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Montale

Introduzione + vita

Il 12 ottobre 1896 è la data in cui ha visto la luce un altro celebre genovese: Eugenio
Montale. Considerato uno dei più grandi poeti del Novecento, con il suo pensiero, Montale
s’inserisce a pieno titolo quale rappresentante di un secolo travagliato e frammentato, in
ragione degli eventi storici e bellici che si sono consumati in quel periodo.

Secolo deleterio quindi, il Novecento, ma anche ricco di nuovi fermenti, che ha assistito a
scoperte tecnologiche e di scienza di vasta portata: fondamentali per l’evoluzione
umana, messaggere però di disorientamento per l’umanità tutta. Ed è in tale contesto
storico-sociale che, attraverso la sua poetica, Eugenio Montale si fa tramite per
manifestare le inquietudini del suo tempo.
Ma, per conoscere il poeta nel modo più esaustivo possibile e apprezzare il suo
lirismo, questa speculazione impone, anche se per sommi capi, di approfondire il suo
percorso di vita come quello poetico.

Poeta e critico letterario, Eugenio Montale trascorre un’infanzia e un’adolescenza non


propriamente facili; in quanto periodo disseminato di complicazioni che minano il suo
giovane fisico; e che inevitabilmente lo portano a confrontarsi con il dolore. L’ovvia
conseguenza del suo disagio lo conduce, spinto anche da un’innata sensibilità, a
rifugiarsi in una personalissima forma di introspezione. Dopo
aver conseguito il diploma da ragioniere, nel 1917 abbandona gli studi per la chiamata al
fronte, obbligato a partecipare alla Prima Guerra Mondiale, evento che segna il suo
percorso esistenziale, marcando la sua poetica di una connotazione ben precisa. La sua
formazione culturale, nonostante il suo precoce allontanamento da un percorso scolastico
tradizionale, è ampia e di alto profilo. Le discipline approfondite sono molteplici: musica,
pittura, letteratura anglo-americana e francese, fra queste. Oltre che saggista e critico,
Montale svolge anche attività di traduttore. Terminato il primo
sanguinoso conflitto bellico, si accosta al mondo intellettuale ligure nella persona di
Camillo Sbarbaro, più di altri; per entrare poi in contatto con gli intellettuali che gravitano
intorno a Piero Gobetti. Il 1925 è un anno
importante per il poeta; oltre a pubblicare Ossi di seppia, la sua prima raccolta, che
riscuote grande attenzione, tramite un articolo redatto da lui, pone l’interesse sull’opera di
Italo Svevo, scrittore triestino e poco apprezzato fino ad allora: sarà l’occasione per farlo
conoscere alla critica come ad un vasto pubblico di lettori. È
ancora il 1925 quando firma il Manifesto antifascista lanciato da Benedetto Croce.
Circostanza che esplicita un dissenso civile e politico del poeta nei confronti della dittatura,
una presa di posizione che lo porta a condurre, durante gli anni del fascismo, una vita
isolata e appartata, la quale giustifica il suo allontanamento dalla militanza politica. Nel
1927 la sua destinazione è Firenze, dove coordina il Gabinetto letterario Viesseux,
istituzione culturale fiorentina di antica data, e crocevia di numerosi intellettuali. Tuttavia, nel
1938 si vede costretto ad abbandonare l’incarico, a causa della sua negazione di
iscriversi al Partito Fascista.
L’anno 1939 gli restituisce in parte ciò che il regime gli ha tolto: sarà per Montale un anno
importante grazie alla pubblicazione della raccolta Le Occasioni ma, fatto di maggior
rilievo, si lega a Drusilla Tanzi, la donna che sarà sua moglie e con cui condividerà l’intera
esistenza. Nel frattempo, il poeta collabora con la rivista Solaria in una cooperazione
proficua e appagante, che però abbandona per raggiungere Milano dove dà inizio a una
collaborazione stabile con il Corriere della sera. Con il soggiorno milanese, si prepara per
Montale una stagione ricca di gratificazioni professionali e umane. Si occupa di stendere
articoli di critica letteraria come di fare dei reportage, anche se la poesia rimane il focus del
suo universo culturale ed emotivo. Quando sopraggiunge il 1956 il poeta pubblica la raccolta
dal titolo La bufera e altro, per approdare poi nel 1971 a una nuova raccolta dal titolo Satura.
Dieci anni dopo, nel 1981, lascia per sempre questo mondo, dopo aver impresso al
panorama culturale non solo italiano un’impronta importante; non prima però di aver ottenuto
uno dei più alti riconoscimenti a cui un letterato può aspirare: il Premio Nobel per la
letteratura. Era il 1975.

