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ISBN 9788833570860
Matt Haig
Traduzione dall’inglese
di Silvia Castoldi
Per Andrea
Ero stressato.
Camminavo in tondo sforzandomi di avere l’ultima parola in una
discussione su Internet. E Andrea mi guardava. O meglio, credo che Andrea
mi guardasse. Era difficile affermarlo con certezza, dato che io guardavo il
cellulare.
«Matt? Matt?».
«Eh?».
«Che c’è?» mi chiese, con quel tono di voce disperato che è il frutto di
anni di matrimonio. O perlomeno, di matrimonio con me.
«Niente».
«È un’ora che non alzi gli occhi da quel telefonino. Continui a girare in
tondo e vai a sbattere contro i mobili».
Il cuore mi batteva all’impazzata. Avvertivo un senso di oppressione al
petto. Combattere o fuggire. Mi sentivo in trappola, minacciato da qualcuno
su Internet. Qualcuno che viveva a migliaia di chilometri di distanza, che
non avrei mai incontrato di persona e che ciò nonostante riusciva a
rovinarmi il fine settimana. «Sto solo rispondendo a un tizio».
«Matt, dacci un taglio».
«Finisco solo...».
Il problema del tumulto interiore è che tante cose che sul breve periodo
ci fanno sentire meglio poi sul lungo ci fanno stare peggio. Ci distraiamo,
quando in realtà avremmo bisogno di conoscerci.
«Matt!».
Un’ora più tardi, in macchina, Andrea lanciò un’occhiata verso di me. Ero
seduto sul sedile del passeggero; non stavo guardando il cellulare ma lo
stringevo forte in mano, per sicurezza, come una suora stringe in mano il
rosario.
«Matt, stai bene?».
«Sì. Perché?».
«Mi sembri perso. Hai la stessa faccia di quando...».
Si trattenne dal dire “di quando eri in depressione”, ma io sapevo a cosa
si riferisse. E poi avvertivo l’ansia e la depressione attorno a me. Non
proprio dentro di me, ma abbastanza vicine. Il ricordo era quasi tangibile
nell’aria soffocante all’interno dell’auto.
«Sto bene» mentii. «Sto bene, sto bene...».
Una settimana più tardi ero sdraiato sul divano, in preda al mio
undicesimo attacco d’ansia.
Sintesi
Avevo paura. Non potevo non averne. L’ansia si basa proprio sulla paura.
Gli attacchi si facevano sempre più frequenti. Ero preoccupato per la
deriva che stavo prendendo. Sembrava che non esistesse un limite alla
disperazione.
Per uscirne ho cercato di distrarmi. Tuttavia sapevo dalle mie precedenti
esperienze che l’alcol era fuori discussione. Perciò ho fatto le cose che in
passato mi avevano aiutato a riemergere dal baratro. Quelle che dimentico
di fare nella vita quotidiana. Ho cercato di seguire una dieta sana. Ho
praticato yoga. Mi sono sforzato di meditare. Mi sdraiavo sul pavimento,
posavo le mani sul ventre e respiravo profondamente, dentro, fuori, dentro,
fuori, prestando attenzione al ritmo irregolare del respiro.
Ma tutto risultava difficile. Perfino scegliere cosa indossare al mattino
riusciva a farmi piangere. Non aveva importanza che avessi già provato in
passato stati d’animo simili. Un mal di gola non è meno doloroso solo
perché non è il primo.
Ho tentato di leggere, ma avevo difficoltà a concentrarmi.
Ho ascoltato podcast.
Ho guardato nuove serie tv su Netflix.
Sono andato sui social network.
Ho cercato di rimettermi in pari col lavoro rispondendo a tutte le email
arretrate.
Mi svegliavo, prendevo in mano il cellulare e pregavo di trovarvi qualcosa
che riuscisse a farmi uscire da me stesso.
Ma (attenzione, spoiler) non ha funzionato.
Ho cominciato a sentirmi peggio. E molte di quelle “distrazioni” avevano
l’unico effetto di spingermi ad altre distrazioni. Proprio come le facce
descritte nei versi dei Quattro quartetti di T.S. Eliot ero «per distrazione
distratto dalla distrazione»1.
Fissavo un’email a cui non avevo ancora risposto, in preda al terrore di
non esserne capace. Poi andavo su Twitter, la mia distrazione digitale
preferita, e sentivo crescere l’ansia. Anche solo limitarsi a scorrere
passivamente la timeline era come riaprire una ferita.
Leggevo articoli su siti di news (un’altra distrazione) e la mia mente non
lo sopportava. Sapere che nel mondo c’era così tanta sofferenza non mi
aiutava a vedere il mio dolore nella giusta prospettiva. Mi faceva solo
sentire impotente. E per di più patetico, al pensiero che i miei mali invisibili
fossero così paralizzanti, quando al mondo esistevano tanti mali ben visibili.
La mia disperazione aumentava.
Perciò ho deciso di fare qualcosa.
Mi sono scollegato.
Ho scelto di non consultare i social media per qualche giorno. Ho
impostato una risposta automatica per la mia casella di posta. Ho smesso di
guardare e leggere i notiziari. Di guardare la tv. I video musicali. Ho evitato
perfino le riviste. (Durante il mio primo crollo nervoso, diversi anni prima,
le vivide illustrazioni dei periodici mi restavano impresse nella mente,
intasandola di sequenze fulminee di immagini febbrili ogni volta che
cercavo di addormentarmi.)
Quando andavo a letto lasciavo il telefonino al piano di sotto. Mi sono
sforzato di uscire più spesso. Sul mio comodino si ammucchiava un caos di
dispositivi tecnologici che non usavo e di libri che in realtà non leggevo.
Perciò ho fatto ordine e ho tolto di mezzo anche quelli.
In casa cercavo il più possibile di rimanere sdraiato al buio, come si fa di
solito durante un attacco di emicrania. Fin da quando, poco più che
ventenne, avevo sofferto per la prima volta di depressione accompagnata da
pensieri suicidi, mi ero sempre reso conto che guarire comportava una
sorta di sintesi della propria vita.
Una sottrazione.
Come afferma il teorico del minimalismo Fumio Sasaki: «In una casa dove
ci sono poche cose, ci può essere la felicità»2. All’inizio della mia prima
esperienza di attacchi di panico le uniche cose che avevo eliminato erano
state l’alcol, le sigarette e il caffè forte. All’epoca di cui vi sto parlando,
invece, tanti anni dopo, ho capito che il problema consisteva in un
sovraccarico di natura più generalizzata.
Un sovraccarico esistenziale.
E di certo un sovraccarico tecnologico. A parte l’automobile e la cucina,
tutta la tecnologia con cui ho interagito durante quest’ultimo processo di
guarigione sono stati i video di yoga su YouTube, che guardavo con la
luminosità regolata al minimo.
L’ansia non è scomparsa per miracolo. Certo che no.
A differenza dello smartphone, non esiste un pulsante di spegnimento
per l’ansia.
Però ho smesso di sentirmi peggio. Mi sono stabilizzato. E dopo qualche
giorno ho iniziato a calmarmi.
Il ben noto percorso di guarigione è iniziato prima del solito. E astenermi
dagli stimolanti, non solo alcol e caffeina ma anche le altre cose nominate
fin qui, è stato parte di quel processo.
Per farla breve, ho ricominciato a sentirmi libero.
Come è nato questo libro
Quando ho iniziato le mie ricerche per questo libro ho trovato ben presto
una serie di titoli che miravano a catturare l’attenzione, specchio di
un’epoca basata sul catturare l’attenzione. Naturalmente, gli articoli di
giornale sembrano quasi fatti apposta per stressarci. Se fossero fatti per
mantenerci calmi non sarebbero articoli di giornale. Sarebbero yoga. O
cucciolotti da coccolare. Perciò c’è una certa ironia nel fatto che grandi
testate giornalistiche pubblichino articoli sul problema dell’ansia che, allo
stesso tempo, ci rendono ansiosi.
Comunque, ecco alcuni di quei titoli:
STRESS E SOCIAL MEDIA INNESCANO DISTURBI MENTALI NELLE ADOLESCENTI (The Guardian)
STRESS SUL LUOGO DI LAVORO: UN PROBLEMA PER IL 73% DEI LAVORATORI DIPENDENTI (The
Australian)
I SUICIDI NELLE UNIVERSITÀ E L’OSSESSIONE PER LA PERFEZIONE (The New York Times)
HONG KONG: BAMBINI EDUCATI A ECCELLERE, NON A ESSERE FELICI (South China Morning
Post)
ANSIA CRESCENTE: AUMENTA L’USO DI PSICOFARMACI PER TENERE A BADA LO STRESS (El País)
INSTAGRAM: IL SOCIAL NETWORK PIÙ DANNOSO PER LA SALUTE MENTALE DEI GIOVANI (CNN)
Come ho detto, c’è un che di ironico nel sentirsi ansiosi e depressi perché
si legge che il mondo ci stia rendendo sempre più ansiosi e depressi; è un
fenomeno rivelatore quanto i titoli delle notizie stesse.
Lo scopo di questo libro non è affermare che è tutto un disastro e siamo
irrimediabilmente condannati, perché per quello c’è già Twitter. No. E non è
nemmeno sostenere che i problemi del mondo moderno sono peggiori di
quelli del passato. Sotto alcuni, specifici aspetti la situazione è in sensibile
miglioramento. Secondo i dati diffusi dalla Banca mondiale, in tutto il
mondo il numero di persone che vivono in gravi ristrettezze economiche
sta diminuendo radicalmente, e negli ultimi trent’anni più di un miliardo di
individui è uscito dalla condizione di povertà assoluta. Pensate ai milioni di
vite di bambini salvate in tutto il globo dai vaccini. Come ha sottolineato
Nicholas Kristof in un articolo del 2017 sul New York Times: «Se la cosa
peggiore che può capitare a un genitore è perdere un figlio piccolo, oggi la
possibilità che questo accada si è dimezzata rispetto al 1990». Perciò,
nonostante la violenza, l’intolleranza e l’ingiustizia economica così diffuse
nella nostra specie, su scala globale esistono anche motivi di orgoglio e
speranza.
