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SIDDHARTHA

IL BUDDHA

Benedict Kanakappally
2

In un tempo Buddha si trovava nel villaggio di Ekanala


nel paese di Magadha. Il contadino, il brahmino
Bharadvaja stava arando il campo. Il Buddha si presentò
a lui chiedendo l'elemosina. Il brahmino disse: "Io aro
e semino, e dopo aver arato e seminato, io mangio. Fa'
altrettanto, o asceta." A questo Buddha rispose che
anche lui faceva lo stesso. Allora il contadino disse:
"Non vediamo, o Gòtama, il tuo giogo, né l'aratro né il
vomero, né il pungolo né i buoi."
Allora Buddha proferì: "la fede è il seme, la penitenza
la pioggia; la saggezza il mio giogo e l'aratro,
l'umiltà l'asta; la mente è la legatura del giogo, la
consapevolezza il vomero e il pungolo. Controllato
nell'azione, controllato nelle parole, controllato nel
cibo e nel mangiare, io faccio della verità la marra
della mia zappatura. Compassione è la mia liberazione,
lo sforzo la mia bestia da soma, che mi porta allo
stato della pace. Senza guardare indietro vado, e esser
arrivato dove sono diretto, non me ne pento. E in
questo modo il mio arare è fatto; il suo frutto è
l'immortalità. Fatta questa aratura, mi sono liberato
da ogni dolore.

(citato da E.J.THOMAS in The Life of Buddha, p.117)


ABBREVIAZINOI

ca. circa
D. Dìgha-nikàya (Collezione dei testi lunghi)
Dhp. Dhammapàda
M. Majjhima-nikàya (Collezione dei testi medi)
MLBD Motilal Banarsidass (casa editrice)
od. odierno
sans. sanscrito
Sn. Sutta-nipàta
Ud. Udàna
Vin.Cu. La sezione Cullavàga del Vinaya-pìaka
Vin.Mv. La sezione Mahàvàgga del Vinaya-pìaka
NOTE SULLA LINGUA E SULLA PRONUNCIA

Ci sono due lingue importanti dal punto di vista letteraria


del buddhismo originario: pàli e sanscrito. Per questo motivo ci
sono anche quasi sempre due varianti per ogni termine ed ogni nome.
La prima volta che un termine o nome appare nel testo, si è cercato
di dare tutti due le varianti, una in parentesi. Ma altre volte si
è limitato a dare uno solo. Nella scelta della variante da usare in
questo caso, però, non mi sono attenuto strettamente ad una o ad
altra lingua. Ma in genere per i nomi delle persone e dei luoghi,
ho preferito la versione sanscrita, per il fatto che anche nella
tradizione e la storia generale dell'India sono conosciuti in
quella versione. Così ho preferito 'Siddhàrtha' a 'Siddhatha',
'Pàaliputra' a 'Pataliputta', 'Vaiàli' a 'Vesali' ecc. Per i nomi
poco conosciuti nella generale tradizione indiana e per gli altri
termini in genere è stato usato la versione pàli, salvo quando la
versione sanscrita corrispondente è molto più conosciuta, come per
esempio, 'nirvàna', 'stùpa' ecc.
Sia nel sanscrito che nel pàli esiste due tipi di vocali,
brevi e lunghe. Per aiutare la pronuncia, la vocale lunga viene
indicata con l'accento acuto come segue: à,è,ì,ò,ù. Inoltre, per
una trascrizione approssimativa dei termini in queste lingue sono
voluti anche l'uso di alcuni segni diacritici. Indichiamo qui le
lettere alla cui pronuncia è utile prestare attenzione.

c è sempre dolce, anche davanti ad a e u. Ca in 'carita' si


pronucia come cia in 'ciarlare' italiamo.

h dopo una consonante conserva il suono aspirato (Sang-ha).

j si pronuncia come c dolce. Dunque jà del 'jàtaka' si


pronuncia come l'italiano 'già'.

 ha un suono cerebrale. Approsimativamente si pronuncia come


n nelle parole 'dono', 'mono'.

 è sibilante.

 è una spirante palatale, si pronuncia come sc in 'sci',


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'scena', 'sciabola'.

 è cerebrale. La prouncia è vicina a t in parole inglesi come


'hot', 'spot'.

y si pronuncia come nella parola ieri.


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Glossario

Abhidhamma (Abhidharma): terza parte del Tipìtaka, contenente


rielaborazione scolastica metafisica delle dottrine esposte nei Sutta.

Ahimsa: letteralmente 'non-uccisione'; indica la non-violenza che è uno


delle virtù cardinali del buddhismo.

Ajàtasatru: re di Magadha, figlio del re Bimbisàra.

Amata (Amrta): letteralmente 'non-morte', significa l'immortale o


l'immortalità, sinonimo di Nirvana.

Ambapàli (Amrapàli): La cortigiana di Vaisàli, fece il dono del suo parco


di manghi al Buddha.

Ananda: cugino e l'attendente personale del Buddha. Uno dei suoi maggiori
discepoli, spesso menzionato negli scritti buddhisti.

Anathapindika o Anathapindada: soprannome di Sudatta, uno dei maggiori


benefattori del Buddha che gli donò il parco di Jeta e vi costruì un
monastero.

Arhat o Arhant: letteralmente 'uomo degno', 'onorabile'. Uno degli


appellativi del Buddha. Indica anche qualsiasi monaco che è giunto al
perfezionamento spirituale.

Asòka: imperatore della dinastia Maurya che si convertì al buddhismo e


aiutò la sua propagazione anche fuori India.

Atta (Atman): il Sé (sé), l'ego, la personalità.


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Bhikku (Bhikshu): letteralmente 'mendicante'. Monaco buddhista.

Bimbisàra: re di Magadha e protettore del buddhismo iniziale. Fece dono


del 'Parco di bambù' al Buddha e la comunità.

Bòdha Gaya: il luogo dove Siddhàrtha raggiunse l'illuminazione. Vicino


all'odierna città Patna.

Bòdhi: stato di illuminazione; anche il suo contenuto, ciòè la conoscenza


che accompagna l'illuminazione.

Brahmino: un membro della casta sacerdotale indù, la classe più alta nella
scala sociale indiana.

Dàgaba: parola singalese derivata dal sanscrito 'dhàtu-garbha' che


significa letteralmente 'ripostiglio di elementi'; uno stùpa.

Dèvadatta: parente del Buddha che era anche il suo più grande avversario.
Tentò di uccidere il Buddha e causò uno scisma nella comunità monacale.

Dhamma (Dharma): dottrina, Dottrina, insegnamento, Verità, Realtà Ultima;


giustizia, pietà, moralità, rettitudine.

Guru: maestro o guida spirituale.

Hìnayàna: letteralmente 'piccolo veicolo' o 'via stretta'. Un termine


spregiativo coniato dai Mahàyàna per indicare la scuola Thèravàda.

Jhàna (Dhyàna): le quattro esperienze superiori della meditazione; supremo


raccoglimento.

Jìvaka: medico del re Bimbisàra; si convertì al buddhismo e divenne un


8

grande benefattore dei buddhisti.

Kapilavatthu (Kapilavasthu): la capitale del regno dei sàkya.

Kusinara (Kusinagara): il piccolo capo-luogo dei Malla, nella vicinanza


del quale morì il Buddha.

Mahakàsyapa: uno dei primi e più grandi discepoli del Buddha. Venerato
come il primo patriarca dai seguaci dello Zen.

Mahàyàna: letteralmente 'grande veicolo' o 'via larga'. La forma setten-


trionale del buddhismo.

Màra: il maligno, il tentatore. Il dio della morte e della passione nella


tradizione indiana.

Màya: madre di Siddhàrtha. Si ritiene fosse una principessa della casa


reale di Koliya.

Mogallana (Maudgalyàyana): uno dei discepoli più grandi del Buddha. Fu


conquistato all'inizio della sua vita pubblica quando si trovava a
Ràjagriha.

Pasenadi (Prasenajit): re di Kosala; grande amico e fedele seguace del


Buddha.

Pataliputta (Pàtaliputra): l'odierna Patna, nello Stato indiano di Bihar.

Prajàpati: chiamata anche 'Mahàprajàpati', è la matrigna di Siddhàrtha. La


prima monaca buddhista.

Ràhula: figlio di Siddhàrtha Buddha, nato poco prima della sua rinuncia al
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mondo; poi divenne uno dei suoi discepoli.

Sàkyamuni: letteralmente 'il silenzioso dei sàkya', significa 'l'asceta


dei sàkya'; l'appellattivo più corrente del Buddha storico nella scuola
Mahàyàna.

Sangha: letteralmente 'gruppo': è la comunità monastica buddhista, la


quale è anche uno dei tre pilastri della religione buddhista.

Sariputta (Sàriputra): uno dei discepoli principali del Buddha; cittadino


di Ràjagriha.

Stùpa: costruzione buddhista a forma di cupola, in cui vengono conservate


le reliquie del Buddha e delle altre figure importanti del buddhismo
iniziale.

Suddhòdana: re dei sàkya e padre di Siddhàrtha.

Thèravàda: la scuola meridionale del buddhismo; letteralmente 'dottrina


degli anziani'.

Tipìtaka (Tripìtaka): letteralmente 'tre canestri'; il nome generico della


sacra scrittura buddhista in lingua pàli.

Upàli: uno dei dieci grandi discepoli del Buddha. Figlio di un barbiere di
Kapilavasthu, egli era famoso per la sua conoscenza delle regole monacali.

Upàsaka: laico fedele buddhista.

Upàsika: laica fedele buddhista.

Vàrshika: ritiro spirituale durante la stagione delle piogge.


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Vesali (Vaisàli): la capitale della confederazione Vajji; la città del


clan dei Liccavi.

Vinaya: disciplina, regola monastica. E' presentata nel Vinaya-Pìtaka del


canone pàli.

Yasòdhara: moglie di Siddhàrtha e madre di Rahula. Più tardi si fece


monaca.
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INTRODUZIONE

Una delle vie per accedere ad una religione, nell'intento di


capirla, sarebbe proprio quella di conoscere il suo fondatore. Conoscendo
la persona del fondatore e le sue parole e opere possiamo spesso farci
un'idea della sua religione. Nel caso del buddhismo la persona da
conoscere in questo senso è il Buddha. Ecco il primo motivo per la scelta
di 'Buddha' quale tema del presente quaderno nella serie degli studi sul
buddhismo. Il Buddha, però, non è semplicemente l'uomo che ha dato inizio
al movimento religioso buddhista; per centinaia di milioni di buddhisti è
incomparabilmente di più, la ragione per cui anch'oggi i fedeli buddhisti
di ogni confessione, nei momenti più significativi della loro vita
religiosa, ripongono il loro 'arana' (rifugio) nel Buddha ─ "io mi
rifugio nel Buddha". Come l'oggetto del loro arana, ciò che questo nome
'Buddha' rappresenta è anche l'oggetto della fede buddhista. Anzi è il
primo dei tre principi (tri-ratna - tre gioielli) della fede buddhista,
seguito da Dhamma (Dottrina) e Sangha (Comunità). Per esso è chiaro che
non ci può essere neanche una comprensione adeguata del buddhismo senza
che prima si ponga la domanda: chi è Buddha? E questo è il secondo motivo,
anche quello più genuino, per la scelta del presente tema.
Tuttavia la domanda, chi è Buddha? non è una che offre risposte
uguali. Sia tra i buddhisti che tra gli altri non esiste un'unico modo di
comprendere il Buddha. Prima di tutto bisogna notare che esiste una
demarcazione essenziale tra quello che potremmo chiamare il Buddha della
fede e il Buddha della storia. Per i fedeli buddhisti, ciò che viene
inteso sotto il nome di Buddha varia secondo i punti di vista teologica e
dottrinale della confessione buddhista a cui appartengono.
Il buddhismo non è una religione monolitica. Fin dalle sue origini
ci sono state divisioni all'interno ad essa. E queste divisioni si sono
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gradualmente consolidate in tre principali scuole o correnti, o più


attenente alla terminologia buddhista, vie o veicoli (yàna) di
liberazione: il Thèravàda (Hìnayàna) dell'Asia meridonale, il Mahàyàna
dell'Asia settentrionale e il Vajrayàna del Tibet. Ogni scuola porta in sé
i segni dell'inculturazione avvenuta a contatto con le religioni e culture
dei paesi dove il buddhismo si diffuse. Benché queste scuolo non si
esludono a vicenda, si distinguono tuttavia per le loro posizioni
dottrinali e le loro ideali spirituali. Ed una delle differenze dottrinali
tra varie scuole appunto consiste nel modo di comprendere il loro
fondatore, il Buddha.
Per i buddhisti di varie correnti, più delle volte ─ ma non sempre ─
il Buddha si identifica in qualche modo con la persona storica che è
conosciuta con quel nome. Anche per quanto riguarda il Buddha storico ─
già un problema in sé ─ i giudizi espressi dagli studiosi divergono tanto
da vedere in lui o un razionalista ateo o un grande filosofo umanitario o
un santo mistico. Riteniamo che sono tutti diversi modi possibili di
comprendere Buddha in base alla tradizione buddhista conservata in un
vasto corpo di scritti appartenenti a diversi periodi e diverse scuole e
tendenze interpretative.
Il presente lavoro vuol parlare semplicemente di Siddhàrtha Gautema
(nella lingua pàli: Siddhatha Gòtama) il quale rivendicò (o al quale fu
attribuito) il titolo del Buddha. Difatti il nome Buddha nella
molteplicità dei suoi significati ed interpretazioni benché non sempre si
identifichi con Siddhàrtha Guatema, è pur sempre in qualche modo vincolato
con questo personaggio. Al riguardo di questo personaggio esistono
testimonianze negli scritti buddhisti, perfino in quelli più antichi che
ci sono pervenuti. Dunque ciò che tentiamo qui è, in base a questi testi,
primariamente, di cercare di capire chi fosse e che avesse fatto questo
personaggio di ordinario o di straordinario nella sua vita (nei capitoli
2-6). In questo tentativo accenneremo semplicemente ai problemi storici
che tutt'ora circondano questa figura, ai problemi rappresentati dai testi
che parlano di lui, e al modo in cui è stato visto dai suoi seguaci (nel
13

capitolo 1).
Il teologo cattolico Romano Guardini in un famoso passo dove
paragonò il Buddha con Gesù, fece questa affermazione: "Una sola persona
ha tentato seriamente di porre mano all'essere stesso: il Buddha... Egli
ha tentato l'inaudito e cioè, rimanendo nell'esistenza, ha tentato di
scardinare l'esistenza in quanto tale."1 Infatti al di là di ogni
interpretazione settaria buddhista come anche quelle più generali, se c'è
un'impressione che deriva dai racconti della sua straordinaria storia, è
proprio quella di un uomo che, pur di trovare il senso della vita, si è
sforzato fino agli estremi limiti dell'umana possibilità; e indi ebbe una
convinzione, anzi una rara coscienza, di aver intravisto il vero volto
della realtà ─ oltre il mondo, oltre la morte.

1
Citato da H.Dumoulin, Buddhismo, Editrice Queriniana, Brescia 1981,
p.29.
Capitolo 1

BUDDHA - ALCUNE PRECISAZIONI

1. Il senso del termine


Stando all'etimologia, il senso del termine 'buddha' dovrebbe
risultare abbastanza chiaro. E' un termine sanscrito, la radice del quale
è 'budh', che significa 'conoscere' o 'prendere coscienza' o anche
'risvegliarsi'. Il sostantivo che ne deriva immediatamente è 'bòdha', e
significa 'la coscienza' o 'lo stato di sveglia' oppure anche 'la
conoscenza'. Un'altro sostantivo comune che ne deriva ed è utile tener
presente qui è 'buddhi', il significato del quale sarebbe 'la mente',
'l'intelletto' o 'l'intelligenza'. La parola 'buddha', così, può
significare: 'colui che si è risvegliato' oppure 'colui che ha preso
coscienza' o ancora 'colui che conosce'. Un'altro termine importante
derivato da questo, 'bòdhi', che è in uso dal tempo del buddhismo, sta per
indicare l'esperienza del suddetto risveglio o la presa di coscienza. Può
inoltre indicare quella coscienza stessa, ossia il suo contenuto, e quindi
la scienza, la coscienza, la conoscenza, di uno che è diventato buddha.2
Il significato de 'l'illuminato' che viene spesso dato alla parola
'buddha' non si basa sull'etimologia, ma può essere giustificato in quanto
ogni atto di conoscere, specie quando ciò si riferisce alla conoscenza
della verità, può essere inteso come un'illuminazione. Infatti i testi che
parlano dell'esperienza del Risveglio del Buddha, ne parlano come di una
illuminazione, di una luce che sorege. Va detto, però, che il senso
dell'illuminazione che si attiene alla parola 'buddha', come anche
all'esperienza del Buddha, è più precisamente quello di una, per così
dire, 'auto-illuminazione'. Vale a dire, in questo caso non esiste una
fonte di lume che non sia la mente stessa dell'illuminato. Più

2
V.S.Apte, The Student's Sankrit-English Dictionary, Motilal
Banarsidass Publishers, Delhi 1970.
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esplicitamente, se diciamo che 'buddha' è uno che è illuminato, ciò non


vuol dire comunque che egli debba la sua illuminazione a qualcun'altro, a
qualche essere celeste o Dio, per esempio.

2. L'estensione del termine; gli aspetti del Buddha


Chiaramente il termine 'buddha', sia nel significato di 'colui che è
illuminato' o di 'colui che si è risvegliato', è sempre un titolo e non un
nome personale. E a nostra conoscenza è esistita una sola persona che si è
avvalsa di questo titolo, e cioè la persona storica di Siddhàrtha Gautema,
benché alcuni testi buddhisti parlano dell'esistenza di molti Buddha. Per
quanto sembra Siddhàrtha Gautema avrebbe usato, o gli sarebbe stato
attribuito, anche un altro titolo, sia pure meno comunemente, e cioè
'Tathàgata'. Anche questo è un termine sanscrito. Ma è un termine
composto, e secondo le regole grammaticali di congiunzione (sandhi), può
essere o tat+àgata o tat+(a)+gata. Nel primo caso il termine può essere
tradotto come 'colui-che-è-così-venuto' e nel secondo caso, 'colui-che-è-
così-andato'. Anche se apparentemente è un'assurdità, abbiamo motivo per
pensare che il termine è stato usato coscientemente nel suo duplice
significato uno opposto all'altro. E in questo modo il termine farebbe una
chiara allusione alla sua acquisizione di Bodhi, e quindi al suo primo
titolo, il Buddha.3
A parte a questi titoli, ci sono altri appellativi e epiteti con cui
quest'uomo è conosciuto dai testi buddhisti. Sono nomi che si riferiscono
sia alla sua persona sia alla sua dignità. Gautema (pali: Gòtama) era il
suo nome di famiglia e quindi è spesso nominato come il signor Gòtama o
l'asceta Gòtama. Nei testi nella lingua sanscrita, di lui si parla spesso
come akya-muni ('il silenzioso', cioè l'asceta del clan dei akya). Era
chiamato Bhagavan (il Signore) dai suoi seguaci, e considerato
Arhant/Arhat (Degno), il santo, il maestro.
Se in molti dei casi dove si parla del Buddha nei testi buddhisti

3
Come diremo subito, il concetto del Buddha può essere messo in
relazione anche con la vera e ultima realtà. Ed è in tale contesto che si
capisce il senso autentico di questo suo titolo Tathàgata.
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questo è identificabile con la persona di Gòtama, ciò non sarebbe tuttavia


possibile in tutti i casi. Tecnicamente parlando, un buddha è chiunque che
abbia fatto l'esperienza di Bòdhi, simile a quella fatta da Gòtama.
Infatti l'invito rivolto dalla religione buddhista a tutti sarebbe proprio
quello di diventare a loro volta Buddha. A questo proposito è interessante
notare una distinzione che la tradizione buddhista fa tra il Samma-
Sambuddha e il Paccèka (sans. pratyèka) buddha. Mentre il primo è qualcuno
come Gòtama che è arrivato al sommo grado di Bodhi o d'illuminazione e
quindi detiene anche l'ufficio di pubblicamente annunciare la sua
dottrina, il secondo è un buddha privato che è arrivato al Bodhi seguendo
l'insegnamento di qualche Samma-sambuddha. Di questi paccèka buddha,
nascosti nel mondo e sconosciuti al pubblico, ci sarebbero stati e ci
sarebbero tutt'ora molti. Ma alcuni testi fanno riferimento anche ad altri
Buddha famosi, anche Samma-sambuddha come Gòtama, che sarebbero esistiti
in epoche lontane. Spesso queste figure vengono collocate in un ordine
temporale diverso dal nostro, consistente di altri cicli cosmici, evi e
periodi. Il Mahàpadàna Suttanta del Dìgha-nikàya, nella lingua pàli,
nomina sei altri Buddha che hanno preceduto il Buddha Gòtama; il numero
dei Buddha nei testi buddhisti di lingua sanscrita diventa ancora più
esteso, quasi infinito. Si parla persino dei Buddha futuri. Così, il testo
sanscrito Lalita-vistàra indica Dìpankara come il Buddha che ha preceduto
il Buddha Gòtama e Maitrèya (pali: Metteya) come il Buddha che gli deve
succedere nel futuro.
Anche se non si può escludere che alcuni dei Buddha nominati dal
Dìgha-nikàya, in particolare quelli inseriti nello stesso evo di Gòtama,
possono rifierirsi a qualche persone reali vissute in passato, è indubbio
che in genere queste sono figure mitiche. E possiamo dire che in questi
riferimenti ai Buddha mitici di altri tempi e di altri mondi, si rifletto-
no, più che altro, una particolare visione dottrinale buddhista e un modo
di comprendere il concetto stesso del Buddha.
Come si è detto nell'introduzione a questo lavoro, fin dall'inizio
della storia del buddhismo ci sono state divergenze di vedute al riguardo
del suo fondatore. Una tendenza comune era quello di innalzarlo al di
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sopra del piano umano e temporale e di collocarlo in quello della realtà


eterna ed immutabile. Già nel titolo del 'Buddha' accordato a lui si fa
sentire questa sua appartenenza ad una dimensione della realtà diversa da
quella del mondo. Sia nel suo significato de 'l'illuminato' sia in quello
de 'il risvegliato' o 'il conoscitore', il senso che prevale in questo
titolo è senz'altro qualche cosa di trascendente. Perché colui che è
diventato il Buddha, non è semplicemente uno che è illuminato, ma
veramente uno che è illuminato su tutto; egli non è uno che si è svegliato
da qualche forma di torpore, ma chi si è svegliato ad un'altra ─ quella
vera ─ dimensione della realtà. E ancora, la sua conoscenza non è
semplicemente di qualcosa, magari anche di importante, ma francamente
l'onniscienza. Per esso per i buddhisti di ogni tempo la parola 'il
Buddha' ha conservato un senso di essere oltre il mondo, e di appartenere
ad un'altra categoria delle cose.
A partire anche dai testi più vecchi, nelle parole dette da Gòtama o
nelle parole che sono state attribuite a lui, si può facilmente
riscontrare quell'idea. Spesso nei testi si trova un'espressione
sorprendente al riguardo del Buddha Gòtama: "il maestro degli uomini e
degli dèi". Che cosa quest'espressione voglia indicare non è difficile a
capire. Nel Anguttara-nikàya ad un interlocutore che gli chiede chi egli
sia, il Buddha risponde esplicitamente dicendo che egli non è né uomo, né
dio, né qualche altro essere celeste (gàndharva, yaka).4 Infatti egli è
superiore a tutti questi esseri e, in virtù del suo Bodhi, è in qualche
modo identificato con l'unica e vera realtà. In un altro passo
significativo il Buddha dirà: "Chiunque vede il Dhamma, vede me e chiunque

4
Anguttara Nikàya, II,37-39 in Buddhist Texts Through the Ages (ed. E.
Conze et al.), B. Cassirer Publishers, Oxford 1954, pp.104-105. E' molto
importante tenere presente che l'idea di dio o degli dèi che esiste nei
testi buddhisti non ha nulla a che fare con l'idea giudeo-cristiana di Dio.
Sono semplicemente esseri che vivono nel cielo, soggetti alla legge della
trasmigrazione e quindi non ancora illuminati o liberati. Infatti fino al
tempo del Buddha ed oltre, fino all'inizio dell'era cristiana, non esiste
nella tradizione indiana un concetto che equivale l'idea cristiana di Dio.
Esisteva invece in essa il concetto filosofico dell'ultima ed unica vera
realtà che veniva indicato come il Brahman dalle Upaniad e più
semplicemente come 'quello' (Tat) dai Vèda.
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vede me, vede il Dhamma".5 Ora, è riconosciuto che il Dhamma è un termine


che ha una molteplicità di significati, ed uno di questi significati è
appunto quello della Realtà Ultima.6 Non c'è dubbio che è in questo
preciso significato che il passo citato identifica il Dhamma e il Buddha.
Ed è ancora in base a questa identificazione, aggiungiamo, che la
confessione buddhista Mahàyàna concepisce la dottrina del tri-kaya (tre
corpi) del Buddha, con il Dharma-kaya (il corpo di Dharma) all'apice di
questa concezione, dove il Buddha non è altro che la stessa Realtà Ultima.
Questo è il Buddha lòkuttara (trascendente). E' chiaro che il Buddha
storico in qualche modo si identifica con esso in virtù del suo Bòdhi.
Infatti, secondo la concezione buddhista, il Buddha Gòtama dal momento del
suo Bodhi è colui che è effettivamente dipartito da questo mondo, che si è
completamente estinto. In questo suo aspetto, dicono i testi, è "profondo,
incommensurabile, insondabile". Ora, in merito a questo suo stato di
esistenza non si può dire nulla, poiché le categorie con le quali si può
definire uno stato di esistenza non vi trovano applicazione. Quindi se si
deve parlarne affatto, si deve parlare in termini negativi.7 Oppure lo si
deve fare con termini che sono altamente ambigui e paradossali, come per
esempio 'Tathàgata'.
In questa connessione è alquanto interessante a notare che nella
storia del buddhismo antico c'erano state perfino delle tendenze a negare
al Buddha della storia ogni sorta di reale esistenza nel mondo. Paragona-
bile all'eresia cristiana del docetismo, è esistita così in alcune scuole
del buddhismo la tendenza a considerare il Buddha sovramondano per tutti
gli effetti. Così nella scuola Vetulyaka e Lokuttaravada è prevalsa l'idea
che il Buddha che era apparso nel mondo era solo una apparenza, una forma
5
Samyutta Nikàya, III,120 in E.Conze, Buddhist Texts Through the Ages,
p.103.

6
Cfr. M.Zago, Buddhismo, Rizzoli, Milano 1997, p.16.

7
Cfr. Majjhima-nikàya I,487-88. Qui viene detto che del Buddha non si
può dire che egli 'sorge' né 'non sorge'. Né si può dire che egli 'sorge e
non sorge', e neppure che egli 'non sorge né non sorge'. Benché questo modo
di esprimere suoni assai strana, notiamo che è la quadruplice negazione che
i testi buddhisti di solito usano per indicare la realtà assolutamente
trascendente.
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mentale mandato dal vero Buddha trascendente, e non un uomo vero, per così
dire, in carne ed ossa.8

3. La figura storica
A parte al fatto in che modo avessero compreso i primi buddhisti la
figura di Gòtama attribuendogli appunto il titolo del Buddha, o che idee
avessero fatto di lui e della sua funzione in qualità del fondatore della
loro religione, esiste un'altro problema di carattere storico riguardo
alla figura di Gòtama. E cioè sapere chi fosse veramente questo
personaggio e sapere che cosa abbia veramente detto e fatto nella sua
vita. Il problema si presenta più precisamente in questo modo: quanto di
quello che è stato detto di lui e della sua vita è autentica storia? Noti
bene che la domanda non gira sull'esistenza storica dell'uomo Gòtama in
quanto tale ─ questa non viene più messa in discussione ─ ma sul carattere
storico o meno dei racconti che esistono sulla sua persona e sulla sua
vita. E questo è certo un problema assai complesso, un probema che si
collega in parte con la comprensione stessa del Buddha da parte dei primi
buddhisti, con il senso della storia, o meglio l'assenza di tale senso
nella tradizione indiana, con la scarsità dei dati biografici su Gòtama
nei testi antichi e della loro abbondanza in quelli tardivi e, in fine,
con la superficialità e un fasullo senso critico con cui alcuni studiosi
del passato hanno esaminato tutta la questione della storicità di questo
personaggio.
Come abbiamo indicato, fin dall'inizio i buddhisti hanno visto nel
loro fondatore un essere eccezionale, appartenente quasi ad un'altra sfera
della realtà e di esistenza. In questo contesto la domanda è più che
legittima: quanto interesse avevano veramente per questa sua esistenza
terrestre in cui egli sembrava di condividere le sorti degli altri
mortali? E' chiaro che anche se avevano un'interesse per questa sua
esistenza, ciò non poteva essere tale che potremmo definire 'biografico'.
Cioè, qualunque fosse loro interesse nella sua vita, esso non poteva
8
Vedi E.J.Thomas, The Life of Buddha as Legend and History, MLBD
Publishers, Delhi 1993, pp.215-216.
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essere certo quello rivolto a conoscere e conservare con esattezza le


circostanze e fatti della sua vita, per il valore stesso che una tale
conoscenza avrebbe comportato. L'idea stessa che la conoscenza storica
abbia un valore era alquanto estranea al tempo. Infatti, i riferimenti
alla vita del Buddha Gòtama che vediamo nei primi testi sono tutti
casuali, senza quasi nessuna intenzione diretta di fornire informazioni
biografiche su di lui. Ma detto questo, bisogna anche tenere presente che
almeno dal periodo in cui ha dato l'origine ad una comunità monacale ci
sono stati sempre testimoni oculari di tutto quello che aveva fatto questo
personaggio.
L'esigenza stessa di conoscere la vita del Buddha ─ o detto meglio,
la mancanza di una biografia del Buddha ─ si era avvertita solo più tardi,
molto dopo la morte del Buddha, quando gli autentici ricordi della sua
vita si erano già perduti od erano in via di perdersi. Però alcuni
buddhisti subito hanno fatto fronte a questa esigenza, e così hanno creato
"le biografie" del Buddha! Queste biografie scritte tra il 200 a.C. e 200
d.C., benché prendano spunti dagli episodi narrati dai testi più antichi
come le collezioni di Sutta e il Vinaya-pìaka, sono notoriamente più il
frutto delle immaginazioni e invenzioni dei loro autori che non dei fatti
accertati della vita del Buddha. Si pensa che quando mancavano
informazioni sul vero corso della vita del Buddha ─ e questo doveva essere
più delle volte il caso ─ questi autori ricorrevano alle leggende sulla
sua vita che v'erano in circolazione, e quando neanche queste bastavano
per colmare i vuoti lasciati dalla mancanza dei veri fatti, inventavano
addirittura le circostanze e fatti della della sua vita. Spesso ciò che si
riflette in queste biografie è l'antico piacere indiano di raccontare, e
raccontando di creare. Mancando un'idea della storia come quella che
esiste oggi, questa era davvero il modo indiano d'allora di concepire la
storia, un modo in cui fatti e miti, storia e leggende si intrecciavano
senza distinzione.
Diciamo però che esiste una fondamentale differenza in rapporto al
racconto della vita del Buddha tra le biografie posteriori e i testi
antichi del buddhismo, in modo particolare quei testi che fanno parte
21

delle scritture sacre buddhiste in lingua pàli. E' un fatto che nei testi
più antichi in genere non si trovano altro che dei brevi riferimenti alla
sua vita, o ad ogni modo non vi sono biografie o tratti estesi della
biografia del Buddha come li abbiamo nei testi composti più tardi. Ora, in
base a questi testi soli non sarebbe possibile costruire una vita del
Buddha che non si riduca a delle informazioni troppo generali e minime.
Bisogna pure notare che anche qui esistono qualche volta versioni diverse
dei fatti, il che complica ulteriormente l'impresa della ricostruzione
della sua vita basandosi su questi testi. Inoltre, bisogna dire che anche
nei testi in lingua pàli, considerati i più antichi, si avvedono leggende
e narrativi di carattere apocrifo se questi vengono presi tutti insieme.
Ovviamente anche alcuni dei testi pàli sono piuttosto tardivi. E d'altra
parte i testi sanscriti, nei quali senz'altro esiste molto più materiale
leggendario e mitico che in quelli pàli, non sono tutti posteriori
rispetto a quelli pàli, o almeno non di molto.
In genere tra i testi che parlano della vita del Buddha si può fare
una distinzione in base a tre periodi della sua vita a cui si riferiscono.
Così ci sono i testi che si riferiscono (1) al periodo tra la sua nascita
e la rinuncia, (2) alla ricerca spirituale e Bòdhi e (3) al periodo che va
dalla prima predica fino alla sua morte. Evidentemente sono leggende che
formano la maggior parte dei racconti relativi alla prima fase della sua
vita, mentre di leggende ce ne sarebbero poche nei racconti che parlano
della sua vita a partire dall'inizio della sua predicazione. Quest'ultima
è anche la fase della sua vita in cui, ricordiamo, era sempre accompagnato
da un gruppo di monaci. E parlando ancora in un modo generale, si può dire
che in questi racconti sulla vita del Buddha si può scorgere sia
l'esistenza dei fatti semplicemente inventati, sia l'esistenza dei fatti
reali, che perdendo i loro contorni storici hanno assunto una forma
leggendaria e mitica e sia l'esistenza dei fatti storici come tali.
Il problema storico che riguarda la vita del Buddha, come abbiamo
detto, è assai complesso. Il vero problema è di poter districare il vero
personaggio storico dalle sue incrostazioni leggendarie e mitiche, e di
poter distillare i veri fatti della sua vita da un ammasso di fatti e
22

circostanze reali ed inventati. E questo si è rivelato un'impresa per


niente facile agli studiosi della storia del Buddha. Ormai si pensa che,
oltre a conseguire una conoscenza approssimativa degli eventi che fanno
parte della sua vita, e del loro corso, una biografia critica e
dettagliata di lui sia impossibile a costruire. Ma bisogna aggiungere che
a differenza dei tempi passati, quando certi studiosi mettevano in
discussione tutto quanto esiste negli scritti buddhisti sulla vita del
Buddha, oggi esiste un consenso tra gli studiosi nell'ammettere la
generale storicità dei fatti che si presentano negli scritti buddhisti.
Infatti uno studio comparato ed attento dei testi buddhisti appartenenti
alle diverse scuole e correnti dimostrerebbe che, nonostante tutte le
divergenze, negli essenziali essi concordano. Inoltre, le altre tradizioni
contemporanee al buddhismo che si conservano ancora, come per esempio la
tradizione della religione jainista, conferebbero la generale
attendibilità storica della tradizione buddhista per quanto riguarda la
vita del Buddha. Naturalmente in ogni tentativo di delineare la vita reale
del Buddha, vanno scartati anzitutto i racconti fantastici ed immaginari,
i quali sono anche facilmente riconoscibili come tali, e quindi
l'attenzione viene centrata sui racconti, a partire da quelli contenuti
nei testi più antichi, che parlano in modo sobrio sulle vicende del
Buddha.

