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Infarto miocardico acuto

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Avvertenza
Le informazioni riportate non sono consigli medici e potrebbero non essere
accurate. I contenuti hanno solo fine illustrativo e non sostituiscono il parere
medico: leggi le avvertenze.
Infarto miocardico acuto
AMI scheme.png
Raffigurazione schematica di un infarto per occlusione distale dell'arteria
interventricolare anteriore (1), uno dei due rami dell'arteria coronaria sinistra.
La zona interessata è l'apice del ventricolo sinistro (2). Legenda: LCA = arteria
coronaria sinistra; RCA = arteria coronaria destra.
Specialità cardiologia
Classificazione e risorse esterne (EN)
ICD-9-CM 410
ICD-10 I21
OMIM 608557
MeSH D009203
MedlinePlus 000195
eMedicine 155919 e 897453
Modifica dati su Wikidata · Manuale
L'infarto miocardico acuto (IMA) è una necrosi dei miociti provocata da ischemia
prolungata, susseguente a inadeguata perfusione del miocardio per squilibrio fra
richiesta e offerta di ossigeno, spesso secondaria all'occlusione di una coronaria
causata da un trombo.[1]

Se l'ostruzione coronarica conduce all'arresto totale del flusso sanguigno nel


territorio irrorato dall'arteria interessata, provocando nell'ECG un
sopraslivellamento del tratto ST, l'infarto è denominato STEMI (ST elevation
myocardial infarction).[2] Se invece l'occlusione della coronaria è parziale o
transitoria, come evidenziato dalla presenza di sottoslivellamento del tratto ST
all'esame elettrocardiografico, l'evento è definito NSTEMI (Non-ST elevation
myocardial infarction).[2]

Le patologie cardiovascolari rappresentano la principale causa di morte nelle


nazioni industrializzate, ma anche paesi in via di sviluppo come l'India non ne
sono esenti.[3][4][5] L'Organizzazione mondiale della sanità ha individuato
numerosi fattori di rischio che provocano decessi, perdita di anni di vita in buona
salute e aumento delle spese sanitarie in Italia, così come nel resto dell'Europa e
del mondo; alcuni dei suddetti elementi di rischio, come ad esempio obesità e
sovrappeso, fumo di sigaretta, abuso di alcool, sedentarietà, ipercolesterolemia,
ipertensione arteriosa e diabete mellito, sono suscettibili di correzione mediante
opportune modifiche dello stile di vita.[3]

Secondo alcuni studi, circa metà dei pazienti colpiti da ischemia miocardica acuta
non riescono ad arrivare in ospedale vivi; la percentuale di mortalità si riduce al
10-15% fra coloro che raggiungono i reparti di emergenza.[6] È dunque fondamentale
individuare prontamente un dolore toracico di origine cardiaca, al fine di ridurre
il tempo di intervento e avviare le terapie idonee quanto prima.[7][8]

Gli approcci terapeutici più utilizzati – dalla trombolisi,[9] all'angioplastica


coronarica con impianto di stent, al bypass aorto-coronarico – hanno subìto
modifiche e miglioramenti nel corso degli anni. Tutti i pazienti che superano un
infarto miocardico dovrebbero essere seguiti dalla medicina riabilitativa con
percorsi prestabiliti e personalizzati.[10]

