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GIUSEPPE MUNFORTE
«Non è niente, su, vero ometto?». Una voce nasale che non
conosce. Accanto a lei si è materializzato il padre dell’amico, un
tizio goffo, alto e curvo, un grande ventre. Parla veloce, a voce
alta, con tono falsamente spigliato. Ripete le parole. Dice: «Eh,
eh,» «come va? Come va?». Andreas non lo guarda. Cerca di
farlo tornare al gioco ma il piccolo non ascolta. Si stringe di più
alla gamba della madre. Elena lo accarezza. Le piacciono i suoi
occhi infuocati e pieni di lacrime di bimbo che piange contro il
pianto. Si abbassa verso il suo orecchio e sussurra frasi bellicose,
spronandolo alla lotta. Alla fine lo convince a tornare tra i com-
pagni – a non cedere con il pianto alla slealtà di un amico.
«Forza ometto, forza» gracchia l’uomo, inutilmente, fingendo
di interessarsi alla sua corsa verso il campo. Poi, rimane lì ben
ritto di fianco a Elena, in una posa quasi militare, da malato
con le articolazioni bloccate. Lei non lo guarda, assorta nel-
l’aura che vagabonda nel campo come una lucciola ubriaca,
dietro la corsa zoppa del mucchio dei compagni. L’uomo non se
ne va. Dopo un momento di indecisione, rompe il silenzio ini-
ziando a parlare a raffica. Si presenta, chiede, in tre frasi dice
di essere professore associato all’università, di avere ormai
superato le cento pubblicazioni, di non aver mangiato la pizza
per un’allergia al salicilico. Elena risponde a mezze frasi, senza
smettere di guardare i bambini.
«E tu, cosa fai di bello?» insiste l’uomo, che non si fa smontare
dal silenzio, non lo vede il suo silenzio, impegnato a tener fede
all’idea di festa e di incontro. Come se ci fosse qualcosa di bello da
fare, come se quello che si fa fosse bello per tutti, pensa Elena.
Se lo trova vicino seduto al tavolo, le presenta la moglie.
Parla di vacanze, di pranzi, del programma scolastico. Chiede,
spiega. La voce gira attorno come il caldo, come le zanzare
24 GIUSEPPE MUNFORTE
attirate dai neon del tendone. Elena guarda verso il campo dove
Sara e i suoi compagni continuano testardamente a giocare a
pallone nell’aria buia. L’uomo a un certo punto ha detto, vol-
tandosi nella stessa direzione: «Eh, certo che senza un padre…
Certo che senza un padre». Poi, ha colpito leggermente il tavolo
con il palmo della mano, ha sospirato, ha rubato una patatina
dal piatto della moglie, e si è versato ancora da bere.
Elena gli sorride. Tra poco sarà ora di andarsene. Sorride perché
quella frase stasera non la scalfisce. Pensa ai richiami di dolce
durezza con cui dovrà convincere i piccoli a seguirla, al loro passo
stanco, ai saluti e alle ultime chiacchiere con i compagni. Dovrà
lavarli di nuovo. Le gambe ricamate dalla polvere, la maglietta
zuppa. Pensa a quando saranno solo loro tre, sul piazzale, nel
gruppo disperso verso le auto. A passo lento, una traiettoria
sbandata di cuori che convergono. All’odore buono del sudore
che riempirà l’auto (un’auto piena di fiori ansimanti), quando
si saranno buttati sul sedile dietro, uno sull’altra, con gli occhi
chiusi, i finestrini aperti dopo un momento di attesa, lei dentro
il loro profumo, per non disperdere subito quella traccia così
evidente della loro presenza.
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abbia tempo per loro, con i quaderni laceri e macchie che sem-
brano fatte della loro stessa carne. Li tollerano solo perché sono
già caduti, e per sempre: già tra i banchi della prima classe, nel
girone dei vinti.
