Vita: Nacque a Sulmona, nel 43 a. C., da famiglia equestre. Fu inviato dal padre a Roma con il fratello, per
studiare eloquenza e avviarsi alla vita politica; ma mentre il fratello era per indole portato all'arte oratoria,
egli si sentiva portato alla poesia. Entrò perciò nel circolo di Messala e si diede alla vita mondana,
divenendo ben presto poeta galante, brioso e malizioso di quella società. Ebbe tre mogli: dalle prime due
divorziò poco dopo le nozze; la terza invece gli fu fedele compagna per il resto della sua vita, e durante la
relegazione intercedette sempre per l'infelice marito. Sulla fine dell'anno 8 d. C., Ovidio fu relegato
(relegato, non ex: rimaneva in possesso dei beni non confiscati) a Tomi, sul Mar Nero, per ordine
improvviso di Augusto. Incerta ne è la ragione: Ovidio, in un'elegia dei Tristai accenna a un Carmen,
probabilmente l'Ars amatoria, che appunto in quel tempo fu esclusa dalle pubbliche biblioteche, e che
andava contro con la sua licenziosità alle severe norme in materia matrimoniale emanate da Augusto. Il
poeta accenna anche a un errore (per i quale si è pensato a Giulia, nipote di Augusto, che appunto in
quell'anno fu anch'essa relegata, e delle cui scostumatezze Ovidio sarebbe stato testimone e
compartecipe). Il Carmen fu forse un pretesto, perché l'Ars amatoria era già pubblicata da dieci anni, e
l'errore la ragione reale. A Tomi Ovidio visse tra grandi amarezze, benché gli abitanti, avendo egli appreso la
loro lingua e composto in getico alcuni carmi, lo prendessero a ben volere e lo incoronassero poeta.
Augusto non volle recedere dalla propria decisione: Ovidio non rivide mai più Roma né riuscì a trasferirsi in
una sede meno disagevole. Il clima malsano fece presto ammalare Ovidio e neppure il successore di
Augusto, Tiberio, volle ascoltare le sue suppliche: il poeta morì dopo nove anni di relegazione, nel 17 d. C.
Opere: Le Metamorfosi sono un poema epico-mitologico molto ampio, di 15 libri in esametri. Scritto subito
prima dell'esilio (tra il 2 e l'8) appare completo. Il tema della metamorfosi, dell'incessante fluire e mutarsi
della realtà, presenta una grande varietà di vicende e personaggi. Le Metamorfosi costituiscono anzitutto
l'atto di sfida di un poeta che vuole aprire vie nuove a un genere, l'epica, che sembrava aver raggiunto con
l'Eneide un traguardo insuperabile. Ovidio, associando finezze alessandrine e tonalità elegiache a una
inarrestabile vena narrativa, costruisce un vasto gioco di incastri e di specchi, un labirinto di immagini e di
motivi, un mondo illusionistico dove la metamorfosi è la chiave dell'esistenza, dove nessuna forma è certa e
stabile, dove tutto, in un istante, può tramutarsi in latro. La vita stessa alla fine, tende a perdere coerenza e
coesione, a smarrire il confine tra realtà e finzione. Nelle Metamorfosi l'autore dà voce ai miti e alle storie
più diverse. Delicate vicende d'amore si alternano a scene cosmiche, catastrofi guerresche a torbide
passioni, esempi di amore coniugale a patetiche storie di amori infelici. Il racconto sembra nascere
continuamente da sé stesso, non aver inizio né fine, essere fuori dallo spazio e del tempo. Il messaggio
dell'opera può essere così riassunto: il mondo, gli uomini, ogni realtà, tutto muta, perennemente, cambia il
proprio essere e si trasforma in altro. Il poema riassume un nuovo modo di conoscere e una nuova
sensibilità. Negli Amores il poeta canta l'amore per Corinna, anche se con un tono spesso ironico e
scanzonato. Ovidio canta più l'amore-passione esclusivo e dirompente, non pone nel proprio amore alcuna
profondità morale. Anzi suggerisce che il suo rapporto con la ragazza sia biograficamente inconsistente,
quasi un'invenzione; in molti passi dichiara di non potersi appagare di un amore solo, di preferire due
donne, di essere sensibile al fascino di qualsiasi bella donna. La stessa Corinna appare una figura priva di
consistenza. Contemporaneamente agli Amores, Ovidio lavorava alle Heroides (Eroine). Si tratta di una serie
di 15 lettere d'amore, composte sempre in distici elegiaci e pubblicate intorno al 18 a. L'amore è
protagonista anche delle Heroides. L'autore finge che a comporre queste epistole in versi siano eroine del
mito greco, che si rivolgono per lettera ai loro amanti o mariti. Nelle Heroides l'amore ritorna a essere una
fonte di vita e di sofferenza. Ovidio offre qui la prima prova della sua straordinaria abilità nel tratteggiare le
sfumature dell'animo femminile. Sempre in distici elegiaci Ovidio compose anche una serie di opere
didascaliche sull'amore. Il suo insegnamento non è però serio, ma ironico e scherzoso. La prima e più
riuscita di tali opere è l'Ars amatoria o Ars amandi, in 2 libri, ciascuno dei quali si sviluppa per circa 800
versi, che insegna agli uomini come conquistare le donne e come conservare la conquista amorosa; fu
pubblicata tra l'1 e il 2 d. C. Quasi subito il poeta aggiunse il libro III, destinato alle lettrici, su come sedurre
gli uomini. Con l'Ars amatoria Ovidio rinnovò profondamente il genere didascalico: l'amore di cui il poeta si
faceva maestro era un sentimento senza passione, senza gelosia o angoscia, un gioco disimpegnato di
corteggiamento. Per questo l'opera destò un clamoroso scandalo: l'Ars si poneva al di fuori del clima di
restaurazione morale voluta dal principe. Si trattava di un ribaltamento anche letterario. Infatti l'opera
piegava la solennità e la serietà dell'impianto didascalico a un tema frivolo; capovolge la tragica serietà
dell'amore, quale era sentito da Catullo o da Properzio, in una maliziosa galanteria. Ai suoi lettori Ovidio
insegnava la sottile strategia e le tattiche del gioco d'amore. Seguirono (dal 13 fino alla morte) le Epistulae
ex Ponto, 4 libri di lettere poetiche in distici elegiaci, scritte a corrispondenti romani, i cui nomi sono
precisati. Lo scopo primario del poeta era quello di illustrare al pubblico romano la propria mutata
condizione: Ovidio si rivolge perciò agli amici altolocati che potrebbero intercedere in suo favore; cerca di
commuovere l'opinione pubblica auto presentandosi ossessivamente come prigioniero di un mondo di
decadenza e sterilità, di un paese abitato da selvaggi, freddo e squallido, che diviene la proiezione esteriore
di una malattia dell'anima.
Stile: Ovidio si dimostra in possesso di una non comune perizia compositiva; sa come annunciare i propri
temi, come svilupparne le implicazioni. Si avverte nel poeta esordiente il brillante allievo delle scuole di
retorica, specie quando si impegna a discutere una tesi e il suo contrario. Molto interessante sul piano
stilistico sono le Heroides. Nelle scuole di retorica era richiesto agli allievi di immedesimarsi in ciò che un
personaggio famoso avrebbe potuto fare, pensare o dire in una determinata situazione; Ovidio valorizza
questo esercizio prestando alle eroine che scrivono lettere d'amore tutta l'efficacia argomentativa
necessaria a convincere i destinatari. Sa come ricavare dai racconti mitici spunti puramente individuali e
sentimentali; sa come commuovere, come far emergere la confessione e il monologo dell'anima, come
suscitare l'interesse dei lettori per le schermaglie del gioco di seduzione. Il capolavoro di Ovidio, le
Metamorfosi, nasce da un confronto e una gara con l'Eneide. Tuttavia Ovidio si astiene dallo scrivere un
vero (cioè convenzionale) poema epico: mescola invece elementi tipici dell'epica con altri a essa estranei: il
risultato è un impasto rischioso ma poeticamente vitale. Ovidio è capace d’improvvisi abbassamenti, di
impennate fino al registro epico e di cadute al livello elegiaco-pastorale. L'esametro ovidiano suona ben
diverso rispetto a quello di Virgilio.
VALERIO MASSIMO
Vita: Nulla è certo della vita di questo autore se non che proveniva da una famiglia povera, che viveva a
Roma da alcune generazioni. Nel 27 avrebbe accompagnato il proconsole Sesto Pompeo (console nel 14
d.C.) in Asia e questi, per ringraziarlo, lo avrebbe aiutato ad entrare nel circolo letterario, del quale il poeta
Ovidio fece parte. Al tempo dell'imperatore Tiberio (14-37) raggiunse l'apice della notorietà e fu anche il
massimo periodo di produzione
Opera: Dopo aver accompagnato nel suo proconsolato in Asia il suo protettore Sesto Pompeo, Valerio
Massimo scrisse un manuale di esempi retorico-morali Factorum et dictorum memorabilium libri IX (31).
Opera erudita di carattere divulgativo, raccoglieva fatti e aneddoti ripresi da fonti diverse (tra le quali
Cicerone, Tito Livio, Varrone e, fra i greci, Erodoto e Senofonte in particolare), suddivisi in 9 libri (un
ipotetico decimo libro potrebbe essere andato perduto) e 95 categorie di vizi e virtù, al loro interno
suddivisi in romani ed esterni. Tratti per la maggior parte dalla storia romana e, in misura minore, da quella
greca, gli aneddoti hanno un carattere moraleggiante. La modesta finalità dell'autore è infatti quella di
portare al lettore exempla (esempi) attraverso i comportamenti virtuosi (oppure tramite quelli più sleali)
dei grandi uomini del passato, di modo che i retori, a cui questa opera sembra essere indirizzata, potessero
farne uso nei loro discorsi per dare peso alle loro argomentazioni. L'opera di questo autore si propone
anche di essere un'edificante e piacevole lettura per il lettore occasionale, non necessariamente colto
nell'arte della retorica.
Vita: Fedro fu un favolista latino nato secondo alcune fonti in Tracia nel 20 a.C., perciò durante il regno
d’Augusto. Era uno schiavo e fu affrancato proprio dallo stesso Augusto (libertus Augusti) da cui avrebbe
ereditato il prenome Gaio e il nome Giulio, le circostanze della liberazione sono ignote. Conferma delle sue
origini trace, è la repressione romana della rivolta avvenuta in Tracia tra il 13 e l’11 a.C.: in quell’occasione
parte della popolazione fu fatta schiava. Proprio allora Fedro potrebbe essere stato condotto a Roma,
finendo nella famiglia di Augusto. Visse fino al 50 d.C. perciò fu attivo sotto Tiberio, Caligola, e Claudio.
Opere: Scrisse cinque libri di favole in senari giambici che lui stesso chiamò “esopiche”, perché sono, per lo
più, traduzioni o rifacimenti di favole greche attribuite a Esopo, anche se, talvolta, rispetto al suo modello,
Fedro introduce nelle sue favole aneddoti storici, scenette sentimentali e un archetipo di satira. Fedro
pratica un genere letterario ritenuto minore e marginale rispetto alle grandi correnti dell'età imperiale. Le
sue favole sono poco originali, indebitate con la tradizione esopica e con una raccolta di favole di età
ellenistica (questo, soprattutto nel I libro); quanto alla rielaborazione letteraria, nessuna delle favole di
Fedro può superare le opere dei grandi poeti. Tuttavia Fedro è il primo autore che ci presenta una raccolta
di temi favolistici, concepita come autonoma opera di poesia, destinata alla lettura. Il merito del poeta sta,
infatti, nel dare alla favola una misura, una regola, una voce ben definita e riconoscibile: egli, insomma, pur
definendosi come il continuatore di un genere già a suo modo "stabilizzato" da Esopo, tuttavia lo innova e
lo porta a perfezione, adattandolo alla tradizione culturale latina. Fedro non ebbe molta fama, solo
Marziale lo nomina tra gli autori latini; poi di lui si perdono le tracce fino al 4° secolo, cioè fino alla raccolta
di Aviano. In seguito, si venne formando un corpus di favole latine in prosa, in cui molte delle favole latine
in prosa di Fedro, furono inserite come anonime e tradizionali, sì che nel Medioevo, quando Fedro era
ignoto, si ebbero tre redazioni principali di favole.