4. I testi
Nella tradizione buddhista esiste infatti una ricca letteratura
biografica ed agiografica sul Buddha. Tuttavia, come abbiamo detto, i
testi che si presentano in forma di biografie sono tardivi, e si avvedono
in essi una mescolanza molto particolare dei fatti, miti e leggende. Per
questa ragione, sono i testi più antichi che si considerano più affidabili
in ordine alla conoscenza della vita del Buddha.
Ora, indubbiamente è il cosiddetto 'Canone pàli' della scuola
buddhista chiamata Thèravàda che contiene i testi più vecchi del
buddhismo. E tuttavia non tutti i testi di questo canone sono ugualmente
23

vecchi, né tutti i suoi testi necessariamente più vecchi di tutti i testi


degli altri canoni. Il canone pàli è famosamente chiamato il Tipìaka
('tre canestri'), ed è composto dal canestro di Sutta o Discorsi (Sutta-
pìaka), il canestro di Vinaya o la disciplina monacale (Vinaya-pìaka) e
il canestro di Abhidhamma o ciò che concerne il dhamma (Abhidhamma-
pìaka).
Tra questi tre canestri, l'Abhidhamma viene considerato una
composizione assai tardiva, ed esso non è neanche interessante per la
conoscenza della vita del Buddha. Il Vinaya certo contiene episodi della
vita del Buddha, ma avviene che questi episodi sono riportati in questo
testo spesso con il proposito di chiarire le regole monacali o di
inquadrare un discorso sulla loro osservanza. Per questo motivo rimane
sempre qualche dubbio sull'attendibilità di questi racconti. Sebbene
alcune sezioni del Vinaya possono essere tra i testi più antichi del
buddhismo, tale qualifica meritano soprattutto i Sutta o i Discorsi. Ad
eccezione della collezione di discorsi denominata il Khuddaka-nikàya
('Collezione dei testi brevi') tutti gli altri Nikàya o collezioni di
sutta ─ Dìgha-nikàya ('Collezione dei testi lunghi'), Majjhima (testi
medi), Samyutta (testi connessi) ed Anguttura (testi 'uno in poi') ─
possono essere considerati le composizioni più antiche che esistono nel
buddhismo. E si pensa che queste composizioni risalgono ad un periodo
immediatamente successivo alla morte del Buddha. Naturalmente sono qui che
si conservano anche i ricordi più autentici sulla sua vita e sulle sue
opere.
Non tutti i testi contenuti nel Khuddaka-nikàya sono, però,
invariabilmente tardivi. Il Dhammapàda e gli Udàna sarebbero antichi come
i testi degli altri Nikàya, almeno a giudicare dai loro contenuti. La
sezione 10 del Khuddaka, intitolata Jàtaka, è senz'altro interessante dal
punto di vista dei racconti sulle vicende del Buddha, ma è una composizio-
ne abbastanza tardiva. E qui sono contenute molte storie leggendarie
riguardanti anche le nascite ed esistenze anteriori del Buddha. Un altro
testo nello stesso Nikàya (la sezione 14), Buddhavama, fornisce un
racconto della vita del Buddha, inclusa una cronologica dei fatti che
24

sarebbero accaduti nei primi vent'anni della sua predicazione. Nidàna-


katha è un testo in lingua pàli, ma non canonico, che parla della vita del
Buddha fino alla sua illuminazione.
Il Lalita-vistàra, invece, è un testo in lingua sanscrita, ed
appartiene ai libri canonici della scuola Mahàyàna, ossia al cosiddetto
'Canone sanscrito'. Questo testo è una narrativa della vita del Buddha a
cominciare dalla sua discesa dal cielo e fino al suo primo sermone dopo
l'illuminazione. Nella stessa lingua e dello stesso genere è anche il
testo nominato Mahàvastu. Esso apparteneva ad una delle primitive scuole
buddhiste poi scomparse, il Mahàsànghika, ed ora fa parte dei testi della
scuola Mahàyàna. Infine, esiste anche una biografia del Buddha nel senso
più stretto ─ il Buddhacarita (Gli atti del Buddha) del poeta sanscrito
Avaghoa. Questa opera risale al II sec. d.C., probabilmente già
all'inizio di quel secolo. Questa, come anche gli altri testi biografici,
è l'opera di un pio buddhista che narra la vita del Buddha in base alla
tradizione buddhista conservata nei testi sacri e nelle leggende esistenti
tra i buddhisti fedeli del tempo. La reputazione di Avaghoa nella chiesa
buddhista del tempo, come sappiamo, era piuttosto di un sant'uomo che non
di un biografo del Buddha.9 E' un fatto che dice molto sul carattere
particolare della biografia del Buddha di Avaghoa.

9
Cfr. Avaghoa, Buddhacarita or Acts of the Buddha (trad. & intr. da
E.H.Johnston), Motilal Banarsidass, Delhi 1978, p.xxxv.
Capitolo 2

IL PRINCIPE SIDDHARTHA:
LE LEGGENDE E LA STORIA

Una volta le date del Buddha erano considerate certe. La sua morte
sarebbe avvenuta nell'anno 486 a.C., e dato che visse ottant'anni, la sua
nascita doveva essere nel 566 a.C. Questa computazione di date del Buddha
era basata su un fatto storicamente certa, quale l'intronizzazione
dell'imperatore Aoka, la data di cui può essere fissata al 268 a.C. Aoka
è il personaggio che ha nella storia del buddhismo una posizione, potremo
dire, paragonabile a quella dell'imperatore romano Costantino nella storia
del cristianesimo. Dopo la sua conversione al buddhismo, è stato Aoka a
guidare le sorti del buddhismo inviando missionari per la sua propagazione
sia all'estero che ai vari regioni del suo regno. Naturalmente le fonti
buddhiste fanno riferimenti a Aoka. E in uno di questi riferimenti si
dice che la sua accessione al trono era avvenuta 218 anni dopo la morte
del Buddha. Ovviamente, è in base a questa notizia che si arriva al 486
a.C. quale l'anno della morte del Buddha. Ma stranamente le stesse fonti
buddhiste danno anche un'altra data al riguardo dell'intronizzazione di
Aoka in rispetto alla morte del Buddha. Cioè, l'intronizzazione sarebbe
avvenuta solo a distanza di 100 anni dalla morte del Buddha. Se fosse
così, la morte del Buddha allora sarebbe avvenuta nel 368 a.C., e la sua
nascita nel 448 a.C.
Anche se tutte le due date hanno dei punti a loro favore, di recente
alcuni studiosi si sono espressi in favore della data più recente. Bechert
colloca la morte del Buddha tra 375-355, 10 e a più o meno la stessa data
arriva anche Erdosy usando apparentemente dei dati archeologici.11
10
H.Bechert, 'The Date of the Buddha Reconsidered' in Indologica
Taurinensia, 10 (1981), pp.29-36.

11
G.Erdosy, 'The Archaeology of Early Buddhism', in N.K. Wagle and F.
Watanabe (editori), Studies on Buddhism in Honour of Professor A.K. Warder,
26

D'altronde esiste anche la possibilità che né l'una né l'altra data


menzionata dalle fonti buddhiste sia necessariamente vera. Pertanto
diciamo solo che non siamo più certi sull'esatta data della vita del
Buddha. Comunque bisogna dire che la tendenza tra gli studiosi oggi è di
collocarla più vicino alla data più recente menzionata dalle fonti. P.
Harvey nel suo libro sul buddhismo dà il 480-400 a.C. come la data
probabile della vita del Buddha.12 Se è assolutamente necessario a dare una
data per la vita del Buddha, allora diciamo semplicemente che il Buddha ha
vissuto intorno al V secolo a.C.
Era un periodo in cui c'erano in India alcuni regni relativamente
grandi, e ai loro margini molti altri stati loro satelliti. La geografia
politica in questo periodo era di breve duratura; essa rimaneva immutata
solo fino a quanto qualche re non decideva di annettere qualche altro
stato al suo ─ il che succedeva spesso ─ o che qualche famiglia regnante
non entrava in contratti matrimoniali con un'altra, appropriando o
espropriando province e parti dei regni in dote per il matrimonio. I
piccoli stati ai margini dei grandi regni erano più delle volte costituiti
dai clan che erano relativamente autonomi nei loro affari. Il clan dei
àkya (pali: Sakiya) al quale apparteneva il Buddha (per esso
l'appellativo dato al Buddha, 'àkya-muni'), occupava un piccolo
territorio all'estremità nord del grande regno di Kosala. Per via di un
mitico antenato chiamato Ikavàku, i àkya pure si vantavano di parentela
con la dinastia di Kosala. Ma curiosamente ─ che è anche un indicatore
alle vicende politiche del tempo ─ secondo alcune fonti buddhiste, già
qualche anno prima della morte del Buddha il re Virùdhaka (pali: Vidùdaba)
di Kosala aveva soppresso lo stato dei àkya annettendolo al regno di
Kosala. Sarà questo il motivo perché il cosiddetto regno dei àkya non
figuri nella storia generale dell'India antica, se non solo nelle fonti
buddhiste.

University of Toronto Centre for South Asian Studies, Toronto 1993, pp.40-
56.

12
P.Harvey, Introduzione al Buddhismo: Insegnamenti, storia e pratiche,
Le Lettere, Firenze 1998, p.35.
27

E' possibile oggi determinare con sufficiente precisione il


territorio che, pur breve periodo, era sotto il dominio dei àkya. Esso si
trova oggi diviso tra l'India e Nepal. Le demarcazioni territoriali dello
stato dei àkya erano le montagne dell'Himalaya a nord, il fiume Ròhini ad
est e il fiume Aciràvati (od. Ràpti) ad ovest e a sud. Consisteva di una
regione abbastanza pianeggiante, molto fertile, parzialmente ricoperta di
foreste e estesa circa 900 miglie quadrate.13 La sua capitale era Kapilava-
sthu (pali: Kapilavatthu) ─ una città che non poteva essere molto grande,
sebbene qualche volta se ne parla nei testi buddhisti come una città
popolosa le cui vie erano pieni di carri, cavalli e pedoni. Il governo per
quanto sembra era una forma di aristocrazia capeggiata da uno dei suoi
membri il cui ruolo doveva essere ereditario. I àkya si dice che
appartenevano alla casta di katriya, cioè la casta guerriera, che ha
sempre occupato una posizione privileggiata all'interno della divisione
societaria indù. Ad ogni modo, che i àkya occupavano politicamente e
militarmente un posto molto modesto tra i loro vicini è abbastanza chiaro.
L'uomo a capo del governo dei àkya probabilmente portava il titolo
di re (rajah). E sarà per questo il futuro Buddha, che era figlio di un
tale capo, verrà poi sovente identificato dai testi come figlio di un re.
Ma è degna di nota che è una sola volta nell'intera sacra scrittura pàli
che si riscontra l'affermazione che era figlio di un 'grande re' (Mahà-
rajah). Tale esaltazione della statura personale del futuro Buddha è
propria delle opere nella lingua sanscrita che sono molto posteriori
nonché marcatamente tendenti ai racconti favolosi.

1. Il concepimento e la nascita
I testi più antichi del Buddhismo che conosciamo, i primi quattro
Nikàya del canone pàli, è parca di informazioni personali sul Buddha. Che
si chiamava Siddhàrtha, che era di famiglia nobile (di nome 'Gòtama'), che
era di Kapilavasthu e che i genitori erano uddhòdana e Màya sono presso
che tutto ciò che può essere appreso dai primi Nikàya. Infatti vediamo
13
R.R.Diwakar, Bhagawan Buddha, Bharatiya Vidya Bhavan, Bombay 1991,
p.25.
28

tutte queste informazioni personali sul Buddha riassunte già in un breve


paragrafo del Mahàpadàna Suttanta: "Il Sublime è di nascita nobile, sorto
nella classe dei nobili. Il Sublime è di famiglia Gòtama... Al ublime è
padre il re uddhòdana, la divina Màya fu madre e genitrice. Capitale la
città Kapilavatthu."14
Così pure, fatta eccezione di un Sutta che s'intitola Eventi
mirabili e meravigliosi contenuto nel Majjhima-nikàya, i testi antichi
fanno silenzio sul corso della vita del Buddha fino all'avvio della sua
ricerca spirituale. Sono testi tardivi come Jàtaka, Nidàna-katha,
Mahàvastu e Lalita-vistàra che raccontano la prima fase della sua vita.
Benché qualche elemento storico si possa pur trovarvi ─ il quale però
potremmo difficilmente determinare tale ─ i loro racconti sono di genere
mitico e leggendario. Già le loro biografie del Buddha cominciano non con
la sua esistenza terrena, bensì con la sua preesistenza in altri mondi; e
14
D., XIV,iii,30. Se questo è un Sutta che ha un carattere affatto
mitologico, è anche il testo più antico che fornisce più informazioni sulla
persona e sulle vicende del Buddha. Il suo carattere mitologico non del
tutto annulla il valore storico delle informazioni ivi contenute. Infatti, i
miti stessi in parte sembrano essere modellati sulle vicende reali che sono
occorse al Gòtama Buddha.
I nomi come 'Gòtama', 'Siddhàrtha', 'Màya', 'uddhòdana' ecc. sono
stati oggetti di particolare attenzione da parte di alcuni studiosi in
passato. Gli studiosi come Senart, H.H. Wilson ecc. hanno trovato in questi
nomi la conferma per la loro ipotesi sul carattere assolutamente mitologico
di tutti i racconti che riguardano il Buddha. 'Gòtama' (sans. 'Gautema')
sarebbe un veggente brahmino nominato negli antichi Vèda, e il fatto che una
famiglia della casta katriya come quella del Buddha abbia lo stesso nome
creava perplessità. Il nome stesso 'Siddhàrtha' significa letteralmente
'colui che ha raggiunto il suo scopo', il che già adombra il suo futuro
stato di Bòdhi; 'Màya' significa 'potenza magica' oppure 'illusione cosmica'
e 'uddhòdana', 'puro riso' ─ tutti nomi che non fanno altro che additare al
carattere fittizio dei racconti connessi con le persone che portano tali
nomi! E tuttavia il fatto è che questi erano semplicemente nomi di persone
in India allora, come del resto anche oggi. E come per tutti gli altri nomi
indiani, si può ricavare, se si vuole, un significato letterale anche per
questi nomi, sia pure esso ridicolo come il 'puro riso' di uddhòdana. Va
notato in questa sede che il significato di 'illusione cosmica' per il nome
'Màya' non esisteva certamente nel periodo del Buddha; tale significato del
termine è da collegare con la scuola filosofica detta Advaita Vèdanta (VIII
sec. d.C.). E per essere certi che questi sono nomi personali e non hanno
delle intenzioni segrete o simboliche basti notare che il grande antagonista
del Buddha, un tipo come Giuda dei Vangeli, ha il nome 'Dèvadatta' che
significa letteralmente 'dato da dio'! Vedi anche H.Oldenberg, Budda,
Dall’Oglio Editore, Milano 1973, pp.107-9.
29

la sua vita viene vista in analogia con quelle di altri Buddha dei tempi
mitici. Per questi testi il Buddha Siddhàrtha è solo un caso tra molti
altri; egli non è né il primo Buddha né sarà l'ultimo. L'eventuale
apparizione di Siddhàrtha il Buddha nel nostro mondo è preceduta da una
serie di esistenze sue in vari altri mondi, e in fine dalla sua esistenza
nel mondo celeste degli esseri felici, il mondo Tuita. Questa visione del
Buddha presente in questi testi si collega direttamente con l'idea
buddista delle rinascite e con il concetto del 'Bòdhisattva' (pali:
Bodhisatta). Anche il Buddha è un essere che diventa tale alla fine di un
processo di perfezionamento spirituale intrapreso durante un incalcolabile
numero di rinascite in diversi stati e stadi dell'esistenza. La sua
nascita finalmente nel mondo Tuita è ciò che inaugura l'ultima tappa
della sua esistenza che lo porterà al Bòdhi, l'illuminazione. Nel mondo di
Tuita egli esiste già in qualità di un Bòdhisattva, cioè un "Buddha-che-
sarà" o uno di cui sattva (natura, sostanza, disposizione) è rivolto al
Bòdhi. Un Bòdhisattva è un Buddha in potenzialità; egli deve solo
scegliere il quando e il dove del suo ingresso nel nostro mondo per
l'eventuale realizzazione piena di questa sua potenzialità.
I nostri testi parlano dell'indagine che il Bòdhisattva compie
rimanendo nel mondo Tuita riguardo a il tempo, il paese, la casta, la
famiglia e i genitori per la sua venuta nel mondo. Sceglie il presente
evo, sceglie il Jambu-dvipa (cioè l'India) e sceglie la casta katriya
(perché esiste una regola che un Bòdhisattva deve nascere in una delle due
caste superiori). Il suo apparire nel mondo è un evento straordinario ─
viene concepito e partorito miracolosamente. Riportiamo il racconto che ne
fa il grande poeta buddhista Avaghoa nel suo Buddhacarita che riproduce
il meglio della tradizione buddhista presente in questi testi che parlano
della nascita del Buddha.
"C'era una volta un re degli invincibili akya, rampollo della razza
solare, il cui nome era uddhòdana. Era puro nella condotta, e amato dagli
àkya come la luna autunnale. Aveva una moglie splendida, bella e fedele,
che veniva chiamata la Grande Màya, per la sua somiglianza con Màya, la
Dea. Questi due conoscevano le gioie dell'amore, ed un giorno ella concepì
30

il frutto del suo grembo, ma senza contaminazione alcuna, alla stessa


maniera in cui conoscenza unita alla concentrazione mentale fruttifica.
Poco prima del concepimento ella ebbe un sogno. Un bianco elefante reale
le sembrò che penetrasse il suo corpo, ma senza causarle alcun dolore.
Così Màya, regina di quel re simile a un dio, portò nel suo grembo la
gloria della sua dinastia. Tuttavia ella rimase libera dagli affanni,
afflizioni, e capricci che di solito accompagnano le gravidanze. Casta
ella stessa, desiderò ritirarsi nella pura foresta, nella cui solitudine
poteva praticare la concentrazione mentale. Ella si mise in mente di
andare a Lumbini, un meraviglioso boschetto, con alberi d'ogni tipo.
Chiese al re di accompagnarla, e così lasciarono la città, e andarono in
quello splendido boschetto.
"Quando la regina si accorse che il tempo del parto si stava
avvicinando, si ritirò su un giaciglio coperto da una tenda, migliaia di
ancelle intorno con la gioia nel cuore. La costellazione propizia di Puya
splendeva luminosamente quando un figlio nacque alla regina, per il bene
del mondo. Egli venne fuori dal fianco della madre, senza causarle dolore
o danno. La sua nascita fu miracolosa come quella di eroi dell'antichità
che nacquero dalla coscia, dalla mano, la testa o ascella. Così egli uscì
dal grembo come si addice ad un Buddha. Egli non venne al mondo nel modo
usuale, ed apparve come uno disceso dal cielo. E dal momento che si era
impegnato per molti cicli cosmici nel perfezionamento del suo essere, egli
nacque in piena consapevolezza, e non senza pensiero e disorientato come
sono gli altri. Una volta nato, fu così splendente e sicuro che sembrò
come se il figlio del sole fosse sceso sulla terra. Eppure, quando la
gente fissava la sua abbagliante lucentezza, egli sosteneva i loro sguardi
come la luna. Le sue membra splendevano del colore radioso d'oro prezioso,
ed illuminavano lo spazio tutt'intorno. Immediatamente egli fece sette
passi, con sicurezza e a grandi passi. Con la sopportazione di un leone
contemplò le quattro direzioni e pronunciò queste parole piene di
significato per il futuro: ─ Per l'illuminazione io sono nato, per il bene
di tutto ciò che vive. Questa è l'ultima volta che sono nato in questo
mondo di divenire ─."15
Trattandosi dei racconti alquanto favolosi, non è certo importante
ma può essere tuttavia interessante notare alcune variazioni che si
presentano nei diversi testi. Nel Nidàna-katha il sogno di Màya è molto
più elaborato: mentre lei dorme, viene sollevata con il suo letto da
quattro grandi re e trasportata sulle montagne dell'Himalaya, dove in un
lago di purissime acque viene fatta fare il bagno, e quindi vestita e
adornata dalle loro regine. Dunque è posta su un ampio letto in un palazzo
d'oro sulla cima di una montagna d'argento. Ed è qui che successivamente
il Bòdhisattva, nella forma di un elefante bianco con un fiore di loto nel
suo proboscide e emettendo il suono del barrire, entra nel suo grembo. Per
il Lalita-vistàra prima del concepimento Màya prende su di sé il voto di
castità con il consenso di uddhòdana; e arriva al giardino di Lumbini
durante il suo viaggio da Kapilavasthu alla sua casa paterna; e la nascita
del Bòdhisattva avviene mentre lei sta in piedi aggrappata ad un ramo di
un albero in fiore. Alcuni altri testi aggiungono che durante tutto il
periodo di gestazione, il Bòdhisattva rimane visibile nel ventre di sua
madre, e che al medesimo istante della sua nascita vengono al mondo anche
la sua futura moglie, il suo elefante, cavallo e scudiero, come pure
l'albero sotto il quale poi otterrà l'illuminazione.
I testi in genere parlano dei fenomeni eccezionali che accompagnano
nascita del futuro Buddha. Si odono musiche celesti e tutta la terra viene
colta da un tremore; gli dèi scendono giù dal cielo per onorare il futuro
Buddha. Il Nidàna-katha fa un elenco di trentadue segni straordinari che
appaiono nel mondo al momento della sua nascita. Rifacendo ad alcuni di
questi segni, Avaghoa poetizza: "In quel tempo le creature nocive
stettero assieme e non si recarono danno a vicenda. Qualunque malattie
c'erano tra gli uomini, queste furono facilmente guarite. Gli uccelli e i
daini non gridarono, e i fiumi scorsero con acque tranquille. Le regioni
divennero chiare e il cielo brillò libero da nubi; i tamburi divini
risuonarono nell'aria. Quando il maestro della liberazione degli esseri

15
Avaghoa, Buddhacarita, I,1-15. Il presente testo in italiano è
preso da E.Conze, Scritture buddhiste, Ubaldini editore, Roma 1973, pp.29-
30.
nacque, il mondo divenne oltremodo pacifico come se avesse ottenuto un
sovrano."16
In questi racconti, è degno di nota il fatto della sua nascita sotto
un albero. E' chiaro che questo fatto assunse un significato particolare,
quasi simbolico nella mente di questi primi biografi del Buddha. Esiste
infatti nei racconti della vita del Buddha un forte legame con gli oggetti
e ambienti vegetali ─ gli alberi, giardini, parchi, foreste. E' interes-
sante notare anche che altri due avvenimenti chiavi della sua vita come il
Bòdhi e il Parinivàna (morte) avverranno sotto gli alberi.
L'unico punto forse storicamente rilevante in tutti racconti della
nascita è che il futuro Buddha nacque in un luogo che si chiamava Lumbini,
a qualche chilometro di distanza da Kapilavasthu. Infatti il luogo è stato
identificato già nel 248 a.C. con l'erezione di una colonna da parte
dell'imperatore Aoka, che porta questa iscrizione: "Quando il re
Priyadari [il titolo di Aoka nelle iscrizioni], l'amico degli dèi, era
consacrato da vent'anni, venne qui in persona e rese omaggio, perché qui è
nato il Buddha, l'asceta dei akya. Egli ha fatto scolpire un cavallo in
pietra ed erigere una colonna in pietra; e per il fatto che il Signore è
nato qui, il villaggio di Lumbini è stato esentato dalle tasse, ed è
obbligato a pagare solo un'ottava parte [dei prodotti di terra]."17 Oggi,
accanto a questo sito si trova un antico tempio indù che contiene la
raffigurazione della nascita del Buddha dal fianco di Maya.

2. La profezia, la giovinezza
Il testo canonico Sutta-nipàta (679-95) contiene la versione più
antica di una leggenda ─ che sarà poi riportato anche da testi tardivi
non-canonici ─ della visita di un veggente chiamato Àsita al neonato.
Àsita dalla sua dimora in Himalaya vede un giorno i trentatré dèi (gli dèi
nominati nei Vèda) del cielo in un atto di giubilo senza precedenti.
Neanche quando gli dèi avevano riportato la vittoria contro gli asura (i
16
Buddhacarita, I,25-27.

17
L'iscrizione di Aoka a Rummindei. Vedi R.Basak (ed.), Aokan
Inscriptions, Progressive Publishers, Calcutta 1959, pp.149-50.
demoni) ci fu una gioia simile, si ricorda. Àsita dunque interroga gli dèi
sul motivo della loro incontenibile allegria. E gli dèi gli riferiscono il
motivo, che è la nascita del Bòdhisattva nel villaggio dei àkya nella
regione di Lumbini per il bene del mondo. Udito questo, Àsita viene alla
casa di uddhòdana e chiede di vedere il bambino. I àkya mostrano il
bambino. Àsita lo riceve, ed è sopraffatto dall'amarezza non meno dalla
gioia e versa lacrime. Mentre uddhòdana si allarma, Àsita profetizza
dicendo "Costui non ha superiore; egli è il Supremo fra gli uomini. Il
principe conseguirà la somma, totale Illuminazione (sambodhi); porrà in
moto la Ruota del Dhamma (predicherà la Dottrina)." E spiega il motivo del
suo pianto: "Non resta lungo tempo alla mia vita; nel mezzo della Sua vita
giungerà per me la fine: Io non ascolterò il Dhamma (la Dottrina) di
Quegli che non ha pari."18
I testi extra-canonici parlano di altre profezie e di altre
circostanze. uddhòdana, secondo il costume del tempo, avrebbe invitato i
dotti brahmini del suo regno a trarre l'oroscopo del bambino e predire il
futuro. Scorgono i tradizionali trentadue segni di eccellenza sul corpo
del bambino,19 e pronosticano un grande futuro per lui. O diventerà un
grande sovrano (Cakravarti, letteralmente 'colui che gira la ruota', cioè
colui che ha nelle mani il governo) che dominerà tutto il mondo o
diventerà un Buddha. Il primo caso si avvererà se decide di rimanere a

18
Sutta-nipàta, 690,693-4. Notiamo che molti studiosi hanno visto in
questo racconto una stretta somiglianza con il racconto evangelico di
Simeone (Lc., 2,25-32). Al di là della questione di dipendenza storica tra
questi racconti, che rimane irrisoluta e che in fondo non è neanche tanto
interessante, sono indicativi della visione teologica cristiana e buddhista
dei loro rispettivi fondatori, gli atteggiamenti di Simeone e Àsita. Mentre
Gesù è il salvatore aspettato e il figlio di Dio, la cui nascita stessa è
l'inaugurazione della salvezza e la sua vista, beatitudine ─ quindi Simeone
può dipartire in pace ─, Siddhàrtha è solo un uomo che si acquisterà la
salvezza per sé, la quale poi egli comunicherà agli altri nel suo annuncio
del dhamma. Àsita ha ragione per sentirsi deluso perché la sua vita è breve.
Diciamo che questa è almeno la visione buddhista del suo fondatore che
traspare dai testi canonici pàli più antichi come il brano citato sopra.

19
Questi segni corporali di grand'uomo sono descritti in vari scritti
della tradizione indiana. Possiamo trovarli anche in Dìgha-Nikàya
(XIV,i,32). Sono segni come piedi ben fatti, snello calcagno, lunghe dita,
morbide mani, pelle liscia, peli ricci, mascella forte, occhi neri, lunga
lingua e così via.
casa e il secondo, se se ne andrà via. I brahmini indicano anche la
circostanza che l'avrebbe indotta a rinunciare a casa e al trono ─ la
vista di quattro segni nella forma di un vecchio, un malato, un cadavere e
un monaco.
Un fatto che sembra storicamente attendibile in questi racconti
sugli eventi che si susseguono alla nascita del futuro Buddha è la morte
di Màya qualche giorno dopo la sua nascita. I testi dicono che ella morì
sette giorni dopo la sua nascita (M., III,122), e aggiungono che è un
destino che tocca in sorte alle madri di tutti i Buddha. Il bambino viene
affidato alle cure di Prajàpati detta la grande (Mahàprajàpati), la
sorelle minore di Màya, la quale poi diventa la seconda moglie di
uddhòdana. Mahàprajàpati lo alleva con cura e amore non minore di quello
che sarebbero stati della sua stessa madre.
Siddhàrtha passò la sua giovinezza a Kapilavasthu, nel palazzo di
suo padre. Ricevette l'educazione che competeva alla sua condizione di
principe, in speciale modo l'educazione nell'arte del governo e nelle arti
marziali. Suo padre uddhòdana, attratto come era dalla prima alternativa
indicata dalla profezia dei sacerdoti brahmini, si dice che contemplò vie
per assicurare la sua permanenza al palazzo. Si preoccupò prima di tutto
di impedire che il principe venisse in contatto con gli aspetti spiacevoli
dell'esistenza umana come la vecchiaia, malattia e morte, che sarebbero
stati, secondo la profezia, la causa immediata del suo abbandono della
casa. Cercò inoltre di distrarlo dai problemi reali della vita
circondandolo con ogni comodità e lusso, e con la moltiplicazione dei
piaceri mondani, immaginabili in una corte reale. La tradizione vuole che
di giorno e notte era circondato da giovani danzatrici e suonatrici.
Ci sono riferimenti casuali anche nel canone riguardo la vita di
mollezza del principe al palazzo. Anguttara Nikàya (I,145) riporta
l'attenzione e la cura di cui era circondato dai suoi servi e serve, e
parla di tre palazzi messi a sua disposizione dal suo padre per
trascorrere le varie stagioni dell'anno sicché potesse evitare perfino le
intemperie.
Al di là di questi racconti di una esistenza tutta presa da
35

distrazioni e sommersa nei piaceri, i testi a volte alludono anche ad un


altro aspetto della vita del giovane principe. Il giovane avrebbe mostrato
fin dall'inizio una inclinazione per la riflessione e la meditazione
solitaria. Dunque viene raccontato un episodio della sua meditazione sotto
l'ombra di un albero di jambu (melo-rosa) nella campagna, nella proprietà
di suo padre. Infatti più tardi, in un momento decisivo della sua ricerca
spirituale, Siddhàrtha si ricorderà di questa esperienza meditativa, e
della schietta gioia che ne aveva ricavato.

