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PARTE SECONDA
L’atto del narrare è un’attività cognitiva e culturale, espressione di ciò che gli uomini hanno
interiorizzato in simboli e in significati mentalizzati, cioè l’insieme di conoscenze ed emozioni che
ognuno vuole condividere con gli altri e dei quali si vogliono preservare i valori, allo scopo di
affermarli nel sociale e nel tempo.
Ogni narrazione è un atto comunicativo di tipo sociale, che esprime la cultura attraverso il pensiero
narrativo (strumento cognitivo innato nella mente umana, capace di plasmarsi a seconda dei diversi
media utilizzati dagli uomini per comunicare).
BRUNER ha studiato il ruolo del pensiero narrativo nella produzione della cultura: la narrazione è
una forma di cultura che produce altra cultura attraverso un flusso di informazioni che, una volta
elaborate simbolicamente, diventano strumenti per la comprensione del Sé (interno) e degli altri
(mondo esterno).
L’atto del narrare è generato dal pensiero narrativo, grazie al quale l’uomo organizza l’esperienza
vissuta e la conoscenza acquisita in strutture mentali, con lo scopo di collocarle nella memoria
secondo significati specifici.
Esiste una relazione tra narrato, Sé e cultura il narratore è il Sé narrante in azione ed è ciò che
unisce uomo e cultura: il Sé narrante collega l’attività di conoscenza dell’identità personale, e le
storie narrate all’esterno che nascono dalla rielaborazione dei significati e della cultura
precedentemente acquisiti. La cultura pre-acquisita crea altra cultura attraverso il narrato, garantisce
la crescita culturale dell’uomo e lo rende attivo nel sociale.
Il pensare narrativo ha un forte valore sociale: la narrazione rispecchia (oltre al Sé) i valori e le
ideologie collettivi della società in cui il Sé è cresciuto.
Il narrare mette in relazione in singolo e il sociale il singolo ha dentro di sé un patrimonio di
significati simbolizzati, di cui spesso non conosce l’origine, che provengono dalle narrazioni (fiabe,
miti..) che venivano e vengono narrati nella società in cui vive.
Secondo Bruner, quindi, chi racconta una storia utilizza il pensiero narrativo con lo scopo di
costruire il proprio Sé e la propria conoscenza del mondo, e lo fa interiorizzando il vissuto
(esperienze e conoscenze pre-acquisite) e trasformandolo in significati (simbolici) che poi
comunicherà in forma di contenuti narrativi, attraverso diversi linguaggi che possono essere
divulgati anche per mezzo dei media (come nel caso dei film).
In questo modo la narrazione, e l’autore-narratore, diventano mezzi che diffondono la conoscenza e
aiutano i riceventi ad apprendere se stessi e gli altri.
Il film va oltre, assume strumenti aspetti linguistici universali e supera le barriere culturali, grazie
all’univocità del suo significato che garantisce la comprensione del messaggio a prescindere dalla
diversa cultura film come strumento di comunicazione interculturale. Il racconto filmico è uno
dei modi di narrare dell’uomo contemporaneo, perché è in grado di riprodurre tutti gli aspetti della
vita.
MATERIA PSICHICA ATTO COGNITIVO NARRARE
(esperienze, conoscenza pre- (creazione di significati)
acquisita)
L’uomo è un essere sociale inserito nel mondo in relazione alla cultura, al Sé, agli altri, alla
famiglia, alla nazione.. e per sopravvivere deve rapportarsi con la realtà. Egli costruisce la sua
visione della realtà basandosi su:
- percezione del mondo che lo circonda o mondo “oggettivo di primo ordine”, che nasce
dall’elaborazione dei dati che ha percepito grazie alle sue funzioni cognitive (percezione,
memoria, pensiero..), e grazie a forme e linguaggi della comunicazione si rapporta agli altri
e cerca di determinare il senso di ciò che ha percepito
- il suo bagaglio culturale contenente le esperienze vissute o “realtà di secondo ordine”,
elaborata attraverso il modo di vedere e pensare il mondo dei singoli uomini
La COMUNICAZIONE è lo strumento principale per entrare in contatto con gli altri e costruire il
senso del mondo e la memoria (individuale e collettiva) su cui si basano pensiero, emozioni,
comportamento.
Comunicare vuol dire trasmette il proprio “essere nel mondo”, agendo e interagendo con gli altri.