Pensavo a un treno di pendolari, la mattina presto. Le
porte si aprono, gente dappertutto, il marciapiede si riempie
di teste che affogano. La voce dice: Adesso li vedi camminare
in modo buffo, uno qua, uno là, li riconosci, dondolano un po’,
il cappello retroverso, il walkman e le scarpe da clown, lo
sguardo di bestia furba che viene accoppata. Vanno al lavoro.
Li prendono a scarpate, con parole buone, gli fanno credere di
essere liberi.
«Posso sedermi?».
«Certo che puoi sederti».
«Scusa, non l’avevo visto».
«Niente. C’è solo il giornale».
Siamo su una panchina laterale, sul bordo esterno dell’isola.
Davanti si apre il cono dei giardini, dei campi di cemento e dei
palazzi, che solleva un corridoio di luce buona verso il cielo.
«Hai visto?».
Mi porge una busta con la lettera dell’amministrazione che
annuncia una revisione dei contratti.
«Sì».
«Io l’ho trovata solo stamattina».
È seduta di sbieco. Guarda me, guarda attorno. Un maglion-
cino azzurro, pantaloni senza tempo, i capelli più corti. Così
vicina sembra ancora più minuta, una magrezza da ragazzina.
Guardo la lettera, fingo di leggere.
«Ma come possono, dico». Trattiene un sorriso.
Davanti al portone, stamattina, alcuni discutevano anima-
tamente, fermavano quelli che uscivano. Io mi sono defila-
to, promettendo di firmare non so cosa, di partecipare a
un’assemblea.
32 GIUSEPPE MUNFORTE
«Sì, altri soldi non glieli diamo». Non ho molte idee sulla
questione, non voglio deluderla. Non riesco a credere che mi
abbia cercato, era anche lei a zonzo e vuole fare solo quattro
chiacchiere prima di pranzare.
«Quel rudere di casa! Si sta sbriciolando. I soldi non gli
bastano. Capisci? Non mi stupirei se dai muri iniziasse a
uscire l’acqua, come da una gomma piena di buchi. Le bisce,
le alghe…».
Penso al nostro palazzo che affonda, con un movimento
lentissimo, verticale, disintegrato da specialisti invisibili che
hanno lavorato con pochi tocchi sulla sua base corrosa.
«Tutti i giorni» dico, per non prenderla sul serio, «raccolgo
sul balcone le macerie più belle, piovute da sopra. Le numero,
metto la data. Come il Muro di Berlino, che sta finendo pezzo
a pezzo sui mobili dei turisti».
Ride. «Ci sono stata un paio d’anni fa a Berlino».
«Io mai. Un amico mi ha portato in regalo il muro e un
berretto di ufficiale dell’Armata. Sul rinforzo interno, liso,
sudato, c’era scritto il suo nome, a penna».
«Bello».
«Sì. L’avevo appeso in sala. Poi, l’ho regalato a un altro. Ha
insistito a morte per averlo».
«Per la stella?».
«Credo di sì. Come dire, la luce della stella. Che genera
un’illusione buona. Non so. Come se ci fosse sempre una via
d’uscita, una speranza. Anche nel buio».
«Tu ci credi?».
«No. E non ci ho mai creduto. Ma la stella, insomma, face-
va il suo effetto. Come sentire la canzone del vento e della
bufera».
NELLA CASA DI VETRO 33
Ora penso ai suoi scritti come a una parte della vita libera che
ci circonda e che mi piace osservare senza controllo, come se
avessi raggiunto un punto di deriva.
La casa era stata un regalo del mio amico Lele. Sua madre
conosceva un impiegato del padrone, erano stati amici fin da
bambini.
L’ho avuta dopo quindici giorni da quando gliene ho par-
lato. Troppo presto. L’affitto da subito, le rate d’anticipo, un
po’ di soldi di nascosto a qualcuno dell’amministrazione.
Muri neri, fili e un groviglio di canaline scuoiate dove erano
stati gli interruttori, buchi dappertutto, il lavandino senza
rubinetti. Un paio di lampadine appese a mezz’aria le avevano
lasciate. In cucina, nell’angolo stretto, la finestra solcava la
strada. Si vedevano a perpendicolo le teste, gente scivolare tra
i negozi, la macchia in prospettiva, come un’ombra via via più
lunga, di chi si portava in mezzo alla strada e poi si fermava
un attimo, e poi riprendeva, in modo irregolare, la traversata,
fino a raggiungere il marciapiede opposto.
