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matteo vinti
university press
In copertina:
Eugène Delacroix, La Justice de Trajan (1840), olio su tela, Musée des Beaux-Arts de
Rouen
d 25
isbn 978-88-98146-42-0
capitolo ix
«OR TU CHI SE’, CHE VUO’ SEDERE A SCRANNA…»
Della speranza discreta di un poeta
Q uando Melchor Cano pubblicò nel 1563 il suo celebre De locis the-
ologicis, rispondeva all’intento polemico di superare una visione
esclusivistica della Scrittura come fonte della rivelazione, giusta lo slogan
riformatore sola Scriptura. Accanto (1) alla Scrittura, che ovviamente
anche il teologo spagnolo annoverava come fonte privilegiata per l’argo-
mentazione teologica, venivano enumerati altri nove loci: (2) la tradizione
apostolica; (3) l’autorità della chiesa cattolica, (4) dei concili ecumenici,
(5) dei Papi; (6) la dottrina teologica dei padri della chiesa e (7) dei dottori
scolastici e dei canonisti; (8) la verità razionale umana, (9) le dottrine filo-
sofiche, (10) l’esperienza storica.
L’elenco proposto dal maestro domenicano, che tanta influenza esercitò
nella teologia controversistica per l’indubbia validità, presenta però per la
sensibilità contemporanea non poche lacune: grave è l’assenza della liturgia,
ma anche quelle della devozione popolare e dell’arte. Si può ritenere che tali
fonti siano implicite nel terzo punto, l’autorità della chiesa cattolica; manca
però una loro trattazione esplicita. Si tratta di loci che più di altri hanno nu-
trito e forgiato la fede del popolo di Dio lungo i secoli.
Se va riservato il dovuto spazio alle elaborazioni teologiche, non si può
d’altronde trascurare la necessità di volgere un pur rapido sguardo a quanto
oltre i confini della salvezza
2. Dentro il limbo
1
Nel trattamento dantesco degli ignavi va ravvisata una delle non poche occasioni in cui
il parere del Dante poeta contrasta singolarmente con l’opinione teologica dominante:
un teologo rifiuterebbe l’ipotesi di uomini, dotati di ragione, incapaci strutturalmente
di non prender posizione nei confronti di Dio. Questi imbelli, d’altronde, non sono che
degli accidiosi all’ennesima potenza, e come tali vengono di fatto puniti, secondo una
modalità decisamente più dolorosa di quella del limbo.
2
Dante inf. iv 25-30: «Quivi, secondo che per ascoltare, / non avea pianto mai che di
sospiri / che l’aura etterna facevan tremare; // ciò avvenia di duol sanza martìri, / ch’a-
vean le turbe, ch’eran molte e grandi, / d’infanti e di femmine e di viri».
cap. ix • «or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna…»
poena mitissima agostiniana: è una vera pena («duol»), però senza sofferenza
sensibile, senza poena sensus («sanza martìri»). La loro punizione consiste
propriamente – lo si leggerà fra qualche verso – nel vivere «sanza speme
[…] in disio», nel desiderare di vedere Dio senza poter sperare di vederlo:
una pena meramente spirituale, quella del desiderio frustrato senza spe-
ranza di trovare soddisfazione 3.
Che volto hanno coloro che sono così puniti? Chi sono gli abitanti del
limbo? Cos’hanno fatto, o trascurato di compiere? Ecco la spiegazione vir-
giliana (inf. iv 33-45):
«Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,
ch’ei non peccaro; e s’elli hanno mercedi,
non basta, perché non ebber battesmo,
ch’è porta de la fede che tu credi;
e s’e’ furon dinanzi al cristianesmo,
non adorar debitamente a Dio:
e di questi cotai son io medesmo.
Per tai difetti, non per altro rio,
semo perduti, e sol di tanto offesi
che sanza speme vivemo in disio».
Gran duol mi prese al cor quando lo ‘ntesi,
però che gente di molto valore
conobbi che ‘n quel limbo eran sospesi.
Gli abitanti del limbo, afferma Virgilio, «non peccaro», non hanno com-
piuto volontariamente dei peccati; essi hanno addirittura compiuto opere
buone, e teoricamente meritevoli («hanno mercedi»), ma ciò non basta,
perché essi «non ebber battesmo», non varcarono la soglia della fede 4.
3
Il poeta aveva, del resto, ben presente come simile «poena mitissima» fosse, esistenzial-
mente, tutt’altro che mite, vista la potenza del desiderio umano della beatitudine; cfr.
Dante conv. iii xv 3: «con ciò sia cosa che ciascuna cosa naturalmente disia la sua perfezio-
ne, sanza quella essere non può [l’uomo] contento, che è essere beato; ché quantunque
l’altre cose avesse, sanza questa rimarrebbe in lui desiderio: lo quale essere non può con
la beatitudine, acciò che la beatitudine sia perfetta cosa e lo desiderio sia cosa defettiva;
ché nullo desidera quello che ha, ma quello che non ha, che è manifesto difetto»; purg. iii
34-45: «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene
una sustanza in tre persone. State contenti, umana gente, al quia; / ché, se potuto aveste
veder tutto, / mestier non era parturir Maria; // e disïar vedeste sanza frutto / tai che
sarebbe lor disio quetato, / ch’etternalmente è dato lor per lutto: // io dico d’Aristotile e
di Plato / e di molt’ altri»; e qui chinò la fronte, / e più non disse, e rimase turbato».
4
Descrizione analoga si riscontra anche in Dante purg. vii 28-36: «Luogo è là giù non
tristo di martìri, / ma di tenebre solo, ove i lamenti / non suonan come guai, ma son
sospiri. // Quivi sto io coi pargoli innocenti / dai denti morsi de la morte avante /che
oltre i confini della salvezza
fosser da l’umana colpa essenti; // quivi sto io con quei che le tre sante / virtù non si
vestiro, e sanza vizio / conobber l’altre e seguir tutte quante».
