Il contratto di sicurezza
su Pallas era detenuto da AnnanSec ormai da anni, ma era una
compagnia con base su Marte. L’APE stava reclutando, di sicuro, ma
non avrebbe certo preso lui.
Erano passati anni dall’ultima volta che aveva cercato lavoro.
Aveva dato per scontato di essersi lasciato alle spalle quella
specifica difficoltà, e il fatto che sarebbe morto lavorando sotto
contratto per la sicurezza e l’ordine pubblico della Stazione di Ceres.
Ora che gli eventi l’avevano sbattuto fuori dalla porta, ogni cosa
sembrava vacillare intorno a lui. Era come quel momento che passa
tra il colpo e la percezione del dolore. Doveva trovarsi un altro
lavoro. Doveva fare qualcosa di più che limitarsi a mandare un paio
di messaggi ai suoi vecchi partner. Esistevano delle agenzie di
collocamento. Su Ceres c’erano dei locali che avrebbero volentieri
assunto un ex poliziotto come buttafuori. C’erano zone grigie di
mercato che avrebbero impiegato chiunque fosse stato in grado di
conferirgli una vaga aura di legalità.
L’ultima delle cose sensate era proprio starsene lì seduto, a
sbirciare le ragazzine del parco e a dare la caccia alle possibili piste
di un caso che non avrebbe mai nemmeno dovuto seguire fin
dall’inizio.
La Dagon era giunta su Ceres appena un po’ in anticipo rispetto
all’intervallo di tempo sotto controllo. Era di proprietà della Glapion
Collective; Miller era piuttosto sicuro che si trattasse di una copertura
di facciata per l’APE. E questo la rendeva potenzialmente sospetta.
Sennonché il piano di volo era stato inserito poche ore dopo la
distruzione della Donnager, e il registro di uscita da Io sembrava
legittimo. Miller spostò il file in una cartella dedicata a quelle navi che
meritavano un approfondimento.
La Rocinante, di proprietà della Silencieux Courant Holdings, di
Luna, era un cargo cisterna per il trasporto di gas atterrato su Tycho
poche ore prima della fine dell’intervallo incriminato. La Silencieux
Courant era una società di medie dimensioni senza legami noti con
l’APE, e il piano di volo da Pallas era plausibile. Miller fece per
cancellare il file, poi si fermò. Si appoggiò allo schienale.
Perché mai un cargo cisterna che trasportava gas si trovava a
volare tra Pallas e Tycho? Entrambe le stazioni erano consumatori di
gas. Volare da un consumatore all’altro senza passare da un
fornitore a metà strada era un buon modo per non coprire le spese di
attracco. Fece richiesta di visura del piano di volo che aveva seguito
la Rocinante prima di arrivare a Pallas, poi tornò ad appoggiarsi allo
schienale e rimase in attesa. Se il registro era presente nei server di
Ceres, la risposta non avrebbe dovuto impiegare più di un paio di
minuti. La barra di notifica stimava invece un’ora e mezza per il
caricamento, il che significava che la richiesta era stata inoltrata ai
sistemi di attracco su Pallas. Il piano di volo non era registrato sul
server locale.
Miller si accarezzò il mento: cinque giorni senza rasoio avevano
quasi dato inizio a una barba. Sentì l’accenno di un sorriso
comparirgli sul volto. Fece una ricerca di approfondimento sul
termine ‘Rocinante’. Il significato letterale era ‘cavallo non più utile al
lavoro’, e la prima accezione era il nome del ronzino di Don
Chisciotte.
«Sei tu, Holden?» disse Miller allo schermo. «Te ne vai in giro a
combattere contro i mulini a vento?»
«Desidera qualcosa, signore?» chiese il cameriere, ma Miller lo
scacciò con un gesto della mano.
C’erano ancora centinaia di registri da esaminare e almeno
qualche altra dozzina nella sua cartella di approfondimento. Miller li
ignorò, fissando il registro di quell’attracco a Tycho come se potesse
costringere lo schermo a far comparire maggiori informazioni con la
sola forza di volontà. Poi, lentamente, tornò al messaggio da parte di
Havelock, premette il tasto di risposta e fissò il puntino nero della
telecamera del terminale.
«Ehi, collega» disse. «Grazie per l’offerta. Potrei anche accettare,
ma ho un po’ di difetti da smussare prima di fare il salto. Sai com’è.
Se però potessi farmi un favore... Avrei bisogno di tracciare una
nave e ormai ho accesso soltanto ai database pubblici, senza
contare che, quando riceverai il mio messaggio, Ceres potrebbe
anche essere entrata in guerra con Marte. Chissà, sai com’è...
Comunque, se potessi impostare una sorveglianza di livello uno sui
suoi piani di volo, fammi un fischio se dovesse saltar fuori
qualcosa... Ti pagherò una bevuta, uno di questi giorni.»
Fece una pausa. Doveva esserci qualcosa di più da dire.
«Abbi cura di te, collega.»
Rivide il messaggio. Sullo schermo sembrava stanco; il suo sorriso
era un po’ posticcio, la voce più acuta di quanto non sembrasse
nella sua testa. Ma diceva quel che doveva dire. Lo inviò.
Ecco a cosa lo avevano ridotto. Niente più accesso agli atti, arma
di servizio confiscata – ma ne aveva ancora un paio di riserva al suo
buco – e i soldi che stavano finendo. Doveva spremere ogni risorsa,
chiedere favori per ottenere cose che sarebbero dovute essere
normale routine, superare il sistema in astuzia per raccogliere le
briciole. Era stato un poliziotto, e l’avevano trasformato in un topo. E
ciononostante, pensò, mettendosi comodo sulla sedia, ho fatto un
lavoro niente male, per un topo.
Il boato della detonazione giunse dal lato della rotazione, poi si
levarono delle voci rabbiose. I ragazzi sul prato interruppero i loro
giochi e fissarono verso quella direzione. Miller si alzò. C’era del
fumo, ma non vide fiamme. La brezza divenne vento mentre le pale
dei purificatori della stazione aumentavano i giri per risucchiare le
particelle in modo da evitare che i sensori rilevassero il rischio di
alimentare un fuoco. Ci furono tre spari in rapida successione, e
delle voci si levarono in un rozzo coro. Miller non riuscì a capirne le
parole, ma il loro ritmo gli disse tutto ciò che c’era da capire. Non era
un incidente, né un incendio, né una breccia. Era solo una rivolta.
I ragazzi si avviarono verso il trambusto. Miller afferrò una di loro
per il gomito. Non doveva avere più di sedici anni; aveva gli occhi
quasi neri e il viso perfetto, a forma di cuore.
«Non andarci» le disse. «Raduna i tuoi amici e scappate via.»
La ragazza lo squadrò; guardò la mano di lui sul suo braccio, poi la
confusione in lontananza.
«Non potete farci niente» disse Miller.
Lei si liberò dalla sua stretta.
«Si può sempre provare, no?» replicò la giovane. «Podría intentar,
non crede?» ‘Potrebbe farlo anche lei.’
«Ci ho già provato» disse Miller, mentre riponeva il suo terminale
nella custodia e si allontanava. Alle sue spalle, il rumore della rivolta
cresceva d’intensità. Immaginò che potesse occuparsene la polizia.
Durante le quattordici ore successive, la rete del sistema riportò
cinque sommosse sulla stazione e alcuni danni strutturali minori. Un
nome che non aveva mai sentito prima di allora annunciò un
coprifuoco in tre fasi; chi fosse stato trovato fuori dal proprio buco più
di due ore prima o dopo il turno di lavoro sarebbe stato soggetto
all’arresto. Chiunque ora fosse al comando, evidentemente era
convinto che segregare sei milioni di persone fosse la soluzione per
creare stabilità e pace. Si chiese che cosa ne pensasse Shaddid.
All’esterno, le cose si stavano mettendo ancora peggio. I laboratori
astronomici di osservazione dello spazio profondo di Tritone erano
stati occupati da una banda di prospettori simpatizzanti dell’APE.
Avevano girato il sistema di scansione dei telescopi e cominciato a
trasmettere la posizione di ogni nave marziana nel sistema solare,
assieme ad altre immagini ad alta definizione della superficie di
Marte, fino a inquadrare la gente a petto nudo che prendeva il sole
nei parchi a cupola. Si diceva che una salva di testate nucleari fosse
stata lanciata contro la stazione, e che dell’impianto telescopico non
sarebbe rimasto altro che polvere nell’arco di una settimana. Il lento
traccheggiare dei terrestri aveva cominciato a smuoversi, con le
compagnie che avevano base sulla Terra e su Luna che
cominciavano a ritirarsi verso il fondo del pozzo di gravità. Non tutte
l’avevano fatto, nemmeno la metà, ma quante bastavano per inviare
un messaggio che diceva: ‘Non contate su di noi.’ Marte invocava
solidarietà; la Fascia invocava giustizia e, più spesso, mandava a
farsi fottere la culla dell’umanità.
La situazione non era ancora del tutto fuori controllo, ma stava
cominciando a surriscaldarsi. Ancora qualche incidente e non
avrebbe più avuto importanza sapere come era cominciata. Né quali
fossero gli interessi in gioco. Marte sapeva che la Fascia non poteva
vincere, e la Fascia sapeva di non avere niente da perdere. Era la
ricetta perfetta per un eccidio di proporzioni mai viste nella storia
dell’umanità.
E, come per Ceres, anche in questo caso Miller non poteva farci
niente. O quasi. Poteva rintracciare James Holden, scoprire quel che
era successo alla Scopuli e seguire le tracce fino a ritrovare Julie
Mao. Era un detective. Questo era quel che faceva.
Mentre svuotava il suo buco, tirando via gli oggetti che si erano
ammassati nei decenni come una crosta, le parlava. Cercava di
spiegarle perché mai avesse mandato tutto all’aria pur di ritrovarla.
Dopo aver scoperto la Rocinante, gli era difficile evitare di definirsi
donchisciottesco.
La sua Julie immaginaria era scoppiata a ridere, o forse si era
impietosita. Pensava che fosse un ometto patetico e triste, visto che
rintracciare lei era la cosa più vicina a uno scopo che fosse riuscito a
trovare nella vita. L’aveva accusato di essere soltanto uno strumento
nelle mani dei suoi genitori. Aveva pianto e gli aveva messo le
braccia al collo. Era rimasta seduta con lui a guardare le stelle in una
qualche inimmaginabile sala d’osservazione.
Miller mise tutto quello che aveva in uno zaino. Due vestiti di
ricambio, i suoi documenti e il suo terminale. Una foto di Candace, di
quando le cose andavano bene. Tutte le copie materiali del fascicolo
di Julie che aveva fatto prima che Shaddid gli cancellasse la
partizione, incluse tre foto della ragazza. Gli venne da pensare che,
con tutto quello che aveva vissuto, avrebbe dovuto aggiungere
qualcos’altro, poi però cambiò idea. Probabilmente era giusto così.
Passò il suo ultimo giorno a ignorare il coprifuoco, salutando le
poche persone che pensava potessero mancargli o a cui riteneva di
poter mancare. Con sua grande sorpresa, Muss, che incontrò in un
bar di poliziotti in un’atmosfera tesa e imbarazzata, si commosse e lo
abbracciò finché non si sentì scoppiare le costole.
Prenotò un passaggio su una nave trasporto diretta a Tycho. La
cuccetta gli costò un quarto dei suoi rimanenti fondi. Gli venne in
mente, non per la prima volta, che avrebbe dovuto ritrovare Julie
dannatamente in fretta, o che avrebbe dovuto trovare un lavoro per
sostentarsi mentre svolgeva l’indagine. Ma non era ancora
successo, e l’universo non era più abbastanza stabile da poter fare
seriamente una pianificazione a lungo termine senza che sembrasse
uno scherzo cinico.
Come a sottolineare quel pensiero, il suo terminale squillò mentre
era in fila per imbarcarsi sulla nave.
«Ehi, collega» disse Havelock. «Sai, per quel favore che mi hai
chiesto? Ho una pista. Il tuo pacchetto ha appena compilato un
piano di volo diretto a Eros. Ti allego i dati di accesso pubblico. Ti
darei volentieri roba migliore su cui lavorare, ma questi tizi della
Protogen sono piuttosto rigidi. Ho parlato di te alla reclutatrice, e mi
è sembrata interessata. Per cui fammi sapere, va bene? Ci sentiamo
presto.»
Eros.
Fantastico.
Miller si scusò con un cenno del capo rivolto alla donna dietro di
lui, uscì dalla fila e si diresse verso la biglietteria. Il tempo di aprire
una schermata, e all’imbarco stavano già facendo le ultime chiamate
per il volo verso Tycho. Miller restituì il suo biglietto, ottenne un
rimborso nominale e spese un terzo di quel che gli rimaneva sul
conto per comprare un biglietto per Eros. Sarebbe potuta andare
peggio. Sarebbe potuto essere già in viaggio prima di ricevere quella
notizia. Doveva cominciare a considerare le cose in termini di
fortuna, invece che di sfortuna.
La conferma d’acquisto gli arrivò sotto forma di trillo, come quello
di un triangolo da orchestra percosso con delicatezza.
«Spero di non essermi sbagliato» disse a Julie. «Se Holden non
c’è, mi sentirò un vero stupido.»
Nella sua mente, Julie sorrise con espressione mesta.
La vita è un rischio, gli disse.
21

Holden

Le navi erano luoghi angusti. Lo spazio scarseggiava sempre e,


perfino su un mostro come la Donnager, i corridoi e i compartimenti
erano piccoli e scomodi. Sulla Rocinante gli unici ambienti in cui
Holden poteva allargare le braccia senza toccare le pareti erano la
cambusa e la stiva. Chi volava per guadagnarsi da vivere non
poteva soffrire di claustrofobia, ma perfino i prospettori cinturiani più
incalliti sapevano riconoscere la crescente tensione dell’essere
incastrati su una nave. Era l’antica reazione istintiva dell’animale in
gabbia, la consapevolezza subconscia che non c’era letteralmente
nessun posto in cui andare che non fosse visibile dal proprio punto
di osservazione. Sbarcare da una nave attraccata era un improvviso
allentamento della tensione, una sensazione talvolta inebriante.
E che spesso assumeva la forma di un gioco alcolico.
Come a tutti i marinai professionisti, anche a Holden era capitato di
terminare un lungo volo con una sbronza epocale. Più di una volta si
era avventurato in un bordello e ne era uscito soltanto quando
l’avevano sbattuto fuori dopo avergli prosciugato il conto, con
l’inguine infiammato e la prostata secca come il deserto del Sahara.
Per cui, quando Amos tornò barcollando nei suoi alloggi dopo tre
giorni dall’arrivo sulla stazione, Holden sapeva esattamente come si
sentiva il grosso meccanico.
Holden e Alex erano seduti sul divano, intenti a guardare un
notiziario. Due commentatori discutevano delle azioni dei cinturiani
con parole come ‘criminale’, ‘terrorista’ e ‘sabotaggio’. I marziani
erano i ‘pacificatori’. Era un canale marziano. Amos grugnì e crollò
sul divano. Holden tolse il volume alle immagini.
«È stato un buono sbarco, marinaio?» chiese Holden con un
ghigno.
«Non berrò mai più» mugugnò Amos.
«Naomi ci sta raggiungendo con un po’ di roba che ha preso in
quel sushi bar» disse Alex. «Un bel po’ di pesce crudo avvolto in
alga artificiale.»
Amos grugnì di nuovo.
«Non è gentile da parte tua, Alex» disse Holden. «Lascia che il
fegato di quest’uomo muoia in pace.»
La porta dell’alloggio si aprì di nuovo e Naomi fece il suo ingresso
con una grossa pila di scatole bianche.
«È arrivata la pappa» disse.
Alex aprì tutte le scatole e cominciò a distribuire piccoli piatti usa e
getta.
«Ogni volta che tocca a te comprare da mangiare, prendi i maki di
salmone. Manchi un po’ d’inventiva» disse Holden mentre si serviva
del cibo sul suo piattino.
«Mi piace il salmone» replicò Naomi.
La stanza si fece silenziosa mentre mangiavano; gli unici rumori
erano il ticchettio delle bacchette di plastica e il delicato sciacquio
dei rotolini di riso che venivano intinti nella soia e nel wasabi.
Quando il sushi fu finito, Holden si stropicciò gli occhi, umidi per il
piccante che gli era risalito nel naso, e reclinò la poltrona
completamente all’indietro. Amos usò una delle bacchette per
grattarsi sotto il gesso che aveva sulla gamba.
«Avete fatto davvero un bel lavoro con il gesso» disse. «In questo
momento è la cosa che mi fa meno male.»
Naomi prese il telecomando dal bracciolo della poltrona di Holden
e rimise il volume allo schermo. Cominciò a fare zapping tra i diversi
feed di dati. Alex chiuse gli occhi e si sdraiò sull’amorino,
intrecciandosi le dita sullo stomaco e sospirando soddisfatto. Holden
sentì un’improvvisa e irrazionale sensazione di fastidio nel vedere il
suo equipaggio tanto rilassato.
«Non vi siete stufati di farvi mantenere da Fred?» chiese. «Io sì.»
«Di che cazzo stai parlando?» replicò Amos, scuotendo la testa.
«Io ho appena cominciato.»
«Voglio dire...» disse Holden «Per quanto ancora vogliamo
restarcene su Tycho a bere, andare a puttane e mangiare sushi a
spese di Fred?»
«Finché posso» rispose Alex.
«Hai un piano migliore?» chiese Naomi.
«Non ho un piano, ma voglio tornare in gioco. Eravamo carichi di
rabbia e di sogni di vendetta quando siamo arrivati qui e, un paio di
pompini e sbornie dopo, è come se non fosse successo mai niente.»
«Uhm... La vendetta richiede la presenza di qualcuno su cui potersi
vendicare, cap» disse Alex. «In caso non l’avessi notato, siamo un
po’ carenti di materia prima, al momento.»
«Quella nave è ancora là fuori, da qualche parte. E così le persone
che hanno ordinato di sparare» rispose Holden.
«Quindi» replicò lentamente Alex «vogliamo decollare e cominciare
a volare a spirale finché non ci imbattiamo nell’obiettivo?»
Naomi scoppiò a ridere e gli tirò addosso una bustina di soia.
«Non so che cosa faremo» disse Holden. «Ma starcene qui seduti
mentre quelli che hanno ammazzato la nostra gente continuano a
fare qualunque cosa stiano facendo mi manda ai pazzi.»
«Siamo qui da tre giorni» intervenne Naomi. «Ci siamo meritati un
letto comodo, del cibo decente e un momento per allentare la
tensione. Non cercare di farci sentire in colpa perché stiamo
cogliendo l’occasione.»
«E poi, Fred ha detto che trascineremo quei bastardi in tribunale»
disse Amos.
«Se ci sarà un processo, sì» replicò Holden. «Se. Non accadrà per
mesi. Forse perfino per anni. E comunque, quando si farà, Fred
punterà a ottenere i suoi trattati. Potrebbero anche cercare di usare
un’amnistia come moneta di scambio, no?»
«Hai accettato i suoi termini senza troppi problemi, Jim» disse
Naomi. «Hai cambiato idea?»
«La nostra deposizione in cambio di un posto in cui rimetterci in
sesto e riposare è un piccolo prezzo da pagare. Questo però non
significa che un processo sistemerà ogni cosa, o che io voglia esser
messo da parte finché non accadrà.»
Indicò il divano di finta pelle e l’enorme schermo a parete di fronte
a loro.
«E poi, questa potrebbe essere una prigione. Una prigione
confortevole, certo; ma finché Fred controlla i cordoni della borsa,
noi siamo una sua proprietà. Non fatevi illusioni.»
Naomi aggrottò la fronte; il suo sguardo si fece serio.
«Quale sarebbe l’altra possibilità, signore?» chiese. «Andarsene?»
Holden incrociò le braccia, riflettendo su tutto ciò che aveva detto
come se fosse la prima volta che lo sentiva. Dire le cose ad alta
voce le rendeva decisamente più chiare.
«Credo che dovremmo cercarci qualche lavoretto» disse.
«Abbiamo una buona nave. Soprattutto, una nave furtiva. È veloce.
Possiamo volare senza transponder, se necessario. Un sacco di
gente avrà bisogno di spostare roba da un posto all’altro, con una
guerra in corso. Ci terrebbe occupati mentre aspettiamo che il
processo abbia inizio, e sarebbe un modo per alzare qualche soldo e
smetterla di farci fare l’elemosina. Inoltre, volando da un posto
all’altro, potremmo tenere occhi e orecchie aperti. Non si sa mai
cosa possiamo trovare. E poi, andiamo: per quanto tempo ancora vi
andrà di fare i topi di stazione?»
Ci fu un momento di silenzio.
«Io farei volentieri il topo per... un’altra settimana?» disse esitante
Amos.
«Non è una brutta idea, cap» confermò Alex, annuendo.
«Spetta a te decidere, capitano» disse Naomi. «Io sono con te, e
mi piace l’idea di ricominciare a guadagnare un po’ di soldi. Spero
solo che tu non abbia fretta. Non mi dispiacerebbe avere ancora
qualche giorno di riposo.»
Holden batté le mani e si alzò in piedi.
«Niente fretta» disse. «Avere un piano cambia tutto. È più facile
godersi il tempo libero, quando sai che finirà.»
Alex e Amos si alzarono contemporaneamente e andarono verso
la porta. Alex aveva vinto qualche dollaro a freccette, e ora lui e
Amos avevano intenzione di aumentare il gruzzolo ai tavoli da poker.
«Non aspettarmi alzata, capo» disse Amos a Naomi. «Stasera mi
sento fortunato.»
Quando furono usciti, Holden andò verso l’angolo cucina per farsi
un caffè. Naomi lo seguì.
«Un’altra cosa» disse lei.
Holden aprì un pacchetto sigillato, e un intenso aroma di caffè si
diffuse per la sala.
«Spara» disse lui.
«Fred si sta occupando delle disposizioni per il corpo di Kelly. Lo
conserverà qui finché non renderemo pubblica la nostra
sopravvivenza. Poi lo rispedirà su Marte.»
Holden riempì la caffettiera con acqua del rubinetto e l’accese. La
macchinetta gli restituì un morbido suono gorgogliante.
«Bene. Il tenente Kelly merita tutto il rispetto e la dignità che
possiamo riservargli.»
«Mi ha fatto tornare in mente il cubo di dati che aveva con sé. Non
sono riuscita a forzare l’accesso. È una sorta di super-crittaggio
militare che mi fa dare di matto. Per cui...»
«Non girarci intorno» disse Holden accigliandosi.
«Vorrei darlo a Fred. So che è un rischio. Non abbiamo idea di
cosa ci sia dentro e, per quanto sia gentile e ospitale, lui è pur
sempre dell’APE. Ma è stato anche un militare di alto grado
nell’esercito delle Nazioni Unite. E ha un bel gruppo di cervelloni qui
sulla stazione. Potrebbe essere in grado di aprire la scatola.»
Holden ci rifletté per un momento, poi annuì.
«Okay, fammici pensare. Voglio sapere che cosa stesse cercando
di portar via dalla nave il capitano Yao, ma...»
«Già.»
Si tennero compagnia in silenzio mentre il caffè finiva di uscire.
Quando fu pronto, Holden lo versò in due tazze e ne porse una a
Naomi.
«Capitano» disse lei, poi fece una pausa. «Jim. Fino a ora ho fatto
schifo come vicecomandante. Sono stata nervosa e terrorizzata per
l’ottanta percento del tempo.»
«Allora direi che sei stata bravissima a nasconderlo» replicò
Holden.
Naomi scacciò quel complimento con un cenno della testa.
«Comunque sia, sono stata aggressiva su alcune cose che
probabilmente non erano di mia competenza.»
«Non c’è problema.»
«Okay, lasciami finire però» disse. «Voglio che tu sappia che penso
che te la sei cavata egregiamente nel portarci in salvo. Ci hai fatto
concentrare sui problemi che potevamo risolvere, invece di farci
rimuginare sulle nostre difficoltà. Sei riuscito a mantenere tutti in
orbita attorno a te. Non tutti riescono a fare una cosa del genere; io
non potrei farlo, e questa stabilità ci è stata di grande aiuto.»
Holden sentì un moto d’orgoglio salirgli dentro. Non se l’era
aspettato, e non si fidava di quella sensazione, però era piacevole.
«Grazie» le disse.
«Non posso parlare per Alex e Amos, ma intendo metterlo in
chiaro: non sei il capitano soltanto perché McDowell è morto. Sei il
nostro capitano, per quanto mi riguarda. E voglio che tu lo sappia.»
Abbassò lo sguardo, arrossendo come se avesse appena
confessato qualcosa. E forse l’aveva fatto.
«Cercherò di essere all’altezza» disse lui.
«Gliene sarei grata, signore.»
L’ufficio di Fred Johnson era come il suo occupante: grande,
intimidatorio e sommerso di cose che andavano fatte. La stanza era
di almeno due metri quadrati e mezzo, ovvero più grande di
qualunque scompartimento singolo sulla Rocinante. La sua scrivania
era di vero legno, sembrava avere almeno cento anni e profumava di
olio di limone. Holden era seduto su una sedia appena più bassa di
quella di Fred, intento a osservare i cumuli di cartelle e documenti
che ricoprivano ogni superficie a disposizione.
Fred l’aveva mandato a chiamare e aveva passato i primi dieci
minuti dopo il suo arrivo attaccato al telefono. Di qualunque cosa
stesse parlando, sembrava trattarsi di un argomento tecnico. Holden
immaginò che avesse a che fare con la gigantesca nave
generazionale parcheggiata fuori. Non lo infastidì essere ignorato
per qualche minuto, visto che la parete alle spalle di Fred era
interamente occupata da uno schermo a definizione
mostruosamente alta che fungeva da finestra. Mostrava una vista
spettacolare sulla Nauvoo che li superava mentre la stazione
continuava a ruotare sul suo asse. Fred gli rovinò quel momento di
contemplazione abbassando la cornetta.
«Mi scusi per l’attesa» esordì. «Il sistema di riciclo dell’atmosfera è
stato un vero incubo fin dall’inizio. Quando devi navigare per più di
un secolo facendo affidamento soltanto sull’ossigeno che puoi
portarti dietro, i parametri di tolleranza per le perdite sono... più rigidi
del solito. A volte è difficile far capire l’importanza di certi dettagli ai
contraenti.»
«Mi stavo godendo la vista» disse Holden, indicando lo schermo.
«Comincio a chiedermi se saremo in grado di completarla entro la
scadenza.»
«Perché?»
Fred sospirò e si appoggiò allo schienale con un cigolio della
sedia.
«Per via della guerra tra Marte e la Fascia.»
«Siete a corto di materiali?»
«Non si tratta solo di questo. I comunicati pirata che sostengono di
parlare a nome dell’APE continuano a moltiplicarsi a un ritmo
esorbitante. E ci sono dei prospettori cinturiani che aggrediscono le
navi da guerra marziane con dei lanciamissili fatti in casa, ottenendo
soltanto di farsi spazzare via dal fuoco di risposta. Ogni tanto, però,
uno dei loro missili va a segno e fa fuori una manciata di marziani.»
«Il che significa che Marte comincerà a prendere l’iniziativa.»
Fred annuì, poi si alzò e cominciò a camminare pensieroso per la
stanza.
«E poi perfino i cittadini onesti, con attività del tutto legittime,
cominceranno ad aver paura di uscire di casa» disse. «Questo mese
abbiamo avuto più di una dozzina di consegne in ritardo, e temo
fortemente che a breve non parleremo più di ritardi, ma di
cancellazioni.»
«Sa, stavo pensando la stessa cosa» gli confidò Holden.
Fred fece come se non avesse sentito.
«Ci sono già passato» disse Fred. «Una nave non identificata che
viene verso di te, e una decisione da prendere. Nessuno vuole mai
premere quel tasto. Ho visto una nave farsi sempre più grande nel
mio mirino, mentre tenevo il dito sul grilletto. Ricordo di averli
supplicati di fermarsi.»
Holden non disse niente. Conosceva quella situazione. Non c’era
nulla da dire. Fred lasciò che il silenzio aleggiasse nella stanza per
un momento, poi scosse la testa e raddrizzò la schiena.
«Ho un favore da chiederle» disse Fred.
«Non c’è niente di male a chiedere, Fred. Ha già pagato per
ottenere questo diritto» replicò Holden.
«Ho bisogno di prendere in prestito la vostra nave.»
«La Roci?» disse Holden. «Perché?»
«Ho bisogno di andare a prendere una cosa e di portarla qui, e di
una nave che possa viaggiare al buio e superare i picchetti marziani,
all’occorrenza.»
«Direi che la Rocinante è esattamente la nave che fa per lei, allora,
ma questo non risponde alla mia domanda. Perché?»
Fred voltò le spalle a Holden e fissò lo schermo a parete. La prua
della Nauvoo stava scomparendo dall’immagine. In vista non rimase
altro che il monotono nero punteggiato di stelle dell’infinito.
«Devo andare a prendere una persona su Eros» disse. «Una
persona importante. Ho degli uomini che possono occuparsene, ma
le uniche navi di cui disponiamo sono cargo leggeri e un paio di
piccoli shuttle. Niente che possa compiere il tragitto abbastanza
rapidamente, o che abbia una speranza di cavarsela se le cose
cominciassero a farsi complicate.»
«Ha un nome, questa persona? Voglio dire... lei continua a
sostenere di non voler combattere, ma l’altra peculiarità della mia
nave è il fatto che sia l’unica, qui, a essere armata. Sono sicuro che
l’APE abbia una lunga lista di obiettivi che vorrebbe veder saltare in
aria.»
«Lei non si fida di me.»
«No.»
Fred si voltò e afferrò lo schienale della sedia. Le sue nocche
sbiancarono. Holden si chiese se non si fosse spinto troppo in là.
«Ascolti» disse Holden. «Lei fa dei bei discorsi sulla pace, parlando
di processi e via discorrendo, disconosce i comunicati pirata e ha
una bella stazione piena di belle persone. Ho tutti i motivi per
credere che lei sia esattamente ciò che dice di essere. Ma siamo qui
da tre giorni appena e, la prima volta che lei mi parla dei suoi piani,
mi chiede di prendere in prestito la mia nave per una missione
segreta. Mi dispiace. Se devo farne parte, devo avere tutte le
informazioni necessarie. Niente segreti. Anche se sapessi per certo,
e non è questo il caso, che lei non fosse animato da nient’altro che
buone intenzioni, non mi presterei comunque a questa azione
clandestina.»
Fred lo fissò per qualche secondo, poi girò intorno alla sedia e
tornò a sedersi. Holden si trovò a tamburellare nervosamente sulla
coscia e si costrinse a smettere. Lo sguardo di Fred scattò verso la
mano di Holden, poi tornò su. Continuò a fissarlo.
Holden si schiarì la gola.
«Ascolti, il pezzo grosso qui è lei. Anche se non sapessi chi era, un
tempo, me la farei comunque sotto dalla paura, per cui non si senta
in dovere di dimostrarlo. Per quanto possa essere spaventato, però,
io non l’appoggerò finché non saprò di che si tratta.»
Il suo tentativo non provocò la risata distensiva che sperava di
ottenere. Holden cercò di deglutire senza darlo a vedere.
«Immagino che ogni capitano sotto cui abbia prestato servizio la
ritenesse un gigantesco rompicoglioni» disse Fred alla fine.
«Credo che il mio curriculum lo suggerisca abbondantemente»
rispose Holden, nascondendo il sollievo.
«Ho bisogno di recarmi su Eros, di trovare un uomo di nome Lionel
Polanski, e poi di riportarlo qui su Tycho.»
«Ci vorrà solo una settimana, se ci sbrighiamo» disse Holden,
facendo i calcoli a mente.
«Il fatto che Lionel non esista, in realtà, complica un po’ la nostra
missione.»
«Ah. Okay. Ora sono confuso» ammise Holden.
«Voleva farne parte?» disse Fred, con un tono che si velava di
quieta ferocia. «Ora ci è dentro. Lionel Polanski esiste soltanto sulla
carta e possiede cose che il signor Tycho non vuole possedere.
Inclusa una nave corriere di nome Scopuli.»
Holden si chinò in avanti sulla sedia, con un’espressione rapita in
volto.
«Ha tutta la mia attenzione» disse.
«Il proprietario inesistente della Scopuli ha prenotato una stanza in
una stamberga di uno dei livelli più malfamati di Eros. Abbiamo
appena ricevuto il messaggio. Dobbiamo immaginare che chiunque
abbia preso la stanza conosca nel dettaglio le nostre operazioni,
abbia bisogno di aiuto, e non possa chiederlo apertamente.»
«Possiamo partire tra un’ora» disse Holden impaziente.
Fred alzò la mano in un gesto che appariva sorprendentemente
cinturiano, per un terrestre.
«Quand’è» chiese Fred «che si è mai parlato di mandare lei?»
«Non cederò la mia nave, ma sono assolutamente disposto ad
affittarla. A dire il vero, io e il mio equipaggio stavamo per l’appunto
discutendo dell’opportunità di cercarci qualche incarico. Ci ingaggi.
Deduca dal contratto qualunque somma abbia già coperto con le
nostre spese di mantenimento.»
«No» rispose Fred. «Lei mi è indispensabile.»
«Non è così» replicò Holden. «Lei ha bisogno delle nostre
deposizioni. E non abbiamo intenzione di restarcene qui con le mani
in mano, in attesa che il buonsenso prevalga nell’universo.
Rilasceremo tutte le deposizioni video che vuole, firmeremo
qualsiasi affidavit sia necessario per l’autenticazione, ma, in un
modo o nell’altro, abbiamo intenzione di andarcene in cerca di
lavoro. Tanto vale che sia lei ad approfittarne.»
«No» ribatté Fred. «Siete troppo preziosi per rischiare le vostre
vite.»
«E se sul piatto aggiungo anche la scatola nera che il capitano
della Donnager stava cercando di salvare?»
Il silenzio calò di nuovo tra loro, ma stavolta aveva un peso
diverso.
«Senta» disse Holden, incalzando Fred. «A lei serve una nave
come la Roci. Io ce l’ho. E ha bisogno di un equipaggio per portarla.
Ho anche quello. E vuole sapere tanto quanto me che cosa contiene
quella scatola nera.»
«Non mi piacciono i rischi annessi.»
«La sua unica alternativa è sbatterci in cella e comandare la nave
lei stesso. Anche questo è rischioso.»
Fred rise. Holden sentì i suoi muscoli rilassarsi.
«Avrete comunque lo stesso problema che vi ha condotti qui»
disse Fred. «La vostra nave sembra una nave da guerra, a
prescindere da quel che dice il transponder.»
Holden colse al volo l’occasione e prese un pezzo di carta tra i
tanti. Cominciò a scriverci sopra con una penna che tirò via da un
set decorativo sulla scrivania di Fred.
«Ci ho pensato su. Lei qui dispone di strutture di produzione
complete. E noi dovremmo essere una nave cisterna. Per cui» disse
mentre delineava un’immagine approssimativa della nave «basterà
saldare una manciata di cisterne per gas compressi vuote, in due
fasce, attorno alla chiglia. Le useremo per nascondere i cannoni.
Ridipingiamo il tutto. Ci saldiamo anche un po’ di paratie per
confondere il profilo dello scafo e nasconderci dai software di
riconoscimento navali. Sembrerà una schifezza, e manderà a
puttane la sua aerodinamicità, ma non penso che ci capiterà di
volare in atmosfera a breve. Sembrerà esattamente ciò che è: una
roba raffazzonata, fatta in fretta e furia da qualche cinturiano.»
Consegnò il foglio a Fred. Questi scoppiò a ridere di cuore, per il
pessimo disegno o per l’assurdità di tutta quell’idea.
«Con un affare del genere rischiate di far prendere un colpo a
qualsiasi pirata» disse. «Se lo faccio, lei e il suo equipaggio
registrerete le mie deposizioni, sarete ingaggiati come appaltatori
indipendenti per faccende analoghe a questa missione su Eros e
comparirete a mio nome quando cominceranno le negoziazioni di
pace.»
«Va bene.»
«E voglio un diritto di prelazione su chiunque tenti di ingaggiarvi.
Non accetterete contratti senza prima avermi dato la possibilità di
controrilanciare.»
Holden gli tese la mano e Fred la strinse.
«È un piacere concludere affari con lei, Fred.»
Mentre Holden lasciava l’ufficio, Fred stava già dando disposizioni
al personale dell’officina. Holden tirò fuori il suo terminale e chiamò
Naomi.
«Sì» rispose lei.
«Fa’ preparare i ragazzi, andiamo su Eros.»
22

Miller

La nave passeggeri per Eros era piccola, scadente e sovraffollata. I


riciclatori emanavano quell’odore di plastica e vernice tipico dei
vecchi modelli industriali, che Miller associava a magazzini e depositi
carburante. Le luci erano LED di bassa qualità con un filtro rosa che
avrebbe dovuto migliorare l’incarnato, ma che invece conferiva alla
gente un colorito da bistecca poco cotta. Non c’erano
scompartimenti privati, soltanto file su file di sedili laminati e due
lunghe pareti con cinque file di letti a castello che i passeggeri
potevano usare a turno. Miller non era mai stato su una nave
passeggeri economica prima di allora, ma sapeva come funzionava.
Se ci fosse stata una rissa, l’equipaggio avrebbe iniettato gas
antisommossa nello scomparto, mettendo tutti fuori combattimento e
agli arresti chiunque fosse stato coinvolto. Era un sistema
draconiano, ma tendeva a rendere molto più educati i passeggeri. Il
bar era sempre aperto e l’alcol costava poco. Soltanto qualche
giorno prima, Miller avrebbe trovato la cosa allettante.
Invece se ne stava seduto su una delle panchine, con il palmare
aperto. Sullo schermo sotto i suoi occhi brillava il file di Julie, o quel
che era riuscito a ricostruire dal fascicolo. C’era la foto di lei, fiera e
sorridente, di fronte alla Razorback, date e registri d’imbarco, il suo
percorso di addestramento jiu-jitsu. Gli parve molto poco,
considerando quanto era diventata ingombrante quella donna nella
sua vita.
Un piccolo avviso comparve in basso a sinistra sul suo schermo: la
guerra tra Marte e la Fascia sembrava inasprirsi, incidente dopo
incidente, ma la notizia principale era la secessione della Stazione di
Ceres. La Terra veniva aspramente criticata dai commentatori
marziani per non essersi schierata al fianco del pianeta interno, o
quantomeno per non aver rimesso nelle mani di Marte il contratto
per il mantenimento dell’ordine pubblico su Ceres. Le variegate
reazioni della Fascia coprivano l’intero spettro di emozioni, dal
piacere di vedere l’influenza della Terra ridursi fino a ripiombare in
fondo al suo pozzo di gravità, a uno stridente panico per la perdita di
neutralità di Ceres, al fiorire di una nuova serie di teorie
cospirazioniste secondo cui la Terra stesse fomentando la guerra per
un proprio tornaconto.
Miller sospendeva il suo giudizio.
«Mi fanno sempre venire in mente i banchi della chiesa.»
Miller alzò lo sguardo. L’uomo seduto accanto a lui doveva avere la
sua età; con una striscia di capelli grigi e la pancia rilassata. Il
sorriso del tizio disse a Miller che si trattava di un missionario, in
rotta attraverso il vuoto per salvare qualche povera anima. O forse
furono l’etichetta con il nome e la Bibbia a farlo.
«Questi sedili, dico» spiegò il missionario. «Mi hanno sempre fatto
pensare a quelli di una chiesa, per come sono allineati, fila dopo fila.
Solo che, invece di un pulpito, abbiamo i letti a castello.»
«Nostra Signora del Dormi che ti Passa» disse Miller, ben sapendo
che così si sarebbe fatto trascinare nella conversazione, ma
incapace di trattenersi. Il missionario rise.
«Una cosa del genere» replicò. «Lei va mai in chiesa?»
«Non ci vado da anni» rispose Miller. «Ero metodista, quando ero
qualcosa. Lei che gusto vende?»
Il missionario alzò le mani in un gesto di inoffensività antico quanto
le piane africane del Pleistocene. Come a dire: ‘Non ho armi; non
cerco lo scontro.’
«Sto solo tornando su Eros da una conferenza su Luna» disse. «I
miei giorni di proselitismo me li sono lasciati alle spalle da tempo.»
«Pensavo che non avessero mai fine» osservò Miller.
«È così. Ufficialmente, perlomeno. Dopo qualche decennio, però,
arrivi a un punto in cui ti rendi conto che non c’è davvero nessuna
differenza tra il provarci e il non provarci. Continuo a viaggiare.
Continuo a parlare con la gente. A volte parliamo di Gesù Cristo. A
volte di cucina. Se qualcuno è pronto ad accettare il Cristo, non ho
grandi sforzi da compiere per spronarlo. Se non lo è, non c’è niente
che io possa fare per aiutarlo. Per cui, perché provarci?»
«La gente le parla della guerra?» chiese Miller.
«Spesso» rispose il missionario.
«E qualcuno riesce a trovarci un senso?»
«No. Non credo che la guerra ne abbia mai uno. È una follia che fa
parte della nostra natura. A volte si ripresenta; altre volte passa e se
ne va.»
«Un po’ come una malattia.»
«L’herpes simplex della specie?» disse il missionario ridendo.
«Suppongo che ci siano modi peggiori di vederla. Temo che,
fintantoché saremo umani, la guerra resterà con noi.»
Miller fissò quel viso ampio e tondo come la luna.
«Fintantoché saremo umani?» chiese.
«Alcuni di noi credono che alla fine diventeremo angeli» rispose il
missionario.
«Non i metodisti, no.»
«Alla fine lo diventeranno anche loro» disse l’uomo. «Ma
probabilmente non saranno i primi. E lei, invece? Che cos’è che la
porta qui su Nostra Signora del Dormi che ti Passa?»
Miller sospirò, appoggiandosi allo schienale inamovibile della
panca. Due file più giù, una giovane donna sgridò due bambini che
saltavano sulle panche, ma quelli la ignorarono. Un uomo alle loro
spalle tossì. Miller trasse un lungo respiro e lo lasciò uscire piano.
«Ero un poliziotto, su Ceres» disse.
«Ah. Il cambio di contratto.»
«Già, quello» confermò Miller.
«Un nuovo incarico su Eros, allora?»
«Più che altro, sono alla ricerca di una vecchia amica» disse Miller.
Poi, sorprendendo perfino sé stesso, continuò. «Sono nato su
Ceres. Ho vissuto lì per tutta la vita. Questa è la... quinta? Sì, la
quinta volta che esco dalla stazione.»
«Ha intenzione di tornare?»
«No» rispose Miller. Sembrò più sicuro di quanto non pensasse.
«No, credo che quella parte della mia esistenza sia decisamente
finita.»
«Dev’essere doloroso» disse il missionario.
Miller esitò, lasciando che quel commento penetrasse a fondo.
Quell’uomo aveva ragione: sarebbe dovuto essere doloroso. Tutto
ciò che aveva sempre avuto era andato. Il suo lavoro, la sua
comunità. Non era più nemmeno uno sbirro, malgrado la pistola che
aveva imbarcato come bagaglio registrato. Non avrebbe mai più
mangiato al banchetto indiano ai margini del settore nove. La
receptionist della centrale non l’avrebbe mai più salutato mentre si
dirigeva verso la sua scrivania. Niente più notti passate al bar con gli
altri poliziotti, niente più storie sboccate da condividere su qualche
arresto andato storto, niente più bambini che facevano volare
aquiloni negli ampi tunnel della stazione. Si tastò come un dottore in
cerca di un’infiammazione. Faceva male, qui? E qui, sentiva il peso
della perdita?
Non lo sentiva. C’era soltanto un’impressione di sollievo talmente
profonda da avvicinarsi a un senso di vertigine.
«Mi dispiace» disse il missionario. «Ho detto qualcosa di buffo?»
Eros aveva una popolazione di un milione e mezzo di abitanti,
poco più di quanti stranieri passavano per Ceres in qualunque
momento. Aveva approssimativamente la forma di una patata, era
stato molto più difficile impartirgli una rotazione, e la velocità
percepita in superficie era sensibilmente più elevata rispetto a quella
su Ceres, per ottenere la stessa gravità interna. I vecchi cantieri
navali spuntavano dall’asteroide come grandi ragnatele d’acciaio e
lega in carbonio intarsiate di luci di segnalazione e sensori per
allontanare qualsiasi nave che potesse avvicinarsi troppo. Le
caverne di Eros erano state la culla della Fascia. Dai minerali grezzi
agli altoforni roventi, alle piattaforme di ricottura fino alle sue navi
cisterna, ai cercatori di gas e alle navi prospettrici. Eros era stato
uno scalo importante durante la prima generazione di un’umanità in
espansione. Da lì, perfino il sole non era che un astro brillante tra
miliardi di altre stelle.
L’economia della Fascia era andata avanti. La Stazione di Ceres
aveva cominciato la sua rotazione con nuovi moli, un apparato
industriale più avanzato e molta più gente. Le rotte commerciali si
spostarono lì, mentre Eros rimaneva un centro di costruzioni e
riparazioni navali. Il risultato era stato prevedibile come un calcolo di
fisica. Su Ceres, più tempo si passava all’àncora e più si perdevano
soldi, e la struttura tariffaria degli attracchi rifletteva questa realtà. Su
Eros, una nave poteva aspettare per settimane, o mesi, senza
ostacolare il flusso di traffico. Se un equipaggio voleva un posto in
cui rilassarsi, distendersi un po’ e approfittarne per stare lontani gli
uni dagli altri, Eros era il porto giusto. E, nonostante le sue tariffe più
economiche, la Stazione di Eros aveva trovato altri modi per sfilare il
denaro ai visitatori: casinò; bordelli; poligoni di tiro. Il vizio, in tutte le
sue forme commerciali, trovava un nido su Eros, e l’indotto della
stazione era fiorente come un fungo nutrito dai desideri dei
cinturiani.
Per una felice coincidenza di meccaniche orbitali, Miller arrivò a
destinazione con mezza giornata di anticipo sulla Rocinante. Si
aggirò tra casinò da due soldi, bar da oppio, sex club e locali di
combattimento dove uomini e donne facevano finta di picchiarsi a
sangue per il piacere della folla. Miller s’immaginò Julie, lì accanto a
lui, il suo sorriso furbo mentre leggevano i grossi cartelloni animati.
RANDOLPH MAK, DETENTORE DELLA CINTURA DI CAMPIONE DI LOTTA SENZA
ESCLUSIONE DI COLPI PER SEI ANNI CONSECUTIVI, CONTRO IL MARZIANO KIVRIN
CARMICHAEL IN UN INCONTRO ALL’ULTIMO SANGUE!
Di sicuro non è truccato, disse sarcastica Julie nella sua mente.
Mi chiedo proprio chi possa vincere, pensò Miller, immaginandola
ridere.
Si fermò a un banchetto di ramen; aveva appena comprato due
nuovi yen di pasta all’uovo in salsa nera, belli fumanti nel loro cono,
quando una mano gli diede una pacca sulla spalla.
«Detective Miller» disse una voce familiare. «Ho l’impressione che
sia al di fuori della sua giurisdizione.»
«Accidenti, ispettore Sematimba» rispose Miller. «Questa sì che è
una sorpresa. Rischia di far prendere un colpo a qualche ragazzina,
avvicinandosi così di soppiatto alla gente.»
Sematimba scoppiò a ridere. Era alto, anche secondo gli standard
cinturiani, e aveva la pelle più scura che Miller avesse mai visto.
Anni prima, Sematimba e Miller si erano coordinati in occasione di
un caso particolarmente spinoso: un contrabbandiere con un carico
di sostanze euforiche sintetiche aveva rotto i rapporti con il suo
fornitore. Durante la sparatoria su Ceres, tre persone erano rimaste
uccise, colte da proiettili vaganti, e il contrabbandiere si era rifugiato
su Eros. Per poco, la competitività e l’insularità delle rispettive forze
di sicurezza delle due stazioni non avevano permesso che il
criminale la facesse franca. Soltanto Miller e Sematimba erano stati
disposti a collaborare al di fuori dei canali ufficiali.
«Che cosa ti porta» chiese Sematimba, appoggiandosi a una
sottile ringhiera d’acciaio e facendo un gesto a indicare il tunnel «a
viaggiare nel cuore della Fascia, fino alla gloriosa e potente Eros?»
«Sto seguendo una pista» rispose Miller.
«Non c’è niente di buono, qui» replicò Sematimba. «Da quando se
n’è andata la Protogen, le cose sono peggiorate.»
Miller risucchiò rumorosamente un ramen.
«Chi è che si occupa della sicurezza, ora?» chiese.
«La CPM» disse Sematimba.
«Non ne ho mai sentito parlare.»
«Carne Por la Machina» spiegò Sematimba, e fece una smorfia a
mimare un’esagerata, rude virilità. Si picchiò il petto e ringhiò, poi
tornò serio e scosse la testa. «Una nuova agenzia di Luna. Hanno
soprattutto cinturiani come agenti. Fanno i duri ma in realtà sono
perlopiù dilettanti allo sbaraglio. Spacconi senza palle. La Protogen
veniva dai pianeti interni, e questo era un bel problema, ma era
gente seria, cazzo. Spaccavano teste ma mantenevano l’ordine.
Questi nuovi pezzi di merda, invece, sono la manica di scagnozzi più
corrotta per cui abbia mai lavorato. Non credo che il consiglio dei
governatori gli rinnoverà il mandato, a fine contratto. Io non ho detto
niente, eh... Ma è la verità.»
«Un mio ex collega ha firmato con la Protogen» disse Miller.
«Non sono male» rispose Sematimba. «A volte mi viene il
desiderio di aver scelto loro, sai?»
«Perché non l’hai fatto?» chiese Miller.
«Sai com’è... Io sono di qui.»
«Già» disse Miller.
«Allora, non sapevi nemmeno chi fosse a capo dei giochi? Non
devi esser venuto in cerca di lavoro, immagino.»
«No» rispose Miller. «È il mio anno sabbatico. Viaggio un po’ per
conto mio, di questi tempi.»
«Hai abbastanza denaro per farlo?»
«Non proprio. Ma non mi pesa vivere in ristrettezze. Per un po’,
almeno. Hai sentito niente su una certa Juliette Mao? Si fa chiamare
Julie.»
Sematimba scosse la testa.
«Ha legami con la Mao-Kwikowski Mercantile» disse Miller. «È
risalita dal pozzo ed è passata dalla parte dei nativi. APE. Era un
caso di rapimento.»
«Era?»
Miller si appoggiò allo schienale. La sua Julie immaginaria inarcò le
sopracciglia.
«Le cose sono un po’ cambiate da quando ho ricevuto l’incarico»
rispose Miller. «Potrebbe essere collegato a qualcos’altro. Qualcosa
di grosso.»
«Grosso quanto?» chiese Sematimba. Ogni traccia di giocosità era
svanita dalla sua espressione. Era di nuovo uno sbirro. Chiunque
tranne Miller sarebbe stato intimidito dal suo viso impassibile, quasi
adirato.
«La guerra» rispose Miller. Sematimba incrociò le braccia.
«Non è divertente» replicò.
«Non sto scherzando.»
«Ritengo che noi due siamo amici, vecchio mio» disse Sematimba.
«Ma non voglio problemi da queste parti. Le cose sono già
abbastanza complicate così come sono.»
«Vedrò di essere discreto.»
Sematimba annuì. Un allarme cominciò a suonare in fondo al
tunnel. Era una semplice questione di ordine pubblico, non si
trattava del ditono assordante dell’allarme ambientale. Sematimba
guardò giù lungo il tunnel, come se gli bastasse serrare gli occhi per
vedere attraverso la calca di persone, biciclette e banchetti
alimentari.
«Sarà meglio che vada a dare un’occhiata» disse con aria
rassegnata. «Probabilmente sono solo i miei colleghi agenti di pace
che si divertono a spaccare finestre.»
«Bello, far parte di una squadra così affiatata» disse Miller.
«L’hai detto, amico» rispose Sematimba con un sorriso. «Se hai
bisogno di qualcosa...»
«Altrettanto» replicò Miller, e guardò il poliziotto che si faceva largo
in quel mare di caos e umanità. Era un omone grande e grosso, ma
c’era qualcosa nell’indifferenza assoluta di quella folla che lo faceva
sembrare più piccolo. ‘Una pietra nell’oceano’, si diceva. Una stella
tra milioni di altre stelle.
Miller controllò l’ora, poi esaminò il registro pubblico di attracco. La
Rocinante era in orario. Le avevano già assegnato un molo. Miller
risucchiò gli ultimi ramen, gettò il cono di schiuma con il resto della
salsa nera nel riciclatore pubblico, entrò nella toilette più vicina e,
quando ebbe finito, andò a passo svelto verso il livello dei casinò.
L’architettura di Eros era cambiata, dalla sua nascita. Laddove un
tempo era stata come Ceres – un’intricata ragnatela di tunnel che si
diramavano paralleli alle arterie principali –, Eros si era in seguito
modificata assecondando il flusso del denaro: tutti i corridoi
portavano al livello dei casinò. Ovunque volessi andare, dovevi
passare attraverso la pancia di quella balena gonfia di luci e schermi
colorati. Poker, blackjack, roulette, grandi vasche piene di trote in
premio da pescare ed eviscerare, slot meccaniche, slot elettroniche,
corse di grilli, dadi, giochi di abilità truccati. Lampi di luce colorata,
clown danzanti al neon e pubblicità frenetiche che andavano e
venivano sugli schermi aggredivano gli occhi dei passanti.
Assordanti risate artificiali, allegre campane e fischietti li
assicuravano che si stavano divertendo un mondo. Il tutto mentre
l’odore di migliaia di persone affollate in uno spazio troppo piccolo
faceva a pugni con quello della carne artificiale arrosto che veniva
venduta a gran voce, coperta di spezie odorose, sui banchetti lungo
il corridoio. L’avidità e l’architettura dei casinò avevano trasformato
Eros in una sorta di gigantesca passerella obbligata per il bestiame.
Esattamente ciò di cui Miller aveva bisogno.
La stazione del tubo che arrivava dal porto aveva sei ampie porte
d’accesso, che si riversavano sul piano dei casinò. Miller accettò un
drink da una donna dall’aria stanca in perizoma e topless e si trovò
una posizione da cui poter tenere d’occhio tutte e sei le uscite.
L’equipaggio della Rocinante non aveva altra scelta che passare da
una di quelle. Controllò il suo terminale palmare. I registri di attracco
dicevano che la nave era arrivata da dieci minuti. Miller fece finta di
sorseggiare il suo drink e si preparò all’attesa.
23

Holden

Il livello dei casinò di Eros era un vero e proprio assalto sensoriale.


Holden lo detestava.
«Adoro questo posto» disse Amos con un ghigno estatico.
Holden si fece largo attraverso un capannello di scommettitori
ubriachi di mezz’età che sghignazzavano e schiamazzavano,
dirigendosi verso un piccolo spazio libero accanto a una fila di
terminali a parete a pagamento.
«Amos» disse. «Stiamo per dirigerci verso un livello molto meno
turistico, per cui occhi aperti e guardaci le spalle. La stamberga che
stiamo cercando è in un brutto quartiere.»
Amos annuì. «Ricevuto, cap.»
Mentre Naomi, Alex e Amos gli facevano da schermo, Holden
allungò le mani dietro la schiena e sistemò la pistola che gli premeva
fastidiosamente contro la cintura. Gli sbirri su Eros erano piuttosto
severi con la gente che se ne andava in giro armata, ma lui non
aveva alcuna intenzione di incontrare questo ‘Lionel Polanski’ senza
prendere qualche precauzione. Anche Amos e Alex erano armati;
Amos teneva l’arma nella tasca destra della giacca, e la sua mano
non la lasciava mai. Soltanto Naomi si era rifiutata ostinatamente di
portare una pistola.
Holden condusse il gruppo verso l’ascensore più vicino, con Amos
in retroguardia che di tanto in tanto si guardava alle spalle. I casinò
di Eros sembravano proseguire all’infinito su ogni livello e, anche se
cercarono di muoversi il più rapidamente possibile, impiegarono
mezz’ora per sottrarsi alla confusione della folla. Il primo livello
superiore era un quartiere residenziale; dopo il caos dei casinò, tutta
quella quiete e pulizia sembrò disorientante. Holden si sedette sul
bordo di un vaso, in cui avevano piantato una bella siepe di felci, e
riprese fiato.
«La penso come te, capitano. Mi sono bastati cinque minuti là
dentro per farmi venire un’emicrania» disse Naomi, sedendoglisi
accanto.
«State scherzando?» replicò Amos. «Vorrei solo avere più tempo
per stare qui. Io e Alex abbiamo sfilato quasi un millino a quei polli,
giù ai tavoli da gioco su Tycho. Potremmo uscire da qui come dei
cazzo di milionari.»
«L’hai detto» confermò Alex, dando un pugno amichevole sulla
spalla del grosso meccanico.
«Be’, se questa faccenda di Polanski si rivela un buco nell’acqua,
avete il mio permesso di andarci a far guadagnare un milione di
dollari ai tavoli da gioco. Vi aspetterò sulla nave» disse Holden.
Il servizio di metropolitana finiva al primo livello dei casinò e non
riprendeva fino al livello su cui si trovavano ora. Potevi anche
scegliere di non spendere soldi ai loro tavoli, ma l’amministrazione si
era assicurata di fartela pagare. Una volta saliti su un vagone, diretti
verso l’albergo di Lionel, Amos si sedette accanto a Holden.
«Qualcuno ci sta seguendo, cap» disse con noncuranza. «Non ne
ero sicuro finché non l’ho visto salire, due vagoni più giù. Ci è stato
dietro anche nei casinò.»
Holden sospirò e si prese il viso tra le mani.
«Okay. Che aspetto ha?» chiese.
«Cinturiano. Sulla cinquantina, o forse una quarantina con molti
chilometri sul contagiri. Camicia bianca e pantaloni neri. Cappello da
scemo.»
«Sbirro?»
«Oh, sì. Ma non ho visto la fondina» disse Amos.
«E va bene. Tienilo d’occhio, ma non te ne preoccupare troppo.
Non stiamo facendo niente di illegale» disse Holden.
«A parte arrivare qui con la nostra nave marziana rubata, dici?»
chiese Naomi.
«Ti riferisci alla nostra nave cisterna perfettamente in regola che
tutti i documenti e i registri di carico dicono essere perfettamente in
regola?» rispose Holden con un sorriso tirato. «Già, be’... se ci
avessero sgamato, ci avrebbero fermato al molo, senza prendersi il
disturbo di tampinarci.»
Uno schermo pubblicitario sulla paratia mostrò uno sbalorditivo
panorama di nuvole multicolori attraversate da lampi, incoraggiando
Holden a farsi una vacanza negli incredibili villaggi turistici delle
cupole di Titano. Non ci era mai stato. All’improvviso gli venne voglia
di andarci per davvero. Qualche settimana passata a dormire fino a
tardi, a mangiare in ristoranti di lusso, stravaccato su un’amaca ad
ammirare le colorate tempeste atmosferiche di Titano sopra di lui...
Sembrava il paradiso. Diavolo, visto che stava fantasticando, tanto
valeva buttarci dentro anche Naomi, che veniva verso la sua amaca
con un paio di cocktail alla frutta tra le mani.
Lei però gli rovinò la scena.
«Siamo arrivati» disse.
«Amos, tieni d’occhio il nostro amico. Vedi se scende anche lui»
ordinò Holden mentre si alzava e andava verso la porta.
Dopo essere scesi ed essersi allontanati di una dozzina di passi
lungo il corridoio, Amos sussurrò «Sì» alle sue spalle. Merda. Be’,
sembrava proprio essere un pedinamento, ma non c’era alcun
motivo per non continuare per la loro strada e andare a vedere dove
si trovasse questo Lionel. Fred non gli aveva chiesto di fare
alcunché a chiunque si stesse fingendo il proprietario della Scopuli.
Non potevano certo arrestarli per aver bussato a una porta. Holden
si mise a fischiettare una canzonetta allegra mentre camminavano,
per far sapere al suo equipaggio, e a chiunque li stesse pedinando,
che non era minimamente preoccupato.
Smise di fischiettare non appena vide la stamberga.
Era cupa e losca, esattamente il genere di posto in cui potevi
aspettarti di essere rapinato, o peggio. Dei lampioni rotti creavano
angoli bui, e non c’era un singolo turista nei paraggi. Holden si voltò
per scoccare un’occhiata ad Alex e Amos, e quest’ultimo spostò la
mano che teneva in tasca. Alex mise la sua sotto la giacca.
L’atrio era uno spazio perlopiù vuoto, con un paio di divani in fondo
accanto a un tavolino basso coperto di riviste, dove sedeva una
donna attempata dall’aspetto assonnato, intenta a leggere un
giornale. Gli ascensori erano infossati nelle pareti dalla parte
opposta, accanto a una porta contrassegnata dalla scritta ‘scale’. Nel
mezzo c’era il bancone del check-in, dove un terminale con il suo
schermo fungeva da ufficio di concierge, incassando il pagamento
degli ospiti.
Holden si fermò accanto al bancone e si voltò per osservare la
donna seduta sul divano. I suoi capelli cominciavano a ingrigire, ma
era di bell’aspetto e aveva una corporatura atletica. In una topaia
come quella, probabilmente doveva trattarsi di una prostituta che era
prossima alla fine della carriera. Lei ignorò deliberatamente il suo
sguardo.
«Abbiamo ancora la coda?» chiese Holden sottovoce.
«Si è fermato fuori, da qualche parte. Probabilmente starà tenendo
d’occhio l’uscita» rispose Amos.
Holden annuì e sfiorò il tasto di ricerca sullo schermo del check-in.
Un’interfaccia scarna gli avrebbe permesso di inviare un messaggio
alla stanza di Lionel Polanski, ma lui uscì dal menu. Ora sapevano
che Lionel era ancora lì, e Fred aveva dato loro il numero della
stanza. Se si trattava di qualcuno che voleva fare il furbo, non c’era
motivo di allertarlo prima di andare a bussare alla sua porta.
«Okay, è ancora qui. Vediamo di...» disse Holden, interrompendosi
quando vide la donna del divano in piedi alle spalle di Alex. Non
l’aveva né vista né sentita arrivare.
«Venite con me» esordì lei con voce dura. «Dirigetevi lentamente
verso le scale, e restate almeno tre metri avanti a me per tutto il
tragitto. Ora.»
«È per caso una poliziotta?» chiese Holden, senza muoversi.
«Sono quella che ha la pistola» rispose lei, mentre una piccola
arma le compariva come per magia nella mano destra. La puntò alla
testa di Alex. «Per cui fate come vi dico.»
La sua pistola era piccola, di plastica, e aveva una sorta di batteria
collegata. Amos estrasse la propria sparapiombo e gliela puntò in
faccia.
«La mia è più grossa» rispose.
«Amos, non...» fu tutto ciò che Naomi ebbe il tempo di dire prima
che la porta delle scale si spalancasse di colpo e una dozzina di
uomini e donne armati con fucili compatti automatici si riversassero
nella sala, gridando loro di gettare le armi.
Holden fece per alzare le mani, quando uno degli assalitori aprì il
fuoco; l’arma sputava proiettili tanto rapidamente da produrre un
rumore simile a quello di un cartone che si strappa. Era impossibile
distinguere i singoli colpi. Amos si gettò a terra. Una linea di fori si
aprì sul petto della donna con il taser, che cadde riversa con un tonfo
sordo, definitivo.
Holden prese Naomi per mano e la tirò dietro il bancone del check-
in. Qualcuno nell’altro gruppo stava gridando «Cessate il fuoco!
Cessate il fuoco!», ma Amos stava già rispondendo dalla sua
posizione, prono a terra. Un gemito di dolore e un’imprecazione fece
capire a Holden che doveva aver colpito qualcuno. Amos rotolò di
lato verso il bancone, appena in tempo per evitare una raffica di
proiettili che dilaniò il pavimento e la parete, facendo tremare il
bancone.
Holden fece per estrarre la sua pistola, ma il mirino della canna gli
s’incastrò nella cintura. La tirò fuori a forza, strappandosi gli
indumenti, poi avanzò carponi fino al bordo del bancone e guardò
fuori. Alex era sdraiato a terra, dietro uno dei divani, con la pistola in
pugno e il volto pallido. Mentre Holden lo fissava, una raffica di colpi
investì il divano, facendo volare per aria pezzi d’imbottitura e
scavando una fila di fori sullo schienale a non più di venti centimetri
sopra la testa di Alex. Il pilota fece sporgere la pistola dietro l’angolo
del divano e sparò alla cieca mezza dozzina di colpi, gridando
selvaggiamente.
«Fottuti pezzi di merda!» urlò Amos, poi rotolò allo scoperto, sparò
altri due colpi e rotolò di nuovo al riparo prima che rispondessero al
fuoco.
«Dove sono?» gli gridò Holden.
«Due sono a terra, il resto è sulle scale!» gli urlò di rimando Amos,
cercando di farsi sentire al di sopra del frastuono degli spari.
All’improvviso, una raffica di proiettili schizzò sul pavimento oltre il
ginocchio di Holden. «Cazzo, qualcuno ci sta attaccando ai fianchi!»
gridò Amos, poi si spostò ancor più dietro il bancone, al riparo dagli
spari.
Holden strisciò dall’altra parte del bancone e sbirciò oltre il bordo.
Qualcuno si stava avvicinando, chino e rapido, all’ingresso
dell’albergo. Holden si sporse e sparò un paio di colpi nella sua
direzione, ma tre mitragliatori aprirono il fuoco dalla porta delle scale
e lo costrinsero a mettersi di nuovo al riparo.
«Alex, qualcuno si sta muovendo all’ingresso!» gridò Holden con
tutto il fiato che aveva in corpo, sperando che il pilota sarebbe
riuscito a sparare prima che li facessero tutti a pezzi con un fuoco
incrociato.
Una pistola abbaiò tre volte dall’ingresso. Holden arrischiò
un’occhiata. Accovacciato accanto alla porta c’era il loro pedinatore
con il cappello da scemo; il loro aggressore con il fucile automatico
giaceva a terra ai suoi piedi. Invece d’impallinarli, l’uomo puntò la
sua pistola verso le scale.
«Non sparate all’uomo con il cappello!» gridò Holden, poi tornò
verso il bordo del bancone.
Amos si appoggiò a esso con la schiena ed estrasse il caricatore
dalla sua arma. Mentre ne tirava fuori un altro dalla tasca, disse:
«Quel tipo dev’essere proprio uno sbirro.»
«E allora non sparate a nessuno sbirro, specialmente ora» ordinò
Holden, poi indirizzò qualche colpo verso la porta delle scale.
Naomi, che fino a quel momento aveva assistito all’intera
sparatoria con le mani sopra la testa, disse: «Potrebbero essere tutti
sbirri.»
Holden sparò ancora qualche colpo e scosse il capo.
«I poliziotti non portano piccole armi automatiche facilmente
occultabili per tendere imboscate alla gente dalle scale di un
albergo. Queste si chiamano squadre di esecuzione» disse, ma le
sue parole furono sopraffatte da un inferno di raffiche dalle scale.
Dopo, ci fu qualche secondo di silenzio.
Holden si sporse appena in tempo per vedere la porta delle scale
che si richiudeva.
«Mi sa che se la stanno filando» disse, continuando a puntare la
pistola in quella direzione per prudenza. «Dev’esserci un’altra uscita,
da qualche parte. Amos, tieni d’occhio la porta. Se si apre, spara.»
Diede una pacca sulla spalla di Naomi. «Sta’ giù.»
Holden si alzò in piedi dietro il bancone ormai devastato. La parte
frontale era saltata e attraverso gli squarci si vedeva la pietra
sottostante. Holden alzò la pistola con la canna puntata verso il
soffitto, aprendo le mani. L’uomo con il cappello non si mosse; diede
un’occhiata al cadavere ai suoi piedi, poi alzò lo sguardo mentre
Holden gli si avvicinava.
«Ti ringrazio. Mi chiamo James Holden. Tu sei...?»
L’uomo non disse niente per un istante. Quando lo fece, la sua
voce era calma. Quasi stanca. «La polizia sarà qui tra poco. Devo
fare una chiamata, o finiremo tutti dietro le sbarre.»
«Non sei tu la polizia?» chiese Holden.
L’altro uomo sghignazzò; era una risata amara, breve, ma nel
profondo si percepiva dell’umorismo. A quanto pareva, Holden
doveva aver detto qualcosa di buffo.
«No. Mi chiamo Miller.»
24

Miller

Miller osservò il cadavere a terra – l’uomo che aveva appena


ammazzato – e cercò di provare qualcosa. L’adrenalina, ancora in
circolo, continuava ad accelerargli il battito cardiaco. E c’era una
sensazione di sorpresa che derivava dall’essersi imbattuto in una
sparatoria del tutto inattesa. A parte questo, però, la sua mente era
già ricaduta nell’abitudine acquisita di analizzare la situazione.
Un’unica infiltrata nella hall per non dar modo a Holden e al suo
equipaggio di insospettirsi. E una manciata di scagnozzi col grilletto
facile sulle scale come sostegno logistico. Gli era andata bene.
Era stata un’azione estremamente maldestra. L’imboscata era
stata preparata da gente che non sapeva quello che stava facendo,
o che non aveva il tempo e le risorse necessarie per farlo bene. Se
non fosse stata così improvvisata, Holden e i suoi tre compagni
sarebbero stati già rapiti o ammazzati. E lui con loro.
I quattro sopravvissuti della Canterbury se ne stavano tra le
macerie provocate dalla sparatoria come dei novellini alla prima
uscita. Miller sentì la sua mente fare un passo indietro mentre
osservava la scena senza guardare niente in particolare. Holden era
più piccolo di quel che si era aspettato guardando i comunicati video.
Ciò non avrebbe dovuto sorprenderlo: era un terrestre. Quell’uomo
aveva la faccia di chi non era capace di nascondere qualcosa.
«Ti ringrazio. Mi chiamo James Holden. Tu sei...?»
Miller pensò a sei diverse risposte e le scartò tutte. Uno dei tre, un
omone corpulento con la testa rasata, camminava nervosamente per
la sala, con gli occhi smarriti come quelli di Holden. Era l’unico del
gruppo che sembrava aver già visto delle sparatorie vere e proprie.
«La polizia sarà qui tra poco» disse Miller. «Devo fare una
chiamata, o finiremo tutti dietro le sbarre.»
L’altro uomo, più magro e alto, con l’aspetto di un nativo dell’India,
si era riparato dietro un divano. Ora se ne stava accovacciato sulle
caviglie, con gli occhi sgranati e pieni di panico. Holden mostrava
qualcosa di simile nello sguardo, ma se la stava cavando meglio
quanto ad autocontrollo. Il peso della leadership, pensò Miller.
«Non sei tu la polizia?»
Miller sghignazzò.
«No» rispose. «Mi chiamo Miller.»
«Okay» disse la donna. «Quei tizi hanno appena provato ad
ammazzarci. Perché l’hanno fatto?»
Holden fece un mezzo passo in direzione della sua voce prima
ancora di voltarsi verso di lei. Era sbiancata in viso, con le labbra
carnose premute in una linea stretta e pallida. I suoi tratti
mostravano un miscuglio razziale talmente variegato da sembrare
insolito perfino per gli standard cinturiani. Le sue mani non
tremavano. L’omone aveva più esperienza, ma Miller giudicò che
fosse la donna ad avere l’istinto migliore.
«Già» disse Miller. «L’ho notato.»
Tirò fuori il suo palmare e aprì un collegamento con Sematimba. Il
poliziotto accettò la chiamata pochi secondi dopo.
«Semi» disse Miller. «Mi dispiace molto dirtelo, ma... sai, quando ti
ho detto che sarei stato discreto?»
«E allora?» rispose il poliziotto locale, scandendo le parole tra i
denti.
«Non è andata bene. Stavo andando a incontrare un amico...»
«A incontrare un amico» gli fece eco Sematimba. Miller s’immaginò
di vederlo incrociare le braccia, anche se nel riquadro dello schermo
non comparivano.
«Insomma, mi sono imbattuto in un gruppo di turisti che si trovava
nel posto sbagliato al momento sbagliato. E la situazione ci è un po’
sfuggita di mano.»
«Dove ti trovi?» chiese Sematimba. Miller gli comunicò il livello e
l’indirizzo. Ci fu una lunga pausa mentre il poliziotto locale
consultava un software di comunicazione interna che un tempo
aveva fatto parte dei ferri del mestiere a disposizione di Miller.
L’uomo emise un sospiro esasperato. «Non vedo niente. Ci sono
stati colpi di arma da fuoco?»
Miller guardò il caos e la distruzione che li circondavano. Già dal
primo sparo sarebbero dovuti scattare un migliaio di allarmi. Le forze
di sicurezza sarebbero dovute essere già sul posto.
«Un paio» disse.
«Strano» osservò. «Resta lì. Arrivo subito.»
«Ricevuto» rispose Miller, e chiuse il collegamento.
«Okay» disse Holden. «Questo chi era?»
«Un poliziotto vero» rispose Miller. «Presto sarà qui. Andrà tutto
bene.»
O almeno credo. Gli venne in mente che stava considerando la
situazione come se fosse stato ancora all’interno del sistema, come
parte dell’ingranaggio. Ma non era più così, e far finta che lo fosse
poteva avere serie ripercussioni.
«Ci stava pedinando» disse la donna a Holden. Poi, rivolgendosi a
Miller: «Ci stavi seguendo.»
«È così» rispose Miller. Non pensava di aver usato un tono che
rivelasse la sua delusione, ma l’omone scosse la testa.
«È stato il cappello» disse. «Spiccava un po’ troppo.»
Miller si tolse la paglietta dal capo e la studiò. Ovvio che fosse
stato l’omone a individuarlo. Gli altri tre erano talentuosi principianti,
e Miller sapeva che Holden aveva un trascorso tra i ranghi della
Marina Militare delle Nazioni Unite. Miller però era più che sicuro che
una verifica dei precedenti dell’omone si sarebbe rivelata una lettura
piuttosto interessante.
«Perché ci stavi seguendo?» chiese Holden. «Voglio dire,
apprezzo molto la parte in cui hai sparato a quelli che sparavano a
noi, ma mi piacerebbe comunque sapere della parte precedente.»
«Avevo bisogno di parlare con voi» rispose Miller. «Sto cercando
una persona.»
Ci fu una pausa. Holden sorrise.
«Una persona in particolare?» chiese.
«Un membro dell’equipaggio della Scopuli» spiegò Miller.
«La Scopuli?» disse Holden. Fece per voltarsi verso la donna, ma
si fermò. C’era qualcosa sotto. Per Holden, la Scopuli significava più
di quanto Miller non avesse appreso dai notiziari.
«Non c’era niente, sulla nave, quando siamo arrivati» disse la
donna.
«Porca puttana» esclamò il tipo che tremava dietro il divano. Era la
prima cosa che diceva da quando era finita la sparatoria, e la ripeté
cinque o sei volte in rapida successione.
«E voi, invece?» chiese Miller. «La Donnager vi ha risputato su
Tycho, e ora qui. Di che si tratta?»
«Come facevi a saperlo?» chiese Holden.
«È il mio lavoro» rispose Miller. «O meglio, lo era.»
Quella risposta non sembrò soddisfare il terrestre. L’omone si era
messo alle spalle di Holden, con il volto che mandava un chiaro
messaggio: ‘Non ci saranno problemi, a meno che non ce ne siano,
e in tal caso ce ne sarebbero molti.’ Miller annuì, rivolgendosi un po’
all’omone, un po’ a sé stesso.
«Avevo un contatto nell’APE che mi ha detto che non eravate morti
sulla Donnager» disse Miller.
«Te l’ha semplicemente detto, così?» chiese la donna, con voce
indignata.
«All’epoca stava cercando di provarmi quanto valeva» rispose
Miller. «Comunque sia, l’ha detto, e io sono partito da lì. E, tra dieci
minuti, vedrò di fare in modo che la polizia di Eros non vi sbatta tutti
in gattabuia, con me appresso. Per cui, se c’è qualsiasi cosa che
volete dirmi – per quale scopo siete qui, per esempio – questo
sarebbe il momento giusto per farlo.»
Il silenzio era rotto soltanto dal rumore dei riciclatori che si
sforzavano di dissipare il fumo e le polveri sollevate dalla sparatoria.
Il tipo che tremava si alzò in piedi. Qualcosa, nel suo portamento,
aveva un che di militare. Aveva prestato servizio in qualche corpo,
pensò Miller, ma di certo non tra i reparti di assalto. Forse nella
marina; tirando a indovinare, marina marziana. Aveva l’inflessione
che caratterizzava alcuni di loro.
«Ah, fanculo, cap» disse l’omone. «Ha sparato a quel bastardo che
ci stava impallinando a fianco. Potrebbe anche essere uno stronzo,
ma per me è a posto.»
«Grazie, Amos» rispose Holden. Miller archiviò l’informazione.
L’omone era Amos. Holden si portò le mani dietro la schiena,
infilandosi la pistola nella cintura.
«Anche noi stiamo cercando una persona» disse. «Probabilmente
qualcuno della Scopuli. Stavamo giusto controllando la stanza
quando il mondo ha deciso di spararci addosso.»
«Qui?» domandò Miller. Qualcosa di simile a un’emozione gli filtrò
nelle vene. Non era speranza, ma timore. «Qualcuno della Scopuli si
trova in questa topaia, in questo stesso istante?»
«Così crediamo, sì» rispose Holden.
Miller guardò fuori dalle porte dell’atrio dell’albergo. Una piccola
folla di curiosi aveva cominciato ad assieparsi nel tunnel. Braccia
incrociate, occhiate nervose. Miller sapeva bene come si sentivano.
Sematimba e i suoi agenti stavano arrivando. Gli aggressori che
avevano sparato a Holden e al suo equipaggio non avevano
persistito nell’attacco, ma questo non significava che se ne fossero
andati. Poteva esserci un’altra ondata. Potevano essersi ritirati in
una posizione migliore, aspettando Holden al varco.
E se Julie fosse stata in quell’albergo, proprio ora? Come poteva
arrivare fin lì e poi fermarsi nell’atrio? Con sua sorpresa, si rese
conto di avere ancora la pistola in pugno. Davvero poco
professionale. Avrebbe dovuto rimetterla nella fondina. L’unica altra
arma estratta era quella del marziano. Miller scosse la testa. Era
stato negligente. Doveva smetterla.
Però aveva ancora mezzo caricatore nell’arma.
«Qual è la stanza?» chiese.
I corridoi dell’albergo erano stretti e angusti. Le pareti avevano la
patina lucida dei rivestimenti da deposito e, sul pavimento, la
moquette in silicato di carbonio si sarebbe consumata meno
rapidamente della pietra. Miller e Holden erano in testa al gruppo,
poi la donna e il marziano – Naomi e Alex, si chiamavano – e poi
Amos, che copriva la retroguardia e si guardava alle spalle. Miller si
chiese se soltanto lui e Amos capissero in che modo stessero
proteggendo gli altri. Holden sembrava comprenderlo e pareva
infastidito; continuava a spingersi avanti.
Tutte le stanze avevano le stesse porte di vetroresina laminata,
abbastanza sottili da essere prodotte in serie a migliaia. Miller ne
aveva sfondate a centinaia nella sua carriera. Alcune erano state
decorate da residenti di lungo corso, con un dipinto di improbabili
fiori rossi, una lavagnetta con un cordone dove un tempo era stata
attaccata una penna, una riproduzione da quattro soldi di un cartone
animato osceno, fiocamente illuminato, che ripeteva la sua battuta
finale all’infinito.
Da un punto di vista tattico, era un incubo. Se i loro assalitori
fossero usciti dalle porte che avevano di fronte e alle spalle, li
avrebbero massacrati tutti e cinque in pochi secondi. Ma non
volarono proiettili, e l’unica porta che si aprì mostrò un uomo
emaciato e dalla barba lunga, con occhi imperfetti e una bocca
sdentata. Miller lo salutò con un cenno del capo mentre passavano,
e lui gli restituì il saluto, probabilmente più sorpreso dal fatto che
qualcuno avesse riconosciuto la sua presenza che per le pistole in
pugno. Holden si fermò.
«Ci siamo» mormorò. «Questa è la stanza.»
Miller annuì. Gli altri si raggrupparono a capannello, mentre Amos
rimaneva un po’ indietro, con gli occhi puntati sul corridoio alle loro
spalle. Miller esaminò la porta. Sarebbe stato facile sfondarla con un
calcio. Una bella botta appena sotto la serratura, poi poteva far
pressione in basso a sinistra mentre Amos faceva lo stesso in alto a
destra. Desiderò avere con sé Havelock. Il coordinamento tattico era
più semplice per chi si era addestrato insieme. Fece segno ad Amos
di avvicinarglisi.
Holden bussò alla porta.
«Che diavolo stai...?» sussurrò rabbioso Miller, ma Holden lo
ignorò.
«Salve» chiamò Holden. «C’è nessuno?»
Miller si tese. Non accadde niente. Nessuna voce, né spari. Nulla.
Holden sembrava perfettamente a suo agio di fronte al rischio che si
era appena preso. Dall’espressione di Naomi, Miller capì che non
doveva essere la prima volta che faceva le cose in quel modo.
«Vuoi che l’apriamo?» chiese Amos.
«In un certo senso» rispose Miller, nello stesso istante in cui
Holden diceva: «Sì, buttala giù.»
Amos guardò prima l’uno, poi l’altro, e non si mosse finché Holden
non gli fece un cenno col capo. Allora li superò, aprì la porta con un
calcio violento e barcollò all’indietro, imprecando.
«Tutto bene?» gli chiese Miller.
L’omone annuì seccamente mentre faceva una pallida smorfia.
«Sì. Mi sono spaccato una gamba poco tempo fa. Ho appena tolto
il gesso. Continuo a dimenticarmelo» disse.
Miller si voltò verso la stanza. L’interno era buio come una caverna.
Non c’erano luci, nemmeno il tenue bagliore degli schermi e dei
sensori. Entrò con la pistola spianata. Holden lo seguì dappresso. Il
pavimento produsse un rumore di brecciolino sotto i loro piedi, e
c’era uno strano odore aspro che Miller associò a degli schermi rotti.
Coperto da questo c’era anche un altro odore, ancora meno
piacevole. Scelse di non pensarci.
«Ehilà?» disse Miller. «C’è nessuno?»
«Accendi le luci» intervenne Naomi alle loro spalle. Miller udì
Holden che tastava il pannello a parete, ma non si accese alcuna
luce.
«Non funzionano» disse Miller.
La fioca luce del corridoio non serviva quasi a niente. Miller
continuò a impugnare la pistola nella destra, pronto a scaricarla
davanti a sé se qualcuno avesse aperto il fuoco dal buio. Tirò fuori il
terminale con la sinistra, attivò la retroilluminazione e aprì un blocco
note bianco. La stanza divenne monocromatica. Alle sue spalle,
Holden lo imitò.
C’era una brandina spinta contro il muro, con un piccolo vassoio
accanto. Le lenzuola erano arrotolate come dopo una notte di sonno
agitato. C’era un armadio aperto, vuoto. La forma ingombrante di
una tuta spaziale giaceva a terra come un manichino con la testa
staccata. Una vecchia console di giochi era appesa al muro di fronte
al letto, con lo schermo spaccato da una dozzina di colpi. La parete
era ammaccata nei punti in cui i colpi avevano mancato le lampade
a LED. Un altro terminale aggiunse il suo bagliore a quello di Miller e
Holden, poi un altro ancora. Qualche colore cominciò a emergere
timidamente in superficie nella stanza – la tinta dorata da due soldi
delle pareti, il verde delle lenzuola e delle coperte. Qualcosa
luccicava sotto la branda. Un vecchio modello di terminale palmare.
Miller si accovacciò mentre gli altri entravano nella stanza.
«Merda» disse Amos.
«Va bene» replicò Holden. «Che nessuno tocchi niente. E dico
niente.» Era la cosa più sensata che Miller gli avesse sentito dire
fino a quel momento.
«Qualcuno deve aver opposto una bella resistenza» mormorò
Amos.
«No» rispose Miller. Non era stata una colluttazione.
Probabilmente si trattava di vandalismo. Tirò fuori una bustina
trasparente per la raccolta di prove e se la rigirò come un guanto
sopra la mano prima di raccogliere il terminale, che avvolse nella
plastica e sigillò ermeticamente.
«È... sangue, quello?» chiese Naomi, indicando il materasso di
schiuma. Delle chiazze bagnate si addensavano tra le lenzuola e sul
cuscino, non più profonde di un dito, e scure. Troppo scure perfino
per essere sangue.
«No» disse Miller, infilandosi in tasca il terminale.
Il fluido tracciava un percorso verso il bagno. Miller alzò una mano,
facendo segno agli altri di stare indietro mentre si avvicinava
cautamente alla porta socchiusa. All’interno del bagno, il lezzo lieve
era molto più forte. Era un odore intenso, organico e intimo. Come di
concime in una serra, di una notte di sesso, o di un mattatoio. Un
misto di tutto questo. La tazza era di acciaio spazzolato, lo stesso
modello usato nelle prigioni. Il lavandino era assortito. Il LED sopra di
esso e quello sul soffitto erano stati entrambi distrutti. Nella luce del
suo terminale, simile al bagliore di una candela, dei viticci neri si
propagavano dalla doccia verso le luci divelte, contorti e diramati
come foglie scheletriche.
Juliette Andromeda Mao giaceva morta sul fondo della doccia.
Aveva gli occhi chiusi, e quello era un bene. Aveva un taglio di
capelli diverso rispetto a quello che Miller aveva visto nelle foto, che
le cambiava la fisionomia del viso, ma era comunque inconfondibile.
Era nuda, e a malapena umana. Spire di rampicanti aggrovigliati le
fuoriuscivano dalla bocca, dalle orecchie e dalla vulva. Le sue
costole e la sua colonna vertebrale avevano sviluppato degli speroni
simili a lame che le tiravano la pelle biancastra, pronti a liberarsi
lacerandola dall’interno. Dei tubi le spuntavano dalla schiena e dalla
gola, arrampicandosi sulle pareti alle sue spalle. Dal suo corpo era
colata una fanghiglia marrone che aveva riempito il piatto della
doccia per quasi tre centimetri di altezza. Miller si sedette in silenzio,
desiderando ardentemente che la cosa che aveva di fronte non
fosse reale, cercando di svegliarsi da quell’incubo.
Che cosa ti hanno fatto?, pensò. Povera ragazza... Che cosa ti
hanno fatto?
«Oh, mio dio» esclamò Naomi alle sue spalle.
«Non toccate niente» disse Miller. «Uscite dalla stanza. Nel
corridoio. Ora.»
Le luci nella camera fuori dal bagno si affievolirono, mentre Holden
e i suoi si allontanavano con i palmari. Quelle ombre cangianti
conferirono al corpo di Julie una momentanea parvenza di
movimento. Miller rimase in attesa, ma nessun respiro scosse la
gabbia toracica deforme della ragazza. Le sue palpebre non si
mossero. Niente. Miller si alzò, controllandosi scrupolosamente i
polsini e le scarpe, e uscì nel corridoio.
L’avevano vista tutti. Lo capiva dalle loro espressioni, l’avevano
vista tutti. E non avevano la più pallida idea di cosa fosse, non più di
lui. Miller richiuse piano la porta scheggiata e aspettò l’arrivo di
Sematimba. Non ci volle molto.
Cinque uomini in tenuta antisommossa e armati di fucili fecero il
loro ingresso nel corridoio. Miller andò loro incontro, facendo di
postura e atteggiamento il suo distintivo. Vide che si rilassavano.
Sematimba arrivò alle loro spalle.
«Miller?» disse. «Che diavolo è successo, qui? Credevo che mi
avessi detto che volevi mantenere un profilo discreto.»
«Sono rimasto» rispose Miller. «Quelli là dietro sono i civili. I tizi
stecchiti sulle scale li hanno aggrediti nell’atrio.»
«Perché?» chiese Sematimba.
«Chissà» rispose Miller. «Magari per rubargli due spicci. Non è
questo il problema.»
Sematimba inarcò le sopracciglia. «Ho quattro cadaveri per le
mani, e non è questo il problema?»
Miller indicò in fondo al corridoio con un cenno del capo.
«Il quinto è laggiù» disse. «È la ragazza che stavo cercando.»
L’espressione di Sematimba si addolcì. «Mi dispiace» esclamò.
«Bah» disse Miller. Non riusciva ad accettare la compassione. E
non riusciva ad accettare il conforto. Un tocco gentile l’avrebbe
mandato in frantumi, per cui rimase rigido. «Per lei però ti servirà un
medico legale.»
«È messa molto male?»
«Non te lo immagini» rispose Miller. «Ascolta, Semi. Ci stiamo
muovendo in acque pericolose. Dico sul serio. Quei ragazzi giù per
le scale con le semiautomatiche... se non avessero avuto un
aggancio con le vostre forze di sicurezza, al primo sparo sarebbero
scattati tutti gli allarmi. Sai anche tu che la cosa è stata montata ad
arte. Stavano aspettando quei quattro. E lo vedi quel tipo tarchiato,
quello con i capelli scuri? Quello è James Holden. Non dovrebbe
nemmeno essere vivo.»
«Quell’Holden? Quello che ha fatto scoppiare la guerra?» chiese
Sematimba.
«Proprio lui» rispose Miller. «È roba grossa. C’è il rischio di
annegarci. E sai cosa si dice dell’andare appresso a un uomo che
annega, vero?»
Sematimba guardò verso il corridoio. Annuì.
«Lascia che ti aiuti» disse, ma Miller scosse la testa.
«Sono già andato troppo oltre. Dimenticati di me. Hai
semplicemente ricevuto una chiamata anonima e hai identificato il
posto. Non mi conosci, non conosci loro, e non hai la minima idea di
quel che sia successo. Oppure mi vieni dietro e anneghi con me. A
te la scelta.»
«Non lascerai la stazione senza prima dirmelo, però.»
«Va bene» accettò Miller.
«Posso farmelo andar bene» disse Sematimba. Poi, un attimo
dopo: «È davvero Holden, quello?»
«Chiama il medico legale» lo invitò Miller. «Dammi retta.»
25

Holden

Miller gli fece segno e si diresse verso l’ascensore senza aspettare


di vedere se lo facesse davvero. Quella presunzione lo irritò, ma lo
seguì comunque.
«Allora» disse Holden. «Un attimo fa siamo rimasti coinvolti in una
sparatoria in cui abbiamo ammazzato almeno tre persone, e ora ce
ne andiamo così? Senza farci interrogare, senza rilasciare
deposizioni? Come può essere?» chiese.
«Semplice cortesia fra colleghi» rispose Miller, e Holden non riuscì
a capire se stesse scherzando o meno.
Le porte dell’ascensore si aprirono con un sordo scampanellio, e
Holden e gli altri seguirono Miller nella cabina. Naomi era la più
vicina al pannello dei comandi e allungò una mano per premere il
tasto dell’atrio, ma tremava talmente tanto che dovette fermarsi e
chiudere le dita a pugno. Dopo aver fatto un respiro profondo,
allungò un dito con risolutezza e premette il pulsante.
«Che stronzata è? Essere un ex poliziotto non ti dà mica la licenza
di immischiarti in una sparatoria» disse Holden alle spalle di Miller.
Miller non si mosse, ma sembrò rimpicciolirsi un po’. Il suo sospiro
fu pesante e spontaneo. La sua pelle sembrò più grigia di prima.
«Sematimba sa come muoversi. Metà del lavoro consiste nel
sapere quand’è che devi guardare da un’altra parte. E poi, gli ho
promesso che non avremmo lasciato la stazione senza prima
comunicarglielo.»
«Fanculo» disse Amos. «Non puoi fare promesse per conto nostro,
amico.»
L’ascensore arrivò al piano e si aprì sulla sanguinosa scena della
sparatoria. Nella sala c’erano una dozzina di poliziotti. Miller rivolse
loro un cenno del capo e quelli gli restituirono il saluto. Guidò
l’equipaggio fuori dall’atrio, poi si voltò.
«Di questo possiamo occuparcene in un secondo momento» disse
Miller. «Come prima cosa, troviamo un posto in cui poter parlare.»
Holden acconsentì con un’alzata di spalle. «E va bene, ma paghi
tu.»
Miller s’incamminò lungo il corridoio verso la stazione della
metropolitana.
Mentre lo seguivano, Naomi posò una mano sul braccio di Holden
e lo fece rallentare, in modo che Miller li sopravanzasse. Quando fu
abbastanza lontano, disse: «La conosceva.»
«Chi conosceva chi?»
«Lui» rispose Naomi, annuendo verso Miller. «La conosceva.»
Fece scattare la testa indietro, verso la scena del crimine alle loro
spalle.
«Come fai a saperlo?» chiese Holden.
«Non si aspettava di trovarla lì, ma sapeva chi era. Vederla così è
stato uno shock, per lui.»
«Uh... Mi era completamente sfuggito. Mi è parso tranquillissimo
per tutto il tempo.»
«No, erano amici, o qualcosa del genere. Sta faticando ad
affrontare la situazione, per cui cerca di non esagerare con lui» disse
Naomi. «Potrebbe tornarci utile.»
La stanza d’albergo che aveva preso Miller era appena più decente
di quella in cui avevano trovato il cadavere. Alex si diresse
immediatamente in bagno e chiuse a chiave la porta. Il rumore
dell’acqua che scorreva era quasi sufficiente a coprire quello dei
conati del pilota.
Holden si buttò sul misero piumone del letto, costringendo Miller a
prendere l’unica sedia della stanza, dall’aspetto decisamente
scomodo. Naomi sedette accanto a Holden, sul letto, ma Amos restò
in piedi, aggirandosi per la camera come un animale in gabbia.
«Allora, dicci tutto» esordì Holden rivolto a Miller.
«Aspettiamo che la banda sia al completo, prima di iniziare»
replicò Miller con un cenno del capo verso la porta del bagno.
Alex si unì al gruppo pochi istanti dopo, con il viso ancora pallido
dopo esserselo sciacquato.
«Tutto bene, Alex?» chiese Naomi con voce gentile.
«Alla grande, vicecomandante» rispose Alex, prima di sedersi per
terra e di prendersi la testa tra le mani.
Holden fissò Miller e attese. L’uomo di mezz’età si sedette e
giocherellò per qualche secondo con il suo cappello, poi lo gettò
sulla scrivania di plastica da due soldi fissata a sbalzo alla parete.
«Sapevate che Julie era in quella stanza. Perché?»
«Non sapevamo nemmeno che si chiamasse Julie» rispose
Holden. «Sapevamo soltanto che faceva parte dell’equipaggio della
Scopuli.»
«Quello che mi interessa è come facevate a saperlo» disse Miller,
con un’intensità nello sguardo che lo intimidì.
Holden esitò un istante. Miller aveva ucciso un uomo che aveva
cercato di farli fuori, e questo era certamente un buon punto a favore
dell’ipotesi che si trattasse di un amico, ma Holden non aveva
intenzione di spifferare tutto su Fred e il suo gruppo, sulla base di
una semplice impressione. Esitò ancora, poi trovò un compromesso.
«Qualcuno aveva preso una stanza in quell’albergo a nome del
proprietario fittizio della Scopuli» disse. «Pareva sensato che
potesse trattarsi di un membro del suo equipaggio che tentava di
lanciare una richiesta d’aiuto.»
Miller annuì. «Chi ve l’ha detto?»
«Rivelartelo mi metterebbe a disagio. Crediamo però che
l’informazione fosse attendibile» rispose Holden. «La Scopuli era
l’esca che qualcuno ha usato per poi distruggere la Canterbury.
Pensavamo che un membro dell’equipaggio della Scopuli potesse
conoscere il motivo per cui tutti quelli che incontriamo cercano di
ammazzarci.»
Miller disse «Merda», poi si appoggiò allo schienale della sedia e
fissò il soffitto.
«Tu stavi cercando Julie. Speravi che anche noi la stessimo
cercando. Che sapessimo qualcosa» disse Naomi, senza intenderla
come una domanda.
«Già» ammise Miller.
Stavolta toccò a Holden chiedere perché.
«I suoi genitori hanno ingaggiato Ceres per cercare di farla tornare
a casa. Era il mio caso» disse Miller.
«Quindi lavori per le forze dell’ordine di Ceres?»
«Non più.»
«E allora che cosa ci fai, qui?» chiese Holden.
«La sua famiglia era invischiata in qualcosa» rispose Miller. «Ho
una tendenza naturale a odiare i misteri.»
«E come facevi a sapere che era qualcosa di più grosso di un
semplice caso di ragazza scomparsa?»
Parlare con Miller era come scavare nel granito con uno scalpello
di gomma. Fece un sorriso privo di allegria.
«Mi hanno licenziato per aver indagato troppo a fondo.»
Holden decise deliberatamente di non farsi innervosire dalle
risposte evasive di Miller. «Okay. Parliamo dello squadrone della
morte, giù nell’atrio.»
«Già. Parliamone, cazzo» disse Amos, smettendo finalmente di
girare in tondo. Alex tolse la testa dalle mani e, per la prima volta
dall’inizio della conversazione, alzò lo sguardo con interesse. Anche
Naomi si chinò in avanti sul bordo del letto.
«Non ne ho idea» replicò Miller. «Ma qualcuno sapeva che stavate
venendo qui.»
«Già, grazie mille per il brillante lavoro d’indagine» disse Amos con
uno sbuffo. «Da soli proprio non ci saremmo arrivati.»
Holden lo ignorò. «Ma non sapevano perché, altrimenti potevano
semplicemente salire in camera di Julie e prendere quel che
volevano.»
«Questo significa che Fred ha qualche infiltrato?» disse Naomi.
«Fred?» chiese Miller.
«O magari qualcun altro ha sgamato la faccenda di Polanski, ma
non conosceva il numero della stanza» disse Holden.
«Ma perché arrivare così, con i fucili spianati?» chiese Amos.
«Sparare a noi non aveva alcun senso.»
«Quello è stato un errore» osservò Miller. «L’ho visto mentre
succedeva. Amos, qui, ha estratto l’arma. Qualcuno ha reagito in
maniera eccessiva. E qualcun altro ha gridato di cessare il fuoco
finché voi non avete cominciato a rispondere sparando.»
Holden iniziò a enumerare le circostanze sulla punta delle dita.
«Per cui: qualcuno scopre che siamo diretti su Eros e che la
faccenda ha a che fare con la Scopuli; sa perfino qual è l’albergo,
ma non la stanza.»
«Non sapevano nemmeno che ci fosse Lionel Polanski» disse
Naomi. «Avrebbero potuto controllare al desk, proprio come
abbiamo fatto noi.»
«Giusto. Per cui aspettano che arriviamo noi e preparano una
squadriglia di scagnozzi per catturarci. Ma il loro piano va a puttane
e si trasforma in una sparatoria nell’atrio. E non avevano
assolutamente previsto il tuo intervento, detective, per cui direi che
non sono onniscienti.»
«Giusto» disse Miller. «Tutta questa faccenda sa di qualcosa di
organizzato all’ultimo minuto. Mettervi in mezzo e scoprire che cos’è
che stavate cercando. Se avessero avuto più tempo, avrebbero
potuto semplicemente perquisire l’albergo. Magari ci avrebbero
messo due o tre giorni, ma si poteva fare. Non l’hanno fatto, il che
significa che catturare voi era più semplice.»
Holden annuì. «Già» replicò. «Ma questo significa anche che
avevano già una squadra pronta, qui. A me non sembrava gente del
posto.»
Miller fece una pausa, sconcertato.
«Ora che mi ci fai pensare, neanche a me» concordò.
«Per cui, di chiunque si tratti, dispongono già di squadre d’assalto
su Eros, e possono riposizionarle per farci venire a prendere in
qualsiasi momento» disse Holden.
«Hanno anche abbastanza influenza sulle forze dell’ordine da
potersi permettere una sparatoria senza che intervenga nessuno»
osservò Miller. «La polizia non sapeva niente dell’accaduto finché
non li ho chiamati io.»
Holden inclinò la testa da un lato, poi disse: «Merda. Dobbiamo
squagliarcela da qui.»
«Aspettate un momento» intervenne Alex alzando la voce.
«Aspettate un momento, cazzo. Com’è che nessuno sta parlando di
quello spettacolo dell’orrore mutante che c’era in quella stanza?
Sono stato l’unico a vederlo?»
«Cristo, sì. Che roba era, quella?» disse piano Amos.
Miller mise la mano nella tasca della giacca e tirò fuori il sacchetto
forense con dentro il terminale di Julie.
«Qualcuno di voi qui se la cava con l’informatica?» chiese. «Magari
questo ci aiuterà a scoprirlo.»
«Credo di poter violare l’accesso» disse Naomi. «Ma è fuori
questione che io tocchi quell’affare finché non sappiamo che cos’è
stato a farla diventare così e siamo certi che non sia contagioso.
Non ho intenzione di tentare la sorte maneggiando qualsiasi cosa
possa aver toccato.»
«Non serve che lo tocchi. La busta resterà sigillata. Usalo
attraverso la plastica. Il touchscreen dovrebbe comunque
funzionare.»
Naomi esitò per un istante, poi allungò una mano e prese il
sacchetto.
«E va bene. Datemi un minuto» disse, poi cominciò ad armeggiare
con il terminale.
Miller tornò ad appoggiarsi allo schienale della sua sedia con un
altro sospiro profondo.
«Allora» disse Holden. «Conoscevi questa Julie? Naomi sembra
pensare che l’averla trovata lì morta ti ha dato una bella botta.»
Miller scosse piano la testa. «Quando ti capita un caso del genere,
indaghi sulla persona. Vita privata, cose così. Leggi le sue email.
Parli con coloro che la conoscevano. Ti fai un’idea.»
Miller s’interruppe e si strofinò gli occhi con le dita. Holden non lo
incalzò, ma lui riprese comunque a parlare.
«Julie era una brava ragazza» disse Miller come se stesse
confessando qualcosa. «Aveva una nave da corsa davvero cazzuta.
Volevo solo... farla tornare sana e salva.»
«Ha una password» disse Naomi, alzando il terminale. «Potrei
hackerare l’hardware, ma dovrei aprire la scocca.»
Miller allungò una mano e disse: «Fammici provare.»
Naomi gli passò il terminale e Miller inserì una manciata di lettere
sullo schermo prima di restituirglielo.
«Razorback» disse Naomi. «Che cos’è?»
«Una slitta» rispose Miller.
«Ma parla con noi?» domandò Amos, indicando Miller con il mento.
«Perché qui dentro non c’è nessun altro, ma vi giuro che la metà
delle volte non capisco di che cazzo stia parlando.»
«Scusate» rispose Miller. «Ho sempre lavorato più o meno da solo.
Si prendono cattive abitudini.»
Naomi si strinse nelle spalle e tornò al lavoro sul terminale mentre
Holden e Miller osservavano il risultato da sopra la sua spalla.
«C’è un sacco di roba, qui dentro» disse Naomi. «Da dove
cominciamo?»
Miller indicò un file di testo intitolato semplicemente Note sul
desktop del terminale.
«Da qui» disse. «Era una fanatica dell’ordine. Se l’ha lasciato sul
desktop, significa che non sapeva bene in che cartella metterlo.»
Naomi cliccò sul documento per aprirlo. Il file si espanse in una
raccolta di testi vagamente organizzati, che sembravano una sorta di
diario.