Contro il muro guardavo giù. Il vetro senza tende, la carti-
lagine e il nerbo sottile e freddo delle piastrelle, vento e buio
di fuori, una mattina perlacea di un primo di dicembre. Pen-
savo alla strada affogata dall’acqua, a luci di insegne e auto
come se fosse notte. Ricorderò sempre quel momento di
esaltazione, la casa vuota e sonora alle mie spalle, la strada
44 GIUSEPPE MUNFORTE
uscire alla luce con lei: dentro la fluida luce del traffico e dei
negozi a fine lavoro.
Ci sono andato senza che mi aspettasse. Così, per malu-
more. Appoggiato al muro, nella penombra, mi abbandona-
vo alla sua presenza. Dal portone uscivano e entravano i
notai, non facevano caso a me. Ascoltavo il ticchettio della
macchina da scrivere, voci confuse in cui cercavo di ricono-
scere la sua.
Sentivo il vetro sfiorato dalla sua ombra. In quel posto
profondo di calce spietata, senza forme di vita.
Restavo un po’ e me ne andavo.
Alla sera finiva tardi, a metà giornata l’intervallo era di quasi
tre ore. In un racconto aveva scritto: Esco al buio, affioro
lasciando il suono dei miei passi come un richiamo. La luce
bassa alle finestre, una donna sta spazzando un androne. I miei
passi non finiscono di stupirmi.
Un paio di volte alla settimana usciva con amiche del lavoro.
Avevano tutte relazioni con uomini che non le meritavano.
Capitava che rincasasse solo al mattino, per cambiarsi prima
di andare in ufficio.
Aveva occhi più larghi e ombre attorno, i movimenti ral-
lentati e esausti. Un vestito nero, un golfetto stropicciato. Io
sedevo davanti a lei a un tavolo di bar, di mattina, con la
gente che scappa. Colazione e guardarsi negli occhi. Sapevo
che non aveva dormito a casa.
Poi ha trovato lavoro nell’ufficio export di un cliente del
notaio, pochi soldi ma un orario meno pesante. Io non pen-
savo a lei. Quasi mai. Per un lungo periodo non l’ho più
incontrata. I nostri orari erano molto diversi. Non l’ho più
vista per così tanto tempo che ho anche pensato che avesse
58 GIUSEPPE MUNFORTE
Dopo una sera randagia in giro per i locali, con qualcun altro
recuperato da una sala biliardi dove Lele andava quasi tutte le
sere, di solito restavamo soli, io e lui. Ci fermavamo a parlare
sottocasa, in auto, come da ragazzi. I finestrini appannati, le
parole libere e la voce bassa, come due sposi nel letto. Lo
sguardo nella strada nera, quasi deserta, nessuno si accorgeva
della nostra presenza viva in quel paesaggio assiderato.
Eravamo come in agguato. Poi, Lele diceva: «Lascia che
vada, tra poche ore devo alzarmi».
Mi piaceva entrare nel silenzio del palazzo, il suono sprez-
zante delle cose che muovevo. Sentivo la tensione della vita
concentrata dietro gli usci, come se la notte e il silenzio faces-
sero polvere delle protezioni.
Muovevo un passo nel buio, alla luce dell’ingresso sbirciavo
in camera. Amavo restare a osservarli. Le coperte in disordine,
la posizione bizzarra del corpo. Guardavo a lungo la loro
espressione senza difesa, a rischio di svegliarli. Non potevo
trattenermi dal toccare il loro volto con un bacio.
Certe volte erano sul letto grande, addosso alla madre. Il
piccolo Andreas raggomitolato vicino al suo viso, Sara distesa
accanto. Sembrava che qualcuno avesse avuto cura di loro,
posandoli vicini nel sonno – un piccolo spazio tra moltitudini –
perché non si perdessero.
