IL BUDDHA
Benedict Kanakappally
2
ca. circa
D. Dìgha-nikàya (Collezione dei testi lunghi)
Dhp. Dhammapàda
M. Majjhima-nikàya (Collezione dei testi medi)
MLBD Motilal Banarsidass (casa editrice)
od. odierno
sans. sanscrito
Sn. Sutta-nipàta
Ud. Udàna
Vin.Cu. La sezione Cullavàga del Vinaya-pìaka
Vin.Mv. La sezione Mahàvàgga del Vinaya-pìaka
NOTE SULLA LINGUA E SULLA PRONUNCIA
è sibilante.
'scena', 'sciabola'.
Glossario
Ananda: cugino e l'attendente personale del Buddha. Uno dei suoi maggiori
discepoli, spesso menzionato negli scritti buddhisti.
Brahmino: un membro della casta sacerdotale indù, la classe più alta nella
scala sociale indiana.
Dèvadatta: parente del Buddha che era anche il suo più grande avversario.
Tentò di uccidere il Buddha e causò uno scisma nella comunità monacale.
Mahakàsyapa: uno dei primi e più grandi discepoli del Buddha. Venerato
come il primo patriarca dai seguaci dello Zen.
Ràhula: figlio di Siddhàrtha Buddha, nato poco prima della sua rinuncia al
9
Upàli: uno dei dieci grandi discepoli del Buddha. Figlio di un barbiere di
Kapilavasthu, egli era famoso per la sua conoscenza delle regole monacali.
INTRODUZIONE
capitolo 1).
Il teologo cattolico Romano Guardini in un famoso passo dove
paragonò il Buddha con Gesù, fece questa affermazione: "Una sola persona
ha tentato seriamente di porre mano all'essere stesso: il Buddha... Egli
ha tentato l'inaudito e cioè, rimanendo nell'esistenza, ha tentato di
scardinare l'esistenza in quanto tale."1 Infatti al di là di ogni
interpretazione settaria buddhista come anche quelle più generali, se c'è
un'impressione che deriva dai racconti della sua straordinaria storia, è
proprio quella di un uomo che, pur di trovare il senso della vita, si è
sforzato fino agli estremi limiti dell'umana possibilità; e indi ebbe una
convinzione, anzi una rara coscienza, di aver intravisto il vero volto
della realtà ─ oltre il mondo, oltre la morte.
1
Citato da H.Dumoulin, Buddhismo, Editrice Queriniana, Brescia 1981,
p.29.
Capitolo 1
2
V.S.Apte, The Student's Sankrit-English Dictionary, Motilal
Banarsidass Publishers, Delhi 1970.
15
3
Come diremo subito, il concetto del Buddha può essere messo in
relazione anche con la vera e ultima realtà. Ed è in tale contesto che si
capisce il senso autentico di questo suo titolo Tathàgata.
16
4
Anguttara Nikàya, II,37-39 in Buddhist Texts Through the Ages (ed. E.
Conze et al.), B. Cassirer Publishers, Oxford 1954, pp.104-105. E' molto
importante tenere presente che l'idea di dio o degli dèi che esiste nei
testi buddhisti non ha nulla a che fare con l'idea giudeo-cristiana di Dio.
Sono semplicemente esseri che vivono nel cielo, soggetti alla legge della
trasmigrazione e quindi non ancora illuminati o liberati. Infatti fino al
tempo del Buddha ed oltre, fino all'inizio dell'era cristiana, non esiste
nella tradizione indiana un concetto che equivale l'idea cristiana di Dio.
Esisteva invece in essa il concetto filosofico dell'ultima ed unica vera
realtà che veniva indicato come il Brahman dalle Upaniad e più
semplicemente come 'quello' (Tat) dai Vèda.
18
6
Cfr. M.Zago, Buddhismo, Rizzoli, Milano 1997, p.16.
7
Cfr. Majjhima-nikàya I,487-88. Qui viene detto che del Buddha non si
può dire che egli 'sorge' né 'non sorge'. Né si può dire che egli 'sorge e
non sorge', e neppure che egli 'non sorge né non sorge'. Benché questo modo
di esprimere suoni assai strana, notiamo che è la quadruplice negazione che
i testi buddhisti di solito usano per indicare la realtà assolutamente
trascendente.
19
mentale mandato dal vero Buddha trascendente, e non un uomo vero, per così
dire, in carne ed ossa.8
3. La figura storica
A parte al fatto in che modo avessero compreso i primi buddhisti la
figura di Gòtama attribuendogli appunto il titolo del Buddha, o che idee
avessero fatto di lui e della sua funzione in qualità del fondatore della
loro religione, esiste un'altro problema di carattere storico riguardo
alla figura di Gòtama. E cioè sapere chi fosse veramente questo
personaggio e sapere che cosa abbia veramente detto e fatto nella sua
vita. Il problema si presenta più precisamente in questo modo: quanto di
quello che è stato detto di lui e della sua vita è autentica storia? Noti
bene che la domanda non gira sull'esistenza storica dell'uomo Gòtama in
quanto tale ─ questa non viene più messa in discussione ─ ma sul carattere
storico o meno dei racconti che esistono sulla sua persona e sulla sua
vita. E questo è certo un problema assai complesso, un probema che si
collega in parte con la comprensione stessa del Buddha da parte dei primi
buddhisti, con il senso della storia, o meglio l'assenza di tale senso
nella tradizione indiana, con la scarsità dei dati biografici su Gòtama
nei testi antichi e della loro abbondanza in quelli tardivi e, in fine,
con la superficialità e un fasullo senso critico con cui alcuni studiosi
del passato hanno esaminato tutta la questione della storicità di questo
personaggio.
Come abbiamo indicato, fin dall'inizio i buddhisti hanno visto nel
loro fondatore un essere eccezionale, appartenente quasi ad un'altra sfera
della realtà e di esistenza. In questo contesto la domanda è più che
legittima: quanto interesse avevano veramente per questa sua esistenza
terrestre in cui egli sembrava di condividere le sorti degli altri
mortali? E' chiaro che anche se avevano un'interesse per questa sua
esistenza, ciò non poteva essere tale che potremmo definire 'biografico'.
Cioè, qualunque fosse loro interesse nella sua vita, esso non poteva
8
Vedi E.J.Thomas, The Life of Buddha as Legend and History, MLBD
Publishers, Delhi 1993, pp.215-216.
20
delle scritture sacre buddhiste in lingua pàli. E' un fatto che nei testi
più antichi in genere non si trovano altro che dei brevi riferimenti alla
sua vita, o ad ogni modo non vi sono biografie o tratti estesi della
biografia del Buddha come li abbiamo nei testi composti più tardi. Ora, in
base a questi testi soli non sarebbe possibile costruire una vita del
Buddha che non si riduca a delle informazioni troppo generali e minime.
Bisogna pure notare che anche qui esistono qualche volta versioni diverse
dei fatti, il che complica ulteriormente l'impresa della ricostruzione
della sua vita basandosi su questi testi. Inoltre, bisogna dire che anche
nei testi in lingua pàli, considerati i più antichi, si avvedono leggende
e narrativi di carattere apocrifo se questi vengono presi tutti insieme.
Ovviamente anche alcuni dei testi pàli sono piuttosto tardivi. E d'altra
parte i testi sanscriti, nei quali senz'altro esiste molto più materiale
leggendario e mitico che in quelli pàli, non sono tutti posteriori
rispetto a quelli pàli, o almeno non di molto.
In genere tra i testi che parlano della vita del Buddha si può fare
una distinzione in base a tre periodi della sua vita a cui si riferiscono.
Così ci sono i testi che si riferiscono (1) al periodo tra la sua nascita
e la rinuncia, (2) alla ricerca spirituale e Bòdhi e (3) al periodo che va
dalla prima predica fino alla sua morte. Evidentemente sono leggende che
formano la maggior parte dei racconti relativi alla prima fase della sua
vita, mentre di leggende ce ne sarebbero poche nei racconti che parlano
della sua vita a partire dall'inizio della sua predicazione. Quest'ultima
è anche la fase della sua vita in cui, ricordiamo, era sempre accompagnato
da un gruppo di monaci. E parlando ancora in un modo generale, si può dire
che in questi racconti sulla vita del Buddha si può scorgere sia
l'esistenza dei fatti semplicemente inventati, sia l'esistenza dei fatti
reali, che perdendo i loro contorni storici hanno assunto una forma
leggendaria e mitica e sia l'esistenza dei fatti storici come tali.
Il problema storico che riguarda la vita del Buddha, come abbiamo
detto, è assai complesso. Il vero problema è di poter districare il vero
personaggio storico dalle sue incrostazioni leggendarie e mitiche, e di
poter distillare i veri fatti della sua vita da un ammasso di fatti e
22
4. I testi
Nella tradizione buddhista esiste infatti una ricca letteratura
biografica ed agiografica sul Buddha. Tuttavia, come abbiamo detto, i
testi che si presentano in forma di biografie sono tardivi, e si avvedono
in essi una mescolanza molto particolare dei fatti, miti e leggende. Per
questa ragione, sono i testi più antichi che si considerano più affidabili
in ordine alla conoscenza della vita del Buddha.
Ora, indubbiamente è il cosiddetto 'Canone pàli' della scuola
buddhista chiamata Thèravàda che contiene i testi più vecchi del
buddhismo. E tuttavia non tutti i testi di questo canone sono ugualmente
23
9
Cfr. Avaghoa, Buddhacarita or Acts of the Buddha (trad. & intr. da
E.H.Johnston), Motilal Banarsidass, Delhi 1978, p.xxxv.
Capitolo 2
IL PRINCIPE SIDDHARTHA:
LE LEGGENDE E LA STORIA
Una volta le date del Buddha erano considerate certe. La sua morte
sarebbe avvenuta nell'anno 486 a.C., e dato che visse ottant'anni, la sua
nascita doveva essere nel 566 a.C. Questa computazione di date del Buddha
era basata su un fatto storicamente certa, quale l'intronizzazione
dell'imperatore Aoka, la data di cui può essere fissata al 268 a.C. Aoka
è il personaggio che ha nella storia del buddhismo una posizione, potremo
dire, paragonabile a quella dell'imperatore romano Costantino nella storia
del cristianesimo. Dopo la sua conversione al buddhismo, è stato Aoka a
guidare le sorti del buddhismo inviando missionari per la sua propagazione
sia all'estero che ai vari regioni del suo regno. Naturalmente le fonti
buddhiste fanno riferimenti a Aoka. E in uno di questi riferimenti si
dice che la sua accessione al trono era avvenuta 218 anni dopo la morte
del Buddha. Ovviamente, è in base a questa notizia che si arriva al 486
a.C. quale l'anno della morte del Buddha. Ma stranamente le stesse fonti
buddhiste danno anche un'altra data al riguardo dell'intronizzazione di
Aoka in rispetto alla morte del Buddha. Cioè, l'intronizzazione sarebbe
avvenuta solo a distanza di 100 anni dalla morte del Buddha. Se fosse
così, la morte del Buddha allora sarebbe avvenuta nel 368 a.C., e la sua
nascita nel 448 a.C.
Anche se tutte le due date hanno dei punti a loro favore, di recente
alcuni studiosi si sono espressi in favore della data più recente. Bechert
colloca la morte del Buddha tra 375-355, 10 e a più o meno la stessa data
arriva anche Erdosy usando apparentemente dei dati archeologici.11
10
H.Bechert, 'The Date of the Buddha Reconsidered' in Indologica
Taurinensia, 10 (1981), pp.29-36.
