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UNIVERSITÁ DEGLI STUDI DI NAPOLI

“L’ ORIENTALE”

DIPARTIMENTO DI STUDI LETTERARI, LINGUSITICI E COMPARATI

Corso di Laurea in

LINGUE, LETTERE E CULTURE COMPARATE

Tesi di Laurea in

Letteratura Inglese

PERCORSI INTERTESTUALI TRA L’AMLETO DI SHAKESPEARE

E L’ULISSE DI JOYCE

Relatore: Candidato:

Chiar.ma Prof.ssa Ciocca Rossella D’Aprano Michela

Matr. CL/01725

Anno Accademico 2016/2017

1
Indice

1 Introduzione

2 Due epoche e genialità a confronto

2.1 William Shakespeare: Il XVI secolo a Stratford e Londra

2.2 James Joyce: tra nazionalismo e cosmopolitismo nell’Europa del ‘900

3 Grandiosità della produzione artistica

3.1 Hamlet: un “supermercato” di concetti

3.2 Ulysses: la “discesa all’inferno”

4 Percorsi intertestuali

4.1 La ‘ricerca’ del padre: Stephen/Joyce e Hamlet/Shakespeare

4.2 Il femminile e la ‘colpa’: una costellazione di nuove Penelope

4.3 Il play-within-the-play/novel: l’episodio di Circe e l’Assassinio di Gonzago

5 Riflessioni conclusive

6 Bibliografia/ Sitografia

2
1. Introduzione

Capita spesso di trovare all’interno dei libri dei segnali che ci spingono ad operare ulteriori e
nuove letture, a cercare dei fili che li uniscano ad altri, un po’ come accade con le persone. L’
Ulysses di James Joyce quasi intimorisce il pubblico che vi si approccia per la prima volta, il
quale, sin dai capitoli iniziali, percepisce che il suo sarà un lento e incerto cammino all’interno
di un grande ed insidioso romanzo.
Ma è proprio per questo motivo che il lettore lo considera come una persona misteriosa, che
raramente mostra in superficie le sue ragioni, bensì il suo percorso avviene in profondità ed è
quindi bisognoso di un’analisi più accurata. La sensazione di tralasciare qualcosa, qualche
dettaglio, è infatti costante durante la lettura dell’Ulisse: è necessario procedere attentamente
e avventurarsi al di sotto della “superficie” dell’opera, nelle trame segrete che Joyce ha tessuto
al suo interno. Vi sono dei passaggi che possono essere meglio compresi se si indagano e si
conoscono i materiali di base utilizzati dallo scrittore irlandese per la stesura del suo
capolavoro modernista, il quale risulta pressochè indecifrabile e pone il lettore dinanzi ad una
serie di literary perils1.
Appare chiaro che lo studioso che decida di avventurarsi nella mente di James Joyce deve
compiere una prima scelta, la scelta tra “Superficie” e “Simbolo”2: la Superficie ci invita a
giacere e a soffermarci sull’oggetto, il libro appunto, così com’è presentato; il Simbolo ci
invita a trasporre, a vedere l’oggetto come la chiave per svelare un significato che vada oltre
l’oggetto stesso. Contemporanemante, però, bisogna porsi dei limiti nel ricercare
corrispondenze simboliche e nell’intraprendere dei percorsi intertestuali, anche e soprattutto
a seconda del contesto e del fine ultimo dell’analisi: nel caso di questa dissertazione, l’unità
dell’opera d’arte pare un contesto prudente in cui muoversi e l’influenza di Shakespeare, e in
particolare della sua Tragedia Amletica, il fine ultimo da conseguire.
Ho operato, dunque, una scelta di campo, consapevole del fatto che, in un’opera come quella
di Joyce, non è importante capire tutto, ma accontentarsi di fonti esterne che rendano possibile
un’analisi quantomeno parziale. Ciò che ha reso e rende tutt’oggi l’Ulysses un romanzo
formidabile è anche e soprattutto il suo flusso disordinato di parole ed eventi, di deviazioni,

1
Adams R.M., SURFACE AND SYMBOL: The consistency of James Joyce’s Ulysses, New York, 1962, p.8
2
Ibidem, p.84
3
sorprese e monologhi: tutto questo collabora a rendere la musicalità l’aspetto decisivo
dell’opera, al di là del senso oggettivo delle cose.
All’interno del primo capitolo ho cercato di offrire una finestra su quella che è la vita e il
contesto storico in cui si muoveva James Joyce e, contemporaneamente – anche se in maniera
meno approfondita – ho trattato le vicende biografiche di William Shakespeare, creando basi
cognitive per procedere nella comparazione dei due autori.
In seguito, all’interno del secondo capitolo, ho gettato uno sguardo sulle opere in questione,
ovvero Ulysses e Hamlet; ne ho analizzato le origini e le ho contestualizzate, in modo da
rendere chiare alcune dinamiche esplicate nella parte successiva. Ma, soprattutto, ne ho
sottolineato gli aspetti ‘grandiosi’, al fine di porre il capolavoro joyciano e la tragedia
shakesperiana ai livelli più alti della letteratura inglese.
Nella terza e ultima parte, divisa in tre sottocapitoli, mi sono addentrata in quelli che sono i
motivi ricorrenti nelle due opere e nelle trame che Joyce, agli inizi del ‘900, decide di
estrapolare dall’Amleto del Bardo al fine di spargerle nel suo romanzo.
Ovviamente i tratti comuni alle suddette sono decisamente più numerosi di quelli da me
studiati ma, per questioni di lungaggine e anche per una semplice predilezione personale, mi
sono dedicata in particolare:
-alla questione padre-figlio, estrapolata soprattutto dal capitolo Scilla e Cariddi dell’Ulisse;
-alle figure femminili ‘colpevoli’ presenti in entrambe le opere in analisi e al loro rimando al
mito omerico, e in particolare al personaggio di Penelope;
-all’uso del play-within-the-play shakesperiano-joyciano all’interno del capitolo Circe, il
quale – seppur scritto in maniera ancor più confusa del resto e con una tecnica differente -
funge da ‘rivelatore’ di molte delle questioni sedimentate nell’Ulisse, servendosi sempre di
Shakespeare e del suo Amleto.
Molti dei testi che mi hanno aiutato nel corso della stesura di questo elaborato, oltre ai
capolavori stessi, sono stati quasi tutti di provenienza straniera, soprattutto americana; ho
operato, dunque, un lavoro di traduzione quasi costante per poter attingere ad essi, e mi sono
resa conto di quanto fosse vasto e ancora attuale lo studio combinato di questi due autori
cronologicamente così distanti, ma tematicamente molto vicini.

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2 Due epoche e genialità a confronto

2.1 William Shakespeare: Il XVI secolo a Stratford e Londra

Nella metà del ‘500 John Shakespeare si era trasferito a Stratford con Mary Arden, sua nobile e
novella sposa, intenzionato a perseguire la professione di guantaio e di commerciante di pellami; in
realtà, il futuro fu più roseo delle sue aspettative: salì la scala dei pubblici uffici fino ad essere
nominato sindaco nel 1568. Nella casa di Henley Street, nella cittadina sull’Avon, nacque il suo terzo
figlio: William Shakespeare, iscritto ai registri di battesimo il 26 aprile del 1564 ma venuto al mondo,
secondo la tradizione, il 23 aprile dello stesso anno, nel giorno di S. Giorgio, patrono d’Inghilterra.
Tutt’oggi sono molte le incertezze degli studiosi riguardo alla vita di Shakespeare. Alcune biografie
sostengono che egli frequentò, dall’età di 5 o 6 anni in su, la King’s New School di Stratford; la
notizia successiva è quella che lo vede prendere in sposa Anne Hathway di Shattery: nel 28 novembre
del 1582, giorno delle nozze, lo sposo aveva 18 anni, mentre la sua compagna ne aveva compiuti 26.
Da questa unione nacquero tre figli: la primogenita Susanna ed in seguito due gemelli, Judith e
Hamnet, quest’ultimo morto all’età di 11 anni.
Questi gli ultimi dati relativi alle vicende private di Shakespeare fino al 1592, anno in cui, secondo
molte biografie, egli godeva già di un discreto successo grazie alla professione di attore e
drammaturgo nella Londra elisabettiana. Probabilmente, dunque, in quelli che vengono pesso definiti
lost years, egli era stato ingaggiato da qualcuna delle compagnie londinesi che toccarono Stratford
proprio negli anni ottanta.

