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In queste note vorrei approfondire alcune considerazioni di Walter Benjamin sul gesto.
Vorrei, cioè, riprendere il discorso benjaminiano, non soltanto per cogliere la centralità
di questa idea all’interno del suo pensiero e liberarne quelli che mi sembrano essere i
punti decisivi, ma anche per svolgerne le implicazioni al di là della stessa teoria
benjaminiana. Penso che Benjamin possa servirci a esporre, nella forma più
circoscritta, alcune delle idee che abbiamo svolto nel corso del nostro seminario.
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immateriali», mima e imita in una certa misura il mondo che nomina. Non ne imita
tuttavia la statica costituzione materiale, bensì le capacità espressive e gestuali, il darsi
espressivo e spirituale delle cose. Il linguaggio cerca di afferrare il modo in cui le cose
imitano se stesse, si duplicano e rendono comunicabili. Dove gli animali hanno una
capacità mimetica più perfetta, l’uomo usa il linguaggio, che imita non le cose in sé,
ma i gesti delle cose. La reine Sprache, potremmo dire, è una lingua gestuale (non nel
senso che sia fatta di gesti, ma nel senso che è una lingua restituita al suo carattere
gestuale).
Benjamin definisce il gesto affermando che esso è ritrovato (vorgefunden) nella realtà
quotidiana. Ciò è importante perché distingue nettamente la teoria del gesto che qui si
vuole enunciare da una qualsiasi presunta ritualità e sacertà del gesto teatrale. Il gesto
del teatro epico non ha assolutamente un carattere sacrale, non ha un significato
aggiunto, né è un gesto particolare distinto tra gli altri: è semplicemente un gesto
qualsiasi, inappariscente e quotidiano, ma ritrovato. «Materia grezza (Rohmaterial)»
del teatro epico è il gesto «che si può incontrare oggi (der heute vorfindliche Gestus)»,
categoria che Benjamin specifica come «il gesto di un’azione o l’imitazione di
un’azione». In realtà, approfondendo questa idea, Benjamin enuclea immediatamente
quello che rappresenta il punto più importante della sua trattazione: «Otteniamo tanti
più gesti, quanto più spesso interrompiamo qualcuno in azione (Gesten erhalten wir
umso mehr, je häufiger wir einen Handelden unterbrechen») (GW 2, p. 1381). Il gesto
non è quindi qualcosa di veramente contrapposto all’azione, ma è ciò che emerge una
volta che le azioni siano interrotte. Il gesto è insieme ciò che interrompe e ciò che resta
una volta che le azioni siano interrotte.
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Il gesto proprio del teatro epico non consiste in dichiarazioni e non è una serie di azioni,
e proprio per questo «è falsificabile (verfälschbar) solo in certa misura», in quanto si
pone al di là della antinomia tra queste due categorie. Esso non è falsificabile perché è
chiuso in sé, non ha altro referente che sé medesimo. Dove gli enunciati possono essere
falsi, e le azioni possono essere infinitamente interpretabili, il gesto rappresenta una
terza possibilità, esso sfugge alla ridda delle interpretazioni senza tuttavia essere
ambiguo.
Qualcosa di simile a questa idea teorizzata nel saggio su Brecht è ripresa da Benjamin
nel Programma per un teatro proletario dei bambini: «l’innervazione creativa
(schöpferische Innervation)», dice Benjamin, è il punto di contatto tra ricezione e
creazione; in ogni gesto infantile si ripete questa perfetta congiunzione di ricezione e
creazione proprio perché non vi è un soggetto chiuso, inscalfibile a fare l’esperienza,
o meglio perché quell’esperienza non lascia un soggetto dietro di sé. Il bambino non è
mai prodotto da ciò che fa, non si pone mai davanti al suo gioco o a ciò che ha fatto
come un soggetto produttivo, proprio perché il suo gioco è intimamente legato alla
sfera del gesto.