Per prima cosa, vedi di riprenderti. Il panico non ti sarà d’aiuto. Non lo è
mai. Fa’ respiri profondi, risolvi la situazione e fa’ le scelte giuste. La paura
uccide la mente. Ah. Che nerd...
Pro dello shuttle.
Niente reattore, soltanto batterie. Radiazione molto bassa.
Scorte per otto persone.
Un sacco di massa di reazione.
Contro dello shuttle.
Niente Epstein, niente razzi.
Il sistema di comunicazione non è stato semplicemente disabilitato, ma
fisicamente rimosso (avevate la paranoia di qualche soffiata, ragazzi?).
Il porto più vicino è Eros. Era lì che stavamo andando? Magari potrei
dirigermi altrove? Volando a teiera, rischia di essere un viaggio molto
lungo. Un’altra destinazione aggiungerebbe sette settimane alla tabella di
marcia. Eros sia, dunque.
Ho il morbo di Phoebe, non c’è altra spiegazione. Non so bene come, ma
quella merda marrone era ovunque. È anaerobica, devo averne toccata un
po’. Non importa come, ma solo risolvere il problema.
Ho appena dormito per TRE SETTIMANE. Non mi sono nemmeno alzata
per pisciare. Che razza di cosa può provocare una roba del genere?
Sono fottuta.
Cose che devi ricordare:
* BA834024112
* Le radiazioni uccidono. Non ci sono reattori su questo shuttle, ma tieni le
luci spente. Non ti togliere la tuta atmosferica. Quell’imbecille del video ha
detto che quest’affare si nutre di radiazioni. Non nutrirlo.
* Manda un messaggio di allarme. Trova aiuto. Lavori per le persone più
intelligenti del sistema solare. S’inventeranno qualcosa.
* Sta’ lontana dalla gente. Non diffondere il morbo. Non sto ancora
tossendo quella fanghiglia marrone. Non ho idea di quando inizierò a farlo.
* Sta’ lontana dai cattivi. Come se sapessi chi sono. E va bene. Sta’
lontana da tutti. Incognito è il mio nome. Uhm. Polanski?
Dannazione. Riesco a sentirlo. Ho sempre caldo, e sto morendo di fame.
Non mangiare. Non nutrirlo. Rimettermi in forze, o affamare il morbo?
Come fare? Eros è a un giorno da qui, e poi avrai aiuto. Continua a lottare.
Finalmente al sicuro su Eros. Ho inviato il messaggio. Spero che il quartier
generale l’abbia notato. Mi fa male la testa. Sulla mia schiena sta
succedendo qualcosa. Ho un bozzo sui reni. Darren si è trasformato in
fanghiglia. Diventerò anch’io una tuta piena di gelatina?
Sto male. Ho delle cose che mi spuntano dalla schiena e secernono quella
sostanza marrone dappertutto. Devo togliermi la tuta. Se qualcuno mi sta
leggendo, non lasciate che nessuno tocchi quella roba marrone. Bruciate il
mio corpo. Sto bruciando.

Naomi mise giù il terminale, ma nessuno parlò per un po’. Alla fine,
Holden disse: «Morbo di Phoebe. Qualcuno ne sa qualcosa?»
«C’era una stazione scientifica su Phoebe» replicò Miller.
«Un’installazione dei pianeti interni, dove ai cinturiani non era
consentito l’accesso. È stata colpita. Sono morte un sacco di
persone, ma...»
«Lei ha parlato di uno shuttle» disse Naomi. «La Scopuli non
aveva uno shuttle.»
«Doveva per forza esserci un’altra nave» intervenne Alex. «Magari
lo shuttle l’ha preso da quella.»
«E va bene» disse Holden. «Quindi sono saliti su un’altra nave, si
sono fatti infettare da questo morbo di Phoebe, e il resto
dell’equipaggio... non lo so. Muore?»
«Lei si salva, senza rendersi conto di essere infetta finché non è
sullo shuttle» continuò Naomi. «Arriva qui, manda il messaggio a
Fred e muore in quella stanza d’albergo per via dell’infezione.»
«Però non si è trasformata in fanghiglia» disse Holden. «Era solo
orribilmente... non so. Quei tubi, e quelle ossa che spuntavano di
fuori... Che razza di malattia può provocare una roba del genere?»
Quella domanda aleggiò nell’aria. Ancora una volta, nessuno parlò.
Holden sapeva che stavano pensando tutti la stessa cosa. Non
avevano toccato niente nella stanza di quella topaia. Voleva dire che
erano salvi? O avevano contratto il morbo di Phoebe, qualunque
cosa fosse? Ma aveva scritto che era anaerobico. Holden era
piuttosto sicuro che significasse che non si poteva contrarre
semplicemente respirando, per via aerea. Piuttosto sicuro...
«E ora che facciamo, Jim?» chiese Naomi.
«Che ne dite di Venere?» disse Holden, con voce più acuta e
nervosa di quanto non si fosse aspettato. «Non succede mai niente
d’interessante, su Venere.»
«Dico sul serio» replicò Naomi.
«E va bene. Sul serio. Penso che Miller, qui, lasci che se ne occupi
il suo amico poliziotto, e poi togliamo le tende da questo cazzo di
asteroide. Sarà un’arma biologica, no? Qualcuno cerca di rubarla da
un laboratorio marziano, poi la impianta in una cupola e un mese
dopo ogni singolo essere umano della città è morto.»
Amos interruppe il ragionamento con un grugnito.
«Così fa acqua, capitano» osservò. «Tanto per dire: che cazzo
c’entra tutto questo con il fatto che abbiano fatto fuori la Cant e la
Donnager?»
Holden fissò Naomi negli occhi e disse: «Ora però abbiamo un
posto in cui cercare le risposte, dico bene?»
«Già, proprio così» convenne lei. «BA834024112. È il codice di un
asteroide.»
«Che cosa credete che ci troveremo?» chiese Alex.
«Se fossi uno che scommette, direi che ci troveremo la nave da cui
lei ha rubato lo shuttle» rispose Holden.
«Ha senso» disse Naomi. «Ogni asteroide della Fascia è mappato.
Se vuoi nascondere qualcosa, lo metti su un’orbita stabile accanto a
una di quelle rocce e puoi sempre tornare a riprendertelo in un
secondo momento.»
Miller si voltò verso Holden, con il viso ancora più teso.
«Se state andando lì, voglio venire con voi» disse.
«Perché?» chiese Holden. «Senza offesa, ma hai trovato la tua
ragazza. Il tuo compito è finito, giusto?»
Miller lo fissò con le labbra strette in una linea sottile.
«Questo è un altro caso» disse. «Ora si tratta di trovare chi è che
l’ha uccisa.»
26

Miller

«Il tuo amico poliziotto ha imposto un blocco sulla mia nave» disse
Holden. Sembrava indignato.
Tutto intorno a loro, il ristorante dell’albergo era affollato. Le
prostitute dell’ultimo turno si mischiavano con i turisti e gli uomini
d’affari di quello successivo allo scadente buffet illuminato di rosa. Il
pilota e l’omone, Alex e Amos, si contendevano l’ultimo bagel.
Naomi era seduta accanto a Holden, a braccia conserte, con una
tazza di pessimo caffè che le si raffreddava di fronte.
«In effetti abbiamo ucciso un po’ di persone» disse Miller
garbatamente.
«Pensavo che ci avessi tirato fuori dai guai con la tua stretta di
mano da sbirro» rispose Holden. «E allora perché la mia nave ha un
blocco?»
«Ti ricordi quando Sematimba ha detto che non dovevamo lasciare
la stazione senza prima avvertirlo?» chiese Miller.
«Rammento che tu hai fatto un accordo di qualche genere» rispose
Holden. «Ma non ricordo di aver dato il mio assenso.»
«Ascolta, ci terrà qui finché non sarà sicuro che non verrà
licenziato per averci lasciati andare. Una volta che avrà la certezza
di avere il culo parato, toglierà il blocco. Allora, parliamo della parte
in cui prendo in affitto una cuccetta sulla vostra nave.»
Jim Holden e il suo vicecomandante si scambiarono un’occhiata,
una di quelle piccole scintille di comunicazione umana che dicevano
più di quanto non potessero fare le parole. Miller non conosceva
abbastanza nessuno dei due per decodificare appieno il messaggio,
ma immaginò che fossero scettici.
E ne avevano ben donde. Miller aveva controllato il credito residuo
sul suo conto prima di chiamarli. Gli era rimasto abbastanza per
un’altra notte in albergo o una buona cena, ma non per entrambe le
cose. Stava spendendo quegli ultimi denari per una colazione
scadente di cui Holden e il suo equipaggio non avevano
probabilmente alcun bisogno e che non si sarebbero goduti, nel
tentativo di comprarsi un po’ di benevolenza.
«Ho bisogno di capire molto, molto bene quello che stai dicendo»
disse Holden mentre l’omone, Amos, tornava al tavolo e si sedeva al
proprio posto con il bagel tra le mani. «Stai per caso dicendo che, a
meno che io non ti lasci salire sulla mia nave, il tuo amico ci terrà
bloccati quaggiù? Perché questo si chiama ricatto.»
«Estorsione» precisò Amos.
«Cosa?» chiese Holden.
«Non è un ricatto» rispose Naomi. «Lo sarebbe se avesse
minacciato di rivelare informazioni che non vorremmo fossero
divulgate. Se è una semplice minaccia, si tratta di estorsione.»
«E non è quello di cui sto parlando» disse Miller. «Ottenere libertà
di movimento sulla stazione finché l’indagine è in corso? Questo non
è un problema. Ma lasciare la sua giurisdizione è tutto un altro paio
di maniche. Non ho il potere di trattenervi qui, non più di quanto non
sia in grado di garantirvi il via libera per partire. Sto solo cercando un
passaggio per quando ve ne andrete.»
«Perché?» chiese Holden.
«Perché state andando sull’asteroide di Julie» rispose Miller.
«Sono pronto a scommettere che non ci sono porti, laggiù» disse
Holden. «Avevi per caso intenzione di andare da qualche altra parte,
dopo?»
«Diciamo che sono un po’ a corto di piani per il futuro. Non ne ho
mai avuto uno che funzionasse per davvero.»
«Ti capisco» disse Amos. «Siamo stati fottuti in diciotto modi
diversi da quando ci siamo immischiati in questa faccenda.»
Holden congiunse le mani sul tavolo, tamburellando con un ritmo
complesso un dito sulla sua superficie di cemento dall’aspetto di
legno. Non era un buon segno.
«Tu mi sembri una specie di... be’, di vecchio rabbioso e
amareggiato, a dire il vero. Ma, avendo lavorato su un cargo
frigorifero negli ultimi cinque anni, direi che la cosa non farebbe altro
che favorire la tua integrazione.»
«Però» disse Miller, lasciando la parola lì sospesa.
«Però mi hanno sparato un sacco di volte, di recente, e le
semiautomatiche di ieri sono soltanto l’ultima minaccia mortale con
cui ho avuto a che fare» disse Holden. «Sulla mia nave non voglio
nessuno di cui non possa fidarmi ciecamente, e in effetti non ti
conosco nemmeno.»
«Posso trovare i soldi» replicò Miller, sentendo un vuoto allo
stomaco. «Se si tratta di denaro, posso rimediare.»
«Non si tratta di negoziare un prezzo» disse Holden.
«Trovare i soldi?» chiese Naomi. «‘Trovare i soldi’, nel senso che
ora non ne hai?»
«Sono un po’ a corto anche di quelli» riconobbe Miller. «Ma è solo
una condizione temporanea.»
«Ce l’hai uno stipendio?» disse Naomi.
«Una strategia, più che altro» rispose Miller. «Giù ai moli ci sono
un po’ di traffici indipendenti. Ce ne sono sempre, in ogni porto.
Giochi clandestini. Combattimenti. Cose del genere. La maggior
parte delle volte sono truccati. Il trucco sta nel saper corrompere i
poliziotti senza però farlo formalmente.»
«È questo il tuo piano?» chiese Holden con voce incredula.
«Andare a riscuotere mazzette per gli sbirri?»
Dall’altra parte del ristorante, una prostituta in abito rosso fece uno
sbadiglio prodigioso; il tipo al suo tavolo si accigliò.
«No» rispose Miller, riluttante. «Parlo di scommesse laterali.
Quando un poliziotto punta, io scommetto che lui vincerà. Conosco
la maggior parte degli sbirri. Le case li conoscono perché sono gli
stessi che corrompono. Le scommesse laterali vanno fatte sui polli
che sembrano nervosi perché giocano abusivo.»
Perfino mentre lo diceva, Miller sapeva quanto la sua
argomentazione sembrasse inconsistente. Alex, il pilota, li raggiunse
e si sedette accanto a Miller. Il suo caffè aveva un profumo intenso e
acidulo.
«Quel è l’accordo?» chiese Alex.
«Non c’è alcun accordo» rispose Holden. «Non c’era prima, e
continua a non esserci.»
«Funziona meglio di quanto non crediate» disse Miller
coraggiosamente, prima che i loro quattro terminali squillassero in
contemporanea. Holden e Naomi si scambiarono un’altra occhiata,
stavolta meno complice, e tirarono fuori i propri terminali. Amos e
Alex stavano già consultando i loro. Miller notò il bordo rosso e verde
del dispositivo, che poteva significare un messaggio prioritario o una
cartolina di auguri di Natale in largo anticipo. Ci fu un momento di
silenzio mentre leggevano tutti un messaggio; poi Amos emise un
fischio basso.
«Fase tre?» chiese Naomi.
«Non posso dire che mi piaccia come suona» rispose Alex.
«Vi spiace se guardo anch’io?»
Holden fece scivolare il suo terminale verso di lui, sul tavolo. Il
messaggio era un testo semplice, inviato da Tycho.
Individuata talpa in stazione radio Tycho.
Vostra presenza e destinazione note a soggetti sconosciuti su Eros. Fate
attenzione.

«Mi pare un po’ tardi, per quello» replicò Miller.


«Continua a leggere» disse Holden.
Codice di criptaggio talpa ha permesso intercettazione di trasmissione in
subsegnale da Eros cinque minuti fa.
Segue messaggio intercettato:
‘Holden è fuggito ma il campione del carico è stato recuperato. Ripeto:
campione recuperato.
Procediamo alla fase tre.’

«Qualcuno ha idea di cosa possa significare?» chiese Holden.


«Io no» rispose Miller, allontanando da sé il terminale. «A meno
che... il campione del carico di cui si parla non sia il corpo di Julie.»
«Credo che possiamo dare per scontato che sia proprio così»
disse Holden.
Miller tamburellò inconsciamente le dita sul bordo del tavolo,
riproducendo senza accorgersene il ritmo di Holden mentre la sua
mente esaminava tutte le combinazioni possibili.
«Questa cosa» disse Miller. «Quest’arma biologica, o qualsiasi
cosa sia... la stavano spedendo qui. E quindi ora si trova qui. Okay.
Ma non c’è motivo di far fuori Eros. Non è così importante in termini
strategici, in confronto a Ceres, a Ganimede o al cantiere navale di
Callisto. Inoltre, se qualcuno avesse intenti davvero distruttivi, ci
sono modi più semplici. Basterebbe sganciare in superficie una
grossa bomba a fusione e si aprirebbe come un uovo.»
«Non è una base militare, ma un porto commerciale» replicò
Naomi. «E, a differenza di Ceres, non è sotto il controllo dell’APE.»
«Lo stanno spedendo altrove, dunque» disse Holden. «Stanno
portando il loro campione verso l’obiettivo originale, qualunque sia, e
una volta che saranno usciti dalla stazione, non avremo più modo di
fermarli.»
Miller scosse la testa. C’era qualcosa, in quella catena logica, che
non gli tornava. Qualcosa che continuava a sfuggirgli. La sua Julie
immaginaria apparve dall’altra parte della stanza, ma i suoi occhi
erano bui, con filamenti neri che le scendevano lungo le guance
come fossero lacrime.
Che cos’è che vedo, Julie?, pensò. Sto vedendo qualcosa, ma non
so che cosa sia.
La vibrazione fu minima, appena percettibile, meno di
un’incertezza in fase di frenata di un tubo di trasporto. Qualche piatto
tintinnò; il caffè nella tazza di Naomi s’increspò in una serie di cerchi
concentrici. Tutti i presenti nell’albergo si fecero silenziosi, con
l’improvviso timore condiviso da migliaia di individui, coscienti della
propria fragilità nello stesso istante.
«Ehm... okay» esclamò Amos. «Che cazzo è stato?» e i clacson di
emergenza cominciarono a squillare.
«O forse la fase tre è un’altra cosa» disse Miller al di sopra della
confusione.
L’impianto di diffusione sonora era poco chiaro per natura. La
stessa voce parlò da console e altoparlanti che potevano essere a
un metro gli uni dagli altri come anche alla massima distanza
possibile dall’orecchio. La ridondanza conferiva un fastidioso
riverbero alle parole, come una falsa eco. Per questo la voce che
usciva dal sistema di trasmissione d’emergenza enunciò il suo
comunicato con attenzione, scandendo bene ogni parola.
«Attenzione, prego. La Stazione di Eros è in blocco di emergenza.
Procedete subito verso il livello dei casinò per il confinamento
radiologico di sicurezza. Cooperate con tutto il personale di
emergenza. Attenzione, prego. La Stazione di Eros è in blocco di
emergenza...»
E via così, in un ritornello che si sarebbe ripetuto, se nessuno
avesse inserito il codice di arresto, finché ogni uomo, donna,
bambino, animale e insetto sulla stazione non fosse stato ridotto a
un ammasso di polvere e umidità. Era uno scenario da incubo, e
Miller fece ciò che una vita passata su un asteroide pressurizzato gli
aveva insegnato a fare. Si alzò dal tavolo e si precipitò in corridoio,
dirigendosi verso i passaggi più ampi, già affollati. Holden e il suo
equipaggio gli stavano alle calcagna.
«Quella era un’esplosione» osservò Alex. «Doveva essere come
minimo il propulsore di una nave. Forse una testata nucleare.»
«Stanno per distruggere la stazione» spiegò Holden. C’era una
sorta di stupore nella sua voce. «Non avrei mai pensato che avrei
rimpianto il periodo in cui si limitavano a far saltare in aria le navi su
cui mi trovavo. Ora sono passati alle stazioni.»
«Non l’hanno spaccata» disse Miller.
«Ne sei certo?» chiese Naomi.
«Riesco a sentire quel che dici» rispose Miller. «Il che significa che
c’è ancora dell’ossigeno.»
«Ci sono sempre i portelloni» replicò Holden. «Se la stazione è
stata perforata, e i portelloni si sono chiusi...»
Una donna urtò rudemente la spalla di Miller, facendosi largo a
spinte per avanzare. Se non avessero fatto molta attenzione, ci
sarebbe stato un fuggifuggi generale. C’era troppa paura in troppo
poco spazio. Non era ancora successo, ma il movimento frenetico
della folla, che vibrava come le molecole dell’acqua appena prima
dell’ebollizione, metteva Miller molto a disagio.
«Questa non è una nave» disse Miller. «È una stazione. Questo
asteroide è una stazione. Qualsiasi cosa sia così grossa da entrare
in collisione con le parti della stazione che contengono atmosfera,
aprirebbe questo posto come un uovo. Un grosso uovo
pressurizzato.»
La folla fu bloccata, il tunnel era completamente pieno. Ci sarebbe
stato presto bisogno di una forza di controllo, e in fretta. Per la prima
volta da quando aveva lasciato Ceres, Miller desiderò avere con sé il
distintivo. Qualcuno spintonò Amos sul fianco, poi si ritirò tra la calca
quando l’omone ringhiò.
«E poi» continuò Miller «è un rischio insensato. Non serve
disperdere l’ossigeno per uccidere tutti i presenti sulla stazione.
Basterebbe irrorare il posto con qualche biliardo di neutroni
secondari, e non sarebbe più un problema di quantità d’ossigeno.»
«Ma che allegro bastardo» esclamò Amos.
«Le stazioni le costruiscono all’interno degli asteroidi per un buon
motivo» disse Naomi. «Non è così facile costringere le radiazioni a
penetrare tutti questi metri di roccia.»
«Una volta ho passato un mese nel rifugio antiradiazioni» raccontò
Alex mentre continuavano a farsi largo tra la folla sempre più densa.
«La nave su cui mi trovavo aveva riportato una falla nel
contenimento magnetico. I limitatori automatici ebbero un
malfunzionamento e il reattore continuò a girare per quasi un
secondo. Fuse completamente la sala motori. Uccise cinque membri
dell’equipaggio sul ponte successivo prima ancora che sapessero
che avevamo un problema, e ci vollero tre giorni per estrarre i corpi
dalla piattaforma fusa per la sepoltura. Il resto di noi – diciotto
persone – finì dentro un rifugio per quarantasei giorni mentre un
rimorchiatore si metteva in rotta per venirci a prendere.»
«Sembra interessante» commentò Holden.
«Dopo quei giorni di clausura, sei finirono per sposarsi, e il resto di
noi non si rivolse mai più la parola» disse Alex.
Di fronte a loro, qualcuno gridò. Non era né un allarme, né rabbia,
a ben sentire. Era frustrazione. Paura. Esattamente le cose che
Miller non avrebbe voluto ascoltare.
«Potrebbe non essere questo il nostro problema principale» disse
Miller, ma, prima che potesse spiegarsi meglio, una nuova voce si
levò dagli altoparlanti, interrompendo la ripetizione continua
dell’annuncio di emergenza.
«Okay, gente! Siamo della sicurezza di Eros, que no? Abbiamo
un’emergenza, per cui fate come vi diciamo e nessuno si farà del
male.»
Era ora, pensò Miller.
«Allora, ecco le regole» spiegò la nuova voce. «Al prossimo
stronzo che spintona qualcuno, gli sparo. Muovetevi ordinatamente.
Prima priorità: ordinatamente. La seconda priorità è muoversi! Via,
via, via!»
All’inizio, non successe niente. La calca di corpi umani era troppo
fitta perché perfino la più intransigente delle guardie riuscisse a
liberarsi rapidamente ma, un minuto dopo, Miller vide alcune teste
più avanti nel tunnel che cominciavano a girarsi, e poi ad
allontanarsi. L’aria si stava appesantendo e il puzzo caldo dei
riciclatori in sovraccarico lo raggiunse nello stesso istante in cui la
folla cominciò a scorrere. Miller iniziò a respirare più liberamente.
«Ce li hanno i rifugi di sicurezza, qui?» chiese una donna al suo
compagno alle loro spalle, prima di essere allontanati dalla corrente
di corpi in movimento. Naomi tirò la manica di Miller.
«Ce li hanno?» chiese.
«Dovrebbero, sì» rispose Miller. «Dovrebbero bastare per
duecentocinquantamila persone, e il personale essenziale e le
squadre mediche saranno i primi a entrare.»
«E tutti gli altri?» chiese Amos.
«Se sopravvivono all’evento,» disse Holden «il personale della
stazione cercherà di salvare più gente possibile.»
«Ah» disse Amos. Poi: «Be’, fanculo. Stiamo tornando alla Roci,
giusto?»
«Diavolo, sì» rispose Holden.
Più avanti, la folla in rapido movimento nel loro tunnel confluiva in
un altro flusso di persone che proveniva da un livello inferiore.
Cinque uomini dal collo taurino stavano facendo segno alla gente di
avanzare. Due di loro tenevano dei fucili puntati contro la folla. Miller
era più che tentato di andare lì e schiaffeggiare quegli idioti. Puntare
le armi contro le persone era un modo stupido di sedare il panico.
Uno degli uomini della sicurezza era anche troppo grosso per il suo
equipaggiamento, con le cinghie di velcro adesivo sulla pancia che si
ricongiungevano disperatamente come amanti al momento
dell’addio.
Miller guardò a terra e rallentò il passo, mentre la sua mente
cominciava improvvisamente a correre. Uno dei poliziotti colpì con il
calcio dell’arma la folla. Un altro, il grassone, scoppiò a ridere e
disse qualcosa in coreano.
Che cosa gli aveva detto Sematimba riguardo alle nuove forze
dell’ordine? Spacconi senza palle. Una nuova agenzia con base su
Luna. Agenti cinturiani sul campo. Corrotti.
Il nome. Avevano un nome. CPM. Carne Por la Machina. Carne per
la macchina. Uno degli sbirri che impugnavano le armi abbassò il
fucile, si tolse il casco e si grattò brutalmente dietro un orecchio.
Aveva capelli neri arruffati, il collo tatuato e una cicatrice che gli
scendeva da una palpebra fin quasi alla mascella.
Miller lo riconobbe: un anno e mezzo prima lo aveva arrestato per
aggressione e associazione a delinquere. E anche
quell’equipaggiamento – corazze, manganelli, fucili antisommossa –
gli sembrava inquietantemente familiare. Dawes si era sbagliato: alla
fine Miller era stato capace di ritrovare l’equipaggiamento scomparso
dalla sua centrale.
Di qualunque cosa si trattasse, andava avanti da parecchio tempo
prima che la Canterbury avesse raccolto il segnale di richiesta di
aiuto della Scopuli. Da molto tempo prima della scomparsa di Julie.
E affidare a una manica di malviventi della Stazione di Ceres il
contenimento della folla su Eros, usando l’equipaggiamento rubato
sulla Stazione di Ceres, faceva parte del piano. La terza fase.
Uhm, pensò. Be’, non può significare niente di buono.
Miller si spostò da un lato, lasciando che tra lui e gli scagnozzi
vestiti da poliziotti si accalcassero più corpi possibile.
«Scendete al livello dei casinò» disse uno degli sbirri alla folla. «Da
lì sarete guidati verso i rifugi antiradiazioni, ma dovete dirigervi verso
il livello dei casinò!»
Holden e il suo equipaggio non avevano notato niente di strano.
Erano intenti a parlare tra loro, escogitando un piano per
raggiungere la propria nave e cercando di decidere cosa fare una
volta lì, speculando su chi avesse potuto attaccare la stazione e su
dove mai poteva esser stato portato il cadavere deturpato e infetto di
Julie Mao. Miller lottò contro l’impulso di interromperli. Doveva
restare calmo, riflettere attentamente sul da farsi. Non dovevano
attirare l’attenzione. Bisognava agire al momento giusto.
Il corridoio svoltava e si allargava. La calca dei corpi si allentò un
po’. Miller aspettò di trovarsi in un punto morto per gli agenti di
controllo della folla, uno spazio in cui quei poliziotti impostori non
potessero vederli. Afferrò Holden per un gomito.
«Non andate» disse.
27

Holden

«Che vuol dire ‘non andate’?» chiese Holden, tirando via il gomito
dalla presa di Miller. «Qualcuno ha appena bombardato la stazione.
Questa faccenda è andata oltre le nostre capacità di risposta. Se
non riusciremo ad arrivare alla Rocinante, faremo tutto quel che ci
dicono finché non troveremo un modo per tornare a bordo.»
Miller fece un passo indietro e alzò le mani; stava chiaramente
facendo del suo meglio per sembrare inoffensivo, cosa che infastidì
Holden ancor di più. Alle sue spalle gli sbirri in tenuta antisommossa
spingevano la gente che si attardava nei corridoi verso i casinò.
Nell’aria riecheggiavano le voci elettronicamente amplificate dei
poliziotti che davano direttive alla folla e il brusio ansioso dei
cittadini. A coprire il tutto, dall’impianto di diffusione sonora una voce
diceva di restare calmi e di cooperare con il personale di sicurezza.
«Lo vedi quel bestione laggiù, in tenuta antisommossa?» disse
Miller. «Si chiama Gabby Smalls. È a capo di una sezione che
gestisce l’estorsione per conto della Golden Bough, su Ceres. È
coinvolto anche in altri affari loschi, e sospetto che abbia gettato
fuori dai portelloni più di una persona.»
Holden fissò il tipo. Spalle ampie, ventre abbondante. Ora che
Miller glielo faceva notare, c’era qualcosa in quell’uomo che non
sembrava appropriato per un poliziotto.
«Non capisco» disse Holden.
«Un paio di mesi fa, quando tu hai dato la stura a una serie di
sommosse dicendo che Marte aveva fatto saltare in aria il vostro
cargo frigorifero, abbiamo scoperto...»
«Non ho mai detto...»
«...abbiamo scoperto che la maggior parte dell’equipaggiamento
antisommossa della polizia di Ceres era stata trafugata. Pochi mesi
prima, una manciata di operatori del crimine organizzato sono
scomparsi dai radar. Ho appena scoperto che fine hanno fatto
entrambi.»
Miller indicò verso la tenuta antisommossa indossata da Gabby
Smalls.
«Io non andrei nella direzione in cui mi dice di andare lui»
consigliò. «No, davvero.»
Un esiguo flusso di persone li superò spintonandoli.
«E allora dove?» chiese Naomi.
«Già. Voglio dire, se la scelta è tra radiazioni o malavitosi, tocca
scegliere i malavitosi» disse Alex, annuendo con enfasi alle parole di
Naomi.
Miller tirò fuori il suo terminale palmare e lo alzò per mostrarne lo
schermo a tutti.
«Non ho nessuna allerta radiazioni» disse. «Qualunque cosa sia
successa fuori, non rappresenta una minaccia su questo livello. Non
al momento. Per cui cerchiamo di calmarci e di fare la cosa giusta.»
Holden si voltò di spalle a Miller e fece segno di avvicinarsi a
Naomi. La tirò da una parte e disse sottovoce: «Io sono ancora
dell’idea di tornare alla nave e di levare le tende da questo posto. Di
correre il rischio di superare quegli sgherri.»
«Se non c’è pericolo di radiazioni, concordo» rispose lei annuendo.
«Io dissento» replicò Miller, senza nemmeno darsi la pena di far
finta che non stesse origliando. «Per fare una cosa del genere
dovremmo attraversare tre livelli di casinò pieni zeppi di scagnozzi in
tenuta antisommossa. Ci intimeranno di entrare in uno di quei casinò
per metterci in sicurezza. Quando non lo faremo, ci picchieranno fino
a farci perdere i sensi e ci butteranno dentro volenti o nolenti. Per
metterci in sicurezza.»
Un altro gruppo di persone emerse da un corridoio laterale,
dirigendosi verso la rassicurante presenza della polizia e le luci
gioiose dei casinò. Holden si accorse che era difficile non farsi
trascinare dalla folla. Un uomo con due enormi valigie andò a
sbattere addosso a Naomi e per poco non la fece cadere a terra.
Holden l’afferrò per la mano.
«Che alternativa abbiamo?» chiese a Miller.
Miller guardò su e giù lungo il corridoio, come a valutare il flusso di
persone. Fece un cenno col capo verso un portello a strisce nere e
gialle in un corridoio di servizio.
«Laggiù» disse. «Sopra c’è scritto ALTA TENSIONE, per cui gli sbirri
che faranno un giro di ricognizione alla ricerca di eventuali ritardatari
non si preoccuperanno di ispezionarlo. Non è il genere di posto in
cui si nasconderebbe un cittadino.»
«Riesci ad aprirla in fretta?» chiese Holden, guardando Amos.
«Posso romperla?»
«Se necessario.»
«Allora certo» disse Amos, e cominciò a farsi largo tra la folla verso
il portello di servizio. Una volta giunto di fronte alla porta, tirò fuori il
suo attrezzo multiuso e fece saltare il cassettino che ospitava il
lettore ottico. Dopo che ebbe avvolto assieme un paio di cavi, il
portello scivolò di lato con un sibilo idraulico.
«Ta-dah» disse Amos. «Il lettore d’accesso è rotto, per cui
chiunque volesse entrare potrà farlo.»
«Ce ne preoccuperemo se e quando succederà» replicò Miller, poi
li precedette nel passaggio fiocamente illuminato oltre l’apertura.
Il corridoio di servizio era pieno di cavi elettrici legati da fascette di
plastica. Si protraeva in quella tenue luce rossa per dieci, quindici
metri, prima di perdersi nel buio. La luce proveniva dalle lampade a
LED montate su una serie di bracci metallici che spuntavano dalla
parete ogni paio di metri per sostenere i cavi. Naomi dovette chinarsi
per entrare; era alta quattro centimetri di troppo per il soffitto.
Appoggiò la schiena alla parete e scivolò giù, accovacciandosi sui
talloni.
«Potrebbero aver avuto il buonsenso di farli abbastanza alti perché
un cinturiano possa lavorarci dentro, i loro corridoi» disse irritata.
Holden toccò la parete con una sorta di reverenza, passando le
dita sul numero d’identificazione di un corridoio scavato direttamente
nella roccia.
«I cinturiani che hanno costruito questo posto non erano alti»
disse. «Queste sono alcune delle linee di corrente principali. Questo
tunnel va fino alla prima colonia della Fascia. Le persone che
l’hanno scavato erano cresciute con la gravità.»
Anche Miller aveva dovuto abbassare la testa; si sedette a terra
sbuffando e con uno scrocchio delle ginocchia.
«C’è tempo per le lezioni di storia» replicò. «Ora occupiamoci di
trovare un modo per andarcene da questo scoglio.»
Amos, studiando attentamente le matasse di cavi, disse: «Se
vedete un punto rovinato, non lo toccate. Questo bastardo qui porta
un paio di milioni di volt. Vi ridurrebbe a un mucchietto di merda
fusa.»
Alex si sedette accanto a Naomi, facendo una smorfia quando le
sue natiche toccarono la pietra fredda del pavimento.
«Sapete,» disse «se decidono di sigillare la stazione, potrebbero
pompare tutta l’aria fuori da questi corridoi di servizio.»
«Abbiamo capito» rispose Holden esasperato. «È un nascondiglio
merdoso e scomodo. Ora avete il permesso di chiudere la bocca
sulla questione.»
Si accovacciò di fronte a Miller e disse: «E va bene, detective. Ora
che facciamo?»
«Ora» rispose Miller «aspettiamo che la pattuglia ci superi e gli
andremo dietro, cercando di raggiungere i moli. La gente nei rifugi
sarà facile da evitare. I rifugi sono ai livelli più alti, in profondità. Il
problema sarà riuscire ad attraversare i livelli dei casinò.»
«Non possiamo usare i passaggi di servizio per spostarci?» chiese
Alex.
Amos scosse la testa. «Non senza una mappa, no. Se ti perdi qua
dentro, sono guai seri» rispose.
Ignorandoli entrambi, Holden disse: «Okay. Aspetteremo che se ne
siano andati tutti ai rifugi antiradiazioni e poi toglieremo le tende.»
Miller annuì, poi i due uomini si fissarono a vicenda per un istante.
L’aria tra loro sembrò addensarsi, mentre il silenzio acquisiva un
significato tutto suo. Miller si strinse nelle spalle come se la sua
giacca gli causasse prurito.
«Perché credi che un branco di manigoldi di Ceres stia spostando
tutti nei rifugi antiradiazioni, quando in realtà non c’è alcun pericolo
radioattivo?» chiese Holden alla fine. «E perché i poliziotti di Eros
glielo lasciano fare?»
«Bella domanda» esclamò Miller.
«Se stessero usando quegli zotici, si spiegherebbe meglio perché il
loro tentativo di rapimento abbia fatto così schifo. Non sembrano dei
professionisti.»
«Già» concordò Miller. «Non rientrava nelle loro competenze
abituali.»
«Volete stare zitti?» disse Naomi.
Rimasero in silenzio per quasi un minuto.
«Sarebbe davvero stupido» disse Holden «andare a dare
un’occhiata a quello che sta succedendo, vero?»
«Sì. Qualsiasi cosa stia accadendo in quei rifugi, sappiamo che è lì
che si trovano tutte le guardie e le pattuglie» rispose Miller.
«Già» confermò Holden.
«Capitano» disse Naomi, con un tono di avvertimento nella voce.
«Però» continuò Holden, parlando con Miller. «Tu odi i misteri.»
«Eccome» replicò Miller con un sorriso appena accennato. «E tu,
amico mio, sei un diavolo di ficcanaso.»
«Me l’hanno detto.»
«Maledizione» disse piano Naomi.
«Che succede, capo?» chiese Amos.
«Questi due hanno appena mandato a monte il nostro piano di
fuga» rispose Naomi. Poi disse a Holden: «Voi due sarete nocivi
l’uno per l’altro e, per estensione, lo sarete anche per noi.»
«Macché» rispose Holden. «Voi non verrete con noi. Resterai qui
con Amos e Alex. Dateci...» Guardò il suo palmare. «Tre ore, per
andare a dare un’occhiata e tornare. Se non torniamo entro...»
«Vi abbandoniamo in mano ai gangster e ci andiamo a cercare un
lavoro su Tycho, dove vivremo felici e contenti» disse Naomi.
«Esatto» confermò Holden con un ghigno. «Non fate gli eroi.»
«Non ci penso proprio, signore.»
Holden si accovacciò nell’ombra appena fuori dal portello di
servizio e osservò gli sgherri di Ceres travestiti da poliziotti in tenuta
antisommossa condurre via i cittadini di Eros in piccoli gruppi.
L’impianto pubblico di diffusione sonora continuava a dichiarare la
possibile presenza di un rischio radioattivo ed esortava i cittadini e i
forestieri di Eros a collaborare pienamente con il personale di
sicurezza. Holden aveva scelto un gruppo da seguire e stava per
muoversi, quando Miller gli posò una mano sulla spalla.
«Aspetta» disse Miller. «Voglio fare una chiamata.»
Compose rapidamente un numero sul suo terminale palmare e,
dopo qualche istante, apparve un messaggio grigio di ‘Rete non
disponibile’.
«Non c’è più linea?» chiese Holden.
«È la prima cosa che farei anch’io» rispose Miller.
«Capisco» replicò Holden, anche se in effetti non capiva.
«Be’, immagino che siamo solo io e te, allora» disse Miller; poi
tolse il caricatore dalla pistola e cominciò a ricaricarlo con le
cartucce che teneva nella tasca del cappotto.
Anche se aveva già visto abbastanza sparatorie da bastargli per il
resto della vita, anche Holden prese la sua arma e controllò il
caricatore. L’aveva sostituito dopo averlo svuotato nell’albergo, e ora
era completamente pieno. Lo inserì al suo posto e si mise l’arma
nella cinta. Notò che Miller teneva la pistola in pugno, vicino alla
coscia, dov’era coperta quasi completamente dal cappotto.
Non fu difficile seguire i gruppi su per la stazione verso le sezioni
interne, dove si trovavano i rifugi antiradiazioni. Finché continuavano
a spostarsi seguendo la folla, nessuno prestò loro attenzione.
Holden prese nota mentalmente delle numerose intersezioni dove gli
uomini in tenuta antisommossa montavano la guardia. Tornare
indietro sarebbe stato molto più difficile.
Quando il gruppo che stavano seguendo finalmente si fermò fuori
da una massiccia porta metallica contrassegnata dall’antico simbolo
di radioattività, Holden e Miller si defilarono da un lato e si nascosero
dietro un grosso vaso pieno di felci e di un paio d’alberi rinsecchiti.
Holden osservò i finti corpi antisommossa ordinare a tutti di entrare
nel rifugio e poi sigillare la porta alle loro spalle strisciando una carta
nel dispositivo di chiusura. Se ne andarono tutti tranne uno, che
rimase di guardia all’esterno.
Miller sussurrò: «Chiediamogli di farci entrare.»
«Seguimi» disse Holden, poi si alzò e cominciò ad andare incontro
alla guardia.
«Ehi, testa di cazzo! Devi startene in un rifugio o in un casinò, per
cui vedi di tornare dal tuo cazzo di gruppo» urlò la guardia, con una
mano sul calcio del fucile.
Holden alzò le mani pacificamente, sorrise e continuò ad avanzare.
«Ehi, ho perso il mio gruppo. Mi sono perso, non so come. Non sono
di queste parti, sa» disse.
La guardia indicò lungo il corridoio con il manganello che teneva
nella sinistra.
«Va’ di là finché non trovi la rampa che porta giù» disse.
Miller sembrò comparire dal nulla nel corridoio fiocamente
illuminato, con la pistola già puntata alla tempia della guardia. Tolse
la sicura con uno scatto ben udibile.
«Che ne dici se invece ci uniamo al gruppo che è già dentro?»
chiese. «Apri.»
La guardia guardò Miller con la coda dell’occhio, senza voltare la
testa di un millimetro. Alzò le mani e lasciò cadere a terra il
manganello.
«Non è davvero il caso, amico» disse il finto sbirro.
«Io credo di sì, invece» ribatté Holden. «Dovresti fare come ti dice.
Non è una persona molto gentile.»
Miller premette la canna della pistola sulla tempia della guardia e
disse: «Lo sai che significava, quando giù in centrale dicevamo che
uno si ‘scervellava’? Si riferiva a quando un colpo alla testa fa
esplodere fuori dal cranio di un tipo l’intero cervello. Solitamente
succede quando si preme la pistola sulla tempia della vittima, più o
meno in questo punto. Il gas non trova sfogo. Fa schizzare fuori tutto
il cervello dal foro di uscita.»
«Hanno detto di non aprirli una volta che sono stati sigillati, amico»
disse la guardia, parlando così velocemente da accavallare le
parole. «Sono stati molto rigidi su questo.»
«Questa è l’ultima volta che parlo» replicò Miller. «La prossima
userò la chiave che troverò sul tuo cadavere.»
Holden voltò la guardia verso la porta e gli tolse la pistola dalla
fondina. Sperò che le minacce di Miller fossero solo tali. Sospettò
che non lo fossero.
«Apri la porta e ti lasceremo andare, te lo prometto» disse Holden
alla guardia.
Quello annuì e avanzò verso la porta, strisciò la sua carta nella
serratura e digitò un codice sul tastierino numerico. La pesante porta
antiesplosione scivolò da un lato. Oltre l’ingresso, la stanza era
ancora più buia del corridoio esterno. Alcuni LED di emergenza
baluginavano di un rosso livido. In quella luce fioca, Holden scorse
decine... centinaia di corpi riversi a terra, immobili.
«Sono morti?» chiese Holden.
«Non so niente di...» cominciò a dire la guardia, ma Miller lo
interruppe.
«Va’ prima tu» disse, e spinse la guardia avanti.
«Aspetta un attimo» intervenne Holden. «Non credo che sia una
buona idea buttarci lì dentro a capofitto.»
Tre cose accaddero contemporaneamente. La guardia fece quattro
passi in avanti e crollò a terra. Miller annusò l’aria una volta, con
decisione, e iniziò a barcollare come se fosse ubriaco. Ed entrambi i
terminali di Holden e Miller cominciarono a emettere un furioso
ronzio elettrico.
Miller barcollò all’indietro e disse: «La porta...»
Holden premette un tasto e la porta si richiuse senza rumore.
«Gas» disse Miller, poi tossì. «C’è del gas, lì dentro.»
Mentre l’ex poliziotto si appoggiava alla parete del corridoio e
tossiva, Holden tirò fuori il terminale per mettere fine al ronzio. Ma
l’allarme che lampeggiava sullo schermo non era un’allerta di
contaminazione da gas. Era la venerabile forma a tre spicchi che
puntavano verso il centro: radiazioni. Mentre lo fissava, il simbolo,
che sarebbe dovuto essere bianco, passò dall’arancione acceso al
rosso scuro.
Anche Miller fissava il suo palmare, con espressione indecifrabile.
«Siamo stati contaminati» disse Holden.
«Non ho mai nemmeno visto il detector attivarsi» rispose Miller,
con voce roca e debole dopo il raptus di tosse. «Che cosa significa
quando l’affare diventa rosso?»
«Significa che cominceremo a sanguinare dal culo tra meno di sei
ore» rispose Holden. «Dobbiamo arrivare alla nave. Lì ci sono i
medicinali che ci servono.»
«Ma che...» disse Miller. «Che cazzo sta succedendo?»
Holden afferrò Miller per un braccio e lo condusse giù per il
corridoio, verso le rampe. Si sentiva la pelle bollente e pruriginosa.
Non sapeva se fosse dovuto alle radiazioni o a una reazione
psicosomatica. Per la quantità di radiazioni a cui era appena stato
esposto, era un bene che avesse fatto conservare un po’ di sperma
in Montana e su Europa.
Quel pensiero gli fece prudere le palle.
«Stanno nuclearizzando la stazione» disse Holden. «Diavolo, forse
stanno soltanto facendo finta che sia così. Trascinano tutti quanti qui
e li gettano nei rifugi radioattivi che sono radioattivi soltanto
all’interno. E li gasano per farli stare tranquilli.»
«Ci sono modi più semplici per ammazzare la gente» disse Miller,
con il sorriso affannato e rotto mentre correvano lungo il corridoio.
«Per cui dev’esserci qualcosa di più, sotto» dedusse Holden. «Il
morbo, giusto? Quello che ha ucciso la ragazza. Si... nutriva di
radiazioni.»
«Incubatori» disse Miller, annuendo per dare il suo assenso.
Arrivati a una delle rampe che conducevano ai livelli inferiori,
videro un gruppo di cittadini scortati da due finti sbirri in tenuta
antisommossa venire su verso di loro. Holden afferrò Miller e lo tirò
da una parte, dove potevano nascondersi all’ombra di un ramen bar
chiuso.
«Quindi li hanno infettati, giusto?» sussurrò Holden, aspettando
che il gruppo li superasse. «Magari hanno un qualche medicinale per
curare le radiazioni con dentro il morbo. Magari quella fanghiglia
marrone che c’era sul pavimento. E allora, qualunque cosa fosse
dentro quella ragazza, Julie...»
Holden s’interruppe quando Miller si allontanò da lui e si diresse
dritto verso il gruppo che era appena arrivato in cima alla rampa.
«Agente» disse Miller apostrofando uno dei finti poliziotti.
Gli sgherri si fermarono entrambi e uno di loro gli disse: «Dovresti
essere...»
Miller gli sparò alla gola, appena sotto la visiera del casco. Poi si
voltò con un movimento fluido e sparò all’interno coscia dell’altra
guardia, poco sotto l’inguine. Quando l’uomo cadde all’indietro,
gridando per il dolore, Miller gli fu addosso e gli sparò di nuovo,
stavolta sul collo.
Un paio di cittadini cominciarono a urlare. Miller puntò loro contro
la pistola e quelli si zittirono.
«Scendete di un livello o due e trovate un posto in cui
nascondervi» disse. «Non cooperate con questi uomini, anche se
sono vestiti da poliziotti. Non stanno agendo nel vostro interesse.
Andate.»
I cittadini esitarono, poi corsero via. Miller prese tre cartucce dalla
tasca e sostituì quelle che aveva usato. Holden fece per parlare, ma
Miller lo interruppe.
«Spara alla gola, se puoi. In molti casi, la visiera e la corazza
pettorale non bastano a coprire lo spiraglio. Se il collo è coperto,
spara all’interno coscia. Lì la corazza è più sottile, per una questione
di mobilità. Basta un colpo per abbattere la maggior parte degli
uomini.»
Holden annuì, come se tutto questo avesse un senso.
«Okay» disse Holden. «Mettiamo che riusciamo a tornare alla nave
prima che moriamo dissanguati, va bene? Non spariamo più a
nessuno, a meno che non sia indispensabile.» La sua voce
sembrava più calma di quanto lui non si sentisse in realtà.
Miller rimise il caricatore nella pistola con uno scatto secco e
incamerò un altro proiettile.
«Credo che dovremo sparare a molta altra gente, prima che tutto
questo sia finito» disse. «Ma va bene. Come no. Prima le cose
importanti.»
28

Miller

La prima volta che Miller aveva ucciso una persona era stato
durante il suo terzo anno nelle forze dell’ordine. Aveva ventidue
anni, si era appena sposato e parlava di avere dei figli. In quanto
ultimo arrivato, gli assegnavano sempre i lavori più schifosi:
pattugliare livelli così alti che il Coriolis gli faceva venire il mal di
mare, intervenire nei casi di violenza domestica in buchi non più
grandi di un cassonetto, montare la guardia alla cella per ubriachi
per evitare che alcuni stuprassero altri che erano privi di sensi. Il
solito nonnismo. Sapeva che doveva aspettarselo. Aveva pensato di
poterlo sopportare.
La chiamata era arrivata da un ristorante illegale situato quasi sulla
massa centrale. A meno di un decimo di g, la gravità era poco più
che un’impressione, e il suo orecchio interno era confuso e angariato
dal cambiamento di rotazione. Quando ci ripensava, riusciva ancora
a ricordare il suono delle voci alte, troppo rapide e sbiascicate per
distinguerne le parole. Quella puzza di formaggio fatto in casa. La
timida foschia di fumo della piastra elettrica da due soldi.
Era successo tutto in fretta. Il sospettato era uscito dal buco con la
pistola in mano, trascinandosi dietro una donna per i capelli con
l’altra mano. Il partner di Miller, un veterano con dieci anni di
esperienza di nome Carson, aveva gridato l’avvertimento di rito. Il
sospettato si era voltato, girando la pistola con il braccio teso come
uno stuntman in un video.
Durante tutto l’addestramento, gli istruttori avevano detto che non
potevi sapere cosa avresti fatto finché non fosse giunto il momento.
Uccidere un altro essere umano era dura. Alcuni non ci riuscivano.
La pistola del sospettato era arrivata a puntare verso di loro; l’uomo
aveva lasciato andare la donna e aveva gridato. Alla fine era saltato
fuori che, perlomeno per Miller, non era poi così difficile.
Dopo, l’avevano sottoposto a delle sedute obbligatorie di
consulenza psicologica. Aveva pianto. Aveva sofferto d’incubi, di
tremori e di tutte quelle cose che i poliziotti sopportavano in silenzio,
senza parlarne con nessuno. Anche allora, però, gli era sembrato
che avvenisse in un mondo distante da lui, come se si fosse
ubriacato al punto da vedersi dall’esterno mentre vomitava in un
cesso. Era solo una reazione fisica. Sarebbe passata.
La cosa più importante era che conosceva la risposta alla
domanda. Sì. Se ne avesse avuto bisogno, era in grado di togliere la
vita.
Ma soltanto ora, avanzando lungo i corridoi di Eros, aveva gioito
nel farlo. Perfino abbattere quel povero bastardo durante la prima
sparatoria gli era sembrata una triste incombenza di lavoro. Il
piacere di uccidere era giunto soltanto dopo il fatto di Julie; e non era
vero e proprio piacere, quanto piuttosto un breve istante in cui aveva
smesso di soffrire.
Teneva la pistola bassa. Holden riprese a scendere per la rampa e
Miller lo seguì, lasciando che il terrestre prendesse l’iniziativa.
Holden camminava più rapidamente di lui e con l’atletismo innato di
qualcuno che aveva l’abitudine di vivere in una moltitudine di gravità
diverse. Miller aveva la sensazione di aver innervosito Holden, e un
po’ se ne pentiva. Non era stata sua intenzione, e aveva davvero
bisogno di salire a bordo della nave di Holden se voleva scoprire i
segreti di Julie.
O, se non altro, per non morire di esposizione alle radiazioni nelle
ore successive. Quello sembrava uno scopo più sottile di quanto non
fosse.
«Okay» disse Holden una volta arrivato in fondo alla rampa.
«Dobbiamo tornare giù, e ci sono un sacco di guardie tra noi e
Naomi che saranno piuttosto confuse nel vedere due tizi che
procedono nella direzione sbagliata.»
«Questo è un problema» concordò Miller.
«Hai qualche idea?»
Miller si accigliò e studiò il pavimento. I pavimenti di Eros erano
diversi da quelli di Ceres: in laminato, con paillettes dorate.
«La metropolitana non dovrebbe essere in funzione» disse. «Se lo
fosse, sarà comunque in procedura di evacuazione, e si fermerà
soltanto al capolinea, giù ai casinò. Per cui direi che non è
un’opzione.»
«Di nuovo i corridoi di servizio?»
«Se riusciamo a trovare quello che attraversa i livelli» disse Miller.
«Potrebbe essere un po’ complicato, ma mi pare meglio che farci
strada sparando a due dozzine di pezzi di merda in armatura.
Quanto tempo abbiamo prima che i tuoi amici se la diano a gambe?»
Holden guardò il suo palmare. L’allarme radiazioni era ancora di un
rosso acceso. Miller si chiese quanto tempo gli ci volesse per
ripristinarsi.
«Poco più di due ore» disse Holden. «Non dovrebbe essere un
problema.»
«Vediamo cosa riusciamo a trovare» disse Miller.
I corridoi più vicini ai rifugi antiradiazioni – le trappole mortali, gli
incubatori – erano stati svuotati. Gli ampi passaggi costruiti per
accomodare le antiche attrezzature da costruzione che avevano
scavato Eros fino a farne un luogo abitabile per gli umani erano
inquietanti, con la sola presenza di Holden e Miller e del ronzio
basso dei riciclatori d’aria. Miller non aveva fatto caso al momento in
cui gli altoparlanti avevano cessato di trasmettere il comunicato, ma
il loro silenzio ora gli parve essere di cattivo auspicio.
Se fossero stati su Ceres, avrebbe saputo dove andare, dove
portava ogni vicolo, come muoversi agilmente tra un livello e l’altro.
Su Eros, però, non poteva far altro che tirare più o meno a
indovinare. Non era poi così male.
Ma poteva comunque capire che ci stavano mettendo troppo e,
quel che era peggio, non ne stavano parlando. Nessuno dei due
parlava; camminavano più lentamente del normale. Il dolore non era
ancora arrivato alla soglia della coscienza, ma Miller sapeva che
entrambi i loro corpi stavano cominciando a risentire del danno
radioattivo. E la situazione non sarebbe andata migliorando.
«Okay» disse Holden. «Da queste parti dovrebbe esserci un
cunicolo di servizio.»
«Potremmo anche provare la stazione della metropolitana»
propose Miller. «I vagoni viaggiano nel vuoto ma potrebbero anche
esserci dei tunnel di servizio paralleli al tubo.»
«Non credi che potrebbero averli chiusi durante il rastrellamento?»
«Probabile» disse Miller.
«Ehi! Voi due! Che cazzo credete di fare, qui fuori?»
Miller si guardò alle spalle. Due uomini in tenuta antisommossa
stavano rivolgendo loro dei gesti minacciosi. Holden imprecò
sottovoce. Miller strizzò gli occhi.
Il fatto era che quegli uomini erano dei dilettanti. L’embrione di
un’idea si agitò in un angolino della mente di Miller mentre guardava
i due che si avvicinavano. Ucciderli e prendere il loro
equipaggiamento non avrebbe funzionato. Non c’era niente di meglio
che chiazze di sangue e bruciature per dare a intendere che c’era
qualcosa di losco. Però...
«Miller» disse Holden, con un tono di avvertimento nella voce.
«Sì» rispose Miller. «Lo so.»
«Che cazzo pensate di fare voi due, ho detto!» ripeté uno degli
uomini della sicurezza. «La stazione è in procedura di blocco. Tutti i
cittadini devono dirigersi giù verso il livello dei casinò o verso i rifugi
antiradiazioni.»
«Stavamo giusto cercando un modo per... ehm... scendere al livello
dei casinò» spiegò Holden, sorridendo e assumendo un
atteggiamento completamente innocuo. «Non siamo del posto, e...»
La guardia più vicina lo colpì seccamente sulla gamba con il calcio
del fucile. Il terrestre incespicò e Miller sparò allo sgherro appena
sotto la visiera, poi si voltò di scatto verso l’altro sbirro, rimasto a
bocca aperta.
«Tu sei Mikey Ko, giusto?» domandò Miller.
Il viso dell’uomo si fece ancor più pallido, ma annuì. Holden
gemette e si rialzò in piedi.
«Sono l’ispettore Miller» disse l’ex poliziotto. «Ti ho messo dentro
su Ceres più o meno quattro anni fa. Ti eri un po’ lasciato prendere
la mano in un bar. Il Tappan’s, se non sbaglio... Picchiasti una
ragazza con una stecca da biliardo, dico bene?»
«Oh... Ehi!» disse l’uomo con un sorriso spaventato. «Sì, mi
ricordo di te. Come te la passi?»
«Alti e bassi» rispose Miller. «Sai com’è. Consegna la tua pistola al
terrestre.»
Lo sguardo di Ko passò da Miller a Holden, poi tornò sull’ex
poliziotto. Lo scagnozzo si leccò le labbra, soppesando le sue
possibilità. Miller scosse la testa.
«Andiamo» disse. «Dagli la pistola.»
«Certo, sì. Non c’è problema.»
Quello era il genere di uomo che aveva ucciso Julie, pensò Miller.
Stupido. Avventato. Un uomo che al posto dell’anima aveva solo un
violento appetito opportunista. La Julie mentale di Miller scosse la
testa disgustata e affranta, e Miller si ritrovò a chiedersi se quel
gesto avesse di mira lo sgherro che stava consegnando il fucile a
Holden o lui. Forse entrambi.
«Che sta succedendo, qui, Mikey?» chiese Miller.
«Che vuoi dire?» domandò quello, facendo il finto tonto, come se si
fossero trovati in una stanza per gli interrogatori. Cercando di
prendere tempo. Recitando il vecchio copione tra sbirro e criminale,
come se avesse ancora un senso. Come se non fosse cambiato
niente. Miller fu sorpreso di sentirsi un nodo in gola. Non sapeva che
cosa significasse.
«Il lavoro» riprese. «Che lavoro è?»
«Non lo so...»
«Ehi» disse Miller con gentilezza. «Ho appena ammazzato il tuo
compare.»
«È il terzo, oggi» aggiunse Holden. «L’ho visto coi miei occhi.»
Miller riusciva a leggere la furbizia maligna nello sguardo di
quell’uomo, la mutevolezza, lo spostarsi da una strategia all’altra.
Era una roba vecchia, familiare e prevedibile come un rivolo d’acqua
che scende verso il basso.
«Be’» disse Ko. «È solo un lavoretto. Un anno fa ci hanno detto
che ci sarebbe stato un grosso cambiamento, chiaro? Ma nessuno
sa che cos’è. E qualche mese fa hanno cominciato a far spostare i
ragazzi. A addestrarci come se fossimo degli sbirri, capito come?»
«Chi vi ha addestrati?» chiese Miller.
«Quelli che erano qui prima di noi, con l’appalto per la sicurezza
della stazione» rispose Ko.
«Protogen?»
«Una roba del genere, sì» disse quello. «Poi se ne sono andati e
noi abbiamo preso il loro posto. Solo lavori pesanti, hai presente...
Un po’ di contrabbando.»
«Contrabbando di cosa?»
«Un po’ di tutto» disse Ko. Stava cominciando a sentirsi più sicuro,
e si vedeva nel suo atteggiamento e nel modo in cui parlava.
«Equipaggiamento di polizia, sistemi di comunicazione, server
cazzutissimi con software gelatinosi già preinstallati... e
strumentazione scientifica. Roba per monitorare l’aria, l’acqua e
cazzate del genere. E anche vecchi robot per l’accesso remoto,
come quelli che si usavano per scavare nel vuoto. Un po’ di tutto.»
«Dove portavate tutta questa roba?» chiese Holden.
«Qui» rispose Ko, indicando intorno a sé, con riferimento
all’asteroide e alla stazione. «È tutto qui. Ci hanno messo tipo mesi,
a installare quella merda. E poi, per settimane, più niente.»
«In che senso, niente?» chiese Miller.
«Niente di niente. Tutto quel lavoro preparatorio, e poi ce ne siamo
rimasti con le mani in mano, a girarci i pollici.»
Qualcosa era andato storto. Il morbo di Phoebe non era arrivato al
momento previsto; poi però era venuta Julie, pensò Miller, e i giochi
erano ripresi. La rivide ancora, come gli era apparsa nella stanza.
Quei lunghi tentacoli di chissà cosa, le schegge d’ossa che le
premevano sulla pelle per lacerarla dall’interno, la schiuma nera e
filamentosa che le colava dagli occhi.
«La paga è buona, però» disse filosoficamente Ko. «Ed è stato
bello godersi un po’ di tempo libero.»
Miller annuì, gli si fece più vicino, infilò la canna della pistola tra gli
strati di corazza sul ventre di Ko e gli sparò.
«Ma che cazzo!» disse Holden mentre Miller si rimetteva la pistola
nella tasca della giacca.
«Che cosa credevi che sarebbe successo?» chiese Miller,
accovacciandosi accanto all’uomo con il proiettile in pancia. «Non ci
avrebbe mica lasciati andare.»
«Be’, okay» riconobbe Holden. «Però...»
«Aiutami a rialzarlo» disse Miller, passando un braccio sotto la
spalla di Ko. Quando lo sollevò da terra, l’uomo lanciò un grido di
dolore.
«Cosa?»
«Sorreggilo dall’altra parte» disse Miller. «Ha bisogno di cure
mediche, dico bene?»
«Uhm... sì» rispose Holden.
«E allora sorreggilo dall’altra parte.»
I rifugi antiradioattivi non erano poi così lontani come si era
aspettato Miller, il che aveva i suoi pro e i suoi contro. Di buono c’era
che Ko era ancora vivo e urlante. Era probabile che fosse anche
lucido, il che non era quello Miller aveva sperato. Ma, quando
raggiunsero il primo gruppo di guardie, il balbettio incoerente di Ko
era abbastanza incomprensibile da fare il suo gioco.
«Ehi!» gridò Miller. «Qualcuno ci aiuti!»
In cima alla rampa, le quattro guardie si guardarono incerte e
cominciarono a venir loro incontro, lasciando che la curiosità avesse
la meglio sulle procedure operative più elementari. Holden respirava
a fatica. Anche Miller. Ko non era poi così pesante. Era un brutto
segno.
«Che diavolo è successo?» chiese una delle guardie.
«C’è una manciata di bastardi trincerata laggiù» rispose Miller.
«Una resistenza. Credevo che aveste rastrellato l’intero livello.»
«Non era compito nostro» disse lo sgherro. «Noi dovevamo
soltanto assicurarci di portare la gente dai casinò ai rifugi.»
«Be’, qualcuno ha fatto qualche cazzata» scattò Miller. «Avete un
mezzo di trasporto?»
Le guardie si scambiarono un’altra occhiata incerta.
«Possiamo farne venire uno» disse un tipo da dietro il primo.
«Lascia perdere» rispose Miller. «Andate a cercare quei bastardi.»
«Aspetta un momento» disse il primo sgherro. «E voi chi diavolo
sareste, esattamente?»
«Installatori della Protogen» spiegò Holden. «Stiamo sostituendo i
sensori difettosi. Questo tipo ci stava dando una mano.»
«Non ho sentito di niente del genere» obiettò il capo dei quattro.
Miller infilò un dito sotto l’armatura di Ko e l’affondò nella ferita. Ko
gridò e cercò di divincolarsi.
«Parlatene col vostro capo quando avrete un po’ di tempo libero»
disse Miller. «Andiamo. Portiamo questo sacco di patate da un
medico.»
«Fermo!» esclamò la prima guardia, e Miller sospirò. Erano in
quattro. Se avesse lasciato cadere Ko e si fosse messo in
copertura... Ma non c’erano ripari a portata di mano. E chissà che
cosa avrebbe fatto Holden.
«Dove sono gli assalitori?» chiese la guardia. Miller si impedì di
sorridere.
«C’è un buco, giù, a un quarto di chilometro in senso inverso alla
rotazione» disse Miller. «Il corpo di quell’altro è ancora lì. Non potete
sbagliarvi.»
Miller oltrepassò la rampa. Alle sue spalle, le guardie stavano
dibattendo sul da farsi, su chi chiamare, su chi mandare.
«Tu sei completamente fuori di testa» disse Holden al di sopra del
piagnisteo semincosciente di Ko.
Forse aveva ragione.
Quand’è, si chiese Miller, che smetti di essere umano? Doveva
esserci un momento, una decisione che prendevi e, prima di essa eri
una persona e dopo diventavi qualcun altro. Mentre attraversavano i
livelli di Eros con il corpo sanguinante di Ko tra lui e Holden, Miller
rifletteva. Probabilmente stava morendo per l’esposizione alle
radiazioni. Si era fatto largo a furia di menzogne oltre una mezza
dozzina di individui che l’avevano lasciato passare soltanto perché
erano abituati a trattare con gente che aveva paura di loro, mentre
lui non ne aveva. Aveva ucciso tre persone nelle ultime due ore.
Quattro, se contava anche Ko. Probabilmente quattro era il numero
più esatto.
La parte analitica della sua mente, quella vocina tranquilla che
aveva coltivato per anni, lo guardava mentre si muoveva e ripassava
tutte le proprie decisioni. Tutto ciò che aveva fatto aveva avuto
perfettamente senso, sul momento. Sparare a Ko. Sparare agli altri
tre. Lasciare la sicurezza del nascondiglio dell’equipaggio per
investigare sulla situazione. Emotivamente, ogni cosa era stata ovvia
sul momento. Era soltanto quando esaminava le sue azioni
vedendole dall’esterno che gli sembravano pericolose. Se avesse
visto qualcun altro fare cose del genere – Muss, Havelock,
Sematimba – non ci avrebbe messo più di un minuto a capire che
erano usciti di senno. Ma, visto che si trattava di lui, ci aveva
impiegato più tempo a rendersene conto. Holden aveva ragione. A
un certo punto, aveva perso la testa.
Voleva convincersi che era stato per via di come aveva ritrovato
Julie, per aver visto quel che era successo al suo corpo, per il fatto
di sapere che non era stato capace di salvarla, ma quello era
soltanto stato il momento più emotivo. La verità era che, delle sue
decisioni prima di quell’evento – lasciare Ceres per andare in giro a
caccia di Julie, bersi la carriera di una vita, restare in polizia anche
soltanto per un giorno in più dopo aver ucciso la sua prima vittima
tutti quegli anni addietro – nessuna sembrava avere un senso,
ripensandoci con un po’ di obiettività. Aveva buttato alle ortiche un
matrimonio con una donna che aveva amato. Aveva vissuto
immerso fino al collo nel peggio di ciò che l’umanità aveva da offrire.
Aveva sperimentato in prima persona che era capace di uccidere un
altro essere umano. E mai, durante tutto quel percorso, c’era stato
un momento di cui poteva dire: ecco, qui ero un uomo sano di
mente, e dopo non lo sono stato più.
Forse era un processo cumulativo, come fumare sigarette. Una
non faceva poi un gran danno. Cinque nemmeno. Ogni emozione
che si era negato, ogni contatto umano che aveva rifiutato, ogni
amore, amicizia e momento di compassione da cui era rifuggito,
l’avevano allontanato sempre un po’ di più da sé stesso. Fino a quel
momento, era stato in grado di uccidere un uomo impunemente. Di
guardare in faccia la morte con un diniego della realtà che gli aveva
permesso di pianificare e agire.
Nella propria mente, Julie Mao inclinò la testa, intenta ad ascoltare
i suoi pensieri. Lo abbracciò, tenendolo stretto con il corpo contro il
suo, in un modo più confortante che erotico. Consolatorio. Un atto di
perdono.
Era per questo che l’aveva cercata. Julie era diventata la parte di
lui che era capace di provare sentimenti umani. Il simbolo di ciò che
sarebbe stato se non fosse stato ciò che era. Non aveva motivo di
pensare che la sua Julie immaginaria avesse qualcosa in comune
con la donna reale. Se l’avesse incontrata, sarebbe stata una
delusione per entrambi.
Doveva crederci, proprio come aveva dovuto credere in tutto ciò
che fino ad allora l’aveva tagliato fuori dall’amore.
Holden si fermò, con il corpo ormai senza vita di Ko che strattonò
indietro Miller e lo fece tornare alla realtà.
«Che c’è?» disse Miller.
Holden indicò con il mento il pannello di accesso che avevano di
fronte. Miller lo guardò senza capire, e poi lo riconobbe. Ce
l’avevano fatta. Erano tornati al nascondiglio.
«Stai bene?» chiese Holden.
«Sì» rispose Miller. «Avevo la testa tra le nuvole. Scusa.»
Lasciò cadere Ko e lo scagnozzo scivolò a terra con un tonfo
sordo. Il braccio di Miller si era addormentato. Lo scosse, ma il
formicolio rimase. Fu attraversato da un’ondata di nausea e vertigini.
I sintomi, pensò.
«Come siamo messi, a tempo?» chiese Miller.
«Appena cinque minuti di ritardo. Non sarà un problema» rispose
Holden, mentre apriva il portello facendolo scivolare di lato.
Il corridoio dove si erano nascosti Naomi, Alex e Amos era vuoto.
«Cazzo» disse Holden.
29

Holden

«Cazzo» disse Holden. Un attimo dopo aggiunse: «Ci hanno


abbandonati.»
No. Lei aveva abbandonato lui. Naomi gli aveva detto che
l’avrebbe fatto ma, messo di fronte alla realtà, Holden si rese conto
che non le aveva creduto fino in fondo. E invece eccola lì, la prova.
Lo spazio vuoto dove era stata. Sentì un nodo in gola e il cuore che
gli martellava in petto, e il respiro gli si fece affannoso. Quella
sensazione nauseante allo stomaco doveva essere disperazione,
oppure il suo colon che si sfaldava dall’interno. Sarebbe morto,
seduto fuori da un albergo da quattro soldi su Eros, perché Naomi
aveva fatto esattamente quello che aveva detto. Quello che lui
stesso le aveva ordinato di fare. Ma il suo risentimento non voleva
sentir ragione.
«Siamo morti» disse, e si sedette sul bordo di un vaso pieno di
felci.
«Quanto tempo abbiamo?» chiese Miller, tenendo d’occhio il
corridoio mentre armeggiava con la pistola.
«Non ne ho idea» rispose Holden, con un gesto vago verso il suo
palmare che continuava a segnalare un’allerta radioattiva in rosso
lampeggiante. «Probabilmente ci vorranno ore, prima che riusciamo
a sentire qualcosa, ma non lo so. Dio, quanto vorrei che Shed fosse
qui.»
«Shed?»
«Un mio amico» rispose Holden, non avendo voglia di spiegare.
«Un buon tecnico medico.»
«Chiamala» disse Miller.
Holden guardò il suo terminale e picchiettò sullo schermo un paio
di volte.
«La rete è ancora bloccata» spiegò.
«E va bene» disse Miller. «Andiamo alla tua nave. Vediamo se è
ancora attraccata.»
«Saranno già partiti. Naomi sta proteggendo l’equipaggio. Mi aveva
avvertito, ma io...»
«Andiamo comunque» insisté Miller. Nel parlare spostava il peso
da un piede all’altro, guardando lungo il corridoio.
«Miller» disse Holden, poi s’interruppe. Miller era chiaramente
sull’orlo di una crisi di nervi, e aveva sparato a quattro persone.
Holden era sempre più spaventato da quell’ex poliziotto. Come se gli
avesse letto nella mente, Miller gli si avvicinò, torreggiando su di lui
con i suoi due metri prima di sederglisi accanto. Il cinturiano sorrise
mestamente, con una gentilezza inquietante nello sguardo. Holden
avrebbe quasi preferito che fosse minaccioso.
«Per come la vedo io, questa faccenda può finire in tre modi» disse
Miller. «Uno: troviamo la tua nave ancora all’àncora, prendiamo le
medicine che ci servono, e forse sopravviviamo. Due: cercando di
arrivare alla nave ci imbattiamo in un branco di scagnozzi. Moriamo
gloriosamente sotto una pioggia di piombo. Tre: ce ne restiamo qui a
dissanguarci dalle orbite e dal buco del culo.»
Holden non rispose niente; si limitò ad alzare gli occhi verso lo
sbirro e ad aggrottare la fronte.
«Personalmente, preferisco i primi due al terzo» disse Miller. Usò
un tono di voce che la fece sembrare una richiesta di scusa. «Che
ne dici di venire con me?»
Holden scoppiò a ridere prima di riuscire a trattenersi, ma Miller
non sembrò offendersi.
«Sicuro» disse Holden. «Avevo solo bisogno di compatirmi per un
minuto o due. Forza, andiamo a farci ammazzare dalla mafia.»
Lo disse con molta più spavalderia di quanta ne sentisse in realtà.
La verità era che non voleva morire. Perfino durante i suoi giorni in
marina militare, l’idea di morire sul campo di battaglia gli era sempre
sembrata distante e surreale. La sua nave non sarebbe mai stata
distrutta e, se lo fosse stata, lui sarebbe riuscito a cavarsela a bordo
dello shuttle di emergenza. L’universo, senza di lui, non aveva
proprio alcun senso. Aveva corso dei rischi; aveva visto altra gente
morire. Anche gente che amava. Ora però, per la prima volta, la sua
morte era qualcosa di molto reale.
Fissò il poliziotto. Conosceva quell’uomo da meno di un giorno,
non si fidava di lui e non era certo che gli piacesse. Ed era quello
con cui sarebbe morto. Holden scrollò le spalle e si alzò, estraendo
la pistola dalla cintola. Sotto la superficie di panico e paura, sentì
crescergli dentro una profonda sensazione di calma. Sperò che
durasse.
«Prego, dopo di te» disse Holden. «Se dovessimo sopravvivere,
ricordami di fare una chiamata alle mie madri.»
I casinò erano una polveriera in attesa che qualcuno accendesse
la miccia. Se i rastrellamenti per l’evacuazione erano stati anche
solo moderatamente efficaci, in quei tre livelli della stazione
dovevano essere accalcate qualcosa come un milione o più
persone. Uomini dall’aspetto duro in tenuta antisommossa si
muovevano in mezzo alla folla, ordinando alla gente di stare buona
finché non fosse stata portata ai rifugi antiradiazioni, mantenendo
elevato il livello di paura collettiva. Di tanto in tanto, un piccolo
gruppo di cittadini veniva portato via. Sapere dov’erano diretti fece
venire un bruciore allo stomaco di Holden. Avrebbe voluto gridare
che quei poliziotti erano impostori, che li stavano ammazzando tutti.
Ma una rivolta di tutta quella gente in uno spazio tanto ristretto si
sarebbe trasformata in un gigantesco tritacarne. Forse era
inevitabile, ma non sarebbe stato lui a far scoccare la scintilla.
Lo fece qualcun altro.
Holden sentì delle voci levarsi, accompagnate dal brontolio adirato
della folla, seguita dalla voce elettronicamente amplificata di un
uomo con indosso un casco antisommossa che gridava alla gente di
stare indietro. Poi ci fu uno sparo, una breve pausa, e quindi una
raffica di fucilate. Molti gridarono. L’intera folla attorno a Holden e
Miller cominciò a muoversi in due direzioni opposte: c’era chi correva
verso il rumore dello scontro, e molti altri che invece fuggivano da
esso. Holden si trovò nella corrente di corpi in movimento; Miller
allungò un braccio e gli afferrò il retro della maglia, stringendola nel
pugno e gridandogli di restargli vicino.
Una dozzina di metri più giù lungo il corridoio, sulla terrazza di un
bar separata dalla strada da una ringhiera di ferro nero alta fino alla
vita, uno degli sgherri malavitosi era stato tagliato fuori dal suo
gruppo da una dozzina di cittadini. Teneva l’arma puntata davanti a
sé, indietreggiando, e gridava alla gente di togliersi di mezzo. Quelli
però continuarono ad avanzare, con in volto l’espressione selvaggia
tipica delle folle agitate da una frenesia violenta.
Lo sgherro sparò un colpo, un ragazzino barcollò in avanti e crollò
a terra, ai piedi del finto poliziotto. Holden non riuscì a capire se si
trattasse di un maschio o di una femmina, ma non poteva avere più
di tredici o quattordici anni. Lo sgherro fece un passo avanti,
lanciando un’occhiata alla piccola sagoma ai suoi piedi, e puntò di
nuovo l’arma contro i cittadini.
Era troppo.
Holden si trovò a correre lungo il corridoio verso la scena, con la
pistola sguainata e gridando alla gente di lasciarlo passare. Quando
fu a sette metri da loro, la piccola folla si aprì abbastanza da
permettergli di cominciare a sparare. Metà dei suoi colpi andò a
vuoto, piantandosi nel bancone del bar e sulle pareti, mentre una
pallottola mandava in frantumi una pila di piatti di ceramica. Alcuni
dei proiettili però colpirono lo sgherro, facendolo barcollare
all’indietro.
Holden balzò oltre la ringhiera di metallo e si fermò scivolando a tre
metri dal finto poliziotto e dalla sua vittima. La sua pistola sparò
ancora una volta, poi il carrello si bloccò in posizione aperta per
segnalargli che era vuoto.
Lo sgherro non cadde a terra. Si raddrizzò, si guardò il torace e poi
alzò lo sguardo, puntando l’arma verso la faccia di Holden. Lui ebbe
il tempo di contare le tre pallottole che si erano schiantate contro la
spessa corazza pettorale della tenuta antisommossa del malavitoso.
Morire gloriosamente sotto una pioggia di proiettili, pensò.
Lo sgherro disse «Stupido figlio di...», poi però la sua testa scattò
all’indietro in uno schizzo di rosso intenso. Crollò a terra.
«Il punto vulnerabile è sul collo, ricordi?» disse Miller alle sue
spalle. «La corazza pettorale è troppo spessa per una pistola.»
Sentendosi improvvisamente stordito, Holden si chinò portandosi le
mani ai fianchi e annaspò per prendere aria. In fondo alla gola sentì
un sapore di limone e dovette deglutire due volte per impedirsi di
vomitare. Temeva di vedere fiumi di sangue e che avrebbe visto
brandelli di organi interni. Uno spettacolo del genere non gli sarebbe
stato d’aiuto.
«Grazie» disse affannato, voltandosi verso Miller.
Miller annuì vagamente nella sua direzione, poi andò verso la
guardia e le diede un colpetto con un piede. Holden si raddrizzò e si
guardò intorno nel corridoio, aspettandosi che l’inevitabile ondata di
scagnozzi vendicativi gli si riversasse addosso. Non ne vide
nemmeno uno. Lui e Miller erano in un’isola di calma nel bel mezzo
dell’Armageddon. Tutto intorno, le spire della violenza cominciavano
a stringere la folla nella loro morsa. La gente correva in ogni
direzione; gli sgherri gridavano con voci tonanti e amplificate e
intervallavano le loro minacce verbali con raffiche di
semiautomatiche. Ma erano soltanto poche centinaia, e i civili erano
molte migliaia, furiosi e in preda al panico. Miller indicò tutto quel
caos.
«Ecco quello che succede» disse. «Dai a una manica di esaltati
l’equipaggiamento antisommossa, e quelli s’illudono di sapere come
si fa.»
Holden si accovacciò accanto al ragazzino a terra. Era un maschio,
sui tredici anni, con tratti asiatici e capelli scuri. Aveva una ferita
aperta in pieno petto, da cui il sangue fuoriusciva in un rivolo invece
che a fiotti. Non riuscì a trovargli il polso. Lo raccolse comunque da
terra, guardandosi intorno per portarlo al sicuro.
«È morto» disse Miller mentre riempiva di nuovo il caricatore.
«Al diavolo. Non lo sappiamo. Se riusciamo a portarlo alla nave,
forse...»
Miller scosse la testa; un’espressione triste e distante gli velò il
volto mentre guardava il ragazzino tra le braccia di Holden.
«Si è preso un proiettile di grosso calibro in pieno petto» disse
Miller. «È andato.»
«Cazzo» disse Holden.
«Non fai che ripeterlo.»
Una luminosa insegna al neon lampeggiava sopra il corridoio che
conduceva fuori dai livelli dei casinò e verso le rampe dei moli.
GRAZIE PER AVER GIOCATO, diceva. SU EROS SARAI SEMPRE UN VINCENTE.
Sotto l’insegna, due file di uomini in corazza da combattimento
pesante bloccavano il passaggio. Potevano aver abbandonato l’idea
di controllare la folla nei casinò, ma non avrebbero lasciato uscire
nessuno.
Holden e Miller si acquattarono dietro un carretto del caffè a un
centinaio di metri dai soldati. Mentre osservavano la scena, una
dozzina di persone cercò di assaltare correndo il cordone di guardie
e fu sommariamente falciata da una raffica di mitragliatrice, cadendo
a terra sui corpi di chi aveva già tentato l’assalto prima di loro.
«Io ne conto trentaquattro» disse Miller. «Tu quanti ne puoi
affrontare?»
Holden si voltò per guardarlo, sorpreso, ma la faccia di Miller gli
fece capire che l’ex poliziotto stava scherzando.
«A parte gli scherzi, come facciamo a superare quello
sbarramento?» chiese Holden.
«Trenta uomini armati di mitragliatrici e con la visuale sgombra.
Nessuna copertura per gli ultimi venti metri» disse Miller. «Non lo
superiamo.»
30

