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Mi sono svegliata per prima, è una cosa che non capita quasi mai.

La
casa vuota e addormentata è quasi irriconoscibile nella luce fredda del
mattino. Sono seduta alla mia scrivania nell’angolo del salotto, tra il
camino e la finestra che dà sullo spiazzo d’erba che si apre in fondo alla
nostra via. Dalla cucina arriva l’odore del caffè che sta salendo nella Moka
con un rumore gorgogliante e strozzato. Ho aperto gli appunti sul tavolo
ma non riesco a cominciare a studiare, anche se so che dovrei, dovrei
proprio. Mi alzo e guardo fuori: l’aria è greve della pioggia che è scesa
tutta la notte, e ai bordi della strada lunghe pozzanghere immobili
aspettano il prossimo scroscio. Nel cielo bianco latte un esercito di nuvole
scure corre verso Nord, risucchiato dall’orizzonte; in alto, un solo
gabbiano trema con le ali aperte contro vento. Il mio cellulare vibra, e
vibra ancora. Tante cose richiedono la mia attenzione. Ma oggi la mia
testa è un gabbiano controvento che deve lottare semplicemente per
stare fermo e non precipitare, forse per questo non riesco a staccarne gli
occhi. Se guardi abbastanza in alto il cielo non ha orizzonti, non è a
misura d’uomo. Mi chiedo se gli uccelli appartengano più alla terra o al
cielo; anzi, chissà se si può davvero appartenere al cielo. Per appartenere
a qualcosa bisogna mettere radici e costruire case, e l’aria è troppo
fragile per questo. Nel punto più scuro del cielo c’è una crepa nelle nuvole
da cui spunta una luce fosforescente e dolorosa, proprio come da una
vera ferita. Io amo il cielo pulito e il sole diretto, però alle volte ringrazio
le nuvole, che piamente ci nascondono allo sguardo spietato del cielo;
come da bambini, quando ci si mette sotto le coperte sperando di
nascondersi -almeno per un minuto- dal dovere di andare a scuola che ci
chiama. Uno stormo sembra schiantarsi contro il cipresso dietro la casa di
fronte, come una stoffa portata dal vento; saranno un centinaio di uccelli
su quell’albero, ma da lontano non si vede nulla. Anche il gabbiano è
sparito, e nel cielo abbandonato le nuvole sembrano diventate più
pesanti. Al piano di sopra sento dei rumori, i miei si stanno alzando; ho
ancora poco tempo. Eppure la casa sembra non saperlo, ancora immobile
e paziente come io non sarò mai capace di essere. Per far funzionare un
matrimonio, più che l’amore, più che i soldi, più che la bellezze, più che i
figli, bisogna che uno dei due si svuoti di se stesso e rimanga in attesa,
come una stanza buia, in modo che gli altri possano abitarla. Non è
giusto ma tante volte si scopre vero. Torno a guardare fuori dalla
finestra: piove di nuovo. Il fruscio della pioggia è uno dei rumori che amo
di più stare ad ascoltare, perché se ci fai abbastanza attenzione non è
mai uguale a se steso, ma modula i toni come se cantasse. Ma è anche
una di quelle cose che sono belle solo dall’esterno, solo per chi ha un
posto sicuro per contemplarle senza venirne risucchiato. Anche la mia
casa è così: tutti la invidiano e la ammirano, quando devo stare a casa e
non posso uscire a nessuno dispiace per me. Ma la pioggia è anche
fredda, è umidità che impregna i vestiti e le ossa, è acqua scura che
macchia la pelle e le scarpe, è la mano che strappa le ultime foglie dai
rami autunnali. E casa mia è come una via di paese, elegante e
agghindata di gerani alle finestre e ringhiere coi riccioli di ferro battuto,
ma è a fondo cieco e a senso unico, senza uscita e senza possibilità di
tornare indietro. È come una città cresciuta intorno al cratere di un
vulcano, in bilico attorno al buio della morte; io so cosa significa tutti i
giorni dover camminare sospesi per evitare di essere inghiottiti, so
quanto deve pesare una goccia di pioggia per cadere dal cielo e so che
basta davvero poco. Guardo lontano ma una cortina di nuvole bianche
nasconde l’orizzonte. Sento dietro lo sterno un dolore appuntito che si
irradia alla gola e ai lobi delle orecchie: è nostalgia, è sapere che c’è un
posto, da qualche parte, dove dovrei stare e non sono. Da bambina ero
certa -di quella certezza che solo l’ingenuità può dare- di essere stata
adottata dai miei genitori; sentivo di vivere in una casa, in una famiglia,
in una vita che mi accoglieva temporaneamente, come un ospite: gradito,
ma pur sempre straniero. Poi col tempo ho capito che mi sbagliavo: il mio
volto troppo simile ora a quello di mia madre, ora a quello della madre di
mio padre; le forme del mio corpo che sembrano modellate guardando
quelle di mia madre da giovane; perfino le lentiggini rossicce erano della
bisnonna che portava- tra l’altro- il mio stesso nome. Però ho capito
anche che sentirsi al proprio posto ha poco a che fare col grembo da cui
-quasi a farlo apposta- ho voluto uscire anzitempo ormai più di 20 anni
fa. Il sangue può tenerti incatenato a una famiglia, l’abitudine a una città
di cui conosci un po’ troppo bene tutte le strade, il senso del dovere a
scelte che hai creduto di dover fare per qualcuno… ma essere costretti a
restare è molto diverso da appartenere a qualcosa: anche la nave può
ancorarsi nel porto per tutta la vita e lo stesso appartenere al mare
aperto. Per possedere bisogna consegnarsi a qualcuno; io preferisco non
avere nulla ma non dover rendere conto a nessuno. Mia nonna vorrebbe
che io fossi più bella, più magra, più allegra, più femminile; me lo ha
detto tante volte senza cercare di mascherarlo. Mia madre mi vorrebbe
più spontanea e vivace; mio padre più dolce e disposta a ridere piuttosto
che arrabbiarmi. Mio fratello mi vorrebbe più libera, e più adulta per
potergli dare delle vere risposte; mia nonna invece mi preferirebbe
ancora bambina. Qualcuno spera per me la forza di una ribellione che
sente necessaria, qualcun altro la fiducia di affidare tutto a un dio in cui si
può credere solo se non ci si fa domande. E poi ci sono io, come una
barca su una montagna, come un cieco che dipinge un ritratto. Io che ho
talmente tanta paura di mettere radici da non riuscire nemmeno a
staccarmi dal ramo dell’albero, io che non mi fido né del vento né della
terra, io che ho paura della solitudine come fiume di sfociare nel mare.
Ora la pioggia è violenta, manovrata da un vento confuso che tratteggia
geroglifici sull’asfalto. Devo veramente tornare ai miei libri.

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