RIPENSANDO
QUARANT’ANNI
DI SERVIZIO
ALLA PASTORALE
GIOVANILE /1
(NPG 2009-05-12)
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Ripensando PG /1. Uno sguardo al passato
Domanda. Ormai sono più di quarant’anni che lei si interessa di pastorale giovanile. Ha
incominciato a farlo molti anni fa, quasi agli albori degli studi scientifici sulla pastorale giovanile.
Le dispiace se le chiediamo di raccontarci un poco della sua storia?
Risposta. Non mi dispiace affatto. Al contrario, ne sono molto contento, perché considero
importante leggere il vissuto attuale con uno sguardo attento a quello che è capitato negli anni
scorsi, nella mia storia personale e in quella di tante persone che si sono interessate di
pastorale giovanile.
Il mio cammino formativo è stato quello tipico di ogni salesiano. Prima degli studi di teologia ho
trascorso quattro anni a contatto diretto con i giovani. I giovani del mio primo impegno pastorale
erano ragazzi molto poveri. Lavoravo in un orfanotrofio vicino a Bologna, in cui erano raccolti
oltre 100 giovani orfani di guerra. Alcuni di questi poveri ragazzi avevano visto morire i loro
genitori sotto i bombardamenti. Altri erano rientrati in Italia dopo aver trascorso molti anni
lontano da casa loro, a causa dell’immigrazione forzata dei loro genitori.
Questi primi anni di contatto diretto con tante situazioni giovanili inquietanti, in una esperienza
che riempiva tutta la giornata, mi ha sollecitato a pensare. In quegli anni la mia preparazione
culturale era molto scarsa, anche la sensibilità con cui guardavo la realtà era certamente molto
più povera dell’attuale. Ma la prima esperienza lascia un segno.
Dopo questi anni di lavoro diretto con i giovani sono stato inviato a studiare prima teologia e poi
a qualificarmi nell’ambito della teologia pastorale. Terminati gli studi, il mio superiore mi ha
lasciato libero di scegliere tra due possibilità concrete: andare all’Università Salesiana a
insegnare le discipline che avevo studiato, oppure lavorare sul campo diretto con i giovani in un
oratorio. Non ho avuto dubbi e ho scelto di lavorare in un oratorio. E ho avuto la fortuna di
lavorare in un oratorio pieno di giovani all’inverosimile. In quest’oratorio ho tentato di realizzare
sul piano concreto le idee che avevo maturato negli anni di formazione e soprattutto di
sperimentare un modo di vivere quell’impegno missionario che sentivo decisivo per la fedeltà
alla mia vocazione.
Quando penso a quegli anni, lo faccio con gioia, perché preparazione culturale, entusiasmo
giovanile, disponibilità di tanti amici collaboratori, hanno permesso di realizzare una serie di
esperienze che hanno funzionato come criterio di verifica e praticabilità delle intuizioni maturate
nei processi formativi.
Dopo tre anni di lavoro felice nell’oratorio, il mio superiore mi ha rilanciato, più o meno, la stessa
domanda di tre anni prima: «Scegli tra la possibilità di continuare il lavoro nell’oratorio o di
cambiare radicalmente lavoro assumendoti la responsabilità di una rivista di pastorale
giovanile».
La mia risposta tentava di riprodurre la risposta di prima: preferisco restare nell’oratorio. Ma il
mio superiore mi ha detto, con un bel sorriso, che era contento della mia scelta… ma la sua
decisione era diversa dalla mia.
Di conseguenza ho dovuto in fretta e furia organizzare tutte le mie cose e trasferirmi al «Centro
salesiano di pastorale giovanile» che allora aveva sede in parte presso il «Centro catechistico
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Quegli anni alla redazione della rivista «Note di pastorale giovanile» sono stati un momento
specialissimo nel mio processo di formazione. L’elaborazione della rivista, il confronto con gli
studi che progressivamente commissionavamo per la pubblicazione, che io per dovere
professionale dovevo leggere e rileggere con molta attenzione, e soprattutto gli incontri di
redazione, sono diventati una sorgente preziosa di formazione. Gli incontri redazionali mi hanno
permesso, infatti, il contatto con persone incantevoli dal punto di vista della capacità riflessiva e
di una visione piena della freschezza del Concilio, con operatori di pastorale che hanno offerto
la testimonianza della loro prassi a tutti coloro che si interrogavano sul come lavorare
seriamente con i giovani, confratelli miei nel sacerdozio e nella Congregazione Salesiana che
veramente vivevano con grande entusiasmo la passione di Gesù e di Don Bosco.