Il problema è che ogni epoca pone una serie di sfide complesse e
particolari. E sebbene molte cose siano migliorate, non tutte lo hanno fatto.
Le disuguaglianze esistono ancora. E sono sorti nuovi problemi. Molti di noi
spesso vivono nella paura, si sentono inadeguati o addirittura coltivano
pensieri suicidi quando in realtà, dal punto di vista materiale, non hanno
mai avuto così tanto.
Sono perfettamente consapevole che l’approccio ormai abusato di stilare
liste dei vantaggi della vita moderna (come salute, istruzione e reddito
medio) non è di nessun aiuto. È come agitare un dito davanti a un depresso
per esortarlo a contare i doni che gli ha concesso la sorte, dato che non è
morto nessuno. Questo libro si sforza di riconoscere che ciò che proviamo è
altrettanto importante di ciò che abbiamo. Che la salute mentale è
altrettanto importante di quella fisica, anzi, ne fa parte. E che, in questi
termini, qualcosa non va.
Se il mondo moderno ci fa stare male, allora non ha importanza quello
che abbiamo, perché stare male fa schifo. E stare male quando ci dicono che
non ne abbiamo motivo, beh, fa ancora più schifo.
Con questo libro voglio contestualizzare i titoli stressanti di notiziari e
articoli, e provare a capire come proteggerci in un mondo potenzialmente
terrorizzante. Perché, a prescindere da ciò che abbiamo, la nostra mente
resta vulnerabile. Molti problemi di salute psichica si stanno diffondendo in
maniera significativa e, se riteniamo che la nostra sanità mentale sia
importante, abbiamo un disperato bisogno di capire quale possa essere la
causa di un simile cambiamento.
I problemi di salute mentale non sono:
La vita è bella.
Anche la vita moderna. Forse soprattutto la vita moderna.
Siamo circondati da miliardi di miracoli istantanei. Possiamo prendere in
mano un dispositivo e contattare gente che si trova a un emisfero di
distanza. Al momento di scegliere dove andare in vacanza possiamo
consultare le recensioni di quelli che hanno alloggiato la settimana scorsa
nell’hotel che ci interessa. Possiamo osservare le immagini via satellite di
tutte le vie di Timbuctù. Quando siamo malati possiamo andare dal medico e
farci prescrivere antibiotici per patologie che un tempo avrebbero potuto
ucciderci. Possiamo andare al supermercato e comprare frutti del Drago
vietnamiti e vino cileno. Se un politico dice o fa qualcosa con cui non siamo
d’accordo, non è mai stato così facile dar voce al nostro disaccordo. Non
abbiamo mai avuto accesso a così tante informazioni, film, libri. Tutto.
Quando, negli anni Novanta, lo slogan di Microsoft ci chiedeva: «Dove
vuoi andare oggi?» si trattava di una domanda retorica. Nell’era digitale, la
risposta è «Ovunque». L’ansia, per citare il filosofo Søren Kierkegaard, può
anche essere «la vertigine della libertà»4, ma tutta questa libertà di scelta è
davvero un miracolo.
Eppure, nonostante le scelte siano infinite, le nostre esistenze si svolgono
su un arco temporale finito. Non possiamo vivere ogni vita. Non possiamo
guardare ogni film o leggere ogni libro o visitare ogni luogo di questa
bellissima terra. Invece di lasciarci bloccare da questa evidenza, dobbiamo
rivedere le scelte che abbiamo davanti. Scoprire cosa va bene per noi e
lasciar perdere il resto. Non è necessario un altro mondo. Tutto ciò di cui
abbiamo bisogno è già qui, se smettiamo di credere di aver bisogno di tutto.
Squali invisibili
La posta.
Le auto.
I corridori alle olimpiadi.
Le notizie.
La potenza di calcolo.
La fotografia.
Le scene dei film.
Le transazioni finanziarie.
I viaggi.
La crescita della popolazione mondiale.
La deforestazione della foresta pluviale amazzonica.
La navigazione su Internet.
Il progresso tecnologico.
I rapporti umani.
Gli eventi politici.
I pensieri nella nostra mente.
Catastrofe continua
– Notiziari.
– Metropolitana. Mentre sono a bordo immagino tutto quello che potrebbe
andare storto. Il treno bloccato nel tunnel. Un incendio. Un attentato
terroristico. Un attacco di cuore. Per essere onesti una volta ho avuto
davvero un’esperienza terrorizzante in metropolitana, a Parigi. Sono sceso a
una fermata e mi sono ritrovato in mezzo a vaporose nubi di gas
lacrimogeni che mi bruciavano la bocca. In superficie era in corso una
battaglia tra i lavoratori dei sindacati e la polizia, che aveva sparato i gas un
po’ troppo vicino all’imbocco della stazione. Ma questo, allora, non lo
sapevo. In quel momento, mentre mi coprivo la faccia con la sciarpa per
riuscire a respirare, ho pensato che si trattasse di un attentato. Non era così.
Ma il solo pensarlo è stato un trauma. Come ha scritto Montaigne: «Chi
teme di soffrire, soffre già perché teme»5.
– Suicidio. Anche se da giovane ho avuto pensieri suicidi, e sono andato
molto vicino a buttarmi giù da una scogliera, negli ultimi tempi la mia
ossessione si è trasformata nella paura, e non più nella volontà, di farlo.
– Altre preoccupazioni legate alla salute. Per esempio: un improvviso e
definitivo arresto cardiaco dovuto a un attacco di panico (un’eventualità
assolutamente improbabile); una depressione talmente distruttiva da
rendermi incapace di muovermi, bloccato per sempre come se avessi
guardato in faccia Medusa; un cancro; una malattia cardiaca (ho il
colesterolo alto, per questioni ereditarie); morire troppo giovane; morire
troppo vecchio; la morte in generale.
– Aspetto fisico. È un mito ormai anacronistico che gli uomini non si
preoccupino del proprio aspetto. Io me ne preoccupavo. Compravo Men’s
Health con puntualità religiosa e seguivo tutti i programmi di allenamento
per cercare di assomigliare al modello in copertina. Mi sono preoccupato
per i miei capelli (il volume, il pericolo di perderli). Mi sono preoccupato del
neo che avevo in faccia. Restavo a lungo fermo davanti allo specchio,
fissandolo come se potessi convincerlo a cambiare idea. Mi preoccupo
tuttora per le rughe, però sto migliorando. Forse può sembrare stranamente
ironico, ma qualche volta la cura contro il timore di invecchiare è proprio
invecchiare.
– Senso di colpa. Nel corso degli anni mi sono sentito in colpa perché non
ero un figlio perfetto, un marito perfetto, un cittadino perfetto, un
organismo umano perfetto. Mi sento in colpa quando lavoro troppo e
trascuro la mia famiglia, e mi sento in colpa quando non lavoro abbastanza.
E tuttavia, non sempre il senso di colpa è motivato. A volte è soltanto un
sentimento.
– Inadeguatezza. Mi preoccupo per qualche mia mancanza e per come
porvi rimedio. A volte avverto dentro di me una sensazione di vuoto
metaforico, che in vari periodi della mia vita ho cercato di riempire in molti
modi: alcol, notti brave, tweet, medicinali, sostanze stupefacenti, attività
fisica, cibo, lavoro, fama, viaggi, spendere soldi, guadagnare più soldi, essere
pubblicato. E naturalmente niente di tutto ciò ha mai funzionato del tutto.
Le cose che ho scagliato nell’abisso spesso non hanno fatto altro che
renderlo più profondo.
– Armi nucleari. Se vengono menzionate nei notiziari, e in questo periodo
sembra succedere sempre più spesso, immagino immediatamente nuvole a
forma di fungo visibili da tutte le finestre. Le parole dell’ex generale
dell’esercito degli Stati Uniti Omar Nelson Bradley risuonano oggi di un’eco
raggelante: «Il nostro è un mondo di superpotenze nucleari con la
consapevolezza etica di un neonato. Sappiamo più di come si uccide che di
come si vive».
– Robot. Sto scherzando solo fino a un certo punto. Il nostro futuro
robotizzato è una legittima fonte di preoccupazione. Io boicotto le casse
automatiche del supermercato, per compiere un gesto di sfida a favore degli
esseri umani. Ma il rovescio della medaglia è che pensare ai robot a volte mi
spinge ad apprezzare l’affascinante mistero di essere vivi.
Cinque motivi di gratitudine per essere
uomini, e non robot senzienti
A scuola ero il più alto di tutti, ed ero magro come un chiodo. Ingurgitavo
enormi quantità di cibo e bevevo un sacco di birra per diventare più
robusto. Ora mi rendo conto che probabilmente soffrivo di una lieve forma
di dismorfofobia. Ero infelice dentro il mio corpo. E a causa del mio corpo.
Mi sottoponevo a serie di cinquanta piegamenti, facendo smorfie di dolore,
nel tentativo di assomigliare a Jean-Claude Van Damme. Non è che il mio
corpo non mi piacesse, lo odiavo proprio. Un’autentica, intensa sensazione
fisica di vergogna che spesso si immagina possano provare solo le donne e
le ragazze. Vorrei poter tornare indietro nel tempo e dire a me stesso:
“Smettila. Nulla di tutto questo ha importanza. Càlmati”.
All’epoca detestavo un neo che ho sulla faccia al punto che, da
adolescente, una volta presi in mano uno spazzolino da denti e cercai di
sfregarmelo via. Ma il problema non è mai stato il neo. Il problema era che
vedevo la mia faccia attraverso il prisma della mia insicurezza. Adesso quel
neo mi piace. Non riesco a capire per quale motivo mi preoccupasse tanto,
perché lo fissassi davanti allo specchio desiderando di vederlo sparire.
Come disse Amleto a Rosencrantz: «Non c’è nulla di buono o cattivo al
mondo se il pensiero non lo fa tale»12. Stava parlando della Danimarca. Ma
lo stesso principio si applica pure al nostro aspetto. Può anche darsi che la
società ci spinga a sentirci inadeguati, ma non siamo tenuti a farlo, basta
renderci conto che la sensazione è una cosa diversa rispetto all’oggetto delle
nostre preoccupazioni. Tuttavia, mentre c’è una diffusa e forte
consapevolezza riguardo ai rischi dell’obesità, ce n’è molta di meno rispetto
ad altri problemi legati al fisico. Se ci sentiamo a disagio nel nostro corpo, a
volte il problema che dobbiamo affrontare è la sensazione, non il corpo.