3. La crisi, le uscite
Forse era parte della strategia di uddhòdana per legare Siddhàrtha
più saldamente alla vita famigliare, egli lo fece sposare mentre ancora
giovane. Si dice che aveva compiuto solo sedici anni quando sposò
Yaòdhara, una giovane e bella ragazza della sua parentela. La moglie di
Siddhàrtha è nominata diversamente in vari testi. In Mahàvama è chiamata
Bhaddakaccana mentre nel commentario di Jàtaka, Bimba e ancora nel Lalita-
vistàra, Gòpa. E' anche possibile, come hanno rilevato alcuni studiosi,
che si tratti di diverse persone e quindi che Siddhàrtha aveva più di una
moglie. In ogni caso la sua vita coniugale con Yaòdhara doveva essere
felice, tanto che ebbe da lei un figlio che fu chiamato Ràhula. Ràhula è
menzionato anche nei testi canonici, e si suppone che era nato quando
Siddhàrtha aveva ventotto anni.
Nel frattempo un'inquietudine spirituale, forse lungamente
soppressa, si faceva sentire nell'animo di Siddhàrtha. Si rendeva conto
della vanità della vita che conduceva, e sentiva, come molti altri del suo
tempo, il bisogno di dedicarsi ad una ricerca spirituale seria, nella
speranza di dare un senso alla sua esistenza. Neanche l'amore che nutriva
per sua moglie e il suo neonato bambino gli sembrava ragione sufficiente
per continuare in quella vita profondamente insoddisfacente che conduceva.
Anzi, la nascita di Ràhula era vista da lui come un evento in qualche modo
liberatorio, perché con ciò si sentiva di aver assolto almeno in parte i
36

suoi doveri famigliari,20 e di aver dato un erede che potesse succedere al


suo padre nella guida del suo popolo.
Nonostante ciò la decisione di Siddhàrtha di lasciare la propria
casa per darsi alla vita ascetica con tutto quello che questo gesto
comportava, bisognerebbe dire, conserva qualche cosa di difficile
comprensione. Non sappiamo esattamente quali sensazioni, quali idee e
prospettive future in fondo hanno spinto Siddhàrtha a prendere una
decisione simile. Oldenberg che è uno dei primi a fare uno studio serio
sulla vita del Buddha fa questa riflessione a proposito. "Ma con quale
forma e sotto quale influenza le idee hanno germogliato nella sua anima?
In qual modo è stato indotto a cambiare la sua patria con la terra
straniera, la fastosità dei suoi palazzi con l’indigenza del monaco
mendicante?... Altrettante questioni che dobbiamo rinunziare finanche a
prospettare. Certo, si può cogliere all’ingrosso lo svolgimento del suo
pensiero: entro quell'’atmosfera monotona di riposo e d’inazione, di
godimento e di sazietà, una natura seria e potente doveva sentirsi
soffocare; in lui, per contrasto, doveva destarsi una vaga inquietudine,
poi il desiderio di lanciarsi alla conquista delle mete più gloriose, ed
anche la disperazione di non veder mai nelle vane e sterili gioie del
mondo soddisfatto quel desiderio. Ma chi può sapere quale forma tali idee
abbiano rivestito nell’anima del giovane? Chi può calcolare il potere
delle influenze esteriori sulle sue disposizioni morali e stabilire fino a
qual punto abbia potuto agire su di lui la corrente universale che in quel
tempo spingeva gli uomini e le donne ad abbandonare la propria casa per

20
La generale tradizione religiosa indiana prevede quattro stadi nella
vita dell'uomo. Questi quattro stadi, detti gli àrama, sono (1) lo
studentato, (2) la vita famigliare da uomo sposato, (3) il ritiro nella
foresta per riflessioni e studio e (4) la vita da un religioso mendicante
che ha del tutto rinunciato al mondo. Si può vedere che la vita di
Siddhàrtha fondamentalmente ricalca questo schema tradizionale. L'unico
elemento straordinario nella vicenda di Siddhàrta è il suo allontanamento da
casa subito dopo la nascita del suo figlio. La tradizione invece raccomanda
la partenza da casa dell'uomo di famiglia solo quanto i figli sono diventati
adulti. Potremo pensare che Siddhàrta si sentiva di non dover preoccupare
per Ràhula e per il suo futuro dato che era un principe e l'erede del rajah
uddhòdana.
37

abbracciare la vita religiosa?"21


La tradizione buddhista tuttavia ha pensato di illustrare
quest'avvenimento nella vita di Siddhàrtha con la leggenda di 'Quattro
Uscite' e la sua vista dei quattro segni preannunciati dagli astrologi
brahmini subito dopo la sua nascita. Sarebbe assurdo a pensare che
Siddhàrtha non aveva fino allora nessuna idea della vecchiaia, della
malattia e della morte come vorrebbe la leggenda. Eppure la leggenda
esprime la sua graduale presa di coscienza della vera situazione
esistenziale umana. Essa vorrebbe indicare come la considerazione di
alcuni inalienabili fatti della vita, che sia per il loro carattere
universale sia per il loro carattere penoso non fanno normalmente presa
sulla nostra coscienza, ad un certo momento divennero grandi interrogativi
per Siddhàrtha, e quindi trasformarono la sua esistenza. Anguttara Nikàya
(I,145-46) espone la leggenda di quattro uscite brevemente. Nel Dìgha-
nikàya (XIV,ii,1-15) la leggenda viene raccontata in un modo esteso, ma
qui il protagonista è il mitico Buddha Vipàssi, la vita del quale comunque
è una replica di quella del Buddha Siddhàrtha.
La leggenda in breve è questa: Il principe Siddhàrtha decide di fare
una passeggiata fuori dal palazzo. Fa accompagnare dal suo scudiero.
Sebbene uddhòdana abbia fatto allontanare dalle strade per cui doveva
passare il principe tutti i vecchi e malati e monaci e cortei funebri,
Siddhàrtha vede un vecchio per la strada ─ indebolito, curvo, appoggiato
al bastone, tremulo. Chiede allo scudiero di chi si tratta; e viene
informato che è un vecchio e che la vecchiaia è la sorte comune di tutti
gli uomini. Siddhàrtha interrompe la passeggiata, torna al palazzo turbato
dalla vista e afflitto dalla nuova conoscenza sul fatto della vecchiaia.
Un'altra volta esce da un'altra porta del palazzo, e sta volta vede un
malato sdraiato sul bordo della strada, dolente e deforme con le labbra
gonfie e gli occhi sanguinanti. La terza volta sarà un cadavere portato in
corteo per la cremazione a suscitare sua curiosità, e la nuova conoscenza
che ne ricava è ovviamente che tutti gli uomini un giorno o l'altro
moriranno. La quarta uscita è una che rasserena un po' Siddhàrtha e che

21
H.Oldenberg, Budda, p.115.
38

accende in lui una speranza di poter trovare una soluzione alla tragedia
esistenziale. Questa volta si incontra con un monaco che ha lasciato la
casa, lo stato mondano, ed ha abbracciato la vita di semplicità, di
silenzio e di compassione per gli esseri. Lo colpiscono la serenità e la
gioia che traspaiono dalla faccia del monaco mendicante.
Nei racconti posteriori di questa leggenda si riscontrano dei
varianti. Uno molto interessante è la parte che gli dèi hanno in queste
vicende di Siddhàrtha. Secondo i commentari di Jàtaka, sono gli dèi che
finalmente decidono di scuotere Siddhàrtha dalla sua vita dedita ai
piacere. Così anche, secondo il Nidàna-katha, sono gli dèi stessi che
prendono la forma del vecchio, del malato ecc., o che fanno apparire i
quattro segni mentre Siddhàrtha esce dal palazzo.
Capitolo 3

IN CERCA DEL REALE

Si pensa che Siddhàrtha divenne un asceta errante all'età di


ventinove anni. Un passo canonico direbbe che l'asceta Gòtama, giovane,
nei suoi giovani anni, nella primavera della sua vita, ha lasciato la sua
casa per condurre una vita errante; nonostante la volontà di suo padre e
di sua madre, nonostante le lacrime che versavano e spargevano, egli si è
fatto radere i capelli e la barba, ed ha indossato la veste gialla. E'
senz'altro chiaro che ci è stato un radicale cambiamento in Siddhàrtha e
che di conseguenza ad un certo momento si è allontanato dalla sua casa.
Questo evento decisivo della sua vita è stato chiamato 'la grande
rinuncia'. E' grande perché secondo la tradizione buddhista rinunziava ad
un regno, alle condizioni regali, al paese e all'affetto di genitori e
della moglie e del figlio. E' grande anche perché sarà a forza di questa
rinuncia che arriverà ad ottenere, per se stesso e per il beneficio degli
altri, l'illuminazione che svela i segreti della salvezza umana.
La motivazione per fare questa rinuncia e per intraprendere un'ardua
ricerca della verità gli venne senz'altro dalla realizzazione della
situazione di sofferenza congenita all'uomo. Che si potesse rimediare
questa situazione in qualche modo o, in ogni caso, che si potesse scoprire
il mistero della sofferenza fu la sua ferma convinzione. Siddhàrta intese
questo suo tentativo inaudito, per usare le espressioni contenuti nei
testi, come la ricerca dell'affrancamento dalla sofferenza o il
superamento della triade della vecchiaia, malattia e morte. I testi usano
anche altre espressioni per indicare l'oggetto della ricerca di
Siddhàrtha, quali il raggiungimento dell'immortalità, il passare all'altra
riva dell'oceano della rinascita, l'arrivare all'altra sponda della vita e
della morte. Il suo leggendario incontro con il monaco, che poteva essere
anche realmente avvenuto, gli serve non solo per fornire un modello da
40

imitare ma anche per suscitare la speranza nella buona riuscita della sua
impresa.
Impressionante è il carattere drastico della rinunzia compiuta da
Siddhàrtha ─ il modo in cui severa ogni legame affettiva, anche quella più
delicata, e la determinazione con cui si mette in cammino. Anche qui sono
primariamente i testi posteriori che si occupano del suo distacco dai i
suoi cari e della sua partenza dal palazzo.

1. La fuga
Il racconto della fuga assume toni di grande drammaticità nei testi
non-canonici. La sera della fuga Siddhàrtha come al solito è circondato
dalle suonatrici e danzatrici che cercano di distrarre la sua mente. Ormai
le sue orecchia sono diventate sorde alle loro musiche e le loro danze non
attirano più la sua attenzione. Si annoia presto e si addormenta. Ma a
mezzanotte si sveglia, e alla luce delle lampade rimaste ancora accese
vede uno scena nauseante: tutt'attorno a lui sdraiono iì¥Á40M
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4444444444bg444444444444bg4444@ 4444¢h4444, con il bambino, e guarda per
l'ultima volta il figlioletto che dorme tra le braccia di sua moglie. Non
osa dargli una carezza come vorrebbe, per paura di svegliare Yaòdhara e
quindi mettere a repentaglio il suo disegno di partire. Scende e monta
Kanthaka che lo aspetta, e accompagnato da Canna cavalca fuori dal palazzo
nel cuore della notte. Dopo aver oltrepassato diversi territori e regioni,
all'alba si arriva ad una bellissima foresta. Qui il principe Siddhàrtha
si toglie le collane, si taglia i capelli con la sua spada, e cambia i
suoi ricchi vestiti con gli stracci. Quindi manda indietro Canna con i
suoi vestiti e ornamenti regali e il cavallo Kanthaka. E gli raccomanda di
dire a suo padre uddhòdana di non cercarlo. E dunque inizia la sua
peregrinazione in cerca della pace, della verità.
Diversi testi danno versioni differenti di questo racconto e
aggiungono vari dettagli. Il Lalita-vistàra nel capitolo xiii, intitolato
'Le esortazioni', parla appunto delle esortazioni che Bòdhisattva
Siddhàrtha riceve dai Buddha dei tempi passati prima di partire dal suo
palazzo. Secondo il testo è una regola generale che un Bòdhisattva nella
sua ultima esistenza deve essere così esortato. Dopo le esortazioni
Siddhàrtha si impegna in una lunga meditazione, e quindi lascia il suo
palazzo a mezzanotte. Gli dèi mandano un sonno profondo agli abitanti del
palazzo e della città, sicché nessuno s'accorga della partenza. Anche nei
Jàtaka spiccano gli episodi degli interventi divini. Gli dèi si rallegrano
per la partenza di Siddhàrtha. Per la volontà del dio che risiede alle
porte della città, esse si aprono automaticamente, le quali altrimenti
avrebbero richiesto lo sforzo di cinquecento uomini per essere aperte. Gli
dèi e i geni (yakà) smorzano il rumore della galoppata perché nessun si
svegli alla partenza del Bòdhisattva. Stranamente i Jàtaka fanno viaggiare
Canna aggrappato alla coda del cavallo Kanthaka! Kanthaka poi non farà il
45

ritorno perché muore col cuore infranto per la partenza del suo padrone.
Solo Canna ritornerà al palazzo a dare la triste notizia della decisione
di Siddhàrtha a darsi alla vita mendicante.
Sul punto della partenza di Siddhàrtha siano i Jàtaka che il
Lalita-vistàra fanno apparire Màra, il tentatore (il dio del desiderio e
della morte nella tradizione indiana). Màra consiglia a Siddàrtha di non
partire dicendo che tra poco sarebbe apparsa la 'ruota di gioiello'
dell'impero, e che avrebbe potuto regnare su quattro grandi isole e su
duecento piccole. Mentre Siddhàrtha rimane fermo nel suo proposito di
partire, Màra lo avverte che da quel momento avrebbe saputo ogni pensiero
di concupiscenza, di malizia e di empietà che si sarebbe passato per la
mente di Siddhàrtha. E quando Siddhàrtha parte, egli si attacca ai suoi
piedi e lo segue come ombra.

2. Il clima religioso del tempo


Quando il Buddha appare sulla scena, la storia religiosa dell'India
era ormai vecchia. Già da più di un millennio esistevano i testi sacri
della religione indiana antica, i Vèda. Il brahmanesimo, la forma tardiva
della religione vedica basata su riti sacrificali, era ormai in declino. I
testi Vèdànta (le sezioni conclusive dei Vèda) ossia le Upaniad erano in
composizione. Nello spirito di questi testi upaniadici (il termine
'upaniad' conserva anche un senso dell'insegnamento segreto riservato ad
un gruppo di iniziati)22 pullulavano in quell'epoca molte sette religiose e
scuole filosofico-spirituali che si davano alla ricerca della verità e
dell'ottenimento della salvezza al di fuori della religione istituita,
vale a dire il brahmenesimo.
E' in questo contesto upaniadico che Siddhàrtha inizia la sua
ricerca religiosa. Per molti aspetti è possibile vedere che la figura del
Buddha si inserisce benissimo nell'ambiente generale upaniadico. Infatti
i suoi programmi e insegnamenti difficilmente si distinguono da quelli dei

22
Cfr. C.Rizzi, Induismo. Upaniad del grande libro silvestre in Sette
e Religioni, ESD, Bologna 1998, pp.13-14.
46

pensatori upaniadici.23 Ovviamente ci sono delle differenze, tra cui anche


una fondamentale, consistente nel suo rifiuto dei Vèda a differenza degli
altri upaniadici. Eppure bisogna dire che le differenze sono molto meno
delle corrispondenze. Sappiamo con certezza che le due Upaniad più
antiche, Brihadàranyaka e Càndogya esistevano già al tempo del Buddha (da
due secoli circa, e alcune sezioni di esse forse anche da più di due
secoli). Alcune altre Upaniad come Taittirìya, Aitarèya e Kauìtaki,
erano anch'esse probabilmente già in esistenza. Tutte le altre Upaniad
principali verranno composte o durante il periodo del Buddha o fra qualche
secoli da quel periodo.
In un tempo alcuni studiosi, tra i quali anche Oldenberg, pensavano
che le regioni nord-est dell'India, il teatro dell'attività religiosa del
Buddha, si trovassero in qualche modo ai margini dell'influsso brahmanico,
ossia in quelle regioni non fosse ancora avvenuta la cosiddetta
'arianizzazione'. La cultura ariana e con ciò la religione brahmanica
sarebbe prevalsa solo nella regione Kuru-Pàncàla, più ad ovest. Oggi
sappiamo che questo non poteva essere vero. La religione brahmanica era
dominante in tutto il bacino del Gange durante il periodo del Buddha. Il
regno di 'Vidèha' nella corte di cui re, Janaka, avvengono le discussioni
fisolosofico-religiose riportate dalla Brihadàranyaka, comprendevano
proprio quelle regioni dove poi il Buddha svolgerà la sua attività.
P.Olivelle suggerisce che l'intenzione stessa dei capitoli terzo e quarto
della Brihadàranyaka è probabilmente di mostrare come Yàjnavalkya di
Vidèha abbia battuto tutti gli eminenti teologi di Kuru-Pàncàla, e quindi
di mostrare la importanza di Vidèha quale il nuovo centro di studio e di
riflessione religiosa.24
Questo ovviamente non vuol dire che non c'erano in quelle regioni
gruppi indigeni che avessero resistito all'arianizzazione e all'imposi-

23
Quasi tutti gli studiosi oggi collocano l'origine del buddhismo nella
generale corrente upaniadica. Esisterebbero pure delle somiglianze, sia nel
contenuto che nella forma, tra le parti più antiche delle scritture
buddhiste e le upaniad antiche. Cfr. E.J.Thomas, The Life of Buddha, p.236.

24
Cfr. Upaniad (trad. & intro. P.Olivelle), Oxford Uni. Press, Oxford
1996, pp.xxxviii-xxxix.
47

zione della religione brahmanica. I Naga, per esempio, menzionati con


rispetto dai testi buddhisti, erano probabilmente un tale gruppo. Ma in
grosso modo in quel periodo la religione brahmanica era già arrivata ad un
certo accomodamento con le credenze e pratiche degli indigeni, per creare
quella simbiosi degli elementi ariani e non-ariani il cui frutto sarà la
religione dell'induismo propriamente detto. Così nel periodo upaniadico
vediamo nel brahmanesimo l'emergenza di alcune importanti credenze e
pratiche che senza dubbio hanno una matrice non-ariana. Esse comprendono
la dottrina della reincarnazione e la legge del karma (azione) che la
regola, l'idea del moksha/nirvana (liberazione finale o la salvezza) quale
la cessazione delle reincarnazioni, le tecniche della liberazione
spirituali quale lo Yoga, l'ascetismo ecc. ─ aspetti religiosi che saranno
pienamente condivisi anche dal buddhismo e dal jainismo.25
Il periodo upaniadico, come abbiamo accennato, era un periodo di
straordinario dinamismo religioso. Mistici e sofisti vagavano per tutto il
bacino del Gange, presi da un fervore spirituale senza precedenti. Erano i
'ràmana' (pali: samana), gli asceti mendicanti itineranti. Una
convinzione accomunava tutti questi asceti ─ che gli arcaici riti
sacrificali del brahmanesimo non portavano la salvezza; la via della
salvezza doveva essere nuovamente scoperta. Se c'era un desiderio, una
preghiera sulle labbra di questi, era proprio quello che la Brihadàranyaka
mette nella bocca di uno che si appresta a fare il sacrificio vero: "Che
dall'irreale io sia condotto al Reale; che dalle tenebre io sia condotto
alla Luce; che dalla morte io sia condotto all'Immortalità". 26 Erano giunti
alla realizzazione che il brahmanesimo, la religione somministrata dai
preti brahmini, avidi e per di più arroganti, era tutto un inganno. La
religiosità stessa non poteva consistere nella crudeltà agli animali dei

25
Il jainismo è una religione sorta in India poco prima del buddhismo.
Ancora oggi ci sono circa tre milioni e mezzo di persone in India che
aderiscono a questa religione (cfr. P.N.Chopra, Religions and Communities of
India, Vision Books, New Delhi 1998, p.171). Nonostante il fatto che tra i
buddisti e i jainisti ci è sempre stata una grande rivalità, le credenze e
le pratiche di queste religioni, per lo meno alle loro origini, erano molto
simili.

26
Brihadàranyaka Upaniad, I,3,27.
48

sacrifici cruenti o nella recita dei mantra (formule sacre) incomprensibi-


li.
Per la verità il brahmanesimo era una forma di religione assai
sviluppata e complessa per quanto riguardavano le pratiche sacrificali.
Era basato su una concezione religiosa interamente ritualista; in esso
dominavano i sacrifici e i sacerdoti. I sacrifici in genere erano affari
grandiosi, stravaganti e costosi che duravano per giorni e settimane e
talvolta anche per un anno intero. Comportavano, inoltre, rituali
complicati che richiedevano la partecipazione di varie classi di sacerdoti
specializzati in doveri specifici, e l'uccisione di centinaia di animali.
Due solenni sacrifici praticati nel brahmenesimo erano il 'sacrificio del
cavallo' (avamèdha) e il sacrificio in occasione dell'intronizzazione di
un re (ràjasùya). Teologicamente, l'efficacia dei sacrifici era
considerata intrinseca ai sacrifici stessi, direttamente legata ai mantra
pronunciati e ai gesti compiuti durante l'esecuzione del sacrificio. Di
conseguenza i sacrifici erano considerati pienamente efficaci, purché
compiuti senza alcun errore. Per questo motivo massima attenzione era
prestata ad ogni dettaglio del rito sacrificale, alla corretta esecuzione
di ogni gesto, perfino all'esatta articolazione di ogni sillaba dei
mantra. Gli dèi erano anche dispensabili in questa concezione. In ultima
analisi l'esito di un sacrificio non dipendeva dall'intervento di qualche
essere divino. Nel brahmanesimo in genere non c'era neanche una grande
stima degli dèi. Essi avevano solo una importanza secondaria, dopo quello
del sacrificio e dei sacerdoti. Infatti, gli dèi stessi venivano visti
come dipendenti ai sacrifici per la loro sopravvivenza e vigore! In
verità, il brahmanesimo rappresentava una religione decaduta in magia, in
quanto concepiva i sacrifici come mezzi infallibili per produrre dei
risultati desiderati, anche indipendentemente dall'aiuto degli dèi. La
religione nella concezione brahmanica in fondo serviva solo per acquistare
controllo sulle cose e sulle situazioni nel mondo. Ed erano i sacerdoti
(brahmini) che erano in possesso del segreto dei sacrifici. Da qui anche
il prestigio della casta sacerdotale e il suo predominio sulle altre.
Il movimento upaniadico era una rivolta interna al brahmanesimo.
49

Pur rimanendo nella tradizione vedica, alcune persone serie e chiaroveg-


genti avevano rigettato tutto quel pretume brahmanica. Invece del
sacrificio, la triplice esigenza del 'auto-controllo' (dàmyata), del
'donare' (datta) e della 'compassione' (dayatvam)27 si faceva sentire in
queste anime, e in essa ponevano l'ideale religioso. I compositori delle
Upaniad erano veri rivoluzionari dello spirito. Le prime Upaniad
documentano la radicale trasformazione religiosa che era in progresso: la
trasformazione dal ritualismo allo spiritualismo, dal sacrificio alla
meditazione, dall'esteriorità all'interiorità. Così, nelle Upaniad in
genere esiste un chiaro rifiuto del brahmanesimo. Ci sono pure dei passi
che irridono dei riti sacrificali brahmanici. Le Upaniad in genere anche
propongono la tesi che la vera religione ha a che fare solo con la
conoscenza di sé e con la meditazione, e nulla con il culto e i riti.
Ora, questa visione della religione era relativa a quello che può
essere considerato la più grande tematica delle Upaniad, cioè la ricerca
del principio unificatore di tutto l'esistente. Al di là, o meglio, al di
dentro di tutte le molteplicità dell'esperienza fenomenica, i pensatori
upaniadici scoprono un principio unitario che chiamano con il nome di
Brahman. Brahman, potremmo dire, è ciò che soggiace a tutto quello che
esiste, la sostanza di tutto; l'unica realtà profonda e vera che sussiste
dietro tutte le apparenti molteplicità e cambiamenti. Una delle Upaniad
lo descrive succintamente così: "Quello dal quale le creature nascono, per
opera del quale una volta generate vivono, e nel quale morendo ritornano,
questo... è Brahman."28 Ora, il fatto più importante è che secondo le
Upaniad il Brahman non è altro che l'Atman, ossia la vera realtà del sé.
Vale a dire che l'uomo nella sua realtà più intima e profonda è identico
alla realtà che regge e pervade tꗬÁ⁍А49ዸ¿4949က4949Ѐ49̒

27
Brihadàranyaka Upaniad, V,2,1-3.

28
Taittiriya Upaniad, III,1.
50

橢 橢 㷢 㷢 505050505050505050Аఫ 垀 50 垀 50 碉 㱲 50F50505050505050
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51

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 5151anto nell'ottenere dei benefici mondani, ma nel liberarsi dai lacci
dell'ignoranza mediante l'acquisto della conoscenza vera, la conoscenza
appunto della propria identità con la realtà universale, cosmica. Questa
conoscenza è infatti la salvezza, e si acquista mediante la riflessione
interiore, la meditazione. "Quello [Brahman] risplende, grande, divino,
inconcepibile nella sua forma, più sottile del sottile; lontanissimo,
distante. Esso è pur qui vicino sulla terra, nascosto nell'intimo del
cuore per coloro che (rettamente) vedono. Non è possibile raggiungerlo con
l'occhio, né con le parole, né con gli altri organi dei sensi, o con
l'ascesi o con l'azione sacrificale. Chi ha l'animo puro per la luce della
conoscenza lo vede nella sua interezza quando medita".29
Tra le varie scuole che erano sorte nel periodo upaniadico, oltre
al buddhismo, conosciamo bene il jainismo e il Carvàka, la scuola
materialista che negava tutti i principi etici e metafisici. Il
Sàmannaphala sutta in Dìgha-nikàya parla di molte altre scuole spirituali
e ascetiche. Sono menzionati maestri e fondatori di scuole come Puràna
Kàssapa, Makkhàli Gosàla, Ajita Kèsakambala, Pakudha Kaccàyana, Sajaya
Bèlatthiputta ecc. con le loro rispettive dottrine. Nel Majjhima si parla
in tono spregiativo di un certo Gòsala e della sua setta che si chiamava
Ajìvika (cfr. M., I,483).

3. Presso i guru spirituali


Sono sei gli anni che separano l'abbandono della casa da parte di
Siddhàrta e la sua illuminazione sotto l'albero, o il conseguimento del

29
Mundaka Upaniad, III,1,7-8.
52

Bòdhi. Durante tutto questo tempo si deve pensare che egli si è applicato
strenuamente alla ricerca spirituale, che per nulla doveva essere facile.
E' da sospettare comunque che quando si mise in cammino egli non aveva
nessun programma fisso nella sua mente di ciò che doveva fare. Gli era
chiara solo la meta, non la via. Pensiamo che era aperto ad ogni influsso
e ad ogni suggerimento. E infatti, sarà dopo aver provato vari metodi, e
fatto e fallito vari tentativi e perfino rischiato il fallimento totale,
che Siddhàrta raggiungerà la meta.
Non sappiamo con grande precisione che cosa abbia o non abbia fatto
Siddhàrtha durante tutto questo periodo. Tra i testi canonici solo il
Majjhima-nikàya ci da degli indizi al riguardo. I testi della tradizione
come sempre contengono narrazioni riguardanti anche questa fase della vita
di Siddhàrtha, ma sono spesso discordanti.
Come abbiamo detto, in India in quell'epoca esistevano diversi
gruppi e scuole spirituali rivolti al conseguimento dell'illuminazione
vista come la liberazione da ogni male e la risposta ad ogni quesito. E'
normale che Siddhàrtha abbia pensato a rivolgersi a qualche maestro
spirituale del tempo che gli potesse aiutare nel raggiungere l'illumina-
zione. Naturalmente si sarebbe recato alla città di Vaiàli che in quel
periodo aveva la reputazione di ospitare molte scuole spirituali e insigni
maestri. Si dice che vi erano presenti ben sessantadue scuole di ricerche
spirituali con i loro rispettivi metodi e pratiche. Tra i più famosi,
oltre a Nirgrantha Nathaputra (il fondatore della religione jainista)
menzionato nei Jàtaka, c'erano un certo Àrada Kalàma (pali: Alar Kalam) e
un certo Udraka Ràmaputra (Uddaka Ramaputta), conosciuti anche dalle fonti
non-buddhiste.
E' alquanto storicamente attendibile il racconto presente nel
Majjhima-nikàya (I,240ss) riguardo all'incontro di Siddhàrtha con
quest'ultimi maestri. In Mahasaccaka Sutta il suo incontro con Àrada viene
presentato con queste parole: "Dopo il mio abbandono del mondo, mi sforzai
nel bene, e aspirando allo stato supremo della pace mi recai da Àrada
Kalàma; avendolo avvicinato gli dissi ─ Desidero, o amico Kalàma,
praticare la vita religiosa in questa [tua] dottrina e disciplina ─. A ciò
53

Àrada Kalama mi disse ─ Rimanga amico, tale è la dottrina che un uomo


intelligente in poco tempo e da sé può comprendere, realizzare e nella
quale può permanere ─" (M., I,240).
La dottrina che propone Kalàma è in seguito precisato come il
raggiungimento della 'sfera del nulla'. Dato che di essa si parla come
qualcosa da essere compreso e realizzato da sé, possiamo supporre che qui
si trattava di una disciplina spirituale piuttosto che qualche dottrina
metafisica. Infatti ciò che egli sembra aver appreso da Kalàma è un metodo
di meditazione con il quale, svuotando progressivamente la mente di ogni
oggetto e concetto definito, si arrivava all'assenza di ogni pensiero e
rappresentazione mentale. Era, pensiamo, una versione della meditazione
Yoga sviluppata da Kalàma. Il testo dice che Siddhàrtha in poco tempo e
rapidamente divenne esperto in quella disciplina e realizzò tutto quello
che essa aveva da offrire.
Ovviamente egli rimase insoddisfatto con le acquisizioni fatte con i
metodi di Kalàma, perché si dice che ad un certo momento egli si rese
conto che "questa dottrina che porta al raggiungimento dello stato del
nulla, non conduce all'avversione, all'assenza di passione, alla
cessazione, alla tranquillità, alla conoscenza superiore ─ al Nirvana."
Perciò, nonostante l'invito di Kalama a condividere con lui la direzione
della scuola, Siddhàrtha si mise di nuovo in cammino. Lo vediamo poi con
un altro maestro chiamato Udraka, figlio di Ràma (Ràmaputra). I metodi di
Ràmaputra erano più avanzati e il risultato che prometteva era il
conseguimento di uno stato mistico descritto come 'né coscienza né non-
coscienza'. Era per quanto sembra uno stato di coscienza che attraverso
la sfera del nulla abbordava a qualcosa di reale. Siddhàrtha ebbe tanto
successo in questi esperimenti meditativi che Udraka arrivò a considerarlo
addirittura suo maestro. Udraka pensava che nessuno fuorché suo padre Ràma
era arrivato allo stadio della realizzazione a cui era giunto Siddhàrtha.
Ma per Siddhàrtha anche queste realizzazioni in fondo lasciavano a
desiderare. Non aveva ancora trovato ciò che cercava. Per trovarlo d'ora
in poi dovrà far ricorso ai propri mezzi.
Aggiungiamo che questi due stadi di coscienza conseguiti da Kalàma e
54

Ràmaputra faranno poi parte del tradizionale schema buddhista delle


pratiche meditative. Si vede che queste realizzazioni erano in linea con
il progetto spiritale buddhista, benché non ne costituivano la meta più
alta possibile. Per Siddhàrtha rimarranno semplicemente esperienze
preparatorie in rapporto a quello che sarà la sua esperienza finale,
l'esperienza del Bòdhi.