5
Dante inf. iv 46-63: «‘Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore’, / comincia’ io per volere
esser certo / di quella fede che vince ogne errore: // ‘uscicci mai alcuno, o per suo merto
/ o per altrui, che poi fosse beato?’. / E quei che ‘ntese il mio parlar coverto, // rispuose:
‘Io era nuovo in questo stato, / quando ci vidi venire un possente, / con segno di vittoria
coronato. // Trasseci l’ombra del primo parente, / d’Abèl suo figlio e quella di Noè, / di
Moïsè legista e ubidente; // Abraàm patrïarca e Davìd re, / Israèl con lo padre e co’ suoi
nati / e con Rachele, per cui tanto fé, // e altri molti, e feceli beati. / E vo’ che sappi che,
dinanzi ad essi, / spiriti umani non eran salvati’»
6
Dante inf. iv 76-78: «L’onrata nominanza / che di lor suona sù ne la tua vita, / grazïa
acquista in ciel che sì li avanza».
cap. ix • «or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna…»
3. «Sospesi»?
Gli abitanti del limbo sono indicati due volte nella Commedia con l’epiteto di
«sospesi» (inf. ii 52: «Io era tra color che son sospesi»; iv 44-45: «gente di molto
valore / conobbi che ’n quel limbo eran sospesi»). L’ampia maggioranza
dei commentatori antichi e moderni legge nell’espressione «la particolare
situazione delle anime del Limbo […], considerate in uno stato intermedio
tra beatitudine e dannazione»; anzi, «la condizione interiore ed esteriore dei
limbicoli, proprio in quanto il loro stato, medio tra il premio e la pena, tra
la letizia e la tristezza […], è misurato dall’aequa lanx del giudizio divino che
ammetterà che il criterio della magnanimità non impedisce a Dante di collocare altri
celebri personaggi dell’antichità nei più svariati cerchi infernali: così Achille, Giasone,
Ulisse e Diomede; e con l’appellattivo di «magnanimo» è indicato anche Farinata degli
Uberti, protagonista della storia recente di Firenze.
cap. ix • «or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna…»
4. Pagani in Purgatorio
12
Marco Porcio Catone (95-46 a.C.), politico romano, filosofo stoico, strenuo difensore
delle libertà repubblicane che sentiva minacciate dall’ascesa di Giulio Cesare, si suicidò
in Utica per non vedere Roma ai piedi del nuovo dittatore. Già i contemporanei e gli
immediati posteri (Cic. fin. iv xvi 44; off. i xxxi 112; Verg. Aen. viii 670; Sen. const. sap. ii 1)
cap. ix • «or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna…»
lo dipinsero come un modello di virtù. Dante si riferisce sovente a lui come un modello
di perfezione umana (conv. iv vi 9-10; v 16), fino all’ardita esclamazione: «E quale uomo
terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone? Certo nullo» (conv. iv xxviiii 15).
D’altronde, contro Catone parla invece – come visto in precedenza – Aug. civ. i xix, ccsl
47, 20-22 (= pl 41, 32-33). Per maggiori dettagli, cfr. M. Fubini, s.v. “Catone l’Uticense”,
ed i, 876-882; D. Carron Faivre, Le héros de la liberté. Les aventures philosophiques de Caton
au Moyen Âge latin, de Paul Diacre à Dante, 709-922.
13
Virgilio apostrofa così una delle prime schiere dell’antipurgatorio: «O ben finiti, o già
spiriti eletti» (purg. iii 73).
14
Dante interpreta d’altronde il suicidio di Catone come sacrificio reso in testimonianza
della libertà anche in mon. ii v 15: «accedit et illud inenarrabile sacrifitium severissimi
vere libertatis tutoris Marci Catonis. [… Cato], ut mundo libertatis amores accenderet,
quanti libertas esset ostendit dum e vita liber decedere maluit quam sine libertate ma-
nere in illa».
oltre i confini della salvezza
tagna del purgatorio – anzi, del paradiso terrestre – è stata con ogni proba-
bilità completamente disabitata dai tempi di Adamo ed Eva, che nell’Eden
risiedettero per circa sette ore, alla resurrezione di Cristo. Coloro che, nel
frattempo, sono morti o nella più perfetta giustizia, o nel pentimento più
contrito per i propri peccati, attesero nel limbo che il Redentore prestasse
loro soccorso. È stato forse durante quell’esodo imprevedibile che Cristo,
oltre ai giusti del popolo d’Israele, si è portato dietro qualche pagano (Rifeo,
edotto per rivelazione del futuro Salvatore, già nella beatitudine; Catone,
che della piena libertà cristiana si è reso di fatto profeta, insignito del ruolo
di custode del secondo regno)?
Il destino dell’Uticense rappresenta comunque un tassello importante
per comprendere il trattamento dantesco dei giusti pagani. Catone è nella
Commedia il primo pagano che sicuramente condividerà la beatitudine dei
santi. Egli, però, non è ancora in paradiso, e per quanto prevista sia la sua
sorte, pare rimandata alla parusìa. Il caso di Catone sarà l’unico nella storia?
Gli è stato forse riservato un trattamento eccezionale in premio della sua
integerrima statura morale? E che fine fanno tutti gli altri giusti pagani che
non hanno udito il vangelo? E c’è già qualche pagano in paradiso, o – sep-
pure si dia qualche altro infedele destinato alla salvezza – sono tutti desti-
nati a restare in purgatorio fino al giorno del giudizio?
A tali domande Dante riserva uno spazio, se non di risposta compiuta, al-
meno d’attenzione, nel cielo di Giove, dove appaiono al pellegrino le anime
degli spiriti giusti. Costoro sono rappresentati come delle luci che, radunan-
dosi insieme, compongono dapprima, lettera per lettera, l’incipit del libro
della Sapienza: «Diligite iustitiam qui iudicatis terram»; indi, la m gotica fi-
nale del versetto si trasforma in un’aquila (par. xviii 70-108). A quest’aquila,
ormai fattasi persona corporativa delle anime massimamente informate dalla
virtù della giustizia, e anzi quasi simbolo e portavoce della stessa giustizia di
Dio, il pellegrino potrebbe porre il «dubbio che gli è digiun cotanto vecchio»
(par. xix 33), l’interrogativo che da tanto tempo lo tormenta senza trovare
risposta adeguata (par. xix 67-78); senonché l’aquila gliel’ha già letto dentro
[⇨da.pd01]:
«Assai t’è mo aperta la latebra
che t’ascondeva la giustizia viva,
di che facei question cotanto crebra;
ché tu dicevi: ‘Un uom nasce a la riva
cap. ix • «or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna…»
de l’Indo, e quivi non è chi ragioni
di Cristo né chi legga né chi scriva;
e tutti suoi voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
sanza peccato in vita o in sermoni.
