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A CURA DI ALESSANDRA BUCCHERI, GIULIA INGARAO, EMILIA VALENZA

~ MIMESIS / ARTE E CRITICA


DIRSI A «PARTIRE DA SÉ»:
ARCHETIPI, CREATIVITÀ E GENERAZIONE
SIMBOLICA DEL FEMMINILE FRA GLI
ANNI ’70 E ‘90 DEL ’900
MARIELLA PASINATI
Biblioteca delle donne Udi Palermo

Tra la politica della donne e l’arte c’è, per me, un legame pro-
fondo che, nella mia esperienza di femminista e storica dell’arte,
ho sempre avvertito molto intensamente: sono entrambe pratiche,
entrambe necessitano della relazione con l’altra/o, entrambe ricer-
cano e coltivano la capacità di trasformarsi e di cambiare il mondo
attraverso il linguaggio.
Il neofemminismo, d’altronde, è stato soprattutto politica della
parola, ricerca femminile di un linguaggio per dirsi, per trasformar-
si, per aprire passaggi di comunicazione e l’arte è innanzitutto ri-
cerca concreta di linguaggi efficaci. Li accomuna anche un’analoga
intenzionalità creativa, non a caso Carla Lonzi, storica dell’arte e
figura di riferimento primario del neofemminismo italiano, nella sua
autobiografia scriveva: «Adesso capisco … che il soggetto non cer-
ca la cosa di cui ha bisogno, ma la fa esistere. Io ho gustato questo
nel femminismo».1
Nel XX secolo fra la fine degli anni ’60 e l’inizio del decennio
successivo, con l’affermarsi del movimento femminista e il con-
seguente, nuovo protagonismo sociale delle donne, il rapporto fra
pratiche politiche e pratiche artistiche ha trovato storicamente una
nuova, originale espressione. Sempre più donne2 infatti iniziavano
ad intervenire nel mondo delle arti visive con azioni rivolte in due

1 C. Lonzi, Taci, anzi, parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta


Femminile, Milano 1978, p. 239
2 Alcune artiste smisero di considerare l’essere donna un limite per la pro-
pria presenza nel mondo maschile dell’arte, altre assunsero esplicitamente
tematiche femministe, agendo anche sul piano sociale con la formazione
di cooperative di sole donne e la promozione di mostre esclusivamente
femminili, altre ancora dialogarono con il femminismo senza cancellare
il proprio essere donna facendone, anzi, il punto di partenza della propria
arte.
136 Archetipi del femminile

direzioni diverse, sebbene correlate: il piano dell’intervento «mili-


tante» e quello della riflessione sull’arte, sulla dimensione estetica
e creativa femminile. Se da una parte, si reclamavano più spazi in
un sistema di cui si denunciava, peraltro, la natura sessista e di clas-
se, dall’altra si cominciavano a ripensare, con sguardo sessuato, la
storia, la critica e la produzione artistica, a partire dalla critica alla
falsa neutralità ed universalità delle pratiche discorsive e culturali
maschili.
Nel giro di pochi anni, in particolare negli USA, si sarebbero
moltiplicati gli spazi conquistati dalle donne nelle istituzioni mu-
seali, sulla stampa e nella ricerca specialistica, ma soprattutto sa-
rebbe maturata, sia da parte delle artiste che delle critiche e stori-
che dell’arte, un’esigenza più profonda di investigazione sul senso
del fare e del leggere l’arte, a partire dall’accettazione consapevole
dell’essere donna.
Una direzione di questa indagine era orientata alla ricerca di
un’altra creatività, di un «segno femminile» nell’arte, questione
problematica e che vedeva articolarsi posizioni teoriche e pratiche
estetiche diverse e spesso contrastanti.
A questo proposito in un articolo pubblicato nel 1976 su Data,
Anne Marie Sauzeau Boetti così scriveva:

Intendo per «segno femminile» nell’arte non tanto un insieme di se-


gnali visivi (in senso iconografico) ma questi segni in quanto sintomi di
una certa VALENZA esistenziale al femminile, che si traduce in un di-
verso rapporto con i mezzi di espressione culturale. Tale valenza può
polarizzare e rinnovare un segno iconografico o una pratica artistica
pre-esistenti nella cultura.3

Con mossa lucida e decisa Sauzeau Boetti andava, così, dritta alla
radice della questione e suggeriva una terza via fra il negare la spe-
cificità dell’esperienza estetica femminile e il sostenere un’icono-
grafia, un immaginario costruiti su elementi formali comuni e basati
sul sesso ed il corpo femminile (come proposto da tante artiste – e
critiche – femministe americane). Questa terza posizione consisteva
nel riconoscere che l’espressione artistica femminile autentica va
cercata e praticata al di fuori dell’ordine simbolico e linguistico che
ha dato ordine al reale secondo l’esperienza maschile.