4. L'ascetica sbagliata
Uruvèla (sans. Uruvilva) sulla riva del fiume Nèranjara (od. Phàlgu)
è menzionato spesso come il luogo dove Siddhàrtha si impegnò nella lotta
spirituale. Lasciato Vaiàli e suoi maestri, viagga verso sud, e arrivato
al regno di Magadha, si stabilisce nel suddetto luogo che doveva trovarsi
a qualche distanza a sud di odierna Patna. Vive all'aperto, mendicando il
cibo nel villaggio di Uruvela. Si uniscono con lui altri cinque giovani
asceti.30 La tradizione conserva pure i loro nomi: Ajnàta Kaudinya (pàli:
Annata Kondànna), Bhadrika (Bhaddiya), Vàpa (Vàppa), Avajit (Assaji) e
Mahanàma. Diciamo già, questi saranno anche gli uditori della prima
predica che Siddhàrtha farà dopo la sua illuminazione in qualità del
Buddha.
Ad Uruvèla Siddhàrtha decide di adottare un altro sistema di ricerca
per raggiungere il suo scopo. Questo consisteva nella pratica
semplicemente delle austerità oppure nella pratica delle austerità unite
alle meditazioni. Nell'India di allora, come del resto anche di oggi,
c'erano molti che si sottoponevano a diverse forme di mortificazioni
corporali con l'intento di irrobustire lo spirito, e così arrivare alla
liberazione. C'erano coloro che trascorrevano giorni e notti nei campi di
cremazione per vincere la paura e il senso di ribrezzo (gli aghòra);
c'erano coloro che giravano nudi31 esponendo il loro corpo al sole e alle

30
Secondo Lalita-vistàra questi erano allievi di Udraka che vedendo
partire Siddhàrtha gli vanno dietro pensando che egli sarebbe diventato a
sua volta un maestro ancora più grande di Udraka.

31
Noti come 'gymno-sofisti' (filosofi nudi) anche dai racconti di
quelli che hanno accompagnato Alessandro magno nella sua spedizione indiana.
55

piogge e al caldo e al freddo; c'erano ancora altri che erano presi dalla
mania di mutilazione volontaria e di torturare il corpo in maniere diverse
(vedi D., VIII,14). Stranamente anche Siddhàrtha si diede per un tempo
alle più severe macerazioni fisiche sperando che da un momento all'altro
l'illuminazione si sarebbe scesa su di lui.
Con l'aiuto di un brano della scrittura dei jainisti, Oldenberg fa
un ritratto di Siddhàrta in quell'atteggiamento di mortificazioni: "Di
giorno, immobile come una colonna, col viso rivolto verso il sole, si
lasciava ardere in un luogo esposto all’ardore del sole; di notte,
rannicchiandosi, fissa...; grazie a questa penitenza segnalata, grande,
assidua, eminente, eccellente, salutare, abbondante, che promette la
felicità, ammirabile, sublime, alta, altissima, segnalata, potente, egli
sembra molto indebolito...; riccamente rivestito di penitenza, ma esaurito
di carne e di sangue, simile a un fuoco ricoperto da un mucchio di cenere,
risplendente di penitenza e di luce nel fulgore della luce della
penitenza, egli è là ritto."32
Sembrano che le penitenze preferite di Siddhàrtha e i suoi compagni
erano il trattenimento prolungato del respiro (la pratica di pràa-yama
prescritta dallo yoga?) e il digiuno. Controllando il respiro, si dice
che, era spesso colto dallo svenimento. Il digiuno non era meno dannoso.
Il poeta Avaghoa fa la portavoce della tradizione buddhista sugli
eccessi del digiuno compiuto da Siddhàrtha. Racconta il Buddhacarita: In
quel tempo "egli si imbarcò in ulteriori austerità, e soprattutto nel
digiuno come il mezzo che sembrava il più acconcio per porre fine a
nascita e morte. Nel suo desiderio di quiete egli consumò il suo corpo per
sei anni, e portò a compimento un numero di rigorosi metodi di digiuno,
assai ardui per gli uomini da sopportare. All'ora del pasto si contentava
di un solo frutto di giuggiola, di un solo seme di sesamo, e di un solo
chicco di riso ─ così deciso egli era a conquistare la sponda opposta,
illimitata del Samsara [il mondo fenomenico]. La massa del suo corpo si
era assai ridotta a causa di quella tortura, ma in compenso il suo potere
psichico aumentava di conseguenza sempre di più. Il suo grasso, carne, e

32
H.Oldenberg, Budda, p.190.
56

sangue erano completamente andati. Solo pelle e ossa rimanevano."33


A forza di questi atti di violenza contro il proprio corpo,
Siddhàrtha aveva rischiato perfino la morte. Il Lalita-vistàra riferisce
un episodio. Mentre Siddhàrtha giace moribondo ai bordi di una strada egli
ha questa visione: una donna che china su di lui e piange. Alla sua
domanda 'chi sei tu a piangere per me?' la figura replica che è sua madre.
Sarebbe stata questa visione a indurre Siddhàartha a cambiare le sue
strategie nella ricerca spirituale. Anche se questo racconto può essere
una leggenda, il fatto resta che ad un certo momento Siddhàrtha abbandonò
le austerità corporali. Gli era divenuto chiaro che con tali pratiche non
conseguiva nessun risultato utile, ma esse solo consumava il suo corpo.
Infatti Siddhàrta viene alla realizzazione che le macerazioni corporali
rappresentano un modo errato di impegnarsi spiritualmente: l'autentica
liberazione non può essere ottenuta con la violenza; l'impegno spirituale
che mira all'illuminazione deve percorrere un'altra via.

5. La scoperta del 'La Via di Mezzo'


Le esperienze negative delle macerazioni porta Siddhàrtha a scoprire
la cosiddetta 'via di mezzo' o 'la via mediana', il che rappresenta la
svolta decisiva nel suo cammino che lo conduce finalmente all'illuminazio-
ne. Se ne parla anche come un metodo d'indagine, capace di ricavare la
verità. Difatti il Buddha nella sua prima predica esporrà le famose
'Quattro Nobili Verità' come ciò che egli apprese ricorrendo alla via
mediana. In questo senso seguire la via mediana significa 'prestare
attenzione' o analizzare ogni fenomeno attentamente e equanimamente.
Notiamo che i prinicipi della via mediana diventeranno più tardi il metodo
investigativo e la posizione dottrinale stessa della grande scuola
filosofica buddhista fondata da Nàgàrjuna, chiamata appunto Màdhyamaka-
àstra (la scienza 'mediana').
In rapporto alla prassi ascetica, la via di mezzo significa
l'accantonamento degli estremi, sia di mortificazione sia di indulgenza.

33
Buddhacarita, XII,94-99 in E.Conze, Scritture Buddhiste, pp.38-39.
57

Siddhàrtha ormai aveva sperimentato la sterilità di tutt'e due ─ dell'in-


dulgenza nella sua vita nel palazzo, e della mortificazione negli anni
della sua ricerca spirituale. Né uno stile di vita dedito piaceri né uno
dedito ad un ascetismo selvaggio serve la causa spirituale. Qualsiasi
progresso nel cammino spirituale richiede che anzitutto uno si tenga
lontano da ogni estremismo nel suo comportamento. Ragionevolezza,
moderazione, giusto sforzo e giusto rilassamento: queste le disposizioni
che servono a compiere conquiste spirituali.
Più di una volta nei suoi dialoghi il Buddha condannerà le
macerazioni. "Più di un'impurità si mescola con la macerazione" dirà a
Nigrodha che lo interroga a questo proposito, e darà tutto un elenco di
perversioni e deviazioni che nascono dalla sua pratica, come l'ipocrisia,
gelosia, maliziosità, fraudolenza, falsità, durezza, ostinatezza,
negligenza ecc. (vedi D., XXV,6-11). In un altro passo, dopo aver elencato
le pratiche di macerazioni prevalenti tra le diverse scuole ascetiche,
dirà: "ma con tutto questo uno il perfezionamento della condotta, il
perfezionamento della mente, il perfezionamento del sapere non sviluppa,
non consegue, e così è lungi dall'ascesi, lungi dalla purezza" (D.,
VIII,15). E nello stesso passo definirà anche la vera ascesi secondo la
via mediana quale lo sviluppo di una mente calma, il
libꗬÁ⁍А57ዸ¿5757က5757Ѐ57̒
58

橢 橢 㷢 㷢 585858585858585858Аఫ 垀 58 垀 58 碉 㱲 58F58585858585858
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59

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5959alla vita dei piaceri.
"Che c'è Soa?" domanda il Buddha, "Prima di lasciare la tua casa, eri tu
abile nel toccare il liuto?"
Soa: "Si, Signore."
"Che ne pensi dunque, Soa? Se sul tuo liuto le corde sono troppo tese, è
così che il liuto dà il tono giusto ed è pronto per essere suonato?"
"Niente affatto, Signore."
"E che ne pensi ancora, Soa? Se sul tuo liuto le corde sono troppo
allentate, è così che il liuto dà il tono giusto ed è pronto per essere
suonato?"
"Niente affatto, Signore."
"Come mai, Soa? Se sul tuo liuto le corde non sono né troppo tese, né
troppo allentate, se tengono la giusta misura, è così che il liuto dà il
tono giusto ed è pronto per essere suonato?"
"Si, Signore."
"Ebbene, Soa, così pure le forze dell’animo, troppo tese, cadono
nell’eccesso, troppo allentate cadono nella mollezza. Così dunque, o Soa,
realizza in te l’equilibrio delle tue forze, e tendi senza posa
all’equilibrio delle tue facoltà spirituali, e ciò proponiti come scopo."34
Riconosciuta l'inutilità delle austerità smoderate, e scoperta la
via di mezzo, Siddhàrtha si rade i capelli e la barba, fa il bagno nel
fiume Nèrajara, cambia i vestiti e prende un abbondante pasto. Secondo i
Jàtaka questo pasto era fatto di un piatto di riso al latte offertogli da
una ragazza chiamata Sujàta.35 E' la pietra di scandalo per i cinque asceti

34
Vin.Mv., V,1,15-16.

35
A questo pasto si riferisce anche un testo canonico, Mahà Parinibbàna
Suttanta (iv,42) benché qui la persona dalla quale riceve il dono del cibo
60

che sono i suoi compagni. Si convincono che non c'è più nulla da
aspettarsi da Siddhàrtha, e lo lasciano. E così Siddhàrtha rimane solo.

6. Sotto l'albero di Bodhi


Rinfrescato dal taglio di capelli e il bagno, e rafforzato dal cibo
di Sujàta, Siddhàrtha cammina e, non lontano da Uruvèla, e sempre sulla
riva di Nèrajara, arriva ad un albero di pipal ('ficus religiosa'), e vi
si ferma. Il pipal (sans. pippàla) è un albero con rami che si espandono
tutt'attorno al tronco, e con una fogliame fitta tanto da offrire una
rinfrescante riparo dal sole. Quest'albero sotto il quale si fermò
Siddhàrtha verrà poi chiamato 'l'albero di bòdhi' (o l'albero di bo),
perché è proprio sotto quest'albero, secondo la tradizione, che Siddhàrtha
ottenne il Bòdhi.
La tradizione vuole che giunto a questo luogo Siddhàrtha vide un
contadino che tagliava l'erba (Munja, Kua), si procurò da lui dell'erba,
la sparse sotto l'albero e vi sedette sopra.36 A questo punto il Majjhima-
nikaya riferisce un fatto che ci sembra estremamente importante. A
Siddhàrtha che si siede nell'ombra dell'albero di bo viene in mente una
sua esperienza giovanile ─ una esperienza della meditatazione, fatta
mentre si era seduto nella fresca ombra di un albero di Jàmbu (melo-rosa)
nell'aperta campagna. Si ricorda che era una esperienza meditativa
accompagnata da riflessione e analisi, e che essa gli aveva procurato un
senso di pura felicità, scevro di ogni residuo del desiderio e d'ogni
senso di negatività. Si domanda se non fosse proprio quella la via al
Risveglio, e a sua grande sorpresa capisce che quella, invero, è la via
(cfr. M., I,246). Rimarrà solo un ostacolo nella via di Siddhàrtha prima

non è nominata.

36
Questo gesto apparentemente strano è infatti in chiaro riferimento
alla pratica del sacrificio vedico. L'uso di cospargere lo spazio
sacrificale (vedi) con l'erba faceva parte della preparazione al sacrificio
(vedi "Grasses" in B.Walker, Hindu World: An Encyclopaedic Survey of
Hinduism, vol.I, Indus, New Delhi 1995, pp.405-06). Evidentemente, in questo
modo, almeno una parte della tradizione tardiva buddhista ha voluto mettere
l'avvenimento sotto l'albero di bòdhi in qualche relazione con l'antico
sacrificio vedico, o in ogni caso vedere in esso un atto sacrificale.
61

che arrivi allo scopo finale della sua vita, il Risveglio, ─ Màra, il
maligno.
Stando ad una logica presente nei racconti buddhisti, a questo punto
non poteva certo mancare un intervento da parte di Màra. Vediamo che Màra
appare ogni qual volta Siddhàrtha si appresta a fare qualche cosa di
estramente significativo; egli appare in tutti i momenti decisivi della
vita di Siddhàrtha. Màra l'aveva seguito durante tutti questi anni della
sua affannosa ricerca spiando ogni sua mossa e prendendo nota di ogni sua
lotta; ed ora egli si fa avanti deciso ad impedirgli dall'arrivare al
Bòdhi. Secondo le leggende Màra prevede la rovina del suo regno qualora
Siddhàrtha riuscisse a conquistare il Bòdhi. Dunque, secondo i testi,
assistito dal suo esercito, Màra si scatena contro di lui con il fuoco e
le tenebre e con piogge di sabbia rovente.
Benché sembra riferire al periodo delle sue pratiche d'austerità,
esiste un brano canonico che parla delle tentazioni di Siddhàrtha. Esso si
trova in Sutta-nipàta (425-49). Mentre Siddhàrtha si sta esercitando nella
meditazione vicino al fiume Nèranjara, Màra lo si accosta e gli fa notare
che egli è diventato molto magro. Dice pure che è quasi morto a forza
delle sue mortificazioni. E gli ricorda che è meglio vivere, perché
continuando a vivere potrà compiere molte azioni buone. Gli ricorda ancora
le buone opere che ha già compiute nel passato, e gli raccomanda di non
sforzarsi troppo. "Perché hai bisogno di sforzarti? Difficile è la via
dello sforzo, difficile da compiere, difficile è il permanervi." Gli
suggerisce invece i sacrifici della religione brahmanica, le oblazioni al
fuoco, come l'alternativa, i quali certo non richiedono tali sforzi.
Ovviamente Siddhàrtha respinge tutte queste tentazioni di Màra. Infatti
risponde a Màra dicendo, "la morte in battaglia è meglio per me, che
vivere la vita sconfitto". Quindi il brano riferisce che Màra partì da lui
deluso e addolorato. In questo brano viene identificato anche l'esercito
di Màra come il piacere, il disgusto, la brama, la fama e sete, la
prigrizia, la sonnolenza, la codardia, il dubbio, l'ipocrisia e
l'istupidimento.
Ci potrebbe certo essere una interpretazione psicologica di questa
62

battaglia tra Siddhàrtha e il tentatore. Màra è il dio dei piaceri e della


morte ed è allo stesso tempo il simbolo dell'attaccamento al mondo dei
sensi. L'interpretazione psicologica sarebbe questa: per un attimo
Siddhàrtha avrebbe avvertito un richiamo forte da parte di tutto quello
che aveva rinunciato anni fa ─ il regno, la casa, la moglie, il figlio ─ e
forse anche avrebbe avuto un momento di smarrimento nella sua ricerca.
Capitolo 4

IL RISVEGLIO E DOPO

Il Risveglio è l'avvenimento centrale della vita di Siddhàrtha.


Infatti è in virtù di questo fatto e a partire da esso che egli è il
Buddha. Benché ci possono essere dei dubbi sulle circostanze in cui ciò
avvenne ─ perché i testi sono inconsistenti sia al riguardo del tempo che
egli trascorre in meditazione prima e dopo il Risveglio sia nei loro
riferimenti all'albero (mentre in alcuni testi il risveglio avvenne ai
piedi o nella vicinanza di un albero, in altri non c'è nessun riferimento
all'albero) ─ non è affatto lecito dubitare che un tale fatto sia
avvenuto. Se fosse mai necessaria una conferma di questo fatto, noi
l'abbiamo addiritura in un brano della scrittura dei jainisti, i rivali
più accaniti dei buddhisti. Lo cita Oldenberg: Il Buddha "fuori del
villaggio Giambiyagama, sulla riva settentrionale del fiume Uggiuvaliva,
nel campo del proprietario Samaga, a nord-est del luogo sacro Viyavatta,
non lontano da un albero ala, entrato nel tesoro della meditazione,
trovandosi al centro d’una pura meditazione, ha ottenuto il Nirvana, la
scienza e la visione piena, completa, senza turbamento, senza ostacolo,
infinita, suprema, assoluta, sublime."37 Siddhàrtha aveva trentacinque
anni, secondo le fonti buddhiste, quando ottenne l'illuminazione. Il
Nidàna-katha fissa anche il giorno di questo avvenimento ─ il plenilunio
del mese di vaiàkha (aprile-maggio). Tuttavia annotiamo che la scuola
Mahàyàna del buddhismo celebra l'8 dicembre quale il giorno del Risveglio.

1. L'esperienza del Bodhi


Per quanto ciò sia decifrabile dagli antichi testi, l'esperienza del
Bòdhi fu una rara esperienza religiosa nella quale Siddhàrtha ebbe la
certezza di aver compreso i segreti dell'esistenza. L'esperienza stessa è
37
H. Oldenberg, Budda, p.101.
64

presentata nella guisa di un graduale avanzamento attraverso una serie di


stati estatici sempre più raffinati, col suo compimento nell'acquisizione
di una triplice conoscenza. E' il Majjhima-nikàya (I, 247-49) che parla
più ampiamente di questa esperienza. Una volta che Siddhàrtha ha ritrovato
la via smarrita (l'esperienza meditativa giovanile), egli la segue. Questo
stadio iniziale di meditazione è chiamato il 'primo dhyàna' (pali: jhàna),
e qui la meditazione è accompagnata dall'analisi e ragionamento, e produce
gioia e piacere. Siddhàrtha non lascia sopraffare la sua mente dal piacere
che deriva da questo tipo di meditazione; e una volta cessati l'analisi e
il ragionamento, egli ottiene il 'secondo dhyàna' e vi permane. E'
descritto come uno stato nel quale la mente, priva di pensieri, rimane
fissa su un punto, ed è accompagnata dalla calma interiore e la gioia, e
il piacere derivanti dalla concentrazione della mente. L'esperienza del
'terzo dhyàna', alla quale accede in seguito, viene descritta in termini
di un dimorare 'consapevole e conscio', con equanimità verso gioia e
avversione, ed accompagnata da una forte sensazione del piacere corporale.
Equanimo, consapevole e lieto ─ questa, si dice, è la descrizione
tradizionale di questo stato. Quindi, abbandonando ogni sensazione di
piacere e di dolore, nel dileguarsi di ogni senso di euforia e di
depressione, egli consegue il 'quarto dyàna', che è la vertice di tutta
questa esperienza, e vi permane.
Il quarto dhyàna è uno stato in cui non c'è più né dolore né
piacere. Verrà detto che la mente in questo stadio è concentrata, e con la
scomparsa di ogni contaminazione, si è resa limpida e chiara, e quindi
agile, destra, ferma ed impassibile. Questo fu il momento del Risveglio
totale ossia del Bòdhi ─ il momento nel quale la mente di Siddhàrtha fu
illuminata, e gli divennero chiari la ragione, le condizioni e la finalità
stessa dell'esistenza umana e dell'esistenza in genere. Parlando del
Risveglio, il Vinaya in un passo fornisce il suggestivo immagine di un
pulcino che emerge dall'uovo rompendo il guscio, dove il guscio viene
identificato con l'ignoranza.
65

2. Il contenuto del Bodhi e i suoi effetti


Per il buddhismo l'esperienza del quarto dhyàna ossia del samàdhi è
la più profonda che possa essere mai fatta dall'uomo in questo mondo.
Chiaramente essa rappresenta la salvezza già acquistata in questo mondo, o
in altre parole il fatto di trovarsi già nel Nirvàna. Seduto sotto
l'albero, sprofondatosi nella meditazione, Siddhàrtha era giunto al sommo
grado del dhyàna. E permanendo in questo stato d'animo, secondo il
Majjhima, egli rivolse la sua mente alla conoscenza delle cose e così
realizzò la 'triplice conoscenza' che è propria di un Buddha o, detto
meglio, di un Samma-sambuddha. La triplice conoscenza, egli l'acquisisce
in tre veglie successive della notte del Bòdhi.
Nelle prime ore lui rivolge la sua mente purificata alla conoscenza
dell'esistenza di se stesso e si ricorda delle sue esistenze precedenti ─
una, due, tre, cinque, venti, cento, mille, centomila vite vissute in vari
cicli cosmici nel corso delle loro evoluzioni e dissoluzioni. E questa era
la prima conoscenza che ricevette nella notte del Bòdhi. Nella seconda
parte della notte lui rivolge la sua mente alla conoscenza del trapasso e
la rinascita degli esseri, e vede col suo nuovo occhio divino, sovrumano,
gli esseri alti e bassi, brutti e belli, appartenenti alle caste superiori
ed inferiori, trasmigrare secondo le loro azioni morali (karma) nella
vita. Questa fu la seconda della triplice conoscenza. Nella terza veglia
della notte dirige la sua mente alla conoscenza della distruzione degli
àava,38 ossia i lacci che annodano gli esseri alla ruota dell'esistenza,
che sono all'origine della loro schiavitù della trasmigrazione. Il testo
dice che egli comprese l'esistenza così come era: era il dolore. Comprese
pure la causa del dolore che sono anche la causa degli àava, la
distruzione del dolore (la distruzione degli àava) e la via che mena alla
distruzione del dolore. E questa era la terza conoscenza che fu acquistata
da Siddhàrtha in quella notte.
La conseguenza immediata della conoscenza degli àava e le loro
condizioni generali, si dice, era proprio quella di diventare libero da
38
Gli àava sono il desiderio sensuale (kàma), il desiderio di esistere
(bhàva) e l'ignoranza (avidya) secondo questo brano di Majjhima.
66

essi. Mano a mano che egli faceva quelle scoperte sui legami che legano
l'uomo al divenire, la sua anima si liberava da quegli stessi vincoli, che
sono la cupidigia, l'attaccamento alle cose terrene e l'attaccamento
all'errore. Questa conoscenza stessa è liberatoria. Gli effetti delle
azioni delle vite precedenti e l'esigenza delle reincarnazioni sono
rimossi all'istante stessa dell'aquisizione della conoscenza. Ma Sidhàrtha
non solo si era liberato dagli àava, egli ebbe anche la chiara coscienza
di essersi liberato. In lui sorse la realizzazione "che era già abolita la
rinascita, che la vita religiosa è stata vissuta, che era stato fatto ciò
che si doveva fare" (M., I,249). Il senso della liberazione che coincide
con l'acquisizione della conoscenza della vera realtà dell'esistenza è
adombrato in vari passi della scrittura buddhista. E' ciò che viene a
riflettersi anche nel seguente brano di poesia antica, che ne parla usando
l'immagine di una casa in dilapidazione: "Lungo innumerevoli esistenze ho
corso, cercando il costruttore della casa, né lo ho trovato: eppure è
doloroso tornare a nascere di volta in volta! O costruttore! Sei stato
scoperto, non farai di nuovo la casa! Tutte le travi sono spezzate, la
capriata è crollata; lo spirito, cancellata ogni concezione, ha estinto la
sete!"39
Il Buddha più tardi esporrà il contenuto del suo Bòdhi ─ special-
mente il contenuto della terza conoscenza ─ sotto il nome delle 'Quattro
Nobili Verità' scoperte da lui, insieme alla conoscenza ricavata della
'Originazione dipendente', ossia della concatenazione causale (pratìtya
samutppàda; in pali - paticca samuppàda) dei fenomeni. In un'altro passo
di Majjhima (I, 69-71) la conoscenza acquistata dal Buddha viene
prsesentata con delle ulteriori chiarificazioni. Qui viene detto che il
Buddha grazie alla sua triplice conoscenza vede tutte le cose nella loro
vera realtà: vede il mondo così come è, nella infinita varieta dei suoi
elementi; vede la causalità delle azioni (karma) e i loro effetti in
rispetto al passato, al presente e al futuro, e quindi conosce la ragione
per cui ognuno nasce nella condizione in cui nasce; conosce la condizione
interiore di altri esseri, lo stato e grado della loro impurità e lo stato

39
Dhp., 153-54.
67

e grado della loro perfezione. E' importante notare che in seguito verrà
detto anche che la conoscenza che il Buddha possiede non è una sua
invenzione, e che essa non è neppure basata su ragionamenti e
sull'indagine intellettuale. E' una conoscenza troppo profonda, difficile
ad ottenere, sottile, difficile ad abbracciare con il pensiero, ed è
riservata solo ai savi. Potremmo pensare che questa affermazione voglia
indicare che si tratti di una intuizione mistica che va al di là di ogni
conoscenza analitica ed oggettiva. Per i buddhisti naturalmente quella è
la caratteristica della conoscenza propria di un Buddha. E' la conoscenza
divina, non-umana; anzi, è l'onniscienza del Buddha.
E' nel Niddèa (I, 355) del Khuddaka-nikàya che abbiamo una
descrizione completa della conoscenza di cui è munito il Buddha. Qui si
parla dei suoi cinque occhi e le corrispondenti conoscenze. Si dice che
con il suo 'occhio umano' egli può vedere fino alla distanza di una lega
sia di notte che di giorno, e conoscere tutto quello che vi esiste. Col
suo 'occhio divino' egli può vedere la nascita e la morte degli esseri e
conoscere i loro meriti e demeriti. Volendo, con quest'occhio può vedere
un mondo, due mondi e così fino a tremila mondi ed oltre. E col suo
'occhio di saggezza' (prajna; pàli: panna) egli è lo scopritore del vero
sentiero; e grazie a quest'occhio non esiste nulla che gli sia
sconosciuta, che non sia compresa dalla sua saggezza. Egli conosce in
questo modo il passato, il presente e il futuro. Con il suo 'occhio del
Buddha' egli vede tutti gli esseri e li conosce nella loro condizione
spirituale di purezza e di depravazione. E in fine con il suo 'occhio
onniveggente' egli vede tutto, e conosce tutto.

3. L'esitazione del Buddha


Si crede che l'albero sotto il quale Siddhàrtha conseguì il
Risveglio è morto qualche secoli fa. Esistono oggi solo gli alberi di
bòdhi cresciuti dai rami dell'albero originale piantati in vari luoghi.
Esiste così a Bòdha-Gaya (il nome odierno della località dove secondo la
tradizione il Buddha conseguì il Bòdhi) un albero che sostituisce l'albero
68

originale. Sotto quest'albero oggi si può vedere una lastra di pietra


scolpita, detta il 'Trono di Diamante', che indicherebbe il punto preciso
dove Siddhàrtha sedette in meditazione quando raggiunse l'illuminazione.
Accanto all'albero sta oggi il tempio di Mahàbòdhi con il suo enorme
stùpa.
La computazione del tempo che il Buddha trascorse a Bòdha-Gaya dopo
la sua illuminazione ─ il tempo trascorso "assaporando la beatitudine
della liberazione", direbbero i testi ─ varia. Secondo il Majjhima e
Vinaya sono quattro le settimane che egli vi trascorre, mentre secondo i
testi posteriori le settimante che vi trascorre sono sette. Egli dedica
almeno parte del suo tempo dopo l'illuminazione per articolare e fissare
nella sua mente l'intuizione della 'concatenazione causale' (pratìtya
samutpàda), che in fondo spiega il fenomeno dell'esistenza e il problema
della sofferenza. Secondo gli Udàna (I, 1-3) e il Vinaya (Mv., I,1ssg.)
egli verifica il sistema delle cause a duodici componenti che soggiace
all'esistenza esaminandolo in ambe e due le direzioni, avanti ed indietro.
Intanto avvengono anche altri episodi che sono molto significativi.
Si sarebbe incontrato con un brahmino dall'atteggiamento altezzoso
che lo interroga sull'indole d'un brahmino. Il Buddha l'avrebbe spedito
con la risposta che non è la nascita nella casta di quel nome che fa di
uno un brahmino, ma invece la purezza della vita e la vittoria sul male e
su se stesso. Come osserva Oldenberg questo racconto vorrebbe mettere in
risalto la vittoriosa lotta del Buddha contro il Brahmenesimo, il cui
culmine era l'acquisizione dell'illuminazione fuori dalle ingiunzioni e
prescrizioni della religione brahmanica. Si racconta poi che ci furono per
tutta una settimana piogge torrenziali accompagnate dai forti venti forti
e freddo. In quell'occasione il re dei serpenti (nàgaràja), Mucalinda,
sarebbe uscito dal suo covo e avrebbe protetto il Buddha dalle intemperie
avvolgendo il suo corpo con le sue spire e tenendo spiegato il suo grande
cappuccio di cobra policefalo come un ombrello sopra il capo del Buddha.
Qui si inserisce anche una nuova tentazione da parte di Màra. Questa volta
è per evitare che il Buddha trasmetti la sua conoscenza salvifica agli
altri uomini. Riconoscendo che il Buddha ha già vinto la lotta, Màra si
69

limita a sollecitarlo ad entrare immediatamente nel Nirvana definitivo,


ossia a porre fine alla la sua esistenza terrena dato che ha già ottenuto
anticipatamente la salvezza.
Il Vinaya racconta quindi l'incontro del Buddha con due mercanti in
viaggio. Questi sono avvisati da una divinità della presenza del Buddha
sotto l'albero. Questi mercanti, nominati Tapussa e Bhallika, gli rendono
omaggio in qualità del Buddha e egli offrono riso e miele da mangiare. Ed
ora avviene un fatto molto significativo. I mercanti si prostrano ai piedi
del Buddha e professano la loro fede in lui e nella sua dottrina usando la
formula di 'rifugio' nel Buddha e nel Dhamma. E chiedono di essere
ricevuti come zelatori (upàsaka) a vita. Il testo riferisce che erano i
primi al mondo ad enunciare il duplice rifugio nel Buddha e nella sua
Dottrina. Ovviamente il Sangha (la Comunità) non esiste ancora, e dunque è
assente dalla formula del 'rifugio'.
E' abbastanza incongruente, ma è a questo punto, dopo aver accolto i
due mercanti quali fedeli laici, che i testi parlano del dubbio che ha il
Buddha sulla convenienza di annunciare agli uomini la sua buona novella
del superamento del 'dolore'. Infatti, l'illuminato esita prima di mettere
a beneficio di altri uomini le verità che ha scoperte ritenendole troppo
profonde e quindi inafferabili per gli uomini comuni, e quasi impossibili
per loro da seguire immersi come sono nei piaceri mondani ed attaccati
alle cose terrene. Se io mi mettessi a predicare, e non mi comprendesse-
ro... mi rimarrà solo la fatica, ragiona il Buddha.
Mentre la terra rimane in ansia per la decisione del Buddha, uno dei
principali dèi del panteon indù, il dio Brahma stesso scende sulla terra e
supplica in ginocchio il Beato a favore dell'umanità. Brahma, detto il
'pietoso', assicurerà al Buddha che ci saranno alcuni che lo comprenderan-
no, perché, dice, ci sono esseri di cui visione mentale è appena oscurata
dalla polvere terrestre, e d'altra parte se essi non potranno udire la
predicazione, andranno certamente perduti. A questo punto il cuore del
Buddha si muove a pietà per l'umanità ed egli annuncia, "Le porte
dell'Eternità sono aperte a chi vuole ascoltare" (Vin. I,5,12). Merita di
essere sottolineato questa circostanza che, secondo la tradizione
70