Grazie al lavoro presso la redazione di «Note di pastorale giovanile», ho potuto ripensare a
quello che avevo vissuto lavorando nell’oratorio salesiano di Sesto San Giovanni, e a quello che
avevo studiato negli anni della formazione sacerdotale e specialistica. Nella mia sensibilità e
nella mia riflessione è andato progressivamente costruendosi un progetto di pastorale giovanile.
I germi seminati in quegli anni si sono verificati e consolidati. Molte cose sono cambiate da
allora… ma quello che era stato seminato, ha lasciato il segno.
Una dimensione tipica di quegli anni era l’attenzione alla politica e all’educazione. Nei nostri
incontri redazionali la teologia e la teologia pastorale venivano continuamente ripensate e
ricostruite secondo le esigenze che nascevano dalla preoccupazione educativa e da una lettura
culturale e politica della situazione generale e giovanile.
Ho raccontato questa pagina della piccola storia della mia formazione, per la convinzione che
ciascuno di noi è frutto delle riflessioni che hanno riempito la sua ricerca, delle esperienze che
ha avuto la fortuna di vivere, del confronto con le persone che ha avuto la gioia di incontrare. Di
questo sono oggi profondamente convinto: non possiamo crescere nella qualità della nostra
cultura e, di conseguenza, nella qualità del nostro servizio ministeriale, se non ascoltando,
accogliendo, riscrivendo, nel silenzio della propria interiorità, tutto quello che la vita – meglio: lo
Spirito di Gesù che opera attraverso la vita – ci regala.
D. Da quello che si comprende, l’inizio della sua riflessione è coinciso abbastanza con la
stagione ecclesiale della nuova sensibilità conciliare e, a livello sociale, con i tempi della
contestazione giovanile. Tutto questo ha inciso sul modo di fare ricerca e di elaborare progetti?
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molti anni fa. Se tento un calcolo approssimativo… arrivo almeno ad una quarantina d’anni. Non
sono pochi. Certamente sono la stragrande maggioranza della mia vita. Tutto questo,
evidentemente, pesa non poco anche sullo stato e sulla qualità attuale del mio servizio. Non
posso assolutamente presumere che la storia della pastorale giovanile italiana sia intrecciata
con la mia storia personale. Sono convinto, al contrario, che la mia riflessione è stata
fortemente influenzata dal vissuto ecclesiale di questi ultimi quarant’anni. Posso parlare di me,
solo dichiarando la dipendenza da quello che è stato realizzato. Sarei felice se potessi
constatare che qualche piccolo contributo ha influenzato anche il vissuto di altri.
Gli anni di cui sto parlando sono quelli a cavallo tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 70.
Chiunque conosce un po’ di storia della situazione culturale e sociale italiana di quei tempi, sa
che quelli erano anni caldi. Stava, infatti, iniziando e consolidandosi un modello di cultura, di
riflessione, di progettazione sociale e politica molto originale. Nella Chiesa l’effetto prezioso del
Concilio stava veramente portando i suoi frutti: scelte innovative, tentativi coraggiosi di futuro.
Non mancavano le resistenze e tensioni involutive.
Oggi ci troviamo a vivere una stagione molto ricca per la pastorale giovanile italiana e mondiale.
Questa stagione fortunata ha i suoi problemi, ci sono tensioni, ci sono modi assai diversi di
affrontare la stessa questione. Ma innegabilmente l’attenzione attuale è alta e le realizzazioni
preziose. Nessuno può guardare con nostalgia al passato, come se allora le cose andassero
meglio di oggi.
Purtroppo, invece, in quegli anni la pastorale giovanile, così come noi oggi la intendiamo, era
quasi totalmente inesistente. Dei giovani s’interessavano in tanti. Le Congregazioni religiose
che hanno come carisma l’attenzione educativa, erano in prima linea nel servizio ai giovani.
Però non era presente, in modo consapevole, un progetto elaborato, verificato, motivato di
azione pastorale con i giovani. Là dove c’era, era notevolmente ancorato allo spirito
preconciliare. Basta pensare alle scelte concrete, alla vita sacramentale e spirituale, alle
preoccupazioni dominanti.
Nella stragrande maggioranza delle diocesi l’azione pastorale era affidata all’Azione Cattolica o
a qualche movimento. I giovani che non appartenevano a queste realtà istituzionali erano ai
margini della tensione ecclesiale. Dovevano partecipare assieme a tutti gli altri cristiani alle
iniziative messe in cantiere anche se erano prive (o quasi) di sensibilità giovanile.
