Lo zen non sempre è una brezza gentile, come il Taoismo decadente; il più
delle volte è un vento di tempesta che si spinge innanzi spietatamente
ogni cosa, un gelido soffio che penetra sino al cuore e trapassa da parte
a parte.
La disciplina che i maestri imponevano a se stessi nei primi stadi del loro
sviluppo, come acquistassero completo controllo dei loro pensieri ed
emozioni, come si indurissero al freddo e alla neve in templi diruti dove “
non c’era tetto, e la notte si vedevano brillare le stelle”.
Il bravo lottatore deve essere sfuggente come la verità dello zen; deve
fare di sé stesso un Koan: un’ enigma che scivola via quando più uno è
certo di risolverlo; deve essere come l’acqua, che sfugge di fra le dita a
coloro che cercano di stringerla. L’acqua non esita prima di cedere,
perché non appena le dita cominciano a chiudersi essa fugge via, non per
forza propria, ma esercitando la pressione utilizzata su di lei. Nel ju-
jitsu i due combattenti si muovono perciò come un’ uomo solo; attacco e
difesa sono un solo movimento e non c’è sforzo, né resistenza, né
esitazione.
Che altro facevano i monaci zen con le loro discipline interiori e le loro
solitudini? Essi riacquistavano un senso della prospettiva temporale che
consentisse loro di guardare, oltre il vedere e così vedevano l’invisibile e
numeravano l’Eterno. Ma l’uomo ha scoperto anche che non può vivere a
ritroso, che la vita non può essere ripetuta; ebbene, perché non scopre
che anche il respiro, che è l’essenza della vita stessa, non può essere
ripetuto? Perché non vivere il proprio Budo per vivere meglio?
In genere noi non amiamo molto ciò che si ripete; alcuni anzi non
rifarebbero mai la stessa cosa per due volte di seguito, mentre è proprio
la ripetizione che mobilizza l’inconscio profondo.
Elevate la vostra mente il più in alto possibile: presto o tardi una scintilla
della Mente Universale balenerà fra gli opposti che sono in voi e li
distruggerà. Così se si pratica con questo spirito, si può praticare un
giorno, una notte, oppure lo si può fare per tutta la vita.
Il Buddismo Dhyana ( Zen ), questa specie del buddismo, non vuol essere
speculazione, ma diretta esperienza di ciò che, in quanto fondo senza
fondo dell’essere, non può essere concepito intellettualmente, anzi non
può essere afferrato o spiegato neppure dopo che se ne è fatta
esperienza, per quanto precisa e inoppugnabile: lo si conosce non
conoscendolo. Per amore di queste esperienze decisive, il buddismo zen
segue vie che per mezzo di una meditazione praticata metodicamente
devono condurre a scoprire nel più profondo dell’anima quell’indicibile
senza fondo né forma, anzi a divenire tutt’uno con esso. Riferito al tiro
con l’arco, questo significa, sia pure con definizione provvisoria e perciò
discutibile, che gli esercizi spirituali a cui solo si deve che la tecnica del
tiro con l’arco diventi arte, e, se possibile, trovi il suo compimento come
arte senz’arte, sono esercizi mistici.
Uno degli elementi essenziali nell’esercizio del tiro con l’arco e delle altre
arti che vengono praticate in Giappone è il fatto che esse non perseguono
alcun fine pratico e neppure si prefiggono un piacere puramente estetico,
ma rappresentano un tirocinio della coscienza e devono servire ad
avvicinarla alla Realtà Ultima. Così il tiro con l’arco non viene esercitato
soltanto per colpire il bersaglio, la spada non si impugna per abbattere
l’avversario, ma anzitutto perché la coscienza si accordi armoniosamente
con l’inconscio. Nel caso del tiro con l’arco questo significa che il tiratore
e il bersaglio non sono più due cose contrapposte, ma una sola realtà.