Miller

Sedettero a terra, con la schiena appoggiata a una fila di


macchinette del pachinko a cui non giocava nessuno, osservando il
fiume di violenza che scorreva tutto intorno come se si fosse trattato
di una partita di calcio. Miller aveva posato il cappello sul ginocchio
piegato. Sentì una vibrazione sulla schiena quando uno degli
schermi fece girare le sue lucine per attirare gli stupidi. Le lampadine
si accesero e si spensero in una piccola coreografia. Holden,
accanto a lui, respirava affannosamente, come se avesse appena
fatto una corsa. Fuori, simili a un quadro di Hieronymus Bosch, i
livelli dei casinò di Eros si preparavano alla morte.
Lo slancio della rivolta si era esaurito, per il momento. Uomini e
donne si riunivano a gruppetti. Le guardie si mossero, minacciando e
disperdendo qualsiasi assembramento che sembrava farsi troppo
numeroso o riottoso. Qualcosa bruciava abbastanza rapidamente da
non permettere ai purificatori d’aria di eliminare la puzza di plastica
fusa. La musica bhangra di sottofondo si mescolava con i gemiti, le
grida e i lamenti di disperazione. Un qualche idiota stava urlando
contro i cosiddetti poliziotti; era un avvocato; stava registrando ogni
cosa; chiunque fosse il loro responsabile avrebbe passato guai seri.
Miller osservò un gruppo di persone radunarsi attorno a quel
diverbio. Il tipo in tenuta antisommossa rimase ad ascoltare
l’avvocato, annuì e poi gli sparò sul ginocchio. La folla si disperse,
tranne una donna, probabilmente la moglie dell’avvocato, o la
fidanzata, che si chinò su di lui mentre gridava. Nello spazio
confinato del cranio di Miller, tutto cominciò a disgregarsi a poco a
poco.
Si rendeva conto di avere due diverse menti. Una apparteneva al
Miller che conosceva bene, a cui era abituato. Quello che stava già
pensando a ciò che sarebbe successo quando fossero usciti da lì, a
quale sarebbe stata la prossima mossa per riuscire a collegare i
punti tra la Stazione di Phoebe, Ceres, Eros e Juliette Mao, per
lavorare sul caso. Quella versione di lui analizzava la folla nello
stesso modo in cui avrebbe osservato la fila davanti a una scena del
crimine, in attesa di un qualche dettaglio, di un cambiamento che
catturasse la sua attenzione. Che lo mettesse sulla buona strada per
risolvere il mistero. Era la sua parte miope e idiota, quella che non
riusciva a concepire la propria estinzione e che pensava che di
certo, sicuramente ci sarebbe stato un dopo.
L’altro Miller era diverso. Più tranquillo. Più triste, forse, ma in
pace. Molti anni prima aveva letto un poema intitolato L’io di morte,
e, fino a quel momento, non aveva mai veramente capito quel
termine. Il nodo che aveva nella sua psiche si stava sciogliendo.
Tutta l’energia che aveva speso per tenere assieme ogni cosa –
Ceres, il suo matrimonio, la carriera, sé stesso – si stava finalmente
liberando. Aveva sparato e ucciso più uomini in quell’ultima giornata
che in tutta la sua carriera come poliziotto. Aveva cominciato –
soltanto cominciato – a rendersi conto che si era innamorato
dell’oggetto della propria ricerca dopo aver saputo con certezza di
averlo perso. Aveva avuto la prova inequivocabile del fatto che il
caos a tener a bada il quale aveva dedicato la sua vita era più forte,
grande e potente di quanto lui sarebbe mai potuto essere. Nessun
compromesso sarebbe mai stato sufficiente. Il suo io di morte si
stava facendo strada in lui, e quell’oscuro sbocciare era naturale,
senza sforzo. Era un sollievo, un rilassamento, un lungo sospiro
lento che aveva trattenuto per decenni.
Era a pezzi, ma andava bene così, perché stava morendo.
«Ehi» disse Holden, con voce più forte di quanto Miller si
aspettasse.
«Sì?»
«Hai mai guardato Misko e Marisko quando eri piccolo?»
Miller si accigliò. «La serie per bambini?» chiese.
«Quella con i cinque dinosauri e il cattivo con il cappello rosa»
spiegò Holden, poi cominciò a canticchiare una canzoncina allegra e
spensierata. Miller chiuse gli occhi e cominciò ad accompagnarlo.
Un tempo, quella musica aveva avuto delle parole. Ora era soltanto
una serie di salite e discese, d’incursioni su e giù per la scala
maggiore, con ogni dissonanza risolta nella nota seguente.
«A quanto pare, sì» disse Miller quando ebbero raggiunto la fine.
«Mi piaceva un sacco quella serie. Dovevo avere otto o nove anni,
l’ultima volta che l’ho vista» raccontò Holden. «Buffo, come certe
cose ti rimangano dentro.»
«Già» disse Miller. Tossì, girò la testa e sputò qualcosa di rosso.
«Come ti senti?»
«Mi sembra bene» rispose Holden. Poi, un attimo dopo, aggiunse:
«Almeno finché non mi alzo in piedi.»
«Nausea?»
«Sì, un po’.»
«Anch’io.»
«Ma che storia è?» chiese Holden. «Voglio dire, ma di che diavolo
si tratta? Perché stanno facendo una cosa del genere?»
Era una bella domanda. Fare un massacro su Eros – una strage su
qualunque stazione della Fascia – era un lavoretto facile. Chiunque
avesse avuto una minima infarinatura di meccaniche orbitali avrebbe
potuto trovare un modo per scagliargli addosso un asteroide
abbastanza grosso e veloce da spaccare la stazione. Con le risorse
che aveva messo in campo, la Protogen avrebbe potuto
interrompere la circolazione di ossigeno, o avvelenare l’aria, o
qualunque altra cosa avesse voluto fare. Quello non era un
assassinio. Non era nemmeno un genocidio.
E poi c’era tutto l’equipaggiamento per le riprese e il monitoraggio:
telecamere, impianti di comunicazione, sensori atmosferici e idrici.
C’erano soltanto due motivi per quel genere di cose. O quei folli
bastardi della Protogen si eccitavano a veder morire la gente,
oppure...
«Non lo sanno» disse Miller.
«Cosa?»
Si voltò per guardare Holden. Il primo Miller, il detective, l’ottimista,
quello che aveva bisogno di sapere, era tornato al comando. Il suo io
di morte non si oppose, perché ovviamente non poteva farlo. Non si
opponeva a niente. Miller alzò una mano, come se stesse facendo
lezione a un novellino.
«Non sanno di che si tratta, oppure... be’, quantomeno non sanno
che cosa succederà. Questa non è una stanza delle torture. Stanno
tenendo tutto sotto controllo, giusto? Sensori atmosferici e idrici. È
una capsula di Petri. Non sanno esattamente che cosa faccia quella
merda che ha ucciso Julie, e hanno intenzione di scoprirlo in questo
modo.»
Holden si accigliò.
«Non hanno qualche laboratorio? Posti dove magari si potrebbe
mettere quella merda addosso a qualche animale, o qualcosa del
genere? Perché, dal punto di vista della progettazione sperimentale,
questa faccenda mi sembra un po’ incasinata.»
«Forse hanno bisogno di un campione davvero grosso» disse
Miller. «O magari non si tratta delle persone. Magari si tratta di
vedere che cosa succede alla stazione.»
«Ah, ma che pensiero confortante» commentò Holden.
La Julie Mao nella mente di Miller si spostò una ciocca di capelli
dagli occhi. Era accigliata, sembrava pensierosa, interessata,
preoccupata. Doveva per forza avere un senso. Era come uno di
quei problemi di meccanica orbitale di base, in cui ogni gancio e ogni
svolta sembravano casuali finché tutte le variabili non andavano al
loro posto. Quel che era stato inspiegabile diventava inevitabile.
Julie gli sorrise. Julie, com’era stata. Come immaginava che fosse
stata. Il Miller che si era rassegnato alla morte le restituì il sorriso. E
poi lei svanì, e la mente dell’ex poliziotto tornò al rumore delle
macchinette del pachinko e al sordo gemito infernale della folla.
Un altro gruppo di una ventina di uomini, chini come linebacker,
caricò i mercenari che sorvegliavano l’ingresso al porto. Gli
scagnozzi li falciarono tutti.
«Se avessimo abbastanza persone con noi,» disse Holden quando
le mitragliatrici ebbero finito di sparare «avremmo la possibilità di
farcela. Non potrebbero ucciderci tutti.»
«È a quello che servono quelle pattuglie di sgherri» disse Miller. «A
fare in modo che nessuno possa mettere insieme un gruppo
sufficientemente numeroso. Continuano a rimestare il pentolone.»
«Ma se fosse una massa di persone, voglio dire... una massa
davvero grossa, potrebbe...»
«Forse» concordò Miller. Qualcosa nel suo petto schioccò come
non aveva mai fatto prima. Fece un respiro lento, profondo, e ci fu
un altro schiocco. Poteva sentirlo in fondo ai polmoni.
«Perlomeno Naomi se n’è andata» disse Holden.
«Bene.»
«È fantastica. Non metterebbe mai Amos e Alex in pericolo,
potendo evitarlo. Voglio dire, è una tipa seria. Professionale. Forte,
hai presente? Voglio dire, è davvero... davvero...»
«Carina, anche» aggiunse Miller. «Bei capelli. Gli occhi mi
piacevano molto.»
«No, non intendevo questo» disse Holden.
«Non credi che sia una bella donna?»
«È il mio vicecomandante» rispose Holden. «Lei è... sai com’è...»
«Off-limits.»
Holden sospirò.
«Se la sarà cavata, no?»
«Quasi sicuramente.»
Rimasero in silenzio per un po’. Un uomo che aveva preso parte
all’ultima carica tossì, si rialzò da terra e tornò zoppicando verso il
casinò, perdendo sangue da un foro nel costato. La musica bhangra
cedette il passo a un medley afropop con una voce bassa e
sensuale che cantava in lingue ignote a Miller.
«Ci avrebbe aspettato» disse Holden. «Non credi che ci avrebbe
aspettato?»
«Quasi sicuramente» rispose l’io di morte di Miller,
disinteressandosi del fatto che fosse una bugia. Ci rifletté su per un
lungo momento, poi si voltò per guardare di nuovo Holden. «Ehi,
giusto perché tu lo sappia... Non sono propriamente al meglio delle
mie condizioni, in questo momento.»
«Va bene.»
«Va bene, già.»
Le luci arancioni lampeggianti che segnalavano il blocco delle
stazioni della metropolitana del livello passarono al verde. Miller si
tirò su a sedere più dritto, interessato. Si sentiva la schiena
appiccicosa, ma probabilmente doveva essere soltanto sudore.
Anche altra gente aveva notato quel cambiamento. Come una
corrente in una cisterna d’acqua, l’attenzione della folla circostante si
spostò dai mercenari che bloccavano l’accesso al porto ai portelloni
di acciaio spazzolato della stazione della metropolitana.
Le porte si aprirono e apparvero i primi zombi. Uomini e donne,
con occhi vitrei e muscoli flosci, si riversarono fuori dalle porte
aperte. Miller aveva visto un documentario sulle febbri emorragiche
come parte del suo addestramento sulla Stazione di Ceres. I loro
movimenti erano gli stessi: spenti, impulsivi, meccanici. Come cani
rabbiosi le cui menti si fossero già arrese alla malattia.
«Ehi» disse Miller, posando una mano sulla spalla di Holden. «Ehi,
sta succedendo davvero.»
Un vecchio con indosso un camice da pronto soccorso si avvicinò
ai barcollanti nuovi arrivati. Teneva le mani avanti a sé, come se
potesse convogliare quella marea deambulante con la semplice
forza di volontà. Il primo zombi del gruppo girò gli occhi vuoti verso
di lui e gli vomitò addosso un getto di fanghiglia marrone piuttosto
familiare.
«Guarda» disse Holden.
«Ho visto.»
«No, guarda!»
Giù per tutto il livello dei casinò, le luci della stazione della
metropolitana cominciavano a segnalare la fine del blocco di
servizio. Le porte si aprivano. La gente si precipitò verso i vagoni
aperti e l’implicita, vuota promessa di fuga, lontano dagli uomini e
dalle donne morti che ne uscivano.
«Zombi vomitanti» disse Miller.
«Dai rifugi antiradiazioni» aggiunse Holden. «Quell’affare,
quell’organismo... si sviluppa più velocemente con le radiazioni,
giusto? È per questo checomesichiama stava così in paranoia per le
luci e la tuta ambientale.»
«Il suo nome era Julie. E sì: quegli incubatori servivano a quello.
Proprio qui» disse Miller. Pensò di alzarsi in piedi. «Be’... può darsi
che in fondo non moriremo di avvelenamento radioattivo.»
«Ma perché non si sono limitati a spruzzare quella merda
nell’aria?» chiese Holden.
«È anaerobico, ricordi?» rispose Miller. «Troppo ossigeno lo
distrugge.»
Il tipo del pronto soccorso, coperto di vomito, continuava a tentare
di curare quegli zombi barcollanti come se fossero pazienti. Come se
fossero ancora umani. C’erano chiazze di quella fanghiglia marrone
sui vestiti della gente, sulle pareti. Le porte della metropolitana si
aprirono di nuovo, e Miller vide una mezza dozzina di persone
infilarsi in un vagone coperto di marrone. La folla si agitò, incerta sul
da farsi, e la sua mente collettiva si sfilacciò oltre il punto di rottura.
Un poliziotto antisommossa balzò in avanti e cominciò a mitragliare
gli zombi con il fucile a ripetizione. Dai fori di entrata e di uscita dei
proiettili spuntavano sottili filamenti neri, e gli zombi crollavano a
terra. Miller ridacchiò prima ancora di sapere che cosa lo divertisse.
Holden lo fissò.
«Non lo sapevano» disse Miller. «Quei bulli in tenuta
antisommossa... nessuno verrà a tirarli fuori da qui. Carne per la
macchina, proprio come tutti noi.»
Holden emise un debole verso di approvazione. Miller annuì, ma
qualcosa continuava a solleticargli un angolino del cervello. Gli
sgherri provenienti da Ceres, con le loro corazze rubate, erano stati
sacrificati. Questo però non significava che fosse così per tutti. Si
chinò in avanti.
Il passaggio che conduceva al porto era ancora sorvegliato.
Combattenti mercenari in formazione, con le armi pronte al fuoco.
Parevano perfino più disciplinati di quanto non fossero sembrati in
precedenza. Miller osservò il soldato dietro il gruppo, quello con più
mostrine sulla corazza, mentre abbaiava qualcosa in un microfono.
Miller aveva creduto che non ci fosse più nessuna speranza. Aveva
pensato di essersi giocato tutte le sue carte e poi, come una
bastarda, la speranza si era ridestata dalla tomba.
«Alzati» disse Miller.
«Cosa?»
«Alzati. Stanno per ritirarsi.»
«Chi?»
Miller indicò i mercenari.
«Loro sapevano» spiegò. «Guardali. Non stanno dando di matto.
Non sono confusi. Stavano aspettando che accadesse.»
«E pensi che questo significhi che si ritireranno?»
«Non resteranno a lungo. Alzati.»
Quasi come se avesse dato l’ordine a sé stesso, Miller gemette e
si alzò faticosamente in piedi. Ginocchia e schiena gli facevano un
male cane. Lo schiocco nei polmoni stava peggiorando. Il suo
stomaco produsse un rumore soffice e complesso che, in
circostanze diverse, avrebbe ritenuto preoccupante. Non appena
cominciò a muoversi si rese conto di quanto fosse esteso il danno.
La sua pelle non era ancora dolorante, ma mandava le prime timide
avvisaglie, come nell’intervallo che passava tra un’ustione e le
vesciche che seguivano. Se fosse sopravvissuto, avrebbe sofferto.
Se fosse sopravvissuto, ogni cosa l’avrebbe fatto soffrire.
Il suo io di morte lo tirò per la giacca. Quella sensazione liberatoria,
di sollievo, di riposo, sembrava come qualcosa di prezioso che fosse
andato perduto. Perfino mentre la mente attiva, impegnata e
meccanica di Miller continuava a macinare, a macinare, a macinare,
il centro delicato, ferito della sua anima lo esortava a fermarsi, a
mettersi comodo, a lasciare che i problemi svanissero da soli.
«Che stiamo cercando?» domandò Holden. Si era alzato. Un
capillare nell’occhio dell’uomo era scoppiato, e il bianco della sclera
era diventato di un rosso acceso, carnoso.
Che stiamo cercando?, gli fece eco l’io di morte.
«Si stanno per ritirare» disse Miller, rispondendo alla prima
domanda. «Noi li seguiamo. Appena fuori portata, così che l’ultimo
del plotone non si senta in dovere di spararci addosso.»
«Non faranno tutti la stessa cosa? Voglio dire... una volta che se
ne saranno andati, immagino che chiunque si trovi qui cercherà di
dirigersi al porto.»
«È quello che mi aspetto» confermò Miller. «Per cui cerchiamo di
infilarci prima della calca. Guarda. Laggiù.»
Non era molto. Soltanto un cambiamento nella posizione dei
mercenari, uno sbilanciamento del loro centro di gravità collettivo.
Miller tossì. Fece molto più male di quanto avrebbe dovuto.
Che stiamo cercando?, chiese di nuovo il suo io di morte, con voce
più insistente. Una risposta? Giustizia? Un’altra occasione per farsi
prendere a calci nelle palle dall’universo? Che cosa c’è, oltre
quell’arco, che non possa essere trovato in modo più rapido, pulito e
meno doloroso nella canna della nostra pistola?
Il capitano dei mercenari fece un passo indietro, facendo finta di
niente, poi entrò a grandi falcate nel corridoio esterno e svanì dalla
vista. Nel punto in cui si era trovato sedeva ora Julie Mao,
osservandolo andar via. Poi guardò Miller. Gli fece segno di
avanzare.
«Non ancora» disse lui.
«Quando?» chiese Holden, sorprendendo Miller con la sua voce.
La Julie nella propria mente svanì, e lui tornò di nuovo nel mondo
reale.
«Sta arrivando» disse Miller.
Avrebbe dovuto avvertire il suo compagno. Sarebbe stata la cosa
giusta da fare. Stava uscendo di testa, e avrebbe dovuto perlomeno
usargli la cortesia di farglielo sapere. Miller si schiarì la gola. Anche
quello faceva male.
È possibile che io cominci ad avere allucinazioni o che cada in
preda a istinti suicidi. Potresti dovermi sparare.
Holden gli lanciò un’occhiata. Le macchinette del pachinko li
illuminavano di blu e verde e gridavano di goduria artificiale.
«Cosa?» domandò Holden.
«Niente. Stavo valutando il mio equilibrio» rispose Miller.
Alle loro spalle, una donna gridò. Miller si guardò indietro e la vide
respingere uno zombi vomitante, con una striscia di bava marrone
che già ricopriva la donna ancora in vita. Sotto l’arco, i mercenari
indietreggiarono silenziosamente e cominciarono ad allontanarsi
lungo il corridoio.
«Andiamo» disse Miller.
Lui e Holden si diressero verso il passaggio, e Miller si rimise il
cappello in testa. Voci agitate, grida, il sordo rumore liquido di
persone gravemente infette. I depuratori non bastavano più, e l’aria
stava acquisendo un odore profondo, pungente, come di brodo di
manzo e acido. Miller ebbe l’impressione di avere un sassolino nella
scarpa, ma era quasi certo che, se avesse guardato, non avrebbe
trovato altro che un arrossamento nel punto in cui la sua pelle stava
cominciando a spaccarsi.
Nessuno gli sparò. Nessuno disse loro di fermarsi.
Arrivati all’arco d’accesso, Miller guidò Holden verso la parete, poi
si sporse con la testa oltre l’angolo. Gli bastò una frazione di
secondo per capire che il lungo corridoio era completamente vuoto. I
mercenari avevano terminato il loro compito e lasciavano Eros al suo
destino. La finestra era aperta. La via era sgombra.
L’ultima occasione, pensò, e intendeva sia l’ultima occasione per
vivere che l’ultima per morire.
«Miller?»
«Sì» disse lui. «Mi sembra a posto. Andiamo. Prima che a tutti
quanti venga la stessa idea.»
31

Holden

Qualcosa gli si muoveva nello stomaco. Holden ignorò quella


sensazione e continuò a tenere gli occhi fissi sulla schiena di Miller.
Il detective allampanato caracollava lungo il corridoio verso il porto,
fermandosi di tanto in tanto agli incroci per sbirciare oltre l’angolo e
controllare che non ci fossero problemi. Miller era diventato una
macchina. Holden non poteva far altro che tentare di stare al passo.
I mercenari che avevano bloccato l’uscita dei casinò erano più
avanti, sempre alla stessa distanza. Quando quelli si muovevano,
Miller si muoveva. Quando rallentavano, Miller rallentava. Si stavano
preoccupando di arrivare al porto ma, se avessero pensato che
qualche cittadino si stesse avvicinando troppo, probabilmente
avrebbero aperto il fuoco. Sparavano a chiunque incrociassero lungo
il percorso. Avevano già colpito due uomini che erano corsi loro
incontro. Entrambi stavano vomitando quella melma marrone. Da
dove diavolo arrivavano, così veloci, quegli zombi vomitanti?
«Da dove diavolo arrivavano, così veloci, quegli zombi vomitanti?»
disse alle spalle di Miller.
Il detective fece spallucce con la mano sinistra, mentre nella destra
continuava a impugnare la pistola.
«Non credo che da Julie sia uscito abbastanza di quello schifo per
infettare l’intera stazione» rispose lui senza rallentare. «Immagino
che siano il primo lotto sperimentale. Quelli che hanno tenuto in
incubazione per ottenere abbastanza fanghiglia con cui infettare tutti
i rifugi.»
La cosa aveva senso. E, quando la porzione sotto controllo
dell’esperimento se ne andava a puttane, bastava sguinzagliarla
contro la popolazione locale. Tempo che la gente si rendesse conto
di quello che stava accadendo, e metà popolazione sarebbe già
stata infettata. Poi sarebbe stata soltanto una questione di ore.
Si fermarono brevemente all’incrocio di un corridoio, osservando il
capo del gruppo di mercenari che si era bloccato un centinaio di
metri più avanti e parlava per qualche istante nella sua radio. Holden
annaspava, cercando di riprendere fiato, quando il gruppo riprese a
muoversi e Miller fece per seguirlo. Holden allungò una mano,
afferrò la cintura del detective e si fece trascinare in avanti. Dov’è
che teneva tutte quelle riserve di energia, quel cinturiano pelle e
ossa?
Il detective si fermò. Aveva un’espressione indecifrabile in volto.
«Stanno litigando» disse Miller.
«Eh?»
«Il capo del gruppo e alcuni degli uomini. Discutono su qualcosa»
rispose Miller.
«E allora?» chiese Holden, poi tossì qualcosa di bagnato nella
propria mano. Si pulì il palmo sul retro dei pantaloni, senza verificare
se fosse sangue. Ti prego, fa’ che non sia sangue.
Miller fece di nuovo spallucce con la mano.
«Credo che non facciano tutti parte della stessa squadra» disse.
Il gruppo di mercenari svoltò lungo un altro corridoio e Miller lo
seguì, tirandosi appresso Holden. Si trovavano ora nei livelli più
esterni, pieni di spazi di deposito e hangar per la riparazione di navi
e magazzini per il rifornimento. In linea generale, di lì non passavano
molti pedoni. Ora il corridoio riecheggiava come un mausoleo il
rumore dei loro passi. Più avanti, il gruppo di mercenari svoltò di
nuovo e, prima che Miller e Holden potessero raggiungere l’incrocio,
una figura solitaria comparve vagando più in là.
Non sembrava armata, per cui Miller si mosse cautamente verso di
essa, allungando una mano impaziente alle sue spalle e staccando
quella di Holden dalla propria cintura. Una volta con le mani libere,
Miller alzò la sinistra in un incontrovertibilmente gesto da poliziotto.
«È un luogo pericoloso per andarsene in giro così, signore» disse.
L’uomo era adesso a meno di quindici metri e cominciò a muoversi
verso di loro barcollando. Indossava un abito da festa, uno smoking
da due soldi con una camicia frivola e una cravatta rossa con i
brillantini. Aveva soltanto una scarpa nera, lucida, mentre l’altro
piede era coperto da un calzino rosso. Dagli angoli della bocca
colava del vomito marrone, macchiandogli la sua bella camicia
bianca.
«Merda» disse Miller, e puntò la pistola.
Holden gli afferrò l’arma e l’abbassò.
«Non ha colpe in tutto questo» disse, sentendosi gli occhi bruciare
alla vista di quell’uomo ferito e infetto. «È innocente.»
«Ci sta comunque arrivando addosso» disse Miller.
«E allora cammina più in fretta» replicò Holden. «E se spari a
qualcun altro senza che io ti abbia dato il permesso, non ti farò salire
sulla mia nave. Chiaro?»
«Fidati» disse Miller. «Morire è la cosa migliore che potrebbe
accadere a quel tipo, oggi. Non gli stai facendo un favore.»
«Non spetta a te deciderlo» replicò Holden, con il tono che
sconfinava quasi in autentica rabbia.
Miller fece per replicare, ma Holden alzò una mano e lo interruppe.
«Vuoi salire sulla Roci? In questo caso, il capo sono io. Niente
discussioni, niente stronzate.»
Il sorrisino di Miller si trasformò in un sorriso. «Sì, signore» disse.
«I nostri mercenari ci stanno distanziando.» Indicò il corridoio.
Miller annuì e riprese ad avanzare con il suo passo costante, simile
a una macchina. Holden non si voltò, ma continuò a udire per molto
tempo i gemiti dell’uomo che Miller aveva quasi abbattuto. Per
coprire quel suono, che probabilmente, una volta che ebbero
compiuto un paio di svolte lungo il corridoio, esisteva soltanto nella
sua testa, riprese a canticchiare il tema di Misko e Marisko.
Madre Elise, che era restata a casa con lui quando era piccolo, gli
portava sempre qualcosa da mangiare mentre guardava lo
spettacolo, sedendosi con Holden e passandogli la mano sulla testa,
giochicchiando coi suoi capelli. Le buffonate dei dinosauri la
facevano ridere anche più forte di lui. Una volta, a Halloween, gli
aveva cucito un grosso cappello rosa per fargli impersonare il
malvagio conte Mungo. E comunque, perché quel tipo si ostinava a
voler catturare i dinosauri? Non era mai stato chiaro. Forse gli
piacevano e basta. Una volta aveva usato un raggio rimpicciolente
e...
Holden andò a sbattere contro la schiena di Miller. Il detective si
era fermato bruscamente e ora si muoveva rapido da un lato del
corridoio, tenendosi chino per restare il più possibile nell’ombra.
Holden gli andò dietro. Una trentina di metri più avanti, il gruppo di
mercenari si era ingrossato e si era diviso in due fazioni.
«Già» disse Miller. «Un sacco di gente sta avendo davvero una
giornataccia, oggi.»
Holden annuì e si pulì qualcosa dal viso. Era sangue. Non pensava
di aver sbattuto contro la schiena di Miller tanto forte da rompersi il
naso, e aveva il sospetto che il flusso non si sarebbe fermato da
solo. Le mucose si stavano deteriorando. Non era forse un risultato
dell’esposizione alle radiazioni? Si strappò due lembi di tessuto dalla
maglia e se li ficcò su per le narici mentre osservava la scena in
fondo al corridoio.
C’erano due gruppi distinti, e sembravano essere impegnati in un
acceso litigio. Normalmente non sarebbe stato un problema. A
Holden non importava niente della vita sociale di un gruppo di
mercenari. Ma quelli lì erano quasi un centinaio, erano
pesantemente armati e bloccavano il corridoio che portava alla nave.
Questo rendeva il loro diverbio meritevole di attenzione.
«Mi sa che quelli della Protogen non se ne sono andati tutti» disse
piano Miller, indicando uno dei due gruppi. «Quei tizi sulla destra non
sembrano far parte della squadra locale.»
Holden guardò il gruppo e annuì. Si trattava di militari dall’aspetto
decisamente più professionale. Le loro corazze erano fatte su
misura. L’altro gruppo sembrava essere composto per la maggior
parte da individui in tenuta antisommossa della polizia, con soltanto
alcuni uomini in corazza da combattimento.
«Vuoi tirare a indovinare quale sia l’argomento della discussione?»
chiese Miller.
«Ehi, possiamo venire anche noi?» disse Holden con un esagerato
accento cinturiano. «Uhm... no, abbiamo bisogno che voi stiate qui,
ragazzi, e che, uhm... teniate d’occhio la situazione, che vi
promettiamo sarà assolutamente sicura e che non comporterà
assolutamente la vostra trasformazione in zombi vomitanti.»
Incredibile a dirsi, ottenne una risatina da parte di Miller; poi il
corridoio eruppe in un inferno di spari. Entrambe le parti si stavano
sparando addosso a bruciapelo con i fucili automatici in dotazione. Il
frastuono era assordante. Gli uomini gridavano e saltavano per aria,
facendo schizzare sangue e pezzi di corpi gli uni sugli altri e
addosso alle pareti. Holden si sdraiò a terra ma continuò a osservare
la sparatoria.
Dopo il muro di fuoco iniziale, i sopravvissuti di entrambi i gruppi
cominciarono a ritirarsi in direzioni opposte, continuando a sparare
mentre indietreggiavano. Il pavimento all’incrocio del corridoio era
coperto di cadaveri. Holden stimò che in quel primo secondo di
combattimento erano morti venti o più uomini. Il ruggito delle armi si
fece sempre più distante mentre i due gruppi continuavano a
spararsi lungo il corridoio.
In mezzo all’incrocio, uno dei corpi a terra si mosse e alzò la testa.
Prima ancora che il ferito riuscisse ad alzarsi in piedi, un proiettile gli
trapassò la visiera, lo colpì in pieno volto e lo fece crollare a terra
definitivamente senza vita.
«Dov’è la tua nave?» chiese Miller.
«L’ascensore è in fondo al corridoio» rispose Holden.
Miller sputò a terra quel che sembrava un grumo di catarro
insanguinato.
«E il corridoio che lo incrocia è diventato una zona di guerra, con
fazioni armate e cecchini che si sparano addosso da una parte e
dall’altra» disse. «Suppongo che potremmo provare ad attraversarlo
correndo.»
«Abbiamo un’altra scelta?» chiese Holden.
Miller guardò il suo terminale.
«Siamo cinquantatré minuti oltre il limite indicato da Naomi» disse.
«Quanto tempo ancora vogliamo sprecare?»
«Be’, non sono mai stato un granché in matematica» rispose
Holden. «Ma direi che ci sono una quarantina di tizi per parte, in quel
corridoio, che è largo almeno tre, tre metri e mezzo. Ciò significa
dare a ottanta fucili tre metri di linea di fuoco. Posto che ci dica
veramente bene, ci faremmo crivellare prima di morire. Pensiamo a
un piano B.»
Come a sottolineare il suo ragionamento, nel corridoio risuonò
un’altra raffica di spari che fece saltare via pezzi della paratia
isolante in plastica e investì i cadaveri degli uomini riversi a terra.
«Stanno continuando a ritirarsi» disse Miller. «Quegli spari
sembrano più lontani. Immagino che possiamo semplicemente
aspettare. Voglio dire, sempre che possiamo per davvero.»
Le strisce di stoffa che Holden si era infilato nel naso non avevano
fermato l’emorragia; l’avevano soltanto arginata. Sentiva un gocciolio
costante in fondo alla gola che gli faceva rivoltare lo stomaco per la
nausea. Miller aveva ragione. Continuando ad aspettare, a quel
punto avrebbero finito con l’esaurire completamente ogni energia.
«Maledizione... vorrei tanto poter chiamare per sapere se almeno
Naomi è ancora lì» disse Holden, fissando la spia lampeggiante che
diceva ‘Rete non disponibile’ sul suo terminale.
«Sssh» sussurrò Miller, portandosi un dito alle labbra. Indicò giù
per il corridoio, nella direzione da cui erano venuti, e Holden udì
passi pesanti in avvicinamento.
«Ospiti in ritardo per la festa» disse Miller, e Holden annuì. I due si
voltarono, puntarono le pistole lungo il corridoio e attesero.
Un gruppo di quattro uomini in tenuta antisommossa girò l’angolo.
Non impugnavano armi, e due di loro erano senza casco. A quanto
pareva, non sapevano niente delle nuove ostilità. Holden attese che
Miller aprisse il fuoco e, quando l’ex poliziotto non lo fece, si voltò
per guardarlo. Miller lo stava già fissando.
«Non ho niente di pesante, addosso» disse Miller, quasi
scusandosi. Holden impiegò mezzo secondo per capire cosa
intendesse.
Gli diede il permesso di sparare facendo fuoco per primo. Prese di
mira uno degli sgherri senza casco e gli sparò in faccia, poi continuò
in direzione del gruppo in avvicinamento finché il carrello della sua
semiautomatica non rimase aperto quando il caricatore fu
completamente vuoto. Miller aveva cominciato a sparare una
frazione di secondo dopo il primo colpo di Holden, e anche lui
continuò fino a scaricare l’arma. Quando fu finita, tutti e quattro gli
sgherri giacevano proni sul pavimento del corridoio. Holden esalò un
lungo sospiro che si trasformò in un gemito, e si sedette a terra.
Miller andò verso gli uomini abbattuti e li spinse uno a uno con la
punta del piede mentre sostituiva il caricatore della sua pistola.
Holden non si preoccupò di ricaricare la propria. Ne aveva
abbastanza, di sparatorie. Si rimise la pistola scarica in tasca e si
alzò per raggiungere il poliziotto. Poi si chinò e cominciò a slacciare
la corazza meno danneggiata che potesse trovare. Miller inarcò un
sopracciglio, ma non fece niente per aiutarlo.
«Cerchiamo di attraversare di corsa» disse Holden, deglutendo il
sapore di vomito e sangue in fondo alla gola mentre tirava via la
piastra pettorale e dorsale del primo uomo. «Magari, indossare
questa roba potrebbe essere d’aiuto.»
«Potrebbe» ripeté Miller annuendo, poi s’inginocchiò per aiutarlo a
spogliare il secondo uomo.
Holden indossò la corazza del morto, sforzandosi di convincersi
che quella striscia rosa non fosse assolutamente un pezzo del suo
cervello. Slegare le cinghie fu estenuante. Le sue dita gli
sembravano insensibili e maldestre. Raccolse gli schinieri, poi li
riposò a terra. Preferiva correre a gambe levate. Anche Miller aveva
finito di allacciarsi la sua corazza e aveva raccolto uno dei caschi
danneggiati. Holden ne trovò uno appena scheggiato e se lo infilò
sul capo. All’interno sembrava unto, e fu felice di non avere più
l’olfatto. Sospettò che il precedente occupante non amasse lavarsi
troppo spesso.
Miller armeggiò sul lato del suo casco finché non riuscì ad
accendere la ricetrasmittente. La voce dello sbirro riecheggiò una
frazione di secondo dopo nelle cuffie metalliche del casco mentre
diceva: «Ehi, stiamo uscendo nel corridoio! Non sparate! Siamo
venuti a darvi man forte!»
Chiudendo la comunicazione, si voltò verso Holden e disse: «Be’,
magari almeno una fazione eviterà di spararci, ora.»
Tornarono indietro nel corridoio e si fermarono a dieci metri
dall’incrocio. Holden contò fino a tre e poi scattò in avanti, correndo
più veloce che poteva. Era lento in maniera scoraggiante; si sentiva
le gambe piene di piombo. Come se stesse correndo in mezzo
all’acqua. Come se fosse stato in un incubo. Sentiva Miller alle
proprie spalle, le sue scarpe che pestavano il pavimento in cemento,
i suoi respiri affannosi.
Poi udì soltanto il rumore degli spari. Non seppe dire se il piano di
Miller avesse funzionato, né da che direzione provenissero i colpi.
Era un frastuono continuo e assordante, e cominciò nel momento in
cui attraversava l’intersezione tra i corridoi. Quando fu a tre metri
dall’altra sezione, abbassò la testa e saltò in avanti. Nella gravità
ridotta di Eros gli sembrò di volare, ed era quasi arrivato dall’altra
parte quando una salva di proiettili lo colpì sull’armatura all’altezza
del costato e lo scaraventò sulla parete del corridoio con uno
schianto da spezzargli la schiena. Si trascinò a terra per l’ultimo
tratto mentre le pallottole continuavano a colpire tutto intorno alle
sue gambe, e una di esse gli perforò la parte carnosa del polpaccio.
Miller gli inciampò sopra, capitombolando per un paio di metri
lungo il corridoio e crollando rovinosamente a terra. Holden gli
strisciò accanto.
«Ancora vivo?»
Miller annuì. «Mi hanno colpito. Ho un braccio rotto. Continua a
muoverti» ansimò.
Holden si rimise in piedi, con la gamba sinistra che sembrava
andargli a fuoco mentre il polpaccio gli si contraeva intorno alla ferita
aperta. Tirò su Miller e poi gli si appoggiò mentre zoppicavano verso
l’ascensore. Il braccio sinistro dell’ex poliziotto pendeva floscio lungo
il fianco, e dalla sua mano fuoriusciva un fiotto di sangue.
Holden premette il pulsante di chiamata dell’ascensore, e lui e
Miller si appoggiarono l’uno all’altro durante l’attesa. Si mise a
canticchiare il motivetto di Misko e Marisko tra sé e sé, e, dopo
qualche secondo, Miller si unì.
Holden premette il pulsante per il molo della Rocinante e attese
che l’ascensore si fermasse davanti a un portello pressurizzato
vuoto e grigio senza nessuna nave all’attracco. Allora finalmente gli
sarebbe stato lecito accasciarsi a terra e morire. Non vedeva l’ora
che arrivasse quel momento in cui tutte le sue fatiche sarebbero
giunte al termine, con un sollievo che l’avrebbe sorpreso, se fosse
stato ancora in grado di provare sorpresa. Miller si allontanò e si
afflosciò lungo la parete dell’ascensore, lasciando sul metallo lucido
una scia di sangue e accasciandosi a terra. I suoi occhi erano chiusi.
Pareva quasi che dormisse. Holden guardò il petto del detective
alzarsi e abbassarsi in un respiro affannato e sofferente che
diventava sempre più lieve e impercettibile.
Holden lo invidiò, ma doveva vedere quel portellone chiuso prima
di potersi sdraiare. Cominciò a sentirsi vagamente arrabbiato con
quell’ascensore, che ci stava mettendo tutto quel tempo.
Alla fine, la cabina si fermò e le porte si aprirono con un tintinnio
gioioso.
Dall’altra parte del portello c’era Amos, con un fucile d’assalto in
ogni mano e due cartucciere gettate in spalla. Squadrò Holden
dall’alto in basso, poi diede un’occhiata a Miller e tornò su Holden.
«Cristo, capitano. Hai un aspetto di merda.»
32

Miller

La mente di Miller si riprese lentamente e con una serie di false


partenze. Nel sogno, stava cercando di completare un puzzle mentre
le tessere continuavano a cambiare forma e, ogni volta, proprio
quando era sul punto di arrivare ad assemblarle in un quadro
coerente, il sogno ricominciava da capo. La prima cosa di cui
divenne cosciente fu il dolore in fondo alla schiena, poi la
pesantezza di braccia e gambe, infine la nausea. Più si avvicinava a
uno stato di piena coscienza e più tentava di rimandarlo. Delle dita
immaginarie cercarono di completare il puzzle ma, prima che
riuscisse a mettere ogni pezzo al proprio posto, i suoi occhi si
aprirono.
Non riusciva a muovere la testa. Sentiva qualcosa nel collo: uno
spesso fascio di tubi neri che si allontanavano da lui e scomparivano
oltre il limite della sua visione. Cercò di alzare le braccia, di spingere
via quell’affare invadente e vampiresco, ma non ci riuscì.
Me lo sono beccato, pensò con un fremito di paura. Sono infetto.
Una donna comparve alla sua sinistra. Fu sorpreso di vedere che
non era Julie: pelle scura, occhi neri dal taglio appena allungato. La
donna gli sorrise. Dei lunghi capelli neri le scendevano da una parte,
incorniciandole un lato del viso.
Giù. C’era un giù. C’era una gravità. Erano in accelerazione. Gli
sembrò un dettaglio molto importante, ma non sapeva dire perché.
«Ehi, detective» disse Naomi. «Bentornato.»
Dove mi trovo?, cercò di dire lui. La sua gola sembrava scolpita
nella pietra. Piena, come una stazione della metropolitana affollata.
«Non cercare di alzarti, di parlare o altro» gli raccomandò lei. «Sei
stato incosciente per quasi trentasei ore. La buona notizia è che
abbiamo un’infermeria con un sistema esperto di tipo militare e
materiali a sufficienza per medicare quindici soldati marziani. Mi sa
che abbiamo già bruciato mezza scorta per te e il capitano.»
Il capitano. Holden. Sì, giusto. Avevano attraversato un
combattimento. C’era un corridoio, e gente che sparava. E qualcuno
era stato male. Gli tornò in mente l’immagine di una donna coperta
di vomito marrone, con gli occhi vuoti, ma non seppe dire se fosse
soltanto parte di un incubo.
Naomi stava continuando a parlare. Qualcosa a proposito di
ricambio completo del plasma e di danno cellulare. Cercò di alzare
una mano, di protendersi verso di lei, ma fu trattenuto da una
cinghia. Il dolore che sentiva alla schiena proveniva dai reni, e si
chiese che cosa, esattamente, stessero filtrando fuori dal suo
sangue. Miller chiuse gli occhi e si addormentò prima di poter
decidere se riposare o meno.
Stavolta non fu turbato da alcun sogno. Si destò quando qualcosa
si mosse in fondo alla sua gola, tirando sulla laringe e sfilandosi.
Senza nemmeno aprire gli occhi, rotolò da un lato, tossì, vomitò e
tornò nella posizione precedente.
Quando si svegliò, respirava da solo. Sentiva la gola infiammata e
malconcia, e aveva le mani legate. Gli avevano piantato dei tubi di
drenaggio nell’addome e sul fianco, e dal suo pene fuoriusciva un
catetere delle dimensioni di una penna. Non sentiva alcun dolore
particolare, per cui immaginò che gli avessero inoculato più o meno
tutti i narcotici esistenti in commercio. Non aveva più vestiti, e il suo
pudore era stato preservato unicamente da una sottile vestaglia di
carta e un gesso che gli manteneva il braccio fermo e inamovibile
come una pietra. Qualcuno aveva posato il suo cappello sul letto a
fianco.
L’infermeria, ora che poteva vederla, sembrava il reparto di una
serie di intrattenimento ad alto budget. Non era un ospedale; era
l’idea perfettamente plastica di ciò che sarebbe dovuto essere. Gli
schermi sospesi erano sorretti da complesse armature snodabili e
riportavano pressione sanguigna, concentrazioni di acido nucleico,
ossigenazione, bilanciamento dei fluidi. C’erano due diversi timer in
funzione, uno per il giro seguente di autofagici, l’altro per gli
antidolorifici. Dall’altra parte del corridoio, su un altro sistema di
monitoraggio, i valori di Holden sembravano più o meno uguali.
Il capitano sembrava un fantasma. Aveva la pelle morta e le sclere
arrossate per un centinaio di minuscole emorragie. Il suo viso era
gonfio di steroidi.
«Ehi» disse Miller.
Holden alzò una mano, salutandolo debolmente.
«Ce l’abbiamo fatta» riprese Miller. Gli sembrava che la sua voce
fosse stata trascinata sul selciato per le caviglie.
«Già» disse Holden.
«Ce la siamo vista brutta.»
«Già.»
Miller annuì. Quello scambio di battute aveva prosciugato tutte le
sue energie. Tornò a rilassarsi sul lettino e, se non per dormire, per
perdere i sensi. Appena prima che la sua mente tornasse a perdersi
nell’oblio, Miller sorrise. Ce l’aveva fatta. Era sulla nave di Holden. E
sarebbero andati alla ricerca di qualsiasi cosa Julie si fosse lasciata
alle spalle per loro.
Delle voci lo svegliarono.
«Allora forse non dovresti.»
Era la donna. Naomi. Una parte di sé la maledisse per averlo
disturbato, ma c’era una nota nella sua voce... non proprio di paura o
di rabbia, ma abbastanza prossima a esse da risultare interessante.
Miller non si mosse. La sua mente non tornò nemmeno
completamente in superficie, ma rimase in ascolto.
«Devo farlo» disse Holden. La sua voce sembrava catarrosa, come
quella di qualcuno che avesse bisogno di tossire. «Ciò che è
successo su Eros... ha ricollocato molte cose nella giusta
prospettiva. Mi sono trattenuto troppo.»
«Capitano...»
«No, stammi a sentire. Quando ero laggiù, convinto che non mi
rimanesse altro che una mezz’ora di partite di pachinko taroccati e
poi la morte... quando è successo, sapevo bene quali erano i miei
rimpianti. Capisci? Ho sofferto per tutte quelle cose che avrei voluto
fare e che invece non ho mai avuto il coraggio di compiere. Ora che
lo so, non posso semplicemente ignorarlo. Non posso pretendere
che non ci sia.»
«Capitano» disse di nuovo Naomi, e la nota nella sua voce era più
forte di prima.
Non dirlo, povero stupido, pensò Miller.
«Sono innamorato di te, Naomi» dichiarò Holden.
La pausa non durò più di un battito di ciglia.
«No, signore» replicò lei. «Non lo è.»
«Lo sono eccome. So che cosa stai pensando. Che ho attraversato
questa esperienza terribilmente traumatica e che sto facendo tutta
quella manfrina sul dare un senso alla vita e sul costruire relazioni, e
probabilmente in parte è anche questo. Ma tu devi credere che io
sappia esattamente quello che provo. E, quando ero laggiù, sapevo
che la cosa che desideravo di più era tornare da te.»
«Capitano. Per quanto tempo abbiamo lavorato insieme?»
«Cosa? Non saprei, esattamente...»
«Così, a occhio e croce.»
«Otto giri e mezzo fanno quasi cinque anni» calcolò Holden. Miller
percepiva la confusione nella sua voce.
«Va bene. E, in questo periodo, con quante persone hai condiviso
la branda?»
«Ha importanza?»
«Abbastanza.»
«Un po’ di persone.»
«Più di una dozzina?»
«No» rispose lui, ma non sembrava sicuro.
«Facciamo dieci» disse Naomi.
«Okay. Ma stavolta è diverso. Non sto parlando di un’avventura di
bordo per passare il tempo. Da quando...»
Miller s’immaginò la donna che alzava una mano, o che prendeva
quella di Holden tra le sue, o magari che lo fulminava semplicemente
con lo sguardo. Qualcosa che aveva interrotto il flusso del discorso.
«E lo sa quand’è che mi sono innamorata di lei, signore?»
Rammarico. Ecco cos’era quella nota nella sua voce. Rammarico.
Delusione. Rimpianto.
«Quando... quando tu...?»
«Posso dirti il giorno preciso» proseguì Naomi. «Erano passate
sette settimane dall’inizio di quel primo giro. Stavo ancora digerendo
il fatto che un qualche terrestre venuto da fuori dall’eclittica mi
avesse soffiato l’incarico da vicecomandante. All’inizio non mi
piacevi granché. Eri troppo affascinante, troppo carino, e troppo
dannatamente comodo sulla mia poltrona. Poi però c’è stata una
partita di poker nella sala motori. Tu, io, quei due ragazzi di Luna del
reparto meccanici e Kamala Trask. Ti ricordi di Trask?»
«Era l’addetta alle comunicazioni. Era...»
«Come uno scaldabagno? Con la faccia da bulldog?»
«Mi ricordo di lei.»
«Aveva una cotta per te, di quelle serie. Si addormentava
piangendo tutte le sere, durante quel primo giro. Non stava giocando
perché le piaceva il poker. Voleva soltanto respirare un po’ della tua
stessa aria, e lo sapevamo tutti. Perfino tu. E, per l’intera serata, vi
ho osservato entrambi; tu non l’hai mai assecondata. Non le hai mai
dato motivo di pensare che avesse una possibilità con te. Eppure la
trattavi con rispetto. Quella è stata la prima volta che ho pensato che
saresti potuto essere un vicecomandante decente, ed è stata la
prima volta che ho desiderato di poter essere io, la ragazza nel tuo
letto a fine turno.»
«Per via di Trask?»
«Per quello, e perché ha un gran bel culo, signore. Quel che voglio
dire è che abbiamo volato insieme per più di quattro anni. E ci sarei
stata in qualunque di quei giorni, se me l’avessi chiesto.»
«Non lo sapevo» rispose Holden. La sua voce sembrò un po’
strozzata.
«Non me l’hai mai chiesto. Hai rivolto sempre le tue mire altrove. E,
sinceramente, credo che le donne cinturiane ti scoraggino. Finché la
Cant... finché siamo rimasti soltanto noi cinque. Ho visto come mi
guardavi. So esattamente che cosa significavano quegli sguardi,
perché ho passato quattro anni dall’altra parte della barricata. Ma ho
ottenuto la tua attenzione soltanto quando ero l’unica femmina a
bordo, e questo non mi basta.»
«Non so proprio...»
«No, signore. Non lo sai. È questo il punto. Ti ho visto sedurre
molte donne, e so come lo fai. Ti fissi con una donna, ti fai eccitare
da lei. Poi ti convinci che tu e lei avete una sorta di relazione
speciale e, quando arrivi a crederci, solitamente anche la poveretta
pensa che sia così. E poi ci vai a letto per un po’, e la relazione
comincia a infiacchirsi. Tu o lei cominciate a usare parole come
‘professionale’ o ‘limiti opportuni’, o a preoccuparvi di quello che
penserà l’equipaggio, e tutto il castello crolla giù. Dopo ti vogliono
ancora bene. Tutte. Fai ogni cosa così bene che alla fine non
sentono nemmeno di doverti odiare per questo.»
«Non è vero.»
«Lo è. E finché non capirai che non devi per forza amare tutte
quelle con cui hai una relazione, non saprò mai se mi ami davvero o
se vuoi semplicemente portarmi a letto. E non ci verrò finché tu non
saprai di quale delle due cose si tratti. L’amore parte sfavorito.»
«Stavo soltanto...»
«Se vuoi venire a letto con me,» disse Naomi «sii sincero. Abbi
abbastanza rispetto di me da esserlo. Va bene?»
Miller tossì. Non era sua intenzione, non sapeva nemmeno che
stava per farlo. La pancia gli si tese, la gola si chiuse e si scatenò
una tosse grassa e profonda. Una volta cominciato, era difficile
fermarsi. Si mise seduto, lacrimando per lo sforzo. Holden era
sdraiato sul suo letto. Naomi era seduta su quello accanto,
sorridendo come se non ci fosse stato niente da origliare. I monitor
di Holden indicavano un battito cardiaco accelerato e una pressione
alta. Miller poté soltanto sperare che quel povero cristo non avesse
avuto un’erezione con il catetere ancora infilato.
«Ehi, detective» disse Naomi. «Come ti senti?»
Miller annuì.
«Sono stato peggio» rispose. Poi, un attimo dopo aggiunse: «Anzi,
no. Peggio di così mai. Ma sto bene. Stavamo conciati molto male?»
«Siete morti entrambi» replicò Naomi. «Dico sul serio, abbiamo
dovuto disabilitare i filtri di priorità emergenziale per entrambi più di
una volta. Il sistema medico meccanico continuava a dichiararvi in
fase terminale e a imbottirvi di morfina.»
Lo raccontò con tono leggero, ma Miller le credeva. Cercò di
mettersi a sedere dritto. Sentiva il proprio corpo terribilmente
pesante, ma non sapeva se fosse per via della propria debolezza o a
causa dell’accelerazione della nave. Holden era silenzioso, con la
mascella serrata. Miller fece finta di non accorgersene.
«Dovrete entrambi sottoporvi a un controllo mensile per prevenire
una recidiva del cancro per il resto delle vostre vite. Il capitano ha un
nuovo impianto al posto della tiroide, considerando che l’originale
era praticamente fusa. Abbiamo dovuto asportare mezzo metro del
tuo intestino tenue, che non la smetteva di sanguinare. Entrambi
sarete facilmente soggetti a lividi per un po’ di tempo e, se volevate
dei bambini, spero che abbiate fatto conservare un po’ del vostro
sperma in una banca da qualche parte, perché tutti i vostri soldatini
ormai hanno due teste.»
Miller ridacchiò. I suoi monitor lampeggiarono inviando un allarme,
poi tornarono stabili.
«Dai l’impressione di aver ricevuto un addestramento da tecnico
medico» osservò.
«No. Ingegnere. Ma ho letto i referti giorno per giorno, per cui
ormai ho acquisito un po’ di gergo. Vorrei che Shed fosse ancora qui
con noi» rispose, sembrando triste per la prima volta.
Era la seconda volta che qualcuno menzionava questo Shed.
Doveva esserci una qualche storia dietro, ma Miller soprassedette.
«Perderemo i capelli?» chiese.
«Può darsi» rispose Naomi. «Il sistema vi ha imbottito di medicinali
che dovrebbero contrastare la degenerazione fisica ma, se i follicoli
muoiono, allora muoiono, punto e basta.»
«Be’... è un bene che abbia ancora il mio cappello, allora. Che
notizie da Eros?»
Il tono di finta leggerezza di Naomi venne meno.
«È andata» disse Holden dal suo letto, voltandosi per osservare
Miller. «Credo che siamo stati l’ultima nave a lasciare il porto. La
stazione non risponde alle chiamate e i sistemi automatici l’hanno
messa in blocco di quarantena.»
«Navi di soccorso?» chiese Miller, e tossì di nuovo. Aveva la gola
ancora riarsa.
«Niente da fare» rispose Naomi. «Sulla stazione c’erano un milione
e mezzo di persone. Nessuno dispone delle risorse necessarie a
organizzare questo genere di operazioni di salvataggio.»
«Dopotutto,» osservò Holden «è in corso una guerra.»
Il sistema automatico attenuò le luci per la notte. Miller giaceva
sdraiato sul letto. L’impianto medico di bordo aveva fatto passare il
suo regime di cure a una nuova fase e, durante le ultime tre ore,
Miller aveva fatto la spola tra febbroni da cavallo e brividi da far
battere i denti. I suoi denti e le unghie delle dita di mani e piedi gli
facevano un male cane. Il sonno era una chimera, per cui se ne
rimase lì sdraiato nella penombra a cercare di rimettere insieme i
pezzi.
Si chiese che cosa avrebbero pensato i suoi vecchi partner del suo
comportamento su Eros. Havelock. Muss. Cercò d’immaginarseli nei
suoi panni. Aveva ucciso delle persone, e l’aveva fatto a sangue
freddo. Eros era diventata una kill box e, quando le persone
incaricate di far rispettare la legge ti volevano morto, la legge non si
applicava più. E poi, alcuni di quegli stronzi che aveva ammazzato
avevano ucciso Julie.
Si trattava di omicidio per vendetta, quindi. Era davvero arrivato a
quel punto? Era un pensiero che lo rattristava. Cercò di immaginare
Julie che sedeva accanto a lui come aveva fatto Naomi con Holden.
Era come se avesse aspettato di essere invitata. Julie Mao, che non
aveva mai conosciuto per davvero. Alzò una mano per salutarlo.
E che ne è di noi?, le chiese Miller fissandola nei suoi occhi scuri e
irreali. Ti amo davvero, o è solo che voglio amarti a tal punto che non
riesco a capire la differenza?
«Ehi, Miller» disse Holden, e Julie svanì. «Sei sveglio?»
«Già. Non riesco a dormire.»
«Io nemmeno.»
Rimasero in silenzio per un po’. L’impianto medico di bordo si
attivò. Miller sentì un pizzicorio al braccio sinistro, imprigionato nel
gesso, mentre i tessuti venivano sottoposti a un altro giro di
ricrescita forzata.
«Riesci a cavartela?» chiese Miller.
«Perché non dovrei?» rispose Holden seccamente.
«Hai ammazzato quel tipo» disse Miller. «Sulla stazione. Gli hai
sparato. Voglio dire, so che avevi sparato ad altri prima di allora...
ma lì, proprio verso la fine, hai colpito in faccia un uomo.»
«Già. È così.»
«E ti senti a posto?»
«Sicuro» replicò Holden, troppo in fretta.
I riciclatori d’aria ronzarono, e il bracciale per la pressione sul
braccio buono di Miller lo strinse come una mano. Holden non disse
niente ma, quando Miller strizzò gli occhi, poté constatarne l’elevata
pressione sanguigna e il miglioramento dell’attività cerebrale.
«Ci facevano sempre prendere un periodo di congedo» disse
Miller.
«Come?»
«Quando sparavamo a qualcuno. Che morisse o meno, ci
facevano sempre prendere un permesso retribuito. Ci facevano
restituire l’arma e ci mandavano a parlare con uno strizzacervelli.»
«Burocrati» commentò Holden.
«Non avevano torto» ribatté Miller. «Sparare a una persona ti
cambia. Uccidere una persona... è anche peggio. Non importa se la
vittima se lo meritava o se non potevi fare altrimenti. Anzi, un po’ di
differenza forse la fa. Ma non cancella quel che è accaduto.»
«Mi pare che tu l’abbia superato, però.»
«Forse» replicò Miller. «Ascolta. Tutto quello che ho detto laggiù
sul fatto di uccidere una persona...sul fatto che lasciarla in vita non
voleva dire fargli un favore... mi dispiace che sia successo.»
«Pensi di aver sbagliato?»
«No. Ma mi dispiace comunque che sia accaduto.»
«Okay.»
«Cristo. Guarda, sto solo dicendo che è un bene che ti preoccupi di
queste cose. È un bene che tu non riesca a smettere di vederlo o di
risentirlo. Quella parte in cui quel che hai fatto ti tormenta... È così
che dovrebbe essere.»
Holden rimase in silenzio per un momento. Quando parlò di nuovo,
la sua voce era ruvida come pietra.
«Ho ucciso altre persone prima d’ora, sai. Ma erano puntini su un
radar. Io...»
«Non è la stessa cosa, vero?» chiese Miller.
«No, non lo è» rispose Holden. «Passa mai?»
A volte, pensò Miller.
«No» disse. «Non se hai ancora un’anima.»
«Okay. Grazie.»
«Un’altra cosa...»
«Sì?»
«So che non sono affari miei, ma se fossi in te non mi lascerei
scoraggiare da lei. Dice che non capisci il sesso, l’amore e le
donne... significa semplicemente che sei nato con un cazzo tra le
gambe. E quella ragazza, Naomi, sembra valere davvero la pena di
lottare per conquistarla. Mi spiego?»
«Già» riconobbe Holden. Poi aggiunse: «Possiamo non parlarne
mai più?»
«Sicuro.»
La nave cigolò e la gravità si spostò di un grado alla destra di
Miller. Correzione di rotta. Niente d’interessante. Miller chiuse gli
occhi e cercò di costringersi a dormire. Aveva la mente piena di
cadaveri, di Julie, di amore e sesso. Holden aveva detto qualcosa
d’importante sulla guerra, ma non riusciva a mettere insieme i pezzi.
Continuavano a cambiare. Miller sospirò, spostò il proprio peso
bloccando uno dei suoi tubi di drenaggio e dovette tornare nella
posizione precedente per far cessare l’allarme che era scattato.
Quando il bracciale della pressione si riattivò, era Julie che gli
stringeva il braccio, facendoglisi tanto vicina da sfiorargli l’orecchio
con le labbra. Miller aprì gli occhi e la sua mente vide sia la ragazza
immaginaria, sia gli schermi che la sua presenza avrebbe coperto
alla vista se fosse stata davvero lì.
Ti amo anch’io, gli disse. E mi prenderò cura di te.
Lui sorrise nel vedere i numeri che cambiavano mentre il suo cuore
prendeva ad accelerare.
33

Holden

Holden e Miller rimasero sdraiati per altri cinque giorni, mentre il


sistema solare andava in fiamme tutto intorno a loro. Le notizie sulla
distruzione di Eros andavano da un massiccio collasso ecologico
provocato da una mancanza di rifornimenti dovuta alla guerra,
all’attacco marziano sotto copertura, fino a un incidente di laboratorio
durante lo sviluppo di un’arma biologica segreta dei cinturiani.
L’analisi da parte dei pianeti interni concludeva che l’APE e i terroristi
come loro avevano finalmente dimostrato quanto pericolosi
potessero essere per le innocenti popolazioni civili. La Fascia dava
la colpa a Marte, alle squadre di manutenzione di Eros o all’APE per
non aver fermato quel disastro.
E poi una flotta di fregate marziane aveva bloccato Pallas, una
rivolta su Ganimede si era conclusa con un bilancio di sedici morti, e
il nuovo governo su Ceres aveva annunciato che tutte le navi con
registro marziano attraccate alla stazione sarebbero state requisite.
Minacce e accuse continuarono a rincorrersi sullo sfondo del brusio
costante dei tamburi da guerra. L’episodio di Eros era stato una
tragedia e un crimine, ma era finito, e c’erano nuovi pericoli che
spuntavano fuori da ogni angolo dello spazio conosciuto.
Holden spense il notiziario, cincischiò sul suo lettino e cercò di
svegliare Miller fissandolo intensamente. Non funzionò. Quella
massiccia esposizione alle radiazioni non gli aveva conferito alcun
superpotere. Miller cominciò a russare.
Holden si sedette, tastando la gravità. Meno di un quarto di g. Alex
non sembrava aver fretta. Naomi stava dando a lui e a Miller il tempo
di guarire prima che arrivassero al magico e misterioso asteroide di
Julie.
Merda.
Naomi.
Le ultime volte che era venuta in infermeria erano state
imbarazzanti. Lei non aveva mai ripreso l’argomento del suo fallito
tentativo di approccio, ma Holden ora sentiva tra loro una barriera
che lo riempiva di rimpianto. E, ogni volta che Naomi lasciava la
stanza, Miller distoglieva lo sguardo e sospirava, il che non faceva
che peggiorare le cose.
Ma non poteva evitarla per sempre, a prescindere da quanto si
sentisse idiota in sua presenza. Tirò i piedi giù dal letto e li posò a
terra. Sentiva le gambe deboli, ma non di gomma. Le piante dei piedi
protestarono per il dolore, ma dolevano molto meno di tutto il resto
del suo corpo. Si alzò tenendo una mano sul letto e provò il proprio
equilibrio. Barcollò ma rimase eretto. Fece due passi e fu rassicurato
di sapere che poteva camminare in quella bassa gravità. La flebo gli
tirò sul braccio. Ormai aveva soltanto un’unica sacchetta di un blu
tenue. Non aveva idea di cosa contenesse ma, dopo che Naomi gli
aveva descritto quanto fosse stato vicino alla morte, immaginò che si
trattasse di qualcosa d’importante. La tirò via dal gancio a parete e la
tenne nella mano sinistra. La stanza puzzava di antisettici e diarrea.
Era contento di poter uscire da lì.
«Dove stai andando?» gli chiese Miller, con voce malferma.
«Fuori.» Holden ebbe un improvviso, viscerale ricordo di quando
era un quindicenne.
«Okay» disse Miller, e si rotolò su un fianco.
Il portellone dell’infermeria distava quattro metri dalla scala
centrale, e Holden coprì quella distanza con passo lento e cauto,
trascinando i piedi e producendo un suono strascicato lieve, come
un sussurro, con le sue pantofole di carta sul pavimento metallico
coperto di moquette. Fu sconfitto dalla scala. Anche se la plancia era
soltanto un ponte più su, quei tre metri di salita sarebbero
tranquillamente potuti essere mille. Premette il pulsante per
chiamare l’ascensore e pochi secondi dopo la paratia del pavimento
si aprì per lasciar salire la cabina con un ronzio elettrico. Holden
cercò di saltarci su, ma riuscì soltanto a compiere una specie di
caduta al rallentatore che terminò con lui che si aggrappava alla
scala, inginocchiato sulla piattaforma dell’ascensore. Lo fermò, si
alzò in piedi e ricominciò da capo, poi risalì fino al ponte
atteggiandosi in quella che sperava essere una postura meno
acciaccata e più consona a un capitano.
«Cristo, capitano, hai ancora un aspetto di merda» esclamò Amos
mentre l’ascensore si fermava in plancia. Il meccanico era
stravaccato su due poltrone davanti alla postazione dei sensori,
intento a ciancicare quella che sembrava essere una striscia di
cuoio.
«Continui a ripetermelo.»
«Continua a essere vero.»
«Amos, non avevi del lavoro da fare?» intervenne Naomi. Sedeva
a una delle postazioni computer, intenta a osservare qualcosa che
lampeggiava sugli schermi. Quando Holden arrivò sul ponte, lei non
alzò nemmeno gli occhi. Brutto segno.
«No. Questa è la nave più noiosa su cui abbia mai lavorato, capo.
Non si rompe, non ha perdite, non ha nemmeno una singola vite un
po’ allentata da stringere» rispose Amos, schioccando le labbra
mentre finiva il suo snack.
«Puoi sempre passare lo straccio» replicò Naomi, poi picchiettò
qualcosa sullo schermo di fronte a sé. Amos guardò lei, poi Holden,
poi di nuovo lei.
«Ah, ora che mi ricordo... Sarà meglio che vada in sala macchine
per dare un’occhiata a quella... cosa a cui volevo dare un’occhiata»
disse Amos, balzando in piedi. «Con permesso, capitano.»
Sgusciò accanto a Holden, saltò sull’ascensore e si diresse a
poppa. Il portello della plancia si richiuse alle sue spalle.
«Ehi» disse Holden a Naomi, una volta che Amos se ne fu andato.
«Ehi» replicò lei, senza nemmeno voltarsi. Di nuovo, brutto segno.
Quando l’aveva vista cacciare Amos, Holden aveva sperato che
volesse parlare. Ma non sembrava essere così. Holden sospirò e
avanzò trascinando i piedi verso il sedile accanto a lei. Ci crollò
sopra, con le gambe che formicolavano come se avesse appena
corso per un chilometro invece che aver barcollato per una ventina
di passi o poco più. Naomi aveva i capelli sciolti che le
nascondevano il viso. Holden avrebbe voluto tirarli indietro con una
carezza, ma aveva paura che, se ci avesse provato, lei gli avrebbe
spezzato il gomito con una delle sue mosse di kung fu cinturiano.
«Senti, Naomi» cominciò a dire, ma lei lo ignorò e premette un
tasto sul pannello. Holden s’interruppe quando vide il viso di Fred
comparire sullo schermo di fronte a lei.
«Quello è Fred?» chiese, perché non riusciva a pensare a niente di
più idiota da dire.
«Dovresti vederlo. È arrivato da Tycho un paio di ore fa con raggio
ristretto dopo che gli ho inviato un aggiornamento sulle nostre
condizioni.»
Naomi premette il tasto di riproduzione e il viso di Fred prese vita.
«Naomi, sembrerebbe che ve la siate vista brutta. L’etere è pieno
di voci sul blocco della stazione e sulla presunta esplosione
nucleare. Nessuno sa che cosa pensare. Teneteci informati. Nel
frattempo, noi siamo riusciti a violare l’accesso di quel cubo di dati
che ci avete lasciato. Temo che però non sarà di particolare aiuto.
Sembra un insieme di dati dai sensori della Donnager,
principalmente roba elettromagnetica. Abbiamo cercato messaggi
cifrati o nascosti, ma i miei tecnici più preparati non sono riusciti a
trovare niente. Vi trasmetto i dati. Fatemi sapere se scoprite
qualcosa. Tycho, passo e chiudo.»
Lo schermo si annerì.
«Che te ne sembra?» chiese Holden.
«Quello che ha detto lui» rispose Naomi. «Dati provenienti dai
sensori EM della Donnager durante l’inseguimento da parte delle sei
navi, e sulla battaglia. Ho scavato un po’ nei registri alla ricerca di
qualche chiave nascosta, ma non sono riuscita a trovare un bel
niente. Ho perfino fatto analizzare tutti i dati alla Roci durante le
ultime due ore, alla ricerca di qualche modello ricorrente. La nave ha
un ottimo software per questo genere di cose. Fino a ora, però,
nessun risultato.»
Picchiettò nuovamente sullo schermo e le voci di registro
cominciarono a scorrere più rapidamente di quanto Holden non
riuscisse a leggere. In una finestra all’interno dello schermo, il
software di riconoscimento modulare della Rocinante continuava il
suo lavoro di filtraggio alla ricerca di un significato criptato. Holden
l’osservò per un momento, ma ben presto gli si annebbiò la vista.
«Il tenente Kelly è morto per questi dati» disse. «Ha lasciato la
nave mentre i suoi compagni stavano ancora combattendo. Un
marine non farebbe una cosa del genere, a meno che non sia di
vitale importanza.»
Naomi si strinse nelle spalle e indicò lo schermo con
rassegnazione.
«Questo è quel che c’era nel cubo» disse. «Può darsi che ci sia
qualcosa in steganografia, ma non ho alcun altro insieme di dati con
cui operare il confronto.»
Holden cominciò a tamburellarsi sulla coscia con le dita,
momentaneamente dimentico del dolore e del suo fallimento
amoroso.
«E va bene. Diciamo che questi dati sono tutto ciò che abbiamo.
Non c’è niente di nascosto. Che significato avrebbero avuto tali
informazioni per la marina militare marziana?»
Naomi si appoggiò allo schienale e chiuse gli occhi, immersa in un
pensiero, mentre con un dito si arricciava e scioglieva una ciocca di
capelli sulla tempia.
«Sono più che altro dati EM, ovvero un sacco di tracce magnetiche
di motori e propulsori. La radiazione emessa dai razzi è il miglior
modo per tracciare le altre navi. Così da sapere esattamente dove si
trova ogni nave durante il combattimento. Dati strategici?»
«Può darsi» rispose Holden. «Sarebbero tanto importanti da
cercare di salvarli facendo fuori Kelly?»
Naomi fece un respiro profondo ed espirò lentamente.
«Non credo» disse.
«Io nemmeno.»
Qualcosa bussava al margine della sua coscienza, chiedendogli di
farlo entrare.
«Che cos’era tutta quella faccenda di Amos?» domandò.
«Amos?»
«Amos, che quando siamo arrivati sorvegliava il portello con due
fucili» disse Holden.
«Abbiamo avuto qualche problema sulla via del ritorno verso la
nave.»
«Problemi per chi?» chiese Holden, riuscendo a farla sorridere.
«Un paio di cattivoni non volevano che violassimo il blocco navale
sulla Roci. Amos ci ha scambiato qualche parola. Non avrà pensato
che fosse perché stavamo aspettando lei, vero, signore?»
C’era forse ironia nel suo tono? Un accenno di civetteria? Di
seduzione? Holden si impedì di sorridere.
«Che cos’ha detto la Roci di questi dati, quando li hai analizzati?»
chiese.
«Ecco» rispose Naomi, e aprì una finestra sul pannello. Lo
schermo cominciò a mostrare una lunga lista di dati in forma
testuale. «Un sacco di roba EM e spettrografica, qualche perdita da
danni a...»
Holden guaì. Naomi alzò lo sguardo verso di lui.
«Sono un idiota» disse Holden.
«Non ci piove. Ti spiace elaborare?»
Holden toccò lo schermo e cominciò a scorrere su e giù tra i dati.
Picchiettò un dito su una lunga lista di cifre e lettere e si appoggiò
allo schienale con un ghigno soddisfatto.
«Ecco, è questo» disse.
«Questo cosa?»
«La struttura dello scafo non è l’unico parametro di riconoscimento.
È il più accurato, ma è anche quello con la portata più corta,
nonché» aggiunse Holden facendo un gesto intorno a sé, a indicare
la Rocinante «il più facile su cui barare. Il metodo migliore è il
tracciamento dei razzi di propulsione. Le radiazioni emesse e i
modelli di traccia termica non si possono mascherare. E sono facili
da individuare anche da molto lontano.»
Holden accese lo schermo accanto al suo sedile e richiamò il
database relativo agli alleati/nemici della nave, poi lo incrociò con i
dati sullo schermo di Naomi.
«Ecco qual è il messaggio, Naomi. Sta dicendo a Marte chi è stato
a distruggere la Donnager mostrando qual era la traccia termica dei
propulsori.»
«Ma allora perché non dire semplicemente ‘sono stati questo e
quello a distruggerci’, in un bel documento di testo facilmente
leggibile?» chiese Naomi, aggrottando con scetticismo la fronte.
Holden si chinò in avanti e rimase interdetto; aprì la bocca, poi la
richiuse e tornò ad appoggiarsi allo schienale con un sospiro.
«Non lo so.»
Un portellone si spalancò con un ronzio idraulico; poi Naomi
guardò verso la scala, alle spalle di Holden, e disse: «Miller sta
venendo su.»
Holden si voltò per guardare il detective che finiva di salire
lentamente gli ultimi gradini dal ponte dell’infermeria. Somigliava a
un pollo spennato, con il colorito rosa-grigiastro punteggiato dalla
pelle d’oca. La sua vestaglia di carta si abbinava malamente con il
cappello.
«Ehm... c’è un ascensore» disse Holden.
«Vorrei averlo saputo» replicò Miller, poi si trascinò in plancia con
un sussulto. «Siamo già arrivati?»
«Stiamo cercando di risolvere un mistero» disse Holden.
«Odio i misteri» rispose Miller, poi si alzò in piedi e si diresse verso
un sedile.
«E allora risolvici questo: scopri chi è stato ad assassinare
qualcuno; non puoi arrestarlo tu stesso, per cui invii l’informazione al
tuo partner; però poi, invece di inviare direttamente il nome del
criminale, mandi al tuo partner un insieme di indizi. Perché?»
Miller tossì e si grattò il mento. Aveva gli occhi fissi su qualcosa,
come se stesse leggendo da uno schermo che Holden non poteva
vedere.
«Perché non mi fido di me stesso. Voglio che il mio partner arrivi
alla stessa conclusione a cui sono giunto io, senza che il mio
giudizio lo influenzi. Gli fornisco i punti, e aspetto di vedere che cosa
tira fuori collegandoli tra loro.»
«Soprattutto se immaginare una cosa sbagliata può avere brutte
conseguenze» intervenne Naomi.
«Non è bello toppare su un’accusa di omicidio» disse Miller
annuendo. «Sarebbe molto poco professionale.»
Il pannello di Holden emise un trillo.
«Merda, ecco perché si muovevano così cauti» disse dopo aver
letto il suo schermo. «La Roci pensa che si tratti di motori da
incrociatori leggeri standard, costruiti dalla Bush Shipyards.»
«Erano navi terrestri?» chiese Naomi. «Ma non avevano alcuna
bandiera, e... figli di puttana!»
Era la prima volta che Holden la sentiva gridare, e capì il suo
ragionamento. Se erano state delle navi della Marina delle Nazioni
Unite a distruggere la Donnager in un’operazione ombra, significava
che dietro tutta quella situazione c’era la Terra. E forse anche la
distruzione della Canterbury era opera sua. Il che significava che le
navi da guerra marziane stavano abbattendo i cinturiani senza
motivo. Cinturiani come Naomi.
Holden si chinò in avanti e richiamò la schermata di
comunicazione, poi impostò una trasmissione generale. Miller
trattenne il respiro.
«Quel pulsante che hai appena premuto non serve a fare quel che
penso, vero?» disse.
«Ho portato a termine la missione di Kelly al suo posto» rispose
Holden.
«Non ho la più pallida idea di chi cazzo sia Kelly,» disse Miller «ma
ti prego, dimmi che la sua missione non era trasmettere quei dati
all’intero sistema solare...»
«La gente deve sapere che cosa sta succedendo» replicò Holden.
«Sì, è vero, ma forse dovremmo cercare di capire che diavolo sta
succedendo prima di dirglielo» ribatté Miller, senza più traccia di
debolezza nella voce. «Quanto puoi essere ingenuo?»
«Ehi» protestò Holden, ma Miller continuò alzando la voce.
«Hai trovato una batteria marziana, giusto? E così hai detto
all’intero sistema solare quello che avevi trovato, innescando la più
grande guerra che l’umanità abbia mai conosciuto. Solo che adesso
esce fuori che non sono stati i marziani a lasciarla lì. Poi, una
manciata di navi misteriose distruggono la Donnager, e Marte dà la
colpa alla Fascia, soltanto che, dannazione, la Fascia non sapeva
nemmeno di essere in grado di distruggere un incrociatore da
battaglia marziano.»
Holden fece per parlare, ma Miller prese un bulbo di caffè che
Amos aveva lasciato sulla console e glielo tirò addosso.
«Lasciami finire! Adesso trovi dei dati che tirano in ballo la Terra. E
la prima cosa che fai è aprire la bocca e dirlo all’universo intero, di
modo che Marte e la Fascia ora trascineranno la Terra in tutta
questa faccenda, rendendo la più grande guerra di tutti i tempi ancor
più grande. Non vedete il disegno che c’è dietro?»
«Sì» disse Naomi.
«E allora, cosa pensate che succederà adesso?» continuò Miller.
«È così che lavora questa gente! Hanno fatto sembrare che la fine
della Canterbury fosse opera di Marte. E non lo era. Hanno fatto
sembrare che la distruzione della Donnager fosse opera della
Fascia. E non lo era. Adesso invece sembra che l’intera faccenda
ricada sulle spalle della Terra... ma seguite il disegno: probabilmente
non è così! Non puoi mai, mai esternare questo genere di accuse
finché non hai un quadro chiaro e completo della situazione. Devi
osservare. Devi ascoltare. Devi stare zitto, Cristo dio, e dopo,
quando sai quel che dici, allora puoi aprire la bocca.»
Il detective si appoggiò allo schienale, chiaramente esausto. Stava
sudando. Sul ponte calò il silenzio.
«Hai finito?» chiese Holden.
Miller annuì, respirando pesantemente. «Credo di aver messo in
chiaro qualche punto essenziale.»
«Non ho accusato nessuno di aver fatto alcunché» disse Holden.
«Non sto montando un caso. Mi sono limitato a rendere pubblici quei
dati. Ora non sono più un segreto. Stanno facendo qualcosa, su
Eros. E non vogliono essere interrotti. Con Marte e la Fascia che se
le danno di santa ragione, chiunque abbia le risorse necessarie per
poter intervenire è impegnato altrove.»
«E tu ci hai appena trascinato dentro anche la Terra» disse Miller.
«Può darsi» ribatté Holden. «Ma i colpevoli hanno davvero usato
navi che sono state costruite, almeno in parte, nei cantieri navali
orbitali terrestri. Può essere che qualcuno si prenderà la briga di
approfondire la cosa. Ed è questo il punto. Se tutti sanno tutto, non
ci sono più segreti.»
«Già, be’...» disse Miller. Holden lo ignorò.
«Alla fine, qualcuno riuscirà a inquadrare la situazione nel suo
complesso. Questo genere di cose richiede segretezza, per poter
funzionare, per cui rendere pubblici tutti i segreti finirà con il
danneggiare proprio i colpevoli. È l’unico modo per far sì che tutto
questo abbia fine in maniera reale, definitiva.»
Miller sospirò, annuì tra sé e sé, si tolse il cappello e si grattò la
testa.
«Io pensavo semplicemente di buttarli fuori da un portellone
pressurizzato» disse l’ex poliziotto.
BA834024112 non era un granché come asteroide. Poco più lungo di
trenta metri, era stato da tempo esplorato e trovato completamente
privo di minerali utili o di valore. Era elencato nel registro soltanto
per evitare che le navi potessero andarci a sbattere contro. Julie
l’aveva lasciato legato a una ricchezza misurabile in miliardi, quando
si era diretta su Eros con il suo piccolo shuttle.
Da vicino, la nave che aveva annientato la Scopuli e rapito il suo
equipaggio sembrava uno squalo. Era lunga, sinuosa e
completamente nera, quasi impossibile da individuare a occhio nudo
sullo sfondo dello spazio siderale. Le sue curve atte a deviare i
segnali radar gli conferivano un aspetto aerodinamico quasi sempre
assente nei veicoli spaziali. A Holden faceva venire la pelle d’oca,
ma era bellissima.
«Porca puttana» esclamò Amos sottovoce mentre l’equipaggio si
radunava nella cabina di pilotaggio per osservarla.
«La Roci non la vede nemmeno, capitano» disse Alex. «Ci sto
puntando sopra il lidar, ma tutto quello che riesce a individuare è un
punto a malapena più caldo sulla superficie dell’asteroide.»
«Come quello che ha visto Becca appena prima che la Cant fosse
distrutta» intervenne Naomi.
«Il suo shuttle è stato usato, per cui direi che si tratta della nave
mimetica giusta» aggiunse Alex. «Nel caso in cui dovesse esisterne
più di un modello.»
Holden tamburellò con le dita sullo schienale del sedile di Alex per
un momento, mentre fluttuava sopra la testa del pilota.
«Probabilmente sarà piena di zombi vomitanti» disse alla fine.
«Vogliamo andare a dare un’occhiata?» propose Miller.
«Oh, sì» rispose Holden.
34

Miller

La tuta ambientale era migliore di quelle a cui era abituato Miller.


Aveva fatto soltanto un paio di passeggiate fuori durante gli anni
passati su Ceres, e l’equipaggiamento della Star Helix era già
vecchio allora: grossi giunti corrugati, unità d’ossigeno separate,
guanti che gli lasciavano le mani di trenta gradi più fredde rispetto al
resto del corpo. Le tute della Rocinante erano di tipo militare e molto
più recenti, non più ingombranti di una normale tenuta
antisommossa, con supporti vitali integrati che sembravano in grado
di tenere al caldo le dita anche quando la mano veniva staccata da
uno sparo. Miller fluttuò nella camera di pressurizzazione, con una
mano su una cinghia, e fletté le dita, osservando la copertura simile
a pelle di squalo delle nocche.
Non sembrava abbastanza.
«Tutto a posto, Alex» disse Holden. «Siamo pronti. Fa’ bussare la
Roci per noi.»
Una profonda vibrazione li scosse. Naomi si appoggiò con una
mano alla paratia curva della camera di pressurizzazione per
mantenersi in equilibrio. Amos si spostò per mettersi in prima linea,
armato di un fucile automatico senza rinculo. Quando piegò il collo,
Miller udì le vertebre che scrocchiavano nel canale radio. Era l’unico
modo in cui avrebbe potuto sentirle; erano già nel vuoto.
«Okay, capitano» disse Alex. «Ho trovato un sigillo. L’esclusione
standard del codice di sicurezza non funziona, per cui mi servirà un
istante... per...»
«C’è qualche problema?» chiese Holden.
«Fatto. Ce l’ho. Abbiamo una connessione» disse Alex. Poi, un
istante dopo, aggiunse: «Ah. Non sembra esserci molto da respirare,
là dentro.»
«Niente?» chiese Holden.
«No. Vuoto pneumatico» rispose Alex. «Entrambi i portelloni della
nave sono aperti.»
«E va bene, ragazzi» disse Holden. «Tenete d’occhio la vostra
riserva di ossigeno. Andiamo.»
Miller fece un respiro profondo. Il portellone esterno passò dal
rosso tenue al verde pallido. Holden lo aprì facendolo scivolare da
un lato e Amos si lanciò in avanti, seguito dal capitano. Miller fece un
cenno del capo a Naomi. Prima le signore.
Il ponte telescopico di collegamento era rinforzato, pronto a deviare
eventuali attacchi con il laser o a rallentare i proiettili. Amos mise
piede sull’altra nave mentre il portellone della Rocinante si chiudeva
alle loro spalle. Miller ebbe una momentanea vertigine, mentre la
nave che aveva di fronte passava di colpo da avanti a sotto nella sua
percezione spaziale, come se stessero cadendo verso qualcosa.
«Tutto bene?» chiese Naomi.
Miller annuì, e Amos penetrò attraverso il portellone dell’altra nave.
Entrarono uno a uno.
La nave era morta. Le luci delle loro tute ambientali si rincorrevano
sulle curve morbide e quasi longilinee delle paratie, sulle pareti
imbottite, sui ripostigli grigi delle tute. Uno di essi era stato
deformato, come se qualcuno o qualcosa fosse uscito a forza dal
suo interno. Amos avanzò cautamente. In circostanze normali, il
vuoto pneumatico avrebbe dovuto essere sufficiente ad assicurare
che niente e nessuno potesse saltar loro addosso. In quel preciso
istante, Miller si rese conto che era soltanto un’ipotesi.
«Qui è tutto spento» disse Holden.
«Potrebbero esserci delle riserve nella sala motori» replicò Amos.
«Quindi dall’altra parte della nave rispetto a qui» disse Holden.
«Già.»
«Facciamo attenzione, però» disse Holden.
«Io vado a vedere in plancia» intervenne Naomi. «Se c’è qualcosa
di collegato a una batteria, posso...»
«No, non ci vai» ribatté Holden. «Non divideremo il gruppo finché
non sappiamo che cos’abbiamo per le mani. Restiamo uniti.»
Amos avanzò, affondando nell’oscurità. Holden lo seguì
dappresso. Miller dopo di lui. Dal linguaggio corporeo di Naomi non
seppe dire se la donna fosse infastidita o sollevata.
La cambusa era vuota, ma qua e là trovarono segni di
colluttazione. Una sedia con una gamba piegata. Un lungo graffio
frastagliato lungo la parete, fatto con qualcosa di affilato che ne
aveva rovinato il colore. Due fori di proiettile, in alto su una paratia,
dove gli spari erano andati a vuoto. Miller allungò una mano, afferrò
uno dei tavoli e lo rivoltò lentamente.
«Miller» disse Holden. «Vieni con noi?»
«Guarda qui» lo invitò Miller.
La chiazza scura era color ambra, lucida e scintillante come vetro
sotto il raggio luminoso della torcia. Holden si avvicinò fluttuando.
«Vomito di zombi?» chiese.
«Credo di sì.»
«Be’, immagino che siamo sulla nave giusta, allora. Per quanto
possa valere la parola ‘giusto’.»
Gli alloggi dell’equipaggio erano vuoti e silenziosi. Li perlustrarono
uno dopo l’altro, ma non c’era alcuna traccia personale: niente
terminali, niente fotografie, nessun indizio che potesse rivelare i
nomi degli uomini e delle donne che avevano vissuto, respirato, e
che erano presumibilmente morti sulla nave. Perfino la cabina del
capitano era indicata soltanto dalla presenza di una branda appena
un po’ più grande delle altre e dello sportello frontale di una
cassaforte chiusa.
C’era un enorme compartimento centrale, ampio e alto quanto la
chiglia della Rocinante, in cui l’oscurità era dominata da dodici grossi
cilindri incastrati tra strette passerelle e impalcature. Miller vide il
viso di Naomi indurirsi.
«Che cosa sono?» le chiese.
«Camere missilistiche» rispose lei.
«Camere missilistiche?» esclamò Miller. «Gesù Cristo, quanti ne
avevano equipaggiati? Un milione?»
«Dodici» disse Naomi. «Soltanto dodici.»
«Progettati per abbattere navi ammiraglie» aggiunse Amos. «Per
distruggere praticamente qualsiasi cosa contro cui vengano puntati
al primo colpo.»
«Anche qualcosa come la Donnager?» chiese Miller.
Holden lo guardò, con il bagliore del suo schermo del casco che gli
metteva in risalto i tratti del viso.
«O come la Canterbury» disse.
Tutti e quattro passarono in silenzio attraverso quei grandi tubi neri.
Nell’officina meccanica e in quella di manifattura i segni della
violenza erano ancor più evidenti. Pavimento e pareti erano
macchiati di sangue, assieme a grosse chiazze di quella resina
dorata simile a vetro che un tempo era stata vomito. Trovarono
un’uniforme appallottolata. Il tessuto era stato ammucchiato e
immerso in un qualche liquido prima che il freddo dello spazio lo
congelasse. Le abitudini acquisite in tutti quegli anni passati ad
attraversare scene del crimine aiutarono Miller a rimettere una
decina di dettagli in prospettiva: il disegno dei graffi sul pavimento e
sulle porte dell’ascensore, la chiazza di sangue e vomito, le impronte
di piedi. Tutti insieme, raccontavano la storia di quel che era
accaduto.
«Sono nella sala macchine» disse l’ex poliziotto.
«Chi?» domandò Holden.
«L’equipaggio. Chiunque si trovi su questa nave. Tutti, tranne una»
disse, indicando con un cenno mezza impronta che sembrava
portare verso l’ascensore. «Vedi come le impronte di lei sono sopra
tutte le altre? E qui, dove ha pestato quella chiazza di sangue, era
già secco. Si è disgregato, invece di sbavare.»
«Come fai a sapere che era una ragazza?» chiese Holden.
«Perché era Julie» rispose Miller.
«Be’, chiunque sia qui dentro, si è ciucciato il vuoto per un bel po’
di tempo» osservò Amos. «Vogliamo andare a vedere?»
Nessuno di loro disse di sì, ma fluttuarono avanti tutti insieme. Il
portellone era aperto; il fatto che l’oscurità oltre l’accesso sembrasse
più densa, più minacciosa, più personale di quanto non sembrasse
nel resto della nave, probabilmente era dovuto soltanto
all’immaginazione di Miller che gli faceva brutti scherzi. Esitò,
cercando di rievocare l’immagine di Julie, ma lei non venne.
Fluttuare all’interno del ponte meccanico era come nuotare in una
caverna. Miller vide le altre torce ballare sulle paratie e sui pannelli,
alla ricerca dei comandi diretti o, in alternativa, di controlli che
potessero essere ripristinati. Diresse il proprio fascio di luce al centro
della stanza, dove fu inghiottito dal buio.
«Ci sono delle batterie, capitano» disse Amos. «E... pare che il
reattore sia stato spento. Intenzionalmente.»
«Credi di riuscire a ripristinarlo?»
«Vorrei fare un po’ di diagnostica prima» rispose Amos. «Potrebbe
esserci un buon motivo per averlo spento, e non ho voglia di
scoprirlo nel peggiore dei modi.»
«Giusto.»
«Però posso almeno procurarci... un po’ di... E andiamo,
dannatissimo affare.»
Una serie di luci blu illuminò all’improvviso l’intero ponte,
accecando Miller per mezzo secondo. La vista gli tornò assieme a
una sensazione di crescente confusione. Naomi sussultò, e Holden
gridò. Qualcosa nella mente di Miller cominciò a strillare, ma lui la
zittì. Era solo una scena del crimine. Erano soltanto cadaveri.
Solo che non lo erano.
Di fronte a lui c’era il reattore, quiescente e morto. Tutto intorno,
uno strato di carne umana. Riusciva a individuare braccia, mani con
le dita talmente allargate che facevano male soltanto a guardarle. La
lunga striscia di una colonna vertebrale si snodava come un
serpente, con le costole che si aprivano come le zampe di un
qualche insetto mostruoso. Cercò di dare un senso a quel che aveva
di fronte agli occhi. Aveva già visto degli uomini sventrati. Sapeva
che quella lunga spirale simile a una corda sulla sinistra della cosa
erano intestini. Vide il punto in cui il budello si allargava per
diventare un colon. La forma familiare di un teschio gli restituì lo
sguardo.
Poi, però, nel bel mezzo di quella familiare anatomia di morte e
smembramento, c’erano altre cose: spirali di molluschi, ampi fasci di
filamenti neri e mollicci, una pallida distesa di qualcosa che sarebbe
potuta essere pelle tagliuzzata da una dozzina di squarci simili a
branchie, un arto mezzo formato che sembrava tanto un insetto
quanto un feto, senza essere nessuno dei due. Quella carne
congelata, morta, circondava il reattore come la buccia di un’arancia.
L’equipaggio della nave mimetica. E forse anche quello della
Scopuli.
Erano tutti lì, tranne Julie.
«Già» disse Amos. «Potrebbe volerci un po’ più di quanto non
pensassi, cap.»
«Non fa niente» rispose Holden. La sua voce in linea sembrava
scossa. «Non c’è bisogno.»
«Non c’è problema. A meno che quella roba disgustosa non sia
riuscita a penetrare nell’isolamento, il reattore dovrebbe accendersi
senza troppa difficoltà.»
«Non ti dà fastidio stare in mezzo a quella... roba?» chiese Holden.
«Davvero, capitano, non ci penso e basta. Dammi venti minuti e ti
saprò dire se c’è energia o se dobbiamo portare una linea ausiliaria
dalla Roci.»
«Va bene» disse Holden. Poi lo ripeté, con voce più sicura. «Va
bene, ma non toccare quella roba.»
«Non avevo intenzione di farlo» rispose Amos.
Riattraversarono il portellone, Holden e Naomi in testa, seguiti da
Miller.
«Quello è...» disse Naomi, poi tossì e riprese a parlare. «È quello
che sta succedendo su Eros?»
«Probabilmente» rispose Miller.
«Amos» disse Holden. «Hai abbastanza corrente per accendere i
computer?»
Ci fu una pausa. Miller fece un respiro profondo e l’odore di
plastica e ozono del sistema di ricircolo d’aria della tuta gli riempì le
narici.
«Credo di sì» rispose Amos, dubbioso. «Ma se prima riusciamo ad
accendere il reattore...»
«Accendi i computer.»
«Il capitano sei tu, cap» disse Amos. «Te li metto in linea tra cinque
minuti.»
Risalirono in silenzio verso la camera di pressurizzazione,
tornando sui loro passi, e la superarono per recarsi in plancia. Miller
si teneva indietro, osservando come la traiettoria di Holden lo
portasse accanto a Naomi e poi lontano da lei.
Protettivo e insieme scontroso, pensò Miller. Pessima
combinazione.
Julie lo stava aspettando nella camera di pressurizzazione. Non
subito, ovviamente. Miller scivolò indietro nello spazio, ripercorrendo
tumultuosamente nella sua testa tutto ciò che aveva visto, proprio
come se fosse un caso. Un caso qualunque. Il suo sguardo vagò
verso il ripostiglio rotto. All’interno non c’era alcuna tuta. Per un
istante fu di nuovo su Eros, nell’appartamento dove era morta Julie.
Lì c’era una tuta ambientale. E poi Julie fu lì con lui, evadendo a
forza da quel ripostiglio.
Che cosa ci facevi, lì dentro?, pensò.
«Niente celle» disse.
«Cosa?» chiese Holden.
«Ho appena notato» rispose Miller «che questa nave non ha celle.
Non è costruita per ospitare prigionieri.»
Holden emise un basso grugnito di assenso.
«Viene da chiedersi che cosa pensassero di fare con l’equipaggio
della Scopuli» disse Naomi. Il suo tono di voce lasciava intendere
che non se lo chiedeva affatto.
«Non credo che ci abbiano pensato» rispose Miller lentamente.
«Tutta questa cosa... stavano improvvisando.»
«Improvvisando?» disse Naomi.
«La nave stava trasportando qualcosa di infettivo o altro senza le
strutture necessarie per isolarlo. Hanno fatto prigionieri senza
disporre di celle in cui rinchiuderli. Hanno agito sul momento.»
«Oppure avevano fretta» ipotizzò Holden. «È successo qualcosa
che gli ha messo fretta. Ma quel che hanno fatto su Eros deve aver
richiesto mesi e mesi di pianificazione. Forse perfino anni. Per cui,
può darsi che sia accaduto qualcosa all’ultimo minuto?»
«Sarebbe interessante sapere cosa» disse Miller.
Paragonata al resto della nave, la plancia sembrava un luogo
tranquillo. Normale. I computer avevano finito l’esame diagnostico,
con gli schermi che baluginavano placidi. Naomi si mise davanti a
uno di essi, tenendosi allo schienale di un sedile con una mano in
modo da non essere spinta via dal delicato tocco delle sue dita sul
monitor.
«Farò quel che posso qui» disse. «Voi controllate pure il ponte.»
Ci fu un momento di pesante silenzio.
«Starò bene» disse Naomi.
«Okay. So che tu... io... andiamo, Miller.»
L’ex poliziotto lasciò che il capitano lo precedesse fluttuando sul
ponte. Gli schermi illustravano una routine diagnostica talmente
comune che perfino lui la riconobbe. Lo spazio su quel ponte era più
ampio di quanto avesse immaginato, con cinque postazioni con
sedili da massima accelerazione fatti su misura per i corpi di altre
persone. Holden si sedette su uno di essi. Miller si fece un giro lento
per il ponte. Niente sembrava fuori posto, lì; niente sangue, niente
sedie rotte o imbottiture lacerate. Quando era successo, la lotta era
stata giù, vicino al reattore. Non sapeva ancora bene che cosa
potesse significare. Si sedette a quella che doveva essere, secondo
una progettazione standard, la postazione di sicurezza, e aprì una
linea privata con Holden.
«Stai cercando qualcosa in particolare?»
«Briefing. Rapporti» disse conciso Holden. Qualunque cosa possa
tornare utile. E tu?»
«Vedo se riesco ad accedere ai monitor interni.»
«Che cosa speri di trovare?»
«Quello che ha trovato Julie» rispose Miller.
La postazione di sicurezza dava per scontato che chiunque fosse
seduto alla console avesse accesso ai registri di basso livello. Gli ci
volle comunque mezz’ora per analizzare la struttura dei comandi e
l’interfaccia di navigazione. Una volta che le ebbe comprese, non fu
difficile. Il timbro orario sul registro faceva risalire la voce al giorno in
cui la Scopuli era scomparsa dai radar. La telecamera di sicurezza
della camera di pressurizzazione mostrava il suo equipaggio – per la
maggior parte composto da cinturiani – mentre veniva scortato sulla
nuova nave. I loro aguzzini indossavano delle corazze con le visiere
abbassate. Miller si chiese se fosse perché avessero intenzione di
mantenere segreta la loro identità. Questo avrebbe autorizzato a
supporre che stessero pianificando di tenere in vita i prigionieri. O
forse erano soltanto cauti, in previsione di una possibile resistenza
dell’ultimo minuto. L’equipaggio della Scopuli non indossava né tute
ambientali, né corazze. Un paio dei loro non portavano nemmeno le
uniformi.
Julie sì, però.
Era strano vederla muoversi. Con una sensazione dissociante,
Miller si rese conto di non averla mai vista in movimento prima di
allora. Tutte le foto che aveva avuto nel suo dossier su Ceres erano
dei fermo immagine. E ora invece eccola lì, che fluttuava assieme ai
suoi compatrioti d’elezione, con i capelli legati alti via dagli occhi e la
mascella serrata. Sembrava davvero minuta, circondata dal resto del
suo equipaggio e dagli uomini in armatura. La ragazzina ricca che
aveva voltato le spalle al denaro e al proprio status per mettersi al
fianco degli oppressi della Fascia. La ragazza che aveva detto a sua
madre di vendere la Razorback, la nave che amava, piuttosto che
cedere a un ricatto emotivo. In movimento sembrava vagamente
differente dalla versione immaginaria che si era costruito di lei... Il
modo in cui teneva le spalle tese all’indietro, l’abitudine di stare con i
piedi verso il pavimento anche in assenza di gravità.
Fondamentalmente, però, l’immagine era la stessa. Miller ebbe
l’impressione che quei nuovi dettagli andassero a riempire gli spazi
vuoti, anziché fargli immaginare da capo quella donna.
Le guardie dissero qualcosa – l’audio delle telecamere di sicurezza
si perse nel vuoto – e l’equipaggio della Scopuli sembrò inorridire.
Poi, esitando, il capitano cominciò a togliersi l’uniforme. Stavano
facendo spogliare i prigionieri. Miller scosse la testa.
«Pessima idea.»
«Come?» chiese Holden.
«Niente. Scusa.»
Julie non si era mossa. Una delle guardie andò verso di lei,
appoggiandosi con un braccio alla parete. Julie, che aveva subìto il
trauma dello stupro, o di qualcosa di ugualmente orribile. Che dopo
quell’episodio aveva studiato jiu-jitsu per potersi sentire al sicuro.
Forse avevano pensato che stesse semplicemente facendo la
pudica. O magari avevano temuto che potesse nascondere un’arma
sotto i vestiti. Comunque fosse, avevano provato a forzarla. Una
delle guardie le diede uno spintone e lei gli si avvinghiò al braccio
come se ne andasse della sua stessa vita. Miller fece una smorfia
quando vide il braccio dell’uomo piegarsi nel verso sbagliato, ma
sorrise anche.
Brava ragazza, pensò. Fagliela vedere.
E lei lo fece. Per quasi trenta secondi, la camera pressurizzata fu
un campo di battaglia. Perfino alcuni membri impauriti della Scopuli
cercarono di darle man forte. Poi però Julie non vide arrivare l’uomo
dalle spalle ampie che l’aveva attaccata da dietro. Miller sentì il
colpo quando il pugno guantato colpì la tempia della giovane. Lei
non perse i sensi, ma fu disorientata. L’uomo con le pistole la spogliò
con fredda efficienza e, quando constatarono che non aveva né armi
né dispositivi di comunicazione, le diedero una tuta ambientale e la
spinsero in un ripostiglio. Gli altri, invece, li portarono nella pancia
della nave. Miller incrociò il timbro orario e cambiò voce di registro.
I prigionieri vennero portati nella cambusa e legati ai tavoli. Una
delle guardie impiegò un minuto per fare un discorso ma, con la
visiera calata, gli unici indizi che Miller poteva avere sul contenuto di
quel sermone erano le reazioni dell’equipaggio: incredulità, occhi
sgranati, confusione, indignazione e timore. La guardia poteva aver
detto qualsiasi cosa.
Miller cominciò a saltare interi passaggi del video. Qualche ora, e
poi ancora qualcun’altra. La nave era in accelerazione, con i
prigionieri seduti ai tavoli invece che fluttuanti intorno a essi. Miller
cambiò file per osservare le altre parti della nave. Il ripostiglio di Julie
era ancora chiuso. Se non avesse saputo con certezza il contrario,
avrebbe senz’altro pensato che fosse morta.
Mandò avanti il video.
Centotrenta ore dopo, l’equipaggio della Scopuli prese finalmente
coraggio. Miller lo vide nei loro corpi prima ancora che la violenza
avesse inizio. Aveva esperienza delle rivolte nelle celle di
detenzione, e i prigionieri avevano la stessa espressione cupa ma
eccitata. Sullo schermo si vedeva la porzione di muro dove avevano
trovato i fori di proiettile. Ancora non c’erano. Presto ci sarebbero
stati. Un uomo entrò in campo con un vassoio di razioni.
Sta per succedere, pensò Miller.
Il combattimento fu breve e brutale. I prigionieri non avevano
alcuna possibilità. Miller rimase a guardare mentre uno dei rivoltosi,
un uomo dai capelli rossicci, veniva afferrato di peso e portato via; lo
trascinarono verso il portellone e lo eiettarono nello spazio. Gli altri
vennero messi in catene. Alcuni piangevano. Altri gridavano. Miller
mandò avanti il video.
Doveva essere lì, da qualche parte. Il momento in cui la cosa,
qualunque cosa fosse, si scatenava. Ma doveva essere successo in
qualche ambiente privato, non sorvegliato da telecamere, oppure era
stata lì fin dall’inizio. Quasi esattamente centosessanta ore dopo che
avevano rinchiuso Julie nel ripostiglio, un uomo con un maglione
bianco, gli occhi vitrei e la postura malferma barcollò fuori dagli
alloggi dell’equipaggio e vomitò su una delle guardie.
«Cazzo!» gridò Amos.
Miller fu lontano dal sedile prima ancora di sapere che cosa fosse
successo. Anche Holden era scattato.
«Amos?» disse Holden. «Che succede?»
«Aspetta...» rispose Amos. «Sì, okay. Tutto a posto, capitano. È
solo che questi bastardi hanno tirato via una parte della schermatura
del reattore. La nave è in linea, ma mi sono beccato un po’ più
radiazioni di quante non mi sarebbe piaciuto.»
«Torna alla Roci» disse Holden. Miller si appoggiò a una paratia e
si spinse giù verso la console di controllo.
«Senza offesa, signore, ma non è che adesso mi metterò a
pisciare sangue o roba del genere» rispose Amos. «Più che altro,
sono rimasto sorpreso. Se dovessi cominciare a sentirmi strano
tornerò da voi, ma posso farci avere un po’ di atmosfera interna
lavorando sulle macchine nell’officina, se mi dai ancora qualche
minuto.»
Miller guardò Holden e vide l’inquietudine sul viso dell’uomo.
Poteva renderlo un ordine, o poteva lasciar stare.
«Va bene, Amos. Ma se cominci a sentire capogiri o altro – intendo
qualunque cosa – va’ immediatamente in infermeria.»
«Ricevuto, ricevuto» rispose Amos.
«Alex, tieni d’occhio i parametri vitali dalla tua posizione. Avvertici
se rilevi un problema» disse Holden sulla linea di comunicazione
generale.
«Ricevuto» disse pigramente Alex.
«Hai trovato niente?» chiese Holden a Miller sul canale privato.
«Niente di inatteso» rispose Miller. «E tu?»
«Qualcosa l’ho trovato, in effetti. Da’ un’occhiata.»
Miller si spinse verso lo schermo su cui Holden era al lavoro.
Questi si rimise in postazione e cominciò ad aprire file.
«Ho pensato che qualcuno doveva essere andato per ultimo»
disse Holden. «Voglio dire, doveva pur esserci qualcuno che era
meno malato degli altri, quando questa cosa si è scatenata. Per cui
ho scartabellato nella directory per vedere quale attività fosse in
funzione appena prima che il sistema fosse spento.»
«E...?»
«Ci sono un sacco di attività che fanno pensare che sia successo
un paio di giorni prima dello spegnimento, e poi più niente per due
giorni interi. Quindi un picco isolato. Un sacco di file di accesso e
diagnostiche di sistema. Poi qualcuno ha violato i codici di accesso
per espellere tutta l’atmosfera.»
«Allora è stata Julie.»
«È quel che stavo pensando» disse Holden. «Ma uno dei
documenti video a cui ha avuto l’accesso era... merda, ora dov’è?
Era proprio... ah, ecco. Guarda questo.»
Lo schermo si spense e si riaccese, con i controlli in standby, e un
emblema ad alta risoluzione verde e oro comparve sotto ai loro
occhi: il logo aziendale della Protogen, con uno slogan che Miller
non aveva mai visto prima. ‘Primi. Più veloce. Più lontano.’
«Qual è il codice orario del file?» chiese Miller.
«L’originale è stato creato un paio di anni fa» rispose Holden.
«Questa copia è stata impressa otto mesi fa.»
L’emblema svanì e un uomo dai lineamenti gradevoli, seduto a una
scrivania, prese il suo posto. Aveva capelli neri con appena una
traccia di grigio sulle tempie e labbra che sembravano aduse a
sorridere. Salutò la telecamera con un cenno del capo. Il sorriso non
raggiunse i suoi occhi, che sembravano vuoti come quelli di uno
squalo.
Sociopatico, pensò Miller.
Le labbra dell’uomo cominciarono a muoversi in silenzio. Holden
esclamò «Merda» e premette un pulsante per trasmettere l’audio alle
loro tute. Rimise il video da capo e lo fece ripartire.
«Signor Dresden» disse l’uomo. «Voglio ringraziare lei e i membri
del consiglio per esservi presi il disturbo di visionare le presenti
informazioni. Il vostro sostegno, finanziario e non, è stato
assolutamente essenziale per le incredibili scoperte compiute con
questo progetto. Benché sia stata la mia squadra a impegnarsi in
prima linea, è stato il sostegno instancabile della Protogen al
progresso della scienza a rendere possibile il nostro lavoro.
«Signori, sarò franco con voi. La protomolecola Phoebe ha
ecceduto ogni nostra aspettativa. Sono convinto che rappresenti una
svolta tecnologica che cambierà realmente le regole del gioco. So
bene che questo genere di presentazioni formali scadono facilmente
nell’iperbole. Vi prego di voler prendere atto del fatto che ogni mia
parola sia stata attentamente ponderata e scelta: la Protogen può
diventare l’entità più importante e potente nella storia della razza
umana. Ma richiederà spirito d’iniziativa, ambizione e audacia
nell’agire.»
«Sta parlando di ammazzare persone» disse Miller.
«L’hai già visto?» chiese Holden.
Miller scosse la testa. Il video cambiò. L’uomo svanì, sostituito da
un’animazione. Una rappresentazione grafica del sistema solare.
Ogni orbita era segnata con ampie tracce colorate, marcando il
piano dell’ellittica. La telecamera virtuale si allontanò dai pianeti
interni, dove dovevano trovarsi il signor Dresden e gli altri membri
del consiglio, spostandosi verso le giganti gassose.
«Per quanti di voi, all’interno del consiglio, avessero poca
familiarità con il progetto: otto anni fa fu eseguito il primo atterraggio
umano su Phoebe» disse il sociopatico.
L’animazione zumò verso Saturno, mentre anelli e pianeti
schizzavano via in un trionfo della grafica sull’accuratezza.
«Una piccola luna di ghiaccio. Inizialmente si è pensato che
Phoebe potesse essere sfruttata per l’estrazione idrica,
analogamente agli anelli. Il governo di Marte commissionò una
missione di analisi scientifica più per scrupolo burocratico che
nell’ottica di un guadagno reale. Furono eseguiti carotaggi del nucleo
e, quando le anomalie nel silicato attirarono l’attenzione degli
studiosi, la Protogen fu avvicinata come co-sponsor del laboratorio di
ricerca a lungo termine.»
La luna Phoebe riempiva lo schermo, ruotando lentamente per
mostrarsi sotto ogni angolazione, come una prostituta in un bordello
da due soldi. Era un pezzo di roccia segnato dai crateri,
indistinguibile da migliaia di altri asteroidi e planetesimi che
conosceva Miller.
«Data l’orbita extra-ellittica di Phoebe» continuò il sociopatico «si è
elaborata una teoria secondo cui si tratta di un corpo celeste
originato nella fascia di Kuiper e catturato da Saturno mentre
attraversava il sistema solare. La presenza di complesse strutture
silicee nel ghiaccio interno, unitamente all’ipotesi di strutture
resistenti agli impatti all’interno dell’architettura del corpo stesso, ci
hanno costretto a rivalutare questa teoria.
«Facendo uso di analisi di proprietà della Protogen, non condivise
con la squadra di ricerca marziana, abbiamo determinato al di là di
ogni ragionevole dubbio che ciò che abbiamo in esame non è un
planetesimo naturalmente aggregato, bensì un’arma. Nello specifico,
un’arma progettata per trasportare il suo carico attraverso le
profondità dello spazio interplanetario e depositarlo sulla Terra due
miliardi e trecento milioni di anni fa, quando la vita era al suo
primissimo stadio. E il suo carico, signori, è questo.»
Lo schermo passò a illustrare un grafico che Miller non riuscì ad
analizzare del tutto. Sembrava la struttura genetica di un virus, ma
con ampie strutture avviluppate, bellissime e al tempo stesso
improbabili.
«La protomolecola ha attirato la nostra attenzione in primo luogo
per la sua capacità di mantenere la propria struttura primaria in
un’ampia varietà di condizioni, attraversando modifiche secondarie e
terziarie. Ha anche mostrato un’affinità con le strutture in carbonio e
silicio. La sua attività suggerisce che non si tratti di una creatura
vivente in sé, quanto piuttosto di un insieme di istruzioni svincolate
progettate per adattarsi e guidare altri sistemi replicanti. La
sperimentazione animale ha fornito prove del fatto che i suoi effetti
non siano esclusivamente replicanti, ma in tutto e per tutto
modulari.»
«Test sugli animali» disse Miller. «Cos’è, l’hanno tirato su un
gatto?»
«Le implicazioni iniziali» continuò il sociopatico «postulano
l’esistenza di una biosfera più ampia, di cui il nostro sistema solare è
soltanto una parte, e che la protomolecola in oggetto sia un prodotto
di tale ambiente. Credo che possiamo tutti concordare sul fatto che
basterebbe questa semplice scoperta per rivoluzionare la
concezione umana dell’universo. Ebbene, lasciate che vi assicuri di
una cosa: questo è niente. Se, per una coincidenza di meccaniche
orbitali, Phoebe non fosse stata catturata, la vita come la
conosciamo non esisterebbe. Esisterebbe qualcos’altro. Le prime
cellule di vita sulla Terra sarebbero state modificate, riprogrammate
secondo le direttive contenute all’interno della struttura della
protomolecola.»
Sullo schermo ricomparve il sociopatico. Per la prima volta, attorno
ai suoi occhi si videro delle rughe di espressione, che sembravano
una parodia di sé stesse. Miller sentì un odio viscerale crescergli
nello stomaco; si conosceva abbastanza da riconoscerlo per ciò che
era: paura.
«La Protogen si trova nella posizione di poter prendere possesso
non soltanto della prima tecnologia genuinamente extraterrestre, ma
anche di un meccanismo precostituito per la manipolazione dei
sistemi viventi e dei primi indizi sulla natura di questa più ampia
biosfera, che definirei galattica. Indirizzate da mani umane, le sue
applicazioni sono illimitate. Sono convinto che l’opportunità che ci si
presenta, e che si presenta non soltanto a noi, ma alla vita stessa,
sia più grande e gravida di trasformazioni di qualunque altro evento
mai accaduto. Inoltre, a partire da oggi, il controllo di questa
tecnologia rappresenterà la base di qualsiasi potere politico ed
economico.
«Vi esorto a considerare i dettagli tecnici che ho delineato a vostro
beneficio nell’allegato. La rapidità nel comprendere la
programmazione, i meccanismi e l’intento della protomolecola, come
anche i possibili campi di applicazione diretta agli esseri umani,
segnerà la differenza tra un futuro guidato dalla Protogen e l’essere
lasciati indietro. Sollecito un’azione immediata e decisiva per
prendere il controllo esclusivo della protomolecola e procedere con
una sperimentazione su larga scala.
«Grazie per il vostro tempo e la vostra attenzione.»
Il sociopatico sorrise di nuovo, poi riapparve il logo aziendale.
‘Primi. Più veloce. Più lontano.’ Miller aveva il cuore che batteva
all’impazzata.
«Okay. Va bene» disse. Poi aggiunse: «Cazzo.»
«Protogen, protomolecola» disse Holden. «Non sanno nemmeno
che cosa faccia, ma ci hanno appiccicato sopra la loro etichetta,
come se fossero stati loro a crearla. Hanno trovato un’arma aliena, e
tutto quello che gli è venuto in mente di fare è stato di metterci il
marchio.»
«C’è motivo di credere che questi tizi siano piuttosto pieni di sé»
replicò Miller annuendo.
«Allora, io non sono né uno scienziato né altro,» disse Holden «ma
mi pare che prendere un supervirus alieno e buttarlo dentro una
stazione spaziale sia una pessima idea.»
«Sono passati due anni» disse Miller. «Hanno fatto esperimenti.
Hanno... non lo so, cosa diavolo possano aver fatto. Ma hanno
deciso che sarebbe toccato a Eros. E tutti sanno che cosa è
successo su Eros. Ognuno dà la colpa all’altra fazione. Niente
ricerche, né navi di salvataggio, perché sono tutti in guerra gli uni
contro gli altri, intenti a pararsi il culo. Questa guerra è solo una
grande distrazione.»
«E la Protogen... che cosa sta facendo?»
«Immagino che starà vedendo cosa può fare il suo giocattolo
quando lo porti fuori a fare un giro» disse Miller.
Rimasero in silenzio per un lungo istante. Holden fu il primo a
parlare.
«Quindi prendi una compagnia che sembra mancare
completamente di coscienza istituzionale, che ha abbastanza
contratti di ricerca governativi da essere quasi una banca militare
gestita da privati... Quanto si spingeranno oltre, alla ricerca del loro
Graal?»
«‘Primi. Più veloce. Più lontano.’» rispose Miller.
«Già.»
«Ragazzi» disse Naomi. «Dovreste venire quaggiù. Credo di avere
qualcosa.»
35