buddhista, è la sua compassione per gli uomini che finalmente spinge il


Buddha ad annunciare il suo messaggio di salvezza. Soddisfatto che la sua
preghiera è stata esaudita, Brahma si inchina davanti al Beato, fa il giro
della sua persona in segno di venerazione e scompare.
Il Buddha avrebbe pensato per un attimo con chi iniziare la
predicazione della dottrina. Gli vengono in mente i suoi maestri
spirituali d'una volta, Àrada Kalàma e Udraka Ràmaputra quali persone che
potrebbero comprendere la sua dottrina ed accoglierla. Ma quando sta
pensando a questi una divinità gli informa che tutti e due sono morti
recentemente. Quindi il Buddha pensa ai suoi cinque compagni di ascesi. E
si mette in cammino verso Benares.
4. L'inizio della predicazione
Tra i testi canonici è il Vinaya ad offrirci un frammento narrativo
di una certa continuità su tutto ciò che avviene immediatamente dopo
l'illuminazione. Quando il Buddha pensa a coloro che sarebbero capaci di
intendere il suo messaggio ed accoglierlo, e decide di provare con i sui
cinque ex-compagni, il testo dice che è grazie alla sua visione divina che
egli si accorge della loro presenza nella vicinanza di Benares, qualche
centinaia di kilometri da Gaya dove ha avuto il Bòdhi. Per via avrebbe
incontrato uno ràmana nudo, di nome Upàka, il quale colpito dal suo
aspetto sereno e radioso si interessa della sua dottrina e del suo
maestro. Il Buddha gli dice che lui non ha altri maestri se non se stesso,
e che lui è qualcuno che ha superato ogni ostacolo, il 'vincitore' (jìna)
che ha ottenuto il Nirvana, il Sammasambuddha. E aggiunge: "ad instaurare
il Regno della Verità io vado alla città di Benares; batterò il tamburo
dell'immortalità nell'oscurità di questo mondo" (Vin. Mv. I,6,8). L'asceta
però non si lascia impressionare da questo suo grandioso discorso, e
scuotendo il capo in segno di incredulità va per la propria via con questa
risposta laconica ─ "magari fosse, amico!"
Parlando in merito della storicità del racconto sull'inizio della
missione del Buddha, Oldenberg afferma che tutto induce a credere che non
si fosse perduto il ricordo del luogo ove era stato pronunciato il primo
sermone o nella presenza di chi. Ora, secondo tutti i testi buddhisti
questo avvenne nel 'Parco del Daino' nell'odierno Sàrnàth che si trova a
dieci kilometri di distanza da Benares. Sàrnàth è stata sempre una delle
destinazioni prinicapli dei pellegrini buddhisti, ed esiste oggi in questo
luogo un enorme stùpa antico tra le rovine di un altrettanto antico
monastero buddhista. La presenza qui dello stùpa sarebbe in indicazione
della località dove avenne la prima predica, ed esso, inoltre, testimonie-
rebbe all'eccezionale importanza che quest'avvenimento rivestì per la
chiesa buddhista primitiva.
Lo straordinario evento dell'inizio del suo ministero viene
simbolicamente chiamato 'La Messa in Moto della Ruota della Legge'
(Dhamma-chakka-pavattana). Mentre la ruota è francamente il simbolo del
Dhamma (legge, dottrina, religione) predicato dal Buddha, e ciò per una
serie di motivi, il fatto di metterla in moto o di girarla contiene una
72

chiara allusione ad un regno e ad un re universale. Come viene detto più


esplicitamente nel Dhamma-chakka-pavattana-sutta, "a Benares è stata messa
in moto dal Beato la suprema ruota dell'impero della verità che ora non
può essere fermata da nessuno."40 Con l'inizio della predicazione, secondo
la concezione buddhista, il Buddha ha inaugurato un regno spirituale; da
quel momento egli è il re universale del Dhamma. E in questo modo anche la
vecchia profezia sulla sua futura regalità si sarebbe avverato in un certo
senso.
Il racconto vuole che il Buddha raggiunse il Parco del Daino un
giorno verso la sera. I cinque asceti mendicanti (bhikku) lo vedono venire
verso di loro da lontano. Fermi nei loro vecchi pregiudizi contro di lui,
decidono di ignorarlo e di non andargli incontro. Tuttavia, mano a mano
che si avvicina essi cominciano a vacillare nel loro proposito e
finalmente non potranno fare a meno di andargli incontro. Ed uno prende
suo vaso da elemosina e un'altro suo mantello mentre gli altri gli
preparano una sedia e collocano l'acqua per i piedi. I cinque asceti
cominciano a conversare con lui, e si rivolgono a lui chiamandolo col suo
nome, dicendogli 'amico'. Ma il Buddha impedisce loro di chiamarlo così, e
dice che non devono rivolgersi al Tatàgata con quelli appellativi. Il
Tatàgata è il santo, il Sammasambuddha, il perfetto. Ed aggiunge che gli
ha conquistato 'l'immortalità' (amata); è il maestro che può insegnare il
Dhamma, seguendo il quale loro possono a loro volta arrivare al supremo
compimento delle sante aspirazioni e penetrare da sé nella verità e
conoscerla a faccia a faccia (Vin.Mv., I,6,12).
Sarà perché potevano difficilmente credere ciò che udivano ─ il
testo non lo dice esplicitemente ─, fanno la seguente domanda a lui. Cioè,
se una volta con le sue aspirazioni e le sue pratiche austere non aveva
potuto raggiungere "la perfezione sovrumana, la spledida plenitudine della
scienza e dell'intuizione che è l'appennaggio dei santi", come mai ora che
ha abbondonato le aspirazioni e vive in abbondanza abbia potuto
raggiungere quello stato? Il Buddha risponde a questo dicendo che lui non
si è dedito all'abbondanza né vive nell'abbondanza né ha rinunciato alle
aspirazioni, e chiede loro di prestargli l'ascolto. I cinque asceti in

40
Dhammachakkappavattanasutta (in Anguttura Nikàya), 25; anche Vin.Mv.,
I,6,30.
73

fine si lasciano persuadere dalle parole del Buddha e si mettono in


ascolto con grande attenzione. E così il Buddha pronuncia il suo primo
sermone che è anche detto la 'Predica di Benares'.
"Monaci! Per chi vuole condurre una vita spirituale, due sono gli
eccessi da evitare. Quali sono questi due eccessi? L’uno è una vita di
piaceri, dedita ai piaceri ed al godimento: questo è basso, ignobile,
contrario allo spirito, indegno, vano. L’altro è una vita di macerazione:
questo è triste, indegno, vano" (Vin.Mv. I,6,17). Con queste parole il
Buddha cominciò il famoso discorso e spiegò come, evitando questi eccessi,
egli imboccò la Via di Mezzo seguendo la quale ottenne la perfetta
illuminazione. In seguito espose la Via di Mezzo quale la via ad otto
diramazioni ossia 'l'ottuplice sentiero', e quindi le cosiddette 'Quattro
Nobili Verità' considerate giustamente gli assiomi del pensiero religioso
buddhista.
Le nobili (àrya) verità in sostanza riguardano il fatto del dolore e
la sua eliminazione. Sebbene esse si trovano in vari testi con delle
leggere modificazioni, nel Vinaya-pìtaka vengono esposte come segue:
"Ecco, o monaci, la nobile verità sul dolore: la nascita è dolore,
la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore, l’unione
con ciò che non si ama è dolore, la separazione da ciò che si ama è
dolore, non soddisfare il proprio desiderio è dolore: insomma, i cinque
oggetti dell’umano attaccamento [il corpo, la sensazione, la percezione,
la disposizione e la conoscenza] sono dolore.
"Ecco, o monaci, la nobile verità sull’origine del dolore: è la sete
(dell’esistenza) quella che conduce di rinascita in rinascita, accompgnata
dal piacere e dalla cupidigia, e trova qua e là il suo piacere: la sete di
piacere, la sete d’esistenza, la sete della vita mondana.
"Ecco, o monaci, la nobile verità sulla soppressione del dolore:
l’estinzione di questa sete per mezzo dell’annientamento completo del
desiderio, bandendo il desiderio, rinunciandovi, liberandosene, non
lasciandogli posto.
"Ecco, o monaci, la nobile verità sulla via che mena alla
soppressione del dolore: E' il nobile ottuplice sentiero, vale a dire,
Retta Visione; Retta Aspirazione; Retta Parola; Retta Azione; Retto Mezzo
74

di Sussistenza; Retto Sforzo; Retta Attenzione; e Retta Concentrazione."41


Viene detto che ognuna di queste quattro verità ha tre modalità ben
distinte. E il Buddha le ha apprese nelle loro triplice modalità tanto da
conoscerle dunque nei loro dodici parti costituenti. Le tre modalità e i
dodici elementi si esprimerebbero nella maniera seguente: (1) Questa è la
verità sul dolore/ la verità sulla causa del dolore/ sulla sopressione del
dolore/ sulla via che conduce alla soppressione del dolore; (2) che devo
comprendere la verità sul dolore, che devo abbandonare la causa del
dolore, che devo realizzare la soppressione del dolore, che devo seguire
la via che conduce alla soppressione; (3) che ho compreso la verità sul
dolore, che ho abbandonato la causa del dolore, che ho realizzato la
soppressione del dolore, che ho seguito la via che conduce alla
soppressione.42 E' importante notare che parlando di queste queste verità e
della loro comprensione il Buddha aggiungerà che esse non si trovano tra
le dottrine tradizionali, ma che egli è pervenuto ad esse nel suo Bòdhi.
L'imporanza della predica di Benares per il buddhismo non può essere
esagerata. Il pensiero espresso in questa predica in effetti costituisce
la vera base dottrinale e spirituale della religione buddhista originaria.
Al centro di tutto il discorso sta una sola idea ─ la 'Liberazione', che è
l'esperienza fatta dal Buddha e la possibilità offerta agli uditori.
Prospettata come una realizzazione che può essere fatta percorrendo la via
mediana, la via del giusto mezzo, questa liberazione si configura non come
una liberazione dal mondo nell'ascetica rinuncia ad esso, e progettata nel
futuro, bensì come una liberazione nel mondo sperimentabile qui ed ora.

5. Le conversioni
Quando il Buddha ebbe pronunciato il primo discorso e così aveva
avviata irrevocabilmente la regale Ruota del Dhamma, come si addice ad
un'occasione simile, un urlo di riconoscenza s'innalza nei mondi degli
dèi, tutto il sistema cosmico con i suoi diecimila mondi trema violente-
mente, e una grande luce si sparge nel mondo. Se questi riferimenti ai

41
Vin.Mv., I,6,19-22. L'esposizione delle 'Quattro Nobili Verità' ha
luogo anche in Dhammacakkappavattanasutta (5-8), ed è identica a quella del
Vinaya.

42
Dhammacakkappavattanasutta, 9-20; Vin.Mv., I,6,23-26.
75

fenomeni straordinari servono solo a mettere in evidenza l'estrema


importanza che la prima predicazione del Buddha assunse nella visione
buddhista, il fatto avvenuto sarebbe che alla fine di quella predica uno
dei suoi uditori, Kaundinya (Kondànna) intuitivamente afferò da sé la
sostanza della dottrina proposta dal Buddha. Il testo dice alquanto
straordinariamente che vedendo ciò il Buddha esclamò con grande gioia che
"Kondanna l'ha percepito, veramente Kondanna l'ha percepito" e così egli
ebbe pure il soprannome 'Ajnàta Kondanna', cioè 'Kondanna che ha
percepito'.43
Questa percezione della verità della dottrina fatta dall'uditore del
messaggio viene detto 'l'ottenimento del puro e immacolato occhio del
Dhamma' (Vin.Mv., I,6,29). Si tratta ovviamente di un afferrare in un modo
intuitivo razionale l'essenziale della dottrina esposta. Esso è, diciamo,
un vedere da sé la verità sulla scia delle parole del Buddha che servono
come indicatori. L'ottenimento dell'occhio del Dhamma, si dirà, è ciò che
consiste in questa conoscenza: "che tutto ciò che è soggetto alla
condizione di originazione è soggetto anche alla condizione di cessazione"
(Ibid.). Questa è la formula che esprime una conoscenza che si verifica in
tutti i casi di conversione, e che senz'altro rappresenta anche il fattore
fondamentale di ogni conversione. L'acquisizione di tale conoscenza ossia
l'ottenere dell'occhio del Dhamma è conosciuta come 'l'ingresso nella
corrente', il quale benché non sia la realizzazione perfetta della verità
è tuttavia capace di portare uno che è entrato nella corrente verso quella
realizzazione.
Secondo il racconto, ottenuto l'occhio del Dhamma, Kondànna chiese
al Buddha l'ordinazine da monaco. Ed egli la diede con queste parole:
"Orsù, o monaco; la dottrina è ben predicata; vivi in santità, sicché
possa giungere alla completa estinzione di ogni dolore" (Vin.Mv., I,6,32).
Dopo Kondanna, ma con tempo, anche gli altri quattro asceti otterranno
l'occhio del Dhamma e chiederanno l'ordinazione, e verranno ordinati
usando le medesime parole.
Sarebbe stata a questi stessi primi discepoli che il Buddha rivolse
più tardi anche la sua famosa esortazione sull'anatta, ossia su ciò che
non è il sé. Qui ricordiamo che è soprattuto questa predica e la sua

43
Dhammacakkappavattanasutta, 29.
76

interpretazione, che stanno alla base di una grande disputa che esiste od
è esistita tra gli studiosi al riguardo dell'anima nel buddhismo, e cioè
se il Buddha abbia ammesso o meno la sua esistenza. Il senso di questo
discorso credo che può essere espresso in un modo incontroverso come
segue: Il sé (se c'è) non si identifica con i costituenti della esistenza
empirica dell'uomo, quali il corpo, la sensazione, la percezione, la
disposizione e la coscienza. Quando uno si rende conto di ciò, egli prende
le distanze da essi, e conseguentemente si libera dalle passioni e così
attinge la santità (Vin.Mv., I,6,38-46). E' da notare che era al termine
di questa esortazione, e infatti in conseguenza di essa, che i cinque
asceti diventarono liberi dagli àava (i fattori dell'attaccamento al
mondo), diventarono Arhat (persone degne, perfette). Riteniamo dunque che
questa è una circostanza che non può essere indifferente per una corretta
interpretazione della predica sull'anatta. Come si vede facilmente è una
esortazione, e come tale è intenzionata a produrre una trasformazione nel
modo in cui uno si atteggia verso il mondo, piuttosto che ad esporre
un'astrusa dottrina sulla reale esistenza o meno dell'anima.
Una serie di conversioni sussegue a quella dei cinque bhikku. La
prima tra queste è la conversione di Yasa. Si può notare uno stretto
parllelismo tra il racconto dell'abbandono di casa da parte di Yasa e
quello del Buddha all'inizio della sua ricerca, ragione per cui molti
studiosi pensano che il racconto della fuga da casa di Yasa sia modellato
su quello del Buddha, o quello del Buddha su Yasa. Anche Yasa è l'unico
figlio di un uomo molto ricco, e si è ammogliato da giovane. Vive in
agiatezza e nelle mollezze, sollazzato giorno e notte da giovani
suonatrici e danzatrici. Colpito da un forte senso di angoscia per la
futilità di quella esistenza, una notte a mezzanotte lascia sua casa e si
reca nel Parco del Daino dove incontra il Buddha. Il Buddha lo istruisce
incominciando con un discorso sulla virtù della generosità, sulle virtù
morali, sulla vanità, sul cielo ecc., ed esponendo in fine la dottrina del
dolore e della sua eliminazione. Yasa comprende le parole del Buddha, si
converte, e più tardi riceve l'ordinazione monacale.
A questo punto arriva nel parco anche il padre di Yasa che si era
messo a cercare lui dopo che era sparito da casa. Il Buddha istruisce
anche lui come aveva fatto con Yasa. In conseguenza egli percepisce la
77

verità delle parole del Buddha e professa 'il triplice rifugio' ─ nel
Buddha, Dhamma e Sangha ─ chiede di essere ricevuto come un discepolo
laico (upàsaka). Il testo precisa che era la prima persona al mondo a
diventare un discepolo laico con la formula del triplice rifugio (Vin.Mv.,
I,7,10). Quando poi il Buddha, accompagnato da Yasa, andrà ad un pranzo
alla sua casa, anche la madre e la moglie di Yasa, ricevute le necessarie
istruzioni, si convertono, professano il triplice rifugio, e vengono
ricevute in qualità di seguaci laiche (upàsika) del Buddha. Il testo
racconta ancora che quattro amici intimi di Yasa per primi, e cinquanta
altri amici suoi più tardi, tutti appartenenti a nobili famiglie, si
convertono e si fanno monaci. Così in poco tempo il numero dei monaci del
Buddha crescerà a sessanta.
Trascorso un periodo del tempo non ben precisato al Parco del Daino,
il Buddha con i suoi discepoli si trasferisce. E' ad Uruvèla che va. Viene
raccontato un episodio interessante che sarebbe occorso durante questo
viaggio. Al Buddha che sta facendo una sosta sotto un albero in un bosco
viene un gruppo di trenta giovani apparentemente di ricche famiglie
chiedendogli se avesse per caso visto una donna passare di là. Era
successo che questa donna in questione, una cortigiana che faceva loro
compagnia insieme ad altre donne, ad un certo punto era scappata prendendo
con sé gli oggetti di valore che erano in possesso dei membri del gruppo.
Il Buddha invita questi giovani a sedersi e rivolge a loro questa domanda:
"Ora cosa pensata voi giovani? Quale fosse meglio per voi: andare in cerca
di una donna, o andare in cerca di voi stessi?" (Vin.Mv., I,14,3). Come
potremmo facilmente immaginare, la sequenza di quest'episodio è che il
Buddha li istruisce, quindi essi si convertono e finalmente abbracciano la
vita religiosa.

6. La conversione dei praticanti dell'Agnihotra


Gli avvenimenti di Uruvèla e dei luoghi circostanti costituiscono un
frammento narrativo abbastanza lungo per ciò che concerne la parte
iniziale della missione del Buddha (vedi Vin.Mv., I,15,1-21,4). I
protagonisti di questi avvenimenti, oltre al Buddha ovviamente, sono i tre
fratelli Kàyapa (Kassapa) che vivono rispettivamente a Uruvèla (detto
78

dunque 'Uruvèla Kàyapa'), sulla riva di un fiume ('Nadi Kàyapa') e a


Gaya ('Gaya Kàyapa'). Tutti e tre sono gestori di scuole religiose-
spirituali, con cinquecento, trecento e duecento discepoli rispettivamente
sotto il loro addestramento. Sono detti i 'jaila', cioè coloro che
portano i capelli in un viluppo. Dal testo appare chiaro che sono coloro
che praticano la vita religiosa secondo le prescrizioni brahmaniche, con
delle pratiche quali la venerazione del fuoco e l'agnihòtra (il sacrificio
del fuoco), un sacrificio che viene tutt'ora praticato nell'induismo, sia
pure raramente.
Il Buddha andrà ad Uruvela Kàyapa, il maggiore dei tre fratelli,
chiedendo l'ospitalità, che gli verrà offerto. Con il permesso di Kàyapa,
il Buddha vorrà trascorrere la notte nella stanza dove si conserva il
fuoco sacro. Kàyapa avverte il Buddha del pericolo che esso può
comportare per la sua vita ─ perché di notte vi apparirà un drago (nàga)
feroce e velenoso ─, ma sull'insistenza del Buddha glielo consente. Il
racconto che vi segue è di un susseguirsi di combattimenti notturni del
Buddha con il nàga, e di dimostrazioni di giorno dei suoi poteri
paranormali a scopo di ottenere la conversione di Kàyapa. La battagli con
il nàga si risolverà in solo due notti, con la vittoria del Buddha su di
esso; ma la sfida con Kàyapa continuerà a lungo. Kàyapa resisterà alla
conversione pensando tra sé che il Buddha, nonostante i suoi poteri
magici, non è santo come lui stesso. Il Buddha si stancherà, quasi, di
compiere miracoli e di dare dismostrazioni dei suoi poteri magici nella
speranza di convertire Kàyapa. E alla fine comunque lo convertirà, ma
solo quando gli dirà più semplicemente che egli non è affato santo come
egli pensa tra sé e che la via che conduce alla santità è tutt'altra che
quella seguita da lui (cfr. Vin.Mv., I,20,17).
Dopo la conversione di Kàyapa di Uruvèla, ovviamente anche altri
Kàyapa si convertono. Gettato nel fiume gli utensili dell'agnihòtra
sacrificio e i suoi rifornimenti, e rasatosi i capelli, i Kàyapa con i
loro discepoli fanno la professione della fede buddhista e quindi ricevano
l'ordinazione. Con questa conquista il numero dei monaci del Buddha
aumenta di colpo a più di un migliaio. Anche se non è il caso di negare
che ci sia una base storica per questo racconto, il suo significato è
palesamente simbolico. Esso vuol prima di tutto mettere in risalto la
79

superiorità del Dhamma propagato dal Buddha sui riti sacrificali che
costituivano il cuore della religiosità brahmanica. Infatti, secondo il
racconto, qualche giorni più tardi nella città di Ràjagriha (pàli:
Rajagaha), in una grande assemblea del re e dei cittadini, Uruvèla Kàyapa
spiegando la sua conversione, pubblicamente riconoscerà la nullità del
sacrificio brahmanico in contrasto con la via indicata dal Buddha.
La terza famosa predica del Budda, fatta sulla collina detta
Gayaìra (il capo di Gaya), era rivolta soprattuto a queste mille e più
nuovi convertiti. E' conosciuta come la "predica del fuoco". Dirà che
tutto si sta consumando in un fuoco. Gli occhi, gli oggetti degli occhi,
il contatto stesso degli occhi con i loro oggetti come pure le sensazioni
e gli impressioni derivanti da questo contatto ─ tutto ciò si sta
bruciando. Lo stesso con tutti gli altri sensi. Si stanno bruciando con il
fuoco della passione, dell'ira, dell'ignoranza (Vin.Mv., I,21,2-4). E dirà
ancora che solo la sequela del nobile ottuplice sentiero è in grado di
portare uno alla pace, allo stato dell'estinzione di questi fuochi.

7. Il Sangha
La comunità monacale si era formata quando i primi cinque asceti
ebbero ricevuto l'ordinazione. Da quel momento il Sangha è stato uno dei
punti di riferimento per la vita buddhista ─ un punto di riferimento di
non minore importanza di quello che era rappresentato dal Buddha e dal
Dhamma. E' chiaro che fin dall'inizio il buddhismo era un movimento
prevalentemente monacale. I buddhisti, però, come sappiamo, non sono stati
assolutamente i primi a costituirsi in sangha (comunità, gruppo). In India
in quel tempo c'erano già dei gruppi costituiti degli asceti, uniti
soprattuto da una aspirazione comune, ma anche rinsaldati da delle regole
fisse di comportamento e di vita. Neppure il Sangha buddhista era una
associazione libera di persone: c'erano una formale ammissione al Sangha,
un criterio per l'ammissione, un rito ─ sebbene molto semplice ─
dell'ordinazione, alcuni segni esteriori dell'appartenenza al Sangha e
delle regole da osservare. I segni esteriori dei membri del Sangha
iniziale, come sappiamo dai testi, erano la tonsura e la veste gialla. Il
Vinaya nella sua parte iniziale dà un elenco di 227 regole che valgono per
80

i membri del Sangha. Le virtù della castità, della povertà, dell'onestà e


della non-violenza sono poste in grande evidenza in queste regole. "Gli
asceti seguaci del figlio dei akya" ─ questo era il nome con il quale
venivano chiamati i primi monaci buddhisti dalla gente comune.
Se il Buddha era ovviamente il capo del Sangha, ci sono due
discepoli menzionati dai testi come preminenti. Questi sono Kolita
Maudgalyàyana (Mogallàna) e Upatissa àriputra (Sariputta). Il Buddha
stesso, dopo il loro ingresso nel Sangha, indicherà questi come i primi
tra i membri del Sangha. Infatti la loro conversione rappresenterà un
evento significativo nella storia del buddhismo primitivo; e questi
saranno protagonisti in molti episodi che scandiscono la storia del Sangha
iniziale. àriputra sarà famoso per la sua profonda conoscenza della
dottrina e la capacità di esporla perfettamente mentre Maudgalyàyana per i
suoi poteri paranormali acquisiti con la meditazione.
Il racconto della loro conversione, per la sua estrema semplicità e
la mancanza di qualisiasi artificio in esso, è ritenuto storicamente
attendibile.44 Secondo il racconto che ne dà il Vinaya (Mv. I,23,1-24,4),
Il Buddha guadagnò questi due discepoli alla causa del suo movimento
quando egli risiedeva nella città di Ràjagriha, dopo la conversione dei
tre Kàyapa. Questi erano amici ed erano già discepoli ─ i più bravi, per
la verità ─ di un altro famoso maestro itinerante che si chiamava Sanjaya.
Sembra che àriputra e Maudgalyàyana erano rimasti insoddisfatti degli
insegnamenti di Sanjaya, perché avevano promesso a vicenda di dire
all'altro chiunque di due sarebbe arrivato per primo a conoscere la vera
via all'illuminazione.
Avvenne che àriputra un giorno vide un monaco del Buddha che andava
chiedendo elemosina per le case della città. àriputra rimane colpito
dall'aspetto sereno e la compostezza di questo monaco, e pensa tra sé che
deve essere uno che ha certamente trovato la vera via della liberazione.
Avvicinato a lui àriputra lo interpella di dirgli chi fosse suo maestro e
quale fosse il suo insegnamento. Il monaco ─ Avajit (Assaji) è il suo
nome ─ dirà che il grande asceta, il figlio dei àkya, è il suo maestro,
ma della dottrina, essendo egli stesso un monaco novello, non poteva dare

44
Vedi O.Botto, Buddha e il Buddhismo, Arnoldo Mondadori Editore,
Torino 1987, p.33.
81

una esposizione sistematica, bensì una che attiene semplicemente al suo


senso. E così ripete la breve formula che si riferisce alla dottrina
dell'originazione dipendente e che ha quasi la qualità di un mantra.
"Tutto ciò che deriva da una causa, tutto ciò è anche soggetto alla
cessazione". àriputra affera istantaneamente il senso di queste parole, e
quindi, come si dice, sorse in lui 'l'occhio del Dhamma'.
Quando àriputra va verso Maudgalyàyana per riferirgli ciò che gli
era accaduto, quest'ultimo vedendolo domanda: "Amico, la tua fisionomia è
serena, la tua carnagione è pura e chiara. Hai tu trovato l'immortale
(amata)?" "Sì, amico" risponde àriputra "ho trovato l'immortale"
(Vin.Mv., I,23,6). Più oltre si racconta che, quando Sanjaya il loro
maestro venne a sapere della loro decisione di diventare discepoli del
Buddha, egli cercò in tutti modi di trattenerli. Ma quando li vide partire
con il resto dei suoi discepoli, si dice che fu colpito da una improvvisa
emorragia.
Nei commentari viene detto che questi due discepoli ─ Sàriputra e
Maudgalyàyana ─ avevano preso più tempo degli altri di altri discepoli ad
arrivare allo stato di arhat, cioè allo stadio di perfezione spirituale
che coincide con la completa distruzione degli àava. Ma aggiungono che
questo ritardo era dovuto alla grandezza della perfezione a cui erano
destinati, cioè come il viaggio di un re richiede lunghe preparazioni che
non di un uomo povero.
Il discepolo Mahàkàyapa, considerato dalla scuola buddhisata Zen
come il suo primo patriarca, era un uomo di grandi virtù morali. Fu
conquistato, come anche àriputra e Maudgalyàyana, durante il primo
soggiorno del Buddha a Ràjagriha. La sua storia è raccontata nel
Thèragàtha (261) dove viene detto che era figlio di un ricco brahmino;
costretto a sposarsi giovane, visse in castità, e quindi quando i suoi
genitori morirono, entrò nel Sangha. Ànanda era un discepolo che il Buddha
conquistò più tardi, quando visitò la sua città natale. Era un cugino del
Buddha, e può essere giustamente considerato il suo discepolo prediletto.
Sarà l'assistente personale del Maestro per gli ultimi vent'anni della sua
vita, e per questo motivo viene frequentemente menzionato nei testi
buddhisti. Il monaco Upàli pure era un concittadino del Buddha ed era
accreditato di possedere una conoscenza profonda delle regole monacali. E'
82

da notare che era figlio di un barbiere e dunque appartenente ad una casta


molto bassa.
E' stato spesso rilevato che il Sangha iniziale era un circolo degli
elite sociale, costituito prevalentemente dai brahmini. Esaminando il
testo Thèragàtha (I canti dei monaci) che tra l'altro contiene dei
riferimenti alla provenienza dei primi membri del Sangha, si può arrivare
a questo quadro della sua composizione: 41 percento bràhmana, 23 percento
katriya, 30 percento vaiya (la casta composta maggiormente dai commer-
cianti), 6 percento ùdra e paria.45 Per quanto sappiamo il sistema della
casta in quell'epoca non aveva quella rigidità ferrea che esso venne ad
assumere in corso della storia dell'induismo. E sappiamo che della
cosiddetta casta vaiya facevano parte anche gruppi di persone che erano
originariamente estranei al sistema della casta. L'unico criterio
dell'accessione alla casta vaiya sembra che fosse proprio la prosperità
economica. E questa era una casta particolarmente sensibile al messaggio
del Buddha, più di quanto il percentuale dei monaci appartenenti ad essa
non lo indichi. Era soprattuto tra i laici buddhisti che questo gruppo si
faceva sentire il suo peso.
Ad ogni modo la composizione del Sangha dal punto di vista dello
stato sociale dei suoi componenti era niente meno che rivoluzionaria,
specie in vista della presenza in esso, sia pure ristretta, di persone di
basse e di senza caste. Il Buddha si rivolgeva alle persone in qualità di
individui, indistintamente bisognosi, secondo lui, della liberazione
spirituale, e non in qualità di membri delle caste. La concezione della
casta come qualcosa legata alla nascita, e quindi come il marchio stesso
della naturale ineguaglianza tra gli uomini, era stata superata dal
Buddha. L'aveva fatto con la sua reinterpretazione della nozione stessa
del 'brahmino' ─ il brahmino è chiunque che vive secondo la giustizia 46 ─,

45
Cfr. P.Harvey, Introduzione al Buddhismo, p.48.

46
Vedi Dhammapada 383 ssg. Qui viene detto che il vero brahmino è
l'arhat, ossia colui che ha ottenuto la liberazione. Al riguardo del suo
modo comportarsi si dice tra l'altro: "Quegli il cui corpo, la cui parola e
la cui mente non albergano cattiva azione... colui che ha deposto la
collera, che è fedele ai voti, che è virtuoso, privo di attaccamenti, che è
domo... colui che, avendo deposto ogni atteggiamento ostile verso le
creature, siano forti che deboli, che non uccide né fa uccidere, costui io
chiamo brahmino."
83

ripetutamente data nei suoi discorsi, e più ancora con la negazione ogni
legame tra la casta e la credenza nella reincarnazione, il quale infatti
serviva a giustificare e perpetuare l'esistenza delle caste a vantaggio
delle caste superiori. Il brahmanesimo cominciava ad interpretare la
nascita in una casta come il frutto delle azioni compiute da una persona
nelle sue esistenze precedenti, e la sottomissione al sistema delle caste
e l'assunzione degli obblighi imposti da esso come determinanti delle
condizioni delle future nascite.
A riprova dello spirito universale che il Buddha aveva infuso e
voleva che regnasse nel Sangha iniziale è la seguente affermazione del
Buddha stesso. "Proprio come, o monaci, quali che siano i fiumi ─ cioè il
Gange, Aciràvati, Sarabhu e Mahi ─ tutti costoro, allorché raggiungono il
grande Oceano, abbandonano gli antichi nomi e le famiglie, e procedono
avanti col solo nome di 'grande Oceano', così pure, o monaci gli apparte-
nenti alle quattro caste: katriya, bràhmana, vaiya e ùdra, procedendo
dalla vita in casa alla vita errante nella disciplina della Buona Legge
insegnata dal Tathàgatha, abbandonano i loro nomi e le loro famiglie e
vanno solo col nome di 'asceti seguaci del figlio dei akya'" (Ud., V,5).
Anche le testimonianze dei monaci che si conservano ci fanno vedere il
Sangha come una associazione dove tutti erano accetti senza distinzione,
purché soddisfacessero i criteri dell'ammissione, e dove tutti potevano
realizzarsi pienamente.47
Riportiamo qui un brano del Thèragàta (I canti dei monaci) che
contiene la confessione del monaco Sunita, che è anche una testimonianza
alla grande umanità del Buddha che andava oltre ogni considerazione delle
caste e delle posizioni sociali. "Io sono uscito da un’umile famiglia, ed
ero povero e bisognoso. Umile era il mestiere che esercitavo: toglievo via