L’arciere non è più consapevole d’essere uno che ha da colpire il bersaglio
davanti a lui. Ma questa condizione di inconsapevolezza egli la raggiunge
solo se è perfettamente libero e distaccato da sé, se è tutt’uno con la
perfezione della sua abilità tecnica. E’ una cosa tutta diversa da ogni
progresso che potrebbe essere raggiunto nell’arte del tiro con l’arco.
Questa cosa diversa che appartiene a tutt’altro ordine di cose, viene
chiamata Satori.
Forti delle esperienze fatte su di sé e sui loro allievi, i maestri danno per
provato che il principiante, per quanto forte e combattivo, per quanto
coraggioso e intrepido sia per natura, all’inizio dell’insegnamento perde
insieme alla spontaneità anche la fiducia in sé stesso. Ora impara a
conoscere tutte le possibilità tecniche che nel combattimento mettono a
rischio la vita, e per quanto sia presto in grado di affinare al massimo la
sua attenzione, di osservare acutamente il suo avversario, di parare a
regola d’arte i suoi colpi e di fare degli assalti efficaci, si trova peggio di
prima, quando esercitandosi tirava colpi alla ventura, secondo
l’ispirazione del momento e del suo ardore combattivo un po’ per gioco, un
po’ sul serio. Ora deve ammettere di essere inferiore a ogni avversario
più forte, più agile e più esperto, accettare di essere esposto ai suoi
colpi sicuri e spietati. Non vede altra via se non di esercitarsi
indefessamente, e anche il suo maestro non sa dargli altro consiglio. Così
il principiante fa di tutto per superare gli altri e anche sé stesso.
Acquista una tecnica stupefacente, che gli restituisce una parte della
sicurezza perduta e si sente sempre più vicino alla meta agognata. Ma
come mai non va più oltre? Dipende dal fatto che egli in combattimento,
fa ricorso a tutta la sua arte e a tutta la sua scienza. Quanto più farà
dipendere la superiorità del suo combattimento dalla sua riflessione, dal
consapevole impiego della sua abilità, della sua esperienza e della sua
tattica, tanto più ostacolerà il libero gioco dell’azione “ del cuore”. In che
modo si ripara a questo? In che modo l’abilità diventa “ spirituale”?
In che modo la padronanza assoluta della tecnica si trasforma nell’uso
magistrale di essa? Solo con l’abbandono dell’intenzione e dell’Io, è la
risposta. L’allievo deve imparare a staccarsi non solo dall’avversario, ma
anche da sé stesso. La perfezione nell’arte del combattimento consiste in
questo: che nessun pensiero dell’Io e del tu, dell’avversario e della sua
stazza, della propria tecnica e del modo di usarla, e persino della vita e
della morte turbi il suo cuore. “ Tutto è dunque vuoto: tu stesso, la spada
sguainata e le braccia che la guidano. Anzi non c’è più nemmeno il
pensiero del vuoto”. “ Da tale vuoto assoluto sboccia meravigliosamente
l’azione”.
Tutte le parole, sono reti che intrappolano il flusso della vita, e lo zen le
considera un male necessario, talora inutile. La vita non si arresta e lo
zen è vita. Una goccia d’acqua corrente diviene morte se rimane chiusa
nel pugno della mano. Perché trattenerla?
Con lo zen, riusciamo ad essere padroni di noi stessi così che tutto
diviene per noi più semplice e spontaneo, e non abbiamo più problemi di
sorta. E per raggiungere questi risultati non è neppure sufficiente
praticarlo, basta averne compreso il significato.
Coloro che praticano lo zen, non sono né incoscienti che non si curano di
nulla,né esseri superiori senza problemi: sono esseri umani come tutti gli
altri, che sanno far fronte alle avversità senza perdersi d’animo. C’è un
problema, che so io, qualcosa da pagare, una malattia, o altro ancora?
Preoccuparsi non serve a nulla, agiamo ed affondiamolo con serenità;
prima ci saremo decisi ad agire, prima avremo superato l’ostacolo.