3 A. M. Sauzeau Boetti, Carla Accardi, in “DATA” n. 20, 1976, p.72


M. Pasinati - Dirsi a «partire da sé»: archetipi, creatività 137

Da questo angolo visuale, quali segni iconografici pre-esistenti


nella cultura, prenderò in considerazione l’archetipo della grande
dea, l’uovo – da sempre struttura archetipica che ha dato espressio-
ne visiva all’idea stessa della creazione artistica – e la dimensione
materna.
Attraverso il lavoro di alcune artiste – necessariamente poche, per
la misura di questo scritto, ma la trattazione potrebbe essere molto
più estesa – si vedrà come il ricorso all’archetipo abbia costituito, a
partire dagli anni ’70, una risorsa politica e culturale per un nuovo
dirsi del soggetto femminile.
Recuperati dalle culture preistoriche fondate sulle divinità del
Paleolitico e del Neolitico, questi segni iconografici ritornavano
nel lavoro delle artiste, grazie anche alla diffusione degli studi delle
donne che, in quel momento e in tutti gli ambiti del sapere, avevano
iniziato a riscoprire cultura e figure femminili del passato. L’espe-
rienza estetica li restituiva, così, come principio di valorizzazione
dell’essere madre e della potenza creatrice materna intesa, però,
non solo – o non tanto – in quanto funzione riproduttiva, bensì per
il suo valore simbolicamente generativo. In altri termini, e usando
ancora una definizione mutuata dalla pratica politica, quelle opere
d’arte contribuivano a «far venire al mondo le donne», a costruire
cioè, un contesto simbolico in cui si visualizzava la generazione
simbolica di un soggetto donna di esclusiva origine femminile.
Fra le forme d’arte utilizzate, le modalità più impiegate sono state
soprattutto la performance, l’installazione, la fotografia e il video.
Queste hanno dato espressione visiva a narrazioni e rappresenta-
zioni nuove, legate all’esperienza personale e in felice consonanza
con un’idea politica centrale nella pratica femminista: il partire da
sé, dal proprio desiderio, come condizione prima di qualsiasi ricerca
che miri a ridare senso al reale e ad affermare una soggettività pa-
drona del proprio sguardo e che non dipende più dal sistema di pote-
ri e di valori del patriarcato all’interno del quale persino l’esperienza
di essere donna era stata pensata e detta dall’altro.
A questa esigenza politica di trasformazione di senso, i linguaggi
delle artiste hanno saputo dare forme espressive particolarmente ef-
ficaci, capaci, fra l’altro, di modificare, in termini sempre più attivi,
la relazione con il pubblico. Così, mentre, con i loro gesti d’arte
arricchivano e rimodellavano la nostra stessa comprensione della
realtà e dell’arte, il loro lavoro contribuiva a ridefinire su nuove basi
anche il rapporto fra arte e politica.
138 Archetipi del femminile

L’archetipo della Grande Dea

Già negli anni ’30 del Novecento, la teosofa e studiosa junghia-


na Olga Fröbe-Kapteyn aveva costruito uno straordinario archivio
iconografico di divinità e madri potenti di tutte le culture che, fra
l’altro, era stato punto di riferimento imprescindibile dello psico-
logo Erich Neumann per il suo fondamentale studio del 1956 su La
Grande Madre.
Intorno alla metà degli anni ’70, iniziavano, invece, a prendere
corpo gli studi dell’archeologa lituana Marija Gimbutas, poi svi-
luppati alla fine degli anni ’80, sulle culture pre-patriarcali basate
sul culto della Grande Dea, rappresentativa del principio e della
potenza creatrice femminili.
La differenza nell’uso del secondo termine – dea piuttosto che
madre – non è da sottovalutare. Scrive, infatti, Gimbutas nel suo
celebre saggio Il linguaggio della Dea:

… la fertilità è solo una delle molte funzioni della Dea. … Dea ma-
dre è anche questo un concetto erroneo. È vero che vi sono immagini
materne … ma il resto delle immagini femminili non può essere rubri-
cato sotto il termine generale di Dea Madre. Le Dee Uccello e Serpen-
te, per esempio, non sono sempre madri, né lo sono molte altre imma-
gini di rigenerazione come la Dea Rana, Pesce o Porcospino … esse
impersonano la Vita, la Morte e la Rigenerazione; sono assai più che
fertilità e maternità … il termine madre è riduttivo e non consente di ap-
prezzare il suo carattere complessivo.4

Se la scelta di Gimbutas è dettata da considerazioni che attengo-


no primariamente all’interpretazione dei reperti su cui si è fondata
la ricerca archeologica della studiosa lituana, le sue osservazioni
(anche nei confronti della scelta terminologica effettuata invece
da Neumann) non sono prive di conseguenze, tanto sul piano cul-
turale – per la corretta leggibilità ed interpretazione delle opere e
dunque per la nostra conoscenza del passato – quanto su quello
simbolico.
In una cultura in cui le rappresentazioni del femminile, compreso
l’essere madre, riflettono i modi e le forme pensate dall’uomo, dire

4 M. Gimbutas, Il linguaggio della Dea: mito e culto della Dea madre


nell’Europa neolitica, tr. it. di N. Crocetti, Longanesi, Milano 1990, p.
316
M. Pasinati - Dirsi a «partire da sé»: archetipi, creatività 139

madre piuttosto che dea significa confermare un immaginario che


sembra quasi non tener conto della differenza fra donna e madre, di
una soggettività femminile libera e indipendente da determinazione
biologica e ruoli sociali.
In questo immaginario e nell’ordine simbolico patriarcale domi-
nato dalla figura del dio padre, l’esperienza della trascendenza e del
divino è del tutto assente dall’orizzonte del femminile. Riferirsi, al-
lora, alla dimensione della dea significa accedere ad un potenziale
di risignificazione fortemente trasformativo nella rappresentazione
dell’essere donna.
Tornano alla mente le parole di Luce Irigaray:

La nostra tradizione ci presenta e rappresenta l’auto-realizzarsi glo-


rioso della madre, raramente quello della donna. E ci costringe ad alter-
native micidiali: o madre … o donna …. Ma senza divino che le con-
venga, la donna non può compiere la sua soggettività secondo un
oggettivo che le corrisponda. Le manca un ideale che le sia uno scopo e
una strada per divenire. … Per divenire donna, per compiere la sua sog-
gettività femminile, la donna ha bisogno di un dio che significhi la per-
fezione della sua soggettività.5