47
Il fatto che si dica in alcuni testi che il Buddha di ogni epoche
debba nascere in una delle prime due caste è stato spesso usato per mostrare
che le considerazioni castuali non erano estranee al buddhismo originario.
Ma qui va fatta una distinzione. Affermazioni di quel genere si trovano
inserite nei racconti mitologici e leggendari sul Buddha che sono
evidentemente posteriori. Sono indicazioni, caso mai, all'eventuale
infiltrazione della mentalità indù delle caste nel buddhismo. Sappiamo che è
stata questa progressiva 'induisazzione' con l'assorbimento degli elementi e
idee induisti e la conseguente perdita della sua identità distintiva, fino a
fare del Buddha stesso un'incarnazione di una divinità indù (come avviene
nella scrittura indù del Bhàgavata Puraa), che portò al disfacimento del
buddhismo in India.
84

i fiori appassiti (dai templi e dai palazzi). Ero un ogetto di disprezzo


agli occhi degli uomini, per nulla considerato, rimproverato spesso.
Nell’umiltà del mio cuore, portavo rispetto a molta gente. Fu allora che
vidi il Budda col suo seguito di monaci, mentre entrava, il grande eroe,
nella capitale del Magada. Subito io deposi il mio fardello e mi avvicinai
per inchinarmi con gran rispetto dinanzi a lui. Per compassione si fermò
volgendosi verso di me, lui, il più grande degli uomini. Ed io mi
prosternai ai piedi del Maestro, e mi collocai al suo fianco e lo pregai,
lui, il più grande di tutti gli esseri, di ricevermi come monaco. E il
maestro, pieno di carità, la cui misericordia si estende al mondo intero,
mi disse: ─ Avvicinati, o monaco. ─ Questa fu l’ordinazione da me ricevu-
ta."48
D'altra parte è vero che il Buddha non operò una scelta preferenzia-
le dei socialmente svantaggiati ed emarginati e né si atteggiò da un
riformatore sociale, protestando contro o sfidando apertamente il sistema
sociale delle caste. Bisogna capire però che una tale presa di posizione
non rientrava neanche nella sua impostazione religiosa, rivolta com'era
verso la liberazione dell'uomo intesa alla maniera di un'afrancarsi
dall'ignoranza e dal dolore universale, che in un certo senso comportava
la negazione stessa del mondo.
Il Buddha intese sua missione come destinata a tutte le persone di
tutti gli strati sociali ─ uomini e donne, ricchi e poveri, brahmini e
servi, re e cortigiane ─ e il suo dhamma come la via della salvezza per
tutti. Già mentre il numero dei discepoli era arrivato a sessenata, il
Buddha aveva cominciato a mandarli a divulgare la dottrina. E l'avrebbe
fatto con queste precise parole: "Andate dunque, o monaci, mettetevi in
cammino per la salvezza di molti, per la felicità di molti, per
compassione del mondo, per il bene, per la salvezza, per la felicità degli
dèi e delgi uomini. Non seguite in due la stessa via. Predicate la
dottrina che è gloriosa nel principio, gloriosa nel mezzo e gloriosa nella
fine; predicatela nel suo spirito e nella lettera; pubblicate la vita
piena, perfetta e pura, la vita di santità."49 Viene detto che all'inizio i

48
Citato da Oldenberg, Budda, p.170.
85

discepoli riportavano con loro molti candidati, anche da luoghi e regioni


distanti. Pensando alle fatiche di questi viaggi che i nuovi candidati
compivano, si dice che il Buddha diede i discepoli il permesso di
ordinarli nei luoghi dove si trovavano. Fattosi rasare i capelli e la
barba e indossata la veste gialla, l'aspirante doveva recitare tre volte
la formula della presa di rifugio prima di ricevere l'oridinazione (cfr.
Vin.Mv., I,12,3-4).
Ben presto il numero dei seguaci del Buddha aumentò in ogni parte.
Accanto alla comunità dei monaci esisteva fin dall'inizio il gruppo dei
laici, che spesso figura prominentemente nella vita del Buddha e nelle
vicende del buddhismo primitivo. I laici (upàsaka) pure professavano il
triplice rifugio, benché rimanevano nel mondo. E' chiaro che il buddhismo
originario era prevalentemente monacale, ma non per questo era privo di
fedeli comuni. La vita dei laici era intimamente legata a quella dei
monaci. I monaci dovevano dipendere dalla generosità dei laici; i laici
con la loro generosità verso i monaci dovevano guadagnarsi meriti
spirituali.
Capitolo 5

GIRANDO LA RUOTA DEL DHAMMA

Dopo l'evento portentoso della 'Messa in moto della Ruota del


Dhamma' e il reclutamento dei primi discepoli, la sacra scrittura non ci
offre nulla che somigli ad un racconto continuo della vita del Buddha.
Bosogna arrivare agli ultimi tre o quattro mesi della sua vita per avere
di nouovo un racconto che dimostri un certo carattere di continuità
cronologica. Di tutti quegli anni che comprendono quasi l'intero periodo
della sua predicazione, si sono conservati solo episodi isolati, privi di
qualsiasi sistemazione cronologica. Il senso del 'quando' è del tutto
assente da quei racconti. E' vero, però, che esistono nei commentari
posteriori tentativi di fornire una successione temporale agli accadimenti
di questo periodo. Per di più, esistono in essi delle liste che collocano
i fatti relativi a, per così dire, la vita pubblica del Buddha a quello o
quell'altro anno del suo ministero. L'assoluta nullagine di queste liste
cronologiche, a giudizio di Oldenberg, è tanto ovvia da non meritare
nessuna considerazione ulteriore.50 Pertanto, al riguardo della successione
temporale dei fatti che fanno parte della vita pubblica del Buddha, si
potrebbe al massimo fare solo delle congetture. E noi pensiamo di
evitarle.
Così rimane certa solo la circostanza del luogo dove avvengono i
fatti connessi con la vita pubblica del Buddha: il luogo dove viene fatta
una predica o si incotra con un re, un benefattore, un avversario... Quasi
tutte le narrazioni di episodi nel Canone pàli vengono introdotte con una
formula che sempre contiene un referimento al luogo. Vi si legge
un'infinità di volte: "In quel tempo il Beato soggiornava a ràvasti, al
Bosco di Jeta, nel parco di Anàtapindika..." Oppure: "In quel tempo il
Beato si trovava presso Ràjagriha, nel Bosco di Bambù..." o ancora: "In
quel tempo il Beato compiva il suo giro di elemosina presso le genti di
Kosala..." Quando si tratta dei discorsi ed insegnamenti, alla menzione
del luogo vengono aggiunti spesso i nomi delle persone alle quali sono

50
H. Oldenberg, Budda, p.94.
87

rivolti.
In base ai racconti relativi a questo periodo, e alle loro
indicazioni topografiche, possiamo pensare che il Buddha svolse la sua
attività della propagazione della dottrina nella vasta area del bacino del
Gange. Il raggio della missione comprendeva i regni di allora come il
Magadha e Kosala e la confederazione Vajji. Secondo una stima ci sarebbero
stati in quel epoca oltre a due milioni d'abitanti in quelle regioni. 51
Anche se ci sono occasionali riferimenti nel Canone ai luoghi distanti
nella parte nord-occidentale dell'India, è probabile che il Buddha non sia
mai stato in qulle regioni. In ogni caso, non ci sono prove che vi abbia
svolto un'attività missionaria significativa.
Si presume che la sua attività di predicazione abbia durato
un'impressionante periodo di pressapoco quarantacinque anni ─ più di ogni
altro fondatore di religione che conosciamo. Durante tutto questo tempo,
il Buddha si è spostato di frequente di città in città, di villaggio in
villaggio, sempre a piedi, e accompagnato da un gruppo di discepoli. I
racconti spesso parlano di cinquecento monaci (una cifra simbolica che
vuole solo indicare un numero assai elevato) che lo accompagnano. I testi
ci fanno pensare che il Buddha con il suo seguito sarebbe passato per gli
stessi luoghi anche diverse volte durante la sua lunga carriera di
predicatore itinerante.
Non solo di viaggi, la sua carriera era anche fatta di periodi di
stazionamento, e qualchevolta anche abbastanza prolungati. A ciò obbligava
specie il periodo delle piogge annuali. Da metà giugno a metà ottobre
piogge torrenziali si abbattono su tutto il sub-continente indiano,
immobilizzando, quasi, tutta la popolazione. Non solo le piogge che
potevano cadere imporovvisamente e durare senza interruzione per giorni,
ma anche le sue conseguenze quali l'allagamento dei fiumi e la scomparsa
dei tratti di strade rendevano i viaggi in questo periodo un'impresa
pericolosa oltre che difficile. Fin dai giorni del Buddha era l'uso tra i
buddhisti trascorrere questo tempo in qualche posto adatto, impegnadosi
più diligentemente sulla via spirituale. Questo ritiro annuale dedicato al
rinnovamento spirituale veniva appunto chiamato 'varika', (ritiro) per le
piogge. Qui e là il canone fa menzione del Buddha che osserva il varika

51
Cfr. R.R.Diwakar, Bhagawan Buddha, Bharatiya Vidya Bhavan, Bombay
1991, p.123.
88

di un certo anno in un luogo od un altro.


L'uso delle residenze fisse deve essere cominciato fin dalla
formazione del sangha. Alcune dimore erano naturali, come le grotte sotto
il "Picco dell'Avvoltoio" (Gridhra-kùta; pali: Gijjhà-kuta) ─ sulle
colline che circondano la città di Ràjagriha (od. Rajgir) ─ spesso
nominato nella scrittura. Le altre erano dimore costruite ─ si parla della
'casa di mattoni' e della 'sala con l'acuto tetto' e già, in Vinaya, del
Monastero di Jeta (Vin.Cv. VI,4,9-10). Per quanto sembra, il Buddha e i
suoi discepoli risiedevano di preferenza ai dintorni dei grandi centri
urbani del tempo: ràvasti (pali: Sàvatthi), la capitale del regno di
Kosala; Ràjagriha, la capitale del Maghadha; e Vaiali (pali: Vèsali), la
ricca dei potenti principi Licchavi e il centro amministrativo della
confederazione Vajji.

1. Con la gente, i re e i benefattori


Il Buddha era un maestro di grande fama. E lo era quasi fin
dall'inizio della sua carriera, e più di tutti gli altri maestri suoi
contemporanei. Molti Sutta cominciano il loro racconto parlando della fama
di cui egli gode: "Intorno a lui, al Sublime Gòtama una voce di fama così
si espande ─ Ecco, quegli è il perfettamente Svegliato, possessore del
cibo della sapienza, benvenuto, conoscitore del mondo, insuperabile guida
dell'umanità, maestro degli dèi e degli uomini" (D., II,8; III,i,2; IV,2;
V,7 et al.). Naturalmente si parla della gente che accorre verso di lui da
paesi vicini e lontani. I racconti spesso ci offrono un'impressione di un
continuo andirivieni di persone dove egli risiede. Ci sono coloro che
vengono per vederlo, per ascoltarlo, per consultarlo e per essere istruiti
da lui. Nei Sutta che hanno l'interesse di testimoniare all'eccellenza
delle dottrine buddhiste rispetto alle altre, spiccano i suoi incontri con
persone dotte ─ i brahmini ─ che pongono domande e chiedono
chiarificazioni sulle sue dottrine. Si incontrano, poi, tra coloro che lo
frequentono, "i fini argomentatori, gli spaccattori di capelli" (D.,
VIII,4) di una o di un'altra scuola che vogliono misurarsi con il nuovo
maestro. Un brano riassume tutta questa attività intorno al Buddha e il
suo effetto netto: "Un ruggito di leone ruggisce l'asceta Gòtama, ruggisce
alle moltitudini, ruggisce da saggio; a lui pongono questioni, ciascuna
89

questione risolve, sono convinti gli uditori, gli uditori sono


rasserenati, sono condotti verso la liberazione e i liberati sono
soddisfatti" (D., VIII,22).
Quando il Buddha con la sua scorta di monaci entra in qualche città,
la gente esce di casa per accoglierlo; le persone importanti e ricche
della città vanno ad incontrarlo in privato, e si contedono ad invitarlo a
pranzo. La scena di questi incontri privati ed inviti a pranzo è qualcosa
che si ripete innumerevoli volte nei testi. I luoghi, le persone e qualche
volta il menu del cibo servito cambia; però i procedimenti e le ceremonie
rimangono gli stessi. Ne riportiamo un esempio che in qualche modo fa
vedere anche il grande rispetto che egli comandava tra queste persone. In
questo esempio il visitatore è il brahmino Kùadanta che ha appena avuto
un lungo colloquio col Buddha sulla Dottrina.
"Dunque il brahmino Kùadanta ottenuta la visione della Dottrina,
disse così al Sublime: ─ accetti da me, il signor Gòtama, il pasto di
domani con la schiera dei monaci ─. Assentì il Sublime col silenzio.
Allora Kùadanda il brahmino, appreso il consenso del Sublime, sorto da
sedere, salutato il Sublime, girando sulla destra se ne andò. Allora,
fatto preparare durante la notte eccellente sostanzioso cibo, Kùadanda
fece annunciare al Sublime che era tempo: ─ è tempo, o Gòtama, il pranzo è
pronto ─. Allora il Sublime levatosi di buon mattino, presi mantello e
scodella, con la schiera dei monaci si diresse alla casa del brahmino
Kùadanta, essendovi giunto, sedè sull'apprestato sedile. Allora Kùadanta
prima il Buddha, poi la schiera dei monaci, con eccellente sostanzioso
cibo, colle sue proprie mani, servì e soddisfò. Indì Kùadanta accanto al
Sublime, che si era cibato ed aveva rimossa colla mano la scodella, su di
un più basso sedile sedè. Il Sublime avendo istruito, incitato,
rallegrato, rasserenato il brahmino Kùadanta che gli si era accanto
seduto, con un discorso sulla Dottrina, levatosi se ne andò" (D., V,30
adattato).
Ovviamente, neanche i re potevano ignorare un tale maestro con tanto
influsso tra le popolazioni. Anzi, il re Bimbisàra del Magadha e il re
Prasènajit (pali: Pasenadi) del Kosala, oltre che mantenere buoni rapporti
con il Buddha, divennero suoi amici e sostenitori della sua opera. Un
passo del Kùadanta Sutta parla pure della loro adesione con le loro
famiglie alla Dottrina predicata dal Buddha (cfr. D., V,7). E' chiaro che
90

il fatto di poter contare due potenti re tra i suoi aderenti aumentò il


prestigio della nuova religione e aiutò non poco la sua propagazione.
Esiste nella scrittura un racconto che riferisce il primo incontro
tra Bimbisàra e il Buddha. Questo incontro, pensiamo, deve aver avuto
luogo già all'inizio della sua carriera pubblica poiché il Buddha sta
venendo a Ràjagriha da Uruvèla, con i neo-convertiti Kàyapa e i loro
mille discepoli. Bimbisàra che viene a sapere dell'arrivo del Buddha, gli
va incontro con una grande scorta di cittadini e brahmini. La presenza dei
famosi Kàyapa tra i discepoli del Buddha è un motivo di grande stupore
per tutti. Accolto dal re e dai cittadini, il Buddha predica davanti al re
e ai cittadini, persuadendo molti ad abbracciare la sua Dottrina. Lo
stesso Bimbisàra si sarebbe convertito sul posto. Il re poi lo invita a
pranzo insieme ai suoi discepoli. E' durante questo pranzo, secondo i
testi, che Bimbisàra gli fece il dono del 'Bosco di Bambù' (Veuvana o
Veluvana), un parco nella vicinanza del palazzo regale, citato nei testi
buddhisti spesse volte. Si pensa che il re fece poi anche costruire un
monastero nel codesto luogo.
Dopo Bimbisàra anche il suo figlio e successore Ajàtaatru ─ se non
proprio per devozione al Buddha o alla sua dottrina, ma spinto da certe
considerazioni politiche, piuttosto ─ si mostrerà amico del Buddha e
prottettore della sua religione. Il re Ajàtaatru è frequentemente
nominato dai testi buddhisti. O personalmente o per mezzo dei suoi
ministri avrebbe sempre consultato il Buddha prima di avventurarsi in
qualsiasi impresa rischiosa sia politica che militare. Il dotto re
Prasènajit, che sembra aver perfino trascurato l'amministrazione del regno
per darsi alle cure dei vari "santoni" del suo tempo, era invece
particolarmente attirato al Buddha e ai suoi insegnamenti. Diverse volte
sarebbe anche andato ad ascoltarlo mentre si trovava nella sua capitale.
Era il costume dell'epoca che le persone ricche e benestanti
provvedessero il vitto e alloggio ai maestri famosi e ai loro seguaci.
Così vediamo nei testi buddhisti un numero di persone pronte a venire
incontro ai bisogni del Buddha e della sua comunità. Erano anche persone
che avevano accolto la Dottrina, e cercavano metterla in pratica nella
misura ciò fosse possibile rimanendo nel mondo. Facevano doni di ogni tipo
al Buddha. Come diversi altri, Jìvaka, il medico personale di re
Bimbisàra, è noto per aver fatto il dono di un bosco degli alberi manghi
91

in periferia di Ràjagriha al Buddha e alla sua comunità. Nella lista degli


ottanta più grandi benefattori, conservata nei commentari, si trovano nomi
di due persone il cui servizio è ricordato anche nel Vinaya. Il primo è
Viàkha, la madre di Migara, probabilmente una parente di re Prasènajit,
che mise a disposizione del Buddha un intero palazzo a molti piani (cfr.
Ud., II,9). Il Vinaya racconta anche che questa benefattrice chiese e
ottenne dal Buddha il permesso di provvedere regolarmente i vestiti per
tutto l'Ordine, il cibo per i monaci in viaggio e le medicine per quelli
malati (vedi Vin.Mv., VIII,15,1ssg).
Il secondo era Sudatta, soprannominato Anàthapindada o Anàthapindika
(letteralmente, benefattore degli orfani), un mercante molto ricco di
ràvasti. Suo fu il dono di Jètavana (il Bosco di Jèta), la residenza
preferita del Buddha, tante volte menzionato nei testi. Si racconta che
Sudatta era andato a Ràjagriha per sbrigare qualche affare, e quando poi
fece una visita alla famiglia di sua moglie che era di lì, vedendo le
preparazioni che vi erano in corso, pensò che ci fossero delle nozze o che
la famiglia avesse invitato il re a pranzo. Quando poi seppe che le
preparazioni erano per accogliere il Buddha che veniva con i suoi
discepoli a pranzo, decise di incontrarlo di persona ad ogni costo.
Durante l'incontro Sudatta fu convertito alla causa della nuova religione
predicata dal Buddha, e lo invitò a ràvasti.
Tornato a ràvasti, Sudatta cercò un luogo adatto per il soggiorno
del Buddha e i suoi discepoli. Quello che egli dice tra sé mentre fa
questa investigazione è significativo, in tanto esso ci aiuta anche ad
avere un'idea generale dei luoghi di residenza del Buddha e della
comunità. "Non troppo lontano dalla città, né troppo vicino alla città;
conveniente per andare e venire, facilmente accessibile a chiunque voglia
andarvi; non troppo animato di giorno, silenzioso di notte, lontano dal
tumulto e dalla folla degli uomini, adatto per la meditazione."52 Ora, il
parco del principe Jèta gli sembrava di riunire tutte queste caratteri-
stiche. Tuttavia, c'era un problema: il principe non lo voleva cedere. Si
dice che era dopo molte trattattive e ad un costo esagerato (tanto da
poter coprire tutto il terreno con monete d'oro!) che Sudatta finalmente
riuscì ad acquistare il parco. Nel parco, poi, per quanto dice il testo,
52
Notiamo che la stessa considerazione viene fatta anche da re
Bimbisàra prima di donare il Parco di Bambù al Buddha. Cfr. Vin.Mv.,
I,22,16.
92

egli fece costruire abitazioni, celle, atrii e sale di ricevimento, bagni,


tende ecc. (vedi Vin.Cv., VI,4,1-10).

2. Tra i membri del Sangha


Non bisogna dirlo, il Buddha trascorreva la maggior parte del suo
tempo con i monaci del suo ordine. In fondo egli condivideva con loro la
stessa vita. Si può notare che anche alcuni dei discorsi del Buddha che
troviamo fra i testi erano rivolti proprio ai suoi discepoli. I testi
anche spesso parlano dei suoi incontri con vari discepoli. Sembra che
esistesse tra i monaci la usanza di fare visita al Buddha dopo il vàrika,
ossia il ritiro per le piogge. Noi sentiamo parlare soprattutto dei monaci
che vivono nei luoghi distanti recarsi in visita al Beato alla conclusione
della stagione delle piogge.
Il Buddha spesso dava istruzioni sulla vita religiosa ai suoi
monaci. Lo viediamo esortare sulle virtù e sulla pratica della
meditazione. Spesso consigliava loro la pazienza nelle pratiche finché
arrivino all'affrancamento totale da ogni attaccamento alle cose terrene,
e assicurava loro la beata liberazione per mezzo dell'applicazione
continua alla meditazione e alla saggezza. Non mancavano però occasioni in
cui il Buddha dava anche correzioni ai monaci quando si comportavano in
modo ritenuto non degno di un monaco. Il Vinaya (Mv.,I,25 ssg) parla di
diverse occasioni nelle quali il Buddha avrebbe ammonito i monaci,
soprattutto per la loro condotta durante il giro quotidiano della questua.
Qui si parla anche della istiutzione di upàdhyàya (precettori) per la
direzione spirituale dei monaci giovani. Nei testi vediamo il Buddha
qualche volta anche nella veste del pacificatore nei litigi tra i monaci.
Così, sentiamo parlare in un Udàna (III,6) di alcuni monaci che si sentono
offesi dalle parole di un altro monaco e quindi vanno dal Buddha. Il
Buddha chiamerà il monaco offensore e cercherà di risolvere la difficoltà.
Vediamo il Buddha anche spesso intervenire spontanemente contro
l'abitudine di chiacchierare dei monaci. Se una volta i monaci stanno
parlando delle cose che hanno visto e sentito durante il giro di questua,
un'altra volta stanno discutendo su chi tra i due re, Bimbisara e
Pasenadi, è il più potente, più ricco, più stimato ecc. (Ud., II,2;
III,8,9). Di solito il Buddha si avvicina ai monaci e domanda a loro di
93

che cosa stanno conversando. E quando gli dicono di cosa stavano parlando,
il Buddha li rimprovera e li esorta a praticare il silenzio, più o meno
con queste parole. "Monaci, non mi sembra degno di voi, che siete figli di
famiglia, che per fede avete abbandonato la vita di casa per darsi alla
vita monastica, di chiacchierare su di un argomento simile. Monaci, quando
sedete qua radunati, una delle due si deve fare: o conversare riguardo
alla Buona Legge (Dhamma) o praticare il santo Silenzio."
Durante tutta la sua vita il Buddha rimase il supremo capo del
Sangha e si era attivamente coinvolto in ogni sua iniziativa. Anche
quando, verso la fine della sua vita, si fecero avanti alcuni membri che
volevano prendere in mano il Sangha, il Buddha non volle lasciare la sua
direzione.

3. Da solo, e in meditazione
Leggendo i racconti relativi alla vita pubblica del Buddha, uno
sarebbe facilmente tentato a pensare che la sua fosse una vita trascorsa
in costante compagnia di discepoli e fatta di incontri con persone
importanti, di discussioni con i dotti e di pranzi con i ricchi. Questa
impressione, però, non sarebbe conforme alla realtà. Leggendo i testi, uno
non dovrebbe scordare il fatto che i testi di solito parlano solo di
quegli episodi cosiderati importanti nella vita del Budddha o che erano in
qualche modo fuori del quotidiano. Pensiamo invece che la maggior parte
dei giorni del Buddha erano trascorsi come quelli del resto dei monaci,
cioè con l'abituale questua mattutina e la meditazione pomeridiana. A
queste pratiche di tutti i giorni ci sono solo pochi riferimenti nei
testi. Pensiamo inoltre che anche durante la sua vita di predicazione, il
Buddha era rimasto un amante del silenzio e della solitudine. E se e
quando questi venivano a mancare dove egli risiedeva, sia per la pressione
dei monaci, sia per la pressione delle persone estranee alla comunità, il
Buddha lasciava la residenza in cerca di solitudine e di silenzio.
Abbiamo un passo eccezionale della scrittura che ci parla di una
tale occasione, un'occasione che, pensiamo, non era isolata. "In una certa
occasione il Beato era infastidito da monaci e monache, devoti laici e
devote laiche, re e ministri reali, capi delle sette e loro seguaci, e
viveva in mezzo alla confusione, non a suo agio. Quindi il Beato rassetta-
94

tosi di buon mattino, indossò la veste, prese la scodella ed entrò in


Kosambi per la questua del cibo: compiuto il suo giro per la questaua del
cibo ritornò e se ne nutrì, pose inordine il suo alloggio ed il suo
giaciglio, e senza informare il monaco che lo serviva o darne notizia
all'Ordine dei monaci, solo e senza seguaci inziò il suo giro diretto al
villaggio di Pàrileya, che raggiunse successivamente. Ivi il Beato si
fermò a risiedere nella fitta foresta custodita, presso la radice di un
albero di sala. Così il Beato si stava in ritiro e meditazione, non
fastidito, tranquillo e a suo agio." (Ud., IV,5 sintesi).

4. Lo stile, i metodi, i miracoli


Lo straordinario successo iniziale del movimento religioso che poi
venne chiamato 'il buddhismo' non si spiega sufficientemente con la
semplice 'bontà' della sua dottrina, anche se questa è ciò che sempre
viene sottolineata dai testi buddhisti. Dobbiamo pensare, invece, che era
legato, in una maniera non-accidentale, anche con il carisma personale del
suo fondatore stesso, il Buddha. Non è per nulla se il Buddha fu innalzato
alla sfera divina da quasi tutte le scuole buddhiste in breve tempo dalla
sua morte. E' chiaro che il Buddha esercitava un particolare fascino su
tutti coloro che venivano in contatto con lui, con il suo stesso aspetto
esteriore, con i suoi modi e con la sua intelligenza, bontà e umana
compassione. E' chiaro anche che le sue parole dovevano contenere la calma
autorità di chi ne ha accertate la verità per mezzo delle proprie
esperienze e chi viveva in estrema coerenza con esse.
Si pensa che il Buddha abbia parlato nella lingua màgadhi, la lingua
parlata dal popolo.53 Non sappiamo, però, se la forma nella quale sono
riportate le parole del Buddha dai testi sia la stessa che abbia usato il
Buddha. Oldenberg ha rilevato la solenne gravità e il formalismo, ossia
l'astratezza e l'assenza di ogni naturalezza che in fondo caratterizzano i
discorsi del Buddha nei testi. E nonostante ciò egli ritiene che quello
doveva essere il modo consueto di communicare del Buddha, sia che esso
conformi o no alla nostra idea di una communicazione normale e diretta. Ed

53
Pàli, la lingua nella quale è conservata la sacra scrittua buddhista
più antica (perciò 'il canone pàli'), sarebbe stata una lingua basata su un
dialetto molto vicino al màgadi. Cfr. P.Harvey, Introduzione al Buddhismo,
p.28.
95

egli attribuisce questo modo di parlare del Buddha alla sua natura
meditativa e filosofica, all'importanza che la forma doveva avere
nell'impostazione delle sue dottrine e, soprattutto, allo stile dei
discorsi religiosi che aveva adottato dai circoli brahmanici.54
A questo proposito, communque, bisogna primo di tutto tener presente
che molti dei testi che riportano le parole del Buddha sono detti 'Sutta'
(in sanscrito 'Sùtra', che siginifica 'filo' o 'corda'). Il sùtra era
nella tradizione indiana una forma di letteratura nella quale le frasi e
brani di un discorso erano stati adattati, compressi e concatenati per
facilitare la loro memorizzazione e la loro eventuale trasmissione orale.
I sùtra poi spesso richiedevano commentari per essere compresi. E'
difficile concepire che la forma di sùtra potesse essere adoperato anche
nelle communicazioni da vivo tra le persone. Anche se i sùtra buddhisti
non sono tipici, la ripetizione senza fine di frasi uguali e la
ripetizione di ogni altro genere che vi si trovano, ci fanno communque
pensare che l'attuale forma in cui riportano le parole del Buddha è
qualcosa sovrimposta. Perciò, contrariamente all'impressione che potremmo
ricavare leggendo i Sutta, dovremmo pensare che il Buddha era un
communicatore vivace, persuasivo e senz'altro efficace. Come verrebbe
detto in un Sutta, "Certo, l'asceta Gòtama è di facile parola, di chiaro
eloquio,... abile maestro" (D., V,7).
Non solo dei discorsi, il Buddha faceva uso anche delle favole, dei
versi e, soprattutto, delle parabole per communicare la sua dottrina. Le
parabole che di solito prendevano spunto dalle esperienze comuni e
quotidiane dovevano avere un grande impatto sui suoi uditori. Si può
vedere dai testi che il Buddha adattò la maniera di esporre le dottrine
secondo la capacità ricettiva del suo uditorio. Si può notare anche che
adoperò un metodo progressivo di inculcare la dottrina. Nei raconti di
quasi tutte le conversioni, egli iniziava con un'esortazione sulla virtù
della generosità, le virtù morali e sulla necessità di rinunciare ai
piaceri caduchi. E solo quando si vedeva che gli ascoltatori ne erano
convinti, e i loro spiriti preparati e ben disposti, annunciava la
dottrina che, come viene detto, è propria di un Buddha. Cioè, la dottrina
superiore del dolore, del suo sorgere e cessare, e dell'ottuplice
sentiero. E' interessante notare qui anche la solita formula di meraviglia

54
Vedi H.Oldenberg, Budda, pp.193-96.
96

e di ringraziamento che si trova sulla labbra di chi si converte in


seguito alla predicazione: "E' meraviglioso, o Gòtama, è meraviglioso;
come si drizzasse ciò che era rovesciato, si scoprisse ciò che era
coperto, ad uno smarrito si mostrasse la strada, nell'oscurità si
sollevasse una lampada ─ sicché coloro che hanno occhi possono vedere le
forme ─, proprio così dal signor Gòtama con più di un argomento è stata
esposta la Dottrina. Ed ecco io prendo rifugio nel venerabile Gòtama,
nella Dottrina..." (D., IV,23; III,ii,22; II,99 et al.).
Il Buddha non pretese che i suoi ascoltatori accettassero la
dottrina sulla sua autorità. Anzi, chiese loro di mettersi in guardia
contro ogni autorità inclusa sua. Egli incoraggiava inoltre i suoi
discepoli a considerare attentamente e criticamente tutto ciò che veniva
asserito sia da lui che dagli altri prima di accettarlo. In ultima
analisi, l'esperienza fatta da sé era l'unica fonte di autorità per il
Buddha. Vale a dire, secondo lui, ognuno doveva sperimentare per sé ciò
che veniva asserito e così accertare per sé stesso la sua verità o
falsità. E al rigurado delle sue dottrine, è degno di nota che egli
infatti ritenne la possibilità di un tale accertamento, il quale era anche
la prova delle loro verità. Possiamo riportare qui un brano che si
riferisce chiaramente a questa possibilità. Dice al discepolo Kàyapa: "Vi
è, o Kàyapa, un sentiero, una via, seguendo la quale da sé uno vede, uno
conosce che l'asceta Gòtama parla secondo la realtà. E quale è questo
sentiero, questa via? Questo è il nobile ottuplice sentiero. Questo è il
sentiero, la via seguendo la quale uno da sé conosce, da sé vede" (D.,
VIII,13 adattato).
Per esso, era indispensabile per il Buddha che i suoi ascoltatori
mettessero a prova le sue parole e così si rendessero conto personalmente
della bontà della dottrina predicata da lui. Era la parte chiave dell'ap-
prendimento della dottrina, e questa spettava agli uditori. Il Buddha
stesso poteva far poco per produrre quella esperienza negli altri che era
allo stesso tempo la sua verifica. In questo senso il Buddha parlerà di sé
come uno che solo "indica la via". Infatti è ciò che viene espresso anche
da una delle sue famose parabole: Due uomini cercano di raggiungere la
città di Ràjagriha alla quale non conoscono la strada. A loro viene
indicato il cammino. Mentre uno segue le indicazioni e vi giunge, l'altro,
nonostante le indicazioni, non vi giunge perché non segue le indicazioni.
97

Così, dice il Buddha, alcuni istruiti da me raggiungono la meta, il


nirvana, altri non lo raggiungono. E aggiunge: "Quale è la mia parte in
ciò? Io sono uno che indica la via" (M., I,107).
In questa prospettiva di un metodo di insegnamento che vuol condurre
all'esperienza interiore si inserisce pure la similitudine della zattera
(M., I,134-35). Il Buddha paragonò la dottrina o il dhamma predicato ad
una zattera che serve solo per attraversare il fiume, ma diventa poi un
ostacolo al cammino se uno la si carica sulle spalle e la porta con sé in
riconoscenza della sua utilità passata. Utilizzando una similitudine più
nota potremmo dire così: il dhamma va preso come una scala che serve per
salire; e una volta salita, essa deve essere abbandonata. Pertanto, per il
Buddha, le parole e i discorsi sono solo mezzi; e come mezzi, devono
essere abbandonati quando il loro uso è terminato. In altre parole, il
dhamma predicato deve essere trasceso nell'esperienza della vera realtà
che va al di là di ogni discorso.
In qualche modo collegato all'idea sopra è anche, in fine, i
proverbiali silenzi del Buddha. Il Buddha è uno che ha fatto del silenzio
stesso un metodo proprio dell'insegnamento. Potremmo dire che egli osservò
due tipi di silenzi, che avevano due significati ben diversi. Quando si
trattava della Realtà Assoluta della Trascendenza, ossia il Nirvana, oltre
che ad affermare che "il Nirvana c'è", il Buddha mantenne un profondo e
misterioso silenzio se veniva interrogato sulla sua natura. In effetti
egli ritenne ogni discorso sulla natura del Nirvana potenzialmente
contraddittorio e controproducente. Era il silenzio che bosognava
osservare di fronte alla realtà di cui non si può parlare. Mentre, un
altro tipo di silenzio era mantenuto di fronte a certi tipi di questioni
metafisische, che egli considerò inutili per la vita o, in ogni caso, non
essenziali per la vita. Erano anche questioni per le quali apparentemente
la ragione umana poteva fornire risposte contraddittorie ─ questioni come
se il mondo sia eterno e meno, o infinito o meno; se il corpo e anima sono
identici o meno; e se ci sia un'esistenza dopo la morte oppure no. Erano
certo questioni su cui si poteva parlare; ma in fondo parlare di esse non
sarebbe altro che uno spreco di energie e di parole. Caso mai queste
questioni potevano essere risposte solo in base all'esperienza della
Trascendenza, il Nirvana, e anche in quel caso, senza rivendicarne una
dimostrabilità razionale.
98

Diversi miracoli sono attribuiti al Buddha dagli scritti buddhisti.


