Sei sulla pagina 1di 14

Urbino è un piccolo centro marchigiano, situato sul colle del Poggio a circa 485

metri dal livello del mare, circondato dalla Valle del Metauro e dalla Valle del Foglia.
La città ha origini antichissime: abitata già da tempi remoti, divenne municipio
romano in seguito alla Lex Julia Municipalis emanata nel 48 a. C. da Giulio Cesare,
assumendo il nome di Urvinum Metaurense, dal latino urvum, termine usato per
indicare il manico ricurvo dell’aratro. Grazie alla sua strategica posizione geografica,
che rendeva difficoltose le comunicazioni con il resto d’Italia, in etŕ romana assunse il
carattere di città fortificata e venne dotata di solide mura.
In seguito al declino dell’Impero Romano Urbino fu invasa nel 538 dalle truppe
bizantine guidate dal generale Belisario, e inserita, insieme a Fossombrone, Cagli,
Iesi e Gubbio, nella Pentapoli Annonaria. Al dominio bizantino succedette nella
seconda metà del VI secolo quello longobardo finchè, nel 773, in seguito alla discesa
di Carlo Magno in Italia e alla distruzione del regno longobardo da parte del suo
esercito, con la celebre donazione dell’imperatore, Urbino, insieme ad altri centri
dell’Italia centrale, fu assegnata al dominio della Chiesa, divenendo un’importante
sede vescovile.

panorama di Urbino, foto © vision images - Fotolia

La famiglia ghibellina dei Montefeltro, di origine germanica, si insediň nel piccolo


centro marchigiano a partire dal 1155, quando l’imperatore Federico Barbarossa
nominň il conte Antonio vicario della città .

Nel 1213 Buonconte e Taddeo di Montefeltro riuscirono ad ottenere dall’imperatore


Federico II il potere feudale su Urbino ma, a causa delle dure reazioni degli abitanti,
soltanto nel 1234 si videro riconosciuta la Signoria della cittŕ .
A Buonconte succedette Montefeltrano, che militò attivamente per la parte ghibellina
e il figlio di questi, Guido, menzionato da Dante nel XXVII canto dell’Inferno e
definito da Ludovico Muratori come il più vigoroso ed accorto condottiero d’arme del
suo tempo, impegnato con successo a difendere il dominio della propria famiglia su
Urbino dalle mire espansionistiche di papa Onorio IV.

I rapporti con il papato non migliorarono durante il regno del figlio di Guido,
Federico, il quale, a causa del suo fervente ghibellinismo subì la scomunica papale e
nel 1323 conobbe la morte insieme al figlio maggiore in occasione di una rivolta degli
urbinati, in cui riuscě a salvarsi il secondogenito Nolfo. Costui, succeduto al padre nel
governo della cittŕ, pochi anni dopo fu costretto all’esilio e privato di molti suoi
possedimenti dal cardinale d’Albornoz, deciso ad attuare una risistemazione dei
territori pontifici.
Fu necessaria l’ascesa al potere di Antonio, intorno al 1375, per risollevare le sorti dei
Montefeltro: egli, infatti, non solo riuscì ad ottenere il riconoscimento papale dei suoi
possedimenti e ad estendere il suo dominio su alcuni territori circostanti (al 1388
risale la conquista di Gubbio), ma fu anche il primo a far assumere ad Urbino un
ruolo importante nell’ambito della politica italiana, alleandosi con Firenze e Milano, le
cui rivalità seppe sfruttare con rilevante intelligenza politica. In questo modo la città
potè finalmente risollevarsi dal continuo stato di lotte in cui versava da circa un
secolo e si formò un primo embrione di quell’attività culturale ed edilizia che cento
anni dopo sarà considerata dall’umanista Federico come un aspetto indispensabile
nel governo di una città.
La nuova condotta governativa inaugurata da Antonio fu proseguita dal suo
successore, il figlio Guidantonio, che dal padre ereditò l’accortezza politica, riuscendo
a mantenere Urbino in una posizione di equilibrio in un clima dominato dalle ostilità
tra i maggiori stati italiani, nonchè gli interessi culturali, tanto che fu proprio durante
il suo regno che i fratelli Salimbeni furono chiamati a decorare l’Oratorio di San
Giovanni con un ciclo di affreschi rappresentanti la Crocefissione e Storie del Battista,
in cui le suggestioni del gotico internazionale col suo carattere raffinato e cortese,
mutuate da Gentile da Fabriano, si uniscono ad una vena vivace e colorita e ad un
linguaggio che trae spunto dagli aspetti quotidiani della realtŕ, resi in forme fluide e
lineari.
Alla morte di Guidantonio, nel 1443, salì al potere il figlio legittimo Oddantonio, allora
appena sedicenne, nato dal matrimonio con Caterina Colonna, parente di Martino V.
Nel 1443 Oddantonio fu insignito del titolo di Duca dal pontefice Eugenio IV, ma poco
tempo dopo trovò la morte in una congiura di urbinati che gli rimproveravano la
condotta di vita dissipata e il conseguente prosciugamento delle finanze pubbliche.
Successore di Oddantonio fu il fratellastro Federico, figlio naturale di Guidantonio,
valoroso condottiero, dotato di spiccato ingegno politico, uomo coltissimo, amante
delle lettere, delle arti, della matematica e appassionato organizzatore di spettacoli
teatrali.
Appena giunto al potere, rinsaldò i legami con gli Sforza di Milano, di cui assecondò
le mire espansionistiche nelle Marche, dove già possedevano Iesi e il porto di
Ancona: nel 1445 negoziò la cessione di Pesaro, patteggiando per sè l’acquisto di
Fossombrone, che gli costò la scomunica da parte di Niccolň V e revocatagli nel
1450, nonché l’avversione di Sigismondo Pandolfo Malatesta. Anche il matrimonio
con la giovane Battista Sforza, nipote del Duca di Milano, va considerato nel quadro
della politica di intesa tra Urbino e il governo ambrosiano, così come, alcuni decenni
prima, le nozze tra Guidantonio e Caterina Colonna avevano rappresentato un’astuta
mossa in vista di un avvicinamento alla corte papale. Proprio il proseguimento di una
linea di governo di intesa con Roma, inaugurata dai suoi predecessori, caratterizzò
l’intera durata del regno di Federico, con vantaggiose ripercussioni sulla situazione
economica e politica di Urbino, contribuendo allo sviluppo di una ricca vita artistica e
di una fiorente attività architettonica ed urbanistica.
Federico, abilmente, capì che, una volta ristabilita la sede del papato a Roma e
rafforzata l’autorità del pontefice dopo il Concilio di Basilea, la Chiesa era finalmente
pronta ad affermarsi come realtà primariamente politica, come stato tra gli altri stati,
decisa a riconquistare molti territori perduti. Così Federico II guerreggiň per Pio II
contro i Malatesta, che furono privati di numerosi possedimenti nelle Marche,
ottenendo il titolo di vicario papale sulle terre conquistate. La politica filopapale di
Federico proseguì durante il pontificato di Sisto IV, per il quale l’urbinate combattč
contro Firenze e Venezia, e a cui si legň ulteriormente grazie al matrimonio di sua
figlia Feltria con Giovanni Della Rovere, nipote del pontefice, evento deciso dal
vescovo di Roma dopo aver nominato Federico Duca di Urbino nel 1474.