Comunicando, l’uomo spiega se stesso agli altri, influenzando la loro visione del mondo e,
contemporaneamente, modifica e forma anche se stesso, poiché è influenzato dagli altri
comunicanti. Per rapportarsi con gli altri, l’uomo nei secoli ha sviluppato diversi linguaggi e forme
espressive, di cui i principali sono la parola e l’immagine, che gli permettono di costruire forme di
narrazione e rappresentazione con le quali esternare se stesso, i suoi pensieri e le sue emozioni.
Dal punto di vista collettivo e pubblico, l’atto del narrare attraverso i media dal grande potere
divulgativo (cinema, televisione, internet..), consiste nel veicolare storie che metaforizzano
significati e valori basilari per la cultura di riferimento, istruendo e intrattenendo allo stesso tempo
documentazione di tutto ciò che in una cultura è considerato simbolo e valore da preservare per il
futuro (prima con forme grafiche come i graffiti, poi in forme orali con la fiaba e il teatro e infine
con cinema e media audiovisivi) divulgazione della cultura tramite i racconti.
Quando si studia la comunicazione umana attraverso la narrazione, bisogna sempre partire dalle
fondamenta del processo di sviluppo delle capacità di dialogare e interagire con l’esterno, ossia
dalla mente del bambino fin dai primi mesi di vita.
• Fin dalla nascita l’uomo impara a comunicare con l’esterno in modi diversi: il pianto, la mimica
facciale o interpretando gli sguardi e le espressioni della madre che possono rispecchiare i suoi stati
d’animo ( comunicazione mimetica: il bambino imita le espressioni della madre e in questo modo
interagisce e si fa capire dal mondo esterno, che consiste principalmente nella madre, e comprende
chi agisce intorno a lui).
Queste forme di risposta al mondo esterno non nascono da un ragionamento, ma sono il frutto di
imitazioni involontarie o di stimoli fisici inconsapevoli, come il pianto.
• Nei mesi successivi alla nascita, il bambino inizia ad associare alcuni comportamenti a significati
e stati d’animo precisi, inizia a diventare consapevole di alcune azioni comunicative che impara ad
usare in modo autonomo.
• Dopo i 15 mesi impara stati d’animo più difficili da gestire, come la paura, la vergogna, il senso di
colpa. Entro i 2 anni ha imparato ad affrontarli e riesce a fingere e camuffare le proprie emozioni, e
quindi a ragionare sulle emozioni da assumere.
In questa fase inizia ad usare i primi media o “oggetti transazionali”, cioè protesi esterne che gli
permettono di esercitare giocando le sue competenze comunicative, emotive e mimetiche
(Winnicott). Lo sviluppo della sfera emozionale del bambino continua fino all’adolescenza, ed è
fondamentale che avvenga in modo sano ed equilibrato.
Gli input che provengono dall’esterno vengono percepiti a livello cognitivo e vengono elaborati in
immagini mentali, poi raggruppate in rappresentazioni mentali, cioè spazi cognitivi nei quali
vengono organizzate in base al loro significato.
Gli input prodotti dai sensi vengono elaborati in immagini mentali etichettate in modo diverso e
conservate in aree diverse della corteccia cerebrale, in base al senso attraverso cui il segnale è stato
inviato al cervello (esistono immagini mentali di quanto è stato percepito con l’olfatto, con il tatto,
il gusto ecc).
Le macro-strutture che nascono dal raggruppamento delle immagini mentali vengono definite
rappresentazioni mentali di eventi (MER) o script (Schank e Abelson, 1977), concetto usato per
indicare i gruppi di rappresentazioni mentali di azioni legate tra loro da un senso preciso, dal quale
si formano i concetti che sono la base per la crescita cognitiva.
I raggruppamenti dei concetti in base al loro significato, vengono chiamati format (o formati). Il
format determina il modo di narrare, e quindi di comunicare, ed è l’insieme di tutte le procedure che
la mente utilizza per trasformare l’esperienza vissuta in significati, e poi in narrazione (Bruner).
In sintesi:
input immagini mentali rappresentazioni mentali (sottoforma di script o format) pensiero
narrativo / narrazione (che poi a sua volta diventerà input e il ciclo ricomincerà)
Massimo Ammaniti e Daniel Stern (1991) descrivono gli aspetti cognitivi delle rappresentazioni
mentali in due modi:
1) organizzazioni interne che creano delle mappe che raccolgono e integrano le immagini
mentali e le relazioni del Sé e degli altri
2) veri e propri contenuti cognitivi assunti dalla mente in immagini mentali
Le immagini mentali prodotte dalla mente come risposta agli input esterni (e di origine biologica)
sono soggettive, perché si collocano all’interno dell’esperienza personale del singolo.
