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Ripensando PG /1.

Uno sguardo al passato

RIPENSANDO

QUARANT’ANNI 

DI SERVIZIO

ALLA PASTORALE

GIOVANILE /1

Intervista a Riccardo Tonelli

a cura di Giancarlo De Nicolò 

(NPG 2009-05-12)

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1. Uno sguardo al passato

Domanda. Ormai sono più di quarant’anni che lei si interessa di pastorale giovanile. Ha
incominciato a farlo molti anni fa, quasi agli albori degli studi scientifici sulla pastorale giovanile.
Le dispiace se le chiediamo di raccontarci un poco della sua storia?

Risposta. Non mi dispiace affatto. Al contrario, ne sono molto contento, perché considero
importante leggere il vissuto attuale con uno sguardo attento a quello che è capitato negli anni
scorsi, nella mia storia personale e in quella di tante persone che si sono interessate di
pastorale giovanile.
Il mio cammino formativo è stato quello tipico di ogni salesiano. Prima degli studi di teologia ho
trascorso quattro anni a contatto diretto con i giovani. I giovani del mio primo impegno pastorale
erano ragazzi molto poveri. Lavoravo in un orfanotrofio vicino a Bologna, in cui erano raccolti
oltre 100 giovani orfani di guerra. Alcuni di questi poveri ragazzi avevano visto morire i loro
genitori sotto i bombardamenti. Altri erano rientrati in Italia dopo aver trascorso molti anni
lontano da casa loro, a causa dell’immigrazione forzata dei loro genitori.
Questi primi anni di contatto diretto con tante situazioni giovanili inquietanti, in una esperienza
che riempiva tutta la giornata, mi ha sollecitato a pensare. In quegli anni la mia preparazione
culturale era molto scarsa, anche la sensibilità con cui guardavo la realtà era certamente molto
più povera dell’attuale. Ma la prima esperienza lascia un segno.
Dopo questi anni di lavoro diretto con i giovani sono stato inviato a studiare prima teologia e poi
a qualificarmi nell’ambito della teologia pastorale. Terminati gli studi, il mio superiore mi ha
lasciato libero di scegliere tra due possibilità concrete: andare all’Università Salesiana a
insegnare le discipline che avevo studiato, oppure lavorare sul campo diretto con i giovani in un
oratorio. Non ho avuto dubbi e ho scelto di lavorare in un oratorio. E ho avuto la fortuna di
lavorare in un oratorio pieno di giovani all’inverosimile. In quest’oratorio ho tentato di realizzare
sul piano concreto le idee che avevo maturato negli anni di formazione e soprattutto di
sperimentare un modo di vivere quell’impegno missionario che sentivo decisivo per la fedeltà
alla mia vocazione.
Quando penso a quegli anni, lo faccio con gioia, perché preparazione culturale, entusiasmo
giovanile, disponibilità di tanti amici collaboratori, hanno permesso di realizzare una serie di
esperienze che hanno funzionato come criterio di verifica e praticabilità delle intuizioni maturate
nei processi formativi.
Dopo tre anni di lavoro felice nell’oratorio, il mio superiore mi ha rilanciato, più o meno, la stessa
domanda di tre anni prima: «Scegli tra la possibilità di continuare il lavoro nell’oratorio o di
cambiare radicalmente lavoro assumendoti la responsabilità di una rivista di pastorale
giovanile».
La mia risposta tentava di riprodurre la risposta di prima: preferisco restare nell’oratorio. Ma il
mio superiore mi ha detto, con un bel sorriso, che era contento della mia scelta… ma la sua
decisione era diversa dalla mia.
Di conseguenza ho dovuto in fretta e furia organizzare tutte le mie cose e trasferirmi al «Centro
salesiano di pastorale giovanile» che allora aveva sede in parte presso il «Centro catechistico

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salesiano» di Torino-Leumann e in parte a Roma. E così ho incominciato un lavoro nell’ambito


della pastorale giovanile sulla frontiera della riflessione e della progettazione.