11
G.Erdosy, 'The Archaeology of Early Buddhism', in N.K. Wagle and F.
Watanabe (editori), Studies on Buddhism in Honour of Professor A.K. Warder,
26
University of Toronto Centre for South Asian Studies, Toronto 1993, pp.40-
56.
12
P.Harvey, Introduzione al Buddhismo: Insegnamenti, storia e pratiche,
Le Lettere, Firenze 1998, p.35.
27
1. Il concepimento e la nascita
I testi più antichi del Buddhismo che conosciamo, i primi quattro
Nikàya del canone pàli, è parca di informazioni personali sul Buddha. Che
si chiamava Siddhàrtha, che era di famiglia nobile (di nome 'Gòtama'), che
era di Kapilavasthu e che i genitori erano uddhòdana e Màya sono presso
che tutto ciò che può essere appreso dai primi Nikàya. Infatti vediamo
13
R.R.Diwakar, Bhagawan Buddha, Bharatiya Vidya Bhavan, Bombay 1991,
p.25.
28
la sua vita viene vista in analogia con quelle di altri Buddha dei tempi
mitici. Per questi testi il Buddha Siddhàrtha è solo un caso tra molti
altri; egli non è né il primo Buddha né sarà l'ultimo. L'eventuale
apparizione di Siddhàrtha il Buddha nel nostro mondo è preceduta da una
serie di esistenze sue in vari altri mondi, e in fine dalla sua esistenza
nel mondo celeste degli esseri felici, il mondo Tuita. Questa visione del
Buddha presente in questi testi si collega direttamente con l'idea
buddista delle rinascite e con il concetto del 'Bòdhisattva' (pali:
Bodhisatta). Anche il Buddha è un essere che diventa tale alla fine di un
processo di perfezionamento spirituale intrapreso durante un incalcolabile
numero di rinascite in diversi stati e stadi dell'esistenza. La sua
nascita finalmente nel mondo Tuita è ciò che inaugura l'ultima tappa
della sua esistenza che lo porterà al Bòdhi, l'illuminazione. Nel mondo di
Tuita egli esiste già in qualità di un Bòdhisattva, cioè un "Buddha-che-
sarà" o uno di cui sattva (natura, sostanza, disposizione) è rivolto al
Bòdhi. Un Bòdhisattva è un Buddha in potenzialità; egli deve solo
scegliere il quando e il dove del suo ingresso nel nostro mondo per
l'eventuale realizzazione piena di questa sua potenzialità.
I nostri testi parlano dell'indagine che il Bòdhisattva compie
rimanendo nel mondo Tuita riguardo a il tempo, il paese, la casta, la
famiglia e i genitori per la sua venuta nel mondo. Sceglie il presente
evo, sceglie il Jambu-dvipa (cioè l'India) e sceglie la casta katriya
(perché esiste una regola che un Bòdhisattva deve nascere in una delle due
caste superiori). Il suo apparire nel mondo è un evento straordinario ─
viene concepito e partorito miracolosamente. Riportiamo il racconto che ne
fa il grande poeta buddhista Avaghoa nel suo Buddhacarita che riproduce
il meglio della tradizione buddhista presente in questi testi che parlano
della nascita del Buddha.
"C'era una volta un re degli invincibili akya, rampollo della razza
solare, il cui nome era uddhòdana. Era puro nella condotta, e amato dagli
àkya come la luna autunnale. Aveva una moglie splendida, bella e fedele,
che veniva chiamata la Grande Màya, per la sua somiglianza con Màya, la
Dea. Questi due conoscevano le gioie dell'amore, ed un giorno ella concepì
30
15
Avaghoa, Buddhacarita, I,1-15. Il presente testo in italiano è
preso da E.Conze, Scritture buddhiste, Ubaldini editore, Roma 1973, pp.29-
30.
nacque, il mondo divenne oltremodo pacifico come se avesse ottenuto un
sovrano."16
In questi racconti, è degno di nota il fatto della sua nascita sotto
un albero. E' chiaro che questo fatto assunse un significato particolare,
quasi simbolico nella mente di questi primi biografi del Buddha. Esiste
infatti nei racconti della vita del Buddha un forte legame con gli oggetti
e ambienti vegetali ─ gli alberi, giardini, parchi, foreste. E' interes-
sante notare anche che altri due avvenimenti chiavi della sua vita come il
Bòdhi e il Parinivàna (morte) avverranno sotto gli alberi.
L'unico punto forse storicamente rilevante in tutti racconti della
nascita è che il futuro Buddha nacque in un luogo che si chiamava Lumbini,
a qualche chilometro di distanza da Kapilavasthu. Infatti il luogo è stato
identificato già nel 248 a.C. con l'erezione di una colonna da parte
dell'imperatore Aoka, che porta questa iscrizione: "Quando il re
Priyadari [il titolo di Aoka nelle iscrizioni], l'amico degli dèi, era
consacrato da vent'anni, venne qui in persona e rese omaggio, perché qui è
nato il Buddha, l'asceta dei akya. Egli ha fatto scolpire un cavallo in
pietra ed erigere una colonna in pietra; e per il fatto che il Signore è
nato qui, il villaggio di Lumbini è stato esentato dalle tasse, ed è
obbligato a pagare solo un'ottava parte [dei prodotti di terra]."17 Oggi,
accanto a questo sito si trova un antico tempio indù che contiene la
raffigurazione della nascita del Buddha dal fianco di Maya.
2. La profezia, la giovinezza
Il testo canonico Sutta-nipàta (679-95) contiene la versione più
antica di una leggenda ─ che sarà poi riportato anche da testi tardivi
non-canonici ─ della visita di un veggente chiamato Àsita al neonato.
Àsita dalla sua dimora in Himalaya vede un giorno i trentatré dèi (gli dèi
nominati nei Vèda) del cielo in un atto di giubilo senza precedenti.
Neanche quando gli dèi avevano riportato la vittoria contro gli asura (i
16
Buddhacarita, I,25-27.
17
L'iscrizione di Aoka a Rummindei. Vedi R.Basak (ed.), Aokan
Inscriptions, Progressive Publishers, Calcutta 1959, pp.149-50.
demoni) ci fu una gioia simile, si ricorda. Àsita dunque interroga gli dèi
sul motivo della loro incontenibile allegria. E gli dèi gli riferiscono il
motivo, che è la nascita del Bòdhisattva nel villaggio dei àkya nella
regione di Lumbini per il bene del mondo. Udito questo, Àsita viene alla
casa di uddhòdana e chiede di vedere il bambino. I àkya mostrano il
bambino. Àsita lo riceve, ed è sopraffatto dall'amarezza non meno dalla
gioia e versa lacrime. Mentre uddhòdana si allarma, Àsita profetizza
dicendo "Costui non ha superiore; egli è il Supremo fra gli uomini. Il
principe conseguirà la somma, totale Illuminazione (sambodhi); porrà in
moto la Ruota del Dhamma (predicherà la Dottrina)." E spiega il motivo del
suo pianto: "Non resta lungo tempo alla mia vita; nel mezzo della Sua vita
giungerà per me la fine: Io non ascolterò il Dhamma (la Dottrina) di
Quegli che non ha pari."18
I testi extra-canonici parlano di altre profezie e di altre
circostanze. uddhòdana, secondo il costume del tempo, avrebbe invitato i
dotti brahmini del suo regno a trarre l'oroscopo del bambino e predire il
futuro. Scorgono i tradizionali trentadue segni di eccellenza sul corpo
del bambino,19 e pronosticano un grande futuro per lui. O diventerà un
grande sovrano (Cakravarti, letteralmente 'colui che gira la ruota', cioè
colui che ha nelle mani il governo) che dominerà tutto il mondo o
diventerà un Buddha. Il primo caso si avvererà se decide di rimanere a
18
Sutta-nipàta, 690,693-4. Notiamo che molti studiosi hanno visto in
questo racconto una stretta somiglianza con il racconto evangelico di
Simeone (Lc., 2,25-32). Al di là della questione di dipendenza storica tra
questi racconti, che rimane irrisoluta e che in fondo non è neanche tanto
interessante, sono indicativi della visione teologica cristiana e buddhista
dei loro rispettivi fondatori, gli atteggiamenti di Simeone e Àsita. Mentre
Gesù è il salvatore aspettato e il figlio di Dio, la cui nascita stessa è
l'inaugurazione della salvezza e la sua vista, beatitudine ─ quindi Simeone
può dipartire in pace ─, Siddhàrtha è solo un uomo che si acquisterà la
salvezza per sé, la quale poi egli comunicherà agli altri nel suo annuncio
del dhamma. Àsita ha ragione per sentirsi deluso perché la sua vita è breve.
Diciamo che questa è almeno la visione buddhista del suo fondatore che
traspare dai testi canonici pàli più antichi come il brano citato sopra.
19
Questi segni corporali di grand'uomo sono descritti in vari scritti
della tradizione indiana. Possiamo trovarli anche in Dìgha-Nikàya
(XIV,i,32). Sono segni come piedi ben fatti, snello calcagno, lunghe dita,
morbide mani, pelle liscia, peli ricci, mascella forte, occhi neri, lunga
lingua e così via.
casa e il secondo, se se ne andrà via. I brahmini indicano anche la
circostanza che l'avrebbe indotta a rinunciare a casa e al trono ─ la
vista di quattro segni nella forma di un vecchio, un malato, un cadavere e
un monaco.
Un fatto che sembra storicamente attendibile in questi racconti
sugli eventi che si susseguono alla nascita del futuro Buddha è la morte
di Màya qualche giorno dopo la sua nascita. I testi dicono che ella morì
sette giorni dopo la sua nascita (M., III,122), e aggiungono che è un
destino che tocca in sorte alle madri di tutti i Buddha. Il bambino viene
affidato alle cure di Prajàpati detta la grande (Mahàprajàpati), la
sorelle minore di Màya, la quale poi diventa la seconda moglie di
uddhòdana. Mahàprajàpati lo alleva con cura e amore non minore di quello
che sarebbero stati della sua stessa madre.
Siddhàrtha passò la sua giovinezza a Kapilavasthu, nel palazzo di
suo padre. Ricevette l'educazione che competeva alla sua condizione di
principe, in speciale modo l'educazione nell'arte del governo e nelle arti
marziali. Suo padre uddhòdana, attratto come era dalla prima alternativa
indicata dalla profezia dei sacerdoti brahmini, si dice che contemplò vie
per assicurare la sua permanenza al palazzo. Si preoccupò prima di tutto
di impedire che il principe venisse in contatto con gli aspetti spiacevoli
dell'esistenza umana come la vecchiaia, malattia e morte, che sarebbero
stati, secondo la profezia, la causa immediata del suo abbandono della
casa. Cercò inoltre di distrarlo dai problemi reali della vita
circondandolo con ogni comodità e lusso, e con la moltiplicazione dei
piaceri mondani, immaginabili in una corte reale. La tradizione vuole che
di giorno e notte era circondato da giovani danzatrici e suonatrici.
Ci sono riferimenti casuali anche nel canone riguardo la vita di
mollezza del principe al palazzo. Anguttara Nikàya (I,145) riporta
l'attenzione e la cura di cui era circondato dai suoi servi e serve, e
parla di tre palazzi messi a sua disposizione dal suo padre per
trascorrere le varie stagioni dell'anno sicché potesse evitare perfino le
intemperie.