paesaggio di Urbino nell'inverno 2007, foto © Popartur-dreamstime


il palazzo di Urbino, foto © Farida Doctor -fotolia

Questa linea politica a servizio del papa procurò alla città ingenti ricchezze che
consentirono a Federico la promozione di un’attività culturale ricettiva nei confronti
delle piů innovative sperimentazioni rinascimentali, in grado di competere con le più
aggiornate corti italiane. Istruitosi a Mantova con Vittorino da Feltre, dal quale aveva
ereditato la passione per la matematica, Federico era un profondo conoscitore del
latino e manteneva rapporti epistolari con il neoplatonico fiorentino Marsilio Ficino;
fondò ad Urbino una biblioteca curata da Vespasiano da Bisticci, fornitore di Cosimo,
a cui Federico affidò l’educazione dei propri figli. Ricca di testi classici, filosofici,
matematici e di codici miniati, la biblioteca fu gravemente spoliata nel 1631, quando
ad Urbino si insediò il legato pontificio, cardinal Barberini. Federico amava molto gli
spettacoli teatrali e l’architettura, a cui sembra essersi dedicato personalmente e a
cui attribuì una posizione chiave all’interno delle Arti Liberali, in quanto fondata sulle
piů nobili di queste: l’aritmetica e la geometria. Il ruolo di mecenate di Federico fu
imperniato nella costruzione e nella decorazione di Palazzo Ducale, che sarebbe
divenuto il simbolo dell’ascesa politica di Urbino e della creazione di una delle corti
più raffinate e culturalmente attive d’Europa.
La felice espressione di “città in forma di palazzo” data a Palazzo Ducale dallo
scrittore cinquecentesco Baldassar Castiglione, rappresenta pienamente la sua
connotazione urbanistica: il Palazzo si adatta perfettamente alla natura accidentale
del terreno che lo ospita e rispetta le preesistenti strutture medioevali, tra cui la
doppia piazza irregolare su cui sorge e l’andamento stretto e tortuoso delle strade del
quartiere, talvolta a gradoni, e allo stesso tempo modifica l’assetto della vecchia
città . Sul lato scoperto del Palazzo infatti, lungo la rettilinea e ampia via Valbona,
venne costruito da Francesco di Giorgio Martini un nuovo quartiere destinato agli
scambi commerciali, il Mercatale, fino a cui venne prolungata la strada proveniente
da Rimini e diretta verso Roma. In questo modo l’edificio non solo venne a trovarsi al
centro della cittŕ anziché in periferia ma assunse anche una posizione nodale tra
Rimini e Roma, il che corrispose all’intenzione di Federico di farne un “porto tra
l’Europa e l’Urbe ” (De Carlo), in cui ricevere illustri ospiti ed amministrare il governo
della città.
Il primo nucleo del Palazzo fu ottenuto da Federico congiungendo le precedenti
residenze ducali, un piccolo palazzo sul colle meridionale e un modesto castello
sull’orlo del dirupo verso Valbona. Questi lavori furono affidati, tra il 1455 e il 1460,
all’architetto fiorentino Maso di Bartolomeo, che realizzò una costruzione rettilinea a
tre piani, corrispondente all’attuale ala di levante del palazzo Ducale, denominata
“appartamento della Jole”, dalla raffigurazione delle cariatidi del camino principale
nelle vesti di Iole ed Ercole. Il sobrio edificio è ravvivato da finestre bilobate con
cornici a festoni e dagli accenti antichizzanti delle decorazioni, incentrate sulla
celebrazione delle virtù belliche e di Ercole, l’antico eroe che sin dalla nascita aveva
dovuto lottare contro le numerose prove che il fato gli aveva riservato, superandole
con coraggio e con astuzia. Non doveva forse risultare difficile a Federico sentirsi
affine a questo personaggio, che in alcune occasioni č anche descritto come amante
de lle arti e suonatore di liuto.