Poetica e Pensiero
Quella di Eugenio Montale è una figura emblematica della letteratura italiana del
Novecento, così come lo sono la sua poetica e il suo pensiero. Spesso erroneamente
presentato come esponente dell’ermetismo, Montale ne prese pubblicamente le distanze e
la sua poesia, che pur può condividere con l’ermetismo alcune caratteristiche, non è del tutto
riconducibile al movimento letterario. La poesia per Montale è in realtà uno strumento
che egli stesso utilizza per effettuare una vera e propria indagine sull’esistenza dell’uomo
nella società contemporanea, sempre alla ricerca di qualcosa che non è conoscibile. La sua
poesia non ha quindi un ruolo di elevazione spirituale: il poeta non ha a disposizione una
verità da fornire all’uomo, gli spetta solo il compito di dire “ciò che non siamo” (come scrive
in Non chiederci la parola). Questo accade perché in fondo l’uomo del Novecento è
dilaniato dai fatti e dagli accadimenti storici: Montale nei suoi scritti apre alla riflessione
sull’uomo moderno, a cui è difficile dare un’identità. L’individuo, ormai scisso dal mondo, è
vittima di una solitudine e di una frustrazione esistenziali e dominato dal male di vivere
(Spesso il male di vivere ho incontrato). A questo male, il poeta, in quanto uomo, non può
avere una soluzione (il poeta di Montale è ben diverso dal poeta-vate dannunziano).
Tuttavia, la poesia è strumento di indagine: esiste qualcosa di altro e irraggiungibile, che
pure ogni tanto riesce a schiudersi, a essere visto da lontano — il mare o i limoni di Ossi di
seppia, Clizia nelle Occasioni sono alcuni lampi di salvezza, i miracoli che schiudono il
senso reale dell’esistenza. La poesia è inoltre per l’autore un’espressione della ricerca di
dignità, un modo per comunicare fra gli uomini. Le sue opere sono caratterizzate da
un’esigenza di moralità (da non confondere con le intenzioni moralistiche): fragilità,
incompiutezza e debolezza fanno parte dell’essere umano. Da questa consapevolezza
deriva la sfiducia generalizzata verso “leggi immutabili e fisse”, siano esse filosofiche,
religiose o ideologiche.

Fondamentali nella sua produzione poetica sono i simboli. Montale sfrutta il correlativo
oggettivo teorizzato da T.S. Eliot nel saggio Il bosco sacro: i dati sensibili della realtà
diventano testimonianza materiale di una condizione esistenziale. Gli oggetti che
compaiono, più o meno ricorrentemente, nelle sue raccolte sono simboli della condizione
umana: lo sono, in negativo, il muro che chiude Meriggiare pallido e assorto o il rivo
strozzato che apre Spesso il male di vivere ho incontrato, ma anche, in positivo, i limoni de I
limoni. Inoltre, Montale è artefice di una poetica originale, profonda e nuova, nata da
una rielaborazione intima della tradizione che fa pensare a una sorta di ‘compromesso’ tra la
tradizione letteraria e istanze innovative che la letteratura del Novecento esprime con forza.
Strettamente connessa alla ‘poetica delle cose’, quella di Montale segue una linea
letteraria che trova un precedente in Pascoli e Gozzano, entrambi, poeti da lui molto amati.
Montale è maestro di sintesi: un’immagine o emozione è sfrondata del superfluo e, resa
essenziale nella parola che le è più appropriata, fin quasi a tradursi in essa. I particolari
diventano decisivi, e dalla cui limitatezza erompe una simbolicità molto significativa, dove
l’analogia non è libera associazione tra immagini, ma si fa equazione tra cosa e parola. Ed
ecco che la concezione esistenziale di Montale si declina nella poetica del non-dire, o
meglio, la scelta di dire solo quel che non si è, la quale si manifesta con un esercizio di
essenzialità e povertà di espressione. Da cui deriva un linguaggio spoglio, nudo, che
mette in risalto l’essenziale.