Al di là di questi racconti di una esistenza tutta presa da
35
3. La crisi, le uscite
Forse era parte della strategia di uddhòdana per legare Siddhàrtha
più saldamente alla vita famigliare, egli lo fece sposare mentre ancora
giovane. Si dice che aveva compiuto solo sedici anni quando sposò
Yaòdhara, una giovane e bella ragazza della sua parentela. La moglie di
Siddhàrtha è nominata diversamente in vari testi. In Mahàvama è chiamata
Bhaddakaccana mentre nel commentario di Jàtaka, Bimba e ancora nel Lalita-
vistàra, Gòpa. E' anche possibile, come hanno rilevato alcuni studiosi,
che si tratti di diverse persone e quindi che Siddhàrtha aveva più di una
moglie. In ogni caso la sua vita coniugale con Yaòdhara doveva essere
felice, tanto che ebbe da lei un figlio che fu chiamato Ràhula. Ràhula è
menzionato anche nei testi canonici, e si suppone che era nato quando
Siddhàrtha aveva ventotto anni.
Nel frattempo un'inquietudine spirituale, forse lungamente
soppressa, si faceva sentire nell'animo di Siddhàrtha. Si rendeva conto
della vanità della vita che conduceva, e sentiva, come molti altri del suo
tempo, il bisogno di dedicarsi ad una ricerca spirituale seria, nella
speranza di dare un senso alla sua esistenza. Neanche l'amore che nutriva
per sua moglie e il suo neonato bambino gli sembrava ragione sufficiente
per continuare in quella vita profondamente insoddisfacente che conduceva.
Anzi, la nascita di Ràhula era vista da lui come un evento in qualche modo
liberatorio, perché con ciò si sentiva di aver assolto almeno in parte i
36
20
La generale tradizione religiosa indiana prevede quattro stadi nella
vita dell'uomo. Questi quattro stadi, detti gli àrama, sono (1) lo
studentato, (2) la vita famigliare da uomo sposato, (3) il ritiro nella
foresta per riflessioni e studio e (4) la vita da un religioso mendicante
che ha del tutto rinunciato al mondo. Si può vedere che la vita di
Siddhàrtha fondamentalmente ricalca questo schema tradizionale. L'unico
elemento straordinario nella vicenda di Siddhàrta è il suo allontanamento da
casa subito dopo la nascita del suo figlio. La tradizione invece raccomanda
la partenza da casa dell'uomo di famiglia solo quanto i figli sono diventati
adulti. Potremo pensare che Siddhàrta si sentiva di non dover preoccupare
per Ràhula e per il suo futuro dato che era un principe e l'erede del rajah
uddhòdana.
37
21
H.Oldenberg, Budda, p.115.
38
accende in lui una speranza di poter trovare una soluzione alla tragedia
esistenziale. Questa volta si incontra con un monaco che ha lasciato la
casa, lo stato mondano, ed ha abbracciato la vita di semplicità, di
silenzio e di compassione per gli esseri. Lo colpiscono la serenità e la
gioia che traspaiono dalla faccia del monaco mendicante.
Nei racconti posteriori di questa leggenda si riscontrano dei
varianti. Uno molto interessante è la parte che gli dèi hanno in queste
vicende di Siddhàrtha. Secondo i commentari di Jàtaka, sono gli dèi che
finalmente decidono di scuotere Siddhàrtha dalla sua vita dedita ai
piacere. Così anche, secondo il Nidàna-katha, sono gli dèi stessi che
prendono la forma del vecchio, del malato ecc., o che fanno apparire i
quattro segni mentre Siddhàrtha esce dal palazzo.
Capitolo 3
imitare ma anche per suscitare la speranza nella buona riuscita della sua
impresa.
Impressionante è il carattere drastico della rinunzia compiuta da
Siddhàrtha ─ il modo in cui severa ogni legame affettiva, anche quella più
delicata, e la determinazione con cui si mette in cammino. Anche qui sono
primariamente i testi posteriori che si occupano del suo distacco dai i
suoi cari e della sua partenza dal palazzo.
1. La fuga
Il racconto della fuga assume toni di grande drammaticità nei testi
non-canonici. La sera della fuga Siddhàrtha come al solito è circondato
dalle suonatrici e danzatrici che cercano di distrarre la sua mente. Ormai
le sue orecchia sono diventate sorde alle loro musiche e le loro danze non
attirano più la sua attenzione. Si annoia presto e si addormenta. Ma a
mezzanotte si sveglia, e alla luce delle lampade rimaste ancora accese
vede uno scena nauseante: tutt'attorno a lui sdraiono iì¥Á40M
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l'ultima volta il figlioletto che dorme tra le braccia di sua moglie. Non
osa dargli una carezza come vorrebbe, per paura di svegliare Yaòdhara e
quindi mettere a repentaglio il suo disegno di partire. Scende e monta
Kanthaka che lo aspetta, e accompagnato da Canna cavalca fuori dal palazzo
nel cuore della notte. Dopo aver oltrepassato diversi territori e regioni,
all'alba si arriva ad una bellissima foresta. Qui il principe Siddhàrtha
si toglie le collane, si taglia i capelli con la sua spada, e cambia i
suoi ricchi vestiti con gli stracci. Quindi manda indietro Canna con i
suoi vestiti e ornamenti regali e il cavallo Kanthaka. E gli raccomanda di
dire a suo padre uddhòdana di non cercarlo. E dunque inizia la sua
peregrinazione in cerca della pace, della verità.
Diversi testi danno versioni differenti di questo racconto e
aggiungono vari dettagli. Il Lalita-vistàra nel capitolo xiii, intitolato
'Le esortazioni', parla appunto delle esortazioni che Bòdhisattva
Siddhàrtha riceve dai Buddha dei tempi passati prima di partire dal suo
palazzo. Secondo il testo è una regola generale che un Bòdhisattva nella
sua ultima esistenza deve essere così esortato. Dopo le esortazioni
Siddhàrtha si impegna in una lunga meditazione, e quindi lascia il suo
palazzo a mezzanotte. Gli dèi mandano un sonno profondo agli abitanti del
palazzo e della città, sicché nessuno s'accorga della partenza. Anche nei
Jàtaka spiccano gli episodi degli interventi divini. Gli dèi si rallegrano
per la partenza di Siddhàrtha. Per la volontà del dio che risiede alle
porte della città, esse si aprono automaticamente, le quali altrimenti
avrebbero richiesto lo sforzo di cinquecento uomini per essere aperte. Gli
dèi e i geni (yakà) smorzano il rumore della galoppata perché nessun si
svegli alla partenza del Bòdhisattva. Stranamente i Jàtaka fanno viaggiare
Canna aggrappato alla coda del cavallo Kanthaka! Kanthaka poi non farà il
45
ritorno perché muore col cuore infranto per la partenza del suo padrone.
Solo Canna ritornerà al palazzo a dare la triste notizia della decisione
di Siddhàrtha a darsi alla vita mendicante.
Sul punto della partenza di Siddhàrtha siano i Jàtaka che il
Lalita-vistàra fanno apparire Màra, il tentatore (il dio del desiderio e
della morte nella tradizione indiana). Màra consiglia a Siddàrtha di non
partire dicendo che tra poco sarebbe apparsa la 'ruota di gioiello'
dell'impero, e che avrebbe potuto regnare su quattro grandi isole e su
duecento piccole. Mentre Siddhàrtha rimane fermo nel suo proposito di
partire, Màra lo avverte che da quel momento avrebbe saputo ogni pensiero
di concupiscenza, di malizia e di empietà che si sarebbe passato per la
mente di Siddhàrtha. E quando Siddhàrtha parte, egli si attacca ai suoi
piedi e lo segue come ombra.
22
Cfr. C.Rizzi, Induismo. Upaniad del grande libro silvestre in Sette
e Religioni, ESD, Bologna 1998, pp.13-14.
46
23
Quasi tutti gli studiosi oggi collocano l'origine del buddhismo nella
generale corrente upaniadica. Esisterebbero pure delle somiglianze, sia nel
contenuto che nella forma, tra le parti più antiche delle scritture
buddhiste e le upaniad antiche. Cfr. E.J.Thomas, The Life of Buddha, p.236.
24
Cfr. Upaniad (trad. & intro. P.Olivelle), Oxford Uni. Press, Oxford
1996, pp.xxxviii-xxxix.
47
25
Il jainismo è una religione sorta in India poco prima del buddhismo.
Ancora oggi ci sono circa tre milioni e mezzo di persone in India che
aderiscono a questa religione (cfr. P.N.Chopra, Religions and Communities of
India, Vision Books, New Delhi 1998, p.171). Nonostante il fatto che tra i
buddisti e i jainisti ci è sempre stata una grande rivalità, le credenze e
le pratiche di queste religioni, per lo meno alle loro origini, erano molto
simili.
26
Brihadàranyaka Upaniad, I,3,27.
48
27
Brihadàranyaka Upaniad, V,2,1-3.
28
Taittiriya Upaniad, III,1.
50
橢 橢 㷢 㷢 505050505050505050Аఫ 垀 50 垀 50 碉 㱲 50F50505050505050
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0ᘚ505050ᘚ50Ä5050505050∰505050 杢 505050 杢 505050 杢 50ŀ50 梢 50Ĭ50 槎 50
Ą50∰50505050ƈ50櫞5050櫢505050櫢505050櫢505050殰505050瑌505050瑌505050瑌50
5050�5050�505050�505050�50/50�50ψ50�50ψ5050$5050Ƞ5050R5050ᇥ 505050
505050505050ᘚ505050瑌5050505050505050505050狾505050狾50Ŏ50瑌505050瑌505050
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51
橢 橢 㷢 㷢 515151515151515151Аఫ 垀 51 垀 51 碉 㱲 51F51515151515151
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5151anto nell'ottenere dei benefici mondani, ma nel liberarsi dai lacci
dell'ignoranza mediante l'acquisto della conoscenza vera, la conoscenza
appunto della propria identità con la realtà universale, cosmica. Questa
conoscenza è infatti la salvezza, e si acquista mediante la riflessione
interiore, la meditazione. "Quello [Brahman] risplende, grande, divino,
inconcepibile nella sua forma, più sottile del sottile; lontanissimo,
distante. Esso è pur qui vicino sulla terra, nascosto nell'intimo del
cuore per coloro che (rettamente) vedono. Non è possibile raggiungerlo con
l'occhio, né con le parole, né con gli altri organi dei sensi, o con
l'ascesi o con l'azione sacrificale. Chi ha l'animo puro per la luce della
conoscenza lo vede nella sua interezza quando medita".29
Tra le varie scuole che erano sorte nel periodo upaniadico, oltre
al buddhismo, conosciamo bene il jainismo e il Carvàka, la scuola
materialista che negava tutti i principi etici e metafisici. Il
Sàmannaphala sutta in Dìgha-nikàya parla di molte altre scuole spirituali
e ascetiche. Sono menzionati maestri e fondatori di scuole come Puràna
Kàssapa, Makkhàli Gosàla, Ajita Kèsakambala, Pakudha Kaccàyana, Sajaya
Bèlatthiputta ecc. con le loro rispettive dottrine. Nel Majjhima si parla
in tono spregiativo di un certo Gòsala e della sua setta che si chiamava
Ajìvika (cfr. M., I,483).