Ben prima che gli studi di Gimbutas cominciassero a circolare,


numerose artiste avevano iniziato a lavorare sulle origini della sa-
cralità femminile per una diversa rappresentazione dell’essere don-
na, guardando e recuperando forme e simboli delle antiche culture
ed usando il proprio corpo nella rappresentazione. Trasformarsi in
divinità femminili costituì, pertanto, uno dei temi ricorrenti di nu-
merose performance del periodo mentre, come alle origini dell’arte,
il corpo e la sessualità femminili tornavano ad esprimere la fonte
originaria della creatività umana.
Uno dei primi lavori documentati, Eye Body, risale al 1963; qui
un serpente si attorciglia sul corpo nudo della performer e film ma-
ker Carolee Schneemann (1939), fra le prime artiste a voler integra-
re la sua esperienza di donna nell’opera d’arte e a celebrare l’energia
del corpo.
La sua intuizione di connettere la forma del serpente al corpo
femminile costituì un’anticipazione degli studi successivi, compre-
se le ricerche di Gimbutas che indicavano nel serpente uno degli

5 L. Irigaray, Sessi e Genealogie, tr. it. di L. Muraro, La Tartaruga, Milano


1989, p. 76
140 Archetipi del femminile

attributi della Grande Dea e simbolo transfunzionale già impiegato


nelle forme a spirale del V millennio a.C. e poi ancora presente nel
culto della Dea Serpente a Creta, nelle isole Egee e nella Grecia
continentale.
Nel 1973 Mary Beth Edelson (1933) inizia, invece, ad eseguire
le sue Women Rising: performance, quasi rituali privati, durante le
quali l’artista solleva il corpo nudo dalla terra o dall’acqua, nella
posa a braccia alzate delle antiche figurine minoiche della Dea dei
Serpenti.

Mary Beth Edelson, Woman Rising-Spirit, olio e china su fotografia,


25,4 x 30,48, 1973, courtesy Mary Beth Edelson
M. Pasinati - Dirsi a «partire da sé»: archetipi, creatività 141

Le foto delle performance sono poi lavorate con segni grafici e


pittorici di forme simboliche – cerchi, lune, spirali – impresse sul
suo corpo. È la stessa artista a sottolineare la continuità con l’imma-
gine della potenza femminile:

Simboli archetipici del femminile appaiono e si dispiegano oggi nel-


la psiche della donna moderna. Essi comprendono le molteplici forme
della Grande Dea. Attraverso i secoli prendiamo per mano le nostre lon-
tane sorelle. La Grande Dea vive e si alza ad annunciare ai patriarchi
che i loro 5.000 anni sono finiti. Hallelujah! Arriviamo.6

Presente come sottotesto, il rapporto donna – corpo – natura ac-


quista particolare importanza nel lavoro di alcune performer. Opere
centrate proprio sull’interazione fra il corpo dell’artista e la terra
visualizzano, infatti, il concetto di potenza generatrice connesso col
corpo femminile, nonché la stessa idea della terra come organismo
vivente.
Nell’opera di Ana Mendieta (1948-1985) questi temi d’indagine
sono strettamente legati al contesto culturale e alla storia dell’espe-
rienza personale dell’artista, nata a Cuba ma sradicata dal suo paese
e cresciuta a New York. Parte da sé, infatti, Mendieta: dalla separa-
zione, dal senso della perdita e dal bisogno di ricongiungersi con la
fonte materna, con le radici della sua identità culturale. È la stessa
artista a dichiararlo:

Ho portato avanti un dialogo tra il paesaggio e il corpo femminile


(basato sulla mia silhouette). Credo sia stata una conseguenza diretta
dell’essere stata strappata alla mia terra (Cuba) durante l’adolescenza.
Sono sopraffatta dalla sensazione di essere stata estirpata dal grembo
(dalla natura). La mia arte è il mio modo di ristabilire i legami che mi
uniscono all’universo. Si tratta di un ritorno all’origine materna. Attra-
verso le mie sculture di corpo/terra divento tutt’uno con essa. […] Di-
vento un prolungamento della natura e la natura diviene un’estensione
del mio corpo. L’atto ossessivo di riaffermare i miei legami con la terra
riattiva davvero le credenze primordiali […] in una forza femminile on-

6 L. Lippard, From the Center, Dutton, New York 1976, p. 21: «The
ascending archetypal symbols of the feminine unfold today in the psyche
of modern Everywoman. They encompass the multiple forms of the Great
Goddess. Reaching across the centuries we take the hands of our Ancient
Sisters. The Great Goddess, alive and well, is rising to announce to the
patriarchs that 5,000 years are up-Hallelujah! Here we come.»
142 Archetipi del femminile

nipresente, è l’immagine residua dell’abbraccio del grembo


materno, è una manifestazione della mia sete di essere.7

Nascono così le sue Siluetas (1973-1982), performance nelle


quali il corpo dell’artista si intreccia in una stretta materiale e sim-
bolica con la madre terra, sprofondando completamente nella fisici-
tà dei luoghi. Progressivamente esso sarà ridotto a sempre più lieve,
effimera impronta, ora segnata/bruciata con la polvere da sparo, ora
nient’altro che una leggera traccia sull’erba, oppure il segno della
schiuma del mare sulla spiaggia, accentuandone fragilità e fugacità,
il suo essere destinato a scomparire. Così, se da un lato le Siluetas ri-
chiamano la ricomposizione del legame originario con il corpo della
madre (terra), dall’altro rievocano anche immagini di sepoltura e di
morte. Ma si tratta di una morte intesa come passaggio, cambio di
stato e d’altra parte è questa proprio una delle caratteristiche della
Grande Dea, insieme dispensatrice di vita e reggitrice di morte. E
alle dee indigene, tornando a Cuba nel 1981, Mendieta dedicherà le
sue Sculture Rupestri, figure intagliate nella roccia, tracciate con un
segno essenziale, indice insieme personale e politico della soggetti-
vità dell’artista.
Fra le figure connesse alla rappresentazione di un femminile
originario, poi riproposta nell’opera di artiste contemporanee, c’è
anche la Síle na gig, grottesca immagine femminile caratterizzata
da una sfacciata esposizione dei genitali, rappresentata in scultura
prevalentemente in epoca romanica e nelle isole britanniche, soprat-
tutto in chiese, monasteri, castelli.
La lettura critica che ne è stata data, anche in tempi recenti e
da parte di alcune studiose, consente di mettere meglio a fuoco la