Ossi di seppia
Ossi di seppia è una raccolta poetica di Eugenio Montale pubblicata a giugno del 1925.
Montale, in Ossi di seppia, afferma l'impossibilità di dare una risposta all'esistenza come per
esempio nella lirica Non chiederci la parola (è una poesia scritta nel 1923 da Eugenio
Montale. Apre l'omonima sezione nell'opera Ossi di seppia). Lo stesso titolo dell'opera
designa l'esistenza umana, logorata dalla natura, e ormai ridotta a un oggetto inanimato,
privo di vita. Gli ossi di seppia sono, infatti, gli endoscheletri delle seppie rilasciati sulla
spiaggia dalle onde del mare, quindi, presenze inaridite e ridotte al minimo, che
simboleggiano la poetica di Montale scabra ed essenziale. In tal modo Montale capovolge
l'atteggiamento fondamentale più consueto della poesia: il poeta non può trovare e dare
risposte o certezze; sul destino dell'uomo incombe quella che il poeta, nella lirica Spesso il
male di vivere ho incontrato, definisce "Divina Indifferenza", ciò che mostra una
partecipazione emotiva del tutto distaccata rispetto all'uomo. In un certo senso, si potrebbe
affermare che tale "Divina indifferenza" è l'esatto contrario della "Provvidenza divina"
manzoniana.
Il titolo della raccolta vuole evocare i relitti che il mare abbandona sulla spiaggia, come gli
ossi di seppia che le onde portano a riva; qualcosa di simile sono le sue poesie: in un'epoca
che non permette più ai poeti di lanciare messaggi, di fornire un'interpretazione compiuta
della vita e dell'uomo, le poesie sono frammenti di un discorso che resta sottinteso e
approdano alla riva del mare come per caso, frutto di momentanee illuminazioni. Le poesie
di questa raccolta traggono lo spunto iniziale da una situazione, da un episodio della vita del
poeta, da un paesaggio, paesaggio che si fa emblema della dolorosa condizione
esistenziale dell’uomo. Dove il luogo, per il poeta dell’anima, è elemento dominante nella
raccolta. Con il suo territorio riarso e roccioso, è raffigurato nella sua aspra nudità, senza
indulgere al pittoresco o al sentimentale... come quello della Liguria, usato per esprimere
temi più generali: la rottura tra individuo e mondo, la difficoltà di conciliare la vita con il
bisogno di verità, la consapevolezza della precarietà della condizione umana.
Si affollano in queste poesie oggetti, presenze anche molto dimesse che non compaiono
solitamente nel linguaggio dei poeti, alle quali Montale affida, in toni sommessi, la sua analisi
negativa del presente ma anche la non rassegnazione: l'attesa di un miracolo (ecco perché
Montale non può essere collocato in nessuna corrente, movimento. Perché nel suo pensiero
vi è una evoluzione: il pensiero negativo non si esaurisce in se stesso.)

Non chiederci la parola:

è una poesia scritta nel 1923 da Eugenio Montale. Apre l'omonima sezione nell'opera Ossi
di seppia.
Questo componimento può essere visto come il manifesto dell'uomo contemporaneo,
che dopo aver perso la guida sicura delle certezze che un tempo garantivano le ideologie e
soprattutto la religione, sempre più consapevole della sua piccolezza nel cosmo e di sapere
molto meno di quanto ci sia da sapere sulla realtà, non può che esprimere i propri dubbi e il
proprio non sapere, ovvero la propria ideologia “negativa”. Emblematico, in tal senso, che
la poesia inizi con una negazione: «Non chiederci la parola che squadri...». Montale
avverte il lettore: nessuna parola sacra e definitiva è da attendersi dal poeta. Egli usa la
particella pronominale («chiederci») per riferirsi ad un noi che in realtà è un io camuffato
attraverso questa trovata stilistica, che Montale userà spesso anche sotto forma di un “tu”
impersonale, rendendola quasi un'”istituzione”.
Si tratta di uno stratagemma linguistico per evitare a sé stesso un'eccessiva esposizione
dinnanzi alle implicazioni esistenziali del testo.
Ancora più doloroso inoltre è essere consapevoli di questa realtà dinnanzi all'atteggiamento
tranquillo di coloro che s'illudono, che vivono sereni perché incapaci di guardare, come è
invece costretto a fare il poeta dalla sua specifica sensibilità, il lato oscuro della realtà e di sé
stessi, l'incombere del male, di un buio presagio rappresentato dall'ombra che si staglia sullo
«scalcinato muro», aggettivo quest'ultimo che a sua volta rimanda alla dissoluzione delle
cose e quindi alla morte.

