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Eloisa e Abelardo: la tragica storia di un amore impossibile

La figura di Eloisa nella letteratura francese medievale


Eloisa fu un importante badessa, intellettuale e scrittrice francese. La sua fama, oggi,
proviene principalmente dalla sua associazione con Pietro Abelardo che fu prima suo
insegnante, poi suo marito per poi diventare la sua guida spirituale.
Ella nacque nel 1100 a Parigi, trascorse la sua infanzia e
adolescenza presso il monastero benedettino di Saint-Marie di
Argenteuil per poi trasferirsi, all’età di 17 anni, da suo zio
Fulberto, un canonico di Notre Dame.
Fu istruita molto bene, come lo stesso Abelardo spiega in molte
sue lettere sottolineando come ella fosse in grado di padroneggiare
il latino, il greco e l’ebraico. Il primo incontro tra i due futuri amanti avvenne intorno
al 1117. Abelardo, ormai trentaseienne, dopo tanto studiare, aveva finalmente ottenuto
una cattedra prestigiosa, quella di Notre Dame, quando venne travolto dalla passione
amorosa per Eloisa che lo condusse alla catastrofe. Rimasta incinta, Abelardo la rapì
e la condusse al proprio paese natale di Pallet, nell'allora Bretagna minore, ospitandola
nella casa della sorella: qui nacque nel 1118 il figlio Astrolabio. Abelardo dichiarò di
essere disposto a sposare Eloisa, a condizione che il matrimonio rimanesse segreto in
quanto chierico. Eloisa era contraria al matrimonio, come documentano alcune lettere
della donna poiché sosteneva che le distrazioni della vita coniugale avrebbero sminuito
la vita contemplativa di Abelardo. Eloisa e Abelardo si sposarono a Parigi, ma
nonostante il segreto la notizia venne divulgata. Per evitare scandali, Abelardo inviò
Eloisa nel monastero di Argenteuil dove era stata educata. I parenti, pensando che
Abelardo avesse costretto Eloisa a farsi monaca per liberarsi di lei, decisero di
vendicarsi: una notte, mentre Abelardo dormiva nella sua casa, tre uomini lo
aggredirono e lo castrarono. In seguito due di essi vennero catturati e, secondo la legge
del taglione, accecati ed evirati a loro volta, mentre Fulberto, il mandante
dell'aggressione, venne solo sospeso dai suoi incarichi. Eloisa morì il 16 maggio 1164
e il suo corpo, insieme a quello del suo amato, ancora oggi giacciono in una tomba
presso il cimitero di Père-Lachaise.
Della produzione letteraria della scrittrice, sono a noi pervenute alcune lettere tratte
dall’Epistolario tra lei e Pietro Abelardo oltre alla raccolta intitolata Problemata
contenente quarantadue questioni di natura teologica.