Nel 1574 Elisabetta I Tudor3 aveva concesso la prima Patente regia ad una compagnia di attori, i
Leicester’s Men: si trattava di un documento di fondamentale importanza, il quale poneva gli attori
sotto la diretta protezione della regina e allo stesso tempo fungeva da mezzo di opposizione ai dettami
puritani. Finchè vissero Elisabetta e il suo successore, Giacomo I Stuart, in Inghilterra il teatro
prosperò raggiungendo livelli che sarebbero rimasti ineguagliati nella cultura dell’intera Europa. Gli

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Elisabetta I (Greenwich 1533 - Richmond 1603) eredita dai suoi fratelli – il re-bambino di Edoardo VI e Maria I detta
La Sanguinaria, per aver fatto giustiziare almeno trecento oppositori protestanti - un Paese demoralizzato ed
economicamente distrutto, politicamente debole e internamente lacerato da sanguinose guerre civili e furiose
persecuzioni religiose scatenate a turno dal fratellastro e dalla sorellastra. Nonostante le catastrofiche premesse, il
suo regno, lungo ben quarantacinque anni (1558-1603) è generalmente riconosciuto come l’età d’oro della storia e
della cultura inglese.
5
inglesi, e più specificatamente i londinesi, amavano già particolarmente il teatro: si dice che nel 1605
l’affluenza fosse di circa 21.000 spettatori, un dato davvero impressionante.
Il 1594 rappresenta un anno cruciale nel mondo del teatro elisabettiano, ma ancor di più nella vita del
nostro Shakespeare: è l’anno della fondazione della compagnia Lord Chamberlain’s4, compagnia
della quale egli fu uno dei maggiori azionisti. Oltre a partecipare materialmente alla creazione di varie
compagnie e a mostrare la sua abilità nella recitazione, Shakespeare rivelò ben presto anche
un’eccezionale capacità nel collaborare alla stesura dei copioni, tanto da divenire spesso responsabile
di un lavoro che si potrebbe definire di sceneggiatore: all’ascesa di Giacomo I, nel 1603, la compagnia
diventa dei King’s Men ed in essa egli è attore, autore e amministratore, nonché uno dei maggiori
esponenti negli impegni a Corte.

Nonostante l’impegno “estetico” e il sistema gentilizio, quella elisabettiana appare essere un età
segnata dall’odio e dal fanatismo come poche altre nella storia moderna anglosassone. La guerra e la
violenza dominano la vita e la mente degli uomini; la fame, la crisi delle campagne e delle finanze
statali, l’aumento della popolazione e i conseguenti appetiti primari dell’uomo: questa è la realtà in
cui vive William Shakespeare e della quale, in un certo senso, egli tesserà le varie trame.
E’ nella città natale, Stratford, che il Bardo5 si ritira negli ultimi anni della sua vita. Qui scrive un
testamento nel gennaio del 1916, firmandolo con mano tremante; nello stesso anno moriva uno degli
uomini - se non il principale - più discussi e studiati di tutta la letteratura inglese. La sua lapide, che
si trova nel coro dell’Holy Trinity Church di Stratford, maledice chiunque osi rimuovere le sue ossa,
quasi a volerle scongiurare da un destino comune di allora, esemplificato nella scena del cimitero
dell’Amleto.

2.2 James Joyce: tra nazionalismo e cosmopolitismo nell’Europa del ‘900

James Joyce nasce Rathgar, un sobborgo di Dublino, nel 1882; è il primo di dieci figli di John
Stanislaus e Mary Jane Murray. Suo padre proveniva da una famiglia agiata ma non riuscì mai ne a

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La compagnia teatrale dei Lord Chamberlain’s fu l’artefice della creazione del Globe: il teatro fu costruito nel 1599 a
Londra sulla riva meridionale del Tamigi, a Southwark (uno dei distretti più vivaci dell’epoca elisabettiana).
Fu distrutto da un incendio nel 1613 e fu ricostruito nel 1614, poi demolito nel 1644. L’attuale ricostruzione moderna
del Globe è chiamata Shakespeare's Globe Theatre e venne inaugurata nel 1999.
5
Bardo: dal lat. bardus, ma di origine celtica, è il nome che designa gli antichi poeti cantori dei popoli celti. Durante il
Romanticismo, quando la conoscenza della cultura celtica fu accresciuta dalla comparsa di molte leggende e miti, il
termine bardo fu reintrodotto direttamente dalla lingua inglese, nel senso di "poeta lirico", idealizzato da scrittori
come il romantico scozzese Walter Scott. Da questo uso del termine deriva l'epiteto "Il Bardo", assegnato a William
Shakespeare e a Robert Burns.
6
laurearsi né a portare avanti la sua carriera di esattore delle tasse: nel dodicesimo anno di vita di James
Joyce, egli aveva dieci figli, numerosi mutui da pagare e nessuna proprietà.
Lo scrittore, dunque, sperimenterà in prima persona l’amaro declino della sua famiglia da una
condizione di relativa ricchezza e popolarità fino alla totale povertà.
Nel corso della sua educazione James Joyce si distingue sin da subito come uno studente brillante,
capace di vincere molti premi e borse di studio.
I suoi studi iniziano attorno al 1888 presso una scuola tenuta da gesuiti, il Clongowes Wood College,
dove rimarrà dal settembre di questo anno al giugno del 1891, con la sola interruzione delle vacanze.
Dopo qualche anno di intervallo, Joyce riprende gli studi in un’altra scuola gesuita, il Belvedere
College, e vi rimane fino al 1898. All’interno di questi istituti egli incontra per la prima volta l’autorità
della Chiesa e quella che gli viene propinata è dunque un tipo di educazione fondata sui classici latini
e sul pensiero scolastico in generale; ma Joyce, studente scettico e intellettuale precoce, integra
personalmente i suoi studi e si muove già verso quella che sarà poi la sua personalità artistica di
stampo cosmopolita.
E’ sempre nel contesto scolastico che in Joyce inizia a sedimentarsi la consapevolezza delle pressioni
del nazionalismo irlandese, in un momento in cui l’Irlanda aveva la sua rappresentanza all’interno del
parlamento ma allo stesso tempo un precario controllo del suo destino politico e sociale. Infatti, nel
1886, l’Irlanda aveva ottenuto il permesso per un autogoverno grazie all’Home Rule Bill, promulgato
dal parlamento britannico. Questo rimarrà il più alto grado di autonomia raggiunto dagli irlandesi ad
opera di Charles Parnell, popolare leader del partito autonomista. La sua leadership politica viene,
però, minata da uno scandalo privato che distruggerà la sua immagine, soprattutto agli occhi
dell’elettorato cattolico. Alla sua caduta segue inevitabilmente anche quella dello stesso partito
autonomista e andranno via via affermandosi una serie di gruppi più rivoluzionari che reclamano la
totale indipendenza dell’Irlanda dalla corona inglese.

Una volta diplomato, nel 1902, Joyce decide di trasferirsi a Parigi; l’idea era quella di diventare un
medico e per questa ragione si era iscritto alla Sorbona. Non bastarono gli aiuti economici che la
famiglia, - seppur ridotta quasi al lastrico - tentava di mandargli, né lo scrivere recensioni per il Daily
Express di Dublino o dare occasionali lezioni private: tutto ciò non riuscì a competere con la sua
condizione di povertà. Accanto al disagio economico c’era comunque un’altra ragione che lo vedeva
costretto a far ritorno in Irlanda nel 1903. Il primo soggiorno parigino di Joyce era stato, infatti,
interrotto da un telegramma in cui suo padre gli annunciava che la madre era sul letto di morte. Prima
di morire, ella aveva cercato di convincere il figlio a confessarsi e a fare la comunione, ma lui si era

7
tesdardamente rifiutato: alla sua morte, Joyce non si inginocchiò neanche per pregare al suo capezzale
con il resto della famiglia. Il senso di colpa che successivamente era derivato dal suo rifiuto di
esaudire il desiderio di ‘riconciliazione ecclesiastica’ della madre fu molto forte, tanto che ne
troviamo la traccia proprio all’interno dell’Ulysses.
La mancanza di Mary Jane Murray sembrava essere determinante per la rovina della famiglia che
iniziava a disintegrarsi sempre più: la figlia maggiore tentava di dare il suo apporto economico con
scarsi risultati e il capofamiglia, John Joyce, era sempre ubriaco e violento, tanto da scagliare spesso
la sua frustrazione sulle figlie più giovani.
La necessità di un impiego spinge Joyce alla professione di insegnante, alla quale si affianca un
soggiorno in veste di ospite convalescente presso la Torre Martello di Sandycove: a causa
dell’esempio paterno e delle difficoltà familiari egli aveva iniziato a bere molto e una sera si era
trovato coinvolto all’interno di una rissa. Questa Torre fungerà da setting iniziale dell’ Ulisse e il
padrone di casa, nonché suo salvatore, Oliver St. John Gogarty, assieme a un altro ospite, Samuel
Chevenix Trench, saranno modelli – rispettivamente - per i personaggi di Buck Mulligan e Haines
all’interno dell’Ulisse. Inoltre, accanto a Gogarty c’era stato Alfred Hunter a tirarlo fuori dai guai
procurati dall’alcool: un ebreo vittima di pettegolezzi perché tradito dalla moglie, Hunter sarà il
prototipo per la creazione letteraria di Leopold Bloom.
E’ il 16 giugno del 1904 e James Joyce riesce a combinare un appuntamento con Nora Barnacle, una
donna conosciuta pochi giorni prima in veste di cameriera al Finn’s Hotel di Nassau Street, a Dublino.
Pur provenendo da una grande e indigente famiglia e possedendo, dunque, un’educazione limitata
rispetto a quella di Joyce, appare sin da subito una donna molto vivace e di ampie vedute, una sorta
di spirito libero: è lei il modello perfetto per il personaggio di Molly Bloom.
Assieme alla sua nuova compagna, nello stesso anno, Joyce lascia l’Irlanda alla volta di Trieste: ha
inizio l’esilio volontario dello scrittore dalla staticità intellettuale e sociale dublinese. I due resteranno
in Italia per 10 anni, ma saranno costretti a lasciarla nel 1915, anno dell’inizio del Primo Conflitto
mondiale. La tappa successiva è Zurigo, luogo in cui James Joyce si cimenta nel suo gioiello letterario,
l’Ulisse, che poco prima aveva iniziato ad abbozzare.
Ma è la città nella quale Joyce giunge nel 1920 a divenire per lui una seconda casa: Parigi, la ville in
cui esisteva, secondo Joyce, la sola vera libertà possibile in Europa. Il surrealismo, il movimento
Dada, i café, e ancora Hemingway, Picasso, Modigliani e ogni tipo di espressione culturale: sebbene
Joyce mostrava disprezzo verso i bohémien e il loro modo di vivere e conduceva una vita molto
limitata e borghese, non poteva desiderare un posto migliore in cui vivere a quel tempo se non Parigi,
e, infatti, vi rimase per ben venti anni.