I limoni

I limoni è una delle poesie più note di Montale proprio perché costituisce un vero e proprio
manifesto della poetica dello scrittore.
I limoni" è la poesia che apre la sezione "Movimenti" della raccolta Ossi di Seppia ed è stata
scritta tra il 1921 e il 1922.
Questa poesia fondamentalmente è un manifesto, in quanto Montale dichiara, attraverso
questi versi, il suo modo di scrivere, il suo modo di fare poesia in contrapposizione agli altri
poeti e agli altri letterati; è evidente la polemica nei confronti di D'Annunzio.
Metrica: il componimento è formato da quattro strofe di versi liberi, molti dei quali sono
endecasillabi e settenari; la rima è libera, talvolta vi sono delle rime al mezzo.
Montale afferma nella prima strofa di non essere un poeta laureato, incoronato dalla critica
o depositario di un ruolo di maestro. Per spiegare la propria diversità, egli confronta il
paesaggio da lui prediletto con quello dei poeti laureati. Mentre costoro preferiscono piante
dai nomi ricercati, a lui piace parlare di alberi comuni, come i limoni, nei loro ambienti
quotidiani: i fossi, le pozzanghere, le viuzze, i ciglioni.
La seconda strofa e la terza strofa descrivono il paesaggio in cui crescono i limoni e in cui
il poeta si sente a proprio agio: un paesaggio silenzioso e deserto, attraversato da viottoli di
campagna. Qui all’improvviso, può accadere il miracolo: può apparire una presenza
rivelatrice, si può incontrare il segreto dell’Essere.
Allora l’uomo ritorna in una sorta di età felice, quando nel mondo si aggirava qualche
disturbata Divinità (v.36).
La quarta strofa evidenzia il carattere passeggero di questa illuminazione: il tedio invernale
rende amara l’anima, allontana lo stato di grazia. Eppure non tutto è perduto: il finale della
poesia ripropone la possibilità del miracolo, legato all’improvvisa scoperta dei limoni oltre il
portone di qualche cortile cittadino.
Il primo verso «Ascoltami, i poeti laureati» è un'invocazione che polemicamente si rifà a
D'Annunzio; è chiara infatti l'allusione alla “Pioggia nel pineto” che inizia con «Taci».
Nel verso 22 abbiamo di nuovo un esordio polemico con D'Annunzio, in quanto Montale dice
«Vedi», rifacendosi a «Odi» nella “Pioggia nel pineto”.
Nei versi 26-27 e seguenti vi sono alcuni termini interessanti «sbaglio di natura. Punto morto
del mondo… anello che non tiene» sono tre termini che costituiscono un esempio di
correlativi oggettivi in quanto rimandano a significati nascosti e cioè a quello che la Natura
può sbagliare e, quindi, conseguentemente aprire un varco per far comprendere all'uomo
qualche verità, qualche segreto.
(Siamo d’estate: il poeta è tornato a trascorrere un periodo di vacanze nelle Cinque Terre, il
luogo dove passò i momenti più felici dell’infanzia. Questo ritorno gli ispira in primo luogo la
presa di distanza dai poeti laureati (Pascoli, Carducci, D'Annunzio), in particolare con
D'Annunzio, poeta dal linguaggio altisonante e dal lessico scelto o dai paesaggi classici e
dal mito del superuomo. Ad egli Montale contrappone per la semplicità una pianta banale,
mai trattata in poesia: il limone. Le parole adoperate dal poeta sono ricavate non dal gergo
della retorica ma dal linguaggio comune.
L'altro piano di lettura del testo è quello simbolista: i limoni rappresentano anche una pianta
che è in grado di far interagire tutti i sensi: vista, udito, tatto e quindi un qualcosa che
permette una conoscenza quasi miracolosa della realtà.
Il paesaggio descritto da Montale è un paesaggio campestre, quasi deserto, silenzioso,
attraversato da viottoli che coinvolge tutti nostri i sensi: la vista (il colore azzurro), l'udito (gli
uccelli ed il sussurro dei rami), l’olfatto, l'odore (di cui abbiamo diversi espressioni
metaforiche). Questo paesaggio che Montale gradisce particolarmente rappresenta il modo
di entrare in una qualche conoscenza della realtà; e infatti adopera il termine «frugare
indagare accordate disunire», termini servono proprio a Montale per attuare quella
operazione di scomposizione del reale per permettere all'uomo di arrivare a una sorta di sua
conoscenza anche se parziale; è un po' l'operazione che abbiamo visto fare a Pirandello
per quanto riguarda la prosa “l'arte che scompone il reale” come vediamo nel famoso saggio
dell'umorismo).

