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RAFFAELE MORELLI

CONOSCERSI
L'arte di valorizzare se stessi
Via le zavorre dalla mente

Estratto da: Le nuove vie dell'Autostima di Raffaele Morelli Prima edizione 2001
Raffaele Morelli
Medico, psichiatra e psicoterapeuta, dirige le riviste Riza psicosomatica, Salute Naturale e
Dimagrire, pubblicate dalle Edizioni Riza. È presidente àsXL'Istituto Riza e vicepresidente della
Società Italiana di Medicina Psicosomatica. Si dedica da anni alla formazione psicoterapeutica di
medici e psicologi.
Edizioni Riza S.p.a.
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Sommario
Introduzione
IL BAMBINO CHE È IN NOI15
La ricerca della felicità19
L'inesauribile piacere del fare 21
Ritornare nel limbo 23
Non ci resta che... ridere 27
Non esistono premi né punizioni 35
LA FELICITÀ COME VIA AL CONOSCERSI 43
Liberarsi da schemi e abitudini 47
Comprendere se stessi 51
L'abitudine alla partenza 53
Polvere di coscienza
Niente è più intero di un cuore infranto-
AUTOSTIMA E NUOVE TECNOLOGIE 61
Entrare in un mondo nuovo
Un cervello dentro lo schermo 65
E-mail, chat e altre maschere elettroniche
Attenzione alla dipendenza 67
CINQUE COSE PER CUI VALE LA PENA VIVERE E PERCHÉ 71
Un aiuto speciale 77
SENTIAMOCI BENE 83
Da che cosa nasce l'arte di valorizzare se stessi
Spogliamoci di tempi e aggettivi 85
Decalogo per sentirsi bene, utilizzando la saggezza 87

Introduzione
Quando si vuole esplorare l'autocoscienza, quando si vuole usare per davvero la parola
"conoscersi", c'è un avverbio che non deve mancare, che deve essere il compagno di viaggio di tutto
il percorso. Adesso!
Io sto guardando la mia interiorità, adesso, con gli occhi di adesso. È adesso che sto percependo il
brutto pensiero che mai vorrei avere. È adesso che sto avvertendo il dolore psichico, l'ansia, la
paura. È adesso che il panico sta salendo, crescendo dentro di me, annientandomi.
I disagi appartengono a un'altra dimensione del tempo: irrompono nello spazio interno a mia
insaputa, entrano "nella mia casa" senza il mio parere, senza che li possa controllare. Qui sta la loro
forza.
Non possono essere governati né ricacciati nel passato o rimandati a un futuro che verrà.
Le crisi di panico mi vengono al ristorante, proprio alle cene importanti, quando non vorrei far fare
brutta figura a mio marito che organizza le serate con i pezzi grossi dell'azienda».
Io adesso soffro... -, questa è la frase da ripetersi, calcando la voce sull'adesso. Adesso, non ieri,
non domani... Adesso.
Quando il grande saggio Baal Shem Tov si sente fare dall'allievo la domanda: Maestro, quando
starò bene, quando se ne andranno via i miei demoni mentali?», la risposta è inevitabile: -Quando,
se non adesso?». C'è un'idea profonda che accompagna la risposta del grande saggio. Io vengo
creato adesso: non sono stato né sarò creato. Qualsiasi idea io abbia del Signore del Mondo, del
Demiurgo o del Tao, non va separata dal fatto che la creazione è adesso.
CONOSCERSI. L'ARTE DI VALORIZZARE SE STESSI
Vengo creato adesso e sono qui per guardare quello che accade adesso. Così il grande maestro
Bakei, il sapiente maestro zen, risponde all'allievo che si lamenta dell'incapacità di scacciare
l'aggressività, di liberarsi dall'ira, dalla rabbia: Bene, mostramela ora, adesso». No, adesso non sarei
capace di farmela venire, di ripro-durla», risponde l'allievo.
Se non c'è adesso, non esiste» è la risposta definitiva di Bakei.
Il saggio del chassidismo, Baal Shem Tov, e l'uomo dello Zen sono posati sulla stessa visione del
mondo. L'Universo è creato adesso. C'è una differenza sostanziale tra "adesso" e "qui-e-ora".
Quando dico "qui-e-ora", restringo, quando dico "adesso" è invece un appello alla presenza
interiore. Qualsiasi cosa accada, tu devi essere presente, devi inondare il cervello di
consapevolezza. Se il brutto pensiero arriva adesso, io adesso lo guardo. Lo so che è venuto altre
volte, ma io adesso lo vedo per la prima volta. Sì, è la prima volta che guardo la mia tristezza, il mio
dolore, la mia infelicità, la mia paura, la mia ansia. Guardarlo adesso vuol dire far entrare gli occhi,
lo sguardo nel cervello, vuole dire essere presenti all'azione che mi turba, vuol dire non cercare di
mandare via il disagio, arrendersi, non giudicare.
Il potere dello sguardo sconfigge i disturbi, i mali dell'anima?'Tutte le Tradizioni di Occidente e di
Oriente ritengono di sì, ed è per questo che un uomo o una donna, quando hanno voluto innalzarsi,
hanno praticato la contemplazione, vale a dire si sono guardati dentro senza commentare quello che
vedevano.
Contemplare è allargare lo sguardo sempre di più, è
guardare il panorama nell'insieme e non le singole cose,
i dettagli come le colline, l'erba, gli oggetti.
È guardare e rendersi conto che si sta guardando.
La cosa importante non è ciò che vediamo, ma l'esercizio

Introduzione
dello sguardo, del vedere, del contemplare. Adesso. Gli occhi che guardano adesso sono capaci di
secernere sostanze sottili, potenti, come il seme - il cervello è per l'alchimista il seme del mondo - e
quindi in grado di liberare la coscienza dai demoni che la invadono. Conoscersi è guardare ciò che
vedo dentro, e liberare la mia casa, la mia interiorità, da tutto ciò che la pervade... adesso. L'occhio
che guarda libero da pensieri, da schemi, da convinzioni, da giudizi rigenera, rifeconda lo spazio
interno, lo libera dai demoni interiori.
L'Illuminazione, per gli antichi, è uno sguardo libero da ogni pensiero, è uno sguardo che vede, che
percepisce la suprema ampiezza del vuoto, lontano dal passato che è popolato di cose morte, che
non sono più, se non perché io le richiamo alla memoria, facendole cosi rivivere e fissandole al mio
interno.
Non sono i miei pensieri a scandire la mia identità, e neppure le emozioni, i sentimenti, ma la mia
capacità di accogliere il vuoto, il nulla, che abita la casa del Sé, dell'essenza.
Allora arriva la tanta agognata e desiderata pace, che viene regalata solo a chi si abbandona al mare,
all'oceano del Nulla, dove riposa quell'essenza che crea l'essere unico che ciascuno di noi incarna.
Quando mi viene un disagio, l'unica cosa da non fare è spiegarlo, capirlo, giudicarlo o ancor di più
tentare di scacciarlo. L'essenza - che ce lo manda per farci scoprire chi siamo, per dirci che non è
contenta della vita che viviamo - si offenderebbe e ci farebbe ancora più male... No, i disagi vanno
guardati, proprio come un panorama, e allora l'essenza, cosi cara ai nostri occhi, e loro a lei,
immetterà in noi l'energia riparatrice, l'elisir della cura, le gocce salutari dell'anima.
Questa è la consapevolezza, la vera sostanza dell'adesso. Conoscersi è riempire di sguardo quello
che arriva adesso, solo adesso... senza pensare... Penetreremo senza saperlo nell'intelligenza
embrionaria, quella che ci ha
creati e che ci crea, dove non esistono i pensieri, i problemi, le domande... dove tutto avviene in un
altro orizzonte e in un altro campo d'azione. Si entra in un altro piano della coscienza., in un'altra
dimensione dell'essere dove le cose esistono senza causa, senza motivo, senza ragionamenti.
Conoscersi è sedersi, almeno ogni tanto, in questo luogo dove la consapevolezza, fa da padrona di
casa e le cose avvengono senza il mio Io.
Di più è impossibile chiedere. Solo da questo lungo silenzio arrivano la felicità, la pace, la
tranquillità, senza motivo e senza sforzo. Capita a chi riposa nell'adesso...
IL BAMBINO CHE È IN NOI

La ricerca della felicità


•Fanciullo che non sai ragionare se non a modo tuo, un modo fanciullesco che si chiama profondo,
perché d'un tratto, senza farci scendere a uno a uno i gradini del pensiero, ci trasporti nell'abisso
della verità'.
Giovanni Pascoli, Il fanciullino
' dissero i bambini, 4e mucche sono come i tram? Fanno le fermate? Dov'è il capolinea delle
mucche?'. •Niente a che fare coi tram' spiegò Marcovaldo. •Vanno in montagna'. •Si mettono gli
sci?' chiese Pietruccio. •Vanno al pascolo a mangiare l'erba-. •E non gli fanno la multa se sciupano
i prati?'.
Italo Calvino, Marcovaldo2La domanda del giorno
A volte abbiamo l'impressione di essere troppo complicati. È come se portassimo addosso degli
abiti eccessivamente pesanti, delle acconciature troppo elaborate o delle scarpe strette... Allora, uno
si ricorda di quando era bambino e non c'era il problema dell'apparire; ti ricordi di quando giocavi
nudo su una spiaggia, con l'acqua del mare che ti lambiva le punte dei piedi e il sole che ti
accarezzava la pelle. E non pensavi a niente.
Quando siamo piccoli, infatti, non ci facciamo domande, non "sentiamo" il passato o il futuro: il
nostro unico impegno è il gioco di oggi, il nostro "lavoro" è il fare, il galleggiare nell'esistenza
senza farci domande. Poi cresciamo, incontriamo genitori e maestri, siamo costretti a plasmarci su
un modello che ci è del tutto estraneo.

IL BAMBINO CHE È IN NOI


La mente si sviluppa, si arricchisce, i sensi iniziano a scivolare lentamente in secondo piano, il
cervello diventa la nostra priorità, il nostro biglietto da visita. E così quel bambino libero che
eravamo muore, muore per sempre...
Ancora una volta ci fissiamo su un ragionamento conformista, tipico delle persone "mature": che
cosa significa affermare che il bambino di un tempo "muore per sempre"? Chi siamo noi per poter
parlare di un'eternità? Rileggiamo con attenzione le parole di Giovanni Pascoli, che scrive e
pubblica Il fanciullino tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento: il fanciullino è il bambino
che è in noi e continua a rimanere tale anche quando ingrossiamo e arrugginiamo la voce», anche
quando - una volta adulti - siamo occupati a litigare e a perorare la causa della nostra vita».
A differenza nostra, il fanciullino è flessibile, sa scoprire nelle cose le somiglianze e le relazioni più
ingegnose». Il fanciullino è veloce, intuitivo, anticonformista, riesce a scavalcare i meccanismi ovvi
e scontati della logica "adulta"; il fanciullino focalizza un dettaglio e ci inventa attorno un mondo. E
non gli importa nulla delle superstizioni, delle credenze, delle passioni, dei condizionamenti
ambientali, familiari, culturali, religiosi. A noi che cosa è rimasto di tutta questa freschezza?
Dove hai messo il tuo "fanciullino"?
Vi siete mai chiesti perché, in questa fase di transizione fra Millenni, avvertiamo un profondo
bisogno di colore, di fedi "alternative", di candele, di cristalli? Come mai abbiamo trasformato le
nostre case in "sale giochi" arredate con mobili variopinti, ironici, morbidi, ludici? Perché
lavoriamo su computer colorati come caramelle, perché ci mettiamo alla guida di automobili piccole
La ricerca della felicità
come giocattoli, dalle forme morbide e rassicuranti? Forse è perché l'umanità ha bisogno di un po'
di sorriso. E anche noi abbiamo voglia di ritornare nella nostra stanza dei giochi.
Da bambino mi toglievo sempre le scarpe», ricorda Roberto, 34 anni, insegnante elementare. I miei
genitori erano preoccupati, perché anche quando mi portavano in visita a parenti e amici, tempo due
minuti ero scalzo. "Non sta bene: è segno di maleducazione, e ci fai fare fi-guracce", mi ripetevano
ogni volta sempre più arrabbiati. Ma io non cedevo. Loro non riuscivano a capire che per me
mettermi a piedi nudi era un gesto naturale: le scarpe mi davano fastidio. Una volta, dal
parrucchiere mi sono tolto anche i vestiti, e mia madre mi ha messo in castigo per tutto il
pomeriggio. Io mi chiedevo come mai, me ne stavo così bene senza nulla addosso...».