IL NASCERE DI UNA RIVISTA DI PG

Quegli anni alla redazione della rivista «Note di pastorale giovanile» sono stati un momento
specialissimo nel mio processo di formazione. L’elaborazione della rivista, il confronto con gli
studi che progressivamente commissionavamo per la pubblicazione, che io per dovere
professionale dovevo leggere e rileggere con molta attenzione, e soprattutto gli incontri di
redazione, sono diventati una sorgente preziosa di formazione. Gli incontri redazionali mi hanno
permesso, infatti, il contatto con persone incantevoli dal punto di vista della capacità riflessiva e
di una visione piena della freschezza del Concilio, con operatori di pastorale che hanno offerto
la testimonianza della loro prassi a tutti coloro che si interrogavano sul come lavorare
seriamente con i giovani, confratelli miei nel sacerdozio e nella Congregazione Salesiana che
veramente vivevano con grande entusiasmo la passione di Gesù e di Don Bosco.
Grazie al lavoro presso la redazione di «Note di pastorale giovanile», ho potuto ripensare a
quello che avevo vissuto lavorando nell’oratorio salesiano di Sesto San Giovanni, e a quello che
avevo studiato negli anni della formazione sacerdotale e specialistica. Nella mia sensibilità e
nella mia riflessione è andato progressivamente costruendosi un progetto di pastorale giovanile.
I germi seminati in quegli anni si sono verificati e consolidati. Molte cose sono cambiate da
allora… ma quello che era stato seminato, ha lasciato il segno.
Una dimensione tipica di quegli anni era l’attenzione alla politica e all’educazione. Nei nostri
incontri redazionali la teologia e la teologia pastorale venivano continuamente ripensate e
ricostruite secondo le esigenze che nascevano dalla preoccupazione educativa e da una lettura
culturale e politica della situazione generale e giovanile.
Ho raccontato questa pagina della piccola storia della mia formazione, per la convinzione che
ciascuno di noi è frutto delle riflessioni che hanno riempito la sua ricerca, delle esperienze che
ha avuto la fortuna di vivere, del confronto con le persone che ha avuto la gioia di incontrare. Di
questo sono oggi profondamente convinto: non possiamo crescere nella qualità della nostra
cultura e, di conseguenza, nella qualità del nostro servizio ministeriale, se non ascoltando,
accogliendo, riscrivendo, nel silenzio della propria interiorità, tutto quello che la vita – meglio: lo
Spirito di Gesù che opera attraverso la vita – ci regala.

D. Da quello che si comprende, l’inizio della sua riflessione è coinciso abbastanza con la
stagione ecclesiale della nuova sensibilità conciliare e, a livello sociale, con i tempi della
contestazione giovanile. Tutto questo ha inciso sul modo di fare ricerca e di elaborare progetti?

R. Ho incominciato a interessarmi di una riflessione approfondita attorno alla pastorale giovanile

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molti anni fa. Se tento un calcolo approssimativo… arrivo almeno ad una quarantina d’anni. Non
sono pochi. Certamente sono la stragrande maggioranza della mia vita. Tutto questo,
evidentemente, pesa non poco anche sullo stato e sulla qualità attuale del mio servizio. Non
posso assolutamente presumere che la storia della pastorale giovanile italiana sia intrecciata
con la mia storia personale. Sono convinto, al contrario, che la mia riflessione è stata
fortemente influenzata dal vissuto ecclesiale di questi ultimi quarant’anni. Posso parlare di me,
solo dichiarando la dipendenza da quello che è stato realizzato. Sarei felice se potessi
constatare che qualche piccolo contributo ha influenzato anche il vissuto di altri.
Gli anni di cui sto parlando sono quelli a cavallo tra la fine degli anni 60 e l’inizio degli anni 70.
Chiunque conosce un po’ di storia della situazione culturale e sociale italiana di quei tempi, sa
che quelli erano anni caldi. Stava, infatti, iniziando e consolidandosi un modello di cultura, di
riflessione, di progettazione sociale e politica molto originale. Nella Chiesa l’effetto prezioso del
Concilio stava veramente portando i suoi frutti: scelte innovative, tentativi coraggiosi di futuro.
Non mancavano le resistenze e tensioni involutive.
Oggi ci troviamo a vivere una stagione molto ricca per la pastorale giovanile italiana e mondiale.
Questa stagione fortunata ha i suoi problemi, ci sono tensioni, ci sono modi assai diversi di
affrontare la stessa questione. Ma innegabilmente l’attenzione attuale è alta e le realizzazioni
preziose. Nessuno può guardare con nostalgia al passato, come se allora le cose andassero
meglio di oggi.
Purtroppo, invece, in quegli anni la pastorale giovanile, così come noi oggi la intendiamo, era
quasi totalmente inesistente. Dei giovani s’interessavano in tanti. Le Congregazioni religiose
che hanno come carisma l’attenzione educativa, erano in prima linea nel servizio ai giovani.
Però non era presente, in modo consapevole, un progetto elaborato, verificato, motivato di
azione pastorale con i giovani. Là dove c’era, era notevolmente ancorato allo spirito
preconciliare. Basta pensare alle scelte concrete, alla vita sacramentale e spirituale, alle
preoccupazioni dominanti.
Nella stragrande maggioranza delle diocesi l’azione pastorale era affidata all’Azione Cattolica o
a qualche movimento. I giovani che non appartenevano a queste realtà istituzionali erano ai
margini della tensione ecclesiale. Dovevano partecipare assieme a tutti gli altri cristiani alle
iniziative messe in cantiere anche se erano prive (o quasi) di sensibilità giovanile.
Scarseggiavano presenze amorevoli di servizio ecclesiale, vicine veramente al loro mondo.
In quegli anni, poi, come tutti noi sappiamo molto bene, l’associazionismo ufficiale è entrato in
crisi. Per questo il servizio qualificato dell’Azione Cattolica, per esempio, non riusciva più a
raggiungere una fetta rilevante di giovani. Nello stesso tempo, però, sono sorti gruppi e
movimenti spontanei, di forte capacità aggregativa e, a suo modo, formativa. In essi, purtroppo,
l’educatore, ecclesiale soprattutto, era notevolmente assente. Eppure stava decisamente
crescendo, proprio grazie al Concilio da una parte e ai rivolgimenti culturali dall’altra, il bisogno
urgente di fare qualcosa di serio con e per i giovani. A confortare il bisogno di fare qualcosa di
concreto verso i giovani si è alzata la voce del Papa che ha ripetutamente sollecitato i vescovi
di tante nazioni del mondo (e, con un tono tutto speciale, anche i vescovi italiani) a far qualcosa
di concreto per i giovani, per aiutarli a scoprire il dono della Chiesa, nell’incontro personale con
Gesù.
Molti di noi (la rivista «Note di pastorale giovanile» in prima linea) avvertiva con sofferenza la
situazione. Cercavamo qualcosa di consistente da offrire. Certo, sotto l’urgenza dei problemi…
non sempre è facile procedere con la calma e l’equilibrio necessario.
Lo sappiamo e lo diciamo oggi, favoriti dalla calma dominante. Allora, invece, regnava la fretta