Vita: Seneca nacque a Cordova intorno al 4 a.C. Apparteneva ad una famiglia di rango equestre, di cui si sa
piuttosto poco, ed era figlio di Seneca il Retore (o il Vecchio) che, per agevolare la formazione culturale e la
carriera del figlio, si trasferì a Roma quando Seneca era ancora un ragazzo. Qui il giovane Seneca ottenne
risultati decisamente brillanti sia negli studi filosofici che nella carriera forense, dove rivelò eccezionali doti
oratorie. In realtà, pur avendo avuto una pregevole istruzione nel campo della grammatica e della
letteratura, per volere del padre, non riuscì mai ad appassionarsi a questi generi, che comunque sarebbero
stati utilissimi in seguito sia per le sue orazioni in senato sia per le sue opere filosofiche e drammaturgiche.
Diventato questore, durante l’impero di Caligola ottenne il rango senatorio, ma anche l’astio profondo e
pericoloso dell’imperatore, tanto che nel 41, quando Giulia Livilla, sorella di Caligola, venne accusata da
Messalina di adulterio con lo stesso Seneca, fu mandato in esilio in Corsica e poté tornare a Roma solo
dopo 8 anni di durissima solitudine. Quando l’imperatore Claudio fu avvelenato nel 54 e Nerone divenne a
sua volta imperatore, Seneca assunse il ruolo di consigliere privilegiato, tanto da influenzare direttamente
la politica imperiale pur senza avere cariche pubbliche ufficiali. Le forti tendenze dittatoriali di Nerone
diventarono presto un vero pericolo per Seneca, che decise di ritirarsi a vita privata, dopo le uccisioni di
Britannico, figlio di Claudio, di Agrippina, madre di Nerone e del prefetto del pretorio Afranio Burro.
Purtroppo, il fatto di essersi dato esclusivamente alla meditazione non valse a salvargli la vita. Quando nel
65 fu scoperta la congiura contro Nerone, anche Seneca fu annoverato, non si sa con quanta fondatezza,
tra i cospiratori ed ebbe l’ordine di uccidersi, un ordine che Seneca affrontò con la grande freddezza e
coerenza tipica del vero stoico.
Opere: Dieci delle sue opere di carattere filosofico furono assemblate, dopo la sua morte, in 12 libri, detti
Dialogi, anche se non esattamente di dialoghi si tratta, ma piuttosto dei “monologhi”, delle trattazioni
autonome. In queste, in cui l’autore spiega al destinatario dell’opera i diversi argomenti, secondo il modello
della diatriba cinico-stoica, di carattere prettamente discorsivo e con semplici interventi da parte di un
interlocutore fittizio che hanno, come scopo principale, quello di “mandare avanti” la trattazione. La
Consolatio ad Marciam è forse l’opera più antica, risalente forse al 37. Qui Seneca si propone di consolare
una donna dell’alta società romana, Marcia, per la morte del figlio Metilio, avvenuta tre anni prima, sia
trattando la morte come “fine di tutto” sia come “passaggio per un mondo migliore.”. Altra opera sullo
stesso stile è la Consolatio ad Helviam matrem, madre dello stesso Seneca, affranta per l’esilio del figlio.
Seneca le dimostra che l’esilio in sé non è un male, in quanto il saggio, in quanto tutore della virtù, può
vivere bene ovunque. Un’opera da segnalare sia per l’intimo tono affettuoso, sia per la nobiltà e fermezza
d’animo che la pervade. Decisamente diverso il tono della Consolatio ad Polybium, nella quale Seneca si
rivolge ad un liberto dell’imperatore Claudio, cui è morto un fratello, in quanto – pur riagganciandosi al
tema dell’ineluttabilità della morte e, quindi, dell’inutilità del dolore – l’opera costituisce una non troppo
velata supplica a Claudio perché lo richiami dall’esilio in Corsica. Nel De ira (41 d.C. ca.) Seneca rappresenta
un grande affresco, quasi una fenomenologia dei sentimenti e delle passioni degli uomini e ne indica si
analizzano i meccanismi di origine e i modi per inibirle e controllarle. Con il De brevitate vitae (49 ca.)
Seneca, appena tornato a Roma dall’esilio, si addentra nella trattazione del concetto di tempo: la vita è solo
apparentemente breve, in quanto sprecandola in occupazioni futili, ci sfugge di mano. Secondo Seneca: “la
vita, se sai farne buon uso, è lunga”. Solo il saggio occupa bene la sua vita, ricercando verità e saggezza. Il
De vita beata (58 d.C. ca) argomenta come ricchezza e piaceri mondani non diano la vera felicità, donata
solo dal vivere secondo natura, facoltà propria di chi è saggio. Chi è ricco deve fare attenzione a non “farsi
possedere” dalla propria ricchezza: questa può essere utile nella ricerca della virtù, ma è e deve restare un
semplice strumento. Nel De providentia (la datazione è incerta, forse 62 d.C.) Seneca, fingendo di
rispondere all’amico Lucilio, si oppone alla tesi epicurea secondo cui la vita premia i buoni e punisce i
cattivi. Secondo Seneca, in realtà, accade esattamente l’opposto, in quanto la divinità (logos) tende a
mettere alla prova la virtù dei giusti, per temprarli moralmente, e al saggio non resta che accettare con
serenità il ruolo che il logos gli ha assegnato nel cosmos. Nella trilogia del De tranquillitate animi (forse
anch’essa del 62 e dedicata all’amico Sereno) Seneca, dopo un’acuta analisi dei fattori che possono rendere
l’animo inquieto, invita alla euthymía (tranquillità d’animo), raggiungibile solo con un’attività mirante al
bene comune, l’amicizia vera di persone buone, la frugalità, il distacco dalle ricchezze e una serena
accettazione degli eventi della vita. Il De otio, scritto subito dopo il ritiro a vita privata nel 62, si impegna a
trovare una conciliazione teorica e pratica tra l’otium contemplativo e la vita attiva del civis romano. Per
Seneca, infatti, non è possibile trovare una forma di Stato che permetta al saggio di non contravvenire ai
suoi principi: il saggio, quindi, deve comunque impegnarsi politicamente, a meno che avverse situazioni
politiche non glielo impediscano. I trattati: Si tratta di tre opere non troppo dissimili, a dire il vero,
dall’impostazione dei Dialogi, in quanto anche qui l’autore parla in prima persona ad un destinatario,
sempre con la stessa impostazione argomentativa. Il De clementia è una trilogia dedicata a Nerone, nella
quale Seneca tratta dell’amministrazione della giustizia e del modo di governare lo Stato. L’invito a Nerone
è quello di basare il suo governo sui concetti di equità e clemenza, l’unica vera virtù del sovrano, ricorrendo
all’uso della propria coscienza come freno per evitare, pur in una condizione di potere assoluto, la tirannia.
La filosofia diventa garante dell’etica dello stato, in quanto sui suoi principi si basa la moralità del sovrano e
del suo entourage politico. L’opera è un entusiastico elogio di Nerone, cui sono attribuite tutte le virtù del
saggio e che viene tratteggiato come il sovrano perfetto, così come migliore di tutte forme di governo è la
monarchia, a patto che il sovrano sia sapiente. I sette libri del De beneficiis trattano di come dare e ricevere
benefici, secondo Seneca indispensabili nel vivere civile, secondo una casistica piuttosto particolareggiata
tra cui vengono trattati i doveri dei superiori verso i sottoposti, il senso della gratitudine o dell’ingratitudine
o quello dell’aiuto reciproco. I sette libri delle Naturales quaestiones sono frutto degli anni del ritiro a vita
privata e costituiscono un trattato di scienze naturali, che allora rientravano nel campo della filosofia, in
quanto ritenute una parte della “fisica”. Scopo dell’opera è quello di liberare gli uomini dai timori
ingiustificati verso gli eventi naturali e segnalare i benefici che un corretto uso delle risorse naturali può
portare alla vita umana. Seneca ripone una grandissima fiducia nel progresso scientifico e auspica che, in un
prossimo futuro, questo porti utili verità ancora ignorate, così come deplora il fatto che gli uomini,
trascurando di occuparsi di scienza e di tecnica, si dedichino con impegno ad attività futili e dannose come il
fatto di accumulare potere e denaro. Le 124 Epistulae morales ad Lucilium, composte negli ultimi anni di
vita tra il 62 e il 65 e divise in 20 libri, costituiscono l’opera filosofica più importante di Seneca, in quanto
costituiscono il manifesto della sua vita e della sua concezione stoica. Nelle Lettere a Lucilio Seneca usa
comunque eventi realmente accaduti della sua vita privata come spunto di riflessione morale: ogni fatto,
per quanto piccolo, può e deve essere spunto di riflessione e di insegnamento. Così, per esempio, una
traversata da Napoli a Pozzuoli funestata dal mal di mare (lettera 53), diventa occasione per riflettere sulla
differenza tra i mali del corpo e quelli dell’anima o una gita alla sobria villa di Scipione Africano (lettera 86)
per rimpiangere la sobrietà dei tempi andati, in contrasto con la corruzione morale di quelli odierni. Il
dedicatario è lo stesso delle Naturales quaestiones e del De providentia: il caro amico Lucilio Iuniore. In
realtà, non si tratta di lettere private, ma di epistole letterarie, un genere che appare a Roma per la prima
volta: destinatario di tali epistole non è il singolo individuo, ma un vasto pubblico di lettori, in quanto si
tratta di lettere destinate alla pubblicazione. Questo genere aveva già una illustre tradizione in Grecia,
soprattutto grazie ad Epicuro, che si serviva del genere epistolare, dal tono semplice e piano, per
trasmettere ai suoi amici i suoi principi eticofilosofici. Anche Seneca dice, da un punto di vista stilistico, di
rifarsi al sermo, cioè ad una semplice (ma non per questo sciatta o banale) conversazione tra amici o
familiari. Così, anche se prive di quella sistematicità tipica del trattato, le Lettere mantengono un evidente
filo conduttore nei progressi fatti da Lucilio in campo morale: da semplice principiante a consapevole
sostenitore dell’otium, inteso come pratica della sapienza, che lo porterà ad abbandonare le sue cariche
pubbliche, anche con la fretta tipica dell’uomo che ha scoperto troppo tardi una grande verità: che solo
nella sapientia risiede la vera felicità e che la virtù è l’unico vero bene.
Stile: Lo stile di Seneca è ricco di tutti i mezzi retorici possibili. L’obiettivo morale degli scritti di Seneca usa
spesso la sententia, intesa come frase ad effetto, tanto da far passare il periodo in secondo piano a favore
della frase singola, portatrice primaria e diretta del concetto che il filosofo vuol trasmettere. Questo
comporta una struttura decisamente paratattica (accostamento di frasi) negli scritti di Seneca, la rarissima
presenza delle congiunzioni (asindeto) e l’uso di tutte le figure retoriche miranti alla ripetizione, come
l’anafora o l’epifora. Il concetto stesso di concinnitas (brevità) si applica alla frase, e non al periodo, in
modo che la frase – sempre più sintetica – si carichi di significato, diventando incisiva e diretta, come
portatrice di significato, al massimo grado.
