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Non ci fosse stato il rombo compatto della pioggia, i passi avrebbero riecheggiato nel viale.

Il grande ombrello nero ondeggiava impercettibilmente nel grigio della periferia. Gli occhi
di Trastorni fissavano il marciapiede sotto l’orizzonte dell’ombrello, ma una strana
inquietudine era visibile agli angoli, come di chi si aspetta qualcosa e non vuole vederlo
arrivare. Non lo vide, infatti: gli arrivò addosso come fosse altra pioggia, ma scura e
compatta. Era sbucato da una via laterale, lo aveva urtato, e il piccolo involucro nero era
caduto sul fiume di pioggia che copriva la strada. Trastorni viveva la scena e insieme la
vedeva da fuori, come in un film. Esitò solo pochi istanti, lo sguardo con l’uomo che lo
aveva colpito fu brevissimo. Si chinò, raccolse l’involucro, lo tastò per assicurarsi che la
forma e la consistenza fossero quelle che si aspettava, poi riprese a camminare.
Non era sempre stato così: un tempo scambi di questo tipo potevano avvenire alla luce del
sole. C’erano dei luoghi in cui quegli oggetti magici, uno dei quali lui adesso si stringeva
al cuore, si potevano comprare, addirittura. Si trovavano sulle bancarelle, la gente se li
regalava, se li dava in prestito. Li usava all’aperto, nei parchi, sulle panchine. Qualcuno
racconta che c’era gente che non aveva paura perfino di passare ore al tavolino del bar,
con uno di loro bene in vista. Poi arrivò la prima guerra, tanti ne furono distrutti, bruciati,
usati come combustibile. E quando, alla fine della guerra, il Grande Leader prese il potere,
in poco tempo arrivò prima a proibirli nei luoghi pubblici, e poi a bandirli del tutto. Così
non restava che il mercato clandestino.
Trastorni arrivò a casa, si diresse di corsa verso la stanza più nascosta della casa – un tempo
si sarebbe chiamata “studio”, o addirittura “biblioteca” -, sprofondò nella poltrona,
estrasse l’involucro nero, lo aprì: era proprio lui, l’oggetto più proibito al mondo. La
copertina diceva “Giacomo Leopardi, Canti”. Stentava a crederci: aveva davvero ottenuto
un libro di poesie.

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Carlo Fruttero e Franco Lucentini Giallo scomponibile per le vacanze 1972

