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ZEN

Lo zen si fonda sulla pratica e su una intima, personale esperienza della


realtà, alla quale molte religioni e filosofie non si accostano più di quanto
possa accostarsi una descrizione sentimentale e intellettuale. Questo
non vuol significare che lo zen sia l’unica via verso l’illuminazione. E’ stato
detto che la differenza fra lo zen e le altre religioni sta’ nel fatto che “
tutti gli altri sentieri girano lentamente il fianco della montagna, ma lo
zen, simile a una strada romana, spinge da parte tutti gli ostacoli e muove
in linea retta verso Meta”.

Il metodo dello zen consiste nello sconcertare, eccitare , mettere in


imbarazzo e ridurre ad estrema stanchezza l’intelletto, fino a che esso si
renda conto che il suo conoscere le cose è solo un pensare intorno alle
cose; provoca, irrita e di nuovo conduce ad estrema stanchezza le
emozioni, finchè si sia compreso che l’emozione è un sentire non le cose
ma solo la nostra reazione ad esse.

Wu-wei è il segreto di dominare le circostanze senza opporvisi. In realtà


esso è il principio su cui si basa il ju-jitsu, il principio cioè che insegna ad
arrendersi a una forza che ci assale, ma in modo da impedire che ci
colpisca, e nello stesso a farle cambiare direzione premendo da dietro,
invece di cercare di resistere di fronte. Così che sa dominare la vita non
si oppone mai alle cose; non cerca di mutarle affermando se stesso di
contro ad esse; si arrende alla loro forza quando lo assalgono in pieno, e
le spinge leggermente fuori dalla linea retta o anche le volge così che
prendano la direzione opposta, senza mai affrontarle direttamente. Vale
a dire, egli le tratta in modo positivo; le cambia accettandole,
prendendole in confidenza, mai opponendo loro un netto rifiuto. Wu è non
solo il non afferrare, ma anche l’accettare il fatto che le cose siano
elusive e mutevoli. La più alta forma di umanità è dunque quella dell’uomo
che si fa vuoto così che le cose siano attratte verso di lui; egli le accetta
finchè abbracciandole tutte, ne diventa il padrone. E’ il principio che
insegna a controllare le cose camminando di pari passo con loro, a
dominarle adattandovisi.

Lo zen fondeva l’idealismo, l’imperturbabile serenità e l’austerità del


buddismo con la poetica fluidezza del Taoismo, la sua reverenza per
l’incompleto,l’ “imperfetto” e il mutevole come segni della presenza della
vita, dell’infinito scorrere del Tao. Questi due elementi, pervadono lo
spirito dello zen, insieme con la particolarissima qualità dinamica, che ad
essi dà vita e forza. Perciò lo zen è spesso definito con un “ andare
avanti dritti”.
Se fra due azioni si lascia un intervallo di tempo anche minimo, lo spazio
di un capello, è un interruzione. Se vi spaventate e meditate sul da farsi,
vedendo che l’avversario sta per colpirvi con tutte le forze, gli date
tempo, cioè una buona occasione per colpirvi. Fate che la vostra difesa
segua l’attacco senza un momento di interruzione, e non vi saranno
neppure due movimenti distinti che si possano chiamare attacco e difesa.
Questa immediatezza d’azione da parte vostra porterà inevitabilmente
alla sconfitta dell’altro. E’ come una barca che scivola dolcemente giù per
le rapide; nello zen come nella scherma, è importantissimo un
atteggiamento mentale che non conosce esitazioni, interruzioni, non
momenti intermedi. Quel che si vuole illustrare è l’idea dell’immediatezza
dell’azione, di un movimento ininterrotto di energia vitale. Ogni volta che
lasciate intervenire qualcosa che non è in relazione vitale con le parti in
gioco, state certi di perdere la posizione.

Lo zen non sempre è una brezza gentile, come il Taoismo decadente; il più
delle volte è un vento di tempesta che si spinge innanzi spietatamente
ogni cosa, un gelido soffio che penetra sino al cuore e trapassa da parte
a parte.

La disciplina che i maestri imponevano a se stessi nei primi stadi del loro
sviluppo, come acquistassero completo controllo dei loro pensieri ed
emozioni, come si indurissero al freddo e alla neve in templi diruti dove “
non c’era tetto, e la notte si vedevano brillare le stelle”.

Non occorrono più proibizioni quando la mente è perfettamente


controllata e ha preso buone abitudini. Lo zen mira a controllare e a
sorpassare l’intelletto.Per lo zen come per quasi tutte le discipline
orientali, è essenziale acquistare il dominio della mente.

I maestri zen, hanno elaborato una tecnica di meditazione o zazen che


insegna al discepolo a rilassarsi, bandire i pensieri oziosi e non
disperdere la propria energia nervosa, così da poter dedicare tutte le
proprie forze al koan. Gli elementi fondamentali dello zazen, furono
derivati probabilmente dallo Yoga, perché si adotta la stessa posizione, e
si studia attentamente la respirazione. Ma gli scopi dello Yoga e dello
zazen appaiono alquanto diversi, poiché i maestri zen disapprovano i vari
tipi di trance considerati così importanti nella psicologia yoga: essi
rilevano che benché certi tipi di trance possano talvolta presentarsi, non
sono essi lo scopo dell’esercizio; dichiarano al contrario, che col cercare
di raggiungere questi stati di coscienza statica, e quasi ultraterrena, non
si trova la saggezza. La mentalità cinese, aveva bisogno di qualcosa di più
vitale e più pratico. Con questo non si vuol dire che lo zazen sia giusto e
lo Yoga sbagliato, ma che mentalità diverse troveranno l’illuminazione in
diversi modi
Lo scopo dello zazen è semplicemente quello di liberare la mente dalla
necessità di pensare al corpo, e di eliminare i motivi di distrazione in
modo che tutta l’attenzione si diretta a un compito particolare.

Lo zen ha influenzato la civiltà dell’estremo oriente in due direzioni:


nell’estetica e nell’arte militare. Da una parte lo zen ispirò la poetica e
quasi religiosa cerimonia del tè, l’arte del giardinaggio, la tranquilla
semplicità dell’architettura giapponese, mentre dall’altra parte produsse
la tecnica allarmante del ju-jitsu e del kenjutsu, e i rigorosi principi del
Bushido, il codice cavalleresco dei samurai.

Ciò che soprattutto conta è acquistare un certo atteggiamento mentale


che si chiama “ immobile saggezza”.
Immobile non significa essere rigidi, pesanti e privi di vita come una
roccia o un pezzo di legno. Significa il grado più alto di mobilità intorno
ad un centro che rimane immobile. La mente raggiunge allora il più alto
grado di alacrità, attenta a dirigere la sua attenzione dovunque sia
necessaria. Vi è un centro immobile, che però procede, spontaneamente,
insieme alle cose che gli si presentano davanti. Lo specchio della
saggezza le riflette istantaneamente l’una dopo l’altra, rimanendo in sé
intatto e non turbato.

Zen: vitalità intensa su un fondamento di pace perfetta. La mente non


controllata logora la sua forza in preoccupazioni innumerevoli,
distrazioni, pensieri oziosi, invece di dedicarsi a una cosa per volta, e per
questa ragione non porta mai a perfezione ciò che ha intrapreso a fare,
perché non ha ancora cominciato una cosa che la lascia per correre
dietro a un’altra, esaurendosi in un pauroso spreco di attività. In
confronto, l’attività del taoista e del buddista zen può sembrare
irrilevante, ma solo perché egli tiene forze di riserva; la sua calma è il
risultato di un atteggiamento spirituale di concentrazione su un punto
solo; egli prende una cosa come viene, la esaurisce e passa alla prossima,
ed evita così tutto l’inutile correre avanti e indietro, preoccupandosi del
futuro e del passato, con cui l’attività rende vana se stessa.

L’economia di forza è il principio zen di “ andare avanti dritti”, nella vita


come nell’arte lo zen non spreca mai energie per fermarsi a spiegare:
indica soltanto.

“ Non vi era volgare ricchezza di colori vivaci nel giardino giapponese,


perché il gusto zen voleva tinte dolci e riposanti; e i giardinieri
giapponesi divennero così abili da saper creare, in pochi metri quadrati,
l’impressione di una tranquilla e solitaria vallata montana”.