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di non lasciarsi travolgere dai cambiamenti. Spesso ci dicevamo: e se invece di correre sempre
dietro al treno, lo precedessimo, una buona volta, alla stazione successiva?
Un momento di particolare grazia è stato il documento dei Vescovi tedeschi sulla pastorale
giovanile. Essi hanno introdotto una formula felice, quando hanno indicato nella pastorale
giovanile una «autorealizzazione e diaconia» della comunità ecclesiale verso i giovani.
Tutto questo ha orientato la mia riflessione personale, sollecitando verso la sperimentazione di
modelli nuovi.

ALLA RICERCA DI ORIENTAMENTI ISPIRATORI

D. La scelta di orientamenti ispiratori è certamente importante per muoversi nel pluralismo


senza lasciarsi distrarre da urgenze e da sollecitazioni. Quali preoccupazioni e ispirazioni hanno
orientato la sua riflessione?

R. Il lungo cammino ha un suo filo conduttore. Un poco alla volta ha preso consistenza riflessa,
fino al punto di riuscire persino a dichiararlo con espressioni che hanno fatto una certa fortuna
tra tutti coloro che sono appassionati della pastorale giovanile: i discepoli di Gesù sono
impegnati a giocare tutte le loro risorse per aiutare i giovani a vivere pieni di speranza, ad
avvertire che la vita che stanno vivendo è un dono ed è una responsabilità grande, a scoprire
che possiamo vivere la nostra vita, nella gioia e nella speranza, soltanto se abbiamo la gioia di
viverla dentro la comunità dei discepoli di Gesù, condividendo con essi la grande impensabile
fortuna di aver scoperto che Dio ci vuol bene in Gesù di Nazareth.
Per motivare le ragioni di queste preoccupazioni, preferisco partire dal negativo e dal
problematico, perché è più facile andare al positivo e al propositivo. Capitava così spesso
anche all’inizio nelle nostre riflessioni.
Noi venivamo da una tradizione pastorale che collocava i suoi progetti su uno stile di vivere la
vita cristiana di tipo molto concreto e un poco moralistico. Gli esempi sono facili: la pratica
sacramentale, l’insistenza forte e motivata su una serie di atteggiamenti etici, l’osservanza di
tradizioni e devozioni, sperimentate e consolidate lungo secoli di vita ecclesiale… e poi le molte
cose da evitare e le tante altre da fare.
A monte di questi modi di vivere – e delle raccomandazioni che li giustificavano – stava una
concezione della salvezza cristiana. Si esprimeva nella consapevolezza di una continua,
necessaria, faticosa lotta tra tutto ciò che è considerato bene e tutto ciò che è considerato male.
La definizione di ciò che è bene e di ciò che è male proveniva dalla tradizione, dai racconti
edificanti sulla vita dei santi, da una letteratura formativa prevalentemente moralistica. In questa
prospettiva, era chiaro che l’unico modo serio di assicurare la salvezza consisteva nel fuggire
ciò che era considerato male e tutte le occasioni che potevano portare a questa scelta negativa.
L’impresa era faticosa… assomigliava alla scalata di una ripida montagna. La presenza di Dio
nella nostra storia veniva rappresentata attraverso una visione abbastanza pessimistica e
burocratica.

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L’insieme delle raccomandazioni dava origine ad un modello di spiritualità che metteva