Quello che noi adulti scambiamo per esibizionismo da contenere e punire è in realtà un'esigenza
profonda dei bambini, sulla quale dovremmo riflettere: i bambini - soprattutto quelli molto piccoli -
appena possono tendono a svestirsi, a eliminare il superfluo, e sono felici soprattutto quando
riescono a stare nudi. Lo stesso vale per noi, che ovviamente non andiamo in giro senza vestiti, ma
tuttavia dovremmo cercare - non appena possibile -di toglierci per un po' i nostri abiti mentali, di
mettere da parte le nostre sovrastrutture ingombranti.
Guardiamoci attorno: noi "grandi" siamo sempre troppo coperti, troppo rigidi, troppo "seri", troppo
gravati da schemi, da impegni (pratici o psicologici) e incombenze di ogni sorta. Noi tendiamo a
stare in compagnia di persone che si aggrappano emotivamente a noi, facciamo poco esercizio
fisico, ci ostiniamo a fare continui confronti tra noi e gli altri, ci impelaghiamo in progetti a lunga
scadenza, tendiamo a ingigantire i malesseri psicofisici, ci colpevolizziamo, ci mettiamo in un
angolo, siamo anche capaci di rimandare attività o incontri che ci darebbero
IL BAMBINO CHE È IN NOI
piacere, perché ci hanno insegnato che prima vengono la fatica, il lavoro, il sacrificio. E alla fine,
solo se saremo stati "buoni", avremo diritto al godimento. Osserviamo invece i bambini: mentre
giocano entrano in un mondo incantato, in un "non luogo" in cui non valgono più gli schemi della
comunicazione tradizionale né i paradigmi mentali degli "adulti".
In questo spazio magico e privato, che tuttavia può essere aperto a chiunque chieda di partecipare
sottostando alle "non regole" del gioco, i bambini possono restare per ore in silenzio o comunicare
usando strani linguaggi per noi privi di significato apparente. Eppure si intendono, anche quando
appartengono a razze o estrazioni sociali diverse: il loro fare fluisce sereno e senza intoppi
all'interno di un "non tempo" di speciale forza creativa., dove non si avverte la necessità di alcuna
spiegazione.
Così, anche senza saperlo, il bambino mette in pratica attraverso la dinamica del gioco quello che
gli antichi greci chiamavano "eudemonismo", cioè la ricerca della felicità. Ma lo fa in maniera
spontanea, libera, senza "pensare" a quello che sta facendo.
I bambini, mentre giocano, sembrano infatti voler annullare tutte le "normali" necessità umane:
quando il gioco li prende, possono rimanere anche per ore senza mangiare o senza andare in bagno.
Per noi grandi è un mistero, per loro è la normalità.
E a volte, come adulti, ci viene la tentazione di chiedere ai bambini che cosa fanno nel loro mondo
segreto, chi sono i loro amici, come funzionano i loro giochi: nella stragrande maggioranza dei casi,
un bambino ci risponderà con una bugia.
È giusto che sia così: noi non possiamo capire. O meglio: il nostro errore consiste proprio nello
sforzo di "capire". Mentre ci dovremmo semplicemente limitare a "essere", anche noi, dentro la
nostra stanza dei giochi.
L'inesauribile piacere del fare
Ecco il nostro grande sbaglio: ci sforziamo troppo di capire, di giudicare e attribuire un valore a
ogni azione. Per questo, in genere, ci avviciniamo ai nostri figli (ma in fondo anche a noi stessi)
carichi di manuali di pedagogia., ci prepariamo alle nascite leggendo saggi sulla gestazione, il
parto, i primi mesi, i primi anni... Ci informiamo, ci riempiamo di programmi, di doveri, di
consigli... E siamo sempre meno spontanei, meno naturali nei nostri gesti e nelle nostre parole.
Di fatto, cerchiamo di manipolare i bambini come se fossero una materia grezza da plasmare, una
specie di plastilina informe che necessita di essere "sistemata": ma se invece lasciassimo perdere, se
consentissimo ai nostri figli di "essere" e "fare", e allo stesso modo ci astenessimo ogni tanto dal
manipolare anche il bambino, il fanciullino, che esiste dentro ciascuno di noi?
C'è un semplice esercizio da mettere in pratica per sciogliere le nostre rigidità e ritrovare l'energia
tipica del comportamento ludico, giocoso, svincolato da principi e doveri: ogni tanto, sempre di più,
limitiamoci a guardare i bambini senza bisogno di "agire" su di loro. E con il medesimo approccio,
cerchiamo di scendere dolcemente anche dentro di noi e di andare a ritrovare il fanciullino che
siamo stati e che ancora siamo. Tentiamo, in pratica, di mettere in atto un'operazione di ripulitura, di
alleggerimento dagli schemi: proprio come faceva il piccolo Roberto, che ogni volta che poteva si
toglieva le scarpe.
Perché siamo così "pesanti"? Fin dalla culla siamo assillati da folle di "maestri": genitori, nonni,
fratelli, amici più grandi... Ognuno di loro cerca di stimolarci, di indirizzarci, di forgiarci, spesso di
costringerci a seguire un percorso
IL BAMBINO CHE È IN NOI
educativo, culturale, religioso, che ci porti sulla via del cosiddetto "bene"... Per convincerci a
imboccare queste strade, l'arma più forte è la parola: perché la parola è un'energia potente che crea,
determina, forma. E noi, nella stragrande maggioranza dei casi, ci adeguiamo, sottostiamo alle
richieste verbali, accogliamo supinamente un sistema di valori che ci viene scaraventato addosso
dall'esterno attraverso voci, frasi, concetti. Anche quando qualcosa dal profondo ci sussurra che
forse non è proprio così.
La manipolazione del bambino che è in noi da parte del mondo esterno (ma anche da parte di noi
stessi) funziona allo stesso modo. Così accade che, mentre noi diventiamo adulti, il fanciullino
continua a vivere in un angolo della nostra anima che diventa sempre più stretto: il bambino che
siamo stati non muore, ma la sua stanza dei giochi diventa sempre più angusta e scomoda. E così lui
si intristisce, non ha più voglia di giocare, perde il sorriso e l'energia. Un bambino per sua natura è
invece spontaneo, creativo, a volte è così travolto dal suo stare bene, dal suo entusiasmo creativo,
dal suo inesauribile piacere del fare, che respira quasi a fatica.
I bambini sorridono, hanno uno sguardo luminoso, acceso, si muovono molto, sono permeabili alle
emozioni. E soprattutto, i bambini sono assolutamente liberi da tutto ciò che è conosciuto, come
insegna il saggio indiano Krishnamurti3. Pensate a che cosa potrebbe accadere nella nostra vita se
potessimo recuperare tutte queste energie allo stato puro... Eppure, sono già tutte dentro di noi. E
allora, andiamole a risvegliare.
Ritornare nel limbo
Che cos'è il limbo? Nelle tradizioni religiose, è il luogo che accoglie i bambini morti prima di
ricevere il battesimo»4. In quest'ottica, il limbo appare come uno spazio indefinito, nebuloso,
atemporale. Nel limbo il bambino è sospeso tra l'essere stato e il non essere più: è una creatura
leggera che non ha ancora ricevuto nessun tipo di imprinting culturale o religioso. È come un'idea
inafferrabile, allo stato nascente, imperfetta e incompiuta. E per questo anche molto attraente,
affascinante, magnetica. I saggi chassidici spiegavano che l'uomo è colui che tiene la polvere nelle
sue mani: con una mano getta nell'aria la polvere che crea il mondo, con l'altra getta la polvere che
rappresenta la dissoluzione di se stesso. Ecco: noi dobbiamo essere come l'uomo della polvere: da
un lato, ci dissolviamo e non esistiamo più, e dall'altro siamo un potente principio creativo di noi
stessi e del mondo.
Dite la verità: vi crea disagio il pensiero dell'incerto? Vi impaurisce l'idea del limbo, del dissolversi
in finissima polvere dentro una nuvola indefinita? Il bambino che è in voi, dentro questa galassia
nebulosa ci si trova benissimo. Siamo noi, "adulti e maturi", che ci costringiamo a stare sempre con
i piedi per terra.
Proviamo invece un esercizio per imparare a galleggiare in questo stato privo di condizionamenti
spazio-temporali, per cercare di passeggiare anche solo per un po' in questa "terra di mezzo" piena
di sorprese e di morbidezze. Per fare questo, occorre viaggiare leggeri: bisogna disfarsi delle "cose",
delle zavorre fisiche e soprattutto mentali (attaccamenti).
In quest'operazione, liberiamoci dei ricordi, abbandoniamo le scorie della vita passata, inutili e
dannose. Prendiamo distanza anche dalle immagini di un futuro
IL BAMBINO CHE È IN NOI
possibile, dalle aspettative legate al domani, che ancora ci allontanano dalla nostra essenza attuale.
Viviamo nel presente, che è la sostanza dell'eternità: solo così possiamo diventare la cosa che
davvero siamo.
Allora mettiamoci comodi e chiudiamo gli occhi. Scivoliamo indietro con la mente, lungo la nostra
giovinezza, l'adolescenza, l'infanzia.
Cerchiamo di arrivare nel passato remoto, nel tempo in cui i ricordi si perdono. E lasciamoci andare
in quella zona di confine, in questa bolla imperfetta priva di definizioni e di dogmi. Rimaniamo
assopiti per quindici, venti minuti in questo Nulla così accogliente ed energetico. E poi risaliamo.
Allora anche noi, come il bambino collocato nel limbo tappezzato di assenza vuota e silenziosa,
potremo lasciar fluire il nostro speciale e irripetibile talento e la nostra diversità.
Solo abbandonandoci a questo atteggiamento di annullamento vigile e creativo possiamo
avvicinarci al divino, e diventare una scintilla insostituibile del grande progetto di autocreazione.
Non ci resta che... ridere
Dal momento che abbiamo già dentro di noi tutte le forze per autogenerarci, non ci resta che
abbandonarci al flusso del cosmo: lasciamoci andare, entriamo nel grande mare della vita, non
ostiniamoci a rimanere ancorati sulla "riva sabbiosa" dell'Universo.
Ecco allora cosa consigliano i saggi chassidici per muoverci in questa direzione. Impariamo a
privilegiare-.
• la consapevolezza rispetto ai dogmi di fede e di morale;
• il fare rispetto al pensare;
• l'assenza rispetto alla presenza;
• il non tempo rispetto alla memoria;
• la separazione rispetto al possesso;
• la libertà rispetto agli schemi mentali e al giudizio;
• il ridere rispetto alla riflessione.
I bambini ridono molto, spesso senza un perché. Non si fanno problemi: giocano e ridono, oppure
sorridono. È difficile incontrare bambini tristi o depressi e, se lo sono, il loro disagio dipende quasi
sempre dai genitori. Questo dimostra che il riso e il sorriso sono atteggiamenti spontanei, che li
fanno sentire naturalmente bene.
La risata non è un optional. Eppure, come confermano i sondaggi, si ride sempre di meno: in Italia,
siamo passati dai 15 minuti al giorno degli anni Cinquanta ai cinque minuti scarsi di oggi.
Ci siamo mai chiesti come mai? Nella nostra società "seria e beneducata" la risata è considerata al
pari di qualcosa di sconveniente, da manipolare con circospezione o addirittura da nascondere.
In realtà, il riso è un vero toccasana, è una forza purificante, è un antidoto per scacciare malessere e
pensieri
IL BAMBINO CHE È IN NOI
Non ci resta che... ridere
grevi. Ci libera dalle scorie mentali, è come un fulmine che rigenera tutto l'organismo.
D'altronde, anche un poeta come Giacomo Leopardi, passato alla storia come uomo triste e
melanconico, ha scritto: Chi ha il coraggio di ridere è il padrone del mondo». È vero: chi ride ha più
energie, è più "carico", più creativo e immerso nella vita.
Ridere fa bene alla psiche e al corpo, lo conferma la neurofisiologia: nel cervello, la risata parte
dalla zona della corteccia frontale e arriva alla zona limbica, sede degli impulsi legati alle emozioni
viscerali. Di qui, agisce come una vera e propria scossa elettrica che fa partire una serie di "ordini":
contrarre il diaframma, poi l'apparato respiratorio e infine l'addome.
Quanto più la risata è libera, tanto più produce un senso di totale abbandono e, come ritorno,
regala un benefico rilassamento muscolare, una diminuzione della pressione e una generale
sensazione di benessere.