Se qualcuno sospettasse lo zen di sentimentalismo, i suoi sospetti


saranno immediatamente messi a tacere da un’ esame della vita dei
samurai. In netto contrasto con il quietismo del culto del tè, lo zen
diventa feroce e tempestoso quando si esprime nel ju-jitsu e nel
kenjutsu, benché anche qui ci sia una fondamentale calma, più simile però
alla solidità di una roccia possente che a un poetico distacco. Il ju-jitsu è
fondato sui due principi del wu-wei e dell’andar dritti innanzi, cioè
dell’immediata successione di attacco e difesa. Dunque quanta più forza
uno impiega nel cercare di sconfiggere un’ esperto di ju-jitsu, tanto più si
espone a esserne colpito. E’ come dare grandi spallate contro una porta
dalla serratura debole: si apre di colpo e ti fa’ cadere a terra. In questo
modo, il combattente di ju-jitsu è come la vita stessa: cercate di
afferrarlo e di buttarlo a terra perché non abbia più potere su di voi, ed
egli non è più là. Per passare al secondo principio ( successione immediata
di attacco e difesa )troviamo che nel ju-jitsu non si può avere successo
se si lascia tra due movimenti il più piccolo intervallo. Se uno si ferma per
una frazione di secondo a pensare a una contromossa, l’avversario ha
tempo di riprendere l’equilibrio: perché l’unico modo per sconfiggerlo sta
invece nel cedere esattamente al suo attacco così come lui lo fa.

Il bravo lottatore deve essere sfuggente come la verità dello zen; deve
fare di sé stesso un Koan: un’ enigma che scivola via quando più uno è
certo di risolverlo; deve essere come l’acqua, che sfugge di fra le dita a
coloro che cercano di stringerla. L’acqua non esita prima di cedere,
perché non appena le dita cominciano a chiudersi essa fugge via, non per
forza propria, ma esercitando la pressione utilizzata su di lei. Nel ju-
jitsu i due combattenti si muovono perciò come un’ uomo solo; attacco e
difesa sono un solo movimento e non c’è sforzo, né resistenza, né
esitazione.

Con la respirazione e la concentrazione, come si può ottenere in zazen, ci


addestreremo quindi a mantenere il nostro kokoro nella regione
addominale, senza mai però tenervelo prigioniero.

Dalla coordinazione del corpo e dello spirito nasce un’energia eccezionale


che è il prodotto delle capacità mentali e dei mezzi fisici di un individuo,
ben superiore alla sola potenza del sistema muscolare. Senza l’intervento
dello “ spirito” la resistenza fisica si può opporre unicamente alla potenza
dell’avversario: quindi la più grande delle due prevale.

Ora, la matrice dello spirito, il potere di concentrazione e lo sviluppo


dell’influsso nervoso, esplosione delle forze interiori,non si acquisiscono
che con una lunga pratica, metodica e sistematica, molto più severa che
l’applicazione puramente fisica delle diverse tecniche. La pratica deve
essere basata, sin dall’inizio, sullo studio della meditazione, della
concentrazione e della respirazione.
Attraverso zazen, e solo così, i vostri muscoli e i vostri tendini, nella
giusta tensione, possono influenzare il parasimpatico e l’ortosimpatico. Le
loro funzioni sono opposte ma complementari e, se la vostra tensione è
corretta, equilibrerà le loro due forze.

Si tratta di studiare una serie di passaggi formativi che predisporranno


alla acquisizione della centralizzazione e della estensione dell’energia, al
loro sviluppo, al loro consolidamento, e alla loro utilizzazione. Si può
iniziare con zazen, che è anche usato nella corrente buddista per gli
esercizi di meditazione e concentrazione con i quali si cerca
l’illuminazione interiore: il Satori.

Quindi: concentrazione e meditazione. Inspirare ed espirare


aritmicamente, ampliandone la durata. Inspirare restringendo il flusso di
aria attraverso le narici, il perfetta decontrazione, espandendo
progressivamente l’addome. L’aria viene trattenuta per un periodo
equivalente, prima di espirare con la medesima calma e il medesimo
controllo; e la cavità addominale si rilassa.

1) Regolazione del corpo. 2) Regolazione del respiro. 3) Regolazione della


mente.
In Giappone si è sempre affermato, fin dai tempi più antichi, che per
realizzare il Samadhi, concentrazione della mente su un unico oggetto, è
necessario mettere ordine al corpo, al respiro e alla mente.

Ricordate poi che una buona respirazione vi permette di controllare il


vostro sistema endocrini, il cuore e la circolazione. Vi accorgerete che il
vostro corpo è un mondo meraviglioso che può essere stato pensato e
creato solo da un Ente superiore e che Dio ha concesso a tutti di
conoscerlo a patto che ognuno lo studi con Amore e lo viva con tutta
l’anima.

Che altro facevano i monaci zen con le loro discipline interiori e le loro
solitudini? Essi riacquistavano un senso della prospettiva temporale che
consentisse loro di guardare, oltre il vedere e così vedevano l’invisibile e
numeravano l’Eterno. Ma l’uomo ha scoperto anche che non può vivere a
ritroso, che la vita non può essere ripetuta; ebbene, perché non scopre
che anche il respiro, che è l’essenza della vita stessa, non può essere
ripetuto? Perché non vivere il proprio Budo per vivere meglio?

Satori: uno stato dell’essere che va al di là di chi lo possiede. Rendersi


conto delle cose ed e agire di conseguenza sono una realtà unica: il
momento in cui la mente Shin e l’intuizione Kan diventano una cosa sola. Il
concetto di Do implica armonia e la realizzazione del Do sta nel Satori.
Dove c’è armonia non può esserci che comprensione, quindi la mente del
praticante diventa Fudoshin – la mente inamovibile.
Se la postura e la respirazione sono giuste, lo spirito troverà
naturalmente la sua condizione.

In genere noi non amiamo molto ciò che si ripete; alcuni anzi non
rifarebbero mai la stessa cosa per due volte di seguito, mentre è proprio
la ripetizione che mobilizza l’inconscio profondo.

Elevate la vostra mente il più in alto possibile: presto o tardi una scintilla
della Mente Universale balenerà fra gli opposti che sono in voi e li
distruggerà. Così se si pratica con questo spirito, si può praticare un
giorno, una notte, oppure lo si può fare per tutta la vita.

Prajna può essere definita “ saggezza trascendentale”.

L’uomo è un’essere pensante, ma le sue grandi opere vengono compiute


quando non calcola e non pensa.

Il Buddismo Dhyana ( Zen ), questa specie del buddismo, non vuol essere
speculazione, ma diretta esperienza di ciò che, in quanto fondo senza
fondo dell’essere, non può essere concepito intellettualmente, anzi non
può essere afferrato o spiegato neppure dopo che se ne è fatta
esperienza, per quanto precisa e inoppugnabile: lo si conosce non
conoscendolo. Per amore di queste esperienze decisive, il buddismo zen
segue vie che per mezzo di una meditazione praticata metodicamente
devono condurre a scoprire nel più profondo dell’anima quell’indicibile
senza fondo né forma, anzi a divenire tutt’uno con esso. Riferito al tiro
con l’arco, questo significa, sia pure con definizione provvisoria e perciò
discutibile, che gli esercizi spirituali a cui solo si deve che la tecnica del
tiro con l’arco diventi arte, e, se possibile, trovi il suo compimento come
arte senz’arte, sono esercizi mistici.

Uno degli elementi essenziali nell’esercizio del tiro con l’arco e delle altre
arti che vengono praticate in Giappone è il fatto che esse non perseguono
alcun fine pratico e neppure si prefiggono un piacere puramente estetico,
ma rappresentano un tirocinio della coscienza e devono servire ad
avvicinarla alla Realtà Ultima. Così il tiro con l’arco non viene esercitato
soltanto per colpire il bersaglio, la spada non si impugna per abbattere
l’avversario, ma anzitutto perché la coscienza si accordi armoniosamente
con l’inconscio. Nel caso del tiro con l’arco questo significa che il tiratore
e il bersaglio non sono più due cose contrapposte, ma una sola realtà.
L’arciere non è più consapevole d’essere uno che ha da colpire il bersaglio
davanti a lui. Ma questa condizione di inconsapevolezza egli la raggiunge
solo se è perfettamente libero e distaccato da sé, se è tutt’uno con la
perfezione della sua abilità tecnica. E’ una cosa tutta diversa da ogni
progresso che potrebbe essere raggiunto nell’arte del tiro con l’arco.
Questa cosa diversa che appartiene a tutt’altro ordine di cose, viene
chiamata Satori.

Satori è intuizione, che però differisce da tutto ciò che generalmente


viene chiamato intuizione. Perciò sarà intuizione Prajna. Ma anche questa
espressione non rende tutte le sfumature contenute nella parola, perché
Prajna è un intuizione che afferra immediatamente la totalità e
l’individualità di tutte le cose. E’ un’intuizione che senza alcuna
riflessione riconosce che lo zero è infinito e l’infinito è zero; e questo
non s’intende in senso simbolico o matematico, ma è un’esperienza per
percezione diretta. Perciò Satori, in termini psicologici, è un’altre i
confini dell’Io. Da un punto di vista logico è scorgere la sintesi
dell’affermazione e della negazione, in termini metafisici è afferrare
intuitivamente che l’essere è il divenire e il divenire è l’essere. Non
appena noi consideriamo, riflettiamo e formiamo concetti,
l’inconsapevolezza originaria và perduta e sorge un pensiero. Dobbiamo
ridiventare come bambini attraverso lunghi anni di esercizio nell’arte di
dimenticare sé stessi. Quando questo è raggiunto, l’uomo pensa eppure
non pensa. Pensa come la pioggia che cade dal cielo; pensa come le onde
che corrono sul mare; pensa come le stelle che illuminano il cielo
notturno; come le foglie verdi che germogliano sotto la brezza
primaverile. Infatti è lui stesso la pioggia, il mare, le stelle, il verde.
Quando l’uomo ha raggiunto questo grado di sviluppo spirituale è un
maestro zen della vita.