Indice
1 Definizione
2 Epidemiologia
3 Cenni storici
3.1 Dagli inizi al 1950
3.2 L'epoca trombolitica
3.3 Sviluppo della terapia
4 Eziologia
4.1 Fattori di rischio
4.2 Infarto giovanile
4.3 Cause infrequenti
5 Patogenesi
5.1 Complicanze
5.1.1 Complicanze aritmiche
6 Anatomia patologica
7 Clinica
7.1 Classificazione
7.2 Segni e sintomi
7.3 Esami strumentali e di laboratorio
7.3.1 Elettrocardiogramma
7.3.2 Ecocardiogramma
7.4 Diagnosi differenziale
7.5 Diagnosi precoce
7.6 Risvolti psicologici
8 Trattamento
8.1 Trattamento farmacologico
8.2 Cardiologia interventistica
8.3 Trattamento chirurgico
9 Prognosi
9.1 Postumi e follow up
9.2 Riabilitazione e prevenzione secondaria
10 Note
11 Bibliografia
12 Voci correlate
13 Altri progetti
14 Collegamenti esterni
Definizione
La locuzione «infarto miocardico acuto» può essere utilizzata quando vi sia
evidenza di necrosi miocardica nell'ambito di un quadro clinico di ischemia. Tale
specificazione è contenuta nei vari documenti di consensus[1] elaborati per tentare
di raggiungere una definizione universale di infarto miocardico quanto più
condivisa. La definizione proposta nel 2007,[11] accettata da tutte le più grandi
società internazionali di cardiologia e dall'Organizzazione mondiale della sanità,
[12] si delineò in modo più preciso nel 2012.[13]

La definizione completa che riportiamo di seguito, suddivisa nei due casi di


infarto «acuto» e «pregresso», fa riferimento al documento sottoscritto nel 2012.
[13]

A) I criteri diagnostici per infarto miocardico acuto sono i seguenti:

riscontro di un aumento dei marcatori biochimici cardiaci, specie la troponina I,


unitamente a evidenza di ischemia miocardica associata ad almeno uno dei seguenti
fattori:
sintomi di ischemia;
variazioni elettrocardiografiche di nuova ischemia con alterazioni del tratto ST
(sopra- o sottoslivellamento ST), dell'onda T o comparsa di blocco di branca
sinistra;
presenza di onde Q patologiche all'elettrocardiogramma;
riscontro con ecocardiogramma di nuove alterazioni della cinetica parietale del
ventricolo interessato;
riscontro di trombo coronarico alla coronarografia o all'autopsia;
morte cardiaca improvvisa, in genere testimoniata da famigliari o altre persone
riferenti la presenza di possibili sintomi di ischemia cardiaca, rilevata
angiograficamente o post-mortem (comunque nei casi in cui non sia stato possibile
eseguire esami di laboratorio);
nei pazienti sottoposti a rivascolarizzazione percutanea o in presenza di trombosi
dello stent, riscontro di marker di necrosi, quali la troponina, superiori di
cinque volte rispetto al 99º percentile del valore massimo di riferimento, nei
pazienti con valori di base normali, oppure quando i livelli di troponina aumentano
del 20% rispetto ai valori di base nei casi in cui siano già alterati;[14]
nei pazienti sottoposti a bypass aorto-coronarico in cui si evidenzi la presenza di
nuove onde Q, la chiusura del graft venoso o della coronaria nativa, associato
comunque all'aumento dei marker (sempre con riferimento alla troponina) di almeno
dieci volte rispetto al 99º percentile del valore massimo di riferimento;
riscontro di nuovo infarto del miocardio.
B) I criteri diagnostici per infarto miocardico pregresso sono i seguenti:

comparsa di nuove onde Q patologiche all'ECG in presenza o assenza di sintomi;


evidenza all'ecocardiogramma di un'area assottigliata e con discinesie, in assenza
di cause di origine non ischemica;
riscontro patologico di infarto miocardico in evoluzione o stabilizzato, rinvenuto
casualmente.
Epidemiologia
Le malattie cardiovascolari sono uno dei problemi più importanti di salute
pubblica; rappresentano la principale causa di morte in Europa, con oltre 4,3
milioni di morti nel 2005. Oltre il 40% di queste sono premature, si verificano
prima dei 75 anni (1,8 milioni) e il 54% colpisce il genere femminile. Le forme più
comuni di malattia cardiovascolare sono la cardiopatia ischemica e l'ictus, che
costituiscono rispettivamente il 22% (1,9 milioni) e il 14% (1,2 milioni) del
totale dei decessi. La cardiopatia ischemica è responsabile del 20% di tutte le
morti al di sotto dei 75 anni.[3]