Spesso il male di vivere ho incontrato


La poesia Spesso il male di vivere ho incontrato di Eugenio Montale è stata pubblicata
per la prima volta nel 1925 nell’omonima sezione della raccolta Ossi di Seppia.
In quello che è sicuramente uno tra i suoi più celebri componimenti, Montale esprime
apertamente sia la sua concezione della vita sia quella della poesia...Per il poeta la vita è
un accumularsi di dolori e la poesia non può far altro che raccontare questa sofferenza,
senza avere la possibilità di porvi rimedio in alcun modo. La soluzione esistenziale definitiva
non c’è e, in questi versi, ciò viene espresso anche grazie al linguaggio, essenziale e
scarno.

La poesia è composta da due quartine di endecasillabi, escluso il verso finale composto da


due settenari (il primo dei quali sdrucciolo). La rima della prima strofa è incrociata (ABBA), la
seconda stravolge lo schema prestabilito (CDDC) riportando all’ultimo verso la rima A. Il
sistema complessivo è dunque: ABBA, CDDA.

Questa poesia esprime perfettamente il correlativo oggettivo montaliano, cioè quel


rapporto che la parola intesse con gli oggetti che nomina. Stabilito ciò, è facile capire come
la sofferenza di vivere sia rappresentata in maniera emblematica dal ruscello che fluisce
faticosamente, dalle foglie che si accartocciano perché riarse dal sole, dal cavallo che,
esausto, stramazza. Tutte queste vivide immagini vengono riproposte come aspetti della
realtà e di un quotidiano segnato dalla sofferenza degli uomini. Il senso di fatica e quello di
dolore sono espressi magistralmente da Montale con l’accurata scelta dei vocaboli, crudi e
duri nell’espressione del disagio (es. stramazzato, strozzato). Il fatto che siano parole in cui
le lettere s e r si ripetono costantemente non fa altro che accentuare ancor di più l’asprezza.
Una volta snocciolati i modi in cui il male si manifesta in tutto ciò che ci circonda in maniera
costante, Eugenio Montale propone un’unica soluzione: la “divina Indifferenza”. La i
maiuscola non è, come facilmente intuibile, posta a caso. Lo scopo è quello di deificare il
distacco e la freddezza, rappresentati in questa poesia da tre elementi: la statua (perché
insensibile), la nuvola (perché impalpabile e lontana) e il falco (perché libero nel cielo).
L’atmosfera, caratterizzata da immobilità ed estraneità, è percepibile anche attraverso il
meriggio, momento sospeso tra torpore e stupore e caro a Montale e presente in altre due
opere, come ad esempio Meriggiare pallido e assorto.

Meriggiare pallido e assorto


Scritta nel 1916 e ricompresa nella raccolta “Ossi di seppia“, la lirica intitolata “Meriggiare
pallido e assorto” è una delle più note e apprezzate di Eugenio Montale. La poesia è
ambientata presso il muro di un orto, dove il poeta si ferma ad osservare l’ambiente
circostante. E’ mezzogiorno, il sole è rovente e la natura esplode con i suoni e i colori tipici
dell’estate. Il poeta percepisce il verso dei merli tra i rami secchi, e i serpenti che strisciano
nel terreno in modo appena percettibile.
Tra le crepe del muro scorge lunghe file di formiche rosse che si inerpicano fino alla
sommità dei formicai. Anche il mare si vede in lontananza e la sua superficie è tremolante.
In mezzo alle foglie e sulla sommità delle rocce si ode il frinire delle cicale.
Procedendo verso il sole abbagliante il poeta sii rende conto di quanto l’esistenza sia
tormentata , come quando si voglia camminare su una muraglia cosparsa di cocci di
bottiglia. Il
titolo della poesia “Meriggiare pallido e assorto” si riferisce alla contemplazione della
natura da parte di Montale, che trascorre le ore del pomeriggio assorto nei suoi pensieri. Gli
aggettivi “pallido” e “assorto” si riferiscono allo stato del poeta, che viene accecato dalla
luce e dalla calura afosa. Immersa nella calura quasi irreale dell’estate, la vita sembra
essersi fermata. Le strofe montaliane non hanno alcunché di vitale, non c’è alcuna traccia di
gioia o entusiasmo. Al contrario, i temi dominanti in questa poesia (ma anche in tutta la
produzione di Montale) sono l’isolamento e la solitudine. Il poeta esprime la sua difficoltà
di vivere pienamente a causa di ostacoli (immagine simbolo è la muraglia invalicabile che gli
impedisce di comunicare con il prossimo). Anche l’orto viene visto come un luogo chiuso da
cui è difficile evadere.