Forti delle esperienze fatte su di sé e sui loro allievi, i maestri danno per
provato che il principiante, per quanto forte e combattivo, per quanto
coraggioso e intrepido sia per natura, all’inizio dell’insegnamento perde
insieme alla spontaneità anche la fiducia in sé stesso. Ora impara a
conoscere tutte le possibilità tecniche che nel combattimento mettono a
rischio la vita, e per quanto sia presto in grado di affinare al massimo la
sua attenzione, di osservare acutamente il suo avversario, di parare a
regola d’arte i suoi colpi e di fare degli assalti efficaci, si trova peggio di
prima, quando esercitandosi tirava colpi alla ventura, secondo
l’ispirazione del momento e del suo ardore combattivo un po’ per gioco, un
po’ sul serio. Ora deve ammettere di essere inferiore a ogni avversario
più forte, più agile e più esperto, accettare di essere esposto ai suoi
colpi sicuri e spietati. Non vede altra via se non di esercitarsi
indefessamente, e anche il suo maestro non sa dargli altro consiglio. Così
il principiante fa di tutto per superare gli altri e anche sé stesso.
Acquista una tecnica stupefacente, che gli restituisce una parte della
sicurezza perduta e si sente sempre più vicino alla meta agognata. Ma
come mai non va più oltre? Dipende dal fatto che egli in combattimento,
fa ricorso a tutta la sua arte e a tutta la sua scienza. Quanto più farà
dipendere la superiorità del suo combattimento dalla sua riflessione, dal
consapevole impiego della sua abilità, della sua esperienza e della sua
tattica, tanto più ostacolerà il libero gioco dell’azione “ del cuore”. In che
modo si ripara a questo? In che modo l’abilità diventa “ spirituale”?
In che modo la padronanza assoluta della tecnica si trasforma nell’uso
magistrale di essa? Solo con l’abbandono dell’intenzione e dell’Io, è la
risposta. L’allievo deve imparare a staccarsi non solo dall’avversario, ma
anche da sé stesso. La perfezione nell’arte del combattimento consiste in
questo: che nessun pensiero dell’Io e del tu, dell’avversario e della sua
stazza, della propria tecnica e del modo di usarla, e persino della vita e
della morte turbi il suo cuore. “ Tutto è dunque vuoto: tu stesso, la spada
sguainata e le braccia che la guidano. Anzi non c’è più nemmeno il
pensiero del vuoto”. “ Da tale vuoto assoluto sboccia meravigliosamente
l’azione”.

Come il principiante il maestro è senza paura, ma a differenza di questi


diventa ogni giorno meno accessibile a ciò che spaventa. In lunghi anni di
ininterrotta meditazione, ha appreso che vita e morte sono in fondo la
stessa cosa e appartengono allo stesso piano di destino. Così non sa più
cosa siano l’angoscia della vita e il timore della morte. Egli vive volentieri
nel mondo, ma è pronto ad abbandonarlo senza lasciarsi turbare dal
pensiero della morte. Chi non conosce per propria esperienza la forza che
dà una seria e costante meditazione non può immaginare ciò che essa
rende capace di superare. Il perfetto maestro rivela ad ogni passo, non a
parole ma col comportamento, l’assenza della paura.

La via delle arti marziali ( Budo ), ha lo scopo di perfezionare l’individuo


integrando mente, corpo e spirito.

L’allenamento e la disciplina comuni a tutte le Vie, marziali e culturali,


richiedono tre livelli di padronanza: fisica, psicologica e spirituale. A
livello fisico la padronanza della forma ( kata ) è il fulcro
dell’allenamento. Il maestro fornisce un modello, l’allievo osserva
attentamente e lo, ripete innumerevoli volte fino ad aver assorbito
completamente la forma. L’allievo giunto alla completa padronanza della
forma, viene infine liberato dall’aderire ad essa.

La padronanza spirituale è inseparabile da quella psicologica, ma sboccia


solo dopo un lungo e intenso periodo di allenamento.

Si diventa vulnerabili quando ci si ferma a pensare alla vittoria, alla


sconfitta, alla tattica, quando si tenta di impressionare l’avversario o lo
si disprezza. Quando0 la mente si ferma, anche per un solo istante, il
corpo si gela ed il movimento libero e fluido diventa impossibile.

La dura disciplina fisica, comunque, non può essere separata dallo


sviluppo mentale e dalla reale crescita spirituale.
Attraverso un allenamento costante della mente e del corpo, il Ki
individuale si armonizza con il Ki universale, e tale unione appare nel
dinamico, fluido movimento della forza-del-Ki che è libera e fluida,
indistruttibile e invincibile.

Rendere la mente potente, utilizzando il ritmo mediante tecniche piene


di forza e cedevolezza è prova di maestria.

Il respiro dell’uomo controlla i suoi pensieri ei movimenti del suo corpo.

Nen significa concentrazione, focalizzazione, momento di riflessione. Il


primo scopo dell’allenamento,è di disciplinare continuamente lo spirito,
affinare il potere del Nen e unire corpo e mente. Questa è la base per lo
sviluppo del waza, che a sua volta si rivela eternamente attraverso il Nen.
Il maestro Ueshiba insegnò che lo sviluppo del Nen significa
concentrazione dello spirito in un ‘unico punto,cercando così l’unione con
la Realtà universale che ci ha portato in questa vita terrena.

La mente calma è come il centro quieto di una trottola vorticosa; in virtù


del centro quieto la trottola è in grado di girare senza sforzo e
rapidamente. Sembra quasi che sia immobile.

Il principio che il morbido controlla il duro, il flessibile prevale sul rigido,


mutuato dal ju-jitsu classico, fu trasmesso nell’aikido con una differenza
fondamentale. Nell’antico ju-jitsu si insegnava: “ Quando vieni spinto ,
tira indietro, quando vieni tirato spingi avanti”. Nei movimenti sferici
dell’aikido ciò diviene: “ Quando vieni spinto girati ruotando su un perno,
quando vieni tirato, entra girando”.

Attraverso la dedizione, l’allenamento e l’approfondimento, si arriverà a


possibilità divine.

L’esibizionismo e le smargiassate sono solo dimostrazione di ignoranza su


ciò che il vero Budo racchiude e di fatto, un’infantile tentativo di
mascherare una mancanza di sicurezza. Chi davvero conosce il Budo,
tiene un contegno tranquillo e rilassato, dando anche l’impressione di
essere sensibile e gentile. Chi ha vera confidenza col Budo non mena
vanto né si esibisce e si comporta sempre in modo educato e gentile.
All’esterno mostra delicatezza; dentro ha una grande forza. Nella vita di
ogni giorno è semplice e modesto e agisce in modo naturale, mai con la
forza. Si mostra com’è, vivendo con naturalezza e spontaneità.
Quando si prova il caldo e il freddo direttamente sul proprio corpo, si
impara a reagire ad essi e si impara come bisogna comportarsi durante
l’allenamento in condizioni avverse e poco confortevoli. Questa intimità
con la natura e col proprio corpo è il primo passo per arrivare a
conoscere le vie della natura.

Tutte le parole, sono reti che intrappolano il flusso della vita, e lo zen le
considera un male necessario, talora inutile. La vita non si arresta e lo
zen è vita. Una goccia d’acqua corrente diviene morte se rimane chiusa
nel pugno della mano. Perché trattenerla?

Lo zen è comprensibile solo mediante l’intuizione; è al contempo stesso il


risveglio dell’intuizione e l’intuizione stessa.

Lo zen è, praticamente, un modo di percepire la realtà dell’universo senza


alcuna mediazione, sia pure del nostro intelletto; anzi, la lotta più grande
che lo zen possa combattere è proprio contro la nostra capacità
analitica, che astrae, spezzetta, sminuzza la complessità del reale in
fatti singoli, e perciò analizzabili.

Lo zen spiega: vivi, agisci spontaneamente, immerso nel flusso del


divenire dell’universo, e non pensare di poter definire che cosa sia.

Il Satori è il punto di arrivo dello zen; al contempo, perché ci sia zen,è


necessario il Satori. E’ un momento di rovesciamento e di tutto quello che
si conosce, un fatto sconvolgente che cambia completamente la nostra
ottica sul mondo. Perché vi sia Satori è necessario che la mente sia
sgombra da ogni pensiero, che sia attiva spontaneamente, che agisca da
sola senza alcuna mediazione, sia pure dell’intelletto.