29
Mundaka Upaniad, III,1,7-8.
52
Bòdhi. Durante tutto questo tempo si deve pensare che egli si è applicato
strenuamente alla ricerca spirituale, che per nulla doveva essere facile.
E' da sospettare comunque che quando si mise in cammino egli non aveva
nessun programma fisso nella sua mente di ciò che doveva fare. Gli era
chiara solo la meta, non la via. Pensiamo che era aperto ad ogni influsso
e ad ogni suggerimento. E infatti, sarà dopo aver provato vari metodi, e
fatto e fallito vari tentativi e perfino rischiato il fallimento totale,
che Siddhàrta raggiungerà la meta.
Non sappiamo con grande precisione che cosa abbia o non abbia fatto
Siddhàrtha durante tutto questo periodo. Tra i testi canonici solo il
Majjhima-nikàya ci da degli indizi al riguardo. I testi della tradizione
come sempre contengono narrazioni riguardanti anche questa fase della vita
di Siddhàrtha, ma sono spesso discordanti.
Come abbiamo detto, in India in quell'epoca esistevano diversi
gruppi e scuole spirituali rivolti al conseguimento dell'illuminazione
vista come la liberazione da ogni male e la risposta ad ogni quesito. E'
normale che Siddhàrtha abbia pensato a rivolgersi a qualche maestro
spirituale del tempo che gli potesse aiutare nel raggiungere l'illumina-
zione. Naturalmente si sarebbe recato alla città di Vaiàli che in quel
periodo aveva la reputazione di ospitare molte scuole spirituali e insigni
maestri. Si dice che vi erano presenti ben sessantadue scuole di ricerche
spirituali con i loro rispettivi metodi e pratiche. Tra i più famosi,
oltre a Nirgrantha Nathaputra (il fondatore della religione jainista)
menzionato nei Jàtaka, c'erano un certo Àrada Kalàma (pali: Alar Kalam) e
un certo Udraka Ràmaputra (Uddaka Ramaputta), conosciuti anche dalle fonti
non-buddhiste.
E' alquanto storicamente attendibile il racconto presente nel
Majjhima-nikàya (I,240ss) riguardo all'incontro di Siddhàrtha con
quest'ultimi maestri. In Mahasaccaka Sutta il suo incontro con Àrada viene
presentato con queste parole: "Dopo il mio abbandono del mondo, mi sforzai
nel bene, e aspirando allo stato supremo della pace mi recai da Àrada
Kalàma; avendolo avvicinato gli dissi ─ Desidero, o amico Kalàma,
praticare la vita religiosa in questa [tua] dottrina e disciplina ─. A ciò
53
4. L'ascetica sbagliata
Uruvèla (sans. Uruvilva) sulla riva del fiume Nèranjara (od. Phàlgu)
è menzionato spesso come il luogo dove Siddhàrtha si impegnò nella lotta
spirituale. Lasciato Vaiàli e suoi maestri, viagga verso sud, e arrivato
al regno di Magadha, si stabilisce nel suddetto luogo che doveva trovarsi
a qualche distanza a sud di odierna Patna. Vive all'aperto, mendicando il
cibo nel villaggio di Uruvela. Si uniscono con lui altri cinque giovani
asceti.30 La tradizione conserva pure i loro nomi: Ajnàta Kaudinya (pàli:
Annata Kondànna), Bhadrika (Bhaddiya), Vàpa (Vàppa), Avajit (Assaji) e
Mahanàma. Diciamo già, questi saranno anche gli uditori della prima
predica che Siddhàrtha farà dopo la sua illuminazione in qualità del
Buddha.
Ad Uruvèla Siddhàrtha decide di adottare un altro sistema di ricerca
per raggiungere il suo scopo. Questo consisteva nella pratica
semplicemente delle austerità oppure nella pratica delle austerità unite
alle meditazioni. Nell'India di allora, come del resto anche di oggi,
c'erano molti che si sottoponevano a diverse forme di mortificazioni
corporali con l'intento di irrobustire lo spirito, e così arrivare alla
liberazione. C'erano coloro che trascorrevano giorni e notti nei campi di
cremazione per vincere la paura e il senso di ribrezzo (gli aghòra);
c'erano coloro che giravano nudi31 esponendo il loro corpo al sole e alle
30
Secondo Lalita-vistàra questi erano allievi di Udraka che vedendo
partire Siddhàrtha gli vanno dietro pensando che egli sarebbe diventato a
sua volta un maestro ancora più grande di Udraka.
31
Noti come 'gymno-sofisti' (filosofi nudi) anche dai racconti di
quelli che hanno accompagnato Alessandro magno nella sua spedizione indiana.
55
piogge e al caldo e al freddo; c'erano ancora altri che erano presi dalla
mania di mutilazione volontaria e di torturare il corpo in maniere diverse
(vedi D., VIII,14). Stranamente anche Siddhàrtha si diede per un tempo
alle più severe macerazioni fisiche sperando che da un momento all'altro
l'illuminazione si sarebbe scesa su di lui.
Con l'aiuto di un brano della scrittura dei jainisti, Oldenberg fa
un ritratto di Siddhàrta in quell'atteggiamento di mortificazioni: "Di
giorno, immobile come una colonna, col viso rivolto verso il sole, si
lasciava ardere in un luogo esposto all’ardore del sole; di notte,
rannicchiandosi, fissa...; grazie a questa penitenza segnalata, grande,
assidua, eminente, eccellente, salutare, abbondante, che promette la
felicità, ammirabile, sublime, alta, altissima, segnalata, potente, egli
sembra molto indebolito...; riccamente rivestito di penitenza, ma esaurito
di carne e di sangue, simile a un fuoco ricoperto da un mucchio di cenere,
risplendente di penitenza e di luce nel fulgore della luce della
penitenza, egli è là ritto."32
Sembrano che le penitenze preferite di Siddhàrtha e i suoi compagni
erano il trattenimento prolungato del respiro (la pratica di pràa-yama
prescritta dallo yoga?) e il digiuno. Controllando il respiro, si dice
che, era spesso colto dallo svenimento. Il digiuno non era meno dannoso.
Il poeta Avaghoa fa la portavoce della tradizione buddhista sugli
eccessi del digiuno compiuto da Siddhàrtha. Racconta il Buddhacarita: In
quel tempo "egli si imbarcò in ulteriori austerità, e soprattutto nel
digiuno come il mezzo che sembrava il più acconcio per porre fine a
nascita e morte. Nel suo desiderio di quiete egli consumò il suo corpo per
sei anni, e portò a compimento un numero di rigorosi metodi di digiuno,
assai ardui per gli uomini da sopportare. All'ora del pasto si contentava
di un solo frutto di giuggiola, di un solo seme di sesamo, e di un solo
chicco di riso ─ così deciso egli era a conquistare la sponda opposta,
illimitata del Samsara [il mondo fenomenico]. La massa del suo corpo si
era assai ridotta a causa di quella tortura, ma in compenso il suo potere
psichico aumentava di conseguenza sempre di più. Il suo grasso, carne, e
32
H.Oldenberg, Budda, p.190.
56
33
Buddhacarita, XII,94-99 in E.Conze, Scritture Buddhiste, pp.38-39.
57
橢 橢 㷢 㷢 585858585858585858Аఫ 垀 58 垀 58 碉 㱲 58F58585858585858
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59
橢 橢 㷢 㷢 595959595959595959Аఫ 垀 59 垀 59 碉 㱲 59F59595959595959
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5959alla vita dei piaceri.
"Che c'è Soa?" domanda il Buddha, "Prima di lasciare la tua casa, eri tu
abile nel toccare il liuto?"
Soa: "Si, Signore."
"Che ne pensi dunque, Soa? Se sul tuo liuto le corde sono troppo tese, è
così che il liuto dà il tono giusto ed è pronto per essere suonato?"
"Niente affatto, Signore."
"E che ne pensi ancora, Soa? Se sul tuo liuto le corde sono troppo
allentate, è così che il liuto dà il tono giusto ed è pronto per essere
suonato?"
"Niente affatto, Signore."
"Come mai, Soa? Se sul tuo liuto le corde non sono né troppo tese, né
troppo allentate, se tengono la giusta misura, è così che il liuto dà il
tono giusto ed è pronto per essere suonato?"
"Si, Signore."
"Ebbene, Soa, così pure le forze dell’animo, troppo tese, cadono
nell’eccesso, troppo allentate cadono nella mollezza. Così dunque, o Soa,
realizza in te l’equilibrio delle tue forze, e tendi senza posa
all’equilibrio delle tue facoltà spirituali, e ciò proponiti come scopo."34
Riconosciuta l'inutilità delle austerità smoderate, e scoperta la
via di mezzo, Siddhàrtha si rade i capelli e la barba, fa il bagno nel
fiume Nèrajara, cambia i vestiti e prende un abbondante pasto. Secondo i
Jàtaka questo pasto era fatto di un piatto di riso al latte offertogli da
una ragazza chiamata Sujàta.35 E' la pietra di scandalo per i cinque asceti
34
Vin.Mv., V,1,15-16.
35
A questo pasto si riferisce anche un testo canonico, Mahà Parinibbàna
Suttanta (iv,42) benché qui la persona dalla quale riceve il dono del cibo
60
che sono i suoi compagni. Si convincono che non c'è più nulla da
aspettarsi da Siddhàrtha, e lo lasciano. E così Siddhàrtha rimane solo.
non è nominata.
36
Questo gesto apparentemente strano è infatti in chiaro riferimento
alla pratica del sacrificio vedico. L'uso di cospargere lo spazio
sacrificale (vedi) con l'erba faceva parte della preparazione al sacrificio
(vedi "Grasses" in B.Walker, Hindu World: An Encyclopaedic Survey of
Hinduism, vol.I, Indus, New Delhi 1995, pp.405-06). Evidentemente, in questo
modo, almeno una parte della tradizione tardiva buddhista ha voluto mettere
l'avvenimento sotto l'albero di bòdhi in qualche relazione con l'antico
sacrificio vedico, o in ogni caso vedere in esso un atto sacrificale.
61
che arrivi allo scopo finale della sua vita, il Risveglio, ─ Màra, il
maligno.
Stando ad una logica presente nei racconti buddhisti, a questo punto
non poteva certo mancare un intervento da parte di Màra. Vediamo che Màra
appare ogni qual volta Siddhàrtha si appresta a fare qualche cosa di
estramente significativo; egli appare in tutti i momenti decisivi della
vita di Siddhàrtha. Màra l'aveva seguito durante tutti questi anni della
sua affannosa ricerca spiando ogni sua mossa e prendendo nota di ogni sua
lotta; ed ora egli si fa avanti deciso ad impedirgli dall'arrivare al
Bòdhi. Secondo le leggende Màra prevede la rovina del suo regno qualora
Siddhàrtha riuscisse a conquistare il Bòdhi. Dunque, secondo i testi,
assistito dal suo esercito, Màra si scatena contro di lui con il fuoco e
le tenebre e con piogge di sabbia rovente.