7 J. Perreault, Earth and Fire: Mendieta’s Body of Work, in P. Barreras del


Rio, J. Perreault, Ana Mendieta: a Retrospective, New York Museum of
Contemporary Art, New York 1987, p. 17, n. 2: «I have been carrying on
a dialogue between the landscape and the female body (based on my own
silhouette). I believe this has been a direct result of my having been torn
from my homeland (Cuba) during my adolescence. I am overwhelmed
by the feeling of having been cast from the womb (nature). My art is the
way I re-establish the bonds that unite me to the universe. It is a return
to the maternal source. Through my earth/body sculptures I become one
with the earth . . . I become an extension of nature and nature becomes an
extension of my body. The obsessive act of reasserting my ties with the
earth is really the reactivation of primeval beliefs . . . [in] an omnipresent
female force, the after-image of being encompassed within the womb, is a
manifestation of my thirst for being.»
M. Pasinati - Dirsi a «partire da sé»: archetipi, creatività 143

consistenza di quanto suggerito a proposito del diverso senso


che comporta leggere dea invece che madre.
Va detto innanzitutto che sulla Síle na gig non ci sono ancora
oggi interpretazioni e studi definitivi e condivisi che ne chiariscano,
concettualmente e spiritualmente, senso e funzione.8
I suoi tratti visibili presentano sempre gli stessi caratteri: testa e
genitali evidenti, assenza di capelli e di tratti sessualmente allusivi,
nessuna espressione facciale tranne, in alcuni casi, una smorfia o una
sorta di sorriso; i seni non sono rappresentati, semmai appena deli-
neati, e il grembo non è enfatizzato mentre sono raffigurate le costo-
le. Sono assenti, dunque, tutti i segni che possono connettere questa
figura alla dimensione materna, eppure essa è stata presentata come
simbolo della fertilità,9 come la dea-madre celtica della fertilità,10 in
un percorso che ancora riduce l’immagine del femminile alla sola
dimensione biologica del materno.
Che non si tratti solo di materno, appare evidente in alcuni dei la-
vori che la ripropongono: fra questi le opere di Nancy Spero (1926-
2009), un’artista che ha fatto del politico una constante del proprio
discorso creativo. Il suo racconto si svolge, infatti, sempre fra sacro
e profano, archetipo e stereotipo, personale e politico, visualizzan-
do, sul piano simbolico, immagini – anche irriverenti – di una po-
tenza femminile cui rapportarsi, per immaginarci in un altro modo,
fuori dal discorso maschile.
Nancy Spero reinterpreta la figura della Síle na gig in un lavoro
del 1985 ironicamente intitolato Chorus Line nel quale una lunga
fila di Síle na gig mostrano con orgoglio la grande vagina, a sovver-
tire la rappresentazione del sesso femminile, solitamente rappresen-
tato come mancanza. Nel 1995 l’artista la ripresenterà ancora in una
versione più «domestica» dal titolo Síle na gig at home dove la figu-
ra è ripetutamente stesa su un filo insieme ad indumenti femminili.

8 La Síle na gig è stata interpretata come antica divinità celtica, figura apo-
tropaica o, nell’ambito del Cristianesimo, come ammonimento contro il
peccato, protettrice delle donne, simbolo di fertilità, santa o strega, come
spirito femminile ancestrale a protezione delle partorienti.
9 M. Mullin, Representation of History, Irish Feminism and the Politics of
Difference, in “Feminist Studies”, vol. 17, n. 1, 1991
10 W. Balzano, Irishness – Feminist and Post Colonial, in I. Chambers
and L. Curti (eds.), The post-colonial question: common skies, divided
horizons, Routledge, London 1996
144 Archetipi del femminile

Una diversa allusione a questa immagine si legge, invece, nell’in-


stallazione Sounding the Depths (1992) delle artiste irlandesi Pau-
line Cummins (1949) e Louise Walsh (1963), un lavoro originato
dall’intenzione di reagire esteticamente alle politiche statali irlande-
si degli anni ’80 (e non solo) che tendevano a controllare, attraverso
la legge, il corpo e la sessualità femminili. L’installazione si articola
su due ambienti: dal primo in cui è proiettato il video di un corpo
nudo di donna, ripreso come chiuso su se stesso in una stanza scu-
ra, si accede ad uno spazio dalle pareti nere su cui sono esposte in
scatole illuminate delle grandi foto che rappresentano i tronchi nudi
dei corpi delle artiste ripresi mentre su di essi venivano proiettate
diapositive di bocche che ridono, fanno smorfie, che si aprono e
mostrano i denti; una colonna sonora che riproduce grandi risate e
il tintinnio dell’acqua che scorre accompagna nella stanza la visione
delle immagini.
Il risultato visivo di questi corpi che si aprono richiama morfo-
logicamente le antiche Síle na gig e l’opera trasmette complessi-
vamente un’immagine di sfida, nella ritrovata voce delle donne e
nella cristallina risata che rimanda al Riso della Medusa di Hélène
Cixous, restituendoci in pieno l’autonomia di un soggetto non più
muto ma parlante.
Per la tendenza ad enfatizzare e contemporaneamente a sovver-
tire la negazione della donna come soggetto parlante, il lavoro di
Cummins e Walsh si caratterizza, dunque, come espressione etero-
genea ed alternativa, in continuità con tanta performance art femmi-
nile cui l’accomunano anche la natura intima del lavoro e l’enfasi
sull’esperienza personale, sul materiale emozionale non «recitato»
che annulla la distanza fra l’artista ed il pubblico.11