Negli anni successivi la progettazione del Palazzo Ducale fu affidata a Luciano


Laurana, che, tra il 1468 e il 1472 realizzň la facciata ad ali, la facciata dei Torricini,
il cortile d’onore, lo scalone monumentale e il Salone del trono. Dopo il 1472
subentrò al Laurana il senese Francesco di Giorgio Martini, al quale si deve la
realizzazione del Duomo, del Mercatale, della Data e della rampa elicoidale
percorribile a cavallo che metteva in comunicazione il nuovo quartiere destinato al
commercio con le scuderie del Palazzo.
Luciano Laurana era un architetto proveniente dalla Dalmazia (allora sotto il controllo
di Venezia), formatosi a Mantova in stretto contatto con le opere che Leon Battista
Alberti aveva eseguito nella cittŕ dei Gonzaga. La formazione albertiana del Laurana
emerge al massimo grado nel nucleo del Palazzo: il cortile d’onore, uno spazio
rettangolare permeato di un impeccabile rigore geometrico e di suggestioni classiche.
Alle colonne con capitelli di ordine corinzio che sostengono una serie di archi a tutto
sesto nel piano inferiore, corrispondono, al piano superiore, lesene tra le quali si
aprono finestre dotate di architravi in marmo bianco, che creano un solare effetto
luministico sulla pietra rosa dei muri.  Sul fregio della trabeazione un’iscrizione in
latino elenca le cariche conferite a Federico e celebra le virtů che egli aveva mostrato
di possedere in pace e in guerra.
il cortile, foto © cristinafil/frank 2014

Il cortile d’onore č un vero esempio di architettura modulare per la scansione


ritmica con cui sono alternati i pieni e i vuoti, per l’espediente delle paraste
appoggiate su pilastri angolari a ribadire la separazione dei lati, ma soprattutto per la
sua funzione di perno rispetto alle varie parti dell’edificio, che, seppur differenti tra
loro e poste su diversi livelli secondo un andamento irregolare, si riunificano in
questo centro secondo un criterio puramente matematico e razionale, ribadendo
come la matematica informasse l’intera attivitŕ culturale del centro urbinate. Non a
caso Urbino rappresentň un terreno fecondo di studio e di applicazione per tutti gli
artisti interessati ad ardite sperimentazioni prospettiche, come Alberti, Paolo Uccello,
Piero della Francesca e Melozzo daForlě . Presso la corte si recò piů volte il noto
matematico Luca Pacioli, che fece pubblicare il “De perspectiva pingendi ” di Piero
della Francesca e, nei suoi trattati, propugnň il carattere divino delle proporzioni e
l’origine matematica della bellezza, contribuendo allo sviluppo di quel clima di città
ideale che si era andato formando grazie ad una sapiente gestione politica e ad
un’attività architettonica ed edilizia fondata su progetti e calcoli precisi e sull’utilizzo
di forme geometriche perfette.
il complesso del palazzo ducale , foto © Piero Gentili - Fotolia.com

Dal nucleo centrale, costituito dal cortile d’onore, il Palazzo si dilata da un lato verso
la città, prolungando l’ala del “palazzotto della Iole” e determinando lo spazio del
“cortile del Pasquino”, dal lato opposto in direzione del Duomo, progettato da
Francesco di Giorgio Martini ma ricostruito nell’attuale forma neoclassica da Giuseppe
Valadier dopo il terremoto del 1782, con la creazione della cosiddetta “facciata ad
ali”, che presenta portali con architravi decorati all’antica da Ambrogio Barocci, che si
ispirò a disegni del Martini.
Sul lato verso valle, accanto ad un giardino pensile, fu eretta la “facciata dei
Torricini”, che prende il nome dalle due cuspidi aguzze (reminiscenze del gotico
francese) sormontanti le torri laterali, tra le quali si erge una loggia in pietra bianca
posta su quattro livelli, citazione di un arco trionfale romano. L’anomala posizione
della facciata, posta obliquamente rispetto al corpo del palazzo e in asse con la
strada verso Roma, è spiegabile in quanto dimostrazione della politica di intesa con il
papato perseguita da Federico. Ai piedi del dirupo su cui si erge la “facciata dei
Torricini” venne creato il quartiere del Mercatale, collegato con il Palazzo e le
scuderie attraverso una rampa elicoidale percorribile a cavallo.