La professoressa Pamela Keel della Florida State University ha dedicato la
propria carriera a studiare i disturbi dell’alimentazione e i problemi
dell’immagine corporea maschile e femminile, e ne ha tratto la conclusione
che cambiare il proprio aspetto non allevia mai l’insoddisfazione che
proviamo. «Cosa ci renderà davvero più felici e più sani?» ha scritto,
all’inizio del 2018, nel presentare i risultati delle sue ultime ricerche.
«Perdere cinque chili o liberarsi degli atteggiamenti nocivi nei confronti del
corpo?». Quando un individuo avverte una minor pressione psicologica nei
riguardi della propria immagine, non è solo la mente a trarne beneficio, ma
anche il fisico. «Se una persona si sente bene nel proprio corpo, è più
probabile che se ne prenda cura, invece di trattarlo come un nemico, o,
peggio, un oggetto. È un’ottima ragione per ripensare a che tipo di propositi
vogliamo fare per l’anno nuovo».
Questo potrebbe spiegare perché i tassi di obesità stiano crescendo in
maniera allarmante. Se fossimo più soddisfatti del nostro corpo lo
tratteremmo meglio.
Proprio come un’ansia eccessiva nei riguardi dei soldi può,
paradossalmente, sfociare in una sindrome d’acquisto compulsivo, allo
stesso modo un’ansia eccessiva per il proprio aspetto non è garanzia di un
aspetto migliore.
La pressione psicologica che spinge a preoccuparsi del look, a mangiare
“sano”, a prestare attenzione a elementi come lo spazio tra le cosce, a
superare la “prova costume” è per tradizione fortemente legata al genere, al
punto che i pubblicitari si rivolgono con molta più insistenza alle donne.
Perfino oggi che un numero sempre crescente di uomini si sente tenuto ad
avere un aspetto diverso da quello naturale della maggior parte degli
individui di sesso maschile, a sfoggiare muscoli definiti grazie alla palestra,
a vergognarsi dei propri difetti fisici, a venire bene nei selfie, ad angosciarsi
se i capelli diventano grigi o cominciano a cadere, la pressione sulle donne
non è mai stata così forte. Invece di tentare di ridurre l’ansia legata al corpo
nelle donne, stiamo aumentando quella negli uomini. Sotto molti aspetti,
seguendo un’idea distorta di uguaglianza, ci stiamo sforzando di rendere
tutti ugualmente ansiosi invece che ugualmente liberi.
Giusto un attimo fa, mentre ero su Twitter, ho visto qualcuno retwittare
un articolo del New York Post il cui sommario diceva: «Le sex doll maschili
con pene bionico saranno sul mercato entro il 2019». C’era anche una foto di
queste “bambole”, del tutto glabre, con corpi di una tonicità impossibile,
complete di capelli che non cadranno mai e peni che non mancheranno mai
un’erezione. Naturalmente, come è ovvio, ci si sta dedicando con impegno
ancora maggiore a produrre modelli sempre più avanzati di sex robot
femminili. Ora, voler somigliare a una modella photoshoppata sulla
copertina di una rivista è una cosa. Ma il prossimo stadio sarà forse il
desiderio di avere un corpo perfetto e anonimo come quello di un androide,
o di un robot? Tanto vale andare a caccia di unicorni.
Alice Walker ha scritto: «In natura niente è perfetto e tutto è perfetto. Gli
alberi possono essere contorti, curvi in modo bizzarro, ma risultare
comunque bellissimi». I nostri corpi non saranno mai sodi, simmetrici e
giovanili come quelli dei robot sessuali bionici, perciò dobbiamo imparare
in fretta a essere felici anche senza essere dotati di quell’irrealistico corpo
“perfetto” che la società ci propone di continuo, e a sentirci un po’ più
soddisfatti del nostro corpo così com’è, se non altro per il fatto che essere
insoddisfatti del proprio aspetto non lo migliora. Serve solo a farci stare
peggio. Noi siamo molto meglio del più perfetto dei robot sessuali bionici.
Siamo esseri umani. Non dobbiamo vergognarci di apparire come tali.
Lettera dalla spiaggia
Salve.
Sono la spiaggia.
Sono stata creata dalle onde e dalle correnti.
Sono il risultato dell’erosione degli scogli.
Esisto accanto al mare.
Esisto da milioni di anni.
Esisto fin dagli albori della vita.
E ho qualcosa da dirvi.
Non abbiamo sempre avuto degli orologi. Per la maggior parte della storia
umana concetti come “le cinque meno un quarto” o “le quattro e tre quarti”
non avevano senso.
Nessuno ha mai trovato una pittura rupestre del Neolitico raffigurante un
uomo in preda allo stress perché non aveva sentito la sveglia e si era perso
la riunione delle nove con la dirigenza. Anticamente esistevano solo due
orari. Due tempi. Il giorno e la notte. La luce e il buio. La veglia e il sonno.
Naturalmente, in realtà ce n’erano anche altri. C’erano quelli dei pasti e
quelli della caccia; c’era il tempo per combattere e quello per rilassarsi,
quello per giocare e quello per baciarsi, ma questi tempi non erano dettati
artificialmente dagli orologi, dai numeri sul quadrante e dalle sue
innumerevoli suddivisioni.
Nel momento in cui iniziarono a diffondersi i primi sistemi di
misurazione del tempo questa struttura dualistica rimase inviolata.
Dopotutto, quando gli antichi Egizi osservavano le ombre proiettate dagli
obelischi per determinare l’ora del giorno, o quando i Romani consultavano
le meridiane, potevano farlo solo alla luce del giorno. Perfino i primi orologi
meccanici sui campanili delle chiese, comparsi in Europa agli inizi del XIV
secolo, erano congegni abbastanza approssimativi. In genere non avevano
la lancetta dei minuti, e la maggior parte delle persone non riusciva a
vederli dalla finestra della propria camera da letto.
Gli orologi da taschino furono inventati durante il XVI secolo e, come
parecchi ambìti beni di consumo, all’inizio erano status symbol molto
esclusivi: novità per la nobiltà. Verso il 1650 un bell’orologio da taschino
costava circa quindici sterline, più di quanto un bracciante agricolo
guadagnava in un anno. Tutti quei soldi per un congegno che non aveva
neanche la lancetta dei minuti. Eppure, a quanto pare, fu proprio quella
nuova invenzione a diffondere l’ansia nei riguardi del tempo e del
trascorrere delle ore. O, perlomeno, l’ansia di controllare l’ora.
Nel suo famoso diario, Samuel Pepys racconta che nel 1665 a Londra,
dopo essersi concesso il lusso di un orologio da taschino, ben presto si rese
conto, come tanti moderni utenti di Internet, che avere accesso a una
maggiore quantità di informazioni ci dà un certo tipo di libertà ma ce ne
toglie un’altra. Il 13 maggio di quell’anno scrisse:
È strano come io possa avere ancora dei momenti di entusiasmo infantile! Sono
andato a casa in carrozza tenendo tutto il tempo l’orologio fra le mani per vedere
l’ora. Mi chiedo come abbia potuto farne a meno fino ad oggi. Eppure mi ricordo
di averne avuto uno prima di questo, e di essermene disfatto ritenendolo una
seccatura.15
Il fatto è che di tempo dovremmo averne più che mai. Pensateci. Durante
l’ultimo secolo nei paesi sviluppati l’aspettativa di vita si è più che
raddoppiata. Non solo: il numero di tecnologie e apparecchiature che ci
consentono di risparmiare tempo non è mai stato così elevato.
Le email sono più veloci delle lettere. Le stufe elettriche sono più rapide
dei fuochi nei caminetti. Il bucato in lavatrice è più veloce di quello fatto a
mano, nella vasca o al fiume. Procedimenti in passato complicati, come
aspettare che si asciugassero i capelli, viaggiare per venti chilometri, far
bollire dell’acqua o consultare una serie di dati, attualmente richiedono un
tempo trascurabile. Abbiamo dispositivi tecnologici che ci permettono di
risparmiare tempo e fatica: trattori, automobili, lavastoviglie, linee di
produzione in serie e forni a microonde.
Eppure, per gran parte della nostra vita ci sembra di non avere mai
tempo per niente. Diciamo: «Mi piacerebbe leggere di più, imparare a
suonare uno strumento, andare in palestra, fare un po’ di volontariato,
cucinare, coltivare fragole, incontrare i miei ex compagni di scuola,
allenarmi per la maratona... se solo ne avessi il tempo».
Spesso ci sorprendiamo a desiderare che una giornata contenga più di
ventiquattro ore, ma un pensiero del genere non serve a nulla. È evidente
che il problema non sta nella mancanza di tempo. Sta in un sovraccarico di
tutto il resto.
Da ricordare
Al supermercato.
Nel seminterrato senza finestre di un grande magazzino.
A un festival musicale affollatissimo.
In un night club.
In aereo.
Nella metropolitana di Londra.
In un tapas bar di Siviglia.
Nel camerino di BBC News.
Su un treno da Londra a York (è durato per quasi tutto il viaggio).
Al cinema.
A teatro.
In un negozio.
Su un palco (mi sentivo strano di fronte a tutti quei volti che mi
fissavano).
Mentre passeggiavo per Covent Garden.
Mentre guardavo la tv.
A casa, a tarda notte, dopo una giornata intensa, mentre un lampione
brillava di un minaccioso bagliore arancione oltre le tende della finestra.
In banca.
Davanti allo schermo di un computer.
Un pianeta nervoso
Più gli uomini saranno al coperto dal bisogno, più aumenteranno i telegrafi, i
telefoni, i libri, i giornali, le riviste; più cresceranno i mezzi per propagare le
menzogne e le ipocrisie contraddittorie, e più gli uomini saranno disuniti, per
conseguenza infelici, come avviene presentemente.16
Internet è la prima cosa che l’umanità abbia costruito e che l’umanità stessa non
comprende, il più grande esperimento di anarchia mai tentato.