Holden

«Ho trovato i registri di comunicazione» disse Naomi mentre


Holden e Miller fluttuavano nella sala dietro di lei.
Holden le posò una mano sulla spalla, poi la ritirò, e detestò il fatto
di averla ritirata. Una settimana prima Naomi non avrebbe avuto
problemi per quel semplice gesto di affetto, e lui non avrebbe temuto
la sua reazione. Era dispiaciuto di quella nuova distanza venuta a
crearsi tra loro, quasi quanto gli sarebbe dispiaciuto non dirle niente.
Avrebbe voluto dirglielo.
E invece chiese: «Trovato qualcosa d’interessante?»
Lei premette un dito sullo schermo e aprì il registro.
«Erano estremamente rigidi per quanto riguardava disciplina e
protocollo di comunicazione» disse, indicando una lunga lista di date
e orari. «Nessuna comunicazione andava mai sul canale radio, ma
solo e soltanto su raggio diretto. E tutto era in linguaggio cifrato, con
un sacco di frasi in codice.»
Miller mosse le labbra da dentro il suo casco. Holden si picchiettò
sulla visiera. L’ex poliziotto roteò gli occhi seccato e poi s’inserì sulla
linea di comunicazione generale.
«Scusate. Non sono abituato a queste tute» disse. «Che
cos’abbiamo di così interessante?»
«Non molto. Ma l’ultima comunicazione era in inglese semplice»
rispose Naomi, poi cliccò sull’ultima riga della lista.
Stazione di Thoth
L’equipaggio sta degenerando. Perdite previste: 100%. Materiali al
sicuro. Rotta e velocità impostate. Dati del vettore a seguire. Rischio
di contaminazione estremo per squadre in ingresso.
Cap. Higgins
Holden lo lesse più volte, immaginando il capitano Higgins che
osservava l’infezione diffondersi tra il suo equipaggio, senza poter
fare niente per fermarla. La sua gente che vomitava dappertutto in
quella scatola di metallo sigillata dal vuoto, e anche soltanto una
molecola di quella sostanza sulla pelle significava una sentenza di
morte. Viticci filamentosi neri che fuoriuscivano dai loro occhi e dalle
bocche. E poi quella... bava che copriva il reattore. Si permise di
rabbrividire, grato che Miller non potesse vederlo attraverso la tuta
atmosferica.
«Per cui questo Higgins si rende conto che il suo equipaggio si sta
trasformando in un branco di zombi vomitanti e invia un ultimo
messaggio ai suoi capi, dico bene?»disse Miller, interrompendo i
pensieri di Holden. «Che cos’è questa roba sui dati del vettore?»
«Sapeva che erano tutti spacciati, per cui ha comunicato ai suoi
come recuperare la nave» rispose Holden.
«Ma non l’hanno fatto, perché è qui, perché Julie ha preso i
comandi e l’ha portata altrove» disse Miller. «Il che significa che la
stanno cercando, dico bene?»
Holden lo ignorò e posò una mano sulla spalla di Naomi in un
gesto che sperava sarebbe stato inteso come amichevole
noncuranza.
«Abbiamo i messaggi a raggio diretto e le informazioni del vettore»
disse. «Vanno tutti verso lo stesso luogo?»
«Più o meno» rispose lei, annuendo con la mano destra. «Non
proprio lo stesso, ma comunque sempre verso quelli che sembrano
essere punti della Fascia. Incrociando i cambi di direzione e i diversi
momenti in cui sono stati inviati, direi verso un punto della Fascia in
continuo movimento, e che non si trova nemmeno su un’orbita
stabile.»
«Una nave, quindi?»
Naomi annuì di nuovo.
«Probabile» disse. «Ho verificato un po’ le località, e nel registro
non trovo niente che possa corrispondere. Nessuna stazione, né
asteroidi disabitati. Una nave avrebbe senso, ma...»
Holden attese che Naomi finisse il suo pensiero, ma Miller
s’intromise impaziente.
«Ma cosa?» disse.
«Ma come facevano a sapere dove si sarebbe trovata?» rispose
lei. «Non ho nessuna comunicazione in entrata, sui registri. Se si
trattava di una nave che si muoveva in maniera casuale attraverso la
Fascia, come facevano a sapere dove indirizzare questi messaggi?»
Holden le strinse la spalla, talmente piano che probabilmente lei
non lo sentì neanche, da sotto la tuta ambientale, poi si spinse via e
si lasciò fluttuare verso il soffitto.
«Quindi non erano spostamenti casuali» disse. «Dovevano avere
una sorta di mappa che indicava dove si sarebbe trovata l’altra nave
nel momento in cui dovevano inviare la comunicazione laser.
Potrebbe essere una delle loro navi mimetiche.»
Naomi si voltò sul sedile per guardarlo.
«Potrebbe essere una stazione» disse.
«È il laboratorio» s’intromise Miller. «Stavano facendo un
esperimento su Eros; avevano bisogno di avere i camici bianchi nei
paraggi.»
«Naomi» disse Holden. «‘Materiali al sicuro.’ C’è una cassaforte
negli alloggi del capitano che è rimasta chiusa. Credi di riuscire ad
aprirla?»
La donna alzò una spalla.
«Non lo so» rispose. «Può darsi. Amos potrebbe aprirla con un po’
di quegli esplosivi che abbiamo trovato in quella grossa cassetta di
armi.»
Holden scoppiò a ridere.
«Be’» disse. «Visto che probabilmente è piena di fastidiosi virus
alieni, direi che posso declinare l’opzione esplosiva.»
Naomi richiuse il registro delle comunicazioni e aprì il menu
generale dei sistemi della nave.
«Posso dare un’occhiata in giro e vedere se per caso il computer
ha accesso alla cassetta di sicurezza» disse. «Magari la apriamo
così. Potrebbe volerci un po’ di tempo.»
«Fa’ quel che puoi» replicò Holden. «Noi ci togliamo dai piedi.»
Il capitano si diede una spinta contro il soffitto, dirigendosi verso il
portellone della plancia e attraversandolo, passando nel corridoio
dall’altra parte. Pochi istanti dopo, Miller lo seguì. Il detective piantò i
piedi sul ponte attivando le suole magnetiche degli stivali, poi fissò
Holden e lo aspettò.
Holden fluttuò giù verso il ponte, mettendoglisi vicino.
«Che cosa ne pensi?» chiese. «Dici che la responsabile di tutto è
la Protogen? Oppure ritieni che anche stavolta sembra che siano
loro, per cui non è così?»
Miller rimase in silenzio per due lunghi respiri.
«Stavolta pare essere vero» ammise l’ex poliziotto. Lo disse con
tono quasi riluttante.
Amos risalì la scala dell’equipaggio dal ponte inferiore, portando
con sé una grossa scatola di metallo.
«Ehi, capitano» disse. «Ho trovato una cassa intera di carburante
per reattori, giù nell’officina. Magari ci può far comodo.»
«Ottimo lavoro» lo elogiò Holden, alzando una mano per far segno
a Miller di aspettare. «Procedi e portala a bordo. Ho anche bisogno
che mi elabori un piano per distruggere questa nave.»
«Aspetta un attimo... Cosa?» disse Amos. «Questo affare vale un
fottio di bigliettoni, capitano. Una nave da guerra mimetica? L’APE si
venderebbe la nonna per questo affare. E sei di quei tubi hanno
ancora il pesce dentro. Razzi da ammiraglia. Ci potresti far fuori una
piccola luna, con quei gioiellini. Altro che la nonna... L’APE ti
venderebbe sua figlia per questa roba. Perché cazzo dovremmo
farla saltare in aria?»
Holden lo fissò incredulo.
«Ti sei dimenticato quello che c’è nella sala motori?» chiese.
«Diavolo, cap» sbuffò Amos. «Quella merda è tutta congelata.
Dammi un paio d’ore con un cannello, te la faccio a pezzi e la butto
fuori dal portellone. E torna come nuova.»
L’immagine mentale di Amos che faceva a pezzi i cadaveri disciolti
dell’equipaggio precedente della nave con un cannello al plasma per
poi gettarli allegramente fuori dal portellone fece traboccare la
nausea che Holden si era sforzato di contenere fin lì. L’abilità del
grosso meccanico nell’ignorare qualsiasi cosa non volesse vedere
doveva essere probabilmente molto comoda quando se ne andava
in giro strisciando per gli scomparti soffocanti e luridi di un motore.
La sua capacità di scrollarsi di dosso l’orrenda mutilazione di diverse
decine di persone minacciò di trasformare il disgusto di Holden in
rabbia.
«Anche senza contare quel casino» disse «e la possibilità molto
concreta di infettarsi con ciò che lo ha provocato, c’è anche il fatto
che qualcun altro sta disperatamente cercando di ritrovare questa
stessa costosissima nave mimetica, e che fino a ora Alex non è
riuscito a individuare la nave che la sta cercando.»
Smise di parlare e fece un cenno con il capo verso Amos mentre il
meccanico ci rimuginava su. Vide il suo volto tribolare mentre
combinava gli elementi nella sua testa. Abbiamo trovato una nave
mimetica. C’è altra gente in cerca della stessa nave. Non riusciamo
a vedere i tizi che la sanno cercando.
Merda.
Amos sbiancò in viso.
«Va bene» disse. «Imposterò il reattore per farla saltare in aria.»
Controllò l’ora sul display che aveva sull’avambraccio della tuta.
«Merda, siamo stati qui anche troppo tempo. Sarà meglio darsi una
mossa.»
«Meglio, sì» concordò Miller.
Naomi era brava. Molto brava. Holden l’aveva scoperto quando era
stato ingaggiato sulla Canterbury; durante il corso degli anni l’aveva
aggiunto alla sua lista personale dei fatti dati per certi, insieme a
concetti come ‘lo spazio è freddo’ e ‘la direzione della gravità è verso
il basso’. Quando qualcosa smetteva di funzionare sul cargo
frigorifero, chiedeva a Naomi di aggiustarlo e non ci pensava più. A
volte lei aveva detto di non essere in grado di ripararlo, ma era
sempre stata una tattica per negoziare. Una breve conversazione
portava sempre alla richiesta di parti di ricambio o di un aiutante in
più da assumere all’attracco successivo, e poi la cosa veniva risolta.
Non c’era alcun problema di tipo elettronico o relativo alla meccanica
di una nave spaziale che lei non potesse risolvere.
«Non riesco ad aprire la cassaforte» disse Naomi.
Fluttuò verso la cassetta di sicurezza negli alloggi del capitano,
posando un piede sulla branda per stabilizzarsi mentre gesticolava.
Holden era ancorato al pavimento grazie ai magneti degli stivali.
Miller era sul portello del corridoio.
«Che cosa ti servirebbe?» chiese Holden.
«Se non vuoi che lo faccia saltare o che lo tagli con la fiamma, non
posso aprirlo.»
Holden scosse la testa, ma Naomi non lo vide oppure lo ignorò.
«La cassetta è stata progettata per aprirsi quando uno specifico
schema di campi magnetici viene proiettato sulla placca metallica
dello sportello» spiegò. «Qualcuno deve avere la chiave che lo fa,
ma la chiave in questione non è su questa nave.»
«È su quella stazione» disse Miller. «Non l’avrebbe mandata lì se
non avessero potuto aprirla.»
Holden fissò la parete della cassetta di sicurezza per un istante,
tamburellando con le dita sulla paratia.
«Quante probabilità ci sono che tagliandola si inneschi una
trappola esplosiva?» chiese.
«Fottutamente elevate, cap» disse Amos. Li stava ascoltando dalla
stiva dei missili mentre manometteva il piccolo reattore a fusione di
uno dei sei siluri rimasti per farlo esplodere. Lavorare sul reattore
principale della nave era troppo pericoloso, non avendo più la
schermatura adeguata.
«Naomi, ho davvero bisogno di quella cassaforte, delle note di
ricerca e dei campioni che contiene» disse Holden.
«Non sai nemmeno che cosa c’è lì dentro» replicò Miller, poi
scoppiò a ridere. «Anzi no. Ovvio che c’è quella roba là dentro, ma
non ci aiuterà se saltiamo in aria o, peggio, se qualche scheggia
coperta di fanghiglia ci fa un buco nelle nostre belle tutine.»
«Ce la portiamo via» replicò Holden, poi prese un gessetto dalla
tasca della tuta e tracciò una linea attorno alla cassaforte, sulla
paratia. «Naomi, fa’ un foro nella paratia e vedi se c’è qualcosa che
potrebbe impedirci di tagliare via quest’intero dannatissimo affare e
di portarcelo appresso.»
«Dovremmo rompere mezza parete.»
«Sì.»
Naomi si accigliò, poi si strinse nelle spalle, quindi sorrise e fece di
sì con la mano.
«E va bene» disse. «Stai pensando di riportarla da Fred?»
Miller rise di nuovo, un raschio secco privo di allegria che mise
Holden a disagio. Il detective aveva continuato a ripassare in
continuazione il video della lotta tra Julie Mao e i suoi aguzzini,
mentre aspettavano che Naomi e Amos finissero il loro lavoro.
Holden aveva l’inquietante impressione che si stesse caricando quel
video nella testa. Come una sorta di carburante per qualcosa che
aveva intenzione di fare più avanti.
«Marte vi ridarebbe indietro le vostre vite, in cambio di quella roba»
disse Miller. «Ho sentito dire che è un bel posto, se sei ricco.»
«Fanculo i soldi» rispose Amos con un grugnito mentre continuava
a lavorare sul ponte inferiore. «Ci dovrebbero fare una statua per
ciascuno.»
«Abbiamo un accordo con Fred, un’opzione su qualsiasi contratto
ci venga proposto» disse Holden. «Certo, questo non sarebbe
propriamente un contratto...»
Naomi sorrise e fece l’occhiolino a Holden.
«Allora, cosa vogliamo fare, signore?» domandò con voce
vagamente canzonatoria. «Eroi dell’APE? Miliardari marziani? O
mettiamo in piedi una società di biotecnologie? Cosa vogliamo
fare?»
Holden si spinse via dalla cassetta verso il portellone e il cannello
al plasma che era lì con gli altri attrezzi.
«Ancora non lo so» rispose. «Ma è bello poter avere di nuovo una
scelta.»
Amos premette di nuovo il pulsante. Nessuna nuova stella brillò
nell’oscurità. I sensori di radiazioni e infrarossi rimasero silenziosi.
«Dovrebbe esserci un’esplosione, dico bene?» chiese Holden.
«Cazzo, sì» rispose Amos, poi premette per la terza volta il bottone
sulla scatola nera che teneva tra le mani. «Non è una scienza
esatta, o chissà che cosa. I propulsori di quei missili sono
elementari. Soltanto un reattore senza una parete. Non si può
predire esattamente...»
«Non è mica roba da ingegneri missilistici» disse Holden con una
risata.
«Come?» chiese Amos, pronto a offendersi se fosse stata una
presa in giro.
«Sai, ‘roba da geni’» spiegò Holden. «Come a dire ‘non è mica
così difficile’. Sei un ingegnere missilistico, Amos. Lo sei per
davvero. Tu lavori con i reattori a fusione e i motori delle navi spaziali
per guadagnarti la pagnotta. Un paio di secoli fa, la gente si sarebbe
messa in fila per pagarti a peso d’oro per quello che sai.»
«Ma che caz...» cominciò a dire Amos, ma s’interruppe quando
fuori dai finestrini del cockpit esplose un nuovo sole che svanì in
pochi istanti. «Visto? Cazzo, ve l’avevo detto che avrebbe
funzionato.»
«Non ho mai avuto dubbi» rispose Holden. Poi diede una pacca
sulla robusta spalla di Amos e si diresse a prua giù per la scala
dell’equipaggio.
«Che cazzo era tutta quella storia?» chiese Amos a tutti e
nessuno, mentre Holden si allontanava fluttuando.
Holden si diresse in plancia. Il sedile di Naomi era vuoto. Le aveva
ordinato di riposarsi un po’. Sul ponte, legata con delle cinghie al
pavimento, c’era la cassaforte della nave mimetica. Una volta
tagliata via dal muro sembrava più grossa. Nera e solidamente
imponente. Il tipico contenitore in cui tener chiusa la fine del sistema
solare.
Holden fluttuò verso di essa e disse piano: «Apriti, sesamo.»
La cassaforte lo ignorò, ma il portello del ponte si aprì e Miller si
spinse su nel compartimento. Aveva abbandonato la tuta ambientale
per un’altra da ginnastica di colore blu dall’odore stantio e per il suo
immancabile cappello. Sul suo viso c’era un’espressione che mise
Holden a disagio. Ancor più di quanto non facesse di solito.
«Ehi» disse Holden.
Miller si limitò ad annuire e si mosse verso una delle postazioni di
lavoro, per poi sedersi su uno dei sedili, allacciandosi le cinture.
«Abbiamo già deciso una destinazione?» chiese.
«No. Sto facendo fare i calcoli ad Alex su un paio di possibilità, ma
non ho ancora deciso.»
«Hai guardato i notiziari?» chiese il detective.
Holden scosse la testa, poi si spostò verso un sedile dall’altra parte
del compartimento. C’era qualcosa, nell’espressione di Miller, che gli
faceva gelare il sangue.
«No» rispose. «Che cosa è successo?»
«Non sei per niente evasivo, Holden. Immagino di dover ammirare
questa tua qualità.»
«Dimmelo e basta.»
«No, dico sul serio. Un sacco di gente dichiara di credere in
qualcosa. ‘La cosa più importante è la famiglia’, e poi però si
scopano una puttana da cinquanta dollari il giorno dello stipendio.
‘La patria prima di tutto’, ma evadono le tasse. Tu no, però. Dici che
tutti dovrebbero sapere tutto e, perdio, quel che dici poi fai.»
Miller attese che Holden rispondesse qualcosa, ma lui non sapeva
cosa dire. Quel discorso aveva il sapore di essere stato preparato in
anticipo. Tanto valeva farglielo finire.
«E così Marte scopre che forse, in fondo, la Terra sta costruendo
navi sotto copertura, di quelle senza bandiera. E che alcune di
queste potrebbero aver distrutto un’ammiraglia marziana.
Scommetto che Marte ha chiamato per controllare. Voglio dire, in
fondo è la Marina della Coalizione Terra-Marte, una grande
egemonia felice. Hanno sorvegliato insieme l’intero sistema solare
per quasi cento anni. Gli ufficiali in comando praticamente vanno a
letto insieme. Per cui dev’essersi trattato di un errore, dico bene?»
«Okay» disse Holden, restando in attesa.
«Insomma, Marte chiama» riprese Miller. «Voglio dire, non lo so
per certo, ma immagino che cominci così. Una chiamata da parte di
un qualche pezzo grosso di Marte a un qualche pezzo grosso della
Terra.»
«Mi pare sensato» disse Holden.
«Tu cosa pensi che risponda la Terra?»
«Non lo so.»
Miller allungò una mano e accese uno degli schermi, poi aprì un
file con sopra il suo nome, datato meno di un’ora prima: la
registrazione di un video di un notiziario marziano, che mostrava il
cielo notturno attraverso una cupola su Marte. Lampi e scie luminose
riempivano quel cielo. La stringa in calce al video diceva che le navi
terrestri in orbita attorno a Marte avevano improvvisamente
cominciato a sparare, senza alcun preavviso, contro le loro
controparti marziane. Le scie nel cielo erano missili. I lampi, navi che
esplodevano.
Poi una massiccia esplosione illuminò di una luce bianca la notte
marziana, trasformandola in giorno per qualche istante, mentre la
striscia informativa diceva che la stazione radar di profondità di
Deimos era stata distrutta.
Holden rimase seduto a guardare il video che mostrava la fine del
sistema solare con colori vivaci e con il commento degli esperti.
Continuò ad aspettare che quelle strisce di luce cominciassero a
discendere sul pianeta stesso, che le cupole si disgregassero sotto il
fuoco nucleare, ma a quanto pareva qualcuno aveva conservato un
minimo ritegno e la battaglia era rimasta in cielo.
Non sarebbe stato così per sempre.
«Mi stai dicendo che sono stato io a farlo?» chiese Holden. «Che,
se non avessi trasmesso i dati, quelle navi e quella gente sarebbero
ancora vivi e vegeti?»
«Già, proprio così. Quello, e anche che, se i cattivi avessero voluto
impedire alla gente di preoccuparsi di Eros, hanno appena avuto
successo.»
36

Miller

Le storie di guerra cominciarono ad arrivare a flusso continuo.


Miller guardava i notiziari cinque alla volta, con le sottofinestre che
affollavano lo schermo del suo terminale. Su Marte erano scioccati,
esterrefatti, sbigottiti. La guerra tra loro e la Fascia – il conflitto più
gigantesco della storia dell’umanità – era improvvisamente diventata
un problema secondario. Le dichiarazioni dei più alti rappresentanti
delle forze di sicurezza della Terra coprivano l’intero spettro di
reazioni, dalla pacata, razionale discussione sulle possibilità di
difesa preventiva alla denuncia rabbiosa di Marte e del suo popolo di
animaleschi stupratori seriali. L’attacco a Deimos aveva trasformato
quella luna in un anello di ghiaia che si spargeva a poco a poco nella
vecchia orbita del satellite, uno sbaffo nel cielo marziano che aveva
di nuovo cambiato le carte in tavola.
Miller rimase a guardare per dieci ore mentre l’attacco diventava
un blocco navale. La marina militare marziana, sparpagliata per
l’intero sistema, si stava precipitando verso casa alla massima
velocità. I notiziari dell’APE la definivano una vittoria, e forse qualcuno
pensava che fosse davvero così. Le immagini arrivavano dalle navi,
dai sistemi di sensori. Navi distrutte, con le chiglie sventrate da
esplosioni ad alta energia, vorticavano scomposte nelle loro
irregolari tombe orbitali. Infermerie come quelle della Roci erano
piene di ragazzi e ragazze con neanche metà dei suoi anni che si
dissanguavano, coperti di ustioni, morenti. A ogni ciclo arrivavano
nuovi filmati, nuovi dettagli di morte e carneficina. E ogni volta che
compariva un altro filmato, Miller si chinava in avanti, con una mano
sulla bocca, in attesa della notizia. Dell’evento che avrebbe segnato
la fine di tutto.
Ma non era ancora successo, e ogni ora che passava portava con
sé la scintilla di speranza che forse, soltanto forse, non sarebbe
accaduto mai.
«Ehi» disse Amos. «Non hai dormito per niente?»
Miller alzò gli occhi, con il collo indolenzito e rigido. Il meccanico se
ne stava in piedi sulla porta della cabina di Miller, con i segni rossi
del cuscino sulle guance e sulla fronte.
«Cosa?» disse Miller. «Sì, no... sono rimasto a... guardare.»
«Hanno tirato qualche asteroide?»
«No, per il momento. È tutto ancora a livello orbitale, o più su
ancora.»
«Che razza di mezza apocalisse dei miei stivali stanno facendo,
laggiù?» domandò Amos.
«Abbi un minimo di comprensione: è la loro prima volta.»
Il meccanico scosse l’ampia testa, ma Miller vide il sollievo
nascondersi sotto il preteso disgusto. Fintantoché le cupole erano
ancora integre su Marte e la biosfera critica sulla Terra rimaneva
esclusa da attacchi diretti, l’umanità aveva ancora un futuro. Miller
dovette chiedersi che cosa stessero sperando sulla Fascia, se
fossero riusciti a convincersi che le inospitali sacche ecologiche degli
asteroidi avrebbero davvero potuto sostenere per un tempo illimitato
la vita.
«Vuoi una birra?» chiese Amos.
«Tu bevi birra a colazione?»
«Immagino che per te sia ancora cena» rispose Amos.
Il meccanico aveva ragione. Miller aveva bisogno di dormire. Non
era riuscito a fare più di una pennichella da quando avevano fatto
brillare la nave mimetica, e anche così era stato tormentato da strani
sogni. Sbadigliò al pensiero di sbadigliare, ma la tensione che
sentiva allo stomaco diceva che era più probabile che avrebbe
passato la giornata a guardare notiziari piuttosto che a dormire.
«Probabilmente sarà già colazione» disse Miller.
«Vuoi un po’ di birra per colazione?» chiese Amos.
«Come no...»
Attraversare la Rocinante gli sembrò surreale. Il ronzio sordo dei
riciclatori di ossigeno, la delicatezza dell’aria... Il viaggio verso la
nave di Julie era stato una nebbia di antidolorifici e debilitazione. Il
tempo passato su Eros prima della fuga era un incubo che non si
sarebbe mai dileguato. Attraversare quei corridoi spogli e funzionali,
con la gravità di accelerazione che lo tratteneva delicatamente a
terra e possibilità minime d’incontrare qualcuno che volesse farlo
fuori gli pareva strano. Quando s’immaginava Julie che gli
camminava accanto, non era poi così male.
Mentre mangiava, il suo terminale squillò: il promemoria
automatico per un’altra lavanda ematica. Si alzò, si sistemò il
cappello e si avviò per lasciar fare il loro doloroso lavoro agli aghi e
agli iniettori di pressione. Quando lui arrivò, il capitano era già in
infermeria, attaccato a una postazione.
Holden sembrava aver dormito, ma non bene. Sotto i suoi occhi
non c’erano i segni scuri che aveva Miller, ma aveva le spalle tese e
il viso sull’orlo di un cipiglio. Miller si chiese se non fosse stato un po’
troppo duro con Holden. ‘Te l’avevo detto’ poteva essere un
messaggio importante, ma il peso di tutte quelle morti innocenti, del
caos di una civilizzazione fallita, poteva essere troppo gravoso per le
spalle di un solo uomo.
O forse stava ancora fantasticando su Naomi.
Holden alzò la mano che non era incastrata nell’attrezzatura
medica.
«’Giorno» disse Miller.
«Ehi.»
«Hai già deciso dove andremo?»
«Non ancora.»
«Raggiungere Marte sta diventando sempre più difficile» disse
Miller, calandosi nel familiare abbraccio della stazione medica. «Se è
quello che vuoi fare, sarà meglio darsi una mossa.»
«Fintantoché Marte esiste, intendi?»
«Per esempio» concordò Miller.
Gli aghi strisciarono verso di lui sui loro delicati impianti articolati.
Miller alzò gli occhi al soffitto, cercando di non irrigidirsi mentre il
metallo si faceva strada a forza nelle sue vene. Sentì un pizzico,
quindi un lento dolore sordo, poi ancora torpore. Lo schermo sopra
di lui descriveva la sua condizione a medici impegnati a osservare la
morte di giovani soldati molte miglia al di sopra del monte Olympus.
«Pensi che si fermerebbero?» chiese Holden. «Voglio dire, la Terra
probabilmente starà facendo tutto questo perché la Protogen ha in
pugno qualche generale, senatore o altro, dico bene? E tutto perché
vogliono essere gli unici a possedere questa cosa. Se ce l’avesse
anche Marte, la Protogen non avrebbe più motivo di combattere.»
Miller sbatté le palpebre. Prima che potesse scegliere la sua
risposta – ‘Cercherebbero di annientare completamente Marte’,
oppure ‘Ormai è troppo tardi, per questo’, o ancora ‘Ma quanto puoi
essere ingenuo, capitano?’ – Holden continuò a parlare.
«Fanculo. Abbiamo i file. Li trasmetterò tutti.»
La replica di Miller fu automatica come un riflesso.
«No. Non lo farai.»
Holden si alzò in piedi, rabbuiandosi in viso.
«Capisco che tu possa avere un’opinione ragionevolmente diversa
dalla mia» disse. «Ma questa è ancora la mia nave. E tu sei un
passeggero.»
«Vero» rispose Miller. «Ma tu hai difficoltà a sparare alle persone, e
dovrai farlo prima di trasmettere quella roba all’esterno.»
«Dovrò cosa?»
Il sangue rinnovato fluì nel sistema di Miller come un flusso di
acqua ghiacciata che gli strisciava verso il cuore. I monitor
indicarono un nuovo diagramma, cominciando a contare le cellule
anomale mentre attraversavano i suoi filtri.
«Dovrai spararmi» ripeté Miller, stavolta più lentamente. «Hai avuto
la possibilità di scegliere se distruggere o meno il sistema solare per
due volte, e in entrambi i casi hai mandato tutto a puttane. Non me
ne starò a guardare mentre fai il terzo strike.»
«Credo che tu abbia un’idea vagamente esagerata di quanta
influenza possa realmente avere il vicecomandante di un cargo
frigorifero di lungo corso. Sì, c’è una guerra. E sì, c’ero anch’io
quand’è iniziata. Ma la Fascia odiava i pianeti interni già da molto
tempo prima che la Cant fosse attaccata.»
«E ora sei riuscito a dividere anche i pianeti interni» replicò Miller.
Holden inclinò la testa. «La Terra ha sempre odiato Marte» disse
Holden come se stesse affermando che l’acqua era bagnata.
«Quando ero in marina, facevamo continuamente simulazioni
preventive. Piani di battaglia, se la Terra e Marte avessero mai
dovuto darsele per davvero. La Terra perde. A meno che non
colpiscano per primi, forte e con cattiveria, la Terra perde su tutta la
linea.»
Forse era la distanza. Forse la sua era soltanto immaginazione.
Miller non aveva mai considerato i pianeti interni così divisi.
«Davvero?» chiese.
«Saranno anche la colonia, ma i giocattoli migliori ce li hanno loro,
e questo lo sanno tutti» spiegò Holden. «Quello che sta succedendo
là fuori in questo momento sta montando da un secolo. Se non fosse
stato così, non sarebbe potuto accadere.»
«Sarebbe questa la tua linea difensiva? ‘La polveriera non è mia.
Io ho solo portato il fiammifero.’»
«Non ho alcuna linea difensiva» replicò Holden. La pressione e il
battito cardiaco del capitano s’impennarono.
«Ne abbiamo già parlato» disse Miller. «E allora lascia che ti
chieda una cosa: perché pensi che stavolta sarà diverso?»
Gli aghi nelle vene di Miller parvero scaldarsi al punto da essere
quasi dolorosi. Si chiese se fosse normale, se ogni lavanda ematica
sarebbe stata uguale.
«Stavolta è diverso» spiegò Holden. «Tutto lo schifo che sta
succedendo là fuori è esattamente ciò che accade quando si hanno
informazioni incomplete. Marte e la Fascia non si sarebbero mai dati
addosso se avessero saputo ciò che sappiamo noi adesso. Marte e
la Terra non si sparerebbero a vicenda se tutti fossero a conoscenza
del fatto che la guerra è stata pilotata. Il problema non è che la gente
sa troppo; il problema è che non sa abbastanza.»
Qualcosa sibilò e Miller si sentì attraversare da un’ondata di
rilassamento chimicamente indotto. Non era il momento, ma non
c’era verso di richiamare le droghe iniettate nel suo sistema.
«Non puoi metterti a gettare ogni informazione in pasto alle
persone» ribatté Miller. «Devi sapere che cosa significa. Che cosa
può provocare. Una volta c’era un caso, su Ceres... Una ragazzina
venne uccisa. Per le prime diciotto ore, eravamo tutti sicuri che fosse
stato il paparino. Aveva dei precedenti criminali. Era un ubriacone.
Era l’ultimo uomo ad averla vista viva. C’erano tutti i soliti, classici
indizi. Alla diciannovesima ora ricevemmo una soffiata. Saltò fuori
che il paparino doveva un sacco di soldi a una delle organizzazioni
locali. All’improvviso, le cose si fecero più complicate. C’erano altri
sospettati. Credi che, se avessi trasmesso tutto ciò che sapevo, il
paparino sarebbe stato ancora in vita al momento della soffiata? O
magari qualcuno avrebbe fatto due più due e si sarebbe preso la
briga di fare quel che era più ovvio?»
La postazione medica di Miller trillò. L’ennesimo cancro. Lo ignorò.
Il ciclo di Holden stava finendo, e le sue guance arrossate erano
indice tanto del sangue fresco e risanato che gli scorreva nel corpo,
quanto del suo stato emotivo.
«È la loro stessa etica» disse Holden.
«Di chi?»
«Della Protogen. Sarete anche in due campi opposti, ma state
giocando allo stesso gioco. Se tutti dicessero quel che sanno, non
sarebbe successo niente di tutto questo. Se il primo tecnico di
laboratorio su Phoebe, vedendo qualcosa che non gli tornava,
avesse preso il suo terminale e avesse detto ‘Ehi, ragazzi! Guardate
che roba strana’, niente di tutto ciò sarebbe mai successo.»
«Già» disse Miller. «Perché dire a tutti che c’è un virus alieno che
vuole farli fuori è un bel modo di mantenere la calma e l’ordine.»
«Miller» disse Holden. «Non voglio spaventarti, ma c’è un virus
alieno. E vuole far fuori tutti.»
Miller scosse la testa e sorrise come se Holden avesse detto
qualcosa di buffo. «Allora senti, magari potrei puntarti una pistola
addosso e costringerti a prendere la decisione giusta. Ma lascia che
ti chieda una cosa. Okay?»
«Va bene» disse Holden. Miller si appoggiò allo schienale. Le
droghe gli stavano appesantendo le palpebre.
«Che succede?» chiese Miller.
Ci fu una lunga pausa. Un altro trillo dell’impianto medico. Un’altra
scarica fredda attraverso le vene abusate di Miller.
«Che succede?» ripeté Holden. Miller si rese conto che avrebbe
potuto essere un po’ più specifico. Si costrinse a riaprire gli occhi.
«Tu trasmetti tutto quello che abbiamo. Che succede?»
«La guerra cessa. La gente se la prende con la Protogen.»
«Ci sono un po’ di falle in questo ragionamento, ma non fa niente.
Che cosa accade, dopo?»
Holden rimase in silenzio per qualche istante.
«La gente comincia a prendersela con il morbo di Phoebe» disse
poi.
«Cominciano a sperimentare. Cominciano a farsi la guerra per
averlo. Se quella schifezza è davvero preziosa come dice la
Protogen, non puoi fermare la guerra. Tutto quello che puoi fare, ora,
è cambiarla.»
Holden si accigliò, con rughe rabbiose che gli si addensavano
intorno agli occhi e alla bocca. Miller osservò morire un pezzettino
dell’idealismo di quell’uomo e si dispiacque di constatare che la cosa
gli facesse piacere.
«Allora, che succede se arriviamo su Marte?» continuò Miller, a
voce bassa. «Vendiamo la protomolecola in cambio di più soldi di
quanti chiunque di noi abbia mai visto. O magari invece ti sparano.
Magari, Marte vince contro la Terra. E contro la Fascia. Oppure vai
dall’APE, che è la miglior speranza di indipendenza che ha la Fascia,
e che non è altro che una manica di fanatici fuori di testa, metà dei
quali è convinta che possiamo davvero sopravvivere là fuori senza la
Terra. E, credimi: probabilmente anche loro ti spareranno. Oppure ti
limiti a dire tutto a tutti e a far finta che, comunque vada, tu non ti sia
sporcato le mani.»
«C’è una cosa giusta da fare» disse Holden.
«Non c’è una cosa giusta, amico» replicò Miller. «Hai una bella
carrettata di cose un po’ meno sbagliate, forse.»
Holden arrivò alla fine del suo ciclo di lavanda ematica. Il capitano
si tolse gli aghi dal braccio e lasciò che i sottili tentacoli metallici si
ritraessero. Mentre si tirava giù la manica, il cipiglio che aveva in
volto si attenuò.
«La gente ha il diritto di sapere che cosa sta succedendo» disse
Holden. «I tuoi argomenti si riducono al fatto che non reputi gli altri
abbastanza intelligenti da trovare il modo giusto di usare queste
informazioni.»
«Ti pare forse che qualcuno abbia usato qualsiasi cosa tu abbia
trasmesso come qualcosa di diverso da una scusa per sparare a chi
già non aveva in simpatia? Dar loro un nuovo motivo non impedirà
loro di continuare ad ammazzarsi a vicenda» ribatté Miller. «Sei stato
tu a dare inizio a queste guerre, capitano. Non significa che tu sia in
grado di fermarle. Però ci devi provare.»
«E come dovrei fare?» chiese Holden. L’angoscia nella sua voce
poteva essere rabbia. O poteva essere una preghiera.
Qualcosa si spostò nell’addome di Miller, un qualche organo
infiammato che era tornato sufficientemente normale da ricollocarsi
nella sua posizione. Non si era reso conto di essersi sentito male
finché non si era improvvisamente sentito di nuovo a posto.
«Tu continui a pensare a che cosa succederebbe» disse Miller.
«Chiediti invece che cosa farebbe Naomi.»
Holden esplose in una risata. «È così che prendi le tue decisioni?»
Miller lasciò che i suoi occhi si chiudessero. Juliette Mao era lì con
lui, seduta sul divano nel suo vecchio appartamento su Ceres.
Mentre combatteva contro l’equipaggio della nave mimetica fino
all’ultimo. Spezzata e aperta dal virus alieno sul pavimento del piatto
di una doccia.
«Qualcosa del genere» confermò Miller.
Quella sera giunse il rapporto ufficiale da Ceres, in contrasto con i
soliti notiziari della stampa. Il consiglio di governo dell’APE annunciò
che era stata sgominata una cerchia di spie marziane. Il video
mostrava i corpi che fluttuavano all’esterno di un portellone
industriale di quelli che sembravano i vecchi moli del settore sei. In
lontananza, le vittime parevano quasi riposare in pace. Il video
passò a mostrare il capo della sicurezza interna. Il capitano Shaddid
sembrava più vecchia. Indurita.
«Rimpiangiamo la necessità di tale azione» disse a tutti coloro che
erano in ascolto, ovunque fossero. «Ma nessun compromesso può
essere raggiunto quando è in gioco la libertà.»
Ecco a cosa si è giunti, pensò Miller strofinandosi una mano sul
mento. I pogrom. Tagliare soltanto un centinaio di teste, poi soltanto
un altro migliaio, poi solo altre diecimila, e alla fine saremo tutti liberi.
Ci fu un debole segnale e, un istante dopo, la gravità si spostò di
pochi gradi alla sinistra di Miller. Un cambiamento di rotta. Holden
aveva preso una decisione.
Trovò il capitano seduto da solo, con lo sguardo fisso su uno dei
monitor in plancia. Il bagliore dello schermo gli illuminava il volto dal
basso, coprendo i suoi occhi d’ombra. Il capitano sembrava più
vecchio.
«Hai trasmesso?» chiese Miller.
«No. Non siamo che una nave. Se diciamo a tutti che cos’è questo
affare e che ce l’abbiamo noi, saremo tutti morti prima della
Protogen.»
«Probabilmente vero» disse Miller, accomodandosi su una
postazione libera con un grugnito. Il sedile a sospensione cardanica
si adattò silenziosamente al suo peso. «Vedo che fai progressi.»
«Non mi fido di loro» spiegò Holden. «Non mi fido di nessuno di
loro, con quella cassaforte.»
«Probabilmente intelligente.»
«Andremo alla Stazione di Tycho. Lì c’è qualcuno di cui... mi fido.»
«Di cui ti fidi?»
«Di cui non diffido fattivamente.»
«Naomi crede che sia la cosa giusta da fare?»
«Non lo so. Non gliel’ho chiesto. Ma credo di sì.»
«Ci siamo quasi» disse Miller.
Per la prima volta, Holden alzò gli occhi dal monitor.
«Tu sai qual è la cosa giusta da fare?» chiese Holden.
«Sì.»
«Qual è?»
«Mollare quella cassaforte in una rotta di collisione con il sole e
trovare un modo affinché nessuno vada mai più su Eros o Phoebe»
rispose Miller. «Far finta che non sia successo niente.»
«E perché non lo stiamo facendo?»
Miller fece un lento cenno col capo. «Come si fa a buttare via il
sacro Graal?»
37

Holden

Alex fece viaggiare la Rocinante a tre quarti di g per due ore


mentre l’equipaggio preparava e consumava la cena. Aveva
intenzione di tornare a tre g una volta finita la pausa, ma, nel
frattempo, Holden si godeva quel momento in cui poteva starsene in
piedi sulle proprie gambe in qualcosa di non troppo dissimile dalla
gravità terrestre. Era un po’ pesante per Naomi e Miller, ma nessuno
dei due se ne lamentava. Capivano entrambi quanto quella fretta
fosse necessaria.
Una volta che la gravità era diminuita, allentando la pressione
dovuta all’elevata accelerazione, l’intero equipaggio si radunò
rapidamente in cambusa e cominciò a preparare la cena. Naomi
frullò assieme uova finte e formaggio finto. Amos cucinò un po’ di
pasta al pomodoro e i loro ultimi funghi freschi, riuscendo a produrre
qualcosa che si avvicinasse al profumo di un sugo vero. Alex,
incaricato delle operazioni di volo, aveva trasferito il pannello
operativo su uno schermo della cambusa e sedeva a un tavolo
accanto, intento a spalmare la crema di formaggio finto e la salsa
rossa sulla pasta, nella speranza che il risultato finale potesse
avvicinarsi a una lasagna. Holden era di turno al forno e, mentre la
lasagna era in preparazione, si era impegnato a trasformare dei
pezzi di lievito in pane. L’odore che aleggiava nella cambusa non era
del tutto dissimile dal cibo vero e proprio.
Miller aveva seguito l’equipaggio nella cambusa ma sembrò a
disagio nel chiedere se potesse fare qualcosa. Si limitò ad
apparecchiare, poi si sedette a tavola e rimase a osservare gli altri.
Non stava esattamente evitando lo sguardo di Holden, ma non si
stava dando certo da fare per attirare la sua attenzione. Per un
accordo silenzioso tra loro, nessuno aveva acceso un canale di
notiziari. Holden era sicuro che si sarebbero precipitati a controllare
la situazione della guerra non appena fosse finita la cena ma, per il
momento, lavoravano tutti in silenzio, tenendosi compagnia l’un
l’altro.
Quando ebbero finito di preparare, Holden passò dal pane alla
lasagna, occupandosi di infornarla e sfornarla. Naomi sedeva
accanto ad Alex, con cui intavolò una conversazione sottovoce su
qualcosa che aveva visto sul pannello operativo. Holden passò metà
del suo tempo a guardare lei e l’altra metà con gli occhi sulla
lasagna. Naomi rise per qualcosa che aveva detto Alex e si arricciò i
capelli con un dito, di riflesso. Holden sentì lo stomaco stringerglisi
un po’.
Con la coda dell’occhio, ebbe l’impressione che Miller lo stesse
fissando. Quando alzò lo sguardo, il detective si era girato, con
l’ombra di un sorriso sul volto. Naomi rise di nuovo. Aveva posato
una mano sul braccio di Alex, e il pilota stava arrossendo, parlando
più veloce che poteva in quella sua stupida cadenza marziana.
Sembravano amici. Quella vista riempiva di gioia Holden, e al tempo
stesso di gelosia. Si chiese se lui e Naomi sarebbero più stati amici.
Lei colse il suo sguardo e gli indirizzò un occhiolino complice che
avrebbe probabilmente avuto senso se fosse riuscito a udire quello
che stava dicendo Alex. Holden sorrise e restituì l’occhiolino, grato di
essere stato perlomeno incluso in quel momento. Uno sfrigolio del
forno richiamò la sua attenzione. La lasagna stava cominciando a
colare oltre i bordi dei piatti.
S’infilò le presine e aprì il forno.
«È pronta la zuppa» disse, tirando fuori il primo dei piatti e
mettendolo sul tavolo.
«Questa sì che è una zuppa dall’aspetto orrendo» esclamò Amos.
«Uhm, già» disse Holden. «È solo un modo di dire di madre
Tamara, quando finiva di cucinare. Non so bene da dove provenga.»
«Una delle tue tre madri si occupava di cucinare? Molto
tradizionale» disse Naomi con un sorrisetto.
«Be’, si divideva quel compito con Caesar, uno dei miei padri.»
Naomi gli sorrise; un sorriso genuino, stavolta.
«Sembra davvero bello» disse. «Avere una famiglia tanto grande.»
«Sì, era bello» rispose lui, mentre nella testa gli si formava
l’immagine di un’esplosione nucleare che distruggeva la fattoria del
Montana in cui era cresciuto e riduceva in polvere la sua intera
famiglia. Se fosse successo, era sicuro che Miller sarebbe stato
pronto a ricordargli che la colpa era soltanto sua. Non era certo che
avrebbe potuto controbattere, allora.
Mentre mangiavano, Holden sentì che la tensione a poco a poco
scemava nella sala. Amos ruttò sonoramente, poi reagì al coro di
proteste che si levò dal tavolo con un altro rutto, ancora più
squassante. Alex raccontò di nuovo la barzelletta che aveva fatto
ridere Naomi. Perfino Miller si fece prendere dal buonumore e narrò
una lunga e improbabile storia sulla caccia a un’operazione di
contrabbando di formaggio che terminava con una sparatoria con
nove australiani nudi in un bordello illegale. Alla fine della storia,
Naomi stava ridendo tanto da sbavare sulla propria maglietta, e
Amos continuava a ripetere ‘Cazzo, ma dài!’ come un mantra.
La storia era abbastanza divertente ed era abilmente propinata
dalla narrazione asciutta del detective, ma Holden l’ascoltò soltanto
a mezzo orecchio. Osservò il suo equipaggio, vedendo la tensione
fuggire via dai loro volti e dalle loro spalle. Lui e Amos erano
entrambi nati sulla Terra anche se, a colpo d’occhio, avrebbe detto
che Amos aveva dimenticato tutto del suo mondo nativo nell’istante
stesso in cui si era imbarcato. Alex veniva da Marte, e chiaramente
la cosa gli piaceva. Bastava un errore da una delle due parti, e di
entrambi i pianeti sarebbero rimasti soltanto due mucchietti
radioattivi prima dell’ora di cena. In quel momento, però, erano tutti
soltanto amici che condividevano un pasto. Era giusto così. Era ciò
per cui Holden doveva continuare a combattere.
«Io me lo ricordo, quel periodo in cui cominciò a scarseggiare il
formaggio» disse Naomi dopo che Miller ebbe finito di parlare.
«Colpì l’intera Fascia. Era colpa tua?»
«Già. Be’, se si fossero limitati a far passare illegalmente il
formaggio sotto il naso delle autorità governative, non ci sarebbero
stati problemi» spiegò Miller. «Però questi tizi avevano l’abitudine di
sparacchiare agli altri contrabbandieri di formaggio. E questo attira
l’attenzione degli sbirri. Mossa sbagliata.»
«Per del cazzo di formaggio?» domandò Amos, gettando la
forchetta sul piatto con un suono secco. «Dici sul serio? Voglio dire,
passi per la droga, il gioco d’azzardo o roba del genere... Ma per del
formaggio?»
«Il gioco d’azzardo è legale nella maggior parte dei posti» rispose
Miller. «E chiunque abbia appena un’infarinatura di chimica potrebbe
prepararti praticamente qualsiasi droga tu voglia nel suo bagno. Non
c’è modo di controllare i fornitori.»
«Il formaggio vero viene dalla Terra, o da Marte» aggiunse Naomi.
«E, una volta applicati i costi di spedizione e il cinquanta per cento di
tasse imposte dalla Coalizione, costa più del carburante.»
«Siamo finiti con centotrenta chili di cheddar del Vermont nel
deposito prove» riprese Miller. «Un valore di mercato pari al costo di
una nave privata. Era già sparito a fine giornata. Lo inscrivemmo nel
registro come perdita dovuta a scadenza. Nessuno disse una parola,
fintantoché tutti poterono tornarsene a casa con un pezzo in tasca.»
Il detective si appoggiò allo schienale della sedia con uno sguardo
distante negli occhi.
«Dio, quant’era buono quel formaggio» disse con un sorriso.
«Già. Be’, questa roba invece sa di merda» osservò Amos,
aggiungendo poi precipitosamente: «Senza offesa, capo, hai fatto
davvero un ottimo lavoro con il frullatore... Ad ogni modo, mi sembra
comunque sempre molto strano, farsi la guerra per del formaggio.»
«È il motivo per cui hanno distrutto Eros» disse Naomi.
Miller annuì ma non aggiunse niente.
«Come fai a dirlo?» disse Amos.
«Da quanto tempo è che voli?» chiese Naomi.
«Non saprei» rispose Amos, stringendo le labbra mentre faceva
qualche calcolo a mente. «Venticinque anni, a occhio e croce?»
«Hai volato con un sacco di cinturiani, giusto?»
«Già» disse Amos. Non c’è niente di meglio di un cinturiano, come
compagno di volo. Tranne me, ovviamente.»
«Hai volato con noi per venticinque anni, hai un debole per noi, hai
imparato il nostro gergo... scommetto che saresti in grado di ordinare
una birra e una prostituta su qualunque stazione della Fascia.
Diavolo, se fossi un po’ più alto e molto più magro, ormai potresti
farti passare per uno di noi.»
Amos sorrise, prendendolo come un complimento.
«Eppure ancora non ci hai capiti» disse Naomi. «Non
completamente. Nessuno che sia cresciuto con l’aria gratis potrà mai
farlo. Ed è per questo che possono ammazzare un milione e mezzo
dei nostri per comprendere che cos’è che fa esattamente il loro
morbo.»
«Oh, andiamo» intervenne Alex. «Dici sul serio? Credi davvero che
gli interni e gli esterni si vedano tanto diversi gli uni dagli altri?»
«Ovvio che sì» rispose Miller. «Siamo troppo alti, troppo magri, le
nostre teste sembrano troppo grosse e le articolazioni troppo
nodose.»
Holden notò che Naomi gli scoccava un’occhiata dall’altra parte del
tavolo, con sguardo interrogativo. A me la tua testa piace, pensò
Holden, rivolgendosi a lei; le radiazioni però non dovevano avergli
fatto dono nemmeno di un po’ di telepatia, perché l’espressione di
Naomi non cambiò di una virgola.
«Ormai abbiamo praticamente una lingua tutta nostra» aggiunse
Miller. «Hai mai visto un terrestre che cerca di farsi dare indicazioni
in fondo al pozzo?»
«Tu ru spin, pow, Schlauch tu way acima and ido» disse Naomi
calcando il suo accento cinturiano.
«Vai nel senso della rotazione fino alla stazione del tubo, che ti
riporterà ai moli» tradusse Amos. «Che cazzo c’è di tanto
complicato?»
«Una volta avevo un partner che non l’avrebbe capito, anche dopo
due anni passati su Ceres» disse Miller. «E Havelock non era certo
stupido. Solo non era... originario del posto.»
Holden li ascoltò parlare e giochicchiò con la pasta fredda nel suo
piatto con un pezzo di pane.
«Okay, abbiamo capito» disse. «Siete strani. Ma sterminare un
milione e mezzo di persone per via di differenze ossee e
linguistiche...»
«La gente è stata gettata nei forni per molto meno fin da quando li
hanno inventati, i forni» disse Miller. «Se può farti stare meglio, la
maggior parte di noi pensa che siete tracagnotti e microcefali.»
Alex scosse la testa.
«Per me non ha il minimo senso liberare quel morbo, anche se
dovessi odiare personalmente ogni singolo essere umano su Eros.
Chissà che cosa farà quella roba?»
Naomi andò al lavandino della cambusa e si lavò le mani; l’acqua
corrente attirò l’attenzione di tutti.
«Ci ho riflettuto su» disse. Poi si voltò mentre si asciugava le mani
su un tovagliolo. «Sul senso di tutto questo, intendo.»
Miller fece per parlare, ma Holden lo zittì con un gesto sbrigativo e
attese che Naomi continuasse.
«Allora» disse lei. «Ci ho riflettuto come se fosse un problema
informatico. Se questo virus, nanomacchina o qualunque cosa sia, è
stato progettato, deve avere uno scopo. Dico bene?»
«Assolutamente» concordò Holden.
«E sembra che stia facendo qualcosa. Qualcosa di complesso.
Non ha senso darsi tanta pena soltanto per ammazzare della gente.
Quei cambiamenti che produce sembrano intenzionali, ma...
incompleti, a mio parere.»
«Capisco cosa intendi» disse Holden. Alex e Amos annuirono con
lui ma rimasero in silenzio.
«Quindi, magari il problema è che questa protomolecola non è
ancora abbastanza intelligente. È sempre possibile comprimere dei
dati a livello infinitesimale ma, a meno che non si stia parlando di un
computer quantico, l’elaborazione richiede spazio. Il miglior modo di
ottenere tale elaborazione in dimensioni ridotte è quello di distribuirla
a macchine più piccole. Magari la protomolecola non sta portando a
termine il suo compito perché non è abbastanza intelligente. Non
ancora.»
«Non ce n’è ancora abbastanza» disse Alex.
«Esatto» confermò Naomi, gettando il tovagliolo in un cestino sotto
il lavandino. «Per cui gli fornisci un sacco di biomassa su cui
lavorare, e stai a guardare che cosa è progettata a fare.»
«Secondo quel tipo del video, le protomolecole erano state create
per modificare la vita sulla Terra e spazzarci via dal quadro
generale» disse Miller.
«E questo» aggiunse Holden «è il motivo per cui Eros si prestava
alla perfezione. Un sacco di biomassa in una provetta sigillata dal
vuoto. E, se la cosa dovesse sfuggire di mano, c’è già una guerra in
corso. Un sacco di navi e di missili pronti a congelare Eros se la
minaccia dovesse sembrare reale. Non c’è niente di meglio che un
nuovo nemico per farci dimenticare tutte le nostre differenze.»
«Wow» esclamò Amos. «Questa faccenda è davvero una merda.»
«Già. Eppure, probabilmente è proprio quello che è successo»
disse Holden. «Ancora non riesco a credere che possa esserci tanta
gente abbastanza malvagia da fare tutto questo. Qui non si tratta
dell’opera di un singolo, ma delle azioni di decine, forse di centinaia
di persone estremamente intelligenti. Che la Protogen se ne vada in
giro ad assoldare ogni potenziale Stalin e Jack lo Squartatore che
incontra?»
«Mi assicurerò di chiederlo al signor Dresden» disse Miller, con
volto impassibile «quando saremo finalmente faccia a faccia.»
Gli anelli abitativi di Tycho ruotavano serenamente attorno al globo
industriale centrale. I massicci waldo che spuntavano dalla cima
manovravano un’enorme lamina di chiglia sulla fiancata della
Nauvoo. Osservando la stazione sullo schermo del ponte operativo
mentre Alex completava le procedure di attracco, Holden sentì
qualcosa di simile al sollievo. Fino a quel momento, Tycho era
l’unico posto in cui nessuno aveva provato a sparargli, o a farli
saltare in aria, o a vomitargli addosso fanghiglia, il che ne faceva
praticamente una casa.
Holden fissò la cassaforte di ricerca assicurata al ponte e sperò
che non avesse ucciso tutti gli occupanti della stazione per il
semplice fatto di averla portata lì.
Come se stesso seguendo il suo pensiero, Miller si tirò su
spingendosi contro il portello del ponte e fluttuò verso la cassaforte.
Scoccò a Holden uno sguardo estremamente eloquente.
«Non dirlo. Ci sto già pensando per conto mio» lo assicurò Holden.
Miller si strinse nelle spalle e fluttuò verso la postazione operativa.
«Grossa» commentò, con un cenno del capo verso la Nauvoo,
sullo schermo di Holden.
«Nave generazionale» disse Holden. «Una cosa del genere un
giorno ci consegnerà le stelle.»
«O una solitaria morte durante un lungo viaggio verso il nulla»
rispose Miller.
«Sai,» disse Holden «c’è in giro una specie per cui la variante della
grande avventura galattica consiste nello sparare proiettili carichi di
virus ai propri vicini. Credo che la nostra versione sia decisamente
più nobile, a confronto.»
Miller sembrò rifletterci su, annuì e osservò la Stazione di Tycho
ingrandirsi sullo schermo mentre Alex li faceva avvicinare. Il
detective tenne una mano sulla console, facendo i minimi
aggiustamenti necessari a rimanere sul posto anche se le manovre
del pilota continuavano a bombardarli di scatti di gravità inattesi da
ogni direzione. Holden era assicurato al suo sedile. Anche
concentrandosi, non riusciva a gestire gravità zero e accelerazioni
intermittenti bene quanto Miller. Il suo cervello non poteva
disabituarsi a quei venti e passa anni che aveva trascorso in
presenza di gravità costante.
Naomi aveva ragione. Sarebbe stato facile vedere i cinturiani come
degli alieni. Diavolo, se gli si dava il tempo di sviluppare degli
impianti di immagazzinamento e riciclo di ossigeno realmente
efficienti e si fosse continuato a ridurre le strutture delle tute
ambientali al minimo indispensabile per il riscaldamento corporeo, si
sarebbe finito con il vederli trascorrere più tempo all’esterno delle
proprie navi e stazioni che all’interno.
Forse era per questo che erano tassati fino a ridurli al livello di
sussistenza. L’uccello era uscito dalla gabbia, ma non si poteva
lasciare che dispiegasse troppo le ali per paura che dimenticasse a
chi apparteneva.
«Tu ti fidi di questo Fred?» chiese Miller.
«Più o meno» rispose Holden. «L’ultima volta ci ha trattato bene,
quando tutti gli altri avrebbero voluto vederci morti o incarcerati.»
Miller grugnì, come se la cosa non dimostrasse niente.
«Fa parte dell’APE, giusto?»
«Già» rispose Holden. «Ma credo che si tratti dell’APE originale.
Non di quei cowboy che vogliono fare a pistolettate con gli interni.
Né di quegli scriteriati che inneggiano alla guerra alla radio. Fred è
un politico.»
«E che mi dici di coloro che fanno rigare dritto Ceres?»
«Non lo so» ammise Holden. «Non so nulla di loro. Ma Fred è la
nostra migliore opportunità. La meno sbagliata.»
«Okay» disse Miller. «Non troveremo una soluzione politica a
questa faccenda della Protogen, sai...»
«Già» rispose Holden, poi cominciò a slacciarsi le cinture mentre la
Roci attraccava al suo molo con una serie di tonfi metallici. «Ma Fred
non è soltanto un politico.»
Fred sedeva dietro la sua grossa scrivania, intento a leggere il
rapporto di Holden su Eros, sulla ricerca di Julie e sulla scoperta
della nave mimetica. Miller gli sedeva di fronte, osservando Fred
come avrebbe fatto un entomologo con una nuova specie d’insetto,
pensando che avrebbe potuto pungere. Holden era un po’ in
disparte, alla destra di Fred, cercando di non guardare in
continuazione l’orologio sul suo terminale. Sul grosso schermo alle
spalle della scrivania, la Nauvoo fluttuava come lo scheletro
metallico di un qualche antico leviatano scarnificato. Holden vedeva
piccoli puntini di luce blu brillare dove gli operai erano al lavoro con
le saldatrici sulla chiglia e il fasciame. Per tenersi occupato, cominciò
a contarli.
Aveva raggiunto quota quarantatré quando un piccolo shuttle
apparve nel suo campo visivo, ghermendo un fascio di assi d’acciaio
con un paio di grossi bracci di manovra, e volò verso la nave
generazionale in fase di costruzione. Lo shuttle si rimpicciolì fino a
diventare un puntino non più grande della punta di una penna prima
di fermarsi. Nella mente di Holden, la Nauvoo passò
improvvisamente dall’essere una grossa nave nelle vicinanze
all’essere una mastodontica nave molto più lontana. Quel
cambiamento di percezione gli provocò un piccolo attacco di
vertigini.
Il suo terminale palmare trillò quasi nello stesso istante di quello di
Miller. Non lo guardò nemmeno; accarezzò lo schermo con le dita
per spegnerlo. Ormai conosceva questa routine. Tirò fuori una
boccetta da cui prese due pillole che ingoiò a secco. Sentì che
anche Miller versava le pillole fuori dalla sua. Il sistema medico della
nave gliele forniva ogni settimana, accompagnandole con
l’avvertimento che, se non avesse assunto i medicinali negli orari
prestabiliti, sarebbe andato incontro a una morte orribile. E lui li
assumeva. L’avrebbe fatto per il resto della sua vita. Saltarne
qualche dose significava semplicemente che non sarebbe stato un
resto molto lungo.
Fred finì di leggere e gettò il suo terminale sulla scrivania, poi si
strofinò gli occhi con i palmi delle mani per diversi secondi. A Holden
pareva più vecchio rispetto all’ultima volta che si erano visti.
«Devo dirglielo, Jim: non so davvero che cosa pensare di tutto
questo» dichiarò alla fine.
Miller guardò Holden e scandì senza parlare il suo nome, ‘Jim’, con
una domanda in viso. Holden lo ignorò.
«Ha letto l’aggiunta finale di Naomi?» chiese Holden.
«La parte in cui il morbo crea una rete di processori per aumentare
la sua capacità di sviluppo?»
«Sì, quella» rispose Holden. «Ha senso, Fred.»
Fred rise senza allegria, poi puntò un dito verso il suo terminale.
«Quella roba» disse. «Quella roba avrebbe senso soltanto per uno
psicopatico. Nessuno sano di mente potrebbe farlo. Poco importa
che cosa si pensi di poter ottenere.»
Miller si schiarì la gola.
«Ha qualcosa da aggiungere, signor Muller?» chiese Fred.
«Miller» lo corresse il detective. «Sì. Per prima cosa, con tutto il
rispetto, non si faccia illusioni. Il genocidio è roba vecchia. In
secondo luogo, i fatti non sono in discussione. La Protogen ha
infettato Eros con un morbo letale alieno, e sta registrando i risultati.
Il perché non conta. Dobbiamo fermarli.»
«E» aggiunse Holden «pensiamo di poter rintracciare la posizione
della loro stazione di osservazione.»
Fred si appoggiò allo schienale, con la pelle sintetica e la struttura
di metallo che scricchiolavano sotto il suo peso perfino a un terzo di
g.
«Fermarli come?» chiese. Fred lo sapeva bene. Voleva soltanto
sentirselo dire chiaramente. Miller lo accontentò.
«Io dico: andiamo lì e distruggiamo la loro stazione.»
«‘Andiamo’ chi?»
«Ci sono un sacco di teste calde dell’APE che non vedono l’ora di
sparare alla Terra e a Marte» disse Holden. «Basterà dar loro dei
veri cattivi da colpire.»
Fred annuì in un modo che non intendeva manifestare il suo
accordo per alcunché.
«E il vostro campione? La cassaforte del capitano?» domandò
Fred.
«Quella è mia» rispose Holden. «Su questo non si negozia.»
Fred rise di nuovo, stavolta con un po’ di divertimento. Miller sbatté
le palpebre per la sorpresa e poi mise su un sorriso tirato.
«Perché mai dovrei acconsentire?» chiese Fred.
Holden sporse il mento e sorrise.
«E se le dicessi che ho nascosto la cassaforte su un planetesimo
infarcito di plutonio sufficiente a ridurre in atomi scomposti chiunque
ci metta le mani, quand’anche riuscisse a trovarla?» disse.
Fred lo fissò per un momento, poi replicò: «Ma non l’ha fatto.»
«Be’, no» disse Holden. «Però potrei dirle che l’ho fatto.»
«Lei è troppo onesto» disse Fred.
«E non ci si può fidare di nessuno, se c’è di mezzo qualcosa di
così enorme. Lei sa già cosa ho intenzione di farci. Ed è per questo,
fintantoché non riusciamo a trovare un accordo migliore, che lascerà
che sia io a tenerla.»
Fred annuì.
«Sì» disse. «Immagino che farò così.»
38

Miller

Il ponte di osservazione era rivolto verso la Nauvoo mentre quel


behemoth veniva assemblato. Miller sedeva sul bordo di un morbido
divano, con le dita intrecciate su un ginocchio e lo sguardo fisso
sull’imponente panorama di quella costruzione.
Dopo il periodo passato sulla nave di Holden e, prima ancora, su
Eros, con le sue architetture chiuse in vecchio stile, una vista tanto
ampia gli sembrava artificiale. Il ponte stesso era più grande di tutta
la Rocinante, decorato con morbide felci e rampicanti scolpiti. I
riciclatori d’aria erano inspiegabilmente silenziosi e, anche se la
gravità di rotazione era quasi la stessa di quella su Ceres, Miller
aveva l’impressione che l’effetto Coriolis fosse impercettibilmente
sfasato.
Aveva vissuto sulla Fascia per tutta la sua vita; non era mai stato in
nessun luogo così attentamente progettato per una raffinata
esibizione di ricchezza e potere. Era piacevole, fintantoché non ci
pensava troppo.
Non era l’unico a essere stato attirato dagli spazi aperti di Tycho.
Alcune decine di lavoratori della stazione sedevano lì a gruppi, o
passeggiavano. Un’ora prima erano passati anche Amos e Alex,
immersi nella loro conversazione, per cui quando Miller si alzò e fece
per tornare ai moli non fu sorpreso di vedere Naomi che se ne stava
seduta da sola con una ciotola di cibo che le si raffreddava accanto,
su un vassoio. Aveva gli occhi fissi sul suo terminale palmare.
«Ehi» disse lui.
Naomi alzò gli occhi, lo riconobbe e gli rivolse un sorriso distratto.
«Ehi» gli rispose.
Miller annuì verso il terminale e con un’alzata di spalle formulò la
domanda.
«Sono i dati di comunicazione di quella nave» rispose lei. Era
sempre ‘quella nave’, notò Miller. Allo stesso modo in cui la gente
chiamava la scena di un crimine particolarmente efferato ‘quel
posto’. «È tutto su raggio diretto, per cui credevo che non sarebbe
stato così difficile triangolarli, ma...»
«Non è così?»
Naomi inarcò le sopracciglia e sospirò.
«Ho calcolato un po’ di orbite» disse. «Ma non c’è niente che
corrisponda. Potrebbero esserci dei droni trasmettitori, però. Mirror
mobili su cui era calibrato il sistema della nave per poter inviare
messaggi alla stazione reale. O a un altro drone, e poi ancora alla
stazione. Chi può dirlo?»
«Da Eros arrivavano pacchetti dati?»
«Penso di sì,» rispose Naomi «ma anche in quel caso non credo
che sarebbe più facile.»
«I vostri amici dell’APE non possono fare niente?» chiese Miller.
«Dispongono di molta più potenza di calcolo di qualsiasi palmare.
Probabilmente avranno anche una mappa migliore di attività della
Fascia.»
«Probabilmente, sì.»
Miller non sapeva dire se Naomi non si fidasse di questo Fred a cui
li aveva consegnati Holden, o se avesse ancora bisogno di sentire
che l’indagine fosse rimasta sua. Pensò se fosse il caso di dirle di
lasciar stare per un po’, per dare un po’ di spazio agli altri, ma non
riteneva di avere l’autorità morale necessaria a sostenere quella
richiesta.
«Che c’è?» chiese Naomi, con un sorriso incerto sulle labbra.
Miller sbatté le palpebre.
«Stavi sorridendo» disse Naomi. «Non credo di averti mai visto
sorridere prima d’ora. A parte quando c’è qualcosa di buffo,
intendo.»
«Stavo soltanto ripensando a una cosa che mi disse un mio
partner sul fatto di lasciar andare un caso quando ti viene tolto di
mano.»
«Che ti disse?»
«Che è come andare in bagno e cacare a metà» rispose Miller.
«Un poeta, questo tuo amico.»
«Era un tipo a posto, per essere un terrestre» disse Miller, e un
pensiero gli solleticò un angolo della mente. Poi, un attimo dopo,
aggiunse: «Ah, Cristo. Credo di aver trovato qualcosa.»
Havelock lo incontrò su un sito di servizio criptato, ospitato su un
cluster server di Ganimede. La latenza impediva ogni tipo di botta e
risposta convenzionale. Era più come una serie di annotazioni
sciolte, ma servì allo scopo. L’attesa rendeva Miller nervoso. Se ne
stava seduto, con il terminale impostato per aggiornarsi ogni tre
secondi.
«Gradisce qualcosa da bere?» chiese la donna. «Un altro
bourbon?»
«Sarebbe perfetto» replicò Miller, controllando se Havelock avesse
già risposto. Niente.
Come il ponte di osservazione, anche il bar dava sulla Nauvoo,
benché da un’angolazione leggermente diversa. La grande nave
sembrava accorciata, e archi guizzanti di energia si accendevano nei
punti in cui lo strato di ceramica veniva temperato al calor bianco.
Una manica di fanatici religiosi si sarebbe caricata su quell’immensa
nave, quel piccolo mondo autosufficiente, lanciandosi nell’oscurità
tra le stelle. In essa sarebbero nate e morte intere generazioni e, se
fossero stati tanto improbabilmente fortunati da trovare un pianeta su
cui valesse la pena vivere alla fine del viaggio, coloro che sarebbero
sbarcati non avrebbero conosciuto mai né la Terra, né Marte, né la
Fascia. Sarebbero stati già alieni. E cosa sarebbe successo se
chiunque avesse creato la protomolecola fosse stato là ad
accoglierli?
Sarebbero morti tutti come Julie?
C’era vita, là fuori. Ormai ne avevano la prova. E quella prova era
giunta sotto forma di arma, per cui che cosa gli diceva tutto questo?
A parte il fatto che i mormoni meritassero forse un piccolo
avvertimento su ciò a cui stavano facendo andare incontro i loro
pronipoti...
Rise di sé quando si rese conto che era esattamente ciò che
avrebbe detto Holden.
Il bourbon arrivò nello stesso istante in cui il suo terminale trillò. Il
file video aveva un canale criptato che impiegò quasi un minuto a
spacchettarsi. Già quello era un buon segno.
Il file si aprì e sullo schermo comparve un Havelock sorridente. Era
molto più in forma rispetto a quando viveva su Ceres, e si vedeva
chiaramente dalla sua mascella. Aveva la pelle più scura, ma Miller
non sapeva se si trattasse dell’uso di una semplice crema, o se al
suo vecchio collega piacesse andarsene in giro a passeggiare sotto
un sole finto. Comunque fosse, non aveva importanza: il terrestre
sembrava prospero e in forma.
«Ehi, amico» disse Havelock. «È bello avere tue notizie. Dopo
quello che è successo con Shaddid e l’APE, avevo paura che ci
saremmo trovati in opposte fazioni. Sono felice che te ne sia andato
di là prima che la merda abbia cominciato a schizzare dappertutto.
«Sì, sono ancora con la Protogen, e devo ammetterlo: questi tizi
sono un po’ spaventosi. Voglio dire, ho lavorato per tanti anni nel
campo della sicurezza a contratto, e riesco a riconoscere facilmente
quando qualcuno è tosto. Questi tizi non sono poliziotti. Sono militari.
Capito che intendo?
«Ufficialmente non so un cazzo di nessuna stazione della Fascia,
ma sai com’è. Vengo dalla Terra. Ci sono un sacco di tizi che mi
rompono le palle per Ceres. Per il lavoro con le teste vuote. Robe
così. Ma, per il modo in cui vanno le cose qui, è meglio stare dalla
parte buona dei cattivi. È quel genere di lavoro.»
C’era una sfumatura di autogiustificazione nella sua espressione.
Miller capì. Lavorare in certe compagnie era un po’ come andare in
carcere. Dovevi adottare il modo di vedere di chi avevi intorno. Un
cinturiano poteva anche essere assunto, ma non si sarebbe mai
integrato veramente. Come su Ceres, ma al contrario. Se Havelock
aveva legato con un mucchio di mercenari dei pianeti interni che
passavano le serate libere a pestare cinturiani fuori dai bar,
pazienza.
Aver fatto amicizia però non significava che era diventato uno di
loro.
«Allora. In via del tutto non ufficiale: sì, c’è una stazione di servizi
segreti sotto copertura nella Fascia. Non ho sentito dire che si
chiama Thoth, ma potrebbe essere. Una sorta di spaventoso
laboratorio di ricerca approfondita e di sviluppo. Un gruppo di
scienziati cazzuti, ma un posto decisamente piccolo. Credo che
‘discreto’ sia la parola giusta. Un sacco di dispositivi di difesa
automatici, ma poco personale di sicurezza.
«Non ho bisogno di dirti che far trapelare le coordinate
significherebbe farmi fare il culo, da queste parti. Per cui cancella il
file, quando avrai finito, e non parliamoci più per molto, molto
tempo.»
Il file era minuscolo. Tre righe di annotazioni orbitali in testo
semplice. Miller lo spostò nel suo terminale palmare e lo eliminò dal
server di Ganimede. Il bourbon gli era rimasto in mano; lo scolò d’un
fiato. Il calore nel suo petto poteva essere l’alcol, o forse era un
sentimento di vittoria.
Accese la telecamera del terminale.
«Grazie. Ti devo un favore. Eccoti una parte del compenso: hai
presente quello che è successo su Eros? La Protogen c’è dentro fino
al collo, ed è una cosa grossa. Se hai modo di annullare il tuo
contratto con loro, fallo. E se cercano di assegnarti alla stazione di
operazioni sotto copertura, non andare.»
Miller si accigliò. La triste verità era che Havelock era
probabilmente l’ultimo vero partner che avesse avuto. L’unico che
l’aveva visto come un suo pari. Come il tipo d’ispettore che Miller si
era immaginato di essere.
«Prenditi cura di te, amico» disse, poi chiuse il file, lo codificò e lo
inviò. Non avrebbe mai più parlato con Havelock; se lo sentiva nelle
ossa.
Fece richiesta di connessione con Holden. Lo schermo fu riempito
dal viso ampio, affascinante e vagamente ingenuo del capitano.
«Miller» disse Holden. «Va tutto bene?»
«Sì. Alla grande. Ma ho bisogno di parlare con quel tuo Fred. Puoi
organizzarmi un incontro?»
Holden si accigliò mentre annuiva.
«Certo. Che succede?»
«So dove si trova la Stazione di Thoth» disse Miller.
«Sai cosa?»
Miller annuì.
«Dove diavolo hai preso l’informazione?»
Miller fece un ghigno. «Se te lo dicessi e si dovesse sapere in giro,
un brav’uomo ci rimetterebbe la pelle» rispose. «Capito come
funziona?»
Mentre aspettava Fred insieme a Holden e Naomi, Miller fu colpito
nel rendersi conto che conosceva un sacco di tizi provenienti dai
pianeti interni che combattevano contro questi stessi pianeti. O,
perlomeno, non per la loro causa. Fred, che da quanto aveva capito
era un pezzo grosso dell’APE. Havelock. I tre quarti dell’equipaggio
della Rocinante. Juliette Mao.
Non era quel che si sarebbe aspettato. Ma forse era stato miope.
Aveva visto le cose alla stessa stregua di Shaddid e della Protogen.
C’erano due fazioni in lotta, questo era vero, ma non si trattava dei
pianeti interni contro i cinturiani. Si trattava di gente che pensava
fosse una buona idea ammazzare quelli che apparivano o agivano
diversamente da loro, contro altra gente che non lo pensava.
O forse anche quella era un’analisi che lasciava il tempo che
trovava. Perché, se si fosse trovato ad avere l’opportunità di gettare
lo scienziato del videomessaggio della Protogen, il consiglio
direttivo, e chiunque fosse questo pezzo di merda di nome Dresden
fuori da un portellone pressurizzato, Miller sapeva che si sarebbe
sentito in colpa per circa mezzo secondo, dopo averli espulsi tutti nel
vuoto. Non era certo dalla parte dei buoni.
«Signor Miller. Che cosa posso fare per lei?»
Fred. Il terrestre dell’APE. Indossava una camicia blu e un bel paio
di pantaloni. Sarebbe potuto essere un architetto o un
amministratore di medio livello per qualunque compagnia
rispettabile. Miller cercò d’immaginarselo mentre coordinava una
battaglia.
«Può convincermi che dispone realmente di quanto serve per
distruggere la stazione della Protogen» disse Miller. «Poi io le dirò
dove si trova.»
Fred inarcò impercettibilmente le sopracciglia.
«Venga nel mio ufficio» disse.
Miller lo seguì, imitato da Holden e Naomi. Quando le porte si
chiusero alle loro spalle, Fred fu il primo a parlare.
«Non sono sicuro di aver capito che cosa vorrebbe da me,
esattamente. Non ho l’abitudine di rendere pubblici i miei piani di
battaglia.»
«Stiamo parlando di radere al suolo una stazione» rispose Miller.
«Un posto con un sistema di difesa dannatamente efficiente e forse
con altre navi simili a quella che ha distrutto la Canterbury. Non
intendo mancarle di rispetto, ma mi pare un incarico piuttosto
impegnativo per una manica di principianti come quelli dell’APE.»
«Ehm, Miller...» disse Holden. Miller alzò una mano,
interrompendolo.
«Posso darle le coordinate della Stazione di Thoth» rispose Miller.
«Ma se lo faccio e salta fuori che non avete sufficienti forze per
andare fino in fondo, allora un sacco di persone moriranno senza
che si risolva niente. Questo non lo accetterei.»
Fred inclinò la testa, come un cane che sente un rumore poco
familiare. Naomi e Holden si scambiarono un’occhiata che Miller non
riuscì a decifrare.
«Questa è una guerra» disse Miller, scaldandosi per l’argomento.
«Ho già avuto modo di lavorare con l’APE prima d’ora e, francamente,
siete molto più portati per stupide azioni di guerriglia che per
coordinare una battaglia vera. Metà delle persone che parlano a
vostro nome sono solo degli svitati con una radio sottomano. Vedo
che lei ha un sacco di risorse. Un bell’ufficio. Quello che non vedo,
quello che ho bisogno di vedere, è che lei disponga di quel che
serve per far fuori quei bastardi. Impossessarsi di una stazione non
è un gioco. Non m’importa quante simulazioni abbiate fatto. Ora è
tutto vero. Se devo aiutarvi, ho bisogno di sapere che siete
all’altezza della situazione.»
Ci fu un lungo silenzio.
«Miller?» disse Naomi. «Tu lo sai chi è Fred, vero?»
«Il portavoce dell’APE su Tycho» rispose Miller. «La cosa non
significa granché, ai miei occhi.»
«È Fred Johnson» disse Holden.
Le sopracciglia di Fred s’inarcarono di un altro mezzo millimetro.
Miller si accigliò e incrociò le braccia.
«Il colonnello Frederick Lucius Johnson» aggiunse Naomi, per
chiarire.
Miller sbatté le palpebre. «Il Macellaio di Anderson?» chiese.
«Proprio lui» disse Fred. «Ho parlato con il consiglio generale
dell’APE. Ho una nave cargo con truppe a sufficienza per tenere a
bada la stazione. Il sostegno aereo sarà un bombardiere marziano
all’avanguardia.»
«La Roci?» domandò Miller.
«La Rocinante» annuì Fred. «E, che lei ci creda o meno, so che
cosa sto facendo.»
Miller si guardò la punta delle scarpe, poi alzò gli occhi verso
Holden.
«Quel Fred Johnson?» chiese.
«Pensavo lo sapessi» rispose Holden.
«Be’... mi sento come un vero idiota, ora» riconobbe Miller.
«Passerà» disse Fred. «C’è nient’altro che voleva pretendere?»
«No» rispose Miller. Poi aggiunse: «Anzi, sì. Voglio far parte
dell’assalto via terra. Quando faremo prigioniero l’equipaggio di
quella stazione, voglio essere presente.»
«Ne è sicuro?» domandò Fred. «‘Impossessarsi di una stazione
non è un gioco.’ Che cosa le fa pensare di avere quel che serve per
essere all’altezza della situazione?»
Miller si strinse nelle spalle.
«Una delle cose che servono sono le coordinate» rispose. «Quelle
le ho.»
Fred si mise a ridere. «Signor Miller, se lei ha voglia di andare su
quella stazione a rischiare di farsi ammazzare insieme a noi da
qualsiasi cosa ci stia aspettando laggiù, non sarò certo io a mettermi
di traverso.»
«Grazie» rispose Miller. Tirò fuori il terminale e inviò le coordinate
in testo semplice a Fred. «Ecco fatto. La mia fonte è solida, ma non
aveva accesso a informazioni di prima mano. Dovremmo aver
conferma dei dati, prima di procedere.»
«Non sono un principiante» disse il colonnello Fred Johnson,
fissando il file. Miller annuì, si sistemò il cappello e uscì dall’ufficio.
Naomi e Holden gli si affiancarono. Quando raggiunsero il corridoio
pubblico, ampio e pulito, Miller guardò alla sua destra, incontrando
gli occhi di Holden.
«Davvero, ero convinto che lo sapessi» dichiarò il capitano.
Il messaggio arrivò otto giorni dopo. La nave cargo Guy Molinari
era attraccata carica di soldati dell’APE. Le coordinate di Havelock
erano state verificate. Qualcosa era là fuori, questo era sicuro, e
sembrava raccogliere i dati a raggio diretto da Eros. Se Miller voleva
far parte dell’operazione, era venuto il momento di sloggiare.
Si sedette nel suo alloggio sulla Rocinante per quella che era
probabilmente l’ultima volta. Si accorse con un sussulto di emozione,
in parte sorpresa e in parte dispiacere, che quel posto gli sarebbe
mancato. Holden, nonostante tutte le sue colpe e le rimostranze che
aveva suscitato in lui, era un tipo a posto. Era sempre intento a fare
il passo più lungo della gamba ed era consapevole solo in parte di
questo fatto, ma a Miller veniva in mente più di una persona che
corrispondeva a quella descrizione. Gli sarebbe mancata la parlata
strana e artificiosa di Alex e la volgarità noncurante di Amos. E si
sarebbe chiesto se e come Naomi avrebbe risolto le cose con il suo
capitano.
Lasciare quel luogo gli riportò alla mente cose che già conosceva:
che non sapeva cosa gli avrebbe riservato il futuro, che non aveva
molti soldi e che, nonostante fosse sicuro di riuscire a tornare sano e
salvo dalla Stazione di Thoth, dove andare dopo, e come riuscire a
farlo sarebbero stati i risultati dell’improvvisazione. Magari avrebbe
trovato un’altra nave su cui imbarcarsi. Magari avrebbe dovuto
accettare un altro contratto e mettere da parte un po’ di soldi per
coprire le sue spese mediche.
Controllò il caricatore della pistola. Ammucchiò i vestiti di ricambio
nella piccola borsa rovinata che si era portato appresso sulla nave
passeggeri da Ceres. Tutto ciò che possedeva ci entrava ancora
perfettamente.
Spense le luci e si addentrò lungo il breve corridoio che portava
all’ascensore. Holden era nella cambusa, in preda al nervosismo.
L’ansia per la battaglia imminente gli si mostrava già con chiarezza
agli angoli degli occhi.
«Be’» disse Miller. «Allora si va, eh?»
«Già» rispose Holden.
«È stata una bella corsa, fin qui» riconobbe Miller. «Non posso dire
che sia stata sempre piacevole, ma...»
«Già.»
«Di’ agli altri che li saluto» disse Miller.
«Sarà fatto» replicò Holden. Poi, mentre Miller lo superava per
entrare nell’ascensore, aggiunse: «E quindi, posto che riusciamo a
uscire vivi da tutto questo, dove ci ritroveremo?»
Miller si voltò.
«Non capisco» disse.
«Sì, lo so. Senti, mi fido di Fred, o non sarei venuto qui. Credo che
sia onesto, e che farà la cosa giusta con noi. Questo però non
significa che mi fidi di tutta l’APE. Dopo aver risolto questa faccenda,
voglio che l’intero equipaggio torni insieme. Nel caso ci fosse
bisogno di andarsene rapidamente.»
Qualcosa di doloroso colpì Miller sotto lo sterno. Non era una fitta
acuta, solo un dolore sordo. Si sentì stringere la gola. Tossì per
schiarirsi la voce.
«Mi farò sentire non appena avremo requisito la base» disse Miller.
«Okay, ma non metterci troppo. Se la Stazione di Thoth dovesse
avere ancora un bordello rimasto integro, avrò bisogno di aiuto per
strappare via Amos da lì.»
Miller aprì la bocca, la richiuse, poi provò di nuovo a parlare.
«Ricevuto, capitano» rispose, costringendosi a mantenere un tono
leggero.
«Fa’ attenzione» disse Holden.
Miller se ne andò, fermandosi nel passaggio tra la nave e la
stazione finché non fu certo di aver smesso di piangere. Poi si
diresse verso la nave cargo e la missione di assalto.
39