Elena teneva i capelli un po’ più lunghi. Nella penombra
della stanza, facevano un centro di luce. Guardavo il suo viso
dolce, i capelli sul cuscino, i bambini uniti a lei come a materia
82 GIUSEPPE MUNFORTE
La mattina del giorno più bello della mia vita è venuta come
niente, quasi che un coro si tenesse in sordina nell’aria ancora
umida, dietro il movimento delle solite cose, nel disordine
delle nostre strade.
Un coro lontano, che mi toccava appena con il suo riverbero,
perché la gioia e la paura non diventassero insostenibili.
Poi, avrei camminato per strada quasi correndo, senza vedere,
come attraversando un ricordo, sentendo quanto mi restava da
vivere di quella giornata come un’immacolata e lenta apertura
verso qualcosa che era già misteriosamente accaduto. Avrei
sentito, andando qua e là, entrando in questo o in quel negozio
e incrociando gente e fermandomi a parlare con qualcuno, per
la prima volta nella mia vita, cosa sia la leggerezza.
Quando il telefono aveva squillato, prima dell’alba, avevo
cercato di non pensare a niente.
«Sono io» mi diceva Elena. «Ho voluto chiamarti io, perché
di loro non mi fido. Ho avuto le contrazioni tutta la notte,
non manca molto. Vieni subito».
Sentivo l’aria contropelle, i muri che scorrevano in penom-
bra e sotto la luce gialla dei lampioni. La strada ancora umida.
L’edicola di giornali sulla provinciale e l’uomo che lanciava la
84 GIUSEPPE MUNFORTE
Non voglio avere segreti, con lei. Lei con me non ne ha avuti. Mi
ha detto sempre tutto».
«Voi vivete in un modo strano. In un modo bello».
«Sì. Sembra una comune. I soldi, i limiti, sì, non ci sono quei
limiti… A volte penso che se mio padre fosse vivo, sarebbe lo
stesso. Anche lui era uno così, che guarda solo al senso vero delle
cose».
«Buongiorno, signora, io ho portato suo figlio nel mondo del
sesso».
«Solo questo?».
«Lei penserà a questo. Questo sarà il pensiero più difficile».
«Ti piacerà. Ha fatto grandi cose per noi».
«Lo so, mi piacerà. Ha fatto te».
«Sarai tu a rischiare. Perché ti convincerai a non partire. A
entrare nella nostra comune».
19
Quando alzo gli occhi dalla mia cassa come verso qualcosa
di grande, sento che ogni posto e ogni momento possono
essere il posto e il momento più alti.
Elena dice: «Mi piace ascoltarla, non so, anche le cose più stu-
pide sembrano prendere un colore diverso. Quel suo colore.
NELLA CASA DI VETRO 109
dove si respira un’aria che non troverò mai più. Aveva amato
ogni pagina delle decine di libri studiati. Là dentro percepiva le
novità, la sfida. Sfida di pensieri, di territori da esplorare. Aveva
amato ogni ora di lezione, ogni parola. Quando le capitava di
arrivare all’università afflitta da un sentimento di sfiducia, di
perdita, dopo aver attraversato in solitudine le strade caotiche e
indifferenti della città, in pochi istanti, dentro l’aula, qualcosa in
lei provocava un fenomeno come di levitazione. Di separazione
dalla materia greve dello sconforto. Le confermava di aver fatto
la scelta giusta – di non essersi perduta.
Ora stava finendo, passo dopo passo era arrivata alla tesi. Con
lavoretti senza futuro, l’assegno di studio, libri comprati e riven-
duti, dopo aver setacciato le biblioteche in tutta la provincia. La
discussione fissata per il tardo pomeriggio. Un giorno di metà
dicembre, senza luci, di aria carica di grigio e di correnti gelide,
che faceva risaltare l’universo separato dei corridoi caldi e polve-
rosi dell’università, il loro silenzio ottuso. Avevano scelto un’au-
letta del seminterrato, una sottoaula sconosciuta davanti alla
quale si erano seduti gli altri candidati, accompagnati da fami-
liari, da amici. Lei non aveva voluto nessuno. Aveva preteso che
non venissero a ascoltarla, come se si trattasse dell’ultimo atto di
una sfida che nessuno aveva potuto comprendere. Come se non
volesse esporli, per troppo amore, al rischio, come aveva esposto
se stessa in tutti quegli anni.