ERIC SCHMIDT,
ex amministratore delegato di Google
Tra le sfide che ci attendono nel corso del prossimo secolo, quando
cominceremo a fonderci con la tecnologia secondo modalità sempre più
complesse, una delle più interessanti è forse questa: come facciamo a
restare umani in un ambiente digitale? Come facciamo a rimanere noi
stessi, a non perdere noi stessi?
State molto attenti a ciò che
fate finta di essere
James @james____s
Ecco una citazione che ho letto di recente: «Facebook è il luogo in cui
tutti mentono ai loro amici. Twitter è quello in cui tutti dicono la verità agli
sconosciuti».
Prima del 1879, quando Thomas Edison diede dimostrazione pratica della
lampada a incandescenza, tutte le forme di illuminazione erano alimentate
a gas o a olio. La lampada a incandescenza, fortemente pubblicizzata dalla
Edison & Swan United Electric Light Company, illuminò letteralmente il
mondo. Le lampadine erano comode, piccole, poco costose e sicure, ed
emettevano la giusta quantità di luce; perciò iniziarono a diffondersi nelle
case e negli uffici di tutto il globo.
Finalmente gli esseri umani avevano sconfitto la notte. Il buio, fonte di
tanti dei nostri terrori primordiali, poteva essere annullato semplicemente
premendo un interruttore. Perciò, con la possibilità di illuminare a lungo le
serate, la gente cominciò ad andare a letto più tardi. Questo non era affatto
motivo di preoccupazione per Edison. Anzi, a dire il vero lui lo considerava
un fatto senza dubbio positivo. Nel 1914, ormai diventato un’icona
mondiale, dichiarò che «in realtà non c’è nessun motivo per cui gli uomini
dovrebbero andare a dormire». E si spinse anche oltre: era convinto che
dormire facesse male alla salute, e che dormire troppo rendesse pigri.
Riteneva che la lampada a incandescenza fosse una specie di medicina, e la
luce artificiale fosse in grado di curare le persone «malate e inefficienti».
Naturalmente si sbagliava. Senza dormire non siamo in grado di
funzionare adeguatamente.
Gli esseri umani, proprio come gli uccelli e le tartarughe marine, hanno
un orologio biologico. Ritmi circadiani. Questo significa che il nostro corpo
reagisce in maniera diversa a ore diverse del giorno. Si è evoluto per
funzionare in modo differente di giorno e di notte. Forse tra altre
centocinquantamila generazioni la nostra specie si adatterà alla luce
artificiale, ma attualmente il corpo e la mente degli esseri umani sono
ancora uguali a quelli di coloro che sono vissuti prima che Edison
brevettasse la lampada a incandescenza. In altre parole: abbiamo bisogno di
dormire.
Eppure non riusciamo a soddisfare adeguatamente questo bisogno.
L’Organizzazione mondiale della sanità, la quale ha rilevato un’epidemia di
deprivazione del sonno nelle nazioni industrializzate, consiglia di dormire
tra le sette e le nove ore per notte. Ma non sono in molti a farlo. In base a
una ricerca condotta dalla American National Sleep Foundation, gli
americani, i britannici e i giapponesi dormono in media molto meno di sette
ore per notte, mentre in altri paesi, come la Germania e il Canada, tale
limite viene raggiunto a malapena. E secondo i risultati di un’altra indagine,
questa volta di Gallup, attualmente gli esseri umani dormono in media
un’ora in meno rispetto al 1942.
Tuttavia la luce artificiale non è l’unica causa di tale fenomeno. Gli
studiosi del sonno indicano altri fattori, come l’odierna organizzazione del
lavoro e l’aumento dell’ansia e del senso di solitudine, che stimolano il
desiderio di restare svegli a chattare o a distrarsi dedicandosi a varie forme
di divertimento in un mondo frenetico attivo ventiquattr’ore su
ventiquattro.
Ci sono tantissimi incentivi a restare svegli. Email a cui rispondere.
Episodi delle nostre serie tv preferite da guardare. Shopping online. Aste su
eBay da tenere d’occhio. Notizie da seguire. Account di social network da
aggiornare. Concerti a cui andare, libri da leggere, potenziali partner con
cui chattare, ambizioni da soddisfare. Tantissime persone, discepoli
inconsapevoli di Edison, non vogliono che andiamo a dormire.
Sappiamo tutti che, quando non dormiamo abbastanza, siamo più tristi,
preoccupati, irritabili e apatici. Il sonno è essenziale per il nostro benessere.
Se non dormiamo bene rischiamo gravi conseguenze che compromettono la
nostra salute fisica e mentale. Mentre alcuni effetti della mancanza di sonno
sono tuttora oggetto di discussione, su altri la comunità medica ha
raggiunto un ampio accordo. Per esempio, in base ai risultati sovrapponibili
di numerosi studi, dormire male:
Come scrive Matthew Walker, uno “scienziato del sonno” che lavora per
l’Università della California, nel suo libro Why We Sleep (Perché dormiamo),
«pare che i principali organi del corpo umano, così come tutti i processi
mentali, siano enormemente potenziati dal sonno... I danni fisici e mentali
causati da una cattiva notte di sonno sovrastano nettamente quelli dovuti a
una equivalente mancanza di cibo o esercizio fisico».
Il sonno è essenziale e apporta benefici straordinari. Eppure, per
tradizione, è sempre stato nemico del consumismo. Mentre dormiamo non
possiamo comprare nulla. Non possiamo lavorare, guadagnare soldi, postare
su Instagram. A parte i produttori di letti, trapunte e tende oscuranti, sono
pochissime le imprese in grado di trarre guadagno dal sonno. Nessuno ha
trovato il modo di costruire un centro commerciale in cui si possa entrare
mentre dormiamo, in cui i pubblicitari possano acquistare spazi nei nostri
sogni, in cui sia possibile spendere soldi in stato di incoscienza.
Poco per volta anche il sonno sta diventando oggetto d’interesse
commerciale. Attualmente esistono cliniche private e centri del sonno in
cui la gente paga per ricevere consigli su come dormire meglio. Esistono gli
“sleep tracker”, braccialetti per monitorare la qualità del sonno registrando
i movimenti notturni, che sono stati oggetto di pesanti critiche (per
esempio in un articolo uscito nel 2018 sul Guardian a proposito del tema
“sonno pulito”) in quanto inaffidabili e controproducenti, dato che servono
solo ad accrescere l’ansia nei riguardi della qualità del proprio sonno.
Ma, fondamentalmente, il sonno rimane uno spazio sacro, immune alle
distrazioni. Il che probabilmente spiega per quale motivo nessuno sembra
in grado di andare a letto presto.
Ai giorni nostri, in questo stadio avanzato del capitalismo, il sonno ha
cominciato a essere considerato non soltanto un elemento che rallenta la
produttività, ma anche un vero e proprio rivale in affari.
L’amministratore delegato di Netflix, Reed Hastings, ritiene che il sonno
(non HBO, non Amazon, non gli altri servizi di streaming) sia il principale
competitor della sua azienda. Nel novembre 2017, durante un convegno di
settore a Los Angeles, ha rilasciato la seguente dichiarazione, citata da Fast
Company: «Pensateci. Quando guardate una serie su Netflix e vi ci
appassionate ne diventate dipendenti, rimanete svegli fino a tardi la sera...
in realtà il concorrente su cui dobbiamo fissare i nostri margini è il sonno. Si
tratta di una grande quantità di tempo».
Dunque è questo l’atteggiamento nei riguardi del sonno: si tratta di
qualcosa di sospetto, perché durante quell’intervallo non siamo collegati,
non consumiamo, non paghiamo. È lo stesso atteggiamento che abbiamo
assunto nei riguardi del tempo: una cosa che non bisogna sprecare
semplicemente riposando, dormendo, limitandoci a esistere. Siamo
dominati dall’orologio. Dalla lampadina. Dallo scintillio dello smartphone.
Dall’insaziabilità che ci incoraggiano a provare. Dalla sensazione di non
avere mai abbastanza. La nostra felicità è proprio dietro l’angolo, a un solo
acquisto, interazione o clic di distanza. Ci aspetta, risplendente come la luce
dall’altra parte di un tunnel di cui non riusciamo mai a raggiungere l’uscita.
Il problema è che non siamo fatti per vivere alla luce artificiale. Non
siamo fatti per svegliarci al suono della sveglia e addormentarci avvolti
dalla luminosità blu del telefonino. Viviamo in una società attiva
ventiquattr’ore su ventiquattro, ma non in un corpo in grado di funzionare
ventiquattr’ore su ventiquattro.
Qualcosa deve cambiare.
Come riuscire a dormire
su un pianeta nervoso
È il paradosso della vita moderna: non siamo mai stati più interconnessi e
non ci siamo mai sentiti più soli. La macchina ha sostituito l’autobus. Il
lavoro da casa (o la disoccupazione) ha sostituito quello in fabbrica e,
sempre più spesso, quello in ufficio. La televisione ha sostituito le sale da
ballo. Netflix sta diventando il nuovo cinema. I social network la nuova
versione dell’incontro con gli amici al pub. Twitter sta sostituendo la pausa
davanti al distributore dell’acqua. E l’individualismo ha sostituito il
collettivismo e il senso della comunità. Abbiamo sempre meno
conversazioni faccia a faccia e sempre più interazioni con avatar.
Gli esseri umani sono creature sociali. Il giornalista britannico George
Monbiot ci ha definiti “i mammiferi ape”. Ma i nostri alveari sono
profondamente cambiati.
Col trascorrere degli anni ho notato che il numero dei miei amici virtuali
sta salendo mentre quelli che frequento nella vita reale sono sempre di
meno.
Ho deciso di cambiare questa situazione. Mi sto sforzando di uscire e
socializzare almeno una volta alla settimana, e questo mi fa sentire meglio.
Non ho nostalgia dei vinili e dei compact disc, ma ho nostalgia del
contatto faccia a faccia. Non su FaceTime. Non su Skype. Ma del parlare
davvero con qualcuno, là fuori, sotto il sole o la pioggia, senza nient’altro
che l’aria a separarci. A casa mi sforzo di mettere da parte il computer e
parlare con i miei figli, per evitare che crescano con la sensazione di essere
meno importanti di un MacBook Pro. Mi sforzo di non sottrarmi alle uscite
con gli amici per pura mancanza di voglia.