Muore non battezzato e sanza fede:
ov’è questa giustizia che ’l condanna?
ov’è la colpa sua, se ei non crede?’».
La questione è esattamente quella sulla salvezza dei giusti infedeli: uomini
che non hanno mai sentito parlare di Cristo (è indifferente, nonostante l’e-
sempio di un indiano, se si tratti di gente vissuta prima o dopo il Salvatore), e
che, tuttavia, al nostro giudizio possiedono una volontà buona e compiono
azioni moralmente degne, senza peccare né in opere né in parole. Ci si trova
davanti a un dilemma cornuto: «ov’è questa giustizia che ’l condanna? /
ov’è la colpa sua, se ei non crede?». O si condanna un innocente, e allora
si viene meno alla giustizia; o, se si condanna un colpevole, bisogna dimo-
strare quale colpa abbia un incredulo che non possa credere per ignoranza.
Tuttavia, la vertiginosa domanda è racchiusa, quasi in Ringkomposition,
dal duplice richiamo al misterioso disegno di Dio. L’aquila spiega, dap-
prima, che Iddio «non poté suo valor sì fare impresso / in tutto l’universo,
che ’l suo verbo / non rimanesse in infinito eccesso» (par. xix 43-45). Vi è,
dunque, un’eccedenza connaturale tra l’infinita razionalità e sapienza di
Dio, ciò che l’universo può svelare di essa e quanto, di conseguenza, la
creatura può comprendere.
La sproporzione tra l’imperscrutabile sapienza divina e la più perfetta intel-
ligenza creaturale è tale che nemmeno Lucifero, il «primo superbo», con tutto
l’intelletto angelico di cui era dotato, si spazientì al punto da peccare «per non
aspettar lume», per non aver saputo attendere che Dio stesso lo illuminasse.
Ciò dimostra «ch’ogne minor natura / è corto recettacolo a quel bene / che
non ha fine e sé con sé misura» – a maggior ragione la «veduta» umana «non
pò da sua natura esser possente / tanto, che suo principio discerna / molto di
là da quel che l’è parvente». Essa può a malapena andare oltre le apparenze,
così come l’occhio può, sì, vedere il fondo del mare nei pressi della riva, ma
non può certamente penetrare le profondità degli abissi (par. xix 46-66).
Di qui il possente rimprovero dell’aquila nei confronti della superba pre-
tesa di Dante di «sedere a scranna», di discernere il mistero di Dio, sebbene
non sia in grado di vedere più in là del proprio naso (par. xix 67-90):
«Or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna,
per giudicar di lungi mille miglia
con la veduta corta d’una spanna?
Certo a colui che meco s’assottiglia,
oltre i confini della salvezza
se la Scrittura sovra voi non fosse,
da dubitar sarebbe a maraviglia.
Oh terreni animali! oh menti grosse!
La prima volontà, ch’è da sé buona,
da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse.
Cotanto è giusto quanto a lei consuona:
nullo creato bene a sé la tira,
ma essa, radïando, lui cagiona».
Alle domande di Giobbe sulla propria sofferenza, alla protesta d’innocenza
e alla richiesta di un giudizio, Dio non aveva risposto; aveva piuttosto sfi-
dato Giobbe stesso a dar conto dell’enigma dell’intera creazione. Si ergesse
dunque lui, Giobbe, in cattedra, se proprio voleva «sedere a scranna»! Si
mettesse lui ad istruire Dio: e questi l’avrebbe interrogato (cfr. Iob 38-41)!
Parimenti, anche Paolo aveva ammonito chi metteva in questione la miseri-
cordia divina: «O uomo, chi sei tu, per contestare Dio?» (Rm 9,20).
Tale la risposta dell’aquila a Dante. Lucifero non ha saputo fidarsi della
bontà e della sapienza di Dio, ha avuto la presunzione di sapere già tutto,
e di tutto giudicare; e per questo è caduto. Che Dante non commetta lo
stesso errore! Dio è Dio, Deus semper maior. Bisogna affidarsi a lui e rico-
noscerlo per come è. «La prima volontà, ch’è da sé buona, / da sé, ch’è
sommo ben, mai non si mosse»: egli che è buono, che è il sommo bene, non
può rinnegare se stesso, non può non dimostrarsi fedele alla sua essenza.
Con l’appello all’imperscrutabile disegno di Dio, la questione pare non
dover trovare risposta. Certo, il pellegrino è chiamato lui a convertirsi, ad
abbandonare la pretesa di misurare l’agire di Dio e di giudicarne la bontà e
la giustizia. Eppure, una tale risposta sospesa non può non lasciare un certo
amaro in bocca.
Certo, accanto al richiamo all’umile abbandono nella giustizia di Dio, l’a-
quila smaschera l’ingenua confidenza nella fede o nel battesimo. Già Gesù
aveva apostrofato i villaggi in cui aveva predicato, profetizzando che sareb-
bero stati giudicati più severamente di Tiro, di Sidone, di Sodoma (Mt 11,20-
24; Lc 10,13-15); e avvertiva che Ninive e la regina di Saba, pagani convertiti
da Giona e da Salomone, si sarebbero alzati a giudicare la sua generazione,
che pretendeva un segno (Mt 12,38-42; Lc 11,29-32). Così avverrà anche tra i
cristiani e gli infedeli loro contemporanei (par. xix 106-114):
«Ma vedi: molti gridan ‘Cristo, Cristo!’,
che saranno in giudicio assai men prope
a lui, che tal che non conosce Cristo;
e tai Cristian dannerà l’Etïòpe,
quando si partiranno i due collegi,
l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe.
cap. ix • «or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna…»
Che poran dir li Perse a’ vostri regi,
come vedranno quel volume aperto
nel qual si scrivon tutti suoi dispregi?»
6. Pagani in Paradiso
Eppure, a un certo punto, l’aquila mostra a Dante, uno per uno, i luminosi
spiriti che costituiscono il suo ciglio [⇨da.pd02]. Si tratta di cinque celebri
sovrani o nobili di diverse provenienze etniche e storiche, tutti distintisi per
il particolare amore della giustizia, veri e propri modelli di come si realizza
quel primo versetto della Sapienza con cui le anime di Giove si sono mostrate
al poeta. Ad ognuno di essi sono dedicate due terzine: la prima, di presenta-
zione del personaggio, con un breve cenno ad un episodio edificante della
loro vita; la seconda, introdotta sempre dall’anaforico «ora conosce», di ‘con-
versione’ dello stesso spirito beato di fronte alla scoperta del vero e miste-
rioso disegno di Dio. I cinque spiriti sono, nell’ordine dal becco all’esterno:
l’imperatore romano Traiano; il re di Giuda Ezechia; l’imperatore Costan-
tino; il re normanno di Sicilia Guglielmo il Guiscardo; il nobile troiano Rifeo.