Le altre immagini (le crepe nel muro, gli sterpi, i pruni, le rocce aride) richiamano il grigiore
della vita, a differenza del sole che invece tutto abbaglia. Il poeta non è in grado di andare
oltre (il mare rappresenta questo confine), e quindi non è capace di gioire e provare
entusiasmo ed ottimismo. Come ritroviamo anche in altre liriche di Montale, in “Meriggiare
pallido e assorto” vi è un’esaltazione del “Vero” (rifacendosi alla poetica di Giacomo
Leopardi). Possiamo infatti trovare una similitudine tra l’orto di Montale e il giardino del male
di cui Giacomo Leopardi scrive nello Zibaldone. Mentre in Leopardi si intravede un anelito
alla ribellione e alla protesta, Eugenio Montale appare rassegnato, impotente e disorientato.
Una delle immagini più forti della poesia è la muraglia invalicabile perché piena di cocci
aguzzi di bottiglia: la triste condizione di ogni uomo è di non sapere ciò che si trova aldilà
delle apparenze e delle cose materiali che lo circondano. Anche in questa lirica di Montale si
riscontra una disarmonia tra la natura e lo stato d’animo del poeta.
Mentre la natura esplode per la stagione estiva il poeta si mette a riflettere sulla tragica
condizione esistenziale dell’uomo. Montale esprime così la profonda crisi che colpisce gli
intellettuali del suo tempo, che rinunciano ad una visione di poeta come “profeta” ed
utilizzano nelle loro liriche parole piuttosto aspre e dure, che servono a dare idea di
un’esistenza “secca”, senza gioia né entusiasmo.

“Meriggiare pallido e assorto” contiene allitterazioni, onomatopee, assonanze (si tratta


di precise figure retoriche utilizzate per rendere la lirica più diretta). Da questa lirica è facile
cogliere il concetto di poesia secondo Montale. Il poeta non è un profeta come accadeva ai
tempi di Pascoli e D’Annunzio, ma un ricercatore della verità. Egli deve essere in grado di
cogliere “il Vero” oltre le cose apparenti, attraverso momenti che possono durare anche lo
spazio di un attimo.

La concezione pessimistica della vita in Montale richiama il “pessimismo cosmico”


leopardiano, caratterizzato dalla solitudine e dall’incomunicabilità con i propri simili. Entrambi
i poeti però intravedono uno spiraglio: la speranza è un sentimento che nessun uomo
dovrebbe mai perdere anche dinanzi alle prove più ardue della vita.

Ti libero la fronte dai ghiaccioli


Ti libero la fronte dai ghiaccioli è una lirica che fa parte della raccolta Le occasioni (1939), in
cui Eugenio Montale riunisce le sue composizioni tra il 1928 e l’anno di pubblicazione.
Le “occasioni” da cui nascono le poesie altro non sono che alcuni momenti casuali e
quotidiani, da cui il poeta cerca di carpire il significato della stessa esistenza. Le liriche
contenute in questa raccolta si avvicinano alla corrente ermetica in auge a Firenze negli anni
Trenta, ma hanno delle loro peculiarità.
La prima sezione della silloge è costituita dalle liriche che raccontano alcuni ricordi di viaggi.
La seconda si compone di 22 brevi liriche e i Mottetti, un canzoniere d’amore per Clizia, il cui
tema ricorrente è quello dell’assenza della donna. Clizia è la fanciulla mitologica innamorata
di Apollo, la quale non staccava mai gli occhi dal suo dio, finché fu trasformata in girasole.
Clizia è un nome-schermo: la donna in questione è Irma Brandeis, una giovane studentessa
ebrea-americana conosciuta da Montale a Firenze nel 1933. Con “Clizia” Montale avrà una
relazione che durerà qualche anno, fino al rientro della donna negli Stati Uniti a causa delle
leggi razziali. La terza sezione delle Occasioni consta di un poemetto in tre parti, Tempo di
Bellosguardo, mentre la quarta comprende le liriche dal significato un po’ più oscuro, come
La casa dei doganieri.