Epistolario: lettere amorose di Eloisa e Abelardo


Quella tramandataci attraverso queste lettere, scritte in latino, è una storia d’amore
narrata, ricostruita, romanzata e molto spesso travisata da scrittori vari. È, infatti, una
storia che riesce a farsi spazio in ogni periodo/epoca, dal Medioevo fino ai giorni
nostri. Tra il 1127 e il 1133, dunque ben quindici anni dopo la tragica vicenda che
aveva coinvolto i due amanti, Abelardo scrisse L’Historia Calamitatum, ovvero una
lunga lettera indirizzata ad un suo amico al quale decise di raccontare le sventure che
avevano colpito la propria vita e, dunque, anche la sua passione per Eloisa e la loro
dolorosa separazione. La lettera, però, giunse, per caso, nelle mani di Eloisa che decise
di rispondere al suo amato confessando il travaglio
che viveva per aver intrapreso la carriera monastica
nonostante i suoi sentimenti non fossero mutati. Si
susseguirono, così, una serie di lettere tra i due nelle
quali non solo vengono rielaborate le loro vicende
amorose attraverso un sentimento di nostalgia, ma
affrontano questioni di diversa natura, da argomenti filosofici a quelli teologici. Non a
caso, l’opera si colloca all’incrocio tra diversi generi letterari: epistolario, consolatio,
dialogo filosofico e confessioni.
Quella dell’epistola è una tradizione antichissima che affonda le proprie radici nella
tradizione ellenistica. Come è già noto, l’epistola constava essenzialmente di cinque
parti: la salutatio, con il nome della persona cui si scriveva al dativo seguito dal nome
dello scrivente, l'exordium, o benevolentiae captatio, o proemium, o proverbium,
generalmente formato da una sentenza o da un motto, l'elocutio, la narratio e
la conclusio. L’arte di comporre epistole nel Medioevo divenne oggetto di un
particolare insegnamento: L'ars dictaminis, ovvero quella branca speciale della
retorica, strettamente apparentata alla grammatica e al diritto, che insegnava le regole
per ben comporre le lettere. Essa si sviluppò in Italia nella seconda metà del sec. XI ed
ebbe nel monastero di Monte Cassino (con Alberico di Monte Cassino, Ugo di
Bologna, Giovanni Caetani, poi papa Gelasio II), nella Curia romana (con Alberto di
Mora, poi papa Gregorio VIII, Trasmondo, Tommaso di Capua) e nell'università di
Bologna (con Guido Faba, Boncompagno, Riccardo di Pofi) i principali centri di
diffusione. L’epistola, dunque, rappresentava un vero e proprio ‘strumento’ che il
mittente utilizzava per poter esternare e condividere le proprie emozioni cercando di
colmare dei vuoti interiori dovuti, spesso, alla sofferenza amorosa.
Eloisa e Abelardo rappresentano un esempio eclatante di due amanti che affidano la
rappresentazione del proprio amore a delle lettere che divennero oggetto di vari
dibattiti nel corso dei secoli. Uno dei dibattiti che ancora oggi divide l’opinione
pubblica riguarda l’autenticità delle lettere. La questione dell'autenticità o meno delle
lettere ebbe, come è naturale, un particolare rilievo tra Ottocento e Novecento, nella
grande stagione critica del Positivismo. Il dubbio sistematico dei seguaci del metodo
scientifico non risparmiò, infatti, Abelardo ed Eloisa e numerosi autori si
pronunciarono contro l'autenticità assoluta di tutte le lettere finché il grande
medievalista Étienne Gilson non ne determinò l'autenticità. La questione, però, fu
riaperta nel 1972 dallo studioso americano John Benton il quale riteneva che
l’epistolario fosse un falso fabbricato nell'abbazia stessa di Eloisa molto tempo dopo
la sua morte. A favore di una simile interpretazione, egli sottolineava incongruenze
che non erano state notate sino a quel momento: divergenze tra il contenuto di una
lettera e un'altra sulle regole di vita monastica adottate nell'abbazia di Eloisa, così
come divergenze tra le affermazioni presenti nella prima lettera, la celebre Historia
calamitatum e documenti contemporanei ad Abelardo. Le affermazioni di Benton
diedero vita ad una serie di dibattiti a cui ancora oggi partecipano vari studiosi portatori
di idee contrastanti. Tuttavia, la loro storia d’amore fu così intensa da ispirare
Shakespeare per la stesura di Romeo e Giulietta, una delle sue tragedie più conosciute
e studiate al mondo.
Si pensi anche alle tante similitudini che ritroviamo nella storia d’amore di Paolo e
Francesca, i famosi amanti che Dante colloca nell’inferno poiché colpevoli di aver
vissuto un amore all’epoca proibito.
Non di minore importanza, inoltre, sono le svariate versioni, spesso tradotte, curate da
vari autori nel corso dei secoli. La più nota è, senza alcun dubbio, la versione in lingua
inglese intitolata Eloisa to Abelard ad opera dell’autore Alexander Pope.
La lettera più intensa e ricca di spunti su cui poter riflettere è la seconda che Eloisa
indirizzò al suo Abelardo. È una lettera interessante non solo dal punto di vista
linguistico, ma soprattutto da un punto di vista contenutistico poiché offre al lettore la
possibilità di cogliere l’originalità e la modernità di questa figura femminile. È la
lettera più appassionata, ma anche concettualmente la più densa di Eloisa, quella in cui
dà sfogo come un fiume in piena a tutti i tormenti e le ansie che non le danno pace.
Abelardo, guardando ormai con distacco ai tumultuosi eventi passati, aveva risposto
alla sua prima lettera giustificando il proprio silenzio con la convinzione che ormai lei,
in virtù della grazia divina, fosse spiritualmente autosufficiente