Benché sembra riferire al periodo delle sue pratiche d'austerità,
esiste un brano canonico che parla delle tentazioni di Siddhàrtha. Esso si
trova in Sutta-nipàta (425-49). Mentre Siddhàrtha si sta esercitando nella
meditazione vicino al fiume Nèranjara, Màra lo si accosta e gli fa notare
che egli è diventato molto magro. Dice pure che è quasi morto a forza
delle sue mortificazioni. E gli ricorda che è meglio vivere, perché
continuando a vivere potrà compiere molte azioni buone. Gli ricorda ancora
le buone opere che ha già compiute nel passato, e gli raccomanda di non
sforzarsi troppo. "Perché hai bisogno di sforzarti? Difficile è la via
dello sforzo, difficile da compiere, difficile è il permanervi." Gli
suggerisce invece i sacrifici della religione brahmanica, le oblazioni al
fuoco, come l'alternativa, i quali certo non richiedono tali sforzi.
Ovviamente Siddhàrtha respinge tutte queste tentazioni di Màra. Infatti
risponde a Màra dicendo, "la morte in battaglia è meglio per me, che
vivere la vita sconfitto". Quindi il brano riferisce che Màra partì da lui
deluso e addolorato. In questo brano viene identificato anche l'esercito
di Màra come il piacere, il disgusto, la brama, la fama e sete, la
prigrizia, la sonnolenza, la codardia, il dubbio, l'ipocrisia e
l'istupidimento.
Ci potrebbe certo essere una interpretazione psicologica di questa
62
IL RISVEGLIO E DOPO
essi. Mano a mano che egli faceva quelle scoperte sui legami che legano
l'uomo al divenire, la sua anima si liberava da quegli stessi vincoli, che
sono la cupidigia, l'attaccamento alle cose terrene e l'attaccamento
all'errore. Questa conoscenza stessa è liberatoria. Gli effetti delle
azioni delle vite precedenti e l'esigenza delle reincarnazioni sono
rimossi all'istante stessa dell'aquisizione della conoscenza. Ma Sidhàrtha
non solo si era liberato dagli àava, egli ebbe anche la chiara coscienza
di essersi liberato. In lui sorse la realizzazione "che era già abolita la
rinascita, che la vita religiosa è stata vissuta, che era stato fatto ciò
che si doveva fare" (M., I,249). Il senso della liberazione che coincide
con l'acquisizione della conoscenza della vera realtà dell'esistenza è
adombrato in vari passi della scrittura buddhista. E' ciò che viene a
riflettersi anche nel seguente brano di poesia antica, che ne parla usando
l'immagine di una casa in dilapidazione: "Lungo innumerevoli esistenze ho
corso, cercando il costruttore della casa, né lo ho trovato: eppure è
doloroso tornare a nascere di volta in volta! O costruttore! Sei stato
scoperto, non farai di nuovo la casa! Tutte le travi sono spezzate, la
capriata è crollata; lo spirito, cancellata ogni concezione, ha estinto la
sete!"39
Il Buddha più tardi esporrà il contenuto del suo Bòdhi ─ special-
mente il contenuto della terza conoscenza ─ sotto il nome delle 'Quattro
Nobili Verità' scoperte da lui, insieme alla conoscenza ricavata della
'Originazione dipendente', ossia della concatenazione causale (pratìtya
samutppàda; in pali - paticca samuppàda) dei fenomeni. In un'altro passo
di Majjhima (I, 69-71) la conoscenza acquistata dal Buddha viene
prsesentata con delle ulteriori chiarificazioni. Qui viene detto che il
Buddha grazie alla sua triplice conoscenza vede tutte le cose nella loro
vera realtà: vede il mondo così come è, nella infinita varieta dei suoi
elementi; vede la causalità delle azioni (karma) e i loro effetti in
rispetto al passato, al presente e al futuro, e quindi conosce la ragione
per cui ognuno nasce nella condizione in cui nasce; conosce la condizione
interiore di altri esseri, lo stato e grado della loro impurità e lo stato
39
Dhp., 153-54.
67
e grado della loro perfezione. E' importante notare che in seguito verrà
detto anche che la conoscenza che il Buddha possiede non è una sua
invenzione, e che essa non è neppure basata su ragionamenti e
sull'indagine intellettuale. E' una conoscenza troppo profonda, difficile
ad ottenere, sottile, difficile ad abbracciare con il pensiero, ed è
riservata solo ai savi. Potremmo pensare che questa affermazione voglia
indicare che si tratti di una intuizione mistica che va al di là di ogni
conoscenza analitica ed oggettiva. Per i buddhisti naturalmente quella è
la caratteristica della conoscenza propria di un Buddha. E' la conoscenza
divina, non-umana; anzi, è l'onniscienza del Buddha.
E' nel Niddèa (I, 355) del Khuddaka-nikàya che abbiamo una
descrizione completa della conoscenza di cui è munito il Buddha. Qui si
parla dei suoi cinque occhi e le corrispondenti conoscenze. Si dice che
con il suo 'occhio umano' egli può vedere fino alla distanza di una lega
sia di notte che di giorno, e conoscere tutto quello che vi esiste. Col
suo 'occhio divino' egli può vedere la nascita e la morte degli esseri e
conoscere i loro meriti e demeriti. Volendo, con quest'occhio può vedere
un mondo, due mondi e così fino a tremila mondi ed oltre. E col suo
'occhio di saggezza' (prajna; pàli: panna) egli è lo scopritore del vero
sentiero; e grazie a quest'occhio non esiste nulla che gli sia
sconosciuta, che non sia compresa dalla sua saggezza. Egli conosce in
questo modo il passato, il presente e il futuro. Con il suo 'occhio del
Buddha' egli vede tutti gli esseri e li conosce nella loro condizione
spirituale di purezza e di depravazione. E in fine con il suo 'occhio
onniveggente' egli vede tutto, e conosce tutto.
40
Dhammachakkappavattanasutta (in Anguttura Nikàya), 25; anche Vin.Mv.,
I,6,30.
73
5. Le conversioni
Quando il Buddha ebbe pronunciato il primo discorso e così aveva
avviata irrevocabilmente la regale Ruota del Dhamma, come si addice ad
un'occasione simile, un urlo di riconoscenza s'innalza nei mondi degli
dèi, tutto il sistema cosmico con i suoi diecimila mondi trema violente-
mente, e una grande luce si sparge nel mondo. Se questi riferimenti ai
41
Vin.Mv., I,6,19-22. L'esposizione delle 'Quattro Nobili Verità' ha
luogo anche in Dhammacakkappavattanasutta (5-8), ed è identica a quella del
Vinaya.
42
Dhammacakkappavattanasutta, 9-20; Vin.Mv., I,6,23-26.
75
43
Dhammacakkappavattanasutta, 29.
76
interpretazione, che stanno alla base di una grande disputa che esiste od
è esistita tra gli studiosi al riguardo dell'anima nel buddhismo, e cioè
se il Buddha abbia ammesso o meno la sua esistenza. Il senso di questo
discorso credo che può essere espresso in un modo incontroverso come
segue: Il sé (se c'è) non si identifica con i costituenti della esistenza
empirica dell'uomo, quali il corpo, la sensazione, la percezione, la
disposizione e la coscienza. Quando uno si rende conto di ciò, egli prende
le distanze da essi, e conseguentemente si libera dalle passioni e così
attinge la santità (Vin.Mv., I,6,38-46). E' da notare che era al termine
di questa esortazione, e infatti in conseguenza di essa, che i cinque
asceti diventarono liberi dagli àava (i fattori dell'attaccamento al
mondo), diventarono Arhat (persone degne, perfette). Riteniamo dunque che
questa è una circostanza che non può essere indifferente per una corretta
interpretazione della predica sull'anatta. Come si vede facilmente è una
esortazione, e come tale è intenzionata a produrre una trasformazione nel
modo in cui uno si atteggia verso il mondo, piuttosto che ad esporre
un'astrusa dottrina sulla reale esistenza o meno dell'anima.
Una serie di conversioni sussegue a quella dei cinque bhikku. La
prima tra queste è la conversione di Yasa. Si può notare uno stretto
parllelismo tra il racconto dell'abbandono di casa da parte di Yasa e
quello del Buddha all'inizio della sua ricerca, ragione per cui molti
studiosi pensano che il racconto della fuga da casa di Yasa sia modellato
su quello del Buddha, o quello del Buddha su Yasa. Anche Yasa è l'unico
figlio di un uomo molto ricco, e si è ammogliato da giovane. Vive in
agiatezza e nelle mollezze, sollazzato giorno e notte da giovani
suonatrici e danzatrici. Colpito da un forte senso di angoscia per la
futilità di quella esistenza, una notte a mezzanotte lascia sua casa e si
reca nel Parco del Daino dove incontra il Buddha. Il Buddha lo istruisce
incominciando con un discorso sulla virtù della generosità, sulle virtù
morali, sulla vanità, sul cielo ecc., ed esponendo in fine la dottrina del
dolore e della sua eliminazione. Yasa comprende le parole del Buddha, si
converte, e più tardi riceve l'ordinazione monacale.
A questo punto arriva nel parco anche il padre di Yasa che si era
messo a cercare lui dopo che era sparito da casa. Il Buddha istruisce
anche lui come aveva fatto con Yasa. In conseguenza egli percepisce la
77
verità delle parole del Buddha e professa 'il triplice rifugio' ─ nel
Buddha, Dhamma e Sangha ─ chiede di essere ricevuto come un discepolo
laico (upàsaka). Il testo precisa che era la prima persona al mondo a
diventare un discepolo laico con la formula del triplice rifugio (Vin.Mv.,
I,7,10). Quando poi il Buddha, accompagnato da Yasa, andrà ad un pranzo
alla sua casa, anche la madre e la moglie di Yasa, ricevute le necessarie
istruzioni, si convertono, professano il triplice rifugio, e vengono
ricevute in qualità di seguaci laiche (upàsika) del Buddha. Il testo
racconta ancora che quattro amici intimi di Yasa per primi, e cinquanta
altri amici suoi più tardi, tutti appartenenti a nobili famiglie, si
convertono e si fanno monaci. Così in poco tempo il numero dei monaci del
Buddha crescerà a sessanta.
Trascorso un periodo del tempo non ben precisato al Parco del Daino,
il Buddha con i suoi discepoli si trasferisce. E' ad Uruvèla che va. Viene
raccontato un episodio interessante che sarebbe occorso durante questo
viaggio. Al Buddha che sta facendo una sosta sotto un albero in un bosco
viene un gruppo di trenta giovani apparentemente di ricche famiglie
chiedendogli se avesse per caso visto una donna passare di là. Era
successo che questa donna in questione, una cortigiana che faceva loro
compagnia insieme ad altre donne, ad un certo punto era scappata prendendo
con sé gli oggetti di valore che erano in possesso dei membri del gruppo.
Il Buddha invita questi giovani a sedersi e rivolge a loro questa domanda:
"Ora cosa pensata voi giovani? Quale fosse meglio per voi: andare in cerca
di una donna, o andare in cerca di voi stessi?" (Vin.Mv., I,14,3). Come
potremmo facilmente immaginare, la sequenza di quest'episodio è che il
Buddha li istruisce, quindi essi si convertono e finalmente abbracciano la
vita religiosa.
superiorità del Dhamma propagato dal Buddha sui riti sacrificali che
costituivano il cuore della religiosità brahmanica. Infatti, secondo il
racconto, qualche giorni più tardi nella città di Ràjagriha (pàli:
Rajagaha), in una grande assemblea del re e dei cittadini, Uruvèla Kàyapa
spiegando la sua conversione, pubblicamente riconoscerà la nullità del
sacrificio brahmanico in contrasto con la via indicata dal Buddha.