La dimensione materna

Nel 1976, la storica e critica d’arte Lucy Lippard notava come


nessuna donna che aveva lavorato anche in chiave biografica sul
tema del corpo, avesse affrontato la questione della gravidanza e
della nascita e concludeva che forse la procreazione era il «prossimo
tabù da affrontare».12

11 J. Forte, Women’s Performance Art: Feminism and Postmodernism, in


“Theatre Journal”, Vol. 40, No. 2, The Johns Hopkins University Press, 1988
12 L. Lippard, The Pains and Pleasures of Rebirth: European and American
Women’s Body Art, in L. Lippard, op. cit., p. 138
M. Pasinati - Dirsi a «partire da sé»: archetipi, creatività 145

In realtà, la ricerca di un linguaggio capace di risalire all’origine


per dire la maternità al di fuori degli schemi del materno patriar-
cale, inizia a segnare, alla metà degli anni ’70, tanta produzione
femminile.
È ancora l’interrogazione «a partire da sé», la ricerca di un senso
autonomo dell’esperienza della maternità che porta le artiste a con-
nettere il piano biologico della riproduzione con quello simbolico;
specialmente feconda risulterà, in particolar modo, l’indagine sulla
formazione di uno spazio materno nel linguaggio e nella cultura.
Fondamentale in tal senso è stata l’opera di Mary Kelly (1941)
Post-Partum Document, anche per la centralità che ha assunto nel
dibattito sulle relazioni fra teoria e politica femminista, arte e psi-
coanalisi.
L’opera ha avuto una lunga gestazione dal 1973 al ’79, sebbene
sia stata esposta in più momenti, prima del completamento.
Si tratta di un lavoro concettuale che si sviluppa in sei parti co-
stituite da 135 pezzi che compongono e documentano i primi sei
anni della relazione fra Kelly e suo figlio, la sua esperienza di madre
e l’analisi di quella esperienza, passando dalla registrazione dello
svezzamento (Documentation I), allo sviluppo del linguaggio (Do-
cumentation II), alle conversazioni fra madre e figlio al momento
dell’ingresso alla scuola materna (Documentation III), al dialogo
della madre con se stessa (Documentation IV), alle prime domande
e curiosità sessuali (Documentation V) per finire con l’apprendi-
mento della scrittura, registrato su tavolette d’ardesia della forma
della stele di Rosetta (Documentation VI).
Sono documenti, disegni, piccoli oggetti (dal frammento del
ciucciotto alle macchie sul pannolino all’impronta della mano del
bambino), segni delle varie fasi della crescita e oggetti transizionali
che l’artista combina sia con annotazioni di diario scritte a mano, sia
con griglie e diagrammi dattiloscritti tratti da modelli interpretativi
dell’opera di Lacan relativi alla sua teoria del soggetto.
L’artista sceglie quindi deliberatamente un approccio di tipo
«scientifico», escludendo dai documenti esposti elementi come le
fotografie che avrebbero attribuito al lavoro un’impronta autobio-
grafico-sentimentale e collocando, invece, i diversi oggetti in espo-
sitori simili a quelli presenti nei musei scientifici. Kelly sposta dun-
que l’attenzione dalla narrazione in prima persona dei momenti reali
della relazione con il figlio, allo sforzo di articolare le sue fantasie
146 Archetipi del femminile

materne, il suo desiderio, la sua parte «in quel progetto chiamato


maternità».13
Progetto non destino. Il lavoro si basa, infatti, sull’assunto che
la cura di un bambino, il ruolo di madre, non sia per una donna na-
turale ed istintivo e, attraverso gli atti pratici della vita quotidiana,
l’artista interroga i processi secondo cui emozioni materne e com-
portamenti infantili si originano e sono iscritti nella dimensione del
genere, puntando l’attenzione sul feticismo materno, come strate-
gia di rielaborazione del sentimento della perdita per la crescita del
figlio.
Ne risulta un rapporto intersoggettivo in cui non è in gioco solo
la futura personalità del bambino che si sta formando nella relazio-
ne, ma la stessa psicologia materna che ne rimane modificata: dal
piacere della madre nella identificazione con il bambino, alla sua
rinnovata esperienza di «castrazione » tramite la «perdita» del figlio
e al conseguente riconoscimento della non compiutezza simbolica
del femminile all’interno della cultura logo-fallocentrica.
A differenza del lavoro di Mary Kelly, l’interazione testi/foto-
grafie è alla base dell’esperienza della maternità narrata da Susan
Hiller (1940), un’artista la cui opera è una sorta di investigazione
archeologica per dissotterrare e attribuire nuovi significati al non
detto, all’indicibile.
Il principio di organizzazione di 10 Months (1977-79) muove
dall’esplorazione dell’esperienza fisica e mentale della gravidanza
che l’autrice ricompone attraverso la combinazione di foto (ogni
giorno Hiller documentava con uno scatto il procedere della gesta-
zione) e di frammenti dei testi del suo diario: una ricerca personale
attraverso la quale la maternità si fa anche metafora di creatività.
L’artista ne decide l’elaborazione solo in seguito alla «scoperta»
che la durata della gravidanza, 280 giorni, coincide con i 10 mesi
lunari: un ritmo naturale che non ha precisa corrispondenza nel ca-
lendario solare.
Il lavoro si articola intorno al richiamo morfologico del paesag-
gio lunare ed è realizzato utilizzando solo una piccola frazione del
negativo fotografico corrispondente al ventre dell’artista in progres-
siva trasformazione.
Il risultato è una sequenza di immagini che sfuggono a qualsiasi
allusione sentimentale e romantica: dieci blocchi, formati da 28 fo-
tografie ciascuno, compongono ed incorniciano, giorno dopo giorno,