8
All’epoca Joyce aveva una vista molto debole e per questo motivo gli era stato vietato di bere; la sua
famiglia cercava in tutti i modi di controllarlo, considerato il suo essere avvezzo all’alcool.
Parigi segnava un momento importantissimo nella vita artistica di James Joyce; dopo le numerose
difficoltà che egli aveva avuto nel trovare un editore per il suo nuovo libro, raggiungeva un accordo
nell’aprile del 1921 con Sylvia Beach per la pubblicazione integrale dell’Ulysses presso la
Shakespeare & C. di Parigi.
Nel 1922 con Nora i due figli che avevano dato alla luce decidono di visitare l’Irlanda ma rischiano
di perdere la vita quando il loro vagone ferroviario viene attaccato dalle truppe dell’Esercito
Repubblicano Irlandese e dalle truppe dello Stato Libero: questo episodio – che fortunatamente senza
esiti drammatici – aveva convinto Joyce a non rimettere più piede nella madre patria, divenuta ormai
una terra troppo pericolosa e violenta.

Attorno agli anni ’40 Joyce e la sua famiglia ritornano a Zurigo e Lucy, unica figlia femmina, viene
internata in una casa di cura a Vichy, in seguito a vari episodi di instabilità mentale.
E’ proprio a Zurigo che - nell’anno successivo - James Joyce si spegne in seguito ad un intervento
per un’ulcera perforata.
L’irrequietezza e la curiosità di quest’uomo – oltre a cause di forza maggiore, quali i due conflitti
mondiali - lo portarono a girovagare per l’Europa e ad assumere quel tratto cosmopolita che ancora
oggi lo contraddistingue. Eppure mai nessuna terra lo interessò veramente: la sua immaginazione era
sempre concentrata su Dublino.

“La sua mente, in realtà, appariva impegnata, fino all’esclusione di tutto il resto, su due problemi
principali, il comportamento dell’uomo ed il suo ambiente, e per di più solo in rapporto a Dublino.
Sembrava che persino gli splendori e le attrazioni della vita francese attorno a lui gli fossero
indifferenti e nutrissero il suo talento solo nella misura in cui egli apprezzava la propria libertà
intellettuale e la propria convenienza.” 6

6
A. Power, Conversazioni con Joyce, F. Ruggieri (a cura di), Roma, 1980, p. 60
9
3 Grandiosità della produzione artistica

3.1 Hamlet: un “supermercato” di concetti

Un attento studio della Tragedia di Amleto non può prescindere dalle sue origini. Esso è, infatti, una
sorta di ‘remake’, ossia una nuova versione di una storia già esistente. In realtà, il personaggio di
Amleto, seppur con nomi e modalità diverse, appare in secoli e opere precedenti; la prima fonte
sembra essere – in termini temporali – quella della leggenda di Amlodhi7, risalente attorno al IX
secolo. Alla fine del XII il danese Saxo Grammaticus dedica i libri III e IV della sua Historia Danica
proprio alle vicende del leggendario Amlodhi, ora divenuto Amlethus; principe dello Jutland, per
rivendicare l’omicidio del padre per mano dello zio Fengo – mosso da brama di potere - e l’aver
successivamente forzato sua madre Gerutha a sposarlo, ricorre alla pazzia come espediente inevitabile
e, con l’aiuto di vari personaggi, tra cui la stessa Gerutha, riesce nel suo intento.
Saxo Grammaticus racconta questa storia in maniera estremamente elementare e priva di qualsiasi
sostrato psicologico o morale: i fatti non vengono ‘moralizzati’ e non vi è alcun senso tragico. E’
François de Belleforest8, nel V volume delle sue Historie Tragiques (1570) , a presentarci le stesse
vicende con una prospettiva edificante e universale; oltre all’offrirci continui parallelismi con i testi
classici e biblici, che lo portano a scaricare la maggior parte della colpa sulla libidine femminile –
ovvero sulla perversità della donna e sulla barbarie dei tempi precristiani - Belleforest trasforma il
personaggio di Amleto da guerriero primitivo in eroe malinconico, seppur ancora positivo. La
versione dello scrittore francese, definibile come ‘pre-tragica’, si potrebbe identificare come la fonte
alla quale ha attinto (con molta probabilità) Thomas Kyd9 nel produrre un dramma popolare andato
perduto – ma del quale restano indizi certi10 – dal titolo Ur- Hamlet.
Il drammaturgo inglese Thomas Lodge ci suggerisce, inoltre, che è proprio all’interno dello Ur-
Hamlet che appare per la prima volta il fantasma del re morto ad esortare il figlio alla vendetta: è

7
Amlodhi: termine che in antico norvegese significa “deficiente”.
8
François de Belleforest (Comminges, 1530 – Parigi, 1583) è stato uno scrittore e traduttore francese.
Di povere origini, entrò dapprima alla corte di Margherita d'Angoulême e nel 1568, come storiografo, alla corte di
Giovanna III di Navarra.

10
9
Thomas Kyd (Londra, novembre 1558 – Londra, luglio 1594) è stato un drammaturgo britannico autore della
popolare tragedia di vendetta The Spanish Tragedy (1587)
10
Dell’esistenza reale dello Ur-Hamlet ne parla per la prima volta da Nashe all’interno della sua Premessa al
Menaphon (1589) di Robert Greene; cinque anni più tardi, un famoso impresario teatrale, Philip Henslowe, registrava
la rappresentazione di un Hamlet a Newington Butts al giorno 11 giugno 1594 del suo Diario. Infine, il drammaturgo
inglese Thomas Lodge, nomina il dramma nel suo pamphlet intitolato Wit’s Misery and the World’s Madness (1596)

anche per questa ragione che il dramma attribuito a Kyd – e che alcuni studiosi credono essere
un’opera giovanile dello stesso Shakespeare – è considerato la fonte diretta dell’Amleto del Bardo.
The Tragedy of Hamlet, Prince of Denmark, risalente al 1600-1601 e pervenuta in un ‘bad quarto’
nel 1603, in un ‘good quarto’ nel 1604 e , infine, in una versione più corta nel primo In-folio del 1623,
appare essere il più lungo e controverso tra i plays di William Shakespeare e l’unico di cui esistono –
appunto – ben tre versioni d’epoca.
La principale novità dell’opera shakesperiana è l’ambiguità, caratteristica che si sostituisce a una
narrazione dei fatti piatta, tipica del genere letterario epico-mitico. L’eroe malinconico non è più
positivo bensì problematico e l’interrogativo tragico è il filo lungo il quale viene raccontata l’intera
vicenda. Il testo si riempie ora di nuovi indugi e intervalli, di nuovi riferimenti, tanto da divenire “un
supermercato da cui si può prendere quello che si vuole”.7
Da una lettura superficiale dell’opera potrebbe venir fuori che si tratti, anche stavolta, di una tragedia
della vendetta; il padre di Amleto, re di Danimarca, è stato ucciso dal suo stesso fratello Claudio con
“una fiala di succo del maledetto giusquiamo”8: quest’ultimo, ‘appropriandosi’ di Gertrude, la regina
vedova, e dunque della corona, priva Amleto dei naturali diritti di successione. Lo spettro del re,
anch’esso di nome Amleto, rivela tutta la cospirazione al figlio e gli lascia il compito di vendicare il
suo omicidio, l’adulterio e la conseguente usurpazione.
La tragedia di Amleto trova il suo palcoscenico drammaticamente limitato dal castello di Elsinore,
nel quale l’azione si sviluppa creando una pluralità di altre piccole scene, caratterizzate da punti focali
diversi dal semplice desiderio di vendetta espresso dalla voce iniziale del principe.
Un pubblico informato e attento, dunque, riconosce che l’Amleto non è – e non può essere – soltanto
ciò che è evidente. Questa tragedia è un fenomeno quasi unico all’interno della letteratura occidentale
e tale è che non cessa di richiamare a sé una quantità indefinibile di lettori e di suscitare l’interesse
della critica. E’, allo stesso tempo, un testo che – proprio al pari dell’altra opera trattata in questa
dissertazione, ovvero l’Ulisse di James Joyce – lascia il lettore o lo spettatore libero di riconoscere al