Non a caso, già da qualche tempo nelle corsie di alcuni ospedali si fa ricorso alla "comicoterapia",
soprattutto nei reparti dove sono ricoverati i bambini: gruppi di clown specializzati intrattengono i
pazienti, e dopo qualche mese di terapia si riscontrano la riduzione del 20% dell'uso di analgesici e
la diminuzione del 50% delle degenze. Il che dimostra che ridere fa bene: ci protegge dall'infarto,
regola il respiro, stimola le difese immunitarie, limita le infezioni, scioglie i muscoli, allontana il
dolore. Di più: ridere di cuore provoca effetti simili a quelli dell'esercizio fisico. Fare almeno 10
risate al giorno equivale a 10 minuti di vogatore, ed è una vigorosa ginnastica dei muscoli facciali,
delle spalle, del diaframma e dell'addome.
Buon riso fa buon sangue», dice infatti il proverbio. A noi i proverbi non piacciono, perché
nascondono uno schema mentale preformato. Però, in questo caso, un
fondo di verità c'è: ridere ci fa sentire bene, ma solo a patto che si tratti di un riso spontaneo,
"infantile", diretto, non cerebrale. La risata che nasce da elaborazioni razionali la cosiddetta risata
"di testa" o di circostanza, ci frena: è la risata amara, isterica, sardonica, che spesso altera i tratti del
volto e, invece di liberarci, ci comprime. La risata benefica, viceversa, parte dal cuore e dalla
pancia: è come un temporale violento che ci purifica, porta in superficie i nostri istinti più viscerali,
quelli più vicini alla sfera della sessualità pura.
È questa la risata che scioglie i nodi e le inibizioni, e permette alla funzione bambina che è in noi di
tornare ad avvolgere con una luce chiara le "cose serie" e spesso pesanti della vita adulta.
Il rimedio è proprio lì, davanti a noi, a portata di mano: non ci resta che ridere! Ma facciamolo in
modo spontaneo, senza pensarci troppo su...
IL BAMBINO CHE È IN NOI
Non esistono premi né punizioni
fissano... entrano a far parte di quel noi che già siamo, senza che ce ne rendiamo conto. E in questo
modo, le parole non solo ci indirizzano verso l'uno o l'altro comportamento, ma ci determinano
nell'inconscio, entrano nel nostro Dna. Infatti, noi non possiamo non ascoltare, non possiamo non
permettere ai suoni di entrare a far parte di noi.
Ecco perché, quando eravamo bambini, ogni tanto ci tappavamo le orecchie: era un modo di dire in
maniera evidente: Mi oppongo a che i suoni entrino a far parte di me...». Come se avessimo da
sempre saputo che diventiamo le parole che ascoltiamo.
È questo il mistero fecondante della voce: la voce dei padri, delle madri, le parole del mondo, degli
amici, degli insegnanti, creano le nostre identità. La parola legata al premio ci gratifica, quella che
accompagna la punizione ci mortifica: e noi, pur di udire solo voci e parole "amiche", tendiamo a
tenere sempre lo stesso comportamento. Condizionati da quest'arma po-tentissima, a costo zero e
alla portata di tutti: la parola.
E c'è di più: noi non solo diventiamo le parole che ci hanno detto, ma ci lasciamo plasmare anche da
quelle che pronunciamo a voce bassa dentro di noi, dai pensieri senza voce che interrompono il
nostro silenzio. In questo modo, non restiamo più in silenzio e siamo immersi in un vortice
ininterrotto di voci, parole, pensieri, idee... E che sarebbe di noi se potessimo espellere in un solo
colpo tutti nostri pensieri? Oppure se smettessimo di pronunciare le migliaia di cose inutili, le
parole superflue che caratterizzano la maggior parte dei nostri discorsi?
È sempre il saggio indiano Krishnamurti che ci ricorda che: II pensiero è sostanza, altrettanto
quanto sono sostanze il pavimento, il muro, il telefono. L'energia che funziona dentro un modello
diventa sostanza. C'è energia e c'è sostanza. E tutta la vita non è altro che questo».
Da qui scaturisce che noi siamo i profeti del nostro destino: diciamo parole inutili e diventeremo
inutili, paurosi, insicuri di tutto, proprio come sono le persone che riempiono continuamente di
pensieri e parole il loro silenzio. In questo modo, il parlare senza motivo prende il sopravvento, e
noi non riusciamo più a restare da soli, siamo in balìa degli altri, ci nutriamo dei loro discorsi, delle
loro indicazioni: dipendiamo dai giudizi esterni, dalle va-lutazioni, dalle "morali" di volta in volta
dominanti. E non ci accorgiamo che le nostre e le altrui parole ci vam-pirizzano, ci portano lontano
dal Sé. C'è sempre quella parola in più, quella frase inutile pronunciata per riempire un silenzio di
cui abbiamo paura, per colmare uno spazio indefinito.
Mentre la realtà, da sola, ci parla senza bisogno del linguaggio. Ma troppe volte noi non abbiamo
orecchie per ascoltarla.
Invece, dovremmo reimparare a stare in silenzio per purificarci di tutti i suoni che sono entrati nel
nostro cervello e che lì si sono materializzati, vale a dire sono diventati parte integrante di noi.
E allo stesso modo, dobbiamo essere certi che l'autosti-ma è già dentro di noi, e che non siamo noi a
dover condurre il gioco per la ricerca del compimento. Noi siamo già tutto quello che siamo, ma
anche quello che non siamo: per questo, non dobbiamo incapsularci dentro modelli esterni che ci
impediscono di essere qualcos'altro e ci frenano nella ricerca di ciò che è sconosciuto.
Esiste già dentro di noi - dentro tutti noi - una forza innominabile e non classificabile che ci crea
senza fatica, indipendentemente dalla nostra volontà e dalle nostre Parole, con la stessa semplicità
di un bambino impegnato nel suo gioco.
Noi non siamo stati creati una volta per tutte: noi siamo incessantemente creati in ogni istante della
nostra vita.
IL BAMBINO CHE È IN NOI
Osserviamo in silenzio un bambino nella sua stanza dei giochi: si diverte senza fatica, è presente a
se stesso in quel momento, non ha bisogno di definire né di giustificare quello che fa.
Un bambino che gioca non si identifica con nulla, non ha bisogno di aggettivi né di definizioni, non
è condizionato dal ricordo del passato o dal pensiero del futuro: un bambino semplicemente "è".
Non dimentichiamolo. E proviamoci anche noi.
Note
' Giovanni Pascoli, Il fanciullino (Milano, Feltrinelli, 1982). 2 Italo Calvino, Marcovaldo (Torino,
Einaudi, 1963). 'J. Krishnamurti, Libertà dal conosciuto (Roma, Ubaldini Editore, 1973). 4 Su
questo tema, si legga il saggio di Jean-Baptiste Pontalis, Limbo. Un piccolo inferno più dolce
(Milano, Raffaello Cortina Editore, 2000). In particolare, pp. 9 e ss.
LA FELICITA
COME VIA AL CONOSCERSI
liberarsi da schemi e abitudini
Meneceo, mai si è troppo giovani
o troppo vecchi
per la conoscenza della felicità.
A qualsiasi età
è bello occuparsi del benessere
dell'animo nostro».
Epicuro, Lettera sulla felicità'
La domanda del giorno
Quante volte, nel corso della nostra vita oppure anche nell'arco di una giornata, ci siamo trovati a un
bivio e siamo stati costretti a scegliere? Ciascuno di noi, in quell'occasione, si sarà domandato:
Desidero davvero stare bene, ritrovare me stesso e la mia serenità, oppure devo continuare a vivere
in una maniera che non mi soddisfa più?». È chiaro che si opterà per la prima soluzione...
Nulla è chiaro o scontato. Chi lo dice che dev'essere per forza la prima opzione quella "buona"?
Perché, poi, si deve obbligatoriamente scegliere di essere felici a ogni costo?
Ogni scelta effettuata in base a un giudizio di "buono" o "cattivo" implica infatti, già da sola, una
costrizione mentale che determina e ingabbia il nostro potenziale energetico, che invece è per sua
natura neutro e libero.
Ogni volta che "scegliamo", infatti, attiviamo una serie di meccanismi mentali - a noi ben noti e
spesso anche "comodi" - che fatalmente ci porteranno a percorrere strade che già conosciamo.
In questo modo, potremmo anche paradossalmente arrivare a credere che la felicità sia una specie di
dovere sociale,
LA FELICITA COME VIA AL CONOSCERSI
un fenomeno di massa, una moda con propri riti e codici. Siete d'accordo? Vi piace l'idea di
adeguarvi a questo modello?
Via gli attaccamenti
Guarda, mi trovo ancora una volta sulla solita strada!.. Esprimendo questa insoddisfazione,
cominciamo a ribellarci allo schema. E a comprendere che noi molto spesso usiamo le forze e le
energie psichiche in maniera distorta o troppo prevedibile.
Quali sono i condizionamenti che ci impediscono di sentirci bene? Intanto, noi cresciamo e viviamo
con la convinzione che si debba rimanere sempre un passettino indietro, che si debba "risparmiare":
slancio, impegno, e soprattutto risparmiare energia... E invece i saggi ci insegnano che, quando devi
fare qualcosa, devi farla al massimo dell'energia. Buttati a capofitto nella realtà, sfiancati, arriva allo
stremo delle forze.
La vita contemporanea, dal canto suo, ci porta lontano dal rispetto di queste leggi universali, che
sono quelle più profonde, quelle che reggono l'armonia del cosmo nel quale tutti siamo calati.
Facciamoci caso: nel mondo un terzo della popolazione muore di fame, un terzo è in sovrappeso e
un terzo muore per obesità. Significa che qualcosa non funziona: che troppe persone identificano il
benessere con l'eccesso di cibo (e la mancanza di esercizio fisico), consumano gli alimenti in
maniera distratta, sbagliata, e alla fine ne muoiono.
E ancora: anche nei rapporti erotici spesso si strutturano (e si vivono) dei ruoli relazionali non
fondati su autonomie di pensiero e di comportamento individuali, ma su schemi preformati, giochi
di dare e avere già collaudati. Per cui si pensa: Adesso sono in coppia, quindi mi devo
Liberarsi da schemi e abitudini
comportare così, in modo "conforme" allo schema di coppia socialmente accettato».
Di fondo, spesso è come se all'interno della coppia si recitassero i ruoli dei partner, perdendo di
vista la propria identità. Siamo sicuri che una coppia cosi funzioni meglio e sia più creativa di un
rapporto in cui i partner sono liberi di lasciar esprimere la propria personalità? Una coppia così, alla
lunga, esplode. Basta che uno dei due si renda conto che all'esterno dell'unicum di coppia esista
qualcosa (o qualcuno) che consente una maggiore libertà d'espressione individuale, e il rapporto va
in crisi.
Un altro esempio di sottomissione a schemi mentali preformati può essere il caso di Giulia, una
ragazza di 25 anni che fa la commessa e vive in un piccolo paese dell'Ap-pennino emiliano, dove
tutti si conoscono da sempre, come in una piccola comunità.
Giulia si innamora di Paolo, un biologo trentenne di Bologna capitato da quelle parti per motivi di
lavoro. Un giorno lui le chiede di andare a vivere con lui, nella sua casa in città.
La ragazza rimane perplessa: è la prima volta che un uomo le propone una cosa simile.
L'idea la tenta nell'intimo del suo cuore, perché Paolo è un uomo che sente di amare sul serio, ma la
gente che cosa penserà? I suoi genitori, saranno contenti? E i colleghi di lavoro? Giulia ci pensa per
qualche giorno, e infine gli dice di no: Non l'ho mai fatto, non rientra nei miei schemi. E poi, forse,
sono ancora troppo giovane...». Si scusa con Paolo, ammettendo la sua non volontà di uscire da un
modello sperimentato. Lui insiste ancora per qualche tempo e alla fine la lascia.
E allora: non pensate che gli attaccamenti (gelosia, rabbia, possesso, orgoglio, avidità...) limitino
l'attività del cervello, impedendogli di liberare la sua energia creativa?
LA FELICITA COME VIA AL CONOSCERSI
Per esempio: perché ci sforziamo di adattarci? Perché facciamo finta che ci appaghi un lavoro di cui
non ci importa più nulla e lo subiamo senza trovare la forza di alzare la testa e di essere felici della
nostra professione? Perché viviamo l'amore come attaccamento o come abitudìne e non come
manifestazione di creatività libera e spontanea? Perché ci abbarbichiamo all'altro in maniera
sbagliata, ci adattiamo addirittura ad assumere le mille forme (i mille mascheramenti forzati) che il
timore della perdita ci impone?