La terza famosa predica del Budda, fatta sulla collina detta
Gayaìra (il capo di Gaya), era rivolta soprattuto a queste mille e più
nuovi convertiti. E' conosciuta come la "predica del fuoco". Dirà che
tutto si sta consumando in un fuoco. Gli occhi, gli oggetti degli occhi,
il contatto stesso degli occhi con i loro oggetti come pure le sensazioni
e gli impressioni derivanti da questo contatto ─ tutto ciò si sta
bruciando. Lo stesso con tutti gli altri sensi. Si stanno bruciando con il
fuoco della passione, dell'ira, dell'ignoranza (Vin.Mv., I,21,2-4). E dirà
ancora che solo la sequela del nobile ottuplice sentiero è in grado di
portare uno alla pace, allo stato dell'estinzione di questi fuochi.
7. Il Sangha
La comunità monacale si era formata quando i primi cinque asceti
ebbero ricevuto l'ordinazione. Da quel momento il Sangha è stato uno dei
punti di riferimento per la vita buddhista ─ un punto di riferimento di
non minore importanza di quello che era rappresentato dal Buddha e dal
Dhamma. E' chiaro che fin dall'inizio il buddhismo era un movimento
prevalentemente monacale. I buddhisti, però, come sappiamo, non sono stati
assolutamente i primi a costituirsi in sangha (comunità, gruppo). In India
in quel tempo c'erano già dei gruppi costituiti degli asceti, uniti
soprattuto da una aspirazione comune, ma anche rinsaldati da delle regole
fisse di comportamento e di vita. Neppure il Sangha buddhista era una
associazione libera di persone: c'erano una formale ammissione al Sangha,
un criterio per l'ammissione, un rito ─ sebbene molto semplice ─
dell'ordinazione, alcuni segni esteriori dell'appartenenza al Sangha e
delle regole da osservare. I segni esteriori dei membri del Sangha
iniziale, come sappiamo dai testi, erano la tonsura e la veste gialla. Il
Vinaya nella sua parte iniziale dà un elenco di 227 regole che valgono per
80
44
Vedi O.Botto, Buddha e il Buddhismo, Arnoldo Mondadori Editore,
Torino 1987, p.33.
81
45
Cfr. P.Harvey, Introduzione al Buddhismo, p.48.
46
Vedi Dhammapada 383 ssg. Qui viene detto che il vero brahmino è
l'arhat, ossia colui che ha ottenuto la liberazione. Al riguardo del suo
modo comportarsi si dice tra l'altro: "Quegli il cui corpo, la cui parola e
la cui mente non albergano cattiva azione... colui che ha deposto la
collera, che è fedele ai voti, che è virtuoso, privo di attaccamenti, che è
domo... colui che, avendo deposto ogni atteggiamento ostile verso le
creature, siano forti che deboli, che non uccide né fa uccidere, costui io
chiamo brahmino."
83
ripetutamente data nei suoi discorsi, e più ancora con la negazione ogni
legame tra la casta e la credenza nella reincarnazione, il quale infatti
serviva a giustificare e perpetuare l'esistenza delle caste a vantaggio
delle caste superiori. Il brahmanesimo cominciava ad interpretare la
nascita in una casta come il frutto delle azioni compiute da una persona
nelle sue esistenze precedenti, e la sottomissione al sistema delle caste
e l'assunzione degli obblighi imposti da esso come determinanti delle
condizioni delle future nascite.
A riprova dello spirito universale che il Buddha aveva infuso e
voleva che regnasse nel Sangha iniziale è la seguente affermazione del
Buddha stesso. "Proprio come, o monaci, quali che siano i fiumi ─ cioè il
Gange, Aciràvati, Sarabhu e Mahi ─ tutti costoro, allorché raggiungono il
grande Oceano, abbandonano gli antichi nomi e le famiglie, e procedono
avanti col solo nome di 'grande Oceano', così pure, o monaci gli apparte-
nenti alle quattro caste: katriya, bràhmana, vaiya e ùdra, procedendo
dalla vita in casa alla vita errante nella disciplina della Buona Legge
insegnata dal Tathàgatha, abbandonano i loro nomi e le loro famiglie e
vanno solo col nome di 'asceti seguaci del figlio dei akya'" (Ud., V,5).
Anche le testimonianze dei monaci che si conservano ci fanno vedere il
Sangha come una associazione dove tutti erano accetti senza distinzione,
purché soddisfacessero i criteri dell'ammissione, e dove tutti potevano
realizzarsi pienamente.47
Riportiamo qui un brano del Thèragàta (I canti dei monaci) che
contiene la confessione del monaco Sunita, che è anche una testimonianza
alla grande umanità del Buddha che andava oltre ogni considerazione delle
caste e delle posizioni sociali. "Io sono uscito da un’umile famiglia, ed
ero povero e bisognoso. Umile era il mestiere che esercitavo: toglievo via
47
Il fatto che si dica in alcuni testi che il Buddha di ogni epoche
debba nascere in una delle prime due caste è stato spesso usato per mostrare
che le considerazioni castuali non erano estranee al buddhismo originario.
Ma qui va fatta una distinzione. Affermazioni di quel genere si trovano
inserite nei racconti mitologici e leggendari sul Buddha che sono
evidentemente posteriori. Sono indicazioni, caso mai, all'eventuale
infiltrazione della mentalità indù delle caste nel buddhismo. Sappiamo che è
stata questa progressiva 'induisazzione' con l'assorbimento degli elementi e
idee induisti e la conseguente perdita della sua identità distintiva, fino a
fare del Buddha stesso un'incarnazione di una divinità indù (come avviene
nella scrittura indù del Bhàgavata Puraa), che portò al disfacimento del
buddhismo in India.
84
48
Citato da Oldenberg, Budda, p.170.
85
50
H. Oldenberg, Budda, p.94.
87
rivolti.
In base ai racconti relativi a questo periodo, e alle loro
indicazioni topografiche, possiamo pensare che il Buddha svolse la sua
attività della propagazione della dottrina nella vasta area del bacino del
Gange. Il raggio della missione comprendeva i regni di allora come il
Magadha e Kosala e la confederazione Vajji. Secondo una stima ci sarebbero
stati in quel epoca oltre a due milioni d'abitanti in quelle regioni. 51
Anche se ci sono occasionali riferimenti nel Canone ai luoghi distanti
nella parte nord-occidentale dell'India, è probabile che il Buddha non sia
mai stato in qulle regioni. In ogni caso, non ci sono prove che vi abbia
svolto un'attività missionaria significativa.
Si presume che la sua attività di predicazione abbia durato
un'impressionante periodo di pressapoco quarantacinque anni ─ più di ogni
altro fondatore di religione che conosciamo. Durante tutto questo tempo,
il Buddha si è spostato di frequente di città in città, di villaggio in
villaggio, sempre a piedi, e accompagnato da un gruppo di discepoli. I
racconti spesso parlano di cinquecento monaci (una cifra simbolica che
vuole solo indicare un numero assai elevato) che lo accompagnano. I testi
ci fanno pensare che il Buddha con il suo seguito sarebbe passato per gli
stessi luoghi anche diverse volte durante la sua lunga carriera di
predicatore itinerante.
Non solo di viaggi, la sua carriera era anche fatta di periodi di
stazionamento, e qualchevolta anche abbastanza prolungati. A ciò obbligava
specie il periodo delle piogge annuali. Da metà giugno a metà ottobre
piogge torrenziali si abbattono su tutto il sub-continente indiano,
immobilizzando, quasi, tutta la popolazione. Non solo le piogge che
potevano cadere imporovvisamente e durare senza interruzione per giorni,
ma anche le sue conseguenze quali l'allagamento dei fiumi e la scomparsa
dei tratti di strade rendevano i viaggi in questo periodo un'impresa
pericolosa oltre che difficile. Fin dai giorni del Buddha era l'uso tra i
buddhisti trascorrere questo tempo in qualche posto adatto, impegnadosi
più diligentemente sulla via spirituale. Questo ritiro annuale dedicato al
rinnovamento spirituale veniva appunto chiamato 'varika', (ritiro) per le
piogge. Qui e là il canone fa menzione del Buddha che osserva il varika
51
Cfr. R.R.Diwakar, Bhagawan Buddha, Bharatiya Vidya Bhavan, Bombay
1991, p.123.
88
che cosa stanno conversando. E quando gli dicono di cosa stavano parlando,
il Buddha li rimprovera e li esorta a praticare il silenzio, più o meno
con queste parole. "Monaci, non mi sembra degno di voi, che siete figli di
famiglia, che per fede avete abbandonato la vita di casa per darsi alla
vita monastica, di chiacchierare su di un argomento simile. Monaci, quando
sedete qua radunati, una delle due si deve fare: o conversare riguardo
alla Buona Legge (Dhamma) o praticare il santo Silenzio."
Durante tutta la sua vita il Buddha rimase il supremo capo del
Sangha e si era attivamente coinvolto in ogni sua iniziativa. Anche
quando, verso la fine della sua vita, si fecero avanti alcuni membri che
volevano prendere in mano il Sangha, il Buddha non volle lasciare la sua
direzione.
3. Da solo, e in meditazione
Leggendo i racconti relativi alla vita pubblica del Buddha, uno
sarebbe facilmente tentato a pensare che la sua fosse una vita trascorsa
in costante compagnia di discepoli e fatta di incontri con persone
importanti, di discussioni con i dotti e di pranzi con i ricchi. Questa
impressione, però, non sarebbe conforme alla realtà. Leggendo i testi, uno
non dovrebbe scordare il fatto che i testi di solito parlano solo di
quegli episodi cosiderati importanti nella vita del Budddha o che erano in
qualche modo fuori del quotidiano. Pensiamo invece che la maggior parte
dei giorni del Buddha erano trascorsi come quelli del resto dei monaci,
cioè con l'abituale questua mattutina e la meditazione pomeridiana. A
queste pratiche di tutti i giorni ci sono solo pochi riferimenti nei
testi. Pensiamo inoltre che anche durante la sua vita di predicazione, il
Buddha era rimasto un amante del silenzio e della solitudine. E se e
quando questi venivano a mancare dove egli risiedeva, sia per la pressione
dei monaci, sia per la pressione delle persone estranee alla comunità, il
Buddha lasciava la residenza in cerca di solitudine e di silenzio.
Abbiamo un passo eccezionale della scrittura che ci parla di una
tale occasione, un'occasione che, pensiamo, non era isolata. "In una certa
occasione il Beato era infastidito da monaci e monache, devoti laici e
devote laiche, re e ministri reali, capi delle sette e loro seguaci, e
viveva in mezzo alla confusione, non a suo agio. Quindi il Beato rassetta-
94
53
Pàli, la lingua nella quale è conservata la sacra scrittua buddhista
più antica (perciò 'il canone pàli'), sarebbe stata una lingua basata su un
dialetto molto vicino al màgadi. Cfr. P.Harvey, Introduzione al Buddhismo,
p.28.