Il primo e l’ultimo spirito, Traiano e Rifeo, però, non erano forse pa-
gani? Non v’è contraddizione col principio enunciato dall’aquila: «A questo
regno / non salì mai chi non credette ’n Cristo, / né pria né poi ch’el si
Identica posizione si riscontra anche, e forse più chiaramente, in Dante mon. ii vii 4:
15
«Quedam etiam iudicia Dei sunt, ad que etsi humana ratio ex propriis pertingere ne-
quit, elevatur tamen ad illa cum adiutorio fidei eorum que in Sacris Licteris nobis dicta
sunt, sicut ad hoc: quod nemo, quantumcunque moralibus et intellectualibus virtutibus
et secundum habitum et secundum operationem perfectus, absque fide salvari potest,
dato quod nunquam aliquid de Cristo audiverit».
oltre i confini della salvezza
chiavasse al legno» (par. xix 103-105)? Se in cielo non v’è nessuno che non
abbia creduto in Cristo, come mai sono qui presenti due infedeli? Quanto al
primo, Dante così lo presenta (par. xx 43-48):
«Dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,
colui che più al becco mi s’accosta,
la vedovella consolò del figlio:
ora conosce quanto caro costa
non seguir Cristo, per l’esperïenza
di questa dolce vita e de l’opposta».
Il caso di Traiano l’abbiamo già analizzato. Ci si limiti perciò a notare come
Dante ritragga l’imperatore anzitutto nel celebre episodio di giustizia nei
confronti di una vedova cui era stato ucciso il figlio 16; e come sottolinei,
proprio a partire dalla duplicità della sua esperienza escatologica, nel limbo
prima e in paradiso poi, la necessità della sequela cristiana.
Si noti, però, che, rispetto al dato tradizionale, Dante trasfigura poetica-
mente la leggenda della resurrezione di Traiano appunto grazie alla sua rie-
laborazione del limbo. Nella leggenda, infatti, Traiano figura all’inferno tout
court; Dante, creando uno spazio liminare per i giusti infedeli, risolve l’aspetto
scandaloso e problematico della salvezza di un simpliciter damnatus. La ‘so-
spensione’ del limbo, pur suscitando le aporie prima considerate, permette
però una via di fuga di fronte alla definitività della pena infernale, che rappre-
sentava una crux teoretica per la stessa leggenda di Gregorio Magno.
Sul secondo caso, quello di Rifeo, val la pena soffermarsi più a lungo 17.
Se, infatti, la salvezza di Traiano è stata già preparata dalla recezione tradi-
zionale, non così avviene per la figura di Rifeo, un eroe virgiliano decisa-
mente minore. A costui il poema latino dedica pochi versi; nominato tra
i valorosi dell’estrema resistenza di Troia (Aen. ii 339; 394; 424-430), riceve
infine il seguente elogio: «cadit et Ripheus, iustissimus unus / qui fuit in
16
Abbiamo già rammentato l’aneddoto in precedenza. Dante dovette essere rimasto for-
temente impressionato dall’episodio, dal momento che già in purg. x 73-93 ne aveva fatto
uno degli esempi di umiltà scolpiti nei bassorilievi della prima cornice della montagna:
«Quiv’era storïata l’alta gloria / del roman principato, il cui valore / mosse Gregorio a la
sua gran vittoria; // i’ dico di Traiano imperadore; / e una vedovella li era al freno, / di la-
grime atteggiata e di dolore. // Intorno a lui parea calcato e pieno / di cavalieri, e l’aguglie
ne l’oro / sovr’essi in vista al vento si movieno. // La miserella intra tutti costoro / pareva
dir: ‘Segnor, fammi vendetta / di mio figliuol ch’è morto, ond’io m’accoro’; // ed elli a
lei rispondere: ‘Or aspetta / tanto ch’i’ torni’; e quella: ‘Segnor mio’, / come persona in
cui dolor s’affretta, // ‘se tu non torni?’; ed ei: ‘Chi fia dov’io, / la ti farà’; ed ella: ‘L’altrui
bene / a te che fia, se ‘l tuo metti in oblio?’; // ond’elli: ‘Or ti conforta; ch’ei convene /
ch’i’ solva il mio dovere anzi ch’i’ mova: / giustizia vuole e pietà mi ritene’».
17
Cfr. G. Padoan, s.v. “Rifeo”, ed iv, 923-924.
cap. ix • «or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna…»
18
Dante par. xx 106-117: «Ché l’una de lo ‘nferno, u’ non si riede / già mai a buon voler,
tornò a l’ossa; / e ciò di viva spene fu mercede: // di viva spene, che mise la possa /
ne’ prieghi fatti a Dio per suscitarla, / sì che potesse sua voglia esser mossa. // L’anima
glorïosa onde si parla, / tornata ne la carne, in che fu poco, / credette in lui che potëa
aiutarla; // e credendo s’accese in tanto foco / di vero amor, ch’a la morte seconda / fu
degna di venire a questo gioco».
oltre i confini della salvezza
da indi il puzzo più del paganesmo;
e riprendiene le genti perverse.
Quelle tre donne li fur per battesmo
che tu vedesti da la destra rota,
dinanzi al battezzar più d’un millesmo».
Con un lessico sorprendente per le orecchie pacifiste del xxi secolo, Gesù
aveva già avvertito: «a diebus autem Iohannis Baptistae usque nunc regnum
caelorum vim patitur et violenti rapiunt illud» (Mt 11,12; cfr. Lc 16,16). Non
si entra nel regno dei cieli senza uno strappo, un impeto violento: e Dante
vi vede la violenza della carità appassionata, della viva speranza. Dio ama
farsi vincere dall’uomo: il suo regno non vuol apparire come un’invitta for-
tezza, bensì come un castello facilmente espugnabile. È così che adesso il
richiamo all’enigma della predestinazione può assumere ben altre tonalità
festose (par. xx 130-138):
«O predestinazion, quanto remota
è la radice tua da quelli aspetti
che la prima cagion non veggion tota!