Per quanto riguarda gli ambienti interni del Palazzo Ducale, per la cui decorazione e
arredo furono chiamati artisti diversi per formazione e provenienza, che concorsero a
rendere Urbino un centro di carattere internazionale, in cui gli spunti più disparati
confluirono dando vita ad un ambiente culturale assai vivace e ricco di stimoli, la
parte più significativa è senza dubbio costituita dallo studiolo del Duca Federico,
collocato nell’ala occidentale del Palazzo, adiacente alla facciata dei Torricini. Lo
studiolo era un ambiente strettamente riservato, al quale il Duca poteva accedere dal
suo guardaroba; questo carattere personale emerge maggiormente se confrontato
con la spaziositŕ degli altri ambienti del palazzo, destinati ad una funzione di
rappresentanza e al ricevimento di illustri ospiti: il Salone del Trono, la Sala delle
Veglie negli appartamenti della duchessa, la Sala degli Angeli in quelli del Duca.

Alla funzione di studio, meditazione e raccoglimento, corrispondevano le ridotte


dimensioni di questo ambiente, la cui precipua caratteristica č costituita dalla
decorazione a tarsie lignee, che ne fa un simbolo della cultura prospettico-
matematica urbinate. Il pavimento originale era in legno, mentre il soffitto č a rilievo
con lucernari ottagonali che recano incisi i simboli degli Ordini della Giarrettiera e
dell’Ermellino, di cui Federico era entrato a far parte nel 1474, grazie al re
d’Inghilterra e al re di Napoli. Sul soffitto è inoltre evidenziata la data 1476, da
intendersi come anno in cui furono ultimati i lavori, iniziati nel 1472-74. Le tarsie che
decorano la parte bassa delle pareti si sviluppano su tre registri sovrapposti: nella
zona inferiore un basamento simula un giro di panche che illusionisticamente corre
intorno alle pareti; nella parte mediana piccoli pannelli rettangolari nel senso della
lunghezza sono decorati con le imprese ducali; nella fascia superiore, infine, troviamo
finti armadi forniti di ante traforate in cui trovano posto oggetti vari, simbolo di una
cultura enciclopedica: libri, clessidre, strumenti musicali, prospettici e astronomici.
Accanto a questi si trovano, all’interno di finte nicchie, personificazioni delle Virtù e di
Federico in toga umanistica, alla luce di una concezione che vede l’esercizio delle arti
come tappa d’obbligo per un agire retto e virtuoso.
La parete centrale è occupata dalla simulazione di una finestra che dŕ su una finta
loggia che si affaccia su un finto giardino: siamo di fronte ad una concezione dello
studio mutuata da Petrarca, secondo il quale l’attività intellettuale necessita di un
raccoglimento solitario e di un suggestivo rapporto con la natura campestre; rapporto
che il Duca, non potendo allontanarsi dal palazzo per impellenti necessità
amministrative, recupera attraverso questa simulazione e attraverso il panorama
godibile dalla loggia dei Torricini, cui Federico poteva accedere mediante la porta
strombata nello studiolo.

La zona superiore delle pareti era occupata da ventotto ritratti di Uomini Illustri,
disposti in due registri: in quello superiore trovavano posto rappresentanti delle arti
del Trivio e del Quadrivio (tra cui il maestro di Federico Vittorino da Feltre), mentre in
quello inferiore erano collocate figure ecclesiastiche (tra cui il papa Sisto IV), secondo
una concezione neoplatonica che vedeva la teologia e gli studi umanistici come due
aspetti strettamente complementari. Tale concetto č ribadito dalla collocazione, nel
piano inferiore del palazzo, della Cappella delle Muse e della Cappella del
Perdono, in corrispondenza dello studiolo, da cui vi si poteva accedere direttamente.
Per l’esecuzione dei ritratti degli Uomini Illustri, che subirono una spoliazione dai
Barberini, quando nel 1631 il Ducato di Urbino passò alla Santa Sede, Federico
convocò il fiammingo Giusto di Gand e lo spagnolo Pedro Berruguete; le tarsie furono
realizzate nella bottega del fiorentino Baccio Pontelli con essenziali interventi di
Giuliano e Benedetto da Maiano, su cartoni di Botticelli, Francesco di Giorgio Martini e
del giovane Bramante.