Ed è una fatica. È davvero difficile. Ci sono giorni in cui per me sarebbe
più facile convincere la Corea del Nord a rinunciare al suo programma
nucleare che convincere me stesso a non controllare i social network
diciassette volte prima di colazione.
Socializzare in rete è facile. È a prova di pioggia. Non richiede un taxi o
una camicia stirata. E qualche volta è stupendo. Anzi, spesso lo è.
Eppure, nel profondo, nei più reconditi recessi della mia anima, mi rendo
conto che quell’ambiente inodore, illuminato artificialmente, digitalizzato,
conflittuale, in mano alle multinazionali, non può soddisfare tutti i miei
bisogni, allo stesso modo in cui il cibo take-away non può sostituire il puro
piacere di mangiare in un bel ristorante. E perciò, pur essendo una persona
la cui ansia un tempo sconfinava nell’agorafobia, mi sto sforzando in tutti i
modi di trascorrere sempre più tempo in quella dimensione caotica e
spazzata dal vento che a volte chiamiamo ancora romanticamente “il
mondo reale”.
Come stare da soli
1. Svegliarsi.
2. Prendere in mano il cellulare.
3. Fissarlo per 72 minuti.
4. Sospirare.
5. Alzarsi.
Nei primi mesi del 2018, durante la stesura di questo libro, The Observer mi
ha chiesto di collaborare a un articolo in cui molti scrittori ponevano
domande alla romanziera e saggista Zadie Smith. Ho colto l’opportunità,
anche perché poco dopo la pubblicazione del mio primo libro l’avevo
incontrata in occasione di due party letterari ed ero rimasto muto e
paralizzato dall’ansia, senza trovare il coraggio di andare a parlarle.
Avevo letto del suo scetticismo nei riguardi dei social network, e della sua
rivendicazione del «diritto di avere torto», perciò le ho chiesto: «È
preoccupata dall’effetto prodotto dai social network sulla nostra società?».
Lei non ha misurato le parole, e ha esordito con una critica contro gli
smartphone.
«Non li sopporto e non li voglio nella mia vita, in nessuna forma. Mi
fanno sentire ansiosa, depressa, morta dentro, squilibrata. Ma do il mio
pieno sostegno a chiunque li trovi meravigliosi, e li consideri una grande
risorsa per la propria esistenza».
Sebbene si autodefinisca una “luddista non praticante”, Smith ritiene che
sia arrivato il momento di riflettere su come utilizziamo questa tecnologia.
«Qual è l’effetto prodotto dal piccolo dispositivo che portiamo in tasca sui
nostri rapporti più profondi?» si è chiesta pubblicamente. «Sul nostro
comportamento in quanto membri della società? Forse nessuno! Forse va
tutto a meraviglia. O forse no... Abbiamo davvero bisogno di tenerlo accanto
al cuscino la notte? I nostri bambini di sette anni ne hanno bisogno?
Vogliamo davvero trasmettere loro la nostra dipendenza e le nostre
ossessioni? Occorre riflettere con molta attenzione. Non possiamo
permettere che siano le aziende tecnologiche a decidere per noi».
Uso il mio cellulare molto più di Smith, ma nonostante questo (o forse
proprio per questo) condivido molte delle sue ansie. E a quanto sembra
perfino chi lavora per le aziende tecnologiche comincia a dare segni di
inquietudine, il che significa che dovremmo preoccuparci ancora di più
della direzione in cui ci stanno portando quelle potenti società. Per
esempio, almeno a partire dal 2011, quando la notizia è stata pubblicata sul
New York Times, sappiamo che molti dipendenti di Apple e Yahoo! scelgono
di mandare i figli in scuole che proibiscano l’uso di dispositivi mobili, come
la Waldorf School of the Peninsula di Los Altos.
Molti esperti sono arrivati a lanciare un allarme contro gli oggetti che
hanno contribuito a creare. Justin Rosenstein, l’uomo che ha inventato il
pulsante “Like” su Facebook, ha affermato che le nuove tecnologie creano
una tale dipendenza da spingerlo a installare nel suo cellulare un’opzione
parental-control che gli impedisce di scaricare app e limita il suo uso dei
social network. E, incidentalmente, vale la pena di sottolineare che i like su
Facebook sono quelli che permettono ai data miner di capire chi siamo. I like
che distribuiamo in rete rivelano tutto, dall’orientamento sessuale alle idee
politiche, e possono essere raccolti per influenzarci meglio. Lo abbiamo
visto nel 2018 con lo scandalo Cambridge Analytica, in cui, stando ai servizi
pubblicati su varie testate giornalistiche, cinquanta milioni di utenti di
Facebook hanno subìto una violazione dei propri dati da parte della società
inglese, che aiuta le aziende e i partiti politici a “modificare il
comportamento del pubblico”.
Come un novello Frankenstein, nel 2017 Rosenstein ha dichiarato al
Guardian: «Succede molto spesso che gli esseri umani, animati dai migliori
intenti, sfornino invenzioni che però hanno involontarie conseguenze
negative... Siamo tutti continuamente distratti».
E due dei fondatori di Twitter hanno espresso preoccupazioni simili. Ev
Williams, che nel 2010 ha dato le dimissioni dalla carica di amministratore
delegato, nel 2017 ha confidato al New York Times di essere molto turbato dal
fatto che Twitter abbia aiutato Donald Trump a diventare presidente. «Il
ruolo svolto da Twitter è davvero un fatto negativo».
In un’intervista su Inc. un altro cofondatore di Twitter, Biz Stone, ha
dichiarato di ritenere che la svolta sbagliata abbia avuto luogo quando
Twitter ha permesso a sconosciuti di taggare persone nei loro post, creando
così un ambiente di bullismo dilagante. Stando a quanto sostiene BuzzFeed,
un dipendente di Twitter avrebbe definito il social network “una fogna
piena di stronzi”.
E nei primi mesi del 2018 Tim Cook, amministratore delegato di Apple, ha
dichiarato di fronte a un gruppo di studenti dell’Essex che secondo lui i
bambini (per esempio i suoi nipoti) non dovrebbero andare sui social
network, e neppure usare troppa tecnologia, il che dimostra che non si
tratta semplicemente di preoccupazioni da “luddisti”.
Un gruppo di ex dipendenti di aziende tecnologiche si è spinto oltre e ha
creato il Center for Humane Technology, con lo scopo di “riallineare la
tecnologia con gli interessi dell’umanità” e frenare la “crisi da attenzione
digitale”.
Ora, finalmente, i dirigenti di queste società si riuniscono spesso per
discutere simili preoccupazioni. Per esempio, una conferenza tenutasi a
Washington nel 2018, dal titolo Truth About Tech (La verità sulla
tecnologia), ha visto tra gli oratori Tristan Harris, ex esperto di etica di
Google e attualmente tra i principali critici delle nuove tecnologie, e Roger
McNamee, uno dei primi finanziatori di Facebook. Con loro c’erano anche
politici e gruppi di pressione come Common Sense Media, che si sforzano di
combattere la dipendenza tecnologica tra i giovani. La conferenza ha
sollevato una gran quantità di problemi, per esempio il “dirottamento”
delle menti a opera di Gmail, o lo sfruttamento da parte di Snapchat delle
amicizie tra adolescenti allo scopo di alimentare la dipendenza per mezzo di
funzioni come l’emoji Infuocato, grazie alle quali gli utenti possono vedere
per quanti giorni di seguito hanno avuto interazioni con i propri amici.
Secondo The Guardian, Harris ha paragonato il mondo tecnologico al
selvaggio West, dove il codice di comportamento era “costruisci un casinò
dove ti pare”, mentre McNamee lo ha equiparato alle industrie alimentari e
del tabacco del passato, quando le sigarette venivano reclamizzate come
benefiche per la salute, o i produttori di piatti pronti evitavano di far
presente che i loro cibi erano pieni di sale. La differenza però è che se, per
esempio, siamo dipendenti dalle sigarette, le sigarette non hanno
informazioni su di noi. Non raccolgono i nostri dati. Non possono
conoscerci meglio delle nostre famiglie. Internet, ovviamente, può sapere
tutto di noi: i nostri amici, i gusti musicali, le preoccupazioni mediche, la
vita amorosa, le idee politiche. E le società del Web possono servirsi di
queste informazioni per aumentare il grado di dipendenza generato dai loro
prodotti. E gli esperti di tecnologia ci avvertono che attualmente non ci
sono regole a fermarli.
Un numero sempre recente di ricerche corrobora queste preoccupazioni.
Per esempio, esistono studi che dimostrano che la tecnologia provoca uno
stato di “attenzione parziale continua” in grado di generare dipendenza.
Un’indagine del 2017 condotta dalla McCombs School of Business
dell’Università del Texas ha stabilito che la pura e semplice presenza di uno
smartphone può ridurre le capacità cognitive.
Nel momento in cui sto scrivendo questo libro la comunità medica non ha
ancora riconosciuto ufficialmente che la dipendenza da smartphone o
quella da social network siano disturbi psicologici, anche se il fatto che
l’Organizzazione mondiale della sanità abbia inserito nell’elenco la
dipendenza da videogame fa pensare a un’accresciuta consapevolezza
dell’intensità con cui la tecnologia è in grado di influenzare la nostra salute
mentale. Ma questa consapevolezza ha ancora parecchia strada da fare, e
stenta evidentemente a tenere il passo con la vertiginosa velocità del
cambiamento tecnologico.
E tuttavia le pressioni stanno crescendo. Per esempio, nel 2018 la CNN ha
diffuso la notizia che la potente Unilever ha minacciato di ritirare le proprie
pubblicità da Facebook e Google, a meno che i due colossi del Web non si
impegnino a combattere alcuni gravi problemi tra cui violazioni della
privacy, contenuti controversi e mancanza di protezione nei riguardi dei
bambini; problemi che stanno «minando la fiducia sociale, danneggiando gli
utenti e destabilizzando la democrazia». Ci rendiamo sempre più conto che
dal grande potere delle società del Web derivano, proprio come nel caso di
Spiderman, grandi responsabilità. E tuttavia resta da vedere quanto senso di
responsabilità matureranno i giganti di Internet senza un’autentica
pressione sociale e finanziaria come quella che solo oggi stiamo iniziando a
intravedere. Proprio come per i fast food, le sigarette o i produttori di armi,
ogni società che trae profitti da un’attività è probabilmente la più restia a
vederne i potenziali problemi. Perciò, quando coloro che lavorano al suo
interno si uniscono alle fila di chi lancia l’allarme, dovremmo ascoltarli con
molta attenzione.