13 M. Kelly, Post-Partum Document, Routledge & Kegan Paul, London


1983, p. XVII
M. Pasinati - Dirsi a «partire da sé»: archetipi, creatività 147

lo sviluppo del suo grembo e sono disposti a parete dinamicamente,


a scala, in modo tale che l’ultima immagine di ogni mese coincida
con la prima del mese successivo. Astratte e asciutte nel loro bianco
e nero, man mano che la gravidanza procede le immagini sembrano
contenute a stento nello spazio inquadrato dalla cornice.
La collocazione dei testi scritti, mentre accentua la dinamicità
della disposizione complessiva dell’opera, fisicamente e concet-
tualmente la bilancia: per i primi cinque mesi, quando la riflessione
riguarda primariamente il livello della trasformazione fisica, l’ar-
tista sceglie di collocare i testi al di sotto dei blocchi di immagini,
mentre l’ordine è invertito nella seconda parte dell’installazione che
corrisponde ai mesi della comprensione, della lettura, della teoriz-
zazione.
Si tratta di espressioni verbali che connettono dimensione fisica
e concettuale, come nelle locuzioni «gravida di pensiero» o «far na-
scere un’idea», e di considerazioni concise e acute che contrastano
qualsiasi lettura sentimentale dei paesaggi lunari per riflettere, ad

Susan Hiller, 10 Months, 10 composizioni fotografiche in bianco e nero e 10


didascalie, 1977-79, particolare

esempio, sulla difficoltà per una donna di trovare le parole per de-
finirsi in un ordine simbolico e sociale che non la prevede come
soggetto.
«Un viaggio all’inferno ed uno in paradiso e la morte di sé per un
nuovo sé»14 così l’artista ha definito i poli estremi di un’esperienza,

14 A. Liss, Feminist art and the maternal, University of Minnesota Press,


Minneapolis 2009, p. 16: «A trip to hell and a trip to heaven and the death
of the self for a new self».
148 Archetipi del femminile

quella della gestazione, vissuta ricollocando la fonte emozionale di


quelle immagini nella dimensione corporea ma senza separare la
donna – il soggetto sessuato dell’opera – dall’artista.
Anche fra le italiane, in quegli stessi anni, l’interrogazione e la
riflessione esistenziale e politica sull’esperienza della maternità si
sviluppa a partire dalla dimensione personale.
Anna Oberto (1934), ad esempio, attiva nell’ambito della speri-
mentazione verbo-visiva, realizza nel 1974 dopo la nascita del figlio
Eanan, la serie L’Utopico dedicata all’esplorazione della dimensio-
ne del materno attraverso la relazione con il figlio del quale docu-
menta le tappe di sviluppo e di scoperta del linguaggio.
L’opera è composta, come un diario, da una sequenza di fogli
sui quali sono assemblati schizzi grafici e scarabocchi, brevi frasi e
parole scritte a mano, ritagli di testi, frammenti di pietre, riscritture
di registrazioni audio del bambino e sue fotografie scattate con una
semplice polaroid, a sottolineare l’immediatezza di una rappresen-
tazione personale ed intima, non certamente la ricerca di una dimen-
sione estetica nell’uso del mezzo fotografico.
In uno dei fogli che compongono la serie, L’Utopico o la scrit-
tura video-fono-grafica, l’artista concentra alcuni dei temi preva-
lenti della sua ricerca: il rapporto madre-figlio, l’indagine sulle
lingue e sul linguaggio, la ricerca di un’espressione femminile au-
tonoma, tema che Anna Oberto svilupperà nel 1975 nel Manifesto
di Nuova scrittura al femminile, contenuto nel manifesto di poesia
visiva La nuova scrittura (pubblicato insieme a Vincenzo Accame,
Ugo Carrega, Corrado D’Ottavi, Vincenzo Ferrari, Liliana Landi,
Rolando Mignani, Martino Oberto) e nel quale si afferma la ne-
cessità di

recuperare un’espressione creativa autonoma NUOVA SCRITTURA al


femminile … una civiltà partecipata creativamente dalla donna LIBE-
RAZIONE DAL LINGUAGGIO AL MASCHILE COME LIBERA-
ZIONE FEMMINILE per una inter/azione dei linguaggi (scrittura, ora-
lità, iconografia, video foto media) verso un’utopistica manifestività
totale dell’individuo.15

15 V. Accame, U. Carrega, V. Ferrari, C. D’Ottavi, L. Landi, R. Mignani, M.


Oberto, A. Oberto, Fra significante e significato. La nuova scrittura, con
un testo di R. Barilli, Università di Pavia, Pavia 1975
M. Pasinati - Dirsi a «partire da sé»: archetipi, creatività 149

La fotografia per interrogare il rapporto madre-figlia è centrale


anche in culturae: florum omnium varietas (nascita) di Amalia Del
Ponte (1936), presentato alla mostra Sulla casa di Fronte curata da
Lea Vergine, nel 1977, nell’ambito di Expoarte a Bari.
Si tratta di un’installazione inconsueta ed originale che si svi-
luppa a terra, su un grande tappeto persiano sul quale l’artista ha
collocato, e poi sovrapposto con un vetro, due diversi tipi di «docu-
menti». Da un lato c’è il classico album di fotografie che ripercorre
i primi otto anni di vita della figlia, dall’altro due immagini di tipo
diverso: una tavola di botanica del ‘600 che porta un cartiglio con la
scritta «eiusdem floris et vaginae magnitudo» e un foglio con impe-
netrabili segni arabescati.
Così Del Ponte organizza e insieme traduce in visione la com-
plessità della relazione madre-figlia: gioca con gli 8 anni della bam-
bina per richiamare «il simbolo dell’infinito dell’incontro tra madre
e figlia, dello specchiamento, dell’incastro, della memorizzazione
reciproca, patto grave, irreversibile, discretamente vertiginoso»,16
mette in relazione forme differenti di generazione e di crescita, nel
rimando al sapere scientifico e a quello esoterico e, in ultima analisi,
costruisce una mappa, un percorso mentale che trascende il vissuto
personale per farsi esperienza comune ad altre donne.
Un diverso modo di guardare la maternità, dalla posizione della
figlia, emerge da un lavoro realizzato da Carla Accardi (1924-2014)
nel 1976: Origine. Si tratta di un’installazione che ricostruisce la
genealogia dell’artista: lunghe strisce di fotografie della vita di Ac-
cardi e di sua madre sono attaccate a parete alternate a strisce di
sicofoil che pendono morbide e libere. Così l’artista ne motivava la
genesi su Data:

nasce come punto di confluenza di alcuni motivi e contenuti da me


vissuti nell’elaborazione e analisi del rapporto fra conscio e inconscio,
madre e figlia. Esso appartiene alla sfera del linguaggio visivo ma non
puramente ottico o celebrativo, piuttosto allusivo nella sua sottolineata
armonia, ad un utopico raggiungimento di liberazione di tali conflitti.
… si pone nella sfera della poesia e del gioco …. allude a diversi piani,
motivi e riflessioni, rifiutandone la drammaticità non perché sottovalu-
ta la sua esistenza, ma quale scelta affettiva e di scaramanzia.17

L’opera fu concepita per la prima esposizione romana della Coo-


perativa Beato Angelico, formata solo da donne. La mostra, dedicata
ad Artemisia Gentileschi, presentava la grande artista del passato

16 A. M. Sauzeau Boetti, Le finestre senza la casa, in “DATA” n. 27, 1977,


p. 34
17 Ivi, p.37
150 Archetipi del femminile

come madre simbolica, mettendo in evidenza una diversa visione


del materno quale funzione simbolicamente generativa, capace, nel-
la continuità della relazione genealogica fra donne, di fare nascere,
sostenere e restituire soggettività al genere femminile.
In forme e modi diversi anche negli Stati Uniti, negli stessi anni,
il tema delle genealogie simboliche femminili segnava con forza la
scena delle arti visive: «Collaboro con le donne del passato, come
con quelle con cui lavoro realmente, per mettere al mondo l’espe-
rienza femminile» affermava, ad esempio, Miriam Schapiro (1923-
2015) a proposito delle sue Collaboration series, collage realizzati,
a partire dal 1976, incorporando riproduzioni di dipinti di artiste del
passato, a rendere omaggio e valorizzare l’esperienza estetica delle
donne, sottraendola all’invisibilità cui una storia dell’arte dominata
dal maschile le aveva condannate.

Archetipo dell’uovo e creatività femminile

Simbolo universale e sacro, da sempre struttura originaria pre-


sente in civiltà e culture anche molto distanti fra loro, l’uovo ha
dato forma visiva ai miti cosmogonici sull’origine dell’universo e,
fin dalle prime espressioni note risalenti al Paleolitico superiore, se-
condo Marija Gimbutas, all’idea di «rigenerazione modellata sulla
incessante creazione del mondo»,18 quindi all’idea stessa della cre-
azione artistica.
Nella ricerca di un vocabolario di forme capaci di organizzazione
in segno visivo il dirsi del soggetto femminile, fin dagli inizi degli
anni ’60 artiste sui due lati dell’Atlantico hanno messo a fuoco e
simbolizzato, a partire dalla propria esperienza, il legame fra dimen-
sione creativa e soggettività sessuata.
Così Miriam Schapiro, ad esempio, agli inizi degli anni ’60 inizia
ad impiegare la forma-uovo archetipica in strutture scatolari ver-
ticali contenenti anche figure biomorfiche astratte, forme-tipo che
presto evolveranno nella Shrine series: configurazione-simbolo del
corpo/anima dell’artista nonché vero e proprio schema formale di
autobiografia pittorica. La struttura-tipo è una successione verticale
di scomparti geometrici sovrapposti, aperti come cornici o finestre.
A partire dall’alto presentano una forma ad arco dipinta in oro, come

18 M. Gimbutas, op. cit., p. 213


M. Pasinati - Dirsi a «partire da sé»: archetipi, creatività 151

nell’arte sacra – il piano dell’aspirazione, del desiderio – cui seguo-


no tre comparti che contengono rispettivamente: un’immagine tratta
dalla storia o dal modo dell’arte, l’uovo che rappresenta «la donna,
la creatività, me stessa», come nota l’artista, e una superficie spec-
chiante per guardarsi dentro, in uno schema che sintetizza i diversi,
frammentari aspetti di un sé che Schapiro percepisce come diviso e
che sempre cercherà di unificare (Shrine for R.K. II, 1963).
In Italia, l’uovo ha rappresentato una costante significativa nella
produzione visiva di Mirella Bentivoglio (1922) poeta, artista visi-
va, infaticabile promotrice di cultura e valorizzatrice della produzio-
ne estetica femminile.
Dopo un percorso esplorativo sulle potenzialità comunicative, a
livello simbolico, delle lettere E ed O e la ricerca sulle possibilità
espressive di una lettera-forma portatrice di più sensi e concetti – l’i-
dea dell’origine, la rappresentazione dello zero, le coppie oppositive
di vuoto/pieno, nulla/tutto – Bentivoglio approda alla forma ovale
a metà degli anni ’70. Così quando nel 1976, a conclusione della
Biennale di Gubbio, l’artista dona alla città umbra la grande scultura
nota come l’Ovo di Gubbio, per la prima volta il paesaggio urbano
italiano viene segnato da un’immagine potentemente simbolica del
femminile.
Il grande uovo, oggi distrutto, era realizzato in frammenti di pie-
tra e integrava due elementi che nella visione di Bentivoglio rappre-
sentano due principi opposti «inizio e fine, materia e logos, genesi e
cultura, fragilità e fossilizzazione».19
È la stessa artista a delineare i diversi riferimenti tematici esterni
all’opera e a guidarne l’interpretazione.20 Da un lato c’è la festa dei
Ceri che si svolge a Gubbio ogni anno a metà maggio, secondo una
tradizione che affonda le sue origini nelle celebrazioni pre-cristiane
della fertilità. L’ovvio richiamo alla forma fallica dei ceri attesta la
natura, tutta maschile, della festa ed è per questo che Bentivoglio
sceglie di collocare il suo ovo in un piccolo slargo lungo il percorso
della processione, ad evidenziare l’inserimento per la prima volta di
un segno femminile in luoghi tradizionali di riti della fertilità consi-
derati esclusivamente maschili.