Per la verità, mentre in miracoli sono piuttosto rari negli scritti
antichi, ne abbondano i testi tardivi. Senza mettere in discussione che il
Buddha abbia potuto compiere delle azioni straordinarie, possiamo tuttavia
rilevare alcuni punti interessanti al riguardo di miracoli nei testi
canonici del buddhismo.
In Kèvaddha Sutta, il laico Kèvaddha fa la seguente proposta al
Buddha: di allenare qualche discepolo a compiere miracoli, sicché la
conversione della popolosa città di Nalanda possa essere facilitata. In
quest'occasione il Buddha fa sapere che egli è in possesso di tre specie
di poteri straordinari che sono il potere di compiere atti sovranormali,
la penetrazione della mente altrui e il potere dell'infusione immediate
degli insegnamenti, ossia il controllo della mente altrui a distanza. Ma
allo stesso tempo mantiene che questi poteri sono pericolosi, e dunque
dice che non è proposenso ad usarli per ottenere le conversioni (vedi D.,
XI,1.8). Noi sappiamo dai testi che alcuni dei discepoli del Buddha erano
pure in possesso di grandi poteri sovranormali. Secondo il Vinaya-pìaka,
anche a questi il Buddha avrebbe proibito l'uso dei poteri sovranormali
per lo scopo di creare stupore tra gli spettattori e di servirne per le
conversioni. Detto questo, bisogna pur aggiungere che i testi riportono
alcuni miracoli del Buddha, che qualchevolta è proprio per conseguire le
conversioni come nel caso dei fratelli Kàyapa.
Ad ogni modo, ci domandiamo: quale è il "senso" dei miracoli del
Buddha che traspare dai testi? Indicativo a questo proposito è già la
frase con cui di solito viene introdotto un fatto prodigioso: "Come un
uomo forte stende un braccio piegato o piega un braccio disteso, proprio
così il Sublime...." (p.es. Ud., III,2; III,3). Non c'è dubbio che si
tratta di un potere che è in proprio possesso. E' visto anche come un
gesto tanto naturale quanto il movimento del braccio ad un uomo. In ogni
caso è da notare che non si tratta di un potere che riceve d'altrove.
Secondo la concezione buddhista, i prodigi non sono altro che
l'impiego di siddhi (pali: iddhi; i poteri che sono stati sviluppati). E
per capire esattamente il senso del concetto di siddhi bisogna che uno lo
comprenda nel contesto dell'antica pratica indiana dello Yoga. Infatti
nello Yoga i siddhi sono propriamente visti come le straordinarie facoltà
99

che si sviluppano in alcuni stadi della meditazione yoghica. 55 Non c'è


alcun dubbio che il senso che i testi attribuiscono alle imprese
straordinarie del Buddha è proprio quello del potere yoghico. Vale a dire,
sono percepiti come i risutati più che naturali di certi esercizi di
concentrazione mentale e di meditazione.
I miracoli del Buddha per questo motivo non si presentano, per così
dire, come dei "segni" ─ segni cioè che fanno richiamo a qualche altro
realtà o stato di fatto. In altre parole, in essi non si verificano una
doppia intenzionalità ─ una diretta ed immediata, di produrre un effetto
nel mondo e un'altra, di valersi come un evento simbolico. Pertanto, i
miracoli del Buddha sono semplicemente degli atti destinati a conseguire
un risultato utile ed immediato nel mondo, che tuttavia appaiono
straordinari rispetto allo stato normale delle cose. Sono gesti come
rendere inoffensivo un elefante infuriato che viene contro di lui, o come
ipnotizzare un gruppo di uomini che sta per attaccarlo. Oppure, sparire da
un luogo per ricomparire all'istante in un luogo distante per ammonire un
discepolo errante, o ancora, aiutare una donna impazzita a riacquistare la
consapevoelzza (vedi Thèrigàta, 47) ecc.
Ricordiamo in questo contesto la storia riportata dalla scrittra di
una donna che viene dal Buddha col suo bambino morto, pensando nella sua
disperazione che egli avrebbe potuto risuscitarlo ─ il Buddha solo l'aiuta
ad ad accettare il fatto della morte del suo bambino (vedi Thèrigàta, 63).
E così anche il monaco Tissa che soffre di una forma virulente di malattia
della pelle: il Buddha non lo guarisce, ma solo l'assiste con grande cura
(anche perché gli altri monaci l'avevano trascurato!). 56 E sempre sul tema
del miracolo si racconta un episodio che rivela l'atteggiamento in fondo
del Buddha verso esso: Una volta incontrò un asceta che faceva da precchi
anni duri esercizi per poter attraversare un fiume camminando sull'acqua.
E il Buddha lo scoraggiò dicendo che non valeva la pena, perché usando un
traghetto e col dispendio di pochi soldi avrebbe potuto benissimo
attraversare il fiume!57 Così, sembra chiaro che il Buddha faceva ricorso
ai suoi poteri magici solo per conseguire certi scopi ritenuti necessari,
55
Vedi M.Eliade, Lo Yoga: Immortalità e libertà, BUR, Milano 1995,
pp.91-96.

56
Dhammapada Commentary, I,319.

57
Cfr. P.Harvey, Introduzione al Buddhismo, p.49.
100

e solo quando questi non potevano essere conseguiti con i metodi normali.

5. Nella città natale


Nei testi canonici si trovano soltanto degli accenni alla visita
fatta dal Buddha a Kapilavastu durante il periodo della predicazione della
dottrina. Per esempio il Mahà Samaya Suttanta menziona il suo soggiorno
con una sciera di monaci nella grande foresta nei pressi di Kapilavastu
(D., XX,1). Eppure i testi extra-canonici sono pieni di notizie sul suo
ritorno a Kapilavastu, la città dalla quale era fuggito per abbracciare la
vita di un mendicante. Come la sua nascita e la sua vita di comodità nel
palazzo, il suo ritorno a Kapilavastu è un episodio che, per quanto
sembra, ha fatto scattenare l'immaginazione creativa degli scrittori
buddhisti posteriori.
Secondo questi racconti, uddhòdhana manda varie volte messaggeri
per invitare il Buddha a Kapilavastu. Ma questi non fanno più ritorno,
attrati come sono dalla vita che trovano presso di lui. Quando, però,
eventualmente il Buddha decide di visitare Kapilavastu, il racconto di
questo viaggio in questi testi diventa un susseguirsi di miracoli di ogni
sorta. Tra questi il più fantastico forse è quello del viaggio aereo che
uno dei suoi accompagnatori compie ogni giorno per portargli il cibo
preparato a Kapilavastu! E' ovvio che la tradizione buddhista vedeva in
questo suo breve ritorno a casa paterna un avvenimento di eccezzionale
importanza. L'eccezzionalità di questo evento, o almeno parte della sua
eccezzionalità, era forse anche questa che secondo il costume del tempo
era abbastanza inconsueto per un ràmana (monaco mendicante) visitare la
propria casa. Sarà il Buddha con le sue vedute liberali sul monachesimo a
mitigare questa regola, permettendo i suoi monaci a visitare le loro
famiglie una volta tanto.
Pensiamo che più d'una volta il Buddha deve aver visitato la sua
città natale. I testi narrano la calorosa accoglienza che gli viene
accordata dal re e dai cittadini, e il suo incontro col suo figlio e la
moglie. Tuttavia, l'esito più significativo di questa visita fu senz'altro
la conquista di alcuni nuovi discepoli a cominciare con Ànanda. Ànanda, il
discepolo prediletto del Buddha e il suo assistente personale per gli
ultimi venticinque anni della sua vita, era anche un suo cugino. Un altro
101

parente del Buddha che aderì al sangha era Dèvadatta. Il barbiere Upali,
che divenne col tempo un perito di regole del sangha, era anche convertito
durante questa visita. Si parla anche dell'adesione al sangha di Nanda ─
il figlio di uddhòdhana dalla sua seconda moglie, Mahàprajàpati ─ e di
Aniruddha, un'altro cugino del Buddha. Stando ai testi era durante una
delle sue visite a Kapilavastu che anche Ràhula si decise di sequire le
orme del Buddha, suo padre. Era pura dopo una sua visita alla sua città
natale ─ questa per quanto sembra coincise con la morte di uddhòdhana ─
che anche Mahàprajàpati lo seguì supplicandolo di formare il sangha
femminile.

6. La fondazione dell'Ordine femminile


E' stato il Buddhismo a istituire per primo il monachesimo
femminile. La formazione del sangha femminile avvenne durante la vita del
Buddha, e forse già a pochi anni dall'inizio della sua missione. Anche se
alcuni studiosi hanno avanzato l'ipotesi della presenza della vita
ascetica femminile prima ancora del tempo del Buddha, non vi sarebbe
nessuna prova concreta a favore di tale ipotesi.58 E' rispauto, però, che
al tempo del Buddha la donna aveva una posizione non secondaria rispetto
all'uomo nella vita sociale e religiosa. Nella Brihadàranyaka Upaniad
vediamo almeno due donne ─ Garghi Vàcaknavi (3.6; 3.8) e Maitrèyi, la
moglie di Yàjnavalkya (2.4; 4.5) ─ che partecipano alle discussioni
filosofiche-religiose. Il fatto che esse si trovino in questi cerchi di
persone di alto rango ─ i re, sacerdoti, filosofi e poeti ─ senza che il
testo senta nessun bisogno di "giustificare" la loro presenza tra questi,
dimostrerebbe che le donne, almeno di certi strati sociali, allora erano
considerate in quasi tutto pari all'uomo.59 Questo fatto, secondo noi,
trova conferma anche in molti testi buddhisti che parlano delle donne che
ricevano istruzioni sulla dottrina e le donne ricche e indipendenti che si
assumono il ruolo di sostenitrici della religione, e nei racconti di
Thèrigàta che fanno riferimento alla vita nel mondo di molte monache prima
del loro ingresso nel sangha. Dovremmo forse pensare che già al tempo del

58
Cf. E.J. Thomas, The Life of Buddha, p.111.

59
Cfr. Upaniads (intro. e trad. P. Olivelle), Oxford University Press,
1996, p.xxxvi.
102

Buddha si cominciava il graduale declino della posizione della donna nella


società indiana, che verrà poi completato verso l'inizio dell'era
cristiana. La posizione assunta nei riguardi della donna dai testi come
Dharma astra (codice legale) induista di Manu testimonia in modo
unequivocabile a questo totale declino.
Dalla descrizione che ci viene fatta dal Vinaya (Cv. X,1 ssg),
l'istituzione del sangha femminile è dovuta unicamente all'insistenza di
Mahàprajàpati, la matrigna del Buddha. E vediamo che anche Ananda guoca un
ruolo determinante in questa vicenda.
Mentre il Buddha si trovava a Kapilavastu per la sua ennesima
visita, Mahàprajàpati gli aveva chiesto il permesso di entrare nel sangha.
E in quell'occasione il Buddha l'aveva rifiutato dicendo che non
considerava opportuna la vita monastica per le donne. Però, quando il
Buddha parte di lì per Vaiali, come dice il testo, fattasi radere i
capelli e indossando una veste gialla, Mahàprajàpati, insieme ad alcune
donne della città, si mette in cammino dietro a lui. Arrivato a Vaiàli,
il Buddha si riposa nella 'sala con l'acuto tetto'; ed ecco arriva anche
Prajàpati con le sue compagne ─ i suoi piedi gonfiati e coperti di
polvere. Ànanda la vede stare nell'atrio triste e piangente. Saputo il
motivo del suo pianto, Ànanda s'incarica di portare la sua richiesta dal
Maestro. Quando il Maestro ripete il suo 'no' all'ammisione di Prajàpati,
Ànanda gli pone la seguente importante domanda: se egli considerasse le
donne veramente incapaci di arrivare all'illuminazione totale, ossia di
diventare Arhat. Alla domanda il Buddha risponde dicendo che ne sono
capaci. E a questo punto Ananda gli ricorda l'amore e la cura con cui
Prajàpati l'aveva allevato dopo la morte di Màya, sua madre. Sarà stato
questo appello ai sentimenti del Maestro da parte di Ànanda a fargli
cambiare l'idea? Il testo non lo dice esplicitamente, ma ci fa sapere solo
del suo eventuale consenso alla richiesta di Mahàprjàpati. Tuttavia, egli
dà il consenso non senza imporre otto condizioni sul nuovo sangha
femminile. Sono tutte condizioni che in effetti sottopongono completametne
il ramo femminile del sangha a quello maschile.
Da questo racconto è ovvio che, pur riconoscendo la capacità delle
donne di pienamente realizzare il Dhamma proposto da lui, il Buddha non
era del tutto convinto dell'opportunità di formare il sangha femminile. Ed
è anche ovvio che esso è rimasto sempre un fenomeno quasi marginale alla
103

missione del Buddha e della religione buddhista stessa. Tanto che, stando
al racconto della morte del Buddha, non vediamo nessuna monaca accanto a
lui, nonostante il fatto che anche Yaòdhara si era fatta monaca da tempo.
Ananda, nel Concilio tenuto dopo la morte del Buddha, verrà
interrogato sul suo ruolo nella vicenda di Prajàpati e della formazione
del sangha femminile.60 Ovviamente, l'istituzione del sangha per le donne
non era di gradimento a tutti membri del Concilio! Quest'atteggiamento
negativo di alcuni monaci fin dall'inizio verso l'Ordine femminile,
dovremmo pensare, avrà anche a che fare con dei giudizi poco illuminanti
che sono stati messi nella bocca del Buddha al riguardo delle donne e del
sangha femminile. Secondo ciò che viene detto in un Sutta, qualche tempo
prima della morte del Maestro Ànanda gli aveva chiesto come doveva
comportarsi con le donne. "Non vederle", diceva il Buddha. "Ma se vista,
quale è il comportamento?" domanda Ànanda. "Non rivolgersi a lei" risponde
il Buddha. "Ma se si deve rivolgere, o signore, quale è il comportamento?
domanda ancora Ànanda. "In questo caso", risponde il Buddha, "devi stare
molto attendo, o Ànanda" (Cfr. D. XVI, 5,10). Se è dubbio che queste erano
parole del Buddha, ci risulta evidente che il seguente giudizio espresso
sul sangha femminile non poteva essere proprio del Buddha. Dopo la
fondazione del sangha femminile il Buddha avrebbe detto che a motivo
dell'Ordine femminile, la buona dottrina durerà solo cinquecento anni
invece del mille come avrebbe potuto fare senza di esso. Noi riteniamo che
queste erano semplicemente parole attribuite al Buddha, proprio perché
queste parole in qualche modo insinuano che il Buddha abbia fondato il
sangha femminile solo per accontentare Prajàpati, sua matrigna, e ciò pur
conoscendo le sue conseguenze. Che il Buddha che aveva spietatamente
reciso ogni legame familiare per darsi alla ricerca della verità abbia,
alla fine, fatto qualcosa solo per ragione affettiva, che avrebbe inoltre
dimezzata la durata della sua opera ─ questo è certo difficile a credere.

7. Gli avversari
Uno potrebbe immaginare che la 'girata della ruota del Dhamma' da
parte del Buddha fosse una lunga marcia trionfale. A giudicare dai testi
questa impressione non sarebbe del tutto conforme alla realtà. Il Buddha

60
Cfr. E.J.Thomas, The Life of Buddha, p.109.
104

aveva degli avversari interni che esterni.


Per cominciare, non tutti gli abitanti delle città dove egli
svolgeva la sua missione erano soddisfatti di ciò che avveniva. Noi
sentiamo parlare delle mormorazioni della gente contro il Buddha e i suoi
monaci. Sorprendentemente, uno dei motivi di questo malcontento generale
era anche che molti giovani si facevano discepoli del Buddha, lasciando
così le loro famiglie spesso in grave disagio. Se questo era un malumore
popolare che si faceva sentire agli inizi della sua missione e, come
potremmo immaginare, era anche passaggera, c'erano tuttavia tra la
popolazione simpatizzanti di altre dottrine rivali, i cui affronti ed
improperi il Buddha e i suoi discepoli dovranno sopportare tutta la loro
vita.
Gli stessi asceti di altre dottrine cercheranno di rendere vita
difficile al Buddha e ai suoi seguaci quando si scorgeranno della stima
della gente di cui questi godano e del loro successo nel procurare le
elemosine. In un Udàna vediamo i discepoli che riferiscono al Buddha le
opposizioni che incotrano dagli altri asceti. Dicono al Buddha: "Signore,
proprio ora che il Beato è simato, onorato, considerato, venerato e tratto
con con deferenza, per cui riceve grande quantità di vesti, cibo, giacigli
e seggi, conforti e medicamenti per le malattie e così pure l'Ordine,
mentre asceti erranti di vedute diverse non sono stimati, per cui non
ricevano grande quantità di vesti, cibo ecc., avviene che incapaci di
sopportare le attenzioni tributate al Beato e all'Ordine, sia nel villagio
che nella foresta, appena ci scorgono, ci provocano e ci tormentano" (Ud.,
II,4 sintesi). Notiamo qui in parentesi che la reazione del Buddha a
questo era di sdrammatizzare la situazione e di dare ai discepoli un
insegnamento più o meno a questo effetto: che i suoi discepoli devono
mantenere la calma e che devono riconoscere questa situazione come parte
della loro esistenza nel mondo.
Ad un certo punto l'opposizione di altri gruppi degli asceti diventa
più accanita con il loro ricorso a delle macchinazioni designate a
distruggere la buona reputazione del Buddha e del suo Ordine. Il Jàtaka
(472) riporta la storia della donna chiamata Cinca che, sospinta dagli
asceti rivali del Buddha, lo accusa falsamente di aver avuto con lei dei
rapporti illeciti e di averla resa incinta. In questo testo, che ha un
forte carattere mitologico, sarà Indrà stesso, il re degli dèi, a svelare
105

la falsità dell'accusa e così preservare la reputazione del Buddha. In un


altro racconto, i rivali del Buddha spingono la donna chiamata Sundari a
frequentare il monastero di Jètavana. Avendosi accertato che queste sue
visite erano notate dalla gente, l'uccidono, e il cadavere viene
depositato entro il recinto del monastero. Mentre i cittadini di Sràvasti
si agitano e si infuriano contro i monaci del Jètavana, il Buddha invita i
monaci all'impassibilità (vedi Ud., IV,8). Stavolta saranno gli esecutori
stessi del crimine a tradire i veri colpevoli quando litigano per la
spartizione del loro compenso.
Questa malvagità da parte di altri ascetici non è tuttavia paragona-
bile a quella che il Buddha dovrà affrontare da parte di uno dei suoi
parenti e membro della comunità, il monaco Dèvadatta. Dèvadatta era suo
cugino (cognato secondo alcuni testi). I testi extra-canonici abbondano
dei racconti delle villanie di Dèvadatta verso Siddhàrtha fin dalla loro
infanzia trascorsa insieme a Kapilavastu. Dèvadatta per quanto sembra era
stato sempre invidioso del suo cugino. Tra i testi canonici, solo il
Vinaya (vedi Vin.Cv., VII,2-5) ci offre un quadro coerente della vicenda
di Dèvadatta, di cui carattere essenzialmente storico è communque ribadito
da molti autori.61
Tutto cominicia con una stretta d'amicizia tra Dèvadatta e il re
Ajàtaatru. Infatti in tutto quello che farà contro il Buddha avrà
l'appoggio esterno di Ajàtaatru. Dal racconto appare chiaro che il vero
movente di tutto quello che succederà poi era unicamente l'ambizione di
Dèvadatta a diventare il capo del sangha. E a questo scopo egli si
avvicina al Buddha mentre sta predicando a Ràjagriha, e gli chiede di
lasciargli la guida del sangha poiché egli è diventato troppo vecchio. Il
Buddha avrebbe risposto che per nessun motivo avrebbe lasciato la guida
del sangha nelle mani di Dèvadatta. Di più il Buddha fece la seguente
promulgazione: "In nessuna delle cose dette o fatte da Dèvadatta devono
essere riconosciuti né il Buddha, né il Dhamma né il Sangha, se non lui
stesso".
Sentitosi umiliato dal Buddha, Dèvadatta cominciò ad escogitare vie
per ucciderlo. In una serie di attentati alla vita del Buddha, egli
impiegerà prima sedici soldati di Ajàtaatru per tendergli un'imboscata.
Sopraffatti dai suoi poteri psichici, i soldati non riescono ad ucciderlo.

61
Per es. cfr. O.Botto, Buddha e il Buddhismo, p.40.
106

Anzi, si convertono alla sua religione. Dèvadatta farà un altro tentativo.


Questa volta impiegerà i guardiani degli elefanti e farà loro rilasciare
un elefante feroce sulla strada per la quale doveva passare il Buddha.
Quando il Buddha vide l'elefante avventarsi contro di lui, come dice il
testo, egli emisse un forte carica del sentimento di benevolenza contro
l'animale e lo rese arrendevole e mite. I commentari posteriori aggiungono
qui un divertente dettaglio. Vedendo l'elefante venire contro il Buddha,
Ànanda si sarebbe posto tra i due, dicendo che l'elefante deve ucciderlo
prima di arrivare al Buddha. Sicché, il Buddha dovrà usare i suoi poteri
speciali per togliere Ananda di mezzo prima di poter esercitare la sua
magia sull'animale!62 Fallito anche questa volta, Dèvadatta decide di
assassinarlo per le proprie mani. Sapendo che il Buddha si trova sotto il
Picco d'Avvoltoio avventa un'enorme roccia da sopra. La roccia si
sgretola; Il Buddha sostiene solo una leggera ferita da un frammento che
lo colpisce. Mentre i discepoli pensano di fare la guardia attorno alla
sua residenza, il Buddha proibisce loro di farlo dicendo che nessuno può
togliergli la vita con l'aggressione.
E' quando tutti i suoi piani di eliminare il Buddha si dimostreranno
futili che Dèvadatta pensa a creare uno scisma nell'Ordine. Prima, però,
va dal Buddha e gli presenta una lista di nuove regole da adottare dal
sangha. Erano regole che andavano contro lo spirito liberale che aveva
propugnato il Buddha. Queste regole richiedevano di (1)non permettere ai
monaci di entrare nei villagi, obbligandoli a trascorrere tutta la loro
vita nella foresta; (2)non permettere ai monaci di accettare inviti a
pranzi, sicché vivono solo di elemosina; (3)non permettere ai monaci di
accettare abiti da fedeli laici, obbligandoli così di indossare unicamente
abiti fatti di stracci; (4)non permettere ai monaci di abitare in case con
il tetto, obbligandoli a vivere sotto gli alberi; (5)non permettere ai
monaci di mangiare né carne né pesce per tutta la loro vita.
Il Buddha disse che erano tutte cose permissibili così come erano,
salvo la quarta. Disse che avrebbe permesso ai monaci di risiedere sotto
gli alberi durante tutto il tempo eccetto la stagione delle piogge. Poi
disse ancora che per le restanti regole, non aveva nessuna intenzione di
imporgli sull'Ordine; ogni monaco sarebbe rimasto libero a scegliere se
vivere nella foresta o nel villaggio, accettare gli inviti o non accettar-

62
Cfr. E.J.Thomas, The Life of Buddha, p.135.
107

li, accettare abiti dai fedeli o non accettarli e mangiare la carne e


pesce o non mangiarli. A questo punto, dice il testo, Dèvadatta andò via
con i suoi amici e nonostante gli avvertimenti del Buddha diede origine ad
uno scisma. Fece credere ai monaci semplici che il Buddha si era dato ad
una vita di lusso e di abbondanza, e persuase cinquecento monaci novelli
di unirsi col suo gruppo. Ma lo scisma durerà poco. Saranno àriputra e
Maudgalyàyana con la loro astuzia a ricondurre i monaci alla comunità
originale. Esistono tradizioni diverse sulla fine che ha fatto Dèvadatta.
Secondo alcune, ha avuto una fine miserabile; per altre, si convertì alla
fine, e morì come un buon monaco.
Capitolo 6

IL PARINIRVANA

La fine della vita terrena del Buddha non viene designata con il
termine 'morte', bensì col 'Parinirvana' (pali: parinibbàna). Il termine
significa 'il nirvana completo' o, se si vuole, 'l'estinzione totale'. Si
riferisce al Nirvana o la liberazione finale nella quale si libera anche
dalla vita fenomenica. Per esso è descritto anche come 'il nirvana privo
di base di vita' o il 'nirvana senza gli elementi' (cfr. D., XVI,iv,37).
Nella concezione buddhista (come pure in quella induista) esistono infatti
due modi del Nirvana: il nirvana che si sperimenta mentre uno è ancora in
vita e il (pari)nirvana che coincide con la cessazione stessa della vita.
Nella tradizione induista si parla del 'jìvan-mukti' (liberazione in vita)
e del 'vidèha-mukti' (liberazione priva del corpo).
Il parinirvana è la prerogativa di chi ha già sperimentato il
nirvana durante la vita come l'ha fatto il Buddha sotto l'albero di bodhi.
Benché ci sia una sostanziale identità tra il nirvana e il parinivana,
l'ultimo sta al primo come la sua realizzazione piena, il suo fruire
definitivo.
La fonte primaria delle nostre informazioni sul trapassao del Buddha
è costituita da 'Il grande discorso sul Parinivana' (Mahà Parinibbàna
Suttanta) che fa parte del Dìgha-nikaya del canone pali. Questo lungo
Sutta racconta l'ultimo viaggio del Buddha che inizia a Ràjagriha e
prosegue attraversando il fiume Gange e varie città e villaggi e finisce
nella vicinanza di Kuinagara (pali: Kusinara), il piccolo capo-luogo del
popolo Malla. Come sul resto della sacra scrittua buddhista, la questione
della storicità grava anche su questo testo, anche se esso ne costituisce
una delle parti più antiche, risalente certamente ad un periodo anteriore
al regno dell'imperatore Aoka (268-239 a.C.).
Di questo stesso scritto esistono attualmente varie versioni nelle
varie scuole buddhiste che riflettono rispettivamente i loro punti di
vista teologica. E' anche chiaro che l'intenzione stessa del Mahà
Parinibbàna Suttanta non è semplicemente di riportare le circostanze e
109

fatti connessi con la scomparsa del Buddha; ma di proporre alcuni


insegnamenti buddhisti, e così servire all'edificazine delle prime
comunità buddhiste. I richiami alla concezione e nascita prodigiosa del
Buddha, la presenza di certi miracoli ed una certa tendenza a divinizzare
il Buddha ecc. ivi contenuti, gli conferisce anche un certo carattere
leggendario. Nonostante tutto ciò, l'attendibilità storica di questo
racconto per lo meno nelle sue linee essenziale è ammessa. H. Oldenberg
vede in esso addiritura alcuni dei ricordi più autentici mai conservati
sulle vicende del Buddha.63

1. L'ultimo viaggio
Che il Buddha morì all'età di ottant'anni non è stato mai messo in
questione. L'informazione che visse fino a quell'età è contenuta nel Mahà
Parinibbàna Suttanta che riporta le parole del Buddha al suo amato
discepolo di servizio, Ananda: "io ora, o Ananda, sono vecchio, di tarda
età, anziano, ho molto vissuto; vissi ottant'anni" (D., XVI,ii,25). Ed è a
quest'età che il Buddha intraprende un nuovo viaggio da Ràjagriha, che
infatti sarà il suo ultimo.
Si parla di una grande schiera di monaci che lo accompagna. Si
incontra con i gruppi di monaci residenti nei vari luoghi lungo il
percorso, e impartisce loro istruzioni. L'itinerario del viaggio lo porta
prima al parco di Ambalatthika, e poi alla città di Nalanda e quindi a
Pàaliputra (pali: Pataliputta; od. Patna) sulla riva del Gange. Varca in
fiume nel punto dove sta sorgendo la futura capitale del Magadha. Il
Buddha avrebbe predetto la futura grandezza di Pàaliputra, che infatti
dal IV secolo a.C. diverrà la capitale del Magadha che a sua volta si
espanderà da diventare il primo grande impero nella storia dell'India.64
Notiamo che il Sutta presenta la traversata del Gange come un fatto
prodigioso. Vi si legge: "In quel tempo il fiume Ganga era in piena, sì
che vi si potevano abbeverare i corvi. Alcuni uomini avrebbero cercato una
barca, alcuni cercato un batello, altri legata una zattera per desiderio
di passare dall'altra sponda. Ma il sublime, come un uomo forte distende

63
Cfr. H.Oldenberg, Budda, pp.214-5.

64
Vedi A.L.Basham, The Wonder that was India, Rupa & Co., Calcutta
1967, pp.46-48.
110

un braccio piegato o piega un braccio disteso, proprio così, sparito da


una sponda del Ganga, comparve sull'altra sponda con la sciera dei monaci"
(D., XVI,i,33).

