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CAPITOLO 3 I REATI CULTURALMENTE ORIENTATI

Il termine nasce in Canada circa trent’anni fa per indicare la presenza, all’interno di una stessa aerea
geografica, di soggetti provenienti da altri Paesi, immigrati e rifugiati che convivono con gli
autoctoni. Lo Stato “multiculturale” pertanto è tale nel momento in cui i suoi membri
appartengono a diverse nazioni o sono emigrati da altre zone. Da non confondere con il concetto di
Stato “multinazionale” in cui convergono culture territorialmente concentrate che
precedentemente godevano di forme proprie di autogoverno, le cosiddette “minoranze nazionali”.
Lo Stato multinazionale, quindi, si differenzia per una preesistenza di diverse nazioni e culture,
successivamente inglobate in un unico Stato nazionale. Il multiculturalismo, di contro, è un
processo inverso in quanto prevede che in un unico territorio (Stato) convergano rotte immigratorie
provenienti da diverse culture etniche.
Esistono inoltre gli Stati “polietnici” in cui si osserva la convivenza di varie etnie all’interno di
un’area geografica comune. In tal caso la presenza di soggetti culturalmente diversi è dovuta
essenzialmente a flussi migratori. In generale gli immigrati tendono ad agire per integrarsi
all’interno del Paese ospitante, pur mantenendo molto spesso i loro usi e le loro tradizioni, a
differenza delle popolazioni minoritarie che rivendicano la loro autonomia e indipendenza. Come
deve quindi comportarsi uno Stato innanzi a un fenomeno culturale di diversa connotazione etnica?
Di fronte a un fenomeno multiculturale, lo Stato può di norma attivare le seguenti strategie di
confronto attraverso l’applicazione di precise norme giuridiche volte a respingere o ad accogliere le
istanze provenienti dalle minoranze culturali ed etniche. In particolare, ogni giurisdizione locale può
orientarsi, adottando le seguenti strategie:

1. autodifesa intransigente secondo la quale, mediante un approccio del tutto


occlusivo e appunto intransigente, lo Stato attua una politica di difesa delle proprie
peculiarità etniche e religiose e quindi qualsiasi istanza di carattere multiculturale viene
recepita come attentato ai valori tradizionali democratici e liberali. È una strategia che
può condurre all’esclusione di ogni possibilità di integrazione delle nuove minoranze
etniche culturali;
2. modello mediano che consiste nell’accettazione da parte della cultura ospitante di
veri e propri valori culturali appartenenti a gruppi minoritari;
3. modello di valorizzazione che si delinea come processo di totale accettazione e
conseguente valorizzazione delle diversità culturali.

Pur prescindendo dalle diversità culturali, dalla loro tutela, dalla loro volontà di integrazione
sociale, dal loro livello economico e commerciale, gli Stati non possono non considerare il legame
che esiste tra globalizzazione e multiculturalismo. Con il termine “globalizzazione” si intende la
presenza di processi di intensificazione delle relazioni sociali ed economiche in località
geograficamente anche molto distanti, ma caratterizzate dalle stesse ricadute e dagli stessi modelli
attuativi. Tale fenomeno impone quindi un adattamento comune di scelte e azioni in luoghi diversi
e tra luoghi diversi. Globalizzare il sistema, uniformare culturalmente, socialmente ed

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economicamente differenti e lontane aeree geografiche costituisce un terreno fertile per conflitti,
incomprensioni, diffidenze.
Una società che ospita differenti culture non sempre è favorevole a un processo di integrazione in
cui l’immigrato tende a proteggere gelosamente tradizioni e culture in un territorio caratterizzato da
altre prospettive e presupposti storico-sociali. La domanda che ci si pone è dunque: «Può una
società multiculturale e globalizzata offrire rilevanti occasioni di riflessione per uno studio di
antropologia della violenza?» E in particolare: «Le pluralità culturali presenti in un determinato
sistema possono rappresentare presupposti per la violenza stessa?»
Per analizzare la connessione tra multiculturalismo e violenza è opportuno riflettere sugli “incroci
culturali” e le divisioni presenti all’interno della società contemporanea. Successivamente
affronteremo più nel dettaglio il tema della violenza come fenomeno culturale caratterizzato dalle
azioni di un soggetto attore a danno di una vittima in seguito a un comportamento negligente o non
conforme all’ordinamento culturale di quel Paese. Consideriamo ora gli aspetti generali di questo
processo: la violenza culturale è vista come un atto punitivo, finalizzato a rieducare colui che
trasgredisce una norma comportamentale condivisa da una maggioranza. Essa non viene esercitata
qualora le ragioni per espletarla non si verifichino e quindi nel caso in cui il soggetto ricevente
accetti culturalmente le norme del Paese in cui vive. L’elemento catastrofico emerge in presenza di
un contesto di ribellione nei confronti dell’autorità, dei principi e dei modelli comportamentali
culturali.
Per questo, le società multiculturali possono essere considerate un fenomeno di assoluto interesse
antropologico. L’incontro di diverse realtà può produrre di frequente pericolose e a volte
drammatiche ricadute sul soggetto ribelle. Da tale punto di vista, è rilevante considerare la
consistente crescita dei flussi migratori, che ha portato all’interno delle nostre società europee,
sempre più multiculturali, migliaia di famiglie e individui provenienti da contesti differenti, con
tradizioni culturali spesso lontane dalle nostre, i cui processi di integrazione risultano essere non
sempre accettati e compiuti.
L’immigrazione può diventare fonte di difficoltà legate al multiculturalismo per diverse ragioni:
l’attaccamento alla cultura d’origine da parte degli immigrati può essere motivata da una forma
di resistenza all’ostilità razzista incontrata nel Paese d’arrivo; può essere un modo per tenere vivo il
legame con i connazionali rimasti in patria oppure può originarsi da un sentimento di orgoglio
nei confronti del proprio patrimonio culturale. Il fenomeno migratorio evoca immediatamente
povertà, conflitti, inferiorità, disuguaglianza e violenza, producendo un sentimento di
discriminazione ed esclusione sociale. Incorpora una semantica che contempla l’uso della stessa
violenza a danno di connazionali e/o di stranieri; una forma di aggressività caratterizzata
dall’etnicizzazione del crimine, in quanto le modalità esplicative e operative dell’azione violenta
sembrano compiersi attraverso processi precodificati e strutturati a seconda della condotta
realizzata.
Non è facile operare all’interno di un contesto con questa matrice relazionale, in cui possono
consumarsi maltrattamenti, violenze, persino omicidi. Il ruolo dell’antropologo, soprattutto per il
delicatissimo compito che è chiamato a svolgere, è quello di inserirsi in una dinamica in cui,
tuttavia, non può non esprimere sentimenti come quelli della compliance per le vittime di reato. Ciò
non significa che debba raccogliere dati in maniera imparziale, bensì favorire e ottenere, mediante

