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Leggiamo

Il caldo torrido di fine di luglio confermava un'estate sopportabile che "per il terzo anno di fila avrò
trascorso in città", suonava nella sua mente come melodia tonale, "quando finirò le mie docenze".
Il traffico cittadino era a prova bambini mentre calciavano una lattina che finiva in strada. Le auto
rimaste parcheggiate si contavano con notevole pazienza, tra una manciata di querce e qualche pino
sparuto, come se il grosso dei veicoli fosse stato catapultato oltre la cinta del centro urbano, a cercar
frescura lungo i fiumi di città più a sud.
Il macchinista del 9 spingeva il tram con uno straccio tra la mano destra e la leva del comando dello
storico convoglio, ricurvo e col capo chino come la vittima sacrificale del turno festivo.
Una gazzella lasciò sfilare perpendicolarmente alla carreggiata un gatto stranito dalla solitudine dei due
marciapiedi, come se la ronda nel quartiere fosse un passatempo più che l’accertamento della quiete
pubblica.
Vicino ad alcuni piccioni, un ragazzo dal pellame chiaro rifletteva negli occhi cristallini la fame vecchia
di alcuni giorni, mentre nel ristorante cinese ad angolo con una libreria i camerieri svolazzavano tra i
tavoli troppo piccoli per contenere la fame di un gruppo di sudamericani.
Un nordafricano guardava fisso negli occhi il possibile povero trofeo che gli avrebbe forse elemosinato
qualche moneta, se non fosse stato per l’eccessiva, ossessiva e viscida vicinanza a quello che, al
contrario, lo avrebbe trasformato in un’altrettanta vittima certo, ma di una lezione sonora.

I suoi costosi insegnamenti sarebbero serviti a mettere da parte il denaro sufficiente per lasciare
definitivamente il paese; uno di quelli che non avrebbe potuto amare neppure in un incubo; e dare
lezioni di pianoforte ai pochi superstiti della calda estate era necessario. In realtà era una manna per i
diplomandi che ogni anno decidevano di rimandare l’ultimo esame in autunno e faticavano a pagare
l’affitto per altri quattro mesi.

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