11
IL DETECTIVE DELLA DISPERAZIONE
Vorrei tanto poter spiegare un po’ di cose al mio me stesso più giovane.
Vorrei potergli dire che non era solo per causa mia. Che c’erano cose che
avrei potuto fare. Perché la mia ansia, la mia depressione, non arrivavano
dal nulla. Come una ferita, anche una malattia spesso nasce in un contesto.
Quando ricado in uno stato mentale frenetico o disperato, e mi sento
invadere da pensieri molesti che non riesco a rallentare, spesso si tratta del
risultato di una serie, una sequenza di fattori. Ogni volta che faccio troppe
cose, penso troppo, assorbo troppo, mangio troppo male, dormo troppo
poco, lavoro troppo, mi lascio logorare troppo dalla vita, ecco che accade.
Uno sforzo ripetuto danneggia la mente.
Come vivere nel XXI secolo senza avere
un attacco di panico
1. Tenetevi d’occhio. Siate amici di voi stessi. Siate genitori di voi stessi.
Siate gentili con voi stessi. Tenete traccia di quello che fate. Avete proprio
bisogno di guardare l’ultimo episodio di quella serie, che viene trasmesso
dopo mezzanotte? Avete proprio bisogno di quel terzo, o quarto, bicchiere
di vino? È davvero nel vostro interesse?
2. Sgombrate la mente. Il panico è il prodotto di un sovraccarico. In un
mondo sovraccarico abbiamo bisogno di filtri. Dobbiamo semplificare le
cose. Qualche volta dobbiamo scollegarci. Smettere di fissare in
continuazione il cellulare. Creare momenti in cui non pensiamo al lavoro.
Una sorta di feng shui mentale.
3. Ascoltate suoni che vi calmano. Meno stimolanti della musica. Le onde,
il vostro respiro, la brezza che stormisce tra le foglie, le fusa di un gatto, e,
meglio di tutto, la pioggia.
4. Lasciatevi andare. Se sentite il panico montarvi dentro la reazione
istintiva è altro panico. Farvi prendere dal panico perché siete presi dal
panico. Il meta-panico. Il trucco è sforzarsi di provare panico senza che
questo vi causi altro panico. È quasi, anche se non del tutto, impossibile. Io
ho sofferto di disturbo da panico, una malattia che non consiste
semplicemente in un attacco occasionale, ma in una serie di attacchi
frequenti e nella continua, infernale paura del prossimo. Dopo averne avuti
centinaia ho cominciato a ripetere a me stesso che li volevo. Naturalmente
non era vero. Però mi sforzavo il più possibile di indurre il panico, come un
test, per vedere come me la sarei cavata. Più cercavo di richiamarlo, meno
lui aveva voglia di arrivare.
5. Accettate le vostre sensazioni. E rendetevi conto che sono soltanto
questo: sensazioni.
6. Non afferrate la vita per la gola. «La vita deve essere toccata, non
strangolata»29 ha detto lo scrittore Ray Bradbury.
7. Va benissimo esprimere la paura. La paura si sforza di dirvi che è un
sentimento necessario, e vi sta proteggendo. Sforzatevi di accettarla in
quanto sentimento, e non come informazione valida. Bradbury ha detto
anche: «Imparare a cedere qualcosa dovrebbe venire prima che imparare a
stringerla»30.
8. Siate consapevoli di dove vi trovate. Siete in un ambiente iper
stimolante? C’è un luogo più calmo dove potete spostarvi? Un paesaggio
naturale che potete guardare? Alzate lo sguardo. Nei centri delle città le
cime degli edifici sono uno spettacolo meno intenso delle vetrine dei negozi
che vedete ad altezza d’uomo. Anche il cielo aiuta.
9. Fate stretching ed esercizio fisico. Il panico è una condizione fisica
quanto mentale. Per me fare yoga e andare a correre sono la cosa più utile
in assoluto. Lo yoga, in particolare. Dopo ore trascorse curvo davanti al
computer il mio corpo si contrae, e lo yoga lo distende.
10. Respirate. Profondamente, con calma, a ritmo regolare. Concentratevi
sul respiro. È il ritmo su cui regolate la vostra vita. Il ritmo della vostra
canzone. È un modo per tornare al centro delle cose. Al centro di voi stessi.
Quando il mondo cerca di trascinarvi in tante altre direzioni. Respirare è la
prima cosa che avete imparato a fare. La più essenziale, la più semplice.
Essere consapevoli del proprio respiro significa ricordarsi di essere vivi.
12
IL CORPO PENSANTE
I quattro umori
(pg = psicogrammo)
A volte c’è bisogno di tornare indietro per poter andare avanti. Bisogna
affrontare il dolore. Quello più profondo. E poco tempo fa mi sono sentito
pronto.
Ho bisogno di tornare indietro.
A prima del centro commerciale.
A una stanza di un bianco ospedaliero.
«Chi sono?» chiesi nel Centro medico spagnolo, durante la fase iniziale
del mio primo crollo mentale.
Naturalmente, quando sto bene e sono calmo, la domanda non è
altrettanto spaventosa. Chi sono io? Non esiste un “io”. Non esiste un “tu”.
O meglio, ci sono milioni di io. Milioni di tu. “Io” è la parola più grande di
tutte.
Dietro ogni tu esiste un altro tu, e poi un altro, e un altro ancora, come in
una matrioska. Esiste un tu originario? Un io originario? Oppure le nostre
identità non sono matrioske ma solo spirali senza fine? L’identità è forse un
universo di cui non è mai possibile raggiungere la fine, ma che potrebbe
riportarci al punto di partenza?
Dato che sto abbastanza bene, mi diverte l’assurdo filosofeggiare
contenuto in simili domande. Perché secondo me in realtà esiste un “io”
ben definito che le pone. Ma quando ero malato le mie non erano solo
preoccupazioni astratte. Erano misteri carichi di disperazione da risolvere,
come se ne andasse della mia vita. Perché davvero la mia vita dipendeva da
questo. Il mio senso di identità era scomparso, era stato cancellato da una
folla di “io”, e avevo la sensazione che sarei rimasto intrappolato in quell’io
infinito, fluttuando silenzioso in preda al panico, senza nessun luogo dove
atterrare.
La realtà e i supermercati
Forse quando ci troviamo a volere tutto è perché siamo pericolosamente vicini a non
volere nulla.
SYLVIA PLATH
Il pozzo dei desideri
– ricco
– famoso
– una modella
– un pilota
– un attore
Trascendenza
1. Pensate alle persone che avete amato. Ai vostri rapporti più profondi.
Alla gioia che avete provato nel vedere queste persone. Al fatto che quella
gioia non aveva niente a che fare con il loro aspetto, se non per il fatto che
quello era il loro aspetto, e voi eravate ben contenti di vederle. Siate amici
vostri. Siate contenti di riconoscere la persona che sta dietro la vostra
faccia.
2. Cambiate il modo in cui guardate le vostre foto. Ogni vostra immagine
davanti alla quale pensate: oh, sembro vecchio, un giorno sarà un’immagine
davanti alla quale penserete: oh, sembravo giovane. Invece di sentirvi
vecchi dal punto di vista del vostro io più giovane, sforzatevi di sentirvi
giovani dal punto di vista del vostro io più vecchio.
3. Amate le imperfezioni. Mettetele in risalto. Sono quelle che vi
distinguono dagli androidi e dai robot. «A cercar la perfezione, non si sarà
mai contenti» dice Natalia, la moglie di Lvov, in Anna Karenina.34
4. Non cercate di assomigliare a qualcuno che esiste già. Godetevi la
vostra differenza.
5. Non preoccupatevi quando non riuscite simpatici agli altri. Non potete
essere simpatici a tutti. Meglio risultare antipatici perché siete voi stessi,
piuttosto che risultare simpatici perché siete qualcun altro. La vita non è
un’opera teatrale. Non continuate a provare la parte di voi stessi. Siate voi
stessi.
6. Non permettete mai all’opinione negativa di un estraneo su di voi di
diventare la vostra opinione negativa su di voi.
7. Se vi sentite insoddisfatti di voi stessi, state lontani da Instagram.
8. Ricordate, nessun altro si preoccupa del vostro aspetto tranne voi.
9. Durante la giornata dedicatevi a qualcosa che non abbia niente a che
fare col lavoro, o con gli obblighi, o con Internet. Ballate. Giocate a pallone.
Preparate burritos. Ascoltate musica. Giocate a Pac-Man. Accarezzate un
cane. Imparate a suonare uno strumento. Telefonate a un amico. Assumete
la posizione yoga del bambino. Uscite. Fate una passeggiata. Assaporate il
vento sulla faccia. Oppure sdraiatevi sul pavimento, sollevate le gambe
appoggiandole contro un muro e limitatevi a respirare.
Nota sul volere
Io voglio dire, in tutta serietà, che la fede nella virtù del lavoro provoca grandi mali
nel mondo moderno, e che la strada per la felicità e la prosperità si trova invece in
una diminuzione del lavoro. 36
BERTRAND RUSSELL, Elogio dell’ozio
Il lavoro è tossico
E così via.
Sri Lanka
«Ciao, tartaruga».
«Ciao».
«Hai qualche consiglio sulla vita?».
«Perché lo chiedi a me?».
«Perché sei una tartaruga».
«E allora?».
«Le tartarughe sono sopravvissute milioni di anni. Centocinquantasette
milioni, per la precisione. Più di settecentomila volte la durata dell’Homo
sapiens. Di sicuro saprete qualcosa, come specie».
«Stai confondendo la durata dell’esistenza con l’ampiezza della
conoscenza».
«Sono solo gli esseri umani ad aver incasinato il mondo. Le tartarughe
no».
«Lo so. Siamo sull’orlo dell’estinzione per colpa vostra».