Scarseggiavano presenze amorevoli di servizio ecclesiale, vicine veramente al loro mondo.
In quegli anni, poi, come tutti noi sappiamo molto bene, l’associazionismo ufficiale è entrato in
crisi. Per questo il servizio qualificato dell’Azione Cattolica, per esempio, non riusciva più a
raggiungere una fetta rilevante di giovani. Nello stesso tempo, però, sono sorti gruppi e
movimenti spontanei, di forte capacità aggregativa e, a suo modo, formativa. In essi, purtroppo,
l’educatore, ecclesiale soprattutto, era notevolmente assente. Eppure stava decisamente
crescendo, proprio grazie al Concilio da una parte e ai rivolgimenti culturali dall’altra, il bisogno
urgente di fare qualcosa di serio con e per i giovani. A confortare il bisogno di fare qualcosa di
concreto verso i giovani si è alzata la voce del Papa che ha ripetutamente sollecitato i vescovi
di tante nazioni del mondo (e, con un tono tutto speciale, anche i vescovi italiani) a far qualcosa
di concreto per i giovani, per aiutarli a scoprire il dono della Chiesa, nell’incontro personale con
Gesù.
Molti di noi (la rivista «Note di pastorale giovanile» in prima linea) avvertiva con sofferenza la
situazione. Cercavamo qualcosa di consistente da offrire. Certo, sotto l’urgenza dei problemi…
non sempre è facile procedere con la calma e l’equilibrio necessario.
Lo sappiamo e lo diciamo oggi, favoriti dalla calma dominante. Allora, invece, regnava la fretta
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di non lasciarsi travolgere dai cambiamenti. Spesso ci dicevamo: e se invece di correre sempre
dietro al treno, lo precedessimo, una buona volta, alla stazione successiva?
Un momento di particolare grazia è stato il documento dei Vescovi tedeschi sulla pastorale
giovanile. Essi hanno introdotto una formula felice, quando hanno indicato nella pastorale
giovanile una «autorealizzazione e diaconia» della comunità ecclesiale verso i giovani.
Tutto questo ha orientato la mia riflessione personale, sollecitando verso la sperimentazione di
modelli nuovi.
R. Il lungo cammino ha un suo filo conduttore. Un poco alla volta ha preso consistenza riflessa,
fino al punto di riuscire persino a dichiararlo con espressioni che hanno fatto una certa fortuna
tra tutti coloro che sono appassionati della pastorale giovanile: i discepoli di Gesù sono
impegnati a giocare tutte le loro risorse per aiutare i giovani a vivere pieni di speranza, ad
avvertire che la vita che stanno vivendo è un dono ed è una responsabilità grande, a scoprire
che possiamo vivere la nostra vita, nella gioia e nella speranza, soltanto se abbiamo la gioia di
viverla dentro la comunità dei discepoli di Gesù, condividendo con essi la grande impensabile
fortuna di aver scoperto che Dio ci vuol bene in Gesù di Nazareth.
Per motivare le ragioni di queste preoccupazioni, preferisco partire dal negativo e dal
problematico, perché è più facile andare al positivo e al propositivo. Capitava così spesso
anche all’inizio nelle nostre riflessioni.
Noi venivamo da una tradizione pastorale che collocava i suoi progetti su uno stile di vivere la
vita cristiana di tipo molto concreto e un poco moralistico. Gli esempi sono facili: la pratica
sacramentale, l’insistenza forte e motivata su una serie di atteggiamenti etici, l’osservanza di
tradizioni e devozioni, sperimentate e consolidate lungo secoli di vita ecclesiale… e poi le molte
cose da evitare e le tante altre da fare.
A monte di questi modi di vivere – e delle raccomandazioni che li giustificavano – stava una
concezione della salvezza cristiana. Si esprimeva nella consapevolezza di una continua,
necessaria, faticosa lotta tra tutto ciò che è considerato bene e tutto ciò che è considerato male.
La definizione di ciò che è bene e di ciò che è male proveniva dalla tradizione, dai racconti
edificanti sulla vita dei santi, da una letteratura formativa prevalentemente moralistica. In questa
prospettiva, era chiaro che l’unico modo serio di assicurare la salvezza consisteva nel fuggire
ciò che era considerato male e tutte le occasioni che potevano portare a questa scelta negativa.