E voi, mortali, tenetevi stretti
a giudicar: ché noi, che Dio vedemo,
non conosciamo ancor tutti li eletti;
ed ènne dolce così fatto scemo,
perché il ben nostro in questo ben s’affina,
che quel che vole Iddio, e noi volemo».
Il pensiero dell’elezione che Dio compie prima dei secoli nei confronti del
singolo uomo, non appare più motivo di angoscioso dubbio, bensì cantico di
lode. Il medesimo richiamo a tenersi «stretti / a giudicar» non indica più tanto
un severo redarguire la pretesa di penetrare il disegno divino, bensì – in posi-
tivo – la sottolineatura che nemmeno i beati conoscono il numero degli eletti.
7. Il ‘caso Virgilio’
19
Le seguenti pagine riferiscono in sintesi quanto già avevo sostenuto in M. Vinti, «Tu se’
lo mio maestro». Virgilio come personaggio nella Divina Commedia, tesi di laurea in Lettere,
Cagliari 2002.
oltre i confini della salvezza
La finezza ermeneutica dello studioso tedesco ritrae già qui Virgilio come
personaggio reale e concreto; e tenta anche un’analisi interessante dei mo-
tivi per i quali il poeta mantovano viene scelto da Dante come propria guida
nell’oltretomba.
La concezione figurale di Auerbach si sviluppa poi con l’articolo Figura
(1939). In tale scritto, uno degli esempi che Auerbach adduce per illustrare
appunto il concetto di figura è proprio quello di Virgilio: una persona che
resta totalmente se stessa, in quanto poeta e saggio, cantore dell’età dell’oro,
della κατάβασις di Enea, dell’impero romano, e in quanto uomo giusto e
pio. È proprio per queste sue caratteristiche, perché è e resta se stesso, che
può diventare guida di Dante nel suo pellegrinaggio oltremondano 22.
ne del giusto ordinamento del mondo al presagio della rinascita attraverso la venuta di
Cristo (rimanendo lui stesso nell’oscurità ma illuminando la via a quelli dopo di lui)».
22
E. Auerbach, Studi su Dante, 220-223: «Virgilio è stato considerato da quasi tutti gli antichi
commentatori come l’allegoria della ragione, della ragione umana e naturale che porta al
giusto ordine terreno ossia, secondo le idee di Dante, alla monarchia universale […]. Gli
interpreti moderni si sono spesso opposti a questa interpretazione e hanno messo in luce
l’aspetto poetico, umano, personale della figura di Virgilio, senza tuttavia poterne negare
il ‘significato’ e metterlo in perfetta concordanza con l’aspetto umano […]. Ma qui non c’è
alcun aut-aut fra senso storico e senso recondito: c’è l’uno e l’altro. È la struttura figurale
che conserva il fatto storico mentre lo interpreta rivelandolo, e che lo può interpretare sol-
tanto se lo conserva. Agli occhi di Dante il Virgilio storico è in pari tempo poeta e guida. È
una guida come poeta, perché nel suo poema, nel viaggio agli Inferi del giusto Enea, sono
profetizzati e celebrati l’ordinamento politico che Dante considera esemplare, la ‘terrena
Jerusalem’, e la pace universale sotto l’impero romano; perché nel suo poema è cantata
la fondazione di Roma, sede predestinata del potere temporale e spirituale, in vista della
sua futura missione. Soprattutto egli è una guida, come poeta, perché tutti i grandi poeti
posteriori furono infiammati e ispirati dalla sua opera […]. Il Virgilio storico è ‘adempiuto’
dall’abitante del Limbo, dal compagno dei grandi poeti antichi che per desiderio di Beatrice
si assume il compito di guidare Dante. Come egli un tempo, da romano e da poeta, aveva
fatto discendere Enea per consiglio divino nell’oltretomba, affinché egli conoscesse il de-
stino del mondo romano, come la sua opera era diventata una guida per i posteri, così ora
egli è chiamato dalle potenze celesti a una funzione di guida non meno importante: perché
non è dubbio che Dante vede se stesso in una missione importante quanto quella di Enea:
egli è chiamato ad annunciare al mondo dissestato l’ordinamento giusto, che gli viene
rivelato nel suo cammino. E Virgilio è chiamato a mostrargli e a spiegargli il vero ordina-
mento terreno, le cui leggi giungono ad esecuzione nell’aldilà, la cui sostanza è adempiuta
nell’aldilà […]. Virgilio non è dunque l’allegoria di una qualità, di una virtù, di una capacità
o di una forza, e neppure di un’istituzione storica. Egli non è né la ragione né la poesia né
l’impero. È Virgilio stesso […]. Per Dante il senso di ogni vita è interpretato, essa ha il suo
posto nella storia provvidenziale del mondo che per lui è interpretata nella visione della
Commedia, dopo che nei suoi tratti generali essa era già contenuta nella rivelazione comu-
nicata ad ogni cristiano. Così nella Commedia Virgilio è bensì il Virgilio storico, ma d’altra
parte non lo è più, perché quello storico è soltanto ‘figura’ della verità adempiuta che il
poema rivela, e questo adempimento è qualche cosa di più, è più reale, più significativo
cap. ix • «or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna…»
della ‘figura’. All’opposto che nei poeti moderni in Dante il personaggio è tanto più reale
quanto più è integralmente interpretato, quanto più esattamente è inserito nel piano della
salute eterna. E all’opposto che negli antichi poeti dell’oltretomba, i quali mostrano come
reale la vita terrena e come umbratile quella sotterranea, in lui l’oltretomba è la vera realtà,
il mondo terreno è soltanto ‘umbra futurorum’, tenendo conto però che l’‘umbra’ è la
prefigurazione della realtà ultraterrena e deve ritrovarsi completamente in essa».