IL Satori comunque arriva da solo. Non è possibile procurarselo


artificialmente, ad esempio con la meditazione. Se la meditazione ci può
aiutare gradualmente a giungere alla tranquillità, il Satori è sempre un
fatto improvviso. Per coglierne la percezione è necessario che la mente
sia pura, libera, in stato di assoluto riposo; questo non può accadere in un
a situazione di artificiale concentrazione. Perché giunga il Satori è quindi
necessaria la più grande tranquillità, o meglio la purezza della mente. E
nessuno sforzo. LO sforzo deve essere spontaneo, di desiderio non di
volontà; solo così vi sarà il Satori. Perché, questa è l’utilità, questi sono i
frutti dello zen: “ Grandi azioni, una grande arte ed una grande cultura e-
cosa più importante- uomini grandi”.
Lo zen ci dice: “ Se hai un problema affrontalo, non lambiccarti il
cervello!” e qualsiasi ostacolo affrontato praticamente cessa di esistere
come problema.

Ma cos’è questo zen? Nulla di trascendentale, anzi qualcosa di tanto


semplice che la nostra mente, avvezza alle contorsioni intellettuali,non
riesce a mettere a fuoco.

La logica è una costrizione che attanaglia la nostra mente, che non la


loscia sviluppare naturalmente.

Lasciamo che le nostre azioni ci sgorghino spontaneamente, senza alcuna


tensione, ed acquisteremo una tranquillità che mai avremmo supposto si
potesse raggiungere. “ La vita è un’arte e come un’arte va vissuta, così
come un uccello si libra nell’aria ed un pesce nuota nell’acqua”.

Lo zen, l’intuizione. Viene dopo la logica, non senza di essa. E’ la ragione,


la logica che dobbiamo aver esasperato, portato al suo massimo livello,
prima di iniziare la nostra esperienza zen.

Le applicazioni dello zen, nel ju-jitsu per esempio: in quest’arte marziale,


non vi è uso di forza bruta; il .lottatore, anzi sfrutta l’impeto
dell’avversario; così nel kendo non c’è tempo di fermarsi a riflettere: le
braccia devono muoversi da sole e parare i colpi dell’antagonista, nello
stesso modo in cui la nostra gamba da sola si alza, quando un dottore, per
esaminare i nostri riflessi, ci percuote la rotula con il martelletto.

Con lo zen, riusciamo ad essere padroni di noi stessi così che tutto
diviene per noi più semplice e spontaneo, e non abbiamo più problemi di
sorta. E per raggiungere questi risultati non è neppure sufficiente
praticarlo, basta averne compreso il significato.

Lo zen, ha molteplici aspetti positivi; il primo è il favorire la salute fisica.


Creando, soprattutto mediante la pratica di zazen, un parallelismo
perfetto tra mente e fisico, lo zen ci mette in grado di conoscere
perfettamente cosa ci abbisogna e cosa dobbiamo evitare. “ Se hai fame
mangia; se hai sonno dormi.” Lo zen ci insegna paradossalmente a fare ciò
che realmente vogliamo, perché ci libera da tutti i nostri
condizionamenti, sia fisici che mentali. LO zen, infatti consiste proprio
nel vivere la vita spontaneamente, come si ha voglia di viverla, ma come
se ne ha realmente voglia.
Lo zen non annulla né esclude i problemi, ma ne elimina la conseguenza più
deleteria: l’interiorizzazione mentale. Tutti avremo, io credo, notato che
ciò che più ci stressa di un problema non è tanto il fatto di per se stesso,
quanto la problematica che si viene a creare in noi come conseguenza.
Ora, questo è proprio ciò che lo zen ci insegna a tralasciare, la
riflessione, che a nulla serve, il più delle volte, se non a ritardare l’azione,
e quindi il momento nel quale uscire da questa impasse negativa.

Coloro che praticano lo zen, non sono né incoscienti che non si curano di
nulla,né esseri superiori senza problemi: sono esseri umani come tutti gli
altri, che sanno far fronte alle avversità senza perdersi d’animo. C’è un
problema, che so io, qualcosa da pagare, una malattia, o altro ancora?
Preoccuparsi non serve a nulla, agiamo ed affondiamolo con serenità;
prima ci saremo decisi ad agire, prima avremo superato l’ostacolo.

Vivere come lo zen ci insegna, senza attenerci a nulla di positivo, ma


adattandoci a seguire le circostanze, che mutano in continuazione. E
questo cos’è se non il Wu-wei, il principio del Tao che costituisce l’unica
verità dello zen?

Secondo lo spirito dello zen non si può compiere nulla bene se la mente è
rivolta ad altro oltre quello che si sta facendo.

Come riuscivano per mezzo dello zen, i samurai, a superare la paura della
morte? Semplice: tutte le religioni professano la fede di una vita oltre la
morte; ma mentre la maggior parte di esse impone di credere a questo
fatto, lo zen, che è esperienza, ne può dare la certezza. Il Satori,
l’illuminazione, consiste proprio nell’avere questa visione integrale. Chi
abbia percepito anche per un solo attimo, la sua appartenenza al mondo, e
l’appartenenza del mondo a lui in questi termini, avrà compreso che
parlare di morte individuale è un non senso, che non si può mai perire. La
morte è, la vita è, tutto è, senza alcuna definizione: compreso questo, è
compreso lo zen. Oltre a questo, è importante risalire alla concezione
dell’Ora nello zen.SE ogni istante da vivere senza coscienza alcuna né di
passato né di avvenire, solo nel momento della morte noi la potremo
percepire, né prima né dopo. E questo spazio infinitesimale, non ci
spaventa.

Lo zen è l’essenza della vita stessa: sta a noi coglierne la percezione.


Quale che siano i suoi frutti, maturano nella mente di ognuno. Siamo noi i
nostri maestri, lo zen soltanto, ci indica la via.
Lo zen è una via di liberazione, un’igiene mentale che agisce su di noi con
un’opera di sfrondamento, di pulizia quasi, della nostra mente, non una
scienza positiva che ci imprigiona in altri vincoli dottrinali, con l’alibi di
istruirci. Per questo tutte le parole dette o scritte sullo zen sono parole
in più, se, invece di negare affermano positivamente: ogni nostra
asserzione coglie la realtà in un momento particolare, cristallizzandola e
limitandola. Ma essa è in continuo movimento, e non si può uccidere con
una definizione. “ Le parole non sono che segni sulla carta o suoni
nell’aria; alla fine la diretta immediata esperienza dello zen può essere
raggiunta solo attraverso un duro costante lavoro, nell’esercizio della
vita.”

Bisogna includere almeno un esercizio di respirazione zen nella vita


quotidiana. Uno dei metodi è quello di ridurre il numero dei respiri
prolungando l’espirazione. Espirare lentamente attraverso il naso e
inspirare rapidamente attraverso il naso, fino a che la frequenza non
raggiunga il ritmo di quattro -cinque respiri al minuto. Gli effetti di una
riduzione della velocità di respirazione, non si limitano solo al corpo, ma
si estendono alla mente e alle emozioni. Se si ristabilisce il ritmo della
respirazione, la mente si calma, l’ansia si allontana, e anche per il timido,
risulta più facile affrontare una situazione difficile.

Il metodo zen per il controllo del corpo mira a sviluppare la calma


nell’azione e l’azione nella calma. Questo è vero, sia che la persona sia
seduta in perfetta tranquillità, sia che si trovi impegnata in una azione
fisica violenta.

La posizione deve essere prima di tutto stabile. In secondo luogo non


deve essere né scomoda né sforzare il corpo, poichè per sviluppare i
controlli fisici e mentali, che costituiscono il fine principale dello zazen,
bisogna conservarla per almeno 15 – 20 minuti.

La meditazione zen, non è considerata davvero efficace a meno che non


includa tutti e tre questi elementi: respirazione, postura e mente, che
sono però trattati insieme come un’unica entità indivisibile; le tre
pratiche insieme danno benefici enormi.

Hishiryo non è né pensiero né non-pensiero; è tutti e due allo stesso


tempo, senza essere nessuno dei due; ma significa anche la capacità di
concentrare la mente su una cosa sola, escludendo ogni elemento di
distrazione. Bisogna essere capaci di concentrarsi in questo modo in ogni
momento, in ogni luogo. La concentrazione è allo stesso tempo un fine e
un mezzo. Negli stadi iniziali la concentrazione cosciente è un fine, ma in
seguito porta a uno stato di hishiryo superiore e alla generosità della
mente.
Uno degli aspetti fondamentali della meditazione zazen consiste nel
rendere la mente estremamente fluida e libera dall’ossessione di ogni
oggetto di pensiero particolare. Lo zen insegna che non bisogna farsi
ossessionare da alcunché; ma insegna anche un altro metodo, in cui tutta
la propria attenzione viene focalizzata su una sola cosa. Questa
concentrazione si chiama Sammai in giapponese e Samadhi in sanscrito.