PETRONIO
Vita: Le informazioni sulla vita di Petronio Arbitro sono decisamente poche e incerte. Oggi si tende a
collocarlo tra gli scrittori del I sec. d.C. vissuti alla corte dell’imperatore Nerone. Nei suoi Annali Tacito ce ne
parla come di un esperto di raffinatezze, tanto da guadagnarsi l’appellativo di elegantiae arbiter. In seguito
al suo coinvolgimento nella congiura di Pisone del 65, e avversato dal prefetto Tigellino che, sempre
secondo Tacito, vedeva in lui un rivale più esperto nella ricerca dei piaceri e che lo accusò di essere uno dei
congiurati, Petronio si sarebbe suicidato nel 66 tagliandosi le vene e attendendo serenamente la morte
durante un banchetto, mentre conversava con i suoi amici di sempre. Al di là dell’importante testimonianza
di Tacito, l’appartenenza di Petronio all’entourage neroniano è confermata anche da molti passi dell’opera
a lui attribuita, il Satyricon, opera narrativa costituita da un misto di prosa e versi, di cui ci sono rimasti ampi
stralci. Qui si citano gladiatori e personaggi dello spettacolo vissuti al tempo di Nerone, viene citata una
polemica contro il Bellum civile del poeta Lucano, la morte stessa di Petronio – avvenuta tra i piaceri e la
leggerezza dei discorsi – sarebbe in netta antitesi con l’austerità della morte stoica di Seneca, così come nel
Satyricon appare una chiara polemica, dai caratteri parodistici, contro il Apokolokyntosis senecano. In
sostanza, tutto il Satyricon è imperniato sull’atmosfera culturale del I sec. d.C.: il gusto per i bassifondi, per
una vita notturna (e non solo) dissoluta e movimentata, per gli infimi ceti sociali di cui, con un’operazione
preziosa dal punto di vista linguistica e di altissimo livello letterario, Petronio riproduce la lingua parlata.
Opera: Di tutta quanta l’opera ci è rimasto un frammento corrispondente all’intero libro XV e altri due
frammenti, parziali, dei libri XIV e XVI. Pur essendo quindi impossibile definire esattamente il numero dei
libri da cui era composta, possiamo dire “non meno di 16”. In genere, si tende a definire il Satyricon un
romanzo, il che non è del tutto esatto. Il cosiddetto romanzo antico (vedi le Metamorfosi di Apuleio), infatti,
si richiamava a quello greco e consisteva nella narrazione, rigorosamente in prosa, di fatti avventurosi e
sorprendenti che avvenivano durante un viaggio. Gli inserti poetici del Satyricon lo avvicinano invece alla
satira menippea, cui probabilmente si richiama anche il titolo dell’opera petroniana. Per altro, anche se
racconta le vicende di un viaggio, quello di Encolpio con il bellissimo Gitone, di cui è innamorato, e ruota
intorno al tema dell’amore ostacolato, il Satyricon si distingue nettamente dal romanzo greco in quanto
non narra l’amore di un ragazzo e una ragazza fedelissimi l’uno all’altro, ma di un amore omosessuale i cui
protagonisti non hanno alcuno scrupolo nel tradirsi a vicenda. Pur essendo stati scoperti romanzi greci dalla
trama non propriamente edificante, va comunque sottolineato l’intento parodistico del Satyricon nei
confronti di un genere molto amato e diffuso: il romanzo, appunto. L’opera, del resto, è scritta per il puro
divertimento dei suoi lettori e non lettori qualsiasi, ma i raffinati intenditori di piaceri e di letteratura della
corte neroniana. Petronio è maestro e seguace della letteratura intesa come lusus, divertimento, ed alieno
da qualsiasi intento morale o filosofico. Dal punto di vista dello stile, il Satyricon unisce i generi letterari più
diversi, dalle elegie amorose, all’epica, alla tragedia, il tutto però sempre con intenti parodistici finalizzati al
divertimento e tenuti insieme da un’alchimia letteraria basata sul senso del signorile distacco con cui
Petronio tratta la sordidezza di molti suoi argomenti: lucido, ironico, disincantato, privo di vergogna e
signorilmente spregiudicato, l’autore parla di serve scaltre, matrone discinte e nuovi ricchi
dall’inqualificabile volgarità tessendo un ritratto della società neroniana di altissimo valore letterario: il
Satyricon può quindi essere definito un capolavoro del realismo comico, dove il divertimento è ricercato sia
dal colpo di scena più inaspettato e divertente, sia dalla situazione più volgare, sial da quella più grottesca, il
tutto sempre “controllato” dall’abilità dello scrittore e dal suo straordinario senso dell’umorismo.
Fondamentali sono anche le scelte linguistiche, di cui l’opera è ricchissima, e che comprendono il linguaggio
parlato dei diversi strati sociali del tempo, che rendono vero ogni personaggio, facendogli attraversare i
secoli con intatta vivacità. Così il letterato o il politico usano un linguaggio elaborato e magniloquente,
mentre il servo o il bottegaio una lingua decisamente più colorita e sgrammaticata, con irregolarità
fonetiche e sintattiche e piena di termini familiari o locuzioni idiomatiche.
Vita: Marco Anneo Lucano nacque a Cordova nel 39 d.C. figlio del fratello di Seneca. Si recò a Roma dove fu
discepolo di Anneo Cornuto. Fece un viaggio di istruzione in Grecia, entrò nella cerchia degli amici di
Nerone, e iniziò precocemente la carriera politica. L'imperatore ne apprezzò le grandi doti poetiche, ma il
sodalizion con il Princeps dovette rompersi e si dice che ci fu rivalità letteraria di Nerone nei confronti di
Lucano. Lucano si ritrovò tra gli accusati di coinvolgimento nella Congiura dei Pisoni e fu costretto al suicidio
nel 65 d.C., ad appena 26 anni.
Opere: L'attività letteraria di Lucano fu notevole nonostante morì giovanissimo: infatti oltre all'unica
conservata, il "Bellum civile", sappiamo che scrisse numerose opere di cui ci sono pervenuti i titoli e
qualche frammento. La sua opera principale è il "Bellum civile" ("Guerra civile") conosciuto anche come
"Pharsalia" ("Gli eventi di Farsalo"): il suo argomento infatti è la guerra civile tra Cesare e Pompeo,
culminata con la battaglia di Farsalo (48 d.C.). Il testo che ci è pervenuto si interrompe al X libro,
probabilmente a causa della morte dell'autore. Il progetto originario era di XII libri, proprio come nell'
"Eneide" di Virgilio. L'argomento della guerra civile tra Cesare e Pompeo non era più attualità e non aveva
la possibilità di fornire a Lucano elementi per la glorificazione di Roma, come era tradizione per l'epica
romana (epos romanos); al contrario gettava un'ombra sanguinosa proprio su Cesare. C'è chi pensa che la
scelta implichi già in partenza una posizione polemica verso Nerone. Altri però hanno opposto a questa
ipotesi la presenza nel libro I di un lungo inserto laudativo dell'imperatore, visto come garante di una nuova
età dell'oro. Accettare quest'idea significa vederla sconfessata nel corso del poema dove aleggia un cupo
pessimismo dove il nome di Nerone è assente. Si può presumere un cambio di rotta, che spinto
dall'evoluzione tirannica dell'Imperatore, decise di cambiare il progetto originario. Allora il "Bellum civile"
sarebbe un'opera che abilmente il suo autore seppe trasformare da una lode verso Nerone a un'aspra
critica nei suoi confronti. Nell'opera si stagliano 3 figure principali: 1. Giulio Cesare: presentato da Lucano in
una prospettiva negativa, In lui confluiscono le caratteristiche del "tiranno", e fa notare la sua smania di
potere. Lucano lo descrive così: "facile al furor, all'impatientia e all'ira". È probabile che l'eroe negativo
Cesare dovesse evocare al lettore proprio Nerone. 2. Pompeo: ha le simpatie del poeta, in quanto le sue
idee politiche mirano alla difesa del valore tipicamente repubblicano e aristocratico della libertas. Egli
agisce in modo poco incisivo, quasi passivo, mostra un attaccamento al potere e alla ricchezza che la sua
condizione nobiliare gli avevano garantito. A modo suo ha qualche corresponsabilità nel clima di violenza
che la guerra civile sta maturando. Non si può dimenticare inoltre che Pompeo avendo sposato la figlia di
Cesare, era suo genero, e questo attribuisce allo scontro una caratteristica sempre più empia e fratricida. 3.
Catone: assume un atteggiamento improntato della difesa della libertà, a una saggezza e moderazione
degna dei mores degli antenati: queste parole "conservare la misura, non uscire dai limiti, seguire la natura,
dedicare la vita alla patria, credersi nato non per sé, ma per l'umanità tutta" ci mostrano la profondità della
sua dimensione etica e del suo impegno civile, permeato dai valori della filosofia stoica. È un giusto che con
il suicidio non cerca una vile fuga dal mondo, bensì realizza un supremo atto politico di protesta contro la
tirannide di Cesare e di rivendicazione della propria dignità umana. Nel "Bellum civile", come abbiamo già
detto, non compaiono le figure degli dei, le divinità olimpiche sono menzionate raramente per di più come
forma di erudizione. Più che sulla provvidenza egli insiste sull'incidenza del caso e della Fortuna, l'azione dei
quali risulta di difficile comprensione. E quando l'uomo cerca di conoscere il futuro in qualche modo lo fa
attraverso pratiche oscure, raccapriccianti, irrazionali, e ottiene soltanto profezie di sciagure. Sembra che
l'autore ondeggi tra l'angosciosa idea di un mondo allo sbando e quella di una realtà dominata da una
"provvidenza crudele".
Stile: Lucano conserva del poema virgiliano il registro stilistico alto, il lessico elevato e l'apparato retorico
consueto (similitudini) ma rinnega i principi classici di equilibrio, influenzato dal gusto asiano del suo
tempo. Il "Bellum civile" ha uno stile magniloquente e sublime che spesso tende ad accentuare pathos e
drammaticità. Fa ampio uso di espressioni brevi e concise (sententiae). Fra le numerose figure retoriche che
fa uso Lucano spiccano le antitesi e gli ossimori, le iperboli, le frasi paradossali con le quali Lucano mostra il
rovesciamento dei valori tradizionali. Fa uso di frasi molto brevi sino all'oscurità che rende difficile la
decodificazione del testo a una prima lettura. Notiamo il gusto per le atmosfere lugubri, per l'orrido e per il
macabro. Nel poema compaiono frequentemente discorsi tenuti da personaggi importanti. Prevale un
periodare spezzato. Pochissimi sono i neologismi.
Vita: Persio nacque a Volterra nel 34 d.C. da una famiglia agiata e appartenente all’ordine equestre, ma
rimase orfano di padre all’età di 6 anni e fu allevato con ogni cura dalla madre, Fulvia Sirena: fu lei a
condurlo a Roma all’età di 12-13 anni, ad educarsi presso le migliori scuole di grammatica e di retorica:
ebbe come maestri Remmio Palesane e Virgilio Flavio, ma a segnarlo fu l’incontro col severo filosofo stoico
Anneo Cornuto ( liberto della famiglia di Seneca e precettore anche di Lucano ), che lo mise in contatto con
gli ambienti dell’opposizione senatoria al principato. La conversione alla filosofia lo portò a condurre una
vita austera e appartata, nel culto degli studi e degli affetti familiari. Come detto, Persio, fu amorevolmente
circondato dalle dure della madre, ma anche di altre 4 donne: una zia, una sorella, la cugina e la moglie di
Trasea Peto, e la figlia di questa, Fannia. Le premure di costoro furono determinanti, almeno quanto la sua
educazione filosofica, nella formazione della sua personalità. Ebbe pochi amici: quelli dell’adolescenza,
Statura Calpurnio, Lucano, Cecio Basso, Trasea Peto, e Cornuto (per lui Persio provò profondissima
devozione). Fui proprio Cornuto ad incoraggiarlo alla poesia.
L’isolamento: la naturale introversione e delicatezza d’animo, finirono per rendere Persio un isolato,
estraneo alla realtà viva del suo tempo, al punto che mostrò di non provare alcun interesse per il
contemporaneo Seneca, stoico come lui e che pure conobbe.
Persio morì a soli 28 anni, per una grave malattia allo stomaco, in una villa lungo la via appia. Lasciò in
eredità al maestro Cornuto tutta la sua biblioteca, compresa l’opera intera di Crisippo (700 volumi) nonché
una grossa somma di denaro e 10 libbre d’argento lavorato. Sappiamo che Cornuto trattenne per sé i libri
mentre consegnò il resto alla madre e alla sorella del poeta.