Non occorre qui sottolineare quanto questa idea di interruzione (Unterbrechung) abbia
un ruolo fondamentale nel pensiero di Benjamin, e situi quindi la potenza gestuale ben
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Ritorniamo, però, al primo punto che abbiamo enunciato all’inizio, e che rappresenta
a mio avviso uno dei punti più importanti della nostra questione: la relazione
problematica tra gesto, commedia e carattere, e la relazione speculare tra azione e
destino. In un testo famoso su Destino e Carattere, Benjamin afferma l’appartenenza
di queste due categorie alla tragedia e alla commedia.
Dove la colpa tragica è assunta da un destino, che la deve in qualche modo assumere e
interpretare rispetto al proprio vissuto, il carattere viene esibito e semplificato nella
commedia, e lascia intravedere un nuovo soggetto etico, un soggetto che Benjamin
definisce “anonimo”, al di là tanto del destino quanto del carattere. «La sublimità della
commedia di carattere riposa su quest’anonimità dell’uomo e della sua moralità pur
mentre l’individuo si dispiega al massimo nell’unicità del suo tratto caratteristico».
Affermare il valore etico del carattere e della commedia è una delle straordinarie idee
di questo saggio benjaminiano, in netta contrapposizione alla classica posizione
aristotelica, che affermava decisamente l’estraneità del carattere alla dimensione etica,
in quanto questa si identifica soltanto con l’azione, e da ciò la priorità della tragedia
sulla commedia.
Così pure, nella vita umana, la felicità come l’infelicità consiste nell’azione, e il
fine della vita è azione, non qualità (to telos praxis tis estin, ou poiotes): gli uomini
sono qualificati secondo i loro caratteri, ma sono felici oppure il contrario secondo
le loro azioni. Quindi non svolgono l’azione scenica per riprodurre i caratteri, ma
attraverso le azioni assumono (symperilambanousi) i caratteri. Perciò i fatti e il
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racconto sono il fine della tragedia, e il fine è precisamente il punto capitale (1050a
17-23).
Come si può vedere, in questo passaggio Aristotele esprime uno dei punti fondamentali
di tutto il suo pensiero etico, che mostra qui il suo approdo poetico, ossia il legame tra
felicità e prassi. Essere felici significa, secondo la concezione aristotelica, agire,
esercitare una certa attività (attività che però coincide propriamente con una praxis e
non con una poiesis; cfr. Eth. Nic. 1176a 30-35); virtù e vizio, felicità e infelicità,
dipendono dall’agire che l’uomo ha in suo potere. Mentre in Platone la dimensione
etica – se si può dire così – si realizza su un piano soprattutto conoscitivo e cosmico (il
Bene è infatti, prima di tutto, oggetto di contemplazione a cui l’uomo si intona
metafisicamente e quindi praticamente), e non esiste mai in quanto separata da questa
dimensione, con Aristotele per la prima volta diventa un fatto eminentemente pratico
(Eth. Nic. 1096b-1097a); da ciò deriva, sul piano drammatico, la possibilità di essere
ripetuto e imitato. Il Bene non si comunica all’uomo, non è una sua qualità e non
concerne la sua propria natura, ma si definisce attraverso una serie di azioni che lo
rendono felice o infelice. Con ciò Aristotele ha inteso precludere al carattere qualsiasi
partecipazione alla felicità e alla virtù. È questa priorità dell’atto e dell’azione
sull’essere, nell’etica aristotelica, che definisce, a tutti gli effetti, l’importanza della
tragedia: «le azioni (pragmaton) sono la prima cosa e la più importante della tragedia»
(1050b 22-23).
In quanto non sono identificabili esattamente con il carattere né con la natura umana,
gli atti che l’uomo compie possono essere imitati, ripetuti, possono essere svolti e
intrecciati, sono aperti a uno spazio che è visibile e condivisibile, che permette una
qualche immedesimazione anche tra uomini diversi. La tragedia mostra il nesso
colpevole tra un soggetto e alcune azioni, il modo in cui il soggetto tragico «diventa
ciò che è», felice o infelice.