Secondo lo spirito dello zen non si può compiere nulla bene se la mente è
rivolta ad altro oltre quello che si sta facendo.
Come riuscivano per mezzo dello zen, i samurai, a superare la paura della
morte? Semplice: tutte le religioni professano la fede di una vita oltre la
morte; ma mentre la maggior parte di esse impone di credere a questo
fatto, lo zen, che è esperienza, ne può dare la certezza. Il Satori,
l’illuminazione, consiste proprio nell’avere questa visione integrale. Chi
abbia percepito anche per un solo attimo, la sua appartenenza al mondo, e
l’appartenenza del mondo a lui in questi termini, avrà compreso che
parlare di morte individuale è un non senso, che non si può mai perire. La
morte è, la vita è, tutto è, senza alcuna definizione: compreso questo, è
compreso lo zen. Oltre a questo, è importante risalire alla concezione
dell’Ora nello zen.SE ogni istante da vivere senza coscienza alcuna né di
passato né di avvenire, solo nel momento della morte noi la potremo
percepire, né prima né dopo. E questo spazio infinitesimale, non ci
spaventa.
Avvertiamo come un problema il fatto che non tutto sia come ci piace; Più
siamo viziati, più il,minimo contrattempo ci disturba. Pensiamo
erroneamente che tutto andrebbe per il meglio se solo potessimo fare
sempre come ci piace. Se tutto andasse come vorremmo, allora si
saremmo soddisfatti, appagati ecc. Un ulteriore osservazione chiarirà
che non potendo disporre delle cose a modo mio, il problema non sta nelle
cose, ma in me. Invece di continuare la caccia alle cose esterne, sposto la
mia attenzione sul costruttore di problemi, l’Io.
Decidiamo di intraprendere la Via dello Zen: non occorre preparare piatti
speciali, la routine quotidiana è quanto basta. Unica avvertenza: stabilire
a priori l’ora di alzarci e di coricarci. E’ essenziale attenersi a regole
precise, senza lasciarsi andare al “ così mi piace”, “ così mi sembra
meglio”: Lasciare le cose come stanno ed eseguirle al meglio delle proprie
capacità. Limitando una parte dell’abituale pretesa di manipolare le cose,
sarà naturale e inevitabile una reazione nei confronti della disciplina. Fa
parte della pratica. Le limitazioni sono briglie che ci insegnano ad agire
efficacemente in condizioni di scelta ridotta, ih quelle che vengono
sentite come circostanze avverse. La disciplina ha inoltre il fine di
imparare a riconoscere, accettare, affrontare e vivere le reazioni
negative senza esprimerle e senza reprimerle, ponendoci volontariamente
di fronte ad esse. E’ un atteggiamento che non sarà sottolineato mai
abbastanza, e per poterlo capire appieno bisogna farne la viva
esperienza. IL secondo aspetto, vivere coscientemente i problemi
emotivi, ingenera il primo, la capacità di agire efficacemente in ogni
situazione.
Che cosa vuol dire allora accettare reazioni e resistenze? Anzitutto non
rinnegarle, non rifiutarsi di vederle, perché è appunto il meccanismo che
innesca la presa emotiva su di noi. Di qui la necessità del ribaltamento.
Stiamo conversando piacevolmente e mi chiedete una tazza di tè: se
anche io ne ho piacere, trotterello allegramente in cucina a prepararlo.