7
Curti L. in Ombre Di Un’Ombra. Amleto e i suoi fantasmi, Napoli, 1994, p.9
8
Shakespeare W., Amleto, Nemi D’Agostino (a cura di), Padova, 2012, p.53 (Atto I, scena V)
11
suo interno analogie con la propria epoca e di identificarsi con l’uno o l’altro aspetto del personaggio
di Amleto che è, dunque, tavolta ‘ognuno’ o ‘tutti’, tavolta lo stesso Shakespeare.
Il play in questione viene prodotto all’alba del 1600, sulla soglia della crisi della ragione classica: con
il rinascimento elisabettiano si era creata una “frattura” e ora si protendeva verso un’instabilità delle
forme sempre più evidente e una pluralità di punti di vista, in altre parole verso quello che poi sarà
definito come Barocco. Ma la frattura che si crea sul piano artistico non è che un riflesso di ciò che
accadeva nella società e, più specificatamente, nella psiche dell’individuo calato nel contesto
rinascimentale. I “padri della nazione” contemporanei, ovvero i Tudor, avevano posto fine alle guerre
civili e tenuto fuori l’Inghilterra dalle continue guerre continentali provando, dunque, a prendersi cura
dei propri sudditi in maniera più seria rispetto ai re precedenti. In particolare, la regina Elisabetta
aveva instaurato il regime meno tirannico dell’intero secolo e aveva contribuito allo sviluppo culturale
della nazione attraverso i programmi educativi tudoriani e, soprattutto, lasciando adito a una libertà
d’espressione eccezionale per quel tempo: la Londra elisabettiana era la prima capitale culturale in
Europa. Ma la situazione generale non doveva essere così rosea; tutte queste note positive ammantano
una realtà piena di complotti, di assassini, di esecuzioni e carneficine. Eppure nel presente
elisabettiano non troviamo i grandi eroi del passato, le grandi imprese, ma soprattutto indecisioni e
ambiguità. Il personaggio di Amleto, ri-formato da Shakespeare sul modello delle vecchie leggende,
è ora l’emblema dell’incertezza, della crisi esistenziale, della depressione e della malinconia e
rappresenta quella “sindrome” che tornerà spesso nella cultura europea: la paralisi, quella costante
oscillazione tra la forza del pensiero e la mancata azione che fu tanto cara – in epoche e circostanze
differenti – allo stesso James Joyce.
La tragedia del principe di Danimarca viene ad essere quindi un “unione tra evidente e nascosto, tra
il mistero e la verità ad esso sottesa”9; considerare soltanto – per ciò che è evidente – Amleto come
un eroe positivo in una tragedia politica o della vendetta è a dir poco limitativo, se non addirittura
errato leggendo a fondo alcuni passi dell’opera. Il principe è un uomo sconvolto: egli è dominato da
un lato dalla malinconia e dall’altro dall’ira, umori che deprimono l’animo e paralizzano la volontà.
Anche il linguaggio risente di questo clima angoscioso che si esprime attraverso giochi di parole,
lapsus verbali, sogni e slittamenti retorici. Nell’Amleto assistiamo all’abbandono del linguaggio e
della narrativa così come normalmente intesi a favore di un rimando continuo che genera familiarità,
indipendentemente dal periodo storico o dal soggetto da cui viene letto. E’ per questi motivi che il
personaggio shakesperiano assurge a modello – o comunque contribuisce in maniera forte – di

9
Curti L. in Ombre Di Un’Ombra. Amleto e i suoi fantasmi, Napoli, 1994, p. 14
12
costruzione dell’uomo moderno; il giovane principe, pur considerando il dubbio come condizione
umana eterna, appare comunque teso verso la ricerca di qualcosa di più completo e desideroso di
intraprendere una comprensione della realtà attraverso la sua personale interpretazione. La tragedia
di Amleto, infatti, va al di là della situazione creata dallo spettro del re ucciso: è soprattutto una
tragedia personale, un problema psicologico, è ansia d’autentico. Ma il protagonista diviene
consapevole del fatto che l’autentico si può raggiungere soltanto “fuori”, ovvero nella morte, ed è in
questo senso che la fine di Amleto viene ad essere una sorta di riscatto.
L’uomo crede di essere libero e soprattutto capace nell’attuare le sue intenzioni, ma non può
conoscere sempre ciò che realmente farà, né ciò che verrà dalle sue azioni: l’intera vicenda - e la vita
in generale – è dominata dall’ironia di Shakespeare che raggiunge il suo culmine nel rasserenamento
finale di Amleto e nel suo affidarsi a una specie di provvidenza pochi minuti prima della sua morte.
Dopotutto, Bernardo – una delle sentinelle del castello di Elsinore – alla terza battuta dell’opera
esclamava già ironicamente: “lunga vita al Re!”10

3.2 Ulysses: la “discesa all’inferno”

In una sera di Aprile del 1921 al Bal Bullier, una sala da ballo parigina un po’ démodé, James Joyce
festeggiava l’accordo raggiunto con Sylvia Beach per la pubblicazione integrale del suo Ulysses,
presso la Shakespeare & Co. di Parigi.
Americana di nascita, Sylvia Beach arriva nella ville lumière nel 1916 con l’intento di studiare
letteratura francese. Qui conosce la libraia Adrienne Monnier, che diventa ben presto la sua
inseparabile compagna, tanto nella vita quanto negli affari; nella piccola libreria della Monnier, Sylvia
incontra una parte di quegli intellettuali che graviteranno poi intorno alla Shakespeare and Company:
Ezra Pound, André Gide, Ernest Hemingway e molti altri. Il grande sogno dell’americana trapiantata
in Francia era quello di tornare in America, in particolare a New York, per aprire una libreria dedicata
ai grandi autori della letteratura francese contemporanea, ma il costo troppo elevato degli affitti non
glielo permetteva. Il progetto originario subisce allora un radicale – ma fortunato - cambio di rotta: il
19 novembre 1919 Sylvia Beach apre una libreria americana nel cuore di Parigi soprannominandola,
appunto, Shakespeare & Company.

10
Shakespeare W., Amleto, Nemi D’Agostino (a cura di), Padova, 2012, p.7 (Atto I, scena I)
13
E’ soprattutto al nome di James Joyce che è legata la fama della libreria e della sua proprietaria – alla
quale, però, anche l’autore stesso deve molto. Sylvia Beach conosce lo scrittore irlandese a una festa
nell’estate del 1920, periodo in cui Joyce era concentrato sulla stesura dell’Ulysses. Durante una
discussione riguardo all’incerto futuro del libro la Beach, nonostante la scarsa esperienza, si propone
come editore e Joyce - già consapevole della difficoltà dei temi e delle modalità in cui sono espressi
– accetta la sua proposta. E’ lei ad occuparsi di tutto: organizza liste di sottosizione per raccogliere
fondi e finanziare la stampa - quello che oggi chiameremo crowdfunding - e raggiunge accordi con
una tipografia di Digione per quanto riguarda la tiratura.
Il 2 febbraio 1922, giorno del quarantesimo compleanno di James Joyce, Sylvia Beach consegna allo
scrittore la prima copia del suo supremo romanzo come regalo.

Il termine romanzo è – per così dire – di convenienza, ma non completo: Ulisse è anche un
antiromanzo, una fantasia oppure, come lo stesso Joyce lo aveva definito, “a kind of encyclopaedia”.11
L’Ulisse si trova al fianco della Waste Land di T.S. Eliot in quanto entrambi sono considerati
l’esempio del punto più alto raggiunto dal modernismo12. Sebbene le opere moderniste differiscano
spesso l’una dall’altra e i loro stessi autori siano dei veri e propri ‘attaccabrighe’, molte sono le
caratteristiche ricorrenti che danno un’identità all’intero movimento. In letteratura assistiamo,
innanzitutto, ad un’ironica giustapposizione tra il “vecchio”, e quindi i classici, i miti e così via, e il
“nuovo”, il moderno, appunto. Quasi tutta la produzione enfatizza, inoltre, il relativismo e la
soggettività nella percezione: ciò non determina – a differenza del Romanticismo, ad esempio – la
possibilità di distaccarsi eccessivamente da ciò che è reale. L’autore modernista ha, infatti, bisogno
di “essere coinvolto dallo spirito del proprio tempo”13 e deve essere capace di cogliere e analizzare
tutta la realtà, senza tralasciare ciò che potrebbe apparire sporco, scomodo e imbarazzante. Ciò
implica, dunque, il rifiuto della rispettabilità e della morale casta e puritana dell’epoca Vittoriana. Il
modernismo tenta di abbattere quella repressione creata da dettami troppo severi e che ,
paradossalmente, finivano troppo spesso per condurre il soggetto a una condizione di vita voluttuosa
e spregiudicata: l’era vittoriana possedeva molte ombre e fu uno dei periodi più ricchi di
contraddizioni di tutta la storia inglese.