L’impresa era faticosa… assomigliava alla scalata di una ripida montagna. La presenza di Dio
nella nostra storia veniva rappresentata attraverso una visione abbastanza pessimistica e
burocratica.
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D. Alcuni di noi ricordano quei modelli. Per altri rappresentano un passato ignorato. Ci aiuti a
capire meglio cosa è capitato nella sua riflessione di quegli anni, pensando a chi ha creduto a
quegli orientamenti tradizionali e a coloro che li ignorano totalmente…
R. Non voglio continuare con questa litanie di fatti… che coloro che hanno vissuto il servizio
pastorale prima e immediatamente dopo il Concilio ricordano bene. Forse… ho un poco
drammatizzato le tinte. Ma mi sta a cuore indicare con quale modello di formazione e di
esperienza cristiana la pastorale giovanile, di cui mi interessavo, ha fatto i conti. Mi è parso
subito evidente che qualcosa andava ripensato con coraggio e capacità riflessiva.
Quelli però erano anche i tempi felici in cui si respirava l’aria di Pentecoste del Concilio, e nella
mia Congregazione era stato celebrato un coraggioso Capitolo di riforma.
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I cambi culturali e la nuova sensibilità teologica offerta dal Concilio ci offrivano la constatazione
che tutto questo andava davvero molto stretto se veniva proposto ai giovani come una bella
notizia per la vita cristiana. La tentazione facile, che purtroppo molti educatori stavano
assumendo in quegli anni belli e difficili, portava ad abbandonare quello che c’era stato
consegnato, pensando che tutto dovesse ricominciare da capo, ignorando il passato. Non
volevo scivolare in questo pericoloso modello rinunciatario. Ma nello stesso tempo non me la
sentivo di assumerlo tranquillamente, per onestà vocazionale. Lo riconoscevo prezioso ma
impraticabile. E così con tanti amici che condividevano con me le stesse preoccupazioni, ci
siamo messi a pensare, a progettare, a sperimentare.
La serietà del compito richiedeva prima di tutto il coraggio di una fondazione teologica, matura e
motivata.
Il Concilio ci aveva consegnato un volto nuovo del Dio di Gesù. Ci aveva fatto scoprire che Dio
è un mistero grande, inaccessibile, che nessuno di noi può pretendere di possedere. Abbiamo
scoperto che era davvero rischioso parlare o fare proposte, come se fossimo noi gli interpreti
ufficiali della sua volontà. Nello stesso tempo abbiamo scoperto, nello spirito del Concilio, la
dimensione pastorale dell’evento dell’Incarnazione: in Gesù di Nazaret, il volto misterioso di Dio
si è fatto vicino, incontrabile, sperimentabile. In Gesù era possibile scoprire Dio nella sua
autenticità, incontrarlo come la ragione totale della nostra vita, nella debolezza e nella grazia
della sua umanità. In lui, abbiamo ritrovato, come altra grande e bella notizia, la nostra
umanità… la nostra vita… in una solidarietà impensabile e gratuita con l’umanità di Gesù.
Su queste riscoperte, vissute con grande entusiasmo, sono andati maturando i criteri per un
rinnovamento della pastorale giovanile. Ne ricordo due a battute velocissime.
Il primo riguarda il significato teologico della vita quotidiana, il grande sacramento della
presenza e dell’incontro con Dio, in Gesù. Dalla parte della vita è stato possibile riformulare un
serio progetto di spiritualità e riscrivere, almeno a grandi tratti, il percorso sacramentale e
celebrativo.
Il secondo chiama in causa con forza l’urgenza dell’educazione, proprio nella sua dimensione
persino teologica.
La vita è sacramento dell’incontro con Dio quando è autentica, costruita ed espressa secondo il
progetto di Dio, incontrato in Gesù. Purtroppo le cose non vanno così. Il peccato inquina il
nostro stile di vita. Per questo la vita non è trasparenza di Dio ma ostacolo. Non la dobbiamo
fuggire… ma la dobbiamo cambiare. L’educazione rappresenta lo strumento privilegiato
attraverso cui possiamo restituire ad ogni persona la qualità della propria vita.
D. Ha già ricordato varie volte il riferimento all’evento dell’Incarnazione, persino come chiave
interpretativa della linea pastorale del Concilio. Ci deve proprio aiutare a comprendere il
contenuto e la ragione di questo orientamento.