L'Organizzazione mondiale della sanità ha individuato fattori di rischio comuni a


diverse patologie (malattie cardiovascolari, tumori, diabete mellito, malattie
respiratorie croniche, problemi di salute mentale e disturbi muscolo scheletrici)
che hanno causato l'86% dei decessi, il 77% della perdita di anni di vita in buona
salute e il 75% delle spese sanitarie in Europa e in Italia: tali fattori di
rischio sono quelli definiti «modificabili», quali l'obesità e il sovrappeso, il
fumo di sigaretta, l'abuso di alcool, lo scarso consumo di frutta e verdura, la
sedentarietà, la dislipidemia e l'ipertensione arteriosa.[3] Anche in Italia le
malattie cardiovascolari sono la prima causa di morte. L'età aumenta la possibilità
di infarto, come anche il sesso maschile: sino a 60 anni i maschi vengono colpiti
dall'infarto da due a quattro volte più delle donne. In realtà l'infarto miocardico
acuto nella donna presenta delle differenze eziopatogenetiche, anatomiche e di
rischio genere-specifici rispetto a quello maschile[15], almeno in fase pre-
menopausale. Tale situazione si modifica quando la donna è già in menopausa e il
rapporto maschi/femmine supera di poco l'unità.[16]

Nei paesi industrializzati come gli Stati Uniti d'America, le morti per malattie
cardiache sono più numerose rispetto alla mortalità per neoplasie.[4] Negli Stati
Uniti più di un milione di persone subiscono un attacco anginoso ogni anno e di
questi il 40% morirà a causa di infarto.[17] Dati recenti e ottenuti su un numero
alto di pazienti, tratti dal Registro Nazionale Americano, hanno considerato più di
un milione di casi di infarto, dal 1994 al 2006: gli infarti sono stati trattati
sia con fibrinolitico sia con angioplastica primaria, di cui il 42% erano donne, i
risultati danno una mortalità del 14% nelle donne e del 10% negli uomini.[18]

Nel Registro Francese, che analizza la mortalità nelle Unità di terapia intensiva
cardiologica in tutta la Francia registrando i dati per un mese all'anno, nel 1995,
cioè in epoca trombolitica, si segnalò una mortalità del 23,7% nelle donne contro
il 9,8% negli uomini, però nel report del 2010, quando ormai più dell'80% dei
pazienti veniva trattato con la PTCA, si registrò una riduzione della mortalità
rispettivamente del 9,8% e del 2,6%.[19]

Anche in paesi come l'India, le malattie cardiovascolari sono la principale causa


di morte.[20] In questo paese, un terzo dei decessi nel corso dell'anno 2007 erano
dovuti a malattie cardiovascolari, un numero destinato ad aumentare entro il 2010.
[5][21][22] Dagli anni ottanta si è verificata per entrambi i sessi una lenta e
graduale diminuzione della mortalità per questa patologia, probabilmente per la
campagna di prevenzione primaria mirata alla riduzione dei fattori di rischio
cardiovascolare. A livello mondiale si cerca di costruire un modello comune di
comportamento per ridurre l'impatto di tali patologie sulla salute pubblica.[23]
[24]

Cenni storici
Dagli inizi al 1950
Sin dall'inizio del XIX secolo è noto che una trombosi occlusiva dell'arteria
coronaria può portare alla morte.[25][26] Gli esperimenti sugli animali con
legatura di un vaso coronarico e i reperti autoptici rilevati hanno suggerito che
l'occlusione di una coronaria costituisce un evento irreversibile. Nel 1901 il
tedesco Krehl dimostrò che l'infarto non è sempre fatale, ma la prima descrizione
dettagliata di attacchi cardiaci non fatali si deve ai russi Obraztsov VP e
Strazhesko ND nel 1910.[27] Nel 1912 alcuni autori americani, fra cui James B.
Herrick, definirono le prime basi terapeutiche per i pazienti affetti da angina
stabile da sforzo: il solo riposo fisico fu riportato come primo approccio
terapeutico.[25] Tale indicazione fu l'unica opzione di trattamento sino ai primi
anni cinquanta ed

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