Opera: Le satire, in numero di sei, in esametri dattilici, sono procedute da un proemio di 14 versi COLIAMBI
(un coliambo era un tipo di verso dal ritmo vivace, aggressivo). molto probabilmente il poeta aveva ben più
vasto disegno, ma la morte troncò tutto. Fu così Cornuto a ritoccare le satire per l’edizione, postuma, curata
da Cesio Basso. Come ricordiamo gli scoliasti, entrambi i revisori provvidero ad eliminare alcuni versi
contenenti caustiche allusioni a Nerone e alcuni versi della fine del libro furono espunti perché l’opera non
apparisse incompiuta. Persio si rifà alla satira di Crazio e Lucilio. Con Persio la satira va incontro a vistosi
cambiamenti, la satira oraziana era una lezione fatta con il sorriso. Il poeta era un maestro alla pari,
amichevole, vicino a quelli che devono imparare, anzi anche lui ha bisogno di ammonimenti. In Persio la
figura del maestro diventa quella del predicatore; di un maestro arrabbiato, spesso volgare. Il sermo
orazione pacato, viene sostituito da un atteggiamento aggressivo ed aspro, necessario per superare
l’indifferenza di miseri in preda al vizio. I temi sono quelli della filosofia stoica: Libertà interiore, Ricchezza,
Religiosità solo formale e apparente, Vita dissipata.
Vita: Decimo Giunio Giovenale nacque quasi sicuramente ad Acquino, nel Lazio meridionale tra il 50 e il 60.
secondo le fonti di marziale, doveva essere di condizione sociale ed economica non elevata. Ebbe un’ottima
formazione retorica e si dedico all’avvocatura e alle declamazioni. Mori dopo il 127. scrisse 16 satire in
esametri, divise in 5 libri.
Opera: Seguendo la tradizione rappresentata da Lucilio e Orazio, Giovenale opera in un fecondo rapporto
con essi citandoli come suoi modelli nella satira I. Egli attacca la cultura contemporanea prendendo spunto
dalle “recitationes” da lui scritte come inutili svalutando anche la mitologia. Espone le ragioni che lo hanno
spinto a scegliere la satira, affermando che era difficile non scrivere dinanzi a uno spettacolo di delitti
scandali e perversioni. La realtà è l’elemento più nuovo della concezione del poeta. Egli tendeva ad
enfatizzare gli eventi che riportava per esempio l’esibizione di una matrona in veste di gladiatrice. Nella
satira I enuncia l’aspetto deteriore del comportamento umano. Attribuisce alla satira la funzione di
“denuncia” rivolta contro i vizi. Si serve dell’indignazio.
La lussuria è il principale capo d’accusa, ma Giovenale tratta tutti vizi che rendono insopportabile la donna:
la prepotenza derivata dalla ricchezza, la superbia, l’autoritarismo, la mascolinità, le manie sportive, e
culturali, l’infatuazione per il greco. Questi atteggiamenti per lui sono deviazioni dall’antico costume che
vede la donna completamente subordinata al marito. La satira VII è complementare alle satire dedicate alla
clientela. Giovenale denuncia le ristrettezze in cui versano i poeti, storici, avvocati, retori, e grammatici e
queste sono aggravate dall’avarizia e dalla meschinità dei ricchi e dal confronto con gli enormi guadagni dei
campioni sportivi. L’unica speranza era il mecenatismo dell’imperatore.
Stile: Giovenale ricerca nel quotidiano i segni dell’eccezionale e del mostruoso, il reale viene poi equiparato
al mito per la sua straordinaria efferatezza. Viene proposta una visione distorta che rappresenta i
comportamenti umani secondo i canoni di una cupa e grandiosa negatività riscrivendo la realtà mediante
una deformazione espressionistica l’assimilazione delle situazioni del mito rende possibile quelle aperture
verso lo stile elevato che i satirici rifiutavano.
Vi è un frequente innalzamento del tono che fa sì che sembri che Giovenale punti proprio a quella visione, a
quel vigore che ritiene necessario all’irruenta dell’indignazione l’enfasi, il calore, la tensione che sostengono
il discorso di Giovenale danno l’impressione di una requisitoria.
La retorica ha un ruolo preponderante abbondano perifrasi,iperboli,paradossi, ossimori,antitesi, figure
dell’ironia e della concessione. Tra le figure del suono spicca l’anafora di grande importanza le interrogative
retoriche, l’esclamazione, le apostrofi, di grande spicco le sententiae.
L’aspetto linguistico è complesso, troviamo la consueta componente colloquiale cui si aggiungono vocaboli
volgari; sono frequenti grecismi e barbarismi; successivamente si innesta una componente di vocaboli
elevati.
Con questo registro misto si possono cogliere le bassezze della realtà trascrivendole in termini di mostruosa
grandezza.
Vespasiano, Tito, Domiziano: periodo felice durante il regno dei primi due imperatori, mentre il
comportamento di Domiziano è più vicino a quello di Caligola e di Nerone e lo porta alla morte di congiura
di matrice aristocratica. Nell'anno 69 d.C. Muore Nerone, l'ultimo imperatore appartenente alla dinastia
giulio-claudia. L'anno 68-69 è chiamato l'anno dei 4 imperatori, il quarto è Vespasiano, il primo della
dinastia Flavia. I quattro imperatori vengono eletti in successione rapida, non necessariamente a Roma, ma
anche nelle provincie, dall'esercito e dai pretoriano che hanno acquisto grande potere e importanza. Dopo
l'eliminazione di Domiziano, vengono eletti prima Marco Cocceio Nerva poi Traiano, la cui conquista di
Dacia segna la massima estensione dell'impero romano. I quattro imperatori dopo la morte di Nerone sono:
1. Galba, nominato a Roma; 2. Otone, generale di truppe a Lusitania, conduttore della sommossa del
pretoriano contro Galba; 3. Vitellio: generale di truppe in Germania, sconfigge Otone; 4. Vespasiano:
imperatore dominato per domare la rivolta dei Giudei. Un generale di formazione militare, lascia il
comando dell'esercito al figlio Tito, sconfigge Vitellio e conquista il potere. Vespasiano è un abile
amministratore, non sperpera. La sua politica lo rende un “novello Augusto”: rifonda l'impero che era ormai
degenerato anche agli occhi dei sudditi a causa della dinastia giulio claudia, affinché l'opinione pubblica
abbia una giusta idea dell'imperatore. Emergono: Controllo molto stretto sulla cultura: Vespasiano
esercita questo controllo perché è molto impegnato nella rifondazione dell'impero e trascura l'ambito
culturale. Questo controllo ha due fini: 1) ritorno all'età augustea per salvare l'impero ormai screditato; 2)
stroncare sul nascere qualsiasi forma di opposizione; Burocratizzazione degli intellettuali: l'istruzione
superiore mira creare dei burocrati della parola, dei fedeli funzionari ed esecutori di ordini superiori. La
disciplina più importante nella formazione è la retorica, mentre prima era la filosofia che ora viene vista
come un pericolo dagli imperatori in quanto è ideologicamente libera → avversione per l'insegnamento
filosofico che porta a bandire alcuni filosofi. La burocratizzazione degli intellettuali mira a creare funzionari
abili e a eseguire ordini superiori e veicolare le direttive degli imperatori → il burocrate intellettuale è una
figura nuova. Il fisco imperiale finanzia le cattedre di retorica che viene considerata l'ultima tappa della
formazione di un burocrate intellettuale. All'ideale di libertas si sostituisce l'ideale del servizio verso
l'imperatore e verso lo stato: colui che serve più fedelmente è il più prestigioso. Il momento più buio è con
Domiziano: censura sistematica che si traduce nel bruciare le opere e mettere a morte gli autori. Gli
“annales” di Tacito ne parla. Il rapporto con l'intellettuale risulta complicato e caratterizzato dalla tensione,
in cui l'autore si deve piegare al governo.
Vita: Publio Papinio Stazio è l’esempio caratteristico del poeta nell’età dei Flavi: frequentò ambienti
mondani e culturali vicini al Principe, adulò spesso quest’ultimo, fu conosciuto ed imitatore dei classici dei
quali riprese temi e forme. Nacque a Napoli tra il 40 e il 50 d.C. da una famiglia dell’ordine equestre che
rimase però vittima di gravi dissesti economici. Collaborò col padre nell’attività di insegnamento e si sforzò
di guadagnarsi da vivere scrivendo dei copioni che vendeva ai pantomimi. Stazio partecipò e vinse i Ludi
Albani dell’86, in seguito continuò a scrivere varie opere fino a quando, nel 94 o 95, ormai malfermo, si
ritirò definitivamente a Napoli dove morì nel 96 d.C.
Opere: Tra i copioni venduti a pantomimi si ricorda una fabula saltica intitolata Agave nella quale si narrava
il mito di Agave che, punita da Dioniso, uscì di senno e durante un’orgia divorò suo figlio. Il componimento
che gli permise di vincere ai Ludi Albani fu il Carmen de bello Germanico, nel quale celebrò la guerra di
Domiziano contro i Catti. Sempre a Domiziano dedicò la Tebaide, la sua opera maggiore, composta nell’arco
di 12 anni. Pubblicò poi i primi 4 libri delle Silvae e progettò l’Achilleide, rimasta incompiuta: essa doveva
trattare dalla nascita alla morte tutte le gesta di achille. Nella tebaide Stazio narra in dodici libri la guerra
dei Sette re contro Tebe. Il tema è quello della lotta fratricida tra Etocle e Polinice, che si contendono il
regno di Edipo, loro padre. È quindi la descrizione di una guerra civile, trasferita però in una dimensione
metastorica del mito, con l’obiettivo di riavvicinarsi a Virgilio. Primi 6 libri: eventi che precedono la guerra,
altri 6 libri: eventi della guerra. Pur evidenziando le molte analogie che legano quest’opera alla produzione
Virgiliana, va sottolineato che questi poemi nascono e si muovono in aree storiche diverse e sono
espressione di differenti concezioni di uomo e destino. In Virgilio l’indagine psicologica è anzitutto
motivazione interiore, mentre in Stazio è più ampia e particolareggiata ma non risulta essenziale al
racconto.
La poesia di Stazio procede dalla magniloquenza a frequenti descrizioni violente, atroci e sanguinose che la
tengono lontana dalla classicità di Virgilio.
Opera: integralmente pervenuto è un trattato in 37 libri. Fatto eccezionale per la letteratura antica, l’opera
di Plinio esordisce con un libro di indici seguiti dall’elenco delle fonti e perfino dal numero delle notizie e dei
dati complessivamente raccolti. I libri affrontano una materia vastissima: cosmologia, geografia,
antropologia, zoologia.
l’opera è introdotto da una lettera dedicatoria al futuro imperatore Tito, nel quale l’autore illustra il suo
vasto progetto. Quest’opera va a collocarsi nel filone dell’erudizione scientifica, che aveva avuto in catone e
Varrone i massimi esponenti. Ma nessuno aveva mai pensato a una grande enciclopedia del mondo
naturale, a cui l’autore giunge dall’esigenza di salvare un patrimonio vastissimo di informazioni. Il compito
primario che si propone è quello di comprendere tutte le conoscenze sul mondo naturale allora accessibili:
a tale scopo consulta più di 100 fonti, fra latine e greche. L’autore organizza l’immenso materiale
disponendolo in grandi contenitori. Ma all’interno dei singoli libri l’andamento risulta irregolare e
desultorio, il filo del discorso viene spesso abbandonato. Il discorso quindi non si sviluppa secondo un
preciso ordine classificatorio ma procede a sbalzi. Il punto di vista della catalogazione non è scientifico ma
antropologico: gli animali non sono classificati in base a uno studio anatomico ma a seconda del rapporto
che intrattengono con l’uomo, in particolare quello romano.