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un corretto sopralluogo, un quantitativo di informazioni il più possibile aderenti a quanto attiene
al contesto.
È plausibile un “avvicinamento umano” al dramma vissuto da un soggetto. Ma è opportuno tener
presente che il ricordo dell’evento, la memoria del dolore, la sua rievocazione sono parte di un
processo che richiede un’attenzione, una sensibilità e un modo di procedere maturo, oggettivo,
rigoroso e professionale.
Molto spesso inoltre, come ricorda l’antropologo Fabio Dei1, le testimonianze dei sopravvissuti,
così come le dichiarazioni degli autori di reato rischiano di ledere il quadro dal contenuto neutrale
che l’antropologo è tenuto a fornire. La memoria del testimone rappresenta un indiscutibile
contributo personale, ma soggettivo. Tuttavia si pone il problema di rendere l’operato etnografico
quale lavoro caratterizzato esclusivamente da connotazioni oggettive. Tanto più oggettivo sarà il
rapporto, tanto più verosimile, autentico e maturo sarà il lavoro scientifico. La letteratura
etnografica degli ultimi anni nell’ambito forense e in quello relativo alla violenza è caratterizzata da
stili e toni orientati più verso l’empatia emotiva degli eventi che verso la loro descrizione oggettiva.
Non si tratta quindi di rievocare un dramma, descriverlo e raccontarlo, neppure di raccogliere
informazioni autentiche su un evento vissuto come parte di una tradizione e/o del folklore, piuttosto
di considerare gli stessi drammi, il dolore, le perdite di vite umane nella prospettiva di un’indagine
che ha inevitabilmente aderenza con altre discipline: quelle sociali e quelle psicologiche. Il dialogo,
l’apertura all’ascolto, la tipologia e il processo di ricostruzione degli eventi rischiano di inficiare il
quadro oggettivo richiesto. Per questo, l’ausilio di altri esperti può aiutare a procedere con un lavoro
che di fatto non si basa su un evento in corso – dunque verificabile – ma su un avvenimento già
accaduto, vissuto e percepito drammaticamente da coloro che ne sono stati i protagonisti.

L’imputabilità culturale

Il sistema culturale può divenire complice di un meccanismo reazionario costituito da forme di agire
violente. Lo studio della vittima e poi dell’autore del sistema stesso possono completare l’indagine
antropologica permettendo di elaborare considerazioni attinenti e ragionevoli. L’aspetto culturale
diviene dunque un principio caratterizzante nella prospettiva antropologica: è il cosiddetto
“elemento imputabile”2, foriero di motivazioni e spinte comportamentali sostenute da presupposti
e da scale valoriali di una maggioranza contro una minoranza. Si considera “imputabilità
culturale” la condizione in cui l’agire violento non sia espressione di una singola volontà - in
questo caso si tratterebbe piuttosto di una dinamica clinica caratterizzata da un quadro
personologico compromesso - ma di una maggioranza la cui adesione, il sostegno nei confronti
dell’atto e la pratica devono essere ben analizzate da un lavoro di indagine complesso e ben
strutturato, finalizzato a suggellare l’elemento culturale proprio come principio
caratterizzante. Lo stesso elemento culturale diviene una motivazione di imputabilità criminogena
tale da considerare la perizia antropologica fondamentale nelle stesure delle antropodinamiche della
violenza e nell’esame di quegli aspetti comportamentali in cui violenze corporee e psicologiche non
appartengono tanto a una visione individuale quanto collettiva. Si può dunque affermare che il

1
F. Dei, Antropologia della Violenza, Meltemi Editore, Roma 2005.
2
U. Carnevali (a cura di), Dei Fatti Illeciti, UTET, Torino 2001.

