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Eraldo Baldini

La palude
dei fuochi erranti
Pubblicato per

da Mondadori Libri S.p.A.

Proprietà letteraria riservata


© 2019 Mondadori Libri S.p.A., Milano
© 2019 by Eraldo Baldini
Published by arrangement with Agenzia Santachiara

ISBN 978-88-17-10999-4

Prima edizione: ottobre 2019


Seconda edizione: ottobre 2019
La palude dei fuochi erranti
I

Lancimago, 8 novembre 1630

“Nessun odore, neppure quello dell’incenso, neppure


quello del fumo della legna che brucia nei focolari impre-
gna e permane, tenace, come quello del brodo di carne”
pensò Girolamo. Dal podere Mantellini, uno dei migliori
fra quelli che l’abbazia possedeva, il fattore aveva portato
un maiale già macellato e i confratelli delle cucine avevano
messo le ossa a bollire insieme alle verdure, per fare il riso
per la cena. E adesso quel sentore denso riempiva tutto
con le sue promesse, e sarebbe rimasto nelle stanze e nei
corridoi a lungo. Non si ricordava di altri profumi che
avessero una tale capacità di resistere, prima di svanire.
Il desiderio del riso e della carne saporita lo rapì, così
come quello di un bicchiere di vino rosso e corposo. E
sognò anche qualcosa di dolce che si sciogliesse in bocca,
zuccherino e soave.
Si scosse e tornò al suo libro di preghiere. Gli capitava
sempre più spesso di distrarsi, di farsi distogliere dalla

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lettura e dalla devozione da pensieri in libertà, di solito
sciocchi e banali, e di farsi irretire come un bambino dal
desiderio del cibo, di un cibo buono.
Forse era l’età avanzata a renderlo goloso e futile, in-
capace di rimanere concentrato sui propri doveri e sulle
sacre parole, o forse quei versi e quelle pagine, conosciuti
ormai a memoria e recitati meccanicamente, non gli ac-
cendevano più luci nell’anima, come invece avrebbero
dovuto fare e un tempo avevano fatto.
Biascicò un «Mea culpaÈ e chiuse gli occhi, cercando
il dono della contrizione e quello di essere ricondotto
agli impegni a cui la giornata inalmente lo chiamava.
Impegni importanti, perché era il decano dell’abbazia,
lui, e gli altri contavano sulla sua esperienza e dedizione.
Era da tanto che non gli afidavano compiti. Si sentiva
ormai un vecchio in attesa di inire i propri giorni cullato
da una serena abitudinarietà, fatta di poche cose semplici,
e viveva quella condizione quasi con piacere, dopo una
lunga esistenza faticosa; ma non poteva nascondersi che
avere ricevuto un incarico lo inorgogliva e lo gratiicava,
facendolo sentire di nuovo utile. Soprattutto in quei giorni,
in cui si proilavano ombre scure.
Quando voci di peste erano giunte in Romagna prima
da Milano, poi da più vicino – da Modena, da Bologna,
da Imola –, i confratelli avevano avuto un solo e di certo
inadeguato pensiero: quello di predisporre un’ampia fossa

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comune nel prato che si allargava a fianco del monastero,
là dove le erbacce, adesso che l’autunno avanzava, già
cominciavano a piegarsi avvilite sotto le grandi piogge,
dopo che nell’estate erano state alte, coriacee e brulicanti
di bisce e di zanzare. Presto sarebbero giunte le prime
forti gelate, e fendere la terra con le vanghe sarebbe stato
molto più faticoso, se non impossibile.
Non sapeva se avesse scelto lui il punto in cui scavare o
se glielo avessero suggerito. Non se lo ricordava proprio,
anche se era successo pochi giorni prima. Aveva bene in
mente scene e fatti della sua infanzia e giovinezza, ma
dimenticava quelli più recenti; la sua memoria doveva
essere come un sacco in cui si fosse aperto un buco in
alto, vicino alla legatura, capace di fare uscire e disperdere
le ultime cose messe al suo interno.
In ogni caso quel punto andava bene ed era quasi ob-
bligato, perché il cimitero dell’abbazia era pieno e non
poteva essere ampliato, avendo da una parte gli edifici, da
un’altra un canale e da un’altra ancora la strada, così come
era quasi pieno quello del villaggio perché la morte, con
tutte le sue armi e le sue facce, negli anni e nei decenni
passati aveva fatto scorribande frequenti e crudeli.
La pestilenza l’aveva già vista e vissuta, in passato, e
sapeva per esperienza che non c’erano medico o cerusico
in grado di affrontarla e guarirla, né c’erano santi che
avessero il potere di fermarla davvero. A parte forse san

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Rocco, a cui la chiesa del paese era consacrata e che del
morbo era stato prima vittima capace di sopravvivere, poi
taumaturgo incurante di ogni cautela e paura.
Ma san Rocco, che insieme alla Vergine e a san Bene-
detto vegliava su quel luogo, essendo iglio di un tempo
ormai lontano era stato armato, forse, di una tempra e di
una fede che non erano più date agli uomini, almeno a
quelli che lui aveva conosciuto o conosceva di persona.
Era un giovane novizio a Trento, molti anni prima – una
cinquantina, forse – quando sulla città e sulle valli di quella
terra era giunto il sofio del contagio. “Peste di san Carlo”
l’avevano chiamata, perché si era diffusa quando a Milano
era vescovo il Borromeo, che di certo non meritava di
avere il proprio nome legato a quella tragedia.
Si ricordava che, poco prima che quel lagello comin-
ciasse a serpeggiare e a mietere, nel cielo era apparsa
una cometa che brillava di uno strano colore di sangue,
come se annunciasse un Natale rovesciato e malevolo
in cui, invece di venire alla luce, ogni speranza sarebbe
morta.
Aveva osservato, quella volta, uomini, donne e bam-
bini goniarsi per i bubboni lividi, li aveva sentiti grida-
re di spavento e di angoscia impotente o chiudersi nel
silenzio e nel torpore della febbre, dell’inedia e della
rassegnazione.
Aveva camminato per le strade della città trasformata

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in un deserto, uno scenario spettrale in cui le poche per-
sone che s’incontravano correvano veloci e guardinghe,
come per sfuggire a un nemico in agguato dietro ogni
angolo, o si aggiravano lente e torpide, ormai consegnate
a un destino a cui non ci si può sottrarre, come accade
negli incubi in cui una forza oscura ti impedisce il passo
legandoti le gambe o rendendoti i piedi pesanti e goffi
come quando si arranca nel limo.
Aveva udito gemiti, grida e invocazioni provenire da chi,
dentro le case sbarrate, era stato abbandonato dai propri
familiari, partiti in fretta per allontanarsi dal pericolo,
incuranti di ogni obbligo di carità parentale e cristiana
e irretiti da uno spietato anelito di incolumità. «Vado a
cercare un medico» avevano magari mentito a consorti,
genitori o figli uscendo e chiudendo a chiave la porta, e
non erano tornati più, sbigottiti e resi ingannevoli, così
pieni di paura che questa non aveva lasciato più spazio
all’affetto e alla pietà, ma solo a un colpevole e scellerato
miraggio di salvezza.
E aveva visto i suoi i confratelli ammalarsi l’uno dopo
l’altro. C’era stato chi si era chiuso nella propria cella
rifiutando ogni conforto, chi invece aveva chiesto e otte-
nuto cure forse peggiori del male, inutili torture fatte di
salassi, purghe, fumigazioni che avevano trasformato le
stanze in orrende e maleodoranti cloache piene di sangue,
feci e lamenti.

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