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Nell’Incarnazione Dio si è rivelato all’uomo in modo umano. Il suo ineffabile mistero è diventato
comprensibile e sperimentabile perché ha preso il volto e la parola di Gesù di Nazareth. È
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D. Una delle obiezioni più frequenti nei confronti del criterio dell’Incarnazione riguarda il rischio
di ridurre tutta la persona di Gesù e il suo progetto di salvezza alla sola Incarnazione. Sembra
che non ci sia più posto né per la Pasqua né per gli eventi escatologici. Che ne dice? Su questa
obiezione ha certamente riflettuto. Può aiutarci a comprendere meglio la prospettiva?
Incarnazione e pasqua
Gli esempi mi aiutano a ridire il senso in cui l’evento dell’Incarnazione è stato scelto come
centrale del progetto di pastorale giovanile.
La storia di Gesù è composta di tanti eventi. Li possiamo elencare in un ordine temporale o in
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un ordine d’importanza. Il fatto misterioso che Dio si è fatto volto e parola nella grazia
dell’umanità di Gesù, e cioè l’evento dell’Incarnazione, rappresenta la prospettiva da cui
interpretare chi è Gesù, cosa ci dice, quale Dio è quello che lui chiama padre, a cui dà volto e
parola. Solo in questa prospettiva si può comprendere la forte polemica che Gesù ha vissuto
con coloro che si pretendevano i maestri della legge.
Essi contestano le parole e i gesti di Gesù, perché li interpretavano e li valutavano
negativamente, a partire da quello che essi conoscevano di Dio. Gesù contesta il loro modo di
pensare, dicendo che essi non sapevano niente di Dio, se non quello che lui è e quello che lui
fa. Gesù dichiara, senza mezzi termini, che Dio si rivela nella grazia della sua umanità. Per
sapere chi è Dio, siamo sollecitati ad accettare con gioia quello che Gesù è, dice, compie.
L’Incarnazione rivela chi è Dio e che progetto ha Dio sull’uomo.
L’Incarnazione non esclude la Pasqua e neppure pretende di offrire alternative ad essa.
Sarebbe sciocco e certamente scorretto. Suggerisce invece una prospettiva pratica – di natura
quindi squisitamente pastorale – per comprendere e ricordare tutto il mistero della vita di Gesù
e dell’esistenza cristiana.
Grandi teologi hanno impostato la loro riflessione a partire da altre prospettive, scelte con un
approccio sapienziale nel continuo della fede cristiana. Si può attivare un confronto con queste
diverse prospettive: non per costruire una classifica ma per un arricchimento reciproco… visto
che il mistero di Dio e dell’uomo è più grande di ogni nostra espressione.
Non è questione di decidere quale modello teologico sia il migliore. Quando dicono le esigenze
della fede in modo autentico, sono tutti importanti e stimolanti. Sul piano della prassi pastorale,
però, bisogna scegliere. Non basta sapere che ci sono due o tre strade aperte per arrivare ad
una meta. Bisogna prendere il coraggio a quattro mani e mettersi a camminare in una di esse,
portando con sé, come bagaglio prezioso, quello che avrei incontrato più facilmente se avessi
privilegiato altre strade.
La scelta dipende da esigenze che stanno a monte, capaci di orientare nel pluralismo. Sono di
scienza e sapienza, come deve essere ogni scelta pastorale.
Per il nostro progetto di pastorale giovanile, nel carisma salesiano, la scelta era obbligatoria:
tutti i giovani, soprattutto i più poveri tra essi, per far toccare con mano, in modo esperienziale,
la bontà e la vicinanza di Dio. Proprio questa esigenza sollecitava verso quell’amore sincero e
fiducioso alla vita e, nello stesso tempo, l’assunzione piena e impegnata della forza
trasformatrice dell’educazione… le due linee di azione ricordate poco sopra.
Non abbiamo scelto il… meglio, e neppure quello che sembrava più affascinante. Abbiamo
scelto la povertà della via di Nazareth, nel nascondimento dello splendore della divinità sotto gli
stracci dell’uomo, privo di ogni splendore, fatto schiavo per amore e per portare tutti a vivere in
Dio, come ricorda l’inno cristologico di Filippesi cap. 2, tante volte meditato.
In questa riflessione ci sentivamo davvero in buona compagnia.
La scelta di collocare l’evento dell’Incarnazione come riferimento fondamentale del progetto di
pastorale giovanile, è qualcosa di classico nella teologia pastorale. Gaudium et spes procede in
questa logica. La Chiesa italiana l’ha vissuto nel momento in cui era chiamata a costruire le
linee fondamentali del progetto di rinnovamento catechetico e pastorale, proponendo «Il
rinnovamento della catechesi».