«Mi dispiace. Sono un essere umano. È anche colpa mia».
«È vero».
«Già».
«Comunque, se davvero vuoi saperlo, il consiglio che ti do è di smetterla».
«Smettere cosa?».
«Tutto. Affannarsi dietro al niente. Gli esseri umani sembrano avere una
fretta terribile di sfuggire dal luogo in cui si trovano. Perché? È per via
dell’aria? Non vi sostiene abbastanza bene? Forse dovreste trascorrere più
tempo in mare. Io direi: smettetela. Non limitatevi a riprendervi il tempo,
siate il tempo. Potete muovervi lenti o veloci, ma ricordate che vi porterete
sempre dietro voi stessi. Accontentatevi di pagaiare lentamente nelle acque
dell’esistenza».
«D’accordo».
«Guarda la mia testa. È piccola. Il rapporto tra la massa del mio corpo e
quella del cervello è imbarazzante. Però in realtà non ha importanza,
capisci. Se prestate attenzione alla vita, allora riuscirete a concentrarvi. A
essere ciò che avete bisogno di essere. Ad avere un approccio anfibio
all’esistenza. A essere tutt’uno con i ritmi della terra. Bagnato e asciutto.
Potrete sintonizzarvi con l’acqua e il vento. Con voi stessi. È davvero
splendido, sai, essere una tartaruga».
«Scommetto proprio di sì. Grazie, tartaruga».
«Adesso posso avere un altro po’ di alghe?».
Invertire il circolo vizioso
A volte la vita sembra una canzone con troppi effetti sonori, gravata dalla
cacofonia di centinaia di strumenti che suonano contemporaneamente. A
volte la canzone riesce meglio ridotta solo a chitarra e voce. A volte, quando
in una canzone succede troppo, diventa difficile sentirla.
E, proprio come quella canzone sovraffollata, a volte anche noi ci
sentiamo un po’ persi.
La nostra natura originaria non è cambiata in queste decine di migliaia di
anni, e dovremmo ricordarcene a ogni nuova app, smartphone, piattaforma
di social network o arma nucleare che progettiamo. Dovremmo ricordare la
canzone dell’essere umani. Pensare all’aria quando ci sentiamo bloccati
sott’acqua. Trovare un momento di calma in un’epoca di marketing ormai
saturo, di ultima ora continui, di milioni di sussulti prodotti
quotidianamente da Internet. Non aver paura di avere paura. Essere noi
stessi, intelligenti, autentici, belli, fragili, carenti, imperfetti, animali,
mortali, meravigliosi, intrappolati nello spazio e nel tempo, resi liberi dalla
nostra capacità di fermarci, in qualsiasi momento, trovare qualcosa (una
canzone, un raggio di sole, una conversazione, un bel graffito) e avvertire
l’assoluta, improbabile meraviglia dell’essere vivi.
18
TUTTO CIÒ CHE SIETE
È GIÀ ABBASTANZA
C’è un solo cantuccio dell’universo che uno può esser certo di rendere migliore, e
questo è il proprio io.46
ALDOUS HUXLEY,
Il tempo si deve fermare
Cose che esistono quasi da sempre
1. Va tutto bene.
2. Anche se non va bene, se non è qualcosa che puoi controllare, non
cercare di controllarlo.
3. Ti senti incompreso. Tutti sono incompresi. Non preoccuparti che gli
altri ti comprendano. Cerca di comprendere te stesso. Dopodiché,
nient’altro avrà importanza.
4. Accettati per come sei. Se non riesci a essere soddisfatto di come sei,
perlomeno accetta quello che sei in questo momento. Non puoi cambiare te
stesso se non conosci te stesso.
5. Non essere freddo. Non cercare mai di essere freddo. Non preoccuparti
di quello che pensa la gente fredda. Rivolgiti alle persone calde. La vita è
calore. Sarai freddo quando sarai morto.
6. Trova un buon libro. Siediti e leggilo. Ci saranno momenti nella tua vita
in cui ti sentirai sperduto e confuso. La via per tornare a se stessi è la
lettura. Voglio che te lo ricordi. Più leggi, più imparerai a ritrovare la strada
nei momenti difficili.
7. Non cercare di definirti. Non lasciarti accecare dalle implicazioni del
tuo nome, del tuo sesso e orientamento sessuale, della tua nazionalità, o del
tuo profilo Facebook. Sii qualcosa di più di un insieme di dati da raccogliere.
«Quando lascio andare quello che sono» ha detto il filosofo cinese Lao Tzu,
«divento quello che potrei essere».
8. Rallenta. Ancora Lao Tzu: «La natura non ha fretta, eppure tutto si
compie».
9. Goditi Internet. Non usarla quando non te la stai godendo (niente è mai
sembrato così facile ed è mai stato così difficile).
10. Ricordati che sono in molti a provare i tuoi stessi sentimenti. Puoi
perfino andare in rete a cercarli. Questo è uno degli aspetti più terapeutici
dell’era dei social network. La possibilità di trovare un’eco del proprio
dolore. Potrai sempre rintracciare qualcuno che ti capirà.
11. Più o meno come ha detto Yoda, non puoi provare a essere. Provare è
il contrario di essere.
12. Le cose che ti rendono unico sono i tuoi difetti. Le imperfezioni.
Accoglili. Non cercare di filtrare la tua natura umana.
13. Non permettere al marketing di convincerti che la felicità è una
transazione commerciale. Come ha affermato una volta il cowboy Cherokee-
americano Will Rogers: «Troppa gente spende soldi che non ha per
comprare cose che non vuole, pur di fare impressione su persone che non
stima».
14. Non saltare mai la colazione.
15. Cerca di andare a letto prima di mezzanotte quasi tutte le sere.
16. Anche nei momenti più frenetici (Natale, riunioni di famiglia, periodi
di superlavoro, festività) trova qualche attimo di pace. Di tanto in tanto
ritirati in camera da letto. Aggiungi una virgola alla tua giornata.
17. Compra meno.
18. Fai yoga. È più difficile essere stressati se il tuo corpo e il tuo respiro
non lo sono.
19. Nei periodi di crisi cerca di seguire una routine.
20. Non paragonare gli aspetti peggiori della tua vita agli aspetti migliori
di quella degli altri.
21. Valuta di più tutte le cose che rimpiangeresti maggiormente se non
esistessero.
22. Non cercare di definirti a tutti i costi. Non pretendere di capire una
volta per tutte chi sei. Come ha affermato il filosofo Alan Watts: «Cercare di
definire se stessi è come cercare di mordersi i denti».
23. Fai una passeggiata. Vai a correre. Balla. Mangia un toast al burro di
arachidi.
24. Non sforzarti di provare sentimenti che non provi. Non sforzarti di
essere ciò che non puoi essere. Lo spreco di energia ti sfinirà.
25. Collegarsi al mondo non ha niente a che fare con il Wi-Fi.
26. Non esiste il futuro. Pianificare il futuro significa solo pianificare un
altro presente in cui starai pianificando il futuro.
27. Respira.
28. Ama adesso. Ama subito. Se hai qualcosa o qualcuno da amare, fallo
immediatamente. Ama senza paura. Come ha scritto Dave Eggers:
«Aspettare di amare non è un modo di vivere»47. Dài amore
disinteressatamente.
29. Non sentirti in colpa. Di questi tempi, a meno di non essere
sociopatici, è quasi impossibile non avvertire almeno un po’ di senso di
colpa. Siamo soffocati dalla colpa. Quella che abbiamo appreso da bambini
all’ora dei pasti: mangiare sapendo che nel mondo c’è gente che muore di
fame. La colpa del privilegio. La colpa ecologica di guidare un’auto o volare
in aereo o usare oggetti di plastica. La colpa di comprare oggetti che
potrebbero essere stati prodotti in maniera non etica senza che noi ne
siamo consapevoli. La colpa di desideri illegittimi o inconfessati. La colpa di
non essere quello che gli altri vogliono da noi. La colpa di occupare spazio.
La colpa di non essere capaci di fare cose che gli altri sanno fare. La colpa di
ammalarsi. La colpa di vivere. Tutta questa colpa è inutile. Non aiuta
nessuno. Sforzati di comportarti bene adesso, senza annegare nel male che
puoi aver compiuto in passato.
30. Considerati al di fuori dei meccanismi del mercato. Non partecipare
alla competizione. Resisti al senso di colpa del non agire. Trova lo spazio
non mercificato dentro di te. Lo spazio autentico. Quello umano. Lo spazio
che non potrà mai essere misurato in termini di numeri, denaro o
produttività. Lo spazio che l’economia di mercato non riesce a vedere.
31. Guarda il cielo. (È stupendo. È sempre stupendo.)
32. Passa un po’ di tempo con un animale non umano.
33. Non vergognarti di essere noioso. Essere noiosi può risultare salutare.
Quando la vita diventa difficile cerca le emozioni più banali.
34. Non valutare te stesso col metro che gli altri usano per te. Come ha
detto Eleanor Roosevelt: «Nessuno può farci sentire inferiori senza il nostro
consenso».
35. Il mondo a volte è triste. Ma ricordati che solo oggi sono avvenuti un
milione di atti di bontà passati inosservati. Un milione di atti d’amore. La
silenziosa bontà degli uomini continua a vivere.
36. Non flagellarti perché sei incasinato. Va bene così. L’universo è
incasinato. Le galassie si allontanano alla deriva in tutte le direzioni. Sei
semplicemente in sintonia con il cosmo.
37. Se ti senti male dal punto di vista mentale, curati come faresti per
qualunque problema fisico. Asma, influenza eccetera. Fai quello che ti è
necessario per star meglio. E non vergognartene. Non continuare a
camminare con una gamba rotta.
38. Non c’è niente di male nel piangere. Le persone piangono. Le donne
piangono. E gli uomini piangono. Sono dotati di dotti e ghiandole lacrimali,
proprio come ogni altro essere umano. Un uomo che piange non è diverso
da una donna che piange. È una cosa naturale. I ruoli sociali sono tossici
quando non permettono di esprimere il dolore. O qualunque forte
emozione. Piangi, essere umano. Piangi tutte le tue lacrime.