Dietro i suoi occhiali da sole – due dischi perfettamente rotondi, perfettamente neri,
cerchiati di metallo cromato – è impossibile dire se il signore massiccio abbia gli occhi
aperti o chiusi. È arrivato pochi minuti prima che il treno partisse, quando gli altri già
speravano che il suo posto (prenotato) sarebbe rimasto libero; l’inserviente gli ha sistemato
la valigia (nera, né grande né piccola) sul piano per i bagagli, e se n’è andato in fretta
mormorando un ringraziamento per la mancia (una sola moneta, da cinquanta o cento lire).
L’uomo è vestito di un “fresco” di lana blu, che però addosso a lui, anche per contrasto
con l’aria arroventata dello scompartimento, suggerisce una incongrua consistenza
invernale, penosi sfregamenti di cartavetro: ma l’uomo sembra insensibile al caldo, non si
è neppure sbottonato la giacca, non ha emesso un sospiro, uno sbuffo, non si è mai
asciugato la fronte, che del resto non è coperta di sudore come quella degli altri. Da più di
due ore siede immobile e silenzioso nel suo angolo, dietro quegli occhiali di modello
antiquato (o sono forse tornati di moda quest’estate?).
“Perché si è fermato, mamma?”, dice lamentosamente Claudina. “Perché non cammina
più?”.
“Sarà il disco”, dice la mamma di Claudina senza alzare la testa dall’intervista con Patty
Pravo, che sta leggendo.
”Che disco?”
“Il disco rosso”.
“Come il semaforo, papà?”
“Sì”, dice il padre di Claudina, mordendo la biro, “più o meno”.
“E poi allora diventa verde?”
“Sì”, dice il padre di Claudina.
“E quand'è che diventa verde?”
Il padre di Claudina non lo sa, come non sa la 15 verticale del cruciverba che sta facendo
e che dice “Lo covano gli aviatori”. Sei lettere. Guarda fuori dal finestrino: il treno è fermo
alla periferia di una città intermedia, lungo una fila di alti casamenti gialli che si sbriciolano
desolati nel sole. Nel cavo di una cucina, una donna incinta apre un frigorifero. Sotto di lei,
affacciati a un davanzale, due bambini si aprono a morsi una strada dentro due enormi fette
d’anguria. Da un balcone più a destra una vecchia in sottoveste nera fissa il cielo senza
colore.
“Pensi, vivere qui”, dice con un brivido la signora dalle molte collane fantasia e dai molti
anelli. Non può avere più di cinquant’anni, ma la sua faccia è tutta tramata di rughe, come
una stoffa rarissima tessuta a mano da una tribù di montanari asiatici. Ha un gran naso
aquilino e movimenti imperiosi, bruschi, che ogni volta provocano uno scroscio metallico
tra i sette o otto ornamenti che le ciondolano sulla camicetta semitrasparente. Ha parlato
rivolta a una ragazza in logori jeans (ma la borsa è di Gucci) che della lingua italiana sembra
conoscere un solo aggettivo, “pazzzzesco”, con quattro zeta.
“Pazzzzesco”, dice infatti la ragazza, guardando una ragazza della sua età che appoggia la
bicicletta contro il muro ed entra in uno dei casoni gialli. Per un istante ancora, il caso si

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mostra al finestrino dello scompartimento in tutta la sua potenza terribile: a ognuno dei
viaggiatori potrebbe essere toccato di nascere e vivere in questa periferia, in queste stanze
sgretolate, scosse giorno e notte dall’acciottolio di innumerevoli convogli. Ognuno prova
un senso come di scampato pericolo, ha la breve, confortante illusione di essere stato
sfiorato da un vasto e pauroso complotto, e poi dimenticato, messo fortunosamente da
parte.
Solo quando il treno, dopo un fischio timido, si rimette in moto a piccoli strappi, i
viaggiatori capiscono che non sono stati risparmiati, che anche loro hanno una parte
nell’invisibile trama, che il mistero non è rimasto fuori dello scompartimento. Si guardano,
per la prima volta, con sospetto. La signora dalle collane è certamente diretta a una sua
villa a picco sul mare, e subito scenderà in ascensore fino al motoscafo dondolante in una
grotta piena di ambigui riflessi; deve aver contratto, nei suoi lunghi soggiorni in paesi
esotici, vizi indicibili e rovinosi. La ragazza in blue-jeans (dalla borsa di Gucci sporge un
foglio extraparlamentare) non è forse estranea al caso Feltrinelli, ha forse camminato su e
giù per una notte intera nel soggiorno del suo attico di lusso, mentre di là l’assassino del
commissario Calabresi era impietrito nel sonno sulla coperta di guanaco. I genitori di
Claudina tengono a freno con le ultime forze nervose un odio che sale inesorabile da anni
verso il suo sbocco violento, e negli occhi di Claudina, che ora esige lamentosamente la
terza Coca Cola, balena ogni tanto una luce torva, adulta. Dietro le sue nere pupille di
vetro, l’uomo massiccio ha forse gli occhi chiusi; o forse osserva il seno senza reggiseno
della ragazza in blue-jeans; o calcola a quanti gioielli veri (chiusi nel portagioie? in una
cassaforte della villa?) possano corrispondere i gioielli falsi della signora; o quanti milioni di
riscatto potrebbe estorcere ai genitori di Claudina; o in quante cartine si possano dividere
i chili di eroina che porta nella valigia. Quando si alza all’improvviso ed esce dallo
scompartimento, tutti Io fissano sbigottiti. Difficilmente ritornerà: Io ritroverà qualcuno nella
toilette, con un coltello piantato nella schiena o un laccio di nailon attorno al collo. Chi avrà
il coraggio di aprire la sua valigia nera, né grande né piccola?