Quando una persona insoddisfatta per una propria lacuna tende ad


ignorarla, lasciandosi distrarre da altre cose, è probabile che non
riuscirà mai a correggerla. Se invece si concentra su quello che non va
farà presto del progressi nella direzione sperata.

L’obbiettivo della concentrazione zen è quello di manifestare la natura


del Buddha prima allenando la mente a concentrarsi inconsapevolmente
su un’ oggetto prefissato, poi portandola, a poco a poco, a concentrarsi su
nessun oggetto in particolare.

Per raggiungere livelli di meditazione profonda sono di grande aiuto i


sistemi zazen per il controllo della respirazione e della postura; umiltà e
calma inoltre, favoriscono questa discesa all’interno.

Secondo gli insegnamenti zen, bisogna sempre essere padroni della


situazione. Ciò significa, che si debba sempre poter vedere la situazione (
e se stessi ) da un punto di vista distaccato.

Ecco i punti principali de metodo zazen per il controllo mentale. In primo


luogo padroneggiare la tecnica di concentrazione. Quindi aumentare la
capacità di concentrazione passando dalla concentrazione cosciente alla
concentrazione inconscia. Infine per evitare di venir ossessionati da un
singolo oggetto a esclusione di tutto il resto, allenarsi a spostare la
propria da un oggetto all’altro.

Assopirsi o assumere posizioni scorrette è severamente proibito ma non


è possibile fermare i pensieri irrilevanti; e il metodo zazen consiste nel
lasciare che entrino nella mente quando vogliono, cercando poi di
controllarli.
Il vero significato dello zazen è quell’ unificazione spirituale che si
realizza quando i pensieri esterni, motivo di distrazione, si allontanano
senza che il soggetto si renda conto della loro partenza. Lo zen insegna
che si deve passare attraverso la fase dei pensieri distraesti e delle
catene di associazioni mentali, prima di poter entrare nel regno della
tranquillità e del non-pensiero, che è uno degli obbiettivi dello zen, e
prima di poter dedicare tutta la propria mente a una sola cosa, un solo
oggetto. Il metodo delle catene di associazioni, è un metodo in cui si deve
mantenere la concentrazione su un determinato oggetto permettendo
tuttavia al pensiero di seguire schemi associativi.

I commenti sui benefici dello zen non sono venuti esclusivamente da


religiosi; Katsu Kaishu, uno dei leader del movimento di modernizzazione
del Giappone, attribuiva il proprio successo all’esercizio compiuto con la
spada giapponese e allo zazen.

Noi possiamo decidere la nostra vita vivendola in questo atteggiamento.


Facendo dei doveri quotidiani la nostra pratica, affrontando con coraggio
i terremoti emotivi e vivendoli volontariamente. Filtrando e rifiltrando la
sofferenza, seguiamo le orme del Buddha.

Avvertiamo come un problema il fatto che non tutto sia come ci piace; Più
siamo viziati, più il,minimo contrattempo ci disturba. Pensiamo
erroneamente che tutto andrebbe per il meglio se solo potessimo fare
sempre come ci piace. Se tutto andasse come vorremmo, allora si
saremmo soddisfatti, appagati ecc. Un ulteriore osservazione chiarirà
che non potendo disporre delle cose a modo mio, il problema non sta nelle
cose, ma in me. Invece di continuare la caccia alle cose esterne, sposto la
mia attenzione sul costruttore di problemi, l’Io.
Decidiamo di intraprendere la Via dello Zen: non occorre preparare piatti
speciali, la routine quotidiana è quanto basta. Unica avvertenza: stabilire
a priori l’ora di alzarci e di coricarci. E’ essenziale attenersi a regole
precise, senza lasciarsi andare al “ così mi piace”, “ così mi sembra
meglio”: Lasciare le cose come stanno ed eseguirle al meglio delle proprie
capacità. Limitando una parte dell’abituale pretesa di manipolare le cose,
sarà naturale e inevitabile una reazione nei confronti della disciplina. Fa
parte della pratica. Le limitazioni sono briglie che ci insegnano ad agire
efficacemente in condizioni di scelta ridotta, ih quelle che vengono
sentite come circostanze avverse. La disciplina ha inoltre il fine di
imparare a riconoscere, accettare, affrontare e vivere le reazioni
negative senza esprimerle e senza reprimerle, ponendoci volontariamente
di fronte ad esse. E’ un atteggiamento che non sarà sottolineato mai
abbastanza, e per poterlo capire appieno bisogna farne la viva
esperienza. IL secondo aspetto, vivere coscientemente i problemi
emotivi, ingenera il primo, la capacità di agire efficacemente in ogni
situazione.

La disciplina affronta il fatto in modo opposto. Comportamento difficile


perché estraneo e sconosciuto; anzi proprio quello che ci siamo guardati
dal fare. La decisione stessa di praticare, può scaturire dall’intento di
continuare l’abitudine inveterata della fuga. Ma la disciplina si rivela a
sorpresa il contrario di ciò che aspettavamo.

Non è facile spiegare esattamente come iniziare la pratica; solo provando


per un certo tempo, e accumulando così alcuni dati concreti ed
esperienziali, mi è possibile condurre l’Io fuori del cammino usuale e
cambiare a poco a poco la direzione. Tutto ciò che pensiamo e crediamo,
l’abbiamo appreso attraverso la familiarità con un modello q suo tempo “
nuovo”, divenutoci noto man mano che ne facevamo esperienza. Imparare
ad andare in bicicletta, suonare il pianoforte, leggere, esprimersi in una
lingua…sono processi che richiedono continue e continue ripetizioni
prima che si sia in grado di padroneggiarle.

L’inconcepibile e l’inimmaginabile sono appunto ciò che non possiamo


immaginare né concepire, il completamente altro, al di fuori dell’abituale
schema di riferimenti.
Si possono descrivere i colori a una persona cieca dalla nascita?
L’azzurro è soltanto una frequenza luminosa che percepisco come
azzurra; se sono daltonico, percepirò come verde la stessa lunghezza
d’onda che gli altri percepiscono come rossa. Siamo pigri. Raramente ci
prendiamo fastidio di esaminare le cose in profondità; altre volte
evitiamo di farlo perché temiamo i risultati siano spiacevoli; eppure è
questo il campo d’azione dell’intelletto, non lo scorrazzare nelle praterie
dei sentimenti e delle emozioni, dove si scopre costituzionalmente “
cieco”.

Il solo modo per concepire l’ignoto è la propria esperienza dell’ ignoto. Il


maestro Hakuin fa questo esempio: chi non ha mai visto il mare, e voglia
sapere che gusto ha l’acqua marina, spreca solo tempo speculandoci
sopra. L’unico modo è arrivare al mare, intingere il dito e passarci sopra
la lingua. All’istante, dice Hakuin, conoscerà il sapore dei sette oceani; la
prima sorpresa che attende l’IO che si pone sulla Via è che l’Io non la può
capire.

Poi succede che la pratica si presenta in modo totalmente diverso da


come mi sarei aspettato. Non è questo che volevo e, sotto un certo
aspetto è vero. Più mi afferro alle mie gradevoli rappresentazioni, più mi
metto in posizione di debolezza. Rischio di non volerle abbandonare, di
restarci disperatamente aggrappato. Con ciò smetto e abbandono la
pratica. Se invece sono abbastanza umile da accettare il rovesciamento,
la detronizzazione dei miei parametri, e abbastanza paziente da
concedere alla pratica un periodo di prova, emergono cose insospettate.
Decidendo di vivere la vita quotidiana così com’è, nella sua routine,
accettando quello che viene di volta in volta e affrontandolo al meglio
delle mie possibilità, sorgono immediatamente i problemi. Intanto tale
accettazione di circostanze , situazioni richieste, non è ancora un fatto
acquisito, e tenderò a pormele come obbiettivo. Non si tratta di
inventare un problema in più, perché in ogni caso sono situazioni che
vanno affrontate. Consideriamo che gli eventi non sono miei, non cadono
nel mio ambito decisionale. Ciò che è mio sono le reazioni agli eventi. Ciò
che devo e con cui devo familiarizzare, sono le mie reazioni emotive, le
resistenze contro ciò che non mi piace. Mi appartengono, anche se
preferirei non averle e ho perciò sviluppato strategie apposite per non
vederle. Le sento come ostacoli e fattori perturbanti. IL primo passo
della pratica è familiarizzarsi con la costellazione emotiva. All’inizio è
inevitabile che mi percepisca come soggetto agente ( “ io lo accetto”),
ricadendo nella dicotomia soggetto-oggetto con il conseguente
meccanismo di avvilimento se va male e insuperbimento se va bene. Se
l’IO insiste nel tentativo di appropriarsi dell’energia emotiva, la pratica
diventa presto noiosa e fastidiosa. E così smetto.