2. A Vaiàli
La prima tappa del viaggio del Buddha si conclude a Vaiàli (pali:
Vesali) dove vorrà passare i quattro mesi piovosi. Per quanto sappiamo,
Vaiàli, il capo-luogo del clan Liccavi, era una città ricca e brillante.
E qui avvengono degli episodi che sono di particolare interesse in questo
ultimo viaggio del Buddha.
Aspettando l'inzio delle piogge, il Buddha e i suoi discepoli si
accampano nel parco dei manghi appartenente ad una celebrità della città,
la ricca e famosa cortigiana Amrapàli (Ambapali). Venuta a sapere che il
grande maestro si trova nel suo parco, il Sutta racconta che, Amrapali,
"fatti aggiogare magnifici cocchi, salita su di un cocchio, con un
magnifico cocchio uscì da Vaiali e si avvio al suo bosco di manghi." E
come accade con la maggior parte degli incontri di questo genere,
Amrapàli, dopo esser stata "istruita, incitata, rallegrata e rasserenata"
dalle parole del Maestro, lo invita assieme ai suoi discepoli a pranzo il
giorno seguente.
Dopo la partenza di Amrapàli arrivano in stile anche i potenti
principi Liccavi nel parco; e dopo aver salutato il Buddha e conversato
con lui, anche loro gli chiederanno il favore di averlo a pranzo il giorno
seguente. Il Buddha si rifiuterà dicendo che era stato già invitato da
Amrapàli. Il Sutta riporta il disappunto dei principi Liccavi nell'essere
stati preceduti e superati dalla donna di manghi, la quale poi non vorrà
vendere a loro il privilegio del pranzo neanche per centomila denari (D.,
XVI,ii,14-18). Il pranzo da Amrapàli fu inaspettatamente proficuo per il
Buddha e la comunità, poiché alla fine di quel pranzo ella donerà
solennemente al Buddha e alla comunità il suo parco di manghi.
Iniziata la stagione delle piogge, il Buddha osserva il ritiro
spirituale (vàrika) nel villaggio di Beluva nei pressi di Vaiàli, mentre
i monaci lo fanno a Vaiali stesso. Dovea essere verso la fine questo
periodo, egli viene colpito da una grave malattia accompagnata da mortali
dolori. Mentre Ananda teme il peggio e si dispera, il Maestro sopporta i
111

dolori senza lamentarsi, e infatti in poco tempo ne rimane guarito. Il


Sutta dirà che il Buddha aveva con la forza di volontà soppresso il
malore, perché non riteneva opportuno entrare nel nirvana senza aver prima
preso congedo dai monaci. In ogni modo, il Buddha rimarrà molto indebolito
in conseguenza della malattia subita, una situazione dalla quale non si
riprenderà di molto. Un brano del Sutta fa luce sulla sua precaria
condizione fisica e i dolori che l'affliggono. Dice ad Ànanda: "Come un
vecchio carro permane unito perché se ne legano le parti con le cinghie,
proprio così certamente, o Ànanda, il corpo del Compiuto permane perché se
ne costringono le parti. E solo nel tempo in cui il Compiuto dimora nella
condizione della cessazione di ongi sensazione, nella concentrazione della
mente, proprio solo in quel tempo, o Ànanda, il corpo non è sgradevole al
Compiuto" (D. XVI,ii,25 sintesi).
E' interessante notare che, ad Ànanda che esprime in questo tempo la
speranza che il maestro avrebbe di nuovo esposto le dottrine alla
comunità, la reazione del Buddha fu la seguente: "Che cosa, o Ànanda,
l'Ordine dei monaci può aspettarsi ancora da me? Esposta fu, o Ànanda, da
me la Dottrina senza nulla omettere, e non accadde al Compiuto di essere
nei riguardi della Dottrina, un maestro col pugno chiuso."65 Tuttavia, è
dopo questa dichiarzaione che il Buddha fece la celebre esortazione che è
chiamata "atta-dipa" (il Sé come lampada). Disse ai monaci: "Prendete il
Sé (atta) come la vostra fonte di luce (dìpa); rimanete nel vostro Sé
rifigiati, in null'altro rifugiati. Prendete la Dottrina (Dhamma) come la
vostra fonte di luce; rimanete nella Dottrina rifugiati, in null'altro
rifugiati". Proseguendo con l'esposizione delle 'quattro basi di
consapevolezza' ─ il corpo, i sensi, la mente e gli elementi ─
l'esortazione si concluse con l'assicurare della vittoria sulle tenebre
per coloro che faranno ricorso al atta e al dhamma per la loro
illuminazione.
A proposito dell'esortazione sopra, è doveroso notare qui che molti
studiosi occidentali interprestano le frasi "atta-dìpa" e "dhamma-dìpa"
nel senso di "isolati in se stessi" e "isolati nella dottrina" rispetti-
vamente. Mentre è vero che la parola 'dìpa' può anche significare 'isola',

65
D., XVI,ii,25. L'espressione "un maestro col pugno chiuso" vuol
indicare un maestro che fa delle riserve, uno che non rivela tutto quello
che sa. Il Buddha secondo quanto viene detto qui è stato un maestro che ha
trasmesso agli altri tutte le sue conoscenze.
112

il suo impiego con i termini atta e dhamma per significare 'isolamento' è


prima di tutto assai strano; e inoltre nel contesto, l'interpretazione
delle frasi sopra in chiave a questo significato della parola dìpa appare
anche assurda. Qualsiasi cosa possa essere detto del concetto di atta
(sanscrito: àtman) contenuto nelle dottrine del Buddha, non abbiamo
nessuno fondamento a pensare di esso come una monade ─ benché una simile
concezione dell'anima esiste nella scuola filosofica sanghya ─, come la
teoria de 'l'isolomento' vorrebbe indicare. Ad uno studioso di cultura
indiana l'ovvio significato di dìpa nella frase atta-dìpa è quella di
lampada. Infatti, A.K.Coomaraswamy rigetta decisamente l'interpretazione
nel senso di 'isolamento' e fornisce altri esempi (Sn., 501; Dhp., 146)
dove il termine dìpa in riferimento all'atta significa la 'luce' o la
'lampada'.66 Inoltre, nessuno che abbia in mente il bellismo brano della
Brihadàranyaka Upaniad che parla appunto del Atman come la lampada
all'uomo67 potrebbe mai dubitare il vero sense dell'atta-dipa.
Tornando al racconti degli ultimi giorni del Buddha, rimessosi in

66
Cfr. A.K.Coomaraswamy, Induismo e Buddhismo, p.120.

67
Brihadàranyaka Upaniad, 4,3,1-6. Riportiamo qui il passo nella
traduzione di P. Filippani-Ronconi (Uapaniad antiche e medie, Bollati
Boringhieri, Torino 1960): >>Accadde un volta che Yàjnavalkya venne dal re
Janaka di Vidèha... Quando Janaka di Videha e Yàjnavlakya ebbero conversato
a riguardo dell'oblazione rituale al fuoco, Yàjnavalkya promise di
soddisfare un desiderio del re... Allora il re prese la parola per primo al
fine di interrogarlo: "O Yàjnavalkya quale lume rischiara questo Purua
[l'uomo]?" "La luce del sole, o re", gli disse: "alla luce del sole, invero
costui si siede, si muove, compie le sue azioni, torna a casa." "E' proprio
così, o Yàjnavalkya.
"Allorché il sole è tramontato, o Yàjnavalkya, quale è la luce che
illumina questo purua? "Per costui vi è la luce della luna; alla luce della
luna egli si siede, si muove, compie le sue azioni, torna a casa." "E'
proprio così o Yàjnavalkya.
"Allorché è tramontato il sole ed è tramontata la luna, o Yajnavalkya,
quale luce illumina questo essere?" "E' la luce del fuoco che lo illumina; è
alla luce del fuoco che egli risiede, si muove, compie le sue azioni e
ritorna a casa." "E' proprio così, o Yàjnavalkya.
"Allorché il sole è tramontato, la luna è tramontata, il fuoco è
spento, o Yàjnavalkya, quale luce illumina questo personaggio?" "E' la
Parola [vàc] che lo illumina: è essendo illuminato dalla Parola che egli
dimora, si muove, compie le sue azioni e torna a casa; questa è la ragione
per la quale, o re, quando l'ombra è così fitta che non si distingue neppure
la propria mano, se si ode una parola ci si dirige verso questa." "E'
proprio così, o Yàjnavalkya.
"Allorché il sole è tramontato, o Yàjnavalkya, la luna è pure
tramontata, il fuoco è spento, ogni parola tace, quale luce illumina questa
persona?" "E' lo àtman [il Sé] che è la sua luce. E' alla luce dello àtman
che egli dimora, si muove, compie le sue azioni e torna a casa."<<
113

forze dopo la malattia, il Sutta ci fa vedere il Buddha per le strade di


Vaiali facendo la solita questa. A questo punto appare sulla scena Màra,
il maligno, il quale accostatosi al Buddha, gli consiglia di entrare nel
nirvana all'istante. Alla risposta del Buddha che non l'avrebbe fatto
finché la vita religiosa alla quale ha dato inizio non sarà prospera e
fiorente, Màra replica così: "Ora, o Signore, questa santa pratica di vita
del Venerando è appunto prospera, fiorente, estesa, nota a molti,
universale, bene accolta dagli dèi e dagli uomini, entri dunque, o
Signore, il Venerando nel nirvana, entri nel nirvana il Benvenuto" (D.,
XVI,iii,8). In seguito a questa sollecitazione da parte di Màra, il Buddha
preannunzia la sua morte imminente. Dice al Màra che sarà soddisfatto,
perché entro tre mesi si estinguerà. Questa profezia sulla morte, il
Buddha poi lo ripeterà a Ananda e ad altri monaci.
Un altro fatto ─ che presumibilmente è avvenuto durante questo
soggiorno a Vaiàli ─ che non poco addolorò il Buddha fu la morte di
àriputra e Maudgalyàyana, i suoi due grandi discepoli. Ne parla solo i
commentari, non il Sutta. Che questo sia avvenuto in questo periodo
sarebbe communuque provato dal fatto che non sono più menzionati né nel
resto del viaggio né nelle circostance della morte e funerale del maestro
né dopo.

3. L'ultimo pranzo
Ripreso il viaggio dopo le piogge monsoniche, il Buddha con i suoi
seguaci si reca al villaggio di Bandha e quindi di Bhoga. S'incontra con
gruppi di monaci, impartisce direzioni per la loro vita e prosegue. Non
accade nulla di particolare rilievo finché non arriva a Pava (sanscrito:
Papa). E' a Pava che infatti avviene il fatto che poi condurrà a fine la
sua vita. Tutto accade in un modo del tutto fortuito. Il Buddha e i suoi
discepoli vengono invitati a pranzo da Cunda, il figlio di un fabbro di
Pava. E Cunda prepara, come dice il testo, "eccellente e sostanzioso
cibo". A differenza di discepoli, il Buddha ─ secondo il suo espresso
desiderio ─ viene servito di un piatto di cibo speciale. E la sua
conseguenza fu rovinosa per la salute del Buddha. Il Sutta lo riporta
così: "Allora al Sublime, che aveva mangiato il cibo di Cunda figlio del
fabbro, sorse una dolorosa malattia, una diarrea sanguigna con forti
114

mortali dolori, menante alla fine" (D., XVI,iv,20).


Vi sono state discussioni a non finire tra gli studiosi circa il
cibo mangiato dal Buddha. Mentre per alcuni è la carne di maiale, per
altri sono i funghi, magari anche velenosi, o altre cose ancora.
Ovviamente il termine usato per indicare il cibo preso dal Buddha è
'sukaramaddava' che può essere tradotto come 'il cibo morbido di maiale'.
Questo però non precisa, come osserva E.J.Thomas, se si tratta della
tenere carne suina oppure del soffice cibo mangiato dai maiali, cioè,
tartuffi o funghi porcini, per esempio. Per il fatto che non è usato il
termine esplicito 'sukaramamsa' (la carne suina) che sarebbe più normale
se si fosse trattato di carne, l'interpretazione che si tratti di funghi
porcini sembrerebbe più verosimile. Rhys Davids, per certo, ritiene che
sia stato un piatto di funghi a provocare l'ultima malattia del Buddha.
Però bisogna anche tener presente che per un'autore antico come
Buddhaghoa, l'autore di Buddhacarita, ne fu la carne di maiale la causa.68
Aggingiamo che la possibilità che sia stata la carne di maiale non è
da escludere a motivo del divieto di uccisione di animali (ahimsa) che è
esistito nel buddhismo fin dall'inizio, o a motivo di una certa
predilezione per il vegeterianismo che da tempo si verifica in ambienti
monacali buddhisti. Infatti il consumo di carne era permesso ai monaci
buddhisti, benché con delle condizioni. La condizione più ovvia era che la
ricevevano in elemosina. Il Jìvaka Sutta (M.,I,368) determina pure la
condizione sotto la quale anche nel caso di un invito a pranzo il consumo
della carne sarebbe lecito: Bastava a sapere che l'ospite non aveva ucciso
l'animale in vista del pranzo da offrire ai monaci. O, più esattamente,
bastava che i monaci non abbiano né visto né sentito né sospettato che
l'animale fosse ucciso proprio per loro. In altre parole, bastava che la
carne sia stata comparata, in genere, o, in ogni caso, che i monaci non
siano stati la causa immediate dell'uccisione dell'animale.
Del cibo che ha preso il Buddha nella casa di Cunda, in fine, noi
sappiamo con certezza solo che era inadatto al generale consumo, poiché
egli chiederà poi a Cunda di distruggere quanto ne sarebbe avanzato, e
dirà anche che non pensava che quel cibo avrebbe fatto bene a qualcuno.
La completa non-intenzionalità da parte di Cunda di quello che era
accaduto va sottolineato. Infatti, il Buddha l'assolve da qualsiasi colpa,

68
Vedi E.J.Thomas, The Life of Buddha, pp.149-50.
115

e perfino si preoccupa che nel futuro qualcuno possa muovere un rimprovero


a Cunda per l'accaduto. Così, in un gesto che rivela la grande magnanimità
del Buddha, egli affida a Ànanda un messaggio destinato a Cunda nel quale
egli lo loda e, sorprendentemente, paragona il cibo offerto da lui con il
piatto di riso offertogli dalla ragazza Sujàta prima del suo
raggiungimento di bodhi. Dirà che sono stati di uguale merito e di
portata. Infatti alla mente del Buddha questi due pasti equivalgono perché
mentre l'uno l'ha avviato verso l'acquisto del nirvana sotto l'albero di
bodhi, l'altro lo porterà al parinirvana. Un Udàna ne parla molto
chiaramente: "Quel dono di cibo, dopo aver consumato il quale il
Tathàgatha si è risvegliato alla Suprema Illuminazione (anuttaram
sambodhim...) e quel dono di cibo, dopo aver consumato il quale il
Tathàgatha trapassa finalmente in quella sfera di Estinzione senza residuo
(nibbàna-dhàtu): questi due doni di cibo sono di merito esattamente
uguale, di uguale risultato."69

4. Verso Kuinagara
Come potremmo immaginare, il resto del viaggio si trasforma in una
vera via crucis per il Buddha. Anche se la destinazione finale,
Kuinagara, non era tanto distante da Pava, il viaggio verrà interrotto
ben tre volte prima di arrivarci. Arrivato ad un luogo non precisato, dove
però c'è un corso d'acqua, il Buddha si siede appoggiato al tronco di un
albero. Chiede ad Ananda di portargli dell'acqua da bere dal ruscello.
Ànanda gli risponde che l'acqua lì scorre torbida e inquinata a motivo del
passaggio poco prima di un gran numero (cinquecento) di carri. E
suggerische che egli potrà bere più avanti, quando si arriva al fiume
Kakuttha dove l'acqua scorre limpida e pura. Il Buddha ripeterà la sua
richiesta ancora due volte. Solo alla terza volta Ananda andrà a prendere
l'acqua, e il Sutta presenta come un miracolo il flusso dell'acqua limpida
che egli vi vede. "Allora il piccolo ruscello che sino allora, solcato
dalle ruote, scorreva torbido ed inquinato, accostatosi l'onorevole
Ànanda, apparve ai suoi occhi limpida corrente" (D., XVI,iv,24). Il Sutta
riporta qui anche l'incontro del Buddha con un discepolo di Àrada Kalàma,

69
Ud., VIII,5. Notiamo che l'intero episodio del pranzo da Cunda si
ritrova in questo Udàna quasi come lo si trova nel Mahà Parinibbàna
Suttanta. Riteniamo che la narrazione dell'Udàna è quella più antica.
116

che è in viaggio da Kuinagara a Pava, e la sua conversione.


Giunto al fiume Kakuttha (sans. Kakutstha), il Buddha beve di nuovo,
si bagna e si riposa. La descrizione che ne viena data nel Sutta,
Oldenberg la trova rimarchevole per la sua naturalezza e semplicità e,
quindi, per la sua verosomiglianza storica. Riportiamola. "Il Buddha in
viaggio arrivò al fiume Kakuttha, il traquillo, il puro fiume, con la sua
limpida acqua. Stanco, il Maestro scese nell’onda, lui, l’altissimo
Perfetto, il senza Uguale. Una volta bagnato, egli bevve, e uscì dal
fiume, lui, il Maestro, circondato dalla frotta dei suoi discepoli. Il
Maestro santo, il Predicatore della verità, il Saggio, se ne andò verso il
bosco di manghi. Poi disse al monaco Cunda: Piega in quattro il mio
mantello, perché io mi possa coricare. E Cunda, felice, fece ciò che il
Maestro gli aveva comandato e setse protamente il mantello piegato in
quattro. Quivi il Maestro si coricò, malato, e Cunda stette vicino a lui"
(D., XVI,iv,41).
Ripartito da lì, arriva ad un altro fiume di nome Hiranyavati e si
riposa di nuovo. Attraversato il fiume, il Buddha e suoi discepoli
finalmente raggiungo i sobborghi di Kuinagara (od. Kasia nel distretto di
Gorakhpùr), e si sistemano in un bosco di alberi di ala. E' qui, secondo
la tradizione, che avviene il trapasso del Buddha.

5. Tra due alberi


Secondo l'esplicito desidero del Buddha, Ananda gli prepara un
giaciglio tra due alberi di ala, con il capezzale posto in direzione di
nord (la direzione che la tradizione indica come propizia per uno che sta
per morire). Quindi il Buddha si sdraia nella cosìddetta 'posizione del
leone', cioè, sul fianco, con il capo alzato sul capezzale e i piedi,
l'uno sopra l'altro. Oggi, un'enorme scultura a Anuràdhapura in Sri Lanka
rappresenta il Buddha in questa posizione, che aveva assunto prima del suo
trapasso.
Ànanda va in città dai capi dei Malla per annunciare la fine
imminente del Maestro. E secondo il Sutta, i Malla, tristi e dolenti, con
le loro mogli e figli, vengono al bosco di ala a dare l'ultimo saluto al
Maestro. Con la folla viene anche un asceta vagabondo di nome Subhadra,
appartenente ad un'altra scuola, che vuole dei chiarimenti dal Buddha
117

sulla dottrina predicata da lui. Mentre Ànanda cerca di allontanarlo e


questi ci insiste, il Buddha se ne accorge, e chiede Ananda di lasciarlo
venire da lui. A quesiti di Subhadra, il Buddha risponde sottolineando
l'assoluta necessità dell'Ottuplice Sentiero per ogni forma di vita
spirituale. Secondo il racconto, Subhadra rimane soddisfatto delle
spiegazioni e chiede l'ammissione al sangha. Faccendo un'eccezione alla
regola generale che prevede una preparazione di quattro mesi per chi si
converte da un'altra scuola, Il Buddha chiede Ànanda di ordinarlo. Il
Sutta annota che Subhadra fu l'ultimo discepolo personale del Buddha.
Ad un certo punto, pensando alla morte del Maestro che stava per
accadere, Ananda non potrà trattenere le lacrime. Il Buddha lo chiama
vicino, lo fa sedere accanto e lo conforta con queste parole: "O Ànanda,
non piangere, non lamentarti. Non fu forse da me in precedenza detto che
di tutte le cose è naturale il mutare, è naturale il diversificarsi? E
come potrebbe non essere così, o Ànanda? Che ciò che è nato non venga
dissolto, tale possibilità non si conosce" (D., XVI,v,14 sintesi). In
seguito si rivole anche a tutti i monaci, faccendo valere la Dottrina come
il loro Maestro nel suo vece. "Se voi pensate: ─ un tempo a noi era la
parola del Maestro, ora a noi non è più Maestro ─ non dovete pensare così.
La Dottrina, la norma, quanto a voi fu esposto ed insegnato, ciò sia a
voi, dopo di me, il Maestro" (D., XVI,vi,1). Il Buddha poi avrebbe chiesto
ai monaci se qualcuno di loro avesse ancora qualche dubbio o incertezza
sui suoi insegnamenti. E i monaci avrebbero risposto di no col loro
silenzio. Quindi il Buddha proferisce le seguenti parole, che il Sutta
attesta che erano le sue ultime: "caduchi sono i fenomeni; esercitatevi
con zelo" (D., XVI,vi,7).
Il Buddha morì serenamente. La descrizione del conseguimento stesso
del parinirvana, che è di difficile interpretazione, parla di una graduale
ascesa ai stati più raffinati di esperienza e di coscienza fino a giungere
lo stadio della totale assenza di esse, e quindi di una altrettanto
graduale discesa al punto di partenza, per poi ricominciare ancora la
salita a ciò che verrà detto lo stadio della 'quarta esperienza'. E
oltrepassato questo stadio, il Buddha si estinse.
Nel momento della morte del Buddha, la tradizione vuole che i due
alteri di ala, fioriti fuori stagione, piovevano fiori sul corpo del
Buddha. La morte del Maestro, i discepli l'accolgono in maniere diverse:
118

mentre coloro che erano liberi da passione, vale a dire i più progrediti
nella vita spirituale, l'accolgono con rassegnazione e calma, gli altri
perdons compostezza e piangono sconsolati. Il discepolo Aniruddha
interviene per invitare quest'ultimi alla calma.
E' impossibile stabilire la data esatta del parinirvana. Possiamo
solo fare delle speculazioni al riguardo. Il parinirvana del Buddha poteva
essere avvenuto qualsiasi giorno tra la fine di ottobre e la metà di
febbraio. Determinante sarebbe a sapere quando fu terminata la stagione
delle piogge in quell'anno, la quale può variare di circa quattro
settimane di anno in anno. Bisogna anche ricordare che la profezia sulla
morte parlava di 'entro tre mesi' il che non implica necessariamente che
il Buddha abbia vissuto ancora tre mesi dalla data della profezia. A
proposito della data della more, l'unica cosa forse certa è che non era
ancora la stagione di fiori, cioè marzo-aprile. I buddhisti cinesi e
giapponesi osservano il 15 febbraio come l'anniversario del parinirvana.
Altre date esistono tra altre scuole buddhiste.

6. I funerali
Quando era ancora in vita, il Buddha fu interrogato dai discepoli
riguardo a ciò che bisognava fare con il suo corpo dopo la morte. Ed egli
avrebbe risposto che ciò non riguardava i monaci, poiché se ne sarebbero
occupati i laici. Saranno infatti i laici ad organizzare il funerale del
Buddha. Secondo il testo passano sei giorni prima del funerale ─ giorni
trascorsi col rendere omaggio alla salma del Maestro con ghirlande e
profumi e con danze e canti da parte dei Malla. Supponiamo che era anche
il tempo necessario per dare l'informazione ai vari popoli e i loro capi
tra i quali il Buddha sveva svolto il suo ministero. Così al settimo
giorno dal trapasso, un funerale degno di un sovrano viene accordato al
Buddha. Il corteo funebre passa per le vie di Kuinagara. La cremazione
avviene in un santuario dei Malla fuori della porta orientale della città.
Il Sutta allude ad un certo tipo di cremazione nella quale il corpo è
rinchiuso in una cassa di metallo ripiena di olio che poi viene posto sul
rogo. Sembrerebbe che era un modo di cremazione nella quale vengono
preservate le ossa. Infatti il Sutta successivamente parla delle ossa del
Buddha e della loro spartizione.
119

Le delegazioni dei vari clan avrebbero avanzato pretese sulle ossa


del Maestro. E sarà per l'intervento di un brahmino chiamato Droa se una
scandalosa rissa tra i pretendenti verrà evitata. Droa propone di
spartire le reliquie, e lo fa' in otto parti uguali. Il Sutta menziona i
nomi di coloro che ne avevano ricevuto parte: I Malla di Kuinagara,
Ajàtaatru (il re di Maghada), i Liccavi di Vaiàli, i akya di
Kapilavastu, i Mulaka (Buli) di Càlakalpa, i Koliya, i Malla di Pava e i
brahmini di Vinudìpa. I Maurya (Moriya), arrivati troppo tardi per la
spartizione, dovranno accontetarsi delle cenere della pira funebre, mentre
Droa prende per sé la cassa di metallo.70
Tutti coloro che vengono in possesso delle ossa, come anche Droa e
i Maurya ergono 'stùpa' sopra queste reliquie nelle proprie città.
L'erezione di stùpa (pali: thupa) o di tumuli (caitya) sopra i resti
mortali degli eroi del popolo era una pratica antecedente al buddhismo.
Gli stùpa buddhisti che sono costruzioni spesso a froma di cupola,
contengono non solo le reliquie del Buddha ma qualche volta anche dei suoi
principali discepoli. Col tempo, nel buddhismo gli stùpa, detti anche
dàgaba (dal sanscrito 'dhatu-garbha' che significa letteralmente
'ripostiglio di elementi'), assumeranno una importanza maggiore.
Diventeranno luoghi di frequentazione dei fedeli buddhisti, e le reliquie
vi contenute, oggetti della loro venerazione.
Secondo la tradizione, nel terzo secolo a.C., l'imperatore Aoka
fece aprire gli stùpa iniziali e ridistribuì il loro contentuti,
dividendoli in ottantaquattromila parti e creando così altri stùpa in
parte dell'India.Anche se il numero sembra incredibile, il fatto non è
privo di una certa attendibilità poiché le reliquie fino ad ora scoperte
da Shah-ji-ki-dheri a Peshawar a Bhattibrolu a Madras, autenticità delle
quali per molti non sarebbe affatto in discussione, non sono altro che dei
frammenti di ossa. E inoltre la maggior parte degli stùpa antichi che
esistono in India, risale proprio al periodo di Aoka. Già il Mahà
Parinibbàna Suttanta fa allusione all'esistenza delle reliquie del dente
del Buddha, una delle quali in possesso del re di Kalinga, in sud-India.
Secondo il Mahàvama questa è stata trasferita in Sri Lanka durante il
regno di Mèghavarna nel quarto secolo d.C. E' questa la reliquia che
sarebbe ancora conservata nel 'Tempio del Sacro Dente' a Kandy in Sri

70
Vedi D., XVI,vi,24-26; anche O.Botto, Buddha e il Buddhismo, p.51.
120

Lanka.

7. La venerazione del Buddha


Per quanto sembra incongruente la venerazione del Buddha da un punto
di vista dottrinale, questa pratica è stata presente fin dall'inizio del
buddhismo. Più che i monaci buddhisti, erano stati i laici a prestare
venerazione al Buddha e alle sue reliquie. Da un divieto che è esistito
nell'antichità di construire stùpa accanto ai monasteri, potremmo anche
pensare che tali manifestazioni erano abbastanza estranea al sangha, per
lo meno all'inizio. Inoltre, la pratica della devozione per il Buddha e la
venerazione delle sue reliquie erano sempre considerate atte solo per
accumulare i meriti spirituali utili per migliorare la propria situazione
nella rinascita, il che in fondo serviva solo ai laici. E' chiaro che i
monaci dovevano sforzarsi per l'acquisto della salvezza definitiva, il
nirvana, già in questa vita.
In un'occasione il Buddha avrebbe indicato quattro luoghi, la visita
ai quali avrebbe procurato benefici spirituali ai fedeli. Erano il luogo
della sua nascita, il luogo della sua illuminazione, il luogo deve mise in
moto la ruota della Dottrina e, in fine, il luogo dove egli ottenne il
parinirvana. Due di questi luoghi, Bòdha-Gaya (il luogo
dell'illuminazione) e Sarnath (il luogo della prima predicazione) sono
senz'altro grandi centri di pellegrinaggio buddista.
Si può senz'altro dire che nessun altro personaggio religioso ha
tante rappresentazioni in figure e statue come il Buddha. Ne esistono
piccoli e grandi. Alcune sculture e statue del Buddha sono appunto
notevoli per la loro enormità come, per esempio, quelle di Bamiyan in
Afghanistan, di Yüngkang e Lungme in Cina e altrove. In alcuni paesi come
Myanmar, la produzione e l'istallazione di statue del Buddha sono
considerate immensamemente meritorie per i fedeli.
In pieno contrasto con questa tendenza che prevale nel buddhismo da
ormai molti secoli, sappiamo che il buddhismo iniziale evitava ogni
raffigurazione della persona del Buddha. Nelle più antiche sculture
buddhiste a Bharhut (III secolo a.C.) che rappresentano le scene dalla
vita del Buddha, ci colpisce proprio l'assenza della figura del Buddha in
esse. Invece della persona del Buddha, vediamo qui dei simboli che lo
121

rappresentano ─ un albero, l'impronta di piedi, una ruota o un trono


vuoto. Solo nella cosiddetta arte Gàndhàra, a partire dal secondo o terzo
secolo d.C., appariranno le figure del Buddha. Lo stile Gàndhàra, che
effettua una simbiosi tra lo stile indiano e greco, riconosce il suo
migliore esempio nella scultura del 'Buddha digiunante' conservata nel
museo di Lahore. Lo stile indiano tardivo della scultura buddhista che è
chiamata lo stile 'Mathura' sarebbe anche esso derivato dallo stile
Gàndhàra.
A proposito della raffigurazione iconografica del Buddha a partire
dal tempo delle missioni estere, si può certamente parlare di una vera
inculturazione. Ogni popola che ha adottato il buddhismo, hanno
raffigurato il buddha secondo i tratti fisiologici propri. Così, il Buddha
non conserva più nulla dei suoi aspetti particolarmente indiani nelle
varie raffigurazioni di lui in pitture e statue che oggi esistono tra
diversi gruppi etnici appartenenti al Buddhismo. E pensiamo che non c'è
nulla di male se il Buddha, che comprese se stesso come un maestro per
tutta l'umanità e predicò il Dhamma universale, abbia ottenuto una sorta
di universalità anche nelle sue raffigurazioni iconografiche.
BIBLIOGRAFIA

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125

INDICE

ABBREVIAZINOI

NOTE SULLA LINGUA E SULLA PRONUNCIA

INTRODUZIONE

Capitolo 1
BUDDHA - ALCUNE PRECISAZIONI

1. Il senso del termine


2. L'estensione del termine; gli aspetti del Buddha
3. La figura storica
4. I testi

Capitolo 2
IL PRINCIPE SIDDHARTHA: LE LEGGENDE E LA STORIA

1. Il concepimento e la nascita
2. La profezia, la giovinezza
3. La crisi, le uscite

Capitolo 3
IN CERCA DEL REALE

1. La fuga
2. Il clima religioso del tempo
3. Presso i guru spirituali
4. L'ascetica sbagliata
5. La scoperta del 'La Via di Mezzo'
6. Sotto l'albero di Bodhi

Capitolo 4
IL RISVEGLIO E DOPO

1. L'esperienza del Bodhi


2. Il contenuto del Bodhi e i suoi effetti
3. L'esitazione del Buddha
4. L'inizio della predicazione
5. Le conversioni
6. La conversione dei praticanti dell'Agnihotra
126

7. Il Sangha

Capitolo 5
GIRANDO LA RUOTA DEL DHAMMA

1. Con la gente, i re e i benefattori


2. Tra i membri del Sangha
3. Da solo, e in meditazione
4. Lo stile, i metodi, i miracoli
5. Nella città natale
6. La fondazione dell'Ordine femminile
7. Gli avversari

Capitolo 6
IL PARINIRVANA

1. L'ultimo viaggio
2. A Vaiali
3. L'ultimo pranzo
4. Verso Kuinagara
5. Tra due alberi
6. I funerali
7. La venerazione del Buddha

BIBLIOGRAFIA

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