Le tarsie lignee videro, nel Quattrocento, un momento di massima fioritura legato


alla progressiva affermazione in pittura della prospettiva lineare. Questa tecnica
infatti richiede, oltre ad una notevole abilità manuale, una spiccata capacitŕ
prospettica e matematica, in quanto è basata sull’accostamento di tasselli di legni
diversi e presuppone una rigorosa geometrizzazione delle forme, scomposte in base
ad un reticolo. Per questo motivo, negli intarsi troviamo di frequente vedute
architettoniche, che a volte danno vita ad audaci effetti di illusionismo ottico. Un
esempio dell’utilizzazione di questa tecnica, eseguito precedentemente allo studiolo
di Urbino, è dato dalla sagrestia delle Messe di Santa Maria del Fiore, ad opera degli
stessi Giuliano e Benedetto da Maiano; nell’intarsio si distinse poi particolarmente fra
Giovanni da Verona, tanto che gli furono commissionate le tarsie per la Stanza della
Segnatura in Vaticano e per il coro di Monte Oliveto maggiore a Napoli, dopo che
nella sua cittŕ natale ebbe dimostrato di saper combinare gli effetti illusionistici con
notevoli accenti pittorici, ottenuti anche per mezzo dell’adozione di tinture per legni,
in modo da ottenere un’ampia gamma di sfumature. Questa tecnica godette di una
capillare diffusione in Italia settentrionale, dove era attiva la bottega dei Lendinara,
fortemente influenzati da Piero della Francesca, a Ferrara mentre essi erano
impegnati nella decorazione a tarsie dello Studiolo di Belfiore, dedicato da Leonello
d’Este alle Muse.

Nello studiolo di Urbino si trovava il “Ritratto di Federico e del figlio Guidobaldo ”


eseguito dallo spagnolo Pedro Berruguete nel 1476-77, ora esposto nella stanza da
letto del Duca: Federico č seduto di profilo, indossa l’armatura ma non l’elmo invece
visibile in primo piano sul pavimento, è ricoperto da un manto di ermellino (richiamo
all’omonimo Ordine cui apparteneva) ed è intento a leggere un libro in compagnia di
suo figlio, in piedi al suo fianco. Il Duca è, dunque, presentato come un valoroso
combattente ma anche come un intellettuale dedito alla cultura, da cui sembra trarre
insegnamento per la propria attività politica e militare. La sedia con nappe rosse è
simbolo di nobile potere e, in quanto tale, la troviamo di frequente nei ritratti papali.
La fascia legata sotto al ginocchio vuole essere una chiara allusione all’appartenenza
di Federico all’ordine della Giarrettiera.

Tra gli artisti attivi a Urbino durante il governo di Federico č presente, dal 1465 al
1469, il fiorentino Paolo Uccello, noto per le sue ardite sperimentazioni
prospettiche, che assumevano a volte il carattere di una vera e propria ossessione,
secondo la descrizione fornita dal Vasari nelle sue Vite, e per la sua vivace vena
narrativa derivatagli in parte dal contatto con le opere di Gentile da Fabriano,
Pisanello e Jacopo Bellini, con cui era venuto a contatto in occasione del soggiorno
veneziano (1425-30).

Ad Urbino Paolo Uccello ricevette la commissione di una pala d’altare per la


Confraternita del Corpus Domini, dove doveva dar vita a un soggetto riguardante il
sacramento dell’Eucaristia. Il suo quadro perň venne rifiutato dai committenti ed egli
eseguě soltanto la predella con “Il miracolo dell’ostia profanata”, ora esposta nella
Sala degli Angeli. L’opera, molto piccola, rappresenta una leggenda medioevale
ambientata nella Parigi di fine Duecento. La composizione si articola in sei scene, di
cui le prime due sono ambientate all’interno, le restanti quattro all’aperto, suddivise
da colonne tortili: nel primo riquadro una donna consegna ad un usuraio ebreo
un’ostia in cambio del mantello lasciato come pegno; nel secondo l’ebreo sdegnato
brucia l’ostia nel suo camino al cospetto della moglie e dei figli ma l’ostia comincia
miracolosamente a sanguinare e una moltitudine di persone si reca davanti alla porta
dell’ebreo; assistiamo poi ad una processione di espiazione, al rogo dell’ebreo e al
martirio della donna mentre, nella scena finale, l’anima di questa, il cui corpo č
disteso su un catafalco, č disputata da angeli e diavoli.

E’ presente in quest’opera un rimando alla fondazione, da parte di Battista Sforza, del Monte
di Pietŕ, che concedeva prestiti senza usura agli indigenti, a differenza degli ebrei che
imponevano interessi altissimi. Dopo il rifiuto della pala d’altare che Uccello avrebbe dovuto
eseguire per la Confraternita del Corpus Domini, l’incarico venne affidato al fiammingo
Giusto di Gand, che, nella tavola con la “Comunione degli Apostoli” (1472-74), diede vita ad
una composizione dal complesso significato simbolico. La scena si svolge all’interno, sullo
sfondo dell’abside di una chiesa, con Cristo in piedi al centro e gli apostoli inginocchiati al
suo cospetto, intenti a ricevere la Comunione dalle sue mani e due angeli, in alto, incorniciano
la scena. Alla destra della composizione trovano posto il Duca di Urbino con esponenti della
sua corte e l’ambasciatore di Persia; in fondo, ai limiti di una stretta apertura, secondo un
gusto tipicamente fiammingo, sono visibili l’erede Guidobaldo e la sua nutrice. Le figure,
allungate e dalle forme quasi spigolose, ricoperte da vesti con panneggi dal ritmo spezzato,
rappresentano una caratteristica espressione dello stile fiammingo, a cui Federico, al pari dei
committenti italiani piů aggiornati, era fortemente interessato.