Che cosa vuol dire allora accettare reazioni e resistenze? Anzitutto non
rinnegarle, non rifiutarsi di vederle, perché è appunto il meccanismo che
innesca la presa emotiva su di noi. Di qui la necessità del ribaltamento.
Stiamo conversando piacevolmente e mi chiedete una tazza di tè: se
anche io ne ho piacere, trotterello allegramente in cucina a prepararlo.
Se invece sono assorbito in una lettura affascinante, occupato in
qualcosa a cui assegno grande importanza, la richiesta provocherà
opposizione: “ Accidenti sempre in questi momenti!”. Sono seccato perché
vivo un disturbo, infastidito dalla vostra mancanza di considerazione ( “
Ma non vedi che....? ); oppure ho uno scatto d’ira ( “ Fallo tu una buona
volta” ). Se mi scopro trascinato in queste reazioni, devo accettare di
aver fallito nella pratica per l’ennesima volta lasciando che le emozioni mi
travolgano. Non serve accusare l’altro perché la reazione è mia. Se invece
pratico seriamente, al più tengo la bocca chiusa, anche se sono tentato di
fare altrimenti. Quando la prima ondata di rabbia è passata, la pratica mi
fa accettare, nell’ordine, la mia reazione e la richiesta. Vado a preparare
il tè. La prima ripresa è vinta, ma il rischio è onnipresente. Mettendo
l’acqua sul fuoco, posso congratularmi con me stesso ( “ Come sono
gentile a preparare il tè per quel seccatore, che eccellente progresso
nella pratica !” ). E’ la solita strategia dell’Io che tenta di appropriarsi
dell’evento per rassicurarsi, e può farlo perché non viene prestata
abbastanza attenzione a quello che avviene dentro di sé. Se, astenendomi
dall’autoencomio, ho il coraggio di vedere le mie reazioni immediate,
riconosco che mi è penoso preparare quel maledetto tè, che in me c’è
rabbia. Bene, accetto la rabbia e preparo l’acqua, in piena consapevolezza
del ribollire di entrambe. Ecco la vera difficoltà: apprendere un
comportamento realmente estraneo, cioè mantenerci aperti alle reazioni
emotive e agire efficacemente.

Smettendo di ignorare gli stati d’animo per poter agire con efficienza
impariamo al contrario ad agire prontamente in uno stato d’animo
doloroso. Una reazione emotiva è un’onda di energia che sollevandosi,
costringe a risposte cieche, perché non illuminate dalla consapevolezza.
Se esplodiamo in una reazione di violenza, tanto fisica che verbale,
l’energia trova sbocco nella reazione e la tensione si sfoga. In mancanza
di una valvola, di sfogo, l’energia si ritorce contro di noi, ostacolando
l’azione. Ci contraiamo, restiamo bloccati. Più diamo sfogo alle reazioni,
più la soglia di tolleranza si abbassa e più diventiamo marionette delle
nostre stesse emozioni. Troppa permissività e un troppo facile sfogo
anche se danno luogo a un temporaneo allentamento della tensione, a
lungo andare peggiorano la situazione. D’altra parte, come ormai
sappiamo, neppure la repressione è la risposta giusta, perchè le emozioni
compresse, prima o poi scoppieranno e ci invaderanno sfruttando la
nostra mancanza di consapevolezza.

Sebbene l’Io rifugga da quello che sente come un doppio gravame,


ovvero agire con efficienza e vivere gli stai emotivi, proprio la “
sofferenza in azione” è il fattore trasformante: agisce sulle cause del
dolore, non solo sui sintomi. Vivere la sofferenza non è una risposta che
l’Io attiva a piacere ( così che un Io possa osservare sé stesso ), ma un
atteggiamento passivo, paziente e silenzioso, benché volontario; significa
essere aperti all’impeto delle emozioni, permettendo che gìrino e
macinino dentro di noi. La parte attiva dell’Io, non si prende carico di
questo processo, ma si occupa di sostenere lo sforzo di agire con
efficienza in tali condizioni, mantenendo la piena consapevolezza di
quanto accade. Questa è la pratica della vera accettazione. Non
aspettatevi di riuscire già al via: richiede perseveranza, tentativi, intoppi
ed errori, prima di essere veramente compresa. Un certo scoraggiamento
è naturale; non solo la pratica sembra davvero difficile, ma mi pare di
essere ancora meno consapevole del solito. Se padroneggiassi il lavoro
con le emozioni sin dall’inizio, come speravo ingenuamente, non ci sarebbe
bisogno di alcuna pratica. Un notevole passo in avanti è la comprensione
che per la pratica non basta un atto volitivo; il che riduce a più miti
consigli un’autostima forse priva del senso della realtà. Imparando
inoltre a non colpevolizzare gli oggetti esterni, incomincio a sospettare
che il mio vero ostacolo sono io. Se tutto va bene, questo sospetto
rappresenta il primo piccolo mutamento, il primo cedimento nella rigida
corazza dell’Io.

Non posso “ controllare” le mie tempeste emotive; posso soltanto viverne


la sofferenza. Non lascio che l’energia si dissipi in cieche reazioni, e non
le consento di intralciarmi nell’efficacia dell’agire, ma affronto e
sopporto, allora sviluppo la tolleranza, così come un’ allenamento fisico
sviluppa la forza e la resistenza muscolare. Tollero una quantità sempre
maggiore di energia emotiva, il contenitore si è allargato. Poiché c’è
meno resistenza, l’emozione è sperimentata sempre più come un’ afflusso
d’energia.

Sviluppa la flessibilità che deve accompagnarsi alla forza.

Ovviamente il toro è più forte dell’Io. Ovviamente è selvaggio e primitivo.


Ovviamente non ha intenzione di abbandonare la sua riottosità. Sr
davvero voglio domarlo mi aspettano tempi duri. Se ricorro alla forza
bruta mi si rivolterà contro, e senza dubbio vincerà tutte le riprese. Ho
quindi bisogno di una disposizione di salda perseveranza che a lungo
andare lo stremi. Gli devo restare accanto attaccato a lungo, anche se nel
frattempo mi sbatterà di qua e di là. In questo modo facciamo
conoscenza.

All’inizio occorre portare l’attenzione sulle piccole raffiche emotive degli


avvenimenti quotidiani, convivendo con esse mentre conserviamo la
capacità di agire efficacemente.

Facendo della vita quotidiana la vera pratica, agendo mentre rimaniamo


aperti alle emozioni, affrontando volontariamente l’erosione e la frizione,
con gli occhi bene aperti, inizieremo a cambiare.

La nostra mente turbina; cosa stupenda e tremenda.

La pratica richiede appunto risposta e impegno totali. Per familiarizzarci


con la pratica non c’è altro modo che praticare. Impegnarsi con tutto
l’essere, si rivela, inaspettatamente, un misto di audacia e obbedienza, la
giusta risposta alle circostanze o, più astrattamente, all’ordine delle
cose.

Di fronte a un pericolo, in situazioni d’emergenza, scatta una risposta


automatica in cui mi consegno totalmente, senza riserve, all’azione
immediata. Mi ci perdo. La pratica insegna ad agire così in ogni
circostanza e in piena consapevolezza. Attiva così l’” altro”, che non solo
può rispondere, ma effettivamente risponde.

Ogni volta che una reazione ci invade, ne accettiamo l’impatto,


l’affrontiamo volontariamente e in silenzio, in piena consapevolezza,
senza rifuggire dalla sofferenza che essa implica e senza chiudere gli
occhi per non vedere.

Non sarà mai sottolineato abbastanza che la pratica va affrontata e


portata avanti di propria volontà, con impegno e accettazioni totali, piena
consapevolezza e generosa partecipazione. Da un mero consenso formale,
da un’applicazione meccanica, niente fiorirà.

Perché allora lo zazen? Perché lo zazen aguzza la vista. Attraverso lo


zazen impariamo a vedere chiaramente, raggiungiamolo.la visione
intuitiva. Lo zazen non si può spiegare. Lo si impara e lo si comprende con
l’esperienza praticandolo. Esperienza vuol dire infatti pratica. Nello zen
esperienza vuol dire familiarizzare con, acquisire abilità nel fare
qualcosa. L’indispensabile è praticare. La pratica assume via via un
aspetto diverso da come lo immaginavo, da come pensavo e speravo. Non
posso assalire la meditazione frontalmente, devo accostarmi ad essa in
modo indiretto: sedere in una posizione adatta a indurre uno stato di
calma, su una salda base triangolare. Una postura corretta e stabile
costituisce la condizione più propizia per calmare il cuore.

Fantasticherie e sogni a occhi aperti non sono zazen; c’è un detto


giapponese: “ Invece di imparare, abituati a farlo”. La sola teoria non ha
effetti pratici. Perseverare nella pratica, abituarsi, risponderà alla
maggior parte delle domande.