D. Propongo di fermarsi ancora un poco a constatare come nel progetto di pastorale giovanile
l’evento dell’Incarnazione sia diventato criterio per organizzare scelte e suggerimenti. Mi rendo
conto però che il discorso si farebbe eccessivamente lungo. Di sicuro, avremo modo di tornare
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R. Gli esempi sono importanti per comprendere meglio le proposte. Accetto la sfida e provo a
dire qualcosa su una delle questioni più scottanti per ogni progetto di pastorale giovanile: il
rapporto tra fede e cultura. L’Incarnazione ci rivela che il volto di Dio si fa vicino nella grazia
dell’umanità di Gesù. Tutti ricordiamo l’importante affermazione di Dei verbum 13: «Le parole di
Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlar dell’uomo, come già il Verbo
dell’Eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo».
Dico il mio punto di riflessione, scegliendo come riferimento il rapporto con Maria e, in lei, con i
Santi, quelli di un tempo lontano e quelli di oggi.
Avevo avvertito un bisogno impellente: restituire ad essi il loro volto autentico, per restituire la
gioia della loro significatività. Era una pretesa… azzardata, una espressione di entusiasmo
giovanile? Mi sentivo in buona compagnia. La strada l’aveva aperta il Concilio. Su questa strada
abbiamo poi camminato in tanti: giovani, educatori, persone impegnate nella pastorale
giovanile.
Come si nota, siamo nel centro del rapporto tra fede e cultura.
Nelle comunità ecclesiali ci si è spesso scontrati tra i sostenitori ad oltranza di quello che
avevamo ereditato dalla tradizione, e i difensori di un silenzio non meno perentorio. I primi
ripetevano le cose di sempre, con foga battagliera, come se nulla fosse capitato. I secondi
cancellavano con un colpo di spugna un lungo vissuto ecclesiale, con la scusa delle innegabili
intemperanze.
La preoccupazione era chiarissima: possiamo immaginare un’alternativa, per ricollocare la
figura e la funzione di Maria e dei santi nel centro della nostra vita spirituale? La prospettiva
dell’Incarnazione ci ha aiutato a pensare e a progettare.
Se la parola di Dio e gli eventi fondamentali della nostra fede sono sempre «detti» dentro
modelli culturali (quelli dell’umanità storica dell’uomo in cui sono espressi), non possiamo
cercare né formulazioni perfette e assolute (come se fossero esenti dagli irrinunciabili
condizionamenti culturali), né formulazioni immodificabili (come se una espressione culturale
fosse l’unica adatta per esprimere il mistero).
È importante, prima di tutto, imparare a «fare memoria» per poter progettare in modo maturo.
Non possiamo allontanarci dal nostro passato solo perché possediamo una sensibilità
antropologica e teologica «differente».
Non solo non abbiamo il diritto di giudicare con saccente presunzione i nostri fratelli che hanno
vissuto la stessa intensa passione in modelli differenti dai nostri. Al contrario, dobbiamo
imparare a misurarci con essi, per poter vivere oggi la stessa esperienza fondante.
«Facciamo memoria» però in una intensa coscienza ermeneutica: non per ripetere e riprodurre,
ma per saper ricostruire. La consapevolezza del profondo intreccio esistente tra «cultura» e
«evento» chiede il discernimento e l’invenzione. Chiede cioè di ritrovare in ogni espressione
della fede i modelli culturali che sono stati utilizzati in un certo periodo storico per «dare umana
carne» ad un mistero che altrimenti sarebbe restato «ineffabile». E chiede la capacità di
riesprimere questo evento per la nostra vita all’interno di eventuali nuovi modelli culturali.
In questa prospettiva abbiamo riscoperto Maria e i Santi.
Ricordo solo l’intuizione che progressivamente si è consolidata e che ha suscitato davvero tanto
entusiasmo.
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Ha permesso di ritrovare colei e coloro che purtroppo erano stati dimenticati per strada nel
fervore del rinnovamento conciliare.
E così, dentro un rapporto rinnovato tra fede e cultura, ci siamo messi a contemplare Maria.
Hanno fatto così sempre i cristiani, convinti che la giovane donna di Nazareth è colei che, dopo
Gesù, ha penetrato di più il mistero di Dio. Ridisegnata nei tratti dell’oggi, Maria è diventata il
più bel ritratto di cristiano.
(continua)
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