Questa soggettività consente a ognuno di dare un significato alle proprie esperienze e di fare
previsioni e indirizzare i propri comportamenti sulla base di quanto elaborato in modo personale.
Gerald Edelman – i concetti che permettono il funzionamento della mente sono legati all’ambiente
culturale in cui l’uomo agisce, vive e costruisce la propria personalità.
Bruner è stato il primo studioso che ha individuato nella cultura ( =insieme di simboli assunti a
significanti delle esperienze vissute) la base per la costruzioni di immagini mentali, script e
narrazione (intesa come forma utilizzata dalla mente per diffondere la cultura simbolizzata
precedentemente dalla mente stessa).
Dagli appunti:
Bruner – l’uomo impara, conosce il mondo in base a un processo cognitivo che avviene nel
cervello. Il bambino usa le conoscenze e i mezzi che ha a disposizione per far capire cosa prova
(piange per far capire che ha fame).
Nel cervello si categorizza l’azione in base a come gli altri rispondono a un nostro input. Il cervello
categorizza in script mentali (così chiamati perché hanno a che fare con la scrittura di storie). Gli
script dicono alla persona cosa fare, sono una sorta di memoria che si è costruita in base alla
reazione che il mondo esterno ha avuto a una nostra azione.
Il pensiero narrativo si costruisce sulla base di questa memoria (script) ed è la capacità di
organizzare il discorso in base agli script. Il pensiero narrativo è diverso per ogni persona, perché
gli script diversi e soggettivi, dipendono dal background personale.
L’emozione è fortemente collegata al pensiero narrativo.
Bruner sostiene che il bambino (nel quale il linguaggio non è ancora sviluppato) per esternare
emozioni e sentimenti utilizzi il sistema pre-linguistico innato, che porterà poi alla formazione del
linguaggio.
Bruner parte dalle teorie di Stern sulla relazione che il bambino instaura con la madre negli stati
affettivi. La prima organizzazione di significati, nel bambino, non avviene tramite il ragionamento,
ma per analogia o imitazione.
Con il gioco il bambino apprende per imitazione i significati delle azioni e i ruoli che vengono
assunti nelle storie che costituiscono l’atto ludico. Le narrazioni sono un punto d’incontro tra realtà
(mondo esterno) e formazione psichica e culturale del bambino (mondo interno). Così il bambino
sviluppa competenze che si formano a partire dalle emozioni e si esprimono attraverso il linguaggio
nell’apprendere il mondo esterno, il bambino filtra, comprende e cataloga gli input che prova
come emozioni, in significati (emozioni input significati = comprensione mondo esterno).
Le EMOZIONI sono anche i soggetti stessi del narrato; dalla sfera emotiva prende forma l’istinto
del narrare, con lo scopo di dar voce al mondo interiore.
Anche Bruner sostiene che l’atto narrativo nasce dall’esigenza di dare ordine a “ciò che si è” e a
“ciò che si sente”, e che l’intero processo riguarda la formazione del Sé e della personalità.
La narrazione serve quindi:
1) a capire se stessi per proporsi agli altri e al mondo in base ai principi acquisiti
2) a comprendere l’esperienza e le motivazioni degli altri, per poi farle proprie per capire (in
base a quanto appreso dall’interscambio di significati) chi siamo e come siamo fatti
Bruner precisa che la narrazione, come strumento cognitivo, è universale, mentre il modo di narrare
dipende dalla cultura e dalle regole impartite dal contesto di riferimento (società, gruppo, famiglia,
scuola...).
Poiché il bambino può esercitare la narrazione in modo giusto e soddisfacente solo se è guidato
correttamente dalla madre, la madre, secondo Bruner, ha il ruolo di spazio primario della
trasmissione della cultura.
Stern: il formarsi del Sé, della personalità e del ruolo nella società, si determinano dall’uso attivo
del pensiero narrativo, espresso attraverso il linguaggio.
Tra i 2 e 4 anni il bambino è in grado di costruire strutture narrative più complesse, è in grado di
comunicare il proprio vissuto ordinato in una sequenza temporale, da lui scelta secondo proprie
induzioni di senso.