Holden

La Rocinante capitombolava nello spazio come un oggetto morto,


roteando sui tre assi. Con il reattore spento e tutte le cabine svuotate
di ossigeno, non irradiava né calore, né rumore elettromagnetico. Se
non fosse stato per il fatto che si precipitava più rapida di una
fucilata verso la Stazione di Thoth, la nave sarebbe stata
indistinguibile dagli asteroidi della Fascia. A quasi cinquecentomila
chilometri più indietro, la Guy Molinari gridava l’innocenza della Roci
a chiunque fosse in ascolto, impostando i suoi motori in una lunga,
lenta decelerazione.
Con la radio spenta, Holden non poteva udire quel che
trasmettevano, ma aveva aiutato a scrivere il messaggio di allarme,
per cui lo sentì comunque risuonare nella propria mente. Attenzione!
Sgancio accidentale di un container di grosse dimensioni per via di
una detonazione sulla nave cargo Guy Molinari. Allarme per tutte le
navi sulla sua rotta: il container sta viaggiando ad alta velocità e
senza controllo indipendente. Attenzione!
Si era discusso sul fatto di non trasmetterlo per niente. Poiché
Thoth era una stazione segreta, era probabile che usassero soltanto
sensori passivi. Effettuare scansioni in ogni direzione con radar o
lidar li avrebbe illuminati come un albero di Natale. Era possibile che,
con il reattore spento, la Rocinante riuscisse ad avvicinarsi di
soppiatto alla stazione senza farsi notare. Ma Fred aveva ritenuto
che, se fossero riusciti a individuarli, sarebbero risultati
sufficientemente sospetti da scatenare un contrattacco immediato.
Per cui, invece di giocarsela con cautela, avevano deciso di entrare
a gamba tesa e di contare sull’aiuto della confusione.
Con un po’ di fortuna, il sistema di sicurezza della Stazione di
Thoth li avrebbe individuati e avrebbe visto che in effetti si trattava
proprio di un grosso pezzo di metallo in volo su un vettore
immutabile e apparentemente mancante di sostegno vitale,
ignorandoli abbastanza a lungo da lasciarli avvicinare. Da lontano, i
sistemi di difesa della stazione sarebbero potuti essere troppo
potenti per la Roci. Ma da vicino, quella piccola, maneggevole nave
poteva schizzare a gran velocità per la stazione e farla a pezzi.
L’unica funzione di quella facciata era far guadagnare loro tempo
prezioso mentre il gruppo di sicurezza di Thoth cercava di capire che
cosa stesse succedendo.
Fred, e per estensione tutti coloro che erano coinvolti nell’assalto,
aveva scommesso che la stazione non avrebbe aperto il fuoco
finché non fossero stati assolutamente certi che si trattava di un
attacco. La Protogen si era data un sacco da fare per nascondere il
suo laboratorio di ricerca nella Fascia. Non appena avessero
lanciato il primo missile, la loro segretezza sarebbe andata persa per
sempre. Con la guerra in corso, tutti gli osservatori avrebbero
segnalato le tracce dei missili a fusione e si sarebbero chiesti che
cosa stesse accadendo da quelle parti. Usare le armi sarebbe stata
l’ultima risorsa della Stazione di Thoth.
In teoria.
Seduto da solo all’interno della piccola bolla d’aria contenuta nel
suo casco, Holden sapeva che, se anche avessero sbagliato i
calcoli, non se ne sarebbe nemmeno accorto. La Roci volava al buio.
Tutti i contatti radio erano inattivi. Alex aveva un orologio meccanico
con le lancette fosforescenti e aveva memorizzato una scaletta
operativa calibrata al secondo. Non potevano superare Thoth in quel
campo, per cui avevano scelto di procedere con il minor ausilio
tecnologico possibile. Se le loro previsioni fossero state sbagliate e
la stazione avesse sparato loro addosso, la Roci sarebbe stata
disintegrata senza preavviso. Una volta Holden era stato con una
buddista che diceva che la morte era semplicemente un diverso
stato dell’esistenza e che l’unica cosa di cui la gente aveva paura
era l’ignoto oltre quel momento di transizione. La morte senza
preavviso era preferibile, visto che rimuoveva ogni paura.
Holden sentiva che ora avrebbe avuto di che controbattere.
Per tenere la mente occupata, ripassò nuovamente il piano.
Quando fossero giunti abbastanza vicini da aprire il fuoco contro la
Stazione di Thoth, Alex avrebbe acceso il reattore ed eseguito una
manovra di arresto a quasi dieci g. La Guy Molinari avrebbe
cominciato a trasmettere interferenze radio e laser per confondere
l’obiettivo per quei pochi istanti necessari alla Roci per passare in
assetto offensivo. La Roci avrebbe impegnato le difese nemiche,
mettendo fuori uso qualsiasi postazione che avrebbe potuto
danneggiare la Molinari, mentre la nave cargo si avvicinava per far
breccia nello scafo della stazione e far scendere le sue truppe
d’assalto.
C’erano un sacco di cose che potevano andare storte in quel
piano.
Se la stazione avesse deciso di aprire il fuoco preventivamente,
tanto per stare sicura, la Roci sarebbe stata distrutta prima ancora di
poter dare battaglia. Se il sistema nemico di intercettazione fosse
riuscito a scansare le interferenze radio e laser della Molinari,
avrebbe potuto aprire il fuoco mentre la Roci si stava ancora
posizionando. E, quand’anche ogni cosa avesse funzionato alla
perfezione, c’era ancora la fase di assalto, in cui le truppe dovevano
farsi strada all’interno della stazione e combattere corridoio per
corridoio fino al nucleo centrale per prendere il controllo. Perfino i
migliori marine dei pianeti interni erano terrorizzati dagli assalti in
breccia, e a ragione. Muoversi attraverso vie metalliche sconosciute
senza alcuna copertura mentre il nemico poteva tenderti imboscate
a ogni intersezione era un ottimo modo per farsi ammazzare in
massa. Nelle simulazioni di addestramento, durante i suoi giorni
nella marina terrestre, Holden non aveva mai visto i marine riuscire a
ottenere perdite inferiori al sessanta percento dell’effettivo. E lì con
loro non c’erano marine dei pianeti interni con anni di addestramento
ed equipaggiamento all’avanguardia. Erano cowboy dell’APE armati
con qualsiasi tipo di equipaggiamento fossero riusciti a trovare
all’ultimo minuto.
Anche così, non era quello che lo preoccupava davvero.
Ciò che preoccupava veramente Holden era quella grossa area,
leggermente più calda dello spazio circostante, sospesa ad appena
qualche decina di metri sopra la Stazione di Thoth. La Molinari
l’aveva individuata e li aveva avvertiti prima di sganciarli. Avendo già
visto le navi mimetiche, nessuno a bordo della Roci nutriva dubbi sul
fatto che si trattasse di una di esse.
Combattere contro la stazione sarebbe stato già abbastanza
difficile così com’era, anche a una distanza ravvicinata, condizione in
cui la maggior parte dei suoi vantaggi sarebbero venuti meno. Ma
Holden non aveva alcuna voglia di doversi mettere anche a schivare
missili che provenivano da una fregata da guerra. Alex gli aveva
assicurato che, se fossero riusciti ad avvicinarsi abbastanza alla
stazione, poteva darsi che la fregata avrebbe rinunciato a far fuoco
per paura di danneggiare Thoth, e che la maggior manovrabilità
della Roci li avrebbe messi più che in condizione di affrontare ad
armi pari quella nave più grossa e pesantemente armata. Le fregate
mimetiche erano un’arma strategica, aveva detto, non tattica. Holden
aveva evitato di replicare: ‘E allora perché ne tengono una lì?’
Holden si spostò per dare un’occhiata al proprio polso, poi sbuffò
per la frustrazione nel buio assoluto del ponte operativo. Anche la
sua tuta era inattiva, tanto i cronometri quanto le luci. L’unico
sistema acceso nella tuta era quello di circolazione dell’aria, che era
strettamente meccanico. Se ci fosse stato un guasto, non avrebbe
ricevuto alcun segnale di avvertimento; sarebbe semplicemente
morto per asfissia.
Si guardò intorno nella sala buia e disse: «Oh, andiamo... Quanto
manca ancora?»
Come in risposta alle sue parole, le luci cominciarono ad
accendersi in tutta la cabina. Ci fu un crepitio nel suo casco; poi la
voce strascinata di Alex disse: «Comunicazione interna attivata.»
Holden cominciò ad azionare tutti gli interruttori per riportare in
linea il resto del sistema.
«Reattore» disse.
«Due minuti» rispose Amos dalla sala macchine.
«Computer principale.»
«Trenta secondi al riavvio» rispose Naomi, facendogli un saluto
con la mano dall’altra parte della plancia. Le luci erano sufficienti per
avere un contatto visivo.
«Armamenti?»
Alex fece una risata di puro entusiasmo nella linea generale.
«Gli armamenti si stanno caricando nel sistema» disse. «Non
appena Naomi mi darà la composizione del bersaglio, saremo
carichi e pronti a ballare.»
Sentirli tutti pronti e reattivi dopo la lunga e silenziosa oscurità della
traiettoria di avvicinamento lo rassicurò. Essere in grado di guardare
dall’altra parte della sala e vedere Naomi impegnata nelle sue
mansioni alleviò un’angoscia che non si era nemmeno reso conto di
avere addosso.
«Il sistema di puntamento dovrebbe essere attivo» disse Naomi.
«Ricevuto» replicò Alex. «Mirino attivo. Radar attivo. Lidar attivo...
Merda. Naomi, lo vedi anche tu?»
«Lo vedo» confermò Naomi. «Capitano, rilevo delle tracce di
motori provenienti dalla nave mimetica. Anche loro si stanno
accendendo.»
«C’era da aspettarselo» osservò Holden. «Rimanete ai vostri
posti.»
«Un minuto» disse Alex.
Holden accese la sua console e richiamò il display tattico. Nel
mirino, la Stazione di Thoth ruotava in un cerchio pigro mentre la
zona leggermente più calda sopra di essa si scaldò abbastanza da
rivelare la sagoma sbozzata di uno scafo.
«Alex, non somiglia all’ultima fregata che abbiamo visto» disse
Holden. «La Roci l’ha già riconosciuta?»
«Non ancora, cap, ma ci sta lavorando.»
«Trenta secondi» disse Amos.
«Stiamo ricevendo scansioni lidar dalla stazione» intervenne
Naomi. «Trasmetto interferenze.»
Holden osservò sul suo schermo gli sforzi di Naomi, che cercava di
avvicinarsi alla lunghezza d’onda che la stazione stava impiegando
per individuarli, cominciando a bersagliarla con il loro sistema laser
per confondere i ritorni.
«Quindici secondi» disse Amos.
«Okay, allacciatevi le cinture, ragazzi» ordinò Alex. «Arriva la
dose.»
Prima ancora che Alex finisse di parlare, Holden sentì una dozzina
di punture mentre il sedile lo riempiva di droghe per mantenerlo in
vita durante l’imminente decelerazione. Sentì la pelle tesa e bollente,
e i testicoli gli risalirono nello stomaco. Alex sembrava parlare al
rallentatore.
«Cinque... quattro... tre... due...»
Non disse mai ‘uno’. Mille chili gravarono improvvisamente sul
petto di Holden e tuonarono come un gigante che scoppiava a ridere
mentre i motori della Roci attivavano il freno a dieci g. Holden ebbe
l’impressione di riuscire a sentire i propri polmoni che entravano in
attrito con l’interno della gabbia toracica mentre il petto faceva del
suo meglio per collassare. Ma il sedile lo avvolse in un morbido
abbraccio di gel e le droghe mantennero il cuore in battito e il
cervello in funzione. Non svenne. Se quella manovra a elevati g
l’avesse ucciso, sarebbe stato ben sveglio e lucido durante tutto
l’evento.
Il suo casco si riempì di gorgoglii e respiri affannosi, dei quali
soltanto alcuni erano suoi. Amos riuscì a proferire soltanto mezza
imprecazione prima che la mascella gli si richiudesse a forza.
Holden non udì la Roci che strepitava per lo sforzo di quel cambio di
direzione, ma riusciva a sentirla attraverso il sedile. Era tosta. Più
tosta di tutti loro. Sarebbero tutti morti da un pezzo, prima che la
nave avesse raggiunto un numero di g sufficiente a danneggiarla sul
serio.
Il sollievo giunse così immediato che Holden per poco non vomitò.
Le droghe nel suo sistema glielo impedirono. Fece un respiro
profondo e la cartilagine dello sterno tornò al proprio posto con uno
schiocco doloroso.
«A rapporto» mormorò. Aveva la mascella dolorante.
«Abbiamo il loro sistema di comunicazione nel mirino» rispose
subito Alex. Il sistema di comunicazione e scansione della Stazione
di Thoth era il primo bersaglio della loro lista prioritaria.
«Qui tutto a posto» disse Amos da sotto.
«Signore» esclamò Naomi, con voce allarmata.
«Merda, lo vedo anch’io» disse Alex.
Holden ordinò alla sua console di emulare quella di Naomi, per
poter vedere quello che aveva visto lei. Sullo schermo, la Roci aveva
reso evidente perché non era in grado di identificare la nave
mimetica.
Invece di una sola fregata da guerra, grossa e impacciata, attorno
a cui potevano danzare e che potevano fare a pezzi a distanza
ravvicinata, c’erano due navi. Altrimenti sarebbe stato troppo facile.
Si trattava di due navi molto più piccole, stazionate vicinissime per
ingannare eventuali sensori nemici. E ora si stavano attivando
entrambe, dividendosi.
Va bene, pensò Holden. Nuovo piano.
«Alex, attira la loro attenzione» disse. «Non possiamo permettere
che vadano addosso alla Molinari.»
«Ricevuto» rispose Alex. «Faccio fuoco.»
Holden sentì la Roci vibrare quando Alex sparò un missile contro
una delle navi. I due piccoli veicoli stavano rapidamente modificando
velocità e assetto, e il missile era stato sparato frettolosamente e da
una cattiva angolazione. Non sarebbe andato a segno, ma la Roci
sarebbe stata sui loro radar come sicura minaccia. E questo era un
bene.
Entrambe le navi nemiche schizzarono via a gran velocità in
direzioni opposte, rilasciando scarti e interferenze laser dietro di loro.
Il missile esitò nella sua traiettoria, poi procedette dritto in una
direzione a caso.
«Naomi, Alex, avete idea di cosa abbiamo di fronte?» chiese
Holden.
«La Roci non le ha ancora riconosciute, signore» rispose Naomi.
«È un nuovo tipo di scafo» disse Alex, sovrastandola. «Ma volano
come intercettori veloci. Immagino che abbiano un paio di missili in
pancia, e un cannone elettromagnetico montato sulla chiglia.»
Più veloci e manovrabili della Roci, ma in grado di sparare in
un’unica direzione.
«Alex, portaci a...» L’ordine di Holden fu interrotto quando la
Rocinante sussultò e sbarellò di lato, scagliandolo contro le cinture
del sedile con tanta forza da incrinargli le costole.
«Ci hanno colpito!» gridarono Amos e Alex, quasi all’unisono.
«La stazione ci ha colpito con una specie di cannone ad alto
impatto» precisò Naomi.
«Danni?» chiese Holden.
«È entrato ed è uscito, cap» rispose Amos. «La cambusa e
l’officina. Ho un po’ di giallo sullo schermo, ma niente che ci possa
far fuori.»
‘Niente che ci possa far fuori’ era una buona notizia, ma Holden
sentì una fitta di dispiacere per la sua macchina del caffè.
«Alex» disse Holden. «Lascia perdere le navi piccole, distruggi
quel sistema di comunicazione.»
«Ricevuto» rispose Alex, e la Roci si spostò di lato mentre Alex
cambiava rotta per cominciare a bombardare la stazione.
«Naomi, non appena uno di quei caccia ci viene addosso per
attaccarci, sparagli il laser in faccia a piena potenza e comincia a
rilasciare rumore bianco.»
«Sì, signore» rispose lei. Forse il laser sarebbe bastato a
incasinare il suo sistema di puntamento per qualche secondo.
«La stazione sta aprendo con i cannoni di difesa ravvicinata» disse
Alex. «Potrebbe esserci qualche scossone.»
Holden escluse la replica dello schermo di Naomi e passò a quella
di Alex. Il suo pannello si riempì di migliaia di puntini luminosi in
rapido movimento, con la Stazione di Thoth in rotazione sullo
sfondo. Il computer di difesa della Roci evidenziava il fuoco nemico
in arrivo con delle schegge luminose sul visore di Alex. Si muoveva
a velocità elevatissima, ma almeno, con il sistema che segnalava
con chiarezza ogni singolo proiettile, il pilota era in grado di vedere
da dove stesse arrivando il fuoco nemico e in che direzione
viaggiasse. Alex reagì a quella minaccia con consumata capacità,
manovrando la nave e allontanandosi dalla direzione di tiro dei
cannoni di difesa ravvicinata con movimenti rapidi e quasi casuali,
che costringevano il puntatore automatico del sistema nemico ad
aggiustare in continuazione la mira.
A Holden sembrava come una specie di gioco. Grumi di luce
incredibilmente veloci risalivano a catena dalla stazione come
lunghe collane sottili di perle. La nave si muoveva irrequieta,
trovando il suo percorso tra le sfilze di proiettili e spostandosi in un
nuovo spazio libero prima che potessero reagire per colpirla. Holden
sapeva che ogni grumo di luce rappresentava un pezzo di acciaio al
tungsteno rivestito in teflon con un nucleo di uranio impoverito che
andava a diversi chilometri al secondo. Se Alex avesse perso la
partita, l’avrebbero saputo quando la Rocinante sarebbe ormai stata
fatta a pezzi.
Holden per poco non si fece venire un attacco di cuore quando
Amos esclamò: «Cazzo, cap, abbiamo una perdita. Tre propulsori di
babordo stanno perdendo pressione idrica. Vado a sistemarli.»
«Ricevuto, Amos. Fa’ in fretta» rispose Holden.
«Tieni duro là sotto, Amos» disse Naomi.
Il meccanico grugnì.
Holden osservò la Stazione di Thoth, inquadrata nel mirino,
diventare sempre più grande sulla sua console. Da qualche parte,
alle loro spalle, i due caccia stavano probabilmente per arrivargli
addosso. Quel pensiero gli fece venire un prurito alla nuca, ma cercò
di mantenere la concentrazione. La Roci non aveva abbastanza
missili per permettere ad Alex di sparare un colpo dopo l’altro alla
stazione da così lontano e sperare che almeno uno riuscisse a
superare il fuoco di sbarramento difensivo. Alex doveva prima
portarli abbastanza vicino da non lasciare alla contraerea la
possibilità di abbattere i missili.
Una luce blu apparve sul visore, circondando una porzione del
corpo centrale della stazione. La porzione evidenziata si espanse in
una sottofinestra più piccola. Holden riuscì a distinguere le
paraboliche e le antenne che costituivano il sistema di
comunicazione e puntamento nemico.
«Fuoco» disse Alex, e la Roci vibrò nel rilasciare il suo secondo
missile.
Holden fu scosso violentemente tra le cinture e sbattuto sul sedile
quando Alex guidò la Roci in una serie di manovre improvvise e poi
aprì a manetta per evadere dall’ultima raffica di fuoco difensivo.
Holden osservò il suo schermo mentre il punto rosso del loro missile
si precipitava verso la stazione e colpiva il sistema di
comunicazione. Un lampo sbiancò completamente il suo schermo
per un secondo, poi svanì. Il fuoco di copertura proveniente dalla
stazione cessò quasi immediatamente.
«Bel col...» Holden fu interrotto dal grido di Naomi. «Intercettore
uno ha sparato! Abbiamo due missili in rapido avvicinamento!»
Holden richiamò la schermata di Naomi e vide il sistema di
monitoraggio che segnalava entrambi i caccia e due oggetti molto
più piccoli e veloci che si dirigevano verso la Roci in rotta di
collisione.
«Alex!» gridò Holden.
«Tranquillo, capo. Vado in assetto difensivo.»
Holden fu di nuovo schiacciato sul suo sedile mentre il pilota
aumentava la velocità. Il ronzio costante del motore sembrò
incepparsi per un istante, e Holden si rese conto che stava sentendo
il fuoco continuato dei loro cannoni di difesa ravvicinata che
cercavano di abbattere i missili sparati contro di loro.
«Ah, cazzo» disse Amos, con fare colloquiale.
«Dove sei?» chiese Holden, poi richiamò la visuale della
telecamera nella tuta del meccanico sul suo schermo. Amos era in
un angusto cunicolo fiocamente illuminato, pieno di tubi e
condutture. Il che significava che si trovava tra lo scafo interno e
quello esterno. Di fronte a lui, una sezione di canalizzazione rotta
sembrava un osso spezzato. Una fiamma ossidrica da taglio
fluttuava accanto a lui. La nave sbandava violentemente,
sbalzandolo da una parte all’altra in quello spazio esiguo. Alex esultò
nel canale di comunicazione.
«Abbiamo evitato i missili!» disse.
«Dite ad Alex di smetterla di fare il coglione» esclamò Amos. «Non
riesco a usare i miei attrezzi.»
«Amos, torna al tuo sedile!» disse Naomi.
«Scusa, capo» rispose Amos con uno sbuffo mentre liberava
un’estremità del tubo rotto. «Se non lo sistemo e perdiamo ancora
pressione, Alex non sarà più in grado di virare a tribordo. Quello sì
che ci fotterebbe alla grande.»
«Continua a lavorare, Amos» disse Holden, sovrastando le
proteste di Naomi. «Ma reggiti forte. Le cose stanno per
peggiorare.»
«Ricevuto» rispose Amos.
Holden richiamò il visore di Alex.
«Holden» disse Naomi. C’era una traccia di paura nella sua voce.
«Amos si farà...»
«Sta facendo il suo lavoro. Tu fa’ il tuo. Alex, dobbiamo far fuori
queste due prima dell’arrivo della Molinari. Trovami una rotta
d’intercettazione di uno dei due caccia e andiamo a fargli il culo.»
«Ricevuto, cap» disse Alex. «Ci mettiamo in scia a intercettore
due. Mi farebbe comodo un po’ d’aiuto con intercettore uno.»
«Di intercettore uno si occuperà Naomi» disse Holden. «Fa’ quel
che puoi per tenercelo lontano dalle chiappe mentre facciamo fuori il
suo amichetto.»
«Ricevuto» rispose Naomi con voce ferma.
Holden tornò alla telecamera del casco di Amos, ma il meccanico
sembrava cavarsela bene. Stava tagliando il tubo danneggiato con il
cannello, e accanto a lui fluttuava una conduttura di ricambio.
«Metti in sicurezza quella conduttura, Amos» disse Holden.
«Con tutto il rispetto, capitano,» replicò Amos «ma le procedure di
sicurezza possono andarsene affanculo, ora. Vedo di darmi una
mossa e di togliermi da qui.»
Holden esitò. Se Alex avesse dovuto correggere la rotta, quel
pezzo di tubo galleggiante si sarebbe potuto trasformare in un
proiettile sufficientemente grosso da uccidere Amos o da perforare la
Roci. È Amos, si disse poi. Sa bene quel che fa.
Holden passò allo schermo di Naomi mentre lei buttava tutto quello
che aveva nel sistema di comunicazione addosso al piccolo
intercettore, cercando di accecarlo con laser e interferenze radio. Poi
Holden tornò sul suo pannello tattico. La Roci e intercettore due
stavano volando l’uno verso l’altro a velocità suicida. Non appena
superarono il punto in cui non era più possibile evitare il fuoco
nemico, il caccia sganciò entrambi i suoi missili. Alex segnalò i due
siluri al sistema difensivo diretto e mantenne la traiettoria impostata
senza lanciare missili.
«Alex, perché non stiamo sparando?» chiese Holden.
«Gli abbattiamo quei missili, poi ci avviciniamo e lasciamo che
siano i cannoni di difesa a corta gittata a farli fuori» rispose il pilota.
«Perché?»
«Abbiamo un numero limitato di missili e nessuna ricarica. Non c’è
bisogno di sprecarli per questi moscerini.»
I missili in arrivo continuavano a venire loro incontro sul monitor di
Holden, e lui sentì i cannoni a distanza ravvicinata della Roci che
continuavano a sparare per abbatterli.
«Alex» disse. «Non abbiamo pagato niente per questa nave.
Sentiti libero di usarla a tuo piacimento. Se devo farmi ammazzare
perché ti sei messo a risparmiare munizioni, ti segnerò una nota di
demerito sul tuo file permanente.»
«Be’, se la metti così...» rispose Alex. «Fuori un altro!»
Il punto rosso del missile si precipitò verso intercettore due. I missili
nemici si fecero sempre più vicini, e poi uno dei due scomparve dal
display.
Alex disse «Merda», con voce neutra. Poi la Rocinante fu sbalzata
da un lato con tanta violenza da far spaccare il naso di Holden sulla
visiera del casco. Delle luci di emergenza gialle cominciarono a
roteare su tutte le paratie, anche se, con la nave svuotata
dall’atmosfera, Holden fortunatamente non riusciva a sentire gli
allarmi assordanti che cercavano di sopraffare il vuoto. Il suo
schermo tattico vacillò, si spense, poi tornò in vita dopo un secondo.
Quando si riaccese, Holden vide che tutti e tre i missili, insieme a
intercettore due, erano spariti dal radar. Intercettore uno continuava
a stargli dietro a poppa.
«Rapporto danni!» gridò Holden, sperando che la linea di
comunicazione fosse ancora in funzione.
«Abbiamo un danno grave sullo scafo esterno» rispose Naomi.
«Quattro propulsori di manovra andati. Un cannone a distanza
ravvicinata non risponde. Abbiamo anche perso ossigeno, e il
portellone di accesso è ridotto a un rottame.»
«Perché siamo ancora in vita?» chiese Holden mentre scorreva il
rapporto danni, per poi passare alla visuale di Amos.
«Il pesce non ci ha colpito» disse Alex. «I cannoni a corto raggio
l’hanno intercettato, ma c’è mancato poco. La testata ha detonato e
ci ha dato una bella scossa.»
Amos sembrava immobile. Holden gridò: «Amos! A rapporto!»
«Sì, sì... ci sono ancora, capitano. Mi stavo solo aggrappando nel
caso in cui dovessimo beccarcene un’altra uguale. Credo di essermi
rotto una costola su uno dei maniglioni della chiglia, ma ero legato. È
un bene che io non abbia perso tempo con quel tubo, cazzo.»
Holden non perse tempo a rispondere. Tornò al display tattico e
osservò intercettore uno in rapido avvicinamento. Aveva già usato i
suoi missili, ma a breve distanza poteva sempre farli a pezzi con il
suo cannone elettromagnetico.
«Alex, riesci a farci girare e a trovare una soluzione di tiro contro
quel caccia?» chiese.
«Ci sto lavorando. Non abbiamo molta possibilità di manovra»
rispose Alex, e la Roci cominciò a ruotare con una serie di scossoni.
Holden passò alla vista dal telescopio e ingrandì l’immagine sul
caccia in avvicinamento. Da vicino, l’imboccatura del suo cannone
sembrava larga quanto un corridoio su Ceres, ed era puntata
direttamente su di lui.
«Alex» disse Holden.
«Ci sto lavorando, capo, ma la Roci è messa male.»
Il cannone della nave nemica si scaldò, preparandosi a far fuoco.
«Alex, abbattila. Abbattila, abbattila, abbattila.»
«Fuoco» disse il pilota, e la Rocinante vibrò di nuovo.
La console di Holden uscì in automatico dalla vista telescopica per
tornare al display tattico. Il missile della Roci si diresse verso il
caccia nello stesso istante in cui quello aprì il fuoco con il suo
cannone. Lo schermo mostrò i proiettili in avvicinamento come tanti
piccoli puntini rossi troppo veloci da seguire a occhio nudo.
«Arriv...» gridò il capitano, e la Rocinante andò in pezzi tutto
intorno a lui.
Holden riprese i sensi.
L’interno della nave era pieno di detriti fluttuanti e schegge di
metallo surriscaldato che parevano quasi una pioggia di scintille al
rallentatore. Senz’aria, rimbalzavano sulle paratie e fluttuavano,
raffreddandosi lentamente, come pigre libellule. Holden aveva un
vago ricordo dell’angolo di uno schermo a parete che saltava via e
rimbalzava su tre paratie diverse prima di colpire, con la carambola
da biliardo più elaborata che avesse mai visto, in pieno il suo sterno.
Abbassò lo sguardo e trovò quel pezzetto di schermo che fluttuava a
pochi centimetri dal suo addome, ma non trovò fori nella propria tuta.
Sentiva solo una fitta allo stomaco.
Il sedile della console operativa accanto a Naomi mostrava un
grosso buco; il gel verde colava lentamente fuori dall’imbottitura in
piccole palline che fluttuavano via a gravità zero. Holden fissò il foro
sul sedile e quello corrispondente sulla paratia dall’altra parte della
sala; si rese conto che il proiettile doveva essere passato a pochi
centimetri dalla gamba di Naomi. Fu attraversato da un brivido che lo
lasciò nauseato.
«Che cazzo era, quello?» chiese piano Amos. «Che ne dite se
evitiamo di rifarlo?»
«Alex?» chiamò Holden.
«Sono ancora qui, cap» rispose il pilota, con voce incredibilmente
calma.
«Il mio pannello è andato» disse Holden. «L’abbiamo fatto fuori,
quel figlio di puttana?»
«Sì, cap, è andato. La Roci è stata colpita da una mezza dozzina
di proiettili. Sembra che ci abbiano attraversato da poppa a prua. La
rete antifrattura delle paratie regge bene tutte quelle schegge, eh?»
La voce di Alex aveva cominciato a tremare. Intendeva dire:
‘Dovremmo essere tutti morti.’
«Naomi, aprimi una linea con Fred» comandò Holden.
Lei non si mosse.
«Naomi?»
«Sì. Fred» disse lei, poi picchiettò sul suo schermo.
Il casco di Holden frusciò per un istante, poi fu riempito dalla voce
di Fred.
«Qui è la Guy Molinari. Sono contento che siate ancora vivi,
ragazzi.»
«Ricevuto. Procedete con l’avvicinamento. Fateci sapere quando
possiamo arrancare fino a uno dei moli di attracco della stazione.»
«Ricevuto» rispose Fred. «Vi troveremo un bel posticino per
atterrare. Fred, passo e chiudo.»
Holden premette il pulsante di rilascio rapido delle cinture sul sedile
e si lasciò fluttuare vero il soffitto, a corpo morto.
Okay, Miller. Ora tocca a te.
40

Miller

«Ehi, Pampaw» disse il ragazzino alla destra del sedile di Miller.


«Guarnizione rotta, tu e bang, eh?»
L’armatura da combattimento del ragazzino era grigioverde, con
guarnizioni articolate pressurizzate e graffi sul pettorale, dove un
coltello o un proiettile a punta metallica gli avevano scalfito la
corazza. Dietro la visiera, il volto poteva avere quindici anni. La sua
gestualità parlava di un’infanzia trascorsa in una tuta atmosferica, e
la sua parlata era puro creolo cinturiano.
«Già» replicò Miller, alzando il braccio. «Ho visto un po’ di azione,
di recente. Starò bene.»
«Bene è bene come bene» disse il ragazzino. «Ma tu però tieni il
foca, e neto ti passa l’aria a te, eh?»
Nessuno, su Marte o sulla Terra, avrebbe la minima idea di quello
che stai dicendo, pensò Miller. Cazzo, metà degli abitanti di Ceres
sarebbero imbarazzati da un accento tanto marcato. Non c’è da
meravigliarsi che non importi a nessuno se ti farai ammazzare.
«Mi pare giusto» disse Miller. «Tu va’ avanti, e io cerco di impedire
a chiunque di spararti alle spalle.»
Il ragazzino sorrise. Miller ne aveva visti a migliaia, come lui.
Ragazzi nel pieno dell’adolescenza, che si davano da fare in quei
loro anni pieni di energia, prendendo rischi per far colpo sulle
ragazze; ma vivevano nella Fascia, dove una decisione sbagliata
significava la morte. Ne aveva visti a migliaia. Ne aveva arrestati a
centinaia. E ne aveva osservati qualche decina, portati via in sacchi
di plastica neri.
Si chinò in avanti per guardare giù, lungo le file di sedili a
sospensione cardanica che riempivano la pancia della Guy Molinari.
A occhio, Miller stimava che fossero tra i novanta e i cento. Per cui,
quella sera, c’erano buone possibilità che ne vedesse morire
qualche altra decina.
«Come ti chiami, ragazzo?»
«Diogo.»
«Miller» rispose lui, e porse la mano al ragazzino. La corazza da
battaglia marziana che l’ex poliziotto aveva preso dalla Rocinante gli
lasciava flettere le dita molto più di quanto non facesse quella del
ragazzo.
La verità era che Miller non era affatto nella forma adeguata per un
assalto. Continuava ad avere quelle inspiegabili ondate di nausea, e
il dolore al braccio aumentava tutte le volte che il livello dei
medicinali nel suo sangue cominciava a diminuire troppo. Ma sapeva
come usare un’arma, e probabilmente sapeva più sulla guerriglia di
corridoio in corridoio dei nove decimi di quei saltarocce e minatori
dell’APE che, come Diogo, stavano per lanciarsi all’assalto. Se lo
sarebbe dovuto far bastare.
Il sistema di comunicazione della nave si accese.
«Qui è Fred che vi parla. Abbiamo ricevuto notizie dal nostro
supporto aereo, e siamo pronti a fare breccia tra dieci minuti.
Cominciate a eseguire i vostri controlli, gente.»
Miller si appoggiò allo schienale. Il ticchettio e il clangore di un
centinaio di tute corazzate, di un centinaio di armi di riserva, di un
centinaio di fucili d’assalto, riempì l’aria. Lui aveva già controllato e
ricontrollato il suo equipaggiamento; non sentiva il bisogno di farlo di
nuovo.
Ancora pochi minuti e sarebbero stati in accelerazione. L’intruglio
di droghe per resistere a g elevati era diluito, visto che sarebbero
passati dritti dai sedili al campo di battaglia. Non aveva senso
sedare la propria forza d’assalto più del necessario.
Julie se ne stava appoggiata alla parete accanto a lui, con i capelli
che le fluttuavano intorno come se fosse stata sott’acqua. Miller
immaginò le macchie di luce che le danzavano sul viso, figurandosi
la giovane pilota di pinaccia come una sirena. Lei sorrise a
quell’idea, e Miller le restituì il sorriso. Sarebbe stata lì anche lei, ne
era certo. Insieme a Diogo, a Fred, e a tutti gli altri uomini dell’APE,
patrioti del vuoto; sarebbe stata sul suo sedile, con addosso una
corazza presa in prestito, dirigendosi verso la stazione per farsi
ammazzare in nome di un bene superiore. Miller sapeva che lui non
l’avrebbe fatto. Non prima di lei. Per cui, in un certo senso, aveva
preso il suo posto. Era diventato lei.
Ce l’hanno fatta, disse Julie. O forse lo pensò soltanto. Se il piano
di attacco via terra stava procedendo, significava che la Rocinante
era sopravvissuta, perlomeno abbastanza a lungo da abbattere le
difese nemiche. Miller annuì, rispondendo al suo commento e
permettendosi di provare un istante di piacere a quell’idea, poi
l’accelerazione di gravità lo schiacciò contro il sedile tanto forte da
fargli quasi perdere i sensi e la sala intorno a lui divenne buia. Sentì
quando arrivò l’accelerazione di frenata, con tutti i sedili che si
giravano verso il nuovo alto. Degli aghi si piantarono nella carne di
Miller. Successe qualcosa di intenso e rumoroso, e la Guy Molinari
risuonò come una gigantesca campana. La carica per fare breccia. Il
mondo spinse forte a sinistra, il sedile girò su sé stesso per l’ultima
volta mentre la nave si adattava alla rotazione della stazione.
Qualcuno gli stava gridando: «Via, via, via!» Miller imbracciò il suo
fucile d’assalto, verificò di avere l’arma di scorta legata alla gamba e
si unì alla calca di corpi che si riversavano verso l’uscita. Sentì la
mancanza del suo cappello.
Il corridoio di servizio in cui avevano creato la breccia era stretto e
buio. Lo schema che avevano elaborato gli ingegneri di Tycho
suggeriva che non avrebbero incontrato alcuna resistenza effettiva
finché non fossero arrivati nella zona abitata della stazione. Avevano
sbagliato previsione. Miller barcollò con gli altri soldati dell’APE
appena in tempo per vedere un laser di difesa automatico tagliare in
due tutta la prima fila.
«Squadra tre! Gas!» abbaiò Fred nelle loro orecchie, e mezza
dozzina di spesse nubi di fumo bianco antilaser esplosero davanti a
loro. Quando il laser di difesa si azionò di nuovo, le paratie
lampeggiarono follemente di colori e un fumo di plastica bruciata
riempì l’aria, ma non morì nessuno. Miller si spinse avanti, su per
una rampa di metallo rosso. Ci fu una detonazione, e una porta di
servizio si spalancò davanti a loro.
I corridoi della Stazione di Thoth erano ampi e spaziosi, con lunghe
fasce di edera fatte crescere in volute meticolosamente curate e
delle nicchiette ogni pochi metri con dentro dei bonsai raffinatamente
illuminati. La morbida luce simile al bianco puro del sole faceva
assomigliare quel posto a un centro benessere o alla residenza
privata di un qualche riccone. Il pavimento era ricoperto di moquette.
Il visore nella sua corazza vacillò, segnando il percorso che
l’assalto doveva seguire. Il cuore di Miller cominciò a battere rapido
e costante, ma la sua mente sembrò divenire perfettamente
immobile. Al primo incrocio si trovarono di fronte a una barriera
antisommossa gestita da una dozzina di uomini con indosso le
uniformi dei servizi d’ordine della Protogen. Le truppe dell’APE
rimasero indietro, usando la curva del soffitto come copertura. I
pochi colpi sparati dai difensori giunsero ad altezza delle ginocchia.
Le granate erano perfettamente tonde; non c’era nemmeno un
forellino nel punto in cui era stata tolta la sicura. Sul morbido tappeto
industriale non rotolavano bene come sulla pietra o sulle mattonelle,
e una delle tre esplose prima di raggiungere la barriera. L’onda
d’urto che ne risultò fu come una martellata nelle orecchie; i corridoi
stretti e sigillati ricondussero l’esplosione fino a loro, forte quasi
quanto fu per il nemico. Ma la barriera antisommossa s’infranse, e gli
uomini della Protogen si ritirarono.
Mentre si precipitavano in avanti, Miller udì i suoi nuovi, temporanei
compatrioti gridare d’esultanza a quel primo assaggio di vittoria.
Quelle voci gli giunsero attutite, come se fossero state molto distanti.
Forse le cuffie non avevano smorzato l’esplosione come avrebbero
dovuto. Portare avanti l’assalto con i timpani perforati non sarebbe
stato facile.
Poi però giunse Fred, e la sua voce era ben chiara.
«Non avanzate! Restate indietro!»
Fu quasi sufficiente. Il battaglione di terra dell’APE esitò, con l’ordine
di Fred che lo tratteneva come un guinzaglio. Quelli non erano
militari. Non erano nemmeno poliziotti. Erano una milizia irregolare
cinturiana; disciplina e rispetto dell’autorità non erano caratteristiche
naturali, per loro. Rallentarono il passo. Si fecero più attenti. E,
quando girarono l’angolo, non caddero nella trappola.
Il corridoio seguente era lungo e stretto, e il visore suggeriva che
conducesse a una rampa di servizio, su verso il centro di controllo.
Sembrava vuoto ma, a un terzo del percorso verso la curva
all’orizzonte, la moquette cominciò a strapparsi e a volare via a
brandelli. Uno dei ragazzi accanto a Miller emise un grugnito e
cadde a terra.
«Stanno usando proiettili a bassa frammentazione per farli
rimbalzare sul pavimento» disse Fred in tutti i loro auricolari. «Spari
a sponda. State giù, e fate esattamente come vi dico.»
La calma nella voce del terrestre sortì maggiore effetto dei suoi
ordini gridati. Miller pensò di esserselo immaginato, ma sembrava
anche esserci un tono più profondo. Una sicurezza. Il Macellaio di
Anderson che faceva quel che gli riusciva meglio: guidare le sue
truppe contro le tattiche e le strategie che aveva contribuito a creare
quando aveva fatto parte delle schiere nemiche.
Le forze dell’APE avanzarono a poco a poco, su di un livello, poi un
altro, e un altro ancora. L’aria si fece torbida per il fumo e le schegge
di rivestimento. I vasti corridoi si aprirono in ampi slarghi e piazze,
ariosi come cortili di un carcere, con gli uomini della Protogen nelle
torrette delle guardie. I corridoi laterali erano stati sbarrati; le forze di
sicurezza locali stavano cercando di costringerli in situazioni in cui
sarebbero stati esposti al fuoco incrociato.
Non funzionò. L’APE forzò l’apertura dei portelloni e si rifugiò in
ricche sale ammobiliate, a metà strada tra aule da conferenza e
laboratori manifatturieri. Per due volte, dei civili senza corazza,
ancora al lavoro nonostante l’attacco in corso, li aggredirono al loro
ingresso. I ragazzi dell’APE li falciarono tutti. Una parte della mente di
Miller, quella che apparteneva ancora al poliziotto e non al soldato, si
ribellò. Erano civili. Ucciderli era, come minimo, inappropriato. Poi
però Julie gli sussurrò qualcosa in fondo alla mente: nessuno qui è
innocente, e lui non poté che concordare con lei.
Il centro operativo era a un terzo del pozzo di gravità della
stazione, difeso meglio di tutto ciò che avevano visto fino a quel
momento. Miller e cinque altri, diretti dall’onnisciente voce di Fred, si
ripararono in uno stretto corridoio di servizio, mantenendo una linea
di fuoco di copertura nel corridoio centrale verso la zona operativa, e
assicurandosi che nessun contrattacco della Protogen rimanesse
senza risposta. Miller controllò il suo fucile d’assalto e fu sorpreso di
vedere quante munizioni fossero rimaste.
«Ehi, Pampaw» disse il ragazzino accanto a lui, e Miller sorrise,
riconoscendo la voce di Diogo dietro la visiera. «Oggi è oggi,
passa?»
«Ho visto di peggio» concordò Miller, poi s’interruppe. Cercò di
grattarsi il gomito ferito, ma la corazza gli impediva di trarne
qualsiasi soddisfazione.
«Beccas tu?» chiese Diogo.
«No, sto bene. È solo... questo posto. Non lo capisco. Sembra una
specie di centro benessere, ed è costruito come una prigione.»
Le mani del ragazzo formularono una domanda. Miller scosse il
pugno in segno di risposta, riflettendo mentre parlava.
«Sono tutte linee di mira lunghe e passaggi laterali bloccati» disse
Miller. «Se dovessi costruire un posto del genere, io...»
L’aria risuonò e Diogo andò a terra, rovesciando la testa all’indietro
con uno scatto mentre cadeva. Miller gemette e si voltò. Alle loro
spalle, nel corridoio laterale, due sagome in uniforme della Protogen
si gettarono in copertura. Qualcosa sibilò accanto all’orecchio
sinistro di Miller. Qualcos’altro rimbalzò sul pettorale della sua
costosa corazza marziana, come una martellata. Non dovette
nemmeno pensare di puntare il fucile di assalto; era già lì, che
sputava uno sbarramento di fuoco come un’estensione della sua
volontà. Gli altri tre soldati dell’APE si voltarono per dargli man forte.
«Tornate di là» abbaiò Miller. «Tenete gli occhi su quel cazzo di
corridoio principale! Qui ci penso io.»
Stupido, pensò Miller. È stato stupido lasciarceli arrivare alle spalle.
Stupido fermarsi e mettersi a parlare nel bel mezzo di uno scontro a
fuoco. Avrebbe dovuto saperlo bene; e ora, invece, siccome aveva
perso la concentrazione, il ragazzo stava...
Ridendo?
Diogo si mise a sedere, imbracciò il suo fucile d’assalto e impallinò
il corridoio laterale con una raffica di proiettili. Si rimise in piedi
barcollando. Poi gridò come un bambino appena sceso da una
giostra. Un ampio sbaffo di sostanza biancastra gli andava dalla
clavicola su per il lato destro della visiera. Dietro di essa, Diogo
rideva. Miller scosse la testa.
«Perché diavolo stanno usando pallottole antisommossa?» chiese
tanto a sé stesso che al ragazzo. «Credono forse che si tratti di una
rivolta?»
«Squadre d’assalto,» disse Fred nell’orecchio di Miller «state
pronti. Ci muoviamo tra cinque. Quattro. Tre. Due. Via!»
Non sappiamo in cosa ci stiamo cacciando qui, pensò Miller
mentre si univa alla carica lungo il corridoio, spingendosi verso il
bersaglio finale dell’assalto. Un’ampia rampa portava su fino a una
coppia di porte antiesplosione impiallacciate in legno. Qualcosa
detonò alle loro spalle ma Miller tenne la testa bassa e non si guardò
indietro. La calca di corpi che si dimenavano nelle loro corazze
abborracciate si fece più densa, e Miller inciampò su qualcosa di
morbido. Un cadavere con l’uniforme della Protogen.
«Fateci spazio!» gridò una donna dai primi ranghi. Miller si spinse
verso di lei, facendosi largo tra la folla di soldati dell’APE a spallate e
gomitate. La donna ripeté il suo grido mentre le si avvicinava.
«Qual è il problema?» gridò Miller.
«Non posso tagliare questa merda con tutti questi succhiacazzi
che mi premono addosso» rispose lei, alzando un cannello da taglio
che già bruciava ed era diventato bianco sui bordi. Miller annuì e
rinfoderò il fucile d’assalto sulla schiena. Afferrò due delle spalle più
vicine a lui, scosse gli uomini finché non gli diedero retta e poi li
prese sottobraccio.
«Dobbiamo solo fare un po’ di spazio ai tecnici» disse Miller, e
insieme avanzarono verso i loro stessi uomini, spingendoli indietro.
Quante battaglie, in tutta la storia dell’umanità, si sono giocate in
momenti come questo?, si chiese. Con la vittoria ormai in pugno,
finché le forze alleate non cominciano a intralciarsi le une con le
altre. La saldatrice si accese alle sue spalle, e il calore gli premette
sulla schiena come una mano, nonostante la corazza.
Ai bordi della folla, le armi automatiche cozzavano e sputavano
fuoco. «Come sta andando, là dietro?» gridò Miller oltre la propria
spalla.
La donna non rispose. Sembrarono passare ore, anche se non
potevano essere più di cinque minuti. Una nebbia di metallo
riscaldato e plastica aerosolizzata riempì l’aria.
Il cannello si spense con uno schiocco. Miller vide la paratia
afflosciarsi e spostarsi alle sue spalle. Il tecnico inserì un cavo sottile
come un foglio di carta nello spazio tra le paratie, l’attivò e si ritrasse.
La stazione attorno a loro gemette mentre una nuova serie di
pressioni e sforzi ridava forma al metallo. La paratia si aprì.
«Andiamo» gridò Miller, poi piegò la testa e attraversò il nuovo
passaggio, poi si diresse su per una rampa ricoperta di moquette e
verso il centro operativo. Una dozzina di uomini e donne alzarono lo
sguardo dalle loro postazioni, con gli occhi sgranati per la paura.
«Siete in arresto!» gridò Miller mentre i soldati dell’APE si
riversavano tutto intorno. «Be’, non proprio, ma... ah, merda. Mettete
le mani in alto e allontanatevi dai controlli!»
Uno degli uomini, alto come un cinturiano ma dalla corporatura
solida come quella di un uomo cresciuto in piena gravità, sospirò.
Indossava un abito elegante, di lino e seta grezza, senza le linee e le
pieghe tipiche della sartoria computerizzata.
«Fate come vi dice» disse l’uomo elegante. Sembrava scocciato,
non impaurito.
Miller strinse gli occhi.
«Il signor Dresden?»
Il tizio inarcò un sopracciglio ben delineato, fece una pausa, poi
annuì.
«Cercavo proprio lei» disse Miller.
Fred entrò nel centro operativo come se quel posto gli
appartenesse. Con le spalle più strette e la schiena più dritta,
l’ingegnere capo della Stazione di Tycho era sparito, lasciando il
posto al generale. Osservò il centro operativo, assimilando ogni
dettaglio con un colpo d’occhio, poi annuì, rivolgendosi a uno dei
tecnici anziani dell’APE.
«Tutto sotto controllo, signore» disse il tecnico. «La stazione è
sua.»
Miller non era quasi mai stato presente al momento di assoluzione
di un altro uomo. Era un evento talmente raro e così privato da
diventare quasi spirituale. Decenni addietro, quell’uomo, più giovane,
più in forma, senza tutto quel grigio tra i capelli, aveva conquistato
una stazione spaziale, affondando fino alle ginocchia nel sangue e
nelle budella, tra centinaia di cadaveri di cinturiani; Miller lo vide
rilassare la mascella in modo percettibile, notò il suo petto aprirsi
mentre il peso che gli gravava addosso pareva sollevarsi. Forse non
se n’era andato del tutto, ma c’era quasi. Era più di quanto la
maggior parte della gente non riuscisse a fare nel corso della propria
vita.
Si chiese come sarebbe stato per lui, se mai ne avesse avuta
l’occasione.
«Miller?» disse Fred. «Mi hanno detto che desidera parlare con
una persona.»
Dresden si alzò dalla sua sedia, ignorando le armi d’assalto e le
pistole che aveva puntate addosso, come se non potessero nulla
contro di lui.
«Colonnello Johnson» disse Dresden. «Avrei dovuto aspettarmi
che dietro tutto questo ci fosse un uomo del suo calibro. Il mio nome
è Dresden.»
Consegnò a Fred un biglietto da visita color nero opaco. Fred lo
prese in modo automatico ma non lo guardò nemmeno.
«È lei il responsabile di tutto questo?»
Dresden gli rivolse un sorriso gelido e si guardò intorno prima di
rispondere.
«Direi che lei può ritenersi responsabile di almeno una parte di
tutto questo» replicò Dresden. «Ha appena ucciso molte persone
che non facevano altro che il loro lavoro. Ma forse possiamo fare a
meno di tutti questi moralismi e arrivare al punto rilevante?»
Il sorriso di Fred gli arrivò fino agli occhi.
«E quale sarebbe?»
«Negoziare i termini della resa» spiegò Dresden. «Lei ha
esperienza. Capisce perfettamente che la sua vittoria qui la mette in
una posizione insostenibile. La Protogen è una delle aziende più
potenti della Terra. L’APE l’ha appena attaccata e, più a lungo
cercherà di tenere la stazione, peggiori saranno le rappresaglie.»
«Ah, è così?»
«Naturalmente sì» rispose Dresden, ignorando il tono di Fred con
un gesto noncurante della mano. Miller scosse la testa. Quell’uomo
non capiva davvero quello che stava succedendo. «Avete preso i
vostri ostaggi. Bene, eccoci qui. Possiamo aspettare finché la Terra
non manderà qualche dozzina di navi da guerra a negoziare con le
vostre teste in punta di cannone, o possiamo farla finita subito.»
«Mi sta chiedendo... quanto denaro voglia per prendere i miei
uomini e andarmene?» disse Fred.
«Se è il denaro ciò che vuole...» rispose Dresden stringendosi
nelle spalle. «Armi. Decreti. Attrezzature mediche. Di qualunque
cosa abbiate bisogno per continuare la vostra piccola guerra e
sbrigarvi a farla finita con questa farsa.»
«So che cosa avete fatto su Eros» disse piano Fred.
Dresden ridacchiò. Quel suono fece venire la pelle d’oca a Miller.
«Signor Johnson» replicò Dresden. «Nessuno sa che cos’abbiamo
fatto su Eros. E ogni minuto che passo qui con lei in mezzo a questi
giochetti è un minuto che non posso impiegare più produttivamente
altrove. Posso giurarle questo: lei si trova, in questo momento, nella
miglior posizione per negoziare in cui non sarà mai. Non ha alcun
incentivo per continuare a prolungare questa situazione.»
«E lei cosa offrirebbe?»
Dresden allargò le mani. «Qualunque cosa voglia, accompagnata
da un’amnistia. Purché vi faccia sloggiare da qui e ci lasci tornare al
nostro lavoro. Vinciamo entrambi.»
Fred rise. Non c’era gioia in quel suono.
«Mi faccia capire bene...» disse. «Mi darà tutti i regni della Terra se
solo mi prostrerò e la adorerò?»
Dresden inclinò il capo da un lato. «Temo di non cogliere la
citazione.»
41

Holden

La Rocinante attraccò sulla Stazione di Thoth con gli ultimi


singhiozzi dei suoi propulsori di manovra. Holden sentì i ganci di
attracco della stazione afferrare la chiglia con un tonfo sordo, e poi la
gravità tornò a un terzo di g. La detonazione a distanza ravvicinata di
una testata al plasma aveva strappato via il portellone esterno
dell’ingresso della nave e aveva riempito la camera pressurizzata di
gas surriscaldato, saldandolo definitivamente. Questo significava
che avrebbero dovuto usare il portellone della stiva a poppa della
nave e farsi una passeggiata nello spazio fino alla stazione.
Si poteva fare; indossavano ancora le loro tute. La Roci aveva più
fori di quanti potesse supportarne il sistema di ricircolo dell’aria, e la
riserva navale di ossigeno era stata svuotata nello spazio dalla
stessa esplosione che aveva messo fuori uso il portellone.
Alex scese dal cockpit con il volto coperto dalla visiera e la pancia
inconfondibile perfino con tutta la tuta atmosferica. Naomi terminò di
chiudere la propria postazione e di spegnere la nave, poi raggiunse
Alex, e tutti e tre insieme scesero giù per la scala dell’equipaggio a
prua. Amos li aspettava lì sotto, intento a legare un pacchetto EVA
alla sua tuta e a caricarlo con dell’azoto compresso da una bombola
d’immagazzinamento. Il meccanico aveva assicurato a Holden che il
pacchetto di manovra EVA aveva sufficiente spinta da superare la
rotazione della stazione e portarli fino al primo portellone.
Nessuno disse niente. Holden si era aspettato un po’ di
chiacchiericcio. Si era aspettato di volerlo. Ma i danni subiti dalla
Roci sembravano imporre il silenzio. Forse anche soggezione.
Holden si appoggiò alla paratia della stiva e chiuse gli occhi. Gli
unici suoni che poteva udire erano il sibilo costante del suo ossigeno
e il debole crepitio della linea di comunicazione. Con il naso rotto e
tappato dal sangue non riusciva a sentire alcun odore, e in bocca
aveva un sapore come di rame. Anche così, però, non riusciva a
togliersi un sorriso dal volto. Avevano vinto. Erano volati fino alla
Protogen, affrontando qualsiasi cosa quei bastardi maniaci avessero
voluto tirargli addosso, e gli avevano fatto il culo. In quello stesso
istante, i soldati dell’APE stavano sciamando attraverso la stazione,
abbattendo tutti quelli che avevano contribuito a distruggere Eros.
Holden stabilì che non gli creava problemi non provare alcun
rimorso per quella gente. La complessità morale della situazione era
cresciuta ben oltre la sua capacità di analisi, per cui si limitò a
rilassarsi nel caldo abbraccio della vittoria.
La linea di comunicazione cinguettò e Amos disse: «Pronti a
muoversi.»
Holden annuì, si ricordò di essere ancora nella sua tuta
atmosferica e disse: «Okay. Agganciatevi, ragazzi.»
Lui, Alex e Naomi tirarono fuori i cavi di sicurezza delle tute e li
agganciarono alla vita larga di Amos. Il meccanico aprì il portellone
della stiva e volò fuori, sospinto da nuvolette di vapore. Vennero
immediatamente allontanati dalla nave dalla rotazione della stazione,
ma Amos prese subito il controllo e tornò verso il portellone di
emergenza di Thoth.
Mentre Amos li portava oltre la Roci, Holden studiò l’esterno della
nave e cercò di catalogare le riparazioni necessarie. C’erano una
dozzina di fori a prua e a poppa che corrispondevano a quelli
all’interno della nave. I proiettili gauss che l’intercettore aveva
sparato probabilmente non avevano nemmeno rallentato più di tanto
quando avevano attraversato la Roci. L’equipaggio era stato
fortunato che nessun proiettile avesse colpito il reattore,
perforandolo.
C’era anche un grosso bozzo nella sovrastruttura fasulla che
faceva sembrare la nave un cargo cisterna. Holden sapeva che
doveva corrispondere a un bozzo altrettanto brutto sulla corazza
esterna della chiglia. Il danno non si era esteso alla scocca interna,
altrimenti la nave si sarebbe spaccata in due.
Con il lesionamento del portellone e la perdita totale delle riserve di
ossigeno e dei sistemi di ricircolo, dovevano esserci milioni di dollari
di danni e settimane da passare in secca, sempre che potessero
arrivare fino a un molo di riparazione chissà dove.
Magari la Molinari avrebbe potuto dar loro uno strappo.
Amos lampeggiò tre volte con le luci gialle del pacchetto EVA e il
portellone di emergenza della stazione si aprì. Il meccanico li guidò
all’interno, dove li attendevano quattro cinturiani in corazza da
battaglia.
Non appena il portellone ebbe finito di pressurizzare, Holden si
tolse il casco e si toccò il naso. Gli pareva grosso il doppio del
normale e pulsava a ogni battito del suo cuore.
Naomi allungò le mani e gli tenne fermo il viso, mettendogli i pollici
su entrambi i lati del naso con un tocco sorprendentemente gentile.
Gli voltò la testa da un lato e dall’altro, esaminando la ferita, poi lo
lasciò andare.
«Senza intervento chirurgico resterà storto» disse. «Ma comunque,
prima eri troppo carino. Così ti darà carattere.»
Holden sentì un sorriso salirgli in volto ma, prima che potesse
rispondere, uno dei soldati dell’APE cominciò a parlare.
«Visto il combattimento, hermano. Siete stati davvero forti,
ragazzi.»
«Grazie» rispose Alex. «Come sta andando, qui?»
Il soldato con più stelline sulla mostrina dell’APE disse: «Meno
resistenza di quanto ci aspettassimo, ma le guardie della Protogen
hanno combattuto per ogni palmo della stazione. Perfino alcuni
scienziati ci si sono rivoltati contro. Abbiamo dovuto ucciderne un
po’.»
Indicò il portellone interno.
«Fred si sta dirigendo verso il centro operativo. Vi vuole laggiù, alla
svelta.»
«Portaci là» disse Holden, con il suo naso che trasformava le sue
parole in ‘bordaci dà’.
«Come va la gamba, cap?» chiese Amos mentre camminavano
lungo il corridoio della stazione. Holden si rese conto di essersi
dimenticato della zoppia che lo sparo al polpaccio gli aveva causato.
«Non fa male, ma il muscolo non si flette più come prima» rispose.
«E la tua?»
Amos sorrise e guardò giù verso la gamba ancora claudicante per
via di quella frattura che aveva riportato sulla Donnager, mesi prima.
«Niente di che» disse. «Quello che non ti ammazza non ha
importanza.»
Holden fece per rispondere, poi si fermò quando il gruppo svoltò a
un angolo e si ritrovò in un vero e proprio mattatoio. Stavano
chiaramente seguendo il percorso della squadra d’assalto, perché
ora il corridoio era coperto di cadaveri, mentre le pareti erano
segnate da fori di proiettili e sgarri. Con suo grande sollievo, Holden
vide molti più corpi in uniforme della Protogen che con
l’equipaggiamento dell’APE. Ma c’erano abbastanza cinturiani uccisi,
a terra, da fargli venire un nodo allo stomaco. Quando superò un
uomo morto con indosso un camice da laboratorio, dovette
trattenersi per non sputare a terra. Il personale di sicurezza poteva
aver preso una decisione errata nell’andare a lavorare per la fazione
sbagliata, ma erano stati gli scienziati di quella stazione ad
ammazzare un milione e mezzo di persone solo per vedere che cosa
sarebbe successo. Non ne erano morti abbastanza, per i gusti di
Holden.
Qualcosa attirò la sua attenzione, e si fermò. Accanto al corpo
dello scienziato morto c’era quel che sembrava essere un coltello da
cucina.
«Uhm» disse Holden. «Non vi sarà mica venuto contro con quello,
no?»
«Sì, invece. Pazzesco, no?» rispose un uomo della loro scorta.
«Ho già sentito parlare di gente che si porta un pugnale in una
sparatoria, ma...»
«Il centro operativo è poco più avanti» disse il militare in comando.
«Il generale vi sta aspettando.»
Holden fece il suo ingresso nel centro operativo della stazione e
vide Fred, Miller, una manciata di soldati dell’APE e uno straniero che
indossava un abito dall’aspetto costoso. Una fila di tecnici e di
membri dello staff operativo in uniforme della Protogen era già stata
ammanettata, e li stavano portando via. La sala era coperta di
schermi e monitor, dal pavimento al soffitto, la maggior parte dei
quali snocciolava dati di testo più rapidamente di quanto non
potesse seguire l’occhio umano.
«Mi faccia capire bene...» stava dicendo Fred. «Mi darà tutti i regni
della Terra se solo mi prostrerò e la adorerò?»
«Temo di non cogliere la citazione» rispose lo sconosciuto.
Qualsiasi cosa stessero per dirsi fu interrotta quando Miller notò
Holden e diede una pacca sulla spalla di Fred. Holden poté giurare
di aver visto il detective rivolgergli un caloroso sorriso, anche se su
quel volto severo era difficile a dirsi.
«Jim» disse Fred, facendogli segno di avvicinarsi. Stava leggendo
un biglietto da visita nero. «Ti presento Antony Dresden,
vicepresidente esecutivo del dipartimento di ricerche biologiche della
Protogen, nonché architetto del progetto Eros.»
Lo stronzo con l’abito elegante gli tese per davvero la mano, come
se avesse potuto stringergliela. Holden lo ignorò.
«Fred» disse. «Quante perdite abbiamo?»
«Sorprendentemente poche.»
«La metà del loro corpo di sicurezza era armata con proiettili non
letali» spiegò Miller. «Controllo della folla. Proiettili collosi. Roba del
genere.»
Holden annuì, poi scosse la testa e si accigliò.
«Ho visto un sacco di cadaveri di membri della Protogen qui fuori,
nel corridoio. Perché avere tutti questi uomini e poi equipaggiarli con
armi che non sono in grado di respingere un assalto?»
«Buona domanda» concordò Miller.
Dresden ridacchiò.
«Ecco cosa intendevo, signor Johnson» disse Dresden. Poi si voltò
verso Holden. «Jim, giusto? Bene allora: Jim. Il fatto che lei non
comprenda le necessità di sicurezza di questa stazione mi fa capire
che non avete la più pallida idea di ciò in cui vi state andando a
cacciare. E credo che lo sappiate bene quanto me. Come stavo
dicendo a Fred, qui...»
«Antony, devi chiudere quella cazzo di bocca» lo interruppe
Holden, sorpreso da quell’improvviso accesso di rabbia. Dresden
parve infastidito.
Quel bastardo non aveva alcun diritto di sentirsi a suo agio. Di
manifestare tutto quel sussiego. Holden voleva che quell’uomo fosse
terrorizzato, che implorasse di avere salva la vita, non che
continuasse a sogghignare dietro la maschera del suo accento
acculturato.
«Amos, se mi parla di nuovo senza essere interpellato, rompigli la
mascella.»
«Con piacere, capitano» disse Amos, e fece mezzo passo avanti.
Dresden sorrise alla minaccia di quel pugno pesante ma rimase in
silenzio.
«Che cosa sappiamo?» chiese Holden, rivolgendosi a Fred.
«Sappiamo che i dati di Eros stanno arrivando qui, e che questo
pezzo di merda è a capo delle operazioni. Ne sapremo di più una
volta che avremo messo a soqquadro questo posto.»
Holden si voltò per osservare di nuovo Dresden, assorbendo il suo
bell’aspetto da europeo di sangue blu, il fisico scolpito da ginnasta, il
costoso taglio di capelli. Perfino in quel momento, circondato da
nemici armati fino ai denti, quel tizio riusciva a dare l’impressione di
essere al comando. Holden se lo immaginò mentre dava un’occhiata
all’orologio e si chiedeva quanto ancora del suo prezioso tempo gli
avrebbe sottratto quella squadra di assalto.
«Ho bisogno di chiedergli una cosa» disse Holden.
Fred annuì. «Se lo è meritato.»
«Perché?» domandò Holden. «Voglio sapere perché.»
Il sorriso di Dresden fu quasi compassionevole, mentre si infilava le
mani in tasca con la stessa noncuranza di un uomo che stesse
chiacchierando di sport in un bar del porto.
«‘Perché’ è una domanda molto importante» disse Dresden.
«Perché Dio voleva così? O magari vorrà usarmi la cortesia di
circoscrivere l’argomento.»
«Perché Eros?»
«Be’, Jim...»
«Puoi chiamarmi capitano Holden. Sono quello che ha trovato la
tua nave smarrita, per cui ho visto il video proveniente da Phoebe.
So cos’è la protomolecola.»
«Ma davvero!» disse Dresden, mentre il suo sorriso diventava un
filo più genuino. «Devo ringraziarla per averci fatto ritrovare l’agente
virale su Eros. Perdere la Anubis ci avrebbe fatto ritardare di mesi la
nostra tabella di marcia. Trovare il corpo infetto già lì sulla stazione è
stato un dono dal cielo.»
Lo sapevo. Cazzo, lo sapevo, pensò Holden. Ad alta voce disse:
«Perché?»
«Lei sa che cos’è l’agente» rispose Dresden, disorientato per la
prima volta da quando Holden aveva fatto il suo ingresso nella sala.
«Non so cos’altro potrei dirle. Questa è la cosa più importante che
sia mai accaduta alla razza umana. È insieme la prova che non
siamo soli nell’universo e l’occasione che abbiamo per liberarci dalle
limitazioni che ci vincolano alle nostre piccole bolle di roccia e aria.»
«Non mi stai rispondendo» disse Holden, detestando il modo in cui
il naso rotto rendesse la sua voce vagamente comica quando invece
avrebbe voluto che suonasse minacciosa. «Voglio sapere perché hai
ammazzato un milione e mezzo di persone.»
Fred si schiarì la gola, ma non li interruppe. Dresden spostò lo
sguardo da Holden al colonnello, poi di nuovo a Holden.
«Le sto rispondendo, capitano. Un milione e mezzo di persone
sono una sciocchezza. Ciò su cui stiamo lavorando, qui, è molto più
grande» replicò Dresden, prima di muoversi verso la poltrona e
sedersi, pizzicandosi i pantaloni mentre incrociava le gambe per non
tirare il tessuto. «Ha familiarità con la figura di Gengis Khan?»
«Cosa?» dissero Holden e Fred, quasi all’unisono. Miller si limitava
a fissare Dresden con volto impassibile, picchiettandosi sulla coscia
corazzata con la canna della pistola.
«Gengis Khan. Ci sono storici che affermano che abbia ucciso o
deportato un quarto della popolazione umana totale della Terra
durante le sue conquiste» riprese Dresden. «Lo fece inseguendo il
sogno di un impero che avrebbe cominciato ad andare in pezzi alla
sua morte. Su scala odierna, questo significherebbe uccidere quasi
dieci miliardi di persone per riuscire ad avere una qualche influenza
su una generazione. Una generazione e mezzo. Eros non è
nemmeno un errore di approssimazione, a confronto.»
«A lei davvero non importa» disse Fred, con voce pacata.
«E, a differenza di Khan, non lo stiamo facendo per costruire un
impero caduco. So che cosa pensate. Che stiamo cercando gloria
per noi stessi. Che cerchiamo il potere.»
«Non è così?» chiese Holden.
«Certo che è così.» La voce di Dresden era tagliente. «Ma state
pensando in piccolo. Costruire il più grande impero dell’umanità è
come edificare il formicaio più grande del mondo. Insignificante.
Esiste una civiltà, là fuori, che ha costruito la protomolecola e ce l’ha
inviata più di due miliardi di anni fa. Erano già dèi a quell’epoca. Che
cosa sono diventati, da allora? Con altri due miliardi di anni di
progresso?»
Holden ascoltò le parole di Dresden con crescente timore. Quel
discorso aveva l’aria di essere stato già pronunciato. Forse molte
volte. E aveva funzionato. Aveva convinto persone potenti. Era il
motivo per cui la Protogen aveva ottenuto navi mimetiche dai cantieri
navali della Terra e un supporto apparentemente illimitato da dietro
le quinte.
«Abbiamo tantissimo da recuperare, signori» stava dicendo
Dresden. «Ma fortunatamente abbiamo a disposizione gli strumenti
del nostro nemico per poterlo fare.»
«Recuperare?» chiese un soldato alla sinistra di Holden. Dresden
annuì e sorrise all’uomo.
«La protomolecola è in grado di alterare l’organismo ospite a livello
molecolare; è in grado di creare modifiche genetiche e immediate.
Non soltanto sul DNA, ma su qualunque altro replicatore stabile. Però
è soltanto una macchina. Non pensa. Si limita a seguire delle
istruzioni. Se impariamo come fare per alterare quella
programmazione, allora potremmo diventare noi stessi architetti di
quel cambiamento.»
Holden lo interruppe. «E se fosse stata progettata per cancellare la
vita sulla Terra e sostituirla con qualunque cosa volessero i suoi
inventori, perché liberarla?»
«Ottima domanda» disse Dresden, alzando un dito come un
professore universitario in procinto di dare inizio a una lezione. «La
protomolecola non ha un manuale d’uso. In realtà, non eravamo mai
stati in grado di osservarla mentre eseguiva il suo programma. La
molecola ha bisogno di una massa significativa prima di sviluppare
sufficiente energia per compiere le direttive impartite. Qualsiasi
siano.»
Dresden indicò gli schermi pieni di dati intorno a loro.
«La stiamo per vedere al lavoro. Osserveremo quello che intende
fare. Come lo fa. E, si spera, impareremo a modificare la sua
programmazione durante il processo.»
«Si potrebbe fare con un batterio in provetta» replicò Holden.
«Non m’interessa riprogrammare batteri» rispose Dresden.
«Tu sei fuori di testa, cazzo» esclamò Amos, e fece un altro passo
verso Dresden. Holden posò una mano sulla spalla del grosso
meccanico.
«Allora» disse Holden. «Scopri che cosa fa esattamente il morbo, e
poi?»
«E poi... tutto. Cinturiani che possono lavorare all’esterno di una
nave senza indossare una tuta. Umani capaci di dormire per
centinaia di anni di fila, inviando colonie di navi verso le stelle. Non
essere più vincolati ai milioni di anni di evoluzione all’interno di
un’atmosfera pressurizzata a un g, schiavi di ossigeno e acqua.
Saremo noi stessi a decidere ciò che vorremmo essere,
riprogrammandoci per esserlo. Ecco cosa ci dà la protomolecola.»
Dresden si era alzato di nuovo mentre continuava a parlare, con il
volto infervorato dallo zelo di un profeta.
«Quello che stiamo facendo qui è la migliore, l’unica speranza di
sopravvivenza dell’umanità. Quando andremo là fuori, ci troveremo
davanti a degli dèi.»
«E se non andassimo là fuori?» chiese Fred. Sembrava
pensieroso.
«Ci hanno già sparato contro un’arma da giorno del giudizio»
rispose Dresden.
La sala fu avvolta dal silenzio per un istante. Holden sentì vacillare
le sue certezze. Odiava tutto delle argomentazioni di quell’uomo, ma
non riusciva a vedere una via d’uscita. Sapeva fin nel midollo che
c’era qualcosa di terribilmente sbagliato, ma non era in grado di
trovare le parole per esprimerlo.
La voce di Naomi lo fece sussultare.
«Li ha convinti?» chiese.
«Come dice, prego?» replicò Dresden.
«Gli scienziati. I tecnici. Tutti coloro di cui aveva bisogno per farlo
succedere. Hanno dovuto fare tutto questo. Hanno dovuto guardare
quei video, con tutta quella gente che moriva su Eros. Hanno dovuto
progettare quelle camere della morte radioattive. Per cui, a meno
che lei non sia riuscito a radunare ogni serial killer del sistema solare
e a fargli seguire un master post laurea, come ha fatto?»
«Abbiamo modificato la nostra squadra scientifica per rimuovere i
vincoli morali.»
Nella testa di Holden, una mezza dozzina di indizi andarono al loro
posto con un clic.
«Sociopatici» disse. «Li hai trasformati in sociopatici.»
«Sociopatici altamente qualificati» precisò Dresden con un cenno
del capo. Sembrava compiaciuto mentre lo spiegava. «Ed
estremamente curiosi. Fintantoché li rifornivamo di problemi
interessanti da risolvere e di risorse illimitate, rimanevano piuttosto
soddisfatti.»
«E tenevate pronta una squadra di sicurezza armata con proiettili
antisommossa per quando non lo erano» aggiunse Fred.
«Sì, abbiamo qualche problema, di tanto in tanto» riconobbe
Dresden. Si guardò intorno, aggrottando impercettibilmente la fronte.
«Lo so. Pensate che sia mostruoso, ma io sto salvando la razza
umana. Sto consegnando le stelle all’umanità. Disapprovate? Bene.
Lasciate che vi faccia una domanda: potete salvare Eros? Ora, in
questo medesimo istante.»
«No» rispose Fred. «Ma possiamo...»
«Sprecare i dati» continuò Dresden. «Potete fare in modo che ogni
uomo, donna e bambino che sia morto su Eros, sia morto per
niente.»
Nella sala scese di nuovo il silenzio. Fred era accigliato, con le
braccia incrociate. Holden capì il dilemma che attanagliava la sua
mente. Tutto ciò che aveva detto Dresden era disgustoso,
inquietante, eppure sapeva troppo di verità.
«O invece» continuò Dresden «possiamo negoziare un prezzo, voi
ve ne andate di nuovo per la vostra strada, e io potrò...»
«Okay. Basta così» disse Miller, parlando per la prima volta da
quando Dresden aveva cominciato il suo lungo discorso. Holden
scoccò un’occhiata al detective. La sua espressione imperturbabile
si era fatta dura. Non stava più picchiettando la canna della pistola
sulla coscia.
Oh, merda.
42

Miller

Dresden non se lo aspettava. Perfino quando Miller alzò la pistola,


gli occhi dell’uomo non registrarono nessuna minaccia. Non videro
altro che Miller, con un oggetto in mano, che per puro caso era una
pistola. Un cane si sarebbe spaventato, ma non Dresden.
«Miller!» gridò Holden, da grande distanza. «Non farlo!»
Tirare il grilletto fu semplice. Un ticchettio morbido, il rinculo del
metallo sul suo palmo guantato, e poi di nuovo, due volte. La testa di
Dresden scattò all’indietro sprigionando un fiotto rosso. Il sangue
schizzò su un ampio schermo, oscurando il flusso di dati. Miller si
avvicinò, sparò altri due colpi in petto a Dresden, lo osservò per un
istante, poi rinfoderò la pistola.
La sala rimase in silenzio. I soldati dell’APE si guardavano confusi
l’un l’altro, o fissavano Miller, sorpresi da quell’improvvisa violenza,
perfino dopo la confusione dell’assalto. Naomi e Amos guardavano
Holden, che fissava il cadavere. Il viso ferito di Holden sembrava
una maschera: rabbia, indignazione, forse perfino disperazione.
Miller lo capiva. Fare la cosa più ovvia non era ancora naturale per il
capitano. C’era stato un tempo in cui non era stato facile nemmeno
per l’ex poliziotto.
Solo Fred non fece una piega, né sembrò nervoso. Il colonnello
non sorrise né si accigliò, e non distolse lo sguardo.
«Che cazzo hai fatto?» esclamò Holden con il suo naso otturato
dal sangue. «Gli hai sparato a sangue freddo!»
«Già» ammise Miller.
Holden scosse la testa. «E che ne è del processo? Che ne è della
giustizia? Decidi tu, ed è così che va?»
«Sono uno sbirro» rispose Miller, sorpreso dal tono giustificatorio
nella sua voce.
«Sei ancora umano, almeno?»
«E va bene, signori!» disse Fred, con voce tonante in quel silenzio.
«Lo spettacolo è finito. Torniamo al lavoro. Voglio qui la squadra di
decriptaggio. Abbiamo dei prigionieri da evacuare e una stazione da
passare al setaccio.»
Lo sguardo di Holden si spostò da Fred a Miller, al corpo di
Dresden ancora morente. Aveva la mascella serrata per la rabbia.
«Ehi, Miller» disse Holden.
«Sì?» replicò piano Miller. Sapeva che cosa stava per dire.
«Trovatelo da solo, un passaggio per tornare a casa» disse il
capitano della Rocinante, poi si voltò e uscì furioso dalla sala,
seguito dal suo equipaggio. Miller li guardò mentre si allontanavano.
Un rimpianto bussò piano alla porta del suo cuore, ma non c’era
niente da fare. La paratia sfondata sembrò inghiottirli. Miller si voltò
verso Fred.
«Posso chiederle un passaggio?»
«Indossa i nostri colori» disse Fred. «La porteremo fino a Tycho.»
«La ringrazio» rispose Miller. Poi, un momento dopo, aggiunse:
«Lei sa che andava fatto.»
Fred non rispose. Non c’era niente da dire.
La Stazione di Thoth era danneggiata, ma non morta. Non ancora.
La notizia della squadra di sociopatici si diffuse rapidamente, e le
forze dell’APE presero a cuore l’avvertimento. La fase di occupazione
e controllo dell’attacco durò quaranta ore invece delle venti previste
con dei prigionieri normali. Con degli esseri umani. Miller fece quel
che poté per dare una mano nel controllo dei prigionieri.
I ragazzi dell’APE erano benintenzionati, ma la maggior parte di loro
non aveva mai lavorato con dei prigionieri prima di allora. Non
sapevano come tagliare polsi e gomiti per evitare che i criminali
potessero allungare le braccia e strangolarli. Non sapevano come
contenere un uomo con un pezzo di corda attorno alla gola per
evitare che il prigioniero soffocasse a morte, per incidente o
intenzionalmente. La metà di loro non era nemmeno in grado di
perquisire un uomo. Miller conosceva tutte queste cose, come un
gioco che aveva fatto fin da bambino. In cinque ore, trovò venti lame
nascoste soltanto tra i membri della squadra scientifica. Non dovette
nemmeno pensarci.
Arrivò una seconda ondata di navi per il trasporto: navi per il
personale che sembravano pronte a sgonfiarsi nel vuoto non appena
gli sputavi addosso, rimorchiatori da salvataggio che già stavano
smantellando l’involucro e la sovrastruttura della stazione, navi per il
rifornimento che impacchettavano e mettevano via le preziose
dotazioni dei laboratori, saccheggiando farmacie e dispense. Per
quando la notizia dell’assalto avesse raggiunto la Terra, la stazione
sarebbe già stata ridotta a uno scheletro e i suoi occupanti nascosti
in carceri non autorizzate sparse per la Fascia.
La Protogen l’avrebbe saputo prima, naturalmente. Disponeva di
avamposti molto più vicini dei pianeti interni. C’era un calcolo del
tempo di risposta e del possibile guadagno. La matematica della
pirateria e della guerra. Miller lo sapeva, ma non lasciò che la cosa
lo preoccupasse. Quelle erano decisioni che spettavano a Fred e ai
suoi funzionari. Lui aveva preso abbastanza iniziative, per quel
giorno.
Postumano.
Era una parola che rimbalzava tra i media ogni cinque o sei anni, e
ogni volta significava una cosa diversa. L’ormone di ricrescita
neurale? Postumano. Robot sessuali con pseudointelligenza
impiantata? Postumani. Percorso di rete auto-ottimizzante?
Postumano. Era una parola da pubblicitario, senza vita e vuota, e
tutto ciò che aveva sempre pensato significasse davvero era che le
persone che la impiegavano avevano un’immaginazione limitata
riguardo a ciò che gli umani erano in grado di fare.
Ora, mentre scortava una dozzina di prigionieri in uniformi della
Protogen verso una nave all’attracco diretta dio sapeva dove, quella
parola stava assumendo un nuovo significato.
Sei ancora umano, almeno?
Tutto quel che ‘postumano’ significava, letteralmente, era ciò che
eri quando non eri più umano. A parte la protomolecola, a parte la
Protogen, a parte Dresden e le sue ipocrite fantasie alla
Mengele/Gengis Khan, Miller pensò che forse era stato sempre in
anticipo. Forse era stato postumano per tutti quegli anni.
Il punto critico giunse quaranta ore più tardi, e fu il momento di
andare. L’APE aveva spolpato la stazione, ed era tempo di levare le
tende prima che arrivasse qualcuno con l’intenzione di vendicarsi.
Miller si accomodò su un sedile, con il sangue pieno di anfetamine
esaurite e la mente che scivolava dentro e fuori da una psicosi da
esaurimento fisico. La gravità di accelerazione fu come un cuscino
premuto sul viso. Si accorse soltanto vagamente che stava
piangendo. Non significava niente.
Nella nebbia della semincoscienza, Dresden continuava a parlare,
vomitando suggerimenti e menzogne, mezze verità e visioni. Miller
vedeva le parole come un fumo scuro, che si addensava nei
filamenti avviluppati della protomolecola. Quei tentacoli si
allungavano verso Holden, Amos, Naomi... Cercò la pistola, tentò di
fermarli, di fare la cosa più ovvia. Il suo grido disperato lo svegliò, e
si ricordò di aver già vinto.
Julie era seduta accanto a lui, con la mano fresca sulla sua fronte.
Gli sorrideva gentile, comprensiva. Lo perdonava.
Dormi, gli disse, e la sua mente precipitò in un buio profondo.
«Ehi, Pampaw» disse Diogo. «Acima e fuori, sabez?»
Era la decima mattina da quando Miller era tornato su Tycho, il
settimo giorno in cui dormiva nell’appartamento piccolo come un
ripostiglio di Diogo. Dalla nota nella voce del ragazzo, capì che era
uno degli ultimi. Il pesce e gli ospiti cominciano a puzzare dopo tre
giorni. Rotolò giù dalla brandina, si passò le dita tra i capelli e annuì.
Diogo si spogliò e salì sul letto senza dire una parola. Puzzava di
liquore e di marijuana di contrabbando da due soldi.
Il terminale di Miller gli disse che il secondo turno era finito due ore
prima e che il terzo era già a metà mattinata. Raccolse le sue cose
nella valigia, spense le luci sulla sagoma già addormentata e
russante di Diogo e barcollò fuori verso le docce pubbliche, dove
avrebbe speso un po’ dei suoi ultimi crediti residui per sembrare un
po’ meno senzatetto.
La piacevole sorpresa al suo ritorno sulla Stazione di Tycho erano
stati i soldi che aveva trovato sul suo conto. L’APE, ovvero Fred
Johnson, l’aveva pagato per il tempo passato su Thoth. Miller non ne
aveva fatto richiesta, e una parte di lui avrebbe voluto rifiutare quel
pagamento. Se avesse avuto un’alternativa, l’avrebbe fatto. Ma visto
che non c’era scelta, aveva cercato di far durare quel denaro il più
possibile, apprezzandone l’ironia. Lui e il capitano Shaddid erano
sullo stesso libro paga, dopotutto.
Per i primi, pochi giorni dopo il suo ritorno su Tycho, Miller si era
aspettato di trovare l’attacco su Thoth nei notiziari. ‘Società terrestre
perde stazione di ricerca invasa da cinturiani impazziti’, o roba del
genere. Si sarebbe dovuto trovare un lavoro o un posto in cui
dormire che non fossero semplice opera di carità. Aveva tutta
l’intenzione di farlo. Ma le ore sembravano dissolversi mentre se ne
stava seduto in un bar o in una sala d’attesa, guardando gli schermi
per qualche interminabile minuto.
La marina marziana aveva subìto una serie di fastidiosi attacchi da
parte dei cinturiani. Mezza tonnellata di pietrisco superaccelerato
aveva costretto due delle loro navi da guerra a cambiare rotta. Il
rallentamento della raccolta d’acqua sugli anelli di Saturno poteva
essere un boicottaggio illegale del lavoro, e dunque tradimento,
oppure la risposta naturale alle crescenti necessità di sicurezza. Due
attività minerarie di proprietà terrestre erano state attaccate, da
Marte oppure dall’APE. Erano morte quattrocento persone. Il blocco
imposto dalla Terra a Marte stava entrando nel suo terzo mese. Una
coalizione di scienziati e specialisti del terraforming gridava ai
quattro venti che i processi a cascata erano in serio pericolo e che,
mentre la guerra sarebbe finita in un anno o due, la perdita di risorse
avrebbe riportato indietro di intere generazioni lo sforzo di
terraformazione. Tutti incolpavano tutti per Eros. La Stazione di
Thoth non esisteva.
Eppure esisteva.
Con la maggior parte delle navi della marina marziana ancora
intorno ai pianeti esterni, l’assedio della Terra era un’azione debole.
Il tempo era agli sgoccioli. O i marziani sarebbero tornati verso casa,
tentando di affrontare le navi più vecchie e lente, ma molto più
numerose, della Terra, o si sarebbero buttati direttamente contro il
pianeta nemico. La Terra era ancora la fonte di un migliaio di cose
che non potevano crescere altrove ma, se qualcuno diventava
troppo allegro, o sicuro di sé, o disperato, non ci sarebbe voluto
molto prima che si cominciasse a gettare asteroidi giù per i pozzi di
gravità.
E tutto questo era solo una distrazione.
C’era una vecchia barzelletta. Miller non si ricordava dove l’aveva
imparata. Al funerale di suo padre, una ragazza incontra questo
ragazzo davvero carino. Si parlano, si piacciono, ma lui se ne va
prima che lei riesca a ottenere il suo numero. La ragazza non sa
come rintracciarlo.
Per cui, una settimana dopo, ammazza sua madre.
Grasse risate.
Era la logica della Protogen, di Dresden, di Thoth. Questo è il
problema, si dicevano, e questa è la soluzione. Il fatto che fosse
fradicia di sangue innocente era irrilevante tanto quanto il carattere
scelto per la stampa dei rapporti. Si erano disconnessi dall’umanità.
Avevano staccato le cellule del proprio cervello che rendevano sacra
ogni vita oltre la loro. O preziosa. O degna di essere salvata. Era
costato loro ogni legame umano.
Buffo, come gli sembrasse familiare.
Il tipo che entrò nel bar e salutò Miller con un cenno del capo era
uno degli amici di Diogo. Vent’anni, o forse poco meno. Un veterano
della Stazione di Thoth, proprio come Miller. Non ricordava il nome
del ragazzo, ma l’aveva visto in giro abbastanza spesso da sapere
che il modo in cui si comportava era diverso dal solito. Molto
nervoso. Miller tolse l’audio al notiziario sul suo terminale e gli andò
incontro.
«Ehi» disse, e il ragazzo alzò bruscamente gli occhi. Aveva il viso
teso, ma cercò di nasconderlo con un’espressione affettatamente più
rilassata. Era solo il nonno di Diogo. Quello che aveva eliminato il
più grande cazzone di tutto l’universo – lo sapevano tutti. La cosa
aveva fatto guadagnare qualche punto a Miller, per cui il ragazzo gli
sorrise e lo invitò a sedersi accanto a lui con un cenno del capo.
«Un bel casino, eh?» esclamò Miller.
«Non dirlo nemmeno» rispose il ragazzo. Aveva un lieve accento.
Cinturiano, vista l’altezza, ma con una certa educazione.
Probabilmente un tecnico. Il ragazzo ordinò un drink dal terminale, e
il bar gli offrì un bicchiere di un liquido tanto volatile che Miller poteva
vederlo evaporare. Il ragazzo lo scolò in un sorso.
«Non funziona» disse Miller.
Il ragazzo lo fissò. Miller si strinse nelle spalle.
«Dicono che bere aiuti, ma non è così» ribadì Miller.
«No?»
«No. A volte il sesso, se hai una ragazza che dopo parla con te. O
il poligono di tiro. A volte l’esercizio fisico. Ma il liquore non ti fa
sentire meglio. Ti toglie solo la preoccupazione di star male.»
Il ragazzo rise e scosse la testa. Era lì lì per parlare, per cui Miller
si rilassò e aspettò che il silenzio facesse il lavoro al posto suo.
Immaginò che il giovane avesse ucciso qualcuno, probabilmente su
Thoth, e che si stesse rodendo il fegato. Invece di raccontargli la sua
storia, però, il ragazzo prese il terminale di Miller, inserì alcuni codici
locali e glielo restituì. Sullo schermo apparve un corposo menu di
opzioni: video, audio, pressione e composizione dell’aria, dati
radiologici. Miller impiegò mezzo secondo per capire che cosa aveva
sotto gli occhi. Avevano violato i codici di accesso criptati dei file di
Eros.
Stava vedendo gli effetti della protomolecola in azione. Sotto gli
occhi aveva il cadavere di Juliette Mao che si diffondeva. Per un
istante, la sua Julie immaginaria vacillò accanto a lui.
«Se ti capita di chiederti se hai fatto la cosa giusta, sparando a
quel tipo,» disse il ragazzo «guarda questo.»
Miller aprì un video. C’era un lungo corridoio, abbastanza largo per
venti uomini fianco a fianco. Il pavimento era umido e ondulato come
la superficie di un canale. Qualcosa di piccolo rotolava
bizzarramente attraverso la fanghiglia. Quando Miller ingrandì
l’immagine, vide che era un busto umano – cassa toracica, spina
dorsale, metri di quel che un tempo erano intestini e ora erano
diventati i lunghi filamenti neri della protomolecola – che si
trascinava aiutandosi con il moncone di un braccio. Non c’era testa.
Il menu mostrava che c’era anche l’audio, e Miller riattivò il volume.
Un verso acuto e insensato gli fece venire in mente quei bambini
mentalmente disturbati che canticchiavano tra sé e sé.
«È tutto così» disse il ragazzo. «L’intera stazione è piena di... di
merda come quella.»
«Che cosa sta facendo?»
«Sta costruendo qualcosa» rispose il ragazzo, stringendosi nelle
spalle. «Pensavo che dovessi vederlo.»
«Sì?» disse Miller, con gli occhi fissi sullo schermo. «Che ti ho fatto
di male?»
Il giovane scoppiò a ridere.
«Tutti quanti pensano che tu sia un eroe per aver ammazzato quel
tipo» disse il ragazzo. «Tutti sono del parere che dovremmo buttare
fuori da un portellone fino all’ultimo dei prigionieri che abbiamo
catturato su quella stazione.»
Probabilmente andrebbe fatto, pensò Miller, se non si trova il modo
di farli tornare umani. Cambiò video. Il livello dei casinò dov’erano
passati lui e Holden, o comunque una sezione molto simile. Una
ragnatela di qualcosa che somigliava a delle ossa congiungeva i
soffitti al tetto. Cose nere simili a vermi lunghe un metro strisciavano
su e giù per la struttura. Il suono era una carezza, come quelle
registrazioni delle onde del mare sulla spiaggia che aveva ascoltato.
Miller cambiò di nuovo video. Il porto, con le paratie chiuse e
incrostate di grosse spirali a forma di nautilo che sembravano
muoversi mentre le osservava.
«Tutti pensano che sei un cazzo di eroe» disse il ragazzo. Stavolta
fece presa. Miller scosse la testa.
«Nah» rispose. «Sono solo un tipo che un tempo era uno sbirro.»
Perché caricare a testa bassa in uno scontro a fuoco, precipitarsi in
una stazione nemica piena di gente e di sistemi automatici progettati
per ucciderti sarebbe dovuto sembrare meno spaventoso di andare
a parlare con delle persone con cui avevi viaggiato per settimane
intere?
Eppure era proprio così.
Era il terzo turno, e il bar della piattaforma di osservazione era
impostato per imitare la notte. L’aria era profumata di qualcosa di
fumoso che non era fumo. Un pianoforte e un basso duellavano
pigramente mentre una voce maschile cantava lamentosa in arabo.
Fioche luci baluginavano alla base dei tavoli, proiettando morbide
ombre sui volti e sui corpi, enfatizzando le gambe, la pancia e il seno
degli avventori. I cantieri navali oltre le finestre erano indaffarati
come sempre. Se si avvicinava, Miller poteva individuare la
Rocinante, che si stava riprendendo dalle ferite riportate. Non era
morta, e la stavano rendendo ancora più forte.
Amos e Naomi erano a un tavolo in un angolo. Nessun segno di
Alex. Nessun segno di Holden. Questo rendeva la cosa più
semplice. Non del tutto semplice, ma quasi. Si fece strada verso di
loro. Naomi lo vide per prima, e Miller notò il disagio nella sua
espressione, mascherato rapidamente così com’era apparso. Amos
si voltò per vedere che cosa l’avesse fatta reagire a quel modo, e gli
angoli della sua bocca e dei suoi occhi non s’incurvarono né in un
cipiglio, né in un sorriso. Miller si grattò un braccio, anche se non gli
prudeva.
«Ehi» disse. «Posso offrirvi un giro di bevute?»
Il silenzio durò un istante di troppo, poi però Naomi fece un sorriso
forzato.
«Sicuro. Soltanto uno, però. Abbiamo... quella faccenda. Per il
capitano.»
«Ah, già» disse Amos mentendo ancor più impacciatamente di
Naomi, e mostrando di aver compreso la verità nascosta in quel
messaggio. «Quella faccenda. Quella importante.»
Miller si sedette, alzò una mano per farsi vedere dal cameriere, e,
quando l’uomo annuì, si chinò in avanti con i gomiti sul tavolo. Era la
versione seduta della posizione di guardia da lottatore, chino in
avanti con le braccia a protezione dei punti deboli sul collo e sulla
pancia. Era quella di un uomo che si aspettava di ricevere danni.
Il cameriere arrivò al tavolo, e Miller ordinò birra per tutti. Pagò con
i soldi dell’APE e prese un bel sorso.
«Come sta la nave?» chiese alla fine.
«Sta riprendendo forma» rispose Naomi. «L’hanno davvero pestata
per bene.»
«Ma volerà ancora» intervenne Amos. «È una bestiaccia tosta.»
«Bene. Quando...» disse Miller, poi inciampò nelle parole e dovette
ricominciare. «Quand’è che ripartite?»
«Quando vuole il capitano» rispose Amos stringendosi nelle spalle.
«Ormai siamo di nuovo a tenuta stagna, per cui anche domani, se
avesse bisogno di andare da qualche parte.»
«E se Fred ce lo permetterà» aggiunse Naomi, poi fece una
smorfia come se avrebbe fatto meglio a tenere la bocca chiusa.
«Avete davvero questo problema?» chiese Miller. «L’APE sta
trattenendo Holden?»
«È solo una cosa che avevo in mente» rispose Naomi. «Non è
niente. Senti, grazie per il drink, Miller. Ma credo che faremmo
meglio ad andare.»
Miller fece un lungo respiro ed espirò piano.
«Già» rispose. «Okay.»
«Tu va’ avanti» disse Amos a Naomi. «Io ti raggiungo.»
Naomi scoccò un’occhiata confusa all’omone, ma Amos si limitò a
restituirle un sorriso. Poteva significare qualsiasi cosa.
«Va bene» disse Naomi. «Ma non metterci troppo, okay? Quella
faccenda...»
«...per il capitano» completò Amos. «Vai tranquilla.»
Naomi si alzò e si allontanò. Il suo sforzo per non guardarsi alle
spalle era evidente. Miller si voltò verso Amos. Le luci davano al
meccanico un’apparenza vagamente diabolica.
«Naomi è una brava persona» disse Amos. «Mi piace, sai? Come
la mia sorellina, solo più intelligente. E me la farei, se lei ci stesse.
Hai presente?»
«Già» rispose Miller. «Piace anche a me.»
«Non è come noi» disse Amos, e tutto il calore e l’umorismo erano
svaniti.
«È per questo che mi piace» spiegò Miller. Era la cosa giusta da
dire. Amos annuì.
«Per cui, ecco come stanno le cose: per quanto riguarda il
capitano, ora come ora sei nella merda fino al collo.»
La schiuma di bollicine nel punto in cui la birra toccava il bicchiere
brillava di bianco nella luce tenue. Miller lo girò di novanta gradi,
osservandola da vicino.
«Perché ho ucciso un uomo che bisognava uccidere?» chiese
Miller. L’amarezza nella sua voce non era sorprendente, ma era più
marcata di quanto non fosse sua intenzione. Amos non se ne
accorse, o non gli importava.
«Perché hai l’abitudine di farlo» spiegò Amos. «Il capitano non è
così. Uccidere le persone senza prima parlarne a lungo lo rende
nervoso. Tu l’hai fatto un sacco di volte su Eros, ma... sai com’è.»
«Già» disse Miller.
«La Stazione di Thoth non era Eros. E neanche il prossimo posto
in cui andremo sarà Eros. Holden non ti vuole intorno.»
«E il resto di voi?» chiese Miller.
«Nemmeno noi ti vogliamo intorno» rispose Amos. La sua voce
non era né dura, né gentile. Stava parlando della taratura di una
macchina. Stava parlando di qualsiasi cosa. Quelle parole colpirono
l’ex poliziotto allo stomaco, proprio dove se l’era aspettato. Non
avrebbe potuto pararle.
«Questo è il fatto» continuò Amos. «Tu e io siamo molto simili. Ne
abbiamo viste di cotte e di crude. Io so quello che sono, e la mia
bussola morale... be’, lascia che te lo dica: è andata. Quando ero un
ragazzo, alcune cose le vedevo diversamente. Sarei potuto essere
uno di quei banditi su Thoth. Lo so per certo. Il capitano no. Non è
fatto così. È la cosa più vicina a un uomo giusto che si possa
trovare. E quando dice che sei fuori, è così e basta, perché, per
come la vedo io, probabilmente ha ragione. Di sicuro, ha più
possibilità di averne di quanta non ne abbia io.»
«Okay» rispose Miller.
«Già» ripeté Amos. Finì la sua birra. Poi si scolò quella di Naomi. E
infine se ne andò, lasciando Miller da solo con il senso di vuoto allo
stomaco. Fuori, la Nauvoo esibì una scintillante batteria di sensori,
testandone il funzionamento, o magari soltanto per vanità. Miller
rimase in attesa.
Accanto a lui, Julie Mao si chinò sul tavolo, proprio dove era stato
Amos.
Allora, gli disse. A quanto pare siamo solo io e te, adesso.
«A quanto pare» ripeté lui.
43

