[…] Nihil umquam, Deus scit, in te nisi te requisivi, te pure non tua concupiscens.
Non matrimonii foedera, non dotes aliquas expectavi, non denique meas voluptates
aut voluntates sed tuas, sicut ipse nosti, adimplere studui. Et si uxoris nomen sanctius ac
validius videtur, dulcius mihi semper exstitit amicae vocabulum aut, si non indigneris,
concubinae vel scorti, ut, quo me videlicet pro te amplius humiliarem, ampliorem apud
te consequerer gratiam, et sic etiam excellentiae tuae gloriam minus laederem. Quod
et tu ipse tui gratia oblitus penitus non fuisti in ea quam supramemini ad amicum
epistola pro consolatione directa, ubi et rationes non nullas, quibus te a coniugio nostro
et infaustis thalamis revocare conabar, exponere non es dedignatus sed plerisque
tacitis quibusamorem coniugio libertatem vinculo praeferebam. Deum testem invoco,
si me Augustus universo praesidens mundo matrimonii honore dignaretur totum que
mihi orbem confirmaret in perpetuo possidendum, carius mihi et dignius videretur tua
dici meretrix quam illius imperatrix. […]
[…] Dio lo sa, nulla ho cercato in te se non te stesso: te ho desiderato con purezza,
non i tuoi beni.
Non ho mirato né al vincolo del matrimonio, né ad una qualche dote, e non ho neppure
cercato di assecondare il mio piacere o la mia volontà, ma i tuoi, come tu ben sai. E se
l’appellativo di moglie sembra più santo e di maggior valore, a me è sempre apparso
più dolce il nome di amica o, se non lo giudichi sconveniente, di concubina o
sgualdrina, onde trovare tanta più grazia presso di te, quanto più per te mi umiliavo, e
così anche meno nuocere alla gloria della tua grandezza. E tu stesso sei stato così
gentile da non dimenticarlo del tutto nella lettera sopra menzionata, che hai inviato
all’amico per consolarlo, ove non hai disdegnato di esporre alcuni dei ragionamenti
con i quali cercavo di dissuaderti dal nostro matrimonio e dalle nozze infauste; molti
tuttavia li hai taciuti, quelli con i quali mostravo di preferire l’amore al matrimonio, la
libertà al vincolo. Dio mi è testimone che se Augusto, padrone dell’universo, si fosse
degnato di onorarmi del matrimonio, e mi avesse promesso il possesso perpetuo del
mondo intero, mi sarebbe sembrato più caro e più degno esser detta la tua sgualdrina
che non la sua imperatrice. […]
Eloisa si rivolge ad Abelardo in tono confidenziale adottando il tu, dopo aver introdotto
in apertura della lettera il formale voi. È questo il segno di non riuscire ad evitare di
mostrare i propri sentimenti che s’impongono nella comunicazione con lui.
Su questo doppio registro, che alterna il tu al voi, si gioca la capacità di Eloisa di
rappresentare ora la donna amante innamorata ora la badessa responsabile di una
comunità monastica, senza far entrare in opposizione i suoi sentimenti.
Occorre chiarire che il termine concubina ha il significato di compagna di un uomo
che, al di là del vincolo matrimoniale, si dona con amore e fedeltà al proprio amante.
Anche il termine prostituta va inteso come donna che si concede senza pretendere nulla
in cambio. Difatti, nella poesia amorosa e provenzale i due termini alludono alla
purezza dell’amore che non poteva essere vissuta nel vincolo del matrimonio, fondato,
in quel periodo, soprattutto per le classi aristocratiche, sull’interesse economico e non
sentimentale. È importante notare come i pensieri di Eloisa sembrano essere così
attuali. Il suo è un amore che vuole solo essere vissuto senza chiedere nulla in cambio;
è un amore che va oltre l’avidità e l’egoismo umano. Confessa anche i limiti profondi
del proprio amore per Dio, all'obbedienza verso il quale ha sempre anteposto quella
verso l'uomo amato. Scongiura perciò Abelardo di non continuare a manifestarle
espressioni di lode, con il rischio di cadere in una volgare adulazione che costituirebbe
un (ulteriore) pericolo morale per lei, allettata e compiaciuta se a lodarla è l’uomo cui
si sforza di piacere in tutto: «Tibi per omnia placere studeo».