Se invece sono assorbito in una lettura affascinante, occupato in
qualcosa a cui assegno grande importanza, la richiesta provocherà
opposizione: “ Accidenti sempre in questi momenti!”. Sono seccato perché
vivo un disturbo, infastidito dalla vostra mancanza di considerazione ( “
Ma non vedi che....? ); oppure ho uno scatto d’ira ( “ Fallo tu una buona
volta” ). Se mi scopro trascinato in queste reazioni, devo accettare di
aver fallito nella pratica per l’ennesima volta lasciando che le emozioni mi
travolgano. Non serve accusare l’altro perché la reazione è mia. Se invece
pratico seriamente, al più tengo la bocca chiusa, anche se sono tentato di
fare altrimenti. Quando la prima ondata di rabbia è passata, la pratica mi
fa accettare, nell’ordine, la mia reazione e la richiesta. Vado a preparare
il tè. La prima ripresa è vinta, ma il rischio è onnipresente. Mettendo
l’acqua sul fuoco, posso congratularmi con me stesso ( “ Come sono
gentile a preparare il tè per quel seccatore, che eccellente progresso
nella pratica !” ). E’ la solita strategia dell’Io che tenta di appropriarsi
dell’evento per rassicurarsi, e può farlo perché non viene prestata
abbastanza attenzione a quello che avviene dentro di sé. Se, astenendomi
dall’autoencomio, ho il coraggio di vedere le mie reazioni immediate,
riconosco che mi è penoso preparare quel maledetto tè, che in me c’è
rabbia. Bene, accetto la rabbia e preparo l’acqua, in piena consapevolezza
del ribollire di entrambe. Ecco la vera difficoltà: apprendere un
comportamento realmente estraneo, cioè mantenerci aperti alle reazioni
emotive e agire efficacemente.
Smettendo di ignorare gli stati d’animo per poter agire con efficienza
impariamo al contrario ad agire prontamente in uno stato d’animo
doloroso. Una reazione emotiva è un’onda di energia che sollevandosi,
costringe a risposte cieche, perché non illuminate dalla consapevolezza.
Se esplodiamo in una reazione di violenza, tanto fisica che verbale,
l’energia trova sbocco nella reazione e la tensione si sfoga. In mancanza
di una valvola, di sfogo, l’energia si ritorce contro di noi, ostacolando
l’azione. Ci contraiamo, restiamo bloccati. Più diamo sfogo alle reazioni,
più la soglia di tolleranza si abbassa e più diventiamo marionette delle
nostre stesse emozioni. Troppa permissività e un troppo facile sfogo
anche se danno luogo a un temporaneo allentamento della tensione, a
lungo andare peggiorano la situazione. D’altra parte, come ormai
sappiamo, neppure la repressione è la risposta giusta, perchè le emozioni
compresse, prima o poi scoppieranno e ci invaderanno sfruttando la
nostra mancanza di consapevolezza.
Takuan scriveva: “ Senza dubbio vedete la spada che sta per colpirvi, ma
non lasciate che la vostra mente si “ fermi”. Non intendete
contrattaccarlo in risposta alla sua mossa minacciosa, non nutrite
pensieri calcolatori. Percepite semplicemente la mossa dell’avversario,
non permettete che la vostra mente si “ fermi” su di essa e continuate a
muovervi come state facendo”. “ No0n fissare la mente
sull’atteggiamento assunto dal tuo avversari e non inchiodarla neppure sul
tuo atteggiamento o sulla tua spada. Fissa invece l’attenzione o mente sul
tuo seika-tanden ( sotto l’ombelico ) e non pensare né a sferrare un colpo
al tuo rivale né al colpo che questi ti potrà sferrare a te. Getta in
disparte tutti i disegni specifici e avventati all’attacco nel momento in
cui vedi il tuo nemico nell’atto di brandire la spada sopra la testa.
Tutto ciò che esiste può essere fonte di conflitto, di pericolo e, in ultima
analisi, di violenza, se viene affrontato dall’angolazione sbagliata o nel
modo sbagliato: cioè quando viene affrontato direttamente al punto della
massima forza.
Lo zen aveva il suo metodo per arrivare al “ nocciolo della realtà”, alla “
verità”. Per dirla con le parole di uno dei massimi teorici dello zen, questo
metodo “ consiste nel vedere direttamente il mistero del nostro essere
che, è la realtà stessa.