Negli ultimi anni si è sviluppata una vera e propria “cultura delle storie”, intese come metodi
educativi atti allo sviluppo delle competenze cognitive del bambino, come dimostrano due progetti:
“Nati per Leggere”, che ha l’obiettivo di promuovere la lettura a voce alta ai bambini dai 6
mesi ai 6 anni. Il leggere ad alta voce e con una certa continuità ai bambini in età prescolare,
ha un’influenza positiva dal punto di vista relazionale (opportunità di relazione tra il bambino
e i genitori), cognitivo (si sviluppano meglio e prima la comprensione del linguaggio e la
capacità di lettura).
Il progetto spiega anche le differenti competenze della lettura a seconda delle fasce d’età dei
bambini:
- 6-12 MESI: il primo approccio alla narrazione avviene attraverso libri che si possono
manipolare, disegni con bambini e animali, rime e filastrocche, che gli adulti
leggono per loro.
- 12-24 MESI: ai bambini piace sentirsi leggere e rileggere lo stesso libro. Amano i
libri che parlano delle cose di ogni giorno, bambini, animali, il tutto narrato in storie
brevi, con poche parole storie ed elementi narrativi (trama, personaggi, azioni e
senso finale) vengono acquisiti come un tutt’uno nella memoria del bambino.
- 24-36 MESI: i bambini diventano soggetti attivi che riflettono e agiscono in base al
narrato: amano girare le pagine da soli, completare la frase di una storia che
conoscono, indicare le figure, tenere in mano il libro e raccontare la storia a modo
proprio dialogo cognitivo attivo tra bambino e storia.
- 3-5 ANNI: ai bambini piace ascoltare le storie classiche, popolari, fantastiche e
avventurose, guardare libri con numeri e lettere dell’alfabeto, ascoltare storie che
parlano delle situazioni di ogni giorno (casa, scuola, giochi) sono ormai
sviluppate le competenze cognitive più articolate, che gli permettono di completare
da solo una storia o di inventarne una nuova partendo da tutto ciò che ha imparato
fino a quel momento.
“Leggere per crescere”, che promuove la lettura a voce alta ai bambini nei primi 5 anni di
vita. Pone l’attenzione sui potenziali di crescita sia dei più piccoli ascoltatori che dei grandi
che leggono a voce alta: questo tipo di comunicazione narrativa favorisce, negli adulti, lo
sviluppo del linguaggio, arricchisce la memoria, promuove la capacità di comprendere, rende
più stretto il rapporto tra chi legge e il bambino che ascolta, accresce la capacità genitoriale.
Il progetto propone una guida pratica all’uso della lettura, secondo fasce d’età:
- MENO DI 1 ANNO: il materiale deve essere resistente, deve poter essere
maneggiato con facilità, deve essere molto colorato, con grandi immagini e poche
parole.
- 2 ANNI: brevi storie che raccontano le azioni più semplici della vita quotidiana,
persone, animali, oggetti in uso tutti i giorni.
- DOPO I 2 ANNI: le storie diventano più complesse, le parole aumentano e le
immagini rimpiccioliscono. I soggetti dei racconti riguardano l’ambiente, il nucleo
famigliare e il ciclo vitale; viene introdotta in modo graduale l’importanza dei valori
sociali.
I film sono le narrazioni più “consumate” del nostro tempo, protagonisti del processo di scoperta
del mondo sia da parte dei bambini sia degli adulti. Questo perché sono narrazioni di storie che
aprono la mente ad una visione allargata dell’esistenza umana, in grado si superare le barriere
culturali.
Si tratta di un tipo di esperienza virtuale, che permette di conoscere uomini e luoghi che altrimenti
non si incontrerebbero: un bambino italiano, attraverso i film, può vedere e conoscere tanti altri
posti del mondo e atri modelli culturali. In questo modo può costruire un’immagine del mondo
esterno e degli altri basata su una visione allargata, che deriva dalla conoscenza mediatica ciò
incide sulla costruzione del Sé, che viene in questo modo arricchita di contenuti non connessi solo
alla più ristretta visione della vita reale vissuta in un singolo contesto di riferimento.
Il film è un racconto strutturato in forma di “simulazione audiovisiva” di situazioni. Si rivolge ad un
pubblico specifico (target) al quale narra dei fatti che contengono dei messaggi veicolati da storie.