Holden

Un’operaia della Tycho in tuta blu e maschera da saldatore sigillò il


foro su una delle paratie della cambusa. Holden la osservava
coprendosi gli occhi con una mano, per ripararsi dal bagliore
tagliente della fiamma azzurra. Quando la placca di acciaio fu al suo
posto, la donna alzò la maschera per controllare il lavoro. Aveva gli
occhi azzurri e una boccuccia delicata su un viso da fatina a forma di
cuore, e una massa di capelli rossi raccolti a ciocca. Si chiamava
Sam; era il caposquadra del progetto di riparazione della Rocinante.
Amos gli andava dietro da due settimane, senza successo. Holden
ne era felice, perché la fatina si era rivelata essere uno dei migliori
meccanici che avesse mai conosciuto, e gli sarebbe dispiaciuto
vederla concentrarsi su qualcosa di diverso dalla sua nave.
«Perfetto» le disse mentre lei passava una mano guantata sul
metallo che ancora stava raffreddando.
«Può andare» replicò lei, stringendosi nelle spalle. «Lo
smerigliamo per bene, ci diamo una mano di copertura e non ti
ricorderai nemmeno più che la tua bella nave si era fatta la bua.»
Aveva una voce sorprendentemente profonda, contrastante con il
suo aspetto e la sua abitudine di usare ironicamente modi di dire
infantili. Holden immaginò che quell’aspetto combinato con la
professione scelta avesse portato molte persone a sottovalutarla, in
passato. Non voleva commettere lo stesso errore.
«Hai fatto un gran bel lavoro, Sam» disse. Immaginò che Sam
fosse il diminutivo di qualcosa, ma non glielo aveva mai chiesto e lei
non l’aveva mai rivelato. «Non riesco a smettere di dire a Fred
quanto siamo contenti di averti come caposquadra per questo
lavoro.»
«Ah, magari mi darà una bella stellina d’oro sulla prossima scheda
di valutazione» rispose lei mentre riponeva il cannello e si alzava.
Holden cercò di trovare qualcosa da dire, ma non ci riuscì.
«Scusa» disse lei, voltandosi per guardarlo. «Ti sono grata per i
tuoi apprezzamenti in presenza del capo. E, a dire il vero, è stato
molto divertente lavorare sulla tua ragazza. È proprio una gran nave.
Con le botte che ha preso, qualunque altra che abbiamo noi sarebbe
andata in pezzi.»
«C’è mancato poco, anche per noi» replicò Holden.
Sam annuì, poi cominciò a mettere via il resto dei suoi attrezzi.
Mentre lavorava, Naomi scese per la scala dell’equipaggio dal ponte
superiore, con degli arnesi da elettricista appesi alla tuta grigia.
«Come vanno le cose, lassù?» chiese Holden.
«Novanta percento» rispose Naomi mentre attraversava la
cambusa in direzione del frigorifero e prendeva una bottiglia di
succo. «Più o meno.» Prese una seconda bottiglietta e la lanciò a
Sam, che l’afferrò al volo con una mano.
«Naomi» disse Sam, alzando la bottiglia in un brindisi ironico prima
di scolarsene metà con un sorso solo.
«Sammy» rispose Naomi con un sorriso.
Quelle due erano andate subito d’accordo, e ora Naomi passava
un sacco di tempo con Sam e la sua squadra della Tycho. Holden
odiava doverlo ammettere, ma gli mancava essere l’unica cerchia
sociale di Naomi. Quando lo ammetteva a sé stesso, come in quel
momento, si sentiva un verme.
«Gara golgo in sala, stasera?» chiese Sam dopo aver scolato
l’ultima goccia di bevanda.
«Dici che quei fessi della C7 non si sono stancati di farsi fare il culo
a strisce?» rispose Naomi. A Holden sembrava quasi che parlassero
in codice.
«Possiamo lanciare la prima» disse Sam. «Li facciamo abboccare
di brutto prima di gettare il martello e spazzare via il loro tiro.»
«Ci sto» rispose Naomi, poi gettò la bottiglietta vuota nel cestino di
riciclo e fece per tornare su lungo la scala. «Ci vediamo alle otto,
allora.» Rivolse un saluto sbrigativo a Holden. «Ci vediamo,
capitano.»
«Quanto tempo pensi che ci vorrà, ancora?» chiese lui alle spalle
di Sam mentre finiva di rimettere a posto i suoi attrezzi.
Sam fece spallucce. «Un paio di giorni, forse, per renderla perfetta.
Potrebbe volare già adesso, probabilmente, se non sei preoccupato
di questioni estetiche e inessenziali.»
«Grazie ancora» disse Holden, tendendo la mano a Sam mentre
lei si voltava. La ragazza la strinse con il palmo pieno di calli, in una
presa solida. «Spero che gli facciate mangiare la polvere, a quei
fessi della C7.»
Lei gli rivolse un ghigno predatorio.
«Su questo non c’è alcun dubbio.»
Tramite Fred Johnson, l’APE aveva fornito all’equipaggio degli
alloggi sulla stazione durante la riparazione della Roci, e in quelle
ultime settimane la cabina era sembrata a Holden quasi una casa.
La Stazione di Tycho aveva parecchi soldi, e pareva propensa a
spendere molto per i propri impiegati. Holden aveva tre stanze tutte
per sé, inclusi un bagno e una cucina a vista sul salotto. Sulla
maggior parte delle stazioni, dovevi essere il governatore per godere
di tutti quei lussi. Holden aveva l’impressione che, su Tycho, quello
fosse lo standard per i quadri dirigenti.
Gettò la sua tuta macchiata di grasso nel cesto della biancheria
sporca e mise sul fuoco la caffettiera prima di entrare nel suo box
doccia privato. Una doccia ogni sera, dopo il lavoro: un altro lusso
quasi impensabile. Sarebbe stato facile farsi distrarre. Cominciare a
pensare a quel periodo di riparazione della nave e di tranquilla vita
casalinga come alla normalità, e non come a un interludio. Holden
non poteva permetterselo.
L’assalto della Terra a Marte riempiva i notiziari. Le cupole di Marte
erano ancora in piedi, ma due piogge di meteoriti avevano
bucherellato le ampie pendici di Olympus Mons. La Terra aveva
dichiarato che erano detriti provenienti da Deimos, Marte invece che
si trattava di una minaccia intenzionale e di una provocazione. Le
navi marziane stavano tornando a tutta velocità dai giganti gassosi
verso i pianeti interni. Ogni giorno, ogni ora avvicinava il momento in
cui la Terra avrebbe dovuto decidere se impegnarsi nella distruzione
totale di Marte o ritirarsi. La retorica dell’APE sembrava costruita per
assicurarsi che, chiunque vincesse, subito dopo si dedicasse a
distruggere loro. Holden aveva appena aiutato Fred in quello che la
Terra avrebbe visto come il più grande atto di pirateria della storia
della Fascia.
E un milione e mezzo di persone stavano morendo su Eros in
quello stesso momento. Holden pensò ai video che aveva guardato,
a quello che stava accadendo alla gente su quella stazione, e
rabbrividì anche sotto il getto d’acqua calda.
Ah... e gli alieni. Alieni che avevano cercato di invadere la terra due
miliardi di anni prima e che avevano fallito perché Saturno si era
messo in mezzo. Non possiamo dimenticarci degli alieni. Il suo
cervello non aveva ancora trovato un modo di accettare
quell’informazione, per cui continuava a far finta che non esistesse.
Holden afferrò un asciugamano e accese il pannello a parete del
salotto mentre si asciugava. L’aria era piena degli odori contrastanti
del caffè, dell’umidità della doccia e del profumo vagamente erboso
e floreale che la Tycho pompava in tutte le sue residenze. Holden
provò a cercare un notiziario, ma non sentì altro che speculazioni
sulla guerra, senza alcuna nuova informazione. Cambiò canale e
trovò un gioco televisivo con regole incomprensibili e partecipanti
frivoli ai limiti della psicosi. Esplorò alcuni canali video che
trasmettevano quelle che gli sembrarono commedie, perché gli attori
facevano una pausa e annuivano in tutti i punti in cui ci si aspettava
che ci fossero risate.
Quando cominciò a sentire dolore alla mascella, si rese conto che
stava digrignando i denti. Spense lo schermo e tirò il telecomando
sul letto nella stanza accanto. Si avvolse l’asciugamano attorno alla
vita, poi si versò una tazza di caffè e crollò sul divano, appena in
tempo prima che qualcuno suonasse alla sua porta.
«Che c’è?» gridò con tutto il fiato che aveva in corpo. Non ci fu
risposta. Sapevano come isolare un appartamento, su Tycho. Andò
alla porta, sistemandosi l’asciugamano per coprirsi meglio mentre si
alzava, e la spalancò.
Era Miller. Indossava un abito grigio sgualcito che si era
probabilmente portato da Ceres, e teneva goffamente il cappello tra
le mani.
«Ehi, Holden...» cominciò a dire, ma il capitano lo interruppe.
«Che diavolo vuoi?» chiese. «Sei davvero venuto alla mia porta
con il cappello in mano?»
Miller sorrise, poi si rimise il cappello in testa. «Mi sono sempre
chiesto che cosa significasse, sai.»
«Ora lo sai» replicò Holden.
«Hai un minuto?» disse Miller.
Holden esitò un momento, squadrando il detective allampanato. Si
arrese subito. Doveva pesare una ventina di chili in più di Miller, ma
era impossibile sortire un effetto intimidatorio quando la persona che
guardavi dall’alto in basso era trenta centimetri più alta di te.
«E va bene, entra pure» disse, poi si diresse verso la stanza da
letto. «Fammi vestire, prima. Lì c’è il caffè.»
Holden non aspettò la risposta; chiuse la porta della stanza e si
sedette sul letto. Lui e Miller non avevano scambiato più di una
decina di parole da quando erano tornati su Tycho. Sapeva che la
situazione non poteva rimanere così, anche se gli sarebbe piaciuto.
Quell’ultima conversazione in cui dire a Miller di togliersi dai piedi gli
era dovuta.
Si infilò un paio di pantaloni caldi di cotone e un maglione, si passò
una mano tra i capelli umidi e tornò in salotto. Miller era seduto sul
divano con una tazza fumante tra le mani.
«Buono, il caffè» disse il detective.
«Allora, sentiamo» replicò Holden, sedendosi su una poltrona di
fronte a lui.
Miller bevve un sorso di caffè e disse. «Be’...»
«Cioè, questa è la conversazione in cui tu vieni a dirmi quanto
avevi ragione a sparare in faccia a un uomo disarmato, e quanto io
sia troppo ingenuo per capirlo... giusto?»
«A dire il vero...»
«Te l’avevo detto, cazzo» riprese Holden interrompendolo,
sorpreso di sentire un calore salirgli alle guance. «Niente più
stronzate da giudice, giuria e carnefice, o ti saresti dovuto trovare un
passaggio su un’altra nave, e tu l’hai fatto lo stesso.»
«Sì.»
Quella semplice affermazione colse Holden di sorpresa.
«Perché?»
Miller bevve un altro sorso di caffè, poi posò la tazza. Alzò una
mano e si tolse il cappello, lo posò accanto a sé sul divano, poi si
appoggiò allo schienale.
«Stava per passarla liscia.»
«Come dici, scusa?» replicò Holden. «Ti sei perso la parte in cui
aveva confessato ogni cosa?»
«Non era una confessione. Era uno sfoggio. Era intoccabile, e lo
sapeva. Troppi soldi. Troppo potere.»
«Stronzate. Nessuno può ammazzare un milione e mezzo di
persone e farla franca.»
«La gente la fa franca continuamente. Colpevoli come il diavolo,
ma poi qualcosa si mette di mezzo. Le prove. La politica. Ho avuto
una partner per un po’ di tempo, si chiamava Muss. Quando la Terra
si è ritirata da Ceres...»
«Basta così» lo interruppe Holden. «Non m’interessa. Non voglio
più sentire le tue storie su come essere un poliziotto ti renda più
saggio e profondo e capace di affrontare le verità del genere umano.
Per quel che posso dire io, tutto ciò che ha fatto è stato distruggerti.
Chiaro?»
«Sì, chiaro.»
«Dresden e i suoi amichetti della Protogen pensavano di poter
decidere chi vive e chi muore. Ti dice niente? E non dirmi che è
diverso, stavolta, perché lo dicono tutti, ogni volta. E non lo è.»
«Non è stata una vendetta» replicò Miller, scaldandosi un po’
troppo.
«Ah, ma davvero? Quindi non si trattava della ragazza
nell’albergo? Julie Mao?»
«Acciuffarlo, sì. Ucciderlo...»
Miller sospirò e annuì tra sé e sé, poi si alzò e aprì la porta. Si
fermò sull’uscio e si voltò, con un’espressione autenticamente
addolorata in viso.
«Ci stava convincendo» disse Miller. «Tutta quella storia sulle stelle
da raggiungere, sul fatto di proteggerci da qualunque cosa abbia
sparato quell’affare verso la Terra... Stavo cominciando a pensare
che forse l’avrebbe passata liscia. Che forse erano semplicemente
cose troppo grandi per distinguere giusto e sbagliato. Non sto
dicendo che mi abbia convinto. Però mi ha fatto pensare che forse...
hai presente? Soltanto forse...»
«E per questo gli hai sparato.»
«È così.»
Holden sospirò, poi si appoggiò alla parete accanto alla porta
aperta, con le braccia conserte.
«Amos ti definisce giusto» disse Miller. «Lo sapevi?»
«Amos pensa di essere un cattivone perché ha fatto cose di cui si
vergogna» rispose Holden. «Non si fida sempre di sé stesso, ma il
fatto che se ne preoccupi mi fa capire che non è un tipo cattivo.»
«Già...» cominciò a dire Miller, ma Holden lo interruppe.
«Amos si guarda l’anima, vede le macchie e vorrebbe essere
pulito» spiegò. «Ma tu? Tu te le scrolli di dosso.»
«Dresden era...»
«Non sto parlando di Dresden. Sto parlando di te» replicò Holden.
«Non posso fidarmi di averti vicino alle persone a cui voglio bene.»
Holden fissò Miller, aspettando la sua replica, ma il poliziotto annuì
mestamente, poi si rimise il cappello e si allontanò lungo il corridoio
dolcemente incurvato. Non si voltò.
Holden rientrò e cercò di rilassarsi, ma si sentiva teso e nervoso.
Non sarebbe mai uscito vivo da Eros senza l’aiuto di Miller. Non
c’erano dubbi: sbatterlo fuori gli sembrava un gesto sbagliato.
Incompleto.
La verità era che Miller lo metteva a disagio tutte le volte in cui si
trovavano nella stessa stanza. Il poliziotto era come un cane
imprevedibile che ti poteva leccare la mano oppure azzannare un
polpaccio.
Holden pensò di chiamare Fred e di avvertirlo. Invece telefonò a
Naomi.
«Ehi» rispose lei al secondo squillo. In sottofondo, Holden sentì un
allegro rumore alcolico, da bar.
«Naomi» disse, poi fece una pausa e cercò di pensare a una
qualche scusa per averla chiamata. Quando non ne trovò alcuna,
aggiunse: «È appena passato Miller.»
«Sì, è venuto anche da me e Amos poco fa. Che cosa voleva?»
«Non lo so» rispose Holden con un sospiro. «Salutare, forse.»
«Che cosa stai facendo?» chiese Naomi. «Vuoi che ci vediamo?»
«Sì. Sì, mi piacerebbe.»
All’inizio Holden non riconobbe il bar ma, dopo aver ordinato uno
scotch a un cameriere professionalmente amichevole, si rese conto
che era lo stesso posto in cui aveva osservato Naomi che cantava al
karaoke una canzone punk cinturiana; sembravano passati secoli.
Lei gli venne incontro e si accomodò di fronte a lui al tavolo nello
stesso momento in cui arrivava il suo drink. Il cameriere le rivolse un
sorriso servizievole.
«Ah, no» disse lei svelta, agitando una mano. «Ho bevuto anche
troppo, per stasera. Solo acqua, grazie.»
Mentre il cameriere si affrettava verso il bancone, Holden disse:
«Com’è andato il tuo, uhm... che diavolo è questo golgo,
esattamente? Com’è andata la gara?»
«È un gioco di queste parti» spiegò Naomi, poi prese il suo
bicchiere d’acqua dal vassoio del cameriere di ritorno e ne bevve la
metà in un sorso solo. «Una specie d’incrocio tra freccette e calcio.
Mai visto prima, ma a quanto pare ci so fare. Abbiamo vinto.»
«Ottimo» esclamò Holden. «Grazie per essere venuta qui. So che
è tardi, ma questa storia di Miller mi ha messo un po’ d’angoscia
addosso.»
«Credo che voglia che tu lo assolva.»
«Già, perché sono ‘giusto’» disse Holden con una risata sarcastica.
«Lo sei» rispose Naomi senza alcuna ironia. «Voglio dire: è un
parolone... ma, tra quelli che conosco, tu sei la persona che più di
ogni altra si adatta meglio a questa definizione.»
«Ma se ho mandato tutto a puttane» sbottò Holden prima di potersi
fermare. «Ogni persona che ha provato ad aiutarci, o che abbiamo
provato ad aiutare, è morta in modo spettacolare. Tutta questa
fottuta guerra. E il capitano McDowell, Becca, Ade. E Shed...»
Dovette fermarsi per deglutire un improvviso nodo in gola.
Naomi si limitò ad annuire, poi si allungò oltre il tavolo e gli prese
una mano tra le sue.
«Ho bisogno che mi dica bene, Naomi» continuò lui. «Ho bisogno
di fare qualcosa che faccia la differenza. Il fato, il karma, Dio o
chissà che altro mi hanno gettato in mezzo a questa roba, e ho
bisogno di sapere che sto facendo la differenza.»
Naomi gli sorrise e strinse la sua mano.
«Sei carino, quando fai il nobile di spirito» disse. «Ma devi
sospingere di più lo sguardo in lontananza.»
«Ti stai prendendo gioco di me.»
«Già» disse lei. «Proprio così. Vuoi tornare a casa con me?»
«Io...» cominciò a rispondere Holden, poi si fermò e la fissò,
pensando che fosse uno scherzo. Naomi continuava a sorridergli,
senza nient’altro negli occhi se non calore e una nota di malizia.
Mentre la fissava, una ciocca di capelli le scese davanti agli occhi, e
lei la sistemò senza distogliere lo sguardo da lui. «Aspetta, cosa?
Pensavo che tu...»
«Ho detto di non dirmi che mi ami per portarmi a letto» ribatté. «Ma
ho aggiunto che sarei venuta nella tua cabina in qualunque
momento me l’avessi chiesto, in questi ultimi quattro anni. Non
pensavo di essere stata così sottile, e sono piuttosto stanca di
continuare ad aspettare.»
Holden si appoggiò allo schienale e cercò di ricordarsi come si
facesse a respirare. Il sorriso di Naomi divenne pura malizia mentre
inarcava un sopracciglio.
«Tutto bene, marinaio?» chiese.
«Pensavo che mi stessi evitando» rispose lui, una volta ritrovate le
parole. «Pensi che facendo questo mi dirà bene?»
«Non essere offensivo» replicò lei, anche se non c’era traccia di
rabbia nella sua voce. «Ho aspettato per settimane che ti decidessi a
prendere coraggio, e la nave è quasi riparata. Il che significa che
probabilmente ci farai partire volontari per qualcosa di molto stupido,
e stavolta la nostra fortuna potrebbe essersi esaurita.»
«Be’...» disse lui.
«Se dovesse succedere senza che ci abbiamo provato almeno una
volta, la cosa mi darebbe davvero molto fastidio.»
«Naomi, io...»
«È semplice, Jim» rispose lei, cercando la sua mano e attirandolo
verso di sé. Si chinò oltre il tavolo che li separava finché i loro volti
quasi non si toccarono. «È un sì o un no.»
«Sì.»
44

Miller

Miller sedeva da solo, fissando le grandi finestre panoramiche


senza vedere quello che c’era dietro. Il whisky di muffe sul basso
tavolo nero accanto a lui era rimasto nel bicchiere allo stesso livello
di quando l’aveva comprato. Non era veramente un drink. Era un
permesso di sedersi. C’era sempre stata una manciata di vagabondi,
anche su Ceres. Uomini e donne che avevano esaurito la loro
fortuna. Senza un posto in cui andare, senza nessuno a cui chiedere
favori. Nessuna connessione con la vasta rete dell’umanità. Aveva
sempre provato una sorta di simpatia per quegli individui, una
comunanza di spirito.
Ora faceva davvero parte di quella tribù disconnessa.
Qualcosa di luminoso apparve sulla pelle della grande nave
generazionale; forse una matrice di saldatura che posizionava
un’intricata rete di sottili connessioni. Oltre la Nauvoo, annidata nella
continua attività della Stazione di Tycho, simile a un alveare, c’era
quella sorta di mezza arca che era la Rocinante, come una casa che
un tempo era stata anche sua. Conosceva la storia di Mosè, che
vedeva una terra promessa in cui non sarebbe mai entrato. Miller si
chiese come si sarebbe sentito il vecchio profeta se fosse stato fatto
entrare per un istante – un giorno, una settimana, un anno – e poi
ricacciato nel deserto. Sarebbe stato più dolce non lasciare mai
quelle lande desolate. Più sicuro.
Accanto a lui, Juliette Mao lo guardava dall’angolino della sua
mente, che Miller aveva ricavato apposta per lei.
Avrei dovuto salvarti, pensò. Avrei dovuto ritrovarti. Trovare la
verità.
E non l’hai fatto?
Lui le sorrise e lei gli restituì il sorriso, stanca del mondo tanto
quanto lo era lui. Certo che l’aveva fatto. L’aveva trovata, aveva
scoperto chi fosse stato a ucciderla, e Holden aveva ragione. Si era
vendicato. Aveva compiuto tutto ciò che si era ripromesso di fare.
Solo che tutto questo non l’aveva salvato.
«Posso portarle qualcosa?»
Per mezzo secondo, Miller pensò che fosse stata Julie a parlare.
La cameriera aveva già aperto la bocca per chiederglielo una
seconda volta quando Miller scosse la testa. No, lei non poteva. E,
se anche fosse stata in grado di farlo, lui non poteva permetterselo.
Sapevi che non sarebbe durata, disse Julie. Holden, il suo
equipaggio. Lo sapevi che non era il tuo posto, quello. Il tuo posto è
qui con me.
Una botta improvvisa di adrenalina risvegliò il suo cuore stanco.
Miller si guardò intorno, cercandola, ma Julie era sparita. Il suo
riflesso autoindotto di attacco o fuga non gli lasciava spazio per
quelle allucinazioni a occhi aperti. Eppure... Il tuo posto è qui con
me.
Si chiese quante persone conoscesse che avessero finito per
imboccare quella strada. I poliziotti avevano una lunga tradizione di
suicidi, che affondava le sue radici in tempi ben precedenti all’epoca
in cui l’umanità era uscita dal pozzo di gravità. Eccolo lì, senza una
casa, senza un amico, con più sangue sulle mani in quell’ultimo
mese di quanto non ne avesse accumulato in tutta la sua passata
carriera. Lo strizzacervelli della centrale su Ceres la chiamava
‘ideazione suicida’ nella sua presentazione annuale alle squadre di
sicurezza. Qualcosa a cui prestare attenzione, come i parassiti
genitali o il colesterolo alto. Non era un grosso problema, se si stava
attenti.
Per cui sarebbe stato attento. Per un po’. Per vedere dove andava
a finire.
Si alzò in piedi, esitò per tre battiti, poi afferrò il suo bicchiere di
bourbon e lo scolò d’un fiato. Coraggio liquido, lo chiamavano, e
sembrò funzionare. Tirò fuori il terminale, inserì una richiesta di
connessione e cercò di ricomporsi. Non era ancora al capolinea. E,
se doveva vivere, aveva bisogno di un lavoro.
«Sabez nichts, Pampaw» disse Diogo. Il ragazzino indossava una
maglietta a rete e pantaloni tanto giovanili quanto orribili; nella sua
vita precedente, Miller l’avrebbe probabilmente catalogato come
troppo giovane per conoscere qualche informazione utile. Ora Miller
era in attesa. Se c’era qualcosa che poteva estorcere una promessa
a Diogo, era la prospettiva di far ottenere a Miller un buco tutto suo.
Il silenzio si protrasse. Miller si costrinse a non parlare per paura di
dover supplicare.
«Be’...» disse Diogo cautamente. «Be’. C’è un hombre che
potrebbe potere. Solo braccio e occhio.»
«Il lavoro di guardia di sicurezza mi sta bene» rispose Miller.
«Qualsiasi cosa che possa aiutarmi a pagare le bollette.»
«Il conversa á do. Sento cosa è detto.»
«Ti sarò grato per quello che potrai fare» rispose Miller, poi fece un
gesto verso il letto. «Ti spiace se...?»
«Mi cama es tu cama» disse Diogo. Miller si sdraiò.
Diogo entrò nella piccola doccia, e il rumore dell’acqua sulla pelle
affogò quello del riciclatore d’aria. Miller non aveva vissuto in
circostanze fisiche tanto intime dal suo matrimonio, nemmeno su
una nave. Eppure, non si sarebbe spinto tanto in là da definire Diogo
un amico.
Su Tycho c’erano meno opportunità di quanto avesse sperato, e
non aveva molte referenze. Le poche persone che lo conoscevano
non erano propense a parlare in suo favore. Ma doveva pur esserci
qualcosa. Tutto ciò che gli serviva era un modo per ricostruirsi, per
ricominciare da capo e diventare qualcuno di diverso da chi era stato
fino ad allora.
Dando per scontato, naturalmente, che la Terra o Marte – chiunque
fosse uscito vincitore dalla guerra – non decidesse di cancellare dal
cielo l’APE e tutte le stazioni a essa leali. E che la protomolecola non
uscisse fuori da Eros, portando sterminio su un altro pianeta. O su
una stazione. O uccidendo lui. Ebbe un brivido passeggero al ricordo
del campione di quella cosa che era ancora a bordo della Roci. Se
fosse successo qualcosa, Holden e Naomi, Alex e Amos rischiavano
di raggiungere Julie molto prima di lui.
Si disse che non era più un suo problema. Però sperava che
sarebbero stati bene. Voleva che stessero bene, anche se lui non
stava bene affatto.
«Ehi, Pampaw» disse Diogo mentre apriva la porta sul corridoio
pubblico. «Hai sentito che Eros ha cominciato a parlare?»
Miller si tirò su appoggiandosi su un gomito.
«Sì» proseguì Diogo. «Qualunque cosa sia quella merda, ha
cominciato a trasmettere. Ci sono pure parole e altre merdate. Ho un
video. Vuoi ascoltare?»
No, pensò Miller. No, quei corridoi li ho visti con i miei occhi. Quel
che è successo a quelle persone, per poco non accadeva anche a
me. Non voglio avere niente a che fare con quell’abominio.
«Sicuro» disse.
Diogo tirò fuori il suo terminale palmare e digitò qualcosa. Il
terminale di Miller trillò, segnalando di aver ricevuto un nuovo
collegamento.
«Chicá perdída in plancia ne ha mischiato un po’ con del bhangra»
disse Diogo, facendo un passo di danza con le anche. «Tosta, eh?»
Diogo e gli altri irregolari dell’APE avevano fatto breccia in una
stazione di ricerca di altissimo valore, avevano affrontato una delle
società più potenti e malvagie nella storia del potere e della
malvagità. E ora facevano musica con le grida dei moribondi. O dei
morti. Ci ballavano sopra nei loro club di quart’ordine. Come
dev’essere, pensò Miller; giovani e senz’anima.
Ma no. Non era giusto. Diogo era un bravo ragazzo. Era solo un
po’ ingenuo. L’universo se ne sarebbe occupato, con un po’ di tempo
a disposizione.
«Tosta» disse Miller. Diogo sorrise.
Il video era rimasto in coda, in attesa. L’ex poliziotto spense le luci,
lasciando che la brandina sopportasse il suo peso nella pressione
della rotazione. Non voleva sentire. Non voleva sapere. Ma doveva
farlo.
All’inizio, il rumore non era niente; ronzii elettrici e fruscio
elettrostatico incontrollato. Poi ci fu forse qualcosa in sottofondo, una
musica. Un coro di viole che rimestavano insieme in un lungo,
distante crescendo. Poi, con la stessa chiarezza di qualcuno che
stava parlando in un microfono, giunse una voce.
«Conigli e hamster. Ecologicamente squilibranti, rotondi e blu come
raggi lunari. Agosto.»
Quasi sicuramente non si trattava di una persona in carne e ossa. I
sistemi computerizzati su Eros potevano generare un numero
qualunque di dialetti e voci perfettamente convincenti. Di uomini,
donne e bambini. E quanti milioni di ore di dati potevano esserci sui
computer e nei depositi di memoria di tutta la stazione?
Un altro ronzio elettronico, come di fringuelli che volteggiavano in
cerchio. Una nuova voce, stavolta femminile e dolce, con un battito
insistente in sottofondo.
«Il paziente lamenta un battito accelerato e sudori notturni.
L’emergere della sintomatologia risale a tre mesi fa, ma con una
storia...»
La voce s’infiacchì e il battito aumentò. Come un vecchio con dei
fori da groviera svizzera nel cervello, il complesso sistema che era
stato Eros stava morendo, cambiando, perdendo la testa. E, poiché
la Protogen l’aveva cablato tutto, ora Miller poteva starsene ad
ascoltare mentre la stazione andava in rovina.
«Non gliel’ho detto. Non gliel’ho detto. Non gliel’ho detto. L’alba.
Non ho mai visto l’alba.»
Miller chiuse gli occhi e sprofondò verso il sonno, cullato dalla
serenata di Eros. Mentre la sua coscienza si diluiva, s’immaginò un
corpo nel letto accanto a sé, caldo e vivo, che respirava lentamente
a tempo con il crescere e il diminuire del fruscio elettrostatico.
Il manager era un uomo magro, allampanato, con i capelli pettinati
all’indietro sulla fronte come un’onda che non si infrangeva mai.
L’ufficio si stringeva intorno a loro, ronzando di tanto in tanto quando
l’infrastruttura – acqua, aria, energia – di Tycho incideva sulle sue
risorse. Un giro d’affari costruito tra i condotti, improvvisato ed
economico. Il fondo del fondo.
«Mi dispiace» disse l’uomo. Miller sentì il suo stomaco indurirsi e
sprofondare. Tra tutte le umiliazioni che l’universo aveva in serbo per
lui, questa non l’aveva prevista. Lo rese furioso.
«Pensa che non possa cavarmela?» chiese, tenendo sotto
controllo la voce.
«Non è questo il punto» rispose l’uomo rinsecchito. «Il fatto è che...
senta, detto tra noi, stiamo cercando un galoppino, ha presente? Il
fratellino idiota di qualcuno che possa sorvegliare questo magazzino.
Lei ha troppa esperienza... che ce ne facciamo dei protocolli di
controllo antisommossa? O delle procedure investigative? Voglio
dire... andiamo! Questo lavoro non prevede nemmeno un’arma di
ordinanza.»
«Non m’importa» replicò Miller. «Ho bisogno di qualcosa.»
L’uomo allampanato sospirò e si strinse nelle spalle alla maniera
esagerata dei cinturiani.
«Ha bisogno di qualcos’altro» disse.
Miller cercò di non scoppiare a ridere, temendo che potesse
suonare come un gesto di disperazione. Fissò la parete di plastica
da due soldi alle spalle del manager finché il tipo non cominciò a
sentirsi a disagio. Era una trappola. Era troppo esperto per
ricominciare tutto da capo. Sapeva troppe cose, per cui non poteva
tornare indietro per ricominciare tutto dall’inizio.
«E va bene» disse alla fine, e il manager dall’altra parte della
scrivania emise un sospiro, poi ebbe la grazia di apparire in
imbarazzo.
«Posso chiederle» disse l’uomo allampanato «perché ha lasciato il
suo vecchio incarico?»
«Ceres è passata di mano» spiegò Miller, rimettendosi il cappello.
«Io non facevo parte della nuova squadra. Tutto qui.»
«Ceres?»
Il manager sembrò confuso, il che a sua volta confuse Miller. Diede
un’occhiata al suo terminale palmare. Lì sopra c’era il suo curriculum
lavorativo, proprio come l’aveva appena presentato. Il manager non
poteva non averlo visto.
«È lì che ero» disse Miller.
«Per il lavoro di polizia. Ma io intendo l’ultimo incarico. Voglio dire,
conosco il mondo, e capisco il non voler inserire l’attività svolta per
l’APE nel suo curriculum, ma deve rendersi conto che sappiamo tutti
che ha fatto parte di questa cosa... ha presente, no, con la stazione?
E tutto il resto.»
«Lei pensa che lavorassi per l’APE» disse Miller.
L’uomo allampanato sbatté le palpebre.
«Sì, è così» ammise.
Il che, dopotutto, era vero.
Niente era cambiato nell’ufficio di Fred Johnson, e al contempo
tutto. I mobili, l’odore nell’aria, la sensazione di un’esistenza a metà
tra una sala di consiglio e un centro di comando e controllo. La nave
generazionale fuori dalla finestra poteva essere di poco più vicina al
completamento, ma non era quello il punto. Era cambiata la posta in
gioco, e quella che era stata una guerra adesso era qualcosa di
diverso. Qualcosa di più grande. Si vedeva negli occhi di Fred, nelle
sue spalle più strette.
«Un uomo con le sue qualità potrebbe farci comodo» disse Fred.
«Sono sempre le piccole cose che ci fanno inciampare. Come
perquisire un uomo... questo genere di cose. Il reparto di sicurezza
di Tycho se la cava bene ma, una volta fuori dalla stazione e in uno
scontro a fuoco con un nemico determinato, non è più così abile.»
«Ha forse intenzione di farlo più spesso?» chiese Miller, cercando
di assumere un tono scherzoso. Fred non rispose. Per un istante,
Julie fu al fianco del generale. Miller li vide entrambi riflessi negli
schermi; l’uomo pensieroso, il fantasma divertito. Forse Miller aveva
frainteso tutto fin dall’inizio, e il divario tra la Fascia e i pianeti interni
era qualcosa che andava ben oltre la politica e la gestione delle
risorse. Sapeva bene quanto chiunque che la Fascia costringeva a
una vita più dura e pericolosa rispetto a Marte o alla Terra. Eppure
c’era un richiamo che spingeva quegli uomini – gli uomini migliori – a
uscire da quei pozzi di gravità per proiettarsi verso l’oscurità.
L’impulso di esplorare, di ampliare gli orizzonti, di lasciare la
propria casa. Di andare il più lontano possibile, fuori, nell’universo. E
ora che la Protogen ed Eros offrivano l’opportunità di diventare degli
dèi, di ricreare l’intera umanità in esseri che si sarebbero potuti
spingere oltre ogni speranza e sogno meramente umani, Miller si
rese conto di quanto sarebbe stato difficile per un uomo come Fred
ignorare quella tentazione.
«Ha ucciso Dresden» disse Fred. «Questo è un problema.»
«Doveva essere fatto.»
«Non ne sono sicuro» replicò Fred, ma il suo tono si fece cauto.
Sondava il terreno. Miller sorrise, un po’ mestamente.
«È per questo che doveva essere fatto.»
Una piccola risata tossicchiante disse a Miller che Fred capiva quel
che intendeva. Quando il generale si voltò per esaminarlo di nuovo,
il suo sguardo era deciso.
«Quando si arriverà al tavolo dei negoziati, qualcuno dovrà
rispondere di quest’atto. Lei ha ucciso un uomo indifeso.»
«È così» riconobbe Miller.
«Quando arriverà quel momento, la consegnerò ai lupi come prima
offerta negoziale. Non la proteggerò.»
«Non le chiederei di proteggermi» replicò Miller.
«Anche se significasse essere un ex sbirro cinturiano in una
prigione terrestre?»
Era un eufemismo, e lo sapevano entrambi. Il tuo posto è qui con
me, aveva detto Julie. E allora che importava, in fondo, come ci
sarebbe arrivato?
«Non ho rimpianti» disse, e mezzo respiro dopo fu sorpreso di
scoprire che era quasi vero. «Se ci sarà un giudice, là fuori, che
vorrà chiedermi qualcosa, io risponderò. Sto cercando un lavoro,
non protezione.»
Fred si sedette sulla sua poltrona, con gli occhi socchiusi e
pensosi. Miller si chinò in avanti.
«Mi mette in una posizione difficile» disse Fred. «Sta dicendo tutte
le cose giuste. Ma ho difficoltà a credere che si comporterà di
conseguenza. Tenerla sui miei libri contabili sarebbe rischioso.
Potrebbe inficiare la mia posizione durante le negoziazioni di pace.»
«È un rischio» ammise Miller. «Ma sono stato sulle Stazioni di Eros
e Thoth. Ho volato sulla Rocinante con Holden e il suo equipaggio.
Quando si tratterà di analizzare la protomolecola e come abbiamo
fatto a ficcarci in questo casino, nessun altro sarà in una posizione
migliore per fornirvi informazioni. Potrà sempre dire che sapevo
troppo. Che ero troppo importante per lasciarmi andare.»
«O troppo pericoloso.»
«O quello. Certo.»
Rimasero in silenzio per un istante. Sulla Nauvoo, una fila di luci
brillò d’oro e verde in un test di funzionamento, poi si spense.
«Consulente per la sicurezza» disse Fred. «Indipendente. Non le
conferirò alcun rango.»
Sono troppo sporco per l’APE, pensò Miller divertito.
«Se è compreso anche l’alloggio, ci sto» rispose. Solo finché non
fosse finita la guerra. Dopo, sarebbe stato carne per la macchina.
Andava bene così. Fred si appoggiò allo schienale. La sua poltrona
sibilò piano adattandosi alla nuova posizione.
«E va bene» disse Fred. «Ecco il suo primo incarico: mi fornisca la
sua analisi. Qual è il mio problema maggiore?»
«Contenimento» rispose Miller.
«Lei crede che io non riesca a tenere sotto silenzio le informazioni
sulla Stazione di Thoth e sulla protomolecola?»
«Certo che non può riuscirci» disse Miller. «Tanto per cominciare,
sono in troppi a sapere. Inoltre, uno di questi è Holden e, se non ha
già trasmesso la notizia su tutte le frequenze, lo farà presto.
Aggiunga che non può stringere un accordo di pace senza spiegare
che diavolo stia succedendo. Presto o tardi, verrà fuori.»
«E che cosa consiglia?»
Per un secondo, Miller fu di nuovo nell’oscurità, con i gemiti della
stazione morente che gli riempivano le orecchie. Le voci dei morti lo
chiamavano attraverso il vuoto.
«Difendere Eros» rispose. «Tutte le parti vorranno un campione
della protomolecola. Controllare l’accesso sarà l’unico modo di
ottenere un posto a quel tavolo.»
Fred ridacchiò.
«Bella pensata» disse. «Ma come crede che possiamo difendere
un oggetto della taglia della Stazione di Eros quando la Terra e
Marte metteranno in campo le loro marine militari?»
Era una buona osservazione. Miller sentì una fitta di rimpianto.
Anche se Julie Mao, la sua Julie, era morta e sepolta, sembrava
sleale doverlo dire.
«E allora dovrà sbarazzarsene» disse.
«E come potrei farlo?» replicò Fred. «Anche se tempestassimo la
stazione di testate nucleari, come faremmo a essere sicuri che
nemmeno un frammento di quell’affare non riesca a filtrare e a farsi
strada verso una colonia o giù per un pozzo di gravità? Far
esplodere quella cosa sarebbe come soffiare via la lanugine di un
dente di leone nel vento.»
Miller non aveva mai visto un dente di leone, ma capiva il
problema. Anche una minima porzione di quella fanghiglia che
riempiva Eros sarebbe potuta bastare a far ripartire da capo l’intero
malefico esperimento. E la fanghiglia si nutriva di radiazioni; far
brillare la stazione avrebbe potuto affrettare i progressi della
protomolecola verso il suo obiettivo occulto invece che bloccarli. Per
essere sicuri che quella mostruosità non si diffondesse mai,
avrebbero dovuto distruggere tutto ciò che era presente sulla
stazione disgregandolo fino alle minime componenti atomiche.
«Ah» disse Miller.
«Ah?»
«Sì. Non le piacerà.»
«Mi metta alla prova.»
«E va bene. L’ha chiesto lei. Bisogna spingere Eros verso il sole.»
«Verso il sole» disse Fred. «Ha idea della massa di cui stiamo
parlando?»
Miller annuì in direzione dell’ampia, chiara estensione della
finestra, verso il cantiere a pochi metri da lì. Verso la Nauvoo.
«Avete dei motori belli grossi, su quell’affare» osservò Miller.
«Mandi qualche nave veloce intorno alla stazione, si assicuri che
nessuno possa entrare finché non arrivate lì. Faccia schiantare la
Nauvoo addosso alla Stazione di Eros, e la spinga verso il Sole.»
Lo sguardo di Fred si fece assorto mentre pianificava, calcolava.
«Bisognerebbe assicurarsi che nessuno vi acceda prima del
contatto con la corona. Sarà difficile, ma la Terra e Marte sono
entrambi interessati a impedire all’altro di mettere le mani sulla
protomolecola tanto quanto a ottenerla per sé stessi.»
Mi dispiace di non aver potuto fare di meglio, Julie, pensò Miller.
Ma sarà un funerale spettacolare.
Il respiro di Fred si fece lento e profondo; lo sguardo brillava come
se stesse leggendo qualcosa nell’aria, che soltanto lui poteva
vedere. Miller non interruppe i suoi pensieri, nemmeno quando il
silenzio si fece pesante. Passò quasi un minuto prima che Fred
emettesse un secco respiro percussivo.
«I mormoni non la prenderanno bene» disse.
45

Holden

Naomi parlava nel sonno. Era una delle decine di cose che Holden
non sapeva di lei prima di quella sera. Anche se avevano dormito sui
sedili a meno di un metro di distanza l’uno dall’altra in molte
occasioni, non l’aveva mai sentita. Ora, con il viso di lei posato sul
petto, percepiva le labbra che si muovevano e le soffici, accentuate
esalazioni delle parole. Non riusciva a distinguere quel che diceva.
Aveva anche una cicatrice sulla schiena, appena sopra il gluteo
sinistro. Era lunga quasi dieci centimetri e aveva i bordi irregolari e
frastagliati che derivavano da uno strappo piuttosto che da un taglio.
Naomi non era tipo da farsi accoltellare in una rissa da bar, per cui
doveva essere accaduto a lavoro. Forse mentre risaliva negli angusti
spazi della sala macchine, e la nave aveva compiuto una manovra
inaspettata. Un chirurgo plastico competente avrebbe potuto farla
sparire con una seduta. Il fatto che non si fosse presa la briga di
farlo e che chiaramente non le importasse era un’altra cosa che
Holden aveva imparato su di lei quella sera.
Naomi smise di mormorare e schioccò le labbra un po’ di volte, poi
disse: «Sete.»
Holden scivolò via da sotto di lei e si diresse in cucina, sapendo
che quella era l’ossequiosità che accompagnava sempre ogni nuova
amante. Nelle due settimane seguenti, non sarebbe riuscito a
impedirsi di soddisfare ogni possibile capriccio di Naomi. Era un
comportamento che alcuni uomini si portavano nei geni; il loro DNA
voleva assicurarsi che quella prima volta non fosse soltanto una
coincidenza.
La stanza di Naomi era diversa dalla sua, e quell’improvvisa
estraneità lo rese goffo mentre avanzava nel buio. Annaspò per
qualche minuto in cucina, alla ricerca di un bicchiere. Quando l’ebbe
trovato, riempito e fu tornato nell’altra stanza, Naomi era seduta nel
letto. Le lenzuola le si erano raccolte in grembo. La vista di lei,
mezza nuda nella stanza fiocamente illuminata, gli procurò
un’imbarazzante erezione.
Naomi fece scorrere lo sguardo sul suo corpo, soffermandosi
all’altezza della vita, poi sul bicchiere d’acqua, e disse: «È per me,
quello?»
Holden non sapeva a quale delle due cose si riferisse, per cui si
limitò a rispondere: «Sì.»
«Dormi?»
Il viso di Naomi riposava sul suo addome; respirava piano e
profondamente ma, sorprendendolo, gli rispose: «No.»
«Possiamo parlare?»
Naomi rotolò via e sollevò finché il suo viso non fu vicino a quello di
Holden sul cuscino. Una ciocca di capelli le ricadde sugli occhi, e il
capitano allungò una mano e la spostò; un gesto che gli parve tanto
intimo e di possesso che dovette deglutire un nodo che gli si era
formato in gola.
«Hai intenzione di fare sul serio, con me?» chiese lei, con gli occhi
socchiusi.
«Sì, è così» rispose lui, baciandola sulla fronte.
«Il mio ultimo amante è stato più di un anno fa» disse lei. «Sono
una monogama seriale, per cui, per quanto mi riguarda, questo
sarebbe un accordo di esclusiva finché uno di noi due deciderà
altrimenti. Fintantoché sarò avvertita in anticipo che hai stabilito
d’interrompere l’accordo, non ci saranno risentimenti. Sono aperta
all’idea che sia qualcosa di più che semplice sesso, ma secondo la
mia esperienza questo succederà da sé, se così dev’essere. Ho
degli ovuli conservati su Europa e Luna, se la cosa t’interessa.»
Naomi si rialzò su un gomito, mettendo il viso sopra quello di
Holden.
«Ho previsto tutto?» chiese.
«No» rispose lui. «Ma acconsento ai termini dell’accordo.»
Lei si ributtò sul letto, di schiena, lasciando uscire un sospiro
soddisfatto.
«Bene.»
Holden avrebbe voluto abbracciarla, ma si sentiva troppo accaldato
e appiccicoso per il sudore, per cui si limitò a cercarle la mano e a
prenderla nella sua. Avrebbe voluto aggiungere che tutto ciò voleva
già dire qualcosa, che per lui era già più di una semplice notte di
sesso, ma ogni parola che gli veniva in mente sembrava falsa o
eccessivamente sdolcinata.
«Grazie» disse alla fine, ma Naomi stava già russando
dolcemente.
La mattina dopo fecero di nuovo sesso. Dopo una lunga notte con
troppo poco sonno, per Holden fu più uno sforzo che un atto
liberatorio, ma c’era del piacere anche in quello, come se del sesso
meno strabiliante significasse qualcosa di diverso, più divertente, più
delicato di quello che avevano già fatto insieme. Dopo, Holden andò
in cucina e preparò il caffè, portandolo a letto su un vassoio. Lo
bevvero senza parlare, mentre un po’ della timidezza che erano
riusciti a vincere la notte prima si faceva di nuovo strada nella
mattina artificiale dei LED della stanza.
Naomi posò la sua tazza vuota sul vassoio e toccò il bozzo mal
guarito sul naso di Holden.
«È orribile?» chiese il capitano.
«No» rispose lei. «Prima eri troppo perfettino. Così ti conferisce più
sostanza.»
Holden scoppiò a ridere. «Sembra più un modo per descrivere un
grassone o un professore di storia.»
Naomi sorrise e gli accarezzò delicatamente il petto con la punta
delle dita. Non era un tentativo di eccitarlo, ma solo l’esplorazione
che veniva naturale quando la sazietà aveva rimosso il sesso
dall’equazione. Holden cercò di ricordare l’ultima volta in cui la
fredda razionalità che seguiva il sesso era stata così gradevole, ma
forse non lo era stata mai. Architettò diversi piani per poter passare il
resto della giornata nel letto di Naomi, ripassando a mente una lista
di ristoranti della stazione che facevano consegne a domicilio,
quando il suo terminale cominciò a ronzare sul comodino.
«Porca puttana» esclamò.
«Non devi rispondere per forza» disse Naomi, proseguendo la sua
esplorazione sulla pancia.
«C’eri anche tu in questi ultimi due mesi, giusto?» chiese Holden.
«A meno che non abbiano sbagliato numero, probabilmente sarà
una qualche roba da apocalisse del sistema solare, e abbiamo
cinque minuti per evacuare la stazione.»
Naomi lo baciò sul costato, cosa che lo solleticò e
contemporaneamente gli fece rivedere la precedente decisione sul
suo periodo refrattario.
«Non è divertente» disse lei.
Holden sospirò e raccolse il terminale dal tavolino. Mentre squillava
di nuovo, sullo schermo comparve il nome di Fred.
«È Fred» disse.
Naomi smise di baciarlo e si mise a sedere.
«Già. Probabilmente non sono buone notizie, allora.»
Holden premette con un dito sullo schermo per accettare la
chiamata e disse: «Fred.»
«Jim. Passi dal mio ufficio appena può. È importante.»
«Va bene» rispose Holden. «Mezz’ora e sono lì.»
Chiuse la chiamata e tirò il palmare sulla pila di vestiti che aveva
lasciato ai piedi del letto, dall’altra parte della stanza.
«Vado a farmi una doccia e poi a vedere che cos’è che vuole Fred»
disse, gettando via le lenzuola e alzandosi dal letto.
«Vuoi che venga anch’io?» chiese Naomi.
«Scherzi? Non ti lascerò più stare lontano da me, nemmeno per un
istante.»
«Non fare l’appiccicoso, adesso» rispose Naomi; mentre lo diceva
però gli fece un gran sorriso.
La prima spiacevole sorpresa fu Miller, seduto nell’ufficio di Fred
quando arrivarono. Holden lo salutò con un breve cenno del capo,
poi disse a Fred: «Eccoci. Che succede?»
Fred fece loro segno di sedersi e, quando ebbero obbedito, disse
loro: «Abbiamo discusso il da farsi con Eros.»
Holden si strinse nelle spalle. «Okay. Di che si tratta?»
«Miller crede che qualcuno cercherà di atterrare laggiù e di
recuperare qualche campione della protomolecola.»
«Non ho difficoltà a credere che qualcuno potrebbe effettivamente
essere tanto stupido» disse Holden, annuendo.
Fred si alzò e picchiettò qualcosa sulla sua scrivania. Gli schermi
che normalmente mostravano una vista del cantiere della Nauvoo,
all’esterno, passarono di colpo a far vedere una mappa in due
dimensioni del sistema solare, con dei piccoli puntini luminosi di
colori diversi a illustrare la posizione delle flotte militari. Un rabbioso
sciame di puntini verdi circondava Marte. Holden dedusse che
fossero le navi della Terra. Tra la Fascia e i pianeti esterni c’erano un
sacco di puntini rossi e gialli. I rossi dovevano essere Marte, quindi.
«Bella mappa» disse Holden. «È accurata?»
«Ragionevolmente» rispose Fred. Con pochi tocchi sulla sua
scrivania, zumò l’immagine su una porzione della Fascia. Un grumo
a forma di patata etichettato come ‘Eros’ riempì il centro dello
schermo. Due piccoli puntini verdi si avvicinavano poco per volta da
diversi metri di distanza.
«Quella è la nave di ricerca scientifica terrestre Charles Lyell, che
avanza verso Eros a tutta velocità. È accompagnata da quello che
pensiamo essere un veicolo di scorta di classe Phantom.»
«La cugina terrestre della Roci» disse Holden.
«Be’, la classe Phantom è un modello più vecchio, e largamente
relegata a incarichi di livello minore, ma è comunque più che
sufficiente per fare le scarpe a qualsiasi cosa l’APE sia in grado di
mettere in campo in tempi rapidi» replicò Fred.
«Esattamente il tipo di veicolo che userei per fare da scorta a una
nave di ricerca scientifica, quindi» disse Holden. «Come hanno fatto
a essere già qui? E perché soltanto in due?»
Fred allargò la visuale sulla mappa finché non tornò a illustrare
l’intero sistema solare.
«Per puro caso. La Lyell era di ritorno sulla Terra dopo una
missione di mappatura di asteroidi non cinturiani, quando ha
cambiato rotta verso Eros. Era vicina; nessun altro lo era. La Terra
deve aver intravisto l’opportunità di raccogliere un campione mentre
tutti gli altri stavano ancora cercando di capire come muoversi.»
Holden guardò Naomi, ma il suo viso era impenetrabile. Miller lo
fissava come un entomologo che studiava il punto migliore in cui
infilare l’ago.
«Quindi sanno tutto?» chiese Holden. «Della Protogen e di Eros?»
«Così crediamo» chiese Fred.
«E vuole che li scacciamo? Voglio dire, credo sia possibile, ma
funzionerà soltanto finché la Terra non invierà altre navi a supporto.
Non riusciremo a guadagnare molto tempo.»
Fred sorrise.
«Non ce ne servirà molto» disse. «Abbiamo un piano.»
Holden annuì, aspettando di sentirlo, ma Fred si sedette e si
appoggiò allo schienale della poltrona. Miller si alzò e cambiò la vista
sullo schermo fino a un’immagine ravvicinata della superficie di Eros.
Ora finalmente sapremo perché Fred continua a tenersi intorno
questo sciacallo, pensò Holden, ma non disse niente.
Miller indicò l’immagine di Eros.
«Eros è una vecchia stazione. Con molte ridondanze, molti fori
sulla sua pelle, perlopiù piccoli portelloni di manutenzione» iniziò a
spiegare l’ex detective. «I moli principali sono divisi in cinque grossi
gruppi attorno alla stazione. Pensiamo di inviare sei navi cargo di
supporto verso Eros assieme alla Rocinante. La Roci impedirà alla
nave di ricerca scientifica di attraccare mentre i cargo si poseranno
sulla stazione, uno per ogni gruppo di moli.»
«Avete intenzione di far entrare qualcuno là dentro?» chiese
Holden.
«Non dentro» rispose Miller. «Soltanto sopra. Lavoro di superficie.
Comunque sia, il sesto cargo evacuerà gli equipaggi una volta che
gli altri saranno attraccati. Ogni cargo abbandonato avrà un paio di
dozzine di testate a fusione ad alto impatto collegate con i sensori di
prossimità della nave. Qualsiasi cosa tenti di attraccare provocherà
un’esplosione di qualche centinaio di megatoni. Dovrebbe bastare a
far fuori qualunque nave in avvicinamento ma, se anche così non
fosse, i moli sarebbero troppo slabbrati per consentire l’attracco.»
Naomi si schiarì la gola. «Ehm... le Nazioni Unite e Marte
dispongono entrambi di squadre di artificieri. Troveranno un modo
per superare le vostre trappole esplosive.»
«Se ne avessero il tempo» concordò Fred.
Miller proseguì, come se non fosse stato interrotto.
«Le bombe sono soltanto una seconda linea deterrente. Prima la
Rocinante, poi le bombe. Stiamo cercando di dare tempo sufficiente
alle squadre di Fred per finire di preparare la Nauvoo.»
«La Nauvoo?» disse Holden e, mezzo secondo dopo, Naomi fece
un fischio sordo. Miller annuì verso di lei, quasi come se stesse
accettando un applauso.
«La Nauvoo si lancerà in una lunga corsa parabolica,
raggiungendo un’elevata velocità. Colpirà Eros con un’accelerazione
e un angolo calcolati per spingere la stazione verso il sole. E
azionerà anche le testate. Tra l’energia dell’impatto e le testate a
fusione, pensiamo che la superficie di Eros sarà abbastanza calda e
radioattiva da friggere qualsiasi cosa cerchi di atterrare lì finché non
sarà troppo tardi» concluse Miller, poi tornò a sedersi. Alzò gli occhi
come se stesse aspettando una qualche reazione.
«Questa è stata un’idea tua?» chiese Holden a Miller.
«La parte della Nauvoo, sì. Ma non sapevamo della Lyell quando
ne abbiamo discusso per la prima volta. La faccenda delle trappole
esplosive è più o meno improvvisata. Credo che funzionerà, però. Ci
farà guadagnare il tempo che ci serve.»
«Sono d’accordo» disse Holden. «Dobbiamo mantenere Eros fuori
dalla portata di chiunque, e non vedo un modo migliore per farlo. Ci
sto. Scacceremo la nave di ricerca scientifica mentre voi farete quel
che dovete.»
Fred si sporse sulla poltrona con uno scricchiolio e disse: «Sapevo
che sareste stati dei nostri. Miller era più scettico.»
«Sparare un milione di persone nel sole sembrava una cosa che
avrebbe potuto farti tirare indietro» disse il detective con un sorriso
privo di allegria.
«Non c’è più niente di umano su quella stazione. Qual è il tuo ruolo
in tutto questo? Fai il consulente dalle retrovie, ora?»
Gli uscì con un tono più aggressivo di quanto non intendesse, ma
Miller non sembrò prendersela.
«Coordinamento squadre di sicurezza.»
«Squadre di sicurezza? A che gli servirà la sicurezza?»
Miller sorrise. Tutti i suoi sorrisi sembravano quelli di un uomo a cui
veniva raccontata una barzelletta a un funerale.
«In caso qualcosa dovesse strisciare fuori da un portellone per
cercare di farsi dare un passaggio» disse.
Holden si accigliò. «Non mi piace pensare che quella roba sia in
grado di andarsene in giro per il vuoto. Non mi piace per niente.»
«Una volta che porteremo la temperatura di superficie di Eros a
diecimila gradi centigradi, credo che non avrà più molta importanza»
replicò Miller. «Fino ad allora, meglio essere prudenti.»
Holden si trovò a desiderare di poter mostrare la stessa sicurezza
del detective.
«Quali sono le possibilità, invece, che l’impatto e le detonazioni
spacchino Eros in milioni di frammenti e li disperdano in tutto il
sistema solare?» chiese Naomi.
«Fred ha messo al lavoro i suoi migliori ingegneri per calcolare
ogni cosa fino all’ultimo decimale, per assicurarci che non accadrà»
rispose Miller. «La Tycho ha aiutato a costruire Eros, all’inizio. Hanno
tutti i progetti.»
«Allora» disse Fred. «Occupiamoci degli ultimi dettagli
dell’accordo.»
Holden attese.
«Avete ancora la protomolecola» disse Fred.
Holden annuì di nuovo. «E...?»
«E...» rispose Fred. «E l’ultima volta che vi abbiamo spediti in
missione, la vostra nave è stata quasi distrutta. Una volta che Eros
sarà stata nuclearizzata, sarà l’unico campione in circolazione, oltre
a ciò che potrebbe essere ancora su Phoebe. Non riesco a trovare
alcun motivo per permettervi di tenerlo. Voglio che rimanga qui su
Tycho quando partirete.»
Holden si alzò, scuotendo la testa.
«Lei mi piace, Fred, ma non ho intenzione di consegnare quella
roba a nessuno che possa considerarla come un elemento di
trattativa.»
«Non credo che abbia molte...» cominciò a dire Fred, ma Holden
alzò un dito per interromperlo. Mentre Fred lo fissava sorpreso, tirò
fuori il suo terminale e aprì la linea di comunicazione con
l’equipaggio.
«Alex, Amos, siete a bordo della nave?»
«Ci sono» rispose Amos un istante dopo. «Sto finendo di fare
una...»
«Chiudila» disse Holden, interrompendolo. «Immediatamente.
Sigillala. Se non ti richiamo tra un’ora, e se qualcuno che non sia io
cerca di salire a bordo, lascia il molo e allontanati da Tycho alla
massima velocità possibile. Scegli tu la direzione. Fatti largo
sparando, se devi. Ricevuto?»
«Forte e chiaro, cap» esclamò Amos. Se Holden gli avesse chiesto
di andargli a prendere una tazza di caffè, Amos avrebbe risposto
esattamente alla stessa maniera.
Fred continuava a fissarlo incredulo.
«Non forzi la mano, Fred» disse Holden.
«Se pensa di potermi minacciare, si sbaglia di grosso» rispose
Fred, con voce inespressiva e spaventosa.
Miller scoppiò a ridere.
«Qualcosa la diverte?» chiese Fred.
«Quella non era una minaccia» rispose Miller.
«Ah, no? E come la definirebbe?»
«Un’accurata fotografia dei fatti» disse Miller. Si stirò lentamente
mentre parlava. «Se ci fosse stato Alex, a bordo, avrebbe potuto
pensare che il capitano stesse cercando di intimidire qualcuno, e
magari si sarebbe tirato indietro all’ultimo minuto. Ma Amos... Amos
si farà largo a cannonate, se deve, anche se significa che verrà
abbattuto con tutta la nave.»
Fred si accigliò e Miller scosse la testa.
«Non è un bluff» disse Miller. «Non cerchi di vederlo.»
Fred strinse gli occhi e Holden si chiese se in fin dei conti non si
fosse spinto troppo in là con quell’uomo. Non sarebbe stato
certamente il primo a essere fucilato su ordine di Fred Johnson. E
accanto a lui c’era Miller. Quello squilibrato di un detective era
capace di sparargli al minimo indizio che qualcuno potesse pensare
che fosse una buona idea. Il semplice fatto che Miller fosse lì
presente aveva scosso ogni fiducia che Holden nutriva nei confronti
di Fred.
Il che rese la situazione ancor più sorprendente quando fu proprio
Miller a salvarlo.
«Ascolti» disse il detective. «Il fatto è che Holden è la persona
migliore per portarsi appresso quella merda finché lei non avrà
deciso cosa farci.»
«Provi a convincermi» replicò Fred, con voce tesa per la rabbia.
«Una volta che Eros sarà andata, lui e la Roci se ne rimarranno
con il culo scoperto. Qualcuno potrebbe essere abbastanza
arrabbiato da bersagliarlo con una testata nucleare anche soltanto
per principio.»
«E perché mai questo dovrebbe rendere più sicuro lasciare a lui la
cassaforte?» chiese Fred, ma Holden aveva capito il concetto di
Miller.
«Potrebbero essere meno inclini a farmi saltare in aria se gli
facessimo sapere che sono io ad avere il campione e tutte le
annotazioni della Protogen» spiegò.
«Non renderebbe più sicuro il campione» disse Miller. «Ma sarà più
probabile che la missione abbia successo. Ed è questo che conta,
giusto? Inoltre, Holden è un idealista» continuò. «Provi a offrire a
Holden il suo peso in oro, e lui si limiterà a offendersi perché ha
cercato di corromperlo.»
Naomi rise. Miller le scoccò un’occhiata, si accordò con il suo
sorriso con un angolo della bocca, poi si voltò verso Fred.
«Sta forse dicendo che ci si può fidare di lui, e non di me?»
domandò Fred.
«Stavo pensando più all’equipaggio» rispose Miller. «Holden ha
poca gente, e tutti fanno quello che dice. Pensano che sia un giusto,
per cui si comportano di conseguenza.»
«La mia gente mi segue» replicò Fred.
Il sorriso di Miller era cauto e inattaccabile.
«C’è un sacco di gente all’interno dell’APE» disse.
«La posta in gioco è troppo alta» ribatté Fred.
«Lei ha scelto la carriera sbagliata, per giocare in sicurezza» disse
Miller. «Non sto dicendo che sia un piano perfetto. Solo che non ne
troverà uno migliore.»
Gli occhi a fessura di Fred brillarono di frustrazione e rabbia. La
mascella si mosse silenziosa per qualche istante prima che
giungesse la sua risposta.
«Capitano Holden. Sono deluso dalla sua mancanza di fiducia,
dopo tutto ciò che ho fatto per lei e i suoi.»
«Se la razza umana esisterà ancora tra un mese, mi scuserò»
rispose Holden.
«Porti il suo equipaggio su Eros prima che cambi idea.»
Holden si alzò, salutò Fred con un cenno del capo e se ne andò.
Naomi uscì al suo fianco.
«Wow, c’è mancato poco» disse lei sottovoce.
Una volta lontani dall’ufficio, Holden disse: «Credo che Fred fosse
a tanto così dall’ordinare a Miller di spararmi.»
«Miller è dalla nostra parte. Non l’hai ancora capito?»
46

Miller

Quando aveva preso le parti di Holden contro il suo nuovo datore


di lavoro, Miller era consapevole che ci sarebbero state delle
conseguenze. La propria posizione nei confronti di Fred e dell’APE
era già debole in partenza, e far presente che Holden e il suo
equipaggio erano non soltanto più zelanti ma anche più fidati della
gente di Fred non era la cosa giusta da fare in luna di miele. Il fatto
che fosse la verità non faceva che peggiorare le cose.
Si era aspettato una sorta di ritorsione. Sarebbe stato ingenuo a
non farlo.
‘Alzatevi, o uomini di Dio, siate uniti’ cantavano i manifestanti.
‘Aprite la porta ai giorni di fratellanza, e serratela alla notte del
peccato...’
Miller si tolse il cappello e passò le dita tra i capelli che diradavano.
Non sarebbe stata una bella giornata.
L’interno della Nauvoo mostrava più giunti e complicazioni di
quanto non suggerisse la chiglia esterna. Lunga due chilometri, i
suoi progettisti l’avevano disegnata per essere qualcosa di più di una
grossa nave. Grandi livelli impilati gli uni sugli altri; ponti a travata in
lega elaborati organicamente con ciò che sarebbero state radure
dall’aspetto bucolico... L’intera struttura riecheggiava le grandi
cattedrali della Terra e di Marte, elevandosi nello spazio e
conferendo così stabilità gravitazionale d’accelerazione e dando
maggior gloria a Dio. C’erano ancora soltanto ossature metalliche e
orditure di substrati agricoli, ma Miller vedeva bene che direzione
avrebbe intrapreso il tutto.
Una nave generazionale era una dichiarazione di ambizione
onnicomprensiva e di profonda fede. I mormoni lo sapevano bene.
Avevano abbracciato quel progetto. Avrebbero costruito una nave
che era al contempo preghiera, compassione e celebrazione. La
Nauvoo sarebbe stato il più grande tempio che l’umanità avesse mai
edificato. Avrebbe guidato il suo gregge attraverso gli invalicabili golfi
dello spazio interstellare, sarebbe stata la migliore speranza del
genere umano di raggiungere le stelle.
Se non fosse stato per lui.
«Vuoi che li gassiamo, Pampaw?» chiese Diogo.
Miller considerò i manifestanti; a occhio e croce potevano essere in
duecento, disposti a catena lungo le rampe di accesso e i condotti di
lavorazione. I montacarichi e le gru industriali rimanevano immobili,
con gli schermi spenti e le batterie azzerate.
«Sì, probabilmente dovremmo» sospirò Miller.
La squadra di sicurezza, la sua squadra, contava meno di tre
dozzine di uomini e donne. Individui uniti più dai loro bracciali
dell’APE che dall’addestramento ricevuto, dall’esperienza, dalla lealtà
o dalla politica. Se i mormoni avessero scelto la via della violenza,
sarebbe stato un bagno di sangue. Se avessero indossato le tute
ambientali, la loro protesta sarebbe potuta andare avanti per ore.
Forse per giorni. Diogo diede il segnale e, tre minuti più tardi, quattro
piccole comete tracciarono un arco nello spazio a gravità zero,
lasciandosi dietro scie esitanti di NNLP-alpha e tetraidrocannabinolo.
Era lo strumento di controllo antisommossa più blando e delicato
che avessero in arsenale. Se qualcuno dei contestatori avesse avuto
problemi polmonari, sarebbe probabilmente stato in pericolo ma,
nell’arco di mezz’ora, si sarebbero tutti ritrovati in uno stato di
rilassato torpore, fatti come pigne. NNLPa e THC era una
combinazione che Miller non aveva mai usato su Ceres. Se
avessero provato a metterla in magazzino, sarebbe stata rubata per i
festini della centrale. Cercò di trarre un po’ di conforto da quel
pensiero. Come se avesse potuto compensare le vite di sogni e di
fatica che stava mandando in fumo.
Accanto a lui, Diogo scoppiò a ridere.
Gli ci vollero tre ore per completare un primo rastrellamento sulla
nave, e altre cinque per acciuffare tutti i clandestini che si erano
nascosti nei condotti e nelle stanze blindate, in attesa di dichiarare la
loro presenza all’ultimo momento per sabotare la missione. Mentre
venivano portati via in lacrime dalla nave, Miller si chiese se non
avesse appena salvato le loro vite. Se tutto ciò che avesse fatto
nella sua vita fosse stato evitare a Fred Johnson la scelta di dover
decidere tra il mandare a morire una manciata di innocenti sulla
Nauvoo e il rischiare di tenersi Eros con i pianeti interni in agguato,
in fondo non sarebbe stato male.
Non appena Miller diede il via libera, la squadra tecnica dell’APE si
mise in azione, riattivando gru ed elevatori, riparando le centinaia di
piccoli atti di sabotaggio che avrebbero impedito ai motori della
Nauvoo di accendersi, portando fuori l’equipaggiamento che
volevano salvare. Miller osservò montacarichi industriali, abbastanza
grandi da ospitare una famiglia di cinque persone, spostare cassa
dopo cassa, portando fuori cose che erano state appena portate
dentro. I moli erano affollati come quelli di Ceres a metà turno. Miller
si aspettava quasi di vedere i suoi vecchi compagni di lavoro
aggirarsi tra gli stivatori e i tubi di carico, mantenendo quella che
passava per pace.
Nei momenti più tranquilli, impostava il suo terminale palmare sui
canali di Eros. Quando era bambino, c’era stata un’artista molto in
voga... Jila Sorormaya, si chiamava. Da quel che ricordava, l’artista
aveva intenzionalmente corrotto degli apparati d’immagazzinamento
dei dati per poi far passare il loro flusso attraverso il suo impianto
musicale. Era finita nei guai quando alcuni dei codici riservati del
software dell’apparato d’immagazzinamento erano passati nella sua
musica ed erano stati postati. Miller non era un tipo sofisticato.
Aveva semplicemente pensato che un’altra artista svitata si sarebbe
dovuta trovare un lavoro vero, e che l’universo non poteva che
essere un posto migliore per questo.
Ascoltando la trasmissione radio di Eros – Radio Eros Libera,
l’aveva chiamata – pensò che forse era stato un po’ troppo severo
con la povera Jila. Gli stridii e i sussurri sovrapposti, il flusso di
rumori insensati punteggiati da voci erano inquietanti e coinvolgenti.
Proprio come quella marea di dati violati, era la musica della
corruzione.
‘...blot away the pus so that they may feel better...’
‘...ja minä nousivat kuolleista ja halventaa kohtalo pakottaa minut ja
siskoni...’
‘...fa’ quel che devi...’
Aveva ascoltato quelle parole per ore, individuando le singole voci.
Una volta, l’intero canale aveva vacillato, andando e venendo come
un altoparlante sull’orlo della rottura. Soltanto dopo che ebbe ripreso
a trasmettere normalmente, Miller si chiese se quei momenti di
silenzio fossero stati una sorta di codice morse. Si appoggiò alla
paratia, con l’immensa massa della Nauvoo che torreggiava sopra di
lui. Una nave non ancora nata e già segnata per il sacrificio. Julie
era seduta accanto a lui, con gli occhi puntati verso l’alto. I suoi
capelli le fluttuavano intorno al viso; i suoi occhi non smettevano mai
di sorridere. Miller era grato a qualunque artificio dell’immaginazione
avesse impedito che la sua Juliette Andromeda Mao tornasse da lui
con l’aspetto del suo cadavere.
Sarebbe stato una bella roba, eh?, disse lei. Volare nel vuoto
senza una tuta. Dormire per cento anni e risvegliarsi nella luce di un
sole diverso.
«Non gli ho sparato abbastanza in fretta, a quello stronzo» disse
Miller ad alta voce.
Avrebbe potuto darci le stelle.
Una nuova voce s’intromise. Una voce umana, vibrante di rabbia.
«Anticristo!»
Miller sbatté le palpebre, tornando alla realtà, e spense il canale di
Eros. Un veicolo di trasporto prigionieri si avviava pigramente lungo
il molo, con una dozzina di tecnici mormoni incatenati ai suoi pali di
contenimento. Uno di loro era un giovane uomo con il viso butterato
e gli occhi carichi di odio. Stava fissando Miller.
«Sei l’Anticristo, sei solo una caricatura di essere umano! Dio ti
conosce! Si ricorderà di te!»
Miller si toccò il cappello in segno di saluto mentre i prigionieri
venivano portati via.
«Le stelle stanno molto meglio senza di noi» disse, troppo piano
perché qualcuno potesse udirlo a parte Julie.
Una dozzina di rimorchiatori precedevano la Nauvoo, con la
ragnatela di nanotubi da traino invisibile da quella distanza. Tutto ciò
che Miller vide fu quell’enorme mostro, che faceva parte di Tycho
quanto le paratie e l’aria che respiravano, spostarsi nel suo letto,
stirarsi e cominciare a muoversi. I razzi propulsori dei rimorchiatori
illuminavano lo spazio interno della stazione, scintillando nelle loro
manovre perfettamente coreografate come tante luci di Natale, e un
brivido quasi subliminale attraversò le lunghe ossa d’acciaio di
Tycho. In otto ore, la Nauvoo sarebbe stata abbastanza lontana da
poter accendere i suoi giganteschi motori senza mettere in pericolo
la stazione con la loro coda di scarico. Ci sarebbero volute più di due
settimane prima che raggiungesse Eros.
Miller l’avrebbe preceduta di diciotto ore.
«Ehi, Pampaw» disse Diogo. «Fatto-fatto?»
«Già» rispose Miller con un sospiro. «Sono pronto. Raduniamo tutti
quanti.»
Il ragazzo sorrise. Nelle ore passate dalla requisizione della
Nauvoo, Diogo aveva aggiunto delle decorazioni di plastica rossa a
tre dei suoi incisivi. A quanto pareva, avevano un significato
profondo nella cultura giovanile della Stazione di Tycho: indicavano
abilità, possibilmente con risvolti sessuali. Miller sentì un istante di
sollievo nel non dover più condividere il buco del ragazzo.
Ora che stava a capo del servizio di sicurezza per conto dell’APE, la
natura irregolare di quella milizia gli era più chiara che mai. C’era
stato un tempo in cui aveva pensato che l’APE potesse essere una
forza in grado di contrastare la Terra o Marte, in caso di guerra reale.
E, certamente, avevano molte più risorse economiche di quanto
avesse pensato. Avevano Fred Johnson. E avevano Ceres, ora,
fintantoché fossero riusciti a tenerla. Avevano assaltato la Stazione
di Thoth e avevano vinto.
Eppure, gli stessi ragazzini con cui era andato all’assalto erano
stati impiegati come squadra antisommossa sulla Nauvoo, e più
della metà di loro sarebbe stata sulla nave di demolizione quando
sarebbe partita per Eros. Era la cosa che Havelock non avrebbe mai
capito. Per quel che importava, era la cosa che neppure Holden
avrebbe mai capito. Forse nessuno che avesse vissuto con la
certezza e il sostegno di un’atmosfera naturale avrebbe mai potuto
accettare completamente la forza e la fragilità di una società fondata
sul principio di ciò che doveva essere fatto, del diventare rapidi e
flessibili, come aveva fatto l’APE. Del diventare articolati.
Se Fred non fosse riuscito a costruire un trattato di pace, l’APE non
avrebbe mai vinto contro la disciplina e l’unità d’intenti della marina
militare di un pianeta interno. Ma non avrebbe nemmeno mai perso.
Una guerra senza fine.
Be’, del resto cos’era la storia, se non questo?
E come avrebbe potuto mai cambiare qualcosa il raggiungere le
stelle?
Mentre si dirigeva verso il suo appartamento, aprì una richiesta di
linea sul terminale palmare. Sullo schermo comparve Fred Johnson:
sembrava stanco ma all’erta.
«Miller» disse.
«Ci stiamo preparando a salpare non appena le cariche saranno
pronte.»
«La stiamo caricando in questo istante» rispose Fred. «Abbiamo
abbastanza materiale fissionabile da far sì che la superficie di Eros
sia inavvicinabile per anni. Fate attenzione a come vi muovete. Se
uno dei suoi ragazzi scende a fumarsi una sigaretta nel posto
sbagliato, non saremo in grado di sostituire le mine. Non faremmo in
tempo.»
Non aveva detto ‘sarete tutti morti’. A essere preziose erano le
armi, non le persone.
«Sì. Ci starò attento» disse Miller.
«La Rocinante è già in viaggio.»
Non era qualcosa che Miller avesse bisogno di sapere, per cui
doveva esserci un altro motivo per cui Fred gliene aveva parlato. Il
suo tono attentamente neutro la rese quasi un’accusa. L’unico
campione di protomolecola sotto controllo aveva appena lasciato la
sfera d’influenza di Fred.
«Saremo là fuori per accompagnarla e avremo tutto il tempo
necessario per tenere lontano chicchessia da Eros» assicurò Miller.
«Non dovrebbe essere un problema.»
Su quel piccolo schermo, era difficile dire quanto fosse genuino il
sorriso del detective.
«Spero che i suoi amici siano davvero all’altezza del compito»
replicò Fred.
Miller sentì qualcosa di strano. Un piccolo vuoto appena sotto lo
sterno.
«Non sono miei amici» precisò, mantenendo un tono di voce
disinvolto.
«Ah, no?»
«Non ho esattamente degli amici. È più un gruppo di persone con
cui ho lavorato» spiegò.
«Lei sembrava fidarsi molto di Holden» disse Fred, rendendola
quasi una domanda. Una sfida, perlomeno. Miller mostrò un sorriso,
sapendo che Fred sarebbe stato incerto come lui sul fatto che fosse
genuino o meno.
«Fidarmi, non direi. Si tratta di valutare le persone» replicò.
Fred eruppe in una risata.
«Ecco perché non ha amici, amico.»
«In parte» disse Miller.
Non c’era nient’altro da dire. Miller chiuse il collegamento. Ad ogni
modo, era quasi arrivato al suo buco.
Non era niente di più. Un cubo anonimo sulla stazione, con ancor
meno personalità del posto che aveva su Ceres. Si sedette sulla
branda, controllò il terminale per verificare lo status della nave di
demolizione. Sapeva che sarebbe dovuto salire ai moli. Diogo e gli
altri si stavano radunando e, benché fosse improbabile che la nebbia
di droghe dei festeggiamenti precedenti la missione avrebbe
permesso loro di arrivare puntuali, era comunque una possibilità da
non escludere. Non aveva nemmeno quella scusa.
Julie sedeva nello spazio tra i suoi occhi. Aveva le gambe piegate
sotto di sé. Era bellissima. Era stata come Fred e Holden e
Havelock. Una persona nata in un pozzo di gravità che era salita
nella Fascia per scelta. Lei era morta per quella scelta. Era venuta a
cercare aiuto, e aveva distrutto Eros nel farlo. Se fosse rimasta lì, su
quella nave mimetica...
Julie inclinò la testa, con i capelli che pendevano contro la gravità
di rotazione. Nei suoi occhi c’era una domanda. Aveva ragione,
naturalmente. Forse avrebbe rallentato le cose. Non li avrebbe certo
fermati. La Protogen e Dresden l’avrebbero trovata, alla fine.
Avrebbero trovato la protomolecola. O sarebbero tornati e ne
avrebbero estratto un nuovo campione. Niente avrebbe potuto
fermarli.
E Miller sapeva, lo sapeva come sapeva di essere sé stesso, che
Julie non era come le altre persone. Che aveva capito la Fascia e i
cinturiani, e il bisogno di spingersi sempre oltre. Se non verso le
stelle, perlomeno vicino a esse. Il lusso che le era stato concesso in
vita era qualcosa che Miller non aveva mai sperimentato, e mai
l’avrebbe fatto. Ma lei l’aveva rifiutato. Era venuta lì ed era rimasta
perfino quando stavano per vendere la sua pinaccia da corsa. La
sua infanzia. Il suo orgoglio.
Era per questo che l’amava.
Quando Miller raggiunse il molo, era chiaro che era successo
qualcosa. Lo vide nella postura dei portuali e nell’espressione mezzo
divertita, mezzo compiaciuta sui loro volti. Miller si registrò e strisciò
attraverso il portellone stile Ojino-Gouch, in ritardo di settant’anni
rispetto alla loro epoca e appena più largo di un mortaio per missili,
fin sull’affollato ponte dell’equipaggio della Talbot Leeds. La nave
sembrava essere il risultato della fusione di due navi più piccole,
senza particolare attenzione per l’estetica. Le brande di
accelerazione erano impilate a file di tre. L’aria puzzava di sudore
vecchio e metallo caldo. Qualcuno aveva fumato marijuana
abbastanza di recente da non aver lasciato il tempo ai filtri di
eliminarne l’odore. Diogo era lì con un’altra mezza dozzina di
ragazzi. Indossavano tutti uniformi diverse, ma avevano tutti il
bracciale dell’APE.
«Ehi, Pampaw! Tenuto branda sopra á dir.»
«Grazie» disse Miller. «Lo apprezzo.»
Tredici giorni. Avrebbe trascorso tredici giorni condividendo quello
spazio angusto con la squadra demolizioni. Tredici giorni schiacciati
in quelle brandine, con megatoni di mine a fissione stipate nella stiva
della nave. Eppure tutti gli altri stavano sorridendo. Miller si issò sulla
branda di accelerazione che Diogo aveva riservato apposta per lui, e
indicò gli altri con il mento.
«È per caso il compleanno di qualcuno?»
Diogo si strinse con fare innaturale nelle spalle.
«Perché sono tutti così fottutamente di buonumore?» domandò
Miller, più bruscamente di quanto non intendesse. Diogo non se la
prese. Sorrise con i suoi grossi denti rossi e bianchi.
«Audi-nichts?»
«No, non ho sentito, o non te lo chiederei» replicò Miller.
«Mars ha fatto la cosa giusta» disse Diogo. «Ha ricevuto le
trasmissioni da Eros, ha fatto due più due, e...»
Il ragazzo schiantò un pugno contro il suo palmo aperto. Miller
cercò di intuire che cosa intendesse dire. Avevano attaccato Eros?
Avevano assaltato la Protogen?
Ah. Protogen. Protogen e Marte. Miller annuì. «La Stazione
scientifica di Phoebe» disse. «Marte l’ha messa in quarantena.»
«Fanculo la quarantena, Pampaw. Autoclavata, l’hanno. La luna
non c’è più. Le hanno rovesciato addosso abbastanza testate da
disintegrarla in subatomiche.»
Sarà meglio che sia davvero così, pensò Miller. Non era una
grossa luna. Se Marte l’aveva davvero distrutta e fosse rimasta una
qualche protomolecola su un pezzo di detri...
«Tu sabez?» disse Diogo. «Sono dalla nostra parte, ora. L’hanno
capito. Alleanza Marte-APE.»
«Non ci crederai davvero?» chiese Miller.
«Nah» rispose Diogo, compiaciuto con sé stesso nell’ammettere
che quella speranza era fragile, nel migliore dei casi, e
probabilmente falsa. «Ma sognare non fa male, que no?»
«Tu non credi?» disse Miller, e si sdraiò.
Il gel da accelerazione era troppo rigido per conformarsi al suo
corpo al terzo di g dei moli, ma non era scomodo. Miller controllò i
notiziari sul suo terminale palmare, e in effetti qualcuno all’interno
della marina militare marziana doveva essersi avocato la
responsabilità di una decisione. Erano un sacco di esplosivi da
usare, specialmente nel bel mezzo di una guerra così accesa, ma
avevano scelto di impiegarli. Saturno aveva una luna in meno, un
altro piccolo anello non formato e filamentoso – sempre che ci fosse
abbastanza materia rimasta dopo le detonazioni da formare perfino
quello. All’occhio inesperto di Miller sembrò come se quelle
esplosioni fossero state progettate per gettare i detriti nella zona di
gravità protettiva e schiacciante del gigante gassoso.
Era sciocco pensare che la cosa significasse che il governo
marziano non avrebbe desiderato avere un campione della
protomolecola. Era ingenuo pretendere che qualsiasi organizzazione
di quelle dimensioni e complessità avesse un parere univoco su un
qualunque argomento, figurarsi su qualcosa di tanto pericoloso e
mutevole.
Eppure...
Forse era già abbastanza sapere che qualcuno, dall’altra parte
della trincea politica e militare, si era reso conto dell’evidenza degli
stessi fatti che avevano visto loro ed era giunto alle medesime
conclusioni. Forse lasciava un po’ di spazio per sperare. Miller cercò
di nuovo il canale con le trasmissioni di Eros. Una forte pulsazione
danzava in sottofondo a una cascata di rumori. Voci che salivano,
che scendevano e che salivano di nuovo. Flussi di dati che si
allacciavano compenetrandosi l’un l’altro, e i server di
riconoscimento modulari che bruciavano ogni ciclo rimanente,
creando qualcosa dalla confusione che ne risultava. Julie lo prese
per mano; quel sogno era così convincente che poteva quasi far
finta di sentirla.
Il tuo posto è qui con me, gli disse.
Non appena sarà tutto finito, pensò lui. Era vero che continuava a
rimandare il punto finale del caso. Prima trovare Julie, poi
vendicarla, e ora distruggere il progetto che aveva reclamato la sua
vita. Una volta che avesse compiuto anche quello, avrebbe potuto
lasciarsi andare.
C’era solo quell’ultima cosa che aveva bisogno di fare.
Venti minuti più tardi, suonò l’allarme. Trenta minuti dopo, i motori
si accesero e lo schiacciarono nel gel a un’accelerazione tanto
elevata da spaccare le articolazioni; sarebbe stato così per tredici
giorni, con pause a un g ogni quattro ore, per l’espletamento delle
funzioni fisiologiche. E, una volta arrivati, quella ciurma tuttofare
addestrata alla bell’e meglio si sarebbe ritrovata a maneggiare mine
nucleari capaci di annichilirli completamente se avessero fatto il
minimo errore.
Almeno, però, Julie sarebbe stata con lui. Non per davvero, ma era
già qualcosa.
Sognare non poteva far male.
47