E’ bene non mirare a sbaragliare o debellare i problemi, ma


semplicemente a viverli. La forza per superare gli ostacoli viene anche
qui dalla pratica quotidiana, che ci ha insegnato a sopportare e agire
normalmente anche in presenza di resistenze.

La cosa migliore è perseverare nella pratica con pazienza.Nella vera


meditazione si possono osservare i propri problemi senza la distorsione
dell’Io, e in questa chiara visione si presentano da sé le soluzioni da
trasporre direttamente nella vita quotidiana. In seguito, diventando uno
con tale stato, questi momenti non vengono sperimentati soltanto
sedendo sul cuscino di meditazione, ma incominciano a pervadere ogni
attività quotidiana, fino a trasformarle nel nostro quotidiano modo di
essere.

Nessuna esposizione della Via dello Zen è completa se non affronta il


tema della morte. Imparando a vivere pienamente, impareremo a morire
pienamente. Lungo la via dello zen perdo la paura dell’estinzione. La
meditazione ci familiarizza con il luogo del non-Io, non più soltanto
vissuto nel sonno, ma in piena consapevolezza. Anche la morte conduce al
luogo del non-Io e, alla luce di tale consapevolezza, morire è visto come
un compimento. Il figliuol prodigo è tornato a casa. Con la pratica
dell’accettazione della accettazione della vita quotidiana abbiamo
imparato a prendere e a utilizzare tutto ciò che c’è. Una cosa buona è
gustata con gratitudine finchè dura, ma non tentiamo più di trattenerla
quando si allontana: una cosa ardua è considerata alimento per la pratica
e usata con altrettanta gratitudine, invece di opporsi ad essa o sfuggirla.
Non rifiutiamo niente, viviamo tutto e impariamo tutto. Mi faccio più
duttile, la via verso casa si fa più chiara, il toro porta in groppa l’uomo.
Vivendo tutto fino in fondo, niente si accumula in forma di minaccia o di
paura. Si, la morte è un compimento. La Via dello Zen ce la pone di
fronte, la meditazione ce ne fa consapevoli.

Questo addestramento della volontà e dell’intelletto, viene integrato e


rafforzato da un’ alimentazione semplice e parca, da lavoro fisico pratico
e dal sonno strettamente necessario su un duro giaciglio. Regna una
disciplina severissima. Si richiedono puntualità, coscienziosità,
autocontrollo, sopportazione del caldo e del freddo, indifferenza alle
intemperie.

Si inspira e si espira col ritmo naturale però con partecipazione della


coscienza; all’inizio i singoli atti respiratori vengono addirittura contati.
L’espirazione viene accentuata perché ha un’azione liberatrice. Meglio
riesce , più immunizza dalle impressioni esterne, che alla fine non
vengono più percepite. Contemporaneamente subentra la distensione. Alla
fine, non si è che respiro: si respira. Più la respirazione- lasciata a se
stessa, cioè non controllata- trova il ritmo che le è proprio. Si riduce al
minimo indispensabile. L’allievo non deve sorprendersi di nulla, qualunque
cosa possa avvenire. Deve accogliere tutto senza emozionarsi, quale
fosse un semplice spettatore osservatore non partecipe di un evento del
quale non è responsabile. Si rilascia al punto da essere sopraffatto dalla
noia, presta orecchio solo a metà. Il risultato è: perfetta calma che
respira.

Eugen Herrigel: “ Improvvisamente si udì un boato e sotto i piedi


avvertimmo una leggera oscillazione. Lo sbatacchiamento, il tintinnio
degli oggetti si faceva sempre più forte. L’inquietudine e l’agitazione
aumentavano via via. I numerosi ospiti, in prevalenza europei, si
precipitavano verso il corridoio che portava verso le scale e l’ascensore.
Un terremoto, e lo spaventoso terremoto dell’anno precedente era
ancora nella memoria di tutti! anch’io ero balzato in piedi per uscire
all’aperto. Stavo per invitare il collega col quale stavo conversando ad
affrettarsi anche lui, quando mi accorsi con stupore che stava seduto
immobile, gli occhi quasi chiusi, come se quanto avvenisse non lo
riguardasse affatto. Non come chi sia titubante o non abbia ancora preso
una decisione, ma come chi fa o non fa una cosa perfettamente logica
senza incertezza. Lo spettacolo che offriva era talmente sorprendente
che, invece di lasciarlo, mi fermai- con una paura tremenda, a dire la
verità- mi misi a sedere e lo fissai senza chiedermi perché e se era il
caso di restare: come stregato ( non so da che cosa ), quasi che non
potesse succedermi più nulla. Trascorsero minuti angosciosi. Quando il
terremoto finì- deve essere durato parecchio- riprese il discorso dal
punto in cui lo aveva interrotto senza nemmeno accennare a quanto era
avvenuto. Alcuni giorni dopo venni a sapere che quel collega giapponese
era un buddista zen e da qualche allusione dedussi che si era trasferito
in uno stato di concentrazione estrema rendendosi “ imperturbabile”.
Ecco il significato dell’educazione zen: rapida, precisa, la risposta deve
arrivare subito, corpo e mente uniti; noi non siamo chiamati a vivere
solamente i nostri desideri egoistici, né attraverso il nostro piccolo
potere personale. L’educazione zen si basa soprattutto attraverso
l’educazione del corpo, così come in zazen il pensiero nasce dal corpo: è la
tensione giusta del corpo a creare quello che chiamiamo “ pensiero
cosmico”, o coscienza hishiryo. Allo stesso modo nella vita quotidiana, la
risposta deve essere precisa e immediata.

Dobbiamo praticare lo zazen-shikantaza: solo e semplicemente seduti,


niente altro che seduti. Nella famiglia, nel lavoro, è possibile applicarsi
allo stesso modo: shikan, nient’altro che famiglia, nient’altro che lavoro,
spendendosi completamente in ogni cosa. Questo è il significato di kufu-
bendo: mettere tutta l’energia in una cosa, spendere tutto sé stesso
nella cosa che facciamo, qui, con mente uni-versa.

Non c’è da attendersi momenti speciali per cominciare: ogni momento è


l’occasione meravigliosa di una vita fondata sul qui, per risvegliare la
mente che cerca la Via.

Il samurai eseguiva ogni ordine immediatamente, perché il ragionarci


sopra avrebbe fatto di lui un codardo o avrebbe inibito l’azione. Egli si
esponeva al freddo d’inverno, e doveva sopportare l’afa d’estate senza
lagnarsi; il dolore fisico doveva essere sopportato senza tradire la
minima emozione. Egli mostrava la tipica collera del combattente
professionista, quando un avversario lo tratta arrogantemente.

L’antico addestramento al ju-jitsu includeva tanto gli esercizi fisici


quanto la meditazione. L’eccessivo sviluppo della muscolatura e quindi
l’eccessiva fiducia nella forza muscolare, secondo Mataemon
comportavano quella rigidità e quella lentezza che sono solitamente
associate all’armatura o come egli osservava, alla vecchiaia e infine alla
morte. Egli preferiva porre in risalto l’agilità ( come quella di un
bambino ), che egli considerava come la caratteristica più visibile della
vita e dell’azione. Perciò in combattimento, egli raccomandava ai suoi
allievi di applicare le tecniche quando l’avversario, attaccando, aveva
indebolito la propria linea difensiva, e forniva la maggior parte della
forza necessaria per sconfiggerlo.
In un vero i combattimento, però, quando l’abilità negli atemi-waza si
aggiunge alla conoscenza delle tecniche di proiezione, strangolamento e
slogamento, un’ esperto di queste arti può diventare uncombattwen6te
terribilissimo, con un’amplissima gamma di possibilità strategiche a
disposizione.

Una personalità magnetica è sempre riuscita ad evocare forti poteri di


proiezioni e suggestione, che possono venire usati per evitare un
combattimento o per vincerlo. Per esempio vi è un’ episodio riguardante
un samurai assalito in un bosco da un branco di lupi. Secondo la leggenda,
egli continuo a camminare con un atteggiamento così stabile, cosciente e
potenzialmente esplosivo che gli animali si immobilizzarono e lo lasciarono
passare in mezzo a loro. Altri episodi parlano di uomini che avevano teso
agguati a una vittima la quale, semplicemente guardandoli, li terrorizzava
al punto di immobilizzarli.

Lo zen faceva uso delle discipline considerate essenziali per lo sviluppo e


la stabilizzazione di quella condizione di distacco e di equilibrio interiore,
senza la quale era generalmente considerata irraggiungibile
l’illuminazione interiore.