95
egli attribuisce questo modo di parlare del Buddha alla sua natura
meditativa e filosofica, all'importanza che la forma doveva avere
nell'impostazione delle sue dottrine e, soprattutto, allo stile dei
discorsi religiosi che aveva adottato dai circoli brahmanici.54
A questo proposito, communque, bisogna primo di tutto tener presente
che molti dei testi che riportano le parole del Buddha sono detti 'Sutta'
(in sanscrito 'Sùtra', che siginifica 'filo' o 'corda'). Il sùtra era
nella tradizione indiana una forma di letteratura nella quale le frasi e
brani di un discorso erano stati adattati, compressi e concatenati per
facilitare la loro memorizzazione e la loro eventuale trasmissione orale.
I sùtra poi spesso richiedevano commentari per essere compresi. E'
difficile concepire che la forma di sùtra potesse essere adoperato anche
nelle communicazioni da vivo tra le persone. Anche se i sùtra buddhisti
non sono tipici, la ripetizione senza fine di frasi uguali e la
ripetizione di ogni altro genere che vi si trovano, ci fanno communque
pensare che l'attuale forma in cui riportano le parole del Buddha è
qualcosa sovrimposta. Perciò, contrariamente all'impressione che potremmo
ricavare leggendo i Sutta, dovremmo pensare che il Buddha era un
communicatore vivace, persuasivo e senz'altro efficace. Come verrebbe
detto in un Sutta, "Certo, l'asceta Gòtama è di facile parola, di chiaro
eloquio,... abile maestro" (D., V,7).
Non solo dei discorsi, il Buddha faceva uso anche delle favole, dei
versi e, soprattutto, delle parabole per communicare la sua dottrina. Le
parabole che di solito prendevano spunto dalle esperienze comuni e
quotidiane dovevano avere un grande impatto sui suoi uditori. Si può
vedere dai testi che il Buddha adattò la maniera di esporre le dottrine
secondo la capacità ricettiva del suo uditorio. Si può notare anche che
adoperò un metodo progressivo di inculcare la dottrina. Nei raconti di
quasi tutte le conversioni, egli iniziava con un'esortazione sulla virtù
della generosità, le virtù morali e sulla necessità di rinunciare ai
piaceri caduchi. E solo quando si vedeva che gli ascoltatori ne erano
convinti, e i loro spiriti preparati e ben disposti, annunciava la
dottrina che, come viene detto, è propria di un Buddha. Cioè, la dottrina
superiore del dolore, del suo sorgere e cessare, e dell'ottuplice
sentiero. E' interessante notare qui anche la solita formula di meraviglia
54
Vedi H.Oldenberg, Budda, pp.193-96.
96
56
Dhammapada Commentary, I,319.
57
Cfr. P.Harvey, Introduzione al Buddhismo, p.49.
100
e solo quando questi non potevano essere conseguiti con i metodi normali.
parente del Buddha che aderì al sangha era Dèvadatta. Il barbiere Upali,
che divenne col tempo un perito di regole del sangha, era anche convertito
durante questa visita. Si parla anche dell'adesione al sangha di Nanda ─
il figlio di uddhòdhana dalla sua seconda moglie, Mahàprajàpati ─ e di
Aniruddha, un'altro cugino del Buddha. Stando ai testi era durante una
delle sue visite a Kapilavastu che anche Ràhula si decise di sequire le
orme del Buddha, suo padre. Era pura dopo una sua visita alla sua città
natale ─ questa per quanto sembra coincise con la morte di uddhòdhana ─
che anche Mahàprajàpati lo seguì supplicandolo di formare il sangha
femminile.
58
Cf. E.J. Thomas, The Life of Buddha, p.111.
59
Cfr. Upaniads (intro. e trad. P. Olivelle), Oxford University Press,
1996, p.xxxvi.
102
missione del Buddha e della religione buddhista stessa. Tanto che, stando
al racconto della morte del Buddha, non vediamo nessuna monaca accanto a
lui, nonostante il fatto che anche Yaòdhara si era fatta monaca da tempo.
Ananda, nel Concilio tenuto dopo la morte del Buddha, verrà
interrogato sul suo ruolo nella vicenda di Prajàpati e della formazione
del sangha femminile.60 Ovviamente, l'istituzione del sangha per le donne
non era di gradimento a tutti membri del Concilio! Quest'atteggiamento
negativo di alcuni monaci fin dall'inizio verso l'Ordine femminile,
dovremmo pensare, avrà anche a che fare con dei giudizi poco illuminanti
che sono stati messi nella bocca del Buddha al riguardo delle donne e del
sangha femminile. Secondo ciò che viene detto in un Sutta, qualche tempo
prima della morte del Maestro Ànanda gli aveva chiesto come doveva
comportarsi con le donne. "Non vederle", diceva il Buddha. "Ma se vista,
quale è il comportamento?" domanda Ànanda. "Non rivolgersi a lei" risponde
il Buddha. "Ma se si deve rivolgere, o signore, quale è il comportamento?
domanda ancora Ànanda. "In questo caso", risponde il Buddha, "devi stare
molto attendo, o Ànanda" (Cfr. D. XVI, 5,10). Se è dubbio che queste erano
parole del Buddha, ci risulta evidente che il seguente giudizio espresso
sul sangha femminile non poteva essere proprio del Buddha. Dopo la
fondazione del sangha femminile il Buddha avrebbe detto che a motivo
dell'Ordine femminile, la buona dottrina durerà solo cinquecento anni
invece del mille come avrebbe potuto fare senza di esso. Noi riteniamo che
queste erano semplicemente parole attribuite al Buddha, proprio perché
queste parole in qualche modo insinuano che il Buddha abbia fondato il
sangha femminile solo per accontentare Prajàpati, sua matrigna, e ciò pur
conoscendo le sue conseguenze. Che il Buddha che aveva spietatamente
reciso ogni legame familiare per darsi alla ricerca della verità abbia,
alla fine, fatto qualcosa solo per ragione affettiva, che avrebbe inoltre
dimezzata la durata della sua opera ─ questo è certo difficile a credere.
7. Gli avversari
Uno potrebbe immaginare che la 'girata della ruota del Dhamma' da
parte del Buddha fosse una lunga marcia trionfale. A giudicare dai testi
questa impressione non sarebbe del tutto conforme alla realtà. Il Buddha
60
Cfr. E.J.Thomas, The Life of Buddha, p.109.
104
61
Per es. cfr. O.Botto, Buddha e il Buddhismo, p.40.
106
62
Cfr. E.J.Thomas, The Life of Buddha, p.135.
107
IL PARINIRVANA
La fine della vita terrena del Buddha non viene designata con il
termine 'morte', bensì col 'Parinirvana' (pali: parinibbàna). Il termine
significa 'il nirvana completo' o, se si vuole, 'l'estinzione totale'. Si
riferisce al Nirvana o la liberazione finale nella quale si libera anche
dalla vita fenomenica. Per esso è descritto anche come 'il nirvana privo
di base di vita' o il 'nirvana senza gli elementi' (cfr. D., XVI,iv,37).
Nella concezione buddhista (come pure in quella induista) esistono infatti
due modi del Nirvana: il nirvana che si sperimenta mentre uno è ancora in
vita e il (pari)nirvana che coincide con la cessazione stessa della vita.
Nella tradizione induista si parla del 'jìvan-mukti' (liberazione in vita)
e del 'vidèha-mukti' (liberazione priva del corpo).
Il parinirvana è la prerogativa di chi ha già sperimentato il
nirvana durante la vita come l'ha fatto il Buddha sotto l'albero di bodhi.
Benché ci sia una sostanziale identità tra il nirvana e il parinivana,
l'ultimo sta al primo come la sua realizzazione piena, il suo fruire
definitivo.
La fonte primaria delle nostre informazioni sul trapassao del Buddha
è costituita da 'Il grande discorso sul Parinivana' (Mahà Parinibbàna
Suttanta) che fa parte del Dìgha-nikaya del canone pali. Questo lungo
Sutta racconta l'ultimo viaggio del Buddha che inizia a Ràjagriha e
prosegue attraversando il fiume Gange e varie città e villaggi e finisce
nella vicinanza di Kuinagara (pali: Kusinara), il piccolo capo-luogo del
popolo Malla. Come sul resto della sacra scrittua buddhista, la questione
della storicità grava anche su questo testo, anche se esso ne costituisce
una delle parti più antiche, risalente certamente ad un periodo anteriore
al regno dell'imperatore Aoka (268-239 a.C.).
Di questo stesso scritto esistono attualmente varie versioni nelle
varie scuole buddhiste che riflettono rispettivamente i loro punti di
vista teologica. E' anche chiaro che l'intenzione stessa del Mahà
Parinibbàna Suttanta non è semplicemente di riportare le circostanze e
109
1. L'ultimo viaggio
Che il Buddha morì all'età di ottant'anni non è stato mai messo in
questione. L'informazione che visse fino a quell'età è contenuta nel Mahà
Parinibbàna Suttanta che riporta le parole del Buddha al suo amato
discepolo di servizio, Ananda: "io ora, o Ananda, sono vecchio, di tarda
età, anziano, ho molto vissuto; vissi ottant'anni" (D., XVI,ii,25). Ed è a
quest'età che il Buddha intraprende un nuovo viaggio da Ràjagriha, che
infatti sarà il suo ultimo.
Si parla di una grande schiera di monaci che lo accompagna. Si
incontra con i gruppi di monaci residenti nei vari luoghi lungo il
percorso, e impartisce loro istruzioni. L'itinerario del viaggio lo porta
prima al parco di Ambalatthika, e poi alla città di Nalanda e quindi a
Pàaliputra (pali: Pataliputta; od. Patna) sulla riva del Gange. Varca in
fiume nel punto dove sta sorgendo la futura capitale del Magadha. Il
Buddha avrebbe predetto la futura grandezza di Pàaliputra, che infatti
dal IV secolo a.C. diverrà la capitale del Magadha che a sua volta si
espanderà da diventare il primo grande impero nella storia dell'India.64
Notiamo che il Sutta presenta la traversata del Gange come un fatto
prodigioso. Vi si legge: "In quel tempo il fiume Ganga era in piena, sì
che vi si potevano abbeverare i corvi. Alcuni uomini avrebbero cercato una
barca, alcuni cercato un batello, altri legata una zattera per desiderio
di passare dall'altra sponda. Ma il sublime, come un uomo forte distende
63
Cfr. H.Oldenberg, Budda, pp.214-5.
64
Vedi A.L.Basham, The Wonder that was India, Rupa & Co., Calcutta
1967, pp.46-48.
110
2. A Vaiàli
La prima tappa del viaggio del Buddha si conclude a Vaiàli (pali:
Vesali) dove vorrà passare i quattro mesi piovosi. Per quanto sappiamo,
Vaiàli, il capo-luogo del clan Liccavi, era una città ricca e brillante.
E qui avvengono degli episodi che sono di particolare interesse in questo
ultimo viaggio del Buddha.
Aspettando l'inzio delle piogge, il Buddha e i suoi discepoli si
accampano nel parco dei manghi appartenente ad una celebrità della città,
la ricca e famosa cortigiana Amrapàli (Ambapali). Venuta a sapere che il
grande maestro si trova nel suo parco, il Sutta racconta che, Amrapali,
"fatti aggiogare magnifici cocchi, salita su di un cocchio, con un
magnifico cocchio uscì da Vaiali e si avvio al suo bosco di manghi." E
come accade con la maggior parte degli incontri di questo genere,
Amrapàli, dopo esser stata "istruita, incitata, rallegrata e rasserenata"
dalle parole del Maestro, lo invita assieme ai suoi discepoli a pranzo il
giorno seguente.