l’accento sulla necessità di controllare e fuggire la nostra vita, per la paura di restarne
affascinati e soffocati. Uno degli slogan più frequenti di questo modello di spiritualità, lo
conosciamo bene: tutto ciò che non è eterno… non vale nulla.
Il gioco, il divertimento, le cose che riempiono la vita non sono certamente delle realtà che
possiamo considerare eterne. Non possono quindi conquistare la nostra attenzione.
Ci si rendeva conto però che non è possibile dialogare con i giovani, invitandoli a ignorare o a
disprezzare tutte queste cose che rappresentano fondamentalmente la loro quotidiana
esistenza. E così la pastorale le considerava interessanti, ma solo in chiave funzionale. Una
bella partita di calcio era utile perché prima e dopo di essa era possibile intavolare una
conversazione formativa con i giovani.
Un altro aspetto che la tradizione educativa e pastorale ci consegnava era il nostro modo di
metterci in rapporto con Maria e con i santi. Essi erano proposti molto spesso come un modello
di vita, e come un aiuto di cui abbiamo bisogno per poterla vivere con coerenza e impegno. La
preghiera diventava, in questa visione, una preghiera per chiedere, per impetrare aiuto, persino
per risolvere le difficoltà che con un minimo di buona volontà saremmo stati capaci di risolverci
da soli.
Nella vita cristiana la dimensione sociale, politica, era eccessivamente carente. Solo una seria
buona volontà poteva assicurare interventi efficaci. I mali, i disagi, le difficoltà erano
generalmente collegati con la cattiva volontà personale.
In questa visione, teologica e antropologica, la pratica dei sacramenti, come si diceva, aveva
una sua collocazione molto chiara. In essi prevaleva la funzione strumentale, a causa del
modello teologico che li descriveva. L’aspetto celebrativo era decisamente carente. Non erano
un luogo dove incontrare il mistero santo di Dio nella comunità ecclesiale, per sperimentare il
suo abbraccio accogliente quando ci trovavamo segnati dal peccato. Si ricordava poco la gioia
di condividere una stessa esperienza salvifica nell’incontro della comunità dei discepoli di Gesù.
I sacramenti, in una parola, erano poco orientati a farci sperimentare il mistero della morte e
della resurrezione di Gesù, per aiutarci a constatare da che parte sta Dio e quali condizioni di
vita, con Gesù, eravamo impegnati a fare nostri se volevamo raggiungere la pienezza di vita
nella casa del Padre.

D. Alcuni di noi ricordano quei modelli. Per altri rappresentano un passato ignorato. Ci aiuti a
capire meglio cosa è capitato nella sua riflessione di quegli anni, pensando a chi ha creduto a
quegli orientamenti tradizionali e a coloro che li ignorano totalmente…

R. Non voglio continuare con questa litanie di fatti… che coloro che hanno vissuto il servizio
pastorale prima e immediatamente dopo il Concilio ricordano bene. Forse… ho un poco
drammatizzato le tinte. Ma mi sta a cuore indicare con quale modello di formazione e di
esperienza cristiana la pastorale giovanile, di cui mi interessavo, ha fatto i conti. Mi è parso
subito evidente che qualcosa andava ripensato con coraggio e capacità riflessiva.
Quelli però erano anche i tempi felici in cui si respirava l’aria di Pentecoste del Concilio, e nella
mia Congregazione era stato celebrato un coraggioso Capitolo di riforma.

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I cambi culturali e la nuova sensibilità teologica offerta dal Concilio ci offrivano la constatazione
che tutto questo andava davvero molto stretto se veniva proposto ai giovani come una bella
notizia per la vita cristiana. La tentazione facile, che purtroppo molti educatori stavano
assumendo in quegli anni belli e difficili, portava ad abbandonare quello che c’era stato
consegnato, pensando che tutto dovesse ricominciare da capo, ignorando il passato. Non
volevo scivolare in questo pericoloso modello rinunciatario. Ma nello stesso tempo non me la
sentivo di assumerlo tranquillamente, per onestà vocazionale. Lo riconoscevo prezioso ma
impraticabile. E così con tanti amici che condividevano con me le stesse preoccupazioni, ci
siamo messi a pensare, a progettare, a sperimentare.
La serietà del compito richiedeva prima di tutto il coraggio di una fondazione teologica, matura e
motivata.
Il Concilio ci aveva consegnato un volto nuovo del Dio di Gesù. Ci aveva fatto scoprire che Dio
è un mistero grande, inaccessibile, che nessuno di noi può pretendere di possedere. Abbiamo
scoperto che era davvero rischioso parlare o fare proposte, come se fossimo noi gli interpreti
ufficiali della sua volontà. Nello stesso tempo abbiamo scoperto, nello spirito del Concilio, la
dimensione pastorale dell’evento dell’Incarnazione: in Gesù di Nazaret, il volto misterioso di Dio
si è fatto vicino, incontrabile, sperimentabile. In Gesù era possibile scoprire Dio nella sua
autenticità, incontrarlo come la ragione totale della nostra vita, nella debolezza e nella grazia
della sua umanità. In lui, abbiamo ritrovato, come altra grande e bella notizia, la nostra
umanità… la nostra vita… in una solidarietà impensabile e gratuita con l’umanità di Gesù.
Su queste riscoperte, vissute con grande entusiasmo, sono andati maturando i criteri per un
rinnovamento della pastorale giovanile. Ne ricordo due a battute velocissime.
Il primo riguarda il significato teologico della vita quotidiana, il grande sacramento della
presenza e dell’incontro con Dio, in Gesù. Dalla parte della vita è stato possibile riformulare un
serio progetto di spiritualità e riscrivere, almeno a grandi tratti, il percorso sacramentale e
celebrativo.
Il secondo chiama in causa con forza l’urgenza dell’educazione, proprio nella sua dimensione
persino teologica.
La vita è sacramento dell’incontro con Dio quando è autentica, costruita ed espressa secondo il
progetto di Dio, incontrato in Gesù. Purtroppo le cose non vanno così. Il peccato inquina il
nostro stile di vita. Per questo la vita non è trasparenza di Dio ma ostacolo. Non la dobbiamo
fuggire… ma la dobbiamo cambiare. L’educazione rappresenta lo strumento privilegiato
attraverso cui possiamo restituire ad ogni persona la qualità della propria vita.

