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Nata nel 1906 a Hannover da famiglia ebrea, Hannah Arendt vanta tra i suoi maestri

Heidegger (con il quale ha anche una relazione sentimentale), Husserl e Jaspers. Terminati
gli studi universitari, è costretta ad abbandonare la Germania per motivi politici; si rifugia
quindi in Francia (1933) e poi si trasferisce definitivamente negli Stati Uniti. Qui insegna in
diverse università e continua la sua attività di ricerca fino alla morte, che la coglie nel 1975.
La sua ricerca inizia con la tesi di dottorato in filosofia sul concetto di “amore” in Agostino,
pubblicata nel 1929. Ma l’opera che la rende famosa in tutto il mondo è però il monumentale
saggio del 1951 (di circa settecento pagine), scritto in collaborazione con il marito Heinrich
Blùcher, intitolato Le origini del totalitarismo, al quale segue, nel 1958, Vita activa (La
condizione umana). Di particolare rilevanza è inoltre La banalità del male, in cui tratta il
processo fatto al nazista Adolf Eichmann a Gerusalemme (1963), il quale aveva mandato a
morte centinaia di migliaia di ebrei. Le origini profonde dei crimini nazisti risiedano non
tanto nella cattiveria o nella mostruosità dei carnefici, ma nell’assenza di pensiero in uomini
del tutto normali («banali»).
Le origini del totalitarismo è una delle più importanti opere storico-politiche del Novecento.
In essa l’autrice si propone di analizzare le cause e il funzionamento dei regimi totalitari,
considerati come una conseguenza tragica della società di massa, all’interno della quale le
persone sono rese “atomi”, sradicati da ogni relazione interumana. Arendt analizza i tratti di
fondo della storia europea moderna e contemporanea e, in particolare, il periodo che va dagli
ultimi vent’anni di fine Ottocento fino alla Seconda guerra mondiale ed elabora inoltre uno
schema generale del regime totalitario, con esclusivo riferimento al nazismo e allo
stalinismo, visti come due fenomeni riconducibili alla medesima idea di totalitarismo.
L’opera si divide in tre parti:

1. La prima è dedicata allo studio dell’antisemitismo, al modo in cui gli ebrei vivono nella
modernità;
2. La seconda tratta dell’imperialismo, del protagonismo che ebbe la classe borghese in
esso: l’antisemitismo, coniugato con la crisi dei regimi imperiali successiva alla Prima
guerra mondiale, è, per Arendt, la causa del totalitarismo nella Germania nazista e
nell’unione Sovietica stalinista, a cui ha contribuito anche il fenomeno dell’avvento della
società di massa e «senza classi», in cui gli individui sono alla mercé di ristretti gruppi di
potere orientati in senso dispotico;
3. La terza analizza i caratteri del totalitarismo, il quale instaura il suo potere attraverso il
binomio ideologia-terrore.

L’essenza del totalitarismo consiste appunto nell’intreccio perverso di «terrore e ideologia».