Ora, sulla spiaggia, c’è qualche precisazione, qualche aggiustamento. Claudina non è figlia
unica, due fratelli la stavano aspettando coi nonni e una “signorina” olandese. La
“signorina” (che non è una vera bambinaia, ma una studentessa au pair) è bellissima, molto
bionda, trasognata e completamente inetta. Sa soltanto gridare, con polmoni da Gran
Premio della Montagna: Claudinaaa! Claudinaaa!, senza spostarsi di un centimetro dal suo
rettangolo di spugna arancione. S'è portata in Italia un numero illimitato di costumi da
bagno ridottissimi, che hanno in comune una inesplicabile caratteristica: tutti lasciano
sempre scoperta qualche sezione di pelle non ancora abbronzata.
Dopo tre giorni, la signora aquilina ha già il colore del bronzo, dagli alluci all’attaccatura
dei capelli, e le sue rughe sembrano ora screpolature d’argilla. Non abita nella remota villa
strapiombante sul mare, ma alla “Pensione Luisa”, di seconda categoria, tra pareti che
portano i segni di generazioni di zanzare spiaccicate. Al quinto giorno la raggiunge un
giovanotto dalla vita sottile e dall’ampio torace, che potrebbe essere suo figlio, suo nipote,
o un amante prezzolato per la stagione. Lei lo prende spesso sottobraccio ed è stata anche
vista mentre gli arruffava i capelli. Lui ha l’aria annoiata, o soltanto impigrita. Passa le

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mattinate sdraiato sulla sabbia, di dove poi, verso mezzogiorno, scatta senza preavviso
verso l'acqua e con poche falcate si tuffa violentemente suscitando spruzzi spettacolari.
Nuota benissimo, e il padre di Claudina lo osserva senza simpatia alzando la testa dal
cruciverba. La 9 orizzontale dice “Appellativo affettuoso... con il tè “. Sei lettere.
La ragazza in blue-jeans vive in tenda con un’amica triste e bruttina, nel campeggio sotto
gli ulivi. Due dattilografe, allora? Due commesse della Standa? La mattina si calano per il
sentiero che porta agli scogli, e qui, un po’ reggendosi alla meglio su un piede solo, un po’
strisciando come goffi quadrupedi, vanno alla ricerca di un “posto comodo” per prendere
il sole. La spiaggia, con le cabine, gli ombrelloni, i chioschi di bibite, i trampolini, è troppo
affollata, una bolgia pazzzzesca. Quando hanno le braccia e le cosce segnate da lunghe
graffiature, quando la terza spina di riccio gli si è conficcata nella pianta del piede, cedono
(ma è questa la vera ragione?) alla banalità dello stabilimento “Nettuno”.
La sera stessa sono a ballare col figlio (?) della signora d’argilla, il quale si presenta al
volante di una 128 Rally insieme a un amico di nome Furio. Fisicamente Furio non è un
granché: basso, paffuto, coi capelli già radi e un’andatura saltellante. Tutti perciò si
meravigliano vedendo l’olandese bellissima abbandonarsi tra le sue corte braccine, una,
due, tre volte e poi ininterrottamente, come se non potesse più staccarsi da lui. Fra i tre
rimasti al tavolino accanto a un profumato pitosforo, è sceso un silenzio di ghiaccio. Il
whisky intepidisce adagio nei bicchieri. Adagio, la tensione cresce. Il giovanotto atletico,
che fino a un’ora fa giudicava più che attraente la ragazza in blue-jeans, la trova adesso
larga di fianchi, muscolosa, qualunque. “Pazzzzesco”, dice lei, accendendo una sigaretta e
tenendo gli occhi fissi sulla coppia che balla. La sua amica, più esperta in questo genere di
bruciori, sorride fiocamente, rannicchiata nella sua antica tana di smacchi e confronti
perduti. Nessuno nota la luna, che le luci elaborate del dancing all'aperto “Acapulco” fanno
apparire superflua, una magra trovata di assessore comunale.
Nessuno nota, fra due gonfi cespugli di oleandro vicino alla piscina buia, una massiccia
sagoma immobile e due lenti nere perfettamente rotonde. Sotto il tavolino, il piede sinistro
segue l’orchestra con un segreto, impercettibile battito. Se un delitto verrà commesso
stanotte, quest’uomo lo vedrà certamente, sarà l’unico testimone. Ma di sicuro non parlerà.
Non alla polizia perlomeno.