L’INCARNAZIONE, UN EVENTO CHE DIVENTA CRITERIO

D. Ha già ricordato varie volte il riferimento all’evento dell’Incarna­zione, persino come chiave
interpretativa della linea pastorale del Concilio. Ci deve proprio aiutare a comprendere il
contenuto e la ragione di questo orientamento.

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R. È vero: un poco alla volta, il cammino di elaborazione di un progetto di pastorale giovanile,


sul piano teologico e su quello pratico, ha avuto l’evento dell’Incarnazione come criterio
fondamentale. Non tutti erano d’accordo… e non lo sono neppure oggi.
Provo a sviluppare questa indicazione, almeno nelle sue grandi linee, così come in questi anni
si è andata progressivamente sviluppando nella mia riflessione. Ho l’impressione che il
disaccordo abbia spesso come origine una cattiva comprensione della proposta.
Due grosse questioni attraversano la costruzione di ogni progetto di pastorale. Le esprimo con
le parole utilizzate fin dall’inizio del mio percorso: Dio, chi sei per me? E io chi sono, per te?
Senza risposte a queste domande non è possibile impostare nulla di concreto e di operativo.
Sul panorama della riflessione dell’uomo pensoso, di risposte se ne possono trovare tante…
troppe per fare poi scelte concrete. E così, nella mia ricerca, ho lanciato queste provocazioni al
Vangelo, per ancorare le linee progettuali su un terreno solido.
Tre eventi sconvolgenti mi hanno colpito: Gesù è la rivelazione definitiva di Dio (Dio, chi sei?) e
dell’uomo (io, chi sono?) nella grazia della sua umanità (l’umanità come rivelazione: la logica
dell’Incar­na­zione).
Cito una pagina del Vangelo di Luca (13, 10-17), su cui ho spesso meditato negli incontri di
studio e di preghiera.
«Una volta Gesù stava insegnando in una sinagoga ed era di sabato. C’era anche una donna
malata: da diciotto anni uno spirito maligno la teneva ricurva e non poteva in nessun modo stare
diritta. Quando Gesù la vide, la chiamò e le disse: Donna, ormai sei guarita dalla tua malattia.
Posò le sue mani su di lei ed essa si raddrizzò e si mise a lodare Dio».
Di fronte alle proteste del capo della sinagoga, arrabbiato perché aveva osato guarire la donna
nel giorno di sabato (andando contro la legge), Gesù risponde:
«Satana la teneva legata da diciotto anni: non doveva dunque essere liberata dalla sua
malattia, anche se oggi è sabato?».
Per la teologia dominante Dio andava onorato prima di tutto rispettando il sabato. La donna
ammalata poteva aspettare: sei giorni della settimana erano a sua disposizione, il settimo era
invece tutto e solo per la gloria di Dio. Gesù propone una teologia molto diversa. La vita e la
felicità dell’uomo sono la grande confessione della gloria di Dio. Anche il sabato è in funzione
della vita. Gesù non chiede di scegliere tra Dio e la felicità dell’uomo. Afferma, senza mezzi
termini, che la gloria di Dio sta nella felicità dell’uomo. Il sabato è per Dio quando è per la vita
dell’uomo.
Di testi come questi ce ne siamo raccontati tanti, in questi anni. La storia della donna guarita di
sabato non è certo l’unico riferimento che il Vangelo ci propone. Le due inquietanti questioni,
quella su Dio e quella sull’uomo, ricordate sopra, trovavano così risposte affascinanti.
Ci ho pensato tanto e poco alla volta sono riuscito a costruire una riflessione abbastanza
elaborata.

Dio in modo umano

Nell’Incarnazione Dio si è rivelato all’uomo in modo umano. Il suo ineffabile mistero è diventato
comprensibile e sperimentabile perché ha preso il volto e la parola di Gesù di Nazareth. È

