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Secondo alcuni studi, circa metà dei pazienti colpiti da ischemia miocardica acuta
non riescono ad arrivare in ospedale vivi; la percentuale di mortalità si riduce al
10-15% fra coloro che raggiungono i reparti di emergenza.[6] È dunque fondamentale
individuare prontamente un dolore toracico di origine cardiaca, al fine di ridurre
il tempo di intervento e avviare le terapie idonee quanto prima.[7][8]
Indice
1 Definizione
2 Epidemiologia
3 Cenni storici
3.1 Dagli inizi al 1950
3.2 L'epoca trombolitica
3.3 Sviluppo della terapia
4 Eziologia
4.1 Fattori di rischio
4.2 Infarto giovanile
4.3 Cause infrequenti
5 Patogenesi
5.1 Complicanze
5.1.1 Complicanze aritmiche
6 Anatomia patologica
7 Clinica
7.1 Classificazione
7.2 Segni e sintomi
7.3 Esami strumentali e di laboratorio
7.3.1 Elettrocardiogramma
7.3.2 Ecocardiogramma
7.4 Diagnosi differenziale
7.5 Diagnosi precoce
7.6 Risvolti psicologici
8 Trattamento
8.1 Trattamento farmacologico
8.2 Cardiologia interventistica
8.3 Trattamento chirurgico
9 Prognosi
9.1 Postumi e follow up
9.2 Riabilitazione e prevenzione secondaria
10 Note
11 Bibliografia
12 Voci correlate
13 Altri progetti
14 Collegamenti esterni
Definizione
La locuzione «infarto miocardico acuto» può essere utilizzata quando vi sia
evidenza di necrosi miocardica nell'ambito di un quadro clinico di ischemia. Tale
specificazione è contenuta nei vari documenti di consensus[1] elaborati per tentare
di raggiungere una definizione universale di infarto miocardico quanto più
condivisa. La definizione proposta nel 2007,[11] accettata da tutte le più grandi
società internazionali di cardiologia e dall'Organizzazione mondiale della sanità,
[12] si delineò in modo più preciso nel 2012.[13]
Nei paesi industrializzati come gli Stati Uniti d'America, le morti per malattie
cardiache sono più numerose rispetto alla mortalità per neoplasie.[4] Negli Stati
Uniti più di un milione di persone subiscono un attacco anginoso ogni anno e di
questi il 40% morirà a causa di infarto.[17] Dati recenti e ottenuti su un numero
alto di pazienti, tratti dal Registro Nazionale Americano, hanno considerato più di
un milione di casi di infarto, dal 1994 al 2006: gli infarti sono stati trattati
sia con fibrinolitico sia con angioplastica primaria, di cui il 42% erano donne, i
risultati danno una mortalità del 14% nelle donne e del 10% negli uomini.[18]
Nel Registro Francese, che analizza la mortalità nelle Unità di terapia intensiva
cardiologica in tutta la Francia registrando i dati per un mese all'anno, nel 1995,
cioè in epoca trombolitica, si segnalò una mortalità del 23,7% nelle donne contro
il 9,8% negli uomini, però nel report del 2010, quando ormai più dell'80% dei
pazienti veniva trattato con la PTCA, si registrò una riduzione della mortalità
rispettivamente del 9,8% e del 2,6%.[19]
Cenni storici
Dagli inizi al 1950
Sin dall'inizio del XIX secolo è noto che una trombosi occlusiva dell'arteria
coronaria può portare alla morte.[25][26] Gli esperimenti sugli animali con
legatura di un vaso coronarico e i reperti autoptici rilevati hanno suggerito che
l'occlusione di una coronaria costituisce un evento irreversibile. Nel 1901 il
tedesco Krehl dimostrò che l'infarto non è sempre fatale, ma la prima descrizione
dettagliata di attacchi cardiaci non fatali si deve ai russi Obraztsov VP e
Strazhesko ND nel 1910.[27] Nel 1912 alcuni autori americani, fra cui James B.
Herrick, definirono le prime basi terapeutiche per i pazienti affetti da angina
stabile da sforzo: il solo riposo fisico fu riportato come primo approccio
terapeutico.[25] Tale indicazione fu l'unica opzione di trattamento sino ai primi
anni cinquanta ed