Piero_della_Francesca: Piero_della_Francesca: il
Flagellazione dittico

Proprio Piero della Francesca, che eseguì per il Duca di Urbino alcune delle sue
opere piů celebri, ricevette molti stimoli dalla pittura fiamminga, con cui era venuto
direttamente a contatto in occasione del suo soggiorno a Ferrara intorno al 1450 (gli
stessi anni in cui Rogier Van der Weyden era impegnato a realizzare la celebre
Deposizione nella cittŕ estense). Gli influssi che Piero assimilň dalla pittura fiamminga
sono ben evidenti nel dittico (oggi diviso) con i Ritratti di Federico da Montefeltro e di
Battista Sforza, realizzati intorno al 1472. Il dipinto era esposto in origine nella Sala
delle Udienze mentre, attualmente, si trova agli Uffizi, essendo confluito nelle
collezioni medicee nel 1634, in seguito al matrimonio di Vittoria della Rovere con il
Granduca di Toscana Ferdinando II.

I due ritratti, uniti originariamente da una sola cornice, erano dipinti sul retro con
rappresentazioni di Trionfi: i due duchi erano raffigurati a bordo di carri secondo uno
schema desunto dai Trionfi del Petrarca, utilizzato nel Rinascimento per illustrare le
virtů dei personaggi ritratti. Il duca č seduto su un carro trainato da cavalli bianchi
mentre una figura alata, personificante la Vittoria, gli pone sul capo una corona
d’alloro, ed č accompagnato dalle Virtů Cardinali: Prudenza, Giustizia, Fortezza e
Temperanza. In basso č posta un’iscrizione celebrativa in latino. Il carro su cui siede
Battista Sforza č trainato da unicorni, allusione alla sua castitŕ, ribadita anche
dall’epigrafe sottostante; in compagnia della Duchessa, personificazioni delle Virtů
Teologali: Fede, Speranza e Caritŕ. Entrambi i dipinti sono inquadrati da un ampio
paesaggio visto a volo d’uccello, secondo una prerogativa tipicamente fiamminga,
riscontrabile pure sul lato anteriore delle tavole. La luce nitida, chiara, in grado di
rilevare l’infinitamente lontano e l’infinitamente vicino con eguale consistenza č un
altro aspetto che Piero ha preso a prestito dai fiamminghi, come anche l’insistenza
sul dettaglio minuto e realistico dispiegata nella resa delle fisionomie nei ritratti dei
duchi. Queste reminiscenze fiamminghe convivono con caratteristiche figurative
tipicamente italiane: i personaggi infatti non sono raffigurati di tre quarti, come ci si
aspetta da un artista delle Fiandre, ma di profilo, secondo una posa desunta dalla
medaglistica antica e fatta propria da Pisanello nei suoi ritratti. I volti dei duchi
sono resi con una linea nitida tipicamente fiorentina che li stacca con precisione dal
fondo del cielo, mentre i busti volumetrici pongono in risalto l’attenzione di Piero
verso una costruzione geometrica dei corpi (altro aspetto che alla corte di Urbino
doveva risultare assai gradito).

Le medesime caratteristiche sono osservabili in un’opera cronologicamente prossima


alla precedente: la “Sacra Conversazione con Madonna e Santi e il Duca in ginocchio
” , proveniente dalla chiesa urbinate di San Bernardino, ora esposta alla Pinacoteca di
Brera, dove giunse in seguito alle soppressioni napoleoniche dei beni delle chiese e
dei conventi, che passarono sotto la proprietŕ statale. Sembra che l’opera sia stata
commissionata da Federico a Piero della Francesca nel 1472, per celebrare la nascita
del tanto desiderato erede Guidobaldo. La composizione č ambientata in una chiesa
dall’architettura albertiana, in cui i personaggi sono disposti a semicerchio, nel punto
in cui la navata incontra il transetto e l’abside. Al centro č collocata la figura di Maria
con le mani giunte in preghiera, seduta su un faldistorio dorato e con in grembo il
Cristo Bambino dormiente. In primo piano, inginocchiato davanti alle figure sacre, č
presente il Duca Federico, rivestito dell’armatura, inquadrato di profilo sempre dallo
stesso lato, in quanto si narra che avesse perduto l’occhio destro in seguito ad un
colpo ricevuto in un torneo. Nel volto di Maria sono state riconosciute le sembianze di
Battista Sforza, morta poco dopo aver dato alla luce il figlio, rappresentato nei panni
di Gesů Bambino. Questo spiegherebbe perché il Duca appare da solo, in quanto i
membri della sua famiglia sono rappresentati nelle vesti delle figure sacre. L’uovo di
struzzo che pende dalla conca absidale a forma di conchiglia, oltre ad essere un
emblema dei Montefeltro, č un richiamo al concetto di generazione e Redenzione,
mentre il sonno dell’infante č presagio della morte, ribadito dal corporale. Dal punto
di vista compositivo c’č una stretta corrispondenza tra l’architettura e i personaggi, la
cui disposizione simmetrica rispecchia quella delle lesene e delle campiture marmoree
alle loro spalle, mentre la volta a botte con rosette, che inquadra il coro, crea un
effetto di solenne monumentalitŕ e conferisce gran respiro alla composizione. La
monumentalitŕ compositiva e la corrispondenza tra l’architettura e i personaggi
sarebbero state molto piů evidenti in origine: sembra infatti che la tavola sia stata
tagliata ai lati e nel bordo superiore, per cui il dipinto sarebbe stato originariamente
inquadrato da due arconi laterali, aprendosi verso i lati e verso lo spettatore, secondo
una consuetudine fiamminga, e l’uovo di struzzo, carico di significati simbolici,
sarebbe coinciso con il centro prospettico della rappresentazione. Fiamminga č anche
la luce che, proveniente da sinistra, disegna l’ombra della conchiglia del catino
absidale, evidenzia la preziositŕ delle vesti e dei gioielli di Maria e degli angeli, si
sofferma sulle rugositŕ del Battista e di San Girolamo, incide sull’armatura di Federico
dando luogo a bagliori e riflessi metallici. Ancora fiammingo č il simbolismo che vede
in Maria la rappresentazione dell’Ecclesia mater, risolto nella collocazione della
Vergine all’interno di una chiesa, giŕ sperimentata da Jan Van Eyck.
 