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crimine con imputabilità culturale, proprio perché condiviso da una maggioranza, sia un crimine
intrinseco alla collettività.
I presupposti e le considerazioni successive dovranno pertanto basarsi su di una tipologia di crimini
culturali e presupporre un coinvolgimento di soggetti plurimi proprio per la loro condivisione
sostanziale dell’agire violento. L’agire violento, se motivato antropologicamente, discosta le
premesse epistemologiche delle dinamiche cliniche, sintetizzando presupposti a carattere collettivo.
Proprio perché normate dalla collettività, esse paradossalmente finiscono con l’acquisire una
connotazione quasi educativa, necessaria e imprescindibile. Un modello culturale quindi
ampiamente condiviso, rivisto, rielaborato e reinterpretato da una intera collettività di soggetti che
ne assume il principio e le modalità esplicative e attuative.

I reati culturalmente orientati

Sono atti devianti e violenti promossi3, autorizzati, legittimati da una cultura minoritaria ma
penalmente rilevabili da una maggioritaria, se questi hanno luogo in un contesto differente da

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Per giungere ad analizzare metodologicamente la violenza culturale nei suoi aspetti caratterizzanti, non è
sufficiente classificare e considerare un comportamento aggressivo nei confronti di un altro soggetto; è opportuno
piuttosto individuare, in primis, l'elemento relazionale, ovvero l’aspetto sociale dell’individuo (Human Relations).
Da una prospettiva meramente culturale infatti, tra i vari soggetti risulta esser presente un rapporto diseguale e
soprattutto direzionato a una volontà precisa di esercizio del dominio. Si conferma dunque il ruolo dell'agente di
superiorità e il significato simbolico che la vittima rappresenta. Si pensi ad esempio a una figura femminile che,
nella condizione di vittima di violenza di genere, incarna un modello stereotipato nella gerarchia relativa alla sua stessa
identità di genere: quello di un soggetto inferiore e culturalmente debole. Ciò dimostra quanto sia importante
determinare la relazione asimmetrica di potere tra le parti e i contenuti di questo rapporto. La violenza può avere
luogo in ambiente domestico o esterno, può essere esercitata da conoscenti e/o estranei: si consideri, per esempio, quella
sessuale che, molto di frequente, si concretizza tra due individui che hanno una relazione (violenza di prossimità) in cui,
da un lato, l’uomo sia predatore, violento, aggressivo, istintivo e desideroso di soddisfare i propri bisogni sessuali,
dall'altro la donna sia provocatrice e ambigua.
Si è discusso molto sull'elevata soggettività della percezione della violenza e della capacità di esprimerla, in quanto
non è facile individuare una soglia minima di riconoscibilità dell'atto violento. Il rischio, proprio nel volerla classificare,
è quello di giungere a un atteggiamento di biasimo, di disprezzo verso il soggetto. Occorre quindi identificare quali
approcci culturali intervengano nella definizione e nella determinazione dell'agire violento, esaminandone i contenuti: il
contesto sociale di riferimento della vittima e dell'autore dell'atto, il vissuto soggettivo, la storia biografica e le
relazioni intra-familiari e sociali.
Il tentativo di oggettivare il fenomeno “violenza” pone seri dubbi e difficoltà di analisi: l'atteggiamento di chi
subisce un atto violento può incontrare una posizione resiliente come quella di chi ritiene il gesto o l'azione subita
non necessariamente violenta in quanto tale. Determinate parole rivolte a un soggetto possono di fatto non provocare
alcuna forma di impatto, mentre possono acquisire una rilevanza del tutto differente in individui con un trascorso
culturale, sociale e psicologico diverso.
Inoltre affinché un fenomeno violento si verifichi non è necessario che l'autore e la vittima di reato ne siano
consapevoli. A volte l'abitudine alla violenza, una bassa autostima, un contesto culturale discriminatorio rendono un
comportamento violento "naturale" e quindi considerato meno doloroso.
L'elemento quantificatore della violenza (la percezione dell’agito violento) rappresenta un difficile equilibrio tra
chi la subisce e chi ne è vittima. È fondamentale nella valutazione culturale di un comportamento considerare la
percezione soggettiva di ogni attore coinvolto, al fine di comprendere se il fenomeno rientri in una categoria culturale
normativizzata o quantomeno accettata, con le dovute implicazioni del caso, o in una dinamica descrittiva e
declaratoria.
La violenza emotiva, fisica o mentale è indubbiamente una forma di potere e di controllo che si manifesta
mediante atti o omissioni, comportamenti persecutori (sessuali, economici e psicologici), nell'ambito di relazioni
asimmetriche o quanto meno ritenute tali da chi la esercita. Proprio a tal proposito la letteratura più recente riconosce
quattro tipologie di violenza motivate culturalmente che possono presentarsi combinate congiuntamente in un unico

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comportamento: quella sessuale, fisica, psicologica e infine economica. A queste è opportuno aggiungere per un’analisi
più completa del fenomeno anche la violenza istituzionale e quella virtuale.
È considerata un rapporto tra due soggetti di tipo “asimmetrico” - in quanto atto non condiviso - e viene definita come
“l'uso della forza contro la volontà di una persona al fine di consumare, provocare un atto sessuale, inclusi
commenti e avances sessuali non desiderati”. È in questa categoria che si inserisce lo stupro in tutte le sue accezioni
quali l’agire costrittivo (consumato), aggressivo (tentato) e quello di gruppo.
Si aggiungano, inoltre, i rapporti sessuali indesiderati ma subiti (per paura, per ricatto, per protezione dei figli, ecc.),
le molestie senza contatto fisico oppure la richiesta assillante di pratiche sessuali indesiderate (con oggettistica,
promiscuità, modalità sessuali sgradite, ecc.) e i rapporti non protetti.
Si possono rilevare in tale tipologia altre condotte riconducibili alla violenza sessuale: l'esibizionismo inteso anche
come parafilia, la prostituzione e le gravidanze forzate, le mutilazioni genitali e la schiavitù sessuale.
È opportuno considerare che il comportamento violento sessuale, se motivato culturalmente presuppone un
patrimonio cognitivo del soggetto tale da legittimarlo (anche collettivamente proprio perché collettivamente accettato)
nella sua azione violenta e repressiva.