La crisi, tuttavia, non scoppierà qui, ma in montagna, a 1500 metri, dove si chiariscono
molti equivoci, subito però sostituiti da altre più enigmatiche sfasature. L’olandese non è
innamorata di Furio: gli ha raccontato in un singhiozzato impasto di tedesco e francese che
nella sua vita c’è già un uomo, meraviglioso, sposato, fedele o forse indifferente. Il padre
di Claudina? Sua moglie gli parla, è vero, in un tono un po’ freddo, forse un po’ sprezzante;
ma non rivolge mai alla “signorina” gli sguardi obliqui e affilati delle donne gelose.
Rivela invece alla signora rugosa (che qui vive veramente in una grande villa di pietra e di
legno, insieme a due domestici, un taciturno cane dalmata e un inatteso marito tutto vestito
di cuoio) la parte più vivida del suo passato: da giovane, prima di sposarsi, studiava
appassionatamente architettura, frequentava pittori e cineasti. Il marito e i figli l’hanno
soffocata, martellata dentro una botola da cui uscirà vecchia e inerte. Che cosa è rimasto,
chiede torcendosi le mani, che cosa è rimasto di quegli anni aperti sull’universo? Nove mesi

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di città, tre di mare e montagna, malattie di bambini e giornali illustrati: l’intervista con
Mina, l’intervista con Alain Delon. La sua faccia è alterata dal disgusto, dal rancore. La
signora rugosa si stringe nella sua pelliccia leggera e inutile, si china verso di lei, le parla
sottovoce. Forse le propone radicali liberazioni erotiche o psichedeliche. Un’orgia, magari,
cui parteciperà anche l’atletico ragazzo del mare, che è qui in un alberghetto-chalet con le
camere tappezzate di strisce di plastica simulanti l’abete grezzo.
O si tratta semplicemente di un consiglio turistico: a una ventina di chilometri da qui, a
quota 1800, ci sono le rovine di un’antica abbazia. Perché non visitarla coi bambini? È
un’escursione non solo interessante, ma comoda: non lontano dai ruderi, per chi non ami
le complicazioni dei picnic, è pronta una vecchia grangia trasformata in ristorante tipico. La
ragazza in blue-jeans (sempre più incollati e sudici, come se ci dormisse dentro) arriva ai
piedi dell’abbazia in Ferrari. Ma la Ferrari la guida l’amica bruttina, che se l’è fatta prestare
da un padre disattento. Scendono e guardano in su: c’è un sentiero di capre e poi una fila
di rozzi gradini intagliati nella roccia. “Pazzzzesco”, dice la ragazza in blue-jeans. S’inerpica
decisa e due cerchi di sudore le si allargano rapidamente sulla maglietta stinta, all’altezza
delle ascelle. L’amica, quando arriva ansimando tra i ruderi, non la trova più. Spezzoni di
mura grigie s’incrociano sopra un vasto perimetro irregolare battuto dal vento: un’erba
giallastra cresce tra massi di granito e consunti mucchi di mattoni e di malta, nei quali non
si può più riconoscere niente. Questo spigolo può essere stato un torrione; questo cadente
trapezio, il refettorio; da questa feritoia si affacciavano forse monaci ansiosi, a spiare una
truppa di cavalieri (amici o nemici?) snodata sul fondo valle.