La “Madonna di Senigallia”, proveniente dalla chiesa di Santa Maria delle Grazie extra
moenia di Senigallia č oggi conservata nella Galleria Nazionale delle Marche. La sua
datazione oscilla tra il 1470 e il 1474. Secondo alcuni studiosi la commissione della
tavola sarebbe legata al matrimonio della figlia di Federico, Feltria, con Giovanni della
Rovere, nipote del papa e signore di Senigallia. In primo piano, al centro, figura la
Vergine con in braccio il Bambino benedicente, affiancata da due angeli, l’uno
frontale, l’altro di tre quarti, che bilanciano in maniera ritmica la composizione. Sulla
sinistra, secondo una prerogativa fiamminga, una porta ci immette in un’altra stanza,
dove, da una finestra, irrompe un raggio di luce che conferisce nitore al dipinto,
mentre sulla destra uno scaffale ospita un contenitore e una cesta. La monumentalità
delle figure, costruite volumetricamente e modellate plasticamente, unita alla
raffinatezza delle vesti e del copricapo di Maria e all’atmosfera raccolta, intima, quasi
domestica, ha portato Roberto Longhi a definire quest’opera un accordo tra il
monumentale e l’intimo.

Una delle opere piů controverse e di difficile interpretazione che Piero della Francesca
lasciò ad Urbino è la celebre tavoletta con la “Flagellazione di Cristo” esposta,
insieme alla “Madonna di Senigallia”, nella Sala delle Udienze di Palazzo Ducale. La
tavola reca l’iscrizione “OPUS PETRI DE BURGO SANCTI SEPULCRI”, posta sul podio
del gradino sotto i piedi di Pilato, che ne attesta l’autografia. La composizione si
articola in sue scene : sulla sinistra, sotto il loggiato dalle colonne corinzie e dal
soffitto cassettonato decorato con rosette, Cristo subisce la flagellazione da due
aguzzini legato ad una colonna fornita di capitello di ordine ionico e sormontata dalla
statua nuda di un imperatore romano, mentre un turco di spalle e Pilato seduto di
lato contemplano la scena; sulla destra, all’aperto, si collocano tre figure di differente
età e abbigliate diversamente che sembrano totalmente estranee alla scena che ha
luogo dietro di loro. La datazione di quest’opera puň essere proposta su basi
esclusivamente stilistiche, poiché le uniche date certe riguardanti Piero della
Francesca sono il 1451, che compare sull’affresco “San Sigismondo e Sigismondo
Malatesta ”, eseguito nel Tempio Malatestiano di Rimini, e il 1458-59, a cui risalgono
i pagamenti per alcune opere nei Palazzi Vaticani. Molte incertezze, poi, riguardano il
soggetto, ovvero l’identificazione dei tre personaggi in primo piano e il rapporto tra
loro e la flagellazione di Cristo.