Chissà se anche a suo padre avrebbe chiesto di stare lontano,
quel padre che ricordava solo in poche immagini stravolte dalla
distanza, forse false, forse derivate dalle fotografie, dai libri e
dagli appunti: da quella traccia umana che da ragazzina non
smetteva di esplorare. Dalle fantasie, dai dialoghi incantati e
segretissimi che per anni aveva fatto con lui appena uscita dal
NELLA CASA DI VETRO 133
non darlo a vedere, senza dire niente. Non avrebbe pianto. Tratte-
nendo con durezza le lacrime. Si sarebbe separata silenziosamente
da lui, nell’aula piena di bambini disorientati, come lui sentiva di
non riuscire a fare con lei. Piccola, i capelli ricci, il grembiulino da
marionetta, gli occhi come dolci ninfee dietro le lenti degli occhiali
di plastica. Anche suo padre ora è come una pellicola trasparente
sulle cose, vive nel paradiso del mondo che entra nel suo sguardo.
Nell’area del salottino d’attesa ci sono una ventina di persone.
Fingono di leggere il giornale, guardano dalla vetrata, non par-
lano, spezzano la tensione con il silenzio. Pochi siedono sulle pol-
troncine. Lei ne approfitta. Sul tavolino di fianco ci sono copie
della rivista aziendale. La sfoglia. Ci sono grafici, pagine con gli
ultimi risultati delle vendite. Un pezzo su business e benessere.
Un articolo dell’amministratore delegato. La ragazza si sofferma
a lungo sulla fotografia di fianco alla firma. Un volto abbronzato
di sessantenne, gli occhi chiari, rughe sottili, verticali, sulle
guance. Cosa c’è, in questa testa?, pensa. Non riesce a distoglie-
re lo sguardo da quello sguardo. Qualcosa di simile alla perfezio-
ne delle macchine di controllo. Un modo denaturato di entrare
nel mondo, di starci. La base biologica deviata verso forme sco-
nosciute di potenza, replicabili. Ci sono esseri, pensa la ragazza,
che sfiorano i piani bassi della vita come spettri, quando gli
tocca. La loro presenza immateriale non concede contatto. Per-
ché la vita è verticale, fatta di strati che male si incrociano,
descritta da una planimetria precisa, uguale a quella che ha
visto vicina agli ascensori nell’atrio della torre, ogni piano una
funzione, fino all’ultimo, quello della presidenza.
I viaggi più avventurosi, dice un pensiero della ragazza, oggi
non si fanno in orizzontale, verso paesi sconosciuti (ne esistono
ancora?), ma attraversando gli strati verticali della metropoli.
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me, che portavo nel cuore il tuo desiderio, sicuro che non lo
potessi capire. Alla sera riempivi il lettino di peluche. Ne avevi
decine. Tutte le razze. Costruivi famigliole, ghirlande di musi e
di lingue penzoloni che proteggevano il sonno. Io ascoltavo in
segreto le tue parole per loro. Posavo un pezzo del mio cibo di
fianco al cucciolo che cenava con noi.
Le prime figure del test sembrano proprio quello. Cani sorri-
denti, di corsa, o tremanti, su due zampe, con il muso rivolto al
padrone. Poi, hanno fatto rispondere a dei quiz. Matematica da
scuola media, a tempo, una decina di secondi per ognuno, se vuoi
farcela a completare. Le percentuali si incrociano con i problemini
sulle unità di misura, le divisioni a due cifre con le frazioni.
Sono stati divisi su tre tavoli oblunghi. La ragazza di fianco a lei
è già presa dal panico. Cerca di guardare il suo foglio, di copiare:
lei lo sposta per farle vedere meglio. Dice qualcosa sottovoce, le
chiede: «Ma tu cosa hai fatto? Ma a te cosa viene in mente?».