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importante comprendere la qualità di questa assunzione. È troppo facile vanificarla, ragionando


in termini strumentali, come se il rapporto tra Gesù di Nazareth e il Dio ineffabile fosse come
quello di una fotografia rispetto ad una persona amata o funzionasse come una registrazione
rispetto alla viva voce di un amico lontano.
In Gesù Dio ha assunto un volto umano e si è fatto parola non come ci si serve di uno
strumento esterno (che in nulla modifica quanto uno è), per comunicare qualcosa di sé, visto
che non si può farlo direttamente e immediatamente. L’umanità di Gesù è invece Dio-con-noi:
l’evento nuovo e insperabile in cui Dio stesso, rimanendo Dio, si è fatto vicino, volto e parola,
per incontrare e salvare l’uomo.
Gesù ci rivela il volto di Dio nella grazia della sua umanità. Il punto più alto di questa
manifestazione è la croce. L’umanità di Gesù, schiacciata sotto il peso del dolore,
dell’ingiustizia, sconfitta dalla prepotenza dai suoi nemici e dalla ignavia dei responsabili politici,
dichiara, con le parole più solenni di cui dispone, chi è Dio e chi siamo noi.
Eravamo abituati a pensare Dio nello splendore della sua potenza, capace di distruggere i suoi
nemici con il braccio potente e la mano tesa, vincitore in ogni confronto perché autorizza i suoi
profeti a giocare per vincere sempre… come Elia, come Mosè.
Gesù rivela Dio nel gesto più alto dell’amore. Il Dio che lui invoca come Padre chiama a libertà
e a responsabilità, sollecitando al rischio di confessare la sua signoria sulla storia proprio nel
momento in cui tutto sembra sconfessarla.
In questa rivelazione, due doni invadono la nostra esistenza: il riconoscimento che solo in Dio
possiamo essere nella pienezza di vita, e la constatazione che questa pienezza ci è già offerta,
almeno in modo germinale, dallo Spirito di Gesù che fa nuova tutta la nostra esistenza.
L’Incarnazione non rivela solo questo. Essa è anche la rivelazione più piena dell’uomo: rivela
qual è la sua sconfinata grandezza. Gesù è uomo, di un’umanità come la nostra: è uomo come
lo siamo tutti noi. La sua umanità può manifestare, rendere presente ed esprimere Dio, perché
l’umanità dell’uomo è stata fatta radicalmente capace di essere manifestazione di Dio.
L’Incarnazione è incominciata proprio nella Creazione. Se l’uomo non fosse stato costruito così,
Gesù di Nazareth non potrebbe essere Dio con noi, perché la sua umanità sarebbe incapace di
offrire «una tenda» a Dio.
Questa grande affermazione ci assicura che la nostra umanità è più grande di quello che
possiamo immaginare. Essa è, in piccola o grande misura, «volto» e «parola» del Dio ineffabile
e inaccessibile. Gesù è il caso supremo, unico e irrepetibile, di un’umanità tanto pienamente
realizzata da essere volto e parola in modo definitivo. Egli è colui che realizza tutte le possibilità
dell’uomo, raggiungendo in pienezza l’abbandono totale al mistero di Dio.
Gesù lo è di fatto. Noi abbiamo la possibilità di essere uomini pienamente umanizzati come lui;
e di fatto, un pochino almeno, lo siamo, per la solidarietà di vita e di salvezza che ci lega a
Gesù e a coloro che come lui hanno portato a pienezza la loro umanità. Certo, la diversità tra
noi e Gesù è grande. È però sul piano della realizzazione concreta; non su quello della
possibilità.
Gesù salva l’umanità dell’uomo: la porta ad autenticità, a verità, a pienezza, rendendo l’uomo
capace di accedere al mistero di Dio. Nello stesso tempo, però, ci fa toccare con mano che solo
in lui possiamo essere pienamente quello che Dio ha progettato per noi e che noi sogniamo di
noi stessi. Staccati da lui, perdiamo la gioia della nostra umanità.
Su questa constatazione teologica si fonda, nel progetto concreto di pastorale, la doppia
fondamentale esigenza: il bisogno di salvezza, per liberare dal peccato che deturpa lo
splendore originale dell’uomo, e l’educazione come strumento salvifico, per restituire dignità e

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autenticità ad ogni uomo.

D. Una delle obiezioni più frequenti nei confronti del criterio dell’Incar­nazione riguarda il rischio
di ridurre tutta la persona di Gesù e il suo progetto di salvezza alla sola Incar­nazione. Sembra
che non ci sia più posto né per la Pasqua né per gli eventi escatologici. Che ne dice? Su questa
obiezione ha certamente riflettuto. Può aiutarci a comprendere meglio la prospettiva?