La violenza culturale a carattere fisico


È ritenuta l'espressione più drammatica: si identifica con quei comportamenti che producono una lesione,
un’intimidazione o un contatto fisico tra i soggetti; rappresenta un marchio di superiorità, di controllo e di
dominio nei confronti di un'altra persona.
Generalmente questa tipologia di violenza, che si manifesta tramite percosse o addirittura può spingersi fino ad
azioni omicidiarie, rappresenta l’epilogo triste di una sequenza di segnali preceduti da altrettante intimidazioni e
violenze di carattere psicologico.
La violenza fisica è dunque quell'atto in cui l’aggressore desidera sottomettere la sua vittima. La presenza di
ferite sul corpo testimoniano il dominio dell’uno e la sottomissione e caduta di barriere dell'altra. In alcuni contesti
culturali, tale fenomeno rientra quotidianamente nell'ambito di quelle azioni abitudinarie percepite come atti
culturalmente motivati e/o orientati.

La violenza culturale a carattere psicologico


Offende e mortifica la dignità dell'individuo, ne mina la fiducia personale, ne limita le potenzialità, la isola e la
esclude. Si manifesta con insulti in contesti privati e pubblici, minacce e/o ricatti. È possibile considerare anche i
comportamenti dispregiativi e denigratori sistematici quali l’umiliazione, le ridicolizzazioni, i rimproveri e le critiche
avvilenti. Essa si esprime tramite il controllo sulle azioni, scelte, relazioni, orari e spese, sulle parole (correzione
continua), ma anche attraverso l'isolamento fisico e relazionale (escludendo il soggetto dai legami amicali e familiari).
A questi si aggiunge la gelosia, le imposizioni relative all’abbigliamento, alla gestione della vita quotidiana, la
sottrazione di documenti, gli atteggiamenti di costrizione circa le pratiche sessuali e le minacce di allontanamento.
È doveroso sottolineare a tal proposito come qualsiasi forma di violenza abbia una ripercussione a livello
psicologico: anche quella fisica è sempre psicologica, sebbene quest’ultima non lasci tracce propriamente fisiche,
ecchimosi o altro.

La violenza culturale a carattere economico


Il controllo economico esercitato su una persona, che miri a privarla della sua autonomia e della sua capacità di
esercitare il dominio su di sé, rappresenta una forma di violenza soprattutto a danno di soggetti “deboli”. Alcuni esempi
sono la privazione dell'assegno di mantenimento, del salario personale o di famiglia e il mancato accesso ai fondi
patrimoniali familiari. Questa tipologia di violenza è spesso poco considerata o addirittura ignorata in quei Paesi in cui
culturalmente l'uomo detiene il controllo economico della famiglia.
Anche l'obbligo di esercitare una professione o il divieto di lavorare costituisce una forma di violenza
economica: si concretizza in questo modo il dominio nei confronti di un altro soggetto. Possono essere inserite in tale
categoria anche il già citato controllo della gestione della vita quotidiana, il mancato assolvimento degli impegni
economici del coniuge a seguito di una separazione, il controllo e il divieto di accesso ai conti correnti cointestati. Si
possono altresì identificare forme di suddetta violenza come l'appropriazione dei fondi economici di un coniuge per

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assolvere i propri debiti, l'imposizione di un impiego all'interno di un’azienda familiare senza la corresponsione di un
salario.

La violenza culturale a carattere istituzionale


Lo Stato e alcune politiche attuative possono esercitare violenza nei confronti di soggetti deboli o donne; in questo
caso molteplici fattori interconnessi tra loro, tra cui quelli di natura sociale e culturale, pongono tali figure in posizioni
di pericolosa vulnerabilità. Tra questi particolarmente rilevanti sono proprio gli elementi socio-economici e quelli
culturali familiari.
In un quadro socio-economico costituiscono forme di violenza:
1. la dipendenza economica del nucleo familiare dalla figura dell’uomo;
2. la restrizione di accesso al denaro e al credito;
3. le leggi discriminatorie relative al diritto di proprietà, all’eredità in seguito a divorzio o a
vedovanza;
4. la restrizione nell'esercizio di alcune professioni;
5. la restrizione di accesso all'istruzione e formazione.