L’opera è menzionata per la prima volta in un inventario del 1744, che la cita nella
sacrestia, e che identifica nel giovane biondo al centro della scena Oddantonio,
fratellastro del Duca ucciso nel 1444 in una congiura organizzata probabilmente dallo
stesso Federico. In quest’ottica la commissione del quadro si legherebbe al desiderio
di espiazione di Federico, macchiatosi di un orrendo crimine.
Alcuni studiosi, come Gombrich e Gilbert, hanno invece negato qualsiasi allusione ad
un evento storico, interpretando i personaggi in primo piano come i membri del
Sinedrio; tuttavia, queste figure sono generalmente rappresentate intente ad
osservare il Cristo flagellato, mentre qui risultano totalmente estranee alla scena
evangelica.
Kenneth Clark, sulla base di attente analisi documentarie, ha visto nell’opera
un’allusione alla caduta di Costantinopoli in mano turca nel 1453. La flagellazione
simboleggerebbe, dunque, l’umiliazione e la martirizzazione della Chiesa ad opera dei
turchi, rappresentati dall’uomo col turbante, mentre nelle tre figure misteriose
sarebbero da riconoscersi alcuni partecipanti al Concilio di Mantova, convocato da Pio
II nel 1459 per indire una crociata.
In questo contesto la scritta “CONVENERUNT IN UNUM”, un tempo posta sulla
cornice, sarebbe da intendersi come un invito all’alleanza delle potenze occidentali
contro gli infedeli.
Lo storico dell’arte Bertelli, dal canto suo, ritiene che la “Flagellazione ” sia stata
commissionata dalla sorellastra di Federico, moglie di un Malatesta, per porre in
risalto il delitto di cui si era macchiato Federico uccidendo Oddantonio, e che sia
stata trasportata ad Urbino solo in seguito. Tale interpretazione è, però, confutata in
modo convincente da Ciardi Duprč, secondo la quale l’opera vide la luce ad Urbino. Il
soffitto a cassettoni con rosette, infatti, retto da colonne corinzie, mostra affinità con
alcuni ambienti di Palazzo Ducale e il fregio che sormonta le due porte sul fondo della
scena sembra essere derivato dal portale della chiesa di San Domenico ad Urbino,
realizzato da Maso di Bartolomeo tra il 1450 e il 1456. La prospettiva e l’architettura
del dipinto presuppongono il contatto con le opere di Leon Battista Alberti, con cui
Piero entrò in contatto nel 1451, in occasione del soggiorno riminese; infine,
l’ambientazione di una scena divisa tra un loggiato e uno spazio aperto è riscontrabile
nel ciclo con la “Leggenda della santa Croce ” ad Arezzo, in modo particolare ne
“L’incontro tra Salomone e la Regina di Saba ”, che Ciardi Duprè data intorno al
1456-57, termine ante quem per la “Flagellazione”. Il giovane scalzo è Oddantonio,
inserito nel dipinto per la volontà di espiazione del Duca e il manto rosso porpora che
indossa è un’allusione al suo martirio, che lo avvicina a Gesů flagellato. Il
personaggio in broccato azzurro č invece Guidantonio, padre di Federico e
Oddantonio, mentre la figura vestita alla bizantina è l’imperatore di Costantinopoli
Giovanni VIII Paleologo, giunto in Italia in occasione del Concilio di Ferrara, che
doveva sancire l’unificazione della Chiesa d’Oriente e quella d’Occidente.
L’importanza di questo personaggio spiega la riverenza con cui è trattato ed è
evidenziata dalla posizione che occupa, posto sull’asse angolare del loggiato mentre
la figura di Pilato potrebbe alludere alla conquista turca di Costantinopoli nel 1453.
Nel 1482 Federico morì ma le conseguenze del suo operato si fecero sentire per
diversi decenni: egli infatti era riuscito a trasformare Urbino da centro arretrato e
marginale ad un’attiva corte rinascimentale, che fu alla base della formazione di
maestri quali Raffaello e Bramante, indiscussi protagonisti del classicismo romano
cinquecentesco.
Il governo passò al figlio Guidobaldo ma la mancanza di eredi di questo determinň il
passaggio del Ducato ai Della Rovere, imparentati ai Montefeltro attraverso il
matrimonio di Feltria, sorella di Guidobaldo, con Giovanni Della Rovere. Quando nel
1631 la casata dei Della Rovere si estinse Urbino per ragioni ereditarie passò alla
Santa Sede ed ebbe inizio una vasta spoliazione che coinvolse i codici miniati della
biblioteca e i ritratti dello studiolo. D’altra parte già in precedenza molte opere delle
collezioni ducali erano state rimosse dalla loro collocazione originaria e confluite nelle
collezioni medicee, in seguito a due matrimoni tra i Della Rovere e i Medici celebrati
nel Seicento. L’edificio subì numerosi danni finchč nel 1756 il cardinal Stoppani ne
promosse il restauro. Dopo l’unità d’Italia nel 1861, i beni dei conventi e delle chiese
furono soppressi e dichiarati proprietà dello Stato e in quest’occasione vide la luce un
primo nucleo delle collezioni dell’attuale Galleria Nazionale delle Marche ospitata nelle
sale del Palazzo Ducale.

La Galleria Nazionale delle Marche venne istituita nel 1912 grazie a Lionello Venturi,
che organizzò la sistemazione delle opere in otto sale. Tre anni dopo gli subentrň
nella direzione del museo Luigi Serra, che si occupò di conferire alla Galleria assetto
giuridico e di effettuare nuove acquisizioni; si adoperò inoltre per liberare il primo
piano dagli uffici che lo occupavano, ottenendo trentotto ambienti dove collocare le
opere, che furono disposte in modo da “rievocare lo splendore della vita passata”,
che aveva animato le stanze volute da Federico per ospitarvi una vita di corte degna
di un principe umanista, che considerava la cultura e le arti un aspetto indispensabile
del governo di una città .

Potrebbero piacerti anche