In questo modo, è come se noi continuassimo a ripetere a noi stessi in maniera ossessiva: Se sarò
così, lui/lei non mi lascerà mai». E tutto questo per la paura che la nostra situazione attuale possa
mutare o, in qualche modo, venire compromessa da mutamenti futuri.
La logica dell'adattamento è una gabbia. Certo: una gab-bia che a uno sguardo superficiale può
apparire anche confortevole, solida e protettiva, ma è pur sempre una prigione. Il rischio che
corriamo, tenendo un comportamento "ingabbiato", è altissimo e nella maggior parte dei casi porta a
esiti negativi: chi ama, adattandosi in maniera succube e unilaterale ai desideri dell'altro, alla fine si
rinchiude in una corazza, perde freschezza e spontaneità; chi lavora "facendosi piacere" persone e
situazioni che lo comprimono, alla lunga si ingrigisce e, soprattutto, rinuncia al suo vero essere, ai
suoi talenti. In questo modo, alla fine si spegne.
Un tale atteggiamento molto spesso è dettato da un eccessivo attaccamento agli "ordini" dettati dalla
mente: ma la mente è soltanto il cascame di quello che noi siamo in realtà. La nostra mente -
contaminata com'è da generazioni di "buoni maestri" e da modelli esteriori che collezioniamo
durante tutta la nostra esistenza - diventa sovrastruttura del nostro Io, è un guscio che si sovrapporr
al nostro reale sentire, che per sua natura è morbido t cedevole: la mente è un involucro che ci limita
e ci irrigidisce.
Liberarsi da schemi e abitudini
Se invece potessimo far fluire liberamente le forze del cervello, se consentissimo loro di agire
spontaneamente, senza indirizzarle a forza verso schemi a noi già noti, potremmo sperimentare
l'autentica felicità. La nostra mente, infatti, quando viene lasciata libera di esprimersi, produce
creatività: ma se noi agiamo su di essa distogliendola dal suo raggio d'azione naturale e
interrompendone l'attività, la costringiamo a bloccarsi. È come se interrompessimo bruscamente un
flusso di vita.
Facciamo un esempio. Tra gli schemi di comportamento sociale che ci portiamo dietro da secoli, ce
n'è uno ancestrale del quale facciamo fatica a liberarci: la convinzione che una donna, per essere
realizzata e riconosciuta a livello sociale nella sua più autentica femminilità, debba necessariamente
diventare madre. Ma chi lo dice? Una donna è prima di tutto una persona che vive, ama, esprime
idee, sentimenti, emozioni. Il suo essere "creatura" non dipende dal fatto che lei rivesta o meno un
ruolo "socialmente riconosciuto" (come può essere quello materno). Eppure, la nostra società, che
appare così evoluta e così aperta, ci conduce a convincerci che la femminilità si debba esprimere in
funzione di qualcos'altro.- un bimbo da cullare, vestire ed esibire ad amici e parenti. Ma la "donna
donna", che fine fa?
È accaduto a Patrizia, 42 anni, responsabile marketing in un'agenzia di pubblicità di Torino. È una
bella donna che ha sempre fatto girare la testa agli uomini e ha avuto innumerevoli storie d'amore.
Molto abile, attiva e decisamente manageriale sul lavoro, in privato coltiva passioni squisitamente
femminili, come la cucina, il piccolo punto e la decorazione su ceramica. Patrizia non si è mai
sposato e non ha figli. Brevi sono state anche le sue esperienze "• convivenza: ogni volta, quando la
storia iniziava a rendere quota, quando il suo compagno le chiedeva di lettere su famiglia", lei si
tirava indietro. Le è già successo in molti casi, e ogni volta "sul più bello" è fuggita.
LA FELICITÀ COME VIA AL CONOSCERSI
Adesso che ha superato i quarantanni, Patrizia è entrata in crisi: i genitori, gli amici, i colleghi a
ogni occasione ironizzano sul fatto che lei non sia ancora diventata madre: Attenta, ormai è quasi
tardi, ti rimane poco tempo Poi basta...», le dice di tanto in tanto la sorella, una trenta-cinquenne
madre di due bambini. Patrizia si sente divisa, combattuta. E alla fine va in crisi. C'è chi tenta di
farle credere che ha sbagliato a non aver concretizzato, attraverso la maternità, il vero e più
autentico ruolo che spetta a una donna. Eppure a lei sta bene così, si ritiene una persona appagata,
realizzata, piena di interessi. I figli non le mancano, ma è costretta a dover ammettere che il modello
femminile dominante è quello di "donna in coppia con prole". O, al limite, di "donna con figli".
Perché anche nel Terzo Millennio, nonostante le battaglie di liberazione e l'avvento dilagante della
parità, continua a valere la vecchia equazione: donna "realizzata* = donna "madre".
Perché - si chiede Patrizia - devo essere costretta a vestire proprio quei panni?». Appunto: chi può o
deve costringerci a studiare per tutta la vita il copione di un personaggio "socialmente corretto"?
Perché dobbiamo per forza vivere seguendo le indicazioni di un "regista" esterno a noi e rinunciare
al nostro libero arbitrio?
Lo stesso discorso vale anche per le credenze che circolano sulla coppia: avete mai sentito parlare
dei dink? La parola è un acronimo inglese che indica la coppia "doublé income, no kids" (doppio
reddito, niente bambini). I dink sono una realtà in crescita nel mondo occidentale, Italia compresa,
eppure sono ancora vissuti come un fenomeno deviante, anomalo, tutto sommato "negativo", una
realtà da combattere.
Ma chi lo dice che la coppia senza figli è una coppia fallita? Non è forse vero che una coppia senza
prole può
40
Liberarsi da schemi e abitudini
,manifestare la sua fertilità, la sua energia creativa, anche ^ ambiti diversi da quelli della famiglia
tradizionale? Perché una coppia che non procrea deve perdere la stima di se stessa e ritenersi un
soggetto inferiore, da ghettizzare socialmente?
Mi chiedo invece se, a livello sociale e in questo preciso momento storico, la comparsa e la crescita
dei dink non sia piuttosto la risposta naturale ai problemi mondiali di sovrappopolazione. E se il fatto
di frenare la crescita demografica non nasconda, in realtà, una reazione logica e positiva alla
scarsità delle risorse, alla diminuzione dello spazio vivibile, all'esplosione delle città,
all'inquinamento.
Pensiamoci: se fosse vera quest'ultima ipotesi, allora i dink potrebbero essere la manifestazione
vivente di un meccanismo di autoregolamentazione dell'Universo, che ci conduce in maniera
naturale e morbida verso lo smaltimento di ciò che è in sovrannumero.
Siamo noi che, invece, ci ostiniamo a credere a quel modello sociale in base al quale i figli sono un
obbligo; siamo noi che ci attacchiamo a proverbi del tipo: Una coppia senza figli è come un albero
senza frutti». Sono solo false credenze, che condizionano e zavorrano la nostra vita. Circondandoci
di disagi, di rigidità e di insoddisfazioni.
Comprendere se stessi
Ci guardiamo intorno ed è difficile trovare persone sorridenti. A parte i bambini, abbiamo
l'impressione che il mondo di oggi sia popolato da persone tristi. Ma al di là dei segnali visibili ed
esteriori (un viso rilassato, il sorriso, un'andatura morbida e naturale, una forte stretta di mano...),
come si fa a comprendere quando una persona è veramente felice, ma proprio felice? La persona
felice è quella che, quando ti incontra, non si mette a parlare di sé e della sua vita, quella che non
inizia a lamentarsi.
Chi non vede che sé, non ha luce», dice il grande saggio cinese Lao Tze. È vero, parlare troppo di
sé, anche sottolineando successi o conferme personali, indica che non si è coinvolti creativamente
nella vita-, è un po' come se si restasse qualche gradino più su, come quando si rimane sul bordo di
una piscina, si sfiora timidamente l'acqua con un piede, ma non si ha il coraggio di tuffarsi. In
fondo, mettere se stessi al centro dei colloqui con gli altri, pronunciare con eccessiva frequenza il
pronome "io", nasconde l'incapacità di lasciarsi andare nel flusso della vita.
Fateci caso.- poco fa ho usato il verbo "comprendere", non "capire". È una differenza importante:
perché il capire è legato a un'attività mentale che mette in gioco schemi intellettuali, formule
cerebrali, sovrastrutture della mente. Il comprendere, invece, è un'attività più ampia, che coinvolge
la totalità del nostro modo di abbracciare il mondo, noi stessi egli altri che vi sono dentro.
Attenzione-, non confondiamo questa "comprensione" con il valore che si attribuisce di solito alla
parola, un significato legato ai concetti di tolleranza o di commiserazione. No, qui si tratta di un
"comprendere" neutro, che
43 LA FELICITÀ COME VIA AL CONOSCERSI
richiama piuttosto l'idea latina del verbo comprehendere, che indica, prima che il capire
intellettuale, il gesto caloroso dell'abbraccio.
Finché ci manterremo aggrappati ai cosiddetti ideali, il riflesso condizionato sarà la rigorizzazione
di tutto quello che facciamo attraverso il cervello: finché guarderemo noi stessi e l'Universo sotto la
lente deformante di ciò che si deve e non si deve fare, di ciò che è giusto e non è giusto in base alla
ragione o, peggio, secondo i dettami della morale, l'esercizio della comprensione sarà destinato a
fallire, e noi non riusciremo mai a guardarci in maniera serena e diretta né a essere
appassionatamente vivi.
Ecco un altro avverbio da ricordare: "appassionatamente". È una parola che indica il vivere secondo
passione. Lo sappiamo già, è scontato, ma non è sempre facile metterlo in pratica-, esprimere le
passioni delle volte è un lusso!», direte voi. No, non è un lusso: è solo che nel mondo
contemporaneo la passione è una forza che sembra aver perso smalto, pare addirittura che la
passione sia qualcosa di troppo impegnativo da affrontare. Gli eccessi dell'istinto ci spaventano,
perché li percepiamo come elementi separati dal nostro Io "normale", senza pensare che, invece, gli
eccessi operano in uno spazio magico, non governato dalla ragione, dove ogni cosa è possibile. La
passione ci intimorisce perché non sappiamo dove ci porterà. E quando è davvero travolgente,
finisce invece per essere nascosta, frenata, quasi che fosse un'energia "peccaminosa".
Che cos'è l'infelicità?
L'infelicità risiede nella tentazione di continuare a perpetuare uno stato di apparente stabilità della
mente, uno stato che ci limita, ci comprime e ci ingabbia. Prendiamo un esempio tratto dalla
religione: il dio cristiano è stato ucciso dagli uomini, ed è diventato un simbolo universale di
espiazione e di dolore.
Comprendere se stessi
La fede che nei secoli si è coagulata intorno a quest'idea di morte paradigmatica serve per
convincerci che esistono "brutti pensieri", "azioni malvage", "peccati" che hanno determinato la
sofferenza di quel dio e la creazione di un dolore universale di cui noi tutti dovremmo sentirci
eternamente responsabili.
Se però usciamo da quest'ottica penitenziale, che ci viene imposta dall'esterno attraverso il
meccanismo della credenza, ci rendiamo subito conto che si tratta di sovrastrutture, di cascami della
nostra mente che svaniscono immediatamente non appena vengono guardati alla luce della
coscienza.
Le religioni, quando parlano di peccati, infondo vogliono alludere proprio agli attaccamenti che
offuscano la nostra interiorità. E allora, qualcosa di potentemente vitale dentro di noi si ribella: in
questa chiave ansia, depressione e paura incarnano la reazione della nostra anima a questi
oscuramenti che inibiscono il nostro cervello.
Ecco: cerchiamo di non temere di essere NOI, prima di tutto NOI. Non imponiamoci correzioni o
censure: guardiamoci serenamente allo specchio senza suggerirci che cosa dobbiamo diventare, ed
evitiamo soprattutto di affidarci a guru, sacerdoti e profeti.
Alcuni tra noi ritengono di essere più solidi se diventano "seguaci" di qualcuno o qualcosa: è
sbagliato, perché diventare seguaci significa cristallizzarsi dentro un'armatura. Poniamo il caso di
essere seguaci di un certo maestro; quando il maestro muore, noi ci ostiniamo a proclamarci fedeli a
qualcuno che non c'è più e, di conseguenza, creiamo attaccamento al passato.
Dunque, chi si ostina a proclamarsi seguace di un ideale e attaccato a uno schema esterno.