Il controllo economico del marito sul patrimonio familiare gli conferisce, al tempo stesso, un potere di proprietà
nei confronti di tutti i membri legittimando forme di violenza spesso anche a salvaguardia dell'onore familiare. Si
pensi alla possibilità di uccidere figlie o moglie se fuorviate o colte in atti illeciti o tradimenti. Si aggiunga che esistono
alcune leggi etniche, ritenute culturalmente accettabili, che consentono e autorizzano forme di violenza verso donne e
bambine.
I fattori giuridici intervengono in modo ancor più evidente e specifico, con ripercussioni poi a carattere
comportamentale. Consideriamo ad esempio le leggi discriminatorie sul divorzio, l’affidamento o la conservazione dei
patrimoni, le azioni brutali nei confronti di figure femminili o soggetti deboli da parte della magistratura e delle forze di
polizia, la discriminazione nei luoghi di lavoro e le difficoltà nella progressione di carriera.
Non si può non evidenziare, inoltre, che anche i fattori politici abbiano un ruolo rilevante in tal ambito, con il
ricorso alla sotto-rappresentanza di alcuni gruppi minoritari nella vita politica e nei mezzi di informazione. È opportuno
riflettere infine sulle violenze esercitate all'interno dei gruppi familiari anche se non strettamente connesse a decisioni
politiche e sulla stessa violenza domestica, molto spesso non opportunamente considerata.
I fattori culturali legati alla violenza istituzionale risiedono quindi in alcuni ambiti strettamente connessi alla
violenza di genere. Tra questi, oltre agli aspetti già elencati, è possibile considerare: l'esercizio della violenza come
unica soluzione ai conflitti, il principio secondo cui la famiglia sarebbe un bene legato al potere maschile, la
socializzazione separata per sessi, il sistema di valori e di norme che conferiscono alla stessa sfera maschile il diritto di
proprietà su donne e bambine. Pratiche che si consolidano all’interno di alcuni gruppi familiari culturalmente orientati
alla sottomissione delle donne o altri componenti; dinamiche che si attuano mediante lo strumento della paura, i rapporti
di forza e di controllo; che si cristallizzano in leggi e tradizioni in cui si nega lo statuto giuridico delle fanciulle.

La violenza virtuale
Il nostro quadro contemporaneo rivela azioni dirette e indirette di violenza virtuale culturalmente diffuse tra cui è
possibile individuare un comportamento sempre più frequente relativo al cyberbullismo. Quest'ultimo si configura
all'interno di un sistema-rete interattivo costituito da soggetti appartenenti a condizioni sociali diverse ma soprattutto
caratterizzati da un’identità difficilmente individuabile. Nella rete infatti il cybernauta trova uno spazio e un ruolo che
non sempre coincide con quello ricoperto nelle relazioni reali e quotidiane.
Tale modalità relazionale appare ormai estremamente diffusa e consolidata. Sempre più spesso si condividono
contenuti all'interno di questo sistema accettandone le regole e le modalità. Vi è la figura di un moderatore che
dovrebbe garantire il rispetto delle norme relative al cyberspazio. Tuttavia l'anonimato dei soggetti consente di
esercitare interferenze nelle comunicazioni virtuali e controllo sui contenuti, deviandone l'orientamento delle
informazioni. Come accennato, è difficile identificare un soggetto, la sua posizione sociale, la sua provenienza, la sua

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quello di appartenenza. Vengono compiuti da un soggetto di nazionalità straniera o comunque da un
individuo appartenente a un gruppo di minoranza culturale. L’azione criminosa diviene quindi
elemento essenziale nella realizzazione del reato in oggetto.
Innanzitutto, è opportuno chiarire che la definizione di reato presuppone un’azione criminogena in
conflitto con il sistema penale vigente. Si tratta quindi di un concetto che evoca una semantica
deviante, di presupposti che violano e si scontrano con le norme giuridiche che regolano e
disciplinano un territorio. Ma se al reato si aggiunge la valenza culturale, esso acquisisce una
connotazione più variabile da una prospettiva giuridica. Esso non è più da concepirsi come un
assioma universale, infrangibile, bensì quale complesso di comportamenti, espressioni e
manifestazioni variabili. È un concetto che presuppone una semantica di gruppo, di condivisione, di
accettazione e di attuazione di particolari condotte, non riconducibili a un unico soggetto, ma

età anagrafica, la sessualità; il sistema virtuale permette di costruire una nuova figura proiettandone un'immagine affine
o difforme dal suo creatore. In alcuni casi essa rappresenta una “trascendenza” della personalità del suo creatore,
esasperandone i tratti e abolendo qualsiasi forma di limite espressivo e contenutistico. Solo se si è consapevoli di ciò,
ovvero della quasi impossibilità di giungere alla ricostruzione di una personalità veritiera, si può arrivare alla
composizione di un profilo personologico complesso. Proprio dalle conversazioni con altri cybernauti è possibile
delineare tratti caratteriali che rivelano personalità complicate e a volte pericolose.
È opportuno inoltre considerare un altro aspetto correlato agli elementi già considerati. All'interno del sistema, se le
norme lo consentono, è possibile dire tutto in qualsiasi forma e a chiunque. Si tratta dunque di uno spazio ove i
soggetti creati - o veri che siano - condividono, discutono, propongono e affermano, assumono posizioni, idee e
procedono con azioni coerenti con i fondamenti del sistema. In quest’ambito la violenza esercitata è di natura indiretta e
può esprimersi attraverso due forme:
1. violenza offensiva e difensiva;
2. induzione alla violenza.