Holden

Perfino il sapore umidiccio delle uova artificiali strapazzate non era


sufficiente a rovinare l’umore espansivo e soddisfatto di Holden. Si
infilò una forchettata di uova finte in bocca, cercando di non
sorridere troppo. Seduto alla sua sinistra al tavolo della cambusa,
Amos mangiava con tanto entusiasmo da schioccare le labbra. Alla
destra di Holden, Alex giocherellava con quelle uova mosce nel
piatto con un pezzo di toast ugualmente finto. Dall’altra parte del
tavolo, Naomi sorseggiava una tazza di tè e lo fissava da sotto i
capelli. Holden represse il bisogno di farle l’occhiolino.
Avevano discusso su come comunicare la cosa all’equipaggio, ma
non erano ancora arrivati a un accordo. Holden odiava dover
nascondere le cose. Mantenerla segreta la faceva sembrare una
situazione sporca o riprovevole. I suoi genitori lo avevano educato a
credere che il sesso fosse una cosa che si faceva in privato non
perché fosse sporca, ma perché era intima. Con cinque padri e tre
madri, le sistemazioni dei letti erano state sempre piuttosto
complesse a casa sua, ma le discussioni su chi andasse a letto con
chi non gli erano mai state nascoste. Tutto questo gli aveva
trasmesso una forte avversione nel dover nascondere le proprie
attività sessuali.
Naomi, d’altro canto, pensava che non dovessero fare niente che
potesse mandare all’aria il fragile equilibrio che avevano trovato, e
Holden si fidava del suo istinto. Aveva una comprensione delle
dinamiche di gruppo che a lui era spesso mancata. Per cui, per il
momento, stava seguendo le sue indicazioni.
E poi sarebbe sembrata una vanteria, e questo sarebbe stato
scortese.
Mantenendo un tono di voce gentile e professionale, disse:
«Naomi, puoi passarmi il pepe?»
Amos alzò la testa e lasciò cadere la forchetta sul tavolo con un
rumore metallico.
«Porca puttana, voi due state andando a letto!»
«Ehm» disse Holden. «Cosa?»
«C’era qualcosa che non mi quadrava da quando siamo tornati
sulla Roci, ma non riuscivo a capire esattamente cosa fosse. È
questo! State finalmente giocando a ‘nascondi il salsicciotto’!»
Holden sbatté le palpebre due volte fissando il meccanico, incerto
su cosa dire. Lanciò un’occhiata a Naomi per avere sostegno, ma lei
teneva la testa bassa, con i capelli che le coprivano completamente
il viso. Le spalle le tremavano per una risata silenziosa.
«Cristo, cap» esclamò Amos, con un ghigno sull’ampio faccione.
«Ci hai messo un bel po’, cazzo. Se mi si fosse gettata tra le braccia
così come ha fatto con te, mi ci sarei già tuffato dentro fino al collo.»
«Uhm» disse Alex, con l’espressione sorpresa di chi non aveva
condiviso la stessa intuizione di Amos. «Wow.»
Naomi smise di ridere e si strofinò via le lacrime dagli angoli degli
occhi.
«Beccati» disse.
«Sentite, ragazzi. È importante che sappiate che questo non
modificherà per niente la nostra...» precisò Holden, ma Amos lo
interruppe con uno sbuffo.
«Ehi, Alex» disse Amos.
«Yo» rispose Alex.
«Il fatto che la vicecomandante si scopi il capitano potrebbe
renderti un pilota di merda?»
«Non credo che lo farà» replicò Alex con un ghigno, esagerando la
calata marziana.
«E, stranamente, nemmeno io sento il bisogno di diventare un
meccanico incompetente.»
Holden provò di nuovo. «Credo che sia importante che...»
«Capitano?» continuò Amos, ignorandolo. «Tieni conto che a
nessuno frega un cazzo, che non ci impedirà di fare bene il nostro
lavoro, e goditela, visto che probabilmente saremo comunque tutti
morti tra pochi giorni.»
Naomi riprese a ridere.
«Bene» intervenne. «Voglio dire... Lo sanno tutti che lo sto facendo
per ottenere una promozione. Ah, aspetta però. Giusto: sono già il
secondo in comando. Ehi, posso diventare capitano, ora?»
«No» rispose Holden, ridendo. «È un lavoro di merda. E non ti
chiederei mai di farlo.»
Naomi sorrise e si strinse nelle spalle come a dire: ‘ Visto? Non ho
sempre ragione.’ Holden diede un’occhiata ad Alex, che lo guardava
con affetto genuino, chiaramente felice all’idea che lui e Naomi
stessero insieme. Tutto sembrava andare per il meglio.
Eros ruotava come un tappo a forma di patata, con la spessa pelle
di roccia che nascondeva gli orrori al suo interno. Alex li portò vicini
per fare una scansione completa della stazione. L’asteroide
s’ingrossò sullo schermo di Holden finché non sembrò abbastanza
prossimo da poterlo toccare a mani nude. Nell’altra postazione
operativa, Naomi scansionò la superficie con il lidar, alla ricerca di
qualsiasi cosa potesse rappresentare un pericolo per gli equipaggi
dei cargo della Tycho, ancora a qualche giorno di viaggio da lì. Sul
display tattico di Holden, la nave di ricerca scientifica della Marina
delle Nazioni Unite continuava ad avvicinarsi in manovra frenante
verso Eros, con la scorta a ruota.
«Continuano a non volerci parlare, eh?» chiese Holden.
Naomi scosse la testa, poi accarezzò il suo schermo e inviò le
informazioni di monitoraggio delle comunicazioni alla postazione di
Holden.
«Niente» disse lei. «Ma ci vedono. È da un paio d’ore che ci stanno
facendo rimbalzare addosso il loro radar.»
Holden tamburellò le dita sul bracciolo del sedile e rifletté sulle
scelte che aveva davanti. Era possibile che le modifiche che la
Tycho aveva apportato allo scafo della Roci stessero ingannando il
software di riconoscimento della corvetta. Poteva darsi che stessero
semplicemente ignorando la Roci, pensando che si trattasse di un
cargo cisterna cinturiano che era nei paraggi per caso. Ma la Roci
stava navigando senza transponder, il che la poneva fuori dalla
legalità a prescindere dalla configurazione dello scafo. Il fatto che la
corvetta non stesse cercando di dissuadere una nave che volava al
buio lo fece insospettire. La Fascia e i pianeti erano in piena guerra.
Una nave cinturiana non identificata se ne stava intorno a Eros
mentre due navi terrestri vi si stavano dirigendo. Non era possibile
che un capitano dotato anche soltanto di mezzo cervello potesse
ignorarli.
Quel silenzio significava qualcos’altro.
«Naomi, ho la sensazione che quella corvetta proverà a farci
saltare in aria» disse Holden con un sospiro.
«È quello che farei io» rispose lei.
Holden tamburellò un ultimo, complicato ritmo sulla sua sedia, poi
si rimise le cuffie.
«E va bene, immagino che sarò io a dover fare le presentazioni,
allora» disse.
Non volendo rendere pubblica quella conversazione, Holden puntò
la corvetta terrestre con il laser della Rocinante e segnalò una
richiesta di collegamento generica. Dopo pochi secondi, la luce del
‘collegamento stabilito’ divenne verde, e le sue cuffie cominciarono a
sibilare con un debole fruscio di sottofondo. Holden rimase in attesa,
ma la nave delle Nazioni Unite non offrì alcun saluto. Volevano che
fosse lui a parlare per primo.
Holden spense il suo microfono, passando sulla linea di
comunicazione interna alla nave.
«Alex, mettici in movimento. Un g, per ora. Se non riesco a
raggirare questo tipo, dovremo far fuoco. Stai pronto ad aprire.»
«Ricevuto» rispose Alex. «Andiamo a dose, per stare sicuri.»
Holden lanciò un’occhiata verso Naomi, ma lei aveva già
richiamato lo schermo tattico e stava facendo tracciare alla Roci le
migliori soluzioni di fuoco e le tattiche di disturbo contro le due navi
in avvicinamento. Quella donna aveva partecipato a un’unica
battaglia, ma ora stava già reagendo come un’esperta veterana.
Holden sorrise alla schiena di lei, poi si voltò prima che potesse
accorgersi che la stava fissando.
«Amos?» chiamò.
«Tutto carico e pronto quaggiù, cap. La Roci sta scalpitando.
Andiamo a prenderli a calci nel culo.»
Speriamo che non ce ne sia bisogno, pensò Holden.
Riaccese il suo microfono.
«Qui è il capitano James Holden della Rocinante che vi parla. Sto
chiamando il capitano della corvetta delle Nazioni Unite in
avvicinamento, nominativo emittente sconosciuto. Rispondete,
passo.»
Ci fu una pausa piena d’interferenze elettrostatiche, seguita da:
«Rocinante, toglietevi immediatamente dalla nostra rotta. Se non
comincerete ad allontanarvi da Eros alla massima velocità
consentita con effetto immediato, apriremo il fuoco su di voi.»
La voce era giovane. Una corvetta dei tempi andati con il noioso
compito di seguire una nave per la mappatura degli asteroidi non
doveva essere una missione molto invidiata. Il capitano doveva
essere un tenente senza particolari sponsor né prospettive. Doveva
essere inesperto, ma probabilmente vedeva lo scontro come
un’opportunità di provare il suo valore ai superiori. E questo rendeva
i momenti successivi molto insidiosi da gestire.
«Chiedo scusa» replicò Holden. «Continuo a non conoscere il
vostro nominativo emittente, né il vostro nome. Ma non posso fare
quel che mi chiede. A dire il vero, non posso lasciare atterrare
nessuno su Eros. Devo chiederle di interrompere il vostro
avvicinamento alla stazione.»
«Rocinante, non credo che abbiate...»
Holden prese il controllo del sistema di puntamento della Roci e
cominciò a dirigere il mirino laser sulla corvetta in avvicinamento.
«Lasci che le spieghi che cosa sta succedendo» disse. «In questo
istante, lei sta guardando i suoi sensori e vede soltanto quel che
sembra essere un cargo cisterna rappezzato alla bell’e meglio che
sta creando parecchi problemi al software di riconoscimento navi di
bordo. Ma, all’improvviso, e intendo dire in questo stesso istante, il
cargo vi punta addosso un sistema di acquisizione bersaglio di
ultima generazione.»
«Noi non...»
«Non menta. So bene quello che sta succedendo. Per cui eccole
un accordo: nonostante quel che sembra, la mia nave è più nuova,
più rapida, più robusta e meglio armata della vostra. L’unico modo
che ho per provarglielo sarebbe aprire il fuoco, ma spero di non
doverlo fare.»
«Mi sta per caso minacciando, Rocinante?» domandò la giovane
voce che aveva in cuffia, mentre il tono toccava tutte le note giuste di
arroganza e incredulità.
«Minacciando lei? No di certo» rispose Holden. «Sto minacciando
la grossa nave lenta che si muove piano alle vostre spalle,
disarmata, che lei dovrebbe proteggere. Se continuerete a volare
verso Eros, vi lancerò addosso tutto quello che ho. Le garantisco
che possiamo cancellare quel laboratorio scientifico dal cielo. Ora, è
possibile che lei riesca a beccarci mentre lo facciamo, ma per allora
la sua missione sarà comunque andata a puttane, dico bene?»
La linea fu di nuovo silenziosa, e soltanto il sibilo delle radiazioni di
sottofondo gli faceva capire che le sue cuffie non si erano guastate.
Quando giunse la risposta, lo fece sulla linea di comunicazione
generale.
Alex disse: «Si stanno fermando, capitano. Hanno appena
cominciato a frenare a fondo. Il radar dice che arriveranno a una
sosta relativa tra due milioni di chilometri. Vuoi che continui a volare
verso di loro?»
«No, riportaci allo stazionamento su Eros» replicò Holden.
«Ricevuto.»
«Naomi» disse Holden, voltando il sedile per guardare verso di lei.
«Stanno facendo altro?»
«Non qualcosa che riesca a vedere attraverso le interferenze dei
loro propulsori. Ma potrebbe darsi che stiano inviando messaggi a
raggio diretto nella direzione opposta, e noi non potremmo saperlo»
rispose.
Holden chiuse il canale di comunicazione generale. Si grattò la
testa per un istante, poi si slacciò le cinture.
«Be’, per il momento li abbiamo fermati. Vado un attimo in bagno e
poi mi faccio un drink. Vuoi qualcosa?»
«Non ha tutti i torti, sai» disse Naomi più tardi, quella notte.
Holden fluttuava a gravità zero sul ponte operativo, con la
postazione a pochi metri da lui. Aveva abbassato le luci della
plancia, e la sala era fiocamente illuminata come una notte di luna
senza nuvole. Alex e Amos stavano dormendo, due ponti più sotto.
Potevano anche essere a milioni di anni luce da loro. Naomi
fluttuava accanto alla sua postazione, a due metri da Holden, con i
capelli sciolti che le galleggiavano intorno come una nuvola nera. Il
pannello alle sue spalle le incorniciava il viso di luce: la fronte alta, il
naso piatto, le labbra carnose. Holden riusciva a distinguerne gli
occhi chiusi. Ebbe come l’impressione che lui e lei fossero le uniche
due persone in tutto l’universo.
«Chi è che non ha tutti i torti?» chiese, tanto per dire qualcosa.
«Miller» rispose lei, come se fosse ovvio.
«Non ho idea di cosa tu stia parlando.»
Naomi rise, poi agitò una mano per ruotare il proprio corpo e
mettersi faccia a faccia con lui in assenza di gravità. Naomi aveva gli
occhi aperti ora, anche se, con le luci dei pannelli alle sue spalle,
Holden non vedeva altro che due pozze nere sul suo viso.
«Ho riflettuto su Miller» disse. «L’ho trattato male, su Tycho. L’ho
ignorato soltanto perché tu eri arrabbiato con lui. Avrei dovuto
trattarlo meglio.»
«Perché?»
«Ti ha salvato la vita su Eros.»
Holden sbuffò, ma lei continuò lo stesso il suo discorso.
«Quando eri in marina,» disse «che cosa avresti dovuto fare se
qualcuno avesse dato di matto a bordo della nave? Se avesse
cominciato a fare cose che mettevano in pericolo tutto
l’equipaggio?»
Pensando che stesse parlando di Miller, Holden disse: «Contenerlo
e poi rimuoverlo in quanto pericoloso per la nave e per l’equipaggio.
Ma Fred non ha...»
Naomi lo interruppe.
«E se fosse in tempo di guerra?» chiese. «Nel bel mezzo di una
battaglia?»
«Se non potesse essere facilmente contenuto, il capo della
sorveglianza avrebbe l’obbligo di proteggere la nave e l’equipaggio
con qualunque mezzo si rendesse necessario.»
«Anche sparandogli?»
«Se fosse l’unica soluzione» rispose Holden. «Certo. Ma varrebbe
soltanto nelle condizioni più urgenti.»
Naomi fece un cenno di assenso con la mano, facendo roteare
lentamente il suo corpo dall’altra parte. Fermò il movimento con un
gesto automatico. Holden si muoveva molto bene a gravità zero, ma
non era mai stato come lei.
«La Fascia è una rete» disse Naomi. «È come una grossa nave
distribuita in più parti. Abbiamo dei centri che producono aria, acqua,
elettricità o materiali strutturali. Questi centri possono essere
separati da milioni e milioni di chilometri di spazio, eppure non per
questo sono meno interconnessi tra loro.»
«Capisco dove vuoi andare a parare» replicò Holden con un
sospiro. «Dresden era un folle su una nave, e Miller gli avrebbe
sparato per proteggere il resto di noi. Mi ha già fatto un discorso del
genere quando eravamo su Tycho. Non ho abboccato nemmeno
allora.»
«Perché?»
«Perché» disse Holden «Dresden non era una minaccia
immediata. Era soltanto un ometto malvagio con un abito costoso.
Non impugnava una pistola, né il detonatore di una bomba. E non
potrò mai fidarmi di un uomo che crede di avere il diritto di giustiziare
unilateralmente un’altra persona.»
Holden posò il piede sulla paratia e si diede una spinta appena
sufficiente a fluttuare un po’ più vicino a Naomi, abbastanza da
vedere i suoi occhi, da poter leggere la reazione che le sue parole
suscitavano in lei.
«Se quella nave di ricerca spaziale riprendesse a viaggiare verso
Eros, le lancerò addosso tutti i missili che abbiamo, e mi dirò che è
per proteggere il resto del sistema solare da ciò che si trova su Eros.
Ma non per questo mi metterò a spararle adesso, soltanto perché
penso che potrebbe decidere di dirigersi nuovamente su Eros,
perché questo sarebbe omicidio. Ciò che ha fatto Miller è stato un
omicidio.»
Naomi gli sorrise, poi gli afferrò la tuta di volo e lo tirò a sé,
abbastanza vicino da baciarlo.
«Potresti essere la persona migliore che conosco. Ma sei
totalmente irremovibile su ciò che pensi sia giusto, ed è questo che
odi in Miller.»
«Ah, sì?»
«Sì» rispose lei. «Anche lui è totalmente irremovibile, ma ha
un’idea diversa su come funzionino le cose. E tu detesti questo fatto.
Per Miller, Dresden era una minaccia attiva per la nave. Ogni
secondo in più in cui restava in vita rappresentava un pericolo per
tutti coloro che aveva intorno. Per Miller, è stata autodifesa.»
«Be’, aveva torto. Quell’uomo era indifeso.»
«Quell’uomo ha convinto a parole la Marina delle Nazioni Unite a
fornire navi di ultima generazione alla sua compagnia» disse lei. «Ha
convinto la sua compagnia ad assassinare un milione e mezzo di
persone. Tutto ciò che Miller ha detto a proposito del fatto che fosse
meglio lasciare la protomolecola nelle nostre mani era vero anche a
proposito di Dresden. Quanto tempo avrebbe passato in una cella
dell’APE prima di trovare un carceriere che si fosse fatto comprare?»
«Era un prigioniero» rispose Holden, sentendo che perdeva il
controllo della discussione.
«Era un mostro con potere, conoscenze e alleati, disposto a
pagare qualsiasi prezzo per continuare a mandare avanti il suo
progetto scientifico» replicò Naomi. «E ti dico, da cinturiana, che
Miller non aveva torto.»
Holden non rispose; si limitò a fluttuare accanto a lei,
mantenendosi nella sua orbita. Era più arrabbiato per il fatto che
Miller avesse ucciso Dresden, o perché aveva preso una decisione
che era in disaccordo con lui?
E Miller sapeva quello che sarebbe successo. Quando Holden gli
aveva detto di trovarsi un passaggio verso Tycho, l’aveva colto nel
viso da bassotto triste del detective. Miller sapeva che sarebbe
accaduto, e non aveva nemmeno tentato di controbattere o
spiegarsi. Questo significava che Miller aveva compiuto la propria
scelta con la piena consapevolezza del suo prezzo, e che era stato
pronto a pagarlo. Questo significava qualcosa. Holden non sapeva
bene cosa, ma qualcosa.
Un segnale rosso cominciò a lampeggiare sulla paratia e il
pannello di Naomi si riaccese, cominciando a sparare dati sullo
schermo. Lei si tirò giù aggrappandosi allo schienale del sedile, poi
picchiettò su diversi comandi rapidi.
«Merda» esclamò.
«Che cosa c’è?»
«La corvetta o la nave scientifica devono aver chiamato aiuto»
rispose Naomi, indicando il suo schermo. «Abbiamo navi in arrivo da
tutto il sistema.»
«Quanti sono?» chiese Holden, cercando di trovare un angolo
migliore per osservare lo schermo.
Naomi emise un verso dal fondo della gola, a metà strada tra una
risatina e un colpo di tosse.
«A occhio e croce? Tutti.»
48

Miller

«Sei e non sei» disse il canale di Eros in mezzo a un rumore


bianco di interferenze semicasuali. «Sei e non sei. Sei e non sei.»
La piccola nave tremò e sobbalzò. Da una delle brande di
accelerazione, uno dei tecnici dell’APE sciorinò una sfilza
d’imprecazioni, più incisive per inventiva che per livore. Miller chiuse
gli occhi, cercando d’impedire che gli aggiustamenti in microgravità
di quell’attracco non convenzionale gli dessero la nausea. Dopo
giorni di accelerazione spaccaossa e routine di frenaggio
ugualmente logoranti, quei piccoli spostamenti e sbalzi sembravano
arbitrari e strani.
«Sei, sei, sei, sei, sei, sei, sei...»
Miller aveva passato parecchio tempo ad ascoltare i notiziari. La
notizia del coinvolgimento della Protogen su Eros era trapelata tre
giorni dopo la loro partenza da Tycho. Incredibilmente, stavolta non
era stato Holden. Da allora, l’azienda era passata dalla negazione
totale, all’attribuzione di ogni responsabilità ai manigoldi della ditta
subappaltante, fino alla pretesa d’immunità sotto statuto di
secretazione militare terrestre. Le cose non sembravano mettersi
bene per loro. Il blocco aereo terrestre ai danni di Marte era ancora
attivo, ma l’attenzione si era spostata sulla lotta di potere interna alla
Terra, e la flotta militare marziana aveva rallentato il suo precipitoso
ritorno, concedendo alle forze militari terrestri un po’ più di respiro
prima di arrivare a prendere decisione definitive. Sembrava che
avessero posticipato l’Armageddon di qualche settimana. Miller
scoprì che riusciva a trarne gioia. E lo faceva anche sentire stanco.
Spesso aveva ascoltato la voce di Eros. A volte guardava anche i
video, ma di solito si limitava ad ascoltare. Con il passare delle ore e
dei giorni, cominciò a distinguere, se non uno schema, perlomeno
delle strutture più comuni. Alcune voci che si srotolavano fuori dalla
stazione in agonia erano ricorrenti; immaginò che dovesse trattarsi di
annunciatori e intrattenitori più presenti e rappresentativi all’interno
dei loro archivi audio. Sembravano esserci anche alcune tendenze
specifiche in quella che si poteva definire, per mancanza di un
termine più appropriato, la musica che producevano. Ore di
interferenze casuali, cristalline, e monconi di frasi incomplete
collassavano su sé stessi, ed Eros si avventava su una qualche
parola o frase, fissandovisi con intensità sempre crescente finché
non si fosse dissolta e la casualità delle interferenze avesse ripreso
il sopravvento.
«...sei, sei, sei, sei, sei, sei...»
Non sei, pensò Miller, e la nave sbalzò improvvisamente verso
l’alto, lasciando lo stomaco del detective a una ventina di centimetri
sotto di lui. Seguì una serie di forti tonfi metallici, e poi il breve
lamento di un allarme.
«Dieu! Dieu!» gridò qualcuno. «Bombe son vamen roja! Ci stanno
per friggere! Ci friggono toda!»
Ci furono le solite risatine basse che quello stesso scherzo aveva
provocato durante tutto il viaggio, e il ragazzo che l’aveva ideato –
un cinturiano brufoloso che non doveva avere più di quindici anni –
sogghignò compiaciuto per il suo senso dell’umorismo. Se non
l’avesse fatta finita con quelle stronzate, qualcuno l’avrebbe preso a
sprangate con un piede di porco prima di tornare su Tycho. Ma Miller
pensò che quel qualcuno non sarebbe stato lui.
Uno scatto violento in avanti lo premette sulla branda, e poi la
gravità tornò di nuovo al valore familiare di 0.3 g. O forse poco più.
Tranne che, con i portelloni rivolti verso il basso della nave, il pilota
aveva prima dovuto agganciarsi alla pancia in rotazione di Eros. La
gravità di rotazione aveva trasformato quello che era il soffitto in
pavimento; la fila di brande più basse era ora la più alta; e, mentre
infarcivano l’asteroide di bombe a fusione, sarebbero dovuti salire su
per la superficie fredda e dura di quella roccia che avrebbe provato a
scaraventarli via nel vuoto.
Tali erano le gioie del sabotatore.
Miller indossò la tuta. Dopo le tute di livello militare della
Rocinante, il variegato assortimento di equipaggiamenti gli parve un
mucchio di abiti di terza mano. La sua tuta puzzava del corpo di
qualcun altro, e la visiera in mylar era deformata nel punto in cui si
era spaccata ed era stata riparata. Non gli piaceva pensare a quello
che era successo al povero cristo che l’aveva preceduto. Gli stivali
magnetici avevano uno spesso strato di plastica corrosa e vecchio
fango tra le piastre, con un meccanismo di attivazione tanto vecchio
che Miller riusciva a sentire l’accensione e lo spegnimento che
ticchettavano prima ancora di spostare il piede. Gli venne in mente
un’immagine di quella tuta che si agganciava a Eros e che non lo
lasciava più andare.
Quel pensiero lo fece sorridere. Il tuo posto è qui con me, gli aveva
detto la sua Julie privata. Era vero e, ora che era lì, si sentì
assolutamente certo che non se ne sarebbe andato. Era stato uno
sbirro troppo a lungo, e l’idea di riconnettersi di nuovo con l’umanità
lo sommergeva di un presagio di esaurimento. Era lì per completare
il suo lavoro. E poi basta, aveva finito.
«Ehi! Pampaw!»
«Arrivo» disse Miller. «Datti una calmata. Non è che la stazione se
ne va da qualche parte.»
«Un arcobaleno è un cerchio che non puoi vedere. Non puoi
vedere. Non puoi vedere» disse Eros con una vocina cantilenante da
bambini. Miller abbassò il volume del canale.
La superficie rocciosa della stazione non presentava particolari
punti di aggancio per le tute e le gru di controllo. Altre due navi
avevano eseguito attracchi polari, in punti dove non c’era nessuna
gravità di rotazione contro cui lottare, ma l’effetto Coriolis avrebbe
imposto a tutti un senso di nausea subliminale. La squadra di Miller
sarebbe dovuta restare sulle piattaforme metalliche esposte dei moli
di attracco, aggrappati come mosche affacciate sull’abisso illuminato
dalle stelle.
Pianificare il piazzamento delle bombe a fusione non era una
sciocchezza. Se gli ordigni non avessero pompato sufficiente
energia nella stazione, la superficie si sarebbe potuta raffreddare
abbastanza da dare a qualcun altro la possibilità di farci atterrare la
propria squadra scientifica prima che la penombra del sole
inghiottisse Eros e qualunque altra parte della Nauvoo vi fosse
rimasta attaccata. Perfino con le migliori menti della Tycho
impegnate nel progetto, c’era comunque la possibilità che le cariche
non detonassero simultaneamente. Se le onde di pressione
attraverso l’asteroide si fossero amplificate in maniera non prevista,
la stazione si sarebbe potuta aprire come un uovo, diffondendo la
protomolecola attraverso l’ampio spazio vuoto del sistema solare
come se fosse una manciata di polvere. La differenza tra un
successo e un disastro poteva essere questione di metri.
Miller strisciò fuori dal portellone pressurizzato e uscì sulla
superficie della stazione. La prima ondata di tecnici era intenta a
installare sismografi di risonanza; il bagliore delle luci e dei display
da cantiere era la cosa più luminosa dell’universo tutto intorno. Miller
piantò i suoi stivali su un’ampia piastra di lega d’acciaio ceramico e
lasciò che la rotazione gli scrocchiasse via i nodi dalla spina dorsale.
Dopo i giorni trascorsi sulla branda di accelerazione, tutta quella
libertà dava quasi un senso di euforia. Una donna dello staff dei
tecnici alzò una mano nell’idioma fisico dei cinturiani per richiamare
l’attenzione. Miller alzò il volume della tuta.
«...insectes rampant sur ma peau...»
Con un moto d’impazienza, passò dal canale di Eros a quello di
comunicazione della squadra.
«Dobbiamo spostarci» disse una voce femminile. «Il pannello di
protezione è troppo spesso qui. Dobbiamo andare dall’altra parte dei
moli.»
«Sono lunghi quasi due chilometri» rispose Miller.
«Sì» concordò lei. «Possiamo sganciarci e spostare la nave
accendendo i motori, o trainandola. Abbiamo cavi a sufficienza.»
«Qual è la cosa più veloce da fare? Non abbiamo molto tempo.»
«Trainare.»
«E allora trainiamo» disse Miller.
La nave si rialzò lentamente, con venti droni di rimorchio legati al
guinzaglio come se stessero tirando un gigantesco zeppelin di
metallo. Sarebbe rimasta con lui, lì sulla stazione, legata
all’asteroide come un sacrificio per gli dèi. Miller avanzò insieme alla
squadra mentre attraversavano le ampie porte chiuse del molo. Gli
unici rumori erano il tramestio delle sue suole quando gli
elettromagneti si agganciavano alla superficie e poi un ticchettio
quando lasciavano andare la presa. Gli unici odori erano quelli del
suo corpo e della plastica del riciclatore d’ossigeno. Il metallo sotto i
suoi piedi brillava come se qualcuno l’avesse lucidato. Polvere o
detriti erano stati trascinati via da tempo.
Lavorarono rapidamente per posizionare la nave, armare le bombe
e inserire i codici di sicurezza; erano tutti tangibilmente coscienti che
il grande missile che un tempo era stata la Nauvoo si stava
precipitando a tutta velocità verso di loro.
Se un altro veicolo avesse provato a scendere verso l’asteroide per
disinnescare la trappola, la nave avrebbe inviato un segnale in
simultanea a tutte le altre navi bomba dell’APE vincolate al satellite.
Tre secondi dopo, la superficie di Eros sarebbe stata devastata dalle
esplosioni. L’ossigeno e le provviste di riserva furono scaricati e
accatastati, ed erano pronti per essere ricaricati. Non c’era motivo di
sprecare risorse.
Niente di orribile strisciò fuori da un portellone, cercando di
attaccare la squadra, cosa che rese del tutto superflua la presenza
di Miller durante quella missione. O forse no. Forse era stato
soltanto un passaggio.
Quando tutto ciò che doveva essere fatto fu compiuto, Miller diede
il via libera, trasmesso attraverso i sistemi di tutte le navi ormai
cadaveri. Il vettore di ritorno apparve lentamente, un punto di luce
che diventava sempre più luminoso e che si espandeva, con la
ragnatela di imbarco a gravità zero che si apriva come
un’impalcatura. Non appena giunse il via libera dalla nuova nave, la
squadra di Miller spense i magneti degli stivali e attivò i semplici
propulsori di manovra delle tute o, laddove le tute erano troppo
vecchie, dei gusci di evacuazione ablativa. Miller li osservò mentre si
allontanavano.
«Chiama va e via, Pampaw» disse Diogo da qualche parte. Miller
non era sicuro di quale di loro fosse, da quella distanza. «Questo
tubo non ci aspetta.»
«Non vengo» rispose Miller.
«Sa que?»
«Ho deciso. Resto qui.»
Ci fu un attimo di silenzio. L’ex poliziotto aveva aspettato quel
momento. Aveva i codici di sicurezza. Se avesse avuto bisogno di
strisciare di nuovo dentro la loro vecchia nave e serrare il portellone
alle sue spalle, poteva farlo. Ma non voleva. Si era preparato le
proprie argomentazioni: se fosse tornato su Tycho, sarebbe stato
soltanto per fare da pedina politica nelle negoziazioni di Fred
Johnson; era stanco e vecchio, in un modo che gli anni non
bastavano a descrivere; era già morto una volta su Eros, e voleva
essere lì per mettere un punto a quella faccenda. Se l’era
guadagnato. Diogo e gli altri glielo dovevano.
Attese che il ragazzo reagisse, che cercasse di convincerlo a non
farlo.
«Tutto corretto, allora» disse Diogo. «Buona morte.»
«Buona morte» ripeté Miller, e spense la radio. L’universo era
silenzioso. Le stelle sotto di lui si muovevano lentamente ma
percettibilmente, mentre la stazione a cui era appeso continuava a
ruotare. Una di quelle luci era la Rocinante. Altre due erano le navi
che era stata inviata a bloccare. Miller non riusciva a distinguerle.
Julie fluttuava accanto a lui, con i capelli scuri che galleggiavano nel
vuoto e le stelle che brillavano attraverso di lei. Sembrava in pace.
Se dovessi farlo di nuovo, disse. Se potessi rifare tutto da capo?
«Non lo farei» rispose lui.
Guardò la nave di trasporto dell’APE accendere i motori, con i
propulsori che baluginavano d’oro e bianco, e allontanarsi finché non
fu di nuovo una stella tra le altre. Una piccola stella. E poi si perse.
Miller si voltò e osservò lo scuro paesaggio spettrale dell’asteroide,
in quella notte permanente.
Doveva solo restare con lei per qualche altra ora, e poi sarebbero
stati salvi entrambi. Sarebbero stati tutti salvi. Era abbastanza. Miller
scoprì che stava sorridendo e piangendo; le lacrime gli risalivano
dagli occhi, gocciolando tra i capelli.
Andrà tutto bene, disse Julie.
«Lo so» rispose Miller.
Rimase lì in silenzio per quasi un’ora, poi si voltò e tornò lento,
cauto, verso la nave sacrificale, e strisciò attraverso il portellone fin
nella sua pancia buia. C’era ancora abbastanza atmosfera residua
da permettergli di non dover dormire nella sua tuta. Si spogliò
completamente, scelse una brandina di accelerazione e si
raggomitolò sul duro gel blu. A meno di venti metri più in là, cinque
testate abbastanza potenti da offuscare il sole attendevano un
segnale. Sopra di lui, tutto ciò che un tempo era stato umano sulla
Stazione di Eros mutava e si riformava, passando da una forma
all’altra come uno Hieronymus Bosch fatto di materia. E, a un giorno
da lì, la Nauvoo, il martello di Dio, si precipitava verso di lui.
Miller fece suonare alla sua tuta delle vecchie canzoni pop che gli
piacevano quand’era giovane, con le quali amava addormentarsi.
Quando sognò, sognò di aver trovato un tunnel in fondo al suo
vecchio buco su Ceres: sarebbe stato finalmente, finalmente, libero.
La sua ultima colazione fu una barretta croccante dura e una
manciata di cioccolata rinvenuta in un sacchetto di sopravvivenza
che qualcuno aveva dimenticato lì. La sciolse in una tiepida tazza
d’acqua riciclata che sapeva di ferro e marciume. I segnali ricevuti
da Eros erano quasi affogati nelle frequenze di oscillazione sparate
dalla stazione che aveva sopra di sé, ma Miller riuscì a distinguerli a
sufficienza da sapere come stavano le cose.
Holden aveva vinto, come si era aspettato l’ex poliziotto. L’APE
doveva rispondere a mille accuse furibonde lanciate dalla Terra, da
Marte e, fedeli al loro stile, dalle fazioni interne all’APE stessa. Era
troppo tardi. La Nauvoo sarebbe arrivata in poche ore. La fine era
vicina.
Miller indossò la sua tuta per l’ultima volta, spense le luci e strisciò
fuori dal portellone pressurizzato. Per un lungo momento, la sicura
esterna non rispose e le luci di sistema divennero rosse. Provò una
fitta di paura all’idea che avrebbe dovuto passare lì dentro i suoi
ultimi momenti, intrappolato in un tubo come un missile pronto a
essere sparato via. Alla fine però insistette sulla serratura, e il
pannello si aprì.
Il canale di Eros non trasmetteva più parole, solo un delicato
mormorio, come di acqua sulla pietra. Miller uscì attraverso l’ampia
porta dei moli di attracco. Il cielo sopra di lui girò, e la Nauvoo sorse
all’orizzonte come un sole. La mano aperta del detective in fondo al
braccio teso non bastava a coprire il bagliore dei motori. Lui rimase lì
appeso dalla suola dei suoi stivali, osservando la nave in
avvicinamento. Il fantasma Julie la osservava con lui.
Se aveva fatto bene i suoi calcoli, il punto d’impatto della Nauvoo
sarebbe stato al centro dell’asse principale di Eros. Lui sarebbe
riuscito a vederlo nel momento in cui sarebbe successo, e la futile
eccitazione che sentiva in petto gli ricordava di quando era stato
giovane. Sarebbe stato uno spettacolo. Oh, sarebbe stato un vero
spettacolo da vedere. Considerò l’idea di registrarlo. La sua tuta
sarebbe stata in grado di creare un semplice file visivo e di
trasmettere i dati in tempo reale. Ma no. Quello era il suo momento.
Il suo e di Julie. Il resto dell’umanità poteva accontentarsi
d’immaginare come fosse stato, se voleva.
Il bagliore massiccio della Nauvoo riempiva quasi un quarto del
cielo, ora, e il suo cerchio intero si era liberato dall’orizzonte. I dolci
mormorii del canale di Eros mutarono in qualcosa di più chiaramente
sintetico: un suono in crescendo, spiraliforme, che a Miller fece
tornare in mente, senza un motivo particolare, quegli schermi verdi
dei radar nei vecchi film. C’erano delle voci, in sottofondo, ma lui non
riuscì a distinguerne le parole né la lingua.
Il gigantesco propulsore della Nauvoo copriva metà del cielo, con
le stelle tutto intorno inghiottite dalla luce dell’accelerazione. La tuta
di Miller trillò per avvertirlo delle radiazioni e lui la spense.
Una Nauvoo con equipaggio a bordo non avrebbe mai potuto
sostenere un’accelerazione del genere; anche sul migliore dei sedili
anti-g, quell’accelerazione di gravità avrebbe frantumato le ossa dei
suoi occupanti. Miller cercò di indovinare a che velocità potesse
andare la nave al momento dell’impatto.
Quanto bastava. Questo era quel che contava. Veloce abbastanza.
Lì, nel centro di quel feroce bocciolo di fuoco, Miller vide un puntino
nero, non più grande della punta di una matita. Era la nave. Fece un
sospiro profondo. Quando chiuse gli occhi, una luce rossa si
schiacciò sulle sue palpebre. Quando li riaprì, la Nauvoo si era
allungata. Aveva una forma. Era un ago, una freccia, un missile. Un
pugno che si levava dagli abissi. Per la prima volta da che aveva
memoria, Miller si sentì avvolgere da un timore reverenziale.
Eros gridò.
«Non ti azzardare a toccarmi, cazzo!»
A poco a poco, la luce dei propulsori si trasformò da un cerchio in
un ovale, fino a diventare una gigantesca piuma, mentre la Nauvoo
mostrava il suo profilo argenteo in lontananza. Miller rimase a bocca
aperta.
La Nauvoo aveva mancato il bersaglio. Aveva virato. In quello
stesso momento, in quello stesso momento, stava superando Eros a
tutta velocità, invece di schiantarcisi contro. Eppure, non aveva visto
attivarsi alcun razzo di manovra. E com’era possibile far virare una
nave così grossa, che si muoveva a quella velocità, tanto
bruscamente da farle cambiare rotta da un momento all’altro senza
peraltro spaccarla in due? Già soltanto l’accelerazione...
Miller fissò gli astri come se potesse trovarvi scritta una qualche
risposta. E, con sua sorpresa, la trovò. La scia della Via Lattea,
l’infinita distesa di stelle era ancora lì. Ma l’angolazione era
cambiata. La rotazione di Eros si era spostata. Era cambiata la sua
relazione con il piano dell’ellisse.
Che la Nauvoo avesse mutato rotta all’ultimo minuto senza andare
in pezzi era impossibile. Per cui non era successo. Eros misurava
approssimativamente seicento chilometri cubi. Prima della Protogen,
aveva ospitato il secondo porto più attivo di tutta la Fascia.
E, senza nemmeno scomodare la presa degli stivali magnetici di
Miller, la Stazione di Eros aveva schivato il proiettile.
49

Holden

«Porca puttana» esclamò Amos con tono impassibile.


«Jim» disse Naomi alle spalle di Holden, ma lui le fece segno con
la mano di aspettare e aprì una linea diretta con Alex, su nel cockpit.
«Alex, abbiamo davvero visto quello che i miei sensori mi dicono
che abbiamo visto?»
«Sì, cap» rispose il pilota. «Il radar e i telescopi dicono entrambi
che Eros ha fatto un salto di un paio di centinaia di chilometri nel
senso della rotazione in poco meno di un minuto.»
«Porca puttana» ripeté Amos con lo stesso tono spassionato. Il
tonfo metallico dei portelloni che si aprivano e si chiudevano tra i
ponti riecheggiò attraverso la nave, segnalando l’arrivo di Amos su
per la scala dell’equipaggio.
Holden scosse via l’ondata di irritazione che gli era salita dentro
per il fatto che Amos avesse lasciato la sua postazione. Ci avrebbe
pensato dopo. Doveva essere assolutamente sicuro che la
Rocinante e il suo equipaggio non fossero appena stati vittime di
un’allucinazione di gruppo.
«Naomi, apri un canale di comunicazione» disse.
La donna si voltò sul suo sedile per guardarlo, bianca in viso.
«Come puoi restare così calmo?» gli chiese.
«Il panico non ci aiuterà. Dobbiamo sapere che cosa sta
succedendo prima di pensare a un piano intelligente. Per favore,
trasferiscimi il pannello di comunicazione.»
«Porca puttana» esclamò ancora Amos, mentre saliva sul ponte
operativo. Il portellone della plancia si richiuse con un tonfo, a
sottolineare le sue parole.
«Non ricordo di averti ordinato di lasciare la tua postazione,
marinaio» disse Holden.
«Un piano intelligente» ripeté Naomi, come se fossero parole
pronunciate in un’altra lingua, che riusciva quasi a capire. «Un piano
intelligente.»
Amos si gettò su un sedile tanto pesantemente che il gel
ammortizzante lo afferrò e gli impedì di rimbalzare.
«Eros è fottutamente grossa» disse Amos.
«Un piano intelligente» ripeté Naomi, parlando tra sé e sé.
«Voglio dire, davvero fottutamente grossa» ribadì Amos. «Lo
sapete quanta energia c’è voluta, per imprimere la rotazione a quel
sasso? Voglio dire, ci sono voluti anni per far girare quella merda.»
Holden si rimise gli auricolari per non sentire Amos e Naomi, e
chiamò di nuovo Alex.
«Alex, Eros si sta ancora spostando?»
«No, cap. Se ne sta lì immobile, come un asteroide.»
«Okay» disse Holden. «Amos e Naomi sono fuori gioco. Tu come ti
senti?»
«Non toglierò le mani dalla cloche finché quel bastardo sarà nei
paraggi, questo è poco ma dannatamente sicuro.»
Rendiamo grazie a Dio per l’addestramento militare, pensò Holden.
«Bene, mantienici a una distanza costante di cinquemila chilometri
finché non ti dirò altrimenti. Avvertimi se si muove di nuovo, anche
soltanto di un centimetro.»
«Ricevuto, cap» rispose Alex.
Holden si tolse gli auricolari e si voltò per fronteggiare il resto del
suo equipaggio. Amos fissava il soffitto, contando sulla punta delle
dita, con sguardo vacuo.
«...non ricordo esattamente quale sia la massa di Eros, così su due
piedi...» stava dicendo, rivolgendosi a tutti e nessuno.
«Più o meno sette milioni di miliardi di chili» rispose Naomi. «Chilo
più, chilo meno. E la traccia di calore è salita di un paio di gradi.»
«Cristo» esclamò il meccanico. «Non riesco a fare il calcolo a
mente. Tutta quella massa che sale di due gradi, così?»
«È tanto» disse Holden. «Per cui vediamo di...»
«Circa dieci exajoule» disse Naomi. «Così, a mente, ma non credo
di sbagliarmi in termini di ordine di grandezza o altro.»
Amos fece un fischio.
«Dieci exajoule equivalgono a, vediamo... una bomba a fusione
nucleare da due gigatoni?»
«Sono circa cento chili convertiti direttamente in energia» disse
Naomi. La sua voce cominciò a riacquistare sicurezza. «Cosa che,
ovviamente, non potremmo fare. Ma almeno, qualunque cosa sia
successa, non è magia.»
La mente di Holden si aggrappò alle sue parole in maniera quasi
fisica. Naomi era la persona più intelligente che conoscesse. Aveva
appena parlato direttamente alla paura inarticolata che aveva
cominciato a crescere in lui dal momento in cui Eros aveva fatto un
salto di lato: che fosse magia, che la protomolecola non dovesse
sottostare alle leggi della fisica. Perché, se era così, gli umani non
avrebbero avuto alcuna possibilità.
«Spiegati» disse.
«Be’» rispose lei, picchiettando sulla tastiera. «Non è stato il calore
a muovere Eros. Per cui immagino che si sia trattato di calore di
risulta da qualunque cosa sia quella che hanno fatto.»
«E che significa?»
«Che il principio di entropia esiste ancora. Che non possono
convertire massa in energia con efficienza assolutamente perfetta.
Che le loro macchine, o i loro processi, o qualunque cosa usino per
spostare sette milioni di miliardi di chili di roccia, sprecano energia.
Più o meno l’equivalente di una bomba da due gigatoni.»
«Ah.»
«Non si potrebbe spostare Eros di duecento chilometri con una
bomba da due gigatoni» replicò Amos con uno sbuffo.
«No, non si potrebbe» rispose Naomi. «Questi sono solo i resti. Un
prodotto del surriscaldamento. La loro efficienza è sicuramente
strabiliante, ma non perfetta. Il che significa che le leggi della fisica
sono ancora valide. E che non si tratta di magia.»
«Potrebbe pure esserlo, per quel che vale» disse Amos.
Naomi guardò Holden.
«Allora, dovremmo...» cominciò di nuovo lui, ma Alex lo interruppe
sulla linea di comunicazione interna.
«Cap, Eros si sta muovendo di nuovo.»
«Seguilo, individuami una rotta e la sua velocità il prima possibile»
disse Holden, tornando a girarsi verso la console. «Amos, torna giù
in sala motori. Se uscirai di nuovo senza aver ricevuto un ordine
diretto, ti farò picchiare a morte dal vicecomandante con una chiave
inglese.»
L’unica risposta fu il sibilo del portellone che si apriva e il tonfo
metallico mentre si richiudeva alle spalle del meccanico che
riscendeva sul ponte inferiore.
«Alex» disse Holden, fissando i dati che la Rocinante gli
continuava a fornire su Eros. «Dimmi qualcosa.»
«Va verso il sole. Questo è tutto ciò che sappiamo per certo»
rispose Alex, con voce ancora calma e professionale. Quando
Holden era in marina militare aveva cominciato subito con la carriera
da ufficiale. Non aveva mai frequentato la scuola dei piloti, ma
sapeva che anni e anni di addestramento avevano diviso il cervello
di Alex in due comparti separati: questioni di pilotaggio e,
secondariamente, tutto il resto. Tallonare Eros e trovare una
traiettoria faceva parte della prima metà. L’esistenza di alieni spaziali
al di là del sistema solare che stavano cercando di distruggere il
genere umano non era una questione di pilotaggio e poteva essere
tranquillamente ignorata finché non avesse lasciato il cockpit. Poteva
darsi che dopo avrebbe avuto un crollo nervoso ma, fino ad allora,
Alex avrebbe continuato a fare il suo lavoro.
«Portati a cinquantamila chilometri da Eros e mantieni la distanza
costante» gli disse Holden.
«Uhm» replicò Alex. «Mantenere una distanza costante potrebbe
essere dura, cap. Eros è appena sparito dal radar.»
Holden si sentì un nodo in gola.
«Come dici?»
«Eros è appena sparito dal radar» ripeté Alex, ma nel frattempo
Holden stava già richiamando il pannello di sensori per controllare
con i propri occhi. I telescopi mostravano l’asteroide ancora in corsa
lungo la sua nuova rotta verso il sole. L’immagine termica lo
mostrava come se fosse leggermente più caldo dello spazio
circostante. La strana trasmissione di voci e follia che continuava a
percolare fuori dalla stazione era ancora distinguibile, anche se
debolmente. Ma il radar diceva che lì non c’era niente.
Magia, disse di nuovo una vocina in fondo alla sua testa.
No, non era magia. Anche gli umani avevano navi mimetiche. Si
trattava semplicemente di assorbire l’energia del radar invece di
rifletterla. All’improvviso, però, mantenere l’asteroide in vista divenne
ancora più importante. Eros aveva dimostrato di essere in grado di
muoversi rapidamente e di compiere manovre incredibili, e ora era
anche invisibile ai radar. Era del tutto plausibile che quell’asteroide
della taglia di una montagna sparisse completamente.
La gravità cominciò ad aumentare mentre la Roci rincorreva Eros
verso il sole.
«Naomi?»
Lei alzò lo sguardo verso di lui. C’era ancora una traccia di paura
nei suoi occhi, ma stava riuscendo a non dare di matto. Per il
momento.
«Jim?»
«La linea. Potresti...»
La mortificazione sul suo viso fu la cosa più rassicurante che
vedesse da ore. Naomi passò il controllo alla postazione di Holden,
e lui aprì una richiesta di connessione.
«Corvetta MNN, qui è la Rocinante, rispondete prego.»
«Dite pure, Rocinante» replicò l’altra nave dopo mezzo minuto di
interferenze elettrostatiche.
«Vi sto chiamando per confermare i dati dei nostri sensori» disse
Holden, poi trasmise le informazioni riguardanti il movimento di Eros.
«Vedete la stessa cosa?»
Un’altra pausa, stavolta più lunga.
«Affermativo, Rocinante.»
«So che stavamo giusto per spararci addosso a vicenda e tutto,
ma credo che ormai siamo un po’ oltre quello stadio» disse Holden.
«Comunque sia, stiamo inseguendo l’asteroide. Se lo perdiamo di
vista, rischiamo di non poterlo ritrovare mai più. Volete unirvi?
Potrebbe essere carino avere un po’ di rinforzi se dovesse decidere
di aprire il fuoco su di noi o qualcosa del genere.»
Un’altra pausa, stavolta lunga quasi due minuti; poi, sulla linea
giunse una voce diversa. Più anziana, femminile, e che mancava
completamente dell’arroganza e della rabbia della giovane voce
maschile con cui aveva avuto a che fare fino a quel momento.
«Rocinante, qui è il capitano McBride della nave scorta MNN Ravi.»
Ah, pensò Holden. Ho parlato con l’ufficiale in seconda per tutto
questo tempo. Finalmente il capitano ha preso il timone. Potrebbe
essere un buon segno. «Ho inviato una richiesta al comando della
flotta, ma abbiamo una latenza di ventitré minuti, e quell’asteroide si
sta muovendo sempre più veloce. Ha un piano?»
«Non proprio, Ravi. Intendo semplicemente seguirlo e raccogliere
dati finché non troviamo un’occasione per agire in qualche modo che
faccia la differenza. Ma se venite anche voi, magari a nessuno dei
vostri verrà voglia di spararci accidentalmente mentre cerchiamo di
capire cosa fare.»
Ci fu una lunga pausa. Holden sapeva che il capitano della Ravi
stava soppesando le possibilità che stesse dicendo la verità, in
opposizione alle minacce che aveva mosso contro la loro nave di
ricerca scientifica. E se fosse stato un complice in qualunque cosa
stesse succedendo con quell’asteroide? Anche Holden avrebbe
avuto gli stessi dubbi, nella loro posizione.
«Ascolti» riprese la parola. «Vi ho detto il mio nome. James
Holden. Ho prestato servizio come tenente nella Marina delle
Nazioni Unite. Dovreste avere i miei file nel vostro archivio. Ci
troverete un congedo con disonore, ma vedrete anche che la mia
famiglia vive in Montana. Non voglio che quell’asteroide colpisca la
Terra, non meno di quanto non lo vogliate voi.»
Il silenzio dall’altra parte si protrasse per qualche altro minuto.
«Capitano» disse la donna. «Credo che i miei superiori vorrebbero
che vi tenessi d’occhio. Verremo con voi mentre gli strateghi
decidono sul da farsi.»
Holden emise un lungo sospiro rumoroso.
«La ringrazio, McBride. Continui a cercare di contattare i suoi.
Anch’io sto facendo altre chiamate. Due corvette non saranno
sufficienti a risolvere il problema.»
«Ricevuto» rispose la Ravi, poi chiuse il collegamento.
«Ho aperto un collegamento con Tycho» disse Naomi.
Holden si appoggiò allo schienale del suo sedile, mentre la gravità
crescente della loro accelerazione gli premeva sul petto. Un groppo
gli si stava formando in pancia, e quel nodo gli faceva capire che
non aveva la minima idea di cosa stesse facendo, che tutti i piani
migliori erano falliti, e che la fine era vicina. Quel breve momento di
speranza che aveva provato stava già cominciando a scivolare via.
Come puoi restare così calmo?
Mi sa tanto che sto assistendo alla fine della razza umana, pensò
Holden. Sto chiamando Fred, in modo che non sarà colpa mia
quando nessuno avrà idea di come fare per impedire che sia così.
Ovvio che non sono calmo.
Sto solo suddividendo la colpa.
«A che velocità?» chiese Fred Johnson, incredulo.
«Quattro g, in aumento» rispose Holden, con voce strozzata
quanto la sua gola. «Ah, e ora è invisibile ai radar.»
«Quattro g. Ha idea di quale sia il peso di Eros?»
«Ne abbiamo, uhm, già discusso» disse Holden; l’unica cosa che
impediva all’impazienza di farsi evidente nel suo tono era
l’accelerazione di gravità. «La domanda da porsi è: e ora? La
Nauvoo ha mancato l’obiettivo. I nostri piani sono andati a puttane.»
Ci fu un altro aumento percettibile della pressione mentre Alex
accelerava per restare al passo con Eros. Se la velocità fosse
aumentata ancora, non sarebbero più riusciti a parlare.
«È diretta verso la Terra, ne è sicuro?» chiese Fred.
«Alex e Naomi lo sono al novanta percento o giù di lì. È difficile
essere del tutto accurati quando si hanno soltanto dati visivi a
disposizione. Ma mi fido di loro. Anch’io andrei dove posso trovare
trenta miliardi di nuovi organismi ospiti.»
Trenta miliardi. Otto dei quali erano i suoi genitori. S’immaginò
padre Tom come un fascio di tubi che spandeva fanghiglia marrone.
Madre Elise come una cassa toracica che si trascinava sul terreno
con un solo braccio scheletrico. E, con tutta quella biomassa, che
cosa avrebbe potuto fare? Spostare la Terra? Allontanare il sole?
«Bisogna avvertirli» disse Holden, cercando di non strangolarsi con
la sua stessa lingua mentre parlavano.
«Non crede che lo sappiano già?»
«Vedono una minaccia. Potrebbero non vedere la fine di ogni vita
originaria del sistema solare» disse Holden. «Voleva un buon motivo
per sedersi al tavolo? Che ne dice di questo: uniamoci o moriamo.»
Fred rimase in silenzio per un istante. Mentre Holden aspettava,
una radiazione di sottofondo gli parlò con mistici sussurri pieni di
oscuri presagi. Novellino, diceva. Fatti un giro per quattordici miliardi
di anni o giù di lì. Vedi quel che ho visto io. Poi, tutte queste
sciocchezze non ti sembreranno più così importanti.
«Vedrò quel che posso fare» disse Fred, interrompendo la
lezioncina dell’universo sul concetto di transitorietà. «Nel frattempo,
voi cosa avete intenzione di fare?»
Farci dare una pista da un asteroide e poi starcene a guardare
mentre la culla dell’umanità viene spazzata via.
«Sono aperto a suggerimenti» rispose Holden.
«Forse potreste far detonare alcune delle testate nucleari che ha
posizionato la squadra di demolizione. Deviare la traiettoria di Eros.
Farci guadagnare un po’ di tempo.»
«Sono impostate su detonatori di prossimità. Non possiamo
innescarle» replicò Holden, e l’ultima parola finì con un grido quando
il suo sedile lo trafisse in una dozzina di punti diversi, iniettandogli
nel corpo un fuoco liquido. Alex aveva attivato la dose, il che
significava che Eros continuava ad aumentare la propria velocità e
che era preoccupato che potessero tutti perdere i sensi. Quanto
ancora avrebbe accelerato? Anche sotto l’effetto della dose, non
avrebbero potuto sostenere un’accelerazione prolungata oltre i sette
o gli otto g senza correre gravi rischi. Se Eros avesse continuato a
mantenere quel ritmo, li avrebbe seminati.
«Potete innescarle da remoto» disse Fred. «Miller dovrebbe avere i
codici. Fate calcolare alla squadra di demolizione quali sia meglio
attivare per ottenere l’effetto maggiore.»
«Ricevuto» rispose Holden. «Lo chiamo.»
«Io mi lavorerò gli interni» disse Fred, usando un modo di dire
cinturiano senza la minima traccia d’imbarazzo. «Vedrò che cosa
riesco a fare.»
Holden interruppe il collegamento, poi si connesse alla nave di
Miller.
«Yo» rispose chiunque fosse addetto alla postazione radio del
cargo.
«Qui Holden, della Rocinante. Mi passi Miller.»
«Uhm...» replicò la voce. «Okay.»
Ci fu un ticchettio, poi un’interferenza, dopodiché Miller lo salutò
con un po’ d’eco nella voce. Indossava ancora il casco, quindi.
«Miller, sono Holden. Dobbiamo parlare di quello che è appena
successo.»
«Eros si è mosso.»
Miller sembrava strano; la sua voce era distante, come se stesse
facendo appena caso a quella conversazione. Holden si sentì
invadere dall’irritazione, ma la tenne a bada. Aveva bisogno di Miller,
in quel momento, che gli piacesse o meno.
«Ascolta» disse. «Ho parlato con Fred, e vuole che ci coordiniamo
con i tuoi ragazzi della squadra demolizioni. Avete i codici remoti
d’innesco. Se le facciamo detonare tutte dallo stesso lato, possiamo
deviare la traiettoria dell’asteroide. Passami i tuoi tecnici, e vediamo
che cosa si riesce a fare.»
«Uhm... sì, mi pare una buona idea. Ti invio i codici» rispose Miller,
con voce non più distante; stava trattenendo una risata. Come un
uomo che stesse per raccontare la parte finale di una barzelletta
davvero divertente. «Ma, per quanto riguarda i tecnici, non saprei
proprio come aiutarti.»
«Cazzo, Miller, hai litigato anche con quelli?»
Il detective liberò la risata; un suono aperto e facile che soltanto chi
non era sotto una massiccia pressione di g poteva permettersi di
emettere. Se per caso c’era una battuta finale, Holden se l’era persa.
«Già» disse Miller. «Forse sì. Ma non è per questo che non te li
posso passare. Non sono sulla nave con loro.»
«Cosa?»
«Sono ancora su Eros.»
50

Miller

«Che vuol dire che sei ancora su Eros?»


«Vuol dire quello» rispose Miller, mascherando un crescente senso
di vergogna con tono noncurante. «Sono appeso a testa in giù fuori
dai moli terziari, dove abbiamo attraccato una delle navi. Mi sento
come un cazzo di pipistrello.»
«Ma...»
«È buffo: quando questo affare si è mosso, non ho sentito niente.
Verrebbe da pensare che, con un’accelerazione del genere, avrebbe
dovuto sbalzarmi via o schiacciarmi come un moscerino. O l’una, o
l’altra. E invece non è successo niente.»
«Okay, non ti muovere. Ti veniamo a prendere.»
«Holden» disse Miller. «Smettila, okay?»
Il silenzio non durò più di una decina di secondi, ma era davvero
carico di significati. ‘Non è sicuro portare la Rocinante su Eros’,
‘Sono venuto qui a morire’, e infine ‘Non renderla più difficile di
quanto non sia già’.
«Sì, è solo che...» disse Holden. Poi aggiunse: «Okay. Fammi...
Fammi coordinare con i tecnici. Poi ti... ah, Cristo... poi ti faccio
sapere che dicono.»
«Una cosa, però» replicò Miller. «Dicevi che pensate di deviare
questo figlio di puttana? Ricordatevi che non è più un asteroide. È
una nave.»
«Giusto» disse Holden. Un momento dopo, aggiunse: «Okay.»
Il collegamento s’interruppe con un clic. Miller controllò la sua
riserva di ossigeno. Rimanevano ancora tre ore nella tuta, ma
poteva anche tornarsene alla nave e fare rifornimento con tutta
calma. E così Eros si muoveva, eh? Lui continuava a non sentirlo
ma, osservando la superficie curva dell’asteroide, vedeva piccoli
microasteroidi, provenienti tutti dalla stessa direzione, che
rimbalzavano via. Se la stazione avesse continuato ad accelerare,
ne sarebbero arrivati di più, con maggiore forza. Doveva rientrare
nella nave.
Risintonizzò il terminale palmare sul canale di Eros. La stazione
sotto di lui gorgheggiava e borbottava; lunghi suoni vocalici, lenti,
s’irradiavano da lì come il canto registrato di una balena. Dopo
quella frase rabbiosa e le interferenze elettrostatiche, la voce di Eros
pareva in pace. Miller si chiese che genere di musica ci avrebbero
fatto Diogo e i suoi amici. I lenti ballabili non sembravano adatti al
loro stile. Un fastidioso prurito gli si insinuò sulle reni, e lui si spostò
nella sua tuta per scacciarlo. Quasi senza notarlo, sorrise. Poi
scoppiò a ridere. Fu attraversato da un’ondata di euforia.
C’era vita aliena nell’universo, e lui la stava cavalcando come una
zecca su un cane. La Stazione di Eros si era mossa di sua
spontanea volontà e sfruttando meccanismi che non poteva
nemmeno cominciare a immaginare. Non sapeva quanti anni fossero
passati dall’ultima volta che era rimasto sopraffatto dalla meraviglia.
Aveva dimenticato quella sensazione. Alzò le braccia di lato,
allungandole come se potesse abbracciare l’infinito vuoto buio sotto
di sé.
Poi, con un sospiro, tornò a voltarsi verso la nave.
Una volta rientrato nel suo guscio protettivo, Miller si tolse la tuta
pressurizzata e collegò la riserva d’ossigeno ai riciclatori per
ricaricarla. Con una sola persona di cui occuparsi, perfino con il
supporto vitale al minimo sarebbe riuscito a riaverla piena entro
un’ora. Le batterie della nave erano quasi completamente cariche. Il
suo terminale palmare squillò due volte, ricordandogli che era di
nuovo giunto il momento dei medicinali antitumorali. Quelli che si era
guadagnato l’ultima volta che era stato su Eros. Quelli che avrebbe
dovuto assumere per il resto della sua vita. Bella battuta.
Le bombe di fusione erano nella stiva del cargo: scatole grigie e
quadrate lunghe quasi il doppio dell’altezza, come mattoni in un
mortaio di schiuma adesiva rosa. Miller passò venti minuti a cercare
negli armadietti prima di riuscire a trovare una bomboletta di
solvente ancora attivo. Lo spruzzo sottile della sostanza puzzava di
ozono e olio, e la rigida schiuma rosa si sciolse a contatto con quel
liquido. Il detective si accovacciò accanto alle bombe e mangiò una
barretta dal convincente sapore di mele. Julie era seduta accanto a
lui, con la testa che riposava senza pesare sulla sua spalla.
C’erano state altre volte in cui Miller aveva scherzato col destino.
La maggior parte di esse risaliva a quando era più giovane e aveva
voglia di provare tutto. Ma era capitato anche quando era più
vecchio, più saggio, più stanco e affranto dal dolore del divorzio.
Capiva benissimo l’anelito verso un essere superiore, un’immensa
intelligenza compassionevole in grado di vedere ogni cosa da una
prospettiva capace di dissolvere meschinità e malvagità, e di far sì
che tutto andasse bene. Anche lui continuava a sentire quell’anelito.
Solo che non riusciva a convincersi che fosse reale.
Eppure, forse c’era qualcosa di simile a un piano. Forse l’universo
l’aveva messo nel posto giusto, al momento giusto, per poter fare ciò
che nessun altro avrebbe voluto fare. Forse tutto il dolore e le
sofferenze che aveva dovuto sopportare, tutte le delusioni e gli anni
avvilenti passati a sguazzare nel peggio che l’umanità avesse da
offrire, tutto questo era stato inteso a portarlo fin lì, in quel momento
in cui era pronto a morire per poter far guadagnare un po’ di tempo
al resto del genere umano.
Sarebbe bello pensare che fosse così, disse Julie nella sua mente.
«Sì, sarebbe bello» concordò lui con un sospiro. La visione svanì
con il suono della sua voce, come un qualsiasi sogno a occhi aperti.
Le bombe erano più pesanti di quanto non ricordasse. A gravità
normale, non sarebbe stato in grado di spostarle. A un terzo di g era
dura, ma non impossibile. Uno straziante centimetro dopo l’altro,
Miller ne trascinò una su un carrello e la trasportò fino al portellone
pressurizzato. Eros, sopra di lui, cantava tra sé e sé.
Doveva riposare prima di affrontare la parte più pesante del lavoro.
Il portellone era talmente stretto che lui e la bomba sarebbero potuti
passare soltanto uno per volta. Salì sopra la scatola grigia per
arrivare al portellone esterno, poi dovette trascinare la bomba con
delle cinghie che aveva recuperato dalle reti di carico della stiva.
Una volta fuori, avrebbe dovuto legarla alla nave con dei ganci
magnetici per impedire alla rotazione di Eros di scaraventarla nel
vuoto. Dopo averla tirata fuori e averla legata al carrello, Miller si
fermò per riposarsi una mezz’ora.
C’erano più impatti, ora, segno che Eros stava accelerando per
davvero. Ognuno di quei colpi era una fucilata, capace di perforare il
suo petto o la nave che aveva dietro di sé senza fare una piega, se
la sfortuna l’avesse guidato nella giusta direzione. Ma le probabilità
che una di quelle rocce mettesse a segno un colpo mirato alla sua
minuscola figura che arrancava come una formica lungo la superficie
dell’asteroide erano minime. Ad ogni modo, una volta che Eros fosse
uscito dalla Fascia, si sarebbero fermati. Ma Eros stava davvero
lasciando la Fascia? Miller si rese conto che non sapeva dove
fossero diretti. Aveva dato per scontato che la meta fosse la Terra.
Probabilmente Holden doveva già averlo calcolato.
Si sentiva le spalle indolenzite per lo sforzo, ma non troppo. Si
preoccupò di aver sovraccaricato il carrello. Le ruote erano più forti
dei suoi stivali magnetici, ma potevano sempre essere sopraffatte
dalla forza centrifuga. L’asteroide sopra di lui sobbalzò: un nuovo,
allarmante movimento che non si ripeté. Il suo terminale palmare
interruppe la voce di Eros, avvertendolo che aveva una richiesta di
collegamento in linea. Lui guardò lo schermo, si strinse nelle spalle e
lasciò entrare la chiamata.
«Naomi» disse, prima che lei potesse parlare. «Come te la passi?»
«Ehi» rispose lei.
Il silenzio tra loro si prolungò.
«Hai parlato con Holden?»
«Sì» disse lei. «Sta ancora cercando di mettere a punto un modo
per tirarti via da lì.»
«È una brava persona» riconobbe Miller. «Fammi il favore di
convincerlo a lasciar perdere, okay?»
Il silenzio durò abbastanza da mettere Miller un po’ a disagio.
«Che cosa ci fai, lì?» chiese Naomi. Come se ci fosse una risposta
a quella domanda. Come se tutta la sua vita potesse essere
riassunta in una risposta a una semplice domanda. Miller danzò
intorno a quel che intendeva Naomi e rispose soltanto a ciò che
aveva detto.
«Be’, ho legato una bomba nucleare a un carrello di carico. La sto
portando verso il portellone di accesso e poi dentro la stazione.»
«Miller...»
«Il fatto è che lo stavamo considerando come un semplice
asteroide. Ora sappiamo tutti che è un po’ semplicistico, ma ci vorrà
del tempo perché la gente si abitui all’idea: i militari continueranno a
vederla come una grossa palla da biliardo, quando in verità è più
simile a un ratto.»
Miller parlava troppo in fretta. Le parole gli uscivano fuori a getto
continuo. Se non le lasciava spazio, Naomi non avrebbe potuto
parlare. E lui non avrebbe dovuto sentire quel che aveva da dirgli.
Non avrebbe dovuto impedirle di cercare di dissuaderlo.
«Deve avere una qualche struttura. Dei motori, o un centro di
controllo. Qualcosa. Se trascino dentro questa bomba, e la porto
vicino a qualsiasi cosa stia coordinando questo affare posso
distruggerlo. Posso farlo tornare a essere una grossa palla da
biliardo. Anche se soltanto per poco tempo, darà a tutti voi un’altra
opportunità.»
«Me lo immaginavo» rispose lei. «Ha senso. È la cosa giusta da
fare.»
Miller ridacchiò. Un impatto violentemente solido scosse la nave
sotto di lui, ripercuotendoglisi nelle ossa con la sua vibrazione. Un
pennacchio di gas cominciò a fuoriuscire dal nuovo foro. La stazione
stava accelerando ancora.
«Già» disse Miller. «Be’...»
«Ne stavo parlando con Amos» riprese lei. «Hai bisogno di un
interruttore di sicurezza. In modo che, se dovesse succedere
qualcosa, la bomba esploderà lo stesso. Se hai i codici di
accesso...»
«Ce li ho.»
«Bene. Ho un software che puoi installare sul tuo terminale
palmare. Dovrai tenere premuto un dito sul tasto d’innesco. Se lo
togli per più di cinque secondi, invierà il segnale di detonazione. Se
vuoi, posso mandarti il codice.»
«Per cui dovrei andarmene in giro per la stazione con un dito
premuto su un tasto?»
Il tono di Naomi veicolò una scusa. «Potrebbero farti fuori con un
colpo alla testa. O trascinarti giù. Più è lungo l’intervallo, e maggiori
sono le probabilità che la protomolecola disabiliti la bomba prima che
s’inneschi. Se hai bisogno di più tempo, posso riprogrammarlo.»
Miller fissò la bomba che riposava sul carrello appena fuori dal
portello della nave. I suoi display brillavano tutti di verde e dorato. Un
sospiro gli appannò per un istante l’interno della visiera.
«Uhm, no. Cinque va bene. Mandami il software. Dovrò impostarlo
io, o c’è un modo più immediato di inserire la stringa di armamento e
innesco?»
«C’è un percorso d’installazione» spiegò Naomi. «Ti guiderà passo
passo.»
Il terminale palmare trillò, annunciando la ricezione del nuovo file.
Miller lo accettò e lo lanciò. Era facile quanto inserire un codice di
accesso. All’improvviso, gli parve che armare delle bombe di fusione
affinché detonassero tutto intorno a lui sarebbe dovuto essere più
difficile.
«Ricevuto» disse. «Siamo pronti. Voglio dire, devo ancora spostare
questa bastarda, ma per il resto... ad ogni modo, a che velocità
stiamo accelerando, io e questo affare?»
«Tra poco andrà più veloce di quanto non possa fare la Roci.
Quattro g, e continua ad accelerare senza dar segno di voler
allentare il gas.»
«Non riesco a percepirlo» replicò lui.
«Mi dispiace per l’altra volta» disse Naomi.
«Era una brutta situazione. Abbiamo fatto quel che andava fatto.
Come sempre.»
«Come sempre» gli fece eco lei.
Rimasero in silenzio per qualche secondo.
«Grazie per il detonatore» disse Miller. «Di’ ad Amos che ho
apprezzato il gesto.»
Interruppe il collegamento prima che Naomi potesse rispondere. I
lunghi addii non erano mai stati il punto forte di nessuno. La bomba
riposava sul carrello, con i ganci magnetici in posizione e un’ampia
fascia d’acciaio intrecciato a contenerla. Miller si mosse lentamente
sulla superficie metallica dei moli. Se il carrello avesse perso la
presa su Eros, non avrebbe avuto forza a sufficienza per trattenerlo.
Naturalmente, se una di quelle sassate sempre più frequenti
l’avesse colpito, sarebbe stato come farsi sparare, per cui attardarsi
da quelle parti non era una buona soluzione. Sgombrò la mente da
entrambi quei pericoli e si mise al lavoro. Per dieci minuti pieni di
tensione, la sua tuta mandò un odore di plastica surriscaldata. Tutti i
sensori diagnostici salirono nella barra di errore e, quando i riciclatori
ebbero risolto il problema, la sua riserva d’aria sembrava ancora
buona. Un altro piccolo mistero che non avrebbe mai risolto.
L’abisso sopra la sua testa brillava di astri immobili. Uno di quei
puntini luminosi era la Terra. Non sapeva dire quale.
Il portellone di servizio era stato ricavato in una roccia
naturalmente sporgente; il percorso in ferro spoglio dei carrelli si
perdeva come un nastro d’argento nell’oscurità. Con un grugnito,
Miller trascinò il carrello, la bomba e il proprio corpo esausto oltre la
curva, e la gravità di rotazione tornò a premere sui suoi piedi invece
che stirargli le ginocchia e la schiena. In preda alle vertigini, inserì i
codici finché il portellone non si aprì.
Di fronte a lui si stendeva Eros, più buio del cielo vuoto.
Attivò un collegamento tramite terminale attraverso la tuta,
chiamando Holden per quella che sarebbe stata l’ultima volta.
«Miller» rispose quasi immediatamente Holden.
«Sto andando dentro» disse.
«Aspetta. Ascolta, c’è un modo in cui potremmo riuscire ad avere
un carrello automatico. Se la Roci...»
«Già, ma sai com’è... sono già qui. E non sappiamo quanto possa
andare veloce questo figlio di puttana. Abbiamo un problema che
bisogna risolvere. E questo è l’unico modo.»
Le speranze di Holden erano comunque già tenui. Pro forma. Un
gesto, forse anche sentito, pensò Miller. Cercare di salvare tutti, fino
all’ultimo.
«Capisco» disse alla fine Holden.
«Bene. Allora, una volta che avrò azzoppato qualunque cosa
dovessi trovare lì dentro...»
«Troveremo un modo per disintegrare la stazione.»
«Bene. Mi darebbe fastidio essermi sbattuto per niente.»
«C’è... c’è niente che vuoi che faccia? Dopo?»
«Nah» disse Miller, poi Julie fu al suo fianco, con i capelli che le
fluttuavano intorno come se fosse stata sott’acqua. Rifletteva più
luce delle stelle di quanta non ce ne fosse in realtà. «Anzi, aspetta.
Sì. Un paio di cose. I genitori di Julie. Sono proprietari della Mao-
Kwikowski Mercantile. Sapevano che la guerra stava per scoppiare
prima che avesse inizio. Devono avere qualche contatto alla
Protogen. Assicurati che non la facciano franca. E, se dovessi
vederli, di’ loro che mi dispiace di non averla ritrovata in tempo.»
«Va bene» promise Holden.
Miller si accovacciò nell’oscurità. C’era altro? Non avrebbe dovuto
esserci qualcosa di più? Un messaggio per Havelock, magari... o
Muss. O per Diogo e i suoi amici dell’APE. In quel caso, però, ci
sarebbe dovuto essere qualcosa da dire.
«Okay» riprese Miller. «Questo è tutto, allora. È stato un piacere
lavorare con te.»
«Mi dispiace che sia andata così» rispose Holden. Non erano delle
scuse per quel che aveva fatto o detto, per ciò che aveva scelto o
rifiutato.
«Già» disse Miller. «Ma che ci vuoi fare, eh?»
Era la cosa più vicina a un saluto a cui potessero arrivare. Miller
chiuse il collegamento, eseguì il codice che gli aveva mandato
Naomi e lo attivò. Già che c’era, riaccese anche il canale di Eros.
Un sussurro delicato, come di unghie che graffiavano un infinito
foglio di carta. Accese i fari del carrello e l’ingresso cupo di Eros
s’illuminò di un grigio industriale, mentre le ombre fuggivano negli
angoli bui. La sua Julie immaginaria era in piedi nel fascio di luce,
come un faro che rifletteva il bagliore che illuminava lei e
contemporaneamente tutte le strutture alle sue spalle, come lo
strascico di un lungo sogno, prossimo alla fine.
Miller tolse il freno, spinse il carrello ed entrò all’interno di Eros per
l’ultima volta.
51

Holden

Holden sapeva che gli esseri umani erano in grado di tollerare


accelerazioni di g estreme per poco tempo. Con l’ausilio di
appropriati sistemi di sicurezza, alcuni stuntman professionisti
avevano sostenuto impatti di oltre venticinque g ed erano
sopravvissuti. Il corpo umano si deformava naturalmente,
assorbendo l’energia nei tessuti molli e diffondendo l’impatto in zone
più ampie.
Sapeva anche che il problema, in un’esposizione prolungata a g
elevati, consisteva nel fatto che la pressione costante sul sistema
cardiovascolare avrebbe cominciato a farne emergere le debolezze.
Se un’arteria aveva un qualche punto debole che, quarant’anni più
tardi, si sarebbe probabilmente trasformato in aneurisma, bastavano
poche ore a sette g per farla esplodere. I capillari negli occhi
cominciavano a perdere sangue. L’occhio stesso si deformava,
provocando a volte un danno permanente. E poi c’erano gli organi
cavi, come i polmoni e il tratto digestivo. Se vi si ammassava troppa
gravità, collassavano.
E, benché le navi da guerra potessero essere manovrate a g molto
elevati per brevi periodi di tempo, ogni momento trascorso in
accelerazione moltiplicava il pericolo.
Eros non aveva nemmeno bisogno di sparargli contro qualcosa.
Bastava che continuasse ad accelerare finché i loro corpi non
fossero esplosi per la pressione. La sua console segnava cinque g
ma, proprio mentre controllava, passò a sei. Non potevano
continuare l’inseguimento. Eros sarebbe riuscito a fuggire. Non
potevano far niente per impedirlo.
Ma ancora non diede l’ordine d’interrompere l’accelerazione ad
Alex.
Come se Naomi gli avesse letto nella mente, la scritta ‘Non
possiamo continuare ancora’ apparve sul suo display, con il codice
identificativo della vicecomandante in alto sullo schermo.
‘Fred sta cercando una soluzione. Potrebbe aver bisogno di averci
a portata di Eros quando avranno elaborato un piano’ rispose.
Perfino muovere le dita di quei pochi millimetri necessari a usare i
controlli inseriti nel suo sedile per quel preciso scopo era doloroso.
‘A portata di cosa?’ digitò Naomi.
Holden non rispose. Non ne aveva idea. Il proprio sangue bruciava
con le droghe che lo tenevano allerta e sveglio mentre il suo corpo
veniva schiacciato. La dose aveva l’effetto contraddittorio di fargli
correre il cervello a velocità doppia e al contempo di non permettergli
di riuscire a ragionare veramente. Ma Fred avrebbe trovato
qualcosa. C’erano un sacco di persone intelligenti al lavoro sul
problema.
E Miller.
Miller stava trasportando a mano una bomba a fusione nel cuore di
Eros, in quello stesso momento. Quando il tuo nemico aveva il
vantaggio tecnologico dalla sua, non potevi che attaccarlo con il
minimo sforzo tecnologico possibile. Forse un detective depresso
che trascinava con sé una bomba su un carrello sarebbe riuscito a
superare le difese di Eros. Naomi aveva detto che non si trattava di
magia. Forse Miller ce l’avrebbe fatta e avrebbe fornito loro
l’occasione di cui avevano bisogno.
Comunque fosse andata, Holden doveva essere lì, anche soltanto
per vedere.
‘Fred’ digitò Naomi.
Holden aprì il collegamento. Fred lo guardò con l’espressione di un
uomo che tratteneva un sorriso.
«Holden» disse. «Come ve la state passando?»
‘Sei g. Sputi il rospo.’
«Bene. È saltato fuori che gli sbirri delle Nazioni Unite hanno
rivoltato la rete della Protogen come un calzino, alla ricerca di indizi
su quello che è successo. E immaginate un po’ chi è saltato fuori
come nemico numero uno per i pezzi grossi della Protogen? Il vostro
affezionatissimo. All’improvviso tutto è perdonato, e la Terra mi vuole
riaccogliere nel suo caldo abbraccio. Il nemico del mio nemico pensa
che io sia un bastardo sulla retta via.»
‘Che bello. La milza mi sta per esplodere. Tagli corto.’
«L’idea di Eros che si schianti sulla Terra è una brutta cosa. Un
evento da estinzione totale, anche se si tratta soltanto di un
asteroide. Quelli delle Nazioni Unite hanno guardato il canale di Eros
e si sono cacati addosso.»
‘E...’
«La Terra si sta preparando a impiegare il suo intero arsenale
nucleare di terra. Migliaia di testate. Hanno intenzione di vaporizzare
quell’asteroide. La marina militare intercetterà quel che rimane dopo
l’attacco iniziale e sterilizzerà quell’intera area di spazio con un
bombardamento nucleare costante. So che è un rischio, ma non
abbiamo altro.»
Holden resistette al bisogno di scuotere la testa. Non voleva finire
con una guancia schiacciata permanentemente sul sedile.
‘Eros ha schivato la Nauvoo. Sta procedendo a sei g e, secondo
quanto dice Naomi, Miller non percepisce alcuna accelerazione.
Qualsiasi cosa stia facendo, non ha le nostre stesse limitazioni
inerziali. Che cosa gli impedirebbe di schivare di nuovo? A una
velocità del genere, i missili non riuscirebbero mai a fare marcia
indietro e colpirlo. E su cosa diavolo puntereste i mirini? Eros non
riflette più alcun segnale radar.’
«È qui che entrate in scena. Abbiamo bisogno che riusciate a
inquadrarlo con un laser. Possiamo usare il sistema di puntamento
della Rocinante per guidare le testate verso il bersaglio.»
‘Detesto darle un dispiacere, ma saremo fuorigioco molto prima
dell’arrivo di quei missili. Non possiamo tenere il passo. Non
possiamo guidare i missili per voi. E, una volta perso il contatto
visivo, nessuno potrà più rintracciare Eros.’
«Potreste dover impostare l’autopilota» disse Fred.
Intendendo: ‘Potreste dover morire tutti nei vostri sedili.’
‘Ho sempre voluto morire da martire e tutto, ma che cosa le fa
pensare che la Roci sia in grado di competere con quell’affare? Non
ammazzerò il mio equipaggio soltanto perché non siete capaci di
inventarvi un piano migliore.’
Fred si chinò verso lo schermo, stringendo gli occhi. Per la prima
volta, la maschera di Fred venne meno e Holden vide la paura e
l’impotenza che nascondeva.
«Ascolti, mi rendo conto di quel che le sto chiedendo, ma lei sa
qual è la posta in gioco. Non abbiamo altro. Non l’ho chiamata per
sentirmi dire che non funzionerà. Ci dia una mano o lasci perdere. In
questo momento, ‘avvocato del diavolo’ è soltanto una definizione
educata per ‘pezzo di merda’.»
Mi sto schiacciando a morte, probabilmente con danni permanenti,
soltanto perché non volevo lasciar perdere, razza di bastardo. E
scusa se non sono disposto ad ammazzare i miei soltanto perché
me lo dici tu.
Il fatto di dover digitare ogni cosa aveva il vantaggio di contenere
gli scatti emozionali. Invece di saltargli alla gola per aver messo in
dubbio la sua dedizione alla causa, Holden si limitò a scrivere ‘Mi ci
faccia pensare’ e interruppe il collegamento.
Il sistema ottico di puntamento che sorvegliava Eros indicò che
l’asteroide stava di nuovo aumentando la propria velocità. Il gigante
seduto sul suo petto continuò a ingrassare mentre Alex spingeva la
Rocinante all’inseguimento. Un indicatore rosso lampeggiante
informò Holden che, considerando la durata dell’accelerazione che
avevano sostenuto, poteva aspettarsi uno svenimento del dodici per
cento dell’equipaggio. L’indice sarebbe salito. Era solo questione di
tempo, e avrebbe raggiunto il cento percento. Holden cercò di
ricordare la massima accelerazione teorica della Rocinante. Alex
l’aveva già portata per un breve periodo a dodici g, quando erano
fuggiti dalla Donnager. Il limite reale era uno di quei numeri
irrilevanti, che servivano solo a vantarti delle prestazioni che la tua
nave in realtà non avrebbe mai raggiunto concretamente. Quindici
g? Venti?
Miller non aveva nemmeno percepito un’accelerazione. Quanto
potevi andare veloce, se nemmeno riuscivi a percepirlo?
Quasi senza rendersi conto di quello che stava per fare, Holden
attivò l’interruttore di spegnimento del motore principale. In pochi
secondi si ritrovò in caduta libera, squassato da violenti colpi di tosse
mentre gli organi cercavano di ritrovare la loro posizione originale
all’interno del suo corpo. Quando si fu ripreso abbastanza da riuscire
a fare un respiro profondo, il primo da ore, Alex lo contattò in linea.
«Cap, hai spento tu i motori?» domandò il pilota.
«Sì, sono stato io. Basta così. Eros riuscirà a fuggire, a
prescindere da quello che facciamo noi. Stiamo soltanto
prolungando l’inevitabile, e a rischio della vita dell’equipaggio.»
Naomi ruotò il sedile e gli rivolse un sorriso triste. L’accelerazione
le aveva provocato un occhio nero.
«Abbiamo fatto del nostro meglio» disse.
Holden si spinse fuori dal sedile, tanto forte da picchiare gli
avambracci sul soffitto, poi si spinse di nuovo giù e si addossò a una
paratia afferrandosi al sostegno di un estintore. Naomi lo osservava
dall’altra parte della plancia, con la bocca atteggiata in una O di
sorpresa. Holden sapeva che probabilmente si stava comportando in
modo ridicolo, come un bambino petulante che faceva i capricci, ma
non riusciva a trattenersi. Lasciò la presa sull’estintore e fluttuò in
mezzo al ponte. Non si era reso conto di aver picchiato sulla paratia
con l’altro pugno. Ora che se n’era accorto, il dolore arrivò alla
mano.
«Porca puttana» disse. «Porca puttana!»
«Abbiamo...»
«Abbiamo fatto del nostro meglio? E che diavolo importa?» Holden
sentiva la testa invasa da una nebbia rossa, e non era tutta colpa
della dose. «Ho fatto del mio meglio anche per aiutare la Canterbury.
Ho cercato di fare la cosa giusta quando ho lasciato che ci
prendessero a bordo della Donnager. Hanno forse contato un cazzo,
le mie intenzioni?»
L’espressione di Naomi si fece imperscrutabile. Le sue palpebre si
abbassarono, e lo fissò attraverso gli occhi socchiusi. Le sue labbra
si serrarono finché non divennero quasi bianche. Volevano che ti
uccidessi, pensò Holden. Volevano che uccidessi il mio equipaggio,
nell’ipotesi in cui Eros non riuscisse a superare i quindici g, e io non
ce l’ho fatta. Il senso di colpa, la rabbia e il dolore si confusero in lui,
trasformandosi in qualcosa di inafferrabile e sconosciuto. Non riuscì
a dare un nome a quella sensazione.
«Sei l’ultima persona da cui mi sarei aspettata
autocommiserazione» disse Naomi, con voce tesa. «Dov’è il
capitano che si chiede sempre: ‘Che cosa possiamo fare, ora, per
migliorare la situazione?’»
Holden fece un gesto impotente intorno a sé. «Mostrami il pulsante
che devo premere per impedire che l’intera popolazione della Terra
venga uccisa, e lo premerò.»
Fintantoché non uccida te.
Naomi si slacciò le cinture e fluttuò verso la scala dell’equipaggio.
«Vado giù a controllare Amos» disse, poi aprì il portellone. Fece
una pausa. «Sono il tuo ufficiale operativo, Holden. Controllare le
linee di comunicazione fa parte del mio lavoro. So che cosa ti ha
chiesto Fred.»
Holden sbatté le palpebre, e Naomi uscì. Il portellone si richiuse
alle sue spalle con un tonfo che non poteva essere stato più forte del
normale, ma che sembrò esserlo comunque.
Holden chiamò il cockpit e disse ad Alex di fare una pausa e di
prendersi un caffè. Il pilota si fermò a metà strada, mentre
attraversava il ponte, con l’aria di chi volesse dire qualcosa, ma
Holden si limitò a fargli cenno di andare. Alex si strinse nelle spalle e
si allontanò.
Quella sensazione liquida gli si era radicata nello stomaco e
sbocciò in un vero e proprio fremito di panico che gli scosse tutti gli
arti. Una qualche parte maligna della sua mente, vendicativa e
autoflagellante, insisteva a mostrargli ancora e ancora il film di Eros
che si precipitava verso la Terra. Sarebbe precipitato in un rombo
furioso dal cielo, come la visione fatta realtà dell’apocalisse di ogni
religione, con fuoco e terremoti e piogge pestilenziali che
flagellavano la Terra. Ma, ogni volta che Eros colpiva la Terra, nella
sua mente, era l’esplosione della Canterbury quella che vedeva. Una
luce bianca, sconvolgente e improvvisa, e poi nient’altro che il
rumore di schegge ghiacciate che percuotevano lo scafo della sua
nave come una grandine delicata.
Marte sarebbe sopravvissuto, per un po’. E probabilmente alcune
sacche della Fascia avrebbero resistito anche più a lungo. Avevano
la cultura dell’arrangiarsi, del sopravvivere di scarti, vivendo al limite
estremo delle proprie risorse. Alla fine, però, senza la Terra, ogni
cosa sarebbe morta. Gli esseri umani erano stati fuori dal pozzo di
gravità per molto tempo. Abbastanza a lungo da sviluppare la
tecnologia necessaria a recidere quel cordone ombelicale, ma non si
erano mai presi la briga di farlo davvero. Stagnante. L’umanità, con
tutto il suo desiderio di precipitarsi in qualsiasi buco vivibile che
riuscisse a raggiungere, era diventata stagnante. Soddisfatta di
andarsene in giro su navi costruite più di mezzo secolo prima, di
usare una tecnologia che era rimasta immutata da ancora più tempo.
La Terra era stata tanto concentrata sui propri problemi che aveva
ignorato i suoi figli più lontani, tranne quando si trattava di
pretendere una fetta dei proventi delle loro fatiche. Marte aveva
impiegato la sua intera popolazione nel compito di rifare l’intero
pianeta, cambiandone il volto da rosso a verde. Cercando di creare
una nuova Terra per porre fine alla dipendenza dal vecchio pianeta.
E la Fascia era diventata la periferia, i bassifondi del sistema solare,
dove tutti erano troppo impegnati a cercare di sopravvivere per poter
impiegare del tempo nel tentativo di creare qualcosa di nuovo.
Abbiamo trovato la protomolecola esattamente nel momento ideale
perché ci infligga il massimo danno possibile, pensò Holden.
Era sembrata una scorciatoia. Un modo per evitare il lavoro più
duro e saltare a piè pari verso lo stadio divino. Ed era passato così
tanto tempo da quando qualcosa aveva rappresentato una minaccia
per l’umanità, che non fosse l’umanità stessa, che nessuno era
nemmeno più abbastanza intelligente da essere spaventato. Lo
stesso Dresden l’aveva detto: chiunque avesse creato la
protomolecola, l’avesse caricata su Phoebe e sparata verso
l’umanità, era già allo stadio divino quando gli antenati degli uomini
di oggi erano convinti che la fotosintesi e il flagello fossero delle
avanguardie tecnologiche. Eppure Dresden aveva preso quella loro
antica macchina di distruzione e l’aveva comunque messa in moto,
perché, a ben vedere, gli esseri umani non erano ancora altro che
scimmie curiose. Dovevano ancora toccare qualsiasi cosa
trovassero con un bastoncino, per vedere che cosa facesse.
La nebbia rossa nella mente di Holden aveva acquisito una strana
persistenza lampeggiante. Ci mise un po’ per rendersi conto che un
indicatore sul suo pannello di controllo si stava accendendo a
intermittenza, segnalandogli una chiamata in arrivo dalla Ravi.
Holden si diede una spinta contro uno dei sedili che aveva accanto,
tornò fluttuando verso la sua postazione e aprì il collegamento.
«Qui la Rocinante. Dite pure, Ravi.»
«Holden, perché ci siamo fermati?» chiese McBride.
«Perché non saremmo comunque riusciti a tenere il passo, e il
pericolo di morte per l’equipaggio era troppo elevato» rispose
Holden. Perfino a lui sembrò un argomento debole. Da codardi.
McBride non sembrò farci caso.
«Ricevuto. Mi farò dare nuovi ordini. Vi farò sapere se c’è qualche
cambiamento.»
Holden chiuse il collegamento e fissò la console con sguardo
assente. Il sistema di puntamento ottico stava facendo del suo
meglio per mantenere Eros nel proprio mirino. La Roci era una
buona nave. All’avanguardia. E, dal momento che Alex aveva
segnato l’asteroide come una minaccia, il computer avrebbe fatto
tutto quel che poteva per continuare a tracciarne i movimenti. Ma
Eros era un oggetto in rapida accelerazione a bassa albedo che non
rifletteva il radar. Poteva muoversi imprevedibilmente e ad altissime
velocità. Era solo questione di tempo, prima che lo perdessero di
vista, tanto più che aveva la precisa intenzione di far perdere le
proprie tracce.
Una piccola finestra di dati si aprì accanto alle informazioni di
posizione sulla console, per informarlo che la Ravi aveva acceso il
suo transponder. Tenerlo acceso quando non c’erano minacce
apparenti né necessità di passare sotto copertura era una pratica
standard, anche per le navi militari. L’ufficiale in sala radio della
piccola corvetta della Marina Militare delle Nazioni Unite doveva
averlo acceso per abitudine.
La Roci lo registrò come una nave conosciuta e lo mostrò sul
pannello delle minacce assegnandogli un puntino verde che pulsava
delicatamente e una targhetta con il nome. Holden lo fissò a lungo
con sguardo assente. Poi sgranò gli occhi.
«Merda» esclamò Holden, poi aprì la linea di comunicazione
interna. «Naomi, ho bisogno di te in plancia.»
«Credo che preferirei restare qui per un po’» rispose lei.
Holden attivò l’allarme di postazioni di battaglia sulla sua console.
Le luci del ponte divennero rosse e un segnale acustico risuonò per
tre volte.
«Vicecomandante Nagata, in plancia» disse. Avrebbe potuto
mettergli il muso più tardi. Se lo meritava. In quel momento, però,
non c’era tempo da perdere.
Naomi fu sul ponte operativo in meno di un minuto. Holden si era
già allacciato le cinture sul suo sedile ed era intento a rivedere i
registri di comunicazione. Naomi andò alla propria postazione e si
allacciò le cinture. Gli rivolse uno sguardo interrogativo – ‘Alla fine ci
tocca morire, insomma?’ – ma non disse niente. Se Holden avesse
risposto che era così, lei avrebbe obbedito. Sentì una punta di
ammirazione mista a irritazione nei suoi confronti. Trovò quel che
cercava nei registri prima di parlare.
«Okay» disse. «Abbiamo avuto il contatto radio con Miller dopo
che Eros è scomparso dai radar. Giusto?»
«Sì, è così» confermò lei. «Ma la sua tuta non è abbastanza
potente da trasmettere oltre il guscio di Eros per lunghe distanze,
per cui una delle navi attraccate ha amplificato il proprio segnale.»
«Il che vuol dire che, qualsiasi cosa stia facendo Eros per
annullare il segnale radar, non ha effetto sulle trasmissioni
dall’esterno.»
«Mi pare corretto» replicò Naomi, con crescente curiosità nel tono
di voce.
«E tu hai ancora i codici di controllo delle cinque navi cargo dell’APE
sulla sua superficie, giusto?»
«Sì, signore.» Poi, un attimo dopo: «Oh, cazzo.»
«Okay» disse Holden, girando il suo sedile per guardare Naomi
con un gran sorriso in volto. «Perché la Roci e ogni altra nave
militare del sistema solare hanno un interruttore che serve a
spegnere il proprio transponder?»
«Per evitare che un nemico possa prendere a bersaglio il segnale
per farle saltare in aria» spiegò lei, ricambiando il suo sorriso.
Holden fece di nuovo girare il sedile e cominciò ad aprire un canale
di comunicazione con la Stazione di Tycho.
«Vicecomandante, sarebbe così gentile da usare i codici di
controllo che le ha fornito Miller per riaccendere quelle cinque navi
cargo dell’APE e riattivare i loro transponder? A meno che il nostro
ospite su Eros non possa andare più veloce delle onde radio, credo
che abbiamo risolto il problema dell’accelerazione.»
«Ricevuto, capitano» rispose Naomi. Anche se era rivolta dall’altra
parte, Holden riusciva a sentire il sorriso nella sua voce, e questo
sciolse l’ultimo gelo che gli attanagliava lo stomaco. Avevano un
piano. Avrebbero fatto la differenza.
«Chiamata in arrivo dalla Ravi» disse Naomi. «Vuoi che te la passi
prima di accendere i transponder?»
«Diavolo, sì.»
La linea frusciò.
«Capitano Holden. Abbiamo ricevuto i nostri nuovi ordini. A quanto
pare, inseguiremo quell’asteroide ancora per un po’.»
McBride aveva la voce di qualcuno che era appena stato mandato
a morire. Stoica.
«Forse vorrà trattenersi per un altro paio di minuti» replicò Holden.
«Abbiamo un’alternativa.»
Mentre Naomi attivava i transponder sulle cinque navi cargo
dell’APE che Miller aveva lasciato attraccate sulla superficie di Eros,
Holden illustrò il piano a McBride e poi, su una linea separata, a
Fred. Quando questi lo richiamò con l’approvazione entusiasta del
piano da parte sua e del comando della Marina Militare delle Nazioni
Unite, le cinque navi cargo già emettevano il loro lamento,
dichiarando all’universo intero la propria posizione. Un’ora dopo, il
più grande stormo di armi nucleari interplanetarie della storia del
genere umano era stato lanciato ed era in rotta verso Eros.
Vinceremo noi, pensò Holden mentre guardava i missili volare
come un nugolo di puntini rossi sul suo display di minaccia aerea.
Sconfiggeremo questa cosa. E, per di più, il suo equipaggio sarebbe
rimasto in vita. Nessun altro doveva morire.
Tranne...
«C’è Miller in linea» disse Naomi. «Probabilmente ha notato che
abbiamo riacceso le navi.»
Holden sentì un nodo formarglisi nello stomaco. Miller sarebbe
stato lì, su Eros, quando fossero arrivati quei missili. Non tutti
avrebbero potuto festeggiare la vittoria.
«Ehi, Miller. Come te la passi?» chiese, non riuscendo a evitare del
tutto che la sua domanda assumesse un tono da funerale.
La voce di Miller era incostante e mezza coperta dalle interferenze,
ma non così incomprensibile da non permettere a Holden di udirne il
tono e di sapere che tutta la loro festa stava per andare a puttane.
«Holden» disse Miller. «Abbiamo un problema.»
52

Miller

Uno. Due. Tre.