Ma c'è di più: anche essere seguaci di noi stessi ci appe-santisce, ci irrigidisce dentro una forma.
Cerchiamo invece di tornare polvere, stemperiamo questo LA FELICITÀ COME VIA AL
CONOSCERSI
scheletro metallico che ci siamo imposti: dissolviamoci nell'acqua, in un bagno lustrale che ci
accarezza e ci purifica.
Facciamo un passo avanti: noi cresciamo convincendoci che ciò che secondo gli ideali dominanti è
"cattivo" andrebbe rimosso o ricacciato indietro. Ma se pure queste forze qualificate come
"negative" avessero un significato e una loro utilità? Perché ci ostiniamo a concentrare la nostra
attenzione su questo tipo di pensieri? In realtà, più ci stiamo sopra con la mente, più li rinforziamo e
li amplifichiamo.
E questo vale anche per l'erotismo: perché incanalarlo sempre all'interno di un unico schema, perché
indirizzarlo sempre su un unico tipo d'uomo o di donna? Quante volte abbiamo sentito persone
affermare: Io mi eccito solo se lui ha delle mani grandi e non porta i calzini», Io riesco a fare
l'amore solo con una donna bionda, molto sexy e con la quinta di reggiseno»...
Quante volte lo abbiamo detto (o almeno pensato) anche noi? Non abbiamo paura che, nel tempo,
questa pre-vedibilità delle emozioni distrugga l'eros, quell'area di energia "non schematizzata" che
aspetta solo di esplodere e di manifestarsi?
Cerchiamo di ripulirci dal conosciuto. E impariamo a far morire dolcemente il nostro solito Io.
Altrimenti, per paura di lasciarci andare e di soffrire per un giorno, ci condanneremo a soffrire per
anni.
L'abitudine alla partenza.
I grandi viaggiatori amano partire. Non li spaventa l'idea di preparare una piccola valigia in
mezz'ora, e di salire sul primo aereo.
I grandi viaggiatori vivono ogni partenza come un appagante cambiamento di stato, che rinfresca
corpo e coscienza con una ventata di nuova energia.
Quando un nostro caro o un nostro amico muore, noi per reazione piangiamo e ci disperiamo.
Perché? Ma soprattutto, per chi? Chi se n'è andato, non è più. Non a caso spesso si sente dire,
specialmente quando si trattava di una persona malata: Ha smesso di soffrire». E dunque,
razionalmente, questo distacco da una condizione di sofferenza dovrebbe essere per noi motivo di
gioia.
Il nostro pianto, invece, il più delle volte nasconde autocommiserazione, non sincero dispiacere per
la perdita. È un pianto che simboleggia un attaccamento molto diffuso.- il "possesso" fisico di chi
amiamo.
Questo nostro dolore è di nuovo un cascame de) pensiero, una scoria delle nostre elaborazioni
mentali: è l'incapacità di lasciar scivolare via dolcemente ciò che non è P'ù e, specularmente, la
tendenza ad aggrapparsi a situazioni che ormai appartengono al passato. Leggiamo invece quanto
scrive il saggio indiano Krishnamurti: Quando ci guardiamo con la morta identità di ieri, usciamo
dal flusso del presente, dalla giovinezza, e dall'attualità^.
pensiamoci: in una fase storica come quella attuale, accanto alle paure tradizionali (malattie,
invecchiamento, morte) avvertiamo accanto a noi i nuovi fantasmi della recessione, della guerra, il
timore di attacchi con armi chimiche, l'instabilità politica internazionale, l'ambente esterno in cui
siamo calati ci appare particolar-
LA FELICITÀ COME VIA AL CONOSCERSI
mente ostile. In una situazione come questa, la ricerca della felicità non può che passare attraverso
noi stessi, attraverso la nostra capacità di conoscerci e credere nelle nostre risorse, attraverso la
nostra autostima.
Guardiamoci attorno: stiamo perdendo il senso della felicità intesa come slancio, come
manifestazione esteriore di entusiasmo, come energia che non dipende da fattori temporali, come
"carica" che agisce solo ed esclusivamente nell'oggi.
Non s'incontra più per strada gente che sorride o che fa gesti che manifestano felicità. Vediamo le
strade e le piazze piene di sguardi tristi, di persone ingobbite, ingri-gite, spente. Al massimo, ci può
capitare di conversare con persone che, non senza un certo sarcasmo, ci chiedono: Sei felice?»,
quasi aspettandosi una risposta negativa. Simile a quella che darebbero loro.
Eppure, ricordiamolo ancora una volta, noi cominciamo a non essere più felici da bambini, verso i
4-5 anni, nel momento in cui qualcuno - in genere i genitori, poi gli insegnanti — inizia a imporci
degli schemi di comportamento. I bambini, invece, da soli sono felici: vivono in un flusso di tempo
ininterrotto e non hanno percezione del passato e del futuro, si concentrano più sul fare che sul
pensare, non sono gravati da obblighi sociali o morali, sono fondamentalmente liberi.
Proviamo allora a socchiudere la porta e guardiamo in silenzio un bambino che gioca nella sua
stanza: è tutto preso dal trenino o dai vestiti della bambola, i suoi occhi, Ja sua mente, le sue mani,
tutte le facoltà sensoriali sono concentrati nell'atto del fare, del creare, del manipolare il suo gioco.
Non c'è nulla che lo distolga: semplicemente un bambino è, e la sua felicità è piena, indefinita.
Soltanto quando inizia a crescere ed essere "educato", il bambino comincia a metabolizzare schemi
di comporta-
L'abitudine alla partenza
mento imposti dall'esterno, a doversi confrontare con idee di premio (nel caso in cui si adegui ai
modelli) oppure di punizione (se non risponde correttamente alle richieste "superiori"). E in quel
momento comincia anche a venire meno la sua felicità. Sapete qua! è il rischio che corre chi non è
felice? Chi non è felice si ammala più facilmente.
la felicità è un presupposto fondamentale della salute, è un eccezionale anticorpo contro le
malattie. La felicità ci salva la vita, e chi non è felice rischia di ammalarsi.
Qual è il rimedio? In primo luogo, dobbiamo tornare a guardare noi stessi come se fossimo bambini
che giocano nella loro stanza, presi dall'attività ludica e assolutamente indifferenti rispetto al mondo
esterno. Guardare noi stessi come se fossimo completamente nudi, cioè liberi da abiti mentali.
Per farlo, possiamo usare uno specchio.- ci avete fatto caso? Una volta nelle case c'era quasi
sempre, in camera da letto, lo specchio a figura intera. Noi invece siamo cresciuti con scarsa
abitudine a guardarci, a prendere confidenza col nostro corpo: non riusciamo più a metterci nudi
davanti a uno specchio.
i, poi, gli specchi sono progressivamente scomparsi o sono diventati troppo piccini: così noi ci
guardiamo, ma lo facciamo di sfuggita, spesso solo nel dettaglio o con poca attenzione, tendendo ad
assimilarci, attraverso l'abito di moda in quel certo momento, a un modello comunque esterno al
nostro essere.
In questo modo, la nostra realtà scompare e viene meno la nostra naturalezza, perché ci
identifichiamo con un'immagine falsata da uno schermo esteriore. E nel nostro intimo, dentro il
nostro Io più vero, non siamo felici.
polvere di coscienza
Ci siamo mai chiesti perché non siamo felici? La prima risposta, quella che affiora in maniera più
immediata e spontanea, sarà: Sono infelice perché non sto bene nella realtà in cui vivo». Subito
dopo, qualcuno aggiungerà: Non sono felice solo perché sono sfortunato». Ma quanti tra noi
avranno il coraggio di domandarsi: Non è forse colpa mia?».
Osserviamo il saggio buddista che costruisce un mandala, quell'insieme di figure, simboli e disegni
(in sanscrito questa parola significa "cerchio magico") che rappresentano in forma tangibile la parte
più profonda della psiche3. Il mandala si ritrova in varie culture, tra gli indiani d'America, in Africa
o nelle tribù del Pacifico, non solo nelle religioni orientali.
Noi però osserviamo questo maestro buddista che impiega mesi, talora anche anni, per disporre in
silenzio le polveri colorate all'interno di uno schema meticoloso fatto di segni emblematici.
Quando lo ha terminato, con un soffio o un gesto della mano lo distrugge. Oppure non lo protegge
dal vento, che prima o poi lo dissolverà nell'aria. Perché lo fa? Certo: per dire, simbolicamente, che
nulla nella vita è permanente o immutabile. Ma anche per spiegare, a se stesso e a chi lo guarda,
che non serve affezionarsi a una Persona, un oggetto, un'opera, anche a qualcosa che abbiamo
creato con tanta fatica ma che, irrimediabilmente, è destinato a scomparire.
In questo senso, non è nemmeno utile né benefico affezionarci al nostro Io, al nostro modo di essere
e di agire. Così, ogni volta che si verifica la morte della "cosa", ne scaturisce la rinascita di chi l'ha
creata.
LA FELICITÀ COME VIA AL CONOSCERSI
La nostra infelicità inizia proprio laddove ci ostiniamo a rimanere aggrappati all'oggetto, allo
schema morto che ci ostiniamo a perpetuare, a ripetere gli stessi e inutili pensieri e a gravare la
nostra mente con carichi di significati sempre più complessi e pesanti. Ecco: dobbiamo iniziare a
pensare dolcemente alla nostra vita come se fosse un mandala, un disegno di polvere che ora c'è, ma
tra un attimo potrebbe svanire nel nulla, scomposto dal vento.
È in questa capacità di vivere in stato di perenne "transito", è in questa consapevole instabilità che
risiede il segreto della felicità e dell'autostima: una mente che si "attacca" alle cose, infatti, è una
mente non creativa né libera, è una mente in "sovrappeso", che vive di scorie, cioè di elaborazioni
cerebrali, paure, ripensamenti, pensieri dominanti, progetti sbilanciati verso il futuro o ricordi
agganciati a un tempo passato.
Qualcuno potrà obiettare che il grasso corporeo,- così come le sovrastrutture mentali (i cosiddetti
ideali) - è una forma di protezione con la quale ci corazziamo per non affrontare il mondo. È vero,
ma attenzione al meccanismo: ingrasso e non mi metto in gioco, mentalmente mi convinco di non
essere conforme allo schema estetico dominante e nel frattempo mi allontano, creo distanza fisica
tra l'essere e il sentire.
Una mente appesantita, proprio come un corpo obeso, non può essere né agile né felice. Non può
conoscersi. Ci avete mai pensato?
Niente è più interodi un cuore infranto»
Niente è più intero di un cuore infranto» è una frase del Rabbi Nachman. Ed è un pensiero sul quale
vale la pena soffermarsi. O meglio: leggiamo questa frase e lasciamoci cullare dalle parole, non
intellettualizziamola.
Cerchiamo allora di comprenderne (e non di capirne) il messaggio profondo: che tutto ciò che è
incompleto, instabile, precario, porta in sé i germi della forza e dell'energia.
Ecco perché il nostro esercizio risiede non tanto nella fatica di "tenere insieme", ma nella volontà di
spezzare: spezzare le abitudini, le credenze... spezzare soprattutto il tempo e le eternità.
Eppure a noi l'idea di eternità piace, ci da sicurezza, ci fa sentire adulti e maturi: ci rassicura poter
pensare di essere eterni, immortali, di avere davanti a noi un numero illimitato di anni da vivere. In
realtà non ci rendiamo conto che il tempo infinito è una zavorra, un peso, un impegno troppo
gravoso.
Il dolore interviene per spazzare via questa sensazione di oppressione. Il dolore è un agente di
rottura, è il segnale che ci indica la via dell'abbandono di ciò che è vecchio, finito, cristallizzato,
morto, e ci dirige verso la "nascita.
Pe
r questo il dolore non deve essere rimandato indietro, perché in questo modo si rischia di farlo
diventare cronico, e neppure dev'essere "coperto" attraverso i farmaci: il dolore va contemplato alla
luce della coscienza, s i si deve consentire di raccontarci il suo messaggio, di
irrompere il corso vischioso delle nostre identificazioni fìttizie.
LA FELICITA COME VIA AL CONOSCERSI
Facciamo un esempio: di questi tempi molti di noi stanno temendo la recessione, hanno paura di
dover far fronte a una serie di ristrettezze, a probabili situazioni di rinuncia del tutto nuove da
maneggiare.
Proviamo a guardare il "problema" dal lato opposto: il bisogno di fare a meno del superfluo, almeno
per un certo periodo, probabilmente avrà anche dei risvolti positivi, ci insegnerà a vivere in maniera
più leggera, rinunciando ad abitudini e oggetti che fino a ieri ci sembravano imprescindibili.