La prima si manifesta attraverso un atto reiterato e privo di inibizione da parte di uno o più soggetti nei
confronti di un altro o altri cybernauti. Ciò dimostra come lo stesso sistema virtuale sia l’ambiente in cui si
materializza quella violenza che si esprime attraverso insulti offensivi, denigratori o minacce. Ai messaggi scritti
possono associarsi anche forme di violenza iconizzata mediante simboli o video riprese sincrone o asincrone.
Subire tali atti, i cui effetti traumatologici a livello psichico possono essere profondi o quanto meno fortemente
compromettenti per la personalità dell'individuo, induce i soggetti vittime al compimento di azioni violente e/o illecite,
a volte autolesive e distruttive. La reiterata formula offensiva adottata da alcuni cybernauti costituisce un processo
di lenta demolizione psichica mediante una dinamica denigratoria e offensiva tale da provocare nel soggetto passivo la
perdita di fiducia e di autostima.
È possibile affermare dunque che una violenza virtuale, in quanto lesiva, invisibile e anonima, agisca nella sfera
personologica del soggetto passivo producendo conseguenze a livello psico-comportamentale quali l’indebolimento
della sfera psicologica, l’istigazione al suicidio, l’isolamento psico-affettivo e la perdita di denaro.
La seconda forma di violenza di natura indiretta può avere luogo attraverso alcuni ambienti virtuali, come ad
esempio particolari social network, creati con lo scopo condiviso di indurre folle o individui a compiere un gesto
eclatante, eversivo o contestatorio. In questo modo i soggetti, non più passivi, diventano “attori attivi” in quanto
assolvono all'ordine imposto dal regista-protagonista del network.

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piuttosto afferenti alla tradizione valoriale di un comunità, acquisendo in tal senso, una dimensione
pluridimensionale e fattoriale.
La già citata “imputabilità culturale” diviene un elemento caratterizzante nella formulazione del
giudizio in sede penale. Occorre però precisare che non ci si riferisce a una tipologia di cultura di
classe ovvero di comportamenti condivisi presenti in un determinato territorio, come accade ad
esempio per il concetto di cultura relativo alle donne, agli atei, ai portatori di handicap, senza
contare i movimenti sociali, gli stili di vita, le associazioni di volontari, ecc.
Nella nostra indagine e analisi scientifica, si pongono le basi per una riflessione più ampia
dell’accezione culturale nel contesto della violenza interpersonale. La semantica di reato culturale
indica di fatto un conflitto di culture, caratterizzato da una componente multirazziale. Si pensi alle
dinamiche relative alle società moderne: sono contesti eterogenei ospitanti realtà culturali a volte in
tensione tra loro. Da un lato vi sono le pretese di affermazione delle minoranze e il loro
riconoscimento, dall’altro una cultura prevalente fondata su assiomi e concetti storicamente e
orgogliosamente differenti.
In tale prospettiva, i conflitti culturali sono il risultato naturale di un processo di
differenziazione sociale che produce un’infinità di raggruppamenti, ciascuno con la propria
impostazione o situazione di vita, la propria interpretazione delle relazioni, la propria ignoranza o
erronea valutazione dei sistemi valoriali degli altri gruppi. Per questo, la trasformazione di una
cultura da un modello omogeneo e ben integrato a uno eterogeneo non integrato è accompagnata da
un aumento delle situazioni conflittuali. Tale conflitto si realizza, in particolare, quando i membri di
un gruppo emigrano in un altro avente codici culturali completamente diversi. Al contrario, le
operazioni connesse a un processo di integrazione condurrebbero a una riduzione delle situazioni
conflittuali.

I conflitti culturali

All’interno della dinamica relativa alla violenza interpersonale dei reati culturalmente orientati non
si può prescindere da un processo intrapersonale vissuto direttamente dai soggetti coinvolti nelle
azioni criminose: quello appunto dei conflitti culturali.
Questi, considerati come la prima fase del processo della dinamica del comportamento culturale
violento, si manifestano come:

1. conflitti culturali interni;


2. conflitti culturali esterni.

I soggetti che vivono la prima condizione si trovano in una situazione di conflitto psicologico,
mentale, in quanto i valori appartenenti alla cultura di origine tendono a scontrarsi con quelli
della cultura ospitante. Il disorientamento psicologico che ne deriva produce una forma di
attuazione di comportamenti violenti non più controllati dall’individuo; il soggetto si trova a
rispondere a diversi orientamenti culturali che lo conducono a un inevitabile contrasto con
almeno uno dei due. La reazione di disagio può esprimersi con comportamenti quali piccole
condotte criminose oppure emarginazione dal gruppo dominante, disadattamento ed eventuali
compromissioni personologiche.

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L’interiorizzazione di modelli culturali nuovi conduce soggetti provenienti da contesti
caratterizzati da altri valori a uno scontro etnico-culturale. Quest’ultimo, così come la non
interiorizzazione di altri modelli o il rifiuto del passato per acquisire il presente, produce contrasti
generazionali, comportamenti di fuga e talora di autolesionismo diretto, fino all’incapacità di
seguire precetti culturali in contesti impregnati da modelli completamente nuovi e talora divergenti.
Di diversa accezione è invece il conflitto culturale esterno. Se quello interno produce un
disorientamento causato dalla mancata interiorizzazione dei nuovi modelli culturali o dal rifiuto dei
vecchi, il conflitto esterno implica un’emigrazione, un passaggio da un modello culturale
vecchio a uno nuovo. L’adesione si manifesta in diversi atteggiamenti quali il modo di pensare, di
alimentarsi, di vestirsi, di vivere la propria sessualità. Il contrasto permane finché il processo di
acquisizione dei valori non si completa.
Il nuovo modello culturale si scontra inevitabilmente con l’atteggiamento di coloro che sono
rimasti fedeli alla cultura di origine. Proprio questo conduce il soggetto a compiere un reato nei
confronti di chi ha rifiutato di acquisire e/o perseguire il modello comportamentale tradizionale.
Il riferimento al conflitto esterno è determinante: chi commette il reato lo fa poiché resta fedele alle
norme di condotta del suo gruppo, ai valori che ha interiorizzato nei primi anni della sua vita. Le
motivazioni del suo comportamento sono identiche a quelle di chi rispetta la legge. In questo caso
non è l’individuo ad essere deviante rispetto alle norme della società ospitante, ma è il gruppo a cui
fa riferimento. Intorno a questa nozione ristretta di conflitto culturale si ritaglia il concetto di reato
culturalmente orientato: un comportamento realizzato da un membro appartenente a un gruppo
etnico di minoranza, che è considerato reato dalle norme del sistema della cultura dominante. Lo
stesso atteggiamento, nel sistema culturale dell’agente, è invece accettato come normale, approvato
o addirittura caldeggiato e incoraggiato in determinate situazioni.