Miller rimise il pollice sul terminale palmare, riazzerando l’innesco.
Le doppie porte che aveva di fronte un tempo erano state uno dei
mille meccanismi silenziosamente automatici della stazione. Si
erano aperte, affidabili e perfette sulle loro rotaie magnetiche, forse
per anni. Ora, qualcosa di nero con una superficie simile alla
corteccia di un albero vi cresceva come un rampicante attorno ai lati,
deformandone il metallo. Oltre la porta c’erano i corridoi del porto, i
magazzini, il casinò. Tutto ciò che era stato la Stazione di Eros e che
era ora l’avanguardia di una forza d’invasione aliena. Per
raggiungerlo, però, Miller doveva riuscire a forzare quella porta
incastrata. In meno di cinque secondi. Con indosso una tuta
ambientale.
Posò di nuovo il terminale palmare e allungò rapidamente le mani
verso la sottile fessura nel punto in cui s’incontravano le porte. Uno.
Due. La porta si spostò di un centimetro, lasciando colare fuori
fiocchi di materia nera. Tre.
Quattro.
Riprese il terminale in mano e azzerò l’innesco.
Quella merda non avrebbe funzionato.
Miller si sedette a terra accanto al carrello. Il canale di Eros
sussurrava e borbottava, apparentemente inconsapevole del piccolo
invasore che grattava la pelle della stazione. Miller fece un lungo
respiro profondo. La porta non si muoveva. Doveva oltrepassarla.
Naomi non sarebbe stata contenta.
Con la sua mano libera, Miller allentò la cinghia di metallo intessuto
intorno alla bomba finché non fu libera di oscillare un po’ avanti e
indietro. Lentamente, con molta cautela, ne alzò un angolo. Poi,
sempre controllando lo stato del sensore, ci infilò sotto il terminale
palmare, con l’angolo di metallo che spingeva forte sul touchscreen
proprio sul pulsante di attivazione. L’innesco rimase verde. Se la
stazione avesse sobbalzato o si fosse spostata, avrebbe comunque
avuto cinque secondi per riprenderlo.
Si poteva fare.
Con entrambe le mani libere, Miller si accanì sulla porta. Altre
croste nere continuarono a cadere mentre allargava le porte
abbastanza da vederci attraverso. Il corridoio più in là era quasi
rotondo. Quei rampicanti neri ne avevano riempito gli spigoli fino a
fargli assumere l’aspetto di un enorme vaso sanguigno essiccato. Le
uniche luci erano quelle del suo casco e un milione di minuscoli
puntini che volteggiavano per aria come lucciole blu. Quando la voce
sul canale di Eros pulsava, aumentando momentaneamente
d’intensità, le lucciole diminuivano e poi tornavano come prima. La
tuta ambientale riferì la presenza di atmosfera respirabile, con
concentrazioni più elevate del previsto di argon, ozono e benzene.
Uno dei puntini luminosi lo superò fluttuando, vorticando sull’onda
di correnti invisibili. Miller lo ignorò, continuando a spingere le porte,
ampliando il varco centimetro per centimetro. Ora poteva far passare
un braccio intero per tastare la crosta sul pavimento. Sembrava
abbastanza solida da sostenere il peso del carrello. Quella era una
benedizione. Se fosse stata fanghiglia aliena alta fino al ginocchio,
avrebbe dovuto trovare un altro modo di trasportare la bomba. Tirare
il carrello su quella superficie tondeggiante sarebbe già stato
abbastanza difficile così com’era.
Nessuna requie per i malvagi, disse Julie Mao nella sua mente.
Nessuna pace per i giusti.
Miller si rimise al lavoro.
Quando ebbe aperto la porta abbastanza da riuscire ad
attraversarla, era coperto di sudore. Aveva le braccia e la schiena
indolenzite. La crosta nera cominciò a crescere a partire dal
corridoio, protendendo i suoi tentacoli verso il portellone
pressurizzato, sempre tenendosi sui bordi, dove le pareti
incontravano il pavimento o il soffitto. Il bagliore blu riempiva di sé
l’aria. Eros stava uscendo dal corridoio rapido quanto Miller faceva il
suo ingresso. Più rapido, anche.
Miller trascinò su il carrello con entrambe le mani, tenendo d’occhio
il terminale. La bomba si mosse un po’, ma non abbastanza da
perdere pressione sul pulsante d’innesco. Una volta arrivato nel
corridoio, Miller riprese il terminale in mano.
Uno. Due.
Il peso della bomba aveva scavato una nicchietta sul touchpad, ma
quello funzionava ancora. Miller afferrò la maniglia del carrello e
spinse in avanti, con la superficie irregolare e organica sotto i suoi
piedi che si riverberava nelle vibrazioni degli sbalzi e dei tremolii del
carrello.
C’era già morto una volta, lì dentro. Era stato avvelenato. Gli
avevano sparato. Quei corridoi, o altri molto simili a quelli, erano stati
il suo campo di battaglia. Suo e di Holden. Ora erano irriconoscibili.
Attraversò un ampio spazio quasi completamente vuoto. Lì, la
crosta si assottigliava, e le paratie metalliche del magazzino
emergevano di tanto in tanto. Un LED brillava ancora sul soffitto, con
la sua luce bianca e fredda che filtrava nell’oscurità tutto intorno.
Il corridoio lo portò fino al livello dei casinò; la struttura
architettonica continuava a indirizzare i visitatori in quello stesso
punto. La corteccia aliena era quasi del tutto scomparsa, ma lo
spazio era stato trasformato. Le macchine dei pachinko erano
ancora ordinate su lunghe file, mezze fuse o esplose o, in alcuni
casi, ancora funzionanti ed esortanti a inserire le informazioni
finanziarie indispensabili per sbloccare le loro lucine sgargianti e gli
effetti sonori festosi e celebrativi. I tavoli da gioco erano ancora
visibili sotto grandi calotte fungiformi di gel translucido e colloso.
Lungo le pareti e i soffitti alti come cattedrali, lunghe costole nere
s’increspavano di fili simili a capelli che emanavano un bagliore in
punta senza però offrire alcuna illuminazione.
Si levò un grido, e il suono fu attutito dalla tuta di Miller. L’audio del
canale di trasmissione sembrava più forte e completo, ora che era
penetrato sotto la pelle di Eros. Miller fu colto dall’improvviso, vivido
ricordo di quando era piccolo e aveva guardato il video di un
bambino che era stato inghiottito da una mostruosa balena.
Qualcosa di grigio, grande quanto i due pugni di Miller messi
assieme, gli volò accanto quasi troppo veloce per essere visto. Non
era un uccello. Qualcosa si mosse dietro un distributore automatico
rivoltato. Miller si rese conto di cosa mancasse. C’erano state un
milione e mezzo di persone su Eros, e una gran parte di loro era
stata lì, nel livello dei casinò, quando era giunta la loro personale
apocalisse. Eppure non c’erano corpi. Anzi, no. Non era vero. Quella
crosta nera, quei milioni di rigagnoli scuri sopra di lui con quel loro
morbido riflesso oceanico. Quelli erano i cadaveri di Eros,
trasformati. Carne umana, rimodellata. Un allarme della tuta lo
avvertì che stava andando in iperventilazione. L’oscurità cominciò a
addensarsi ai margini del suo angolo visivo.
Miller cadde in ginocchio.
Non svenire, figlio di puttana, si disse. Non svenire o, se lo fai,
perlomeno cadi in modo che il tuo peso si schianti sul dannatissimo
pulsante d’innesco.
Julie gli posò una mano sulla sua. Miller poteva quasi sentirla, e si
riprese. Julie aveva ragione. Erano soltanto cadaveri. Soltanto
persone morte. Vittime. Soltanto un’altra fetta di carne riciclata,
proprio come qualunque puttana abusiva che era stata accoltellata a
morte in alberghi da due soldi su Ceres. Proprio come tutti i suicidi
che si gettavano fuori dai portelloni pressurizzati. Certo, la
protomolecola aveva mutilato la carne in modo strano, ma non
cambiava la sostanza di quel che era. Non cambiava quel che era
lui.
«Quando sei uno sbirro,» disse a Julie, ripetendo quel che diceva a
tutti i novellini che gli erano stati affiancati durante la sua carriera
«non puoi permetterti il lusso di provare emozioni. Devi fare il tuo
dovere.»
E allora fa’ il tuo dovere, disse lei dolcemente.
Miller annuì. Si rialzò. Fa’ il tuo dovere.
Come in risposta al pensiero, il suono nella sua tuta cambiò, e la
voce di Eros attraversò cristallina un centinaio di frequenze diverse
prima di esplodere in un violento flusso di ciò che Miller pensò
essere hindi. Voci umane. Finché le voci umane non ci svegliano,
pensò, senza riuscire a ricordare esattamente da dove venisse
quella frase.
Da qualche parte, nella stazione, doveva esserci... qualcosa. Un
meccanismo di controllo, una fonte di energia o qualunque cosa la
protomolecola stesse usando al posto di un motore. Miller non
sapeva che forma avrebbe avuto o in che modo sarebbe stato
difeso. Non aveva idea di come potesse funzionare, a parte l’ipotesi
che, se l’avesse fatto saltare, probabilmente non gli avrebbe fatto
granché bene.
E allora torniamo indietro, disse a Julie. Torniamo indietro a quel
che sappiamo.
La cosa che stava crescendo nelle viscere di Eros, usando il
guscio roccioso dell’asteroide come proprio esoscheletro inarticolato,
non aveva tagliato fuori i porti. Non aveva spostato le pareti interne o
ricreato le sale e i passaggi del livello dei casinò. Per cui, la
disposizione della stazione doveva essere piuttosto corrispondente a
ciò che era stata un tempo. Okay.
Qualunque cosa usasse per far muovere la stazione attraverso lo
spazio, stava usando un fottio di energia. Okay.
E allora trova il punto caldo. Con la sua mano libera, Miller
controllò le condizioni della tuta ambientale. La temperatura era di
ventisette gradi: calda, ma lungi dall’essere insopportabile. Si avviò a
passo svelto verso il corridoio del porto. La temperatura diminuì; lo
sbalzo era di meno di un centesimo di grado, ma c’era. E va bene.
Poteva andare in ogni corridoio, trovare quale fosse il più caldo, e
seguirlo fino in fondo. Quando avesse trovato un posto nella
stazione che fosse, per dire, di tre o quattro gradi più caldo del resto,
quello sarebbe stato il punto. Ci avrebbe piazzato il carrello accanto,
avrebbe alzato il pollice e avrebbe contato fino a cinque.
Nessun problema.
Quando tornò al carrello, qualcosa di dorato con il morbido aspetto
di un’erica stava crescendo attorno alle ruote. Miller le ripulì meglio
che poté, ma una di esse ormai emetteva un cigolio. Non ci poteva
fare niente.
Spingendo il carrello con una mano mentre con l’altra teneva
premuto il pulsante d’innesco di emergenza, Miller si addentrò più a
fondo nella stazione.
«Lei è mia» diceva la non-mente di Eros. Era rimasta incastrata su
quella frase per la gran parte di quell’ultima ora. «È mia. È... mia.»
«Va bene» borbottò Miller. «È tutta tua.»
Aveva la spalla dolorante. Il cigolio della ruota era peggiorato, e
quel rumore stridulo risuonava attraverso la follia delle anime
dannate di Eros. Sentiva il pollice che cominciava a formicolare per
quella pressione costante di quel non farsi saltare in aria per un altro
po’. A ogni livello che risaliva, la gravità di rotazione si attenuava e il
Coriolis si faceva sempre più notare. Non era proprio come su
Ceres, ma quasi, e Miller ebbe l’impressione di essere tornato a
casa. Si ritrovò a non vedere l’ora di finire quel lavoro. S’immaginò di
ritorno nel suo buco, con un pacco da sei birre e un po’ di musica
dalle casse che fosse stata composta da un vero musicista invece di
quella casuale glossolalia decerebrata della stazione morta. Magari
un po’ di jazz.
Chi avrebbe mai pensato che l’idea di un po’ di jazz sarebbe stata
invitante?
«Provate a prendermi, succhiacazzi» disse Eros. «Ormai sono
andato, andato, andato. Andato, andato, andato.»
I livelli interni della stazione erano al contempo familiari e strani.
Lontano dalla tomba di massa al livello dei casinò, si vedeva meglio
quel che era stata la vecchia vita di Eros. Le fermate della
metropolitana continuavano a brillare, annunciando dei guasti alla
linea e consigliando di avere un po’ di pazienza ai gentili viaggiatori.
I riciclatori d’aria ronzavano piano. Il pavimento era relativamente
pulito e vuoto. Quel senso di quasi normalità faceva spiccare ancor
più stranamente i cambiamenti in corso. Fronde scure ricoprivano le
pareti con disegni vorticanti a forma di nautilo. Fiocchi di quella roba
cadevano pigramente dal soffitto, vorticando nella gravità rotazionale
come fuliggine. Eros manteneva ancora la sua gravità di rotazione,
ma nessun’altra derivante dall’esagerata accelerazione con cui si
stava muovendo. Miller scelse di non cercare di capire.
Un nugolo di affari grossi quanto una palla da softball e simili a
ragni zampettarono attraverso il corridoio, lasciandosi dietro una scia
di sostanza luccicante e appiccicosa. Fu soltanto quando Miller si
fermò per spazzarne via uno dal carrello, che si rese conto che
quelle cose erano mani mutilate, con le ossa sporgenti dei polsi
carbonizzate e rimodellate. Una parte del suo cervello gridò per
l’orrore, ma era in un angolino distante, facile da ignorare.
Quella protomolecola meritava rispetto. Per essere qualcosa che si
era aspettata di trovare procarioti anaerobi al suo arrivo, si stava
dando un gran da fare per adattarsi a quello che invece aveva per le
mani. Miller si fermò per controllare i sensori della tuta. La
temperatura si era alzata di mezzo grado da quando aveva lasciato i
casinò, e di un altro decimo di grado da quando era entrato in quello
specifico corridoio. Anche la radiazione di fondo stava salendo, e la
sua povera carne già martoriata stava assorbendo altre onde. La
concentrazione di benzene era scesa, e la tuta stava intercettando
altre molecole più insolite – tetracene, antracene, naftalene – dal
comportamento sufficientemente strano da confonderne i sensori.
Dunque era la direzione giusta. Miller si chinò in avanti, mentre il
carrello opponeva resistenza alla sua spinta come un bambino
annoiato. Da quel che ricordava, la disposizione strutturale era più o
meno come quella di Ceres, e Miller conosceva Ceres come le sue
tasche. Salendo di un livello, o forse due, avrebbe trovato una
confluenza di servizi tra i livelli più bassi, con valori più elevati di g e i
sistemi energetici che si comportavano meglio a gravità bassa.
Sembrava un buon posto per far crescere un centro di comando e
controllo. Un buon punto per posizionare un cervello.
«Andato, andato, andato» disse Eros. «E andato.»
Era buffo, pensò Miller, come le rovine del passato dessero forma
a tutto ciò che veniva dopo. Un principio che sembrava funzionare a
tutti i livelli; una delle grandi verità dell’universo. Nei tempi antichi,
quando l’umanità viveva ancora completamente sul fondo di un
pozzo di gravità, le strade tracciate dalle legioni romane erano
diventate asfalto e poi cemento armato senza mai cambiare
nemmeno una curva o un dosso. Su Ceres, Eros o Tycho, la portata
standard dei corridoi era stata determinata dalle attrezzature
minerarie costruite per far passare i mezzi e le gru terrestri, che a
loro volta erano state progettate per procedere lungo percorsi
abbastanza larghi per il passaggio di un carro trainato da un mulo.
E ora l’alieno, quella cosa venuta da fuori, dalla vasta oscurità,
cresceva lungo i corridoi, i passaggi, i condotti e i percorsi della
metropolitana disposti lì da una manciata di ambiziosi primati. Si
chiese come sarebbe stato se la protomolecola non fosse stata
catturata da Saturno, se avesse trovato il modo di giungere nel
brodo primordiale terrestre. Niente reattori a fusione, niente razzi di
navigazione interstellare, niente carne complessa di cui appropriarsi.
Che cos’avrebbe fatto di diverso, se non avesse dovuto adattarsi alle
scelte progettate da un’altra evoluzione?
Miller, gli disse Julie. Continua a muoverti.
Miller sbatté le palpebre. Era in piedi nel bel mezzo di un
passaggio vuoto, alla base di una rampa di accesso. Non sapeva
per quanto tempo fosse rimasto perso nei suoi pensieri.
Anni, forse.
Fece un lungo sospiro e cominciò a risalire la rampa. I corridoi
sopra di lui risultavano considerevolmente più caldi dell’ambiente
circostante. Di quasi tre gradi. Si stava avvicinando. Non c’era luce,
però. Tolse il pollice formicolante e mezzo addormentato dal
pulsante della sicura, accese la piccola torcia d’emergenza a LED del
terminale e tornò a disattivare l’interruttore d’innesco appena prima
di arrivare a quattro.
«Andata e andata e... e... e e e.»
Il canale di Eros gemeva, un coro di voci che chiacchieravano in
russo e in hindi, che sovrastavano quella vecchia voce solitaria e
che a loro volta venivano sommerse da un ululato profondo e
stridente. Il canto di una balena, forse. La tuta di Miller gli fece
educatamente notare che gli rimaneva ancora una mezz’ora di
ossigeno. Lui spense l’allarme.
La stazione di transito era cresciuta troppo. Pallide fronde
pullulavano lungo i corridoi, trasformandosi in liane. Insetti
riconoscibili – mosche, scarafaggi e ragni d’acqua – strisciavano
lungo quei lunghi cavi bianchi e spessi a ondate decise. Tentacoli di
quel che sembrava bile articolata andavano avanti e indietro,
lasciandosi dietro uno strato di larve che si contorcevano frenetiche.
Erano vittime della protomolecola tanto quanto la popolazione
umana. Povere bestie.
«Non puoi riprenderti il rasoio» disse Eros, con voce che pareva
quasi trionfante. «Non puoi riprenderti la Razor. È andata e andata e
andata.»
La temperatura saliva più in fretta, ora. Gli ci volle qualche minuto
per determinare che faceva leggermente più caldo nel verso della
rotazione. Riprese a spingere il carrello. Poteva percepire il cigolio:
un piccolo tremito fastidioso che gli saliva nelle ossa della mano. Tra
la massa della bomba e i cuscinetti difettosi della ruota, le sue spalle
cominciavano a fargli decisamente male. Era un bene che poi non gli
toccasse riscaricare quell’affare a terra.
Julie lo aspettava nell’oscurità. Il sottile raggio del terminale
palmare di Miller le passò attraverso. I suoi capelli fluttuavano; la
gravità di rotazione, in fondo, non aveva alcun effetto sui fantasmi
della mente. Julie aveva un’espressione grave in viso.
Come fa a saperlo?, chiese.
Miller si fermò. Di tanto in tanto, durante tutta la propria carriera, un
qualche testimone immaginario diceva qualcosa, usava una certa
frase, rideva per la cosa sbagliata, e lui capiva che da qualche parte,
nella sua mente, c’era una nuova prospettiva sul caso.
Quello era un momento del genere.
«Non puoi riprenderti il rasoio» gracchiò Eros.
La cometa che ha trasportato la protomolecola nel sistema solare
era una roccia morta, non una nave, disse Julie, con le labbra scure
completamente immobili. Era solo un proiettile. Un proiettile di
ghiaccio con la protomolecola in ibernazione profonda. Era diretto
verso la Terra, ma ha mancato il bersaglio e invece è stato attratto
da Saturno. Il suo carico non l’ha deviato. Non l’ha guidato. Non ha
navigato.
«Non ne aveva bisogno» disse Miller.
Ora però sta navigando, osservò Julie. Sta andando verso la Terra.
Come fa a sapere che deve andare sulla Terra? Da dove viene
quell’informazione? Sta parlando. Da dove ha preso la forma
grammaticale?
Chi è la voce di Eros?
Miller chiuse gli occhi. La sua tuta gli fece presente che gli
rimanevano venti minuti di ossigeno.
«Non puoi riprenderti la Razorback! È andata, andata e andata!
«Oh, cazzo» esclamò Miller. «Oh, Cristo.»
Lasciò andare il carrello, voltandosi verso la rampa, la luce e gli
ampi corridoi della stazione. Ogni cosa stava oscillando, la stazione
stessa tremava come se fosse stata sull’orlo dell’ipotermia. Solo che,
ovviamente, non era così. A tremare era lui. Era tutto nella voce di
Eros. Era stato lì fin dall’inizio. Avrebbe dovuto saperlo.
Forse lo sapeva.
La protomolecola non conosceva né l’inglese, né l’hindi, né il
russo, né nessun altro dei linguaggi in cui aveva sproloquiato. Tutto
questo era stato nelle menti e nei software dei morti di Eros,
codificato nei neuroni e nei programmi di grammatica che la
protomolecola aveva assorbito. Assorbito, non distrutto. Aveva
mantenuto le informazioni, i linguaggi e le strutture cognitive
complesse, costruendosi su di loro come l’asfalto sulle strade
costruite dalle legioni.
I morti di Eros non erano morti. Juliette Andromeda Mao era viva.
Miller aveva un sorriso così largo che gli facevano male le guance.
Con una mano guantata, cercò di stabilire un collegamento. Il
segnale era troppo debole. Non riusciva a passare. Ordinò al suo
contatto in superficie di attivarsi e ottenne una connessione.
La voce di Holden giunse attraverso la linea.
«Ehi, Miller. Come te la passi?»
Quelle parole erano delicate, quasi come delle scuse. Come un
addetto dell’ospizio che faceva il carino con i moribondi. Una scintilla
di fastidio gli incendiò la mente, ma mantenne la voce ferma.
«Holden» disse. «Abbiamo un problema.»
53

Holden

«È vero, ma abbiamo appena capito come risolverlo» rispose


Holden.
«Non credo. Vi allego i dati medici registrati dalla mia tuta» ribatté
Miller.
Pochi secondi più tardi, quattro colonne di numeri apparvero su
una finestra secondaria dello schermo di Holden. Sembrava tutto
piuttosto normale, benché ci fossero alcune sottigliezze che soltanto
un tecnico sanitario, come Shed, sarebbe stato in grado di
interpretare correttamente.
«Okay» disse Holden. «Fantastico. Ti stai irradiando un po’. Ma a
parte questo...»
Miller lo interruppe.
«Ti pare che io stia soffrendo di ipossia?» chiese.
I dati della sua tuta indicavano 87mmHg, tranquillamente sopra il
minimo.
«No» rispose Holden.
«C’è qualche cosa che potrebbe rendere allucinati o fuori di testa?
Alcol, oppiacei... qualcosa del genere?»
«Non che io veda» disse Holden, facendosi sempre più
impaziente. «Di che si tratta? Stai cominciando ad avere delle
visioni?»
«Non più del solito» rispose Miller. «Volevo solo mettere le mani
avanti con quelle stronzate, perché so già che cosa mi dirai
adesso.»
Smise di parlare e la radio sibilò e frusciò nell’orecchio di Holden.
Quando Miller parlò di nuovo, dopo diversi secondi di silenzio, la
voce aveva assunto un tono diverso. Non era propriamente
supplicante, ma abbastanza prossima a quello da far sentire a
disagio Holden sul suo sedile.
«Lei è viva.»
C’era soltanto una lei nell’universo di Miller. Julie Mao. «Uhm, okay.
Non sono sicuro di come poter rispondere a questo.»
«Dovrai prendere per buona la mia parola, e accettare che non sto
cadendo preda di un crollo emotivo o di un episodio psicotico, o
qualcosa del genere. Ma Julie è qui. Sta pilotando Eros.»
Holden osservò di nuovo i dati della tuta, ma quelli continuavano a
riportare valori normali; tutti i numeri, tranne forse quelli relativi alle
radiazioni, comodamente fissi sul verde. La composizione del suo
sangue non sembrava nemmeno rivelare che Miller fosse
particolarmente stressato per essere un tipo che si trasportava da
solo la bomba di fusione del proprio funerale.
«Miller, Julie è morta. Abbiamo visto entrambi il corpo. Abbiamo
visto che è stata la protomolecola, a farlo.»
«Già. Abbiamo visto il suo corpo, questo è certo. Abbiamo dato per
scontato che fosse morta per via dei danni riportati...»
«Non aveva polso» disse Holden. «Nessuna attività cerebrale,
nessun metabolismo. È un modo decisamente affidabile per stabilire
che una persona è morta.»
«Come facciamo a sapere che cosa significa ‘morto’ per la
protomolecola?»
«Non...» fece per dire Holden, poi si fermò. «Non possiamo,
immagino. Ma la mancanza di battito è un ottimo inizio.»
Miller scoppiò a ridere.
«Abbiamo visto entrambi di cosa si alimenta, Holden. Quelle casse
toraciche con un solo braccio che si trascinano in giro, pensi che
abbiano una pulsazione? Questa merda non è stata alle nostre
regole fin dal primo giorno, e ti aspetti che lo faccia ora?»
Holden sorrise tra sé e sé. Miller aveva ragione.
«Okay. Allora che cos’è che ti fa pensare che Julie non sia soltanto
una cassa toracica e una massa di tentacoli?»
«Può darsi che lo sia, ma non sto parlando del suo corpo» disse
Miller. «Lei è qui. La sua mente. È come se stesse pilotando la sua
vecchia pinaccia da corsa. La Razorback. Sono ore che ne parla alla
radio, e non l’avevo riconosciuta. Ora che l’ho fatto però, è tutto
fottutamente chiaro.»
«E allora perché si dirige verso la Terra?»
«Non lo so» riconobbe Miller. Sembrava interessato, eccitato. Più
vivo di quanto Holden non l’avesse mai sentito.«Forse la
protomolecola vuole andare lì e la sta costringendo. Julie non è stata
la prima persona a essere infettata, ma è la prima che è
sopravvissuta abbastanza a lungo da arrivare da qualche parte. Può
darsi che sia il cristallo originario, e che tutto quello che la
protomolecola sta facendo sia costruito su di lei. Non ne sono sicuro,
ma posso scoprirlo. Devo solo trovarla e parlare con lei.»
«Quel che devi fare, è portare quella bomba ovunque siano i
controlli e innescarla.»
«Non posso farlo» rispose Miller. Ovvio che non poteva.
Non importa, pensò Holden. Tra poco meno di trenta ore non
sarete altro che polvere radioattiva.
«E va bene. Riuscirai a trovare la tua ragazza in meno di...»
Holden fece ricalcolare alla Roci una stima dei tempi d’impatto per i
missili in arrivo «...ventisette ore?»
«Perché? Che cosa succede, tra ventisette ore?»
«La Terra ha sparato il suo intero arsenale nucleare interplanetario
verso Eros qualche ora fa. Abbiamo semplicemente acceso i
transponder sulle cinque navi che hai fatto arrivare in superficie. I
missili hanno quelli come bersaglio. La Roci ha calcolato che
mancano ventisette ore all’impatto, basandosi sulla corrente curva di
accelerazione. Le marine militari marziana e delle Nazioni Unite
stanno venendo lì a sterilizzare l’area non appena avranno finito di
bombardare. Per assicurarsi che niente riesca a fuggire o a filtrare
attraverso le maglie.»
«Cristo.»
«Già» disse Holden con un sospiro. «Mi dispiace di non avertelo
detto prima. Ho avuto un sacco di roba per le mani, e mi è un po’
passato di mente.»
Ci fu un altro lungo silenzio in linea.
«Puoi fermarli» replicò Miller. «Spegni i transponder.»
Holden girò il sedile per guardare Naomi. Lei aveva dipinta in
faccia la stessa espressione da ‘che cos’è che ha appena detto?’
che Holden sapeva di avere sulla sua. La donna riportò i dati medici
della tuta sulla sua console, poi avviò il sistema medico della Roci e
cominciò a fargli eseguire un esame diagnostico completo. Le
implicazioni erano chiare. Pensava che ci fosse qualcosa di
sbagliato, in Miller, che non era immediatamente evidente dai dati
che gli erano stati forniti. Se la protomolecola l’avesse infettato,
usandolo come diversivo dell’ultimo secondo...
«Non se ne parla, Miller. Questa è la nostra ultima opportunità. Se
la mandiamo a monte, Eros riuscirà a entrare nell’orbita della Terra,
spruzzando fanghiglia marrone da tutte le parti. Non esiste che ci
assumiamo un rischio del genere.»
«Ascolta» disse Miller, con il tono che si alternava tra la supplica
precedente e una crescente frustrazione. «Julie è qui dentro. Se
riesco a trovarla, a trovare un modo per parlarle, posso fermare tutto
questo senza bisogno di testate nucleari.»
«E che farai, chiederai alla protomolecola di non infettare la Terra,
se non le spiace, quando invece è sempre stato ciò per cui è stata
progettata? Vuoi fare appello alla sua natura magnanima?»
Miller fece un’altra pausa prima di parlare di nuovo.
«Ascolta, Holden, credo di sapere che cosa stia succedendo, qui.
Questo affare era inteso per infettare organismi monocellulari; le
forme di vita più elementari, giusto?»
Holden si strinse nelle spalle, poi ricordò che non avevano un
collegamento video e disse: «Okay.»
«Non è andata così, ma la protomolecola è una bastarda, è furba.
Si adatta. È entrata in un ospite umano, un organismo multicellulare
complesso. Aerobico. Con un cervello funzionante. Per niente simile
a ciò per cui era stata progettata. Ha sempre improvvisato, fin
dall’inizio. Quel casino sulla nave mimetica... quello era il suo primo
tentativo. Abbiamo visto che cosa stava facendo con Julie in quel
bagno su Eros. Stava imparando come fare a lavorare con noi.»
«Dove vuoi andare a parare?» domandò Holden. Non avevano
ancora addosso la pressione del tempo, visto che i missili erano a
più di un giorno di distanza, ma non riuscì a mascherare
l’impazienza nel suo tono.
«Quel che sto dicendo, è che Eros non è ciò che chi ha progettato
la protomolecola aveva in mente. È il loro piano, predisposto per
funzionare nei miliardi di anni della nostra evoluzione. E, quando
improvvisi, lo fai con quel che hai. Usi quello che funziona. Julie è il
modello di riferimento. Il suo cervello, le sue emozioni, sono
dappertutto. Vede questo viaggio verso la Terra come una corsa, e si
sta già beando della vittoria. Vi sta denigrando, perché non riuscite a
starle dietro.»
«Aspetta» disse Holden.
«Non sta attaccando la Terra, sta tornando a casa. Per quanto ne
possiamo sapere, non è nemmeno diretta verso la Terra. Forse
verso Luna. È lì che è cresciuta. La protomolecola le si è attaccata
addosso, usando la sua struttura, il suo cervello. E così Julie l’ha
infettata tanto quanto la protomolecola ha infettato lei. Se riesco a
farle capire quello che sta succedendo, forse posso negoziare con
lei.»
«Come fai a saperlo?»
«Chiamala un’intuizione» rispose Miller. «Ci so fare con le
intuizioni.»
Holden fischiò, mentre l’intera situazione cambiava diametralmente
aspetto nella sua testa. Quella nuova prospettiva lo stordiva.
«Ma la protomolecola vuole ancora obbedire al proprio
programma» disse Holden. «Non abbiamo idea di cosa sia,
esattamente.»
«Posso dirti per certo che non si tratta di far fuori gli esseri umani.
Chi ce l’ha sparata contro due miliardi di anni fa non sapeva
nemmeno che diavolo fossero, gli esseri umani. Qualunque cosa
avesse bisogno di fare, necessitava di biomassa, e ora ce l’ha.»
Holden non poté impedirsi di sbuffare a quelle parole.
«E allora? Non intendevano farci alcun male? Dici sul serio? Credi
che, se ci mettiamo a spiegare che preferiremmo non vederla
atterrare sulla Terra, quella roba sarà semplicemente d’accordo e si
dirigerà altrove?»
«Non ‘quella roba’» precisò Miller. «Lei.»
Naomi alzò gli occhi verso Holden, scuotendo la testa. Non c’era
niente di sbagliato nei dati organici di Miller.
«Sono al lavoro su questo caso da... cazzo, quasi un anno ormai»
disse il detective. «Mi sono arrampicato nella sua vita, ho letto la sua
corrispondenza, ho conosciuto i suoi amici. La conosco. È la
persona più indipendente che ci possa essere, e ci ama.»
«Ci?» chiese Holden.
«Noi, la gente. Julie ama gli esseri umani. Ha rinunciato a essere
la ragazzina ricca e viziata, e si è unita all’APE. Ha appoggiato la
causa della Fascia perché era la cosa giusta da fare. Non potrà
ucciderci, se si rende conto di quello che sta accadendo. Devo solo
trovare un modo per spiegarglielo. Posso farlo. Datemi una
possibilità.»
Holden si passò una mano tra i capelli, facendo una smorfia per
quanto erano unti. Un paio di giorni a g elevati non erano compatibili
con la doccia.
«Non posso farlo» disse Holden. «La posta in gioco è troppo alta.
Andiamo avanti con il piano. Mi dispiace.»
«Vi batterà» disse Miller.
«Cosa?»
«Okay, forse no. Avete un fottio di potenza di fuoco. Ma la
protomolecola ha trovato il modo di aggirare l’inerzia. E Julie... è una
combattente, Holden. Se vi mettete a sfidarla, io punto i miei soldi su
di lei.»
Holden aveva visto il video di Julie che combatteva contro i suoi
assalitori a bordo della nave mimetica. Era stata metodica e
spregiudicata nel difendersi. Aveva condotto una lotta senza
quartiere. Holden aveva visto il lampo selvaggio nei suoi occhi
quando si era sentita in trappola e minacciata. Soltanto le corazze
d’assalto degli aggressori avevano impedito che facesse loro molti
più danni prima che venisse bloccata.
Holden si sentì rizzare i capelli sulla nuca all’idea che Eros si
mettesse a combattere sul serio. Per il momento, si era accontentato
di sfuggire ai loro goffi attacchi. Che cosa sarebbe successo se
fosse entrato in guerra?
«Potresti trovarla» disse Holden. «E usare la bomba.»
«Se non riesco a convincerla» rispose Miller «è quel che vi
propongo. La troverò. Le parlerò. Se non riesco a persuaderla, la
farò fuori, e potrete trasformare Eros in una nube di polvere. Mi sta
bene. Ma dovete darmi il tempo di provarci a modo mio, prima.»
Holden guardò Naomi, che lo fissava. Il suo viso aveva un colorito
cinereo. Holden voleva trovare una risposta nella sua espressione,
sapere che cosa avrebbe dovuto fare basandosi su quel che
pensava lei. Non vi trovò niente. Spettava a lui decidere.
«Hai bisogno di più di ventisette ore?» chiese finalmente Holden.
Sentì Miller lasciar andare un respiro. Nella sua voce c’era una
gratitudine che era, a suo modo, più imbarazzante di quanto non
fosse stata la supplica.
«Non lo so. Ci sono un paio di migliaia di chilometri di tunnel,
quaggiù, e nessuno dei sistemi di transito è in funzione. Devo
andarmene in giro trascinandomi appresso questo dannatissimo
carrello. Per non dire che non so nemmeno che cosa sto cercando,
esattamente. Ma datemi un po’ di tempo. Troverò la soluzione.»
«E sai che, se non dovesse funzionare, la dovrai uccidere. Dovrai
uccidere te stesso e Julie.»
«Lo so.»
Holden fece calcolare alla Roci quanto tempo avrebbe impiegato
Eros a raggiungere la Terra alla sua velocità attuale. I missili lanciati
dalla Terra stavano ricoprendo la distanza molto più rapidamente di
quanto non stesse facendo Eros. Quegli IPBM non erano altro che
reattori Epstein superpotenti con delle testate nucleari sul davanti. I
loro limiti di accelerazione erano i limiti funzionali del reattore Epstein
stesso. Se i missili non fossero giunti a destinazione, Eros avrebbe
comunque impiegato una settimana prima di arrivare sulla Terra,
anche mantenendo un’accelerazione costante.
C’era un margine di flessibilità.
«Aspetta, fammi mettere a punto un piano» disse Holden a Miller,
poi chiuse il collegamento. «Naomi, i missili stanno volando in linea
retta verso Eros, e la Roci stima che la intercetteranno tra ventisette
ore, più o meno. Quanto tempo guadagneremmo se trasformassimo
quella retta in una curva? Quanto è lunga la curva che possiamo
tracciare, lasciando ai missili la possibilità di raggiungere Eros se si
avvicina troppo?»
Naomi inclinò la testa da un lato, fissandolo sospettosa attraverso
gli occhi socchiusi.
«Che cosa hai intenzione di fare?»
«Magari dare a Miller la possibilità di sventare la prima guerra tra
specie.»
«Ti fidi di Miller?» disse lei con una veemenza sorprendente.
«Pensi che sia un matto. L’hai sbattuto fuori dalla nave perché
ritenevi che fosse uno psicopatico e un assassino, e ora lo lascerai
parlare a nome dell’umanità con un semidio alieno che vuole farci a
pezzi?»
Holden dovette reprimere un sorriso. Dire a una donna arrabbiata
quanto fosse affascinante quando si adirava l’avrebbe fatta smettere
di essere carina molto rapidamente. E poi, aveva bisogno che
quell’idea avesse senso per lei. Solo così avrebbe saputo se aveva
ragione.
«Una volta mi hai detto che Miller aveva ragione, anche se io
pensavo che avesse torto.»
«Non era un’assoluzione generale» disse Naomi, scandendo le
parole come se stesse parlando con un bambino ritardato. «Ho detto
che ha fatto bene a sparare a Dresden. Questo non significa che
Miller sia stabile. È in pieno suicidio, Jim. È ossessionato dalla sua
ragazza morta. Non riesco nemmeno a immaginare che cosa può
passargli per la testa in questo momento.»
«Concordo. Ma lui è lì, sul posto, e ha buon occhio per osservare e
capire le cose così come sono. Questo tizio ci ha rintracciati fino su
Eros, basandosi sul nome che abbiamo scelto per la nostra nave.
Piuttosto impressionante, no? Non mi aveva nemmeno mai
incontrato, eppure dalle sue ricerche mi conosceva abbastanza bene
da sapere che mi sarebbe piaciuto chiamare la mia nave con il nome
del cavallo di Don Chisciotte.»
Naomi scoppiò a ridere. «Ma davvero? È da lì che viene?»
«Per cui, quando dice che conosce Julie, io gli credo.»
Naomi fece per dire qualcosa, poi s’interruppe.
«Credi che sarebbe in grado di battere le testate?» chiese poi,
piano.
«Lui crede che lei ne sia capace. E pensa di poterla convincere a
non ammazzarci tutti. Devo dargli questa possibilità. Glielo devo.»
«Anche se significa distruggere la Terra?»
«No» disse Holden. «Non gli devo tanto.»
Naomi fece un’altra pausa. La sua rabbia svanì.
«E allora ritarda l’impatto, senza annullarlo del tutto» disse Naomi.
«Gli faremo guadagnare del tempo. Quanto possiamo fargli
avere?»
La donna si accigliò, osservando i numeri. Holden poteva quasi
vedere le soluzioni che le si incastravano nella mente. Poi Naomi
sorrise, e la sua aggressività fu sostituita da quello sguardo
malizioso che le veniva quando si ricordava di essere molto
intelligente.
«Tutto quello che vuoi.»
«Volete fare cosa?» chiese Fred.
«Deviare le testate dalla loro rotta per dare un po’ di tempo a Miller,
ma non così tanto da non poterle più usare su Eros se ce ne fosse
bisogno» disse Holden.
«È semplice» aggiunse Naomi. «Le sto inviando istruzioni
dettagliate.»
«Inquadratemi la faccenda» disse Fred.
«La Terra ha impostato il puntamento dei suoi missili sui cinque
transponder dei cargo su Eros» spiegò Naomi, sovrapponendo il suo
piano alla finestra di comunicazione video. «Voi avete navi e stazioni
sparse per tutta la Fascia. Usate il programma di riconfigurazione dei
transponder che lei stesso ci ha dato tempo fa, e continuate a far
passare quegli stessi codici sulle navi e stazioni lungo questi vettori
per attirare i missili in un lungo arco che alla fine tornerà verso
Eros.»
Fred scosse la testa.
«Non funzionerà. Non appena il comando della Marina delle
Nazioni Unite vedrà quello che stiamo facendo, diranno ai missili di
smetterla di seguire quei codici, e cercheranno un modo di colpire
Eros per conto loro» rispose. «E saranno anche molto incazzati con
noi.»
«Già, saranno incazzati. Questo è certo» disse Holden. «Ma non
riavranno i loro missili. Appena prima che cominciate ad attirare i
missili fuori rotta, noi lanceremo un massiccio tentativo di hacking da
posizioni multiple verso i missili.»
«Per cui penseranno che un nemico stia cercando di tendergli una
trappola, e disattiveranno i codici per la riprogrammazione in volo»
disse Fred.
«Già» rispose Holden. «Gli diremo che li stiamo per ingannare,
così smetteranno di ascoltare e, una volta che avranno smesso di
farlo, li inganneremo.»
Fred scosse di nuovo la testa, stavolta dando a Holden
l’impressione di un uomo spaventato che volesse uscire quatto
quatto dalla stanza.
«Non c’è verso che io vi appoggi in tutto questo» disse. «Miller non
riuscirà a ottenere un qualche accordo magico con gli alieni.
Finiremo per bombardare Eros, qualsiasi cosa succeda. Perché
ritardare l’inevitabile?»
«Perché» spiegò Holden «sto cominciando a pensare che
potrebbe essere meno pericoloso in questo modo. Se usiamo i
missili senza prima disarmare il centro di comando di Eros... il
cervello di Eros... o quello che è, non sappiamo se funzionerà, ma
sono piuttosto sicuro che le nostre possibilità diminuiscano. Miller è
l’unico che può farlo. E questi sono i suoi termini.»
Fred proferì un’oscenità.
«Se Miller non riesce a convincerla, la farà fuori. Su questo mi fido
di lui» disse Holden. «Andiamo, Fred. Conosce quei missili bene
quanto me. Meglio. Li caricano con carburante sufficiente a fare due
volte il giro dell’intero sistema solare. Non ci perdiamo niente, se
diamo a Miller un po’ più di tempo.»
Fred scosse la testa una terza volta. Holden vide la sua
espressione farsi più dura. Non avrebbe acconsentito. Prima che
potesse dire di no, Holden aggiunse: «Si ricorda quella scatola con il
campione della protomolecola, e tutti gli appunti del laboratorio?
Vuole sapere qual è il mio prezzo, per quella?»
«Lei» replicò piano Fred, scandendo ogni parola «è
completamente fuori di testa, cazzo.»
«La vuole comprare o no?» chiese Holden. «Lo vuole, quel
biglietto magico per avere un posto al tavolo? Ora conosce il mio
prezzo. Dia a Miller la sua occasione, e il campione è suo.»
«Sarei curioso di sapere come hai fatto a convincerli» disse Miller.
«Stavo cominciando a pensare che probabilmente ero fottuto.»
«Non ha importanza» rispose Holden. «Ti abbiamo fatto avere il
tempo che volevi. Va’ a trovare la ragazza e salva l’umanità.
Rimaniamo in attesa di tue notizie.» ‘E pronti a farti diventare
pulviscolo nucleare’ rimase non detto. Non ce n’era bisogno.
«Stavo pensando a dove andare, se per caso riesco a parlarle»
disse Miller. Aveva l’aria già sconfitta in partenza di un uomo con un
biglietto della lotteria. «Voglio dire, dovrà pur parcheggiare questo
affare da qualche parte.»
Se sopravviviamo. Se riuscirò a salvarla. Se il miracolo avviene.
Holden si strinse nelle spalle, anche se nessuno poteva vederlo.
«Dalle Venere» disse. «È un postaccio tremendo.»
54

Miller

«No e no» mormorava la voce di Eros. Juliette Mao, che parlava


nel sonno. «No e no e no...»
«Andiamo» disse Miller. «Andiamo, pezzo di merda. Devi essere
qui.»
Le infermerie erano invase da rigogliose formazioni organiche
troppo cresciute; spirali nere con filamenti di bronzo e acciaio che
risalivano su per le pareti, incrostando i tavoli operatori, nutrendosi
dei narcotici, steroidi e antibiotici che erano caduti fuori dagli
armadietti rotti. Miller scavò con una mano in quel disordine, mentre
l’allarme della tuta continuava a trillare. Il suo ossigeno aveva il
sapore acido dell’aria passata troppe volte attraverso un riciclatore. Il
pollice, ancora premuto sul tasto d’innesco di sicurezza, alternava
formicolio a fitte di dolore intenso.
L’ex poliziotto spazzò via una crescita dall’aspetto fungino da sopra
una scatola che non era ancora stata rotta e trovò il chiavistello.
Quattro cilindri di gas medico: due rossi, uno verde, uno blu. Guardò
i sigilli. La protomolecola non li aveva ancora corrosi. Rosso:
anestetico. Blu: azoto. Prese il verde. La capsula di protezione
sull’erogatore era ancora intatta. Fece un lungo sospiro in quella sua
aria in esaurimento. Ancora qualche ora. Posò il terminale palmare
(uno... due...), tolse il sigillo (tre...), inserì l’erogatore nell’impianto
della tuta (quattro...) e rimise il dito sul terminale. Rimase lì in piedi,
percependo il freddo della bombola d’ossigeno nella mano mentre la
tuta ricalcolava la durata della sua vita. Dieci minuti, un’ora, quattro
ore. La pressione del cilindro medico raggiunse quella della tuta, e
Miller staccò la bocchetta. Altre quattro ore. Si era guadagnato altre
quattro ore.
Era la terza volta che riusciva a rifornirsi in emergenza da quando
aveva parlato con Holden. La prima era stata in una stazione di vigili
del fuoco, la seconda in un’unità di supporto al riciclaggio d’aria. Se
avesse fatto ritorno al porto, probabilmente avrebbe trovato
dell’ossigeno non compromesso negli armadietti dei rifornimenti e
sulle navi attraccate. Se fosse tornato fino in superficie, nelle navi
dell’APE ne avrebbe trovato in quantità.
Ma non c’era tempo. Non stava cercando ossigeno; stava
cercando Juliette. Si stirò le ossa. Le rigidità che sentiva nel collo e
nella schiena minacciavano di diventare crampi. I livelli di anidride
carbonica nella tuta erano ancora elevati, per quanto accettabili,
anche con il nuovo ossigeno aggiunto alla miscela. La tuta aveva
bisogno di manutenzione, e di un filtro nuovo. Avrebbe dovuto
attendere. Alle sue spalle, la bomba sul carrello se ne stava sulle
sue.
Doveva trovarla. Da qualche parte, in quel labirinto di corridoi e
sale, in quella città morta, Juliette Mao li stava guidando verso la
Terra. Aveva individuato quattro punti caldi. Tre di questi erano buoni
candidati per il suo progetto originale di immolazione nucleare: fulcri
di cavi e filamenti neri alieni che s’intrecciavano in grossi nodi
dall’aspetto organico. Il quarto era un reattore da laboratorio da due
soldi che si stava avviando lentamente verso la fusione. Gli ci erano
voluti quindici minuti per attivare lo spegnimento di emergenza, e
probabilmente avrebbe fatto meglio a non sprecare quel tempo
prezioso. Ovunque fosse andato, però, niente Julie. Perfino la Julie
della sua immaginazione era sparita, come se per il fantasma non
avesse più posto, ora che sapeva che la donna reale era ancora
viva. Gli mancava averla intorno, anche se era stata soltanto una
visione.
Un’ondata s’increspò attraverso l’infermeria, e tutte le escrescenze
aliene si alzarono e si abbassarono come limatura di metallo al
passaggio di un magnete. Il cuore di Miller accelerò, pompando
adrenalina nelle vene, ma non successe una seconda volta.
Doveva trovarla. Doveva trovarla in fretta. Sentiva che la
stanchezza lo stava esaurendo, con i suoi denti aguzzi che gli
mordicchiavano il fondo del cervello. Non riusciva più a pensare con
la necessaria lucidità. Se fosse stato su Ceres, se ne sarebbe
tornato al suo buco, avrebbe dormito per tutto il giorno e avrebbe
ripreso ad affrontare il problema con rinnovata energia. Lì però non
era una scelta possibile.
Chiuso il cerchio. Aveva chiuso il cerchio. Una volta, in un’altra vita,
si era addossato il compito di ritrovarla; poi, quando aveva fallito, era
andato in cerca di vendetta. Ora, aveva di nuovo la possibilità di
trovarla, di salvarla. E, se anche stavolta non ci fosse riuscito,
trascinava con sé un miserabile carrello con le ruote cigolanti che gli
sarebbe servito da vendetta.
Miller scosse la testa. Stava avendo troppi momenti come quello,
in cui si perdeva nei suoi pensieri. Strinse con più vigore il carrello
caricato con la bomba a fusione, si chinò in avanti e uscì fuori. La
stazione tutto intorno a lui scricchiolava come immaginava che
avrebbe potuto fare una vecchia nave d’acqua, con le assi piegate
dalle ondate di acqua salata e dal grande tiro alla fune delle maree
tra la Terra e Luna. Lì però era roccia, e Miller non riusciva a
immaginare quali forze potessero essere in azione. Sperava che non
fosse niente che potesse interferire con il segnale tra il suo terminale
e il carico che trasportava. Non voleva essere involontariamente
ridotto a una massa dei suoi atomi componenti.
Era sempre più chiaro che non sarebbe riuscito a perlustrare
l’intera stazione. L’aveva saputo fin dall’inizio. Se Julie si era
nascosta in un qualche luogo recondito, in una qualche nicchia o in
un buco, come un gatto in fin di vita, non l’avrebbe trovata. Era
diventato un giocatore d’azzardo, che scommetteva contro ogni
probabilità calcolata di riuscire a pescare le carte giuste per la sua
scala a incastro. La voce di Eros cambiò; aveva diverse voci ora,
che cantavano qualcosa in hindi. Una filastrocca da bambini. Eros si
armonizzava con sé stesso in una crescente ricchezza di voci. Ora
che sapeva come ascoltarla, il detective udì la voce di Julie che si
faceva largo tra le altre. Magari era sempre stata lì. La frustrazione
che provava Miller si avvicinava al dolore fisico. Era così vicina,
eppure non riusciva a raggiungerla del tutto.
S’immise di nuovo nel complesso di corridoi principali. Le
infermerie erano state un buon posto dove cercarla. Plausibile. Ma
infruttuoso. Aveva cercato nei due laboratori biologici mercantili.
Niente. Aveva provato l’obitorio, le celle della polizia. Era perfino
arrivato fino al magazzino delle prove, trovando cesti e cesti di
droghe di contrabbando e armi confiscate sparpagliati sul pavimento
come foglie morte in un grande parco. Tutto questo aveva significato
qualcosa, un tempo. Ogni elemento era stato una parte di un singolo
dramma umano, in attesa di essere portato alla luce, parte di un
processo, o perlomeno di un’udienza. Un banco di prova per il giorno
del giudizio, ormai rinviato per sempre. Niente aveva più senso.
Qualcosa di argentato lo superò volando, più veloce di un uccello,
poi qualcos’altro e poi uno stormo, che sfrecciava sopra la sua testa.
La luce si rifletteva su quel metallo vivente, brillante come le scaglie
di un pesce. Miller osservò la molecola aliena che improvvisava nello
spazio sopra di lui.
Non puoi fermarti qui, disse Holden. Devi smetterla di correre e
trovare la strada giusta.
Miller si guardò alle spalle. Il capitano era lì in piedi, reale e
immaginario, nel punto dove sarebbe stata la sua Julie.
Be’, questo sì che è interessante, pensò.
«Lo so» disse. «È solo che... non so dove sia andata. E... be’,
guardati intorno. È un posto piuttosto grande, sai?»
Puoi fermarla tu, oppure lo farò io, disse il suo Holden immaginario.
«Se solo sapessi dov’è andata» disse Miller.
Non l’ha fatto, rispose Holden. Non è mai andata da nessuna
parte.
Miller si voltò a fissarlo. Lo stormo argentato rimestava sopra di
loro, stridendo come un nugolo d’insetti o un motore da mettere a
punto. Il capitano sembrava stanco. L’immaginazione di Miller gli
aveva attribuito una sorprendente chiazza di sangue agli angoli della
bocca. E poi non era più Holden; era Havelock. L’altro terrestre. Il
suo vecchio partner. E infine era Muss, con gli occhi smorti come i
suoi.
Julie non era andata da nessuna parte. Miller l’aveva vista nella
stanza d’albergo, quando ancora credeva che dalla sua tomba non
potesse risalire nient’altro che un lezzo di morte. Prima. Era stata
messa in un sacco. E l’avevano portata via, altrove. Gli scienziati
della Protogen l’avevano recuperata, avevano raccolto la
protomolecola e avevano diffuso la carne rimodellata di Julie
attraverso tutta la stazione, come api che impollinassero un campo
di fiori selvatici. Le avevano dato l’intera stazione ma, prima di farlo,
l’avevano messa in un qualche posto in cui pensavano sarebbe stata
al sicuro.
Una stanza blindata. Finché non fossero stati pronti a distribuire
quella cosa, dovevano averla voluta contenere. Far finta che potesse
essere contenuta. Era improbabile che si fossero presi il disturbo di
ripulire dopo aver preso ciò che serviva loro. Non è che sarebbe
venuto qualcun altro a usare quello spazio, per cui era possibile che
l’avessero lasciata lì. E questo restringeva il suo campo di ricerca.
Dovevano esserci dei reparti di isolamento nell’ospedale, ma era
improbabile che la Protogen avesse usato una struttura in cui medici
e infermiere non appartenenti alla Protogen potessero chiedersi che
cosa stesse accadendo. Sarebbe stato un rischio superfluo.
E va bene.
Potevano essersi impiantati in una delle fabbriche manifatturiere
del porto. C’erano un sacco di posti, laggiù, che richiedevano
soltanto manodopera meccanica. Ancora una volta, però, c’era il
rischio che venissero scoperti o interrogati sul loro operato prima che
la trappola fosse pronta a scattare.
Una drug house, disse Muss nella sua mente. Volevano
riservatezza e controllo. Estrarre il morbo dal cadavere della ragazza
ed estrarre la roba buona dai semi di papavero sarà pure un tipo di
chimica differente, ma è pur sempre un crimine.
«Giusto» disse Miller. «E vicino al livello dei casinò... anzi, no. Non
è così. I casinò erano il secondo stadio. Il primo stadio era la
minaccia radioattiva. Hanno messo un mucchio di persone nei rifugi
radioattivi e le hanno fritte per potenziare la protomolecola, e poi
hanno infettato il livello dei casinò.»
E allora, dove la metteresti una cucina per la droga vicino ai rifugi
antiradiazioni?, chiese Muss.
Lo sciame d’argento continuava a rimestarsi sopra di loro, virando
a sinistra e a destra, diffondendosi nell’aria. Riccioli metallici
cominciarono a piovere giù, lasciandosi dietro sottili tracce di fumo
mentre cadevano.
«Se avessi accesso completo alle risorse della stazione? Nei
sistemi di controllo ambientale di riserva. È una struttura
d’emergenza. Non ci passa nessuno, a meno che non si debba fare
un inventario. E dentro ci sarebbe già tutto l’equipaggiamento
necessario all’isolamento. Non sarebbe difficile.»
E, visto che la Protogen gestiva il contratto di sicurezza di Eros da
prim’ancora che arrivassero le squadre di criminali da sacrificare,
avrebbe potuto farlo molto facilmente, disse Muss, sorridendo senza
gioia. Visto? Lo sapevo che avresti trovato la soluzione.
Per meno di un secondo, Muss svanì e, al suo posto, c’era Julie.
La sua Julie. Era sorridente e bellissima. Raggiante. I capelli le
fluttuavano intorno come se stesse nuotando in assenza di gravità. E
poi sparì. L’allarme della sua tuta lo avvertì della presenza di
un’atmosfera sempre più corrosiva.
«Tieni duro» disse all’aria infuocata. «Sto arrivando.»
Erano passate meno di trentatré ore dal momento in cui aveva
capito che Juliette Andromeda Mao non era morta a quello in cui
aveva aperto i controlli di emergenza e trascinato il suo carrello nella
sala di controllo ambientale di riserva di Eros. Le linee semplici e
pulite e la disposizione volta alla minimizzazione della possibilità di
errore di quel posto erano ancora evidenti sotto le escrescenze della
protomolecola. Appena evidenti. Grovigli di filamenti scuri e spirali di
nautilo addolcivano gli spigoli di pareti, pavimento e soffitto. Anelli di
tentacoli spuntavano da quest’ultimo come barba dei frati. Le
familiari luci a LED brillavano sotto quelle morbide escrescenze, ma
ancora più luce proveniva dallo sciame di puntini blu che
baluginavano sospesi per aria. Il suo primo passo lo fece
sprofondare fino alla caviglia in un soffice tappeto organico; avrebbe
dovuto lasciare fuori il carrello con la bomba. La sua tuta segnalò un
potente miscuglio di gas insoliti e molecole aromatiche, ma tutto ciò
che riusciva a sentire Miller era il suo stesso odore.
Tutte le sale interne erano state rimodellate. Trasformate. Miller
attraversò le aree di controllo delle acque di scarico come un sub in
una grotta sottomarina. Le luci blu gli sciamavano intorno mentre
passava, e qualche decina di esse gli s’incollò alla tuta e rimase lì,
continuando a brillare. Lui esitò prima di pulirle via dalla visiera del
casco, pensando che gli avrebbero lasciato una strisciata come di
libellule morte, ma quelle si limitarono a risalire nell’aria. Gli schermi
per il monitoraggio del riciclo d’ossigeno erano ancora accesi, con
migliaia di allarmi e di rapporti di guasti che delineavano la ragnatela
di protomolecola che copriva i pannelli. Nelle vicinanze c’era
dell’acqua che scorreva.
Lei era in un nodulo di analisi di materiale pericoloso, adagiata su
un letto di quei filamenti neri che le fuoriuscivano dalla spina dorsale
fino a sembrare un gigantesco cuscino da fiaba composto dai suoi
stessi capelli fluenti. Piccoli puntini di luce blu le brillavano sul viso,
sulle braccia, sul seno. Quegli speroni ossei che le tiravano la pelle
erano cresciuti diventando lunghi collegamenti, quasi architettonici,
con le rigogliose escrescenze che la circondavano. Le sue gambe
erano sparite, perse in quel groviglio di tentacoli alieni; a Miller fece
venire in mente una sirena che aveva scambiato la sua coda con
un’intera stazione spaziale. Aveva gli occhi chiusi, ma lui li vedeva
muoversi e danzare sotto le palpebre serrate. E respirava.
Miller le andò accanto. Non aveva proprio lo stesso viso della sua
Julie immaginaria. La vera Julie aveva la mascella più ampia, e il
suo naso non era dritto come se lo ricordava lui. Non si accorse di
stare piangendo finché non cercò di asciugarsi le lacrime, cozzando
contro il casco con una mano guantata. Avrebbe dovuto arrangiarsi
sbattendo le palpebre finché non gli si fosse schiarita la vista.
Quello che aveva cercato per tutto quel tempo, in lungo e in largo
per l’universo, era proprio lì.
«Julie» disse, posandole la mano libera sulla spalla. «Ehi, Julie.
Sveglia. Ho bisogno che ti svegli, ora.»
La sua tuta possedeva delle riserve mediche. Se fosse stato
necessario, avrebbe potuto somministrarle una dose di adrenalina o
anfetamine. Ma preferì scuoterla dolcemente, come faceva con
Candace la domenica mattina, quando era ancora sua moglie, in
una qualche vita passata, distante e quasi dimenticata. Julie
aggrottò le sopracciglia, aprì la bocca e la richiuse.
«Julie. Devi svegliarti, ora.»
Lei mugugnò e alzò debolmente un braccio per respingerlo.
«Torna da me» disse Miller. «Devi tornare, ora.»
Lei aprì gli occhi. Non erano più umani: la sclera era chiazzata di
spirali rosse e nere, e l’iride era dello stesso blu luminoso delle
libellule. Non era più umana, ma era ancora Julie. Le sue labbra si
mossero senza emettere suono. E poi:
«Dove mi trovo?»
«Sulla Stazione di Eros» disse Miller. «Il posto non è più quello che
era un tempo. Non è più nemmeno dove era un tempo, ma...»
Premette una mano sul letto di filamenti, valutandone la resistenza,
e poi appoggiò un’anca vicino a lei, come se si fosse seduto sul suo
letto. Il proprio corpo era dolorosamente esausto, e anche più
leggero del normale. Non come in bassa gravità. Quel
galleggiamento irreale non aveva niente a che vedere con la carne
sfinita.
Julie cercò di parlare di nuovo, con difficoltà; si fermò e riprovò.
«Chi sei?»
«Già, non ci siamo presentati, vero? Mi chiamo Miller. Un tempo
ero un detective della Star Helix Security, su Ceres. I tuoi genitori ci
avevano affidato un incarico, solo che era più una faccenda da amici
altolocati. Io avrei dovuto rintracciarti, prenderti e rimandarti giù nel
pozzo di gravità.»
«Un incarico di rapimento?» chiese lei. La sua voce era più ferma
ora. Il suo sguardo più concentrato.
«Un lavoro di routine» disse Miller, poi sospirò. «Ma ho mandato
tutto a puttane, in un certo senso.»
Gli occhi di Julie si chiusero debolmente, ma continuò a parlare.
«Mi è successo qualcosa.»
«Già. Ti è successo qualcosa.»
«Ho paura.»
«No, no, no. Non avere paura. Va tutto bene. In un modo un po’ del
cazzo, ma va tutto bene. Ascolta, in questo momento l’intera
stazione si sta dirigendo verso la Terra. Molto in fretta.»
«Stavo sognando di gareggiare. E di tornare a casa.»
«Già. Bisogna che smetti di farlo.»
I suoi occhi si aprirono di nuovo. Sembrava persa, angosciata,
sola. Una lacrima le scese lungo una guancia, scintillante e blu.
«Dammi la mano» disse Miller. «No, dico davvero. Ho bisogno che
mi reggi una cosa.»
Lei sollevò piano una mano, come un’alga trascinata in una dolce
corrente. Miller prese il suo terminale, lo posò sul palmo di lei e
premette il pollice di Julie sull’interruttore d’innesco.
«Reggilo così. Non lasciarlo andare.»
«Che cos’è?» chiese lei.
«È una storia lunga. Tu non togliere il dito.»
Gli allarmi della tuta gridarono quando slacciò i sigilli del suo
casco. Miller li spense. Quell’aria era strana: sapeva di aceto e
cumino, e c’era un odore profondo, potente, muschiato, che lo fece
pensare a un animale in ibernazione. Julie lo guardò mentre si
toglieva i guanti. In quello stesso momento, la protomolecola si stava
fondendo con lui, invadendogli la pelle e gli occhi, preparandosi a
fare con lui quello che aveva fatto con tutti gli altri esseri su Eros. A
Miller non importava. Riprese il terminale e poi intrecciò le dita a
quelle di Julie.
«Sei tu che guidi tutto questo, Julie» disse. «Lo sai? Voglio dire, te
ne accorgi?»
Le sue dita erano fresche tra le proprie, ma non fredde.
«Riesco a sentire... qualcosa» rispose. «Fame? No, non fame,
ma... voglio qualcosa. Voglio tornare sulla Terra.»
«Questo non possiamo farlo. Ho bisogno che cambi rotta» replicò
Miller. Che cos’aveva detto Holden? ‘Dalle Venere.’ «Dirigiamoci
verso Venere, invece.»
«Ma non è quello che vuole» disse lei.
«È quel che abbiamo da offrirgli» rispose Miller. Poi, un momento
dopo, aggiunse: «Non possiamo tornare a casa. Dobbiamo andare
verso Venere.»
Lei rimase in silenzio per un lungo istante.
«Sei una combattente, Julie. Non hai mai permesso che qualcuno
prendesse decisioni al posto tuo. Non cominciare a farlo ora. Se
andiamo verso la Terra...»
«Divorerà anche loro. Come ha divorato me.»
«Già.»
Lei alzò gli occhi verso di lui.
«Già» ripeté Miller. «Proprio così.»
«Che cosa succederà su Venere?»
«Moriremo, forse. Non lo so. Ma non porteremo con noi tutta quella
gente, e saremo sicuri che nessuno potrà mettere le mani su questa
schifezza» disse, facendo un gesto a indicare la grotta che li
circondava. «E, se non moriamo, allora... be’, questo sì che sarebbe
interessante.»
«Non credo di riuscirci.»
«Sì che ci riesci. Tu sei più intelligente della cosa che sta facendo
tutto questo. Sei tu ad avere il controllo. Portaci su Venere.»
Le libellule sciamarono intorno ai loro corpi, e la luce blu prese a
pulsare: più luminosa, poi spenta, più luminosa e poi spenta.
Quando Julie prese la sua decisione, Miller glielo lesse in faccia.
Tutto intorno a loro, le luci brillarono intense e la grotta fu sommersa
dal blu; poi tutto tornò com’era prima. Miller sentì qualcosa in fondo
al collo, come le prime avvisaglie di una gola secca. Si chiese se
avrebbe avuto il tempo di disattivare la bomba. Poi guardò Julie.
Juliette Andromeda Mao. Pilota dell’APE. Erede al trono della Mao-
Kwikowski. Il cristallo seminale di un futuro che andava oltre ogni
cosa che avesse mai potuto immaginare. Avrebbe avuto tutto il
tempo del mondo.
«Ho paura» gli disse Julie.
«Non averne» replicò lui.
«Non so che cosa succederà.»
«Nessuno lo sa mai. E poi, non devi farlo da sola.»
«Sento qualcosa in fondo alla mente. Vuole qualcosa che non
capisco. È così vasto.»
Di riflesso, Miller le baciò una mano. Sentì una fitta di dolore in
fondo allo stomaco. Un senso di malessere. Una nausea
momentanea. Le prime avvisaglie della sua trasformazione in Eros.
«Non ti preoccupare» disse. «Staremo bene.»
55

Holden

Holden sognava.
Aveva avuto sogni lucidi per la maggior parte della vita, per cui
quando si ritrovò seduto nella cucina dei suoi genitori, nella vecchia
casa del Montana, mentre parlava con Naomi, seppe che cosa stava
succedendo. Non riusciva a capire esattamente quel che stesse
dicendo, ma Naomi continuava a spostarsi i capelli dagli occhi
mentre mangiava biscotti e beveva tè. E, mentre Holden scopriva di
non riuscire a prendere un biscotto dal piatto per mangiare anche lui,
ne sentì il profumo; il ricordo dei biscotti al cioccolato di madre Elise
era bellissimo.
Era un bel sogno.
La cucina lampeggiò di rosso, e qualcosa cambiò. Holden percepì
un che di sbagliato, sentì il sogno scivolare da ricordo confortante a
incubo. Cercò di dire qualcosa a Naomi ma non riuscì a formulare le
parole. La stanza s’illuminò di rosso una seconda volta, ma lei non
sembrava accorgersene. Holden si alzò, andò verso la finestra della
cucina e guardò fuori. Quando la stanza lampeggiò di luce rossa una
terza volta, vide che cos’era a provocare quell’effetto. Dal cielo
piovevano meteoriti, lasciandosi dietro gigantesche scie color del
sangue. In qualche maniera, Holden capì che erano pezzi di Eros
mentre si schiantavano attraverso l’atmosfera. Miller aveva fallito,
l’attacco nucleare era fallito.
Julie era tornata a casa.
Si voltò per dire a Naomi di fuggire, ma dei tentacoli neri erano
emersi dal pavimento e l’avevano avvolta, trapassandole il corpo in
più punti, fuoriuscendole dagli occhi e dalla bocca.
Holden cercò di correre da lei, di aiutarla, ma non riusciva a
muoversi e, quando guardò giù, vide che i tentacoli avevano
afferrato anche lui. Uno gli si avviluppò attorno al petto e lo tenne
fermo. Un altro gli scivolò in gola.
Si svegliò con un grido in una stanza buia con una luce rossa che
lampeggiava. Qualcosa attorno al petto lo tratteneva. Preso dal
panico, cercò di togliersela di dosso, rischiando di strapparsi le
unghie della mano sinistra prima che la razionalità gli ricordasse
dove si trovava. Era sul ponte operativo, sul suo sedile, con le
cinture allacciate a gravità zero.
Si mise un dito in bocca, cercando di alleviare il dolore del danno
che si era procurato graffiando la fibbia del sedile, e fece qualche
respiro profondo con il naso. La plancia era vuota. Naomi dormiva
nella sua cabina. Alex e Amos erano fuori servizio, presumibilmente
a letto anche loro. Avevano passato quasi due giorni senza riposarsi
durante l’inseguimento ad alta velocità di Eros. Holden aveva
ordinato a tutti di farsi un pisolino e si era offerto volontario per fare il
primo turno.
E poi si era addormentato come un sasso. Non andava bene.
La stanza lampeggiò di rosso un’ennesima volta. Holden scosse la
testa per scacciare definitivamente il sonno e concentrò la sua
attenzione sulla console. Una luce rossa di allarme pulsava, e
Holden passò le dita sullo schermo per aprire il menu. Era il pannello
di minaccia. Qualcosa li stava inquadrando con un mirino laser.
Aprì lo schermo di minaccia e attivò i sensori. L’unica nave nel
raggio di milioni di chilometri era la Ravi, ed era essa che li stava
prendendo di mira. Secondo i registri automatici, aveva cominciato a
farlo soltanto da pochi secondi.
Holden allungò una mano per attivare le comunicazioni e chiamare
la Ravi, quando la sua spia di messaggi in entrata lampeggiò sul
terminale. Aprì il collegamento e, un secondo più tardi, la voce di
McBride disse: «Rocinante, interrompete ogni manovra, aprite il
portellone esterno e preparatevi a essere abbordati.»
Holden si accigliò fissando la console. Che si trattasse di un
qualche strano scherzo?
«McBride, qui Holden. Ehm... cosa?»
La risposta dell’altro capitano giunse in un tono secco e perentorio,
per niente incoraggiante.
«Holden, apra i portelloni e si prepari all’abbordaggio. Se vedo
attivarsi anche un solo sistema difensivo, aprirò il fuoco sulla vostra
nave. Mi ha capito bene?»
«No» rispose lui, incapace di nascondere il fastidio che provava.
«Non ho capito bene. E non le permetterò di abbordarmi. Che
diavolo sta succedendo?»
«Ho ricevuto ordine dal comando della Marina delle Nazioni Unite
di prendere il controllo della vostra nave. Lei è stato accusato di aver
interferito con un’operazione militare della Marina delle Nazioni
Unite, di aver illecitamente requisito risorse belliche della Marina
delle Nazioni Unite, e di una lista di altri crimini che non starò qui a
leggerle in questo istante. Se non si arrenderà con effetto
immediato, saremo costretti ad aprire il fuoco su di voi.»
«Oh» disse Holden. La Marina Militare delle Nazioni Unite aveva
scoperto che i loro missili stavano cambiando rotta, aveva tentato di
riprogrammarli, e aveva scoperto che non rispondevano più.
Si erano arrabbiati.
«McBride» riprese Holden dopo un momento. «Abbordarci non
servirà a niente. Non possiamo restituirvi quei missili. E non è
necessario. Stanno semplicemente compiendo una piccola
deviazione.»
La risata di McBride sembrò più l’abbaiare secco di un cane
infuriato prima del morso.
«Deviazione?» disse lei. «Lei ha appena consegnato
tremilacinquecentosettantatré missili termonucleari interplanetari ad
alto impatto nelle mani di un traditore, nonché acclarato criminale di
guerra!»
Holden rimase di stucco.
«Intende Fred? Credo che la parola ‘traditore’ sia un tantino
severa...»
McBride lo interruppe.
«Disattivate i transponder fittizi che stanno deviando i nostri missili
e riattivate quelli sulla superficie di Eros, o apriremo il fuoco sulla
vostra nave. Avete dieci minuti per obbedire.»
Il collegamento s’interruppe con un clic. Holden fissò la console
con un misto di sconcerto e indignazione, poi scrollò le spalle e
attivò l’allarme di richiamo alle postazioni di battaglia. Tutte le luci dei
ponti si accesero di un rosso violento. Il segnale di allarme risuonò
per tre volte. In meno di due minuti, Alex si fiondò su per la scala
verso il cockpit e, trenta secondi dopo, Naomi si precipitò verso la
sua postazione operativa.
Alex parlò per primo.
«La Ravi è a quattrocento chilometri da noi» disse. «Il lidar dice
che ha i cannoni pronti a far fuoco, e che ci hanno nel mirino.»
Scandendo ogni parola, Holden disse: «Non aprite – ripeto, non
aprite – i nostri cannoni e non provate a prendere di mira la Ravi per
il momento. Limitatevi a tenerla d’occhio e preparatevi ad attivare
l’assetto difensivo se dovesse far fuoco. Non facciamo niente che
possa provocarla.»
«Vuoi che cominci a disturbare le frequenze?» chiese Naomi alle
sue spalle.
«No, sarebbe una mossa aggressiva. Ma prepara un pacchetto di
contromisure e tieni il dito pronto sul pulsante» disse Holden.
«Amos, sei nella sala motori?»
«Sì, cap. Qua sotto siamo pronti a partire.»
«Porta il reattore al cento percento e trasferisci i controlli dei
cannoni di difesa ravvicinata sul tuo pannello. Se ci sparano da così
vicino, Alex non avrà il tempo di pilotare e di rispondere all’attacco.
Se vedi un puntino rosso sullo schermo di minaccia, apri subito il
fuoco di sbarramento. Ricevuto?»
«Ricevuto» rispose Amos.
Holden esalò un lungo sospiro tra i denti, poi aprì di nuovo il
collegamento con la Ravi.
«McBride, qui Holden. Non ci arrenderemo, non ci lasceremo
abbordare e non ottempereremo alle vostre richieste. Che cosa
vogliamo fare?»
«Holden» disse McBride. «Il vostro reattore si sta attivando. Vi
state preparando a combattere?»
«No, ci stiamo solo preparando a cercare di sopravvivere. Perché,
stiamo combattendo?»
Un’altra risata secca.
«Holden» replicò McBride. «Perché ho la sensazione che lei non
stia prendendo sul serio la situazione?»
«Oh, la sto prendendo molto sul serio» rispose Holden. «Non
voglio che lei mi faccia fuori e, che ci creda o meno, non ho alcun
desiderio di far fuori lei. Le testate stanno facendo una piccola
deviazione, ma non si tratta di qualcosa per cui valga la pena di
morire tra le fiamme. Non posso darle quel che mi chiede, e non
sono interessato a passare i prossimi trent’anni in una prigione
militare. Lei non ci guadagna niente a spararci addosso e, se
dovessimo arrivare a tanto, io risponderò al fuoco colpo su colpo.»
McBride interruppe il collegamento.
«Capitano» disse Alex. «La Ravi sta manovrando. Sta rilasciando
interferenze. Credo che sia pronta ad attaccare in corsa.»
Merda. Holden era stato convinto di poterla dissuadere.
«Okay, andiamo in assetto difensivo. Naomi, avvia le contromisure.
Amos: hai il dito su quel pulsante?»
«Pronto» rispose Amos.
«Non premere finché non vedrai partire un missile. Non voglio
forzargli la mano.»
Un’accelerazione improvvisa e soverchiante schiacciò Holden sul
sedile. Alex aveva cominciato a manovrare.
«Da questa distanza, forse posso eluderla. Impedirle di
posizionarsi adeguatamente per aprire il fuoco» disse il pilota.
«Fallo allora, e apri i cannoni.»
«Ricevuto» replicò Alex; la sua calma professionale da pilota non
riuscì a mascherare l’eccitazione per la possibile battaglia in arrivo.
«Ho interrotto il loro segnale di puntamento» disse Naomi. «Il loro
sistema laser non è nemmeno lontanamente paragonabile a quello
della Roci. Mi sono limitata a sommergerlo di interferenze.»
«Un hurrà per il portafoglio gonfio del ministero della difesa su
Marte» replicò Holden.
La nave sobbalzò di colpo per una serie di manovre selvagge.
«Dannazione» disse Alex, con voce tesa per il g instabile di quelle
brusche sterzate. «La Ravi ci sta bersagliando con i suoi cannoni di
difesa ravvicinata.»
Holden controllò il suo schermo di minaccia e vide quelle lunghe
strie baluginanti di proiettili in arrivo. I colpi erano largamente fuori
bersaglio. La Roci segnalò che la distanza tra le due navi era di
trecentosettanta chilometri: una distanza piuttosto elevata perché un
sistema di puntamento computerizzato riuscisse a colpire una nave
in manovra casuale con un colpo mirato partito da un’altra nave in
manovra casuale.
«Rispondiamo al fuoco?» gridò Amos sulla linea interna.
«No!» urlò di rimando Holden. «Se ci avessero voluti morti, ci
avrebbero sparato dei missili. Non diamogli ragioni di volerci morti.»
«Cap, le stiamo arrivando alle spalle» disse Alex. «La Roci è
troppo più veloce. Avremo una soluzione di fuoco tra meno di un
minuto.»
«Ricevuto» replicò Holden.
«Ne approfitto per fare fuoco?» chiese Alex, con il suo stupido
accento marziano che svaniva man mano che cresceva la tensione.
«No.»
«Hanno appena spento il loro laser di puntamento» annunciò
Naomi.
«Il che significa che hanno abbandonato l’idea di superare il nostro
schermo di interferenze» replicò Holden «e sono passati al
puntamento radar.»
«Molto meno preciso» disse speranzosa Naomi.
«Una corvetta come quella ha una dozzina di missili. Basta che ci
colpiscano con uno solo di quelli, per farci secchi. E a questa
distanza...»
Lo schermo di minaccia della sua console emise un trillo delicato,
mettendolo al corrente che la Roci aveva appena calcolato una
soluzione di fuoco per colpire la Ravi.
«Ho un varco!» gridò Alex. «Faccio fuoco?»
«No!» rispose Holden. Sapeva che, all’interno della Ravi, stavano
ricevendo l’allarme dai sensori che gli comunicava di essere nel
mirino del nemico. Fermatevi, li esortò Holden con la pura forza di
volontà. Per favore, non costringetemi a uccidervi.
«Uh» disse Alex a voce bassa. «Oh.»
Alle spalle di Holden, quasi nello stesso istante, Naomi disse:
«Jim?»
Prima che Holden potesse chiedere qualcosa, Alex irruppe sulla
linea.
«Ehi, capitano. Eros è appena tornata visibile.»
«Cosa?» domandò Holden; nella mente gli si formò un’immagine
lampo dell’asteroide che coglieva di sorpresa le due navi in battaglia,
come un cattivo dei cartoni animati.
«Già» disse Alex. «Eros. È appena rispuntata sul radar. Qualunque
cosa stesse facendo per bloccare i nostri sensori, ha smesso.»
«E che cosa sta facendo?» chiese Holden. «Identificatemi una
rotta.»
Naomi aprì i dati dei sensori sulla sua console e cominciò a
lavorarci su, ma Alex fece prima di lei.
«Sì» disse. «Hai visto giusto. Sta cambiando rotta. Continua a
dirigersi verso il sole, ma ha deflesso la sua corsa da quella
precedente, evitando la Terra.»
«Se mantiene questa traiettoria a velocità costante,» intervenne
Naomi «direi che si sta dirigendo verso Venere.»
«Wow» esclamò Holden. «Stavo solo scherzando.»
«Bello scherzo» commentò Naomi.
«Bene. Qualcuno dica a McBride che non ha più bisogno di
spararci addosso, ora.»
«Ehi» disse Alex, con voce pensierosa. «Se abbiamo disattivato i
ricettori di quelle testate, significa che non possiamo disinnescarle,
giusto? Mi chiedo dov’è che le butterà Fred.»
«Che diavolo ne so» replicò Amos. «Però ha appena disarmato
completamente la Terra. Dev’essere fottutamente imbarazzante per
loro.»
«Conseguenze involontarie» sospirò Naomi. «Siamo sempre lì.
Conseguenze involontarie.»
Eros che si schiantava su Venere fu l’evento più ampiamente
trasmesso e registrato della storia. Quando l’asteroide aveva
raggiunto il secondo pianeta del sistema solare, diverse centinaia di
navi si erano radunate in quell’orbita. I vettori militari avevano
cercato di allontanare i civili, ma era tutto inutile. Erano troppi. Il
video della discesa di Eros fu catturato dalle telecamere sui mirini
dei militari, dai telescopi delle navi civili e dagli osservatori di due
pianeti e cinque lune.
Holden avrebbe voluto essere lì per osservare da vicino, ma Eros
aveva accelerato dopo aver cambiato rotta, quasi come se
l’asteroide fosse stato impaziente di far finire quel viaggio una volta
adocchiata una destinazione certa. Lui e il suo equipaggio sedettero
nella cambusa della Rocinante e osservarono la scena nei notiziari.
Amos aveva rinvenuto un’altra bottiglia di surrogato di tequila da
chissà dove e ne versò dosi generose nelle loro tazze da caffè. Alex
aveva impostato una velocità di crociera a un terzo di g, verso
Tycho. Non c’era nessun bisogno di affrettarsi.
Era tutto finito. Non restava altro che godersi i fuochi d’artificio.
Holden allungò una mano e prese quella di Naomi, stringendola
mentre l’asteroide faceva il suo ingresso nell’orbita di Venere e
sembrava fermarsi. Ebbe l’impressione di poter sentire l’intera razza
umana che tratteneva il respiro. Nessuno sapeva che cosa avrebbe
fatto Eros – anzi, Julie – ora. Nessuno aveva più parlato con Miller
dopo l’ultima volta che l’aveva fatto Holden; Miller non aveva più
risposto al suo terminale palmare. Nessuno sapeva esattamente che
cosa fosse successo sull’asteroide.
Quando giunse la fine, fu bellissima.
Entrando nell’orbita di Venere, Eros si dissolse come un puzzle.
L’asteroide gigante si divise in una dozzina di grossi tronconi,
allungandosi attorno all’equatore del pianeta in una lunga collana.
Poi quella dozzina di pezzi si divisero a loro volta in un’altra dozzina,
e poi via via continuando, una nuvola di semi frattali che si spargeva
sull’intera superficie del pianeta, svanendo nella spessa coltre di
nubi che solitamente nascondeva Venere alla vista.
«Wow» disse Amos, con tono quasi reverente.
«È stato magnifico» commentò Naomi. «Vagamente inquietante,
ma magnifico.»
«Non rimarranno lì per sempre» disse Holden.
Alex si scolò l’ultimo goccio di tequila nella sua tazza, poi se ne
versò ancora dalla bottiglia.
«Che vuoi dire, cap?» chiese.
«Be’, tiro a indovinare. Ma dubito che le entità che hanno costruito
quella protomolecola volessero semplicemente buttarla laggiù. C’era
un piano più grande all’opera. Abbiamo salvato la Terra, Marte e la
Fascia. La domanda da farsi ora è: che cosa succede, adesso?»
Naomi e Alex si scambiarono un’occhiata. Amos serrò le labbra.
Sullo schermo, Venere scintillò mentre grandi archi lampeggianti
danzavano su tutto il pianeta.
«Cap» disse Amos. «Così mi fai passare lo sballo, sai?»
Epilogo

Fred

Frederick Lucius Johnson. Ex colonnello delle forze armate della


Terra. Il Macellaio della Stazione di Anderson. E ora anche della
Stazione di Thoth. Primo ministro non eletto dell’APE. Aveva
affrontato la morte una dozzina di volte, aveva perso amici per colpa
della violenza, della politica e del tradimento. Era sopravvissuto a
quattro tentativi di assassinio, dei quali soltanto due risultavano a
verbale. Aveva ucciso un assalitore armato di pistola con un
semplice coltello da tavola. Aveva impartito ordini che avevano posto
fine a centinaia di vite, e se n’era sempre assunto la responsabilità.
Eppure, parlare in pubblico lo innervosiva terribilmente. Non aveva
senso, ma così era.
Signore e signori, ci troviamo a un bivio...
«Al ricevimento sarà presente la generalessa Sebastian» gli disse
la sua segretaria personale. «Si ricordi di non chiederle del marito.»
«Perché? Non l’avrò mica ucciso, eh?»
«No, signore. Il fatto è che le sue scappatelle sono
eccessivamente pubbliche, e la generalessa è un pochino
suscettibile sull’argomento.»
«Quindi potrebbe volere che lo uccida per davvero.»
«Può sempre proporglielo, signore.»
Il camerino dietro le quinte era sui toni del rosso e dell’ocra, con un
divano di pelle nera, una parete a specchio e un tavolo su cui erano
state apparecchiate fragole idroponiche e bottigliette d’acqua
attentamente mineralizzata. Il capo della sicurezza di Ceres, una
donna dal viso severo di nome Shaddid, l’aveva scortato dai moli
fino alla sala conferenze, tre ore prima. Da allora, Fred si era messo
a camminare nervosamente – tre passi avanti, un giro, tre passi
indietro – come il capitano di un’antica nave di lungo corso sul
cassero di poppa.
Altrove, nella stazione, i rappresentanti delle fazioni
precedentemente in guerra erano stati fatti accomodare in stanze
separate, con segretari appositi. La maggior parte di loro odiava
Fred, il che non era un gran problema. La maggior parte di loro lo
temeva. Non per via del suo ruolo all’interno dell’APE, naturalmente,
ma per via della protomolecola.
La frattura politica tra la Terra e Marte era probabilmente
insanabile; le forze terrestri in combutta con la Protogen avevano
orchestrato un tradimento troppo grave per poter essere scusate, e
troppe vite erano state perse da entrambe le parti perché la pace in
arrivo potesse essere qualcosa di simile a quella che era stata
prima. I più ingenui in seno all’APE pensavano che sarebbe stato un
bene: un’opportunità di mettere un pianeta contro l’altro. Fred
sapeva che non era così. Fintantoché tutte e tre le potenze – la
Terra, Marte e la Fascia – non avessero raggiunto una pace
autentica, sarebbero inevitabilmente ricadute in una vera guerra.
Se solo la Terra o Marte pensassero alla Fascia come a qualcosa
di più che a un fastidio da schiacciare una volta umiliato il loro vero
nemico... Ma, in verità, il sentimento antimarziano sulla Terra era
ancora più forte adesso che durante la guerra aperta, e mancavano
soltanto quattro mesi alle elezioni su Marte. Un cambio radicale nel
sistema di governo marziano avrebbe potuto allentare le tensioni o,
al contrario, peggiorare incommensurabilmente la situazione.
Entrambe le fazioni avrebbero dovuto allargare le loro visioni verso il
quadro generale.
Fred si fermò di fronte a uno specchio, si sistemò la tunica per la
centesima volta e fece una smorfia.
«Da quand’è che sono diventato una specie di stramaledetto
consulente matrimoniale?» chiese.
«Non stiamo parlando ancora della generalessa Sebastian, dico
bene, signore?»
«No. Non faccia caso a quel che ho detto. Che cos’altro devo
sapere?»
«C’è la possibilità che Blue Mars tenti di rovinarle l’intervento.
Qualche agitatore e cartelli, niente armi. Il capitano Shaddid ha già in
custodia cautelare alcuni dei loro esponenti, ma altri potrebbero
essere riusciti a infiltrarsi lo stesso.»
«Va bene.»
«Ha delle interviste organizzate con due emittenti politiche locali e
un’agenzia giornalistica con base su Europa. È probabile che il
giornalista di Europa le chieda di Anderson.»
«Va bene. Notizie da Venere?»
«Sta succedendo qualcosa, laggiù» rispose la sua segretaria.
«Non è morto, allora.»
«A quanto pare no, signore.»
«Fantastico» disse lui, amareggiato.
Signore e signori, ci troviamo a un bivio. Da una parte, abbiamo la
minaccia concreta della distruzione reciproca, e dall’altra...
Dall’altra, lo spauracchio di Venere, pronto a balzare fuori dal suo
pozzo di gravità e a massacrarvi tutti nel sonno. L’unico campione
esistente è in mio possesso; si tratta della migliore speranza che
abbiate, se non l’unica, di capire quali siano le sue reali intenzioni e
capacità. Il campione è stato nascosto, per evitare che possiate
semplicemente invaderci e prenderlo con la forza. Ed è questo
l’unico motivo per cui ora vi trovate qui riuniti ad ascoltare le mie
parole. Quindi, che ne dite di mostrare un po’ di rispetto?
Il terminale della sua segretaria trillò, e lei lo consultò brevemente.
«È il capitano Holden, signore.»
«Devo proprio?»
«Sarebbe meglio se si sentisse parte dell’impresa, signore. Ha
molti precedenti di comunicati stampa amatoriali.»
«E va bene. Fatelo entrare.»
Le settimane trascorse da quando la Stazione di Eros si era
dissolta nei densi cieli di Venere erano state tranquille per Holden,
ma accelerazioni a g prolungate come quella che la Rocinante aveva
effettuato per inseguire Eros continuavano a mostrare i loro effetti
sul lungo periodo. I capillari che gli erano esplosi negli occhi erano
guariti; i lividi dovuti alla pressione elevata erano spariti dal suo viso
e dal collo. Soltanto una leggera esitazione nel portamento lasciava
intuire gli intensi dolori alle articolazioni, mentre le cartilagini ancora
dovevano tornare alla loro forma naturale. Postura da accelerazione,
la chiamavano nei tempi andati, quando Fred era stato un’altra
persona.
«Ehi» disse Holden. «Stai bene, vestito così. Hai visto le ultime
notizie da Venere? Torri di cristallo alte due chilometri. Che cosa
pensi che siano?»
«Colpa tua?» suggerì Fred, con tono gioviale. «Avresti potuto dire
a Miller di dirigere Eros verso il sole.»
«Già, perché delle torri di cristallo alte due chilometri sulla
superficie del sole non sarebbero per niente preoccupanti» replicò
Holden. «Sono fragole, quelle?»
«Serviti pure» lo imitò Fred. Non era riuscito a mangiare niente fin
dal mattino.
«Allora» disse Holden con la bocca piena di frutta. «Pensi davvero
che mi faranno causa per tutta questa faccenda?»
«Per aver dato via unilateralmente tutti i diritti minerari e di sviluppo
di un intero pianeta su un canale radio aperto?»
«Già» rispose Holden.
«Immagino che gli effettivi proprietari di quei diritti ti faranno
probabilmente causa, sì» disse Fred. «Se mai riusciranno a capire
chi siano.»
«Non è che potresti darmi una mano?» chiese Holden.
«Sarò soltanto un testimone al tavolo» rispose Fred. «Non sarò io
a fare le leggi.»
«E allora che cos’è che ci fate tutti, qui? Non potrebbe esserci una
specie di amnistia? Abbiamo recuperato la protomolecola,
rintracciato Julie Mao su Eros, fatto fuori la Protogen e salvato la
Terra.»
«Voi avete salvato la Terra?»
«Abbiamo dato una mano» precisò Holden, ma la sua voce aveva
un tono più cupo. La morte di Miller affliggeva il capitano. Fred
sapeva come ci si sentiva. «È stato uno sforzo congiunto.»
La segretaria personale di Fred si schiarì la gola e lanciò
un’occhiata verso la porta. Dovevano cominciare ad avviarsi.
«Farò quel che posso» promise Fred. «Ho un sacco di altre cose
per le mani, ma farò quel che posso.»
«E Marte non può riprendersi la Roci» disse Holden. «Il diritto
navale sul salvataggio dice che ormai quella nave è mia.»
«Non credo che la vedranno così, ma farò quel che posso.»
«Continui a ripetere la stessa cosa.»
«Continua a essere tutto quello che posso fare.»
«E gli parlerai di lui, vero?» domandò Holden. «Miller. Merita
qualcosa.»
«Il cinturiano che è ritornato su Eros di sua spontanea volontà per
salvare la Terra? Puoi dirlo forte, che parlerò loro di lui.»
«Non ‘il cinturiano’. Lui. Josephus Aloisus Miller.»
Holden aveva smesso di mangiare fragole a ufo. Fred incrociò le
braccia.
«Vedo che ti sei informato» disse Fred.
«Già. Be’... non lo conoscevo così bene.»
«Come tutti gli altri, del resto» replicò Fred, addolcendosi un po’.
«So che è dura, ma non abbiamo bisogno di un uomo reale con una
vita complessa. Abbiamo bisogno di un simbolo per la Fascia. Di
un’icona.»
«Signore» intervenne la segretaria. «Dobbiamo davvero andare,
adesso.»
«È stato proprio questo a portarci qui» rispose Holden. «Icone.
Simboli. Persone senza nomi. Tutti quegli scienziati della Protogen
pensavano soltanto a biomasse e popolazioni. Non a Mary, che
lavorava agli approvvigionamenti e che coltivava fiori nel tempo
libero. Nessuno di loro ha ucciso lei.»
«Credi che non l’avrebbero fatto?»
«Credo che, se dovevano ucciderla, le dovevano perlomeno di
sapere il suo nome. Tutti i loro nomi. E tu devi a Miller di non lasciare
che lo trasformino in qualcosa che non è mai stato.»
Fred rise. Non riuscì a trattenersi.
«Capitano» disse. «Se mi stai suggerendo di modificare il mio
discorso alla conferenza di pace e di non dire che è stato un nobile
cinturiano a sacrificarsi per la Terra, ma di dire piuttosto una cosa del
tipo: ‘Abbiamo avuto la fortuna di avere un ex poliziotto con
tendenze suicide sul posto’, allora capisci come funzionano queste
cose meno di quanto pensassi. Il sacrificio di Miller è uno strumento,
e ho intenzione di usarlo.»
«Anche se lo rende anonimo?» chiese Holden. «Anche se lo
trasforma in qualcosa che non è mai stato?»
«Soprattutto se lo rende qualcosa che non è mai stato» disse Fred.
«Ti ricordi com’era?»
Holden si accigliò, poi qualcosa baluginò nel suo sguardo.
Divertimento. Un ricordo.
«Era un po’ un rompicoglioni, vero?» disse Holden.
«Quell’uomo era capace di avere un’apparizione divina con trenta
angeli svestiti al seguito, con Dio che annunciava che in fondo il
sesso era una cosa positiva, e farla sembrare vagamente
deprimente.»
«Era un brav’uomo» replicò Holden.
«No. Non lo era» ribatté Fred. «Ma sapeva fare il suo lavoro. E ora
devo andare a fare il mio.»
«Fagliela vedere» disse Holden. «E... amnistia. Mi raccomando,
parla di amnistia.»
Fred s’incamminò lungo il corridoio curvo, seguito dappresso dalla
sua segretaria. Quelle sale conferenze erano state disegnate per
occasioni più piccole. Faccende banali. Esperti di colture idroponiche
che sfuggivano a mogli e mariti e figli per ubriacarsi e parlare di
come coltivare germogli di fagioli. Minatori che si radunavano per
discutere di minimizzazione dei rifiuti e smaltimento degli scarti.
Gare tra bande musicali delle scuole. E invece, quei pavimenti
coperti di moquette industriale e quelle pareti di roccia levigata
avrebbero dovuto ospitare il fulcro della storia. Era colpa di Holden
se quell’ambiente logoro e insignificante ora gli ricordava il detective
morto. Prima non era successo.
Le delegazioni erano sedute su versanti opposti della sala. C’erano
i generali, i rappresentanti politici e i segretari generali della Terra e
di Marte, le due grandi potenze convenute per quell’invito su Ceres.
Nella Fascia. Un territorio reso neutrale perché nessuna delle due
parti lo prendeva sufficientemente in considerazione per
preoccuparsi delle sue rivendicazioni. La storia dell’umanità li aveva
portati fin lì, a quel momento, e ora, nei minuti successivi, il compito
di Fred sarebbe stato quello di cambiare quella traiettoria.
Il nervosismo era svanito. Sorridendo, Fred salì sulla pedana
dell’oratore, sul podio.
Sul pulpito.
Ci fu un applauso di cortesia. Qualche sorriso, qualche fronte
aggrottata. Fred sorrise. Non era più un uomo. Era un simbolo,
un’icona. Una narrazione di sé stesso e delle forze in gioco nel
sistema solare.
E, per un momento, fu tentato. In quella esitazione tra un respiro e
la parola che sarebbe seguita, una parte di lui si chiese che cosa
sarebbe successo se avesse sparpagliato i tasselli della storia e
avesse parlato di sé come uomo, del Joe Miller che aveva
conosciuto per un breve periodo, della responsabilità che tutti loro
condividevano di dover abbattere l’immagine che si erano costruiti gli
uni degli altri e di riconoscere le persone genuine, difettose,
conflittuali che erano in realtà.
Sarebbe stata una nobile maniera di fallire.
«Signore e signori» disse. «Ci troviamo a un bivio. Da una parte,
abbiamo la minaccia concreta della distruzione reciproca, e
dall’altra...»
Fece una pausa a effetto.
«Dall’altra, le stelle.»
Ringraziamenti

La nascita e la crescita di questo libro, come quella di un figlio, è dovuta a un


gran numero di persone. Vorrei esprimere la mia più profonda gratitudine per i
miei agenti, Shawna e Danny, e ai miei editori DongWon e Darren.
Fondamentale, inoltre, nel primo stadio di formazione di questo volume, è
stato l’apporto di Melinda, Emily, Terry, Ian, George, Steve, Walter e Victor, del
gruppo di scrittura New Mexico Critical Mass, e anche di Carrie, che ne ha
letto una bozza prematura. Un ringraziamento supplementare a Ian, che ha
dato una mano con un po’ di calcoli, e che non ha alcuna responsabilità per gli
errori che ho commesso nel recepirli. Devo moltissimo anche a Tom, Sake
Mike, Non-Sake Mike, Porter, Scott, Raja, Jeff, Mark, Dan e Joe. Grazie
ragazzi, per esservi prestati al beta testing. E, finalmente, un ringraziamento
speciale agli autori di Futurama e a Bender Bending Rodriguez per avermi
tenuto d’occhio il pargolo mentre ero impegnato a scrivere.

Potrebbero piacerti anche