Sul piano storico-culturale l’impresa di Plinio è pienamente riuscita: egli infatti resta La fonte maggiore del
mondo materiale antico. Per quanto riguarda lo stile, Plinio stesso afferma di descrivere la natura nei suoi
aspetti più umili. Questi vocaboli rustica sono i termini della lingua tecnica, generalmente banditi dal
vocabolario della letteratura, ai quali Plinio sa di dover aggiungere vocaboli eterna, soprattutto grecismi. La
varietà dei contenuti e la molteplicità delle fonti obbligano l’autore a uno stile diseguale e discontinuo. La
pluralità dei registri espressivi non annulla tuttavia una sensazione complessiva di sciatteria e goffaggine,
spesso alimentata dalla fretta della composizione.
Vita: Quintiliano arrivò a Roma dalla nativa Spagna nel 68 d.C. per adempiere agli studi di retorica, che
portò avanti sotto maestri decisamente illustri e dove ottenne una formazione tale da diventare in breve
tempo uno degli oratori giudiziari più in vista della città. La sua bravura nell’insegnamento della retorica
fece sì che, per la prima volta nella storia, nel 78, per volere dell’imperatore Vespasiano, gli fosse dato uno
stipendio statale pari a 100.000 sesterzi: una riprova dell’importanza dell’arte retorica a Roma nella
formazione del “ceto dirigente” e per la creazione del consenso. Tra i suoi allievi possiamo annoverare
anche Plino il Giovane e, probabilmente, lo stesso Tacito. Vent’anni dopo, quando ormai si era ritirato
dall’insegnamento, Domiziano gli affidò l’istruzione di due nipoti e lo onorò con le insegne consolari.
Opera: Ci è arrivata praticamente integra nei suoi 12 libri ed è dedicata all’amico Vittorio Marcello, per
l’educazione di suo figlio. Scritta tra il 90 e il 96 è non solo il capolavoro di Quintiliano, ma il compendio di
oltre venti anni di insegnamento retorico, che potremmo definire un manuale tecnico di retorica e di
pedagogia, dato che Quintiliano si occupa della formazione dell’oratore sin dalla sua infanzia. Per
Quintiliano l’educazione è un processo che inizia nella culla e dura per tutta la vita, adattandosi alle diverse
età dei discenti. Seguendo le orme di Cicerone, come dimostra la citazione di molte sue sentenze,
Quintiliano sostiene che la retorica non serve solo a formare un retore, ma un buon cittadino e un uomo
moralmente esemplare. In contraddizione con il suo modello, però, che nel De oratore sottolineava la
vicinanza di filosofia e oratoria, Quintiliano si dimostra piuttosto ostile ai filosofi, dato che “sotto il nome
della filosofia si sono celati i vizi più gravi”, appoggiando così la linea di Domiziano che aveva scacciato i
filosofi da Roma per ben due volte: in questo Quintiliano, stipendiato dallo Stato, si mostra ligio alle
direttive del potere. Con Quintiliano, in pratica, si istituzionalizza il fatto che l’uomo politico debba essere
un fedele sostenitore del principe, segno questo di quanto sia cambiato il panorama politico di Roma.
Anche per questo, Quintiliano, prendendo Cicerone a modello, è contrario allo stile scarno della retorica
attica ma anche a quello troppo concettuale dei retori moderni, abbagliati dall’uso smodato di sententiae,
sulle orme di Seneca: uno stile che Quintiliano definisce vitiosum et corruptum dicendi genus. Il vero fine
dell’oratore, infatti, non è delectare, non si riduce cioè a semplice intrattenimento o al fatto di sorprendere
gli ascoltatori, ma convincere, persuadere e, per fare questo, non è ammissibile un uso eccessivo
dell’ornatus.
Vita: Marziale nacque verso il 40 d. C. a Bilbilis nella Spagna Tarragonese. Ricevuta in patria una buona
educazione letteraria, intorno al 64 d. C. si trasferì a Roma, dove esercitò controvoglia l'avvocatura,
conducendo la grama esistenza del cliente e scrivendo versi d'occasione per feste, compleanni e per
rendere omaggio ai personaggi altolocati e paganti. A partire dall'80 iniziò a scrivere epigrammi. Da allora in
poi cominciò a pubblicare regolarmente i suoi carmi: tra l'86 e il 96 quasi ogni anno usciva un suo nuovo
libro di epigrammi che divertivano il largo pubblico dei salotti, delle terme, dei banchetti e degli spettacoli.
Malgrado il successo letterario, l'agiatezza economica rimaneva un miraggio: Marziale si dipingeva come
uno dei tanti clientes che girovagavano per Roma, svolgendo per i loro patroni le occupazioni più varie.
Morto Domiziano, nel 98 Marziale volle ritornare a Bilbilis e lì morì nel 104.
Opera: Di Marziale ci sono giunti circa 1550 epigrammi, quasi tutti in distici elegiaci, in quattro diverse
raccolte: il De spectaculis (Sugli spettacoli) 33 epigrammi scritti per l'inaugurazione del Colosseo (80 d. C.);
gli Xenia (doni degli ospiti) e gli Apophoreta (dediche per i doni) 250 epigrammi d'occasione scritti nel
biennio 84-85; si tratta di bigliettini in un solo distico elegiaco per accompagnare i doni che i romani si
scambiavano durante le feste dei Saturnalia; gli Epigrammata (Epigrammi, 86-102 d. C.) in 12 libri, che
raccolgono la maggior parte della sua produzione. Marziale dedica alcuni epigrammi alla sua concezione
poetica e contrappone i suoi epigrammi radicati nella quotidianità e una produzione mitologica che viene
giudicata inaccettabile, perché truculenta, inverosimile, falsa. Marziale predilige la realtà che viene da lui
identificata con i comportamenti umani: il poeta intende trattare con vivace arguzia i mores dei suoi
contemporanei. Ma il suo scopo non è quello della satira, non vuole correggere e guarire i costumi corrotti,
ma vuole intrattenere piacevolmente il lettore (cfr. mimi). L'opera di Marziale ha un carattere ludico e
scherzoso, non vuole danneggiare nessuno, evita l'attacco personale Per rendere più appetibili i propri
epigrammi, Marziale li cospargeva di piccole ma salaci oscenità, rifiutava la poesia aulica e artificiosa,
aderiva al reale sia sul piano del contenuto sia sul piano della lingua. Marziale punta semmai all'ironia, è
cioè un comico di tipo intellettuale, che tende al sorriso, da ottenersi con la battuta finale. Lo sguardo di
Marziale si posa su un mondo stratificato e complesso, in cui l'onestà non è più considerata un valore bensì
un ostacolo al successo e all'arricchimento. Nel desolato quadro di mancanza di valori e di povertà morale,
prendono vita i temi più cari la poeta: lo sfrenato desiderio di apparire, la povertà, la grama vita del cliens,
e, in controluce, la nostalgia di un'esistenza semplice e quieta, in compagnia degli amici. La metà degli
epigrammi riguarda la vita quotidiana non descritta obiettivamente ma reinventata in modo scherzoso, con
iperboli e paradossi. Marziale mostra attenzione per gli aspetti più semplici e bassi della quotidianità, per i
bisogni e gli interessi più elementari e grossolani (mangiare, bere, sesso, denaro, divertimenti), insistendo
sui particolari più concreti e sordidi. Molti epigrammi insistono sugli aspetti brutti miseri e ripugnanti di
persone e di oggetti e soprattutto su temi sessuali. La battuta finale è giocata sull'ironia, sul tono mordace,
satirico e beffardo. Spesso vengono presi di mira categorie e tipi umani, i medici ad esempio.
L'atteggiamento comico-realistico raggiunge i risultati più nuovi e originali quando i temi sono attinti dalla
realtà contemporanea e il poeta deride situazioni, circostanze, abitudini, manie tipicamente romane:
vengono ad esempio presi in giro i convitati come pure i clientes. Marziale sa cogliere con grande comicità e
con sensibilità i lati comici e ridicoli dell'esistenza comune e ne dà una rappresentazione ora più ora meno
deformata, ma quasi sempre vivace, spiritosa e brillante
Nel 138 d.C., alla morte di Adriano, gli successe l’imperatore adottivo Antonino Pio, definito tale a causa
della dedizione mostrata verso il padre adottivo; era originario della Gallia e la sua politica parve indirizzata
a conferire pace e stabilità all’impero. Egli adottò Marco Aurelio e Lucio Vero che nel 161 si affiancarono
nella conduzione del potere, dando origine per la prima volta ad una diarchia (“governo esercitato da
due”), che durò fino alla morte di Vero nel 169. Il periodo si caratterizzò per la forte pressione dei barbari
alle frontiere settentrionali e dei Parti in Oriente e Roma venne costretta ad una serie di guerre difensive: si
combatté contro Parti, Quadi, Marcomanni, Germani e Sarmati; l’esercito portò con sé il contagio della
peste bubbonica la popolazione venne decimata: si diffusero fame e miseria. Alla morte di Marco Aurelio
salì al trono il suo figlio naturale Commodo: si tornava alla successione dinastica, interrompendo il sistema
adottivo. Con il nuovo imperatore i problemi dello stato non vennero affrontati in modo efficace e
Commodo cercò di conquistarsi l’appoggio del popolo tramite donativi e spettacoli. Fu un uomo pieno di
eccessi e bizzarrie, che voleva essere definito “Ercole romano”; il suo potere assunse caratteri tirannici e
teocratici ed egli nel 192 cadde vittima dei pretoriani in una congiura di palazzo.
Con il principato di Commodo si conclude il saeculum aureum. Dall’epoca di Marco Aurelio, le invasioni
barbariche entro i confini dell’impero avevano rivelato la fragilità delle frontiere, questo comportava
l’aumento dell’importanza dell’esercito sia dal punto di vista politico (imposizione
dell’elezione/destituzione degli imperatori) sia dal lato economico (elevate spese militari). Soprattutto al
fine di sostenere la spesa militare si sviluppa un’imponente tassazione sui terreni, al punto che piccoli
proprietari terrieri furono costretti a divenire coloni salariati nei latifondi. La scomparsa del ceto medio
unita all’incapacità di reazione del popolo si tradusse nel condizionamento delle forze sociali che scaturì
nella contrapposizione tra senato da una parte ed esercito ed imperatore dall’altra.
Un altro importante fenomeno fu la diffusione del cristianesimo, i suoi seguaci sembravano animati da
spirito antiromano e ciò induceva a provvedimenti repressivi da parte delle istituzioni, le quali non
riuscirono ad arrestare il travolgente successo del nuovo culto. I cristiani vivevano in comunità e nel rispetto
delle leggi romane finché queste non entravano in contrasto con la loro fede, ciò portò a rapporti
conflittuali tra le comunità e lo stato. Le ragioni del contrasto non erano religiose bensì politiche: il rifiuto
del culto dell’imperatore veniva interpretato come un atto di ribellione all’autorità statale. In più il culto
cristiano era avvolto dal mistero e questo provocò la diffusione di credenze popolari a proposito dei riti
svolti (sacrifici umani). Lo stato romano cominciò a seguire le attività dei cristiani e in alcuni casi si
scatenarono contro questi ultimi violente persecuzioni. Dal punto di vista culturale nel II secolo si ebbe una
riscoperta della cultura greca, affiancata da una letteratura bilingue in cui il greco sembrava prendere il
sopravvento sul latino, e il predominio del greco è ancora più evidente nell’ambito della nascente
letteratura cristiana: nel suo primo secolo di vita il greco è l’unica sua manifestazione letteraria. Due
importanti personalità di quest’epoca furono Frontone, grande teorico dello stile arcaizzante, stile che
tentava di rinnovare la lingua letteraria e soprattutto il lessico, e Aulo Gallio, nonché Apuleio e Tertulliano.
Nel secolo successivo, l’evento più importante fu l’elaborazione della dottrina neoplatonica, ultima grande
creazione del pensiero greco. In ambito latino i frutti più fecondi si ebbero nel settore del diritto; quanto
alla letteratura vera e propria vi è invece una crisi nell’area pagana mentre si sviluppa sempre più la
produzione cristiana (Cipriano e Anobio), molto più vitale di quella pagana e decisamente prevalente sul
piano quantitativo e qualificativo.