Ora, a me sembra che il gesto possa essere contrapposto del tutto a questo paradigma
aristotelico, in quanto mostra attraverso il carattere il modo in cui si diventa ciò che
non si è.
Il gesto ha un carattere etico proprio perché rende conto del carattere, che lo esponga
comicamente o che lo liquidi.
Il carattere infatti non viene assunto nella commedia, al modo del destino, bensì viene
liberato. Il carattere rappresenta quella sfera intima della persona, eppure non
individuale, come la propria camminata e la propria voce ascoltata in un nastro, che
non può mai essere assunta veramente, che non possiamo mai integralmente
riconoscere come nostra. Per questo il gesto che lo esprime è anche il gesto che lo
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libera, che libera il soggetto dalla propria soggezione a sé, dall’esperienza spaventosa
del riconoscimento di sé.
I gesti del carattere non sono in alcun modo dovuti, non hanno all’interno della
commedia alcuna irresistibile necessità. Il carattere comico è preso in una particolare
situazione: qualsiasi azione egli faccia, deve dimostrare quel suo determinato carattere.
Tuttavia, il suo carattere non è determinato o spinto ad alcuna azione necessaria, niente
lo costringe ed egli dimostra anzi sempre la sua varia libertà di agire
imprevedibilmente. Sempre l’avaro dimostrerà di essere avaro (ed è questo a costituire
la monotona prevedibilità dei canovacci comici), ma non sarà tuttavia determinato
dalla propria avarizia ad alcune azioni precise e irrevocabili. Anzi, le azioni sono
subordinate al carattere. Egli mostra qualcosa, nei suoi gesti, un modo di essere, ma
quel modo di essere se stessi sfugge ed evapora sempre via da quei gesti.
Ma in realtà Benjamin, come abbiamo accennato, sembra pensare qualcosa che vuole
superare questa stretta dipendenza del gesto e del carattere, sembra cioè voler pensare
un gesto che liberi anche il carattere, al di là della sua rappresentazione comica. Che
cosa significa “liberare il carattere”? Il teatro gestuale pensato da Benjamin, a partire
da Brecht, da Kafka o dal teatro proletario per bambini, pur non potendosi certamente
chiamare comico e avendo ben poco a che fare con la commedia per come noi siamo
abituati a intenderla, è ugualmente strettamente connesso con la liquidazione del
carattere. Esso non lo esibisce attraverso alcuni tratti grotteschi e esagerati, bensì lo
libera nei gesti. Benjamin intuisce che la soluzione comica è liberatoria solo in parte.
Né attraverso le azioni né con la semplice esibizione del carattere noi possiamo
raggiungere la felicità, bensì solamente attraverso una serie di gesti come quelli
infantili, in cui ci liberiamo da noi stessi.
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traccia, esattamente come quello del saggio cinese citato, e quello dei bambini del
teatro proletario.
Il gesto che tentiamo qui di definire dunque compie un passo in più rispetto alla
commedia di carattere, ad esempio di Molière, che resta ancora dentro i meccanismi
della commedia, esponendo e esibendo il carattere attraverso alcuni gesti esagerati e
caricaturali: il teatro naturale abbandona il carattere, lasciando intravedere finalmente
il soggetto ormai puro e anonimo. I personaggi kafkiani sono personaggi senza
carattere nel senso che essi vivono completamente nei propri gesti, l’elemento comico
che li concerne non riguarda più il loro carattere, bensì la loro innocenza, infantile e
animalesca. Il gesto kafkiano «unisce la massima enigmaticità alla massima semplicità
come un gesto animale». Se nel carattere è ancora possibile rinvenire lontanamente una
eco, seppure rovesciata, della colpa tragica, qui essa è ormai del tutto dissolta nel gesto.