Ti libero la fronte dai ghiaccioli è un mottetto, scritto probabilmente nel gennaio del 1940, in
cui il poeta immagina che Clizia, vera e propria portatrice di salvezza, giunga volando
attraverso gli strati più alti e più freddi del cielo, come un angelo. Nel suo volo la donna sfida
i cicloni e gli alti cieli, per portare il suo messaggio salvifico, e il poeta immagina di
asciugarle la fronte ghiacciata. Clizia nella raccolta viene indicata più volte mediante il
riferimento alla “fronte”, al “ghiaccio” e al “fuoco”. L’ossimoro del sole freddoloso presente ai
versi 6-7 fa proprio riferimento alla duplice natura (ghiaccio e fuoco) della donna.
Montale fa riferimento alle “penne lacerate” della donna, alludendo alla sua natura angelica.
Troviamo dunque la figura della donna-angelo che rimanda alla lirica stilnovistica, a Guido
Guinizelli ma ancora di più alla Beatrice della Vita nova dantesca. Tuttavia Clizia non
rappresenta Dio in terra, non è sinonimo di perfezione ma è pienamente immersa in una
dimensione terrena. Nella prima quartina, infatti, la sua figura appare debole, sofferente e ha
un sonno agitato, sul quale veglia lo stesso Montale.

Nella seconda quartina il quadro cambia. È mezzogiorno e dalla finestra si vede l’ombra
scura di un nespolo, mentre nel cielo un timido sole resiste al freddo invernale. Nel
frattempo, alcuni uomini svoltano all’angolo del vicolo, ignorando la sua presenza salvifica.
Il poeta è ben consapevole della possibilità del miracolo, ma non sa comunicarlo agli altri
uomini, alle “ombre che scantonano” ignorando la presenza di Clizia

Ho sceso dandoti il braccio

Appartiene alla raccolta Satura, pubblicata nel 1971 (precisamente alla seconda serie di
liriche, Xenia) ed è una delle poesie più belle di tutto il Montale in memoria della moglie
Drusilla Tanzi. Il tema è quello della morte, o meglio della vita osservata nell'ottica di chi
adesso non c'è piú.

Schema metrico: versi liberi, con alcuni endecasillabi e varie assonanze e rime
(crede/vede,due/tue..)

Temi: le contraddizioni dell’esistere – l’affetto per la moglie scomparsa e il rimpianto del