[…] Nihil umquam, Deus scit, in te nisi te requisivi, te pure non tua concupiscens.
Non matrimonii foedera, non dotes aliquas expectavi, non denique meas voluptates
aut voluntates sed tuas, sicut ipse nosti, adimplere studui. Et si uxoris nomen sanctius ac
validius videtur, dulcius mihi semper exstitit amicae vocabulum aut, si non indigneris,
concubinae vel scorti, ut, quo me videlicet pro te amplius humiliarem, ampliorem apud
te consequerer gratiam, et sic etiam excellentiae tuae gloriam minus laederem. Quod
et tu ipse tui gratia oblitus penitus non fuisti in ea quam supramemini ad amicum
epistola pro consolatione directa, ubi et rationes non nullas, quibus te a coniugio nostro
et infaustis thalamis revocare conabar, exponere non es dedignatus sed plerisque
tacitis quibusamorem coniugio libertatem vinculo praeferebam. Deum testem invoco,
si me Augustus universo praesidens mundo matrimonii honore dignaretur totum que
mihi orbem confirmaret in perpetuo possidendum, carius mihi et dignius videretur tua
dici meretrix quam illius imperatrix. […]

[…] Dio lo sa, nulla ho cercato in te se non te stesso: te ho desiderato con purezza,
non i tuoi beni.
Non ho mirato né al vincolo del matrimonio, né ad una qualche dote, e non ho neppure
cercato di assecondare il mio piacere o la mia volontà, ma i tuoi, come tu ben sai. E se
l’appellativo di moglie sembra più santo e di maggior valore, a me è sempre apparso
più dolce il nome di amica o, se non lo giudichi sconveniente, di concubina o
sgualdrina, onde trovare tanta più grazia presso di te, quanto più per te mi umiliavo, e
così anche meno nuocere alla gloria della tua grandezza. E tu stesso sei stato così
gentile da non dimenticarlo del tutto nella lettera sopra menzionata, che hai inviato
all’amico per consolarlo, ove non hai disdegnato di esporre alcuni dei ragionamenti
con i quali cercavo di dissuaderti dal nostro matrimonio e dalle nozze infauste; molti
tuttavia li hai taciuti, quelli con i quali mostravo di preferire l’amore al matrimonio, la
libertà al vincolo. Dio mi è testimone che se Augusto, padrone dell’universo, si fosse
degnato di onorarmi del matrimonio, e mi avesse promesso il possesso perpetuo del
mondo intero, mi sarebbe sembrato più caro e più degno esser detta la tua sgualdrina
che non la sua imperatrice. […]

Eloisa si rivolge ad Abelardo in tono confidenziale adottando il tu, dopo aver introdotto
in apertura della lettera il formale voi. È questo il segno di non riuscire ad evitare di
mostrare i propri sentimenti che s’impongono nella comunicazione con lui.
Su questo doppio registro, che alterna il tu al voi, si gioca la capacità di Eloisa di
rappresentare ora la donna amante innamorata ora la badessa responsabile di una
comunità monastica, senza far entrare in opposizione i suoi sentimenti.
Occorre chiarire che il termine concubina ha il significato di compagna di un uomo
che, al di là del vincolo matrimoniale, si dona con amore e fedeltà al proprio amante.
Anche il termine prostituta va inteso come donna che si concede senza pretendere nulla
in cambio. Difatti, nella poesia amorosa e provenzale i due termini alludono alla
purezza dell’amore che non poteva essere vissuta nel vincolo del matrimonio, fondato,
in quel periodo, soprattutto per le classi aristocratiche, sull’interesse economico e non
sentimentale. È importante notare come i pensieri di Eloisa sembrano essere così
attuali. Il suo è un amore che vuole solo essere vissuto senza chiedere nulla in cambio;
è un amore che va oltre l’avidità e l’egoismo umano. Confessa anche i limiti profondi
del proprio amore per Dio, all'obbedienza verso il quale ha sempre anteposto quella
verso l'uomo amato. Scongiura perciò Abelardo di non continuare a manifestarle
espressioni di lode, con il rischio di cadere in una volgare adulazione che costituirebbe
un (ulteriore) pericolo morale per lei, allettata e compiaciuta se a lodarla è l’uomo cui
si sforza di piacere in tutto: «Tibi per omnia placere studeo».

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