23
C.S. Singleton, La poesia della Divina Commedia, 123-124: «Virgilio, per esempio, se lo
si considera ‘staticamente’, isolandolo dall’azione del poema, ha avuto e continua ad
avere – secondo la visione che di lui ci dà il poema – un’esistenza storica reale. Fu un
uomo in terra e ora è una delle anime che dimorano nel Limbo. Considerato di per sé,
Virgilio non avrebbe nessun altro, nessun secondo significato. Ma è proprio per il fatto
di avere un ruolo nell’azione del poema che egli assume un secondo significato. Ed è a
questo punto che comincia a importare l’idea che si ha della natura del primo signifi-
cato. Infatti, se qui abbiamo una allegoria dei poeti, ciò che fa Virgilio (analogamente a
ciò che fa Orfeo) è una fictio escogitata per trasmettere un significato riposto che deve
essere trasmesso in modo continuativo – poiché solo se trasmette tale significato trova
giustificazione ciò che fa il personaggio. Se invece qui abbiamo un’allegoria quale la
intendono i teologi, allora l’azione del poema dovrà avere sempre un senso letterale
che sia storico e non una fictio; e così le azioni di Virgilio (in quanto parte dell’azione
complessiva) potranno a loro volta funzionare come parole, e significare altre cose. Ma
non occorrerà che lo facciano in modo continuativo: essendo infatti di natura storica,
tali azioni hanno una loro piena autonomia. Ma come si fa ad avere esitazioni nella
scelta? Non è forse chiaro che Virgilio non sempre può parlare e agire come ‘Ragione’
con l’iniziale maiuscola, e che cercare di costringerlo a ciò vuol dire cercare di riscrivere
il poema in base a un concetto di allegoria che la sua forma non comporta?».
oltre i confini della salvezza
24
Ibi, 135-448.
25
Ibi, 172: «Virgilio, come guida, può rappresentare (e in concreto rappresenta) un primo
moto verso Dio per lumen naturale, anche se la ‘contemplatio invisibilium’ non è parte
importante o preminente di tale moto. Virgilio […] guida verso una condizione di giu-
stizia accessibile sulla cima del monte, là dove il pellegrino può iniziare la vera e propria
contemplazione. […] Virgilio funziona in uno schema subordinato rappresentante un
evento che si conclude in vetta con Beatrice, e noto nella dottrina stabilita come justifi-
catio impii; un evento interiore dell’anima, che comporta una conversione e la rettifica-
zione della volontà».
26
Ibi, 173-174: «Virgilio, allora, quando Beatrice lo sollecita a trarre in salvo il pellegrino
alle prese con le fiere, lascia il suo posto nel Limbo dove i ‘filosofi’ dimorano avvolti da
un emisfero di luce (segno evidente, questo, della luce naturale che fu loro concessa in
questa vita), e assume la funzione di guida che, in senso allegorico, è questa stessa luce:
lumen naturale».
cap. ix • «or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna…»
27
Ibi, 181.
28
Ibi, 187-188: «Può Dio attrarre a Sé un uomo senza ricorrere a una operazione che esca
in qualche modo dai confini del naturale o dai limiti della natura umana? Può una simi-
le operazione essere effettuata da Dio in modo che si possa ancora dire che è l’uomo a
disporre se stesso, benché si tratti di un’operazione divina? Come faremo, però, in tal
caso a non pensare all’intervento di Dio come a una ‘specie di grazia’, dato che esso
altro non si propone che di attrarre l’uomo a Lui? Avremo ancora ragione di definire
interamente naturale, un evento prodotto da un siffatto intervento divino? Oppure, se
aderiamo all’idea che quest’intervento deve essere chiamato grazia, pur non essendo
grazia abituale o santificante, in che senso potremo aderirvi? Esiste forse una specie di
grazia che conduce a quella santificante, e opera, tuttavia, entro i confini naturali?».
29
Ibi, 191: «Conseguire la grazia santificante è l’adempimento di un processo di giustifi-
cazione […], e il moto verso tale fine è una praeparatio a ricevere la grazia. In quanto
tale, esso è la prima delle tre conversioni. Nell’azione del poema questo moto avviene
sotto la guida di Virgilio, e va inteso pertanto come evento compreso entro i confini del
naturale. È, ricordiamolo, un umanar. Tuttavia […] dobbiamo anche ammettere che il
moto è diretto da Dio. […] Nel considerare questi punti di dottrina, non possiamo fare
a meno di sentire quanto siamo vicini al poema dantesco nel suo primo moto verso
la grazia, compiuto sotto la guida di Virgilio. Il viaggio attraverso l’Inferno è un ‘fatale
andare’ e continua ad esserlo attraverso il Purgatorio. È un viaggio che non può mancare
la meta stabilita. Il cammino di Dante (e in esso siamo sempre tenuti a scorgere una
possibilità accessibile anche a noi) è concesso da un potere che discende dall’alto. È una
scala che Dio stende alla creatura che Egli ha scelto di chiamare a Sé. La scala consta di
tre settori, e va concepita sia in termini di luce che di moto della volontà. Virgilio guida
attraverso il primo settore, compreso entro la ‘natura’ e i confini naturali, e prepara-
zione al secondo, più alto, che è quello di Beatrice. Se Dio non offrisse il Suo aiuto a
questo modo, estendendolo giù fin entro l’ordine naturale, non avremmo da affrontare
il problema di una prima fase di guida attraverso tale ordine. Ma quando, per Sua mi-
sericordia, Dio concede il suo auxilium, anch’Egli osserva l’ordine gerarchico, dando il
Suo aiuto innanzi tutto attraverso l’ordine infimo, al fine di preparare l’anima a quello
immediatamente superiore. […] Quindi, la prima conversione, benché naturale, è di-
retta a ciò che è soprannaturale (la grazia santificante), e tanto più essenzialmente vi è
diretta, essendo una preparazione per ricevere proprio quella grazia. S. Tommaso spes-
so usa anche un altro termine per questo aspetto della questione: habilitas ad gratiam.
In questo caso, infatti, la ‘materia’ è una natura capace di ricevere la forma, quando vi
sia preparata. Tale ‘preparazione a ricevere’ è la prima delle tre conversioni».
oltre i confini della salvezza
Il primo Virgilio, quello dei primi sette canti della Commedia, è tratteggiato
secondo i canoni di una personalità apparentemente priva di sbavature.
Certo, la primitiva epifania è tutt’altro che imponente, è piuttosto una pas-
sività discreta: «mi si fu offerto / chi per lungo silenzio parea fioco» (inf. i
62-63). La lunga autobiografia, l’entusiastico riconoscimento di Dante, ne
fanno però subito «quel Virgilio, e quella fonte / che spande di parlar sì
largo fiume», «de li altri poeti onore e lume», il «maestro» e «autore» di
Dante, il «famoso saggio» (cfr. inf. i 79-89). Egli si pone come «guida», con
l’unica tragica incompiutezza dell’incolpevole incredulità – «per ch’io fui
ribellante a la sua legge», dice già nel primo canto (inf. i 125) –; ma solo nel
quarto egli, «altissimo poeta» (inf. iv 80), s’erge in tutta la drammatica tri-
stezza della sorte dei «sospesi» del limbo.