Le esaminatrici sono tre, girano tra i tavoli, passano le schede,
fanno partire il cronometro dell’orologio. Incalzano, tengono
alta la pressione. «Forza, su, ancora dieci secondi. Ora basta,
staccare le penne, consegnare!». «Avete messo il nome?». «Chi
non completa con chiarezza l’intestazione, verrà escluso!».
«Ancora una volta e ti sbatto fuori!». «Allora, cosa c’è da parlare?
Questi test li farebbe mio figlio che va alle elementari». Alzano
la voce, qualcuno cede, gira il foglio avanti e dietro, senza più
afferrare niente. Una posa la penna ma non ha il coraggio di
alzarsi e andarsene. È una buona occasione, pochi soldi ma un
buon contratto. La ragazza, lei, cede alla provocazione, non
può farne a meno. Con questa testa, andrò solo alla deriva.
Osserva le esaminatrici, sembrano soddisfatte di quello che
hanno raggiunto. Un buon lavoro, un’azienda dove puoi starci
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«Come mai?».
«Non so. Non c’ero con la testa. Mi hanno fregata».
«Va be’, almeno non me lo dire».
«Non vuoi saperlo?».
«Cosa c’è da sapere?».
«Ti ricordi cosa chiedevo sempre, da piccola?».
«No, non mi ricordo».
«Chiedevo di avere un cagnolino».
«Ma tu sei matta. Cosa c’entra il cagnolino?».
«Lo stesso cagnolino, uguale a quello che disegnavo sempre, era
in uno dei test».
«…».
Pensa un’ultima volta al cuoio pregiato del volto dell’ammini-
stratore, ai pavimenti maestosi, alle ragazzine nel bunker della
reception per un’intera giornata di sole.
«Non è strano?».
«No, non è strano. Tu sei strana».
«Ma lo stesso, capisci? Quello che doveva assomigliare al cuc-
ciolo che portavo sempre a tavola».
«Mi stai prendendo in giro?».
«No. Mi è passato tutto in un momento per la testa, il cane, i
giochi, le sue parole, il diario».
«E hai perso il lavoro».
«Sì. E sotto quella figura ho scritto il suo nome».
Una volta ancora.
Dal vetro osserva il movimento dei camion, la polvere, il cranio
degli operai modellato dai caschetti di plastica. La torre di vetro
brucia nel sole. Prima ero lassù, al dodicesimo piano. Si è tolta la
giacchetta, sente il sudore scendere libero dalle ascelle ai fianchi.
Gli uomini là dentro vestono pesante, abiti da cerimonia e
166 GIUSEPPE MUNFORTE
camicie a maniche lunghe. Non pensa più alla madre, che forse
sta ancora parlando. Tra poche ore gli uomini usciranno.
Toglieranno la giacca nel fuoco basso della sera, per non stropic-
ciarla. Anche lui l’avrebbe tolta, incamminandosi senza fretta,
correnti di energia dal selciato – tutto il tempo che non si spende.
La rivista rimarrà sul tavolino, all’interno brilla un volto di cuoio
e lustrini. Tra le scrivanie degli open space ci sarà disordine, i
cestini pieni di cartacce, le sedie disallineate daranno l’impres-
sione di trattenere il movimento di chi se ne sarà andato. Lo
schizzo con la figura che sembrava un cagnolino sarà finito
nello schedario dei test. La sala riunioni sarà la prima a essere
ripulita dalle donne delle pulizie. Se volessi, potrei disegnarla
facilmente quella figura, pensa la ragazza, io che non ho mai
saputo disegnare. Una linea semplice, senza incertezze. Muove
la punta del dito sul vetro sporco della cabina. Una bestiola con
le zampe alzate. Dopo venti anni è ancora lì. Tutto può essere
molto semplice, sembra pensare la ragazza, osservandola. Nel
nero della polvere. Una linea appena appena più consistente
della luce che lasciano i morti nei suoi occhi.
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«Ti chiama?».