Una situazione in cui improvvisamente siamo obbligati a fare più attenzione a come spendere il
nostro tempo e il nostro denaro ci farà comprendere gradualmente che la felicità non dipende da
fatti né da oggetti esteriori, ma deve sgorgare dentro di noi.
Solo in questo modo potremo diventare simili al saggio buddista che distrugge il mandala e si
avvicina al centro dell'essere, dove veniamo incessantemente creati. Mentre il resto è soltanto
polvere.
Viaggiare con un bagaglio leggero
È il giorno della partenza, e la valigia questa volta non pesa: è una piccola borsa e per la prima
volta, nel prepararla, abbiamo dimenticato nell'armadio tutti gli oggetti inutili, cioè tutto quello che
già sapevamo di noi stessi...
Siamo pronti a partire, e questo viaggio assomiglia a un foglio bianco, a uno schermo candido sul
quale non è ancora iniziata la proiezione del film.
Oggi siamo pronti ad affrontare questa nuova giornata come se fosse la prima e l'unica della nostra
vita, assolutamente
Niente è più intero di un cuore infranto
liberi da tutto quello che già conosciamo. valigia ho messo il mio Io, nient'altro».
Abbandoniamoci a questo pensiero. Ma attenzione: "lasciarsi andare" al pensiero non significa
abbandonarsi al fatalismo né rassegnarsi a farsi travolgere passivamente dagli eventi. L'operazione
dell'abbandono implica una cosciente passività, che ci impone il distacco dagli attaccamenti.
Tutte le tradizioni mistiche e filosofiche insegnano infatti che le cose a cui ci attacchiamo si fissano
dentro di noi, ci fanno credere che l'esistenza è tutta lì, che la vita coincide con gli attaccamenti.
Con gli attaccamenti perdiamo di vista la nostra libertà, la nostra intimità viene dominata, deformata
e invasa dai pensieri e dalle elucubrazioni cerebrali.
Continuiamo a pensare e ripensare agli oggetti dei nostri attaccamenti: se lui o lei ci tradiscono, se
abbiamo più o meno soldi, se siamo apprezzati sul lavoro, se il nostro aspetto fisico è gradito a chi
ci guarda... E la coscienza si riempie di rancori, di battaglie interiori.
Proviamo insieme l'esercizio del decollo. Abbiamo percorso il nastro d'asfalto della pista, ormai
siamo in volo, l'aereo si stacca lentamente da terra e punta il muso verso le nuvole, sollevato in aria
dal suo medesimo peso: la felicità assomiglia a questa fase di decollo, a questo andare in alto, a
questa sensazione di estasi tipica dei sensi trasportata però sul piano della coscienza.
" distacco dalle zavorre della mente, poco a poco, si compie: soprattutto, ora siamo consci che non
ci sono PIÙ scorie, critiche, imposizioni, gusti, credenze.
Soprattutto, non esiste un inizio né una fine di questa sensazione di benessere, perché non esiste un
principio
LA FELICITÀ COME VIA AL CONOSCERSI
né un termine della felicità: siamo noi che, sbagliando, le attribuiamo un valore cronologico e
diciamo: In quell'occasione, tanti anni fa, in cui sono stato felice...», oppure Sarò felice solo il
giorno in cui...». E ancora una volta, ci poniamo dei limiti mentali, dimenticando che la felicità
(come l'autostima) è una scia, un flusso, un eterno presente.
Note
1
Epicuro, Lettera sulla felicità (a Meneceo), in Opere, a cura di M. I. Parente (Torino, Utet, 1983).
2
In J. Krishnamurti, Libertà dal conosciuto (Roma, Ubaldini Editore, 1973).
3
Sull'argomento si veda per esempio il saggio di Susanne E Fincher, / mandala. Una via
all'introspezione, alla guarigione e all'espressione di sé (Roma, Astrolabio, 1996).
Entrare in un mondo nuovo
Allorché ti muovi verso ciò che accade, le parole cominciano a scomparire. Immagini, visioni,
colorì che non avevi mai visto, fragranze che ti sono sconosciute...-.
Osho, Tu sei il mondo1
La domanda del giorno
Molte volte mi sono chiesto se mi faccia bene usare Internet e se la Rete possa in qualche modo
essere un veicolo per far affiorare e valorizzare l'autostima. Da quando possiedo un computer
collegabile con il Web, infatti, mi rendo conto di provare una curiosità speciale per la "navigazione"
e per le chat: la sera, quando torno a casa, ho un piccolo scopo in più, mi collego, controllo se ho
nuovi messaggi, rispondo alle e-mail... E poi chattan-do ho incontrato molte persone nuove, con
alcune sono in corrispondenza quotidiana.
Questo veicolo di comunicazione mi affascina perché annulla tempi e distanze, e mi cala in un "non
tempo" che mi rilassa, stempera le tensioni... Non ci sarà qualche pericolo nascosto?
Come accade per altri mezzi di comunicazione, anche Internet potrebbe diventare uno strumento
pericoloso, ma soltanto se crea fenomeni di assuefazione. Il rischio di Internet (ma a pensarci bene,
è lo stesso pericolo della televisione o del cellulare) è quello di determinare in chi lo utilizza una
sindrome da Web-dipendenza.
Per il resto, la comunicazione in Rete ha il grande merito di spalancare le porte di un mondo
parallelo — a noi non
AUTOSTIMA E NUOVE TECNOLOGIE
completamente conosciuto - all'interno del quale ci possiamo comportare secondo schemi
parzialmente differenti da quelli che utilizziamo nella "realtà vera", concreta, quotidiana.
Il tempo "non tempo" della Rete
Allorché ti muovi verso ciò che accade, le parole cominciano a scomparire. Immagini, visioni,
colori che non avevi mai visto, fragranze che ti sono sconosciute...». Analizziamo le parole di Osho,
che in un certo senso (e senza ovviamente che il guru indiano ne fosse consapevole) prefigurano
l'avvento della grande realtà virtuale che ormai è entrata a far parte delle nostre vite.
Osho parla di un muoversi verso ciò che accade», in un mondo dove le parole cominciano a
scomparire»: questa sembra proprio la definizione di Internet, un "non luogo" dominato dal silenzio,
un'immensa stanza dei giochi che galleggia nel Senza Tempo e all'interno della quale possiamo
navigare liberi dagli schemi della quotidianità, "armati" di un semplice mouse.
In questo senso il Web può diventare "benefico": perché è uno strumento alla portata di tutti per
sperimentare, tutte le volte che lo desideriamo, l'ebbrezza del silenzio e del Senza Tempo, e per
immergersi in un Universo che si autogenera continuamente.
Internet è un'efficace esemplificazione del concetto di accadere, dell'idea del flusso ininterrotto in
cui tutti siamo calati. Internet è una buona palestra per imparare a stare nel "non tempo", perché nel
momento in cui, come "navigatori", ci troviamo davanti allo schermo e con il mouse ci spostiamo
tra le pagine e clicchiamo i diversi link, perdiamo la percezione del tempo reale. Ecco le immagini,
visioni, colori che non avevi mai visto,
Entrare in un mondo nuovo
fragranze che ti sono sconosciute...»: dalle parole di Osho emerge quasi il profilo delle schermate,
delle sequenze dei siti, ognuno diverso, colorato, costruito con immagini fìsse o in movimento,
spesso attrezzato con link da clic-care per entrare in nuove schermate e in altri mondi... Visioni,
colori... fragranze»: sì, anche profumi. Perché tra non molti anni - attraverso la Rete e speciali
sistemi di decodificazione olfattiva che oggi sono in fase di studio — potremo recapitarci on line
messaggi profumati e immagini aromatiche.
Sarà sufficiente che chi spedisce, per esempio, una fragranza di rosa inserisca nell'e-mail la
sequenza matematica che ne rappresenta la composizione chimica; dall'altra parte, il ricevente sarà
dotato di un "traduttore di impulsi olfattivi" collegato al computer e fornito di fialette di essenze
naturali, che leggerà la sequenza e la restituirà in forma di profumo. Non è fantascienza... accadrà
domani.
Un cervello dentro lo schermo
Il saggio cinese Shia Chen sostiene che l'evoluzione consiste in questo: una zolla di terra lanciata da
una mano invisibile verso il cielo. Quando la zolla arriva a formare l'uomo, il percorso è compiuto.
A questo punto l'Universo delega all'uomo il futuro dell'evoluzione. Ma che cosa ha l'uomo di così
speciale?
Il tempio dell'uomo è il cranio, che contiene il vero tesoro dell'evoluzione: il cervello. Il cervello si
apre nel mondo con gli occhi, assorbe le vibrazioni del mondo grazie ai suoni, crea il mondo con la
parola. Tutto questo per spiegare che ogni giorno, attraverso le cose che diciamo, pensiamo e
ascoltiamo, "seminiamo" noi stessi. Ogni sera prima di andare a letto, prima di affidarci al mondo
del sonno, raccogliamo ciò che abbiamo seminato. Noi diventiamo le parole che abbiamo detto e
pensato.
Eccoci così al linguaggio di Internet: un linguaggio speciale che è si liberato dalle definizioni, che si
è ristretto, condensato, che cerca di esprimere il più possibile con il minor numero di parole, che
evita i moralismi e apre le porte misteriose del cervello.
Facciamoci caso: le persone che chattano come primo gesto per aprire un canale di conoscenza, si
cambiano il nome - così come facevano un tempo le persone che affrontavano l'iniziazione - ed
entrano in un territorio dove, via via che si chatta, l'Io ufficiale va sulla sfondo, il linguaggio
cambia, vengono coniate nuove parole. Internet si trasforma quindi in un rito e, se usato bene, può
addirittura portare il cervello ad affacciarsi sull'infinito.
Quando si chatta da un po' di tempo, ci si accorge infatti che utilizzando il linguaggio della Rete i
postulati della
65
AUTOSTIMA E NUOVE TECNOLOGIE
vita reale tendono a sfumare, le verità non sono più così certe, e si aprono le porte di nuovi mondi
all'interno dei quali ci muoviamo con la spontaneità e la curiosità tipiche dei bambini.
Un linguaggio come quello del Web è dunque una novità rivoluzionaria nella storia dell'uomo, è
una porta che si spalanca su un grande cervello, su un mondo parallelo all'interno del quale i
neuroni sono rappresentati dai milioni di link della Rete: quando apro la schermata di un sito è
come se aprissi un'idea, che a sua volta è collegata con altre idee e altri siti in un gioco praticamente
infinito di richiami ed incastri. E dentro ogni link ho la possibilità di incontrare, di comunicare, di
scambiare opinioni: perché il Web, per la sua strabiliante versatilità, per la sua straordinaria capacità
di accogliere tutto e tutti, è come una grande bolla che riflette il mondo.
66
E-mail, chat e altre maschere elettroniche
È in questo senso che Internet, le chat, i newsgroup e la posta elettronica possono insegnarci a stare
dentro un tempo unico. Tutti noi, infatti, abbiamo notato come, quando siamo davanti a una
schermata Internet, il tempo reale (l'oggi, ma anche il domani e il tempo passato) si dissolvono.
Questo è un buon esercizio di estraneamento, che diventa ancora più creativo quando chattiamo e
usiamo l'e-mail: con la comunicazione elettronica, infatti, entriamo in contatto con altre persone che
a loro volta galleggiano in un tempo dilatato e continuo, quello tipico della conversazione on-line,
un mezzo che ci aiuta a uscire dai recinti — a volte troppo limitati e limitanti -della quotidianità.
Esaminiamo qualche dato statistico: in Italia, il Censis
rivela che gli internauti italiani sono 14 milioni (dato
2003), il 32% della popolazione adulta.
Oltre il 68% dei giovani tra i 18 e i 20 anni comunica
normalmente con la posta elettronica.
Sono dati che confermano che Internet è davvero una
delle grandi rivoluzioni del nuovo Millennio.
Perché ci piace tanto la comunicazione via e-mail? E soprattutto: in quale modo ci può essere utile
la frequentazione del Web nel nostro percorso di ricerca dell'autostima? Internet è un mondo
parallelo, un palcoscenico sul quale possiamo salire ogni volta che ne abbiamo voglia...
Il messaggio elettronico, in fondo, funziona come una maschera, una "maschera terapeutica": L’e-
mail, infatti,
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AUTOSTIMA E NUOVE TECNOLOGIE
ha un proprio stile, richiede rapidità di scrittura e sintesi estrema nei contenuti.