R. A causa dell’eccessiva attenzione portata sull’Incarnazione, molti contestavano a me e agli


amici che condividevano questa linea di dimenticare la Pasqua, di mettere troppo facilmente tra
parentesi la morte e la resurrezione di Gesù, di abbandonare – per eccessiva rassegnazione e
disimpegno – il mistero del peccato, che porta alla croce. La contestazione è seria, fortemente
motivata, certamente inquietante. Questo mi ha costretto a pensare, a informarmi meglio, a
confrontarmi con maggiore disponibilità. Lo studio mi ha portato a constatare la possibilità, con
molti autori che hanno approfondito il tema (cito tra tutti K. Rahner), di considerare
l’Incarnazione come una prospettiva e non solo come un contenuto, alternativo ad altri temi.
Cerco di precisare il punto di vista che condivido, proponendo un esempio che è ritornato tante
volte quando riflettevo e parlavo di questi temi
Ciascuno di noi, quando pensa alla propria esistenza, facilmente riesce a fare l’elenco dei tanti
eventi che l’hanno riempita. Essi sono tutti importanti, perché tutti rappresentano la radice e la
manifestazione della mia vita. Ci dispiace sicuramente dimenticarne qualcuno. Ciascuno
riconosce che questi eventi, tutti importanti, non sono sullo stesso livello. C’è sempre qualcuno
di essi che funziona come interprete degli altri.
Dichiariamo, almeno con i fatti, che quell’evento è così decisivo che per poter comprendere
bene tutta l’esistenza, bisogna rileggerla a partire e nella luce di quell’evento. Quell’evento è
uno dei tanti, ma è così decisivo che rappresenta la prospettiva a partire dalla quale vanno
compresi e interpretati tutti gli altri eventi della vita.
Noi salesiani, pensando alla vita di Don Bosco, facciamo riferimento, per esempio, al sogno dei
nove anni. Il sogno è un evento della vita di don Bosco… ma è quello da cui possiamo
ricomprenderla tutta.
A me piace fare riferimento anche ad un altro evento: lo considero più rivelante ancora.
Don Bosco, ormai in età matura, si era ammalato gravissimamente. Riesce a scampare da una
morte ormai certa per le preghiere dei suoi ragazzi. Quando si è ritrovato al balcone della sua
cameretta, di fronte ai ragazzi che avevano pregato tanto per lui, li ha ringraziati dicendo: «Da
questo momento ogni respiro della mia vita sarà tutto per voi». Quel fatto è uno dei tanti della
vita di Don Bosco. Ma è così decisivo che non possiamo comprendere Don Bosco, se non a
partire da questo fatto.

Incarnazione e pasqua

Gli esempi mi aiutano a ridire il senso in cui l’evento dell’Incarnazione è stato scelto come
centrale del progetto di pastorale giovanile.
La storia di Gesù è composta di tanti eventi. Li possiamo elencare in un ordine temporale o in

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un ordine d’importanza. Il fatto misterioso che Dio si è fatto volto e parola nella grazia
dell’umanità di Gesù, e cioè l’evento dell’Incarnazione, rappresenta la prospettiva da cui
interpretare chi è Gesù, cosa ci dice, quale Dio è quello che lui chiama padre, a cui dà volto e
parola. Solo in questa prospettiva si può comprendere la forte polemica che Gesù ha vissuto
con coloro che si pretendevano i maestri della legge.
Essi contestano le parole e i gesti di Gesù, perché li interpretavano e li valutavano
negativamente, a partire da quello che essi conoscevano di Dio. Gesù contesta il loro modo di
pensare, dicendo che essi non sapevano niente di Dio, se non quello che lui è e quello che lui
fa. Gesù dichiara, senza mezzi termini, che Dio si rivela nella grazia della sua umanità. Per
sapere chi è Dio, siamo sollecitati ad accettare con gioia quello che Gesù è, dice, compie.
L’Incarnazione rivela chi è Dio e che progetto ha Dio sull’uomo.
L’Incarnazione non esclude la Pasqua e neppure pretende di offrire alternative ad essa.
Sarebbe sciocco e certamente scorretto. Suggerisce invece una prospettiva pratica – di natura
quindi squisitamente pastorale – per comprendere e ricordare tutto il mistero della vita di Gesù
e dell’esistenza cristiana.
Grandi teologi hanno impostato la loro riflessione a partire da altre prospettive, scelte con un
approccio sapienziale nel continuo della fede cristiana. Si può attivare un confronto con queste
diverse prospettive: non per costruire una classifica ma per un arricchimento reciproco… visto
che il mistero di Dio e dell’uomo è più grande di ogni nostra espressione.
Non è questione di decidere quale modello teologico sia il migliore. Quando dicono le esigenze
della fede in modo autentico, sono tutti importanti e stimolanti. Sul piano della prassi pastorale,
però, bisogna scegliere. Non basta sapere che ci sono due o tre strade aperte per arrivare ad
una meta. Bisogna prendere il coraggio a quattro mani e mettersi a camminare in una di esse,
portando con sé, come bagaglio prezioso, quello che avrei incontrato più facilmente se avessi
privilegiato altre strade.
La scelta dipende da esigenze che stanno a monte, capaci di orientare nel pluralismo. Sono di
scienza e sapienza, come deve essere ogni scelta pastorale.
Per il nostro progetto di pastorale giovanile, nel carisma salesiano, la scelta era obbligatoria:
tutti i giovani, soprattutto i più poveri tra essi, per far toccare con mano, in modo esperienziale,
la bontà e la vicinanza di Dio. Proprio questa esigenza sollecitava verso quell’amore sincero e
fiducioso alla vita e, nello stesso tempo, l’assunzione piena e impegnata della forza
trasformatrice dell’educazione… le due linee di azione ricordate poco sopra.
Non abbiamo scelto il… meglio, e neppure quello che sembrava più affascinante. Abbiamo
scelto la povertà della via di Nazareth, nel nascondimento dello splendore della divinità sotto gli
stracci dell’uomo, privo di ogni splendore, fatto schiavo per amore e per portare tutti a vivere in
Dio, come ricorda l’inno cristologico di Filippesi cap. 2, tante volte meditato.
In questa riflessione ci sentivamo davvero in buona compagnia.
La scelta di collocare l’evento dell’Incarnazione come riferimento fondamentale del progetto di
pastorale giovanile, è qualcosa di classico nella teologia pastorale. Gaudium et spes procede in
questa logica. La Chiesa italiana l’ha vissuto nel momento in cui era chiamata a costruire le
linee fondamentali del progetto di rinnovamento catechetico e pastorale, proponendo «Il
rinnovamento della catechesi».