Vita: Gaio Svetonio Tranquillo (70/75 d.C.-140/150) nacque da una famiglia di ordine equestre. Suo padre,
Svetonio Leto, aveva combattuto nella guerra civile negli anni 69-70, come ufficiale della XIII legione. A
Roma si dedicò inizialmente all'attività forense e divenne in seguito funzionario imperiale con l'appoggio
prima di Plinio il Giovane e poi di Setticio Claro. Sotto Traiano fu addetto alle biblioteche pubbliche e gli fu
accordato lo ius trium liberorum; sotto Adriano divenne magister epistularum, cioè segretario per la
corrispondenza personale del principe, e addetto all'archivio imperiale. Caduto in disgrazia insieme con il
prefetto del pretorio Setticio Claro, venne rimosso dalle sue funzioni nel 122, con la motivazione ufficiale di
aver mancato di rispetto all'imperatrice Sabina. Si ritirò allora a vita privata, dedicandosi interamente agli
studi. Si ignora il luogo e l'anno della morte, avvenuta presumibilmente tra il 140 e il 150. L'amico Plinio il
Giovane lo definisce in una lettera "uomo probissimo ed eruditissimo".
Opere: Nulla è pervenuto della sua imponente produzione, in latino e greco, di carattere erudito. Si ha
notizia di due grandi opere enciclopediche, Roma e Prata (o Pratum); sono inoltre giunti numerosi titoli di
scritti minori, contenuti soprattutto nel cosiddetto lessico bizantino (X secolo) della Suda, alcuni dei quali
dovevano probabilmente essere compresi nelle due precedenti miscellanee. Dotato di molteplici interessi,
Svetonio trattò gli argomenti più disparati, dalle feste pubbliche agli usi e costumi, dai giochi e spettacoli
alle cortigiane famose, dal calendario allo studio dei segni critici impiegati in filologia, dai difetti fisici alle
abbreviazioni. Di Svetonio ci sono giunte le biografie: una sezione del De viris illustribus e, completo, il De
vita Caesarum. De viris illustribus (Gli uomini famosi) è una raccolta di biografie di letterati, divise per
generi: oratori, poeti, filosofi, storici, grammatici e retori. Rimane solo la sezione dedicata ai grammatici e ai
retori (De grammaticis et rhetoribus), mutila delle ultime 11 biografie. Restano le vite di 20 grammatici, dal
greco Cratete di Mallo a Valerio Probo, e di 5 retori. Delle altre sezioni si hanno solo frammenti sparsi,
giunti per via indiretta: probabilmente dal De poetis derivano, forse parzialmente rimaneggiate, le vite di
Terenzio, Virgilio, Orazio e Lucano. Praticamente completa è l'opera De vita Caesarum (La vita degli
imperatori) in 8 libri, che contiene le biografie dei 12 imperatori da Giulio Cesare a Domiziano. Dedicata a
Setticio Claro, fu pubblicata quando Svetonio era segretario di Adriano. Sono andati perduti la prefazione e i
primi anni della vita di Cesare. I primi sei libri sono dedicati ciascuno a un imperatore della casa Giulio
Claudia: Cesare, Augusto, Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone; il settimo comprende le vite di Galba, Otone e
Vitellio, l'ottavo quelle dei Flavi: Vespasiano, Tito e Domiziano. Nel tracciare i 12 profili l'autore segue uno
schema costante: alla presentazione (cronologica) degli eventi dalla nascita all'ascesa al trono, segue
l'illustrazione per species, cioè per categorie, dei tratti della personalità, del carattere, dei vizi e delle virtù,
dei meriti e delle colpe; la biografia si conclude con la descrizione della morte, delle onoranze funebri e del
testamento. Svetonio non è uno storico, perché nelle sue biografie la figura del principe compare quasi
esclusivamente come uomo, mentre nulla o quasi fa riferimento alla vita e agli eventi dell'impero romano.
Dei personaggi lo scrittore ci mostra gli aspetti fisici, il loro modo di vestire, di mangiare, di dormire, le virtù
e i vizi, anche i più segreti; le notizie, raccolte con scrupolo negli archivi pubblici e imperiali, sono riferite
con obiettività, ma senza preoccuparsi dell'ordine cronologico né con l'intenzione di tracciare giudizi o
analisi psicologiche: appunto questi sono i limiti più evidenti dell'opera.
Vita: Plinio Secondo nacque nel 61 o nel 62 d.C. A Novum Comum (oggi Como). Figlio di un Cecilio e di una
sorella di Plinio il Vecchio, fu adottato da questo dopo la morte del padre. Quando anche Plinio il Vecchio
morì nel 79, Plinio il Giovane si ritrovò erede di possedimenti in Etruria e in Campania. Studiò a Roma e fu
allievo di Quintiliano, il più illustre retore dell'epoca. A diciott'anni iniziò l'attività forense; fece poi una
brillante cartiera politica rivestendo varie cariche sotto Domiziano e giungendo al consolato (come consul
suffectus) sotto Traiano, nell'anno 100 d.C. Amico personale dell'imperatore che lo volle nel suo consilium
principis, nel 110 o 111 fu da lui nominato legato, cioè governatore, in Bitinia, dove, con ogni probabilità,
morì nel 112 o nel 113. Oratore assai rinomato, pubblicò discorsi giudiziari ed epidittici non ci sono
pervenuti. Scrisse inoltre elegie, endecasillabi falecei ed epigrammi, inserendosi nella tradizione della
poesia come lusus (passatempo, svago).
Opera: L'opera più importante di Plinio è una raccolta di epistole in 10 libri. I primi nove contengono lettere
agli amici che l'autore scrisse e pubblicò negli anni dal 103-105 al 110-111, quando partì per la Bitinia: sono
in tutto 247 epistole rivolte a 105 destinatari (i più illustri dei quali sono Tacito e Svetonio). Il libro X invece
contiene un carteggio ufficiale fra Plinio e l'imperatore Traiano: in tutto 124 lettere (di cui 51 di Traiano),
risalenti, nella grande maggioranza, al periodo del governatorato in Bitinia, dal 110-111 al 112-113. Mentre
le lettere dell'ultimo libro, che vertono su questioni amministrative, hanno carattere ufficiale e
documentario, le lettere agli amici costituiscono un tipico epistolario letterario, ossia scritto espressamente
in vista della pubblicazione. Ciò risulta chiaramente dalla dedica a Setticio Claro (che fu poi prefetto del
pretorio sotto Adriano e a cui Svetonio dedicò le sue Vite). L'elaborazione letteraria dei testi rivela che
Plinio ambiva per la loro eleganza formale a inserirsi nel filone del genere epistolografico, che aveva avuto a
Roma il suo principale esponente in Cicerone. È probabile che, in buona parte, le lettere siano state
effettivamente inviate ai destinatari; certamente reali sono le circostanze concrete (avvenimenti storici,
fatti di cronaca quotidiana) a cui fanno riferimento. Per quanto riguarda l'ordine in cui le lettere sono
disposte all'interno dei libri, esso non appare del tutto casuale, ma sembra piuttosto ispirato al criterio della
varietas degli argomenti e delle situazioni. Con tale varietà, cioè con l'alternanza dei temi, l'epistolario cerca
di compensare una certa ripetitività, che riflette la monotonia della vita che l'autore conduce. Plinio si
propone infatti di tracciare, sulle orme di Cicerone, un quadro ampio e animato delle sue attività pubbliche
e private e insieme del periodo storico e dell'ambiente sociale a cui appartiene. L'epistolario documenta
con grande fedeltà e precisione le occupazioni e le abitudini di un eminente cittadino romano sotto
l'impero: discorsi tenuti in tribunale o in senato, recitazioni organizzate in casa propria o presso conoscenti,
inviti a cena, soggiorni distensivi nelle case di campagna, visite di cortesia, condoglianze in occasione di
lutti, scambi con gli amici di favori, di libri, di giudizi sulle rispettive opere letterarie. L'epistolario ha in ogni
caso un notevolissimo valore dal punto di vista non soltanto storico-culturale ma anche stilistico: è scritto in
modo limpido e conciso, elegantemente colloquiale, con una voluta semplicità, ma anche con largo uso di
figure retoriche. Plinio ama le sentenze epigrammatiche e le battute di spirito (sempre fini e garbate),
inserisce citazioni letterarie e dà spazio a parole e a espressioni greche, derivate più dall'uso epistolare
ciceroniano che dal linguaggio comune. Molto diverso dai primi nove è l'ultimo libro: il carteggio con
Traiano riveste un eccezionale interesse documentario in quanto offre un quadro, prezioso per gli storici,
nelle mansioni di un governatore provinciale. Particolarmente importanti sono le due epistole sui cristiani
che costituiscono una delle prime testimonianze di parte pagana sulla diffusione del cristianesimo. In
questo come in altri casi, alla scrupolosa dipendenza di Plinio dalle direttive imperiali, alle sue incertezze
dovute alla costante preoccupazione di non prendere iniziative che rischino di essere disapprovate in alta
sede, fa riscontro l'energica e talora sbrigativa sicurezza dell'imperatore, il cui modo di esprimersi semplice
e conciso rispecchia, soprattutto nel lessico, il linguaggio tecnico amministrativo della cancelleria imperiale.
Vita: La vita di Tacito si può ricostruire grazie ai dati contenuti nelle sue stesse opere e da sporadiche fonti
esterne, come l'epistolario di Plinio il Giovane che fu suo coetaneo e amico. Si ipotizza che Tacito sia nato
intorno al 55 d. C., forse nella provincia della Gallia Narbonese, da famiglia agiata, probabilmente di rango
equestre. Terminati gli studi (ebbe forse Quintiliano fra i suoi maestri di retorica), intorno al 78 d. C. sposò
la figlia di Agricola, uno tra i più validi generali dell'epoca, allora impegnato nelle campagne di conquista
della Britannia; quindi il giovane, avviato alla carriera politica per tradizione familiare, intraprese il cursus
honorum: fra gli anni del principato di Vespasiano (morto nel 79 d. C.) e i primi anni del principato di
Domiziano (salito al potere nell'81), ricoprì la questura, l'edilità o il tribunato della plebe e infine nell'88 la
pretura. Non abbiamo notizie degli anni successivi nei quali fu probabilmente pretore in qualche provincia.
Rimasto in ombra negli ultimi anni del principato di Domiziano (ucciso nel 96 d.C.), con il successore Nerva,
Tacito raggiunse il consolato nel 97, anche se come console suffectus in seguito alla morte prematura del
console in carica. Nei primi anni del principato di Traiano, fra il 99 e il 100 d. C., Plinio il Giovane e Tacito,
che nel frattempo aveva pubblicato l'Agricola, la biografia elogio del suocero, e la Germania, furono
protagonisti di un processo politico che destò grande scalpore, sostenendo le accusa di abuso e
malversazione mosse dai provinciali d'Africa contro l'ex governatore Mario Prisco che venne condannato
anche grazie all'appassionata eloquenza con cui Tacito sostenne il dibattimento. Avvolti nel mistero sono gli
ultimi anni della vita di Tacito; sappiamo che rientrò a Roma fra il 104 e il 105 d. C. dopo un periodo di
assenza e che governò come proconsole la provincia d'Asia. Intanto, favorito anche dal nuovo clima politico
instaurato da Traiano, Tacito proseguiva la sua attività di scrittore componendo il Dialogo sugli oratori,
dedicato a Fabio Giusto, console nel 102 e successivamente le Storie. Infine a partire forse dal 112, dovette
iniziare la stesura degli Annali, ma a questo punto di Tacito perdiamo ogni traccia: fu testimone degli inizi
del principato di Adriano, salito al trono nel 117 d. C., ma non vi è alcuna certezza sulla data della sua
morte: alcuni pensano al 120, altri al 125/126.