Fu eletto da Beatrice a salvezza di Dante in quanto cantore di Enea, ra-
dice dell’impero romano, il primo a compiere un viaggio oltremondano; e
per la sua «parola ornata» (inf. ii 67), dotata di valore quasi sacrale. È questa,
infatti, lo strumento principe di Virgilio come guida dell’oltretomba. È con
le sue formule numinose che affronta i primi demoni che ostacoleranno il
viaggio («vuolsi così colà dove si puote…», inf. iii 95, v 23, cfr. vii 11-12).
Dai primi canti traspare l’autorevolezza di Virgilio: il suo indefesso so-
stegno alla «viltà» del suo assistito, il piglio sicuro con cui mette a tacere,
l’un dietro l’altro, i primi demoni che cercano, chi con l’astuzia, chi con l’ira,
di sbarrare il passo a Dante, o di intimorirlo (Caronte, Minosse, Cerbero,
Pluto, Flegiàs). All’uopo, il mantovano a volte si richiama al volere divino;
altrove si getta nell’azione decisa, come quanto empie le «bramose canne»
di Cerbero (inf. iii 27); e di fronte alle incomprensibili parole di Pluto, egli
pare capire, come «savio gentil, che tutto seppe» (inf. vii 5). Il primo Vir-
gilio è anche intensamente affettivo: gesti di rassicurazione, di biasimo, di
sdegno, di commozione, di affetto, fino all’accorato «Alma sdegnosa, / be-
nedetta colei che ’n te s’incinse!» (inf. viii 44-45) della palude stigia.
Il personaggio di Virgilio come emerge dalle pagine iniziali della Com-
media, risulta essere, l’abbiamo visto, totalmente positivo nella sua tragicità:
onnisciente, autorevole, pedagogicamente irreprensibile. Egli appare, so-
cap. ix • «or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna…»
30
Cfr. T. Barolini, Il miglior fabbro, 165-166: «Con il pretesto dunque di alleviare le paure
del pellegrino, Dante fa nascere paure ben più consistenti nei confronti della propria
guida: la sbalorditiva invenzione qui riportata, in virtù della quale la strega tessalica del
poema di Lucano si sarebbe servita di Virgilio per una delle sue atroci missioni, proietta
una lunga e intenzionale ombra sul poeta latino. Notiamo inoltre che Virgilio è raffigu-
rato come se desse per scontati sia la propria mancanza di libero arbitrio, sia il potere di
Eritone su di lui, un fatto che Dante mette in evidenza facendogli dire ‘ella mi fece intrar
dentr’a quel muro’».
31
Cfr. ibi, 175-176: «Non è forse Virgilio, piuttosto che il pellegrino, uno ‘de li altri scioc-
chi’, al punto da sottomettersi passivamente ai voleri di Eritone? La sua dotta tirata
contro gli indovini viene così pagata a caro prezzo; in modo analogo, il suo testo viene
sì conservato, ma a costo di essere rivelato falso».
cap. ix • «or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna…»
Dopo aver adempiuto un’ultima volta, nella cornice dei lussuriosi, alla pro-
pria funzione di guida accompagnando Dante nelle fiamme purificatrici col
richiamo all’incontro con Beatrice (purg. xxvii 35-36: «Or vedi, figlio: / tra
Beatrice e te è questo muro»); e aver confermato l’ormai ex-allievo nella
sicurezza del proprio libero arbitrio (purg. xxvii 139-142: «Non aspettar mio
dir più né mio cenno; / libero, dritto e sano è tuo arbitrio, / e fallo fora non
fare a suo senno: / per ch’io te sovra te corono e mitrio»); ecco che Virgilio
entra, con Dante e con Stazio, nel paradiso terrestre.
Nell’Eden, Virgilio viene rappresentato in pochissime circostanze, e in
tutte col medesimo sorriso di stupore: ad esempio, in occasione dell’acco-
stamento proposto da Matelda tra il paradiso terrestre e la condizione beata
dell’età dell’oro 32; e Dante sorprenderà poi in Virgilio lo stesso sguardo am-
mirato che egli stesso ha, al momento della mistica processione allegorica
dell’historia salutis, al termine della quale si assisterà alla parusìa di Bea-
trice 33. Il pagano Virgilio, fattosi pellegrino con Dante lungo le cornici del
purgatorio, assiste stupito alla festa simbolica della storia che Dio ha intrat-
tenuto con gli uomini; è giunto alla meta di un cammino di conversione.
32
Dante purg. xxviii 139-147: «‘Quelli ch’anticamente poetaro / l’età de l’oro e suo stato
felice, / forse in Parnaso esto loco sognaro. // Qui fu innocente l’umana radice; / qui
primavera sempre e ogne frutto; / nettare è questo di che ciascun dice’. // Io mi rivolsi
‘n dietro allora tutto/ a’ miei poeti, e vidi che con riso / udito avëan l’ultimo costrutto».
33
Dante purg. xxix 55-57: «Io mi rivolsi d’ammirazion pieno / al buon Virgilio, ed esso mi
rispuose / con vista carca di stupor non meno».
cap. ix • «or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna…»
Che dire, dunque, di questa figura di anima eterna? Cosa è accaduto di lui
nel breve spazio dei pochi giorni di viaggio oltremondano? La Commedia
non ci ha descritto un solo Virgilio, ma almeno quattro – o un solo Virgilio
in quattro tappe del suo divenire.
Il primo Virgilio, il Virgilio guida, è perfetto, fatta la tara per il suo status
di pagano e di «sospeso» nel limbo. Tale sospensione, unicamente espressa
nei sospiri e in una certa nobile tragicità, è tuttavia come uno stand-by pe-
renne. Certamente il primo Virgilio è il Virgilio ‘eterno’ – eterno nel senso
di un’immutabilità del τύπος, della figura. Forse il personaggio stesso di
Virgilio si autoconcepisce come immutabile: egli si presenta tra coloro «che
sanza speme vivemo in disio» (inf. iv 42), un desiderio vano predestinato
a rimanere tale per sempre, senza speranza di una soluzione alternativa.