Dopo la partenza di Amrapàli arrivano in stile anche i potenti
principi Liccavi nel parco; e dopo aver salutato il Buddha e conversato
con lui, anche loro gli chiederanno il favore di averlo a pranzo il giorno
seguente. Il Buddha si rifiuterà dicendo che era stato già invitato da
Amrapàli. Il Sutta riporta il disappunto dei principi Liccavi nell'essere
stati preceduti e superati dalla donna di manghi, la quale poi non vorrà
vendere a loro il privilegio del pranzo neanche per centomila denari (D.,
XVI,ii,14-18). Il pranzo da Amrapàli fu inaspettatamente proficuo per il
Buddha e la comunità, poiché alla fine di quel pranzo ella donerà
solennemente al Buddha e alla comunità il suo parco di manghi.
Iniziata la stagione delle piogge, il Buddha osserva il ritiro
spirituale (vàrika) nel villaggio di Beluva nei pressi di Vaiàli, mentre
i monaci lo fanno a Vaiali stesso. Dovea essere verso la fine questo
periodo, egli viene colpito da una grave malattia accompagnata da mortali
dolori. Mentre Ananda teme il peggio e si dispera, il Maestro sopporta i
111
65
D., XVI,ii,25. L'espressione "un maestro col pugno chiuso" vuol
indicare un maestro che fa delle riserve, uno che non rivela tutto quello
che sa. Il Buddha secondo quanto viene detto qui è stato un maestro che ha
trasmesso agli altri tutte le sue conoscenze.
112
66
Cfr. A.K.Coomaraswamy, Induismo e Buddhismo, p.120.
67
Brihadàranyaka Upaniad, 4,3,1-6. Riportiamo qui il passo nella
traduzione di P. Filippani-Ronconi (Uapaniad antiche e medie, Bollati
Boringhieri, Torino 1960): >>Accadde un volta che Yàjnavalkya venne dal re
Janaka di Vidèha... Quando Janaka di Videha e Yàjnavlakya ebbero conversato
a riguardo dell'oblazione rituale al fuoco, Yàjnavalkya promise di
soddisfare un desiderio del re... Allora il re prese la parola per primo al
fine di interrogarlo: "O Yàjnavalkya quale lume rischiara questo Purua
[l'uomo]?" "La luce del sole, o re", gli disse: "alla luce del sole, invero
costui si siede, si muove, compie le sue azioni, torna a casa." "E' proprio
così, o Yàjnavalkya.
"Allorché il sole è tramontato, o Yàjnavalkya, quale è la luce che
illumina questo purua? "Per costui vi è la luce della luna; alla luce della
luna egli si siede, si muove, compie le sue azioni, torna a casa." "E'
proprio così o Yàjnavalkya.
"Allorché è tramontato il sole ed è tramontata la luna, o Yajnavalkya,
quale luce illumina questo essere?" "E' la luce del fuoco che lo illumina; è
alla luce del fuoco che egli risiede, si muove, compie le sue azioni e
ritorna a casa." "E' proprio così, o Yàjnavalkya.
"Allorché il sole è tramontato, la luna è tramontata, il fuoco è
spento, o Yàjnavalkya, quale luce illumina questo personaggio?" "E' la
Parola [vàc] che lo illumina: è essendo illuminato dalla Parola che egli
dimora, si muove, compie le sue azioni e torna a casa; questa è la ragione
per la quale, o re, quando l'ombra è così fitta che non si distingue neppure
la propria mano, se si ode una parola ci si dirige verso questa." "E'
proprio così, o Yàjnavalkya.
"Allorché il sole è tramontato, o Yàjnavalkya, la luna è pure
tramontata, il fuoco è spento, ogni parola tace, quale luce illumina questa
persona?" "E' lo àtman [il Sé] che è la sua luce. E' alla luce dello àtman
che egli dimora, si muove, compie le sue azioni e torna a casa."<<
113
3. L'ultimo pranzo
Ripreso il viaggio dopo le piogge monsoniche, il Buddha con i suoi
seguaci si reca al villaggio di Bandha e quindi di Bhoga. S'incontra con
gruppi di monaci, impartisce direzioni per la loro vita e prosegue. Non
accade nulla di particolare rilievo finché non arriva a Pava (sanscrito:
Papa). E' a Pava che infatti avviene il fatto che poi condurrà a fine la
sua vita. Tutto accade in un modo del tutto fortuito. Il Buddha e i suoi
discepoli vengono invitati a pranzo da Cunda, il figlio di un fabbro di
Pava. E Cunda prepara, come dice il testo, "eccellente e sostanzioso
cibo". A differenza di discepoli, il Buddha ─ secondo il suo espresso
desiderio ─ viene servito di un piatto di cibo speciale. E la sua
conseguenza fu rovinosa per la salute del Buddha. Il Sutta lo riporta
così: "Allora al Sublime, che aveva mangiato il cibo di Cunda figlio del
fabbro, sorse una dolorosa malattia, una diarrea sanguigna con forti
114
68
Vedi E.J.Thomas, The Life of Buddha, pp.149-50.
115
4. Verso Kuinagara
Come potremmo immaginare, il resto del viaggio si trasforma in una
vera via crucis per il Buddha. Anche se la destinazione finale,
Kuinagara, non era tanto distante da Pava, il viaggio verrà interrotto
ben tre volte prima di arrivarci. Arrivato ad un luogo non precisato, dove
però c'è un corso d'acqua, il Buddha si siede appoggiato al tronco di un
albero. Chiede ad Ananda di portargli dell'acqua da bere dal ruscello.
Ànanda gli risponde che l'acqua lì scorre torbida e inquinata a motivo del
passaggio poco prima di un gran numero (cinquecento) di carri. E
suggerische che egli potrà bere più avanti, quando si arriva al fiume
Kakuttha dove l'acqua scorre limpida e pura. Il Buddha ripeterà la sua
richiesta ancora due volte. Solo alla terza volta Ananda andrà a prendere
l'acqua, e il Sutta presenta come un miracolo il flusso dell'acqua limpida
che egli vi vede. "Allora il piccolo ruscello che sino allora, solcato
dalle ruote, scorreva torbido ed inquinato, accostatosi l'onorevole
Ànanda, apparve ai suoi occhi limpida corrente" (D., XVI,iv,24). Il Sutta
riporta qui anche l'incontro del Buddha con un discepolo di Àrada Kalàma,
69
Ud., VIII,5. Notiamo che l'intero episodio del pranzo da Cunda si
ritrova in questo Udàna quasi come lo si trova nel Mahà Parinibbàna
Suttanta. Riteniamo che la narrazione dell'Udàna è quella più antica.
116
mentre coloro che erano liberi da passione, vale a dire i più progrediti
nella vita spirituale, l'accolgono con rassegnazione e calma, gli altri
perdons compostezza e piangono sconsolati. Il discepolo Aniruddha
interviene per invitare quest'ultimi alla calma.
E' impossibile stabilire la data esatta del parinirvana. Possiamo
solo fare delle speculazioni al riguardo. Il parinirvana del Buddha poteva
essere avvenuto qualsiasi giorno tra la fine di ottobre e la metà di
febbraio. Determinante sarebbe a sapere quando fu terminata la stagione
delle piogge in quell'anno, la quale può variare di circa quattro
settimane di anno in anno. Bisogna anche ricordare che la profezia sulla
morte parlava di 'entro tre mesi' il che non implica necessariamente che
il Buddha abbia vissuto ancora tre mesi dalla data della profezia. A
proposito della data della more, l'unica cosa forse certa è che non era
ancora la stagione di fiori, cioè marzo-aprile. I buddhisti cinesi e
giapponesi osservano il 15 febbraio come l'anniversario del parinirvana.
Altre date esistono tra altre scuole buddhiste.
6. I funerali
Quando era ancora in vita, il Buddha fu interrogato dai discepoli
riguardo a ciò che bisognava fare con il suo corpo dopo la morte. Ed egli
avrebbe risposto che ciò non riguardava i monaci, poiché se ne sarebbero
occupati i laici. Saranno infatti i laici ad organizzare il funerale del
Buddha. Secondo il testo passano sei giorni prima del funerale ─ giorni
trascorsi col rendere omaggio alla salma del Maestro con ghirlande e
profumi e con danze e canti da parte dei Malla. Supponiamo che era anche
il tempo necessario per dare l'informazione ai vari popoli e i loro capi
tra i quali il Buddha sveva svolto il suo ministero. Così al settimo
giorno dal trapasso, un funerale degno di un sovrano viene accordato al
Buddha. Il corteo funebre passa per le vie di Kuinagara. La cremazione
avviene in un santuario dei Malla fuori della porta orientale della città.
Il Sutta allude ad un certo tipo di cremazione nella quale il corpo è
rinchiuso in una cassa di metallo ripiena di olio che poi viene posto sul
rogo. Sembrerebbe che era un modo di cremazione nella quale vengono
preservate le ossa. Infatti il Sutta successivamente parla delle ossa del
Buddha e della loro spartizione.
119
70
Vedi D., XVI,vi,24-26; anche O.Botto, Buddha e il Buddhismo, p.51.
120
Lanka.
Testi buddhisti
Majjhima Nikàya: Middle Length Sayings (trad. I.B. Horner), Pali Text
Society, London 1954.
Buddhist Suttas (trad. T.W. Rhys Davids) (in Sacred Books of the East,
vol.XI), Motilal Banarsidass, Delhi 1965.
Vinaya Texts (trad. T.W. Rhys Davids & H. Oldenberg) (in Sacred Books of
the East, vol.XIII, XVII, XX), Motila Banarsidass, Delhi 1965.
Jàtaka: Vite anteriori del Buddha (ed. M. D'onza Chiodo), Classici UTET,
Torino 1992.
Altre opere
123
AMBEDKAR, B.R., The Buddha and his Dhamma, Siddharth Publication, Bombay
1991.
BASHAM, A.L., The Wonder that was India, Rupa & Co., Calcutta 1991.
JONES, J.G., Tales and Teachings of the Buddha: The Jàtaka Stories in
Relation to the Pali Canon, George Allen & Unwin, London 1979.
ZUERCHER, E., Buddhism: Its Origin and Spread in Words, Maps and Pictures,
Routledge & Kegan Paul, London 1962.
125
INDICE
ABBREVIAZINOI
INTRODUZIONE
Capitolo 1
BUDDHA - ALCUNE PRECISAZIONI
Capitolo 2
IL PRINCIPE SIDDHARTHA: LE LEGGENDE E LA STORIA
1. Il concepimento e la nascita
2. La profezia, la giovinezza
3. La crisi, le uscite
Capitolo 3
IN CERCA DEL REALE
1. La fuga
2. Il clima religioso del tempo
3. Presso i guru spirituali
4. L'ascetica sbagliata
5. La scoperta del 'La Via di Mezzo'
6. Sotto l'albero di Bodhi
Capitolo 4
IL RISVEGLIO E DOPO
7. Il Sangha
Capitolo 5
GIRANDO LA RUOTA DEL DHAMMA
Capitolo 6
IL PARINIRVANA
1. L'ultimo viaggio
2. A Vaiali
3. L'ultimo pranzo
4. Verso Kuinagara
5. Tra due alberi
6. I funerali
7. La venerazione del Buddha
BIBLIOGRAFIA