«Sì. Tutti i giorni, a lavoro. Dice cose alle quali non posso
credere. Come potrei credergli?» dice Elena, guardando
Gabriele negli occhi. «Non sa chi sono. Mi ha conosciuto una
sera, in un locale. Abbiamo parlato un po’. E il giorno dopo ha
iniziato a dirmi le cose che mi dice».
Il mio amico dice: «Ti piace?».
Elena sorride e risponde: «Sì, mi piace».
Lui sorseggia un po’ il liquido rosso, sposta lo sguardo sui
palazzi davanti. Dice: «Davide sarebbe contento di te».
«Sì» sussurra lei. «Davide è stato sempre contento di me».
Ha il viso di bambolina sincera, un sorriso appena accennato,
gli occhi verdi pieni di luce.
Dice: «Ma io voglio aspettare, Sara una volta…».
«Per i piccoli ci siamo anche noi» la interrompe Gabriele,
parlando piano e cercando profondamente il suo sguardo. Lei
lo accarezza sui capelli.
«Ma io non ho bisogno di quelle parole. Non le voglio. Non
le voglio anche per loro, capisci. Non dovranno saperlo, non
devono avere un altro padre».
Lele non la contrasta. Elena rimane in silenzio, indecisa.
Poi, dice: «Tutte quelle parole…» e toccando il braccio del
mio amico chiede la cosa che tante volte ha chiesto a me,
senza che sapessi risponderle: «Perché proprio io?».
Lui la guarda e sorride, senza dire niente, poi la tocca dolce-
mente su una guancia.
«Perché,» le dico, «tu sei una bambolina coraggiosa».
Quando rientrano, i piccoli hanno rovesciato gli oggetti
della busta sul divano. Gabriele si siede vicino e prende
Andreas sulle ginocchia, iniziando a giocare con loro.
174 GIUSEPPE MUNFORTE
Gli passa una mano tra i lunghi capelli chiari, un gesto che
non ricorda di aver fatto da quando era ragazzino. Lavora,
vive in casa. È stato per alcuni anni con una ragazza che sem-
brava quella giusta. Poi, è successo qualcosa di misterioso, non
ha voluto più vederla. Non ne ha parlato con nessuno. Ha con-
tinuato a vivere così, lavorando e tornando a casa, facendo
progetti strambi con gli amici. La ragazza ora è sposata e ha
già un figlio. Quanti anni sono passati?
Sara invece se ne è andata presto da casa. È tornata. Poi, ha tro-
vato un appartamentino nel quartiere. Ha cambiato uomini,
chissà quanti lavori. Ma non ha mai provato quello che sta pro-
vando ora, come se solo adesso la loro molecola stesse per sfaldarsi.
Ha già fatto il check in, è tutto pronto. Le valigie scivolate sul
nastro, verso l’imbarco. Come è strano percepire per l’ultima volta
la loro unità vitale in uno spazio tanto astratto, attraversato dagli
annunci degli speaker, dagli sguardi senza fuoco di quelli che pas-
sano. Andrà a Londra, e poi chissà dove.
Elena resta vicina a lui, nervosa, gli arriva appena alla spalla.
«Non mi hai ancora dato l’indirizzo» dice, osservando la figlia
come se fosse una materializzazione di se stessa nell’età più
inquieta. Prova il piacere delle domande inutili, per non sentire
ancora il silenzio che sarà.
«Vi chiamerò tutti i giorni. Promesso. L’indirizzo per ora è solo
provvisorio, ci resterò pochissimo».
«Soldi non ne hai voluti».
«Non mi servono. Ne ho abbastanza».
«Se non ti troverai bene… Se il lavoro…».
«Mamma…».
Ha lasciato l’appartamento da alcune settimane, sgombran-
dolo dai pochi mobili e vendendoli. In attesa del giorno, è
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FINE
Ciao, piccola
Questo libro è stato finito di stampare nel mese di marzo 2014 a cura di PDE Spa
presso lo stabilimento di LegoDigit s.r.l. – Lavis (TN) su carta PAMO uso mano 2