11
Selected letters of James Joyce, ed. Richard Ellmann, London, 1975, p.271
12
Il modernismo è un movimento culturale che rappresenta un particolare modo di accogliere i rapidi cambiamenti
storici, demografici e – appunto - culturali che si susseguono dal 1890 al 1940 ca. L’urbanizzazione e
l’industrializzazione, la mobilità sociale e le ricerche scientifiche portano l’individuo a interrogarsi sullo schema di
valori esistente. L’identità modernista deriva da numerose caratteristiche che si possono riscontrare anche in altre
epoche, ma è in questo periodo storico che acquistano maggiore identità e sono frequentemente presenti all’interno
delle produzioni artistiche.
13
A. Power, Conversazioni con Joyce, Roma, 1980, p.11
14
L’Ulisse è un’ opera realista, anzi, possiamo affermare che Joyce ricerca ciò che è reale in maniera
onnicomprensiva: egli espone ciò che il realismo ha fino ad ora – e volutamente – lasciato fuori da
ogni narrazione. Non esistono taboo all’interno di questo romanzo che ci descrive qualsiasi aspetto
della vita incluse quelle funzioni e quei vizi che caratterizzano l’animale umano: la minzione, la
defecazione, la masturbazione, il sado-masochismo, il feticismo, la copulazione e via dicendo. Il
realismo può essere un approccio letterario tediante quando deve seguire i dettami della rispettabilità,
ma quando si estende in maniera così forte anche agli aspetti “oscuri” e celati della vita può risultare
sorprendentemente accattivante. James Joyce è inoltre un abile maestro nel lasciare all’ironia il
compito di sottendere l’intero romanzo – proprio come lo era stato Shakespeare nel suo
Amleto. La grandiosità dell’opera joyciana è la sua sottile bellezza, fatta di luci che si alzano e si
abbassano continuamente per volere dello stesso autore che in questo momento della sua vita aveva
raggiunto un livello di consapevolezza personale e artistica incredibile; egli stesso aveva affermato:
“L’esperienza è la discesa all’inferno, e l’Ulisse è quella discesa [..] Ulisse è l’uomo dell’esperienza.
Da questo matrimonio, da questo matrimonio forzato di spirito e materia viene generato
l’umorismo, perché Ulisse è un’opera fondametalmente umoristica, e quando verrà meno tutta la
confusione della critica attuale in proposito, la gente lo vedrà per quello che è.”14

E’ ovvio che per rispondere alla sua volontà di essere ‘cronista’ della propria epoca, comprese tutte
le sue sfaccettature, da quelle politiche e storiche, a quelle sociali e psicologiche, l’autore deve
approdare a un nuovo tipo di scrittura e di linguaggio: il significato diventa complesso e con esso
anche il significante assume altre forme - o meglio, si ‘deforma’. Ecco che, dunque, si assiste a una
continua ripresa di espedienti quali il simbolo, l’analogia, lo stream of consciousness o i moments of
being, l’allusione ai miti e alle leggende; l’opacizzazione lessicale15, ovvero l’impoverimento della
sintassi tipica del linguaggio infantile, la paratassi, o ancora i lunghi monologhi.
James Joyce asseconda queste richieste in maniera eccezionale: l’Ulisse è un esperimento esuberante
nel rappresentare la coscienza umana e nella sua capacità di mostrare con grande virtuosismo – un
virtuosismo a volte quasi eccessivo – le risorse del linguaggio.
La cronologia degli eventi in Ulisse è limitata a circa venti ore, la maggior parte del giovedì 16 Giugno
1904, data che commemora il primo appuntamento di Joyce e Nora Barnacle: questo giorno verrà
ricordato in Irlanda e all’estero come Bloomsday, in contrapposizione al Doomsday.16 Ci troviamo

14
Ibidem, pp. 93-94
15
Amalfitano P. in Spazi segreti in Ulysses , Ruggieri F. (a cura di), Napoli
16
Doomsday: Giorno del Giudizio/ Apocalisse
15
dinanzi a una delle novità più evidenti del romanzo, ovvero la sua durata paradossale che travalica
largamente la temporalità della giornata di cui racconta la storia. Le vicende che si svolgono dalle 8
del mattino del 16 giugno 1904 alle 2 della notte del giorno successivo riempiono circa 800 pagine di
una narrazione che si svolge a Dublino – città natale e punto focale prediletto di Joyce – o nelle
estreme vicinanze. Dalle strade movimentate del centro alle rive del fiume, dagli ‘Nighttown’ alle
regioni costali di Dublino, ogni luogo è descritto in maniera così dettagliata da sembrare ossessiva,
in uno stile che alterna il melodioso a un’astrusa prosa scientifica.
Oltre alle numerose descrizioni, la maggior parte delle pagine del romanzo sono occupate dalla
rappresentazione della vita psichica dei tre personaggi principali; uno è Leopold Bloom, un agente
pubblicitario ebreo per antenati, cristiano perché è stato battezzato, Irlandese per nascita, scettico ma
benevolo per natura. L’altro è Stephen Dedalus, insegnante e scrittore, nonché già protagonista del
lungo e autobiografico A Portrait of the Artist as a Young Man – che era stato preceduto dallo Stephen
Hero. Il terzo personaggio è di sesso femminile e corrisponde al nome di Molly Bloom (Marion), una
donna attraente e sveglia e una cantante di talento: è la moglie di Leopold Bloom e – con molta
probabilità – è il corrispettivo letterario della moglie di Joyce, Nora Barnacle.
Stephen Dedalus è un uomo intelligente ma egocentrico; desidera diventare uno scrittore famoso ma,
pur avendo grosse aspirazioni, è limitato nel raggiungimento dei suoi obbiettivi. Alla fine del Portrait
Stephen aveva lasciato l’Irlanda – sulla falsariga delle decisioni di Joyce stesso – per avere maggiori
chances di successo. Quando lo incontriamo di nuovo all’interno dell’Ulysses, scopriamo che invece
di aver creato un qualche capolavoro letterario all’estero, egli è tornato in Irlanda e cerca di
guadagnarsi da vivere facendo l’insegnante. Nonostante la sua abilità – che pure viene mostrata nel
romanzo – nel teorizzare su questioni letterarie di ogni tipo, Stephen rimane un soggetto
estremamente egocentrico e che tende a mortificarsi di continuo; inoltre, egli sembra essere
dolorosamente solo.
Leopold Bloom, al contrario, si presenta come un soggetto curioso, con un incessante interesse per la
vita che lo circonda e per questo costantemente alla ricerca del dialogo con l’altro. Il suo essere
particolarmente empatico e altruista è ciò che manca a Stephen e anche per questo motivo i due
personaggi saranno sempre – e inconsapevolmente – alla ricerca l’uno dell’altro, quasi come se
l’autore volesse creare una ‘combinazione’ di abilità e caratteri.
Il titolo dell’opera ci obbliga – almeno inizialmente – a comparare il personaggio di Leopold con
quello omerico di Ulisse/Odisseo: un eroe forte, saggio e spesso anche omicida contro un “avvocato

16
di pace e armonia”17; anche stavolta - come era già avvenuto nel qui citato Hamlet shakesperiano –
non ci sono grandi eroi né imprese spettacolari. Ad ogni modo, il lettore finisce spesso per preferire
Leopold Bloom ad Odisseo: egli è il tipo di uomo di cui la modernità ha bisogno, un uomo gentile
che auspica a un mondo pacifico. Invece della vittoria manifesta dell’uomo leggendario scaltro e
potente, l’Ulisse sembra offrirci la vittoria nascosta dell’uomo mondano pacifista.
Non bisogna, dunque, credere che non vi sia alcuna celebrazione all’interno del romanzo joyciano:
fra tutte le opere moderniste, Ulysses possiede la sua personale celebrazione della vitalità,
considerando le parole di Bloom alla stessa stregua della lancia dell’eroe omerico.

“ That literature embodies the eternal affirmation of the spirit of man is not a crotchet of Stephen
but a principle of Joyce [..] It is no accident that the whole of Ulysses should end with a mighty
yes.” 18 4 Percorsi intertestuali

4.1 La ‘ricerca’ del padre: Stephen/Joyce e Hamlet/Shakespeare

Il mondo creato da Joyce all’interno dell’Ulisse è come un mondo creato da una divinità, in cui è
possibile ricercare modelli e significati e, nonostante i protagonisti considerino se stessi come agenti
insignificanti gettati in un mondo caotico, essi corrispondono ad una precisa cornice intertestuale
fatta di miti e archetipi che guidano le loro azioni e le loro vite. Questo è il mythical metod
utilizzato da Joyce e che si sviluppa attraverso gli espedienti dell’analogia e della corrispondenza.
Nei Linati and Gorman-Gilbert Schemas Joyce prova a spiegarci una parte dei significati racchiusi
all’interno del suo romanzo, servendosi non solo del metodo classico-medioevale-ecclestiastico di
categorizzazione enciclopedica del mondo; ma anche del pensiero moderno, secondo il quale il
cielo, la terra e la razza umana intrattengono una relazione basata proprio su un elaborato sistema di
analogie e corrispondenze. Vi è, dunque, la ripresa di alcune linee del Rinascimento che aveva
infatti portato con sé la nozione dell’uomo quale microcosmo governato dai quattro umori, a loro
volta strettamente collegati agli elementi del macrocosmo, ovvero l’universo.
Un esempio del metodo utilizzato da James Joyce è visibile all’interno dell’episodio di Scilla e
Cariddi che di seguito analizzeremo. Seppur i personaggi di Ulisse e quelli creati da William
Shakespeare non abbiano – analogicamente parlando – nulla in comune, l’autore li presenta gli uni
come controparte degli altri attraverso l’analogia.