Il secondo punto che vorrei trattare, e che mi limiterò qui solo a enunciare brevemente,
è quello che ho esposto all’inizio, e che si basa sull’idea del gesto come condizione di
possibilità della lingua.
In un saggio celebre sulla facoltà mimetica, Benjamin espone l’idea che il linguaggio
si basi sulla capacità di produrre e riconoscere somiglianze. Questa capacità mimetica,
che anche gli animali hanno, è alla base del linguaggio parlato come del linguaggio
scritto. La danza è, in origine, questa tensione a imitare perfettamente con il corpo e
con i gesti. Esattamente come abbiamo visto per i bambini, dove l’innervazione
creativa è insieme ricezione e azione, così la facoltà mimetica rappresenta una capacità
originaria dell’umanità: la più pura forma di creazione non è qui differente dalla
imitazione, l’atto di leggere è più originario dell’atto di scrittura (anzi, si potrebbe dire
che l’atto di scrivere non è che un atto mimetico di ciò che si legge). Questa capacità
mimetica è la trasparenza, e se vogliamo riprendere il punto precedente, corrisponde
all’assenza di carattere. Che cosa si fa quando si imita? Il comportamento mimetico
non è un fenomeno sociale, come in Girard, che presuppone alcuni soggetti-sostanze
che assecondano o recedono dal proprio originario mimetismo. Per Benjamin, invece,
è proprio questa originaria facoltà mimetica che rende vano ogni tentativo di districare
un soggetto, e non è assolutamente riducibile al fatto sociale: «Il bambino non gioca
soltanto a fare il commerciante o il maestro, ma anche il mulino a vento o il treno».
Sono le cose a essere mimetiche, a produrre somiglianze, a rendersi imitabili, molto
prima che gli uomini le colgano e le rendano attraverso il linguaggio.
Qui, come altrove, Benjamin espone un pensiero della mimesi che dimostra di essere,
come è stato mostrato nel nostro seminario, genuinamente platonico. Ma che cosa imita
un nome? Non bisogna pensare questo gesto come univoco, come se noi, parlando,
gesticolassimo rozzamente un elemento prelinguistico. Che cosa dice la parola “vaso”
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del vaso che abbiamo davanti agli occhi? Esso non può afferrarne certamente il suo
essere e la sua consistenza materiale, ma ne imita in una certa misura il gesto, la sua
capacità dinamica di darsi nel linguaggio (quella che Benjamin chiama in un altro
scritto la «lampada nel linguaggio»). Noi possiamo imitare solo perché le cose si
comunicano gestualmente, esse stesse si imitano, ossia si rendono comunicabili. Il
linguaggio stesso, nella sua funzione propriamente onomatopeica, rappresenta per
Benjamin la capacità di cogliere quelle che egli chiama “somiglianze immateriali”. «È
la somiglianza immateriale che fonda le tensioni non solo fra il detto e l’inteso, ma
anche fra lo scritto e l’inteso, e altresì fra il detto e lo scritto». Le somiglianze
immateriali hanno cioè un carattere dinamico, che definisce le tensioni presenti nella
lingua, prima tra tutte la traducibilità delle lingue medesime.
Nel saggio sui problemi di sociologia del linguaggio, Benjamin riporta l’idea di
Richard Paget per cui «l’elemento fonetico è fondato su quello mimico-gestuale».
Sviluppando questa idea, Benjamin prosegue citando un testo celebre di Valéry, L’âme
et la danse, in cui Valéry – cito Benjamin – «vede le radici dell’espressione linguistica
e di quella che avviene attraverso la danza in una sola, identica facoltà mimetica», e
«tocca le soglie di una fisiognomica del linguaggio che va molto oltre i primitivi
tentativi della teoria onomatopeica». Che cosa è questa fisiognomica del linguaggio,
che Benjamin auspica?