poeta – il vuoto incolmabile lasciato dalla morte

La prima strofa accenna a una metafora, la discesa delle scale, che poi diventa una
conferma al verso 3, il mio lungo viaggio, per definire la vita umana. Il v. 3 propone il
rimpianto del poeta per la scomparsa della moglie e costituisce una riflessione sulla durata
dell'esistenza umana. Ritorna in questa lirica un tema già osservato nella Casa dei doganieri
e in altre montaliane: l'idea cioè che per vivere ci è necessario stabilire relazioni con i nostri
simili. L'assenza di legami o l'interruzione di essi, a causa della morte, è il nemico più
terribile, ciò che dà un senso di vuoto (v. 2 ) alla nostra esistenza.
Protagonista della lirica è la figura della Mosca, onnipresente seppure nell'assenza della
morte. Un altro nucleo tematico del testo è quello del vedere: c'è chi, pur avendo le pupille
offuscate, vede tutto quello che serve; e c'è chi crede di vedere ma, in realtà, vede poco o
nulla. L'apparente semplicità del linguaggio non impedisce al poeta di ottenere raffinati effetti
di musicalità, come l'analisi della prima strofa dimostra. Nella seconda strofa è molto
interessante la rima che lega i due versi. Se nella conclusione della prima strofa il discorso si
avvicina alla musicalità, qui invece il poeta vuole sorprendere il lettore con una battuta tipica
della satira, affidata a un verso imprevedibilmente breve. Montale ha percorso insieme alla
moglie un lungo e intenso viaggio: il viaggio della vita. Ora la donna è morta e il poeta
avverte un gran vuoto intorno a sé; quel viaggio, guardato a ritroso, fu davvero troppo breve.
Il poeta e la moglie hanno camminato accanto, sono saliti e scesi insieme per milioni di
gradini. Apparentemente la più debole (non solo di vista) era lei. Ma adesso che non c’è più,
Montale si accorge che le cose stavano diversamente: infatti la realtà non è affatto quella
che si vede (v.7). Malgrado la miopia, tra i due sposi era proprio la Mosca a vederci meglio e
a condurre il marito nel viaggio della vita. La situazione evocata nel testo è l’atto di scendere
le scale: un’operazione comune, ma che richiede vista buona. Altrimenti si può mettere il
piede nel vuoto ed è qualcosa di peggio che un semplice gradino mancato: Montale pensa al
vuoto di un’esistenza priva di punti di riferimento. Adesso che la sua Mosca non c’è più, egli
compie l’esperienza amara di un vuoto radicale. Per riempirlo non basta avere la vista acuta;
bisogna saper riconoscere la realtà che si cela dietro le apparenze. Ecco perché la moglie
manca tanto al poeta; fra i due era proprio lei la sola in grado di vedere. In un mondo dove le
cose vanno a rovescio, appunto la Mosca, umile insetto della casa e miope com'era, sapeva
muoversi a suo agio nel viaggio della vita; le sue pupille, benché offuscate, sprigionavano
una luce interiore preziosa per individuare la meta per raggiungerla. Se Montale era per sua
moglie una guida fisica, lei era per lui una guida spirituale.

Non recidere quel volto


Non recidere, forbice, quel volto è una poesia di Eugenio Montale del 1937 e fa parte della
raccolta Le occasioni (nella sezione dei Mottetti). La forbice è un correlativo oggettivo del
tempo inesorabile, che il poeta implora di non cancellare dalla sua memoria il ricordo di un
volto, probabilmente quello dell'amata (i Mottetti parlano soprattutto di una donna).

La poesia Non recidere forbice quel volto è composta da due quartine di endecasillabi e
settenari, con una rima al v. 1 e al v. 3. Il poeta è lontano dalla donna amata ma
vorrebbe mantenere un vivo ricordo di lei: purtroppo però, il tempo ha offuscato la memoria
e questa sensazione viene resa attraverso l’immagine del taglio di cesoie con cui viene
potato un albero di acacia.

Nella prima strofa il poeta si rivolge alla forbice e chiede di non tagliare il volto della donna
amata e di non far diventare il suo viso parte della nebbia che avvolge il ricordo delle
persone care. La donna è Clizia, ovvero Irma Blandeis, una giovane americana conosciuta a
Firenze nel 1933 e costretta dalle leggi razziali a tornare nel suo paese. La seconda strofa
della poesia “Non recidere forbice quel volto” invece evoca un’immagine concreta: la forbice
diventa la cesoia del giardiniere che sta potando un’acacia in autunno, mentre il guscio della
cicala cade dal ramo e finisce nel fango. Il gesto del giardiniere diventa così il correlativo
oggettivo che permette all’autore di collegare un momento apparentemente normale, il taglio
di un ramo, con la perdita della memoria della donna amata. Secondo Montale, infatti, il
poeta deve trovare un oggetto (il correlativo oggettivo) che gli possa servire per
rappresentare uno stato d’animo, che diventa universale. L’espressione al verso 5 “il freddo
cala” è un punto chiave della poesia: indica proprio che la memoria piano piano viene
offuscata e il ricordo svanisce. Eugenio Montale cerca di ricordare la donna ma purtroppo
non riesce. Quindi la sua personale vicenda sentimentale finisce per diventare il simbolo
della condizione degli uomini, che vivono nella precarietà. Gli uomini non riescono ad
accedere ai propri ricordi per combattere la tristezza del presente.

Non sono presenti particolari figure retoriche, ma ci sono molti richiami fonici: oltre alla rima
tra v.1 e v.3, i versi pari della prima strofa rimano con quelli della seconda (v.2 sfolla – v. 6
scrolla, v. 4 sempre – v.8 Novembre).

Nella seconda strofa sono presenti delle rime al mezzo : v. 5 svetta – v. 8 belletta, v. 5 cala –
v. 7 cicala. I verbi utilizzati hanno quasi tutti un suono molto forte : svetta, sfolla, scrolla.

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