Conseguentemente, il suo rapporto con Dante è instaurato nei termini di
una guida sicura, che conosce il cammino, è competente nel trattare con i
funzionari di polizia dei cerchi infernali, è capace, all’occorrenza, di descri-
vere un luogo, una pena, o di spiegare gli aspetti teorici di una determinata
situazione: quasi un professionista di viaggi oltremondani.
Il secondo Virgilio è il Virgilio incrinato, che subisce smacchi (Dite), com-
mette ingenuità (Malebolge), si presenta come guida fallibile. Al nostro me-
todo di lettura non interessa qui sottolineare l’aspetto allegorico, simbolico
o figurale della problematica; se cioè sia adombrato, in Virgilio, l’aspetto
limitato e fallimentare della ragione. Interessa invece, nella prospettiva del
realismo del viaggio, individuare l’aspetto catastrofico della situazione: la
guida dell’eternità non è più in grado di adempiere perfettamente al proprio ruolo.
oltre i confini della salvezza
Dante è figlio del suo tempo e dalla teologia coeva deduce i criteri essenziali
della salvezza. Senza sottilizzare sulle distinzioni scolastiche (fides implicita,
ecc.), individua alcuni criteri chiari di salvezza: fede in Cristo venuto o ven-
turo 34; recezione del battesimo come «porta de la fede che tu credi» per i
Si è vista l’esplicita affermazione dell’aquila in par. xix 103-105. Anche la «candida rosa»
34
dell’empireo, ove risiederà la totalità dei beati, è perfettamente bipartita tra i due ran-
cap. ix • «or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna…»
ghi: «Da questa parte onde ’l fiore è maturo / di tutte le sue foglie, sono assisi / quei
che credettero in Cristo venturo; // da l’altra parte onde sono intercisi / di vòti i semi-
circuli, si stanno / quei ch’a Cristo venuto ebber li visi» (par. xxxii 22-27). Il settore dei
credenti in Cristo venturo appare d’altronde in questa circostanza già pieno; mi pare
difficile però utilizzare l’espressione «tutte le sue foglie» in senso letterale, dal momen-
to che almeno una foglia, quella di Catone, non è ancora parte del paradiso.
35
Ciò comporta, da un lato, la salvezza anche dei bambini morti «prima ch’avesser vere
elezïoni» (par. xxxii 45); dall’altro, per i credenti in Cristo venturo, l’obbligo di perma-
nenza nel limbo fino al descensus ad inferos o, nel caso eccezionale di Traiano, a una
resurrezione con successivo battesimo.
36
Tali i casi di Manfredi e di Buonconte da Montefeltro (purg. iii 106-145; v 85-130).
37
G. Fallani, s.v. “salvezza”, ed iv, 1094-1096.
38
Lo stesso G. Fallani, s.v. “salvezza”, ed iv, 1095-1096, riporta una domanda aperta di
oltre i confini della salvezza
(a) Il limbo, pur essendo un cerchio infernale, è collocato prima della sede
del giudice infernale Minosse, posta all’«intrata» del secondo cerchio. Ciò
sembra implicare che i limbicoli non siano stati ancora giudicati definitiva-
mente. Non è del resto impossibile sostenere che lo stesso epiteto di «so-
spesi», con cui le anime del limbo vengono sovente indicate, faccia appunto
riferimento a tale condizione antegiudiziale.
(b) Catone l’Uticense, il grande politico romano posto a custodia del se-
condo regno, è il primo caso di pagano non più dannato. Benché non an-
cora beato, a lui il paradiso è già profetizzato. Egli appare addirittura come
l’unico pagano che verrà salvato da pagano, perché tecnicamente Traiano
e Rifeo non contraddicono la condizione della fede nel Redentore. Per l’e-
lezione di Catone fu invece determinante il suo amore totale per la libertà,
fino a una sorta di quasi-martirio.
(c) Alla domanda esplicita circa la salvezza degli infedeli non corrisponde,
di fatto, una risposta altrettanto esplicita. Si ribadisce sì come nessun non cre-
dente in Cristo sia (finora: ma Catone attende sull’uscio) entrato nel regno
dei cieli; ma l’accento finisce piuttosto sul rimbrotto nei confronti della
pretesa di Dante di pontificare sulla giustizia divina con la capacità di com-
prensione creaturale.
(d) Concomitantemente con il rifiuto dei beati del cielo di Giove di ri-
spondere alla questione, a Dante vengono indicati due spiriti pagani già
beati, quelli di Rifeo e di Traiano. Essi non contraddicono il criterio della
fede, ma mostrano come, da un lato, l’intercessione nutrita di «viva spene»
da parte dei santi, dall’altro, l’insistenza paziente della grazia di Dio, capace,
se accolta, di lasciar intravedere «nostra redenzion» a un gentile amante
della giustizia, siano in grado di schiudere l’accesso al regno dei cieli.
(e) Poi il caso di Virgilio: in lui avviene, nel corso del poema, una conver-
sione vera e propria. Tale circostanza, unita alla frequente lode a Dio pro-
messagli da Beatrice, acutizza l’enigma della personale salvezza del poeta
latino e, indirettamente, dei limbicoli.
Silvio Pasquazi: «Potrà Dio risollevare un’umanità così destituita dei suoi doni; potrà,
‘per un libero gratuito e misericordioso intervento […] preparare una salvezza degli
spiriti magni con l’irrompere di un amore che ha preparato le sue strade lungo tutta
la storia dell’umanità, aprendo all’uomo questa soprannaturale speranza?’. Una tale
s(alvezza) per le anime pagane del Limbo non è affermata e neppure esclusa. Tutte le
anime rimangono sospese»; e più avanti: «[Dante] riporta tutto l’argomento (anche la
sorte ultima di Catone) a quella condizione di attesa e di parziale conoscenza che si ri-
solverà soltanto alla fine dei tempi, e questo per conservare all’imperscrutabile mistero
della s(alvezza), portato in un così ampio disegno di verità e di poesia, il suo giustificato
clima di mistero. Ma bisognerà non forzare troppo l’argomento».
cap. ix • «or tu chi se’, che vuo’ sedere a scranna…»
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Cfr. Thom. verit. q. 6 a. 6 ad s.c. 4; sent. i d. 43 q. 2 a. 2 ad 5; iv d. 45 q. 2 a. 2 qc. 1 ad 5.