L’incapacità di percepire i fattori interiori poteva rivelarsi disastrosa


per molti bujin presuntuosi, che avevano imparato soltanto i modi tecnici
di maneggiare la spada o qualunque altra arma, inclusa la loro anatomia.
Quando si deve impegnare un’ avversario? Come bisogna controllarlo e
controllare se stessi? Che tipo di energia si deve usare, e in che modo si
può impiegare per ottenere i vantaggi migliori ? Tutte queste
considerazioni coinvolgevano fattori decisamente interiori, e ne
giustificavano l’uso in maniera calcolata per dare al bujin decisione
controllata, calma e chiarezza d’intenti.

Harrison: “ Un uomo il quale abbia acquisito completamente l’arte dell’aiki


sfiora il divino”.

I fattori interiori del combattimento andavano da quelli psichici e


spirituali fino al mesmerismo alla prestidigitazione, e i ninja, guerrieri
che si servivano in combattimento di “ forze odiliche, mesmeriche o
ipnotiche” non erano eccezioni.
La mente doveva venire sottratta all’influenza perturbatrice delle
circostanze esterne del combattimento, come le armi impiegate, perché “
quando la mente pensa alla spada, tu diventi prigioniero di te stesso”.

Non si tratta di “ sensazioni”, ma di percezione della realtà, di fatti veri;


l’adepto dell’haragei non è solo una ricevente ultrasensibile, ma anche una
trasmittente potentissima.

In rapporto alla percezione, l’haragei, come teoria usa le immagini del


mizu-no-kokoro e tsuki-no-kokoro per visualizzare il tipo di
atteggiamento mentale che si deve sviluppare se si vuole affrontare bene
la vita e in particolare ognuno dei suoi problemi ( compresi i
combattimenti ). Significano letteralmente “ uno9 spirito come l’acqua
tranquilla” e “ uno spirito calmo come la luna” e in entrambe le immagini
l’idea centrale è questa: la mente può percepire e valutare il generale e il
particolare, ciò che è più lontano o più vicino, in piena indipendenza solo
se centralizzata e quindi protetta da ogni genere di distrazione e
perturbazione. Il primo passo consisteva nel disciplinare e concentrare i
poteri mentali, al fine di conseguire un primo livello di indipendenza, di
pace e di armonia, preludio necessario per l’ulteriore esplorazione
dell’essenza sociale e cosmica di quella realtà, in una serie di espansioni
progressive della personalità umana.

Takuan scriveva: “ Senza dubbio vedete la spada che sta per colpirvi, ma
non lasciate che la vostra mente si “ fermi”. Non intendete
contrattaccarlo in risposta alla sua mossa minacciosa, non nutrite
pensieri calcolatori. Percepite semplicemente la mossa dell’avversario,
non permettete che la vostra mente si “ fermi” su di essa e continuate a
muovervi come state facendo”. “ No0n fissare la mente
sull’atteggiamento assunto dal tuo avversari e non inchiodarla neppure sul
tuo atteggiamento o sulla tua spada. Fissa invece l’attenzione o mente sul
tuo seika-tanden ( sotto l’ombelico ) e non pensare né a sferrare un colpo
al tuo rivale né al colpo che questi ti potrà sferrare a te. Getta in
disparte tutti i disegni specifici e avventati all’attacco nel momento in
cui vedi il tuo nemico nell’atto di brandire la spada sopra la testa.

Tanto la tecnica quanto l’addestramento psichico avevano un’importanza


essenziale e che il secondo consisteva principalmente nel rimanere “
calmi e per nulla turbati” quando si incontrava un nemico in
combattimento. Inoltre egli doveva sentirsi “ come se non accadesse
nulla di critico. Quando egli avanzava i suoi passi erano ben saldi sul
terreno, e i suoi occhi non fissavano il nemico come farebbero quelli di un
folle. Il suo comportamento non era per nulla diverso da quello
quotidiano. Nella sua espressione non si produceva alcun cambiamento.
Come si deve sviluppare questo atteggiamento? Il poter agire in questo
modo quando la sua vita è in gioco ad ogni movimento, significa che il
combattente deve aver sviluppato e realizzato la “ mente immutabile”
cioè, egli deve essersi addestrato a mantenere il suo kokoro nella regione
addominale.

Concentrate la vostra energia nel tandem estendete tutta la vostra


forza dall’addome. Sia che state seduti, o in piedi, o vi muoviate, dovete
fare sempre in modo che il vostro basso ventre sia pieno di forza. E’
scritto che la respirazione deve essere combinata con la buona
posizione… l’inspirazione e l’espirazione devono venir sentite come se
avvenissero sotto l’ombelico.

Oyama: “ Tutta la mia attenzione, tutto il mio allenamento, tutto il mio


pensiero sono incentrati sull’addome”.

Quando l’energia è coltivata, viene tenuta in equilibrio dentro al vostro


corpo. Allora la vostra mente è serena ed ogni movimento diviene
aggraziato e armonioso. Quando avete realizzato questo, potete parlare
di affrontare un nemico.

Padroneggiare il ki significa squarciare il velo dell’ignoto e raggiungere lo


stato in cui la vita e la morte perdono le qualità della paura. Quando
arrivate a tanto, una minaccia non vi turba, una te3ntazione non vi
alletta. Diventate veramente padroni di voi stessi. Cosa più
sorprendente, questo ki può venire diretto nei canali passivi della difesa
pura. Infatti può essere uno scudo per quasi tutte le parti del corpo. Un
combattente può dirigere il suo ki alla testa , al petto, all’addome, e
neppure un colpo sferrato in quel punto con una sbarra di ferro gli
causerà dolore. Come si sviluppa questa energia? La risposta sta
nell’esercizio primario della respirazione addominale.

Quando un’ uomo possiede veramente la centralizzazione dell’hara, non ha


più bisogno della forza muscolare, perché può vincere impiegando una
forza completamente diversa.

Tutto ciò che esiste può essere fonte di conflitto, di pericolo e, in ultima
analisi, di violenza, se viene affrontato dall’angolazione sbagliata o nel
modo sbagliato: cioè quando viene affrontato direttamente al punto della
massima forza.

Il principio della gentilezza insegna che bisogna assecondare, non


contrastare, la forza dell’avversario, mantenendo tuttavia la propria
posizione per non perdere l’equilibrio. Ciò corrisponde allo spirito stesso
espresso da Confucio: “ L’uomo superiore è flessibile, ma non cede
ciecamente.”

Il ju-jitsu è basato sul principio di opporre morbidezza o elasticità alla


durezza o rigidità. Il suo segreto consiste nel mantenere il corpo pieno di
ki, di elasticità negli arti, nell’essere pronti a rivolgere la forza
dell’avversario a proprio vantaggio, con il minimo impiego della propria
forza muscolare.

Il samurai nipponico rinunciava al desiderio, non per poter entrare nel


Nirvana, ma per acquisire quel disprezzo della vita che avrebbe fatto di
lui un guerriero perfetto.

Lo zen aveva il suo metodo per arrivare al “ nocciolo della realtà”, alla “
verità”. Per dirla con le parole di uno dei massimi teorici dello zen, questo
metodo “ consiste nel vedere direttamente il mistero del nostro essere
che, è la realtà stessa.

Un’ uomo perfettamente versato nelle tecniche della meditazione e della


concentrazione poteva isolarsi completamente dalla realtà di cui faceva
parte, per diventare inaccessibile ad ogni sorta di sollecitazione esterna,
come il disagio fisico, il dolore e, infine, anche la morte.

Io contributo più importante dato dallo zen al bujutsu era naturalmente


lo sviluppo dei poteri intuitivi della personalità umana. L’intuizione, in
contrapposizione all’intelletto e alla razionalità, era già un canone
cardinale dello zen, poiché i suoi maestri credevano che l’intuizione fosse
il metodo più diretto per arrivare alla verità. L’intuizione ( intesa
nell’haragei dello zen ) si affinava sempre di più mediante la
centralizzazione addominale, e il suo sviluppo contribuiva ad assicurare
l’indipendenza mentale e la concentrazione della volontà tramite il
vettore della meditazione disciplinata. Veniva ulteriormente rafforzata e
sviluppata per mezzo della pratica della respirazione addominale. Più la
respirazione era completa, più l’uomo era maturo e realizzato.
Influenzava non solo la condizione fisica, la salute e il benessere
generale di un uomo, ma anche il suo modo di pensare e l’orientamento
generale della sua vita.
Lo zen vuole agire, e una volta presa una decisione, l’azione più efficace è
andare avanti senza voltarsi indietro. Lo zen è una religione che ci
insegna a non guardarci indietro, una volta decisa la strada da prendere.

“ Yamaguci si reca tra le montagne una volta al


mese per fortificarsi spiritualmente e
fisicamente. Egli esegue esercizi di respirazione
sotto una cascata gelida per rendere la propria
mente e lo spirito impenetrabile alle condizioni
avverse. Lontano da questo ambiente egli esegue
ugualmente un rigoroso programma. Si alza
presto e riesce a compiere un’ora di meditazione
e un’ora di kata, tutto da solo, ogni mattina.”

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