D. Propongo di fermarsi ancora un poco a constatare come nel progetto di pastorale giovanile
l’evento dell’Incarnazione sia diventato criterio per organizzare scelte e suggerimenti. Mi rendo
conto però che il discorso si farebbe eccessivamente lungo. Di sicuro, avremo modo di tornare

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Ripensando PG /1. Uno sguardo al passato

su questi temi. Un esempio però ce lo deve fare: a lei la scelta.

R. Gli esempi sono importanti per comprendere meglio le proposte. Accetto la sfida e provo a
dire qualcosa su una delle questioni più scottanti per ogni progetto di pastorale giovanile: il
rapporto tra fede e cultura. L’Incarnazione ci rivela che il volto di Dio si fa vicino nella grazia
dell’umanità di Gesù. Tutti ricordiamo l’importante affermazione di Dei verbum 13: «Le parole di
Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlar dell’uomo, come già il Verbo
dell’Eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo».
Dico il mio punto di riflessione, scegliendo come riferimento il rapporto con Maria e, in lei, con i
Santi, quelli di un tempo lontano e quelli di oggi.
Avevo avvertito un bisogno impellente: restituire ad essi il loro volto autentico, per restituire la
gioia della loro significatività. Era una pretesa… azzardata, una espressione di entusiasmo
giovanile? Mi sentivo in buona compagnia. La strada l’aveva aperta il Concilio. Su questa strada
abbiamo poi camminato in tanti: giovani, educatori, persone impegnate nella pastorale
giovanile.
Come si nota, siamo nel centro del rapporto tra fede e cultura.
Nelle comunità ecclesiali ci si è spesso scontrati tra i sostenitori ad oltranza di quello che
avevamo ereditato dalla tradizione, e i difensori di un silenzio non meno perentorio. I primi
ripetevano le cose di sempre, con foga battagliera, come se nulla fosse capitato. I secondi
cancellavano con un colpo di spugna un lungo vissuto ecclesiale, con la scusa delle innegabili
intemperanze.
La preoccupazione era chiarissima: possiamo immaginare un’alternativa, per ricollocare la
figura e la funzione di Maria e dei santi nel centro della nostra vita spirituale? La prospettiva
dell’Incarnazione ci ha aiutato a pensare e a progettare.
Se la parola di Dio e gli eventi fondamentali della nostra fede sono sempre «detti» dentro
modelli culturali (quelli dell’umanità storica dell’uomo in cui sono espressi), non possiamo
cercare né formulazioni perfette e assolute (come se fossero esenti dagli irrinunciabili
condizionamenti culturali), né formulazioni immodificabili (come se una espressione culturale
fosse l’unica adatta per esprimere il mistero).
È importante, prima di tutto, imparare a «fare memoria» per poter progettare in modo maturo.
Non possiamo allontanarci dal nostro passato solo perché possediamo una sensibilità
antropologica e teologica «differente».
Non solo non abbiamo il diritto di giudicare con saccente presunzione i nostri fratelli che hanno
vissuto la stessa intensa passione in modelli differenti dai nostri. Al contrario, dobbiamo
imparare a misurarci con essi, per poter vivere oggi la stessa esperienza fondante.
«Facciamo memoria» però in una intensa coscienza ermeneutica: non per ripetere e riprodurre,
ma per saper ricostruire. La consapevolezza del profondo intreccio esistente tra «cultura» e
«evento» chiede il discernimento e l’invenzione. Chiede cioè di ritrovare in ogni espressione
della fede i modelli culturali che sono stati utilizzati in un certo periodo storico per «dare umana
carne» ad un mistero che altrimenti sarebbe restato «ineffabile». E chiede la capacità di
riesprimere questo evento per la nostra vita all’interno di eventuali nuovi modelli culturali.
In questa prospettiva abbiamo riscoperto Maria e i Santi.
Ricordo solo l’intuizione che progressivamente si è consolidata e che ha suscitato davvero tanto
entusiasmo.

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Ha permesso di ritrovare colei e coloro che purtroppo erano stati dimenticati per strada nel
fervore del rinnovamento conciliare.
E così, dentro un rapporto rinnovato tra fede e cultura, ci siamo messi a contemplare Maria.
Hanno fatto così sempre i cristiani, convinti che la giovane donna di Nazareth è colei che, dopo
Gesù, ha penetrato di più il mistero di Dio. Ridisegnata nei tratti dell’oggi, Maria è diventata il
più bel ritratto di cristiano.

(continua)

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