Le storie hanno lo scopo di emozionare, fino a smuovere sentimenti che permettono di elaborare
significati sul narrato, i quali vengono acquisiti dal fruitore in forma di conoscenza.
Lo spettatore non percepisce il significato del film come qualcosa di sganciato dalla sua esperienza
di vita reale, ma diventa una lezione morale per lo spettatore, che ne vive in prima persona i fatti e
le emozioni (tramite il transfert) il narrato filmico diventa un’esperienza conoscitiva di cui lo
spettatore conserva il senso acquisito.
Questo processo nei bambini può avere un duplice ruolo: educativo e formativo, o pericoloso e
dannoso nella formazione della personalità tantissimi film, dai contenuti adatti o meno, vengono
trasmessi ogni giorno e i bambini sono esposti senza filtri alla loro visione. In questo modo anche i
contenuti non adatti alla loro età e alla loro percezione cognitiva, diventano fonte di conoscenza.
I film sono un territorio conoscitivo, dal quale trarre significati e deduzioni che vanno a costruire la
conoscenza degli altri e del mondo che formano il Sé.
I film, quindi:
-- negli adulti sono strumento di apprendimento e induttori di profonde trasformazioni;
-- nei bambini sono un luogo di formazione di esperienze e conoscenze da cui vengono tratti
significati. I bambini non riconoscono i limiti della fantasia, percepiscono tutto in modo ludico
come “dato”.
Con il cinema i più piccoli imparano a vivere e a formare la propria personalità grazie ai messaggi
percepiti. Il momento della vita in cui i film influenzano maggiormente l’immaginario della persona
è l’adolescenza, che oggi è il principale target da soddisfare.
Film e adolescenza hanno un rapporto così stretto perché il cinema diventa un luogo di esperienze
virtuali dall’alto coinvolgimento emotivo, in cui la persona vive sensazioni che gli permettono di
colmare le mancanze dovute alla crisi di identità tipica dell’adolescenza.
Poiché l’adolescenza, periodo di passaggio tra l’infanzia e l’età adulta, è caratterizzata da una crisi
d’identità dovuta ai cambiamenti psicofisici in atto, è facile per i ragazzi assumere identità
mediatiche che sostituiscono la propria personalità (che in questa fase della vita è messa in
discussione).
I film hanno grande fascino sia sui bambini (perché permettono di vestire involontariamente i panni
dei grandi per il tempo della storia), che sugli adolescenti, i quali si identificano volontariamente
con ruoli forti e sostituiscono le passioni vere con quelle mediatizzate, da vivere virtualmente senza
la difficoltà di mettersi realmente in gioco: essi fanno esperienze in modo del tutto indolore.
Ciò che si vive nei film è un esercizio alla vita, per questo gli adolescenti amano immedesimarsi nei
ruoli forti dei protagonisti (adulti) tutto può accadere, anche il proibito o l’impossibile; si vivono
emozioni che non appartengono alla consuetudine della vita di un adolescente.
I generi che vanno per la maggiore sono l’horror e i film d’azione. Essi propongono situazioni
estreme che, poiché vengono riconosciute come finte, aiutano a vivere e ad affrontare le proprie
paure. La paura viene considerata come un momento di crescita, nel quale esorcizzare la paura
stessa.
L’assunzione dei ruoli degli adulti (nelle vesti dell’eroe o del cattivo) è una sorta di palestra nella
quale allenarsi al ruolo dell’adulto e provare a indossare i panni dei grandi, che si possono
dismettere in qualsiasi momento è per questo che gli adolescenti amano la narrazione filmica:
essa rappresenta un luogo virtuale nel quale assumere i panni o le vite di personaggi che hanno la
capacità di agire in ogni situazione, cosa che anche l’adolescente cerca di raggiungere, e permette di
allenarsi senza mettersi direttamente in gioco.
Gli adolescenti sentono un forte desiderio di narrarsi e di rappresentare se stessi agli atri attraverso
maschere riconoscibili da tutti, in forme stereotipate. L’esigenza di comunicare se stessi si ritrova
anche nell’uso dei social network e dei blog.
La trama dei film coinvolge lo spettatore in fatti complessi che portano ad una risoluzione, la quale
deve passare attraverso una serie di scelte (giuste o sbagliate) dei personaggi (che simbolizzano la
loro capacità di risolvere le situazioni da soli). Lo spettatore si riflette nelle scelte e nelle azioni dei
protagonisti e arriva con loro alla fine della storia, vivendo con essi la risoluzione della trama.
vedi in appendice l’analisi della saga di Harry Potter, che tratta proprio dell’adolescenza e
riassume le caratteristiche pedagogiche del narrato.