17
Cedric Watts in Ulysses, Wordsworth Editions, 2010
18
R. Ellmann, Selected letters of James Joyce, pp. 372-373
17
Correspondences: The Rock- Aristotle, Dogma, Stratford: The Whirlpool-Plato, Mysticism,
London: Ulysses- Socrates, Jesus, Shakespeare.19

Il disfacimento dei valori tradizionali esistenti e la conseguente incertezza sono i tratti caratteristici
della società inglese dell’epoca moderna, ovvero del primo ‘900.
L’opera narrativa di Joyce appare essere espressione dell’atteggiamento di crisi che ne derivò,anzi,
possiamo dire che essa ne è il modello più significativo: si tratta di una ribellione razionale e
consapevole contro quei principi e criteri che avevano costituito il presupposto dell’esistenza di
Joyce stesso e di tutta la società inglese in generale, ovvero Famiglia, Patria e Religione.
Nato e cresciuto in una Dublino politicamente travagliata e corrotta, Joyce rispecchia i conflitti e
l’incomunicabilità, il disadattamento proprio dell’individuo all’interno di una società che rifiuta
ogni sovrastruttura di un sistema ormai vecchio e inaccettabile.
Questo rifiuto trova la sua prima espressione in quello che è il ricettacolo della famiglia, il
microcosmo sociale che aveva assunto ai suoi occhi dei connotati troppo limitativi e soffocanti.
Ogni opera dello scrittore irlandese risente di questo rifiuto/ossessione, che va via accumulandosi
sino a raggiungere il suo apice all’interno dell’Ulisse: qui vi è un vero e proprio capovolgimento del
senso fondamentale della partenità e allo stesso tempo la sua sublimazione a livello artistico.
La difficoltà nell’accettare la “gigantesca, biblica figura paterna” costituisce un carattere preminente
nella vita personale e artistica di James Joyce: è soprattutto questa difficoltà che lo ha portato a
creare nelle sue opere delle “figure indefinite” alla costante ricerca di un valore che diviene –
muovendosi cronologicamente all’interno della sua produzione – sempre più irraggiungibile. Infatti,
se nel Portrait sembra esserci ancora una parziale considerazione e accettazione del nucleo
familiare, e in particolare del ‘padre biologico’, in Ulisse assistiamo alla disperata ricerca, da parte
di Stephen Dedalus, di una figura paterna che però nulla ha a che vedere con colui che porta il suo
stesso cognome.
La madre di Stephen è da poco deceduta ed egli sembra del tutto alienato dalla sua famiglia e
soprattutto dal suo insensibile padre. Contemporanemante a Stephen, anche Leopold Bloom, il
quale ha assistito alla morte di suo figlio Rudy ,avvenuta in tenera età, è alla ricerca di un “figlio”;
ed è questa, infatti, l’intenzione sostanziale dell’intero romanzo: esso si poggia sulla costante ma

19
Appendix: The Linati and Gorman-Gilbert Schemas Compared, in Ellmann, R. Ulysses on the Liffey, London, 1972
18
inconsapevole attrazione tra questi due personaggi. Alla fine Bloom e Dedalus riescono ad
incontrarsi, in un’Itaca divenuta qui un bordello: questo incontro avviene a Nighttown e vede
Bloom agire in veste di ‘buon samaritano’ nei confronti di Stephen che appare coinvolto in una
rissa. Leopold riesce a salvarlo e decide di portarlo a casa sua; l’incontro tanto agognato nei capitoli
precedenti è ,però, deludente e destinato ad esaurirsi in breve tempo. Ciò avviene poiché Leopold
Bloom non soddisfa le esigenze di Dedalus: egli è “troppo umano” e non può, quindi, assurgere a
padre spirituale.
La figura del padre biologico, spesso glorificata dalla tradizione, viene vista da Stephen come a
necessary evil20 , ovvero: il ruolo del padre nella nascita di un figlio è meramente strumentale.
Dunque, se il padre può essere tale solo a livello spirituale- ideale, viene a crearsi un’unica
alternativa appagante: quella della creazione artistica, e dell’arte in generale. La paternità viene ora
identificata nella creatività artistica e l’artista è fautore di una sorta di “auto- genesi”.
Joyce ci indirizza verso questa chiave di lettura fornendoci la sua particolare interpretazione
dell’Amleto, attraverso le parole che Stephen Dedalus pronuncia nella Biblioteca Nazionale a
sostegno della sua tesi enunciata nel capitolo di Scilla e Cariddi: egli sostiene che il fantasma della
tragedia shakesperiana - il re di Danimarca ucciso - sia lo stesso Shakespeare. Hamlet viene
probabilmente scritto quando Shakespeare aveva da poco perso il giovane figlio di nome Hamnet; la
perdita del figlio era stata preceduta da quella del padre: si crea una sorta di ‘corto circuito’ nella
psiche dell’autore che lo porta alla creazione di quella trinità di cui parlerà Joyce in Ulysses
prendendo spunto – ed ecco che la tragedia amletica funge da modello – da un lato da
Ulisse/Telemaco/Laerte e dall’altro da Hamlet/Hamnet/Shakespeare. 21

“When Rutlandbaconsouthamptonshakespeare or another poet of the same name in the comedy of


errors wrote Hamlet, he was not the father of his own son merely but, being no more a son, he was
and felt himself the father of all his race [..]”22

I problemi di ordine esistenziale e morale appaiono insolubili nella vita reale e possono essere risolti
soltanto attraverso la loro sublimazione nel mondo fittizio della creazione artistica.
Stephen rende Shakespeare padre di se stesso e di tutta l’umanità – così come lo è Dio nella
creazione naturale - e, allinenadosi alla sua figura, ci rivela la sua volontà, e quindi quella dello

20
Ulysses, Wordsworth Editions, 2010, p.186
21
Curti L. in Ombre Di Un’Ombra. Amleto e i suoi fantasmi, Napoli, 1994, p. 18
22
Ulysses, p. 187
19
stesso Joyce, di essere libero e avulso da qualsiasi legame originario. Perciò, se da un lato sembra
che Stephen/Joyce, nella ricerca di un padre spirituale, crei un legame con Hamlet/Shakespeare,
dall’altro pare vietarsi qualsiasi possibilità di trovare al di fuori della sua persona e della sua
ricchissima sensibilità l’appagamento che tanto desiderava.
Joyce si pone sullo stesso piano artistico di Shakespeare poiché vuole egli stesso assurgere a ‘padre
dell’umanità’ in quanto Artista. E’ questo l’unico senso in cui esiste il Padre per Stephen/Joyce,
ovvero in senso spirituale (Dio) e in senso artistico (Artista).

4.2 Il femminile e la ‘colpa’: Anne Hathway/ Gertrude e Penelope/ Molly Bloom

L’ambiguità del dramma di Hamlet e il suo ‘eccesso’ sono connessi anche a una particolare immagine
del femminile, e l’Ulysses joyciano – affidando ancora una volta l’incarico a Stephen Dedalus – ne
ripercorre alcuni tratti salienti creando un ulteriore collegamento tra i due testi.
La donna appare macchiata da una ‘colpa’ che si sviluppa – sia nell’Ulysses che in Hamlet – su due
piani differenti, ovvero quello materno e quello della fedeltà coniugale.
Come già mostrato nel capitolo precedente, il sistema di analogie e corrispondenze forgiato da Joyce
suggerisce che Shakespeare avrebbe scritto l’Amleto al fine di ‘comunicare’ con il figlio defunto
Hamnet sotto le vesti del fantasma del Re di Danimarca:
“[..] you are the dispossessed son: I am the murdered father: your mother is the guilty queen, Ann
Shakespeare, born Hathaway [..]”23

Il personaggio di Gertrude è, dunque, identificato come proiezione della moglie di Shakespeare, Anne
Hathaway e, oltre ad essere una regina o moglie infedele è anche una madre colpevole.
Anche stavolta Amleto e Stephen condividono il peso dell’autorità familiare, non più identificata nel
padre, ma nella madre: il primo poiché sconvolto e disgustato dalle azioni di sua madre – e mosso
anche dal ‘fastidio’ provocatogli da quello che oggi definiamo Complesso di Edipo ; il secondo poiché
costantemente frustrato per non aver assistito e commemorato sua madre nel letto di morte,
nonostante lo avesse più volte incitato a farlo. Entrambi i personaggi, nel presente delle opere in cui
si muovono, non ricevono più l’affetto delle loro madri e sono altresì costantemente tormentati dalle
loro figure, figure che divengono quasi un ‘incubo’ da cui liberarsi.

23
Ibidem, p. 169
20
Eppure, quando a Stephen viene chiesto se crede davvero nella sua teoria su Shakespeare – e in
particolare sull’Amleto – egli risponde di no: l’approccio ironico alla vita del Bardo corrisponde
proprio a quella volontà di Joyce di servirsi di uno dei padri della letteratura, ma allo stesso tempo di
‘giocare’ con la sua immagine per poter narrare le proprie vicende personali – il tormento generato
dalla morte della madre è infatti un fattore presente nella vita di James Joyce – e ergersi egli stesso a
‘creatore’ superiore.