Il terrore è esercitato sia attraverso la polizia segreta, che, con il suo continuo spionaggio, si
insinua nella società e nella persona umana fin nella sua intimità, sia attraverso i campi di
concentramento, che hanno la funzione di annientare gli oppositori politici, ormai trasformati
in “nemici”. L’ideologia totalitaria ha la pretesa di fornire una spiegazione totale della storia
e di conoscerne a priori tutti i particolari, senza bisogno di confrontarsi con i fatti concreti e
inoltre mira direttamente alla «trasformazione della natura umana», con considerazioni
che portano a favorire più o meno delle determinate “razze” di esseri umani, anche se queste
non esistono biologicamente. La condizione degli individui, in tutto ciò, è quella
dall’isolamento totale nella sfera politica l’estraniazione in quella dei rapporti sociali, alla
pari di una forma di tirannide, deve la sua esistenza alla distruzione della vita politica
democratica ottenuta diffondendo paura e sospetto tra gli individui (non più cittadini) isolati;
essa distrugge anche la vita privata delle persone, estraniandole dal mondo, estirpando ogni
radice sociale e rendendole tra loro nemiche.
Gli esiti dell’ampia ricerca sulle cause del totalitarismo rinviano alla considerazione della
scomparsa dall’orizzonte della modernità della dimensione genuinamente politica dell’uomo,
che era propria della pòlis dell’antica Grecia. L’esperienza di essa offre l’occasione per una
disamina critica del presente e della moderna espropriazione dei diritti di cittadinanza e di
democrazia diretta: l’opera in cui tratta questo problema è Vita activa. L'”agire” viene inteso
come civiltà detrazione e del discorso come una sorta di estasi, nel senso etimologico della
parola, come un esser fuori del l'individuo dalla sua sfera privata di isolamento e di intimità,
il quale è stato sostituito prima dal “fare” e poi dal “lavorare”, teso unicamente ad assicurare
la pura sopravvivenza. L'oggetto del saggio è la vita attiva, nella sua contrapposizione alla
vita contemplativa. Arendt, diversamente dai pensatori classici, parla di “condizione” e non
di “natura” umana: poiché la sola affermazione enunciabile sulla cosiddetta natura degli
uomini è che essi sono esseri condizionati, per questo «condizione umana». Le matrici del
condizionamento sono soprattutto la «vita, natalità e mortalità, mondanità, pluralità e terra».
La filosofa si pone l’obiettivo di dimostrare come l’essere umano moderno e contemporaneo,
benché sia soggetto alle condizioni della terra, non sia in realtà una creatura meramente
legata-alla-terra.
La condizione umana (l’agire umano) si articola in tre forme fondamentali:
1. L’attività lavorativa (propria dell’animai laborans) il lavoro mette l’essere umano in
questa condizione, che provvede al mantenimento della propria vita e di quella altrui.
L’attività lavorativa non comporta la fabbricazione di oggetti duraturi, ma sprigiona e
disperde l’energia dell’individuo lavoratore in un’attività senza fine.
2. L’operare (proprio dell’homo faber) l’operare invece è una condizione evoluitasi
molto durante l’epoca moderna e può essere considerata speculare alla figura
dell’ingegnere, cioè dell’individuo costruttore che lavora alla scorta della tecnologia.
3. L’agire (proprio dello zóon politikón), è la fase più importante grazie alla quale gli
uomini comunicano tra loro non attraverso gli oggetti, ma attraverso il linguaggio (il
discorso) e le nobili gesta.
La filosofa prende ispirazione, per l’ultima condizione, dalle civiltà dell’antica pòlis greco-
romana, che esaltavano i valori dell’interazione comunicativa tra gli uomini liberi, veri e
propri cittadini, in quanto protagonisti diretti della vita pubblica. Il sorgere della città-Stato
ha fatto in modo che l’uomo avesse parallelamente alla propria vita privata, una sorta di
seconda vita, quella politica, che non solo si differenziava, ma si poneva anche in diretto
contrasto con l’associazione naturale della famiglia, che aveva il suo centro nella casa
(oikia). Essere politici, cioè vivere nella pòlis, per i Greci significava abbandonare la
violenza e riporre ogni fiducia nella forza persuasiva del discorso. Al contrario, la sfera della
costrizione e della necessità era considerata pre-politica, tipica della famiglia: a essa
bisognava provvedere, tramite il lavoro (attività non libera, ma tipica degli schiavi), al
nutrimento e a tutti gli altri bisogni biologici dei figli. Visto che la vita politica era quella che
rappresentava la libertà, Alla radice della coscienza politica greca si trovava, dunque, una
straordinaria consapevolezza della superiorità della vita libera sul regno della necessità
naturale. Tale condizione si mantenne anche presso i Romani, ma, con la crisi dell’impero e
con raffermarsi della società cristiano-medievale, la civiltà della politica decadde e, con essa,
anche il primato della vita attiva. L’autrice ritiene che questo processo di negazione della
vita attiva e, conseguentemente, di assorbimento dell’agire politico nell’ambito di
un’indistinta sfera del fare sia al tempo stesso un processo inevitabile e negativo, che la
modernità ha portato a compimento passando attraverso la rivoluzione cartesiana: la nuova
epistemologia, caratterizzata dall’abbandono del tentativo di comprendere la natura
considerare esclusivamente alle cose che devono la loro esistenza all’uomo: il trionfo
dell'homofaber. Anche l’homo faber deve cedere il posto all’animai laborans, il quale
sancisce primato dell’attività che ha come unico scopo la conservazione materiale della vita.
Pessimisticamente Arendt ritiene che nel mondo moderno l’agire politico, cioè la parte più
nobile e propriamente umana, sia divenuto impossibile e che, anzi, la stessa attività di
produzione degli oggetti (il “fare” che produce le “opere”) stia cedendo il posto al meschino
“darsi da fare per sopravvivere”. La fine della politica ci consegna in modo ineluttabile
alla «società del lavoro» e ci trasforma in «impiegati». La vita della mente (1978), ultimo e
incompiuto lavoro Arendt, è incentrato proprio sull’analisi del pensiero, e del linguaggio, che
funge da tramite tra il mondo sensibile e quello della mente, potendo così scorgere dopo il
finale tetro di Vita Activa, una speranza di un vivere riallineato dell’essere umano.

N. Abbagnano, G. Fornero, G. Burghi, La filosofia 3C: Dalla crisi della modernità agli sviluppi più recenti, Paravia, 2009

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