L'Agricola: La prima opera di Tacito è l'Agricola (De vita et moribus Iulii Agricolae), iniziata probabilmente
nel 97 e pubblicata intorno al 98. L'autore svolge la laudatio funebre del suocero Gneo Giulio Agricola,
uomo politico e generale molto stimato, conquistatore di gran parte della Britannia sotto Domiziano, ma
rimasto vittima (Tacito così ritiene) delle gelosie del tiranno. Tacito, che non aveva potuto pronunciare
l'elogio funebre, in occasione delle esequie di Agricola perché assente da Roma, concepì la sua opera come
una sorta di risarcimento postumo; ma prudentemente la biografia fu composta e pubblicata dopo che
Domiziano era uscito di scena, a distanza di circa cinque anni dalla morte del suocero. L'Agricola è un
insieme di generi letterari diversi. Carattere decisamente biografico hanno i primi capitoli, in cui vengono
riepilogate le tappe della carriera del protagonista fino al proconsolato in Britannia; la successiva sezione è
occupata invece da un'ampia digressione etnografica sui caratteri dell'isola, con notizie in parte derivate dai
promemoria privati del suocero, in parte fondate sul De bello Gallico. A partire dal capitolo XVIII l'opera
assume decisamente i caratteri della monografia storica: l'attenzione di Tacito si concentra sulle imprese
militari di Agricola in Britannia e in particolare sulla battaglia decisiva combattuta nell'83-84 presso il monte
Graupio. Il resoconto dei fatti militari si alterna a quello delle reazioni politiche a Roma, secondo una
struttura bipartita già tipica delle monografie sallustiane. Il carattere biografico ritorna dominante nei
capitoli successivi, che narrano gli ultimi anni di vita del protagonista e la sua morte, sulla quale grava il
sospetto dell'omicidio, voluto da Domiziano invidioso del prestigio di Agricola (sospetto che Tacito non
dissipa, ammettendo solo di non averne le prove). L'opera si conclude con l'elogio finale di Agricola, una
pagina di straordinario impegno retorico che rimanda direttamente alla commossa e sublime eloquenza
tipica del genere epidittico delle laudationes funebres. Attraverso la figura di Agricola, l'autore vuole
illustrare come sia possibile servire con lealtà e competenza lo stato anche vivendo in un regime dispotico e
violento. La scelta moderata del suocero, di collaborazione senza compromessi con il potere imperiale e la
sua morte silenziosa gli paiono le uniche soluzioni praticabili.
La Germania: Nel 98 Tacito pubblicò anche la Germania (De origine et situ Germanorum), scritta in
parallelo all'Agricola e come essa divisa in 46 capitoli, di cui i primi 27 sono dedicati alla descrizione degli usi
e costumi comuni alle diverse popolazioni germaniche, mentre gli ultimi 19 contengono una rassegna etno-
geografica delle principali tribù stanziate nei vasti territori a est del Reno. Si tratta di una delle rare
monografie a carattere etnico-geografico della letteratura latina, un'opera cioè in cui gli interessi etnografici
costituiscono l'oggetto primario di indagine e non sono ridotti a un semplice excursus. L'ambito d'indagine
privilegiato da Tacito non è però geografico in senso stretto: il messaggio centrale della Germania consiste
nella sottolineatura della purezza per così dire naturale, vergine, dei costumi dei popoli transrenani.
L'ammirazione per i Germani era fondata sull'elogio, di matrice filosofica cinica, per i popoli "primitivi" e si
nutriva dell'implicito ricordo della Roma arcaica (i Germani di oggi come gli antichi Romani di ieri): un tema
cari agli storici romani, da Catone il Vecchio a Sallustio a Livio. Anche per Tacito gli austeri costumi dei
Germani, il loro profondo senso religioso, il desiderio di gloria militare, l'assenza di raffinatezze
nell'educazione dei figli e nel comportamento delle donne, diventano un'occasione di rimprovero alla
società imperiale romana, avviata dal punto di vista morale a una inarrestabile decadenza. Tacito intuiva il
pericolo che per l'impero rappresentavano questi popoli, una volta che essi avessero superato le divisioni
interne, e molti a Roma condividevano la sua analisi. L'argomento risultava di particolare attualità nei mesi
in cui la Germania fu scritta, visto che proprio allora Traiano era impegnato sul Reno con un forte esercito in
un ennesimo tentativo di consolidare confini destinati a non conoscere pace. Tacito non si esime dal
sottolineare aspetti inaccettabili, ai suoi occhi, del mos germanico, quali la rissosità, la pigrizia, il vizio del
gioco e del bere. Da una parte sembra dunque che Tacito intenda lanciare l'allarme sulle potenzialità
belliche di questi popoli e quindi sulla loro pericolosità, però sembra voler ricordare che si tratta di barbari
incivili, che un sano disegno strategico-militare potrebbe ricondurre sotto controllo. Il modello romano di
società è talmente superiore, agli occhi di Tacito, sia rispetto al modello della polis greca, che ha già
conosciuto il suo declino storico, sia rispetto a queste società primitive, da giustificare il diritto alla
conquista quale mezzo di diffusione dell'urbanitas, cioè della civiltà, diffusione avvertita come un autentico
dovere storico. Sul piano del contenuto, Tacito pare descrivere la situazione generale così come si
presentava prima che gli imperatori flavi avanzassero oltre il Reno e il Danubio. I dati esposti non derivano
da osservazioni dirette e da esperienze di prima mano, ma sono il risultato della lettura di altre opere
dedicate all'argomento, opere affidabili ma ormai datate. La maggior parte della sua documentazione
proveniva infatti probabilmente dai perduti Bella Germaniae di Plinio il Vecchio; altre fonti devono essere
stati gli excursus dedicati da Cesare ai Germani nel De bello Gallico e quello, per noi perduto, che Sallustio
sembra avesse inserito nel libro III delle Historiae.
Dialogus de oratoribus: Ultima fra le opere minori di Tacito é il Dialogus de oratoribus (Dialogo sugli
oratori), scritto poco dopo il 100, che per diversi aspetti prefigura la successiva stagione delle grandi sintesi
annalistiche. Per quel che riguarda le tematiche, il dialogo tocca una problematica morale, civile e politica
che nasce dalle stesse domande e suscita le stesse esigenze delle grandi opere storiche dell'autore. L'opera
mette in scena, come dice il titolo, un dialogo alla maniera di Cicerone, una discussione cioè che si suppone
svolta nel 75 d. C. (o nel 77) in casa di Curiazio Materno, retore e tragediografo, che sarebbe stato messo a
morte sotto Domiziano. L'autore afferma di avere assistito al dibattito che si dipana tra lo stesso Materno e
altri personaggi (Marco Apro, Vipstano Messalla, Giulio Secondo), negli anni della propria giovinezza. La
discussione verte sulla decadenza dell'oratoria. Messalla ne individua le ragioni nel deteriorarsi
dell'educazione e nell'impreparazione dei maestri. Materno, portavoce dell'autore, adduce invece
motivazioni politiche: la decadenza dell'eloquenza contemporanea è inevitabile, perché la vera, grande
eloquenza può fiorire solo in tempi tumultuosi e politicamente disordinati com'erano quelli della res
publica in cui visse Cicerone; d'altra parte bisogna accettare il principato come l'unico sistema di governo
capace di garantire alla società una vita più ordinata e tranquilla e, soprattutto, di scongiurare il rischio di
nuove guerre civili. Mai nell'antichità classica l'attività letteraria era stata posta così organicamente in
relazione con il contesto civile e sociale e spiegata all'interno di un quadro storico: la crisi dell'oratoria è il
prezzo da pagare all'ordine e alla pace garantiti dal princeps, e del resto per Tacito è ben chiaro che il
principato non ha credibili alternative. Egli esclude ancora una volta soluzioni astratte o irrealistiche: il
rimpianto per il passato repubblicano rischierebbe di alimentare una crisi politica dalle conseguenze
disastrose.
Le Historiae e gli Annales: Dopo il Dialogus Tacito si dedicò interamente alla storiografia: ciò che più gli
stava a cuore era infatti il discorso politico. Dalla grande tradizione storiografica latina (Sallustio, Livio)
Tacito eredita la concezione di storia come ragionamento e analisi dello stato, come ricostruzione razionale
e concreta dell'esperienza di individui, colti però non in astratto, ma inseriti nella vicenda politica storica e
culturale della res publica romana. Su queste basi nacquero due opere tra le maggiori della storiografia
latina: le Historie (pervenuteci parzialmente) e gli Annales. Le Historiae narrano le vicende che da Galba
(69) giungono alla morte di Domiziano (96): offrono il quadro dello scontro, devastante, fra potere centrale
e province, un argomento inedito per la storiografia romana. Gli Annales sono invece dedicati al mezzo
secolo precedente (14-69). Se al centro della riflessione delle Historiae è l'analisi dei costi e del fallimento
del principato, incapace di assicurare la pace, la preoccupazione dominante degli Annales è invece lo studio
delle cause e dei meccanismi del potere imperiale.
Idea: Tacito dimostra in ogni sua opera l'accuratezza nell'accertamento della verità: non solo consultò varie
fonti ma rivela anche notevole perspicacia critica nel cruciale momento di privilegiarne una piuttosto che
un'altra. Tacito è uno degli storici antichi meglio documentati e più rigorosi. In qualità di senatore aveva
libero accesso ai documenti ufficiali, lesse anche fonti dirette, tra cui le raccolte dei discorsi degli imperatori
e opere di memorialistica oggi perdute. Tenne presenti anche gli scritti di storici del passato come Livio o di
quelli a lui più vicini come Plinio il Vecchio, Vipstano Messalla, Cluvio Rufo e Fabio Rustico. Spicca l'alto
grado di rielaborazione a cui Tacito ha sottoposto le testimonianze precedenti o contemporanee. Tacito
non commette molti errori di identificazione e, sebbene non risulti sempre preciso nella cronologia,
dimostra in compenso valide conoscenze geografiche. gravissime crisi politico-istituzionali attraversano la
vita di Tacito, segnandola in modo indelebile: la prima fu la guerra civile fra Galba, Otone, Vitellio e
Vespasiano, pretendenti al trono imperiale; la seconda, a trent'anni di distanza, fu la morte violenta di
Domiziano e il caos istituzionale che ne seguì, con il debole successore Nerva, praticamente costretto dai
pretoriani ad adottare lo spagnolo Traiano, rappresentante dei ceti militari. Negli anni della maturità Tacito
ebbe modo di sperimentare regimi moderati e illuminati, come quello di Traiano, e regimi illiberali e
dispotici, come quello di Domiziano; e, cosa ancor più importante, ebbe modo di conoscere gli effetti di due
diversi meccanismi di successione, quello dinastico, sotto i Flavi, e quello adottivo inaugurato da Nerva.
Tacito, animato da un pragmatismo disincantato, a tratti anche cinico, che fa di lui un esponente della
tradizione politica della classe dirigente romana, non nutre sterili rimpianti verso un passato repubblicano
che ha fatto il suo tempo: non ama il principato come istituzione in sé, ma ne riconosce la necessità storica.
Agli occhi di Tacito appare evidente la debolezza strutturale dell'antica res publica di fronte al rischio,
sempre risorgente, delle guerre civili e dell'anarchia militare. Il principatus gli appare come l'unica forma
istituzionale in grado di garantire la coesione e la pace. La libertas per Tacito indica un clima di distensione
tra principe e senato, caratterizzato dal rispetto delle reciproche attribuzioni e da un atteggiamento di
sostanziale collaborazione per il bene dello stato. All'opposto di questo clima è il regime del dominatus, la
dispotica oppressione esercitata nei confronti della classe dirigente senatoria da tiranni come Nerone o
come Domiziano, i quali si pongono non come servitori dello stato, ma come suoi assoluti signori e padroni.