39. Permetti a te stesso di fallire. Di sentirti vulnerabile. Di cambiare idea.
Di essere imperfetto. Di resistere al dinamismo. Di non sfrecciare attraverso
la vita come un dardo che accelera di proposito.
40. Cerca di volere meno. Un desiderio è un buco. Una mancanza. Per
definizione. Quando il poeta Byron scrisse «Ho bisogno di un eroe»48
intendeva dire che non ne aveva nessuno. Desiderare cose che non ci
servono ci spinge ad avvertire una mancanza che non esiste. Tutto ciò di cui
abbiamo bisogno è già qui. Un essere umano è completo per il solo fatto di
essere umano. Noi siamo la nostra destinazione.
Rendimenti decrescenti
Voi siete parte del pianeta. Ma allo stesso modo il pianeta è parte di voi. E
potete scegliere come reagire nei suoi riguardi. Potete modificare le parti
che interferiscono. Sì, in un certo senso è facile capire che il mondo
presenta sintomi simili a quelli di un individuo che soffre di un disturbo
d’ansia. Ma non esiste una sola versione del mondo, ce ne sono sette
miliardi. Lo scopo è trovare quella che si adatta di più a voi.
E ricordate.
Tutto ciò che di speciale hanno gli esseri umani, la capacità di amare,
l’arte, l’amicizia, le storie e tutto il resto, non è un prodotto della vita
moderna, è un prodotto dell’essere umani. E perciò, anche se non possiamo
districarci dallo stress frenetico e caduco della vita moderna, possiamo
porgere l’orecchio alla nostra essenza umana (o alla nostra anima, se
preferite chiamarla così) e ascoltare il silenzio tranquillo dell’essere. E
capire che non abbiamo bisogno di distrarci da noi stessi.
Tutto ciò di cui abbiamo bisogno è già lì. Tutto ciò che già siamo è
sufficiente. Non abbiamo bisogno di una barca più grossa per affrontare gli
squali invisibili che ci circondano. Siamo noi la barca più grossa. Come dice
Emily Dickinson, «è più vasto del cielo il cervello»50. E nel diventare
consapevoli dei sentimenti suscitati in noi dalla vita moderna, nel
riconoscere questa realtà e nel mantenere una mente abbastanza aperta da
essere capaci di cambiare quando un cambiamento è salutare, possiamo
interagire con questo splendido mondo senza aver paura che ci rubi quello
che siamo davvero.
Inizio
1 «Su facce tirate prigioniere del tempo / per distrazione distratte dalla distrazione». T.S. Eliot,
Quattro quartetti, traduzione di Raffaele La Capria, Enrico Damiani Editore, Brescia 2013, pag. 29.
2 Fumio Sasaki, Fai spazio nella tua vita. Come trovare la felicità con l’arte dell’essenziale, traduzione di
Giuseppe Forzani, Rizzoli, Milano 2017, edizione digitale.
3 Matt Haig, Ragioni per continuare a vivere, traduzione di Elisa Banfi, Ponte alle Grazie, Milano 2015.
4 Søren Kierkegaard, Le grandi opere filosofiche e teologiche, traduzione e cura di Cornelio Fabro,
Bompiani, Milano 2013, pag. 439.
5 Michel de Montaigne, Saggi, a cura di Fausta Garavini e André Tournon, Bompiani, Milano 2012,
pag. 2043.
6 Alan W. Watts, Il libro sui tabù che ci vietano la conoscenza di ciò che veramente siamo, traduzione di
Fabrizio Pregadio, Ubaldini, Roma 1976, pag. 53.
7 Ray Kurzweil, La singolarità è vicina, traduzione di Virginio B. Sala, Apogeo Education, Milano 2014.
8 “In case you missed it”, ovvero, “nel caso te lo fossi perso”, acronimo usato sui social per
ricordare e ribadire una notizia, un concetto, ecc.
9 Sherry Turkle, Insieme ma soli. Perché ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri,
traduzione di Susanna Bourlot e Lorenzo Lilli, Codice edizioni, Torino 2012.
10 Un bot è un programma che accede alla rete attraverso lo stesso tipo di canali utilizzati dagli
utenti umani. Un Twitter bot è un bot che controlla un account Twitter.
11 Emily Dickinson, F624, traduzione di Silvio Raffo, in Tutte le poesie, a cura di Marisa Bulgheroni e
Massimo Bacigalupo, Mondadori, Milano 2004, pag. 705.
12 William Shakespeare, Amleto, Atto II, Scena II, traduzione di Nemi d’Agostino, Garzanti, Milano
2016.
13 Nora Ephron, Non mi ricordo niente, traduzione di Katia Bagnoli, De Agostini, Novara 2011, pag.
148.
14 Bronnie Ware, Vorrei averlo fatto: i cinque rimpianti più grandi di chi è alla fine della vita, traduzione di
Katia Prando, Mylife, Coriano di Rimini 2012.
15 Samuel Pepys, Diario di un peccatore, traduzione di Milli Dandolo, Club degli Editori, Milano 1972,
pag. 91.
16 Lev Nikolaevič Tolstoj, Il regno di Dio è in voi, traduzione di Sofia Behr, Publiprint – Manca
Editrice, Trento 1988, pag. 358.
17 James H. Schmitz, La seconda notte d’estate, traduzione di Vittorio Curtoni, in Astronavi & avventure,
Urania 1402, Mondadori, Milano 2000.
18 William Gibson, Neuromante, traduzione di Giampaolo Cossato e Sandro Sandrelli, Mondadori,
Milano 2003.
19 Carl Sagan, Cosmo, traduzione di Tullio Chersi, Mondadori, Milano 1981, pag. 339.
20 Kurt Vonnegut, Madre notte, traduzione di Luigi Ballerini, Feltrinelli, Milano 2009, pag. 5.
21 Naomi Klein, Shock economy: l’ascesa del capitalismo dei disastri, traduzione di Ilaria Katerinov,
Rizzoli, Milano 2012.
22 Naomi Klein, Shock politics: l’incubo Trump e il futuro della democrazia, traduzione di Giancarlo
Carlotti, Feltrinelli, Milano 2017, pag. 15.
23 Citato in Benjamin Hoff, Il Tao di Winnie Puh, traduzione di Eva Kampmann, Ugo Guanda Editore,
Parma 1993, pag. 35.
24 Il riferimento è al verso di Emily Dickinson: «È la speranza una creatura alata», F254, traduzione
di Silvio Raffo, in Tutte le poesie, op. cit., pag. 267.
25 Jiddu Krishnamurti, Libertà dal conosciuto, traduzione di Anna Guaita, Ubaldini, Roma 1973, pag.
39.
26 T.S. Eliot, La terra desolata, traduzione di Alessandro Serpieri, Rizzoli, Milano 2017, pag. 133.
27 Carl Gustav Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo in L’analisi dei sogni; Gli archetipi dell’inconscio
collettivo; La sincronicità, traduzioni di Lucia Personeni, Silvano Daniele, Elena Schanzer e Antonio
Vitolo, Bollati Boringhieri, Torino 2011, pag. 129.
28 Il riferimento è ai primi versi di Se, di Rudyard Kipling, cura e traduzione di Tommaso Pisanti,
Newton Compton, Roma, edizione digitale 2012.
29 Ray Bradbury, Addio all’estate, traduzione di Giuseppe Lippi, Mondadori, Milano 2008, pag. 123.
30 Ibidem.
31 C.S. Lewis, Il problema della sofferenza, traduzione di Luciana Vigone, Morcelliana, Brescia 1957,
pag. 162.
32 James Baldwin, Nessuno sa il mio nome, traduzione di Giancarlo Cella e Vittorio Di Giuro,
Feltrinelli, Milano 1965, pag. 119.
33 Jean-Paul Sartre, La nausea, traduzione di Bruno Fonzi, Einaudi, Torino 2014, pagg. 22-23.
34 Lev Nikolaevič Tolstoj, Anna Karenina, traduzione di Leone Ginzburg, Einaudi, Torino 2014, pag.
745.
35 Yuval Noah Harari, Sapiens. Da animali a dèi: breve storia dell’umanità, traduzione di Giuseppe
Bernardi, Bompiani, Milano 2014, edizione digitale.
36 Bertrand Russell, Elogio dell’ozio, traduzione di Elisa Marpicati, Longanesi, Milano 2007, edizione
digitale 2014, capitolo I.
37 Bertrand Russell, La conquista della felicità, traduzione di Giuliana Pozzo Galeazzi, TEA, Milano
2009, pag. 64.
38 Yuval Noah Harari, Sapiens. Da animali a dèi: breve storia dell’umanità, op. cit.
39 Yuval Noah Harari, Homo deus: breve storia del futuro, traduzione di Marco Piani, Bompiani, Milano
2017.
40 John Gray, Cani di paglia: la vera natura dell’uomo messa a nudo dal pensiero filosofico, traduzione di
Stefania Coluccia e Marcello Monaldi, Ponte alle Grazie, Milano 2017.
41 C.S. Lewis, Il cristianesimo così com’è, traduzione di Franco Salvatorelli, Adelphi, Milano 2011,
edizione digitale 2016.
42 Ivi.
43 Scout Finch e Pip sono i protagonisti, rispettivamente, del Buio oltre la siepe e di Grandi speranze.
44 Thích Nhât Hanh, La scintilla del risveglio: lo zen e l’arte del potere, traduzione di Diana Petech,
prefazione di Pritam Singh, Mondadori, Milano 2010, pag.74.
45 Carl Sagan, Cosmo, op. cit., pag. 233.
46 Aldous Huxley, Il tempo si deve fermare, traduzione di Edoardo Bizzarri, Baldini & Castoldi, Milano
2001, pag. 82.
47 Dave Eggers, Erano solo ragazzi in cammino: autobiografia di Valentino Achak Deng, traduzione di
Giuseppe Strazzeri, Mondadori, Milano 2008, pag. 397.
48 George Gordon Byron, Don Giovanni, traduzione di Simone Saglia, Zanetto, Brescia 1997, pag. 23.
49 Virginia Woolf, Diario di una scrittrice, traduzione di Giuliana De Carlo, Mondadori, Milano 1980,
pag. 280.
50 Emily Dickinson, F632, traduzione di Silvio Raffo, in Tutte le poesie, op. cit., pag. 717.