Se siamo lenti, ci obbliga a diventare veloci; se siamo prolissi, ci invita a essere sintetici,
mescolando codici di linguaggio molto diversi tra loro, come le abbreviazioni, i simboli grafici ecc.
Usando l'e-mail comunichiamo con gli altri in assoluta libertà, sperimentando nuovi codici di
linguaggio creativo, "contaminando" forma scritta, immagini, spezzoni di brevi filmati, tracce
sonore...
Quando comunichiamo via e-mail, ci costringiamo a concentrarci su quello che stiamo scrivendo,
facendo attenzione alle parole che utilizziamo, alla disposizione del testo nella pagina...
L'e-mail ci offre la piena libertà di scegliere a chi rispondere, così come l'opportunità di non
rispondere, e dunque di annullarci, di renderci invisibili agli occhi degli altri.
Soprattutto, attraverso l'uso di uno pseudonimo (quello che in gergo si chiama nickname) in
alternativa al nostro nome, possiamo anche permetterci di indossare un'identità completamente
diversa da quella che indossiamo ogni giorno: regalandoci il gusto di "barare" su sesso, età,
estrazione sociale e culturale, gusti alimentari, preferenze erotiche ecc.
Certo: il gioco è bello se noi siamo in grado di padroneggiarlo. Ricordo infatti che l'e-mail può
essere utile dal punto di vista dell'autostima se funziona come una maschera da indossare ogni
tanto, in maniera consapevole.
L'e-mail non deve quindi diventare una forma di dipendenza e non deve essere usata come
sostitutivo dei canali di comunicazione tradizionali.
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E-mail, chat e altre maschere elettroniche
L'e-mail è qualcosa di più, non un'alternativa alla vita reale. È come un rito: ci porta fuori dal
tempo, ci fa vivere spazi che escono dalla psicologia ordinaria. Così ci immettiamo, come accade in
tutti i riti, nello scenario illimitato del Senza Tempo.
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Attenzione alla dipendenza
II rischio dell'abuso di comunicazione elettronica si evidenzia in maniera chiara soprattutto nelle
storie d'amore che nascono in Rete: proprio perché nel messaggio e-mail si ha la possibilità di
"barare", molto spesso si finisce con l'innamorarsi di partners "artificiali" dei quali si conosce poco
o nulla, e che il più delle volte rifuggono dall'incontro "fisico" con il corrispondente, che tende a
diventare sempre più il riflesso cristallizzato delle nostre aspettative.
Non a caso, è soprattutto tra le donne che sono in aumento i casi di e-mail dipendenza e di crisi
sentimentale indotta da rapporti virtuali.
Un recente sondaggio rivela che su un campione di 420 persone tra i 18 e i 35 anni che usano l'e-
mail, il 42% è rappresentato da donne single, incapaci di affrontare il contatto umano e con
temperamento romantico; il 58% di navigatori maschi è invece prevalentemente sposato e
fidanzato, e usa l'e-mail per il puro piacere di indossare una nuova identità, di intrigare la
corrispondente, di creare aspettative.
Quali sono i segnali che ci fanno capire che l'e-mail si sta trasformando da maschera terapeutica in
gioco pericoloso? Dobbiamo iniziare a preoccuparci quando tendiamo a controllare la casella di
posta elettronica troppo spesso o quando ci innervosiamo se dopo il check mail compare la frase
Non ci sono nuovi messaggi».
Le situazioni più critiche sono quelle in cui la nevrosi da posta elettronica si manifesta sul posto di
lavoro: i rischi, in questi casi, sono alti.
In molte aziende sono già stati installati sistemi capaci di testare i contenuti, la frequenza e i
destinatari delle
71
AUTOSTIMA E NUOVE TECNOLOGIE
e-mail dei dipendenti. E quando la comunicazione va fuori dallo stretto ambito lavorativo, si può
arrivare fino al licenziamento.
D'altra parte però, secondo sondaggi recenti condotti negli Stati Uniti, l'uso dell'e-mail sarebbe
salutare sul posto di lavoro: la posta elettronica, infatti, fluidificherebbe la comunicazione,
ridurrebbe le attese. E faciliterebbe il dialogo tra diversi gradi gerarchici. Perché se voglio mandare
un messaggio a un mio superiore, con l'e-mail non ho più remore: lo scrivo e lo invio con un clic,
senza bisogno di prendere appuntamenti o di farmi annunciare da una segretaria. Anche se non
potrà mai diventare il sostitutivo della comunicazione tradizionale.
Di qui, possiamo elaborare una serie di osservazioni:
Internet ed e-mail hanno contribuito a ridisegnare lo scenario delle relazioni umane (d'amicizia,
d'amore, di lavoro...) rendendole più personalizzate e personalizza-bili. In particolare, la
comunicazione on line può essere utile per abituarci a entrare, per periodi limitati, in un contesto
spazio-temporale diverso dalla realtà. Internet infatti ha un proprio tempo e una propria geografia, e
l'e-mail ci consente di imparare un codice di comunicazione alternativo a quelli che già conosciamo.
Quando siamo on line, in genere rimaniamo in silenzio: in questo modo, sgomberiamo la mente
dalle parole "pensate" e ci concentriamo sulle immagini della schermata. Il cervello entra in un
mondo parallelo e... "stacca la spina" dai suoi pensieri abituali.
La comunicazione via e-mail può diventare un modo per indossare una maschera terapeutica.
Attraverso l'e-mail, infatti, possiamo travestirci, recitare, addirittura barare. Il linguaggio della posta
elettronica, inoltre, presenta una marcata componente ludica, della quale ci dimentichiamo
72
(Attenzione alla dipendenza)
spesso nella comunicazione "istituzionale" e seriosa che usiamo di tutti i giorni.
L'ideale sarebbe ovviamente raggiungere un mix bilanciato tra realtà e mondo virtuale. Per dire: in
un rapporto d'amore, sarebbe utile che i partners potessero conoscersi e comunicare tra loro su due
livelli: quello concreto e immediato della realtà, e quello più sublimato dell'e-mail, senza rendere
preponderante né l'uno né l'altro. Iniziarne allora a piccoli passi, dosando i due media come in un
gioco leggero leggero...
Note
1 Osho, Tu sei il mondo (Roma, Demetra, 1998).
73
CINQUE COSE PER CUI VALE
LA PENA VIVERE E PERCHÉ
Un aiuto speciale
-Il saggio non fa nulla eppure cambia il mondo-.
LaoTze
I principi di base per stare bene
Fin qui, di comune accordo, abbiamo evitato le pillole. E continueremo sicuramente a evitarle, se
per "pillole" intendiamo gli psicofarmaci che, a detta di molti, potrebbero aiutarci a cancellare i
nostri malesseri, le ansie, la depressione e farci (ritrovare l'autostima. Questo genere di farmaci non
è necessario, perché ciascuno di noi porta già dentro di sé volontà e coscienza. Quello che invece vi
propongo è un aiuto "in pillole" un po' speciale, distillato attraverso cinque principi (semplicemente
degli spunti) da "sentire" più che da elaborare con la mente: in pratica, i cinque punti che seguono
sono la sintesi di quanto abbiamo detto nei capitoli precedenti.

1. Conoscere se stessi
Conoscere se stessi vuol dire andare al nucleo, al centro o almeno avvicinarsi. Via via che andiamo
verso il nucleo perdono di significato le nostre illusioni, i nostri attaccamenti, i nostri disagi. Qui
comincia il vero benessere, non quello legato agli eventi esteriori.
. Conoscere l'Universo
Noi siamo l'Universo e quindi le sue leggi sono riflesse in noi. Conoscere le leggi vuoi dire essere
partecipi della vi-
77
CINQUE COSE PER CUI VALE LA PENA VIVERE E PERCHÉ
ta, della materia, del nulla: vuoi dire incominciare a esistere coscientemente. Il saggio non
pronuncia frasi del tipo: Perché Dio mi ha creato se devo soffrire?». L'alchimista invece conosce la
legge, trova l'eternità dentro di sé e danza con lei. Senza esprimere giudizi di valore.
3- Essere coscienti
Essere coscienti vuoi dire rischiarare il buio che è dentro di noi. L'uomo consapevole è presente a
ciò che accade, illumina con lo sguardo le forze caotiche della natura. Si pone in questo stato
contemplativo in cui rigenera continuamente sé stesso. L'illuminazione di cui parlano i mistici è la
coscienza che si è allargata a un punto tale da diventare il mondo. Ecco perché Lao Tze diceva che
II saggio non fa nulla, eppure cambia il mondo».
4. Cercare la libertà
Vivere senza libertà vuoi dire asservire la coscienza alla schiavitù. Ma non esiste soltanto la libertà
da conquistare contro le tirannie; c'è anche quella da conquistare nei confronti di noi stessi. Libertà
dalle identificazioni, da tutte le cose in cui crediamo, dalle religioni che ci vogliono trasformare in
gregge, dalle ideologie, dalle tradizioni, dai pregiudizi, da tutto ciò che oscura la coscienza. Libertà
dalle passioni, dalle emozioni, dai sentimenti e più di tutto dall'orgoglio del nostro Io che ci
impedisce di vedere l'Universo da cui incessantemente veniamo generati.
5. Essere creativi e trovare il proprio talento
Le persone creative non sono violente, non sono mai distruttive. Ci dimentichiamo troppo spesso
che ognuno di
78
Va aiuto speciale
istante.
SENTIAMOCI BENE
Da che cosa nasce
l'arte di valorizzare se stessi
•Se avessimo ali
per sfuggire al ricordo,
molti volerebbero
abituati a cose più lente,
gli uccelli sgomenti
scruterebbero l'interminabile schiera
di uomini in fuga
dalla mente dell'uomo-.
Emily Dickinson'
domanda del giorno
Che cos'è l'arte di valorizzare se stessi? Esistono alcune situazioni "tipiche" in cui possiamo
esercitarla: quando siamo cedevoli e non abbiamo certezze; quando non giudichiamo e siamo aperti
al nuovo; quando ci appassioniamo e riusciamo a stare in silenzio; quando sappiamo che cos'è la
compassione; quando non abbiamo obiettivi rigidi e prefissati; quando riusciamo a galleggiare nelle
cose senza cercare di modificarle a tutti i costi;
quando consentiamo alla tristezza di fluire dentro di noi come un'energia purificante; quando non
ripetiamo sempre le stesse cose e non abusiamo della facoltà di giudizio; quando ci siamo liberati
della nostra storia.
Un uomo antico che vive nel presente
L'arte di valorizzare se stessi - l'autostima - nasce dalla nostra capacità di vivere nel presente. Una
capacità che
83
SENTIAMOCI BENE
era particolarmente connaturata all'essenza dell'uomo antico. Noi ci sentiamo molto contemporanei,
molto tecnologici, estremamente veloci. Abbiamo perso il piacere della lentezza e il gusto della
contemplazione; invece l'uomo "antico" non agiva sulla scorta dei giudizi, ma si lasciava andare,
sapeva come abbandonarsi dolcemente nel ventre del mondo.
È questo l'atteggiamento che dovremmo re-imparare da lui: perché l'uomo antico non cerca di
cambiare se stesso o gli altri, ma vive nel presente e non si proietta nel futuro né si aggancia al
passato; l'uomo antico non si schiera, non si arrocca sulle proprie convinzioni, non sposa dogmi o
ideali, ma agisce in maniera del tutto naturale e preferisce l'essere all'avere.
Il raggiungimento di questo stato di "presenza energetica" richiede un lungo percorso, che ci porta
ben al di là della nostra esistenza quotidiana, e ci fa comprendere che noi, in realtà, non abbiamo
nessuna forma di potere su noi stessi e sul mondo che ci circonda. Perché noi siamo generati a ogni
respiro da una forza immanente, che è la stessa che forma L'Universo: non c'è bisogno di fare sforzi,
è sufficiente essere.
L'Universo, del resto, è stato creato per l'uomo, è come un grande embrione che cresce con l'uomo.
In questa immensa entità caotica e intelligente, la coscienza esisteva fin dall'inizio, ma era oscurata
dal suo stesso vortice di creazione.
In maniera speculare anche noi, per ripercorrere quell'iter creativo, dobbiamo cercare di non
oscurarci con false credenze e opinioni preformate, lasciando che anche la nostra coscienza affiori e
generi un uomo nuovo, libero da maschere e abiti consunti.
Un uomo leggero, capace di volare in alto, finalmente privo di zavorre che lo ancorano a vecchi
paradigmi.