Tipologia dei reati culturalmente orientati

Pur non trascurando l’elemento caratterizzante di questi reati che presentano analogie ricorrenti e
quindi non estendibili ad altre condotte criminose, è opportuno considerare i diversi casi da inserire
all’interno della categoria degli atti culturalmente orientati:

1. le mutilazioni genitali femminili;


2. le condotte violente in ambiente domestico, come i maltrattamenti nei confronti dei
minori;
3. i delitti di onore;
4. i comportamenti illeciti attinenti alla sfera sessuale, come i rapporti con le minorenni;
5. le violenze sessuali intraconiugali;
6. le violazioni dei diritti dell’infanzia;
7. i reati contro il patrimonio;
8. le condotte di importazione, commercio e cessione di stupefacenti per motivi
religiosi e di salute;
9. l’utilizzo di taluni accessori nell’abbigliamento rituale di certe confessioni religiose,
che comportano la violazione di norme penali, come nei casi di utilizzo in luoghi
pubblici del coltello tradizionale (il kirpan) dei sikh;

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Le dispense sono di proprietà intellettuale privata dell’autore. E’severamente vietato l’utilizzo, anche parziale, al
di fuori degli scopi didattici.
10. l’uso da parte di questi ultimi del turbante;
11. l’uso di veli femminili che nascondono i tratti del viso (il burqa).

La dissonanza cognitivo-culturale

L’elemento culturale diviene una componente fondamentale nei sistemi sociali a carattere
interetnico. In tali contesti convivono sempre più massivamente etnie di diverse matrici culturali. Il
sistema sociale tende ad omogeneizzare suddette diversità attraverso uno o più processi di
interazione, con percorsi mirati e politiche socio-integrative. Tuttavia la comprensione di alcuni
fenomeni delittuosi non può essere riconducibile solo a dinamiche clinico-patologiche e/o sociali,
bensì anche e soprattutto a patrimoni cognitivo-culturali afferenti alla propria sfera personale.
La domanda alla quale si è chiamati a rispondere può risiedere nella questione relativa
all’esplicazione di alcuni comportamenti difformi se non addirittura violenti e criminogeni in
presenza di una incongruenza cognitivo-culturale tra il patrimonio di origine e quello nuovo. Al fine
di poter rispondere al suddetto quesito e nella prospettiva di un’analisi completa della violenza
culturale interpersonale, è necessario chiarire e basare suddetta ipotesi sulla teoria della “dissonanza
cognitiva”. Quest’ultima è stata elaborata nel 1957 da Leon Festinger, psicologo cognitivista
americano (1919-1990) che postulava, infatti, l’esistenza di un patrimonio cognitivo presente in
ogni individuo costituito da idee, opinioni, atteggiamenti, conoscenze e credenze. Suddetto
patrimonio si forgerebbe e si alimenterebbe all’interno di un sistema socio-culturale in cui il
soggetto è chiamato a integrarsi al fine di trovare una consonanza con la realtà circostante.
L’eventuale incoerenza presente tra ciò che si pensa e ciò che si fa crea una condizione di disagio
che l’individuo cercherà di annullare per alleviare il contrasto prodotto da questa incapacità di
realizzare e trovare consonanza con il mondo esterno. Proprio tale situazione di disagio è definita
“dissonanza cognitiva”. Come può l’individuo colmare, attenuare questo suo disagio se non
individuando una modalità che gli consenta di eliminare la dissonanza (disagio) stessa?
Festinger ipotizza due soluzioni: un cambiamento di comportamento o una ristrutturazione
cognitiva al fine di adeguarsi ad un nuovo patrimonio esterno. Dalle ipotesi emerse è facile intuire
l’obbligatorietà da parte del soggetto di riorganizzare e persino ripristinare le proprie conoscenze,
integrandole con il sistema cognitivo esterno. Quindi non vi è, a livello cognitivo, la possibilità di
far mutare il sistema esterno bensì sarebbe l’individuo che dovrebbe adeguarsi a ciò che appare
caratterizzare il nuovo patrimonio. Il soggetto, il cui patrimonio cognitivo risulti differire da quello
esterno, elabora idee, opinioni, credenze per cui nutre una profonda convinzione grazie alla quale
giungerebbe a dissociarsi liberamente da un sistema di conoscenze che crede sbagliato e/o ingiusto.
La dissonanza si articola in diverse fasi:

1. il soggetto percepisce l’incoerenza dei propri atteggiamenti rispetto al mondo


circostante, comportamenti che tendono a produrre effetti evidenti;
2. la costruzione di un nuovo patrimonio cognitivo culturale proviene da un percorso
introspettivo e cognitivo personale e interno, non indotto quindi o forzato da stimoli
esterni;

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di fuori degli scopi didattici.
3. il disagio provocato dalla incongruenza cognitiva produce una attivazione
comportamentale fisiologica;
4. l’obbligatorietà al compimento di particolari pressioni comportamentali attribuisce al
soggetto uno stato di conflitto e sofferenza.