Nel trattare la questione del femminile, oltre alla tragedia amletica, sarà necessario ricorrere ad altre
fonti shakesperiane per ben comprendere i riferimenti di Stephen Dedalus. I Sonetti offrono una
chiave di lettura più profonda della vita sentimentale di Shakespeare e, inoltre, sono necessari a Joyce
per tenere in vita il parallelo con il mito omerico, stavolta incentrato sulla figura della donna, e in
particolare di Penelope. E’ proprio partendo da questo nome che si snodano i vari intrecci: Penelope
Rich, nobile donna alla corte della regina Elisabetta - nonché Musa di molte personalità artistiche
grazie alla sua ‘facilità’ nel concedersi agli uomini - è tra le potenziali candidate della famosa Dark
Lady dei Sonetti. Nell’Ulisse di Joyce Penelope Rich, quale controparte del suo omonimo omerico, è
nominata per la prima volta nel capitolo Eolo quando a proposito di Omero Stephen Dedalus dice:
“[..] and he wrote a book in which he took away the palm of beauty from Argive Helen and handed
it to poor Penelope. Poor Penelope. Penelope Rich.”24

Dedalus crea un associazione – utilizzando l’aggettivo Poor – tra la moglie dell’eroe omerico e la sua
controparte meno fedele dell’età elisabettiana. Ma alle due Penelope se ne aggiunge una terza, alla
quale viene attribuito questo nome seppur non corrispondente alla realtà:

“But all those twenty years what do you suppose poor Penelope in Stratford was doing behind the
diamond pines?”25

Penelope è questa volta Anne Hathway e Shakespeare è presentato come un moderno Ulisse che lascia
la sua terra in cerca di imprese eroiche. La differenza sostanziale sta negli esiti di questa lontananza:
l’eroe Ulisse torna ad Itaca e può vantare di avere avuto una moglie fedele, che lo ha atteso a lungo;
invece, Anne Hathway a Stratford non conduce una vita casta in nome del marito Shakespeare, ed è
per questo che Stephen Dedalus la associa alla guilty queen della tragedia di Amleto, ovvero

24
Ivi, p. 132
25
Ivi, p. 181
21
Gertrude. Viene a crearsi così un complesso sistema di riferimenti intertestuali che vedono
protagoniste una serie di donne di epoche differenti e, soprattutto, dalle qualità diametralmente
opposte. Questo cerchio, che partendo dall’età antica passa per il Rinascimento elisabettiano, si
chiude nel mondo moderno del ‘900: Molly Bloom è la nuova Penelope di Dublino. Molly sembra
proprio richiamare l’immagine della Dark Lady e, come le precedenti controparti della Penelope
originaria, tradisce Leopold Bloom nei pensieri e nelle azioni: è macchiata della colpa di aver
condiviso il suo letto con Blazes Boylan – il manager per il suo spettacolo canoro – e di aver
desiderato Stephen Dedalus, come lei stessa ammette nel capitolo finale dell’Ulisse:

“ Im sure itll be grand if I can only get in wit a handsome young poet at my age. . and I can teach him
the other part Ill make him feel all over him till he half faints under me [..]”

Penelope Rich – seppur non presente né in Hamlet, né in Ulysses - contribuisce, dunque, all’analisi
di un altro archetipo: dopo la figura fallimentare del ‘padre biblico’ ,abbiamo quella altrettanto
illogica della ‘sposa e madre fedele’. Servendosi ancora una volta di Shakespeare e mostrando la
conoscenza assoluta di qualsiasi opera del Bardo, Joyce smantella un’altra componente di quei valori
su cui la vita di ogni uomo sentimentale si fonda: è la passione a governare le menti e i corpi, e colui
che rifiuta di guardare in questa direzione si sottrae alla verità.
Se il classicismo aveva proposto un’idea ordinata della letteratura e della vita – che ancora resiste nel
presente di James Joyce - lo scrittore moderno tenta di apportare una ‘distorsione’ che è il risultato
della fusione del mondo esterno con la propria identità contemporanea e, soprattutto, con il proprio
subconscio.
La ‘colpa’ femminile – tentando di seguire le logiche di Joyce- qui non assume quindi dei connotati
negativi, ma è inglobata in una visione della vita e delle relazioni umane di più ampio respiro; la
sovrastruttura che viene colpita dall’autore è,invece, sempre quella della famiglia e – soprattutto in
questa analisi – si intravede il rifiuto anche di quella che è l’istutizione del matrimonio quale ‘forma
fissa’ e impossibile da perpetuare per ogni essere umano. L’Ulysses non è - sotto ogni punto di vista
– un’opera che lascia spazio a morali di ogni genere. Come lo stesso Joyce sosteneva:

“La passione crea e distrugge, ma il sentimentalismo è una risacca in cui si accumula rumorosamente
ogni genere di robaccia, ed io non riesco a pensare ad una sola opera sentimentale che sia

22
sopravvissuta a oltre due o tre generazioni. Meglio la forza brutale. Almeno hai a che fare con
qualcosa di primitivo.”26

4.3 Il play-within-the-play: l’episodio di Circe e l’Assassinio di Gonzago

Ultima parte della sezione Odissea, capitolo 15: Circe, anche detto Il Bordello.
E’ questo l’episodio in cui Stephen Dedalus e Leopold Bloom finalmente si incontrano e le loro
relazioni - anche quelle con la stessa città di Dublino - vengono rese veramente esplicite. E’ il punto
in cui una parte delle verità che sottendono il romanzo vengono rivelate, seppur sottoforma di
‘allucinazioni’. Nel leggere questo capitolo dell’Ulisse ci sembra quasi di aver cambiato libro o genere
letterario: ciò accade poiché James Joyce, nello scrivere Circe, si avvale della formula teatrale, ovvero
del dramma, ovviamente trasposta in chiave del tutto moderna.
Oltre a fungere da ‘chiarificatore’ sotto molti aspetti, questo episodio permette al romanzo di
raggiungere il culmine in termini di vicinanza alla tragedia shakesperiana dell’Amleto. Ancor più
dell’utilizzo dell’espediente teatrale – che già rende possibile questa associazione in Circe più di ogni
altro capitolo – è la sua somiglianza a quello che è l’Assassinio di Gonzago all’interno dell’opera di
Shakespeare. Infatti, proprio come accade in Hamlet, anche Joyce sembra porci davanti a quello che
viene definito play-within-the-play, soltanto che – trovandoci dinanzi ad un romanzo – in questo caso
si tratta di una sorta di ‘play-within-the-novel’.
In altre parole, l’episodio ambientato nel quartiere dei bordelli di Nighttown sembra operare proprio
come quello dell’Assassinio di Gonzago: anche se appare ancora più confusionario del resto del
romanzo, esso rende maggiormente comprensibili alcuni simboli e immagini e – più in generale – il
sostrato culturale presente all’interno dell’opera. Ogni oggetto, emozione o sensazione è
drammatizzato e personificato in Circe, e sembra rivestire il ruolo di protagonista all’interno di
un’azione teatrale.
Shakespeare si serve del ‘teatro nel teatro’ per mostrare chiaramente le paure di Amleto, la sua
ossessione per la madre, i suoi pensieri sullo zio Claudio, la preoccupazione per una politica e uno
stato malati; allo stesso modo le allucinazioni di Leopold Bloom riguardano la famiglia, la politica,
la chiesa, la scienza e hanno tutte un esito negativo, come a voler rendere ancor più chiara al lettore
la sua visione pessimistica di quelle nets di cui Joyce ci parla nel Portrait.

26
A. Power, Conversazioni con Joyce, 1980, p.66
23
Le allucinazioni di Dedalus e Bloom procurano visioni di fantasmi sparse per l’intero episodio che li
portano sostanzialemente a interrogarsi sulle loro colpe e sulla loro vera natura, calandoli in una
situazione analoga a quella di Amleto a cospetto del fantasma del padre. Stephen, ancora tormentato
dalla morte di sua madre, assiste all’apparizione del suo fantasma e cerca in tutti i modi di liberarsi
dal pensiero di un suo eventuale contributo alla morte della stessa, dal momento che non l’aveva
assistita e si era rifiutato di pregare per lei; così come Hamlet pretendeva la verità dallo spettro di suo
padre, Dedalus vuole scrollarsi di dosso questo rimorso che lo tortura:

“Tell me the word, mother, if you know now. The word known to all men.”27

Ma la madre di Stephen interpreta la parola word in senso religioso e, dunque, chiede a suo figlio di
pentirsi di non aver pregato per lei e – più in generale - di non professare un credo religioso. Al
termine di questa allucinazione Dedalus non scioglie i suoi dubbi, anzi, reagisce in maniera forte ai
continui richiami religiosi di sua madre: la visione si conclude quando – in preda alla rabbia - scaglia
un bastone sul lampadario e divampano le fiamme.
Per quanto riguarda Bloom invece, il suo primo incontro con un fantasma all’interno di Circe è quello
con Paddy Dignam, la quale voce richiama indiscutibilmente quella dello spettro del re di Danimarca
nell’Amleto di Shakespeare:

“Bloom, I am Paddy Dignam’s spirit. List, list, O list!”28

“But this eternal blazon must not be


To ears of flesh and blood. List, list, O list!”29

Lasciando che si crei un parallelo tra Dignam e il padre di Amleto, Joyce rende questo spettro una
sorta di ‘presagio’ per ciò che Bloom vedrà in seguito, ovvero la figura di suo figlio Rudy: ancora
una volta viene a definirsi quella relazione tra padre-figlio così importante all’interno dell’Ulisse. Il
fantasma di Rudy appare a Leopold al termine del capitolo ed è evidente che ciò accade poiché, dopo
aver incontrato e soccorso Stephen, viene a crearsi un’associazione mentale in Bloom tra i suoi due
‘figli’; è, quindi, il desiderio di volersi legare a Dedalus che lo rimnda al suo figlio naturale.