I mondi possibili di Bruner (versioni simulate, per Goodman) sono mondi interiori che
rispecchiano il mondo reale percepito e vissuto dai singoli uomini, riflesso attraverso metafore
prodotte dalle percezioni soggettive del vissuto.
Il concetto di “mondo possibile” riguarda la capacità della mente di costruire delle metafore
(cognitive) del reale, che sono filtrate in modo soggettivo dall’esperienza vissuta e dalla propria
conoscenza del Sé e del mondo.
Le metafore che propongono i mondi possibili (immagini che riflettono l’esperienza e la
conoscenza del narratore-autore) sono referenti diretti della memoria collettiva del gruppo culturale
al quale fa riferimento la narrazione.
Vigotskij studia le fasi iniziali di crescita e sviluppo dei bambini per capire come e quando
avvengono le fasi di strutturazione della mente e del pensiero attraverso le competenze del
linguaggio.
Come Freud, nell’analizzare le tappe della crescita cognitiva umana, egli parte dal linguaggio,
intendendolo come specchio dello stato psichico e mentale. Il linguaggio quindi:
- è uno strumento di esteriorizzazione, perché è in grado di portare all’esterno ciò che accade
all’interno (emozioni, sentimenti, ricordi)
- segna le tappe della crescita della persona (con il linguaggio esprimo solo quello che i filtri
cognitivi ritengono sia consono)
- permette di comprendere il modo di catalogazione in memoria di ciò che viene percepito
all’esterno
l’atto narrativo in sé per sé, poiché segno esterno dell’esperienza vissuta e trasformata in simboli
della cultura1, è espressione diretta del pensiero narrativo o Sé narrante e costituisce un atto
volontario d’esternazione del vissuto interiorizzato in simboli, e quindi di narrazione dei contenuti
della mente umana.
Il narrare è un modo di proiettare il Sé nel mondo. È una capacità comunicativa tipica degli uomini
di tutti i tempi e costituisce un’espressione della cultura: serve a comprendere le culture stesse, ma
anche a comunicarle, narrandole a partire da quanto elaborato e trasformato dai processi cognitivi
(che sono influenzati dalla cultura di appartenenza).
La capacità di mutare i dispositivi culturali pre-acquisiti, porta all’avvicinamento verso l’altro.
La narrazione è fondamentale nella comunicazione di una cultura: l’identità nazionale e la cultura di
un popolo, spesso, sono rappresentate attraverso le narrazioni, che hanno anche il ruolo di memoria
collettiva e storica del popolo.
La narrazione innesta su quanto già sedimentato nella mente, nuove trasformazioni create
appositamente per situazioni specifiche, che si adattano in base all’età della mente. In questo modo
il Sé viene modificato da un continuo divenire del sedimento precedente.
La narrazione è:
1) psicodinamica, in quanto mezzo di formazione del Sé e della crescita cognitiva
2) culturale
il narrare, quale capacità cognitiva (1) è un atto universale, mentre il modo di costruire sequenze
logiche significanti, che trasformano il reale in simboli di conoscenza, varia in base al contesto
culturale nel quale è prodotta la narrazione (2).
1
Esperienza e cultura dipendono una dall’altra: dall’esperienza si produce la cultura, che a sua volta determina altre
esperienze e altra cultura: esperienza di A cultura di A = esperienza di B cultura di B (dall’esperienza di A si
produce la cultura di A; l’ascolto della narrazione di A – e quindi della sua cultura – da parte di B determina
un’esperienza di B dalla quale nascerà la cultura di B).
CAPITOLO 5 – La struttura delle storie nel pensiero narrativo
Bruner:
* la narrazione ha un valore ambivalente, personale e sociale allo stesso tempo, che determina il
ruolo dell’uomo in relazione al Sé (interno – narrazione auto conoscitiva) e al mondo (esterno –
narrazione educativa e formativa).
* oggetto e soggetto della narrazione sono la stessa cosa: espressione della cultura.
* come Goodman, considera modi del narrare anche la saggistica e la scienza: partendo dal
presupposto che la narrazione è una forma esteriorizzata della cultura mentalizzata in simboli, egli
le considera forme di narrazione perché prevedono comunque una rielaborazione del proprio
background di conoscenze, che vengono in questo modo rivissute in una forma nuova che è sempre
produzione di cultura.