Il soggetto è portato quindi a ridurre il suo stato di disagio attraverso percorsi che difficilmente
potranno condurre ad un cambiamento nel mondo esterno, ma che saranno piuttosto mirati alla
ricerca di affinità cognitivo-culturali (cambiamento di idee, opinioni, atteggiamenti) con il mondo
esterno.
Ecco da parte del soggetto stesso l’attuazione di un processo introspettivo di analisi, di discussione,
di presa in esame di nuove argomentazioni al fine di diminuire la dissonanza cognitiva e acquisire
maggiore integrazione all’interno del sistema cognitivo culturale dominante. Ovviamente processi
che implicano una nuova riprogrammazione cognitiva necessitano di un percorso temporale di
lunga durata. Tuttavia il punto di partenza da cui muove lo studio è proprio verificare se una
dissonanza cognitiva non ridotta possa condurre il soggetto al compimento di un comportamento
antisociale e/o violento.
Non a caso, individui che rifiutano una riprogrammazione cognitiva4 tendono ad opporsi al
patrimonio culturale esterno, giungendo a giustificare razionalmente i propri comportamenti, le
proprie credenze e opinioni. In alcuni casi si può minimizzare la dissociazione dal mondo
circostante con l’assunzione di alcool, droghe, comportamenti violenti (disagio fisiologico); in altri
ciò accade imponendo la propria identità cognitivo-culturale, considerandola superiore e più giusta
rispetto a quella esterna; in altri ancora si cercano attenuanti connesse a circostanze esterne che
avrebbero imposto violazioni comportamentali, giustificate e percepite come necessarie al fine di
autoaffermarsi e diminuire l’eventuale dissonanza cognitiva.

Proviamo ad applicare suddetto modello ad un comportamento culturalmente motivato:

Non permetto ai miei figli di uscire perché la Dissonanza


società esterna è culturalmente sbagliata
Sono costretto a tenere isolata la mia famiglia per il Attribuzione esterna
mantenimento delle mie tradizioni che ritengo più
giuste
Sono sicuro che, isolati, i miei figli cresceranno in Attivazione / Attenuazione della dissonanza5
modo più consono ai precetti della mia religione
Anche se isolo i miei figli dalla realtà circostante, so Autoaffermazione
che sto facendo la cosa giusta e migliore per loro
Isolare è la cosa giusta PRIMA SOLUZIONE:
Riduzione della dissonanza
(Cambiamento di atteggiamento)
Non isolo più la mia famiglia SECONDA SOLUZIONE:

4
Si pensi ad esempio ad uno straniero afferente ad un gruppo culturale differente dal nuovo contesto sociale in cui è
chiamato a vivere.
5
In quanto il soggetto trova sollievo e giustificazione nell’azione compiuta.

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Riduzione della Dissonanza
(Cambiamento del comportamento)

Il soggetto, prima di avanzare un processo di riduzione della sua dissonanza cognitiva (e quindi
convincersi che quello che farà è giusto e corretto sebbene contrario a precetti esterni dominanti),
cercherà, attraverso stimoli esterni, di valutare se modificare il suo patrimonio cognitivo oppure
mantenere e rafforzare la convinzione secondo cui le sue azioni siano giuste e necessarie
(cambiamento di atteggiamento) con conseguente riduzione della dissonanza.
Lo stesso individuo, ad esempio, sa che isolare i propri figli è sbagliato, ma è necessario per il bene
della salvaguardia della morale e del mantenimento delle credenze. Pertanto la sua azione,
moralmente disdicevole, viene considerata giusta e doverosa e quindi non percepita come illecita e
sbagliata.
La teoria della dissonanza cognitiva può applicarsi ad uno studio dei reati culturali: essa soddisfa
pienamente e giustifica cognitivamente azioni che, motivate da tradizioni ritenute giuste e corrette,
vengono percepite come violente e devianti dal sistema dominante.
Il processo di attenuazione del disagio con il mondo esterno si riduce solo se il soggetto realizza il
suo comportamento violento; esso diventa quasi lo sbocco naturale di un processo interiore
caratterizzato da azioni criminogene supportate da un patrimonio culturale dell’individuo che gli
impone la salvaguardia delle tradizioni e dell’onore proprio attraverso il compimento di azioni
violente e repressive.
La mancanza di politiche di integrazione, accettazione e valorizzazione delle differenze culturali
può condurre soggetti, fieri e gelosi del proprio passato culturale, a proteggere ciò che il sistema
esterno, per loro, è ritenuto obsoleto, ingiusto e anacronistico. Tuttavia è lo stesso soggetto a
percepire il patrimonio culturale esterno come minaccioso e pericoloso per ciò in cui crede, in cui è
stato educato e che ritiene doveroso far sopravvivere.
In conclusione i reati culturali traggono spiegazione da un disagio vissuto da soggetti fedeli alle
proprie tradizioni a causa delle quali tuttavia, attraverso un processo di diminuzione e attenuazione
dell’incongruenza esterna, si rafforzano le convinzioni di dover salvaguardare un patrimonio anche
a costo di danneggiare coloro che possono essere considerati minacce (figli e moglie compresi).
Prendiamo ad esempio uno dei reati culturali più spesso caratterizzanti le nostre culture occidentali:
i delitti di onore.

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