Per evitare un simile rischio, secondo Tacito, non esiste altra via che un sistema di successione basato non
sull'avvicendamento dinastico ma sull'adozione del successore tra i "migliori" operata dal principe ancora in
vita con l'avallo del senato e delle gerarchie militari: Domiziano e Traiano rappresentano rispettivamente ai
suoi occhi, nell'ambito della storia contemporanea, le più evidenti esemplificazioni dei rischi e dei pregi di
due diversi sistemi. L'idea di libertas raccoglie per Tacito l'insieme delle condizioni che permettono un
comportamento non servile della classe dirigente rispetto al principe, ma di leale collaborazione per il bene
supremo dello stato. Per tutto ciò il reclutamento, l'identità e le prerogative della classe dirigente
necessarie a governare l'impero sono per Tacito una questione di primaria importanza. Un aspetto
particolare del problema è quello che coinvolge i rapporti tra senato e imperatore in un regime di
dominatus: in questo caso Tacito si chiede se sia lecito e fino a che punto offrire la propria collaborazione al
tiranno, se un uomo di stato può in simili casi partecipare al governo dell'impero mantenendo integra la
propria dignitas. La sua risposta a questi interrogativi non poteva che essere positiva: egli stesso, del resto,
con il suocero Agricola, faceva parte di quella classe dirigente che, pur avendo raggiunto lusinghieri
traguardi politici sotto Domiziano, rifiutava di lasciarsi coinvolgere in un'accusa indiscriminata di
connivenza, se non addirittura di complicità, con il regime tirannico instaurato a Roma dall'ultimo dei Flavi.
Qual è dunque per Tacito la via corretta da seguire per evitare sia il deforme obsequium, il vile servilismo di
chi si vende al tiranno, sia l'abrupta contumacia, la supponente arroganza di chi sdegnosamente si ritrae
dalla vita pubblica senza con questo procurare alcun giovamento allo stato e, anzi, aprendo la strada ai
peggiori? Il suocero Agricola rappresenta un modello e nell'opera a lui dedicata Tacito lo offre
all'emulazione dei suoi pari: si tratta di un uomo di stato integro ed energico, fedele servitore non del
principe ma dello stato, estraneo agli intrighi di corte e consacratosi all'ampliamento e al rafforzamento dei
confini dell'impero
Stile: Particolarmente evidente appare l'evoluzione dello stile tacitiano fra le prime opere e quelle, di
maggiore impegno, composte nella maturità, sia a livello della sintassi, del lessico e dell’ornatus, sia a livello
delle strutture narrative. Altrettanto evidente appare l'evoluzione stilistica fra le varie opere di Tacito a
livello dell'elocutio. Nella Germania prevale il modello senecano: troviamo perciò periodi spezzati, lessico
poetico e ricercato, gusto per la sententia a effetto, espedienti retorici quali antitesi, anafore e nessi
allitteranti. L'Agricola è caratterizzato da una prevalente impronta sallustiana, che diverrà dominante nelle
Historiae e negli Annales; da Sallustio sono riprese soprattutto la patina arcaica e la ricerca dell'espressione
insolita e anticlassica, Tacito tuttavia sottopone i suoi modelli a un alto grado di rielaborazione e di
contaminazione, con risultati spesso notevoli: in certi tratti delle Historiae per esempio ritornano la fluidità
e la ridondanza di Livio, in altri appare già attuata quell'evoluzione stilistica che contrassegna in particolare
la lingua scabra e serrata, a tratti anche oscura, degli Annales. La prima esade di questi ultimi, quella
dedicata a Tiberio, rappresenta il culmine dell'elaborazione stilistica di Tacito: la ricerca ossessiva della
brevitas, della concentrazione e dell'intensità espressiva, dell'incisività e della pregnanza; le elisioni, le
omissioni, gli asindeti, gli anacoluti, le antitesi violente. Tipicamente tacitiani sono i trapassi arditi, lo
sconvolgimento e la violazione sistematica della norma tradizionale (quella ciceroniana in particolare: ad
esempio gli ablativi assoluti in Tacito sono sciolti dal resto del periodo), l'amore per gli accostamenti casuali,
le coordinazioni inaudite, le continue variationes nei costrutti che producono un inconfondibile effetto di
inconcinnitas: una scrittura disarmonica.
Vita: Apuleio, figlio di un ricco magistrato, nacque a Madaura (in Algeria) nella provincia dell'Africa
proconsularis, intorno al 125. Dopo aver studiato a Cartagine grammatica e retorica, approfondì ad Atene i
prediletti studi filosofici; dimorò per un certo periodo tra il 150 e il 155, anche a Roma, esercitandovi
l'avvocatura. Quando nel 155/156 approdò a Oea, l'attuale Tripoli, aveva circa trent'anni ed era gia un
conferenziere celebre: come altri esponenti della seconda sofistica, era specializzato in discorsi d'occasione
recitati, o improvvisati, in luoghi pubblici (come i teatri o le piazze) di fronte a un pubblico eterogeneo. Era
devoto a Esculapio, dio della medicina, e si fece iniziare ai misteri di Demetra a Eleusi, forse anche a quelli
di Iside. Sposò la ricca vedova Pudentilla, ma venne citato in giudizio dai parenti di lei sotto l'accusa di
averla sedotta con arti magiche, per impadronirsi delle sue ricchezze: si difese con l'Apologia, pronunciata
nel corso del processo celebrato nel 158 o nel 159 a Sàbrata, nella Sirtica, regione costiera dell'odierna
Libia. In seguito risiedette a Cartagine, conducendo un'esistenza di apprezzato intellettuale. Dal 170 non si
hanno più sue notizie.
Opere: Apuleio fu un intellettuale straordinariamente ricco di interessi e di curiosità. Molte sue opere sono
andate perdute. Le opere pervenute sono: la già citata Apologia o De magia; l'antologia oratoria dei Florida
(letteralmente "cose/parole fiorite" o anche "florilegio") che raccoglie 23 brani tratti da orazioni da lui
pronunciate; il trattato filosofico De deo Socratico (il dio o demone -creatura intermedia tra umano e
divino, che rappresenta la coscienza- di Socrate); il romanzo dal titolo greco Metamorphoses o anche
Metamorphoseon libri (Le metamorfosi o Libri di trasformazioni), conosciuto anche con il titolo di Asinus
aureus (L'asino d'oro). La maggioranza degli studi gli attribuisce anche De Platone et eius dogmate (Platone
e la sua dottrina) e il De mundo (Il mondo), due manuali filosofici datati al 150-160, al periodo cioè di
permanenza a Roma dell'autore, interessanti testimonianze del medioplatonismo (filosofia eclettica che
unisce filosofia platonica, stoica, aristotelica, neopitagorica, diffusa in particolare nel II secolo d.C.).
L'Apologia e il De deo Socratis permettono di ricostruire un suggestivo ritratto di Apuleio, un filosofo che
prende sdegnosamente le distanze dalle ciarlataneria dei maghi e dei fattucchieri che vivono speculando
sull'ignoranza e sulla superstizione popolari, come pure - all'estremo opposto - da quanti alla fede
oppongono uno scetticismo e un razionalismo frutto di arroganza intellettuale. Egli stesso espone le
caratteristiche delle proprie ricerche in ambito filosofico e religioso. In primo luogo l'approdo al mondo
religioso è l'esito di un cammino di ricerca che può sovente anche seguire strade sbagliate, ma è comunque
alimentato dall'amore per la verità e dal dovere verso gli dei. In secondo luogo la verità è accessibile non a
tutti, ma solo alla ristretta cerchia degli iniziati, disposti ad affrontare la lunga e dura strada che avvicina alla
rivelazione. In terzo luogo la conoscenza della verità non è e non può in alcun modo essere una conquista
puramente intellettuale: la verità trasforma la vita dell'uomo, elevandola al divino e purificandola. Si tratta
di problematiche tipiche della filosofia platonizzante delle scuole ellenistiche e di quell'orizzonte di
misticismo filosofico e di sincretismo religioso che caratterizzò il II secolo, e questo va tenuto presente
affrontando l'interpretazione delle Metamorfosi. Per altri aspetti però la lettura dell'Apologia lascia
un'impressione di ambiguità: tra magia e filosofia la distanza non sembra poi così netta come Apuleio
dichiara, tanto che per secoli lo scrittore godette fama di operatore di miracoli. Le Metamorfosi Le
metamorfosi sono l'opera più ambiziosa di Apuleio. Si tratta di un romanzo in 11 libri (un numero insolito,
forse dovuto al fatto che 11 erano i giorni previsti per l'iniziazione ai misteri di Iside, divinità che nell'opera
occupa un ruolo centrale), furono scritte a partire dal 160. Il giovane protagonista di nome Lucio, narra in
prima persona le incredibili peripezie capitategli a partire dal giorno in cui, ospite in Tessaglia, ebbe la
disavventura di trasformarsi in asino, pur conservando la coscienza e la facoltà di un uomo. Attraverso mille
avventure che gli forniscono l'occasione per meditar a fondo su se stesso e sui propri limiti, Lucio riesce
progressivamente a liberarsi della sventata curiosità e del disordine sessuale che costituiscono i tratti più
evidenti della sua identità giovanile, per acquisire una maggiore consapevolezza di sé e una più autentica
maturità nel rapporto con gli altri, e, soprattutto, con il mondo soprannaturale, che da sempre ha esercitato
su di lui un fascino irresistibile. Disperato e pentito, Lucio alla fine del romanzo evoca la dea Iside affinché lo
aiuti e lo salvi, e viene esaudito: riesce finalmente a mangiare le rose che costituiscono l'unico antidoto
contro il sortilegio di cui è rimasto vittima, riacquista sembianze umane e viene iniziato a alla religione
isiaca. La Metamorfosi si ispirano, nei motivi narrativi principali, a Lucio o l'asino, un lungo racconto che
figura nel corpus delle opere dello scrittore greco Luciano di Samosata (120 circa-dopo il 180 d.C.), ma
considerato dai più un'opera un'opera spuria. In esso si narra di un uomo che vuole trasformarsi in uccello e
che, per l'errore di una serva si tramuta invece in asino; dopo una serie di strane sventure mangia un cespo
di rose e ridiventa uomo. Apuleio ha ricavato dal racconto greco soprattutto la figura dell'uomo-asino che,
senza destare alcun sospetto, può osservare e ascoltare le più pittoresche scene e situazioni, ma anche
molti altri elementi narrativi: le magie della padrona di casa, lo scambio di vasetti, la ricerca dei petali di
rosa come antidoto, la minaccia dell'accoppiamento tra l'asino e una condannata a morte ecc. Ma il livello
comico e di divertimento coabita con una dimensione ben più seria e pensosa, assente nel modello greco.
Infatti Lucio è protagonista di un vero e proprio cammino di conversione: le metamorfosi da questo punto
di vista possono essere senz'altro considerate come un romanzo di formazione, nel quale il protagonista,
sotto le cui spoglie riaffiora la figura dell'autore, realizza un processo di crescita e di maturazione interiore,
passando dalla fase dell'adolescenza sventata a quella di una maturità responsabile. La prima colpa di Lucio
è la caparbia curiosità, la dissennata bramosia di conoscere e in particolare di conoscere attraverso la
magia: non è così che si può conquistare la conoscenza del cosmo e di Dio; servono semmai passione per lo
studio e meditazione. Già nel De magia Apuleio aveva tracciato una chiara distinzione tra l'interesse per le
scienze occulte e la magia da una parte, e l'autentica meditazione religiosa dall'altra.
Stile: Preziosissima è la tessitura retorica del romanzo. Ritmi e costrutti danno corpo a una sontuosa
inventiva "asiana": essa si avvale di clausole musicali e di tutti i giochi di allitterazioni, assonanze,
omoteleuti ecc. che un retore esperto come Apuleio era abituato a profondare a piene mani nei propri
discorsi. Attratto dalla possibilità di immettere sulla pagina qualche pennellata di colore, l'autore si
sofferma sui singoli particolari, ornandoli e dilatandoli, fino a frantumare la visione; più che l'unità del colpo
d'occhio, gli interessa la rifinitura di ogni aspetto. Un esempio evidente lo fornisce, all'inizio della fiaba di
Amore e Psiche, la descrizione del meraviglioso palazzo di Amore, che materializza davanti ai nostri occhi
l'opulenza dei materiali preziosi e i bagliori di luce che essi emettono. Sul piano lessicale, termini desueti e
ricercati convivono con fresche espressione popolari; cadenze poetiche e ricordi della grande prosa classica
con neologismi e grecismi. Artificiosità e bizzarrie verbali rispondevano al gusto intellettualistico della
seconda sofistica; ma Apuleio piega tutto ciò al suo gusto innato per l'espressione pittorica e musicale,
affettiva o sensuale, spesso in direzione ironica