19 M. Bentivoglio, All’adultera lapidata, Edikon, Roma 1976 citato in F.


K. Pohl, Language/Image/Object: The Work of Mirella Bentivoglio, in
“Woman’s Art Journal”, vol. 6 n. 1, Spring-Summer 1985, p. 18
20 F. K. Pohl, op. cit., pp. 18-20
152 Archetipi del femminile

Mirella Bentivoglio, Ab ovo, ab Eva, Ave Eva, ea, 1979, cartella di 4 disegni
serigrafati nel 1986, courtesy Eidos

Un secondo rimando è alla leggenda dell’incontro a Gubbio fra


San Francesco e il lupo, identificato, in una ricerca iconografica di
un etnologo locale, con una lupa, in latino prostituta. San Francesco
avrebbe dunque parlato ad una prostituta, figura che nella cultura
patriarcale, evidenzia Bentivoglio, delinea la donna-oggetto per ec-
cellenza. Ecco allora che l’Ovo rappresenta simbolicamente un ac-
cordo di pace fra uomo e donna.
M. Pasinati - Dirsi a «partire da sé»: archetipi, creatività 153

L’ultimo riferimento riguarda il rivestimento, in frammenti di


pietra uno dei quali porta l’iscrizione All’adultera lapidata, ad espli-
citare la combinazione fra uovo, simbolo di vita, e pietra, arma di
morte nella pratica patriarcale della lapidazione.
Con l’Operazione Orfeo del 1982, Bentivoglio ripropone anco-
ra l’immagine-emblema della vita con la quale l’artista mostra l’o-
rigine femminile del mondo e feconda una profonda caverna del
Monte Cucco, in Umbria, collocandovi una grande scultura-uovo
in cemento.
L’archetipo si legherà di nuovo alla storia delle forme dell’am-
biente storicamente costruito nella Valle d’Itria: nel 1979 Mirella ela-
bora, infatti, per Martina Franca il progetto dell’Uovo-trullo che però
non sarà realizzato. Rivestito con le pietre dei trulli, il grande uovo
«dedicato alla matrice della casa» intendeva trasformare la forma pa-
triarcale del mezzo uovo, caratteristica della costruzione tradizionale,
nell’uovo totale che, collocato in via Perla vicino ad una fontana,
avrebbe ulteriormente sottolineato, nell’associazione con l’acqua, il
riferimento al simbolico della nascita e del femminile.
In un’opera del 1984, Da uovo a zero, la forma-uovo è invece
svuotata. Si tratta di una manipolazione di un’antica mappa birmana
del ‘400 che rappresenta un mondo ovale con al vertice un piccolo
«albero della conoscenza», simbolo del Logos: fin dove arrivano le
sue radici l’uovo/mondo rimane integro mentre più in là, la super-
ficie terrestre si sgretola in tante amigdale preistoriche la cui forma
ricorda le pietre che rivestivano l’Ovo di Gubbio.
La stessa artista esplicita il senso di questa configurazione come
visualizzazione simbolica «dell’azzeramento dell’emisfero femmi-
nile che il patriarcato ha sottratto al Logos, sfera della pubblica pa-
rola, della pubblicazione, della conoscenza organizzata, lasciando la
cupola sospesa senza base a custodirne il nulla».21
Ma è con la serie intitolata Ab ovo, ab Eva, Ave Eva, ea (1979-86)
che Bentivoglio dà profondità e ulteriore spessore alla generazione
simbolica del femminile.
In quattro cartelle, partendo dall’uovo cioè, metaforicamente,
dall’inizio, l’artista sviluppa la trasformazione di Eva, la prima don-
na, in ea, lei, la donna.

21 V. Surian (a cura di), TERRA MADRE, Colorama Editore, San Donà di


Piave 2012, p. 61
154 Archetipi del femminile

Il processo prende forma sia attraverso il gioco linguistico, sia


tramite la grafica, con la costruzione geometrica dell’intersezione
della forma dell’uovo e della mela, ancora un inizio, quindi, a causa
della scelta di Eva di mangiare la mela.
Il venire al mondo della soggettività femminile, sintetizza pertan-
to Bentivoglio, è l’esito di un percorso che combina la dimensione
organica (mela, uovo), quella razionale (geometria) e il linguaggio
in un perfetto superamento delle contrapposizioni dualistiche (og-
gettività/soggettività, natura/cultura, ragione/sentimento …) su cui
si è fondata tutta la cultura occidentale maschile.
Sono soli alcuni esempi, ma le opere e le proposte espressive esa-
minate danno conto di come, a partire dagli anni ’70 del ‘900, un
certo tipo di espressione artistica delle donne si sia posto in relazio-
ne fluida con le modalità riflessive delle pratiche femministe, facen-
do ricorso all’immaginazione visuale e alla dimensione personale
dell’esperienza.
Così, nelle arti visive, i linguaggi e la creatività femminili hanno
contribuito a trovare e a costruire uno spazio di esistenza simbolica
per le donne, trasformando i segni iconografici in tracce significan-
ti di una nuova soggettività fondata su una diversa concezione del
materno, capace di restituire esistenza simbolica ai rapporti sogget-
tivi tra donne e in grado di mostrare la stessa natura, sessuata, del
processo creativo.

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