Ma un richiamo cui il vento presta una nota d’angoscia rimbalza tra le rovine:
“Claudinaaaaa! Claudinaaaaa!”. Claudina e i suoi fratelli corrono lungo un parapetto
sbocconcellato per lunghi tratti dai secoli; del filo spinato chiude mollemente,
insufficientemente, questi varchi, e la bionda olandese, che soffre di vertigini, insegue i
bambini con autentica sollecitudine. Tutti e tre spariscono di colpo nel vuoto.
Nell’oscurità di una cripta, la ragazza in blue-jeans si vede precipitare addosso tre piccole
forme umanoidi, gnomi o nani, creature comunque soprannaturali. Le sfugge un “Oh!”
spaventato. Mentre vagabondava fra i resti dell’abbazia, un’apertura bassa e irregolare le
è apparsa nell’angolo di un muro coperto d’edera, e pochi gradini l’hanno invitata a
scendere in una penombra muscosa; ha così scoperto che sotto i mozziconi dell’abbazia
resistono al tempo volte a botte e a crociera, sale e cellette, nascondigli, magazzini, cripte,
cappelle, uno scosceso formicaio scavato nella roccia. Da crepe, feritoie, lastroni sbilenchi
e altre scale, entrano qua e là netti segmenti luminosi.
I tre gnomi fuggono lungo una galleria, inseguiti ora da una fata bionda. L’amica della
ragazza in blue-jeans li guarda passare come un’illustrazione di fiaba, sorride, attraversa
una camera circolare gocciolante d’acqua, scende altri gradini viscidi, e in una nicchia dove
forse un tempo sedeva lo scheletro ammonitore di un frate, intravede una coppia
abbracciata. Lei è la signora aquilina e rugosa; lui… chi è lui? Sul fianco gli pende una
macchina fotografica che luccica nel buio; il resto è indistinto. Ma in un’altra nicchia,
qualche metro più in basso, la ragazza distingue il puntino rosso di una sigaretta accesa.
Torna adagio sui suoi passi, risale alla superficie, e incontra Furio e il giovanotto atletico.

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Entrambi hanno la macchina fotografica a tracolla. Ma anche il marito della signora ce l’ha.
E ce l’ha anche il padre di Claudina, che seduto sul bordo di un pozzo dilapidato si chiede
che cosa sia la 3 orizzontale: “La sua mano non si può stringere”. Cinque lettere.

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Riflessi sul lago Riva del Garda
Traccia per una teaser campaign.

A Riva del Garda, sulle sponde del lago e in altri luoghi significativi del territorio cominciano
a manifestarsi delle apparizioni misteriose.
Strani personaggi, mai visti prima da quelle parti, turbano con la loro presenza la vita
tranquilla della comunità. Hanno atteggiamenti curiosi, fanno cose indecifrabili, vanno in
posti inusuali in orari assurdi; oppure se ne stanno in piazza passando il tempo a fare cose
che gli abitanti del luogo non farebbero mai.
Col passare dei giorni appare chiaro che questi personaggi nascondono un segreto sinistro:
pianificano un delitto? ordiscono un complotto? organizzano un furto? sono spie di un
comune nemico? sono esseri provenienti da un’altra dimensione?
Per cinque puntate seguiremo la storia di questi personaggi e il progressivo accumularsi di
indizi e sospetti: a ogni puntata scopriremo qualcosa di nuovo, una nuova stranezza, un
gesto, un atteggiamento, un’azione o un discorso che infittisce il mistero e aumenta la
suspense.
Fino al colpo di scena finale: anche se possono sembrare dei fuorilegge, i nostri personaggi
non sono pericolosi criminali. Sono gli scrittori e le scrittrici, i lettori e le lettrici arrivati a
Riva del Garda per il festival “Riflessi sul lago”.

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