27
Ulysses, Wordsworth Classics, 2010, p. 500
28
Ibidem, p. 420
29
Shakespeare W., Amleto, Nemi D’Agostino (a cura di), Padova, 2012, p.50 (Atto I, scena V)
34
Ulysses, Wordsworth Edition, 2010, pp.490-491
24
E così come il re di Danimarca defunto era apparso a suo figlio Amleto con l’armatura, anche Rudy
si presenta al padre con un elmetto: sin dall’episodio di Scilla e Cariddi, Bloom e Stephen comunicano
a distanza attraverso Shakespeare e in Circe – rinnovando il legame con la tragedia amletica –
procedono nel fondersi in un’unica persona. A questo punto del romanzo joyciano, infatti, i due
protagonisti si ritrovano dinanzi ad uno specchio nel quale compare il volto di William Shakespeare;
esso non può presentarsi soltanto a Dedalus o a Bloom, egli è l’artista che sovrasta le loro vite e le
loro difficoltà, deve essere visibile ai ‘due’ in modo che diventino ‘uno’:

“Stephen and Bloom gaze in the mirror. The face of William Shakespeare, beardless, appears there,
rigid in facial paralysis, crowned by the reflection of the reindeer antlered hatrack in the hall [..]”34

Bloom riesce finalmente a guadagnarsi lo status di ‘padre consustanziale’ attraverso Shakespeare e,


allo stesso tempo, Stephen è divenuto ‘figlio’, risolvendo il dilemma che attanagliava le loro identità.
5 Riflessioni Conclusive

Giunta alla fine del mio elaborato, ho deciso di intitolare quest’ultima parte con l’espressione
‘riflessioni conclusive’ e non utilizzando il termine ‘conclusioni’ poiché essa non rappresenta affatto
una conclusione, ma un punto di partenza per quelli che per me saranno motivi di studio e riflessione
futuri. La complicata lettura dell’Ulisse mi ha molto incuriosita e la scoperta di una vasta quantità di
materiale che presupponesse la ripresa generale di Shakespeare mi ha particolarmente entusiasmata.
Inoltre, procedendo nella stesura, ho avuto bisogno di consultare quei Sonetti che tanto mi erano
piaciuti anni addietro,di approcciare a un’opera quale Troilo e Cressida che ancora non conoscevo e,
ovviamente, di rileggere l’Amleto, il testo che prediligo tra i tanti di William Shakespeare.

Le fonti alle quali ho avuto modo di attingere, utili ai fini dell’elaborato e funzionali per i tempi a mia
disposizione, mi sono parse però limitanti e non sufficientemente esaustive per la mia curiosità.
Quando mi sono approcciata per la prima volta all’opera di Joyce, ovvero durante l’ultimo corso
universitario di Letteratura Inglese, leggendo il titolo ho cercato – come la maggior parte degli
studenti credo abbia fatto – di ritornare ai tempi delle scuole medie per ricordare quelle che erano le
nozioni su Omero e la sua Odissea. Il rimando è stato istantaneo, ma procedendo con la lettura e
studiando vari testi di critica letteraria che mi erano stati proposti dal mio docente, ho finito per
giungere alla conclusione che questo titolo fosse veramente amletico – per servirci ancora una volta

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di Shakespeare. Esiste davvero un legame così forte con il mito? A parte il paragone tra l’odissea
avventurosa dell’eroe greco Ulisse – con tanto di ripresa di personaggi quali Circe, Scilla e Cariddi,
Sirene etc - e quella di un uomo ordinario e per nulla eroico, Leopold Bloom, tra le insidie della
quotidianeità e della storia, non trovavo molte motivazioni che giustificassero la scelta operata da
Joyce. Tentavo piuttosto di addentrarmi in altri percorsi, e in questo modo non mi è risultato difficile
identificare Shakespeare nel personaggio di Bloom: constantemente interconnessi da immagini quali
il figlio Rudy/Hamnet defunto e dal conseguente desiderio di partenità oppure la moglie Anne
Hathaway/Molly che lo tradisce ma dalla quale ritorna alla fine del suo viaggio (Shakespeare) o della
sua giornata, che è come un viaggio (Leopold). Ed ecco che Stephen Dedalus viene invece a
identificarsi in Amleto, entrambi giovani intellettuali forti di intenzioni ma bloccati nell’azione,
scontenti della loro patria, bisognosi di un padre. Il desiderio di paternità di Leopold Bloom trova in
Stephen Dedalus un figlio per così dire spirituale, nello stesso modo in cui Amleto può essere
considerato figlio di Shakespeare – il figlio della sua arte che, secondo Joyce, va a porsi nello spazio
interiore lasciato dalla morte del proprio figlio bambino.
Oltre all’Ulisse stesso, altri testi mi hanno spinta ad avvalorare questa traccia a discapito di quella
omerica. Particolarmente interessante è stato, tra questi, un libriccino trovato in una vecchia libreria
di Napoli, intitolato Conversazioni con Joyce e scritto da Arthur Power, un giovane pittore irlandese
che si trovò ad essere una delle persone più vicine a James Joyce nella Parigi degli anni venti.
All’interno di queste ‘conversazioni’ Power coglie lo scrittore nella dimensione di vita quotidiana e
ne trasmette un ritratto vivo e oserei dire quasi indispensabile per accostarsi alla sua personalità e alle
sue opere. E’ anche nei dibattiti di tutti i giorni – siano essi sulla letteratura o sull’arte in generale –
che Joyce nomina e riprende continuamente Shakespeare come esempio di massima genialità, seppur
riservandogli diverse critiche, e si scaglia invece contro il mito (e tutte le sue riprese in età classica e
romantica) accusandolo di aver sempre proposto eroi e imprese straordinarie a discapito del disagio
e delle passioni della vita vera.
La domanda che ne è scaturita allora è stata: perché chiamare il suo capolavoro Ulisse se una grossa
parte del libro è chiaramente riferita al Bardo, e in maniera particolare all’Amleto? Sicuramente è
presente dell’ironia, ironia di cui Joyce era strenuo portatore, anche nella scelta di un titolo: quella di
Leopold Bloom, e se vogliamo anche di Stephen Dedalus, è la vera odissea per Joyce, il vero viaggio
insidioso è quello nella vita ordinaria e in tutte le sue strade impervie e non c’è bisogno di eroi o di
gesta particolari.
L’intenzione di James Joyce non era, però, solo quella di fare dell’ironia e un’altra chiave di lettura
mi è stata offerta dalla lettura di una parte dell’opera di Harold Bloom citata in bibliografia, The

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Anxiety of Influence: A Theory of Poetry. Oltre a operare lo studio dell’Ulisse sulla scia della tragedia
amletica, egli sostiene che tutti i grandi scrittori vivono appunto un’ ‘ansia da influenza’ nei confronti
dei loro grandi predecessori; in altre parole, ne sono influenzati poiché ne riconoscono la genialità e
l’importanza – come nel caso di Joyce che guarda a Shakespeare – ma allo stesso tempo vogliono
liberarsi di tale influenza e divenire loro stessi i nuovi ‘padri’ della letteratura.
E’ anche grazie a Bloom che sono giunta a considerare il titolo ‘Ulisse’ come un forte segnale dell’
intenzione che Joyce sembrava avere nei primi anni del ‘900, ovvero quella di superare Shakespeare
e di dare alla sua opera un valore rifondante, di renderla un prototipo per una nuova era letteraria.

Nonostante ciò, mi rendo conto di nutrire ancora svariati dubbi riguardo la comprensione totale del
romanzo di James Joyce e di avere, dunque, molte domande alle quali ho solo parzialmente trovato
risposta; per questo motivo, ho deciso di rileggere in maniera più accurata il testo e di dedicare ancora
del tempo alla ricerca delle ‘trame segrete’ dell’Ulisse.

Bibliografia

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Oxford University Press, 1962

Amalfitano P., (2011). ‘Spazi segreti in Ulysses’. In Ruggieri F. (a cura di), Tre saggi su Joyce Pisa,
Pacini Editore

Bloom H., The Anxiety of Influence: A Theory of Poetry, Oxford, 1997

Corti C., (2011). ‘Il piacere proibito della trama ovvero mappe segrete dell’Ulisse’. In Ruggieri F. (a
cura di), Tre saggi su Joyce, Pisa, Pacini Editore

Curti L. (a cura di) , Ombre Di Un’Ombra. Amleto e i suoi fantasmi, Napoli, Istituto Universitario
Orientale, 1994

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Joyce J., Ulisse, Giulio De Angelis (a cura di), Verona, Arnoldo Mondadori, 1960

Id., Ulysses, Wordsworth Editions, 2010

Peery W., The University of Texas Studies in English (Vol. 31). University of Texas Press, 1952
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Pelaschiar L. (a cura di), Joyce/Shakespeare (Irish Studies), New York, Syracuse University Press,
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Power A., Conversazioni con Joyce, Roma, Editori Riuniti, 1980

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Eliot T.S., ‘Hamlet and His Problems’, in The Sacred Wood: Essays on Poetry and Criticism (1922)

Villa V., ‘Figure paterne nel Portrait e nell’Ulysses di James Joyce’, in Annali. Istituto Universitario
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Sitografia

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