* man mano che l’uomo cresce le narrazioni diventano più complesse, elaborate, e presuppongono
sempre nuove capacità di rielaborazione del vissuto.
* l’assunzione di significati dei singoli è legata al modello culturale. Nella società interetnica di
oggi ciò diventa più complesso perché si conosce poco l’altro e spesso il dialogo diventa
impossibile.
La comunicazione viene realizzata secondo i modi e gli strumenti prodotti dalla cultura di
appartenenza, conosciuti dagli altri referenti; la comunicazione si basa su regole e codici
prestabiliti, conosciuti e usati da tutti per essere condivisi. Se così non fosse il referente, non
comprendendo il linguaggio, non potrebbe comprendere nemmeno il senso.
Partendo dagli studi di Aristotele (con la “Poetica”) e di Vladimir Propp, si arriva a scoprire che le
matrici narrative ricalcano involontariamente uno schema della vita: si nasce, si cresce, si vive
elaborando problemi di ogni tipo e risolvendo gli ostacoli sul cammino, si muore.
Da questo si genera lo schema formale dell’atto narrativo, lo schema portante di ogni storia.
Ogni storia parte da una condizione iniziale mutata da un problema e arriva sempre a una
risoluzione, mutando la situazione di partenza in funzione dei cambiamenti generati dai fatti.
Il problema da risolvere è in realtà una metafora che affronta il problema dell’integrazione
dell’uomo nell’ambiente che lo circonda (naturale e sociale).
Bruner (partendo dagli studi di Ricoeur e Burke) fornisce la sua schematizzazione formale-tipo di
ogni storia:
1- Sequenzialità-diacronicità: disposizione temporale degli eventi narrativi, il procedere della
narrazione secondo salti in avanti, indietro o soste.
2- Particolarità e concretezza o referenzialità concreta: oggetti e soggetti della narrazione
(fatti della trama e personaggi) devono essere chiari e individuabili. Senza questi elementi la
storia stessa non potrebbe esistere.
3- Intenzionalità-senso del narrato: riguarda gli ideali di fondo alle azioni dei personaggi,
cioè gli scopi che si prefiggono, la visione della vita e il pensiero.
4- Opacità referenziale: riguarda la relazione tra l’oggetto narrato (referenzialità concreta) e il
senso dato dal modo di narrare (intenzionalità). Ogni narrazione esula dalla realtà proposta,
mostrandola dal punto di vista scelto.
5- Composizione ermeneutica: riguarda l’insieme significante prodotto da quella storia,
narrata da un punto di vista preciso che va interpretato in un contesto preciso. Il senso finale,
la morale, di quella storia in particolare.
6- Violazione della canonicità-contenzione all’interno di un genere: rottura della canonicità
di una sequenza prevedibile di fatti, che genera un problema da risolvere e motiva la
narrazione, rendendola interessante perché non scontata. La narrazione nasce dalla rottura
degli equilibri. Ogni storia parte da un canone e ne presenta delle variazioni, date
dall’interruzione della sequenza prevedibile dal canone stesso.
7- Composizione pentadica: insieme dei 5 elementi fondanti una storia, imprescindibili per la
sua esistenza: attore, azione, scopo, scena, strumento. Il modo di intrecciare questi elementi
determina l’equilibrio della storia.
8- Incertezza: è la supposizione di qualcosa di imprevisto, tipica dell’incertezza dello svolgersi
di una situazione che nasce dalla rottura della quotidianità.
9- Appartenenza a un genere: appartenenza della storia a macro-strutture significanti del
narrato (generi o tipi del racconto). Si tratta di categorie riconoscibili in base a una serie di
elementi tipici della narrazione di un dato genere, che si distinguono in base a:
- fabula, un’azione ripetibile in diverse storie e riconoscibile in un tema comune a più
intrecci
- sjuzhet, riguarda il modo di raccontare quei fatti, prodotto unicamente per quella
singola narrazione
Il bambino inizia ad esercitare l’attività di produzione narrativa a partire dai 2/3 anni, quando
attraverso brevi monologhi esterna i suoi pensieri acquisiti sul mondo. Sono i primi passi verso lo
sviluppo di una teoria della mente, che porta allo sviluppo del pensiero narrativo vero e proprio.