84
Spogliamoci di tempi e aggettivi
Di solito noi tendiamo ad avere una visione quantitativa, se vogliamo "consumistica", dell'autostima
e della felicità. Ci domandiamo per esempio: Quanto sono felice?», ci chiediamo quali e quanti
siano stati in passato i momenti in cui abbiamo immagazzinato più benessere.
di rado ci poniamo invece la domanda: Come sono felice?». E ci dimentichiamo che è la qualità di
un sentimento che lo rende unico, non la sua consistenza quantitativa ne, tantomeno, la sua
visibilità.
:>lo la qualità della felicità la rende un flusso creativo, riproducibile all'infinito: una sorta di pietra
filosofale allemica che trasforma in benessere tutta la materia con la quale viene messa a contatto.
consapevolezza è la pietra filosofale di noi stessi: non chiediamoci quanta ne abbiamo,
consentiamole semplicemente di agire. I recenti studi di neurofisiologia hanno infatti messo in luce
che la struttura biologica del nostro cervello viene modificata non soltanto dalle emozioni e i
sentimenti, ma anche dalla normale attività di pensieri.
Tutto ciò in cui noi crediamo, le nostre convinzioni, la nostra visione del mondo, diventano nel
cervello "abitudimi" che si materializzano, che si fissano sulla coscienza escludendone molte altre.
Il cervello trasferisce al corpo queste abitudini: per cui non soltanto i mali dell'anima dipendono
dalla nostra filosofia di vita, ma anche le patologie somatiche discendono da una distorta attività
cerebrale. Molto di questo inutile lavorio della mente, che si affanna ad agganciarsi alle abitudini, è
determinato anche da
85
SENTIAMOCI BENE
una frequente e pericolosa tendenza a vivere nel passato: ciò che è trascorso e compiuto spesso è
visto come un porto sicuro, un punto di riferimento, un patrimonio prezioso da tenersi ben stretto.
In realtà non si pensa che il cervello, questa macchina meravigliosa composta da miliardi di neuroni
capace di spazzar via memorie anche molto recenti, può trattenere ricordi invece lontanissimi.
Se noi continuiamo a stimolarlo e incitarlo a questo pesante lavoro di "ripescaggio", sollecitando la
mente a lavorare "all'indietro" e non nel presente, corriamo il rischio di uscire dal presente e di
vivere un'esistenza sbilanciata, in cui le energie psicofisiche sono frenate dalle griglie della
memoria.
E lo stesso vale per il futuro: come avviene col passato, anche la tendenza a guardare sempre avanti,
a fare progetti a lunga scadenza, a porsi obiettivi di lunga durata, ci impedisce di godere della carica
energetica dell'oggi.
Per questo dobbiamo ricorrere al pensiero dei saggi e dei maestri che sembrano aver conosciuto
meglio di altri il modo migliore per far funzionare il cervello secondo le sue naturali attitudini, e
non in base a quelle che assorbiamo dall'ambiente, dalla cultura, dalle mode, dalla psicologia di
massa.
E questi insegnamenti si rivelano particolarmente utili anche in psicoterapia.
Decalogo per sentirsi bene, utilizzando la saggezza
A questo punto, possiamo riassumere i consigli da tenere presenti per proseguire sulla via
dell'autostima. Sono considerazioni di vari maestri, antichi e contemporanei che, come vedremo,
hanno come finalità quella di ripulire la coscienza dal giogo dei pensieri dominanti, dal pesante
fardello dei ricordi e dall'ansia insinuante del futuro, dagli schemi e dalle false credenze.
Cerchiamo di farne dei punti di riferimento della nostra quotidianità, trasformiamoli in suggestioni
da ricordare ogni giorno: funzioneranno come "fluidificanti" lungo il cammino che abbiamo iniziato
insieme...
/. Più lontano tu vai meno conosci. Senza peregrinare il Saggio apprende». (LaoTze, saggio cinese)
Il grande saggio cinese indica che la conoscenza, la gioia di vivere, la felicità non dipendono dal
nostro immergerci nell'esteriorità. La conoscenza è tanto più salutare quanto più ci immergiamo
dolcemente dentro noi stessi. Insegnamento tanto più valido in quest'epoca, in cui corriamo da un
viaggio all'altro, da un'informazione all'altra. In psicoterapia i pazienti stanno meglio quando
smettono di cercare fuori di sé, cioè negli altri, la soluzione dei loro problemi.

2. Chi desidera non vuole:


il desiderio, la paura e il pentimento
uccidono la volontà».
(G. Kremmerz, esoterista e alchimista)
SENTIAMOCI BENE
Il grande alchimista indica una prerogativa fondamentale del cervello: se viene riempito di desideri,
di pensieri, di paure, di sensi di colpa la sua capacità di volere, di creare schema, si riduce
inesorabilmente. Anche in psicoterapia, quando un paziente smette di "ce-rebralizzare", vale a dire
di pensare e ripensare alle cose che desidera, la sua volontà si afferma spontaneamente, si accorge
che riesce con estrema facilità a realizzare ciò che cercava.
3-Tutto quello che facciamo nella vita consiste nello scoprire quello che è già nel nostro
cervello». (M. Gazzaniga, neurofisiologo)
Se diventiamo cedevoli, come dicevano i saggi taoisti, allora il nostro cervello libera le sostanze
giuste, che poi vogliono dire nuove strade da seguire, nuovi percorsi. Così in psicoterapia, a volte,
ci si accorge che vi sono sogni antichi che possono prorompere e portare il paziente a nuovi tragitti
esistenziali.
Questi sogni abitavano il cervello, ma le loro immagini non venivano alla luce perché l'Io del
paziente era troppo concentrato sui suoi pensieri.
4.Ogniparola che dici
cambia il mondo».
(Il Rebbe Lubavitch, pensatore)
II grande saggio chassidico indica che: Noi diventiamo le parole che diciamo a noi stessi e agli
altri». Se ti lamenti, ti lamenterai sempre di più; se sei iroso, ti arrabbierai sempre di più.
Le parole infatti sono vibrazioni che, entrando in noi attraverso l'orecchio, modificano la sostanza
cerebrale: per questo i mistici di tutte le Tradizioni stavano a lungo in
88
Decalogo per sentirsi bene utilizzando la saggezza
silenzio, senza parlare. In psicoterapia quando il paziente parla di meno e lascia spazio ai silenzi i
sintomi migliorano nettamente.
5. L'Occidente ha creduto
alla realtà definitiva
dei valori che sono solo gettoni del gioco
della vita... Ha così dimenticato
il Reale, l'Indistruttibile».
(R. Schwaller de Lubicz, egittologo)
Perché la nostra epoca ha così paura della morte? Perché soffriamo così tanto di ansietà?
Perché siamo troppo ancorati ai valori materiali, crediamo di essere solo ciò che possediamo... Alla
fine crediamo che anche noi siamo solo oggetti. Occorre imparare a sentirsi "come foglie al vento":
perché allora ci si accorge che si può danzare con la vita, che non c'è nulla di certo, che possediamo
solo ciò che lasciamo andare.
In psicoterapia, quando un paziente mette sullo sfondo le cose da conquistare, conquista se stesso.
6. Se sei unilaterale, se guardi da una parte sola, se non vedi le tue contraddizioni, diventi come il
Ciclope dell'Odissea». (A.Bauer, l'antropologo della foresta)
Una delle cause maggiori della sofferenza psichica è la
unilateralità, l'essere identificati in un modello, in un'idea
che prende il sopravvento sulla nostra natura.
Noi non siamo bianchi o neri: evitiamo le definizioni di
noi stessi.
Quando in psicoterapia si prende contatto con il nostro
lato opposto, con il personaggio nascosto che ci abita,
con l'Ombra, allora incominciamo a riunire in noi gli opposti.
89
SENTIAMOCI BENE
Se diventiamo contraddittori è un buon segno, anche se in genere viene giudicato segnale di
insicurezza.
7. L'uomo deve essere solo.
Noi non siamo soli...
Solo colui che è completamente solo
è innocente.
È questa innocenza che libera
la mente dal dolore».
Q. Krishnamurti, saggio indiano)
Ha ragione il saggio indiano: la nostra tanto sospirata identità è in realtà il frutto di milioni di
condizionamenti, di propagande, di retaggi psicologici, di imposizioni dell'educazione...
Cercare la solitudine, anche stando in mezzo agli altri, è già una via di guarigione anche se ti puoi
sentire estraneo a te stesso. Non a caso i maestri di tutte le tradizioni hanno indicato questa come la
Via Maestra per combattere l'ansia di vivere.
Se ogni tanto ci appartiamo, il nostro cervello trova da solo la soluzione ai nostri disagi.
8. Se ti liberi dai pensieri, il nuovo si rivela, l'inutile si disgrega, il dolore svanisce». (E. Levi,
ermetista)
Il cervello è come un orto: a seconda di cosa semini partorisce un frutto o un altro. Se semini
pensieri, credi che la tua realtà sia tutta nella mente, e diventi totalmente mentale.
E se la depressione fosse il tentativo del tuo cervello di rinnovarti, di eliminare il personaggio
vecchio, sempre uguale che sei diventato?
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Decalogo per sentirsi bene utilizzando la saggezza
Ecco: la depressione è il segnale che qualcosa dentro di noi vuole vivere, e ne ha abbastanza delle
spiegazioni. Se ti abbandoni alla vita, alla consapevolezza allora ti accorgi che intorno a te tutto in
ogni istante è nuovo.- che tu non sei sempre uguale come credi, ma sei in ogni istante nuovo.
Se non stai attaccato alle tue credenze, alle tue abitudini, il tuo Sé torna a pulsare con l'Universo e ti
troverai trasformato.
9. Gli antichi avrebbero detto: tutto è pieno di Dei». (C.G. Jung, psicanalista)
Si tratta di ridare un senso all'esistenza, un significato. Se viviamo tutti concentrati sul lavoro, sugli
affari, sulle finalità da raggiungere, la nostra vita diventa vuota, priva di valore, e si arrotola su se
stessa in maniera sterile. La ricerca dell'infinito, della nostra appartenenza all'Universo, apre invece
la porta al Sacro. È ciò che ci chiede di fare il cervello per pensare all'Eternità: per questo
immaginiamo l'infinito, per poter trovare spazi fuori dal reale.
Nello spazio meditativo il cervello libera sostanze tera-peutiche per il corpo e per la mente. In
questo senso la ricerca religiosa (non importa quale) può essere un vero e proprio strumento
terapeutico.
/ O. Perdonati, perdonati, perdonati...
Più e più volte».
(S. B. Kopp, psicanalista)
Chi impara a perdonarsi, a non giudicarsi, può conoscersi e più di tutto può perdonare gli altri e
diventare altruista. Chi perdona in genere vive più a lungo, si ammala di meno e guarisce più
rapidamente.
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SENTIAMOCI BENE
Quando si perdonano i genitori, i fratelli, i nemici, consapevolmente la nostra coscienza si allarga e
sperimenta una calda sensazione di benessere. E noi diventiamo... Noi diventiamo... Non
domandiamocelo ora: restiamo in silenzio, chiudiamo gli occhi. E semplicemente, siamo. La
consapevolezza da sola realizza il nostro cammino.
Note
' Emily Dickinson, Silenzi, framm. Tofleefrom memory, 1242 (1872), (Milano, Feltrinelli, 1986), pp.
160-161
1
Per uno studio approfondito, si veda per esempio Giovanni Maria Pace, luigi Amaduccj, La
memoria. Come funziona, si perde e si ritrova (Firenze, Ponte alle Grazie, 1995).
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Raffaele Morelli
I libri pubblicati dalle Edizioni Riza:
Autostima. Le regole pratiche
Le nuove vie dell'Autostima
Il talento. Come scoprire
e realizzare la tua vera natura
Lo psichiatra e l'alchimista
La rinascita interiore
Alle radici della felicità - Editoriali voi. 1°
Aforismi. Il segreto di vivere
Da marzo in libreria:
Le parole che curano - Editoriali voi. 2°
Raffaele Morelli Conoscersi - L'arte di valorizzare se stessi
Allegato a Riza psicosomatica - Marzo 2006 n° 301
Direttore responsabile: Raffaele Morelli
Rivista mensile - Autorizzazione del Tribunale di Milano
n° 190 del 19 aprile 1980
ISSN 0394-9982
POSTE ITALIANE s.p.a. - Sped. in a. p.
D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/04 n°46)
art. 1, comma 1, DCB Milano
Finito di stampare nel mese di febbraio 2006 per conto delle Edizioni Riza S.p.a.
da G. Canale & C. S.p.a. 10071 Borgaro Torinese (TO)

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